Opera Omnia Luigi Einaudi

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Prefazione

Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Ediz. di storia e letteratura, Roma, 1953

Con poche eccezioni, la silloge che qui si presenta, è composta di saggi pubblicati tra il 1933 ed il 1941 nella rivista La Riforma Sociale e poi, quando questa fu soppressa dal regime fascistico, nella Rivista di storia economica che forse parve ai governanti del tempo meno fastidiosa a cagione della sua limitazione a cose passate. Ma già il Sismondi, in una lettera del 1835 al Brofferio aveva avvertito i vantaggi che la censura offre agli scrittori costringendoli ad essere avveduti nel dichiarare la verità invisa ai tiranni; sicché il numero dei lettori ed il potere di persuasione su di essi crescono più di quanto non accada in tempi di libertà, quando la facilità del linguaggio e la violenza delle polemiche alienano il pubblico.

I saggi datati dal 1936 al 1941 agevolmente persuadono che il forzato velo storico non vietò mai a chi scrive di discutere problemi contemporanei. Fanno eccezione, per data, il saggio sul Galiani scritto nel 1944 e pubblicato nel 1945 in una rivista svizzera; la recensione del 1951 ai primi due volumi della edizione critica delle opere di Davide Ricardo procurata da Piero Sraffa; e l’elenco degli scritti di e su Adamo Smith aggiunto ad occasione della presente ristampa al saggio su Adamo Smith. L’aggiunta novissima ricorda l’origine prima degli scritti oggi raccolti; che fu il tentativo, iniziato col titolo di Viaggio tra i miei libri e mai condotto a termine, di offrire agli studiosi italiani di cose economiche un complemento ai saggi bibliografici di Luigi Cossa, con i quali esso non intendeva tuttavia rivaleggiare per compiutezza, a causa del vincolo posto all’elenco di comprendere solo i libri da me posseduti intorno ad alcuni autori, ad esempio Francesco Ferrara, Adamo Smith, Federico Le Play; e l’elenco avrebbe dovuto seguitare per altri autori ed estendersi ad alcuni problemi particolari a torto od a ragione preferiti. Il tentativo, nella sua voluta esclusione dei libri non voluti o non potuti acquistare, non sarebbe stato senza qualche utilità alla quale nel testo (pp. 3 e segg.) si fa riferimento. Direi che esso sia fallito forse soltanto in ciò che l’elenco pretendeva altresì indicare di passata il prezzo probabile di mercato o ragionevolmente spendibile per l’acquisto dei libri descritti. Provvide la svalutazione della lira a rendere quei prezzi – che non mutai per non aggiungere errore ad errore – antidiluviani; ma provvide anche l’interesse nuovamente destatosi in Italia per i libri economici antichi o vecchi od esauriti. Quando cominciai a raccogliere, conoscevo un solo rivale pericoloso ed era l’amico, e collega nell’ateneo torinese, Giuseppe Prato. A poco a poco, i ricercatori si sono moltiplicati ed io che sono forzato a sfogliare rapidamente e con ritardo i cataloghi, ben di rado sono oggi fortunato nell’ottenere i pezzi rari. Qua e là nel testo si leggono perciò auguri di aumento nel numero dei ricercatori, auguri oggi fortunatamente avverati, particolarmente ad opera di amatori di libri economici viventi fuor dalla confraternita accademica e forse perciò atti a pagare i prezzi egregi odiernamente richiesti dai librai antiquari e sovrattutto da quelli di costoro che meritano successo per la preparazione specifica bibliografica (cfr. pagina 215 in nota).

Su questo punto e su qualche altro (ad es. i cataloghi dei libri posseduti da Adamo Smith e le sconcezze accadute nel ristampar Ferrara, Senior, Rae) il lettore riscontrerà ripetizioni noiose; rimaste vive a cagion del fastidio di rimaneggiare scritti venuti alla luce compiuti in se stessi, e dunque privi di riferimenti ad altri scritti allora non pubblicati o volti ad altro proposito. Qualche ripetizione, fra le più grosse, fu potuta togliere, ad esempio nel saggio su Galiani; ed anche lì qualche brano fa doppio con quello del vicin saggio sulla moneta immaginaria, ma non poteva essere cancellato senza lasciare l’argomento in aria. Nonostante i quali vizi, il volume, che in fondo avrebbe potuto anche essere intitolato, dal primo saggio in esso contenuto, Viaggio tra i miei libri non mi dispiace troppo.

Innanzitutto, quei libri, essendo dovuti a penne insigni, hanno benevolmente consentito a servirmi da utile attaccapanni. Non sempre accade di avere sottomano nomi come quelli di Ferdinando Galiani, di Adamo Smith, di Francesco Ferrara o di minori di gran levatura, anche se non troppo letti o persino dimenticati, come il marchese d’Argenson, Sismondo de Sismondi, Francesco Fuoco, Carlo Ignazio Giulio, Antonio Scialoja e di potere prendersi il gusto di riprodurre e commentare qualcuna delle loro teorie, particolarmente se contrastanti con la descrizione che di essi si legge nella letteratura manualistica od in quella, più contennenda, degli anti-qualcosa, anti-economisti, anti-fisiocrati, anti-liberisti, anti-classicisti, anti-socialisti, ecc. ecc.

Non fa piacere, a cagion d’esempio, citare, sulla faccia dei frettolosi sempre pronti a sparlare di Adamo Smith, come dell’arcibarbasso del capitalismo e del liberista difensore dei privilegiati, le parole sue proprie nelle quali si legge una infiammata condanna della iniquità di privare il lavoratore dell’intero frutto del suo lavoro? (qui, pp. 97-99). Chi parla per sentito dire, vede teorici e teorie attraverso una nebulosa di tipi generici; chi legge i testi vede l’uomo.

Uno dei motivi fondamentali del presente vagabondaggio attraverso i miei libri è perciò l’antipatia, che pare non di rado volgersi in disprezzo, verso il tipo classificatorio nella storia delle idee economiche. C’è certa gente la quale non è contenta se ad ogni scrittore non ha appiccicato un cartellino con su scritto: giusto prezzista o canonista, mercantilista, fisiocrate, liberista, protezionista, socialista, utopista, socialista scientifico o marxista, socialista cattolico, socialista della cattedra, economista matematico, istituzionalista, walrasiano, marshalliano, paretiano, keynesiano, econometrico ecc. ecc. Non sono state ancora coniate parole adatte per indicare coloro che particolarmente indagano le variazioni dinamiche della società economica o puntano sul concetto del reddito sociale per descrivere il meccanismo economico contemporaneo; ma quando gli aggettivi appropriati saranno scoperti ed accettati, guai a chi tocca! Sarà degli ultimi modernissimi come dei vecchi antiquati: mai più potranno salvarsi dal cartellino. Inutilmente Adamo Smith o Francesco Ferrara hanno scritto pagine che soltanto essi, che erano quegli uomini in carne ed ossa, con quella testa, fatta così, potevano scrivere e che nessun loro contemporaneo o predecessore o seguitatore sarebbe mai stato capace di scrivere. Tutto inutile: Adamo Smith è il capo degli economisti liberisti, il fondatore della scienza economica classica; Francesco Ferrara è l’economista liberista principe del risorgimento italiano; ossia amendue sono niente, sono meri caposcuola, la cui dottrina è conosciuta principalmente per la caricatura fattane dai loro nemici protezionisti o socialisti; come, inversamente, List, arcifanfano dei protezionisti, è conosciuto attraverso la caricatura che del protezionismo usano fare i liberisti spiccioli; e Saint-Simon, Fourier e Proudhon sono noti per il vilipendio accumulato dai socialisti detti scientifici sulla loro testa utopistica. Dal vagabondare, mosso dalla curiosità del leggere i testi originali della gente etichettata e perciò infamata, ho tratto una convinzione: che alle istorie delle “scuole” economiche, buone al più per agevolare durante gli esami agli studenti pigri una risposta facilmente mandata a memoria, fa d’uopo sostituire urgentemente schizzi di economisti singoli, scelti a volta a volta tra i grandi, i bravi e, perché no?, tra i cattivi. Che cosa importa, a cagion di esempio, di sapere se Ferdinando Galiani fosse mercantilista o liberista? Assolutamente nulla. Tanti altri meritarono di essere etichettati con quei nomacci; e lo meritarono perché non dissero nulla, non trasmisero agli uomini nessun messaggio, limitandosi a ripetere quel che tanti dicevano. Invece Galiani disse, sui 20 anni, qualcosa di suo; e di nuovo disse di suo qualcos’altro sui 40. Questo è quel che importa scavare nei suoi scritti e non le solite classificazioni o categorizzazioni od etichettature che lo fanno scomparire in mezzo alla folla grigia di color che mai non furono. Dopo aver scavato si scopre che Galiani non è né fisiocrate né antifisiocrate, né liberista né protezionista; ma era semplicemente Galiani, l’uomo di ingegno più pronto ai suoi giorni, di Francia e di Italia, l’uomo che per divertirsi prendeva in giro tutti i sopracciò meditanti a vuoto e presentandosi a Luigi XV nei saloni di Versailles, lui piccolo di statura, come un échantillon d’ambassadeur, si procacciava universali simpatie da re e da cortigiani, già pronti a ridere della sua schiena alquanto curva. Val la pena di classificare un uomo, il quale tant’anni prima se ne parlasse come di scoperte, applicava lo strumento delle successive approssimazioni, usava, sulle orme di Vico, il metodo storico, esponeva chiarissimamente il principio della decrescenza dell’utilità delle dosi successive di un bene, risolveva il paradosso, lasciato insoluto dal Davanzati, dell’utilità somma e del valore nullo dell’aria e dell’acqua, dichiarava, meglio di tanti moderni, i vantaggi ed i danni delle svalutazioni monetarie ed inventava una clausola, che dal suo nome dissi galianea la quale, se applicata, avrebbe risoluto i problemi fastidiosi del bimetallismo oro ed argento e resa evidente la verità che le variazioni dei cambi sono un fatto interno, dei cui inconvenienti non è lecito dar la colpa all'”odiato straniero”?

In luogo di etichettarlo, collocandolo in una finca qualunque, diciamo che Galiani era un genio rarissimo, di cui i libri si leggono oggi con lo stesso stupore e la medesima gioia di quando vennero alla luce; e diciamo invece che il suo contemporaneo marchese Girolamo Belloni, nonostante le recensioni laudatorie dei competenti e le epistole gratulatorie di Pietro Metastasio alla sua dissertazione Del Commercio, stampata in varie edizioni, di lusso ed ordinarie, può essere bensì catalogato, a libito dello scrittore di storie per ragazzi, tra le scritture post mercantiliste ovvero tra quelle precorritrici del corporativismo; ma è certamente una testa fatua, scientificamente piena di pappa. Anche le scritture fatue sono tuttavia non di rado utili. Poiché tradizionalmente il Belloni godeva fama di economista, sicché il Custodi l’aveva ristampato nella sua grande raccolta, parve obbligatorio, dopo la prima lettura giovanile, rileggerlo di proposito un giorno che mi capitò, mentre curavo l’edizione di cose edite di Bodin e di Malestroit e di una inedita da me scoperta a prima apertura di un catalogo della “Bibliotheque Nationale” di Parigi – e la scoperta ancor oggi parmi stravagante, tanti erano stati gli eruditissimi uomini i quali avevano studiato la celebre polemica monetaristica, e ne avevano letto la chiusa, la quale accennava ad un seguito – di provare il dovere di intendere, un po’ meglio di quanto prima non intendessi, il significato di una entità misteriosa detta «moneta immaginaria». Leggendo, mi avvidi che il Belloni era un povero diavolo che si sforzava con gran tramestìo di parole, di spiegare altrui ciò che egli stesso non intendeva. Sicché mi venne voglia di andare a fondo di quel significato e scrissi la «teoria della moneta immaginaria» (vedila in questo volume a pp. 229-266) nella quale misi innanzi una spiegazione di quella moneta, che allora «mi parve nuova» (p. 261) e di cui ancora oggi non so chi l’avesse dichiarata innanzi di me. Sia vera o sbagliata, di quella interpretazione storica sono debitore alla rabbia provata nel non riuscire a comprendere quel che al povero Belloni pareva di avere chiarissimamente spiegato; nella stessa guisa in cui anche oggi banchieri fortunati – ed il Belloni meritatamente con la banca aveva guadagnato denari e si era procacciato dal papa il titolo di marchese – od industriali valorosi espongono ad esterrefatti studiosi di cose economiche pensamenti che ad essi paiono l’evidenza medesima e sono invece scatoloni vuoti di un qualsiasi contenuto.

Per avermi costretto ad intendere od a tentar di intendere quel che egli non era riuscito forse a capire e certamente a chiarire altrui, tengo caro, tra i miei libri, la bella copia di una edizione della dissertazione sul commercio di Girolamo Belloni. Anche i libri nulli possono giovare a chi li legge, se riescono ad infuriarlo dapprima contro se stesso, per la inettitudine ad intendere cose dichiarate evidenti, e poi contro l’autore, scoperto in peccato di vuota superbia.

Se talun libro merita di essere tenuto caro per lo stimolo fornito ad apprezzarne la nullità, altri libri diventano cari perché, leggendoli, a poco a poco ci si persuade che sono libri grandi non solo per le qualità da tutti ammirate, ma per altre, di cui non si discorre negli scritti dei discepoli e degli ammiratori, qualità che dapprima sono intuite in confuso e lentamente si chiariscono, sino ad imporsi con l’evidenza della verità sicura. È il caso della sessantina di opere elencate in fine del presente volume tra quelle scritte da e su Federico Le Play. Notissimo e citatissimo come autore dei bilanci dei beni di famiglia e della libertà testamentaria; ricordato come propugnatore di una sua riforma sociale, fondatore di un metodo di studio dei fatti sociali, Federico Le Play mi apparve, attraverso la lettura di quasi tutto ciò egli scrisse, pensatore di ben altra grandezza. Egli non si indugiò soltanto, come tanti moderni, a raccogliere notizie sulle condizioni dei cittadini e dei rustici, sui prezzi, sulle imposte, sui costi, sui mercati, sulla produzione e sulla vendita – e ne raccolse con scrupolo sommo molte ancor oggi degne di meditazione – ma al di là di queste «grossissime bazzecole» (sotto pag. 341) ricordò che Olivier de Serres, autore di quel Théâtre d’agriculture su cui Enrico IV amò istruirsi per trarne guida nelle cose dello stato, reputava fondamento principalissimo di successo nel governo della terra da parte del capo famiglia la scelta «d’une sage et vertueuse femme, pour faire leurs communes affaires avec parfaite amitié et bonne intelligence…, estant la femme l’un des plus importants ressorts du ménage, de laquelle la conduite est à préférer à toute autre science de la colture des champs». Meditando sulla quale massima e sulle fazioni compiute percorrendo a piedi l’Europa dalla Spagna agli Urali e dal Mediterraneo alla Scandinavia, Le Play perfezionò, avanti lettera, le teorie di Mosca e di Pareto intese a spiegare le ragioni in virtù delle quali, in tutti i regimi e sotto l’impero di tutte le costituzioni, la minoranza governa e dirige la maggioranza. La classe politica di Mosca e la élite di Pareto governano popoli perché hanno le virtù fisiche, economiche, intellettuali necessarie a dirigere ed a dominare le moltitudini. Esistono in ogni paese ed in ogni tempo i ceti dirigenti atti a tenere in mano il governo; procacciando a sé potere e ricchezza e talvolta fomentando le scienze, le lettere, le arti, e forsanco crescendo il benessere delle popolazioni. Gli scrittori italiani del cinquecento dicevano «virtuosi’» costoro; ma la virtù era spesso sinonimo di abilità, astuzia, inganno, tradimento, assassinio. Le classi dirigenti posseggono le virtù atte al dominio; ma son virtù, che le farebbe non di rado dannare da Dante all’inferno. Le Play fece altra ricerca e scrisse nelle monografie di famiglia contenute nei sei volumi degli Ouvriers Européens una strana e stupenda storia dell’umanità. La sua classe eletta non si identifica con la classe politica di Mosca o con la élite di Pareto; ma la classe eletta che egli chiama delle «autorità sociali» e si conosce dai risultati. Se questi sono di discordia e di dissoluzione noi vediamo soltanto ceti dominanti; se essi sono di prosperità riconosciamo la presenza degli «eletti» ed i popoli se ne lasciano guidare senza uopo di coazione politica. Ma la prosperità di Le Play non è quella economica; sibbene quella morale derivata dalla osservanza del decalogo e da essa deriva a sua volta la prosperità economica o, meglio, una peculiare specie di prosperità economica, dove, al luogo dell’invidia e dell’odio, si contemplano la pace e la stabilità sociale. Laddove sempre, pure nelle società volte alla dissoluzione ed alla morte, esistono ceti governanti e dirigenti, la classe eletta è quella che fa durare nel tempo stati e nazioni. Di avere veduto, accanto allo statistico, al sociologo ed al riformatore, in Federico Le Play lo storico ed il teorico politico debbo ringraziare la passione, che, per gli autori preferiti ed i problemi che mi inquietarono mi spinge ad arricchire a poco a poco le piccole raccolte il cui insieme forma la mia biblioteca. Che importa se essa sia di tanto inferiore a quelle celeberrime delle quali discorro nel primo dei saggi contenuti in questa silloge? E se in essa si osservano spaventevoli lacune in argomenti da tutti i miei confratelli riputati di grande rilevanza? I libri che un privato raccoglie hanno il compito di servire a lui od ai suoi scolari; ed a me, che non uso e non leggo altri libri fuor di quelli che so di poter ritrovare in casa senza chiederli in prestito altrui, giovarono a scrivere i saggi che l’editore vuole oggi ripresentare agli sperati quattro lettori. Ai quali il libro vorrebbe offrire un solo insegnamento: di non mai citare alcun libro se non lo si ha avuto materialmente in mano e di non fidarsi di alcuna citazione altrui, senza averla con i propri occhi verificata. E poiché questo ideale non sempre si può raggiungere, non aver vergogna di confessare che si è quella volta letto attraverso occhi altrui. Nobile confessione, che onora il peccatore.

Dogliani, nel luglio del 1952

Teoria e pratica e di alcune storture intorno alla equazione degli scambi

«La Riforma Sociale», settembre-ottobre 1931, pp. 510-522

Mario Mazzucchelli: Crisi e cause (in «Rivista bancaria» del 15 agosto 1931, pag. 659-668).

1. – La fama che Mario Mazzucchelli ha saputo guadagnarsi tra gli studiosi italiani di problemi economici concreti: economisti professionali, banchieri, industriali, uomini d’affari, e, suppongo parecchi funzionari delle finanze e uomini politici – è, immagino, – invidiata da molti. Gli ho sentito negare qualità di scrittore, perché adopera parole stravaganti, di sua privatissima fattura: «neofitici, teoretici (invece di teorici), farnientisti, sottopunti, influenzante, alcoolizzamento»; e cito solo dal fascicolo di agosto, con in più l’inimitabile «crisastico», aggettivo a cui M. è quasi riuscito, per la ostinatezza nell’adoperarlo, a dare diritto di cittadinanza nella lingua italiana. Sono lievemente comiche le filastrocche interminabili di: «S.E., Comm., Prof., Grand Uff., Cav. di Gran Croce, Dott., Avv.» e via dicendo, appiccicate da lui ai personaggi importanti che gli capita di citare[1] ; rasentano talvolta l’assurdo i suoi ditirambici elogi a relazioni stampate intorno a fatti di ordinaria amministrazione. Nonostante le quali inesperienze di scrittore, Mazzucchelli si è imposto per la forma e per la sostanza. Lo stile nervoso, originale, colorito, il buon senso tipicamente ambrosiano, le interpretazioni opportune e calzanti, l’attitudine sorniona a vedere, attraverso cifre apparentemente innocue, il fatto degno di essere chiarito; l’esperienza, che si sente viva ed affinata da lungo contatto con il mondo bancario, l’occhio clinico del conoscitore di bottegai e di contadini, di finanzieri e di massaie hanno fatto delle Considerazioni sul conto del tesoro, sul bilancio e sulla circolazione, pubblicate da M. ogni mese sulla Rivista Bancaria, la cronaca economica forse più letta d’Italia. La cronaca di M. ha il titolo più qualunque che si possa immaginare, il meno atto ad eccitare l’attenzione del pubblico; la materia trattata fu sempre ritenuta noiosissima; il documento ufficiale in cui quella materia si contiene suppongo in altri tempi non avesse più di tre lettori. Se oggi del conto del tesoro si vendono non so quante, ma certo parecchie copie, il merito è un po’ del conto medesimo compilato assai meglio di prima, un po’ dell’interesse con cui si seguono le vicende del tesoro e della banca d’emissione per trarne, in tempi duri, oroscopi di consigli per l’avvenire, ed un po’ di Mazzucchelli, il quale ogni mese spiega, combina, ricorda le cifre del mese e dell’anno precedente, borbotta e loda, loda assai per ottener venia di borbottare qualcosa; pesta e ripesta sul medesimo chiodo e qualcosa ogni tanto ottiene dal governatore della banca d’Italia, dal ragioniere generale dello Stato, dal direttore generale del tesoro, a cui tributa senza risparmio incenso di onorificenze, di illustrazione e di eminenza, ma da cui in cambio riesce a farsi leggere e anche ascoltare.

2. – Anch’io sono tra gli assidui ed attenti lettori delle cronache di Mazzucchelli; e ripetutamente lamentai, per golosità di lettore non sazio, che per non si sa quale necessità tecnica di stampa la cronaca, uscisse ritardata di un mese: in luglio quella del conto del tesoro del maggio, in agosto quella del giugno, sicché il lettore, che ha già sott’occhio il conto del tesoro di luglio, deve in agosto contentarsi di leggere i commenti di Mazzucchelli sul conto di giugno, e per l’impazienza di doverli scorrere in ritardo si arrabbia. In qualità di lettore assiduo ed affezionato – quanti sono i pubblicisti italiani i quali in materia astrusa hanno lettori assidui ed affezionati – non sempre sono d’accordo con Mazzucchelli. Ed ho preso la penna in mano per dirgli di un vezzo che nelle sue cronache mi dà fastidio. Segno anche questo di affezione e di stima; perché le cose insipide che molti scrivono non danno fastidio a nessuno. Il vezzo è quel suo contrapporre, non abbastanza raro e non casuale, di pratica a teoria. È comunissimo quel contrapposto in bocca di tutti coloro che non hanno studiato od hanno studiato male; ma è vezzo volgare e stona in bocca a chi, come Mazzucchelli, ha la testa fatta per fare ed effettivamente fa, ragionamenti economici esatti. Quel contrapposto è falso perché “teoria” vuol dire unicamente rappresentazione abbreviata, schematica, parziale della realtà. Siccome è impossibile descrivere in un numero non sterminato di parole una realtà che, del resto, “tutta” non è conosciuta né conoscibile, fu, è e sarà giocoforza astrarre, semplificare, porre ipotesi. La teoria economica è “necessariamente” ipotetica perché ragiona che cosa accadrebbe se agissero, invece di mille, centomila, un milione di forze, alcune poche forze ben definite. È forse lamentabile che l’ingegno umano sia così corto da non poter ragionar diversamente; ma nemo ad impossibilia tenetur. Nessun teorico pretende che le sue conclusioni siano tali e quali verificabili nella realtà; ma, se egli ha ragionato bene, nessuno può negare siano vere nei limiti delle ipotesi fatte. Quando il cosidetto “pratico” si lagna dei teorici, quasi sempre egli altro non fa che sostituire una sua ipotesi diversa a quella posta dal teorico; ma, diversamente dal teorico, egli non sa di porre una ipotesi parzialissima, pretende che essa rappresenti tutta la realtà, ragiona erroneamente e conclude storto. Che davvero, per parecchie generazioni, studiosi ed osservatori si siano tutti sbagliati ed abbiano scelto ipotesi irrilevanti, poco importanti, trascurando quelle fondamentali? Non è credibile; e se fosse stato, la concorrenza fra economisti è tale che essi a volo avrebbero appreso ed utilizzato e fecondato le ipotesi prima trascurate. Il che è appunto quel che si fa. Ad ogni generazione la scienza progredisce; perché quel che era intuito di pratici diventa ipotesi feconda di teorici e rinnova la sostanza e la forma della dottrina. Non dunque contrasto fra teoria e pratica; ma collaborazione fra di esse, allo scopo di spazzar fuori dal tempio della scienza i facitori di false teorie, inette a rappresentare una qualsiasi porzione, piccola o grande, della realtà, perché fondate su ipotesi inconcludenti o sbagliate ed i profittatori della pratica, i quali vorrebbero che la teoria si rendesse mancipia dei loro privati interessi.

3. – Da qualche tempo Mazzucchelli ha un fatto personale contro i quantitativisti monetari, tipo Cassel, Fisher, Keynes ed altri che egli, ad esempio, accusa di attribuire «con dogmatismo assoluto, che non ammette neppure la minima deroga» la crisi mondiale presente a pure e sole cause monetarie; e dopo vario discorrere la dice invece dovuta:

 

a) alla grande guerra;

b) alla superinflazione monetaria, creditizia, di debiti statali e di enti locali, mobiliare, mentale ed insomma generale;

c) al progresso tecnico in tutti i rami della produzione;

d) alla inelasticità degli alti salari mondiali;

e) agli elevati ed ancor più inelastici sussidi di disoccupazione;

f) al permanere, a causa dei salari, di gravissima distanza fra prezzi industriali e prezzi agricoli, minerari e coloniali;

g) alla persistente o crescente vischiosità fra prezzi di grosso e prezzi al minuto;

h) all’importanza crescente dei sindacati intesi a mantenere alti i prezzi industriali in tempi di ribasso dei prezzi delle materie prime;

i) all’entrata rapidissima nell’agone produttivo di paesi industrialmente nuovi o quasi nuovi (Russia, Asia, America, Australia);

l) alle conseguenze antieconomiche della guerra: spezzettamento di Stati, alte barriere doganali, ostacoli alla emigrazione, spreco nella creazione di duploni, triploni, quadruploni produttivi, ecc. ecc.

4. – Io chiudo gli occhi e mi ripasso mentalmente le rappresentazioni schematiche degli economisti; a cominciare da quella più famosa di tutte, detta di Fisher (che Sensini rivendica al nostro dimenticato Piperno; ma si potrebbe forse, interpretando, come si deve, benignamente le vecchie notazioni, risalire a Verri e prima di lui a Hume e più in là):

dove P è il livello generale dei prezzi, M è la quantità di moneta, V la velocità di circolazione di essa e Q la massa dei beni e servigi da scambiare. E mi chiedo: che cosa v’è di fondamentalmente diverso, di contraddittorio fra la rappresentazione di Fisher e l’elenco di Mazzucchelli?

5. – Per non complicare l’argomentazione, non discutiamo se la equazione dimostri qualcosa; diciamo soltanto che essa è un tentativo di definire e rappresentare il meccanismo esistente degli scambi. Essa constata cioè semplicemente un fatto di osservazione comune: che il livello generale dei prezzi (P) varia col variare di altri dati. C’è forse qualcuno il quale sostenga che in generale, a parità di altre circostanze, se c’è più roba da vendere (Q) i prezzi salgono? No. Anzi scendono. Dunque sta bene scrivere Q come divisore nel secondo membro della equazione, per indicare la sua relazione inversa con P. C’è forse qualcuno il quale sostenga che, in generale, a parità di altre circostanze, se gli uomini hanno in tasca più moneta (M) disponibile non se ne servano per acquistar roba? Varierà il genere della roba comprata; gli uni comprando roba per consumo immediato, gli altri beni strumentali per consumo futuro (risparmio); ma, eccettuato il caso oggi praticamente trascurabile del tesoreggiamento vero e proprio, se gli uomini hanno moneta, comprano roba. Se la quantità di moneta disponibile cresce e la roba rimane invariata, per forza i prezzi crescono. Quindi fa d’uopo scrivere M come dividendo nella equazione degli scambi. Accanto ad M bisogna poi scrivere V (velocità della moneta), essendo evidente che se un disco monetario è usato una volta nell’unità di tempo, compra roba una volta sola; se è usato 2, 3 … n volte compra la stessa quantità di roba 2, 3, … n volte.

6. – Scrivendo l’equazione, si rappresentano dunque i fatti come avvengono; non si dice perché avvengono, perché ci sia molta M o molta Q o perché V sia aumentata o diminuita. Mazzucchelli col suo elenco tenta di specificare, spezzettare i P, gli M, i Q ed i V e di spiegare, di dir le cause del loro variare.

7. – Lasciando invero stare il suo a, la grande guerra, che è concetto troppo generico per essere traducibile in quantità economiche ed è contenuto, in quanto sia tradotto, negli altri termini dell’elenco; che cosa è il suo b: superinflazione monetaria, creditizia, di debiti statali e di enti locali, mobiliare, mentale, ecc., se non una specificazione bell’e buona del solito scolastico M? Sempre si seppe e sempre si scrisse che M è un composito di parecchie specie di moneta; moneta metallica propriamente detta, in quanto circoli, M1 biglietti fiduciari ed a corso forzoso circolanti, M2 moneta bancaria (depositi in conto corrente ed assegni tratti su di esso). Mazzucchelli aggiungerebbe la inflazione di debiti statali e di enti locali, quella mobiliare, mentale ed insomma, generale. Intuizioni queste più che enunciazioni precise, che si possono discutere ed eventualmente tradurre in notazioni rigorose. Non direi che i titoli di debito statale e di enti locali, che le azioni e le obbligazioni fondiarie, industriali e bancarie (suppongo che per inflazione “mobiliare” ciò si intenda) siano in generale moneta ed agiscano nel senso di crescere i prezzi. Pare siano segni rappresentativi di cose o di diritti in cui si investe la moneta risparmiata; sono, nello scambio, la contropartita di M. Perciò li ficcheremo normalmente in Q, nei beni e servigi da scambiare; ed il loro crescere avrà per effetto, a parità di altre circostanze, di scemare i prezzi. Il che anche pare verità di osservazione comune. Talvolta titoli di debito pubblico, azioni ed obbligazioni possono diventar moneta o surrogato di moneta; buoni del tesoro, pagherò cambiari possono in determinate circostanze operare, invece che ed oltrecché come mezzi d’investimento, come mezzi di pagamento ed in tal caso ed entro tali limiti, noi diremo che esiste un M3, moneta titoli.

8. Rimane l’inflazione “mentale”, concetto aereo, di cui non si vuole negare l’influenza sui prezzi, essendoché la psicologia umana, capricciosa, mutevole, or paurosa e or temeraria, è fattore importantissimo di avvenimenti. Ma per agire sui prezzi, questa benedetta psicologia, intorno a cui si mena tanto baccano, deve pure manifestarsi attraverso a moneta od a roba. La donnetta la quale mangia cogli occhi il vezzo di perle nella vetrina del gioielliere, né fa né ficca nel determinare il prezzo delle perle. Bisogna che essa, signora vera o finta, persuada il marito o l’amante a cacciar fuori denaro (M, M1 od M2) od imbrogli il gioielliere e gli faccia accettare un suo pagherò (M3). Se M + M1 + M2 + M3 è tot, nel tempo T, ma dall’esperienza passata, dal timore del futuro gli uomini sono persuasi che diventerà M1+ M11+ M21+ M31 nel tempo T1; se cioè essi sentono, intuiscono o che i governi emetteranno altra moneta a corso forzoso o le banche, in tempi di allegria, allargheranno le aperture di credito, sicché cresceranno gli assegni tirati sui depositi bancari, la previsione dell’aumento delle quantità monetarie nel tempo T1 reagirà sull’operare degli uomini nel tempo T. Non nel senso di aumentare la quantità di moneta oggi (tempo T) esistente, ma nel senso di aumentare di questa la velocità (V). Gli uomini, se sanno, prevedono, intuiscono o sentono (sono queste, ed altre, le gradazioni della spinta ad operare) che la quantità di moneta aumenterà in avvenire e quindi scadrà di pregio, se ne disfano fin d’ora più volentieri; la danno via prima per sbarazzarsene ed acquistar roba. Ferma nel presente M, cresce, per l’influenza di una cresciuta M futura, la V presente; ed i prezzi crescono. Non si nega il fattore psicologico; si constata che per agire sui prezzi esso deve passare attraverso moneta e roba.

9. Che cosa sono i c, progresso tecnico, gli i, entrata rapidissima di paesi nuovi nell’agone produttivo se non faccie di Q, fattori che spingono all’insù, più o meno rapidamente, la produzione di beni e di servigi economici e perciò, sempre a parità di altre circostanze, spingono all’ingiù i prezzi? Ed h, i sindacati di produttori di merci industriali; ed l, barriere doganali, spezzettamenti di Stati, duploni, ecc., ecc., che cosa sono se non parimenti fattori che agiscono variamente su Q, gli uni nel senso di restringere temporaneamente certe date produzioni e crescerle alla lunga (sindacati), gli altri nel senso di crescere le produzioni di merci protette e limitare quella delle merci non protette? Se i fattori enunciati debbono esercitare un’azione sui prezzi, ciò può accadere soltanto attraverso variazioni di Q, della sua massa complessiva e delle sue parti componenti.

10. – Rimangono: d – inelasticità degli alti salari, e – elevati ed inelastici sussidi di disoccupazione, f – distanza fra i prezzi industriali ed i prezzi agricoli, e g – diversa vischiosità dei prezzi di grosso e di quelli al minuto. Che sono tutte osservazioni importanti, ma non pertinenti al punto controverso che pare sia: se la variazione della quantità monetaria (M) eserciti influenza sul livello generale dei prezzi (P). La confusione delle lingue è su questo punto veramente incredibile. O non accade talvolta di dover leggere, con gli occhi sbarrati, in pagine per altri rispetti degne che la teoria quantitativa della moneta è sbagliata perché questi o quei prezzi singoli invece di diminuire, sono aumentati o sono rimasti stazionari? Se fosse vera la teoria, si ha l’aria di dire, perché non scemano anche i prezzi al minuto, perché non certi prezzi industriali, perché non i salari, perché non gli interessi dei mutui lunghi? La teoria quantitativa sarà sbagliata; non certo però per tal motivo strano. Quando mai fu scritto che, scemando M, tutti i prezzi dovessero calare? È evidente invece che, pur essendo P1 del tempo T1 > P del tempo T, taluni prezzi singoli Pa1 salari, Pb1 (sussidi di disoccupazione), Pc1 (prezzi industriali), Pd1 (prezzi al minuto), Pe1 (imposte), possono, per ragioni particolari di vischiosità o di politica (prezzi politici, salari fissati per arbitrato determinato da ragion politica di ossequio al numero degli elettori operai, ecc. ecc.), essersi mantenuti costanti o persino essere cresciuti in confronto a Pa, Pb, Pc, Pd, Pe del tempo T. Poiché P1, somma dei singoli prezzi pagati per tutti i beni e servigi nagoziati nella unità di tempo data, è quello che è disceso, per mantenersi in equilibrio con l’altro membro della equazione, è giocoforza che gli altri prezzi singoli i quali entrano a comporre il livello generale dei prezzi P1 del tempo T1: Pf1 (profitti o interessi o rendite), Pg1 (prezzi agricoli o minerari o coloniali), Ph1 (prezzi all’ingrosso), scemino, in confronto ai prezzi singoli Pf, Pg, Ph del tempo T, in misura maggiore dello scemare di P1 in confronto a P. È intuitivo che la diminuzione del secondo membro dell’equazione da

deve essere accompagnata da una riduzione dell’altro membro da P a P1[2]; ma da ciò non discende affatto che tutti i componenti di P debbano scemare. Se io ho meno denari in tasca per riduzione di stipendio del 12% debbo scemare del 12% il totale delle spese; ma non sono obbligato affatto a scemarle tutte uniformemente del 12 per cento. Anzi potrà darsi che io abbia convenienza ad aumentarne qualcuna, per esempio la spesa del pane e di altri alimenti indispensabili, scemando od abbandonando addirittura qualche altra spesa (vino, carne, bagni estivi). Qualcuno parlerà di vischiosità dei prezzi del pane e di crisi ingiusta del vino, laddove si tratta di una volgarissima applicazione dei più risaputi teoremi elementari economici. Se una somma di dieci addendi scema da 100 a 70 e se cinque di questi addendi restano fermi a 12, 8, 15, 6 e 11, totale 52, e giuocoforza che gli altri cinque addendi, i quali prima erano 17, 7, 4, 13 e 7, totale 48, si contraggano a 18 in totale e singolarmente, ad esempio, a 5, 1, 3, 5 e 4. Il che può accadere – senza danno e permanentemente per quelle merci o per quei servigi il cui costo di produzione si è ridotto in quelle proporzioni. In questo caso i produttori si lamentano, per abitudine verbale, di crisi, ma è crisi benefica, temporanea, di adattamento a nuove condizioni produttive, riduzione progressiva di quelle che gli economisti chiamano rendita di produttore da invenzioni tecniche o commerciali. Crisi vera esiste per quei produttori di beni e servigi che, non avendo saputo e potuto costruire attorno a sé trincee di sindacati, di leghe, di protezioni doganali, di commesse governative a prezzi politici, si trovano a subire la pressione combinata della diminuzione del livello generale dei prezzi da P a P1 e della costanza dei prezzi singoli Pa, Pb, Pc, Pd, Pe. Costoro rimangono stritolati e soffrono vera crisi, perdendo patrimonio o essendo costretti ad emigrare, o a cadere a carico della pubblica carità. Il precipitar dei prezzi non significa per sé crisi. Vi dà luogo, se ed appunto perché alcuni o molti dei prezzi singoli sono vischiosi, ancorati e rifiutano di muoversi.

11. È curiosissimo veder Mazzucchelli affermare da un lato che gli economisti «non hanno mai dato la ragione … della giustezza, della naturalezza e del fondamento economico» della tesi la quale dice conveniente la costanza di P (leggasi bene P, ossia livello generale dei prezzi e non di Pa, Pb, … Pn ossia dei prezzi singoli: tesi, questa seconda, che non è mai stata affermata da nessuno) e nel tempo stesso dilungarsi tanto sulla ripugnanza di certi prezzi a discendere. Agli economisti non importa nulla che i prezzi siano P o nP o P/n. Quel che soltanto essi ritengono desiderabile è che i prezzi non ballino per cause insulse, come sarebbe la scoperta di miniere d’oro più o meno feconde, o pericolose, come sarebbe il lavoro del torchio da biglietti[3] . Non è desiderabile ballino per tali motivi, perché si sa anche che taluni prezzi sono vischiosi (prezzi al minuto), che taluni altri sono fatti vischiosi da gente potente (sindacati industriali e leghe operaie) od abile (dazi e favori politici); e quindi altri prezzi sono costretti a ballare in senso inverso, con rovina immeritata di innocenti. Ieri, quando i prezzi rialzavano, rovinavano le classi medie, oggi, che i prezzi ribassano, i detentori di titoli di debito pubblico, di valori a reddito fisso, i beneficiari di imposta arricchiscono; vanno in malora industriali e commercianti ed aumentano i disoccupati. Perché gridar raca agli economisti i quali cercano, ben sapendo che si tratta di ricerche difficilissime e di rimedi incerti, non agevolmente maneggiabili ed a lunga scadenza, di trovar le cause ed i rimedi della tragica alterna rovina, la quale partorisce malcontento sociale, rivolte, esperimenti comunisti, e minaccia la esistenza medesima delle società civili? Cercando di eliminare le variazioni infeconde e socialmente pericolose di P, gli economisti non intendono eliminare le variazioni utili dei singoli prezzi (P). È utile che ribassino i prezzi delle merci e dei servizi, rispetto a cui i desideri degli uomini sono venuti meno o di cui sono ribassati i costi di produzione. Come, altrimenti, senza la guida dei prezzi sarebbe governata l’attività, umana? La tesi è: le variazioni dei singoli “p” è conveniente avvengano in un quadro di P costante. Entro quel quadro, affermano molti economisti, le variazioni dei “p” sono efficaci ad indirizzare la produzione; ma perdono quelle punte in su e in giù che sono determinate da un irrazionale comportamento di M. Il quantum della massa monetaria o è abbandonato a sé ed è in balia del caso od è governato da qualche volontà. In un’epoca in cui la scienza tenta di scoprire e volgere a profitto degli uomini i segreti della natura pare inconcepibile si abbandoni al caso. Se dunque esso deve essere, se esso anzi è stato durante tutto il secolo XIX ed è ora governato da qualche volontà, pare ragionevole sia questa una volontà illuminata e non indotta, lungimirante e ferma e non impressionabile e volubile.

12. Contro la tesi di questi economisti si possono elevare serie obbiezioni. Di quelle valide in teoria pura non discorrerò; ma, in concreto, si può dire essere impossibile misurare le variazioni di “P”, distintamente da quelle dei “p”, scindere i danni dei mutamenti del livello generale dei prezzi dai vantaggi dei mutamenti dei prezzi singoli; si può essere scettici sui lumi della volontà addottrinata e unificata, e preferire praticamente la concorrenza di molte volontà contrastanti, temperate dai capricci inaspettati del caso. Sono pienamente d’accordo con Mazzucchelli nel credere che «di fatto, oggi, in qualche paese», ad es. l’Inghilterra, dalle tesi degli economisti traggano astutamente od ingenuamente lor pro’ gli industriali poltroni, che non si decidono a far lo sforzo necessario per rammodernarsi e ridurre i costi; i capi lega, i quali vogliono tenere alto artificiosamente il livello dei salari; i partiti politici, i quali non vogliono correre il rischio di perdere il voto dei disoccupati, con riduzioni di sussidi; o quello dei maestri o dei marinai o degli impiegati, a carico dei quali si debbono fare economie di bilancio. Ma … c’è un residuo di sconvolgimento di prezzi che non è dovuto a poltronaggine, ad egoismo di posizioni acquisite, a trincee di favori politici; e che non si riesce a spiegare fuor del campo monetario. Bisogna analizzare, approfondire, scindere causa da causa, variazione accidentale da variazione stagionale e questa da ciclica e la ciclica dalla secolare monetaria; assegnare, nel quadro generale, ad ogni fattore il suo proprio luogo e peso.

13. – L’analisi e l’approfondimento non si fa con degli elenchi, tipo Mazzucchelli. Gli elenchi, lo vedemmo or ora, sono disordinati, mettono tutto sullo stesso piano, non fanno vedere la coordinazione ed il rapporto di un fattore cogli altri, la reciproca interdipendenza ed influenza. Cogli elenchi si è condotti – quante esperienze non ne facemmo! – ad azioni contraddittorie ed elidentisi. Ad ogni malanno elencato si appiccica un rimedio empirico; sicché la somma dei rimedi cresce il malanno. È necessario, fatti gli elenchi, sistemare i fattori in un quadro che dia una visione d’insieme. La formula detta di Fisher non è altro che uno dei tanti tentativi compiuti per dare questa visione di insieme. È semplicemente rappresentativa. Rappresenta solo un istante nel tempo; non il passaggio dinamico da un istante all’altro. È quasi soltanto una definizione. Ma comincia ad orientare. A poco a poco si progredirà. Tanti begli ingegni si travagliano attorno al problema, che non v’ha dubbio si dovrà perfezionare lo strumento imperfetto di visione ora posseduto.

14. – La mia rabbia non è tanto contro gli scrittori pratici come Mazzucchelli i quali, impazienti di venire al sodo, preferiscono gli elenchi dei fattori oggi ai loro occhi più importanti e non si attardano a studiare se ciascuno di quei loro fattori non trovi luogo acconcio in qualcuna delle note rappresentazioni astratte del mondo economico. Gioviamoci del loro fiuto e della loro esperienza per dar corpo ai “P”, agli “M”, ai “V” ed ai “Q”, che finora avevano veduto più sotto la specie di quantità astratte che di fattori concreti e palpabili. Con i Mazzucchelli si litiga per incomprensione reciproca di linguaggio, ma in fondo si resta buoni amici ed alla fine si giunge a conclusioni concordi.

15. – La rabbia vera mia è contro quei ritardatari, i quali invece di analizzare la formula di Fisher o qualunque altra, e progredire oltre di esse verso rappresentazioni più perfette, si divertono ancora oggi a battere in breccia la teoria quantitativa della moneta, assumendola secondo la formula:

dove P è un qualunque indice generale dei prezzi, M è la quantità di oro monetato esistente nel mondo e Q un qualunque indice del traffico; e montano in cattedra a sentenziare che quel P non è determinato dal rapporto di quell’M con quel Q; che quel P non raffigura il vero livello generale dei prezzi, né quell’intiera massa monetaria e neppure quel Q l’intiera massa dei beni economici permutabili; e si compiacciono a tirar fuori, al luogo di quella quantitativa, teorie psicologiche o teorie di sottoproduzione o sovraproduzione, o di credito, ecc. ecc., a spiegare le cadute di P, ossia le crisi.

16. – Come se non fosse risaputissimo e non avesse la barba lunga al par di quella di Noé che:

– P, ossia il livello generale dei prezzi, è rappresentato solo in modo larghissimamente approssimativo dai conosciuti indici dei prezzi. Per quanto ponderati e scelti accuratamente, gli indici dei prezzi segnalano le variazioni di una parte soltanto dei prezzi all’ingrosso, trascurando i prezzi al minuto, i prezzi del lavoro (salari, onorari, stipendi), dell’uso del capitale (interesse), dei fattori limitati di produzione (rendite), i prezzi capitali dei terreni, delle case, delle imprese industriali, dei titoli pubblici e privati. Un indice compiuto del livello generale dei prezzi dovrebbe risultare dal confronto fra la somma dei prezzi pagati nel lasso di tempo T(1) per tutti i beni economici, di qualunque specie, negoziati in quel lasso di tempo con la somma dei prezzi che si sarebbero pagati per gli stessi beni economici nel lasso di tempo d’origine. Ad un indice siffattamente perfetto non giungeremo probabilmente mai, per la imperfezione degli strumenti di indagine, per la difficoltà insormontabile di conoscere tutto ciò che accade nel mondo economico ad opera di ogni massaia, in ogni bottega, nelle grosse come nelle piccole contrattazioni. Bisogna contentarsi di approssimazioni, le quali col tempo si sono già avvicinate e si avvicineranno sempre meglio alla realtà; e trarne quel più largo pro’ che sia possibile;

– M è quel composito che sopra si disse di M1, M2, M3, ecc. Che sugo c’è a ripetere ancora che la teoria quantitativa della moneta è sbagliata, perché l’oro non è la sola moneta usata, anzi l’oro non corre più affatto come moneta ed al suo luogo corrono biglietti, assegni bancari, giro conti, pagherò, compensazioni alla stanza e via dicendo? Tutto ciò è noto, arcinoto; non c’è più un cane il quale riduca M ad oro. Perché perdere tempo in queste polemiche senza senso, quando il vero oggetto della ricerca scientifica è misurare le diverse specie di moneta: per M quale sia la massa di moneta d’oro effettivamente circolante, per M1, quanti siano i biglietti effettivamente circolanti, quanti i perduti, i tesaurizzati, quanti in serbo nelle riserve delle banche ordinarie, quante le monete di argento, di nickel e di rame (biglietti coniati nel duro per ragioni pratiche) coniate, disperse, fuse, emigrate, ecc.; per M2, come eliminare i doppi tra banche di emissione e banche ordinarie, tra banca e banca, tra depositi ed assegni, come distinguere fra depositi che sono mezzo di pagamento e depositi che sono mezzo di investimenti; come indurre le banche a pubblicare situazioni da cui sia possibile ricavare i dati bisognevoli agli studiosi, per M3, quali e quanti siano i titoli di credito, i pagherò, le cambiali, i buoni del tesoro che talvolta possono servire come mezzi di pagamento? Queste sono le ricerche veramente feconde intorno ad M; non l’andare ripetendo che M non è più l’antico M aureo; come se per essere di carta, biglietto od assegno o pagherò, la moneta cessasse di essere tale e di avere influenza sui prezzi. E gioverebbe sommamente si intraprendessero ricerche precise e si approfondissero e rinnovassero talune ottime già condotte intorno ai rapporti fra M, M1, M2, M3, ed Mn. Se si appurasse che la relazione fra M (moneta d’oro) e le altre specie di moneta è costante, si potrebbe nella equazione dello scambio fare astrazione da queste altre specie; ché, noto essendo M, sarebbe noto il multiplo costante di essa (M + M1 + M2 + M3, …+ Mn). La relazione pare invece non sia costante né nel tempo né nei luoghi, tendendosi probabilmente ad un lento avvicinamento tra luogo e luogo (l’uso degli assegni bancari progredisce, proporzionatamente al montante d’origine, più in Francia e in Italia che in Inghilterra e negli Stati Uniti) e variando da tempo a tempo, nel senso che M1 ed M2 siano un multiplo a valore crescente nella fase ascendente ed a valore decrescente nella fase calante del ciclo economico e che, per il perfezionamento tecnico nell’uso dei mezzi di pagamento, fra l’altro per la concentrazione dell’oro nelle sagrestie delle banche di emmissione [sic], M1 ed M2 tendono ad acquistare attraverso a molte oscillazioni cicliche ed accidentali ed a diversità locali, un valore crescente rispetto ad M. Sarebbe assai utile che gli studiosi, accesi dal sacro fuoco antiquantitativistico, applicassero i loro meritori sforzi ad accertare con precisione se esistano relazioni di questa specie o diverse ed a misurarle;

– V è anch’esso un composito delle velocità diverse di circolazione V, V1, V2, V3 … Vn delle differenti specie di moneta M, M1, M2, M3 … Mn; e per la misurazione di esse si ripetono analoghe incertezze. Già fu osservato dianzi che V, V1, V2 ecc., tendono ad assumere valori diversi a seconda delle variabili previsioni che di volta in volta gli uomini fanno intorno alle quantità future di M, M1, M2, ecc.: avvento di corso forzoso, di moratoria, ritorno alla convertibilità dei biglietti ed alla sanità bancaria. L’esperienza dell’inflazione bellica e particolarmente di quella tedesca fornì dati ragguardevolissimi in proposito e indusse i soliti pappagalli a cantar l’esequie della teoria quantitativa invece che dar loro lo spunto a perfezionarne la formulazione;

– Q è un valore di altrettanto ardua constatazione quanto P e quasi per le stesse ragioni. I valori, in masse fisiche, di taluni beni prodotti all’ingrosso, di taluni servizi importanti (trasporti ferroviari) sono noti: ma poco si sa dei valori aggiunti per trasformazione di beni all’ingrosso in beni al minuto, dei servigi personali, dei beni capitali negoziati[4].

17. – Negare il valore degli sforzi intesi a rappresentare schematicamente l’infinita complicazione del meccanismo degli scambi è dunque futile denigrazione. Giova invece perfezionare i primi tentativi imperfetti sia col costruire rappresentazioni più complesse e compiute, sia col dare ad esse sapore mercé la sostituzione di valori numerici alle lettere dell’alfabeto, tanto belle finché si resta sulle generali, ma tanto irritanti allorché si vorrebbe, come nel caso presente, trovare una risposta concreta a problemi concreti. È certo che il tracollo presente dei prezzi non può essere dovuto esclusivamente al più lento incremento comparativo dell’oro monetato (M) in confronto al più veloce incremento dei beni e servigi economici negoziati (Q); ma pare anche certo che la variazione ciclica attuale sia stata complicata da fattori monetari e, quel che importa, sembra temibile un suo prolungamento oltre il termine ordinario dei cicli a causa della incapacità o impossibilità dei dirigenti di padroneggiare lo strumento monetario delle variazioni secolari. Altro è trovarsi sulla sezione discendente della curva del ciclo economico se la curva stessa è inserita in una più ampia curva secolare monetaria ascendente od in una curva secolare monetaria discendente. La fase di crisi acuta del ciclo breve è nel primo caso breve, nel secondo caso può essere lunghissima. La influenza delle variazioni di M per essere indiretta non è meno importante; colorando esse in nero od in rosa il mondo economico nel quale si muovono gli altri fattori. Quale importanza scientifica mai può avere la svalutazione del rapporto di M con Q per esaltare a volta a volta i fattori contingenti che in ogni successivo momento possono aver avuto più importanza nel determinare una variazione di P? Quale importanza mai può avere l’osservare che i prezzi sono precipitati di più in questo o quel paese, per questa o quella causa, quando è ovvio che le variazioni di M possono avere influenza in un senso dato solo sul livello generale dei prezzi (P) e logicamente debbono influire più accentuatamente in quello stesso senso su taluni prezzi singoli (C), perché gli altri prezzi non si muovono o si muovono poco? Cosiffatte critiche partoriscono per lo più disperazione. Non nego che anche l’esaltazione nevrotica dei fattori i quali di momento in momento appaiono occasionalmente od eccezionalmente, importanti non possa essere scientificamente vantaggiosa. Come molti uomini in altri campi della vita, così taluni studiosi non vedono cose nuove non si eccitano e non combattono contro mulini a vento. Si ammira Jevons, anche quando si esalta per avere riscoperto cose che si sapevano, perché quel suo esaltarsi, quel suo persuadersi di avere scoperto tutto un continente scientifico nuovo, era condizione necessaria affinché egli veramente ritrovasse qualche nuova cima in terra nota. Ma il ronzio dei ripetitori, i quali affettano di disprezzare le vecchie rappresentazioni e non sanno sostituire ad esse nuove, più coerenti e piene ipotesi, è solo fastidioso. Si vorrebbe ignorarli, ché essi non esistono nel mondo delle idee, e si chiede venia se, per farli tacere, si è talvolta costretti a ripetere verità notorie.

 


[1] L’uso diverso degli studiosi è determinato dalla loro indole aristocratica, epperciò ugualitaria. Chi scrive e stampa è “pari” a chiunque altro sia affetto dalla medesima malattia. Epperciò nelle riviste scientifiche si cita per puro cognome; ed al più si aggiunge il nome di battesimo quando si voglia rendere a taluno particolare testimonianza di onore.

[2] Dicesi “deve” essere accompagnata, per chiarire due verità: la prima delle quali si è che P deve necessariamente essere uguale a

e

poiché una disuguaglianza è impensabile.

[3] Adopero qui la parola “causa” perché non mi vanno giù coloro i quali «osservando le situazioni di equilibrio

Ovvero

affermano che i membri di esse sono legati tra di loro da rapporti di interdipendenza» e sputano disprezzo sulla gente antiquata la quale parla ancora di cause. Sì, tutto si tiene a questo mondo; ma c’è modo e modo di tenersi. La grande guerra fu causa ed effetto nel tempo stesso di tante altre cose; ma, posta contro alle nostre piccole faccende di prezzi, di salari, di moneta, fu tal cosa grossa, praticamente indipendente dalle nostre minuzie che ben la possiamo considerare “causa”; causa di messa in moto di torchi, di inondazione di carta moneta, di ingrossamento di M, con tutta la sequela che ne derivò. Da qualche punto bisogna pur dar origine alla narrazione dei mutamenti delle cose umane; e se quel punto d’origine è vistoso, ingombrante, massiccio, ben lo potremo chiamar causa. Sì, è vero che la produzione delle miniere d’oro è causa ed insieme effetto di alti prezzi; causa perché origina incremento di M; effetto perché se P è basso, ciò significa che sono bassi i salari dei minatori, i prezzi di esplosivi, di reagenti o di macchine perforatrici e quindi conviene lavorare miniere che altrimenti sarebbero abbandonate, sicché la produzione dell’oro aumenta. Ma perché aumenti, direbbe il signor De La Palisse, occorre esistano le miniere d’oro. E se non ci sono e non si scoprono? Tutta la buona volontà dei cercatori d’oro non basta a scoprire miniere. Occorre la fortuna, l’intervento di S.M. il caso. Dunque il caso è fattore indipendente, capriccioso delle variazioni di M. Ed io lo chiamo “causa”. Si potrebbe seguitare in questa elencazione di “cause” che gli equilibristi si sono lusingati troppo a buon mercato di aver bandito dal vocabolario economico. Finché esisteranno concetti diversi, occorrerà indicarli con parole diverse. Talvolta è propria la parola “rapporto di interdipendenza”; tal altra quella di “causa”. Perché abbaruffarci intorno questioni di parole?

[4] Per una assai lucida esposizione del contenuto del concetto di livello generale dei prezzi, dei vari indici usati di fatto e dei metodi di misurazione dei fattori della equazione dello scambio vedi le Lezioni di statistica economica (per ora incompiute) di P. Jannaccone, Torino, Giappichelli, 1931.

Il mondo del lavoro

Scritti economici storici e civili, Mondadori, Milano, 1983, pp. 779-848

 

Gli scioperi del biellese

I

Coggiola (Biella), 17

In viaggio da Biella per Valle Mosso, alcuni operai, un muratore, un falegname mi raccontano dello sciopero della Val Sessera: «Da noi tutti son socialisti. Dopo Crispi, dopo la battaglia d’Adua gli operai si sono schierati tutti nel partito socialista. Vogliamo le otto ore; per ora ci accontentiamo di meno; ma è solo un’inezia; finita la lotta sull’orario, si comincia quella sulle paghe. Con due lire al giorno i meglio pagati, con 8 soldi i ragazzi siamo sempre in debiti: polenta e formaggio e vino niente».

In quanto al vino però sarebbe interessante fare una statistica delle numerose cantine.

A Valle Mosso, ieri, 16, una cinquantina di ragazzi e ragazze attaccafili si sono rifiutati ad entrare in fabbrica; volevano i salari cresciuti da 12 a 25 soldi al giorno; hanno percorso il paese in fila serrata, a quattro a quattro, le ragazze in testa, ed i ragazzi dopo, cantando l’inno dei lavoratori, e gridando: «Viva il nostro deputato, viva Rondani!». In una fabbrica si è già venuto ad un accomodamento, in un’altra si è ancora in trattative.

Nella Val Mosso e nella Val Ponzone si lavora: lo sciopero, ad eccezione degli attaccafili di Valle Mosso, è ristretto alla Val Sessera; a cominciare dal ponte provinciale a Pianceri, tutti gli stabilimenti sono chiusi. Un solo stabilimento piccolo, con 15 telai, continua a lavorare per circostanze speciali; negli altri lavorano ancora gli operai giornalieri, i sorveglianti per ultimare la fabbricazione in corso e per le riparazioni alle macchine ed agli edifici.

Gli operai della Val Sessera sono circa 2500; di questi 800 son tessitori e scioperano unanimi e solidali; 1000 sono operai addetti alla filatura, alla tintoria, all’asciugamento, a cui il lavoro è venuto a mancare in causa dello sciopero dei tessitori. Forse 700 lavorano ancora, ma anche di questi il numero va gradatamente scemando per la mancanza progressiva di lavoro. Coggiola è il centro del movimento operaio; ogni giorno vi è adunanza della lega di resistenza; e si scambiano le trattative fra gli operai e la lega degli industriali, ora direttamente ed ora per mezzo del delegato di pubblica sicurezza. Sessanta soldati con un tenente ed un sottotenente vegliano al mantenimento dell’ordine pubblico. Il paese, eccetto in alcuni momenti, sembra però deserto; era molto più animato prima dello sciopero.

Gli operai di sera affollavano i luoghi di ritrovo. Ora cominciano a stringersi i fianchi. L’ultima quindicina è stata pagata pochi giorni fa; cosicché per un po’ di tempo gli operai possono campare sulle risorse del passato. I fondi della lega non devono essere gran cosa. La lega di resistenza fra tessitori e tessitrici del Biellese è stata costituita il 9 maggio di quest’anno. I soci pagano 50 centesimi alla settimana in caso di sciopero in una delle fabbriche per aiutare i compagni di lavoro; in tempo di quiete 50 centesimi al mese. La lega è dunque troppo giovane perché possa vantare una cassa ben fornita. E la cassa è già stata vuotata altre volte negli scioperi parziali dello stabilimento Bozzalla e dello stabilimento Cerino-Zegna, avvenuti alcuni mesi fa.

Ora la tattica antica è stata mutata; non più la lotta contro le fabbriche isolate per questioni singole, durante la quale gli operai lavoranti potevano soccorrere gli operai inattivi; ma la guerra contro tutte le fabbriche insieme. Gli industriali, del resto, hanno parata la tattica degli attacchi parziali, fermando contemporaneamente tutti i telai e stringendosi in lega di resistenza contro gli operai. È un fatto naturale che si ripete con meravigliosa esattezza in tutti i paesi dove la lotta fra capitale e lavoro ha assunto un carattere generale.

Ora l’origine dello sciopero si ha nella domanda di modificazione d’orario. Interrogo alcuni capi operai i quali gentilmente mi danno informazioni: «Prima dello sciopero, scoppiato quindici giorni fa, noi lavoravamo da 12 a 16 ore al giorno; alcuni, che venivano da lontano, per vie difficili di montagna, rimanevano lontano da casa perfino 16, 17 ore. Rimanevano solo più 8 o 9 ore al giorno per riposarci e prendere i nostri pasti. Alla domenica i tessitori fermano i telai ma gli altri giornalieri spesso continuano a lavorare in alcune fabbriche fino a mezzogiorno. Noi abbiamo chiesto un orario di dieci ore di permanenza nella fabbrica e di lavoro: ad esempio nei mesi di settembre e di marzo noi abbiamo chiesto nel nostro memoriale ai capitalisti (non dicono più padroni; il frasario della propaganda socialista è di uso corrente) di lavorare dalle 6,30 alle 12 antimeridiane e dalle 1,15 alle 5,45 pomeridiane senza interruzione. I proprietari hanno accettato l’orario di dieci ore di lavoro; ma vogliono che nella fabbrica si permanga 11 ore, con due mezz’ore di riposo per la colazione e per la merenda. L’orario sarebbe così dal settembre al marzo: dalle 6,30 alle 11,45 antimeridiane, con mezz’ora di riposo dalle 8 alle 8,30, e dalle 1,15 alle 7, con mezz’ora di riposo dalle 4,30 alle 5. Ci siamo abboccati una volta cogli industriali, ma questi, che avevano ceduto subito sulla questione dell’orario, non hanno voluto concederci di far senza della colazione e della merenda in fabbrica, a cui volevamo rinunciare. Finalmente la questione si era ridotta tutta ad una differenza di un quarto d’ora. Gli industriali avevano concesso l’uscita serale alle 6,30 invece delle 7, ma per guadagnare la mezz’ora perduta, diminuivano di un quarto d’ora la merenda, e facevano cominciare il lavoro un quarto d’ora prima. Su questo punto non abbiamo voluto cedere». «Ma perché non avete accondisceso alle proposte degli industriali?» domando. «Avevate già ottenuta subito una notevole diminuzione di permanenza in fabbrica, da 13 ad 11 ore; sembra cosa da disprezzarsi?». «Gli industriali durante le trattative ci aveano chiesto se noi avremmo in caso di urgenza di forti ordinazioni fatto qualche lavoro supplementare. Dopo che noi generosamente abbiamo detto di non voler guardare pel sottile per otto giorni od anche per due o tre settimane, essi non vollero abbandonare quell’ultimo quarto d’ora». La ragione non ha davvero molto peso; si tratta di questioni separate, da trattarsi disgiuntamente.

La realtà si è che gli operai sono meravigliosamente organizzati e solidali. «Siamo operai coscienti dei nostri diritti» afferma uno con occhi sfavillanti in cui è entrata la fede in un programma nuovo «siamo operai onesti che vogliamo regolare le condizioni del nostro lavoro in modo equo ed umano». E nella spiegazione delle vertenze coi padroni sull’orario si sente un linguaggio che contrasta colle attitudini quasi tradizionali di questi operai. Non si dice: Gli industriali volevano che il lavoro durasse mezz’ora di più, ma: Gli industriali volevano sfruttare una mezz’ora di più.

E si sente che gli operai, od almeno alcuni capi, credono che la fabbrica l’hanno fatta loro. Il collettivismo non è ancora però diventato l’espropriazione degli sfruttatori da parte di coloro che hanno soli creata la ricchezza. «Noi compreremo le fabbriche in contanti e le eserciteremo per conto della società». Tutto ciò ancora avvolto in una oscura nebulosa; sentono che adesso non è ancora sonata l’ora della rigenerazione e si accontentano di ottenere un minor orario e di affermarsi. Sovratutto affermarsi, e qui i miei discorsi cogli operai cambiano tono ed entrano nella politica.

Le risposte sono solo più a monosillabi. Quegli stessi operai che prima discorrevano abbondantemente del modo con cui vivevano, del loro orario, diventano sibillini e muti. Ed è qui, non nelle questioni di orario, in cui è facile accordarsi, che sta se non il perno delle lotte, almeno il germe dell’astio insolito che ora divide in due campi opposti padroni ed operai. Al disotto della calma profonda in cui vive la zona, e dalla quale con quasi assoluta certezza non si uscirà per l’indole tranquilla della popolazione e per gli incitamenti dello stesso partito socialista, cova un fermento mal represso.

Gli animi sono eccitati contro la chiusura di otto esercizi pubblici, dove convenivano i socialisti. Oggi, in pieno consiglio comunale, sette consiglieri presentano un memoriale contro l’operato dell’autorità politica, dove si biasima il sindaco perché quale primo magistrato del comune non ha impedito i soprusi e le illegalità dell’autorità centrale, e si invita il prefetto di Novara a dichiarare per quali articoli di legge la chiusura degli esercizi fu effettuata, oppure a riaprirli subito. E malgrado che un telegramma del sottoprefetto ordinasse al sindaco di togliere questo argomento dall’ordine del giorno, il consiglio, presenti 11 consiglieri su 20, di cui tre tessitori, gli altri osti, proprietari contadini, piccoli commercianti e bottegai, mugnai, fabbri, unanime vota la mozione ed il biasimo al sindaco. Segno di un profondo mutamento nello spirito delle masse.

All’ultima ora sento che gli operai andranno lunedì a vuotare i telai, ossia a finire quelle pezze di panno che erano state al momento dello sciopero lasciate incompiute. Era loro dovere.

20 settembre 1897

 

II

II Coggiola, 19 settembre

Ho parlato con parecchi industriali cercando di formarmi una idea esatta della situazione. Non tutti raccontano la medesima storia, ma questa varia nei suoi caratteri fondamentali.

Ecco quanto ho potuto raccogliere:

L’industria laniera del Biellese da alcuni anni attraversa tempi se non difficili almeno non più così prosperi come una volta. C’era stato un momento di rinnovata attività al tempo dell’aggio alto; questo agiva come un aumento di dazio protettivo ed impediva la importazione dei tessuti esteri. Allora i telai battevano continuamente; i prezzi erano rimuneratori, i fabbricanti fecero profitti e gli operai ottennero maggiori salari.

Salvo questo momento di floridezza, la industria della Val Sessera si può dire abbia attraversato un periodo di morta nel 1893-94-95. Le crisi imperversanti nell’Italia, le fallanze agricole si ripercossero sull’industria laniera. Si consumavano meno vestiti nuovi e si facevano durare più lungo tempo quelli già usati. Per conseguenza i telai battevano solo la metà del tempo; quattro, cinque giorni alla settimana in alcuni mesi; ed anche quando la fabbrica era sempre aperta, non tutti gli operai erano occupati. Qui la disoccupazione si manifesta in un modo peculiare. Non si getta un terzo, la metà degli operai sul lastrico, occupando di continuo gli altri, ed obbligando alcuni ad emigrar altrove per cercare lavoro; ma tra una pezza e l’altra si fa passare un tempo più o meno lungo, cosicché mentre alcuni operai lavorano, gli altri rimangono a casa.

Così gli operai sono tutti saltuariamente occupati per turno; la disoccupazione e la crisi industriale si manifesta col decremento del numero medio dei giorni in cui gli operai lavorano e non coll’aumento degli operai del tutto oziosi. Del resto gli operai stessi non permetterebbero che alcuni soli fossero in tempo di morta occupati e gli altri licenziati.

Dal periodo di crisi l’industria tessile non è ancora del tutto uscita; un grande stabilimento non lavora il sabato dopo pranzo per non accumulare fondi di magazzino.

Si può affermare però che un qualche risveglio nella Val Sessera si è manifestato nelle ultime campagne. Le ordinazioni sono venute più abbondanti e si sperava in una prospera nuova stagione, quando è scoppiato lo sciopero. Gli operai hanno abbandonato il lavoro senza finire le pezze incominciate. Adesso hanno acconsentito a vuotare i telai; ma il fatto ha prodotto una triste impressione sugli industriali, perché dinota la rottura di un’antica consuetudine che ambe le parti avevano sempre osservata.

Il momento poi è stato scelto dagli operai molto inavvedutamente, secondo gli industriali. La stessa lega di resistenza e qualche influente capo socialista hanno dovuto riconoscerlo. A questo proposito sono necessarie alcune spiegazioni sulle consuetudini commerciali dell’industria laniera. L’anno si divide in due stagioni, d’inverno e d’estate. Nell’inverno si fa la campagna d’estate e nell’estate quella d’inverno. Entro settembre, ad esempio, i fabbricanti finiscono il campionario d’estate e vanno in giro essi stessi o mandano i loro viaggiatori dai grossisti coi cosidetti campioni piccoli, sui quali i grossisti scelgono i numeri che presumibilmente sembra possano incontrare il gusto del pubblico.

Una volta i grossisti facevano subito le ordinazioni ed i fabbricanti si potevano mettere al lavoro; ora invece si fanno per ottobre e novembre i campioni grandi, che i grossisti distribuiscono ai dettaglianti e su cui si ricevono le ordinazioni definitive a novembre dicembre. Questo è uno dei guai maggiori nell’industria laniera. I campioni piccoli, e più quelli grandi, costano un’enormità; mi si citano delle fabbriche dove si spendono da 30 a 100 mila lire senza alcun compenso. Perché i campioni piccoli e grandi vengono distribuiti gratis ai grossisti, alcuni dei quali di sottomano se ne fanno delle collezioni per rivenderli, od anche per ottenerne imitazioni a buon mercato. È questa però una consuetudine radicata, difficile a togliersi, a meno di fare il dettaglio, cosa impossibile per i fabbricanti, che non possono mantenere un esercito di viaggiatori e non vogliono far concorrenza ai grossisti.

Lo sciopero è scoppiato quando in alcune fabbriche si era già ultimato il campionario piccolo e si stava per uscire, ed in altre se ne era già iniziata la preparazione. Ora tutto è sospeso. Se il lavoro non viene ripreso, i fabbricanti non usciranno col campionario piccolo, le ordinazioni non verranno e per sei mesi le fabbriche rimarranno ferme.

Gli industriali ci rimetteranno le spese generali, il costo del campionario, ma non dovranno subire le multe per inadempiute commissioni. Perderanno sovratutto gli operai, ridotti all’ozio per sei mesi, con risorse diminuenti progressivamente, nell’impossibilità di trovare lavoro sulla terra ingratissima.

Allora dovranno emigrare e rimpiangeranno i giorni in cui i telai battevano. Non solo emigreranno gli operai, ma emigrerà l’industria. Già alcuni industriali hanno manifestato l’intenzione di trasportare altrove una parte dei loro telai, nell’agro torinese, in Lombardia, dove la mano d’opera, se non altrettanto sperimentata, è meno costosa e più docile. Si ripeterà quello che è accaduto già per l’industria dei cappelli, una volta fiorente nel Biellese ed ora, per le pretese eccessive degli operai, successivamente trasportata ad Intra e poi a Monza. Sarebbe la rovina ultima delle valli, dove l’agricoltura non offre assolutamente alcuna risorsa. Non solo si è scelto male il momento, ma si è errato eziandio nella scelta del pretesto dello sciopero. Gli scioperi precedenti erano stati diretti contro industriali singoli.

Gli operai degli stabilimenti attivi potevano sussidiare gli scioperanti e protrarre l’inazione per lungo tempo.

Ora accade qualcosa di simile, perché i tessitori di Valle Mosso, di Val Ponzone, di Biella aiutano i compagni di Val Sessera. Ma non è così facile aiutare 2000 persone, come 350, ed il momento della resa dovrà venire presto.

Alle domande degli operai chiedenti un orario di dieci ore, gli industriali risposero accettando le dieci ore, ma intercalandovi due mezz’ore per la colazione e la merenda, dimodoché la permanenza in fabbrica era di undici ore.

Gli operai pretendevano di poterne fare senza, ma gli industriali temevano che i due riposi si sarebbero a poco a poco reintrodotti, riducendo la giornata di lavoro a nove ore. E se essi accettavano la giornata di dieci ore di lavoro effettivo, perché sapevano che l’operaio produce tanto in dieci ore quanto in undici stancandosi meno e lavorando più attentamente ed intensamente, non avevano la medesima certezza quanto all’orario di nove ore. Gli operai potevano, ma non vollero, accettare l’orario modificato. E qui ebbero torto, tanto più che la differenza si era ridotta a poca cosa nelle trattative, come ho già detto dianzi.

La lega di resistenza degli industriali decise di resistere ad oltranza, anche a costo di sospendere le fabbriche per sei mesi, non tanto per la questione dell’orario quanto per quella delle paghe e del regolamento interno. Per ora non si è parlato di aumenti nel salario, ma gli industriali hanno ragione di credere che se essi cedono sull’orario, poco dopo si sciopererà nuovamente per ottenere un aumento nei salari. E questo sarebbe incomportabile all’industria laniera biellese.

I tessitori della Val Mosso e della Val Sessera sono i meglio pagati del Biellese, e quelli del Biellese godono i salari più alti d’Italia. È vero che i biellesi sono più abili (da più secoli addestrati alla tessitura), è vero che esiste una maestranza numerosa e adatta ai varii generi di lavoro, ma non si può negare che quando i fabbricanti vicino a Torino, del Veneto, della Toscana pagano 8, 10 centesimi per ogni mille mandate invece di 14, 16, 18 come a Val Mosso od a Coggiola, quelli possono vincere più facilmente i loro rivali sul mercato. Mentre nel Veneto i tessitori si contentano di lire 1,50 al giorno, nel Biellese guadagnano da 2,25 a 3 lire; ed in una fabbrica nel mese scorso ebbero in media un salario per giornata di lavoro di 3,42 al giorno. Del resto gli industriali non sarebbero avversi ad un aumento nei salari, purché questo avvenisse contemporaneamente in tutta Italia. Ciò è però molto difficile!

All’epoca dello sciopero del 1889 fu concordata fra industriali e tessitori una lista uniforme di tariffe. Per un po’ fu osservata. Ma a poco a poco cominciarono alcuni industriali piccoli ad abbassare la tariffa di un centesimo per volta, ponendo agli operai l’alternativa di accettare i nuovi patti o di chiudere. Cosi si è ritornati al caos antico, e ne soffrono gli industriali che hanno osservato l’accordo. Perché gli operai non dirigono i loro sforzi specialmente contro gli industriali che danno salari più bassi della media?

La lega degli industriali vuole tener duro non solo per opporsi ad un aumento futuro dei salari, ma anche per mettere argine alle intrusioni della lega di resistenza nella disciplina interna degli stabilimenti. Gli industriali non possono oramai licenziare un operaio senza che gli altri abbandonino il lavoro. A Biella, alla fabbrica Squindo, 90 fonditori hanno scioperato in seguito al licenziamento di due loro compagni. Non è possibile nemmeno redarguire gli operai per lavoro mal fatto e per altre cause senza il beneplacito della lega. Con tutto questo gli industriali sono decisi a farla finita. «Vogliamo» dicono essi «essere padroni a casa nostra; non vogliamo essere coartati nella nostra libertà di assumere e licenziare operai da una lega misteriosa ed occulta. I direttori di fabbrica, i capi su cui pesa la responsabilità della buona o cattiva fortuna degli stabilimenti siamo noi; e non vogliamo essere obbligati a tener elementi turbolenti od a noi invisi. Siamo magari pronti a concedere loro anche due, tre, quattro settimane di preavviso, ma vogliamo poter licenziare chi non ci piace».

22 settembre 1897

 

III

Biella, 23 settembre

Da tre giorni mi sembra di fare uno strano sogno. Mentre viaggio nelle valli industriali del Biellese, e contemplo le fabbriche grandi e piccole inseguirsi lungo il fondo della vallata, ed ascolto i discorsi degli industriali e degli operai, in cui si mescola all’attrito sprizzante dalla nuovissima propaganda socialista il ricordo di un periodo patriarcale non ancora trascorso nelle relazioni fra i varii compartecipanti al prodotto dell’industria, ritornano dinanzi alla mente mia di studioso di cose economiche, le pagine narranti altre lotte, altre propagande nel paese che primo si è slanciato nella vita industriale, dissolvendo le antiche forme economiche ed instaurando sulle loro rovine quella organizzazione industriale che oggi impera incontrastata. L’industria laniera del Biellese attraversa ora un periodo molto simile a quello che si svolse intorno al 1830-40 nell’Inghilterra, e più specialmente nel paese del cotone, il Lancashire. Biella è stata detta la Manchester d’Italia, ed a ragione.

Nella storia i medesimi fatti si ripetono ad intervalli nei varii paesi, e sono l’inevitabile risultato delle trasformazioni economiche che così rapidamente si succedono nel nostro secolo.

Allora, come adesso in Italia, il ceto dei proprietari di terre imperava in Inghilterra, e malgrado che gli industriali si fossero già elevati a grande potenza, forti tasse gravavano su tutti gli oggetti di consumo dell’operaio e sulle materie prime dell’industria; le rivoluzioni nel macchinario si susseguivano a brevi intervalli e sostituivano al telaio a mano il telaio meccanico; gli uomini con salari alti venivano gettati sul lastrico, e le donne ed i fanciulli affollavano le fabbriche e preparavano la degenerazione della razza. Ed assistiamo perciò nell’Inghilterra ad un’agitazione vivissima contro il governo che tortura i sudditi con un sistema tributario iniquo; gli industriali chieggono l’abolizione dei dazi sui cereali; operai, stretti in organizzazioni gigantesche, alzano il grido della carta, bruciano i telai meccanici e mandano al parlamento i loro rappresentanti, coll’incarico di strappare il potere di mano ai signori della terra e dell’industria. La parola guerra di classe diventa il segnacolo in vessillo della classe operaia e gli animi si dividono con un profondo abisso.

Ora molto è mutato nell’Inghilterra; non più guerra, ma trattative, arbitrati. Gli scioperi permangono, ma vi si ricorre solo più in ultima istanza. Gli operai non hanno cessato di organizzarsi per aumentar la paga già cospicua e diminuir l’orario già diminuito, ma avanzano le loro domande solo quando sanno che gli industriali sono in grado di concederle; colle scale mobili aumentano o diminuiscono i salari, a misura che oscillano i prezzi di vendita della merce, da cui tutto si deve trarre: salari, profitti, assicurazioni, imposte, ecc.

Nel Biellese la rivoluzione industriale, che nell’Inghilterra avvenne al principio del secolo, è cosa recente. Solo da una ventina d’anni si è compiuta la progressiva trasformazione del telaio a mano nel telaio meccanico; ed essa non è stata esente da dolorose esperienze. Non si è potuto d’un tratto indurre gli operai che tessevano in casa loro, aiutati dalla intera famiglia, con orario irregolare, con giornate saltuariamente intense e prolungati ozi domenicali e lunediani, a venire alla fabbrica all’ora fissa, tutti i giorni della settimana. Non si seppe subito nemmeno fare il conguaglio fra il salario del tessitore a mano e quello del tessitore a macchina. La scarsità della maestranza abile ed i grandi profitti dei primi industriali tennero per un po’ di tempo i salari ad una misura molto alta; e quando la concorrenza costrinse a ribassare i prezzi, gli operai reagirono contro la diminuzione dei salari. Gli scioperi del 1877 e del 1889 ebbero per cagione appunto la necessità di introdurre una rigida disciplina e regolarità nel lavoro di fabbrica e di fissare in modo uniforme il valore della giornata di lavoro.

Ed ora la situazione industriale è la seguente: sostituito intieramente al telaio a mano il telaio meccanico nei grandi stabilimenti. Rimangono alcuni rari avanzi nelle fabbriche degli antichi telai, conservati per usi speciali, e si veggono ancora lungo le vie radi operai vecchi che si portano sulle spalle il filato per trasformarlo a casa in tessuti. Ma sono eccezioni che vanno rapidamente scomparendo.

Le fabbriche sono di tutte le gradazioni: da quelle che occupano 5 tessitori a quelle in cui si accentrano 800 tessitori e tessitrici.

Nelle fabbriche di una certa importanza si compiono tutte le successive operazioni necessarie per trasformare la lana greggia in tessuto pronto alla spedizione. L’industria non si è specializzata; non vi sono stabilimenti in cui si fili unicamente, altri in cui si tessano solo i generi d’estate oppure d’inverno, altri in cui solo si tinga o si apparecchi. L’ampliamento delle fabbriche non si compie per giustapposizione di saloni dedicati al medesimo lavoro, ma per completamento delle operazioni prima mancanti. Tutti gli attuali industriali della Val Sessera, di Val Mosso, di Biella erano due generazioni fa operai venuti dal niente. Né il processo di reclutamento degli industriali nel ceto operaio ha avuto termine.

Si citano molti fabbricotti, dove si lavora e si guadagna, condotti da antichi operai economi, intraprendenti, riuniti in società, di quattro, cinque amici, o cugini o fratelli. Vi sono molte fabbriche, i cui proprietari o sono andati in rovina od hanno cessato di dedicarsi all’industria, le quali vengono affittate intiere, o per sezioni, a uomini dotati di un qualche capitale, o godenti la fiducia di un amico denaroso o di un banchiere. Si comincia con qualche telaio e si tesse per conto altrui.

Poi s’imprende la tessitura per conto proprio; si aggiunge in seguito la tintoria, la filatura, e lo stabilimento è sorto e può prosperare anche contro la concorrenza di quelli potenti già stabiliti da lunga data. A Biella vi sono industriali che in una dozzina d’anni sono diventati milionari, ed erano capi operai. Non si vuole con ciò asserire che a tutti sia aperta la via di diventare fabbricanti; ora comincia persino a mancare il sito, a meno che con la trasmissione elettrica a distanza della forza motrice esso non venga artificialmente aumentato. Si vuole dimostrare solamente che la classe degli industriali è molto variegata; e va da quelli che sono mezzi operai e lavorano essi stessi o fanno lavorare i proprii figli e la propria moglie, a coloro che si riservano solo la direzione dell’impresa. Non c’è però ancora nessun proprietario di lanifici il quale sia un puro e semplice capitalista e si accontenti della sorveglianza su direttori stipendiati e di percepire alla fine dell’anno un dividendo variabile a seconda delle buone o cattive annate. Non esistono società anonime; se n’era fondata una, ma ha fatto cattiva prova ed ora si sta liquidando. Gli industriali sono essi stessi direttori dello stabilimento e vi dedicano la maggior parte del loro tempo. Per lo più sono parecchi fratelli, cugini o parenti in diverso grado. Uno si dedica alla parte tecnica, l’altro alla parte amministrativa, un terzo disegna, studia la tendenza della moda nelle stoffe, un quarto viaggia a ricevere le commissioni ed a ordinare le nuove macchine.

Il guadagno, una volta più cospicuo d’adesso, ma ancora abbastanza rilevante e non mai nullo, che gli industriali ritraggono dalla loro impresa, non è dunque solo interesse sul capitale impiegato, ma nella maggior parte è compenso per la loro opera di direzione, è un salario come un altro. Certo è un salario di gran lunga superiore al salario dell’operaio, ma la loro opera è anche di merito ben maggiore.

Tutto nelle fabbriche dipende dalla buona direzione ed amministrazione; dove questa manca non giova a nulla avere una maestranza abile ed esperta; gli affari vanno a rotoli e lo stabilimento si deve chiudere con danno del paese e degli operai, gettati sul lastrico ad ingombrare il mercato del lavoro ed a deprimere le mercedi. È vero che i fabbricanti talora sono remunerati profumatamente, ma gli operai non devono solo pensare con ira alle eleganti palazzine ed ai milioni accumulati, ma anche al merito reale di coloro che stanno a capo delle imprese fortunate, ed alla sfortuna di quelli meno abili o vinti nella lotta della concorrenza.

Ho sentito che nel Biellese ogni anno avvengono in media tre o quattro fallimenti nell’industria tessile. È cosa dolorosa, ma inevitabile, e finora l’unico mezzo per incitare al miglioramento della produzione è tener sempre viva e desta l’attenzione degli industriali su quanto è possibile fare per ridurre il costo e per aumentare l’efficacia del lavoro umano. Finora non s’è trovato altro mezzo per attuare la legge del minimo mezzo; né l’ora sembra spuntata di un nuovo ordinamento industriale nell’industria laniera. Gli accordi da qualche industriale invocati e perfino proposte non hanno ivi alcun avvenire. Sono troppo i generi prodotti, così eccessivamente molteplici i fattori di cui bisogna tener conto e così variabili da fabbrica a fabbrica, che è del tutto chimerico pensare a regolare la produzione, perché i prezzi non ribassino e si possano quindi pagare salari alti. Gli operai devono dunque adattarsi al pensiero che per un tempo indefinito futuro la regolatrice suprema dell’industria laniera biellese sarà ancora la concorrenza, non solo italiana, ma anche estera, e regolare su questa nozione sicura la loro condotta e le loro domande rispetto all’orario ed ai salari; e devono pensare che il capitale può ancora trasferirsi, sebbene con perdite per gli industriali e pel paese, ad altri paesi dove maggiore sia il suo tornaconto, e che il trasferimento non dipende dal beneplacito degli industriali, ma dalle inesorabili leggi del minimo costo.

Sovratutto poi è necessario ricordare che gli industriali non sono solo in lotta colla concorrenza, e quindi interessati a pagar poco per vendere a buon mercato, ma sono posti fra l’incudine ed il martello: fra la maestranza che chiede buone paghe ed il governo che affligge l’industria con imposte vessatorie, minute, ostacolatrici della produzione e si appropria una parte notevole del prodotto, parte che altrimenti potrebbe andare ad aumento dei salari. È questo un terreno su cui industriali ed operai sono naturalmente non in lotta, ma d’accordo; e possono stringere una sincera alleanza, gli uni per ottenere diminuzione delle imposte gravanti sull’industria, gli altri per ottenere uno sgravio sui loro generi di consumo. Ed a questo accordo fra industriali ed operai, per ridurre alla parte congrua quel partecipante ignoto e lontano che talvolta si attribuisce la parte del leone, è necessario solo un po’ di fiducia reciproca ed un po’ di buona volontà.

25 settembre 1897

 

IV

Biella, settembre

«Una casetta un campicello ed una vacca»; questo il grido di alcuni riformatori che in molte contrade industriali si spaventavano davanti allo spettacolo di torme immense di operai raccolti nelle grandi città attorno ad una fabbrica, salariati giornalieri, imprevidenti, beoni, senza legame col suolo, non aventi nulla da perdere e speranti molto in una rivoluzione industriale.

«Diamo a questi paria dell’industria una piccola proprietà, e li trasformeremo in custodi dell’ordine sociale e tutori delle istituzioni vigenti».

L’ideale dei riformatori è in gran parte attuato nel Biellese; nella Val Sessera, dove più, dove meno una notevolissima parte della popolazione operaia è anche proprietaria. Nella Val Mosso mi fu detto che l’80% delle famiglie operaie possiede la casa, il prato e il castagneto attiguo. È una proprietà curiosa, frazionatissima: la proprietà-cencio che non dà abbastanza da mangiare, ma pur tiene legati ed affezionati al luogo natio. I padri vecchi e le madri di numerosa figliuolanza stanno a casa, curano le faccende domestiche, conducono in pastura la vacca o la capra, mungono il latte, tagliano il fieno e lo mettono in serbo per l’inverno; sbattacchiano le castagne o le noci, gli uomini e le donne che ci vedono ancora; i giovani e le ragazze vanno alla fabbrica.

Ognuna di queste proprietà cencio ha un valore altissimo, senza nessuna corrispondenza col reddito effettivo. Solo chi conosce l’affetto intenso del montanaro per la sua terra può spiegarsi come una giornata di terreno, dove non cresce né la vite, né il grano, né la meliga, e dove si raccoglie solo dell’erba, delle castagne e della legna da fuoco, valga da 1500 a 4000 lire, ossia i prezzi attuali dei migliori vigneti nel Monferrato o dei prati della bassa piemontese, dove l’agricoltura non e un’occupazione secondaria ma la principale. Solo in tal modo si può spiegare l’estrema e quasi fantastica suddivisione del terreno, per cui alcuni posseggono poche are, qualche metro quadrato di prato, due o tre piante di castagne. Quando muore il capo famiglia, nessuno rinuncia alla terra; e questa viene divisa all’infinito fra gli eredi.

Questi operai piccoli proprietari guadagnano salari che, cominciando da 10 soldi per i ragazzini di 12 anni, e salendo a 3,50 pei tessitori, a 150-200 lire al mese pei capi sala, disegnatori, si devono dir buoni e superiori alla media italiana. È vero che in alcune campagne si è lavorato poco; a quanto mi fu detto, nel 1894 e nel 1895 gli operai furono occupati solo metà dell’anno; i salari poterono allora discendere a quelle cifre che alcuni tessitori mi descrissero come media, ossia 40 lire al mese.

Ma non si può estendere un fatto eccezionale ad alcuni anni e ad alcune fabbriche a tutti gli anni ed a tutti gli stabilimenti. Nel 1897 la media è stata molto più alta, e giunse in una fabbrica, come ho già detto, a 3,42 al giorno. Per un mese del 1897, scelto a caso, e per una fabbrica tipica della Val Sessera, ho potuto raccogliere dati più precisi. Il 6,3% dei tessitori guadagnò 100 lire ed oltre al mese; il 17,5% ottenne una paga da 90 a 100 lire; il 19,5% da 80 a 90; il 26,5%, da 70 ad 80; il 16%, da 60 a 70; il 9%, da 50 a 60; ed il 5,5%, da 30 a 50. La massa dei tessitori ha dunque uno stipendio medio da 70 a 100 lire al mese; alcuni pochi guadagnano di più; il 30% guadagna meno per cause speciali, e sovratutto per le interruzioni nel lavoro, con cui si manifesta il fenomeno della crisi e della disoccupazione nel Biellese. In un altro mese forse quelli che guadagnarono ora solo da 30 a 50 otterranno di più; ed al loro posto verranno altri. Se si pensa che molti operai non devono pagar fitto, e che del resto questo non è superiore alle lire 3 al mese per camera (camere vere e non soffitte come a Torino), che i proprietari ottengono qualche guadagno supplementare o qualche reddito in natura dalla campagna, sorge nella mente di molti la domanda: «Perché gli scioperi sono più frequenti, il socialismo ha gittato più profonde radici, trascinando uomini e donne, vecchi e fanciulli, a guisa di una novella religione, perché le donne leggono in chiesa l’Avanti! e baciano le mani all’oratore socialista nel Biellese e non invece in altri luoghi, dove i lavoratori sono veramente ridotti alla miseria ed alla fame cronica, come nella bassa vercellese o nella pianura lombarda? Perché si sciopera fra gli operai dei lanifici e non nei cotonifici, dove la paga è minore?».

La questione è complicatissima ed una risposta la si può dare solo con esitanza. Non si tratta, prima di tutto, di un fenomeno isolato e peculiare al Biellese. Prendete qualunque statistica ufficiale e vedrete che in Italia gli scioperi agrari avvengono, non fra gli agricoltori denutriti della bassa Lombardia, ma in quelli più vigorosi e meglio pagati dell’agro emiliano e cremonese; che in Inghilterra ed in America gli scioperi più grandiosi hanno luogo fra gli operai dell’industria metallurgica o carbonifera che hanno l’orario di otto ore, mezza festa al sabato, 10 lire al giorno e la carne al desco durante tutta la settimana, e che ivi aumenta il numero degli scioperi, precisamente come nel Biellese, non negli anni in cui i salari sono bassi, ma nelle annate prospere, quando il lavoro abbonda.

Non è difficile indicare le cause di questo fenomeno. Gli operai mal pagati non si trovano di solito nella grande industria, ma disuniti e separati nelle case loro e nella campagna; non elevano la loro mente al disopra del cibo giornaliero e della fatica necessaria per procurarselo. La vita di fabbrica cambia tutto questo. Nell’industria tessile non si richiede grande fatica muscolare dall’operaio; la macchina fa tutto da sé; esso deve solo stare molto attento. L’attenzione continua per 10, 11 ore, in mezzo ad un fragore assordante, stanca il sistema nervoso e fa nascere il desiderio di cibi e di bevande riconfortanti. La comunanza di vita in un grande stabilimento, il contatto continuo con numerose persone dello stesso ceto, fa sorgere il bisogno di vivere insieme; rallenta a poco a poco i legami di famiglia, indebolisce la forza di coesione dell’unità familiare e rafforza la simpatia fra i varii membri dello stesso gruppo sociale. Alla sera, finito il lavoro giornaliero, l’operaio desidera di ritrovare quelli con cui ha lavorato tutto il giorno, e casca nell’unico ritrovo attraente da lui conosciuto: l’osteria. È straordinario il numero degli alberghi, caffè, osterie, cantine, spacci di liquori, che il viaggiatore osserva nei villaggi industriali.

Nella Val Sessera se ne incontra uno ad ogni passo. Nel comune di Pray sono 11, a Portula 22, a Coggiola 42, a Pianceri 9. E gli osti fanno affari. Gli operai non comprano il vino a brente per consumarlo a casa, ma lo bevono unicamente a litri nelle osterie. Si comprende così come una parte notevole dei salari prende la via dell’oste, come gli operai, quantunque piccoli proprietari, siano imprevidenti, indebitati e malcontenti. È necessaria un’opera lenta e faticosa di rigenerazione sociale, la quale potrà solo essere l’opera degli operai stessi e delle persone generose, di cuore e senza seconde intenzioni, che esistono dappertutto ed abbondano nel Biellese, dove le consuetudini migratorie e la grande attività economica hanno creato una classe di persone le quali vivono di un reddito che fluisce nel paese, ma viene da lontano, e possono mantenersi giudici imparziali fra operai ed industriali.

In mezzo ad una classe operaia disposta dal lavoro di fabbrica alla solidarietà, premuta da bisogni nuovi non prima conosciuti, cadde come scintilla eccitatrice di un grande incendio la propaganda socialista, fomentata ed aiutata dalle discordie fra gli industriali e dalla scissura nel campo costituzionale.

Ed ora gli operai, che hanno sentito durante due successive campagne elettorali predicare da oratori valenti ed instancabili il verbo novello, vogliono tradurlo in atto, e cominciano col chiedere la riduzione dell’orario.

Colla fretta dei neofiti essi sono andati più avanti già dei loro apostoli; ed hanno dopo la lotta politica incominciato la lotta economica in un momento tale in cui, come ho già osservato, una sospensione delle fabbriche può avere lunga durata con conseguenze dannose per le valli biellesi.

Ed accanto alla domanda di riduzione di orario, la quale dopo tutto è stata accettata subito dagli industriali con una differenza minima, spunta lo spettro, pauroso per questi ultimi, di nuove domande: aumento di paghe e impossibilità per i fabbricanti di licenziare gli operai, da loro ritenuti fomentatori di malcontento e di sciopero, senza il consenso della lega di resistenza.

Amendue le domande sono premature. Io non so se un giorno si giungerà nel Biellese ad una condizione tale di cose in cui padroni ed operai non si credano più in diritto di discutere individualmente le condizioni del loro contratto di lavoro e si sottomettano alle decisioni dei comitati misti delle associazioni padronali ed operaie. In altri paesi oramai è questa una consuetudine radicata contro cui nessuno protesta; ma nel Biellese mi sembra ed è prematuro.

Il proprietario dello stabilimento non è una società anonima, un essere impersonale, lontano, a cui poco importa di avere piuttosto questo che quell’operaio, e contro i soprusi dei cui rappresentanti sono necessarie delle guarentigie, ma è un uomo che vive in mezzo alla fabbrica, conosce tutti i suoi operai personalmente ed il quale non si lascerà costringere tanto facilmente a tenersi vicino operai che non gli talentino.

E se i proprietari hanno il dovere di consentire alle domande che sono giuste e ragionevoli, gli operai hanno dal canto loro il dovere di non far proposte, la cui giustificazione si può solo trovare in ambienti ed in condizioni industriali che sono ben lontane dalle nostre.

È un perditempo discutere se nel lontano futuro impererà la libera concorrenza o la organizzazione collettivistica; non si può mettere a base della vita quotidiana le elucubrazioni che lo scienziato viene serenamente facendo nel suo studio; importa sovra ogni altra cosa che industriali ed operai cerchino di evitare nella pratica i sacrifizi immensi causati a tutte le parti contendenti da quell’arma a doppio taglio che è lo sciopero.

27 settembre 1897

 

V

Lo sciopero che ancora si prolunga fra i tessitori della Val Sessera e dilaga sporadicamente anche nelle altre valli ed in Biella non è stato privo di insegnamenti agli interessati nell’industria della lana. Agli operai ha insegnato che la tattica degli scioperi deve essere sottile e sapiente e richiede accorgimenti e cautele infinite riguardo ai modi ed ai tempi più opportuni per addivenire all’ultima ratio della guerra industriale. Essi si sono accorti che, come nella guerra vera, occorre sapere a tempo debito battere alquanto in ritirata se si vogliono conservare le posizioni conquistate e se si vuole impedire che il nemico approfitti di una mossa sbagliata per metterli in iscompiglio dopo la effimera vittoria.

Sovratutto esso ha insegnato loro a pregiare ed a valersi accortamente dell’arma della solidarietà mercé la lega di resistenza.

Le leghe, che ad alcuni industriali paiono mafie occulte e pericolose da sopprimersi colla forza della legge, sono invece i portati naturali e necessari della grande industria moderna. Ora sono semplici strumenti per lo sciopero, come erano le prime unioni artigiane inglesi. Ma avverrà delle leghe italiane come delle unioni inglesi. Queste, col crescere in potenza ed in ricchezza, videro la utilità di proseguire altri scopi, oltre la resistenza agli industriali, e crearono così nel loro seno casse contro la vecchiaia, la invalidità, le malattie, la disoccupazione, ecc. Inoltre se alle leghe giovani e prive di fondi importa poco iniziare uno sciopero, poiché i rischi sono tenui e si riducono alla perdita di un fondo minuscolo, i capi di potenti unioni guardano con diffidenza allo sciopero che farebbe sfumare come nebbia al vento le centinaia di migliaia di lire di riserva penosamente accumulate e porrebbe in pericolo il servizio delle pensioni e dei sussidi per malattia e per disoccupazione.

Tutte le più potenti unioni artigiane inglesi preferiscono allo sciopero le trattative, gli arbitrati, le reciproche concessioni, ed addivengono alla guerra solo in ultima istanza, con quanto vantaggio della pace sociale e della industria non è chi non veda.

Gli industriali, dal canto loro, hanno imparato quanto valore risieda nell’amichevole accordo per opporsi alle domande degli operai. Dal punto di vista dell’impresa, la lega fra gli industriali sopprime la concorrenza reciproca nella caccia all’operaio, come la lega operaia sopprime la caccia al salario. È l’inizio anche questo di un movimento che sarà lungo e fortunoso, ma potrà essere apportatore di conseguenze benefiche. Nelle dispute fra capitale e lavoro l’esistenza di associazioni padronali ed operaie sopprime il carattere personale, astioso, che si possa nascondere nei punti controversi, e lascia solo venire a galla i punti generali ed impersonali.

Su di questi è più facile trovare il ponte di passaggio per l’accordo fra le parti contendenti. Perché gli industriali ragionerebbero male se dalla forza imprevista esistente nella loro lega conchiudessero alla possibilità ed alla utilità di una guerra ad oltranza contro l’agitazione operaia allo scopo di sopprimere le leghe di resistenza fra le maestranze. L’effetto primo sarebbe forse quello della vittoria e della tranquillità, ma sarebbe vittoria effimera e tranquillità apparente, sotto le cui ceneri continuerebbero a covare i germi della discordia e della lotta.

La esistenza delle due associazioni opposte fornisce invece il mezzo adatto ad introdurre una nuova forma di arbitrio. Seduti ad un tavolo comune, i rappresentanti autorizzati delle due associazioni non tarderebbero a scovrire coll’occhio linceo di cui sono dotati gli uomini del mestiere un terreno neutro di accordo. Il segretario di una delle più potenti Trade-Unions diceva un giorno: «Da venticinque anni nella nostra industria e nella nostra città non avvengono scioperi. La ragione è facile a scoprire. Quando sorge una controversia, i rappresentanti ufficiali delle leghe padronali ed operaie sentono che su di loro incombe una grave responsabilità; da loro dipende il fiorire od il decadere dell’industria; la tranquillità e la pace di migliaia di famiglie o la loro forzata emigrazione all’estero. Non è mai avvenuto che essi si sottraessero alla loro responsabilità e non addivenissero ad un accordo con soddisfazione reciproca».

Ciò che accade altrove, può ripetersi nel Biellese, dove si annoverano gli industriali e gli operai più intelligenti e più abili d’Italia. Molti industriali sono avversi all’arbitrato, alle trattative colle leghe di resistenza, e si dimostrano riluttanti perfino a nominare i membri della loro parte nei futuri collegi dei probi-viri, perché credono che arbitrato significhi resa, abdicazione della propria indipendenza, e paventano che le sentenze del collegio dei probi-viri non siano osservate ed eseguite. È questo un errore funesto. L’arbitrato vuol solo dire sottomissione del giudizio individuale che può fallire perché interessato nella questione, al giudizio di una persona estranea la quale più difficilmente fallirà perché imparziale. Allo stato di guerra succedono così le trattative che creano e rafforzano la pace.

Quanto alla domanda se le decisioni del collegio dei probi-viri saranno eseguite, non si può rispondere se non: provate. E la esperienza del passato è arra sicura che, una volta messa in giuoco la molla della responsabilità collettiva di tutta una classe, questa saprà assurgere all’altezza dei suoi doveri. Se non gli si insegna a servirsi dello strumento nuovo, il novizio non imparerà giammai a maneggiarlo. Del resto i collegi a Como hanno fatto buona prova e preesistevano perfino alla legge nuova regolatrice.

Pel governo, finalmente, scaturiscono dallo sciopero biellese insegnamenti gravi e solenni. La tranquillità delle masse operaie scioperanti ha dimostrato che è inutile e pericolosa la repressione nei conflitti fra capitale e lavoro.

Quantunque le osterie siano veramente sovrabbondanti nei villaggi industriali, a me è sembrata inopportuna la chiusura degli otto esercizi pubblici. Ha eccitato gli animi ed ha allontanato il componimento delle vertenze. Il Biellese non è la Sicilia, ed i tessitori della Val Sessera non sono picconieri delle zolfare superstiziosi e forse violenti.

Il governo deve bensì reprimere le violazioni della legge, ma deve sovratutto regolare le condizioni degli interessati nell’industria, inspirandosi ai supremi principii della igiene, della pace sociale e della preservazione della razza, applicando le leggi esistenti, ed ove occorra, facendone delle nuove. Il ministero ha già iniziato le pratiche per la costituzione dei collegi dei probi-viri, ed ha fatto il dover suo. Esso deve vegliare ancora affinché i collegi si formino e funzionino veramente. Io non so in qual modo si provveda alla osservanza della legge sul lavoro dei fanciulli; certo non se ne curano persone tecniche, ma funzionari amministrativi sovraccarichi di mille faccende diverse. Tanto varrebbe che la legge non esistesse.

Biella è un centro industriale abbastanza importante perché vi venga adibito un ispettore delle fabbriche apposito ed eventualmente anche un sotto ispettore, scelti nel novero delle persone tecniche e pratiche dell’industria, specialmente tessile. L’ispettore dovrebbe vegliare alla rigorosa applicazione delle leggi esistenti e fare un’inchiesta minuta, precisa, paziente, imparziale sugli abusi che si manifestano e che richieggono un rimedio, ricercare, ad esempio, quali siano le vere cagioni per le quali la media dei riformati nei paesi industriali del Biellese è così spaventevolmente alta (quest’anno a Cossato su 50 coscritti se ne riformarono 48). Sarebbe una inchiesta amministrativa, senza inutili spese, col vantaggio che il medesimo organo che propose le nuove disposizioni sarebbe incaricato di applicarle.

Senza conoscere i mali che debbono essere riparati, è inutile legiferare; si faranno leggi bislacche destinate a rimanere senza applicazione, come tante altre in Italia.

6 ottobre 1897

* * * * *

Lo sciopero del porto di Genova

I

Lo sciopero dei lavoratori del porto di Genova, scoppiato improvvisamente ieri in seguito allo scioglimento della camera del lavoro, ha destato una impressione profonda, la quale non si restringe a Genova, ma si ripercuote in tutta l’alta Italia. Noi non sappiamo con precisione quali siano i motivi che hanno indotto il prefetto Garroni a sciogliere la camera del lavoro. Il decreto afferma che la camera faceva opera contraria all’ordine pubblico, istigando anche pubblicamente a delitti contro la libertà del lavoro, all’odio fra le diverse classi sociali ed alla disobbedienza della legge.

I giornali di Genova non ci danno informazioni siffatte da poterci formare un giudizio sulla giustizia e sulla opportunità del provvedimento prefettizio. Sicché a noi non resta se non aspettare il momento in cui un giudizio sereno ed imparziale possa pronunciarsi; pronti, se tale sarà il nostro dovere, a biasimare il prefetto quando lo scioglimento apparisse ingiustificato, od a lodarlo se la tutela dell’ordine imperiosamente avesse richiesto la deliberata chiusura.

Ad ogni modo, qualunque sentenza si voglia dare sul decreto del prefetto, nessuno che serenamente osservi le cose potrà persuadersi che fosse necessario, per un siffatto motivo, pronunciare la generale sospensione del lavoro nel porto di Genova.

Alcuni mesi or sono uno sciopero consimile scoppiava a Marsiglia; e per lunghi giorni le colonne dei giornali recarono informazioni delle sue conseguenze dannose per la vita economica ed industriale della Francia. Marsiglia non è il solo porto francese; eppure l’opinione pubblica si commosse fortemente; tristi presagi si fecero per l’avvenire del commercio marittimo; e si guardò con sospetto ed ansia all’incremento del traffico nei porti stranieri, e sovratutto nel porto di Genova, a danno di Marsiglia.

Tutti rammentano l’indignazione con cui dai nostri vicini si accolse la parola del deputato Morgari, andato ad eccitare alla lotta i lavoratori italiani. Egli apparve – e certo non lo era – come un messo dei commercianti liguri vogliosi di attirare a sé il traffico marsigliese; e come perturbatore dell’ordine pubblico il deputato socialista di Torino fu espulso da un ministero in cui pure moderatore delle questioni del lavoro era il socialista Millerand.

A scagionarsi dalla stolida accusa di essere venduto ai capitalisti genovesi, l’on. Morgari scrisse una lettera al Petit Provençal, nella quale si dichiarava dolente di non avere potuto far scoppiare lo sciopero anche fra i lavoratori del porto di Genova, a causa della assoluta proibizione delle società operaie di resistenza. Egli sapeva – affermando questo – di dire cosa non corrispondente a verità, poiché a Genova esisteva una camera del lavoro forte di 33 leghe e 44 associazioni. Ma il mal vezzo di parlar male all’estero del governo patrio è troppo radicato perché si perda un’occasione sola di dedicarsi a tal genere di esercitazioni retoriche.

Oggi il voto dell’on. Morgari si è compiuto: 8000 operai, eccitati, come da una scintilla elettrica, dal bisogno di protestare contro il decreto prefettizio, non hanno pensato che lo sciopero non era l’unico mezzo di far udire le loro ragioni; che il rimedio era peggiore del male; e che ad altre armi sarebbe stato doveroso ricorrere in questa lotta prima che ad una la quale è atta a ferire non solo chi la impugna, ma insieme la società intera.

Noi non abbiamo bisogno di dire il danno del prolungarsi dello sciopero attuale. Il porto di Genova è l’anima della vita italiana; è un meccanismo perfezionato e delicatissimo, il cui movimento dà vita e ricchezza a regioni ed a moltitudini, ed il cui arresto significa miseria diffusa nelle città popolose e fino nelle più remote campagne dove batte un telaio o dove è giunta la eco del commercio moderno.

Tutta questa vita è possibile e tutta questa ricchezza si svolge sol perché il porto di Genova è un superbo meccanismo atto a sfidare la concorrenza dei porti esteri, sol perché le organizzazioni del lavoro, del carico e dello scarico, le tariffe di trasporto da Genova ai porti d’oltremare ed alle città dell’Italia e dell’Europa sono combinate per modo da concedere ai trafficanti qualche lieve guadagno di pochi centesimi. Ma sospendasi il lavoro per un po’ di tempo, e le navi estere, od almeno quelle navi che possono spostarsi, andranno a caricare ed a scaricare nei porti esteri; e questi a gara si decideranno a concedere quelle facilitazioni che valgono a trattenerle per ora e ad attirarle in futuro. Nella gara internazionale dei traffici un momento perduto può essere la causa di grave danno. Mentre i porti concorrenti per l’accresciuto momentaneo traffico riescono a diminuir le tariffe ed a rendere l’incremento, da temporaneo, permanente; il porto di Genova si trova costretto ad aumentare le tariffe perché le spese generali più non si possono diffondere sul numero antico di atti di scarico e di carico; e l’aumento è un nuovo stimolo alle navi a recarsi altrove.

Grave è perciò la responsabilità di coloro i quali nel delicatissimo meccanismo di scambio fra l’Italia ed il resto del mondo introducono ostacoli materiali o morali, i quali siano cagione che il meccanismo non funzioni. Ciò che importa sovratutto è la vittoria; e per vincere occorre che tutti siano, come i soldati di un esercito, insieme solidali ed inspirati da un unico intento: tutti, dallo stato che è proprietario del porto, agli imprenditori che del porto si giovano per compiere lor traffici, agli operai che ne traggono alimento.

Il governo deve mantenersi al disopra dei partiti, non cedere né ai desideri degli imprenditori né ai clamori degli operai i quali chiedano interventi illegali a favore di una parte. Imprenditori ed operai devono essere animati da quello spirito di tolleranza e di equanimità che appiana gli attriti e risolve le questioni.

21 dicembre 1900

 

II

Genova, 21

In Genova l’oggetto generale dei discorsi è lo sciopero, il quale va diventando sempre più generale. Oramai sono più di dodicimila gli scioperanti nella sola Genova, tra lavoratori del porto ed operai delle officine; ed a questi si aggiungono altri cinque o seimila scioperanti a San Pier d’Arena ed a Sestri.

Siccome la causa dello sciopero è lo scioglimento della camera del lavoro, avvenuto per decreto prefettizio, così ho creduto dovere recarmi innanzitutto dal prefetto per conoscere i motivi che lo avevano indotto a tale provvedimento. Ecco, secondo quanto mi disse, con molta cortesia, stamane il comm. Garroni, quali ragioni hanno spinta l’autorità politica a sciogliere la camera del lavoro.

Questa già nel 1896 era stata disciolta dal prefetto d’allora, Silvagni, perché compieva atti contrari alle leggi vigenti, e perturbava l’ordine pubblico. In quest’anno, giovandosi della condiscendenza governativa, parecchi componenti l’antico sodalizio si sono ricostituiti da sé in camera del lavoro. Da sé, poiché non consta che vi sia stata una delegazione formale da parte degli operai. Anzi quasi tutti i membri del comitato esecutivo sono estranei al vero elemento operaio genovese. Tutti sono socialisti.

La nuova camera aveva tutti i caratteri dell’antica già disciolta, per cui dovere del prefetto attuale era di mantenere fermo il decreto del suo predecessore Silvagni.

Si aggiunga che, anziché avere scopi di intervento e di tutela delle ragioni dei lavoratori, quando se ne presentasse la necessità, la camera del lavoro ha costituito nel suo seno delle leghe di miglioramento per ognuna delle varie professioni, eccitando desiderii eccessivi nei membri delle leghe. Quando poi gli operai, presentarono domande di revisione di tariffe od aumento di salari, la camera del lavoro ha avuto l’aria di intervenire come paciera fra capitale e lavoro a dirimere un conflitto che essa aveva suscitato. Le leghe di miglioramento a poco a poco si mutarono così in leghe di resistenza e di prepotenza. Chi non era socio difficilmente poteva trovar lavoro, a causa delle intimidazioni della lega.

La camera del lavoro veniva in tal modo a compiere un’azione contraria alle leggi dello stato, annullando l’opera della camera di commercio e dei collegi dei probi viri, e facendo affiggere pubblici avvisi con cui invitava gli operai a far capo, non più alle autorità, ma esclusivamente ad essa. Le riunioni aventi carattere pubblico e discorsi violenti erano frequenti e costituivano un continuo eccitamento all’odio fra le classi sociali, e sovratutto fra capitale e lavoro. Ogni giorno una questione nuova veniva sollevata per dar agio ai dirigenti della camera di intervenire.

Perciò la camera del lavoro fu disciolta, lasciando sussistere però le leghe di miglioramento. Non perciò gli operai rimangono privi del mezzo di far valere le loro ragioni di fronte agli imprenditori.

Il comm. Garroni mi espose un suo disegno, che egli ha eziandio manifestato ieri all’onorevole Pietro Chiesa, il quale era andato da lui per sentire le ragioni dello scioglimento.

Esiste una legge dei probi viri, destinata a dirimere i conflitti tra capitale e lavoro. È vero che ora la legge non si applica ai lavoratori dei porti. Ma è sempre possibile, sia con una interpretazione autentica, sia per accordo delle parti, costituire collegi dei probi viri in cui siano rappresentate le due classi degli imprenditori e degli operai.

Nulla vieta inoltre che i probi viri eletti dalla classe operaia si possano costituire separatamente in camera del lavoro o segretariato del popolo – il nome non importa – per trattare le questioni operaie. La nuova camera del lavoro sarà una vera emanazione della classe operaia, e non sarà composta solo di otto persone scelte da se stesse.

Contro la rappresentanza legale degli operai, eletta da tutti gli interessati con le necessarie garanzie, nessun decreto di scioglimento interverrà mai, almeno finché il tribunale dei probi viri e la parte operaia si mantengano entro i limiti indicati dalle leggi. Questi gli intendimenti del prefetto, esposti all’on. Chiesa e su cui stamane, alle ore 10, doveva deliberare l’assemblea degli scioperanti.

Mi recai ai terrazzi di via Milano, dove era assiepata una folla immensa, ed in compagnia di alcuni giornalisti potei assistere alla discussione che nella sala di una società operaia tenevano i delegati delle leghe di miglioramento e numerosi membri della disciolta camera del lavoro.

Presiedeva l’on. Chiesa, un bel tipo di operaio intelligente e dotato di praticità e buon senso. Due correnti predominavano nell’assemblea; ed importa fermarcisi su, perché possono aiutare a spiegare l’origine e la persistenza dello sciopero.

Tutti gli operai ed i capi del movimento – fra cui alcuni non operai – sono d’accordo nel ritenere che lo scioglimento della camera del lavoro è stato un arbitrio inqualificabile del prefetto il quale, appena fu sicuro, per la chiusura della camera dei deputati, che non si sarebbero potute fare interpellanze al riguardo, con un colpo di testa sciolse la camera del lavoro, perquisì locali, asportò registri, ecc.

Nulla giustificava, affermasi, l’atto prefettizio. La camera del lavoro e le leghe di miglioramento si erano sempre adoperate a sedare i conflitti tra capitale e lavoro; e solo ai buoni uffici della commissione esecutiva è dovuto se alcuni scioperi gravissimi non scoppiarono nei mesi scorsi fra gli scaricatori di carbone e di grano, e se si poterono di buon accordo fra imprenditori ed operai ripristinare, alquanto modificate, le tariffe del 1892, che erano cadute parzialmente in disuso.

Lo scopo vero dello scioglimento si fu di mettere gli operai nella impossibilità di avere un organo proprio di difesa. Quando le leghe saranno disciolte, chi potrà far osservare le tariffe concordate? Alla prima occasione gli imprenditori le violeranno e vorranno pagare alquanto meno dello stabilito; e gli operai non avranno alcun mezzo di reagire.

Perciò scioperarono tutti. Non è questa una questione economica; è questione di dignità civile e di solidarietà.

Quanto alla solidarietà, devo rilevare una circostanza. Gli operai ascritti alle varie leghe del porto sono 4000, eppure gli scioperanti nel solo porto ammontano a 6000; il che vuol dire che si astennero dal lavoro operai non iscritti alle leghe. Ciò avvenne non già per solidarietà, ma perché è interesse dei negozianti o di scaricar tutto o di non scaricar nulla.

Le navi quando giungono in porto denunciano il numero dei giorni entro cui deve effettuarsi lo scarico. Se lo scarico dura di più, allora la nave va incontro alle stallie, ossia paga un diritto supplementare, detto di controstallia, che per i piroscafi moderni può calcolarsi a duemila lire al giorno. Se per uno sciopero parziale alcune navi lavorano ed altre no, quelle che non lavorano devono pagare le controstallie; ed è quindi interesse dei negozianti di non lavorare affatto, perché quando la inazione è generale si presume sia dovuta a forza maggiore e non si pagano le controstallie, mentre se la inazione è parziale, il regolamento la reputa dovuta all’opera dei negozianti e fa pagare il maggior diritto.

Perciò tutti scioperarono; gli ascritti alle leghe per protesta politica contro l’atto del prefetto, ed i non ascritti perché così portano le necessità degli ordinamenti portuali.

Di fronte alle nuove proposte prefettizie, conviene continuare nello sciopero?

Una parte, più intransigente, reputava che delle parole del prefetto non si dovesse fare il menomo conto, che esse fossero unicamente una manovra fatta per indurre gli operai a cedere ed a ritornare al lavoro, salvo poi disciogliere anche le leghe ed annientare ogni organizzazione operaia.

Altri, fra cui l’on. Chiesa, guardavano sovratutto all’aspetto pratico della questione. Il fatto si era che il prefetto, sotto una nuova forma, e con elezioni fatte in modo speciale, a norma della legge dei probi viri, permetteva la ricostituzione della camera del lavoro. «Perché sofisticare sulla forma quando si era ottenuto la sostanza? Non era forse vero che lo scopo degli operai, nel costituire la camera del lavoro, era quello di tutelare i nostri diritti? Non si era forse già dimostrato, scioperando in massa, che i lavoratori del porto di Genova sanno resistere alle illegalità governative? Un’altra volta il prefetto si piglierà ben guardia dal molestarci perché saprà che noi siamo fermamente decisi a resistere».

«Si aggiunga» notavano i fautori della moderazione «che continuando nello sciopero perderemo quello che ancora ci resta; le leghe saranno disciolte e perderemo il frutto di tanti mesi di lavoro. L’opinione pubblica, che ora ci è favorevole, si rivolterà contro gli operai perché i danni del commercio arenato, danni che ammontano a milioni di lire al giorno, si faranno vivamente sentire non solo in Genova, ma in tutta l’alta Italia. E non c’e mai stato nessun sciopero d’importanza generale il quale abbia avuto un esito propizio quando l’opinione pubblica vi era avversa».

Le decisioni degli scioperanti vi sono già state telegrafate: una commissione di nove si abboccherà oggi col prefetto, col sindaco e col presidente della camera di commercio; e finché non si sia venuti ad un accordo sulla base della ricostituzione della camera del lavoro, sotto una forma od un’altra, e sulla restituzione dei registri, fu deliberato di continuare lo sciopero.

22 dicembre 1900

 

III

Genova, 22 dicembre

Si dice che gli italiani abbiano il vizio di cominciare tutti i loro libri col descrivere le origini del mondo. Siccome però di questo vizio italiano sono abbastanza immuni i giornalisti, così spero che mi si vorrà perdonare se in questa mia lettera sullo sciopero attuale prendo le mosse da un’epoca un po’ remota.

I lavoratori del porto di Genova hanno infatti dal medioevo avuto la tendenza a raggrupparsi in corporazioni per la tutela dei loro interessi e per la determinazione dei salari e delle altre condizioni del lavoro. In verità sarebbe difficile fare altrimenti. Dove gli imprenditori sono pochi, e gli operai si contano a migliaia, e tutti sono, suppergiù, egualmente forti ed atti a compiere il rude lavoro di facchinaggio che è loro imposto, è naturale che gli operai si riuniscano in società per non portarsi via il pane l’un l’altro, per regolare l’ammontare del salario e la durata del lavoro.

Ancora. Siccome il lavoro del porto non è continuo, ma muta di giorno in giorno per intensità ed ampiezza, così è necessario che sul porto esista un’armata di lavoratori capace di far fronte ai lavori dei giorni di massima nello scarico e nel carico; e siccome nei giorni di lavoro medio od inferiore alla media non tutti possono essere occupati, così è d’uopo che gli operai si accordino per alternarsi al lavoro in modo che nessuno corra il rischio di morir di fame, quando il lavoro è scarso. Altrimenti alcuni si dedicherebbero ad altre professioni, e nei giorni di lavoro massimo mancherebbe la mano d’opera.

La necessità di provvedere a queste speciali contingenze del lavoro del porto di Genova – contingenze esistenti del pari in tutti i grandi porti e che dettero origine, anni or sono, al gigantesco sciopero dei facchini del porto di Londra – era talmente sentita che una compagnia, intitolata con lo strano nome di Compagnia dei caravana, esiste ancor oggi, la quale data dal principio del secolo XIV. Uno statuto dell’11 giugno 1340, nel suo primo articolo, in un linguaggio mezzo tra il genovese e l’italiano, dice: «Questi son li statuti e le ordination facte per tuti li lavoraor de banchi e de lo ponte de lo peago e de lo ponte della calcina e in tuti li altri logi facta e ordenà per lo prior, ecc. ecc.». Il priore incassava tutti i guadagni dei soci della compagnia; provvedeva alla cura dei malati e feriti. Per un curioso privilegio i soci dovevano essere bergamaschi e perciò i mariti mandavano le mogli a partorire a Bergamo, perché i figli potessero far parte della compagnia dei caravana. La quale aveva il privilegio esclusivo del carico e dello scarico nel porto di Genova, onde nascevano continue controversie coi facchini liberi ed abusivi da parte dei soci, che alla fine del secolo scorso erano giunti persino a vendere i loro posti.

Protetti dalle autorità genovesi, perché la compagnia accoglieva solo uomini di specchiata condotta morale e garantiva ogni danno che per avventura potesse essere arrecato dai soci; risparmiati dalle leggi abolitive di Napoleone e di Cavour, e dal legislatore italiano del 1864 che aboliva tutte le corporazioni operaie, i caravana, non più bergamaschi, ma italiani in genere, si mantennero fino ad ora, e vivono di vita fiorente.

Essi non sono più gli unici ed esclusivi facchini del porto di Genova, perché il loro privilegio è limitato allo scarico, al peso ed al trasporto delle merci provenienti dall’estero nel recinto del porto franco e della dogana, ossia nei luoghi dove si compiono operazioni daziarie su cui ha autorità ed ingerenza lo stato.

Sono circa 220 con a capo un console nominato dall’intendente di finanza e parecchi capi squadra. Versano tutti i guadagni in un fondo comune, il quale basta a pagare le spese d’amministrazione, a distribuire una pensione ai caravana resi inabili al servizio per vecchiaia o per ferite, ed a dare ancora un salario medio mensile non inferiore a 120 lire.

Tutti gli altri facchini e lavoratori liberi del porto – più di 6000 – guardano a questi 220 caravana del porto franco con invidia. Soggetti, come sono, a tutte le alee del commercio marittimo, sempre col rischio di rimanere disoccupati, i facchini liberi hanno sempre istintivamente sognato di costituire una corporazione che distribuisse fra tutti equamente il lavoro, desse un’indennità in caso di infortunio, li tutelasse contro gli sfruttamenti, provvedesse alle vedove ed agli orfani. Il divieto posto dalla legge del 29 maggio 1864 alla costituzione legale delle corporazioni d’arti e mestieri non ha fatto altro che acuire il desiderio di fondarle sovra una base libera, ma estesa a tutti i lavoratori.

Le società di mutuo soccorso, numerosissime, sono una manifestazione della tendenza. Così pure i bagon, curiose società, in cui gli operai si dividevano in turni, ed ogni turno attendeva al lavoro quando la sorte lo designava.

Tanto più il desiderio di avere nelle associazioni uno schermo contro le avversità della vita cresceva, in quanto la concorrenza fra gli operai veniva fomentata dai cosidetti confidenti o capi-squadra, i quali fungono da intermediarii fra la mano d’opera e i commercianti, che, avendo bisogno di caricare o scaricare una nave non vogliono trattare con 100 o 200 operai individualmente, ma con un solo che negozi a nome di tutti gli altri. Dei confidenti io ho sentito raccontare cose molto diverse. Gli uni affermano che i confidenti percepiscono un guadagno, lauto bensì, ma ben meritato dalle loro fatiche manuali e dalla loro opera di intermediazione.

Se si vogliono condannare i confidenti, quasi tutti uomini colossali, dalla muscolatura erculea, che sollevano pesi enormi come una piuma, bisognerebbe condannare tutti quelli che comprano e vendono e che dal facilitare gli scambi traggono un qualche guadagno. Altri invece afferma che i confidenti sono esosi sfruttatori della mano d’opera. Ricevono cinque dai commercianti e pagano la metà o poco più agli operai. La giornata media di parecchi confidenti non sarebbe inferiore ad 80 o 100 lire al giorno. Vi sono alcuni fra essi, antichi camalli, i quali si sono arricchiti a milioni e posseggono castelli sulla riviera ligure. Essi sono sempre pronti ad attizzare la discordia fra commercianti ed operai per farne loro pro. Anche ora non sono malcontenti che la camera del lavoro abbia spinto gli operai a far domande di aumento di salari, perché sperano di ricevere bensì dai commercianti le paghe secondo le nuove cresciute tariffe, salvo a distribuirne solo una parte agli operai, intascando il resto.

Per meglio speculare, i confidenti da alcuni anni avrebbero chiamato dalle montagne una moltitudine di contadini ignoranti e rozzi ad accrescere le falangi dei facchini del porto. Mettendo abilmente gli uni contro gli altri, i confidenti sarebbero riusciti a diminuire i guadagni degli operai, obbligandoli a lavorare al disotto delle tariffe per la tema di vedersi soppiantati da altri nel lavoro.

Qualunque giudizio si voglia arrecare intorno a codesti confidenti, è certo che gli operai del porto, da lungo tempo desideravano di trovare un organo per la difesa dei loro interessi.

Non già che le giornate di lavoro siano mal pagate; 6 o 7 lire al giorno sono una paga comune. Il guaio si è che la paga è saltuaria, oscillante, soggetta ad intermittenze e ad incertezze le quali molto contribuiscono a deprimere le sorti dei lavoratori e ad abituarli a costumi di oziosità e di spreco deplorevoli.

Di questi bisogni della classe operaia del porto di Genova pochissimi – è doveroso confessarlo – si diedero pensiero. Né il comune, né la camera di commercio e neppure gli altri enti politici o commerciali si accorsero mai che qualche cosa bisognava pur fare per organizzare gli operai e per impedire che un bel giorno il malcontento desse origine a dissidii ed a sospensioni del lavoro, perniciose per la vita di un porto come quello di Genova, di importanza non solo nazionale, ma internazionale.

Il solo che si sia occupato – fra le classi dirigenti – a dirimere le questioni del lavoro ed a mantenere la pace in mezzo agli operai del porto è un funzionario di pubblica sicurezza, Nicola Malnate, a cui la meritata commenda non ha mai tolto il desiderio di vivere ogni giorno da vent’anni la vita tumultuosa del porto, sempre intento a far da paciere fra capitale e lavoro.

In questa sua opera il Malnate nessun aiuto ottenne mai. Non dal governo, occupato in altre cose; non dalla camera di commercio, i cui mentori, in troppe faccende affaccendati, si occupano delle questioni del lavoro e del porto solo per accusarsi a vicenda di ottener favori nei trasporti a scapito dei rivali; non dai commercianti e dagli industriali, i cui rapporti con gli operai non sono ancora improntati a molta cordialità ed umanità. Non è spento ancora il ricordo di quel vecchio operaio che, dopo trent’anni di servizio ininterrotto in uno dei più grandi cantieri genovesi, fu buttato sul lastrico con 15 lire di buona uscita – il salario di una settimana di lavoro -; sì che il vecchio, ridotto alla disperazione, finì per annegarsi nelle acque del porto.

Che meraviglia, se di fronte a questa assoluta assenza e noncuranza delle classi dirigenti, i lavoratori del porto di Genova abbiano prestato ascolto alle predicazioni degli apostoli del socialismo? Che meraviglia se i socialisti, organizzando le leghe di miglioramento, abbiano attirato a sé gli operai, disertati da tutti, e si siano impadroniti per modo dell’animo loro da farli agire come un sol uomo nel senso che i capi del movimento desiderano?

23 dicembre 1900

 

IV

Genova, 23 dicembre

Ora la disciolta camera del lavoro è ricostituita e le leghe di miglioramento ritornano a funzionare. Il governo, che avea voluto far atto di autorità collo scioglimento, ha dovuto piegare dinanzi alla formidabile protesta degli scioperanti.

Ed allora perché sciogliere prima per ricostituire poi? Forse perché la camera del lavoro era quasi esclusivamente dominata da socialisti? Vi ho già dimostrato, in una precedente lettera, che le associazioni fra gli operai del porto rappresentano una vera necessità economica, se si vuole avere un’organizzazione del lavoro efficace e pronta. Il fatto che le leghe siano state costituite da socialisti prova tutto al più che questi erano stati più attivi e più abili degli altri partiti ed avevano saputo prima e soli trarre profitto dalla condizione dei lavoratori del porto di Genova. Ora, siccome non è lecito fare il processo alle intenzioni, lo scioglimento sarebbe stato legittimo solo quando, dietro l’impulso del partito, socialista, l’opera della camera del lavoro e delle leghe di miglioramento si fosse estrinsecata in modo contrario alle leggi.

A questo proposito ho esaminato gli statuti delle leghe ed ho interrogato persone che ne conoscono il funzionamento pratico e, per la loro posizione sociale, sono in grado di dare un giudizio imparziale.

Ecco i risultati ai quali sono giunto, risultati che ho motivo fondatissimo di ritenere fossero pienamente noti alle autorità politiche nel momento in cui fu deciso lo scioglimento della camera del lavoro.

Le leghe costituite nel porto ed affiliate alla camera del lavoro sono otto: 1) lega tra i facchini del carbone (600 soci); 2) tra gli scaricatori di carbone con 700 soci; 3) tra i coffinanti, ossia caricatori di carbone, con 500 soci; 4) tra i facchini in grano, con 400 soci; 5) tra i lavoratori in cereali, con 300 soci; 6) tra i giornalieri, caricatori e scaricatori di bordo, con 1400 soci; 7) tra i giornalieri chiattaiuoli, con 200 soci; 8) tra i pesatori di carbone, con 100 soci.

In tutto 3600 soci su 6000 operai, i quali, unendosi in lega e pagando una tassa d’iscrizione da lire 2,50 a lire 15 ed una tassa mensile da lire 1 a lire 2,50, si proponevano di costituire un’associazione intesa a regolare le condizioni del lavoro nel porto.

Scopo finale della lega era di stringere insieme tutti i lavoratori, escludendo dal lavoro gli operai non iscritti o non accettati nella lega e infliggendo multe ai soci i quali accettassero patti di lavoro non conformi alle prescrizioni delle singole leghe.

Dire se questi scopi siano oppur no contrari alle leggi vigenti dipende dal sapere se essi si raggiungono colla persuasione e cogli accordi liberi coi principali, oppure con violenze ed intimidazioni.

Se tutti gli operai lavoranti in una data azienda si mettono d’accordo a non accettare meno di un dato salario; o, se anche essendovi operai liberi, estranei alle leghe gli imprenditori consentono a impiegare soltanto gli operai associati, non si commette alcuna violazione di legge. Gli operai sono padronissimi di non voler lavorare se non a certe condizioni; gli imprenditori sono liberi di scegliere i loro lavoranti dove vogliono.

La violazione della legge e in ispecie degli articoli 154 e 165 del Codice penale si ha solo quando con minacce o intimidazioni, materiali o morali, si attenti alla libertà del lavoro, impedendo agli operai “liberi” di lavorare od agli imprenditori di scegliere i lavoranti dove meglio loro aggrada.

Ora a me consta che le autorità di polizia e politiche di Genova sapevano che questi mezzi delittuosi non furono mai finora messi in azione dalle leghe. Il processo che si intenterà forse ai componenti della disciolta camera del lavoro dimostrerà la verità di quanto ora affermo e che – ripeto – era cosa nota alle autorità.

Anche durante lo sciopero attuale le autorità di polizia poterono constatare che gli scioperanti non avevano posto alcun ostacolo alla libertà del lavoro. Quegli operai che nel primo giorno vollero lavorare, poterono liberamente caricare e scaricare navi, senza timore di minacce e senza intimidazioni.

L’unica legge perciò in base alla quale si potesse pronunciare lo scioglimento di società, le quali si propongano con accordi, sia pure volontari e liberi, di monopolizzare il mercato del lavoro, era la legge del 29 maggio 1864 abolitiva delle corporazioni di arti e mestieri.

Ma a parte che si tratta di una legge antica, disadatta alle moderne necessità economiche, e che da lunghi anni si permette ad associazioni vietate in teoria da quella legge di sussistere e di fiorire liberamente, sta il fatto che il prefetto non ha nemmeno creduto opportuno di citarla nel suo decreto. Il che prova essere ormai universalmente riconosciuta la necessità di una organizzazione dei lavoratori del porto.

Dato che la camera del lavoro e le leghe non aveano commesso alcuna violazione delle leggi esistenti, è chiaro che lo scioglimento si può giustificare soltanto per motivi di ordine pubblico o per il desiderio di sostituire alla camera disciolta un organismo migliore di tutela e di pacificazione sociale.

Quanto ai motivi di ordine pubblico, è lecito chiedersi: perché, se quei motivi apparvero esistenti ieri, per la camera disciolta, si credono scomparsi oggi con la camera nuova, composta quasi dei medesimi elementi? O forse si crede che il governo sia ora più capace di tutelare l’ordine contro una istituzione sovversiva ricostituita di quanto non fosse prima di rimangiarsi ad una ad una tutte le disposizioni prese contro i sovversivi disciolti?

Quanto all’intenzione delle autorità politiche di sostituire alla organizzazione abolita una migliore magistratura del porto, costituita, come mi spiegò il comm. Garroni, sulla base dei tribunali dei probi viri, pare a me che il modo scelto per ottenere lo scopo non sia stato il più felice.

Non è collo sciogliere improvvisamente la camera fondata dagli operai, che si inducono questi ad accostarsi ad un nuovo organismo creato da chi ha distrutto quello che essi si erano da sé costituito. Occorreva fondare prima i tribunali dei probi-viri; far toccare con mano i vantaggi che operai e imprenditori potevano trarne. A poco a poco gli operai genovesi, che sono gente pratica su cui le teorie fanno poca presa, si sarebbero abituati a guardare con fiducia ai nuovi tribunali ed avrebbero lasciato in asso le associazioni socialiste, quando si fossero accorti della inutilità di farne parte.

Invece, sciogliendo la camera esistente prima che qualcosa si fosse creato per sostituirla, si è quasi fatto credere che il governo volesse impedire ogni organizzazione dei lavoratori, per fare il vantaggio dei datori di lavoro. Il che non poteva non fornire un’ottima arma in mano ai capi socialisti per indurre gli operai ad opporsi fieramente al decreto prefettizio.

Lo sciopero fu certamente un danno grave per l’industria, i commerci e gli operai medesimi. La perdita di un milione di lire al giorno è stata vivamente risentita dalla piazza di Genova. Coloro i quali hanno da tanti mesi riempito la testa degli operai genovesi di parole grosse, come: “solidarietà, sfruttamento dei capitalisti, ecc. ecc.”, hanno certo una grave responsabilità, la quale sarebbe stata ancor maggiore se, ostinandosi il governo a non concedere nulla, le perdite economiche fossero cresciute al di là della già grossa somma presente.

Ma che dire dell’autorità politica, che a cuor leggero compie un atto senza sapere che questo avrebbe eccitato gli animi degli operai già infiammati dalla predicazione socialista e lo compie per giunta in un momento nel quale, per i traffici intensissimi, si poteva prevedere che i medesimi ceti commerciali di Genova avrebbero implorato ogni sorta di concessioni pur di poter riprendere il lavoro?

La conchiusione non è lieta. Uno sciopero come quello del porto di Genova è l’indizio di una condizione sociale in cui nessuno ha una coscienza precisa dei proprii doveri e dei proprii diritti. Da un lato la piazza che si impone al governo e distrugge il principio di autorità. Dall’altro il governo che si immagina di sciogliere le questioni del lavoro a colpi di decreto. E fra i due una grande istituzione nazionale – ché tale è il porto di Genova – la quale corre il pericolo di vedersi sopraffatta dalla concorrenza straniera. Qui è il pericolo maggiore. L’esperienza odierna ha dimostrato che il porto di Genova funziona per caso.

Quando ho visto un silenzio di morte regnare sulle calate dove il giorno prima fervevano lavori tumultuosi, una domanda mi si è presentata spontanea: ma che davvero non vi sia nessun mezzo di impedire conflitti, che possono mettere in forse la continuità della vita industriale e commerciale di mezza Italia, e farci perdere i vantaggi ottenuti faticosamente con una lotta diuturna nella concorrenza cogli altri porti?

Dato il modo come è ora organizzato il porto di Genova, le crisi sono inevitabili. Il porto è un caos, dove si incrociano e si confondono le autorità di polizia e di dogana, il governo politico, la camera di commercio, il comune, le ferrovie, i negozianti, gli armatori, gli operai colle loro leghe, i confidenti, ecc. ecc.

È un miracolo che gli attriti non siano più frequenti in questo intrecciarsi e sovrapporsi di competenze, di autorità e di interessi in lotta. Questa non è libera concorrenza, è confusione di burocrazie e di enti che si vogliono sopraffare a vicenda. Se il porto fosse un ente autonomo, libero ed agile nei suoi movimenti, tutti gli interessati saprebbero bene trovare il modo di farsi ascoltare e di mettersi d’accordo. Se, per esempio, nella futura magistratura del porto di Genova vi fossero alcuni rappresentanti delle leghe operaie, si potrebbe star sicuri che le questioni relative ai salari ed alle ore di lavoro sarebbero risolute.

In Inghilterra, quando, nel 1875, le leghe operaie erano maggiormente accusate di sopraffazioni e di delitti contro la libertà del lavoro, al governo non venne neanco in mente che il miglior rimedio fosse di scioglierle. Una legge concedette alle leghe la massima libertà di azione, obbligandole soltanto a non lavorare nel mistero, ma alla luce del sole. Adesso ogni tinta rivoluzionaria è scomparsa nelle unioni britanniche, divenute fin troppo borghesi per i socialisti del continente. Se anche da noi fosse riconosciuta la necessità delle associazioni operaie, e se ad esse fosse riconosciuta la parte che loro spetta nel determinare le condizioni del lavoro, i benefizi ben presto sarebbero evidenti. Gli operai del porto di Genova non sono né poco intelligenti, né rozzi, come si vorrebbero far credere. «Qui nel porto» è un ispettore di pubblica sicurezza il quale così scrive «un barcaiuolo è così sottile matematico che dottamente intrattiene l’Accademia dei Lincei; un carbonaio, Giambattista Vigo, era così gentil poeta da meritarsi dalla civica amministrazione di Genova, alla morte, il tumulo che già era stato accordato a Felice Romani; un facchino, Niccolò Conti, detto Legna, è così profondo in dialettica ed eloquenza da oscurar la fama di celebri avvocati; e un console di Caravana, Gian Giacomo Casareto, detto Gerion, legato in amicizia con illustri statisti del risorgimento italiano per meriti patriottici, professa filosofia, dirigendo il facchinaggio di dogana, al pari di un antico sapiente dell’areopago di Grecia».

Date ad una classe operaia siffatta la possibilità di trattare liberamente, per mezzo delle proprie associazioni, cogli imprenditori e col governo, le questioni del lavoro, e dopo dieci anni non sentirete più parlare di sciopero, perché tutti avranno la coscienza del dovere di rimanere uniti contro la concorrenza estera, e non vedrete più tribuni socialisti alla testa degli operai, perché questi avranno imparato a curar da sé i proprii interessi e non avran più bisogno di tutori.

24 dicembre 1900

 

V

La risposta che il presidente del consiglio ha dato all’interpellanza Vitelleschi non può a meno [sic] di produrre una dolorosa impressione. L’on. Saracco non osò negare di avere errato nell’apprezzamento dei motivi che lo avevano indotto a decretare lo scioglimento della camera del lavoro di Genova; ma dell’errore gittò la colpa sulle autorità locali di polizia. Negò recisamente di aver ceduto dinanzi alle imposizioni della piazza e di aver fatto ricorso alla mediazione di elementi sovversivi; e volle far credere che la vittoria degli scioperanti fu dovuta soltanto al suo desiderio che nella città di Genova la calma ritornasse senza dover far uso della forza repressiva posta in sue mani.

A noi sembra che il capo di un governo responsabile non debba poter fare in moda siffatto la cronistoria di una sciopero come quello di Genova. Non era forse dovere del governo l’indagare – magari andando di persona a studiare la situazione – se realmente furono compiuti gli atti delittuosi che servirono a motivare la scioglimento della camera del lavoro? E se quei fatti delittuosi erano avvenuti, non doveva forse l’onorevole Saracco reprimerli senza esitare e senza cedere dinanzi alle minacce di sciopero? Se invece quei fatti fossero risultati insussistenti, non era del pari obbligo dell’autorità di astenersi da ogni provvedimento che potesse ferire il senso di giustizia delle masse operaie genovesi e spingerle a dimostrazioni ed a proteste deleterie per il commercio del massimo porto italiano?

La risposta dell’onorevole Saracco dimostra la verità di quella che finora era soltanto una fondatissima ipotesi: non essere il prefetto di Genova il solo colpevole di non aver compreso l’importanza del decreto di scioglimento della camera del lavoro.

Il governo fu il maggiore responsabile in tutta questa dolorosa faccenda; e, come tutti gli incoscienti, accortosi del fallo commesso, precipitò di dedizione in dedizione, sino a compromettere il prestigio dell’autorità ed a lasciar credere alla piazza che basti protestare e pretendere per vincere.

Il che è molto grave.

25 gennaio 1901

 

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Leghe operaie e leghe padronali

I recenti scioperi di solidarietà hanno indotto molti industriali e commercianti a chiedersi: quale garanzia abbiamo noi contro codeste convulsioni industriali, le quali, per motivi a noi estranei, colpiscono le nostre industrie ed i nostri affari? Quale garanzia abbiamo noi che domani la vita della nostra fabbrica non rimanga sospesa, non più come protesta contro un atto considerato offensivo alla intiera classe operaia, ma per dar modo di vincere una battaglia impegnata in guisa particolare dalla maestranza di un’industria con la quale noi non abbiamo alcun rapporto? Chi ci garantisce che non si ricorra allo sciopero generale per vincere tutte le battaglie che gli operai inizino a turno nelle varie industrie, opprimendoci ad uno ad uno colla loro solidarietà?

Contro i danni degli scioperi di solidarietà e contro i pericoli degli scioperi impulsivi ed irragionevoli in genere, uno solo è in sostanza il rimedio; e questo si deve cercare ricorrendo ai medesimi strumenti di cui gli operai si servono nella lotta contro gli imprenditori. Gli operai si stringono in leghe per vincere colla forza organizzata del numero gli imprenditori ed ottenere cresciuti salari e migliori condizioni di lavoro? Ebbene gli imprenditori si uniscano in leghe ed oppongano anch’essi alla forza coalizzata dei lavoratori, la forza dell’unione e della concordia nella difesa.

Adamo Smith, il quale, come forse tutti sanno, fu il padre della economia politica e scrisse un secolo ed un quarto fa, disse che gli imprenditori non hanno bisogno di coalizzarsi: essi sono per natura già uno solo contro molti operai divisi ed hanno quindi naturalmente il sopravvento. Se Adamo Smith risuscitasse e potesse contemplare lo spettacolo imponente delle leghe operaie, sia nella terra inglese natia, sia in tutti i paesi inciviliti, non ripeterebbe la sentenza ora citata. Ora gli operai formano una massa sola coalizzata; e gli imprenditori sono molti e disuniti. Come in tutte le battaglie, se il capitano della massa compatta è abile e sa accortamente manovrare tra le nemiche schiere disunite, la vittoria gli arride sicuramente.

Agli imprenditori dispersi un’unica via di salvezza rimane: unirsi e lottare concordi contro l’avversario. L’Inghilterra, che è il paese classico delle leghe operaie, è anche il paese classico delle leghe degli imprenditori. Uno degli ultimi rapporti del dipartimento del lavoro ne novera ben 659, sparse nelle diverse località del Regno unito ed unite in 25 società nazionali e 15 federazioni.

Le associazioni si propongono di esercitare una azione regolatrice nei rapporti tra gli imprenditori ed i loro operai, controllando il saggio dei salari e le altre condizioni del lavoro, sostenendo i soci nelle loro dispute cogli operai. Così l’Iron Trades Employers’ Association intende assicurare la cooperazione di tutti i soci nel resistere alle domande delle unioni degli operai riguardo alle ore di lavoro, il cottimo, le ore straordinarie; e la Liverpool Employers’ Labour Association di stabilire un ufficio per l’organizzazione e la registrazione della mano d’opera, e di assistere i soci ad intentare azioni giudiziarie contro i marinai ed i fochisti che manchino al contratto d’arrolamento.

Quando scoppia uno sciopero, il socio che n’è minacciato deve darne avviso al segretario, il quale convoca l’assemblea generale. Se lo sciopero è limitato ad un solo ramo d’industria, si radunano i soli imprenditori in quel ramo; se invece è generale, tutti debbono essere solidali e nessuno può venire a patti speciali cogli scioperanti. Quando sia necessario per vincere uno sciopero, l’associazione degli industriali può ordinare la chiusura di tutti gli stabilimenti; ma ordinariamente per dichiarare una serrata generale è necessaria l’approvazione dei due terzi o dei tre quarti dei soci. È sottoposto a multe quel socio il quale assume nel suo opificio operai che uno sciopero od una serrata nello stabilimento d’un altro socio abbia lasciato temporaneamente senza lavoro.

Questi gli scopi delle leghe padronali inglesi. Le quali del resto, necessità imponendolo, hanno già avuto il loro riscontro in Italia, dove nel novembre scorso la Lega fra gli industriali in pannilana ed affini condusse e vinse la campagna contro lo sciopero dei tessitori a Biella, e dove il 26 gennaio scorso a Novara si fondava una grande Associazione fra gli agricoltori del Novarese, del Vercellese e della Lomellina, nel cui statuto si leggono tre articoli, il terzo, il quarto ed il dodicesimo, i quali statuiscono che: ogni socio debba pagare un contributo fisso di centesimi 10 per ogni ettaro di terreno e l’associazione debba indennizzare del danno sofferto il proprietario quando i lavoratori ricusino di osservare il contratto da loro consentito od il giudicio arbitrale su di esso; e gli aderenti si debbano accordare per determinare le condizioni ed i corrispettivi del contratto di lavoro ed in tutto quanto valga ed occorra a difesa dei comuni interessi.

Unirsi per combattere concordi: questo il motto delle leghe di industriali all’estero ed in Italia. Noi non dobbiamo però credere che la costituzione delle leghe padronali valga solo a cambiare le contese tra capitale e lavoro da piccole e numerose in lotte poche di numero e gigantesche di dimensioni. Sarebbe un guadagno; perché le battaglie tra grandi eserciti sono sempre meno micidiali di una moltitudine di piccoli combattimenti tra deboli schiere, inferocite da odii personali. Come la esistenza di due grandi eserciti in due nazioni vicine, ed il terrore dei danni incalcolabili che deriverebbero da una lotta gigantesca, allontanano il pericolo della guerra ed inducono i popoli a trattative, ad accordi e ad arbitrati, così succede anche nelle guerre industriali. L’organizzazione perfetta degli eserciti scema i rischi di guerra. L’organizzazione perfetta delle leghe padronali e delle leghe operaie allontana il pericolo degli scioperi e dei conflitti violenti.

Gli operai meno facilmente proclamano uno sciopero sia generale sia speciale, perché sanno che avrebbero contro di sé la massa compatta degli imprenditori. La lega degli industriali non ribassa a cuor leggero i salari e non licenzia indebitamente operai, perché sa di trovare contro di sé schierata la massa compatta dei lavoratori.

I danni di un cozzo violento sarebbero incalcolabili da una parte e dall’altra; e nessuna osa ricorrervi, se non davvero come ad una ultima ratio. Non esistono più e non possono esistere scioperi impulsivi e vendette ingiustificate. I capi od i segretari delle leghe preferiscono venire a patti e discutere. Ai piccoli trionfi del pugilato individuale dei paesi poco progrediti individualmente si sostituiscono le accorte trattative fra diplomatici consapevoli della responsabilità che incombe a chi rappresenta milioni di lire di capitale e migliaia di lavoratori.

In Inghilterra tutte le leghe padronali, come del resto le leghe operaie, non sono fucine di scioperi o di serrate, ma garanzie di pace. L’azione pacifica si esplica nelle commissioni miste (joint boards), costituite da un numero eguale di rappresentanti delle associazioni d’industriali e di rappresentanti delle leghe operaie, per stabilire di comune accordo il saggio dei salari, le ore di lavoro, i regolamenti di fabbrica, ecc.; e per comporre le piccole liti. Negli statuti delle leghe è anzi per lo più prescritto che si debba promuovere la costituzione di uffici di conciliazione e d’arbitrato per prevenire e per comporre le contese tra operai e principali.

Identico scopo si propongono le leghe padronali italiane. Uno dei principali fautori dell’associazione novarese citata così scrive: «S’inganna chi s’adonta del sorgere di leghe e di federazioni operaie. Un uomo illuminato deve anzi compiacersene, perché la associazione non è soltanto elemento di forza e di ordine, ma è anche affidamento di giustizia sociale. Epperò gli agricoltori devono imitare l’esempio e l’opera dei contadini, associandosi fra loro per determinare d’accordo con le leghe di costoro, quali condizioni, per quali corrispettivi il contratto di lavoro debba farsi e per assicurarne l’osservanza».

Il bollettino del consorzio agrario bolognese, in un articolo propugnante la costituzione di leghe di proprietari, afferma: «A noi sembra che il problema sociale, che agita le nostre campagne, debba trovare la sua soluzione in un ubi consistat fra le leghe degli operai e le leghe dei proprietari».

Non solo nelle campagne, ma dappertutto gli imprenditori devono convincersi che l’unione è lo strumento migliore per lottare contro le leghe operaie. Ed è strumento tale che per natura sua conduce non alla guerra, ma alla pace.

1 marzo 1902

 

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La bellezza della lotta

Rileggendo gli scritti sui problemi del lavoro, che l’editore Piero Gobetti ha desiderato che io riesumassi dalle riviste e dai giornali su cui li ero andati pubblicando dal 1897 in qua, mi sono accorto che essi obbedivano ad alcune idee madri, alle quali, pur nel tanto scrivere per motivi occasionali e sotto l’impressione di circostanze variabili di giorno in giorno, mi avvedo, con un certo perdonabile compiacimento intimo, di essere rimasto fedele; lo scetticismo invincibile, anzi quasi la ripugnanza fisica, per le provvidenze che vengono dal di fuori, per il benessere voluto procurare agli operai con leggi, con regolamenti, col collettivismo, col paternalismo, con l’intermediazione degli sfaccendati politici pronti a risolvere i conflitti con l’arbitrato, con la competenza, con la divisione del tanto a metà; e la simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé e, in questo sforzo, lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere ed a perfezionarsi. Il socialismo scientifico ed il collettivismo russo, in quanto schemi di organizzazione della società o tentativi di applicare praticamente quegli schemi, non mi interessano. Sono al disotto del niente. Invece il socialismo sentimento, quello che ha fatto alzare la testa agli operai del Biellese o del porto di Genova, e li ha persuasi a stringere la mano ai fratelli di lavoro, a pensare, a discutere, a leggere, fu una cosa grande, la quale non è passata senza frutto nella storia d’Italia. Il collettivismo è un ideale buono per le maniche col lustrino e serve solo a far morire di fame e di noia la gente. Sono puri socialisti, del tipo noioso, coloro i quali vogliono far risolvere le questioni del lavoro da arbitri imparziali, incaricati di tenere equamente le bilance della giustizia, e vogliono far compilare le leggi del lavoro da consigli superiori, in cui, accanto ed al disopra alle due parti contendenti, i competenti, gli esperti, i dotti, i neutri insegnino ai contendenti le regole del perfetto galateo.

Oggi, gli ideali burocratici sono ridivenuti di moda. Sott’altro nome, l’aspirazione dei dirigenti le corporazioni fasciste di trovare un metodo, un principio, per far marciare d’accordo imprenditori ed operai, è ancora l’antico ideale collettivistico. La lotta combattuta per insegnare agli operai che l’internazionalismo leninista era una idea distruttiva e che la nazione era condizione di vita civile fu una cosa santa; ma il credere che si possa instaurare in terra l’idillio perfetto tra industriali ed operai, sotto la guida di qualche interprete autorizzato dell’interesse supremo nazionale, è una idea puramente burocratico-comunistica. Tanti sono socialisti senza saperlo; come tanti che si dissero socialisti o furono a capo di movimenti operai contro gli industriali erano invece di fatto puri liberali. Un industriale è liberale in quanto crede nel suo spirito di iniziativa e si associa con i suoi colleghi per trattare con gli operai o per comprare o vendere in comune; è puro socialista quando chiede allo stato dazi protettivi. L’operaio crede nella libertà ed è liberale quando si associa ai compagni per creare uno strumento comune di cooperazione o di difesa; è socialista quando invoca dallo stato un privilegio esclusivo a favore della propria organizzazione, o vuole che una legge o la sentenza del magistrato vieti ai crumiri di lavorare. Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato collo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d’accordo con altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento con la forza, che lo esclude se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferiti, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi. I nomi non contano: l’ideale rimane quello che esso è intrinsecamente, qualunque sia la denominazione sua esteriore.

Oggi, il problema operaio in Italia ha cambiato nome: invece di federazioni o di camere del lavoro rosse o bianche o gialle, si parla di corporazioni fasciste. Quale è il contributo sostanziale che esse hanno recato al problema del lavoro? Parlo dei principi, non dei particolari. Non ha importanza il fatto che in parecchi casi le corporazioni si comportino nello stesso modo delle antagoniste rosse; che anch’esse usino talvolta violenze contro gli avversari o contro i crumiri o gli adepti di altre fedi; che esse pronuncino anatemi o boicottino altrui od ambiscano a monopoli. Queste possono essere accidentalità passeggere, non connaturate alla dottrina. Quale sia questa dottrina io tenterei di chiarire così:

«Il principio della lotta fra le due classi degli imprenditori e degli operai è nocivo alla produzione. Ognuno dei due combattenti immagina di poter raggiungere un massimo di vantaggio distruggendo ed espropriando l’avversario. L’imprenditore tenta di ridurre l’operaio al salario minimo; l’operaio vorrebbe annullare il reddito del capitale. In conseguenza della lotta e della sopraffazione dell’una parte sull’altra, sono alla lunga danneggiate ambedue ed è danneggiata sovratutto la nazione. Diminuisce la produzione ed impoverisce perciò la collettività; lo stato si indebolisce verso l’estero e si sgretola all’interno. La corporazione sorge per combattere questa politica suicida. Col suo medesimo nome essa afferma l’idea della costruzione, dell’ossequio al principio superiore della nazione, al quale gli egoismi particolari di classe debbono sacrificarsi. La corporazione non sacrifica l’operaio all’imprenditore; né l’imprenditore all’operaio; essa vuole riunire in una sintesi superiore le due rappresentanze finora ostili. Le corporazioni operaie e quelle padronali debbono rimanere distinte e indipendenti l’une dall’altre; ma, pur tutelando i propri interessi, ognuna di esse deve essere consapevole della necessità di non offendere l’industria, di non indebolire la nazione. Se le due corporazioni non sanno trovare la via dell’accordo fecondo, vi deve essere chi, nel momento critico, pronunci la parola risolutiva, dichiari la soluzione giusta alla quale tutti debbono inchinarsi. L’arbitro non deve avere la mentalità né dell’operaio né dell’imprenditore. Deve essere l’uomo che s’inspira alle necessità nazionali, che è educato nella dottrina del sacrificio del presente all’avvenire, che sa ricomporre in sintesi le vedute e gli interessi discordanti delle due parti unicamente intese al guadagno immediato».

La dottrina ora esposta è una nuova formulazione, con linguaggio mutato, di teorie le quali si sono di volta in volta sforzate di ritrovare l’unità perduta attraverso i conflitti fra uomini e classi. Le armonie economiche di Bastiat, la teoria dell’equilibrio economico, non sono forse anche tentativi di sintesi, sforzi per vedere il punto nel quale sul mercato, per un attimo, le forze si equilibrano e si raggiunge un risultato che può essere di massima felicitazione della collettività? Gli economisti come è loro costume, parlano di equilibrio, di prezzi, di mercato, di massima soddisfazione. I teorici delle corporazioni parlano di nazione e di soggezione delle classi alla volontà superiore che incarna l’interesse della nazione. Il linguaggio formale è diverso, il contenuto sostanziale è uguale.

Il problema non è di negare l’equilibrio fra le forze contrastanti; cosa che sarebbe assurda. È di trovare il metodo col quale quell’equilibrio possa essere raggiunto col minimo costo, colla minore superficie di attrito. Non è neppure necessario all’uopo scegliere l’una formula più che l’altra: purché l’equilibrio si raggiunga, possono riuscire utili le contrattazioni dirette, le leghe, le corporazioni, l’arbitrato, perfino il colpo di sterzo dell’uomo posto in situazione di autorità per togliere le parti dal punto morto in cui si erano cacciate. L’ideale della nazione o quello dell’interesse collettivo, l’aspirazione cooperativa o quella partecipazionistica sono tutte formule atte a condurre all’equilibrio. Ma tutte sono pure armi strumentali le quali sono vive e feconde soltanto quando siano adoperate in condizioni favorevoli. Quali siano queste condizioni non si può dire in modo tassativo. Ne enumero alcune tra le più caratteristiche.

È preferibile l’equilibrio ottenuto attraverso a discussioni ed a lotte a quello imposto da una forza esteriore. La soluzione imposta dal padrone, dal governo, dal giudice, dall’arbitro nominato d’autorità, può essere la ottima; ma è tenuta in sospetto, appunto perché viene da altri. L’uomo vuole sapere perché si decide e vuole avere la illusione di decidersi volontariamente. Bisogna lasciare rompersi un po’ le corna alla gente, perché questa si persuada che lì di contro c’è il muro e che è vano darvi di cozzo. Nella lotta e nella discussione si impara a misurare la forza dell’avversario, a conoscerne le ragioni, a penetrare nel funzionamento del congegno che fa vivere ambi i contendenti.

L’equilibrio stabile è più facilmente raggiunto dal tecnico che dal politico. Affidare cioè la risoluzione delle questioni del lavoro al ministro, al prefetto, al fiduciario fascista od al deputato conservatore illuminato, è indizio di scarsa educazione industriale. La soluzione, a cui il politico tende, è in funzione dell’equilibrio politico, non di quello economico. Entrano in gioco fattori di tranquillità esteriore, di accaparramento elettorale, di propiziazione di gruppi politici. Poiché l’equilibrio in funzione di fattori puramente economici sarebbe diverso, l’una o l’altra delle parti o tutt’e due cercano una compensazione alla perdita che debbono sopportare in favori economici ottenuti dal potere politico: all’equo trattamento corrisponde un aumento dei sussidi chilometrici, al controllo operaio sulle fabbriche tien dietro la tariffa doganale del luglio 1921, le piccole concessioni strappate da prefetti amanti del quieto vivere sono dolcificate dalle commende e dalle chincaglierie cavalleresche di cui, non si sa perché, gli industriali sono ghiottissimi. Non accade che l’offesa all’equilibrio economico duri. Qualcuno paga sempre il costo dell’offesa.

L’educazione dei tecnici capaci della soluzione dei problemi del lavoro si fa attraverso la lotta, tanto meglio quanto più questa è aperta e leale. Orator fit. Il buon arbitro non si fa sui libri, nei comizi elettorali, nella pratica prefettizia, non nei partiti, nei fasci, nei parlamenti. Solo l’operaio della miniera o della officina sente la vita del lavoro; solo l’industriale sente la gloria ed ha l’orgoglio della impresa. Troppi avvocati, troppi politicanti, troppi uomini abili, accomodanti, soluzionisti hanno rovinato il movimento operaio italiano. Ci sono stati troppo pochi uomini rudi, pronti a sbranarsi, ma pronti anche a sentire quel che in fondo al loro animo c’era di comune: l’amore al lavoro compiuto, l’orgoglio del capolavoro, il desiderio di metterlo al mondo perfetto. Solo discutendo faccia a faccia, queste due razze di uomini possono giungere a riconoscere le proprie sovranità rispettive: l’uno sulla direzione, sulla organizzazione e sulla invenzione della impresa, l’altro sulla propria forza di lavoro. La sovranità sui mattoni, sulle macchine, sulle merci non conta. È cosa morta, la quale vive soltanto perché l’organizzatore ed il lavoratore apprezzano e fanno valere quel che ognuno di essi apporta di proprio nell’opera comune. È bene che ognuno custodisca gelosamente l’esclusivo dominio sul proprio compito, che è, per l’imprenditore, di organizzare l’impresa e per l’operaio di prestare la propria opera manuale ed intellettuale. È bene che ognuno risenta vivamente l’ingerenza altrui nel proprio campo. Gli imprenditori sfiaccolati, che si rassegnano a lasciarsi controllare dai propri dipendenti, gli operai privi di orgoglio, i quali affidano la tutela del proprio lavoro a fiduciari non usciti dalle proprie file, sono mezzi uomini. Con questi omuncoli non si costruisce per l’avvenire. Si guadagnano forse denari, ma non si innalza l’edificio dell’industria, non si cresce valore alla personalità umana.

Perché l’equilibrio duri, è necessario che esso sia minacciato ad ogni istante di non durare. Chi vorrà leggere le pagine di questo libro, vedrà quanto sia antica la mia repugnanza verso i monopoli industriali ed operai. Ad un certo momento, le leghe rosse, accortesi di essere diventate potenti in un mondo di vili borghesi, frammezzo a magistrati prontissimi a rendere servigi invece che a dare sentenze, vollero essere sole padrone del lavoro: negarono ai bianchi ed ai gialli il diritto di esistere, si arrogarono il diritto esclusivo di eleggere rappresentanti nel consiglio superiore del lavoro e si apprestarono a negare il diritto del parlamento a correggere le decisioni del consiglio del lavoro caduto in loro mani. Fu il segnale della loro rovina. Oggi le corporazioni fasciste paiono avviarsi a commettere il medesimo errore. Anch’esse negano il diritto all’esistenza dei rivali sconfitti e ad uno ad uno li espellono dalle cooperative, dalle camere del lavoro, dai consigli del lavoro, dal parlamento. Solitudinem faciunt et pacem appellant. Anche ora, e sovratutto ora, bisogna negare che l’equilibrio esista nel monopolio, nella soppressione di diritto o di fatto degli avversari. Ho descritto, nei primi saggi di questo volume, gli sforzi che nel 1897 e nel 1900 compievano alcuni gruppi di operai italiani. A tanta distanza di tempo, riandando coi ricordi a quegli anni giovanili, quando assistevo alle adunanze operaie sui terrazzi di via Milano in Genova, o discorrevo alla sera in umili osterie dei villaggi biellesi con operai tessitori, mi esalto e mi commuovo. Quelli furono gli anni eroici del movimento operaio italiano. Chi vide, raccapricciando, nel 1919 e nel 1920, le folle briache di saccheggio e di sangue per le vie delle grandi città italiane, non riconobbe i figli di quegli uomini, che dal 1890 al 1900 nascevano alla vita collettiva, comprendevano la propria dignità di uomini ed erano convinti di dover rendersi degni dell’alta meta umana a cui aspiravano. Lo spirito satanico della dominazione, inoculato da politicanti tratti dalla feccia borghese, li travolse e li trasse a rovina. Perché l’equilibrio duri, bisogna che esso sia continuamente in forse. Bisogna che nessuna forza legale intervenga a cristallizzare le forze, ad impedire alle forze nuove di farsi innanzi contro alle forze antiche, contro ai beati possidentes. Perché gli industriali rendano servigi effettivi alla collettività, fa d’uopo che lo stato non dia ad essi il privilegio di servire la collettività, non li tuteli con i dazi protettori contro la concorrenza straniera; non li costituisca in consorzi a cui la gente nuova non possa aspirare. Perché gli operai si innalzino moralmente e materialmente, importa che ad ogni istante gli organizzatori rossi possano sfidare i bianchi e questi i rossi ed i fascisti amendue e con essi i gialli e tutti siano sotto l’incubo del sorgere di altri miti organizzativi. È diventato di moda oggi irridere alla pretesa di suscitare la concorrenza nel mondo delle organizzazioni padronali ed operaie; e si addita l’esempio delle corporazioni fasciste, le quali, nimicissime del monopolio sinché questo era tenuto dai rossi, ora che ne hanno la forza, lo pretendono per sé. E si vuol dimostrare che ciò non è solo frutto di prepotenza politica, ma di esatto calcolo economico, poiché solo coll’unicità e col monopolio della organizzazione possono gli operai ottenere il massimo di guadagno. Su di che non occorre disputare; poiché di ciò non si tratta.

Instaurino pure, se ci riescono, operai ed imprenditori, il monopolio del lavoro e dell’impresa. Ciò che unicamente si nega è che lo stato sanzioni legalmente il monopolio medesimo, vietando ad altri di combatterlo e di distruggerlo, ove ad essi basti il coraggio. Il punto fermo è questo, non quello della convenienza del monopolio. Finché il monopolio, padronale od operaio, è libero, finché è lecito a chiunque di criticarlo e di tentare di abbatterlo, può esso recare qualche danno; ma è danno forse non rilevante e transitorio. La condizione necessaria di un equilibrio duraturo, vantaggioso per la collettività, vantaggioso non solo agli industriali ed agli operai organizzati, ma anche a quelli non organizzati, non solo a quelli viventi oggi, ma anche a quelli che vivranno in avvenire, non è l’esistenza effettiva della concorrenza. È la possibilità giuridica della concorrenza. Altro non si deve chiedere allo stato, se non che ponga per tutti le condizioni di farsi valere, che consenta a tutti la possibilità di negare il monopolio altrui. La possibilità giuridica della negazione dà forza al monopolio, se utile davvero al gruppo e forse alla collettività, poiché la sua persistenza, contro alla libertà di ognuno di combatterlo, è la sola dimostrazione persuasiva della sua ragione di vivere. Qual merito o qual virtù si può riconoscere invero a chi, per vivere, fa appello alla spada del braccio secolare?

In verità poi, le organizzazioni, quando non siano rese obbligatorie dallo stato, non conservano a lungo il monopolio. La storia dei consorzi industriali e delle leghe operaie è una storia caleidoscopica di ascese, di decadenze, di trasformazioni incessanti. Ad ogni momento debbono dimostrare di meritare l’appoggio dei loro associati. Ed è impossibile, non aiutando il braccio secolare, che questa dimostrazione sia data a lungo. Gli uomini sono troppo egoisti o cattivi o ignari perché, trovandosi a capo di una organizzazione potente, non soccombano alla tentazione di trarne profitto per sé, a danno dei propri rappresentati o non si addormentino nella conseguita vittoria o non tiranneggino i reietti dal gruppo dominante. A rendere di nuovo l’organizzazione viva, operante e vantaggiosa agli associati ed agli estranei, uopo è che essa sia di continuo assillata e premuta da rivali di fatto o dal timore del loro nascere. L’equilibrio, di cui parlano i libri di economia, la supremazia della nazione a cui si fa oggi appello non sono ideali immobili. Essi sono ideali appunto perché sono irraggiungibili; appunto perché l’uomo vive nello sforzo continuo di toccare una meta, la quale diventa, quando pare di averla raggiunta, più alta e più lontana. L’equilibrio consiste in una successione di continui mai interrotti perfezionamenti, attraverso ad oscillazioni, le quali attribuiscono la vittoria ora a questa, ora a quella delle forze contrastanti. La gioia del lavoro per l’operaio e della vittoria per l’imprenditore, sta anche nel pericolo di perdere le posizioni conquistate e nel piacere dello sforzo che si deve compiere per difenderle prima e per conquistare poi nuovo terreno. Tolgasi il pericolo, cessi il combattimento, e la gioia del vivere, del possedere, del lavorare diventa diversa da quella che è sembrata gioia vera agli uomini dalla rivoluzione francese in poi. Non che la “quiete” di chi non desidera nulla, fuorché godere quel che si possiede, non possa essere anche un ideale e che la sua attuazione non sia bella. Ho descritto in un capitolo di questo libro la vita felice del lazzarone napoletano nel meraviglioso secolo XVIII, che fu davvero l’età dell’oro della contentezza di vivere, del buon gusto, della tolleranza e dell’amabilità. Purtroppo la natura umana è cosiffatta da repugnare alla lunga al vivere quieto e tranquillo. Se questo dura a lungo, è la quiete della schiavitù, è la mortificazione dello spirito. Alla quiete che è morte è preferibile il travaglio che è vita.

 

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Il diritto allo sciopero

L’art. 57 del progetto di costituzione presentato dalla commissione dei 75 alla costituente dice: «Tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero». È questa una formulazione alquanto diversa di un principio che il secolo scorso, 1800 anni dopo Cristo, aveva riaffermato, abolendo dapprima la tratta degli schiavi e poi mettendo fine quasi contemporaneamente, tra il 1860 ed il 1870, alla servitù della gleba (l’uomo non può abbandonare la terra dove è nato) in Russia ed alla schiavitù dei negri (l’uomo non può abbandonare il padrone) negli Stati Uniti.

Risorgono talvolta forme particolari di schiavitù le quali legano l’operaio alla fabbrica destinata alla produzione bellica; ma sono norme di eccezione, rigidamente ristrette al tempo di guerra.

Il diritto allo sciopero è una applicazione del concetto, prevalso nelle società civili del secolo XIX, della abolizione della schiavitù e della instaurazione della libertà del lavoro. Che cosa infatti significherebbe la negazione del diritto di sciopero? Evidentemente l’obbligo del lavoratore di lavorare non quando a lui piace ed alle condizioni liberamente da lui discusse ed accettate, ma quando ad altri piace ed a condizioni diverse da quelle accettate da lui. Quell’obbligo ha un nome preciso e dicesi “schiavitù”. Non monta essere schiavi di un imprenditore privato o dello stato; ciò che all’uomo sovra ogni altra cosa importa essendo di non essere schiavo di nessuno.

Dovendo scegliere, è evidentemente preferibile essere schiavi (parola tecnica usata per indicare il fatto di non poter abbandonare il lavoro senza il consenso altrui) di un imprenditore privato che dell’imprenditore unico (stato). Infatti gli imprenditori privati sono molti e non è quindi assurdo fuggire, sia pure illegalmente, dall’uno all’altro ed essere ricevuti a braccia aperte da quest’altro imprenditore bisognoso di lavoratori. Inoltre, è più facile, e l’esperienza storica reca di ciò testimonianze innumeri, ai lavoratori concertarsi contro imprenditori privati e riuscire a violare la legge vincolatrice della libertà umana, di quanto non sia agevole concertarsi contro lo stato, che fa la legge a suo piacimento. Dove esiste la schiavitù esiste invero altresì una qualche maniera di governo tirannico; ed il tiranno può avere interesse ad ingraziarsi i lavoratori contro gli imprenditori privati, non mai contro se stesso.

In ogni caso gli uomini giustamente desiderano di non essere costretti a fare scelta fra due mali; ma vogliono la libertà. Epperciò il diritto di sciopero è sacrosanto. I codici civili dei paesi moderni avevano già concordemente formulato il principio del diritto allo sciopero affermando la nullità dei patti con i quali taluno si fosse obbligato a prestare senza limiti di tempo l’opera propria a favore altrui.

La abolizione della schiavitù od il suo sinonimo detto “diritto di sciopero” suppone tuttavia un dato clima economico. È un istituto che vive quando nella società agiscono determinate condizioni, tra le quali principalissima è quella ricordata sopra della libertà degli uomini di acquistare, a propria scelta, i beni ed i servizi da essi desiderati. Il lavoratore ha il sacrosanto diritto di abbandonare la fabbrica che non è in grado di pagargli il salario da lui giudicato bastevole a compensare le proprie fatiche ed a consentirgli quel tenore di vita al quale egli giudica di avere diritto. Ma il consumatore ha uguale ragione di non essere costretto da nessuno ad acquistare al prezzo di 20 mila lire un abito, solo perché i lavoratori chiedono – scioperano per ottenerlo – un salario siffatto che il produttore non può mettere sul mercato l’abito ad un prezzo inferiore a 20 mila lire. Al diritto di sciopero dei lavoratori, alla loro esigenza di non essere sottoposti a schiavitù corrisponde l’ugual diritto dei consumatori di non acquistare le merci prodotte dai lavoratori. Non sono due diritti diversi: bensì due faccie del medesimo diritto. Tra i due, i lavoratori ed i consumatori, vi è l’intermediario detto comunemente industriale, che gli economisti usano, dal 1738 in poi, chiamare “imprenditore” colui il quale, a suo rischio e vantaggio mette insieme i fattori produttivi – area, stabilimenti, macchine, scorte di materie prime e di semilavorati, dirigenti, impiegati, lavoratori -; ne paga il prezzo di mercato ed offre il prodotto finito al consumatore.

Se i due estremi, lavoratore e consumatore, fanno sciopero, i primi perché non ritengono di essere pagati abbastanza, gli altri perché ritengono il prezzo dei prodotti superiore al vantaggio che si ripromettono dal loro acquisto, l’imprenditore, il quale sta in mezzo dei due, non può rimanere fermo. Anch’egli, se non vuol perdere i suoi capitali – e la perdita dei capitali non giova a nessuno – deve potersi muovere. Il suo diritto a muoversi ha un nome abbreviato ed è diritto alla “serrata”. In sostanza, il diritto alla serrata degli imprenditori ha un contenuto semplice e necessario. Non si può immaginare che, là dove i lavoratori hanno il diritto – sacrosanto diritto, innato nell’uomo libero – di incrociare le braccia e di rifiutarsi a lavorare a condizioni da essi non accettate volontariamente, vi sia talun altro il quale sia costretto a tenere il proprio stabilimento aperto ed a pagare salari che egli giudica superiori al ricavo, dedotte le altre spese del prodotto da lui posto sul mercato. Se l’imprenditore potesse “costringere” i consumatori a pagare il prezzo di 20 mila lire per un abito, che gli è costato, fra salari, materie prime, ammortamenti, interessi sul capitale preso a prestito od ottenuto dai soci, ecc., altrettanta somma, l’imprenditore potrebbe fare a meno di “serrate”. Basterebbe aumentare i prezzi e qualunque salario sarebbe razionale. Fatta astrazione dal significato monetario della manovra, non vi sarebbe alcun limite all’aumento dei salari.

Ma così non è. I consumatori non hanno nessun obbligo di acquistare alcuna merce ad alcun prezzo prefissato. Anch’essi hanno diritto allo sciopero. Anch’essi hanno diritto a non diventare schiavi di chi vuol vendere una data merce ad un dato prezzo. Essi scioperano riducendo il consumo o rinunciando del tutto al consumo della merce rincarata.

Epperciò, l’imprenditore, posto fra l’incudine ed il martello, ha il diritto di serrata, ossia di riorganizzare la sua impresa, di mutare il genere della produzione, di ridurre o crescere il numero degli operai, di tentare nuovi mercati per adattarsi alle condizioni contemporaneamente poste dai lavoratori e dai consumatori, tra le quali egli deve pur trovare un mezzo di conciliazione. Diritto di sciopero e diritto di serrata sono due fattori o condizioni di un sistema economico improntato a libertà. Se togliamo l’un diritto aboliamo anche l’altro. Se l’imprenditore non può aprire, chiudere, allargare, restringere l’impresa; se il lavoratore non può abbandonare il lavoro, ciò significa che noi viviamo nel clima economico della schiavitù; in quel clima nel quale una autorità superiore, un tiranno dice al lavoratore: «tu lavorerai tante e tante ore al giorno, per tale e tale salario»; all’imprenditore: «tu comprerai la materia prima a tal prezzo, pagherai i lavoratori con tale salario e venderai i prodotti tuoi a tale prezzo»; ed al consumatore: «io ti distribuirò d’autorità i prodotti dell’industria in tale quantità e ad un prezzo tale che tutto ciò che è stato prodotto secondo il nuovo piano sia compensato interamente ed a tempo debito». Ma gli uomini non amano vivere in un siffatto clima, odiano la schiavitù e sono persuasi di aver diritto, nelle diverse loro manifestazioni di lavoratori, di imprenditori, di consumatori a scioperare contro chi pretende di farli vivere secondo le regole poste dai potenti della terra.

L’innalzamento del minimo a mezzo della estensione dei servizi pubblici gratuiti

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1975, § 124

Fatta la quale ipotesi, è chiarito il problema del limite da porsi alla trasmissione dei “grandi” patrimoni allo scopo di evitare le eccessive disuguaglianze nei punti di partenza tra i giovani giunti all’età produttiva.

L’innalzamento del minimo si opera con la graduale estensione del campo dei servizi pubblici gratuiti. L’ente pubblico dovrà, fra l’altro, gradualmente provvedere a fornire ai ragazzi istruzione elementare, refezione scolastica, vestiti e calzature convenienti, libri e quaderni ed ai giovani volenterosi, i quali diano prova di una bastevole attitudine allo studio, la possibilità di frequentare scuole medie ed università a loro scelta senza spesa o con quella sola spesa la quale possa essere sostenuta dal giovane disposto a lavorare senza nocumento degli studi; e le scuole dovranno essere varie ed adatte, per numero e per attrezzatura, alle occupazioni diverse manuali od intellettuali ai quali i giovani si sentiranno chiamati.

L’assicurazione per le pensioni di vecchiaia

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1975, § 40

Fondamento della pensione di vecchiaia è il vantaggio morale, dal quale deriva il vantaggio economico. Soltanto l’uomo fiducioso in se stesso e nel suo avvenire risparmia e si eleva. Colui il quale non è sicuro rispetto al futuro, colui il quale sa di dover chiedere ricovero all’ospizio o di dover vivere della carità dei figli o del prossimo, non tenta neppure di provvedere colle sole sue forze all’avvenire. Il compito gli appare troppo duro e la fatica eccessiva. Ove invece egli sappia che un minimo di vita gli è assicurato nella vecchiaia, non solo è spinto a lavorare con tranquillità durante gli anni migliori, ma è incoraggiato ad aggiungere qualcosa a quel che è già suo. È difficile cominciare a prepararsi col risparmio attuale la prima lira di pensione per quando si saranno compiuti i 65 anni; ma se le prime 100 lire (ante-1914) di pensione sono già assicurate, è assai più probabile si rifletta ai vantaggi che si potrebbero ottenere se, mercé uno sforzo attuale di rinuncia a beni presenti, ossia di risparmio, a quelle 100 lire certe si potessero aggiungere altre 10 o 20 o 50 o 100 lire supplementari. Non sempre il ragionamento: «è più facile partire da 100 che dallo zero» è vero; ché molti uomini hanno saputo prendere le mosse dal nulla; ma pare non infondata la tesi di coloro i quali affermano essere la volontà umana spesso debole e soggetta alle tentazioni immediate e pronta allo scoraggiamento dinnanzi alle difficoltà iniziali.

La pensione di vecchiaia è tuttavia un povero surrogato di quel più alto tipo di società nella quale essa è inutile perché il vecchio possiede nella casa propria, nel podere ereditato o costrutto a pezzo a pezzo, nel patrimonio formato col risparmio volontario, nell’affetto di una famiglia saldamente costituita il presidio sicuro contro l’impotenza della vecchiaia.

La pensione di vecchiaia è il frutto fatale – e qui si adopera l’aggettivo sia nel senso di inevitabilità storica come in quello di inferiorità morale – del tipo di società che a poco a poco si è venuto creando sotto i nostri occhi: di grandissime imprese dalle quali dipendono migliaia e decine di migliaia di impiegati e di operai, di città enormi, tentacolari, dove in caseggiati a molti piani si accumulano moltitudini di persone ignote le une alle altre, viventi di giorno in giorno col provento di salari, di lavoro, scissi dalla terra e dalla casa, senza altro appoggio nella vita fuor del libretto di risparmio, su cui sono scritte cifre, le quali non dicono nulla al cuore ed alla mente di chi pur ha rinunciato a consumare i beni rappresentati da quelle cifre. In questo tipo di società la pensione di vecchiaia è una sciagurata necessità, pallido surrogato di quel che in altri tipi di società sono il possesso della casa, dell’orto, del campo, la possibilità di vegliare, da vecchi, ai giochi dei figli dei propri figli ed ai lavori dei ragazzi, l’orgoglio di dare ancora una qualche opera ai lavori dell’orto e della casa, che non sia una prigione melanconica di due stanze in fondo ad un cortile nero ed oscuro, ma sia aperta al sole e si apra su un po’ di terra propria. Il tipo di vita imposto dalla grande città contemporanea è davvero fatale? Non è possibile la ricostruzione, nei modi imposti dalla grande industria, di tipi diversi di vita? Ardue domande, che qui basti aver posto, allo scopo di affermare che la pensione di vecchiaia è un surrogato di metodi moralmente più elevati immaginabili allo scopo di provvedere alla vecchiaia.

Il pregio suo specifico, che sopravviverebbe anche in un tipo superiore di convivenza umana, è un altro: quello di offrire anche al vecchio provvisto di mezzi propri e tanto più a colui che ne è sprovvisto, una ragione autonoma di vita, destinata a perir con lui e a non essere tramandata ai figli ed agli eredi. Può sembrare contraddittorio e paradossale, dopo quanto si è detto intorno alla eccellenza del presidio offerto al vecchio dalla casa, dall’orto, dal terreno od altro patrimonio tangibile e visibile, affermare che al vecchio giova anche il diritto ad una pensione vitalizia, destinata a morire con lui. Ma gli uomini sono quelli che l’eredità, i costumi, la religione, l’educazione, le leggi li hanno fatti; ed in essi vivono talvolta, non troppo di rado, purtroppo, i residui inconfessati e subconsci dei sentimenti che, millenni or sono ed ancor oggi in mezzo alle tribù selvagge, spingono i vecchi, divenuti impotenti alla battaglia ed alla caccia, a radunare essi stessi i figli, i discendenti ed i vicini ed a condurli nel luogo dove, per loro comando, è scavata la fossa, nella quale si adagiano per essere tolti di vita e coperti di terra.

La loro giornata è finita ed essi non sono più buoni a nulla. Meglio morire che essere di peso alla tribù che deve muoversi per sfuggire al nemico o combatterlo o andare alla cerca del nutrimento. Così è di tanti vecchi ancor oggi. Impotenti al lavoro essi si ritirano umiliati dinnanzi ai figli ed alle nuore che hanno preso il governo della casa e della terra.

Casa e terra appartengono tuttavia ad essi; ma a che vale se non sono capaci a coltivarla? Essi hanno il senso della propria inutilità e questo li uccide anzi tempo. Abbiano invece una pensione la quale duri per tutta la loro vita e non oltre ed essi non saranno più impotenti ed avviliti. Uomini tra uomini, sentiranno e con essi sentiranno figli e nuore e nipoti, di apportare qualcosa alla cosa comune; qualcosa che verrebbe meno se essi morissero. Epperciò essi vivono e sanno di poter vivere senza essere del tutto a carico di altri. Rispetto ed affetto ed affermazione della propria personalità sono il frutto della pensione di vecchiaia; sicché questa contribuisce a poco a poco ad attenuare il senso di dispregio in che i giovani tengono i vecchi, i quali li hanno preceduti ed oggi sono incapaci a seguitare la fatica, la quale ha consentito ai figli, ora dimentichi, di intraprenderla nella pienezza delle loro forze[1].

Nella società moderna la pensione di vecchiaia deve tener conto di una tendenza: quella dell’invecchiamento crescente della popolazione. Si legge nel rapporto Beveridge che nella Gran Bretagna i vecchi (di 56 anni compiuti se uomini e 60 se donne) erano il 6,2% della popolazione nel 1901; ma crebbero al 12% nel 1941 e si calcola saranno il 14,5% nel 1951 ed il 20,8% nel 1971. Tende cioè a crescere in modo preoccupante la quota della popolazione totale la quale non lavora più ed è a carico altrui ed a diminuire la quota di coloro i quali producono e contribuiscono. Quanto più la tendenza (dovuta alla diminuzione della natalità, al prolungamento della durata della vita umana e ad altre cause) si accentua, tanto più il problema finanziario dei beni e dei servigi, in cui si concreta la pensione, diventa difficile a risolvere. Né la soluzione può trovarsi in una dilazione generalizzata dai 65 e 60 ai 70 e 65 anni dell’inizio della pensione; ché questa sarebbe causa di disparità di trattamento tra coloro che a 65 anni sono davvero impotenti al lavoro e cadrebbero, nel tempo innanzi ai 70 anni, in miseria dolorosa e quelli che a 70 anni sono vigorosi e floridi. Il rimedio si trova nell’incoraggiare il prolungamento volontario dell’età nella quale si chiede la pensione; così come fa il Beveridge, il quale alla pensione di vecchiaia sostituisce la pensione di quiescenza; e questa si distingue dalla prima, perché il vecchio può se vuole e se ne è capace, continuare a lavorare anche dopo i 65 anni se uomo e 60 anni se donna ed in tal caso la pensione cresce di 2 scellini la settimana per ogni anno di ritardo per la coppia di marito e moglie e di 1 scellino per la pensione individuale. Il ritardo a 70 anni recherebbe la pensione da 40 a 50 scellini la settimana per la coppia e da 24 a 29 scellini per l’individuo. L’erario vede notevolmente diminuito, grazie al ritardo, l’onere da esso sopportato; la collettività si giova del prodotto del lavoro dei vecchi, che altrimenti deperirebbero in un ozio forzato; e la possibilità offerta ai vecchi di lavorare allontana effettivamente l’inizio della decadenza fisica e quindi della vera vecchiaia.

 

[1] Chi parla, ricorda sempre l’esempio di un vecchio, divenuto quasi immobile per gli acciacchi della vecchiaia, oggetto di compassione per gli altri e di avvilimento per se stesso. Ma il vecchio improvvisamente ricominciò a camminare e, nei giorni di festa, ripercorse la lunga strada che lo portava alla chiesa del villaggio ed ogni mese si recava all’ufficio postale. Era accaduto che la morte di uno dei figli nella grande guerra gli aveva fatto assegnare una modestissima pensione. Ma questa basta per farlo ridivenire un uomo; per essere onorato e curato dai parenti e dai vicini e per vivere ancora assai anni vegeto e non inutile a sé ed agli altri. Né l’esempio fu l’unico; ed a chi sappia guardare, si ripete particolarmente per le vecchie vedove, non più derelitte e spregiate dalle nuore. Leggasi, purtroppo in un numero del tempo dell’Italia occupata dal nemico («Corriere della sera», 22 aprile 1944), un articolo (La nuova padrona di Giovanni Comisso) sulla sorte riservata alle contadine divenute vedove.

Intorno al contenuto dei concetti di liberismo, comunismo, interventismo e simili

«Argomenti», I, 1941, n° 9, pp. 18-34

Forse è opportuno, piuttosto che insistere in una discussione resa ardua dalla diversità delle premesse dovute alla diversa preparazione intellettuale ed alle diverse tendenze sentimentali o politiche o sociali, chiarire talune di queste premesse; e sono ben lieto me ne offra occasione il suggestivo scritto che precede.

Che cosa si intende per ordinamento liberistico o comunistico o capitalistico, della cui conformità o compatibilità col concetto di libertà o con l’ideale liberale si discute? A seconda della definizione data e, più che della definizione, del contenuto concreto posto teoricamente o constatato storicamente per quegli ordinamenti, la discussione può recare a conclusioni se non diverse almeno intonate o motivate diversamente.

Il liberismo certo non è un’astrazione, bensì un ordinamento concreto. Quale è il suo contenuto? P. S. non aderisce alla opinione volgare, propria della gente innocente di qualsiasi peccato di cultura economica, secondo la quale il liberismo si identificherebbe con un ordinamento nel quale all’uomo fosse lecito di fare qualunque cosa, salvo, s’intende, ammazzare, rubare, ecc., lo stato rimanendo ridotto ai compiti elementari di soldato, magistrato, poliziotto, tutore dei cordoni sanitari contro la peste, il colera, la febbre gialla e simili. Egli intende il liberismo «nel senso dei moderni economisti, come intervento dello stato limitato a rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera concorrenza». Benissimo detto. Qualche parola in più non sarà tuttavia male spesa a chiarire il concetto. Innanzitutto, bisogna insistere sul punto che la «libera concorrenza», alla quale in quella definizione si accenna, appartiene a tutt’altro ordine di concetti da quello di liberismo. Questo è un ordinamento concreto; quella è un’astrazione. La configurarono gli economisti puri o teorici per avere in mano uno schema dal quale partire per esporre le loro leggi, che sono leggi astratte, in tutto simili a quelle della geometria o della meccanica razionale, vere sub specie aeternitatis, finché non mutino le premesse. L’economista dice: «Supponiamo che … i produttori venditori della merce x siano molti, che ognuno di essi produca e venda solo una piccola quantità della detta merce, tale cioè che il produrla o non produrla, venderla o non venderla, non produca effetto sensibile sulla quantità totale recata sul mercato; supponiamo che anche i consumatori della merce x siano molti, che ognuno di essi intenda acquistare solo una piccola quantità di essa, supponiamo che… che… ecc. ecc. Avremo quella situazione che è definita di libera concorrenza; ed in questa situazione accade che il prezzo sia ecc. ecc.». Tutto ciò è pura astrazione, lecita lecitissima per costruire un corpo di leggi astratte, le quali avranno una parentela più o meno stretta con le leggi del prezzo delle merci quali si verificano sul mercato concreto, a seconda che le premesse del mercato concreto si avvicineranno più o meno alle leggi del mercato astratto, dello schema posto dall’economista come premessa del suo ragionamento.

C’è chi, a leggere tutti quei «supponiamo» si impazientisce. Quarantasette anni fa, il fondatore, che non sono io, della rivista La riforma sociale buon’anima, nel programma prendeva in giro per l’appunto le teorie che «si vogliono dare anche ora come assolute e imporre nella pratica della vita quotidiana» e sono esposte «in libri dove due terzi dei periodi cominciano con le parole: Let us suppose, If it be assumed, If we can imagine, Let us now introduce, Suppose an event to occur, But suppose a lot of persons, ecc.». In questo mezzo secolo gli economisti hanno continuato a foggiare premesse col «supponiamo»; anzi, per far arrabbiare i loro naturali nemici che sono i pratici, hanno finito per abolire le premesse in lingua volgare che qualcosa dicevano al lettore, contentandosi di abbreviature con lettere dell’alfabeto. Gli economisti hanno ragione nel seguire i comandamenti metodologici della scienza che è astratta; e soltanto il buon gusto e la sensibilità economica, che nessuno si può dare se non ce l’ha, possono ad essi consigliare i limiti dello schematizzare e dell’astrarre; ché, in fin dei conti, la scienza economica dovrebbe preoccuparsi – e tutti i grandi economisti se ne sono preoccupati – di fornire schemi astratti i quali giovino alla interpretazione della realtà concreta.

Di fronte allo schema astratto della libera concorrenza, i pratici ed i politici si sono trovati d’accordo su un punto: che lo schema della concorrenza piena, con i suoi molti venditori e produttori, col mercato aperto a tutti nell’entrata e nell’uscita, col prezzo il quale in ogni momento è uguale al costo di produzione di quel produttore, la cui offerta è necessaria a rendere la quantità offerta uguale a quella domandata e tende verso il costo del produttore a costo minimo, è un bellissimo schema, ma lontanissimo o lontano o ad ogni modo diverso dalla realtà concreta. In questo basso mondo imperano monopoli, consorzi, leghe, privilegi, brevetti, limitazioni fisiche o giuridiche, ignoranze, ecc. ecc., sicché tra lo schema astratto e la realtà concreta non c’è alcuna rassomiglianza.

A questo punto l’unanimità si guasta ed i politici si partono in due schiere che per brevità dirò degli interventisti e dei liberisti. I primi sono assai variopinti e vanno dai comunisti puri ai semplici programmisti, con programmi più o meno estesi. Essi sono accomunati dall’idea che direi della strada breve. Poiché in concreto la libera concorrenza non esiste, fa d’uopo che qualcuno regoli e disciplini il meccanismo economico. Poiché l’automatismo conduce – si afferma o si osserva o si pretende di osservare – al monopolio dei più forti, occorre che qualcuno, ossia lo stato, guidi gli uomini nella loro condotta economica e li costringa a operare nel senso del vantaggio collettivo. Talvolta si afferma di volere lasciare ai singoli libertà di iniziativa, limitando l’azione dello stato a qualche campo considerato più importante dal punto di vista collettivo, od alla fissazione delle condizioni di vendita (massimi di prezzi, calmieri) o di produzione (graduatorie nella fornitura delle materie prime, licenze di apertura di nuove fabbriche o di ampliamento delle antiche). All’ala estrema dei programmisti, si trovano i comunisti, i quali tacciano i colleghi più tiepidi di inconseguenza; osservando che non è possibile regolare solo alcuni rami o punti del meccanismo economico e sociale; ché, fissato un prezzo, tutti gli altri mutano e reagiscono. Non si può fissare il prezzo del pane, senza fissare quello della farina e della legna per accendere il forno e dell’uso del capitale forno e della mano d’opera e poi, via via, dei servizi dei mugnai e dei trasporti per ferrovia e per mare e del grano all’origine, e del lavoro dei contadini e dei prezzi delle terre; e poiché fissar tutto in concreto è pressoché impossibile, la sola soluzione logica, secondo i comunisti, è la assunzione generale della produzione e della distribuzione dei beni della terra da parte della collettività intera, ossia dello stato.

I liberisti sono gente che l’esperienza ha fatto profondamente scettica intorno alla attualità concreta dei “programmi” e nemica acerrima della assunzione compiuta di tutto il meccanismo economico da parte del leviatano statale. Essa non crede del resto che il mondo concreto sia davvero lontanissimo, oggi ed in molte epoche storiche passate, dallo schema astratto della piena concorrenza. Diverso sì e un po’ più complicato di quanto lo schema supporrebbe. Ma non lontanissimo né opposto. Là dove il mondo concreto sembra più lontano dallo schema astratto della piena concorrenza, fa d’uopo, se si vuole argomentare logicamente, chiedersi: Perché è lontano? Alla domanda gli economisti à la page coloro i quali hanno una paura verde di apparire “superati”, e che perciò tentano ad ogni quarto d’ora di superare se stessi, rispondono con un gran rimbombo di parole, tra le quali emergono: fatale andare del capitalismo, alto capitalismo, la concorrenza che sbocca nel monopolio, i grossi che schiacciano i piccoli, la legge dei costi decrescenti, il grande macchinario, la tecnica o tecnocrazia. Tutte chiacchiere prive di senso, se non siano analizzate. Chi ha fatto l’analisi? Chi ha distinto caso per caso per ogni consorzio o trust o cartello o monopolio, le ragioni del suo fiorire, se fiorì, o del suo decadere, quando decadde? Quale è la proporzione rispettiva dei monopoli o monopoloidi o consorzi intesi ad imporre prezzi superiori a quelli che sarebbero di concorrenza, i quali debbono la loro esistenza a positivi atti del legislatore e di quelli che sono dovuti a cause “tecniche”, intendendo per tali quelle cause che possono essere spiegate col tipo dell’industria esercitata, colle sue dimensioni, colle caratteristiche della merce prodotta e del mercato? Sinché questa indagine non sia stata fatta con serietà, tutte quelle parole intorno alla concorrenza morta e seppellita ed al trionfo fatale dei monopolisti – che spesso sono, nel linguaggio volgare ed in quello degli economisti ansiosi di non apparire superati, spesso confusi con gli imprenditori semplicemente “grossi” – rimangono parole, che il vento disperde.

Non ho la certezza, ma qualcosa di più del sospetto, che la proporzione maggiore dei più pericolosi consorzi di produttori, di quelli i quali veramente riescono ad estorcere prezzi arieggianti al monopolio, debbano la loro vita ad atti positivi del legislatore: dazi doganali, contingentamenti, inibizione di concorrenza da parte di nuovi venuti, brevetti e privative di ogni genere, favori negli appalti, imposte di fabbricazione, enti semi pubblici forzosi ecc. ecc. È assai dubbio se l’opera dei rimanenti monopoli o sindacati o consorzi si allontani veramente in modo apprezzabile dallo schema della concorrenza o non ne sia invece, in mutate circostanze, una nuova maniera di attuazione.

Quante strida si levarono nel secolo scorso, fra il 1820 ed il 1880, contro le leghe operaie, qualificate come tentativi di estorcere salari e condizioni di lavoro superiori a quelli naturalmente determinati dal libero gioco del mercato! E poi si vide che quelle strida erano per lo più a vuoto; ché il mercato libero suppone contraenti conoscitori delle quantità domandate ed offerte, capaci di entrare e di uscire, ossia di offrire o ritirare l’offerta della propria mano d’opera, ed invece l’operaio od anche l’industriale singolo spesso non conosce il mercato, e per lo più è costretto ad offrirsi e quindi ad accettare salari o prezzi inferiori al normale. Le leghe operaie non contraddicono dunque allo schema della concorrenza; ma sono uno strumento perfezionato della piena più perfetta attuazione di quello schema. S’intende entro certi limiti; dei quali uno è libertà dell’operaio e dell’industriale di entrare o non entrare nella lega, di contrattare per mezzo o all’infuori di essa. Anche qui il vero pericolo monopolistico nasce dal privilegio legale concesso dal legislatore a certe leghe a danno o ad esclusione di certe altre, o addirittura dall’esclusiva attribuita ad una di esse.

L’intervento «dello stato limitato a rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera concorrenza» non è perciò tanto “limitato” come pare. Esso si distingue in due grandi specie: rivolta la prima a rimuovere gli ostacoli creati dallo stato medesimo e l’altra intesa a porre limiti a quelle forze, chiamiamole naturali, le quali per virtù propria ostacolerebbero l’operare pieno della libera concorrenza. La prima specie di intervento appare a primo tratto piana, poiché si tratta solo di abrogare leggi e norme vincolatrici, le quali creano il deprecato malanno. Il dazio protettore, il contingentamento, il divieto di iniziare, senza licenza, nuove intraprese creano il monopolio? Si aboliscano dazi contingentamenti e divieti! In un batter d’occhio lo scopo è conseguito. Si dimentica che quei dazi contingentamenti e divieti debbono la loro origine a forze economiche e politiche, le quali se sono state tanto potenti da ottenere la promulgazione di quelle leggi, saranno abbastanza forti da impedirne la abrogazione. Sicché in sostanza, quella che i cosidetti liberisti invocano non è affatto una mera mutazione nella legislazione, ma una lunga faticosa difficile contrastata opera di educazione economica sociale e politica, rivolta a persuadere il cittadino, ossia i ceti, i gruppi sociali e politici i quali agiscono sul legislatore, che una certa politica è quella più confacente all’interesse dei più dei viventi e delle generazioni venture. Altro che “fato” generatore di monopoli e distruttore della concorrenza! Quel fato si chiama Tizio e Caio, gruppo tale o tal altro, il quale direttamente dispone del legislatore o indirettamente, attraverso giornali, riviste, economisti ansiosi di non apparire superati, avvocati, maneggioni influisce sulla opinione pubblica e crea l’ambiente favorevole alla desiderata legislazione favoreggiatrice. Contro questo fato, che è poi volontà di mal fare, non c’è nessun rimedio fatato e semplice. La via diritta non serve. Bisogna rassegnarsi ai viottoli scoscesi ed agli andirivieni della educazione economica e morale. Sovratutto morale: ricordati di non rubare.

L’altra specie di intervento intesa a porre limiti alle forze naturali, proprie “eventualmente” del tipo dell’industria o del mercato o del prodotto o del momento tecnico, le quali ostacolino l’azione della libera concorrenza, non è di ardua persuasione, ma è tanto più delicata nell’attuazione. Gli uomini sono presti a persuadersi, quando c’è qualcosa che va male, ad invocare il braccio forte dello stato. Qui è la gran forza degli interventisti di tutte le razze, dai semplici ingenui programmisti ai comunisti puri. Perché lo stato, perché il governo non ci pensa? È la soluzione dei deboli, i quali, incapaci o indolenti nel fare il bene, si affidano a qualcuno che pensi e provveda per conto loro. I liberisti – seguito a chiamarli così per ossequio all’abitudine, ma bisogna davvero inventare un altro nome, tanto il loro atteggiamento mentale è lontano dal laissez faire, laissez passer – sanno che coll’incapacità e coll’indolenza non si ottiene niente; che i governi sono quelli che i popoli fanno e meritano e che è vano tentare di cavar da popoli incapaci e indolenti governi capaci di far bene, se prima il politico di genio non abbia provveduto a mutare i poltroni in gente alacre e gli incapaci in avidi di apprendere. Epperciò i liberisti non si propongono di “fare” il bene; ma solo di mettere gli uomini nella condizione di potere procurarselo da sé, quando vogliano o sappiano usare i mezzi all’uopo opportuni.

Si potrebbe citare assai esempi di siffatti tipi di intervento liberistico. Ne ricorderò due soli. Primo: il regime ereditario. Lo ricordo, perché lo vedo fatto argomento di esempio anche dallo scrittore della nota, alla quale sto appendendo queste mie considerazioni metodologiche. Senza dubbio il figlio del ricco è, sul mercato dove si incontrano produttori e consumatori di beni e di servigi, favorito in confronto del figlio del povero. Non c’è uguaglianza nei punti di partenza. Il comunista risolve alla spiccia il problema, sopprimendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, ossia, praticamente, di tutto, salvo i mobili che possono stare nel numero di camere (metri quadrati) che il legislatore fisserà. Costui, in quanto sia un credente nel suo verbo, è un buon uomo, il quale immagina che di ostacoli al mondo esista solo quello della ricchezza e ignora che l’esistenza di un certo numero e di una certa dose di essi può essere necessaria per neutralizzare altri e ben più formidabili ostacoli che operano a danno dei buoni, degli operosi, degli intraprendenti, degli studiosi, dei valori seri e fecondi. In una società dove tutto è dello stato, dove non esiste proprietà privata salvo quella della roba di casa, che sta nella casa tipica assegnabile a tutti – suppongasi dieci metri quadrati in media a testa, ma non credo si giunga a tanto nell’Europa contemporanea -, dove la produzione è organizzata collettivamente, per mezzo di piani i quali debbono essere elaborati al centro, qual è l’ostacolo, veramente formidabile che gli uomini di ingegno, intraprendenti, onesti, volonterosi, ecc. ecc., fatalmente incontrano sulla loro via? Quello dell’intrigo. Mirabeau padre l’aveva già osservato nel 1760 in un brano da me altra volta ricordato (ed ora in Saggi sul risparmio e l’imposta, p. 352): on ne seroit occupé qu’à obtenir des places et des pensions, qu’à participer aux libéralités du Prince, qu’à éviter le travail, qu’à parvenir à la fortune par toutes les voyes de collusion que la cupidité peut suggerer, qu’à multiplier les abus dans l’ordre de la distribution e des dépenses.

Quando tutti dipendono da tutti, quale è lo strumento di ascesa? Cattivarsi il favore di chi sta un gradino più in su e così via via fino al grado supremo. Non è la capacità di intrigo, di piaggeria, di connivenza un formidabile ostacolo contro gli onesti, gli intraprendenti, i lavoratori, gli studiosi seri, i valori veri, i quali nulla odiano più che la necessità di procacciarsi il favore altrui? Epperciò il liberista esiterà assai dinnanzi all’abolizione della eredità come mezzo per abolire uno dei tanti ostacoli che esistono a questo mondo contro la uguaglianza nei punti di partenza. Egli cercherà invece nella esperienza del passato quali siano i temperamenti, le vie di mezzo da adottare (imposte ereditarie, quote legittime, facoltà di testare, ecc. ecc.), allo scopo di eliminare i casi nei quali massimo è il danno del favore ereditario concesso ai fortunati, senza abolire i vantaggi di creazione di un ceto sociale indipendente dal principe, sicuro contro le sopraffazioni dei potenti – la mia casa è il mio castello -, di promuovimento dei vincoli familiari, di stimolo al risparmio che l’istituto della eredità può produrre. Si intende che il liberista non pensa che i vantaggi si possano ottenere, che l’ostacolo ereditario possa essere conservato senza un’opera continua di illuminazione, la quale ad ogni generazione dimostri col ricordo di esperienze passate, col confronto con altri tipi di organizzazione sociale quali sono le ragioni le quali consigliano la conservazione dell’istituto.

Secondo esempio: le privative industriali. Queste oggi, attraverso un secolo di legislazione favorevole all’istituto della privativa dell’inventore sulla sua invenzione, sono divenute un vero scandalo. La privativa è oggi una beffa per l’inventore povero e d’ingegno, al quale soltanto il legislatore in origine aveva pensato. A costui il diritto di privativa praticamente non giova; che la quasi totalità delle invenzioni è opera collettiva, di sperimentatori calcolatori tecnici i quali lavorano in laboratori o gabinetti installati da grandi ditte industriali. Il brevetto oggi è divenuto uno strumento di dominio e di monopolio delle grandi intraprese, le quali possono permettersi il lusso di stipendiare fisici chimici matematici avvocati, intentar liti al povero inventore isolato il quale si illude di aver scoperto qualcosa, impedirgli di far uso della propria invenzione, costringerlo a cederla al grosso già avviato, il quale con mille raggiri cercherà di perpetuare la validità del proprio brevetto bene al di là dei 15 o 25 anni di legge[1]. Di fronte a siffatta miseranda fine delle privative industriali, il liberista quale via sceglierà? L’abolizione pura e semplice del diritto di privativa industriale? Sì, se si potesse essere sicuri, ed invece è solo probabile, che il segreto di fatto è arma migliore della privativa legale per dare all’inventore, isolato o collettivo, un compenso adeguato. In ogni caso, contrariamente all’andazzo odierno, se la privativa dovesse essere conservata, la legislazione relativa dovrebbe informarsi a due criteri: riduzione della durata al minimo, inferiore notevolmente a quello attuale, necessario per consentire all’inventore la possibilità una iniziale applicazione; e diritto per tutti di usare, senza il consenso dell’inventore, privative e relativi perfezionamenti col pagamento di un canone temporaneo stabilito per legge o dal magistrato in misura atta a non consentire prezzi di monopolio all’inventore.

Fuor di esempi, il liberista non è colui il quale vuole un intervento “limitato” nelle faccende economiche. Il criterio di distinzione fra l’interventista ed il liberista non sta nella “quantità” dell’intervento, bensì nel “tipo” di esso. Astraendo dall’interventista comunista il quale risolve il problema abolendo l’intervento medesimo – che cosa è invero quello comunista se non uno stato il quale non “interviene” più, perché ha avocato a sé tutta la gestione economica? – il criterio del distinguere sarebbe il seguente: il legislatore interventista dice all’uomo: tu farai questo o quello; lavorerai od opererai così e così; questo è l’industria o il commercio o la piantagione agricola che nell’interesse collettivo devi esercitare e nella misura e secondo un programma che io ti indicherò. Ecco il piano siderurgico, tessile, cerealicolo che tu devi attuare. Poiché siete in parecchi, ecco la proporzione che avrai a te assegnata. Lo stato, nel sistema interventistico e programmistico, insegna agli uomini, industriali agricoltori commercianti artigiani professionisti intellettuali, ciò che essi debbono fare e come lo debbono fare; fissa o disciplina o regola i prezzi e quindi i costi ed i guadagni; li varia a seconda di quelle che egli crede esigenze collettive. Il metodo interventistico è preferito dagli uomini, la grandissima maggioranza dei quali aborre dalle iniziative, dalle responsabilità e dai rischi. Su questa via regia, diritta, breve gli uomini immaginano di giungere alla felicità, al benessere, al bene. Il legislatore liberista dice invece: io non ti dirò affatto, o uomo, quel che devi fare; ma fisserò i limiti entro i quali potrai a tuo rischio liberamente muoverti. Se sei industriale, potrai liberamente scegliere i tuoi operai; ma non li potrai occupare più di tante e tante ore di giorno notte, variamente se adolescenti, donne o uomini; li dovrai assicurare contro gli infortuni del lavoro, la invalidità, la vecchiaia, le malattie. Dovrai apprestare stanze di ristoro per le donne lattanti, e locali provvisti di docce e di acqua per la pulizia degli operai; osservare nei locali di lavoro prescrizioni igieniche e di tutela dell’integrità degli operai. Potrai contrattare liberamente i salari con i tuoi operai; ma se costoro intendono contrattare per mezzo di loro associazioni o leghe, tu non potrai rifiutarti e dovrai osservare i patti con esse stipulati. Tu, nel vendere merci, non potrai chiedere allo stato alcun privilegio il quale ti consenta di vendere la tua merce a prezzo più alto di un qualunque tuo concorrente, nazionale o forestiero; e se, dopo accurate indagini, un tribunale indipendente accerterà che tu godi di qualche privilegio che non sia la tua intelligenza o intraprendenza o inventività, il quale ti consentirebbe di vendere la tua merce a prezzo superiore a quello che sarebbe il prezzo normale di concorrenza, il tribunale medesimo potrà fissare un massimo, da variarsi di tempo in tempo, per i tuoi prezzi.

E così di seguito: nel regime liberistico la legge pone i vincoli all’operare degli uomini; ed i vincoli possono essere numerosissimi e sono destinati a diventare tanto più numerosi quanto più complicata diventa la struttura economica. La legge, ossia non il governo o potere amministrativo, bensì la norma discussa apertamente, largamente, in seguito a pubbliche inchieste, con interrogatori pubblici di tutti gli interessati e di tutti coloro i quali reputino di avere qualcosa da dire in argomento; la legge fatta osservare da magistrati ordinari, indipendenti dal governo e posti al di fuori e al disopra dei favori del governo. E questa non è, evidentemente, una via regia o diritta o rapida o sicura verso il benessere, verso la felicità, verso il bene. Anzi tutto il contrario. È via lunga, ad andate e ritorni, piena di trabocchetti e di imboscate, faticosa ed incerta. Tale perché non può essere diversa; perché gli uomini debbono fare sperimenti a loro rischio, debbono peccare e far penitenza per rendersi degni del paradiso; perché essi non si educano quando qualcuno si incarica di decidere per loro conto ed a loro nome quel che debbono fare e non fare, ma debbono educarsi da sé e rendersi moralmente capaci di prendere decisioni sotto la propria responsabilità.

Dopo essermi tanto indugiato su quel che è il contenuto di un ordinamento liberistico, posso essere più breve intorno all’ordinamento comunistico. Nella discussione sui rapporti fra libertà e liberismo, fra ideale liberale e comunismo, in coloro i quali sostengono la tesi che l’uomo politico liberale possa servirsi dello strumento comunistico per ottenere l’elevamento degli uomini, mi è parso di intravvedere una certa impazienza verso coloro i quali sostengono che la libertà è incompatibile coll’ordinamento comunistico. O che forse c’è una sola definizione del comunismo? O che questo si identifica colla Russia di Lenin e di Stalin? Quale incompatibilità c’è fra libertà ed una maggiore giustizia sociale, fra libertà e legislazione sociale, fra libertà ed assunzione di certe industrie da parte dello stato, fra libertà e un compiuto ordinamento comunistico nel quale sia conservata agli uomini la piena libertà di scelta delle occupazioni e dei costumi preferiti; fra libertà e ordinamento comunistico, nel quale sia negata ai consociati ogni libertà di scelta delle occupazioni e dei consumi, ma la rinuncia sia, come accadeva nei monasteri benedettini o francescani, liberamente voluta ed anzi accettata da tutti i componenti la collettività? La più parte delle dispute ha luogo perché i contendenti non si intendono sul significato delle parole da essi usate; ed è perciò che volentieri, se fosse possibile ma non è per la necessità di usare parole corte per esprimere concetti lunghi, abolirei l’uso delle parole liberismo e comunismo (o socialismo) perché equivoche. Ho già detto sopra come un ordinamento detto liberistico sia vincolante forse più, sebbene in senso diverso, dell’ordinamento interventistico. Così è equivoca del pari la parola comunismo e socialismo. Che sugo c’è a classificare sotto la voce “ordinamento comunistico o socialistico” – la differenza tra le due parole è impalpabile e indefinibile, e perciò, le uso promiscuamente – una semplice aspirazione ad una più o meno ampia giustizia sociale o ad una statizzazione (o municipalizzazione o pubblicizzazione e mi si perdoni la parola ostrogota usata per indicare la attribuzione ad un ente pubblico, che sono maniere solo tecnicamente diverse di attuare il medesimo concetto) di qualche industria da parte dello stato? Davvero nessuno, postoché liberisti e interventisti fanno amendue propri questi ed altri consimili strumenti che essi possono reputare atti al maggiore elevamento degli uomini e solo si disputa in quali casi e con quali modalità essi siano atti a raggiungere quello scopo di elevamento; e la disputa ha importanza esclusivamente in ragione dei casi e delle modalità di applicazione e non ne ha nessuna quanto al principio, che tutti sono disposti ad accettare in generale.

A me sembra che parecchi tra i contendenti siano nel discutere troppo indulgenti verso il “generico”. Parlare “in generico” equivale a non dir nulla od almeno ad esporre banalità; ed è una banalità ammettere prima che in qualche parte del mondo o in qualche epoca storica, passata presente o futura, un dato provvedimento può essere od essere stato o tornerà ad essere giovevole all’elevamento umano, e concludere che quindi il politico liberale lo avrebbe dovuto fare o farà bene a farlo suo. L’interesse non sta in ciò; ma nel vedere perché in quella parte del mondo od in quella epoca storica quel provvedimento, il quale poteva essere e fu altrove ed in altra epoca cagione di male, fu causa, invece, di bene. Finché si tratta di provvedimenti od ordinamenti parziali o singoli, forse è facile cadere d’accordo. Diremo nocivo ed illiberale quel provvedimento di maggior giustizia sociale, in virtù del quale, essendosi il principe di una società complicata e numerosa di milioni di persone persuaso essere ingiusto che Tizio possegga 100 e Caio soltanto 50, egli ordina a Tizio di dare a Caio 15, cosicché l’uno scemi ad 85 e l’altro cresca a 65, con minore disparità fra i due. Nocivo ed illiberale perché arbitrario, dipendente dal beneplacito o dal capriccio del principe, con offesa al senso di sicurezza dei cittadini e quindi con nocumento alla spinta a produrre ed a consumare.

Si potrà discutere invece sulla misura; ma non sarà detta né nociva né illiberale e molti affermeranno essere invece liberale quella norma di legge generale, annunciata prima e duratura e prevista, in virtù della quale ad ognuno che abbia 100 venga imposto un tributo di 15 destinato a promuovere opere di bene o contributi assicurativi vari a favore di tutti coloro i quali, appartenendo alla medesima società numerosa e complicata, abbiano meno di 50, progressivamente in ragione del loro aver meno. Un provvedimento cosiffatto non è arbitrario anzi è universale; non è incerto ma è preannunciato; non turba la sicurezza degli averi, anzi la garantisce per la solidarietà che crea nei consociati. Si può e si deve discutere intorno alla misura del contributo ed alla specie delle opere di bene e dei tipi di assicurazione; che vi sono misure tollerabili ed altre eccessive; e vi sono tipi altamente educativi (pensioni di vecchiaia) ed altri (indennità di disoccupazione) i quali, oltre un certo punto, che l’amico Emanuele Sella chiamerebbe critico, dal produrre effetti morali ed educativi trascorrono a produrne altri immoralissimi e corruttori. Anzi il punto critico vi è sempre; ché persino le pensioni di vecchiaia, lodevoli sovra ogni altra assicurazione sociale a cagione del rispetto verso i vecchi che esse inducono e diffondono tra le popolazioni rustiche, spesso crudelissime verso i vecchi impotenti al lavoro, possono divenire corruttrici quando per il loro eccesso distolgano dal risparmio uomini nell’età giovane e matura, e dal lavoro vecchi attissimi al lavoro, ottimi lavoratori sino a quel momento, divenuti oziosi e viziosi quando ad essi paia di poter vivere senza far nulla, malo esempio a sé ed agli altri. Dovendo definire, direi comunistico quel qualunque provvedimento di maggior giustizia sociale o di statizzazione il quale vada oltre il punto critico, e liberale quello il quale sapientemente riesca a stare alquanto al di qua di esso. Dal che è manifesto che tutto l’interesse della disputa non sta nel provvedimento, ma nelle modalità le quali lo rattengono entro i limiti del punto critico o glieli fanno oltrepassare. In verità, però, quando si parla di incompatibilità fra ideale liberale e comunismo non si pensa dai più a codesti parziali provvedimenti sociali. Si pensa a qualcosa di compiuto, ad un tipo finito di ordinamento economico; e questo ordinamento lo si identifica, abbastanza ragionevolmente mi pare, poiché disputando conviene avere almeno una idea approssimativa di quel di cui si discorre, con un ordinamento nel quale agli uomini sia inibito di avere la proprietà privata di qualunque cosa non cada entro la categoria dei beni “diretti”, ossia destinati al consumo od uso personale o della famiglia, con la restrizione ulteriore che non si possa possedere oltre una certa quantità fisica di codesti beni diretti – ad esempio, una vettura automobile e non due, una casa di x camere od y metri quadrati per ogni membro della famiglia e non un castello, un giardino e non un parco e simili – e che i beni diretti posseduti non possano essere locati in affitto a terzi contro compenso di un canone. Tutto il resto, tutti cioè i beni che gli economisti chiamano “strumentali” sono nell’ordinamento comunistico proprietà dello stato, od in parte dello stato e in parte dei comuni o di altri enti pubblici specificati per luoghi o per industrie o per fini. Le modalità possono essere infinite; il carattere distintivo stando in quel “tutti”; che, se invece di tutti i beni strumentali siano accomunati solo alcuni di essi, la disputa tornerà ad essere quella del punto critico, restando al di qua del quale rimaniamo nel mondo liberale ed oltrepassandolo cadiamo nel comunismo.

Anche se sia osservata la regola del “tutti”, non è del resto necessariamente offeso l’ideale liberale. Se la società comunistica è composta di monaci, i quali “volontariamente” sacrificano ogni loro avere a pro della cosa comune e si riducono a lavorare ed a pregare agli ordini del padre guardiano ed a ricevere quei soli cibi e vestiti e giacigli che al padre guardiano piaccia di assegnare ad ognuno di essi, quella è una società che intende ad elevare se stessa; ed in certe epoche storiche diede opera ad elevare anche la società intera che viveva attorno ad essa. Non vi è alcuna offesa, anzi esaltazione della libertà umana, se certi gruppi di uomini rinunciano e si sacrificano e dissodano foreste e redimono paludi a maggior gloria di Dio. S. Benedetto e S. Francesco promossero l’elevazione degli uomini ad essi contemporanei ed esaltarono l’aspirazione degli uomini verso la libertà.

Del pari non vi è nulla di contrario alla libertà nelle generose aspirazioni e nei tenaci ripetuti tentativi degli Owen, dei Cabet, dei Fourier e degli altri utopisti di fondare in Europa e in America società comunistiche. La imperfetta riuscita dei tentativi dimostra la fragilità della natura umana, la quale non riesce ad attuare durevolmente i buoni propositi; non prova affatto che quei tentativi fossero, come è volgare costume asserire, antiscientifici. La pigrizia mentale di tutti coloro i quali hanno accettato la terminologia di “utopisti”, usata a titolo di scherno da Marx a carico dei suoi predecessori, è almeno altrettanto ammiranda come la sfacciataggine di costui. Se ben si rifletta, la distinzione fra gli Owen, i Cabet, i Fourier e gli altri classificati fra i socialisti utopisti ed i Marx ed Engels, i quali da sé si autodefiniscono socialisti scientifici, sta in ciò che i primi dissero: siano socialisti coloro i quali spontaneamente decidono di vivere insieme, in tutto od in parte, di lavorare e di produrre insieme, di spartire tra di loro, con una regola da essi accettata, i beni da essi prodotti; ed i quali, così decidendo, riconoscono agli altri il diritto di vivere così come ad essi meglio aggradi, con vincoli diversi da quelli di comunione e di cooperazione che ai socialisti piace di accettare. Laddove i socialisti scientifici inventarono un gergo da cui dedussero che la società “fatalmente” era incamminata verso il cannibalismo esercitato dai grossi a danno dei piccoli, sinché, avendo il cannibale più grosso divorato tutti i minori consorti, ad esso sarebbe stata agevolmente tagliata la testa e la collettività si sarebbe messa al suo posto, instaurando il regno della felicità. Siccome l’avvenimento tardava a verificarsi, accadde che, nel paese più lontano dalla sua verificazione, per la ignavia e la corruttela delle classi dirigenti i Lenin e gli Stalin tagliassero sul serio la testa ai componenti di quelle classi e di altre classi ancora ed instaurassero un regime che si dice comunistico e forse è solo la contraffazione del comunismo.

Tra parentesi, chi merita sul serio l’attributo di “utopistico”? Gli Owen, i Cabet, i Fourier, i Saint-Simon, e gli altri, irrisi come utopisti, i quali, se non riuscirono a far durare collettività in tutto comunistiche, furono tra i maggiori creatori e promuovitori del grandioso movimento cooperativo, il quale ha, si, mutato la faccia di talune società umane? Chi abbia un’idea anche vaga dei risultati meravigliosi ottenuti dalla cooperazione britannica di consumo, con le sue innumeri cooperative locali, con le due grandi associazioni di acquisto e produzione e vendita all’ingrosso d’Inghilterra e di Scozia, con le sue fabbriche e le sue flotte; chi sappia di quale trasformazione nell’edilizia popolare sia stata feconda l’opera delle società cooperative edilizie britanniche; chi ricordi la persistente sempre rinnovata opera delle società di mutuo soccorso, divenute oggi in quel paese le maggiori cooperatrici dello stato nella assicurazione malattie, non può a meno di riconoscere che quei vilipesi utopisti, quei sognatori calunniati da Marx riuscirono a creare, in nome dell’ideale comunistico, istituti vivi e grandiosi e fecondi di stupendo elevamento materiale e morale per le classi operaie. E che cosa crearono i socialisti “scientifici”? Non certo il movimento operaio propriamente detto, là dove esso davvero conquistò, come di nuovo in Gran Bretagna, posizioni oggi incrollabili di fronte ai ceti industriali nella contrattazione dei salari, delle ore e delle condizioni di lavoro; che quel movimento si svolse del tutto fuori dell’influenza del socialismo scientifico e se deve qualcosa a qualche ispirazione, questa fu la medesima ispirazione di libertà religiosa e politica la quale sta alla radice, così come di tanti altri istituti, anche delle correnti di pensiero dette del socialismo utopistico.

Per non discutere su contraffazioni, facciamo astrazione dal gergo apocalittico di Marx e dall’opera dei profittatori odierni di quel gergo; e immaginiamo una società comunistica compiuta e perfetta, nella quale ad uno o più enti pubblici sia dunque riservata la proprietà e l’esercizio di tutti i beni strumentali (quelli che nel gergo cosidetto scientifico dei marxisti si chiamano strumenti di produzione). Altrove [2] furono già esaminate le ipotesi varie che si possono fare in proposito. Non le riesporrò, per non ripetermi e non dilungarmi. Dirò solo che delle due ipotesi estreme l’una, a parer mio, è utopistica; ed è quella secondo cui l’ente o gli enti pubblici padroni dei beni strumentali e del loro esercizio (ossia organizzatori di tutta la produzione dei beni diretti di consumo e del risparmio, che è produzione di nuovi beni strumentali) riconoscerebbero e rispetterebbero ed avrebbero per iscopo di promuovere la massima più ampia libertà degli uomini di scegliere le proprie occupazioni e di distribuire il proprio reddito tra i beni di consumo. È la premessa dei ragionamenti con cui Pareto, Barone e Cabiati concludono alla identità delle soluzioni comunistiche con quelle date dalla perfetta libera concorrenza. La verificazione di siffatta premessa richiede la verificazione di parecchie altre premesse politiche, morali, religiose, intellettuali. Suppone che nella immaginata società comunistica i dirigenti siano davvero l’emanazione dei governati e ne attuino pienamente le aspirazioni; suppone che nei cittadini esista unanimità di propositi, o se vi sono dispareri e dopo discussione la maggioranza si sia pronunciata, la minoranza volentieri acceda[3] e collabori; suppone che esistano mezzi attraverso i quali le minoranze, anche le più piccole, possano liberamente esprimere e far valere le proprie opinioni o credenze contrarie a quelle della maggioranza e ad esse sia garantito nel modo più ampio il diritto di trasformarsi in maggioranza, se ad esse riesca di persuadere i più.

Tutto ciò, storicamente, sulla base della esperienza fin qui osservata e dalla quale non possiamo dipartirci se non con buone ragioni, è utopistico, fantasticamente utopistico. Abbiamo osservato ordinamenti concreti forniti di una dose maggiore o minore di libertà; ma in nessuno di essi mai si vide che coloro, i quali in un certo momento erano i dirigenti politici, fossero anche i dirigenti economici assoluti, ossia padroni della vita e della morte di tutti i cittadini, arbitri di escluderli dall’acqua e dal fuoco, se non ubbidissero ai loro comandi. Chi, dotato di tale autorità, non soggiacque alla tentazione di diventare uno Stalin? Chi non trovò pretesto o giustificazione a diventarlo, nel dovere da lui sentito di non cedere il posto ad un Trotzki, da lui giudicato a sé inferiore e nemico dell’ideale scritto nelle tavole della legge?

La ipotesi corrispondente alla natura umana è l’altra: quella per cui chi ha il potere politico assoluto se ne serve non al perfezionamento degli uomini, ma a crescere ed affermare il potere proprio e del gruppo dirigente. Se poi, come accade in una società comunistica piena, il gruppo dirigente, oltre il potere politico, possiede anche il pieno potere economico, per quale mai ragione misteriosa dovrebbe astenersi dall’usarne? Per rendere ossequio al principio che i governanti sono fatti per i governati, che il ministro della produzione deve produrre quel che piace e nella misura in cui piace ai consumatori di desiderare? Eh! via; questi principi possono essere scritti od essere implicitamente contenuti negli scritti teorici di Pareto, Barone e Cabiati; ma i politici e i ministri della produzione di uno stato, il quale abbia a sua disposizione l’arma terribile del possesso e dell’esercizio di tutti i beni strumentali, se ne sono sempre infischiati (Incas del Perù, Russia attuale) e sempre se ne infischieranno. Che sottoposti a siffatto giogo, i popoli alla lunga ne traggono argomento per rivoltarsi e che così attraverso i secoli, per tesi ad antitesi, si giunga alla libertà e si attuino ideali umani più alti, può darsi. Ma che il processo storico di rivolta dimostri la compatibilità fra comunismo e ideale liberale, direi sia una barzelletta.

Non è un ordinamento economico, ma solo la coscienza politica che può garantire o compromettere la libertà … Né il filosofo né l’economista in quanto tali hanno nulla a dire in questioni pratiche; la parola spetta solo al politico.

È lecito esporre qualche considerazione sui pericoli che presenta la attribuzione della competenza nel decidere di questioni pratiche ai soli politici? Mi astengo dal parlar di quel che possono dire e fare i filosofi, sebbene le tante belle persuasive pagine di Benedetto Croce contro i filosofi, i quali almanaccano escogitazioni di sublimi veri tratti dal proprio cervello e non sanno nulla della vita e non vivono nella storia, e le sue lodi ai cultori di scienze particolari i quali dalle loro conoscenze ed esperienze concrete sono tratti a filosofar bene, mi facciano dubitare della inettitudine dei filosofi alla pratica. Al Croce medesimo la qualità di filosofo non credo sia stata poco giovevole nell’amministrar ottimamente, come egli fece, le cose della pubblica istruzione in Italia ed altre cose pubbliche minori in Napoli. Parliamo solo degli economisti. D’accordo che essi, in quanto fanno il loro mestiere, sono dei puri astrattisti. Fabbricano schemi e ragionano in base a quelli. Però sarebbe inesatto dire che quei teoremi non hanno nulla a che fare colla pratica. Quegli schemi sono, anzi debbono essere via via complicati con successive approssimazioni, sì da renderli ognora più vicini alla realtà. Non giungeranno mai a fotografare del tutto la realtà, che è complicatissima e mutabilissima; ma talvolta arrivano ad un grado di approssimazione notevole, tale che le leggi e teoremi finali certamente non dovrebbero parere e non sono disutili al politico il quale debba intuire e studiare e risolvere problemi concreti.

Dopo la grande guerra, diventò di moda presso la gente frettolosa dire che essa aveva distrutto sbugiardato tutte le leggi economiche; ed invece era vero che quella guerra fu crogiolo quasi sperimentale dal quale riuscirono ridimostrate e nuovamente illustrate e pienamente confermate quelle leggi; e lo sbugiardamento immaginato dai frettolosi consisteva semplicemente in ciò che essi ed i politici non avevano mai saputo dove stavano di casa quelle leggi ed accumulando spropositi credevano ingenuamente che questi non avrebbero avuto degna sanzione; e quando la sanzione venne, strillarono contro la scienza economica quasi questa li dovesse salvare dalle conseguenze dei loro spropositi. L’esperienza fatta nell’altra guerra avrebbe dovuto insegnare che nel risolvere questioni pratiche economiche al politico giova la conoscenza delle essenziali leggi teoriche economiche; e se egli non ha avuto modo prima di procacciarsi una solida cultura in argomento – il che non solo è lecito, ma può essere considerato normale, altra essendo la preparazione dell’economista da quella del politico – giova però l’attitudine a distinguere, tra i suoi consulenti, gli improvvisatori ed i cerretani dai tecnici seri. Dico che il puro intuito non giova nel risolvere questioni pratiche economiche e scegliere le conoscenze vere da quelle spurie. Darò, di quel che dico intorno alla insufficienza dell’intuito, tre esempi: Napoleone, Cavour e Giolitti.

È curioso leggere nelle memorie del suo grande ministro del tempo, il conte Mollien, gli appunti intorno alla mentalità economica di Napoleone. È mentalità divulgatissima tra gli uomini e si dice del “progettista”. Quasi tutti coloro i quali discorrono di economia pubblica – non di quella particolare loro, della loro impresa, nella quale possono essere espertissimi – appartengono al genere dei progettisti. Hanno una cabala pronta a fornir denari allo stato, per salvare questa o quella industria, per porre rimedio a questo o quel malanno o crisi. Il guaio è che costoro non sentono quasi mai ragione ed è inutile perdere tempo a smontare la cabala. È un lavar la testa ai cani. L’intuito economico di Napoleone – e perciò egli faceva eccezione alla regola propria dei “progettisti” – consisteva nell’afferrare fulmineamente le obbiezioni di Mollien, nel farle proprie e nel rivoltare la propria argomentazione, cosicché Mollien non aveva presto altro da fare se non inchinarsi alla decisione dell’imperatore; che era invece la decisione da lui abilmente, senza parere, suggerita contro il progetto fantastico stravagante di Napoleone. Ma l’intuito ancor più penetrante di Napoleone fu nell’aver scelto Mollien, economista di nascita e di studio, e di averlo, finché regnò, tenacemente conservato, nonostante le lezioni che ne riceveva, ministro del tesoro; come tenne del pari sempre a capo delle finanze un altro grande ministro, Gaudin, duca di Gaeta.

Il conte di Cavour non aveva invece, nelle cose economiche, bisogno di consiglieri; che il grande politico aveva studiato sul serio la scienza economica teorica ed era stato insieme banchiere e finanziere ed agricoltore pratico, emulo di quegli economisti inglesi, i quali erano anche banchieri o commercianti ed agenti di cambio e che egli tanto ammirava e di parecchi dei quali era amico. In lui si cumulavano l’intuito fulmineo del politico, la conoscenza dell’economista teorico, la pratica dell’imprenditore di cose economiche concrete. Chi dubita che la riunione di tutte queste qualità non abbia contribuito a fare di lui quel grande che fu? Maggiore di quanti uomini politici vanti il secolo XIX? Egli non correva rischio di sbagliarsi chiedendo, prima di decidere, consiglio all’uomo competente in questioni economiche concrete delle quali per avventura non si fosse mai occupato; che egli aveva nella sua organizzazione mentale e nella sua preparazione scientifica gli strumenti sicuri per giudicare l’uomo da lui interrogato e le soluzioni a lui offerte.

Non si può negare che Giolitti avesse una dose non comune di intuito politico; ma non aveva bastevole preparazione economica e mancava di alcune delle qualità necessarie a dare il giusto peso ai dati del problema che egli doveva risolvere. Giolitti fu il tipico, anzi il maggior rappresentante di quella classe laboriosa, onesta di amministratori pratici, i quali governarono i dicasteri italiani dal 1876 al 1914; gente la quale guardava con sospetto i teorici e credeva che bastasse la “pratica” a “governar bene”; e quella frase del “gövernè bin” sentii appunto dalla bocca di Giolitti a riassumere l’essenza dell’arte del governo. Ma non si governa bene senza un’ideale. Era penoso, ascoltando i discorsi di Giolitti, vedere come, discutendo di cose economiche, egli passava sopra, con qualche barzelletta o qualche volgare frase demagogica, al punto essenziale del problema, per ottenere il plauso ovvio della maggioranza alla sua tesi. A lui accadde talvolta di giungere con l’intuito alla soluzione buona; ad esempio, quando propose e tenacemente volle nel 1921 l’abolizione del prezzo politico del pane, che minacciava di trarre nell’abisso la finanza e la moneta italiana. Gli giovò, qui, l’incubo, spaventevole per un uomo assestato come egli era, dei miliardi di disavanzo che ogni dì si cumulavano e crescevano; e volle farla finita. Il merito suo fu in questa occasione grandissimo e vale a riscattare la colpa delle leggi demogogiche d’imposta da lui fatte approvare e di tutto quel che di bene avrebbe potuto, negli anni fortunati in cui governò, operare in economia e in finanza e non fece. Giovò a lui l’avere come emulo un dottrinario, il Sonnino; il quale, per essere un dottrinario e non un teorico, difettava dei freni che al teorico impediscono di cercare di attuare i propri schemi teorici; mentre il dottrinario, per definizione privo di senso scientifico ed insieme di intuito politico, vorrebbe fare e, incapace a muovere la materia sorda, non può. Ma Giolitti lo irrideva a torto. Avrebbe invero potuto sorridere di Sonnino il conte di Cavour; non egli, Giolitti, il quale ebbe una sola grande idea: quella di immettere le classi lavoratrici e contadine a partecipare al governo politico ed economico del paese; ma, a differenza di Cavour, mancava a lui la conoscenza del meccanismo economico e non seppe perciò andar oltre la nozione empirica del lasciar fare a socialisti ed operai l’esperimento necessario. Troppo poco per un uomo di stato, il quale deve sapere capeggiare ed indirizzare le forze sociali alle quali egli ha inteso aprire l’accesso al potere.

Un politico che sia un puro politico è qualcosa di difficilmente definibile ed a me pare un mostro, dal quale il paese non può aspettarsi altro che sciagure. Come possiamo immaginare un politico che sia veramente grande – della razzamaglia dei politicanti non val la pena di occuparsi, anche se temporaneamente riscuotono gran plauso ed hanno seguito frenetico – il quale sia privo di un ideale? E come si può avere un ideale e volerlo attuare, se non si conoscano i bisogni e le aspirazioni del popolo che si è chiamati a governare e se non si sappiano scegliere i mezzi atti a raggiungere quell’ideale? Ma queste esigenze dicono che il politico non deve essere un mero maneggiatore di uomini; deve saperli guidare verso una meta e questa meta deve essere scelta da lui e non imposta dagli avvenimenti mutevoli del giorno che passa. Il vizio di Giolitti fu di non possedere le qualità necessarie per attuare l’idea dell’elevamento delle masse che era nell’aria e che egli professava e intendeva far propria. Era uno scettico, adusato dalla quotidiana pratica amministrativa ed elettorale a disprezzare gli italiani, che avrebbe dovuto ed a parole diceva di voler innalzare. Il suo giudizio coincideva con quello di un gran fabbricante di abiti fatti, il quale: «gli italiani – diceva – camminano gobbi» e gli abiti fatti si adattano perciò male al loro dorso. «Gli italiani camminano gobbi», ripeteva Giolitti e perciò non fanno guerre. Ma egli non li educò e sforzò a voler fortemente e se sul Grappa e sul Piave stettero valorosamente in campo, non fu merito suo; mentre era stato merito di Emanuele Filiberto l’aver costretto i piemontesi del tempo suo, poltroni famigerati tutti, nobili e plebei, a divenire il popolo guerriero per antonomasia fra gli italiani.

Non esiste una coscienza politica la quale da sé garantisca la libertà ed elevi i popoli. La coscienza politica è un composto di vivo sentimento morale, di amore di patria, di fierezza individuale, di solidarietà di famiglia, di classe e di nazione, di indipendenza economica, che il politico esalta ed utilizza a fini pubblici. Se di quella coscienza esistono i germi, essi possono essere fatti crescere o possono essere distrutti, a seconda della comparsa sulla scena del mondo, di uomini superiori o mediocri. In sostanza, gli uomini governati e governanti creano nel tempo stesso la libertà sotto tutti i suoi aspetti: politico, economico, religioso, di stampa, di propaganda. Se alla radice dell’azione degli uomini vi è libertà morale, come è possibile che essi creino istituti economici che li leghino e li riducano alla condizione di servi, privi della facoltà di scegliere le proprie occupazioni, di soddisfare ai propri gusti, di lavorare fuor degli ordini di funzionari gerarchicamente sovrapposti? Tanto varrebbe dire che gli uomini per elevarsi e per conquistar libertà decidano di delegare ad un dittatore il compito permanente di pensare, di scrivere e di parlare per loro conto. Possono e debbono farlo durante un assedio od un tumulto, volgendo tempi di guerra esterna o civile; ma se si acquetano ad ubbidir sempre, essi sono servi e non liberi.

[1] Cfr. Rileggendo Ferrara, nel quaderno del marzo 1941 della «Rivista di storia economica».
[2] Cfr. Le premesse del ragionamento economico e la realta` storica, nel quaderno del settembre 1940 della «Rivista di storia economica».
[3] Sul concetto di “accessione” cfr. i paragrafi 265 e 266 dei miei Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino 1940.

Il minimo nazionale di vita. La limitazione dei beni

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1975, § 35

Poiché non mi è possibile in questa lezione introduttiva, entrare nei particolari, dirò solo quale sia il concetto informatore della legislazione sociale. Si tratta di giungere per vie diverse ed adatte a far sì che ogni uomo vivente in una società sana disponga di un certo minimo di reddito.

Si può discutere se ciò significhi diritto al minimo. Repugno alla affermazione di un vero e proprio diritto, reputando più vantaggioso giungere altrimenti allo stesso risultato. Basti affermare il principio generale che in una società sana l’uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario alla vita. In fondo tutta l’opera delle trade-unions inglesi, un’opera che oramai dura da più di un secolo, mira ad obbligare l’imprenditore a pagare agli operai un minimo di salario, minimo che deve essere garantito a tutti coloro assunti a lavoro. Poiché quel risultato fu ottenuto dalle trade-unions inglesi, quelle stesse che da noi sono chiamate “sindacati operai”, con sforzo secolare, con scioperi, ricorso a comitati di conciliazione, a trattative paritetiche, il minimo ottenuto con grande sforzo non è più un incitamento all’ozio. Non si spreca, come per tanti anni si temé e si rimproverò, nel vino e nell’ozio quello che è durato anni e anni di sforzo per poter essere ottenuto. Si spreca quel che si ottiene d’improvviso, per intimidazione e senza merito.

Se le classi operaie in Inghilterra ed anche in Italia (si ricordi il progresso compiuto tra il 1880 e il 1914, testimoniato da tanti dati e frutto anche di uno sforzo consapevole) sono riuscite ad affermare il diritto al minimo di salario, con ciò non si è fatto nulla che sia contrario ad alcuna legge economica. Si è affermato e conquistato il principio che il prestatore d’opera possa, forte della solidarietà con gli altri operai e dei fondi da lui volontariamente accumulati nel suo sindacato, trattare da paro a paro con l’imprenditore ed ottenere che siano garantite a tutti i lavoratori condizioni uguali minime di salario e di lavoro.

Non sempre, tuttavia, si lavora, non sempre si può godere del minimo di salario. Disoccupazione, infortuni, malattie, invalidità e vecchiaia, attentano alla continuità del lavoro. E allora la domanda è se lo stato per mezzo delle imposte non dovrebbe garantire a tutti un minimo in tutte le contingenze della vita nelle quali sia impossibile di lavorare. E c’è di più. Taluno sostiene invero la tesi che il minimo di punto di partenza dovrebbe essere garantito, astrazion fatta dalle circostanze in cui uno si trova nella vita. Egli dovrebbe fruire dell’assicurazione del minimo solo perché nasce.

Se un consenso abbastanza largo si trova, sia pure con le cautele necessarie, per la tesi del minimo nei casi di impossibilità a lavorare, i dubbi sono assai più grandi per la seconda tesi. Queste idee possono essere accolte?; entro quali limiti necessariamente potranno essere accolte? La soluzione dipenderà sempre da molte circostanze, dalla ricchezza del paese, dal livello di vita, dalla distribuzione delle proprietà, circostanze che dovrebbero essere esaminate caso per caso prima di giungere ad una conclusione che abbia il marchio della attuabilità e non delle semplici fantasie che sono per lo più socialmente pericolose. Anche chi ammette il concetto del minimo nei punti di partenza, sa che bisogna cercare di stare lontani dall’estremo pericolosissimo dell’incoraggiamento all’ozio.

Questo è il freno che deve stare sempre dinnanzi ai nostri occhi. Dobbiamo evitare il pericolo di ricreare qualche cosa come il panem et circenses che ha portato alla rovina del mondo romano. Non sono stati tanto i barbari che hanno fatto cadere l’impero romano; ma l’impero era marcio in se stesso; ed una delle cause della decadenza interna era che i cittadini romani sdegnavano di essere soldati, lavoratori, perché, mantenuti dallo stato, preferivano andare ad assistere nel foro agli spettacoli, alla caccia data ai cristiani dalle belve, ecc. ecc.

L’idea nostra dovrebbe essere un’altra, ossia che il minimo di esistenza non sia un punto di arrivo ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini. C’è del vero in quel che si dice che molte invenzioni non prendono corpo, che molti progetti non si attuano perché i più degli uomini sono costretti a una vita dura che assorbe tutte le loro forze e la loro intelligenza. Se un minimo di punto di partenza consentisse ai giovani di poter continuare a studiare, a fare ricerche, ad inventare, a trovare la propria via senza dover fin da troppo giovani lavorare nelle fabbriche, verrebbero fuori studiosi e inventori che oggi non ne hanno la possibilità.

A questo ideale dobbiamo tendere. Ma non dimentichiamo mai che quando Dio cacciò Adamo ed Eva dal paradiso terrestre disse loro: «voi guadagnerete il vostro pane col sudore della fronte». Il pane deve diventare certo più abbondante per tutti ed anche altre molte cose dovranno essere messe a disposizione gratuita degli uomini. Ma in perpetuo durerà la legge per cui gli uomini sono costretti a strappare col lavoro alla terra avara i beni di cui essa è feconda.

Schemi storici e schemi ideali

Schemi storici e schemi ideali

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 259-298

 

 

 

 

242. Se in quest’ultimo capitolo si costruiscono, traendoli dalla esperienza storica, schemi concreti di interpretazione dei fatti finanziari, non si afferma perciò che essi siano tutta la realtà e di questa ci diano le leggi. La scienza studia le leggi concrete dei fatti accaduti ovvero le leggi ideali che gli uomini intendono avverare? Il modello di indagine che lo studioso tiene dinnanzi agli occhi vuole raffigurare il reale effimero o l’ideale perenne? Per ora poniamo solo le domande solenni.

 

 

243. Fra gli schemi antichi caratteristico è quello della finanza del «tiranno» greco. Esso è stato eccellentemente analizzato da Andréadés.[1]

 

 

La «tirannia» fu un metodo di governo che ebbe nell’antichità greca luogo normale fra gli altri metodi, principalmente come strumento di reazione contro l’oligarchia. Lo schema della finanza tirannica è la logica conseguenza della necessità propria di quello come di ogni altro metodo di governo di provvedere alla propria conservazione. Di qui i seguenti connotati delle spese pubbliche nello schema della «tirannia».

 

 

1)    Una guardia del corpo numerosa e devota era caratteristica essenziale del sistema; perciò nella tabella «politica» la spesa relativa ha uno dei primi luoghi, con alti indici relativi di importanza. In linguaggio comune, la spesa non è suscettiva di compressione;

 

2)    la spesa della guerra è anch’essa primaria ed ha indici alti. Il tiranno solitamente è un militare e si compiace perciò nell’esercizio della sua professione. Inoltre è necessario che il popolo sia distratto dal rivolgere la sua attenzione alle cose interne e senta vivo il bisogno di un capo imperioso. Lo splendore della vittoria rafforzava d’altronde la posizione del capo. Alcuni storici moderni sostengono che nessuna guerra ingiustificata fu condotta dagli antichi tiranni greci; ma è incontestabile che le guerre furono molte, probabilmente troppe in ragione dei mezzi esistenti e che enormi furono le spese le quali ne seguirono;

 

3)    le spese per i lavori pubblici venivano subito dopo nella graduatoria, con indici di importanza pure assai alti. Il tiranno ricorreva alle opere pubbliche per molte ragioni. Esse soddisfacevano la sua ambizione e la sua vanità. La costruzione dei templi giovava allo spirito teocratico da lui coltivato; le fortezze davano il senso della sicurezza; il culto delle arti belle rialzava il prestigio del tiranno sul popolo; l’occupazione fornita al popolo lo distoglieva, in tempo di pace, dalle cospirazioni e dalle rivoluzioni; le classi medie ed operaie, sostegno massimo del tiranno contro le oligarchie, avevano lavoro; il popolo sopportava i carichi fiscali senza protestare;

 

4)    le spese elencate sinora si riferiscono a beni che il governante considera «pubblici» in grado eminente e con alti indici di importanza, perché egli reputa che la perpetuazione del suo sistema di governo sia preferibile, nell’interesse non solo proprio ma della collettività, al ritorno ai sistemi concorrenti e principalmente a quello oligarchico. Il giudizio può darsi sia stato talvolta erroneo; ma, astrazion fatta dalla incertezza dei criteri in base ai quali si potrebbe constatare l’errore, qui non si vuol dare un giudizio morale o politico dello schema, bensì semplicemente constatarne la logicità. La quale pare, sinora, indubbia. Non ugualmente in tutto logica, dal punto di vista della conservazione del sistema, è il quarto capitolo di spesa ricordato dall’Andréadés e cioè delle spese personali e della corte. Se fossero state tenute entro limiti ragionevoli, queste spese avrebbero potuto conferire allo splendore del governante; ma Andréadés afferma che «nessun tiranno conobbe né la frugalità né la Misura». Entro i limiti in cui è esatta l’affermazione, si può dire che nella tabella «politica» è stato introdotto un fattore di spesa non logico cioè non confacente alla perpetuazione del sistema. Non giova alla polis ossia alla conservazione ed all’incremento della cosa comune, anche guardata coll’occhio del tiranno, creare malcontento ed invidia nel popolo;

 

5)    uguale è il giudizio intorno al quinto capitolo di beni pubblici inserito dal tiranno nella sua tabella «politica». Andréadés così lo descrive: «L’avidità dei tiranni e dei loro fidi, come pure il bisogno di tesorizzare per il caso probabile in cui dovessero abbandonare il potere ed il paese, incitava il tiranno ad ammassar ricchezze». Qui, se logica v’era, era privata e non pubblica. Dal punto di vista della persistenza del sistema, il tesoro attrae i rivali e li spinge ad ogni sforzo per abbattere il tiranno. Chi ammassa tesoro per il caso di fuga confessa di essere debole ed incoraggia all’assalto.

 

 

244. Al quadro dei beni pubblici si contrappone nel sistema tirannico un correlativo quadro dei mezzi atti a procacciarli. Essi erano i seguenti:

 

 

1)    in primo luogo le confische. La lotta del tiranno contro le oligarchie si concludeva con la cacciata degli oligarchi dalla città e con la confisca dei loro beni. Principio essenziale del sistema era l’abbattimento di tutti gli alti papaveri. Gli ottimati dovevano essere resi incapaci a nuocere. La confisca soddisfaceva a siffatta esigenza, contentava l’invidia delle folle e riempiva le pubbliche casse;

 

2)    in secondo luogo le imposte sui cittadini. Andréadés constata che a questo riguardo i tiranni non innovarono sostanzialmente nulla in confronto al sistema tributario usato dai «satrapi» persiani nelle regioni dell’Asia Minore dove erano numerose le città greche. La decima sui prodotti della terra era la principale fra le imposte. Venivano poscia l’imposta sui greggi e sugli armenti, il testatico, la patente per l’esercizio di arti e mestieri; le dogane sulle merci trasportate per mare o per terra, ed i dazi sulle vendite al minuto. Nel complesso, le imposte non diedero luogo a querele rilevanti;

 

3)    «La gravezza delle imposte – dice Andréadés – era insignificante se la si paragona a quella delle “estorsioni” alle quali il tiranno ricorreva per far fronte alle spese». Tra le estorsioni deve essere ricordata la fabbrica di moneta falsa.

 

 

Le tre caratteristiche dello schema tributario sono convenienti al tipo del governo tirannico. Sorto in antagonismo cogli oligarchi il tiranno li deve abbattere anche economicamente. Poggiato sovratutto sulle classi medie e sul popolo, egli è moderato nella esazione delle imposte le quali toccano la generalità dei cittadini. Ma, pressato dall’altezza delle spese, egli deve ricorrere a metodi palliati, come l’abbassamento del titolo e del peso delle monete, per procacciarsi entrate bastevoli, senza che il popolo subito ne abbia consapevolezza; e compiere estorsioni particolari, le quali lasciano indifferenti la massa non colpita.

 

 

245. Il sistema era, tuttavia, nell’insieme instabile. Gli storici antichi sostengono che parecchi tiranni, tipici Dionigi di Siracusa e Cipselo di Corinto abbiano assorbito la ricchezza dei cittadini, il primo in dieci ed il secondo in cinque anni. Ma Cipselo comandava ai cittadini di rifare ogni anno col lavoro quel decimo della fortuna privata che egli confiscava; sicché alla fine del decennio i corinzi avrebbero dovuto serbare intatta la loro fortuna. Il consiglio, fosse o non seguito, dimostra che il tiranno incontrava limiti alle sue esazioni. Anche quelle del grande Dionigi non pare fossero confiscatrici; ché egli non poteva rivolgere ad uso pubblico le case e le terre dei cittadini e le fonti fanno supporre che egli si contentasse di appropriarsi del denaro contante che essi possedevano. Questo pretendeva fino all’ultimo obolo; e quanto più i cittadini levavano alte grida, tanto più egli persisteva nel chiedere, aggiungendo alla prima una seconda una terza ed una quarta taglia; sinché all’annuncio della quinta i segugi gli riferirono che i siracusani ridevano e scherzavano sulle pubbliche piazze. «Ora – disse – conviene far pausa; ché, se i cittadini ridono di noi, ad essi non deve restare proprio nulla. Altrimenti continuerebbero a lamentarsi». Neppure Dionigi poteva obbligare i cittadini a lavorare per dare a lui l’intiero frutto del loro lavoro; come testimonia l’insuccesso della taglia sul bestiame. Il quale o non fu più allevato; o, se già nato e cresciuto, era ammazzato anzi tempo; ed, essendo stato posto limite al macello privato, era sacrificato agli dei, i quali si contentavano dell’odore degli intestini bruciati, abbandonando ai mortali le carni.

 

 

La finanza tirannica doveva al tempo stesso ubbidire a due esigenze contrastanti. La prima è ricordata da Platone quando nella Repubblica, nota che i tiranni dovevano con le taglie mantenere i popoli in povertà, affinché, costretti a pensare continuamente a procacciarsi il cibo, essi non avessero tempo a complottare. La seconda è quella di avere i grandi mezzi occorrenti alla politica di grandezza, di conquista e di fasto; mezzi che possono essere forniti solo da popoli industriosi e ricchi.

 

 

I grandi fondatori delle dinastie tiranniche vedevano chiaramente la necessità di promuovere insieme la ricchezza pubblica e quella privata; laddove i discendenti inetti od imbelli, impoverendo coi balzelli il popolo, conducevano la città alla rovina e minavano il potere proprio. 246. Altro schema caratteristico dell’antichità è quello della finanza della città periclea. Non tutti i connotati che si leggono nella esposizione di Andréadés (pp. 29-39 e 40-92) possono essere fatti risalire esclusivamente al tempo di Pericle; ma questo tempo con la sua caratteristica di democrazia guidata da un capo di genio è quello nel quale essi hanno avuto il loro massimo sviluppo od almeno il germe iniziale.

 

 

Nella tabella «politica» della città periclea avevano luogo cospicuo:

 

 

1)    le spese per la polizia, alla quale si provvedeva con l’opera in parte gratuita e in parte remunerata di cittadini e con quella, sempre costosa, di schiavi pubblici;

 

2)    quelle per la costruzione ed il mantenimento della cinta fortificata la quale aveva trasformato Atene quasi in un’isola inaccessibile;

 

3)    le spese militari propriamente dette. Minime quando il cittadino – soldato doveva provvedere al proprio mantenimento ed alle proprie armi e le altre spese erano coperte dal bottino di guerra, crebbero al tempo di Pericle quando si dovette far appello a cittadini poveri, provvedendoli di armi e di cavalli; e si dovettero mantenere i marinai della flotta. Da una media di 300 talenti in tempo di pace (verso il 240 a. C.) si sale, secondo Andréadés, a 1300 talenti all’anno in tempo di guerra; enorme spesa se si fa uguale il talento a circa 35.000 lire antebelliche e si pensa alla piccolezza degli stati greci;

 

4)    le spese diplomatiche, saltuarie bensì, ma non irrilevanti, se vi si comprendono le spese segrete;

 

5)    le spese per la istruzione, che prendevano sovratutto la forma indiretta di apprestamento di opere d’arte e di spettacoli drammatici, che i cittadini dovevano essere in grado di apprezzare;

 

6)    le spese di culto: cerimonie religiose (pompe, sacrifici, festini, lampadoforie), giuochi, navi sacre;

 

7)    le spese per lavori pubblici, i quali consistevano sovratutto nell’abbellimento della città con templi e statue. Le spese di Pericle non sono mai state proporzionalmente emulate, neppure nei tempi moderni. Andréadés le calcola da 6000 ad 8000 talenti, (da 200 a 300 milioni circa di lire antebelliche) suppergiù da sei ad otto volte l’ammontare delle entrate ordinarie annue dello stato. Pericle attribuiva un alto grado di importanza alle opere intese «ad adornare la città al par di donna fastosa» perché pensava che da esse sarebbe derivata «gloria eterna» alla sua città. Il patriottismo dei cittadini, l’opportunità di dar lavoro ai reduci dalle guerre, i quali non potevano o non volevano ritornare alla campagna, il desiderio di addestrare il popolo alle arti contribuirono, insieme coll’ambizione di tessere un serto di gloria attorno al capo di Atene, a dare alla spesa per i lavori pubblici un alto grado di importanza. Non buono fu il risultato di abituare il popolo all’idea di aver diritto di vivere a spese dello stato;

 

8)    la provvista di frumento a buon mercato alla popolazione. La preoccupazione di garantire al popolo il principale dei suoi mezzi di sussistenza fu sempre vivissima nell’antichità, ed inspirò in Atene la politica dell’emigrazione (cleruchie), delle egemonie militari in paesi produttori di cereali, dei vincoli alle esportazioni; e sovratutto delle distribuzioni gratuite od a sottocosto di razioni di frumento;

 

9)    le spese sociali: come il mantenimento dei cittadini eccellenti nel Pritaneo, la erezione di statue o la iscrizione lapidaria di decreti onorifici, il mantenimento degli orfani di guerra sino ai 18 anni e loro dotazione con un’armatura completa alla maggiore età, il mantenimento dei mutilati di guerra e dei cittadini invalidi. Fu un capitolo importante di spesa, indice dell’alto senso civico della città periclea;

 

10)  i salari politici: Atene ammise sempre la remunerazione degli impiegati pubblici propriamente detti, i quali coprivano uffici puramente esecutivi, detti yperesíai. Gli yperéti erano numerosi e mediocremente pagati, in gran parte liberti e persino schiavi. Agli investiti di uffici propriamente detti (arkai), i quali avevano la rappresentanza del popolo o demos si cominciò tardi a pagare un salario. Pericle introdusse probabilmente il salario di oboli per seduta ai 500 senatori; e certamente quello di 2, cresciuti poi da Cleone a 3, oboli per seduta ai giudici, moltiplicati a poco a poco sino a 6000, quasi il quinto del numero totale dei cittadini. Il «simbolo», fissato da ultimo in 3 oboli per seduta, versato a tutti i cittadini partecipanti all’assemblea, non fu opera di Pericle; ma meno di mezzo secolo era bastato per passare dalla gratuità degli uffici pubblici alla remunerazione universale di tutti i cittadini. Se il principio della remunerazione poteva essere giustificato per gli uffici, i quali richiedevano una effettiva prestazione d’opera, il compenso per la semplice partecipazione alle assemblee senatoriale, giudiziaria e sovratutto politica fu accolto da Pericle per consentire di fatto al popolo l’esercizio del potere che era privilegio dei ceti medi ed alti. Il metodo che avrebbe prodotto effetti vantaggiosi di educazione politica, se tenuto entro limiti stretti, degenerò col predominio dei demagoghi, alimentò il proposito nei cittadini ateniesi di vivere a spese degli alleati; li abituò all’ozio; mise il diritto al salario al disopra del diritto della città alla propria salvezza; ridusse la città alla balia dei poveri, ai quali la partecipazione alle assemblee fruttava i mezzi di vita, laddove ai cittadini dei ceti medi ed alti quel salario riusciva indifferente. Aristotele nella Costituzione di Atene offre un quadro di parassitismo politico e finanziario: 6000 giurati, 1600 arcieri, 1200 cavalieri, 500 membri del consiglio, 500 guardiani del porto, 50 guardie notturne, 700 funzionari in città ed altrettanti fuori; in tutto più di 20.000 cittadini mantenuti a spese del pubblico erario. Le città alleate e suddite e gli ateniesi indipendenti dovevano provvedere i mezzi per far vivere questa burocrazia imponente e crescente;

 

11)  il «teorico». Istituito in origine per consentire ai poveri il pagamento del diritto di entrata al teatro di Dionisio o per sovvenire i bisognosi durante la guerra del Peloponneso, si trasformò ben presto in distribuzione gratuita del denaro pubblico ai cittadini. Tutti gli avanzi di bilancio dovettero essere in tal modo distribuiti, senza riguardo ai bisogni, al valore, al lavoro ed all’età dei cittadini. Poiché il concetto di «avanzo» è elastico, i cittadini, i quali deliberavano sulle spese pubbliche, finirono per considerare primissima tra le spese quella della distribuzione del théoricon, a scapito delle opere pubbliche, della difesa o della costituzione del tesoro per provvedere alle esigenze straordinarie della città. Quando il disamore al lavoro, la corruzione pubblica, il demagogismo giunsero agli estremi, Demostene, dipingendo eloquentemente il quadro dei pericoli i quali sovrastavano alla città, riuscì a far approvare il versamento degli avanzi nella cassa di guerra. Era però troppo tardi. Filippo di Macedonia stava per distruggere la libertà delle città greche.

 

 

247. Di fronte alle spese, il quadro delle entrate:

 

 

1)    quelle demaniali innanzitutto, da case terreni schiavi. Il demanio si arricchiva per donazioni confische bottino sul nemico e scemava per distribuzioni al pubblico e per vendita a sollievo di spese straordinarie. Ad Atene il cespite più importante di entrate demaniali erano le miniere d’argento del Laurio, il cui reddito netto per lo stato nel periodo di massima produttività delle miniere oscillò fra 50 e 100 talenti all’anno. Durante la guerra del Peloponneso, gli schiavi abbandonando le miniere si unirono agli spartiati per combattere la città dominante;

 

2)    le entrate giudiziarie, importanti per Atene, città egemonica, nella quale si concludevano litigi più importanti sorti nelle città alleate;

 

3)    le pene pecuniarie, distinte in ammende (timémata), inspirate nei delitti politici al principio che gli uomini di stato dovessero, anche se eminenti e probi, subire le conseguenze materiali dell’insuccesso della loro politica; ed in confische (demioprata), accessorio di pene più gravi, come condanna a morte, a schiavitù, a bando. In Atene, dove i sentimenti umanitari erano più diffusi, l’ostracismo non portava con sé la confisca dei beni;

 

4)    le imposte dirette erano considerate incompatibili con la libertà e con la qualità di cittadino. Solo gli stranieri, le cortigiane e gli schiavi vi erano sottoposti. Gli stranieri permanentemente domiciliati nella città pagavano il «métoikion», a guisa di compenso per i privilegi di cui essi godevano nella città. Era un pesante uniforme testatico, a cui si aggiungevano particolari tributi, ad es. per il diritto di lavorare sul mercato. Anche le cortigiane erano soggette ad un tributo fisso. Più incerta era la situazione degli schiavi e dei liberti;

 

5)    le liturgie ordinarie, le quali sostituivano, per i cittadini, le imposte da cui erano immuni. Distinte in varie sottospecie, come le «coregie» destinate a coprire le spese dei giuochi drammatici e musicali e delle danze, le «gimnasiarchie» a copertura dei giuochi atletici, l’«estiasi», a sopperimento delle spese delle pubbliche cene a carattere religioso delle tribù, poggiavano sul concetto che ad ogni spesa si dovesse provvedere con una particolare entrata all’uopo stabilita e sovratutto facevano affidamento sull’ambizione tradizionale nei ricchi greci di fare buon uso della propria ricchezza e sul desiderio di rendersi popolari con generose largizioni ad incoraggiamento di feste religiose, giochi e spettacoli. La liturgia era dunque in origine e rimase sempre in principio una oblazione spontanea. Lo spirito di emulazione tra i ricchi, la brama di cattivarsi il favore del popolo innanzi alle elezioni inducevano non di rado i ricchi greci ad eccedere, nelle pubbliche largizioni, i limiti considerati normali dall’opinione generale. Testimonianza di volta in volta di patriottico amore alla cosa pubblica e della sua degenerazione demagogica, le liturgie non sempre bastavano a coprire la spesa, sovratutto se questa assumeva dimensioni insolite. All’oblazione spontanea sottentrava la coazione morale. Si compilavano liste dei ricchi messi a contributo; problema sempre arduo, a causa del piccolo numero dei chiamati e della gravezza del contributo. Soccorre qui l’istituto forse più originale della finanza ateniese: l’antidosi.

 

 

Il cittadino chiamato ad offrire la liturgia poteva designare un altro cittadino, che egli avesse creduto più atto a sopportare il peso della spesa desiderata. Il designato in seconda poteva rifiutarsi; ma in tal caso era obbligato a permutare il proprio col patrimonio del primo designato, il quale doveva prelevare l’ammontare della liturgia sul nuovo patrimonio così acquistato. Il sistema era ingegnoso, poiché nessun designato in primo luogo avrebbe avuto convenienza ad indicar altri, se la fortuna di questi non fosse davvero stata maggiore della propria. Il sistema, suscitatore di atti emulativi e talora ricattatori, non doveva però essere di piana applicazione, se a poco a poco si riduce a mera forma, e la decisione è, nel quarto secolo a. C., rimessa al giudizio dei magistrati;

 

6)    dazi doganali, che per l’Attica erano del 2% del valore della merce introdotta od esportata o in transito. Nelle città alleate, il dazio fu cresciuto, in un certo momento, al 5% per sostituire l’invisa imposta sugli alleati. La generalità della tariffa dimostra che il dazio non aveva scopi protezionistici e non era incompatibile con il fiorire del commercio internazionale del porto del Pireo. Il dazio si elevava al 10% solo per il transito attraverso al Bosforo;

 

7)    le imposte interne di consumo: diritti percetti sulle vendite al minuto nelle piazze; sulle vendite all’incanto, su quelle di immobili, sulle merci al momento del passaggio attraverso le porte della città; diritto di porto, di pesca, di pedaggio negli stretti ecc.;

 

8)    l’imposta sugli alleati. Si direbbe un vero tributo (foros) pagato dal vassallo a vantaggio del conquistatore; ma durante l’epoca periclea fu un contributo versato dalle città alleate in cifra fissa (460 talenti) per sopperire alle spese comuni della confederazione ateniese. La moderazione del tributo e la sua equa ripartizione persuasero gli alleati a consentire che il provento fosse destinato a coprire non solo le spese delle guerre nazionali ma anche quelle dei grandi monumenti pubblici di Atene, che tornavano a gloria di tutta la Grecia.

 

 

Morto Pericle, l’imposta, più che raddoppiata, provocò, sotto Cleone, grave malcontento tra gli alleati. Dopo l’insuccesso della spedizione siciliana, il foros fu trasformato nel dazio doganale del 5% all’entrata ed all’uscita delle merci nelle città alleate, metodo più elastico e adatto alle mutevoli fortune economiche dei singoli luoghi. Durante la seconda confederazione ateniese, si ritornò all’imposta in cifra determinata, detta syntaxis, fissata dall’assemblea degli alleati e destinata esclusivamente a fini comuni. Il ritorno successivo al foros provocò la rivolta degli alleati e la fine dell’egemonia ateniese;

 

 

9)    le cleruchie, od imposta sugli ateniesi stabiliti nel territorio degli alleati. Ne è incerta la portata e persino la esistenza. In ogni caso, l’emigrazione dei cittadini ateniesi e la loro dotazione con terre situate nel territorio degli alleati liberavano Atene dall’onere del mantenimento di buon numero di poveri;

 

10)  al novero delle entrate straordinarie appartengono le ultime che ancora si devono elencare. E prima l’«argirologia», ossia le indennità o taglie pagate dai vinti. Esse discendevano dal principio che il corpo ed i beni dei vinti appartenessero ai vincitori; poiché il principio era religioso, un decimo del bottino era destinato agli dei. I generali erano scelti non solo per le loro virtù militari, ma anche per l’attitudine a procacciarsi tributi dai vinti. La finanza parassitica ebbe grande importanza in tutto il mondo antico;

 

11)  il tesoro; necessario in tempi nei quali di fatto era sconosciuto o pochissimo usato il ricorso al debito pubblico. Nell’età periclea, si pensò a rendere sacro il tesoro, dedicandolo alla cassa di Minerva, dalla quale poteva essere ritirato, a titolo di mero prestito, solo in circostanze di pericolo gravissimo. Dicesi che l’ammontare fosse giunto a 6000 talenti; e che 1000 fossero consacrati in modo particolarissimo, sotto pena di morte per chiunque avesse proposto di usarlo altrimenti che per sovvenire all’ultimo pericolo della città. Col declino della città, anche il tesoro venne meno;

 

12)  la trierarchia era una particolare specie di liturgia. Il triarca era il comandante della nave; e dall’ufficio suo discendeva l’obbligo di mantenimento di essa, di anticipo del soldo e vitto dell’equipaggio, il cui rimborso era lento ed incerto, di supplemento al soldo ed al vitto. Il peso della trierarchia era attenuato dall’esenzione da ogni altra liturgia, dall’immunità da nuove trierarchie se non trascorso un certo lasso di tempo e dal ricorso eventuale all’antidosi. A poco a poco l’ufficio di comando fu distaccato dall’obbligo finanziario. Si compilarono liste dei triarchi; ma gli iscritti furono appena 700 od 800 su 10.000 ricchi (357-6 a. C. sotto Periandro). Demostene, con lunga campagna oratoria, riuscì a rendere più equa la distribuzione dell’onere. L’istituto ebbe qualche momento felice, quando l’emulazione tra i comandanti delle navi fece sopportare volontariamente oneri superiori alle loro forze, ed un cliente di Lisia si vanta di essere stato, nei nove anni dal 410 al 402, otto volte corego, con un dispendio di 15.000 dramme e sette volte triarca con un sacrificio di 6 talenti; ma poi la invidia politica lo guastò;

 

13)  le epidoseis erano, come le liturgie, una donazione volontaria; ma ne differivano perché erano precedute da un voto solenne ed erano destinate a sopperire ad esigenze straordinarie. Lo spirito patriottico degli ateniesi era nell’età periclea così alto che, se il voto dell’assemblea fissava un minimo ed un massimo ognuno si sforzava di arrivare colla propria offerta al massimo;

 

14)  l’eisfora, od imposta diretta straordinaria, deliberata solo per la copertura di spese di guerra o altrimenti gravi od urgenti e distribuita su tutta la fortuna, mobiliare ed immobiliare, dei cittadini. Pare che essa sia una istituzione post-periclea del tempo democratico e quasi demagogico di Cleone, quando il tesoro pubblico essendo esaurito, fu necessario ricorrere agli estremi rimedi. La materia imponibile, detta timéma, era repartita in symmorie quasi uguali tra di loro; e dentro ogni symmoria, il riparto si operava secondo un «diagramma» nel quale era iscritta la fortuna di ogni symmorita. In questo stadio del riparto, doveva aver luogo un certo controllo vicendevole.

 

 

La eisfora pare fosse proporzionale alla fortuna; ma quando le difficoltà dell’esazione si fecero sentire, l’onere del versamento dell’importo totale fu attribuito ai 300 più ricchi ateniesi, col diritto di rivalsa sugli altri contribuenti. Di fatto, poiché era opinione comune tra gli ateniesi che i ricchi dovessero pagare prima che gli altri, ed in questa opinione anch’essi, per vanità od ambizione o alto sentire, consentivano, non sempre i grandi riuscivano o si curavano di farsi rimborsare dai minori cittadini. Costoro, uomini liberi, invidiosi, potenti nelle assemblee, non di rado sicofanti denunciatori, incutevano timore; sicché i ricchi, minacciati nella vita e negli averi, si adattavano ad accollarsi l’onere delle imposte altrui. L’eisfora era tenuta per più oppressiva della liturgia. In questa il sacrificio pecuniario era compensato spesso dall’onore: il corega durante le feste quasi diventava persona sacra; il triarca comandava la nave. Il contribuente all’eisfora nulla riceveva, se non l’onere di far parte di una classe sempre minore in numero di ottimati, soggetti all’obbligo del tributo e paurosi di coloro da cui avrebbero dovuto farselo in parte rimborsare.

 

 

Il popolo inclinava a pretendere confische; ed i tribunali, più terribili quasi dell’assemblea politica, infliggevano, su accusa di demagoghi e sicofanti, ammende e confische, incomparabilmente più arbitrarie delle imposte. Il ricco, esposto alle calunnie di oratori e di demagoghi, spesso ricattatori, non poteva far assegnamento sulla imparzialità dei tribunali, sfavorevolmente disposti contro una persona agiata la quale non avesse, con la sua prontezza ad offrire spontaneamente, dato prove evidenti del suo patriottismo.

 

 

248. Il quadro della finanza della città greca nelle grandi linee è compiuto. In esso si possono, idealmente, distinguere due sottotipi.

 

 

249. Il primo può dirsi pericleo in senso proprio ed è esempio davvero stupendo della finanza propria dello stato, nel quale la coscienza politica è giunta al suo massimo fiore. Nella tabella «politica» dei fini pubblici desiderati dai cittadini periclei emergono per importanza la sicurezza, la giustizia, la difesa nazionale, la assistenza ai vecchi, ai poveri meritevoli, ai reduci, i grandi lavori pubblici intesi alla gloria eterna della città, i salari agli uomini i quali dedicano tempo e ingegno alla cosa pubblica. Nel quadro delle entrate, hanno peso notevole le imposte sui consumi, in cui è insito un certo elemento di volontarietà, i contributi delle città alleate, deliberati dall’assemblea di esse a pro della cosa comune, le imposte sui non cittadini e le liturgie ordinarie e straordinarie. In queste il senso civico del cittadino ateniese raggiunge altissima espressione; i ricchi vanno a gara nel sobbarcarsi a singole spese, da cui sperano onore a sé e gloria e potenza alla città. Non tutto è volontario nella liturgia; ché la offerta volontaria è stimolata dalla emulazione per i generosi e dal disprezzo del popolo per gli avari.

 

 

La città tocca il fastigio più alto non a causa della finanza da essa condotta, ma la finanza periclea è nel tempo stesso condizione effetto ed indice della città giunta a perfezione politica.

 

 

250. Ma l’equilibrio così istituito fra potenza politica, gloria artistica filosofica e letteraria e finanza chiaramente consentita da tutti, poveri e ricchi, è delicatissimo. Laddove Cimone, ricco e splendido, aveva divelte le siepi dei suoi campi affinché i cittadini potessero coglierne liberamente le frutta ed ogni giorno convitava i bisognosi a pasto frugale ma sufficiente, Pericle, non potendo gareggiare col rivale, ricorse al denaro pubblico per conseguire il favore popolare. Poiché gli scopi perseguiti erano vantaggiosi alla cosa pubblica e Pericle conteneva la spesa entro limiti ragionevoli, la città continuò a prosperare. Ma, già nell’epoca periclea si avvertono i germi di degenerazione e questi si accentuano a mano a mano che la democrazia guidata dagli uomini migliori si muta in demagogia capitanata da meri ambiziosi e guasta da sicofanti. Invece che dall’ambizione e dall’emulazione, i ricchi sono spinti a donare le loro ricchezze alla città dalla paura propria e dall’invidia altrui.

 

 

Nella finanza post-periclea, ai lavori pubblici splendidi, al tesoreggiamento rivolto a tutelare l’avvenire della città, alla cura vigile della difesa, si sostituiscono a poco a poco nei primi posti della graduatoria dei fini pubblici le distribuzioni di frumento a tutti i cittadini, il salario pagato a tutti coloro i quali intervengono nelle assemblee, la distribuzione gratuita degli avanzi di bilancio. Il povero diventa sempre più esigente e pone il proprio ozio a spese altrui al disopra degli interessi cittadini. Nelle entrate, le liturgie perdono sempre più il carattere volontario ed al luogo dell’emulazione e del timore della pubblica disistima sottentra il timore dell’accusa calunniosa da parte di sicofanti armati del diritto di proporre morte e confisca a tribunali popolati di gente mediocre invidiosa. Le imposte straordinarie acquistano gran peso e ne sono fatti responsabili i più ricchi, timorosi di rivalersi sui mediocri, prevalenti nelle assemblee. Agli alleati, invece di contributi liberamente discussi, si impongono forti tributi, rassomiglianti alle argirologie estorte ai popoli vinti. Atene si avvia verso la decadenza, quando le moltitudini schiamazzanti nel foro presumono di potere vivere oziosamente a carico dei ricchi e dei sudditi. Quando la finanza, invece di essere costruita in modo da far sì che i ricchi diventino sempre più ricchi ed i poveri sempre meno poveri e che la rilevanza dei ricchi scemi proporzionatamente a quella dei mediocri e degli umili, è rivolta ad impoverire i ricchi, i poveri vieppiù immiseriscono e sovratutto perdono l’amore al lavoro ed alla città.

 

 

Quando il ricco del Simposio di Senofonte può affermare ai banchettanti di essere giunto a stimare la povertà, alla quale fu ridotto, al disopra di ogni bene; perché, ricco, viveva in continua ansia per i beni e la vita; ed oggi, povero, vive sicuro, non avendo nulla da perdere e sperando di acquistar qualcosa; perché, ricco, pagava imposte alla città; ed oggi, povero, la città, mantenendolo, paga imposte a lui; quando discorsi cosiffatti traducono, anche in parte, lo stato d’animo dei ceti medi, la città decade.

 

 

Sopravvivono nei secoli i monumenti dell’età periclea, ma la città di Pericle è morta per sempre.

 

 

251. La esemplificazione potrebbe prolungarsi. Celebre è il confronto tra gli schemi opposti della finanza borbonica e di quella cavourriana il quale fu istituito nel 1857, con ardente passione politica, da Antonio Scialoia esule in Piemonte e, per dovere d’ufficio, negato da Agostino Magliano, segretario nel ministero napoletano delle finanze.[2] Spoglio di quella passione, il contrasto si può riassumere così:

 

 

  • la finanza borbonica escludeva e quella cavourriana invocava la pubblicità. Non basta la buona onesta gestione del pubblico denaro, di cui i borboni si vantavano; importa che la onestà e la bontà siano sottoposte alla prova della pubblica critica;

 

  • la finanza borbonica preferiva i tributi sui consumi, che erano inavvertiti ed era aliena dai tributi sui redditi, i quali rischiavano di scontentare i ceti medi commerciali e professionali, per abito proclivi alla critica; la finanza cavourriana non temeva di chiamare a contributo palese quei ceti, i quali avevano luogo nel governo e partecipavano alle deliberazioni sulle spese e sulle entrate;

 

  • la finanza borbonica provvedeva alle opere pubbliche atte a dare incremento all’economia del paese entro i limiti dell’aumento spontaneo delle entrate al disopra delle esigenze delle spese ordinarie, sì da far credere che l’opera fosse dovuta a generosità del sovrano; la finanza cavourriana non temeva di anticipare con prestiti l’incremento del gettito tributario e lo provocava con opere di ferrovie, di canali, di navigazione atte a crescere la produttività del lavoro nazionale;

 

  • la finanza borbonica si vantava di assicurare ai suoi popoli un minimo di gravezza di imposta; la finanza cavourriana non temeva di crescere l’ammontare assoluto dell’onere tributario, quando, per il crescere della prosperità nazionale, il margine assoluto di reddito rimasto a disposizione dei cittadini anche esso cresceva.

 

 

252. Lo stesso schema per opposizione di principii opposti si legge, ed in seguito alla medesima esperienza, nelle pagine che Francesco Ferrara aveva consacrato alla pubblica finanza e che solo ora sono venute alla luce. Anche egli, esule dalle carceri borboniche e successore di Antonio Scialoia nella cattedra economica di Torino, è tratto a confrontare la gravezza delle imposte piemontesi e la tenuità di quelle napoletane.[3]

 

 

Io vedo il Piemonte sopraffatto dalle enormità degli aggravi che sta per subire, come conseguenza di una grande impresa fallita [la guerra d’indipendenza del 1848-49]; lo vedo rassegnato e tranquillo, convinto che si tratta di una necessità ineluttabile. Non so, ripeto, se ai tempi dell’assolutismo questo medesimo popolo avrebbe mostrato un’uguale impassibilità; ma so che sarebbe impossibile far pagare con uguale rassegnazione una metà di tanti pesi al popolo di Napoli e di Sicilia, dove un solo uomo è giudice, arbitro, esecutore dei sacrifici ai quali la nazione può essere chiamata (p. 748).

 

 

Che cosa gli uomini sono pronti a pagare a titolo di imposta?

 

 

L’imposta, nel suo puro significato, non sarebbe né un sacrificio propriamente detto, né una violenza esercitata su chi la paga da un potere superiore; sarebbe piuttosto il prezzo, ed un tenuissimo prezzo, di tutti i grandi vantaggi che a ciascheduno di noi lo stato sociale, lo stato organizzato presenta. Divisi l’uno dall’altro, o appena materialmente accozzati, come furono e sono i selvaggi, saremmo, riguardo alla società organizzata, ciò che è l’animale riguardo all’uomo. Lo stato sociale ci difende dalle aggressioni individuali e generali, interne ed esterne, ci assicura il possesso dei beni, ci sviluppa l’intelligenza, ci raffina il cuore, ci dirige le azioni; e dopo aver vegliato su ciascheduno di noi, dal nostro primo vagito sino all’estremo respiro, ci dà l’ultimo e forse il più caro di tutti i conforti, ci concilia coll’idea della morte, assicurandoci che custodirà colla medesima sollecitudine i beni che abbiamo accumulato ai nostri figliuoli e farà rispettare i loro diritti come ha fatto pe’ nostri. Questa immensa utilità di cui l’abitudine ci fa dimenticare l’alta importanza, è frutto di una serie di combinazioni, le quali costituiscono anche esse un travaglio umano, un travaglio che ha un valore, un travaglio che deve essere retribuito. È frutto delle leggi e della loro esecuzione; esige uomini che le pensino, le sanciscano, le facciano rispettare e ubbidire; esige mezzi di coercizione e di facilitazione; armi, truppe, prigioni, tribunali da un lato; strade, edifici, istituzioni, scuole, soccorsi, da un altro; e ciascheduno di questi mezzi, non è creazione spontanea della natura, è opera dell’ingegno e della mano dell’uomo, è travaglio che niuno farebbe se non gli si offrisse un compenso, se non divenisse per lui ciò che è per ogni altro, mezzo di sussistenza e d’industria. Chi può offrire questo compenso? Chiunque ne goda, cioè la società tutta intiera, cioè ciascheduno di noi. Noi che dall’insieme della combinazione sociale ricaviamo sicurezza personale e reale, mezzi di sapere e d’industria, considerazione e soccorsi; noi che invece di vegliare alla custodia della nostra capacità e delle nostre famiglie, riposiamo tranquillamente la notte, lavoriamo il giorno e produciamo i nostri mezzi di vivere; noi abbiamo, non già il dovere, ma il vantaggio di staccare una frazione dei nostri beni e cederla in compenso di chi lavora per noi, di chi fa e fa eseguire le leggi; di chi veglia dietro le nostre porte, di chi offre la scuola ai nostri figli, la strada a chi viaggia, la chiesa a chi prega, l’asilo a chi è povero, l’ospedale a chi è infermo. Eccovi l’idea dell’imposta nella sua purità. Nulla di più legittimo anzi di più volontario. È un contratto fra la maggioranza della società, e quella parte degli uomini che, o per le loro speciali abilità, o per motivi che qui non interessa discutere, rappresentano l’autorità costituita, il governo. È una frazione de’ nostri valori che diamo in cambio delle utilità inerenti allo stato organizzato; e se riflettiamo che, per ciascheduno di noi, il valore è minimo, l’utilità immensa, l’idea del sacrificio quasi sparisce, l’imposta non è più che una delle nostre spese necessarie e meglio calcolate. Lo stesso vocabolo imposta, colla nozione che vi è implicata, di costringimento, di obbligo, di violenza, ci sembra male adoperato e preferiremmo chiamarla non più che semplice contribuzione (I, 551-53).

 

 

Lo schema ideale, nel quale gli uomini quasi volontariamente accettano l’imposta coattiva come premessa necessaria al raggiungimento del fine comune, non sempre si attua. Essa non è sempre «contribuzione»; talvolta diventa taglia pagata ai Ferdinandi spergiuri:

 

 

Al contadino siciliano si dà ad intendere che egli paghi [l’imposta] soltanto per averne in cambio giustizia, mezzi di lavoro, protezione; e invece ne ottiene bastonate, esili, assassini, miseria (I, 553).

 

 

Non solo sotto i Borboni, ma anche negli stati costituzionali l’imposta può essere volta a malo uso.

 

 

Come mai in un governo temperato, un cattivo ministero [può] far ligie al suo volere le camere? trovare deputati e giornali che ne coprano e difendano le colpe e l’incapacità? l’imposta racchiude e spiega tutto l’enigma. L’imposta è la grande sorgente di tutto ciò che un governo corrotto possa speculare in danno de’ popoli; l’imposta mantiene la spia, incoraggia il partito, detta gli articoli dei giornali (I, 553).

 

 

253. In fondo agli schemi i quali sono stati analizzati fin qui, vi ha un pensiero comune: come la tabella mengeriana è premessa accettata della teoria del prezzo dei beni privati perché essa «registra» i gusti degli uomini e la loro relativa importanza, così, tra le tante, ha maggiori titoli all’accettazione come premessa per la teoria dell’imposta quella tabella «politica» la quale meglio delle altre sia frutto della volontà dei cittadini.

 

 

S’intende che vi può essere una volontà, come quella della città post periclea o del governo dei Borboni la quale, anche col mezzo di imposte a tipo di taglia, porta lo stato alla rovina; e vi può essere una volontà, come quella della città periclea o dello stato cavourriano che, grazie ad imposte-contribuzioni, procaccia gloria eterna al tempo ed al luogo in cui si manifestò.

 

 

Il teorico dell’imposta registra quelle due volontà e costruisce le teorie della imposta-taglia e dell’imposta-contribuzione. Lo storico inserisce i due schemi opposti nel quadro delle cause che condussero lo stato alla rovina od alla grandezza.

 

 

Come quella volontà si manifesti è incertissimo. Lo studio, che dovrebbe essere storico e perciò applicato concretamente a dati momenti e tempi, è appena iniziato. Forse il solo saggio notabile insieme per la potenza teorica e la concretezza storica è quello, già citato, di Maffeo Pantaleoni, il quale teorizza la formazione della volontà finanziaria nell’Italia del 1883. Quello schema, conforme alla realtà d’allora, non avrebbe avuto valore cinquant’anni prima e non sarebbe valido ora. Resta un modello per gli investigatori di ogni tempo.

 

 

254. Accanto a questi che si riferiscono ad esperienze storiche passate, merita ricordo lo schema wickselliano di registrazione della volontà dei cittadini rispetto alle pubbliche spese ed entrate[4] sia perché fu composto da un economista di prim’ordine, sia perché dichiara con suggestiva ingenuità quali condizioni dovrebbero essere soddisfatte nei moderni regimi rappresentativi affinché la domanda dei servizi pubblici potesse essere assimilata a quella dei beni e servizi privati.

 

 

Il Wicksell constata:

 

 

  • che le deliberazioni di maggioranza semplice dei parlamenti contemporanei non danno alcun affidamento di registrare la volontà comune o generale dei cittadini. La tirannia di una eccezionale maggioranza parlamentare non è meno «odiosa» di quella delle antiche oligarchie. Egli scriveva in un tempo (1896) in cui la maggioranza spettava ancora, in gran parte, alle classi alte e ricche, le quali sceglievano tipi e grandezza di spesa e tipi di imposte conformi ai proprii interessi e perciò intendeva proporre un metodo che impedisse sovratutto le manifestazioni di egoismo di quelle classi. Ma affermava che l’applicazione di quel metodo era anche nell’interesse delle medesime classi alte e ricche. Il loro predominio politico non poteva durare eterno; ed era opportuno che anche le classi lavoratrici, giungendo al potere, avessero già trovato operante un metodo, il quale, come prima avrebbe tutelato gli umili contro le sopraffazioni dei grandi, così dopo avrebbe difeso i grandi contro gli umili;

 

  • che nessuna spesa pubblica può essere veramente considerata utile alla collettività se non «sia riconosciuta come tale da tutte le classi sociali senza eccezione». Pare al Wicksell palesemente ingiusto «obbligare a partecipare al costo di determinate misure non solo chi non trae da esse alcun vantaggio, bensì addirittura chi ne risente un danno immediato»;

 

  • che la volontà di compiere la spesa non può essere considerata seria se nel tempo medesimo in cui essa è deliberata, non si deliberi altresì intorno al metodo da seguire per la ripartizione sui cittadini del relativo costo. La deliberazione della spesa non può essere dunque scissa dalla deliberazione contemporanea della correlativa entrata; il che soltanto, secondo il Wicksell, rende inoltre possibile quella «unanimità e spontaneità» delle decisioni la quale è la sola garanzia che la spesa sia voluta dall’universale;

 

  • che, nello stesso modo come la deliberazione della sola spesa per sé, astrazion fatta dall’entrata, non è cosa seria, così la deliberazione della spesa a condizione che essa sia coperta da «quella» entrata e non da altre, è praticamente impossibile. Attorno ad una spesa, per quanto bene accetta, non si forma maggioranza, anche semplice, quando la maggioranza sia costretta a collegare la spesa con una data imposta, la quale può essere invisa ai più. Sono però talmente numerose e varie le combinazioni le quali si possono fare di tale e tale spesa con tale e tale entrata, che, se davvero una spesa risponde ad un interesse collettivo, si può essere certi del suo accoglimento.

 

 

Esistono centinaia di modi di ripartire fra le varie classi sociali i costi di una progettata spesa pubblica: dal semplice testatico alle tasse abbastanza simili sulla farina, sul sale, sulle bevande spiritose, ecc., sino all’imposta progressiva sui redditi, sul patrimonio o di successione e sino anche alle imposte indirette di lusso. Sarà quindi sempre possibile teoricamente, ed in modo approssimativo anche praticamente, giungere ad una tale ripartizione dei costi che la spesa relativa, non appena ad essa corrisponda un’utilità superiore ai costi, venga riconosciuta conveniente da tutti i partiti e venga perciò approvata all’unanimità. Se ciò non fosse possibile in alcun caso, si avrebbe così una prova a posteriori, l’unica possibile, che l’attività pubblica in questione arrecherebbe alla collettività un utile non corrispondente al sacrificio necessario, e che essa dovrebbe quindi, razionalmente, essere respinta (p. 95).

 

 

255. La unanimità della decisione, contemporanea per ogni data spesa e per la corrispondente entrata, è l’unico criterio che possa avvicinare la tabella «politica» a quella mengeriana. Se «tutti» sono concordi nel ritenere che la spesa di 1 miliardo di lire per il raggiungimento di un dato fine pubblico è la migliore destinazione, fra le tante private e pubbliche possibili, di quel miliardo è se «tutti» sono parimenti concordi nel ritenere che quella tale imposta, la quale arrecherà ad ognuno un dato onere ben conosciuto e determinato, è il miglior modo di ripartire quel costo, fa d’uopo riconoscere che la tabella «politica» non differisce davvero in nulla dalla tabella mengeriana. Qualunque sia l’imposta scelta, sia pure di testatico o, all’opposto, progressiva in modo da avocare allo stato il 100% del reddito al disopra di un dato livello; se essa è voluta da «tutti», è certo che essa è accettata anche da coloro a cui apparentemente riesce dannosa; ed è perciò certo che anche costoro reputano essere il sacrificio sopportato minore del vantaggio ottenuto dalla pubblica spesa. Il che è precisamente quel che accade per i beni privati. Se un bibliofilo spende l’ultimo migliaio di lire rimastogli per acquistare il libro raro desiderato, chi parla di «avocazione» al libro dell’intiera fortuna del bibliofilo? Contento lui, contenti tutti. Così se il cittadino sacrifica volontariamente sull’altare della patria l’ultimo soldo, chi parla di confisca? Il sacrificio fu voluto da lui e ciò basta.

 

 

256. Caratteristica dell’unanimità e della contemporaneità (fra spese ed entrate singole contrapposte) è l’assenza, per i beni pubblici, così come pacificamente accade per i beni privati, di ogni paragone fra cittadino e cittadino. Non occorre fare il confronto fra i vantaggi differenziali (vantaggio della spesa pubblica meno costo dell’imposta) ottenuti dai singoli; non occorre alcuna condizione di uguaglianza o proporzionalità fra essi. Nessun uomo, quando fa un acquisto, decide di non comprare solo perché, comprando, egli sarebbe avvantaggiato di meno dell’amico o del vicino. Ognuno bada a sé; e compra, se gli conviene. Se poi all’amico o vicino conviene ancor di più che a lui, tanto meglio per l’amico o il vicino. Fanno eccezione alla regola solo i contadini piccoli proprietari, i quali volentieri rinunciano al proprio vantaggio di 1000, purché il vicino non lucri 100; ma tutti sono d’accordo nel dire che un siffatto modo emulativo di ragionare è proprio di ceti peculiari e tende ad obliterarsi persino tra i contadini a mano a mano che si affina la loro capacità raziocinativa economica.

 

 

257. Il sistema wickselliano incontra per fermo, nel pensiero medesimo dell’autore, talune difficoltà rilevanti nella sua applicazione. La prima è la impossibilità in cui si trovano i cittadini, salvo che nei più piccoli cantoni svizzeri, di deliberare direttamente sulla cosa pubblica. La deliberazione avviene sempre a mezzo di delegati, scelti nelle maniere più svariate. Chi garantisce che la volontà dei cittadini sia fedelmente riflessa dalla deliberazione dei delegati? La difficoltà, tuttavia, perde quasi tutto il suo vigore, se si pensa che le deliberazioni debbano essere unanimi. Fra i delegati vi è certamente qualcuno il quale rappresenta i desideri e le volontà delle minoranze più piccole. Per legittima ambizione di potere, per interesse elettorale o proprio, sempre vi ha taluno pronto a farsi innanzi a tutelare l’interesse o le aspirazioni di gruppi minimi di cittadini; sicché, nel do ut des delle deliberazioni collettive, qualunque interesse ha modo di farsi sentire.

 

 

258. La seconda è la impossibilità delle deliberazioni unanimi. Sarebbe, viene spontanea l’obbiezione, un risuscitare il liberum veto del nobile polacco, il quale condusse a rovina la Polonia.

 

 

Il Wicksell ammette perciò che l’unanimità debba intendersi in senso relativo come maggioranza speciale dei due terzi, dei quattro quinti od anche se si vuole, dei nove decimi dei delegati. Una votazione avvenuta a maggioranza così alta è in sostanza uguale alla unanimità. È suggestivo seguire il Wicksell nella esposizione del sistema:

 

 

Ogni proposta di nuova attività dello stato o di ampliamento di attività esistenti proveniente dal governo o da una frazione parlamentare dovrebbe essere costituzionalmente accompagnata da una o più proposte alternative circa la ripartizione dei costi relativi. Le altre frazioni parlamentari dovrebbero quindi introdurre i loro eventuali emendamenti sia per quel che riguarda la spesa da approvarsi, sia per quel che concerne i mezzi destinati a coprirla.

 

Si dovrebbe quindi procedere alla votazione sui singoli emendamenti in parte concordati ed in parte no, all’incirca nel modo seguente:

 

 

Proposta di nuova attività statale

Tipo di imposta correlativo

 

Votazione

 

a

 

b

Proposta principale A

 

c+d

 

e

 

f

 

 

a

Emendamenti A’

e

 

g

 

 

b

Emendamenti A’’

h

i+k

 

ecc.

 

 

Qualora con una di queste votazioni si sia raggiunta la maggioranza necessaria, dei tre quarti, cinque sesti o addirittura nove decimi dei votanti, la vittoria toccherebbe alla relativa combinazione (ad esempio proposta principale A con imposta e, ovvero emendamento A’’ con imposta i+k); se in parecchie di quelle votazioni si ottenesse la maggioranza necessaria, si potrà decidere fra di esse semplicemente ad esempio tenendo conto della maggioranza relativa di voti; se infine nessuna delle votazioni raggiungesse la maggioranza necessaria, si dovrebbe considerare come respinta per questa volta la proposta in questione (p. 68).

 

 

La riduzione od abolizione di talune spese e relative entrate seguirebbe nel medesimo modo. Una piccola minoranza dei delegati, suppongasi un decimo, avrebbe diritto di richiedere la abolizione dell’entrata e perciò della spesa relativa, e toccherebbe alla maggioranza speciale, quando voglia conservare la spesa, mettersi d’accordo nell’approvare un’altra corrispondente entrata.

 

 

259. Il metodo della contemporaneità delle deliberazioni – spesa e relativa copertura – agevola la distribuzione dell’onere di particolari spese a carico di quelle regioni o di quelle classi che dalla spesa traggono particolare beneficio. Se una minoranza di un decimo ha il diritto di mettere nel nulla spesa ed imposta, nessuna regione e nessuna classe ha ragione di sentirsi lesa da essa quando sia approvata. Se tale si sentisse, non avrebbe che da respingere la proposta. E perché la maggioranza dovrebbe rifiutare il consenso ad una imposta che il gruppo interessato è pronto a pagare?

 

 

260. Potrebbe dubitarsi che l’obbligo della contemporaneità delle deliberazioni relative all’entrata ed alla spesa faccia rivivere il sistema dei bilanci speciali, contro il principio fondamentale del bilancio unico prevalente nelle legislazioni moderne. In verità, è pacifico che tutte le spese statali debbano essere soddisfatte dall’unica cassa generale del tesoro e tutte le entrate debbano affluire alla stessa cassa. La creazione di bilanci speciali, grazie a cui determinate entrate affluiscono a pro di un bilancio particolare destinato a sovvenire a particolari spese, dà luogo ad un dilemma dannoso. Se le entrate sono inferiori alla spesa necessaria, il servizio è insufficientemente alimentato e soffre, con danno della cosa pubblica. Se le entrate superano le spese, gli amministratori del bilancio speciale credono di avere diritto ed interesse a spendere tutto ciò che affluisce alla loro cassa. Il denaro pubblico è sprecato, nel momento medesimo in che altri servizi sono insufficientemente dotati. Il controllo sulle entrate e spese è affievolito a causa dell’esistenza di particolari nascondigli, nei quali si accumulano piccoli tesori, che i gestori hanno interesse a sottrarre all’attenzione pubblica. Alla regola aurea che tutto arriva e tutto parte dall’unica cassa del tesoro debbono essere fatte perciò pochissime eccezioni, giustificate da particolari fortissime ragioni.

 

 

Lo schema wickselliano non turba tuttavia l’attuazione del principio del bilancio unico. La votazione simultanea delle entrate e delle spese ha valore puramente costituzionale. Di fatto, il grosso delle entrate e delle spese di ogni stato è eredità del passato e non è argomento di discussione. Non vi sono dubbi, ad esempio, sulla necessità di far fronte al servizio degli interessi e degli ammortamenti contrattuali del debito pubblico. Nessun partito, nessun gruppo si assume la responsabilità di far perdere la faccia allo stato. Lo stesso si dica per il grosso delle spese per la difesa, per la giustizia, per la sicurezza, per l’igiene, per l’istruzione, per le strade, ecc. ecc. Le discussioni ed i dubbi in realtà sorgono al margine: per le nuove spese che taluno vuole introdurre, per le vecchie spese che il tempo ha obliterato e della cui necessità pochi ormai hanno consapevolezza.

 

 

Solo in questo momento ha valore il principio della contemporaneità. Il gruppo il quale propone la nuova spesa, ha l’obbligo di proporre, nel tempo stesso, l’inasprimento di qualche vecchio o la istituzione di qualche nuovo tributo. Il gruppo, il quale male soffre una vecchia imposta, ha l’obbligo di proporre altresì l’abolizione del servizio che originariamente o per deliberazione successiva di carattere costituzionale era stato collegato con quella imposta. Solo in tal modo le deliberazioni hanno carattere di serietà.

 

 

Quando spesa ed imposta siano tuttavia state approvate, il legame tra esse rimane sospeso, sino al momento di una eventuale proposta di cessazione del servizio od abolizione del tributo. Il provento dell’imposta non è assegnato al servizio particolare, ma affluisce nella cassa generale; e questa provvede alle spese del servizio; sia o non bastevole ad esse il provento dell’imposta. Né ciò può far sorgere il pericolo che una spesa sia votata a cuor leggero contrapponendovi una imposta nominale di nessun conto; ché l’onere del servizio dovrà pur essere coperto con altre imposte o con l’uso del maggior gettito delle imposte esistenti; e rimarrà sempre in facoltà di una piccola minoranza di pretendere l’abolizione delle altre imposte o l’attenuazione delle aliquote dell’imposta a gettito cresciuto. Se la maggioranza dei quattro quinti o dei nove decimi delibererà di conservare lo statu quo, ciò vorrà dire che questo è da essa reputato meno dannoso della cessazione del servizio, il quale dovrebbe in caso contrario necessariamente venir meno.

 

 

Fuor dei due momenti iniziale e terminale il collegamento fra entrate e spese vien meno; e la regola del bilancio unico impera sovrana.

 

 

261. Il vero pericolo insito nel sistema della quasi unanimità è l’ostruzionismo. Una piccola minoranza, di un quinto o di un decimo dei delegati, potrebbe impedire il funzionamento dello stato; se ad essa non fossero fatte concessioni forse esorbitanti. Il diritto di veto della minoranza può essere arma perniciosa di ricatto in mano a minoranze prive di scrupoli. Il Wicksell non si turba perciò di soverchio:

 

 

Gli ostruzionismi sono l’arma della disperazione, le vendette meschine di minoranze i cui diritti sono calpestati (p. 128).

 

 

Qui si va alla radice del giudizio intorno allo schema wickselliano. Esso non può presumere di raffigurare la realtà di un momento storico. Sebbene nel pensiero del suo ideatore, esso fosse una proposta di perfezionamento delle costituzioni democratico-rappresentative esistenti nel suo tempo, pare tuttavia contrario all’esperienza storica supporre che un sistema di governo rappresentativo, sia a suffragio ristretto che universale, possa operare alla condizione posta da Wicksell: nessuna spesa e nessuna imposta potersi approvare se non con alta maggioranza speciale. Per potere affermare siffatta possibilità farebbe d’uopo avere osservato qualche luogo o tempo nel quale lo schema sia stato applicato con risultati favorevoli. Poiché siffatta esperienza non è nota, dobbiamo classificare lo schema tra quelli utopistici. Esso merita studio, come ogni altra «utopia», solo in quanto riassuma, in forma schematica, qualche aspetto della esperienza storica.

 

 

262. Lo schema wickselliano può essere considerato, in primo luogo, come l’astrazione teorica di un fatto storicamente reale: la consapevole delegazione della potestà tributaria ad un capo scelto da uomini giunti ad un alto grado di perfezionamento intellettuale e morale.

 

 

Rimanendo sempre nel campo della esperienza storica passata si ebbero nella storia del mondo epoche od attimi felici: l’Atene di Pericle, la città fiorentina in taluni momenti del duecento e del trecento, la Francia di Enrico IV e di Bonaparte primo console, l’Inghilterra di Beaconsfield e di Gladstone, il Piemonte del decennio cavourriano. In quelle epoche il consiglio decisivo spettò alla valentior pars della società; a quelle che Federico Le Play chiamò le autorità sociali e Platone definì nelle Leggi:

 

 

Vi sono sempre in mezzo alle moltitudini alcuni uomini divini, non molti invero, la cui consuetudine è d’un valore inestimabile; essi nascono non più negli stati ben ordinati che negli altri e chi vive negli stati bene ordinati, deve, per terra e per mare, mettersi continuamente sulle tracce di questi uomini incorrotti, in parte per raffermare quanto vi è di buono nelle istituzioni del proprio paese, in parte per correggerle, se v’è qualche difetto. Giacché senza queste osservazioni e ricerche… la perfezione dello stato non è mai durevole (trad. di A. Cassarà, libro XII, V, pp. 398-99; nella collezione dei «Filosofi antichi e medioevali» del Laterza).

 

 

In quelle epoche, per consiglio dei saggi, il comando spettò all’uomo od ai pochi uomini, che colla condotta privata, con l’altezza dell’ingegno, con le opere di pensiero o di azione compiute erano di esempio e di guida alla folla. In quell’attimo la città non sopraffece l’individuo e non lo considerò strumento nelle sue mani per fini posti fuori dell’umanità e l’individuo non suppose di essere estraneo al consorzio dei suoi cittadini, ma vivendo nella città esaltò se stesso e gli altri.

 

 

In quell’attimo gli ottimati dirigenti non furono i plutocrati od i demagoghi, i politicanti parlamentari od i cortigiani servili. Accadde, miracolosamente, ossia per il combinarsi di circostanze svariatissime che solo l’occhio sperimentato dello storico può precisare, che in quell’attimo gli ottimati furono i migliori, fossero essi scelti, come Sully, da un re assoluto, designati, come Bonaparte primo console, dalla vittoria militare, o come Cavour venuti fuori dalle urne elettorali; i migliori, ossia coloro che per conoscenza degli uomini, per esperienza di vita, per altezza d’ingegno, per attitudine al comando ed all’azione potevano guidare la nazione.

 

 

Quegli ottimati non erano quasi mai concordi nei particolari dell’azione, nella scelta dei mezzi per raggiungere il fine. Erano concordi solo nel fine, che era la grandezza della loro patria, raggiunta per mezzo della elevazione degli individui componenti la società. Non concepivano più grande e glorioso lo stato, se migliori non erano i cittadini. Essi erano stati scelti ed erano giunti al sommo del potere perché i cittadini, se non ancora erano fatti buoni, sentivano l’aspirazione al meglio ed istintivamente od ammaestrati da durissime esperienze scartavano i cattivi consiglieri e si affidavano ai buoni.

 

 

Si affidavano, il che voleva dire che ponevano i loro averi e le loro vite in mano ai capi che avevano scelto, sicuri che dalla prontezza della loro volontà di sacrificio sarebbe derivato più tardi vantaggio forse a sé e certamente ai loro figli.

 

 

263. In quegli attimi, v’era unanimità nella deliberazione delle spese e delle entrate pubbliche. Se il meccanismo wickselliano fosse stato legge costituzionale durante quegli attimi, non vi sarebbe stato traccia di ostruzionismo. Ogni volta, per ogni capitolo di spesa e per ogni tipo di imposta si sarebbe trovata la combinazione atta a raggiungere l’unanimità del suffragio. Ciò non sarebbe tuttavia accaduto perché fosse scritto nelle tavole costituzionali, sibbene perché tale era la volontà meditata della valentior pars e questa era seguita dal consenso unanime dei cittadini.

 

 

264. Lo schema utopico wickselliano è, in secondo luogo, l’astrazione teorica di un altro fatto storico, rarissimo, ma non ignoto del tutto. Se per qualche generazione, gli uomini si elevano intellettualmente e moralmente, se non si formano gruppi plutocratici o demagogici corruttori, se qualche dura esperienza ha dimostrato la inutilità delle sopraffazioni di ceti o di classi, se le forze dei ceti sociali sono tra loro equilibrate ed i ceti medi consentono l’ascesa del popolo e fanno da argine al prepotere dei plutocrati, accade, è accaduto che si sia diffusa nel paese l’atmosfera del «compromesso».

 

 

265. Parla il rappresentante ottantenne della terza generazione di una dinastia di economisti e filosofi, la quale ha illustrato la capitale del calvinismo, e cioè la sede di una un tempo intollerantissima tra le religioni protestanti:

 

 

Giovane, ho fatto anch’io le fucilate nel cortile e sulle scale del palazzo di città. Poi, ci siamo rassegnati a non vincere ed a tollerarci a vicenda. Il risultato della nostra vita di compromesso è che noi ginevrini paghiamo imposte forse ignote, per altezza, in altre parti del mondo. Sono contribuente a Ginevra, e, a due passi di qui nella Savoia francese; e pago, proporzionatamente ai redditi rispettivi, tre volte più di imposta a Ginevra che in Savoia. Eppure di pagar tanto di più sono contento. So perché pago. Vedo i servizi che mi sono resi. Ho discusso, direttamente o per mezzo dei miei rappresentanti, soldo per soldo ogni aumento di spesa ed ogni aumento di imposta. Così, dappertutto, nei nostri cantoni. Un mio allievo, ticinese, mi raccontava che nel suo villaggio discussero per anni intorno all’erezione di un’umile fontana pubblica di acqua. Alla fine tutti erano persuasi. Anche coloro che non son persuasi, accedono, dopo la deliberazione della maggioranza, all’opinione altrui e la fanno propria. La «accessione» della minoranza all’opinione della maggioranza è la vera sanzione della spesa pubblica. Sono convinto che solo così le spese pubbliche sono tempestive ed utili alla collettività.

 

 

266. Così parlava il saggio. Dalle sue parole riterrò solo quella di «accessione». Lo schema wickselliano può passare dal terreno dell’utopia in quello della realtà operante quando una combinazione eccezionale di circostanze storiche ha creato l’atmosfera del compromesso e dell’accessione. Compromesso, che vuol dire persuasione a poco a poco divenuta generale che nessuno dei ceti sociali, dei gruppi economici, delle correnti di pensiero ha tanta forza di vincere del tutto gli altri; sicché, nella discussione dei contrastanti punti di vista, della scelta da farsi tra fini e mezzi, ogni gruppo è indotto ad abbandonare la parte più caduca della propria tesi ed a ridursi all’ultima trincea del nucleo essenziale di essa, il quale non può essere abbandonato senza rinunciare alla propria ragion d’essere. All’ultimo, prevale la maggioranza. Ma la maggioranza sa che la sua vittoria non sarebbe durevole se essa non fosse seguita dalla accessione della minoranza. Avvenga con o senza votazione formale, la decisione è di compromesso solo quando è seguita dalla accessione; quando cioè la minoranza, a compromesso avvenuto, fa propria la tesi della maggioranza, nel senso di dare opera alla sua attuazione con la stessa lealtà e la medesima fede come se la tesi fosse sempre stata sua.

 

 

Perché vi sia accessione, è necessario che la maggioranza non spieghi tutta la forza di cui è capace; fa d’uopo si arresti cioè al punto nel quale la vittoria del proprio ideale, la consecuzione del proprio fine vorrebbe dire distruzione e rovina o anche solo gravissimo nocumento per il vinto. Se la maggioranza è capace di così trattenersi sulla via del trionfo sui concittadini, il suo trionfo è compiuto, perché si trasforma nel volere concorde di tutti, vincitori e vinti.

 

 

267. In questo quadro storico muore l’imposta e nasce la «contribuzione»che avevano vagheggiato i fisiocrati[5] e Francesco Ferrara. È necessario dire che l’orgoglio col quale il saggio di Ginevra mi parlava delle altissime contribuzioni da lui pagate, e quello col quale Antonio Scialoia additava ai napoletani quelle, pur alte, consapevolmente pagate dai piemontesi del tempo di Cavour sono fatti rari nella storia?

 

 

268. Wicksell poneva un meccanismo costituzionale nel luogo dove deve essere collocata l’esperienza storica. Per sé, il meccanismo costituzionale è il nulla. L’ho ricordato solo per chiarire come sia eterna nei teorici la aspirazione ad estendere il dominio della tabella mengeriana dal campo della vita privata a quello della vita pubblica. Il paradosso supremo della imposta e cioè la inapplicabilità della tabella mengeriana alla finanza e la necessità di trovare ad essa un surrogato sono alla radice degli schemi «politici» dell’imposta. La maggior parte degli schemi che si possono astrarre dalla esperienza storica sembrano dar ragione a coloro i quali, come Marx, li proclamano frutto esclusivo degli interessi della classe economicamente dominante o, come Pareto, derivazioni pseudo logiche messe avanti dai gruppi politici governanti. Ebbero però esistenza storica anche gli schemi della città periclea, del decennio cavourriano, della finanza di compromesso con accessione. Bastano queste esperienze per dare, in materia tributaria, diritto di cittadinanza a schemi proprii in apparenza della città ideale. Sono essi, tuttavia, meri schemi di «utopie» sogni chimerici di quel che «dovrebbe essere» o leggi storiche della realtà che «è» e vive ed opera? Pure qui, nell’umile campo dei tributi, si rinnova l’eterna contesa fra l’essere e il dover essere, fra il reale e l’ideale, fra quel che si vede si tocca e pesa su di noi e la meta invisibile diuturnamente forse vanamente perseguita alla quale l’animo nostro aspira. V’ha taluno il quale nel mondo vede solo oppressi ed oppressori, classi soggette e classi dominatrici; e crolla tristemente il capo a sentir parlare della ragione come della regolatrice delle cose umane. Ognuno di noi è costretto talvolta dall’esperienza vissuta e contemplata a far propria la trista disperata conclusione. Nelle teorie messe innanzi a spiegare il perché degli accadimenti umani, e, nel campo nostro tributario, il perché delle imposte esistenti, siamo spesso forzati a vedere solo strumenti pseudo-logici utili a coonestare il fatto bruto dell’imposta prelevata a carico dei dominati a vantaggio dei dominatori. Poiché le imposte sono, in ogni tempo e luogo, quelle che sono, queste soltanto, si pensa, importa studiare, di queste analizzare il meccanismo, di queste conoscere le ragioni d’essere e gli scopi a cui servono. Importa conoscere i sentimenti ed i ragionamenti i quali furono alle radici delle imposte che furono e sono, non di quelle che possono essere costrutte sulla base della pura logica. Può darsi che i ragionamenti addotti dai legislatori a spiegare questa o quella imposta esistente siano pseudo-ragionamenti, può darsi che in fondo alla «formula politica» (Mosca) od alla «derivazione» (Pareto) addotta nei documenti legislativi a spiegare quell’imposta si trovi il nulla logico, può darsi che formule e derivazioni siano mere «illusioni» (Puviani). Che monta? La «scienza» si occupa delle imposte «che sono» non di quelle «che mai non Furono», scruta le leggi dei «fatti» non delle «utopie»; vuol giungere alla conoscenza delle origini e delle variazioni degli istituti che esisterono nel passato ed esistono oggi, non di quelli che sono scritti sulla carta dei loici. Poiché la finanza periclea ebbe realmente vita, essa deve essere studiata, uno tra i mille e mille fatti empirici dei quali gli annali umani conservano il ricordo; ma poiché le finanze di Dionigi il grande e di Cleone il demagogo occupano negli annali medesimi ben più lungo e ripetuto corso di tempo, le leggi delle finanze di Dionigi e di Cleone, della finanza monopolistica (De Viti) e di quella demagogica, debbono essere studiate con ben maggior attenzione di quelle delle finanze di Pericle, del capo scelto dalla volontà unanime e spontanea del popolo. Quella è la realtà quotidiana di tutti i tempi e di tutti i luoghi, questa è la realtà dell’attimo fuggente. La «scienza» deve pesare i fatti secondo la loro importanza effettiva e dare ad ognuno di essi il luogo che essi in verità hanno avuto ed hanno nella storia degli uomini: una pagina a Pericle ed un volume a Dionigi ed a Cleone.

 

 

269. Ebbene no. Questa è falsa storia ed è falsa teoria. I fatti accaduti non si misurano in ragion del tempo da essi occupato, dello spazio a cui si estesero, dei popoli che ne furono attori o spettatori. Vi è tal fatto che vale milioni di altri fatti di uguale e maggiore dimensione nel tempo e nello spazio. Tra la breve predicazione di Cristo ed il lungo ed agli occhi dei contemporanei fortunato e glorioso reggimento di Filippo II o di Luigi XIV vi è l’abisso. Quella predicazione mutò veramente le sorti del mondo, fece gli uomini diversi da quel che erano; quei gloriosi reggimenti a malapena riuscirono ad increspare le lievi onde della storia di una parte d’Europa. Potenti ed umili, sapienti e semplici, raffinati e primitivi, buoni e malvagi ricordano e ricorderanno nei secoli la parola di Cristo, laddove di Filippo II e di Luigi XIV leggono gli scolari nei libri di testo e discorrono dottamente gli storici, ma forse col tempo non discorreranno neppur più. I massacri di settembre, gli ultimi giorni di Maria Antonietta, la fuga di Varennes, gli affogamenti di Nantes, il mistero di Luigi XVII e di Naundorff hanno fornito e forniranno materia inesausta a libri eruditi commoventi appassionanti alla Lenotre; ma lo storico indugerà nei secoli a studiare il movimento di idee e le trasformazioni sociali che condussero alla dichiarazione dei diritti dell’uomo. Noi leggiamo con interesse vivo in Le Pesant de Boisguillebert, in Vauban, in Pompeo Neri le notizie particolari delle disuguaglianze nel reparto delle imposte a pro dei potenti, dei nobili, del clero, delle città contro i deboli, i plebei, i contadini; ma perché quelle notizie non sono mera cronaca delizia degli eruditi e gioia degli amatori di tempi perduti? perché Boisguillebert e Vauban e Neri le innalzarono a ragion di critica contro gli ordinamenti effimeri della decadente monarchia francese e della Lombardia spagnuola, perché sotto i colpi del loro ragionamento quegli ordinamenti, che pure erano un fatto, vennero meno ed al loro luogo trionfò l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini dinnanzi all’imposta.

 

 

270. Esiste dunque una gerarchia nei fatti accaduti; e non è né storico né teorico chi non la sa vedere. La gerarchia esiste anche in quell’umilissima categoria di fatti accaduti che si dicono di imposte e di finanze. Anche essi, sebbene attinenti al «vil metallo» hanno una propria varia dignità. Lo storico e il teorico non sono liberi di dare ad ogni imposta, ad ogni sistema di finanza, ad ogni schema di provvista dei mezzi necessari alla cosa pubblica lo stesso peso. Fa d’uopo cercare attraverso la rude corteccia del fatto bruto, dell’imposta empiricamente esistente in ogni tempo ed in ogni paese il nocciolo essenziale, l’idea informatrice, la meta ultima. Se noi, per un istante, chiamiamo «periclea» la finanza ideale, e «quotidiana» quella corrente di fatto nei diversi tempi e luoghi, dico che lo storico il teorico deve sovratutto avere lo sguardo rivolto alla finanza periclea.

 

 

La finanza «quotidiana» è la finanza a cui gli uomini debbono diversamente ubbidire nei diversi luoghi e tempi. Debbono ubbidire perché l’ordine politico e la convivenza sociale sarebbero distrutti se gli uomini non ubbidissero con pienezza di ossequio alle leggi vigenti. Essa è un fatto, degno di studio e di meditazione. Giustamente i trattatisti ne indagano le leggi empiriche, riconnettendola ai miti, alle formule, alle derivazioni invalse nella comune opinione del tempo ed interpretandola in base all’ordinamento generale del diritto pubblico e privato. Ma essa, la finanza «quotidiana» è un fatto apparente, precario, transeunte. È materia bruta alla quale non può essere data vita perenne da meri miti, formule, derivazioni, opinioni invalse e costruzioni giuridiche.

 

 

Accanto ad essa, la finanza «periclea» sembra priva di sostanza, sogno utopistico; ed è invece la realtà vera. Nel cuore degli uomini essa è la sola viva. Di fronte all’altra, essa è giudice ed esecutrice delle alte opere di giustizia. L’imposta «quotidiana» deve presentarsi alla sbarra del tribunale della «contribuzione» fisiocratica e ferrariana (cfr. sopra paragrafi 252 e 267); e lì deve rassegnarsi ad essere giudicata. Gli uomini, quando ragionano dell’imposta «quotidiana» e discutono se essi debbono conservarla o riformarla o mutarla, hanno fisso dinnanzi agli occhi della mente l’ideale pericleo. Anche se essi sono in apparenza mossi a riformare o distruggere da un altro mito tributario, in verità così fanno perché sono rosi dal dubbio logico. Il demone della ragione turba il loro senso di ubbidienza agli ordini correnti e li persuade a confrontare il fatto quotidianamente sofferto e l’ideale intravisto; ed essi, riconoscendo il fatto calante in confronto all’ideale, lo vogliono mutato ed alla lunga lo mutano.

 

 

Il mutamento ha luogo attraverso tentativi faticosi di avvicinarsi a quell’ideale di finanza periclea che già aveva fornito le armi logiche per negare il fatto bruto esistente. La nuova realtà la quale verrà fuori dal contrasto tra la finanza «quotidiana» e quella «periclea» non sarà in tutto questa, forse sarà da essa diversa e lontana. Talvolta accade che, al termine del conflitto, la nuova realtà sia inferiore a quella abbattuta, inferiore perché più lontana dall’ideale pericleo. Ma questa resta la meta alla quale gli uomini, attraverso sforzi ripetuti, non di rado vani, tendono. Essa è dunque, nel tempo stesso, strumento di critica perenne contro la finanza quotidiana e meta verso la quale gli uomini camminano.

 

 

271. Lo sforzo di attuare la finanza periclea, la ottima imposta, si applica, oltreché agli istituti fondamentali, a quelli peculiari dell’ordinamento finanziario. Lo storico di grande marca studia le cause finanziarie della decadenza dell’impero romano, della rivolta delle tredici colonie americane contro l’Inghilterra o della rivoluzione francese. Il modesto storico della finanza si attarda con predilezione nell’indagare perché l’imposta a superficie si sia a poco a poco trasformata in imposta a decima e questa in quella sul prodotto netto; vi si attarda perché vede in siffatte mutazioni l’idea corrodere invincibilmente il fatto antico e mutarlo nel fatto nuovo. L’imposta primitiva di lire dieci, suppongasi, per ogni jugero o giornata o campo fu accettata dagli uomini finché essi pascolavano o coltivavano jugeri gli uni simili agli altri, i migliori tra i pascoli o tra i campi esistenti. L’intelletto umano vedeva il fatto razionale nel fatto bruto e ad esso si inchinava. Quando, moltiplicandosi gli uomini sulla terra, dovettero essere pascolati o coltivati terreni inferiori, la ragione reputò iniquo che i terreni cattivi dovessero pagare 10 lire per ogni jugero al pari dei buoni; e reputò ancora più iniquo, che in conseguenza di siffatto modo di pagare tributo, talun privato si locupletasse senza vantaggio della cosa pubblica. Infatti se tutti gli jugeri pagano 10 lire; ma il peggior jugero che deve essere messo a cultura per soddisfare il bisogno di cibo della popolazione frutta 5 sacchi, ecco il costo del frumento prodotto sullo jugero peggiore crescere, a causa dell’imposta, di 2 lire a sacco; e, poiché nessun sacco di frumento può essere sul mercato venduto a prezzo diverso da quello di ogni altro sacco, ecco il prezzo di tutto il frumento, tratto dai terreni buoni, da quelli mediocri e da quelli cattivi, crescere di 2 lire a sacco. Epperciò il proprietario del buon terreno dai suoi 20 sacchi cava 40 lire di più, e quello del terreno mediocre dai suoi 10 sacchi 20 lire di più; ma poiché tutti, buoni mediocri e cattivi, versano allo stato ugualmente 10 lire, il proprietario del terreno buono resta con un guadagno di 30 lire e quello del terreno mediocre di 10 lire. Laddove il proprietario del terreno cattivo versa quanto riscuote e nulla guadagna. Perché? chiede l’uomo ragionante. Perché lo stato deve ricevere solo 10 e 10 e 10 lire; ed i consumatori del frumento prodotto nei 3 campi debbono pagare, a causa dell’imposta, 40 e 20 e 10 lire di più di prima? Perché le differenze di 30 e 10 lire debbono essere serbate dai proprietari dei terreni migliori e mediocri? Quale pubblico servigio hanno essi reso alla comunità per meritare tanto guiderdone?

 

 

Poiché dinnanzi al tribunale della ragione la risposta non viene od è reputata calante, il fatto «imposta a superficie» cessa di essere un fatto. Al luogo suo, sottentra, fatto nuovo, l’imposta a decima. Ogni jugero pagò in ragione del proprio prodotto: il terreno buono che produceva 20 sacchi di frumento fornì allo stato 2 sacchi; il mediocre, producendone 10, diede 1 sacco e quel cattivo che ne produceva 5, diede mezzo sacco solo.

 

 

Finché la ragione fu appagata, il sistema durò. Ma venne il giorno, in che un coltivatore meditante pensò di arare più profondamente il campo o di ammendarlo con marne o di arricchirlo con concimi forestieri o, spianatolo, di irrigarlo. Il terreno che fruttava 10, rese 30 sacchi. Ma le opere assoldate e le altre spese necessarie alla cultura invece di assorbire 2 sacchi su 10 ne assorbirono 15 su 30. Al coltivatore convenne tuttavia migliorare perché invece di 8 restò con 15 sacchi di prodotto netto. A questo punto, il metodo tenuto dallo stato nel prelevare l’imposta parve però a lui di nuovo iniquo. Prima, quando tutti lavoravano con l’aratro a chiodo e si contentavano, per migliorarla, di lasciar riposare la terra per un anno o due, il costo proporzionale del produrre sia 20, che 10 che 5 sacchi sulle tre qualità di terreno era moderato ed uniforme. In una società agricola patriarcale, anzi, un costo quasi non esisteva. Il prodotto era, per la famiglia lavoratrice, lordo e netto nel tempo stesso, tutto essendo remunerazione del lavoro prestato dalla famiglia. Quando, coll’intensificarsi delle culture, fu d’uopo ricorrere ad opere estranee alla famiglia, ecco il produttore tardigrado ottenere solo 10, ma, come si disse, spendere anche solo 2; e l’avventuroso spendere 15 per ottenere 30. Il primo seguita a dare allo stato 1 sacco su 10, laddove il secondo ne deve dare 3 su 30. Ma il primo, in verità, dà in tal modo 1 sugli 8 sacchi che gli restano netti da spese ossia il 12,50%, ed il secondo dà sui 15 a lui restanti, il 20%. Ecco premiato l’infingardo e punito il diligente ed intraprendente.

 

 

Di nuovo, la disuguaglianza ed il danno non sanno giustificar se stessi quando sono tradotti dinnanzi al tribunale della ragione; e nuovamente perciò il fatto «imposta a decima» cessando di essere un fatto, diventa un’ombra nel mondo che fu; ed al luogo suo sottentra il fatto nuovo «imposta sul prodotto netto».

 

 

Le trasmutazioni non sono chiuse a questo punto; anzi seguono continue e varie e ricche. I tipi più diversi di imposte: personali e reali, ad aliquota costante o progressiva, sul reddito o sul capitale, periodiche o saltuarie, sui vivi e sui morti, sui consumi e sui guadagni, sulla generazione presente e su quelle avvenire, sui redditi normali o su quelli di eccezione si combattono e si alternano. Ogni istituto od ogni metodo tributario ha tuttavia vita precaria; anzi non è propriamente in se stesso vivo, traendo speranza di continuità solo dalla propria conformità a ragione. Nessuno di essi è sicuro di sé, se non sappia rendere conto di sé all’unico giudice che in siffatta materia avvinghia e manda ed ha nome «ragione».

 

 

272. Perciò dico che il vero oggetto della «scienza» finanziaria non è il fatto precario dell’ieri o dell’oggi o del domani, ma è l’ideale che la ragione umana contempla quando guarda ai fatti correnti. Il fatto quotidiano è l’ombra che passa, l’ideale è la sola realtà eterna. Perciò dico ancora che la vera realtà non è la finanza quotidiana, ma l’ideale finanza periclea. La finanza quotidiana è la cianfrusaglia dell’aneddottame cronachistico, è la delizia dell’erudito, è la materia molle delle comparazioni fra stati e tempi diversi, è il terriccio fecondo nel quale germinano doviziose le «nuove» generalizzazioni utili alla conquista delle cattedre universitarie. La diremo dunque sola e vera realtà, solo e vero «fatto» degno di studio? Ohibò! Fatto vero quello che oggi è e domani muore, quel che ad un urto della fantasia del politico di genio o del ragionamento implacabile dell’uomo di studio cade a terra in frantumi! Se così piace, ammettiamo la esistenza di entrambi i fatti: sia della finanza quotidiana come della finanza periclea; ma a gran distanza l’uno dall’altro. Il primo è ombra di realtà che par viva; il secondo è la sola realtà vivente. Il primo è materia bruta caduca, il secondo è spirito perenne. La finanza quotidiana è un composito di «imposte» che gli uomini «debbono» pagare; la finanza periclea è la «contribuzione» di cui gli uomini dicono: «voglio» pagarla.

 

 

A far pagare coattivamente imposte son buoni i reggitori qualunque. Ma il capo scelto dalla valentior pars dei cittadini, l’uomo divino di Platone intende elevare i mortali dalla città terrena alla città divina, dove la parola «imposta» è sconosciuta, perché tutti sanno la ragione ed il valore del sacrificio offerto sull’altare della cosa comune.

 

 



[1] Il quale l’aggiunge ai tre tipi della finanza regia, satrapica e cittadina analizzati nelle «Economiche» del pseudo-Aristotile. Vedi la larga esposizione che dei risultati ottenuti da Andréadés fa Athanase I. Sbarounis in André M. Andréadés, fondateur de la science des finances en Grèce, Paris 1936, pp. 27-29. Cfr. anche i capitoli dal quarto al sesto del libro di Charles J. Bullock, Politics, Finances and Consequences. A study of the relations between Politics and Finance in the Ancient World, Mass., Cambridge 1939; ed i capitoli sesto e settimo del libro terzo della Storia dei greci dalle origini alla fine del secolo V di Gaetano De Sanctis, Firenze 1939.

[2] Un riassunto del dibattito si può leggere in una nota: «Di una controversia tra Scialoia e Magliani intorno ai bilanci napoletano e sardo», nel quaderno del marzo 1939 della «Rivista di storia economica», pp. 78 sgg.;dove è ricordata anche la bibliografia. Il segretario Magliano è, col nome di Magliani, meglio conosciuto come ministro delle finanze durante parecchi ministeri Depretis dal 1877 al 1887.

[3] Francesco Ferrara, Lezioni di economia politica. Opera pubblicata per iniziativa dell’Istituto di politica economica e finanziaria della R. Università di Roma, e cioè per merito di Alberto De Stefani (Bologna 1934-35). Il trattato della finanza è contenuto nel vol. I, pp. 551-765. Lo schema che ci interessa è tratteggiato a pp. 747-49,551-54, e fu con larghi estratti riassunto nel mio Francesco Ferrara ritorna, in Nuovi saggi, Einaudi, Torino 1937, pp. 398 sgg., e di nuovo in Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche. Edizioni di storia e letteratura, Roma 1953, pp. 27 sgg.

[4] Knut Wicksell, Finanztheoretische Untersuchungen, Jena 1896. Il secondo saggio: Ueber ein neues Prinzip der gerechten Besteuerung e principalmente i paragrafi IV, V, VI ed VIII interessano l’argomento trattato nel testo. Il saggio è tradotto per intiero nella «Nuova collana di economisti stranieri e italiani», vol. IX, pp. 68 – 129.

[5] Cfr. per una esposizione di quella che ritengo essere la sostanza della teoria fisiocratica dell’imposta, ben diversa dalla caricatura di essa che i fisiocrati medesimi divulgarono col nome di imposta unica sulla terra, il mio saggio Contributi fisiocratici alla teoria dell’ottima imposta, in «Atti della reale accademia delle scienze di Torino», vol. LXVII, 1931-32, rielaborata in The Physiocratic Theory of Taxation, in Economic Essays in Honour of Gustav Cassell (London 1933), pp. 129-42. Ristampato nella edizione del 1940 degli Scritti di economia e finanza, edizione del 1941, Einaudi, Torino, saggio ottavo, pp. 332-61.

Il supremo paradosso tributario

Il supremo paradosso tributario

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 236-258

 

 

 

 

219. Chi ricordi lo schema usato nel capitolo sesto (par. 153, p. 155) per sgonfiare il pallone dei sommi principii utilitaristici, può credere che io abbia voluto altresì negare valore ad un altro schema, detto comunemente tabella di Menger; e può credere perciò che io abbia voluto con quei ragionamenti dichiarare illogica l’applicazione alla pubblica finanza di uno schema pur reputato universalmente utile strumento nella interpretazione dei fatti economici. In verità, se la tabella di Menger è strumento assai meno fecondo per il finanziere di quanto non sia per l’economista, esso non è tuttavia inutile e sovratutto è profondamente diverso dallo schema posto a fondamento dei confutati sommi principii utilitaristici.

 

 

Se chiamiamo benthamiana[1] quella della distribuzione ugualitaria dell’imposta, le due tabelle possono essere messe l’una accanto all’altra:

 

 

I. Tabella Benthamiana

o schema della distribuzione ugualitaria dell’imposta

in una società di tre contribuenti

 

 

X

1

IX

2

2

VIII

3

3

3

VII

4

4

4

VI

5

5

5

V

6

6

6

IV

7

7

7

III

8

8

8

II

9

9

9

I

10

10

10

Tizio

Caio

Sempro

nio

 

 

I numeri romani indicano le successive dosi uguali di ricchezza possedute da ogni contribuente; i numeri arabici i gradi di importanza attribuiti ad ogni dose.

 

 

220. Dimostrai già che lo schema I è frutto della ragion raziocinante del dottrinario. Volendo repartire la imposta in una data maniera, da lui reputata ottima, costui suppone che: 1) i contribuenti della immaginaria società siano tutti modellati su di un uomo medio e 2) attribuiscano alla prima dose di ricchezza da egli posseduta ugual grado di importanza, ad es. 10; 3) il grado 10 di Tizio sia uguale al grado 10 di Caio e a quello, pur 10, di Sempronio; 4) essi attribuiscano alla seconda dose di ricchezza ugual grado di importanza, ad es. 9; e che il 9 dell’uno sia uguale al 9 dell’altro; 5) e così via dicendo sino ad esaurimento di tutta la ricchezza posseduta dai tre consorti.

 

 

Confortato da questa bella architettura, il dottrinario utilitarista procede a costruire il suo schema di distribuzione dell’imposta.

 

 

Ma è schema che il vento disperde, perché: 1) la scala dei gradi di importanza delle dosi successive di ricchezza varia da uomo a uomo ed è bizzarramente varia; 2) i gradi di importanza sono meri indici comparativi validi per ogni uomo, ma non paragonabili da uomo a uomo, ed il 10 di Tizio non solo non è uguale al 10 di Caio, ma, non esistendo alcun strumento adatto a paragonare la relativa sensibilità di Tizio con quella di Caio o di Sempronio, nessuno può dire di quanto sia maggiore o minore; 3) se anche nel metodo di ripartizione dell’imposta in base al sacrificio «proporzionale» non è necessario far confronti fra individuo ed individuo, è necessario però ricorrere alla confessione del contribuente all’orecchio del procuratore alle imposte. Poiché nessuno immagina che siffatte confessioni auricolari siano fededegne, l’imposta cede il luogo alla oblazione volontaria, insufficiente a provvedere alle esigenze degli stati moderni (cfr. sopra par. 162).

 

 

221. Lo schema II (tabella mengeriana) è invece dedotto dall’osservazione. Esso non si riferisce ad una collettività di individui, ma ad un individuo solo. La tabella mengeriana vuole soltanto raffigurare il modo di operare di un uomo il quale, nell’intervallo di tempo considerato, abbia la disponibilità di un certo numero di unità di numerario (moneta o generica potenza d’acquisto). Suppongasi che ogni dose od unità (I, II, III ecc.) di ognuno dei beni desiderati (A, B, C ecc.) sia rappresentata da un quadratino e possa acquistarsi sul mercato con una unità di numerario. Perché lo schema sia senz’altro evidente[2] basta immaginare che ognuno dei beni A, B, C ecc., desiderati dall’uomo possa essere frazionato in unità abbastanza piccole da essere acquistabili con la unità di numerario. Spesso non è così; ma sono varii gli espedienti con i quali il fatto reale può essere avvicinato al fatto ipotetico. Si può ingrossare alquanto l’unità del numerario, pensando in biglietti da 100 o 10 lire invece che in dischi da 1 lira o da 1 soldo. Se l’acquisto di una casa è cosa troppo grossa per contanti, la si può frazionare nel tempo in opportune annualità o mensilità; od addirittura la comune degli uomini fa a meno di acquistare la casa, e si contenta di affittarla, pagando il canone di fitto a semestri, a trimestri, a mese, a settimane e puranco, stando all’albergo, a giorni. Si può allungare il tempo considerato, e pensare, invece che alla distribuzione della spesa giornaliera, a quella della spesa mensile od annua o forsanco decennale.

 

 

II. Tabella mengeriana

o schema della distribuzione della ricchezza

posseduta da un individuo

 

 

X

 

1

 

IX

 

2

1

 

VIII

 

3

2

1

   

VII

 

4

3

2

1

VI

 

5

4

3

2

1

   

V

 

6

5

4

3

2

1

IV

 

7

6

5

4

3

2

1

 

II

 

8

7

6

5

4

3

2

1

 

II

 

9

8

7

6

5

4

3

2

1

 

I

 

10

9

8

7

6

5

4

3

2

1

A

B

C

D

E

F

G

H

I

L

 

 

Ognuno compie quella distribuzione del numerario posseduto oggi o previsto disponibile per domani o per un tempo avvenire che a lui medesimo sembri offrire il soddisfacimento migliore dei suoi desideri, quelli effettivi, che egli sa o prevede di poter soddisfare col numerario posseduto oggi o previsto disponibile per l’avvenire.

 

 

I beni che si presentano all’occhio dell’uomo nell’unità di tempo da lui preferita sono beni presenti o beni futuri. L’uomo cioè può destinare parte del suo numerario al soddisfacimento, con beni presenti, di bisogni presenti (pane, vino, casa, vestito, libro ecc.); e parte al soddisfacimento di beni futuri. In questo secondo caso si dice che egli risparmia, ossia, direttamente o mediatamente, acquista beni strumentali (materie prime, macchine, campo, albero, ecc.) che si trasformeranno in un bene diretto consumabile in un tempo futuro. L’uomo è libero di fare del proprio numerario la distribuzione da lui ritenuta più opportuna. La distribuzione scelta da Tizio sarà dunque, poco o molto, diversa da quella di Caio; e questa da quella di Sempronio.

 

 

La tabella mengeriana non contraddice affatto la varietà dei gusti individuali; non mira a dare uniformità a ridurre a tipi medi le svariatissime distribuzioni operate dagli uomini. Le accetta tali quali sono. Essa non dice neppure che A sia, per tutti, il bene «pane»; e B sia, per tutti, il bene «vestito» ecc. ecc. Anche qui, essa accetta le incarnazioni effettive deliberate dai singoli uomini delle lettere dell’alfabeto nei beni più svariati: A, che per Tizio è «pane», per Caio può chiamarsi «vino», per Sempronio «bicicletta» e per Mevio un’edizione rara di Ariosto o di D’Annunzio. V’ha chi rinuncia a mangiare, pur di acquistare il libro prediletto ovvero andare in loggione a sentir musica di Verdi o di Wagner. Ciascuno ha i suoi gusti, e buon pro gli facciano. Il mondo è bello perché è vario. La tabella di Menger, impassibile, registra tutto.

 

 

222. Codesta ragionevolissima tabella dice soltanto: se l’uomo è razionale, – ma basta possegga, per meritare quella lode, un minimo di buon senso – non accadrà mai che egli, possedendo, ad esempio, una sola unità di numerario, acquisti una prima dose del bene B, quando potrebbe acquistare una prima dose del bene A. Il nostro uomo rifiuta di comportarsi illogicamente, perché egli stesso, proprio lui e non altri, attribuisce alla prima dose del bene B un grado di importanza 9, laddove attribuisce il grado di importanza 10 alla prima dose del bene A. Anche il bambino, al quale, a torto od a ragione, piace più il cavallo di legno che il soldatino, condotto dalla mamma nella bottega dei giocattoli, destina la sua liretta a comprare il cavallo di legno e rinuncia al soldatino. Nello stesso momento e nella stessa bottega, un secondo bambino acquista il soldatino e disprezza il cavallo di legno.

 

 

Se il nostro uomo invece di una possiede due unità di numerario, si troverà un po’ imbarazzato. Ché, dopo acquistata con la prima unità di numerario una prima unità di A col grado di importanza 10, egli, provvisto oramai di una sola unità di numerario, si trova come l’asino di Buridano dinnanzi ad una seconda unità di A e ad una prima unità di B, le quali hanno per lui una importanza pari ed uguale a 9. Come l’asino imbrocca una via piuttostoché l’altra se a correre alla cieca lo spinga la puntura di un tafano, così l’uomo si decide sulla base di qualche imponderabile. Se egli possegga 3 unità di numerario, non occorre il tafano o l’imponderabile la seconda e la terza unità di numerario saranno destinate ad acquistare una seconda dose di A ed una prima di B. Qui viene in scena il teorema più importante della tabella mengeriana: essere uguale l’importanza finale o marginale delle ultime dosi dei beni acquistati dall’uomo a mezzo del numerario posseduto nell’intervallo di tempo considerato. Uguale s’intende per quell’uomo ed a giudizio suo. Se egli possiede 10 unità di numerario, non accade che egli le impieghi tutte ad acquistare 50 unità del bene A. Se egli, dopo la quarta, continuasse sulla stessa via, acquisterebbe dosi di A che hanno per lui gradi di importanza misurati dagli indici 6, 5, 4, 3, 2, 1, laddove con quelle 6 unità di numerario potrebbe acquistare 3 unità di B fornite rispettivamente di 9, 8, 7; 2 unità di C fornite di 8 e 7 ed 1 unità di D fornita di 7 gradi di importanza, tutte dunque capaci di soddisfare desideri più importanti di quelli che sarebbero soddisfatti persistendo nell’acquistare dosi di A. Egli dunque distribuirà le 10 unità di numerario, così da acquistare 4 unità di A, 3 di B, 2 di C ed i di D. Al margine, le unità acquistate hanno tutte il grado di importanza 7. Col trasgredire la regola dell’uguale utilità od importanza marginale, egli commetterebbe errore di buon senso: rinuncerebbe a qualcosa che ai suoi occhi vale 7 per avere cosa che, medesimamente ai suoi occhi, vale 6.

 

 

223. Ciò non vuol dire che l’uomo non sia soggetto ad errore. Può darsi che egli valuti 7 ciò che tutti attorno a lui, con unanimità commovente, valutano 2 od 1 o zero od a cui magari danno valore negativo. La tabella di Menger non si occupa di ciò. Essa esclude solo l’errore soggettivo: comprare il bene valutato dall’acquirente 2 invece del bene da lui stesso valutato 7. La tabella non esclude la sciocchezza in genere, ma solo la sciocchezza reputata tale da chi la commette. Anzi, la tabella non esclude, a rigore, neppure questa. L’uomo può, consapevolmente, acquistare un bene a cui egli attribuisce un grado di importanza 2 invece di un bene a cui, pure egli, attribuisce il grado 7. Vorrà dire che egli, così operando, vuole avere la soddisfazione di far vedere a tutti che egli è capace di commettere sciocchezze (buttare denari dalla finestra per vedere le baruffe dei passanti, non accettare il resto di un biglietto da 50 dal vetturino al quale si devono pagare 8 lire e simili). Egli cioè vuole in cotal modo bizzarro acquistare, insieme col bene principale, qualche altro bene complementare da lui desiderato : fama di denaroso o di stravagante o di generoso, ecc. ecc.

 

 

224. Notisi che fra i beni desiderati vi è il numerario medesimo, del quale un certo numero di unità è desiderato per se stesso ed è comprato (comprare è sinonimo di non barattare o di tenere in tasca) come un qualsiasi altro bene. Si tiene poco denaro in tasca, il minimo possibile, in tempi normali; molto in tempo di crisi o guerre o rivoluzioni. Sotto forma di depositi a risparmio ed in conto corrente, di biglietti o moneta metallica, a seconda della maggiore o minore fiducia di cambiare ogni specie di numerario nella moneta propriamente detta, universalmente accettata, che è quella d’oro.

 

 

225. Le spiegazioni date intorno alla tabella mengeriana sono di quella specie elementarissima che si legge o dovrebbe leggersi in ogni testo di economia. Non parve inutile darle, perché non son persuaso che sempre ed anche da reputati scrittori si sia fatta la dovuta distinzione fra la tabella benthamiana e quella mengeriana. Qualche volta si ha l’aria di credere che la prima discenda logicamente dalla seconda. Non si potrebbe invece immaginare niente di più diametralmente opposto. La tabella mengeriana non si impaccia nel dar giudizi sulla razionalità o moralità delle azioni degli uomini. Essa vien dopo che gli uomini hanno fatto quel che la fantasia, il demone nascosto, i bisogni immaginari o reali, gli istinti, gli affetti hanno ordinato ad essi di fare; e registra. Registrando, constata che anche i matti hanno preferenze – pazzesche, forse, ma preferenze – ed osserva che essi preferiscono un creduto più ad un creduto meno e distribuiscono la ricchezza posseduta in modo che al margine siano uguali i gradi di importanza delle ultime dosi di tutti i beni acquistati.

 

 

La tabella benthamiana non registra invece le libere scelte di ogni uomo singolarmente considerato. Essa è il risultato di almanaccamenti di certi dottrinari i quali hanno pensato che gli uomini siano uguali gli uni agli altri o riducibili a marionette tutte uguali; che essi appetiscano la ricchezza in ugual modo decrescente; che gli appetiti degli uni siano uguali a quelli degli altri; e così via almanaccando hanno dedotto regole dette giuste intorno alla ripartizione dei tributi. Sui quali almanaccamenti non c’è altro da fare che sputarci sopra.

 

 

226. La tabella mengeriana non ci dice nulla intorno alle imposte? Ecco. In una primissima approssimazione,[3] essa ci dice che i beni pubblici sono da noverarsi fra i beni in generale. Nella gamma dei beni A, B, C, D, ecc. che sino all’ennesimo si presentano dinnanzi agli occhi dell’uomo come desiderabili, ci sono anche i beni pubblici, quei certi beni che l’uomo sa, per esperienza sua o per istinto storico, dover essere od essere conveniente acquistare per mezzo dello stato: sicurezza, difesa nazionale, giustizia, sanità, istruzione, avanzamento sociale ed economico, potenza, ecc. ecc. Questi beni, siano diretti o, come altri vuole, strumentali o condizionali, sono dall’uomo classificati al pari degli altri beni secondo il grado di importanza di ognuna delle successive dosi di essi. E così classificati, ubbidiscono alla legge comune. Il numerario posseduto in ogni unità di tempo dall’uomo si distribuisce su di essi nella stessa maniera usata per gli altri beni, detti privati. Anch’essi al par dei beni privati, sono presenti e futuri. Gli uomini destinano una parte del numerario posseduto ad acquistare giustizia o sicurezza od istruzione nel momento presente ed una parte a costruire porti, a bonificare paludi, a piantar foreste che daranno frutto tra dieci o cinquant’anni. Gli uomini hanno i servizi pubblici che desiderano e apprezzano. Se essi sono ignoranti ed egoisti, vivono come bestie in uno stato debole; se sono antiveggenti e solidali, toccano alte mete di convivenza politica e sociale.

 

 

227. Senonché il quadro di prima approssimazione della pubblica finanza dedotto dalla tabella mengeriana dura un attimo e subito si dissolve. Mi sono indugiato a bella posta in una spiegazione elementare della tabella mengeriana per mettere bene in chiaro che essa meramente «registra» i fatti accaduti, le azioni compiute dai singoli uomini, così come le vollero compiere gli uomini esistenti, forniti, come sono, di virtù, vizi, passioni, istinti, conoscenze ed ignoranze.

 

 

228. Ora, purtoppo, tra i vizi degli uomini, principalissimo è la mancanza di memoria. Finta mancanza di finti tonti. Perciò la tabella di Menger si applica male ai beni pubblici. Il grosso – non tutto, ma il grosso basta a rovinare il tutto, – dei beni pubblici ha una curiosa caratteristica: che essi debbono essere forniti dallo stato prima che il relativo bisogno sia sentito dagli uomini. Lo stato non può attendere ad apprestare esercito armi munizioni navi da guerra velivoli militari il momento in che il nemico sia in casa ed abbia già occupato parte del territorio nazionale. Sarebbe troppo tardi. Lo stato non può attendere ad organizzare polizia carabinieri giudici carceri e carcerieri che malandrini grassatori e ladruncoli infestino strade e case. Di nuovo, sarebbe troppo tardi. Lo stato non può attendere ad organizzare servizi di pubblica sanità che gli acquedotti mal tenuti abbiano diffuso le febbri da tifo, che il colera e la peste bubbonica abbiano invaso città e campagne. Sarebbe troppo tardi. Lo stato deve fare tutte queste cose, adempiere bene a questi ed altri numerosi uffici innanzi che i cittadini ne sentano la privazione. Anzi, lo stato adempie meglio al suo ufficio, è universalmente lodato e reputato vicino alla perfezione sua, quanto più riesce ad attutire a mortificare nel cuore, nell’animo degli uomini la sensazione del possibile pericolo alla loro pace e sicurezza e al loro benessere. Se l’esercito è così saldo che i cittadini si sentono sicuri entro le proprie frontiere, se la polizia è così vigile che essi si dimenticano di chiudere, di notte o quando vanno a passeggio, la porta di casa, se la magistratura è così sapiente che ai litiganti temerari vien meno la voglia di adire i tribunali, allora si dice che lo stato è perfettamente organizzato.

 

 

In quel punto, però, gli uomini farebbero, se non ci si ponesse rimedio, i finti tonti. Sanno bene od intuiscono che fra i beni desiderati A, B, C… n vi sono i beni pubblici; sanno ed intuiscono che essi sono costosi e convenienti ad acquistarsi. Ma, poiché essi ne godono già, poiché lo stato, per la ragione medesima della sua esistenza, deve fornir quei servizi in modo che essi non abbiano mai la sensazione della loro privazione; perché pagare? Perché far domanda volontaria e disporsi a pagare il prezzo di ciò che si possiede già? Forseché, se non si ha appetito, se anzi si è sazi, si spendono denari per acquistar cibo? Se il guardaroba è ben fornito, perché arricchire il sarto?

 

 

229. Questo è il paradosso ultimo e massimo della pubblica finanza. Esistono beni pubblici, ai quali gli uomini prodigano attestazioni di apprezzamento altissimo; quei beni sono graditi quanto più efficacemente sono forniti; ma poiché la perfezione consiste nel far dimenticare agli uomini che essi potrebbero essere privi di quei beni, così gli uomini non ne fanno domanda. Quei beni si cancellano dalla loro memoria e quindi anche dalla tabella mengeriana.

 

 

230. Oltreché finti tonti, gli uomini sono, in materia di oneri pubblici, stranamente fiduciosi nella coscienza altrui. Se capitano a riflettere che qualcosa bisognerebbe pur pagare per acquistar beni pubblici, subito pensano che altri avrà memoria più buona ed attiva. I beni pubblici hanno, insieme a quella della mortificazione, un’altra curiosa caratteristica: essi non possono essere forniti all’un cittadino senza essere ipso facto forniti a tutti gli altri cittadini. Se ci si potesse saziare col guardar gli altri a mangiare, basterebbe incaricare a turno qualcuno di mangiar sulla pubblica piazza. Trattorie e panetterie sarebbero deserte di clienti. Invece si sa che solo chi ha pane mangia e si sazia. Gli altri, se vogliono togliersi l’appetito, devono rassegnarsi e cacciar fuori di tasca la moneta occorrente a comprare il pane. Invece, se per miracolo vivono in una società politica molti o pochi cittadini così antiveggenti da decidersi a dare volontariamente allo stato i mezzi per l’acquisto dei beni pubblici, ecco che la difesa, la sicurezza, la giustizia, ecc. ecc. sono senz’altro fornite dallo stato a tutti i paganti ed i non paganti. Lo stato non può chiudere le porte di casa allo straniero solo a pro dei cittadini paganti, lasciandole spalancate per i non paganti; non può mettere in guardina ladri ed assassini solo per coloro che abbiano pagato il prezzo della sicurezza, aprendo ad essi l’uscio della galera quando si tratti di derubare ed assassinare i dimentichi. Lo stato deve difendere il territorio nazionale per tutti, deve dar sicurezza e giustizia ed igiene e viabilità e tante altre cose a tutti, senza badare se i cittadini abbiano o no pagato.

 

 

231. Se dunque il cittadino smemorato può per giunta anche far affidamento sulla memoria altrui, il vuoto assoluto si fa attorno ai beni pubblici. Ognuno, sicuro di goderli, anzi già sazio di essi e speranzoso che qualcun altro pagherà, si dimentica di pagare. Gli uomini tributano allo stato salamelecchi senza fine per ringraziarlo dei preziosi suoi servizi, ma denari punti.

 

 

La tabella mengeriana, premessa logica per la spiegazione dei prezzi dei beni privati, non serve di fatto a nulla per la spiegazione dei prezzi dei beni pubblici. Su per i trattati di economica noi impariamo le leggi regolatrici dei prezzi del pane, del vino e degli altri mille e mille beni privati. Noi chiamiamo «razionali» quelle leggi, perché poste alcune premesse (tabella mengeriana, ipotesi di concorrenza o di monopolio o di concorrenza limitata) è possibile dedurre col ragionamento quali prezzi si formeranno sul mercato per i beni diretti, per i beni strumentali, per i beni capitali. Per i beni pubblici, invece, buio perfetto. Poiché la domanda non agisce, non esiste per i beni pubblici un mercato, non si formano prezzi. Lo stato deve agire «d’autorità»; deve, esso, stabilire il numero delle unità di beni pubblici che ogni cittadino sarà obbligato ad acquistare, il prezzo unitario e l’importo complessivo dell’acquisto. L’importo dicesi imposta.

 

 

232. L’imposta non è il termine finale di un meccanismo messo in moto dalle azioni volontarie degli uomini, come accade per i prezzi dei beni privati. È il punto di partenza fissato dallo stato per farsi consegnare anticipatamente i mezzi necessari a provvedere ai servizi pubblici che è suo compito fornire in guisa da risparmiare ai cittadini persino l’ombra di ogni apprensione al riguardo.

 

 

I prezzi dei beni privati sono determinati sul mercato, indipendentemente dalla volontà dei singoli compratori e venditori. Persino il monopolista perfetto innanzi di fissare il prezzo della merce da lui venduta, deve calcolare quale sarà la reazione dei consumatori. Non è in poter suo fissare prezzo e quantità consumata. Determinata l’una, e questa è data dai gusti dei consumatori e dall’ostacolo (privazione di moneta) da essi incontrato, è determinato l’altro. Lo stato invece determina l’importo totale che il contribuente è chiamato a pagare e l’importo od imposta è il risultato della moltiplicazione del fattore «numero delle unità di beni pubblici acquistandi dal contribuente» per il fattore «prezzo unitario di ogni unità»; ed ambi i fattori sono determinati «d’autorità» dallo stato.

 

 

233. Con qual criterio lo stato determina i due fattori? Alla domanda la tabella mengeriana non dà risposta se non in un aere rarefattissimo di puro ragionamento. Se fosse possibile supporre una società di uomini razionali, consapevoli dell’importanza dei beni pubblici presenti e futuri, capaci di rappresentare vivamente dinnanzi alla propria mente il quadro delle conseguenze le quali deriverebbero dalla privazione dei beni pubblici, consapevoli tutti della necessità di fare domanda attiva di essi senza fare alcun affidamento sulla probabilità che altri, in loro luogo, vi provveda, gli uomini farebbero, direttamente nelle comunità politiche minime a democrazia diretta, od a mezzo di proprii delegati nelle comunità più ampie, domanda di beni pubblici sufficiente a coprire il costo della loro fornitura. In quella società di uomini razionali, i servizi pubblici sarebbero probabilmente forniti in misura e varietà grandemente maggiore di quella osservata laddove l’imposta è opera di coazione. Anche in essa l’imposta sarebbe coattivamente distribuita; ma la coazione sarebbe il frutto della concorde libera volontà di tutti. In quella società ideale, sulla tabella di Menger si vedrebbero, accanto ai beni privati, disporsi, nella mente dei cittadini, i beni pubblici presenti e futuri. La ricchezza posseduta dai cittadini sarebbe distribuita equabilmente fra tutti i beni in misura da osservare la legge della uguaglianza dei gradi finali di utilità.

 

 

Gli utopisti da Platone a Tommaso Moro e a Roberto Owen hanno descritto società di uomini perfetti, nelle quali gli uomini volontariamente distribuiscono la loro ricchezza così da soddisfare con la pienezza consentita dai mezzi disponibili tanto i bisogni privati che quelli pubblici.

 

 

Poiché non bisogna disperare dell’avvenire dell’umanità, possiamo augurare che il regno dei cieli si attui in terra. Frattanto constatiamo di essere lontanissimi dall’applicazione spontanea della tabella mengeriana ai beni pubblici.

 

 

234. La sanzione del paradosso ultimo tributario è la coazione. Contro agli uomini smemorati e fiduciosi nell’altrui civismo vale l’imposta. Qualcuno deve costringere d’autorità il cittadino a destinare una parte del numerario disponibile in ogni unità di tempo all’acquisto dei beni pubblici.

 

 

Chiamiamo «stato» questo qualcuno fornito del potere di coazione; e chiediamo: in base a quali regole lo stato determina l’imposta?

 

 

Si riconosca innanzitutto che il problema è straordinariamente arduo. La tabella mengeriana registra ogni sorta di gusti, da quelli comunemente reputati razionali ai più stravaganti e pazzeschi.

 

 

Qui, per i beni pubblici, lo stato

 

 

  • deve sostituire il proprio giudizio sulla convenienza dei beni pubblici al giudizio dei singoli interessati;

 

  • deve dare un giudizio comparativo non solo sui gradi di importanza per ogni cittadino delle successive dosi dai numerosissimi beni pubblici immaginabili, ma anche sui gradi di importanza attribuiti dai cittadini alle successive dosi degli ancor più numerosi beni privati; distinti, ambe le specie, in presenti e futuri;

 

  • deve dare il giudizio sovramenzionato nonostante la insensibilità della grande massa dei cittadini rispetto ai beni pubblici ed alla contemporanea ipersensibilità rispetto ai beni privati;

 

  • deve dare il giudizio nonostante che molti cittadini reputino positivamente dannosi certi beni pubblici che lo stato deve pure ad essi fornire. Lo stato deve dare e far pagare la difesa nazionale anche agli internazionalisti, i quali vorrebbero abolire le frontiere; deve dare e far pagare i beni della sicurezza pubblica e della giustizia anche ai signori ladri ed assassini, il cui mestiere sta nell’offendere sicurezza e giustizia; deve dare servizi di igiene a chi si diletta di vivere in luride tane e ride della pulizia ed odia l’acqua; deve fornire servizi di istruzione a chi ha in sommo pregio l’ignoranza;

 

  • deve dare un giudizio di importanza relativa frammezzo al contrasto vociferante di classi, di ceti, di gruppi accaniti a dichiarare che quei tali beni pubblici tornano vantaggiosi solo a classi, a ceti, a gruppi diversi dal proprio e devono essere fatti pagare solo a quelli che ne godono; od addirittura affermano che certi beni pubblici vantaggiosi a sé devono essere fatti pagare esclusivamente o principalmente ad altri.

 

 

Il paradosso tributario assume a questo punto un aspetto suggestivo: la solita tabella mengeriana chiamata a registrare le decisioni volontarie dei consumatori rispetto ai beni privati, dovrebbe dallo stato essere arricchita con altre colonne ed altre categorie, nelle quali dovrebbero essere registrate le decisioni latenti, non espresse, spesso negative e frequentemente contrastanti dei contribuenti rispetto ai beni pubblici. Che senso ha una tabella mista di «registrazioni» di fatti conformi all’esperienza e di fatti contrastanti con essa? Come distribuire il numerario posseduto dai cittadini in conformità alla legge dell’uguaglianza dei gradi finali di utilità, quando fa d’uopo nel tempo stesso destinare numerario a comprare beni privati fino alla dose avente un grado di utilità nove e beni pubblici per dosi la cui utilità può dall’interessato essere considerata nulla o negativa?

 

 

235. Dal paradosso si esce costruendo una tabella, nella quale certi uomini, i quali compongono l’entità chiamata «stato», registrano quelle che «dovrebbero essere», secondo il giudizio dello «stato» le decisioni «razionali» dei cittadini rispetto ai beni pubblici e questa tabella sovrappongono, o meglio incastrano dentro la nota tabella mengeriana della distribuzione del numerario disponibile fra beni privati.

 

 

Si sostituisce cioè il «dover essere» di un archetipo all’«è» dell’esperienza; si trasforma in un precetto quello che per i beni privati è una legge empirica. Con tutti gli inconvenienti di siffatte sostituzioni. Abbiamo veduto un esempio clamoroso di sostituzione del dato di ragione al dato di esperienza quando abbiamo analizzato il nulla della tabella benthamiana o di distribuzione ugualitaria dell’imposta. Eppure lo schema ugualitario è il solo sinora offerto all’ammirazione del pubblico il quale discenda da superbo lignaggio. Bentham, il grande filosofo utilitarista, lo tenne a battesimo; e grandi pensatori, come il secondo Mill, Edgeworth, Cohen Stuart lo perfezionarono. Se uomini insigni, ragionando, riuscirono a così misero risultato, che cosa dire degli altri schemi e schemini e schemetti venuti fuori da intelligenze di second’ordine?

 

 

Si capisce dunque come altri disperato abbia abbandonato la partita ed abbia giudicato che su questa via non si fa opera di scienza. Che cosa sia nella soggetta materia opera di scienza è tuttavia assai difficile definire. Parrebbe che lo studioso, il quale non vuole, al par degli utilitaristi, sostituire il suo giudizio a quello degli uomini, debba astenersi di ogni indagine intorno a «ciò che dovrebbe essere». La ricerca del «dover essere» sarebbe ufficio del moralista, non dello scienziato. Il finanziere dovrebbe emulare l’economista, il quale non ha voluto nella tabella mengeriana costruire nessun schema di distribuzione «razionale» della ricchezza, ma si è limitato a enunciare talune leggi empiriche della sua distribuzione di fatto. Anche il finanziere si deve limitare a constatare le distribuzioni «di fatto» della ricchezza tra beni privati e beni pubblici. E poiché le distribuzioni di fatto furono in passato e sono oggi svariatissime, il finanziere indagherà quali circostanze hanno influito a determinare l’una distribuzione piuttostoché l’altra.

 

 

Perché, per parlare linguaggio piano, oggi basta destinare alla spesa pubblica il 10% e domani occorre dare il 20 o il 40% del reddito nazionale? Perché ieri erano esenti dal tributo i nobili e gli ecclesiastici e oggi si tende ad esentare l’operaio?

 

 

Perché ieri erano preferite le gabelle sui consumi ed oggi sono predilette quelle sui redditi e sui patrimoni?

 

 

Perché si alternano le imposte a tipo reale ad aliquota costante e quelle personali ad aliquota variabile crescente o decrescente?

 

 

Perché oggi i redditi normali e domani i sopraredditi?

 

 

Perché le imposte successorie hanno diversa importanza nei diversi tempi e paesi?

 

 

Perché talvolta si inacerbiscono le imposte e talaltra si ricorre a prestiti pubblici o ad emissioni cartacee?

 

 

Su quali argomenti si fondano le scelte fatte? o, meglio, con quali argomenti si cerca di persuadere il contribuente ed il non contribuente che la scelta fatta risponde, meglio di ogni altra, a certe esigenze dette di ragione, di interesse nazionale, di convenienza per i presenti ed i futuri?

 

 

Quale peso hanno nelle argomentazioni addotte la logica e il sentimento? Le «illusioni» di Amilcare Puviani[4] ed i «miti» e le «derivazioni» di Vilfredo Pareto quale parte hanno, in confronto agli argomenti logici, nella determinazione del quantum e del modo della destinazione della ricchezza a fini pubblici?

 

 

237. Nello sterminato campo del sapere umano, tutti i tipi di indagine hanno diritto di cittadinanza. Cercare le ragioni di «quel che è» è ricerca scientifica, sebbene di genere diverso, del cercare se, posta la premessa a o quella b (vedi sopra cap. IV, par. 97), sia o non sia colpevole di doppio la tassazione del risparmio; o se, esistendo sul mercato una certa massa di titoli di debito pubblico, si commetta o non errore di doppio conteggio col tenerne conto nell’inventario della ricchezza nazionale (cap. V, paragrafi 143 sgg.); o se sia più giovevole al promuovimento della ricchezza l’assumere il reddito normale o quello effettivo come base di valutazione del reddito (cap. X, paragrafi 201 sgg.); o se la tassazione dell’incremento di valore delle aree fabbricabili faccia doppio con la tassazione del reddito che si ricaverà poi dall’area fabbricata (cap. III, paragrafi 55 sgg.). Questi, che ho ricordato e tutti gli altri che ho discusso nei capitoli precedenti, sono problemi di pura logica. Non è affatto inutile discuterli e risolverli su quella base. L’uomo politico ed il finanziere pratico traggono sempre vantaggio dal conoscere le conclusioni della pura logica. Quanto all’accettarle o meno, è un altro paio di maniche. L’economista, il cui mestiere è solo ragionar logicamente, non pretende vedere accolte le sue conclusioni. L’uomo politico può avere mille ragioni per non accettarle. Ad esempio, dopo aver tassato il reddito delle aree fabbricate (e quindi il valor capitale e l’incremento del valor capitale delle aree fabbricabili) con un’imposta del 20%, il politico può ritener necessario di tassare con un altro 20% l’aumento di valore delle aree fabbricabili. La necessità discende:

 

 

a)    dal bisogno dell’erario di un’entrata supplementare;

 

b)    dall’essere gli aumenti delle aree fabbricabili materia di tassazione accetta all’universale dei cittadini, eccezione fatta dei pochi colpiti;

 

c)    dall’essere l’universale convinto trattarsi di una materia imponibile la quale altrimenti sfuggirebbe alla tassazione;

 

d)    dall’essere agevole costruire un ragionamento in base al quale si dimostra che quell’incremento è ottenuto senza sforzo dal proprietario per l’operare di fattori sociali (incremento della popolazione cittadina, dei traffici, ecc.)

 

 

Diremo a la spiegazione finanziaria del tributo; b la spiegazione psicologico-sociale; c quella pseudo-logica; e d quella di giustizia. Il politico contrappone il peso di a, b, c, d, congiuntamente o separatamente considerate, al ragionamento di doppio proposto dall’economista; e trova questo calante ai fini della decisione che egli deve prendere. L’imposta sull’incremento di valore delle aree fabbricabili entra nel novero delle imposte vigenti in quel dato paese.

 

 

Discende forse da ciò che il ragionamento dell’economista, il quale conclude al doppio sia anch’esso calante? A taluno basta anche meno per concludere che un ragionamento od una teoria è «infondata». A me basta ancor meno per concludere che il cervello di costui è spappolato. Come mai può diventare erronea la conclusione di un ragionamento astratto solo perché un politico non l’accetta e non la fa diventare base del suo operare? La conclusione resta quello che è: vera o sbagliata a seconda della bontà del ragionamento condotto. Se vera, la sua verità rimane salda anche se mille uomini politici la respingano e nessuno la faccia propria. Se erronea, l’accoglimento favorevole dei legislatori unanimi di tutti i paesi e di tutti i tempi non ha forza di trasformarla in vera.

 

 

Altra, ed anch’essa interessante scientificamente, è la ricerca delle ragioni z, v, s, rn le quali hanno fatto sì che questo o quel legislatore o tutti i legislatori accolsero conclusioni opposte a quella che il ragionamento dimostrava, ad ipotesi, vera. Ma, badisi, l’avere precisato quelle ragioni z, v, s, rn non autorizza l’indagatore a concludere che la conclusione accolta dall’uomo politico sia fornita dell’attributo di «conformità alla logica», quale aveva, per ipotesi, la conclusione opposta, da lui respinta. Non può a essere a e contemporaneamente non a. Se una certa imposta, fatta una certa premessa, è un doppio, resta un doppio anche se codificata da mille legislatori.

 

 

Le due conclusioni si muovono in campo diverso.

 

 

La conclusione dell’economista, come sono quelle raggiunte nei capitoli precedenti, si muove nel campo della logica. Possono essere erronee perché la premessa fu mal posta od il ragionamento mal condotto; non mai perché esse non siano state applicate dai politici. All’economista basta averle fatte presenti al politico. Il suo ufficio di chierico camminante della verità per il momento è conchiuso.

 

 

Per il momento; ché quando il politico avrà fatto la sua scelta, accogliendo o respingendo in tutto od in parte, le conclusioni dell’economista; quando, fatta la scelta, il politico avrà costrutto un certo sistema tributario, e questo avrà operato per tempo bastevole, l’economista rientrerà in campo per indagare gli effetti delle scelte fatte.

 

 

Qui, nuovamente, ci muoviamo in un campo di indagine avente valore logico. Il trattato degli effetti delle imposte risponde al quesito teoretico: data una certa tassa, data una certa imposta, dato un certo prestito, dati cioè certi istituti tributari configurati in tale o tale modo, quali sono le variazioni nell’equilibrio economico generale le quali sono collegate coll’introduzione o coll’abolizione di quegli istituti?

 

 

L’ultima indagine in sostanza si confonde colla prima. Nella prima, più astratta, l’economista configura certe ipotesi semplici di imposta e ci ragiona sopra; nell’ultima egli lavora sulla più ricca e complicata esperienza degli istituti tributari esistenti e ritorna a ragionarvi sopra. Le conclusioni della prima indagine astratta rimangono vere anche se non siano accolte dal legislatore; le conclusioni della seconda rimangono, se ben ragionate, vere anche se il legislatore, avvertito che talun istituto da lui creato produce effetti che, secondo il vocabolario concordemente accettato, debbono definirsi dannosi, persiste nel mantenere quell’istituto. Non è meraviglia se questi due capitoli dei quali il primo può dirsi di analisi logica del concetto dei varii tributi immaginabili, ed il secondo di analisi degli effetti dei medesimi tributi attuati, piacciono agli economisti. Essi sono capitoli di economia pura; e qualcuno è giustamente collocato tra i gioielli di questa bellissima tra le scienze. Gli economisti non aspirano, quando analizzano concetti o indagano effetti di tributi, all’ammirazione ed al seguito immediati dei giuristi, dei politici, dei finanzieri. Sono certi di non lavorare invano; ché la logica, se logica v’ha, ha una sua virtù incoercibile. Non è vero che sia inutile gittare margaritas ante porcos. Le perle, se sono vere, col tempo saranno ritrovate e splenderanno ad adornamento perpetuo del corpo immacolato della scienza.

 

 

Chi fa l’indagine intermedia, del perché gli istituti tributari siano quelli che sono, del perché i politici li abbiano costrutti poco o molto diversi da quelli che sarebbero conformi alle conclusioni dell’analisi logica del concetto e degli effetti condotta dagli economisti?

 

 

Qui c’è un po’ di baruffa fra talune schiere, differenti sovratutto per temperamento, di rispettabili studiosi.

 

 

Non parlo dei giuristi, il compito dei quali è nettamente diverso da quello dell’economista o del ricercatore dei perché. Il giurista parte dal tributo quale è regolato nelle leggi vigenti. Tuttalpiù – ma non è necessario – risale ai principii informatori della legge, quali furono dichiarati dal legislatore medesimo. In caso di dubbio, parla la legge medesima. Il giurista la interpreta, per quel che essa dice, al lume della logica giuridica propriamente detta. Il giurista la critica, non però sulla base di ragionamenti politici od economici o sociologici, bensì ed esclusivamente sulla base della imperfezione interna della legge tributaria, delle sue contraddizioni o del contrasto di essa con altre leggi ugualmente vigenti. L’opera del giurista, che sia veramente tale, può essere, come fu ed è in altri campi, feconda di frutti stupendi anche nel campo tributario.

 

 

La baruffa, di cui parlo, ha luogo tra gli indagatori del perché delle decisioni assunte dal politico e poscia tradotte nelle leggi. Si dice che un tale sistema tributario è quello che è:

 

 

a)    per ragioni di indole politica. Il politico, ossia il governante – uomo singolo o gruppo politico o parlamento o una delle tante mescolanze empiriche riscontrabili nella storia di governo dell’uno, dei pochi o dei molti – vuole ottenere certi fini di potenza, di cultura, di benessere, di innalzamento di questa o quell’altra classe. Il sistema tributario si informa ai fini del politico;

 

b)    per ragioni di indole sociologica. Il politico non è arbitro dei fini da lui voluti. Egli ubbidisce ad interessi sentimenti ed idee dei ceti e delle classi le quali sono dominanti nel paese. Altra è la finanza dei paesi nei quali prevalgono le classi proprietarie, altra quella dei paesi in cui sono prevalenti i ceti industriali e mercantili; e tutte differiscono da quella dei paesi in cui tendono a prevalere classi più ampie dei lavoratori; ed anche qui occorrerà distinguere fra i gruppi dei contadini, con o senza terra, degli artigiani, dei lavoratori della grande industria, degli impiegati, ecc. ecc. Solo un’analisi compiuta sociologica ci può consentire una spiegazione ugualmente compiuta del sistema tributario vigente in un paese. Solo un’analisi degli avvicendamenti storici dei ceti dirigenti spiega le vicende della politica tributaria. I nuovi ceti, i quali giungano al potere, trasformano, insieme con gli altri, anche gli istituti tributari in conformità dei nuovi miti e dei nuovi ideali a cui essi hanno dovuto la loro ascesa.

 

 

Tutto ciò può essere molto bello, quando non sia di maniera. Dico può essere, perché sinora la disputa non è andata più in là del capitolo introduttivo, nel quale si espone quel che si desidererebbe fare e si butta giù alla brava uno schizzo delle variazioni dei fini politici e delle ragioni sociologiche di quelle variazioni le quali hanno operato sulle variazioni degli istituti tributari.

 

 

240. Umilmente dico che lo scrittore, se non ha fatto un quadro di maniera, ha compiuto opera di storico. Nessun fatto si ripete tale quale, nessun istituto tributario di un tempo di un paese è uguale ad un altro qualsiasi istituto tributario di altro tempo e di altro paese. Chi ha spiegato il sistema tributario del decennio cavourriano in Piemonte, dicasi 1850-59, e le sue variazioni, ha spiegato quel sistema e quelle variazioni nel Piemonte del 1850-59 e non il sistema tributario borbonico o toscano o pontificio dello stesso tempo; e non il sistema contemporaneo del terzo Napoleone in Francia o quello di poco prima di Roberto Peel in Inghilterra. Chi pensi a quel che non sappiamo di ognuno di quei sistemi rabbrividisce quando sia improvvisamente posto innanzi alla oltracotanza di chi, impavido, scopre analogie e differenze, uniformità e difformità, leggi evolutive di quel che non si conosce o si conosce assai mediocremente.

 

 

Anche colui il quale scriverà la storia del sistema tributario in Piemonte durante il decennio cavourriano dovrà forzatamente dai moltissimi fatti astrarre quelli che a lui, guidato da certe idee generali, sembreranno più significativi o rilevanti, dovrà scegliere, tra i tanti fatti, antecedenti e susseguenti, quelli che a lui parranno legati assieme da relazioni di causa ed effetto o di interdipendenza. Nessuna storia è compiuta e compiutamente probante; ma quale differenza fra il quadro vivo concreto parlante di uomini e di idee e di ceti e di interessi operanti in un decennio e in un paese alle scialbe generalizzazioni di fatti e di legami astratti dalle storie di tutti i tempi e di tutti i paesi!

 

 

241. Tuttavia, poiché tanti peccano, mi decido a peccar anch’io. Poiché tanti costruiscono schemi atti a spiegare i sistemi e gli istituti tributari, costruirò schemi anch’io.

 

 

Per schemi tributari intendo le tabelle di distribuzione della ricchezza posseduta dagli individui che si può immaginare potrebbero essere dedotte dai principali tipi immaginabili di stato (vedi sopra par. 235). Poiché la tabella mengeriana non serve, quali tipi principali di tabelle hanno costruito gli «stati» – ossia gli uomini deliberanti come «stato» – in luogo di essa, utilizzabile per i beni pubblici? Chiamerò d’ora innanzi tabelle «politiche» i tipi creati dagli stati in sostituzione di quelle che sarebbero costruite dagli uomini se essi fossero perfettamente consapevoli dell’importanza dei fini pubblici; politiche perché attinenti alla polis, alla città, alla cosa pubblica. Quali siano i principali tipi di tabelle politiche è domanda che, oltre a Pantaleoni, aveva posto De Viti[5] in un celebre saggio.

 

 

Amendue sono partiti da una astrazione. Hanno supposto l’esistenza di questo o di quel tipo di stato: De Viti ha pensato il tipo di stato monopolistico, in cui il governante pensa al vantaggio di sé e della classe di cui egli è a capo e guarda al vantaggio della classe governata solo entro lo stretto limite della necessità di non suscitare reazioni atte a danneggiare se stesso e la classe governante; – ed il tipo dello stato cooperativo, in cui il governante è il delegato dei governati e cerca di interpretare, nel modo migliore a lui possibile, il desiderio e gli interessi della maggioranza dei governati.

 

 

Pantaleoni ha assunto come punto di partenza il governo del tempo nel quale scriveva, col parlamento quale era, col governo e coi ministri quali egli conosceva, primo tra essi Agostino Magliani ministro delle finanze ed ha indagato come di fatto si costruivano i bilanci, si equilibravano entrate e spese, si sceglievano le spese da fare e si scartavano le altre, si deliberavano imposte.

 

 

Tutti tre gli schemi: quello monopolistico e quello cooperativo di De Viti, quello parlamentaristico di Pantaleoni sono consaputamente schemi, astrazioni, però utili alla interpretazione dei fatti che possono rientrare in quegli schemi. Nessuno schema è capace di fornire leggi generali, valide per tutti i tempi e tutti i paesi. Tutti tre sono utili a fornire un filo conduttore, uno strumento per ordinare classificare semplificare ed orientarsi frammezzo alla complicazione dei fatti reali. Nessuno schema può avere pretese più alte. Arnese provvisorio di interpretazione e di orientamento è soggetto ad essere abbandonato e ripreso a seconda dei fatti che si tratta di interpretare e di ordinare. Metto le mani avanti e dichiaro che i miei schemi non hanno alcuna pretesa di dettare qualsiasi legge generale degli istituti tributari. Offro qualche provvisorio e parziale strumento di interpretazione di taluni tipi di sistemi tributari. Nessun inconveniente nascerà se, ove non giovi, lo schema sia buttato. Ho tratto dalla storia antica greca e da quella del risorgimento italiano i fatti da ridurre a schema. Invece di costruire astrazioni della mente, ho cercato riassumere i tratti, che a me parvero caratteristici, di talune esperienze storiche finite. È vero che esse non hanno attinenza con esperienze presenti. Ma, volendo solo offrire modelli di indagine, era necessario riferirsi ad esperienze ben chiuse.

 

 



[1] Si fa così un po’ di torto a Geremia Bentham; ché questi vide subito (cfr. sopra, la nota al par. 168, p. 169) l’assurdità delle deduzioni che si potevano ricavare dal suo ragionamento. Ma poiché il ragionamento è suo e, se non andiamo al di là dell’individuo singolo, si chiarì fecondo, così pare corretto intitolare la tabella al suo nome.

[2] I trattatisti provvedono a rendere rigorosa la dimostrazione parlando di uguaglianza dell’utilità marginale ponderata, ossia dividendo la unità di ogni bene, comunque essa sia conformata, grossa o piccola, per il numero delle unità di numerario occorrenti per acquistare quella unità. L’uguaglianza dell’utilità marginale si riferisce al quoziente di siffatta divisione. Gli espedienti descritti nel testo hanno per iscopo di rendere l’operazione più evidente a primo tratto.

[3] Fondamentali sono qui i saggi di Maffeo Pantaleoni intitolati Contributi alla teoria del riparto delle spese pubbliche, in «Rassegna Italiana» del 25 ottobre 1883 e Teoria della pressione tributaria, Roma 1887, ambi ripubblicati in Scritti vari di economia, prima serie, Sandron, Palermo 1904, ed ora in Studi di finanza e di statistica, Zanichelli, Bologna 1938.

[4] Amilcare Puviani, Teoria della illusione finanziaria, Sandron, Palermo 1903.

[5] I saggi di Pantaleoni sono citati sopra in nota al par. 226; quello di Antonio De Viti De Marco, Il carattere teorico dell’economia finanziaria (Roma 1888) fu poscia rielaborato e nelle parti essenziali si legge nel capitolo primo del libro primo dei Principi di economia finanziaria, Einaudi, Torino 1939.

La scienza italiana e la imposta ottima

La scienza italiana e la imposta ottima

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 210-235

 

 

 

 

200. Giustizia e sicurezza furono congiunte insieme, ad attuare l’imposta adatta alla città terrena, in Italia nel secolo XVIII. Narrai altrove[1] la storia di quell’invenzione ed i suoi risultati. Volle Maria Teresa, padrona dello stato di Milano, porre termine ai disordini derivanti dai privilegi e dagli arbitrii invalsi durante il dominio spagnuolo (cfr. sopra paragrafi 195-98).

 

 

Fu incaricato nel 1718 il napoletano Don Vincenzo De Miro di presiedere una prima giunta del censimento (catasto) e nel 1739 il toscano Pompeo Neri di sopravegliare alla seconda, e dopo il 1748 di curare l’attuazione del catasto. Questi insigni uomini non indugiarono in ragionamenti sottili di giustizia perfetta, ma commisero «a quattro dei più accreditati ingegneri di proporre un metodo, acciò tale operazione restasse eseguita con tutta la giustizia, e con tutti i riflessi convenienti alla generale uguaglianza, che per lo scopo del censimento si doveva stabilire». Ingegneri stimatori pratici, non dottrinari, ebbero il carico di fissare i criteri con cui I’imposta doveva essere ripartita, ed ingegneri e pratici guardando attorno a sé, applicando criteri di stima usati forse da secoli, videro con occhi chiari il punto di incontro della perequazione verso lo stato, della sicurezza dei contribuenti e della prosperità pubblica.

 

 

Se si volesse riassumere in una definizione il contenuto del concetto di rendita imponibile osservato dagli stimatori milanesi, non si saprebbe trovarne altra migliore di quella del codice: Hoc fructuum nomine continetur quod justis sumptibus deductis superest (VII-51-1). Dal pensiero degli stimatori milanesi è assente qualunque accenno a distinzioni del reddito in varie parti od a derivazioni indipendenti di queste parti del reddito da certe forze produttive del terreno (ad esempio, dal terreno per sé; dai capitali fissi, dal capitale circolante o dal lavoro). Lo stimatore conosce solo i «frutti» del suolo o la «cavata» o la «rendita», che sono tutte parole sinonime, usate ad indicare il prodotto lordo della terra. Dal prodotto lordo devono essere dedotte «tutte» le spese, nessuna esclusa. Come il prodotto deve essere calcolato nella sua interezza, così le spese devono essere valutate in modo da rendere la cavata netta «del tutto pura». Le spese possono essere di lavorazione, di semente, di riparazione agli edifici, di perdite per infortunii.

 

 

La cavata netta, o rendita imponibile o parte dominicale si identifica con quella porzione di frutto che di netto va al padrone, dedotte cioè dalla cavata lorda «la parte colonica» e le altre spese che sopra furono indicate. Lo stimatore concepisce cioè il frutto lordo del fondo diviso in due parti, di cui una sono le spese, principale fra esse la quota colonica, ed il resto quod superest è la parte dominicale che va al padrone ed è oggetto della imposta fondiaria. Ancor oggi l’articolo 2 della legge 1 marzo 1886 dichiara che «rendita imponibile è quella parte del prodotto totale del fondo che rimane al proprietario netta dalle spese e perdite eventuali».

 

 

Tutti i calcoli sulla cavata o rendita lorda, sulle spese e sull’«ordine» del lavorerio, ossia sui metodi di conduzione, se a mezzadria (colonato) o ad affitto o ad economia, sui prezzi da usarsi per le varie specie di terreni e di frutti, devono essere condotti secondo «ciò che venga costumato in ogni sito», osservando «in tutto il costume del paese», seguendo «la pratica comunemente dalli stimatori ricevuta e regolata nel modo più mite e più benigno e più favorevole al paese».

 

 

quali istruzioni furono dappoi sapientemente riassunte nell’art. 2 della nostra legge fondamentale, secondo cui i fondi devono essere «considerati in uno stato di ordinaria e duratura coltivazione, secondo gli usi e le consuetudini locali», né si deve tener conto «di una straordinaria diligenza o trascuranza». Le quali ultime non sarebbero invero conformi a quel «costume del paese» a cui deve lo stimatore riferirsi sempre nei suoi calcoli di prodotti e spese.

 

 

Semplici norme, dettate con parole ingenue. Seguire il costume del paese, le pratiche comunemente ricevute, osservare lo stato di ordinaria e duratura coltivazione, non tener conto di straordinaria diligenza o trascuranza sono precetti che istintivamente, per illuminazione proveniente dalla visione chiara della realtà, abiurarono l’errore massimo della finanza dottrinaria, la quale misura il diritto dello stato secondo il merito altrui. Gli italiani che redassero le norme del catasto milanese videro che lo stato doveva in ogni modo ricevere la sua quota del prodotto comune; riceverla negli anni buoni e negli anni cattivi, perché la macchina statale non può mai interrompere il suo operare continuo; epperciò l’imposta non deve essere basata nel reddito effettivo variabile di ogni anno ma sul medio reddito di un bastevole lasso di anni. Videro che lo stato non poteva abbandonare le sue sorti alla mercé dei risultati ottenuti dai singoli contribuenti, abili o nulli, laboriosi o poltroni; videro che esso non doveva premiare i ritardatari e multare gli intraprendenti e giunsero naturalmente ovviamente alla grande idea dell’ordinarietà, del reddito medio, conforme agli usi del paese.

 

 

201. Traggo dalla memoria già ricordata su La terra e l’imposta alcune pagine nelle quali riassumevo i frutti ottenuti dalla attuazione dell’idea che gli economisti chiamati dai reggitori dello Stato di Milano a riordinare le imposte avevano rinvenuta nella pratica estimativa secolare ed avevano fatta propria. Dopo aver descritto la miseria del contado di Lodi dove «crudeli appaltatori erano arbitri della roba e delle persone: un povero bracciante pagava fino a 20 scudi di annua taglia; i piccoli proprietari, non bastando loro i frutti a pagare la metà delle gravezze, abbandonavano i poderi o li vitaliziavano a potenti privilegiati, che non pagavano tasse e non temevano tribunali», Carlo Cattaneo scolpisce il rivolgimento operatosi in brevi anni colle seguenti parole lapidarie:[2]

 

 

Il nuovo governo chiama successivamente a cooperare alla grande rinnovazione della Lombardia le belle e generose intelligenze di Pompeo Neri, di Gianrinaldo Carli, di Cesare Beccaria, di Pietro Verri.

 

 

Si stabilì un nuovo censimento, che mirava a collocare l’imposta sul valore fondamentale del terreno, anziché sul variabile annuo reddito, e sulla personale condizione dei possessori. Il nuovo catasto, decretato nel 1718, ritardato con infiniti artifizii da molte magistrature e da molte classi privilegiate, ottenne il sacro vigore di editto perpetuo all’1 gennaio 1760. Il suo principale effetto fu di pesare sull’inerzia ed alleviare l’industria; poiché, ferma stante la proporzione della tassa all’estimo una volta pronunciato, le migliorie successive rimangono esenti; e il fondo, quanto meglio è coltivato, viene a pagare una tanto minor quota del frutto. Non passarono dieci anni, che vasti tratti sterili si videro coperti di ubertose messi. Alla fine del secolo il valor venale fondiario dell’agro lodigiano era già raddoppiato!

 

 

Prima che da Carlo Cattaneo, i mirabili effetti del censimento milanese erano stati messi in luce da Gianrinaldo Carli, il quale, giunto alla chiusa del classico rendiconto dell’opera compiuta da lui e dai suoi antecessori, sotto il titolo di Conseguenze felici così scrive:[3]

 

 

Ma si ottenne ancora di più, cioè un incoraggiamento grandissimo per l’agricoltura, il che ordinariamente sfugge dall’occhio degli osservatori comuni. Questo incoraggiamento consiste non solo nella sicurezza della giustizia, nel pagamento della vera e reale quotizzazione del tributo, ma altresì nella provvida agevolezza per cui i miglioramenti delle terre, sia per nuova coltura delle incolte, sia per nuove piantagioni di gelsi ed altre utili piante, sono esenti da ogni aumento di censo, cosicché quel terreno, che è stato posto in estimo come incolto e però aggravato da minima tenue porzione di carico, divenendo colto e fruttifero seguita a pagare senza aumento alcuno il medesimo carico di prima. All’incontro que’ terreni i quali al tempo della stima si sono ritrovati colti, se mai per incuria o per negligenza divengono di peggiore condizione, rimangono senza diminuzione alcuna sotto il medesimo tributo. Così con una operazione sola si punisce l’inerzia e si premia l’industria; il che è stato sempre presso i politici un problema di difficile soluzione. Quanto abbia prodotto di bene questo sistema è incredibile. Nel solo Lodigiano a’ tempi della generale stima si son trovate incolte pertiche circa 23.000, ed ora non ve ne saranno cento. Infatti nel 1733 si numerarono, secondo la relazione del notaio Masera, caselli, ossiano bergamine ove il formaggio si fabbrica, num. 197; nel 1767 se ne sono contate num. 236, ognuna delle quali comprende vacche circa 120, fabbrica forme grandi formaggio 290 circa. Sicché di quel tempo in qua sono aumentati caselli num. 39 nel Lodigiano, ossiano vacche num. 4680, e formaggi num. 11.310, i quali nella provincia formano un ingresso intorno a Lire 848.250. Così in tutte le città le case sono raddoppiate, perché anche in questa classe l’alzamento ed ingrandimento non porta aumento di tassa.

 

 

Poiché la ripetizione giova, quando il medesimo concetto sia nuovamente esposto da penne sovrane, riprodurrò ancora due brani che si leggono in opere giustamente celeberrime di Carlo Cattaneo. Nell’introduzione al saggio famoso presentato agli scienziati italiani convenuti a congresso a Milano nel 1844, il Cattaneo noverò il nuovo catasto tra i fattori precipui del rifiorimento economico lombardo:[4]

 

 

S’intraprese il censo di tutti i beni, dietro un principio che poche nazioni finora hanno compreso. Si estimò in una moneta ideale, chiamata scudo, il valor comparativo d’ogni proprietà. Gli ulteriori aumenti di valore che l’industria del proprietario venisse operando, non dovevano più considerarsi nell’imposta; la quale era sempre a ripartirsi sulla cifra invariabile dello scudato. Ora, la famiglia che duplica il frutto de’ suoi beni, pagando tuttavia la stessa proporzione d’imposte, alleggerisce d’una metà il peso, in paragone alla famiglia inoperosa, che paga lo stesso carico, e ricava tuttora il minor frutto. Questo premio universale e perpetuo, concesso all’industria, stimolò le famiglie a continui miglioramenti. Tornò più lucroso raddoppiare colle fatiche e coi risparmi l’ubertà d’un campo, che posseder due campi, e coltivarli debolmente. Quindi il continuo interesse ad aumentare il pregio dei beni fece sì che col corso del tempo e coll’assidua cura il piccolo podere pareggiò in frutto il più grande; finché a poco a poco tutto il paese si rese capace d’alimentare due famiglie su quello spazio che in altri paesi ne alimenta una sola. Qual sapienza e fecondità in questo principio, al paragone di quelle barbare tasse che presso culte nazioni si commisurano ai frutti della terra e agli affitti delle case, epperò riescono vere multe proporzionali, inflitte all’attività del possessore!

 

 

Più ampiamente, lo stesso Cattaneo, nelle lettere in cui trasse argomento dall’esperienza lombarda per proporre riforme utili a sollievo dell’Irlanda, così additava allo studio degli stranieri il memorando canone di tassazione scoperto dai censitori milanesi:[5]

 

 

Il censo è quella descrizione generale del paese, nella quale ogni campo è designato nelle sue dimensioni e nella sua forma, e classificato giusta la condizione nella quale era al tempo in cui fu censito e il valore che allora aveva. E un’istituzione che influì oltremodo nel miglioramento perenne delle terre, perché provocò un indefinito investimento di capitali. In altri paesi la tassa fondiaria e le altre imposte su le proprietà (Land-tax) per lo più sono assestate sul reddito presente effettivo del podere, e crescono o diminuiscono col reddito. Questa proporzione degli aggravi alla ricchezza, ossia alla forza di sopportarli, sembra un atto di giustizia; ed è un errore d’economia.

 

 

Infatti: se il lavoro delle terre altamente coltivate corrisponde alla quantità del capitale investito; se il capitale in tal modo investito produce ben tenue interesse, cioè un tenue aumento di reddito; se all’aumento di reddito corre dietro un’imposta proporzionale: è assai facile che l’interesse tenue diventi tenuissimo, diventi nullo. Mancherà dunque nel proprietario ogni spinta ad aggiungere altri capitali, e la tassa proporzionale nell’improvvida e ignara sua giustizia arresterà il miglioramento. Questa profonda verità fu avvertita nello scorso secolo dai grandi economisti, che, ignoti all’Europa, reggevano le oscure sorti del nostro paese. Essi vollero adunque che nel censo fosse numerato e contrassegnato ogni campo, secondo il suo valore, ossia col numero degli scudi che esso valeva. La tassa fondiaria si riparte ancora oggidì sopra l’estimo allora stabilito. Quindi la provincia di Milano essendo estimata circa 24 milioni di scudi e quella di Cremona 14, le tasse si distribuiscono fra queste due province nella proporzione di 24 a 14. In ciascuna provincia poi e in ciascun comune ogni campo vi contribuisce in ragione del numero degli scudi a cui fu estimato. Ciò vale anche per le sovrimposte comunali (parish rates), che servono a sostenere in parte le spese delle strade, delle scuole, del medico, ecc. In un comune che ha per esempio l’estimo di venti mila scudi, se si mettesse una sovrimposta di due mila lire, risulterebbe nella proporzione di un centesimo per ogni scudo; e un campo estimato 70 scudi pagherebbe 70 centesimi, e così discorrendo. Due campi d’eguale superficie, ch’erano d’egual valore al tempo in cui furono censiti, cioè un secolo fa, sostengono una parte d’imposta fra loro eguale, benché l’uno d’essi siasi nel frattempo migliorato e dia reddito maggiore. Così l’aumento industriale del reddito rimane franco d’imposta. Quindi ognuno è spinto ad aumentare il reddito anche col più tenue impiego del capitale.

 

 

Aggiunger parole a queste pagine memorande di uomini davvero grandi sarebbe irriverente. Al pari di coloro che, ignoti all’Europa, reggevano le oscure sorti della Lombardia, i reggitori degli stati moderni debbono ricordare ognora che l’imposta sui sovraredditi (rendite positive e negative) non solo è una impossibilità tecnica, ma sarebbe una sciagura economica.

 

 

Debbono anche ricordare che la ordinarietà del reddito da assoggettarsi all’imposta non vuol dire catasto «perpetuo». Su ciò i moderni legislatori si discostano dalle affermazioni dei creatori del catasto milanese; bastando, a conseguire i benefici effetti della ordinarietà «un intervallo più o meno lungo di tempo e che giova sia determinato da principio». Così il Messedaglia, il quale poi seguita:[6]

 

 

Si tratta di un reddito di lenta e travagliata formazione; i capitali impiegati in imprese agricole non rendono generalmente che a lontane scadenze, e importa in sommo grado di poter misurare fin da principio i carichi da cui possono andarne gravati; importa ad ogni modo che gli aumenti eventuali di carico non vengan che tardi, e quando il maggior reddito sia per essere definitivamente conseguito e consolidato.

 

 

Vi è un interesse maggiore di economia nazionale di corrispondere a cosifatta esigenza, di lasciar respirare l’agricoltura, di non turbarla o versarla con estimi ripetuti a troppo brevi intervalli, di promuoverne i miglioramenti col premio di una temporanea immunità. I possibili deterioramenti si verificano, alla loro volta, in via ordinaria, alquanto a rilento, e possono perciò consentire, senza eccessiva sofferenza, una revisione a qualche distanza di tempo, purché questa non sia eccessiva.

 

 

Per altra parte, ogni operazione, anche di semplice revisione o rettifica generale di un catasto, è affare lungo, dispendioso, difficile, che s’incontra in ostacoli di ogni guisa, e ingenera perturbazioni che interessa di provocare il meno frequentemente che sia possibile: e ne abbiamo noi stessi la dimostrazione questo momento.

 

 

Il modo medesimo e la norma secondo cui si procede in un catasto alla determinazione della materia imponibile, non si accordan bene che col concetto di una ragionevole stabilità, e ne sono la naturale conseguenza. Si cerca un reddito relativamente costante, calcolato bensì sullo stato attuale, ma per un adeguato, che comprenda in termini di alquanta larghezza tutte le ordinarie vicende della coltivazione. I due concetti vanno perciò necessariamente connessi, e l’uno è il naturale correlativo dell’altro.

 

 

Bensì è stata già fatta l’osservazione che oggi si è assai meno inchinevoli ad una troppo lunga durata degli estimi, e propensi invece ad abbreviare i termini prestabiliti per la loro revisione periodica. Vi si ravvisa il vantaggio di proporzionar meglio l’imposta, in un’epoca sopratutto come la nostra, dove le mutazioni sono comparativamente forti anche a non lungo intervallo di tempo, e di moderare le resistenze che possono altrimenti conseguire da troppo inveterati interessi o rapporti. Anche ad altre epoche noi non abbiamo presente alcun caso in cui la stabilità del catasto sia stata espressamente garentita per la perpetuità.Si faceva calcolo di un termine assai lungo e non prestabilito, che poteva anche protrarre indefinitamente l’eventualità di una revisione; ma non si andava più in là.

 

 

Il lungo intervallo di tempo tra una lustrazione e l’altra, ché a tanto si riduce la «perpetuità» degli estimi agrari, è cagione di un altro benefico effetto. L’agricoltore, stimolato dall’esenzione dei sopraredditi oltre l’ordinario reddito catastale per i rimanenti anni a correre del trentennio, migliora la tecnica agricola, cresce la produttività dei campi. Gli sperimenti di novità, prima isolati, si moltiplicano. In capo al trentennio la terra è trasformata; e son diversi i metodi culturali, i prodotti, gli uomini. Quel che era prodotto «ordinario» al momento della lustrazione precedente è divenuto l’infimo ricavo degli agricoltori più ignoranti o meno capaci. L’agricoltore medio, buon padre di famiglia si trova spinto più in su nella scala della produttività; ed il prodotto «ordinario» è ora uguale a quello che trent’anni prima era il sogno degli sperimentatori più ardimentosi. Ecco d’un tratto la finanza raccogliere il frutto della sapiente sua prudenza nel perseguire i redditi eccezionali. Ecco dimostrato che l’adeguare l’imposta ai frutti effettivi non è solo, come esclamava Carlo Cattaneo, un barbaro errore economico, ma è anche un gravissimo errore finanziario.

 

 

202. La scoperta degli economisti italiani del ’700 si riassume in due idee semplici: oggetto dell’imposta sono i frutti che ogni anno nascono crescono e maturano nel fluire perenne del fiume della produzione; non i frutti effettivi che ogni uomo ottiene in ragione delle sue singolari attitudini e fatiche, bensì quelli che egli può ragionevolmente ottenere, nel luogo in cui egli vive e col sussidio delle istituzioni politiche, giuridiche e culturali le quali rendono possibile la sua vita economica, quando egli applichi una media intelligenza ed una ordinaria volontà di lavoro agli strumenti produttivi da lui posseduti. Non le astrazioni contabili, non i risultati di misteriose bilance intese a pesare numeri inconfrontabili perché separati dal trascorrere del tempo, forniscono la base all’imposta; bensì la realtà della vita che ad ogni istante fa perennemente giungere dinanzi agli occhi dello spettatore, il quale si collochi nel punto che divide simbolicamente la produzione dal consumo, nuovi beni e nuovi servizi. Ma lo stato non assume questi beni e questi servizi per quel che sono caso per caso per ogni individuo contribuente. Indagare quel che l’individuo di fatto produce di anno in anno è opera invidiosa e pericolosa. Invidiosa perché spinge l’individuo a guardare il vicino ed a spiare ed emulare la attitudine di costui a frodare; pericolosa perché spegne ed attenua la fiamma che induce l’uomo ad affaticarsi ed a progredire. Perché lo stato dovrebbe curarsi di sapere quel che l’uomo in effetto produce, giovandosi dei servizi che lo stato gli ha reso, dell’ambiente di giustizia, di libertà, di cultura e di elevazione spirituale che lo stato ha creato? Lo stato ha creato per tutti ugualmente; e chiede a tutti, in ragione di quel che esso ha dato.

 

 

203. Il problema posto dagli scienziati italiani della seconda metà del ’700 non toccava la ripartizione dell’imposta. Quegli uomini avevano certamente convinzioni precise in argomento. Lottavano contro l’arbitrio dei grandi e dei privilegiati, i quali tentavano ogni via per rigettare l’onere dell’imposta sui deboli e sui plebei; epperciò chiedevano l’uguaglianza oggettiva del tributo. Paghino le cose per quel che valgono, per quel che fruttano, senza riguardo alla persona che le possiede: nobili e plebei, ecclesiastici e secolari, tutti siano chiamati a pagare imposta in ragione delle cose possedute. Fu la grande conquista del secolo dei lumi; e se ne diede poi il merito agli uomini della rivoluzione francese, i quali la estesero all’Europa. Ma gli uomini di governo di Vittorio Amedeo II e quelli di Maria Teresa avevano già attuata l’idea in Piemonte ed in Lombardia.

 

 

La battaglia contro i privilegi era tuttavia cosa diversa da quella contro l’incertezza; e l’una va tenuta nettamente distinta dall’altra. Nel secolo XIX i privilegi assunsero altri nomi e la distribuzione dell’imposta ebbe tendenza a diventar nuovamente personale. Nel presente capitolo non si discorre di distribuzione dell’imposta bensì di accertamento e valutazione della materia imponibile. La scoperta italiana del «reddito normale» riguarda esclusivamente il problema di accertamento e valutazione della materia imponibile. Si può aver risoluto il problema di valutazione nel senso voluto da Vincenzo De Miro, da Pompeo Neri, da Gianrinaldo Carli e da Carlo Cattaneo, si può cioè abbracciare il partito di accertare e valutare i redditi «normali» invece di quelli «effettivi»; e si può nel tempo stesso distribuire, su questa base, l’imposta con criteri di personalità e non di realità, sul patrimonio e non sul reddito, con aliquote a base variabile crescente e non a base costante.

 

 

204. Il sacerdote della giustizia tributaria afferma che la proposizione: «l’imposta produce effetti definibili come buoni quando essa è ragionata in funzione del reddito normale delle cose possedute dal contribuente» è strumento inventato dai ricchi e dai loro giannizzeri per combattere la progressività dell’imposta.

 

 

A proposito d’altro, ho già protestato (par. 192) contro le illazioni le quali si volessero dalle tesi sostenute in questo saggio ricavare contro la progressività o la personalità dell’imposta. Poiché in quel punto ero occupato a dimostrare la vacuità di certe proposizioni le quali paiono vive e sono ombre sperdute nel limbo, non occorreva dir altro. Qui la posta è più grossa. Odio il mestiere del progettista; e perciò mi sono limitato, dopo tanto scrollare di falsi idoli, a porre una piccola modestissima tesi, teoretica e normativa nel tempo stesso: teoretica perché dice che l’imposta repartita in un certo modo, in funzione del reddito medio o normale o ordinario del gruppo o categoria di contribuenti produce effetti convenzionalmente definibili come desiderabili (incremento di reddito per i contribuenti e di materia imponibile per lo stato), laddove l’imposta repartita in un certo altro modo, in funzione del reddito effettivo variabile dell’individuo produce effetti convenzionalmente definibili come non desiderabili (vessazioni per i contribuenti, scoraggiamento di questi, remora all’incremento sostanziale o forse anche riduzione della materia imponibile); ma nel tempo stesso normativa perché l’uomo di stato può trarre da essa una norma di azione, diversa a seconda che egli voglia ottenere gli effetti detti desiderabili ovvero quelli definiti non desiderabili.

 

 

Bisogna riconoscere però che se la proposizione in discorso, oltre a raggiungere gli effetti desiderabili segnalati dal ragionamento e dall’esperienza, avesse altresì l’effetto di servire ai ricchi e disservire i poveri ed i mediocri, scemerebbe assai il suo valore normativo. L’uomo di stato potrebbe riconoscere che il concetto del reddito normale di categoria è preferibile a quello del reddito effettivo individuale se si desidera incoraggiare l’incremento dei redditi individuali, piccoli e grossi; ma potrebbe rimanere dubbioso intorno alla convenienza di accoglierlo quando egli voglia far servire l’imposta allo scopo di scemare le disuguaglianze esistenti fra ricchi e poveri o anche sia semplicemente persuaso, per qualsiasi ragione, della giustizia e convenienza di tassare più i ricchi che i poveri.

 

 

205. Il dubbio non avrebbe ragion d’essere. L’uomo di stato il quale si sia persuaso della preferibilità del concetto del reddito medio di categoria su quello del reddito effettivo individuale, non deve lasciarsi sopraffare dallo scrupolo di far cosa dannosa ai poveri ed ai mediocri. I problemi sono diversi. Ripeto che qui discuto esclusivamente il problema dell’accertamento della materia imponibile non l’altro, ben diverso, della ripartizione dell’imposta sulla medesima materia imponibile. Siano i soliti Tizio, Caio e Sempronio, forniti dei seguenti redditi e tassabili secondo i seguenti due criteri:

 

 

      Tizio Caio Sempronio Totale

 

Secondo il criterio del reddito effettivo individuale

 

 

Redditi

da

terreni

40

60

350

450

»

»

fabbricati

25

40

210

275

»

»

industrie e commerci

55

100

155

»

»

professioni

120

200

520

1080

520

1400

Secondo il criterio del reddito medio di categoria

Redditi

da

terreni

30

90

300

420

»

»

fabbricati

20

60

200

280

»

»

industrie e commerci

50

150

200

»

»

professioni

100

300

500

1000

500

1400

 

 

Ho costruito i due schemi in modo da mettere innanzi tutto in chiaro che il diverso metro di valutazione non influisce sul gettito dell’imposta a pro dell’erario. La base imponibile è, in ambi i casi, uguale a 1400 unità. Non v’ha ragione plausibile perché, qualunque sia la scala delle aliquote adottata, il rendimento dell’imposta varii apprezzabilmente a seconda del sistema di valutazione scelto.

 

 

Il criterio del reddito medio di categoria ha bensì, vuolsi notare subito per eliminare una critica irrilevante, la tendenza ad attardarsi nel tempo. Può darsi cioè che, se si accertano valori medi si corra un po’ meno nelle valutazioni di quanto si farebbe accertando immediatamente i valori effettivi. Dico che il vizio del ritardo è momentaneo; ché, se il sistema produce l’effetto suo logico e necessario di spingere all’aumento i redditi, l’erario si rivarrà del ritardo al momento della prima revisione.

 

 

Suppongasi tuttavia il peggio; e che per inettitudine della finanza a seguire le variazioni dei valori medi – ma perché supporre inettitudine solo rispetto ai valori medi e non anche a quelli effettivi? – questi si indugino costantemente al disotto dei valori effettivi. E che perciò? Il sistema è fondato sulla normalità delle valutazioni rispetto agli individui contribuenti e sulla loro temporanea costanza nel tempo, non sulla invariabilità delle aliquote. Se il criterio del reddito medio fornisse – facciasi un’ipotesi esagerata – una base imponibile di sole 700 unità invece delle 1400 unità fornite dal criterio del reddito effettivo, basterebbe applicare nel primo caso aliquota doppia di quella che si applicherebbe nel secondo. I proprietari di terreni in Italia sono tassati, ove si tenga conto dei centesimi addizionali comunali e provinciali, con aliquote le quali per lo più giungono al 100% della rendita imponibile e spesso la superano. Né essi hanno, per ciò, ragione di lagnarsi né si lagnano, salvoché per ignoranza. Le valutazioni della base imponibile non hanno lo scopo di scoprire la verità assoluta rispetto ai redditi. Questa è ricerca, oltreché vuota di contenuto, di mera curiosità estetica. Esse hanno invece per iscopo di accertare indici comparativi utili alla ripartizione del tributo. Che agli indici si diano per Tizio, Caio e Sempronio valori 100, 300 e 1000 come nello schema, ovvero i valori 10, 30 e 100, ovvero ancora 1000, 3000, e 10000 è perfettamente indifferente alla costruzione di un buon sistema tributario. Importa, se tale è il fabbisogno dello stato, ripartire equamente 400 lire d’imposta; non importa affatto ripartirle su una base imponibile totale di 1400 o 140 o 14000 unità.

 

 

Teoricamente si potrebbe persino rinunciare all’uso dell’unità monetaria lira o franco o sterlina ed usare numeri astratti, come ottimamente si faceva nei vecchi catasti. L’uso di numeri astratti aventi valore puramente comparativo avrebbe l’inestimabile vantaggio di evitare il ricorso ad unità monetarie soggette, nei tempi odierni e chissà per quanto tempo ancora, a variazioni imprevedibili.

 

 

Oggi, ripartendo il tributo su lire effettive si ottengono gettiti in eccesso o in difetto ogni qualvolta l’unità monetaria muti. Il legislatore aveva stabilito in 6000 lire o franchi un certo minimo di esenzione quando ogni lira equivaleva a 0,3 grammi di oro fino? Se il peso della lira è ridotto a 0,1 od a 0,05 grammi, ecco l’esenzione scemare di importanza reale e, pur restando sempre fissata in 6000 lire o franchi nominali, ridursi in realtà ad una cifra corrispondente a 2000 od a 1000 delle lire o dei franchi che in origine il legislatore aveva avuto in mente. Col metodo dei numeri astratti, concepibile però solo quando si apprezzino valori medi, le incongruenze oggidì frequenti sono eliminate.

 

 

206. Se dagli effetti per l’erario passiamo a quelli riguardanti i contributi, il sistema della tassazione in ragione del reddito medio di categoria che cosa dice? Caio possiede mezzi produttivi i quali in complesso sono tre volte più fecondi, in mani ordinarie, di quelli di Tizio; epperciò il suo reddito è assunto come triplo. Sempronio ha mezzi, di capitale e lavoro, decupli di quelli di Tizio ed il suo reddito è assunto come decuplo. Queste tre: 100, 300 e 1000 sono la base imponibile più conveniente, dal punto di vista del vantaggio privato e pubblico, per la ripartizione dell’imposta. Accade poi che Tizio e Sempronio, in proporzioni diverse, cavino dai mezzi posseduti più di quanto ne trarrebbe il contribuente normale, laddove Caio, poltrone od incapace, sta al disotto del normale. E v’ha chi sostiene che oggetto imponibile debbano essere le quantità 120, 200 e 1080. Chi ciò sostiene, invoca non il vantaggio dei singoli e del tutto, ma una misteriosa dea detta giustizia tributaria. Sul punto ho oramai disputato abbastanza per non dovervi tornar sopra.

 

 

Sia chiaro però che, fatta la scelta tra le due soluzioni, resta impregiudicata la questione della ripartizione dell’imposta.

 

 

V’ha chi preferisce il riparto con aliquota costante? Costui tasserà col 10%, ad esempio, medesimamente 120, 200 e 1080 (redditi effettivi) ovvero 100, 300 e 1000 (redditi medi), nell’insieme o nelle parti singole o un po’ nell’insieme ed un po’ nelle parti singole.

 

 

V’ha chi vuole il riparto con aliquota moderatamente progressiva? Ed egli tasserà, ad esempio, col 5% il 120 (effettivo) o il 100 (medio) di Tizio, col 7% il 200 od il 300 di Caio, col 9% il 1080 od il 1000 di Sempronio.

 

 

Se altri preferisca la progressione rapida, può gravare col 5% il 120 od il 100 di Tizio, col 10% il 200 od il 300 di Caio e col 20% il 1080 od il 1000 di Sempronio.

 

 

Ognuno, studioso o progettista o uomo di governo, può sbizzarrirsi a piacimento colla scala delle aliquote, con la tassazione separata o riunita, qualunque sia il metodo scelto per la valutazione della base imponibile. Trattasi di due scopi diversi da raggiungere: una buona scelta della base imponibile ha per iscopo e per effetto di spingere all’insù quei redditi che poi il tassatore colpirà a seconda dei suoi gusti in materia di riparto. Qualunque siano codesti gusti, sembra in ogni caso preferibile spingere innanzitutto la massa dei redditi all’insù, creare forze le quali elevino il contribuente medio e preparino la elevazione, in un momento successivo, della base imponibile.

 

 

V’ha chi vuol far servire lo strumento dell’imposta a combattere la grande proprietà e la grande impresa commerciale? Nessuno vieta a lui di essere un uomo di cattivo gusto e di far ragionamenti economici da bottegaio; ed, essendo bottegaio di cattivo gusto, di usare l’arma della progressività dell’imposta rispetto ai soli redditi i quali, malauguratamente per essi, hanno attirato la sua attenzione. Costui, ad esempio, si attaccherà ai terreni e colpirà i Tizii col 5, i Caii col 10 ed i Sempronii col 20%. Sarebbe strano che, in sede di discussione scientifica, si pretendesse di vietare agli invasati di attuare, quando afferrino il potere, le loro idee più o meno bislacche. Qui mi limito ad augurare che, nel regno degli ugualitari, i legislatori preferiscano tassare i terreni, con le aliquote che verranno loro in mente, piuttosto su 30, 90 e 300 che su 40, 60 e 350. Abbandono, non potendo farne a meno, in loro mano l’arma onnipotente dell’aliquota. La gente frenetica della giustizia ha, con essa, mezzo per battere sulla testa preferita di turco dei piccoli, dei medi o dei grandi, senza uopo di impacciarsi anche a mettere a sacco ed a fuoco la tecnica delle valutazioni e degli accertamenti.

 

 

Ho detto sopra (capo settimo) le ragioni dell’abbandono. Finora non esiste una teoria seria della proporzionalità o della progressività; non esistono regole scientifiche ossia logiche per dimostrare che una qualunque scala di aliquote sia più bella o più brutta di una qualunque altra. Vale, in siffatta materia, più un’oncia di prudenza e di buon senso che tonnellate di carta stampata. Gli uomini riuniti nei consigli chiamati a decidere le scale delle imposte siano saggi e prudenti, guardino all’insieme dei tributi e non ad uno solo, conoscano la ripartizione dei redditi nel luogo e nel tempo considerati, valutino adeguatamente le ripercussioni dei trasporti forzati di ricchezza dall’uno all’altro gruppo sociale, tendano all’elevazione dei più evitando il danno dei meno e del tutto!, ecco il pochissimo che si può dire a nome della scienza delle imposte. È certamente poco; ma qual colpa ha essa se la psicologia non sa fornirle i ponti di passaggio tra l’uno e l’altro essere senziente, e se la scienza politica è tuttora nell’infanzia?

 

 

207. Supponiamo dimostrata la proposizione teoretica che l’imposta produca effetti definibili come buoni quando sia ragionata in funzione del reddito normale delle cose possedute dal contribuente. Sia perciò accettata la norma la quale comanda a colui il quale possiede copia maggiore di strumenti produttivi, terre più ampie e bene situate, case più ambite, macchine e stabilimenti meglio costrutti o più potenti, di pagare di più di colui che è meno dotato; ma se due uomini posseggono strumenti produttivi uguali comanda altresì che essi debbano solvere uguale imposta, anche se l’uno ne cavò un frutto di 10 e l’altro di 20. Qual colpa ha lo stato dello scarso successo del primo e qual merito di quello notabile del secondo? Lo stato diede a tutti, per quanto toccava ai suoi compiti, uguali agevolezze; ed amendue debbono pagare ugualmente su quindici, se tale è il frutto che il contribuente ordinario può prudentemente essere reputato capace di cavare dai mezzi da lui posseduti.

 

 

208. La fecondità di quest’idea semplice, epperciò respinta dai moderni legislatori oltremontani che Carlo Cattaneo chiamava barbari, non è limitata al reddito del proprietario della terra. Nel ricordato saggio su La terra e l’imposta ho dimostrato che l’idea giovava a risolvere il groviglio della tassazione delle varie specie di redditi derivanti dalla terra: dominicale del proprietario, industriale dell’affittuario, del colono, del proprietario conduttore o coltivatore delle terre proprie, manuale del bracciante obbligato od avventizio. Se 100 è il frutto che ogni anno esce dalla terra, 100 e non più e non meno è il valore della somma dei redditi dei diversi partecipanti alla produzione, purché ogni reddito sia valutato contemporaneamente ad ogni altro reddito e col medesimo criterio. Altrimenti il totale sarà 50 ovvero 200, con offesa al buon senso ed alla logica. La distinzione fra prodotto lordo e redditi netti è un altro dei vani fantasmi i quali hanno turbato la mente del legislatore tributario, e l’hanno condotto ad errori funesti di somma e di sottrazione. Tutto il prodotto è composto di redditi netti di qualcuno. Quel che è reddito per Tizio è spesa per Caio; e il reddito di Caio è spesa per Tizio. Non di rado i legislatori hanno, oggi, inventato metodi differenti per valutare i diversi redditi netti nascenti dallo stesso ceppo di prodotto lordo; e di qui sono nati la confusione delle lingue e l’accavallamento dei tributi terrieri l’uno all’altro sovrapposti. Fa d’uopo ritornare alla fresca fonte del luminoso settecento, del gran secolo della ragione e delle idee chiare; e riaffermare che tutto e solo quel che nasce dalla terra è tassabile, che tutto deve essere valutato con ugual criterio e che il buon senso comanda di dare allo stato una parte del frutto che la terra dà in ugual misura a tutti coloro che la coltivano con diligenza ordinaria secondo i metodi consigliati dall’uso del tempo.

 

 

209. La fecondità dell’idea non è limitata alla terra. Altrove[7] ho anche discusso il problema dell’applicazione del concetto dell’ordinarietà alla tassazione dei redditi industriali commerciali e professionali.

 

 

Prima che dai dottrinari e dai legislatori, il problema è stato in questo campo affrontato e spesso risoluto dai pratici, contribuenti e procuratori alle imposte. Costoro si sono trovati di fronte al comando del legislatore, il quale ordinava di accertare per ogni contribuente, singolarmente considerato, l’uno indipendentemente dall’altro, ad ogni volgere di anno o di biennio o di quadriennio, il reddito vero effettivamente ottenuto. Si deve accertare il vero effettivo individuale di Tizio, sia 100 o 150 o 200, senza preoccuparsi del quantum di tassazione per Caio. Lo stesso sistema adoperandosi per Caio e per Sempronio e Mevio, e tassandosi tutti sul vero, giustizia è resa a tutti.

 

 

Il principio del vero effettivo individuale conduce logicamente a guardare piuttosto le differenze che le somiglianze, il particolare piuttostoché il generale. Il problema non è: quanto possono guadagnare in media i negozianti che hanno bottega nella tal via ed hanno tale giro di affari? Ma invece: quanto guadagna o quanto perde di fatto il negoziante A o il negoziante B o quello C? L’indagine deve quindi insistere non tanto sulle cause per cui da un dato giro d’affari deve risultare un dato reddito, quanto sulle cause per cui da quel dato giro d’affari, da quella data situazione, da quei coefficienti di produzione – tutte cose per fermo preliminarmente utilissime ad appurarsi – Tizio con intelligenza ed abilità è riuscito a ricavare un reddito netto di 100, Caio con intelligenza ed abilità minori un reddito di 50 e Sempronio, avventato od inesperto, ne trasse una perdita di 30.

 

 

210. Contro l’ideale del reddito vero effettivo individuale, scritto nella legge e accettato dalla dottrina, quella che si chiama comunemente «pratica» e che è l’insieme delle consuetudini di fatto osservate, delle norme seguite negli uffici finanziari ha condotto a poco a poco, non so se in molti o pochi casi, ad un risultato opposto, non scritto, non legalizzato, lamentato spesso, subito per lo più con rassegnazione per la difficoltà di fare meglio: ed è il metodo del vero presuntivo medio.

 

 

I funzionari delle imposte, trovatisi innanzi alle difficoltà concrete degli accertamenti, si sono persuasi presto che la ricerca del vero effettivo individuale poneva un ideale assai alto, tanto alto da non poterlo per lo più attuare. Nessuna nozione è così elastica, così difficile ad essere precisata come quella del reddito netto effettivo. Se il concetto del reddito è controverso nella dottrina, sì da aver dato luogo ad una letteratura amplissima ognora crescente, tanto più è controverso l’appuramento concreto del reddito effettivo delle imprese od economie individuali. L’impiegato che riceve in una data unità di tempo 100 lire di stipendio, il capitalista che riceve 5 lire di interesse sul capitale dato a mutuo possono credere che in tutti gli altri casi l’appuramento del reddito sia ugualmente agevole; ed a prescindere che anche per essi esistono problemi di epurazione, certo è che per i commercianti, gli industriali, i professionisti la bisogna è di una complicazione assai maggiore: quale valore daremo ai rischi, alle quote di deperimento e di ammortamento, alle esistenze di inventario, ecc. ecc.? Quale valore alle registrazioni dei libri di commercio e, dove questi non esistono, alle allegazioni degli interessati? C’è in fondo al concetto del reddito vero effettivo individuale, un pericolo, di cui i funzionari delle imposte avvertono immediatamente la portata gravissima per la finanza: il pericolo degli accertamenti di perdite. Se si vogliono appurare i redditi positivi individuali, giocoforza è ammettere che in certi casi e sovratutto in certi anni o periodi, i redditi siano stati negativi, ossia si siano verificate perdite. Quante volte, i funzionari non si saranno sentiti dai contribuenti muovere questa obiezione: noi saremmo ben disposti a pagare a fin d’anno sul reddito che nell’anno abbiamo di fatto ottenuto, purché l’accertamento di quell’anno non faccia testo per l’anno seguente e se il nuovo esercizio si chiuderà in perdita, questa sia riconosciuta? Il funzionario vede subito l’abisso dietro a queste parole, pur ragionevoli, anzi sacrosante, per chi parta dall’ideale di tassare tutto e solo il reddito effettivo. Vede l’abisso della moltiplicazione dei casi di perdita, non appena si apra uno spiraglio alla loro ammissione. Raccontano le storie che, in non so qual contrada, una legge fiscale ammise un giorno come motivo di esenzione da una imposta la stupidità o cretinismo. Improvvisamente, fioccarono sul tavolo dei funzionari esterrefatti, a migliaia, i certificati medici di cretinismo e le anticamere non bastarono a contenere la folla delle facce stupide che venivano a reclamare l’esenzione dall’imposta! Così, se sul serio si vuol cercare il vero effettivo individuale, il funzionario teme che la massa dei contribuenti, composta di gente media, faccia il tentativo di confondersi nella minoranza dei veri inetti o disgraziati. Perciò i funzionari riparano nella trincea del «medio», nella difesa inespugnabile del non poter ammettere che un professionista, il quale ha studio aperto, che un negoziante il quale ha bottega su via non guadagni almeno quel tanto che ogni persona media deve essere in grado di guadagnare in quella professione o in quel commercio. Se un contribuente non è capace di lucrare almeno il 5 o il 10% sul suo giro d’affari, se non è in grado di far rendere almeno 10.000 lire nette una bottega per cui paga un fitto di 5.000 lire, se non è in grado di cavare dal suo lavoro o dal suo capitale o da amendue almeno quel tanto che basti a far vivere la famiglia secondo la sua posizione sociale, perché continua egli a fare quel mestiere? Perché non chiude bottega e non mette un punto fermo alle perdite, acconciandosi a fare l’impiegato al soldo altrui, come fa lui, funzionario delle imposte?[8]

 

 

211. Logiche riflessioni, inspirate a buon senso ed al giusto desiderio di salvaguardare le ragioni del tesoro, che troppo pericolo correrebbe se dovesse subire l’alea delle disgrazie, vere o configurate, dei contribuenti. Di qui, il ripiegamento di fatto di ambe le parti, amministrazione e contribuenti, sulla posizione del reddito presuntivo medio. Quasi senza avvedersene, nella generalità dei casi, tra finanza e contribuenti, la discussione viene portata non su ciò che è, ma su ciò che deve essere. Il reddito effettivo individuale viene tacitamente lasciato in disparte come un mero concetto scritto da non occuparsene troppo; e si discute sul giro degli affari e sulla percentuale media di utile netto sul giro degli affari in questo o quel commercio. Si fanno concordati o si viene ad intese, fra ispettori superiori e rappresentanze dei contribuenti sul reddito medio per bacinella, per fuso, per telaio, per tale o tale altra unità di coefficiente di produzione usata in questa o quella industria. Il contribuente si adatta a pagare anche quando perde, perché, quando guadagna, non è tassato sulle punte individuali, di un anno o della sua ditta, ma sul medio reddito che le imprese della sua categoria sono reputate fornire. Anche i proprietari di fabbricati non sono sempre tassati sul reddito minore o maggiore ottenuto nei rapporti coi singoli inquilini, ma piuttosto in rapporto al reddito normale che fabbricati così e così, vecchi o nuovi, posti a mezzogiorno o a mezzanotte su questa o quella via, dotati di tali altri comodi, ecc. ecc., devono dare. Le discussioni sono ridotte al minimo; nasce una norma generalmente seguita, che risparmia attriti ed esagerazioni in un senso o in un altro. La finanza fa affidamento su un provento meno oscillante e gradatamente crescente; il contribuente si sente più tranquillo nel dare incremento alla sua impresa per il tempo per cui l’accertamento, fondato su criteri medi, è destinato a durare.

 

 

212. Qui si tocca una delle differenze fondamentali tra i due sistemi. Facciamo per il momento astrazione dalle applicazioni concrete; e supponiamoli amendue applicati in pieno, senza reciproche contaminazioni. Il metodo che tassa il reddito effettivo individuale non può, se vuole tassare il vero, dar remora al contribuente. Quando il reddito è 100 deve tassare 100; e se, essendoci una perdita di 50, deve astenersi dal tassare ed anzi dovrebbe concedere una detrazione corrispondente nell’anno successivo, deve però tassare 150 o 200, quando il reddito balza a 150 od a 200. Perciò il contribuente vive in continua inquietudine ed è trattenuto dal mettere in evidenza e talvolta impiegare capitali se teme che da ciò gli possa derivare un aumento di imposta. Sa che l’aumento è certo; mentre dubita sul condono immediato della imposta in caso di perdita.

 

 

Il metodo del reddito presuntivo normale rimedia alla difficoltà. In esso è implicita la deduzione delle perdite, perché non si tassano le punte eccezionali ed individuali dei redditi. Con esso la finanza non ha urgenza di revisioni annue, perché, se possono di anno in anno mutare le condizioni particolari dei singoli contribuenti, non muta altrettanto rapidamente il rendimento medio di una branca di industria o di commercio. Con esso, la finanza non è danneggiata, ma anzi trae grande vantaggio dall’attendere a tassare alla fine di un più lungo periodo l’aumento di reddito verificatosi dopo una revisione. Il farsi piccolo prima del concordato e, subito dopo, impiegare nuovi capitali e nuove iniziative nella propria impresa, così da godere per quattro anni (adotto, a scopo di esemplificazione, l’intervallo tra due revisioni un tempo usato in Italia) indisturbato l’aumento di reddito, è la conseguenza necessaria del metodo del reddito presuntivo medio. Necessaria e, nel tutt’insieme, assai più vantaggiosa alla finanza che ai contribuenti. Rari sono infatti i casi di imprese temporanee le quali durino solo per i quattro anni per cui la finanza non può variare l’imponibile e poi si squaglino.

 

 

Normalmente l’impresa dura anche oltre, sicché la finanza, alla fine del quadriennio, può elevare l’imponibile, ed elevarlo tanto più sicuramente in quanto è già trascorso il periodo iniziale di prova e di lanciamento dei nuovi capitali investiti.

 

 

213. Che i pratici, contribuenti e procuratori alle imposte, siano per tentativi giunti alle medesime conclusioni alle quali erano arrivati i grandi economisti italiani del ’700 fa onore non piccolo alla agilità mentale con la quale essi hanno saputo interpretare il comandamento letterale della legge tributaria. Essi hanno, attenendosi alle presunzioni ed ai criteri del reddito medio o normale di gruppo o categoria, scelto la via buona; ma poiché la lettera della legge assume a base della tassazione il concetto del reddito effettivo individuale, dal dissidio fra il comando letterale del legislatore e la applicazione pratica di esso sono purtroppo sorti compromessi eccezioni derivazioni contingenti e discordi. È cosa sostanzialmente saggia derivare, come si fa, il reddito imponibile dal numero dei fusi, delle bacinelle e dei telai, dal valore locativo, dal giro degli affari; ma poiché ciò si fa per applicazioni particolari, con criteri contingenti e variabili da industria ad industria e da luogo a luogo, le sperequazioni sono inevitabili; né possono essere rimediate dalle conferenze periodiche degli ispettori superiori alle imposte. In quel dato caso singolo, anche se la norma direbbe di accertare 100, ma soccorrono dati certi sul reddito effettivo, si accerta 120; in quell’altro, visti gli stessi dati certi, si accerta 70. Di qui sperequazione, poiché ognuno dei due sistemi, del reddito individuale effettivo e del reddito normale di categoria, può funzionare, a condizione che sia sempre in tutti i casi applicato lo stesso criterio; non a volta a volta quello del reddito medio o quello del reddito effettivo a seconda che l’uno o l’altro meglio giovi alla finanza o sia difeso con abilità dallo scaltrito contribuente.

 

 

214. Dal contrasto fra la lettera della legge e la pratica amministrativa non si esce se non trasformando gradatamente e prudentemente in legge quella che è opera dell’amministratore. Importa all’uopo che teorici legislatori e pratici, costretti a scegliere fra i diversi criteri di distribuzione delle imposte, si liberino del ridicolo senso, da cui si sentono oppressi, di rispetto umano di fronte alla boria dei dottrinari. Avrei scritto invano il presente saggio, se esso non fosse riuscito a dimostrare che dietro a quella boria c’è il vuoto. Il ministro alle finanze, il procuratore alle imposte, il contribuente debbono guarire dalla malattia del «complesso di inferiorità» da cui essi invincibilmente sono afflitti in cospetto dei sacri principii della scienza delle imposte. Non esistono sacri principii in materia di imposte. Non esiste il «vero» reddito; non esiste la «vera» giustizia; non esiste il «vero» principio di tassazione. Chi afferma l’esistenza di questi sublimi «veri» in una materia così concreta, così grossamente contingente è un contastorie. Esistono solo la logica, il buon senso, la analisi dei risultati che derivano dalla applicazione dell’uno e dell’altro dei tanti veri che si fanno concorrenza per attirare su di sé l’attenzione dei legislatori.

 

 

215. Non ho voluto offrire al legislatore la ricetta di nessun principio di giustizia per se stesso più vero di altri principii. Affermo soltanto che il «vero» detto reddito ordinario, è fecondo di risultati migliori dell’altro «vero» detto reddito «individuale effettivo». Dico che esso soddisfa meglio alla condizione di dare allo stato quel che spetta allo stato, laddove il «vero» detto reddito «individuale effettivo» dà allo stato quel che è proprio del contribuente o viceversa. Soddisfar «meglio» non vuol dire soddisfare «in tutto». Poiché non conosciamo il criterio perfetto per dare allo stato quel che è dello stato è giuocoforza contentarci di quel criterio il quale meno, di gran lunga meno dei suoi concorrenti, offende il buon senso. Dico che i pratici, contribuenti e procuratori alle imposte, dopo aver fatto i dovuti salamelecchi al «vero» dottrinario del reddito individuale effettivo, si attaccano al «vero», segnalato dalle necessità e dal buon senso, del reddito medio ordinario. Dico che essi non debbono vergognarsi affatto di avere infilato la buona via e, smettendola coi salamelecchi, debbono sentirsi orgogliosi di averla trovata. Aggiungo che essi non dovrebbero essere lasciati soli lungo l’arduo cammino. Teorici e legislatori debbono sforzarsi di andare a fondo delle ragioni per le quali la strada seguita in concreto è diversa da quella insegnata dalla cosidetta dottrina e dalla lettera della legge. Io sono convinto che la strada seguita in pratica conduce alla verità ragionevole, che in queste cose è quella che concilia, meglio che si possa, il vantaggio dell’erario e quello dell’economia pubblica. Sono convinto che su quella strada è possibile giungere, ad esempio, alla unificazione dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile degli industriali e dei commercianti e di quei suoi figli spuri che si chiamano, a seconda dei paesi, imposte sul giro degli affari o sugli scambi e sono contraffazioni mal riuscite delle imposte sui redditi industriali e commerciali, doppioni purtroppo oggi resi necessari dalla insufficienza dell’imposta madre. Poiché l’imposta di ricchezza mobile tende a colpire il giro degli affari e poiché la tassa scambi è anche un’imposta sul giro degli affari, perché non guardar in faccia alla realtà e, buttando dalla finestra le vane stupide parole di redditi netti, di redditi veri, analizzare il contenuto effettivo delle imposte quali sono state foggiate oramai da una lunga fruttuosa esperienza? Le imposte quali sono state costrutte dai contribuenti, dai funzionari e dai magistrati perfezionano i principii che settanta anni fa furono posti da legislatori sapienti e prudenti, ed ancora oggi riassunti, senza tener conto del concreto accrescimento avvenuto, nei trattati dei dottrinari. Una legge d’imposta è dapprincipio uno strumento affidato ai contribuenti affinché essi possano lottare invidiosamente l’uno contro l’altro. Tocca all’esecutore della legge strappare a poco a poco all’imposta il virus dell’invidia, adeguando tutti dinnanzi alla necessità della cosa pubblica.

 

 

216. Perché non strappare fin dall’inizio delle leggi tributarie il maledetto vizio originario dell’invidia reciproca tra contribuente e contribuente, vizio espresso nella assurda ricerca della «verità» tributaria assoluta immacolata immanente e sostituirvi l’ossequio alla «verità» pratica la quale tenta di far pagare ad ognuno quel che egli deve allo stato in ragione dell’opera compiuta dallo stato per creare l’ambiente giuridico e collettivo, entro al quale ognuno è chiamato a lavorare? Invece di guardarsi intorno per confrontare il maggior carico comparativo proprio con quello, asserito minore, altrui, ognuno guardi a sé ed allo stato; ognuno vegga se, dati gli strumenti di lavoro e di capitale da lui posseduti, egli abbia contribuito la quota, stabilita con uguaglianza universale, del prodotto che egli normalmente fu messo in grado di ricavare dalle cose sue sotto l’egida dello stato.

 

 

217. Questo dissero in sostanza Don Vincenzo De Miro, Pompeo Neri, Gianrinaldo Carli e Carlo Cattaneo: voi, o contribuenti, non dovete pagare l’imposta per quel che valete. A questa stregua, nessuno di voi dichiarerà il proprio valore e tutti affermeranno che il valore altrui è maggiore del proprio. Voi, invece, dovete pagare in ragione del valore degli strumenti di capitale e di lavoro che son vostri. Capitale e lavoro a nulla varrebbero senza il conforto dell’opera di protezione e di elevazione compiuta dallo stato. Perciò lo stato ha diritto di pretendere una quota del prodotto che dalle cose vostre si può normalmente, nelle condizioni esistenti di luogo e di tempo, ottenere. La quota prelevata dallo stato non è tolta a voi, perché senza di lui voi non avreste nulla. Ma quel di più che col vostro ingegno, colla vostra fatica, colle vostre rinunce voi otterrete in confronto al presunto prodotto ordinario, sarà tutto vostro. Vostro fino al giorno in cui, grazie al perfezionamento, vostro e dello stato insieme, il prodotto ordinario ed il fabbisogno dello stato non siano medesimamente cresciuti e da un gradino più alto si possano prendere le mosse verso una meta più luminosa.

 

 

218. Noi chierici della scienza, mancheremmo al nostro dovere se ci stancassimo dall’additare al disprezzo degli uomini pensanti il virus dell’invidia tributaria ed alla loro osservanza il principio del dovere verso lo stato, il quale servendoci ci innalza.

 

 

Mancheremmo al nostro dovere se ci stancassimo dal guardar dentro alle vanità le quali si sono travestite da teoremi scientifici. La lunga analisi dei fantasmi, dei miti, dei paradossi e della superbia dottrinaria in materia d’imposte richiede un atto di umiltà. Rendiamo omaggio alla scienza astenendoci dal pronunciarne il nome invano.

 

 

Riconosciamo di non possedere il metro invariabile della giustizia tributaria, al quale l’umanità debba inchinarsi. Lo cerchiamo da secoli; ma non l’abbiamo ancora trovato. Dinnanzi alla maestà dello stato non invochiamo a gran voce giustizia per trarne pretesto a confronti invidiosi. Nessuno voglia essere da meno e di più del vicino e dell’amico posto nelle stesse condizioni. Rendiamo a Cesare quel che è di Cesare, diamo allo stato quel che ad esso è dovuto in ragione di ciò che ha creato a nostro favore. L’invidia non ci spinga a dire: non posso perché, pur possedendo gli stessi mezzi, non riuscii come il vicino come l’amico. Lo stato mi aiutò ad alzarmi in piedi ed a camminare; epperciò, non perché io abbia saputo camminare molto o poco, gli debbo tributo.

 

 



[1] In La terra e l’imposta, nel primo quaderno degli «Annali di economia» dell’Università commerciale Bocconi di Milano 1924. Ivi è ricordata la bibliografia essenziale. Si aggiunga qui che la relazione Messedaglia, allora praticamente irreperibile, è stata oggi rimessa a disposizione degli studiosi a cura del nipote Luigi Messedaglia col titolo Angelo Messedaglia, Il catasto e la perequazione, Cappelli, Bologna 1936. Lo scritto La terra e l’imposta fu ristampato, coll’aggiunta di una Appendice (pp. 201-306), nel vol. II della serie prima di una prima raccolta, in tre volumi delle «Opere», Einaudi, Torino 1942, raccolta oggi sostituita dalla presente.

[2] In Notizia economica sulla provincia di Lodi e Crema, estratta in gran parte dalle memorie postume del colonnello Brunetti, in «Il Politecnico», vol. 1, 1839, pp. 153-55. La notizia oggi è ripubblicata in Saggi di economia rurale di Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino 1939, pp. 85-114.

[3] In Relazione del censimento dello Stato di Milano, nella raccolta di Scrittori classici italiani di economia politica del barone Custodi, parte moderna, vol. XIV, 1804, pp. 315 sgg.

[4] In Notizie naturali e civili su la Lombardia, Milano 1844, Introduzione, p. XCV; ristampata nel vol. IV delle Opere edite ed inedite di C. C. raccolte da Agostino Bertani, p. 267. Il brano è riprodotto nei citati Saggi di economia rurale, p. 34.

[5] Di alcune istituzioni agrarie dell’Alta Italia applicabili a sollievo dell’Irlanda, lettere a Roberto Campbell regio vice console in Milano. Lettera quarta dell’1 marzo 1847, in Opere citate, vol. IV, pp. 334 sgg. Le lettere sono ripubblicate per intero nei Saggi di economia rurale cit., pp. 133-204. Il brano riprodotto nel testo si legge a pp. 183-84.

[6] Relazione della commissione… sul disegno di legge «Riordinamento della imposta fondiaria». Atti parlamentari, leg. XV, prima sessione, doc. n. 54-A, p. 173.

[7] In Ancora la sperequazione e le evasioni nell’imposta di ricchezza mobile, in «La Riforma Sociale» del gennaio-febbraio 1929, e di nuovo in Saggi, pp. 168 sgg.

[8] In un articolo riprodotto da l’«Informazione industriale» ne «Il giornale dei ragionieri» del 31 gennaio 1928 l’avv. Luigi Sertorio riporta «Il ricordo di un caso specifico» in cui il funzionario avrebbe allegato al contribuente «che se anche l’azienda è in perdita, non è questo motivo convincente per escludere che l’imposta di ricchezza mobile debba pagarsi, perché non è giusto creare ad un dato contribuente una condizione industriale più favorevole di quella dei suoi concorrenti che pagano l’imposta di ricchezza mobile». Il Sertorio riferisce il ricordo a guisa di critica. Si vedrà subito, per le cose dette nel testo, che l’allegazione del funzionario ha un fondamento dottrinale di grande peso.

Sì, se da imposta si fa taglia

Sì, se da imposta si fa taglia

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 202-209

 

 

 

 

193. L’imposta ottima, alla quale i legislatori aspirano, sappiamo già essere quella che non grava, che non pesa, che non preleva nulla, anzi cresce la ricchezza dei contribuenti. E questa non si può chiamare imposta. Inversamente, è vera imposta quella che sul serio grava preleva taglieggia; quella prelevata dallo stato che porta via assai e poco restituisce ai cittadini. E questa la chiameremo «taglia».

 

 

194. Nei tempi moderni gli uomini quasi non conoscono più che cosa sia la vera taglia. Bisogna risalire agli scrittori del decimosettimo e del decimottavo secolo per leggere qualche pagina viva su di essa.

 

 

Un secolo innanzi alla rivoluzione La Bruyère descriveva il contadino francese:

 

 

Si veggono, sparsi per la campagna, neri, lividi e bruciati dal sole taluni animali salvatici, maschi e femmine, asserviti alla gleba che essi frugano e rimuovono con invincibile ostinazione. Costoro hanno quasi una voce articolata e, quando si alzano in piedi, dimostrano una faccia umana, ed in verità sono uomini. Durante la notte si ricoverano in tane ove vivono di pane nero, d’acqua e di radici. Poiché essi scansano agli altri uomini la fatica di seminare, di arare e di mietere per vivere, costoro meritano di non mancare di quel pane che hanno seminato.

 

 

Delle cause le quali avevano persuaso Saint-Simon a dire del più gran re d’Europa che egli era anche il re des gueux, una è messa in risalto da Alessio di Tocqueville : l’incertezza arbitraria dell’imposta.

 

 

L’esattore a cui tocca la mala ventura di ripartire la taglia fra i contribuenti del suo comune è nel tempo stesso tiranno e martire. Poiché egli è responsabile con tutta la fortuna per il versamento della somma assegnata al comune, ognuno schiva il carico ruinoso e tutti sono chiamati a forza a sostenerlo a turno. «L’ufficio – afferma Turgot – è cagione di disperazione e quasi sempre di rovina per coloro ai quali è affidato; tutte le famiglie agiate del villaggio sono così ridotte ad una ad una alla miseria». Ridotto egli alla rovina, tiene in pugno la rovina di tutti. «La preferenza per i suoi parenti – diceva nel 1772 l’assemblea provinciale dell’alta Guienna – per gli amici e per i vicini, l’odio, la sete di vendetta contro i nemici, il bisogno di un protettore, la paura di recar dispiacere a un cittadino agiato che fornisce lavoro, lottano nel suo cuore col sentimento della giustizia». Il terrore toglie all’esattore ogni senso di pietà. In talune parrocchie l’esattore non va in giro se non accompagnato da soldati e da uscieri. Nessun contribuente tuttavia paga se prima i soldati non hanno preso stanza a casa sua. Il contadino aspettando, come l’asino, di essere battuto prima di pagare, è politico fino. «Per fuggire alle imposte violente ed arbitrarie, il contadino francese, in pieno secolo XVIII, agisce come l’ebreo del medio evo. Egli si fa vedere in apparenza miserabile, anche se per avventura non lo sia in realtà. L’agiatezza esteriore a gran ragione lo impaurisce. La società d’agricoltura del Maine narra nel rapporto per il 1761 di avere accarezzato per un momento l’idea di distribuire bestiame a titolo di premio ed incoraggiamento. Ne fu dissuasa dal pensiero delle conseguenze dolorose che una bassa gelosia avrebbe potuto attirare a danno dei premiati, soggetti a vessazioni di cresciute imposte negli anni seguenti».[1]

 

 

Il contribuente, temendo di vedersi domani cresciuta l’imposta, ove pagasse puntualmente, preferisce sopportare la spesa dell’esecuzione forzata piuttostoché farsi vedere in grado di pagare.

 

 

Ognuno, – esclama l’assemblea provinciale del Berry – teme di mettere in vista le proprie ricchezze; si rinuncia a mobilio, a vestiti, a cibo ed a tutto ciò che è soggetto alla vista altrui». Il signor di Choiseul Gouffier voleva far coprire a proprie spese con tegole le case dei suoi contadini esposte ad incendio. Costoro lo ringraziarono per la bontà, supplicandolo però di lasciare nel loro stato le capanne, ché, se fossero state coperte di tegole invece di paglia, gli esattori avrebbero cresciuto la taglia. Se io guadagnassi di più, esclama un contadino, lavorerei a profitto dell’esattore.[2]

 

 

Le Pesant de Boisguilbert un secolo prima della rivoluzione aveva veduto nettamente le cause del male. La rovina della Francia è sovratutto dovuta

 

 

alla incertezza della taglia, la cui tariffa, essendo in tutto arbitraria, vanta questa sola certezza: che più si è poveri, più si paga… Il minor danno della taglia, è, per il popolo, dover pagare qualcosa al re; la sua perfezione è tanta da ruinare nel tempo stesso chi, schiacciato dal peso, cade e chi riesce a schivarla… Il numero dei tagliabili diminuisce ogni giorno; ed oggi bisogna pagare in trenta quel che ieri si sopportava in sessanta… Poiché importa scansare qualsiasi mostra di ricchezza; non si osa, per paura di pagare il doppio d’imposta, possedere, anche quando si potrebbe, il necessario bestiame, senza il quale non si ingrassano i terreni, come pur si vorrebbe da chi sa essere gli ingrassi l’anima dell’agricoltura e della cerealicoltura.[3]

 

 

195. L’arbitrio aveva prodotto i medesimi effetti in Italia. Leggiamo le pagine solenni della Relazione dello stato, in cui si trova l’opera del censimento [catasto] universale del Ducato di Milano nel mese di maggio dell’anno 1750, il documento di maggior sapienza che la storia della finanza vanti in Italia e fuori d’Italia.

 

 

Contro il detto del legislatore romano:

 

 

Is vero, qui agrum in alia civitate habet, in ea civitate profiteri debet, in qua ager est; agri enim tributum in ea civitate debet levare, in cuius territorio possidetur,

 

 

ossia contro la regola di universale tassazione delle cose nel luogo dove erano situate, le classi privilegiate condussero lunga guerra, vittoriosa per esse, disastrosa alla cosa pubblica.

 

 

Dalla legge del territorio, legge chiara e immutabile, non si può recedere senza cadere in mille assurdità, e in un mare di incertezze; poiché volendo descrivere e censire i beni, non secondo la regola del sito, dove sempre sono stati e in eterno staranno, ma secondo qualunque altra regola fondata nelle qualità personali del possessore, ogni regola resta turbata dalle variazioni giornaliere, che seguono in queste qualità personali e nel passaggio dei beni da un nome all’altro, sicché il catasto resta sempre vacillante e si privano le comunità di quel naturale patrimonio, da cui nei loro bisogni devono ricevere aiuto (p. 30).

 

 

196. Litigi infiniti sorsero in Lombardia tra il 1559 ed il 1718 a causa dell’arbitrio proprio del criterio dell’imposta personale: cittadini contro rurali, rurali contro cittadini, città le quali, colla pretesa di tassare i cittadini per tutto il loro reddito, da qualunque fonte ricavato, rubavano, per quel che tocca l’imposta, la terra ai villaggi; comuni rurali i quali per resistere alle conseguenze dello spopolamento, a sua volta dovuto alle imposte vessatorie ed arbitrarie, fingevano subietti immaginari di imposta ed, attraverso a quelli, si accanivano contro i subietti vivi e veri. Ignoro se nella letteratura finanziaria si legga una pagina che possa paragonarsi a questa, classica, che Pompeo Neri dettò nella relazione del censimento milanese:

 

 

Siccome tali pratiche arbitrarie [nel riparto delle imposte sui beni, sulle persone e sulle bocche, che allora distinguevansi variamente le une dalle altre] hanno per lo più inclinato all’aggravio delle persone, talché in qualche luogo, parte per il rigore delle tasse e parte per altre disgrazie è seguita la spopolazione, così per rimediare alla mancanza, che facevano i fuggitivi fu inventato un rimedio, che certamente non ha mai servito a popolare verun paese, e questo fu d’immaginare, che dove le persone non erano vi dovessero essere, e che quelle pertiche di terreno, che servivano ordinariamente al lavoro e mantenimento di una testa, cioè di un capo di famiglia, dovessero costituire una simil testa, che fu detta Testa morta, obbligata a pagare quel che nell’annue comunali imposte tocca a pagare a una testa viva e a due bocche vive. E di tal pagamento della testa morta furono incaricati i padroni del terreno, che oltre al trovarselo derelitto dagli agricoltori, se lo trovarono fecondato di questa nuova gabella, la quale fu creduto, che dovesse incitare i padroni a tener conto con maggior cura degli agricoltori, e che dovesse rimediare all’avarizia di alcuni, che per evitare la tassa personale facevano lavorare i proprii terreni a sua mano per mezzo di lavoranti forestieri; ma quando gli agricoltori abbandonano il terreno, o per incursioni militari, o per esorbitanza di tasse, come è seguito più volte in questo dominio, l’esperienza ci ha fatto conoscere, che il paese non si ripopola a forza di teste morte, e che senza dar loro un modo di vivere, le teste vive non tornano più (pp. 45-46).

 

 

197. L’arbitrio guastava, durante il dominio spagnuolo, tutto il sistema d’imposta. Il principe urgeva lo stato, lo stato si rivolgeva alle province e queste ai comuni. Purché la somma chiesta fosse versata all’erario, nessuno curavasi di vegliare ai modi della ripartizione e del pagamento.

 

 

Il metodo oscuro e disuguale di ripartire… somministra agli amministratori delle comunità una occasione di nascondere nelle imposte la verità delle somme convenienti al preciso bisogno, poiché i comunisti non potendo sapere con notizie certe la quantità del loro contingente, non si possono accorgere se siano sopraccaricati e bisogna che corrano ciecamente la fede dei loro amministratori… L’obbligazione solidale, che ha la comunità di corrispondere per i non solventi, il che non può fare senza sovrimporre per loro sopra i solventi, dà loro il pretesto di fare tali soprimposte a loro talento, pretesto, che non può essere disturbato dai contribuenti, perché sanno lamentarsi che il carico è grave, ma non sanno mai fare il conto perché sia ingiusto, e non può essere disturbato dai superiori, a cui si porta il denaro perché la giustificazione del gravame è troppo difficile, e perché a chi porta il denaro si stima un atto di prudenza e di giustizia l’accordare tutte le agevolezze, per metterlo assieme senza difficoltà (pp. 72-73).

 

 

Contingenti, solidarietà, ripartizione fatta dagli interessati sono parole le quali ritornano di moda. Chi le riaffaccia ricorda le ombre che le accompagnarono nel passato? Il procuratore alle imposte, funzionario di stato, è forse un imperfetto sostituto del magistrato. In lui, accanto all’animo del giudice, vive il vecchio animo del rappresentante del fisco regio, il quale non solo difende il suo patrimonio contro gli assalitori, ma lo vuole ad ogni costo e con ogni mezzo crescere a danno del privato. In fondo all’animo fiscale vive però la consapevolezza dell’interesse pubblico e nasce il germe dell’imparzialità con la quale il giudice attribuisce il suo allo stato ed al privato. Importa rafforzare i germi buoni e farli crescere; importa attribuire la definizione ultima di tutti i litigi tributari, di fatto e di diritto, al magistrato indipendente, ed importa che egli, non avendo nulla da temere né da sperare dagli uomini e sapendo di dover solo rendere conto dell’opera propria alla coscienza ed a Dio, si senta e sia davvero indipendente. Attribuire ai confratelli, ai consorti, sia pure riuniti in associazione, il compito, – gelosamente riservato al padre, al capo, al re e da questi delegato al magistrato che, pur incarnandoli, è tenuto ad ubbidire ai loro comandi solo quando siano tradotti nel verbo della legge – di ripartire le imposte, sarebbe un ritornare indietro di centinaia d’anni, un abbandonare le bilance della giustizia in mano ai forti ed agli astuti, con inenarrabile iattura dei deboli e degli onesti.

 

 

198. Don Vincenzo De Miro, presidente della prima giunta del censimento scelse a caso ottanta comuni, dieci per ciascuna delle otto province dello stato e calcolò quanto ammontasse il gravame delle imposte «regie» supponendo che per tre quarti cadesse sui fondi e per un quarto sulle persone.

 

 

Disuguaglianze meravigliose furono osservate. Lo scudo di valor capitale dei terreni e degli altri beni catastati apparve soggetto a balzello variabilissimo nella stessa provincia e più tra province diverse. Fu constatato che nel contado di Milano i terreni del comune meno tassato pagavano in media solo 8 denari e 5 punti per scudo, laddove quelli del comune più tassato pagavano 2 soldi, 5 denari e 3 punti, il che vuol dire quattro volte tanto; che nel contado di Cremona il minimo carico era di 6 denari e 5 punti ed il massimo di 4 soldi, 7 denari e 9 punti, con un divario di più che da 1 ad 8; e che nell’intiero stato milanese il comune meno tassato tra gli ottanta scelti a caso pagava solo 1 denaro e 9 punti, laddove quello più tassato soggiaceva ad un carico di 13 soldi 5 denari e 1 punto per scudo di estimo, più che 92 volte il carico minimo.

 

 

Disuguaglianze non minori si osservarono nel «carico personale», le quali si possono riassumere dicendo che la testa media del comune meno tassato pagava 13 soldi, 11 denari ed 1 punto, laddove la testa media del comune più tassato soggiaceva ad un onere di 36 lire e 9 punti, più di 51 volte tanto.

 

 

Prudentemente, il presidente De Miro osserva: «Le sproporzioni e disuguaglianze osservate in detti ottanta comuni hanno luogo anche in tutti gli altri dello stato, e ve ne saranno molti, nei quali si darà più grave sbilancio di quello si è notato nei suddetti» (p. 49). Come potrebbero le disuguaglianze essere minori, se si tenta di riassumere la descrizione che con animo indignato di giureconsulto il De Miro tracciò del disordine e dell’oscurità di quei metodi di riparto dei tributi?

 

 

Bocche e teste, bocche e mezze bocche, metà e quarti di testa di femmine, di muti e di storpiati, teste vive morte e finte, teste di massari e teste d’ottava colonica, teste diversificate in ragion della santa comunione o del matrimonio, teste di famigli, di capi di casa, di ammogliati, di uomini sciolti, di vedove, pertiche civili ecclesiastiche e forensi, punti di pertiche, di uomini e di fuochi; ecco il linguaggio che nei gridari milanesi si usava ad attuare la «giusta» ripartizione delle imposte. Fatti i conti e ridotti i risultati ad unità semplici di misura, testa d’uomo o scudo d’estimo, accadde che Don Vincenzo De Miro riscontrasse diversità da 1 a 51 sulle teste e da 1 a 92 sugli scudi d’estimo. Siamo davvero sicuri che nei perfezionatissimi sistemi personali di distribuzione delle imposte acclamati nei tempi moderni non si sia giunti, sempre in ossequio alla dea giustizia, a disuguaglianze di gran lunga più gravi e meno spiegabili di quelle che stupivano il giureconsulto del ’700?

 

 

199. Perciò il grido di tutti gli scrittori di finanza nei secoli XVII e XVIII più che giustizia era certezza. Si voleva giustizia sovratutto ad assicurare i popoli contro il danno dell’arbitrio. Quando dettava la sua seconda massima:

 

 

L’imposta che ognuno deve pagare dovrebbe essere certa e non arbitraria. Il tempo del pagamento, il modo del pagamento, l’ammontare dovuto, tutto dovrebbe essere chiaro e semplice sia per ogni contribuente, come per qualsiasi altra persona. Là dove così non si opera, ognuno il quale sia soggetto all’imposta è posto nella balia più o meno stretta dell’esattore, il quale può gravar la mano sui contribuenti sgraditi ovvero estorcere, colla minaccia dell’aggravio, qualche regalo o mancia a proprio vantaggio. La incertezza dell’imposta incoraggia la insolenza e favorisce la corruzione di una categoria di uomini, la quale è impopolare per se medesima, anche quando i suoi membri non siano né insolenti né corrotti. La certezza dell’ammontare che ognuno è chiamato a pagare è affare di così grande importanza in materia di imposta che un grado assai considerevole di disuguaglianza sembra essere, ove si giudichi secondo l’esperienza universale dei popoli, un danno di pochissimo conto in confronto ad un piccolissimo grado di incertezza (Wealth of Nations V, II, II, II).

 

 

Lapidariamente, come soleva, Adamo Smith riassumeva in breve sentenza la esperienza dei secoli. Il secolo XIX e più forse il secolo XX dimenticarono quell’insegnamento e corsero dietro al mito della giustizia assoluta. Per gran tratto del cammino giustizia e sicurezza non contrastano l’una l’altra ed anzi l’una giova all’altra, potendosi riscuotere più agevolmente con minore opposizione del contribuente l’imposta equa che quella iniqua. Giunge tuttavia il momento in che la ricerca della giustizia, affinandosi, passa il segno e diventa incompatibile con la certezza. La giustizia nella distribuzione dell’imposta si misura con la bilancia grossolana dell’occhio e della mano, non con quella delicata dell’orafo. Quando il legislatore tenta di adoperare bilance sottili, bisogna ricordargli la conclusione solenne smithiana: «un grado assai considerevole di disuguaglianza sembra essere, ove si giudichi secondo l’esperienza universale dei popoli, un danno di pochissimo conto in paragone con un piccolissimo grado di incertezza». L’incertezza distrugge la materia imponibile. Il comando: pereat mundus, sed fiat justitia non giova qui dove si tratta di far giustizia allo scopo di serbare in vita, coll’imposta, la città terrena.

 

 



[1] Taine, L’ancien regime et la revolution, pp. 192 sgg.

[2] Ibid., pp. 464 sgg.

[3] La France ruinée sous le règne de Louis XIV. Par Qui et Comment. Avec

les moyens de la retablir en peu de tems. A Cologne 1696.

Esiste l’imposta?

Esiste l’imposta?

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 192-201

 

 

 

 

183. La domanda può parere paradossale e non è. Dissi già che debito pubblico (paragrafi 134 e 135) ed imposta (paragrafi 15-18) talvolta paiono vivi e son morti. Sono le vendette della realtà contro la boria dei giustizieri. Questi vorrebbero che gli uomini soffrissero l’imposta e continuamente paragonassero i sacrifici dell’uno ai sacrifici dell’altro e sommassero sacrificio a sacrificio e proporzionassero sacrificio a piacere; o vorrebbero che l’imposta portasse via ogni anno una parte, costante o variabile, di una certa misteriosa entità di bilancio chiamata saldo utili. La realtà si ride dei piani dei giustizieri e li scompiglia di continuo. Non appena il dottrinario ha immaginato un sistema, in base al quale tutti coloro i quali si trovano in una data situazione debbono pagare, ad esempio, 1.000 lire di imposta su 5.000 lire di reddito, ecco che inesorabilmente, giorno per giorno, l’ala del tempo cancella l’opera del dotto legiferatore. Tizio paga, per qualche anno, le 1.000 lire sulle 5.000 lire di reddito della casa e ne soffre, come il giustiziere voleva. Come per tutti i dolori umani, anche il dolore dell’imposta col tempo si attenua, e l’abitudine lo fa parere minore. Giunge il momento nel quale Tizio vende la casa e se ne va con dio provveduto delle 80.000 lire, prezzo di mercato al 5% di una casa che rende nette 4.000. Egli ha sofferto l’amputazione di 20.000 lire sulle 100.000 che la casa avrebbe potuto valere se l’imposta non fosse mai esistita. Forse, se il tempo non ha ancora attutito il ricordo dei redditi e dei prezzi che furono, egli è il solo il quale oramai soffra la imposta delle 1.000 lire. Ma a lui che ha venduto nessuno pensa quando si parla dell’imposta di 1.000 lire gravante sulla casa. Egli è un camminante, perso nella nebbia dell’orizzonte, il quale va verso altre imposte, dimentico di questa che lo ha addolorato in passato. L’acquirente soffre dolore quando paga il tributo annuo delle 1.000 lire? No, perché egli riceve il 5%, 4.000 lire annue di reddito, dal capitale di 80.000 lire investito nella casa. L’imposta c’è, il tesoro dello stato la incassa e nessuno sente il dolore. Benvenuto Griziotti in un suo scritto ha trovato una immagine luminosa per enunciare il fatto: l’imposta è simile ad un raggio il quale colpisce oggi la pupilla del nostro occhio e par vivo; ma viene da una stella lontanissima morta da secoli. Il raggio ha camminato nel firmamento per anni e per secoli e finalmente è giunto a noi e ci fa vedere come fosse viva la stella che invece è spenta. Così è di certe imposte. Paiono vive: gli uomini compiono il rito di pagarle e di riscuoterle, ma chi le soffrì forse è morto da anni o da secoli e più non sente. E nessuno soffre in vece sua. Gli scrittori hanno detto «ammortizzate» queste imposte le quali hanno cagionato una perdita od ammortamento di valore capitale nella cosa colpita. Non so la derivazione linguistica della parola «ammortamento»; ma dico che per caso gli scrittori hanno scelto la parola espressiva. L’imposta ammortizzata è l’imposta morta nel cuore degli uomini, la quale non desta più in esso nessuna sensazione di dolore e di rimpianto. Molte imposte sono morte.

 

 

184. Il paradosso dell’imposta morta irritò i giustizieri. Parve un’offesa alla giustizia. Bisogna abolire le imposte che non sono più sentite dagli uomini viventi. Un’imposta la quale ad ogni istante non fa sentire all’uomo il dolore della condanna divina: lavorerai col sudore della fronte per pagare imposta, non adempie alla sua missione. Importa creare un sistema in virtù del quale il dolore dell’imposta sia necessariamente perpetuo e lancinante. Confesso di non riuscire ad entrare in così perfetto stato di satiriasi tributaria. Il paradosso dell’imposta morta mi ha indotto invece a pensare se non forse il dominio della parola vuota di senso non abbia pesato ancor più gravemente di quanto finora ho messo in luce. Che forse ci siamo lasciati trascinare dal vuoto suon delle parole? Imposta fa nascere l’idea di qualcosa che è messo sopra e pesa. Imposta sul reddito o sul capitale par sia cosa che logicamente grava, decurta, diminuisce reddito o capitale o tutte due insieme.

 

 

185. Gli economisti ebbero nel secolo scorso il torto di aggravare la propensione ad interpretare la parola «imposta» nel senso di peso o di dolore con la malaugurata collocazione che essi fecero, per ragioni di euritmia architettonica, della discussione delle imposte nella quarta parte dei loro trattati. Produzione, distribuzione, circolazione e consumazione della ricchezza: ecco la classica quadripartizione del dramma economico messa in onore da Gian Battista Say. I primi tre atti del dramma erano gli atti creativi: gli uomini faticando commerciando distribuendo creano ricchezza. Nell’ultimo atto si assisteva alla distruzione di ciò che s’era creato. Gli economisti di quel tempo non avendo scoperto le leggi dell’utilità e del marginalismo e non avendo ancora imparato a rovesciare l’ordine delle nozioni, erano disperati. Avendo un po’ di scrupolo a riempir le pagine del trattato della consumazione con insegnamenti cavati dai trattati del buon governo della famiglia di Agnolo Pandolfini (o Leon Battista Alberti?), essi non sapevano davvero cosa ficcare nella quarta parte. Non c’era euritmia nell’architettura dell’edificio scientifico. Tre ali del palazzo erano alte e ricche; ma la quarta? Vennero in soccorso le imposte. Poiché i consumi privati offrivano poca materia, si discorse ampiamente dei consumi pubblici. Le imposte furono così idealmente legate all’idea di consumo, di distruzione. Nel sistema del dramma economico quadripartito, gli uomini producevano trasportavano commerciavano distribuivano la ricchezza. Poi, veniva il diluvio. Il consumo distruggeva; e nell’atto di consumo aveva luogo una lotta internecina fra gli uomini i quali pretendevano di consumare tutto quel che avevano prodotto e lo stato il quale voleva portarne via loro una parte per provvedere ai consumi pubblici.

 

 

Due idee-forza si sprigionarono da questa architettura accademica: che l’imposta sia distruzione e che essa sia distruzione di quel che altri, l’uomo privato, ha creato.

 

 

186. L’architettura trattatistica di Gian battista Say è tramontata. Nessun trattato moderno di economia è costrutto su quel tipo. Durano le idee-forza nate da quello che era un mero spediente di esposizione scolastica della scienza.

 

 

Se rimonto ai miei ricordi di gioventù, fra il 1890 ed il 1900, balza viva l’immagine di modi di parlare, rassomiglianti a questi tributari, allora comunemente usati. Diceva allora l’industriale: «io, che do pane a cento, a mille operai…»; ed il suo modo di parlare sembrava ovvio ai più e parevano «ingrati» gli operai i quali dimostravano malcontento verso i loro benefattori. Oggi l’industriale forse pensa ancora, talvolta, così nell’intimissimo foro della sua coscienza; ma non osa più manifestare apertamente il suo pensiero; né questo parrebbe ragionevole agli ascoltatori. Né l’operaio fa vivere il datore di lavoro, né questi l’operaio; nessuno fa l’elemosina all’altro. Ognuno vive dei frutti del proprio lavoro e della propria creazione. Il lavoro di amendue è fecondato dalla collaborazione reciproca; ma dal collaborare amendue traggono vantaggio. Dire che l’operaio è mantenuto dall’industriale è altrettanto grottesco quanto dire che il fornaio mantiene il cliente, perché gli fornisce il pane. Come v’è equivalenza fra pane e moneta, così v’è equivalenza tra lavoro prestato e salario. Amendue devono essere l’uno all’altro grati, perché l’unione ha consentito all’operaio di produrre un salario più alto e all’imprenditore un profitto più vistoso.

 

 

Costo e compenso sono due facce del medesimo fenomeno. L’amministratore di un giornale del tempo innanzi al 1900 si lamentava ogni giorno del costo crescente della carta consumata dalle rotative. Tutti noi si rideva, perché quello era l’indice della fortuna crescente del giornale. Il girar dei rotoli di carta era, per lui, un atto di distruzione, per noi era la premessa della creazione.

 

 

187. Così è l’imposta. È falso e grottesco dire che essa significhi distruzione. Essa è il mezzo con cui lo stato crea valori nuovi: di sicurezza, di giustizia, di difesa e grandezza nazionale, di cultura, di sanità del corpo, di unità degli uomini viventi sul territorio della patria. Mercé l’imposta lo stato crea l’ambiente giuridico e politico nel quale gli uomini possono lavorare organizzare inventare produrre. Che cosa sarebbero gli uomini se non fosse lo stato? Miserabili selvaggi, vaganti sulla terra, senza difesa contro le belve feroci, malsicuri del cibo e della vita, gli uni contro gli altri armati. Non perciò si afferma che tutto il prodotto sociale, tutto il reddito nazionale sia di spettanza dello stato. Si afferma soltanto che esiste una distribuzione del reddito nazionale annuo che è l’ottima fra tutte: una distribuzione grazie alla quale lo stato riceve l’imposta, il lavoratore il salario, il risparmiatore l’interesse, l’imprenditore il profitto, e il proprietario la rendita; ed ognuno riceve quel che è suo, quel che fu creato da lui, quel che è necessario egli abbia affinché la sua partecipazione all’opera comune sia la massima e la più efficace.

 

 

188. Nella distribuzione ideale, lo stato ideale o perfetto non grava perciò su nessuno. Riceve il suo, tutto il suo, tutto e nulla più del suo. L’idea che l’imposta sia un prelievo su qualche cosa che l’uomo creò è radicalmente profondamente erronea. Uomo e stato, o, per parlar concretamente, l’uomo operante nelle varie maniere a lui offerte, come individuo singolo, come associato liberamente con altri (associazioni e società) e come associato coattivamente con tutti gli altri (stato) producono insieme, attraverso un complicatissimo meccanismo, un flusso perenne di nuovi beni. Quel flusso diminuirebbe se facesse difetto una qualunque delle maniere di operare umano: quella individuale, quella collettiva volontaria o quella collettiva coattiva. Gli individui ed i corpi i quali partecipano alla produzione del flusso dei nuovi beni hanno diritto di partecipare al godimento del flusso e di ricavarne i mezzi per rinnovare continuamente i loro sforzi e quindi il flusso e quindi la partecipazione al godimento di esso.

 

 

Mercier de La Rivière aveva già scritto:

 

 

a gran malincuore do alle entrate pubbliche il nome di imposta: parola la quale è sempre presa in mala parte, la quale annuncia un gravame da sopportare; laddove l’entrata pubblica al contrario… non ha nulla di affliggente; e risalendo alle sue origini si vede che essa è il frutto della sua utilità. (L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques, 1767, II, 40).

 

 

E Dupont de Nemours:

 

 

[nella sua forma perfetta] l’entrata pubblica massima possibile, ogni giorno crescente, è la più vantaggiosa possibile a tutti i membri della società; e non è onerosa ad alcuno, non costa niente ad alcuno, non è pagata da alcuno e non preleva nulla dalla proprietà di chicchessia. (De l’origine et des progrès d’une science nouvelle, 1768, ediz. 1910, 28).

 

 

Parole dimenticate, che erano state rinnovate da chi scrive,[1] innanzi di aver meditato sulle pagine dei fisiocrati; e dalle quali importa trarre l’ultima illazione logica.

 

 

189. La quale è la condanna definitiva dei tentativi che sono stati fatti da tanti e con tanto scarso successo per scoprire la regola perfetta assoluta immarcescibile dell’imposta «giusta» sulla base del «vero» «dolore» sentito dagli uomini nel pagar tributo.

 

 

Utilitaristi e contabilisti – sono le due grandi branche in cui si dividono le innumerevoli sette dei giustizieri tributari – invano si sono affaticati a cercare l’imposta perfetta. Entrati in un vicolo cieco, non potevano trovare la via d’uscita.

 

 

Quando l’operaio chiede il salario che a lui sembra «giusto» dice forse: la misura della giustizia è per me il guadagno del principale? Se questi guadagna molto, il mio salario deve essere alto, se poco basso; se egli perde, io devo rassegnarmi a lavorare per niente? C’è, in lui, viva l’idea che il salario debba aumentare se l’industria prospera: ma sotto quest’idea e più radicata di essa, c’è un’altra che il salario gli deve essere dato perché egli lavora e in proporzione al merito del suo lavoro. Ognuno è la misura di se stesso. Salari, interessi, profitti sono la remunerazione del lavoro, del capitale, della funzione imprenditrice; e sono commisurati al valore dell’apporto del lavoro, del capitale e dell’impresa. A nessuno viene in mente l’idea irragionevole di pagare l’operaio in funzione del valore dell’apporto del capitalista, questi in funzione del valore dell’apporto del lavoratore e l’imprenditore in funzione del valore dell’apporto degli altri due e del proprietario degli agenti naturali della produzione. Si discute sul modo di misurare il valore dei diversi apporti; ma nessuno ha tentato di rimescolare le carte proponendo di remunerare l’un fattore in proporzione del valore dell’apporto di qualcuno degli altri fattori.

 

 

Eppure, l’idea, che se fosse enunciata nelle faccende ordinarie della vita parrebbe grottesca e risibile, è accolta come oro in barra quando gli uomini cominciano a discorrere e a farneticare delle cose di stato. Invece di pagare lo stato per quel che lo stato fa, per il valore del suo apporto alla cosa comune, si ritiene naturale, ovvio di pagarlo in ragione di quel che fanno gli altri; non in ragione della perfezione maggiore o minore dell’opera sua, ma in ragione del successo maggiore o minore dell’opera altrui. Al poltrone ed all’incapace l’imposta deve chieder poco perché, poveretto lui, non ha voluto o non è stato in grado di produr molto; all’operoso ed al valente l’imposta deve chieder molto perché volle e poté produrre molto. Questo è capovolgimento del buon senso. Che cosa si direbbe del fornaio, il quale regalasse il pane a tutti i pezzenti che si presentassero nella sua bottega, lo facesse pagare 50 centesimi al chilogrammo ai malvestiti o provveduti di certificato di povertà e 5 lire ai ricchi? Si sarebbe d’accordo nel riconoscere che il fornaio è uscito matto e finirà decotto all’ospizio di carità. Il buon pane è, se gli uomini non sragionano, pagato come buon pane da tutti, allo stesso prezzo. Persino nelle città e negli stati assediati l’uso è di razionare il pane, per farlo durare a lungo, ma di venderlo, a qualità uguali, a prezzo uguale. Così lo stato fornisce beni morali e spirituali di grandissimo pregio per tutti coloro i quali si trovano in situazione opportuna per trarne partito. Qual colpa ha lo stato se Tizio e Caio, provveduti degli stessi mezzi economici, sanno trarre partito diversamente dall’opera ugualmente fornita a favor di amendue dallo stato? Perché, se l’uno guadagna e l’altro perde, lo stato deve far pagare il primo e lasciar immune il secondo? Codesta non è condotta illogica incomprensibile? Lo stato ha fatto il dover suo, ha adempiuto il suo ufficio quando ha creato l’ambiente di pace, di giustizia, di istituti sociali coordinatori, di cultura entro il quale i due possono utilizzare i mezzi che essi posseggono in ugual misura. La logica ed il buon senso impongono che lo stato faccia pagare ad amendue ugualmente i proprii servigi. Il successo o l’insuccesso delle imprese dei due contribuenti non lo riguarda. Perdano o guadagnino, perdano molto o guadagnino assai, questo è fatto che non lo tocca. Come l’operaio vuole essere ugualmente pagato, a lavoro uguale, dai due imprenditori, come il risparmiatore esige uguali interessi se ha ad amendue mutuato ugual capitale, così lo stato, che ha reso uguali servigi, vuole essere pagato ugualmente.

 

 

190. Badisi che l’uguaglianza del salario, dell’interesse, dell’imposta a parità di opera prestata dall’operaio, dal risparmiatore e dallo stato è condizione necessaria di ordine, di progresso e di prosperità sociale.

 

 

Se l’imprenditore dovesse pagar salari alti quando guadagna e bassi quando perde, se dovesse pagare il 10% sul capitale preso a mutuo in caso di successo ed avesse diritto a non restituire il capitale in caso di perdita, vedremmo prossimo il caos e la rovina della società. Perché sforzarsi ad essere intraprendenti e prudenti, laboriosi ed attenti se chi riesce dovesse vedere crescere a proprio danno salari ed interessi ad annullare il compenso dovuto al merito? Quale sanzione percuoterebbe l’inetto e pigro, se quanto più egli perde e fa male tanto più gli scemino i costi di salario, di interesse, e, perché no, di materie prime?

 

 

Orbene, quella condotta che nelle faccende comuni della vita appare a primo tratto pazzesca e rovinosa, diventa inesplicabilmente giusta ovvia indiscutibile quando si passa alle faccende di stato. Lo stato deve, insegnano a gara utilitaristi e contabilisti, farsi pagare i proprii servigi in ragione del reddito e del capitale altrui, deve cercare di commisurare le imposte ai godimenti, ai benefici di cui gli altri fruiscono. Sempre si guarda a quel che fanno, a quel che godono, a quel che soffrono gli altri, non mai a quel che dà lo stato. Dall’insana norma di condotta derivano, come si avrebbero per i privati, conseguenze funeste. Lo stato, il quale agisca a norma di questa dottrina, premia gli ignavi, gli inetti, i caduti, perseguita i laboriosi, i capaci, i saliti.

 

 

191. Le società non sono ancora andate alla deriva, perché i legislatori e gli amministratori della finanza pubblica sono stati di fatto più sapienti dei dottrinari giustizieri. Hanno prestato ossequio di parole ai principii sommi della giustizia inventati da costoro; hanno recitato le preghiere di rito dinnanzi all’altare dell’uguaglianza di sacrificio, della proporzionalità costante o crescente al reddito o al capitale; e poi hanno operato come potevano, come dettava l’istinto della necessità di governare, di fronteggiare le spese e di non rendere malcontenti o troppo reattivi i contribuenti. Per quanto incerta ed oscillante, l’opera dei legislatori val di più dell’insegnamento dei giustizieri.

 

 

Bisogna decidersi a fare un passo avanti: a sfrattare i mali consiglieri della cosidetta giustizia tributaria dal tempio dello stato. Bisogna avere il coraggio di dire che le cosidette norme supreme del sacrificio, con le logiche illazioni della proporzionalità al reddito della personalità e della globalità, sono scatoloni vuoti, parole prive di buon senso, prive anzi di qualsiasi significato logico. Bisogna prendere a frustate i sacerdoti del nulla che par verbo.

 

 

192. I sacerdoti grideranno che io voglio che le imposte siano pagate nella stessa misura numerica monetaria da ricchi e da poveri e che io voglio risuscitare il testatico. Falso. In tutto ciò che è stato scritto in queste pagine non v’è parola che autorizzi siffatta interpretazione.

 

 

Si disse e si dimostrò soltanto:

 

 

  • che l’imposta non può razionalmente essere ripartita applicando uno qualunque dei principii del sacrificio, perché non si può applicare un principio di cui è ignoto il significato (cfr. paragrafi 159-62);

 

  • che l’imposta non può razionalmente essere applicata in proporzione al reddito «effettivo» dei singoli contribuenti, perché una tale ripartizione del tributo è illogica e perniciosa (cfr. paragrafi 187-89).

 

 

Nelle proposizioni ora enunciate non v’ha parola che possa far supporre che l’imposta debba essere uguale per ricchi e per poveri. L’imposta ripartita secondo le regole anzidette non può pretendere di esser razionale. Essa tutt’al più può vantarsi di seguire i dettami della ragion raziocinante, che vuol dire sragionante. Se, usando modestia, invece di affermarsi la sola razionale confesserà di essere un espediente consigliato dal buon senso, dal sentimento di solidarietà fra classe e classe, dal canone dell’economicità e simili diventerà espediente non dissimile da altri espedienti, rivaleggianti con essa su piede di uguaglianza, epperciò degna di esame sereno. Prima, giù la boria.

 

 



[1] In Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta, in «Atti della reale accademia delle scienze di Torino», vol. 54, 1918-19, cap. II, par. 6; ora in «Opere», serie I, vol. I, secondo dei Saggi sul risparmio e l’imposta.

E quella della ricerca contabilistica della base imponibile

E quella della ricerca contabilistica della base imponibile

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 172-191

 

 

 

 

171. Accanto ai cercatori della «giustizia», fondata su principii «razionali», della giustizia applicabile con formule sicure, vi sono, ugualmente importuni, i cercatori della «verità». La lotta tributaria è descritta come una lotta della verità contro la bugia, della schiettezza contro la frode. Ed è lotta santa, se condotta da uomini di buon senso; invidiosa distruttrice se guidata da fanatici persuasi di possedere la chiave della verità assoluta.

 

 

Quid est veritas? interrogava Pilato (Joannes 18, 38). Chiediamo anche noi: che cosa è la verità rispetto all’imposta?, e rispondiamo umilmente: nescio.

 

 

172. Non sempre l’ignoranza nostra è invincibile. Pesare e noverare quintali di caffè che entrano nello stato, numero di sigari o pacchetti di sigarette vendute al fumatore, quintali di zucchero immessi dalle fabbriche nel consumo sono operazioni tecniche le quali vertono su quantità fisiche, composte di unità ben definite e sommabili. È più difficile stimare il prezzo delle cose mobili od immobili, dei titoli o valori i quali cadono in un contratto od in una donazione o successione; ma non è impresa assurda. Trattasi di fatti riferiti ad un momento certo nel tempo, accaduti indipendentemente dal giudizio dello stimatore e che questi deve limitarsi ad accertare nella misura del loro accadimento. Quella casa, posta nel tal luogo, venduta in quel giorno fu negoziata per tale somma. Astrazion fatta dall’uso che dalla conoscenza della verità si voglia fare, le difficoltà le quali si frappongono a quella conoscenza sono empiriche, di fatto, sormontabili con la consueta approssimazione ritenuta bastevole nelle umane cose.

 

 

173. Purtroppo, la conoscenza della verità di fatto è bastevole solo per imposte, sui consumi e sugli affari, che i sacerdoti della giustizia tributaria «tollerano» come dolorose necessità fiscali, a cui giova rassegnarsi a cagione dei bisogni crescenti degli stati moderni. Poiché – gemono i sacerdoti – le esigenze pubbliche impongono la conservazione di imponenti gruppi di imposte le quali, per la medesima natura del loro oggetto – atti di consumo ed atti di scambio – non possono essere ripartite equamente e colpiscono, checché si faccia e si rimedi, proporzionatamente più i poveri che i ricchi, fa d’uopo con somma cura osservare che le imposte giuste, le sole giuste, sui redditi sui patrimoni sulle successioni, siano fondate sull’accertamento della verità vera, della verità piena ed assoluta.

 

 

È universale, non propria ad alcun paese, la lagnanza: se tutti dichiarassero il vero, quanto più miti potrebbero essere le imposte e quanto più largo il provento per l’erario! Nessuno eleva siffatta lagnanza rispetto ai dazi di dogana, alle imposte sulla fabbricazione dello zucchero, dello spirito, del gas luce, a quelle di consumo sulle carni e sul vino. Il contrabbando o la frode sono qui meri fatti empirici, che il perfezionamento della tecnica di investigazione gradatamente tende a ridurre al minimo.

 

 

La lagnanza diventa alta non sui fatti, ma sulle idee, non su quel che è, ma su quel che dovrebbe essere. Ha scarsa importanza agli occhi di costoro conoscere di un podere la composizione agrologica, la divisione in seminativo vigneto oliveto, il grado tenuto dalle diverse particelle nella gerarchia della produzione, ed il loro contributo alla produzione totale dell’impresa agraria; tutte nozioni le quali consentono di valutare egregiamente la attitudine comparativa del podere a pagar tributo. Quel che monta è conoscere il reddito «vero», i] reddito «effettivo» ottenuto da questo o da quell’agricoltore. L’imposta non può attardarsi alle cose esteriori; essa deve mirare alla conoscenza della verità assoluta. Non monta conoscere, di una fabbrica, tutti gli indici delle produttività: forza motrice, area dei saloni di lavoro e dei magazzini, numero e qualifiche degli operai e degli impiegati, quantità dei combustibili e delle materie gregge. Tutto ciò è nulla, se manca la conoscenza precisa del reddito netto, realmente ottenuto in quella unità di tempo, da quell’imprenditore.

 

 

Quel che si vede, quel che si manifesta agli occhi, quel che gli uomini dimostrano apertamente di possedere o di godere perché lo consumano o ne fanno oggetto di contrattazione, non è la verità vera, sostanziale, quella che gli amatori della giustizia tributaria vogliono conoscere. Al di là dei segni esteriori, costoro cercano la verità profonda, la verità compiuta. L’anima di un sistema tributario «giusto» non sta nelle imposte sui segni consumi od atti, che sono legato di epoche barbare; sta nelle imposte sul reddito e sul patrimonio con le quali si mira a far contribuire il cittadino alle spese pubbliche in proporzione alla sua sostanziale capacità a pagare. Finché non si sia conosciuto il reddito, tutto il reddito, finché non si siano accertati e tassati i redditi occulti, come dei titoli al portatore, o incerti, come quelli professionali o commerciali, o saltuari come quelli speculativi, finché oltre i redditi non siano accertati e colpiti i guadagni dovuti al caso, alla fortuna, alle circostanze sociali, gli incrementi patrimoniali i quali maturano in virtù del mero passare del tempo, noi non avremo conosciuto la verità e non avremo instaurato il regno della giustizia nella imposta. Al di là degli espedienti dei segni delle approssimazioni importa perseguire la verità, la conoscenza della quale soltanto consente di attuare la giustizia.

 

 

174. Quid est veritas? Purtroppo, l’ideale che i seguitatori dell’imposta giusta perseguono è un fantasma, un mito procreato da una assai rozza varietà della ragion ragionante, quella contabilistica. Non vorrei, adoperando quest’aggettivo, dir cosa spiacevole ad un rispettabile e necessario ed utilissimo ceto di professionisti. Il contabile o ragioniere, il quale redige bilanci secondo le regole additate dalla disciplina sua, materiata di secolare esperienza e di raffinati ragionamenti, non deduce da essi illazioni estranee al suo campo proprio; che è di rendersi ragione delle variazioni verificatesi durante un dato intervallo di tempo nelle attività e nelle passività della sua impresa. Il contabile, di cui io discorro, è colui il quale dagli accertamenti eseguiti trae conclusioni ultra vires intorno al significato delle cifre accertate. Non solo possono essere, come si dirà subito, compilati, per la stessa impresa e per lo stesso intervallo di tempo, bilanci diversi, e tutti ugualmente veri, a seconda degli scopi ai quali si mira; ma i risultati ottenuti debbono altresì essere interpretati diversamente, e sempre in modo ugualmente vero, a seconda degli usi – liquidazione dei rapporti tra i soci durante la vita dell’impresa o al momento della liquidazione, o tra coeredi o tra proprietari e finanza – ai quali quei risultati debbono servire.

 

 

Il contabile veramente perito dell’arte sua, conosce i trabocchetti senza numero che si presentano sulla sua via e li supera tenendo conto delle circostanze varie di ognuno di essi. Il contabile dottrinario, invece, ha attribuito alle parole da lui usate di capitale, saldo utili ecc. un significato univoco e dalla definizione data trae illazioni certe. Quando perciò qui di seguito parlerò male del «contabile», le critiche debbono intendersi rivolte non al contabile raziocinante secundum quid, al «ragioniere» che «ragionando» giustifica il proprio titolo, bensì soltanto al contabile «dottrinario», meglio direi «definitorio».

 

 

La varietà «definitoria» non è particolare al ceto dei «contabili», sì bene universale. In ogni campo scientifico v’ha colui, il quale avendo data una definizione, che è sempre arbitraria, immagina di poter ricavare da essa deduzioni sostanziali, dimenticando che le definizioni sono meri strumenti rivolti alla scoperta della verità; e che se con una data definizione la verità non si scopre, fa d’uopo mutare non il fatto definito, che è quel che è, ma la definizione data del fatto.

 

 

Adunque il contabile «ragioniere» redige inventari riferiti a dati momenti nel tempo e compila conti di profitti e perdite negli intervalli i quali corrono fra quei momenti. Se l’intervallo è l’anno e se l’anno economico, al pari di quello solare, è chiuso fra il 1 gennaio e il 31 dicembre, queste sono le date dei due inventari di principio e di fine d’anno ed i dodici mesi dal 1 gennaio al 31 dicembre sono l’intervallo durante il quale accadono le variazioni registrate nel conto profitti e perdite. Riducendo i fatti all’essenziale, i tre documenti fondamentali potrebbero essere riassunti così:

 

 

 

 

Inventario al I° gennaio

 

 
  Attività

 

 

Passività

 

Totale attività

50000000

A terzi

20000000

 

50000000

A capitali e riserve

30000000

50000000

   

Conto profitti e perdite dell’anno

 

  Perdite

 

 

Profitti

Spese diverse

25000000

  Incassi per merci vendute e sopravvenienze diverse

30000000

Utile

5000000

30000000

 

50000000

   

Inventario al 31 dicembre

   
  Attività

Passività

 
Totale attività

57000000

A terzi    

22000000

    A capitale      
    –       e riserve  

30000000

 
    Saldo utile  

5000000

 
 

 

 

A pareggio  

35000000

35000000

 

57000000

     

57000000

 

 

Il contabile ragioniere si contenta di concludere che i tre documenti da lui compilati sono necessari alla retta intelligenza dei fatti accaduti durante l’anno e sono utilissimi a guidare per l’avvenire il gestore dell’impresa.

 

 

Il contabile definitorio è non solo fermamente convinto che nei tre documenti si riassuma la vita dell’impresa durante l’anno considerato; egli sa anche che la cifra di salda utili, che egli ritrova uguale in milioni di lire in due dei suoi tre conti parificati, è il vero «reddito», è il criterio incontrovertibile in base al quale si deve calcolare il debito d’imposta dell’impresa o dei suoi azionisti. Perciò egli, volendo mettere in chiaro il quantum su cui cade il debito d’imposta, e vivendo in uno stato nel quale, in conformità alle regole della giustizia fondata sulla conoscenza della realtà, l’imposta viene prelevata a fine anno sui risultati precisi dell’esercizio chiuso, non ha incluso le imposte nelle spese diverse dell’anno. Il saldo utili, in 5 milioni di lire, dovrà essere diviso fra gli aventi diritto, secondo il comando della legge e le deliberazioni dell’assemblea degli azionisti. Così:

 

 

Allo stato per imposte

Lire

1.000.000

Agli azionisti

»

2.500.000

Agli amministratori, ai dirigenti ed ai fondi di previdenza fra impiegati e operai

»

500.000

A fondo riserva

»

1.000.000

 

Lire

5.000.000

 

 

175. Tutte le operazioni di stima sono state compiute correttamente, secondo scienza e prudenza. I valori d’inventario all’1 gennaio erano quali risultavano dalla contabilità per le partite certe (debiti a fornitori, obbligazioni, azionisti, riserva, depositi in banca e titoli) e da stime prudenziali per le partite opinabili (immobili, macchinario, scorte, magazzino). Nel conto profitti e perdite gli incassi per merci vendute, le perdite per fallimenti, le erogazioni per materie prime, lavorazioni e spese generali risultano dalla registrazione di fatti accaduti. Le quote di deperimento degli immobili e del macchinario sono quelle che l’esperienza di lunghi anni consigliò ad amministratori avveduti. Nell’inventario a fine d’anno le valutazioni delle attività tengono conto delle quote di deperimento, dei nuovi investimenti e della consistenza reale delle scorte e del magazzino valutati con la necessaria prudente oculatezza. Nessun azionista o funzionario delle imposte, sia pure di occhio linceo, riuscirebbe a scovrire il più piccolo neo nei documenti; esemplati al millesimo sui libri sociali, registranti in modo inappuntabile la verità conosciuta da uomini ossequenti al dovere verso lo stato, gli azionisti, i collaboratori e l’avvenire dell’impresa.

 

 

176. So bene che, immaginando un così perfetto amministratore, capace a registrare la verità vera univoca, ho immaginato un portento, il quale sa quel che a nessuno fu è e sarà mai possibile conoscere. Se il demagogo fa il suo mestiere quando eccita le moltitudini, repugnanti a pagar tributo, contro i ricchi o capitalisti o proprietari o professionisti supposti meglio provveduti ed accusati di falso in bilancio per non pagar l’imposta dovuta; perché il chierico economista dimentica tanto volentieri che il teorema fondamentale in materia fu da Pantaleoni così formulato: «Il fine o lo scopo o l’ufficio, che dir si voglia, in vista del quale un bilancio viene redatto, è quello che unicamente ed intieramente attribuisce un significato alle valutazioni che ne costituiscono l’attivo ed il passivo»?.[1]

 

 

Non esiste la verità sola univoca rispetto al saldo utili di un bilancio. Perché il contabile aveva indicato in 5 milioni di lire l’utile dell’esercizio dell’anno? Perché aveva scritto in 30 milioni la cifra dei profitti ed in 25 quella delle spese. Le spese così si componevano:

 

 

Salari, stipendi

Lire

12.000.000

Materie prime, carbone, elettricità

»

7.000.000

Spese generali diverse, comprese le spese di manutenzione e riparazione degli impianti

»

3.000.000

Crediti inesigibili, fallimenti, ecc.

»

500.000

Quote di ricostituzione degli impianti: edifici, macchinari, strumenti, ecc.

»

2.000.000

Ammortamento finanziario del capitale

»

500.000

 

Lire

25000000

 

 

Le cifre sono esemplificative e mutano per ogni impresa. Alcune di esse, particolarmente le prime tre, possono essere, così come furono accertate, considerate bastevolmente conformi a verità che il perito calcola secondo scienza e coscienza. Si tratta di fatti accaduti e debitamente a loro luogo registrati: tante buste paga distribuite a fine settimana o quindicina, tante tonnellate di carbone acquistate nell’anno e risultanti da fatture, tante bollette dell’impresa fornitrice dell’energia elettrica. Sulle cifre non cade dubbio. Sicura è anche la cifra che talvolta si deve scrivere per l’ammortamento finanziario del capitale, in aggiunta a quella per la ricostituzione e la conservazione in perfetto stato dei valori in cui il capitale fu investito. L’aggiunta si deve fare quando l’impresa esercita, ad esempio, un acquedotto, un gasometro, una tramvia con le clausole della consegna, al termine della concessione, degli impianti all’ente concedente, per es. il comune, senza compenso alcuno. In questo caso gli azionisti debbono essere, entro quel termine, rimborsati per il capitale investito; e ciò indipendentemente dall’obbligo di riconsegnare al comune gli impianti in perfetto stato. Qui è noto l’importo del capitale investito dagli azionisti; è noto il termine della concessione, è convenuto il saggio di interesse ed è certa l’annualità.

 

 

È altrettanto sicura la iscrizione di perdite per crediti inesigibili, per fallimenti, naufragio insolvenze di ogni sorta? Il contabile non può registrare solo fatti accaduti; deve anche prevedere. Se una cambiale del cliente non è scaduta ed è scritta per 100.000 lire; ma egli sa che il cliente è male in gambe e prevede che la cambiale sarà protestata, è lecito a lui scrivere imperturbabilmente 100.000 lire? Scriverà 70.000 o 40 o 20.000 manderà tutto l’importo a perdite? Il suo buon giudizio è sovrano in materia e può essere fallace. Il che vuol dire che, invece di 500.000 lire per crediti inesigibili ecc ., si potrebbe scrivere 300.000 o 700.000 lire e queste altre cifre potrebbero essere ugualmente reputate conformi a realtà.

 

 

Il contabile ha scritto 2 milioni di lire a titolo di accantonamento necessario per la ricostituzione degli edifici, degli impianti, dei macchinari, degli utensili e di tutto ciò che è il capitale vivo dell’impresa. L’accantonamento deve farsi, perché ogni cosa muore, per logorio fisico e per logorio economico. L’edificio, oggi modernissimo, dopo 20 anni o 50 od alla più lunga dopo 100 anni, è antiquato e conviene, anche se le mura stanno in piedi, abbatterlo per ricostruirlo nuovo fiammante. La macchina di nuovissima invenzione potrebbe resistere 20 anni al mero logorio fisico; ma, se dopo 10 anni un’altra macchina è messa sul mercato e riduce notabilmente i costi, chi esiterà a buttare la vecchia macchina tra i ferravecchi? anche se in apparenza ancora sanissima e perfetta? L’accantonamento che si dovrà fare per ricostituire il valore dell’edificio entro 20 anni invece che entro 100 anni è assai più alto: 4% invece di quasi zero. Accantoneremo il 5 ovvero il 10% per riavere il capitale investito entro 20 od entro 10 anni? Il risultato sulle cifre da scrivere nel conto spese varia a seconda l’ipotesi preferita dal contabile: 1 o 2 o 3 milioni di lire.

 

 

Ma più variano quelle cifre a seconda delle ipotesi sul quantum da ricostituire. Si devono ricostituire i valori di costo o quelli di ricostruzione? Un impianto è costato 100 milioni di lire e si presume la sua durata sia di venti anni? Basterà iscrivere tra le spese 5 milioni all’anno per venti anni a titolo di quota di ricostruzione? Alla fine dei vent’anni avremo in mano 100 milioni di lire; bastevoli se l’impianto, equivalente anche se diverso, costerà, rifatto, fra 20 anni gli stessi 100 milioni di lire. Se, invece, per la svalutazione dell’unità monetaria, l’impianto dovesse costare 1 miliardo, ecco l’impresa avere perso 900 milioni del patrimonio, forse tutto. Eppure, il contabile nello stabilire la quota di ricostituzione degli impianti aveva assunto le regole sacrosante della scienza contabilistica, almeno di quella setta contabile la quale si ostina ancora adesso a ritenere che i costi da ammortizzare siano quelli originari e non quelli di ricostruzione.

 

 

Nella colonna delle attività, l’inventario al 31 dicembre ci dà un totale di 57 milioni di lire, perché, fra le attività, figurano 10 milioni di scorte di materie prime, materie in lavorazione, combustibili e provviste diverse, tutte diligentemente valutate ai prezzi correnti al 31 dicembre, data di chiusura dei conti. Nessun appunto si può muovere al contabile; essendo ben ragionevole che le scorte siano valutate ai prezzi correnti nel giorno di chiusura del bilancio. Se, inoltre, il contabile ha fra le spese calcolato una quota di rischio per l’eventualità di dover vendere i prodotti finiti ad un prezzo diverso e minore di quello corrente al 31 dicembre, la sua coscienza è in una botte di ferro. Basta la precauzione? Perché il contabile, invece che il 31 dicembre, non ha scelto la data del 30 aprile che è quella della presentazione del bilancio all’assemblea degli azionisti e non si è fondato sui prezzi correnti alla data più vicina a quella dell’assemblea? Se la tendenza dei prezzi era al ribasso, la prudenza non avrebbe forse consigliato di tener conto della tendenza per non rischiare di calcolare utili maggiori di quelli probabili? O non sarebbe stato anzi più prudente, iscrivere quei prezzi che prudenzialmente si può presumere saranno ricavati a suo tempo dalla vendita dei prodotti finiti, sotto detrazione ovviamente dei costi di trasformazione della materia prima?

 

 

I risultati del conto profitti e perdite possono variare dalla notte al giorno, in conseguenza della diversità di apprezzamento delle diverse partite di bilancio. Il saldo utile di 5 milioni di lire può crescere a 12 milioni o trasformarsi in una perdita di 10 milioni; pur rimanendo sempre nel campo, che è quello proprio della materia tributaria, di una impresa viva, operante. Utili maggiori o minori ovvero perdite sono tutti veri. Non esiste una verità sicura in materia opinabile.

 

 

Se noi supponiamo di trovarci dinnanzi ad una impresa in liquidazione, il contabile sarà forse costretto ad usare criteri di vendita coatta, con probabilità di perdite. Quali criteri adotteremo nella formazione di un bilancio per divisione familiare? Qui conta l’equità, non la esattezza delle valutazioni. Se i valori sono uniformemente valutati in modo assai prudente e forse inferiore a quelli di mercato, che monta? Perché tutti i valori sono ugualmente attenuati, nessuno dei consorti può lagnarsi. Avremo valori diversi da quelli di rendiconto agli azionisti ed alle finanze; e da quelli di liquidazione; ma ugualmente veri.

 

 

Tutte queste valutazioni sono vere, ciascuna appropriatamente al fine che si vuole raggiungere costruendo il bilancio. Il demagogo sconciamente vociferante contro la falsità dei bilanci «costruiti dai contribuenti allo scopo di frodare la finanza» si è mai posto l’unico problema che in sede di accertamento dei redditi è lecito porre: quali sono i criteri i quali dovrebbero essere adottati per costruire bilanci al fine di determinare l’ammontare dell’imposta dovuta allo stato? Probabilmente, se il quesito fosse posto, dovrebbe essere risoluto nel senso che la costruzione dei bilanci e la determinazione del saldo utili nel modo tenuto consuetamente siano un fuor d’opera, che non interessa menomamente lo stato (cfr. par. 189).

 

 

177. Il teorema di Pantaleoni deve essere integrato da un corollario: qualunque sia il fine al quale è ordinato il bilancio, il risultato al quale si arriva rispetto al «saldo utili» ha valore meramente formale. Il «saldo» è una cifra astratta, utile a conoscersi a certi scopi, ad esempio di pareggiamento dei conti, di controllo sulla gestione, di guida al futuro indirizzo di essa. Il contabile ragioniere non pretende lavar la testa ai cani, ossia insegnare al principale la maniera ottima di usare i saldi da lui calcolati. Egli non dice: quel saldo è «reddito» e lo puoi spender tutto; od è «riserva» e lo devi conservare. L’anno venturo, egli terrà conto dei fatti nuovi sopravvenuti, di condotta spendereccia o risparmiatrice del principale, e, rammostrandogli il nuovo saldo, offrirà l’ottimo e il solo commento che a lui sia consentito e doveroso fornire. Il contabile definitorio invece si accanisce a dire che quel saldo è il «vero» utile; e che, perciò, economicamente, esso ha questo e quel significato. Corre obbligo di dire che il significato economico della cifra del saldo utili è invece grandemente incerto.

 

 

178. Il principio sul quale è fondato il calcolo del saldo utili deve invero esser negato sotto due aspetti.

 

 

Già dissi (cfr. 83) che in primo luogo la divisione del tempo in intervalli finiti, ad es., l’anno dall’1 gennaio al 31 dicembre, è un artificio. Necessario, ma artificio. Supporre che la vita di una impresa possa essere spezzata in esercizi finiti annui è supporre l’assurdo. Non si può sapere se una impresa ha fornito ai suoi proprietari profitti ovvero perdite se non quando essa è morta e tutte le sue attività sono state liquidate. Paragonando allora gli incassi e le spese, ridotti a valori attuali ad un dato momento, potremo giudicare dell’esito dell’impresa. Finché essa rimane in vita ed opera, il giudizio è provvisorio. Andrà ingoiata la riserva da perdite future? Basterà a fronteggiarla?

 

 

Nel dividere il tempo in intervalli annui e nel redigere conti riferiti distintamente ad ognuno di quegli intervalli, i contabili obbediscono alla necessità (già illustrata nel citato 83) di orientarsi, di avere una norma per l’avvenire, di sapere se il successo arride o non all’impresa, di non sentire, nell’atto di prelevare fondi a fini di spesa privata, rimorso di aver recato nocumento alla vita di essa. Se anche, per ipotesi inverosimile, il possessore dell’impresa potesse astenersi da prelievi sino alla liquidazione finale, non potrebbe astenersene lo stato, le cui spese sono continue nel tempo e debbono essere continuamente fronteggiate da entrate ugualmente distinte nel tempo.

 

 

Ma dalla necessità in cui gli uomini sono di dividere il tempo in intervalli finiti non discende la razionalità della frantumazione e dei calcoli che su questa si istituiscono. Trattasi di meri espedienti empirici, che i contabili definitorii, solo perché necessari, pretenderebbero di trasformare in regole di ragione, atte, esse soltanto, ad attuare la giustizia tributaria. Se l’un espediente sia da preferirsi all’altro è materia opinabile, da discutersi secondo opportunità contingenti, senza ostentazione di stupida boria dell’uno verso l’altro spediente. Non esiste «il» criterio che solo possa dichiararsi razionale, solo atto a servir di metro alla giustizia. Degnasi taluno di guardare, con sopportazione ad altri criteri, diversi da quello del saldo di bilancio, di determinazione del reddito delle persone, come ad esempio il criterio dell’indice della spesa, o del reddito normale od ordinario, quasiché soltanto questi fossero spedienti, tollerabili per benevola sopportazione in confronto a quello contabile. Se gli uni sono frutto di qualche artificio logico, altrettanto deve dirsi dell’altro; e forse più.

 

 

179. Il criterio del saldo di bilancio non patisce soltanto per il vizio della divisione del tempo continuo in intervalli finiti artificiosi,  ma più per il paragone che per giungere al risultato finale detto «saldo utili» esso istituisce fra quantità riferite a momenti temporali diversi. Anche qui, non si nega la necessità dell’artificio; ma si chiede la confessione dell’essere quello artificio e per giunta artificio, il quale nulla ci dice intorno al significato economico dell’importo, così ottenuto, del saldo utili.

 

 

Il contabile, il quale, redigendo, a distanza di un anno l’uno, dall’altro, due inventari, constata che il patrimonio netto sociale, il quale era all’1 gennaio di 30 milioni di lire, al 31 dicembre è divenuto di 35 milioni di lire (30 capitale e riserve, preesistenti all’1 gennaio e 5 utili lucrati nell’anno) è tratto a concludere: il reddito dell’anno fu di 5 milioni di lire. Conclusione rafforzata da quella identica del conto profitti e perdite.

 

 

Si obliteri quest’ultimo conto, il quale, registrando fatti accaduti nell’anno, mette in rilievo una differenza, detta saldo utili, tra incassi ed erogazioni. Che la differenza sia davvero un saldo utili non risulta, nell’opinione dei contabili, dal conto intermedio (detto dei profitti e perdite), ma esclusivamente dalla coincidenza dei risultati di questo conto intermedio e dell’inventario di fine anno paragonato con quello ad inizio d’anno. I 5 milioni di utile del conto profitti e perdite sono uguali alla differenza in più fra l’attivo netto sociale al 1° gennaio di 30 e l’attivo netto al 31 dicembre di 5 milioni di lire. Che 5 sia la differenza aritmetica fra 30 e 35 è certo; ma è certissimo altresì che quella operazione di paragone fra 1 gennaio e 31 dicembre ha senso puramente formale aritmetico, perché i termini di essa sono comparabili solo numericamente. I 30 milioni sono una quantità numerica di lire riferite all’1 gennaio; laddove i 35 sono un’altra quantità numerica di lire riferite al 31 dicembre. Le unità componenti quelle due masse non sono ad una ad una equivalenti perché riferite a tempi diversi. Non si può dire che l’una unità sia maggiore dell’altra, sì come è impossibile dire che un cavallo sia maggiore di un cammello. Esse non possono essere sommate o sottratte o moltiplicate o divise l’una all’, o dall’, o per l’altra. L’inventario al 31 dicembre reca in sé un vizio insanabile. Al passivo scrive:

 

 

A terzi

Lire

22.000.000

A capitale e riserve

Lire

30.000.000

Saldo a pareggio

»

5.000.000

A pareggio

»

35.000.000

»

35.000.000

 

Lire

57.000.000

 

 

La appostazione di 22 milioni di lire per debiti a terzi è logica perché quei debiti sono riferiti al 31 dicembre. Ma che senso ha scrivere a capitale e riserve 30 milioni di lire quando questa spesa è una cifra valutativa riferita all’1 gennaio, anzi trasportata di peso, senza alcuna variante, dall’1 gennaio al 31 dicembre? È logico immaginare che le cose le quali valevano 30 a una data valgano le stesse 30 a un anno data?

 

 

Non dico che i contabili possano, nel compilare inventari, adottare un espediente diverso. Dico che, si tratta di un mero spediente e non di un principio di ragione; ed aggiungo che dall’uso di meri spedienti non si può dedurre argomento di boria o di superiorità qualsiasi verso i tanti altri espedienti, i quali possono essere immaginati od adoperati nel calcolare redditi. Gli uomini, per necessità di intendersi reciprocamente nel discorrere sono costretti a porre definizioni e premesse; e fanno benissimo. I contabili fanno benissimo, per cavarsela nel calcolare i «saldi a Pareggio» nell’inventario di fine anno, a porre la premessa di valutare capitale e riserva nella stessa cifra del principio d’anno. Non elevino però questa premessa arbitraria definitoria a principio di ragione; ché il salto sarebbe mortale. La cifra di «saldo a pareggio» al 31 dicembre non dimostra, col fatto della sua stessa presenza, di essere il «vero» reddito. È un numero, che pareggia i conti. Nient’altro. Che cosa voglia dire quel numero è un altro discorso.

 

 

180. In realtà il contabile al 31 dicembre conosce questi quattro soli fatti certi:

 

 

1)    che le attività dell’impresa possono a quella data correttamente essere valutate in 5 milioni di lire;

 

2)    che le passività dell’impresa verso terzi sono alla stessa data valutabili in 22 milioni di lire;

 

3)    che la differenza a saldo fra attività e passività è perciò al medesimo 31 dicembre valutabile in 35 milioni di lire;

 

4)    che siffatta differenza è di proprietà dei padroni dell’impresa.

 

 

Il resto: che i 35 milioni si dividano in 30 milioni capitali e riserve e in 5 milioni utile è un arzigogolo definitorio del contabile; ma non ha alcuna caratteristica delle verità di ragione.

 

 

Per paragonare i 30 milioni e i 35 milioni riferiti a momenti diversi separati dall’intervallo di un anno gli uomini ricorrono all’espediente del riporto dal principio alla fine o dello sconto dalla fine al principio dell’anno dei 30 o dei 35 milioni mercé l’applicazione di un saggio di interesse o di sconto (vedi sopra par. 89).

 

 

Il saggio di interesse comunemente usato per il riporto è quello corrente sul mercato per impieghi di capitale della medesima specie.

 

 

Se noi supponiamo che il saggio di interesse corrente sia il 5%, noi sappiamo che:

 

 

35 milioni al 31 dicembre = 30 al 1° gennaio + 1,50 interesse di riporto al 5% dei 30 al 31 dicembre + 3,50 saldo differenziale al 31 dicembre.

 

 

Ma poiché noi possiamo invece assumere ad arbitrio un qualunque altro saggio di interesse, ove suppongasi che sia corrente quello effettivamente guadagnato nell’impresa, che è del 16 2/3% avremo:

 

 

35 milioni al 31 dicembre = 30 al 1° gennaio + 5 interesse di riporto al 16 2/3 % dei 30 al 31 dicembre.

 

 

Il segno di uguaglianza (=) posto nell’una e nell’altra proposizione significa che la quantità 35 milioni di lire al 31 dicembre è equivalente, nell’uno e nell’altro modo di calcolo, a 30 milioni all’1 gennaio, più gli 1,50+3,50 ovvero i 5 aggiuntisi durante l’anno ai 30.

 

 

Razionalmente, ossia sulla mera base del ragionamento fin qui condotto, noi sappiamo soltanto che le due quantità 35 alla fine dell’anno e 30 al principio + 5 differenza sono equivalenti. La quale proposizione dice quel che dice e nulla di più. Ossia dice, ripetasi, che le due quantità separate dal segno = sono equivalenti; e non dice affatto, sino a prova contraria, che le 1,50+3,50 ovvero le 5 siano il reddito delle 30. La natura di reddito nelle 5 lire (o nei 5 milioni di lire del bilancio) non è cioè dichiarata dalla impostazione delle cifre nel bilancio o dall’equivalenza in seguito dichiarata. Quella natura di reddito è il risultato di un’altra operazione mentale che, sulla base dei risultati sinora raggiunti, noi facciamo e che prende la seguente forma: facciamo la convenzione di chiamare «reddito» o «perdita» il «saldo» necessario ad aggiungersi col segno più o col segno meno per rendere equivalenti due quantità numeriche riferite l’una al principio e l’altra alla fine dell’anno.[2]

 

 

181. Questa è una mera definizione, la quale non ha in se stessa alcuna virtù probante. Le definizioni, dirò ancora una volta, non provano nulla. Sono utili, se chiariscono le idee, dannose se le imbrogliano. Può darsi che la definizione ora data del reddito, una delle tante, sia stata più dannosa che utile, in conseguenza della curiosa affezione contratta per essa dai contabili definitori e dai giustizieri. Se, invece di lasciarci sopraffare dalla passione amorosa, noi guardiamo a quella definizione del reddito come ad un mero spediente usato per comodità di conteggio, subito vediamo che essa non è «il» criterio infallibile della giustizia tributaria.

 

 

Il ragionamento:

 

 

a)    l’imposta deve essere distribuita secondo giustizia;

 

b)    la ripartizione secondo giustizia significa proporzionalità al reddito dei contribuenti;

 

c)    reddito è la differenza fra gli attivi netti iniziale e terminale del contribuente nel periodo considerato;

 

d)    la giustizia vuole dunque che l’imposta sia proporzionale alla differenza così definita:

 

 

si compone di un assioma a), evidente solo perché nessuno a priori si dichiara contrario alla giustizia, anche quando non si conosce in che questa consista, di una deduzione d), valida entro i limiti della validità delle proposizioni precedenti, di una definizione c) e di un mistero b). Perché la giustizia voglia la proporzionalità al reddito dei contribuenti, è un mistero, del quale, a somiglianza di altri misteri, i quali hanno parimenti a proprio favore il consenso dei popoli, varie sono le facce: sono tutti o alcuni i contribuenti quelli di cui il reddito deve essere considerato? la proporzionalità è costante, crescente o decrescente? Gli elementi componenti il reddito sono omogenei? Come poi sia accaduto che una definizione (c) sia diventata il segnacolo in vessillo della verità in argomento di definizione del reddito; e che tutti gli altri espedienti che, con ostinazione degna di miglior successo, i legislatori la consuetudine l’uso immemorabile hanno messo innanzi: la quantità dei beni consumati, gli indici del godimento, il tenor di vita, il flusso normale di frutti derivanti dalle cose materiali ed immateriali, siano stati guardati con degnazione dai sacerdoti della giustizia, pesati con sospetto e rigettati perché calanti in cospetto dell’archetipo assunto dal contabile ad immagine dell’unica verità, questo è in verità il mistero vero e maggiore della cosidetta teoria della giustizia tributaria.

 

 

Posti dinnanzi ad alquante definizioni del reddito:

 

 

a)    reddito è quella ricchezza che in un dato intervallo di tempo entra, netta da spese, nella economia del contribuente, in aggiunta al capitale posseduto dal contribuente medesimo all’inizio di quel medesimo intervallo di tempo;

 

b)    reddito è quella ricchezza che, netta da spese, in un dato intervallo di tempo, il contribuente distacca a guisa di frutto naturale o civile, dalle cose da lui possedute: terreni, case, imprese, professioni, impieghi, mutui ecc.;

 

c)    reddito è quella ricchezza che, in un dato intervallo di tempo, il contribuente effettivamente, consumandola, gode: quasi tutti gli scrittori hanno guardato alle definizioni b) e c) partendo dalla premessa che la definizione vera fosse quella a). Dio perdona agli innocenti e li ammette più volentieri dei ragionatori nel regno dei cieli. Non v’ha dubbio però che qui ci troviamo dinnanzi ad un caso di pia innocenza inetta ad intuire che nessuna delle tre sopra elencate e nessuna delle altre definizioni che potrebbero essere immaginate ha in sé la virtù di provare la propria verità. Le definizioni sono convenzioni che gli uomini fanno tra di loro allo scopo di intendersi nel discorrere. Sono espedienti, utili come l’alfabeto, le regole grammaticali o sintattiche. A certi scopi scientifici può essere utile definire il reddito in un certo modo; per altri scopi in un secondo modo; e così in tanti modi. Solo la fecondità della definizione adottata, la ragionevolezza delle illazioni che se ne traggono, la bontà dei risultati ottenuti possono consigliare ad usare ora piuttosto l’una e ora piuttosto l’altra delle definizioni. Ogni definizione sta nuda in cospetto del tribunale della ragione. Nessuna può pretendere di scomunicare le altre.

 

 

182. La definizione contabilistica (quella α del par. 82 ed a del par. precedente) ha un privilegio sovra le altre: di essere stata accettata come la prima, l’unica, come quella che si impone per la sua evidenza alla coscienza umana. Un privilegio così grande è proprio solo degli assiomi e dei miti. La definizione α non è un assioma. L’assioma si impone per la sua evidenza all’uomo, posto dalla conformazione stessa del suo cervello nella impossibilità di negarlo; ed invece la definizione à è reputata vera solo perché siamo abituati a ripeterla senza renderci conto del suo contenuto meramente definitorio. Essa è dunque il mito.

 

 

Forse, anche le altre definizioni sono un mito. Pare di no, perché coloro che le usano hanno l’aria di vergognarsene. In ogni caso la definizione à, nella gara dei miti, ha vinto la prova. Essa è il mito dei miti, il mito sacro, i cui fedeli si esaltano nella contemplazione di cifre cabalistiche scritte in certi evangeli detti «bilanci». Sembrerebbe incredibile, se non fosse vero.

 

 

Durante il secolo XIX e in questo primo terzo del secolo XX gli uomini hanno adorato il mito, hanno combattuto per esso; hanno sperimentato e costrutto. Hanno anche condannato al rogo i contravventori. Anche nell’umile campo delle imposte non la ragione, ma il mito guida gli uomini. I miti, creati dagli eroi che guidano i popoli lungo la via del destino, persuadono gli uomini ad agire perché tratti dal profondo dell’animo umano. Fanno appello al sentimento, alla fede, al dovere, all’eroismo, all’amore, al mistero. Ma che gli uomini siano mossi ad agire da un mito contabile, da un numero astratto adottato per la sua comodità avrebbe dell’incredibile se quel mito non fosse lo strumento di un sentimento profondamente radicato nell’uomo: l’invidia.

 

 

«Chi sta sopra di me non paga il dovuto» è la reazione spontanea dell’uomo all’imposta. Nessuno confessa di non voler pagare. Tutti dichiarano di voler pagare se altri paghi il dovuto. Homines, esclamava già Tommaso Hobbes, [non tantum] onus ipsum, quam inaequalitatem graviter ferre solent. Maxima enim ambitione de immunitate certatur et in eo certamine minus felices magis felicibus tanquam victi invident. Pagare e frodare non contano, se taluno paga di meno o froda di più. Se l’imposta è però sull’atto singolo di consumo o di scambio l’invidia non può operare. Manca il termine di confronto fra uomo e uomo. Il confronto è fra cose: chilogrammo e chilogrammo di zucchero o spirito, sigaro o sigaretta, caffè o cicoria. Manca la materia sentimentale del discutere del pretendersi gravato in confronto agli altri. Tutti i contratti di compra-vendita di case sono simiglianti l’uno all’altro; e non v’ha modo di attaccarsi all’essere la casa piccola in confronto all’altra vasta per pretendere di pagare imposta minore per ogni 100 lire di valore. La casa è morta, non parla; le pietre ed i mattoni e la calce di cui è composta non reagiscono contro l’imposta più alta. La casa diventa viva e reattiva solo se la si vede attraverso l’uomo che la possiede.

 

 

Il campo uguale all’altro campo non reagisce se è tassato in ugual misura; reagisce invece quando l’uno essendo posseduto dal ricco e l’altro dal povero, al povero balena l’idea che il suo campo, tuttoché ugualmente produttivo, debba sopportare minor imposta di quello del vicino ricco, che egli invidia e i cui beni vorrebbe fare suoi. In quel momento il contadino si muta istintivamente in filosofo utilitarista ammantato in un paludamento contabile. L’invidia, che non può far muovere le cose, muove gli uomini che posseggono le cose, inventa il sistema personale di distribuzione delle imposte e crea il mito contabilistico del reddito, anima della finanza moderna. Forse non è dimostrabile la razionalità del tassare il campo il tabacco il vino la vettura il palco a teatro; ma è certamente arbitraria, perché avente origini puramente definitorie, la tassazione del saldo di bilancio assunto ad unico criterio di reddito. Naturalmente, siccome a pro della tassazione delle cose mute esiste il beneficio del dubbio, laddove è certa l’arbitrarietà della tassazione del saldo di bilancio, gli uomini proclamano sola razionale quest’ultima. Ed anche questa è proprietà caratteristica del mito.

 

 



[1] Maffeo Pantaleoni, Alcune osservazioni sulle attribuzioni di valori in assenza di formazione di prezzi di mercato, in Scritti varii di economia, serie seconda, Sandron, Palermo 1909, pp. 86 sgg; ed ora in Teoremi di economia, Laterza, Bari 1925, vol. II, pp. 201 sgg.

[2] La infondatezza del preteso primato del concetto contabilistico del reddito non discende dalla eterogeneità delle lire disponibili in tempi diversi, ma dalla natura meramente definitoria della qualifica di reddito data ai saldi di bilancio necessari a rendere equivalenti gli importi monetari di principio e di fine d’anno. Sui concetti di eterogeneità, uguaglianza ed equivalenza, cfr. Ulisse Gobbi, Equivalenza economica, omogeneità, uguaglianza, in «Scritti varii di economia», Giuffrè, Milano 1934, pp. 282 sgg. ed Osservazioni sul confronto dei valori nel tempo, in «Rivista italiana di scienze commerciali», n. 3 del 1938, pp. 2-9 sgg.

La vuota boria dei sommi principii utilitaristici dell’imposta

La vuota boria dei sommi principii utilitaristici dell’imposta

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 154-171

 

 

 

 

152. Alla radice dell’idea della giustizia tributaria sta la seguente massima dell’oratore che nel consiglio grande di Firenze parlò in difesa della imposizione della decima scalata[1] proposta all’epoca della guerra di Pisa.

 

 

Quella gravezza s’ha a chiamare eguale, che grava tanto el povero quanto el ricco; perché, e quando uno povero paga in comune una decima delle entrate sue ed uno ricco paga una decima, ancora che la decima del ricco getti più che quella del povero, pure molto più si disordina el povero di pagare la sua decima, che el ricco la sua. Però la egualità di una gravezza non consiste in questo, che ciascuno paghi per rata tanto l’uno quanto l’altro, ma che el pagamento sia di sorte, che tanto si incommodi l’uno quanto l’altro.

 

 

«L’incommodo»di Francesco Guicciardini ebbe nome di «sacrificio» da Geremia Bentham, capo degli utilitaristi; ed all’idea dell’incommodo risalgono le spiegazioni che in varie forme si danno dell’imposta moderna. Alla radice di questa sta il concetto di un sacrificio a cui il cittadino è chiamato a pro dello stato. La bontà o giustizia dell’imposta non è saggiata dal confronto fra le quantità di moneta pagata dai cittadini; ma dal confronto fra l’incommodo o sacrificio o pena o dolore sofferto dai cittadini in conseguenza del pagamento di date quantità di moneta. Non perché ciascuno paghi 1000 lire, o il 20% del proprio reddito o l’1% del patrimonio dovrà dirsi giusta l’imposta; ma perché la somma pagata, qualunque sia, cagiona ad ognuno un sacrificio od incomodo che sia uguale e proporzionale a quello di ognun altro. Lo stato, per fermo, non incassa sacrifici, bensì moneta. Ma il criterio di decidere sul giusto quantum di moneta da prestare è l’incomodo che quella prestazione monetaria reca al cittadino.

 

 

L’introspettivo psicologico è la premessa del concreto esteriore monetario.

 

 

153. Attraverso Bentham, Edgeworth, Cohen Stuart ed altri insigni la teoria dell’oratore fiorentino ha assunto una forma la quale potrebbe essere divulgata così:

 

 

Schema I

 

 

VI

5

V

6

6

IV

7

7

7

III

8

8

8

II

9

9

9

I

10

10

10

Tizio

Caio

Sempro

nio

 

 

Sia la consueta società perfetta di tre individui Tizio Caio e Sempronio, provveduti rispettivamente di 6, 5 e 4 unità di ricchezza. Siano le unità di ricchezza, per ipotesi, tutte fisicamente uguali l’una all’altra o, con qualche espediente, configurate in modo da essere dagli uomini fatte uguali alle unità di un bene di paragone o numerario. Ognuno attribuisce alle successive unità di ricchezza un pregio di utilità decrescente, che nel diagramma è indicato con i numeri astratti 10, 9, 8, 7, 6 e 5.

 

 

154. L’imposta può essere prelevata sulle tre dramatis personae, a norma di tre differenti significazioni che possono attribuirsi al concetto del sacrificio.

 

 

155. Il sacrificio può essere uguale; il che significa dovere ognuno dei tre contribuenti pagare tal somma monetaria d’imposta, qualunque sia, la quale cagioni ad ognuno di essi un sacrificio uguale a quello sofferto da ognun altro. Se, pagando una – evidentemente l’ultima o VI – dose fisica o monetaria di ricchezza, Tizio subisce perdita misurata, in termini di sacrificio, col numero 5, Caio deve pagare cinque sesti della sua V unità, perché così anche il suo sacrificio sarà misurato con 5 e Sempronio deve pagare cinque settimi della sua IV unità, allo scopo sempre di misurare col numero 5 la perdita da lui sofferta. La verità del principio dell’uguaglianza è assiomatica. In una società di uomini uguali, chi oserebbe sostenere la disuguaglianza della imposta?

 

 

156. Il sacrificio può essere minimo; il che significa dovere ognuno dei tre contribuenti pagare tal somma monetaria di imposta, qualunque sia, la quale cagioni alla collettività dei tre un minimo di sacrificio. Se il fabbisogno dello stato e di una unità fisica o monetaria di ricchezza, quell’una unità deve essere tutta prelevata su Tizio. Quale altro metodo farebbe, invero, subire alla collettività un sacrificio minore di 5? Se il fabbisogno dello stato fosse di 3 unità, 2 (la V e la VI) dovrebbero essere offerte da Tizio, ed I (la V) da Caio. Il sacrificio della collettività sarebbe di 5 + 6 + 6 = 17; ed ogni altra distribuzione dell’imposta darebbe luogo ad una somma di sacrificio maggiore. Anche il principio del sacrificio minimo è assiomatico. Se lo stato deve toccare una meta, ottenere un vantaggio pubblico, compiere l’ufficio suo, perché la società dovrebbe all’uopo sostenere un sacrificio maggiore del minimo pensabile? È conforme alla logica che se un risultato può essere ottenuto con un sacrificio totale 17 (5 + 6 sopportati da Tizio, 6 da Caio) non debba ottenersi con un sacrificio totale 18 (5 sopportato da Tizio, 6 da Caio e 7 da Sempronio) o con qualunque altro sacrificio totale maggiore di 17.

 

 

Il principio del sacrificio minimo va più innanzi. Poiché l’opera dello stato, nella mente degli utilitaristi, è intesa a procacciare la massima felicità possibile del massimo numero possibile dei componenti la società – ed anche siffatta proposizione è per essi assiomatica, per la impossibilità di asserire il contrario – l’imposta non è esaurita coll’esaurirsi del fabbisogno proprio dello stato. Se anche, per ipotesi, il fabbisogno fosse già od altrimenti coperto, si dovrebbe tuttavia nello schema 1 prelevare o continuare a prelevare da Tizio la VI unità di ricchezza cagionandogli un incommodo uguale a 5, per darla a Sempronio, il quale da questa, per lui V, unità ricaverebbe un commodo uguale a 6. La felicità od il commodo collettivo per tal modo crescerebbe di una unità, obbedendo all’imperativo della massima felicitazione collettiva. Se le fortune sono meglio differenziate, cosicché invece dello schema [1] si abbia lo schema [2], il teorema del sacrificio minimo dice che bisogna togliere a Tizio le ultime tre dosi di ricchezza che per lui hanno l’indice di utilità 5, 4 e 3 per darne una a Caio, a cui si fa acquistare 6 e due a Sempronio a cui si fa acquistare 7 e 6. La felicità o commodo totale della collettività dei tre passa da 52+34+27=113 a 40+40+40=120. Il massimo commodo sociale si raggiunge quando l’utilità o commodo marginale della ultima (per tutti ora la V) dose di ricchezza posseduta è uguale per tutti i componenti la società, ad esempio è misurata dall’indice 6.

 

 

Schema II

 

 

VIII

3

VII

4

VI

5

V

6

6

6

IV

7

7

7

III

8

8

8

II

9

9

9

I

10

10

10

Tizio

Caio

Sempro

nio

 

 

A questo punto cessa la ragione dello stato di prelevare e redistribuire.

 

 

Il principio del sacrificio minimo dicesi perciò anche del livellamento delle fortune o del taglio delle teste degli alti papaveri.

 

 

157. Il sacrificio può essere proporzionale; il che significa dovere ognuno dei tre contribuenti pagare tale somma monetaria, qualunque essa sia, la quale cagioni ad ognuno di essi un sacrificio il quale sia l’identica proporzione della felicità che essi prima traevano dal possesso della ricchezza.

 

 

Sia che la felicità di Tizio sia misurata (schema 1) coll’indice 45 (10+9+8+7+6+5 quella di Caio con 40 e quella di Sempronio con 34 ovvero che la felicità di Tizio sia misurata (sempre nello schema 1) coll’indice 30 (5 indice della utilità della ultima unità di ricchezza posseduta moltiplicato per il numero, 6, delle unità possedute) quello di Caio con 30 (6×5) e quello di Sempronio con 28 (7×4), ognuno paghi tanta moneta quanto occorre perché il sacrificio di ognuno sia uguale, ad esempio, ad un decimo della felicità che avrebbe goduto in assenza dell’imposta. Anche il principio del sacrificio proporzionale è assiomatico, per la impossibilità di asserire il contrario. Su qual fondamento logico poggiare la pretesa che l’uno debba perdere la decima, l’altro la quinta ed il terzo la ventesima parte della propria felicità?

 

 

158. I tre principii, ugualmente assiomatici ad un primo sguardo, sono tuttavia significativi? La domanda non è impertinente. Solo l’analisi può dichiarare se una proposizione, la quale sembra per se stessa evidente, abbia un contenuto. I tre principii del sacrificio avrebbero invero un senso logico soltanto se noi potessimo supporre:

 

 

1)    che le unità di beni o di moneta considerate siano finite e le une alle altre uguali e fungibili o sostituibili. Noi saremmo grandemente imbarazzati se ci trovassimo dinnanzi ad una miscellanea di beni diversi: case mobilio vivande vestiti terreni navi azioni. Pur trattandosi di mera difficoltà concreta è bene che il calcolo delle unità sia compiuto su unità monetarie, ad esempio lire, tutte uguali le une alle altre e bastevolmente piccole per poter approssimativamente affermare che ogni particella della medesima unità.

 

2)    Che ogni individuo sia in grado di misurare i commodi delle varie dosi o unità delle proprie ricchezze e l’incommodo dell’esserne privati dall’imposta.

 

3)    Che per ogni individuo e a partire da un certo punto, l’unità delle successive doti di ricchezza sia decrescente, cosicché il commodo prestato da una lira, sia minore del commodo prestato dalla lira immediatamente precedente (99a) e maggiore di quello della lira (101a).

 

4)    Che si possa postulare la esistenza di uno strumento introspettivo, il quale fotografi le reazioni psicologiche quantitative di ogni uomo di fronte all’acquisto o alla privazione delle successive unità di ricchezza.

 

 

Schema III

 

VI

5

V

6

10

IV

7

15

1

III

8

25

4

II

9

20

7

I

10

5

12

Tizio Caio Sempro

nio

 

 

 

Non si può escludere la possibilità di individui così conformati: Tizio, uomo regolo e medio, Caio, eccitabile ai godimenti solo a partire da un certo punto e facilmente stanco, poi, della immaginata felicità, Sempronio, dai pochi bisogni e privo di sensibilità al vantaggio dell’acquisto di nuove dosi di ricchezza. Coll’aiuto dello psicoscopio, lo stato potrebbe agevolmente repartire l’imposta monetaria, in guisa da soddisfare ai requisiti dei tre principii del sacrificio uguale, minimo o proporzionale. Non rifaccio i calcoli, che si riducono a meri esercizi di aritmetica elementare.

 

 

Poiché le premesse concorrenti del sacrificio uguale o minimo o proporzionale sono tutte e tre, per ragionamento ab absurdo, assiomatiche:

 

 

  • se fossero note le curve della utilità della ricchezza per i singoli;

 

  • sarebbe possibile calcolare, per ognuno dei componenti la società, l’imposta che egli dovrebbe pagare soddisfacendo alla condizione che ogni contribuente subisca un sacrificio uguale o proporzionale o la collettività dei contribuenti un sacrificio minimo.

 

 

Noi potremmo chiamare razionale l’imposta così costruita, perché fondata su assiomi (a), su constatazioni di fatto (b) e su deduzioni logicamente ineccepibili da a e da b.

 

 

159. Condizione necessaria per la costruzione di questo tipo di imposta razionale è l’esistenza del sopralodato psicoscopio.

 

 

Lo psicoscopio non esiste, né lo possiamo sostituire con il metodo della confessione auricolare al procuratore alle imposte. Essendo incontrollabile, per la sua indole interna, se non dinnanzi al tribunale di Dio, la confessione dinnanzi al tribunale degli uomini non avrebbe alcun valore. È necessario perciò che lo stato sostituisca una sua valutazione a quella dei singoli. Ma dovendo lo stato essere imparziale, la sua valutazione non può essere arbitrariamente diversa da uomo a uomo. Lo stato deve necessariamente assumere un uomo medio, fornito di medie ordinarie comuni reazioni psicologiche di fronte all’acquisto od alla perdita delle successive dosi di ricchezza. Dovrebbe essere ed è di fatto immaginato un qualche schema, del tipo dello schema 1, nel quale si faccia l’ipotesi che la curva della decrescenza dell’utilità delle successive dosi di ricchezza sia di una data forma e questa sia uniforme per tutti i componenti la società.

 

 

Il tipo dell’imposta così costruita è del tutto diverso da quello che sopra fu detto razionale. Restano ferme, è vero, le tre premesse assiomatiche della ripartizione dell’imposta a norma del principio del sacrificio uguale ovvero minimo ovvero proporzionale. Ma, in luogo della conoscenza delle curve effettive della utilità delle successive dosi di ricchezza per i singoli componenti la società, noi conosciamo una curva inventata dal legislatore, una curva che il legislatore suppone propria di una astrazione detta uomo medio. C’è chi si contenta e, ragionando filato, giunge a costruire tipi di imposta i quali sono presentati al colto pubblico e all’inclita guarnigione come l’incarnazione della giustizia tributaria. In verità si è compiuto solo una elegante esercitazione scolastica, forse utile a mettere in evidenza l’attitudine del discente a scoprire e dello studente ad imparare le proprietà di certe curve dal punto di vista della geometria e del calcolo.

 

 

La sostanza economica dell’esercizio, sia detto con sopportazione, è zero. Allo stato attuale delle conoscenze, nessuno è riuscito a varcare il ponte fra le valutazioni individuali, disformi una dall’altra ed inconoscibili, della curva dell’utilità della ricchezza e la uniforme valutazione statale.

 

 

Stringi, stringi, che cosa è quest’ultima? La convinzione che ogni singolo studioso si è formato intorno a quel che egli crede sia la sensibilità dell’uomo medio rispetto alle dosi successive di ricchezza. Sono sentimenti, sono passioni, sono sogni, sono strumenti di lotta dei poveri contro i ricchi, dei lavoratori contro i capitalisti, dei prodighi contro gli avari. Sentimenti, passioni, sogni, strumenti di lotte sociali sono oggetto degnissimo di studio per lo storico. Fondare su di essi una teoria della ripartizione dell’imposta è per il teorico un fondarla apertamente sull’arbitrio.

 

 

Il problema dell’imposta si riduce al seguente: quale è l’imposta la quale soddisfa alla condizione di essere dedotta logicamente da quella curva della decrescenza della utilità delle successive dosi della ricchezza che sia posta uniformemente per tutti i cittadini dal legislatore? Poiché il legislatore può scegliere ad arbitrio fra un numero indefinito di curve tanto val dire che il problema comporta infinite soluzioni, ossia è solubile solo quando si parta dalla premessa che è vera quella soluzione la quale sia voluta dal legislatore.

 

 

Se le cose stanno così, a che la solenne costruzione derivata dal sommo principio utilitaristico? Questo darsi l’aria di grandi scienziati, spregiatori dei volgari pasticci sentimentali e costruttori di edifici logici derivati con lusso di equazioni da assiomi indiscutibili non è, per caso, polvere negli occhi della buona gente? Guardando in fondo, si vede che la costruzione poggia tutta sulla scelta arbitraria fatta dal legislatore, e per lui dallo studioso, di un criterio qualunque di distribuzione dell’imposta consigliata dal buon cuore, dall’opportunità politica, dalla prevalenza di certi sentimenti o di certi interessi. Non è meglio confessare che la signora scienza non ha nulla a che fare con l’applicazione del sommo principio utilitaristico alla distribuzione della imposta; e che si tratta di mere esercitazioni di calcolo più o meno sublime?

 

 

Non escludo affatto che con l’andar degli anni – siamo per ora lontanissimi da un qualsiasi avvicinamento alla meta – si possa costruire un qualche strumento il quale indirettamente si avvicini al miracoloso auspicato psicoscopio. Coll’esame di un numero sufficiente di bilanci di famiglia, distinti per classi di reddito, di professione, di origine sociale, di dimora, in rapporto alle variazioni dei prezzi, potrà forse qualche futuro ufficio statistico costruire indici misuratori, soggetti a revisioni continue, delle reazioni psicologiche alle variazioni della ricchezza. Non oso porre le esigenze della fantastica impresa. Mi contento di affermare che per ora dentro ai tre principii c’è il vuoto assoluto.

 

 

160. Se poi si discorra dei soli due principii, del sacrificio uguale e del sacrificio minimo, che sono anche, come è naturale, quelli maggiormente di moda, alla assurdità già osservata un’altra se ne aggiunge, notissima e distruttrice. Ambi i principii richieggono invero si possa affermare la proposizione: essere un dato sacrificio di Tizio uguale maggiore o minore di un dato sacrificio di Caio o di Sempronio, nell’un caso per potere far sì che il sacrificio dell’uno sia uguale a quello dell’altro e nel secondo caso perché la somma dei sacrifici di tutti sia un minimo. Ossia, i due principii richieggono che si possano paragonare i dolori ed i piaceri sentiti dall’un uomo ai dolori ed ai piaceri sentiti dall’altro uomo. Hic Rhodus, hic salta. Non esiste il ponte di passaggio dalla coscienza di uno a quella di un altro uomo. Tizio, nell’intimo foro della sua coscienza, stima che la I unità della ricchezza gli dia una soddisfazione come 10 e la II come 9. E così fanno Caio e Sempronio (schema I). Ciò vuole semplicemente dire che ognuno dei tre, per conto suo ed, aggiungasi, per miracolo, stima la II dose uguale a nove decimi della I. Ma 10 e 9 sono due valutazioni individuali, due numeri astratti che servono a raffrontare, distintamente per ognuno dei due contribuenti, due sensazioni successive. Potrebbero essere 20 e 18, 40 e 36 ed il rapporto rimarrebbe uguale. Il 10 di Tizio è però uguale al 10 di Caio? Nessuno lo sa; e nessuno potrà mai saperlo, sino all’invenzione dello psicoscopio, il quale sia capace di registrare con la medesima unità di misura le reazioni individuali disgiunte e contemporanee di tutti i componenti la società. Perciò i due principii del sacrificio uguale e minimo sono due giochetti buoni per costringere gli scolari a fare esercizi inutili di sedicente edonimetria tributaria. Mera perdita di tempo, buona per fare venire, in nome della scienza, la pelle d’oca ai papaveri dalla testa alta.

 

 

161. Per conto mio, non ho nessun bisogno di ricorrere all’argomento della pelle d’oca per buttare dalla finestra i due principii derivati dal canone supremo dell’utilitarismo. Basta pienamente l’argomento razionale del salto logico. Quando un ragionamento è illogico, non ha senso seguitare a sfaccettarlo, a trarne partito, e a dire che no e che sì e che la coscienza politica di qua e la coscienza collettiva di là ecc. ecc … Non ha senso e basta. Non ha senso dire che il sacrificio 10 di Tizio e il sacrificio 10 di Caio sono uguali; perché nessuno al mondo sa in che cosa consiste quella uguaglianza. Non ha senso dire che il sacrificio di Tizio della VI, VII e VIII unità essendo di 5+4+3=12 unità (schema II) è un minimo per la società dei tre contribuenti e quindi deve essere scelto, perché nessuno al mondo sa se quel sacrificio sia, per la lodata società dei tre, un minimo o qualcosa di diverso dal minimo. I sacrifici di Tizio, Caio e Sempronio, riferendosi ad esseri senzienti diversi, non sono commensurabili e quindi non sono addizionabili. Se siano più o meno grossi, grossi tanto o tant’altro noi non sappiamo e nessuno sa. Non c’è altro da dire. Se qualcuno ha qualcosa da dire, si faccia avanti e dica il fatto suo in modo chiaro, comprensibile a noi miserabili contribuenti che prima di pagare consapevolmente – a pagare senza sapere il perché non c’è bisogno di essere aiutati da professori di scienza delle finanze; basta l’avviso dell’esattore, con le comminatorie delle multe per ritardato pagamento, pignoramento mobiliare ed esecuzione forzata immobiliare – desideriamo capire le ragioni che ci si raccontano. Coloro che in questa faccenda piana parlano calcolo infinitesimale o infilzano frasi su coscienze politiche, punti di vista superiori collettivi ecc. vivono in un mondo troppo sublimato perché noi si possa attingere alle loro vette. Per noi uomini ordinari, sino a prova contraria la spiegazione razionale dei principii dell’uguale e del minimo sacrificio non esiste, ed esiste invece la presunzione del loro nulla logico.

 

 

162. Il principio del sacrificio proporzionale non soffre invece di salto logico. Non è illogico dire che Tizio, Caio e Sempronio debbano pagare, ciascuno di essi, tanta imposta quanta equivale ad un decimo della propria felicità. Qui non si fanno paragoni somme e sottrazioni. Ognuno dei nostri tre eroi sta esposto, per conto suo, ai colpi dell’imposta. Ognuno dà un decimo di se stesso; e poiché ognuno conosce se stesso e per conoscersi non ha bisogno di conoscere altrui, l’operazione è logica.

 

 

Con una piccola riserva, già fatta, che qui ripeto ad nauseam per ficcarla nella testa di coloro che ci scivolano sopra, senza avvedersi o facendo finta di non avvedersi della portata sua grandissima. Ognuno conosce se stesso e può dichiarare quale è la somma di imposta che, pagata da lui, gli cagiona un sacrificio o incommodo uguale ad un decimo della felicità o commodo procuratogli dalla ricchezza da lui posseduta. Dichiarerà ognuno quel che potrebbe?

 

 

Chi suppone di sì, accetta di trasformare il sistema delle imposte in un sistema di oblazioni volontarie. Il dilemma è preciso: o si crede senza discutere nella verità delle confessioni dei contribuenti ed abbiamo un sistema di oblazioni volontarie; o si discutono e il principio del sacrificio proporzionale va colle gambe all’aria. Nessun ministro delle finanze passato presente o futuro ha accettato od accetterà mai il primo corno del dilemma. Sulle oblazioni volontarie nessuno stato vive. Se non si vuole che tutti si facciano piccoli e dolenti e che le entrate dello stato cadano dalle decine di miliardi alle unità di milioni, è necessario discutere la confessione del contribuente. Se si discute, si sostituisce all’apprezzamento individuale dei commodi ed incommodi, che è il solo reale, un apprezzamento medio statale, irreale e privo di significato. Bisogna che lo stato dica: suppongo che i cittadini non abbiano la sensibilità che hanno in effetto per le successive dosi della ricchezza; ma una sensibilità media, da me configurata. La prima dose di ricchezza avrà per essi tutti l’indice di utilità 10 o 100; la seconda 9 o 99, la terza 8 o 98 e così via. E poi porterò via ad essi quel tanto di ricchezza che dia luogo ad un prelievo di utilità che sia un decimo dell’utilità quale fu da me calcolata. Ben so che l’utilità da me calcolata non è quella che i contribuenti sentono; che il decimo da essi immaginato non è il decimo; ma come fare, se gli uomini non confessano il vero?

 

 

163. Come fare? Piantarla lì con tutti questi ghirigori di pseudo-ragionamenti con cui, volendo persuadere gli uomini a lasciarsi portar via tot lire, ci si sente l’obbligo di imbrogliar loro la testa con parole solenni di utilità, sacrificio, uguaglianza, proporzionalità. Gratta gratta e sotto c’è il vuoto.

 

 

C’è il retore che vuole épater le bourgeois e farlo restare a bocca aperta.

 

 

164. Per ora il vile borghese ha ragione di restare terrorizzato dalle illazioni che dai principii utilitaristici si possono ricavare. Se, come ragionano gli utilitaristi,

 

 

a)    scopo della legislazione è la massima felicità del numero massimo possibile dei componenti la collettività;

 

b)    se la utilità delle dosi successive di ricchezza è decrescente;

 

c)    se si deve supporre, per ragioni di minimo arbitrio, che la scala della decrescenza è decrescente in modo uniforme per tutti: 10, 9, 8, 7, 6, 5, 4, 3, 2, 1, …;

 

d)    se l’indice di utilità apposto dai componenti la collettività alle successive dosi di ricchezza consente di far paragoni fra uomo e uomo, è logicamente incontestabile che lo stato deve portar via a chi le possiede le dosi di ricchezza le quali hanno una utilità più bassa per darle a chi, ricevendole, ne ricava una utilità maggiore, e che il processo deve continuare fino a che l’utilità marginale della ricchezza sia uguale per tutti. A questo punto non conviene seguitare perché, se la utilità marginale è per tutti 6, a togliere ancora una dose a Tizio gli si fa perdere 6, laddove a darla a Caio gli si fa guadagnare solo 5.

 

 

Non importa qui discutere se la premessa a sia accettabile; e con quali riserve – specie sul punto d’inizio della decrescenza – possa accettarsi la b. Il punto decisivo è che la c è un’ipotesi intieramente disforme dalla realtà (la scala della decrescenza non è uniforme bensì variabile e variabile secondo regole non conosciute o conosciute in modo così imperfetto da non consentire alcuna misurazione), e che la d non ha senso (il piacere o dolore di Tizio è un affar suo individuale non paragonabile al piacere o dolore di Caio).

 

 

Il vile borghese può fare a meno di farsi venire la pelle d’oca; ché la teoria utilitaristica dell’imposta è, per ora, una vecchia baracca crollante. Chi vivrà vedrà se qualcuno riuscirà a cavarne qualche costrutto.

 

 

165. Per ora il costrutto migliore che se ne può cavare è negativo: bisogna farla finita con principii che si danno l’aria di guardare tutto il mondo dall’alto in basso, come se tutto ciò che non si avvicina alla loro «sommità» sia vile empirismo, roba superata, vecchiume rancido. Abbasso la boria dell’imposta personale progressiva globale totale complessiva eccetera eccetera! La progressività la personalità la globalità la totalità la complessività sono derivazioni teoriche dai «sommi» principii utilitaristici. Senza di questi non se ne può dare una spiegazione razionale; epperciò al par di questi sono, oltreché orrende parole in lingua italiana, roba qualunque, che vale né più né meno, forse meno che più degli opposti canoni della proporzionalità, della realtà, della particolarità. Meri spedienti da usarsi con la cautela e il fiuto dell’uomo di stato il quale deve tener conto di mille e mille circostanze contingenti non teorizzabili. Naturalmente, l’uomo di stato invocando quei canoni farà appello alle grandi parole, ai sommi principii e farà bene, ché si tratta di convincere i restii a pagare. Ma noi, che siamo semplici studiosi, non possiamo lasciarci imporre dalle parole piene di vuoto e dobbiamo assumerle per quel che sono: roba qualunque, buona o cattiva a seconda dell’uso che se ne fa.

 

 

166. Direi, data la voga che dal 1870 in poi hanno preso le parole di progressività personalità globalità complessività totalità, occorre piuttosto aver l’occhio fisso ai malanni che ne possono derivare che non all’uso eventualmente buono che se ne può fare.

 

 

Dove è il limite all’operare logico del principio del minimo di sacrificio? Se prudenza e buon senso non soccorrono, il limite si tocca solo quando si sono livellate le fortune. Se Tizio ha 100 e Caio 50, Caio, utilitarista, conoscitore per istinto della teoria della decrescenza dei gradi di utilità della ricchezza, rifiuta di pagare sinché Tizio non è stato spogliato di tutto il supero oltre i 50 posseduti da lui. Forseché le unità fra 51 e 100 non hanno, tutte, una utilità progressivamente minore di quella posseduta dalle unità fra 1 e 50? Paghi dunque Tizio fino a livellarsi a lui, ché il sacrificio sociale sarà il minimo. Paghi anche se lo stato non ha urgenza di entrate, perché il togliere unità a Tizio cagiona a costui un danno minore del vantaggio che avrebbe Caio ricevendole. Una società, in cui ognuno dei due ha 75 unità, gode di una massa totale di felicità maggiore di quella in cui l’uno ha 100 e l’altro 50.

 

 

C’è un solo piccolo inconveniente all’operare del congegno. Chi obbliga Tizio a produrre 100 quando sa che il supero oltre 75 gli verrà inesorabilmente portato via dalla logica del principio del sacrificio minimo? Conseguenza necessaria del principio è togliere lo stimolo a produrre ricchezza oltre la media che si prevede destinata a rimanere in possesso del produttore. Se l’imposta livellatrice riduce i redditi di 100 a 75 e porta quelli di 50 a 75, Tizio produce solo più 75 e Caio resta con i suoi 50, perché i 25 destinati a lui sono sfumati.

 

 

Ma il virus infernale del principio del sacrificio minimo non ha finito di agire. Se i due posseggono 75 e 50 unità, conviene, a massimizzare la felicità collettiva, togliere 12,50 a Tizio e darli a Caio, cosicché ognuno abbia 62,50. Ma Tizio riduce allora nuovamente la produzione a 62,50, ché sarebbe a lui inutile produrre di più. E così via distribuendo e riducendo giunge, per differenze sempre più piccole, il momento in cui amendue producono le stesse 50 unità. In quel punto, Caio, il quale si era illuso di rigettare tutta l’imposta su Tizio, si avvede che la deve pagare anch’egli nella stessa misura. Non forse ha egli la stessa ricchezza?

 

 

167. Al punto critico si giunge presto se l’imposta livellatrice si applica ai redditi di lavoro, perché il lavoratore manuale ed intellettuale subito capisce la inutilità di continuare a lavorare quando il frutto ulteriore della sua fatica sia avocato dall’imposta allo stato. Ma vi si giunge ugualmente per i redditi di capitale. Solo il volgo crede che i denari bisogni prenderli dove ci sono. Residuo bruto di brute credenze adoratrici dell’oro. Tutto il capitale, terre case macchine strade ponti ferrovie, muore se continuamente non lo si rinnova. Tutto il capitale del mondo è nuovo. Anche San Pietro di Roma si ricrea di ora in ora. Se non lo si ricreasse sarebbe da gran tempo un mucchio di rovine. Supporre che un qualunque capitale concreto duri in media vent’anni è probabilmente ipotesi dettata da accesa ottimistica fantasia. Ci deve essere qualcuno che ricrea il capitale. Se non è lo stato, se cioè non viviamo in una organizzazione comunista in cui la funzione del produrre risparmio è un ufficio pubblico – ma allora è anche inutile discorrere di imposte – se il compito del risparmiare è compito di privati, importa che il risparmiatore speri qualcosa dall’atto suo. Può egli contentarsi di poco; ed in tempi di sicurezza nell’avvenire, di libere iniziative, di tranquillo possesso si contenta di pochissimo. Ma il nulla, ma l’avocazione completa al di là di un certo punto stronca il motivo del risparmiare. La produzione del risparmio, caratteristica dei tempi e dei popoli civili, ha termine.

 

 

168. Sento abbaiare:[2] «e quale pazzo mai spinse la progressività ad estremi così assurdi? La progressività è principio ragionevole il quale vuole soltanto far gravare l’imposta un po’ di più sui ricchi un po’ meno sui mediocri e ancor meno sui meschini; ma non intende espropriare i ricchi, né togliere, in nessuno stadio della ricchezza, l’incitamento al lavoratore ed al risparmiatore a lavorare ed a risparmiare. Negare l’imposta progressiva solo perché ad un pazzo sragionante può venire in mente di mutarla in confisca livellatrice è sofisma inammissibile».

 

 

169. Sia chiaro che:

 

 

1)    il solo ragionamento condotto a spiegazione della progressività è proprio quello del pazzo sragionante. Tiriamo via le premesse dell’utilità decrescente della ricchezza, e dell’uguaglianza, del minimo e delle proporzionalità del sacrificio d’imposta e manca alla progressività qualunque base razionale;

 

2)    e questa non esiste perché quei tali principii del sacrificio sono di significato ignoto.

 

 

L’abbaiamento può finire in un mugolio. La tesi qui sostenuta è che la progressività dell’imposta, il che vuol dire considerazione del reddito o del capitale intero globale complessivo posseduto dal contribuente in relazione alle sue condizioni personali di famiglia, di celibato, di malattia, di età, di condizione sociale, di natura di reddito può essere una bella o una brutta concezione. Personalità e progressività sono due cose qualunque, né belle né brutte, inesistenti teoricamente. Sono manifestazioni di sentimenti. Buoni, ossia tali da rafforzare la compagine sociale, se si tratta del senso di solidarietà che spinge quei che possono a pagare di più per il bene comune. Pessimi, ossia tali da distruggere la società, se l’invidia spinge il povero a spogliare con la progressiva colui che sta al di sopra. Anche la realità e la proporzionalità dell’imposta sono la espressione di sentimenti, sovratutto di quello della certezza. L’imposta la quale colpisce le cose per sé, ugualmente in rapporto al loro frutto o valore, assicura gli uomini contro arbitrii e privilegi; e può incoraggiarli grandemente a risparmiare ed a lavorare.

 

 

170. L’uomo di stato è chiamato a pesare e confrontare sentimenti ed azioni; e ad attuare quella combinazione di personalità e di realità, di progressività e di proporzionalità che nel suo giudizio è atta a produrre quel migliore risultato che a lui pare desiderabile. Francesco Guicciardini già ammoniva il lodatore della decima scalata od imposta progressiva che «se si fussi ricordato che [il] magistrato fu trovato per conservare la libertà e la pace della città e la quiete di ognuno, non per essere autore di discordie e di leggi ed ordini pestiferi, avrebbe forse raffrenato più la lingua sua» (loc. cit., p. 208).

 

 

Raffrenino gli studiosi moderni l’istinto che li spinge a rammostrare all’uomo di stato le vie della «vera» giustizia tributaria. La smettano con la boria di scoprire ed insegnare i principii «scientifici» della distribuzione «giusta» dell’imposta. La signora «scienza» ha perso troppo tempo nel correre dietro al vuoto idolo dell’uguaglianza di sacrificio. Più presto ci persuaderemo che la giustizia tributaria non è materia di «alta» scienza ma di accurati modesti ragionamenti intorno agli effetti concreti dei diversi tipi possibili di imposta sulla condotta umana e meglio sarà.

 

 



[1] Decima scalata era parola la quale significava «che chi aveva cinque ducati o manco di decima, pagassi una decima (10%); chi aveva dieci ducati di decima pagassi una decima ed un quarto (12,50%); chi n’aveva quindici, pagassi una decima e mezza (15%); e così successivamente per ogni cinque ducati che l’uomo aveva di decima, si moltiplicava uno quarto più (250% in più), non potendo però passare, per uno, tre decime (30%)». Cfr. Francesco Guicciardini, Dialoghi e discorsi del reggimento di Firenze, Discorsi III e IV su la decima scalata, pp.196-98, Laterza, Bari 1932.

[2] Così abbaiarono alle calcagna di De Viti il quale nei Principi di economia finanziaria (Einaudi, Torino 1934, pp. 165 sg.) aveva dimostrato la natura autofaga della imposta progressiva. Ed avrebbero potuto abbaiare alle calcagna di Bentham perché, dopo avere nitidamente posto i principii della decrescenza della utilità delle successive dosi della ricchezza:

 

 

  1. «Caeteris paribus, ad ogni particella di beni – ricchezza corrisponde una dose di felicità;

 

  1. «Per quel che tocca la ricchezza, se due persone hanno fortune disuguali, colui che ha più ricchezza deve dal legislatore reputarsi goda maggior felicità;

 

  1. «Ma la quantità della felicità non cresce in modo proporzionale al crescere della ricchezza; diecimila volte la quantità dei beni – ricchezza non vuol dire diecimila volte la quantità di felicità; potendosi dubitare persino che il possesso di diecimila volte la quantità di beni – ricchezza raddoppi in generale la felicità;

 

  1. «L’efficacia dei beni-ricchezza nel cagionare felicità scema a mano a mano che aumenta la differenza fra la ricchezza dell’uno in confronto a quella dell’altro; in altre parole la quantità di felicità provocata da una dose di ricchezza (ogni dose essendo di grandezza costante) scema a mano a mano aumenta il numero delle dosi; la seconda cagionando minor felicità della prima, la terza della seconda e così via»;

 

 

ed, avendone discusso sottilmente a lungo le logiche illazioni, aver concluso che:

 

 

«nell’ipotesi dell’entrata in vigore di una nuova costituzione fondata sul principio della massima felicitazione del maggior numero dei cittadini, sarebbe, in punto di ragione, bastevolmente dimostrata la norma per cui i beni-ricchezza debbono essere sottratti ai più ricchi e trasferiti ai meno ricchi, sinché le fortune di tutti siano diventate uguali, od almeno così poco diverse dalla perfetta uguaglianza, da non valer la pena di calcolare le differenze»;

 

 

dalla gravità della conclusione era subito tratto a tener conto di fattori non considerati in prima approssimazione ed a soggiungere che:

 

 

«alla massimizzazione della felicità sottentrerebbe l’universale annichilamento in primo luogo della felicità ed in secondo luogo della esistenza medesima. L’annichilamento della felicità deriverebbe dalla universalità dell’allarme e dal trascorrere dell’allarme in certezza; l’annichilamento della esistenza dalla certezza di non godere i frutti del proprio lavoro e quindi del venir meno di ogni spinta a lavorare».

 

 

Sicché il Bentham così chiudeva il discorso:

 

 

«Il piano di distribuzione dei beni-ricchezza che è più favorevole alla sussistenza universale e quindi alla massimizzazione della felicità è perciò quello in virtù del quale mentre la fortuna del più ricco, e cioè di colui il quale è collocato al sommo della scala sociale, è la massima, il numero dei gradini fra la fortuna del meno ricco e quella del più ricco è pure massimo, il che vuol dire che la ricchezza deve essere distribuita con gradazione regolare e quasi insensibile».

 

 

I brani sovrariportati, nei quali è riassunta la teoria iniziale e finale di colui il quale è considerato il creatore della teoria dell’imposta progressiva livellatrice, si leggono a carte 228 a 230 dei Pannomial Fragments di Jeremy Bentham nel vol. III dei Works (Edinburgh 1843), curati dal suo esecutore testamentario John Bowring su manoscritti forse databili dal 1831. Nel peculiare linguaggio del Bentham, «pannomial» significa «riassuntiva completa compilazione di leggi».

 

 

I brani riprodotti nella presente nota si leggono ora, in uguale testo, a carte 113-16 del primo volume dei tre in cui W. Stark ha raccolto in una nuova edizione critica dalle stampe precedenti e più da manoscritti inediti tutti gli scritti economici del Bentham (Jeremy Bentham’s Economic Writings, Burt Franklin, New York 1952-54). I brani non fanno più parte, come nell’edizione Bowring, dei Pannomial Fragments ma di un’opera parimenti inedita The Philosophy of Economic Science.

 

 

Il Bentham scrisse molto su finanze ed imposte; e molto fu tormentato dal contrasto e anzi dalla incompatibilità fra i suoi due ideali: la sicurezza che vuol dire libertà e l’uguaglianza. A lui parve di aver trovato una soluzione al problema della imposta, che egli considerava «il male» per definizione con il ritorno al sistema medievale dell’escheat o, all’incirca, devoluzione allo stato dei patrimoni, nel caso di estinzione della linea diretta. Grazie all’edizione critica dello Stark, oggi il pensiero economico del Bentham può essere fatto oggetto di serio studio.

Esistono vere esenzioni d’imposta?

Esistono vere esenzioni d’imposta?

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 90-114

 

 

 

 

78. La pratica tributaria è piena di trabocchetti verbali. Forse, dopo quella del doppio d’imposta, la parola più equivoca è esenzione. Non fu forse scritto in un testo legislativo che il sovraprezzo delle azioni era esente da imposta sui redditi? Ciò che non fu mai reddito può forse logicamente essere soggetto ad un tributo il quale ha assunto il reddito ad oggetto suo specifico?

 

 

La società emette una prima serie di 10000 azioni da 1000 lire l’una per procacciarsi il capitale iniziale di 10 milioni di lire necessario all’impresa. Per merito o fortuna – ma il cervello di chi non ha merito non crea fortuna, né gli occhi suoi la vedono – le cose sociali prosperano, sicché il dividendo distribuito agli azionisti cresce da zero nei primi anni a 30, a 50 ed a 120 lire. A questo punto, previsioni fondate persuadono dirigenti ed azionisti che il dividendo di 120 lire possa considerarsi consolidato, sicché esso si capitalizza ad un saggio di interesse, il 6%, un po’ più alto di quello del 4 o 5% corrente per impieghi di tutta sicurezza ed un po’ più basso di quello usato per impieghi industriali. La fondata previsione di costanza nel reddito futuro e la speranza di un possibile aumento, consigliano quel saggio di capitalizzazione ed il mercato lo fa suo. A 2000 lire l’una la valutazione delle 10000 azioni diventa di 20 milioni di lire, che nei libri sociali è in parte contabilizzata al passivo in 10 milioni di lire capitale nominale versato e in 4 milioni di lire riserva scritta[1] e in parte non è scritta ma potrebbe dar luogo ad una partita di 6 milioni di lire intitolata «valore dell’avviamento sociale».

 

 

79. L’uomo della strada a questo punto può dire: la finanza, la quale ha già tassato i distribuiti ed i 4 milioni di riserva scritta[2] a mano a mano che essi maturavano, e non può tassare i 10 milioni versati, perché questi sono capitale, tassi i 6 milioni di «valore dell’avviamento sociale»perché questi sono un vero incremento patrimoniale, che ognuno dei soci può intascare vendendo l’azione al prezzo di 2000 lire, di cui 1000 capitale intassabile e 400 riserva già tassata. Può essere alquanto complicato accertare il guadagno: ma è difficoltà pratica, non di principio.

 

 

Noi sappiamo che il ragionamento dell’uomo della strada è sbagliato, perché la tassazione degli incrementi patrimoniali dà luogo ad un doppio di tassazione non spiegabile logicamente (cfr. sopra paragrafi 33 sgg.). La finanza non si attenta invero a tassare gli incrementi di valore delle azioni vecchie dal valore 1400 intassabile o già tassato al valore 2000; ma si appiglia al peggiore dei partiti: attendere che la società ritenga opportuno aumentare il capitale da 10 a 20 milioni di lire, emettendo nel pubblico 10000 nuove azioni. La società non può, in questo caso, vendere al pubblico ossia a terzi le nuove 10000 azioni al prezzo di 1000 lire. Le nuove azioni, non essendo per nulla diverse dalle vecchie, vanterebbero uguali diritti sul patrimonio sociale, composto di 10 milioni capitale vecchio, 4 milioni riserve, 6 milioni valor dell’avviamento e 10 milioni capitale nuovo, totale 30 milioni che divisi per le 20000 azioni darebbero un quoziente di 1500 lire. I vecchi azionisti, i quali possedevano un patrimonio uguale a 2000 lire per azione, se lo vedrebbero ridotto a 1500; i nuovi, versando 1000 lire, ipso facto diventerebbero padroni di una quota sociale di 1500 lire. Non può immaginarsi che i vecchi azionisti si acconcino a regalare altrui metà delle riserve e dell’avviamento accumulato per rinuncia e merito proprio. Se i nuovi azionisti vogliono entrare a far parte di una società, di cui le quote di capitale valgono 2000 lire, paghino anch’essi 2000 lire di cui 1000 a titolo di capitale e 1000 a titolo di sovraprezzo atto a compensare, con uguale apporto, il valore delle riserve e dell’avviamento che è l’apporto dei vecchi.

 

 

Qui, la finanza italiana gridò: le 1000 lire di sovraprezzo sono un reddito e perciò deve essere tassato! Reddito di chi? Non dei vecchi azionisti, i quali riescono al più, con siffatto avvedimento di conguaglio, a conservare intatto il patrimonio, che già possedevano, di 2000 lire. Non dei nuovi, i quali versando 2000 lire ricevono un’azione, la quale dà diritto ad una quota di ugual valore del totale patrimonio sociale: 10 milioni capitale vecchio +4 milioni riserve +6 milioni avviamento +10 milioni capitale nuovo+10 milioni sovraprezzo, che messi in monte fanno 40 milioni, i quali divisi per 20000 azioni, dan luogo ad un quoziente di 2000 lire. Non della società la quale non è, dal punto di vista patrimoniale, nulla più di uno strumento giuridico-tecnico-economico per gerire gli apporti dei soci.

 

 

80. La finanza si persuase che sotto al sovraprezzo non v’era reddito, quando vide che i vecchi azionisti, fatti accorti del pericolo di perdere, a causa dell’imposta scorretta, parte dei proprii conferimenti di denaro, di risparmio e di merito, si decisero a non consentir più a terzi di sottoscrivere alle nuove azioni; ma, volendo aumentare il capitale da 10000 a 20000 azioni, se le ripartirono esclusivamente fra di sé al prezzo di 1000 senza sovraprezzo. Perdevano così 500 lire sulle vecchie che discendevano da 2000 a 1500, ma guadagnavano 500 lire sulle nuove che crescevano subito dalle 1000 versate a 1500. Come prima, essi non guadagnavano né perdevano; ma, non essendo nato sovraprezzo, mancava la materia della tassazione. A questo punto, la finanza si decise a dichiarare esenti da imposta i sovraprezzi delle azioni di nuova emissione.

 

 

I commentatori ripetono che il legislatore esentò non perché riconoscesse di avere immaginato un reddito in fatto inesistente, ma perché, per contingenze momentanee, desiderò «favorire» le società, «incoraggiare» l’incremento dell’impresa e simili. Parole vuote di senso, le quali spiegano la odierna repugnanza dei giuristi a dar peso alle motivazioni «scritte» nei preamboli o nei lavori preparatori alle leggi. Sebbene essi diano alla loro repugnanza spiegazione più sottile, io dico in parole volgari che preamboli e motivazioni vanno assunti con le molle perché non di rado i legislatori non sanno il perché razionale delle loro azioni od hanno interesse a non pregiudicarsi enunciando principii. Epperciò caso per caso scelgono un pretesto. Nel caso presente il pretesto[3] fu la voglia di render favore ed incoraggiamento alle società, il motivo razionale era la inesistenza della materia imponibile.

 

 

81. La parola esenzione ha le braccia larghe come la misericordia di Dio. Chiamasi esenzione quella concessa agli interessi dei titoli di debito pubblico e chiamerebbesi esenzione quella che fosse concessa, secondo le vedute sopra esposte, (cfr. sopra paragrafi 13 sgg.) agli stipendi dei pubblici impiegati; sebbene ambe le esenzioni si possano spiegare solo colla previsione di pagare interessi e stipendi netti minori di quelli che farebbero altrimenti carico all’erario. Chiamasi esenzione persino quella accordata alle somme mandate a riserva matematica delle imprese di assicurazione sulla vita, sebbene a nessuno possa venire in mente di considerare come reddito dell’impresa quella che non è affatto reddito dell’impresa, bensì somma accantonata per far fronte al pagamento futuro delle somme dovute agli assicurati in caso di morte o di sopravvivenza.

 

 

Chiamasi esenzione quella concessa ai redditi delle società di mutuo soccorso, sebbene sia chiaro che le quote versate dai soci di quelle società, come di qualsiasi altra associazione di cultura, di divertimento, di assistenza, siano conferimenti di capitale; e sebbene sia ugualmente chiaro che il frutto di quelle quote, eventualmente accantonate per fronteggiare eventi sfavorevoli nella vita dei soci, diventi reddito solo quando prenda la figura di pensioni o sussidi ai soci, nel quale caso, esso è pienamente tassabile. Sicché l’esenzione vuoI dire semplicemente volontà di non tassare due volte il medesimo reddito, una volta quando è prodotto presso la società ed una seconda volta quando è distribuito ai soci bisognosi malati o vecchi od alle loro famiglie per sovvenire alle spese di sepoltura.

 

 

Chiamasi esenzione quella concessa alle case rurali, escluse dalla tassazione sia sui fabbricati come sui fondi rustici; quasiché la casa rurale fosse nulla più di uno strumento o coefficiente di produzione del fondo rustico, e quasiché essa desse un reddito autonomo, separato da quello del fondo. Dell’incremento che la casa dà alla produzione agricola si tiene già necessario conto negli estimi fondiari, poiché ogni particella catastale si considera istrutta, ossia provveduta di strade, di piantagioni, di canali di scolo e di irrigazione e di costruzioni secondo gli usi e le consuetudini locali. Nelle zone agrarie sprovvedute di case rustiche le spese di produzione risultano necessariamente più elevate per maggiori spese di trasporto degli uomini, degli animali da lavoro, delle sementi, dei concimi, dei prodotti agricoli da e al mercato, di quanto non accada nelle zone dove le case rustiche sono frequenti e insistenti su ogni fondo rustico, anche piccolo. Così e non altrimenti la cassa rustica cresce il reddito del fondo. Tassarlo sarebbe vera duplicazione; ed è improprio attribuire l’attributo di esenzione a quella che è mera esclusione per mancanza di materia imponibile. Improprio e pericoloso in questo e in tutti i casi consimili; poiché consente rimanga o sorga l’idea trattarsi qui di vera esenzione e cioè di favore e privilegio e cioè, ancora, di istituto tollerato, in sé dannabile e destinato a scomparire alla prima occasione propizia.

 

 

82. Se sia o non sia esenzione propria quella accordata in Italia per 25 anni alle case nuove è problema più complesso la cui risoluzione è connessa con quella data al problema più generale della cosidetta esenzione del risparmio. Ci troviamo qui di nuovo dinnanzi al quesito: chi sceglie, dinnanzi al tribunale della ragione, le premesse del ragionamento, quando queste non posseggono l’evidenza intuitiva dell’assioma? Poiché il giudice infallibile, in quel tribunale, non esiste, limitiamoci a riconoscere che le premesse sono in sostanza le due dianzi già poste (cfr. paragrafi 34 e 36):

 

 

  • reddito tassabile con una imposta x (ad es. 20% del reddito) in ogni intervallo di tempo (anno finanziario) è quella ricchezza che in quell’intervallo di tempo entra nella economia del contribuente, netta da spese di produzione, in aggiunta al patrimonio posseduto dal contribuente medesimo all’inizio di quel medesimo intervallo di tempo (premessa α);

 

  • reddito tassabile ecc. ecc. è ecc. ecc. (tutto come sopra) a condizione che in quell’intervallo di tempo il contribuente non subisca un danno superiore a quel qualunque sia x scelto dal legislatore come misura del sacrificio imposto al contribuente (premessa β).

 

 

83. Espongo il problema in questi termini allo scopo di affermare subito che il legislatore è libero di assumere una qualunque delle due premesse. La premessa à si potrebbe chiamare anche la premessa intuitiva del buon senso, se buon senso ed intuizione vogliono dire adattamento alle abitudini mentali e al modo di pensare proprio degli uomini in generale. Gli uomini sono abituati a dividere il tempo a fette, chiamate anni ed a dire che reddito è quella ricchezza ecc. ecc. come è detto sopra. La mezzanotte avanti all’1 gennaio e la mezzanotte dopo il 31 dicembre sono paraocchi che gli uomini si sono messi per non essere disturbati, nel camminare e nel decidersi, dal ricordo di quel che è successo prima e dalla previsione di quel che succederà dopo, e per potere far i conti senza troppi dubbi e troppe inquietudini.

 

 

Gli uomini hanno mille ragioni di mettersi i paraocchi; ogni tanto, se si vuole procedere innanzi, bisogna fermarsi, riflettere al passato, calcolare se le cose sono andate bene o male e perciò avere un punto di riferimento, un prima e un poi per sapere quel che è successo nel frattempo. L’abitudine, essendo sensata, è divenuta siffattamente sangue del sangue degli uomini, che questi, anche se sono economisti o finanzieri illustri, si inquietano quando taluno li tira per la coda della giacca e dice: badate che l’abitudine, ragionata a certi fini, non è una verità di fede; è un semplice strumento di condotta, mero espediente utile ad orizzontarsi nel tempo che è senza termine né di inizio né di fine. Si inquietano e ripetono: reddito è quella ricchezza ecc. e chiunque dice il contrario, sia scomunicato. Di fronte alla quale conclusione non c’è rimedio od obbiezione. Se il legislatore vuole adottare la premessa α, nessuno glielo può impedire. È soluzione comoda, che si raccomanda al consenso universale, perché adatta all’abitudine universale di concepire il tempo diviso ad anni.

 

 

84. È lecito però di immaginare che esista un legislatore il quale alla definizione corrente a aggiunga la condizione contenuta nella premessa β? E lecito immaginare che vi sia un legislatore, il quale avendo deciso di far subire a tutti i suoi contribuenti il sacrificio d’imposta x (suppongasi x uguale al 20% del reddito) non vuole che in qualche inavvertito misterioso modo, per uno dei soliti tiri logici di cui è fecondo il calcolo economico, qualcuno dei contribuenti subisca un sacrificio ? L’ipotesi che esista un legislatore il quale non voglia far subire a qualcuno dei contribuenti la perdita  quando sua volontà precisa è che tutti subiscano solo la perdita x è forse bizzarra, non è certamente insulsa. Quindi è premessa lecita del ragionamento. O meglio di un raccontino, a cui tanti anni addietro, visto che altri economisti si erano dimenticati di ricordare il nome dell’autore, io ho dato il nome di teorema dell’esenzione del risparmio di Giovanni Stuart Mill. Gravemente errai ad aggiungere la parola esenzione. L’avevo fatto innocentemente, solo per mettere in chiaro che il teorema imponeva fosse scritta una norma che, in conformità alle abitudini verbali d’allora e d’oggi, sarebbe stata detta nei testi legislativi di «esenzione». Mal me ne incolse; ché tutti gli sfaccendati cominciarono a gridare: perché esentare il risparmio, perché dare un privilegio a coloro i quali possono e vogliano risparmiare? Ed assai altre parole incomprensibili in aggiunta. Faccio umilmente atto di contrizione e dico che il teorema di Mill deve essere propriamente chiamato della doppia vista del risparmio.

 

 

85. Dice il raccontino o teorema:

 

 

Tizio ha nell’anno considerato un reddito di 20000 lire. Suppongasi, per semplicità, che egli ne consumi la metà e risparmi l’altra metà. Suppongasi che l’imposta sia del 10%. Sulle 10000 lire consumate, Tizio paga 1000 lire d’imposta; e tutto finisce lì. Non ci sono code o strascichi. Sulle 10000 lire risparmiate egli comincia a pagare le solite 1000 lire d’imposta, che riducono il risparmio disponibile a 9000 lire. Impiegate al 5%, quelle 9000 danno luogo ad un reddito di 450 lire all’anno in perpetuo. Queste sono decurtate, dalla solita imposta del 10%, di 45 lire all’anno. Quindi il contribuente che ha già pagato subito 1000 lire, pagando di nuovo una imposta annua perpetua di 45 lire, è come se pagasse altre 900 lire d’imposta.

 

 

La differenza di trattamento è chiara: sulle 10000 lire consumate o godute, lo stato preleva 1000 lire; sulle 10000 lire risparmiate il prelievo è . Se l’aliquota dell’imposta fosse, come in taluni paesi è agevolmente per talune classi di alti redditi, per esempio di 1 milione di lire, del 50%, le 500000 lire consumate pagherebbero 250000 lire in tutto, laddove le 500000 lire risparmiate comincerebbero a pagare subito 250000 lire e poi le 12500 lire all’anno, reddito al 5% delle residue 250000 lire, pagherebbero ancora 6250 lire d’imposta annua, uguali oggi a 125000 lire. In tutto la parte risparmiata pagherebbe 375000 lire invece di 250000.

 

 

Quindi, ove non si voglia far subire al risparmio un trattamento differenziale, occorre escluderlo, perché non tassabile – esentarlo secondo l’impropria terminologia corrente – dal pagamento dell’imposta o prima o dopo, o quando è 10000 lire o quando è il reddito annuo, 500, di 10000 lire.

 

 

Se invero lo escludiamo subito, Tizio paga, per la parte consumata, 1000 10000. Per la parte risparmiata dapprima non paga nulla ed è in grado perciò di investire tutte le 10000 lire. Queste gli fruttano 500 lire all’anno, sulle quali egli paga 50 lire d’imposta in perpetuo. Ma pagare 50 lire annue in perpetuo equivale a pagare 1000 lire oggi, ossia precisamente quanto ha pagato sulla quota consumata.

 

 

86.[4] Siano: 

Rc

la quota consumata nell’anno del reddito ottenuto nell’anno medesimo; 

Rr

la quota risparmiata nell’anno del reddito ottenuto nell’anno medesimo; 

a

il numero (reciproco dell’aliquota dell’imposta) per cui deve essere diviso il reddito R per ottenere l’ammontare dell’imposta; 
 

 

 

 

la serie infinita dei redditi ottenuti, negli anni successivi a quello considerato, dall’investimento della quota risparmiata del reddito già depurato dall’imposta

 

 

 

 

 

la serie infinita dei redditi ottenuti, negli anni successivi a quello considerato, dall’investimento della quota risparmiata del reddito non depurata, perché esclusa, dall’imposta.

 

 

 

Sia

 

La quantità

 

 

 

 

 

con n tendente all’infinito ossia la serie infinita dei redditi annui derivanti dall’investimento di scontata al momento attuale ha il valore  ovvero . Ognuno di questi valori può essere indifferentemente scritto invece dell’altro.

 

 

Partendo dalle sovraindicate definizioni, nel sistema α l’imposta sulla quota consumata del reddito è

 

 

 

 

 

l’imposta sulla quota risparmiata del reddito è:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

dunque

 

 

Dunque nel sistema α non è osservato il canone dell’uguaglianza.

 

 

Perché, dato il canone della uguaglianza, fosse corretto che , occorrerebbe potere scrivere:

 

 

 

 

 

Ma questa disuguaglianza non si può scrivere perché la quantità

 

 

 

 

 

non ha senso, essendoché il secondo membro non è aggiuntivo ma alternativo al primo.

 

 

Poiché, invece, per definizione:

 

 

 

e poiché:

 

 

 

 

 

essendo, per ipotesi, a costante, abbiamo:

 

 

 

 

 

la quale equazione può essere chiamata ell’uguaglianza del’imposta e si osserva nel sistema β.

 

 

87. Attraverso ad un rigiro di parole, la sola obbiezione sostanziale al ragionamento ora fatto è la seguente.

 

 

Non vi è dubbio che, nel sistema α, l’imposta 1000 sulla parte consumata, 10000 lire, del reddito è minore dell’imposta (valore attuale della serie infinita di lire annue) sulla parte risparmiata, 10000 lire, del reddito; ma la diversità non viola il canone dell’uguaglianza perché anche le due parti o quote del reddito sono disuguali.

 

 

La quota consumata del reddito è semplicemente 10000 lire e quindi l’imposta è corretto sia

 

 

Invece la quota risparmiata dal reddito è 10000 lire oggi, più 450 lire all’anno in perpetuo, equivalenti a 9000 lire subito, con un totale di 19000 lire.

 

 

Quindi l’imposta sulla quota risparmiata deve essere:

 

 

 

 

 

O sui valori attuali:

 

 

 

 

Nel caso del reddito consumato vi è un reddito solo (10000 lire) e quindi vi deve essere un’imposta sola: 1000 lire.

 

 

Nel caso del reddito risparmiato vi sono due specie di redditi: 10000 lire oggi ed una serie infinita di 450 lire all’anno in avvenire, equivalenti a 9000 lire oggi. Epperciò vi devono essere due specie di imposte: 1000 lire oggi sul reddito di 10000 d’oggi; ed una serie infinita di 45 lire all’anno in avvenire, sui redditi di 450 lire all’anno avvenire, equivalenti a 900 lire in oggi.

 

 

Che cosa v’ha di strano che le imposte siano parecchie quando i redditi sono parecchi? L’imposta sul consumato è una sola, perché il reddito si consuma una volta sola; l’imposta sul risparmiato si ripete all’infinito, perché dopo il primo reddito padre 10000 ci sono i figliuoletti redditi 450 all’infinito.

 

 

88. Quel che è strana sul serio è l’allucinazione di chi vede doppio nei redditi e dalla sua doppia vista trae argomento per moltiplicare le imposte.[5] Riduciamo l’esempio alla sua nudità scheletrica: 100 lire di reddito risparmiato oggi e 5 lire di redditi futuri del risparmio 100 divenuto capitale. Chi dice che il risparmiatore ha prima le 100 e poi le 5 all’anno ogni anno, dice che le  sono diverse ed aggiuntive, che il risparmiatore possiede e gode ambe le quantità. Pura allucinazione, ripeto. Certamente il risparmiatore non gode le due quantità. I due godimenti sono «alternativi» e non «aggiuntivi». L’uno esclude l’altro. Chi gode le 100 lire, non può godere la serie delle 5 lire. Chi vuoI godersi la serie delle 5 lire deve rinunciare a godere le 100 lire.

 

 

Possiede egli forse due quantità?

 

 

Tizio nell’anno I ha guadagnato 100 lire. Alla fine dell’anno I egli possiede 100 lire e le risparmia. Nell’anno II egli guadagna il frutto 5. Alla fine dell’anno II egli possiede . La somma  è logica, se riferita alla fine dell’anno II, trattandosi di due quantità 100 e 5, amendue esistenti nel medesimo istante, fine dell’anno II. In quell’istante, Tizio possiede 105 lire e ne può fare quell’uso che egli reputa migliore: godersele, ossia consumarle; risparmiarle; o fare un po’ l’una e un po’ l’altra cosa. Ma non è lecito dire che Tizio possiede 100 lire alla fine dell’anno I e 5 lire alla fine dell’anno II e dire che le due quantità si sommano o sono aggiuntive l’una all’altra, perché si direbbe, così parlando, cosa senza senso. Non ha significato sommare quantità riferite a due tempi diversi. Tenti il signor Tizio di possedere sul serio ossia di godere le 100 lire alla fine del I anno; e si accorgerà se alla fine del II anno avrà le altre 5 lire. Sberleffi sì, ma lire punte!

 

 

89. La verità, che ha senso, è tutta diversa; Tizio ha rinunciato alla fine del tempo I al possesso di 100 per avere il possesso di 105 alla fine del tempo II. I due possessi sono alternativi ed equivalenti:

 

 

 

 

I due possessi sono equivalenti perché l’atto di risparmio è un atto di scambio. Si scambia 100 attuale con 105 futuro; e lo scambio avviene fra questi due beni sul mercato, come per qualunque altro scambio, fra equivalenti. Se l’equivalenza, al rapporto di 100 attuale contro 105 futuro, non ci fosse, il rapporto sarebbe diverso: di 100 presenti contro 104 o 106 futuri. Se il saggio di interesse fosse zero, l’equivalenza sarebbe fra 100 attuali e 100 future. Ad equilibrio raggiunto, il fatto dello scambio avvenuto prova che vi fu equivalenza fra le quantità scambiate.

 

 

L’imposta può indifferentemente colpire 100 alla fine del tempo I ovvero 105 alla fine del tempo II. Come sono equivalenti le quantità imponibili, così sarebbero equivalenti le due imposte. Con la terminologia usata non si vuol dire né che sia «giusto» che 100 lire oggi equivalgano a 105 lire fra un anno, né che le 100 lire oggi partoriscano o producano in un anno 5 lire. Non so che cosa sia giusto in tema di parti economici e non so nemmeno se esistano codesti parti. Constato unicamente il fatto che il mercato considera equivalenti quelle due quantità 100 oggi e 105 fra un anno, senza traccia di più o di meno.

 

 

90. Coloro i quali ingenuamente suppongono di tassare tutto e solo il reddito proponendo di tassare 100 alla fine del I tempo e 5 alla fine del II tempo, che cosa fanno? Prelevano, al 10%, 10 alla fine del I tempo e 0,50 alla fine del II tempo e dicono; la quantità  non è forse il decimo delle 105 che il contribuente possiede alla fine del II tempo? Si dimentica così che Tizio se volle possedere 105, dovette aspettare un anno e rinunciare per un anno a godere, a palpare, a guardare le sue 100 lire. Che cosa è possesso, se non guardare palpare e godere? Aspettino anch’essi un anno, i signori tassatori, a prelevare l’imposta e nessuno si querelerà di lesa uguaglianza tributaria[6] quando prelevino poi 10,5. Ma non si può prelevare 10 oggi e 0,5 alla fine di un anno e dire di essere in regola. Per sommare le 10 d’oggi con le 0,5 di un anno dopo, è necessario aggiungere alle 10 prelevate oggi l’interesse medesimo del 5%, riportandole così in 10,5 alla fine dell’anno. Che se alla fine dell’anno si torna a prelevare 0,5 (o meglio 0,45 poiché il reddito delle  imposta fu solo 4,50) d’imposta, il totale fa 10,95, il che è più del 10% che si voleva prelevare sulle 105 lire del possesso della fine dell’anno II.

 

 

91. In questa faccenda si assiste veramente al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Bisogna tassare 100 e poi 5 e 5 e 5 all’infinito perché si tratta di redditi diversi? Se sono diversi si dovrebbe poterli valutare paragonare e quindi sommare. Una serie di redditi di 5 lire annue all’infinito equivale, al saggio di sconto del 5%, e su ciò non cade ombra di dubbio, a 100 lire attuali. Dire che Tizio ha oggi un reddito di 100 lire e poi una serie infinita di redditi di 5 lire annue equivale a dire che Tizio ha o possiede 100 lire ed il valore attuale in 100 lire di quella tal serie infinita ecc. ecc. Dunque Tizio possederebbe .Dunque, ancora, basterebbe decidersi oggi a risparmiare 100 lire perché di punto in bianco le 100 diventassero 200 lire? Non è questa pura allucinazione manicomiale?

 

 

Prendasi in mano un titolo di stato chiamato rendita perpetua 3,50%. Esso è composto di una parte centrale, che possiamo chiamare capitale e di due strisce laterali, frazionate in cedolette semestrali del valore di 3,50 lire annue. Le striscie laterali essendo, quando siano esaurite, perpetuamente rinnovabili, sono la immagine cartacea di una serie infinita di redditi. Chiameremo frutti le due strisce laterali.

 

 

Pongasi che Tizio, uscendo di senno, immagini che il capitale sia un possesso (o un godimento) diverso, a se stante, dai frutti. Dona altrui le strisce laterali e il diritto alla loro perpetua rinnovazione. Resta egli forse con possesso qualsiasi? Mai no. Il suo pezzo di carta centrale, come ché ben pitturato, vale zero, è un possesso zero, perché separato dal possesso delle strisce di cedolette. Le cedolette ossia gli interessi annui non sono un’altra cosa, diversa dalla cosa detta capitale. Sono la stessa cosa; sono la sostanza medesima del capitale, senza di cui questo – possesso, godimento, toccamento, contemplazione ecc. ecc. – non esiste.

 

 

La penna esita a scrivere queste che sono verità banalissime volgarissime evidentissime che soltanto gente ipnotizzata dalla assiomaticità indiscutibile della premessa a rifiuta di vedere.

 

 

Che cosa è l’albero fruttifero senza frutta? L’albero vale perché dà frutti, ed i frutti sono tutto il valore dell’albero. Diventi l’albero sterile; e diventerà mera legna da bruciare, dedotte le spese dello spiantarlo spaccarlo e portarlo a casa.

 

 

92. C’è chi – ma sono le risorse della disperazione – non potendo negare che il risparmio è nei suoi frutti, che le 100 lire d’oggi non si possono godere e possedere se si vogliono godere o possedere le 5 e 5 e 5 ecc. ecc. lire del domani dice: esiste però, all’atto del risparmio, un piacere del risparmio, diverso ed aggiuntivo al vantaggio dell’interesse. Ammettasi pure che l’albero stia nei frutti, che la casa sia la stessa cosa dei suoi fitti, che la cartella sia un tutt’uno coi fogli di cedolette, che il 100 d’oggi sia equivalente al 105 del domani; ma accanto ai frutti naturali o civili, c’è nel possesso del capitale qualcosa di più: il piacere dell’avaro nel contemplare palpeggiare e far rotolare i marenghi, il piacere del proprietario di stare nella casa propria, la amorosa passione del contadino per la terra, la mania del collezionista per le monete, i francobolli, i libri rari, la contemplazione dei dipinti della quadreria da parte dell’amatore. Sia vero che i frutti siano la stessa cosa del capitale ed il capitale la stessa cosa dei frutti, sicché tassando l’uno si tassi contemporaneamente l’altro ed a tassar amendue si tassi ripetutamente la stessa cosa; ma il tintinnio dei marenghi d’oro, il senso degli avi e dei figli nella casa propria, il sapore del pane casalingo fabbricato col frumento nato sulla terra cento volte arata e contemplata, la gioia del possesso del pezzo unico o del quadro di autore, tutto ciò non si tassa tassando i frutti naturali e civili, e se si vuol tassare, come si deve per uguaglianza di trattamento, fa d’uopo raggiungerlo attraverso il capitale, ossia attraverso il reddito, innanzi che esso sia investito (risparmiato) in tesori aurei, in case, in terre, in libri, in quadri.

 

 

93. Il problema a questo punto non è di principio ma di applicazione. Si afferma che 100 lire oggi sono equivalenti a 100 lire fra un anno, più interessi, più una quantità non valutabile monetariamente di soddisfazioni diverse.

 

 

94. Chiamando  l’ammontare del reddito risparmiato oggi,  il medesimo ammontare fra un anno,  l’ammontare dell’interesse o frutto naturale o civile dell’anno, ed l’ammontare, in qualche modo valutato in denaro, delle altre soddisfazioni ricevute dal proprietario durante l’anno si ha:

 

 

 

 

 

Si ammette che si debba tassare  ovvero ; ma si osserva che, ove si scelga la tassazione del secondo membro  non basti tassare , ma occorre tassare .

 

 

95. Non ho obbiezione di principio, in base al canone della uguaglianza, all’imposta sul tintinnio dei marenghi per l’avaro, sui valori di affezione per l’amatore della casa avita e della terra ereditata e per lunghi anni covata collo sguardo, sulla contemplazione dei libri, delle collezioni di francobolli e delle quadrerie. Constato che l’imposta su queste entità impalpabili ed imponderabili, sarebbe di ardua odiosa e grottesca applicazione.

 

 

96. Demolito il concetto del duplo nel risparmio e nei frutti del risparmio, resta dimostrato che la tassazione del risparmio offende la premessa β del legislatore ossia la condizione posta, se fu posta, dal legislatore a se stesso di non cagionare al contribuente un danno maggiore di quello da lui voluto.

 

 

97. Siccome non ho intenzione di ridiscutere il problema della doppia tassazione del risparmio, così non sento il bisogno di perseguirlo attraverso il groviglio di argomentazioni, per nove decimi inutili, in cui esso si è arenato a scopo di esercitazione accademica. Coloro, ad esempio, i quali si preoccupano della possibilità che in un mondo di avari, lo stato perda quasi tutta la sua materia imponibile, o che in un mondo di evasori legali, gli uomini si compiacciano a risparmiare per non pagare imposte, o che in un mondo di azzardosi il risparmio vada perduto e perciò si perda l’imposta su di esso e anche sui frutti suoi non venuti alla luce, possono attaccarsi a due soluzioni: 1) alla premessa α secondo cui lo stato si mette i soliti paraocchi contabili. Purché sia noto che così si fa, colla complicità non solo di certi contabili ai quali mettersi paraocchi è congenito, ma di giuristi economisti e finanzieri, niente di male. Ognuno è libero di fare le leggi che crede, a condizione di non pretendere che la legge fondata sulla premessa a sia anche fondata sulla premessa β. La sola cosa che a me dà noia non è la tassazione del risparmio, ma la pretesa che, col tassarlo, non si faccia comparire due volte dinnanzi allo schermo dell’imposta la stessa cosa; 2) alla affermazione della impossibilità o difficoltà pratica di accogliere il principio della esclusione del risparmio, ovvero, alternatamente, a scelta, dei frutti del risparmio dall’imposta. Su questo terreno delle difficoltà, gli oppositori della esclusione (cosidetta esenzione) del risparmio possono scorrazzare a piacimento. Essi dovrebbero però avere la finezza di non immaginare di avere ragionato un problema quando a malapena hanno girato attorno alle sue difficoltà, e sovratutto non dovrebbero supporre sfacciatamente di avere essi scoperte le difficoltà medesime. Esse erano state tutte enunciate dallo Stuart Mill prima e da chi ne sviluppò il teorema poscia; ma a costoro non cadeva certamente in mente di confondere grossolanamente il ragionamento di principio con lo studio delle applicazioni concrete del principio. La fecondità di un principio non si misura dalla immediatezza delle applicazioni; ma talvolta e più dalla gravità dei contrasti che esso suscita, i quali mettono in luce altri principii od altri punti di vista dei quali pure occorre tener conto. Del che appunto si passa subito a discorrere, in conformità ai canoni elementari non si dice neppure della logica ma della bene ordinata costruzione di un qualunque componimento letterario. Forse anzi il peccato più grave dei critici del teorema della esclusione del risparmio dall’imposta non è l’offesa alla logica. Ai legislatori e quindi agli espositori delle teorie legislative in materia di imposta non è necessaria la logica; basta la chiarezza nel dare o spiegare le norme legislative, qualunque siano. Il confondere principii ed applicazione, ragionamento e sentimento, il ragionare su una premessa ed immaginare di restare attaccati ad un’altra, non è neppure difetto di logica (scomoderemmo per troppo poco una dottrina così austera), è semplicemente difetto di ordine nello stendere il componimento scolastico.

 

 

98. Un teorema logico non deve necessariamente tradursi in norma scritta obbligatoria. Il legislatore ha l’obbligo di tener conto di altre verità, di altri teoremi, e delle contingenti variabilissime difficoltà le quali contrastano l’attuazione piena di un qualunque principio teorico. L’ostacolo principale è quello della natura invincibilmente fraudolenta dell’uomo contribuente. Se un legislatore ingenuo dicesse: tu che hai un reddito di 20000 lire e ne risparmi 2000 sarai tassato su 18000; non varrebbe fosse richiesta la dimostrazione dell’avvenuto risparmio. Ben saprebbero i contribuenti inventare dimostrazioni plausibili ed ineccepibili di aver risparmiato non 2000 ma 5000 o 10000 lire. Invece del caro vita, i contribuenti discorrerebbero sorridenti con i funzionari delle imposte di sapienti accorgimenti usati dalla moglie per ottenere pietanze succulente e nutrienti con poca spesa, della benevolenza del padron di casa, delle ineffabili delizie dei risparmiatori, e delle agevolezze di buoni impieghi senza rischio. Per tener testa ai contribuenti, negli uffici delle imposte si dovrebbero impiantare libri mastri minuziosi sulle quotidiane variazioni delle fortune, degli investimenti e dei risparmi dei contribuenti. Poiché la finanza non è fatta per dar lavoro ai contabili, bensì miliardi all’erario, è chiaro che non si può discorrere di sancire in una legge la norma: «il risparmio od i suoi frutti sono esenti dall’imposta».

 

 

99. Perché dunque, perdere tempo a discorrere? Potrei rispondere: per lo stesso motivo per il quale nei libri di scienza economica si pongono problemi aventi un addentellato ancora più remoto con il concreto, con la cosidetta vita pratica. Noi non possiamo prevedere se un teorema non possa oggi o domani dimostrarsi fecondo. Bisogna correre una certa alea nel porre problemi e fermare teoremi. Spesso si tratta di teoremi veri, ma stupidi. La loro utilità è limitata a quella non spregevole a cui soddisfano i temi di esercizio scolastico in genere: costringere la mente dello scolaro a compiere un ragionamento corretto. Compito noioso sempre, spesso stupido; non però inutile.

 

 

Fra i tanti teoremi veri, ma noiosi e stupidi, spunta fuori qualche volta il teorema fecondo appassionante. Il teorema che, a pena di doppia vista, il risparmio debba essere escluso dall’imposta, pare appassionante, se ha suscitato tanto consumo di inchiostro. Poiché l’inchiostro potrebbe tuttavia essere stato sprecato, è più importante il connotato della fecondità. L’essersi ficcati in testa il teorema della esclusione del risparmio dall’imposta giova sicuramente a dare una spiegazione razionale a certi fatti i quali altrimenti parrebbero inesplicabili.

 

 

100. So bene che taluno tiene in non cale le spiegazioni razionali dei fatti finanziari. Giova ripetere. Quando costui legge, ad esempio, che il legislatore di un dato paese ha esentato dalla imposta i redditi delle società di mutuo soccorso e, compulsando relazioni, discussioni parlamentari, articoli di giornale, voti e ordini del giorno di associazioni e simili, ha creduto di constatare che il legislatore è venuto in quella determinazione di esentare ecc. ecc., perché animato da benevolenza verso le classi operaie o perché persuaso dalla crescente pressione elettorale delle classi medesime o desideroso di favorire la formazione di abitudini di previdenza attraverso ad associazioni volontarie, quel taluno è contento e non cerca altro. Quella è la spiegazione dell’esenzione, da elaborarsi in apposita teoria. Nessun dubbio trattarsi di esenzione. Non è stata quella la ragion del decidere del legislatore?

 

 

Vive però talun altro, al quale tutto ciò pare al più raccontino storico, del solito tipo a sfondo economico sociologico, a schemi noti, marionette di filantropia, patronato, lotta di classi, combinazioni, derivazioni ecc. ecc. che hanno, a seconda delle scuole, trasformato lo scrivere storie in noiosi esercizi scolastici a rime obbligate. Costui parte dal principio che una norma di legge è quella che è, ed ognuno ha diritto di analizzarla con la sua testa per valutarne e conoscerne il contenuto.

 

 

Lavori preparativi, opinioni di coloro che vollero o combatterono la norma sono dati rispettabili, di cui si deve tener conto, nei lieti in cui essi hanno un significato definibile. Se, analizzata, la cosidetta esenzione delle società di mutuo soccorso si rivela non essere affatto una esenzione, ma una esclusione dall’imposta per mancanza di materia imponibile, fa d’uopo riconoscere trattarsi di esclusione e non di esenzione e spiegare la esclusione con la mancanza della materia imponibile. I motivi dei lavori preparativi, le spiegazioni del legislatore rimangono eventuale materia di studio per le diverse specie di storici delle illusioni tributarie, per i ricercatori dei fatti rilevanti nella vicenda delle cose umane ed anche per gli avvocati di parte i quali non possono azzardarsi a cercare le ragioni vere delle norme dinnanzi a magistrati propensi a contentarsi di ragioni all’incirca, più semplici ad afferrarsi e già usate altra volta con successo.

 

 

101. Fioriscono istituti che il legislatore ha spiegato a se stesso con qualcuno o con parecchi di quei pretesti di cui è feconda la storia tributaria. C’è forse bisogno che il legislatore faccia il ragionamento dell’esclusione dall’imposta, per vizio di doppia vista, del risparmio, quando vuole spiegare a se stesso:

 

 

  • le imposte sui consumi;

 

  • le esenzioni delle case nuove;

 

  • » » dei nuovi impianti;

 

  • » » delle migliorie in genere;

 

  • le esenzioni delle somme mandate a riserva;

 

  • » » dei premi di assicurazione sulla vita;

 

  • le diversificazioni del reddito rispetto all’imposta; e simiglianti istituti che affiorano permanentemente e sporadicamente nel fiorito giardino tributario?

 

 

No, non occorre affatto che il legislatore ragioni secondo le regole della logica le quali comandano di preferire la ragione semplice a quella complicata, la ragione prima a quella derivata, la generale alla particolare, la propria ai sinonimi, la ragione nuda a quella sentimentale; né occorre affatto che ragionino logicamente i suoi sistematori e teorizzatori. Se l’uno o gli altri, anzi, facessero il ragionamento semplice: l’imposta non c’è perché non esiste materia imponibile, andrebbero incontro a due difficoltà forse insuperabili. In primo luogo quella di fare apprezzare la premessa b a chi è persuaso istintivamente, dalle proprie abitudini mentali, a ritenere vera la premessa a, quella tale del paraocchi; ed in secondo luogo quella di credere che gli uomini possano essere persuasi da un mero ragionamento astratto inteso a dimostrare che la premessa a consente e la b esclude il doppio di vista.

 

 

Per conto mio, quando discorro all’uomo della strada e gli voglio spiegare perché le imposte sui consumi ecc. ecc. (voglio dire i casi elencati sopra) sono faccende che vanno abbastanza bene, non mi attento a partire dal teorema della doppia vista, dalle premesse a e b e relativi ragionamenti. Dopo cinque minuti, l’uomo della strada sbadiglierebbe, perderebbe il filo del discorso e se ne andrebbe persuaso che gli economisti sono una nuova razza di filosofi squinternati.

 

 

No, faccio quel che fanno legislatori e commentatori: infilo la prima storiella (se non erro Pareto le chiama derivazioni) che mi viene in mente e con essa l’uomo della strada se ne va con dio soddisfatto. Gli racconto, a cagion d’esempio, esser opportuno esentar le case, per incoraggiare le costruzioni quando di case c’è per qualche ragione penuria; essere bene incoraggiare, con premi tributari, i nuovi impianti o le migliorie quando industria od agricoltura languono; doversi promuovere, esentando le riserve, il fortificarsi delle società e l’onestà nei conti, ovvero lo spirito di previdenza coll’esentare i premi di assicurazione; essere comodo tassare i consumi perché i contribuenti non si accorgono di pagare tributo e pagano a pezzi e bocconi, quando hanno i denari, conservando l’illusione di pagare volontariamente. Non dirò, come dice o diceva il legislatore inglese, che si diversifichi a favore dei redditi di lavoro in confronto a quelli di capitale, perché i redditi di lavoro sono guadagnati e gli altri no, perché la storiella mi ripugnerebbe; ma dirò, per sbarazzarmi del curioso, che i guadagni di lavoro sono più faticosi o sono temporanei ed occorre ricostituirli. Il che, appartenendo alle verità d’osservazione, è vero apprensibile e soddisfacente.

 

 

Ma le sono storielle, da raccontare a scopo di tener buono e mandare via soddisfatto l’uditorio. L’interprete di una norma scritta non ha bisogno di persuadere se stesso e gli altri con pizzicotti sentimentali. Fra le tante argomentazioni le quali si presentano alla mente per spiegare un fatto esiste una gerarchia: alla argomentazione particolare è preferibile la generale, alla contingente quella permanente, ai conforti di vantaggio, di comodità, di opportunità fa d’uopo anteporre il convincimento tratto dalla ragione; al bric-à-brac del caso per caso buono per fare il solletico all’epidermide delle persone sensibili, la deduzione da una regola fondamentale assunta come guida. Quella che ho chiamato premessa b non sarà un portento, né una verità di fede, né un assioma. Può essere perfezionata. L’ho messa innanzi come un criterio provvisorio per orientarsi nel classificare i fatti. Ci sono i fatti che soddisfano alla condizione della premessa b; e quelli che vi contraddicono. Non dico che i fatti contraddicenti debbano essere scomunicati. Agli occhi di taluno possono anche sembrare più belli o simpatici o preferibili. Importa solo affermare che sono diversi da quelli che vi si conformano.

 

 

102. Dirò perciò:

 

 

  • che le imposte sui consumi hanno la proprietà di non soffrire del peccato di doppia vista, perché un oggetto, ad es. un sigaro o un bicchiere di vino, non può essere consumato e perciò tassato due volte;

 

  • che la esclusione dall’imposta dei redditi delle case nuove, dei nuovi impianti, delle migliorie in genere soddisfa alla condizione la quale richiede, se si vuole evitare la doppia vista, non siano tassate le 100000 lire di redditi risparmiate nell’anno I e poi di nuovo il reddito delle case, degli impianti industriali e delle migliorie agricole in che furono investite le 100000 lire. Se il periodo di esclusione dall’imposta è abbastanza lungo (25 anni per le case nuove secondo i provvedimenti detti eccezionali del dopoguerra e 30 anni per le migliorie secondo l’implicita norma del catasto Messedaglia del 1886) esso quasi si confonde con la esenzione perpetua ed evita il doppio quasi in tutto. È un guaio non piccolo che per la impossibilità quasi certa di fare entrare nella testa del pubblico grosso il teorema di Mill sia necessario ricorrere alla piccola commedia dell’incoraggiamento che lo stato deve dare a destra e a sinistra alle iniziative benemerite. Smorfie fra auguri. Importa che il legislatore ubbidisca, consapevolmente o non, al comando di non doppiare, ossia di non scoraggiare. Non esenzione ma esclusione dal campo tributario di quel che non esiste;

 

  • che le somme mandate a riserva dalle società anonime od i premi di assicurazione sulla vita non sono tassabili, perché la loro tassazione farebbe doppio con quella dei redditi che la società ricaverà dalle somme mandate a riserva ossia risparmiate o che l’assicurato ed i suoi eredi ricaveranno dai capitali assicurati e riscossi quando l’evento si verifichi;

 

  • che le diversificazioni del reddito rispetto all’imposta, in virtù di cui il reddito di lavoro paga meno del reddito di capitale sono un espediente per trattare un po’ meglio il reddito che non esiste da quello che esiste. L’espediente è per fermo grossolanissimo e difettosissimo; e, per farlo accettare, c’è inoltre, bisogno di dire che il professionista deve essere trattato meglio del capitalista, perché il primo può diventar malato vecchio inabile al lavoro e deve provvedere alla vedova ed ai figli, laddove, il capitalista nei limiti del capitale posseduto a tutto ciò, per definizione dell’esser suo capitalistico, già provvide. È conveniente ed è onesto usare versioni plausibili e semplici e virtuose della nuda verità essenziale: che il professionista il quale guadagna 100 e mette da parte 30, oggi gode e possiede solo 70. Le altre 30 né le gode né le possiede oggi perché vi ha rinunciato in scambio della promessa di ricevere qualcosa in avvenire, quando ne avrà maggior bisogno, per es. una pensione annua vitalizia di 10 lire a partire dal 65esimo anno di età. Egli non ha 100 oggi, più dieci lire all’anno domani (65esimo anno); ma ha 70 oggi e 10 annue domani. Tassarlo oggi su 100 e di nuovo domani su 10 annue è, entro il limite di 30 lire in oggi, commettere errore di doppia vista. Per la teoria dell’imposta, ciò basta. Non occorre altro. Per il buon pubblico, che perde il latino in cose semplicissime, come beni presenti e beni futuri, sconto di valori futuri a valori attuali, occorre confortare il ragionamento astratto con esempi, argomentazioni concrete, esortazioni, commozione di affetti ecc. ecc. È ragionevole e umano che la commozione di affetti tenga gran luogo nei motivi delle leggi. Il legislatore è uomo tra uomini; e se li vuol governare a fin di bene, occorre far vibrare le corde all’uopo opportune. Non confondiamo però l’arte del persuadere con la logica del convincimento, che soltanto interessa noi! Può essere opportuno abbreviare il discorso parlando di esenzione; ma, dove non esiste la materia imponibile, quel modo di parlare, in sede logica, è improprio.

 

 

103. In verità, io credo che vere e proprie esenzioni ragionate non esistano. Se si può dimostrare che esse hanno un fondamento, esse possono essere ricondotte sempre all’altro concetto della «esclusione» per inesistenza di materia imponibile.

 

 

Le vere esenzioni sono poche e sono privilegi.

 

 

La principale, rimasta nella legislazione moderna, è quella dovuta alla maestà della corona. Il sovrano, fonte della legge, tutore supremo dell’ordine nazionale, non è assoggettabile all’imposta. Qui non si fa un ragionamento. Si constata una impossibilità morale fra l’assegnare una dotazione alla corona, affinché essa compia l’ufficio suo nello stato, e lo sminuirla subito coll’imposta. La dotazione fu fissata nella somma data, perché quella e non altra fu reputata propria all’ufficio.[7]

 

 

Un tempo, nobiltà e clero avevano parte nell’esercizio della sovranità. Il nobile difendeva lo stato con la spada, il sacerdote con la preghiera, il plebeo con il denaro. Quando il fatto rispondeva alla massima, l’imposta sul nobile e sul sacerdote sarebbe stata un doppio coll’onere del servizio pubblico reso da costoro. Mutati gli ordini sociali, nobili e sacerdoti, non adempirono più, come tali, ad uffici di stato. La esclusione dell’imposta era divenuta tra il XVII e il XVIII secolo una vera esenzione ossia immunità o privilegio. E perciò fu abolita.

 

 

Sarebbe un privilegio la esenzione che oggi fosse concessa ai proletari od agli operai come tali. Essi possono chiedere con ragione l’esclusione dall’imposta in quanto cadono in talune categorie caratterizzate in modo generale da mancanza di reddito imponibile. Il contribuente può pretendere l’esclusione dall’obbligo di imposta non perché egli sia proletario od operaio; ma perché il suo reddito è inferiore alle 2000 lire e alle 6000 lire; ed in Italia si giudica che coloro i quali posseggono redditi inferiori a quegli ammontari non debbono pagare rispettivamente imposta sui redditi di ricchezza mobile od imposta complementare sul reddito, perché si reputa che il reddito sia siffattamente basso che, se fosse tassato, cadrebbe al disotto dell’indispensabile alla vita. Né lo stato può tassare se la tassazione ha per effetto di distruggere la vita, che è invece ufficio dello stato perfezionare ed esaltare. Si ritiene anche che i percettori di redditi minimi abbiano già soddisfatto largamente al loro debito tributario pagando imposte sui consumi. L’argomentazione essenziale è una sola: esiste materia imponibile? Fu già assoggettata ad imposta nella misura voluta per tutti? Se la materia imponibile non c’è o fu già tassata, non si devono largire privilegi o favori; ma riconoscere l’esclusione. Esenzione è parola che dovrebbe essere bandita dal vocabolario tributario.

 

 


[1] Si suppone che non esista riserva nascosta in aggiunta a quella palese scritta. L’ipotesi non cambia nulla al ragionamento, ché una riserva nascosta, se esistesse, avrebbe la stessa natura logica della partita «valore dell’avviamento».

[2] La tassazione di questi 4 milioni mandati a riserva costituisce doppio di tassazione. Finché restano nella cassa della società, non sono reddito di nessuno. Gli azionisti, veri padroni dell’impresa, hanno la scelta fra conservare i milioni nella riserva sociale e goderne i soli frutti; ovvero milioni e rinunciare ai frutti. Non possono avere e godere nel tempo stesso riserva e frutti. Eppure i legislatori di tutti i paesi unanimi tassano riserva e frutti della riserva. Il grosso problema è un caso specifico del genere tassazione del risparmio e dei frutti di esso (cfr. paragrafi 82 sgg.).

[3] Su questa piatta tecnica interpretativa insisto, più malignamente, sotto nei paragrafi 100-1.

[4] Il par. 86, come pure quello 94 seguente, meramente abbrevia quel che è detto nel testo e può dal lettore essere saltato senza che il filo del discorso sia rotto.

[5] Naturalmente, ragiono di doppia vista rispetta agli uomini contribuenti. Le cose non vedono e non sentono; epperciò, se discorriamo di imposte sulle cose e sui frutti o prodotti delle cose, possiamo, con opportuni avvedimenti, moltiplicare le imposte senza mai incorrere nella taccia di doppio. Diedi esempio di ciò sopra (paragrafi 25-30), discorrendo delle imposte sul reddito del fondo e di nuovo sul reddito del mutuo ipotecario garantito dal fondo. Chi, dopo essere espressamente o tacitamente partito dalla premessa – né par possibile immaginarne altra – che le imposte siano pagate dagli uomini, scivola inavvertitamente a negare che esista doppio quando l’imposta colpisce il prodotto 100 del fondo nell’anno primo e poi di nuovo il prodotto 10 ottenuto nell’anno secondo dall’investimento del 100 dell’anno precedente, sposta il problema e vorrebbe applicare agli uomini concetti proprii delle cose. Sull’errore di non vedere il doppio quando si ragioni di cose e dei loro prodotti, cfr. del resto i capitoli secondo e terzo del mio Contributo alla ricerca dell’«ottima imposta». (Ristampato ora nella serie I, vol. I delle Opere).

[6] La parola «uguaglianza tributaria» è adoperata qui nel senso, comunemente usato in questa materia. Qui, dove si parla di uguaglianza oggettiva riferita a lire, si intende osservato il canone dell’uguaglianza quando le quantità di lire pagate nei due casi sono equivalenti. Quindi il segno di uguaglianza nel testo è assunto nel senso di equivalenza.

[7] Oggi sono esenti da imposta l’assegno personale del presidente della repubblica e le indennità dei deputati e dei senatori. Entro quali limiti l’argomentazione propria della dotazione al sovrano sia applicabile ai redditi ora indicati può essere materia di elegante indagine (Nota 1957).

Il mito dei sovrappiù

Il mito dei sovrappiù

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 61-89

 

 

 

 

44. In sede di discussione logica il solo problema è: vi è ragion di tassare le eccedenze di reddito di più dei redditi – base? Discutendo il problema così posto, discuteremo senz’altro anche l’altro problema: vi è ragione di tassare le eccedenze di capitale di più dei capitali base? Se tassando il reddito si tassa il capitale, resta escluso che l’una tassazione sia concettualmente diversa dall’altra e che si possa discutere dell’una tassazione come qualche cosa che può esistere in assenza dell’altra. Credere sul serio di riuscire, tassando il capitale od i suoi incrementi, a colpire qualcosa che non sia stato raggiunto o non possa raggiungersi con la tassazione del reddito o degli incrementi di reddito è pura illusione di doppia vista. Il legislatore il quale voglia prelevare il 20% del reddito ha parecchie vie aperte dinnanzi a sé:

 

 

  • tassare il solo reddito col 20%. Riducendo il reddito da 5 a 4, egli avrà nel tempo stesso tassato i capitale nella stessa misura, riducendolo, ove il saggio di interesse sia del 5%, e cioè il moltiplico o denaro sia 20, da 100 ad 80;

 

  • tassare il solo capitale col 20%. Riducendolo da 100 ad 80 avrà nel tempo stesso ridotto il reddito da 5 a 4;

 

  • tassare il reddito col 10% e in aggiunta il capitale coll’11,11%. La prima tassazione riduce il reddito da 5 a 4,50; e quindi il capitale da 100 a 90. La seconda riduce il capitale da 90 a 80 e quindi il reddito da 4,50 a 4;

 

  • combinare in altre svariate maniere la tassazione sul reddito con quella sul capitale, in guisa che l’imposta totale riduca serre l’uno e l’altro del 20%.

 

 

Ma il legislatore non può dire: voglio tassare reddito e capitale col 20%, in modo che i contribuenti perdano tutto e solo il 20% nel complesso dell’uno e dell’altro; epperciò tasso separatamente il reddito col 20% e il capitale col 20%. Ciò dicendo, dice cosa insensata, la quale conduce ad un risultato non voluto. L’imposta sul reddito riduce il reddito da 5 a 4 e quindi il capitale da 100 ad 80. L’imposta aggiuntiva del 20% sul capitale, che dal mercato è oramai valutato 80, lo riduce a 64 e riduce perciò il reddito a 3,20. Il legislatore voleva ridurre il reddito e il capitale rispettivamente da 5 e 100 a 4 ed 80 ed invece li riduce balordamente a 3,20 ed a 64. Poiché fa d’uopo teoricamente escludere nel legislatore la attitudine alla bugia ed all’ipocrisia (vedi sopra par. 32), giuocoforza è concludere che il doppio di imposta è tutt’uno col balordo d’imposta.

 

 

45. Se non si vuole il balordo, occorre partire dal presupposto che la tassazione del reddito significa tassazione sul capitale e viceversa. L’una è l’altra.

 

 

La scelta tra le due tassazioni o il contemperamento fra l’una e l’altra non è un problema di principio, ma di metodo, di opportunità, di precedenti storici.

 

 

46. Discorrendo in generale, ritengo preferibile l’imposta sui redditi (siano redditi-base, o normali, od incrementi di redditi, o redditi non guadagnati o di congiuntura) all’imposta sui relativi capitali (capitali base, incrementi di capitali, arricchimenti ecc.). Qualunque sia il nome o la specie, la degnità o la indegnità, la necessità o la inutilità, il merito o il demerito del reddito, esso presenta, per quanto riguarda l’attitudine a patire imposta, taluni vantaggi notabili in confronto dei corrispondenti capitali ugualmente degni o indegni, necessari o inutili, meritati o rubati.

 

 

47. Il reddito è fatto primo concreto misurabile accertabile, il capitale è frutto di un calcolo, proiezione che il mercato o l’attuario fa del futuro nel presente. Nel constatare i fatti, è inevitabile un minimum di errori; ma è inutile crescere per pura libido tributaria le cagioni di errore. La tassazione sul capitale ha talune prerogative rispetto all’attuazione del principio della esclusione del risparmio dall’imposta, le quali furono da me altra volta esposte.[1] Ma quell’attuazione suppone l’attitudine negli organi amministrativi finanziari a seguire le variazioni dei prezzi capitali delle terre, delle case, delle azioni ed obbligazioni ed a far variare l’aliquota dell’imposta patrimoniale nello stesso senso delle variazioni del saggio dell’interesse. La quale ipotesi sembrando in concreto lontana della realtà, il vantaggio del metodo – che sarebbe di far variare l’ammontare dell’imposta automaticamente in rapporto al maggiore o minore contributo del capitale puro alla formazione del reddito e di eliminare, pure automaticamente, la tassazione delle quote di rischio – pare anch’esso di arduo raggiungimento.

 

 

48. Il reddito può essere analizzato, frazionato a piacere. Il legislatore che sia punto dalla tarantola del differenziare può moltiplicare all’infinito le qualità del reddito: di lavoro o di capitale o misti; misti con diverse dosature dei componenti: piccoli o grossi, normali o ultranormali.

 

 

Quanto più si differenzia, tanto più è facile commettere errori e cadere nell’arbitrio. Gli errori sono tuttavia conoscibili e, forse, eliminabili. Non è assurda speranza, tassando i redditi, quella di riuscire a tener conto, entro certi limiti, della possibilità di traslazione del tributo dal contribuente legalmente colpito al contribuente di fatto inciso; ed aggiustare in corrispondenza la tassazione.

 

 

49. La tassazione dei capitali pone altri problemi sottili, praticamente insolubili. Quali relazioni esistono in realtà fra redditi e valori capitali? Nessuno è riuscito sinora a trovare una spiegazione soddisfacente, che non sia un gioco di parole, della imposta sui trasferimenti a titolo oneroso, tipica fra le imposte sui capitali. Dove c’è il guadagno delle due parti, quando la premessa logica del trasferimento è la uguaglianza di valore fra bene ceduto e prezzo pagato? Il guadagno è psicologico, da valutazione individuale interna. Come si misurano i guadagni psicologici? ed è opera di buon senso tassarli? ossia tassare le speranze di immaginazione? Si vuol tassare il capitale a scatti, invece che regolarmente ogni anno? Quale probabilità vi ha che gli scatti si verifichino nei singoli casi con regolarità tollerabile? e non nascano diseguaglianze stridenti da contribuente a contribuente? Questa è critica efficacissima altresì contro le imposte successorie, altra branca illustre della tassazione dei capitali.[2]

 

 

50. L’imposta sui redditi segue la base imponibile a mano a mano che questa si produce. Il contribuente paga l’imposta sul frutto dei terreni o delle case o delle industrie o delle professioni colla stessa moneta che egli ricava dalla vendita di quei frutti e nella stessa unità di tempo. Non esistono divergenze fra il metro con cui si misurano i redditi e il metro con cui si misurano le imposte. Quel metro invero non è una lunghezza assoluta, ma una percentuale. Se l’aliquota è del 10% del reddito e lo svilimento della moneta rialza prezzi e redditi, si paga il 10% di 11000 invece che di 10000 lire; se il rincaro della moneta ribassa prezzi e redditi, si paga il 10% di 9000 invece che di 10000 lire. Vi può essere bensì un ritardo nell’adeguare le valutazioni fiscali alla realtà di 11000 o 9000 lire; ma è ritardo momentaneo, inevitabile in qualunque sistema tributario. Per un anno, forse per due, il contribuente paga ancora su 10 quando il reddito è già salito ad 11 mila lire. Non vi è sperequazione fra contribuenti; bensì, per tutti, minorazione del carico tributario.

 

 

51. Il vizio è più grave nelle imposte sui capitali. Oltreché a quella delle variazioni monetarie, il gettito delle imposte è soggetto ad altre influenze. Invariato il reddito in 5000 lire, l’imposta sul reddito lo colpisce in misura costante. Ma se il saggio dell’interesse ribassa dal 5 al 4% o rialza dal 5 al 6%, ecco i valori capitali del reddito invariato salire da 100000 a 125000 o ribassare ad 83,333 lire. Salvo ad arrampicarsi sugli specchi, v’ha qualche ragione perché l’imposta, all’1%, muti, fermo rimanendo il reddito in 5000 lire, da 1000 a 1250 od a 833,33 lire, solo perché essa fu ragionata in rapporto al capitale? Se l’imposta colpisce gli incrementi od eccedenze di reddito, essa cadrà sull’eccesso eventuale 1000, oltre le 5000 lire supposte normali, ove il reddito sia cresciuto a 6000. Il concetto sarà discusso in seguito; ma c’è in esso quel che i giuristi chiamano il fumus boni juris. Le 1000 lire in più, a metro monetario invariato, sono un qualche cosa di tangibile, di sostanziale. Ma se, a reddito invariato 5000, il valore capitale, a cagion del ribasso nel saggio dell’interesse dal 5 al 4%, sale da 100000 a 125000 lire, che cosa sono quelle 25000 se non fumo? Il contribuente sensato non ardisce spenderle, per non distruggere quel che egli aveva. Normalmente quell’incremento che, di solito, appunto perciò, ha dimensioni minori, è il segnale annunziatore della riduzione futura del suo reddito da 5000 a 4000 per l’abbondanza di risparmio nuovo contento di frutto minore. Che significato ha la tassazione di un qualcosa che non è destinato a durare ed è foriero di futuri disgusti di minor reddito?

 

 

52. Più frequentemente che non quelle sui redditi, le imposte sui capitali presuppongono un confronto fra valori accertati in epoche diverse. Imposte di miglioria, imposte sugli aumenti di valore di aree fabbricabili, imposte sull’eccesso del patrimonio posseduto ad una data in confronto a quello posseduto in data anteriore, imposte sull’eccesso del patrimonio abbandonato in punto di morte in confronto a quello ereditato dal defunto medesimo; tutto ciò implica confronti di valori in tempi diversi. Nove volte su dieci trattasi di confronti fra quantità eterogenee. Il milione di unità monetarie del 1939 non è cosa diversa dalle 100000 unità del 1914; anzi il milione d’oggi ha una potenza d’acquisto minore delle 100000 di un tempo; eppure paiono cose diverse e talun legislatore propose di infierire contro la differenza come fosse vero incremento. Ossequienti, i giuristi delle corti supreme sentenziarono che un dollaro è pur sempre un dollaro; sicché guadagna chi è fatto passare dai pochi dollari lunghi ai molti corti.

 

 

53. La tassazione sui capitali ha campo più ristretto di quella sui redditi, poiché lascia fuori tutti i redditi ai quali non corrisponde alcun capitale valutato come tale dal mercato; principalissimi i redditi di lavoro, i quali in ogni paese sono la quota maggiore del reddito nazionale e, non essendo l’uomo negoziabile, non sarebbero tassabili se si tassassero solo i valori capitali. Il metodo di tassazione dei redditi, se non vieta al legislatore di sbizzarrirsi a suo piacimento nella tassazione delle varie qualità di reddito, ha il pregio di alimentare un po’ meno l’ingenua illusione alla quale egli soccombe quando, avendo immaginato un nuovo nome di imposta, crede di avere scoperto una nuova materia imponibile. La gravezza espropriatrice dell’imposta successoria italiana tra il 1918 ed il 1922 e quella attuale dell’imposta successoria britannica sono in notabile misura dovute all’illusione che nella quota o nell’asse ereditari vi sia una materia d’imposta a sé stante e si possa quindi senza pericolo spingersi all’insù nel tassare; laddove unica, sebbene di forme cangianti, è la fonte dell’imposta, ossia il flusso corrente continuo del reddito. Giova, per la chiarezza e la onestà tributaria, usare un solo metro per la misura del tributo; sicché ognuno possa far la somma della gravezza subita. Nuoce la moltiplicazione dei nomi delle imposte sul reddito; ma più nuoce la ulteriore moltiplicazione di nomi d’imposte sul reddito e sul capitale, ognun nome dotato di proprie caratteristiche e criteri di misura; sicché al contribuente riesca fastidiosa l’addizione delle varie imposte, ed al legislatore più agevole crescere il peso tributario serbando l’aria distratta innocente di chi mantiene, per ogni nome d’imposta, moderate le aliquote.

 

 

54. La rinuncia al metodo di tassazione dei capitali è in paragone peccato venialissimo. Non esistendo quasi capitale al quale non corrisponda un reddito, ove si tassino i redditi non v’ha quasi capitale il quale sfugga alla tassazione. Pare che soltanto i capitali privi di reddito monetario possono fruire di immunità. Val la pena di creare una macchina costosa d’imposta soltanto per tassare le collezioni di quadri, di oggetti d’arte, di libri, i luoghi di delizie, i parchi, i castelli e le ville e simili beni di consumo durevole, improduttivi di reddito monetario e fecondi di spese di conservazione di importo non inferiore al valore della soddisfazione ordinaria che la comune degli uomini ricava dal loro possesso? La tecnica tributaria ha inventato, per tassare siffatte cose, l’ottimo espediente della finzione di un reddito uguale a quello offerto dall’uso migliore alternativo che ordinariamente possa farsi del terreno o dell’edificio così sottratto ad utilizzazione economica. Tassare un di più vorrebbe dire tassare quelli che si chiamano valori d’affezione, «imponderabili» fatti di ricordi, di sentimenti, di comandamenti tramandati dagli avi. Soltanto la ragion ragionante ugualitaria può reputare convenga creare uno strumento costoso più dello sperabile provento allo scopo di distruggere idiotamente quei valori spirituali che sopravvivono, con vantaggio definitivo della collettività, nelle abitudini patrimoniali di una piccola aristocrazia di tradizionalisti e di uomini colti. Di tassare siffatti valori capitali privi di reddito non si usa invero decentemente parlare; ed anzi i più dei legislatori si affrettano ad esentare dall’imposta od a valutare con benignità particolare collezioni d’arte, suppellettili librarie e monumenti storici quando la sorte vuole che essi cadano sotto il martello dell’imposta.

 

 

55. La pretesa necessità di tassare capitali privi di reddito è addotta, con baccano fastidioso, a proposito d’altro. Il caso più rimarchevole, forse il solo concretamente notabile è quello delle aree fabbricabili. Pochi altri casi, economicamente assai meno importanti, possono in parte essere assimilati a questo più visivo. Come tassare, si domanda, l’area fabbricabile la quale di anno in anno cresce di valore, se non si tassano i capitali? L’area non dà reddito, salvo il minimo reddito proprio del terreno usato a scopi agricoli. Ai margini della città, il terreno agricolo passa gradatamente da un valore di 2 lire al mq (20000 lire all’ettaro, massimo valore, per ipotesi, del terreno agricolo e già tassato come tale) a 5, a 10, a 100, a 1000 lire al mq. In lire svalutate le cifre salgono a 10000, a 100000, a 1000000; ma, per non dare fastidio agli occhi, non le scrivo; ed il ragionamento corre ugualmente. A mano a mano che la fabbricazione protende tentacoli nella campagna, l’area vede scemare la sua capacità di reddito agricolo. Quando il valore giunge alle 100 lire, l’area non fa più parte di un podere coltivabile; è un terreno nudo chiuso fra edifici e cantieri, praticamente ridotto a campo di gioco per i ragazzi del vicinato. Per coltivarlo bisognerebbe cingerlo di mura o di alti reticolati ed il costo supererebbe il probabile reddito. Non perciò, si dice, l’area cessa di dar reddito. Il reddito consiste nell’aumento di valore da 2 a 5, a 10, a 100, a 1000 lire al mq. Si tiene l’area per ottenere quello speciale frutto che dicesi incremento di valore capitale dell’area. Se non si colpisce questo, un guadagno, certamente esistente, sfuggirebbe al tributo.

 

 

56. Al solito, siamo dinnanzi ad un caso di doppia vista. Perché l’area edilizia passa dal valore due al valore 1000 per mq? Perché il proprietario vede profilarsi nel futuro un reddito annuo tratto dalla utilizzazione edilizia dell’area. Se un reddito edilizio non fosse, fra 10, 20 o 30 anni, previsto, l’area non sarebbe edilizia ed avrebbe il puro valore agricolo. Se noi supponiamo che il passaggio dallo stadio agricolo allo stadio edilizio avvenga con velocità gradatamente ridotta ed il saggio dell’interesse corrente per impieghi analoghi del risparmio sia del 5% conviene evidentemente conservare l’area allo stato nudo finché, tale rimanendo, il valore dell’area cresce ogni anno almeno del 5% in confronto al valore acquistato alla fine dell’anno precedente. Il momento nel quale l’incremento di valore diventa ed è preveduto rimanere, ad anno, minore del 5% è quello della perfetta maturità dell’area. Fino a quel momento l’impiego di capitale sotto forma di area nuda era preferibile a qualunque altro impiego, perché fruttifero almeno del 5%. Da quel momento in poi è preferibile la fabbricazione perché il capitale area, trasformato coll’aggiunta del capitale casa, frutta per ipotesi il 5%, laddove serbato nudo frutterebbe soltanto, a cagion d’esempio, il 4,75%. Sarebbe antieconomico costruire sia prima che dopo.

 

 

Se noi supponiamo che l’area passi dal valore 2 al valore 1000, ciò vuol dire, ad esempio, che il capitale è stato impiegato all’interesse composto medio del 10% per arrotondati 33 anni. Il saggio di incremento, altissimo nei primi anni, si è gradatamente attenuato sino a toccare nel 330 anno, anno di indifferenza, il 5%. Prevedendosi per il 34esimo anno un saggio di incremento minore del 5%, vien decisa la fabbricazione. Supponiamo, ad evitare complicazioni superflue di calcolo, che la fabbricazione sia decisa ed attuata ad un attimo; cosicché la casa costruita, del costo di 4000 lire per mq (casa centrale, di -o piani ad uso misto di abitazione, uffici e negozi) sia produttiva di reddito al I° gennaio del 34° anno.

 

 

Essa, per mq, produce due redditi:

 

 

a)    il 5% sulle 4000 lire di costo di costruzione della casa: 200 lire. Se un’imposta del 5% lo colpisce e se il saggio corrente di interesse è del 5%, è chiaro che il costruttore, il quale nel momento decisivo possiede il capitale sotto forma liquida, non si deciderà ad investirlo nella costruzione se i fitti non aumentano da 200 a 250 lire in modo che, prelevando dalle 250 il tributo del 20 % in 50 lire, restino nette lire 200 al costruttore per ogni 4000 lire impiegate;

 

b)    il 5% sulle 1000 lire di valore dell’area: 50 lire. Se un’imposta del 20% lo colpisce, e se il saggio corrente di interesse è del 5%, il proprietario dell’area è sprovveduto di rimedio e deve rassegnarsi a vedere falcidiato il reddito da 50 a 40 e perciò anche il valor capitale da 1000 ad 800. Gli converrebbe forse, a scopo di reazione, tener l’area vuota, che è la sola alternativa offertagli? Pare di no; ché 40 lire annue di reddito per mq sono sempre una quantità maggiore di zero, reddito dell’area vuota.

 

 

La riduzione, all’alba del 34° anno, del reddito netto dell’area da 50 a 40 e del valor capitale da 1000 ad 800 reagirà all’indietro; ché il proprietario dell’area non può valutare ugualmente al momento zero quel che dopo 33 anni vale solo 800 e quel che invece vale 1000.

 

 

Il valore attuale (al momento zero) di un mq di area fabbrica bile, il quale alla fine del 330 anno varrebbe 1000 se non esistesse l’imposta e vale 800 a causa di un’imposta del 20%, è razionalmente calcolabile soltanto se si suppone che il mercato preveda esattamente i due valori futuri 1000 e 800 e li sconti al saggio corrente di frutto del 5%. In questo caso i valori attuali sono 62,50 in assenza e 50 in presenza dell’imposta. Il valore 2 è il valore agricolo; ma la concorrenza fra speculatori previdenti fa subito balzare il prezzo da 2 a 62,50 od a 50, sicché ai nuovi prezzi l’investimento in aree edilizie frutti il saggio sufficiente del 5%.

 

 

57. Non occorre quindi tassare I’incremento di valore da 2 a 1000 per ridurre del 20% il guadagno dello speculatore in aree fabbricabili. L’imposta del 20% prelevabile a partire dal 34esimo anno sul reddito annuo di 50 lire dell’area è sufficiente all’uopo.

 

 

 

In assenza di imposta

 

Supposta l’imposta del 20%

 

Reddito

Valor capitale

Reddito

Valor capitale

 

Momento zero

62,50

50

Principio del 34° anno

50

1000

40

800

 

 

L’imposta annua del 20% sul reddito perpetuo di 50 lire all’anno a partire dal 34esimo anno riduce nel tempo stesso il valor capitale futuro da 1000 ad 800 e per ripercussione quello presente da 62,50 a 50. Se si aggiungesse a quella imposta un’altra pure del 20% sull’aumento di valore da 50 ad 800, si riducerebbe ulteriormente, il guadagno da 800 – 50 = 750 a 600. Ossia la perdita del contribuente non sarebbe quella voluta dal legislatore, che è del 20%, da 1000 ad 800, ma, per il gioco della doppia vista, l’altra da 1000 prima ad 800 e poi a 600, ossia del 40%. Tutto può statuire il legislatore; ma il presupposto della sua azione è un ragionamento, non il quia nominor leo. Quale sia il ragionamento in virtù del quale un 20 deve diventare un 40% o qualsiasi altra proporzione diversa da quella voluta espressamente dal legislatore rimane un mistero.

 

 

58. Siamo così ricondotti dai doppi di vista delle tassazioni degli incrementi di capitale al quesito veramente fondamentale già posto: vi è ragion di tassare le eccedenze di reddito più dei redditi base?

 

 

Ancora una volta, prima di affrontare il problema essenziale, siamo costretti a girargli attorno per vederlo nettamente fuor dei miraggi che non più la doppia vista ma la fata morgana fa sorgere dinanzi agli occhi del camminante nel deserto.

 

 

59. Vi sono innanzi tutto le eccedenze «apparenti» di reddito. Tipiche quelle da svalutazione. Se il metro monetario si riduce della metà o dei due terzi, quel che era 100 col metro lungo 100 centesimi diventa 200 se il metro si scorcia a 50 centesimi, 300 se a 33,33 centesimi. Ecco create eccedenze oltre il 100 definito normale, di 100 o 200 avocabili, secondo la parola inventata in Italia nel 1920, all’erario. Una finanza ragionata, la quale intenda colpire guadagni realmente ottenuti, non può fondarsi su variazioni nominalistiche.

 

 

A tassare le eccedenze «apparenti»  di reddito occorre fare altro ragionamento: col metro monetario lungo 100 centesimi, i redditi dei gruppi A, B, C di contribuenti erano 1000, 1000 e 1000, ed in totale 3000 unità. Dopo lo scorciamento a 50, i redditi, espressi nella nuova unità di misura, non aumentarono tutti a 2000; ma, per la loro diversa natura, l’uno fisso e gli altri diversamente variabili, divennero 1000, 2000 e 3000 ed in totale 6000 unità. Il reddito totale di tre gruppi raddoppiò; ma il totale fu distribuito variamente fra i tre gruppi: il gruppo A rimanendo fermo, quello B raddoppiando e quello C triplicando. Il gruppo A, percettore di redditi a prezzi in cifra fissa, rimase invariato; il gruppo B, i cui prezzi di vendita raddoppiarono, passò a 2000; il gruppo C, i cui prezzi aumentarono più della media, giunse a 3000. Poiché B e C «guadagnano» 1000 e 2000 oltre il reddito base 1000, siano tassati. Ragion vuole che, guardando alla realtà, si riconosca che, misurati con l’antico metro, i nuovi redditi equivalgono a 500, 1000 e 1500. Quindi A perse 500, B rimase allo stesso punto e solo C guadagnò effettivamente 500; epperciò solo queste 500 unità di C, se tassabili per altre ragioni come sovrareddito (vedi sotto), dovrebbero essere colpite.

 

 

Chi voglia tassare le 1000 unità nuove di B e le 2000 pure nuove di C perché eccedenti le 1000 vecchie deve partire da altra premessa: poiché A, rimanendo a reddito costante 1000, in realtà perdette 500 delle 1000 unità vecchie, si consideri «guadagno» per ogni contribuente quel che ognuno di essi «conservò»oltre il minimo rimasto al gruppo più danneggiato di contribuenti. Poiché A, B e C possedevano ognuno 1000 unità vecchie e posseggono ora 1000, 2000 e 3000 unità nuove equivalenti a 500, 1000 e 2500 unità vecchie, sia considerato guadagno quel che ognuno conservò, oltre le 500 unità vecchie conservate dal più sfortunato. B non avendole perdute, si suppone abbia «guadagnato» 500 vecchie (1000 nuove); C si suppone abbia guadagnato 1000 vecchie (2000 nuove) non perché le abbia guadagnate tutte, ma perché riuscì a «non perderne» 500 ed a veramente lucrarne 500.

 

 

Il ragionamento è testimonianza elegantissima della fecondità della logica egualitaria. Perché soltanto le «non perdite» dovute a variazione monetaria dovrebbero essere assunte come guadagno? Sono ben numerose le ragioni per le quali gli uomini sono sfortunati nelle loro esperienze economiche! Guadagno è tutta l’eccedenza di reddito o di patrimonio che i contribuenti conservano in confronto all’imprenditore il quale senza sua colpa – e chi mai, confessando di essere in colpa, non attribuirà la propria sventura al fato, alla concorrenza estera, alla crisi mondiale ecc. ecc.? – perdette l’intiero capitale investito, al professionista il quale non riuscì a trovar clienti, al lavoratore perennemente disoccupato.

 

 

Al limite della pazzia tributaria raziocinante, il buon senso si riafferma. Tutto ciò che supera la perdita, è eccedenza di reddito. Quindi non esiste più reddito. Tutto è eccedenza. Il problema della tassazione delle eccedenze di reddito sfuma per mancanza di oggetto. Non si può distinguere, tutto essendo eccedenza, fra le varie altitudini del reddito. Il che torna a dire che tutto il reddito deve essere trattato alla stessa stregua, come se tutto fosse reddito normale e niente fosse eccedenza.

 

 

60. Vi sono in secondo luogo eccedenze «necessarie». Il concetto di «eccedenza» è avvolto in una invincibile incertezza; ma un connotato pare sicuramente suo: che l’eccedenza del reddito oltre il normale non sia richiesta per la continuazione dello sforzo umano, dell’atto del risparmio, della produzione. Se un salario di 10 lire al giorno per un determinato genere di lavoro è giudicato necessario per indurre quell’operaio a lavorare, 10 lire sono il normale e solo l’eccesso oltre le 10 lire è un sovrareddito. Se un profitto (interesse sul capitale investito più compenso d’intrapresa) dell’8% è definito normale ossia necessario per indurre capitali ed imprenditori all’investimento industriale – assumo per minore arbitrio la definizione del legislatore italiano del tempo di guerra – reddito tassabile è solo il supero oltre l’8%. E così via. Il linguaggio adoperato è orripilante per le orecchie anche mediocremente raffinate dell’economista; ma se questo è il linguaggio corrente nella finanza non mia è la colpa. Che cosa è il necessario? Pare ovvio che un salario o un interesse o un profitto possono essere detti necessari se soddisfino alla condizione di invitare al lavoro, al risparmio, all’impresa quel tanto di lavoratori, di risparmiatori o di imprenditori che occorre per rispondere alle richieste dei consumatori, quelle tali richieste che esistono dati i prezzi correnti quali sono.

 

 

Può darsi che il 5% sia il saggio corrente di interesse bastevole a provocare quella fabbricazione di risparmio che il mercato chiede. Ma può anche darsi che un frutto di 1 milione per ogni 10 lire investite sia insufficiente a provocare il desiderato investimento in biglietti da 10 lire, se l’investimento ha nome biglietti di lotteria. Se il banditore della lotteria vuol vendere biglietti per l’ammontare di 10 milioni di lire, può darsi occorra promettere un primo premio di 2 milioni, due secondi premi da 1 milione e dieci premi di consolazione da 100000 lire l’uno. il banditore guadagna, lorde di spese di pubblicità e di gestione, 5 milioni di lire. Il premio di 2 milioni è un guadagno percentualmente altissimo per il vincitore in confronto al capitale investito di 10 lire. L’esperienza può tuttavia avere dimostrato che, se si offrono premi minori, non conviene esercitare l’impresa della lotteria. Il guadagno di 2 milioni di lire non è dunque altrettanto «necessario» quanto il salario di 10 lire giornaliere al manovale?

 

 

61. Di questo tipo sono molte industrie e professioni. Il ritrovamento di un filone d’oro meraviglioso, che rende il 1000 per 1 in un anno è condizione necessaria per l’esercizio di quella pazza industria che chiamasi aurifera, pazza perché, ad eccezione di un caso unico nella storia del mondo, è, tenuto conto del tempo fatica e rischi corsi dal complesso degli avventurieri mossi alla ricerca dell’oro, in media passiva.

 

 

Il caso unico nella storia del mondo è quello delle miniere del Transwaal dove fu possibile creare un’industria solida di giacimenti auriferi estesi su vasta superficie e mineralizzati sino a notevole profondità. Fu dimostrato, con accuratissime indagini, dal professore S. H. Frankel, dell’università di Witwatersland (cfr. Return to capital invested in the Witwatersland Gold Mining Industry 1877-1932, in «The Economic Journal», marzo 1935) che il reddito medio netto delle miniere d’oro del Transwaal dal 1887 al 1932 fu del 10,5%, supponendo che gli scopritori delle miniere, coloro che, scopertele, le misero in valore conducendole sino al punto di essere consegnate mature alle società esercenti, fossero, per tutto ringraziamento, messi fuor della porta senza un soldo di compenso. Se invece si suppone che agli iniziatori si sia dato un compenso proporzionato, secondo le ordinarie valutazioni del mercato, al pregio dell’opera loro, il rendimento netto scema al 3,8 od al 4,9%, secondo le varie ipotesi attuariali del calcolo.

 

 

Dicesi «unico» il caso del Transwaal perché dappertutto altrove l’oro si trovò e si trova nelle alluvioni od in piccoli filoni occasionali.[3] Non si tratta di industria ma di avventura; nel correre dietro alla quale le migliaia di cercatori muoiono di stenti o si ammazzano a vicenda, pochissimi arricchiscono e le centinaia di migliaia, disperati, si danno all’agricoltura, alla pastorizia od al commercio. Il popolamento di terreni vuoti, e non l’oro, è il vero grande reddito fornito dalle miniere d’oro. Il miraggio dell’oro spinse i disperati e gli avventurieri d’Europa fin nell’Australia e nella California. Non trovarono l’oro; ma popolarono quelle regioni e fecero sorgere nuovi stati.

 

 

Il ragionamento è vero in molti altri campi della vita, meno strani della ricerca dell’oro. Sinché sia mutato, più di quanto lentissimamente oggi non accada, il movente delle azioni dell’uomo, è necessario che talun avvocato di grido o medico o chirurgo o scrittore o pittore od architetto od artista famoso ottenga compensi altissimi, se si vuole che il mercato possa scegliere fra un numero sufficientemente grande di aspiranti a professioni, incapaci ad offrire nulla più che remunerazioni in media troppo modeste ai loro cultori. Il grosso compenso dei pochi fortunati è miraggio necessario per provocare un afflusso bastevole di giovani valorosi a compiti troppo aleatori per fare appello alla gente amante del quieto modesto vivere.

 

 

62. L’eccedenza deriva dal possesso di brevetti, da protezioni doganali, da leggi di limitazione a nuovi impianti industriali o negozi o pubblici esercizi? Ma il legislatore volle quei brevetti, quelle protezioni e quelle limitazioni non a scopo di arricchimento di privilegiati, ma di pubblico vantaggio. Reputò cioè necessari quegli istituti allo scopo di promuovere le invenzioni industriali, il fiorire di industrie nuove od urgenti alla difesa nazionale o di prevenire crisi dovute a concorrenza reputata irrazionale. Il legislatore non può nel tempo stesso volere la causa e negare gli eventuali effetti, che sarebbero le eccedenze di reddito, anch’esse volute per ottenere ed affrettare il raggiungimento del fine. Si può dubitare che il mezzo scelto sia adatto ad ottenere l’effetto; ma se il legislatore non dubitò e non dubita e vuole ottenere l’effetto con quel mezzo, deve rassegnarsi al connotato inseparabile dell’eccedenza di reddito; non può illudersi di tassare questa e ottenere, ciononostante, i risultati desiderati.

 

 

63. L’eccedenza deriva dallo sfruttamento da parte dei privati di circostanze volute dallo stato per ragioni non economiche, per esempio una guerra? Facciasi astrazione dal caso più generale in fatto: i sopraprofitti di guerra dovuti a variazioni del metro monetario, la cui tassazione era, come si disse sopra, irrazionale. Per la quota residua, che sia eccedenza effettiva, quale è la via da scegliere? Evitare che i sopraprofitti di guerra nascano o tassarli dopo creati? La tendenza prevalente nel dopoguerra è di preparare in pace metodi di mobilitazione industriale che tolgano agli imprenditori possibilità di guadagnare sopraprofitti dovuti alla guerra. Si ottiene così un risultato morale altissimo durante la guerra e si tronca alla radice ogni stimolo negli industriali a provocar guerra per ignobile scopo privato di arricchimento, la guerra dovendo essere determinata esclusivamente da ragioni supreme nazionali. La scelta fra il tassare e il reprimere non è dubbia: lo stato tassatore si fa quasi complice di guadagni immorali; laddove lo stato repressore rivendica esclusivamente a sé la condotta della guerra.

 

 

64. Fuor di questi casi, in cui la tassazione delle eccedenze di reddito cade su fantasmi, o su quantità necessarie alla produzione o su lucri intassabili perché considerati immorali e degni di soppressione, resta il campo variopinto dei redditi detti di monopolio e di quasi monopolio, di rendite e quasi rendite. Inchiniamoci reverenti dinnanzi ai grandi nomi di Gossen e di Walras; ma riconosciamo che essi furono vittime di un’illusione. Il finanziere, il quale si lasciasse attrarre dall’insidioso terreno fiorito, vedrebbe affondare la pubblica finanza nel risucchio inesorabile del nulla.

 

 

65. Che cosa è il sovrappiù, la rendita, il reddito di monopolio? Quale è il metro atto a misurare il normale al quale si deve raffrontare la realtà, per sapere se e di quanto essa lo superi? Accertare una quantità determinata, detta reddito, avente una certa parentela o rassomiglianza con fatti reali è impresa difficile; ma quanto più difficile è definire ed accertare la «differenza» fra un fatto concreto o quasi concreto, reale o simile al reale quale è la quantità di reddito netto entrata nell’economia del contribuente in un dato intervallo di tempo, l’anno finanziario, ed una astrazione, ossia la quantità di reddito che in determinata ipotesi teorica «avrebbe dovuto» entrare nella medesima economia!

 

 

Badisi che il «normale» del quale qui si discorre è altra cosa al «normale», che sarà la materia del capitolo decimo. In questo, il concetto del «normale»  si identifica con quello del «medio» od «ordinario», di quel reddito cioè che è in media ottenuto in un dato tempo, in una data regione agricola, in un dato tipo di conduzione, secondo i comuni metodi agrari dell’agricoltore ordinario il quale non si discosta né in bene né in male dal tipo dominante nel paese. Il reddito normale, così inteso, è un fatto comunemente osservato ed accertabile. Esso ha un contenuto concreto, non poggia su distinzioni fra reddito e rendita. Sono da questo punto di vista, ugualmente normali il reddito 100 del terreno cattivo, quello di 150 del terreno mediocre e quello di 300 del terreno ottimo. L’agricoltore ordinario può con metodi ordinari coltivare tutte tre le specie dei terreni.

 

 

Il concetto di «normale»dal quale partono i tassatori dei sovrappiù, è tutt’altro. Esso è un concetto astratto, definito sulla base dell’ipotesi teorica della piena concorrenza. I connotati sono noti:

 

 

  • i beni esistenti sul mercato siano ripartiti fra più possessori in modo tale che la quantità posseduta da ognuno di essi sia piccola rispetto alla quantità totale;

 

  • l’azione dell’un possessore di beni non influisca apprezzabilmente sull’azione dell’altro ed ognuno sia disposto ad offrire nei limiti della sua convenienza la massima quantità possibile del bene posseduto per non essere eliminato nello scambio dai concorrenti;

 

  • le unità del bene posseduto siano le une alle altre uguali e fungibili;

 

  • le unità dei beni abbiano dimensioni tali che l’aggiunta di una unità non produca una variazione apprezzabile sul mercato;

 

  • non esistano ostacoli alla mobilità dei fattori produttivi e dei beni prodotti;

 

  • non esistano ostacoli alla moltiplicazione delle unità di beni a costi costanti;

 

  • non esistano ostacoli alla libertà di contrattazione e di ricontrattazione di ogni contraente con qualsiasi altro contraente.

 

 

Tanto val dire che la piena o libera concorrenza è un archetipo ideale fabbricato dagli economisti a scopo di analisi. Feconda analisi; ma incapace a dar lume a quei poveri diavoli che si chiamano funzionari delle imposte o contribuenti, i quali nell’ipotesi più favorevole conoscono i fatti accaduti nella loro umile veste effettiva, che è una veste scombiccherata irrazionale lontanissima dalla semplicità astratta. Quale è il bene, il quale, se seguitiamo ad aumentarne la produzione, non incontri, ad un momento dato, l’ostacolo della impossibilità per l’imprenditore di procurarsi ulteriori dosi di qualcuno dei fattori produttivi a costo costante? A quel punto, la limitazione del fattore si fa sentire e la nuova unità invece del costo di concorrenza x può essere ottenuta solo al costo x + y. Ecco che, per la legge di indifferenza, il prezzo di tutte le unità precedenti del medesimo fattore, che sono costate x, si sposta verso x + y ed ecco nata la rendita differenziale y. Nel mondo reale, la limitazione, l’ostacolo, il frazionamento in unità non piccolissime, la impossibilità di muoversi senza attrito sono la regola. Il mondo reale è un mondo di monopoli o monopoloidi. Non esiste forse nessun reddito al quale si possa guardare come al campione della normalità logicamente e ciò astrattamente intesa di reddito di concorrenza. Questo è una fictio logica; i redditi reali sono tutti redditi monopolistici, attivi o passivi (questi conosciuti più comunemente col nome di perdite), al disotto o al disopra della linea immaginaria tracciata in base all’ipotesi di concorrenza. Come prendere a base di un sistema di tassazione un concetto, del quale non si ha e non si avrà probabilmente mai alcuna esperienza concreta?

 

 

66. I fautori della tassazione delle eccedenze e dei sovrappiù hanno appuntato perciò il loro sguardo su due redditi di monopolio acclamati per le dimensioni particolarmente vistose: la cosiddetta rendita della terra ed i guadagni dei grandi consorzi od organismi monopolistici.

 

 

Alla terra, alle sue qualità naturali ed indistruttibili, hanno guardato i fisiocrati ed i riformatori che, al seguito di Enrico George, si ostinano a denunciare nel monopolio della terra il grande unico ostacolo alla scomparsa della miseria. Ma, nonostante l’aiuto potente dei Gossen e dei Walras, la voce degli avocatori della rendita terriera allo stato è divenuta sempre più fioca. Oggi nessuno crede che da quella fonte possano ricavarsi non che i miliardi neppure le centinaia di milioni necessari a far vivere uno stato moderno. I giardini del mondo, ed in Italia noi vantiamo le marcite lombarde, i roseti della Liguria e gli agrumeti della Conca d’oro, sono una faticosa creazione dell’uomo, non un dono della natura. La natura donò all’uomo paludi boschi rocce e sabbie; e l’uomo le trasformò, attraverso secoli di lavoro, in giardini. Se oggi si volesse andare alla cerca di una rendita nei più bei terreni d’Italia, con tutta probabilità si dovrebbe accertare che il reddito netto è inferiore al frutto che al saggio d’interesse corrente si dovrebbe ottenere dai capitali che oggi dovrebbero essere razionalmente impiegati per recare quel terreno dalla condizione originaria di palude o di roccia allo stato attuale di meraviglia della tecnica agricola. Sottorendita, non rendita è la realtà, spiegabile soltanto con l’amore appassionato dell’uomo verso la terra, con la pietà verso il fondo avito, con il prepotere di sentimenti posti fuori dell’economia. Aggiungeremo ai redditi economici, i redditi sentimentali, i ricordi del passato, la pietà degli avi e la speranza dei nepoti per creare un sovrareddito tassabile? Facciamo sosta, ché siamo arrivati al margine della pura follia tassatrice.[4]

 

 

67. Dalla nebbia che avvolge il concetto del sovrareddito non si salva il caso, addotto ad esempio tipico di gratuità, delle rendite fondiarie edilizie. Avendo sulla coscienza qualche peccato di gioventù, ben presto implicitamente confessato ed analizzato,[5] non scaglio pietre contro nessuno. Il racconto tante volte letto del fondatore della dinastia dei Vanderbilt, il quale compra per pochi barili di liquori la rocciosa isola di Manhattan e, addormentatosi, dopo tanti anni lui od i suoi figli si veggono padroni del suolo sul quale è stata edificata la città di New York e, senza far nulla, sono diventati miliardari, è suggestivo ma è di maniera. Furono in molti a scoprire le virtù del terreno su cui poi sorse New York e furono pionieri. Anche oggi, sotto i nostri occhi, in tutte le città d’Italia sono operosi gli avventurieri o pionieri dell’industria edilizia. Se essa non è frastornata da limitazioni e vincoli nei canoni di affitto e da diritti di insistenza di inquilini, è una industria la quale sta contenta a remunerazioni poco diverse e per lo più inferiori a quelle sperabili da titoli pubblici di tutto riposo. Se ne contenta perché spera nell’incremento della rendita di posizione e quindi del valore capitale dell’area edilizia. Quell’1 o 2% di cui in media, sì o no, forse aumenta annualmente il valor capitale dell’area è dunque gratuito? o non è, almeno in parte, l’integrazione necessaria del compenso altrimenti troppo modesto di un’industria in se stessa povera? Ognuno ricorda i casi delle zone favorite dalla moda, dalla fortuna e dalle condizioni favorevoli opportunamente sfruttate; ma si dimenticano i disinganni di coloro che costruirono in altre zone e lungo le vie le quali apparivano propizie e poi di fatto non si chiarirono tali.

 

 

68. L’imposta è strumento grossolano per raggiungere in questo caso tipico il fine suo vero che è di dare a Cesare quel che Cesare creò. Essa cade con furia differenziata sui risultati positivi delle iniziative dei pionieri fortunati dimenticando che l’insuccesso è compagno e condizione della fortuna. L’ente pubblico può, se crede, farsi pioniere in luogo dei privati; e con ben maggiori probabilità di riuscita. Sono in sua potestà la costruzione dei piani regolatori, e più la assegnazione delle aree fabbricabili poste attorno alle città a zona di abitazioni signorili civili operaie industriali e commerciali; ed, ancora, la limitazione delle altezze e degli spazi liberi per strade e giardini. L’ente pubblico può espropriare ai prezzi correnti le aree utili allo sviluppo edilizio della città, senza offesa al diritto di proprietà di nessuno; e può, ideando un piano di città bella al luogo dei consueti disordinati affastellamenti di case qualunque insieme mescolate a casaccio, creare valori nuovi, che sarebbero suoi perché da esso creati. L’imposta sulle cosidette rendite edilizie è un alibi costruito dalla pigrizia di amministratori pubblici privi dell’immaginazione necessaria a creare quelle rendite che essi invidiosamente vorrebbero carpire senza sforzo a chi ha saputo intuirle e sollecitarle.

 

 

69. Guadagni di monopolio delle imprese di cosidetti servizi pubblici, dei grandi consorzi trusts sindacati empori magazzini e simili giganti? Concetti vaghi che, analizzati, rivelano la loro inconsistenza. Se è vero che i giganti lucrano guadagni giganteschi, quale la causa? Oggi è fuor di moda ricordare verità elementari. Un tempo, quando la gente non si pasceva di parole vaghe: il mondo che va verso i giganti, verso le concentrazioni, il capitalismo divorato dal supercapitalismo, la morte della concorrenza uccisa dagli accordi, dai consorzi, gli economisti avevano ancora l’abitudine di analizzare le cause della gigantomania, del consorzialismo, del monopolismo, del supercapitalismo; e quasi sempre, giunti al termine dell’indagine, forte sospettavano che non il fato, il quale, secondo la novissima filosofia economica della storia, pare trascinare le turbe umane a superare oramai tramontati ideali, ma qualcosa di più semplice, di più umano spiegasse il prevalere, quando prevalevano, dei giganti monopolistici. In fondo al gigante, essi vedevano quasi sempre un qualche accorgimento umano: un dazio doganale alla frontiera, un privilegio legale negli appalti, un divieto, legale o di fatto, al sorgere di concorrenti, una sovvenzione governativa, un premio dato agli uni e negato agli altri. Oggi, agli antichi fattori gigantomachi e monopolofili si sono aggiunti i dazi variabili senza vincolo di tariffe convenzionate, i contingentamenti, le limitazioni legali al sorgere di nuove imprese, la sicurezza del salvataggio offerto ai grossi e negato ai piccoli, la dipendenza di tutte le imprese private in tutti i paesi del mondo dalla autorizzazione, dal permesso, dalla licenza del potere politico centrale. Solo i grossi, solo coloro i quali, per avere toccata una certa dimensione, possono sopportare il costo di una organizzazione posta a Washington, a Londra, a Parigi, a Berlino, a Roma od a Ottawa, solo costoro superano gli ostacoli frapposti dai contingentamenti, dai dazi variabili, dalle limitazioni, dalle licenze, dai premi e dai salvataggi e ne traggono profitto. La plutocrazia grossa e gigantesca trionfa a danno dei piccoli e dei medi imprenditori liberi; ma il suo è un trionfo dovuto all’artificio. Siano tolti i contingentamenti i dazi i premi le licenze ed i salvataggi, e l’edificio del colossale del monopolismo e del consorzialismo crolla.

 

 

Lasciato a sé, il gigante economico ha i piedi d’argilla. Non esiste alcun fato misterioso, alcun superamento storico che lo faccia vivere. Vivono di forza propria solo quei giganti dietro i quali sta un uomo o un gruppo d’uomini. Durano una generazione, forse due; e poi si afflosciano. Finché durano, guadagnano più dei concorrenti perché sanno lavorare a costi più bassi. Esistono i genii organizzatori e guadagnano i milioni e le centinaia di milioni. Guadagnano con vantaggio altrui, sono pochi e passano come meteore. Il genio organizzatore non trapassa nei figli, nei generi e negli impiegati fatti soci. Giova, finché, ripeto, il movente dell’operare economico non sia mutato, togliere coll’imposta differenziata a questi pochi il guadagno di eccezione che essi temporaneamente lucrano? No; poiché è vero che quel lucro è ottenuto col vendere a più basso, non a più alto, prezzo dei concorrenti. Se si vuole accaparrare quel lucro a vantaggio della collettività non bisogna adoperare l’imposta, strumento stupidamente repressivo, ma l’emulazione gli onori la lode. Giova creare l’atmosfera nella quale il ricco giudichi se stesso disonorato e sia dall’opinione pubblica considerato con spregio se non consacri in vita e in morte parte rilevante dei suoi redditi a scopi di pubblica utilità: a fondare e dotare scuole ospedali parchi stadi. Nei secoli più splendenti della Atene di Pericle e della Roma repubblicana ed imperiale il cittadino, il quale desiderava onori o fama o amore, impiegava parte della sua fortuna a vantaggio pubblico. Non dobbiamo forse alla munificenza privata molti dei maggiori monumenti ereditati dall’antichità?

 

 

Queste sono eccezioni. La regola è il gigante il quale lavora a costi alti e vive di latrocinio pubblico. Guadagna assai sfruttando artifici da lui provocati. Neanche qui l’imposta è strumento adatto ad eliminare il soprareddito. Salderebbe meglio le catene al piede della gente inarticolata che il gigante ha ridotto in suo servaggio. Farebbe lo stato complice del latrocinio. Se è vero che i redditi privilegiati monopolistici esistono, il mezzo adatto a distruggerli è la eliminazione dei privilegi, dei vincoli, degli artifici, voluti o tollerati dal legislatore, i quali ne sono la fonte. Se quei guadagni sono considerati un male dal legislatore, l’abolizione delle norme che hanno favorito il sorgere del male o la statuizione di norme per l’assenza delle quali sorge il male sarà sempre più agevole ed efficace che non il reprimere con imposte il male già effettuato. Il gigante privilegiato possiede mille mezzi per mettere in salvo parte del bottino.

 

 

70. Più complesso è il problema dei monopoli i quali nascono da quella che in mancanza di miglior formulario chiameremo la «natura delle cose»: ferrovie, tranvie, imprese di pubblica illuminazione, di acqua potabile, di produzione di energia elettrica e simili cosidetti servizi pubblici. Il problema è più complesso perché il grado e l’esistenza medesima del monopolio è spesso contestabile: si pensi al crollo del monopolio delle ferrovie dinnanzi all’avvento dell’automobilismo, ed agli sforzi che in tutti i paesi si vanno facendo, oltre quel che è richiesto dall’uguaglianza di trattamento fra ferrovie e trasporti automobilistici rispetto all’uso della strada ferrata, per puntellare con artifici legislativi il barcollante monopolio ferroviario. Se poi sia vero che un monopolio o monopoloide esista, il problema che si tratta di risolvere non è quello di far partecipare lo stato ai suoi profitti; ma di ordinare norme atte ad eliminare i profitti monopolistici, instaurando un regime di prezzi pubblici che si avvicini il più possibile a quello che sarebbe, se potesse esistere, un regime di prezzi di piena concorrenza. Il problema è di ardua soluzione ed al più si può sperare di giungere ad una approssimazione più o meno grossolana. Ma non ha senso imbrogliare le carte facendo partecipare lo stato ai guadagni monopolistici e togliere così stimolo all’unico sforzo che val la pena di tentare a tutela del consumatore.

 

 

71. Fatte le quali eliminazioni, nessuno può immaginare che la tassazione del sovrappiù possa alimentare in guisa autonoma la finanza di uno stato moderno. Briciole, di cui importa tener conto, perché lo stato non può abbandonare nulla di quel che è suo; ma briciole.

 

 

Se il concetto del sovrappiù deve prendere forma corporea, io non saprei immaginarlo se non sotto due forme: il sovrappiù oltre il previsto ed il sovrappiù oltre un minimo. Del primo si può dire che è impalpabile, del secondo che è indefinibile.

 

 

72. Tutto ciò che è previsto, cessa ipso facto di essere un sovrappiù. I piani di Gossen e di Walras di tassazione delle rendite fondiarie, si fondavano sul concetto che esistesse una forza ineluttabile la quale tendesse ad aumentare le rendite della terra dall’attuale livello x a livelli ognora più alti x + y e poi x + y + z, ecc. ecc. Gli uomini conoscono il livello presente x e prevedono l’aggiunta y. Di queste lo stato non si può appropriare. Chi oggi possiede quelle rendite, le ha pagate a pieno prezzo. Egli non si trova in una situazione la quale menomamente differisca da quella di chi ha acquistato sul mercato, invece di rendite sovrappiù, redditi normalissimi ordinarissimi minimissimi. Appena l’uomo conosce o prevede un reddito, minimo o sovrappiù che sia, esso diventa un minimo. Esso è negoziato e passa sul mercato di mano in mano, in guisa che l’acquirente ottiene dal suo possesso, in confronto al capitale speso, nulla più del frutto normale di mercato. Tizio ha pagato 1000 lire al mq tanto l’area che gli frutta 50 lire all’anno quanto la costruzione elevata sull’area stessa che gli frutta ugualmente 50 lire annue. Per lui i due redditi sono ugualmente costosi. Tassar l’uno e non l’altro, o più l’uno che l’altro urterebbe il buon senso e il senso di giustizia.

 

 

Il piano di Walras è tutto fondato sulla terza quantità z, ossia sull’imprevisto. Lo stato espropria le terre ad un prezzo uguale alla capitalizzazione al saggio corrente d’interesse dei redditi presenti x e dei redditi futuri previsti y. Se il reddito rimanesse al livello x + y, lo stato perderebbe. Rimarrebbero a suo carico le spese di gestione, in eccesso su quelle private, del patrimonio acquistato. Ma vi è lo z non previsto, che lo stato non ha pagato. Quando lo z viene fuori, a poco a poco lo stato acquista un reddito libero, il quale prima copre le spese proprie di gestione e poi consente di ammortizzare il capitale impiegato nell’acquisto dei redditi x ed y. Quando l’ammortamento sia chiuso, tutto il reddito x + y + z diventa libero e può essere destinato a provvedere alle spese pubbliche propriamente dette. Comincia allora l’era del millennio tributario, durante la quale nessuno paga imposte, perché a tutto provvide il colpo di genio, che ha fatto passare all’erario i redditi futuri (z) imprevisti.

 

 

73. Taluno, preoccupato della grossa macchina la quale dovrebbe essere costrutta per espropriare e gestire l’intiero demanio terriero (agrario ed edilizio) nazionale, sostituirebbe all’espropriazione con compenso per i fattori x e y, la avocazione allo stato, con l’imposta, del solo elemento z.

 

 

Il metodo è davvero meno complicato? L’imprevisto non è la differenza fra l’attuale ed il futuro; bensì fra il totale reddito futuro e quell’ammontare che nei successivi anni avvenire sarà uguale alla somma dei seguenti elementi:

 

 

a)    il reddito (x) attualmente esistente, prima dell’imposta, tradotto nell’equivalente di potenza d’acquisto dei successivi anni avvenire. Se il reddito attuale è 50 lire e se questo è l’ammontare che non è sovrappiù e non è quindi imponibile dall’imposta di cui si discorre, non basta in avvenire sottrarre 50 lire, ma fa d’uopo sottrarre quella qualunque somma la quale nei successivi anni sia l’equivalente delle soddisfazioni che oggi gli uomini possono procurarsi con 50 lire. Basta enunciare l’esigenza, perché si veda la impossibilità concreta della sua traduzione logica in termini monetari. Che cosa è un equivalente quando gli uomini i quali dovrebbero paragonare monete, potenze d’acquisto e soddisfazioni sono diversi e, col trascorrere degli anni, diventano sempre più dissimili?

 

b)    il reddito futuro (y) attualmente previsto è già capitalizzato nel prezzo capitale attuale. Oltre agli insolubili problemi sovra posti, dovrebbe essere risoluto quello di sapere se il prezzo attuale 1000 si riferisca alle sole 50 lire del reddito attuale od anche a qualcosa d’altro. Ossia: quale saggio di interesse fu adoperato per capitalizzare i redditi attuali? Alto o basso per tener conto di rischi o speranze presunte? Che cosa vuol dire alto e basso e qual è l’archetipo saggio a cui occorra paragonare i saggi effettivi?

 

c)    il reddito degli investimenti compiuti dopo il momento iniziale nella terra: migliorie agricole e costruzioni edilizie. Chi pensa, senza rabbrividire, alla contabilità che sarebbe necessario di impiantare per tener conto degli investimenti e relativi deperimenti od ammortamenti?

 

 

Puro abracadabra, sollazzo intellettuale di progettisti finanziari, con cui l’uomo di governo sensato e preoccupato di portar denari e non chiacchiere all’erario non può volere aver nulla da spartire. Meglio l’avventura dell’espropriazione e conseguente gestione statale di tutta la terra del paese piuttosto che una tassazione che instaurerebbe l’arbitrio più sfrenato quando, per lassitudine degli esecutori, non si convertisse in una burletta. L’avventura finirebbe ben presto, come sono finite avventure di questo tipo, in un atto di forza dei proprietari espropriati ridivenuti proprietari soggetti solo all’onere del pagamento di un fitto, col tempo divenuto riscattabile a guisa di un canone enfiteutico. Meglio l’atto di forza che il rischio dell’arbitrio tributario.

 

 

74. Resta il sovrappiù oltre un minimo. Dissi già che non si sa che cosa sia il minimo; ossia non si può sapere quando ad una qualunque quantità, grossa o piccola, faccia difetto l’attributo del necessario, che è aggettivo sinonimo a quello di minimo.

 

 

Il concetto di un minimo intassabile, al disopra di cui comincerebbe il sovrappiù, non è però soltanto indefinibile e quindi inservibile. Vi ha di più. I concetti indefinibili, quando sono fatti strumenti di governo economico, creano rovine e distruzioni.

 

 

75. Il legislatore, quando durante la guerra ha dovuto definire il minimo, è stato costretto a cercare una formula semplice chiara. L’imposta non può essere prelevata con formule nebulose complicate. Bisogna trovare una linea netta di distinzione fra quel che rimane al contribuente e quel che spetta allo stato.

 

 

I legislatori, con commovente unanimità, decisero che il sovraprofitto tassabile od avocabile fosse l’eccedenza oltre una percentuale, suppongasi 18%, del capitale investito.

 

 

Taluni aggiunsero che se l’impresa era preesistente alla guerra, fosse considerato ordinario o minimo intassabile il già guadagnato prima. L’aggiunta, che recò con sé talvolta diaboliche complicazioni, può essere trascurata nell’analisi di un sistema permanente di tassazione sui sovrappiù, perché nessuna impresa è perpetua. Ogni cosa vecchia è destinata a scomparire, se giorno per giorno non è ricostruita.

 

 

In capo ad x anni tutto il capitale investito è nuovo e può essere trattato alla stessa stregua dall’imposta.

 

 

76. Lasciamo da parte le complicazioni, anch’esse diaboliche, della definizione del capitale investito, sebbene capaci di mandare a picco qualunque sistema concreto di imposta; perché è bene andar subito al nocciolo del problema e badare solo a questo.[6]

 

 

Il nocciolo è che definire sovrappiù l’eccedenza oltre l’8% del capitale investito è andar contro non solo ad una fondamentale legge economica ma ad una fondamentale legge cosmica. Vuol dire essere falso che gli uomini debbono ottenere il massimo risultato con un dato sforzo o compiere il minimo sforzo per ottenere un dato risultato e vero che invece gli uomini debbono agire in modo da compiere il massimo sforzo per ottenere il risultato voluto od ottenere il risultato minimo con lo sforzo dato.

 

 

L’imposta la quale esenta colui il quale guadagna solo l’8% e colpisce colui il quale guadagna di più, portandogli via tutto o parte dei sovrappiù, dice all’uomo: tu fai male ad organizzare con sapienza tecnica, con abilità commerciale, con esperienza di uomini la tua impresa, ottenendo un massimo profitto dal capitale che hai investito. Hai operato male ad ottenere 10, 16 o 20 dalle tue 100 lire. Importa invece che tu non ottenga più di 8; e se non puoi, perché il tuo genio organizzatore, la tua capacità tecnica e commerciale ti fanno guadagnare contro voglia 10, 16, 20 tu devi sforzarti ed io creo interesse a che tu ti sforzi ad aumentare il capitale investito da 100 a 125 a 200 od a 250 affinché il 10, il 16 ed il 20 guadagnato che, paragonato a 100, darebbe luogo a percentuali del 10, del 16 o del 20%, ossia a sovrappiù tassabili del 2, dell’8 e del 12%, paragonato invece a 125, a 200 od a 250 non superi l’8% che è il minimo intassabile.

 

 

77. Pare uno scherzo; ma in tutto il mondo, i legislatori, divenuti d’un tratto inetti al ragionamento, pretesero mutare nel tempo della guerra ultima le leggi del cosmo e predicarono, colla virtù del comando tributario, la dottrina del massimo sforzo, dell’investimento per l’investimento, dello spreco di capitali. Forse è difficile rintracciare negli annali tributari un esempio di norma così entusiasticamente approvata e così follemente distruttiva. La fine della guerra segnò, per avventura, il tramonto dell’imposta; non la fine dei danni da essa prodotti. Risalgono a quell’epoca le dilapidazioni del reddito – sovrappiù in stipendi e paghe che montarono la testa a dirigenti ed operai, creando nei primi la psicologia dell’arrembaggio alle rapide fortune e nei secondi la mala contentezza propria di chi vede inopinatamente crescere i proprii guadagni e, mentre prima era contento del poco, ora paragona invidiosamente il proprio di più col maggior di più altrui. Perché non dilapidare quel sovrappiù che sarebbe altrimenti stato prelevato dal tributo? Risalgono a quell’epoca gli investimenti dei guadagni di guerra in impianti superflui, in doppioni, in allargamenti, che furono tanta parte nella lunga crisi che venne di poi. Perché non investire in doppioni, in impianti nuovi quando in tal modo si abbassava la proporzione percentuale del reddito al capitale investito e si sottraeva reddito al tributo?

 

 

I risultati economicamente e socialmente spaventevoli dell’imposta sui sopraprofitti di guerra spiegano le tendenze odierne, a cui sopra si accennò, le quali mirano a sopprimere, non a tassare, i guadagni di guerra, e dimostrano come non si possano impunemente violare le leggi fondamentali dell’operare umano. Al comandamento divino: tu ti procurerai il pane col sudore della fronte, non si può aggiungere: tu devi ad arte lavorare in modo sia abbondante il sudore della tua fronte e che il pane che tu guadagnerai con esso sia scarso e cattivo.

 

 

Dio, che è buono, non può aver dato all’uomo comando così inutilmente malvagio.

 

 

Il legislatore, il quale deve tradurre in norme obbligatorie la parola di Dio, non può prendere a guida un principio che è un’offesa all’invincibile tendenza degli uomini al loro perfezionamento. Non può dire: se tu sei pecora e secondo l’uso delle pecore fai quel che le altre fanno, non ti tasserò. Se tu ambisci e cerchi di sollevarti dal volgo e non riesci, non ti tasserò. Ma se tu ti sollevi e voli, farò quanto mi sarà possibile per raggiungerti a colpi d’imposta e farti ricadere nel fango comune.

 

 



[1] Nel saggio Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema d’imposte sul reddito consumato, in Memorie della reale accademia delle scienze di Torino, serie II, tomo LXIII (cap. IX, prova seconda);

ristampato come saggio primo nel volume Saggi sul risparmio e l’imposta, in queste Opere, serie I, vol. I.

[2] Vedi la critica che dell’imposta successoria ha efficacemente scritto Mauro Fasiani in Problemi tributari inglesi, in «Annali di economia», Università Bocconi, Milano, vol.X, n. 2, par. 10.

[3] Oggi si afferma l’esistenza di un secondo caso, negli Urali russi. Che cosa accada in verità in Russia, noi non sappiamo; essendo ignote le basi dei calcoli di costi e di convenienza di quei singolari tipi di imprenditori che sono i comunisti.

[4] La municipalisation du sol dans les grandes villes, in «Devenir Social» del gennaio-febbraio 1898.

[5] L’imposta sulle aree edilizie, in «La Riforma Sociale», 1900, p. 757 e Questioni intorno all’imposta sulle aree edilizie, ibid., 1900, p.890.

[6] Sui problemi concreti nascenti dall’applicazione dell’imposta sui sopraprofitti di guerra discorsi a lungo nel cap. IV (pp. 129-230) di un mio libro La guerra e il sistema tributario italiano che fa parte della serie italiana della «Storia economica e sociale della guerra mondiale», Laterza, Bari 1927.

Il mito dei doppi d’imposta

Il mito dei doppi d’imposta

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 38-60

 

 

 

 

19. I doppi di imposta: ecco, dopo quella dei fantasmi, un’altra ossessionante comparsa propria della scena finanziaria. Così ossessionante, che i più la vedono dove essa in realtà non esiste.

 

 

20. È forse un doppio d’imposta l’essere chiamati a pagare all’erario dello stato prima l’imposta sui terreni e poi quella complementare sul reddito, e poi ancora i balzelli sui beni di consumo acquistati con lo stesso reddito? Mai no, perché il legislatore ha piena ragione di prelevare 100 lire ad un sol colpo, ovvero spezzettarne il pagamento in tre o n quote, chiamando l’una imposta sul reddito dei terreni, l’altra imposta complementare sul reddito e la terza, o l’insieme delle terze, imposte sui diversi beni di consumo tabacchi sale pane gas luce caffè spiriti vetture ecc. ecc. acquistati dal contribuente. Qui non v’ha doppio; bensì mero frazionamento fra parecchi titoli di prelievo di un unico carico di imposta, frazionamento voluto per comodità della finanza ed a più agevole allettamento a pagare del contribuente. Colui, il quale si inquieterebbe se gli si chiedesse 100 sol perché egli è proprietario di fondo rustico, meglio si contenta se per tal ragione gli si chieggono solo 30 lire, laddove altre 20 gli son chieste perché ha un dato reddito complessivo da spendere e 50 perché le ha spese nel rifornirsi di tali e tali altri beni. Per questi ultimi egli ha persino l’illusione che, se avesse voluto, egli avrebbe potuto astenersi dal consumo e quindi dall’imposta.

 

 

21. Non è parimenti un doppio il pagare, per lo stesso titolo, ad esempio di possesso di terreni, imposta allo stato, alla provincia, al comune, al consorzio irrigatorio o stradale, all’associazione sindacale, all’istituto di assicurazione per gli infortuni agricoli ecc. ecc. È forse un doppio provvedere, con lo stesso reddito, ai ricevuti dal fornaio, dal macellaio, dal sarto, dal calzolaio, dal padron di casa e via senza fine dicendo? Per la stessa ragione, non è un doppio provvedere a pagare, con quell’unico reddito, con il quale si acquistano a decine od a centinaia i desiderati beni privati, anche i servigi diversi delle varie qualità di enti pubblici, i quali hanno diritto d’imposta. Lo stato provvede alle vie di grande comunicazione; la provincia a quelle intercomunali, il comune a quelle estese al territorio comunale, il consorzio alla piccola strada vicinale. Perché non si dovrebbe pagare tributo ai quattro enti?

 

 

22. Taluno si lamenta di doppi interstatali. Ma, ragionando in logica pura, perché Tizio il quale possiede beni in Argentina e ne consuma il reddito in Italia, non dovrebbe pagar imposta in ambi i paesi? Lo stato argentino non rende forse servizio a lui come proprietario di beni e lo stato italiano di nuovo a lui come residente?

 

 

23. La parola «doppio» è qui usata impropriamente. In verità, i contribuenti non si lamentano del «doppio», bensì del «troppo». Essi talvolta sentono di pagare più di quanto gli enti tassatori danno a lui come singolo e come membro della collettività; e, per manco di analisi, protestano contro i molti che lo spogliano. Potrebbe essere uno solo l’ente tassatore, e la querela sarebbe valida se il tributo fosse eccessivo. Non importa se il 100 sia frazionato in tre o quattro o più quote singole; importa assai se il 100 sia moderato od eccessivo. Il problema vero è di valutazione comparativa delle spese ed entrate pubbliche distintamente per ciascun ente tassatore e nel loro complesso, non di conteggio del numero degli appelli diversi fatti alla borsa del contribuente. Il conteggio degli appelli ha importanza notabile; non razionale, ma empirica. E più agevole eccedere, quando, invece di domandare al contribuente una somma data, 100, in unica soluzione, gli si chieggono, a varii titoli, da enti diversi ed in momenti diversi, parecchie quantità minori, 10, 20, 15 e così via. Accade che il totale ecceda agevolmente il 100 e diventi eccessivo.

 

 

24. La ricerca del vero doppio è assai più sottile ed è un lavorio logico fondato sull’accettazione di determinate premesse. Il doppio esiste o non esiste a seconda della fatta premessa.

 

 

25. Suppongasi che l’imposta debba essere pagata dalla «cosa», da tutte le «cose» produttive di reddito, senza riguardo alla persona del possessore della cosa ovverosia del percettore del reddito. Sia un fondo rustico, fecondo di un reddito netto di 5000 lire, su cui l’imposta del 20% preleva 1000 lire. Sia un capitale di 50000 lire dato a mutuo al 4%, con ipoteca sul fondo rustico di dianzi e fruttifero di un reddito di 2000 lire, su cui, al 20%, cade imposta di 400 lire. Poiché, secondo la premessa fatta, l’imposta è pagata dalla cosa, qui non v’ha doppio. Il fondo rustico frutta, sì o no, 5000 lire nette? Dalla «cosa» fondo non nasce forse il frutto annuo di 5000 lire? Non è quel nascimento un fatto oggettivo, visibile anche cogli occhi del corpo? Sì. Epperciò l’imposta di 1000 lire è dovuta. Il mutuo non è anch’esso una «cosa» produttiva di un frutto civile di 2000 lire nette all’anno? Può dubitarsi che quel frutto di interesse non sorga da quella causa produttrice «mutuo»? No. Quindi, al 20%, l’imposta 400 è anch’essa fuor d’ogni dubbio dovuta.

 

 

26. Suppongasi ora che l’imposta sia dovuta dalla persona del possessore della cosa: da Tizio proprietario del fondo rustico e da Caio proprietario del capitale fornito a mutuo a Tizio. Mutata la premessa, mutano le conseguenze. La terra paga imposta per quel che frutta, 5000 lire; Tizio paga su quel che ha, che sono 5000 tratte dalla terra meno 2000 interesse dovuto al capitalista suo creditore. Sarebbe assurdo che egli fosse chiamato a pagare sulle 2000 lire, le quali gli scivolano, in fuga, tra le dita senza recargli alcun giovamento. Al 20% l’imposta dovuta sulle 3000 lire sue è di 600 lire. Caio riceve e gode 2000 lire di interesse e su queste, al 20%, è ovvio debba pagare 400 lire.

 

 

27. La differenza fra i due sistemi, l’uno dei quali nei trattati di pubblica finanza è invalsa l’abitudine di dire «reale» e l’altro «personale», può essere riassunta così:

 

 

 

 

A

Sistema

reale

 

 

Reddito

 netto

Aliquota

Gettito

 Della

 imposta

Fondo rustico

5000

20%

1000

Mutuo

2000

7000

20%

400

1400

 

        Sistema personale  
 

Reddito

netto

 

B

Ad aliquota

invariata

   

C

A gettito invariato

 
   

%

 

Gettito
della
imposta

%

 

Gettito
della
imposta

Tizio, proprietario del fondo rustico

 

3000

20

600

28

840

Caio, capitalista mutuante

2000

5000

 

20

400

1000

28

560

1400

 

D

Sistema reale, modificato coll’eliminazione della finzione

 di un «nuovo» reddito di mutuo

 

 

Reddito netto

 

Aliquota

Gettito

della
imposta

Reddito rimasto al proprietario

3000

28%

840

Reddito trasferito, gravato della relativa imposta, al mutuante

2000

28%

560

Reddito totale del fondo

5000

28%

1400

 

 

Mantenendo costante l’aliquota del 20% il gettito dell’imposta si riduce nel sistema personale a 1000 lire. Volendo conservare il gettito in 1400 lire si deve aumentare l’aliquota al 28%. Se per maggiore chiarezza, si fa il confronto tra i due sistemi A e C a gettito uguale, si vede che la differenza consiste in una diversa distribuzione del peso dell’imposta. A parità di incasso dell’erario in 1400 lire, è preferibile attribuirne 1000 al fondo e 400 al mutuo ovvero 840 al proprietario rustico e 560 al capitalista mutuante?

 

 

28. La ragione del decidere si trova guardando in faccia alla realtà. Un «sistema», sia detto reale ovvero personale, è una definizione, un’ipotesi, uno strumento di analisi della realtà. Definizioni, ipotesi, strumenti sono preziosi per la ricerca della verità; ma non devono imporsi alla nostra mente in guisa da farci arrivare a conclusioni assurde.

 

 

Perché la conclusione a cui giunge il sistema «personale»ci appare, quasi per evidenza, preferibile? Perché esso non urta contro la osservazione semplice della realtà. Noi sappiamo che Tizio riceve bensì 5000 lire di reddito, ma di queste 2000 sono subito date via, sicché egli rimane con 3000. Tassarlo su 5000 perché l’oggetto tassato è il fondo rustico, significa far passare la «definizione», il «sistema» al di sopra della realtà, del fatto oggettivo quale è. Ripugna tassare prima 5000 reddito terriero e poi anche 2000 reddito del mutuo, perché ciò fa quasi supporre che nella realtà esista un reddito totale di 7000 lire, laddove noi sappiamo che quel reddito non esiste, che quella operazione di addizione  è assurda, perché l’uno degli addendi, 2000, è parte dell’altro, è cavato fuori dall’altro.

 

 

Giuocoforza è riconoscere che, se si vuole adottare, per qualche ottima ragione che qui non occorre esaminare, il sistema «reale», importa far sì che il «sistema» adottato non porti all’errore, all’incongruenza logica sostanziale. Analizzando, si scopre che la cosa mutuo ha ragione di possedere, a certi fini, una autonomia necessaria «a quei fini» non ha la virtù di mutare la fisionomia propria, una figura giuridica autonoma; ma che la «realtà». L’autonomia della cosa mutuo giova a far passare 2000, delle 5000 lire fruttate al netto dal fondo rustico, dal possesso e godimento di Tizio al possesso e godimento di Caio; ma non serve a creare, accanto al reddito terriero di 5000 lire, un nuovo addizionale reddito di 2000 del mutuo. La creazione, necessaria, della figura giuridica della «cosa» mutuo giova a spezzare il totale effettivo reddito di 5000 in due parti 3000 spettanti al proprietario e 2000 al creditore; ma non serve alla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il reddito era di 5000 prima e resta di 5000 dopo il mutuo. La somma 5000 + 2000 = 7000 non si può scrivere, perché illecita.[1] Il risultato dell’operazione ne dimostra la illogicità. Con quale argomentazione, all’infuori di quella del sic volo sic jubeo, si può spiegare nel sistema reale una divisione del totale fabbisogno statale di 1400 lire nelle due quote: 1000 gravanti su chi ha 3000 e 400 su chi ha 2000 lire? La virtù della formula la forme prime le fond trova un limite nell’offesa al senso comune. Non possiamo fare della «realtà» dell’imposta un feticcio da porre sugli altari. È uno strumento, utile nei limiti suoi proprii.

 

 

Se si vuole conservare il sistema reale – ed io sono per la sua conservazione – nulla vieta (sistema D) di far pagare l’imposta, tutta intiera, al fondo rustico in 1400 lire; dando diritto al proprietario di esso di rivalersi sul creditore del mutuo per la quota parte (560 lire), spettante al mutuo proporzionatamente all’importanza rispettiva in cui il reddito del mutuante e quello residuo a favore del proprietario entrano a comporre l’unico reddito totale di 5000 lire. Questa cifra – 5000 lire – è la realtà infrangibile della quale ogni sistema, qualunque siano la sua definizione e la sua logica formale, deve tener conto. La logica formale definitoria deve piegarsi dinnanzi alla realtà.

 

 

29. A questo punto possiamo spiegarci in che consista veramente e solamente il doppio d’imposta. Il doppio non sorge quando si paga due volte sullo stesso reddito, o a due enti diversi. Qui, forse, c’è il troppo. Il doppio sorge quando le mort saisit le vif, quando la forme prime le fond, quando la logica formale si sovrappone alla logica sostanziale, quando il legislatore si lascia trascinare dalla logica apparente di una definizione, di un sistema, di uno strumento ad immaginare la esistenza di un qualche cosa che non esiste nella realtà o, se esiste, ha dimensioni minori di quelle immaginate. Il troppo può essere imposto dalla necessità ed essere consaputamente ragionatamente voluto. Il doppio è figlio dell’errore. Anche l’errore può essere voluto; ma è voluto finché non si scopre essere errore. Il legislatore può immaginare che le 2000 lire reddito del mutuo siano una quantità addizionabile alle 5000 reddito del fondo rustico, per ottenere una materia imponibile totale 7000 ma non può mai fare che le 7000 lire esistano sul serio. Finché il legislatore dice: intendo prelevare 1400 invece di 1000 lire sulle 5000 lire di reddito totale esistente, dice cosa che è in poter suo ordinare. Così facendo, egli eleva l’aliquota dell’imposta dal 20 al 28%. Ma non è in poter suo dire: Voglio incassare 1400 lire e mantener l’aliquota al 20%; perché egli non può far sì che il 20% di 5000 sia 1400 lire, né che le 5000 si convertano in 7000 lire. Se vuole mantenere l’aliquota del 20%, il gettito totale dell’imposta in lire 1400 e configurare un reddito totale di 7000 lire, il risultato ottenuto sarà soltanto di prelevare 1000 lire sulle 3000 residuate al proprietario del fondo rustico (aliquota reale 33 e 1/3 %) e 400 lire sulle 2000 passate al creditore (aliquota reale 20%).

 

 

Forse, invece di doppio d’imposta, si potrebbe parlare di un incongruo od illogico d’imposta; ma l’uso della parola «doppio» è anche appropriato perché giova a far vedere che a base dell’errore sta un gioco visivo per cui lo stesso reddito, la stessa cosa, mutato aspetto, compare dinnanzi agli occhi del legislatore due o più volte, facendogli scambiare un fantasma giuridico per una realtà sostanziale.

 

 

30. Quando il legislatore vede doppio, il contribuente cerca di creare la nebbia intorno a sé. Quale è la ragione per la quale la categoria A dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile[2] è la meno produttiva fra le categorie in cui si divide quella colonna maestra del nostro ordinamento tributario? Si sono moltiplicate le esenzioni a favore degli interessi delle cartelle di credito fondiario ed agrario, di assai obbligazioni emesse da società industriali, di mutui concessi ad enti e per scopi svariatissimi. Formalmente, i motivi dell’esenzione sono particolari ad ogni caso; sostanzialmente si riconosce di fatto quel che non si vuole ammettere in diritto, essere cioè vano irrito e dannoso pretendere di tassare sotto la forma propria di interessi di mutuo quel che è già tassato sott’altra forma, incluso in qualche altro reddito, a cui non si concede la corrispondente detrazione. Se il doppio non esiste, o non è facile scoprirlo, come per i titoli di debito pubblico, statale e locale, si esenta, perché (cfr. sopra par. 5) la tassazione sarebbe cagione alla pubblica finanza, di più grave danno o di minor beneficio dell’esenzione.

 

 

L’esenzione è uno spediente col quale si eliminano doppi e fantasmi tributari. Se esenzione non v’ha, il contribuente si nasconde: preferisce il mutuo cambiario, il chirografario non registrato all’ipotecario pubblico. Esiste formalmente la frode fiscale; ma ad eliminarla non converrebbe che prima il legislatore eliminasse i doppi, che i contribuenti sentono anche quando non sanno chiaramente rendersene ragione? A che titolo paga quel piccolo ammontare (piccolo in confronto alla gran massa degli interessi esenti o non tassati) di interessi la quale cade entro le maglie della tassazione? Anche a chi non voglia tentare una analisi della traslazione dell’imposta sugli interessi dei capitali, appare evidente che la imposta limitata alla minor parte degli interessi esistenti è un qualcosa la cui parentela con una imposta la quale veramente colpisca ed incida sui percettori degli interessi è assai vaga. Colpisce costoro o non piuttosto penalizza i debitori? In che misura il saggio di interesse dei capitali nuovi si risente della tassazione che si verifica solo per accidente o per sfortuna? Quei debitori, di solito disgraziati incapaci di ricorrere a forniture di capitali esenti da tributo, sono le persone più atte a sopportare un carico differenziale di imposta? Val la pena risolvere così sottili quesiti per ridare linfa vitale a quello che oramai e divenuto un ramo secco dell’albero tributario? Non forse la A è meritevole della stessa sorte che abbiamo augurato alla categoria D dei pubblici impiegati, ossia il taglio netto del ramo secco?

 

 

31. Talvolta il doppio di imposta è grossolano ed a tutti apparente; talvolta è sottile e nascosto. Forse il doppio più grossolano è quello della ricomparsa dello stesso reddito prima sotto specie di reddito della società commerciale (categoria B della italiana imposta di ricchezza mobile) e poi di reddito degli azionisti della stessa società.

 

 

Naturalmente, non è un doppio il tassare il reddito della società coll’imposta di ricchezza mobile e poi il reddito degli azionisti coll’imposta complementare sul reddito. Qui sono due imposte diverse ed ognuna di esse tassa una sola volta lo stesso reddito, la prima sotto una specie e l’altra sotto un’altra.

 

 

Non è, parimenti, un doppio tassare prima il reddito della società e poi, di nuovo, quella parte del reddito che sia distribuito alle azioni al portatore. Ché questa seconda non è vera imposta, bensì espediente immaginato allo scopo di persuadere gli azionisti ad iscrivere le proprie azioni al nome; cosa che il legislatore può giudicare vantaggiosa alla finanza per il più facile accertamento dei redditi e dei patrimoni ai fini, in Italia, delle due imposte personali dette complementare sul reddito o di successione. Il fine voluto dal legislatore sarebbe raggiunto quando tutti i titoli fossero iscritti al nome e non esistessero più titoli al portatore sui quali la seconda imposta potesse cadere.[3]

 

 

Non è, anche, un doppio tassare prima il reddito della società e poi, a volta a volta, la quota di esso distribuita agli azionisti al disopra di un certo livello di dividendo definito «normale» (Italia e Germania), ovvero la quota mandata a riserva (Stati Uniti). Nel primo caso il legislatore vuole persuadere gli amministratori a crescere le riserve, nel secondo a tenerle basse. Qui non giova discutere il perché di cosiffatte contrastanti ideologie economiche; basti contrastare che se gli amministratori seguono il consiglio del legislatore, mandando nel primo caso tutto l’utile eccedente il normale a riserva, ovvero, nel caso opposto, distribuendolo tutto, senza mandare nulla a riserva, essi non pagano la seconda imposta.

 

 

L’imposta sui redditi dei titoli al portatore, se si esentino i titoli nominativi, quella sui dividendi eccedenti, se si esentino gli utili mandati a riserva e quella sugli utili mandati a riserva, se si esentino gli utili distribuiti, non sono imposte propriamente dette del tipo ordinario intese a fornire entrate all’erario pubblico; sono imposte multe od imposte premio, le quali vogliono incitare gli uomini a fare o non fare qualcosa, senza preoccupazione di un qualsiasi provento per l’erario, anzi con il dichiarato e tacito scopo di non fruttar nulla al fisco.

 

 

Il doppio vi sarebbe – ed in talun paese c’è – se la stessa imposta tassasse prima il milione di reddito della società e poi lo stesso milione diviso in quote di 50 lire l’una distribuite ai portatori di ognuna delle 20000 azioni della società; argomentando unicamente dal fatto che la società commerciale è una persona distinta dalle persone dei soci; e che quindi prima la persona società riceve il reddito e poi ne fa quell’uso che più le aggrada, fra cui si novera talvolta la distribuzione ad altre persone dette azionisti, fornite perciò anch’esse di reddito tassabile. La goffaggine dell’argomentazione sarebbe troppo grossa, essendo chiaro che la creazione di una persona detta «società commerciale» può essere legittima a certi fini, ma non ha in sé la virtù di trasformare in due milioni il reddito che, si creino quante persone si vogliano, è di un solo milione. Si può tassare un milione due volte, ma non si può pretendere, con un colpo di bacchetta magica, che i milioni diventino due. Perciò alla troppo goffa argomentazione della sufficienza della creazione di una o due o più persone a legittimare una o due o più tassazioni supplementari, se ne sostituisce di solito un’altra: che il produrre milioni di reddito sia una faccenda non so se più comoda o più fina, certo più passibile di imposta quando è affare di certe persone giuridiche dette società commerciali che non quando è affar di privati. Badisi che non si dice né si vuole o si può dire che la società fabbrichi, a parità di sforzi o di capitali o di altro indice assunto a norma del merito, più facilmente milioni del privato, poiché l’argomento complicherebbe stranamente il problema. Il legislatore può avere già ammesso, per motivi buoni o cattivi, che, se 1 milione deve essere tassato col 20%, 2 milioni debbono essere tassati col 40%. L’ha ammesso, eventualmente, per tutti i contribuenti, privati o società commerciali. Qui si aggiunge, in più, ed è il solo punto da esaminare, che se due contribuenti, industriale singolo e società commerciale, hanno ambedue lucrato un milione, il milione del privato deve essere tassato come uno ed invece il milione della società deve essere tassato come due. Il pretesto addotto – il milione unico passa attraverso due persone distinte, società e azionista – è pacificamente ammesso essere un errore di doppia vista; pur si afferma che, al disotto del miraggio del doppio, esiste un vero: il milione è guadagnato più agevolmente dalla società che dal singolo.

 

 

32. Come si dimostri tal immaginato vero è ignoto. L’osservazione di buon senso parrebbe portare alla conclusione opposta: che cioè un industriale privato, non imbrogliato da consigli di amministrazione, pareri di colleghi, necessità e pubblicità di bilanci o rendiconti, sia, a parità di mezzi, in grado di guadagnar di più di una società. Se le società guadagnano di più, ciò accade perché sono più grosse, perché accolgono maggior massa di mezzi, perché, essendo più grosse, dominano meglio il mercato e riescono più facilmente ad avvicinarsi a posizioni di monopolio. Ciò tocca il confronto fra i due milioni e l’un milione, non fra l’uno e l’uno, ed a ciò il legislatore, per ipotesi, ha già, bene o male, provveduto, tassando più i due milioni che l’uno, e, tassando già i due più che l’uno, non può far differenza fra il grosso singolo ed il grosso società, se ambedue guadagnano due invece che uno. Se, con ugual capitale o mezzi in genere, taluno guadagna due invece di uno, potrà tal fatto autorizzare talun legislatore a tassare maggiormente il guadagno eccedente, ma non si capisce perché, se il maggior guadagno esiste, esso debba essere tassato solo presso la società e non presso il singolo.[4]

 

 

Che ci siano al mondo paesi, ostrogoti od americani, dove cotali fattacci accadano e dove i soliti azzeccagarbugli abbiano inventato una qualche loro giustificazione non monta. Non basta dire che la società è passibile in se stessa, per la sua dichiarata indole di società, di imposta maggiore di quella propria dei privati, i quali lucrano altrettanto. Non basta dire che la società per azioni ha nel mondo moderno, di alto o di basso, di imperversante o di decadente capitalismo, acquistato siffatta importanza da renderla particolarmente atta a pagare imposte. Tutte queste sono chiacchiere, forse «politiche» se con questo aggettivo vogliamo significare concetti che non si sanno o non si osano manifestare apertamente. Noi chierici abbiamo il dovere intellettuale di sollevare il velo e chiedere: che cosa sta sotto al garbuglio? Qualche volta mera invidia bottegaia verso la grande impresa societaria. Tal altra, astuzia di finanziere che vorrebbe gravare su tutti col 40% e, non osando, infligge un secondo 20% su coloro che possono essere denunciati alla folla come l’incarnazione del capitalismo, la sanguisuga del popolo. Quando si vuol portar via a taluno il doppio dell’ordinario, è facile procacciarsi il plauso dei non colpiti, inventando etichette di infamia per gli spogliati.

 

 

Se si vuol mondare l’imposta sui dividendi dalla taccia di doppio, uopo è che il legislatore francamente dica: a me le società per azioni dispiacciono e piacciono invece le imprese individuali. Perciò tasso il reddito delle prime al doppio di quello delle seconde. L’eccesso dell’imposta nel primo caso diventa imposta multa contro le società anonime e premio a favore delle imprese individuali.

 

 

Ma affermare o lasciar credere che il reddito 100 è passibile di imposta doppia (più alta) solo perché prodotto da una società per azioni invece che da un imprenditore singolo è commettere reato di doppio. Il doppio è connesso con la bugia (uno è uguale a due) o con l’ipocrisia (vedo il due sotto la specie dell’uno). Al chierico non è lecito essere consapevolmente bugiardo od ipocrita.

 

 

Comunque la si rivolti, la tassazione del reddito della società ed, inoltre, degli azionisti è un doppio grossolano, se contemporaneamente l’industriale singolo, a capo di impresa provveduta di uguali mezzi e feconda di ugual reddito è tassato una volta sola. Il doppio esiste non perché il legislatore non possa tassare, se crede, due volte, ma perché esso non tassa due volte tutti coloro i quali si trovano in quella medesima situazione, in virtù di cui uno dei tanti è tassato due volte.

 

 

33. Talvolta, il doppio di imposta non ha origini così tonte. Sottile è la specie del doppio che nasce dalla distinzione fra capitale e reddito. Mevio, negoziante, Inizia l’impresa con 100000 lire. Dapprima il reddito è negativo, sicché per qualche anno Mevio vive consumando parte del fondo iniziale delle 100000 lire; ed anche questa parte, logicamente dal punto di vista suo, è compresa nel capitale dell’impresa. Come questa potrebbe costituirsi e durare, se il fondatore non potesse vivere? Poi, il reddito nasce ed a poco a poco cresce: da 3000 va a 5000, a 6000, a 10000, a 20000 lire. L’imposta (nel sistema italiano di ricchezza mobile, di cat. B) colpisce annualmente le 3000 e poi le 5000 e così via sino alle 20000 lire; e le decurta del 20%. Contemporaneamente Mevio capitalizza il reddito e negli inventari di fine anno calcola quale sarebbe il valor capitale dell’impresa se egli si decidesse a venderla. All’uopo egli usa un saggio di interesse, più alto, ad ipotesi, di quello del 5% che è, in quel tempo e luogo, usato per capitalizzare redditi di capitale puro. Nel caso suo, il reddito è invero frutto di capitale ed insieme di lavoro. Non converrebbe a lui impiegare capitale e lavoro se il frutto fosse quello soltanto ricavabile dal mero impiego di capitale. Suppongasi perciò che il saggio di interesse adoperato per la capitalizzazione del reddito sia del 10%, uguale al moltiplicatore, un tempo dicevasi al denaro dieci. Il calcolo fatto nei tempi successivi dà i seguenti risultati:

 

 

 

Valor capitale dell’impresa al denaro dieci calcolato alla fine di ogni intervallo di tempo sulla base del reddito netto

Intervalli di tempo

Reddito netto durante l’intervallo di tempo contro indicato

Imposta del 20%

sul reddito

Reddito netto depurato dall’imposta

 

depurato dall’imposta

(colonna d)

lordo

di imposta

(colonna b)

a

b

c

d

e

f

I

zero

II

3000

600

2400

24000

30000

III

5000

1000

4000

40000

50000

IV

10000

2000

8000

80000

100000

V

12500

2500

10000

100000

125000

VI

15000

3000

12000

120000

150000

VII

20000

4000

16000

160000

200000

VIII

25000

5000

20000

200000

250000

IX

20000

4000

16000

160000

200000

X

15000

3000

12000

120000

150000

XI

30000

6000

24000

240000

300000

XII

40000

8000

32000

320000

400000

 

 

I tempi considerati possono non essere consecutivi; e sono un intervallo, che qui implicitamente si suppone essere l’anno. I valori capitali sono calcolati alla fine di ogni intervallo, fatta l’ipotesi che il contribuente immagini, come per lo più fanno gli uomini, che l’ultimo reddito conseguito sia destinato a durare in perpetuo. Il calcolo di capitalizzazione è fondato sull’uso del denaro dieci, il quale comprende, oltre all’interesse del capitale e al salario dell’imprenditore, la opportuna quota di rischio.

 

 

Mevio si sforzerà di non vendere l’impresa prima del tempo V, perché egli non vuole liquidare in perdita; e spera, dall’avvio crescente degli affari, di potere, aspettando, ottenere un profitto. Nonostante temporanee crisi, l’impresa prospera. Al tempo XII, Mevio, ancora nel pieno vigore delle forze fisiche ed intellettuali, ma già avanzato negli anni, preferisce non correre il rischio della vecchiaia e della decadenza e vende. Il reddito, netto da tributo, dell’impresa, essendo di lire 32000, egli può alienarla al prezzo capitale di 320000 lire. In confronto delle 100000 spese, Mevio consegue un lucro di 220000 lire.

 

 

Sono le 220000 lire un lucro tassabile alla pari della serie (colonna b) dei redditi crescenti, con qualche passeggero indietreggiamento, da 3000 a 40000 conseguiti da Mevio nei tempi successivi dal I al XII?

 

 

34. La risposta, come molte in finanza, dipende dalla premessa posta dal legislatore.

 

 

Può darsi che questi si preoccupi esclusivamente di constatare quel che esce dall’impresa in ogni successivo intervallo di tempo, ed entra nell’economia del contribuente in aggiunta al rimborso del capitale iniziale versato dall’impresa.

 

 

Se questa è la premessa, è indubitato che Mevio dal momento iniziale a quello terminale incassò redditi netti periodici di 3000, 5000 ecc. sino all’ultimo di 40000 lire; ed alla fine incassò nuovamente lire 320000, deducendo dalle quali le 100000 iniziali investite, risultano guadagnate lire 220000 nette. Perciò è chiaro che, data la fatta premessa, l’imposta deve dapprima colpire, in ogni intervallo di tempo i redditi periodici di 3000, 5000, …sino a 40000 e poi al termine dell’impresa di Mevio le lire 220000 di buona uscita.

 

 

La più parte degli scrittori non dubita che questa sia la sola premessa possibile. Per quanto ho potuto capire, il fondamento della credenza, agli occhi di quegli scrittori inoppugnabile, è unicamente quello stesso che sta a base dell’accettazione delle verità assiomatiche, l’evidenza intuitiva. La credenza appare siffattamente ovvia ed universalmente ammessa che il negarla sembra cosa assurda e contraria all’ordine naturale del mondo.

 

 

35. Esiste tuttavia una qualche differenza fra l’assioma tributario e quelli che comunemente sono accettati come assiomi. La verità che la retta sia la linea più breve congiungente due punti è un assioma sul serio perché realmente gli uomini non saprebbero, comunque ragionassero, concepire la verità del contrario. Invece la premessa che lo stato debba prelevare imposta su tutte le somme le quali entrano nette nell’economia del contribuente in aggiunta al rimborso del capitale investito è una pura affermazione non provata e non provabile. Non basta dire che siffatta norma è giusta od è reputata giusta dai legislatori di tutti o molti tempi o paesi. Si recita così un atto di fede nella parola scritta, nella voce pubblica, nella parola del legislatore. Non si prova nulla. Non affermo che quella premessa sia erronea; ché tutte le premesse di ragionamento sono lecite se ragionate poi correttamente. Affermo che quella non è la sola premessa lecita.

 

 

36. Taluno potrebbe invero partire dalla premessa che l’imposta, voluta dal legislatore nella misura del 20% di ciò che entra nell’economia del contribuente al di là del rimborso del capitale investito, non produca al contribuente un danno superiore al 20%. Badisi che la misura del 20% non ha nulla di sacro. Potrebbe essere del 10 o del 30, a seconda del fabbisogno pubblico calcolato dal legislatore. La premessa dice solo che, qualunque sia la misura del sacrificio fissata dal legislatore, il sacrificio non sia poi, in virtù di qualche misterioso congegno od accadimento, maggiore o minore. Pare, con sopportazione degli scrittori aderenti all’opinione corrente, che anche questa sia una premessa lecita. Sembra anzi assiomatico ammettere che se il legislatore vuole bianco non voglia invece nero; se vuole 20 non voglia 30.

 

 

37. Orbene, è certo che la soluzione corrente viola la premessa. Non si discute dell’imposta (col. c) la quale colpisce i redditi ottenuti negli intervalli successivi di tempo (col. b). Essa è, ineccepibilmente, riscossa nella misura del 20% voluta dal legislatore. Ma l’imposta, di 44000 lire riscossa sul guadagno finale di 220000 lire, differenza fra la buona uscita di 320000 lire e il capitale investito di 100000 lire? Aritmeticamente, 44000 lire sono il 20% di 220000 lire. Mevio non subisce tuttavia, per fatto dell’imposta, un danno assai maggiore?

 

 

Guardisi all’ultimo rigo delle due ultime colonne. La buona uscita è di fatto di 320000 lire perché il mercato capitalizza al 10% (denaro o moltiplico io) il reddito di 32000 lire già depurato dall’imposta annua periodica. Se, però, l’imposta annua del 20% non esistesse, Mevio non solo otterrebbe un reddito di 40000 invece di quello di 32000 lire, ma potrebbe vendere l’impresa al prezzo di 400000 lire (col. f) invece che a quello di 320000 lire (col. e). Quindi l’imposta, cosidetta del 20% e voluta dal legislatore nella misura del 20%, in verità arreca a Mevio, rispetto all’eventuale guadagno di buona uscita, un danno assai maggiore. Così:

 

 

Valor capitale dell’impresa alla fine dell’intervallo di tempo XII che sarebbe stato ottenuto se non fosse esistita l’imposta del 20% sui redditi annui

Lire 400000

 

Valore capitale effettivamente ottenuto nel medesimo momento, esistendo la sovradetta imposta

320000

 

Danno subito dal contribuente a causa dell’imposta

 80000

 

Imposta del 20% pagata sulla differenza fra il

prezzo di buona uscita ed il capitale investito

44000

Totale danno del contribuente

124000

 

 

 

Qualunque siano i termini ai quali si voglia raffrontare il danno di 124000 lire subito dal contribuente, siano le 220000 effettivamente guadagnate o le 300000 (400000 prezzo di vendita in caso di assenza di imposta, meno le solite 100000 investite), la percentuale del gravame non è quella del 20% voluta dal legislatore, ma un’altra: del 56,36% se il ragguaglio si fa sulle 220000, o del 41,33%, se il ragguaglio si fa sulle 300000 lire. Perché il 56,36% o il 41,33% od una qualunque altra proporzione a scelta invece del 20% voluto dal legislatore?

 

 

38. Il perché non esiste, non essendoci perché atti a spiegare fatti incongrui. Ma la spiegazione dell’incongruenza è ovvia. Coloro i quali pongono la premessa corrente cadono nell’errore di credere che reddito e capitale siano non solo entità formalmente«distinte», che è premessa lecita del discorrere chiaramente, ma inoltre diverse ed «aggiuntive» l’una all’altra, che è affermazione arbitraria e grottesca. Perché esisterebbe, alla fine del tempo XII, un capitale di lire 400000 se non ci fosse imposta e perché, data l’imposta esiste invece un capitale di 320000 lire? La risposta è nota: in assenza di imposta, dinnanzi agli occhi del possessore e dell’eventuale acquirente dell’impresa si profilerebbe una serie infinita di redditi annui di 400000, ed invece, data l’imposta, la serie è soltanto di 32000 lire all’anno. Le due cose, capitale e reddito, non sono soltanto l’una in funzione dell’altra, ma sono due facce della stessa cosa, sono la medesima cosa riguardata da due punti di vista diversi. Se badiamo alle 40000 od alle 32000 lire annue future noi diciamo di vedere «reddito»; se accorciamo quelle visioni del futuro e le concentriamo, per così dire, nel momento presente, noi diciamo di vedere «capitale». Ma vediamo sempre la medesima cosa. L’imposta di 8000 lire annue che colpisce le 40000 e le riduce a 32000 lire annue colpisce nel medesimo istante il capitale; scorciando il reddito da 40000 a 32000, scorcia il capitale da 400000 a 320000. L’imposta che colpisca l’un nome della cosa colpisce ipso facto l’altro nome della stessa cosa. Un’imposta del 20% sul reddito è anche un’imposta del 20% sul capitale; e viceversa un’imposta sul capitale è un’uguale imposta sul reddito. Immaginare di poter stabilire un’imposta sul reddito o sul capitale senza che essa sia (dicesi sia e non si ripercota) altresì un’imposta sul capitale o sul reddito è illusione infantile.

 

 

39. Rispetto grandemente coloro che ritengono essere le 320000 lire capitali una entità diversa dalle lire 40000 reddito; ma sarebbe bene che essi chiarissero in che cosa consiste l’affermata diversità, e come quella eventuale diversità basti a spiegare le due tassazioni separate ed aggiuntive. Frattanto resta vero che capitale e reddito sono due entità o concetti forniti delle seguenti curiose proprietà : – se l’una scompare o varia, l’altra scompare o varia nello stesso senso;[5] – l’una non può essere goduta senza rinunciare al godimento dell’altra. Se si vuole godere il reddito, non si può anche ed inoltre godere il capitale; se si vuol godere il capitale non si può altresì godere il reddito; – l’una non può essere falcidiata dall’imposta senza che automaticamente l’altra non sia altresì falcidiata.

 

 

Dinanzi alle quali constatazioni di fatto non è stato possibile a coloro che sostengono doversi, dopo la riduzione delle 400000 a 320000, tassare ancora quel che nelle 320000 vi è in aggiunta alle 100000 investite, continuare a ripetere assiomaticamente: «dio ha comandato che dovesse esser tassato tutto ciò che in ogni successivo momento entra di nuovo nell’economia del contribuente»; perché anche i pappagalli, i quali non siano resi ottusi dalla predicazione secolare delle medesime parole senza senso, hanno la vaga impressione che dei comandamenti divini occorra nella piatta materia finanziaria rendersi conto. Gli ordini di dio o del legislatore entrano nel cuore degli uomini colla persuasione dell’evidenza o della ragione. Come sperare, tuttavia, ragionamenti dai cocoriti i quali da trent’anni mi rinfacciano, ogni volta che tiro fuori questa faccenda dei veri doppi d’imposta, l’offesa a dio il quale ordinò che base sola unica immarcescibile perpetua dell’imposta sia quanto, in ogni successivo intervallo di tempo, entra nell’economia del contribuente in aggiunta al capitale iniziale versato? Verrebbe la voglia di scalpellare il cranio dei ripetitori per vedere come è fatto un cervello inetto a capire che qualunque premessa definizione proposizione (come dire?) è arbitraria provvisoria valida solo nei limiti della sua utilità ragionarci sopra ed a trarne conseguenze. È o non è vero che dall’una definizione nascono gravami di tributo differenti per redditi che il legislatore ha voluto trattare ugualmente? E vero o non è vero che dall’altra definizione tali disuguaglianze non nascono? E vero o non è vero che il dibattito non è tra definizioni, che sarebbe stupidissimo dibattito, ma se si voglia o non quel tale risultato di diversità di peso?

 

 

40. Taluno, che vede l’assurdità del trincerarsi dietro una definizione, prende il toro per le corna e dice: «sì, la tassazione degli incrementi di capitale (col. e) dà luogo ad un maggior onere (56,36 ovvero 41,33% ovvero qualche altra proporzione percentuale) subito dal contribuente in confronto al 20% che il legislatore deliberò in generale. L’errore però non sta nel maggior onere, ma nel non dire apertamente che per l’appunto esso è voluto o dovrebbe essere voluto dal legislatore».

 

 

Questa è una tesi logica. Il legislatore ha piena podestà di tassare l’un reddito col 20% e l’altro col 40 o col 60 od anche col 100%. Si aggiunga solo che i legislatori saggi usano dar ragione di siffatto loro diverso comportamento. Nel caso presente, a spiegare la maggior tassazione, malauguratamente nascosta e che giustamente si vuole fatta palese, si adduce una proprietà che avrebbero gli incrementi [di capitale] in confronto ai redditi e sarebbe la propensione maggiore degli «incrementi»a patire imposta in confronto dei «redditi». Ho messo le parole «di capitale» fra parentesi quadre ad indicare che l’accento deve mettersi sul concetto «incremento», che sarebbe il genere, più che su quello «di capitale», che sarebbe un semplice qualificativo del genere. Esisterebbe cioè negli incrementi una qualche proprietà, una specie di magnetismo che li spingerebbe, quasi attratti da una forza irresistibile, ad abbracciare con maggiore affetto l’imposta, di guisa che il peso di un 40% sull’incremento equivarrebbe, a cagion d’esempio, a mala pena ad un peso del 20% sul reddito.

 

 

41. In che cosa consista la proprietà magnetica filo-tributaria del puro incremento è per altro alquanto misterioso, ove si paragoni, come si deve, il puro incremento di capitale (eccesso oltre l’investito) al puro reddito.

 

 

Non può trattarsi di una maggiore facilità o minor merito di guadagnar incrementi di capitale che non di reddito. Capitale e reddito sono due fratelli siamesi, due facce del medesimo fatto. Se è facile che il capitale passi da 100000 a 400000 ciò accade soltanto perché e purché sia ugualmente facile che il reddito passi da 10000 a 40000. Non si può affermare che occorra, a cagion di presunta maggiore agevolezza di guadagno, tassare più del normale l’incremento di capitale da 100000 a 400000, senza affermare nel tempo stesso la ragionevolezza di tassare altresì nella stessa maggior misura dei normale l’incremento di reddito da 10000 a 40000. Come dimostrare che, se i redditi ed i loro incrementi (col. b) sono tassabili col 20% (col. c), i relativi incrementi di capitale (col. e od f) non più facili o più difficili ad ottenersi degli incrementi di reddito debbono essere tassati con aliquota percentuale due o tre volte maggiore? Nessuno, che io sappia, ha dato una risposta, decentemente presentabile e comprensibile, al quesito.

 

 

42. Per la stessa ragione non può trattarsi – ma è solo un altro modo di esprimere lo stesso concetto – di una maggiore imprevedibilità dell’incremento, sicché questo sia come un bolide piovuto dal cielo, un qualcosa che lo stato può occupare senza danno, perché il contribuente non se l’aspettava, e, non facendovi assegnamento, non sente vivo il dolore della sua privazione a cagion dell’imposta.

 

 

Di nuovo, l’incremento di capitale è la conseguenza dell’incremento di reddito. Il primo è impreveduto se e nella stessa misura in cui non è preveduto il secondo. Se il contribuente prevede l’incremento di reddito da 10000 a 40000, prevede ipso facto l’incremento di capitale da 100000 a 400000. Quindi se si giudica che il «preveduto» o «prevedibile» sia un fattore differenziale d’imposta, l’imposta deve essere maggiore del normale 20% tanto per l’incremento di reddito quanto per l’incremento di capitale. 43. Gira e rigira, la tassazione dei guadagni od incrementi è un qualcosa di più in confronto alla tassazione normale e di esso non si vede ragione per i soli incrementi di capitale. Se il qualcosa di più è ragionevole, è tale per ambedue: reddito e capitale; ed anche in tal caso il qualcosa di più deve essere applicato soltanto sull’uno ovvero sull’altro, non su ambedue, o, se si vuole distribuirlo un po’ sull’uno e un po’ sull’altro, occorre che la somma dei due oneri sia uguale al prefissato «qualcosa».

 

 

Suppongasi vero che, se il reddito – base o reddito – normale, ad ipotesi 20000 lire, è tassabile col 20%, le eccedenze sulla base o sul normale debbano essere tassate col 40%. Ecco senz’altro colpite altresì col 20 e col 40% le proiezioni attuali dei redditi futuri a cui si dà il nome di capitale.

 

 

 

Reddito netto prima dell’imposta

 

Aliquota dell’imposta

 

Ammontare dell’imposta

 

Reddito netto depurato dell’imposta

 

 

 

Valore capitale corrispondente, al denaro dieci, al reddito netto

 

Perdita di valore capitale conseguente all’imposta sul reddito

prima dell’imposta

depurato dall’imposta

Reddito base

20000

20%

4000

16000

200000

160000

40000

Eccedenza

20000

 

40%

8000

12000

200000

120000

80000

Reddito totale

40000

12000

28000

400000

280000

120000

 

 

L’imposta del 20% sulle prime 20000 lire di reddito e quella del 40% sulle ulteriori 20000, supposte od immaginate più facili o più impreviste ad ottenersi delle prime, più manna o più bolide piovuti dal cielo dove si confezionerebbero i redditi, produce nel tempo stesso automaticamente due effetti inscindibili: riduzione dei redditi normali da 20000 a 16000 e dei redditi eccedenza od incrementi di reddito da 20000 a 12000 e riduzione dei capitali corrispondenti da 200000 rispettivamente a 160000 e a 120000 lire. Il contribuente, pagando 4000 e 8000 all’anno d’imposta su due ammontari identici di reddito, distinti per la sola circostanza del venire l’uno prima e l’altro dopo, soffre perciò anche, senza uopo di nessun altro pagamento, la perdita di 40000 e 80000 lire sui due corrispondenti identici valori capitali. Come potrebbe essere diversamente se i valori capitali altro non sono se non la capitalizzazione al momento attuale dei redditi futuri?

 

 

Non occorre affatto tassare in aggiunta il contribuente sulle 120000 di incremento netto di capitale corrispondente all’eccedenza netta di 12000 lire sul reddito-base per fargli entrare nella testa l’idea che gli incrementi di capitale meritano di essere tassati di più dei capitali. Quell’idea è già penetrata, purtroppo per lui, nel vivo della sua tasca. Quella che gli sarebbe, ora, inculcata sarebbe un’altra diversa idea: dopo avere già sofferto, a causa della sua abilità ad acchiappare la manna nel deserto o della sua incapacità a prevedere il futuro, un 40% invece che un 20% di imposta, egli meriti di pagare un altro aggiuntivo 20 o 40% su quel che gli resta di incremento di capitale. Egli chinerà la testa, sapendo che, se chiedesse ragione della disgrazia che gli tocca, la risposta potrebbe essere solo: quia nominor leo. Risposta perentoria nel mondo reale, non in quello delle dispute teoriche.

 



[1] Perciò nella tabellina del testo quella cifra fu scritta in corsivo e tra parentesi quadre.

[2] Poiché non è necessario che le persone colte conoscano il significato delle lettere dell’alfabeto nel gergo fiscale, giova notare, sebbene si tratti di cosa notissima, che la lettera A indica i redditi di capitale puro (interessi di mutui, pubblici e privati), la B i redditi misti di capitale e lavoro (redditi industriali e commerciali ottenuti da società e da privati), la C1 i redditi incerti e variabili di lavoro (onorati e compensi di esercenti professioni liberali), la C2 i redditi in cifra determinata di lavoro (stipendi, assegni e pensioni di impiegati privati), la D i medesimi redditi di lavoro di impiegati pubblici.

[3] Nel testo si parla di un istituto-imposta sul reddito dei titoli al portatore – il quale aveva per iscopo di persuadere i possessori di azioni di iscriverle al nome, nel qual caso l’imposta non era dovuta. Era sistema ottimo, oggi venuto meno, per l’abolizione delle azioni al portatore [Nota del 1958].

[4] Dicesi «potrà» per ragioni di ipotesi, che qui non si vuol né discutere, né ammettere, ma solo accennare per rigor di distinzione logica di concetti distinti.

[5] Ovviamente la proposizione ora affermata non diventa erronea solo perché mutando qualche altra circostanza, per esempio il saggio di capitalizzazione, alla variazione dell’una cosa in un senso corrisponde una variazione nello stesso senso ma con intensità diversa o addirittura in senso diverso dell’altra cosa. Bisognerebbe poter dimostrare che la variazione di quell’altra circostanza e logicamente legata e in qual modo con la causa di variazione del reddito o del capitale – imposta – che nel caso specifico si considera.

Il mito del contribuente che paga fino all’ultimo centesimo

Il mito del contribuente che paga fino all’ultimo centesimo

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 21-37

 

 

 

 

1. Don Chisciotte combatteva contro i mulini a vento. Chi in realtà non paga imposta grida sovra ogni altro perché egli è convinto di pagare più che ogni altro. I bilanci degli stati moderni sono aduggiati da miti, dietro ai quali c’è il vuoto.

 

 

Potentissimo fra i miti tributari contemporanei è quello dell’imposta pagata fino all’ultimo centesimo dall’impiegato pubblico. Ho riflettuto a lungo sul pro e sul contro dell’imposta sul reddito dell’impiegato; ed ho concluso che il pro è calante di peso. Giova, per la sua nitidezza, cominciare da quest’ombra feconda di rancori.

 

 

2. Nessun reddito, dice il canone dell’uguaglianza, – unico canone conosciuto in materia d’imposta, per l’assurdità propria dell’ammettere disuguaglianza deve andar esente da imposta. Quindi lo stipendio dell’impiegato, essendo reddito, deve pagare imposta al par di ogni altro reddito della medesima specie. Offenderebbe la giustizia, creerebbe una classe privilegiata chi mandasse esenti gli impiegati dall’imposta che tutti pagano. Perché il privilegio? Se ogni altro reddito simile paga l’8%, ed anche quello dell’impiegato paghi il medesimo 8%. Importa che l’impiegato non si senta estraneo alla vita dello stato, importa che, pagando tributo, egli sappia per esperienza che per lui lo stato non significa solo il vantaggio dello stipendio, non è solo una vacca da mungere, ma è l’ente collettivo al cui mantenimento bisogna provvedere con sacrificio proprio. Quand’anche l’imposta fosse per lui pura forma, importa che l’impiegato sappia ad ogni fin di mese che egli avrebbe ragion di riscuotere stipendio di 100 lire se l’imposta di 8 non glielo decurtasse a 92. Quella cifra e quella sottrazione sono, per lui e per gli altri, il simbolo della sua partecipazione alla vita collettiva. Questo è il peso che grava sulla bilancia del sì ed è peso, il cui valore morale è certo altissimo.

 

 

3. Valore puramente morale, ché il valore economico dell’imposta per l’erario pubblico è nullo, anzi, sia pure per importo trascurabile, negativo. Trattasi di mera partita di giro, il cui ufficio è esclusivamente di moltiplicare le scritturazioni sui pubblici libri contabili. Invece di scrivere e pagare gli stipendi in lire 92 nette, occorre scrivere 100, configurare una ritenuta di imposta di 8 e, dopo congrua scritturazione ripetuta per milioni di partite, pagare 92. Il rigiro di scritture non inganna nessuno. Nessun impiegato, in nessun momento della carriera, all’inizio, nel suo progresso, entrando in quiescenza, presta la minima attenzione alla cifra lorda dello stipendio; tutti occupandosi solo del netto. Il simbolo dell’imposta pagata disturba per le frazioni di lira a cui dà origine.

 

 

4. Il valore economico dell’imposta sull’impiegato è tuttavia, si afferma da taluno, effettivo per quanto tocca l’avvenire. E indifferente ricevere 100 meno 8, uguale a 92, ovvero 92; non è indifferente sapere che l’8 d’imposta può crescere a 10 o diminuire a 6. Lo stato può aver ragione di volersi riservare il diritto di far partecipare gli impiegati all’onere cresciuto od al vantaggio della diminuzione delle pubbliche spese in funzione del reddito nazionale. Quando tutti gli altri contribuenti debbono sottostare ad un sacrificio maggiore, perché non gli impiegati?

 

 

5. Allo scopo di valutare con esattezza il peso economico dell’alea di aumento o diminuzione dell’imposta nell’avvenire, si avverta che quel peso fu spesso ritenuto calante nel caso analogo degli interessi del debito pubblico. Anche qui si presentò il quesito: 5 lordo meno 1 d’imposta, uguale a 4 interesse netto per ogni 100 lire nominali del capitale del debito statale, ovvero 4 netto da qualunque imposta presente e futura? In Italia e, nella più parte dei casi, in Francia si concluse per il 4 immune da tributo, sovratutto, si osservi, perché l’immunità garantisce il sottoscrittore dal rischio di aumento futuro di imposta. Se il sottoscrittore è disposto a pagare 100 lire un 4% perpetuo, netto da qualunque imposta, non è altrettanto propenso a pagare ugual somma per un 5% lordo di imposta. Oggi l’imposta è del 20% del reddito e diffalca 1 lira dal reddito lasciando un resto uguale a quello ottenuto nell’altro caso. Ma il risparmiatore, il quale ha il coltello per il manico, perché il suo risparmio ha tuttora forma liquida di denaro, dubita che il 20% rimanga costante. Chi dubita, non pensa che l’aliquota possa diminuire al 18%; teme, ed è persuaso a temere dall’esperienza passata, che l’imposta cresca al 22%. Chi teme, esagera il pericolo temuto. Il rischio di aumento che, secondo la probabilità storica, dovrebbe in quel paese e in quel tempo essere limitato ad un 2%, è dall’immaginazione cresciuto al 4%. Si sconta, invece del 20% attuale e del 22% possibile, un 24% immaginario; e si capitalizza, suppongasi al 4%, in 95 lire il reddito di 5 meno 1,20 imposta immaginaria, ossia 3,80 nette previste. Lo stato, il quale oggi ha la scelta fra il vendere a 100 un 4% netto od a 95 un 5 lordo che, dedotta 1 lira di imposta attuale, importa un onere effettivo di 4 lire, sceglie il 4 netto. Il maggior prezzo capitale di 5 lire riscosso subito lo indennizza largamente per la rinuncia ipotetica al diritto di aumentare l’imposta in un caso di necessità futura e incerta che forse non si verificherà mai. Del resto lo stato non assume, di fatto, impegni eterni. Scadono i debiti a tempo, si convertono, alla prima occasione favorevole e legalmente utilizzabile, i prestiti perpetui. Nel momento della novazione, lo stato, nel fissare le condizioni del prestito, tien conto del diverso, maggiore o minore, onere di imposta e fissa il saggio di interesse in modo da trarre nuovamente vantaggio dall’offerta di un titolo netto invece che di un titolo lordo. In argomento di debito pubblico, il vantaggio economico «per l’erario pubblico» è dunque il fattore dominante della decisione. Lo stato non si attarda a riflettere se da un punto di vista morale o politico giovi dare l’impressione che anche i portatori dei titoli di debito pubblico paghino l’imposta. Lo stato sa che quella è una impressione contabile, la quale non ha nessun rapporto con la realtà; e passa sopra all’impressione, preoccupato solamente di fare il «proprio» vantaggio.

 

 

Il «gran tesoriere» o ministro delle finanze non geme sotto l’incubo dei miliardi di lire di titoli di debito pubblico immuni dal tributo. Dissimile da quel granduca di Toscana, del quale si favoleggia dicesse: sì il granducato è mio, ma la terra è dei preti e frati e monache, che non pagano imposte!, il moderno tesoriere dello stato s’è fatto pagare in anticipo il prezzo dell’immunità largita; e si farà pagare opportuni nuovi acconti di prezzo ad ogni volta il contratto di mutuo, giunto a scadenza, sarà novato. Esiste forse un comandamento divino, il quale obblighi ad esigere il balzello ad ogni anno piuttostoché decupla somma ad ogni dieci anni?

 

 

6. Perché lo stesso ragionamento non deve applicarsi allo stipendio degli impiegati pubblici? La scelta non potrebbe essere fra il pagare 100 lordo meno 8 d’imposta uguale a 92 nette ed il pagare 90 nette da qualsiasi imposta presente e futura? Gli impiegati non preferirebbero forse, a gran maggioranza, un 90 assicurato contro qualsiasi variazione di imposta ad un 92 incerto? Né lo stato sarebbe legato al 90 in perpetuo. Mutando notevolmente l’onere del tributo, lo stato potrebbe, ferme rimanendo le condizioni pattuite per i vecchi impiegati, fissare per i «nuovi» lo stipendio netto in 88 od in 92 lire. Poiché il fato degli impiegati è quello di morire, ancor prima che alla vita, all’impiego, la variazione, anche se riferita soltanto ai «nuovi» finirebbe a poco a poco con l’estendersi a tutti. Perché l’immunità dall’imposta non dovrebbe essere feconda, nel caso degli impiegati, del medesimo vantaggio per il pubblico erario che è sua caratteristica per il debito pubblico? L’immunità agirebbe sull’immaginazione con potenza maggiore del suo valore reale. Non è forse risaputo quanta virtù possedesse in passato, quando essa era un raro privilegio, la prospettiva della pensione, a procacciare allo stato servitori fedeli laboriosi capaci e contenti di stipendio inferiore ai guadagni possibili nelle attività private? Oggi il miraggio della pensione opera meno, perché sta diventando universale, grazie alle leggi sociali di previdenza per la invalidità e la vecchiaia. L’immunità dell’imposta sarebbe un ottimo sostituto di quel miraggio e sarebbe feconda per lo stato di non minore risparmio di spesa.

 

 

7. Sarebbe feconda altresì di un vantaggio morale, non suscettibile, come ogni altro fatto morale, di misura quantitativa, di peso non però piccolo; ed è il mancato stimolo all’invidia. Dove lo stipendio dell’impiegato è tassato, il suo è il metro della giustizia tributaria. Poiché egli è tassato sull’intiero reddito e neppure un centesimo del suo reddito sfugge al tributo, ogni altro contribuente è frodatore se il suo reddito non sia tassato altresì sull’intiero reddito e questo non è misurato con i medesimi criteri con cui sono misurati gli stipendi.

 

 

Non monta osservare che una parte soltanto dei redditi nasce ed entra, al par dello stipendio dell’impiegato, nella economia dei contribuenti in cifra fissa, determinata in quantità certa legalmente dovuta, laddove la gran massa dei redditi sorge ed entra in quantità variabili ed incerte, mal note allo stesso contribuente; e quindi ragionevolmente diversi debbono essere i criteri di misurazione.

 

 

Non monta, ché gli impiegati hanno sempre pronti ragionamenti atti a dimostrare che i loro redditi sono più belli, ossia più agevolmente accertabili, di ogni altro. Se si tratta di redditi anch’essi certi, come gli interessi dei capitali dati a mutuo, eccoli osservare che gli interessi, accertati con sicurezza, dei mutui ipotecari o delle obbligazioni ecc., sono una quantità trascurabile in confronto agli interessi dei mutui chirografari o cambiari non registrati, i quali sfuggono all’accertamento. Addosso perciò a chi paga per fargli subire il fio delle colpe del frodatore! Non vale constatare che, oggi, gli impiegati privati non possono nascondere gratificazioni, mance, indennità, e che è praticamente impossibile l’accordo illecito a danno del fisco, fra datori di lavoro ed impiegati. Corre negli uffici pubblici la leggenda che l’impiegato privato non paghi ed è leggenda divenuta dogma incrollabile.

 

 

Se si tratta di redditi incerti e variabili di industriali e commercianti, oggi tassati in Italia col 14% dal solo stato e col 20% circa in complesso dallo stato, dagli enti locali e dagli altri enti aventi diritto di imposizione, o di professionisti tassati col 12% dal solo stato e col 16% almeno in complesso, l’invidia produce risultati assai più perversi. Poiché, come si disse dianzi, il solo canone universalmente ammesso e pacifico di tassazione è il canone di uguaglianza, le tre aliquote diverse di tassazione dell’8% sugli impiegati pubblici, del 16% sui professionisti e del 20% sugli industriali si conformano evidentemente a quel canone solo se si ammetta che, laddove si tassino gli industriali sull’intiero reddito, i professionisti meritino di essere tassati sui quattro quinti di esso e gli impiegati pubblici su due quinti. Un rapporto di tassabilità come fra 100 ed 80 fra redditi industriali e professionali pare approssimativamente corretto. Ambi sono incerti e variabili, ambi dipendono dalla vita e dalla capacità di lavoro del contribuente. Ma l’uno, quello dell’industriale, vive anche oltre la vita produttiva di lui, sia pure di vita ridotta e destinata a spegnersi ben presto se non lo conforti nuovo lavoro di altro contribuente. Ma il figlio, la vedova, l’erede dell’industriale può, liquidando l’impresa, trarne un capitale capace di produrre un reddito, più scarso bensì, talvolta assai più scarso, ma perpetuo. Laddove il reddito del professionista muore con lui e, salvo casi rari, la cessione dell’avviamento non ha quasi importanza. Queste son le ragioni, persuasive al buon senso ed all’opinione media, le quali dicono che, se si vogliono tassare tutte le cento lire del reddito dell’industriale, è corretto tassare solo 80 lire sulle 100 del reddito del professionista, ovvero, il che fa lo stesso, se si tassano col 20% le 100 lire del primo, fa d’uopo tassare soltanto col 16% le 100 lire del secondo.

 

 

8. Sono ugualmente persuasive le ragioni le quali dicono che, se è corretto tassare col 16% il reddito del professionista, si deve in ossequio al canone dell’eguaglianza, tassare coll’8% lo stipendio dell’impiegato pubblico? Limitiamo il confronto a queste due categorie; che avendo ammessa la correttezza del rapporto da 100 ad 80 fra industriali e professionisti, ove si ammetta per corretta la proporzione da 2 ad 1 fra la capacità di pagare dei redditi professionali e di quelli impiegatizi, risulterebbe dimostrata anche la correttezza del rapporto istituito fra impiegati ed industriali.

 

 

Dire che il guadagno del professionista merita di essere tassato col 16% e lo stipendio dell’impiegato pubblico coll’8% equivale a dire, secondo il canone dell’uguaglianza, il quale impone che due redditi uguali debbono essere tassati ugualmente, che se il reddito del professionista è tassato col 16% sull’intero suo ammontare, il reddito dell’impiegato deve essere tassato del pari col 16% sulla metà del suo ammontare.

 

 

Risponde la norma al comando del buon senso applicato all’osservazione dei fatti reali? Non pare, ove si parta dalla premessa, logicamente necessaria, che qui si confrontano unicamente redditi uguali. Si paragonano cioè tra loro due redditi di 500 o due di 1000 o due di 3000 lire al mese; non un reddito di 500 di impiegato con altro di 3000 di professionista. Paragonare 500 con 3000 significa discutere non della specie del reddito ma del suo ammontare. E di ciò si può discutere, qualunque sia la specie del reddito, ma non ha importanza per il problema qui esaminato. Se i redditi dei professionisti sono in generale più vistosi saranno colpiti con aliquota più elevata nella sede (in Italia la complementare) scelta a colpire di più i redditi grossi dei minuti. Non perciò è lecito confondere il più grosso col diverso.

 

 

9. A parità di ammontare, i due redditi come si distinguono dunque l’uno dall’altro?

 

 

 

Reddito di impiegato

Reddito professionale

 

È legalmente dovuto fin dall’inizio. È sperato.

 

È in somma certa. È in somma incerta.

 

È in somma fissa. È in somma variabile.

 

È dovuto durante i congedi di vacanza periodici. Non è accumulabile, se non in parte, durante i congedi contro descritti.

 

Dà luogo a pagamenti totali durante le malattie brevi o parziali e durante più lunghi periodi di aspettativa per ragioni di salute.

 

 

Non dà luogo ad alcun pagamento in tempo di malattia o di assenza per ragioni di salute.

 

Dà luogo ad un trattamento di pensione.

 

Non esiste diritto a pensione.

 

La pensione è parzialmente riversibile alla vedova ed ai figli. Non esistendo pensione non esiste riversibilità.

 

 

 

Il reddito dell’impiegato, a parità di ammontare, vale di più di quello del professionista. Se l’impiegato può ragionevolmente spendere tutte le sue 100 lire, il professionista che facesse altrettanto, si comporterebbe imprudentemente. Le sue 100 lire sono godibili solo in parte. Quale sia questa parte è impossibile dire con certezza. Approssimativamente, si potrebbe dire che il professionista è al sicuro se si limita a spendere la metà, è imprudente se spende più dei tre quarti del suo reddito. Il resto non è reddito, è accantonamento per bisogni futuri, simile al contributo del 6% che l’impiegato pubblico versa in Italia al fondo pensioni e su cui pacificamente non cade imposta. Perciò, ancora, la logica vorrebbe che se l’impiegato è tassato su 100, il professionista debba, all’incirca, essere tassato soltanto su 60, ovvero che se l’impiegato deve una imposta dell’8% il professionista ne debba una del 5%. S’intende, dell’8 e del 5% rispettivamente «in complesso» allo stato, province, comuni ed altri enti tassatori, poiché impiegati e professionisti si giovano ugualmente, in quanto tali, dei servigi di tutti gli enti centrali, locali e di categoria. Invece del 5%, i professionisti pagano suppergiù il 16%, più del triplo.

 

 

10. Se si chiede la ragione della discrepanza fra il ragionamento e la realtà, si odono risposte vaghe incerte. Poiché non si può arguire dal fatto nudo che gli uni sono impiegati e gli altri professionisti, ché tanto varrebbe arguire dal fatto che gli uni sono simpatici e gli altri antipatici, gli uni hanno i capelli neri laddove gli altri li hanno biondi, si sussurra vagamente che il maggior peso comparativo – più del triplo – gravante sui professionisti, è la difesa dell’erario contro la frode fiscale. I professionisti occultano gran parte, si dice, del loro reddito; epperciò se basterebbe far loro pagare un 5%, ove pagassero su 100, fa d’uopo invece paghino il 16%, poiché essi si industriano a pagare solo su 30 lire ogni 100 del loro vero reddito. L’argomentazione, in verità, non è esposta in siffatta aperta maniera; ché sarebbe troppo indecente. Coloro che la sussurrano, non osano affermare che il legislatore compia un atto di giustizia (16 invece di 5) allo scopo di ovviare alle conseguenze di una frode (denuncia da parte di contribuenti professionisti di 30 invece di 100). Se frode esiste, lo stato non può abbassarsi quasi a legittimarla dicendo: «so che voi frodate; prendo atto della frode e la elimino tassandovi con peso triplo del giusto». Il legislatore, il quale usasse linguaggio tanto grossolano, inviterebbe senz’altro anche i contribuenti onesti alla frode. Né il legislatore ha mai così parlato.

 

 

II. I difensori dell’aliquota tripla di quella corretta girano perciò la posizione ed affermano che, nei riguardi del professionista, i funzionari della finanza tengono conto di fatto delle caratteristiche precarie incerte terminabili del reddito del professionista e lo valutano al di sotto della realtà. Non si tratta di frode, ma di equità. Si sa che il professionista ha reddito incerto variabile, il quale cessa durante le ferie e le malattie, scema e scompare in vecchiaia e non dà luogo a pensioni riversibili. Perciò i funzionari sono equi e abbassano il reddito imponibile al disotto di 100. Chi oserebbe tuttavia affermare che essi lo abbassino da 100 a 30 circa, quanto sarebbe necessario perché l’aliquota legale del 16% diventasse di fatto del 5%, quale dovrebbe, per il canone dell’uguaglianza, essere? Corrono esagerazioni grossolane intorno all’occultamento o, come altri dice, al benigno apprezzamento dei redditi professionali. Salvo casi eccezionali, i quali non possono erigersi a norma di giudizio, le due quantità del reddito effettivo e del reddito accertato si sono a poco a poco avvicinate singolarmente; e non sarebbe da far meraviglia che in anni di depressione nei redditi, le cifre accertate siano rimaste non di rado «al di sopra» delle cifre vere. Accanto a qualche mezza dozzina di professionisti principi nelle grandi città, rispetto ai quali una certa benignità di trattamento può darsi sia fatto reale, per la grande maggioranza vale il vecchio proverbio: denari e santità metà della metà. Salvoché nelle chiacchiere delle botteghe di caffè, dove si compilano dagli sfaccendati le liste dei pingui redditi altrui, la media dei redditi professionali accertati non sta troppo al di sotto della media dei redditi effettivi.

 

 

12. Il punto essenziale è che, sia pure ridottissima di fatto in confronto all’immaginazione, ogni benignità di fatto negli accertamenti è inammissibile. Due metodi possono essere adottati dal legislatore per tassare equamente l’impiegato ed il professionista, se egli sia persuaso che, per le caratteristiche inferiori del suo reddito, il professionista debba pagare una imposta uguale ai cinque ottavi di quella pagata dall’impiegato:

 

 

 

Primo metodo: imponibile uguale ed aliquota differenziata:

 

  Impiegato Professionista

 

Reddito effettivo

100

100

Reddito imponibile

100

100

Aliquota %

8

5

Imposta pagata, lire

8

5

 

Secondo metodo: imponibile ridotto ed aliquota uguale:

Reddito effettivo

100

100

Reddito imponibile

100

62,50

Aliquota %

8

8

Imposta pagata, lire

8

5

 

 

 

Il primo metodo fu adottato dal legislatore italiano del 1923, il secondo da quello del 1864. Ambi sono corretti, e producono effetti uguali, purché alternativi. Scelto l’un metodo dal legislatore, esso deve essere applicato con rigidità; e non innalzare l’aliquota sui professionisti dal 5%, che sarebbe dovuta per uguaglianza di peso al 16% per il motivo o pretesto che il reddito imponibile, invece di essere 100, di fatto è 30. Su qual testo di legge si fonda una stima presunta tanto inferiore al vero? In verità, non è esatto affermare che la stima sia 30; essendo probabile che essa oscilli, a seconda dei casi e degli anni, fra un 30 ed un 120, con un centro di gravità empiricamente valutabile a forse 80; cosicché, se queste intuizioni sono vere, il professionista paga dal 12 al 14% del suo reddito effettivo invece del 5 che gli spetterebbe. Sperequazione meno grave di quella da 16 a 5, ma tuttavia fortissima.

 

 

13. Dalla sperequazione vi è una via di uscita: togliere di mezzo l’ingombrante pietra di paragone, ossia l’imposta sugli impiegati. Improduttiva anzi costosa per l’erario, l’imposta sul reddito degli impiegati pubblici eccita l’ira e l’invidia di questi, i quali seguitano a ripetere fastidiosamente noi paghiamo su tutte 100 (e non è vero, poiché pagano su 93 circa, che sono le 100 meno i contributi pensioni e sussidi) e gli altri pagano su 80, su 70, su 60 ecc. ecc. Non v’ha impiegato il quale nell’intimo foro della sua coscienza non sia convinto che gli «altri», tutti gli altri, industriali, agricoltori, professionisti, impiegati privati, operai frodino a man salva e non paghino che su una frazione irrilevante del loro reddito. Ah! se tutti pagassero, non vi sarebbe bisogno di far pagare tanto!; ah! se tutti pagassero, quante spese si potrebbero affrontare!; ah! se tutti pagassero, – come paghiamo noi, si sottintende – i ministri delle finanze non sarebbero travagliati dallo spettro del disavanzo! Il grottesco di tutto ciò è che tutti pagano, in realtà o in apparenza, assai; e, se nessuno pagasse, non si capirebbe donde vengano in Italia i più che 25 miliardi di imposte sacrosantamente ogni anno versati nelle casse statali e locali da un reddito nazionale totale che solo qualche statistico dotato di gran buon cuore estimativo osa spingere sino a 120 miliardi. Tra i fantasmi, di cui «in parte» si compongono quei 25 miliardi, e senza i quali quei 25 miliardi non potrebbero sul serio essere pagati, il più impalpabile di tutti è il fantasma dell’imposta sugli impiegati, mero giro contabile, sotto cui non sta alcuna sostanza.

 

 

Taluno, forse, paventa la tracotanza dell’impiegato fatto immune dal tributo? Dicesi che in qualche paese forestiero la superbia propria dei pochi che, tardi di intelletto ed investiti di una minima particella del potere di coazione, tiranneggiano il pubblico dietro uno sportello ufficiale, sia stata cresciuta dall’immunità tributaria. A me sembra di non dover temere, per tal motivo, incremento di superbia. I più tra gli impiegati ben sanno che il loro ufficio sta nel rendere servizio e non nel recar noia al pubblico; e sui pochi tonti potrà più la preoccupazione di perdere l’immunità, la quale è privilegio, che non il desiderio di menarne vanto, che potrebbe offendere e provocare l’abolizione del privilegio.

 

 

14. Io non so se l’imposta gravi su qualcuno, impiegato o non impiegato. L’idea che l’imposta sia un qualcosa che gravi su qualcuno è un sottilissimo inganno da cui gli uomini sono presi e che li spinge ad assaltarsi l’un l’altro con gran rabbia. In attesa di analizzare (nel capitolo ottavo) le fila di cui l’inganno è tessuto per tutti, sciogliamo uno dei suoi groppi più aggrovigliati, abolendo l’imposta sugli impiegati e rendendo a questi la serenità. Ridotti gli stipendi da 100 lordi a 90 netti,[1] gli impiegati, guardandosi attorno si persuaderebbero facilmente che le loro remunerazioni sono superiori alla media delle remunerazioni private[2] per lavori di ugual pregio e non persevererebbero nell’accanimento di universali immaginarie presunzioni di frode verso i contribuenti. Chi fosse o fosse reputato in condizione di privilegio, anche se il privilegio fosse voluto dall’interesse dello stato, non oserebbe moralmente gridare contro i non privilegiati. Colui che fosse immune da imposta non avrebbe veste per accusare altrui di frode. La equità o perequazione fra i paganti potrebbe essere così meglio osservata, senza interferenze emotive perturbatrici da parte di chi, non pagando, oggi immagina stravagantemente di essere solo a pagare.

 

 

15. Il fantasma dell’imposta sugli stipendi degli impiegati interessa forse più degli altri perché intorbida l’intelletto e l’animo di uomini vivi, esagitandoli contro altri uomini vivi. In altri casi, l’evidenza del fantasma è così chiara, che gli uomini incontrandosi dovrebbero al più ammiccar tra loro come auguri, sorridendo. Eppure il fantasma, se è d’imposta, ha la virtù di esasperare sempre, sovratutto se a torto. A volta a volta, i proprietari di terre, di case, di valori mobiliari montano in furia a cagion del peso d’imposta che li grava. Può darsi che il balzello li schiacci davvero; ma non è raro il caso che esso sia un mero ricordo di cose che furono ed oggi non toccano più gli uomini viventi. Tizio ereditò un fondo rustico, quando fruttava nette 5000 lire, gravate da 1000 lire d’imposta. Nella sua testa e nell’apprezzamento del mercato, il reddito netto non fu mai diverso da 4000 lire nette ed, al saggio di interesse del 5%, il capitale corrispondente non fu mai diverso da 80000 lire. Quand’egli, da rustico fattosi cittadino, si decise a vendere la terra e riscosse il prezzo di 80000 lire, Tizio non pensò ad imposte. Egli ed intorno a lui il mercato, composto di mezzani faccendieri e di aspiranti compratori, contrattarono il prezzo capitale in 80000 lire sulla base del reddito netto di 4000 lire annue. Gli doleva che il padre gli avesse tramandato il fondo gravato di un onere da imposta di 1000 lire annue? Certamente sì; ma non più di quanto gli dolesse che il fondo, in conformità ai sapienti disegni della divina provvidenza, non avesse l’abitudine di ararsi seminarsi curarsi mietersi o vendemmiarsi da sé, sicché convenisse abbandonare al mezzadro la metà del prodotto. Il rincrescimento per queste ed altre disavventure le quali riducevano il reddito del fondo dalle 12000 lorde alle 4000 nette era alquanto attutito dal trascorrere del tempo e dalla lunga consuetudine delle generazioni che avevano assuefatto gli uomini a considerare la vicenda come rispondente all’ordine naturale delle cose. Forse, se, durante il tempo del suo possesso, per il crescere delle imposte da 500 a 1000 lire e l’incremento delle spese di coltivazione da 6000 a 7000 lire, il reddito netto si fosse ridotto da 5500 alle odierne 4000 lire, egli avrebbe sentito più vivace il dolore della perdita recente delle ultime 1500 lire. L’accaduto non poteva, tuttavia, essere posto nel nulla: non gli incrementi di imposta e non le «conquiste» dei coloni. A che pro indugiarsi nei rimpianti del: se non esistesse l’imposta, se i coloni non fossero montati in superbia, se non fosse giunto il flagello della peronospora o della fillossera, se quinci e se quindi, io avrei 8000 o 10000 o 20000 lire di reddito, invece di 4000!? Di fatto son 4000 annue e nulla più, uguali ad un valore capitale attuale di 80000 lire. Tizio, che dalla campagna è andato in città con le 80000 lire da investire, continua a pagare od a sentire l’effetto delle 250 lire di imposta ché pagava suo nonno, delle 250 lire in più che pagò il padre suo e delle 500 lire che si aggiunsero durante la sua vita rustica? Sì o no; ma non più di quanto egli senta e racconti ai figli suoi i ricordi delle tante altre cose belle che allietavano gli antichi in confronto delle tante brutte che angustiano gli sventurati viventi. Continua egli a pagare o a sentire il pagamento delle 20000 lire di capitale che egli avrebbe in più se sulla terra venduta non avesse gravato il sedimento stratificato delle 1000 lire annue di imposta?

 

 

16. L’erario pubblico incassa dunque le 1000 lire; ma è dubbio se qualcuno vi sia al mondo che senta il dolore del pagamento. L’imposta, per il rustico che se ne va in città, è diventata un’ombra, un fantasma, un rimpianto, l’occasione di racconti che si farebbero, se in città vi fossero ancora inverni e focolari, nelle serate d’inverno accanto alla fiamma del focolare, ai figli ansiosi di sapere come era fatto il mondo nella campagna dove vivevano gli avi. Al rustico succeduto nel possesso del fondo quelle 1000 lire di imposta che egli pagherà ogni anno recano un mero affanno di ostentazione. Egli ha pagato il fondo 80000 lire in relazione alle 4000 lire di reddito netto presunto. Se l’imposta non fosse esistita, egli avrebbe pagato 20000 lire in più, in rapporto alle 1000 lire di maggior reddito; così come avrebbe pagato altre 100000 o 200000 lire in aggiunta se, invece di acquistare il fondo in questa trista terra dove vivono mezzadri ed altre fonti di spesa, egli l’avesse fatto suo nel paese di Bengodi, dove il latte scorre nel letto dei fiumi, le fonti dan vino e dagli alberi pendono salsicce cotte. Nel qual regno di Bengodi, del resto, nessuno probabilmente ti pagherebbe nulla per aver terra. Egli non ha ragione di querelarsi delle imposte, più che degli altri flagelli di dio ai quali è abituato e di cui ha tenuto conto nel contrattare il prezzo d’acquisto. Forse col tempo, poiché il rustico è invincibilmente querulo ed a tratti perde la memoria, accadrà che egli si scordi di avere contrattato il fondo al prezzo di 80000 lire ad occhi bene aperti, dopo considerata ogni cosa, e ricominci a dolersi delle 1000 lire di imposta. Dapprima non oserà manifestare il dispiacere, poiché sa che tutti nel vicinato conoscono il prezzo da lui pagato e gli chiederebbero: «Forseché le 4000 lire non ti bastano sul capitale di 80000 lire da te spese?; col pretendere di tenere per te le 1000 lire dovute allo stato non chiedi l’altrui?» Col passar del tempo, accompagnati all’ultima dimora gli ultimi non immemori amici, le lagnanze prenderanno corpo; e, quando morirà, i figli saranno fatti persuasi, dal ricordo delle sue querele, che essi e non altri pagano le 1000 lire di imposta, le quali invece son roba dello stato, non foss’altro perché i proprietari attuali non ne hanno pagato il prezzo.

 

 

17. A porla dal verso dell’inurbato, punge la fitta del pensiero che, se quelle tali imposte non fossero esistite ed egli avesse potuto inurbarsi con 100000 lire in tasca invece di 80000 egli avrebbe potuto acquistare un appartamento del valore di 100000 invece che di 80000 e sarebbe stato lieto di pagare 100000 lire per la stessa ragione per la quale egli avrebbe potuto vendere il fondo a 100000 lire, ossia per l’assenza dell’imposta di 1000 lire all’anno che oggi gli riduce il reddito netto dell’appartamento da 5000 a 4000 lire? Quanti e se! Dimostrano, tutti questi e e se, che le 1000 lire d’imposta sulla terra venduta o sulla casa acquistata sono lire di un genere assai singolare. L’inurbato, se avesse preferito allogarsi in casa altrui, avrebbe dovuto pagare un canone di fitto di 6000 lire all’anno, ché a tal prezzo corrono gli appartamenti del tipo da lui preferito. Se acquista, egli deve rinunciare al reddito di 4000 lire che avrebbe potuto ottenere dall’impiego della somma posseduta, pagare 1000 lire di imposta all’erario e 1000 lire in ragione delle spese di gestione del fabbricato posseduto in condominio.

 

 

Forseché il pagamento dell’imposta di 1000 lire gli arreca dolore? Non certo a causa di un minor reddito del suo capitale; ché nessun altro impiego gli avrebbe dato più di 4000 lire. Non a cagion di un costo troppo alto dell’appartamento; ché il valore corrente del canone sul mercato è 6000 lire ed egli non paga più di tanto. Egli si può lamentare dell’imposta in astratto; potendo darsi che, se imposte non esistessero al mondo, gli appartamenti di quella fatta correrebbero forse sul mercato per 5000 anziché per 6000 lire all’anno; ma correrebbero per 4000 se, in aggiunta, non esistessero spese di condominio e per 3200 se, ancora, il saggio di interesse fosse del 4 anziché del 5%. Cosicché, di nuovo, l’imposta per Tizio, rustico inurbato, si riduce ad un generico rimpianto di non essere venuto al mondo nell’epoca del paradiso terrestre. Dallo stato di umbratile rimpianto l’imposta riacquista corpo a mano a mano che, invecchiando, egli perde la memoria dello stato di piena soddisfazione in cui egli visse quando investì le 80000 in un appartamento fruttifero di un canone lordo di fitto di 6000 e di un reddito netto di 4000 lire. La perdita della memoria economica è talvolta affrettata dal sopravvenire di tempi nuovi nei quali egli avrebbe potuto investire, se li avesse avuti liberi, i suoi denari al 6 od al 7%; e, non amando gli uomini analizzare i fatti spiacevoli, il nostro uomo, per inerzia mentale, trovò comodo dar colpa alla imposta del reddito decurtato da 5000 a 4000 lire. La leggenda o confusione mentale trapassando nei figli, questi si fanno agevolmente persuasi di soffrire solo perché non hanno diritto di trattenersi le 1000 lire, che il loro autore non acquistò mai, perché non ne pagò mai il prezzo. Può dirsi imposta o peso o gravame sostanziale una persuasione fatta di immaginari ricordi e di confusioni di calcolo?

 

 

18. Prendiamo nota del fatto: esiste un vasto campo nel quale l’imposta è ombra, fantasma irritante per chi in apparenza la paga, sa che essa è da lui pagata senza danno e frattanto si irrita di non potersela appropriare mentre passa per le sue mani. Curioso dolore quello di non potersi appropriare la roba d’altri; e siffatto da mettere in una luce insospettata il dolore che gli uomini affermano di sentire quando pagano imposte venerande come quelle sui terreni e sulle case o moderne come quelle sugli interessi e dividendi dei titoli pubblici e privati. Chi paga l’imposta quando non si conosce nessun uomo vivo che ne sia danneggiato ed un calcolo edonimetrico per uomini morti appare alquanto più difficile di quelli che con tanto scarso successo si istituiscono intorno agli uomini vivi?

 

 



[1] O ad 84 od 83 per eliminare l’altro fantasma, che non interessa il nostro problema, della ritenuta del tesoro per il servizio delle pensioni e dei sussidi di quiescenza o morte. Anche questo è un fantasma contabile, il quale cresce, senza costrutto, le cifre dei nostri bilanci.

[2] Perché nessuno statistico ha tentato di fare un calcolo, anche approssimativo, del modo in cui il totale reddito nazionale (ad ipotesi, 120 miliardi di lire annue) si distribuisce fra questi italiani, i quali traggono redditi dai bilanci pubblici e gli altri che li traggono dai bilanci privati? Il calcolo sarebbe certo spaventevolmente intricato; ma anche grandemente istruttivo. Uno scandaglio compiuto, anni or sono, da Maffeo Pantaleoni (La curva dei redditi degli impiegati dello stato, in «L’Economista», Firenze, 18 gennaio 1914) conforterebbe l’impressione di chi scrive essere il quoziente medio spettante a chi vive sui bilanci pubblici superiore al quoziente spettante a chi trae i proprii redditi da fonti private. L’impressione o voce corrente è notoriamente diversa; ma non sarebbe la prima volta che la voce pubblica è difforme dalla realtà.

Introduzione – Miti e paradossi della giustizia tributaria

Introduzione

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 10-20

 

 

 

 

Sono stato a lungo incerto intorno al titolo che più appropriatamente avrei dovuto dare a questo saggio. Non sarebbe stato del tutto malvagio un titolo che dicesse: In difesa dello stato contro i dottrinari; ché invero in tutto il mondo conosciuto la confraternita dei dottrinari sta diventando il pericolo «numero uno» per la pubblica finanza. Gli amministratori pubblici, coloro i quali, ministri delle finanze o direttori dei grandi servigi fiscali, governano la finanza degli stati contemporanei, debbono difendere accanitamente i sistemi vigenti, che bene o male funzionano e gittano miliardi, contro la mania riformatrice dei dottrinari che, andando in cerca della giustizia e non contenti della giustizia semplice grossa, che è la sola concretamente possibile, vogliono la giustizia perfetta, che è complicata e distrugge dieci per incassare uno.

 

 

I dottrinari sono quella certa gente la quale continuamente perlustra le leggi correnti nei paesi forestieri per segnalare al governo del proprio paese le imposte nuove, non conosciute in patria e, reputando sorpassato quel che è paesano ed antico, hanno sempre in bocca l’oltremontano ed il moderno. Rispetto assai la legislazione comparata, a condizione che chi se ne fa paladino conosca la legge nazionale, sappia le vicende e le ragioni della sua formazione e sia curioso della norma forestiera sovratutto e per lo più soltanto per riuscire a conoscere perché quella norma è adatta al paese in cui nacque e richiederebbe invece modificazioni profonde se la si volesse introdurre nel nostro. Il dottrinario è colui che, appena scorge un istituto, il quale gli paia buono, scritto nelle leggi russe o neozelandesi o peruviane, subito freme: osiamo noi rimanere indietro sulla via del progresso fiscale in confronto a popoli venuti al mondo tanto tempo dopo di noi? Il dottrinario legge in un libro qualunque o immagina egli stesso una scala nuova delle aliquote dell’imposta sul reddito, che gli par più bella e più razionale di quella vigente, meglio suffragata da una lunga dimostrazione in simboli algebrici ed illico pretenderebbe che il ministro delle finanze la facesse sua.

 

 

I dottrinari sono una delle sette piaghe d’Egitto ed, in punto di perniciosità pubblica, vengono dopo soltanto a quell’altra pestilenza detta in lingua italiana dei «periti» e più conosciuta nel linguaggio internazionale ginevrino sotto il nome di «esperti». Dottrinari e periti sono congiunti strettissimi, perché afflitti dal medesimo vizio mentale, che è la convinzione di essere chiamati da dio a risolvere «problemi»: il problema dell’imposta sul reddito o quello dell’imposta sui redditi o incrementi o guadagni di fortuna (conosciuti nel solito barbaro linguaggio moderno sotto il nome di guadagni di congiuntura o incrementi o redditi non guadagnati), il problema dell’oro, quello delle materie prime, o della svendita del vino francese o della seta italiana o del cotone e dei porci nord – americani. Per ogni qualsiasi problema, dottrinari e periti hanno pronto un infallibile rimedio. Il quale è, necessariamente, un impiastro su gamba di legno; ché non esistono «problemi», ma un problema solo, ad aspetti cangianti e numerosi, nessuno dei quali può essere mutato senza che tutti gli altri aspetti del mondo economico e sociale mutino in senso che, se è forse prevedibile al ragionamento, è offensivo alla «sapienza» del dottrinario ed alla «perizia» dell’esperto. Il dottrinario, avendo accarezzato col pensiero la sua bella imposta nuova, la quale «deve» colpire tale e tanta materia imponibile sinora sfuggita al dovere tributario, la deve colpire a tot per cento, ben graduato da tot coll’indice uno a tot coll’indice dieci, e «deve» fruttare mezzo miliardo, si indigna nel vedere che il nuovo giocattolo rende solo cento milioni, o, se frutta il previsto, un’altra vecchia imposta frutta seicento milioni di meno. I dati e calcoli non sono forse precisi ed inoppugnabili? Può darsi. Il sapiente uomo si era dimenticato soltanto che l’uomo contribuente è uno e che se può in complesso pagare100 non si può indurlo a pagare 120 con il pretesto che il 20 di più dovrebbe essere soluto con un’imposta dal nome nuovissimo.

 

 

Non ho scelto tuttavia di parlar male nel titolo dei dottrinari per non far supporre che volessi dir male dei professori. Se nella nostra confraternita si è talvolta intrufolato qualche dottrinario, fa d’uopo rivendicarci perlomeno un merito: quello di essere accessibili al dubbio. Anche se fummo, in un qualche momento della vita, sicuri di noi, anche se per un istante abbiamo formulato un nostro progetto, piccolo o grosso, di riforma tributaria, abbiamo poi finito per dubitare. Non si fa impunemente lezione e non si scrivono indarno libri e articoli. Giunge il momento in che quella la quale ci era parsa dapprima verità indiscutibile chiara intuitiva assume un contorno sfumato. L’interrogazione che si legge negli occhi dello studente non persuaso, la difficoltà improvvisa di mettere in carta il pensiero che avevamo esposto dinanzi con piena fiducia pongono nel nostro spirito il germe del dubbio. Il ripensare che facciamo intorno ai teoremi che ieri ci erano parsi veri ci insegna la modestia e ci persuade a non dar consigli a ministri, a direttori generali ossia a gente che, se anche ieri non sapeva niente delle cose al cui governo è stata preposta, oggi è costretta a tener conto della tradizione ricevuta dal passato, codificata nella norma di legge, divenuta azione viva nella pratica quotidiana amministrativa, ed insieme delle esigenze concrete della realtà, che gli studiosi non possono scoprire od inventar da sé. Divenuti modesti, i professori conoscono di aver un solo privilegio in confronto degli amministratori della cosa pubblica: il disinteresse intellettuale, che mette in grado di applicare lo strumento della logica, che essi forse coll’uso hanno raffinato, alla critica degli ordinamenti esistenti e di quelli che si offrono a sostituirli, per raggiungere tale o tale altro fine.

 

 

Poiché, col trascorrere degli anni, mi parve che l’uso di quello strumento mi conducesse ad attribuire un pregio singolare, sempre più alto, agli istituti fondamentali del sistema tributario italiano, ho pensato anche per un momento di dare al libro il titolo: In difesa o in lode della tradizione italiana. Ed in verità nel penultimo capitolo ricordo le memorande parole che Carlo Cattaneo, economista e patriota, scrisse nell’epoca del risorgimento in lode dei principii tributari che taluni grandi economisti italiani esposero a mezzo il settecento e che anche oggi ritengo superiori ai principii a torto umilmente ricevuti da una dottrina adorna di paludamenti cosiddetti scientifici. Finii per non accogliere quel titolo sia perché a quella lode ho consacrato soltanto le poche pagine di un capitolo, sia perché non intendo attrupparmi nella folla di coloro che nei paesi più diversi attendono alla inelegante fatica di rivendicare primati nazionalistici, come se la verità conoscesse confini territoriali e non fosse il frutto della collaborazione degli spiriti liberi di ogni tempo e luogo. Il titolo mi parve, inoltre, non accettabile, perché avrebbe fatto supporre che il libro volesse, commettendo il peccato medesimo di problemismo e di progettismo rimproverato ai dottrinari, presentare qualche soluzione concreta a problemi particolari, laddove invece esso intende dimostrare il vuoto, la illogicità, l’equivoco che si annidano in principii accettati, in frasi correnti, in dimostrazioni od affermazioni tramandate da un libro all’altro per inerzia mentale, per ossequio non ragionato a sentimenti a miti ad ombre pallide di cose che mai non furono o sono oggi morte.

 

 

La finanza cosiddetta moderna, la finanza, per intenderci, dell’imposta generale progressiva sul reddito totale o globale o complessivo, la finanza dell’imposta successoria pure progressiva a norma della fortuna del defunto o degli eredi o della quota ereditaria, la finanza alla quale i dottrinari del mondo universo vorrebbero far inchinare tutti gli istituti tributari, anche quelli che più vi ripugnano, è fondata, ricordiamolo, sul principio della massima felicitazione del massimo numero possibile degli uomini componenti la collettività. Se essa non si richiama a quel principio, resta senza capo. C’è un balbettio, ci sono parole sconnesse, si odono mozioni di affetto. Manca il ragionamento. Dal capo non si va alla coda. Anzi non c’è né capo né coda.

 

 

Orbene, havvi una verità sicura; ed è che al principio utilitario è impossibile assegnare oggi, in argomento di imposta, un significato(vedi il capitolo sesto). Un manipolo di dotti cerca da anni di scoprirlo. Ammiro quegli sforzi e li dichiaro degni di uomini veramente dotti. Ma non ammiro nient’affatto i dottrinari che si affrettano, innanzi che il significato sia scoperto, a sbandierare a destra ed a sinistra il sommo principio utilitario, a cavarne comandamenti precisi di fabbricare il sistema tributario così o cosà e ad insolentire tutti coloro che non si affrettano a buttare a mare le vecchie imposte per adottare quelle nuovissime fondate su parole che sinora sono il nulla assoluto.

 

 

Quando sapremo che cosa il sommo principio utilitario vuol dire, ragioneremo e dedurremo. Per ora, credo lecito insolentire a mia volta i dottrinari suoi adepti. Nel libro le insolenze contro i dottrinari, distinti nelle due categorie dei giustizieri (utilitaristi consapevoli o non) e degli aritmetici non sono poche. E sono volute e ripetute. Non ho trovato mezzo migliore per rifare il verso ai pappagalli, i quali ripetono le consuete frasi fatte, senza curarsi di analizzarne il significato, anzi senza chiedere a se stessi se le parole che essi ritualmente pronunciano abbiano un senso qualsiasi. Allo scopo di mettermi nello stato di grazia antidottrinaristica, ho chiuso, mentre scrivevo ed anzi qualche tempo innanzi di mettermi a scrivere, tutti i libri della scienza finanziaria, interdicendomi di consultarli per citazioni e riferimenti, eccetto quando intendevo ricordare qualche nome a titolo d’onore. Il dottrinario da me insolentito non è perciò nessuno in modo particolare; è un composito da me fabbricato ad arte dell’uomo colpevole di tutte quelle che a me paiono perversioni intellettuali nel campo della finanza. Non appartiene all’Italia più che alla Francia od all’Inghilterra o alla Germania. È il cittadino del mondo, il quale talvolta ha letto troppo ed ha letto male, talaltra non ha letto nulla ed espone le idee che gli sono venute in mente per rigenerare l’umanità fiscale; è un composito di professore, di uomo della strada, di riformatore, di demagogo; è colui che non ha pace se non fa scendere la giustizia sulla nostra miserabile terra afflitta da tante imposte antiquate fruste sperequate; è l’incudine, innocente nella sua ingenua aspirazione verso il perfezionamento universale, sulla quale è piacevole battere col martello della critica.

 

 

La fabbricazione del fantoccio dottrinario oggetto delle premeditate insolenze del libro non è in verità impresa difficile. Basta guardare in fondo alla nostra coscienza. Chi non si è sentito talvolta un impulso irresistibile a rompere la testa all’avversario per avere pronta ragione in una disputa? I freni mentali che l’abitudine del discutere ha educato in ogni studioso spengono subito la fiammata intollerante. Chi non si è sentito dottrinario in qualche momento della vita? Chi non ha formulato un bel progetto per risolvere questo o quel problema urgente?[1] Di nuovo, il freno della critica, lentamente perfezionato, consiglia a dubitare, a riflettere alle ripercussioni del rimedio proposto; ed il progetto sfuma od assume altra forma.

 

 

La tentazione che ci spinge al dottrinarismo talvolta è fortissima. Nella realtà della vita spesso la scelta non è fra il bene ed il male; ma fra il male maggiore ed il male minore. Quando lo studioso ha superato la prima ripugnanza verso il male minore, egli scivola irresistibilmente lungo la china del dottrinarismo puro. Lo studioso, il quale si persuade che, se un dato congegno, in sé cattivo, non approdi, altri congegni peggiori saranno escogitati ed attuati, finisce per dare opera zelantissima alla costruzione di quell’istituto che, nel profondo della sua coscienza, non può approvare.

 

 

Bisogna riconoscere che, nonostante la umana assoluzione dei più, siamo qui di fronte ad un caso di trahison des clercs. Lavorare su premesse altrui, per allontanare il male maggiore, può essere, anzi è, doveroso per l’uomo politico; è illecito per il chierico della scienza. L’uomo politico ha la responsabilità dell’operare che è sempre una scelta fra parecchie soluzioni, una risultante di molti fattori. Il chierico ha la responsabilità del pensare e deve unicamente pensare la verità. All’uomo politico spetta attuare o non le conclusioni del ragionamento. Il chierico assolverà il politico anche se questi, tenuto conto di contingenze di fatto, di contrasti tra forze opposte, non ha attuato in tutto il vero. Ma, chierico, egli deve assolvere esclusivamente all’ufficio suo che è di pensare rettamente, nei limiti delle sue forze intellettuali, ed esporre i risultati genuini della sua meditazione.

 

 

Al chierico – e per chierico intendo colui il quale ha assunto, senza che da nessuno fosse costretto, il compito di addottrinare altrui colla parola o collo scritto – non è lecito esporre verità condizionata, subordinata ad un dato punto di vista. Non è lecito discorrere di imposta straordinaria patrimoniale, partendo dalla premessa che la sua istituzione debba considerarsi un postulato dell’indagine, perché il governo del tempo, ad esempio quello del 1920-21, l’aveva dichiarata necessaria. Per il chierico non esiste nessuna premessa necessaria, né questa né l’opposta del ministro italiano del 1924, che nell’aula del Senato dichiarò «stupidissima» quell’imposta. L’abolizione dei titoli al portatore, proposta in Italia nel 1920 o l’obbligo del libretto delle cedole (carnet des coupons) messo innanzi in Francia, ambi per evitare le evasioni dei titoli al portatore, non sono premesse necessarie per il chierico della scienza. Il «punto di vista» che altrimenti si dice «opportunità o necessità politica del momento» non esiste per il chierico. Non già perché non sia fattore importantissimo di avvenimenti e perciò degnissimo di studio, ma perché esso, così formulato, non si sa che cosa sia. O noi siamo in grado di dare al punto di vista, alla ragion politica, alla conformità al regime vigente in un paese un contenuto preciso, siamo cioè capaci di elencare con parole precise i fini che si vogliono raggiungere con una data imposta, per esempio quella straordinaria patrimoniale e descrivere la struttura che a questa si vuol dare, ed il chierico potrà in primo luogo studiare se quel fine o quei fini si possano raggiungere e, se possibili, siano desiderabili e per quali persone, gruppi di persone o ceti sociali siano desiderabili; in seguito indagare se lo strumento scelto  (imposta) si possa creare e, se costrutto nei varii modi possibili, esso sia mezzo adatto od il più adatto a raggiungere il fine od i fini voluti; e finalmente ricercare quali risultati coincidenti o contradditori col fine postulato sia probabile derivino dalla sua attuazione. O noi non siamo in grado di così definire e precisare mezzi e fini e ci limitiamo ad affermare che la coscienza popolare, le correnti politiche ed ideali dominanti, i tempi nuovi o moderni, il sistema politico vigente vogliono quel mezzo e quei fini; e dinnanzi all’atto di fede il chierico si inchina e si ritira. Egli ha qualcosa da dire dinnanzi al tribunale della ragione; deve tacere dinnanzi al comandamento imposto dalla fede.

 

 

Il politico non ha interesse a chiedere la collaborazione dei chierici se non entro i limiti logici proprii del loro ufficio di studiosi. A lui non servono i ripetitori, sibbene giovano moltissimo critici, i quali, senza giudicarle, chiariscono, definiscono, riducono al nucleo essenziale le premesse che i politici pongono alla propria azione e ragionano logicamente intorno alle illazioni che se ne possono trarre ed ai risultati che ne possono derivare. Al politico il quale agisce giova la collaborazione dello studioso il quale constata le diverse vie che si possono seguire per raggiungere un fine (ad esempio imposta a od imposta b o c ecc.), ne esamina il diverso contenuto e tenta di prevederne i differenti risultati. Questa collaborazione serve al politico il quale ha differenti fini dinnanzi agli occhi e desidera conoscere i risultati probabili dei diversi mezzi all’uopo a lui offerti. Non giova invece la collaborazione offerta dal dottrinario il quale all’imposta a dà il nomignolo di liberale o reazionaria o democratica o socialistica o corporativa e senz’altro la condanna o la esalta a seconda del nomignolo appiccicato. Questa è pura confusione di lingue. L’imposta a è l’imposta a e nient’altro. Essa produrrà effetti non in funzione dell’aggettivo o nomignolo con cui ci compiacciamo di qualificarla, ma esclusivamente in ragione di quella che è la sua materia imponibile (reddito dei terreni o dei fabbricati o reddito totale definito così e così o unità di peso di zucchero o di frumento od unità in numero di sigarette e simili), di quelli che sono i contribuenti soggetti dell’imposta (persone fisiche o persone giuridiche o tutte due insieme o negozianti importatori o industriali fabbricanti), di quella che è la misura e la scala della sua quantità (tariffa o aliquota costante o variabile e come variabile), di quelli che sono i metodi di accertamento (per dichiarazione, con giuramento, per valutazione d’ufficio individua o per classi ecc.). Se si conoscono questi ed altri connotati precisi si può compiere l’esame critico dell’imposta offerta all’uomo politico. Se no, il chierico non ha niente da dire; e può tranquillamente abbandonare il campo alla boria ariosa e sufficiente del dottrinario.

 

 

La differenza fra il dottrinario e lo studioso puro e semplice è notissima nelle scienze da tempo costituite, le quali sono riuscite ad esporre postulati e teoremi sicuri; è bastevolmente nota nella scienza economica, la quale vanta circa due secoli di esistenza; è ancora contestata nella scienza finanziaria, che pure risale, come raccolta di notizie e di regole, più indietro nel tempo della sua maggior consorella. Nella nostra scienza non si seppe ancora uscire fuor del campo delle regole, dei consigli, dei servizi resi ai governanti. Essa è tuttora il territorio di caccia preferito dal dottrinario, il quale è fecondissimo e felicissimo in partorir progetti consigli regole. Finché rimanga a coltivar scienza finanziaria chi è persuaso che le premesse del discorso siano norme che il ricercatore deve, senza discutere, accettare dal politico, la scienza non può essere elaborata e da essa il politico non può ricavare alcun costrutto. I consigli utili, le regole feconde possono esclusivamente essere date dallo studioso il quale non si propone di dare alcun consiglio e di suggerire alcuna regola. La scienza non ha e non può avere fini pratici. Appena essa tenta di proporseli, isterilisce. Lo studioso è un venturiero, il quale va alla ricerca della verità. La premessa, il punto di vista, l’ideale sono per lui meri strumenti provvisori di lavoro. Se, adoperando uno di quegli strumenti, egli riesce a ricavarne illazioni importanti, continua a servirsene. Se no, lo butta via e ricorre ad un altro strumento, per saggiarne la qualità e la fecondità. Nessun principio tributario è sacro ed inviolabile dinanzi al tribunale della ragione. Tutti sono chiamati a dar ragione di sé e, se trovati calanti, restituiti al nulla dal quale provengono.

 

 

Tre quarti del saggio sono destinati a misurare e trovar calanti certi solenni cosidetti principii di giustizia tributaria. Per lo più codesti principii sono meri sofismi. Frequentissimo è il sofisma dello scambio fra mezzo e fine.

 

 

Si voglia tassare un gruppo di contribuenti con un’imposta sul reddito ad aliquota variabile crescente dal minimo dell’1% al massimo del 10%. Questo è il fine da raggiungere.

 

 

I mezzi adottati per raggiungere il fine possono essere diversi. Il primo, che si dice dell’imposta progressiva sul reddito globale del contribuente, chiama a raccolta i contribuenti stessi e li invita a dichiarare, prima negli addendi singoli e poi nel totale, il loro reddito. Si scopre ben presto o si crede di scoprire che parecchi o molti contribuenti non dichiarano tutti gli addendi ed in particolare modo tacciono del reddito ricavato dai titoli al portatore. Il dottrinario giustiziere si indigna e, con minaccia di severe sanzioni, escogita norme severissime: obbligo di giuramento, schedario nazionale, investigazioni di polizia, divieto alle banche e casse di pagamento delle cedole di interessi e dividendi a chi non si presenti munito di libretto da ostendersi agli uffici delle imposte.

 

 

Vi ha un secondo metodo, che talun osservatore o studioso non afflitto da satiriasi tributaria si ostina a reputare meno fastidioso per il contribuente e più redditizio per lo stato. Vi ha chi crede vantaggioso tenere i titoli nella forma al portatore? Li tenga e si vada con dio, assolto da ogni obbligo di dichiararli agli effetti dell’imposta complementare progressiva sul reddito globale ecc. ecc. Ma stato province comuni società ed ogni altro ente il quale abbia emesso titoli al portatore, trattengano all’atto del pagamento degli interessi e dividendi un’imposta surrogatoria alla sullodata sul reddito complessivo ecc. ecc. in misura uguale al massimo dell’aliquota: 10%. Anzi, a controbilanciare il danno eventuale che l’erario potrebbe soffrire per i pochissimi posti nei gradi più alti, i quali dovrebbero, se denunciassero tutto il reddito, pagare, a cagion d’esempio, il 10% ed invece, col denunciare soltanto parte, cadono, anche per la parte del reddito non proveniente da titoli al portatore, in classi soggette all’aliquota inferiore dell’8% e riescono forse a non pagare o a non far pagare ai loro figli od eredi certe minori imposte, pure personali, come l’imposta sui celibi e quella di successione, le cedole siano colpite da una trattenuta del 15%.

 

 

Niun dubbio che il secondo sistema è vantaggioso a tutti: all’erario, il quale riscuote certissimamente su tutti i titoli al portatore, senza la minimissima possibilità di frode, il 15%, ossia più del massimo che riscuoterebbe da taluni pochissimi contribuenti; ed ai contribuenti i quali, in compenso del più cospicuo, astrattamente indebito, tributo assolto, hanno il vantaggio di possedere il titolo nella forma al portatore, preferita per la comodità di vendere, di far denari con riporti ed anticipazioni e per il vantaggio di non far sapere alla moglie, ai figli, ai parenti, ai curiosi i fatti proprii. Mai no! inorridisce il giustiziere tributario. Scopo di un buon ordinamento tributario non è di far pagare le imposte col massimo rendimento per lo stato e col minimo fastidio dei contribuenti. Una imposta non è «moderna», non sente i tempi nuovi alla moda mondiale, se non è congegnata in maniera da far riempire al contribuente grandi moduli, da fargli correre ad ogni momento il rischio di pagare qualche multa, da rendergli infelice la vita con minuti fastidi e con la privazione delle comodità che egli si è procurato attraverso a lunga esperienza e che non fanno male a nessuno. Tra l’esigere 15 senza noie, con una mera trattenuta, senza entrare nei segreti della vita di nessuno, e l’esigere 5 e forse meno a prezzo di fastidi indicibili, la scelta non è dubbia. Il giustiziere dottrinario preferisce il 5. Scopo dell’imposta non è di procacciar fondi all’erario, bensì di recar noia al contribuente. Se questi offre 15 pur di essere lasciato tranquillo, gatta ci cova. Perché costui non vuol farti sapere i fatti suoi, tutti i fatti suoi? Certo, ragiona il giustiziere fronte popolare francese, costui appartiene alle 200 famiglie che ieri erano annidate nella Banca di Francia ed oggi cospirano al discredito dello stato ed alla rovina del franco.

 

 

Dinanzi a codesti energumeni della giustizia tributaria, i legislatori e gli studiosi hanno talvolta la debolezza di compiere qualche rituale genuflessione. Pure tenendosi fermi al 10 al 15 sicuro, l’uomo di governo sente talvolta il bisogno di dire: «La teoria vorrebbe …, la giustizia esigerebbe… che tutti i contribuenti fossero obbligati sotto pena di multe gravissime – talun ossessionato socialista o comunista è disposto ad andare sino al carcere ed alla fucilazione – a pagare il dovuto 5% dopo veridica dichiarazione, anche del reddito dei titoli al portatore. Per semplicità, dati i bisogni dell’erario, ci contentiamo di far pagare il 15% senza dichiarazione, intercettando l’imposta all’origine, prima che il reddito raggiunga il contribuente. Chiediamo umile venia per tanto delitto, che, appena i tempi volgeranno tranquilli, cercheremo di non più commettere».

 

 

È necessario dire chiaramente che la scienza la teoria la giustizia non richieggono nulla di quanto pretendono i dottrinari? Gli uomini di governo facciano tranquillamente gli sberleffi a codeste scienza teoria giustizia piene di vento. Nessuna scienza, nessuna teoria e nessuna giustizia comandano di compiere atti senza senso. Alla geenna, i dottrinari che si innamorano di una imposta, la complicano, la perfezionano, la sfaccettano, la cesellano e finiscono a persuadersi che sia scienza quella certa cosa che serve a creare gingilli fragilissimi invece che a semplificare strumenti concreti di tassazione. Alla geenna, i dottrinari i quali costruiscono od accettano dai contabili una definizione del reddito la quale ha significato meramente aritmetico e su questa base, di cui non si conosce (vedi il capitolo settimo) il contenuto sostanziale, additano al disprezzo pubblico i frodatori dell’imposta; laddove basterebbe mutare la definizione del reddito, perché i pretesi frodatori diventassero cittadini ossequentissimi alla legge. Il quesito vero posto all’uomo politico è: le definizioni a quale scopo sono create? Intendono essi a moltiplicare il numero dei frodatori, a creare occasioni e stimoli a malfare, ovvero ad eliminare attriti, conducendo gli uomini a pagare volenterosamente quel che devono pagare? Poiché il legislatore è arbitro di scegliere la definizione che a lui meglio piaccia, poiché nessuna legge umana o divina gli comanda di seguire l’una via piuttosto che l’altra, poiché dinanzi al tribunale della ragione l’una definizione val l’altra ed anzi la definizione aritmetica (cfr. il capitolo settimo) ha valore meramente aritmetico, nullo ai fini tributari e la definizione inventata da certi italiani nel secolo XVIII (vedi il capitolo decimo) o quella elaborata dagli inglesi durante il secolo XIX sono state create a bella posta a fini tributari, par lecito conchiudere che il legislatore possa scegliere, facendo le fiche ai dottrinari, la seconda o la terza definizione piuttosto che la prima, senza che la signora «scienza» vi possa trovare nulla a ridire.

 

 

La signora «scienza» delle finanze ha un solo dovere: quello di cercare la spiegazione logica degli istituti tributari. Quando lo storico ha indagato le origini di una imposta ed ha precisato le forze politiche fiscali e sociali che condussero alla sua istituzione, entrano in campo due personaggi: il giurista e l’economista. Il giurista ricostruisce la norma vigente; ne interpreta il comando alla luce dei principii generali di diritto e della mente del legislatore. Egli interpreta questa mente, in parte fondandosi sulle ragioni addotte dal legislatore; ma se queste ragioni contrastano con il chiaro significato proprio della specifica norma scritta e delle altre norme alle quali nel sistema essa deve essere coordinata, egli la interpreta secondo le regole della ermeneutica giuridica, partendo dalla premessa che quella norma vive in un sistema, per quanto è possibile, armonico e coerente. Il giurista interpreta, non critica il legislatore. Il giurista parte dalla premessa che la sola causa dell’imposta è la legge. Il cittadino è obbligato a pagare imposta non perché lo stato abbia reso o non reso servizi, ma perché tale è il comando della legge. Il cittadino non può arrogarsi il diritto di rifiutare il pagamento dell’imposta perché lo stato, a parer suo, invece che servizi, gli ha reso disservizi. Paghi e non fiati. Quando la legge esiste, ci vuol poco a capire che il contribuente non ha d’uopo di cercare altro; egli paga perché tale è l’ordine del legislatore.

 

 

L’economista invece non ha limiti alla sua curiosità. Il suo mestiere «specifico» è quello di indagare il perché della legge. Del resto, neppure il giurista limita il suo ufficio a quello dell’interprete. Interpretando, eccita il legislatore a modificare le norme vigenti, quando esse siano imperfettamente formulate o contrastino con altre norme, pure vigenti, le quali paiano preminenti. La preminenza è determinata talvolta dalla circostanza che il legislatore ha formulato «nuove» norme le quali contrastano con le «antiche»; sicché ambe non possono operare al tempo stesso. Mettendo in luce il conflitto, il giurista costringe il legislatore a meglio dichiarare la sua mente, sia revocando la norma nuova, se questa fu dovuta a circostanze contingenti, sia modificandola per adattarla al sistema antico, sia riformando via via questo per rinnovarlo. Anche nel diritto tributario, il giurista, interpretando, crea o stimola a creare un nuovo diritto. L’economista, tuttavia, non è sottoposto ai vincoli proprii del giurista. La mente, la volontà del legislatore non ha valore per lui se essa non sia razionale; se cioè lo strumento creato dalla norma legislativa non sia adatto a raggiungere il fine voluto; se lo strumento creato a dare 100 allo stato reca al contribuente il danno di 150; se lo strumento creato per colpire Tizio in realtà cade su Caio. Le motivazioni, le spiegazioni, le norme medesime non sono testi da interpretare; sono meri fatti da spiegare, di cui si ricerca la connessione con altri fatti e con gli effetti prodotti. Agli occhi dell’economista non basta si dica con aria compunta: così vuole la norma di legge. Se quella volontà è razionale, le norme scritte in seguito a quella manifestazione di volontà devono essere analizzabili e le definizioni, le premesse ed i comandamenti che in quelle norme sono contenuti devono potersi ridurre a proposizioni rigorose.

 

 

Il rigore della proposizione non balza fuori sempre nitido dalle pagine degli economisti, specie di quelli i quali attendono allo studio della pubblica finanza, perché essi, antichi e moderni, si fanno non di rado trascinare dalla passione ad esporre teorie sotto forma di consigli. La tentazione che spinge a dire: l’imposta deve essere congegnata così o cosà è spesso troppo forte perché tutti sappiano resistervi. Consiglio un po’ di carità cristiana quando ci si imbatte in pseudo-consigli. È vero che la scienza non ha per compito di formulare precetti di condotta, di dire ciò che si deve fare. Essa spiega i fatti, ragiona da premesse, connette gli effetti alle cause, deduce i probabili effetti dalle premesse poste, osserva le interdipendenze dei fenomeni; e lascia poi che gli uomini gli statisti facciano a lor talento, paga di constatare che se operano in un dato modo nasce un dato effetto e se operano in altro modo nasce effetto diverso. Il dottrinario, come dissi sopra, si distingue dallo studioso appunto perché egli è sempre occupato a formulare progetti ed a dar consigli; laddove lo studioso predilige la ricerca degli effetti delle azioni umane. Tuttavia la boria con la quale cotal verit… divulgatissima è ripetuta mi è sommamente antipatica. Cominciò, purtroppo, Pareto, che era un grande scienziato, a trattare con sussiego gli economisti detti letterari, i quali imperfettamente avevano posto in linguaggio volgare quei teoremi che altri, fra cui Walras e lui stesso, riesposero poi rigorosamente e perfezionarono; o, discorrendo, usavano la terminologia normativa invece di quella teoretica. Pur ammirando coloro i quali, quasi distaccati dal mondo, sanno conservare la terminologia rigorosa o teoretica dal principio alla fine dei loro saggi o libri, considero ingiusto, anzi indecente, il disprezzo facile con cui taluno di loro guarda ai poveri diavoli – talvolta questi poveri diavoli si chiamano Galiani o Smith o Ricardo o Ferrara! – i quali non sapevano di matematica od, appassionandosi alle cose terrene, uomini tra uomini, trascorrevano dal linguaggio puro teoretico a quello normativo e davano consigli, offrivano ricette di buona condotta agli uomini e tracciavano programmi di azione. Giù la boria! Quel che monta non è la veste con la quale una verità è espressa, ma la verità medesima. Spesso basta sostituire un modo, un tempo, un aggettivo e la proposizione da normativa diventa teoretica. Si leggano le seguenti proposizioni:

 

 

Normative

Teoretiche

 

Tesi A:

 

 
Il legislatore deve promuovere i contratti a termine perché essi assicurano ai produttori prezzi costanti.

 

I contratti a termine sulle merci

hanno per effetto una maggiore

costanza dei prezzi nel tempo.

 

 

Tesi B:

 

 
Il legislatore deve mettere in galera gli speculatori a termine come nemici dei produttori. I contratti a termine sulle merci

hanno per effetto di ribassare i

prezzi.

 

 

 

La disputa veramente feconda dal punto di vista scientifico non è quella tra formulazione teoretica e formulazione normativa. Qualunque studente, che sia stato soggetto ad un tirocinio anche mediocremente rigoroso, è capace di meritarsi un bel voto svolgendo, come esercizio di scuola, il tema della versione dall’una all’altra formulazione. La seconda è intuitivamente preferibile alla prima, perché aiuta a pensar bene. Tutto ciò però non deve farci dimenticare che il vero dissidio, quello sostanziale, quello che interessa scientificamente non è fra il normativo e il teoretico, che è forma, ma fra le due tesi A e B. Quale delle due tesi è vera, ossia atta a spiegare la connessione fra contratti a termine e prezzi delle merci? Od è vera una terza tesi C, quella che, se non ricordo male, l’amico Bresciani-Turroni confortò, anni fa, con riprove statistiche sapientemente raccolte e interpretate, essere per ora non dimostrata la connessione esistente fra i contratti a termine ed i prezzi delle merci, od almeno non dimostrato il rapporto fra le variazioni dell’un fatto e quelle dell’altro fatto? Qui è il terreno fecondo della disputa, non l’altro, delle frasi che adopereremo per formulare la verità dimostrata. Useremo ad ogni volta la terminologia più conveniente a seconda dello scopo che ci proporremo: se vorremo, ad esempio, battere sul testone di un professore incaponito nel difendere la tesi B, per ipotesi dimostrata falsa, adopreremo la veste teoretica; se ci toccherà combattere un demagogo ansioso di mandare in galera i suoi nemici, adopreremo la veste normativa. Saremo in ambi i casi sul terreno scientifico; s’intende ove prima si sia dimostrata la verità della tesi A. Se qualcuno darà, adoperando la forma normativa, la dimostrazione rigorosa della verità della proposizione A, noi faremo a lui tanto di cappello; e tratteremo da pirata presuntuoso colui che, venuto dopo, si limitò a tradurre con gran cipiglio in linguaggio teoretico la già nota dimostrazione; e, per accattar dolosamente dai semplici fama di scopritore, cominciò col dire vituperi contro chi, giunto prima a formular la verità, fu reo del delitto capitale di scrivere in linguaggio normativo.

 

 

Importa, qualunque sia il linguaggio, che l’indagine chiarisca il significato delle parole adoperate e delle definizioni date, deduca rigorosamente dalle premesse poste le illazioni di cui esse sono feconde, dimostri quali effetti derivino da determinate cause. Quel che il ricercatore mosso dal puro culto della scienza odia è l’indistinto, il confuso, l’emotivo, l’imponderabile. Che sono, anche essi, oggetto degnissimo di studio; ma si deve sapere che sono l’indistinto, il confuso, l’imponderabile. Segnalabile, fra le parole di questo tipo, è la coppia «capacita contributiva» la quale tiene così gran posto nei trattati di finanza. Quella coppia di parole sfugge tra le dita, sguscia inafferrabile e ricompare ad ogni volta inaspettata e persecutoria. Il significato varia a seconda dei tempi, dei luoghi, degIi scrittori, delle pagine differenti del medesimo libro. Con essa si spiega tutto; si fa entrare nel od uscire dal concetto di reddito o di capitale tutto ciò che si vuole. L’economista, il quale non sarebbe tale, se non fosse loico, odia perciò quelle come tante altre parole prive di senso; e volentieri le abbandona allo psicologo, al politico ed allo storico. Chiedo venia sin d’ora per quei peccati che, involontariamente, trascinatodall’andazzo di tanti, commetterò nel seguito del libro usando inavvedutamente parole le quali paiono corpo e sono ombra vana.

 

 



[1]Dottrinario a cagion d’esempio, poteva essere definito l’autore del presente volume quando scriveva, tra il 1900 ed il 1901, articoli raccolti in opuscolo col titolo Per la giustizia tributaria (Torino 1901). Il contenuto – imposta sul reddito concepita come strumento per abolire asfissianti dazi protezionistici e per dare elasticità al bilancio – rientra, oggi come ieri, nel quadro della buona finanza. Il titolo scritto sul frontespizio non comporta definizione, la quale non sia dottrinaria.

Prefazione – Miti e paradossi della giustizia tributaria

Prefazione

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 1-9

 

 

 

 

Rileggendomi dopo tanti anni, confesso di essermi divertito.

 

 

Non mi sembrò di leggere pagine di quelle scritture in fondo noiose le quali formano il succo delle trattazioni intorno all’imposta; e poiché, come è naturale, mi volli spiegare i mancati sbadigli, credetti di aver trovato la risposta giusta: il libro è un trattato dell’imposta, ma non se ne dà l’aria e forse non lo è. Che cosa è un trattato, nelle nostre discipline? Dico nelle nostre, perché sono persuaso che in molte altre discipline e principalmente in quelle matematiche, fisiche, naturali, tecniche, giuridiche fa d’uopo che lo studente abbia modo di conoscere lo stato della scienza in un certo momento e l’insegnante dia modo agli uditori di apprendere anche le nozioni che la brevità del tempo non ha consentito di approfondire nella scuola. Nelle nostre discipline e massimamente in quelle umanistiche – e tra esse orgogliosamente colloco quelle economiche – quale significato ha il trattato, il manuale, il compendio? salvo quello, in tutto volgare e talvolta contennendo, di aiuto mnemonico alla formazione dello sputo con il quale certe nozioni sono dal giovane appiccicate alla memoria per il solo giorno degli esami? Gran voga hanno, all’uopo, i compendi dei compendi, le sinossi, le tabelle con graffe e sottograffe, grazie a cui il giovane riesce a mettersi in testa «tutta la materia» per quella sola mattinata degli esami.

 

 

Gran nemica dei buoni studi la superstizione della materia! A cominciar dal liceo, ne siamo ossessionati, discenti e docenti; ed è ossessione che a poco a poco scema l’agilità mentale e la attitudine alla simpatia degli insegnanti verso gli scolari e li riduce, senza avvedersene, dopo dieci anni, a monotoni ripetitori di nozioni tante volte esposte, le quali un po’ per giorno, inavvertitamente, perdono quel che c’era in esse di vivo e ne rimane la foglia secca arida al tatto ed all’intelletto. Dai Principii di Pantaleoni, dove ogni parola è un concetto, è uno stimolo, è una illuminazione si passa ai Sunti di Cossa, dove tutto è perfetto, dove le parole sono pesate con la bilancia dell’orafo, ma sono tutte insipide e, se falla la memoria, è impossibile ricordarle. A distanza di qualche decennio, venuta meno la generazione da cui erano nati, chi si ricorda dei trattati? salvo dei pochi che nacquero perché l’autore aveva bisogno di creare il capolavoro? e questi pochi certamente non avevano dato fondo alla «materia».

 

 

La superstizione della «materia» avvelena la vita accademica molto al di là della scuola ed aggrava il danno di questa. Quante volte, nelle discussioni per la scelta dei concorrenti a cattedre universitarie, non abbiamo, esterrefatti, sentito o letto: il candidato è bravo, è costruttore, espone idee non comuni; ma si è occupato solo di un capitolo, di una parte della materia messa a concorso; od ha dato prova di valentia scientifica in una terra di confine, che non è quella propria della disciplina nostra. Auguri per quando avrà scritto qualcosa per dimostrare che è padrone dei campi principali della disciplina. Frattanto, passi avanti l’uomo ordinario che ha scritto un po’ di tutto. Per lo più, l’argomentazione è mero pretesto per mettere fuori combattimento chi non appartiene al gruppo dominante dei giudici del concorso; e, fortunatamente, non sempre riesce: ché di fronte all’uomo di valore, la compiutezza della ricerca nella intiera materia è messa da parte e prevale l’altro principio del semel abbas, semper abbas; chi ha dimostrato di possedere l’unghia del leone in un campo anche piccolo, anche in terra nullius, leone resta, anche se per avventura non ha dimostrato di aver ficcato l’unghia dappertutto.

 

 

Quante parole per dire che questi miei Miti e paradossi sono, a parer mio, un trattato anzi meglio di un trattato dell’imposta! Migliori, perché meno noiosi, meno sistematici, assai meno compiuti; e perché lasciano nell’ombra la maggior parte degli argomenti solitamente svolti nella disciplina tributaria! Ma, in compenso, discutono taluni dei problemi essenziali; cercano di mettere in chiaro come i più dei principii pacificamente accettati non sono affatto «inconcussi»; anzi non sono nemmeno il principio di veri principii, sono idee qualunque, le quali hanno acquistato diritto di cittadinanza fra studiosi, legislatori e pubblico, per semplice prescrizione ab immemorabile. Tutti credono di sapere che cosa è il reddito e si ergono accusatori contro coloro i quali non denunciano il reddito vero, l’unico, l’immarcescibile reddito; che, viceversa, nessuno sa che cosa veramente sia, perché i redditi «veri» sono tanti quanti sono i fini per i quali si costruisce il bilancio dell’impresa e quante sono le ipotesi, tutte legittime, legittimissime, in base a cui si possono fare le valutazioni delle singole partite attive e passive del bilancio.

 

 

Che cosa è un doppio d’imposta? La più parte di quelli che sono detti doppi non sono tali, se non per l’innocenza di chi ne parla; ed i pochi veri casi di doppio sono raffinati e complicati e per lo più negati dai periti.

 

 

Perché si grida «raca!» alle imposte sui consumi e si lodano quelle sul reddito? Perché si bada ai caratteri secondari dell’istituto, alle sue modalità di applicazione e non alla sostanza.

 

 

Perché la «giustizia» è, per molti, propria esclusivamente della progressività, specie se confiscatrice? Perché si fanno ipotesi indimostrabili sulla possibilità di paragonare, addizionare e sottrarre le sensazioni di due o più uomini e si pongono ipotesi arbitrarie ed uniformi sulla decrescenza delle utilità delle successive dosi di ricchezza possedute da due o più uomini.

 

 

Che cosa è un sovrappiù, un aumento di valore capitale oltre al valore detto originario? È la proiezione al momento presente delle quantità crescenti di reddito le quali fluiranno da una data fonte; quantità le quali sono destinate ad essere colpite dalle imposte normali. La gente frettolosa immagina invece di avere scoperta materia nuovissima di tassazione; e giù imposte sui sovrappiù, che sono doppi di quelle che già si pagano e si pagheranno sui redditi.

 

 

Perché definire «esenzioni» quelle che sono invece mere dichiarazioni di non esistenza del reddito, il quale, non esistendo, non può essere tassato? L’uomo «fiscale» il quale ha abbrancato la preda e vede che questa gli sfugge, preferisce attribuire al suo animo misericordioso la largita franchigia dall’imposta; non volendo riconoscere mai che sua era la malefatta del tassare ingiustamente.

 

 

E così via: nella materia tributaria l’analisi critica deve prendere inizio dalle parole usuali: a partire dalla prima fra tutte, quella medesima di imposta. Alla quale fa d’uopo togliere di dosso la taccia di qualcosa che «pesa», che «grava», che «porta via». L’imposta, se propria di uno stato organizzato per il servizio dei consociati, non pesa, non grava, non porta via nulla; anzi aumenta il reddito, cresce la quantità delle cose buone che gli uomini cittadini hanno o ricevono, cresce il reddito nazionale totale. L’imposta pesa, grava, porta via, diventa taglia se i governi sono tirannici, oppressivi; se, rispettate le forme legali, la somma delle cose è caduta nelle mani del tiranno, di una oligarchia, anche se tiranno ed oligarchia professano di governare in nome dei più e questi «più» sono, per scherno, detti lavoratori o proletari e dichiarati signori delle ricchezze esistenti nel paese.

 

 

Quanto male si usa dire del debito pubblico! Anch’esso pare qualcosa che gravi, che pesi, che schiacci le generazioni presenti e future per colpe commesse dagli uomini del passato, i quali si distrussero a vicenda e mandarono in rovina il paese per le loro manie di rivoluzioni e di guerre; ed invece sovente il debito pubblico è un fantasma, di cui nessuno sente l’onere; è un nugolo di pezzi di carta, i quali circolano senza tregua, e danno luogo a scritturazioni senza fine e senza altro risultato, fuor di quello di occupare gli amanuensi chiamati a scrivere qualcosa sui «gran» libri del debito pubblico.

 

 

Forseché la critica delle parole senza senso, o stortamente adoperate o ingannatrici non è dunque la introduzione necessaria dei trattati sulla materia tributaria? Non è forse l’ironico sorriso opposto alla solennità delle pagine, nelle quali si continuano ad usare parole e concetti, che forse sono ombre che mai non furono, luci vive di mondi morti da millenni?

 

 

Perciò in queste mie «Opere» non collocherò un trattato o principii di scienza finanziaria che pure scrissi tant’anni addietro e colloco invece questi che sono i «prolegomeni» all’ideale trattato che vorrei avere scritto. Poiché di capolavori, tra i «principii» ne viene fuori uno forse ad ogni voltar di secolo, il mio non è certamente, nemmeno per i suoi tempi, il vagheggiato ideale. In qualità di prolegomeni, i «miti e paradossi» giova invece a me sperare tengano un onorevole luogo e siano atti a divertire, insieme con me, altri lettori.

 

 

La presente edizione è praticamente la ristampa della seconda edizione del 1940, la quale a sua volta era esemplata, con l’aggiunta degli ultimi due capitoli, sulla prima del 1938. Una sola non aggiunta, ma amplificazione, allungò alquanto il par. 176, parso, alla nuova lettura, alquanto scarno ad un autore il quale si ostina a credere, forse contro il vero, che il lettore preferisca vedersi spiegato per filo e per segno di ogni argomento la rava e la fava. Non è un’aggiunta, ma il mero ristabilimento del testo genuino, con la indicazione della fonte, la citazione del brano essenziale di Geremia Bentham in materia di progressività (par. 168). Nella edizione precedente, la citazione era chiaramente fatta a memoria.

 

 

Non ci sarebbe stato davvero altro da aggiungere o mutare dopo tant’anni? Non dico un elenco di altri equivoci verbali e di altre parole vuote, da pigliare con le molle. Grosse novità in proposito non mi pare siano comparse sull’orizzonte tributario. Si è seguitato a parlare di riforme tributarie; i soliti giustizieri hanno aggiunto all’arsenale delle armi inutili che l’amministrazione già possiede, taluni articoli vessatori, di cui divenuto famoso quello che porta il numero 17; ma si tratta di aggeggi. Il compianto Vanoni perfezionò il sistema, introducendo e facendo applicare un modulo di dichiarazione, il quale obbliga il contribuente a fare ogni anno l’esame delle proprie entrate ed uscite, con risultati, i quali dovrebbero essere vantaggiosi anche per lui. Tutto sommato, gli antichi miti ed i tradizionali paradossi continuano ad essere venerati nel tempio dedicato ai consueti riti della verità e della giustizia tributaria. I falsi doppi si sono moltiplicati per le aggiunte di centesimi addizionali a pro di vecchi e nuovi enti, ai quali era ed è attribuita la potestà tributaria. Si conosce sempre meno il significato delle cifre scritte nei bilanci e nei rendiconti dello stato, nessuno potendo valutare il valore delle imposte pagate agli enti di assicurazione e di previdenza sociale, agli enti economici forniti della facoltà legale di vendere a prezzi di monopolio merci e servizi, agli enti dotati del privilegio di esercitare l’industria dei giochi d’azzardo o delle lotterie a pro di sedicenti fini pubblici. Nessuno dei doppi di imposta denunciati nelle pagine che seguono è stato abolito; e qualcuno se n’è aggiunto, sotto colore di apprendere redditi di società anonime che la fervida immaginazione dei giustizieri ha supposto spropositatamente essere «nuovi» o forniti di capacità di pagare nuova imposta, oltre a quelle normali.

 

 

L’imposta Giolitti sulle aree fabbricabili, abolita per la sua incapacità a fornire provento apprezzabile all’erario, è stata nuovamente riesumata da chi, in beata innocenza, suppone di riuscire a tassare nell’aumento di valore delle aree fabbricabili un valore non mai prima scoperto e tassato; che è errore grossolano di doppia vista, qui (ai paragrafi 55, 56, 57, 67, 68) ed altrove (passim nei Saggi sul risparmio e l’imposta) ripetutamente denunciato e dimostrato. L’innocenza non è giustificata dall’occasione sua, che fu la mala volontà dell’amministrazione municipale romana a compiere il dover suo di apprestare un buon piano regolatore. Capovolgendo le responsabilità, i demagoghi non osano riconoscere che la speculazione «antisociale» – la quale fa crescere i valori delle aree fabbricabili, fa costruire case immonde, alveare di abitatori infelici, distrugge parchi e giardini necessari alla vita cittadina, fa, al luogo di antiche nobili costruzioni, adatte alla statura dell’uomo, crescere edifici dei dieci piani, rumorosi e fatiscenti innanzi di diventare vetusti – è frutto esclusivo della incapacità dei pubblici amministratori locali e dei loro sorveglianti statali ad imporre norme acconce all’altezza delle case, alla larghezza delle vie, alla distribuzione dei quartieri cittadini, alla sistemazione della rete stradale attorno al centro storico delle città, serbato intatto nel suo tradizionale aspetto.

 

 

Incapaci ad attendere al loro dovere, i demagoghi risuscitano il frusto strumento dell’imposta sulle aree fabbricabili, creata in odio (così correva la terminologia dei tempi quando usavano le parole appropriate) ad una classe particolare di contribuenti già, ad ogni fine, tassabili al pari di ogni altro contribuente.

 

 

L’imposta reprimerà, sì, un tipo di speculazione, quella feconda, vantaggiosa all’interesse pubblico, quella che ritarda la fabbricazione al momento della maturità economica dell’area. L’imposta sedicentemente nuova provoca la fabbricazione anzi tempo delle aree, copre di cemento i giardini superstiti nel centro delle città, crea, colla distruzione apparente di valori, ossia col loro trasferimento da talun proprietario a coloro che approfittano del latrocinio pubblico per innalzare grattacieli e sconcezze edilizie, la possibilità per gli speculatori di ricostruire, a proprio vantaggio, valori, che sono insopprimibili, perché voluti da una domanda di case derivante dal crescere e dall’arricchire della popolazione e sono ingigantiti dalle erronee direzioni date alla edilizia da amministratori imprevidenti. Il legislatore crede di essere partito in guerra contro gli speculatori; ed il risultato dell’opera sua è soltanto quello di sostituire allo speculatore costretto a secondare lo sforzo di saggi amministratori a pro della città soleggiata, bella, bene distribuita, rispettosa del passato e desiderosa di emularlo in avvenire, taluni inverecondi trafficanti, pronti a trarre buon partito dalla mala condotta di amministratori inetti, forse involontariamente, ad indirizzare la città verso un avvenire non indegno del passato. Vano è predicare contro il male, come a lungo tentai di fare nei Saggi sul risparmio e l’imposta (vol. primo di questa serie) e nei presenti Miti e paradossi. Sia consentito tuttavia di dire a giustizieri ed a demagoghi, a dottrinari e ad esperti, che il già scarso rispetto, dimostrato nel testo verso di essi, è purtroppo scemato nei venti anni corsi dalla pubblicazione del mio scritto.

 

 

Se non nel campo infecondo della inventività fiscale, gli studiosi teorici dell’imposta non hanno offerto in tanti anni nuova materia di meditazione intorno ai massimi problemi tributari? La risposta è affermativa ed è ragione di sperare in ulteriori avanzamenti nella ricerca scientifica. Essi hanno compiuto tentativi ragguardevoli proprio nel campo che sta a fondamento della trattazione tributaria. Parecchi e valorosi economisti hanno affrontato il problema del no-bridge, della non confrontabilità delle soddisfazioni sperimentate da persone diverse. Lo stimolo non è venuto dal desiderio di dare un significato a quella che nel testo ho detta tabella benthamiana della distribuzione ugualitaria dell’imposta su due o più contribuenti (par. 219); ma dal desiderio di guardare più in fondo a quello che oggi da molti è reputato il problema primo della teoria e della politica economica: l’economia del benessere. Gli uomini, i politici, i riformatori prima hanno «fatto» politica del benessere; hanno cercato di aumentare la ricchezza o, meglio, il benessere degli uomini, del più degli uomini. Hanno smussato le disuguaglianze sociali; hanno instaurato un sistema di assicurazioni sociali, sugli infortuni, le malattie, la invalidità, la vecchiaia, la disoccupazione; hanno costruito case popolari, hanno distrutto abituri indegni della convivenza umana; hanno rese meno frequenti le crisi; anzi le hanno nell’ultimo quarto di secolo, con una saggia politica di banca e di tesoro, praticamente abolite. La disoccupazione è scomparsa, nei paesi moderni civili. Non è grande il trionfo? Non è legittimo il vanto di avere accresciuta la quantità di quella entità misteriosa, non agevolmente definibile, che si chiama «benessere»; e non si compone della sola «ricchezza» misurabile e sommabile, traducibile mentalmente in moneta. Il «benessere» è diverso ed è qualcosa di più della ricchezza; è un composito di ricchezza, di contento, di buone relazioni sociali, di governo ordinato, di famiglie, anche se piccole, salde, di mancanza di invidia e di odio fra ceto e ceto, al cui posto si afferma la emulazione che eleva i mediocri e non abbassa moralmente i grandi.

 

 

In fondo all’animo dei politici operanti è tuttavia sempre rimasto un’interrogazione: che cosa abbiamo fatto? si può tentare di conoscere se ed in quale misura abbiamo realmente aumentato il benessere dei molti, dei più, di tutti? Se con imposte ad aliquote fortissime sugli alti gradini di reddito, noi abbiamo scemato la ricchezza dei pochi, di quanto è stato ridotto il benessere di questi pochi e quale relazione ha la riduzione con l’aumento del benessere dei più? La domanda rende testimonianza di una coscienza elevata da parte della classe politica la quale, dopo avere operato a vantaggio, a suo parere, della collettività, sente il dovere di porsi il quesito: quanto bene e quanto male ho fatto? Il primo supera e di quanto il secondo? Domande ansiose, alle quali non si dà risposta, sinché di mezzo sta l’ostacolo del no-bridge, la mancanza di un ponte estimativo di comunicazione tra le soddisfazioni, tra i piaceri e le sofferenze di ogni uomo e quelle di ogni altro uomo.

 

 

A costruire il ponte, si sono accinti studiosi insigni e raffinatissimi; e la loro opera, se non ha toccato nè sta per toccare la meta, non è stata vana. Federico Caffè ha raccolto a vantaggio dei lettori italiani (Torino 1956, Edizioni Scientifiche Einaudi) una silloge preziosa di Saggi sulla moderna economia del benessere in cui uomini insigni come A. C. Pigou, N. Kaldor, T. Scitowsky A. Bergson, H. Hotelling, I. R. Hicks, I. M. Little, K. I. Arrow, P. A. Samuelson tentano di giungere alla soluzione del problema, forse il più difficile e il più solenne dell’oggi, delle confrontabilità interpersonali.

 

 

Anche se la soluzione non è in vista, anche se il vigoroso assalto contro il concetto dell’utilità posto a base della scienza economica condotto dal Robbins (An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, 1932) sembra serbare intero il suo valore, anche se nella prefazione alla silloge preziosa il Caffè reputa «difficile non condividere l’avviso di M. W. Reder secondo il quale “lo stadio attuale dell’economia del benessere è del tutto insoddisfacente”»; sono d’accordo col curatore della silloge nel condannare l’eccessivo scetticismo che fa propendere taluno a considerare quasi esercizi accademici o scolastici i saggi consacrati allo studio del problema. Forse, l’ostacolo maggiore all’avanzamento verso la scoperta di nuovi veri in questo campo è la virtuosità elegante degli indagatori, i quali si indugianonello scavare a fondo dentro a problemi i quali ad un certo momento per la sottigliezza degli escavatori paiono fin troppo evanescenti. Chi legga il volume, il quale per ora è non solo il più ampio ma anche il più meditato, A Critique of Welfare Economics (1950) del Little non può non formulare il voto che nuovi studiosi, i quali sappiano resistere alla tentazione delle esercitazioni accademiche raffinate, con scambi senza fine di «componimenti» (papers) fra insegnanti, assistenti ed aspiranti assistenti, con inserzioni di esercizi matematici di giovani valorosi estranei a qualunque interesse economico propriamente detto; affrontino il problema del no-bridge con l’aiuto della logica normale e col proposito di dare un contributo alla soluzione di problemi economici propriamente detti su cui essi abbiano a lungo meditato; non si può non formulare il voto che essi ci dicano una parola, se non definitiva, la quale per la natura stessa dei problemi economici o sociali in genere non potrà venire mai, tuttavia illuminante e chiara.

 

 

Per ora, la conclusione che io traggo dallo stato odierno degli studi sul problema del no-bridge è quello della prudenza pratica. Ne quid nimis.

 

 

Questo libro sarebbe stato scritto invano se non desse un contributo a gettare scherno e vilipendio sulla boria dei dottrinari e ad insegnar prudenza ai teorici in materia di imposte. Disprezzo per i giustizieri i quali esaltano l’Inghilterra solo perché vagamente si sono persuasi essa abbia toccato il sommo della giustizia quando ha colpito col 98 o col 99% gli scalini altissimi di redditi e così facendo gli scalini sono, per la loro inutilità per i percettori, presto distrutti; e consigli di prudenza ai teorici i quali stanno doverosamente affaticandosi intorno alla determinazione di una scala di aliquote atta nel tempo stesso a ridurre le altezze massime dei redditi e serbare forte lo stimolo al lavoro ed al risparmio. Sovratutto i teorici, quelli seri, non invasati dallo spirito di una giustizia fondata su premesse dottrinali arbitrarie, siano consigliati a prudenza dal pensiero che l’imposta non è un mero fatto economico. Il rigore dell’analisi economica, il rispetto della logica interna propria di ogni istituto tributario sono la premessa, il punto di partenza; ma la conclusione sul pro e sul contro delle novità ogni giorno offerte sul mercato delle riforme tributarie non può essere soltanto dedotta dal calcolo monetario. Il bene stare di un corpo politico non è fatto solo di beni materiali. Le azioni, i regni, gli imperi crescono o decadono per ragioni sovratutto morali e spirituali. Anche l’imposta è un fattore di stabilità o di decadenza; ed il momento nel quale essa da fomento di stabilità diventa provocatrice di decadenza è decisivo per l’avvenire dello stato. La rovina dell’impero romano d’occidente apparve inevitabile, non quando mancarono le distribuzioni di frumento nella capitale del mondo e non giunsero più nei circhi belve e gladiatori e cristiani in numero bastevole al divertimento della plebe, ma ben prima quando nei municipii delle province gli uomini tremarono di essere chiamati ad assumere la responsabilità, come decurioni, del versamento delle imposte allo stato ed affannosamente cercarono di addirsi a mestieri vili ed infami, pur di sottrarsi all’obbligo del tributo solidale con gli altri cittadini, e alla fine disperatamente chiesero rifugio ai barbari.

 

 

Noi siamo lontani ancora dal punto critico; e giova sperare che l’aspirazione ansiosa degli studiosi verso la creazione di un bene stare sempre migliore dei popoli non si ristringa ad un bene stare materiale, che potrebbe significare e provocare invidia, odio e decadenza, ma sia anche e sovratutto un bene stare morale e spirituale e significhi emulazione di individui, compattezza di famiglie e saldo ordinamento di ceti e di ordini sociali; che sono i sentimenti dai quali nascono gli stati grandi.

La predica della domenica (III)

La predica della domenica (III)

«Corriere della Sera», 5 febbraio 1961

Le prediche della domenica, Einaudi, Torino 1987, pp. 9-11[1]

 

 

 

 

Professori e studenti concordi hanno protestato contro le condizioni nelle quali si svolge la vita universitaria italiana. Se fosse lecito tradurre in termini economici fatti attinenti alla vita spirituale, si potrebbe dire che le università offrono:

 

 

  • lezioni in aule, nelle quali cento studenti possono apprendere e comprendere ed assimilare idee; avvicinare ed interrogare ed obbiettare ad insegnanti; ed invece accade che in talune università e facoltà vi siano corsi con mille iscritti; e le lezioni diventerebbero vociferazioni in pubblico comizio, quando non soccorresse provvidenzialmente l’assenza della più parte degli studenti, in altre faccende occupati o sprovvisti dei mezzi opportuni a frequentare le lezioni;

 

  • esercitazioni e discussioni dinnanzi a gruppi di studenti, in numero non superiore a venti, chiamati a redigere e leggere scritti o relazioni o progetti su problemi posti dall’insegnante;

 

  • biblioteche speciali, laboratori, gabinetti nei quali, ad ogni studente, dovrebbero essere forniti, sul suo tavolo di lavoro, libri e strumenti di ricerche;

 

  • cliniche, nelle quali allo studente fosse assicurata la possibilità di studiare, sotto l’occhio del professore o dell’assistente, il malato. Invece si sa che le biblioteche, i laboratori e le cliniche, che potrebbero essere efficacemente attrezzate per una ventina di studenti, sono disadatte alle esigenze di centinaia di giovani.

 

 

L’università offre cioè un servigio che non può effettivamente fornire se non ad una parte, spesso piccola, degli aspiranti. Lo offre a prezzi ridicolmente bassi in confronto al costo. È ovvio ed è corretto che il prezzo di offerta debba mantenersi inferiore al costo totale del servigio; perché l’università, accanto all’insegnamento utile ad ogni singolo studente, produce un bene generale, che è la formazione di un ceto dirigente di studiosi, professionisti, amministratori, politici, il cui costo deve essere sopportato dalla collettività, a mezzo delle imposte. Se si suppone che il costo totale debba essere diviso, in mancanza di una regola migliore, a giusta metà fra lo studente, il quale gode il vantaggio diretto specifico della formazione professionale, ed i contribuenti i quali debbono essere chiamati a pagare imposte per compensare i benefici generali prodotti dall’università, si deve constatare che le tasse ed i diritti attuali sono ridicolmente inferiori alla metà del costo totale. Cresce così inutilmente il numero di coloro che richiedono il servigio offerto sotto costo; e non è consentito perciò ai consigli universitari di assegnare tante borse di studio quante consentirebbero ai meritevoli di coprire, oltre le tasse, le spese di residenza e di frequenza.

 

 

È moralmente lecito offrire a mille quel servigio che l’università sa di non poter fornire se non a cento? Perché i miliardi, che si chiedono allo stato, non siano perduti, è necessario che l’università abbia il dovere di scegliere quel numero di scolari a cui sa di poter fornire sul serio i suoi servigi, tenendo conto della scuola di provenienza, del profitto risultante dai certificati di studio, dei colloqui (non esami) personali con gli studenti; e nessuno di questi ed altri criteri abbia una valutazione precisata in alcun articolo di regolamento; ma siano il compendio di un giudizio personale di chi gode la fiducia dell’autorità accademica.

 

 

Poiché in Italia gli studenti universitari dagli attuali 150 mila circa dovranno in qualche decennio giungere al milione, sarà d’uopo, senza gonfiamento di quelli esistenti, crescere gradualmente il numero degli istituti universitari dai 20 o 30 attuali a 50 e poi a 70 e poi a cento e più. Né, con un milione di studenti e con cento istituti universitari, crescerà la disoccupazione falsamente detta intellettuale; anzi diminuirà, perché non si è mai visto che il possesso del sapere – cosa ben diversa dal possesso del pezzo di carta – cresca la difficoltà di trovar lavoro.



[1] Col titolo La crescita dell’università [ndr]

Prefazione

Prefazione

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. XIII-XXXV

 

 

Il volume è tutto composto di articoli del tempo di guerra. Scrivevo (p. 281) :

 

 

Di fronte alle necessità della guerra cessa il diritto alla critica. Chi di noi oserebbe lamentarsi di fronte anche alla scomparsa totale del naviglio marittimo dal mercato dei trasporti non bellici quando, per ipotesi, ciò fosse necessario per la vittoria?

 

 

Ebbero perciò gran luogo negli articoli del giornale e nel volume sono solo in minor parte riprodotti, per evitare le assai frequenti, allora necessarie, ripetizioni – gli inviti a sottoscrivere ai prestiti che venivano, gli uni dopo gli altri, emessi a procacciar denaro allo stato.

 

 

Chi, tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che i suoi figli gli muoveranno di non aver compiuto ogni sforzo possibile, nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria? (p. 108).

 

 

Ad incoraggiare l’afflusso del denaro nelle casse dello stato, plaudivo alla scoperta, (nel 1916), della forma «al portatore» dei buoni ordinari da sei a dodici mesi (p. 356). Fino allora i buoni ordinari erano tutti nominativi; e parve gran novità avere deliberato che essi potevano essere emessi anche al portatore, anche se «per ora» la novità non era estesa ai buoni più brevi, a tre mesi. Si vide poi che i buoni al portatore erano assai meglio accetti al pubblico dei buoni nominativi, i quali in pratica erano acquistati principalmente dalle banche e da enti e non potevano sorpassare una modesta somma (300 milioni di lire) fissata ogni anno nella legge di bilancio per sopperire alle momentanee esigente di cassa del tesoro. Presto si giunse ai miliardi e divenne, quella dei buoni ordinari, la maniera di sopperimento più importante in guerra ed in pace. A promuovere il risparmio, necessario da un lato per ridurre i consumi secondari o superflui e dall’altro lato a fornire allo stato i mezzi per i consumi bellici, divulgai (p. 370) in Italia, fin dal 1916, il metodo primamente usato in Inghilterra dei buoni o certificati, rimborsabili in qualunque momento a richiesta del risparmiatore, fecondi di frutto progressivamente crescente e retrodatato al momento dell’emissione, sicché il detentore avesse interesse, pur conservando la piena continua disponibilità del denaro, a serbarli in portafoglio per il maggior tempo possibile. I buoni furono, col nome di buoni fruttiferi postali, introdotti presto in Italia ed ebbero successo notabilissimo, sicché oggi sono lo strumento preferito di impiego dei risparmi della piccola e media gente, particolarmente nelle campagne.

 

 

In argomento di prestiti, pur riconoscendo che l’Italia non aveva toccato l’ideale, che sarebbe stato quello di coprire il fabbisogno bellico esclusivamente con il provento di nuove imposte e col ricavo di prestiti – ché in tal caso la spesa bellica sarebbe stata fatta con mezzi antichi, ossia con rinuncia ad altrettanti consumi privati e non sarebbe stato necessario stampare biglietti a vuoto, davo lode (p. 526) ai ministri del tesoro e delle finanze di avere

 

 

stabilito nuove imposte a mano mano che l’onere del bilancio cresceva a cagione dei debiti contratti.

 

 

In tal modo la pratica italiana, sebbene meno austera di quella inglese, la quale con le imposte copriva almeno una parte delle spese belliche, stava ben al disopra delle pratiche seguite in Germania, in Francia e nell’impero austro-ungarico, dove si era rinunciato apertamente a confessare ai cittadini che la guerra non si poteva vincere senza sacrificio (pp. 235 sgg. ). Il dott. Hellferich, ministro germanico delle finanze, nutriva, in verità,

 

 

fiducia di far coprire gran parte delle spese germaniche di guerra con le indennità dei paesi nemici vinti (p. 231).

 

 

La tesi, che era politica, gli consentiva di rinunciare a chiedere ai suoi il sacrificio di nuove imposte; ma la esigenza economica lo costringeva ad emettere prestiti grandiosi i quali erano stati, a parer mio, «un trionfo genuino». Riconoscevo che le accuse mosse a lui

 

 

di aver creato casse di credito pubbliche solo per mutuare biglietti a coloro i quali dovevano diventare i sottoscrittori dei suoi colossali prestiti (p. 229)

 

 

erano ingiuste, e, pur essendo egli nel campo avverso, osservavo che la tecnica seguita da lui nell’emissione dei due primi prestiti era perfetta. La testa di turco contro cui battevo più frequentemente e duramente era il torchio dei biglietti. Fin dal luglio 1915 notavo dolorosamente che (p. 98)

 

 

ancor oggi si incontrano persone, le quali reputano un beneficio le emissioni abbondanti di carta moneta e non sanno capacitarsi del perché gli stati si affannino tanto a contrar prestiti onerosi al 4,50 o 5% quando potrebbero farsi imprestare gratuitamente dai cittadini quante somme volessero, semplicemente stampando biglietti e pagando con essi tutti i propri creditori.

 

 

E snodavo la litania, oggi divulgatissima, degli effetti e dei danni delle emissioni sovrabbondanti di biglietti.

 

 

In quel tempo era divenuta popolare una critica rivolta contro gli alleati ed i neutrali:

 

 

essere uno scandalo che gli svizzeri vogliano lucrare 50 o 55 lire per ogni 100 dei loro franchi; che i francesi guadagnino il 30% e che gli inglesi ci vendano le loro sterline per 36-37 lire nostre invece che per 25 lire. Passi per i neutri, i quali non hanno nessun vincolo verso di noi; ma gli alleati dovrebbero moralmente essere obbligati ad accettare la nostra moneta alla pari e dovrebbero resistere alla tentazione di lucrar il 30 od il 40% a nostre spese.

 

 

La querela era esposta in articoli giornalistici ed in discorsi parlamentari in un tempo in cui per comprare un franco svizzero bastava spendere 1,50 lire italiane e per avere una lira sterlina si davano non più di 36 lire italiane. Non sono sicuro che nella testa di qualcuno in Italia non si nasconda un residuo del sofisma antico, oggi che per avere un franco svizzero occorre dare circa 150 lire italiane e per avere una lira sterlina fa d’uopo spendere 1750 lire italiane: e del pari 625 lire per ottenere quel dollaro, che prima del 1914 si cambiava con 5,25 lire nostre! Non ne sono sicuro, perché il sofisma nasce da un sentimento proprio dell’uomo, il quale attribuisce la responsabilità di un malanno che lo incolga non mai a se stesso, ma ad altri, al parente, all’amico, al collega, al concorrente, all’avversario. Se poi la colpa può essere data allo «straniero» , il ragionamento, anche se sbagliato, diventa senz’altro corretto, anzi incontrovertibile e chi lo smaschera è reo di leso-patriottismo. Nelle pagine del testo (da 433 a 438) il sofisma è a lungo confutato, più a lungo di quanto meritasse la evidenza dell’errore. Chi riscuoteva allora, per merce venduta agli inglesi, le 37 lire italiane invece della pari di 25 lire? Non gli inglesi, i quali pagavano nulla più e nulla meno che la solita lira sterlina; ma i venditori italiani della merce, i quali ricevevano allora 37 ed oggi riceverebbero 1750 lire; ed, apparentemente, «guadagnavano» 12 e guadagnerebbero oggi 1725 lire. Ma è tutta apparenza, ché per la abbondanza di segni monetari circolanti, le 37 lire di allora e le 1750 lire di oggi comprano o comprerebbero né più né meno delle 25 lire di prima del 1914. Il che voleva dire trattarsi di un affare interno, nazionale, fuor di ogni responsabilità straniera, di cui siamo responsabili noi che volemmo o consentimmo o tollerammo che i nostri governanti, per conseguire taluni fini pubblici (vittoria contro il nemico nel 1915-18, ed oggi strade, rimboschimenti, impianti ferroviario-portuali, lotta contro la palude o la malaria) o pseudo-pubblici (ferrovie inutili, palazzi superflui, impiegati esuberanti ecc. ecc.), invece di togliere denari preesistenti ai cittadini sotto forma di imposte o di prestiti, fabbricassero denaro nuovo e così crescessero i cambi esteri e svilissero la moneta nostra. Oggi, che di queste verità elementari tutti sono persuasi ed il pericolo sembra venuto meno, può parere inutile ristampare articoli del tempo in cui il sofisma correva ed il pericolo era attuale e si dimostrò in seguito distruttivo dell’assetto sociale. Ma, sicuro non sono che il sofisma non informi ancora il convincimento di troppi italiani. Il modo di dire, per fermo, rimane; e da esso è breve il passo al modo di pensare.

 

 

Correva nei giornali e nelle relazioni di governo o di commissioni parlamentari una teoria, la quale attribuiva l’aumento progressivo dell’aggio sull’oro e sulle monete straniere al disavanzo della bilancia commerciale. Ed era vero che

 

 

dallo scoppio della guerra europea alla fine di luglio 1917 – scrivevo il 15 dicembre 1917, a p. 456 – le importazioni di merci eccedettero le esportazioni per circa 8 miliardi e mezzo di lire,

 

 

somma suppergiù equivalente – vedi l’avvertenza a p. 792 di questo volume – a 12.750 miliardi di oggi.

 

 

Prima di affermare che la causa dell’aggio, ossia del deprezzamento della lira, sia il disavanzo della bilancia commerciale – ma si intendeva sempre parlare dello sbilancio totale o dei pagamenti – bisognava dimostrare che lo sbilancio esisteva. Orbene, a tacere dei guadagni della marina mercantile italiana, delle rimesse di emigranti e di altre sopravvenienze attive, le quali, anche negli anni di guerra, seguitavano ad arrivare,

 

 

non è forse vero che lo stato italiano ha esportato all’estero per miliardi di lire di titoli di debito? Far debiti all’estero è lo stesso che vendere od esportare all’estero nostri titoli di debito … È probabile che i debiti fatti dall’Italia in Inghilterra e negli Stati uniti siano stati sufficienti per coprire lo sbilancio tra importazioni ed esportazioni. Sì, noi comprammo 8 miliardi e mezzo di lire – carta di più di merci di quante non ne vendemmo all’estero; ma questi 8 miliardi e mezzo li pagammo con i crediti che ci furono aperti all’estero … Se questo è vero, come è possibile affermare che l’alto cambio derivi da una eccedenza che non esiste? … Se il cambio alto potesse concepirsi derivante da questa causa, noi avremmo il cambio alla pari. Un oculato e forte governo del tesoro e degli istituti di emissione – allora si parlava al plurale, perché accanto alla Banca d’Italia, avevano diritto di emettere biglietti anche i Banchi di Napoli e di Sicilia – basterebbe non solo a far scomparire le oscillazioni del cambio, ma l’aggio medesimo al disopra della pari (pp. 456-57).

 

 

Il sofisma assumeva così una forma meno grossolana di quella esaminata dianzi dell’attribuire senz’altro allo «straniero» la colpa di qualche nostra disgrazia; bensì l’altra di attribuirlo alla guerra, allo stato di necessità in cui la guerra ci aveva posto, di dovere fare spese di gran lunga superiori alle normali e di dovere perciò approvvigionarci all’estero in misura superiore alle nostre possibilità di pagamento. Che era un discolparsi apparentemente plausibile. Ma plausibile non era, perché si dimenticava che, in un mondo di uomini ragionanti, cittadini e governanti avrebbero visto che non si conduce guerra grossa, se non ci si sobbarca a grossi sacrifici di imposte nuove e di prestiti offerti mercé il risparmio ossia con la rinuncia a consumi anche ordinari. Ma nessuno, nemmeno nei paesi più ricchi, ebbe il coraggio della rinuncia. Piaceva lasciar credere che la guerra non avrebbe turbato troppo l’assetto normale della economia pubblica e privata; e sebbene noi, come osservai sopra, ci si fosse comportati abbastanza bene, non si ebbe il coraggio di aumentare le imposte come sarebbe stato necessario e si dovette perciò ricorrere, in misura notabile, agli indebitamenti coll’estero. Poiché questi non bastavano, si ebbe ricorso, per fronteggiare le spese interne, al torchio dei biglietti. Che fu la causa vera dell’aggio, del deprezzamento della lira e delle conseguenze politiche e sociali che ne derivarono.

 

 

Il bello si fu che quei debiti verso l’Inghilterra e gli Stati uniti non furono, se non in minima parte, rimborsati. Ma di ciò si discorrerà nel quinto volume, dove sono riprodotti gli articoli scritti a pro della tesi che quei debiti non dovessero essere rimborsati, essendo le spese state sostenute nell’interesse comune. Tesi la quale fu, dopo la vittoria comune, accettata, se non in principio, di fatto dagli alleati.

 

 

Continuava, ché la tradizione era antica, il metodo, opposto a quello seguito nel primo decennio dopo la unificazione e nella rinnovazione del catasto, delle sciabolate tributarie (p. 536), come un giorno le aveva acconciamente definite il Daneo, ministro delle finanze nel gabinetto Salandra. A chi tocca, tocca; pur che si faccia denaro: centesimi di guerra, sugli esenti dal servizio militare, imposta militare, sui canoni enfiteutici, ecc. ecc. Tipico il decreto del 3 febbraio 1918, il quale col pretesto della perequazione, aggiungeva un’altra alla vecchia e tuttora esistente sperequazione della doppia tassazione degli interessi dei debiti ipotecari. Se il proprietario di un fondo rustico tassato coll’imposta (e colle sovrimposte locali) fondiaria sul reddito di 100.000 annue, contrae un mutuo di un milione di lire al 5%, fruttifero di 50.000 lire annue a favore del mutuante, il fisco colpisce presso il proprietario il reddito di 100.000 lire che il fondo o la casa gli dà, e presso il capitalista mutuante gli interessi a suo favore di 50.000 lire; ed il totale reddito tassato è di 150.000 lire. Il doppio di imposta è evidente; ché il reddito è uno solo: quello di 100.000 lire fornito dal fondo. Il fatto che, prima del mutuo tutte le 100.000 lire fossero percepite dal proprietario e, dopo il mutuo, per 50.000 lire da lui e per 50.000 lire dal suo creditore, non produce l’effetto miracoloso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il reddito rimane in tutto di 100.000 lire (50.000 + 50.000) e non diventa di 150.000 lire per ciò solo che il proprietario dal reddito di 100.000 lire deve prelevarne 50.000 lire e trasmetterle al creditore. Eppure, la sperequazione si perpetua, traendo pretesto dal fatto che l’imposta non colpisce le persone, ma le cose: il fondo e il mutuo. Il fondo dà o non dà un reddito di 100.000 lire? il mutuo non è forse fruttifero di interessi di 50.000 lire? epperciò paghino. Il sofisma è grossolano; perché i redditi sono goduti da persone e non da cose; e nessun arzigogolo può trasformare in 150.000 quello che è un ammontare di 100.000 lire.

 

 

Dal danno si era miracolosamente salvato, sino al 1918, un reddito, per il quale il doppio d’imposta era troppo chiaro per passare inosservato: i canoni enfiteutici. Esiste infatti nel nostro sistema di diritto, un istituto detto della enfiteusi. Sorto nel medio evo, esso sdoppiava la proprietà della terra: il vecchio proprietario pieno diventava proprietario eminente o domino del fondo e lo concedeva ad un coltivatore detto utilista, in compenso di un canone fisso in denaro o in derrate agrarie. Il «domino», rimanendo titolare della proprietà, fissava, ad esempio, il reddito da lui percepito in 1.000 lire all’anno; e l’«utilista», iscritto come colono enfiteuta nei libri catastali, riscuoteva il residuo prodotto del fondo. Il contratto di enfiteusi aveva per iscopo di incoraggiare la messa a cultura di terreni boscosi ed incolti; ché il colono, migliorando, avrebbe goduto di tutto il sovrappiù oltre le 1.000 lire dovute al proprietario. Col passar del tempo e con le migliorie, il sovrappiù era diventato maggiore del canone, e spesso questo, anche a causa della svalutazione della moneta, era divenuto irrilevante. Supponendo che l’enfiteuta incassasse 3.000 lire di reddito netto, accertato in catasto, era chiaro che il reddito era di 3.000 lire in tutto, delle quali 1.000 erano dall’enfiteuta versate al «domino» e 2.000 da lui trattenute. Per antica consuetudine era stipulato sempre che le 1.000 lire erano pagate al netto da pesi e tributi, sicché questi gravavano tutti sulle 2.000 lire dell’enfiteuta. L’immunità era stata convenuta dall’origine, ed era divenuta col trascorrere del tempo, ognora più ovviamente ragionevole, ché tutto l’incremento di reddito, oltre le 1.000 lire, spettava all’utilista. Saltava agli occhi che il reddito era uno solo, di 3.000 lire, ripartito in due parti a due persone, amendue iscritte come proprietarie del fondo, l’una col nome di domino e l’altra con quello di utilista. Epperciò, si era pacificamente sempre tassato il solo reddito delle 3.000 lire accertato in catasto, in conformità all’atto di creazione dell’enfiteusi, al nome dell’utilista. Durante la guerra, all’occhio linceo di un funzionario, occupato nel rintracciare materia nuova imponibile sfuggita all’imposta, parve di aver scoperto nei canoni enfiteutici l’araba fenice del cespite esente dall’imposta; ma la ingiustizia o sperequazione non era vera, ma dedotta dal fatto che, in altro caso, quello degli interessi ipotecari, pacificamente si commetteva la scorrettezza del doppio, tassando 150 quando il reddito totale era solo 100. Se la sperequazione nell’un caso è pacifica, perché non sperequare anche nell’altro caso? Così è della maggior parte delle ingiustizie alle quali si provvede creando imposte nuove: non si tratta di scoprire e tassare un vero reddito nuovo; non già di tassare qualcosa che sia veramente esente; ma solo di colpire quel che è tassato di meno o meno ferocemente di altri redditi o quel che appare esente, laddove invece è già tassato, ma non ancora due volte, al pari di altro disgraziato simigliante cespite. A nulla valsero le critiche mosse (cfr. pp. 533 sgg.) allo sconcio; il quale rimase, sinché, in un momento posteriore alla guerra, esso poté essere tolto.

 

 

La caccia alle ingiustizie ed alle sperequazioni fiscali da abolire è uno dei passatempi favoriti dei riformatori tributari; e già sin d’allora (29 novembre 1915 e qui a p. 272) mettevo in guardia contro le imposte demagogiche, fruttifere di «parole» invece che di «centinaia di milioni e miliardi di lire effettive» di cui ha urgenza il tesoro degli stati; e ricordavo il «famoso» bilancio del 1909 del signor Lloyd George, il quale, avendo fatto approvare un sistema di imposte sulle aree fabbricabili, ne aveva ricavato sino al 31 marzo 1914

 

 

l’unico costrutto di aver costato circa 55 milioni di lire italiane e di aver reso poco più 15 milioni di lire.

 

 

Sicché anche qui, a case calme, l’intiero edificio perequativo fu smantellato e raso a terra.

 

 

Spesseggiarono anche tra noi, le invenzioni infruttifere ed inapplicabili come le imposte sugli esenti dal servizio militare o quella sull’assistenza civile. Le successive chiamate dei riformati rendevano instabili i ruoli delle imposte; e le quote di sei lire si erano palesate quasi tutte inesigibili e causa di dispendio per la finanza invece che di entrata (pp. 529 sgg.). Sinché non fosse stata istituita la imposta complementare sul reddito, proposta dall’on. Meda, vana era la speranza di colpire i redditi esenti. I tentativi erano a vuoto e sempre si ricadeva nel solito risultato di sovratassare i già tassati (pp. 531 sgg.).

 

 

Ero scettico sui risultati delle nuove imposte sui sovraprofitti di guerra (p. 277); e criticavo l’incitamento che l’imposta dava, per l’indole del suo meccanismo, a crescere gli impianti inutili e le spese superflue allo scopo di sottrarre legalmente al tesoro la materia imponibile. In generale tutte le imposte che sovratassano l’eccedente su un reddito definito normale hanno effetti dannosi di spreco di capitali e di lavoro. Recando l’esempio all’estremo – ma è un estremo al quale ci si avvicina progressivamente durante la guerra e fu raggiunto dopo il 1919 con la cosidetta «avocazione» totale dei profitti di guerra – se si tassa con l’imposta normale, suppongasi, del 20% il reddito sino all’8% del capitale investito e con il 100% il supero oltre l’8%, quale mai interesse ha il contribuente a produrre il supero? Anzi, se le contingenze del momento procacciano un supero, egli ha interesse a sprecarlo: ad assoldare operai ed impiegati inutili, a distribuire stipendi ad amici e familiari. Giova procacciarsi clientela di amici e di impiegati, più che non pagare imposte. Ed ha interesse a compiere impianti superflui, pur di crescere la cifra «legale» del capitale investito. Se questo è di 100 milioni, l’imprenditore tiene per sé otto (8% su 100 milioni di capitale) sugli eventuali 20 milioni di reddito conseguito ed il resto deve versarlo all’erario. Se egli perciò cresce l’investimento a 150 milioni, non occorre che i 50 milioni in più di impianti e di scorte fruttino alcunché. Egli può tenere per sé, all’8% 12 milioni, versandone solo 8 invece di 12 allo stato. Se egli riesce a spingere, purtroppo di fatto e non solo per scritturazione contabile, gli investimenti a 200 o 250 milioni di lire, egli può tenere per sé, assoggettati alla sola imposta normale, 16 o 20 milioni rispettivamente e finire di non versare più nulla allo stato. Fu, in misura progressivamente crescente, l’esperienza degli anni dal 1917 al 1920. Il capitale superfluo, per il meccanismo dell’imposta, fruttava, non perché fosse realmente produttivo, ma perché risparmiava, a vantaggio del contribuente, il versamento delle imposte crescenti sull’eccedente. Il danno per la collettività era certo; ma l’imposta confiscatrice era popolare e riscuoteva plauso generale (pp.559, 628); e riscuote ancor oggi, ogni qualvolta il principio, in forme nuove, venga accolto, plauso rinnovato. A nulla giovano, ad impedire gli sprechi, le facce feroci, i giuramenti fiscali, le minaccie di galera; ché l’errore fiscale offre la giustificazione «morale» alle evasioni di difesa ed aggiunge «pretesti» a coonestare le frodi sostanziali.

 

 

Lo stato di guerra diede luogo a speranze, le quali poi si dimostrarono ingiustificate; ché la scarsità dei beni rese inutili talune delle salvaguardie protettive che a poco a poco erano state stabilite a favore delle industrie. Innanzi alla guerra, il produttore di zucchero nazionale era soggetto ad una imposta di fabbricazione di 76,15 lire al quintale per lo zucchero raffinato; e poiché l’importatore avrebbe dovuto pagare 99 lire per quintale, il produttore nazionale godendo di un margine protettivo di lire 22,85, viveva sicuro di dominare intieramente il mercato italiano. La guerra, rialzando i prezzi e provocando con i razionamenti e le distribuzioni ai soldati, un aumento dei consumi, consigliò a ridurre gli ostacoli alla importazione straniera. Il che, alla fine del 1916, si conseguì decretando una sovratassa di guerra sulla produzione nazionale di 17 lire per quintale. Temporaneamente il margine protettivo si riduceva così da 22,85 a 5,85 lire al quintale, in conformità alla norma generale della convenzione di Bruxelles (pp. 374 sgg.). Me ne rallegravo nella speranza che

 

 

al ritorno della pace fosse conservato il regime fiscale fortunatamente consigliato dalle esigenze di guerra …, il margine protettivo di lire 5,85 essendo largamente sufficiente ad una industria, già ricca prima e rafforzatasi vieppiù durante la guerra (p.376).

 

 

Speranza fallace, ché gli zuccherieri seppero poscia riconquistare il perduto privilegio.

 

 

Lo stato di guerra aveva costretto, sin dal 18 ottobre e dal 1 dicembre 1914 a ridurre temporaneamente il dazio sul frumento da 7,50 a 3 lire al quintale; che non erano veramente tali, perché, non consumandosi frumento in granella, ma frumento trasformato in farina da pane e da paste alimentari, il dazio effettivo era quello sulle farine, ridotto solo da 11,50 a 5,25 lire al quintale. Perciò dichiaravo nel gennaio del 1915 necessaria la immediata abolizione di ambo i dazi sul frumento e sulle farine (p. 52). Che fu cosa fatta subito; ma non ebbe effetto, perché ben presto la situazione si invertì ed il governo, con calmieri, requisizioni e tesseramento per il frumento e gli altri cereali inferiori, credette dover mantenere il prezzo del pane ad un livello politico con perdita crescente per l’erario. Le pagine del presente volume sono consacrate spesso al problema del pane (cfr. per i primi anni il gruppo di articoli da p. 45 a p. 82); e sulle forme del pane (unico o di due tipi?) A favore dei due tipi si adduceva che, lasciando ai consumatori completa libertà di scelta tra il tipo ordinario, alla resa dell’8%, di forma grossa e di ottima sostanza, quello un tempo detto «di munizione» perché distribuito ai soldati, calmierato a 50 e poi 65 centesimi al chilogrammo ed i tipi detti fini, sempre alla resa dell’8%, in forme libere ed a prezzi di mercato, il grosso dei consumatori avrebbe preferito il pane grosso, a prezzo politico basso; laddove i più agiati e raffinati abituati a forme più piccole ed apparentemente più allettevoli, avrebbero pagato prezzi più alti e crescenti. Prevalse, sino alla fine della guerra ed ancor dopo, il partito del pane unico; perché, si disse, i poveri ed i lavoratori avrebbero tenuto in dispregio il pane grosso e guardato con odio e invidia i ricchi, i quali meglio forniti di moneta avrebbero consumato i tipi fini e cari. A noi la roba destinata ai porci; ai ricchi quella per i palati fini. Né si può negare che, in un momento nel quale si doveva contare sulla concordia nazionale, la tesi del pane di forma unica non fosse ben ragionata. Non pareva accettabile la proposta del prof. De Viti De Marco (p. 60) di accordare un sussidio ai poveri che non fossero in grado di pagare il prezzo di mercato; ché il pericolo di favoritismi, di falsi poveri iscritti nelle liste delle congregazioni di carità e di costi crescenti di amministrazione del congegno distributivo era chiaro. Il metodo dei due tipi, osservava talun difensore dell’erario, avrebbe chiarito che i più avrebbero preferito consumar pane di forme fini a prezzo libero crescente, abbandonando l’uso del pane grosso ai buongustai, ai ceti impoveriti degli impiegati, dei pensionati, dei redditieri ad interesse fisso e ad una minoranza residua di vecchi veri poveri. La svalutazione della lira provocava un gran tramestio negli ordini sociali, sicché i confini tra poveri agiati e ricchi si mischiavano in maniera confusa e facevano preferire ai governi il principio della parità di trattamento che, astrazion fatta della sua sostanziale applicazione, e pur sempre proprio dello stato, particolarmente quando si vive in una piazza assediata, come era allora l’Italia, dove i capi politici destinati agli approvvigionamenti vivevano in ansia quotidiana di affondamenti di sottomarini e di rivolta di popoli timorosi di restare senza pane.

 

 

L’esperienza del tempo dal 1915 al 1918 crebbe l’antipatia, che già esisteva, verso gli interventi dello stato nelle faccende non sue. Mi era accaduto di dirmi favorevole e addirittura di proporre, non per scemare l’altezza, ma soltanto per ridurre le punte delle oscillazioni dei corsi dei cambi, l’istituzione di un ufficio centrale dei cambi (p.446). Mi ero illuso che ciò potesse farsi senza un apparato amministrativo, per decisione personale di poche persone, sovratutto del ministro del tesoro e del direttore generale della Banca d’Italia, senza «burocrazia» che è parola impropria per riassumere regolamenti, norme e circolari che sono ingredienti necessari per l’azione di un qualsiasi intervento dello stato. Quando poi fu istituito l’Istituto centrale dei cambi, che pur non era diventato quella cosa grossa con più di mille impiegati che divenne durante la seconda guerra, mi persuasi ché la mia, delle poche persone competenti pronte all’azione, agili nella trattazione degli affari, adusate a parlare e decidere per telefono, era una illusione. Ma in quella illusione durai a lungo; e le pagine di questo volume recano traccie numerose di critiche alle commissioni, ai comitati interministeriali incaricati di dare unità di azione ai ministeri chiusi nella fortezza delle competenze, in lotta continua contro le pretese concorrenti dei ministeri affini. Si passi sopra ai pareri dei consigli, delle commissioni; si incarichi, per decidere sui problemi del carbone, del frumento, della marina mercantile, dei prezzi, dei noli, degli approvvigionamenti una persona sola, competente, tratta dai ceti industriali e mercantili, posta al disopra delle beghe dei funzionari governativi, desiderosa di ritornare alle occupazioni sue professionali, ai negozi consueti, e di liquidare al più presto l’istituto o l’organo istituito per provvedere ad una esigenza immediata del tempo bellico; ma poi vidi che il competente, pronto a servire lo stato temporaneamente col salario di una lira all’anno, che si narra sia esistito in altri paesi, non si trovò o non si fece innanzi; e che si moltiplicavano invece gli istituti e gli interventi pronti a frastornare l’attività dei privati e degli enti, i quali di fatto dimostravano di recar vantaggio al pubblico e di saper soddisfare ai bisogni quotidiani della collettività. Manca il pane o la farina in una zona del paese? Ed ecco, nonostante le circolari contrarie del ministro Raineri (p. 468) i prefetti emanare decreti di divieto per le esportazioni di cereali da una provincia all’altra.

 

 

Provincie prive di mulini, le quali supplicano prefetti, ministri, commissari generali ai consumi affinché sia data licenza di importare farine da provincie, dove le farine ridondano ed i mulini sarebbero pronti ad inviarne carri a decine. Ministri e commissari che fanno l’indiano o consigliano di rivolgersi ai consorzi granari locali, i quali hanno provviste irrisorie ed affatto insufficienti ai bisogni locali.

 

 

L’opinione pubblica commossa dalle notizie di esportazioni di derrate alimentari, attraverso la Svizzera, ai paesi nemici, invoca ed ottiene l’emanazione di decreti i quali vietano indiscriminatamente l’esportazione di qualsiasi derrata o merce alla Germania e all’Austria, anche se si tratti di beni i quali non hanno nulla a che fare con la capacità di resistenza bellica; ed il divieto è tassativo quando l’esportazione avrebbe condotto ad un aumento di prezzi a danno dei consumatori nazionali (p. 223). Non v’era dubbio che talune esportazioni, ad esempio del cotone, della lana, del frumento, del riso o di ogni altra derrata o merce atta ad alimentare, equipaggiare od armare soldati e civili dei paesi nemici dovevano essere del tutto vietate. In molti altri casi, tuttavia, di merci di lusso o superflue, la esportazione al nemico avrebbe dovuto invece essere incoraggiata, come quella che avrebbe fornito a noi valuta, utile per importare beni necessari ed impoverito il nemico. Anche se qualche volta fosse stato ridotto il consumo interno, il problema doveva essere risoluto confrontando il danno del prezzo aumentato per i consumatori nazionali ed il vantaggio di potere, colla vendita, acquistare derrate o merci mancanti in Italia e più necessarie alla alimentazione di quelle esportate (p. 225). Ma prevalse la vociferazione contro gli speculatori i quali si arricchivano, esportando, in contrabbando, merci che, anche se indifferenti per la condotta della guerra, erano o parevano in qualche modo abbisognevoli a talun consumatore.

 

 

Talvolta la mania dei divieti tocca l’assurdo.

 

 

Un giorno si legge sui giornali che alla frontiera si arresta un Tizio il quale tentava di esportare in Svizzera cedole di titoli nemici. Un altro giorno si legge un comunicato di colore ufficioso, il quale annuncia gravi pene contro coloro i quali negoziano titoli stranieri nemici. Ed è notorio che la censura militare impedisce l’invio all’estero di titoli nemici (p.639).

 

 

Non giovò osservare che i titoli, particolarmente austriaci, erano stati acquistati da cittadini italiani quando l’Austria era nostra alleata e l’acquisto era lecito. Non giovò dire che la vendita avrebbe procacciato ai venditori italiani un valsente in valuta negoziabile e che in tal modo, contro un’uscita di pezzi di carta inservibili in paese, si sarebbe ottenuta la disponibilità, ad esempio, di franchi svizzeri i quali sarebbero rifluiti sul mercato nostro ed avrebbero consentito di rifornirci di beni economici ben più importanti dei titoli cartacei esportati. Se si fosse preveduto l’avvenire si sarebbe potuto aggiungere che la vendita eseguita per tempo (scrivevo il 24 marzo 1918) avrebbe salvato il possessore italiano della perdita del proprio capitale in conseguenza della svalutazione totale della corona austriaca, seguita alla sconfitta della monarchia austro-ungarica.

 

 

Mutare un andazzo invalso nel mondo politico e nella opinione pubblica era allora ed è oggi impresa disperata; anche se chi tentava correggere taluno degli andazzi più pericolosi poteva parlare da una assai divulgata tribuna. Talché, giunto quasi al termine della guerra (25 luglio 1918), mi cadeva l’animo dinanzi alla onnipotenza dello stato, fatto persona fisica vivente nei suoi funzionari:

 

 

Ministero vuol poi dire pochi commissari e funzionari, la cui presunzione va crescendo di giorno in giorno. Nei ministeri gonfiatissimi di oggi gli italiani si sono scaldati una serpe in seno che darà molto filo da torcere all’industria italiana nel dopo guerra. Sono venuti su alcuni tiranni i quali vogliono spadroneggiare, disciplinare, sorvegliare, indirizzare; e contro di cui sarà assoluta necessità lottare animosamente se si vuole che l’industria non sia rovinata. Ma dovrà essere una lotta a coltello, ben più costosa e dura di quella che dovrà essere combattuta contro la risorta concorrenza germanica, contro il dumping e contro tutti i più famosi spauracchi dell’ante guerra (p. 628).

 

 

Non erano ancora sorti i dittatori economici, onesti, convinti, capaci, ai quali saranno destinate parecchie pagine del volume quinto; ma già l’«industria», che nel mio linguaggio di allora significava i ceti industriali, bancari e commerciali italiani, si difendeva nel modo che poi usò quando venne sul serio il tiranno, «coll’astuzia e colle blandizie» (p. 628). Al luogo della libertà, che poteva essere consentita senza pericolo nei casi nei quali non era in gioco la salvezza del paese dal nemico, si ebbe l’arbitrio ministeriale. Lo stato di guerra giustificava gli abusi; ma il male stava nel consentire diventassero abusi quelli che erano forse il legittimo uso di diritti misconosciuti dalla tirannia ministeriale.

 

 

Alla inframettenza presuntuosa dei funzionari ministeriali forniti di potere sulla condotta politica, economica ed, ahimè !, spirituale dei cittadini fa d’uopo concedere la venia dovuta al prevalere di errori radicati da secoli nella pubblica opinione. Qual meraviglia se prefetti, ministri, deputati invocano e decretano calmieri, requisizioni, in multe e carcere contro i profittatori del mercato nero, divieti di esportazione di beni non necessari a noi e inutili alla condotta della guerra, proibizioni al commercio fra provincie abbondanti e provincie manchevoli, imposte distruttrici su coloro i quali ottengono lucri. eccedenti il livello normale, perché sanno organizzare bene i mezzi produttivi e tenui su coloro i quali guadagnano poco o perdono perché capaci solo a sprecare capitale e lavoro; se parlamenti approvano imposte sulle aree fabbricabili congegnate in modo da costringere a venderle a buon mercato ed a utilizzarle perciò malamente in costruzioni scarsamente redditizie quando l’interesse collettivo avrebbe richiesto che le aree medesime fossero «speculativamente» ossia «razionalmente» serbate vuote in attesa del futuro momento adatto all’ «ottima» utilizzazione; qual meraviglia che peggio non accada, quando l’errore è voluto, imposto dal clamore della opinione pubblica e la tirannia ministeriale detta «burocratica», altro non è se non il braccio secolare il quale esegue la sentenza pronunciata dalla pubblica opinione?

 

 

Il tempo di guerra è terreno particolarmente propizio alla seminazione degli errori. Le pagine di questo volume recano assai critiche alle farneticazioni protezionistiche di coloro che, preoccupati dell’avvento della pace, invocavano proibizioni o dazi altissimi contro le importazioni dai paesi nemici e particolarmente dalla Germania, che dicevasi agguerritissima, pronta ad iniziare subito una lotta distruttiva a danno delle industrie dei paesi alleati, a base di svendite a sotto costo, di pagamenti a lunga scadenza e di premi alla esportazione. Avere essa ammortizzato, cogli utili bellici, gli impianti esistenti, sicché questi lavoravano a costi minimi o nulli per interessi ed ammortamenti. Che è grossa fandonia, la quale è ripetuta (p.625) anche in tempo di pace per i paesi vecchi. Si immagina che certi paesi, detti vecchi, possano muovere concorrenza vittoriosa ad altri detti nuovi o, con parola nuovissima divenuta oggi di moda, sottosviluppati, perché i loro impianti industriali sono oramai nei libri contabili valutati a zero e non costano perciò interessi ed ammortamento. Come se l’esperienza posteriore alle due grandi guerre non avesse dimostrato che gli impianti vecchi, sedicentemente ammortizzati, lavorano ad alto costo e provocano la decadenza delle imprese, i cui dirigenti si addormentano nella falsa credenza dei costi nulli; laddove la fortuna economica degli Stati uniti è «anche» data dalla prontezza con la quale gli impianti vecchi, anche se fisicamente ancor nuovissimi, ammortizzati o non, sono buttati nei ferrivecchi non appena macchinari nuovi, metodi produttivi diversi lavorino a costi minori; e il rifiorimento della Germania e dell’Italia non sia «anche» dovuto alle distruzioni belliche degli impianti vecchi cosidetti ammortizzati ed alla necessità nella quale le imprese si trovarono di rinnovare, con o senza l’aiuto americano, stabilimenti ed impianti in modernissima perfetta maniera; questi, sì, lavoranti a costi bassi. Tant’è ; nell’elenco delle ragioni o pretesti per cui gli industriali nazionali invocano protezione contro le importazioni straniere, sempre figura la voce: «costi bassi stranieri per impianti vecchi ammortizzati» ; laddove la voce dovrebbe essere rovesciata e messa nell’elenco delle disgrazie altrui, con il titolo di “costi alti stranieri per l’uso di antiquati impianti detti ammortizzati».

 

 

Nella state del 1918 si ebbe il primo accenno in Italia di una mutazione nella struttura delle banche commerciali, la quale col tempo provocò poi un’altra mutazione, assai più radicale e pericolosa, di esse in banche di stato. Lamentavamo, innanzi al 1914, che le grandi banche ordinarie italiane, a differenza di quelle inglesi e ad imitazione del modello tedesco, oltre alle operazioni brevi di sconti e di anticipazioni per la fornitura del capitale circolante delle industrie e dei commerci, prendessero troppa parte alla fornitura all’industria del capitale di investimento a lunga scadenza. Dicevasi che le banche in tal modo diventassero padrone dell’industria e tendessero a persuadere i dirigenti di questa ad occuparsi non tanto della produzione a costi decrescenti di beni economici, quanto del promuovere l’aumento del prezzo delle azioni emesse dalle società ed accolte nel portafoglio delle banche in attesa di poterle collocare profittevolmente, a prezzi cresciuti nelle borse, sul mercato dei risparmiatori-investitori. La guerra, arricchendo le imprese dell’industria pesante, fornì ai loro dirigenti i mezzi per dare inizio alla pratica opposta: non più le banche padrone dell’industria; ma i grossi gruppi industriali, intesi ad acquistare le azioni delle banche, così da diventare padroni del pacchetto di maggioranza – e bastava per lo più una maggioranza relativa in un’assemblea di minori azionisti disorganizzati – e pronti a nominare consiglieri ed amministratori delegati ligi ai loro interessi. Il pericolo era grave: che pochi uomini disponessero dei depositi delle banche a vantaggio delle proprie intraprese (pp. 683-87). Per quella volta, il ministro del tesoro Nitti credette di aver risoluto il problema (art. del 2 luglio 1918, pp. 688 sgg.) col persuadere le quattro maggiori banche commerciali – Banca italiana di sconto, Banco di Roma – a stipulare tra di loro un accordo di difesa contro l’assalto dei capi dell’industria pesante. Fin d’allora, la costituzione di un cartello delle banche era veduta con sospetto da chi dettava le presenti cronache (p. 689); e non dovevano passare molti anni perché le immobilizzazioni dei depositi a favore di talune grosse imprese industriali procacciassero dapprima la crisi della Banca italiana di sconto, gli interventi di salvataggio dello stato e poi la nazionalizzazione del sistema bancario italiano.

 

 

L’idea storta che governava i provvedimenti con cui si intendeva risolvere ad uno ad uno i problemi, i quali si presentavano, con urgenza, all’attenzione ed all’ansia dei cittadini, era che in verità esistessero «problemi» economici l’uno distinto dall’altro. L’idea non è morta; anzi rigermina vigorosa ogni volta dalle sue ceneri. Ogni giorno si legge che «un problema è sorto e deve essere risoluto»; quasi esistessero problemi singoli e questi potessero essere risoluti ad uno ad uno. La manifestazione più comica della problematica si ebbe nell’estate del 1918 quando pareva ed era imminente la fine gloriosa per l’Italia e per gli alleati, della guerra e tutti si ponevano il problema: che cosa si farà poi? come costringeremo la Germania ed i suoi accoliti a pagare le indennità sacrosantamente dovute per gli ingiusti danni di rovine e di impoverimento a noi recati ? Come, pur costringendola a pagare indennità sufficienti e perciò grandiose, ne schiacceremo la capacità di concorrenza a nostro danno, le impediremo di vendere a noi i suoi beni a prezzi rotti? Come la necessità di riparare con lo sforzo di tutti all’impoverimento determinato dalle rovine belliche sarà contemperata con le promesse di distribuire buone terre appoderate ed attrezzate ai reduci, e di aumentare il reddito medio delle moltitudini meno provvedute? Il frutto del nobile proposito di risolvere la quadratura del circolo fu la nomina di una mastodontica commissione, presieduta dall’on. Pantano, detta del dopo guerra; che, per cominciare, fu composta di seicento membri (cfr. art. del 16 luglio, del 25 settembre e del 16 novembre, pp. 692-708). Approdò quella commissione, con gran dispendio, ad una relazione dell’on. Pantano, che nessuno lesse e fu presto dimenticata. Non poteva approdare a nulla; perché seicento pareri contrastanti per origine ideologica, per tradizione di partiti o di classi, per interessi economici non formano un’idea, una politica capace di risolvere il problema, che è unico ed inscindibile, dell’avanzamento della nazione.

 

 

Dalla considerazione particolaristica dell’unico problema economico non può non nascere la torre di Babele, con la connessa confusione delle lingue. Il problema vero fondamentale che si trattava di risolvere era questo: vogliamo che prosegua nel dopo guerra l’attuale tendenza bellica, forse inevitabile per necessità assolute di guerra, verso la gestione di stato degli affari economici, verso il dominio della amministrazione o vogliamo il ritorno, sia pure graduale, verso libere maniere di attività private, con interventi statali limitati ai soliti casi ammessi nei tempi ordinari? … Nella commissione nessuno è incaricato di risolvere il problema generale; sicché si avrà una collezione di precetti, così cari al dilettantismo fantasioso dell’on. Pantano, celeberrimo per avere in tasca, come del resto parecchi suoi colleghi di sottopresidenza, piani «completi» ed «organici» e «geniali» per rimediare in quattro e quattr’otto ad ogni malanno dell’Italia e dell’umanità (pp. 695-96).

 

 

Nel giorno della vittoria, chi scrive osa guardare in alto e spera che alla vittoria sul nemico straniero segua la vittoria sul nemico che è in noi:

 

 

Per non cadere nel disfacimento che è la conseguenza fatale dei tentativi di attuare programmi millenari che è il terreno fecondo su cui soltanto i Lenin d’Italia possono sperare di mietere, bisogna anche per il dopo guerra ritornare alle nostre vecchie e grandi tradizioni del risorgimento. Il ritorno a Mazzini ha contribuito, oramai tutti lo vedono, a far vincere a noi la guerra, poiché ha distrutto la compagine statale del nostro nemico. Per vincere il dopo guerra, per emergere più saldi, più forti, più ricchi moralmente e materialmente dalla grande prova civile che ci attende, bisogna ritornare alle audacie del conte di Cavour: alle audacie di chi odia i programmi vuoti, le parole retoriche, le promesse aventi un puro e basso scopo elettorale, alle audacie fredde, ragionate di chi sa la meta a cui vuoi giungere, scarta i mezzi inadeguati e sceglie la via che può essere percorsa senza pericolo di cadere nell’anarchia e nella reazione. Cavour, che la lettura dei suoi scritti rivela essere stato uno dei maggiori economisti d’Italia, non fu l’uomo di un’idea unica. Fece costruire allo stato ferrovie e porti, sussidiare linee di navigazione, impose tasse durissime; ma mentre faceva far molto allo stato dove giudicava l’azione sua vantaggiosa, gli toglieva compiti, come quelli di regolare e proteggere l’industria, di fissare i calmieri del pane, laddove credeva che l’aria libera fosse meglio atta a promuovere lo sviluppo della ricchezza ed il buon mercato della vita. Finiva di abolire le corporazioni d’arti e mestieri; ma fondava una cassa di assicurazione per la vecchiaia degli operai e voleva renderla universale. Così egli condusse il Piemonte dal 1850 al 1860 ad un alto grado di forza economica (pp. 704-5).

 

 

Le pagine qui raccolte hanno dunque, pur nel clima di consenso doveroso all’opera delle autorità politiche e militari nel tempo di guerra, indole sovratutto critica. Troppi furono gli errori inutili, le improvvisazioni, l’ossequio alle pretese irrazionali dei danneggiati dalle esigenze belliche, perché la critica potesse tacere. Spesso si passò il segno nella arrendevolezza verso le richieste di vantaggi momentanei a pro di questo o di quell’altro ceto o città o regione, verso il clamore disordinato contro gli arricchimenti dei provveditori di cose belliche, degli accaparratori e profittatori del mercato nero; troppo si indulse a provvedimenti dettati da buone intenzioni frettolose, ma intesi a conseguire effetti contrari al bene comune; troppi imbrogli demagogici furono aggiunti al sistema tributario vigente, dall’usura del tempo già fatto decadere dalla prima semplicità razionale; sicché il volume ha in gran parte sostanza di critica quotidiana a malefatte di legislazione e di amministrazione. Giova sperare che le sue pagine non appaiano, come non erano nelle intenzioni, di scarso apprezzamento degli uomini di valore i quali, se pur commisero taluni errori economici pratici, servirono validamente e devotamente il paese e condussero la patria alla vittoria. La critica era anch’essa doverosa, se talvolta giovava a smussare le punte degli errori ed a gittare il germe di una diversa condotta, che era assurdo pretendere in tempi fortunosi, per il tempo auspicato della pace.

 

 

Una tregua nell’incessante susseguirsi di problemi incalzanti si può forse scorgere nelle pagine da 138 a 184 nelle quali, in articoli scritti fra il 15 marzo 1915 ed il 5 dicembre 1916, studiai la crisi del carbone e l’ingombro del porto di Genova. Rileggendo quelle pagine, ricordai i giorni nei quali interrogavo facchini del porto, organizzatori operai, capi del consorzio, commercianti in carbone e in cotone, industriali dell’interno desiderosi di materie prime; e cercavo di formarmi un quadro preciso dei grossi problemi dalla cui soluzione, empiricamente cercata giorno per giorno, ora per ora, dipendeva la vita dell’industria e delle popolazioni nella grande pianura padana ai cui confini operava e combatteva l’esercito italiano. Risento ancor oggi il rimpianto non ci sia stato mai nessuno il quale scrivesse il beI libro di economia viva che poteva ed ancora può essere dettato a narrare ed analizzare il congegno vario e ricco e miracoloso del maggior porto italiano. Credo di avere già scritto altrove come a scriverlo dovrebbero collaborare un economista ed un romanziere; un Pantaleoni ed un Balzac. Il Pantaleoni scrisse quel capolavoro che si intitola alla Caduta del Credito mobiliare, nel quale sono narrate, da chi le aveva rivissute, le vicende della grandezza e della decadenza della maggior banca di investimenti del tempo suo; laddove il Balzac, forse per avere, anch’egli, provate le speranze e sofferte le delusioni dello speculare economico, seppe creare tipi di banchieri, di negozianti, di sfaccendati giocatori di borsa, uomini e donne, di geni e di sprovveduti quali nessun economista seppe immaginare e descrivere. Quale stupendo stimolo all’analisi economica il porto di Genova; dove arrivano navi e merci e uomini da ogni paese del mondo e si dipartono merci ed uomini per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia; dove a tratto a tratto dominava il padrone della chiatta e riscuoteva taglia su chi doveva scaricare dalla nave e non sapeva dove collocare la merce scaricata, e poi scompariva nei tempi di magra o di servizi abbondanti e bene organizzati; dove si scontrano gli interessi degli importatori di frumento, di carbone e di merci varie con quelli delle industrie consumatrici del nord; dove le calate, i pontili, gli scali ferroviari sono strumenti gli uni agli altri coordinati; dove l’intermediario, il commissionario, l’agente, che maneggia miliardi in uno «scagno» di pochi metri quadrati in un vicolo di basso porto, lavorano attorno alle grandi banche e regolano sulla parola affari colossali in borsa e per la strada; dove le organizzazioni operaie hanno sostituito i «confidenti» di un tempo; e dove il consorzio del porto, la Camera di commercio, il capitano del porto, l’ispettore di pubblica sicurezza, il municipio gestore del punto franco si incontrano, si sovrappongono, si accordano. Nasce nel porto un mercato, un grande mercato, dove si formano i prezzi e dove è possibile analizzare costi, costi veri, i quali, confrontati con i prezzi, danno luogo a perdite ed a guadagni. Auguro che le analisi di costi da me condotte in quel tempo persuadano taluno amante dei fatti economici analizzati nella realtà operante, a scrivere quel libro sul porto di Genova, che da tanti anni immagino ed invoco.

 

 

Ho raccolto nell’ultima parte del volume (pp. 748-90) scritti i quali dal 18 gennaio del 1915 al 16 ottobre 1918 furono dedicati a problemi non economici: la teoria tedesca della decadenza dell’impero britannico, quella inglese dell’equilibrio europeo e sulla necessità che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca. Quest’ultimo iniziò sul «Corriere della sera» la serie degli articoli i quali recavano non la mia firma, ma quella di uno pseudonimo «Junius» e furono poi raccolti dall’editore Laterza in un volumetto dal titolo Lettere politiche di Junius. La sigla era quella stessa che nel Settecento era stata usata per un volume di scritti politici divenuti celebri, anche per la controversia sorta intorno alla persona dell’autore. Adottai per quegli articoli lo pseudonimo e l’uso di indirizzarli, quasi fossero una vera lettera, al «signor direttore» ; e cercai di serbare il segreto intorno alla persona dell’autore, per scemare ai lettori la noia di vedere troppo spesso ripetuto in calce agli articoli il mio nome e per il piacere di ascoltare da amici e conoscenti giudizi critici, che, vista la firma, non sarebbero stati dichiarati in mia presenza.

 

 

Nel gruppo degli articoli politici si inseriscono anche due articoli storici, l’uno sulla conquista del confine naturale delle Alpi occidentali compiuto lungo duecento anni di guerre e di lotte da Casa Savoia e l’altro sulla cavalleria con la quale nel Sei e Settecento si conducevano le guerre in Piemonte confrontate con i casi di barbarie moderne, che parevano già biasimevoli durante la prima guerra mondiale e divennero durante la seconda terrificanti per i trasferimenti forzati di intere popolazioni e per la tentata distruzione del popolo ebraico.

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. XIII-XXXV

 

 

Il volume è tutto composto di articoli del tempo di guerra. Scrivevo (p. 281) :

 

 

Di fronte alle necessità della guerra cessa il diritto alla critica. Chi di noi oserebbe lamentarsi di fronte anche alla scomparsa totale del naviglio marittimo dal mercato dei trasporti non bellici quando, per ipotesi, ciò fosse necessario per la vittoria?

 

 

Ebbero perciò gran luogo negli articoli del giornale e nel volume sono solo in minor parte riprodotti, per evitare le assai frequenti, allora necessarie, ripetizioni – gli inviti a sottoscrivere ai prestiti che venivano, gli uni dopo gli altri, emessi a procacciar denaro allo stato.

 

 

Chi, tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che i suoi figli gli muoveranno di non aver compiuto ogni sforzo possibile, nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria? (p. 108).

 

 

Ad incoraggiare l’afflusso del denaro nelle casse dello stato, plaudivo alla scoperta, (nel 1916), della forma «al portatore» dei buoni ordinari da sei a dodici mesi (p. 356). Fino allora i buoni ordinari erano tutti nominativi; e parve gran novità avere deliberato che essi potevano essere emessi anche al portatore, anche se «per ora» la novità non era estesa ai buoni più brevi, a tre mesi. Si vide poi che i buoni al portatore erano assai meglio accetti al pubblico dei buoni nominativi, i quali in pratica erano acquistati principalmente dalle banche e da enti e non potevano sorpassare una modesta somma (300 milioni di lire) fissata ogni anno nella legge di bilancio per sopperire alle momentanee esigente di cassa del tesoro. Presto si giunse ai miliardi e divenne, quella dei buoni ordinari, la maniera di sopperimento più importante in guerra ed in pace. A promuovere il risparmio, necessario da un lato per ridurre i consumi secondari o superflui e dall’altro lato a fornire allo stato i mezzi per i consumi bellici, divulgai (p. 370) in Italia, fin dal 1916, il metodo primamente usato in Inghilterra dei buoni o certificati, rimborsabili in qualunque momento a richiesta del risparmiatore, fecondi di frutto progressivamente crescente e retrodatato al momento dell’emissione, sicché il detentore avesse interesse, pur conservando la piena continua disponibilità del denaro, a serbarli in portafoglio per il maggior tempo possibile. I buoni furono, col nome di buoni fruttiferi postali, introdotti presto in Italia ed ebbero successo notabilissimo, sicché oggi sono lo strumento preferito di impiego dei risparmi della piccola e media gente, particolarmente nelle campagne.

 

 

In argomento di prestiti, pur riconoscendo che l’Italia non aveva toccato l’ideale, che sarebbe stato quello di coprire il fabbisogno bellico esclusivamente con il provento di nuove imposte e col ricavo di prestiti – ché in tal caso la spesa bellica sarebbe stata fatta con mezzi antichi, ossia con rinuncia ad altrettanti consumi privati e non sarebbe stato necessario stampare biglietti a vuoto, davo lode (p. 526) ai ministri del tesoro e delle finanze di avere

 

 

stabilito nuove imposte a mano mano che l’onere del bilancio cresceva a cagione dei debiti contratti.

 

 

In tal modo la pratica italiana, sebbene meno austera di quella inglese, la quale con le imposte copriva almeno una parte delle spese belliche, stava ben al disopra delle pratiche seguite in Germania, in Francia e nell’impero austro-ungarico, dove si era rinunciato apertamente a confessare ai cittadini che la guerra non si poteva vincere senza sacrificio (pp. 235 sgg. ). Il dott. Hellferich, ministro germanico delle finanze, nutriva, in verità,

 

 

fiducia di far coprire gran parte delle spese germaniche di guerra con le indennità dei paesi nemici vinti (p. 231).

 

 

La tesi, che era politica, gli consentiva di rinunciare a chiedere ai suoi il sacrificio di nuove imposte; ma la esigenza economica lo costringeva ad emettere prestiti grandiosi i quali erano stati, a parer mio, «un trionfo genuino». Riconoscevo che le accuse mosse a lui

 

 

di aver creato casse di credito pubbliche solo per mutuare biglietti a coloro i quali dovevano diventare i sottoscrittori dei suoi colossali prestiti (p. 229)

 

 

erano ingiuste, e, pur essendo egli nel campo avverso, osservavo che la tecnica seguita da lui nell’emissione dei due primi prestiti era perfetta. La testa di turco contro cui battevo più frequentemente e duramente era il torchio dei biglietti. Fin dal luglio 1915 notavo dolorosamente che (p. 98)

 

 

ancor oggi si incontrano persone, le quali reputano un beneficio le emissioni abbondanti di carta moneta e non sanno capacitarsi del perché gli stati si affannino tanto a contrar prestiti onerosi al 4,50 o 5% quando potrebbero farsi imprestare gratuitamente dai cittadini quante somme volessero, semplicemente stampando biglietti e pagando con essi tutti i propri creditori.

 

 

E snodavo la litania, oggi divulgatissima, degli effetti e dei danni delle emissioni sovrabbondanti di biglietti.

 

 

In quel tempo era divenuta popolare una critica rivolta contro gli alleati ed i neutrali:

 

 

essere uno scandalo che gli svizzeri vogliano lucrare 50 o 55 lire per ogni 100 dei loro franchi; che i francesi guadagnino il 30% e che gli inglesi ci vendano le loro sterline per 36-37 lire nostre invece che per 25 lire. Passi per i neutri, i quali non hanno nessun vincolo verso di noi; ma gli alleati dovrebbero moralmente essere obbligati ad accettare la nostra moneta alla pari e dovrebbero resistere alla tentazione di lucrar il 30 od il 40% a nostre spese.

 

 

La querela era esposta in articoli giornalistici ed in discorsi parlamentari in un tempo in cui per comprare un franco svizzero bastava spendere 1,50 lire italiane e per avere una lira sterlina si davano non più di 36 lire italiane. Non sono sicuro che nella testa di qualcuno in Italia non si nasconda un residuo del sofisma antico, oggi che per avere un franco svizzero occorre dare circa 150 lire italiane e per avere una lira sterlina fa d’uopo spendere 1750 lire italiane: e del pari 625 lire per ottenere quel dollaro, che prima del 1914 si cambiava con 5,25 lire nostre! Non ne sono sicuro, perché il sofisma nasce da un sentimento proprio dell’uomo, il quale attribuisce la responsabilità di un malanno che lo incolga non mai a se stesso, ma ad altri, al parente, all’amico, al collega, al concorrente, all’avversario. Se poi la colpa può essere data allo «straniero» , il ragionamento, anche se sbagliato, diventa senz’altro corretto, anzi incontrovertibile e chi lo smaschera è reo di leso-patriottismo. Nelle pagine del testo (da 433 a 438) il sofisma è a lungo confutato, più a lungo di quanto meritasse la evidenza dell’errore. Chi riscuoteva allora, per merce venduta agli inglesi, le 37 lire italiane invece della pari di 25 lire? Non gli inglesi, i quali pagavano nulla più e nulla meno che la solita lira sterlina; ma i venditori italiani della merce, i quali ricevevano allora 37 ed oggi riceverebbero 1750 lire; ed, apparentemente, «guadagnavano» 12 e guadagnerebbero oggi 1725 lire. Ma è tutta apparenza, ché per la abbondanza di segni monetari circolanti, le 37 lire di allora e le 1750 lire di oggi comprano o comprerebbero né più né meno delle 25 lire di prima del 1914. Il che voleva dire trattarsi di un affare interno, nazionale, fuor di ogni responsabilità straniera, di cui siamo responsabili noi che volemmo o consentimmo o tollerammo che i nostri governanti, per conseguire taluni fini pubblici (vittoria contro il nemico nel 1915-18, ed oggi strade, rimboschimenti, impianti ferroviario-portuali, lotta contro la palude o la malaria) o pseudo-pubblici (ferrovie inutili, palazzi superflui, impiegati esuberanti ecc. ecc.), invece di togliere denari preesistenti ai cittadini sotto forma di imposte o di prestiti, fabbricassero denaro nuovo e così crescessero i cambi esteri e svilissero la moneta nostra. Oggi, che di queste verità elementari tutti sono persuasi ed il pericolo sembra venuto meno, può parere inutile ristampare articoli del tempo in cui il sofisma correva ed il pericolo era attuale e si dimostrò in seguito distruttivo dell’assetto sociale. Ma, sicuro non sono che il sofisma non informi ancora il convincimento di troppi italiani. Il modo di dire, per fermo, rimane; e da esso è breve il passo al modo di pensare.

 

 

Correva nei giornali e nelle relazioni di governo o di commissioni parlamentari una teoria, la quale attribuiva l’aumento progressivo dell’aggio sull’oro e sulle monete straniere al disavanzo della bilancia commerciale. Ed era vero che

 

 

dallo scoppio della guerra europea alla fine di luglio 1917 – scrivevo il 15 dicembre 1917, a p. 456 – le importazioni di merci eccedettero le esportazioni per circa 8 miliardi e mezzo di lire,

 

 

somma suppergiù equivalente – vedi l’avvertenza a p. 792 di questo volume – a 12.750 miliardi di oggi.

 

 

Prima di affermare che la causa dell’aggio, ossia del deprezzamento della lira, sia il disavanzo della bilancia commerciale – ma si intendeva sempre parlare dello sbilancio totale o dei pagamenti – bisognava dimostrare che lo sbilancio esisteva. Orbene, a tacere dei guadagni della marina mercantile italiana, delle rimesse di emigranti e di altre sopravvenienze attive, le quali, anche negli anni di guerra, seguitavano ad arrivare,

 

 

non è forse vero che lo stato italiano ha esportato all’estero per miliardi di lire di titoli di debito? Far debiti all’estero è lo stesso che vendere od esportare all’estero nostri titoli di debito … È probabile che i debiti fatti dall’Italia in Inghilterra e negli Stati uniti siano stati sufficienti per coprire lo sbilancio tra importazioni ed esportazioni. Sì, noi comprammo 8 miliardi e mezzo di lire – carta di più di merci di quante non ne vendemmo all’estero; ma questi 8 miliardi e mezzo li pagammo con i crediti che ci furono aperti all’estero … Se questo è vero, come è possibile affermare che l’alto cambio derivi da una eccedenza che non esiste? … Se il cambio alto potesse concepirsi derivante da questa causa, noi avremmo il cambio alla pari. Un oculato e forte governo del tesoro e degli istituti di emissione – allora si parlava al plurale, perché accanto alla Banca d’Italia, avevano diritto di emettere biglietti anche i Banchi di Napoli e di Sicilia – basterebbe non solo a far scomparire le oscillazioni del cambio, ma l’aggio medesimo al disopra della pari (pp. 456-57).

 

 

Il sofisma assumeva così una forma meno grossolana di quella esaminata dianzi dell’attribuire senz’altro allo «straniero» la colpa di qualche nostra disgrazia; bensì l’altra di attribuirlo alla guerra, allo stato di necessità in cui la guerra ci aveva posto, di dovere fare spese di gran lunga superiori alle normali e di dovere perciò approvvigionarci all’estero in misura superiore alle nostre possibilità di pagamento. Che era un discolparsi apparentemente plausibile. Ma plausibile non era, perché si dimenticava che, in un mondo di uomini ragionanti, cittadini e governanti avrebbero visto che non si conduce guerra grossa, se non ci si sobbarca a grossi sacrifici di imposte nuove e di prestiti offerti mercé il risparmio ossia con la rinuncia a consumi anche ordinari. Ma nessuno, nemmeno nei paesi più ricchi, ebbe il coraggio della rinuncia. Piaceva lasciar credere che la guerra non avrebbe turbato troppo l’assetto normale della economia pubblica e privata; e sebbene noi, come osservai sopra, ci si fosse comportati abbastanza bene, non si ebbe il coraggio di aumentare le imposte come sarebbe stato necessario e si dovette perciò ricorrere, in misura notabile, agli indebitamenti coll’estero. Poiché questi non bastavano, si ebbe ricorso, per fronteggiare le spese interne, al torchio dei biglietti. Che fu la causa vera dell’aggio, del deprezzamento della lira e delle conseguenze politiche e sociali che ne derivarono.

 

 

Il bello si fu che quei debiti verso l’Inghilterra e gli Stati uniti non furono, se non in minima parte, rimborsati. Ma di ciò si discorrerà nel quinto volume, dove sono riprodotti gli articoli scritti a pro della tesi che quei debiti non dovessero essere rimborsati, essendo le spese state sostenute nell’interesse comune. Tesi la quale fu, dopo la vittoria comune, accettata, se non in principio, di fatto dagli alleati.

 

 

Continuava, ché la tradizione era antica, il metodo, opposto a quello seguito nel primo decennio dopo la unificazione e nella rinnovazione del catasto, delle sciabolate tributarie (p. 536), come un giorno le aveva acconciamente definite il Daneo, ministro delle finanze nel gabinetto Salandra. A chi tocca, tocca; pur che si faccia denaro: centesimi di guerra, sugli esenti dal servizio militare, imposta militare, sui canoni enfiteutici, ecc. ecc. Tipico il decreto del 3 febbraio 1918, il quale col pretesto della perequazione, aggiungeva un’altra alla vecchia e tuttora esistente sperequazione della doppia tassazione degli interessi dei debiti ipotecari. Se il proprietario di un fondo rustico tassato coll’imposta (e colle sovrimposte locali) fondiaria sul reddito di 100.000 annue, contrae un mutuo di un milione di lire al 5%, fruttifero di 50.000 lire annue a favore del mutuante, il fisco colpisce presso il proprietario il reddito di 100.000 lire che il fondo o la casa gli dà, e presso il capitalista mutuante gli interessi a suo favore di 50.000 lire; ed il totale reddito tassato è di 150.000 lire. Il doppio di imposta è evidente; ché il reddito è uno solo: quello di 100.000 lire fornito dal fondo. Il fatto che, prima del mutuo tutte le 100.000 lire fossero percepite dal proprietario e, dopo il mutuo, per 50.000 lire da lui e per 50.000 lire dal suo creditore, non produce l’effetto miracoloso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il reddito rimane in tutto di 100.000 lire (50.000 + 50.000) e non diventa di 150.000 lire per ciò solo che il proprietario dal reddito di 100.000 lire deve prelevarne 50.000 lire e trasmetterle al creditore. Eppure, la sperequazione si perpetua, traendo pretesto dal fatto che l’imposta non colpisce le persone, ma le cose: il fondo e il mutuo. Il fondo dà o non dà un reddito di 100.000 lire? il mutuo non è forse fruttifero di interessi di 50.000 lire? epperciò paghino. Il sofisma è grossolano; perché i redditi sono goduti da persone e non da cose; e nessun arzigogolo può trasformare in 150.000 quello che è un ammontare di 100.000 lire.

 

 

Dal danno si era miracolosamente salvato, sino al 1918, un reddito, per il quale il doppio d’imposta era troppo chiaro per passare inosservato: i canoni enfiteutici. Esiste infatti nel nostro sistema di diritto, un istituto detto della enfiteusi. Sorto nel medio evo, esso sdoppiava la proprietà della terra: il vecchio proprietario pieno diventava proprietario eminente o domino del fondo e lo concedeva ad un coltivatore detto utilista, in compenso di un canone fisso in denaro o in derrate agrarie. Il «domino», rimanendo titolare della proprietà, fissava, ad esempio, il reddito da lui percepito in 1.000 lire all’anno; e l’«utilista», iscritto come colono enfiteuta nei libri catastali, riscuoteva il residuo prodotto del fondo. Il contratto di enfiteusi aveva per iscopo di incoraggiare la messa a cultura di terreni boscosi ed incolti; ché il colono, migliorando, avrebbe goduto di tutto il sovrappiù oltre le 1.000 lire dovute al proprietario. Col passar del tempo e con le migliorie, il sovrappiù era diventato maggiore del canone, e spesso questo, anche a causa della svalutazione della moneta, era divenuto irrilevante. Supponendo che l’enfiteuta incassasse 3.000 lire di reddito netto, accertato in catasto, era chiaro che il reddito era di 3.000 lire in tutto, delle quali 1.000 erano dall’enfiteuta versate al «domino» e 2.000 da lui trattenute. Per antica consuetudine era stipulato sempre che le 1.000 lire erano pagate al netto da pesi e tributi, sicché questi gravavano tutti sulle 2.000 lire dell’enfiteuta. L’immunità era stata convenuta dall’origine, ed era divenuta col trascorrere del tempo, ognora più ovviamente ragionevole, ché tutto l’incremento di reddito, oltre le 1.000 lire, spettava all’utilista. Saltava agli occhi che il reddito era uno solo, di 3.000 lire, ripartito in due parti a due persone, amendue iscritte come proprietarie del fondo, l’una col nome di domino e l’altra con quello di utilista. Epperciò, si era pacificamente sempre tassato il solo reddito delle 3.000 lire accertato in catasto, in conformità all’atto di creazione dell’enfiteusi, al nome dell’utilista. Durante la guerra, all’occhio linceo di un funzionario, occupato nel rintracciare materia nuova imponibile sfuggita all’imposta, parve di aver scoperto nei canoni enfiteutici l’araba fenice del cespite esente dall’imposta; ma la ingiustizia o sperequazione non era vera, ma dedotta dal fatto che, in altro caso, quello degli interessi ipotecari, pacificamente si commetteva la scorrettezza del doppio, tassando 150 quando il reddito totale era solo 100. Se la sperequazione nell’un caso è pacifica, perché non sperequare anche nell’altro caso? Così è della maggior parte delle ingiustizie alle quali si provvede creando imposte nuove: non si tratta di scoprire e tassare un vero reddito nuovo; non già di tassare qualcosa che sia veramente esente; ma solo di colpire quel che è tassato di meno o meno ferocemente di altri redditi o quel che appare esente, laddove invece è già tassato, ma non ancora due volte, al pari di altro disgraziato simigliante cespite. A nulla valsero le critiche mosse (cfr. pp. 533 sgg.) allo sconcio; il quale rimase, sinché, in un momento posteriore alla guerra, esso poté essere tolto.

 

 

La caccia alle ingiustizie ed alle sperequazioni fiscali da abolire è uno dei passatempi favoriti dei riformatori tributari; e già sin d’allora (29 novembre 1915 e qui a p. 272) mettevo in guardia contro le imposte demagogiche, fruttifere di «parole» invece che di «centinaia di milioni e miliardi di lire effettive» di cui ha urgenza il tesoro degli stati; e ricordavo il «famoso» bilancio del 1909 del signor Lloyd George, il quale, avendo fatto approvare un sistema di imposte sulle aree fabbricabili, ne aveva ricavato sino al 31 marzo 1914

 

 

l’unico costrutto di aver costato circa 55 milioni di lire italiane e di aver reso poco più 15 milioni di lire.

 

 

Sicché anche qui, a case calme, l’intiero edificio perequativo fu smantellato e raso a terra.

 

 

Spesseggiarono anche tra noi, le invenzioni infruttifere ed inapplicabili come le imposte sugli esenti dal servizio militare o quella sull’assistenza civile. Le successive chiamate dei riformati rendevano instabili i ruoli delle imposte; e le quote di sei lire si erano palesate quasi tutte inesigibili e causa di dispendio per la finanza invece che di entrata (pp. 529 sgg.). Sinché non fosse stata istituita la imposta complementare sul reddito, proposta dall’on. Meda, vana era la speranza di colpire i redditi esenti. I tentativi erano a vuoto e sempre si ricadeva nel solito risultato di sovratassare i già tassati (pp. 531 sgg.).

 

 

Ero scettico sui risultati delle nuove imposte sui sovraprofitti di guerra (p. 277); e criticavo l’incitamento che l’imposta dava, per l’indole del suo meccanismo, a crescere gli impianti inutili e le spese superflue allo scopo di sottrarre legalmente al tesoro la materia imponibile. In generale tutte le imposte che sovratassano l’eccedente su un reddito definito normale hanno effetti dannosi di spreco di capitali e di lavoro. Recando l’esempio all’estremo – ma è un estremo al quale ci si avvicina progressivamente durante la guerra e fu raggiunto dopo il 1919 con la cosidetta «avocazione» totale dei profitti di guerra – se si tassa con l’imposta normale, suppongasi, del 20% il reddito sino all’8% del capitale investito e con il 100% il supero oltre l’8%, quale mai interesse ha il contribuente a produrre il supero? Anzi, se le contingenze del momento procacciano un supero, egli ha interesse a sprecarlo: ad assoldare operai ed impiegati inutili, a distribuire stipendi ad amici e familiari. Giova procacciarsi clientela di amici e di impiegati, più che non pagare imposte. Ed ha interesse a compiere impianti superflui, pur di crescere la cifra «legale» del capitale investito. Se questo è di 100 milioni, l’imprenditore tiene per sé otto (8% su 100 milioni di capitale) sugli eventuali 20 milioni di reddito conseguito ed il resto deve versarlo all’erario. Se egli perciò cresce l’investimento a 150 milioni, non occorre che i 50 milioni in più di impianti e di scorte fruttino alcunché. Egli può tenere per sé, all’8% 12 milioni, versandone solo 8 invece di 12 allo stato. Se egli riesce a spingere, purtroppo di fatto e non solo per scritturazione contabile, gli investimenti a 200 o 250 milioni di lire, egli può tenere per sé, assoggettati alla sola imposta normale, 16 o 20 milioni rispettivamente e finire di non versare più nulla allo stato. Fu, in misura progressivamente crescente, l’esperienza degli anni dal 1917 al 1920. Il capitale superfluo, per il meccanismo dell’imposta, fruttava, non perché fosse realmente produttivo, ma perché risparmiava, a vantaggio del contribuente, il versamento delle imposte crescenti sull’eccedente. Il danno per la collettività era certo; ma l’imposta confiscatrice era popolare e riscuoteva plauso generale (pp.559, 628); e riscuote ancor oggi, ogni qualvolta il principio, in forme nuove, venga accolto, plauso rinnovato. A nulla giovano, ad impedire gli sprechi, le facce feroci, i giuramenti fiscali, le minaccie di galera; ché l’errore fiscale offre la giustificazione «morale» alle evasioni di difesa ed aggiunge «pretesti» a coonestare le frodi sostanziali.

 

 

Lo stato di guerra diede luogo a speranze, le quali poi si dimostrarono ingiustificate; ché la scarsità dei beni rese inutili talune delle salvaguardie protettive che a poco a poco erano state stabilite a favore delle industrie. Innanzi alla guerra, il produttore di zucchero nazionale era soggetto ad una imposta di fabbricazione di 76,15 lire al quintale per lo zucchero raffinato; e poiché l’importatore avrebbe dovuto pagare 99 lire per quintale, il produttore nazionale godendo di un margine protettivo di lire 22,85, viveva sicuro di dominare intieramente il mercato italiano. La guerra, rialzando i prezzi e provocando con i razionamenti e le distribuzioni ai soldati, un aumento dei consumi, consigliò a ridurre gli ostacoli alla importazione straniera. Il che, alla fine del 1916, si conseguì decretando una sovratassa di guerra sulla produzione nazionale di 17 lire per quintale. Temporaneamente il margine protettivo si riduceva così da 22,85 a 5,85 lire al quintale, in conformità alla norma generale della convenzione di Bruxelles (pp. 374 sgg.). Me ne rallegravo nella speranza che

 

 

al ritorno della pace fosse conservato il regime fiscale fortunatamente consigliato dalle esigenze di guerra …, il margine protettivo di lire 5,85 essendo largamente sufficiente ad una industria, già ricca prima e rafforzatasi vieppiù durante la guerra (p.376).

 

 

Speranza fallace, ché gli zuccherieri seppero poscia riconquistare il perduto privilegio.

 

 

Lo stato di guerra aveva costretto, sin dal 18 ottobre e dal 1 dicembre 1914 a ridurre temporaneamente il dazio sul frumento da 7,50 a 3 lire al quintale; che non erano veramente tali, perché, non consumandosi frumento in granella, ma frumento trasformato in farina da pane e da paste alimentari, il dazio effettivo era quello sulle farine, ridotto solo da 11,50 a 5,25 lire al quintale. Perciò dichiaravo nel gennaio del 1915 necessaria la immediata abolizione di ambo i dazi sul frumento e sulle farine (p. 52). Che fu cosa fatta subito; ma non ebbe effetto, perché ben presto la situazione si invertì ed il governo, con calmieri, requisizioni e tesseramento per il frumento e gli altri cereali inferiori, credette dover mantenere il prezzo del pane ad un livello politico con perdita crescente per l’erario. Le pagine del presente volume sono consacrate spesso al problema del pane (cfr. per i primi anni il gruppo di articoli da p. 45 a p. 82); e sulle forme del pane (unico o di due tipi?) A favore dei due tipi si adduceva che, lasciando ai consumatori completa libertà di scelta tra il tipo ordinario, alla resa dell’8%, di forma grossa e di ottima sostanza, quello un tempo detto «di munizione» perché distribuito ai soldati, calmierato a 50 e poi 65 centesimi al chilogrammo ed i tipi detti fini, sempre alla resa dell’8%, in forme libere ed a prezzi di mercato, il grosso dei consumatori avrebbe preferito il pane grosso, a prezzo politico basso; laddove i più agiati e raffinati abituati a forme più piccole ed apparentemente più allettevoli, avrebbero pagato prezzi più alti e crescenti. Prevalse, sino alla fine della guerra ed ancor dopo, il partito del pane unico; perché, si disse, i poveri ed i lavoratori avrebbero tenuto in dispregio il pane grosso e guardato con odio e invidia i ricchi, i quali meglio forniti di moneta avrebbero consumato i tipi fini e cari. A noi la roba destinata ai porci; ai ricchi quella per i palati fini. Né si può negare che, in un momento nel quale si doveva contare sulla concordia nazionale, la tesi del pane di forma unica non fosse ben ragionata. Non pareva accettabile la proposta del prof. De Viti De Marco (p. 60) di accordare un sussidio ai poveri che non fossero in grado di pagare il prezzo di mercato; ché il pericolo di favoritismi, di falsi poveri iscritti nelle liste delle congregazioni di carità e di costi crescenti di amministrazione del congegno distributivo era chiaro. Il metodo dei due tipi, osservava talun difensore dell’erario, avrebbe chiarito che i più avrebbero preferito consumar pane di forme fini a prezzo libero crescente, abbandonando l’uso del pane grosso ai buongustai, ai ceti impoveriti degli impiegati, dei pensionati, dei redditieri ad interesse fisso e ad una minoranza residua di vecchi veri poveri. La svalutazione della lira provocava un gran tramestio negli ordini sociali, sicché i confini tra poveri agiati e ricchi si mischiavano in maniera confusa e facevano preferire ai governi il principio della parità di trattamento che, astrazion fatta della sua sostanziale applicazione, e pur sempre proprio dello stato, particolarmente quando si vive in una piazza assediata, come era allora l’Italia, dove i capi politici destinati agli approvvigionamenti vivevano in ansia quotidiana di affondamenti di sottomarini e di rivolta di popoli timorosi di restare senza pane.

 

 

L’esperienza del tempo dal 1915 al 1918 crebbe l’antipatia, che già esisteva, verso gli interventi dello stato nelle faccende non sue. Mi era accaduto di dirmi favorevole e addirittura di proporre, non per scemare l’altezza, ma soltanto per ridurre le punte delle oscillazioni dei corsi dei cambi, l’istituzione di un ufficio centrale dei cambi (p.446). Mi ero illuso che ciò potesse farsi senza un apparato amministrativo, per decisione personale di poche persone, sovratutto del ministro del tesoro e del direttore generale della Banca d’Italia, senza «burocrazia» che è parola impropria per riassumere regolamenti, norme e circolari che sono ingredienti necessari per l’azione di un qualsiasi intervento dello stato. Quando poi fu istituito l’Istituto centrale dei cambi, che pur non era diventato quella cosa grossa con più di mille impiegati che divenne durante la seconda guerra, mi persuasi ché la mia, delle poche persone competenti pronte all’azione, agili nella trattazione degli affari, adusate a parlare e decidere per telefono, era una illusione. Ma in quella illusione durai a lungo; e le pagine di questo volume recano traccie numerose di critiche alle commissioni, ai comitati interministeriali incaricati di dare unità di azione ai ministeri chiusi nella fortezza delle competenze, in lotta continua contro le pretese concorrenti dei ministeri affini. Si passi sopra ai pareri dei consigli, delle commissioni; si incarichi, per decidere sui problemi del carbone, del frumento, della marina mercantile, dei prezzi, dei noli, degli approvvigionamenti una persona sola, competente, tratta dai ceti industriali e mercantili, posta al disopra delle beghe dei funzionari governativi, desiderosa di ritornare alle occupazioni sue professionali, ai negozi consueti, e di liquidare al più presto l’istituto o l’organo istituito per provvedere ad una esigenza immediata del tempo bellico; ma poi vidi che il competente, pronto a servire lo stato temporaneamente col salario di una lira all’anno, che si narra sia esistito in altri paesi, non si trovò o non si fece innanzi; e che si moltiplicavano invece gli istituti e gli interventi pronti a frastornare l’attività dei privati e degli enti, i quali di fatto dimostravano di recar vantaggio al pubblico e di saper soddisfare ai bisogni quotidiani della collettività. Manca il pane o la farina in una zona del paese? Ed ecco, nonostante le circolari contrarie del ministro Raineri (p. 468) i prefetti emanare decreti di divieto per le esportazioni di cereali da una provincia all’altra.

 

 

Provincie prive di mulini, le quali supplicano prefetti, ministri, commissari generali ai consumi affinché sia data licenza di importare farine da provincie, dove le farine ridondano ed i mulini sarebbero pronti ad inviarne carri a decine. Ministri e commissari che fanno l’indiano o consigliano di rivolgersi ai consorzi granari locali, i quali hanno provviste irrisorie ed affatto insufficienti ai bisogni locali.

 

 

L’opinione pubblica commossa dalle notizie di esportazioni di derrate alimentari, attraverso la Svizzera, ai paesi nemici, invoca ed ottiene l’emanazione di decreti i quali vietano indiscriminatamente l’esportazione di qualsiasi derrata o merce alla Germania e all’Austria, anche se si tratti di beni i quali non hanno nulla a che fare con la capacità di resistenza bellica; ed il divieto è tassativo quando l’esportazione avrebbe condotto ad un aumento di prezzi a danno dei consumatori nazionali (p. 223). Non v’era dubbio che talune esportazioni, ad esempio del cotone, della lana, del frumento, del riso o di ogni altra derrata o merce atta ad alimentare, equipaggiare od armare soldati e civili dei paesi nemici dovevano essere del tutto vietate. In molti altri casi, tuttavia, di merci di lusso o superflue, la esportazione al nemico avrebbe dovuto invece essere incoraggiata, come quella che avrebbe fornito a noi valuta, utile per importare beni necessari ed impoverito il nemico. Anche se qualche volta fosse stato ridotto il consumo interno, il problema doveva essere risoluto confrontando il danno del prezzo aumentato per i consumatori nazionali ed il vantaggio di potere, colla vendita, acquistare derrate o merci mancanti in Italia e più necessarie alla alimentazione di quelle esportate (p. 225). Ma prevalse la vociferazione contro gli speculatori i quali si arricchivano, esportando, in contrabbando, merci che, anche se indifferenti per la condotta della guerra, erano o parevano in qualche modo abbisognevoli a talun consumatore.

 

 

Talvolta la mania dei divieti tocca l’assurdo.

 

 

Un giorno si legge sui giornali che alla frontiera si arresta un Tizio il quale tentava di esportare in Svizzera cedole di titoli nemici. Un altro giorno si legge un comunicato di colore ufficioso, il quale annuncia gravi pene contro coloro i quali negoziano titoli stranieri nemici. Ed è notorio che la censura militare impedisce l’invio all’estero di titoli nemici (p.639).

 

 

Non giovò osservare che i titoli, particolarmente austriaci, erano stati acquistati da cittadini italiani quando l’Austria era nostra alleata e l’acquisto era lecito. Non giovò dire che la vendita avrebbe procacciato ai venditori italiani un valsente in valuta negoziabile e che in tal modo, contro un’uscita di pezzi di carta inservibili in paese, si sarebbe ottenuta la disponibilità, ad esempio, di franchi svizzeri i quali sarebbero rifluiti sul mercato nostro ed avrebbero consentito di rifornirci di beni economici ben più importanti dei titoli cartacei esportati. Se si fosse preveduto l’avvenire si sarebbe potuto aggiungere che la vendita eseguita per tempo (scrivevo il 24 marzo 1918) avrebbe salvato il possessore italiano della perdita del proprio capitale in conseguenza della svalutazione totale della corona austriaca, seguita alla sconfitta della monarchia austro-ungarica.

 

 

Mutare un andazzo invalso nel mondo politico e nella opinione pubblica era allora ed è oggi impresa disperata; anche se chi tentava correggere taluno degli andazzi più pericolosi poteva parlare da una assai divulgata tribuna. Talché, giunto quasi al termine della guerra (25 luglio 1918), mi cadeva l’animo dinanzi alla onnipotenza dello stato, fatto persona fisica vivente nei suoi funzionari:

 

 

Ministero vuol poi dire pochi commissari e funzionari, la cui presunzione va crescendo di giorno in giorno. Nei ministeri gonfiatissimi di oggi gli italiani si sono scaldati una serpe in seno che darà molto filo da torcere all’industria italiana nel dopo guerra. Sono venuti su alcuni tiranni i quali vogliono spadroneggiare, disciplinare, sorvegliare, indirizzare; e contro di cui sarà assoluta necessità lottare animosamente se si vuole che l’industria non sia rovinata. Ma dovrà essere una lotta a coltello, ben più costosa e dura di quella che dovrà essere combattuta contro la risorta concorrenza germanica, contro il dumping e contro tutti i più famosi spauracchi dell’ante guerra (p. 628).

 

 

Non erano ancora sorti i dittatori economici, onesti, convinti, capaci, ai quali saranno destinate parecchie pagine del volume quinto; ma già l’«industria», che nel mio linguaggio di allora significava i ceti industriali, bancari e commerciali italiani, si difendeva nel modo che poi usò quando venne sul serio il tiranno, «coll’astuzia e colle blandizie» (p. 628). Al luogo della libertà, che poteva essere consentita senza pericolo nei casi nei quali non era in gioco la salvezza del paese dal nemico, si ebbe l’arbitrio ministeriale. Lo stato di guerra giustificava gli abusi; ma il male stava nel consentire diventassero abusi quelli che erano forse il legittimo uso di diritti misconosciuti dalla tirannia ministeriale.

 

 

Alla inframettenza presuntuosa dei funzionari ministeriali forniti di potere sulla condotta politica, economica ed, ahimè !, spirituale dei cittadini fa d’uopo concedere la venia dovuta al prevalere di errori radicati da secoli nella pubblica opinione. Qual meraviglia se prefetti, ministri, deputati invocano e decretano calmieri, requisizioni, in multe e carcere contro i profittatori del mercato nero, divieti di esportazione di beni non necessari a noi e inutili alla condotta della guerra, proibizioni al commercio fra provincie abbondanti e provincie manchevoli, imposte distruttrici su coloro i quali ottengono lucri. eccedenti il livello normale, perché sanno organizzare bene i mezzi produttivi e tenui su coloro i quali guadagnano poco o perdono perché capaci solo a sprecare capitale e lavoro; se parlamenti approvano imposte sulle aree fabbricabili congegnate in modo da costringere a venderle a buon mercato ed a utilizzarle perciò malamente in costruzioni scarsamente redditizie quando l’interesse collettivo avrebbe richiesto che le aree medesime fossero «speculativamente» ossia «razionalmente» serbate vuote in attesa del futuro momento adatto all’ «ottima» utilizzazione; qual meraviglia che peggio non accada, quando l’errore è voluto, imposto dal clamore della opinione pubblica e la tirannia ministeriale detta «burocratica», altro non è se non il braccio secolare il quale esegue la sentenza pronunciata dalla pubblica opinione?

 

 

Il tempo di guerra è terreno particolarmente propizio alla seminazione degli errori. Le pagine di questo volume recano assai critiche alle farneticazioni protezionistiche di coloro che, preoccupati dell’avvento della pace, invocavano proibizioni o dazi altissimi contro le importazioni dai paesi nemici e particolarmente dalla Germania, che dicevasi agguerritissima, pronta ad iniziare subito una lotta distruttiva a danno delle industrie dei paesi alleati, a base di svendite a sotto costo, di pagamenti a lunga scadenza e di premi alla esportazione. Avere essa ammortizzato, cogli utili bellici, gli impianti esistenti, sicché questi lavoravano a costi minimi o nulli per interessi ed ammortamenti. Che è grossa fandonia, la quale è ripetuta (p.625) anche in tempo di pace per i paesi vecchi. Si immagina che certi paesi, detti vecchi, possano muovere concorrenza vittoriosa ad altri detti nuovi o, con parola nuovissima divenuta oggi di moda, sottosviluppati, perché i loro impianti industriali sono oramai nei libri contabili valutati a zero e non costano perciò interessi ed ammortamento. Come se l’esperienza posteriore alle due grandi guerre non avesse dimostrato che gli impianti vecchi, sedicentemente ammortizzati, lavorano ad alto costo e provocano la decadenza delle imprese, i cui dirigenti si addormentano nella falsa credenza dei costi nulli; laddove la fortuna economica degli Stati uniti è «anche» data dalla prontezza con la quale gli impianti vecchi, anche se fisicamente ancor nuovissimi, ammortizzati o non, sono buttati nei ferrivecchi non appena macchinari nuovi, metodi produttivi diversi lavorino a costi minori; e il rifiorimento della Germania e dell’Italia non sia «anche» dovuto alle distruzioni belliche degli impianti vecchi cosidetti ammortizzati ed alla necessità nella quale le imprese si trovarono di rinnovare, con o senza l’aiuto americano, stabilimenti ed impianti in modernissima perfetta maniera; questi, sì, lavoranti a costi bassi. Tant’è ; nell’elenco delle ragioni o pretesti per cui gli industriali nazionali invocano protezione contro le importazioni straniere, sempre figura la voce: «costi bassi stranieri per impianti vecchi ammortizzati» ; laddove la voce dovrebbe essere rovesciata e messa nell’elenco delle disgrazie altrui, con il titolo di “costi alti stranieri per l’uso di antiquati impianti detti ammortizzati».

 

 

Nella state del 1918 si ebbe il primo accenno in Italia di una mutazione nella struttura delle banche commerciali, la quale col tempo provocò poi un’altra mutazione, assai più radicale e pericolosa, di esse in banche di stato. Lamentavamo, innanzi al 1914, che le grandi banche ordinarie italiane, a differenza di quelle inglesi e ad imitazione del modello tedesco, oltre alle operazioni brevi di sconti e di anticipazioni per la fornitura del capitale circolante delle industrie e dei commerci, prendessero troppa parte alla fornitura all’industria del capitale di investimento a lunga scadenza. Dicevasi che le banche in tal modo diventassero padrone dell’industria e tendessero a persuadere i dirigenti di questa ad occuparsi non tanto della produzione a costi decrescenti di beni economici, quanto del promuovere l’aumento del prezzo delle azioni emesse dalle società ed accolte nel portafoglio delle banche in attesa di poterle collocare profittevolmente, a prezzi cresciuti nelle borse, sul mercato dei risparmiatori-investitori. La guerra, arricchendo le imprese dell’industria pesante, fornì ai loro dirigenti i mezzi per dare inizio alla pratica opposta: non più le banche padrone dell’industria; ma i grossi gruppi industriali, intesi ad acquistare le azioni delle banche, così da diventare padroni del pacchetto di maggioranza – e bastava per lo più una maggioranza relativa in un’assemblea di minori azionisti disorganizzati – e pronti a nominare consiglieri ed amministratori delegati ligi ai loro interessi. Il pericolo era grave: che pochi uomini disponessero dei depositi delle banche a vantaggio delle proprie intraprese (pp. 683-87). Per quella volta, il ministro del tesoro Nitti credette di aver risoluto il problema (art. del 2 luglio 1918, pp. 688 sgg.) col persuadere le quattro maggiori banche commerciali – Banca italiana di sconto, Banco di Roma – a stipulare tra di loro un accordo di difesa contro l’assalto dei capi dell’industria pesante. Fin d’allora, la costituzione di un cartello delle banche era veduta con sospetto da chi dettava le presenti cronache (p. 689); e non dovevano passare molti anni perché le immobilizzazioni dei depositi a favore di talune grosse imprese industriali procacciassero dapprima la crisi della Banca italiana di sconto, gli interventi di salvataggio dello stato e poi la nazionalizzazione del sistema bancario italiano.

 

 

L’idea storta che governava i provvedimenti con cui si intendeva risolvere ad uno ad uno i problemi, i quali si presentavano, con urgenza, all’attenzione ed all’ansia dei cittadini, era che in verità esistessero «problemi» economici l’uno distinto dall’altro. L’idea non è morta; anzi rigermina vigorosa ogni volta dalle sue ceneri. Ogni giorno si legge che «un problema è sorto e deve essere risoluto»; quasi esistessero problemi singoli e questi potessero essere risoluti ad uno ad uno. La manifestazione più comica della problematica si ebbe nell’estate del 1918 quando pareva ed era imminente la fine gloriosa per l’Italia e per gli alleati, della guerra e tutti si ponevano il problema: che cosa si farà poi? come costringeremo la Germania ed i suoi accoliti a pagare le indennità sacrosantamente dovute per gli ingiusti danni di rovine e di impoverimento a noi recati ? Come, pur costringendola a pagare indennità sufficienti e perciò grandiose, ne schiacceremo la capacità di concorrenza a nostro danno, le impediremo di vendere a noi i suoi beni a prezzi rotti? Come la necessità di riparare con lo sforzo di tutti all’impoverimento determinato dalle rovine belliche sarà contemperata con le promesse di distribuire buone terre appoderate ed attrezzate ai reduci, e di aumentare il reddito medio delle moltitudini meno provvedute? Il frutto del nobile proposito di risolvere la quadratura del circolo fu la nomina di una mastodontica commissione, presieduta dall’on. Pantano, detta del dopo guerra; che, per cominciare, fu composta di seicento membri (cfr. art. del 16 luglio, del 25 settembre e del 16 novembre, pp. 692-708). Approdò quella commissione, con gran dispendio, ad una relazione dell’on. Pantano, che nessuno lesse e fu presto dimenticata. Non poteva approdare a nulla; perché seicento pareri contrastanti per origine ideologica, per tradizione di partiti o di classi, per interessi economici non formano un’idea, una politica capace di risolvere il problema, che è unico ed inscindibile, dell’avanzamento della nazione.

 

 

Dalla considerazione particolaristica dell’unico problema economico non può non nascere la torre di Babele, con la connessa confusione delle lingue. Il problema vero fondamentale che si trattava di risolvere era questo: vogliamo che prosegua nel dopo guerra l’attuale tendenza bellica, forse inevitabile per necessità assolute di guerra, verso la gestione di stato degli affari economici, verso il dominio della amministrazione o vogliamo il ritorno, sia pure graduale, verso libere maniere di attività private, con interventi statali limitati ai soliti casi ammessi nei tempi ordinari? … Nella commissione nessuno è incaricato di risolvere il problema generale; sicché si avrà una collezione di precetti, così cari al dilettantismo fantasioso dell’on. Pantano, celeberrimo per avere in tasca, come del resto parecchi suoi colleghi di sottopresidenza, piani «completi» ed «organici» e «geniali» per rimediare in quattro e quattr’otto ad ogni malanno dell’Italia e dell’umanità (pp. 695-96).

 

 

Nel giorno della vittoria, chi scrive osa guardare in alto e spera che alla vittoria sul nemico straniero segua la vittoria sul nemico che è in noi:

 

 

Per non cadere nel disfacimento che è la conseguenza fatale dei tentativi di attuare programmi millenari che è il terreno fecondo su cui soltanto i Lenin d’Italia possono sperare di mietere, bisogna anche per il dopo guerra ritornare alle nostre vecchie e grandi tradizioni del risorgimento. Il ritorno a Mazzini ha contribuito, oramai tutti lo vedono, a far vincere a noi la guerra, poiché ha distrutto la compagine statale del nostro nemico. Per vincere il dopo guerra, per emergere più saldi, più forti, più ricchi moralmente e materialmente dalla grande prova civile che ci attende, bisogna ritornare alle audacie del conte di Cavour: alle audacie di chi odia i programmi vuoti, le parole retoriche, le promesse aventi un puro e basso scopo elettorale, alle audacie fredde, ragionate di chi sa la meta a cui vuoi giungere, scarta i mezzi inadeguati e sceglie la via che può essere percorsa senza pericolo di cadere nell’anarchia e nella reazione. Cavour, che la lettura dei suoi scritti rivela essere stato uno dei maggiori economisti d’Italia, non fu l’uomo di un’idea unica. Fece costruire allo stato ferrovie e porti, sussidiare linee di navigazione, impose tasse durissime; ma mentre faceva far molto allo stato dove giudicava l’azione sua vantaggiosa, gli toglieva compiti, come quelli di regolare e proteggere l’industria, di fissare i calmieri del pane, laddove credeva che l’aria libera fosse meglio atta a promuovere lo sviluppo della ricchezza ed il buon mercato della vita. Finiva di abolire le corporazioni d’arti e mestieri; ma fondava una cassa di assicurazione per la vecchiaia degli operai e voleva renderla universale. Così egli condusse il Piemonte dal 1850 al 1860 ad un alto grado di forza economica (pp. 704-5).

 

 

Le pagine qui raccolte hanno dunque, pur nel clima di consenso doveroso all’opera delle autorità politiche e militari nel tempo di guerra, indole sovratutto critica. Troppi furono gli errori inutili, le improvvisazioni, l’ossequio alle pretese irrazionali dei danneggiati dalle esigenze belliche, perché la critica potesse tacere. Spesso si passò il segno nella arrendevolezza verso le richieste di vantaggi momentanei a pro di questo o di quell’altro ceto o città o regione, verso il clamore disordinato contro gli arricchimenti dei provveditori di cose belliche, degli accaparratori e profittatori del mercato nero; troppo si indulse a provvedimenti dettati da buone intenzioni frettolose, ma intesi a conseguire effetti contrari al bene comune; troppi imbrogli demagogici furono aggiunti al sistema tributario vigente, dall’usura del tempo già fatto decadere dalla prima semplicità razionale; sicché il volume ha in gran parte sostanza di critica quotidiana a malefatte di legislazione e di amministrazione. Giova sperare che le sue pagine non appaiano, come non erano nelle intenzioni, di scarso apprezzamento degli uomini di valore i quali, se pur commisero taluni errori economici pratici, servirono validamente e devotamente il paese e condussero la patria alla vittoria. La critica era anch’essa doverosa, se talvolta giovava a smussare le punte degli errori ed a gittare il germe di una diversa condotta, che era assurdo pretendere in tempi fortunosi, per il tempo auspicato della pace.

 

 

Una tregua nell’incessante susseguirsi di problemi incalzanti si può forse scorgere nelle pagine da 138 a 184 nelle quali, in articoli scritti fra il 15 marzo 1915 ed il 5 dicembre 1916, studiai la crisi del carbone e l’ingombro del porto di Genova. Rileggendo quelle pagine, ricordai i giorni nei quali interrogavo facchini del porto, organizzatori operai, capi del consorzio, commercianti in carbone e in cotone, industriali dell’interno desiderosi di materie prime; e cercavo di formarmi un quadro preciso dei grossi problemi dalla cui soluzione, empiricamente cercata giorno per giorno, ora per ora, dipendeva la vita dell’industria e delle popolazioni nella grande pianura padana ai cui confini operava e combatteva l’esercito italiano. Risento ancor oggi il rimpianto non ci sia stato mai nessuno il quale scrivesse il beI libro di economia viva che poteva ed ancora può essere dettato a narrare ed analizzare il congegno vario e ricco e miracoloso del maggior porto italiano. Credo di avere già scritto altrove come a scriverlo dovrebbero collaborare un economista ed un romanziere; un Pantaleoni ed un Balzac. Il Pantaleoni scrisse quel capolavoro che si intitola alla Caduta del Credito mobiliare, nel quale sono narrate, da chi le aveva rivissute, le vicende della grandezza e della decadenza della maggior banca di investimenti del tempo suo; laddove il Balzac, forse per avere, anch’egli, provate le speranze e sofferte le delusioni dello speculare economico, seppe creare tipi di banchieri, di negozianti, di sfaccendati giocatori di borsa, uomini e donne, di geni e di sprovveduti quali nessun economista seppe immaginare e descrivere. Quale stupendo stimolo all’analisi economica il porto di Genova; dove arrivano navi e merci e uomini da ogni paese del mondo e si dipartono merci ed uomini per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia; dove a tratto a tratto dominava il padrone della chiatta e riscuoteva taglia su chi doveva scaricare dalla nave e non sapeva dove collocare la merce scaricata, e poi scompariva nei tempi di magra o di servizi abbondanti e bene organizzati; dove si scontrano gli interessi degli importatori di frumento, di carbone e di merci varie con quelli delle industrie consumatrici del nord; dove le calate, i pontili, gli scali ferroviari sono strumenti gli uni agli altri coordinati; dove l’intermediario, il commissionario, l’agente, che maneggia miliardi in uno «scagno» di pochi metri quadrati in un vicolo di basso porto, lavorano attorno alle grandi banche e regolano sulla parola affari colossali in borsa e per la strada; dove le organizzazioni operaie hanno sostituito i «confidenti» di un tempo; e dove il consorzio del porto, la Camera di commercio, il capitano del porto, l’ispettore di pubblica sicurezza, il municipio gestore del punto franco si incontrano, si sovrappongono, si accordano. Nasce nel porto un mercato, un grande mercato, dove si formano i prezzi e dove è possibile analizzare costi, costi veri, i quali, confrontati con i prezzi, danno luogo a perdite ed a guadagni. Auguro che le analisi di costi da me condotte in quel tempo persuadano taluno amante dei fatti economici analizzati nella realtà operante, a scrivere quel libro sul porto di Genova, che da tanti anni immagino ed invoco.

 

 

Ho raccolto nell’ultima parte del volume (pp. 748-90) scritti i quali dal 18 gennaio del 1915 al 16 ottobre 1918 furono dedicati a problemi non economici: la teoria tedesca della decadenza dell’impero britannico, quella inglese dell’equilibrio europeo e sulla necessità che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca. Quest’ultimo iniziò sul «Corriere della sera» la serie degli articoli i quali recavano non la mia firma, ma quella di uno pseudonimo «Junius» e furono poi raccolti dall’editore Laterza in un volumetto dal titolo Lettere politiche di Junius. La sigla era quella stessa che nel Settecento era stata usata per un volume di scritti politici divenuti celebri, anche per la controversia sorta intorno alla persona dell’autore. Adottai per quegli articoli lo pseudonimo e l’uso di indirizzarli, quasi fossero una vera lettera, al «signor direttore» ; e cercai di serbare il segreto intorno alla persona dell’autore, per scemare ai lettori la noia di vedere troppo spesso ripetuto in calce agli articoli il mio nome e per il piacere di ascoltare da amici e conoscenti giudizi critici, che, vista la firma, non sarebbero stati dichiarati in mia presenza.

 

 

Nel gruppo degli articoli politici si inseriscono anche due articoli storici, l’uno sulla conquista del confine naturale delle Alpi occidentali compiuto lungo duecento anni di guerre e di lotte da Casa Savoia e l’altro sulla cavalleria con la quale nel Sei e Settecento si conducevano le guerre in Piemonte confrontate con i casi di barbarie moderne, che parevano già biasimevoli durante la prima guerra mondiale e divennero durante la seconda terrificanti per i trasferimenti forzati di intere popolazioni e per la tentata distruzione del popolo ebraico.

Prefazione

Prefazione

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. XIII-XXXV

 

 

Il volume è tutto composto di articoli del tempo di guerra. Scrivevo (p. 281) :

 

 

Di fronte alle necessità della guerra cessa il diritto alla critica. Chi di noi oserebbe lamentarsi di fronte anche alla scomparsa totale del naviglio marittimo dal mercato dei trasporti non bellici quando, per ipotesi, ciò fosse necessario per la vittoria?

 

 

Ebbero perciò gran luogo negli articoli del giornale e nel volume sono solo in minor parte riprodotti, per evitare le assai frequenti, allora necessarie, ripetizioni – gli inviti a sottoscrivere ai prestiti che venivano, gli uni dopo gli altri, emessi a procacciar denaro allo stato.

 

 

Chi, tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che i suoi figli gli muoveranno di non aver compiuto ogni sforzo possibile, nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria? (p. 108).

 

 

Ad incoraggiare l’afflusso del denaro nelle casse dello stato, plaudivo alla scoperta, (nel 1916), della forma «al portatore» dei buoni ordinari da sei a dodici mesi (p. 356). Fino allora i buoni ordinari erano tutti nominativi; e parve gran novità avere deliberato che essi potevano essere emessi anche al portatore, anche se «per ora» la novità non era estesa ai buoni più brevi, a tre mesi. Si vide poi che i buoni al portatore erano assai meglio accetti al pubblico dei buoni nominativi, i quali in pratica erano acquistati principalmente dalle banche e da enti e non potevano sorpassare una modesta somma (300 milioni di lire) fissata ogni anno nella legge di bilancio per sopperire alle momentanee esigente di cassa del tesoro. Presto si giunse ai miliardi e divenne, quella dei buoni ordinari, la maniera di sopperimento più importante in guerra ed in pace. A promuovere il risparmio, necessario da un lato per ridurre i consumi secondari o superflui e dall’altro lato a fornire allo stato i mezzi per i consumi bellici, divulgai (p. 370) in Italia, fin dal 1916, il metodo primamente usato in Inghilterra dei buoni o certificati, rimborsabili in qualunque momento a richiesta del risparmiatore, fecondi di frutto progressivamente crescente e retrodatato al momento dell’emissione, sicché il detentore avesse interesse, pur conservando la piena continua disponibilità del denaro, a serbarli in portafoglio per il maggior tempo possibile. I buoni furono, col nome di buoni fruttiferi postali, introdotti presto in Italia ed ebbero successo notabilissimo, sicché oggi sono lo strumento preferito di impiego dei risparmi della piccola e media gente, particolarmente nelle campagne.

 

 

In argomento di prestiti, pur riconoscendo che l’Italia non aveva toccato l’ideale, che sarebbe stato quello di coprire il fabbisogno bellico esclusivamente con il provento di nuove imposte e col ricavo di prestiti – ché in tal caso la spesa bellica sarebbe stata fatta con mezzi antichi, ossia con rinuncia ad altrettanti consumi privati e non sarebbe stato necessario stampare biglietti a vuoto, davo lode (p. 526) ai ministri del tesoro e delle finanze di avere

 

 

stabilito nuove imposte a mano mano che l’onere del bilancio cresceva a cagione dei debiti contratti.

 

 

In tal modo la pratica italiana, sebbene meno austera di quella inglese, la quale con le imposte copriva almeno una parte delle spese belliche, stava ben al disopra delle pratiche seguite in Germania, in Francia e nell’impero austro-ungarico, dove si era rinunciato apertamente a confessare ai cittadini che la guerra non si poteva vincere senza sacrificio (pp. 235 sgg. ). Il dott. Hellferich, ministro germanico delle finanze, nutriva, in verità,

 

 

fiducia di far coprire gran parte delle spese germaniche di guerra con le indennità dei paesi nemici vinti (p. 231).

 

 

La tesi, che era politica, gli consentiva di rinunciare a chiedere ai suoi il sacrificio di nuove imposte; ma la esigenza economica lo costringeva ad emettere prestiti grandiosi i quali erano stati, a parer mio, «un trionfo genuino». Riconoscevo che le accuse mosse a lui

 

 

di aver creato casse di credito pubbliche solo per mutuare biglietti a coloro i quali dovevano diventare i sottoscrittori dei suoi colossali prestiti (p. 229)

 

 

erano ingiuste, e, pur essendo egli nel campo avverso, osservavo che la tecnica seguita da lui nell’emissione dei due primi prestiti era perfetta. La testa di turco contro cui battevo più frequentemente e duramente era il torchio dei biglietti. Fin dal luglio 1915 notavo dolorosamente che (p. 98)

 

 

ancor oggi si incontrano persone, le quali reputano un beneficio le emissioni abbondanti di carta moneta e non sanno capacitarsi del perché gli stati si affannino tanto a contrar prestiti onerosi al 4,50 o 5% quando potrebbero farsi imprestare gratuitamente dai cittadini quante somme volessero, semplicemente stampando biglietti e pagando con essi tutti i propri creditori.

 

 

E snodavo la litania, oggi divulgatissima, degli effetti e dei danni delle emissioni sovrabbondanti di biglietti.

 

 

In quel tempo era divenuta popolare una critica rivolta contro gli alleati ed i neutrali:

 

 

essere uno scandalo che gli svizzeri vogliano lucrare 50 o 55 lire per ogni 100 dei loro franchi; che i francesi guadagnino il 30% e che gli inglesi ci vendano le loro sterline per 36-37 lire nostre invece che per 25 lire. Passi per i neutri, i quali non hanno nessun vincolo verso di noi; ma gli alleati dovrebbero moralmente essere obbligati ad accettare la nostra moneta alla pari e dovrebbero resistere alla tentazione di lucrar il 30 od il 40% a nostre spese.

 

 

La querela era esposta in articoli giornalistici ed in discorsi parlamentari in un tempo in cui per comprare un franco svizzero bastava spendere 1,50 lire italiane e per avere una lira sterlina si davano non più di 36 lire italiane. Non sono sicuro che nella testa di qualcuno in Italia non si nasconda un residuo del sofisma antico, oggi che per avere un franco svizzero occorre dare circa 150 lire italiane e per avere una lira sterlina fa d’uopo spendere 1750 lire italiane: e del pari 625 lire per ottenere quel dollaro, che prima del 1914 si cambiava con 5,25 lire nostre! Non ne sono sicuro, perché il sofisma nasce da un sentimento proprio dell’uomo, il quale attribuisce la responsabilità di un malanno che lo incolga non mai a se stesso, ma ad altri, al parente, all’amico, al collega, al concorrente, all’avversario. Se poi la colpa può essere data allo «straniero» , il ragionamento, anche se sbagliato, diventa senz’altro corretto, anzi incontrovertibile e chi lo smaschera è reo di leso-patriottismo. Nelle pagine del testo (da 433 a 438) il sofisma è a lungo confutato, più a lungo di quanto meritasse la evidenza dell’errore. Chi riscuoteva allora, per merce venduta agli inglesi, le 37 lire italiane invece della pari di 25 lire? Non gli inglesi, i quali pagavano nulla più e nulla meno che la solita lira sterlina; ma i venditori italiani della merce, i quali ricevevano allora 37 ed oggi riceverebbero 1750 lire; ed, apparentemente, «guadagnavano» 12 e guadagnerebbero oggi 1725 lire. Ma è tutta apparenza, ché per la abbondanza di segni monetari circolanti, le 37 lire di allora e le 1750 lire di oggi comprano o comprerebbero né più né meno delle 25 lire di prima del 1914. Il che voleva dire trattarsi di un affare interno, nazionale, fuor di ogni responsabilità straniera, di cui siamo responsabili noi che volemmo o consentimmo o tollerammo che i nostri governanti, per conseguire taluni fini pubblici (vittoria contro il nemico nel 1915-18, ed oggi strade, rimboschimenti, impianti ferroviario-portuali, lotta contro la palude o la malaria) o pseudo-pubblici (ferrovie inutili, palazzi superflui, impiegati esuberanti ecc. ecc.), invece di togliere denari preesistenti ai cittadini sotto forma di imposte o di prestiti, fabbricassero denaro nuovo e così crescessero i cambi esteri e svilissero la moneta nostra. Oggi, che di queste verità elementari tutti sono persuasi ed il pericolo sembra venuto meno, può parere inutile ristampare articoli del tempo in cui il sofisma correva ed il pericolo era attuale e si dimostrò in seguito distruttivo dell’assetto sociale. Ma, sicuro non sono che il sofisma non informi ancora il convincimento di troppi italiani. Il modo di dire, per fermo, rimane; e da esso è breve il passo al modo di pensare.

 

 

Correva nei giornali e nelle relazioni di governo o di commissioni parlamentari una teoria, la quale attribuiva l’aumento progressivo dell’aggio sull’oro e sulle monete straniere al disavanzo della bilancia commerciale. Ed era vero che

 

 

dallo scoppio della guerra europea alla fine di luglio 1917 – scrivevo il 15 dicembre 1917, a p. 456 – le importazioni di merci eccedettero le esportazioni per circa 8 miliardi e mezzo di lire,

 

 

somma suppergiù equivalente – vedi l’avvertenza a p. 792 di questo volume – a 12.750 miliardi di oggi.

 

 

Prima di affermare che la causa dell’aggio, ossia del deprezzamento della lira, sia il disavanzo della bilancia commerciale – ma si intendeva sempre parlare dello sbilancio totale o dei pagamenti – bisognava dimostrare che lo sbilancio esisteva. Orbene, a tacere dei guadagni della marina mercantile italiana, delle rimesse di emigranti e di altre sopravvenienze attive, le quali, anche negli anni di guerra, seguitavano ad arrivare,

 

 

non è forse vero che lo stato italiano ha esportato all’estero per miliardi di lire di titoli di debito? Far debiti all’estero è lo stesso che vendere od esportare all’estero nostri titoli di debito … È probabile che i debiti fatti dall’Italia in Inghilterra e negli Stati uniti siano stati sufficienti per coprire lo sbilancio tra importazioni ed esportazioni. Sì, noi comprammo 8 miliardi e mezzo di lire – carta di più di merci di quante non ne vendemmo all’estero; ma questi 8 miliardi e mezzo li pagammo con i crediti che ci furono aperti all’estero … Se questo è vero, come è possibile affermare che l’alto cambio derivi da una eccedenza che non esiste? … Se il cambio alto potesse concepirsi derivante da questa causa, noi avremmo il cambio alla pari. Un oculato e forte governo del tesoro e degli istituti di emissione – allora si parlava al plurale, perché accanto alla Banca d’Italia, avevano diritto di emettere biglietti anche i Banchi di Napoli e di Sicilia – basterebbe non solo a far scomparire le oscillazioni del cambio, ma l’aggio medesimo al disopra della pari (pp. 456-57).

 

 

Il sofisma assumeva così una forma meno grossolana di quella esaminata dianzi dell’attribuire senz’altro allo «straniero» la colpa di qualche nostra disgrazia; bensì l’altra di attribuirlo alla guerra, allo stato di necessità in cui la guerra ci aveva posto, di dovere fare spese di gran lunga superiori alle normali e di dovere perciò approvvigionarci all’estero in misura superiore alle nostre possibilità di pagamento. Che era un discolparsi apparentemente plausibile. Ma plausibile non era, perché si dimenticava che, in un mondo di uomini ragionanti, cittadini e governanti avrebbero visto che non si conduce guerra grossa, se non ci si sobbarca a grossi sacrifici di imposte nuove e di prestiti offerti mercé il risparmio ossia con la rinuncia a consumi anche ordinari. Ma nessuno, nemmeno nei paesi più ricchi, ebbe il coraggio della rinuncia. Piaceva lasciar credere che la guerra non avrebbe turbato troppo l’assetto normale della economia pubblica e privata; e sebbene noi, come osservai sopra, ci si fosse comportati abbastanza bene, non si ebbe il coraggio di aumentare le imposte come sarebbe stato necessario e si dovette perciò ricorrere, in misura notabile, agli indebitamenti coll’estero. Poiché questi non bastavano, si ebbe ricorso, per fronteggiare le spese interne, al torchio dei biglietti. Che fu la causa vera dell’aggio, del deprezzamento della lira e delle conseguenze politiche e sociali che ne derivarono.

 

 

Il bello si fu che quei debiti verso l’Inghilterra e gli Stati uniti non furono, se non in minima parte, rimborsati. Ma di ciò si discorrerà nel quinto volume, dove sono riprodotti gli articoli scritti a pro della tesi che quei debiti non dovessero essere rimborsati, essendo le spese state sostenute nell’interesse comune. Tesi la quale fu, dopo la vittoria comune, accettata, se non in principio, di fatto dagli alleati.

 

 

Continuava, ché la tradizione era antica, il metodo, opposto a quello seguito nel primo decennio dopo la unificazione e nella rinnovazione del catasto, delle sciabolate tributarie (p. 536), come un giorno le aveva acconciamente definite il Daneo, ministro delle finanze nel gabinetto Salandra. A chi tocca, tocca; pur che si faccia denaro: centesimi di guerra, sugli esenti dal servizio militare, imposta militare, sui canoni enfiteutici, ecc. ecc. Tipico il decreto del 3 febbraio 1918, il quale col pretesto della perequazione, aggiungeva un’altra alla vecchia e tuttora esistente sperequazione della doppia tassazione degli interessi dei debiti ipotecari. Se il proprietario di un fondo rustico tassato coll’imposta (e colle sovrimposte locali) fondiaria sul reddito di 100.000 annue, contrae un mutuo di un milione di lire al 5%, fruttifero di 50.000 lire annue a favore del mutuante, il fisco colpisce presso il proprietario il reddito di 100.000 lire che il fondo o la casa gli dà, e presso il capitalista mutuante gli interessi a suo favore di 50.000 lire; ed il totale reddito tassato è di 150.000 lire. Il doppio di imposta è evidente; ché il reddito è uno solo: quello di 100.000 lire fornito dal fondo. Il fatto che, prima del mutuo tutte le 100.000 lire fossero percepite dal proprietario e, dopo il mutuo, per 50.000 lire da lui e per 50.000 lire dal suo creditore, non produce l’effetto miracoloso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il reddito rimane in tutto di 100.000 lire (50.000 + 50.000) e non diventa di 150.000 lire per ciò solo che il proprietario dal reddito di 100.000 lire deve prelevarne 50.000 lire e trasmetterle al creditore. Eppure, la sperequazione si perpetua, traendo pretesto dal fatto che l’imposta non colpisce le persone, ma le cose: il fondo e il mutuo. Il fondo dà o non dà un reddito di 100.000 lire? il mutuo non è forse fruttifero di interessi di 50.000 lire? epperciò paghino. Il sofisma è grossolano; perché i redditi sono goduti da persone e non da cose; e nessun arzigogolo può trasformare in 150.000 quello che è un ammontare di 100.000 lire.

 

 

Dal danno si era miracolosamente salvato, sino al 1918, un reddito, per il quale il doppio d’imposta era troppo chiaro per passare inosservato: i canoni enfiteutici. Esiste infatti nel nostro sistema di diritto, un istituto detto della enfiteusi. Sorto nel medio evo, esso sdoppiava la proprietà della terra: il vecchio proprietario pieno diventava proprietario eminente o domino del fondo e lo concedeva ad un coltivatore detto utilista, in compenso di un canone fisso in denaro o in derrate agrarie. Il «domino», rimanendo titolare della proprietà, fissava, ad esempio, il reddito da lui percepito in 1.000 lire all’anno; e l’«utilista», iscritto come colono enfiteuta nei libri catastali, riscuoteva il residuo prodotto del fondo. Il contratto di enfiteusi aveva per iscopo di incoraggiare la messa a cultura di terreni boscosi ed incolti; ché il colono, migliorando, avrebbe goduto di tutto il sovrappiù oltre le 1.000 lire dovute al proprietario. Col passar del tempo e con le migliorie, il sovrappiù era diventato maggiore del canone, e spesso questo, anche a causa della svalutazione della moneta, era divenuto irrilevante. Supponendo che l’enfiteuta incassasse 3.000 lire di reddito netto, accertato in catasto, era chiaro che il reddito era di 3.000 lire in tutto, delle quali 1.000 erano dall’enfiteuta versate al «domino» e 2.000 da lui trattenute. Per antica consuetudine era stipulato sempre che le 1.000 lire erano pagate al netto da pesi e tributi, sicché questi gravavano tutti sulle 2.000 lire dell’enfiteuta. L’immunità era stata convenuta dall’origine, ed era divenuta col trascorrere del tempo, ognora più ovviamente ragionevole, ché tutto l’incremento di reddito, oltre le 1.000 lire, spettava all’utilista. Saltava agli occhi che il reddito era uno solo, di 3.000 lire, ripartito in due parti a due persone, amendue iscritte come proprietarie del fondo, l’una col nome di domino e l’altra con quello di utilista. Epperciò, si era pacificamente sempre tassato il solo reddito delle 3.000 lire accertato in catasto, in conformità all’atto di creazione dell’enfiteusi, al nome dell’utilista. Durante la guerra, all’occhio linceo di un funzionario, occupato nel rintracciare materia nuova imponibile sfuggita all’imposta, parve di aver scoperto nei canoni enfiteutici l’araba fenice del cespite esente dall’imposta; ma la ingiustizia o sperequazione non era vera, ma dedotta dal fatto che, in altro caso, quello degli interessi ipotecari, pacificamente si commetteva la scorrettezza del doppio, tassando 150 quando il reddito totale era solo 100. Se la sperequazione nell’un caso è pacifica, perché non sperequare anche nell’altro caso? Così è della maggior parte delle ingiustizie alle quali si provvede creando imposte nuove: non si tratta di scoprire e tassare un vero reddito nuovo; non già di tassare qualcosa che sia veramente esente; ma solo di colpire quel che è tassato di meno o meno ferocemente di altri redditi o quel che appare esente, laddove invece è già tassato, ma non ancora due volte, al pari di altro disgraziato simigliante cespite. A nulla valsero le critiche mosse (cfr. pp. 533 sgg.) allo sconcio; il quale rimase, sinché, in un momento posteriore alla guerra, esso poté essere tolto.

 

 

La caccia alle ingiustizie ed alle sperequazioni fiscali da abolire è uno dei passatempi favoriti dei riformatori tributari; e già sin d’allora (29 novembre 1915 e qui a p. 272) mettevo in guardia contro le imposte demagogiche, fruttifere di «parole» invece che di «centinaia di milioni e miliardi di lire effettive» di cui ha urgenza il tesoro degli stati; e ricordavo il «famoso» bilancio del 1909 del signor Lloyd George, il quale, avendo fatto approvare un sistema di imposte sulle aree fabbricabili, ne aveva ricavato sino al 31 marzo 1914

 

 

l’unico costrutto di aver costato circa 55 milioni di lire italiane e di aver reso poco più 15 milioni di lire.

 

 

Sicché anche qui, a case calme, l’intiero edificio perequativo fu smantellato e raso a terra.

 

 

Spesseggiarono anche tra noi, le invenzioni infruttifere ed inapplicabili come le imposte sugli esenti dal servizio militare o quella sull’assistenza civile. Le successive chiamate dei riformati rendevano instabili i ruoli delle imposte; e le quote di sei lire si erano palesate quasi tutte inesigibili e causa di dispendio per la finanza invece che di entrata (pp. 529 sgg.). Sinché non fosse stata istituita la imposta complementare sul reddito, proposta dall’on. Meda, vana era la speranza di colpire i redditi esenti. I tentativi erano a vuoto e sempre si ricadeva nel solito risultato di sovratassare i già tassati (pp. 531 sgg.).

 

 

Ero scettico sui risultati delle nuove imposte sui sovraprofitti di guerra (p. 277); e criticavo l’incitamento che l’imposta dava, per l’indole del suo meccanismo, a crescere gli impianti inutili e le spese superflue allo scopo di sottrarre legalmente al tesoro la materia imponibile. In generale tutte le imposte che sovratassano l’eccedente su un reddito definito normale hanno effetti dannosi di spreco di capitali e di lavoro. Recando l’esempio all’estremo – ma è un estremo al quale ci si avvicina progressivamente durante la guerra e fu raggiunto dopo il 1919 con la cosidetta «avocazione» totale dei profitti di guerra – se si tassa con l’imposta normale, suppongasi, del 20% il reddito sino all’8% del capitale investito e con il 100% il supero oltre l’8%, quale mai interesse ha il contribuente a produrre il supero? Anzi, se le contingenze del momento procacciano un supero, egli ha interesse a sprecarlo: ad assoldare operai ed impiegati inutili, a distribuire stipendi ad amici e familiari. Giova procacciarsi clientela di amici e di impiegati, più che non pagare imposte. Ed ha interesse a compiere impianti superflui, pur di crescere la cifra «legale» del capitale investito. Se questo è di 100 milioni, l’imprenditore tiene per sé otto (8% su 100 milioni di capitale) sugli eventuali 20 milioni di reddito conseguito ed il resto deve versarlo all’erario. Se egli perciò cresce l’investimento a 150 milioni, non occorre che i 50 milioni in più di impianti e di scorte fruttino alcunché. Egli può tenere per sé, all’8% 12 milioni, versandone solo 8 invece di 12 allo stato. Se egli riesce a spingere, purtroppo di fatto e non solo per scritturazione contabile, gli investimenti a 200 o 250 milioni di lire, egli può tenere per sé, assoggettati alla sola imposta normale, 16 o 20 milioni rispettivamente e finire di non versare più nulla allo stato. Fu, in misura progressivamente crescente, l’esperienza degli anni dal 1917 al 1920. Il capitale superfluo, per il meccanismo dell’imposta, fruttava, non perché fosse realmente produttivo, ma perché risparmiava, a vantaggio del contribuente, il versamento delle imposte crescenti sull’eccedente. Il danno per la collettività era certo; ma l’imposta confiscatrice era popolare e riscuoteva plauso generale (pp.559, 628); e riscuote ancor oggi, ogni qualvolta il principio, in forme nuove, venga accolto, plauso rinnovato. A nulla giovano, ad impedire gli sprechi, le facce feroci, i giuramenti fiscali, le minaccie di galera; ché l’errore fiscale offre la giustificazione «morale» alle evasioni di difesa ed aggiunge «pretesti» a coonestare le frodi sostanziali.

 

 

Lo stato di guerra diede luogo a speranze, le quali poi si dimostrarono ingiustificate; ché la scarsità dei beni rese inutili talune delle salvaguardie protettive che a poco a poco erano state stabilite a favore delle industrie. Innanzi alla guerra, il produttore di zucchero nazionale era soggetto ad una imposta di fabbricazione di 76,15 lire al quintale per lo zucchero raffinato; e poiché l’importatore avrebbe dovuto pagare 99 lire per quintale, il produttore nazionale godendo di un margine protettivo di lire 22,85, viveva sicuro di dominare intieramente il mercato italiano. La guerra, rialzando i prezzi e provocando con i razionamenti e le distribuzioni ai soldati, un aumento dei consumi, consigliò a ridurre gli ostacoli alla importazione straniera. Il che, alla fine del 1916, si conseguì decretando una sovratassa di guerra sulla produzione nazionale di 17 lire per quintale. Temporaneamente il margine protettivo si riduceva così da 22,85 a 5,85 lire al quintale, in conformità alla norma generale della convenzione di Bruxelles (pp. 374 sgg.). Me ne rallegravo nella speranza che

 

 

al ritorno della pace fosse conservato il regime fiscale fortunatamente consigliato dalle esigenze di guerra …, il margine protettivo di lire 5,85 essendo largamente sufficiente ad una industria, già ricca prima e rafforzatasi vieppiù durante la guerra (p.376).

 

 

Speranza fallace, ché gli zuccherieri seppero poscia riconquistare il perduto privilegio.

 

 

Lo stato di guerra aveva costretto, sin dal 18 ottobre e dal 1 dicembre 1914 a ridurre temporaneamente il dazio sul frumento da 7,50 a 3 lire al quintale; che non erano veramente tali, perché, non consumandosi frumento in granella, ma frumento trasformato in farina da pane e da paste alimentari, il dazio effettivo era quello sulle farine, ridotto solo da 11,50 a 5,25 lire al quintale. Perciò dichiaravo nel gennaio del 1915 necessaria la immediata abolizione di ambo i dazi sul frumento e sulle farine (p. 52). Che fu cosa fatta subito; ma non ebbe effetto, perché ben presto la situazione si invertì ed il governo, con calmieri, requisizioni e tesseramento per il frumento e gli altri cereali inferiori, credette dover mantenere il prezzo del pane ad un livello politico con perdita crescente per l’erario. Le pagine del presente volume sono consacrate spesso al problema del pane (cfr. per i primi anni il gruppo di articoli da p. 45 a p. 82); e sulle forme del pane (unico o di due tipi?) A favore dei due tipi si adduceva che, lasciando ai consumatori completa libertà di scelta tra il tipo ordinario, alla resa dell’8%, di forma grossa e di ottima sostanza, quello un tempo detto «di munizione» perché distribuito ai soldati, calmierato a 50 e poi 65 centesimi al chilogrammo ed i tipi detti fini, sempre alla resa dell’8%, in forme libere ed a prezzi di mercato, il grosso dei consumatori avrebbe preferito il pane grosso, a prezzo politico basso; laddove i più agiati e raffinati abituati a forme più piccole ed apparentemente più allettevoli, avrebbero pagato prezzi più alti e crescenti. Prevalse, sino alla fine della guerra ed ancor dopo, il partito del pane unico; perché, si disse, i poveri ed i lavoratori avrebbero tenuto in dispregio il pane grosso e guardato con odio e invidia i ricchi, i quali meglio forniti di moneta avrebbero consumato i tipi fini e cari. A noi la roba destinata ai porci; ai ricchi quella per i palati fini. Né si può negare che, in un momento nel quale si doveva contare sulla concordia nazionale, la tesi del pane di forma unica non fosse ben ragionata. Non pareva accettabile la proposta del prof. De Viti De Marco (p. 60) di accordare un sussidio ai poveri che non fossero in grado di pagare il prezzo di mercato; ché il pericolo di favoritismi, di falsi poveri iscritti nelle liste delle congregazioni di carità e di costi crescenti di amministrazione del congegno distributivo era chiaro. Il metodo dei due tipi, osservava talun difensore dell’erario, avrebbe chiarito che i più avrebbero preferito consumar pane di forme fini a prezzo libero crescente, abbandonando l’uso del pane grosso ai buongustai, ai ceti impoveriti degli impiegati, dei pensionati, dei redditieri ad interesse fisso e ad una minoranza residua di vecchi veri poveri. La svalutazione della lira provocava un gran tramestio negli ordini sociali, sicché i confini tra poveri agiati e ricchi si mischiavano in maniera confusa e facevano preferire ai governi il principio della parità di trattamento che, astrazion fatta della sua sostanziale applicazione, e pur sempre proprio dello stato, particolarmente quando si vive in una piazza assediata, come era allora l’Italia, dove i capi politici destinati agli approvvigionamenti vivevano in ansia quotidiana di affondamenti di sottomarini e di rivolta di popoli timorosi di restare senza pane.

 

 

L’esperienza del tempo dal 1915 al 1918 crebbe l’antipatia, che già esisteva, verso gli interventi dello stato nelle faccende non sue. Mi era accaduto di dirmi favorevole e addirittura di proporre, non per scemare l’altezza, ma soltanto per ridurre le punte delle oscillazioni dei corsi dei cambi, l’istituzione di un ufficio centrale dei cambi (p.446). Mi ero illuso che ciò potesse farsi senza un apparato amministrativo, per decisione personale di poche persone, sovratutto del ministro del tesoro e del direttore generale della Banca d’Italia, senza «burocrazia» che è parola impropria per riassumere regolamenti, norme e circolari che sono ingredienti necessari per l’azione di un qualsiasi intervento dello stato. Quando poi fu istituito l’Istituto centrale dei cambi, che pur non era diventato quella cosa grossa con più di mille impiegati che divenne durante la seconda guerra, mi persuasi ché la mia, delle poche persone competenti pronte all’azione, agili nella trattazione degli affari, adusate a parlare e decidere per telefono, era una illusione. Ma in quella illusione durai a lungo; e le pagine di questo volume recano traccie numerose di critiche alle commissioni, ai comitati interministeriali incaricati di dare unità di azione ai ministeri chiusi nella fortezza delle competenze, in lotta continua contro le pretese concorrenti dei ministeri affini. Si passi sopra ai pareri dei consigli, delle commissioni; si incarichi, per decidere sui problemi del carbone, del frumento, della marina mercantile, dei prezzi, dei noli, degli approvvigionamenti una persona sola, competente, tratta dai ceti industriali e mercantili, posta al disopra delle beghe dei funzionari governativi, desiderosa di ritornare alle occupazioni sue professionali, ai negozi consueti, e di liquidare al più presto l’istituto o l’organo istituito per provvedere ad una esigenza immediata del tempo bellico; ma poi vidi che il competente, pronto a servire lo stato temporaneamente col salario di una lira all’anno, che si narra sia esistito in altri paesi, non si trovò o non si fece innanzi; e che si moltiplicavano invece gli istituti e gli interventi pronti a frastornare l’attività dei privati e degli enti, i quali di fatto dimostravano di recar vantaggio al pubblico e di saper soddisfare ai bisogni quotidiani della collettività. Manca il pane o la farina in una zona del paese? Ed ecco, nonostante le circolari contrarie del ministro Raineri (p. 468) i prefetti emanare decreti di divieto per le esportazioni di cereali da una provincia all’altra.

 

 

Provincie prive di mulini, le quali supplicano prefetti, ministri, commissari generali ai consumi affinché sia data licenza di importare farine da provincie, dove le farine ridondano ed i mulini sarebbero pronti ad inviarne carri a decine. Ministri e commissari che fanno l’indiano o consigliano di rivolgersi ai consorzi granari locali, i quali hanno provviste irrisorie ed affatto insufficienti ai bisogni locali.

 

 

L’opinione pubblica commossa dalle notizie di esportazioni di derrate alimentari, attraverso la Svizzera, ai paesi nemici, invoca ed ottiene l’emanazione di decreti i quali vietano indiscriminatamente l’esportazione di qualsiasi derrata o merce alla Germania e all’Austria, anche se si tratti di beni i quali non hanno nulla a che fare con la capacità di resistenza bellica; ed il divieto è tassativo quando l’esportazione avrebbe condotto ad un aumento di prezzi a danno dei consumatori nazionali (p. 223). Non v’era dubbio che talune esportazioni, ad esempio del cotone, della lana, del frumento, del riso o di ogni altra derrata o merce atta ad alimentare, equipaggiare od armare soldati e civili dei paesi nemici dovevano essere del tutto vietate. In molti altri casi, tuttavia, di merci di lusso o superflue, la esportazione al nemico avrebbe dovuto invece essere incoraggiata, come quella che avrebbe fornito a noi valuta, utile per importare beni necessari ed impoverito il nemico. Anche se qualche volta fosse stato ridotto il consumo interno, il problema doveva essere risoluto confrontando il danno del prezzo aumentato per i consumatori nazionali ed il vantaggio di potere, colla vendita, acquistare derrate o merci mancanti in Italia e più necessarie alla alimentazione di quelle esportate (p. 225). Ma prevalse la vociferazione contro gli speculatori i quali si arricchivano, esportando, in contrabbando, merci che, anche se indifferenti per la condotta della guerra, erano o parevano in qualche modo abbisognevoli a talun consumatore.

 

 

Talvolta la mania dei divieti tocca l’assurdo.

 

 

Un giorno si legge sui giornali che alla frontiera si arresta un Tizio il quale tentava di esportare in Svizzera cedole di titoli nemici. Un altro giorno si legge un comunicato di colore ufficioso, il quale annuncia gravi pene contro coloro i quali negoziano titoli stranieri nemici. Ed è notorio che la censura militare impedisce l’invio all’estero di titoli nemici (p.639).

 

 

Non giovò osservare che i titoli, particolarmente austriaci, erano stati acquistati da cittadini italiani quando l’Austria era nostra alleata e l’acquisto era lecito. Non giovò dire che la vendita avrebbe procacciato ai venditori italiani un valsente in valuta negoziabile e che in tal modo, contro un’uscita di pezzi di carta inservibili in paese, si sarebbe ottenuta la disponibilità, ad esempio, di franchi svizzeri i quali sarebbero rifluiti sul mercato nostro ed avrebbero consentito di rifornirci di beni economici ben più importanti dei titoli cartacei esportati. Se si fosse preveduto l’avvenire si sarebbe potuto aggiungere che la vendita eseguita per tempo (scrivevo il 24 marzo 1918) avrebbe salvato il possessore italiano della perdita del proprio capitale in conseguenza della svalutazione totale della corona austriaca, seguita alla sconfitta della monarchia austro-ungarica.

 

 

Mutare un andazzo invalso nel mondo politico e nella opinione pubblica era allora ed è oggi impresa disperata; anche se chi tentava correggere taluno degli andazzi più pericolosi poteva parlare da una assai divulgata tribuna. Talché, giunto quasi al termine della guerra (25 luglio 1918), mi cadeva l’animo dinanzi alla onnipotenza dello stato, fatto persona fisica vivente nei suoi funzionari:

 

 

Ministero vuol poi dire pochi commissari e funzionari, la cui presunzione va crescendo di giorno in giorno. Nei ministeri gonfiatissimi di oggi gli italiani si sono scaldati una serpe in seno che darà molto filo da torcere all’industria italiana nel dopo guerra. Sono venuti su alcuni tiranni i quali vogliono spadroneggiare, disciplinare, sorvegliare, indirizzare; e contro di cui sarà assoluta necessità lottare animosamente se si vuole che l’industria non sia rovinata. Ma dovrà essere una lotta a coltello, ben più costosa e dura di quella che dovrà essere combattuta contro la risorta concorrenza germanica, contro il dumping e contro tutti i più famosi spauracchi dell’ante guerra (p. 628).

 

 

Non erano ancora sorti i dittatori economici, onesti, convinti, capaci, ai quali saranno destinate parecchie pagine del volume quinto; ma già l’«industria», che nel mio linguaggio di allora significava i ceti industriali, bancari e commerciali italiani, si difendeva nel modo che poi usò quando venne sul serio il tiranno, «coll’astuzia e colle blandizie» (p. 628). Al luogo della libertà, che poteva essere consentita senza pericolo nei casi nei quali non era in gioco la salvezza del paese dal nemico, si ebbe l’arbitrio ministeriale. Lo stato di guerra giustificava gli abusi; ma il male stava nel consentire diventassero abusi quelli che erano forse il legittimo uso di diritti misconosciuti dalla tirannia ministeriale.

 

 

Alla inframettenza presuntuosa dei funzionari ministeriali forniti di potere sulla condotta politica, economica ed, ahimè !, spirituale dei cittadini fa d’uopo concedere la venia dovuta al prevalere di errori radicati da secoli nella pubblica opinione. Qual meraviglia se prefetti, ministri, deputati invocano e decretano calmieri, requisizioni, in multe e carcere contro i profittatori del mercato nero, divieti di esportazione di beni non necessari a noi e inutili alla condotta della guerra, proibizioni al commercio fra provincie abbondanti e provincie manchevoli, imposte distruttrici su coloro i quali ottengono lucri. eccedenti il livello normale, perché sanno organizzare bene i mezzi produttivi e tenui su coloro i quali guadagnano poco o perdono perché capaci solo a sprecare capitale e lavoro; se parlamenti approvano imposte sulle aree fabbricabili congegnate in modo da costringere a venderle a buon mercato ed a utilizzarle perciò malamente in costruzioni scarsamente redditizie quando l’interesse collettivo avrebbe richiesto che le aree medesime fossero «speculativamente» ossia «razionalmente» serbate vuote in attesa del futuro momento adatto all’ «ottima» utilizzazione; qual meraviglia che peggio non accada, quando l’errore è voluto, imposto dal clamore della opinione pubblica e la tirannia ministeriale detta «burocratica», altro non è se non il braccio secolare il quale esegue la sentenza pronunciata dalla pubblica opinione?

 

 

Il tempo di guerra è terreno particolarmente propizio alla seminazione degli errori. Le pagine di questo volume recano assai critiche alle farneticazioni protezionistiche di coloro che, preoccupati dell’avvento della pace, invocavano proibizioni o dazi altissimi contro le importazioni dai paesi nemici e particolarmente dalla Germania, che dicevasi agguerritissima, pronta ad iniziare subito una lotta distruttiva a danno delle industrie dei paesi alleati, a base di svendite a sotto costo, di pagamenti a lunga scadenza e di premi alla esportazione. Avere essa ammortizzato, cogli utili bellici, gli impianti esistenti, sicché questi lavoravano a costi minimi o nulli per interessi ed ammortamenti. Che è grossa fandonia, la quale è ripetuta (p.625) anche in tempo di pace per i paesi vecchi. Si immagina che certi paesi, detti vecchi, possano muovere concorrenza vittoriosa ad altri detti nuovi o, con parola nuovissima divenuta oggi di moda, sottosviluppati, perché i loro impianti industriali sono oramai nei libri contabili valutati a zero e non costano perciò interessi ed ammortamento. Come se l’esperienza posteriore alle due grandi guerre non avesse dimostrato che gli impianti vecchi, sedicentemente ammortizzati, lavorano ad alto costo e provocano la decadenza delle imprese, i cui dirigenti si addormentano nella falsa credenza dei costi nulli; laddove la fortuna economica degli Stati uniti è «anche» data dalla prontezza con la quale gli impianti vecchi, anche se fisicamente ancor nuovissimi, ammortizzati o non, sono buttati nei ferrivecchi non appena macchinari nuovi, metodi produttivi diversi lavorino a costi minori; e il rifiorimento della Germania e dell’Italia non sia «anche» dovuto alle distruzioni belliche degli impianti vecchi cosidetti ammortizzati ed alla necessità nella quale le imprese si trovarono di rinnovare, con o senza l’aiuto americano, stabilimenti ed impianti in modernissima perfetta maniera; questi, sì, lavoranti a costi bassi. Tant’è ; nell’elenco delle ragioni o pretesti per cui gli industriali nazionali invocano protezione contro le importazioni straniere, sempre figura la voce: «costi bassi stranieri per impianti vecchi ammortizzati» ; laddove la voce dovrebbe essere rovesciata e messa nell’elenco delle disgrazie altrui, con il titolo di “costi alti stranieri per l’uso di antiquati impianti detti ammortizzati».

 

 

Nella state del 1918 si ebbe il primo accenno in Italia di una mutazione nella struttura delle banche commerciali, la quale col tempo provocò poi un’altra mutazione, assai più radicale e pericolosa, di esse in banche di stato. Lamentavamo, innanzi al 1914, che le grandi banche ordinarie italiane, a differenza di quelle inglesi e ad imitazione del modello tedesco, oltre alle operazioni brevi di sconti e di anticipazioni per la fornitura del capitale circolante delle industrie e dei commerci, prendessero troppa parte alla fornitura all’industria del capitale di investimento a lunga scadenza. Dicevasi che le banche in tal modo diventassero padrone dell’industria e tendessero a persuadere i dirigenti di questa ad occuparsi non tanto della produzione a costi decrescenti di beni economici, quanto del promuovere l’aumento del prezzo delle azioni emesse dalle società ed accolte nel portafoglio delle banche in attesa di poterle collocare profittevolmente, a prezzi cresciuti nelle borse, sul mercato dei risparmiatori-investitori. La guerra, arricchendo le imprese dell’industria pesante, fornì ai loro dirigenti i mezzi per dare inizio alla pratica opposta: non più le banche padrone dell’industria; ma i grossi gruppi industriali, intesi ad acquistare le azioni delle banche, così da diventare padroni del pacchetto di maggioranza – e bastava per lo più una maggioranza relativa in un’assemblea di minori azionisti disorganizzati – e pronti a nominare consiglieri ed amministratori delegati ligi ai loro interessi. Il pericolo era grave: che pochi uomini disponessero dei depositi delle banche a vantaggio delle proprie intraprese (pp. 683-87). Per quella volta, il ministro del tesoro Nitti credette di aver risoluto il problema (art. del 2 luglio 1918, pp. 688 sgg.) col persuadere le quattro maggiori banche commerciali – Banca italiana di sconto, Banco di Roma – a stipulare tra di loro un accordo di difesa contro l’assalto dei capi dell’industria pesante. Fin d’allora, la costituzione di un cartello delle banche era veduta con sospetto da chi dettava le presenti cronache (p. 689); e non dovevano passare molti anni perché le immobilizzazioni dei depositi a favore di talune grosse imprese industriali procacciassero dapprima la crisi della Banca italiana di sconto, gli interventi di salvataggio dello stato e poi la nazionalizzazione del sistema bancario italiano.

 

 

L’idea storta che governava i provvedimenti con cui si intendeva risolvere ad uno ad uno i problemi, i quali si presentavano, con urgenza, all’attenzione ed all’ansia dei cittadini, era che in verità esistessero «problemi» economici l’uno distinto dall’altro. L’idea non è morta; anzi rigermina vigorosa ogni volta dalle sue ceneri. Ogni giorno si legge che «un problema è sorto e deve essere risoluto»; quasi esistessero problemi singoli e questi potessero essere risoluti ad uno ad uno. La manifestazione più comica della problematica si ebbe nell’estate del 1918 quando pareva ed era imminente la fine gloriosa per l’Italia e per gli alleati, della guerra e tutti si ponevano il problema: che cosa si farà poi? come costringeremo la Germania ed i suoi accoliti a pagare le indennità sacrosantamente dovute per gli ingiusti danni di rovine e di impoverimento a noi recati ? Come, pur costringendola a pagare indennità sufficienti e perciò grandiose, ne schiacceremo la capacità di concorrenza a nostro danno, le impediremo di vendere a noi i suoi beni a prezzi rotti? Come la necessità di riparare con lo sforzo di tutti all’impoverimento determinato dalle rovine belliche sarà contemperata con le promesse di distribuire buone terre appoderate ed attrezzate ai reduci, e di aumentare il reddito medio delle moltitudini meno provvedute? Il frutto del nobile proposito di risolvere la quadratura del circolo fu la nomina di una mastodontica commissione, presieduta dall’on. Pantano, detta del dopo guerra; che, per cominciare, fu composta di seicento membri (cfr. art. del 16 luglio, del 25 settembre e del 16 novembre, pp. 692-708). Approdò quella commissione, con gran dispendio, ad una relazione dell’on. Pantano, che nessuno lesse e fu presto dimenticata. Non poteva approdare a nulla; perché seicento pareri contrastanti per origine ideologica, per tradizione di partiti o di classi, per interessi economici non formano un’idea, una politica capace di risolvere il problema, che è unico ed inscindibile, dell’avanzamento della nazione.

 

 

Dalla considerazione particolaristica dell’unico problema economico non può non nascere la torre di Babele, con la connessa confusione delle lingue. Il problema vero fondamentale che si trattava di risolvere era questo: vogliamo che prosegua nel dopo guerra l’attuale tendenza bellica, forse inevitabile per necessità assolute di guerra, verso la gestione di stato degli affari economici, verso il dominio della amministrazione o vogliamo il ritorno, sia pure graduale, verso libere maniere di attività private, con interventi statali limitati ai soliti casi ammessi nei tempi ordinari? … Nella commissione nessuno è incaricato di risolvere il problema generale; sicché si avrà una collezione di precetti, così cari al dilettantismo fantasioso dell’on. Pantano, celeberrimo per avere in tasca, come del resto parecchi suoi colleghi di sottopresidenza, piani «completi» ed «organici» e «geniali» per rimediare in quattro e quattr’otto ad ogni malanno dell’Italia e dell’umanità (pp. 695-96).

 

 

Nel giorno della vittoria, chi scrive osa guardare in alto e spera che alla vittoria sul nemico straniero segua la vittoria sul nemico che è in noi:

 

 

Per non cadere nel disfacimento che è la conseguenza fatale dei tentativi di attuare programmi millenari che è il terreno fecondo su cui soltanto i Lenin d’Italia possono sperare di mietere, bisogna anche per il dopo guerra ritornare alle nostre vecchie e grandi tradizioni del risorgimento. Il ritorno a Mazzini ha contribuito, oramai tutti lo vedono, a far vincere a noi la guerra, poiché ha distrutto la compagine statale del nostro nemico. Per vincere il dopo guerra, per emergere più saldi, più forti, più ricchi moralmente e materialmente dalla grande prova civile che ci attende, bisogna ritornare alle audacie del conte di Cavour: alle audacie di chi odia i programmi vuoti, le parole retoriche, le promesse aventi un puro e basso scopo elettorale, alle audacie fredde, ragionate di chi sa la meta a cui vuoi giungere, scarta i mezzi inadeguati e sceglie la via che può essere percorsa senza pericolo di cadere nell’anarchia e nella reazione. Cavour, che la lettura dei suoi scritti rivela essere stato uno dei maggiori economisti d’Italia, non fu l’uomo di un’idea unica. Fece costruire allo stato ferrovie e porti, sussidiare linee di navigazione, impose tasse durissime; ma mentre faceva far molto allo stato dove giudicava l’azione sua vantaggiosa, gli toglieva compiti, come quelli di regolare e proteggere l’industria, di fissare i calmieri del pane, laddove credeva che l’aria libera fosse meglio atta a promuovere lo sviluppo della ricchezza ed il buon mercato della vita. Finiva di abolire le corporazioni d’arti e mestieri; ma fondava una cassa di assicurazione per la vecchiaia degli operai e voleva renderla universale. Così egli condusse il Piemonte dal 1850 al 1860 ad un alto grado di forza economica (pp. 704-5).

 

 

Le pagine qui raccolte hanno dunque, pur nel clima di consenso doveroso all’opera delle autorità politiche e militari nel tempo di guerra, indole sovratutto critica. Troppi furono gli errori inutili, le improvvisazioni, l’ossequio alle pretese irrazionali dei danneggiati dalle esigenze belliche, perché la critica potesse tacere. Spesso si passò il segno nella arrendevolezza verso le richieste di vantaggi momentanei a pro di questo o di quell’altro ceto o città o regione, verso il clamore disordinato contro gli arricchimenti dei provveditori di cose belliche, degli accaparratori e profittatori del mercato nero; troppo si indulse a provvedimenti dettati da buone intenzioni frettolose, ma intesi a conseguire effetti contrari al bene comune; troppi imbrogli demagogici furono aggiunti al sistema tributario vigente, dall’usura del tempo già fatto decadere dalla prima semplicità razionale; sicché il volume ha in gran parte sostanza di critica quotidiana a malefatte di legislazione e di amministrazione. Giova sperare che le sue pagine non appaiano, come non erano nelle intenzioni, di scarso apprezzamento degli uomini di valore i quali, se pur commisero taluni errori economici pratici, servirono validamente e devotamente il paese e condussero la patria alla vittoria. La critica era anch’essa doverosa, se talvolta giovava a smussare le punte degli errori ed a gittare il germe di una diversa condotta, che era assurdo pretendere in tempi fortunosi, per il tempo auspicato della pace.

 

 

Una tregua nell’incessante susseguirsi di problemi incalzanti si può forse scorgere nelle pagine da 138 a 184 nelle quali, in articoli scritti fra il 15 marzo 1915 ed il 5 dicembre 1916, studiai la crisi del carbone e l’ingombro del porto di Genova. Rileggendo quelle pagine, ricordai i giorni nei quali interrogavo facchini del porto, organizzatori operai, capi del consorzio, commercianti in carbone e in cotone, industriali dell’interno desiderosi di materie prime; e cercavo di formarmi un quadro preciso dei grossi problemi dalla cui soluzione, empiricamente cercata giorno per giorno, ora per ora, dipendeva la vita dell’industria e delle popolazioni nella grande pianura padana ai cui confini operava e combatteva l’esercito italiano. Risento ancor oggi il rimpianto non ci sia stato mai nessuno il quale scrivesse il beI libro di economia viva che poteva ed ancora può essere dettato a narrare ed analizzare il congegno vario e ricco e miracoloso del maggior porto italiano. Credo di avere già scritto altrove come a scriverlo dovrebbero collaborare un economista ed un romanziere; un Pantaleoni ed un Balzac. Il Pantaleoni scrisse quel capolavoro che si intitola alla Caduta del Credito mobiliare, nel quale sono narrate, da chi le aveva rivissute, le vicende della grandezza e della decadenza della maggior banca di investimenti del tempo suo; laddove il Balzac, forse per avere, anch’egli, provate le speranze e sofferte le delusioni dello speculare economico, seppe creare tipi di banchieri, di negozianti, di sfaccendati giocatori di borsa, uomini e donne, di geni e di sprovveduti quali nessun economista seppe immaginare e descrivere. Quale stupendo stimolo all’analisi economica il porto di Genova; dove arrivano navi e merci e uomini da ogni paese del mondo e si dipartono merci ed uomini per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia; dove a tratto a tratto dominava il padrone della chiatta e riscuoteva taglia su chi doveva scaricare dalla nave e non sapeva dove collocare la merce scaricata, e poi scompariva nei tempi di magra o di servizi abbondanti e bene organizzati; dove si scontrano gli interessi degli importatori di frumento, di carbone e di merci varie con quelli delle industrie consumatrici del nord; dove le calate, i pontili, gli scali ferroviari sono strumenti gli uni agli altri coordinati; dove l’intermediario, il commissionario, l’agente, che maneggia miliardi in uno «scagno» di pochi metri quadrati in un vicolo di basso porto, lavorano attorno alle grandi banche e regolano sulla parola affari colossali in borsa e per la strada; dove le organizzazioni operaie hanno sostituito i «confidenti» di un tempo; e dove il consorzio del porto, la Camera di commercio, il capitano del porto, l’ispettore di pubblica sicurezza, il municipio gestore del punto franco si incontrano, si sovrappongono, si accordano. Nasce nel porto un mercato, un grande mercato, dove si formano i prezzi e dove è possibile analizzare costi, costi veri, i quali, confrontati con i prezzi, danno luogo a perdite ed a guadagni. Auguro che le analisi di costi da me condotte in quel tempo persuadano taluno amante dei fatti economici analizzati nella realtà operante, a scrivere quel libro sul porto di Genova, che da tanti anni immagino ed invoco.

 

 

Ho raccolto nell’ultima parte del volume (pp. 748-90) scritti i quali dal 18 gennaio del 1915 al 16 ottobre 1918 furono dedicati a problemi non economici: la teoria tedesca della decadenza dell’impero britannico, quella inglese dell’equilibrio europeo e sulla necessità che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca. Quest’ultimo iniziò sul «Corriere della sera» la serie degli articoli i quali recavano non la mia firma, ma quella di uno pseudonimo «Junius» e furono poi raccolti dall’editore Laterza in un volumetto dal titolo Lettere politiche di Junius. La sigla era quella stessa che nel Settecento era stata usata per un volume di scritti politici divenuti celebri, anche per la controversia sorta intorno alla persona dell’autore. Adottai per quegli articoli lo pseudonimo e l’uso di indirizzarli, quasi fossero una vera lettera, al «signor direttore» ; e cercai di serbare il segreto intorno alla persona dell’autore, per scemare ai lettori la noia di vedere troppo spesso ripetuto in calce agli articoli il mio nome e per il piacere di ascoltare da amici e conoscenti giudizi critici, che, vista la firma, non sarebbero stati dichiarati in mia presenza.

 

 

Nel gruppo degli articoli politici si inseriscono anche due articoli storici, l’uno sulla conquista del confine naturale delle Alpi occidentali compiuto lungo duecento anni di guerre e di lotte da Casa Savoia e l’altro sulla cavalleria con la quale nel Sei e Settecento si conducevano le guerre in Piemonte confrontate con i casi di barbarie moderne, che parevano già biasimevoli durante la prima guerra mondiale e divennero durante la seconda terrificanti per i trasferimenti forzati di intere popolazioni e per la tentata distruzione del popolo ebraico.

Prefazione

Prefazione

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. XIII-XXXV

 

 

Il volume è tutto composto di articoli del tempo di guerra. Scrivevo (p. 281) :

 

 

Di fronte alle necessità della guerra cessa il diritto alla critica. Chi di noi oserebbe lamentarsi di fronte anche alla scomparsa totale del naviglio marittimo dal mercato dei trasporti non bellici quando, per ipotesi, ciò fosse necessario per la vittoria?

 

 

Ebbero perciò gran luogo negli articoli del giornale e nel volume sono solo in minor parte riprodotti, per evitare le assai frequenti, allora necessarie, ripetizioni – gli inviti a sottoscrivere ai prestiti che venivano, gli uni dopo gli altri, emessi a procacciar denaro allo stato.

 

 

Chi, tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che i suoi figli gli muoveranno di non aver compiuto ogni sforzo possibile, nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria? (p. 108).

 

 

Ad incoraggiare l’afflusso del denaro nelle casse dello stato, plaudivo alla scoperta, (nel 1916), della forma «al portatore» dei buoni ordinari da sei a dodici mesi (p. 356). Fino allora i buoni ordinari erano tutti nominativi; e parve gran novità avere deliberato che essi potevano essere emessi anche al portatore, anche se «per ora» la novità non era estesa ai buoni più brevi, a tre mesi. Si vide poi che i buoni al portatore erano assai meglio accetti al pubblico dei buoni nominativi, i quali in pratica erano acquistati principalmente dalle banche e da enti e non potevano sorpassare una modesta somma (300 milioni di lire) fissata ogni anno nella legge di bilancio per sopperire alle momentanee esigente di cassa del tesoro. Presto si giunse ai miliardi e divenne, quella dei buoni ordinari, la maniera di sopperimento più importante in guerra ed in pace. A promuovere il risparmio, necessario da un lato per ridurre i consumi secondari o superflui e dall’altro lato a fornire allo stato i mezzi per i consumi bellici, divulgai (p. 370) in Italia, fin dal 1916, il metodo primamente usato in Inghilterra dei buoni o certificati, rimborsabili in qualunque momento a richiesta del risparmiatore, fecondi di frutto progressivamente crescente e retrodatato al momento dell’emissione, sicché il detentore avesse interesse, pur conservando la piena continua disponibilità del denaro, a serbarli in portafoglio per il maggior tempo possibile. I buoni furono, col nome di buoni fruttiferi postali, introdotti presto in Italia ed ebbero successo notabilissimo, sicché oggi sono lo strumento preferito di impiego dei risparmi della piccola e media gente, particolarmente nelle campagne.

 

 

In argomento di prestiti, pur riconoscendo che l’Italia non aveva toccato l’ideale, che sarebbe stato quello di coprire il fabbisogno bellico esclusivamente con il provento di nuove imposte e col ricavo di prestiti – ché in tal caso la spesa bellica sarebbe stata fatta con mezzi antichi, ossia con rinuncia ad altrettanti consumi privati e non sarebbe stato necessario stampare biglietti a vuoto, davo lode (p. 526) ai ministri del tesoro e delle finanze di avere

 

 

stabilito nuove imposte a mano mano che l’onere del bilancio cresceva a cagione dei debiti contratti.

 

 

In tal modo la pratica italiana, sebbene meno austera di quella inglese, la quale con le imposte copriva almeno una parte delle spese belliche, stava ben al disopra delle pratiche seguite in Germania, in Francia e nell’impero austro-ungarico, dove si era rinunciato apertamente a confessare ai cittadini che la guerra non si poteva vincere senza sacrificio (pp. 235 sgg. ). Il dott. Hellferich, ministro germanico delle finanze, nutriva, in verità,

 

 

fiducia di far coprire gran parte delle spese germaniche di guerra con le indennità dei paesi nemici vinti (p. 231).

 

 

La tesi, che era politica, gli consentiva di rinunciare a chiedere ai suoi il sacrificio di nuove imposte; ma la esigenza economica lo costringeva ad emettere prestiti grandiosi i quali erano stati, a parer mio, «un trionfo genuino». Riconoscevo che le accuse mosse a lui

 

 

di aver creato casse di credito pubbliche solo per mutuare biglietti a coloro i quali dovevano diventare i sottoscrittori dei suoi colossali prestiti (p. 229)

 

 

erano ingiuste, e, pur essendo egli nel campo avverso, osservavo che la tecnica seguita da lui nell’emissione dei due primi prestiti era perfetta. La testa di turco contro cui battevo più frequentemente e duramente era il torchio dei biglietti. Fin dal luglio 1915 notavo dolorosamente che (p. 98)

 

 

ancor oggi si incontrano persone, le quali reputano un beneficio le emissioni abbondanti di carta moneta e non sanno capacitarsi del perché gli stati si affannino tanto a contrar prestiti onerosi al 4,50 o 5% quando potrebbero farsi imprestare gratuitamente dai cittadini quante somme volessero, semplicemente stampando biglietti e pagando con essi tutti i propri creditori.

 

 

E snodavo la litania, oggi divulgatissima, degli effetti e dei danni delle emissioni sovrabbondanti di biglietti.

 

 

In quel tempo era divenuta popolare una critica rivolta contro gli alleati ed i neutrali:

 

 

essere uno scandalo che gli svizzeri vogliano lucrare 50 o 55 lire per ogni 100 dei loro franchi; che i francesi guadagnino il 30% e che gli inglesi ci vendano le loro sterline per 36-37 lire nostre invece che per 25 lire. Passi per i neutri, i quali non hanno nessun vincolo verso di noi; ma gli alleati dovrebbero moralmente essere obbligati ad accettare la nostra moneta alla pari e dovrebbero resistere alla tentazione di lucrar il 30 od il 40% a nostre spese.

 

 

La querela era esposta in articoli giornalistici ed in discorsi parlamentari in un tempo in cui per comprare un franco svizzero bastava spendere 1,50 lire italiane e per avere una lira sterlina si davano non più di 36 lire italiane. Non sono sicuro che nella testa di qualcuno in Italia non si nasconda un residuo del sofisma antico, oggi che per avere un franco svizzero occorre dare circa 150 lire italiane e per avere una lira sterlina fa d’uopo spendere 1750 lire italiane: e del pari 625 lire per ottenere quel dollaro, che prima del 1914 si cambiava con 5,25 lire nostre! Non ne sono sicuro, perché il sofisma nasce da un sentimento proprio dell’uomo, il quale attribuisce la responsabilità di un malanno che lo incolga non mai a se stesso, ma ad altri, al parente, all’amico, al collega, al concorrente, all’avversario. Se poi la colpa può essere data allo «straniero» , il ragionamento, anche se sbagliato, diventa senz’altro corretto, anzi incontrovertibile e chi lo smaschera è reo di leso-patriottismo. Nelle pagine del testo (da 433 a 438) il sofisma è a lungo confutato, più a lungo di quanto meritasse la evidenza dell’errore. Chi riscuoteva allora, per merce venduta agli inglesi, le 37 lire italiane invece della pari di 25 lire? Non gli inglesi, i quali pagavano nulla più e nulla meno che la solita lira sterlina; ma i venditori italiani della merce, i quali ricevevano allora 37 ed oggi riceverebbero 1750 lire; ed, apparentemente, «guadagnavano» 12 e guadagnerebbero oggi 1725 lire. Ma è tutta apparenza, ché per la abbondanza di segni monetari circolanti, le 37 lire di allora e le 1750 lire di oggi comprano o comprerebbero né più né meno delle 25 lire di prima del 1914. Il che voleva dire trattarsi di un affare interno, nazionale, fuor di ogni responsabilità straniera, di cui siamo responsabili noi che volemmo o consentimmo o tollerammo che i nostri governanti, per conseguire taluni fini pubblici (vittoria contro il nemico nel 1915-18, ed oggi strade, rimboschimenti, impianti ferroviario-portuali, lotta contro la palude o la malaria) o pseudo-pubblici (ferrovie inutili, palazzi superflui, impiegati esuberanti ecc. ecc.), invece di togliere denari preesistenti ai cittadini sotto forma di imposte o di prestiti, fabbricassero denaro nuovo e così crescessero i cambi esteri e svilissero la moneta nostra. Oggi, che di queste verità elementari tutti sono persuasi ed il pericolo sembra venuto meno, può parere inutile ristampare articoli del tempo in cui il sofisma correva ed il pericolo era attuale e si dimostrò in seguito distruttivo dell’assetto sociale. Ma, sicuro non sono che il sofisma non informi ancora il convincimento di troppi italiani. Il modo di dire, per fermo, rimane; e da esso è breve il passo al modo di pensare.

 

 

Correva nei giornali e nelle relazioni di governo o di commissioni parlamentari una teoria, la quale attribuiva l’aumento progressivo dell’aggio sull’oro e sulle monete straniere al disavanzo della bilancia commerciale. Ed era vero che

 

 

dallo scoppio della guerra europea alla fine di luglio 1917 – scrivevo il 15 dicembre 1917, a p. 456 – le importazioni di merci eccedettero le esportazioni per circa 8 miliardi e mezzo di lire,

 

 

somma suppergiù equivalente – vedi l’avvertenza a p. 792 di questo volume – a 12.750 miliardi di oggi.

 

 

Prima di affermare che la causa dell’aggio, ossia del deprezzamento della lira, sia il disavanzo della bilancia commerciale – ma si intendeva sempre parlare dello sbilancio totale o dei pagamenti – bisognava dimostrare che lo sbilancio esisteva. Orbene, a tacere dei guadagni della marina mercantile italiana, delle rimesse di emigranti e di altre sopravvenienze attive, le quali, anche negli anni di guerra, seguitavano ad arrivare,

 

 

non è forse vero che lo stato italiano ha esportato all’estero per miliardi di lire di titoli di debito? Far debiti all’estero è lo stesso che vendere od esportare all’estero nostri titoli di debito … È probabile che i debiti fatti dall’Italia in Inghilterra e negli Stati uniti siano stati sufficienti per coprire lo sbilancio tra importazioni ed esportazioni. Sì, noi comprammo 8 miliardi e mezzo di lire – carta di più di merci di quante non ne vendemmo all’estero; ma questi 8 miliardi e mezzo li pagammo con i crediti che ci furono aperti all’estero … Se questo è vero, come è possibile affermare che l’alto cambio derivi da una eccedenza che non esiste? … Se il cambio alto potesse concepirsi derivante da questa causa, noi avremmo il cambio alla pari. Un oculato e forte governo del tesoro e degli istituti di emissione – allora si parlava al plurale, perché accanto alla Banca d’Italia, avevano diritto di emettere biglietti anche i Banchi di Napoli e di Sicilia – basterebbe non solo a far scomparire le oscillazioni del cambio, ma l’aggio medesimo al disopra della pari (pp. 456-57).

 

 

Il sofisma assumeva così una forma meno grossolana di quella esaminata dianzi dell’attribuire senz’altro allo «straniero» la colpa di qualche nostra disgrazia; bensì l’altra di attribuirlo alla guerra, allo stato di necessità in cui la guerra ci aveva posto, di dovere fare spese di gran lunga superiori alle normali e di dovere perciò approvvigionarci all’estero in misura superiore alle nostre possibilità di pagamento. Che era un discolparsi apparentemente plausibile. Ma plausibile non era, perché si dimenticava che, in un mondo di uomini ragionanti, cittadini e governanti avrebbero visto che non si conduce guerra grossa, se non ci si sobbarca a grossi sacrifici di imposte nuove e di prestiti offerti mercé il risparmio ossia con la rinuncia a consumi anche ordinari. Ma nessuno, nemmeno nei paesi più ricchi, ebbe il coraggio della rinuncia. Piaceva lasciar credere che la guerra non avrebbe turbato troppo l’assetto normale della economia pubblica e privata; e sebbene noi, come osservai sopra, ci si fosse comportati abbastanza bene, non si ebbe il coraggio di aumentare le imposte come sarebbe stato necessario e si dovette perciò ricorrere, in misura notabile, agli indebitamenti coll’estero. Poiché questi non bastavano, si ebbe ricorso, per fronteggiare le spese interne, al torchio dei biglietti. Che fu la causa vera dell’aggio, del deprezzamento della lira e delle conseguenze politiche e sociali che ne derivarono.

 

 

Il bello si fu che quei debiti verso l’Inghilterra e gli Stati uniti non furono, se non in minima parte, rimborsati. Ma di ciò si discorrerà nel quinto volume, dove sono riprodotti gli articoli scritti a pro della tesi che quei debiti non dovessero essere rimborsati, essendo le spese state sostenute nell’interesse comune. Tesi la quale fu, dopo la vittoria comune, accettata, se non in principio, di fatto dagli alleati.

 

 

Continuava, ché la tradizione era antica, il metodo, opposto a quello seguito nel primo decennio dopo la unificazione e nella rinnovazione del catasto, delle sciabolate tributarie (p. 536), come un giorno le aveva acconciamente definite il Daneo, ministro delle finanze nel gabinetto Salandra. A chi tocca, tocca; pur che si faccia denaro: centesimi di guerra, sugli esenti dal servizio militare, imposta militare, sui canoni enfiteutici, ecc. ecc. Tipico il decreto del 3 febbraio 1918, il quale col pretesto della perequazione, aggiungeva un’altra alla vecchia e tuttora esistente sperequazione della doppia tassazione degli interessi dei debiti ipotecari. Se il proprietario di un fondo rustico tassato coll’imposta (e colle sovrimposte locali) fondiaria sul reddito di 100.000 annue, contrae un mutuo di un milione di lire al 5%, fruttifero di 50.000 lire annue a favore del mutuante, il fisco colpisce presso il proprietario il reddito di 100.000 lire che il fondo o la casa gli dà, e presso il capitalista mutuante gli interessi a suo favore di 50.000 lire; ed il totale reddito tassato è di 150.000 lire. Il doppio di imposta è evidente; ché il reddito è uno solo: quello di 100.000 lire fornito dal fondo. Il fatto che, prima del mutuo tutte le 100.000 lire fossero percepite dal proprietario e, dopo il mutuo, per 50.000 lire da lui e per 50.000 lire dal suo creditore, non produce l’effetto miracoloso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il reddito rimane in tutto di 100.000 lire (50.000 + 50.000) e non diventa di 150.000 lire per ciò solo che il proprietario dal reddito di 100.000 lire deve prelevarne 50.000 lire e trasmetterle al creditore. Eppure, la sperequazione si perpetua, traendo pretesto dal fatto che l’imposta non colpisce le persone, ma le cose: il fondo e il mutuo. Il fondo dà o non dà un reddito di 100.000 lire? il mutuo non è forse fruttifero di interessi di 50.000 lire? epperciò paghino. Il sofisma è grossolano; perché i redditi sono goduti da persone e non da cose; e nessun arzigogolo può trasformare in 150.000 quello che è un ammontare di 100.000 lire.

 

 

Dal danno si era miracolosamente salvato, sino al 1918, un reddito, per il quale il doppio d’imposta era troppo chiaro per passare inosservato: i canoni enfiteutici. Esiste infatti nel nostro sistema di diritto, un istituto detto della enfiteusi. Sorto nel medio evo, esso sdoppiava la proprietà della terra: il vecchio proprietario pieno diventava proprietario eminente o domino del fondo e lo concedeva ad un coltivatore detto utilista, in compenso di un canone fisso in denaro o in derrate agrarie. Il «domino», rimanendo titolare della proprietà, fissava, ad esempio, il reddito da lui percepito in 1.000 lire all’anno; e l’«utilista», iscritto come colono enfiteuta nei libri catastali, riscuoteva il residuo prodotto del fondo. Il contratto di enfiteusi aveva per iscopo di incoraggiare la messa a cultura di terreni boscosi ed incolti; ché il colono, migliorando, avrebbe goduto di tutto il sovrappiù oltre le 1.000 lire dovute al proprietario. Col passar del tempo e con le migliorie, il sovrappiù era diventato maggiore del canone, e spesso questo, anche a causa della svalutazione della moneta, era divenuto irrilevante. Supponendo che l’enfiteuta incassasse 3.000 lire di reddito netto, accertato in catasto, era chiaro che il reddito era di 3.000 lire in tutto, delle quali 1.000 erano dall’enfiteuta versate al «domino» e 2.000 da lui trattenute. Per antica consuetudine era stipulato sempre che le 1.000 lire erano pagate al netto da pesi e tributi, sicché questi gravavano tutti sulle 2.000 lire dell’enfiteuta. L’immunità era stata convenuta dall’origine, ed era divenuta col trascorrere del tempo, ognora più ovviamente ragionevole, ché tutto l’incremento di reddito, oltre le 1.000 lire, spettava all’utilista. Saltava agli occhi che il reddito era uno solo, di 3.000 lire, ripartito in due parti a due persone, amendue iscritte come proprietarie del fondo, l’una col nome di domino e l’altra con quello di utilista. Epperciò, si era pacificamente sempre tassato il solo reddito delle 3.000 lire accertato in catasto, in conformità all’atto di creazione dell’enfiteusi, al nome dell’utilista. Durante la guerra, all’occhio linceo di un funzionario, occupato nel rintracciare materia nuova imponibile sfuggita all’imposta, parve di aver scoperto nei canoni enfiteutici l’araba fenice del cespite esente dall’imposta; ma la ingiustizia o sperequazione non era vera, ma dedotta dal fatto che, in altro caso, quello degli interessi ipotecari, pacificamente si commetteva la scorrettezza del doppio, tassando 150 quando il reddito totale era solo 100. Se la sperequazione nell’un caso è pacifica, perché non sperequare anche nell’altro caso? Così è della maggior parte delle ingiustizie alle quali si provvede creando imposte nuove: non si tratta di scoprire e tassare un vero reddito nuovo; non già di tassare qualcosa che sia veramente esente; ma solo di colpire quel che è tassato di meno o meno ferocemente di altri redditi o quel che appare esente, laddove invece è già tassato, ma non ancora due volte, al pari di altro disgraziato simigliante cespite. A nulla valsero le critiche mosse (cfr. pp. 533 sgg.) allo sconcio; il quale rimase, sinché, in un momento posteriore alla guerra, esso poté essere tolto.

 

 

La caccia alle ingiustizie ed alle sperequazioni fiscali da abolire è uno dei passatempi favoriti dei riformatori tributari; e già sin d’allora (29 novembre 1915 e qui a p. 272) mettevo in guardia contro le imposte demagogiche, fruttifere di «parole» invece che di «centinaia di milioni e miliardi di lire effettive» di cui ha urgenza il tesoro degli stati; e ricordavo il «famoso» bilancio del 1909 del signor Lloyd George, il quale, avendo fatto approvare un sistema di imposte sulle aree fabbricabili, ne aveva ricavato sino al 31 marzo 1914

 

 

l’unico costrutto di aver costato circa 55 milioni di lire italiane e di aver reso poco più 15 milioni di lire.

 

 

Sicché anche qui, a case calme, l’intiero edificio perequativo fu smantellato e raso a terra.

 

 

Spesseggiarono anche tra noi, le invenzioni infruttifere ed inapplicabili come le imposte sugli esenti dal servizio militare o quella sull’assistenza civile. Le successive chiamate dei riformati rendevano instabili i ruoli delle imposte; e le quote di sei lire si erano palesate quasi tutte inesigibili e causa di dispendio per la finanza invece che di entrata (pp. 529 sgg.). Sinché non fosse stata istituita la imposta complementare sul reddito, proposta dall’on. Meda, vana era la speranza di colpire i redditi esenti. I tentativi erano a vuoto e sempre si ricadeva nel solito risultato di sovratassare i già tassati (pp. 531 sgg.).

 

 

Ero scettico sui risultati delle nuove imposte sui sovraprofitti di guerra (p. 277); e criticavo l’incitamento che l’imposta dava, per l’indole del suo meccanismo, a crescere gli impianti inutili e le spese superflue allo scopo di sottrarre legalmente al tesoro la materia imponibile. In generale tutte le imposte che sovratassano l’eccedente su un reddito definito normale hanno effetti dannosi di spreco di capitali e di lavoro. Recando l’esempio all’estremo – ma è un estremo al quale ci si avvicina progressivamente durante la guerra e fu raggiunto dopo il 1919 con la cosidetta «avocazione» totale dei profitti di guerra – se si tassa con l’imposta normale, suppongasi, del 20% il reddito sino all’8% del capitale investito e con il 100% il supero oltre l’8%, quale mai interesse ha il contribuente a produrre il supero? Anzi, se le contingenze del momento procacciano un supero, egli ha interesse a sprecarlo: ad assoldare operai ed impiegati inutili, a distribuire stipendi ad amici e familiari. Giova procacciarsi clientela di amici e di impiegati, più che non pagare imposte. Ed ha interesse a compiere impianti superflui, pur di crescere la cifra «legale» del capitale investito. Se questo è di 100 milioni, l’imprenditore tiene per sé otto (8% su 100 milioni di capitale) sugli eventuali 20 milioni di reddito conseguito ed il resto deve versarlo all’erario. Se egli perciò cresce l’investimento a 150 milioni, non occorre che i 50 milioni in più di impianti e di scorte fruttino alcunché. Egli può tenere per sé, all’8% 12 milioni, versandone solo 8 invece di 12 allo stato. Se egli riesce a spingere, purtroppo di fatto e non solo per scritturazione contabile, gli investimenti a 200 o 250 milioni di lire, egli può tenere per sé, assoggettati alla sola imposta normale, 16 o 20 milioni rispettivamente e finire di non versare più nulla allo stato. Fu, in misura progressivamente crescente, l’esperienza degli anni dal 1917 al 1920. Il capitale superfluo, per il meccanismo dell’imposta, fruttava, non perché fosse realmente produttivo, ma perché risparmiava, a vantaggio del contribuente, il versamento delle imposte crescenti sull’eccedente. Il danno per la collettività era certo; ma l’imposta confiscatrice era popolare e riscuoteva plauso generale (pp.559, 628); e riscuote ancor oggi, ogni qualvolta il principio, in forme nuove, venga accolto, plauso rinnovato. A nulla giovano, ad impedire gli sprechi, le facce feroci, i giuramenti fiscali, le minaccie di galera; ché l’errore fiscale offre la giustificazione «morale» alle evasioni di difesa ed aggiunge «pretesti» a coonestare le frodi sostanziali.

 

 

Lo stato di guerra diede luogo a speranze, le quali poi si dimostrarono ingiustificate; ché la scarsità dei beni rese inutili talune delle salvaguardie protettive che a poco a poco erano state stabilite a favore delle industrie. Innanzi alla guerra, il produttore di zucchero nazionale era soggetto ad una imposta di fabbricazione di 76,15 lire al quintale per lo zucchero raffinato; e poiché l’importatore avrebbe dovuto pagare 99 lire per quintale, il produttore nazionale godendo di un margine protettivo di lire 22,85, viveva sicuro di dominare intieramente il mercato italiano. La guerra, rialzando i prezzi e provocando con i razionamenti e le distribuzioni ai soldati, un aumento dei consumi, consigliò a ridurre gli ostacoli alla importazione straniera. Il che, alla fine del 1916, si conseguì decretando una sovratassa di guerra sulla produzione nazionale di 17 lire per quintale. Temporaneamente il margine protettivo si riduceva così da 22,85 a 5,85 lire al quintale, in conformità alla norma generale della convenzione di Bruxelles (pp. 374 sgg.). Me ne rallegravo nella speranza che

 

 

al ritorno della pace fosse conservato il regime fiscale fortunatamente consigliato dalle esigenze di guerra …, il margine protettivo di lire 5,85 essendo largamente sufficiente ad una industria, già ricca prima e rafforzatasi vieppiù durante la guerra (p.376).

 

 

Speranza fallace, ché gli zuccherieri seppero poscia riconquistare il perduto privilegio.

 

 

Lo stato di guerra aveva costretto, sin dal 18 ottobre e dal 1 dicembre 1914 a ridurre temporaneamente il dazio sul frumento da 7,50 a 3 lire al quintale; che non erano veramente tali, perché, non consumandosi frumento in granella, ma frumento trasformato in farina da pane e da paste alimentari, il dazio effettivo era quello sulle farine, ridotto solo da 11,50 a 5,25 lire al quintale. Perciò dichiaravo nel gennaio del 1915 necessaria la immediata abolizione di ambo i dazi sul frumento e sulle farine (p. 52). Che fu cosa fatta subito; ma non ebbe effetto, perché ben presto la situazione si invertì ed il governo, con calmieri, requisizioni e tesseramento per il frumento e gli altri cereali inferiori, credette dover mantenere il prezzo del pane ad un livello politico con perdita crescente per l’erario. Le pagine del presente volume sono consacrate spesso al problema del pane (cfr. per i primi anni il gruppo di articoli da p. 45 a p. 82); e sulle forme del pane (unico o di due tipi?) A favore dei due tipi si adduceva che, lasciando ai consumatori completa libertà di scelta tra il tipo ordinario, alla resa dell’8%, di forma grossa e di ottima sostanza, quello un tempo detto «di munizione» perché distribuito ai soldati, calmierato a 50 e poi 65 centesimi al chilogrammo ed i tipi detti fini, sempre alla resa dell’8%, in forme libere ed a prezzi di mercato, il grosso dei consumatori avrebbe preferito il pane grosso, a prezzo politico basso; laddove i più agiati e raffinati abituati a forme più piccole ed apparentemente più allettevoli, avrebbero pagato prezzi più alti e crescenti. Prevalse, sino alla fine della guerra ed ancor dopo, il partito del pane unico; perché, si disse, i poveri ed i lavoratori avrebbero tenuto in dispregio il pane grosso e guardato con odio e invidia i ricchi, i quali meglio forniti di moneta avrebbero consumato i tipi fini e cari. A noi la roba destinata ai porci; ai ricchi quella per i palati fini. Né si può negare che, in un momento nel quale si doveva contare sulla concordia nazionale, la tesi del pane di forma unica non fosse ben ragionata. Non pareva accettabile la proposta del prof. De Viti De Marco (p. 60) di accordare un sussidio ai poveri che non fossero in grado di pagare il prezzo di mercato; ché il pericolo di favoritismi, di falsi poveri iscritti nelle liste delle congregazioni di carità e di costi crescenti di amministrazione del congegno distributivo era chiaro. Il metodo dei due tipi, osservava talun difensore dell’erario, avrebbe chiarito che i più avrebbero preferito consumar pane di forme fini a prezzo libero crescente, abbandonando l’uso del pane grosso ai buongustai, ai ceti impoveriti degli impiegati, dei pensionati, dei redditieri ad interesse fisso e ad una minoranza residua di vecchi veri poveri. La svalutazione della lira provocava un gran tramestio negli ordini sociali, sicché i confini tra poveri agiati e ricchi si mischiavano in maniera confusa e facevano preferire ai governi il principio della parità di trattamento che, astrazion fatta della sua sostanziale applicazione, e pur sempre proprio dello stato, particolarmente quando si vive in una piazza assediata, come era allora l’Italia, dove i capi politici destinati agli approvvigionamenti vivevano in ansia quotidiana di affondamenti di sottomarini e di rivolta di popoli timorosi di restare senza pane.

 

 

L’esperienza del tempo dal 1915 al 1918 crebbe l’antipatia, che già esisteva, verso gli interventi dello stato nelle faccende non sue. Mi era accaduto di dirmi favorevole e addirittura di proporre, non per scemare l’altezza, ma soltanto per ridurre le punte delle oscillazioni dei corsi dei cambi, l’istituzione di un ufficio centrale dei cambi (p.446). Mi ero illuso che ciò potesse farsi senza un apparato amministrativo, per decisione personale di poche persone, sovratutto del ministro del tesoro e del direttore generale della Banca d’Italia, senza «burocrazia» che è parola impropria per riassumere regolamenti, norme e circolari che sono ingredienti necessari per l’azione di un qualsiasi intervento dello stato. Quando poi fu istituito l’Istituto centrale dei cambi, che pur non era diventato quella cosa grossa con più di mille impiegati che divenne durante la seconda guerra, mi persuasi ché la mia, delle poche persone competenti pronte all’azione, agili nella trattazione degli affari, adusate a parlare e decidere per telefono, era una illusione. Ma in quella illusione durai a lungo; e le pagine di questo volume recano traccie numerose di critiche alle commissioni, ai comitati interministeriali incaricati di dare unità di azione ai ministeri chiusi nella fortezza delle competenze, in lotta continua contro le pretese concorrenti dei ministeri affini. Si passi sopra ai pareri dei consigli, delle commissioni; si incarichi, per decidere sui problemi del carbone, del frumento, della marina mercantile, dei prezzi, dei noli, degli approvvigionamenti una persona sola, competente, tratta dai ceti industriali e mercantili, posta al disopra delle beghe dei funzionari governativi, desiderosa di ritornare alle occupazioni sue professionali, ai negozi consueti, e di liquidare al più presto l’istituto o l’organo istituito per provvedere ad una esigenza immediata del tempo bellico; ma poi vidi che il competente, pronto a servire lo stato temporaneamente col salario di una lira all’anno, che si narra sia esistito in altri paesi, non si trovò o non si fece innanzi; e che si moltiplicavano invece gli istituti e gli interventi pronti a frastornare l’attività dei privati e degli enti, i quali di fatto dimostravano di recar vantaggio al pubblico e di saper soddisfare ai bisogni quotidiani della collettività. Manca il pane o la farina in una zona del paese? Ed ecco, nonostante le circolari contrarie del ministro Raineri (p. 468) i prefetti emanare decreti di divieto per le esportazioni di cereali da una provincia all’altra.

 

 

Provincie prive di mulini, le quali supplicano prefetti, ministri, commissari generali ai consumi affinché sia data licenza di importare farine da provincie, dove le farine ridondano ed i mulini sarebbero pronti ad inviarne carri a decine. Ministri e commissari che fanno l’indiano o consigliano di rivolgersi ai consorzi granari locali, i quali hanno provviste irrisorie ed affatto insufficienti ai bisogni locali.

 

 

L’opinione pubblica commossa dalle notizie di esportazioni di derrate alimentari, attraverso la Svizzera, ai paesi nemici, invoca ed ottiene l’emanazione di decreti i quali vietano indiscriminatamente l’esportazione di qualsiasi derrata o merce alla Germania e all’Austria, anche se si tratti di beni i quali non hanno nulla a che fare con la capacità di resistenza bellica; ed il divieto è tassativo quando l’esportazione avrebbe condotto ad un aumento di prezzi a danno dei consumatori nazionali (p. 223). Non v’era dubbio che talune esportazioni, ad esempio del cotone, della lana, del frumento, del riso o di ogni altra derrata o merce atta ad alimentare, equipaggiare od armare soldati e civili dei paesi nemici dovevano essere del tutto vietate. In molti altri casi, tuttavia, di merci di lusso o superflue, la esportazione al nemico avrebbe dovuto invece essere incoraggiata, come quella che avrebbe fornito a noi valuta, utile per importare beni necessari ed impoverito il nemico. Anche se qualche volta fosse stato ridotto il consumo interno, il problema doveva essere risoluto confrontando il danno del prezzo aumentato per i consumatori nazionali ed il vantaggio di potere, colla vendita, acquistare derrate o merci mancanti in Italia e più necessarie alla alimentazione di quelle esportate (p. 225). Ma prevalse la vociferazione contro gli speculatori i quali si arricchivano, esportando, in contrabbando, merci che, anche se indifferenti per la condotta della guerra, erano o parevano in qualche modo abbisognevoli a talun consumatore.

 

 

Talvolta la mania dei divieti tocca l’assurdo.

 

 

Un giorno si legge sui giornali che alla frontiera si arresta un Tizio il quale tentava di esportare in Svizzera cedole di titoli nemici. Un altro giorno si legge un comunicato di colore ufficioso, il quale annuncia gravi pene contro coloro i quali negoziano titoli stranieri nemici. Ed è notorio che la censura militare impedisce l’invio all’estero di titoli nemici (p.639).

 

 

Non giovò osservare che i titoli, particolarmente austriaci, erano stati acquistati da cittadini italiani quando l’Austria era nostra alleata e l’acquisto era lecito. Non giovò dire che la vendita avrebbe procacciato ai venditori italiani un valsente in valuta negoziabile e che in tal modo, contro un’uscita di pezzi di carta inservibili in paese, si sarebbe ottenuta la disponibilità, ad esempio, di franchi svizzeri i quali sarebbero rifluiti sul mercato nostro ed avrebbero consentito di rifornirci di beni economici ben più importanti dei titoli cartacei esportati. Se si fosse preveduto l’avvenire si sarebbe potuto aggiungere che la vendita eseguita per tempo (scrivevo il 24 marzo 1918) avrebbe salvato il possessore italiano della perdita del proprio capitale in conseguenza della svalutazione totale della corona austriaca, seguita alla sconfitta della monarchia austro-ungarica.

 

 

Mutare un andazzo invalso nel mondo politico e nella opinione pubblica era allora ed è oggi impresa disperata; anche se chi tentava correggere taluno degli andazzi più pericolosi poteva parlare da una assai divulgata tribuna. Talché, giunto quasi al termine della guerra (25 luglio 1918), mi cadeva l’animo dinanzi alla onnipotenza dello stato, fatto persona fisica vivente nei suoi funzionari:

 

 

Ministero vuol poi dire pochi commissari e funzionari, la cui presunzione va crescendo di giorno in giorno. Nei ministeri gonfiatissimi di oggi gli italiani si sono scaldati una serpe in seno che darà molto filo da torcere all’industria italiana nel dopo guerra. Sono venuti su alcuni tiranni i quali vogliono spadroneggiare, disciplinare, sorvegliare, indirizzare; e contro di cui sarà assoluta necessità lottare animosamente se si vuole che l’industria non sia rovinata. Ma dovrà essere una lotta a coltello, ben più costosa e dura di quella che dovrà essere combattuta contro la risorta concorrenza germanica, contro il dumping e contro tutti i più famosi spauracchi dell’ante guerra (p. 628).

 

 

Non erano ancora sorti i dittatori economici, onesti, convinti, capaci, ai quali saranno destinate parecchie pagine del volume quinto; ma già l’«industria», che nel mio linguaggio di allora significava i ceti industriali, bancari e commerciali italiani, si difendeva nel modo che poi usò quando venne sul serio il tiranno, «coll’astuzia e colle blandizie» (p. 628). Al luogo della libertà, che poteva essere consentita senza pericolo nei casi nei quali non era in gioco la salvezza del paese dal nemico, si ebbe l’arbitrio ministeriale. Lo stato di guerra giustificava gli abusi; ma il male stava nel consentire diventassero abusi quelli che erano forse il legittimo uso di diritti misconosciuti dalla tirannia ministeriale.

 

 

Alla inframettenza presuntuosa dei funzionari ministeriali forniti di potere sulla condotta politica, economica ed, ahimè !, spirituale dei cittadini fa d’uopo concedere la venia dovuta al prevalere di errori radicati da secoli nella pubblica opinione. Qual meraviglia se prefetti, ministri, deputati invocano e decretano calmieri, requisizioni, in multe e carcere contro i profittatori del mercato nero, divieti di esportazione di beni non necessari a noi e inutili alla condotta della guerra, proibizioni al commercio fra provincie abbondanti e provincie manchevoli, imposte distruttrici su coloro i quali ottengono lucri. eccedenti il livello normale, perché sanno organizzare bene i mezzi produttivi e tenui su coloro i quali guadagnano poco o perdono perché capaci solo a sprecare capitale e lavoro; se parlamenti approvano imposte sulle aree fabbricabili congegnate in modo da costringere a venderle a buon mercato ed a utilizzarle perciò malamente in costruzioni scarsamente redditizie quando l’interesse collettivo avrebbe richiesto che le aree medesime fossero «speculativamente» ossia «razionalmente» serbate vuote in attesa del futuro momento adatto all’ «ottima» utilizzazione; qual meraviglia che peggio non accada, quando l’errore è voluto, imposto dal clamore della opinione pubblica e la tirannia ministeriale detta «burocratica», altro non è se non il braccio secolare il quale esegue la sentenza pronunciata dalla pubblica opinione?

 

 

Il tempo di guerra è terreno particolarmente propizio alla seminazione degli errori. Le pagine di questo volume recano assai critiche alle farneticazioni protezionistiche di coloro che, preoccupati dell’avvento della pace, invocavano proibizioni o dazi altissimi contro le importazioni dai paesi nemici e particolarmente dalla Germania, che dicevasi agguerritissima, pronta ad iniziare subito una lotta distruttiva a danno delle industrie dei paesi alleati, a base di svendite a sotto costo, di pagamenti a lunga scadenza e di premi alla esportazione. Avere essa ammortizzato, cogli utili bellici, gli impianti esistenti, sicché questi lavoravano a costi minimi o nulli per interessi ed ammortamenti. Che è grossa fandonia, la quale è ripetuta (p.625) anche in tempo di pace per i paesi vecchi. Si immagina che certi paesi, detti vecchi, possano muovere concorrenza vittoriosa ad altri detti nuovi o, con parola nuovissima divenuta oggi di moda, sottosviluppati, perché i loro impianti industriali sono oramai nei libri contabili valutati a zero e non costano perciò interessi ed ammortamento. Come se l’esperienza posteriore alle due grandi guerre non avesse dimostrato che gli impianti vecchi, sedicentemente ammortizzati, lavorano ad alto costo e provocano la decadenza delle imprese, i cui dirigenti si addormentano nella falsa credenza dei costi nulli; laddove la fortuna economica degli Stati uniti è «anche» data dalla prontezza con la quale gli impianti vecchi, anche se fisicamente ancor nuovissimi, ammortizzati o non, sono buttati nei ferrivecchi non appena macchinari nuovi, metodi produttivi diversi lavorino a costi minori; e il rifiorimento della Germania e dell’Italia non sia «anche» dovuto alle distruzioni belliche degli impianti vecchi cosidetti ammortizzati ed alla necessità nella quale le imprese si trovarono di rinnovare, con o senza l’aiuto americano, stabilimenti ed impianti in modernissima perfetta maniera; questi, sì, lavoranti a costi bassi. Tant’è ; nell’elenco delle ragioni o pretesti per cui gli industriali nazionali invocano protezione contro le importazioni straniere, sempre figura la voce: «costi bassi stranieri per impianti vecchi ammortizzati» ; laddove la voce dovrebbe essere rovesciata e messa nell’elenco delle disgrazie altrui, con il titolo di “costi alti stranieri per l’uso di antiquati impianti detti ammortizzati».

 

 

Nella state del 1918 si ebbe il primo accenno in Italia di una mutazione nella struttura delle banche commerciali, la quale col tempo provocò poi un’altra mutazione, assai più radicale e pericolosa, di esse in banche di stato. Lamentavamo, innanzi al 1914, che le grandi banche ordinarie italiane, a differenza di quelle inglesi e ad imitazione del modello tedesco, oltre alle operazioni brevi di sconti e di anticipazioni per la fornitura del capitale circolante delle industrie e dei commerci, prendessero troppa parte alla fornitura all’industria del capitale di investimento a lunga scadenza. Dicevasi che le banche in tal modo diventassero padrone dell’industria e tendessero a persuadere i dirigenti di questa ad occuparsi non tanto della produzione a costi decrescenti di beni economici, quanto del promuovere l’aumento del prezzo delle azioni emesse dalle società ed accolte nel portafoglio delle banche in attesa di poterle collocare profittevolmente, a prezzi cresciuti nelle borse, sul mercato dei risparmiatori-investitori. La guerra, arricchendo le imprese dell’industria pesante, fornì ai loro dirigenti i mezzi per dare inizio alla pratica opposta: non più le banche padrone dell’industria; ma i grossi gruppi industriali, intesi ad acquistare le azioni delle banche, così da diventare padroni del pacchetto di maggioranza – e bastava per lo più una maggioranza relativa in un’assemblea di minori azionisti disorganizzati – e pronti a nominare consiglieri ed amministratori delegati ligi ai loro interessi. Il pericolo era grave: che pochi uomini disponessero dei depositi delle banche a vantaggio delle proprie intraprese (pp. 683-87). Per quella volta, il ministro del tesoro Nitti credette di aver risoluto il problema (art. del 2 luglio 1918, pp. 688 sgg.) col persuadere le quattro maggiori banche commerciali – Banca italiana di sconto, Banco di Roma – a stipulare tra di loro un accordo di difesa contro l’assalto dei capi dell’industria pesante. Fin d’allora, la costituzione di un cartello delle banche era veduta con sospetto da chi dettava le presenti cronache (p. 689); e non dovevano passare molti anni perché le immobilizzazioni dei depositi a favore di talune grosse imprese industriali procacciassero dapprima la crisi della Banca italiana di sconto, gli interventi di salvataggio dello stato e poi la nazionalizzazione del sistema bancario italiano.

 

 

L’idea storta che governava i provvedimenti con cui si intendeva risolvere ad uno ad uno i problemi, i quali si presentavano, con urgenza, all’attenzione ed all’ansia dei cittadini, era che in verità esistessero «problemi» economici l’uno distinto dall’altro. L’idea non è morta; anzi rigermina vigorosa ogni volta dalle sue ceneri. Ogni giorno si legge che «un problema è sorto e deve essere risoluto»; quasi esistessero problemi singoli e questi potessero essere risoluti ad uno ad uno. La manifestazione più comica della problematica si ebbe nell’estate del 1918 quando pareva ed era imminente la fine gloriosa per l’Italia e per gli alleati, della guerra e tutti si ponevano il problema: che cosa si farà poi? come costringeremo la Germania ed i suoi accoliti a pagare le indennità sacrosantamente dovute per gli ingiusti danni di rovine e di impoverimento a noi recati ? Come, pur costringendola a pagare indennità sufficienti e perciò grandiose, ne schiacceremo la capacità di concorrenza a nostro danno, le impediremo di vendere a noi i suoi beni a prezzi rotti? Come la necessità di riparare con lo sforzo di tutti all’impoverimento determinato dalle rovine belliche sarà contemperata con le promesse di distribuire buone terre appoderate ed attrezzate ai reduci, e di aumentare il reddito medio delle moltitudini meno provvedute? Il frutto del nobile proposito di risolvere la quadratura del circolo fu la nomina di una mastodontica commissione, presieduta dall’on. Pantano, detta del dopo guerra; che, per cominciare, fu composta di seicento membri (cfr. art. del 16 luglio, del 25 settembre e del 16 novembre, pp. 692-708). Approdò quella commissione, con gran dispendio, ad una relazione dell’on. Pantano, che nessuno lesse e fu presto dimenticata. Non poteva approdare a nulla; perché seicento pareri contrastanti per origine ideologica, per tradizione di partiti o di classi, per interessi economici non formano un’idea, una politica capace di risolvere il problema, che è unico ed inscindibile, dell’avanzamento della nazione.

 

 

Dalla considerazione particolaristica dell’unico problema economico non può non nascere la torre di Babele, con la connessa confusione delle lingue. Il problema vero fondamentale che si trattava di risolvere era questo: vogliamo che prosegua nel dopo guerra l’attuale tendenza bellica, forse inevitabile per necessità assolute di guerra, verso la gestione di stato degli affari economici, verso il dominio della amministrazione o vogliamo il ritorno, sia pure graduale, verso libere maniere di attività private, con interventi statali limitati ai soliti casi ammessi nei tempi ordinari? … Nella commissione nessuno è incaricato di risolvere il problema generale; sicché si avrà una collezione di precetti, così cari al dilettantismo fantasioso dell’on. Pantano, celeberrimo per avere in tasca, come del resto parecchi suoi colleghi di sottopresidenza, piani «completi» ed «organici» e «geniali» per rimediare in quattro e quattr’otto ad ogni malanno dell’Italia e dell’umanità (pp. 695-96).

 

 

Nel giorno della vittoria, chi scrive osa guardare in alto e spera che alla vittoria sul nemico straniero segua la vittoria sul nemico che è in noi:

 

 

Per non cadere nel disfacimento che è la conseguenza fatale dei tentativi di attuare programmi millenari che è il terreno fecondo su cui soltanto i Lenin d’Italia possono sperare di mietere, bisogna anche per il dopo guerra ritornare alle nostre vecchie e grandi tradizioni del risorgimento. Il ritorno a Mazzini ha contribuito, oramai tutti lo vedono, a far vincere a noi la guerra, poiché ha distrutto la compagine statale del nostro nemico. Per vincere il dopo guerra, per emergere più saldi, più forti, più ricchi moralmente e materialmente dalla grande prova civile che ci attende, bisogna ritornare alle audacie del conte di Cavour: alle audacie di chi odia i programmi vuoti, le parole retoriche, le promesse aventi un puro e basso scopo elettorale, alle audacie fredde, ragionate di chi sa la meta a cui vuoi giungere, scarta i mezzi inadeguati e sceglie la via che può essere percorsa senza pericolo di cadere nell’anarchia e nella reazione. Cavour, che la lettura dei suoi scritti rivela essere stato uno dei maggiori economisti d’Italia, non fu l’uomo di un’idea unica. Fece costruire allo stato ferrovie e porti, sussidiare linee di navigazione, impose tasse durissime; ma mentre faceva far molto allo stato dove giudicava l’azione sua vantaggiosa, gli toglieva compiti, come quelli di regolare e proteggere l’industria, di fissare i calmieri del pane, laddove credeva che l’aria libera fosse meglio atta a promuovere lo sviluppo della ricchezza ed il buon mercato della vita. Finiva di abolire le corporazioni d’arti e mestieri; ma fondava una cassa di assicurazione per la vecchiaia degli operai e voleva renderla universale. Così egli condusse il Piemonte dal 1850 al 1860 ad un alto grado di forza economica (pp. 704-5).

 

 

Le pagine qui raccolte hanno dunque, pur nel clima di consenso doveroso all’opera delle autorità politiche e militari nel tempo di guerra, indole sovratutto critica. Troppi furono gli errori inutili, le improvvisazioni, l’ossequio alle pretese irrazionali dei danneggiati dalle esigenze belliche, perché la critica potesse tacere. Spesso si passò il segno nella arrendevolezza verso le richieste di vantaggi momentanei a pro di questo o di quell’altro ceto o città o regione, verso il clamore disordinato contro gli arricchimenti dei provveditori di cose belliche, degli accaparratori e profittatori del mercato nero; troppo si indulse a provvedimenti dettati da buone intenzioni frettolose, ma intesi a conseguire effetti contrari al bene comune; troppi imbrogli demagogici furono aggiunti al sistema tributario vigente, dall’usura del tempo già fatto decadere dalla prima semplicità razionale; sicché il volume ha in gran parte sostanza di critica quotidiana a malefatte di legislazione e di amministrazione. Giova sperare che le sue pagine non appaiano, come non erano nelle intenzioni, di scarso apprezzamento degli uomini di valore i quali, se pur commisero taluni errori economici pratici, servirono validamente e devotamente il paese e condussero la patria alla vittoria. La critica era anch’essa doverosa, se talvolta giovava a smussare le punte degli errori ed a gittare il germe di una diversa condotta, che era assurdo pretendere in tempi fortunosi, per il tempo auspicato della pace.

 

 

Una tregua nell’incessante susseguirsi di problemi incalzanti si può forse scorgere nelle pagine da 138 a 184 nelle quali, in articoli scritti fra il 15 marzo 1915 ed il 5 dicembre 1916, studiai la crisi del carbone e l’ingombro del porto di Genova. Rileggendo quelle pagine, ricordai i giorni nei quali interrogavo facchini del porto, organizzatori operai, capi del consorzio, commercianti in carbone e in cotone, industriali dell’interno desiderosi di materie prime; e cercavo di formarmi un quadro preciso dei grossi problemi dalla cui soluzione, empiricamente cercata giorno per giorno, ora per ora, dipendeva la vita dell’industria e delle popolazioni nella grande pianura padana ai cui confini operava e combatteva l’esercito italiano. Risento ancor oggi il rimpianto non ci sia stato mai nessuno il quale scrivesse il beI libro di economia viva che poteva ed ancora può essere dettato a narrare ed analizzare il congegno vario e ricco e miracoloso del maggior porto italiano. Credo di avere già scritto altrove come a scriverlo dovrebbero collaborare un economista ed un romanziere; un Pantaleoni ed un Balzac. Il Pantaleoni scrisse quel capolavoro che si intitola alla Caduta del Credito mobiliare, nel quale sono narrate, da chi le aveva rivissute, le vicende della grandezza e della decadenza della maggior banca di investimenti del tempo suo; laddove il Balzac, forse per avere, anch’egli, provate le speranze e sofferte le delusioni dello speculare economico, seppe creare tipi di banchieri, di negozianti, di sfaccendati giocatori di borsa, uomini e donne, di geni e di sprovveduti quali nessun economista seppe immaginare e descrivere. Quale stupendo stimolo all’analisi economica il porto di Genova; dove arrivano navi e merci e uomini da ogni paese del mondo e si dipartono merci ed uomini per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia; dove a tratto a tratto dominava il padrone della chiatta e riscuoteva taglia su chi doveva scaricare dalla nave e non sapeva dove collocare la merce scaricata, e poi scompariva nei tempi di magra o di servizi abbondanti e bene organizzati; dove si scontrano gli interessi degli importatori di frumento, di carbone e di merci varie con quelli delle industrie consumatrici del nord; dove le calate, i pontili, gli scali ferroviari sono strumenti gli uni agli altri coordinati; dove l’intermediario, il commissionario, l’agente, che maneggia miliardi in uno «scagno» di pochi metri quadrati in un vicolo di basso porto, lavorano attorno alle grandi banche e regolano sulla parola affari colossali in borsa e per la strada; dove le organizzazioni operaie hanno sostituito i «confidenti» di un tempo; e dove il consorzio del porto, la Camera di commercio, il capitano del porto, l’ispettore di pubblica sicurezza, il municipio gestore del punto franco si incontrano, si sovrappongono, si accordano. Nasce nel porto un mercato, un grande mercato, dove si formano i prezzi e dove è possibile analizzare costi, costi veri, i quali, confrontati con i prezzi, danno luogo a perdite ed a guadagni. Auguro che le analisi di costi da me condotte in quel tempo persuadano taluno amante dei fatti economici analizzati nella realtà operante, a scrivere quel libro sul porto di Genova, che da tanti anni immagino ed invoco.

 

 

Ho raccolto nell’ultima parte del volume (pp. 748-90) scritti i quali dal 18 gennaio del 1915 al 16 ottobre 1918 furono dedicati a problemi non economici: la teoria tedesca della decadenza dell’impero britannico, quella inglese dell’equilibrio europeo e sulla necessità che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca. Quest’ultimo iniziò sul «Corriere della sera» la serie degli articoli i quali recavano non la mia firma, ma quella di uno pseudonimo «Junius» e furono poi raccolti dall’editore Laterza in un volumetto dal titolo Lettere politiche di Junius. La sigla era quella stessa che nel Settecento era stata usata per un volume di scritti politici divenuti celebri, anche per la controversia sorta intorno alla persona dell’autore. Adottai per quegli articoli lo pseudonimo e l’uso di indirizzarli, quasi fossero una vera lettera, al «signor direttore» ; e cercai di serbare il segreto intorno alla persona dell’autore, per scemare ai lettori la noia di vedere troppo spesso ripetuto in calce agli articoli il mio nome e per il piacere di ascoltare da amici e conoscenti giudizi critici, che, vista la firma, non sarebbero stati dichiarati in mia presenza.

 

 

Nel gruppo degli articoli politici si inseriscono anche due articoli storici, l’uno sulla conquista del confine naturale delle Alpi occidentali compiuto lungo duecento anni di guerre e di lotte da Casa Savoia e l’altro sulla cavalleria con la quale nel Sei e Settecento si conducevano le guerre in Piemonte confrontate con i casi di barbarie moderne, che parevano già biasimevoli durante la prima guerra mondiale e divennero durante la seconda terrificanti per i trasferimenti forzati di intere popolazioni e per la tentata distruzione del popolo ebraico.

Prefazione

Prefazione

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. XI-XXXVI

 

 

 

 

Le cronache contemplano in questo terzo volume gli anni dal 1910 al 1914. Dei cinque anni, tre appartengono al gabinetto Giolitti, dal 30 marzo 1911 al 19 marzo del 1914; undici mesi a quello Luzzatti, dal 31 marzo 1910 al 2 marzo 1911; un po’ meno di quattro mesi al gabinetto Sonnino, dall’11 dicembre 1909 al 31 marzo 1910; circa otto mesi, dal 21 marzo al 5 novembre 1914 al primo gabinetto Salandra, al quale succedette il secondo ministero dello stesso Salandra, non compreso però nel tempo degli articoli qui riprodotti. Sono gli anni della conquista della Libia e della neutralità italiana all’inizio della guerra mondiale; un anno di governo di uomini, Sonnino e Salandra, che possono essere detti di opposizione, un anno di Luzzatti e tre anni dominati da Giolitti.

 

 

Nonostante che per tutti i cinque anni la maggioranza dei deputati fosse ognora di ubbidienza giolittiana, non si può affermare trattarsi di dittatura. L’opposizione si faceva sentire liberamente alle camere; i critici scrivevano apertamente sui giornali; ed una parte notabile degli articoli qui raccolti suonano critica a provvedimenti o propositi ministeriali. Talvolta sembrava che gli oppositori dovessero avere partita vinta, tanto efficaci erano le loro argomentazioni; ma la maggioranza silenziosamente votava. La “palude” ubbidiva volonterosamente ai desideri del “presidente”, divenuto tale per antonomasia. La sudditanza volontaria, mossa da sentimenti di ossequio per favori chiesti o soddisfatti, di riconoscimento della riconosciuta capacità del capo di saper governare gli uomini, di soddisfazione dei rappresentanti di fedi politiche e sociali dette avanzate, non pareva foriera di pericoli. Nessuno, tra il 1910 e il 1914, immaginava sarebbe venuto il tempo in cui la palude avrebbe tutto sommerso e si sarebbero visti, nell’aula di palazzo Madama, senatori piegare il ginocchio quando passavano dinnanzi al seggio del duce impassibile. Nessuno immaginava che, dopo la caduta del fascismo, sarebbero venuti giorni nei quali al luogo di una sola palude se ne sarebbero vedute tre o quattro; e deputati e senatori avrebbero disciplinatamente votato provvedimenti, forse sgraditi ai più, al cenno venuto da un segretario di partito, estraneo come tale al parlamento.

 

 

Le Cronache di questi anni sono quasi interamente dedicate a problemi economici. Di rado discorrevo di problemi attinenti alla cultura ed alla politica generale. Cadde in mente ad un Tonelli, rettore della università di Roma, di avere risposta autentica al quesito se i professori universitari dovessero prestare giuramento, come era richiesto dalla legge generale vigente per gli impiegati dello stato. Il giuramento, innocuo, era caduto in desuetudine; ma era pericoloso e Carlo Somigliana ricordò che il sacerdote Domenico Chelini, professore di meccanica, era stato nel 1864 sfrattato da Bologna e nuovamente nel 1871 da Roma perché si era rifiutato di prestare un giuramento che egli giudicava contrario alla sua fede cattolica. Se ieri si espellevano i cattolici, perché non domani i socialisti? Francesco Ruffini, rettore a Torino, rifiutò di far prestare giuramento ai colleghi; altri ricordò che il giuramento era in contrasto con la legge Casati, la quale riconosceva agli stranieri il diritto di salire, se chiamati e parecchi furono – ad una cattedra italiana. Ministero, consigli superiori e consigli di stato adempirono correttamente alla cerimonia rituale della lavatura delle mani; e la cosa cadde, per allora (articoli del 7 e del 9 dicembre 1910, qui alle pp. 166-72) per essere risuscitata in tempi tristi di vera dittatura.

 

 

Gustavo Haenel, eruditissimo editore di antichi testi ed emerito amatore della roba pubblica altrui, era riuscito ad acquistare per pochi soldi dal canonico archivista della curia di Udine un esemplare, unico al mondo, della Lex Romana Raetica Curiensis, da lui depositato nel 1888 nella biblioteca universitaria di Lipsia. Federico Patetta aveva documentato il latrocinio, ed io lo denunciai pubblicamente. Paiono ancora oggi attuali gli articoli che il 21 aprile ed il 18 maggio 1913 (qui alle pp. 501-14) scrissi contro gli orari lunghi delle scuole medie. La lunghezza era ed è causata dall’errore di credere che la scuola debba “insegnare” certe cose dette “materie”, a norma di certe altre vanità dette “programmi” e non ad “educare” ragazzi e giovani a ragionare. Di qui la moltiplicazione degli insegnamenti e degli orari, il caleidoscopio degli insegnanti, i quali di ora in ora si susseguono dinnanzi ad una scolaresca, dopo le primissime ore, stanca e disattenta. Invece di un unico professore formativo, il quale segue per tutte le discipline, ad eccezione delle scienze matematiche, lo scolaro per almeno i tre anni del ginnasio inferiore (ora – scuola media), i due di quello superiore e i tre del liceo, costui è costretto a trangugiare frammenti di nozioni ad orari spezzettati, da quattro o cinque professori diversi, occupati a completare l’orario minimo, obbligatorio secondo il regolamento, racimolando ore aggiunte in sezioni o scuole diverse, con noia e scarso frutto di scolari raccogliticci.

 

 

Costruivo perciò uno specchio comparativo degli orari lunghi, con la dimostrazione del loro alto costo, del cresciuto numero degli insegnanti, delle necessarie paghe basse e lo confrontavo con il vantaggio degli orari brevi: scolari attenti, insegnanti ridotti di numero e meglio scelti e stipendi più elevati, non onerosi per l’erario. Reputo che siffatte riflessioni siano ancor oggi ragionate, sebbene non siano state, con disdoro della scuola, malcontento degli insegnanti e scarso profitto degli scolari, tenute in alcun conto.

 

 

Il trattato di Losanna con la Turchia, in virtù del quale il territorio della Libia era stato ceduto all’Italia, era stato male accolto dai nazionalisti, sospettosi di quel che sopravviveva della sovranità religiosa del sultano turco in veste di califfo dei mussulmani. Quelle residue vestigia erano invece, a parer mio, gran pregio del trattato, il quale in siffatto modo riconosceva agli arabi diritti propri autonomi, i quali facevano bene auspicare per la collaborazione dei due popoli, italiano ed arabo, reputati pari in diritto. Se altri errori non fossero stati commessi nel frattempo, non avremmo, neppure con quel riconoscimento, salvato la Libia; ed oggi ce ne andremmo ugualmente via, come fanno dappertutto gli europei e come facciamo noi in Somalia; ma anche in Libia ce ne andremmo con bel garbo, con la nomea di precursori e con gli onori militari e civili (articolo dell’1 novembre 1912, qui alle pp. 446-54).

 

 

Ammonitore è, in proposito, l’articolo scritto (2 marzo 1913, qui alle pp. 467-74) su la creazione della terra nella zona di Tripoli; articolo provocato dal fastidio di dover leggere su fogli quotidiani declamazioni grottesche sulla fertilità dei terreni tripolitani, sui grappoli colossali di uve prelibate, sul frutto copioso di tre quattro o cinque raccolti ottenuti su minimi giardini. Erano tutte fandonie; che il ministro Nitti saviamente aveva distrutto spedendo sul luogo un scelto manipolo di agronomi e geologi veramente periti e sapienti. I quali dimostrarono – e le loro pagine sono ancor oggi stupende e degne di essere meditate nei brani da me riprodotti ad ammaestramento di coloro che farneticano riforme agrarie atte a rapidi risultati su terre, cosidette deserte, poste in Italia – che i giardini dell’oasi tripolina si estendevano ad appena 5.244 ettari, divisi in forse 7.333 poderi, di una superficie media di 7.153 metri quadrati l’uno. In tutto, comprese anche le altre oasi fuori di Tripoli, le terre a giardino erano estese a scarsi 200 chilometri quadrati circa sui 16.000 del territorio tripolitano a cultura estensiva e saltuaria. Anche nella Libia la conquista della terra è faticosa e lunga e non ha mai termine. La terra è sabbia, è duna mobile, la quale deve essere difesa ogni giorno dall’assalto del vento, il quale trasporta la sabbia del deserto, dalle frane degli argini, dall’inaridimento provocato da un sole di fuoco, il quale tutto distrugge, se il contadino non veglia, giorno e notte ad estrarre l’acqua dal sottosuolo, con lento metodo frutto di esperienza millenaria. La terra tripolitana non è terra vergine la quale attende ansiosa l’aratro del pioniere; è terra antichissima, nella quale il contadino italiano non ha nulla da insegnare all’indigeno arabo, e molto da imparare. Lodavo perciò il ministro, il quale, risparmiando agli italiani le delusioni, altrove provate da colonizzatori troppo fidenti nei raccolti di meraviglie scritti da gazzetteri da caffè, aveva incaricato alcuni uomini probi e periti di esporre ai contadini nostri la durissima verità propria dell’eldorado libico.

 

 

Talvolta lo scrivente, pure indurito dalla esperienza, si persuade a patrocinare un qualche rimedio a talun grosso malanno della vita pubblica italiana; sicché, inquieto per il crescente numero, salito all’1 luglio 1910 a 508.809, dei dipendenti civili e militari (esclusi i soldati) dello stato, si dimostra, in talun articolo del tempo (in Ruoli chiusi o ruoli aperti?, del 26 aprile e 30 maggio 1911, qui alle pp. 316 – 27), favorevole al metodo dei ruoli aperti in confronto a quello dei ruoli chiusi. Ancora oggi, che il numero è più che raddoppiato e non par vi sia limite alla moltiplicazione, il ruolo aperto è in verità preferibile a quello chiuso. Ecco però l’on. Saporito, terribile e temibile spulciatore di cifre, ammonire in una relazione di minoranza della giunta del bilancio della camera dei deputati, che se, nel sistema dei ruoli chiusi, invariato rimanendo il numero dei funzionari, si faceva scemare il numero dei segretari e crescere quello dei capi sezione, così nel sistema dei ruoli aperti, fermo rimanendo il numero totale degli stipendiati, (vedasi l’esempio denunciato dal Saporito qui a p. 323) scemano i numeri scritti nei quadri degli stipendi minori e crescono i numeri scritti nei quadri degli stipendi medi e alti; sicché alla fine quando troppi sono in alto e pochi in basso, appare disdicevole che gli alti stipendiati assolvano uffici minori e conviene crescere il numero dei subordinati. La spassosa vicenda continua oggi, tuttoché, a parer mio, l’esperienza debba, tutto sommato, dare la preferenza al sistema dei ruoli aperti, che meglio soddisfa le esigenze degli anziani, li fa meno invidiosi del successo altrui ed attenua alquanto gli impulsi sanguinari dei giovani contro gli anziani. A ciò provvedono i limiti di età, i quali, in un clima bio psicologico di incremento della vita media, tenderebbero, per ragioni politiche, ad abbassarsi dai 70 ai 65 anni, ai 60, ai 55, ai 50 anni, se non lo vietasse la vaga consapevolezza dello squilibrio sociale verso il quale procede una società dove si gonfiano progressivamente e proporzionatamente le classi dei giovani, a cui si fa provvido divieto di lavorare non più a 9, ma a 12, 15 e presto saranno 18 e 21 anni, e dei vecchi, ai quali si fa uguale stolido divieto a partire da età troppo basse e tutto l’onere della vita sociale cade sul gruppo delle età di mezzo, oggi 15-65 e domani 18-65 o 21-60, gruppo destinato a diminuire progressivamente e proporzionatamente di numero. Vedremo un giorno la rivolta delle età mature contro la oppressione delle età giovani ed anziane?

 

 

Un motivo di critica frequente nel primo decennio del secolo, ha, anche in questo volume, eco ripetuta. Invece di lodare l’eroico contribuente, come è costume secolare dei relatori dei bilanci e dei disegni di legge di aumento di imposte, eccitavo i contribuenti alla resistenza contro le male imposte (p. 94). Lodavo l’imposta sugli spiriti che volevo in ogni caso alta, perché volutamente rivolta a diminuire il consumo delle bevande alcooliche (p. 523); condannavo (pp. 636 e 719) la proposta di aggiungere al tributo bene ragionato, detto dell’imposta di successione; un mostro di sperequazione che definivo imposta sul morto; giudicavo vana e dannosa l’imposta sul reddito dei titoli di stato: vana perché è indifferente per l’erario vendere il titolo di debito pubblico 4% netto a 100 lire, ovvero allo stesso prezzo il titolo 5% lordo gravato da imposta del 20% (e quindi fruttifero altresì di 4 lire nette); e dannosa all’erario perché, oltre il non irrilevante costo del registrare pagamenti di 5 lire, e poi trattenute, a titolo di imposta, di 1 lira e compiere pagamenti netti di 4 lire (che è sollazzo contabile, applicato del pari agli impiegati pubblici ai quali si dice di pagare 100 e poi se ne trattengono, a titoli diversi, supponiamo 10, sicché il pagamento vero è 90; e gli impiegati si vantano, a causa di quella scritturazione di 10, di essere i soli in Italia a pagare le imposte sul vero reddito, sino al centesimo; vanteria non vera perché quella delle 10 lire su 100 è mera scritturazione, eseguita per dar lavoro ad un certo numero di scritturali ed è priva di qualsiasi contenuto sostanziale), il tributo apparente del 20%, agisce come uno spauracchio agli occhi dei risparmiatori. Questi, che hanno le 100 lire ancora in mano, pagherebbero volentieri 100 lire per ricevere un 4% sicuro da ogni balzello, ma posti dinnanzi ad un 5% lordo, gravato da un’imposta del 20%, anche se il netto è sempre 4, scuotono la testa: e chi garantisce – chieggono – che l’imposta stia ferma al 20%? Era nel 1894 del 13,20% e la portarono al 20% ma potrebbero domani recarla al 30 per cento. Così, dubitando e temendo, essi riluttano al 5% lordo e si dispongono a pagarlo solo 95 a titolo di salvaguardia contro il timore dell’aumento futuro dell’imposta. Ecco il danno per l’erario, danno nato dall’ossequio letterale al comando dell’imposta uguale per tutti (pp. 611 – 12). Se frequenti erano le critiche contro l’altezza “insopportabile”, “inverosimile” delle aliquote nominali delle imposte italiane, provocatrice di frodi – ma allora l’incomportabile giungeva appena al 20! -; più gravi e ragionate erano le critiche alla mala distribuzione dei tributi. In un gruppo di articoli scritti nel 1953 (qui, pp. 578 a 609) affermavo che un carico tributario di circa 2.400 milioni di lire su un reddito nazionale lordo, calcolato allora, con la approssimazione propria di siffatti sondaggi sull’ignoto, in circa 12.000 milioni, era alto; ma la gravezza era inasprita dalla cattiva distribuzione. Allora come oggi, il giudizio dei più partiva dalla constatazione che i consumi erano tassati assai più dei redditi; reputandosi che la “giustizia” nelle imposte stesse nel colpire i contribuenti “direttamente” sul loro reddito, piuttosto ché “indirettamente” sugli atti e sui consumi da essi compiuti. Allora, oggi non più, ché le esigenze degli amatori di giustizia sono cresciute, si additava ad esempio il bilancio inglese, per il quale il grande Gladstone aveva fissato il comandamento “pratico” di giustizia nel rapporto detto del fifty fifty, metà alle imposte dirette e metà alle imposte indirette. Io non sapevo, come non so adesso, cosa fossero le imposte distinte con quei vocaboli; guardavo con diffidenza al più dei calcoli giornalistici e politici, i quali spesso sommavano cifre eterogenee, alcune nette ed altre lorde (ad esempio, delle 100 lire spese per il tabacco, imposta sono solo le 75 lire dell'”utile fiscale”) o trascuravano le imposte comunali e provinciali, quasi che il contribuente non fosse uno solo e pagare allo stato od al comune non dipendesse dalla convenienza del distribuire i compiti pubblici fra l’ente statale e quelli locali, e non si trattasse sempre di un unico tributo obbligatoriamente pagato per fini pubblici; mi reputavo inetto, allora come oggi, ad immaginare dove, in conseguenza delle regole della traslazione dei tributi, questi andassero effettivamente a cadere. Perciò riclassificavo alla meglio, come potevasi, le cifre dei tributi statali e locali, le depuravo da ciò che non era imposta, ma pagamento, ad esempio, di servizi speciali resi al singolo contribuente o di merci a lui vendute dall’ente pubblico, e giungevo alla conclusione che la proporzione fra le imposte gravanti sul reddito (nelle loro varie parvenze di redditi di capitali o di trasferimenti di questi) e sui consumi era suppergiù quella famigeratamente classica del fifty fifty, 1.200 milioni sui redditi e 1.200 sui consumi.

 

 

Meritavamo perciò la promozione con la lode da parte del signor Gladstone? Io ho l’impressione che anche oggi non ci dobbiamo scostar molto dalla osservanza della regola un tempo detta aurea; certamente assai più vicini al 50% che certi grotteschi 20 o 25% che sulle gazzette e nei parlamenti si usano attribuire, con parole di ribrezzo, al peso delle imposte sui redditi in confronto al carico tributario totale gravante sui contribuenti italiani.

 

 

Non perciò, oggi come ieri, potremmo trarre dalla constatazione il grido panglossiano di trionfo: viviamo nel migliore, sia pur pratico, dei mondi tributari possibili! Il problema, sia pure rozzo, di calcolo del peso comparativo dei tributi si risolve pienamente col paragonare e depurare e classificare con ogni diligenza le cifre brute delle imposte pagate? Anche se si riconosce la impossibilità assoluta di tradurre in cifre le regole ed i corollari e le detrazioni consigliate da quella dottrina della traslazione che è la ricerca più elegante e raffinata ed entusiasmante aperta a noi cultori della scienza tributaria, si ha il dovere di fare un tentativo, purtroppo grossolanissimo ed incertissimo, per calcolare alcune grosse cifre di somme che lo stato rimborsa a certi contribuenti e non a certi altri. Se lo stato, col dazio sul grano e sulle farine, consente a “taluni” proprietari di terreni a grano di riscuotere un prezzo del frumento maggiore del prezzo di mercato, non è forse, con quell’espediente, il proprietario di terre a grano posto in grado di pagare tutta o parte dell’imposta sui terreni? Allora era relativamente meno disagevole calcolare l’importo del rimborso, poiché si sapeva che il dazio sul grano era di lire 7,50 al quintale. Oggi non c’è dazio, ma esiste un monopolio statale del commercio estero del grano e ci sono altre diavolerie di contingenti e di vincoli a mulini ed a consorzi; ma il rimborso, più difficile ad essere calcolato, esiste anche oggi. Del pari si sapeva che i consumatori di zucchero rimborsavano agli zuccherieri sotto forma di differenza fra l’imposta pagata all’interno sullo zucchero nazionale ed il più alto dazio pagato alla frontiera, – e quest’ultimo determinava il prezzo di mercato, – l’imposta di lire 27,85 per quintale su ognuno dei 1.650.000 quintali allora consumati in Italia. Gli zuccherieri riscuotevano perciò un rimborso di circa 46 milioni di lire sulle imposte sullo zucchero nominalmente da essi pagate. Non tutti i possessori di ricchezza o di redditi ricevevano rimborsi e non tutti pagavano dazi privati. Grosso modo però calcolavo che i contribuenti pagatori di 1.200 milioni di imposte sui redditi e sui capitali, ricevevano 300 milioni di lire di rimborso di dazi; cosicché l’onere complessivo del gruppo dei pagatori di imposte sul reddito si riduceva, deducendo i 300 milioni di rimborso, da 1.200 milioni a 900 milioni; laddove l’onere dei pagatori di imposte sui consumi aumentava, tenendo conto di ciò che non tutto l’onere dei dazi protettivi andava a vantaggio di qualche gruppo di contribuenti redditieri, di 500 milioni di lire, passando da 1.200 a 1.700 milioni.

 

 

L’onere complessivo delle imposte versate all’erario restava suppergiù uguale; ma invece di dividersi, secondo l’aurea regola gladstoniana del fifty fifty, in 1.200 e 1.200, si divideva in 900 a carico dei pagatori delle imposte sui redditi e sui capitali e 1.700 a carico dei pagatori delle imposte sui consumi.

 

 

Quel che gli inglesi chiamano il villain of the piece, il colpevole dell’imbroglio, non era dunque la mala distribuzione “nominale” delle imposte; le quali avevano molte colpe, che cercavo di analizzare negli articoli, ma il colpevole più grosso era il rimborso, “invisibile ma reale”, eseguito a favore di taluni contribuenti alle imposte sui redditi dell’importo dei dazi doganali protettivi, gravanti sui consumatori. Il calcolo, degno di revisione, perché compiuto con larghissima approssimazione, meritava tuttavia una qualche attenzione. Allora, come oggi, in tempi di piena libertà di stampa, il sipario del silenzio cadde sull’accusa; la quale disturbava perché vera; ed il tacere era consigliabile.

 

 

La protezione doganale non era accusata in se stessa. Sarebbe stato allora rimprovero ingiusto contro gli uomini i quali avevano voluto dare all’Italia uno degli strumenti ritenuti da essi necessari per la creazione di una forte industria. Dopo l’inchiesta doganale del 1885-1886 si era affermata in Italia l’opinione che, per consentire alle industrie nascenti se di fatto non erano nuove nemmeno allora, acquistavano in quel tempo dimensioni non mai prima sperimentate – di resistere alla concorrenza estera, formare le ossa, trasformare i contadini in operai, invogliare i risparmiatori a correre rischi di investimenti industriali, fosse d’uopo introdurre una protezione temporanea. Col trascorrere del tempo, acquistata esperienza, educate le maestranze, resi fiduciosi i risparmiatori, superato il costo dei tentativi, le nuove o rinnovate industrie sarebbero vissute con le forze proprie, avrebbero lavorato a costi internazionali ed avrebbero potuto sopportare il colpo del ritorno alla libertà, quando, trascorso il ragionevole tempo della giovinezza, si fosse proceduto alla doverosa levata delle dande protezionistiche. Avrebbe forse sorriso per tanta illusione il conte di Cavour, del quale taluno ricordava la risposta ai corregionali agricoltori querelantisi per il dazio troppo tenue sul grano: “sei d’burich! siete dei somari; fate come me che, a Leri, tentando, rischiando, sperimentando vendo il frumento con guadagno!” Era tuttavia quella della protezione alle industrie nuove, nascenti, bambine, bisognose di un po’ di serra, al riparo dai venti inglesi e francesi, una dottrina rispettabile. Federico List aveva insegnato che, in terra di agricoltori, non nasce nessuna industria; occorrere un clima propizio di iniziative sparse, a poco a poco crescenti; clima che lo stato può creare con dazi alla frontiera, con premi di incoraggiamento, con concessioni di aree gratuite, con privilegi di privative agli industriali, con immunità agli operai. Creato il clima, le iniziative non più troppo rischiose, si moltiplicano e crescono. Lo stato agricolo si è trasformato in industriale. La dottrina era antica ed era quella di tutto il settecento e della prima metà dell’ottocento. Ma il List l’aveva rinnovata in pagine calde, vigorose, talora entusiasmanti. Giovanni Stuart Mill l’aveva teorizzata in una pagina famosa dei Principii sulle industrie giovani. Su quelle pagine, uomini di dottrina e di azione, i quali credevano in quello che pensavano, avevano tentato la gran prova di favorire con una qualche protezione la nascita ed il rafforzamento dell’industria paesana. Il tentativo prende oggi il nome di aiuto, di protezione, di intervento dello stato nelle zone depresse; o siano quelle del mezzogiorno d’Italia o le assai più estese regioni sommerse dell’India, del Pakistan, dell’Indonesia, dell’Egitto e di tanta parte dell’America centrale e meridionale. Oggi si vuol salvare quella gran parte della terra dalla lebbra comunista e si deliberano aiuti cospicui e si approntano piani di redenzione economica e sociale in territori antichissimi e poveri. Il problema non è di principii, sibbene di metodi di applicazione, dei quali taluni sono corruttori e deprimenti, altri sani e redentori. Nell’ultimo quarto del secolo XIX la nuova e cresciuta protezione doganale parve ad una parte rispettabile della classe politica italiana fosse lo strumento adatto a consentire all’industria italiana di superare il punto morto dell’infanzia, bisognosa di aiuto, allo scopo di giungere alla maturità rigogliosa di vita autonoma propria.

 

 

Quel tempo, negli anni dal 1910 al 1914, ai quali attiene il presente volume, era, a parer mio, trascorso. Di qui i parecchi articoli che si leggono alle pp. 643 – 75 e 716 – 20. Non ricordai allora l’altro celebre brano di Stuart Mill, nel quale il grande economista illustrava l’ingenuità del proposito, che era stato anche suo, di limitare la protezione al periodo di infanzia delle industrie nuove. Non esistono, egli dovette poi riconoscere, industrie nuove, ché non esiste “l’industria”. Esistono “imprese”, che ogni giorno nascono ex novo e, nascendo, paiono, per definizione, bambine. Esistono le imprese bambine nate nel 1870, nel 1880, nel 1890, nel 1910 ecc. ecc. ed ogni impresa ha bisogno dei suoi 20 anni per farsi le ossa; e così, nella convinzione dei neonati, la protezione diventa di fatto perpetua. La argomentazione spiegava, non giustificava affatto il perpetuarsi della protezione; ché essa era data non alle imprese, ma al clima, all’ambiente; voleva, come diceva il List, creare il terriccio fecondo sul quale avrebbero potuto nascere e crescere le industrie nuove e giovani. Ma una volta creato il terriccio, formato l’ambiente propizio al rischio industriale il compito dello stato era chiuso. Così come una volta costruito un canale d’irrigazione o una strada non la si disfa e rifà di continuo per dar lavoro ai disoccupati, ma si passa ad altro canale, ad altra strada, che, forse, in seguito al successo delle prime riuscite iniziative di canali e di strade, si palesano necessarie ed utili, così, creato il clima propizio all’idea del rischio è d’uopo rivolgersi ad altri metodi atti a promuovere la creazione di quel che non c’è.

 

 

Negli articoli del tempo dal 1910 – 1914 volli saggiare a diversa cote, che non fosse quella del semplice tempo trascorso, la legittimità della continuazione della protezione doganale. Se, dissi, i propositi degli instauratori della politica protezionistica si fossero avverati, come era ragionevole attendersi accadesse dopo che la industria aveva goduto per venti, trent’anni e talora più (quella zuccheriera vantava dazi dal 1867 e, osservo io sommessamente, godeva protezione dal giorno dell’editto napoleonico di Milano del 1810 che creava in Italia in odio all’Inghilterra l’industria dello zucchero da barbabietole) di una bastevole, spesso larga protezione doganale; oggi gli industriali italiani dovrebbero vendere i loro prodotti a prezzi internazionali di concorrenza. Mai no! gridano essi; i dazi vigenti sono bassi e dovrebbero essere cresciuti. Replicavo: anzi, i dazi operano in guisa da dimostrare a chiare note che gli industriali protetti si accordano allo scopo di mantenere i prezzi interni al livello dei prezzi esteri, coll’aggiunta dei dazi. Che cosa sono i sindacati dei concimi chimici, dello zucchero, del ferro e dell’acciaio, dei cotoni, se non intese rivolte ad impedire che la concorrenza interna faccia ribassare i prezzi al disotto del limite consentito dalla protezione doganale? Essendo i prezzi alla frontiera 10, ed il dazio di entrata 4, gli industriali, riuniti in sindacati trusts cartelli unioni o con qualunque altro nome si intitolino (oggi la moda è di dirli tutti “monopoli” con vocabolo improprio, ché in Italia di monopoli vi sono soltanto quelli pubblici e privati creati dalla legge), si accordano per non ribassare i prezzi al disotto di , e così usufruire per intiero del margine protettivo accordato dalla legge. La condotta è illecita, perché i 4 di protezione furono concessi affinché gli industriali diminuissero a poco a poco gli alti costi della giovinezza da 14 a 10, e si mettessero in grado di vendere a prezzi di concorrenza coll’estero ossia di soddisfare alla condizione essenziale a cui era subordinato il beneficio delle 4 lire. Perché lo stato dovrebbe gravare sui consumatori col sovraprezzo di 4 lire se non fosse la speranza che, trascorsi gli anni della adolescenza e della giovinezza, giunta la maturità, l’industria potesse, divenuta forte, vendere al prezzo internazionale? Non si incoraggia una industria destinata a rimanere eternamente bambina, già vecchia rimbambita prima di nascere. L’esistenza del sindacato è la prova palmare che il fine voluto dal legislatore di creare un’industria forte, vigorosa, capace di rendere servizi utili non è stato raggiunto o non si vuole raggiungere; epperciò fa d’uopo abolire od almeno gradatamente ridurre i dazi.

 

 

Questa la tesi, nella quale mi trovai di fronte a contradditori valorosi, come Ettore Candiani presidente della Super (fertilizzanti concimi chimici), Adriano Aducco, direttore dell’Unione Zuccheri, il marchese R. Ridolfi, presidente della Ferro ed acciaio, e Giorgio Mylius presidente dell’Associazione cotoniera italiana. Le loro osservazioni e le mie repliche si possono leggere a loro luogo; ed io non le riassumerò ché sarebbe ripetizione inutile.

 

 

Aggiungo solo due osservazioni. La prima si è che questa mia battaglia antiprotezionista fu condotta col pieno consenso di Luigi Albertini, direttore allora del «Corriere della sera»; e mi piace il ricordo, perché è una delle tante prove della possibilità di condurre un giornale fuor di ogni dipendenza dagli interessi padronali ed operai, che non so quale dei due sia oggi, qua e là nei diversi paesi del mondo, più potente e più contrario al bene comune. Il «Corriere della sera» era indiziato come asservito, per ragioni di proprietà, agli interessi dei cotonieri; e i miei articoli dimostrano il contrario. Fa d’uopo che il direttore sia contrattualmente libero da ogni ingerenza e che intenda giovarsi dei suoi diritti. Poiché, così facendo, il giornale da passivo o scarsamente attivo, diventerà fecondo di utili crescenti, nessuno, ad eccezione della forza del tiranno, lo caccerà via.

 

 

La seconda osservazione è che la polemica in conformità alle tradizioni del giornale ed all’indole dello scrivente, fu sempre sia con gli uomini di parte industriale, sia, in altre occasioni (in articolo su Leghe operaie, produttività del lavoro e problema delle abitazioni; qui alle pp. 29-50) con quelli di parte operaia, informata alla premessa che tutti discutessero con la convinzione di difendere una tesi reputata giusta. Se si parte dalla premessa che l’avversario sia un poco di buono, un ladro del pubblico denaro, un corruttore della burocrazia, si fa polemica sbagliata. Del resto a partire dalla premessa della buona fede dell’avversario, ero persuaso dalla esperienza delle conversazioni con uomini appartenenti ai più vari ceti. Se discorro con un contadino, non mi giova rammostrare a lui di non essere persuaso che egli è il solo “che lavora”. So bene che egli, vedendomi per ore seduto al tavolino a scrivere o leggere, non opina che “io lavori”, so bene essere egli persuaso che solo la fatica sua del vangare, del potare, dell’arare, del sarchiare è vero lavoro; e che il mio è “un far niente” da “signore”. A che gioverebbe trarlo dall’errore? Se la persuasione dell’essere il solo a lavorare, nel senso di produrre qualche bene (grano o vino) che prima non c’era, giova a far di lui una persona viva, a dargli l’orgoglio di quel che fa, gli si può perdonare il compatimento per l’opera altrui, grazie al contento per l’opera propria. Se egli poi discorre delle cose che sa e fa, qualcosa di buono si impara sempre sui vantaggi o svantaggi delle cose fatte e del modo di farle. Il contadino chiamato a dar giudizio su un qualche accidente che gli è capitato per volere altrui, su una legge o su un decreto che lo tocca sul vivo, quasi sempre dice parole degne di essere meditate; particolarmente se egli non è lettore di giornali e se non è afflitto da reverenza per le parole “stampate nel ferro”.

 

 

Per anni molti, fin quando insegnai alla Bocconi di Milano, dovevo andare e tornare una o due volte la settimana sul treno Torino – Milano; e, se imparai poco da pubblicisti o politici, imparai molto tutta volta potei attaccar discorso con negozianti, industriali, banchieri, uomini d’affari.

 

 

Osservavo la regola di lasciar parlare altrui, – non contraddicendo agli errori detti in materie generali, od a proposito di quel che il governo avrebbe dovuto fare o non fare per risolvere questa o quella spinosa questione, – sulla condotta da osservare nella industria o nel commercio o in uno specifico affare. Se l’interlocutore, tuttavia, si accalorava nel parlare delle faccende sue proprie, quello era tant’oro colato. Ciascuno, parlando delle cose sue, dice verità di osservazione, di cui gli economisti teorici hanno gran torto a non far tesoro. Non sarà sempre la bocca della verità e dominerà non di rado l’interesse personale. Forseché non è necessario conoscere tutte le facce di un problema? principalmente se chi parla è uomo che ha l’aria di non aver perduto il suo tempo. Bisogna levarsi il cappello dinnanzi a chi guadagna; e diffidare di chi, per il bene dell’umanità, invoca provvidenze dallo stato. Leggasi a carte 143 il paragone vivo scritto da Nitti fra il proprietario individualista e il proprietario “sociale”.

 

 

Il primo vive in generale sulla terra od almeno per la terra; si occupa poco dello stato e teme solo le imposte nuove. Tenta per conto suo, organizza come meglio può la produzione, non crede o non dà importanza al credito agrario e tratta, per convenienza economica, meglio che può i lavoratori. Il proprietario sociale vive poco in campagna, si occupa molto di politica, è apostolo dei benefici del credito, deplora sempre l’azione presente dello stato, attende uomini politici con nuovi orizzonti. Segni caratteristici: in generale ha debiti.

 

 

Sento parlare da almeno due terzi di secolo di crisi del vino e di svendita delle uve. Non ho mai imparato nulla da quel che si legge in articoli di giornalisti generici, che di vino si intendono, più no che sì, soltanto a tavola e discorrono di difficoltà di trovare vino non falsificato; ché il vino genuino i contadini debbono venderlo tutto a prezzi rotti e non si sa dove vada a finire; ed ho imparato sempre qualcosa da chi, compiaciuto, fa assaggiare all’ospite il vino della sua cantina, non obbietta a chi gli discorre della crisi, ma non racconta di perdite sue. Da lui imparo come fa a fare il vino buono, delle vendite a clienti, cresciuti a poco a poco, da sé, per avere assaggiato il suo vino alla tavola dell’amico, e rimasti fedeli. Volentieri parla o ascolta dei fastidi delle imposte, delle tante cartacce che occorre compilare per gli uffici pubblici, dello spopolamento delle campagne, della fuga dei contadini nelle città; ma non vedo egli abbandoni la partita e cessi di produrre vino buono, serbevole, e perciò venduto a prezzi che, sì, potrebbero essere migliori, ma frattanto di fatto sono tali che non conviene fare un altro mestiere.

 

 

Amo discorrere anche con artigiani ed industriali protetti da dazi o da provvidenze governative. I più non sono tra coloro che hanno chiesto protezione od aiuto; li accettano perché sembra facciano parte dell’ordine naturale delle cose. Non sanno che protezioni ed aiuti sono tutto un tirare ad imbrogliarsi a vicenda: tu mi aumenti il prezzo degli aratri, delle trattrici, dei concimi chimici, dello solfo e del solfato di rame ed io cercherò di venderti frumento e granturco e bestie da macello a prezzi in qualche modo artificiosamente cresciuti. L’uomo protetto vive in un ambiente economico che non ha creato lui e dal quale non può fare astrazione. Per lo più dice sciocchezze quando invoca, con pretesti di pubblico vantaggio, divieti contro lo straniero, protezioni e sussidi più sostanziosi, nell’inconsapevole tentativo di difendersi contro chi lo deruba con protezioni di tipo inverso; ma è divertente e proficuo discorrere con lui ed ascoltarlo quando novera ad una ad una le ragioni ottime che ha di lagnarsi dei latrocinii altrui e delle estorsioni di un fisco, dal quale non riceve servizi o questi sono per lui così evanescenti e costosi da non essere avvertiti.

 

 

Disfare il groviglio delle norme da cui nasce il male è impresa quasi disperata, meglio giovando risalire alla causa del male e quella abbattere. Ho sempre dubitato (per il 1952, cfr. qui le pp. 441 – 42) della possibilità di ottenere risultati rapidi dalle severe leggi nord americane contro i sindacati (accordi, trusts, cartelli, monopoli) fra industriali; ed ancora parmi che le buone leggi sulla pubblicità dei bilanci delle società per azioni e sull’obbligo di fornire dati precisi e particolareggiati se i loro titoli vogliono essere ammessi alle quotazioni in borsa e, continuando ad essere quotati, ottengono, in paesi dove amministrazione e giustizia funzionino rigorosamente, di essere collocati più largamente e sicuramente, dando così frutti più copiosi e pronti. La battaglia da me condotta mezzo secolo addietro per mettere in chiaro il nesso fra sindacati e protezione doganale, mi ha persuaso che a salvaguardia della concorrenza ben più gioverebbe allo stato non porre, esso stesso, le condizioni dalle quali necessariamente nascono gli accordi, i patti e le norme di condotta contrarie alla libertà della produzione. Quando penso alle montagne di documenti, di comparse conclusionali, di verbali di udienza, di interrogatori che si accumulano durante i defatiganti processi che per anni ed anni durano nelle cause iniziate dalla “Interstate Commerce Commission”, dalla “Federal Communication Commission”, dalla “Federal Trade Commission”, e dal Dipartimento federale di giustizia per far dichiarare nullo tale o tal altro accordo fra giganti dell’industria, quando penso al tempo più lungo, forse assai più lungo ed al dispendio di ingegno e di fatica che in un paese di legisti come è l’Italia dovrebbe compiersi per ottenere dai tribunali una decisione sulla legalità di una pattuazione economica, sono indotto a concludere: nulla si otterrà mai se non con procedura rapida a mezzo di magistrature straordinarie costituite con uomini adatti e decisi ad operare anche al di fuori delle norme volute dalla procedura. Ma questa è denegata giustizia; e questi sono tribunali speciali; che sarebbe, sotto la dominazione delle più varie parti politiche, fonte di corruzione morale e politica spaventosa.

 

 

Ribatto perciò il chiodo antico, sul quale insistevo durante la campagna sui sindacati e protezione del 1913, e, dopo tanti anni, nuovamente chiedo: sono o non sono sepolcri imbiancati quei legislatori i quali presentano leggi, più o meno feroci e più o meno negatrici del diritto di ricorso ai tribunali ordinari e fomentatrici perciò di corruzione amministrativa e politica e non insistono nella richiesta di una severa legislazione sulle società per azioni e sulle borse e sulla costituzione, in luogo della vigilanza puramente formale di delegati governativi e di sindacati di agenti di cambio di un valido competente ed indipendente corpo del tipo della “Securities and Exchange Commission”, fornita di poteri di inchiesta e di decisione, che negli Stati uniti rende utilissimi servigi; sono o non sono sepolcri imbiancati coloro i quali non ristanno dal volere di fatto la continuazione delle norme le quali favoriscono politiche contrarie alla libertà della concorrenza? Chi vuole la protezione doganale crea, promuove, vuole i sindacati fra industriali a danno del pubblico. Era la tesi del 1913 ed è tesi sempre vera; ipocrita colui il quale vuole conservati i dazi di frontiera, i vincoli di tempo contro le importazioni stagionali, i contingenti geografici, colui, il quale invoca contro dazi a reprimere le cosidette svendite da parte dello straniero, cosidette perché di difficilissima constatazione in mercati, nei quali i prezzi differenziati sono, pure in regime di concorrenza, imposti dalla necessità della sopravvivenza. Accanto e prima delle leggi contro i sindacati fra industriali, non promoveteli, non favoriteli, non createli voi stessi con leggi di protezione e di vincoli a tutela della produzione nazionale; e vi accorgerete che, tolta la causa, l’effetto verrebbe meno. Rimarrebbero vivi casi singoli, forse grossi, ma visibili ad occhio nudo e più facili da combattere. In quei casi, una S.E.C. italiana vieterebbe facilmente l’introduzione e la quotazione in borsa delle società nocive. In quegli anni che paiono lontani, ebbi occasione di dimostrare come la lebbra protezionistica avesse macchiato il nostro paese più di quel che si poteva supporre; sicché prima io a Torino (qui alle pp. 15-21 il 24 gennaio 1910) e poi l’amico Giuseppe Prato in altre città d’Italia (qui alle pp. 227-30 l’11 aprile 1911) scoprimmo che le tariffe daziarie municipali contenevano clausole evidenti di protezione ai fabbricanti entro cinta ai danni non dell’odiato “straniero”, ma dal concittadino dell’oltre cinta o dell’italiano vivente in altri comuni dello stato. Leggere, per credere, i brani da me riprodotti nei quali gli industriali in legno, ferri, metalli, marmi, pietra e cemento scongiuravano la giunta torinese a non ridurre il margine di sicurezza offerto dalla differenza fra i dazi bassi o nulli per le materie prime ed i dazi alti sui manufatti e ad evitare così la jattura che la industria torinese debba “necessariamente perire soffocata” dalla concorrenza degli “stranieri” di Moncalieri, di Susa, di Milano, di Monza ecc. (pp. 15-16). Non mancavo di osservare che il dazio protettivo favoriva le intese fra i produttori dell’entro cinta a danno dei consumatori concittadini.

 

 

Non pensavo però che nel 1959, quasi mezzo secolo più tardi avrei dovuto ripetere, nonostante l’abolizione, avvenuta nel frattempo, delle cinte daziarie murate, il medesimo grido di allarme contro il protezionismo municipale e contro l’incoraggiamento così fornito alle intese tacite fra i pochi produttori interni a danno dei concittadini (cfr. Prediche inutili, quinta dispensa alle pp. 263-305). Ahimè! che l’astuzia degli uomini supera ogni freno posto dalla legge e si giova di accorgimenti che il legislatore suppone disegnati a tutela dell’erario, per trarre argomento di latrocinio pubblico!

 

 

Cresceva in me in quegli anni la diffidenza verso gli interventi, proposti od invalsi, a sedicente pro di qualche industria detta sofferente e bisognosa di aiuti o freni o regolamento; e verso le richieste volte a “disciplinare” quel che dicesi guasto dalla concorrenza sfrenata, disordinata e dannosa fra produttori ciechi di fronte ai loro “veri interessi”. Era parso, a cagion d’esempio, a talun politico dovesse essere fatto cessare il delitto di vedere i vitellini di età inferiore ad un anno sacrificati sull’altare delle mense dei ricchi desiderosi di carne bianca tenerissima o su quello dell’ingordigia dei caseifici bramosi di togliere subito ai vitellini il latte che essi reputavano fosse più opportunamente riservato alla produzione del burro e del formaggio. Quanti vitelloni di meno, promettitori di carni meglio nutrienti e più abbondanti! Quanti buoi tolti al lavoro dei campi, con pericolo del ritorno della terra al pascolo ed al bosco! L’amico contadino mi aveva, invece, parlato con disprezzo dell’amore sviscerato dei chiacchieroni da caffè per i vitelli di tre mesi, quasiché il calcolo non dovesse essere fatto fra il valore del latte consumato ogni giorno dai vitelli ed il valore dell’incremento di peso della carne del vitello nello stesso periodo di tempo e non fosse carità mal riposta tenere in vita il vitello quando il costo del suo mantenimento superava il maggior valore dell’incremento del suo peso e quasiché i soli vitellini si condolessero per la loro morte prematura e non anche i vitelli adulti ed i buoi vigorosi. Scrissi perciò su La strage degli innocenti (il 12 gennaio 1911 e qui alle pp. 189 – 96) alcune pagine forse ancora degne di essere rammostrate ai “sapienti di tavolino” i quali vogliono insegnare alla gente del mestiere come debbono comportarsi nelle loro private faccende. Il solfato di rame fa un balzo? I viticultori sono presi alla sprovvista da piogge insistenti, alternate con giornate di afa e si avvedono che non hanno scorte sufficienti di solfato? I rivenditori profittano per aumentare il solito prezzo? Ecco i soliti sfaccendati invocare lo stato; lo stato deve provvedere, produrre solfato di rame a prezzo giusto, costante, salvare i viticultori dalle estorsioni dei produttori coalizzati ecc. ecc. In Stato ramaiolo (articolo del 15 aprile 1912, e qui alle pp. 414 – 21) dimostro che il monopolio di stato del solfato di rame sarebbe una grossa avventura, che la materia prima del solfato di rame ha nome di rame, che il rame un metallo notoriamente capriccioso; e che lo stato ramaiolo, se voglia tenere i prezzi costanti, dovrebbe essere capace, più dei privati produttori, di comprare rame nei momenti giusti, evitando i momenti di punta. Poiché siffatta attitudine particolare appariva inverosimile, fu facile a uomini periti di cose agricole, d’accordo con la federazione italiana dei consorzi agrari, allora a Piacenza e calmieratrice sul serio dei prezzi delle cose utili all’agricoltura, dimostrare che la proposta statizzazione o nazionalizzazione del solfato di rame era una pazzia pericolosa; sicché dello stato ramaiolo non ho sentito parlare più; insino a questi anni recentissimi quando, a proposito di monopoli, si tornò a proporre di nazionalizzare l’industria chimica in generale e quindi anche di quella produttrice dei prodotti chimici utili all’agricoltura.

 

 

Dovevo trovarmi in quel particolare stato di grazia che di tanto in tanto, in momenti ahi! troppo rari, assiste i pubblicisti politici, se potei scrivere (in I cavalli di stato del 15 maggio 1911, qui alle pp. 328-36) talune osservazioni malvagie a proposito di una legge Rava, relatore Chimirri, la quale aveva fissato in 800 l’organico normale dei regi depositi di cavalli stalloni, segnando, così auspicava il legislatore, l’inizio del risorgimento equino italiano. Il bisogno di portare almeno ad 800 il numero degli stalloni di ruolo, era in verità vivamente sentito; ché il numero delle cavalle coperte era salito, con andamento non interrotto, da 19.103 nel 1892 a 41.615 nel 1910; e quello delle cavalle coperte, per ognuno, dai regi riproduttori era nel tempo stesso aumentato progressivamente da 37,32 all’anno nel 1892 a 56,54 nel 1910, giungendo a 62,46 nel deposito di Crema, a 64,53 in quel di Reggio Emilia ed a 66,62 a Ferrara. Erano, quando scrivevo, ben 100.000 le cavalle ansiose di convolare a giuste nozze ed appena 74.615 avevano potuto essere soddisfatte, sia pure rinforzando i 736 stalloni governativi in attività di servizio con 755 stalloni privati, approvati dopo soddisfacente esame. Nella sola Reggio Emilia si erano dovute respingere dal salto ben mille cavalle. Urgeva rinforzare l’organico dei regi riproduttori recandolo, con incrementi di 50 posti all’anno, gradatamente in 5 anni da 800 a 1.200. La proposta appariva ragionevole; ché l’aumento da 32 a 57 all’anno di cavalle coperte per ogni stallone pareva cosa ben più grave e la mala soddisfazione di ben 20.000 cavalle non coperte pareva, a ragion veduta, un danno ben più grave del malcontento del pubblico dinnanzi all’ingrossamento delle scartoffie per mancanza di posti negli organici dei segretari e dei giudici di tribunali.

 

 

A frenare l’entusiasmo per la proposta, veniva la notizia del divario fra il rendimento, a 12 lire per volta, di 720 lire l’anno di ogni stallone ed il suo costo, per interessi, rischi, ammortamento, spese generali, di personale e di foraggi, di 2688 lire e 31 centesimi; ed i dubbi crescevano con la lettura di taluni calcoli di Vincenzo de Carolis, titolare della cattedra ambulante di agricoltura di Cremona. In verità, a differenza di altri regi impiegati assai impazienti dinnanzi a certi striminziti loro organici, gli stalloni governativi si contentavano “di mangiare alla greppia dello stato osservando un religioso silenzio”. Di star zitti avevano ben ragione codesti regi stalloni, ché, fruttando essi una perdita netta di 2.000 lire nette circa all’anno, erano necessariamente in media soggetti di scarsa qualità e potenza, affinché l’onorario di 12 lire per ogni salto non risultasse troppo stravagantemente inferiore al costo della prestazione. Né la prestazione del soggetto valoroso poteva essere valutata maggiormente di quella del soggetto scadente; alla diversità delle tariffe essendo contraria la norma del “tutti uguali dinnanzi alla tassa di monta” propria degli scritti agli organici statali, dai professori universitari ai riproduttori delle stazioni di monta. Accadeva ovviamente che le cavalle invocassero gli stalloni migliori; ma se fu possibile limitare nel 1909 ad una media di 40 – 42 cavalle il lavoro dei soggetti ordinari, non si poteva evitare che gli stalloni di razze da tipo pesante dovessero assoggettarsi a coprire oltre 73 cavalle ciascuno; né è improbabile che a qualche stallone di pregio distaccato nella zona cremonese fossero state presentate nell’anno 120-130 cavalle e più. Se poi si pensa che, se allo stallone privato è lecito preferire le cavalle più belle, disposte a solvere tariffa elevata, appare ovvio, sebbene perturbante, lo spettacolo di nobili cavalle costrette a ricorrere ai servigi di riproduttori scadenti e di stalloni di razza fatti inabili a rifiutarsi di giacere con cavalle “ignobilissime”. Tariffa uniforme (a 12 lire nessuno può rifiutarsi di lavorare); e fecondità scarsa (47% in Italia contro 80% nel Belgio); ecco i risultati della nazionalizzazione della riproduzione equina. Gli amatori del cavallo, ed i periti zootecnici invocavano l’abolizione dei regi depositi e con essa la scomparsa della concorrenza sleale, a sottoprezzo, all’industria privata. Non so che cosa sia accaduto dopo il 1911; e forse le due guerre, la scomparsa dell’arma di cavalleria, la vittoria degli autocarri e dei trattori hanno dato il colpo di grazia all’allevamento dei cavalli in genere. Non mi meraviglierei che qualche residuo di organico nei depositi governativi sussista; ed ho il ricordo di lotte sostenute in anni non troppo lontani e posteriori alla seconda guerra per strappare una parte dei terreni ormai inutili ad una grande tenuta occupata un tempo dai cavalli di stato e dagli ufficiali che li amministravano.

 

 

La scarsa benevolenza verso le proposte e le attuazioni di sperimenti di nazionalizzazione, statizzazione, socializzazione avevano radice nella persuasione in cui vivevo e tuttora vivo, che dovendo adoperare le parole “reazione” e “conservazione” “rivoluzione” e “progresso”, esse, sebbene per se stesse prive di alcun significato, lo acquistassero se fatte sinonime le prime, “reazione” e “conservazione”, di “socialismo”, “corporativismo” “protezionismo” e le seconde e cioè “rivoluzione” e “progresso” con “liberalismo”, “sindacalismo” “nonconformismo”. Epperciò, tutta volta mi imbatto in pagine mie antinazionalizzatrici, ancor oggi mi rallegro.

 

 

La campagna antinazionalizzatrice da me condotta con maggior fervore, fu quella contro il monopolio delle assicurazioni sulla vita proposto nell’aprile 1911 dall’on. Giolitti, presidente del consiglio e dall’on. Nitti, ministro di agricoltura. Gli articoli qui riprodotti sono undici e vanno dal 13 aprile all’11 luglio di quell’anno (qui per 77 pagine, da pp. 231 a 307); e poi di nuovo, dopo l’inizio della guerra libica, due del 22 e 28 febbraio 1912 (qui, da pp. 394 a 405). La polemica insistente, particolareggiata, indirizzata anche contro amici carissimi, come Attilio Cabiati, e riuscì ad un risultato non piccolo contro il conformismo della maggioranza giolittiana e le tendenze demagogiche espropriatrici rivolte contro un gruppo numericamente piccolo e socialmente distinto per l’appartenenza ad un ceto tradizionalmente maneggiatore di denaro. La battaglia fu imperniata su alcuni caposaldi principali. Essere fantastiche non solo le cifre dei profitti delle imprese assicuratrici, italiane ed estere, immaginate da talun membro della palude parlamentare giolittiana in 40 milioni all’anno, ma anche quelle di 25-30 milioni di lire supposte dal Cabiati, e che il ministro proponeva dovessero essere devoluti ad una “Cassa pensioni per la vecchiaia”, la quale allora conduceva vita grama con le quote volontarie degli iscritti; le più versate dai datori di lavoro e pochissime dai lavoratori medesimi. Poiché i milioni di utili sarebbero stati assai meno, era illusoria la speranza fatta balenare ai lavoratori italiani di conseguire, senza sacrificio per l’erario, una ragionevole pensione di vecchiaia o di invalidità. Se le società assicuratrici nazionali e straniere, operanti in Francia lucravano 28 milioni di lire su un capitale assicurato di 5 miliardi e 200 milioni e su una somma di rendite assicurate di 119 milioni di lire, quanto si può immaginare potessero guadagnare le compagnie italiane che in tutto dispongono di 1 miliardo e 600 milioni di capitale assicurato e 6 milioni e mezzo di rendite promesse?

 

 

Né i redditi derivanti dall’assicurazione sulla vita sono prodotti senza sforzo. Poggiavano e poggiano su due elementi, ed in primo luogo sulla differenza fra il saggio di interesse calcolato per la fissazione delle tariffe e quello effettivamente lucrato dalla compagnia. Questa riceve, ad esempio, dall’assicurato un premio annuo e si obbliga a pagare al momento della morte una data indennità. La compagnia deve lucrare almeno il 4% all’anno sui premi versati dall’assicurato, perché ha promesso di rimborsare all’assicurato un’indennità in ammontare fisso, qualunque sia il numero delle annualità di premio pagate dall’assicurato. Se la compagnia, mettendo a frutto i premi, lucra il 4%, fa pari e patta; se lucra il 4,25% ha un guadagno del 0,25% annuo sui premi ricevuti; se lucra il 3,75%, perde il 0,25%. La compagnia corre il rischio del più o del meno; ma il più, se c’è, è di frazioni.

 

 

La compagnia, inoltre, tiene conto del rischio che corre promettendo di pagare l’indennità intera anche a chi muore presto, dopo aver versato i premi fors’anco solo per un anno o due; e contro il rischio sta l’alea favorevole di vedere l’assicurato sopravvivere a lungo e versare tanti premi da superare, con gli interessi composti l’importo dell’indennità pagata al momento della morte. Se la compagnia ha calcolato bene il numero degli anni di vita probabile dell’assicurato e gli assicurati muoiono a tempo giusto, la compagnia né lucra né perde; se essa ha calcolato che gli anni di sopravvivenza per assicurati di una certa età sia di trent’anni, ed in media costoro muoiono dopo 25 anni, essa perde; se invece muoiono dopo 35 anni guadagna. Il lucro delle compagnie dunque aleatorio e dipende dal lucrare sui premi un interesse maggiore di quello calcolato per fissare l’indennità agli assicurati e dall’avere compiuto calcoli esatti sulla sopravvivenza degli assicurati. Non certo che gli investimenti siano sempre lucrosi, né che gli assicurati vivano più a lungo del previsto; né su questa incertezza poteva fondarsi l’illusione di poter istituire un sistema di pensioni operaie, gratuite per lo stato, i datori di lavoro ed i lavoratori.

 

 

Né il monopolio attribuito allo stato poteva essere promettitore di larghi maggiori affari in confronto all’esercizio privato. Il pubblico correrà ad accendere polizze di assicurazione sulla vita perché il monopolio godrà del credito dello stato, che è sicuro ed alto? Oggi, che i privati in molti paesi del mondo ottengono credito a condizioni migliori dello stato, la pretesa parrebbe senz’altro fuor di luogo. Anche allora era dubbio che i risparmiatori dimenticassero che dietro lo stato assicuratore c’è lo stato tassatore, al quale non si desidera far sapere i fatti propri e del dubbio si giovavano i critici, i quali rinfacciavano al disegno di legge di voler contenere le spese di gestione, autorizzando gli ufficiali postali, i segretari comunali e gli agenti delle imposte a farsi, nelle ore libere, produttori di assicurazione. Se gli assicuratori hanno fama di scocciatori vitandi e di profeti lugubri di morte anzi tempo, quanto più antipatici gli assicuratori di stato, genti regie vitande a doppio titolo, come seccatori nati e come presunti referendari agli uffici delle imposte.

 

 

I grossi profitti dei 40, 30, 25 e 20 milioni immaginati dai fautori del monopolio erano illusori non solo per l’ammontare loro, ma perché si dimenticava la distinzione essenziale dei profitti palesati dai bilanci delle compagnie di assicurazione, in utili industriali ed utili patrimoniali. Diconsi invero utili industriali, quelli che una compagnia di assicurazione sulla vita ottiene lucrando di fatto dai propri investimenti più del saggio di interesse promesso agli assicurati e fruendo di una mortalità minore (o sopravvivenza più alta) dei propri assicurati in confronto a quella calcolata per la compilazione delle tariffe dei premi e delle indennità. La compagnia versa i premi ricevuti in un fondo detto della riserva matematica, di spettanza degli assicurati, aggiungendo gli interessi al saggio convenuto e deducendo le indennità pagate. Periodicamente si rifanno i conti e se il fondo risulta superiore a quello che dovrebbe essere in rapporto ai calcoli teorici, trasferisce la differenza, suppongasi un milione di lire, al conto utili industriali. Il milione invero utile, perché supera la somma che in quel momento la compagnia deve possedere, nel fondo detto di riserva matematica, per soddisfare agli impegni di indennità dovute, a lor tempo e scadenze, agli assicurati.

 

 

Ho imparato, ad occasione della polemica del 1912, che gli utili industriali sono solo una parte dell’utile totale che figura nei rendiconti delle compagnie di assicurazione sulla vita. Dei 28 milioni lucrati nel 1906 da tutte le compagnie nazionali e straniere in Francia solo 13,5 milioni erano infatti utili industriali, ottenuti cioè dall’esercizio dell’industria propriamente detta. Il resto cos’era? Imparai allora essere usanza pacifica, non di rado secolare – alcune delle compagnie di assicurazione più solide nacquero invero nella prima metà del secolo scorso – di non distribuire agli azionisti alcuna parte delle somme derivanti dagli utili industriali, ripartendo soltanto tra di essi il reddito o parte del reddito del patrimonio privato a poco a poco costituito dalla compagnia. Seguendo per decenni e talvolta per un secolo una condotta prudente di questa fatta, mandando cioè a patrimonio “tutto” il reddito dell’industria e distribuendo solo il reddito o parte del reddito del patrimonio privato, estraneo all’industria propriamente detta, qualunque società od ente riuscirebbe a cumulare riserve patrimoniali, superiori e talvolta parecchie volte superiori al capitale inizialmente versato dagli azionisti o dai fondatori dell’ente per la costituzione originale della società. Ma la riserva patrimoniale, estranea alla riserva matematica di spettanza degli assicurati, non ha nulla a che fare con l’industria della assicurazione sulla vita e con i diritti degli assicurati; un affare privato di chi industriosamente risparmia e, vivendo a lungo, cumula un patrimonio. Il risparmio così costituito ha preso diversi nomi nel gergo economico moderno: risparmio collettivo, formato dagli amministratori delle società per conto degli azionisti, o forzato, perché gli azionisti non di rado avrebbero preferito mangiarsi caldi caldi gli utili industriali senza cumularli a vantaggio degli eredi di seconda o terza o quarta generazione, i quali oggi godono i frutti della parsimonia indotta o forzata di buona o mala voglia da amministratori lungimiranti. La condotta sparagnina non e un attributo esclusivo delle imprese assicurative ed anche imprese siderurgiche o meccaniche o tessili o cartarie la possono adottare; e perciò talvolta taluna di esse diventa con il tempo potente. Sta di fatto però che gli amministratori di società hanno l’abitudine di invecchiare e morire; ed i figli e nipoti non hanno sempre le attitudini dei vecchi; sicché l’impresa decade ed i fondi di riserva impiegati in impianti, in fabbricati, in macchinari antiquati si consumano anch’essi ed occorre ringiovanirli con capitali freschi venuti dal di fuori. Accade invece non infrequentemente che i fondi patrimoniali propri, industriali, delle compagnie di assicurazione sulla vita sono investiti non in impianti industriali, ma in titoli ad interesse fisso – e questi possono capitar male – o in case, in terreni, in azioni ed accadde che talvolta gli investimenti si salvarono attraverso il lungo tempo. Accadde anche che gli amministratori, costretti dalla necessità di serbare le riserve matematiche in importi sempre pronti a fronteggiare gli impegni verso gli assicurati, acquistassero l’abito dell’investitore professionale, pronto a variare gli investimenti, e a compensare i rischi, anche al di là dei confini dello stato, e finissero per essere annoverati nella numerata schiera di coloro che nel mondo hanno acquistato meritata fama di dominatori di mercati finanziari. Ancor oggi, quando scorro coll’occhio i riassunti dei bilanci delle compagnie di assicurazione sulla vita, mi diverto a constatare che, dopo tanti anni, la regola aurea di non distribuire nemmeno un soldo degli utili industriali e ripartire solo il reddito delle riserve patrimoniali, accumulate in tanti anni di accantonamento, osservata dalle meglio organizzate compagnie ed ancora oggi procaccia dividendi graditi e capitalizzazioni persino troppo forti, che la speranza non infondata di crescenti dividendi futuri fa nascere nell’animo degli investitori in azioni assicurative.

 

 

Gli ignari o smemorati, i quali approntarono il disegno di legge per il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, immaginavano di poter confiscare senza indennità, compiendo un atto di rapina pubblica, in nulla diverso dagli atti di rapina su pubblica strada, non solo il reddito dell’industria, ma anche quello dei fondi patrimoniali privati delle imprese assicuratrici. Il proposito, in tempi nei quali l’opinione pubblica ancora rifletteva alle ripercussioni delle espropriazioni senza indennità, parve, quando fu chiarito, scandaloso; e l’arguta invenzione dell’on. Nitti di mascherare la confisca sotto colore di noncuranza indifferente, suscitò dubbi. Le compagnie esistenti e lavoranti non erano invero espropriate. Erano semplicemente ignorate. A partir da un certo giorno avrebbero dovuto cessar di lavorare; ed il diritto di mietere nel campo delle assicurazioni sulla vita sarebbe passato al monopolio. Nessun assassinio. Le compagnie avrebbero liquidato i loro affari antichi; avrebbero incassato i premi convenuti e pagato le indennità dovute; e buona notte. Dove ove la espropriazione senza indennità? Lo stato non può, volendo, nazionalizzare, assumere imprese, negandone l’esercizio ad altri?

 

 

Fu la resa dei monopolisti. Avvocati, ingegneri, medici rifletterono: domani si dirà altrettanto di noi. Si costituiranno uffici legali, edili, ospedali e ambulatori di stato; e si attribuirà a questi soli il diritto di dar pareri legali, far progetti visitare malati e dar consulti. I vecchi professionisti non saranno ammazzati; si arrangeranno; faranno un altro mestiere. Dov’è la confisca? Dov’è il terreno, la casa, l’impianto rapinato dallo stato?

 

 

Su quella via, non si sapeva dove si andava a finire. Si dovettero inventare compromessi; giungendosi a poco a poco alla situazione attuale, nella quale l’Istituto nazionale per le assicurazioni sulla vita diventato quello che è oggi; un Istituto fra parecchi, che lavora in concorrenza con le compagnie private; e gode, se non erro, di un solo privilegio, quello di avere il diritto di riassicurare una parte, suppongo il 10%, delle polizze stipulate dalle compagnie concorrenti. Cotal diritto va, del resto, riducendosi col tempo e un giorno avrà termine. Di che pochi si dorranno, perché la concorrenza pone un limite all’utile industriale che si può ricavare dalla assicurazione sulla vita e non val la pena di insistere per portar via al concorrente quella libbra di carne che è possibile procacciarsi altrimenti.

 

 

Né i risultati finanziari ottenuti in un quasi mezzo secolo di vita furono tali da inorgoglire, se fossero vivi, i proponenti della grossa avventura. Dubito assai che l’Istituto abbia versato all’erario, a pro delle pensioni operaie di vecchiaia – per altre vie nate e fatte operare con ben diversi sacrifici – somme apprezzabili. Oggi la contesa morta; ed io non ho letto senza commozione l’undicesimo articolo dell’11 luglio 1911, nel quale davo l’annuncio della vittoria antimonopolista, lieto che la campagna avesse potuto essere chiusa bene, nonostante le accuse rivolteci di difensori dei privilegi degli assicuratori, di prezzolati pennaioli al soldo dei finanzieri privati e simiglianti lordure.

 

 

Rimase quella che era la sostanza dell’assunzione da parte dello stato, sia pure in concorrenza, di un nuovo strumento di raccolta del risparmio nazionale. Esistevano già la “Cassa depositi e prestiti” divenuta, senza che il pubblico se ne fosse accorto, la più grande banca italiana con i suoi tre miliardi di depositi dei quali due forniti dalle casse postali di risparmio; e la “Cassa nazionale di previdenza per la invalidità e la vecchiaia degli operai”, i cui fondi si aggiravano sui 150 milioni di lire. Coll’aggiunta dell'”Istituto nazionale delle assicurazioni”, i cui incassi secondo la ragionata opinione dell’on. Nitti non dovevano essere inferiori ai 70 milioni di lire all’anno, lo stato già oggi disponeva di una massa di manovra di oltre 3 miliardi di lire destinata in un lungo volgere di anni, (un decennio?) a raddoppiarsi. Già allora (qui pp. 561 sgg., in un articolo del 14 ottobre 1913 su L’assorbimento del risparmio nazionale a pro degli enti pubblici) i dubbi miei erano parecchi. Giova allo stato assumere l’ufficio dell’impiego di somme tanto imponenti? Investire vuol dire scegliere fra gli investimenti quello più profittevole; ché ogni scelta diversa significa rinuncia a scegliere gli investimenti che danno il massimo rendimento comparativo. Se si investe un milione al frutto netto del 5%, ciò vuol dire che fra i tanti impieghi i quali si offrono a gara si sceglie quello capace di fruttare almeno il 5% netto, dopo aver retribuito, al saggio del mercato, il rischio dell’imprenditore, il lavoro dei dirigenti dei tecnici e degli operai. Se invece si sceglie l’impiego che offre solo il 4% chiaro che la scelta caduta su un impiego il quale fecondo di un prodotto minore e non può pagare remunerazioni uguali ad un ugual numero di imprenditori, dirigenti, tecnici ed operai. La collettività dei collaboratori alla produzione subisce un danno. Vero è – e l’osservazione ovvia, antica, pacifica e la sua formulazione teorica risale agli scritti del Dupuit della metà del secolo scorso – che lo stato può avere interesse a preferire l’investimento al saggio di interesse del 4 ed anche del 3 e persino, quando non si voglia arrivare alle quantità negative, dello zero per cento. Forseché il rimboschimento non frutta allo stato, oltre il modestissimo reddito forestale netto, il risparmio delle spese per inondazioni, per riattamento delle strade e delle linee ferroviarie, per indennità ai danneggiati ed il frutto di maggiori imposte sui terreni delle valli e della pianura bonificati e rinsaldati?

 

 

Forseché le strade e le scuole e i risanamenti dei quartieri poveri inabitabili ecc, ecc. non fruttano allo stato vantaggi indiretti di cresciuta produzione a causa della cresciuta commerciabilità dei prodotti agricoli, della maggiore istruzione e quindi della maggiore attitudine degli operai e dei contadini a più adeguata remunerazione, della minore mortalità e della sanità pubblica migliorata; sicché i vantaggi per la collettività appaiono maggiori della perdita per il minore rendimento monetario degli impieghi scelti.

 

 

La teoria, vera e sacrosanta, ha un limite ed è quello imposto dalla legge della utilità decrescente di tutte le quantità economiche. Giunge un punto, determinabile solo empiricamente, nel quale il vantaggio, che è tutto indiretto, della nuova strada e quello economico monetario dell’impiego in migliorie agricole o in nuovo o cresciuto impianto industriale si equilibrano. A quel punto, indifferente investire nell’una o nell’altra maniera. Al di là, prolungare od allargare ancora la strada, frutta meno del compiere una trasformazione agricola o del sostituire una macchina nuova ad una antiquata. E così del rimboschimento, delle bonifiche, della scuola, della casa. Poiché i mezzi esistenti sono limitati e l’essere essi a disposizione dello stato invece che dei privati non li fa crescere, se non per eccezione rarissima, configurabile forse in astratto, ma non di fatto, uopo è che somma cura sia posta nel calcolare in modo tollerabilmente corretto i vantaggi indiretti non monetabili in confronto di quelli diretti espressi in lire soldi e denari. Qui è il pericolo massimo della teoria ovvia e pacifica e antica; che la scelta fatta dallo stato sia una scelta politica, compiuta con criteri estravaganti diversi da quelli del vantaggio collettivo. Poiché l’utilità collettiva un concetto vago, nel quale si può far entrare molta merce di contrabbando, ecco farsi avanti le ferrovie inutili, le strade su cui non passerà mai nessuno; ecco i sussidi per rimboschire colli agevoli e fecondi invece di montagne dirupate; ecco moltiplicarsi fastose stazioni, alti palazzi di governo (prefetture) e case di giustizia, nelle quale i giudici non hanno aule bastevoli per giudicare e per deliberare; ecco le scuole, nelle quali le aule giungono ai cinque metri di altezza e non sono riscaldabili; ecco le vie delle città ogni giorno sossopra per motivi diversi e non coordinati nel tempo e nella esecuzione. Talché aveva senso il dubbio mio (qui a p. 565) se fosse conveniente assegnare i mezzi della Cassa depositi e prestiti a favore dei comuni desiderosi di compiere un’opera pubblica. Non era opportuno che i comuni bisognosi di credito si dovessero normalmente rivolgere al mercato? Tal città, bene amministrata, con un passato noto di impegni di interessi osservati, di capitali rimborsati a tempo giusto, avrebbe trovato credito al 4%; altre, con men perfetto ricordo del passato, avrebbero dovuto pagare il 5 od il 6%, ed altre infine sperperatrici e fallimentari non avrebbero trovato credito affatto. Il problema, vivo mezzo secolo fa, è divenuto angoscioso oggi, quando i depositi presso gli istituti pubblici di risparmio e di assicurazioni sociali sono giunti alle migliaia di miliardi; quando praticamente tutte le grandi banche, che il pubblico immagina essere private, sono invece banche di stato o dipendenti dallo stato o amministrate da delegati dello stato.

 

 

Per avventura, il pericolo non è oggi manifesto; ché le grandi banche e gli istituti pubblici di credito sono ancora governati da uomini, nati in un mondo non ancora statizzato e osservano ancora le regole di buona condotta bancaria, divenute a poco a poco, grazie anche alle disavventure passate ed alla disciplina da queste imposta, sangue e carne viva degli uomini appartenenti allo stato maggiore creditizio vivente. Che cosa accadrà, quando, venendo meno gradatamente la generazione attuale degli uomini di banca, i politici, irregimentati nei partiti, si accorgano che essi possono nominare uomini ligi ai loro voleri ai posti di presidenti, amministratori delegati, dirigenti di nove decimi dell’apparato bancario del paese? La mente si rifiuta di scrutare a fondo un’ipotesi tanto raccapriccia; e si rifugia nella speranza della diffusione dell’educazione economica e del rispetto morale per istituzioni fatte venerande dal tempo. Delle quali speranze la seconda, pur tenuissima, sembra più fondata della prima. Il giudizio sulla classe politica italiana, sarebbe, per quanto tocca alle cose economiche e sociali anche per il tempo dal 1910 al 1954, sostanzialmente negativo. Un solo grande problema fu posto, quello del Monopolio delle assicurazioni sulla vita; ed era, come dianzi già narrai, problema artificiale, non tratto da qualche malanno sociale a cui riparare ed inteso invece a dare una qualche soddisfazione nella camera ai deputati radicali socialisti, i quali chiedevano di “andare avanti” nella legislazione Sociale; chiedevano, fra l’altro, diventassero obbligatorie quelle pensioni agli operai che, essendo volontarie, avevano ottenuto scarso successo presso la parte imprenditrice e nessuno da parte operaia. Poiché si era impreparati alla bisogna e non si osava impegnare il tesoro per importi incerti e vistosi, si era cercato il diversivo del monopolio delle assicurazioni vita, il quale presentava il vantaggio di dare addosso ad un ceto ristretto di gente particolarmente doviziosa, sospettata di avere accumulato patrimoni insigni esercitando usura sul timore di morte sentito dai giovani padri di famiglia e sulla credulità della gente inesperta nel modo di impiegare i risparmi con prudenza e coraggio. Che i profitti poi ci fossero o non a pro dell’erario e delle pensioni operaie, l’avrebbe palesato l’avvenire. Frattanto si sarebbe fatto opera popolare, sociale e democratica e sottomano si sarebbero votate le contestatissime leggi delle convenzioni marittime, con le quali si consacrava con leggerezza lo spreco di assai milioni per far esercire, a spese pubbliche, non solo le linee necessarie, ma anche quelle inutili, create a sfoggio di una bandiera italiana navigante a pescar premi e quelle superflue, perché esercite dalla marina libera, senza uopo di nessun sussidio governativo (cfr. qui alle pp. 346-53, l’articolo Il problema marittimo e il diversivo della cabala assicurativa del 16 luglio 1911). Mentre così si risolvevano, in sedute deserte, i problemi grossi della protezione alla marina sussidiata largendo piccoli regali a piccoli interessi privati assunti alla dignità di interessi di classe (operai occupati in cantieri navali) od a località secondarie (porti a cui si intendeva dar vita con approdi moltiplicati ed inutili) si cercava di conservare, nonostante la costosa guerra di Libia, l’apparenza nel pareggio del bilancio; emulando gli espedienti che avevano procurata fama non bella a quell’insigne manipolatore di bilanci, che aveva nome di Agostino Magliani.

 

 

Si volevano assegnare 255 milioni in più alle costruzioni della marina di guerra? I milioni dovevano essere spesi subito nell’esercizio in corso (1912-1913) e in quelli immediatamente successivi; e in bilancio le somme disponibili erano impegnate sino al 1914-1915. Faremo le spese subito; e le imputeremo agli anni dal 1915/1916 sino al 1921-1922 (qui alle pp. 442-45, articolo dell’11 dicembre 1912). Così la spesa non figurava nel bilancio dell’anno in cui la spesa era eseguita; ma era, a fette, distribuita in esercizi di là da venire, quando i ministri responsabili sarebbero stati altri. Si ponevano precedenti, che poi fruttificarono stranamente e fruttificano oggi bilanci, costretti a provvedere a spese antiche ed incapaci a sostenere gli oneri d’oggi. Il metodo del gioco dei bussolotti imperversa. Rimase celebre il caso di certi 125 milioni di lire, depositati a garanzia dei 500 milioni di lire in biglietti da 5 e da 10 lire emessi direttamente dallo stato. Fu proposto di passarli dalla riserva di cotali 500 milioni a quella di circa 2.255 milioni di biglietti emessi dagli istituti di emissione. Il trucco era sottile.

 

 

L’oro rimaneva intatto: passava solo dalle casse dello stato a quella della Banca d’Italia, rimanendo proprietà dello stato. I biglietti di stato rimanevano invariati in 500 milioni. Ma nasceva, per virtù della legge vigente, la facoltà nella Banca d’Italia, venuta in possesso di 125 milioni di lire d’oro, di aumentare la emissione di suoi biglietti di altrettanti 125 milioni. Nulla si mutava nella legge; e con un piccolo passaggio da cassa in cassa si otteneva il risultato di lasciare invariati i 500 milioni dei piccoli biglietti da 5 e da 10 lire, di cui nessuno sentiva il bisogno di averne di più e si dava facoltà al governo di farsi anticipare senza interessi dalla Banca d’Italia altri 125 milioni di biglietti suoi.

 

 

Se si fosse speso l’oro, nulla sarebbe accaduto. Si sarebbero avute merci estere in cambio d’oro e forse i prezzi di quelle merci sarebbero alquanto ribassati. Invece, crescendo la quantità dei biglietti, si sarebbero acquistate merci sul mercato interno (per acquistarle all’estero si sarebbe dovuto dar qualcosa in cambio, che il trucco del passaggio da cassa a cassa non faceva davvero nascere); e il prezzo sarebbe aumentato, grazie alla maggiore abbondanza di biglietti fabbricati ed offerti (cfr. qui, le pp. 455-59, in Il prelievo dei 125 milioni del 2 dicembre 1912). Piccoli trucchi per nascondere il fatto dell’aumento effettivo della circolazione. L’on. Sonnino, fornito alla pari dell’on. Saporito, di acuti occhi indagatori, ne denunciò un altro che disse dell’avanzo girante. Con stupefazione dei numerati leggitori del conto del tesoro, ci si era accorti che più andava innanzi la guerra di Libia, più crescevano i saldi attivi del credito del tesoro verso terzi. Come mai il miracolo di uno stato di guerra che frutta crediti invece di debiti? Alla fine il ministro del tesoro, on. Tedesco dovette confessare che al 31 dicembre 1913 sui 707 milioni di crediti diversi, ben 373,5 erano crediti del tesoro verso i ministri della guerra, della marina e delle colonie per le spese della Libia e 136 milioni di crediti verso i ministeri della guerra, della marina e dei lavori pubblici per anticipi sui futuri esercizi (qui alle pp. 624-27, l’articolo Per un rendiconto patrimoniale del 16 febbraio 1914). Era alle porte la grande guerra, durante la quale le scritturazioni nei crediti delle spese belliche acquistarono dimensioni di miliardi; ma oramai il significato delle scritture era noto ed esse non ingannavano più nessuno.

 

 

Una qualche mala contentezza affiora qua e là in fatto di politica generale. Il suggerimento dato al re dall’on. Giolitti di invitare l’on. Bissolati a dar parere sulla situazione politica, invito “destinato – secondo taluni commentatori giolittiani – a rimanere nella storia … come quello che precorreva i tempi nuovi ed incalzava su nuove vie la politica ed il movimento sociale del tempo”, non era parso a me né innovatore né precorritore e tanto meno destinato ad iniziare l’elenco degli avvenimenti destinati a rimanere nella storia, elenco che poi si allungò oltremisura ed ancora oggi troppo si allunga (cfr. qui le pp. 215-20 in Sono nuove le vie del socialismo? del 29 marzo 1911). Già allora era chiaro a me che quello del socialismo non era un ideale nuovo; bensì una predicazione vecchissima e frusta. Oggi l’hanno compreso i socialisti o laburisti germanici ed anglosassoni i quali cercano ansiosamente di trovare le vie nuove lungo le quali gli ideali socialisti possono trovare feconde attuazioni, vie diverse da quelle delle statizzazioni, nazionalizzazioni, socializzazioni, che dove furono attuate non furono causa di apprezzabili vantaggi ai ceti più numerosi della popolazione. Il tentativo di districarsi dall’antico luogo comune di un socialismo identificato con la pratica della socializzazione lungo e faticoso; né si vede che i Gaitskell in Inghilterra e gli Ollenhauer in Germania siano sicuri di vincere la resistenza della vecchia guardia fossilizzata nella contemplazione di parole e di frasi morte; ma l’augurio che essi possano riuscire alla meta ed, emulando l’agile condotta veramente moderna dei capi del movimento operaio nordamericano, riescano a tener lontana la lebbra russa, del socialismo di stato pianificato, accentratore, tirannico viva oggi come profonda era ieri la persuasione che le vie additate dal Giolitti e dal Bissolati non fossero né nuove né vantaggiose.

 

 

Non facevano difetto le testimonianze che in Italia il movimento operaio soggiacesse a quel processo di irrigidimento che l’hanno condotto, qua e là da noi, per effetto della degenerazione fascistica, e altrove, come in Inghilterra a causa del dominio crescente dell’apparato burocratico, a diventare una delle maggiori forze monopolistiche e conservatrici dell’economia moderna. A Roma, in seno al Consiglio superiore del lavoro, dominava la tendenza ad affidare la rappresentanza dei lavoratori ai sindacati, che non fossero né gialli (repubblicani nella Romagna) né neri (leghe cattoliche), ossia a quelli che dicendosi aperti a tutti, erano in verità colorati in rosso (ed affiliati di fatto al partito socialista).

 

 

Nelle provincie si affermava la pratica di limitare il numero degli apprendisti e quello degli addetti ad ogni macchina, e la quantità del lavoro compiuto nella unità di tempo (obiezioni al lavoro a cottimo). Ma ancora si discuteva a mente aperta ed i miei allarmi erano seguiti da lettere cortesi di organizzatori e di operai (cfr. le lettere riprodotte per intiero nel giornale ed ora qui, le pp. 29-50, in Leghe operaie, produttività del lavoro e problema delle abitazioni del 4 e 6 febbraio e 19 giugno 1910), i quali davano ragione di talune pratiche che nelle intenzioni delle leghe non erano, sebbene a me fossero parse, restrittive; e riconoscevano di altre gli inconvenienti per l’incremento della produzione. All’amico Alessandro Schiavi, il quale aveva iniziato la discussione, offrivo le pagine della mia rivista «La riforma sociale» perché egli vi potesse pubblicare le conclusioni di una sua inchiesta sulle cause del rincarimento del costo di costruzione delle nuove case. Era una cortese partita d’armi, forse non infeconda. Non vedevo buio nell’avvenire, non prevedevo i risultati ultimi delle allettative lusinghiere della politica giolittiana verso i capi socialisti invitati a far parte del governo e quindi a trasformare in interventi statali le lotte, disturbatrici della concordia apparentemente più operosa, fra organizzatori operai e contadini da una parte ed organizzatori industriali e capi agricoltori dall’altra. Ancora ero ottimista e guardavo con compiacimento agli uomini che lottavano tra di loro (sicché poi, nel 1924, potei mettere insieme, nelle edizioni Gobetti, un volume intitolato Le lotte del lavoro); e, scrivendo (il 24 maggio 1911, in Il congresso della resistenza. Organizzati ed organizzatori in Italia, qui alle pp. 340-45) potevo esclamare: il tono passionale del discorso dell’on. Rinaldo Rigola, segretario generale della Confederazione del lavoro, piace anche a chi sta fuori del movimento e procura di osservare, coll’occhio dello studioso, l’impeto del discorso, la fede nell’avvenire del movimento, la fiducia in se stessi che si rivela nelle parole di questi organizzatori. In fondo tutti costoro si rassomigliano: cambia la causa che si è disposata, mutano le forze sociali che si vogliono dirigere; ma la sostanza la medesima; Rigola e Quaglino e Reina, per le confederazioni del lavoro e le leghe operaie; Craponne (che poi l’on. Giolitti espulse dall’Italia, ad occasione di lotta particolarmente vivace, col pretesto che era straniero; ma era il capo riconosciuto degli industriali piemontesi) e Olivetti per la Confederazione dell’Industria e le leghe di imprenditori; Cavazza, Carrara e Sturani per la Confederazione nazionale agraria e le diverse “agrarie”, parlano tutti lo stesso linguaggio maschio, aggressivo. Sono uomini che si mostrano i pugni, ma sono uomini e non marionette. In fondo sentono di essere fratelli spirituali; e, pur litigando tra di loro, cooperano alla formazione di una nuova e giovane e ardita classe di imprenditori, di agricoltori, di operai, che non spereranno più tutto dallo stato, ma avranno molta fiducia in se stessi, nella forza della propria educazione tecnica e morale, nella virtù della propria organizzazione. Per chi creda che nulla vi sia di più corrompitore che lo sperare la propria salvazione dal di fuori, dall’aiuto dello stato, dalla spogliazione altrui col mezzo delle imposte, questo ritorno al classico motto del Self help, dell’aiutati che Dio t’aiuta, questo allontanarsi dalle morte vie del socialismo e della reazione statale, è rinfrescante e bene augurante.

 

 

Ragion di speranza mi veniva altresì dal ricordo del passato. I servi datarono poi il rifiorimento economico sociale e spirituale dell’Italia dall’inizio dell'”era nuova” fascistica; ma vent’anni dopo si videro le rovine cagionate dal regime. Fu ed è di moda far rimontare al decennio giolittiano (1903/1913) l’epoca della prosperità economica e della rinnovazione sociale italiana. Gli uomini del 1910 constatavano invece che il cammino percorso verso l’ascesa era stato lungo e faticoso (qui, alle pp. 221 – 26, l’articolo Cinquant’anni di vita italiana dell’1 aprile del 1911). Sobriamente Bodio forniva i dati, dai quali risultava che l’ascesa era cominciata fin dal 1862, quando fu presentato al parlamento italiano il nostro primo bilancio. Terribili anni quelli nei quali le entrate a malapena toccavano la metà delle spese. Attraverso a sacrifici duri, si giunse finalmente nel 1875 al pareggio; che era stato il gran sogno di Quintino Sella. La meta raggiunta e quelle più alte toccate nel primo decennio di questo secolo erano state, sì, per la minor parte, il frutto dell’opera dei governanti nel tempo giolittiano, ma più degli sforzi, degli errori e del coraggio di coloro che avevano governato l’Italia dopo il 1860.

 

 

Nel primo decennio del secolo si era avverato il fatto forse più significativo della storia moderna italiana; e fu l’avvento del Mezzogiorno. Che non avvenne per virtù di governanti italiani e dei ceti dirigenti meridionali, bensì in conseguenza di un fatto antico, che solo al principio del secolo aveva acquistato impeto e forza grandiosi e fu l’emigrazione, la fuga dalle terre desolate meridionali (qui, le pp. 131-44, in La grande inchiesta sul Mezzogiorno, del 2 e 22 ottobre 1910; e le pp. 359-68, in Mali secolari ed energie nuove del 12 e 16 agosto 1911). Il Mezzogiorno rifioriva ad opera dei contadini, che, reduci dagli Stati uniti con modesto peculio, portavano via, pagandola, la terra ai signori, si costruivano la casa, la volevano pulita e bella; ed avendo imparato a proprie spese, in anni di vita durissima, quali fossero i danni dell’analfabetismo, volevano che i figli andassero a scuola e che la scuola ci fosse e che i maestri sapessero insegnare.

 

 

La rivoluzione sociale e morale era opera dei cafoni meridionali, divenuti, nel crogiuolo di un mondo nuovo, in continua libera trasformazione, cittadini. Non era opera né di politici né di ceti dirigenti. Non era opera neppure dell’insegnamento degli economisti. Scrivevo, e mi piace, di su le pagine di or è mezzo secolo, dire la mia convinzione d’oggi:

 

 

“Noi abbiamo avuto il torto di predicare troppo spesso che gli uomini sono il trastullo delle cieche forze economiche; che gli uomini sono quali li formano l’ambiente, la ricchezza acquisita, il mestiere, la povertà della famiglia, la classe sociale in cui si è nati. Abbiamo con queste dottrine alimentato l’odio contro quelli che stanno in alto, la credenza che sia impossibile elevarsi, schernite e dichiarate vane le energie vive, le forze più preziose che l’uomo possegga. Il male compiuto dalle nostre predicazioni non fu per fortuna grande come avrebbe potuto essere; perché gli operai, mentre usavano l’arma della lotta di classe, hanno anche fatto sforzi meritori per organizzarsi, per istruirsi e sono divenuti meritevoli di quel maggior benessere che la lotta di classe da sola non avrebbe saputo procurare loro; perché le classi dirigenti hanno dovuto, sotto la pressione che veniva dal basso, istruirsi, perfezionare i loro congegni produttivi, diventare più virili e salde. L’ascensione, finora ristretta al settentrione, si estende ai contadini ed ai proprietari del mezzogiorno. bisogna che anche noialtri, cultori della scienza della ricchezza, abituati a veder solo il lato economico dei problemi, diciamo ben forte che la speranza del rinnovamento economico potrà avverarsi solo se prima l’uomo si sarà rinnovato. L’uomo come somma di energie spirituali, morali, come forza che si oppone alla natura da secoli impoverita, al governo corruttore, all’ambiente torpido, alla miseria circostante; e vuole colla sua volontà, colla sua energia, colla religione della famiglia e della patria creare un nuovo mondo, più bello e più ricco, al posto del vecchio mondo ereditato dai secoli scorsi”.

 

Prefazione

 Prefazione

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. XIII-XL

 

 

In questo secondo volume ha inizio la collaborazione del «Corriere della Sera», la quale proseguirà sino alla soppressione della libertà di stampa nel novembre del 1925, epperciò alla mutazione dei giornali in bollettini ufficiali. La collaborazione al «Corriere» è quasi unicamente «economica»; sicché nel titolo delle Cronache dovrebbero essere tolte le parole «e politiche»; ma furono conservate perché un ragionamento economico intorno alle «questioni del giorno» non può fare astrazione dall’indole dei governanti e degli amministratori della cosa pubblica. Ne danno testimonianza le critiche rivolte al ministro Nasi per la baraonda da lui creata in materia di regolamenti universitari (p. 97); la condanna dell’usanza giolittiana di scansare i problemi grossi rinviandoli col pretesto di volerli meglio studiare, senza alcun affidamento sul modo da tenere nello studio (p. 744); l’accenno al metodo farraginoso tenuto dal legislatore nel dettare norme improvvisate sotto l’assillo di pretestuose urgenze (p. 780).

 

 

La collaborazione quasi esclusivamente economica non è ancora combattiva, come diverrà poi, ma è certamente tenace. Il merito, se c’è, è in gran parte dovuto alla volontà di Luigi Albertini di fare del suo giornale un organo di formazione dell’opinione pubblica. Perciò egli la voleva informata; e consentiva a me di imperversare nella trattazione di taluni problemi che mi sembravano rilevanti, anche se tali non apparivano a tutti. Epperciò, a costo di infastidire, ritornavo assai volte sull’argomento della tassazione delle aree fabbricabili, all’incirca per cinquanta delle 833 pagine del volume; consacravo una cinquantina di pagine alla discussione del problema ferroviario ed una settantina a quella connessa del porto di Genova e della direttissima fra Genova e Milano; e più di centoventi ad analizzare la urgenza o la inutilità di definire più o meno prontamente i capisaldi delle nuove convenzioni marittime. Anche potevo insistere ripetutamente, a proposito di Torino (per circa trenta-quaranta pagine), sui piani regolatori, sull’abolizione del dazio murato, sulla scelta fra riduzione del dazio consumo ed istituzione di una nuova imposta sul reddito e concludere non di rado col ricordo del vecchio istituto torinese dell’imposta dei tre quinti della maggior valenza delle aree della contrada di Po, allo scopo di caldeggiare l’istituzione od il maggior uso del contributo sulle migliorie promosse dall’opera dei comuni. Anche sulla riforma tributaria in genere e non solo per le città desideravo fossero informati i lettori, discorrendone per una trentina di pagine, e insistendo a parte (quindici pagine) sulla necessità, per non dilapidare, come si faceva, gli avanzi di bilancio, di costituire un «fondo sgravi»; rimedio empirico utile ad imbrigliare la propensione dei deputati a spendere per futili fini. Né difettavano le ripetizioni a pro della riduzione progressiva del dazio sul grano e delle farine e della abolizione degli abbuoni di tasse sugli spiriti, a danno del tesoro ed a sedicente vantaggio dei viticultori. Ma la trentina di pagine, consacrate tra il 1903 ed il 1909 a combattere l’errore, non vietarono che oggi il problema del grano e degli spiriti sia tuttora vivo ed anzi ne sia cresciuta la malignità. Tenevano ancora il campo, e qui per più di cinquanta pagine, i problemi del lavoro, che tanto luogo avevano avuto nel primo volume di queste cronache. Non mancano i lieti avvenimenti nelle cronache economiche del tempo; e fu sovratutto memoranda la conversione della rendita del 1906; augurata e discussa in circa quaranta pagine del volume.

 

 

Luigi Albertini tollerava tanta lungaggine nella trattazione di noiosi

problemi economici, soltanto perché era convinto il giornale dovesse

servire a formare l’opinione dei suoi lettori, istruendoli pacatamente, in

linguaggio non partigiano, sui problemi correnti, l’occhio rivolto non al

vantaggio immediato, sì a quello permanente, anche se lontano, del paese. Perciò egli consentiva persino alle tabelline di cifre e di statistiche, che ognun sa come riescano ostiche e la solo loro vista faccia saltare di pié pari al lettore infastidito le tabelline e con esse la prosa che vorrebbe illustrarle. Batti e ribatti, accadde che anche le statistiche finirono per parere leggibili al pubblico; il quale divenne per tal modo familiare con articoli i quali, pur non recando in fine l’annotazione, ad ogni costo vitanda, del continua, erano l’un l’altro collegati. «Vitanda», sì e ad ogni costo, perché, al solo scorgere la mala parola, chi legge il primo articolo, pensa: lo leggerò quando vedrò il fine; ma poi, quando l’articolo conclusivo arriva, il primo od i precedenti più non sono a portata di mano o la lettura è troppo lunga e la si rimanda a miglior tempo, e questo non giunge mai. Col non parlar mai di «continuare», poterono essere pubblicati sul porto di Genova studi che, nella presente nuova veste, durano rispettivamente ventitre e quarantadue pagine; quest’ultimo una vera monografia, che rilessi non senza frutto, ed era il succo di chiacchierate con ogni sorta di gente a lungo vissuta sul porto e di assai relazioni e statistiche pubbliche e private; e ricordo in specie la illustrazione che a viva voce l’amico Federico Ricci faceva delle statistiche contenute nella sua «Rivista carboni», rimasta poi la sola rassegna di cose economiche meritevole di essere letta da coloro i quali, in regime fascistico, desideravano essere informati sobriamente e sicuramente sugli accadimenti del giorno.

 

 

Se io sia riuscito, come era intendimento del direttore, ad informare con sobrietà ed esattezza, i lettori del «Corriere della sera», sugli accadimenti economici di quegli anni, non io debbo dire. Forse, per ossequio alle regole, osservate sin dai tempi di Torelli Viollier, discutevo, quasi fossero serie, anche proposte chiaramente balorde, come fu quella di importare contadini settentrionali in un mezzogiorno disertato a ragione dai suoi abitanti (cfr. pp. 423 sgg.); od indulgevo all’abito nello scrivere quotidiano propizio a dare importanza indebita a fatti del giorno; epperciò taluni giri di vite tributari, che erano mere scalfitture in confronto di quelli che vennero di poi, assumevano aspetti apocalittici (cfr. i casi di condotta di contribuenti tipici immaginati alle pp. 824 – 31); ovvero ancora consentivo senza riflettere alle richieste, anche allora volontieri accolte in tempo di svendita delle uve e dei vini, dovessero essere spiantate le vigne nei terreni di pianura (cfr. p. 723). Ma erano assenze momentanee in cose minime.

 

 

Può essere invece ragione di giusto rimprovero quel che, dando inizio alla prefazione del primo volume della presente raccolta, scrissi: «a rileggere di sé antichi scritti, par di conversare con un altro uomo»? Se avessi voluto dire, così scrivendo, che il trascorrere del tempo aveva mutato la sostanza del mio modo di ragionare, la mia concezione della vita; se da espositore delle idee di libertà economica mi fossi fatto seguace di dirigismo; se da difensore della libertà di sciopero e di coalizione per i lavoratori mi fossi mutato in seguace delle proposte di arbitrato obbligatorio e di divieto di scioperi e di serrata; se da contrario fossi divenuto favorevole ai dazi sul frumento e sul ferro ed acciaio; se da critico dei monopoli industriali fossi divenuto fautore dei monopoli statali, il rimprovero di mutazione ad ogni spirar di vento politico sarebbe giusto. Così non è, afferma l’amico Ernesto Rossi, il quale recensendo sul «Mondo» il primo volume di questa silloge di articoli, ha affermato, con benevolenza, della quale gli sono grato, pochi esempi di continuità di pensiero lungo un sessantennio potersi noverare accanto al mio. Non vorrei tuttavia si potesse ritenere non avere io mutato in nulla le opinioni intrattenute su problemi economici particolari; ché, in materia di imposte, le mutazioni sono parecchie e grosse; ed il presente volume ne reca tracce non poche. Dopo sessant’anni, invece di pensare e di scrivere, come allora facevo, intorno alla giustizia tributaria ed alla riforma radicale del nostro sistema d’imposte nella stessa maniera che si usa oggidì dai più, sono giunto a dubitare che il concetto stesso di giustizia, in materia di imposte, sia suscettivo di definizione ed a negare che esista un principio logico atto a guidarci nelle riforme. Rileggendo quel che scrivevo parmi davvero di contemplare un altro uomo e non mi dolgo di essere mutato.

 

 

L’esempio tipico della mutazione si contempla a proposito dell’imposta sulle aree fabbricabili. Credo davvero di essere stato in Italia colui che primamente discusse il problema dell’aumento di valore delle aree fabbricabili e si fece promotore della sua tassazione. Dopo un saggio sul «Devenir social» nel 1898, gli articoli miei sull’argomento si susseguono sino al 1925 senza tregua: cfr. qui, le pp. 25 (10, 20 aprile e 4 maggio 1903), 133 (26 maggio 1904), 516 (20, 24, e 25 maggio 1907) e 535 (28 maggio 1907). Nelle relazioni ministeriali e parlamentari odierne sui rinnovati disegni di legge intorno allo stesso problema, rivedo le mie argomentazioni di un tempo: aumento dei valori delle aree dovuto a cagioni collettive e sociali, accaparramento delle aree da parte di speculatori monopolisti, ritardo artificioso nelle costruzioni ed aumento dei fitti, necessità di devolvere coll’imposta l’aumento di valore a favore comuni e di «stroncare» così l’opera della speculazione, con vantaggio della finanza locale e nel tempo stesso dei consumatori del bene «casa».

 

 

Negli articoli qui raccolti ha già inizio, dopo l’apologia, la critica; la quale si appunta tuttavia non sul «principio» dell’imposta, ma sulle erronee applicazioni che se ne andavano facendo in Italia: l’imposta non proporzionata all’«aumento» di valore, come la ragion ragionante voleva, ma sul valor capitale delle aree, con offesa alla «giustizia» tributaria, la quale avrebbe richiesto la tassazione delle aree in aumento e non di quelle stazionarie o calanti; l’imposta, per tal modo erroneamente distribuita, guastata ancor più dal suo inasprimento al 3% del valor capitale; le dichiarazioni di valore rese fisse per tempi definiti, persino di 25 anni e, grazie al diritto dei comuni di espropriare ai prezzi dichiarati, rese feconde di confisca a sotto prezzo e persino con rifatta da parte del contribuente espropriato senza indennità.

 

 

La critica tuttavia si appuntava sui particolari di applicazione, non sul principio medesimo dell’imposta. Epperciò, in ubbidienza all’antico broccardo, non era pertinente; che, eliminando i vizi di applicazione, il principio rimaneva valido. Spetta ad anni posteriori al 1909 il passaggio dalla critica delle applicazioni alla critica di fondo. Probabilmente, le ripetute esperienze dei mali effetti di un principio reputato «giusto» contribuirono a persuadere la necessità di una analisi più raffinata del principio medesimo. Il principio informatore dell’imposta consisteva in un ragionamento reputato chiarissimo e persuasivo: è vero o non è vero che l’area fabbricabile produce, al pari della terra coltivata, un reddito? La terra coltivata produce frumento, uva, olive, ortaggi, erba ed altri diversissimi frutti; ed i frutti, ridotti al netto, ognuno riconosce debbano essere tassati. L’area fabbricabile, oltre ai minori frutti agricoli, praticamente minimi, tassati coll’imposta fondiaria, non produce forse un reddito peculiare, detto «aumento del suo valore», reddito aggiuntivo a quello agrario; e non colpito da alcuna imposta? Esiste qualche motivo per il quale un reddito, comunque nato o denominato, non sia colpito da imposta? No; ché il principio antico, accettato, tradizionale e punto rivoluzionario, della uguaglianza di tutti i redditi dinnanzi al dovere tributario, esige che quel reddito sia soggetto ad imposta. Se gli aumenti di valore delle aree fabbricabili, a causa della loro scarsa importanza, non furono sinora colpiti da veruna imposta; oggi che sono divenuti, nelle città tentacolari, apprezzabili, siano tassati da un tributo creato a bell’apposta, detto sulle aree fabbricabili. Se già, nella seconda metà del Seicento, a Torino, l’imposta era stata stabilita col titolo di «tre quinti della maggior valenza dei siti della nuova contrada di Po», a che tardare ad istituirla oggi? Erano fin dall’inizio del secolo e sono tuttora, evidenti i vizi delle leggi di applicazione; ma pareva, e pare oggi ancora ai più, valido il principio.

 

 

La critica al principio venne poi, in una memoria presentata nella seduta del 23 giugno 1912 della «Accademia delle scienze di Torino» col titolo Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema di imposta sul reddito consumato (riprodotta nei Saggi sul risparmio e l’imposta a carte 1-159 e particolarmente a carte 119-30 del primo volume della serie di queste «Opere») e fu riaffermata in Miti e paradossi della giustizia tributaria (nel capitolo secondo del secondo volume della serie prima). Non è qui il luogo di dimostrare nuovamente che la sequenza logica dei fatti deve essere capovolta. L’aumento di valore delle aree fabbricabili non è il fatto primo, ma l’ultimo della sequenza. Il fatto primo, senza il quale nulla accade, è il reddito dell’area fabbricabile giunta al momento della sua maturazione economica. Come il bosco non dà reddito se non al momento del taglio, così l’area non dà reddito se non al momento della sua maturazione. E quel reddito ha nome di fitto o frutto della casa fabbricata ed insieme dell’area su cui la casa insiste. Il reddito netto della casa, suppongasi 100, comprende 50 reddito della costruzione e 50 reddito dell’area? Chi tassa il 100, tassa quindi, oltrecché il reddito della costruzione, anche il 50 reddito dell’area. Una imposta del 30% sulle 50 del reddito dell’area, riduce il reddito da 50 a 35; e se noi supponiamo che i redditi si capitalizzino al 5%, l’area che, senza l’imposta esistente da tempo immemorabile sui fabbricati, avrebbe reso 50 lire e si sarebbe capitalizzata in 1000 lire, in conseguenza della stessa già esistente imposta sui fabbricati, rende solo 35 lire e si capitalizza in 700 lire. Imposta sul reddito ed imposta sul capitale sono lo stesso, stessissimo fatto, sono le due faccie della medesima medaglia. È stravagante dire che occorre una nuovissima imposta sulle aree perché esse danno un reddito esente da imposta, ché l’imposta c’è ed è quella che colpirà il reddito dell’area costrutta. Cotale verità palmare non vedevo io in principio del secolo e non vedono oggi gli ingenui, i quali immaginano di aver scoperta una materia imponibile mai prima veduta e miracolosamente sfuggita agli occhi indagatori del fisco. Forseché non è doveroso mutar sentenza quando gli occhi si aprono e si vedono i fatti diversamente da come si vedevano in cecità? Il che non vieta che sarebbe doveroso mutare nuovamente opinione se fosse dimostrata erronea la tesi che reddito e capitale sono la stessa cosa e se si tassa l’uno si tassa medesimamente al tempo stesso anche l’altro. Sinora, in cinquant’anni di discussione, la dimostrazione non è venuta.

 

 

Gli anni corsi dal 1903 al 1909 sono ricordati per lo più come quelli dell’età d’oro giolittiana: incremento dell’attività economica, avanzi nel bilancio dello stato, conversione della rendita, imparzialità nelle lotte fra capitale e lavoro, allargamento del suffragio e crescente partecipazione dei lavoratori alla vita pubblica, ampliamento della legislazione sociale, favore dato alle municipalizzazioni dei servizi pubblici, passaggio da quello privato all’esercizio di stato delle ferrovie, sostituzione ad un consorzio privato britannico di un consorzio pubblico semi-statale per gli zolfi siciliani, istituzione dell’imposta sulle aree fabbricabili, avviamento della riforma tributaria nei comuni con l’attenuazione del dazio consumo e con i primi saggi di progressività nella imposta di famiglia. Alla politica giacobina e audace di Crispi ed a quella conservatrice dei Di Rudinì, dei Pelloux e dei Saracco segue la politica finanziariamente prudente e socialmente innovatrice di Giolitti. Il settennio dal 1903 al 1909 è dominato dalla figura dell’uomo di stato piemontese. Salvo i dodici giorni di Tittoni dal 16 al 27 marzo del 1905, i dieci mesi di Fortis, dal 28 marzo 1905 all’8 febbraio 1906, i centodieci giorni di Sonnino dall’8 febbraio al 27 maggio 1906, i sette anni sono segnalati dai due ministeri Giolitti, dei quali il primo, cominciato il novembre 1901 durò sino al 12 marzo 1905 ed il secondo andò dal 29 maggio 1906 al 10 dicembre 1909. Del resto, il brevissimo gabinetto Tittoni e quello Fortis parvero surrogati di quelli Giolitti ed al ministero dei centodieci giorni di Sonnino fu consentito quasi soltanto di presentare disegni di legge, poi ritirati o fatti propri, sotto nuove spoglie, dal presidente piemontese, il quale godeva del favore sicuro della camera.

 

 

È certo che nel primo decennio del secolo, dominato in Italia dalla figura politica del Giolitti, le condizioni economiche e sociali del nostro paese grandemente migliorarono. L’on. Giolitti, ministro dell’interno dal 1901 al 1903 e presidente del consiglio poi, visse e resse l’Italia in un tempo nel quale agiva sul mondo un fattore misterioso di progresso ed era l’incremento della produzione dell’oro (cfr., qui, l’articolo L’inondazione dell’oro alle pp. 450-55 del 25 dicembre 1906). Da 815 milioni di lire nella media del 1890-95, la produzione era salita a 1 miliardo e 285 milioni nella media del 1896 – 1900 e, via via sempre crescendo, era giunta a 2 miliardi e 250 milioni nel 1906. Popoli e governi ne erano allarmati, ché i prezzi erano contemporaneamente cresciuti (indice Dun, cfr., qui, a p. 453) dall’indice 72,5 all’1 gennaio 1897, al 79,9 l’anno dopo, e via via a 95,3 all’1 gennaio 1900, a 100,1 il 1904, a 104,5 l’1 gennaio 1906 ed a 106,7 l’1 novembre del 1906. All’allarme, per il crescere dei prezzi, dei popoli si accompagnavano gli studi ed i libri degli economisti, i quali confermavano, indagando col metodo delle differenze le cause della situazione sopravvenuta, che i prezzi crescevano, probabilmente in notabile parte, grazie all’incremento nella produzione dell’oro, da cui nasceva un generale incremento nei mezzi monetari circolanti; sicché, non crescendo nella stessa proporzione la produzione dei beni e dei servizi, i prezzi logicamente dovevano crescere. Non certo nella misura terrificante in cui aumentarono poi durante e dopo le due grandi guerre mondiali; pur tuttavia, un incremento generale dei prezzi in un decennio del 50% circa appariva ed era grandioso. Presto però i popoli ed i governi si accorsero che non tutto il male viene per nuocere; e che se i prezzi bassi giovavano ai consumatori di pane e di panni, il «ribasso» dei prezzi durato all’incirca dal 1872 al 1897 non giovava, scoraggiando gli imprenditori, alla attività economica, e nuoceva alla occupazione degli operai. Sicché nell’ultimo decennio dell’ottocento erano cresciute la disoccupazione e la miseria; ed in Italia si erano osservati tumulti e rivolte in Sicilia, nelle Puglie, nelle Alpi Apuane ed a Milano. Col volgere del secolo l’ondata dei prezzi mutava al rialzo e dappertutto nel mondo l’attività economica riprendeva, i salari crescevano, diminuiva la disoccupazione. Crispi, Sonnino, Di Rudinì, Pelloux e Saracco avevano dovuto subire le conseguenze dell’avverso andamento del ciclo economico in cui erano capitati a governare e avevano dovuto subire il fio di colpe, delle quali non pochi economisti facevano risalire la responsabilità all’avarizia delle vecchie miniere della California e dell’Australia, le quali dopo il 1848 avevano fornito, facendo crescere per qualche tempo i prezzi dei beni e dei servigi, ragion di allegria al mondo fino al 1873. Alla fine dell’Ottocento, il posto delle stanche miniere australiane e californiane era stato finalmente preso dalle nuovamente scoperte miniere dell’Alaska e più del Transvaal. Di seguito od a causa delle crescenti masse di oro – fondamento universale in quei tempi della circolazione monetaria – i prezzi crescevano, gli industriali, dopo il lungo digiuno, riprendevano fiato, gli operai guadagnavano di più, ed i disoccupati diminuivano in tutto il mondo. Diminuivano anche in Italia e Zanardelli e Giolitti ne traevano giustamente profitto, perché è ovvio e giusto che i popoli non vadano per il sottile e non siano pronti a collegare taluni fatti, accaduti in paesi diversi quasi ignoti come il Transvaal e l’Alaska, con le migliori condizioni di vita in Italia; epperciò furono e sono frequenti le lodi date ai governanti del 1903-906 per l’aumento dei salari, la diminuzione della disoccupazione, il fiorire dell’industria e dei commerci, il crescere del traffico nei porti. Che furono anche dovuti in qualche parte all’opera dello stato; ma forse avrebbero potuto, quegli incrementi, essere più rimarchevoli, se l’opera dei governi non fosse stata in troppa parte negativa.

 

 

Il trionfo maggiore della finanza pubblica in quel decennio fu la conversione della rendita, operazione per quei tempi grandiosa, grazie a cui otto miliardi di debito pubblico venivano convertiti dall’interesse del 4 a quello del 3,50%. Chi scrive non si associò allora, se non in parte, alle lodi date al governo del tempo. Il titolo stesso, apposto all’articolo celebrativo (del 30 giugno 1906, qui riprodotto alle pp. 382 sgg.) dell’avvenimento davvero segnalato nella storia della finanza italiana: Dodici anni dopo, ricordava che il merito primo e maggiore della conversione risaliva ad un discorso memorando pronunciato dal ministro del tesoro Sonnino il 21 febbraio 1894 dinnanzi alla camera italiana. In quel discorso il Sonnino annunciava i duri provvedimenti necessari a rimettere l’ordine in un bilancio nel quale si prevedeva per l’esercizio 1904-905 un disavanzo di 155 milioni, si constatava che il saldo passivo del conto del tesoro presso l’istituto di emissione era salito a 563 milioni; l’aggio sull’oro, fatto scomparire anzitempo nel 1885 col prestito dei 644 milioni di lire in oro, era ritornato e oscillava fra un minimo dell’11,08 ad un massimo del 15,70%; il consolidato 5%, che nel 1886 era giunto nella borsa di Parigi, sotto l’impressione del prestito per l’abolizione del corso forzoso, a 102,55, scaduto a 72; il commercio coll’estero ridotto a minimi non toccati se non nel 1871 e nel 1878; il prodotto lordo delle ferrovie diminuito da 22,073 lire per chilometro esercitato nel 1883 a 17,346 lire. «L’orizzonte è carico di nubi e la situazione si può davvero, senza esagerazione, dire grave», esclamava Sonnino e proponeva, mascherandola col nome di aumento dell’imposta di ricchezza mobile, la riduzione forzata dell’interesse sul debito pubblico, il taglio sulle spese statali, e primamente sugli stipendi iniziali degli impiegati, l’inasprimento delle tasse di successione, dei dazi sul grano e sugli zuccheri, della tassa sugli spiriti, l’istituzione di nuovi balzelli sui fiammiferi, sul gas, sull’energia elettrica, sul cotone greggio. Una gragnola di imposte buone e cattive, che ancora oggi durano. Lasciando il potere, il ministro del tesoro Luzzatti (nel gabinetto Sonnino dei centodieci giorni) poteva dire invece al successore Angelo Majorana (nel lungo gabinetto Giolitti) che, grazie alla savia condotta dei ministri succedutisi nei dodici anni, i disavanzi nel bilancio avevano lasciato luogo ad avanzi di 65 milioni di lire nel 1900-901 e nel 1901-902, di 86 milioni nel 1902-903 di 49 nel 1903-904, di 64 nel 1904-905; e poteva additare con legittimo orgoglio il corso del consolidato giunto a 105 nelle borse estere, all’aggio sull’oro sostituito da un premio di quindici-venti centesimi per cento lire della carta italiana sull’oro; alla consistenza ordinaria dei buoni ordinari del tesoro inferiore di 130 milioni al massimo di 300 milioni consentito dalla legge; alle partite immobilizzate dei tre istituti di emissione (Banche d’Italia, di Napoli, di Sicilia) ridotte da 625 milioni nel 1894 a 167 il 30 aprile del 1906.

 

 

Frutto splendido della migliorata situazione finanziaria ed economica fu la conversione della rendita (debito pubblico consolidato) dal 4% netto al 3,75% per cinque anni ed al 3,50 in seguito. Dopo un secolo e mezzo l’Italia riprendeva la nobile tradizione della Repubblica di Venezia e di Carlo Emanuele III re di Sardegna che nel 1753 e rispettivamente nel 1763 convertivano, con l’adesione volontaria dei creditori, il loro debito pubblico dal 4,50 e 4% al 3,50%.

 

 

Si avverò l’augurio dell’articolista (cfr., qui, p. 386): «che i governanti non indulgessero al vizio di sperperare i frutti della conversione in piccoli favori di cresciuti stipendi e in aumenti di spese inutili; ma sapessero volgerli, con un piano meditato di prudenti e forti riforme tributarie e sociali, a pro dell’economia italiana»?

 

 

Ahimè! che le pagine di questo volume ospitano troppe querele di riforme non predisposte, né attuate e di anni di avanzi di bilanci lasciati trascorrere invano. Fin dal 1904 (23 luglio; Giolitti presidente del consiglio e Luzzatti ministro del tesoro) lamentavo che la ragioneria generale dello stato non tenesse il libro degli impegni assunti con atti e contratti e che il ragioniere generale dello stato fosse ridotto a «raccomandare» ai ministri della spesa, non di evitare le eccedenze di impegni sugli stanziamenti, ma di discernerle e illustrarne le cause, «procurando» di eliminare gli impegni «che non rispondano ad imprescindibili bisogni del servizio» (p. 163); istanze per fermo scarsamente efficaci a procacciare l’osservanza delle norme fondamentali della pubblica contabilità.

 

 

Invano (13 maggio 1904) ponevo la domanda: «sono sinceri i nostri bilanci?» e, lamentando le grosse cifre di residui e di eccedenze, stupivo come fossero frequenti i capitoli dei rendiconti nei quali ad uno stanziamento di 10.000 lire nel preventivo rispondevano nel consuntivo, ad esempio, 6.000 lire pagate e 4.000 da pagare. Come non accade mai di scoprire un capitolo nel quale fossero, per accidente, registrate economie? Accadeva già e forse accade ancor oggi, per importi di milioni invece che di migliaia di lire, che l’amministrazione reputi lo stanziamento una proprietà privata sua, che essa ha diritto nell’anno in corso o in quelli avvenire, di spendere sino all’ultimo centesimo, oggi sino all’ultima lira, sia o non sia la spesa necessaria all’andamento dei servizi pubblici!

 

 

Una contabilità scarsamente chiara non giova a limitare le spese; e già in principio del secolo si avvertivano i danni del fare previsioni prudentissime di entrate ed abbondanti di spese, allo scopo di occultare gli avanzi agli occhi delle camere (p. 480). Delle due scuole, l’una cerca di sminuire il gettito probabile delle imposte e di ingrossare le previsioni di spese, sperando così di non dare alimento a richieste di aumenti negli stanziamenti, e l’altra assevera la necessità di dire sempre il vero, sia esso scuro ovvero lieto. Poiché dominò quasi sempre la scuola del nascondere, fa d’uopo dire che essa mancò allo scopo; ché le sottovalutazioni delle entrate sono cucite a fil bianco ed i postulanti spese si sono adusati a richiedere nuovi stanziamenti fondati sulle eccedenze di entrate, le quali a mano a mano si verificano e debbono essere segnalate in documenti ufficiali; e dal canto loro gli ingrossamenti delle cifre di spese agevolano la industria delle eccedenze di impegni nei capitoli macilenti, eccedenze coperte nelle note di variazione da storni dai capitoli abbondanti.

 

 

Gli avanzi effettivi verificatisi nel primo decennio del secolo, i quali giunsero a 100 milioni di lire e non furono mai inferiori ai 50 all’anno, avrebbero consentito di formulare un piano veramente efficace di riforme tributarie. Avevo immaginato di adoperare, pur facendo uso nel discorso della parola «piano» sebbene non ancora venuta di moda, quella di «fondo sgravi» che mi pareva più accessibile all’intendimento ordinario (vedi gli articoli: Prestito o fondi sgravi? dell’8 gennaio 1907; La politica conservatrice degli sgravi, dell’11 gennaio 1907, e di nuovo Esiste un margine di bilancio? del 29 gennaio 1907); ed avevo cercato di dimostrare che, scegliendo bene le imposte da abolire o ridurre, le riduzioni, pur lasciando un margine di bilancio disponibile per necessari od utili aumenti di spesa, avrebbero consentito, non certamente subito ma in un non lungo volgere di anni, il proprio ricupero. Anche solo dedicando agli sgravi 30 o 40 milioni di lire all’anno, in cinque anni di sgravi metodici ed ordinati ad un fine, si sarebbero potute ridurre imposte per 150 o 200 milioni, il che in un bilancio complessivo di circa 1 miliardo e 800 milioni sarebbe stato un alleggerimento notabile per i contribuenti. Preferivo i perfezionamenti tecnici bene studiati alle grandi riforme apparenti. Inutile istituire una imposta generale e progressiva sul reddito, che sarebbe stata una brutta farsa, se prima non fossero stati perfezionati i mezzi di accertamento. Finché le operazioni catastali erano condotte a rilento, con vecchi estimi e con stime improvvisate, era impossibile conoscere l’ammontare dei redditi fondiari ed agrari; finché l’imposta sui fabbricati poggiava contemporaneamente su stime antiquate di decine d’anni per i fabbricati vecchi e aggiornate per i fabbricati nuovi, era difficile costruire una tassazione sopportabile, invece che oltraggiosamente sperequata; sinché le stime per i redditi mobiliari andavano dalla tassazione piena per taluni redditi di impiegati, pensionati, redditieri pubblici ad accertamenti incerti e inattendibili per i redditi industriali e professionali, era arduo persuadere i contribuenti del dovere di assolvere il debito di imposta.

 

Perciò insistevo (pp. 260, 308, 434, 495, 567, 756, 802, 809) sulla urgenza e priorità delle minute riforme perfezionatrici che, sole, potevano seriamente preparare la maggiore riforma, la quale, venuta su terreno pronto a riceverla, avrebbe dato buon frutto; laddove si preferì presentare disegni di legge, detti progressivi, di imposta personale sul reddito destinati a rimanere sulla carta o, se attuati, a palesarsi niente più che una aggiunta di decimi e di centesimi addizionali baroccamente distribuiti sulle vecchie sperequate imposte fondiarie e mobiliari.

 

 

Quanto alle imposte sui consumi, continuavo (pp. 189, 207, ecc.) a predicare la necessità e la giustizia della riduzione graduale del dazio sul grano, infelice surrogato dell’aborrito macinato, il quale perlomeno non arricchiva i proprietari terrieri a danno dell’erario; ma il dazio fu conservato ed aggravato. Preferivo (p. 500) ridurre l’imposta sul petrolio piuttostoché quella sul sale, perché ad un vantaggio uguale per i consumatori – in quegli anni la spesa per gli automobili era irrilevante ed il petrolio dava sovratutto luce alle campagne ed ai ceti modesti nelle città – la riduzione del prezzo del petrolio aggiungeva la attitudine, inesistente, a causa della rigidità del suo consumo, per il sale, a dare incremento ai modi tradizionali ed impulso a nuove maniere di consumo. Ma non si fece nulla medesimamente né per il sale, né per il petrolio.

 

 

Nessuno si avvide che in quegli anni si studiassero i mezzi di cansare le spese inutili. Invano sin d’allora (15-16 agosto 1903, alle pp. 63 sgg.) ricordavo gli sforzi sostenuti in Inghilterra ed in Francia per limitare il diritto di iniziativa dei deputati a proporre nuove spese od a presentare emendamenti improvvisati alle proposte governative di modificazioni tributarie. Di fronte alle difficoltà di opporre un argine legislativo al malo andazzo, malinconicamente invocavo «una più perfetta educazione politica del paese, un maggior controllo degli elettori sugli eletti, e l’ossequio degli interessi particolari dinnanzi agli interessi generali».

 

 

Tra le spese, le più inutili non erano gli aumenti di stipendi agli impiegati elargiti sotto colore di miglioramento dei pubblici servizi. Poteva darsi – sebbene non sia dimostrato il legame logico necessario tra l’aumento dello stipendio di un funzionario e il diminuito costo del servizio a lui affidato, se l’aumento non sia accompagnato dalla riduzione del numero degli addetti a quel servizio, – che talvolta, invariato rimanendo quel numero, l’aumento significasse effettivo miglioramento del servizio; e ricordavo (il 30 gennaio 1908, cfr., qui, le pp. 573 sgg.) il lodevole sforzo di un gruppo di postelegrafici per chiedere migliorie di stipendio effettivamente collegate con una migliore resa delle loro prestazioni e con una diminuzione del loro numero. Né doveva essere trascurata la probabilità che, anche in tempi di moneta buona, dovessero gli stipendi essere cresciuti con frutto per tener conto del crescente reddito reale nazionale e per ragguagliare gli assegni di alcune categorie di dipendenti statali manifestamente inferiori a quelli di categorie tradizionalmente ritenute maggiori in dignità.

 

 

Il danno dello spreco manifesto del pubblico denaro era quando la spesa avvantaggiava un ceto privilegiato; e fu in quel tempo conclamato il caso della legislazione sugli spiriti. Col pretesto di venir in soccorso alla vitivinicultura, affetta sin d’allora da crisi periodiche, si era obliato il canone classico che le imposte devono servire a procacciare entrate all’erario. Con un sistema ingegnoso di abbuoni sugli spiriti da vino e di favori alla immissione in franchigia di determinate quote dei cognacs invecchiati o magari non invecchiati, non era forse accaduto che il gettito delle tasse sugli spiriti da 52 milioni di lire nel 1905-906 fosse sceso a circa 17 nel 1908-909 e tendesse, se non si poneva riparo d’urgenza, a zero e forse persino si convertisse in una perdita netta? A pro di chi? In apparenza dei viticultori; in verità dei produttori marginali di qualità scadenti di uve; vantaggio momentaneo, annullato dal danno di incoraggiare, coi salvataggi della coltura delle viti in terre disadatte, il ripetersi della sovraproduzione generatrice di crisi periodiche (In Un abisso senza fondo per lo stato e l’aggravarsi della crisi vinicola. 15, 18 e 25 giugno 1909, cfr., qui, le pp. 711-28).

 

 

Su nessun problema la mala soddisfazione di chi scrive è tuttavia più manifesta che nelle pagine consacrate al problema ferroviario (che, già fu notato sopra, giungono qui alla cinquantina, oltre alle settanta consacrate al problema connesso al porto di Genova), ed a quello delle convenzioni marittime (circa centoventicinque).

 

 

Pochi ricordano oggi la frequenza con la quale sui quotidiani appariva la rubrica del «disservizio» ferroviario: ritardi negli orari, consegne irregolari delle merci, furti, danneggiamenti, materiale rotabile vetusto ed inservibile, ingombro permanente delle officine di riparazione. Occorsero anni parecchi dopo l’1 luglio 1905 affinché l’andamento del servizio desse qualche segno di ripresa, nonostante che al timone fossero stati scelti gli uomini migliori che l’Italia vantasse in quel tempo, e nonostante che al passaggio dal sistema privato all’esercizio di stato non fosse mancata la lunga preparazione, vorrei dire di decenni, a partire dal classico libro di Silvio Spaventa sino alle inchieste, alle relazioni ed alle discussioni parlamentari e giornalistiche. Si conoscevano i mali dai quali era affetto l’esercizio privato; massimo la previsione errata fatta nel 1885, quando per i vent’anni dall’1 luglio 1885 al 30 giugno 1905, si stipularono le convenzioni colle società Adriatica, Mediterranea e Sicula. Si era immaginato, durando ancora tra il 1880 e il 1885 la fase favorevole del precedente ciclo economico, che si potesse fare affidamento sull’incremento progressivo dei prodotti del traffico per provvedere all’incremento necessario degli impianti fissi e del materiale rotabile. Poiché il traffico «doveva» crescere, pensassero certe «casse», alle quali veniva devoluto in tutto o in parte quell’incremento, alle spese in conto capitale: rinnovamento e miglioramento degli impianti (stazioni, gallerie, linee, ecc.) e del materiale rotabile. Le società, che erano di esercizio, non avevano né mezzi né interesse a pensarci; lo stato, proprietario, se ne lavava le mani; ci pensassero le casse! Purtroppo, col volgersi del ciclo economico al peggio dopo l’85, le casse rimasero in secco od erano assai scarsamente alimentate; sicché impianti e materiale divennero a poco a poco insufficienti per quantità e fatiscenti per qualità. Le società esercenti non potevano correre il rischio di investire capitali, ottenuti con la emissione di obbligazioni costose, senza la garanzia del rimborso dell’annualità di interessi ed ammortamento da parte dello stato; ed il congegno istituito nel 1885 era tale da sconsigliare investimenti aleatori.

 

 

Infatti conviene all’esercente un’impresa pubblica investire capitali in migliorie se l’aumento del traffico è tale da coprire almeno l’aumento delle spese connesse con l’aumento del traffico. Conviene spendere anche 100, se l’aumento del traffico non è inferiore a 100 e se il maggior prodotto è goduto da quella stessa persona od ente che sopporta le maggiori spese di 100. Le convenzioni del 1885 addebitavano tutte le maggiori spese di esercizio al concessionario; ma dividevano in proporzioni variabili i prodotti fra le società concessionarie, il tesoro e le casse. Le società le quali avrebbero avuto interesse a spendere 100, se ad esse fosse rimasto tutto il maggior prodotto 100 o più; se ne astenevano perché, anche se il prodotto lordo totale giungeva a 100, ad esse ne toccava solo una quota insufficiente a coprire le spese. L’errore era noto e denunciato da tempo in tutte le trattazioni di economia ferroviaria ed anch’io ne avevo subito avvisato, non appena assunto ad insegnare scienza delle finanze, i miei studenti di Torino. Invano, ché l’errore grossolano del chiamare stato o casse sitibonde a partecipare al prodotto lordo invece che a quello netto produceva l’effetto logicamente necessario di scoraggiare i nuovi investimenti.

 

 

Se la partecipazione erariale fosse stata calcolata sul reddito netto, l’effetto dannoso non si sarebbe verificato, perché si sarebbe ripartito solo ciò che fosse eventualmente avanzato dopo coperte tutte le spese, anche quelle per il procacciamento delle maggiori entrate. Ostava a ciò la diffidenza di governi e di parlamenti contro i concessionari sospettati di manipolare i conti per nascondere i guadagni al fisco ed allo stato comproprietario e si preferiva far partecipare l’erario al prodotto lordo, che dicevasi più facile a controllare. Di qui altresì, oltreché dalle avverse condizioni del ciclo economico, il difetto negli investimenti e l’isterilimento dei prodotti del traffico. L’eredità ricevuta dall’esercizio di stato l’1 luglio 1905 fu dunque di gestioni fortemente dissestate; alle quali si sarebbe dovuto provvedere con una coraggiosa politica di prestiti destinati a ringiovanire stazioni, linee, materiale rotabile, ed abbassare i culmini delle gallerie appenniniche, a migliorare l’accesso ai porti, ecc. ecc. Con quanto scarsa longimirante visione del problema si sia provveduto a risolvere i problemi ferroviari in Italia e quelli del massimo porto settentrionale, lo dicono le molte pagine, circa un settimo del volume, consacrate alla discussione di quei problemi; né qui occorre ripetere quel che negli articoli quotidiani era dichiarato in lungo ed in largo.

 

 

Un’altra settima parte del volume è consacrata alla discussione delle nuove convenzioni marittime, che si sapeva da tempo sarebbero giunte alla scadenza. Da tempo, pubblicisti, studiosi, commercianti, industriali parlavano delle vecchie carcasse, dei piroscafi valetudinari, della anzianità persino cinquantennale della flotta posseduta dalla «Navigazione generale italiana» e si affermava l’urgenza di provvedere alla stipulazione di nuove convenzioni marittime; sicché i nuovi concessionari potessero in tempo prepararsi a costruire o ad ordinare navi moderne, atte a sostituire «i pezzi da museo», altrettanto frusti come i carri e le carrozze delle tre società ferroviarie, con i quali la Navigazione generale si industriava ancora a tenere alla men peggio i mari.

 

 

Fin dal 17 gennaio 1901 (cfr. nel primo volume le pp. 315 sgg.) riproducevo le lagnanze della Società mediterranea, la quale dichiarava di non poter far nulla per agevolare il compito del porto di Genova a causa della insufficienza degli impianti portuali e ferroviari, dovuta alle disordinate competenze di pubbliche autorità, atte solo a rinfacciarsi l’un l’altra i malanni dell’esercizio e gli ingombri delle calate del porto e delle stazioni ferroviarie; e qui in un articolo del 21 novembre 1905 (cfr. pp. 275-84) ricordavo che le convenzioni marittime scadevano l’1 luglio 1908 e governo e parlamento con legge del 16 maggio 1901 avevano provveduto alla nomina di una commissione reale incaricata di fare proposte tempestive affinché gli armatori avessero quattro anni di tempo per approntare una flotta moderna al posto di quella esistente forse «buona per un museo di antichità» ma incapace «per almeno i tre quarti a tenere decentemente il mare per conto dello stato». La commissione aveva studiato; ma era passato il 1903, era passato il 1904, stava per passare il 1905 ed il frutto dei lavori della commissione stava tutto in un memorandum di sei paginette in cui erano «elencati» i servizi che la commissione proponeva di istituire, la loro periodicità, la velocità, il tonnellaggio delle navi che avrebbero dovuto essere adibite ai servizi proposti e si riassumevano le norme per il credito navale, per le aste e per la costruzione dei piroscafi. Il ministero della poste e telegrafi competente, a cagion dei servizi postali che erano la ragion d’essere od il pretesto del pagamento delle sovvenzioni, dando notizia delle proposte della commissione, dichiarava però che le conclusioni dei ministeri interessati erano tuttora riservate. Invero un altro ministero, oltre quello delle poste e telegrafi per la marina sovvenzionata, aveva competenza in merito di navigazione, quello della marina (militare), provveduto di una direzione generale della marina mercantile, la quale sopravegliava ai premi di navigazione dati alla marina libera ed ai premi di costruzione concessi ai cantieri navali. Naturalmente i due ministeri erano tra di loro cani e gatti e presentavano, ciascuno di essi, proposte separate non coordinate e contradditorie. La confusione era cresciuta per le richieste, del resto ragionevoli, del ministero di agricoltura di aver bocca in fatto di industrie (cantieri) e di commerci (premi e sovvenzioni), del ministero dell’interno, che aveva la vigilanza dei porti, della guerra e della marina, per l’esigenza che le navi mercantili potessero trasformarsi in tempo di guerra in navi ausiliarie. La lacrimevole storia delle vicende dei disegni di legge relativi a materia tanto delicata si legge nelle molte pagine del presente volume, consacrate alla cronaca ed alla critica di quel che si discusse in argomento. A malapena si arrivò in tempo, innanzi alla scadenza dell’1 lugli0 1908, ad assicurare i collegamenti, oltrecché con le isole minori, tra il continente e la Sicilia, e la Sardegna; e, nell’urgenza di non sapere come cavarsela, si pensò a scaricare l’onere del collegamento con le due grandi isole sulle ferrovie di stato; pensiero in sé ragionevole, ma, attuato in un momento nel quale l’esercizio di stato delle ferrovie stava traversando il tempo del «disservizio», l’innesto del servizio marittimo in dissoluzione su quello ferroviario in crisi non ebbe per allora vantaggiosi risultati.

 

 

Due voci non trovarono ascolto né nei consigli di governo né in parlamento; e la prima era quella di coloro i quali sostenevano la tesi che i premi di costruzione ai cantieri navali potevano essere soppressi, se l’importazione dall’estero dei materiali di ferro ed acciaio fosse fatta immune da vincoli e da dazi. La tesi non era soltanto propria di economisti teorici; ché parecchi armatori, insofferenti dei vincoli, a cui erano astretti dalla legge i cantieri navali italiani, desideravano essere liberi di acquistare navi dovunque le potessero ottenere se adatte ai servizi loro propri a prezzo internazionale; e la scelta delle navi appariva più agevole nel mercato libero mondiale che in quello ristretto obbligatorio italiano. Non fu ascoltata parimenti la voce di coloro, e qui si ricorda particolarmente quella del negoziante Zaccaria Oberti, consigliere della camera di commercio di Genova, il quale sul «Lavoro» (qui citato a p. 740) e in una lettera al «Corriere» (qui riprodotta alle pp. 745 sgg.) sostenne vigorosamente che, essendosi già provveduto alle comunicazioni postali colle grandi e minori isole, le sovvenzioni alle altre linee erano superflue, nei casi nei quali queste fossero già esercite dalla marina libera senza alcun onere per l’erario, ed utili soltanto se le linee fossero davvero scelte in ragione del nuovo traffico che esse sarebbero state capaci di promuovere. Importava non trovasse conferma da noi la diceria diffusa delle navi che solcavano i mari non a trasportare uomini e merci, sebbene a pescar premi.

 

 

Trovò invece favore, a causa della repugnanza di governi e di parlamenti ad assumere la responsabilità di un accordo a prezzo convenuto e fisso, il principio di un periodo iniziale sperimentale, nel quale il concessionario ottenesse garanzie contro le perdite e lo stato partecipasse ai maggiori prodotti. Che fu l’inizio dei metodi, invalsi poi nei tempi di guerra, accolti dai fascisti e non ripudiati dai governi venuti dopo la liberazione; metodi che si possono definire delle concessioni a piè di lista, promettitrici di eventuali profitti e feconde di paurose perdite a carico del pubblico erario.

 

 

Non fu questo il solo caso di preannuncio delle nazionalizzazioni venute poi di moda, ma aveva in comune con gli altri la circostanza che nessuno allora si accorse che a vere e proprie nazionalizzazioni si intendesse giungere. Pareva che i deputati ed i senatori fossero chiamati a discutere dei modi tecnici di calcolare le sovvenzioni alle navi «postali»; ma che cosa è nazionalizzare se non gerire in società un’impresa economica, con i necessari controlli e nomine di dirigenti da parte dello stato, incaricati, sia pure invano, di scansare le perdite a danno dell’erario? Nessuno immaginava che il parlamento fosse chiamato a municipalizzare le aree edilizie nel 1907 quando alla camera fu presentato un disegno di legge nel quale pareva si discorresse solo di modalità di valutazione delle aree edilizie soggette ad imposta, reputata tenue perché limitata al 3% del valore capitale, e apparentemente avvantaggiate da una indennità di esproprio uguale allo stesso valor capitale. Ma le parole usate erano siffattamente congegnate che ben poteva darsi e in talune fattispecie necessariamente accadeva i proprietari non solo non ricevessero alcuna indennità per le aree forzosamente confiscate, ma fossero costretti a versare in aggiunta somme egregie a titolo di azioni di grazie per la avvenuta confisca (cfr., qui, Come avvengono le rivoluzioni sociali in Italia del 28 maggio 1907 alle pp. 535-40). La rivoluzione per allora non approdò in quella maniera surretizia ed in quella materia; ma ben fu attuata, in una breve seduta antimeridiana del luglio 1906, un’altra grossa mutazione negli ordini economici, che non ebbe alcuna eco nella stampa, non suscitò discussioni fra liberisti e socialisti e tuttavia non esitavo ad additare alla pubblica attenzione come «uno dei fatti più importanti nella storia industriale moderna non pur d’Italia, ma del mondo» (in due articoli dal titolo Uno sperimento di intervento dello stato dell’8 e del 9 agosto 1906, qui riprodotti alle pp. 412-22). Volgevano mali passi per l’industria solfifera siciliana, dimostratasi incapace a reggere alla concorrenza dello zolfo della Louisiana; che, per la sua giacitura e la sua ricchezza, pareva si potesse estrarre ad un costo minore della metà, con metodi assai più economici di quelli antiquati usati in Sicilia. Da tempo l’arretratezza dei metodi industriali ed il frazionamento minuto della proprietà mineraria avevano consigliato ai più dei proprietari di affidare la vendita del minerale ad una Anglo-Sicilian Sulphur Company costituita a Londra nel 1896. Ma lo spettro della concorrenza americana aveva persuaso la compagnia inglese a rifiutare la rinnovazione del contratto. Dinnanzi al ribasso inevitabile dei prezzi, alla impossibilità di liquidare, senza perdite gravi, una rimanenza di circa quattrocentomila tonnellate di zolfo invenduto, alla rovina di 200.000 persone interessate nella proprietà, nella coltivazione e nel commercio dello zolfo, ai clamori dell’opinione pubblica siciliana e di tutti gli enti rappresentativi dell’isola, alle minacce di tumulti dei solfatai di Caltanissetta, il governo si decise a proporre e il parlamento ad approvare a furia la creazione di quel Consorzio obbligatorio solfifero che ancor oggi esiste. Già allora si parlava di lotta contro i monopoli; ma, invece di apprestare, ad imitazione di quel che negli Stati uniti già si faceva, i mezzi per combatterli, si iniziava l’esperimento di un monopolio creato, garantito, sussidiato e sostanzialmente amministrato dallo stato. Forse oggi quella, che allora parve a me una novità grossa, un avvenimento memorabile nella storia industriale del mondo, non farebbe più impressione; ché nel nostro paese i monopoli creati o fomentati dallo stato sono tanti e paiono siffattamente ovvii da non destare l’attenzione neppure di coloro i quali propongono norme dirette a vietare, sopprimere o regolare i monopoli in genere. Qui si voleva solo ricordare che i germi di molti istituti, giganteggiati nel tempo fascistico e cresciuti ancora dopo la liberazione, si possono ricondurre agli anni (1903-909) contemplati in questo volume delle Cronache.

 

 

A questi anni risalgono altresì i rinnovati accenni ad una mutazione notabile nella psicologia e nelle aspirazioni del movimento operaio. Alcuni sintomi erano già stati rilevati innanzi al 1903 (cfr. le pp. XXIV-XXV della prefazione al primo volume delle Cronache); ma le preoccupazioni crescono dopo il 1903 e prendono il luogo dell’entusiasmo con il quale era stata salutata ed ancora si ricorda con commozione la svolta creativa verificatasi nei rapporti fra capitale e lavoro negli ultimi anni del secolo XIX.

 

 

La lotta operaia per ottenere il riconoscimento del diritto di coalizione e di sciopero era chiusa e nessuno più contestava agli operai ed ai contadini il diritto di trattare da paro a paro con gli imprenditori. Conquistata la parità tra due parti, politiche o sociali, accade non di rado che gli oppressi di prima non si ristiano e vogliano «procedere innanzi», come se il camminare «sempre» in una direzione non fosse per lo più indice di involuzione e di decadenza. Dalle Cronache non appare che operai e contadini ansiosamente mirassero – salvoché in tumultuose dimostrazioni innanzi a stabilimenti industriali, note nella storia sociale anglosassone col nome di picketing e reputate lecite a meno degenerassero in violenze personali – a sopraffare a loro volta legislativamente la parte padronale. Ma già i politici del tempo anticipavano aspirazioni inesistenti; ed accadeva perciò che l’on. Sacchi immaginasse di fare opera di progresso sociale, annunciando il proposito di presentare un disegno di legge ricalcato su di un analogo vecchio disegno presentato nel 1900 in Francia dagli on. Waldeck Rousseau e Millerand e sepolto con gli onori del rinvio alla commissione del lavoro. Ma il progetto Millerand sanciva l’obbligatorietà dell’arbitrato solo per gli imprenditori e gli operai che avessero accettato di sottomettere ad arbitri le questioni, attinenti al lavoro, tra essi insorte; laddove il progetto Sacchi obbligava le minoranze ad astenersi dal lavoro sempre quando le maggioranze deliberassero lo sciopero (cfr., qui, alle pp. 175-78 Arbitrato e sciopero obbligatori del 13 ottobre 1904). Accanto ai politici, anche i «giuristi dell’imperatore» fiutavano l’odore del vento sociale ed apprestavano ai dominatori dell’avvenire le armi giuridiche utili alla vittoria. Il sostituto procuratore generale della corte d’appello di Roma, Raffaele De Notaristefani, delineava sapientemente ne «La Giustizia penale» la nuovissima figura del reato di crumiraggio. Partendo dal principio, divenuto assiomatico nel tempo fascistico ed accettato oggi dai più, che la libera concorrenza nelle industrie, nei commerci e nei rapporti tra capitale e lavoro fosse oramai superata e fosse a poco a poco sostituita dal principio della solidarietà sociale, il De Notaristefani osservava che la solidarietà è rotta quando, essendo stato deliberato lo sciopero dalla collettività operaia, i crumiri, offrendosi a sostituire gli assenti volontari, fanno abortire lo sciopero. L’atto dei crumiri deve essere reputato di concorrenza illecita e, come tale, deve essere punito dal codice penale. Nel testo del presente volume si possono contemplare le eleganti disquisizioni con le quali il giurista definiva le caratteristiche dello sciopero «giusto», dalle quali si deduceva dirittamente la tesi della punibilità del reato di crumiraggio (articolo del 9 novembre 1904, alle pp. 178-82). Nel testo si contemplano altresì le discettazioni squisitamente raffinate con le quali Giovanni Montemartini, direttore dell’ufficio centrale del lavoro, smantellava il diritto di sovranità del parlamento, nel determinare le spese pubbliche, argomentando: forseché lo stato fissa il prezzo dei carboni acquistati dalle sue ferrovie o non si deve adattare ai prezzi di mercato? Fissi il parlamento l’ammontare dei servizi richiesti alle ferrovie; ma accetti le paghe, le carriere e le condizioni del lavoro che per i ferrovieri son fissate dal mercato; e poiché, in condizioni di monopolio, non esiste un mercato libero del lavoro, accetti le norme stabilite dagli arbitri nominati in conformità della legge (cfr., qui, alle pp. 244-49 L’arbitrato obbligatorio per i ferrovieri del 23 settembre 1905).

 

 

Trattavasi di affermazioni dottrinali di politici, giuristi e periti nelle questioni del lavoro; come fu anche delle discussioni avvenute, grazie al fervido impulso dato ai lavori dall’infaticabile Montemartini, in seno al Consiglio superiore del lavoro a proposito della scelta, libera o coattiva fra diversi tipi di contratti collettivi e di contratti di tariffa (cfr., qui, alle pp. 488 – 506 Contratti collettivi di lavoro o contratti di tariffa? del 25 febbraio 1907).

 

 

Non sembra che l’on. Giolitti abbia prestato molta attenzione ad idee e proposte, che alla sua mentalità semplificatrice dovevano apparire forse «nuove» e certamente complicate ed atte a promuovere incertezze e contese, od almeno nelle pagine delle Cronache non si notano interventi suoi notabili atti a mutare la sua ferma politica di imparzialità nelle controversie fra operai e datori di lavoro. I dubbi verranno poi in anni più fortunosi, non nel tempo dal 1903 al 1909. Qui veggo solo qualche traccia di momentaneo oblio in un progetto presentato da lui e dall’on. Cocco-Ortu per regolare il lavoro nelle risaie. Trattandosi di problemi locali, praticamente interessanti solo le plaghe del vercellese e del novarese, l’on. Giolitti si era lasciato persuadere dal collega dell’agricoltura Cocco-Ortu ad introdurre, accanto a parecchie buone norme, un articolo improvvisato col quale si dava facoltà ad una commissione paritetica, presieduta dal pretore del luogo, di decidere, prima in via di conciliazione e poi con sentenza obbligatoria ed inappellabile «tutte le questioni relative al contratto di lavoro in risaia, alla remunerazione, al pagamento delle mercedi, ai patti speciali di lavorazione, all’abbandono del lavoro, allo scioglimento del contratto». È vero che l’articolo chiudeva «ed in genere alla interpretazione ed applicazione del contratto», dalle quali parole si poteva dedurre che la competenza del pretore a decidere fosse limitata alla interpretazione dei contratti liberamente stipulati tra le parti. Ma la prima parte dell’articolo legittimamente poteva essere interpretata nel senso che il pretore avesse il potere di decidere con sentenza inappellabile sui salari orari e condizioni del lavoro. Era un precedente veramente rivoluzionario; ma fatta rilevare la grossissima novità, la commissione parlamentare mutò senz’altro, senza opposizione del governo, l’arbitrato obbligatorio per sentenza di pretore, in tentativo di conciliazione fra le parti (cfr., qui, alle pp. 507-15, Il progetto di legge sul lavoro nelle risaie: dall’arbitrato alla

conciliazione, del 4 marzo e 17 maggio 1907).

 

 

Non vorrei che quel che scrivo oggi nella prefazione e sovratutto quel che si legge nel testo potesse essere interpretato come un giudizio negativo su tutta l’opera economica e politica dell’uomo che resse la somma delle cose nel primo decennio del secolo. In primo luogo, i problemi economici e sociali discussi nel testo, pure se agli occhi miei rilevantissimi, sono alcuni soltanto di quelli che furono materia di dibattito in quell’epoca. In secondo luogo, delle questioni politiche, militari, religiose, scolastiche, nazionali e internazionali, che affaticavano gli uomini di stato, qui si fa cenno solo di passata.

 

 

Non di tutto quel che accadde nel settennio il merito o la colpa può essere del resto data agli uomini di governo. Anche allora, come in tutti i tempi ed in tutti i paesi, quel che accade non è massimamente, anzi è solo in piccola parte, dovuto all’opera dei governi; e questi, quando si attribuiscono meriti di accadimenti prosperi, fan spesso come le mosche cocchiere, le quali ai buoi aggiogati all’aratro con sicumera comandano: «ariamo». Forseché, se il reddito nazionale cresce in un paese di anno in anno del cinque per cento, è agevole dimostrare, salvoché col sofisma del post hoc propter hoc, che l’incremento è dovuto al governo, il quale aveva per l’appunto pianificato o, meglio, previsto un incremento uguale? Già dissi sopra che gli anni del secolo nuovo erano caduti in una fase del ciclo economico collegata dall’euforia dei cresciuti mezzi di pagamento aurei; sicché del prospero andamento dell’economia mondiale male può essere dato merito ai governanti dei singoli paesi, i quali pur attuavano politiche economiche diversissime.

 

 

Se si bada soltanto a quella che dalle pagine del testo risulta essere stata l’azione dello stato in materia economica e sociale negli anni dal 1903 al 1909, non si trae davvero ragione di conforto sulla sua fecondità.

 

 

Proponevano bensì talvolta gli uomini dei governi giolittiani riforme dette «coraggiose», per esempio in materia tributaria; ma le proposte non erano sostenute a fondo, sicché cadevano volentieri, in seguito a mutazioni di governo o ad elezioni generali. Sotto il suo regime si attuarono talune cose grossissime, come la rivoluzione, la quale sostituisce alla proprietà privata delle miniere di zolfo la gestione da parte di un pubblico consorzio, gestito sovratutto da organi statali; o quell’altra, non condotta a termine, che confiscava, a pro dei comuni, con indennità negativa, la proprietà privata delle aree fabbricabili. Ma le novità grossissime si attuarono in mezzo alla disattenzione universale; laddove altre novità pur grosse, come l’esercizio ferroviario di stato, erano decise tumultuariamente sotto l’urgenza dello scadere delle convenzioni antiche e senza provvedere alle esigenze del grande mutamento.

 

 

Talvolta le incertezze furono lasciate trascinare a lungo, come nel caso di quel nido di vipere quali erano per fermo le convenzioni marittime; ma non si avvertì abbastanza che se la politica, prediletta dall’on. Giolitti, del rinvio riusciva non di rado ad evitare soluzioni affrettate e dannose, talvolta invece aggravava il male. Auguravo, (cfr., qui, p. 743) il 6 luglio del 1909, che l’on. Giolitti, coll’autorità del nome e coll’appoggio della sua fida maggioranza, consentisse a studiare meglio il problema, non nell’intento di aumentare i voti a lui favorevoli, grazie alla concessione di approdi e agevolezze a minimi interessi locali, ma perché lieto di una manifestazione di fiducia del parlamento nella sua capacità a tutelare gli interessi più alti del paese.

 

 

La sua, veramente insigne, capacità di semplificare i problemi, nascondeva forse la insofferenza verso i politici ed i pubblicisti, troppo disposti a dar rilievo a questioni che a lui sembravano ad arte ingrossate e complicate. A lui bastava affrontare i quesiti che ogni giorno la realtà gli poneva, quesiti diversissimi gli uni dagli altri in un paese tanto vario come il nostro.

 

 

Pur avendo dovuto dare, sul fondamento esclusivo e parziale di quel che scrivevo allora, un giudizio non laudativo dell’opera dello statista, debbo dire che dura nell’animo mio la impressione ricevuta quando verso il 1899, nella stanza di Luigi Roux, direttore della «Stampa», con giovanile improntitudine chiesi a lui, non ancora ritornato al governo, ma già capo della opposizione, che cosa bisognasse fare per trarre il paese dai mali passi ai quali si era condotto dopo le giornate del maggio 1898 ed egli rispose nel nostro dialetto vënta gövernè bin. Alla quale regola del dovere di governare bene, nel senso di esatta conoscenza ed opportuna scelta degli uomini, dominio fermo e cortese di essi, conoscenza precisa della pubblica amministrazione, regolarità metodica nelle ore del lavoro, del riposo, dei pasti e della ricreazione; assiduità scrupolosa ai lavori parlamentari; chiarezza e brevità lapidaria nel discorrere pubblico (rimase famosa la risposta ad un deputato novellino suo corregionale, il quale gli chiedeva consiglio sul momento e sul modo opportuni del suo debutto: «quando avrà qualcosa da dire, chieda la parola ed, ottenutala, esponga il suo pensiero. Quando avrà detto il necessario, si segga»); perizia consumata nei dibattiti in assemblea, nei quali eccelleva la sua abilità nel ridurre, passando sopra medesimamente ai grovigli complicati ed alle obbiezioni sostanziali, i problemi al nocciolo più consentaneo alla sua tesi; vita morigerata esemplare, sicché nessuna accusa di indole finanziaria mai poté essere rivolta contro di lui e la modesta fortuna da lui lasciata ai figli fu quella sola che, insieme coll’eredità avita accuratamente conservata, nella lunga vita di ottantacinque anni egli ritenne suo dovere di mettere da parte col risparmio quotidiano e con la prudente maniera, allora possibile, di investirlo. La lode all’uomo pubblico e privato si conchiude con la domanda: visse ed operò in quel tempo altro uomo di stato meglio capace dell’on. Giolitti a governare quegli italiani che allora vivevano e dovevano essere governati? La risposta è necessariamente siffatta da costringere i critici più ostinati di quel tempo ad inchinarsi rispettosamente alla sua memoria.

 

Della fonte del risparmio e della tassazione del reddito normale come approssimazione alla esclusione del risparmio dalla materia imponibile

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1958, pp. 451-468

161. Mentre meditavo, con sommo diletto, come accade per i libri belli, sulle pagine dei Principii del De Viti e cercavo di inseguire colla mente le trasmutazioni dei beni strumentali in beni diretti e le conseguenti vicissitudini tributarie, mi accadde di leggere, nelle ore in cui la mente ama riposare, uno dei più attraenti e meritamente fortunati romanzi d’oltre Atlantico, Maria Chapdelaine, di uno scrittore, ignoto ieri famoso oggi, Louis Hémon, morto giovine innanzi che la gloria del suo unico libro potesse essere oscurata dalla possibile mediocrità di quelli che forse sarebbero venuti di poi[1]. È il poema potente del pioniere nel Canadà francese, la rivelazione del perché un pugno di uomini, non più di 80 000, abbandonati dalla madre patria nel 1763 si sia moltiplicato (circa 2.750.000 nel solo Canadà, senza contare le propaggini numerose degli Stati Uniti), abbia popolato province, e sia oggi divenuto il popolo più prolifico, più compatto, più tradizionale e vivo dell’America settentrionale. Leggendo quel libro, si sentono le ragioni profonde che muovono gli uomini alla conquista della terra, che fanno le famiglie, le razze grandi e durature. Si vedono anche, e perciò ricordo quel romanzo, nitidi, non oscurati da superstrutture monetarie e da convenzioni verbali, i fenomeni del lavoro, del salario, del profitto, del risparmio. La terra si stende vasta, senza limiti, dinnanzi agli occhi del pioniere ma coperta di abeti, di pini, di sterpi e cespugli d’ogni sorta; ma priva di strade, ma intersecata da fiumi, ma sepolta per sette mesi dell’anno sotto una spessa coltre di neve e di ghiaccio. Samuel Chapdelaine è un pioniere, che ha l’istinto dell’ignoto, del lontano. Uno dopo l’altro egli ha dissodato tre o quattro poderi. Solo, con la fedele compagna della sua vita, egli si ferma su un terreno, dove il pascolo gli permetta di alimentare le sue due vacche e dove esista la possibilità di «fare della terra». «Io, dal mattino alla sera, batti e batti colla scure, senza mai tornare a casa eccetto che a pranzo, e lei, lungo tutta la giornata, ad attendere alla casa a curare gli animali, a tenere le chiusure in ordine, a pulire la stalla, faticando senza tregua. Tre o quattro volte al giorno, davanti alla porta, restava un momento a guardare là dove io, giù al limite del bosco, a tutta forza sbarazzavo colla scure il terreno dai cespugli e dai tronchi per farle della terra». Quando in luglio le sorgive attorno alla casa inaridiscono, la donna otto o dieci volte al giorno scende al torrente e a braccia ed a spalle porta su l’acqua per le vacche. Anni ed anni, di duro lavoro e di «miseria» si susseguono; e poi vengono i figli e il lavoro ricomincia su terre nuove, più adatte ai bisogni della cresciuta famiglia. Quando i figli sono ancor piccoli, il pioniere assume un servo di campagna per aiutarlo «a fare la terra»; divenuti capaci al lavoro, il servo non più necessario non è licenziato; ma, d’inverno, quando la terra è coperta di neve, con i due figli maggiori, se ne va a guadagnare il pane come boscaiolo, al soldo di una delle società le quali più in alto ancora «fanno» legna da costruzione e materia prima per le cartiere.

162. Il reddito dove è? È il frumento, è il latte, è il formaggio, è il burro, è la lana, è la carne che ogni anno si trae fuori dalla terra fatta.

Il risparmio dove è? È il «fare la terra», l’abbattere alberi, farne travi ed assi e con quello fabbricare la casa e la stalla e le chiudende.

È l’allevamento di una prima vacca e poi di parecchie che utilizzino i pascoli anch’essi fatti, ripuliti da tronchi, da pietre, divisi in chiudende.

L’imposta su che cosa cade? O meglio in che cosa possiamo noi credere debba cadere l’imposta affinché Samuel Chapdelaine la ritenga equa? Sul frumento, sul latte, sul formaggio, sul burro, sulla lana, sul godimento della casa d’abitazione; sui beni diretti che la famiglia di mano in mano riesce a procurarsi in copia sempre maggiore.

L’imposta non cade sul fare «la terra», sul costruire la casa, sull’allevare vacche e vitelli; perché la terra che si sta facendo, la casa che si costruisce, le vacche che crescono sono beni strumentali; e Samuel Chapdelaine sentirebbe subito che l’imposta lo colpisce due volte; prima nella terra che si fa e poi nel frumento che esce dalla terra fatta, prima nella casa che egli ed i figli mettono su tronco a tronco e poi nel riposo di cui godranno contro le nevi ed i venti del lungo inverno.

163. E il risparmio da dove sorge? Non da un salario non pagato; non dall’avere negato al servo di campagna, il quale da undici anni, ad ogni ritorno dell’estate ritorna anch’egli sul podere, un centesimo di quel che gli è dovuto per il suo lavoro. Viene dalla fatica e dalla «miseria» che Samuel Chapdelaine ed i suoi hanno durato per tanti anni. Viene anche, sebbene egli non ne abbia neppure coscienza, dalla sua capacità di pioniere, dall’amore che egli ha per la terra nuova, mai prima abitata, dall’ambizione di «fare» della terra sempre più bella, dove finalmente i suoi figli possano mettere radici. Altri, suo vicino, non riesce a vivere nemmeno sulla terra «già fatta». Sono arrivati da poco, nei dintorni, tre francesi della Francia, tre uomini dalle mani di cittadini, che parlano un francese ricercato tanto diverso dal semplice francese del secolo XVII e che questi rudi canadesi guardano con stupore ed ammirazione, quasi fossero uomini di un’altra razza. I loro vicini ed essi medesimi sono persuasi che il fallimento li aspetta. La terra, sebbene già fatta, non è in grado di dare neppure un salario a chi non è capace di amarla, di fecondarla, di aspettare. Essa mangerà i risparmi vecchi che i nuovi venuti si sono portati dalla Francia; e li rigetterà sulle vie della città da cui sono venuti.

164. Così è dappertutto. Nello stesso modo come il risparmio non va da sé al pioniere, né egli lo trae da un salario non pagato; né consiste nel frumento, nel latte, nella lana che egli consuma o che vende per procurarsi altri oggetti di consumo; ma viene da un lavoro di fatica materiale, di previsione, di organizzazione per cui si aspetta ancora una remunerazione (frumento degli anni futuri, abitazione per l’inverno prossimo); cosi dall’imprenditore della nostra complicata società il risparmio non si fa con le spese sostenute per acquistare materie prime, per salariare impiegati ed operai, per prendere a nolo il capitale necessario all’impianto della fabbrica. Tutte queste spese l’hanno sostenute anche altri, l’ha sostenute anche il progettista che si è gittato, senza le volute qualità, nella stessa impresa e che dal mercato è costretto a pagare, al paro dell’imprenditore, l’intiero salario all’operaio, l’interesse completo al capitalista, il prezzo pieno delle materie prime al fornitore. Ma l’imprenditore ottiene un profitto e può risparmiare, laddove il progettista perde; ed i profitti ottenuti dagli imprenditori, come le perdite dei progettisti sono disposti lungo una gamma positiva e negativa che va, nei due sensi, dallo zero a limiti non precisabili.

165. Il problema che deve risolvere l’imposta è di una complicazione straordinaria:

— l’imposta deve colpire tutta la massa dei beni diretti che sono prodotti e consumati nell’anno, in proporzione alla quota, netta da spese, con cui ogni contribuente partecipa alla massa comune;

— l’imposta non deve colpire la terra che si fa, il bene strumentale che si crea nel periodo od anno considerato, e che non si è ancora trasformato in beni diretti. La tassazione in questo momento farebbe doppio con la tassazione dei beni diretti in cui i beni strumentali sono poi destinati a trasformarsi;

— l’imposta deve colpire la terra che si disfa, il bene strumentale che si consuma nel periodo od anno considerato; perché il disfacimento della terra, il consumo del bene strumentale vogliono dire la loro trasformazione in beni diretti, senza ricostituzione della frazione consumata. Se non si tassasse, come oggi non si tassa[2] il logorio della terra e dei beni strumentali, una frazione, dei beni diretti prodotti nell’anno sfuggirebbe all’imposta.

166. I soli legislatori, i quali risolsero il quesito nella maniera concretamente la più approssimata all’equità, che si voleva raggiungere, furono[3] quei «grandi economisti che, ignoti all’Europa reggevano nel secolo scorso [XVIII] le sorti della Lombardia». Essi scopersero il metodo della tassazione del reddito normale od ordinario, detto anche catastale, col quale non si cerca la verità di fatto sui guadagni e sulle perdite che hanno i singoli contribuenti; ma si indaga quale sia il reddito che, data quella terra di una certa fertilità e posizione e cultura, o data quella attrezzatura di fabbrica, l’imprenditore normale riuscirebbe ad ottenere. L’imposta colpisce quel reddito normale, che una quantità superiore ai redditi bassi ottenuti dagli imprenditori inabili ed alle perdite dei progettisti, ed inferiore ai redditi alti conseguiti dagli imprenditori abili e fortunati. Altrove[4] ho studiato quali siano le caratteristiche economiche e tecniche del metodo catastale, che lo pongono bene al disopra dei metodi «barbari» (cosi qualificati dal Cattaneo) con cui nelle «colte nazioni» si infliggono multe all’attività dei contribuenti e che oggi son di moda col titolo di imposte sul reddito vero od effettivo. Ed ivi ho anche dimostrato tutti gli inconvenienti e le difficoltà della tassazione dei sovraredditi o dei redditi effettivi individuali.

167. Qui, sviluppando un pensiero accennato in altra occasione, importa mettere in rilievo come il metodo della tassazione del reddito ordinario sia altresì un avvedimento il quale attua mirabilmente le esigenze della tassazione dei soli beni diretti, ad esclusione degli incrementi dei beni strumentali.

Che cosa è invero il reddito ordinario se non quello che è ottenuto dall’imprenditore ed in generale dal contribuente medio il quale utilizza il fattore di produzione, che è suo, secondo le attitudini di un buon padre di famiglia, secondo cioè attitudini medie, normali, non eccellenti e non deteriori? In ogni campo, il reddito normale ottenuto dal contribuente che io chiamerei rappresentativo, se non fosse più chiaro tenersi alla terminologia, oramai tradizionale, di contribuente marginale[5].

Se imprenditore, è contribuente marginale colui il quale paga ai lavoratori il salario corrente, al capitalista l’interesse di mercato, ai fornitori il prezzo corrente per le materie prime e i macchinari e guadagna per sé la remunerazione ordinaria spettante ad uomini dotati della capacità direttiva ed organizzativa richiesta normalmente per la sua funzione.

Se lavoratore, è contribuente marginale colui il quale compie il lavoro normale relativo alle sue attitudini e riceve il salario corrispondente.

Se professionista è contribuente marginale colui il quale utilizza le sue attitudini professionali in modo da ottenere altresì un reddito corrispondente ad esse.

Se proprietario è contribuente marginale colui che mantiene il suo terreno in condizioni di efficienza normale secondo le consuetudini invalse e le norme tecniche generalmente osservate nella sua zona agraria e ne ricava un reddito, variabile da terreno a terreno, ma tale da non eccedere né rimanere al di sotto di quello che ordinariamente sì ottiene in quelle condizioni.

Se capitalista, è contribuente marginale colui che non cerca impieghi particolarmente avventurosi, ma si tien pago del frutto che normalmente si può ottenere dal risparmio impiegato con la sicurezza che si confà alla prudenza propria dei buoni padri, di famiglia.

E così via. Il contribuente marginale è colui che non disfa la terra ma nemmeno la fa; è colui che non cresce la dotazione iniziale in beni strumentali, ma neppure consente che diminuisca per logorio non riparato. È il contribuente conservatore del patrimonio avito, che lo mantiene intatto, che è attento a ricostituire ma non in grado di costruire. Se tutti i contribuenti fossero marginali e ottenessero né più né meno che il reddito necessario a remunerare l’opera loro, sia di lavoro manuale come di lavoro intellettuale, sia di esecuzione come di organizzazione direttiva, sia di impiego di capitale come di utilizzazione delle loro proprietà, la società economica non muterebbe di tempo in tempo. Ogni anno un flusso costante di beni diretti sarebbe messo a disposizione degli uomini e sarebbe consumato; ogni anno una frazione della terra «fatta» ridiverrebbe selvatica, una frazione delle case costrutte crollerebbe, una frazione delle macchine, delle navi, delle strade, delle scorte esistenti si logorerebbe trasformandosi in beni diretti; ed ogni anno, formiche pazienti, gli uomini provvederebbero alla reintegrazione dei fattori distrutti, dimodoché, ferma rimanendo la dotazione di beni strumentali, costante risulterebbe il flusso dei beni diretti.

In questa immaginaria condizione di cose, lo stato preleverebbe ogni anno una frazione di beni diretti annualmente prodotti e rispetterebbe la dotazione, perpetuamente rinnovellata e conservata, dei beni strumentali.

168. La società vera non è uguale alla società immaginaria. V’ha chi sale e chi scende. Vi sono i contribuenti sub-marginali, i quali non giungono a guadagnare il salario normale, l’onorario normale, il profitto d’intrapresa ordinario, il reddito fondiario dominicale ordinario. Siccome i loro bisogni sono però, per ragioni psicologiche di imitazione, per la inconsapevolezza delle proprie loro qualità inferiori alla media del compito che essi si sono assegnato[6], cosi essi consumano più del reddito in beni diretti che realmente producono, disgregando cosi a poco a poco la dotazione di beni strumentali che avevano ereditato da un periodo precedente. E la disgregano altresì perché, non essendo in grado di usarne economicamente, il logorio che il tempo e l’uso producono non è compensato da una produzione sufficiente a fornire quote normali di manutenzione, riparazione e reintegrazione.

E vi sono i contribuenti sopra-marginali, i quali dalla stessa dotazione di beni strumentali, e possiamo per i lavoratori considerare come beni strumentali le attitudini congenite od acquisite, riescono ad ottenere più del salario normale, del profitto marginale d’intrapresa, del reddito dominicale ordinario della terra. Se, come spesso accade, i loro bisogni di consumo immediato non crescono subito solo perché crescono oltre l’ordinario i loro redditi, costoro dedicheranno il supero oltre il reddito normale, ordinario, sufficiente per il tenor loro di vita già invalso, alla produzione di nuovi beni strumentali, in aggiunta alla reintegrazione di quelli che già esistevano all’inizio di ogni tempo successivo.

169. Se i beni strumentali sono visti come opere di rimboschimento e di sistemazione della montagna, di sistemazione e di arginatura del fiume, di costruzione di canali adacquatori nelle loro varie ramificazioni, dalle maggiori alle più minute, di livellazione di terreni, noi diremo che in una società di uomini marginali, tutte cotali opere vengono mantenute in perfetto stato, ma non vengono migliorate. Lo stesso volume d’acqua viene convogliato, gli stessi campi vengono adacquati, la stessa massa di beni diretti viene prodotta di anno in anno.

In una società progressiva, di uomini sub-marginali, la montagna trascurata, gli argini non sono curati, i fossi adacquatori a poco a poco si colmano. La degradazione è insensibile. Gli uomini ottengono in ogni anno un frutto dalla terra quasi uguale a quello dell’anno precedente; quasi, ma non proprio lo stesso. Dopo dieci, dopo vent’anni la differenza è sensibile. Dopo cent’anni, dove erano fiorenti campagne, ricche di uomini, domina la malaria e pascola il bufalo.

In una società progressiva, di uomini sovra-marginali, la montagna è sempre è meglio curata, il rimboschimento viene spinto alle massime altitudini, la terra viene trattenuta con opere di difesa, con sbarramenti, con laghi artificiali, gli argini sono resi infrangibili, il deflusso delle acque viene regolato e portato a beneficare una superficie agraria sempre più vasta. I frutti della terra crescono di anno in anno e mantengono copia crescente di popoli sempre più rigogliosi.

170. Quale condotta deve tenere l’imposta dinnanzi a questi tre tipi, i quali non sono in verità di società stazionarie; regressive o progressive, ma tipi di uomini conservatori, dilapidatori e costruttori nella stessa società; tipi dal cui alterno prevalere dipende lo stato di stazionarietà, di decadenza o di progresso della società intiera?

I grandi economisti, che si chiamarono Don Vincenzo De Miro, Pompeo Neri, Gian Rinaldo Carli, Cesare Beccaria, Pietro Verri diedero al quesito questa memoranda risposta: «comportati, o stato, nel distribuire l’imposta come se tutti gli uomini del tuo paese appartenessero al tipo degli uomini marginali o normali. Ignora l’esistenza degli uomini sub e sopra-marginali»[7].

171. Perché, invero, lo stato dovrebbe preoccuparsi delle esigenze degli uomini che non sanno utilizzare normalmente i beni strumentali di cui sono forniti o che li utilizzano eccezionalmente bene? Non ha reso egli parimenti i suoi servigi a tutti? Il suo esercito non ha forse difeso tutti ugualmente, il suo magistrato e il suo funzionario non hanno forse tutelato di tutti egualmente i beni e la integrità fisica? Non ha fornito a tutti uguali opportunità di istruirsi e di elevarsi? Perché dovrebbe lo stato soffrire le conseguenze della cattiva condotta altrui o partecipare ai vantaggi di una condotta particolarmente buona, di cui il merito non risale fino a lui? Perché dovrebbe lasciare intristire i suoi servigi solo perché taluno dei contribuenti non è in grado o non ha voglia di utilizzare i suoi mezzi di produzione? Perché dovrebbe magnificare ed ingrossare i suoi servigi fin dal momento in cui il contribuente pianta l’albero sulla montagna e non aspettare, come fanno gli uomini del suo paese, ad estendere i suoi compiti, a spendere di più, quando, per opera del rimboschimento montano, la terra del piano abbia cominciato a fruttare maggiormente?

Che se lo stato vuole, come talvolta bene deve volere, essere il primo degli imprenditori sopra-marginali del suo paese; se vuole trasformare l’indirizzo della produzione in guisa da produrre, per il momento, minor copia comparativa di beni diretti pronti all’immediato consumo e maggior copia di beni strumentali; se cioè vuole prelevare imposta per costruire, esso, quelle opere di rimboschimento, di arginatura, di redenzione delle terre sommerse e paludose; se perciò intende ridurre i redditi consumabili presenti per crescere i redditi consumabili futuri; perché mai dovrebbe ripartire queste stesse straordinarie imposte in guisa da lasciare immuni i contribuenti sub-marginali, i dilapidatori delle dotazioni già esistenti di quei beni marginali che egli vuol crescere e da tassare di più coloro che, per la loro indole sopra-marginale, spontaneamente collaborarono già all’impresa sua di incremento della attrezzatura economica del paese? I frutti dell’opera statale non andranno forse a beneficio potenzialmente, di tutti i produttori, anche dei sub-marginali? Se questi non ne sapranno trarre loro pro, perché i contribuenti sopra-marginali, debbono soffrire il danno della loro incapacità e della loro ignavia?

172. A questo punto siamo in grado di modificare la norma esposta dal De Viti la quale dice (cfr. sopra § 38):

«tutti, consumando servizi pubblici generali in proporzione al proprio reddito, debbono pagare imposta in proporzione a quel reddito»;

in quest’altra:

«tutti, consumando servizi pubblici generali in proporzione al proprio reddito normale — al reddito che il produttore o lavoratore normale avrebbe avuto ordinariamente in rapporto ai mezzi di produzione posseduti — debbono pagare imposta in proporzione a quel reddito normale».

173. La norma posta dal De Viti è un tentativo di risposta al quesito: quale è il consumo individuale dei servigi pubblici generali? Come si osservò sopra, ogni fattore di produzione riceve una remunerazione corrispondente al valore del suo apporto. Possono verificarsi attriti, errori, danni sociali a causa delle maniere con cui il mercato fissa la remunerazione di ogni fattore; ed una branca importantissima della scienza e dell’arte economica è quella che studia quegli attriti, errori e danni e ne indica i rimedi. La regola normale è: la remunerazione del lavoro è in funzione del valore del lavoro, non del valore di un altro fattore della produzione, del capitale o della terra o del genio di intrapresa; la remunerazione dell’imprenditore è in funzione del valore del suo apporto e non del valore di qualsiasi altro apporto, ad esempio del lavoro o della terra. Il solo stato vede determinata la sua remunerazione in funzione non del valore del suo apporto alla produzione comune, ma in funzione del reddito dei contribuenti, ossia della remunerazione di ogni altro fattore della produzione.

È questa, in un terreno oscuro e destinato a rimanere oscuro per sempre, la migliore approssimazione esistente alla verità ignota. Ma sia ben chiaro che è una approssimazione imperfettissima. Perché il valore dell’apporto fornito dallo stato dovrebbe essere proporzionale a volta a volta al valore dell’apporto degli altri fattori della produzione, del capitalista, del lavoratore, dell’imprenditore? Nessuno degli apporti di questi altri fattori è misurato in questa maniera bislacca. Il salario dell’operaio non è una proporzione costante del profitto dell’imprenditore, né questo di quello. Le proporzioni variano da caso a caso e sono determinate dal principio di dare a ciascuno fattore quel che esso si merita, qualunque siano le proporzioni rispettive, che dall’attribuzione derivano.

174. A me pare che l’aggiunta dell’aggettivo «normale» alla proposizione posta dal De Viti faccia compiere un progresso ai criteri di valutazione dell‘apporto statale. Senza quell’aggiunta, la norma lascierebbe all’arbitrio degli altri fattori della produzione di pagare o non pagare lo stato a seconda del «proprio» successo nel collaborare all’opera comune. L’incapace, il presuntuoso che perde non pagherebbe nulla; il capace e laborioso pagherebbe assai. Lo stato sarebbe una specie di parassita che si adatterebbe a riconoscere che il suo apporto non vale nulla se non val nulla quello degli altri collaboratori e acquista valore solo se gli altri gliene attribuiscono. Questa è una posizione teoricamente insostenibile. Ogni fattore vale per quel che vale, non per il valore che gli concedono altri in rapporto alla loro propria potenza produttiva. L’operaio non pensa affatto che il suo lavoro non valga nulla, solo perché il suo imprenditore sciaguratamente fallisce. La norma per cui gli operai sono pagati, ad uguale abilità, ugualmente da imprenditori diversamente fortunati, è molla potente di progresso economico e contribuisce alla eliminazione degli imprenditori disadatti ed alla vittoria dei migliori.

L’aggiunta dell’aggettivo «normale» ha per iscopo di mettere lo stato nella stessa situazione di tutti gli altri fattori della produzione. Sia pure che lo stato sia pagato, non potendosi scoprire norma migliore, in funzione del valore degli altri fattori di produzione e non del valore proprio; ma sia pagato da tutti in relazione al valore che ogni singolo fattore normalmente ha, astrazione fatta dal successo od insuccesso individuale. I servigi pubblici sono resi a tutti, e non è colpa dello stato se gli altri fattori non sanno utilizzare le forze produttive di cui essi dispongono[8].

175. Né vi è alcuna maggiore difficoltà nel calcolare il reddito «normale» sociale e nel distribuirlo, senza salti o doppi, fra i componenti la società, di quel che vi sia nel calcolare e nel ripartire il reddito «effettivo», ossia la somma delle perdite, dei redditi normali e di quelli eccezionali in effetto di momento in momento da ogni singolo contribuente ottenuti. Anzi questa seconda operazione è un impossibile pratico, fonte di sperequazioni salti e doppi senza fine[9]; laddove la prima è operazione comunemente compiuta dai periti stimatori per scopi svariati e di fatto preferita dai funzionari delle imposte per la ripartizione dei redditi i quali non risultano da documenti certi.

176. Il comandamento di ripartire l’imposta in proporzione al reddito «normale» non è identico alla norma che logicamente deriva da tutta la dimostrazione di questa e della precedente mia memoria: «non tieni conto del risparmio quando esso si compie e tassalo quando esso si ritrasforma in consumo»[10]. Intendo insistere su questa dichiarazione di non identità, poiché, in tutta questa controversia, è troppo frequente sì elevino a dignità di obbiezioni, scoverte dai critici, le riserve messe avanti dall’espositore della tesi principale. Osservai ripetutamente che altra cosa è la determinazione di un principio, altra la ricerca intorno ai limiti della sua applicazione concreta. Il principio della esclusione del risparmio dalla materia imponibile non può applicarsi integralmente, perché e finché gli uomini sono quello che sono, ossia invincibilmente tratti, in tutti i tempi e in tutti i paesi, a non assolvere, appena scoprano la via di sfuggirvi, il debito d’imposta. Imprudente sarebbe quel legislatore il quale facesse astrazione dall’indole umana o presumesse rimediarvi colla sola minaccia di pene anche fortissime. Il rimedio migliore è la sapienza sua nel legiferare; e sovratutto nell’escogitare espedienti atti ad attuare il principio senza pericolo per il tesoro e senza eccitare l’invidia di coloro che non sanno risparmiare o risparmiare meno ai altri.

177. Il principio della tassazione del reddito normale è qualcosa di più di un espediente. Al pari della esclusione dalla materia imponibile dell’incremento legnoso dei boschi prima del taglio dell’albero maturo, dell’incremento di valore delle aree fabbricabili prima della realizzazione dei fitti della casa costruita, dei premi di assicurazione sulla vita, al pari della esenzione temporanea del reddito delle case nuove e delle nuove imprese industriali, la tassazione del reddito normale pare una traduzione concreta del principio della esclusione del risparmio dal novero delle cose imponibili, una traduzione meglio approssimata alle esigenze a cui una formula legislativa deve soddisfare per tener conto dei fattori morali, sentimentali, politici dei quali il legislatore deve preoccuparsi. Coloro che respingerebbero con disdegno la cosidetta esenzione al risparmio del ricco, accettano e plaudono alle esenzioni a chi rimboschisce i monti, a chi, fabbricando nuove case, da ricovero alle moltitudini, a chi, migliorando terreni o promuovendo industrie, dà lavoro agli operai. Il disdegno e la lode sono parimenti privi di significazione teorica. Il legislatore, tuttavia, che dei sentimenti umani deve preoccuparsi grandemente, opera bene a fingere similmente disdegno ed a far cosa che gli procacci lode. Cosi facendo, scema gli attriti che si oppongono al suo saggio operare.

178. La tassazione del reddito normale è la approssimazione più ampia e probabilmente più perfetta che si conosca al principio della esclusione del risparmio dalla materia imponibile. Come fu osservato dianzi, il contribuente sub-normale, il quale perde o guadagna di meno di quello che è comunemente considerato il compenso normale per il lavoro o per l’impiego di capitale da lui compiuti non è certamente quasi mai in grado di risparmiare, anzi è addetto di solito al consumo del risparmio da lui o da altri già accumulato. L’imposta sul reddito normale, tassandolo anche sul reddito che egli non produce, obbedisce, in quanto è possibile, alla norma teorica di tassare il risparmio quando esso viene consumato, i beni strumentali quando si logorano, senza essere ricostruiti.

La zona grigia dei contribuenti marginali, i quali ottengono per l’appunto il reddito normale o poco se ne discostano, comprende coloro che guadagnano e spendono in conformità al tenor di vita corrente, che, non avendo, come produttori, gli ardimenti propri del pioniere e del costruttore non sanno discostarsi, come consumatori, dai costumi del tempo in cui vivono. L’imposta li colpisce in pieno. Non essendoci in media un margine pratico di risparmio, la regola teorica è nella maggior parte dei casi osservata.

179. I contribuenti sopra-normali sono i soli i quali abbiano un margine effettivo di risparmio. Risparmia il pioniere, il quale «fa terra» nelle regioni deserte del Canadà, in aggiunta al lavoro normale di produzione di beni diretti; risparmia il contadino, il quale in Sicilia e nel Monferrato rompe la terra dura e vi pianta la vigna; risparmia l‘operaio che lavora a cottimo e guadagna i premi di produzione concessi ai più diligenti e la cui moglie tiene una piccola bottega od assume lavori in casa per le ore libere; risparmia il professionista, il quale cura con particolare amore la clientela e se la affeziona e la allarga; risparmia l’imprenditore il quale sa organizzar bene i fattori della produzione e pagando gli stessi salari e gli stessi prezzi dei concorrenti, guadagna dove altri perde. Dove esiste un reddito differenziale, sopra-normale, ivi è la possibilità del risparmio. Possibilità non equivale a risparmio in effetto; ma è una marcata approssimazione ad esso. Le generazioni, le quali spendono tutto il reddito prodotto, non sono le generazioni che costruiscono beni strumentali. Coloro che fanno la terra, che creano l’impresa non hanno tempo, voglia, attitudini a spendere nulla più del reddito normale. Verranno poi le seconde generazioni dei conservatori e le terze generazioni dei dilapidatori. Per ora, la generazione che costruisce, che aumenta la dotazione di beni strumentali, spende forse meno del normale e al più poco al di sopra del normale. Le eccezioni sono proprie dei tempi di rivoluzioni monetarie ed economiche, dei nuovi ricchi a cui la ricchezza è venuta per un colpo di fortuna. Normalmente, per coloro che hanno creato la agiatezza o la ricchezza con la tenacia e con il lavoro e con la capacità, l’eccesso sul reddito normale si identifica approssimativamente col risparmio. Cresce la spesa, ma non subito, prudentemente, dopo che la ricchezza si è consolidata, quando si cominciano a godere i frutti delle rinunce passate. La imposta, la quale colpisce il reddito normale; è una ottima approssimazione all’imposta ideale la quale esenta il risparmio.

180. Essa è conforme, finalmente, alle esigenze della vita dello stato, le quali, se lo stato è vivo, sono crescenti. Col tassare il reddito ordinario e coll’esentare implicitamente il risparmio, lo stato promuove, colla ricchezza dei privati, la propria grandezza.

«Il lungo intervallo di tempo tra una lustrazione e l’altra, — scrivevo io in La terra e l’imposta a proposito della rada ripetizione delle revisioni catastali, — è cagione di un benefico effetto. L’agricoltore, stimolato dalla esenzione dei sopraredditi oltre l’ordinario reddito catastale per i rimanenti anni a correre del trentennio, migliora la tecnica agricola, cresce 1a produttività dei campi. Gli sperimenti di novità, prima isolati, si moltiplicano. In capo al trentennio la terra è trasformata; e sono diversi i metodi culturali, i prodotti, gli uomini. Quel che era prodotto “ordinario” al momento della lustrazione precedente è divenuto l’infimo ricavo degli agricoltori più ignoranti, o meno capaci. L’agricoltore medio, buon padre di famiglia si trova spinto ben più in su nella scala della produttività ed il prodotto “ordinario” è ora uguale a quello che trent’anni prima era il sogno degli sperimentatori più ardimentosi. Ecco d’un tratto la finanza raccogliere il frutto della sapiente sua prudenza nel perseguire i redditi eccezionali. Ecco dimostrato che l’adeguare l’imposta ai frutti effettivi, variabili da uomo a uomo, invece che ai frutti normali, della terra non è solo, come esclamava Carlo Cattaneo, un barbaro errore economico, ma è anche un gravissimo errore finanziario» (La terra e l’imposta, p. 139).

Non sempre è tecnicamente possibile attuare il principio teorico con la mirabile approssimazione che si riscontra nella tassazione catastale del reddito normale della terra. Ma sempre, qualunque sia l’espediente osservato, se esso avrà per effetto di attuare la norma di tassare tutto e soltanto il flusso dei beni diretti prodotti, non si sarà creato alcun privilegio né concessa alcuna immunità, né commesso alcun errore di doppia tassazione. Non si raddoppia la imposta sui dilapidatori, quando si chiamano a pagare sul patrimonio distrutto. Pagano, come devono, sui beni che essi convertono da strumentali in godimenti immediati. Non si concede alcuna immunità ai costruttori quando non son tassati sul risparmio. Se fossero tassati, pagherebbero due volte, prima sui beni strumentali e poi sui beni diretti in che essi si trasformano. L’osservanza della norma che vuole tassati i soli beni diretti è la sola la quale consenta il progresso economico e abolisca gli attriti tributari che lo rallentano.

 


[1] Louis Hémon, Maria Chapdelaine, récit du Canada Francais. Le livre de demain, Armande Fayard, Editeur, Paris. Quel che l’ Hémon lasciò di inedito pare siano soltanto appunti.

[2] Come fu spiegato a suo luogo (§§ 64 sgg.), se Tizio possiede al 1° gennaio 100 unità di beni strumentali e queste si riducono, per logorio, a 90 e non sono ricostituire, il reddito tassabile non è, secondo le vigenti legislazioni, uguale alla massa di beni diretti 20 prodotta nell’anno; ma a questa meno l’impoverimento cagionato dal logorio, non ricostituito, dei beni strumentali. Il logorio non ricostituito deve invece essere tassato, certo non direttamente ma col non dedurne l’ammontare dalla massa tassata dei beni diretti.

[3] Sono parole di Carlo Cattaneo, citate in La terra e l’imposta, p. 137.

[4] Nel mio scritto La terra e l’imposta, Ibid, in Lezioni, 1926, pp. 203 sgg. e di nuovo Ancora le sperequazioni e le evasioni nell’imposta di ricchezza mobile (in «La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1925, pp. 13-21) ho studiato il fenomeno teorico e pratico del sistema della tassazione del reddito normale o catastale e le tendenze di tatto alla sua estensione anche ai redditi non fondiari.

[5] Nelle pagine che seguono e in conformità alla descrizione fatta qui di seguito nel resto, si considerano sinonimi e sono usati promiscuamente gli aggettivi normale e marginale, sub-normale e sub-marginale, sopra-normale e sopra-marginale.

[6] Spesso chi è imprenditore sub-marginale sarebbe ottimo impiegato. Ma la stessa cecità che lo ha persuaso a ritenersi dotato di qualità superiori o diverse da quelle sue gli fa mantenere altresì un tenor di vita superiore a quello dell’impiegato e proprio del ceto degli imprenditori e lo conduce alla rovina.

[7] In La terra e l’imposta a carte 134-37 ho riprodotto i classici brani di Gian Rinaldo Carli e di Carlo Cattaneo dai quali si ricava la norma dichiarata nel testo.

[8] Così si elimina l’obbiezione che il Ricci (in Reddito e imposta, 66) tra dall’esempio della povera miliardaria Hetty Green. Se l’imposta esentasse il risparmio fino al momento del consumo ed «Hetty Green investisse i suoi averi in speculazioni sbagliate, lo stato perderebbe milioni. Mentre, se la Green avesse anno per anno pagato le imposte sul risparmio nuovo, lo stato avrebbe riscosso parecchie somme con le quali avrebbe potuto pagar magistrati, soldati e simili». L’obbiezione in realtà non è mossa contro il caso particolare dell’imposta che esenti il risparmio, ma contro il caso generale dell’imposta la quale tassa il contribuente sul suo reddito «effettivo», se e in quanto egli lo ottenga. Perché, come è detto nel testo, lo stato deve essere pagato, per servigi che rende sempre, a coloro che guadagnano ed a coloro che perdono, solo nel caso che il contribuente guadagni? Qui sta il vero contenuto, validissimo, dell’obbiezione; non nella accidentalità che chi perde sia un fervente risparmiatore. Questo è caso rarissimo, laddove è frequente che perdano coloro che non sanno conservare il risparmiato da altri. Perché preoccuparsi tanto di un danno immaginario per lo stato, quando si trascura quello assai più frequente e grave?
L’altra obbiezione tratta dal caso di Hetty Green si riferisce al caso limite in cui i risparmiatori risparmino sempre e non consumino mai. Lo stato rimarrebbe senza mezzi. Segue, nello scritto del Ricci, un brillantissimo quadro della società limite di accumulatori, tutti intenti a risparmiare, viventi una vita meschina senza godimenti spirituali, senza lusso. «Una comunità di gente sordida, dedita solo alla moltiplicazione della specie ed all’accrescimento del capitale sarà dunque additata come la società ideale? » (Ibid, 71).
Tutta la presente memoria e quelle precedenti essendo indirizzate a provare che la cosidetta esenzione del risparmio non è esenzione, ma esclusione di un doppio d’imposta, e che la tassazione del reddito prodotto o consumato conduce ad una situazione d’equilibrio, perché il contribuente non si sente indotto dall’imposta a preferire il consumo al risparmio e viceversa, cade l’obbiezione del limite infelice a cui sarebbe spinta la società per una causa inesistente.
Se è vero, come mi lusingo di avere chiarito almeno con un principio di prova, che l’imposta sul reddito guadagnato conduce ad una condizione di squilibrio e fa preferire, essa sì, il consumo al risparmio, vogliamo raffigurarci, a nostra volta, il limite estremo a cui tenderebbe la società, se quell’imposta agisse con tutta la sua forza e non fosse frenata dagli istituti tributari apparentemente contrastanti con il principio dell’imposta sul reddito guadagnato (imposte sui consumi, esenzioni ai redditi nuovi, alle case nuove; ai rimboschimenti, ecc. ecc.) che il legislatore è trascinato, dall’evidenza del buon senso e dalla previsione delle malefatte della sua teoria, a porre in essere? Se l’imposta scorretta riuscisse, con la tassazione differenziale, a frenare l‘accumulazione del risparmio, il tenor di vita rialzerebbe per un istante, le raffinatezze dell’esistenza ed i godimenti spirituali si intensificherebbero fino a quando l‘umanità potesse godere del fondo di beni strumentali e durevoli accumulati in passato. Ma il crollo sarebbe più duro, la decadenza più dolorosa in un secondo momento; quando per la mancata reintegrazione del capitale esistente e il venir meno del suo incremento, anche il flusso dei beni diretti sminuisse di volume. E sarebbe decadenza irremediabile; poiché appare assai più difficile ad un popolo decaduto di risollevarsi che ad un avaro di accorgersi dell’inutilità di accumulare senza tregua, senza assaporare mai i frutti dolcissimi della ricchezza posseduta. Esempi di società di questo secondo tipo sono rarissimi, quasi ignoti; laddove sono, purtroppo, frequenti i casi di società decadenti per eccessivi consumi e scarso spirito di rinuncia. In quale dei due tipi, lo stato è più forte?

[9] Cfr. per la dimostrazione di questo asserto i miei scritti sopra citati al § 143.

[10] Od ognuna delle norme equivalenti, in cui essa si può convertire, secondo le varie esigenze della realtà a cui essa si deve applicare.

Charles Rist

Charles Rist

«Rendiconti dell’Accademia nazionale dei Lincei», Appendice. Necrologi di soci defunti nel decennio dicembre 1945-dicembre 1955, 1956, pp. 32-35

Scuola e libertà

Prediche inutili, Torino, Einaudi, 1956, pp. 13-58

Non è mio proposito discutere né l’ordinamento scolastico proprio di un determinato sistema legislativo; né l’interpretazione delle norme stabilite nelle costituzioni e nelle leggi vigenti in questo o quello stato. Intendo invece indagare quale ordinamento rispetti meglio il principio della libertà.

Il principio di libertà non coincide con i principî accolti tradizionalmente dai gruppi o partiti che sono definiti in un dato paese come liberali; e, a cagion d’esempio, non coincide necessariamente con i principi che nel tempo del risorgimento diventarono norma giuridica nella legge Casati ed in quelle che su di essa, in prosieguo di tempo, si innestarono. Nella lotta, che durante il risorgimento ed il post-risorgimento si combatté dallo stato contro la chiesa, dal regno unitario contro i fautori degli antichi regimi, parve e forse era informata al principio di libertà la legge Casati e quelle che poi la seguitarono e variamente la attuarono.

Una discussione la quale assumesse a punto di partenza l’ordinamento che dal 1860 al 1922 era stato elaborato con fatica meritoria ed era comunemente reputato liberale, potrebbe essere feconda; ma non è quella che qui si vuole compiere. Volendo fare astrazione dai connotati che a poco a poco furono accolti nella legislazione scolastica italiana nel tempo detto liberale, non dò del principio di libertà alcuna definizione, che sarebbe, come accade di ogni definizione, assai pericolosa. Quel che sia, nella soggetta materia, il principio di libertà, dovrà risultare dal contesto medesimo della discussione.

A limitare il campo di questa, giova anche dir subito che essa non toccherà dell’insegnamento nelle scuole elementari, sì di quello nelle scuole medie ed universitarie. Se anche opinabile, la esclusione si spiega per due ordini di considerazioni. In primo luogo il costo della istruzione elementare, divenuta in ogni paese civile gratuita, universale ed obbligatoria, ha fatto sì che soltanto lo stato, intendendo per “stato” ogni maniera di ente pubblico territoriale od istituzionale fornito del potere di imposta, può assumersi l’onere di farvi fronte. Di fatto, senza contrasti notabili, è riconosciuta allo stato la prerogativa di fornire l’istruzione elementare. La gratuità dell’insegnamento elementare ha costretto la scuola privata a vivere al margine di quella statale. Essendo l’istruzione elementare gratuita, la scuola privata vive se soddisfi a particolari esigenze familiari, alle quali lo stato appaia disadatto. Del resto – ed è questa la seconda considerazione – né lo stato oppone in Italia obbiezioni grosse alla concorrenza privata, detta tra noi scuola materna, né la scuola privata troppo si lamenta del privilegio oneroso dello stato, anche perché l’insegnamento elementare offre scarso campo alle battaglie di idee che sono vive nelle scuole medie ed universitarie. Sebbene, anche nelle scuole elementari, si tenda ad allargare il campo dell’insegnamento ed alle antiche materie del leggere e scrivere e del far le quattro operazioni si siano aggiunti il disegno, il canto, la ginnastica e più in là, alcune nozioni di storia, di geografia, di diritti e doveri e simiglianti, trattasi pur sempre di nozioni elementari, che non mutano in misura notabile, solo perché si frequenti la scuola privata invece di quella pubblica. Le ragioni del preferire l’una all’altra non muovono, salvo in alcune contrade, ad esempio della Francia o del Belgio, dove sono vive le lotte religiose, da contrasti ideali, ma da circostanze pratiche: la vicinanza alla casa, la assistenza post-scolastica, il numero ristretto degli scolari in ogni classe, le amicizie o relazioni tra le famiglie degli scolari e simiglianti.

Il contrasto tra la scuola statale e quella privata nasce alla fine delle scuole elementari, che in Italia sono, per ora, quelle di cui la frequenza è obbligatoria. A questo punto le vie partono e si possono distinguere due tipi distinti sì, ma non tanto che si possa affermare che in alcun paese civile si attui perfettamente il monopolio statale ovvero esista piena libertà di insegnamento e di concorrenza da parte di istituti pubblici e privati. Si può affermare solo che l’un tipo informa in modo prevalente l’ordinamento scolastico in un gruppo di stati, laddove il secondo tipo prevale in un altro gruppo di stati. I due ordinamenti possono essere provvisoriamente denominati franco-italiano ed anglosassone, senza che si voglia con ciò riferirsi ai concreti ordinamenti esistenti di fatto nei due gruppi di paesi. Il riferimento sarebbe improprio, perché l’ordinamento italiano odierno non è lo stesso di quello francese; né si può affermare che esistano “ordinamenti” nei varii paesi anglosassoni, simiglianti a quelli che si possono costruire per deduzione dalle leggi vigenti nei due paesi latini. La denominazione ha soltanto per iscopo di riassumere sinteticamente alcuni essenziali connotati dei due sistemi, scelti non perché ognuno di essi sia in se stesso univoco, ma soltanto perché le caratteristiche le quali distinguono l’un tipo dall’altro, sono più notabili delle particolari variazioni che dentro ognuno di essi si riscontrano.

Tra i due ordinamenti assunti come tipici, sono osservabili altri sistemi scolastici: quello svizzero, nel quale la varietà è data dalla esistenza dei cantoni, gelosi della loro autonomia scolastica, sicché la confederazione non ha osato sinora andar oltre alla istituzione del Politecnico di Zurigo, università e scuole medie essendo riservate ai cantoni ed ai comuni; o quello germanico, dove la persistenza di recenti tradizioni di stati sovrani è cagione di spiccate originalità locali. Le recenti esperienze nei paesi comunisti sono ancora troppo scarsamente conosciute perché si possa andare al di là di una generica affermazione di rassomiglianza, con tratti più decisi, al tipo franco-italiano. Il quale, per brevità e per doveroso riconoscimento di paternità, meglio si dovrebbe dire napoleonico; ché la nascita del nostro ordinamento bene si può fare risalire a Napoleone, anche se in questo come in tanti altri campi, egli abbia sovratutto dato ordine sistematico ai principi legislativi che già l’antica monarchia aveva a poco a poco affermato e la rivoluzione aveva logicamente perfezionato.

Quale la logica dell’ordinamento napoleonico? Allo stato spetta il diritto e il dovere di provvedere all’insegnamento. Spetta ad esso e ad esso soltanto perché lo stato è il rappresentante della volontà generale. «Il principio di tutta la sovranità, – sta scritto nell’articolo primo della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino premessa alla costituzione del 14 settembre 1791 – risiede essenzialmente nella nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare alcuna specie d’autorità la quale non emani espressamente dalla nazione». Soltanto lo stato, emanazione della volontà generale della nazione, può insegnare o delegare ad altri il compito dell’insegnamento. Soltanto lo stato può quindi istituire o riconoscere istituti di insegnamento. Ginnasi, licei, scuole medie in generale, università, istituti universitari, accademie sono creati o riconosciuti dallo stato. Soltanto un’autorità pubblica può garantire la bastevolezza e la imparzialità dell’insegnamento. Soltanto lo stato può assicurare, scegliendoli per pubblico concorso, insegnanti adatti a formare la mente ed il carattere dei giovani. Soltanto insegnanti capaci danno garanzia che i giovani siano, dopo esame rigoroso ed imparziale, promossi meritamente dall’uno all’altro grado di scuola; ed infine licenziati con dichiarazione di conseguita maturità. Soltanto lo stato può dare ai diplomi ed alle lauree concesse dagli stabilimenti di istruzione pubblica valore legale, sicché solo ai diplomati e laureati si riconosca la facoltà di esercitare arti o professioni o coprire uffici pubblici. Discende dalle premesse ora poste il diritto e il dovere dello stato di determinare i programmi di insegnamento nei diversi ordini della scuola media acciocché sia certo che il giovane licenziato da una di esse possegga le nozioni proprie di essa, qualunque sia l’istituto il quale abbia rilasciato il diploma. Non può, ad esempio, la maturità liceale avere un significato diverso da provincia a provincia, da liceo a liceo. Uguale il programma, identici i criteri per la valutazione del profitto, uguali le prove, scritte ed orali, alle quali i giovani sono sottoposti per il conseguimento del diploma. Se questo deve dare diritto alla iscrizione alle scuole di ordine superiore, secondario od universitario; se i diplomi di licenza, maturità e laurea debbono dare uguali diritti di ammissione ai pubblici concorsi, uguale deve essere il tirocinio fornito, uguali le prove subite, uguale la materia di ogni disciplina, sulle quali la prova è stata superata.

Grazie agli scopi prevalenti nell’indagine scientifica ed alla maggiore maturità mentale dei giovani, i programmi di studio possono avere nelle scuole universitarie un contenuto più sobrio di quello delle scuole medie. Laddove qui si esige che i programmi di insegnamento nelle diverse discipline, dalla lingua e letteratura italiana al latino, al greco, alla matematica e a tutte le altre giudicate utili o necessarie alla formazione del giovane, siano uniformi per tutto lo stato ed acconciamente graduati da uno scalino all’altro del tirocinio scolastico, cosicché il giovane possa spostarsi da una scuola ad un’altra, dalla scuola di una città alla scuola di un’altra città senza essere posto in condizione deteriore o privilegiata rispetto ai suoi compagni di studio; nell’ordine universitario si impone libertà più ampia. La scuola universitaria forma lo studioso, ma nel tempo stesso ricrea e perfeziona la scienza. L’apprendimento dei principi noti non può scindersi dalla ricerca e dalla scoperta di nuove verità. Quindi i programmi si riducono all’enunciazione del titolo della disciplina: diritto romano, diritto civile, economia politica, fisiologia umana, clinica medica ecc. All’insegnante spetta l’ufficio di dar contenuto al titolo della disciplina, contenuto variabile a seconda delle sue attitudini scientifiche e didattiche. Ma lo stato deve stabilire un elenco di discipline, alcune delle quali obbligatorie ed altre facoltative, sino ad un numero minimo su cui si debbono subire esami singoli, prima della prova finale per il diploma di laurea. Come può immaginarsi altrimenti che lo stato certifichi solennemente che il giovane meritò di essere proclamato dottore in giurisprudenza quando gli studi compiuti e gli esami lodevolmente superati certificassero che egli studiò soltanto scienze economiche e statistiche? L’esigenza del valore legale attribuito ai diplomi impone che il giovane superi un minimo di prove atte a dimostrare che egli possiede quella preparazione della quale il diploma rende testimonianza. Perciò nell’ordinamento scolastico di tipo napoleonico, lo stato impone, per ogni specie di diploma, la qualità ed il numero delle discipline ed altresì affida alle autorità universitarie il compito di stabilire l’ordine delle discipline nei successivi anni di corso. In parte l’ordine degli studi è facoltativo, cosicché lo studente ha facoltà di variarlo a seconda delle sue attitudini mentali e delle sue preferenze, anticipando o posticipando taluna disciplina da un anno all’altro o concentrandola, ad esempio, nei primi anni per avere maggior tempo disponibile da ultimo per la preparazione della dissertazione di laurea. Alla facoltà di variazione dell’ordine degli studi consigliato dalle facoltà sono posti due limiti, l’uno di convenienza e l’altro di obbligo. Se lo studente, in primo luogo, desidera ottenere esenzioni o riduzioni di tasse, egli non solo deve conseguire una media minima di voti negli esami speciali, ma deve conseguirla nelle discipline consigliate dalla facoltà. È obbligatoria invece la iscrizione alle discipline preparatorie (istituzioni di diritto civile) in confronto a quelle fondamentali (diritto civile). Il che è logico, non potendosi ammettere che l’ordine degli studi sia variato in modo disordinato, per motivi contingenti e forse non confessabili, come la relativa indulgenza degli insegnanti.

Programmi e ordini di studio non sono immutabili. Mutano le esigenze degli studi; nascono nuove discipline; varia l’importanza relativa di esse; e perciò fa d’uopo che mutino programmi e consigli. Non vi ripugna il tipo napoleonico; e soltanto richiede che la mutazione sia sanzionata dallo stato. Non dall’autorità politica (ministro); ma dal ministro, sentito il parere di Consigli superiori o di consigli di facoltà, i quali riconoscano la necessità od opportunità di far luogo all’insegnamento di nuove discipline e, forse, alla soppressione di insegnamenti ritenuti superati. La variazione non può attuarsi capricciosamente per deliberazione del rettore o del preside, sia pure confortato dal parere del consiglio di facoltà o della scuola; facendo a ciò ostacolo la uniformità imposta dal valore legale dei diplomi rilasciati colla sanzione dello stato. La uniformità non vieta le diversità consigliate dalla particolare natura del luogo nel quale la scuola adempie al suo ufficio; sicché si possano istituire scuole agricole, industriali, commerciali, artistiche adatte al genio particolare delle regioni e località diverse; e non tutte le scuole agricole siano uguali, ma le une specializzate per la viticultura e l’enologia e le altre forestali, o risicole o agrumiere e così dicasi per l’industria. Ma sempre ogni tipo di scuola deve ottemperare nel suo ordinamento a regole fissate dalla pubblica autorità, sicché il diploma o la licenza meritino il valore legale loro proprio.

Né l’ordinamento napoleonico esclude la concorrenza della scuola privata. Licei, ginnasi, istituti tecnici ed industriali, università possono essere istituiti per iniziative di privati o di associazioni od enti non statali. Ed ai diplomi conseguiti negli istituti privati può essere attribuito valore legale uguale in tutto a quello proprio dei diplomi rilasciati dagli stabilimenti statali. La parità di trattamento suppone tuttavia alcune ovvie condizioni. Deve in primo luogo l’istituto privato ricevere una consacrazione od autorizzazione, la quale assicuri che l’istituto è in grado, per sua attrezzatura edilizia, la adeguata suppellettile scolastica, il possesso di biblioteche e di mezzi finanziari, di adempiere agli scopi suoi; esigenza non peculiare agli istituti di educazione ed istruzione, ma generale per tutti gli enti morali forniti di una qualche specie di personalità giuridica. Devono in secondo luogo i presidi o direttori od insegnanti negli istituti privati essere provveduti di titoli di insegnamento uguali a quelli richiesti per i concorsi alle cattedre statali; cosicché l’autorità pubblica sia persuasa della idoneità morale e scientifica di coloro che sono preposti all’ufficio di insegnanti. Ed infine, il diploma richiesto per il passaggio da un grado all’altro della carriera scolastica – per la conclusione di un dato corso di studi – può essere conseguito solo in seguito ad un esame detto «di stato», sostenuto dai privatisti con parità di trattamento rispetto ai giovani i quali hanno frequentato gli istituti pubblici. Se tutti i candidati, provengano essi dalle scuole pubbliche o da quelle private, sono chiamati medesimamente a presentarsi per il conseguimento del diploma sia medio sia universitario, sia umanistico o scientifico o tecnico o professionale ad una commissione imparziale composta di esaminatori, almeno in maggioranza, diversi da quelli che insegnarono al giovane, piena appare la validità legale del diploma ottenuto dagli studenti usciti da ogni categoria, pubblica o privata, di scuole. Dissensi e controversie sono possibili e nacquero e persistono sui metodi opportuni a garantire la imparzialità degli esaminatori negli esami di stato; ma son dissensi di applicazione non di principio.

È perfetto in se stesso il sistema di tipo napoleonico? Non era e non è perfetto nei luoghi e nei tempi nei quali la scelta dei direttori, presidi ed insegnanti pubblici e privati fosse o sia fatta ad arbitrio del ministro o di altri ufficiali statali negli stabilimenti pubblici o dei fondatori o proprietari o amministratori degli istituti privati. Non basta ordinare che gli insegnanti debbano essere forniti di adeguati titoli di insegnamento e scelti in seguito a pubblico concorso. Se le commissioni esaminatrici sono composte di uomini scelti dal ministro, o dal preside della provincia o dal sindaco o dal consiglio comunale o dagli amministratori degli istituti privati, non esiste garanzia veruna di buona scelta e di indipendenza dal potere politico. La garanzia non esisteva quando Napoleone, genio amministrativo volto all’organizzazione di uno stato accentrato ed ubbidiente alla sua volontà, creò l’università di Francia, stupenda creazione la quale sotto un solo comando riuniva tutti gli ordini di scuole, da quelle elementari alle universitarie. Uno il credo, uno il programma, uno l’esercito insegnante, dall’istitutore della scuola primaria all’universitario della Sorbona, al quale era affidato l’ufficio della formazione del cittadino consapevole dei suoi doveri verso lo stato e verso chi lo incarnava. Garanzie di libertà di insegnamento e di indipendenza degli insegnanti non esistono neppure oggi, nei paesi detti totalitari, nei quali domina la volontà del “principe”. L’arbitrio nella scelta dei membri dell’esercito insegnante non è necessariamente insito nel sistema. A poco a poco, nel secolo e mezzo trascorso dalla sua creazione, attraverso alti e bassi, cadute e riprese, lotte e rassegnazioni, all’arbitrio del principe è stata sostituita l’autonomia della scuola. Il ministro, per riassumere in lui la persona responsabile delle scelte, non sceglie, ma registra e fa propria la scelta compiuta da esaminatori, non da lui delegati, ma eletti a norma di criteri e di procedure fissate dalla legge. Dapprima la consuetudine, la resistenza alle scelte arbitrarie, le critiche della libera stampa, e poi il regolamento ed infine la legge hanno tolto al potere politico ogni arbitrio ed hanno posto norme atte a garantire scelte imparziali. Come in ogni umana istituzione, all’ideale non sempre risponde la realtà; si commettono errori ed abusi. Ma errori ed abusi sono, in paese libero, condannati apertamente ed a poco a poco si riducono ad un minimo. Alla perfezione piena non si giunge, per la fallibilità della natura umana. Se agli insegnanti chiamati è garantita la inamovibilità della cattedra e della residenza; se ad essi è assicurata libertà di insegnare secondo coscienza, all’infuori di ogni vincolo politico e religioso; se le mancanze dei docenti non sono punite ad arbitrio dei presidi o direttori o rettori, ma per decisioni di giudici indipendenti; se esiste diritto di ricorso alle massime magistrature, il sistema non soffre censura. Dal tipo ideale si rimane non di rado lontani. Chi ne dia giudizio, deve supporre che esso sia adeguato ai suoi fini. Non si condanna un sistema, elencandone gli inconvenienti; ché questi possono essere cancellati.

Il quadro del sistema sarebbe compiuto se, quasi al di fuori di esso od ai suoi margini, non fosse da tempo insorta e se da ultimo non fosse diventata vivissima una controversia rispetto alla uguaglianza di trattamento fra le scuole pubbliche e quelle private. Il sistema suppone concorrenza fra le due specie di scuole; ché altrimenti esso non sarebbe volto all’utilità pubblica; ma all’incremento monopolistico dello stato e cioè dei gruppi politici e sociali, i quali sono in un dato momento e luogo signori dello stato. Senza concorrenza o possibilità di concorrenza fra istituti statali ed istituti privati, non v’ha sicurezza che l’insegnamento sia l’ottimo. Importa esistano rivalità, emulazione, concorrenza perché perizia, ingegno, carattere siano stimolati al bene. Il monopolio, anche dello stato, è sinonimo di stasi, di pigrizia mentale, di prepotere.

Come è possibile, tuttavia, vera emulazione, osservano a questo punto i patroni della scuola privata, se tanto disuguali sono i punti di partenza e tanto ingiusto il trattamento fatto ai due ordini di scuola? Da un lato la scuola pubblica, mantenuta con il danaro di tutti, con le imposte pagate da tutti i cittadini secondo le norme di giustizia accolte nel paese. Gli studenti iscritti alle scuole pubbliche, assolvono bensì alcune tasse scolastiche; ma queste coprono la minore e talvolta la di gran lunga minor parte del costo dell’istruzione ricevuta; che il grosso del costo cade sul cittadino contribuente. La scuola privata, al contrario, non gode di nessun contributo di imposte e deve provvedere da sé all’intiero costo dell’insegnamento. Se si suppone, a cagion di esemplificazione grossolana, probabilmente inferiore al vero, che la scuola pubblica provveda, per ogni 100 lire di costo, con 70 lire di contributo statale tratto dalle imposte e con 30 lire pagate dagli studenti, la scuola privata dovrà coprire tutte le 100 lire con i contributi degli iscritti. I genitori degli studenti frequentatori degli istituti privati non solo debbono pagare 100 invece di 30; ma, essendo cittadini contribuenti anch’essi, hanno dovuto inoltre partecipare al pagamento delle 70 lire che lo stato destina al sovvenimento delle scuole pubbliche. Doppia e flagrante ingiustizia; ché i frequentatori delle scuole private non solo assolvono 100 invece di 30; ma in aggiunta sono gravati da parte delle 70 lire volte a beneficio altrui.

Né vale osservare che nessuno è obbligato a mandare i figli nelle scuole private; ché ciò vale asserire che i genitori, che non vogliono o non possono assoggettarsi ad oneri diversi e maggiori di quelli gravanti sugli iscritti alle scuole pubbliche, sono forzati ad iscrivere i figli in queste con violenza recata alla loro volontà ed al loro diritto di scelta; e sovratutto con il risultato di creare, di fatto, il monopolio statale della istruzione, con danno palese per la cosa pubblica, non dissimile dal danno recato da ogni altra specie di monopolio. Né vale affermare essere impropria la taccia di monopolio, laddove trattasi invece di nazionalizzazione della istruzione, simile, concettualmente, alla nazionalizzazione delle ferrovie o dei telegrafi o di ogni altra specie di industria per la quale si giudichi la avocazione allo stato necessaria o vantaggiosa per ragion pubblica; e la prima e più valida motivazione è appunto la necessità di sottrarre quella industria al monopolio privato. Ma oggi si è diventati ognora più scettici sulla validità del motivo; e fra le cause le quali hanno scemata la popolarità delle nazionalizzazioni, nei paesi nei quali si trae frutto dalla esperienza, sebbene non in quelli nei quali gli insuccessi crescono gli appetiti di coloro che degli insuccessi si giovano per crescere di numero edi potere, vi è appunto la inutilità e forse il danno di sostituire al monopolio privato il monopolio pubblico. Il quale è dannosissimo fra tutti, essendo un passo, e non piccolo, verso il tipo di stato tirannico o totalitario. Il pericolo dei monopoli pubblici è divenuto oggi, per la tendenza, detta fatale, degli stati moderni ad ampliare i proprii compiti, forse il problema dominante del nostro momento storico. Che se, per la produzione di beni materiali, come il carbone, il gas, l’elettricità, possono essere studiati avvedimenti di prudenza per far sì che il pericolo sia meno grave per i monopoli pubblici che per i privati, non così per la produzione dei beni spirituali. Lo stato tirannico o totalitario può anche rassegnarsi a limitare le usurpazioni a danno della libertà degli adulti pur di garantirsi il monopolio della educazione e quindi il dominio spirituale delle nuove generazioni.

Se la esigenza della parità di trattamento fra scuole pubbliche e scuole private è fondamentale alla salvazione del principio di libertà; e se il privilegio del sopperimento a carico delle imposte della maggior parte del costo del servizio della istruzione è certamente una violazione di quella parità, non è agevole la soluzione del problema. L’imposta è invero il mezzo col quale lo stato copre le spese generali dell’istruzione: stipendi agli insegnanti, conservazione ed ampliamento degli edifizi scolastici, impianto e funzionamento dei laboratori sperimentali, degli ospedali, delle biblioteche. Le tasse scolastiche badano alla frangia, ai margini del servizio, non più. È possibile pensare che lo stato sopperisca con il provento delle imposte ai carichi delle scuole private? Poiché non è pensabile togliere al governo il diritto di proporre ed al parlamento quello di deliberare l’ammontare delle imposte ed il loro impiego, non è pensabile neppure coprire il grosso delle spese delle scuole private con un contributo pubblico; ché ciò equivarrebbe a trasformare le scuole private in pubbliche. Colui il quale paga le spese di un servizio ne è in effetto il signore. Il problema della parità di trattamento sarebbe risoluto con la negazione del problema; tutte le scuole essendo pubbliche, verrebbe meno la ragione del contendere. Anzi, si farebbe luogo ad una specie nuova ed assai pericolosa di monopolio; il quale sarebbe esercitato in società da due consorti: il ministro dell’istruzione da un lato ed il capo od i capi degli istituti sedicenti privati, i quali fossero riusciti ad accaparrarsi il contributo statale. Esistendo un bilancio statale e quindi una spesa in determinato ammontare votata dal parlamento, e non potendo crescere la parte destinata alla cosidetta scuola privata senza diminuire quella destinata alla scuola pubblica, i capi della prima sarebbero costretti a premere sui governi – parlamenti per piegarli al loro desiderio di incremento di fondi; nuova causa, aggiunta alle tante altre già fiorenti di degenerazione degli istituti rappresentativi.

Come uscire dal dilemma posto dai due principi: della parità di trattamento e dell’impossibilità di alimentare col provento delle imposte la scuola privata, senza distruggere quella rivalità fra le varie scuole, che sta a fondamento del progresso scientifico e didattico? Il fervore della controversia su questo punto dibattuta in Francia, in Belgio, negli Stati Uniti dimostra la difficoltà della soluzione. Né pare probabile che ad una soluzione logica si giunga finché il dilemma rimanga quello che sopra fu chiarito; la parità di trattamento in un regime di libera scelta fra scuola pubblica e scuola privata essendo incompatibile con la destinazione del provento delle imposte anche alla scuola privata. Chi vuole la libertà dell’insegnamento non può volere l’assoggettamento della scuola privata al potere che solo ha il diritto di prelevare imposte.

L’analisi delle caratteristiche del tipo napoleonico reca ad una conclusione: il tipo attua un ideale, che è l’ideale dell’ordine, dell’euritmia, della uniformità. Unica la fonte: lo stato. Unico il valore degli studi quello voluto dai poteri pubblici secondo la norma costituzionale. Uno è il valore dei titoli rilasciati ai giovani alla chiusura di ogni corso di studi: quello dichiarato nella legge. Nessuno può adire ai concorsi ai pubblici impieghi se non sia munito del titolo di studio stabilito dalla legge; nessuno può esercitare professioni liberali se non possiede il diploma all’uopo reso necessario dal comando del legislatore; ed i titoli conseguiti fanno fede erga omnes della capacità del diplomato o laureato ad esercitare quegli uffici o professioni: e, ancora, chi possiede un diploma non può adire ad uffici od esercitare professioni per le quali la legge non abbia dichiarato valido quel titolo, né può usurpare uffici o professioni che la legge abbia dichiarato pertinenti ad altri diplomi. Tutto ciò è, sembra, chiaro, semplice, logico; connaturato all’indole dello stato di diritto, di uno stato bene ordinato, nel quale i cittadini siano chiamati a quei compiti ai quali essi sono da una autorità imparziale e competente dichiarati adatti. Il sistema appare tanto bello e bene congegnato, da persuadere il legislatore ad allargare ognora la cerchia degli uffici e delle professioni, le quali si possono esercitare soltanto dopoché una pubblica autorità scolastica abbia certificato che l’aspirante possiede le attitudini e la preparazione all’uopo richieste; e laddove un tempo i titoli dottorali erano ristretti a quelli di giurisprudenza, medicina, filosofia, lettere e scienze a poco a poco i dottorati si moltiplicarono ed accanto a quelli, come di ingegneria, legittimati dal tempo, altri di dottorato o semplicemente di diploma, nacquero: per gli agronomi, per i ragionieri, per i periti in scienze economiche e commerciali, per i geometri, per i periti industriali. Ed oggi si propone che anche gli artigiani abbiano titolo di maestro-artigiano o di artigiano diplomato, e che, al pari dell’artigiano, ed assai più stravagantemente, anche il commerciante, sia tale e possa esercitare commercio solo dopo aver compiuto taluno studio ed averne riportato certificato di idoneità. Né alla logica del sistema si può muovere appunto. In uno stato bene ordinato, nessuno può compiere opera alla quale non sia stato giudicato adatto; ed ogni uomo vivente deve essere giudicato atto ad un qualche ufficio.

L’ideale posto del tipo ora descritto non è tuttavia pacifico. La critica, ed è critica acerbissima, punta alla radice del sistema; dichiarando senz’altro essere mera superstizione, lugubre farsa il fondamento medesimo suo, che è il valore legale del titolo rilasciato dall’autorità pubblica al termine dei varii corsi di studio.

Accadde anche a me, nel tempo che fui preside di facoltà, di dovermi alzare alla fine degli esami di laurea e, in tocco e toga, pronunciare la formula solenne: «In nome di Vittorio Emanuele III ed in virtù dell’autorità che mi è conferita la dichiaro e proclamo dottore in giurisprudenza». Oggi, obliterato il richiamo al sovrano e non sostituito da quello al presidente della repubblica, la proclamazione solenne è compiuta in virtù dell’autorità di cui il preside od il rettore sono, per virtù di legge, provveduti. In verità ieri il sovrano ignorava del tutto persino l’esistenza del laureando ed il suo intervento era puramente simbolico; e ieri ed oggi l’autorità di cui sono insigniti il preside che proclama ed il rettore che sanziona con la sua firma l’attestazione scritta sul diploma era ed è del tutto estranea alle ragioni sostanziali per le quali la proclamazione dottorale si compie. La verità era ed è tutt’altra: la proclamazione dottorale è il frutto di talune opinioni che, nel decorso di quattro o cinque o sei anni, si sono formati taluni professori della preparazione scolastica di un giovane e di quella che alla fine del corso, tenuto conto dei voti nei quali è riassunta una ventina, o meno o più, di opinioni successive di quegli insegnanti, si è formato il relatore della dissertazione presentata dal candidato alla laurea. Per un certo numero di giovani l’opinione dei singoli esaminatori e del relatore alla laurea è una opinione seria; frutto di contatti avuti per anni col giovane, di consigli a letture proficue, di discussioni di seminario, di assistenza ai lavori di laboratorio e nelle sale da disegno. La dissertazione è stata scelta o consigliata dall’insegnante, seguita passo passo, criticata, rifatta e via via perfezionata. Il diploma conseguito accerta fatti veri e certamente conosciuti dagli insegnanti e dal relatore. In altri casi, gli insegnanti non conoscono o conoscono appena il giovane; che, nelle discipline sperimentali e nelle cliniche, solo gli assistenti sono in grado di valutare. Insegnanti e studenti si vedono e si parlano nel momento dell’esame, che è rapporto fuggevole e forse casuale. La dissertazione è stata compilata a casa, dopo la semplice accettazione del tema da parte del professore. I voti rendono testimonianza incerta; ed in alcuni casi, non troppo rari – se si pensa alla proporzione, divenuta negli ultimi anni stupenda, dei fuori corso, ottantamila su un totale di duecentomila studenti universitari – son frutto della noia di vedersi ricomparire dinanzi lo stesso giovane, ripetutamente rimandato ma bisognoso del diploma per motivi validi e spesso pietosi di famiglia o personali ed hanno significato di pietà.

La proporzione delle opinioni serie in confronto alle altre supera il dieci per cento? Forse è maggiore nelle facoltà dove la frequenza ai laboratori è obbligatoria; ma sarei stupito eccedesse quel numero nelle facoltà umanistiche. Nelle scuole medie, dato il numero strabocchevole di iscritti ad ogni classe, ed è tale quando esso supera la ventina – ma non di rado giunge ai quaranta e sminuisce troppo il frutto ricavato anche da insegnanti ottimi – la conoscenza personale, che c’è o dovrebbe esserci sempre, non ha, di gran lunga, quel peso che dovrebbe avere. Sterminati i programmi, troppe le discipline insegnate ed alternate ad ore; gli insegnanti affannati a correggere compiti, a leggere o far leggere testi antologici, non hanno tempo alla conoscenza intima dei giovani. Sia seria l’opinione dei largitori di titoli od approssimativa e persino fatta di noia e di pietà, sempre siamo di fronte all’opinione di questo o di quell’insegnante o, al più, di questa o quella commissione; molto al più, per la naturale propensione dei membri delle commissioni ad acconciarsi all’opinione dell’esaminatore in quella disciplina su cui verte l’esame o del relatore al quale era stato affidato l’esame della dissertazione. Il titolo di diploma o di licenza non ha altro contenuto se non quello dell'”opinione” ora detta; e non vi aggiunge nulla il riferimento a questo o quel sovrano o popolo o simbolo di autorità; tutte cose le quali intervengono soltanto per apporre un bollo ufficiale al documento. Solo una credenza superstiziosa vieta di scrivere sul titolo quel che soltanto è vero: che i tali e tali insegnanti, avendo seguito con gran cura o con sopportazione gli studi del tale e tale candidato, dichiarano che, secondo il loro giudizio, egli è meritevole di essere licenziato o diplomato o laureato. Soltanto in documenti annessi e non rammostrabili obbligatoriamente, aggiungono che il candidato è meritevole di somma lode, di lode, di pienezza o di sufficienza di voti o di un minimo sopportabile di infamia. Se questa è la verità vera, e certissima, che cosa resta del valore legale del titolo accertato da firme svariate, da bolli fregi e pergamene? Nulla, salvo i dannosi effetti della finzione. Il bollo statale non aggiunge nulla al valore della dichiarazione rilasciata da quella università o da quel liceo, o meglio dalla particolare commissione che ha deliberato il conferimento del diploma. Che la commissione sia detta di stato o non, la sostanza non muta: trattasi di un giudizio di taluni insegnanti, più o meno dotti, più o meno severi, necessariamente variabili nei loro giudizi da persona a persona, da tempo a tempo. Il bollo non muta nulla alla verità; essere il valore del diploma esclusivamente morale e non legale, nullo o scarso o sufficiente o notabilissimo a seconda della reputazione che i singoli stabilimenti di istruzione si sono procacciata. Nasce, di tempo in tempo, in talune facoltà universitarie, in taluni licei o scuole agrarie od altre una atmosfera di serietà, di rigore, di affiatamento fra giovani ed insegnanti; si forma una tradizione alla quale anche i mediocri si adattano; o, se insofferenti, se ne vanno altrove, in cerca di indulgenza o di rilassatezza. Dove la tradizione si è formata, i diplomi dicono la verità, sorge uno spirito di corpo fra i compagni di studio sicché essi si ritrovano e si aiutano e si spingono innanzi a vicenda nelle professioni, nelle arti, negli affari e nella politica. Come può nascere lo spirito di corpo, se gli istituti, in regime napoleonico, non possono scacciare le pecore nere; se i compagni quasi non si conoscono e non pochi di essi, assillati da altre urgenze, conoscono la faccia dell’insegnante solo quando si presentano all’esame?

Il valore legale del diploma ha, nel sistema napoleonico, taluni effetti e principalmente quello di esclusiva. Solo i diplomati in medicina o  veterinaria sono medici o veterinari; solo i diplomati in otolaringoiatria hanno diritto di farsi dentisti; solo i diplomati di ingegneria di costruire ponti e case e via dicendo. Privilegio gravissimo; perché salvo due o tre casi interessanti la salute e la incolumità pubblica, non si vede perché, se così piace al cliente, il ragioniere non possa fare il mestiere del dottor commercialista, il geometra quello dell’agronomo ed il contadino attento e capace quello del diplomato in viticultura ed enologia. Il peggio è che l’esclusiva partorisce la legittima aspettativa. Il giovane diplomato al quale è stato dichiarato che, in virtù di legge, egli soltanto ed i suoi pari hanno diritto ad esercitare la professione libera dell’avvocato o procuratore od a partecipare ai concorsi banditi da questo o da quel ministero, ad essere scelti periti in determinate controversie giudiziarie, a ricevere incarichi temporanei di supplenze scolastiche, trasforma volentieri il diritto suo teorico di esclusiva in legittima aspettativa; ed aspettando, talvolta invano, finisce per entrare nella cerchia di coloro che sono definiti “disoccupati intellettuali”. Il giovane, al quale i bolli e le firme di personaggi autorevoli e forniti di autorità legale hanno fatto sperare di potere esercitare professioni o coprire pubblici impieghi, diventa moralmente disoccupato se non consegue quel successo professionale o non riesce ad entrare in quell’ufficio che dal possesso del diploma si riprometteva di conseguire. Poiché nulla dice che impieghi ed avviamenti professionali debbono essere ogni anno vacanti in numero uguale a quello degli aspiranti licenziati o diplomati, nasce la delusione. In verità il concetto medesimo della disoccupazione “intellettuale” è concetto assurdo, ove sia considerato distintamente da quello della disoccupazione in genere; la quale può, di tempo in tempo, variabilmente colpire molte o poche o parecchie branche dell’attività umana. La dottrina ha inventato parole nuove per indicare i diversi generi di disoccupazione; e, fra l’altre, quella di “strutturale” per indicare una disoccupazione che parrebbe più duratura di altre e dipenderebbe da non so quali vizi detti di struttura della organizzazione economica della società odierna. Qualunque siano questi vizi, parmi certo che il vizio situato alla radice della disoccupazione degli intellettuali in Italia sia la aspettativa dell’impiego pubblico o della professione remunerata privata fatta legittima dall’istituto del valore legale dei diplomi rilasciati da pubbliche autorità.

Se il diploma non fosse stato fornito degli amminicoli esteriori, in cui soltanto sta la sostanza del valore legale, forse non sarebbe nato il sentimento morale della disoccupazione; forse il diplomato non avrebbe avuto la sensazione di essere divenuto un minorato solo perché frattanto avesse seguitato ad attendere alle cose della terra o della bottega o del mestiere di suo padre o dei suoi. Forse non avrebbe pensato di decadere se, in attesa, avesse fatto il manovale od il meccanico. Il diploma l’avrebbe tirato fuori il giorno in cui taluno, vedendolo lavorare, si fosse interessato a lui ed ai suoi precedenti; e quel giorno il diploma avrebbe avuto un valore ben diverso e più alto di quello legale, fatto valere attraverso le solite lettere di raccomandazione di amici, parenti, personaggi autorevoli, deputati, senatori, ministri; lettere produttrici di altre lettere, di tempo sprecato e di lentezza amministrativa. Forse; perché quando in un paese da un secolo e mezzo è inoculato il veleno del “valore legale” è vano sperare che, se anche quel valore fosse negato, vengano meno, non aiutando il costume, i suoi effetti. Che sono di irrigidimento del meccanismo sociale, di formazione di un regime corporativo di caste l’una dell’altra invidiosa, ciascuna intenta ad impedire all’altra di lavorare diversamente da quel che è scritto nelle leggi e nei regolamenti; e tutte intente a cercare occupazione, salari, stipendi là dove non si possono ottenere e cioè nei vincoli posti alla libertà di agire degli uomini.

Il mito del “valore legale” del diploma scolastico è davvero insostituibile? Un qualunque mito è accettato se e finché nessun altro mito è reputato per consenso generale più vantaggioso. Il giorno in cui si riconobbe che il metodo del rompere la testa agli avversari politici era caduto in discredito – ma era durato a lungo, per secoli e per millenni – e si accettò la tesi del contare le teste invece di romperle; l’accettazione non si basò su un ragionamento. Si sarebbe dovuto supporre, per giustificare la razionalità del sistema, che tutte le teste fossero ugualmente atte alla scelta politica; laddove è noto che talune teste sono pensanti e le altre meramente ricettive del pensamento altrui; che le une sono fornite dell’attitudine a pensare, riflettere e giudicare, le altre sono del tutto impulsive; che alcune teste sono preparate e le altre del tutto digiune di qualsiasi voglia e capacità di preparazione alla scelta politica. Ma subito si dovette riflettere che la scelta fra certi tipi di teste e certe altre avrebbe dovuto essere fatta da giudici non solo sapienti ma imparziali ed incorruttibili; sicché, per la difficoltà di valutare le teste, e per il pericolo di ritorno al vecchio sistema di romperle per affidare la scelta politica alle più dure, si preferì, come al minor male, ricorrere al sistema di contarle. Che non è razionale ed è un mito, destinato a durare sinché non se ne inventi uno migliore. Da quel che pare durerà a lungo, anche perché ha operato tollerabilmente bene in tutti i paesi ed i tempi nei quali si e riusciti, con l’istruzione, l’educazione, l’esperienza e la discussione, a ridurre al minimo il rischio che i non pensanti piglino il sopravvento sui pensanti.

Il mito del valore legale dei diplomi statali non è, dicevasi, fortunatamente siffatto da dover essere accettato per mancanza di concorrenti. Basta fare appello alla verità, la quale dice che la fonte dell’idoneità scientifica, tecnica, teorica o pratica, umanistica, professionale non è il sovrano o il popolo o il rettore o il preside o una qualsiasi specie di autorità pubblica; non è la pergamena ufficiale dichiarativa del possesso del diploma. Ogni uomo ha diritto di insegnare e di affermare che il tale o tal altro suo scolaro ha profittato del suo insegnamento. Giudice della verità della dichiarazione è colui il quale intende giovarsi dei servizi di un altro uomo, sia questi fornito o non di dichiarazioni più o meno autorevoli di idoneità. Le persone o gli istituti i quali, rilasciando diplomi, fanno dichiarazioni in merito alla dottrina teorica od alla perizia pratica altrui godono di variabilissime reputazioni, hanno autorevolezze disformi l’uno dall’altro. Si va da chi ha aperto una scuola e si è acquistato reputazione di capace o valoroso insegnante in questo o quel ramo dello scibile; ed un tempo, innanzi al 1860, fiorivano, particolarmente in Napoli, codeste scuole private ad opera di uomini, che furono poi segnalati nelle arti, nelle lettere e nelle scienze. Che cosa altro erano le “botteghe” di pittori e scultori riconosciuti poi sommi, se non scuole private? V’era bisogno di un bollo statale per accreditare i giovani usciti dalla bottega di Giotto o di Michelangelo? Accadde si radunassero taluni venuti in fama di dotti e gli scolari accorressero ad apprendere dalle letture di essi i rudimenti del diritto o della medicina o della filosofia. Si insegnò e si apprese innanzi che, attratti dalla fama acquistata da lettori e scolari, intervenissero imperatori e papi e re a dichiarare l’esistenza di un corpo, detto Università degli studi, ed a conferire al corpo il diritto di rilasciar diplomi di baccelliere, di maestro o di dottore. Nei conventi degli ordini religiosi convennero uomini dediti alla meditazione ed insegnarono ai giovani chiamati da intima vocazione ad entrare nell’ordine; e i collegi di Oxford o di Cambridge risalgono spesso a questa origine ed i membri si dicono fellows o frati ed hanno a capo un warden o padre guardiano. Chi diede loro la facoltà di insegnare e giudicare? Il sovrano poi sanzionò il fatto già accaduto, la fama già riconosciuta; ma la fonte del diritto di insegnare e dichiarare non era il diploma imperiale o la bolla papale; era invece il riconoscimento pubblico spontaneo di un corpo di facoltà nato dal fatto, e affermato dalla gelosa tutela del buon nome del collegio insegnante. Il riconoscimento viene meno ed i diplomi perdono valore quando lo spirito di abnegazione dei monaci insegnanti si affievolisce; quando il crescere del reddito dei patrimoni dei corpi insegnanti rende appetibili le cattedre per motivi diversi da quelli scientifici e le cariche si danno a prebendari favoriti o simoniaci. Altre scuole, altri corpi, altri collegi sorgono contro i corpi ribassati o decadenti o corrotti. Ancor oggi, questo è il tipo dominante nei paesi anglosassoni. Non ordine, non gerarchia, non uniformità, non regolamentazione, non valore legale dichiarato dallo stato; ma disordine, varietà, mutabilità, alegalità dei diplomi variamente stilati che ogni sorta di scuole, collegi, università rilascia, per l’autorità che formalmente deriva bensì, e non sempre, da un diploma regio, da una carta di incorporazione; ma diplomi e carte non sono nulla di più e forse parecchio di meno dei decreti di riconoscimento di corpi morali, di associazioni filantropiche, di enti più o meno economici, di personalità giuridiche con contenuto variabile, i quali sono firmati ogni anno in Italia da ministri e da presidenti di repubblica e non hanno di fatto alcun ulteriore, come era la terminologia d’un tempo, tratto di conseguenza.

Una diversità tipica, sebbene non necessaria, vien fuori dal confronto delle parole diverse usate per fatti uguali nel nostro paese e in quelli anglosassoni; ed è la minor frequenza, qui, del titolo dottorale. La singolarità nasce dalla mania del titolo cresciuta oltremisura da noi; sicché ciascuno si riterrebbe disonorato se, dopo aver frequentato una scuola universitaria, non fosse almeno proclamato “dottore” in qualche cosa, e si videro uomini appartenenti a professioni illustri agitarsi per “conquistare” il diritto di aggiungere all’antico appellativo di ingegnere, che veramente li distingue e li illustra, l’altro di dottore, atto soltanto a creare confusione; e pure si videro i ragionieri, venuti con quell’insegna in giusta reputazione, non aver requie sinché a coloro che avevano proseguito negli studi non fosse concesso l’uso del titolo di dottore commercialista, quasi che la nuova denominazione non fosse meno propria di quella antica. La generalizzazione del titolo dottorale, altra conseguenza del mito del valore legale, reca non onore, ma discredito. Non forse nell’uso comune soltanto i medici son detti dottori? È credibile che vivano in un paese tanti uomini dotti quanti hanno diritto di chiamarsi, a decine od a centinaia di migliaia, dottori? Fu caratteristico, nel tempo di vacanza, in Italia, dei titoli cavallereschi, tra il venir meno degli insigniti della Corona d’Italia e il non ancor nato ordine al merito della Repubblica, il moltiplicarsi dei “dottori” nei ministeri romani. Non potendo più rivolgere la parola ai funzionari come a cavalieri e commendatori, tutti, nell’uso degli uscieri e dei postulanti, divennero “dottori”; facendo quasi scadere il valore dell’appellativo al grado di quello di “eccellenza”, usitato dai lustrascarpe e dai vetturini napoletani verso tutti i loro clienti. Nei paesi a tipo anglosassone dove il mito del valore legale non esiste e non esiste quindi neppure la spinta alla uniformità dei titoli, il grado dottorale è raro. Molti “baccellieri” in arti o in scienze; parecchi masters o mastri o maestri; pochissimi dottori in filosofia, che è il titolo più usato per i dottori, coll’aggiunta tra parentesi di certe iniziali indicative della disciplina speciale in cui si è conseguito il dottorato. Essendo le parole baccelliere e “maestro” impronunciabili nel parlare ordinario, nessuno ne fa uso e del pari, per imitazione, nessuno si rivolge all’interlocutore appellandolo dottore. I dottori, del resto, sono tanto pochi – negli Stati Uniti, mi fu autorevolmente detto, non più dell’uno per cento dei diplomati – che l’appellativo intrigherebbe per la sua rarità. Accadde a me, durante un viaggio universitario come invitato della fondazione Rockefeller nel 1926, fosse necessario fornirmi di biglietti di visita a scopo di evitare, nelle presentazioni, la necessità di pronunciare, secondo l’uso, le lettere componenti il mio cognome, per accidente, salvo due, tutte vocali, e perciò di non facile intendimento. L’incaricato rimase per un po’ in dubbio fra i titoli di professor, senator e doctor e poi scelse l’ultimo, a parer suo il più raro ed alto.

Il tentativo di costruire la figura giuridica dell’università o della scuola media anglosassone, così come è possibile delineare quella dell’università o del liceo o dell’istituto tecnico o di altra scuola media in Italia è dunque impresa vana. Procedendo per eliminazione, possiamo segnalare alcuni connotati negativi:

Non esistono la università e la scuola media statale o governativa nel senso franco-italiano o napoleonico. Non conosco alcuna università o scuola media di stato né in Inghilterra né negli Stati uniti, intendendo per scuola di stato quella i cui insegnanti sono nominati e fanno una certa carriera e sono pagati sul fondo generale del bilancio dello stato. In uno stato federale, come sono gli Stati Uniti, la parola corrispondente a quella nostra di “stato” si esprime, per distinguere l'”amministrazione” degli Stati Uniti da quella dei singoli stati federati, con circonlocuzioni come “nazionale” o “federale”. Parecchi “stati” americani – noi diremmo provincie – hanno creato università statali, le quali sono governate da “Consigli” (Boards of trustees) nominati in tutto o in parte dal governatore o dalle camere legislative dello stato. Il Consiglio dei fiduciari statali ha una certa influenza sulle nomine degli insegnanti e provvede al grosso delle spese. Per lo più le università sono dagli stati singoli istituite là dove l’iniziativa di altri enti o di privati non ha curato la fondazione di altri tipi di università, e cioè negli stati nuovi sorti o divenuti popolosi nella seconda metà del secolo scorso. Le università degli stati non godono nella gerarchia universitaria una posizione più alta di quella delle università private; anzi stanno per lo più al di sotto delle università-fondazioni, sia di quelle antiche, sia di alcune nuove. Per “gerarchia” non si vuole indicare alcuna graduatoria avente un qualsiasi carattere o sanzione ufficiale; sì bene una classificazione in virtù di una valutazione scientifica o morale, compiuta e modificata continuamente dall’opinione pubblica.

Gli enti territoriali minori: contee, città, borghi hanno creato e continuano, insieme con gli stati, a fondare scuole, sovratutto medie, e talvolta universitarie, per soddisfare ad esigenze antiche e nuove, crescenti col crescere della popolazione e col diffondersi della cultura. Nella città di New York, ad esempio, la città ha fondato e mantiene la New York University, che è una grande istituzione rivaleggiante per numero di insegnanti e di studenti, non per reputazione scientifica, colla più famosa e accreditata Columbia University, che è una istituzione privata. Ma nella città di New York esistono, oltre alla Columbia ed alla New York University, altre istituzioni universitarie: la cattolica Fordham University, la reputata Scuola superiore di Scienze sociali, la branca medica della Evanston University, che ha sede lontano centinaia di miglia. Parecchie delle nuove università inglesi, moltiplicatesi accanto alle due storiche di Oxford e di Cambridge, sono nate per iniziative cittadine.

Se le scuole medie (High Schools e Preparatory Schools) numerosissime, sembra più di venticinquemila negli Stati uniti, sono fondate e rette in amichevole rivalità, da stati, contee, città, borghi e privati, la maggiore e miglior parte delle università sono nate come “fondazioni”. Come, per eccezione, vi sono negli Stati uniti università fondate e mantenute dagli stati singoli, non mai dall’amministrazione (la parola “governo” non è usata) federale; così vi sono eccezioni di scuole medie che sono private; e sono le più famose ed importanti. Gli usi peculiari linguistici inglesi ordinano di chiamare public schools quelle che noi diremmo invece private. I celebri collegi, preparatori per chi vuole adire agli studi universitari, di Eton, Harrow, Winchester ecc. sono detti public nonostante siano fondazioni nelle quali né lo stato, né le contee, né i comuni hanno alcuna ingerenza; ed invece le scuole che noi chiameremmo “pubbliche” perché create e sostenute da enti territoriali pubblici non sono da nessuno catalogate tra le public schools. Singolarità di linguaggio, alla cui radice sta però l’assenza dell’idea che la scuola, per valer qualcosa, debba avere a che fare con lo stato. Per quel che tocca le università, la regola è che esse sono “fondazioni”. Le antiche debbono la loro nascita ad istituzioni religiose: ordini regolari o lasciti di ecclesiastici appartenenti all’una od all’altra delle varie sette religiose (denominations) venute fuori dalla riforma. Il carattere religioso a poco a poco si è obliterato di fatto; sebbene, come è consuetudine in quei paesi, sovratutto in Inghilterra e negli stati originari americani, succeduti alle tredici colonie inglesi, sia conservato nella forma. Tra i collegi di Oxford ha posizione eminente quello che si intitola Christ Church, che è un collegio universitario simile in tutto agli altri; ma alcuni degli insegnanti sono anche canonici della chiesa cattedrale di Oxford ed il Dean del Collegio, membro del clero anglicano, è il decano del capitolo della cattedrale; ma canonici e decano sono uomini scelti per meriti scientifici. Negli Stati Uniti, le più reputate università antiche e moderne, come Harvard, Yale, Columbia, Chicago, John Hopkins, Princeton, Cornell ed altre molte, sono fondazioni private. Alcune hanno ricevuto la loro “carta” dal Re d’Inghilterra, altre da qualche governatore di colonia, altre dallo stato locale, talune dalla contea o dal borgo d’origine; e non oserei escludere che qualcuna delle fiorenti università cattoliche (Fordham a New York, Washington nella capitale, la Catholic University nella California) abbia ricevuto la propria carta originaria dal Papa. Incorporate o riconosciute come enti morali, le università-fondazioni sono vissute di vita propria; hanno nominato i proprii insegnanti, li pagano sui proprii fondi, danno ad essi garanzie di durata nel tempo, a seconda del progresso della loro carriera, più breve per gli assistant professors, più lunga per gli associate professors, sino al limite di età per i full professors. Gli stipendi non sono uniformi e variano a seconda dei redditi della fondazione e dei sacrifici che il Consiglio che noi diremmo di amministrazione (Board of Trustees) è disposto a sopportare, pur di chiamare a sé, portandolo via ad una università concorrente, un insegnante famoso. Gli insegnanti che passano da una università ad un’altra, non di rado perdono i diritti di anzianità che godrebbero nella stessa università se vi rimanessero ancora; talché qua e là, senza regola fissa, si deve provvedere ad ovviare alle interruzioni di anzianità, con contratti assicurativi, che ora si esauriscono nella medesima università ed ora si estendono a quelle le quali partecipano ad un comune fondo di assicurazione.

La struttura variata delle scuole universitarie e medie pone il problema del loro numero diversamente dal modo tenuto nel tipo napoleonico. Nel quale, il numero degli istituti può crescere solo se il ministro del tesoro consente, data la situazione del bilancio dello stato, ad accogliere le richieste del ministro dell’istruzione; ed è più agevole consenta ad un aumento del numero delle sezioni in cui si dividono le classi di un liceo già esistente che alla creazione di un liceo nuovo; e, non volendosi aumentare né le sezioni né i licei, consenta all’incremento del numero degli iscritti alla medesima sezione di una data classe; ed, inversamente, accade siano serbati in vita licei e ginnasi e istituti industriali ed agricoli in cui il numero degli allievi è inferiore a quello degli insegnanti. Nascita e morte dipendono non di rado da ragioni e pressioni politiche, le quali sono lente a modificarsi. Nelle Università, la fondazione di nuovi enti è rara nel tipo napoleonico; meno difficile la moltiplicazione delle facoltà ed invece normale l’incremento del numero degli studenti iscritti, se non di quelli frequentanti; sino a giungere a numeri incompatibili, se tutti gli iscritti frequentassero, col buon ordine delle lezioni, col rispetto dovuto agli insegnanti e colla serietà e profitto delle esercitazioni di laboratorio e di seminario. Nel tipo anglosassone, il numero non è collegato colle esigenze del bilancio statale e quindi varia in ragione delle iniziative degli enti territoriali locali, dello spirito pubblico di enti economici o di privati benefattori. Come in Piemonte era uso che i notai, chiamati a rogare testamenti, interpellassero il testatore se egli non voleva ricordare, tra i legatari, il Cottolengo; così negli Stati della Nuova Inghilterra era uso che le persone facoltose ricordassero Harvard o Yale nelle loro disposizioni di ultima volontà; ed ancora adesso fonte notabilissima delle entrate universitarie sono le donazioni in vita ed in morte di uomini di finanza e di industria; e sono notissime le fondazioni Rockefeller, Carnegie, Ford ed altre, le quali hanno alla loro volta lo scopo di incoraggiare la ricerca scientifica e le iniziative universitarie. Accade perciò che il numero delle scuole di ogni fatta, dalle universitarie alle medie, non fissato da alcuna legge di bilancio, muti e cresca. Nella Inghilterra propriamente detta, all’infuori della Scozia e del Galles, le università erano tradizionalmente le due di Oxford e Cambridge; ma oggi sono assai più e quelle note nelle città più prospere vanno a gara nel rivaleggiare con le vecchie fondazioni. Negli Stati uniti il numero delle università e dei collegi universitari (quasi tutte le università-fondazioni sono sorte come collegi, dove si imparte in quattro anni solo l’istruzione sino al grado di baccelliere ed ha carattere umanistico o scientifico teorico; ma poi, se il successo arride, le branche di insegnamento si moltiplicano; ai corsi per i graduandi si aggiungono i corsi per i graduati e nasce l’università) raggiunge ed oggi forse supera il migliaio; non piccolo numero anche per un paese di centosessanta milioni di abitanti. Il numero sarebbe dichiarato assai più che eccessivo in un paese di tipo napoleonico; ed a giusta ragione; ché lo stato – nel significato nostro di amministrazione centrale unica – come garantirebbe il valore legale dei diplomi rilasciati da tanti istituti universitari e medi sui quali esso non ha ingerenza veruna, nella scelta dei cui insegnanti non ha parte, che operano secondo criteri da una scuola all’altra diversi, e, a sua insaputa, mutevoli? Il valore legale è garantito solo formalmente nei paesi a tipo statale accentrato; ma il concetto medesimo della garanzia statale è del tutto ignoto nei paesi a tipo anglosassone. In questi, se non esiste alcuna garanzia statale, esiste un valore morale, di fatto, che ogni istituto conquista e mantiene da sé; perfezionando l’insegnamento scientifico e tecnico ed il tirocinio educativo da esso fornito ai suoi studenti. Taluni istituti medi – le public (private) schools e talune grammar schools, mantenute da contee e da borghi in Inghilterra; ed un certo numero di high (medie) schools, dette per il livello più alto preparatory – entrano in tanta reputazione che i loro migliori allievi sono, non obbligatoriamente ma di fatto, ammessi abbastanza agevolmente nelle università più reputate. Il giovane licenziato da scuole medie di reputazione mediocre dura invece assai più fatica e deve sostenere prove più dure per ottenere l’ammissione nelle buone università; e, se teme di non essere accolto, chiede di entrare in una università di stato o di città, l’ammissione nelle quali sia, superate le prove stabilite, un diritto.

Vige, perciò quasi sempre, fatta eccezione per gli istituti fondati da stati o da città, il numerus clausus. Istituto, dal quale non si può trarre alcuna logica deduzione a favore dell’adozione sua nei paesi a tipo napoleonico. Qui, il numero chiuso, ossia la saracinesca posta all’iscrizione degli studenti, oltre il numero fissato per le singole facoltà o scuole universitarie o per le sezioni dei corsi liceali o medi, vorrebbe dire limitazione forzata del numero totale dei giovani, i quali possono aspirare alla istruzione media od universitaria. Il numerus clausus nei paesi a tipo napoleonico vuol dire esclusione dall’acqua e dal fuoco dei non ammessi. Con qual diritto lo stato, in una società di uguali, accorda agli uni e nega agli altri il diritto di accedere a stabilimenti mantenuti col danaro di tutti? Un’autorità pubblica – ministro, consiglio superiore, rettore, consiglio accademico, preside, consiglio dei professori? – determina, in relazione al numero delle aule e degli insegnanti ed assistenti, della suppellettile didattica, delle biblioteche, il numero massimo degli studenti, compiuto il quale, scende la ghigliottina. Chi è ammesso e chi è escluso? Decide la data della domanda? La scelta sarebbe arbitraria ed accidentale. Il merito? Chi giudica il merito? I voti riportati negli esami di licenza nelle scuole inferiori di grado? Occorre la finzione dell’esame di stato universale ed uniforme per accettare la finzione ulteriore di effettive uniformità nelle attribuzioni di voti. La concorrenza degli esaminatori inferiori nella larghezza di voti per favorire l’ammissione dei proprii allievi? La farsa sarebbe presto chiusa, per lo strabocchevole numero di promozioni a pieni voti, con lode o somma lode. Il numero chiuso nel tipo napoleonico contraddice al diritto, sancito nelle costituzioni, dei cittadini di adire ai massimi gradi della istruzione; sancirebbe l’obbligo della ignoranza ed il privilegio dei pochi favoriti dalla sorte o dall’intrigo. Il numerus clausus non vuol dire nulla di tutto ciò nei paesi a tipo anglosassone. Ogni istituto ha diritto di scegliere non solo i professori, ma anche gli studenti; di proporzionare il numero dei proprii iscritti alle proprie possibilità didattiche e di non assumere impegni superiori a quelli che sa di poter mantenere. Oxford o Cambridge in Inghilterra, Harvard o Yale o Chicago, o Princeton, o Cornell negli Stati uniti calcolano che esse non possono accogliere più di diecimila o ventimila studenti in tutto? Ogni stabilimento fissa in modo autonomo i criteri con cui si compie la scelta, e conosce la lista delle scuole preparatorie medie, i cui licenziati hanno le migliori aspettative, e per essi e per tutti gli altri, di diversa provenienza, determina le prove in base a cui l’ammissione è decisa. Non è sempre necessario che l’aspirante possegga documenti di frequenza e di capacità; non è cioè escluso, sebbene sia rarissimo, che il giovane nudo, uscito dalla foresta allo stato del bon sauvage di Rousseau, sia il favorito. Talvolta la decisione non spetta al rettore dell’università (vice-chancellor nelle università inglesi, president in quelle americane) assistito dal consiglio accademico o di facoltà. Ritengo, ad esempio, che in Oxford l’università non abbia in materia alcuna aperitio oris; decidono invece i guardiani o decani, o masters di ognuno di quella ventina di collegi dei quali si compie il corpo, storicamente vivente, della università. Lo studente deve essere, prima che membro dell’università, membro del suo collegio, iscritto e dimorante e vivente in esso; epperciò, se egli, dopo opportune prove che possono ridursi ad un colloquio privato, non è gradito al guardiano del collegio, potrà piatire l’ammissione presso altri capi di collegio; ma solo attraverso ad essi egli può essere iscritto all’università. Il guardiano sa, oltre il resto, quante siano le stanze per i suoi studenti, quanti i posti a tavola; quanti i fellows che possono seguirli come tutors (ripetitori) e sceglie coloro che meglio soddisfano al desiderio che il suo collegio riceva i giovani destinati a procacciargli lustro in avvenire ed a meritare che il ritratto sia tramandato ai venturi nelle sale comuni e nei refettori. Chi non riesce ad entrare ad Oxford o a Cambridge o ad Harvard o chi giustamente, a suo criterio, preferisce di studiare in altri istituti altrettanto o meno o più reputati, si rivolge altrove. La scelta è ampia. La domanda da parte degli studenti provoca la formazione di nuove università o l’ampliamento delle antiche.

Dappertutto, il numero degli studenti aumenta. In Inghilterra quello degli studenti universitari è inferiore al numero italiano; ed invece il numero degli studenti di scuole medie e preparatorie cresce rapidamente e satura gli istituti esistenti, provocando fondazioni di nuove scuole; né si ha notizia che vi siano giovani esclusi a causa dei limiti posti da ogni istituto alle ammissioni. Negli Stati uniti, sembra che la proporzione dei giovani di fatto iscritti nelle scuole medie e preparatorie abbia negli ultimi anni raggiunto l’ottanta per cento dei giovani che appartengono alle classi di età teoricamente atte a frequentare quegli ordini di scuola. Il numero degli studenti iscritti alle università ed ai collegi universitari, che batteva, un quarto di secolo fa, sul milione, si aggira da qualche anno sui due milioni e mezzo. Crebbe rapidamente nell’immediato dopoguerra, perché il congresso votò sussidi a tutti i reduci, i quali desiderassero iscriversi; ma, pur dopo venuto meno l’aiuto federale, il numero non diminuisce, anzi tende verso i massimi teorici relativi all’età ed alla popolazione totale. Il che vuol dire che il numerus clausus, in quel tipo, non esclude nessuno e probabilmente incoraggia il crescere della popolazione scolastica. Il numero in Italia parrebbe strano, anzi pericoloso; ché fatte le proporzioni fra i centosessanta milioni di americani e i quarantasette di italiani, ai due milioni e mezzo di studenti universitari americani, dovrebbero corrispondere settecentomila studenti italiani, o, se si tenga conto che forse un terzo di quelli americani, quelli dei due primi anni di undergraduates (poi vengono gli altri due anni e tutti quelli delle scuole professionali, di diritto, medicina, ingegneria ecc. e dei corsi di dottorato) sono al livello dei nostri studenti degli ultimi due anni di liceo; dovremmo avere almeno quattrocentocinquantamila iscritti. Ne abbiamo meno della metà e tutti gridano alla soprapopolazione universitaria ed alla disoccupazione, dianzi descritta, degli intellettuali. Ho interrogato parecchi giovani americani sul problema della disoccupazione nel mondo universitario americano; e vidi che la domanda non aveva risposta, perché non era neppure capita. I milioni di baccellieri e di masters i quali escono dagli istituti universitari americani, sanno che il diploma non dà diritto a nulla. È bene possederlo, perché non si è mai sentito dire che sapere qualcosa sia cagion di danno; e nessuno ha mai sostenuto la tesi che sia migliore una popolazione di analfabeti piuttosto che una popolazione di uomini e di donne meglio istruiti, molto o poco e, anche se poco, sempre meglio di niente. In me è sempre vivo nel ricordo del 1926, quando, per invito di un noto economista, visitai un suo podere in uno stato del centro. Nella stalla, il vaccaro mungeva la mucca. Il collega, dopo averlo presentato, aggiunse: «Questi è un diplomato della mia università!». Come costui, nove decimi dei diplomati americani, non sognano neppure di fare gli intellettuali solo perché hanno frequentato una università e in essa si sono diplomati: mungono le vacche, coltivano i campi, attendono alla bottega od al laboratorio; fanno ogni sorta di mestieri, che con le professioni e gli impieghi, considerati da noi privilegio ed appannaggio dei laureati, non hanno niente da fare. Essere “baccelliere” in arti o in scienze non nuoce e può giovare nel munger la vacca; e, se gli Stati uniti durante la guerra e nell’immediato dopoguerra sovvennero al bisogno di alimenti di mezzo mondo, chi può negare che al risultato miracoloso non abbia giovato il possesso di quella cultura, anche modesta, oggetto di tanto ironici giudizi da parte dei nostri diplomati, che si può ottenere conseguendo il diploma di baccelliere?

Al ritorno alle consuete occupazioni civili, fuor di illusori e spesso magri impieghi e studi professionali giova la popolarità nel mondo studentesco dell’abitudine di procacciarsi i mezzi di studio o qualche gradito supplemento di entrata coll’esercizio di ogni sorta di mestieri occasionali. Corre la leggenda che la via sicura per giungere all’ufficio di presidente degli Stati Uniti sia quella di aver venduto da ragazzo i giornali per le strade o, più frequentemente, col recapito nelle case dei clienti. Si può supporre senz’altro sia leggenda, sebbene assai significativa, per quanto riguarda l’ufficio supremo; ma non è tale per altre meno alte ambizioni; e di studenti venditori di giornali qualcuno conobbi anch’io. Nei mesi estivi assai giovani universitari usano le vacanze, mettendosi a servizio presso agricoltori in campagna, come garzoni di stalla o di scuderia, boscaioli, a caricare e scaricare legname, paglia, fieno e raccolti in genere; ed anche qui ho avuto occasione di complimentare chi aveva scelto quel modo di acquistare salute e peculio. Ho narrato altrove come, alla fine della colazione in una università della California, il preside mi chiedesse se avevo posto attenzione al cameriere che ci aveva servito a tavola. «È il migliore degli studenti del suo corso; e guadagna le tasse scolastiche e le spese, servendo a tavola professori e compagni di scuola. I quali non solo non lo tengono perciò da meno, ma, a titolo di onore, lo hanno eletto presidente di una delle loro associazioni». Conobbi, anche in Italia, valorosi giovani che faticavano duramente allo scopo di frequentare poi lezioni e laboratori; ma sono più numerosi coloro che, non potendo frequentare, stanno a casa o in ufficio e si preparano su testi o su dispense. Che è una maniera non buona di prepararsi.

Il difetto di valore legale per i diplomi, se prepara i giovani ad attendere da se stessi il successo o a non incolpare lo stato o il governo o l’insegnamento, a posteriori spregiato poi, ad esperienza fatta, come non pratico, non compiuto, dottrinario, non rispondente alle esigenze della vita moderna, costringe gli istituti a non far troppa fidanza sui proventi certi dei contributi governativi da imposta e sulle tasse versate dai giovani obbligati ad iscriversi, se non a studiare, se si vuole conseguire quel diploma che, solo, apre la via alle carriere ed agli impieghi. Nel tipo anglosassone ad ogni istituto si applica il proverbio del chi ha più filo fa più tela. L’ente il quale vive di tasse scolastiche, deve attirare studenti e gli studenti accorrono là dove, in seguito agli studi compiuti, ottengono un titolo il quale gode di buona reputazione ed apre vie migliori ai più capaci e ambiziosi e volonterosi. Chi si contenta di un baccellierato conseguito con poca fatica ed aspira ad occupazioni locali o a dedicarsi a lavori modesti, perché non dovrebbe preferire un piccolo collegio il quale gli fornisce quella modesta preparazione che a lui è bastevole? Chi ha ambizioni più alte farà sforzi per riuscire ad essere accettato in una grande e reputata istituzione, ed accettato, si sforzerà di uscire non col semplice pass, ma vorrà ottenere gli honors; noi si direbbe passare agli esami non col diciotto, ma col trenta e lode e, forse, la dichiarazione di dignità di stampa per la dissertazione. Né l’accesso alle migliori università o scuole secondarie preparatorie è perciò limitato ai ricchi; ché, dappertutto, anche nei collegi un tempo più aristocratici ed esclusivi, cresce la proporzione degli studenti di modesta estrazione ai quali i mezzi sono forniti da borse di studio, di fondazione universitaria o create recentemente da borghi, città, contee, stati. Questa è, anzi, la maniera più vistosa di intervento degli enti pubblici ad incoraggiamento dell’istruzione media ed universitaria l’istituzione di numerose borse di studio create allo scopo di fornire a giovani meritevoli i mezzi per mantenersi a scuola e pagare le tasse. Le quali non sono quasi evanescenti come nei paesi a tipo napoleonico e non coprono solo una troppo piccola parte del costo totale del servizio; ma sostanziose e destinate a coprire di quel costo la parte più notabile.

Non tutto il costo, che in tutti i paesi del mondo l’industria della educazione ed istruzione è e seguiterà ad essere esercitata in perdita. Una parte della perdita è pagata dallo stato sotto la forma, ora ricordata, delle borse di studio. Che non sono poche di numero; e dopo l’esempio postbellico delle borse di studio accordate a milioni di soldati ed ufficiali reduci dalla guerra, tendono ad assumere dimensioni grandiose. Col qual metodo, ed in quel tipo di ordinamento scolastico, si risolve, a parer mio automaticamente, il problema del dissidio, forse insanabile, come dissi dianzi, nei paesi a tipo napoleonico, fra scuola pubblica e scuola privata. Lo stato colle borse di studio non dà all’istituto per se stesso; dà i mezzi agli studenti di pagare forti tasse scolastiche al qualunque istituto, pubblico o privato, al quale essi preferiranno iscriversi. Non sceglie l’autorità pubblica, secondo criteri suoi, che possono essere di supposta uguaglianza od oggettività o imparzialità, oppure di incoraggiamento di talune particolari correnti politiche o spirituali liberali cattoliche comunistiche o socialistiche ed altre ancora. Scelgono i giovani od i loro genitori o tutori, a seconda del tipo di istruzione ed educazione preferito. Un’altra parte della perdita è sostenuta col provento del reddito dei lasciti antichi e con quello delle nuove donazioni. Che è sinonimo, di nuovo, di tassa scolastica; pagate non più dagli studenti in atto; ma dai memori baccellieri mastri e dottori usciti dall’università, i quali in vita o in morte ricordano i benefici ottenuti dalla formazione intellettuale e morale in essa ricevuta e compiono donazioni, modeste o grandiose, a suo favore. Il presidente (rettore) delle università o dei collegi è scelto, un po’ per le sue note capacità scientifiche e didattiche, ma più per quelle amministrative; e fra queste rimarchevole in primo luogo l’attitudine a procacciare donazioni dai più facoltosi tra gli antichi allievi e anche estranei. Se la Columbia University nominò e riconfermò, ancor dopo scelto a comandante delle forze atlantiche in Europa, suo presidente il generale Eisenhower, ciò fu dovuto alla sua fama e perciò alla speranza che esso giovasse alla fortuna dell’istituto presso uomini meglio disposti a donare a lui che a rettori meno famosi. Fa d’uopo avvertire che la fonte dei lasciti e donazioni tende tuttavia se non ad inaridirsi, ad attenuarsi nelle antiche forme. La difficoltà crescente di cumulare grandi fortune, a causa delle elevate imposte progressive sul reddito e sulle successioni e della minore facilità di conseguire nelle industrie e nei commerci guadagni di monopolio, scema il numero degli uomini facoltosi disposti a larghezze cospicue verso la scuola. Al luogo dei privati benefattori, tendono a intervenire le grandi corporazioni (società anonime), sia con donazioni dirette alle università, sia a mezzo delle fondazioni Carnegie, Rockefeller, Ford. Sembra che dal sette all’otto per cento delle somme spese per l’insegnamento universitario provenga dalle elargizioni delle grandi corporazioni e la proporzione tende a crescere, nonostante i brontolii degli azionisti, il cui peso è oramai scarso in confronto alla influenza dei dirigenti, persuasi dell’importanza per l’industria in genere dell’incoraggiamento al progresso scientifico ed alla diffusione della cultura. Oggi, tuttavia, la perdita non sempre è coperta dalle tasse scolastiche pagate dagli studenti, dai sussidi pubblici versati agli studenti per il pagamento delle tasse e dalle donazioni volontarie antiche e nuove. Il costo degli edifizi, delle suppellettili, dei macchinari ed apparecchi di laboratorio, degli apprestamenti clinici, dei libri cresce siffattamente da rendere impossibile il funzionamento delle scuole senza un contributo diretto dell’ente pubblico.

Nel sistema napoleonico, il contributo è distribuito, in seguito ad istanza e dimostrazione dei rettori, presidi e direttori, dall’autorità pubblica (ministro) a ciò autorizzato da legge approvata dal parlamento. L’autorità politica interviene direttamente nella fissazione e nella distribuzione del contributo statale. Anche nel tipo anglosassone il contributo è fissato nella legge del bilancio; né si concepisce altro sistema; dovendo esso far carico al provento delle imposte. Ma la distribuzione sinora è compiuta in Inghilterra ad opera di un consiglio composto di rappresentanti delle università medesime; e sulla spesa non ha ingerenza né la tesoreria né il parlamento. Si segue cioè il metodo usato in Italia per il concorso globale concesso al Consiglio delle ricerche; il quale poi distribuisce la somma assegnata in bilancio secondo i criteri stabiliti dal consiglio medesimo, eletto dagli insegnanti e quindi fuori delle ingerenze governative. Ma quel che in Italia si fa per la minor parte del contributo statale, in Inghilterra si fa per l’insieme; con grave dispiacere della tesoreria (la nostra ragioneria generale dello stato) e con proteste ripetute nella Camera dei comuni. Sinora però le università sono riuscite, in difesa della propria autonomia, a respingere il controllo statale sull’uso del contributo ed a distribuirlo secondo criteri scientifici e didattici, ad esclusione di quelli politici.

Le ingerenze politiche non sono escluse nel sistema anglosassone; ma più che politiche hanno indole ideologica. La scuola cioè non si sottrae alle correnti di idee o di tendenze sociali o religiose di tempo in tempo divenute vive in questa o quella regione. Ricordo, fra l’altro, una qualche comica scomunica lanciata dai consigli di amministrazione di università statali, e quindi eletti dai governatori e dai legislatori dello Stato, contro chi professasse dottrine contrarie a quelle contenute nella lettera della Bibbia; o più recentemente, in alcune poche università, quasi tutte statali, le richieste di giuramenti di non appartenenza al partito comunista. Ma la grandissima maggioranza delle università resistette, assai prima che il maccarthismo cadesse nel meritato discredito, alle pretese. I pochi insegnanti, i quali credettero di non poter giurare, furono immediatamente chiamati, a condizioni migliori, ad insegnare in altre università. Nel sistema anglosassone la valvola di sicurezza contro le ventate di prepotenza ideologica agisce e si chiama rivalità fra gli stabilimenti scolastici. Il perseguitato è sicuro di trovare ospitalità altrove; se non sia notorio che la persecuzione fu provocata, a scopo reclamistico, dallo stesso insegnante. Talora si dice che certe opinioni politiche o sociali siano invise ai consigli di amministrazione di fondazioni private, nei quali hanno peso i fiduciari dei benefattori, per lo più appartenenti ai ceti agiati; ma i casi di effettiva intolleranza accademica sono rari e su essi si fa così gran baccano da rendere ardui e rari gli ostracismi. In ogni caso, l’intolleranza non ha mai avuto effetti che fossero paragonabili, neppure lontanamente, a quelli che si sono veduti nei paesi a tipo napoleonico; dalla cacciata di Giambattista Say dalla cattedra parigina ad opera di Napoleone alla persecuzione recente che costrinse tanti studiosi antifascisti antinazisti ed ebrei a cercar rifugio precisamente in Inghilterra e negli Stati uniti; e basti citare per tutti Fermi ed Einstein.

Se il valore legale del diploma impone la regolamentazione uniforme dei programmi nelle scuole secondarie e la fissazione, pure uniforme, dell’ordine degli studi nelle facoltà e scuole universitarie, il tipo anglosassone consente elasticità e libertà sia nella determinazione delle materie sia dei programmi di insegnamento. Le scuole, anche secondarie, e sovratutto quelle universitarie divengono laboratori sperimentali in cui si saggiano nuovi metodi didattici, diversi da quelli tradizionali e si tentano nuove vie alla ricerca scientifica. È di moda incolpare i nostri governi per la fuga dei giovani studiosi verso gli Stati uniti. È vero che le quarantamila lire al mese, equivalenti suppergiù, anche in capacità d’acquisto, a settanta dollari, offerte al giovane, il quale, avendo conseguito con lode la laurea in scienze, consenta ad entrare, con incertezza di successo, come assistente nella carriera universitaria, sono alquanto inferiori ai salari da cento a centocinquanta dollari i quali sono dati, a titolo di salario mensile ai giovani americani di uguale età e di merito comparabile ed è anche vero che all’universitario italiano, il quale abbia già fatto le sue prove ed abbia al suo attivo qualche nota scientifica già apprezzata, conviene, al punto di vista economico, preferire i tremila o quattromila dollari iniziali americani – da centocinquanta a duecentomila lire al mese – alla busta paga complessiva (stipendio ed accessori) di circa settanta-centomila lire dei professori incaricati in Italia. Ma la differenza non è né cospicua né decisiva. Le attrattive sono altre. Il rischio di carriera è di fatto minore. In Italia, se non si fanno vacanze nei posti di ruolo, se non vanno fuori ruolo o non muoiono i titolari di discipline fondamentali, il giovane può languire per lunghi anni negli assistentati o negli incarichi, incerti, nonostante la permanenza di fatto, per la necessità della conferma annua. Non può adire ai concorsi di libera docenza, la quale non offre vantaggi materiali, ma solo speranze per l’avvenire, se e finché non sono banditi concorsi per la sua disciplina; né si sa perché i concorsi siano indetti a turno di anni per alcune soltanto delle discipline fondamentali; e ben di rado il Consiglio superiore si decida ad iscrivere tra le materie di concorso per la libera docenza una disciplina nuova. Fa d’uopo opporsi, si osserva, alle specializzazioni eccessive ed attendere che la nuova disciplina si sia assodata e possa essere ufficialmente riconosciuta come esistente. Giusta prudenza, se si pensa, che, essendo anche le libere docenze provvedute di crisma ufficiale, con bollo, esse danno luogo nel sistema napoleonico, alle consuete legittime aspettative e producono disoccupazione di tipo particolare, detto dei liberi docenti; ma diventa intolleranza, se si pensa che la ricerca scientifica suppone il nuovo e le ipotesi di studio non ancora dimostrate feconde; e che per ciò non monta accertare la padronanza dell’intera materia, occorrendo invece assicurarsi dell’attitudine scientifica, come è detto nel broccardo del semel abbas semper abbas. La consecuzione della libera docenza vuol dire mera autorizzazione a cercare di dire qualcosa di diverso da quel che è patrimonio accettato od anche ad esporre meglio quel che è già noto. I giovani soffocati dal tipo napoleonico aspirano perciò ad andare negli Stati uniti sovratutto perché ad essi sono offerte nei laboratori, nelle borse di studio, mezzi di ricerca assai più agevoli di quelli sperabili in patria. Non la paga “forse” più alta; ma la possibilità di lavorare per un anno o due nei laboratori e nelle biblioteche, sperimentando cercando e forse trovando. Nei paesi di libertà accademica non esiste alcun regolamento generale con elenco fisso di discipline e non vi sono Consigli superiori che riconoscano la nascita di discipline nuove. Non si deve premere su giovani e su autorità politiche; ma persuadere il professore amante della sua materia, il preside di quelle che da noi sono dette facoltà e che, più piccoli per contenuto ed assai più numerosi, son detti dipartimenti, il rettore dell’università, perché un nuovo assistentato, un incarico di professore assistente sia creato, se questi alcuni uomini si persuadono che val la pena di mettere alla prova il giovane promettente. Accade che una cattedra sia offerta perché il decano o il rettore capitarono a leggere una nota su un argomento di fisica od uno scritto su un problema di storia del diritto o della filosofia; e la nota e lo scritto piacquero. Il sistema dei concorsi nostrani a base di titoli scritti stampati, giudicati da commissioni elettive è, a parer mio, ottima garanzia, nel sistema napoleonico, contro l’arbitrio politico e, tutto sommato, dà garanzia oggettiva di buone scelte; ma non possiamo negare che il sistema anglosassone delle scelte fatte dai corpi accademici insegnanti di ogni singola università che è poi scelta fatta da questo o quell’insegnante stimato dai rettori e presidi, lascia maggior campo all’iniziativa ed ai tentativi.

La caratteristica forse più interessante del tipo anglosassone è quella del campo lasciato ai tentativi ed agli errori. Più lento il processo in Inghilterra; più rapido negli Stati uniti. Taluni rettori di note grandi università sono divenuti famosi per il tentativo compiuto di imprimere nuovo indirizzo all’insegnamento, taluno favorevole alla libertà assoluta dello studente di conseguire baccellierati o dottorati in discipline nuove e reputate da molti di minima importanza; ed altri deciso a far macchina indietro ed a prescrivere un minimo di materie fondamentali, attraverso a cui sia obbligatorio passare prima di fare scelte ulteriori libere. Battaglie omeriche si combattono ogni tanto tra i fautori dei metodi contrari; sicché i giovani sono attirati ora all’una ora all’altra università dalla diversità dei programmi e degli indirizzi. Orrore! esclama colui che è vissuto nel clima del tipo napoleonico. Che cosa vale una laurea in diritto, in medicina, in ingegneria, in lettere se non si sa neppure che cosa abbiano i giovani laureati appreso per il conseguimento del diploma?

Chi è spaventato del disordine, non è tuttavia tranquillo sui risultati del sistema ordinato, uniforme, riposante del tipo napoleonico. Lo scontento non piglia l’aspetto di contrasti fra scuola e scuola, fra università ed università, fra programmi e programmi; sì da instabilità nell’ordine. Le dispute nostrane sul miglior ordinamento degli studi non hanno termine. Negli esami di stato deve essere richiesta al candidato la conoscenza della materia dell’ultimo anno di studio (liceo, ginnasio, o istituto tecnico) ovvero di tutto il corso? Si deve consentire in un esame, il quale dovrebbe chiarire la maturità del giovane a proseguire gli studi, il rimedio della riparazione autunnale, ovvero no? Il giudizio degli insegnanti, i quali seguirono il giovane durante tutto un corso di studi, non è preferibile a quello di commissari estranei racimolati casualmente qua e là, ai quali può riuscire arduo compito valutare la preparazione di un giovane mai veduto? Le opinioni sono e rimarranno mai sempre contrastanti; e di volta in volta ministri, consigli superiori, legislatori mutano criterio. Ogni volta regna l’ordine; ma è ordine conseguito attraverso continue rivoluzioni. Il tipo napoleonico conquista l’ordine attraverso rivoluzioni, che distruggono l’ordine antico; nel tipo anglosassone l’ordine è dato dalla gara continua di sistemi contrastanti e dalla sopravvivenza dei sistemi meglio adatti provvisoriamente alle esigenze dell’insegnamento. Il danno della gara ognora rinnovata fra criteri contrastanti non è, del resto, nel tipo anglosassone, così preoccupante come a primo tratto si potrebbe credere.

I contrasti sono vivi sovratutto nel campo dell’insegnamento umanistico, scientifico, filosofico di carattere preparatorio e generale; non per gli insegnamenti tecnici i quali sono dati nelle scuole che fanno seguito alla fine dei corsi generali per il baccellierato. Nelle scuole di diritto, di medicina, di ingegneria, di agraria, di ragioneria, non vi è molto campo libero alle novità. Nelle scuole di diritto, gli americani e in parte anche gli inglesi non amano procedere da principi, da norme generali, da costruzioni sistematiche ad applicazioni ai casi concreti; sì invece dai casi singoli alla teoria generale. I precedenti, le decisioni giudiziarie sono la base dell’insegnamento; e dallo studio di un processo celebre si giunge ai principi accolti dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Se il metodo è diverso, la sostanza dell’insegnamento conduce a risultati che, nel sistema del diritto comune vigente, è ugualmente rigoroso. Può essere un curiosum didattico e professionale, sentirsi dire che il foro britannico è reclutato in maniera tanto diversa dal nostro; non laurea in giurisprudenza, poi tirocinio professionale in uno studio di avvocato, quindi esami di stato ed abilitazione all’esercizio professionale. Tutto all’opposto: per entrare a far parte del corpo degli avvocati, due vie sono aperte. In primo luogo quella di iscriversi giovanissimi, dopo aver frequentato una public school od analoga scuola secondaria, praticante in un ufficio legale posto in uno degli Inns of Courts (Osterie della Corte), oasi di pace e di silenzio nel centro tumultuoso della City di Londra; ed ivi far pratica di anni, incontrarsi con celebri membri del foro, sostenere colloqui più che esami con i capi della corporazione, assistere ad un certo numero di pranzi ufficiali della corporazione, dare non so qual prova con pranzo solenne finale; ed essere così abilitato ad entrare, in qualità di junior, in uno degli uffici legali aperti in un edificio dell’Inn e poco per volta salire in anzianità; sino a quando, ritiratosi volontariamente per età o per altre circostanze, l’avvocato si decide a vendere ad un giovane praticante il posto. Ovvero, seguire sino alla fine il più difficile dei corsi universitari, che ad Oxford è distinto dalla parola Greek; corso che, lo dice la parola, non ha niente a che fare col diritto: Platone, Aristotele, letti in greco, Cicerone, san Tommaso ed in genere filosofia, matematica e letteratura. Conseguita, con gli onori, la laurea (Doctor in Philosophy) iscriversi in uno degli Inns di Londra e compiere, forse più rapidamente, lo stesso tirocinio del giovane praticante venuto su dalla gavetta. Più brillante e forse rivolta a mete più alte – promozione a giudice, carriera politica – la seconda via; ma ugualmente apprezzata la prima. I metodi per esercitare le altre professioni non paiono meno eterocliti ai nostri occhi, abituati alla simmetria, all’ordine, ai bolli. Ogni tanto si leggono sui giornali avvisi dell’Institute of Bankers o di una delle Incorporated Societies of Accountants che sono, noi diremmo, associazioni private di banchieri o di ragionieri – le quali hanno ottenuto una “Carta di incorporazione”, o decreto di erezione in ente morale; ma le carte o decreti possono essere concessi a parecchie associazioni rivali – in cui si annuncia l’apertura di esami per gli aspiranti a diventare soci della corporazione. Superato l’esame, con onori o senza, il novello socio gode di un credito maggiore di quello che otterrebbe se al suo nome e cognome non potesse far seguire le iniziali (ad esempio, F.I.B.) di socio dell’Istituto dei banchieri. Le iniziali gli aprono l’adito a posti più distinti in banca; perché si sa che non le possono usare se non coloro i quali dai membri anziani e reputati della società sono stati reputati meritevoli di essere considerati colleghi. La rivalità fra parecchie corporazioni e la possibilità di far a meno dell’uso delle iniziali garantisce gli aspiranti contro il pericolo di esclusiva degli anziani; e la necessità di garantire il prestigio delle iniziali delle quali il socio ha interesse a far uso, assicura contro la concorrenza al ribasso.

Questa delle iniziali è un’usanza che, senza nocumento e senza nulla variare al sistema, potrebbe essere introdotta anche nel tipo napoleonico. Se il professionista avvocato, ingegnere, medico, geometra, ragioniere dovesse – ecco un obbligo innocuo, non costoso, che per eccezione mi rassegnerei ad invocare – sulle buste, sulla carta da lettere, sulle notule delle parcelle ai clienti, sulle targhette apposte al portone di casa ed all’uscio dell’ufficio, apporre dopo (non prima, per non creare confusione con i titoli cavallereschi, i quali non dicono nulla rispetto alla capacità professionale) l’indicazione del proprio nome e cognome, quella del diploma (Dottore in medicina, in giurisprudenza), dell’anno della sua consecuzione e dell’università od istituto in cui il diploma fu rilasciato (Università di Torino o di Roma, Politecnico di Torino o di Milano, Università Bocconi di Milano ecc. ecc.) qualche utile risultato parrebbe sicuro. In primo luogo, i clienti i quali hanno perso una causa difesa dal patrono laureato a “Manica larga” o sono stati male curati da un medico uscito da “Lode per tutti”, comincerebbero a sospettare della bontà dell’insegnamento fornito da quella università e se l’esperienza si ripetesse, l’università sarebbe screditata. L’effetto necessario sarebbe, in secondo luogo, la rivalità delle università e delle scuole, invece che nel largheggiare, nell’essere severi nella concessione dei diplomi; ed i giovani valorosi e studiosi preferirebbero frequentare le università reputate per la loro severità. Si opererebbe, una selezione spontanea fra gli stabilimenti, le cui iniziali apposte al nome e cognome del professionista lo accreditano e giustificano onorari più elevati e quelli, le cui iniziali segnalano che il diplomato è di qualità inferiore. Poiché in parecchie facoltà umanistiche nostrane (giurisprudenza, commercio ecc.) si iscrivono giovani, i quali non hanno attitudine od aspirazione ad esercitare la difficile professione del patrocinante od a commerciare per proprio conto e rischio, non vedrei nessun inconveniente che taluni stabilimenti universitari si specializzassero nel distribuire diplomi meno ardui alle migliaia di bravi giovani i quali si contentano di attendere a compiti di uffici pubblici o privati, nei quali non è richiesta iniziativa, ma solo diligenza, zelo e senso del dovere. Una distinzione spontanea fra i due tipi del professionista o dirigente e dell’impiegato si opererebbe attraverso l’uso di differenti iniziali.

Se, attraverso il piccolissimo espediente dell’uso obbligatorio di iniziali, si può inserire un po’ di salutare rivalità anche fra stabilimenti di tipo napoleonico, il distacco rimane, tuttavia, profondo. Il distacco meglio si vede se, abbandonando le denominazioni storico-geografiche di “napoleonico” e “anglosassone”, noi adottiamo parole consuete nel linguaggio economico. Il tipo napoleonico assume così la denominazione di “monopolistico”; ché è proprio del monopolio l’assunzione in esclusiva dell’esercizio di un ramo dell’attività umana. Il monopolio non è privato, ma pubblico; non ha fini di lucro, ed è esercitato nell’interesse delle nuove generazioni; ma non perciò la denominazione è impropria, ché essa è correttamente applicata ad un’attività la quale riceve le direttive dallo stato, non può essere esercitata senza il consenso ed il controllo di autorità pubbliche, ed ha al suo termine la consecuzione di un diploma, a cui solo lo stato attribuisce valore legale ed è ottenuto, dopo esami detti di stato, esclusivamente a mezzo di organi statali. Non monta che, accanto alle scuole statali, esistano scuole private, massimamente gestite da ordini, congregazioni od enti ecclesiastici. Queste insegnano e concedono diplomi secondo criteri posti dallo stato e per delegazione statale. Dei molti fatti relativi alla scuola, dei quali scarsa notizia si ha dai più per la difficoltà di conoscere il funzionamento effettivo di istituti di cui la legge traccia solo i lineamenti essenziali; uno, casualmente appreso, mi fece una singolare impressione. In Italia non esistono “seminari” diocesani veri e proprii, nel senso di istituti con contenuto proprio di studi adatti a coloro i quali hanno la vocazione ecclesiastica od aspirano al ministero sacerdotale. Ero persuaso, non so perché, che il seminario fosse un istituto specificamente costrutto per la formazione del clero. Mai no; i seminari sono scuole medie, ginnasi e licei uguali in tutto agli istituti statali di ugual nome; con gli stessi programmi, con le medesime regole per il reclutamento del personale insegnante, con il medesimo valore legale, assicurato dai medesimi esami di stato. Una ragione pratica spiega il fatto; ed è l’opportunità di non allontanare giovinetti, dei quali la vocazione per il sacerdozio è incerta – e forse il maggior numero degli iscritti al seminario, terminati gli studi, non abbraccia il ministero sacerdotale – ed a cui pure giova, religiosamente, l’educazione impartita in un istituto governato da ecclesiastici, dove è fornita, accanto all’istruzione regolamentare per i ginnasi ed i licei e ad incremento di questa, in corsi complementari o nei seminari metropolitani una particolare più profonda istruzione religiosa. Ragione per fermo grave, la quale spiega il fatto; ma non scema la singolarità del peso grandissimo che il monopolio statale esercita persino sul tipo di istruzione che parrebbe dover essere ed un tempo era costruita in maniera sua propria, adatta a perseguire l’altissimo ufficio di preparazione al ministero ecclesiastico. Il monopolio statale tutto adegua a se stesso: non più seminari governati da dotti teologi; ma ginnasi – licei uguali in tutto ai comuni ginnasi – licei, nei quali insegnano laureati, secolari o ecclesiastici, forniti di diploma ufficialmente firmato e bollato. Forse, invece che di monopolio di stato, sarebbe appropriato parlare di duopolio di stato e chiesa o di polipolio di stato, chiesa e privati intesi, al margine, alla preparazione dei giovani già rifiutati dalle scuole statali; ma la sostanza poco muta: l’istruzione è compito della pubblica autorità. Possono nascere competizioni fra i varii aspiranti all’esercizio dell’ufficio pubblico; e la gara si svolge da noi sovratutto fra stato e chiesa; non competizione vera e propria fra enti i quali liberamente intendono ad istruire secondo criteri proprii; ma partecipazione ad un privilegio a cui si è dato valore e carattere pubblico. Quella che in regime di libertà sarebbe competizione feconda, in regime di monopolio diventa lotta per accaparrarsi; le nuove generazioni costrette dalla legge ad abbeverarsi a un’unica fonte di ispirazione ideale e a sottomettersi ad ugual tirocinio per conseguire il documento che unicamente apre le porte alla vita civile. Il peggio del sistema monopolistico non è neppure la necessità di assoggettamento al documento legale; è l’assoggettamento ad un’unica fonte ideale. A seconda prevalgano le tendenze dette laiche o quelle ecclesiastiche, or prevale l’idea insegnata dallo stato or quella propugnata dalla chiesa; ed ogni volta un’idea, se pur c’è, sopraffà l’altra; sicché le mutazioni sono a scatti; non determinate da riforma nei metodi di insegnamento, da necessità di tener conto delle nuove scoperte scientifiche o da nuove correnti del pensiero; bensì dal prevalere di correnti o partiti politici.

La conclusione di questo scritto non è che il sistema seguito nel tipo monopolistico di insegnamento debba essere, dove esista, abbandonato in favore del sistema opposto. In ogni paese il passato domina giustamente il presente e l’avvenire. Non si mutano d’un colpo tradizioni, metodo di reclutamento degli insegnanti, metodi di giudizio degli studenti; e se si fa, d’un tratto, il tentativo, nasce male peggiore di quello al quale si vorrebbe rimediare. Ho voluto soltanto togliere di mezzo un equivoco, il quale a tanti uomini, giustamente preoccupati della necessità di garantire la libertà della scuola, fa credere che la salvaguardia di essa sia lo stato, con la sua imparzialità fra le diverse correnti spirituali, la sua oggettività nella scelta degli insegnanti, il rigore nel giudizio sui giovani, provenienti dalle scuole pubbliche ovvero da quelle private, l’assicurazione data, a mezzo di un documento legale, dell’attitudine dei licenziati o diplomati o laureati ad esercitare arti professioni od impieghi. Ho tentato dimostrare che il sistema non garantisce affatto la libertà della scuola. Come per ogni altro problema politico, può darsi che il legislatore e il politico siano stati e siano di nuovo costretti a commettere errori da circostanze economiche sociali e politiche le quali superano le forze di resistenza della verità. Altro è tuttavia l’errore commesso da chi sa che quello è l’errore, da quello voluto da chi è persuaso di essere nel vero. Colui il quale conosce l’errore, vi si può rassegnare politicamente perché tiene conto dei maggiori rischi che altrimenti si farebbero correre alla cosa pubblica; ma l’errore è commesso con temperamenti e con modalità che in prosieguo di tempo potranno essere utilizzati per ritornare alle soluzioni giuste. Colui il quale invece è persuaso, commettendo l’errore, di essere nel vero, lo conduce ai suoi estremi e rende difficile il ritorno alla via buona. Ho voluto, nelle pagine che precedono, soltanto dimostrare che il tipo monopolistico non è sinonimo di libertà della scuola; e che i tentativi, anche minimi, anche formali compiuti nel senso di attribuire il merito o la taccia, la lode o il rimprovero per i risultati ed i diplomi conseguiti alla fine dei corsi non ad una mitica autorità pubblica, ma ai corpi accademici, alla scuola, alla università ai quali singolarmente spetta la responsabilità effettiva, che gli sforzi atti a distruggere a poco a poco il pregiudizio del valore legale erga omnes del titolo scolastico, ed a restaurare il principio che del valore dei titoli sono giudici unicamente coloro i quali volontariamente ricorrono ai servizi dei diplomati, sono tentativi e sforzi utilmente condotti a vantaggio della libertà. È ovvio che i tentativi non possono ridursi a quello minimo e gratuito dell’obbligo di dichiarare il nome dell’istituto il quale rilasciò diplomi di licenza, maturità o laurea. Se i concorrenti agli uffici pubblici e privati avessero la facoltà e non l’obbligo, oggi imposto in tutti i bandi per pubblici impieghi, di dichiarare i diplomi da essi posseduti, ciò significherebbe che i datori di lavoro avrebbero vista la verità essenziale qui affermata, non avere il diploma per se medesimo alcun valore legale, non essere il suo possesso condizione necessaria per conseguire pubblici e privati uffici, essere la classificazione dei candidati in laureati, diplomati medi superiori, diplomati medi inferiori, diplomati elementari e simiglianti distintivi di casta, propria di società decadenti ed estranea alla verità ed alla realtà; ed essere perciò libero il datore di lavoro, pubblico e privato, di preferire l’uomo vergine di bolli. Poiché, in regime di libertà, sarebbero preferiti, di fatto, i diplomati capaci, si darebbe cominciamento all’opera intesa a dare nuovo pregio a quelli che oggi sono meri pezzi di carta intesi a creare aspettative di ansie e ad esaltare il compito degli stabilimenti volti ad attribuire diplomi serii di studi severi.

Solo per ragioni di esempio geografico, dissi anglosassone il metodo opposto a quello monopolistico; ché esso meglio si dice “di libertà”. Ad esso dobbiamo, con sforzo continuo, ritornare; ritornare, dico, perché esso è il metodo eterno di tutti i tempi e di tutti i paesi nei quali più feconda è stata la scuola; quando Bologna, Padova, Pavia e Parigi vedevano consacrata da diplomi imperiali o da bolle pontificie una università, già nota e viva ed operosa perché lettori famosi avevano eletto stanza in quella città ed avevano, con lo splendore della loro dottrina, attirato a sé gli scolari vaganti d’Europa ed avevano ivi fatto rifiorire gli studi umanistici e fisici. Il metodo ”di libertà” si fonda sul principio del tentativo e dell’errore. Trial and error è il motto appropriato alle scuole in cui domina la libertà. Nulla è certo in materia di insegnamento; non sono certi i programmi, non gli ordini degli studi,  non è certa neppure l’esistenza di alcuna scienza. Non è certo siano buoni i metodi accolti negli stabilimenti a tipo di libertà; e non è affatto certo che essi conducano sempre al bene. Ma vi ha una differenza fondamentale fra l’uno e l’altro tipo; ché quello monopolistico consente i mutamenti solo quando essi sono consacrati da un’autorità pubblica; laddove il metodo di libertà riconosce sin dal principio di potere versare nell’errore ed auspica che altri tenti di dimostrare l’errore e di scoprire la via buona alla verità. Questa è tutta la differenza fra il totalitarismo e la libertà. Il totalitarismo vive col monopolio; la libertà vive perché vuole la discussione fra la libertà e l’errore; sa che, solo attraverso all’errore, si giunge, per tentativi sempre ripresi e mai conchiusi, alla verità. Nella vita politica la libertà non è garantita dai sistemi elettorali, dal voto universale o ristretto, dalla proporzionale o dal prevalere della maggioranza nel collegio uninominale. Essa esiste sinché esiste la possibilità della discussione, della critica. Trial and error; possibilità di tentare e di sbagliare; libertà di critica e di opposizione; ecco le caratteristiche dei regimi liberi. Così è della scuola. Essa è viva e feconda, sinché chiunque abbia diritto di dire: gli altri sono in errore e io conosco la via della verità; ed apro una scuola mia nella quale insegno che cosa sia la verità e proclamo dottori in quella verità gli scolari che, a mio giudizio, l’abbiano appresa. Ma chiunque altro ha ragione di insegnare una verità diversa, con metodo diverso. In ogni tempo, attraverso tentativi ed errori ognora rinnovati abbandonati e ripresi, le nuove generazioni accorreranno di volta in volta alle scuole le quali avranno saputo conquistarsi reputazione più alta di studi severi e di dottrina sicura.

Trieste

Trieste

«Corriere della Sera», 5 ottobre 1954[1]

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 90-101

Il padre dei fratelli Cervi

Il padre dei fratelli Cervi

«Il Mondo», 16 marzo 1954[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 140-144

Scritti di Luigi Einaudi nel centenario della nascita, Sansoni, Firenze, 1975, pp. 79-84

Il padre dei fratelli Cervi, Nottetempo, Roma, 2004

 

 

 

 

Entrano nello studio del presidente della repubblica il padre dei sette fratelli Cervi, fucilati dieci anni fa dai nemici degli uomini, il magistrato Peretti Griva, già presidente della corte di appello di Torino, l’on. Boldrini, medaglia d’oro della resistenza e Carlo Levi, scrittore e pittore, il quale reca l’originale del ritratto da lui dipinto dei sette fratelli.

 

 

Il padre, che porta sul petto le medaglie dei sette figli morti per la patria, ricorda al presidente di averlo già incontrato in Reggio Emilia. Il presidente aveva letto, in un articolo di Italo Calvino, che tra i libri dei sette fratelli, si noverano alcuni fascicoli della rivista «La Riforma Sociale», un tempo da lui diretta e poi soppressa dal regime fascistico e dice al padre della sua commozione per poter così pensare con orgoglio ad un suo rapporto spirituale coi martiri.

 

 

Il padre racconta:

 

 

– Sì, i miei figli leggevano molto, erano abbonati a riviste; e cercavano di imparare. Se leggevano qualcosa che pareva buono per la nostra terra, si sforzavano di fare come era scritto. Quando abbiamo preso il fondo in affitto, ed erano 53 biolche di 2922 metri quadrati l’una (circa 15 ettari e mezzo), vedemmo sul terreno monticelli e buche. I figli avevano letto che se la terra sopravanzante sui monticelli fosse stata trasportata nelle buche, il terreno sarebbe stato livellato e sul terreno piano i raccolti sarebbero venuti meglio. Subito acquistarono vagoncini di quelli usati dai terrazzieri sulle strade e si diedero a levare la terra dai tratti alti e metterla nelle buche. I vicini passavano, guardavano e scuotevano la testa: «I Cervi sono usciti pazzi. Dove andrà l’acqua che ora finisce nelle buche? Quando tutto sarà piatto come un biliardo, l’acqua delle grandi piogge ristagnerà dappertutto e frumenti ed erbai intristiranno annegati». Ma i figli avevano dato al terreno, fatto piano, una leggerissima inclinazione; sicché quando le grandi piogge vennero e quando d’accordo con altri tre vicini, fittaioli di poderi appartenenti alla stessa famiglia del nostro padrone, facemmo un impianto per sollevare le acque ed irrigare a turno i terreni, dopo due ore la terra è irrigata ma di acqua non ce n’è più. Coloro che avevano detto che i Cervi erano pazzi, ora riconoscono che noi eravamo i savi e tutti nei dintorni ci hanno imitato.

 

 

– Anch’io, osserva il presidente, quando un terzo di secolo fa smisi di fare i fossi in collina per le vigne e di riempirli di fascine e di letame, ed invece eseguii lo scasso totale, senza concimazione e misi le barbatelle, innestate su piede americano, in terra tali e quali, quasi alla superficie, dopo aver resecate le radicette a un centimetro di lunghezza, i vicini i quali dallo stradone provinciale osservavano quel brutto lavoro, scuotendo il capo se ne andavano: il professore è uscito matto e dovrà rifare il lavoro. Quando videro però che le viti venivano su più belle di quelle dei fossati e del letame, ci ripensarono ed ora tutti fanno come avevano visto fare a me.

 

 

Il presidente: – Ed in quanti vivete su quelle 53 biolche?

 

 

Il padre: – Io, il nipote, le quattro vedove, e gli undici figli dei figli, in tutto diciassette. I figli prima ed ora noi abbiamo faticato assai. Abbiamo ricevuto dal padrone la casa e la terra; ed avevamo quattro vacche e pochi arnesi. A poco a poco i figli comprarono due trattori, uno grande per i grossi lavori ed uno più piccolo per i lavori leggeri; abbiamo falciatrici, mietitrici, aratri ed ogni sorta di arnesi. Il fondo di fieno e mangime è tutto nostro. Nelle stalle vivono una cinquantina di vacche ed un bel toro. Il toro lo comprammo in Svizzera, ma viene dall’Olanda ed è originario americano. Col toro ci hanno dato le sue carte; ma noi siamo stati sicuri di lui solo quando abbiamo conosciuto la figlia sua e poi la figlia della figlia. A venderlo come carne, prenderemmo pochi soldi; ma, vivo, non lo do via neppure se mi offrono un milione di lire. Questo – trattori, macchinari, fondo di vettovaglie, vacche, toro – è il “capitale” ed è nostro, di tutti noi.

 

 

– Anche del nipote?

 

 

– Il nipote non è figlio, ma è come lo fosse. Quando uscii dalla prigione e, tornato a casa, non trovai più i figli e mi dissero che li avevano uccisi, vidi il nipote.

 

 

Le nuore: – È venuto per aiutarci, mentre eravamo sole.

 

 

– Dopo qualche giorno, poiché il nipote aveva dimostrato di essere un buon ragazzo, radunai le nuore e: «Bisogna stabilire le cose per il nipote. Lo teniamo come giornaliero? Avrà diritto alle otto ore, alle feste, al salario che gli spetta. Lo fissiamo come servo? Dovrà essere trattato come salariato ad anno e dovranno essergli riconosciuti il salario e gli altri diritti del salariato. Lo riconosciamo parente? Il trattamento sarà quello che gli spetta come parente. Che cosa ne dite voi?».

 

 

Le nuore: – Padre, quello che voi direte, per noi è ben detto. Voi dovete decidere.

 

 

Il padre: – No. Voi, nuore, rappresentate i figli uccisi ed i figli dei morti sono vostri figli. Voi dovete parlare.

 

 

Le nuore: – Noi non sappiamo parlare. Chi deve parlare siete voi, padre.

 

 

Il padre: – Siccome lo volete, il mio avviso è questo; ed ho detto quel che pensavo. Avete quattro giorni di tempo per pensarci. Adesso non dovete parlare. Quando i giorni saranno passati, ritornerete e direte il vostro pensiero. E le donne ritornarono al lavoro.

 

 

Il presidente, il magistrato, la medaglia d’oro e lo scrittore pittore attoniti ascoltavano il padre. Questi parlava lentamente, scandendo le parole e ripetendole per fissarle bene nella testa degli ascoltatori. Era un contadino delle nostre contrade, un eroe di Omero od un patriarca della Bibbia? Forse un po’ di tutto questo. Dagli arazzi napoletani del 1770,

stesi sulle pareti dello studio, il pazzo don Chisciotte pareva ascoltasse la parola dell’uomo saggio.

 

 

– Prima che fossero trascorsi i giorni fissati, dopo soli due giorni, le donne tornarono al padre, dicendo: Abbiamo pensato e quel che è il vostro consiglio rispetto al nipote è anche il nostro.

 

 

Il padre: – Sapete voi se il nipote intenda rimanere con noi?

 

 

Le donne: – Sì, padre, noi lo sappiamo.

 

 

Il padre: – Ciò è bene; ma io non posso parlare al nipote prima di aver parlato al padre ed alla madre di lui. Il nipote non può uscire dalla sua famiglia ed entrare nella nostra se i suoi genitori ed i suoi fratelli non lo sanno e non sono contenti.

 

 

Non stavano in un paese molto lontano ed andai a parlare al padre del nipote, che era mio fratello. Fratello, dissi, il nipote tuo figlio ha detto di volere rimanere con noi.

 

 

Il fratello e la cognata: – Lo sapevamo. Il figlio l’aveva detto quando era partito di qui per andare ad aiutare le donne, a cui avevano uccisi i mariti. Noi siamo contenti.

 

 

– Se così è, il nipote entrerà nella nostra famiglia. E, tornato a casa, radunai le quattro buone donne e il nipote e dissi: Il fratello e la cognata sono contenti che il nipote rimanga con noi. Ed io dico: i sette figli sono stati uccisi e voi, donne, siete al loro luogo. Ma abbiamo bisogno di un uomo, che diriga le cose. Io sono vecchio e non posso più fare come una volta. Il nipote starà insieme con noi e sarà come fosse un figlio. Quando io non ci sarò più, il “capitale” sarà diviso in cinque parti uguali, fra le quattro nuore ed il nipote.

 

 

Così fu deciso e così si fa. Nella casa lavoriamo, ciascuno secondo le sue forze, in diciassette; ed il nipote sta a capo, lavora, compra e vende. Lui e le donne chiedono sempre il mio consiglio ed io consiglio per il bene di tutti.

 

 

Poi i genitori del nipote ed i suoi fratelli vollero spartire quel che c’era in casa al momento che il nipote li aveva lasciati e diedero a lui la parte che gli spettava. Ed egli volle fosse data alla famiglia in cui era entrato. Ed io dissi: noi non l’avevamo chiesta. Ma tu la dai alla famiglia ed entrerà a far parte del “capitale”. Diventerà proprietà comune; e come il resto sarà diviso in cinque parti.

 

 

Il presidente, il magistrato, la medaglia d’oro e lo scrittore pittore guardavano al padre e vedevano in lui il patriarca il quale, all’ombra del sicomoro, dettava le norme sulla successione ereditaria nella famiglia. Assistevamo alla formazione della legge, quasi il codice civile non fosse ancora stato scritto.

 

 

Il presidente, rivolto allo scrittore pittore, il quale conosce i contadini dei suoi paesi e sono uguali ai contadini di tutta Italia interrogò: forseché i sette fratelli si sarebbero sacrificati se non fossero stati un po’ pazzi costruttori della loro terra e se il padre non fosse stato un savio creatore della legge buona per la sua famiglia? Si sarebbero fatti uccidere per il loro paese, se fossero stati di quelli che noi piemontesi diciamo della “lingera” e girano di terra in terra, senza fermarsi in nessun luogo? Lo scrittore pittore rispose: Credo di no; il magistrato e la medaglia d’oro consentirono. Ed il presidente chiuse: Credo anch’io di no e strinse la mano al padre ed a tutti.



[1] Con il titolo Il Vecchio Cervi [ndr].

Di alcuni errori e timori volgari

Di alcuni errori e timori volgari

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 610-624[1]

 

 

 

 

Per ora nessuno propone di includere cinesi, giapponesi ed indiani nella costituenda federazione europea; epperciò questa potrà, se lo riterrà opportuno, difendersi, circondandosi di una barriera doganale bastevolmente alta, contro l’importazione delle merci a buon mercato prodotte dalle genti divoratrici di riso; ma non è fuor di luogo chiarire quanto siano infondate le preoccupazioni di coloro i quali temono, dalla costituzione di un grande mercato europeo, entro il quale uomini e merci possano liberamente muoversi, danni senza numero per il loro paese.

 

 

Questi danni sono convenientemente descritti in maniera pittoresca con frasi del seguente tipo: il paese sarà “inondato” da merci estere a buon mercato; ci sarà una “invasione” di merci a basso prezzo, contro la quale i produttori nazionali saranno impotenti a resistere; in breve ora, dinnanzi alla strapotenza dei concorrenti esteri agguerriti, forniti di capitali a buon mercato, la capacità di acquisto del paese sarà esaurita. Esaurite le poche scorte d’oro, incapace a vendere all’estero le proprie merci a prezzi abbastanza bassi, con che mezzi il paese acquisterà ancora il necessario per alimentarsi e vivere? Gli stranieri si precipiteranno come cavallette sul paese, acquisteranno a vil prezzo le nostre terre, le nostre case e le nostre fabbriche, sin che alla fine i nazionali siano ridotti allo stato di salariati proletari, al soldo del forestiero; – ovvero, se vorremo mantenerci indipendenti, mancherà il lavoro, i fumaioli saranno lasciati spegnere, le maestranze dovranno emigrare in cerca di pane; e il paese ritornerà allo stato di pastorizia e della caccia. Rimarranno nelle città guide per istruire e mendicanti per divertire i forestieri amanti di antichità, di musei e di rovine.

 

 

Il quadro è terrificante; ma deriva gran parte del suo valore dall’uso di figure rettoriche le quali non hanno niente a che vedere con la sostanza del problema. Le parole “inondazione”, “invasione”, “guerra economica”, “conquista” sono importate da fatti che appartengono ad un mondo tutto diverso da quello degli scambi economici, dei quali unicamente si tratta. Un terreno è “inondato” dall’acqua straripante dai fiumi e torrenti quando l’acqua, coprendolo di sabbia e di sassi, distruggendo raccolti, colmando canali, guastando strade e piantagioni, ne riduce per anni ed anni la produttività ed è causa di sforzo grande per ricondurlo alla fertilità antica. In che modo possiamo assimilare a tal fatto, indubbiamente dannoso, l’importazione a basso prezzo di prodotti esteri? Importazione di frumento a 15 lire ante 1914 al ql., invece che a 25 od a 30, per sé significa soltanto messa a disposizione di uomini di una massa maggiore di frumento. Anche se l’inondazione di frumento giungesse sino al punto, che è assurdo, di consentirci di entrare gratuitamente in possesso del frumento necessario ai nostri bisogni, il fatto in non potrebbe da nessuno essere considerato dannoso. Eliminata la necessità di fare lo sforzo necessario a procurarci il frumento, noi potremmo dedicare tutta l’opera nostra, resa così disponibile, a far qualcos’altro; per esempio, a fabbricare, perdendo all’uopo solo una parte del tempo reso libero dal regalo che qualcuno ci farebbe della materia prima, pane così ben fatto, di forme ed aspetti così diversi ed attraenti, paste alimentari così ben confezionate ed a prezzi così bassi, da essere accessibili a tutte le borse e così gradite al palato da crescere l’appetito e la salute dei felici consumatori. Questo, e nient’altro, vuol dire per se stessa “l’inondazione” delle merci estere.

 

 

Parimenti, “l’invasione” delle medesime merci non è connessa col clangore delle trombe, con il fischio delle palle, il tuonare dei cannoni, l’urlo delle bombe cadenti dall’alto, il fumo ed il terrore degli incendi, con cui nella immaginazione degli uomini è connessa l’invasione nemica vera e propria. L’invasione delle merci estere è per se medesima connessa con l’idea di offerte attraenti al prezzo 5 per merci che noi eravamo abituati ad acquistare al prezzo 6 od 8 o 10, di merci più solide o nuove al posto di altre di scarsa durata e di forma antiquata, di cataloghi ben redatti, i quali ci offrono piantine straniere di rose – novità al prezzo di 1 lira l’una al luogo di piantine nazionali al prezzo di lire 2, di commessi i quali ci assicurano che quella stoffa è pura lana forestiera, laddove quella nazionale è mista di cotone e di rayon. Se le allegazioni sono vere, quella è per fermo una invasione sui generis, dalla quale non ci sentiamo danneggiati, una invasione la quale per sé cresce la comodità della nostra vita. In fondo in fondo noi ci augureremmo che così gentile invasione giungesse sino al punto di riempirci la casa di ogni ben di Dio mangereccio, di mobili eleganti, di ninnoli graziosi, di scarpe e di vestiti durevoli e gradevoli all’occhio.

 

 

Se qualche dubbio rimane in noi dinnanzi ad inondazioni ed invasioni di indole così peculiare, esso deriva da una preoccupazione: di non avere i mezzi di provocare inondazione ed invasione, di essere ridotti allo stato del re Mida che moriva di fame perché tutto quel che toccava si convertiva in oro. Al contrario, noi non potremmo, per mancanza di mezzi, toccar nulla delle belle cose straniere, le quali ci inonderebbero, ci invaderebbero, ci assalirebbero da ogni parte. Non potremmo nulla toccare perché le merci stesse straniere ci avrebbero privati dei mezzi di acquistarle.

 

 

Come ciò possa accadere, si tenta di spiegare nella seguente maniera: il consumatore nazionale, provveduto di una data somma di denaro, andando sul mercato segue la regola della miglior sua convenienza; e se la merce straniera, di uguale qualità, gli è offerta a prezzo minore, sceglie questa. I produttori nazionali sarebbero nella impossibilità di vendere e quindi di produrre. E poiché nessun consumatore è tale, nessuno è provveduto di denaro se non ha prima venduto qualcosa – il suo lavoro, i servigi della sua casa, del suo terreno, della sua industria -, se nessuno ha potuto vendere niente per la concorrenza al ribasso della merce estera, nessuno è provveduto di denaro e nessuno può acquistare le merci estere delle quali benevolmente i produttori stranieri ci vorrebbero inondare, o con le quali essi vorrebbero invadere le nostre case. L’inondazione o l’invasione producono così l’effetto terrificante di inaridire i nostri campi, di spegnere i nostri fumaioli pure restandosene nell’alveo dei fiumi o non valicando i sacri limiti della patria. Basta, in questo genere particolarissimo di operazioni belliche, la pura minaccia per produrre l’effetto voluto dal nemico.

 

 

In verità non si comprende quale vantaggio possa il nemico ripromettersi da una siffatta condotta della guerra economica. Vuole o non vuole l’avversario – seguitiamo per il momento ad usare la barocca terminologia usata per indicare la persona di chi ci offre, senza costringerci ad accettare, una merce a noi presumibilmente gradita ad un prezzo minore di quello preteso da altri – vuole o non vuole venderci la sua merce? Se sì, quale interesse ha a privarci del mezzo di acquisto? Per lui la vendita non ha lo scopo di procurarsi denaro. In ogni caso non ha lo scopo di procurarsi la moneta nazionale, che oggi in ogni paese consiste di biglietti, pezzi di carta stampata con su certe parole e certi ghirigori, i quali non hanno corso se non nel paese d’origine. Lo scopo, al più, è quello di procacciarsi moneta universale, avente corso dappertutto, ossia moneta d’oro.

 

 

Ma l’esperienza, ovvia costante e generalissima, ci dice che neppure questo è il fine vero dello scambio. Gli uomini quando hanno ricevuto oro, moneta universale, non trovano ad essa nessun uso diretto. A meno di essere avari, assorti nella contemplazione e nel palpeggio delle monete d’oro, ognuno si affretta a cambiare l’oro, in merci, in derrate, in servigi (fitti di casa, rappresentazioni teatrali, viaggi, servigi personali di domestici, di parrucchieri, di manicuri, ecc. ecc.). Se, per il momento, l’uomo non ha desideri abbastanza intensi da indursi a separarsi dalla moneta, la deposita in banca, riservandosi di ritirarla più o meno presto, quando vorrà convertirla in merci o servigi; e la banca la dà a mutuo a chi se ne serve per comprare merci o servigi (materie prime e mano d’opera per l’esercizio dell’industria sua), salvo a restituirla quando avrà rivenduto il prodotto delle sue operazioni industriali.

 

 

In ogni caso il produttore produce merci e le vende non per procurarsi denaro, il quale non ha per lui nessuna utilità diretta, bensì, per mezzo del denaro, per acquistare le merci ed i servigi dei quali ha bisogno. L’avvocato dà pareri, in parte per il gusto di esporre la propria opinione su argomenti che lo interessano; ma dal punto di vista economico, dà pareri allo scopo di procurarsi vestiti, alimenti, casa, riscaldamento per sé e per la famiglia. L’artigiano intarsia, sì, con diligenza lo stipo, ordinatogli dal cliente, perché a lui piace il lavoro ben fatto; ma lo scopo del suo lavoro non è di fabbricare e possedere stipi intarsiati, ma, col mezzo di questi, provvedere sé e la famiglia di alimenti, scarpe, vestiti, casa, medicine e via dicendo. Lo scopo della sua produzione non sono le cose da lui prodotte; sono quelle da lui desiderate ed acquistate. L’avvocato e lo stipettaio hanno riflettuto che se volessero da sé produrre le scarpe, i vestiti, gli alimenti, l’appartamento di cui hanno bisogno, non verrebbero probabilmente a capo di nulla; e, volendo far tutto da sé, si ridurrebbero a vivere, come i selvaggi o come Robinson Crosuè, in grotte od in capanne di frasche, miseramente ed in continuo affanno di morire di fame o di freddo; ed hanno concluso che il partito migliore era quello di fabbricare solo pareri o solo stipi. Essi si sono specializzati in questa bisogna, e vi hanno raggiunto un grado più o meno alto di eccellenza.

 

 

Così hanno fatto tutti gli altri uomini; e così è nata quella la quale si chiama divisione del lavoro. La quale non conosce confini di stati o di province o di comuni. Se non esistessero dazi e confini e passaporti, tutto il mondo sarebbe un paese solo; e tutti gli uomini si scambierebbero i loro prodotti l’un l’altro. A nessuno verrebbe in mente di parlare di inondazioni di stipi in casa dell’avvocato e di pareri in casa dello stipettaio; perché tutti comprenderebbero che l’avvocato ricorre allo stipettaio soltanto quando desidera uno stipo e che lo stipettaio ricorre all’avvocato soltanto quando sa di avere vantaggio ad ascoltarne il parere. Non occorre, perché lo stipettaio possa vendere lo stipo all’avvocato, che egli attenda il momento, che potrebbe non giungere mai, di aver bisogno dei suoi pareri. A questo mondo basta che ci sia sempre qualcuno bisognoso di pareri d’avvocato, per esempio, il sarto a cagione di un cliente litigioso. Il sarto chiede e paga il parere dell’avvocato; questi, colla moneta ricevuta acquista lo stipo; e lo stipettaio a sua volta si fa fare il vestito dal sarto. Così il sarto ha avuto il parere, che era il bene da lui desiderato, l’avvocato possiede e gode lo stipo e lo stipettaio veste panni. Estendiamo a 100, a 1.000, ad un milione, a 100 milioni di persone l’esempio ora fatto per tre persone e, salvo la complicazione, nulla sarà cambiato al quadro.

 

 

In regime di divisione del lavoro, ognuno produce non per sé, ma per gli altri; ed ognuno valuta il prezzo della merce da lui acquistata in ragione del costo, della fatica sopportata nel produrre la merce da lui data in cambio. Per l’avvocato il costo dello stipo non è dato dal numero delle lire da lui pagate per acquistarlo, ma dalla fatica durata, dal tempo consumato nel pensare e nell’elaborare il parere da lui dato al sarto. Le lire sono numeri astratti, che per sé non significano nulla. Quel che conta è la fatica, l’energia mentale spesa nel produrre il parere. Si potrebbe anche dire che per l’avvocato il costo dello stipo è dato dal sacrificio sofferto nel rinunciare a quell’altro bene, ad esempio, un grande trattato giuridico, a cui egli ha preferito lo stipo. Mentalmente, lo stipettaio reputerà caro od a buon mercato l’abito nuovo paragonandolo al numero di giorni consumati ed all’abilità impiegata nel fabbricare lo stipo. Se egli, vendendo lo stipo, riesce a procurarsi un vestito, un paio di scarpe ed un cappello, riterrà di avere avuto tutta questa roba a buone condizioni; se solo il vestito, si lagnerà che il lavoro dello stipettaio è male remunerato. E così per il sarto.

 

 

Le merci ed i servigi si pagano con le merci ed i servigi; ed il denaro serve solo per facilitare gli scambi. Se l’avvocato e lo stipettaio si trovassero uno di fronte all’altro, non avverrebbe alcuno scambio; che l’avvocato desidera bensì lo stipo, ma lo stipettaio non sa cosa farsene dei pareri dell’avvocato. Per fortuna c’è il sarto, il quale ha litigato con il suo cliente ed ha urgenza del parere dell’avvocato; mentre lo stipettaio è disposto a farsi fare il vestito dal sarto; e così tutte le cose si accomodano.

 

 

Si accomoderebbero anche fra sarti, stipettai ed avvocati o meglio tra fabbricanti di panni inglesi, segherie produttrici di assi per mobili della Scandinavia e fioristi della riviera ligure, se i singoli stati non costituissero unità territoriali separate e non venisse in mente l’idea balzana che gli scambi, invece di verificarsi tra fabbricanti di panni inglesi, i quali hanno bisogno di mobili fabbricati con assi scandinave; segherie scandinave, i cui proprietari vogliono rallegrare le loro mense con fiori freschi recisi liguri, e fioristi liguri, i quali vogliono vestire panni inglesi, si verifichino invece fra Inghilterra, Svezia ed Italia. Ed allora, invece di concepire i tre scambiatori come tre brave persone le quali, dopo avere un po’ litigato sul prezzo, si mettono d’accordo per effettuare lo scambio tripartito conveniente a tutti e tre, si guarda a tre stati, a tre paesi, a tre nazioni le quali, ringhiando l’una contro l’altra, si “inondano”, si “invadono” reciprocamente con merci destinate a mandare in rovina il nemico, l’avversario intento a distruggere l’industria nazionale.

 

 

Nove decimi delle contese fra stato e stato derivano da finzioni e trasposizioni verbali di questo genere; ma questa è certamente la più balzana fra le figure rettoriche, adoperate nel linguaggio volgare e politico per rappresentare tragicamente un fatto elementare della vita quotidiana: gli scambi avvengono a causa della divisione del lavoro, introdottasi tra gli uomini per accrescere la massa di ricchezza prodotta da tutti, e per accrescere quindi la massa di beni che ognuno può procacciarsi vendendo agli altri le cose da lui stesso prodotte in maggiore abbondanza, grazie alla specializzazione del lavoro.

 

 

Non vi è uomo, per quanto inabile e scarsamente fornito di capitali, il quale qualcosa non sia in grado di produrre. Anche l’agricoltore italiano, il quale sia ridotto a coltivare un terreno ingratissimo, qualcosa è in grado di produrre. Egli può scegliere due vie: o coltivare in quel terreno tutte le derrate di cui ha bisogno; frumento, granoturco, erba per le pecore, bosco per trarne legna da riscaldamento, viti per il vino, olivi per l’olio, ortaggi per il desco familiare. Egli spera in questo modo di non aver bisogno di acquistare nulla, ché il poderetto gli fornisce tutto ciò di cui ha bisogno. Nel forno familiare cuocerà egli stesso il pane; la donna sua gli filerà e tesserà la lana delle pecore; nel frantoio e nella cantina produrrà olio e vino; ortaggi e frutta basteranno alla parca mensa. Oppure egli, osservando che nel pascolo l’erba viene grama, le viti non prosperano e le pannocchie di grano – turco riescono stente, si ridurrà a coltivare, oltre l’orto di casa, frumento alternato con colture erbacee miglioratrici ed a curare bene e rinnovare gli olivi esistenti sul fondo.

 

 

In verità, egli non ha la libertà di scelta fra le due vie; ché in ogni caso ha bisogno di vendere qualcosa per procacciarsi i beni ed i servizi, che assolutamente non può produrre da sé: le scarpe, i vestiti, il petrolio o l’acetilene o la luce elettrica per l’illuminazione, i servigi pubblici (imposte), i libri scolastici per i ragazzi, le medicine, ecc. Il contadino fa il conto, pressappoco, quale sia l’ammontare complessivo che egli deve spendere in denaro per procacciarsi le cose di cui ha bisogno e che non può cavare dal podere, supponiamo 3.000 lire; e, fatte le sue esperienze, si appiglia a quella combinazione di colture ed a quel reparto della superficie di terreno del suo podere che gli dà, oltre alle derrate da lui direttamente consumate, la possibilità di procurarsi, con il minimo di fatica le 3.000 lire a lui necessarie. Fra le tante combinazioni di frumenti, erbe foraggere (il che vuol dire bestiame grosso o minuto da vendere, latticini, formaggi) ed ulivi, una ve ne sarà che gli dà il desiderato risultato. Se la sua terra è povera, forse non riuscirà a cavarne le 3.000 lire per gli acquisti in denaro; ed in tal caso egli un po’ rinuncerà a consumare una quota ulteriore dei suoi prodotti ed un po’ ridurrà le spese fatte fuori del podere, ad esempio, da 3.000 a 2.500 lire.

 

 

La sterilità della sua terra non gli impedisce di vendere; riduce solo la massa dei beni che egli può offrire in vendita e quella dei beni che egli può comprare. Se un dazio aumenterà il prezzo del suo grano, non perciò cresce la quantità di grano che, con identica fatica, egli si procura; cresce solo la quantità dei beni che egli si può procurare. Egli sta meglio; ma sta peggio il consumatore del grano suo connazionale, il quale sarà costretto ad acquistare il pane a più alto prezzo ed avrà, ad ugual fatica, una massa di beni minore a sua disposizione. Potrà darsi e sarà in media anche probabile, che quel consumatore di pane stenti la vita ancor più del contadino produttore del pane.

 

 

Ad ogni modo, non è vero che la mancanza del dazio protettivo per il grano costringa ad abbandonare i terreni a grano. Costringe a variare le colture per produrre il sovrappiù necessario alla vita e che il contadino non può produrre da sé. Seppoi un terreno è veramente tanto sterile che il contadino, stentando e logorandosi, non riesce a cavarne il necessario ad una vita miserabile, forseché sarà un male se quel fondo ritornerà a pascolo od a bosco e se il contadino, rimasto disoccupato, andrà in città a fare un mestiere che gli dia qualcosa di più di quel che gli offre la terra grama? L’abbandono della montagna, attorno a cui si sparge tanto inchiostro, è un fatto economicamente logico. Invece di consumare 10 o 20 giorni di lavoro a produrre un quintale di segale su un terreno impervio, il montanaro preferisce lavorare 5 soli giorni in fabbrica, lucrando così la somma occorrente per acquistare un quintale di buon frumento. C’è sugo a indurre col dazio il montanaro a seguitar nella coltura della segale con gran fatica, quando, con minor fatica e col solo abbandono della terra a segale in montagna, egli si procura egualmente il buon pane?

 

 

Lo scopo dell’attività umana non è quello di faticare a coltivare terre in luoghi ingrati; ma di far vivere gli uomini in condizioni degne. Se gli uomini ritengono di potersi procacciare i mezzi di vita altrimenti che col coltivar terreni sulla cima del monte Bianco, sarebbe assurdo rendere conveniente ad essi faticar molto per ottenere poco. Anche se questo poco sarà venduto ad alto prezzo, gli uomini potranno nel loro complesso consumar poco e dovranno vivere malamente.

 

 

Posti così, nella loro nudità, i fatti, è evidente essere errata la concezione che comunemente si espone, nel parlare e nello scrivere quotidiano, delle importazioni e delle esportazioni. Per lo più, giornalisti ed uomini politici si rallegrano quando possono annunciare che le importazioni dall’estero sono diminuite e le esportazioni verso l’estero sono aumentate, sia in volume che in denaro. Sembra che il paese arricchisca perché incassa molto e spende poco. Può darsi che ci sia del vero nell’opinione così esposta; se ad esempio ciò vuol dire che noi, esportando un miliardo di più di quanto non abbiamo importato, abbiamo esportato macchine, locomotive, rotaie, ecc. ed abbiamo così fatto investimenti di capitale all’estero, senza subito ottenere il pagamento. Lo otterremo poi, si spera con utile, ricevendo negli anni futuri interessi, dividendi e quote di ammortamento. Può anche darsi che, esportando un miliardo di più dell’importato, abbiamo rimborsato un debito vecchio, liberandoci dell’onere di pagare in avvenire i relativi interessi.

 

 

Possono darsi altre ipotesi ancora, le quali spiegano razionalmente il fatto. Ma, parlando in generale, che cosa vuol dire importare? Evidentemente, ricevere merci e derrate che noi desideriamo e che godremo; le quali ci serviranno a soddisfare nostri diretti bisogni od a fare impianti industriali o migliorie agricole fruttifere in avvenire. Cosa vuol dire esportare? Altrettanto evidentemente, dare merci e derrate che a noi costano fatica, privarcene, rinunciare a farne uso. Le esportazioni sono il sacrificio, il costo da noi sostenuto; le importazioni sono il vantaggio, il bene da noi desiderato.

 

 

Razionalmente discorrendo, i nazionali di qualunque paese hanno interesse a ridurre al più possibile le esportazioni e ad aumentare il più possibile le importazioni. Le esportazioni sono il costo, che noi vorremmo minimo, delle importazioni che noi vorremmo massime. Se noi discorressimo, cosa che è fuor di luogo, in termini morali, dovremmo dire che le esportazioni sono il male e le importazioni sono il bene. Nella vita privata, quando di solito ragioniamo bene, tutti desideriamo esportare poco, ossia dare pochi pareri d’avvocato, pochi stipi o vestiti ed importare in cambio assai; ossia l’avvocato uno stipo preziosamente intarsiato, il sarto un parere ben elaborato che gli faccia vincere la causa col cliente, e lo stipettaio un vestito di lana pura ben confezionato. Poiché tutti desideriamo la stessa cosa: esportare poco ed importare assai, i desideri non possono per nessuno essere pienamente soddisfatti. Il mercato deciderà quali siano le ragioni di scambio, ossia il prezzo dei pareri degli avvocati, degli stipi più o meno bene intarsiati o dei vestiti di lana pura o mista.

 

 

Resta il fatto che nessuno, né individuo, né quella accolta di individui che è detta stato, corre il pericolo, che sarebbe augurabile, di restare soffocato dall’inondazione delle merci. Ognuno compra, ai prezzi del mercato solo quella quantità di beni e servigi che uguaglia quella che può dare in cambio; e nessuno, a meno che egli sia un mendicante od un lestofante, gli darà mai nulla in cambio di niente.

 

 

Una volta che ci si sia ben messi in mente che i beni ed i servigi si scambiano esclusivamente con beni e servigi, verrà meno la preoccupazione che, a sentir parlare di federalismo europeo, è messa innanzi da parti opposte; dai danesi, i quali pagando ai loro casari alti salari per la confezione del burro e del formaggio venduto in Inghilterra, temono la concorrenza del burro e del formaggio della Lombardia, dove i salari monetari sono uguali alla metà di quelli correnti in Danimarca, o, peggio, dei prodotti degli Abruzzi e delle Calabrie, dove forse non arrivano alla quarta parte; e nel tempo stesso dai lombardi e dagli abruzzesi i quali temono, quando tutto il mercato europeo fosse unificato, di non potere resistere alla concorrenza, nonostante i bassi salari da essi pagati, dell’industria casearia danese, fornita di impianti, di meccanismi, di frigoriferi tanto più perfezionati e di mezzi di comunicazione tanto più rapidi.

 

 

Intanto si rifletta che formaggi lombardi e caciocavalli abruzzesi coesistono in Italia; e sinora non si sono distrutti a vicenda, nonostante i bassi salari la primitività dei mezzi produttivi e le abitudini randagie di transumanza degli abruzzesi, ed i più alti salari, la sedentarietà nelle stalle e gli impianti più perfezionati dei lombardi. Se gli abruzzesi sono più sobri ed i lombardi più esigenti, c’è però un punto di incontro nel prezzo dei prodotti rispettivi, i quali, a parità di bontà e di altre qualità di sapore e di profumo variamente apprezzate dai diversi consumatori, debbono avere un prezzo identico sullo stesso mercato nello stesso momento. Se a parità di prezzo di vendita del prodotto, il casaro lombardo riceve venti lire al giorno di salario ed il pastore abruzzese solo dieci lire, ciò vuol dire che si è formato un equilibrio per cui le due industrie possono coesistere nonostante la diversità dei salari. Dobbiamo anche qui rovesciare la proposizione solita:

 

 

non già i salari determinano il prezzo, ma il prezzo determina i salari. Sul mercato italiano unificato, con molti attriti e molte deviazioni dovute alle peculiarità dei formaggi prodotti, dei gusti delle diverse regioni, dei costi dei trasporti, si forma dall’incontro delle quantità offerte e domandate di formaggio un prezzo dello stracchino lombardo e del caciocavallo abruzzese. Da quel prezzo dipende il ricavo dell’impresa casearia nelle due regioni. Se il salario è di 20 lire al giorno in Lombardia e di 10 lire al giorno negli Abruzzi, ciò vuol dire che l’impresa casearia è organizzata in tal maniera nelle due regioni, la qualità e la produttività dei prati e dei pascoli è tale, le razze del bestiame lattifero e l’offerta e la domanda di mano d’opera sono rispettivamente siffatte, che dal ricavo della impresa l’imprenditore è messo in grado ed è costretto dalla concorrenza degli altri imprenditori a pagare venti lire al casaro lombardo e solo dieci lire al pastore abruzzese.

 

 

Col tempo, tutte queste condizioni potranno mutare; anzi sono già mutate. La transumanza, ossia la emigrazione delle pecore dalle montagne abruzzesi alle piane della campagna romana durante l’inverno ed il ritorno alla montagna nell’estate, si è attenuata col progredire dell’agricoltura stabile nella campagna romana. Oggi, maggior copia di latticini si produce nelle grandi imprese della campagna, con mezzi tecnici perfezionati ed a cosidetto alto costo, ossia pagando alti salari non dissimili da quelli usati in Lombardia; ma l’alto costo è la conseguenza, non la causa, dell’alto prezzo a cui i nuovi latticini di qualità si vendono sulla piazza di Roma. Si sono trasformati i prodotti; e per trasformarli si è dovuto organizzare l’industria su basi tecniche moderne. Il pastore abruzzese, il quale si contentava di dieci lire al giorno, perché la sua produttività era quella che era e correlativamente le sue esigenze di cibo, vestito e casa erano quelle che erano si è trasformato in un operaio specializzato, di cui il numero, la produttività, le esigenze sono diverse; ed a queste differenti condizioni del mercato del lavoro corrispondono salari di venti lire al giorno; e questi salari maggiori possono essere pagati perché il latte è venduto in condizioni ed a prezzi diversi da quelli propri del caciocavallo abruzzese.

 

 

Se la trasformazione tecnica ed economica dell’industria continuerà, accadrà probabilmente che non si sentirà più parlare di pastori abruzzesi pagati a dieci lire al giorno, di transumanza delle pecore e siffatte tradizioni antiche. Ma il latte pastorizzato ad alto prezzo non avrà ucciso il caciocavallo pecorino; né gli alti salari avranno eliminati i bassi salari o viceversa. Nessuno sarà morto; ma si sarà, anzi si è già operata, una trasformazione nel tipo dell’industria casearia, per la quale, col progredire della tecnica produttiva, quei lavoratori, i quali prima dovevano contentarsi di partecipare al magro banchetto di una industria a bassa produttività per unità di lavoro impiegata, oggi ed in avvenire potranno partecipare al prodotto crescente di una industria progredita.

 

 

Che se l’industria danese è già oggi ad un livello più alto di produttività di quella lombarda ed i suoi casari possono perciò godere di salari, ad esempio, di 40 lire al giorno, né essi avranno a temere della concorrenza dei produttori lombardi od abruzzesi; né questi di quella dei danesi. Costoro pagano salari alti perché hanno saputo organizzare tecnicamente la produzione del latte in maniera più complessa, specializzandosi nella produzione del burro per il mercato inglese; epperciò rinunciando da un lato all’elaborazione del latte nelle singole aziende rurali e dall’altro all’alimentazione del bestiame lattifero col solo o col prevalente prodotto del podere. L’industria si è specializzata e diversificata. Importatori e produttori di mangimi, specialmente destinati alle vacche da latte, forniscono agli agricoltori una quota notevole degli alimenti necessari alla stalla; sicché quelli prodotti dal podere diventano quasi parte secondaria o subiscono essi stessi una trasformazione preventiva, aiutata da sostanze importate dal di fuori ed utili a conservare sapidità e freschezza. Né l’agricoltore elabora il latte; il quale invece due volte al giorno è trasportato, grazie ad una particolare organizzazione cooperativa di trasporto, a latterie pure cooperative, dove, coi mezzi tecnici più moderni, dal latte si ottengono i diversi prodotti ai costi minimi; ed i residui sono restituiti alle fattorie medesime per l’alimentazione del bestiame, specie porcino, laddove il burro, controllato e stampigliato ed impaccato, è spedito in Inghilterra da imprese di trasporti marittimi, pure essi facenti parte dell’organizzazione cooperativa danese.

 

 

I salari alti pagati ai contadini ed agli operai specializzati, i quali contribuiscono al prodotto ultimo, non debbono essere considerati come un costo dell’impresa, ma invece come il frutto dell’organizzazione diversa e più produttiva che in quel paese si è saputo instaurare. Il basso salario del pastore abruzzese non può fare concorrenza all’alto salario del casato danese; perché a raggiungere l’intento della concorrenza, quel salario, rimasto invariato, dovrebbe incastrarsi in una organizzazione simile a quella danese; ma in tal caso il casaro abruzzese non sarebbe più tale e, diventato operaio specializzato, pretenderebbe ed otterrebbe, data la sua diversa e maggiore produttività, salari uguali a quelli danesi.

 

 

Né i salari alti della Danimarca fanno concorrenza a quelli più bassi abruzzesi; perché ad ottenere l’effetto di porre eventualmente lo stesso prodotto (burro) sul medesimo mercato (inglese) a prezzo minore di quello possibile per l’industria casearia abruzzese, fu d’uopo che quella danese si attrezzasse in modo compiutamente diverso; sicché il prezzo eventualmente più basso del burro è il risultato non dei soli alti salari, ma della divisione del lavoro fra importatori e produttori di mangimi specializzati, agricoltori produttori di latte, cooperative di ritiro del latte nelle fattorie, e di una trasformazione nelle latterie, imprese di trasporto per mare, imprese di distribuzione nei centri di consumo. Se l’industria danese volesse anche conquistare il mercato italiano, dovrebbe attrezzarsi all’uopo, sopportare costi di trasporto e di vendita probabilmente più alti.

 

 

Alla lunga l’esempio delle imprese meglio organizzate reagisce su quelle antiquate; ma il processo non è rapido e lascia tempo agli adattamenti necessari per spingere in alto la produttività ed i salari dei luoghi più arretrati.

 

 

Una federazione economica europea, rendendo i mercati nazionali intercomunicanti fra di loro, accelera il processo, con vantaggio particolarmente dei paesi a bassi salari, obbligati dalla concorrenza a perfezionare i loro sistemi produttivi ed a mettersi in grado di rimunerare più largamente le diverse categorie dei propri collaboratori.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di I problemi economici della federazione europea, pubblicato in tre puntate su «L’Italia e il secondo risorgimento», 26 agosto 1944, 2 settembre 1944, 9 settembre 1944 [ndr].

Polemizzando coi siderurgici

Polemizzando coi siderurgici

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 376-379[1]

 

 

 

 

Chi sono costoro che hanno costituito il sindacato dell’acciaio? Per pretendere alle simpatie del pubblico, dovrebbero far conoscere al pubblico il modo tenuto nell’organizzarsi, gli scopi avuti di mira. Quando si chiedono 50 milioni di prestito e quando si legge, senza autorevoli smentite, che istituti di emissione e casse di risparmio dovrebbero essere chiamati a contribuire al prestito, il pubblico avrebbe diritto di sapere a che cosa i milioni devono servire, quali garanzie presentano le aziende sovvenute, quanta è la loro produzione, quanta è la loro vendita, e dove le vendite sono effettuate. Sono notizie che i sindacati dell’acciaio degli altri paesi del mondo non nascondono a nessuno, anzi mettono in piazza ad istruzione e guida degli interessati. Mese per mese il sindacato tedesco dell’acciaio dice quante poutrelle, quante rotaie, quanti prodotti semi-lavorati ha consegnato all’interno ed all’estero; quale è il premio di esportazione pagato agli esportatori all’estero; quali sono i suoi stocks e in che modo la produzione è stata distribuita fra gli stabilimenti sindacati. La United States Steel Company opera nella stessa guisa. Non ha paura di far sapere che essa aveva alla fine del 1909 ben 5.927.000 tonn. di ordinazioni in corso; che essa ne aveva solo 5.402.000 tonn. al 31 marzo, 5.257.000 al 30 giugno, 3.158.000 al 30 settembre e 2.648.000 al 31 dicembre. È nota trimestre per trimestre la cifra precisa degli utili lordi, delle spese, degli ammortamenti, dei nuovi impianti, dei redditi netti. Si conosce la situazione rispettiva del sindacato di fronte ai suoi concorrenti. Si sa, ad esempio, che nella produzione della ghisa, alla fine del 1910 il sindacato americano aveva per sé il 39,4% della potenzialità produttiva del paese, le acciaierie indipendenti il 41,2 e i produttori pure di ghisa il 19,4%. Si sapeva altresì che nella produzione degli oggetti lavorati, il sindacato, dal 66,2% all’epoca della sua fondazione, era caduto al 56,4% nel 1909.

 

 

Con ciò i sindacati non ottengono di far dimenticare il loro peccato d’origine. Nati nove volte su dieci dalla protezione doganale, che impedisce la concorrenza dello straniero, vivono sfruttando il consumatore nazionale. Son di moda adesso teorie secondo cui i sindacati sarebbero dei benefattori dell’umanità e otterrebbero profitti mercé organizzazioni più sapienti, costi tecnici e commerciali più bassi di quelli possibili in libera concorrenza. Il che può essere talvolta vero nei fatti, quantunque lo sia sovratutto nella immaginazione degli eleganti indagatori delle leggi regolatrici dei fenomeni puri economici. Ma l’unico modo che i sindacati hanno per dimostrare che le loro vittorie sono dovute alle loro qualità peregrine di produttori e non all’utilizzazione sapiente dei dazi protettivi, e la pubblicità massima data alle loro faccende. Difficilmente essi riusciranno con ciò a scuotere la verità del detto americano secondo cui the tariff is the mother of trusts, i dazi protettivi sono la culla dei sindacati; a confutare la qual verità di fatto, bisognerebbe dimostrare perché nell’Inghilterra i trusts siano in proporzione assai poco numerosi, limitati a certi servizi pubblici, alle banche, in cui, anche senza sindacati, la concorrenza di nuovi istituti non è temibile, e ad industrie situate in condizioni particolari; e perché ivi i trusts esistenti facciano tanto poco parlare di sé, non aumentando i prezzi, in modo da far inferocire i consumatori, come accade nei paesi protetti, Stati Uniti, Germania, Italia, ecc. Nulladimeno anche i sindacati che vivono all’ombra della protezione doganale riescono, mediante la pubblicità data ai loro conti, a far vedere che essi usano una certa moderazione nel servirsi della protezione doganale pel rialzo dei prezzi, e che essi cercano, più o meno, di giustificare i vantaggi loro largiti da legislatori e governi. Sarà naturalmente una dimostrazione incompiuta; ma gioverà almeno a dimostrare che la loro opera non è inspirata puramente agli interessi di qualche cricca monopolistica. Gioverà sovratutto a persuadere le banche ordinarie a imprestare loro denari e il pubblico a comprarne le azioni ed obbligazioni.

 

 

Si trovano in questa situazione i soci del nuovissimo sindacato dell’acciaio? Credo che se si interrogassero i 20 più accorti e studiosi agenti di cambio d’Italia, non se ne troverebbe uno il quale potesse dichiarare di essersi formato un’idea precisa, esatta della consistenza patrimoniale e dell’andamento finanziario di queste aziende. Si sa che esse hanno distribuito o non distribuito dei dividendi: le Piombino sulle azioni da L. 130 non hanno distribuito nulla; l’Ilva ha dato nei primi tre anni il 5%, prelevandolo dal capitale sociale, e poi più nulla; l’Elba ha dato negli ultimi quattro anni il 7,20%, il 10, il 12 e l’8%; le Ferriere italiane l’8, il 10, il 10 ed il 6%; la Savona l’11, il 12, il 12 e il 12%; e le Terni il 24, il 18, il 13 e il 13%.

 

 

Ma è questa forse l’unica notizia precisa che il pubblico abbia. Come questi dividendi siano stati guadagnati, in che modo siano stati compilati i bilanci per permetterne la distribuzione; perché certe aziende abbiano guadagnato ed altre no, è perfettamente ignoto. Chi prende in mano i bilanci di queste società, è bravo se ne capisce qualcosa. Nel bilancio dell’Elba, al 31 dicembre 1909, all’attivo, figurano in blocco 34.164.911 lire di spese di primo impianto, per concessione terreni, fabbricati, forni, macchinari e simili. Come gli amministratori non abbiano veduto l’improprietà di questa unica cifra per valutare oggetti d’indole così disparata, davvero non si comprende. Come può un azionista od un obbligazionista formarsi un’idea della consistenza reale di un’azienda in cui si mettono insieme concessioni terminabili di terreni, fabbricati, che non si dice se siano eretti su aree di proprietà sociale, macchinari e perfino le cose “simili”! Peggio è l’altra partita di L. 6.700.677 indicata sommariamente come “titoli di nostra proprietà”. Quali sono questi titoli, e a che prezzo furono portati in bilancio? Come è possibile all’azionista, obbligazionista ed al pubblico sapere se si siano o non seguiti i consigli della prudenza nella valutazione dell’attivo?

 

 

A leggere il bilancio della Savona al 30 giugno 1910 si rimane ancora più perplessi. All’attivo vi sono 11.598.896 lire di merci viaggianti, giacenti fuori cantiere in un magazzino. Come valutate queste merci? a quali prezzi, con qual margine di prudenza? Contro a un capitale azionario, obbligazionario e di riserve di circa 36 milioni di lire, assorbito già per 14 milioni dai terreni, stabilimenti e macchinari, non è cifra piccola una dozzina di milioni di merci. Vi sono altre cifre colossali che andrebbero chiarite: 14.285.265 lire di interessenze industriali, 9.160.302 lire di interessenze in titoli dati a riporto, 11.040.446 lire in effetti scontati da scadere. Intendiamoci bene: vi sono società potenti, antiche, reputatissime, che hanno dei bilanci altrettanto spartanamente concisi come quelli delle società siderurgiche. Mantengono il silenzio per timore del fisco, e fanno benissimo sinché il fisco farà opera di rapina. Contenti gli azionisti, contenti tutti. Essi non hanno bisogno dell’aiuto di nessuno; né i consumatori, trattandosi di industrie in regime di concorrenza, hanno timore di danni.

 

 

Ma quando – se son vere le cose divulgate sui giornali – si chiede il concorso degli istituti di emissione, che sono istituti pubblici; quando si macchina un sindacato il quale difenderà l’Italia dei siderurgici contro la concorrenza estera, che avrebbe fatto ribassare i prezzi a vantaggio dei consumatori italiani, io temo forte sia d’uopo che in Italia sorga qualche emulo di Roosevelt a chiedere maggior pubblicità nei minuti particolari dei bilanci delle società anonime. Probabilmente costui dovrebbe emulare Roosevelt nella ciarlataneria; ma anche i ciarlatani più insigni diventano sopportabili quando riescono a ridurre a miti consigli il fisco, e ad acquistare così il diritto di imporre responsabilità precise agli amministratori di società anonime, i quali non dichiarino le quantità metriche ed i prezzi unitari dei loro stocks, il numero e il titolo ed il prezzo dei singoli titoli tenuti in portafoglio, le specie delle interessenze, ecc., ecc. […]

 

 

Perché il nocciolo della questione è proprio qui. L’industria della prima lavorazione – e seguito ad adoperare questa locuzione, perché è usatissima dai tecnici, perché tutti comprendono ciò di cui si tratta, perché i sofismi sul dove comincia e dove finisce ogni fase della lavorazione sono della stessa natura di quello con cui si voleva sostenere che l’uomo capelluto non diventa mai calvo, perché la perdita di un solo capello per volta non toglie nulla alla capigliatura – è tutta fondata in Italia sullo sfruttamento delle miniere dell’isola dell’Elba ad un prezzo di favore. Esauriti i minerali dell’Elba, la fabbricazione della ghisa non può vivere, a meno di ottenere una protezione enorme, incomportabile. Il conto è chiarissimo; né i trivellatori hanno mai tentato di confutarlo. Per ottenere una tonnellata di ghisa occorrono almeno due tonnellate di minerale di ferro ed una tonnellata e mezza di litantrace, da trasformarsi questo in una tonnellata di coke. Quindi, quando non ci sarà più l’Elba, occorrerà trasportare in Italia tre tonnellate e mezza di materia prima e di combustibile per fabbricare in Italia quella unica tonnellata di ghisa che si potrebbe benissimo comperare all’estero. Faccio grazia ai miei contraddittori dei minori oneri di ogni specie – minor carico di imposte, prezzi di trasporto più a buon mercato, interessi più miti, ecc. – mercé i quali i siderurgici stranieri producono ad un prezzo di costo grandemente inferiore a quello a cui i siderurgici italiani possono ottenere i loro prodotti – ammissione stupefacente la quale rovina la tesi degli avversari – e mi limito a questo unico elemento: costo del trasporto. Nessuna oltracotanza siderurgica riuscirà mai a distruggere questo fatto elementare: che noi italiani, importando la ghisa dall’estero, dobbiamo pagare il trasporto di una sola tonnellata di roba; mentre se la vogliamo fabbricare all’interno, appena siano esaurite le miniere dell’Elba, noi dovremo pagare il trasporto di tre tonnellate e mezza. E poiché i signori siderurgici mi dicono che il nolo è di 15 lire per tonnellata, basta questo fatto unico a dimostrare che, importando dall’estero la ghisa, dobbiamo pagare 15 lire di trasporto, mentre, fabbricandola in paese, la stessa, spessissima tonnellata di ghisa costerà, per solo trasporto, lire 52,50, ossia lire 37,50 di più. Il che è enorme per una merce la quale vale da 60 a 90 lire la tonnellata, a seconda del momento! Dicasi poi che l’industria siderurgica non è innaturale[2] all’Italia! Innaturale è e sarà sempre fino a quando non si scoprano in Italia miniere ricche di minerale di ferro e di carbone, o si inventino metodi di lavorazione, speciali all’Italia, che possano neutralizzare questa enorme differenza di costi nei trasporti. L’attuale dazio protettivo di 10 lire per tonnellata sulla ghisa è insufficiente, insufficientissimo per se stesso a rendere conveniente la produzione della ghisa da noi. Se non fosse dell’altro regalo delle 15 e forse più lire per tonnellata ai siderurgici per la concessione quasi gratuita dei minerali dell’Elba, la grande industria della ghisa non potrebbe vivere da noi un solo istante, e non potrà vivere il giorno in cui i minerali stessi siano esauriti. In quel giorno, purtroppo non lontano, non basteranno né le 10, né le 20, né le 30 e forse più lire per tonnellata di protezione a rendere possibile la lavorazione della ghisa. A seconda del mercato dei noli occorrerà un dazio più o meno forte, di 25 lire coi noli a 10 lire, di 37,50 coi noli a 15 lire, come i siderurgici dicono essere oggi, di 45 lire se i noli salissero a 18 lire. Il calcolo è semplicissimo; trattandosi solo di sapere quanto costa il trasporto delle due tonnellate e mezza di più che si devono trasportare per avere il gusto di lavorare in paese il minerale di ferro. Dopo ciò, fa d’uopo credersi davvero in possesso di tutta una nuova teoria del nazionalismo economico, per affermare che le società siderurgiche hanno bene meritato del paese, dando vita in Italia, con ardita iniziativa, alla grande industria della ghisa. Sarà bene che essi si tolgano di mente questa pietosa illusione delle loro benemerenze verso il paese. Noi non siamo niente affatto disposti a riconoscere in loro e nei legislatori che se ne fecero i paladini nessuna benemerenza di nessun genere. Non è benemerito, anzi è nimicissimo del paese chi fa costare 50 ciò che potrebbe costare 15. Costui bisogna combatterlo, anche se animato da nobile fervore industriale, non essendo un merito l’avere speso decine di milioni di lire per il gusto di vedere fabbricato in paese a caro prezzo ciò che poteva ottenersi dal di fuori a buon mercato; ed essendo grande il danno, se tutta questa fantasmagoria di milioni, questo lusso di alti forni, questa ardita iniziativa, questi impianti grandiosi, mentre hanno ingoiato centinaia di milioni di lire di proprietà dei contribuenti e dei consumatori costretti a pagare la differenza nei costi tra la merce estera e la merce italiana, hanno servito a dare a migliaia di capitalisti illusi la credenza in utili colossali, che oggidì vanno miseramente svanendo; non prima però che alcuni più accorti tra gli arditi iniziatori non abbiano intascato il prezzo sovracapitalizzato delle azioni delle effimere intraprese così create.

 

 

Altra causa di meraviglia è la nostra ostinazione nel volerci occupare degli affari degli altri. Il finanziamento siderurgico è un mero interesse privato. Se banche e banchieri e casse di risparmio hanno dato i loro denari, li avranno dati a ragion veduta. Che cosa centrate voi, o liberisti impertinenti? Se le società siderurgiche hanno speso troppo nei loro impianti, se non riusciranno ad ammortizzarli prima del 1922, data della scadenza delle concessioni, è cosa che riguarda esclusivamente i loro azionisti, non voi, professori di liberismo e scribacchiatori di stupefacenti sentenze dottrinarie.

 

 

Duole dover confermare il proprio disaccordo in materia di tanta importanza. Ma è pur d’uopo assicurare una volta i nostri avversari della fermissima intenzione di noialtri liberisti di seguitare a ficcare il becco negli affari cosidetti altrui. Perché quegli affari sono invece nostri, indiscutibilmente nostri e cioè di tutti i contribuenti e consumatori italiani. Chiamasi affare privato quello di chi arrischia capitali propri e non chiede favori a nessuno. Ma dal giorno in che certi industriali sono venuti a chiedere l’aiuto dello stato e cioè dei contribuenti per esercitare una industria, quella industria è divenuta soggetta al controllo pubblico, e non può sottrarsi alla libera critica. Potrete dire che la critica è spropositata, è degna di un professore inacidito, è contennenda, ma non potrete mai dire che sia illegittima. Alle obiurgazioni i professori rispondono con adeguate ritorsioni; a questa stravagante pretesa rispondono che seguiteranno per la loro via senza lasciarsi commuovere dalle nuove colonne d’Ercole che si vorrebbero opporre alla loro critica.

 

 

Gli affari dei siderurgici, dei cotonieri, dei lanaiuoli, dei cerealicultori sono affari pubblici e non privati; perché essi trivellatori esercitano la loro industria sotto l’usbergo di una protezione doganale che il legislatore ha concesso e che va a carico dei consumatori italiani. Quando avete chiesto ed ottenuto i dazi che voi trovate già insufficienti e che noi combattiamo, non avete cercato forse l’appoggio dell’opinione pubblica, il suffragio del parlamento? Non avete messo in piazza i vostri conti od i vostri pretesi conti di costi e di prezzi, per dimostrare che non potevate reggere alla concorrenza straniera e che avevate bisogno di un dazio protettivo? E chi lo paga questo dazio se non il consumatore italiano? Così operando, voi vi siete esposti alla pubblica critica fino a quando durerà la protezione doganale. Poiché ogni cittadino ha il diritto di criticare le leggi dello stato; e poiché voi non siete ancora una delle istituzioni fondamentali dello stato, che i cittadini amanti dell’ordine hanno il dovere di rispettare, così ogni cittadino ha il diritto di rifarvi i conti addosso e di dimostrare che i vostri costi non sono così alti come voi pretendete, o che, anche se sono alti, non val la pena di fare un sacrificio per compensarveli, perché la vostra industria non ha dimostrato coi fatti di avere le attitudini necessarie per diventare adulta e indipendente in un non troppo lungo volgere di anni. Siccome si tratta di denari suoi, che egli è obbligato per legge a pagarvi, ogni cittadino ha il diritto di dimostrare, se ci riesce, che i suoi sacrifici hanno servito soltanto ad attirare capitale ad una industria che non potrà restituirli nel periodo probabile di sua vita. Ognuno di noi, il primo che passa per la via, ha il diritto di protestare quando istituti pubblici, come la Banca d’Italia o le casse di risparmio, imprestano denari per sostenere imprese che a lui consumatore e contribuente costano già fin troppo care. Ogni uomo vivente in una società libera ha il diritto di parlare e di scrivere per criticare le leggi vigenti, per dimostrarne gli effetti che a lui sembrano cattivi e per augurarne la riforma. Non sono sottratti a critica i tributi che paghiamo allo stato, i quali hanno almeno l’attenuante di essere rivolti al conseguimento di fini pubblici, e, secondo la nuovissima teoria dei trivellatori, dovrebbero essere sottratti a critica gli atti e fatti di coloro che, per legge, hanno il diritto di sottoporre a tributo privato i loro connazionali?

 

 

Dite che la critica è falsa, dite e dimostrate non essere vero che voi taglieggiate gli altri italiani; e la vostra difesa sarà ascoltata. Ma non sperate che alcuno vi ascolti quando negate altrui il diritto alla critica. Il qual diritto di tutti i cittadini si converte in un dovere strettissimo per noi che siamo persuasi del danno che la protezione di cui godete infligge al paese. Mancheremmo ad un dovere impostoci dalla coscienza se, fino a quando il tempo e la fatica ce lo consentiranno, non vi assillassimo diuturnamente. Un sol mezzo avete per sottrarvi a quella che voi considerate curiosità impertinente. Rinunciate al vostro carattere pubblico. Rinunciate ai dazi e ridivenite uomini privati. Vi prometto, a nome anche di tutti i miei correligionari italiani, che non ci occuperemo mai più dei fatti vostri. O ce ne occuperemo solo per celebrare, commossi e profondamente convinti, i vostri liberi e non sovvenzionati ardimenti futuri.

 



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di Nuovi favori ai siderurgici?, «La Riforma Sociale», febbraio 1911, pp. 97-112 [ndr].

[2] Giova a proposito di questa parola “innaturale” notare che i miei contraddittori si sono immaginati un concetto infantile di quella che sarebbe per me la “naturalità” o “innaturalità” di un’industria per l’Italia. Immaginano cioè costoro che io chiamerei “innaturale” qualunque industria che debba far venire le sue materie prime dall’estero. Dove abbiano pescato questa pretesa mia definizione delle industrie “innaturali” io non lo so. Certamente sono persuaso di non aver mai pensato uno sproposito così ridevole. Naturale è quella industria che può essere esercitata, senza aiuti governativi, che non siano gli aiuti di pubblici servizi che è ufficio dello stato rendere, da qualsiasi paese provengano le materie prime. Se un’industria può prosperare da sé in Italia, essa è naturale all’Italia, anche se fa venire la lana di cui ha bisogno dall’Argentina, il cotone dagli Stati Uniti, i bozzoli dalla Cina e dal Giappone, ecc. Il criterio della “naturalità” è data dall’assenza di ogni costrizione al consumatore che lo induca a comprare i prodotti della industria nazionale a preferenza di quella straniera. Se i siderurgici riusciranno a produrre ghisa, senza dazi protettivi e senza regali di minerali demaniali, sarò il primo a proclamare che la loro industria è “naturale, naturalissima” all’Italia. Si può ammettere teoricamente soltanto, in conformità agli insegnamenti dello Stuart Mill, che una industria possa ancora dirsi naturale, quando nel periodo della sua infanzia, per dieci o tutt’al più venti anni, riceve qualche incoraggiamento di premi o dazi dal governo. Ma già lo Stuart Mill ha sconfessato la sua ammissione puramente teorica, dichiarando che del suo argomento, rivolto esclusivamente a pro delle industrie giovani, in pratica abusano industrie vecchissime, sebbene poco venerande per incapacità a perfezionarsi, od incapaci ad uscire dall’infanzia per imperizia dei suoi dirigenti o per impossibilità tecnica assoluta. Onde augurava che in pratica non si facesse uso del suo famoso argomento teorico, l’unico ragionevole fin qui inventato a favore di un “temporaneo” protezionismo. Fa pena dover ripetere queste verità elementari, che uno studente universitario si vergognerebbe di non conoscere; ma la arroganza dei siderurgici è tale che conviene rassegnarsi a siffatte ripetizioni.

Capitalista servo sciocco

Capitalista servo sciocco

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 288-291[1]

 

 

 

 

Qualche anno fa scrissi che la caratteristica dell’economia contemporanea, di quella che si giudica modernissima, alto capitalistica, secondo il brutto gergo di moda, era la riduzione del capitale all’ufficio di servo sciocco. Servo, il capitale, lo è da gran tempo; servo, come è suo ufficio, degli uomini che sanno organizzare imprese, si chiamino imprenditori privati, o consigli amministrativi di società per azioni, col loro stato maggiore di alti funzionari interessati negli utili dell’impresa. Come potrebbe essere altrimenti, se gli uomini capaci di gerire – come amministratori delegati, direttori generali, direttori centrali, capi servizio – grosse e grossissime imprese sono fattori rari e se invece i produttori di risparmio incapaci di farne impiego diretto sono numerosissimi e stanno diventando ognora più numerosi e producono risparmio destinato a diventar capitale in quantità sempre più strabocchevole? Siccome la fabbrica degli uomini dotati delle qualità proprie dell’imprenditore lavora con un rendimento che i congegni chiamati università, politecnici, scuole professionali e simili non riescono ad aumentare se non in proporzioni limitatissime; mentre la fabbrica dei risparmi butta fuori capitali a costi rapidamente decrescenti, così è ovvio che il capitale si inginocchi dinnanzi agli imprenditori e che questi, divenuti sempre meglio padroni dell’impresa, ne paghino i servizi a prezzi sempre minori.

 

 

Si lamentano gli azionisti di ricevere solo le briciole del reddito delle imprese di cui apparentemente sono i padroni? Ringrazino il cielo per quelle briciole; ché non vi sarebbe ragione di dar loro neppure quel poco, se, come suppone la teoria, il mercato funzionasse davvero in perfetta libertà e gli imprenditori avessero il diritto di restituire ai vecchi capitalisti il capitale conferito, sicuri, come sono, di ottenerlo a condizioni più miti da nuovi capitalisti ansiosi di mettersi al servizio di uomini conosciuti come valenti e probi. Valentia ed onestà sono qualità rare; che, se sono conosciute, comandano i servigi volenterosi ed umili di schiere ansiose di capitalisti e di banchieri mediatori in capitali. Lo dissi dianzi servo sciocco; ma aggettivo e sostantivo erano usati a scopo di reazione verbale contro il gergo, questo si veramente insipido, di chi, mal conoscendo il meccanismo economico, immagina entità materiali padrone degli uomini vivi. In verità sciocco non è affatto il capitale quando si dà incondizionatamente, sapendo di correre rischio di andar perduto, senza pretendere rese di conti, visioni di libri, agli imprenditori valenti ed onesti. Purtroppo la sua abbondanza è tale che se, ogni tanto, guerre e rivoluzioni non ne distruggessero una gran parte, per disperazione si darebbe al diavolo, a lestofanti ed a bancarottieri, privati e pubblici, pur di guadagnare qualcosa di più di quel minimissimo nolo del mezzo o al più dell’uno per cento che pare essere normalmente il suo prezzo di mercato. Il giorno in cui il servo sciocco, detto capitale, sarà meglio informato delle cose sue, e assegnato alla sua sorte, non tenterà più le vie rovinose dei grossi dividendi e guadagni promessi dai lestofanti; se nel frattempo guerre e rivoluzioni non verranno a rialzare il saggio di interesse nominale – non il saggio reale, per le conseguenti svalutazioni monetarie divenuto negativo – e se il legislatore non interverrà a favorire imprenditori e dirigenti ed a legare le mani ai capitalisti ed a provocare reazioni contrarie ai fini da esso perseguiti; ed il capitale si dovrà contentare di remunerazioni che oggi parrebbero incredibilmente basse, in quel giorno sarà mutato, per questo motivo, qualcosa nella struttura della società economica? Si, nel senso di approssimare sempre più la realtà all’ipotesi astratta della libera concorrenza: differenziazione più accentuata fra le persone fisiche in possesso dei diversi fattori produttivi: gli uni possessori del fattore “impresa”, gli altri del fattore “direzione tecnica o commerciale od amministrativa”, gli altri del fattore “lavoro d’ordine” o “lavoro di sorveglianza e manovra delle macchine” o “lavoro manuale propriamente detto”, e finalmente, ma fuori dell’uscio, in atteggiamento sommesso, i possessori del fattore “capitale”. Anche se costoro giuridicamente parranno ancora essere i proprietari, anche se sarà conveniente conservare la finzione giuridica del loro diritto di proprietà, con relative deliberazioni di assemblee, la realtà economica sarà ed è già in notevole misura quella descritta. La ragione principale della necessità di conservare la finzione giuridica è che non è stato, finora, scoperto nessun congegno migliore per portare al sommo gli uomini capaci di esercitare il compito di imprenditori. Con occhio di lince i servi capitalisti sono atti a scoprire gli uomini valenti e probi a cui dare in commenda senz’obbligo di resa di conti i propri risparmi; laddove con altri strumenti, propri dell’economia regolata o socialistica, si scoprono sovratutto intriganti arrivisti malversatori e simile genia. Se a capo di talune grandissime imprese si trovano uomini né valenti né probi, il fatto a che cosa è dovuto? Al metodo di selezione proprio dell’economia di concorrenza od alla sua contaminazione con i metodi propri degli altri sistemi economici, i quali oggi vivono, in quasi tutti i paesi del mondo, mescolati al primo?

 

 

Se al metodo di scelta degli imprenditori e dei dirigenti oggi compiuta dai capitalisti non si vuole sostituire il metodo corruttore di scelta burocratica, nel leviatano statale, che cosa dobbiamo sostituirvi? La elezione in seno e per voto dei dirigenti o di questi insieme con le maestranze e con i fornitori di capitali? Se elezione vuol dire di fatto cooptazione da parte degli imprenditori in carica, il metodo è noto da tempo, e cioè sin dall’origine del sistema di economia di mercato, ed ha preso il nome di graduale elevazione dei migliori fra gli operai e gli impiegati al grado di dirigenti: salariati prima, cointeressati poi, associati in fine, con l’aggiunta della chiamata, in qualità di generi, in seno della famiglia dell’imprenditore. Se il legislatore non interviene a regolare quel che opera efficacemente solo se spontaneo ed a generalizzare quel che è particolare e diverso, anche in avvenire si faranno nuovi sperimenti di cooptazione e si perfezioneranno e si arricchiranno i modi di scelta della classe imprenditrice. L’arricchimento non vorrà dire distruzione del sistema di economia di mercato o di concorrenza; sarà invece rafforzamento di essa. Storicamente quel sistema non può trasformarsi da modello teorico in realtà viva ed operante se non grazie ad un processo non mai identico nel tempo e nello spazio di adattamento alla natura umana. L’imprenditore non vuole essere un puro imprenditore, ma tende al possesso del capitale o di parte di esso; il capitalista, il quale non sia una mera formica, desidera conservare il possesso fisico del suo risparmio e si compiace nel vederlo agire; l’impiegato e l’operaio, i quali sanno di valere qualcosa, non stanno contenti allo stipendio od al salario. Le leghe operaie, le unioni industriali, le varie maniere di interessenza dei lavoratori al prodotto dell’industria, i vari tipi di azioni, i corpi serrati di dirigenti specialisti padroni effettivi dell’impresa, i cui titolari sembra siano cifre anonime detti capitalisti, non sono forse, tutte queste, manifestazioni della repugnanza invincibile dell’uomo concreto a vestire i panni puri delle figure astratte create per necessità di analisi dell’economista? Questi, come è suo compito, scompone ed analizza. L’uomo storico ricompone e sintetizza; non mai però come pretenderebbero altri, che son dottrinari in cerca di tipi: il tipo del dirigente nella grande società per azioni o nel colossale consorzio, il tipo del funzionario nell’ente pubblico, il tipo del costruttore di piani e di ispettore o commissario nella economia regolata. L’uomo storico, come non si adatta ai modelli teorici degli economisti, così si ride dei tipi immaginati dai dottrinari.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di Economia di mercato e capitalista servo sciocco, «Rivista di storia economica», marzo-giugno 1943, pp. 38-46 [ndr].

La vendita delle terre

La vendita delle terre

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 235-248[1]

 

 

 

 

Non sempre si bada ad una circostanza essenziale la quale distingue la terra (ed entro certi limiti la casa, se avita) dal titolo mobiliare. Ogni titolo è fungibile con ogni altro titolo analogo. Ogni cartella da 1000 lire nominali del redimibile italiano 3,50 per cento è fungibile con ogni altra cartella del medesimo ammontare e tipo. Ogni azione della Banca d’Italia o della Fiat è fungibile con ogni altra azione della Banca d’Italia o della Fiat. Normalmente, nessun investitore si innamora della Fiat quale Fiat, o dell’Italiana gas perché tale. Ognuno, fatti i conti, se ha convenienza, è disposto senza stringimenti di cuore a cambiare un titolo con un altro. In grado minore la casa d’affitto (non quella avita di abitazione) è fungibile con ogni altra casa d’affitto.

 

 

Sarebbe erroneo affermare che la terra non sia affatto un bene fungibile; par certo che sempre lo sia in grado minore degli altri investimenti e che si possa tracciare una curva la quale va dalla quasi fungibilità perfetta alla mancanza assoluta di essa. La concentrazione massima si ha attorno un punto in cui la fungibilità è scarsa, in tempi normali a mala pena avvertita. Si compra e sopratutto si conserva non la terra ma quella terra. L’agricoltore passa indifferente attraverso campi magnifici e vigneti superbi. Non sono i suoi; quasi non li guarda. Ma quando si avvicina al suo terreno, egli “sente” qualcosa. Avverte cose che sfuggono al cittadino; il suo sguardo segue il confine del podere e lo vede in linee per altri invisibili. Conosco due fratelli contadini, nati e vissuti in una casa infelice, volta a mezzanotte, ficcata tra vicini pettegoli e litigiosi, con terra anch’essa malamente frammischiata ad appezzamenti altrui. Ereditarono una bella casa con bella terra attorno, alta su un poggio volto al sole. Supposi per un istante, ma non dovevo, avendo l’illusione di comprendere i miei amici rustici, che essi avrebbero preso dimora nella nuova casa, fuggendo l’ombra e la umidità antiche. Mai più. Erano nati lì e lì vogliono morire. La bella casa la diedero a mezzadria.

 

 

La terra non si vende, confrontando al margine il rendimento di essa con quello che si avrebbe reinvestendo il probabile ricavo della vendita. Forse il solo caso che abbia una certa parentela con la vendita “per motivi economici” è quello del contadino, il quale possiede poca terra insufficiente ai suoi bisogni e altrove come affittuario o mezzadro ha messo da parte un gruzzolo in denaro e gli si offre l’occasione di comprare un podere al quale si è già affezionato, coltivandolo, o che conosce bene perché a lui vicino. Il nuovo fondo vale 100.000 lire ed egli possiede in contanti solo 60.000 lire. Grazie al salutare suo orrore del debito, se davvero il fondo nuovo lo tenta assai può darsi egli si decida a vendere la casa e le terre ereditate per mettere insieme le 100.000 lire occorrenti all’acquisto. Ma vendere per vendere, per fare un buon contratto, per avere dei buoni denari alla cassa di risparmio, mai. È un’idea che al contadino non passa neppure per il capo.

 

 

Non so se si possa chiamare economico un altro caso di vendita, che si può dire forzata; e si distingue in due categorie a seconda se sia fatta da contadini o da “signori”.

 

 

Può darsi che il contadino non abbia voglia di lavorare la terra, – il comandamento di Dio “lavorerai la terra col sudore della tua fronte” gli dà noia ed immagina che in città, all’ombra delle fabbriche, si stia meglio – o indulga al vino o al gioco o per animo litigioso, suo o della moglie, non sopporti la vita in comune con i genitori e con i fratelli. Non si sa come e perché, ogni sorta di malanni si abbatte sulla sua terra: la stretta di caldo, le nebbie di fine giugno, la fillossera, la gramigna prediligono le sue terre; la stagione va sempre avversa, la grandine gli fa visite troppo frequenti. Ha tutte le disgrazie; l’esattore, lo strozzino sono nemici suoi personali. Nelle adunate, è tra i più eloquenti nel lamentarsi che il governo non faccia queste e quelle cose che tornerebbero di gran vantaggio all’agricoltura; nelle tornate dei delegati sindacali di zona e tra i più assidui a sollevare quesiti ed a difendere i diritti della sua classe. Se un inquirente economista va in giro a raccogliere dati, vi sono nove probabilità su dieci che gli appunti del “saputo” siano quelli di cui si farà maggior conto. Costui alla lunga venderà. Ma il ricavo della vendita non andrà, se non in piccola parte, a lui, bensì a chi gli avrà fatto credito all’osteria o al gioco.

 

 

Se la ragion di vendere è soltanto il desiderio di inurbarsi, la vendita si fa con comodo. La terra si dà in affitto od a mezzadria ai fratelli od a parenti od a vicini, e si aspetta che costoro o altri abbiano i mezzi di pagare la terra “quel che vale”; e “quel che vale” è una quantità determinata per lo più in un mercato curiosissimo, dove si armeggia fra due monopolisti, magari per anni ed anni, con faccia impassibile, distratta. Il venditore sa che in comune commercio la terra vale 10000 lire l’ettaro, ma sa che il fratello o parente o vicino è disposto ad acquistarla per 25000 lire. Altrettanto sa il compratore: quella terra gli fa gola, arriva proprio fin sotto la casa sua. Acquistandola, egli si toglie servitù di passaggio nell’aja o nel campo, arrotonda il podere ed arriva su strada più comoda della sua. Si tratta di capitalizzare redditi veri e redditi immaginari: strida di donne, beccar di galline, puntigli di passaggio.

 

 

Talvolta al contratto non si arriva mai, a furia di starsi a guardare e di fare i furbi. Tizio covava da assai anni la voglia di comprare la casa e il terreno di Caio, che sembravano una fetta spaccata dalla medesima sua roba. Era stanco di litigare col vicino. Acquistandola, Tizio conquistava la libertà: una casa sola, un’aja sola, tutti i campi attorno, nessuno avrebbe avuto diritto di passare sul suo. Caio si decide a vendere per togliersi da una vita d’inferno ed andarsene a star meglio altrove. Naturalmente incarica della cosa un mercante di terre, ben sapendo che non sarebbe riuscito a trovare un concorrente nell’acquisto a Tizio, e costui l’avrebbe strozzato nel prezzo. Il mercante offre, altrettanto naturalmente, la terra in primo luogo a Tizio, che egli conosce solo interessato all’acquisto. La offre, una due tre volte. Attende, pazientemente, settimane e mesi la decisione.

 

 

Ogni volta la risposta è: no, non compro, non ho mai pensato a comprare, sto bene sul mio, non voglio caricarmi di terra che non arriverei a coltivar bene. La offro ad un altro? offra pure, mi farà piacere; avrò un nuovo vicino migliore dell’antico. Tizio era sicuro che nessuno sarebbe venuto a ficcarsi vicino a lui. I vicini erano tutti provveduti di terre. Un estraneo mai più si sarebbe cacciato lì. Il mercante invece trova il compratore e vende. Tizio non crede; il nuovo arrivato non è, non può essere un vero compratore della terra. Si è messo d’accordo col mercante, per intimidire lui e indurlo a comprare. Per un anno e più vive tranquillo persuaso che il nuovo vicino sia una testa di legno pronta ad andarsene con una mancia, dopo aver messo nel sacco lui. Quando, finalmente, si persuade che la vendita è avvenuta sul serio ed il sogno della sua vita si è infranto, monta in furore; ingiuria il mercante, colpevole di non si sa che cosa, dopo i tanti avvertimenti datigli, ed inveisce contro il malcapitato vicino, colpevole di aver acquistato a prezzo corrente la terra, che egli voleva far sua a sottoprezzo. La tragicommedia, fra ingiurie ed agitar minaccioso di tridenti e danneggiamenti reciproci dura a lungo, finché, accordatosi su un congruo prezzo – rimborso della somma pagata, più indennità per la mala vita sofferta -, il nuovo venuto non si decide a sloggiare. Questo è il modo con il quale fra contadini si risolve il quesito che in economia pura si dice della determinazione del prezzo in caso di monopolio bilaterale.

 

 

Se la vendita di terre di contadini determinata da ozio, vizio o ripugnanza al lavoro di zappa ha luogo per lo più entro i limiti di una generazione, la cosa si trascina più a lungo per le terre dei “signori”. Parlo ed il lettore avrà senz’altro capito da sé, delle zone agricole, così frequenti nell’alta Italia collinare o di pianura asciutta, in cui dominano la media proprietà e quella di piccola coltivazione. La casata era stata messa su da gente di toga, da professionisti o da negozianti tra il sei e l’ottocento: modeste casate, che si mantenevano con decoro con redditi terrieri da tre a cinquemila lire e col provento di impieghi e professioni per i membri più colti della famiglia. Accade, nel lento trascorrere degli anni, che, fra i tanti sani, nasce sul ceppo familiare qualche virgulto bizzarro; o che troppi figli si son dovuti mandare, insieme, agli studi, o che una successione di annate cattive ha cancellato i redditi, in tempi in cui non soccorrevano più o non ancora redditi di lavoro. Cominciano i debiti, e su una fortuna terriera di 100.000 lire si innestano ipoteche di 10 e poi di 20 e poi di 30 e 50 mila lire. Ad un certo momento la situazione si fa tragica. È la miseria nera, di chi nel villaggio è ancora reputato un “signore” e deve conservare il decoro del ceto. Talvolta, la casata salva per il tempo i residui della fortuna, perché il capo vende prima di essere arrivato all’estremo ed emigra in città. Ma se l’ultima generazione è di donne, difficilmente queste si decidono. Vecchie signore vissero lungamente di caffè latte e di scarse onoranze pur di non vendere e resistere nel pagar interessi. Alla morte, quando non ci sono più eredi diretti, si scopre che bisogna accettare l’eredità con beneficio d’inventario e che la vendita delle terre a stento coprirà l’inventario dei debiti.

 

 

Vendite “economiche” non provocate dalla necessità assoluta, si conobbero due volte nell’ultimo secolo: tra il 1879 ed il 1886 e fra il 1922 ed il 1927. Nel primo tempo i prezzi dei terreni raddoppiarono (cfr. Einaudi Luigi, La revisione degli estimi catastali, in «La Riforma Sociale», 1923, pp. 491 sg.) in moneta buona, nel secondo triplicarono e quadruplicarono in moneta deprezzata. Parecchi, forse i più, degli ultimi rimasti tra i proprietari assenteisti non seppero resistere alla tentazione dei tanti denari e vendettero quasi sempre a contadini, ad antichi affittuari, a mezzadri, a proprietari coltivatori a cui, negli anni di precedenti prezzi, era stato possibile risparmiare. Quelle due furono le epoche di massimo movimento terriero, di rinnovazione sociale e di inalzamento del medio tenore di vita. Coincidono col prevalere del motivo economico nelle azioni umane. Vende la terra chi immagina di fare un buon affare nel mutare investimento, e compra chi ha esperienza di agricoltura ed ha avuto successo nel coltivare.

 

 

Prima e dopo, i movimenti delle vendite sono extraeconomici, morali e familiari. Quelli delle compre sono i soliti motivi che spiegano la prosperità delle famiglie: ordine, laboriosità, morigeratezza, unione, e perciò possesso di un risparmio che non si concepisce neppure di poter impiegare altrimenti che in terra, ed insieme possesso di figli, ad ognuno dei quali si vuole assicurare un podere bastevole alla famiglia nuova che essi creeranno.

 

 

Quando, nelle pagine di solenni inchieste, si leggono lunghi elenchi delle cause dell’immiserire delle classi rurali proprietarie e coloniche: mancanza di credito, usura, crisi di prezzi, imposte alte, malattie delle piante, avversità atmosferiche, attrattive delle città tentacolari, figliuolanza troppo numerosa, guerre, malattie e morti, vien fatto, salvoché per le malattie e le morti di coloro che erano il sostegno o la speranza della famiglia, di sorridere a tanta sapienza astratta e si chiede: perché gli indagatori non hanno preso in mano i libri delle verità eterne, la Bibbia ed il Vangelo? Ivi avrebbero imparato che una sola è la causa della prosperità nelle campagne: il timor di Dio. La famiglia timorosa di Dio e cioè unita attorno al capo, ubbidiente, lavoratrice, ordinata, prospera e sale. Sciamano, conquistando la terra, le api laboriose. Il sole d’estate ed i geli invernali uccidono i fuchi oziosi.

 

 

«Quel che vale» non è tuttavia un concetto così lontano da quello teorico, come potrebbe sembrare dalle cose dette sopra. I prezzi effettivi dei terreni possono essere classificati in varie caselle:

 

 

  • vi ha prezzo quasi di concorrenza, quando un terreno non ha qualità particolari, che lo rendano in particolar modo appetibile o sgradevole. Non è così mal situato da allontanare un acquirente qualunque – timore di ficcarsi tra vicini litigiosi, di star troppo lontano dal mercato o di pagar troppo cara la vicinanza -; né è tanto in vista da essere oggetto di invidia;

 

  • vi ha prezzo simile a quel di monopolio, quando le sue qualità sono così peculiari e note – vicinanza al mercato, su bella strada, con bella casa, con piantagioni fiorenti, tutto riunito attorno alla casa, senza servitù di passaggio – da essere desiderato da quanti lo vedono e, vedendolo, pensano: se potessi diventar padrone di quel podere!

 

  • vi ha prezzo che si può dire di monopolio bilaterale, quando il podere è siffattamente situato che tutti gli altri possibili acquirenti sono disposti a pagare solo 50.000 lire, ossia meno delle 80.000 lire che sarebbero il prezzo corrente se il podere si trovasse in condizioni ordinarie. Ma è ficcato in mezzo a vicini litigiosi, che, si sa, ogni mese fanno correre il maresciallo dei carabinieri a mettere pace fra cugini rabbiosi, pronti a menar le mani ed a brandir tridenti; epperciò il prezzo cala al disotto del tipo corrente. Il proprietario sa che può essere costretto se non trova di meglio, a vendere a 50.000 lire, ma sa anche che tra i suoi vicini uno ve n’ha al quale la sua terra fa gola, la sua e non altra. Il venditore è monopolista di offerta perché possiede il fondo desiderato dal vicino; e questi è pure un monopolista, di domanda, perché è il solo disposto a pagare il fondo più delle 50.000 lire che in comune commercio se ne potrebbero cavare. Pur di costituire una unità poderale libera da “impegni e barriere”, come orgogliosamente, dopo avere litigato tant’anni, fece dipingere a gran lettere sulla sua casa un contadino, egli sarebbe disposto a pagare anche 150.000 lire. Ambi i monopolisti manovrano con felina prudenza per tirare a sé la parte migliore della zona di indeterminazione fra 50 e 150 mila lire.

 

 

Nei due ultimi casi nessuno conosce le intenzioni dell’altro. Tutti sanno soltanto che esiste un prezzo comune corrente e questo è assunto da tutti a guida nelle contrattazioni. In fondo, l’opinione concorde degli interessati collima con quella dei trattati di stima dei fondi rustici: criterio sostanziale del prezzo corrente delle terre essere la capitalizzazione del reddito al saggio corrente di interesse. Corre tra gli economisti rurali la teoria che nelle zone di grande ed anche media proprietà si capitalizzi il reddito netto, perché ivi la terra è comperata da capitalisti i quali conducono i fondi ad affitto, a mezzadria o a economia e nelle cui tasche va il prodotto deductis impensis; laddove nelle zone di piccola proprietà coltivatrice si capitalizzerebbe quasi l’intiero reddito lordo, ossia questo dedotte soltanto le imposte e le spese vive di concimi, attrezzi rustici ed altro denaro vivo speso fuor di casa. Il contadino non terrebbe conto del salario che egli dovrebbe, se sapesse tener conti, far calcolo di pagare a sé e alla famiglia. A parità di prodotto 100, il proprietario capitalizza 100 meno le 50 dovute al mezzadro e le 25 pagate in imposta e spese vive, epperciò, se il saggio di interesse è del 5 per cento, paga 500 lire, valor capitale di 25 lire reddito netto. Il contadino deduce dalle 100 solo le 25 imposte e spese vive e si lascerebbe trascinare a pagar lo stesso terreno 1500 lire, valor capitale delle 75 lire, che egli a torto considera tutto reddito netto capitalizzabile, mentre solo 25 sono tali e le restanti 50 sono frutto del suo lavoro. Perciò egli capitalizza se stesso, pagando alla classe proprietaria venditrice una taglia per liberarsi dalla schiavitù di vivere a salario altrui.

 

 

La teoria, che è uno dei luoghi comuni più apprezzati della critica anti terriera, suppone che il medio contadino sia un animale singolarmente privo della capacità di ragionamento economico; supposizione la quale a chi apprezza le scarpe grosse e i cervelli sottili della gente rustica appare a primo tratto grandemente improbabile. L’ipotesi deve essere in primo luogo chiarita coll’indicazione di quello, fra i tanti redditi lordi, che sarà capitalizzato per avere il prezzo comune corrente dei terreni. Non certo il prodotto 200 che può essere ottenuto dall’acquirente, contadino energico intelligente ben fornito di figli in buona età, laboriosi ed ubbidienti. Per quanto grosso, il cervello del contadino non funziona in maniera siffattamente tonta. Neppure il prodotto 50 compatibile con la poltroneria di chi aspira ad aver terra, ma non ha mezzi ed attitudine a sfruttarla. Non possiamo supporre tonto a tal segno il venditore. Base della stima è il reddito medio ordinario ottenibile dalla maggioranza dei comuni buoni contadini viventi nella zona. Come vivevano, prima di comperare, costoro? Erano affittuari, mezzadri o proprietari provveduti di terreno insufficiente, i quali andavano a giornata nel tempo libero su terre altrui. Vogliamo sul serio supporre che essi non sappiano che, acquistando terra, rinunciano al reddito che ricavavano dal fondo avuto in affitto od a mezzadria o dalle opere prestate altrui? Essi guadagnavano sul terreno a mezzadria già 50 su 100 lire di prodotto lordo, di cui altre 25 andavano a spese e 25 rimanevano al proprietario. La teoria della capitalizzazione del lavoro pretenderebbe che il mezzadro sia disposto, pur di comperare il fondo, a pagare al proprietario venditore 500 lire come prezzo capitale delle 25 lire spettanti a lui, il che è ragionevole perché egli acquista un reddito nuovo, ed, in aggiunta, 1000 lire per il piacere di trattenere, a titolo di proprietario, le 50 lire che già faceva proprie a titolo di mezzadro. La cosa è troppo grottesca per essere vera; e vera di fatto non è.

 

 

Le ragioni del fatto vero – lo stesso terreno pagato dal grande proprietario 500 lire è pagato spesso dal piccolo proprietario 700, 800 od anche 1000 lire – sono altre. Il reddito capitalizzato è in ambi i casi il reddito “netto”, ma diverso ne è l’ammontare. Il proprietario venditore di un grosso fondo fissa il prezzo “di offerta”, sulla base del suo prodotto lordo 100, da cui dedotte le 50 di parte colonica e le 25 di imposte e tasse, resta un netto capitalizzabile di 25, da cui, al 5 per cento, si ricava il, prezzo di offerta 500. Se, nella zona, tutti fanno lo stesso calcolo, per essere i possibili richiedenti gente del medesimo calibro del venditore, quello sarà anche il prezzo di domanda. Ma se nella zona i possibili richiedenti sono contadini, i quali sono passati le mille volte dinanzi ai campi e alle vigne del “signore”, sogghignando sui lavori mal fatti, sulla gramigna affettuosamente allevata a piè delle viti, costoro fanno lor conti non su 100 ma su 200 a titolo di reddito lordo, e, pur detraendo con larghezza 50 per imposte e spese vive e 100 come remunerazione della [migliore] opera propria, possono capitalizzare un reddito netto di 50 lire.

 

 

A spingere in su il prezzo dei terreni nelle zone di piccola proprietà concorre anche il più basso saggio di interesse vigente in esse in confronto alle zone a grande proprietà. In queste, il saggio di interesse sta, per ragioni dianzi osservate, alquanto al disotto di quello corrente per impieghi di tutto riposo: titoli di stato, cartelle fondiarie, ipoteche, case di affitto. Ma la differenza non è fortissima ed in sostanza può dirsi che il saggio di investimento in terra tenda verso il saggio corrente per gli impieghi reputati sicuri. Invece nelle zone di piccola proprietà, la concorrenza degli altri impieghi mobiliari è scarsa. Il contadino conosce, tra i valori pubblici, solo la carta moneta. Se un confronto si fa, ha luogo con l’interesse pagato dalle casse di risparmio postali o pubbliche; e poiché i depositi postali fruttano dal 2 al 3 per cento, è logico che il contadino non pensi a trarre un frutto del proprio capitale superiore al 3 per cento. Può darsi dunque che, laddove il grande proprietario capitalizza il reddito netto 25 al saggio di interesse 5 o 4 per cento e paga il capitale 500 o 625 lire, il contadino capitalizzi un reddito sempre “netto” di 50 lire al saggio di interesse 3 per cento epperciò paghi, al limite, un prezzo capitale di 1666 lire. Tanto meglio se potrà far l’affare a migliori condizioni, pur facendo contento il venditore e consentendo una buona mediazione al mercante di terre.

 

 

Quasi sempre ebreo fino al 1900, oggi quasi sempre cristiano, il mercante di terre è il vero creatore del prezzo economico. Abbandonati a sé, il “signore”, che si è deciso a vendere, ed i “contadini”, i quali vorrebbero comprare, starebbero a guardarsi negli occhi per un gran pezzo e forse non concluderebbero nulla. Chi vende, vuol vendere tutto e non sentirne più parlare. Se tratta direttamente coi contadini, teme, a ragione, di cadere in trappola. Il “cuore” del podere con casa e la terra vicina ben concimata e coltivata glie lo porterebbero via in un amen. Ed il resto? Gli resterebbe, invendibile ed inutilizzabile, sul gobbo per anni sempiterni, finché per disperazione, si inducesse a darlo via per un tocco di pane. No; egli non può vendere a pezzi. Occorre che un mercante liberi lui dal rischio e dai contadini sia tenuto per denaroso e capace di metterli nel sacco. Quale sia il metodo tenuto dal mercante per vendere e vender tutto è il suo segreto, che nessun “istituto pubblico per il frazionamento del latifondo” riuscirà mai ad imparare. Se sapessero scrivere, i mercanti di terra comporrebbero capolavori sulla psicologia contadina. In succo, il perché della riuscita del mercante e della incapacità del proprietario venditore forse è questo: il contadino sa che il mercante si decide subito, appena ci sia un margine di lucro ed il margine è tanto più piccolo, quanto prima si fa il contratto. Il mercante non può aspettare, perché, se non riesce a vendere subito, non vende più. Il contadino diffidente, se vede che un fondo non si è venduto subito, immagina che quel fondo abbia, come i buoi, qualche vizio nascosto; e non compra più. Peggio, si persuade che non ci siano compratori e gli nasce in cuore la speranza di mettere, aspettando, nel sacco mercante e proprietario. Il mercante non può attendere,perché attendere vuol dire rimanere col proprio capitale imbottigliato in un fondo; non poter più fare altri affari e doversi, per forza, convertire dal mestiere suo a quello di agricoltore, a cui è inadatto. Ma il contadino sa, anche, che ad aspettare non si guadagna nulla, con un mercante. Sa che se lascia passare quello istante, “quella” terra, quella terra “individua” a cui egli aspira non la potrà mai più, né lui né i figli né i nipoti, far sua. La terra non è fungibile. Od ora o mai più. Andrà in mano del vicino, del parente ed egli consumerà, nella rabbia del disinganno, i giorni restanti della vita. Il contadino sa anche che il mercante ha interesse a rendergli servizio. Un mercante di terre che si lasciasse trascinare a favorire, senza motivo, un contadino piuttosto che un altro, perderebbe credito e non farebbe più affari. Il mercante ha interesse a fare un piano di frazionamento che soddisfaccia al massimo grado gli interessi permanenti di ognuno di coloro tra i quali il fondo può essere diviso. A ciascuno egli offre l’appezzamento che abolisce servitù fastidiose, che arrotonda meglio il terreno già posseduto, che e più vicino alla casa. Certo, lo scopo non si raggiunge se non con molta chiacchiera, con molta pazienza, discorrendo per ore del tempo che fa, della piova che non viene, passando notti bianche a far opera di persuasione, e sapendo che l’affare si farà all’ultimo momento, quando il mediatore è già fuor dell’uscio ed ha il piede sul predellino della carrozza e tutt’e due, contadino e mercante, sapevano che il contratto si sarebbe conchiuso all’ultimo momento, e guai a non far finta di parlar d’altro per ore interminabili! I contratti si fanno solo se ambi hanno per tempo sufficiente dimostrato di poterne far a meno e ciascuno dei due sa che si tratta di commedia. Certo non si deve offrir terra a chi male coltiva la già posseduta, o non ha figli o non ha denari, o non merita credito. Ma col mercante il contadino discorre a lungo volentieri anche perché sa che la parola data da lui è mantenuta. Coi “signori” non si sa mai. Si era offerto 100 e si era rimasti d’accordo su 120. Il giorno dopo non se ne ricordano più e ragionano: se sono disposti a pagar 120, segno è che val di più. Così chiedono 150 e non vendono mai. Dopo qualche anno offrono a 100, quando i prezzi sono caduti a 75. Per non aver voluto farsi strozzare dai mercanti di terre, si strozzano peggio da sé, perdendo le occasioni buone e danneggiano gli acquirenti ai quali può convenire meglio pagare 200 nel ciclo ascendente dei prezzi che non 100 in mercato calante. Il peggior danno in caso di monopolio bilaterale è il tempo perso nel trovare il punto di intesa fra i due prezzi di massima convenienza per i due contraenti. Il guadagno del mercante, ottenuto senza danno di nessuno, probabilmente con vantaggio di ambe le parti, è tratto dall’abilità nell’abbreviare il tempo del contrattare e precipitare la conclusione sulla base di criteri oggettivi di concorrenza. Pur di concludere, il mercante non insiste troppo nel giungere alle 1000 lire che Tizio potrebbe arrivare al massimo a pagare. Se chi viene dopo di lui nella convenienza di acquistare, può spingersi solo fino ad 800, per poco che Tizio offra più di 800, l’affare è fatto e si passa ad altro. Qual mai funzionario di pubblico istituto per il frazionamento del latifondo, ecc., ecc., potrebbe aver l’occhio, l’intuito, la conoscenza personale degli uomini che ha il mercante nato e vissuto sul posto, che i contadini capiscono a volo, a segni, facezie, allusioni, a «pensateci su» e «parlatene alla moglie» e si sa bene che la moglie non centra e la decisione è già presa.

 

 

La terra comprata esce dal mercato sino al momento in che si verifichi qualcuno degli eventi che furono sopra descritti: terremoti economici, come nel dopoguerra, rovina delle famiglie contadine per infingardaggine, gioco, mala condotta od esaurimento lento, tra imbarazzi nascosti di debiti, delle famiglie signorili. L’agire economico normale del proprietario deve, fuor di queste circostanze, essere previsto partendo da una premessa: che la terra non si vende. La premessa non è economica; nasce dall’istinto ed è incomprensibile al “cittadino”. Chi ha quell’istinto, compra e non vende. Il solo pensiero del vendere gli è ripugnante: è l’azione non lecita, immorale, da cui il decalogo gli comanda di star lontano.

 

 

Può darsi che l’istinto sia stato fortificato dall’esperienza accumulata delle generazioni passate e dalla sua; certo non nasce da un ragionamento. I nostri vecchi che erano passati attraverso alla tempesta della rivoluzione francese e dei biglietti di credito, surrogato nostrano degli assegnati, forse avevano instillato nei figli la sfiducia nella carta con su stampate cifre; e forse la tradizione è stata rinfrescata dalla guerra mondiale. Si ha l’impressione vaga che la terra sia qualcosa di solido, che resta; ma l’impressione ha scarsa parentela con la visione teorica di una rendita fondiaria destinata alla lunga nei secoli a crescere per la pressione della popolazione in aumento sulla terra invariata di superficie. L’agricoltore apprezza poco le nozioni di redditi certi e crescenti derivanti dall’entità astratta “terra”, che a lui paiono di peso infinitamente piccolo in confronto della precarietà del soprassuolo, da cui veramente egli attende il reddito. Egli sa che il reddito, “tutto” il reddito viene non dalla terra per sé, ma dal vigneto, dall’oliveto, dal frutteto che egli ha impiantato, dalla pendenza che egli ha dato al prato, dal canale di irrigazione, dal fosso di drenaggio, dall’aratura profonda, dalla lotta assidua contro la gramigna e le male erbe, dalla scelta delle sementi. Egli sa che tutte queste cose sono perfettamente identiche ad una macchina, la quale deve essere costrutta, riparata, mantenuta pulita, oliata; sa che, se ogni giorno egli non la cura, presto la macchina deve essere buttata fra i rottami ed il campo diventa come l’orto di Renzo, stupendo per fiori selvatici, ma improduttivo.

 

 

Il pensiero non gli balena neppure alla mente, perché egli è un rustico e non un cittadino, perché sente la terra e disprezza la carta stampata, ama le piante e la terra pulita ed i filari allineati come plotoni di soldati e non capisce nulla dei congegni di una fabbrica; sente la linfa salire su per le piante e sbocciare in fiori e frutta, ma gli possono descrivere cento volte il modo con cui un congegno tecnico funziona e non se ne ricorderà mai.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di Categorie astratte e scatoloni pseudo economici. Dialoghi rurali, «La Riforma Sociale», novembre-dicembre 1934, pp. 637-667 [ndr].

Il re prezzo

Il re prezzo

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 218-224[1]

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires, 1965, pp. 73-80[2]

 

 

 

 

C’era una volta, e c’è ancora adesso, colla corona un po’ di traverso ed ammaccata, un re del mondo economico: il prezzo. Prezzo di mercato, prezzo, usano aggiungere gli economisti, di equilibrio. Guardava, quel re, un po’ dall’alto al basso la folla dei sudditi a due colori vestiti: i consumatori mossi dalla speranza di trovare sul mercato le cose di cui avevano bisogno, i produttori accesi dal desiderio di chiudere con profitto la fatica durata nel produrre. Molti gli uni e molti gli altri, tanti che né i produttori da un canto né i consumatori dall’altro riuscivano ad intendersi tra di loro per sopraffare l’opposta schiera, sicché i produttori potessero costringere i consumatori a pagare un prezzo di strozzinaggio ed i consumatori obbligare i produttori a cedere per un boccon di pane quel che a gran costo avevano prodotto. Perciò il prezzo, che veniva fuori non si sa da dove, comandava a bacchetta, lui puro numero, idea senza corpo, ad amendue le schiere. I sudditi, che erano loici interessati ed ognuno aveva in testa un beI ragionamento per dimostrare che il prezzo “giusto”, quello che sarebbe convenuto a lui, era un altro da quello di mercato, chiedevano: perché ubbidiamo ad un re in idea, ad un numero? perché dalla ubbidienza cieca al numero non esce il disordine, anzi alla fine della giornata ognuno di noi è riuscito a soddisfare alle sue urgenze, più o meno perfettamente, sempre in misura inferiore ai desideri, ma suppergiù non peggio di ieri e non peggio di quel che l’usanza comanda al nostro gruppo sociale? Perché dall’incontro di consumatori e di produttori che non si conoscono tra di loro, né sanno quel che gli altri bramano consumare od intendono produrre e dal comando di un re astratto, il numero prezzo, esce fuori un ordine per cui i produttori recano sul mercato precisamente quel che i consumatori desiderano, ed alla sera, all’ora della chiusura, non resta nulla d’invenduto?

 

 

Chi si fosse trovato vicino al trono del numero re avrebbe forse tratto argomento a penetrare dentro nel mistero osservando che la folla sembrava sul mercato avere due facce e due colori di vestito: ed ora ti volgeva il volto ed il colore del consumatore ed or quelli del produttore. Non dunque due categorie opposte, ma due aspetti della medesima persona. Che quel numero re, prezzo incarnato in un pezzo di moneta, non fosse anch’esso un fantasma come il dualismo tra produttore e consumatore?

 

 

A Daniele Defoe, fecondo scrittore di cose economiche – e il Mac Culloch incluse il più celebrato suo scritto, Giving Alms to Charity, in uno dei volumi della sua Select Collection of scarce and valuable Economical Tracts – noi dobbiamo essere massimamente grati per avere inventato quest’ultimo fantoccio che ha nome Robinson Crusoè. Robinson, delizia della nostra fanciullezza, impara subito, appena gittato sull’isola deserta, a guardare sino in fondo alla realtà economica e trovato, in una delle prime gite di rifornimento sulla nave naufragata, un mucchietto d’oro: «Oh cianfrusaglia» – esclama – «a che cosa servi tu? Non meriti, no, la spesa di raccoglierti da terra; uno di questi coltelli vale tutto il tuo mucchio. Io non so cosa farmene di te. Resta dove sei e va pure in fondo al mare, a guisa di creatura la cui vita non val la pena di essere salvata». Che Robinson, ripensandoci, abbia finito per mettersi in tasca le trentasei lire sterline, -non si sa mai, in avvenire…! -non toglie valore alla dimostrazione della utilità prettamente strumentale della moneta in regime di lavoro diviso. Quante cose si comprendono solo ritornando ai problemi elementari della vita, come Robinson quotidianamente se li doveva proporre! Robinson, a cagion d’esempio, non avrebbe afferrato il senso del contrapposto fra produttori e consumatori; ché in lui consumatore e produttore si confondevano ed il suo io, che sentiva o prevedeva privazioni, rivolgeva al suo medesimo lui invito di fare, entro i limiti dei limitati mezzi a sua disposizione, quanto occorreva per apprestargli, nell’ordine dell’urgenza relativa, i beni necessari a soddisfare ai suoi bisogni. Crisi di scarsità e di abbondanza si succedevano, anche nell’isola famosa; ma non si parlava di sovra produzione, di sotto consumazione, di monete svalutate e sopravalutate, di cambi squilibrati ed altri enigmi venuti poscia ad affliggere gli economisti.

 

 

In verità, anche ora, ogni consumatore è produttore e viceversa. Si consuma se e perché si produce; e si produce per consumare. Le serpi della discordia sono uscite fuori dal vaso di Pandora della divisione del lavoro sociale; perché ogni uomo, ipnotizzato dal frumento, dal carbone, dal vestito da lui prodotto, ha immaginato che nel vendere al massimo prezzo il frumento, il carbone, il vestito stesse l’unico suo interesse. Il produttore parve dimenticare che, producendo frumento, egli in realtà voleva procacciarsi, ossia produrre indirettamente, pane, vestito, riscaldamento, casa, ed altro ed altro ancora senza fine; e che lo scopo vero del suo agire economico era quello di soddisfare le esigenze materiali, morali e spirituali della sua vita. Sacrificò i fini a quello che era lo strumento per la consecuzione dei fini. Il produttore consumatore ebbe la tendenza a guardare in sé il puro produttore in lotta con un mondo di consumatori, i quali non sempre assorbono, a condizioni per lui convenienti, il bene da lui offerto.

 

 

Parve e cercò dimenticare; ma non poté. Attraverso il prezzo, muto astratto re del mercato, chi dominava ed indirizzava la produzione era ed è ancora massimamente il volto di consumatore dell’uomo intiero. Il produttore ha un bel dire che la merce è costata a lui dieci e che a venderla a meno perde. Se quella merce in quella quantità soddisfa ai bisogni di un troppo scarso numero di consumatori, il prezzo scende ad otto; ed i produttori debbono mutare il loro piano produttivo, ristringersi di numero e produrre meno. Il produttore ha un bel sostenere che la merce da lui recata sul mercato è uguale anzi migliore per qualità di quella di ieri; ma se i consumatori desiderano vetture automobili invece di vetture a cavalli o vetture automobili di nuovo tipo invece di quelle di ieri, occorre che i produttori smettano di fabbricare vetture a cavallo e rechino i cavalli al macello o cambino tipo di vettura. Non essi decidono quel che si deve produrre; ché essi devono invece intuire quel che desiderano i consumatori spesso lontani, non di rado forestieri, aventi costumi diversi dai suoi. Non essi decidono chi deve produrre; ché il consumatore dà la preferenza a quei produttori i quali producono più a buon mercato o meglio quei beni che a lui piacciono di più. Solo coll’offrire merce migliore a prezzi più convenienti il produttore riesce a persuadere il consumatore di più o diversamente. Non il costo, ma il prezzo è decisivo. Precaria è la vita del produttore. Sopravvive colui che ad ogni ora, attraverso ai continui mutamenti della tecnica produttiva, alle variazioni continue dei prezzi delle materie prime, dei combustibili, dei salari operai, degli interessi dei capitali, delle spese generali riesce a tenere il costo al disotto del prezzo; questo re capriccioso, il quale muta a norma della quantità di beni che i produttori, non sapendo gli uni degli altri, favoriti od ostacolati da domeneddio, dalle stagioni e da mille altri fattori da essi incontrollabili e ad essi estranei, hanno portato sul mercato. Un qualunque piano produttivo, concepito e cominciato ad attuare, deve essere disfatto prima di essere condotto a termine. Come la tela di Penelope, il piano produttivo deve essere continuamente riveduto in funzione del variare continuo dei prezzi di costo e dei prezzi di vendita, di questi re muti i quali sono gli avvisatori economici delle variazioni da una parte nella resistenza, negli ostacoli che la natura oppone agli assalti della scienza e dall’altra parte nei gusti dei consumatori. Il re-prezzo obbliga il produttore a fare piani per rimanere coi costi entro i limiti suoi; ma son piani cangianti, fluidi, costretti ogni giorno ad adattarsi alla mutata combinazione dei dati di fatto del problema. Lenta quando i bisogni umani sono consuetudinari, i mercati ristretti, i rapporti fra paese e paese limitati, le invenzioni tecniche lente, la mutabilità dei piani produttivi si accelera a mano a mano che gli uomini imparano meglio a trovare vie alternative di provvedere a bisogni propri, ricorrendo a produttori lontani, a beni succedanei, rinunciando a talune soddisfazioni a favore di altre. La vita dei produttori diventa sempre più grama incerta rischiosa.

 

 

I più non reggono alla fatica crescente e soprattutto alla tensione nervosa; epperciò rinunciano a recarsi sul mercato. Vendono a prezzo fisso – gli operai per un salario giornaliero, gli impiegati per uno stipendio mensile, i risparmiatori ed i proprietari di terre e di case per un interesse o fitto calcolato ad anno – il diritto a vendere sul mercato la propria quota del bene prodotto. Per un certo tempo lavoratori impiegati creditori proprietari si mettono in salvo, ricuperano per un mese, per un anno, salvo a rinnovare di mese in mese il contratto, la propria tranquillità. Contro le mutevoli variazioni di umore del re-prezzo, i più degli uomini, i quali non hanno l’animo di comandare, di contrattare, di correre rischio, si trincerano, mercé la rinuncia al prezzo variabile del proprio apporto alla produzione, dentro il fortilizio di un reddito costante per un certo tempo. La trincea assicura solo a mezzo la tranquillità, tanto desiderata; ché rimane il rischio di non potere col reddito certo fisso acquistare poi sul mercato, quella massa di beni di consumo che era stata messa a base del contratto di rinuncia alla propria quota di produzione. Eliminato dal campo produttivo, il rischio rimane in quello del consumo. Ma, ridotto alla metà e diffuso su gran numero di beni, di cui le variazioni di prezzo, in un regime di moneta sana, in parte si compensano, il rischio non è rilevantissimo per intervalli di tempo anche misurati ad anno.

 

 

Il rischio delle variazioni non è, si comprende, eliminato da siffatti contratti di assicurazione; è soltanto trasportato su taluno degli appartenenti alla categoria (od aspetto di vita) produttrice e cioè sull’imprenditore. Non ignota nelle economie antiche e medievali, la figura dell’imprenditore è tipicamente propria di quell’economia moderna che dal nome di uno dei suoi fattori meno importanti, perché inanimato, fu detta “capitalistica”. L’imprenditore è colui il quale corre il rischio del prezzo. Non nel possedere capitali sta l’essenza del cosidetto capitalismo. Il domino dell’economia moderna è l’imprenditore, perché egli solo si attenta ad affrontare il re del mercato, il prezzo. Tutti gli altri si sono squagliati: operai, impiegati, risparmiatori (capitalisti), proprietari. Prima di arrivare sul mercato, hanno preferito all’angolo della piazza vendere a tempo i propri diritti, paghi di stare a vedere. Va innanzi, solo, l’imprenditore, pronto ad affrontare l’umor variabile del temuto sovrano. Natura]mente, se a lui male incoglie, se egli, dopo aver acquistato materie prime a prezzo fisso e pagato salari fissi ed interessi pure fissi ed aver per ciò speso dieci, riesce a spuntare per il bene prodotto solo otto, coloro che si sono posti al sicuro e guardano dall’angolo della piazza all’esito, lo lasciano nelle peste e filano via senza «banfare». Ma se egli vende a 12 quel che gli era costato solo 10: «Allo sfruttatore, al vampiro, al capitalista», gridano in coro, saltandogli addosso. Se, di tra cento caduti, cinquanta si salvano e, tra questi, dieci arricchiscono ed uno accumula grande fortuna: «al mostro», si vocifera, «al pericolo sociale! Perché costui non consacra tutto il male acquistato bottino a pubblico vantaggio?». Non di rado, se anche non fortuna sibbene merito ed intuito e capacità di previsione, di visione e di organizzazione lo assisterono, l’imprenditore riuscito ambisce lasciare grato ricordo di sé con opere vantaggiose all’universale; ma gli duole vedere che nessuno glie ne serberà gratitudine.

 

 

Non meraviglia perciò se anche gli imprenditori bramino sottrarsi ai rischi del mercato. Ma essi non hanno con chi contrattare la propria rinuncia all’incerto grosso profitto per un minore “equo” compenso dell’opera propria. Talvolta vi ha una gerarchia di imprenditori, come quando taluno lavora a prezzo di appalto per conto altrui, assumendo solo i rischi del costo; o quando, come accade per la lana, la seta, il cotone, i metalli, il frumento, ecc., è possibile coprirsi sul mercato a termine contro le oscillazioni di prezzo durante il tempo della lavorazione industriale vendendo speculativamente a termine una quantità di materia prima uguale a quella acquistata per contanti. Anche in questi casi, non frequenti del resto, il rischio è soltanto spostato. Qualcuno, in definitiva, corre il rischio; qualcuno deve affrontare il re-prezzo.

 

 

Perciò gli imprenditori si danno allo scavo di trincee.

 

 

La prima e più antica trincea è quella doganale. Al riparo di quella, gli imprenditori di un paese possono vendere senza temere che il prezzo ribassi per la concorrenza dei prodotti esteri.

 

 

La seconda trincea, posta per lo più su linea arretrata rispetto alla prima e di rincalzo ad essa, è l’accordo di tutti o della maggior parte dei produttori del paese. A che gioverebbe la trincea doganale, se dietro di essa i produttori paesani con lotta a coltello rovinassero il mercato? L’idea non è nuova. Gli statuti medievali sono pieni di ordini e grida contro i monopolisti, gli accaparratori, i capi d’arte i quali, in combutta tra di loro, rarefacevano la merce sul mercato per alzarne il prezzo a danno dei consumatori. Il latino medievale è ricco di vocaboli ingiuriosi indirizzati ai precursori dei moderni cartelli, trusts, sindacati, consorzi. Attraverso alle compagnie privilegiate dell’epoca colbertiana, alle “vendite” del carbone del tempo delle prime affermazioni industriali inglesi dei secoli XVII e XVIII, il metodo del trinceramento cartellistico è giunto a noi ed oggi fiorisce.

 

 

Queste son trincee scavate attorno ai produttori. Agli occhi degli scavatori brilla la luce del monopolio assoluto, che vorrebbe dire capacità di determinare unilateralmente senza vincolo alcuno la quantità od il prezzo della merce posta sul mercato, così da conseguire il massimo profitto netto possibile. La luce è troppo abbagliante perché ci si possa avvicinare. La trincea in concreto offre solo approssimazioni transitorie, limitatamente profittevoli, al punto ideale del massimo profitto che sarebbe assicurato dal monopolio assoluto.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di Trincee economiche e corporativismo, «La Riforma Sociale», novembre-dicembre 1933, pp. 633-656 [ndr].

[2] Tradotto in spagnolo con il titolo El rey precio [ndr].

Paesi ricchi e paesi poveri

Paesi ricchi e paesi poveri

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 185-186[1]

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires, 1965, pp. 63-65[2]

 

 

 

 

Non ha consistenza l’opinione volgare secondo cui gli Stati Uniti possono far tante cose e fra l’altro mutuare miliardi di dollari all’Europa, perché posseggono molti dollari, molto frumento, molto carbone, molto cotone, molto ferro, molto petrolio, molto ben di Dio d’ogni fatta, tanto ben di Dio che è una vergogna se lo facciano pagare, invece di regalarlo per niente ai miserabili europei affamati di vettovaglie, combustibili e materie prime. Non è conforme al vero la sequenza: prima dollari e poi possibilità di mutuare altrui i dollari; ma è invece vera l’inversa sequenza: prima meritare di ricevere da altri i dollari a mutuo; poi i dollari che vengono e finalmente i dollari venuti possono essere rimutuati a più alto prezzo a chi li aveva prodotti. I dollari che si dice siano mutuati dagli Stati Uniti all’Europa sono (così dimostra l’«Economist» di Londra del 10 dicembre 1927) quelli stessi che, fuggendo dall’Europa avevano cercato rifugio sicuro presso oltreoceano.

 

 

Prima ed al fondo di ogni ricchezza materiale esiste un fattore morale. I genovesi ed i veneziani non dominarono per secoli il commercio del Mediterraneo e del Levante perché fossero ricchi. Che ricchezza v’era su per le rocce sterili del genovesato o sulle palafitte della laguna veneta? Ma vivevano su quelle rocce e tra quelle lagune uomini laboriosi, tenaci, ardimentosi i quali acquistarono potenza e nel tempo stesso ricchezza, cacciando di seggio i bizantini, pur tanto più ricchi, più dotti, viventi in paesi più feraci ed ameni, con le materie prime del tempo a portata di mano. La culla della ricchezza americana non è stata nelle regioni del sud, ricche di cotone, nelle pianure centrali feconde di frumento, nelle terre a carbone, a ferro od a petrolio. Fu negli stati della Nuova Inghilterra, nelle inospiti pietrose contrade poste tra New York e i confini del Canada, dove la terra non dà messi, perché la roccia affiora dappertutto, dove le foreste vengono a stento, dove non ci sono miniere di nessun minerale, dove mancava tutto salvo l’energia indomabile dell’uomo. Gli uomini della Nuova Inghilterra contano, per ricchezza individuale, tra i primi degli Stati Uniti e si trovano in capo fila tra le genti le quali hanno saputo sfruttare le ricchezze naturali degli Stati Uniti. La regola con la quale si formano i dollari è questa: mettete un presuntuoso, un incapace, un chiacchierone, un genialoide vicino ad una miniera d’oro e l’oro resterà sottoterra ed il presuntuoso, ecc., ecc., morirà di fame, accusando l’avarizia altrui della propria mala fortuna. Mettete un osservatore, un laborioso, un volontario deciso a non lasciare invano fuggire le occasioni su una roccia, e su quella roccia sorgerà una città, le galee di tutto il mondo vi recheranno altri uomini laboriosi, materie prime e capitali, e da quella roccia e dalle contrade vicine verranno fuori frumento, cotone, ferro e ogni immaginabile grazia di dio.

 

 

Esistono in Europa miniere di ferro ricchissime in Francia, in Svezia, in Spagna, in Inghilterra; vi sono miniere di carbone in Westfalia, in Russia ed ancora in Inghilterra; terre nere a grano di gran lunga superiori a quelle americane, in Russia e in Ungheria; praterie e marcite ,inarrivabili in Olanda e in Lombardia; terre meravigliose per frutteti, agrumeti, giardini a fiori in Italia, in Spagna, nel mezzodì della Francia e tante altre possibilità esistono da emulare, in campi appropriati, e superare gli Stati Uniti.

 

 

Affinché da tutto ciò si ricavi assai più di quel molto che già se ne ottiene, affinché l’Europa ridiventi il centro del mondo economico, bisogna che i suoi uomini innanzitutto abbandonino il culto dell’oro e delle ricchezze materiali e diano pregio all’integrità di carattere, all’onestà, alla giustizia, al lavoro eseguito con intelligenza, con passione, con senso del dovere. Da sole, senza dubbio, l’elevazione morale e l’intelligenza creatrice non bastano; ma, se queste ci sono, dollari e resto verranno da sé.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di Gli Stati Uniti fanno prestiti all’Europa?,«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1928, pp. 110-117 [ndr].

[2] Tradotto in spagnolo con il titolo Países ricos y países pobres [ndr].

Vantaggi psicologici della terra

Vantaggi psicologici della terra

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, p. 184[1]

 

 

 

 

Oltre al prodotto economico, la terra produce anche vantaggi non consistenti in frutti propriamente detti distaccantisi dal terreno: il piacere fisico del possesso, che consiste nel camminar sopra il fondo, nel contemplarlo, nel toccarne le piante e vederle crescere; la gioia del lavoro, che consiste nel non lavorare ad ore fisse, sempre uguali in tutti i giorni dell’anno, ma ad ondate, con momenti di ansia e di intensità grandissime e lunghi intervalli di ozio e consiste altresì nel lavorare per uno scopo, che è di riempire il granaio di frumento dorato e sonante, la cantina di vino, dal bel colore, largitore di letizia; il piacere psicologico, che sta nell’immaginazione del miglioramento futuro del fondo, nell’assaporamento dell’invidia provata dal vicino o dall’amico a cui l’acquisto proprio negò il soddisfacimento dell’uguale desiderio; il piacere sociale, di preminenza sulla gente priva di terra, di ossequio da parte dei minori proprietari o dei clienti; il piacere famigliare di sapere i figli forniti di un mezzo di esistenza, di uno strumento di lavoro indipendente dalla buona grazia altrui ed assicuratore contro i rischi di disoccupazione; sicché il genitore si lusinga che la sorte della famiglia sia sicura, perché legata ad una casa e ad una terra in cui vivrà per qualche generazione il ricordo di lui, quasi fondatore di una dinastia entro certi limiti sovrana; il piacere politico, che è di acquistare clientela nel paese per conseguire cariche pubbliche.

 

 

Tutto ciò si paga, perché ha valore; epperció di questi vantaggi, che si potrebbero dire psicologici, del possesso terriero si ha ragione di discorrere sovratutto nel trattato della “capitalizzazione” dei redditi fondiari e dei criteri di stima dei valori della terra; perché con essi massimamente si spiegano le frequenti capitalizzazioni della terra a saggi di interesse inferiori, talvolta d’assai, al saggio corrente per impieghi d’uguale natura.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di La terra e l’imposta, Annali di economia dell’Università commerciale Luigi Bocconi, 1924 [ndr].

Vantaggi psicologici della terra

Vantaggi psicologici della terra

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, p. 184[1]

 

 

 

 

Oltre al prodotto economico, la terra produce anche vantaggi non consistenti in frutti propriamente detti distaccantisi dal terreno: il piacere fisico del possesso, che consiste nel camminar sopra il fondo, nel contemplarlo, nel toccarne le piante e vederle crescere; la gioia del lavoro, che consiste nel non lavorare ad ore fisse, sempre uguali in tutti i giorni dell’anno, ma ad ondate, con momenti di ansia e di intensità grandissime e lunghi intervalli di ozio e consiste altresì nel lavorare per uno scopo, che è di riempire il granaio di frumento dorato e sonante, la cantina di vino, dal bel colore, largitore di letizia; il piacere psicologico, che sta nell’immaginazione del miglioramento futuro del fondo, nell’assaporamento dell’invidia provata dal vicino o dall’amico a cui l’acquisto proprio negò il soddisfacimento dell’uguale desiderio; il piacere sociale, di preminenza sulla gente priva di terra, di ossequio da parte dei minori proprietari o dei clienti; il piacere famigliare di sapere i figli forniti di un mezzo di esistenza, di uno strumento di lavoro indipendente dalla buona grazia altrui ed assicuratore contro i rischi di disoccupazione; sicché il genitore si lusinga che la sorte della famiglia sia sicura, perché legata ad una casa e ad una terra in cui vivrà per qualche generazione il ricordo di lui, quasi fondatore di una dinastia entro certi limiti sovrana; il piacere politico, che è di acquistare clientela nel paese per conseguire cariche pubbliche.

 

 

Tutto ciò si paga, perché ha valore; epperció di questi vantaggi, che si potrebbero dire psicologici, del possesso terriero si ha ragione di discorrere sovratutto nel trattato della “capitalizzazione” dei redditi fondiari e dei criteri di stima dei valori della terra; perché con essi massimamente si spiegano le frequenti capitalizzazioni della terra a saggi di interesse inferiori, talvolta d’assai, al saggio corrente per impieghi d’uguale natura.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di La terra e l’imposta, Annali di economia dell’Università commerciale Luigi Bocconi, 1924 [ndr].

La ottima tra le riforme tributarie

La ottima tra le riforme tributarie

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 49-51[1]

 

 

 

 

Avere consentito, a chi glie ne faceva proposta, a nominare d’Aroma di botto direttore generale delle imposte è il maggior vanto del gabinetto e del ministro (Tedesco) dell’ottobre del 1919. Probabilmente il Tedesco, coscienzioso e scrupoloso com’era, ebbe, quella sera, qualche apprensione, che non diede poi a divedere mai, di fronte alla sua burocrazia, nel far fare così gran salto ad un funzionario del ramo “esecutivo”; e, pur essendo ben consapevole del grande vantaggio che ne sarebbe derivato alla pubblica cosa, forse non vide pienamente che egli, con quella nomina, decretava la maggiore delle riforme tributarie che in Italia si sia compiuta dalla guerra in poi; e si potrebbe aggiungere anche per gran tempo prima. Non le leggi difettavano o la possibilità di mutarle agevolmente. Era fiacco l’impulso primo alla applicazione della legge; faceva d’uopo un uomo che quelle leggi antiche e quei decreti nuovi facesse vivere, per la salvezza della finanza dello stato. Perciò si poté fondatamente dire che d’Aroma era, per se stesso, l’ottima tra le riforme tributarie che si potesse fare in Italia. Contribuenti, funzionari, ministri venuti di poi ben lo seppero. Si seppe che a guardiano della più delicata branca dell’amministrazione tributaria, di quella che richiede la maggior somma di iniziativa, di rettitudine, di comprensione delle necessità dell’erario e dell’economia, era stato posto un uomo, degno erede di coloro che avevano costruito sessanta anni prima il meccanismo dell’Italia unificata tributariamente.

 

 

L’idea fondamentale che, dal 1919 in poi, lo inspirò, fu di “ricostruire” l’edificio tributario che il trascorrere del tempo e le urgenze della guerra avevano guasto. “Ricostruire” è una idea complessa ed io non ricordo, tra i funzionari posti a capo di una grande amministrazione pubblica, chi, al par di lui, fosse meglio capace a tradurla in realtà vivente. Ricostruire significa avere in sospetto le costruzioni proposte dai riformatori. Ascoltava con ossequio le idee geniali espostegli dai suoi ministri e dai professori che i ministri avevano chiamato a consiglio; ma piano piano poi le demoliva, lasciando, se non il professore, certo il suo ministro persuaso che egli mai aveva pensato ad attuare quella idea, anzi aveva visto fin dal principio le critiche che il d’Aroma gli aveva suggerito presentandogliele come contenute nella idea stessa primitiva.

 

 

Non lasciò mai attuare, pur avendovi collaborato attivamente, nessun progetto di “riforma tributaria”; e se qualcheduno tra essi giunse fino al momento del decreto legge, vi inserì una clausola che ne rinviava l’applicazione a tempi migliori, che non vennero mai.

 

 

Ma, fin dal 1919, il suo piano era di attuare medesimamente quelle medesime riforme tributarie col metodo del pezzi e bocconi, metodo che maneggiò con arte finissima. Quel metodo consiste di due parti: nel demolire ad uno ad uno i falsi soffitti, i tramezzi posticci, il che vuol dire le pseudo imposte, le sovrastrutture ingombranti che durante la guerra e prima della guerra avevano trasformato l’armonico edificio creato tra il 1860 e il 1870 in una capanna d’affitto per povera gente acciabattata, riscoprendo così, tra la polvere delle demolizioni, le linee pure dell’edificio originario; e nell’aggiungere nuovi piani o maniche laterali armonizzanti col vecchio edificio e capaci di renderlo adatto alle esigenze nuove.

 

 

Non avrebbe potuto attuare quel piano se fosse stato affezionato agli istituti vecchi solo perché fruttavano milioni all’erario dello stato. Il calcolo del costo e del reddito delle imposte è altrettanto difficile quanto il calcolo del costo e dei redditi in una qualunque impresa produttrice di beni congiunti. Le imposte del tempo di guerra costavano spesso assai più di quanto rendevano per il disturbo che recavano all’amministrazione, alla quale impedivano di curare le imposte fondamentali permanenti. D’altro canto l’abolire di colpo gli imbrogli poco produttivi e il creare un nuovo ordinamento sarebbe stato causa di disorientamento nei contribuenti e nei funzionari e avrebbe dato luogo ad una crisi transitoria gravissima. Il problema che il d’Aroma dovette risolvere era delicatissimo e rassomigliava a quello che deve affrontare l’ingegnere architetto, incaricato del restauro di un antico monumento guasto dalle ingiurie del tempo e dalle manomissioni degli uomini; il quale, mentre lo si restaura, non può essere abbandonato dai suoi inquilini, e deve continuare ad essere utilizzato dal pubblico, richiamatovi dai consueti festeggiamenti, da periodiche solennità o quotidiani affari.

 

 

Quando egli lasciò la direzione delle imposte per la Banca d’Italia l’opera della ricostruzione era chiusa; e nessun augurio migliore potrebbe farsi alla cosa pubblica di quello che i suoi successori si tengano stretti, come finora si fece, alla regola da lui posta: resistere alle novità formali, alla moltiplicazione dei nomi tributari, avere ferma fiducia che il massimo rendimento si ottiene da una macchina fiscale semplice, adeguata ai suoi fini, lavorante senza attriti, con ossequio rigido alla giustizia.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di Ricordi e riflessioni, In memoria di Pasquale d’Aroma, Tipografia della Banca d’Italia, Roma, 1929, pp. 51-58 [ndr].

La “teoria sociologica” della finanza

La “teoria sociologica” della finanza

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 15-21.[1]

 

 

 

 

La teoria sociologica o politica della finanza troppo ha trascurato il nucleo essenziale per attardarsi attorno alle frangie eleganti ed interessanti, ma poco rilevanti, del fatto finanziario. Non bisogna dimenticare che gli errori di giudizio, le spese pubbliche inutili, non desiderate dai cittadini e vantaggiose solo ai ceti dirigenti sono la frangia; ma il nucleo sostanzioso sono le spese pubbliche fondamentali, utili alle collettività, necessarie per permettere il funzionamento del meccanismo economico e sociale. Pur nella ipotesi estrema di governo incapace, tirannico, di imposte esorbitanti, sperperate da un piccolo gruppo di dirigenti a proprio beneficio, è tanto grande la necessità di un governo qualsiasi, di un ordine politico qualunque, che la destinazione di una parte del proprio reddito ad imposta è di solito una delle operazioni più convenienti che l’uomo possa compiere. Un governo efficiente e capace è fuor di dubbio migliore di un governo corrotto e inetto, un governo libero in confronto ad un governo tirannico; ma un governo corrotto, inetto e tirannico, un qualsiasi capo banda o comitato terroristico di salute pubblica, è di gran lunga preferibile alla mancanza di governo, all’anarchia.

 

 

Gli uomini possono dimenticare esperienze antiche e recenti, possono abituarsi siffattamente all’idea che un governo esiste, da non percepire più la sua necessità ed utilità. La domanda dei pubblici servizi può passare per i singoli nella regione dell’inconscio ed essere compiuta dai dirigenti in modo diverso e lontano dai desideri effettivi e presenti dei cittadini. Tutto ciò non è molto diverso da quanto accade nel campo del soddisfacimento dei bisogni privati, dove molti atti si compiono in modo riflesso, senza paragone consapevole fra il denaro speso e l’utilità del bisogno soddisfatto, per consuetudine, per rispetto umano, per orrore del cambiamento. Tutto ciò è anche pura crosta sottilissima. Rompasi questa per qualche imprevisto accidente, frantumisi per un istante la macchina dello stato e si vedranno gli uomini disperatamente invocare lo stato, uno stato, un governo, un despota pur di esser salvati dalla fame, dalla miseria, dalla rovina, dall’anarchia! Tutti gli uomini sono disposti a dare tutta la propria ricchezza eccedente l’indispensabile per vivere, pur di avere uno stato; perché essi vedono che solo l’esistenza di uno stato consente ad essi di vivere.

 

 

Vedasi perciò come sia fondamentalmente nel vero H. Stanley Jevons, quando nel corso di un suo luminoso scritto sui principi della finanza definisce la capacità contributiva della collettività come il sovrappiù della produzione del paese oltre ciò che è necessario a serbare in vita gli uomini secondo il tenor di vita prevalente nel tempo e nel paese considerato[2]. Tutto il prodotto umano sociale, salvo l’indispensabile per la vita degli individui: ecco ciò che lo stato potrebbe prelevare senza danno e col consenso volonteroso degli individui, se questi volessero paragonare il costo dell’imposta col danno della inesistenza dello stato. E poiché nessun governo, come osserva lo stesso autore, spinge le imposte sino ad esaurire tutta la capacità contributiva e per lo più un grande margine è lasciato libero fra le imposte di fatto e quelle che teoricamente si potrebbero stabilire e consentire, giuoco forza è concludere che di fatto e probabilmente nel maggior numero dei casi le valutazioni dei governi sono contenute entro i limiti della prudenza; e che se errori e scarti vi sono, se non si possono negare gli sprechi, questi non eccedono le dimensioni consuete negli atti umani e sono spesso, probabilmente nella massima parte dei casi, sorpassati dagli errori, dagli scarti e dagli sprechi che frequentissimi si osservano nella vita privata.

 

 

Aggiungasi non essere frequente che l’impiego della ricchezza a scopi privati sia capace di dare rendimenti così elevati come quelli che sono talvolta possibili nel caso di giudiziosi impieghi pubblici. Rilievi importanti ha compiuto, a questo proposito il citato autore per il gruppo di pubbliche spese indirizzate a migliorare l’ambiente in cui l’uomo vive (pp. 259 sgg.). Vi sono spese, come quelle per l’illuminazione, il piano regolatore, i giardini e gli edifici pubblici che non aumentano direttamente il reddito dei consociati, ma danno luogo ad imposte pagate volentieri, perché i contribuenti sentono essere il vantaggio della spesa pubblica maggiore dei godimenti superflui privati a cui si è dovuto rinunciare. Se la spesa fu fatta per scopi di pubblica igiene e per la costruzione di città giardino, essa produce ben presto un incremento così grande nella capacità fisica e mentale di lavoro, da aumentare nel corso di pochi anni la capacità contributiva del due o trecento per cento di più di quel che sarebbe accaduto se le imposte non si fossero pagate e nulla si fosse fatto. Le spese economicamente riproduttive a distanza di tempo, come la costruzione di ferrovie, magazzini generali, ponti, canali irrigatori, e quelle socialmente produttive, compiute per l’educazione popolare, per il miglioramento del regime della proprietà o per l’istruzione agricola hanno un effetto caratteristico sul reddito sociale e sulla capacità contributiva.

 

 

«Per i primi anni la spesa, rendendo necessaria una tassazione cresciuta sia per pagare gli interessi e le rate di ammortamento sul suo costo capitale, come nel caso di un’opera pubblica, o per fronteggiare le iniziali ordinarie impostazioni di bilancio, come nel caso dell’educazione, non è controbilanciata da alcun aumento nella capacità contributiva. Questo incremento si produce solo grazie al crescere dei frutti indiretti dell’opera pubblica, od al miglioramento della capacità generale produttiva della popolazione in virtù dell’opera di educazione. Ma l’incremento della capacità contributiva dovuto a questa causa, sebbene cominci lentamente, procede con una velocità continuamente accelerata – ad interesse composto, per così dire – durante un mezzo secolo o più. L’incremento della capacità contributiva ha luogo per via di azioni e reazioni economiche ad un saggio crescente quando numerosi provvedimenti somiglianti sono stati adottati e giungono contemporaneamente a maturazione. Se fosse possibile di accertare separatamente l’incremento di capacità contributiva dovuto ad una qualunque opera pubblica o ad un piano di educazione concepito ed attuato con sapienza e successo normali, si vedrebbe quasi certamente che siffatto incremento dopo quaranta o cinquanta anni è uguale ad un’altissima percentuale sul costo capitale iniziale – da 50 a 100 o 200 per cento all’anno. Una ferrovia, un canale d’irrigazione può facilmente, dopo trent’anni, ripagare il suo costo ogni anno sotto forma di incremento nella capacità contributiva (ossia nella eccedenza del reddito sociale oltre il necessario a condurre la vita secondo il tenore usuale di vita). Naturalmente l’imposta assorbe di solito soltanto una piccola frazione di siffatto incremento della capacità contributiva. Gli uomini possono godere maggior copia degli agi e lussi della vita, i quali a loro volta diventano consumi convenzionalmente necessari; e sono altresì in grado di risparmiare e di investire di più, il che di nuovo accresce il reddito sociale ed ulteriormente aumenta la capacità contributiva. Se noi dovessimo calcolare il futuro rendimento ricavabile, sotto forma di capacità contributiva, dalle spese per l’educazione, assumendo come spesa iniziale il totale della spesa occorsa in un periodo di tre anni anche senza supporre una educazione del tipo più efficace noi constateremmo probabilmente che trent’anni più tardi l’incremento della capacità contributiva imputabile – ove fosse possibile di calcolarla a sé – la spesa per l’educazione sarebbe uguale all’intiera spesa iniziale triennale. Ciò equivale ad un rendimento, dopo lunga attesa, del 300 per cento all’anno, ove si consideri la spesa per l’educazione come fatta in conto capitale» (loco. cit., pp. 261-3).

 

 

Questa non è una raffigurazione idealmente rosea della realtà; è lo schema di tendenze le quali sempre più vivacemente influenzano la vita pubblica di tutti i paesi civili. La cresciuta educazione civica, l’interessamento universale alla cosa pubblica rendono oggi più sensibili gli uomini all’utile impiego della ricchezza prelevata con l’imposta. Si avverte dappertutto, anche nei paesi a forme di governo rozze, inerti e non rappresentative, uno sforzo di innalzare il tenore della vita pubblica, di agire favorevolmente sulla produzione economica, di migliorare l’educazione mediante l’accorto impiego del pubblico denaro. Vi sono ancora e vi saranno sempre deviazioni, errori, anche gravissimi; ma non si può non avvertire al disotto degli errori di giudizio e delle sopraffazioni di classe questa vasta corrente di crescente interessamento alla cosa pubblica, di raffinamento sensibile nella scelta dei fini pubblici da raggiungere e nel loro paragone coi fini privati a cui si deve perciò rinunciare. Il fatto dominante è questo: che la destinazione di una parte della ricchezza a fini pubblici è un’operazione economicamente feconda, pur facendo l’ipotesi di determinazioni individualmente inconsapevoli e di governi corrotti, inetti e tirannici; e che il campo dell’inconscio tende a ristringersi vieppiù a vantaggio delle azioni consapevolmente compiute dagli individui, a mezzo dei loro rappresentanti, per raggiungere il massimo di utilità con un giudizioso impiego delle somme deliberatamente pagate a titolo d’imposta. Quanto più questa tendenza si afferma nella realtà, quanto più gli uomini -non fa d’uopo ricorrere, come supponevo nel 1912, ai genî politici – di ordinaria abilità ed onestà si addestrano al governo della cosa pubblica ed applicano a questo governo le norme ordinarie di amministrazione, tanto più cresce, con velocità accelerata nel tempo, la fecondità degli impieghi pubblici della ricchezza; e tanto più probabile diventa di scoprire, con tentativi numerosi e ripetuti, attraverso insuccessi svariati ed educativi, la ripartizione, variabile di volta in volta e da luogo a luogo, della ricchezza tra fini pubblici e fini privati, la quale è capace di rendere feconda di un risultato massimo la ricchezza totale posseduta dagli individui componenti la collettività.

 

 

La tesi storica della ripartizione della ricchezza non contraddice dunque, anzi conferma, lo schema teorico; e ad una diversa conclusione può venire solo chi si attardi ad ingigantire i nei, a far svolazzare le frangie della costituzione politico finanziaria degli stati dei vari tempi e paesi e trascuri di guardare al disotto del fatto transeunte, dall’accidente superficiale, il nucleo fondamentale, l’idea dominante che crea gli stati, li fa vivere e li fa prosperare.

 

 

Può sembrare strano che dalla penna di uno studioso, appartenente alla schiera degli economisti detti volgarmente “liberisti”, sia uscita una raffigurazione così ottimista dello stato e delle sue funzioni; e chi ripensi alle critiche acerbe che lo scrivente rivolse prima e durante la guerra e continuerà dopo a rivolgere alla burocrazia, all’allargamento delle funzioni dello stato, allo sperpero del denaro pubblico, non mancherà di tacciarlo di contraddizione. A torto, essendo ovvio che l’epiteto di “liberista” applicato agli economisti è privo di significato, ed essendo caratteristica degli economisti dichiarare preferibili certe azioni non perché compiute dagli individui, ma perché più economiche, più feconde, a parità di costo, di altre, sia che esse siano compiute dagli individui o dallo stato. Questa è la sola ed aurea norma di condotta economica. Affermare che gli economisti sono contrari allo stato è dir cosa altrettanto insensata come chi dicesse che certi astronomi sono nemici del sole, della luna o delle nuvole.

 

 

Può sembrare anche strano che uno studioso di economia manifesti una così aperta ripugnanza per quelle spiegazioni dei fatti finanziari che hanno un apparente chiarissimo carattere economico, come quella che fa dipendere l’ammontare e la distribuzione delle imposte dall’interesse delle classi dominanti. Ma anche qui sembra a me che tutta la tradizione classica economica repugni a menar per buone quelle spiegazioni dell’economismo storico che erano divenute di moda vent’anni addietro e che oggi risorgono sotto le spoglie del sociologismo integrale. Forse ciò accade perché gli economisti, essendo abituati a veder le linee essenziali dei fatti, difficilmente si persuadono a considerare rilevanti e decisivi gli svariati fatti, fatterelli ed aneddoti che i sociologisti vanno raccattando su per le gazzette odierne o per le cronache rese venerande dal tempo, a provare che gli uomini non sanno quel che si fanno quando delegano ad altri il governo della cosa pubblica o che i delegati pensano soltanto a far prosperare se stessi od i loro affiliati. I fatti addotti dai sociologi non sono falsi. Sono però unilaterali e non riescono a dare la teoria compiuta. Accanto all’uomo privato ed all’uomo di governo egoista, curante solo dei propri interessi e di quelli della propria classe, desideroso di godere dei pubblici servigi e di farne pagare altrui il costo, vi è l’uomo “politico”, il quale vede la necessità di far parte dello stato, di “ricrearsi” in esso, di raggiungere fini che senza lo stato sarebbero inconcepibili. L’uomo “politico” sa od intuisce che egli è un “altro” appunto per la sua appartenenza al corpo collettivo; sa od intuisce che la sua fortuna, i suoi redditi, le sue maniere di vita sono condizionate dall’esistenza degli altri uomini e dello stato; sa che, pagando l’imposta, egli non dà cosa creata da lui, ma cosa creata dallo stato o da lui quale parte dello stato.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta, Atti e memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino, Torino, 1918-1919, pp. 1051-1131 [ndr].

[2] «The taxable capacity of any community may be briefly defined as the surplus produce of the people above what is necessary to maintain existence according to the standard of life prevailing at the time in the country concerned»; Principles of Finance, p. 241. È il saggio quinto di una serie su The Art of Economic Development, Pubblicata da H. Stanley Jevons nel suo «Indian Journal of Economics», nn. 5 e 6.

Sui diritti “casuali”

Sui diritti “casuali”

«Atti parlamentari», 21 novembre 1953[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 122-140

 

 

 

 

Onorevoli membri del parlamento!

 

 

Mi è stata presentata per la promulgazione la legge di iniziativa parlamentare – approvata dalla IV commissione permanente della camera dei deputati il 28 ottobre 1953 e dalla commissione permanente del senato della Repubblica il giorno successivo – che proroga di un anno, e cioè al 31 ottobre 1954, il termine stabilito dall’articolo 1 della legge 14 febbraio 1953, n. 49, relativa «ai diritti e compensi dovuti al personale degli uffici dipendenti dai ministeri delle finanze e del tesoro e della corte dei conti».

 

 

Trattasi dei diritti e compensi così detti “casuali” regolati dai decreti legislativi 11 maggio 1947, n. 378, e 28 gennaio 1948, n. 76, ratificati con modificazioni dalla legge 17 luglio 1951, n. 575, la quale stabiliva (articolo 3) che le norme di tali decreti e le modificazioni apportatevi in sede di ratifica dovessero cessare di aver vigore il 31 dicembre 1952. Il parlamento, nel silenzio del disegno di legge, volle porre questo termine, prima della scadenza del quale il governo prese, a sua volta, impegno di rivedere tutta la materia, essendo stata concordemente riconosciuta improrogabile l’urgenza di porre fine ad un sistema degenerato, attraverso molteplici ed ingiustificate estensioni, a tal segno che non si esitò a definire di vera “anarchia”.

 

 

Senonché, spirato quel termine, senza che frattanto fosse intervenuta l’auspicata regolamentazione, si provvide, con legge 14 febbraio 1953, n. 49, a prorogarlo ulteriormente sino a che non fossero state emanate nuove norme organiche in materia e, in ogni caso, sino e non oltre il 31 ottobre 1953. Anche questa volta parlamento e governo riconobbero la necessità di far cessare senza indugio sì grave e confusa situazione, tanto che la proroga al 31 dicembre 1953, prevista dalla proposta di legge, fu ridotta di due mesi.

 

 

La legge che mi è presentata per la promulgazione non è qui presa in considerazione per quel che attiene allo scopo suo: che è quello di conservare ad un numeroso gruppo di dipendenti statali un sovrappiù in confronto ai proventi vari dei quali fruiscono gli altri impiegati dello stato. La conservazione dei “casuali” è richiesta dai dipendenti delle amministrazioni delle finanze e del tesoro in attesa di quel riordinamento delle remunerazioni di tutti i dipendenti statali, il quale dovrebbe porre rimedio alle sperequazioni esistenti fra gruppo e gruppo e soddisfare alle richieste di migliorie messe innanzi da tutti i gruppi. Essi temono di perdere, anche provvisoriamente, quei vantaggi particolari di cui oggi fruiscono e che sono ritenuti necessari al mantenimento di un tenor di vita adeguato ai delicati gravi uffici che sono chiamati ad adempiere.

 

 

Il parlamento delibererà, su proposta del governo responsabile della cosa pubblica, intorno ai mezzi più idonei a provvedere alle richieste migliorie ed alla necessaria perequazione tra gruppo e gruppo di dipendenti.

 

 

Non giova, tuttavia a questi fini, il mantenimento, anche provvisorio, di uno strumento – i così detti “casuali” – il quale, oltre a non poter essere applicato a tutti i dipendenti dello stato, ma solo ad una minoranza non cospicua di essi, è in sé irrazionale epperò fecondo di risultati contrari al bene pubblico.

 

 

Le spiegazioni addotte a difesa del sistema dei “casuali” sono svariate; ma tutte, salvo un unico caso, prive di fondamento.

 

 

Taluno ha fatto richiamo alla circostanza che i “casuali” traggono origine da disposizioni legislative o regolamentari di data non recente.

 

 

Ed in verità basta sfogliare una qualsiasi raccolta di editti anteriori al 1789 per leggervi lunghe tariffe di emolumenti dovuti da privati richiedenti servigi ad ogni sorta di magistrature, uffici, cancellerie e simili.

 

 

Né è men vero che, soltanto a ragion veduta e per motivi di evidente ed urgente giustizia, è lecito abolire in tutto od in parte istituzioni il cui saldo fondamento è dimostrato dalla medesima loro lunga durata.

 

 

Nel caso presente si deve tuttavia giungere, appunto in ragione della antichità, alla conclusione opposta. Invero, gli emolumenti, i diritti, le sportule, le propine, di cui si ragiona negli editti antichi, traevano motivo dal fatto che compito del principe era ritenuto fosse quello di nominare e dare autorità ai magistrati ed agli altri pubblici ufficiali; non quello di remunerarli. In tempi nei quali il sistema delle imposte era scarsamente sviluppato e l’erario viveva di entrate patrimoniali (anche se intese con larghezza, sino ad includere gabelle e dazi) e di donativi, sembrava naturale che giudici, finanzieri, gabellieri, insegnanti vivessero quasi esclusivamente di emolumenti, sportule, propine, onoranze versate da chi ricorreva alla loro opera.

 

 

Non di rado accadeva che l’ammontare delle sportule e propine andasse oltre il compenso reputato giusto per l’opera prestata dal pubblico ufficiale; e non era infrequente perciò la messa all’asta della carica, sicché il principe, invece di pagare stipendi, si locupletava per i diritti di ingresso versati dai funzionari.

 

 

A mano a mano che la giustizia, la sicurezza, l’istruzione diventarono compiti statali, apparve sempre più repugnante obbligare i cittadini bisognosi della tutela dello stato a pagare qualcosa ai pubblici ufficiali per ottenere servizi ai quali lo stato è tenuto in virtù della sua medesima esistenza. Di guisa che l’argomento della lunga durata e persino della antichità si rivolge contro chi l’adopera. Vale solo se e nella misura in cui può essere dimostrato che il balzello deve essere pagato per altro motivo.

 

 

Si argomenta ancora che, se si aboliscono i casuali, parecchi altri istituti dovrebbero essere assoggettati a diligente esame critico. Infatti i casuali non sono i soli diritti percepiti a carico di privati e a favore di particolari categorie di dipendenti pubblici. E si citano all’uopo: per il ministero degli affari esteri i diritti di cancelleria spettanti agli agenti consolari ed agli ufficiali diplomatici che disimpegnano funzioni consolari; per l’ex ministero dell’Africa italiana i diritti e le quote di partecipazione dei funzionari coloniali; per il ministero di grazia e giustizia i diritti dei cancellieri e segretari giudiziari; per il ministero dell’interno i diritti dei segretari comunali e provinciali; per il ministero dei trasporti i diritti del personale dell’ispettorato della motorizzazione civile; per il ministero della pubblica istruzione i diritti del personale delle segreterie universitarie e di altri istituti scolastici e le propine dei professori universitari; per la presidenza del consiglio dei ministri le propine degli avvocati dello stato e i diritti del personale delle segreterie della corte dei conti, del consiglio di stato, dell’avvocatura dello stato; per amministrazioni varie i diritti degli agenti accertatori di violazioni, ad esempio guardie di finanza, carabinieri, agenti forestali, ispettori dell’ufficio cambi e degli uffici metrici, ecc.

 

 

Il rilievo è conferente solo nella misura in cui esso può stimolare allo studio dell’irta materia dei diritti riscossi da altri dipendenti statali a carico dei cittadini. Può darsi che anche per tali diritti si debba giungere, in tutto od in parte, al medesimo giudizio sfavorevole che si deve pronunciare per i casuali. A tacere, tuttavia, che l’esame di così fatti diritti non è oggi pertinente, l’argomento non è valido. Quando mai, anche nella ipotesi qui enunciata a solo scopo di ragionamento, un istituto irrazionale può trar ragione di vita dalla contemporanea irrazionalità di altri istituti di cui si allega la somiglianza? La legge presente contempla i soli “casuali”. A questi soli debbo limitare il mio esame ai fini della richiesta promulgazione; né mi sarebbe lecito divagare in campi diversi; e su cui un apprezzamento, negativo o positivo, non muterebbe in nulla quello che soltanto ai “casuali” deve essere riferito.

 

 

Non è, parimenti, pertinente al problema l’allegare che si fa, essere taluni impiegati costretti ad un maggior lavoro per i servizi che danno luogo ai “casuali”. Il diritto degli impiegati pubblici a ricevere un compenso speciale, in quanto veramente compiono un lavoro straordinario, non può invero essere messo in dubbio. Qui di ciò non si discute; ma dei “casuali” e del loro fondamento logico.

 

 

Se si riesce a dimostrare che un dato servizio è reso nell’interesse esclusivo o prevalente dei privati, è superflua l’argomentazione del lavoro o maggior lavoro a cui gli impiegati debbono attendere. La percezione del diritto a carico del privato sarebbe giustificata. Naturalmente il lavoro dovrebbe essere prestato fuor dell’orario di ufficio; ed, altrettanto naturalmente, l’ammontare del diritto dovrebbe essere tenuto entro i limiti del costo effettivo del servizio particolare reso al privato. Un’aggiunta di qualcosa al costo – come oggi accade per i conservatori dei registri immobiliari, sull’importo dei cui diritti grava perciò un contributo progressivo a favore dello stato dal 10 al 70 per cento, evidente prova del fatto che la misura dei diritti percepiti eccede, e spesso notevolmente, l’importo delle spese e dei rischi sopportati dal conservatore – può parere legittima solo se si dimostri che il richiedente il servizio sia soggetto meritevole di imposta, a favore, si intende, del pubblico erario, in ragione di una particolare capacità contributiva messa in luce dalla richiesta medesima.

 

 

Se poi non può essere dimostrato che il servizio sia reso nell’interesse esclusivo o prevalente dei privati, nemmeno la necessità di remunerare particolarmente il lavoro più rapido o più faticoso o più attento degli impiegati addetti al servizio – necessità che qui non si vuole discutere e si ammette come premessa assiomatica del ragionamento – basta a legittimare la percezione di un diritto dal privato richiedente. Se il servizio è reso nell’interesse pubblico, il particolare o maggiore costo deve far carico al tesoro, ossia al fondo generale delle imposte. Nessuna imposta è legittima quando è stabilita, come un tempo si diceva, in “odio” a particolari gruppi od individui incolpevoli.

 

 

La soluzione del problema non può perciò trarsi dalla natura ordinaria o straordinaria del lavoro compiuto dall’impiegato; bensì è soltanto dall’essere o non essere il servizio reso nell’interesse esclusivo o prevalente dei privati.

 

 

Né il sistema dei diritti casuali può essere giustificato adducendo che in alcuni casi (ad esempio diritti riscossi dall’amministrazione delle tasse sugli affari per conto della cassa del notariato o dell’istituto di previdenza sociale, ecc.) gli impiegati di talune amministrazioni finanziarie riscuotono proventi a favore di altri enti; che trattasi soltanto di un metodo più economico di riscossione preferito nell’interesse pubblico e che, se mai, potrà dar luogo a compensi particolari agli impiegati interessati se essi abbiano compiuto davvero un lavoro straordinario e nella misura in cui esso sia accertato.

 

 

Neppure il sistema può trovare fondamento nella circostanza che talvolta alcune amministrazioni pubbliche incaricano quella finanziaria di eseguire formalità di conteggi, controlli, compilazione di ruoli, riscossione e simili. È corretto che l’amministrazione servente sia adeguatamente compensata dall’amministrazione servita per il costo del servizio reso. Può darsi che ambe le amministrazioni traggano vantaggio col rendersi vicendevoli servigi; ma non ne segue che il compenso consista in un particolare, prelievo operato da certi impiegati a carico della amministrazione servita. L’impiegato avrà ragione di ottenere un compenso straordinario, se il lavoro straordinario ci fu; non di riscuotere a proprio vantaggio compensi spettanti alla amministrazione, in misura la quale non ha alcun rapporto con la retribuzione dovuta all’impiegato per la sua straordinaria prestazione.

 

 

Se fosse esatto che i redditi casuali sono il corrispettivo di particolari servizi adempiuti dagli impiegati nell’interesse esclusivo o prevalente dei privati, verrebbe meno ogni ragion di discutere. Tizio e non lo stato chiede un servizio; Tizio e non lo stato paghi il prezzo del servizio. Sarebbe problema secondario, di mera opportunità, trovare la soluzione ottima, la quale consenta agli impiegati statali di soddisfare alle richieste dei privati, senza che da ciò derivi alcun nocumento al servizio di istituto. L’autorità dei capi del servizio, il buon senso del pubblico, il giusto stimolo di un maggior lucro, ottenuto dagli impiegati grazie a prestazioni fuor delle ore d’ufficio, basterebbero a risolvere il piccolo problema, senza che nessuno possa trarne motivo di lagnanza, così come oggi si ritiene giusto che l’impiegato, il quale ha compiuto un lavoro straordinario, riceva perciò, lui e non altri, il giusto compenso.

 

 

Dunque il punto essenziale è: è vero o non è vero che si tratti di particolari servizi adempiuti dai funzionari nell’interesse esclusivo o prevalente di privati? A rispondere al quesito, il solo il quale, al di là delle frange aberranti, sia decisivo, si assuma il caso del più antico od originario dei diritti casuali.

 

 

Invero il caso dei servigi chiesti dai privati ai conservatori dei registri immobiliari non solo è quello da cui tutti gli altri derivano per filiazione od analogia od imitazione, ma è quello veramente tipico ed illuminante.

 

 

L’istituzione di quei registri trae origine dall’adempimento di uno dei compiti essenziali dello stato. Sinché sia consentito a persone fisiche o giuridiche di possedere immobili a titolo di proprietà piena, di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi o di vantare su di essi altra specie di diritti reali è giocoforza che lo stato assicuri in proposito la certezza del diritto. Le formalità, di cui si deve prendere nota nei registri immobiliari, di trascrizione, iscrizione, rinnovazione, annotamenti, ecc., ecc., sono prescritte non nell’interesse dei singoli, ma nell’interesse pubblico. Se non si vuole il caos giuridico rispetto alla proprietà immobiliare; se si vuole impedire si possano ingannare le persone semplici con vendite di cose non proprie, con asseverazioni non veritiere di libertà da pesi e vincoli; se ciò non si vuole, perché si sa che dalla incertezza deriverebbero la impossibilità dei miglioramenti agricoli ed edilizi, il ritorno della terra allo stato selvaggio, delle case alle canne di paglia, della produzione al livello dell’uso dei frutti naturali delle piante e delle erbe e della caccia agli animali selvatici e nocivi; giocoforza è che lo stato garantisca la buona fede, nelle trascrizioni della proprietà e dei diritti reali, dia modo ai singoli di assicurarsi della veridicità delle affermazioni altrui intorno alla esistenza dei diritti e vincoli immobiliari. Persino nell’ipotesi di organizzazione collettivistica della proprietà, è interesse dello stato di rendere noti a tutti la esistenza di diritti eventuali di godimento di case di abitazione, di orti e pertinenze attribuiti a contadini, è interesse dello stato rendere pubblici i limiti dei diritti d’uso riconosciuti ad enti pubblici di tipo svariatissimo che sussistono e prosperano anche in quelle organizzazioni.

 

 

Nessun dubbio insomma sul dovere dello stato di creare le condizioni di certezza intorno alle transazioni economiche compiute dai proprietari od usuari od assegnatari (persone fisiche e giuridiche ed assimiliate a queste) ed aventi per oggetto immobili. Ed altrettanto certo che non vi è atto, formalità, annotamento o ricerca che sia compiuto nell’interesse esclusivo o prevalente dei privati; sempre è dominante ed assorbente il dovere dello stato di compiere atti, formalità, ricerche, annotamenti allo scopo di assicurare, garantire, agevolare la buona fede nelle transazioni e quindi la possibilità medesima di esse: e quindi ancora la sussistenza economica e la pacifica convivenza dei cittadini, siano essi possidenti o nullatenenti.

 

 

Che lo stato poi gravi ogni atto relativo alle transazioni della proprietà immobiliare e dei diritti reali con tributi, dei quali la razionalità e la convenienza sovratutto finanziaria, nei casi di trasmissione a titolo oneroso, sono grandemente dubbie, non è argomento valido per tollerare, accanto ai diritti, giustificati o non, riscossi dallo stato, particolari compensi al funzionario il quale adempie semplicemente ad un ufficio pubblico.

 

 

Se ciò è vero rispetto alla più venerabile specie dei diritti casuali, è vero tanto più per le specie più recenti, da quelle variopinte di diritti di voltura ed altri catastali, ai certificati relativi ad imposte e tasse diverse dirette ed indirette, ai certificati e documenti vari doganali, ecc., ecc., trattandosi sempre, non di pagamenti dovuti per servizi resi a privati nell’interesse loro esclusivo o prevalente, sibbene di tasse od imposte.

 

 

Il caso dei conservatori dei registri immobiliari è tipico – ma al di fuori di esso altro non ne esiste – per segnare i limiti del compenso per l’accollo di spese e rischi.

 

 

Il funzionario, il quale sostiene, per conto dello stato, spese e rischi, ha diritto di ricevere adeguato compenso. Ma occorre che spese e rischi esistano effettivamente, e non è lecito citare l’unico caso del conservatore dei registri immobiliari per legittimare un istituto, quello dei “casuali”, che ha un territorio di applicazione tanto più ampio.

 

 

I conservatori dei registri immobiliari debbono sostenere non solo le spese di legatura dei volumi delle note, delle domande, dei bollettini e dei documenti e dei registri, ma anche quelle di cancelleria, di illuminazione e riscaldamento, la mercede al personale subalterno di servizio e di custodia e l’indennità al gerente; tutte spese che per talun grande ufficio pare siano annualmente di milioni di lire. È per fermo giusto e conveniente che lo stato rimborsi, in somma fissata di accordo, siffatte spese. Questo metodo di rimborso giova all’erario, il quale è garantito contro la larghezza nello spendere propria di chi non è chiamato a pagare il conto, e giova al conservatore, dal quale è conveniente, nell’interesse medesimo del servizio, sia goduto il margine fra l’importo legale e quello effettivo della spesa.

 

 

Per i conservatori delle ipoteche è ovvia altresì la necessità e la giustizia di compensarli per la responsabilità, ad essi accollata, di indennizzare la parte per i danni derivanti da errori od omissioni, in cui siano incorsi nell’adempimento dei loro compiti.

 

 

La giustizia e la convenienza di siffatti rimborsi non spiegano tuttavia il metodo attuale ereditato dal tempo nel quale lo stato non assegnava stipendi al conservatore ed al suo personale. Il pagamento che oggi si fa dai conservatori allo stato di un diritto erariale complessivo dal 10 al 70 per cento sull’ammontare netto dei loro emolumenti è, già fu sopra rilevato, la prova chiarissima che questi furono determinati in modo davvero “casuale”, ossia “arbitrario”, e siffattamente grezzo da consentire disparità notabili e non spiegabili di proventi fra ufficio e ufficio.

 

 

Non si può conservare un sistema sperequato ed arcaico sol perché, in un solo caso esistono spese e rischi meritevoli di rivalsa, ben potendosi al calcolo delle une e degli altri nonché alla determinazione del relativo compenso procedere con metodi che in casi analoghi trovano larghe e soddisfacenti applicazioni.

 

 

Nati male, in conseguenza di una pretestuosa giustificazione, come di compenso di servizi resi a privati nel loro interesse, i diritti casuali attirarono presto l’attenzione degli impiegati vicini, per ragion d’ufficio, a quei relativamente pochi funzionari i quali rendevano di fatto i servizi detti privati; e l’emulazione li spinse a chiederne l’estensione a loro beneficio. Ma la mera diluizione non sarebbe stata vantaggiosa ai nuovi beneficati, ed avrebbe scemato i vantaggi già goduti dai colleghi addetti a quel particolare ufficio, se non si fosse verificata una progressiva moltiplicazione ed estensione dei diritti.

 

 

Sarebbe troppo lungo riprodurre l’elenco compiuto di cotali moltiplicazioni. Basti, per gli emolumenti ai conservatori delle ipoteche, ricordare che essi, a norma del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3272 (tab. D), davano luogo a 15 specie di diritti fissi ed a 9 di diritti di scritturazione; ma, in virtù dell’allegato D del decreto legislativo 28 gennaio 1948, n. 76, si suddividevano, per scissiparità, per la parte dovuta al conservatore, in 19 specie principali, oltre ad 11 frazionamenti in ragion di valore o numero e 5 in ragion di facciate; ed altrettante (principali e di frazionamento per valori e facciate) per la parte dovuta al personale sussidiario.

 

 

Alla moltiplicazione (e si potrebbero ricordare i casuali relativi alle imposte dirette e alle tasse ed imposte indirette sugli affari), si aggiunge presto la estensione a nuovi servizi: con l’allegato E della legge 17 luglio 1952, n. 575, nascono 15 diritti principali e 19 di frazionamento a favore del personale dell’amministrazione delle dogane, delle imposte di fabbricazione e dei laboratori chimici delle dogane ed imposte indirette, mentre coll’allegato F della medesima legge vengono istituite nientemeno che 10 categorie o titoli di diritti spettanti al personale in servizio presso il ministero del tesoro, della corte dei conti e dei rispettivi dipendenti uffici, distinti, se male non si contò, in 49 specie principali e 48 frazionamenti.

 

 

Quale la ragione della moltiplicazione delle categorie e delle specie dei diritti e dei loro frazionamenti? Non par probabile che essa consista nell’incremento naturale, spontaneo delle specie di atti compiuti dagli impiegati effettivamente addetti alla compilazione dei documenti richiesti dagli interessati. Il gran salto si fece quando, per la prima volta, nel regio decreto legge 15 novembre 1937, n. 2011, fu stabilito per le amministrazioni provinciali delle imposte dirette e del registro il principio del riparto dei proventi nell’ambito della circoscrizione compartimentale, estendendolo a tutto il personale in servizio presso quelle amministrazioni. Da quel momento la valanga dei “casuali” si ingrossa, diventando sempre più imponente. Obliterata la pretesa di una connessione necessaria fra il costo del servizio particolare sedicentemente reso al privato, nell’interesse esclusivo di questo, e la particolare maggior fatica durata o perizia adoperata in tale occasione dall’impiegato, non esiste più freno al processo rivolto a trovare motivi o pretesti per crescere i proventi, non più di individui, sibbene di gruppi sempre più vasti di personale di intieri compartimenti e poi delle amministrazioni centrali. Per tal via, piuttostoché per la via normale, non si riesce forse più facilmente ad ottenere integrazioni di stipendi? Il metodo ordinario per ottenere aumenti di stipendio importa una pubblica discussione, esige la lunga procedura parlamentare, pone in chiaro la impossibilità o la ingiustizia di crescere i proventi di talune categorie e non di altre; chiarisce l’onere dei contribuenti e l’ammontare della spesa da iscrivere in bilancio. La via traversa dello stabilimento e della moltiplicazione di singoli diritti, pagati, dicesi, volontariamente da chi riceve un beneficio a beneficio di chi si sottopone all’uopo a particolare diligenza, facilita l’approvazione del nuovo balzello per dati casi; e poi, pretestando analogie, parità di trattamento, ingiustizia di esentare, tra i malcapitati cittadini, questi o quegli che pur di qualche cosa sembrano avvantaggiarsi, a mano a mano la macchia d’olio si estende.

 

 

Già con il decreto legislativo 11 maggio 1947, n. 378, non solo era stata estesa la ripartizione dei proventi dei diritti contemplati nelle tabelle esistenti a tutto il personale, centrale e periferico, dell’amministrazione delle finanze ed a quello della ragioneria generale dello stato; ma si era introdotta una nuova tabella per i servizi del tesoro, i cui proventi furono destinati al personale degli uffici provinciali del tesoro, della tesoreria centrale, della zecca e della cassa speciale dei biglietti di stato.

 

 

Caratteristica l’istituzione di un diritto di riscontro sulle quietanze rilasciate dagli esattori, quietanze che rappresentano l’atto conclusivo di una serie di operazioni riguardanti l’accertamento e la liquidazione di tributi; caratteristica, dico, perché fa quasi credere che non sia interesse dominante, anzi esclusivo dello stato assicurarsi, con gli opportuni riscontri, che il contribuente abbia versato nulla più e nulla meno di quanto egli debba.

 

 

Tipica la degenerazione dell’istituto in materia di frazionamento. La ragione del frazionamento invero non si fonda più solo sul numero delle ore impiegate e delle pagine scritturate, sull’ampiezza dei disegni, ma tien conto, quanto si può, del “valore” e dell'”urgenza”. Pericoloso criterio quest’ultimo e da restringere quanto più si possa per non istillare nel pubblico la convinzione di non poter ottenere dalle pubbliche amministrazioni servizi ai quali si ha diritto, se non si paghi un sovrappiù, destinato col tempo a divenir normale; qualcosa rassomigliante al declassamento avvenuto nell’opinione pubblica delle trasmissioni telegrafiche e telefoniche ordinarie in confronto a quelle urgenti e poi di queste rispetto alle urgentissime ed alle “lampo”. Ma i frazionamenti in ragion di valore fanno manifesto l’errore di considerare i diritti e compensi di cui si parla quasi fossero compensi per servizi resi a vantaggio esclusivo del privato. All’impiegato il quale rilasci un certificato o nota o copia tanto costa di fatica scrivere 100 lire come un milione di lire; ma se la tariffa varia in ragion di valore, la variazione palesa, pure a chi non voglia vedere, la natura di imposta vera e propria del così detto compenso e quindi la necessità della sua devoluzione al fondo generale delle imposte.

 

 

Con il decreto legislativo 28 gennaio 1948, n. 76, si introduce una nuova tabella a favore del personale, centrale e periferico, delle dogane e delle imposte di fabbricazione e si ammettono a partecipare ai proventi della tabella relativa ai servizi dipendenti dal ministero del tesoro quasi tutti i dipendenti degli uffici centrali del ministero medesimo. Finalmente, a coronare l’opera, la legge di ratifica 17 luglio 1951, n. 575, dei decreti del 1947 e del 1948 compie il processo di generalizzazione del riparto e i diritti casuali sono estesi al rimanente personale dell’amministrazione del tesoro, che ancora ne era rimasto escluso, e a quello della corte dei conti, tranne i magistrati.

 

 

Abbandonato ogni pretesto di compenso per servizi particolari si assoggetta al prelievo del 4 (ora 3) per mille ogni mandato diretto ammesso a pagamento dalla direzione generale del tesoro, di importo non inferiore a lire 40.000, e ad uguale prelievo del 4 (ora 3) per mille ogni mandato od ordinativo ammesso a pagamento dagli uffici di riscontro della corte dei conti presso i provveditorati alle opere pubbliche, nonché presso le regioni di importo non inferiore a lire 40.000. Altri diritti contemplati nell’allegato E della legge di ratifica del 17 luglio 1951, n. 575, cadono inesplicabilmente su chi, sottoscrivendo a prestiti o facendo depositi obbligatori o volontari presso la cassa depositi e prestiti ed altre amministrazioni del tesoro, chiede operazioni sui suoi titoli o rimborso di denaro suo. Ma l’inverosimile è toccato allorché agli impiegati addetti allo sportello di pagamento dei debiti liquidi dello stato si riconosce il diritto di prelevare, per sé ed i loro colleghi, a titolo privato, il 3 per mille dell’importo dei debiti medesimi. Che se il pagamento avviene in seguito a concessione di mutui o ad ogni altra operazione di credito, il già descritto diritto del 3 per mille relativo al momento della riscossione della somma, era già stato cresciuto preventivamente per uguale importo, al momento del provvedimento di concessione del mutuo. Ambi i quali prelievi appaiono, per fermo, scarsamente adatti a sollecitare quel credito a buon mercato che appare nei voti dei più.

 

 

L’atto di accusa contro i diritti casuali potrebbe qui essere chiuso; giungendo fondatamente alla conclusione che le imposte e le tasse, pur mascherate sotto il nome di diritti casuali, sono istituti troppo gelosi e delicati perché possano essere devoluti a vantaggio di altri che non sia il tesoro dello stato. Il tesoro se per deliberazione meditata dal parlamento il prelievo dei diritti casuali dovesse rimanere in vigore potrà farne l’uso che sarà ritenuto migliore e potrà anche devolverne il ricavo complessivo a beneficio dei medesimi dipendenti che oggi fanno propri tali diritti. Ma deve venir meno la possibilità per certi impiegati dello stato di devolvere direttamente a proprio vantaggio imposte e tasse, che debbono essere riscosse ed impiegate solo nell’interesse pubblico.

 

 

Se il riparto dei “casuali” tra funzionari si limitasse a creare un interesse privato alla estensione del territorio a cui i casuali si applicano ed alla moltiplicazione dei casi della loro applicazione, il male, pur gravissimo ed intollerabile, sarebbe misurabile.

 

 

Il danno si aggrava perché i funzionari interessati sono indotti ad escogitare, per illustrare la convenienza della loro attuazione legislativa, nuovi istituti, registrazioni, permessi, i quali sono fine a se stessi, non sono affatto necessari per scopi pubblici; ma tendono esclusivamente a consentire agli impiegati di riscuotere diritti detti “casuali” a proprio profitto. Quasi senza avvedercene siamo a poco a poco recati a mutare la concezione dello stato. Non più esso è creato per i cittadini; non più i pubblici funzionari hanno ragione di vita esclusivamente per i servigi che rendono ai cittadini. Lentamente si fa strada il principio opposto che i cittadini hanno ragione di esistere in quanto rendono servizio allo stato. Non i pubblici impiegati sono al servizio dei cittadini; ma questi di quelli, capovolgendosi così la natura stessa dello stato libero democratico. Non e più vero che i servigi pubblici debbono essere resi al minimo costo alla collettività; ma diventa principio di riparto del reddito nazionale quello di creare servigi inutili e perciò costi inutili allo scopo di giustificare una determinata distribuzione del reddito medesimo. Già il 12 dicembre 1951 il presidente della corte dei conti aveva avuto occasione (in foglio n. 4630-12 P.S.) di scrivere: «ed è stato rilevato, infine, che in tutti i casi di pagamenti di annualità di sovvenzione, di quote di ammortamento di prestiti, di finanziamenti di somme dovute a titolo di rimborso spese, sostenute per conto dello stato, ed a titolo di concorso delle spese, sostenute da amministrazioni pubbliche o private, la decurtazione del 4 (ora 3) per mille determina la necessità di ricorrere a nuovi stanziamenti di fondi, per integrare i pagamenti dovuti». In altri termini, se è consentito agli impiegati di appropriarsi del 3 per mille dell’importo contrattuale, dovuto dallo stato, di certe opere pubbliche o di certe spese o di certe sovvenzioni, gli aventi diritto riscuotono solo 997 lire invece delle 1000 a cui han diritto e fa d’uopo escogitare espedienti per aumentare gli stanziamenti a 1003 lire, affinché i creditori riscuotano quel che ad essi spetta. E poiché ciò non può sempre farsi, cresce il rischio di coloro i quali contrattano con lo stato e cresce il danno di questo per la inevitabile amplissima ripercussione sui preventivi di appalto delle opere pubbliche e del tosto dei servigi dei concessionari e in genere di tutte le spese incise dai “casuali”.

 

 

Creare lavoro inutile, moltiplicare formalità allo scopo di operare prelievi davvero “casuali” a favore di una minoranza di dipendenti dello stato, che altro significa se non invertire la norma dell’agire umano economico sostituendola con quella del massimo costo per il minimo risultato?

 

 

È in atto tutto un lavorio di escogitazione, di invenzione di formalità da accollarsi ai cittadini, non perché esse siano necessarie od utili nell’interesse pubblico; ma allo scopo di consentire la percezione di diritti, equivalenti o somiglianti ai “casuali”, di cui fruiscono i “finanziari”. Poiché, tuttavia, la natura dei servigi d’istituto della più parte delle amministrazioni non consente siffatte invenzioni, ecco, per autorevoli dichiarazioni, nascere ed estendersi espedienti diversi atti a procacciare ai dipendenti di quelle amministrazioni un succedaneo, un equipollente ai “casuali”. Il che non si sa come possa accadere sulla base di normali autorizzazioni legislative; e poiché queste non esistono, si deve presumere accada per destinazione di fondi a fini diversi da quelli propri dei capitoli competenti del bilancio.

 

 

Neanche la esistenza, tacitamente ammessa, di siffatti equipollenti giova a sedare il malcontento della grande maggioranza dei dipendenti statali od assimilati. Per la loro incertezza giuridica, per la loro allegata insufficienza in confronto al vantaggio ottenuto a mezzo dei “casuali” e per la loro mancata generalità, i compensi equipollenti sono causa di nocive agitazioni; né si vede come possano essere improvvisati provvedimenti i quali siano atti a far cessare il malcontento e non aggiungano invece nuova esca, a cagione degli inevitabili invidiosi confronti, al malcontento medesimo. Ogni proroga del sistema dei casuali aggrava perciò il danno e dà alimento alla disorganizzazione della burocrazia, la quale deve essere, invece, nella crescente complicazione della vita moderna, saldo fondamento e strumento di avanzamento sociale.

 

 

Una esigenza formale si aggiunge alla urgenza della riforma del sistema dei diritti casuali: quella della devoluzione del loro ricavo all’erario. I diritti casuali non sono una faccenda privata da regolarsi tra persone fisiche e giuridiche richiedenti servigi e gli impiegati chiamati a renderli per ragion d’ufficio ed a loro volta chiamati a farne parte a colleghi più o meno affini, in territori ognora più vasti. Trattasi di tasse ed imposte propriamente dette; e soggette perciò pienamente alle norme della contabilità di stato. Solo per lassitudine terminologica si usa dire che il tesoro non subisce alcun onere per ragione dei casuali e può lavarsi le mani dei proventi per ciò riscossi dagli impiegati quasi venissero dal mondo della luna. No; non esiste alcuna differenza fra lo stipendio vero e proprio riscosso ogni mese dal funzionario statale allo sportello della tesoreria e la somma periodicamente versatagli a titolo di quota a lui spettante dell’importo di diritti e compensi casuali. In ambi i casi trattasi, da un lato, di somme pagate da utenti come corrispettivo di servigi particolari che l’utente deve richiedere ad un pubblico ufficio (tasse) o da contribuenti in compenso dei servigi indivisibili resi dallo stato alla collettività (imposte) e, dall’altro lato, di rimunerazioni ricevute dall’impiegato per servigi da lui resi per ragion del suo ufficio e nell’interesse pubblico. La natura dei pagamenti, da un lato, e delle rimunerazioni, dall’altro, essendo identica, la differenza è puramente formale. Nel più dei casi pagamenti e rimunerazioni passano attraverso una cassa pubblica, detta per brevità “tesoro”, soggetta a pubblicità ed a discussione e deliberazione parlamentare. Per i “casuali” il passaggio non si verifica: il versamento avviene in casse più o meno sottratte al controllo parlamentare; e le rimunerazioni sono corrisposte agli impiegati in misura di cui non si dà contezza.

 

 

Esplicitamente, si dice che l’importo delle spese d’ufficio da detrarre dall’ammontare lordo degli emolumenti spettanti ai conservatori è determinato ogni biennio con decreto del ministero delle finanze non soggetto a pubblicazione.

 

 

Data la estensione del riparto dei proventi “casuali” a territori ognora più vasti, ogni connessione logica fra il valore del servizio particolare sedicentemente reso nell’interesse esclusivo del richiedente ed il valore della particolare prestazione fornita dall’impiegato essendo obliterata, chiaramente appare che da una parte si versano a qualche sportello somme che han natura di tasse ed imposte e dall’altro lato categorie, talvolta numerose, di impiegati, ricevono, col nome di “casuali”, rimunerazioni addizionali commisurate allo stipendio base. E tuttavia la ripartizione delle somme così incassate da pubblici sportelli per ragione pubblica è stabilita, su proposta di un’apposita commissione, con decreti ministeriali, non soggetti a pubblicazione.

 

 

Chi dicesse che la ripartizione in un gruppo di impiegati di una percentuale, ad ipotesi del 2 per cento, della tassa introitata dall’erario è sostanzialmente diversa dalla ripartizione nello stesso gruppo di una addizionale uguale per importo a quel 2 per cento – di x lire per ogni formalità adempiuta a cura dei medesimi impiegati; direbbe cosa stravagante.

 

 

Sia che il diritto sia calcolato in dentro (partecipazione dell’impiegato alla tassa statale) sia che lo si calcoli in fuori (tassa addizionale a favore dell’impiegato) l’inciso è lo stesso – utente o contribuente -; l’intermediario non muta ed è il tesoro; e non muta il beneficiario, che è l’impiegato.

 

 

Ma il calcolo “in fuori” annebbia le idee; fa immaginare, con un passamano, che non esistano imposte e tesoro, e che si tratti di transazione privata fra due privati: impiegato e cittadino.

 

 

Tutto ciò, qualunque sia la sorte dei diritti casuali, è contrario al buon ordine della pubblica finanza. Le entrate per diritti e compensi debbono essere rese di pubblica ragione; e così pure la destinazione di esse.

 

 

Nella recente legislazione italiana non mancano commendevoli esempi di soddisfacimento della esigenza che in proposito si può considerare minima. Basti ricordare l’art. 5 della legge 9 aprile 1953, n. 226, «che apporta modificazioni alle norme sui diritti spettanti alle cancellerie e segreterie giudiziarie»:

 

 

«Il rendiconto della gestione dei diritti spettanti alle cancellerie e segreterie giudiziarie è, per ciascun esercizio finanziario, approvato dal ministro di grazia e giustizia, e presentato al parlamento in allegato al rendiconto consuntivo del ministero di grazia e giustizia».

 

 

Nella relazione al disegno la proposta dell’art. 5, che è nuovo, è così motivata:

 

 

«Di particolare rilievo è la norma contenuta nell’art. 5. Sebbene sia la percezione dei diritti di cancelleria e di segreteria, sia la erogazione di essi avvengano già con la osservanza delle relative norme regolamentari e con il controllo dei capi degli uffici giudiziari e del ministero, si è ritenuto di dover stabilire che anche la gestione delle somme provenienti dalla riscossione di tali diritti sia soggetta, come tutte le altre relative alle somme versate dai cittadini alla pubblica amministrazione ed ai suoi organi, al controllo del parlamento».

 

 

Soddisfare a questa minima esigenza sarebbe tuttavia un ben piccolo, quasi evanescente, passo verso la verità. Il secondo è quello di calcolare “in dentro” i pochissimi compensi che siano reputati degni di sopravvivere; con tutte le conseguenze logiche che da siffatto metodo di calcolo derivano. Solo quando a questa minima esigenza si sia soddisfatto, si potrà studiare quali avvedimenti debbono essere attuati per ragion di rimborso di spese e di rischi effettivi o per ragion di effettivo risparmio del costo o maggior rendimento dei servigi pubblici. Ma nessuno studio può essere intrapreso se prima non sia tolto di mezzo l’interesse di particolari categorie di pubblici funzionari al mantenimento di un sistema sotto ogni rispetto non commendevole.

 

 

Il problema è indubbiamente complesso, ma la sua complessità non dovrebbe indurre a esaurire ogni provvedimento in reiterate e lunghe proroghe, che l’esperienza ha dimostrato punto confacenti a stimolar proficui studi per la ricerca e l’attuazione di una ormai non più dilazionabile soluzione radicale.

 

 

Tali considerazioni mi inducono a invitare le camere a nuova deliberazione, a norma dell’articolo 74 della costituzione.



[1] Intervento alla Camera dei Deputati [ndr].

Risparmio ed investimento

«Il Mondo», 8 settembre 1953[1]

Wirtschaft ohne Wunder, Erlenbach-Zürich, Eugen Rentsch, 1953, pp. 11-32[2]

Ludwig Erhard, La Germania ritorna sul mercato mondiale, Garzanti, Milano, 1954[3]

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 277-318

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Buenos Aires, Asociacíon Dante Alighieri, 1965, pp. 103-122[4]

 

The Kress Library of Business and Economics

Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Ediz. di storia e letteratura, Roma, 1953, pp. 61-65

The Kress Library of Business and Economics. Catalogue covering Material published through 1776 with data upon cognate items in other Harvard Libraries . Baker Library, Harvard Graduate School of Business Administration, Soldiers Field, Boston, Mass., 1940. (Un vol. in 4º, di pagg. X – 414, a due colonne).

Il volume, che qui si annuncia, è cosa stupenda; destinata a prender posto accanto ai grandi e pochi strumenti bibliografici esistenti nel campo della scienza economica. Il signor Arthur H. Cole, bibliotecario della Kress Library, ne descrive la genesi in una succinta prefazione. In primo luogo, qualcuno riuscì a persuadere il signor Claude W. Kress, capo, se non erro, di una grande impresa commerciale americana, che le ricerche storiche avevano importanza per lo studio dei problemi economici e a donare alla scuola che noi un tempo dicevamo di commercio (Business School) dell’Università di Harvard i fondi necessari ad acquistare parecchie migliaia di volumi ed opuscoli relativi alla storia dell’economia e del commercio. Ad un certo punto si seppe che il professore H. S. Foxwell, fellow di St. John’s College in Cambridge (Inghilterra), il quale aveva già venduto tant’anni addietro la sua prima famosa collezione di cose economiche alla Goldsmiths Company, che l’aveva depositata presso la Università di Londra, vendeva la seconda collezione, costituita in altri trent’anni di laboriosi acquisti. Erano trentamila tra volumi ed opuscoli. La Kress Library, grazie, evidentemente, a nuova elargizione del munifico fondatore, l’acquistò in blocco e la trasportò negli Stati Uniti. Costrutto l’edificio, i curatori della biblioteca ora ne arricchiscono i particolari d’adornamento. Il signor Kress ha fornito altri mezzi per acquistare alcune migliaia di numeri non inclusi nella collezione Foxwell. Il dott. H.B. Vanderblue ha donato una collezione che Cole dice «insuperata» di scritti di Adamo Smith. Le biblioteche di Harvard e di Boston hanno trasferito alla Kress Library molti numeri che erano di minor interesse per esse, mentre giovano a compiere il fondo anteriore al 1850 della Kress.

Così si formano in quel paese le grandi biblioteche pubbliche specializzate spendendo e donando somme, le quali tradotte in lire italiane suppongono, dopo le unità, almeno le mezze dozzine di zeri. Con le migliaia e le decine di migliaia di lire non si mette insieme più nulla. Nello stesso modo l’altra celebre raccolta americana, quella Seligman, poté essere messa a disposizione degli studiosi in un edificio della Columbia University in New York. Dove andrà a finire la biblioteca di Hollander, del cui catalogo dò qui di seguito l’annuncio? Purtroppo, son tutti mancati ai vivi i tre grandi raccoglitori anglosassoni, Foxwell, Seligman ed Hollander; né si sa chi possa e voglia, dinanzi al costo crescente dei libri, prenderne il posto a vantaggio degli studi.

A dare incremento a questi, i curatori della Kress Library hanno pubblicato il presente catalogo. Una biblioteca serve in ragione del numero di coloro i quali ne fanno uso. Ma non è comodo fare un viaggio apposta sino a Boston nell’incertezza di trovare le fonti che si desidera studiare. Qua e là, anche in Italia, si possono consultare gli schedari del British Museum di Londra, della Library of Congress di Washington, della Bibliothèque Nationale di Parigi, sì da intraprendere a ragion veduta un viaggio di studio. Ma trattasi di grandi biblioteche nazionali, nelle quali lo specialista non sempre trova quel che cerca. Per le biblioteche specializzate, come la Kress, un catalogo a stampa giova anche sotto un altro aspetto: a far conoscere ai ricercatori l’esistenza di libri ed opuscoli che riguardano un dato argomento e che si possono forse trovare in qualche parte d’Europa anche senza traversare l’Atlantico.

Il catalogo comprende 7.279 numeri, ossia indicazioni di opere singole (volumi, opuscoli, fogli volanti) tutti compresi tra il 1481 ed il 1776. L’anno 1776, nel quale venne alla luce la Ricchezza delle Nazioni di Adamo Smith, segna davvero per noi la fine di un’era bibliografica. La cifra di 7.279 numeri può non dir niente ai profani. Qualcuno iniziato alle difficoltà ed al costo di trovare roba anteriore al 1776, il quale in quarant’anni di lavoro, non sa se sia riuscito a mettere insieme neppure un decimo di quella cifra, ha ragione di rimanere allibito.

Astrazione fatta da cotali invidie collezionistiche, il volume tutto composto, salvo le quattro pagine di prefazione, di meri titoli di libri con l’indicazione del nome dell’autore, dello stampatore od editore, della data e del luogo di stampa, del formato e della paginatura, con qualche raro appunto dovuto alla rarissima erudizione con cui Foxwell annotava talvolta sui fogli di risguardo i libri acquistati, è, od almeno fu per me, di amena e di istruttiva lettura.

Voltiamo carta ed apriamo il volume all’anno 1720. Libri ed opuscoli sono elencati infatti anno per anno, dai ventitre incunaboli, di cui 6 stampati in Italia, all’ultima cosa uscita nel 1776. Ecco 224 numeri per quel solo anno. La chiave dell’inconsueta abbondanza di pubblicazione ci è subito data da un foglio volante, qui contenuto in copia fotostatica, dal titolo:A Southsea ballad, or, Merry remarks upon Exchange alley bubles, To a new tune call’d, The grand elixir, or the Philosopher’s stone discovered. Era l’anno della grande mania borsistica rovesciatasi sull’Europa, la quale a Londra, nel vicolo della borsa, infieriva sulle azioni della Compagnia dei mari del Sud. Ed il poeta popolare componeva perciò «La ballata dei mari del Sud ed allegre varianti sulle bubbole del vicolo della borsa. Su un’aria nuova, detta il grande elisir o la scoperta della pietra filosofale (per arricchire)» (n. 3131). Ma il difensore della compagnia mandava in giro calcoli per dimostrare che essa era in grado di pagare un dividendo del 38% per 12 anni, calcolo adatto anche ai cervelli più semplici: An argument proving that the Southsea company are able to make a dividend of 38 per cent for 12 years. Fitted to meanest capacities (n. 313). I poeti satirici non stanno in ozio ed allestiscono farse per mettere sull’avviso la polizia sugli speculatori pronti a fallire: The broken stock-jobbers: or, Work for the bailliffs. A new farce. As it was lately acted in Exchange-alley (n. 3158). Intorno alla proposta di convertire i titoli di debito pubblico in azioni della compagnia dei mari del Sud, si moltiplicano gli opuscoli (tracts). Archibald Hutcheson interviene nella disputa, con parecchi che si direbbero articoli ed ora sarebbero stampati in riviste e giornali ma allora venivano alla luce come tracts volanti. Il catalogo novera dieci sue cose per quel solo anno. Voltiamo in italiano il titolo di uno di essi: «Alcuni calcoli intorno alle proposte presentate alla Camera dei comuni dalla compagnia dei mari del Sud e dalla Banca d’Inghilterra; calcoli intesi a dimostrare la perdita che i nuovi sottoscrittori subirebbero ai prezzi ricordati nelle proposte ed al guadagno che sarebbe ottenuto dai proprietari delle vecchie azioni del mare del Sud». Foxwell annota sul foglio di guardia dell’opuscolo in foglio di 13 pagine e due tavole: «La accesa disputa tra le due compagnie (quella del mare del Sud e la Banca d’Inghilterra) travolse il pubblico in una febbre speculativa e diede origine all’orgia borsistica. Hutcheson aveva avvertito il paese fin dal principio contro i pericoli del progetto; ma le sue furono parole buttate al vento» (n. 3224). Sorte comune agli economisti di tutti i tempi e paesi! Anche Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoè, di Moll Flanders e di altri romanzi tutti degni di essere letti da economisti, entra in campo con un opuscolo in ottavo di 76 pagine, di cui il titolo chiarisce l’intento critico: The chimera: or the French way of paying national debt, laid open. Being an impartial account of the proceedings in France for raising a paper credit, and settling the Mississippi stock “: «Una chimera, o messa a punto del metodo francese di rimborsare il debito pubblico, esposizione imparziale di sistemi tenuti in Francia per mettere in giro biglietti di credito e mettere a posto le azioni del Mississippi» (n. 3190). La mania della speculazione erasi invero, grazie al Law, estesa alla Francia, con le contemporanee frenetiche speculazioni sulle azioni della Compagnia del Mississippi. Se sui 224 numeri del 1720, ben 66 sono in inglese (quasi tutti stampati a Londra), altri 9 sono scritti in francese, 2 in tedesco e 10 in olandese. Fra questi il più interessante è il n. 3217, dal titolo interminabile che comincia: Het groote tafereel der dwaasheid, vertoonende de opkomst, voortgang en ondergang der actie, bubbel en windnegotie, in Vrankryk, Engeland, en de Nederlanden, gepleegt in den jaare 1870 ecc. ecc. È una raccolta di componimenti in prosa ed in verso con 85 stampe, carte e piani. La vidi un giorno, presso un noto libraio antiquario di Parigi; ma il prezzo di richiesta superava le mille lire italiane, sicché restai col desiderio.

Non ho calcolato le proporzioni fra i numeri in lingua inglese e quelli in altre lingue. Sebbene non siano scarsi quelli in francese, in italiano, in tedesco ed in spagnolo, la grandissima maggioranza, forse fra il 70 e l’80 per cento, è di numeri inglesi. Del che una spiegazione è indubbiamente la comodità di gran lunga maggiore per un raccoglitore inglese come il Foxwell ed ora i suoi seguitatori americani, di raccogliere libri ed opuscoli del proprio paese. Ma un’altra spiegazione non può essere dimenticata ed è il fervore polemico che si osserva nella Inghilterra dei secoli diciassettesimo e diciottesimo quando si voleva prima conquistare la libertà di stampa e si volle dopo trarne partito per discutere i problemi che più interessavano l’opinione pubblica, allo scopo di influire sulle deliberazioni della Camera dei comuni, la quale si incamminava appunto allora a diventare l’unica fonte del potere politico. In Francia, in Germania, in Italia e in Spagna si poteva stampare solo ciò che era consentito dalla censura e se in Francia si riusciva non di rado ad introdurre stampati forestieri e ad attribuire false date di luogo situato all’estero a pubblicazioni locali, non così negli altri paesi. Il contributo notevole fornito dall’Olanda alla trattazione dei problemi del giorno è frutto ugualmente della libertà di stampa che ivi si godeva. La Ricchezza delle nazioni non vien dunque fuori a caso nell’Inghilterra del 1776. Essa è il frutto di due secoli di vivaci discussioni durante le quali i problemi interessanti la collettività venivano affrontati e discussi e risoluti da una folla di pubblicisti, di cui gli uni erano, sì, meri gazzettieri e libellisti, ma altri erano uomini di stato, parlamentari, studiosi, mercanti, proprietari. Ognuno di essi difendeva una idea particolare, non di rado un interesse proprio. Ma le idee particolari si fondevano nell’idea generale; l’interesse particolare doveva essere temperato per il contrasto con gli altri interessi; sicché riassumendo l’opera di tanti suoi predecessori, venne l’uomo di genio, il quale compie la sintesi del secolare dibattito. Il libro di Adamo Smith, An Inquiry into the nature and causes of the Wealth of Nations, porta qui il n. 7.261 ed è posseduto dalla Kress Library in un esemplare di eccezione. La Ricchezza delle Nazioni è rarissima a trovarsi, come qui accade, nei cartoni originali della prima edizione, e in tale stato è quotata a secondo della freschezza, dalle 40 alle 80 lire sterline.

Il prezioso volume compilato dal Cole si chiude con un indice alfabetico su tre colonne in 52 pagine.

Di una controversia tra Scialoja e Magliani intorno ai bilanci napoletano e sardo

Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Ediz. di storia e letteratura, Roma, 1953, pp. 215-227

1. – Continuo qui una rubrica, altrove iniziata[1] e già qui seguitata [2], nella quale non intendo dare una bibliografia compiuta di alcun capitolo della scienza economica, ma elencare soltanto i libri raccolti da me su un dato argomento. Dissi già che il valore della rubrica è meramente quello di mettere in luce le difficoltà incontrate dagli amatori di libri nel procacciarsi una raccolta compiuta di ciò che fu scritto intorno ad un dato problema; forse con incitamento ad altri a non lasciarsi sfuggire qualcuno degli scritti che a me fanno difetto. Il che gioverà a scansare in qualche maniera il malanno del disperdimento della suppellettile libraria economica; poco curata dagli amatori di libri, di solito indifferenti per libri ed opuscoli intesi a discipline reputate noiose e grossamente materiali, epperciò bistrattate dai librai antiquari, ai quali a giusta ragione duole inserire nei loro cataloghi, spendendo da 3 a 5 lire per numero, opuscoli che essi prevedono non saranno da alcuno richiesti. Negli ultimi anni si avverte un inizio di ravvedimento, specie per un qualche modesto aumento nel numero degli amatori di cose economiche esaurite; ma, poiché gli amatori sono pochi, i librai non sono finora stati a bastanza eccitati ad informarsi delle esigenze di questo particolare ramo del loro commercio, a scernere il buono dal mediocre e dal cattivo ed a far prezzi razionali, ossia vantaggiosi, alti o bassi che siano, per essi e per i clienti. Siamo ancora, nel ramo economico, allo stadio dei prezzi fatti a caso, a fiuto, seguendo gli accidenti della persona del cliente e dell’astuzia del mercante. Nessuno, che io sappia, tra i librai antiquari italiani, anche se vantino meravigliose raccolte di fonti bibliografiche, possiede qualcuno tra gli strumenti noti della bibliografia economica. Uno solo era dotto in materia; ma, forestiero e ramingo, suppongo non sarà più qui quando queste pagine verranno in luce[3].

2. – Stavolta, il mio elenco è tutto contenuto in quattro numeri, di cui il quarto fa quasi doppio col terzo:

1. I bilanci del regno di Napoli e degli stati sardi, con note e confronti di A. SCIALOJA, Torino, Società editrice italiana di M. Guigoni, 1857. Un vol. in 8° di pagg. 140 ed una carta per le “correzioni ed aggiunte”. Il libretto, stampato nella tipografia di G. Favale e compagnia, nella copia posseduta da me, non ha indice e non deve averlo avuto mai, se Carlo De Cesare, biografo di Antonio Scialoja (Roma, 1879, pag. 87) lo dice pur egli di 140 pagine. A chiarirne il contenuto, fornisco l’indice dei capi in cui il libretto si divide: I. Nota preliminare e testo dei bilanci (napolitano pel 1856 e sardo pel 1857, discusso il 1856); II. Entrate §: 1, Note generali e confronto complessivo; § 2, Note e confronti speciali; III. Spese: § 1, Note e confronti complessivi; § 2, Note e confronti speciali delle spese: (A) Finanze, (B) Grazia e giustizia, (C) Esteri, (D) Istruzione pubblica, Affari ecclesiastici e Presidenza del Consiglio in Napoli, (E) Interno e polizia, (F) Affari ecclesiastici in Napoli, (G) Lavori pubblici, (H) Guerra e marina; Conclusione. L’opuscolo, introdotto clandestinamente nel regno, fu ivi ricercatissimo, e venne ristampato, a detta del De Cesare, «di soppiatto imitando perfettamente l’edizione torinese… Durante gli anni 1857 e 1858 non si parlò di altro in Napoli e nelle provincie del Regno che dello scritto di Scialoja; il desiderio di leggerlo diventò febbrile in guisa da spendere per l’acquisto di un solo esemplare di esso 6 ducati, equivalenti a 25 lire italiane». Ferdinando II, il quale invano ne aveva interdetta l’introduzione, ordinò che le accuse fossero ad una ad una ribattute. Furono scelti a rispondere monsignor Salzano per la parte ecclesiastica; Federico del Re, Nicola Rocco, Ciro Scotti, Francesco Durelli, Alfonso de Niquesa ed il canonico Caruso per i vari rami dell’amministrazione; Agostino Magliani e Girolamo Scalamandrè per le finanze (così Raffaele De Cesare in Antonio Scialoja. Memorie e documenti, Città di Castello, 1893, pag. 35).

2. Gli errori economici di un opuscolo detto i bilanci del Regno di Napoli e degli Stati sardi, confutato da G. SCALAMANDRÈ (articolo estratto dal giornale «La verità»), Napoli, 1858, Stabilimento tipografico del cav. Gaetano Nobile. Un op. in ottavo di pagg. 74. Lo scritto si divide in tre capi: I: degli errori commessi dall’autore dell’opuscolo, circa il suo stesso intento finale; II: degli errori commessi dall’autore dell’opuscolo ne’ mezzi che pone ad atto per conseguire il suo intento: § 1) gli stati discussi di Napoli e del Piemonte; § 2) Giornale del Regno delle due Sicilie; § 3) collezioni delle leggi del regno; § 4) scrittori economici e scritti apologetici; § 5) informazioni private e criterio dell’autore dell’opuscolo; III: degli errori commessi dal nostro autore nei modi tenuti da lui, per conseguire con i suoi mezzi il suo fine. Conclusione.

3. De la situation financière du royaume des Deux Siciles, par AGOSTINO MAGLIANO, Bruxelles, imprimerie de A. Mathieu et Compagnie, Vieille-Halle-aux Blés, 31, 1858. Un op. in ottavo di pagg. 40. È la traduzione francese della risposta del Magliani pubblicata in Napoli nel 1857 col titolo Della condizione finanziera del regno di Napoli. Non posseggo quest’ultima. Magliani era funzionario del ministero delle finanze e dovette ubbidire all’ordine di scrivere la risposta. Quando nel 1860 lo Scialoja tornò a Napoli e da Garibaldi dittatore fu nominato ministro alle finanze, Carlo De Cesare fu scelto da lui a segretario generale. «Magliani», narra Raffaele De Cesare, «era tuttavia capo di ripartimento nello stesso ministero, e temeva, da un momento all’altro, di esser licenziato dal nuovo ministro, in omaggio alla pubblica opinione, come si diceva allora. Con questa formula, tutta rivoluzionaria, sono stati destituiti migliaia di funzionari d’ogni grado. Mio zio aveva resistito alle insistenze di tutt’i liberali, perché il Magliani fosse destituito egli pure, ritenendolo, quale egli era, persona singolarmente capace. D’altra parte, la sua condotta, durante il periodo costituzionale di Francesco II, era stata correttissima: egli si era subito adagiato al nuovo ordine di cose, tanto che i decreti di maggiore importanza, quelli sui quali conveniva serbare il segreto, erano scritti da lui… Magliani pregò mio zio d’intercedere presso Scialoja, assicurandolo che egli aveva pubblicato il noto opuscolo, non perché ne dividesse le idee, ma perché aveva dovuto ubbidire agli ordini del Re. Scialoja rispose di aver tutto dimenticato; essergli noto il valore del Magliani, desiderare di conoscerlo. In una sera del settembre del 1860, mio zio lo condusse in casa Achard, dove Scialoja abitava. Imbarazzante fu l’incontro da parte del Magliani, il quale appena presentato a Scialoja, gli prese una mano e la baciò ripetutamente, esclamando: Perdonate, Don Antonio. Scialoja rispose che aveva tutto dimenticato; e da quel giorno furono amici, e più tardi colleghi alla Corte dei conti» (RAFFAELE DE CESARE, Antonio Scialoja, cit., pag. 36). Dall’«elenco degli scritti, dei discorsi parlamentari, delle relazioni e progetti di legge di A. Scialoja» contenuto a carte 69-77 dell’opuscolo Per l’inaugurazione del monumento ad Antonio Scialoja avvenuta in Procida addì 11 ottobre 1896, non risulta che lo Scialoja abbia pubblicato alcuna replica alle risposte del Magliani e degli altri suoi critici. Magliani, davvero valente uomo, fu in seguito ripetutamente ministro delle finanze nel regno d’Italia, dal 26 dicembre 1877 al 24 marzo 1878 e dal 19 dicembre 1878 al 14 luglio 1879 con Depretis, dal 25 novembre 1879 al 29 luglio 1887 in successivi gabinetti Cairoli e Depretis, e di nuovo, per breve tempo, dopo il 7 agosto 1887 con Crispi, tenendo a lungo altresì la reggenza del ministero del tesoro. Durante il secondo gabinetto Crispi, nel 1890, ad occasione probabilmente delle elezioni generali indette in quell’autunno per la XVII legislatura e quando forse si temeva da taluno il ritorno del Magliani al ministero, l’ira di parte riesumò l’antica risposta allo Scialoja e questa fu ripubblicata così:

4. La situazione finanziaria del Regno nel 1858 per AGOSTINO MAGLIANI, Roma, Tipografia Ciotola editrice, via del giardino, n. 85-86, 1890. Un opuscolo in 8° di pagg. 29. La ristampa appare, nonostante l’aggiunta erronea della data del 1858 invece di 1857, compiuta sull’originale italiano; ed è preceduta (pagg. 3-6) da un cenno sull’occasione della prima comparsa dello scritto. Agostino Magliani, vi si narra, «mentre ferveva l’opera della unità italiana», mentre Pisacane cadeva a Sapri, incolpava Antonio Scialoja «di esser stato parte del governo rivoluzionario che intendeva a detronizzare “la legittima e gloriosa dinastia dei Borboni” e, rispondendogli qualificava le insurrezioni del 48 e del ’49 “tentativi di distruzione dell’ordine sociale” e derideva la libertà costituzionale, i vantaggi di uno statuto, la cospirazione in pro’ dell’indipendenza nazionale, la guerra che la Lombardia muoveva all’Austria». Mettendo di nuovo sotto gli occhi degli italiani quel che nel 1858 il «presunto restauratore delle finanze italiane» scriveva delle finanze borboniche, i riesumatori della vecchia scrittura volevano dimostrare la scarsa levatura politica di lui: «Oggi Agostino Magliani, in Napoli, parla della situazione finanziaria dell’Italia, paragonabile per tanti rispetti, a quella del Piemonte di allora. E, criticando il fin qui fatto, in cui egli ebbe tanta parte e dubitando dei destini della patria, dà prova dello stesso accorgimento politico con cui nel 1858 giudicava salda e secura la monarchia di Ferdinando II proprio la vigilia della sua rovina».

3.- Il dibattito fra lo Scialoja ed il Magliani – lo scritto dello Scalamandré merita ricordo quasi soltanto per taluna ingenua sua difesa del segreto nei conti pubblici e della finanza parsimoniosa dei Borboni – è memorabile non tanto per la analisi concreta delle entrate e spese borboniche confrontate a quelle sarde, quanto per i problemi fondamentali che furono allora posti. Sarebbe in verità tempo che, senza rifar processi, fossero studiate accuratamente le finanze borboniche dal 1815 al l860, meglio di quel che oggi possa farsi sulle monche e contrastanti notizie che si leggono, oltrecché nei tre opuscoli citati, nelle opere del Rotondo, del Bianchini, del Dias, del Colletta, del Palmeri, e nei bilanci e relazioni ufficiali a stampa di quel tempo. Stupisce l’ignoranza pressoché compiuta nella quale siamo ancora oggi rispetto a fatti recenti, sui quali probabilmente è possibile gittare piena luce, sol che si voglia durar la fatica di cercare negli archivi napoletani documenti contabili, dei quali si sa essere stati compilati in parecchie copie e queste sottoposte a consessi delegati a discuterli e ad approvarli. Sinché qualche studioso, fastidito dal prender parte alle ripetute dispute intorno ai caratteri, ai fini ed al contenuto della cosidetta scienza delle finanze, non si sia deciso ad impiegare qualche anno della sua vita allo scopo di darci un quadro preciso della finanza napoletana del tempo del risorgimento, sarebbe presuntuoso farsi giudice dei fatti nella controversia Scialoja-Magliani. Scialoja annaspava nel vuoto del segreto ufficiale, e da notizie frammentarie traeva deduzioni logiche, integrate da ipotesi plausibili intorno a fatti che egli in parte conosceva per esperienza personale. Magliani e Scalamandrè ai dati in parte ipotetici e tratti da bilanci preventivi non opponevano i dati certi dei conti consuntivi; ma si industriavano a dimostrare che lo Scialoja aveva errato nell’interpretare le notizie da lui possedute o nell’assumere come effettivi i dati che erano di mera previsione. L’imbarazzata reticenza dei difensori del Borbone dimostra che essi non volevano o non potevano palesare fatti dei quali pur avevano notizia o che il principe non aveva voluto rammostrare ad essi compiutamente la situazione reale delle finanze napoletane.

4. – Per ora, dunque, l’interesse della disputa sta nei principii i quali venivano posti a contrasto dall’antico ministro costituzionale di Napoli, fatto esule in Piemonte e chiamato ad insegnare economia politica nella università di Torino ed il funzionario borbonico, destinato a diventar ministro delle finanze del Re d’Italia.

5. – Dei quali principii, è preliminare quello della pubblicità dei documenti finanziarii. Oggi, che in Italia si informa il pubblico in volumi particolareggiatissimi, la disputa appare anacronistica; ma giova ad intendere il passato.

«Questi stati – aveva subito detto lo Scialoja – che in Napoli diconsi discussi, quantunque non siano sottoposti ad alcuna specie di discussione, sono preparati dai ministri ed approvati dal Re, ma rimangono del tutto segreti» (pagg. 4-5).

Agli apologisti della finanza borbonica i quali dicevano «misérable effronterie» il paragone fra «le desastre économique du Piémont, avec la finance napolitaine, dont l’assiette est un model d’administration et de prosperità» lo Scialoja chiedeva:

«Se i numeri e i fatti stanno per voi, perché temere il confronto?… Non è mia la colpa se la statistica ed il raziocinio sono due nemici indomabili di coloro che amano il segreto e l’apparenza» (pag. 6).

«La via più semplice per mostrare alla gente qual è lo stato delle sue finanze, dovrebbe essere pel governo napoletano quella ch’è tenuta da tutti i governi civili del mondo, cioè la pubblicazione annuale de’ documenti autentici. Invece esso solo in Europa non pubblica né bilanci né conti. Il governo romano, il cui segreto in fatto di finanze era una volta per lo meno pari a quello del santufficio, pubblica ogni anno e gli uni e gli altri, dal 1848 in poi. Il santufficio finanziario è rimasto in Napoli solamente» (pag. 18).

«È specioso che il governo di Napoli monti in furia, se non s’indicano con precisione le somme delle sue entrate e delle sue spese, mentre che esso non pubblica né bilanci né resoconti» (pag. 34).

6.- Lo Scalamandrè finge di credere che la richiesta della pubblicità si ristringa a quella della stampa:

«[Lo Scialoja] ragiona di segreti e di cose occulte: segreti i bilanci finanziarii di Napoli, segreti i resoconti della tesoreria generale. Segreti; cioè poiché non si stampano. Del rimanente sono di continuo in giro senza riserva, ed in un gran numero di copie per tutte le pubbliche officine, per i ministeri di stato, e per tutte le dipendenze loro. Le loro cifre sommarie sono anche stampate ora nel Giornale del regno, ed ora nella Collezione delle leggi. Sono registrati, esaminati, discussi, approvati, eseguiti, o sommessi a censura dalle autorità, o da collegi competenti. Che altro si vuole? Si vuole che siano stampati! Ma quando egli è certo, che il governo ponga la più sedula cura nel cauto impiego del danaro pubblico; quando è indubitabile che le condizioni della finanza fanno documento assai onorevole della diligenza e della solerzia del governo, perché non abbia esso interesse alcuno a volerle mantenere occulte; quando infin la grave spesa di tante stampe, in nulla sarebbe giovevole agli usi delle amministrazioni pubbliche, né aumenterebbe il numero dei privati leggitori, parrebbe che bene di tale spesa potesse farsi risparmio. Pur si vuole che gli stati discussi almeno fossero stampati; come furono stampati tutto quell’anno 1847 applicato all’anno 1848, e parte quello del 1849! Deh! che mai fossero stati posti a stampa questi bilanci, se altro servigio non dovevano rendere al mondo, tranne quello di somministrare all’A. la materia e il pretesto di tanti errori! Sì che colui, che dette opera o consiglio alla pubblicazione suddetta, dovrebbe, come l’eroe di Cervantes fece nel suo testamento “dimandar da sua parte con ogni affetto possibile perdono all’A., per la occasione ch’ei gli dette (senza pensarlo) di scrivere tanti e sì grandi spropositi”» (pagg. 60-61).

Stupisce ancora che lo Scialoja affermi che i bilanci napoletani non siano stati sottoposti ad alcuna specie di discussione:

«.. e qui si dee intendere di quelle specie di discussioni, le quali si fanno nel parlamento piemontese. Pure, a nostro credere, a niuno è lecito (e massime ad un economista napoletano) ignorare che gli stati del Tapia, a cagion di esempio, i quali di molti anni precedettero la nascita di detto parlamento, potevano senza meraviglia di chi che fosse portare l’appellazione di discussi, solo per essere distribuiti in due parti, delle quali l’una, ch’era l’entrata, andava controposta all’altra, ch’era l’uscita» (pag. 24).

Dove lo Scialoja avrebbe ben potuto replicare che nessuno era tenuto a conoscere le parole del gergo amministrativo usate negli uffici napoletani; né, a tacere dei grandi dizionari della lingua italiana in genere, il Rezasco, il quale pur nel Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo tocca degli usi della parola “stato” in senso di bilancio preventivo, non fa cenno in proposito dell’aggettivo “discusso”.

7. – Assai più abilmente il Magliani:

«Ma gli atti governativi che regolano l’andamento dell’amministrazione finanziaria non sono tutti pubblicati nella uffiziale Collezione delle leggi? I conti della tesoreria generale e di tutte le amministrazioni finanziarie (tra i quali di somma importanza sono quelli del Gran libro del debito pubblico, e della Cassa di ammortizzazione) non si discutono con la pubblicità di un solenne giudizio da un apposito magistrato che è la Gran Corte dei conti nelle camere contabili i cui arresti sono esecutivi e non soggetti all’approvazione del governo? Se la pubblicità non può essere richiesta che come guarentigia della retta e ben ordinata amministrazione; ove sono più forme e maggiori guarentigie per la esattezza e regolarità delle disposizioni e dell’uso del pubblico danaro di quelle stabilite nelle leggi fondamentali del sistema amministrativo del Regno delle due Sicilie? E gli stati discussi si discutono ripetutamente e ponderatamente. Ciascun ministro ne prepara gli elementi per la spesa dei servizi pubblici dipendenti dal suo dicastero. Il ministro delle finanze disamina, controlla, discute i bilanci delle spese di tutti i ministeri, e prepara gli elementi del bilancio generale degl’introiti dello stato. Segue la disamina del Consiglio dei ministri, e quella, da ultimo, del Consiglio di stato, presieduta dalla persona augusta del Re. Queste forme prescritte dal diritto pubblico del regno sono scrupolosamente osservate. Esse presentano tutti i vantaggi che una discussione calma, illuminata e scevra di qualunque altra preoccupazione, che al pubblico bene non si riferisca, ha sopra una discussione agitata dalle passioni de’ partiti e non diretta da quella necessaria unità di principii e di scopo, ch’è essenziale condizione degli atti governativi. Chi ignora inoltre che, essendo norma direttrice di tutto l’andamento della gestione finanziaria, e delle operazioni segnatamente della tesoreria generale, hanno tutta questa maggiore pubblicità che è compatibile per la natura stessa delle cose con gli atti della pubblica amministrazione? O vorrà forse intendersi che ivi sia Santufficio (secondo l’elegante frase dell’opuscolo) ove non è rumor di partiti e pubblicità di gazzette? D’altronde la posizione della finanza napoletana non potrebbe essere un mistero per chicchessia. Tale è il suo credito da per tutto che solo da una certa e diretta cognizione delle cose e dei fatti può essere ispirato» (pagg. 13-14 dell’edizione del 1890).

La replica era ovvia: non disputarsi dell’onestà nel maneggio del pubblico danaro, ma del diritto, affermato in Piemonte e negato in Napoli, dei cittadini contribuenti a conoscere i particolari delle entrate e spese pubbliche, a farsene chiarire le ragioni dai magistrati a ciò delegati, e ad aver voce nel fissare la somma e le specie dello spendere e del tassare.

8. – La discussione pubblica dei bilanci avrebbe giovato al governo napoletano rispetto a quelle branche della amministrazione, nelle quali eccelleva. Lo Scialoja, confrontando, non dubita di preferire Napoli a Torino per quanto riguarda giudici e tribunali. A Torino, lo stato spende di più perché i giudici sono molti, sebbene peggio pagati: da 1660 a 2700 lire all’anno il giudice provinciale in Piemonte, contro 4050 lire pel giudice di tribunale civile in Napoli; da 3500 a 7000 lire il giudice piemontese d’appello contro 6750 ad 8100 lire il corrispondente giudice napoletano di gran corte civile; 8000 lire il giudice piemontese di cassazione, contro 11.250 il giudice napoletano della corte suprema; 15 e 18 mila lire i rispettivi presidenti; e la superiorità del trattamento napoletano in confronto a quello piemontese è maggiore di quella risultante dal mero confronto delle cifre, poiché i prezzi delle cose sono a Napoli più bassi che a Torino.

«Il numero totale dei tribunali e dei giudici è maggiore in Piemonte che in Napoli; e gli stipendi sono inferiori. Or se io avessi a pronunciare un mio giudizio su questo particolare, direi francamente che non tengo per la opinione di coloro i quali preferiscono un gran numero di tribunali e di giudici poco retribuiti, a pochi tribunali e pochi giudici ben pagati. La giustizia, fino a che sarà renduta da ufficiali nominati dal potere esecutivo, avrà d’uopo d’essere confortata dall’autorità personale dei giudicanti, la quale non è conceduta al numero, ma sì alle doti intellettuali e morali de’ giudici. Gli uomini veramente autorevoli, sotto questo duplice aspetto, non abbondano, né la società ha diritto di richiedere che si sobbarchino ad un penoso incarico, se non assicura loro di che vivere agiatamente essi e le loro famiglie» (pagg. 77-78).

La magistratura napoletana non si piegò facilmente al volere del borbone:

«Ben vorrei che vi fossero al mondo molte contrade in cui non essendo giudici inamovibili, né altra garanzia di sorta, non riuscisse al potere esecutivo di rinvenire poche decine di partigiani o di rinnegati politici disposti non solo a secondarlo quando esso inferocisce contro un partito vinto, ma sì ad oltrepassare le sue intenzioni, siccome suole avvenire. Or poche decine di uomini di tal risma bastano a formare la maggioranza né soli tribunali criminali del regno ove occorre; e l’esperienza ha già più volte mostrato che il governo napolitano in tempi di reazione non ha potuto conseguire l’intento di radunare questo numero non grande di giudici politici se non dopo destituzioni, esili, incarceramenti di molti altri che o gli resistettero o fecero contro il suo volere» (pag. 80).

9. – Gli ordini napoletani erano altresì commendevoli per quanto toccava l’insegnamento privato. Sebbene un decreto del 1821 incaricasse i gesuiti di proporre «un metodo uniforme d’insegnamento per tutti i collegi, licei e scuole private»,

«ciò non ostante dal 1830 in poi erano poco a poco risorte le antiche usanze, e scuole private assai numerose non erano soggette né a programmi ufficiali, né a partizione prestabilita di materie e di corsi. Misure uniformi e norme compassate che se in pratica non perdessero di efficacia, riuscirebbero a tarpare le ali a’ maestri, uccidere di noia i discepoli, ed impappagallare, per quanto è possibile, gli uni e gli altri. L’insegnamento liberato da tant’impacci o non foss’altro meno regolato colle seste offrirebbe ad ingegni di diversa tempera precettori e metodi convenienti alle forze ed all’indole loro: e questo è certo uno de’ principali buoni effetti che derivano dalla libertà, la quale non esclude ogni regola, ma ripugna agli ostacoli ed alle panie» (pagg. 88-89).

«Rispetto alle scuole superiori private in Napoli, oso affermare che devesi ad esse non solamente la istruzione d’una parte della classe media più elevata, a dispetto degli ostacoli politici che vi si oppongono, ma benanche quella specie di movimento scientifico che si avverte nel regno e che non si avrà mai là dove il monopolio dell’insegnamento fa del sistema degli insegnanti un domma universale in tutto lo Stato, sicché colui che se ne diparte è guardato come un eretico.

In Napoli, quando la polizia non è del tutto dominata dallo spirito delle tenebre, sicché l’antica consuetudine risorge e l’insegnamento privato è facilmente permesso, vedi l’uno accanto all’altro professori che insegnano diversi sistemi e con diversi metodi; e tra questi professori sono uomini eminenti e uomini mediocri. Al banchetto della scienza possono in tal modo sedere giovani ingegni di gusto e di attitudine diversa, e ciascuno uscire convenientemente nutrito. Ed oltracciò dalle scuole comincia quella varietà di studi e di opinioni la cui lotta è vita della scienza, e condizione del suo incremento. Escludetela, e voi convertirete il sapere umano in una specie di religione, tanto più intollerabile e presuntuosa per quanto vi ha più parte l’intelletto e meno il cuore. La varietà delle scuole, de’ metodi e de’ sistemi sveglia le menti, amplia l’intelligenza, e rinvigorisce gl’ingegni. Essa fa di Napoli, ad onta de’ più gravi ostacoli, un semenzaio di professori sì pel resto d’Italia, e sì per l’estero: ve ne ha in Toscana, in Lombardia, in Piemonte, nelle isole Jonie, nella Svizzera, da per tutto.

Il governo è persuaso che questa tradizionale concorrenza privata nell’insegnamento superiore, radicata oramai ne’ costumi del popolo, romperà sempre il disegno d’ispirare a suo modo la gioventù per mezzo di professori universitari da lui prescelti; e però ne’ tempi di reazione le scuole private sono arbitrariamente chiuse, o non permesse ad altri che a professori di fiducia del governo. Anzi, se mal non mi appongo, uno de’ principali motivi della espulsione degli studenti dalla capitale, fatta non ha guari, ha dovuto essere l’impedire il loro contatto con uomini abili ad insegnar loro le scienze filosofiche e sociali, le quali in Napoli più che altrove, sebbene di soppiatto e tra mille pericoli, sono da pochi, ma profondamente studiate» (pagg. 90-91).

10. – Scialoja spiega altresì, giustamente lodando la legislazione napoletana, come il frutto delle tasse di bollo e registro sia minore in Napoli che in Piemonte:

«Nel banco delle due Sicilie è una istituzione tutta speciale e che merita d’essere menzionata: essa preesisteva all’ordinamento attuale, ed era comune a ciascuno dei sette banchi ch’erano in Napoli il secolo scorso, e i quali fecero buona prova sino a che il governo non ne abusò per suoi fini. Secondo questa istituzione colui che deposita il suo danaro al banco ne riceve un titolo detto fede di credito, trasferibile per girata e rimborsabile a vista, ovvero acquista il diritto di caricare sulla cassa del banco speciali mandati, detti polizze notate, sino alla concorrenza del deposito attestato da una madrefede. Nelle girate delle fedi o delle polizze notate può scrivere la causa del pagamento ch’egli intende di fare col loro valore, ed anche se gli piace un intero contratto che ha una relazione qualunque col pagamento ch’effettua. E perché queste fedi e queste polizze possono farsi di poche grana (anche di 10 ch’equivalgono a circa 9 soldi) si suole approfittarne in ogni specie di convenzione, ove è facilissimo innestare un pagamento così lieve, ed in ogni specie di quitanze, massime colà dove non è nelle leggi civili quell’articolo assai improvvido e molesto che leggesi nel nostro [piemontese] codice, e pel quale le quitanze di obbligazioni contratte con istrumenti sono nulle, se non vengono fatte colle medesime solennità. Que’ polizzini o quelle fedi si mandano tosto a cambiare al banco, e se ne fa copia, che si rilascia nelle mani dell’altro contraente. Il banco ha un registro, in cui trascrive simili contratti, e conserva in filze gli originali. In capo a qualunque spazio di tempo, si può chiederne un estratto, il quale fa piena fede e costa poche grana per la copia, più il prezzo di un foglio di carta bollata ed il registro di un tarì. Questi estratti si dimandano nel solo caso che siavi contestazione giudiziaria sulla convenzione o sulla sua data. Nella città di Napoli specialmente non vi è quasi un solo affitto, o una ricevuta di pagamento, o un contratto di compra vendita di cose mobili, che non sia scritto su fedi di credito o polizze notate. Ciascun proprietario del pari che ciascun commerciante è provveduto di piccoli polizzini per distendervi sopra di simili atti. È facile ad intendere come questa istituzione, che dà gratuitamente a ciascuno la facoltà di avere, per così dire, il notaio in saccoccia, scemi l’entrata del bollo e del registro» (pagg. 58-59).

11. La lode data ai particolari istituti napoletani rafforza il biasimo per i principii informatori del sistema tributario napoletano. Troppa essere la predilezione per le imposte sui consumi e sommo il timore di scontentare i ceti medi con le imposte sulle professioni, sui commerci e sulle industrie, a cui Gioacchino Murat durante il suo regno aveva dato inizio istituendo imposte personali e sulle patenti:

«I Borboni di Napoli, per ingraziarsi ne’ popoli loro soggetti, abolirono i tributi personali e lasciarono sussistere l’enorme dazio di più di 10 milioni sul consumo della sola capitale, dove la plebe, disputando il terreno palmo a palmo all’esercito francese, si era mostrata tanto ligia alla loro dinastia. Anche in Piemonte il conte d’Agliano nel riprendere il possesso della Savoia, nel 1814, annunziava a nome del restaurato Vittorio, che sarebbero abolite le tasse di successione e di patente; e nel 1815 riducevasi a metà l’imposta personale, ristretta anche di vantaggio nel 1818. Ingannaronsi forse questi re restaurati? No; l’assolutismo ha una specie d’intuito della propria utilità immediata, e rare volte s’inganna» (pag. 48).

Repugnano dappertutto i popoli alle imposte sui redditi. In Piemonte

«pagansi senza lamenti 13 milioni pel monopolio del tabacco, e si levano alto le grida contro la mobiliare, la personale, la tassa delle patenti ed i canoni gabellari, che insieme sommati rendono appena 13 milioni lordi. Epperciò anche in Piemonte “aspettando che (le moltitudini) ragionino e adoperandosi perché ragionino presto, bisogna però tener conto che non ragionano ancora”» (pag. 49).

Se dunque giova usar prudenza nell’istituire imposte moleste ai capitalisti, ai commercianti ed agli industriali, la mancanza d’ogni tributo sembra tuttavia allo Scialoja testimonianza di debolezza nel governo borbonico.

«Il commercio è di sua natura … querulo. Esso è parte nelle mani di stranieri, che ad eccezione di pochi generosi, sono contenti di qualunque governo e gli fan plauso, quando non pagano, e parte in quelle d’una classe di nazionali che, per vero dire, è la più indifferente alle libertà politiche, ma che forse si sveglierebbe dalla sua sonnolenza se avesse a pagare. Se non altro i suoi abiti di tornaconto le farebbero dimandare: “perché paghiamo, e che uso è fatto delle somme che paghiamo?…”. Quanto alle professioni dotte, egli è certo che in nessun altro paese d’Italia sono retribuite meglio che in Napoli, e però in nessun altro potrebbero più agevolmente tollerare una imposta. Ma coloro che sono in continuo contatto col resto della popolazione, il medico, l’avvocato, l’architetto, ecc. che hanno su di essa un certo ascendente e che rappresentano, direi quasi, lo spirito della classe media, si teme di colpirli con imposizioni dirette. Cotesta gente si ha paura di toccarla come se fosse un vespaio. Oltre che quella parte della classe media, che ha per capitale l’ingegno, paga volentieri ne’ governi liberi, ov’essa può molto ed è chiamata a dominare pel suo sapere. Ma sotto un governo assoluto essa è con ragione la più riottosa, e la più temuta: già s’intende ch’essa è pure la più odiata da chi governa» (pag. 51).

12. – Magliani piglia di fronte arditamente la concezione di Scialoja: perché istituire imposte non necessarie, le quali sarebbero dannose?

«È grave quanto vera la sentenza del Montesquieu “che non bisogna togliere nulla al popolo su’ suoi bisogni reali per bisogni immaginarii dello Stato. Bisogni immaginarii sono quelli che vengono suscitati dalle passioni di coloro che governano, dall’ambizione di una vana gloria, e da una certa impotenza di spirito contro la fantasia”» (pag. 26).

Fa d’uopo spendere bene il pubblico danaro.

«Accrescere la forza produttiva della finanza col diminuire le gravezze dei sudditi, e col mantenere indiminuite le spese di tutti i servizi dello stato; ecco lo scopo dell’amministrazione finanziaria del governo del re delle Due Sicilie. Esso è nobile e generoso e degno di essere imitato» (pag. 22).

13. – Ribatte lo Scialoja: è vero, il governo napoletano spende meno di quello piemontese. Sia il divario da 14 a 28 lire per abitante, come affermano i suoi zelatori, ovvero da 21 a 26, come dovrebbe correggersi, sta di fatto che il fisco borbonico ha la mano più lieve di quello piemontese. Ma:

«se fossero chiamati tutti gl’italiani a comizio per eleggere tra il governo sardo coi suoi debiti e le sue imposte o il napolitano, non dirò già con minori debiti e con minori imposte, ma senza imposte e senza debiti, non vedo che sarebbe dubbio per alcuno il risultamento del suffragio» (pag. 13).

Piaceva ai laudatori del governo napolitano confrontare i 630 milioni del debito pubblico piemontese, cresciuto nel 1857 a somma così spaventosa dai 95 milioni del 1847, coi pochi 420 milioni di lire, ai quali il debito napoletano era stato ridotto, in regno tanto più vasto e popoloso. Rispondeva Scialoja: essere il debito napoletano dovuto alle spese di occupazione di soldatesche straniere accorse nel regno a ristabilire o difendere la dinastia; ed invece quello piemontese alle guerre del 1848 e 1849 volte alla indipendenza d’Italia dallo straniero ed alle opere pubbliche intese a crescere la potenza economica del paese. Laddove a Napoli la sola ferrovia esistente era quasi un gingillo di corte, a Torino: la gran rete di vie ferrate, di cui le principali maglie si vanno di mano in mano formando sul territorio sardo, dove sono già in esercizio o in costruzione 902 chilometri di ferrovie, rende sempre più necessaria la costruzione di strade secondarie; e quindi più considerevole la spesa delle provincie per la loro costruzione e manutenzione. Ma questa spesa è compensata con usura da’ benefizi economici che se ne ritraggono. In questo come in tutti gli altri casi, in cui si tratta di spese, cadesi in sofismi grossolani, se dal confronto delle somme vuole indursi argomento di lode per chi spende meno, e di censura per chi spende più. Le spese maggiori pei lavori pubblici, quando sono destinate ad opere utili, lungi dall’essere prova di prodigalità sono indizio di prudenza; perciocché veramente non sono spese, ma investimento di valori di capitali, che per essere di pubblico uso, sono fruttiferi per tutti.

14.- La chiusa dell’atto d’accusa di Scialoja è solenne: chiaro appare dal

«confronto tra i due sistemi finanziari, che il governo piemontese sebbene spenda più del governo precedente, e più ancora spendano le amministrazioni locali per reazione al passato che fu o troppo misero o troppo negligente nel provvedere a certe spese, pure il governo più assoluto che siavi oggi in Europa, quello di Napoli, non ispenda meno per conto dello stato e non faccia spender meno ai comuni, se non in quelle cose che tornano profittevoli all’avanzamento della civiltà.

Il Piemonte faceva prova de’ nuovi ordinamenti tra le maggiori contrarietà: dopo una sconfitta ed a dispetto del vincitore, sotto le maledizioni di Roma, circondato da sospetti e da gelosie in Italia, tentato dal mal esempio di tutta Europa, al quale resistette la fede intemerata d’un principe che abborre dallo spergiuro e fa dell’onore nazionale una seconda religione: e di giunta afflitto da carestie ed altre distrette economiche di cui gli effetti riuscirono gravissimi per la novità di riforme di fresco compiute, e per l’eccitamento commerciale che ne era seguito.

Ciò non ostante il Piemonte guerreggia, sede in congressi; e governanti e governati vi tengono levata la fronte: mentre in Napoli gli oppressi gemono, gli oppressori temono; e sono dalle irreparabili conseguenze del mal governo ridotti gli uni alla impotenza di correggerlo e gli altri alla impossibilità di abbandonare il presente sistema di arbitrio e di corruzione» (pagg. 139-140).

Forse non esiste documento storico il quale possa essere a maggior ragione ricordato dai teorici della finanza a sostegno della tesi che le imposte gravano sui popoli solo quando sono estorte da governi oppressori ritornati sulla punta delle baionette straniere, come era il governo borbonico; laddove, se sono esatte da governi nazionali e volte a beneficio universale, benché le nude cifre paiano dure, in effetto quelle imposte crescono ricchezza e potenza ai popoli medesimi.



[1] Col titolo dato alla presente nota (Viaggio tra i miei libri), in «la riforma sociale» 1935, quaderno del marzo-aprile, pagg. 227-243, e in questo libro, pagg. 3-26.

[2] In appendice all’articolo Il peccato originale e la teoria della classe eletta in Federico Le Play, in «Rivista di storia economica», quaderno del giugno 1936, e in questo libro, pagg. 329-343.

[3] W. Prager sopravvisse alla persecuzione anti-ebraica e pubblica in Roma dotti ed istruttivi cataloghi in materie economiche e giuridiche, sebbene offerti a prezzi insolitamente alti per il mercato italiano. Prezzi emulati dal dott. Enrico Vigevani, il quale provveduto anch’egli di buona suppellettile bibliografica, apprezza i libri da lui offerti nel catalogo della libreria Il Polifilo in Milano in guisa non dissimile dai grandi librai antiquari specialisti in cose economiche di Parigi, Londra e New York [Nota del 1952].

Vanità dei titoli di studio

Vanità dei titoli di studio

Scritti di sociologia e politica in onore di Luigi Sturzo, Zanichelli, Bologna, 1953, pp. 115-125[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 549-556

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 905-912

Scritti di Luigi Einaudi nel centenario della nascita, Sansoni, Firenze, 1975, pp. 69-77

Giuliana Limiti, Il presidente professore: Luigi Einaudi al Quirinale, Luni, Milano-Trento, 2001, pp. 177-185

 

 

 

 

Ho l’impressione che alla costituente si corra, in materia di scuola, dietro alle parole invece che alla sostanza. Tutti vogliono la libertà dell’insegnamento; e tutti sono parimenti d’accordo nell’affermare la necessità degli esami di stato, quando si debbono rilasciare diplomi di laurea, di licenza, di abilitazione alle professioni ecc. ecc. Ma libertà di insegnamento ed esami di stato sono concetti incompatibili. Esame di stato vuol dire programma, vuol dire interrogazioni prestabilite su materie obbligatorie; vuol dire certificato rilasciato, da uomini investiti legalmente di un pubblico ufficio, in nome di una determinata autorità pubblica, detta stato, certificato il quale attesta che il tale ha subito certi dati e non altri esami su certe materie prestabilite in regolamenti emanati da quella certa autorità; ed è, per aver subito quelle pubbliche prove, dichiarato atto ad esercitare questa o quella professione, od essere ammesso in dati impieghi presso la stessa od altre pubbliche autorità; ad esclusione di chi non sia proprietario di analogo certificato o diploma o licenza od abilitazione.

 

 

Come può supporsi che, dato il punto di partenza, tutte le scuole, pubbliche e private, statali e municipali e consorziali, laiche e religiose, tradizionali o rivoluzionarie non si esemplino sul tipo conforme alle esigenze dell’esame di stato? Avremo ancora dei seminari; od i seminari non si trasformeranno in ginnasi e licei, con programma identico a quello delle scuole statali, chiamate con quel nome?

 

 

Finché non sarà tolto qualsiasi valore legale ai certificati rilasciati da ogni ordine di scuole, dalle elementari alle universitarie, noi non avremo mai libertà di insegnamento; avremo insegnanti occupati a ficcare nella testa degli scolari il massimo numero di quelle nozioni sulle quali potrà cadere l’interrogazione al momento degli esami di stato. Nozioni e non idee; appiccicature mnemoniche e non eccitamenti alla curiosità scientifica ed alla formazione morale dell’individuo.

 

 

Sono vissuto per quasi mezzo secolo nella scuola; ed ho imparato che quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza valgono meno della carta su cui sono scritti. Per alcuni vogliamo giungere al 10 per cento dei portatori di diplomi? il giovane vale assai di più di quel che sta scritto sul pezzo di carta od, almeno, del pregio che l’opinione pubblica vi attribuisce; ma “legalmente” l’un pezzo di carta è simile ad ogni altro e la loro contemplazione non giova a chi deve fare una scelta tra coloro che offrono se stessi agli impieghi ed alle professioni.

 

 

A qual fine dunque lo stato si affanna a mettere sui diplomi un timbro ufficiale privo di qualsiasi effettivo valore? Il più ovvio e primo effetto è quello di trarre in inganno i diplomati medesimi; inducendoli a credere che, grazie a quel pezzo di carta, essi hanno acquistato il diritto od una ragionevole aspettativa ad ottenere un posto che li elevi al disopra degli addetti alle fatiche manuali dei campi o delle officine. L’inganno dà ragione di quel piccolo germe di verità che è contenuto nelle querimonie universali intorno al crescente ed eccessivo numero degli studenti medi ed universitari. Querimonie assurde; ché tutti dovremmo augurarci cresca sino al massimo – intendendo per “massimo” la “totalità” dei giovani viventi in un paese ed in età di apprendere, ad eccezione soltanto degli invincibilmente stupidi, e dei deliberatamente restii ad ogni studio – il numero di coloro i quali giungano ad assolvere quegli studi medi od universitari, ai quali dalle loro attitudini essi sono fatti adatti. Che danno verrebbe al nostro paese se gli studenti universitari invece di essere meno di duecento mila, giungessero al milione? Dovremmo, è vero, sopportare un costo grandioso di edifici, di laboratori, di biblioteche; dovremmo formare un corpo adatto di insegnanti. Opera non di anni, ma di decenni. Quando si giungesse alla meta, il paese non sarebbe forse maggiormente prospero dal punto di vista economico, e più sano e gagliardo dal punto di vista morale e sociale? Un popolo di uomini istruiti non val di più di un popolo di ignoranti? Un popolo di lavoratori tecnicamente capaci non val di più di un popolo di manovali? Il danno non sta nei molti, nei moltissimi studenti; sta nell’inganno perpetrato contro di essi, lasciando credere che il pezzo di carta dia diritto a qualcosa; e cioè, nell’opinione universale, all’impiego pubblico sicuro od alla professione tranquilla.

 

 

Il valore legale dei diplomi dà luogo, ancora, ad un altro inganno e questo contro la società. Esso eccita le invidie e gli egoismi professionali. L’ingegnere, a causa di quel diritto a dirsi “ing. dott.”, si reputa dappiù del geometra; ed ambi sono collegati contro i periti agrari. I dottori in scienze commerciali sono in arme contro i ragionieri; ed amendue contro gli avvocati. Dottori in legge, avvocati e procuratori combattono lotte omeriche gli uni contro gli altri. Chi ha detto che gli esempi scolastici delle contese dei ciabattini contro i calzolai, degli stipettai contro i falegnami, e di questi contro i carpentieri sono roba anacronistica, ricordi medievali? Si calunnia atrocemente il medio evo quando lo si fa responsabile dell’irrigidimento corporativo, che fu invece opera dei governi detti assoluti dei secoli XVII e XVIII; ma le battaglie dei secoli più oscuri del corporativismo assolutistico parranno scaramucce in confronto a quelle che si profilano sull’orizzonte dei tempi nostri. Dare un valore legale al diploma di ragioniere, vuol dire che soltanto all’insignito di quel diploma è lecito compiere taluni lavori ragionieristici e nessun altro può attendervi; ed egli a sua volta non può fare cosa che è privilegio del dottore in scienze commerciali o dell’avvocato. Quelle dei secoli XVII e XVIII erano idee atte a rovinare le finanze delle arti dei calzolai e dei ciabattini; ma, pur creando posizioni monopolistiche, non riuscivano ad impedire del tutto l’opera logoratrice dei non iscritti. Ché gli stati assoluti dei secoli scorsi disponevano, per farsi obbedire, di armi di gran lunga meno efficaci di quelle che sono proprie degli stati moderni; e dove non giungeva saltuariamente il dragone a cavallo, ivi prosperavano quei che non avevano diritto di dirsi né ciabattini né calzolai. Oggi, la potestà pubblica giunge in ogni dove; ed i magistrati hanno molta maggiore autorità per far rispettare, come è loro dovere, la legge. Anche la legge iniqua, la quale, creando diplomi ed attribuendo ad essi valore legale, condanna alla geenna della disoccupazione coloro che, essendone sforniti, non possono attentarsi a compiere il lavoro che essi sarebbero pur capacissimi di compiere, ma è privilegio del diplomato.

 

 

Forse l’unico impiego al quale possa aspirare in Italia l'”uomo nudo”, è quello di professore di università. Se ben ricordo, persino l’aspirante ad una cattedra straordinaria deve dar prova di possedere qualche pezzo di carta dottorale o di libera docenza; epperciò ordinariamente i concorsi universitari sono aperti per cattedre straordinarie; e quale sarebbe oggi lo stupore dei giudici di un concorso per cattedra ordinaria nel vedersi innanzi l’uomo nudo?

 

 

Fra i tanti diplomi, uno ve n’ha il quale è particolarmente pestifero: quello di “dottore”; dottore in qualsiasi cosa, purché dottore. L’Italia sta diventando un paese di dottori. Un tempo, nei ministeri, tutti erano commendatori, od al minimo cavalieri. Ora che questi titoli paiono disusati, tutti sono dottori. Siamo il solo paese nel mondo nel quale paia indecente interpellare una qualunque persona col titolo di “signore”. Tanti anni fa, forse più di trent’anni fa, scrissi invano un articolo dal titolo Torniamo al signore! Persino in Francia, dove le rosette della Legion d’onore sono di rito all’occhiello della giacca, tutti si interpellano col “monsieur”; ed il presidente della repubblica è anche lui un semplice “signor presidente”. In Italia, pareva indecoroso non essere neppure un’eccellenza, o un commendatore, od un cavaliere. Non si usava ancora dare, nel discorrere, del grande ufficiale, del gran croce, del cavaliere ufficiale, sembrando queste parole difficilmente pronunciabili, ma ci si sarebbe arrivati. Oggi, bisogna preoccuparsi della moltiplicazione dei “dottori”. Dovrebbe essere, il titolo di “dottore”, uno dei più alti che possano essere attribuiti ad un uomo. Ricordo che, ad occasione dell’unico viaggio da me compiuto, nel 1926, attraverso le università degli Stati Uniti, fu d’uopo di provvedermi di biglietti da visita, di cui ero privo. Il funzionario della fondazione Rockefeller, della quale ero ospite, rimase incerto fra quelli di senatore e professore, che mi sarebbe spettati; ma alla fine scelse il titolo di “doctor“. Non banfai, lieto che si desse così alta opinione comparativa del nostro titolo dottorale. Un giorno ad Oxford, mi compiacqui nel vedere che i “dottori” di quell’Università, anche se non insegnanti, avevano il passo sui professori.

 

 

Fa d’uopo restituire al titolo dottorale la dignità che è sua; riservandolo a chi sia dottore sul serio e cioè capace di insegnare agli altri la scienza nella quale è stato proclamato dottore. Dottore sia soltanto colui il quale, parecchi anni dopo avere compiuto il corso degli studi universitari – direi dopo dieci anni, ma per le facili passate abitudini nostre, ci si potrebbe acconciare ai cinque – dimostri, con una dissertazione a lungo preparata e studiata, di meritare di salire sulla cattedra nella quale chiede di essere addottorato. Dopo cinque anni, chiederà il dottorato soltanto colui che, col fatto, dimostrerà di amare sul serio la scienza.

 

 

Gli altri pezzi di carta, rilasciati alla fine degli studi medi od universitari, conferiscano i titoli di licenziato, diplomato, baccelliere, maestro, perito e simili. Titoli innocui e, perché impronunciabili nel comune commercio umano, inadatti ad aizzare la mania nostrana delle titolature verbali.

 

 

Scuole ed università, pubbliche e private, rilascino certificati e diplomi a lor piacimento, con la sola riserva del dottorato a cinque anni dopo la fine degli studi universitari. Certificati, diplomi e dottorati avranno quel solo valore che gli insigniti sapranno meritarsi.

 

 

Come impediremo, si obietterà, il moltiplicarsi di scuole ed università inesistenti e di titoli fasulli? Evitiamo, è ovvio rispondere, forse oggi il moltiplicarsi di titoli fasulli? Ahi! no; colla beffa, per giunta, di dare ad essi, col timbro statale, un valore legale ingannatore.

 

 

Contro i titoli fasulli, odierni e futuri, pare esista un solo rimedio: quello di fare obbligo a tutti coloro i quali si fregiano di un qualsiasi titolo – dottore, diplomato, licenziato, perito, ingegnere, avvocato, geometra, ragioniere, ecc. ecc. – di far seguire – sulle carte da visita e da lettere, sulle sopracarte, sui fogli di avviso o sui documenti d’ufficio, sulle targhe apposte al portone di casa ed all’uscio dell’ufficio e dovunque compaia la menzione del titolato al proprio nome, cognome e titolo l’indicazione, tra parentesi, della scuola o facoltà universitaria che ha rilasciato il diploma. Così:

 

 

Avv. Giovanni Ferraro (dott. legge – Univ. Roma o Perugia o Torino od Urbino, 1943)

 

ovvero:

 

Geom. Pietro Altavilla (Istit. tec. Sommeiller, Torino, 1940)

 

Gli effetti dell’obbligo sarebbero parecchi e tutti benefici:

 

 

  • procacciar lode alla scuola od università dalla quale è stato diplomato il professionista, il quale ha poscia dato buona prova di sé;

 

  • procacciar biasimo alla scuola od università da cui è uscito il professionista dimostratosi poi asino nell’esercizio della sua arte;

 

  • eccitare scuole ed università ad essere severe nella concessione di titoli; sì che le lodi abbiano ad oscurare i biasimi. È umano che i collegi insegnanti commettano, nel conceder diplomi, una tollerabile percentuale di errori; ma si eviterebbe la concorrenza nella rilassatezza negli esami, inconsapevolmente determinata dal timore di perdere studenti a pro degli istituti concorrenti di manica larga;

 

  • incoraggiare l’afflusso degli studenti alle scuole ed università con fama di severità. Invece che al diploma facile si aspirerebbe al diploma difficile a conseguire; e perciò reputato atto a favorire la carriera professionale;

 

  • diradare l’afflusso alle scuole e alle università dei giovani ambiziosi solo di procacciarsi posti dovuti non ai propri meriti, ma alla fallace impostura di un titolo malamente carpito.

 

 

I quali tutti risultati benefici suppongono che i diplomi siano apprezzati nei concorsi pubblici, nelle preferenze dei clienti, nella estimazione universale non per un valore legale, in se stesso nullo; ma per il valore morale che gli insigniti sappiano coll’opera propria conquistare o conservare.

 

 

Solo così sarà instaurata la libertà della scuola. Aboliti i programmi; lasciata libertà ad insegnanti, direttori, presidi e rettori di governare a loro posta gli istituti ad essi affidati; gli scolari medi ed universitari andranno in cerca della scuola migliore, aspireranno al diploma che, privo di valore legale, attesterà quel che l’opinione comune penserà della serietà dell’insegnamento, della disciplina degli studi propria dell’istituto dove il diploma fu conseguito.

 

 

E gli esami di stato che tutti sono concordi a vedere sanciti nella costituzione? Chi chiederà impieghi od uffici allo stato o ad altri enti pubblici, darà prova di sé e del valore effettivo dei diplomi suoi in pubblici esami di concorso. Chi vorrà essere abilitato all’esercizio di una professione, come quella medica, pericolosa per la vita altrui, si assoggetterà ad un esame detto di stato, che sarà formale per i diplomati di scuole severe e rigido per i presentatori di titoli dubbi. E direi che basti. Del valore degli altri diplomati unico giudice è il cliente; e questi sia libero di rivolgersi, se a lui così piaccia, al geometra invece che all’ingegnere; e libero di far meno di amendue se i loro servigi non paiano di valore uguale alle tariffe scritte oggi in decreti atti soltanto a creare monopoli e privilegi, a crescere artificiosamente il costo delle prestazioni professionali ed a moltiplicare le schiere dei paria disoccupati ed esclusi dal pane e dal fuoco.



[1] Con il titolo La libertà della scuola [ndr].

Telegrammi ad Achille Marazza e a Ivan Matteo Lombardo. La soddisfazione di Einaudi per le giornate milanesi. Telegrammi ai presidenti delle Mostre del Caravaggio e della Triennale

Telegrammi ad Achille Marazza e a Ivan Matteo Lombardo. La soddisfazione di Einaudi per le giornate milanesi. Telegrammi ai presidenti delle Mostre del Caravaggio e della Triennale

«Corriere della Sera», 12 giugno 1951

La scienza economica. Reminiscenze

Cinquant’anni di vita intellettuale italiana (1896/1946). Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario , a cura di C. Antoni e R. Mattioli, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1950, pp 293-316

Sentii fare la prima volta il nome di Benedetto Croce, credo, nel 1894 quando frequentavo, studente forse non ancora ventenne, il Laboratorio di economia politica dell’ateneo torinese, istituito pochi mesi prima, verso la fine del 1893, da Salvatore Cognetti de Martiis, maestro a noi tutti di rigore nell’uso delle fonti e di probità scientifica. Ho l’impressione che Luigi Albertini attizzasse il fuoco nella stufa ed io lo coadiuvassi per proteggerci alla meglio dal freddo in quelle due stanzette volte a tramontana e poste sul vuoto dei sottostanti portici di via Po. Jannaccone resisteva composto e signorile all’aria fredda che entrava dai neri atrii del misterioso convento di S. Francesco di Paola, dove Bizzozero aveva laboratorio e Lombroso esaminava e palpava delinquenti professionali, i quali in cambio di una lira si rassegnavano a diventare materia sperimentale di insegnamento dinnanzi a studenti beffardi ma attentissimi. Accadde un giorno che il discorso tra professore e studenti cadesse su un nome di cui nessuno sapeva nulla; ma poiché lo si presumeva oriundo del «Regno», Cognetti concluse: «scriverò a Croce». Imparammo allora che Benedetto Croce era un giovane studioso napoletano, salito già, tra taluni iniziati, in fama di erudito meraviglioso ed infallibile. Poi lo rividi, e me lo ricordò egli stesso recentemente, nel 1899, ed egli che tiene diario preziosissimo potrebbe precisare la data, sempre a Torino, portatomi da Emanuele Sella nello squallido ufficio della redazione della Gazzetta Piemontese, da poco mutatasi in Stampa, dove allora attendevo alla cucina del giornale.

Da allora in poi, il nome e il pensiero di Benedetto Croce non poterono mai più essere ignorati da me, come da nessun altro economista e in realtà da nessun italiano fornito di qualche desiderio di apprendere. Ma la azione specifica di Croce su quel che gli economisti andarono scrivendo nel mezzo secolo volto dal 1895 al 1945 credo sia stata massimamente una: di trattenerci dallo sconfinare o dallo sconfinar troppo nei campi affini a quello economico. Dinnanzi alla critica corrosiva crociana delle facili grossolane interpretazioni materialistiche della storia e delle generalizzazioni sociologiche, parecchi economisti cominciarono a dubitare e taluni si vergognarono di porre in carta contaminazioni immature fra realtà economica e ragionamento astratto, fra storia e teoria. Non fu quella per vero la sola influenza che salvò gli economisti dal cadere nella imitazione, in peggio, della scuola storica tedesca in economia, ché moriva nel 1896 Luigi Cossa, l’uomo che tutto sapeva e tutto classificava pur non avendo alcuna attitudine creativa e Cossa aveva indirizzato i suoi allievi, valorosi taluni, come Gobbi, Supino, Loria, Alberti, Graziani, Fornari a scrivere storie di teorie, che se non erano sempre costruttive, non deformavano la materia studiata ed erano compilate con scrupolosa cura di indagine diretta sulle fonti e di riassunti precisi, ai quali ancor oggi si ricorre.

Tuttavia il pericolo di un salto dall’erudizione pura alla interpretazione economistica delle teorie e dei fatti era imminente. Moriva fisicamente solo nel 1900, ma era morto da anni alla scienza l’economista italiano principe del secolo scorso Francesco Ferrara e lasciava pochi selvaggi allievi: Todde, Pinna-Ferrà, Reymond, mancato questi da un quarto di secolo alla luce dell’intelligenza, talché noi a Torino ignoravamo fosse tuttora vivo. Solo e battagliero sopravviveva a Bologna Tullio Martello; ma sebbene i suoi scritti scintillanti contro lo economicismo storicistico ed il darwinismo sociale cadessero come colpi di maglio su materia friabile, egli appariva un isolato. Nessuno osava più dire, per paura di cadere nelle grinfie stritolatrici di Martello, che non si dovessero far teorie, e ci si dovesse limitare ad accumulare fatti, da cui col tempo, dopo generazioni di archiviatori, qualcuno avrebbe estratto qualche verità sicura. Il filologismo economico era sepolto; ma minacciava il pericolo opposto: del prepotere dell’economismo storico, della interpretazione di tutta la realtà, della realtà umana attraverso ipotesi o premesse economiche. Un economista veramente singolare, che Luigi Cossa a ragione aveva definito «a nessuno inferiore per ingegno, superiore a tutti nell’originalità ed a molti in dottrina», Achille Loria, aveva scritto libri su ”la popolazione ed il sistema sociale“ e sull’Analisi della proprietà capitalista, i quali avevano affascinato i giovani. Chi non sia vissuto in quegli anni tra il 1890 ed il 1900, non può apprezzare abbastanza il peso che quei libri ebbero nel foggiare l’abito mentale di studio degli economisti di quella generazione. I più non sapevano distinguere fra le pagine di analisi teorica raffinata, in cui Loria eccelleva, e l’edificio interpretativo del mondo in cui quelle pagine erano sommerse. La terra libera era divenuto il motivo centrale della storia umana. Capitalismo; schiavitù, lavoro salariato erano le conseguenze fatali della scomparsa progressiva della terra liberamente appoderabile dall’uomo, e nessun fatto politico, morale o religioso pareva sottrarsi all’impero della pressione della popolazione crescente sulla terra. La reazione venne da Antonio Labriola e da Benedetto Croce; ed a poco a poco, fatti timorosi di una recensione del filosofo napoletano, gli economisti cessarono di impicciarsi di cose non pertinenti al loro campo specifico.

Un’altra volta il pericolo della deviazione sorse sull’orizzonte; e fu quando un altro economista, forse il maggiore di tutti, Vilfredo Pareto, stanco di meditare sui terreni fondamentali della scienza pura e disperato di non potere fare in questa un passo decisivo oltre la meta già raggiunta, si volse alla sociologia e sperò di costruire su basi da lui dette sperimentali una scienza della società tanto rigorosa come quella astratta economica che egli aveva portato a così grande altezza. Invano Croce lo aveva ammonito:

«Voi certo vi meraviglierete se vi dirò che il dissenso tra noi consiste nel voler voi introdurre nella scienza economica un presupposto metafisico, laddove io voglio escludere ogni presupposto metafisico e tenermi alla sola analisi del fatto. L’accusa di metafisico, vi sembra quella che meno di ogni altra possa colpirvi. Pure il vostro latente presupposto metafisico è che i fatti della attività dell’uomo siano della stessa natura dei fatti fisici; che per gli uni come per gli altri noi non possiamo se non osservare regolarità e dedurre da queste regolarità conseguenze, senza penetrare l’intima natura; che questi fatti siano tutti egualmente fenomeni… In qual modo giustificherete voi questo presupposto se non con una metafisica umanistica?»

Il Pareto non badò al Croce e scrisse il Trattato di sociologia generale, applicando allo studio delle leggi le quali governano le società umane un metodo di classificazione in tipi e sottotipi, più o meno ricchi dell’istinto delle combinazioni e della persistenza degli aggregati, profondamente repugnante a chi sia fornito di quel minimo di istinto storico, grazie a cui non si riesce a comprendere come un avvenimento sia simile ad un altro, e le vicende umane si ripetano identiche e si è invece costretti a studiare quell‘uomo, quelle istituzioni aventi certi nomi simili ma operanti per lo più in maniere differentissime. Di nuovo, il Croce persuase i superbi a chinar la testa, ad esitare dinnanzi alle generalizzazioni. Oggi, chi in Italia persegua studi di storia economica, si mette in sospetto non appena abbia sentore di una tesi classificatoria o definitoria posta a fondamento dell’indagine, di una macchinetta pronta a spiegare il divenire degli avvenimenti ed a libri di cotal fatta antepone persino le briciole erudite di chi si contenta di riprodurre documenti e raccoglie notizie sicure intorno a fatti municipali. Il che chiaramente non basta; ed ogni storico deve possedere nel cervello uno strumento mentale atto a comprendere gli uomini e gli avvenimenti di cui descrive; ma lo strumento, qualunque sia, deve essere atto a valutare azioni di uomini vivi e pensanti e non a classificarli in gruppi quasi fossero piante o sassi od animali. Perciò noi oggi non crediamo negli schemi di Sombart ed apprezziamo invece, con diritto di dissenso, i saggi in cui Armando Sapori o Gino Luzzatto analizzano quei tali banchieri fiorentini o quei mercanti veneziani di quel secolo e Prato e Pugliese ci fanno entrare nel vivo dei problemi economici del Piemonte nel secolo XVIII e della prima metà del novecento.

Gli economisti lettori della Critica di Croce hanno anche imparato che il loro compito specifico non è di interpretare “economicamente”, gli avvenimenti storici, sì invece di usare, insieme ai noti strumenti di interpretazione e di critica dei documenti e delle fonti, lo strumento specifico loro proprio che è la conoscenza dell’indole propria dei fatti economici. Qualunque sia il giudizio che ciascuno di noi voglia dare delle ricostruzioni storiche di Carlo Marx, bisogna riconoscere – cosa che non accade quasi mai per i suoi seguaci – che egli conosceva a fondo la scienza economica del tempo suo; e che in materia di moneta, di banche, di prezzi, di salari, di interesse era ferrato quanto e più dei migliori ricardiani suoi contemporanei. Gli economisti italiani che hanno scritto storie di fatti o storie di idee hanno evitato nell’ultimo quarantennio di costruire schemi, tipi, classificazioni e simiglianti cattive filosofie; procurando invece di ricostruire il significato e la sequenza degli avvenimenti e degli istituti alla luce di quelle teorie economiche, le quali sono state elaborate fin qui appunto allo scopo di interpretare i fatti della vita quotidiana.

Cosa diversissima questa da quegli intrugli nei quali lo scrittore, narrando fatti politici o militari o civili o religiosi, ficca ogni tanto nel discorso una spiegazione detta economica, ridotta in verità alla osservazione che le tali vicende accaddero o i tali provvedimenti furono applicati per il prepotere od il potere di forze economiche, dette capitalismo, monopolio fondiario, capitale finanziario o monetario, dove nessun nesso è dimostrato tra vicende o provvedimenti e quel potere o prepotere e la sola cosa certa è che lo scrittore non sa nulla del contenuto delle parole astratte misteriose da lui adoperate.

I più degli economisti italiani tuttavia non si preoccuparono di scrivere di storia né economica né politica; ma attesero a teorizzare. Non so se tutti, nel teorizzare, si siano ricordati del monito di Croce: «Risparmiatevi la pena di filosofare. Calcolate e non pensate». Non potevano in tutto ubbidire al monito, perché la filosofia utilitaristica si era insinuata, quasi spontaneamente, nel corpo delle loro dottrine per la coincidenza storica del primo grande fiorire della scienza economica, con Adamo Smith e Davide Ricardo, e dell’insegnamento di Geremia Bentham, fontana prima ed abbondantissima di ogni utilitarismo. L’economia fu sin dal principio una maniera di calcolo della convenienza; e il Bentham aveva fornito ai suoi lettori una miniera inesauribile di calcoli e confronti fra piaceri e dolori, fra vantaggi individuali e vantaggi collettivi in confronto dei quali impallidiscono le analisi più sottili e più eleganti dei Pigou e dei Wicksteed.

Ma più che una filosofia, quella era una veste, un linguaggio comodo per esporre ragionamenti i quali avrebbero potuto essere espressi senza far cenno di utilità e di disutilità, di piacere e di dolore. Poco prima che si iniziasse il mezzo secolo dominato dal pensiero di Croce, Maffeo Pantaleoni aveva pubblicato (1889) quei Principii di economia pura, i quali sono un calcolo filato dalla prima all’ultima pagina. Anche se egli non avesse scritto, in testa al prezioso gioiello, che egli intendeva dedurre sistematicamente tutta la dottrina economica dall’ipotesi edonistica e l’avesse dedotta invece esclusivamente dall’ipotesi, ad es., della convenienza di ottenere un dato risultato col minimo mezzo o di superare un dato ostacolo col minimo sforzo, il suo sarebbe sempre stato un gioiello di logica. Da lui massimamente, e metto lui prima di Pareto, sia perché egli venne prima nell’arringo teorico, sia perché egli, tuttoché si professasse minore e quasi allievo dell’altro grande, era in verità il maestro di tutti, fu dimostrato che la scienza economica altro non è che una logica. Se vi fosse chi sfrondasse i Principii della veste utilitaristica, si vedrebbe che essi altro non sono se non un moderno Euclide economico; su cui dovrebbero macerarsi i giovani per imparare a ragionar chiaramente nei fatti della vita quotidiana. Come vedeva chiaro, lui, il maestro! Più che reverenza, incuteva soggezione, la soggezione di chi sente il pericolo di incappare inavvedutamente in un sillogismo mal costrutto e di essere fulmineamente messo a posto. Quanti vani schemi non furono distrutti da Pantaleoni: dalla contrapposizione fra impresa capitalistica ed impresa cooperativa alla distinzione classificatoria fra produzione e scambio! Nessuno, che io sappia, osò mai più rilevare dalle ceneri il fantasma teorico da lui disperso di una impresa cooperativa diversa dall’impresa senza aggettivi. Rimangono entusiasmi, affetti, altruismi, spirito di corpo o di mestiere che spiegano perché certi operai o consumatori abbiano iniziato e condotto avanti l’impresa detta cooperativa, sì e come altri impulsi, non sempre di lucro, spesso di ambizione, di orgoglio, di prepotente bisogno di comando spiegano perché altri abbia iniziato e condotto ad alta meta od a rovina l’impresa detta capitalistica; ma qualunque siano le passioni umane che spiegano l’origine dell’impresa, questa, una volta fondata, ubbidisce alle medesime regole e va incontro alle medesime vicende, sia che essa sia detta capitalistica o cooperativa; né è possibile immaginare alcun criterio di distinzione fra il socio di una cooperativa ed il caratista od azionista di una impresa ordinaria. E nessuno oggi scrivendo trattati, tornerebbe a distinguere fra produzione e scambio della ricchezza; ché parrebbe di vedersi interrompere dall’ombra di Pantaleoni con la domanda:

«Che cosa sono entrambi se non un riparto di un bene fra più usi? … L’individuo che produce lotta con la natura, precisamente come l’uomo che scambia lotta con il suo compratore o venditore. Entrambi rinunziano a taluni beni, per es. a capitali o al riposo, ovvero fanno degli sforzi, offrendo servigi personali, per conseguire altri beni di cui non dispongono, o di cui vogliono accresciuta la disponibilità … Il dubbio che vi possa essere una distinzione da tener ferma tra il caso della produzione e il caso dello scambio non può versare sulla legittimità di assimilare il secondo permutante alla natura. Un secondo permutante avrebbe necessariamente una tabella di utilità marginale; dunque, pure, una curva di domanda e di offerta desunta da essa; ma dove mai sta quella della natura? Ebbene, non ci dice forse la natura – con i fatti e con l’esito dei vostri esperimenti – che essa vi fornisce quantità diverse di prodotto, per es. di grano, in funzione della quantità di capitale e lavoro, che voi impiegate e in ragione dei vostri metodi tecnici, cioè dell’ordine nel quale le darete a consumare i vostri fattori di produzione, precisamente così come fosse un individuo di cui vogliate rendere massima la soddisfazione, in conformità del suo modo di intenderla? … La natura detta i propri prezzi e che essa abbia motivi per stabilirli nella misura che presceglie o non ne abbia, non ha nulla a che vedere con il nostro problema.»

Così era Pantaleoni; l’uomo degli accostamenti, che sulle prime appaiono paradossali, ma poi persuadono che voi non avevate pensato o ragionato a bastanza e che le distinzioni schematiche accettate per abitudine debbono essere rivedute, quando esse non spiegano i fatti. Il paradosso fioriva sulla penna di Pantaleoni; e fu ritenuto tale da tutti il principio da lui enunciato nella famosa prolusione ginevrina della inesistenza della distinzione delle scuole in economia politica e della loro riduzione nelle due di coloro che la sanno e di quelli che non la sanno. Il paradosso era spiegabile per l’impazienza che si prova sempre nel vedere i profani – e profani sono la maggior parte di coloro che tengono cattedra sui giornali o coprono cariche pubbliche – vantarsi ridicolmente di formare scuola quando ripetono errori vecchissimi e per il fastidio che ingenera la lettura di storia delle dottrine, dove sono messe alla pari e dichiarate ugualmente conformi alle esigenze dei tempi dottrine le quali hanno condotto alla formazione della scienza attuale e dottrine anche allora infeconde perché incapaci di analizzare la realtà. Quel che veramente volle dire Pantaleoni si deduce dalla lettura dei Principii, dove ad ogni teorema o corollario o lemma da lui dimostrato egli appose il nome dell’economista che l’aveva primamente enunciato; e sola vera, ma difficilissima, storia della scienza sarebbe quella di chi dalla esposizione dello stato attuale della scienza risalisse via via nel tempo alle formulazioni meno perfette o approssimative o parziali; ed in questa analisi dichiarasse come l’errore medesimo abbia contribuito, per via del contrasto provocato, a eccitare alla scoperta della verità ed al suo successivo perfezionamento. Ed è esasperante oggi, così come era allora per Pantaleoni, vedere come invece di simiglianti riduzioni dalle imperfette teorie passate alle meno imperfette dottrine moderne si assista per lo più a due maniere erronee di scrivere storie di dogmi: l’una delle quali tratta alla stessa stregua le dottrine feconde e quelle caduche perché dichiarate amendue conformi all’indole dei tempi, alle istituzioni vigenti ed alle credenze degli uomini; ma di ciò non si dà la più minima dimostrazione, e l’altra tutte le copre di fango, affermando che i teorici sono i sicofanti degli interessi dominanti e foggiano dottrine alla stregua di chi ha il potere economico o politico; dimenticando che essendo la economica una scienza astratta di puro calcolo o ragionamento, chi ha la testa ben costrutta, ha anche l’obbligo morale di ragionar bene e che se al comandamento morale egli non ubbidisce, altri vi sarà certamente il quale dimostrerà la fallacia del ragionamento e renderà inutile la fatica del servo.

Pantaleoni il teorico guardava con sospetto ai dottrinari i quali passavano con incoscienza leggera dalla speculazione astratta alla applicazione dei teoremi ai casi concreti della vita reale. Profondamente consapevole delle limitazioni della scienza pura entro le premesse poste al ragionamento, ammoniva chi ne usciva:

«Parlare di distribuzione di ricchezza e limitare in pratica la discussione, come il più delle volte fanno gli economisti, ai fenomeni di scambio, senza curare l’eredità, le leggi della proprietà, e sui trasferimenti di essa, senza curare rapporti di status già esistenti da tempo e quelli di nuova formazione, senza studiare la guerra, la tassazione, i furti, le truffe, non è questo forse un viziare tutto l’argomento in tal modo da rendere possibile la costruzione di qualsiasi teoria del tutto arbitraria?»

Perciò, quando volle andare al di là della prima approssimazione astratta, Pantaleoni scrisse quel Saggio sulla caduta del Credito mobiliare che resterà il documento insuperato nella letteratura economica contemporanea di quel che possa fruttare il ragionamento economico in mano di chi, prima di concludere, volle conoscere uomini, affari, operazioni, bilanci, copialettere, segreti di una grande banca lungo tutta una vita accidentata di fortune e di insuccessi; volle pesare e confrontare uomini economici e uomini vivi, indagarne i sentimenti, le passioni, le insidie e gli odii; tutte cose non comprese nella fondamentale premessa economica edonisticamente formulata o, se compresa, bisognosa di una urgente interpretazione caso per caso. Pantaleoni che nella vita quotidiana si lasciava incantare ed imbrogliare non di rado da lestofanti, intuiva però bene i moventi delle azioni economiche degli uomini; epperciò scrisse la Caduta, che è il suo capolavoro.

Pareto non scrisse alcun capolavoro dello stesso genere. Gli mancava all’uopo la pazienza della critica del fatto singolo; strana mancanza in lui, per molti anni ingegnere minerario in Toscana ed abituato a risolvere problemi minimi di tecnica e di amministrazioni di imprese economiche. Forse appunto il fastidio del continuare, prima nelle horae subsecivae consentitegli dalla professione e poi negli ozi accademici del lago lemano, ad occuparsi delle cose piccole, lo predispose per ragion di contrasto alla contemplazione dei problemi generali, in cui egli divenne maestro sommo. Ai problemi minuti guardava con una certa estraneità, sicché quasi egli appare indifferente ai materiali da lui assunti a riprova delle sue dimostrazioni teoriche; e l’indifferenza cresce col tempo, sì da diventare nell’ultimo periodo della sua vita quasi disprezzo, come quando nella Sociologia sembra mettere sullo stesso piano Platone, Aristotile, Machiavelli ed il qualunque ritaglio di un giornale qualunque il quale riferisse un fatto o fatterello non appurato che facesse in sul momento comodo alla tesi da lui sostenuta; ma quando si appassionò ai fatti ed ai dati, diede e dà ancor da fare agli indagatori di tutto il mondo. Quando Pareto, essendogli capitate tra mani, per averle curiosamente cercate, assai serie relative alla distribuzione dei redditi in diversi paesi ed in epoche differenti, le sottopose a calcolo e ne trasse una equazione, divenuta subito celeberrima, dalla quale si deduceva che, nonostante le differenze stragrandi di tempo, di costumi, di costituzione politica e sociale, la curva dei redditi era suppergiù sempre la stessa, la scoperta parve l’uovo di Colombo; ma sta di fatto che quella scoperta fu ben sua; e che a negarla, a qualificarla, a limitarla, ad arricchirla si adoperano ancor oggi studiosi pertinaci di tutti i paesi del mondo; e ciascuno vorrebbe aggiungere il suo nome a quello dell’uomo di genio che intuì ed espose la prima formulazione della legge della curva dei redditi. Ma quella legge è detta Pareto’s law nel linguaggio universale e con quel nome sarà conosciuta per un pezzo.

La pubblicazione a Losanna del Cours d’économie politique e quella in Italia del Manuale che cosa aggiungono alla scienza? Walras ci aveva già parlato di un equilibrio generale; ma il suo metodo di dimostrazione appariva lento, faticoso e nella attraente precisione dei capitoli sistematici ordinati talvolta faceva perdere di vista l’idea generale; e chi dai principii di economia pura passava a grado a grado, come l’autore voleva, ai saggi di economia applicata e di economia sociale, quasi dubitava di trovarsi dinnanzi ad uno dei tanti programmisti economici o riformatori sociali, di cui la razza non è destinata a spegnersi mai. Programmista e riformatore di alta classe era Walras; e fu il vero creatore della teoria dell’equilibrio economico generale. Ma Pareto, chiamato da Walras a succedergli, presto lo superò nella nettezza del quadro e nello splendore della concezione. Dopo di lui le parole ed i concetti di equilibrio generale, di interdipendenza fra i fenomeni economici, di scelta fra gusti ed ostacoli hanno acquistato diritto di cittadinanza nella letteratura economica. A poco a poco Pareto si spogliò, nelle indagini teoriche economiche, di tutte le sue predilezioni anteriori. Cessò perfino di combattere la battaglia liberistica, che lo aveva veduto campione fierissimo in Italia. Divenne il puro pensatore, il signore della scienza, che di balza in balza cerca di portare il suo pensiero alla vetta suprema dove gli uomini quasi non si vedono più come tali, con le loro bassezze e le loro virtù, gli egoismi e gli slanci generosi, le avidità di lucro e la prontezza alla rinuncia. Di lassù, gli uomini sono visti come forze elementari, le quali tendono a soddisfare i loro gusti sormontando ostacoli; ed ogni movimento di ognuna di quelle minime forze o molecole elementari del mondo economico condiziona ed è condizionato dai movimenti analoghi di migliaia e di milioni di altre forze o molecole elementari, di cui ognuna cerca il suo luogo ottimo. Ognuno fa scelte e manifesta preferenze; e le scelte di ognuno agiscono sulle scelte e sulle preferenze di ogni altro; ed ogni avvenimento che muti in un punto qualunque del firmamento economico l’equilibrio provvisorio faticosamente raggiunto, turba nel tempo stesso l’equilibrio generale di tutti gli altri punti del firmamento; così come fa una pietra gittata in uno stagno, quando il moto originato dal gitto via via si allarga attenuato sino ai margini estremi dello stagno e poi ritorna su se stesso sino all’origine e lentamente per flussi e riflussi successivi sempre minori conduce di nuovo la superficie stagnante alla immobilità. Se nello stagno il nuovo equilibrio è quasi in tutto eguale all’equilibrio precedente, ciò non accade mai nel mondo economico: nel frattempo sono mutate le forze o molecole elementari operanti e cioè il numero degli uomini ed i loro gusti; le invenzioni hanno mutato la natura degli ostacoli; le posizioni raggiunte durante lo sforzo di cercare il luogo ottimo hanno fatto sì che il luogo ottimo prima desiderato più non paia preferibile e si segue altra via e si girano ed affrontano altrimenti gli ostacoli. Sicché oggi, anche l’idea dell’equilibrio generale economico ci appare insufficiente e, se un significato può darsi al travaglio della economia post-paretiana, parmi consista nella constatazione che la ricerca delle leggi le quali reggono l’equilibrio economico generale non soddisfa perché il mondo economico è un susseguirsi non di situazioni che almeno per un attimo dovrebbero concepirsi come in stato di equilibrio, di tranquillità, di stasi, ma un susseguirsi di sforzi per raggiungere un equilibrio che non si raggiunge mai, perché lo stesso sforzo iniziale ha mutato le posizioni reciproche delle forze elementari in cerca del luogo ottimo per modo che, durante il moto, occorre mutar posizione e cercare di toccare una meta diversa da quella primitiva; e così senza tregua e senza fine. Per altra via e su un terreno puramente intellettualistico e contemplativo Pareto sarebbe così stato logicamente condotto alla medesima conclusione alla quale sono giunti gli indagatori delle azioni umane nel campo morale e politico: nessuna conquista è mai definitiva; nessun ideale può essere conseguito sicuramente e stabilmente. Non esiste un modo per garantire la libertà spirituale e politica od economica dell’uomo; poiché la vita è conquista perenne ed ogni giorno si perdono i valori antichi e se ne debbono conquistare dei nuovi.

Se agli occhi dei cultori della nuova teoria economica dinamica, la teoria dell’equilibrio economico generale appaia superata, pur nella concezione di equilibrii successivi, quanto fu fecondo l’impulso dato dal Pareto all’avanzamento dell’economia pura! Il suo quadro, imperniato sul concetto dell’equilibrio generale e della interdipendenza fra tutti i fenomeni economici, era grandioso e faceva esclamare a Pantaleoni, il quale pure non osò o non volle inoltrarsi su quella via e rimase attaccato allo studio degli equilibrii parziali, in campi definiti, meglio atti ad essere scavati in profondità, che l’amico suo era «uomo di tale calibro che la sua opera segna un’altra pietra miliare nella storia del progresso della scienza». Ben pochi osarono seguire in Italia l’esempio del Pareto e dal magnifico quadro di prima approssimazione progredire, sempre attenendosi allo studio dell’equilibrio generale, verso le seconde e le terze approssimazioni più vicine alla complessa realtà; e nessuno perfezionò quel quadro. Di fatto, a causa delle difficoltà umanamente insuperabili di risolvere le troppo numerose equazioni che si devono porre in ragione del numero delle incognite esistenti nella realtà anche semplificata del mondo economico, tutti si voltarono allo studio di problemi speciali, postulando il coeteris paribus di tutte le altre circostanze e la variazione di un solo fattore. Ma rimase nella mente di tutti l’ammonimento: ricordatevi che la verità del teorema a cui giungerete è limitata e precaria. Limitata dalla premessa del coeteris paribus, e precaria perché lo stesso movimento, che voi avrete constatato, muterà siffattamente le “altre” circostanze originarie, che neanche l’introduzione nel ragionamento di queste basterebbe a condurre ad illazioni sicure.

L’ammonimento non fu inutile; ché se dopo la grande fioritura del 1890-1910 la scienza economica italiana non poté più vantare il primato che allora aveva conquistato, e lo scettro passò alternativamente, agli svedesi, ai neo austriaci, ai cambridgiani ed agli economisti di Harvard, di Columbia e di Chicago, un primato rimase agli italiani: quello dell’eleganza; intendendosi per eleganza il rigore logico della dimostrazione, l’inventiva nello scegliere i problemi, l’arte usata nella raccolta dei dati ed il paziente ricamo attorno ad un problema teorico apparentemente semplice in modo che a tutti appaia alla fine che esso è invece complicato e di incerta e forse impossibile soluzione. Duole di non potere, in questo ricordare a mente e quasi a caso letture passate, rendere giustizia a tanti anzi a tutti; ma come non porre in primo piano l’eleganza squisita del tentativo di Antonio De Viti De Marco di metter ordine nella selva confusa delle nozioni che si esponevano a proposito della cosiddetta scienza delle finanze?

Nessuno schema dura per sempre ma quello immaginato da De Viti di trasportare nel campo della economia pubblica le due ipotesi della concorrenza e del monopolio che nella economia privata erano servite ad ordinare chiaramente e spiegare tanti fatti, era senza dubbio elegantissimo. Ai due punti estremi, da un lato l’ipotesi dello stato monopolistico, nel quale imposte e spese pubbliche sono ordinate allo scopo di procacciare il massimo guadagno a prò del capo o gruppo dominante e la restituzione ai soggetti di parte delle imposte sotto forma di servizi pubblici è limitata al minimo necessario per estrarre il massimo di imposte e per non oltrepassare col malgoverno il punto oltre il quale nasce la rivolta, pericolosa al potere del dominante; dall’altro lato l’ipotesi dello stato corporativo, nel quale l’ordinamento finanziario mira allo scopo di procacciare, col minimo di sacrificio per i contribuenti, quel risultato che ai cittadini liberamente legiferanti a mezzo dei loro delegati piaccia di reputare vantaggioso. La quale seconda ipotesi il Fasiani distinse recentemente in due sotto ipotesi; che se interpretate bene consistono in ciò che il risultato può essere voluto perché vantaggioso ai singoli componenti la collettività, almeno nella loro maggioranza, ovvero è volto al vantaggio della collettività come tale, astrazion fatta dagli individui che la compongono.

Elegantissimo Enrico Barone, che fu prodigio di prontezza nell’assimilare e nel semplificare e se non fosse stato distratto da occupazioni diverse, da quella di colonnello di stato maggiore all’altra di inventore e compilatore di trame per films da cinematografo e se non fosse stato tanto impaziente nel rifinire le cose sue, avrebbe lasciato ben maggior traccia di sé. Che cosa più mirabile si vide mai in Italia della rapidità colla quale Barone traduceva in diagrammi semplicissimi, ridotti all’evidenza euclidea, ragionamenti e problemi economici? I suoi Principii rimarranno per un pezzo modelli di chiarezza non inferiori a quelli che imparammo a gustare nell’Alphabet e nel Common Sense di Wicksteed. Quando, in anni recenti, si volle a Londra raccogliere in una silloge taluni saggi atti a porre il problema dei problemi della teoria pura di un’economia collettivistica, vi ebbe meritato posto d’onore il saggio, ahimé non finito, di Barone su Il Ministro della produzione nello stato collettivista nel quale si dimostrava che, ove il governante si proponga di conseguire il massimo di soddisfazione per la collettività, si perviene alla determinazione delle stesse quantità economiche (prezzi, quantità prodotte e scambiate ecc.) che si avrebbero in un’economia di libera concorrenza. La premessa dell’“ove il governante si proponga…” era lecita, sebbene sia difficile di definire il massimo di soddisfazione per una collettività e sebbene sia certo che nessun governante, fornito del potere di decisione in tal materia, si proponga di conseguire un massimo identico a quello che si proporrebbero i governati; ma, essendo lecita, giovò ad annullare da un lato ed a chiarire dall’altro la distinzione fra economia di mercato in ipotesi di concorrenza perfetta ed economia collettivistica nell’ipotesi di libera scelta da parte dei consumatori.

Altrettanto impaziente delle rifiniture è Attilio Cabiati, del quale importa ricordare il fervore di ammirazione e di seguito di cui fu sempre circondato dai suoi studenti, principalmente a Genova, per la aperta professione, in tempi tristi, della verità, professione che gli valse la cacciata dalla cattedra, con onore suo e disdoro dei persecutori. Forse fu il solo che particolarmente usò lo strumento dell’equilibrio generale nella trattazione di problemi particolari come quelli della moneta e del commercio internazionale. Cabiati pensa sempre i movimenti dell’oro e dei capitali, i cambi, gli arbitraggi in termini di equilibrio e non vorrei mai essere stato oggetto del sorriso di scherno beffardo col quale egli usava buttare nell’immondezzaio discorsi di politicanti e articoli di “esperti” che non tenessero conto della interdipendenza dei fattori economici nella determinazione dell’equilibrio negli scambi internazionali. Riconosciamo che egli non ha scritto volumi sistematici, ma solo saggi e che a ragione non li ha sistematizzati. Che cosa è invero per lo più un sistema se non un filo esteriore che cuce quel che dovrebbe invece essere legato da un principio; e se questo non c’è, a che la cucitura esteriore? Il legame vero sta, nel pensiero di Cabiati, nel concetto dell’equilibrio generale. Che è manifesto nei fenomeni del cambio estero, delle correnti commerciali, dei prezzi interni ed esteri; ed è meno chiaro nei rapporti in cui l’uomo si trova in faccia all’uomo, la lega operaia di fronte alla lega industriale, amendue fatte di passioni, di risentimenti, di amarezze di chi non vuole essere soggetto e di chi non può rinunciare a comandare. Eppure Cabiati ha costruito, sul fondamento dell’equilibrio generale, la teoria della lega operaia, in alcuni studi che spazientito non finì e sono il contributo maggiore dato dalla scienza italiana allo studio teorico del sindacato operaio.

Ma il principe dell’eleganza nel ragionare economico era e rimane Pasquale Jannaccone. Come è impeccabile nella persona fisica, ed in ciò ebbe emulo soltanto De Viti, così è impeccabile il suo ragionamento. Io non conosco scritti che possano stare a paro per perfezione architettonica del saggio Relazioni fra commercio internazionale cambi esteri e circolazione monetaria in Italia nel quarantennio 1871-1913 se non taluno tra i più celebrati saggi di Jevons e la Caduta di Pantaleoni. Ardua è la ricerca teorica pura; ma è tutta opera del cervello pensante, il quale pone a se stesso le premesse e su di esse ragiona. Invece, quando si studiano i fatti accaduti, i fatti sono lì e non si possono modificare a piacimento. Sono materia bruta, anche se il tempo vi è passato sopra. Occorre manipolarli secondo regole appropriate all’uso che se ne vuol fare; occorre distaccarne quel che in essi vi è di accidentale o di non pertinente, occorre studiare i nessi fra l’un fatto e l’altro, astenendosi dallo scambiare per nessi di interdipendenza o di causalità quelle che sono mere coincidenze. E poi quando, dopo lunga fatica, durata nel manipolare migliaia di dati, fatica che non può essere senza pericolo mortale affidata ad altri, si è giunti a dimostrare che un paese può avere «un cambio massimamente favorevole nei periodi di più alto sbilancio commerciale e massimamente sfavorevole proprio quando sia quasi toccato il pareggio fra importazioni ed esportazioni», e che ciò razionalmente è accaduto anche in Italia, taluno griderà al paradosso. Ma è un paradosso illuminante e che fa avanzare la scienza, se scienza è posizione logica dei dati di un qualsiasi problema e ragionamento atto a spiegare il problema così posto.

Nella letteratura economica anglosassone gran rumore fanno ogni tanto talune scoperte; come quella del vuoto che si annida nella tradizionale distinzione delle produzioni a costi costanti, decrescenti e crescenti; ma anni prima di quando il Clapham ed un altro italiano divenuto per lunga dimora e per affinità spirituale, cambridgiano, ma già nella dissertazione torinese di laurea spontaneamente sobrio nello scrivere acuto, Piero Sraffa, stupissero gli economisti per la audacia usata nello infrangere il vuoto idolo, Jannaccone aveva posto il problema ed aveva discretamente vuotato il barattolo poi trovato vuoto. Ed anche quando taluno conquistò oltre oceano ed a Cambridge gran fama scoprendo e teorizzando la concorrenza imperfetta, Jannaccone poté, ripubblicando certi vecchi studi su Prezzi e mercati considerarli come un contributo avanti lettera «alla teoria generale della concorrenza imperfetta, nei quali il dumping è studiato come un caso di discriminazione dei prezzi; la discriminazione dei prezzi è posta come la caratteristica della concorrenza imperfetta e questa, così nello scambio come nella produzione, è considerata come la configurazione più confacente a rispecchiare la situazione di un mercato reale». Verità questa, dopo decenni, universalmente ricevuta.

Sempre, quando ritorno col pensiero a questi amici e colleghi, e cerco di rievocare il tratto caratteristico che di loro mi rimase fisso in mente, sempre mi riappare dinnanzi un teorema semplice ben dedotto, chiaramente ragionato od un problema risoluto appena posto, perché impostato bene. Diano essi venia al vanire dei ricordi, che fa dimenticare tante cose e fa venire a galla pagine che agli autori forse paiono oggi briciole, ma tali non sembrarono a me quando le lessi: come un breve saggio di Bresciani sui contratti a termine, jevonsiano anche quello per la felice compenetrazione, tutta sua, fra una chiara teoria e la riprova statistica ottenuta con rigore scrupoloso, preludio lontano all’opera maggiore sulla rovina del marco tedesco, rimasta classica ed unica nella letteratura internazionale; e mi diano venia Benvenuto Griziotti e Giovanni Demaria se, in luogo dei volumi, ricordo del primo una noterella di commento ad una sentenza sul sovraprezzo delle azioni e del secondo un saggio in cui si intratteneva sulla teoria dei clearings e sulle diverse specie di cambi che per una moneta nominalmente uguale nascevano da quegli imbrogli che si chiamavano e si chiamano ancora compensazioni private, conti valutari e simiglianti diavolerie. Semel abbas semper abbas. Chi ha scritto quattro pagine che recano l’impronta dell’economista, economista rimarrà: anche se, come Griziotti, andando avanti negli anni si sia persuaso che, al disopra dell’economia, esistono più sublimi dottrine. Dubito dei voli, ché in lontananza Benedetto Croce ammonisce a non volare se non si è sicuri di non far cattiva filosofia, e Vilfredo Pareto insegna, col suo disavventurato esempio, a non avventurarsi nei campi fioriti della sociologia, dove si rischia di sminuire la certa fama di grande teorico conquistata sul terreno saldo dell’astrazione economica. Non volarono fuor del calcolo economico, entro cui il filosofo ci aveva ridotti, Gobbi e Fanno e Ricci e Porri, Graziadei, Amoroso e Breglia e Dominedò e Delvecchio; e, così facendo, fecero in modo che chi vorrà discorrere della rendita del consumatore converrà si rifaccia alla celebre nota del Gobbi per conoscere il contenuto ed i limiti di quel concetto che ad un certo momento parve rivoluzionasse la scienza; e chi vorrà studiare la teoria dei beni succedanei e di quelli congiunti dovrà rifarsi a Fanno; e chi avrà la malinconica idea di conoscere gli sviluppi che in Italia ebbe il calcolo fisheriano della sorte riservata ai tre fratelli, l’uno prodigo, l’altro conservatore della fortuna avita, ed il terzo accrescitore di essa per sudato risparmio dovrà risentire l’eco dei colpi di maglio distribuiti su riviste di ogni paese da Umberto Ricci contro certe mie elucubrazioni in materia, in una contesa durata un terzo di secolo, non inutile forse a chiarire la incertezza dei confini fra i due concetti di reddito e di capitale, i quali paiono antitetici sul serio e sono invece meri strumenti concettuali utili a fini pratici; e chi vorràconoscere se vi sia differenza tra commercio interno e commercio estero non potrà dimenticare il corso di politica economica di Vincenzo Porri, che tanto insisté nel metterne in luce le somiglianze. Se nel mondo corre in proposito solo il nome dello svedese Ohlin, sia lecito a noi porgli accanto quello del compianto amico. Anche Tonino Graziadei mi deve dar venia se di lui non ricordo la vasta, incessante produzione di critica marxistica. Si cammina sui carboni ardenti in questo territorio popolato di credenti e di eretici schivi di mantener rapporti intellegibili con la confraternita economistica. Ma due contributi notabili egli ha dato alla scienza italiana: il primo un opuscolo stampato a Valparaiso nel Cile, di cui sfortuna volle un ignoto impoverisse la mia raccolta di libri, sicché non possedendone più l’autore copia disponibile, debbo rassegnarmi a ricordarlo di memoria e su una recente rielaborazione. In quello scritto Graziadei sottoponeva a critica stringente la teoria austriaca della decrescenza dei gradi di utilità e dell’utilità marginale; e la critica era fondata sui testi degli autori più celebrati di psicologia sperimentale, che il Graziadei imputa agli austriaci di aver a gran torto ignorato allo scopo di fabbricare una teoria la quale non trova alcuna conferma nella realtà. La critica, mossa dal Graziadei al principio del secolo, anticipava osservazioni venute di poi. Ad esperienze cilene risalgono due grossi volumi imolesi che Graziadei consacrò alla storia delle vicende dei sindacati del nitrato di soda nel Cile ed alla loro teoria. Nitrato di soda e sindacati nitrieri? Quale il valore teorico di siffatte indagini? Oggi che tutti parlano di concorrenza imperfetta, di monopoloidi e simili casi intermedi fra il monopolio perfetto e la concorrenza perfetta, discorrere di queste cose non è novità grande. Ma quando Graziadei ne scriveva, prima dell’altra guerra, la cosa non andava così piana, e l’essersi occupato, con abbondanza inusitata di dati criticamente elaborati di quel problema insolito: succedersi di fasi di concorrenza piena, di sindacati parziali o totali, e di nuovo di concorrenza, dimostrano in Graziadei un intuito raro di quel che val la pena di studiare e del metodo atto a studiarlo. A me, imbevuto della lettura del Cours di Pareto, quei due volumi nitrieri parvero allora un modello di applicazione della teoria dell’equilibrio; ed ancor oggi li reputo meritevoli di essere tratti dall’oblio in cui furono lasciati cadere.

Invece che qualche scritto, ricorderò di Amoroso un titolo; quello di «metafisica» da lui apposto, dopo quello di «fisica» premesso alla trattazione della scienza economica propriamente detta, al discorso di quella finzione che fu detta economia corporativa. «Ne discorrerò, se volete – pareva egli dicesse – ma fuor del campo proprio della scienza. Esistono e sono importanti anche i miti e le immaginazioni e se ne può anche discorrere. Ma si sappia che quella è materia posta fuor della fisica». I fasci-corporativisti, che erano gente ignorantissima, non intesero la beffa.

Di Breglia è difficile ricordare qualcosa che non sia breve, meditato a lungo e pieno di sugo, di Dominedò qualcosa che non rechi la traccia di paziente lima esercitata con penetrazione; e se penso a Delvecchio, lo rivedo nelle esercitazioni ginevrine, dove, accanto all’economista, il quale negli scritti pare impaziente sempre delle poche premesse poste all’inizio del ragionamento ed avverte il lettore che quelle non sono le sole e di altre si dovrebbe tener conto, sì da rendere, ove ciò, come si dovrebbe, si faccia, il problema di ardua soluzione o indeterminato, spuntava, dinnanzi agli occhi miei ammirati, il maestro che inchiodava lo studente al tema, che era la teoria del moltiplicatore, e lo costringeva a non uscire dalle poche premesse poste dagli iniziatori dell’interminabile disputa, avviandolo così alla necessaria logica conclusione. Allora conclusi che, al disotto del critico sempre insoddisfatto ed anelante a non lasciarsi sfuggire nessun aspetto della realtà, v’era il sistematico, al quale si deve una nuda scheletrica introduzione alla storia della scienza economica: nello sfondo Ricardo che giganteggia e prima di lui i frammentari e dopo i perfezionatori; ma l’edificio è tutto in Ricardo; ché la teoria grezza del costo di produzione si tramuta logicamente se pure per lenti passi nella teoria perfezionata moderna dell’equilibrio economico generale. Perché Delvecchio non rifinisce, non cesella quelle pagine che si perdono se son poste, come ora accade, in fronte ad un grosso trattato e possono diventare un saggio splendente di guida all’apprendimento alla verità? E perché Borgatta, distratto da indagini minori, non ripiglia le pagine non finite del libro mai pubblicato sulla dinamica economica, nelle quali i singolari felici accostamenti, la insistenza su quel che di fluido, di perpetuamente muoventesi vi è nel meccanismo economico avevano fatto concepire la speranza di vederci presentato uno schema vivo, aperto a tutte le influenze del mondo reale, del moto economico?

La conoscenza del moto, onde la società economica italiana fu affaticata dopo il 1860 la dobbiamo cercare nei libri descrittivi, non teorici, di un manipolo di studiosi altruisti, i quali hanno sacrificato gli anni migliori della loro vita a vantaggio altrui. Un giorno Maffeo Pantaleoni, stanco di leggere titoli concursuali sull’utilità marginale, sulla rendita del consumatore, sulle curve di utilità e di domanda e di offerta votò a favore di un candidato, che egli conosceva come asino in economica e gli amici storici gli avevano descritto come pessimo storico: «sono stufo, disse, di rimasticature teoriche pure; costui ha raccolto, sia pur malamente, fatti ed io ho sete di fatti». Pantaleoni amava, già dissi, il paradosso, ché egli ben sapeva che i fatti non sono nulla se non siano raccolti bene, da chi li sappia vedere. I tre uomini, che ricordo ora in segno d’onore: Bachi, Mortara e Corbino, seppero compiere, essi che sapevano la teoria e l’avevano dimostrato prima e lo dimostrarono poi, un sacrificio, al quale pochi sanno rassegnarsi: diventar cronisti dei fatti economici a vantaggio altrui. Cominciò Bachi a scrivere gli annali dell’Italia economica; ed a lui, stanco sottentrò Mortara con gli annuari di Prospettive economiche; e la fatica di amendue, innanzi che la dovessero interrompere, fu ripresa e riportata indietro da Corbino nei volumi nei quali egli ha narrato le vicende dell’Italia economica dal 1880 allo scoppio della prima grande guerra. Tutti tre si riallacciavano alla tradizione del Risorgimento che aveva dato le descrizioni classiche di Stefano Jacini, di Maestri, di Correnti, di Bodio, di Franchetti, di Sonnino ed insieme hanno donato all’Italia una di quelle raccolte che un tempo si chiamavano Monumenta historiae patriae.

Se, invece di una scorribanda nei ricordi del passato, questa nota avesse dovuto essere una visione sistematica dello sviluppo della dottrina economica, quanti altri nomi si sarebbero dovuti ricordare: da Ghino Valenti, fondatore degli studi moderni di economia e di statistica agraria – taluno risente ancora il rumore destato dal paradosso da lui enunciato ed ornato di formidabili prove: «non esistono terre incolte in Italia!» – alla valorosa schiera degli economisti agrari venuti dipoi sulle sue orme, ai Serpieri, ai Tassinari, ai Medici, ai Bandini, che scavano in profondità, come forse non fa nessuno negli altri campi dell’economia applicata; e qui non si deve dimenticare il nome di Giovanni Lorenzoni, il trentino, il quale aveva importato tra noi, fin dall’opera prima su La cooperazione rurale in Germania, la scrupolosità metodica germanica e l’aveva applicata con ferrea costanza a condurre a termine l’inchiesta sulle condizioni dei contadini nel mezzogiorno e l’altra sulla piccola proprietà in Italia; e morì, alla vigilia della liberazione, vittima del nemico che sotto i suoi occhi gli aveva trucidata la martire figlia. E potrei continuare a lungo: perché non ricordare Rodolfo Benini, il quale ancor oggi elabora lui, senza ricorrere all’aiuto manuale di nessuno, i dati primi, che riduce a poche cifre significative, memore, di quel «totalizzatore», che nel 1892 egli aveva presentato agli studiosi italiani, riecheggiando, per vie indipendenti, una consimile proposta che verso il 1840 aveva presentato il Giulio, economista piemontese del tempo carlalbertino? Ma Benini ha al suo attivo talune vecchie polemiche antiliberistiche in sede teorica pura, che si videro poi in tempi recenti riprese, con apparenza di novità, da raffinati economisti anglosassoni. Benini è vivo ed operoso; ed è vivo ed ha sempre vividissimo l’ingegno Francesco Nitti, il quale giovinetto sbalordì gli italiani narrando loro di un «socialismo cattolico» di cui i profani non sapevano nulla e proseguì entusiasmandoli ed irritandoli con un grosso volume pontaniano, ridotto a picciola mole per il pubblico, su Nord e Sud. E ne vennero polemiche ed inchieste, tra cui una sua, grossissima e leggibilissima, sui contadini della Basilicata, e da quei volumi seguiti a quei di Franchetti e Sonnino, derivarono provvidenze legislative a prò del mezzogiorno.

No. La scienza economica italiana non ha da vergognarsi di quel che fece durante il cinquantennio crociano. Carità di patria vuole si dimentichi quel che fu scritto di falso e di consapevolmente falso intorno al cosidetto corporativismo. Quegli errori sono riscattati dalla resistenza dei più: due riviste soppresse: la Riforma sociale nel 1935 ed il Giornale degli economisti nel 1943 – e ne sia reso il dovuto ringraziamento ad Epicarmo Corbino, a Giovanni Demaria e ad Agostino Lanzillo, che in tempi osceni vi stamparono studi di critica serena e corrosiva degli idoli pseudo-teorici del tempo -; e dall’eroismo di non pochi giovani studiosi buttati in galera per lunghi anni e poi inviati nelle isole a vita e basti ricordare i nomi di Antonio Pesenti e di Ernesto Rossi. Il quale, prima di seppellirsi vivo e volontario nelle carceri del tiranno era riuscito a compiere l’ultima beffa: di farsi lodare dai relatori sul rendiconto dello stato alle due camere come l’autore di studi faticosi e scrupolosissimi, sino al controllo della quadratura alla lira dei totali, sui bilanci consuntivi e sui rendiconti patrimoniali dello stato nel primo decennio fascistico; ed in galera continuò a studiare, riuscendo, sotto la specie di lettere alla moglie, a scrivere noterelle teoriche, di cui qualcuna fu pubblicata nella Rivista di storia economica.

Perché ho serbato ultimo il nome dell’amico fraterno degli anni giovanili, di Emanuele Sella, conosciuto ed amato quando egli era ancora studente di liceo e teneva, lui discendente della storica famiglia di industriali biellesi, che all’Italia aveva dato Quintino Sella, discorsi agli operai della camera del lavoro di Torino e, ad evitar disgusti di polizia, cercava a Ginevra l’ospitalità della casa di Pantaleoni e si abbeverava alla sua parola? Vorrei spiegare questo perché con un avvicinamento di lui ad un altro amico di cui quelli che lo conobbero rimpiangono sempre non aver egli dato ai sopravvenienti la piena misura di sé: Giovanni Vailati. Di Vailati resta un enorme volume postumo, messo insieme dagli amici e particolarmente da colui che gli fu quasi fratello, Calderoni, fine cultore di molte dottrine e anche di quella economica, della quale volle applicare la teoria della decrescenza dei gradi di utilità alla morale. In quel volume vi è di tutto: dalla geometria al calcolo infinitesimale, dalla storia delle matematiche a quella delle scienze fisiche, dalla filosofia alla storia politica, dalla critica letteraria all’economia. Non intendo dar giudizio di lui come matematico o fisico o storico o filosofo. So che uomini peritissimi in quelle cose lo avevano in gran conto; ed io sempre feci di lui gran conto come economista, economista di razza, più che tanti professionali. Lessi con lui Walras ed allora, nonostante la mia inettitudine matematica, mi pareva di averlo capito. Orbene, malgrado in quel volume vi sia di tutto, non vi è tutto Vailati. Mancano le lettere, lunghissime e disputatrici sui più vari problemi, che egli inviava ad imitazione degli studiosi del ‘600 e del ‘700, in tutti gli angoli della terra conosciuta e che è vana speranza oramai poter raccogliere. E manca la parola. Al par di Antonio Labriola, egli teneva circolo al caffè, prima degli specchi a Torino, e poi d’Aragno a Roma. Quel circolo era una illuminazione, una festa perpetua dell’intelligenza. Vailati sapeva tutto; e se avesse avuto, come Samuele Johnson, il suo fido Boswell, il nome suo sarebbe celebre. Invece, quando saranno scomparsi gli ultimi della sua generazione, pochi si ricorderanno di lui. Così è di Emanuele Sella. Tutti sanno i titoli delle sue opere: La vita della ricchezza, La Concorrenza, La dottrina dei tre principii. Il male non è che le due ultime siano incompiute; che egli scriva poche lettere sebbene quelle scritte siano talvolta memorabili; e che nessuno annoti i pensieri, gli spunti che egli da gran signore regala altrui. Il male è che quelle opere contano millecinquecento pagine o giù di lì e pochi hanno la pazienza di leggerle tutte. Chi avesse quella pazienza vedrebbe riprodotto, nell’opera di un uomo solo, il quadro della scienza economica italiana nell’ultimo mezzo secolo: una fiumana grandiosa, ribollente, a volte limpidissima ed a volte torbida, la quale trasporta a mare sabbie e pietre e limo. Ma qua e là emergono verdi isole meravigliose e sulle insenature, ove l’acqua batte tranquilla, i minatori lavano sabbie aurifere di alto tenore. Così è di Sella: che non è un puro economista; e non studia solo la filosofia moderna; ma si affatica e lima l’intelletto alla dura cote della scolastica di San Tommaso e guarda con ironia alle scoperte dei teorici puri; perché egli sa che quelle scoperte erano già state fatte da questo o quel santo o padre della chiesa. Frattanto anche lui, come Pareto, con le cui premesse positivistiche, egli non ha nulla a che vedere, talvolta indulge a citazioni di giornali o di autori di nessun conto. Le aveva fatte quelle citazioni, ne sono certo, per condiscendere, ridendo dentro di sé, ai commissari di concorso, che si supponevano ammiratori di quella roba; ma frattanto allungano inutilmente un’opera, che io direi ispirata ad una idea fondamentale: che la economia, che la creazione della ricchezza non è un fatto meccanico, bruto, determinato dalla conclusione e dalla interferenza di entità materiali che si chiamano scambi, oro, biglietti, prezzi, saggi di sconto e simili; ma è vita, è creazione continua, creazione dell’uomo e di quel che di divino, di spirituale è nell’uomo. Se ora, giunto all’età serena nella quale egli può guardare con compiacimento sorridente ed indulgente agli anni passati, Sella si decidesse ad estrarre dalla ganga delle tante pagine delle sue tre opere le poche pagine – e forse basterebbe un paio di centinaia – atte a contenere i filoni di metallo nobile, quale regalo magnifico farebbe alla sua generazione ed a quella che viene su, troppo dimentica di quel che fu pensato e fu operato dianzi!

Ed or si concluda. Non filosofate, ma calcolate, aveva detto Croce. Gli economisti sia che ascoltassero il monito, sia, e forse più, fossero spinti sulla via dell’indagine pura dal demone che li agitava dentro, calcolarono, ossia ragionarono. Chi scriverà non affrettati ricordi ma storia sistematica della parte avuta dagli italiani nell’avanzamento recente della scienza economica, dovrà riconoscere che quella parte non fu piccola né per volume, né per qualità. Oltre la sistemazione paretiana della teoria dell’equilibrio economico generale, che è la conquista massima della scienza dal 1870 in poi, il mio vagabondaggio sarebbe stato vano se non fossi riuscito ad esprimere una verità: che le margaritae, le gemme sparse per il mondo scientifico dagli indagatori italiani non furono né poche né di poco pregio. Mancò chi le raccogliesse in una collana splendente e le facesse rifulgere agli occhi di tutti? Le gemme aspettano ancora l’artefice ultimo? Val la pena? L’ufficio delle sparse gemme della scienza non è forse quello di stimolare sempre nuove indagini e nuove conquiste? L’opera di ogni generazione non è quella di servire da terriccio fecondo per l’opera delle generazioni future e così di seguito all’infinito? Frattanto, di nulla maggiormente gli uomini del cinquantennio possono andar orgogliosi quanto di aver sparso per il breve mondo dei numerati cultori della dottrina pura alcune gemme inutili agli occhi delle moltitudini. Queste che, al tempo di Cavour, affollavano l’aula di Francesco Ferrara, oggi disertano l’insegnamento degli economisti e li lasciano elaborare in solitudine i loro teoremi. Non muoviamone lagnanza; ché l’edificio della scienza non si costruisce in piazza. Basta che l’edificio sia bello, armonico e sempre più ricco di opere d’arte. Chi si guardi indietro, deve riconoscere che, fra quante scienze studiano l’operare dell’uomo, senza dubbio la economica continua ad essere da due secoli la sola che meriti di essere dichiarata opera d’arte. Superbia di affiliato? No. Consapevolezza che in nessun altro territorio affine, all’infuori forse del diritto privato di tradizione romanistica, il reprobo, il quale violi le regole sacre del bene e bello ragionare è messo al bando, inesorabilmente. Finché si sentirà l’eco dell’improperio squillante di Maffeo Pantaleoni, del silenzio di ghiaccio di Pasquale Jannaccone, del sorriso beffardo di Attilio Cabiati e del riso fresco indulgente di Emanuele Sella, gli eretici non penetreranno nel tempio ed i sacerdoti, continuando a ricamare sottilmente aerei teoremi astratti, lavoreranno, meglio che se questo fosse il loro dichiarato proposito, al bene delle moltitudini.


1 Quando Carlo Antoni mi invitò a collaborare alla presente raccolta in onore di Benedetto Croce, riluttai per molte ragioni di cui ricordo solo una: dal principio del 1945 ho perso il contatto con quelli che furono sempre, insieme agli amici veri e pochi, i maggiori amici miei, i libri. Invece di sfogliare e leggere libri, leggo carte e memoriali. Accettai perché Giuseppe Bruguier, bibliografo scrupoloso – qualità che raramente si accompagna con quella di economista valoroso quale egli è – mi promise la sua collaborazione. La quale venne larga e rifinita. Ma a questo punto, sorsero in me scrupoli, che mi indussero ad utilizzare dello scritto di Bruguier le alcune citazioni, che io mi sarei trovato nella impossibilità di rintracciare e riscontrare, e sovratutto i riferimenti precisi a uomini ed a scritti, da lui bellamente sistemati e riassunti. A quei dati sicuri appoggiai i miei ricordi; e ne venne fuori il presente vagabondaggio attraverso un cinquantennio di attività letteraria economica. Ma la stesura di ricordi rinfrescati dalla fatica altrui impone a me l’augurio che lo scritto del Bruguier veda la luce a parte, ad istruzione dei giovani studiosi, senza colpa immemori talvolta di quel che gli economisti italiani diedero alla scienza nel cinquantennio crociano. Istruzione più proficua di quella che essi ricaveranno dai miei ricordi, dove molto è dimenticato e le cose non dimenticate sono collocate in un ordine che risente dei rapporti personali e delle simpatie intellettuali di chi scrive.

Rileggo, dopo quattro anni, queste mie reminiscenze e debbo resistere alla tentazione di correggere ed aggiungere. Preferisco resistere, per non mutare nulla dell’atmosfera nella quale i ricordi si muovono. Negli anni del dopoguerra molte cose sono mutate nell’insegnamento economico italiano, nelle riviste e nei libri nei quali i cultori dell’economia versano le loro meditazioni. In maggioranza i nomi che si leggono negli indici dei quaderni delle riviste economiche sono nuovi; e, quel che più monta, sono mutati il linguaggio ed il contenuto dei contributi offerti. Perciò è bene mettere un punto fermo ai ricordi; che, allungati agli anni più recenti, non sarebbero più ricordi, ma giudizi: ma un giudizio non può essere meditato, come dovrebbe, da chi non può trovare il tempo per la meditazione.

Quel che debbo aggiungere è il saluto agli amici mancati ai vivi nel tempo corso tra la stesura di queste pagine e la pubblicazione: ad Emanuele Sella, amato sin da quando egli era ancora sui banchi del liceo ed a Gino Borgatta, quasi compaesano e poi allievo precocissimo. È spento l’intelletto di Attilio Cabiati, pur fisicamente vivo; quell’intelletto che sempre mi costrinse, discorrendo con lui di cose teoriche, a compiere uno sforzo attento di dominazione su me stesso, per il proposito di non vedere comparire sulle sue labbra quel sorriso uso a spegnere la parola sulle labbra di tutti, eccettoché degli innocenti. 12 febbraio 1950, L. E.]

Scienza economica ed economisti nel momento presente

«Annuario dell’Università degli studi di Torino», anno accademico 1949-50, Torino, Tip. Artigianelli, pp. 27-63

«Giornale degli economisti e annali di economia», gennaio–febbraio 1950, pp. 1-17

«L’Opinione»,19 febbraio 1950, p. 3

«Nuova antologia», marzo 1950, pp. 225-241

In volume autonomo, Torino, Giappichelli, 1950, pp. 37[2]

 

Non direi il vero se non confessassi candidamente di avere colto volentieri l’occasione di parlare ancora una volta, tenendo il discorso inaugurale dell’anno accademico, nel momento nel quale per limiti di età ne esco, in questa università, nella quale, entrato come studente nel lontano 1991, conseguii la laurea, la libera docenza e poi la cattedra. Lascio questa, dopo alcuni anni di assenza per pubblico ufficio; anni che non furono mai di oblio né per i colleghi carissimi né per gli studenti sia di questo ateneo sia di quella scuola degli ingegneri, abbandonata anzitempo ed involontariamente, nella quale ebbi pure l’onore di insegnare le scienze economiche.

 

 

Chieggo venia all’amico Jannaccone, il quale continuò con tanto lustro una tradizione di insegnamento che si onora dei nomi di Antonio Scialoja, di Francesco Ferrara, di Achille Loria e di quello del comune maestro Salvatore Cognetti de Martiis, di aver compreso nel titolo dell’odierno discorso, inaugurale tutta la materia economica, inclusa in essa quella scienza delle finanze, che sempre considerai parte della più ampia scienza economica. Esattamente cinquantun anni fa, un grande maestro italiano, Maffeo Pantaleoni, dalla cattedra di Ginevra enunciava una tesi, della quale l’eco tra noi non è ancora spenta: «che la storia delle dottrine economiche deve contenere soltanto la storia delle verità economiche, ma non già quella degli errori».

 

 

La tesi fu, allora, contraddetta dai più; ed invero, se accadeva allora di scorrere qualcuna delle più celebrate sintesi della storia del pensiero economico, quelle, a cagion d’esempio, dell’eruditissimo Cossa o dell’amabile Gide, si aveva l’impressione che le nostre scienze dovessero essere l’eco delle battaglie combattute sui giornali, nei parlamenti, per le piazze e le strade.

 

 

Accanto alle antiche scuole rinascevano, sotto nuove denominazioni, vecchie scuole: tra le altre il corporativismo, di cui poi si fece scempio a scopo di dominazione politica. Gli studiosi parevano schierati in eserciti opposti: ottimisti e pessimisti, laudatori e critici dell’ordine sociale esistente, liberisti e protezionisti, individualisti, socialisti e comunisti. Scuole contro scuole, verità contro errore; ma a volta a volta quella che era verità per una scuola appariva errore agli occhi della scuola opposta.

 

 

Se oggi Pantaleoni ripetesse quella sua prolusione, vedrebbe grandemente scemato il numero dei contradditori. I battaglianti sociali si interessano scarsamente dei problemi proprii della nostra scienza; e gli studiosi guardano con aria distratta ai contendenti delle piazze e dei parlamenti. Chi scorra gli indici di recenti trattati di economia, di finanza e di statistica non vede più traccia di scuole, non sente più l’eco delle battaglie delle strade, delle piazze e dei parlamenti. Si discute ancora e si discuterà sempre tra economisti; ma si discute di problemi che non fanno più appello alle passioni ed ai sentimenti degli uomini, ai contrasti di popoli e di classi.

 

 

Passioni e sentimenti, contrasti e lotte esistono pur sempre e rumoreggiano intorno alle mura del tempio sacro alla scienza: ma entro di esso le voci sono pacate e si discorre di fini e di mezzi, della natura del giudizio economico, di beni materiali ed immateriali, di beni diretti e strumentali, complementari e succedanei, presenti e futuri, di calcoli di utilità ovvero di scelte, di criteri informatori della misura della ricchezza e delle loro difficoltà, di capitale e di reddito, di ricchezza e di benessere, di curve di domanda, di curve di indifferenza, di saggi marginali di sostituzione, di elasticità della domanda, di produttività marginale, di costi fissi e di costi variabili, di economie interne ed esterne, di rapporti fra risparmio ed investimento, di propensione al consumo e di moltiplicatori.

 

 

Il laico che 50 anni addietro aspettava di sentire dalla cattedra la soluzione dei problemi di cui discuteva al caffè cogli amici o su cui lo intrattenevano articoli di giornali o discorsi di comizi, che 100 anni or sono affollava le aule di via Po – e sui banchi di quell’aula Camillo di Cavour prendeva appunti per il rendiconto che ne avrebbe dato il giorno appresso nelle colonne del suo Risorgimento – per sentire dalla bocca eloquente di Francesco Ferrara discutere i problemi massimi della libertà economica e politica, quel laico meraviglia oggi contemplando nelle aule destinate all’insegnamento economico professori che sulla lavagna tracciano curve e risolvono equazioni.

 

 

La sua meraviglia chiude la polemica suscitata da Pantaleoni. Una curva od una equazione può essere vera o sbagliata può essere più o meno perfetta o rappresentativa; può aprire una nuova strada alla interpretazione della realtà od essere un mero esercizio scolastico; non può dar luogo ad una battaglia di scuole. Se ancor si parla di scuole: di Losanna, di Vienna, di Cambridge, italiana, svedese, americana, la denominazione ha indole retorica.

 

 

In verità non esistono scuole; ma studiosi i quali spesso cortesemente e talaltra irosamente, non di rado in amichevole collaborazione e talaltra con gelosia sospettosa, come è costume di tutti gli studiosi in tutti i campi dello scibile, collaborano alla costruzione di un unico edificio. Collaborando insieme, attraverso a contrasti e a polemiche, essi formano ognora più un corpo chiuso, una confraternita di iniziati, che non conosce confini nazionali ed intrattiene corrispondenze a mezzo di accademie internazionali e di riviste scambiate tra i paesi più lontani.

 

 

Come tutte le congreghe di iniziati, anche quella economica parla un linguaggio proprio, che allontana i laici e riesce spesso arduo a chi, avendo iniziato il tirocinio economico nel 1893, è ancora abituato al linguaggio della logica ordinaria, da Pareto in poi tenuta in poco conto come letteraria.

 

 

Tuttavia i «superati» pur si lusingano di intuire, se non sempre di comprendere appieno, il valore dell’avanzamento continuo che tuttodì si osserva nella scienza economica e che sta nel sostituire a schemi passionali, perché grezzi e parziali e semplici, di interpretazione della realtà, schemi sempre più raffinati e complessi.

 

 

Tutto il progresso della scienza economica, al pari, immagino, di quello delle altre scienze, sta nel cercare schemi di interpretazione dei fatti della vita economica, i quali si avvicinino, meglio degli schemi e degli strumenti adoperati prima, alla comprensione della realtà compiuta. Fra i più giovani trattatisti si osserva una impazienza crescente verso la utilizzazione degli strumenti e degli schemi usati anche solo verso la fine del secolo scorso; e taluno ignora volontariamente quelli inventati innanzi alla prima guerra mondiale.

 

 

Può darsi che questa sia una necessità imperiosa di studio; e se si poté leggere in una introduzione metodologica dettata da uno dei maggiori storici viventi che non era possibile, per ragioni di tempo e di spazio, tener conto della letteratura anteriore al 1870, così non stupirei di veder ignorata in un moderno trattato di economia addirittura tutta la letteratura anteriore alla rivoluzione detta Keynesiana.

 

 

Per fortuna, la confraternita economica è ancora consapevole che la nostra scienza è il frutto di un lento progressivo continuo sviluppo, nel quale nulla si perde di quel che fu un vivo vitale contributo alla costruzione dell’edificio odierno; e come la data di nascita della scienza (al più tardi 1734) è caratterizzata dalla invenzione ad opera di Cantillon di due strumenti i quali col nome di «caeteris paribus»e di «impresa» ancora rendono oggi qualche servizio agli indagatori; e come pochi anni dopo (1750)

 

 

Ferdinando Galiani inventava altri strumenti che oggi, col nome di teorema della decrescenza della utilità delle dosi successive dei beni o di valutazione alla grida delle monete diverse da quella scelta come unità di conto, non sono ancora del tutto disusati; così il «tableau oeconomique» dei fisiocrati è o dovrebbe essere ricordato dai costruttori moderni della dinamica economica come il primo, sia pur oscuro e confuso, tentativo di rappresentare il mondo economico non nel suo stare in un certo momento ma nel suo flusso continuo; e chi faccia la storia dello schema più generale e meraviglioso che si conosca di interpretazione della realtà che è quello generale di Walras e Pareto, non può dimenticare dei medesimi fisiocratici il principio di un ordine naturale e necessario, che se poté, presso gli storici della filosofia, essere interpretato come l’eco delle dottrine naturalistiche del secolo XVIII, in realtà era l’anticipazione del teorema per cui tutti i fatti economici son legati tra loro non da un vincolo di causa ed effetto, ma di interdipendenza e di equilibrio, e nulla dura invariato se ripugna agli altri elementi del sistema; ma, mutando uno di essi, gli altri sono costretti pure a variare ed a giungere ad un nuovo equilibrio.

 

 

Nulla si perde degli strumenti e degli schemi i quali giovarono parzialmente in passato alla conoscenza del vero; e se correttamente un moderno trattatista afferma che «ogni traccia della influenza di Carlo Marx sulla scienza economica si è oramai perduta» ed in verità la teoria del valore lavoro e del sopravalore non ha luogo alcuno in essa; non così dei teoremi ricardiani intorno al costo di produzione, ai costi comparati, alla carta moneta, che ancor oggi, per contraddizione e soprattutto per perfezionamento, sono alla base dell’insegnamento economico.

 

 

Dalla contemplazione dello schema splendente dell’equilibrio generale, per cui tutto nel firmamento economico si tiene e si lega e nulla può essere mutato nel più lontano e minimo mercato senza che quella mutazione si propaghi in tutti gli altri mercati e ne modifichi l’azione, gli economisti, disperati di aggiungere alcunché al quadro d’insieme dei Walras e dei Pareto, si rivolgono di nuovo, ricorrendo per un istante – ma sono istanti che durano decenni e son fecondi di letterature sterminate – all’antico strumento del «caeteris paribus», allo scavo in profondo degli equilibrii parziali; e, con la reverenza dovuta al grande maestro, Keynes prende il posto di Marshall come provocatore di dubbi e produttore di nuovi schemi, i quali, a pochi anni dalla sua morte, già provocano nuovi dubbi e stimolano all’offerta, sul mercato dei teoremi economici, di nuove ipotesi che si affermano meglio adatte ad interpretare il meccanismo delle società economiche.

 

 

Come il fisico, come il chimico, l’economista reputa dunque suo ufficio proprio di travagliare alla ricerca di nuovi strumenti, di nuove ipotesi che giovino meglio ad interpretare quel mondo economico in mezzo al quale egli vive. Nell’indagare egli soffre e fatica – in questo senso il nostro grande Francesco Ferrara adoperava un secolo fa, succedendo qui ad Antonio Scialoja nella cattedra economica, la parola «travagliare» – soffre e fatica più del fisico e del chimico; ché a lui manca la possibilità di quel potente mezzo d’indagine che è l’esperimento e deve contentarsi dei mezzi assai meno fecondi dell’osservazione aiutata dall’incerta introspezione e dal ragionamento, i quali possono essere fallaci.

 

 

Soffre e fatica, perché i suoi ideali son alti. In primo luogo, non vorrei che i miei compagni di studio fossero fatti da me comparire troppo orgogliosi quando dico che essi hanno, fra l’altro, l’ambizione medesima che ha l’architetto, il pittore, lo scultore, il musicista, il poeta di immaginare, di sentire, di aspirare alla bellezza, di intendere alla costruzione dell’opera d’arte. Mi dicono che ogni grande matematico è anche un poeta; e che egli nel risolvere un’ardua equazione, nello scoprire il nuovo teorema, a cui darà il suo nome, prova il medesimo rapimento di chi dona al mondo un poema o un quadro.

 

 

A me non fu dato mai di provare quei rapimenti: ma non ho ignorato i rapimenti che si provano nel leggere talune grandi pagine di Riccardo Cantillon, di Ferdinando Galiani, di Francesco Ferrara, di Davide Ricardo, di Vilfredo Pareto, di Maffeo Pantaleoni, di Filippo Wicksteed, di John Maynard Keynes, dove il ragionamento fino, la logica impeccabile, la intuizione profonda del fatto studiato fanno per un istante credere di aver veduto le ragioni dell’agire degli uomini e fanno provare una gioia della medesima natura di quella che si sente dinanzi al Partenone di Atene, ai templi di Pesto od al cesellato pensiero di Giacomo Leopardi. Intuizione del vero, contemplazione estatica di esso, sforzo di pensiero nel persuadere gli altri della verità novellamente scoperta; che cosa è ciò se non bellezza pura, opera d’arte?

 

 

Nella nostra scienza, la bellezza è congiunta, anzi è derivata dal vero. Non affermo nulla riguardo alla natura del bello nell’arte. Affermo che le teorie, gli schemi, i teoremi, sono belli perché sono veri, od almeno perché ai nostri occhi appaiono come approssimazioni successive, sempre più perfette, verso la conoscenza del vero.

 

 

Quel che ci rende talvolta orgogliosi, intolleranti, spregiatori è l’aspirazione mai soddisfatta alla conoscenza del vero. Siamo sicuri di perseguire questo culto, solo perché e finchè sappiamo di non sapere. Guai al giorno in cui uno di noi sa. Quando talvolta leggiamo che un tale autore sa, afferma di sapere che la verità è quella e non altra, che colui il quale non crede in quella verità è un eretico vitando, una certezza, un certezza sola noi abbiamo: la certezza del diritto di cacciar via il sapiente, colui che afferma di sapere, colui che afferma di poter insegnare altrui quella verità, di cacciarlo senza pietà colla frusta dal tempio.

 

 

Noi apparteniamo alla confraternita aristocratica dei cultori delle scienze economiche solo perché e finché sappiamo di non sapere, perché e finché siamo avidi di imparare; perché e finché teniamo gli occhi aperti intorno a noi per intuire, per apprendere qualche nuova verità o correggere o perfezionare le verità che per un istante avevamo avuto la presunzione di conoscere. Se la consapevolezza dei limiti delle nostre conoscenze ci fa aborrire coloro i quali sanno le cause ed i rimedi del male economico e sociale, non siamo affatto disposti a subire le contumelie di coloro i quali gridano all’impotenza ed al fallimento della scienza economica perché questa non ha pronto lo specifico atto a creare l’abbondanza durante le guerre, ad impedire il rialzo dei prezzi quando si moltiplicano i mezzi di pagamento o difettano i beni di consumo ed è costoso e rischioso trasportarli dalle campagne nelle città od il crescere dei salari nominali non riesce ad eliminare gli effetti dei prodotti scemati.

 

 

Mentre i laici gridano al fallimento, gli iniziati esultano; perché solo durante i tempi di difficoltà grandi, di rivolgimenti politici e sociali e, malauguratamente, bellici, essi possono cogliere l’occasione rarissima di disporre di dati di studio, che, pur non avvicinandosi se non lontanissimamente al rigore dell’esperimento scientifico, consentono di isolare in parte alcuni fattori, dei quali essi invano avevano desiderato di conoscere partitamente il comportamento e gli effetti. Non senza un perché le guerre napoleoniche ed il dopoguerra che ne seguì fin verso il 1830 videro il fiorire più rigoglioso che mai si sia conosciuto della scienza economica classica; ed allora Ricardo scrive i Principii e detta le pagine intorno ad una moneta economica e sicura, ché gettarono le basi della teoria della circolazione cartacea; e Sismondo de Sismondi pubblica, occupandosi degli assegnati, la prima analisi scientifica della svalutazione della moneta cartacea; e, dopo levate le sobrie mense mensili, i soci dell’Economic Club di Londra disputano intorno a problemi ancor oggi attuali; e di quelle dispute si ha il ricordo nei carteggi di G.B. Say e di Malthus, il primo dei quali espone la teoria degli sbocchi ed il secondo la critica, insistendo sulla mancanza della domanda effettiva, e Sismondi lo affianca, ricordando la impossibilità dei poveri contadini toscani, a lui familiari, di far domanda effettiva, mancanza che provoca il ristagno nella vendita delle cotonate inglesi; e durante quelle sedute un oscuro impiegato di banca, il Pennington, espone la teoria delle aperture di credito che creano i depositi bancari e non viceversa.

 

 

Di nuovo, dal 1914 al 1945, guerre e rivolgimenti ingrandiscono e mettono in evidenza circostanze e fattori che in tempi tranquilli non passavano inosservati, no; ma lasciavano legittimi dubbi intorno al peso della loro azione a causa delle interferenze di altri fattori pur essi rilevanti. Le inchieste e le discussioni intorno ai rapporti fra oro, argento, moneta cartacea fiduciaria ed a corso forzoso, prezzi, salari, profitti, cicli di prosperità, di crisi e di depressione non erano mai cessate durante il tempo che volge tra le guerre napoleoniche e quelle mondiali recenti; e nella letteratura di quel tempo si trovano quasi tutti i germi delle teorie moderne in proposito; ma le dimensioni dei fenomeni erano modeste; ed una variazione dei prezzi o dei cambi del 5, del 10 e del 20% appariva preoccupante ed a lungo si disputava intorno alle ragioni di essa.

 

 

Dispute feconde, perché quando tra il 1914 ed il 1945 le variazioni ingigantirono ed i prezzi, ad es. in Italia, non crebbero più soltanto dall’indice 100 a quello 110 o 120 e non diminuirono più solo da 100 a 90 e ad 80, ma balzarono, tra il 1914 ed il 1926, da 100 a 600 e poi tra il 1926 ed il 1930-33 scemarono da 600 a 500; e quindi tra il 1939 ed il 1947 di nuovo crebbero da 100 a 6000, ed ancora, pur riducendosi solo del 10 o del 15 per cento, tracollarono nel 1947 da 6000 a 5000 mentre i cambi sul dollaro si riducevano da 900 a 575; noi non stupimmo più e potemmo studiare, con maggiore sicurezza, le correlazioni tra quantità e velocità della circolazione delle varie specie di monete cartacee e creditizie, prezzi, investimenti, depositi, giacenze di magazzino ecc. ecc.

 

 

Se oggi le teorie monetarie e creditizie sono molto più raffinate di un tempo, se esse non sono più un capitolo singolare a sé stante dei trattati economici, ma formano un tutt’uno con le teorie più generali, ciò è dovuto anche alla esperienza della prosperità tranquilla; con variazioni tenui nel livello dei prezzi, del decennio posteriore al 1920 seguita dalla catastrofe della grande depressione fra il 1929 ed il 1932, – che offrì l’occasione di studiare i rapporti esistenti fra la quota consumata e la quota risparmiata del reddito nazionale e di trarne schemi di interpretazione della realtà e strumenti di lavoro – ad es. il moltiplicatore – dimostratisi utili alla intelligenza di quel breve periodo di tempo e di quegli altri periodi nei quali in avvenire si rinnovassero – ma finora non accadde – le medesime circostanze di impianti industriali esuberanti, di mano d’opera disoccupata e di risparmi abbondanti, timidi ed inoperosi.

 

 

Non si dica però che gli economisti sono bramosi di guerre e rivolgimenti sociali per libidine di trovare più ampia materia di studio. Finché essi guarderanno al mondo circostante con gli occhi limpidi di colui il quale va esclusivamente in traccia del vero, non mancherà mai ad essi ampio pascolo di studio anche in tempi tranquilli. Il pascolo sarà anzi più opimo; ché, non più distratti dal rumore delle armi, non più chiamati a raccolta dai governanti per essere aiutati nella soluzione di quotidiani problemi assillanti, gli economisti raccolgono nei tempi ordinari il frutto delle lunghe esperienze del passato.

 

 

Se noi infatti guardiamo al tempo relativamente ordinato e pacifico corso dal 1870 al 1914, vediamo che proprio a quell’epoca risalgono le moderne grandi sistemazioni teoriche. In Austria i Menger, i Bohm Bawerk, i Von Wieser, in Inghilterra i Jevons analizzano il concetto dell’utilità economica e sistematizzano attorno alla tabella mengeriana la scienza partendo dai teoremi dimenticati di Lloyd e di Gossen. Un meditante solitario, il Marshall, elabora teoremi lungamente meditati durante ascensioni alpine o nelle invernali tepide giornate trascorse nella siciliana conca d’oro; ed un ecclesiastico, studioso di Ariosto, Philip Wicksteed, emula il suo contemporaneo Pantaleoni nella nitidezza splendente della successione dei teoremi e corollari della esposizione. Sono meditanti solitari gli svedesi che nella quiete operosa delle loro università danno innanzi al 1914 tanto contributo al progresso della scienza; e se nel primo tempo della loro vita il Walras ed il Pareto erano stati giornalisti, propagandisti, ingegneri minerari, né mai dimenticarono i sentimenti e le esperienze dei loro anni più giovanili, fu nelle meditanti passeggiate intorno alle ridenti rive del lago Lemano che essi crearono i sistemi di interpretazione più generale del mondo economico che ancora oggi si conoscano.

 

 

Non estranei a nulla di ciò che accade intorno ad essi, sia che i tempi sembrino stazionari e quasi immoti, sia che il barometro economico segni tempesta e mutazioni, gli economisti sono dunque dei puri esteti occupati diuturnamente a studiare gli schemi, gli strumenti, i concetti tramandati dalle generazioni passate; ed a perfezionarli, modificarli, sostituirli perché essi meglio interpretino i fatti già noti o raffigurino i nuovi fatti che l’esperienza della vita ogni giorno crea o trasforma? Confessiamo candidamente che questo e non altro è il nostro ufficio; e che tradiamo il nostro dovere, non adempiamo alla nostra missione quando per disavventura noi consentiamo ad uscire, in qualità di economisti, dal compito conoscitivo, interpretativo, che, come per ogni altro cultore della scienza, è il solo nostro compito.

 

 

Naturalmente, essendo noi uomini intieri, come sono uomini intieri il chimico, il fisico, il matematico, il giurista, noi non solo siamo tentati, ma dobbiamo uscire dal nostro campo perché siamo padri di famiglia, cittadini di un borgo, di una città, della nazione, capi di amministrazioni private o pubbliche, uomini politici, difensori di questo o di quel credo politico o sociale. Ma conserviamo la nostra qualità di cultori della scienza, la nostra dignità morale di studiosi; solo se, uscendo dal nostro compito, sappiamo di uscirne. Sarebbe assurdo chiedere all’economista di vivere nella torre d’avorio della scienza pura; assurdo perché egli annullerebbe se stesso, in quanto egli vale solo nella misura in cui è atto a comprendere ed a far comprendere il fatto economico che è un aspetto della vita degli uomini. Ma egli deve anche vivere nella torre d’avorio: sinché dà opera alla ricerca, finché cerca d’intravvedere il comportamento di un aspetto della realtà, non deve avere altro scopo dinanzi a sé fuorché la ricerca del vero, qualunque esso sia, e quali si siano gli effetti che il vero da lui esposto possa avere su lui stesso e sugli altri uomini.

 

 

Pronuncia bestemmia atroce chi assegna allo studioso il compito di lavorare a pro di un ceto, di un gruppo sociale, di una classe, di una classe più numerosa, della stessa umanità intera. L’economista non sa, non deve sapere, non deve essere infastidito dalla preoccupazione che i suoi teoremi, i suoi schemi, i suoi strumenti di ricerca servano, o debbano servire ai pochi, ai molti, all’unico, a tutti, a nessuno. Egli inventa teoremi, propone schemi o strumenti o definizioni. Se son fecondi, altri li riesporrà, li modificherà, li perfezionerà. Potrà morire contento di avere recato una piccola impercettibile pietra all’edificio che senza posa si va innalzando e rendendo sempre più maestoso e bello. Tutto sarà finito lì; e sarà fine gloriosa, la più degna augurabile all’uomo di scienza.

 

 

Ho detto però che l’economista, essendo uomo, può e deve uscire dal suo campo, purché sappia di uscire. Qual è – forse è la domanda che vedo affiorare spontanea sul vostro labbro – l’ufficio dell’economista il quale esca dalla torre d’avorio? La risposta è ardua perché tutti, uscendo, abbiamo peccato contro il comandamento di non dimenticare di essere usciti da quella torre, che è la nostra dimora e il nostro scudo. Tutti, talvolta, hanno dimenticato, anche i più grandi; non solo il passionale Pantaleoni, ma forse anche l’impassibile Pareto. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Chiedo venia, se, pur ricordando che anch’io ho peccato, oso tratteggiare il compito dell’economista che, uscito dal tempio, si trova sulla piazza dove tumultuano le passioni e gli uomini lottano gli uni contro gli altri.

 

 

Il compito gli è dettato dal supremo comandamento morale di non mai tradire quella che a lui è parsa essere la verità. L’economista non è un tecnico incaricato di tradurre in precise proposizioni legislative o propagandistiche il pensiero od il proposito altrui. Se a lui si ricorre come perito o, come oggi si suol dire, esperto, i limiti della sua collaborazione sono posti dall’obbligo che egli ha di non fare o di non dire cosa contraria alla visione sua della verità.

 

 

Egli non è, come il giurista che, uscendo parimenti fuori della sua torre, sia patrono di parte nei giudizi civili e penali ed in tale qualità adempia ad una nobilissima missione, il difensore degli interessi o degli ideali di una persona o di un ceto. Nulla vieta che egli apertamente si dichiari tale; e nessuno potrà in tal caso muovergli appunto. Ma se egli tace e lascia credere che il suo pronunciato sia esclusivamente quello dell’uomo di scienza, egli deve ubbidire alla legge morale, la quale gli ordina di dire il vero. Se con una immagine si potesse riassumere il compito dell’economista uscito in piazza, lo vorrei – è un confronto già altra volta da me offerto – paragonare allo schiavo seduto ai piedi del capitano trionfatore in Roma, a cui era affidato il compito di ricordare al vittorioso che accanto al Campidoglio vi era la rupe tarpea.

 

 

Una delle più belle pagine dei ricordi del conte Mollien – già ufficiale al controllo delle finanze sotto l’antico regime, educato alla scuola dei Colbert e dei Necker; ma affinato dallo studio dei libri di Turgot, dei fisiocrati e di Adamo Smith, dal 1806 al 1815 ministro del tesoro con Napoleone – è quella nella quale egli, che pur ammirava l’uomo ai suoi occhi grandissimo per la intelligenza potente, per la intuizione prontissima, per la memoria formidabile, per la capacità somma ad organizzare ed a comandare, ne descriveva la propensione, propria di chi non è addestrato al ragionamento economico, ad immaginare progetti atti a risolvere il problema finanziario od economico che in quel giorno lo angustiava.

 

 

Mollien, l’economista schiavo, ascoltava compunto il padrone, consentiva nello scopo e nei principii; ma subito a poco a poco iniziava l’analisi e la demolizione della proposta specifica; conducendo l’una e l’altra innanzi così raffinatamente che alla fine l’imperatore restava persuaso di non aver mai concepito l’assurdo progetto da lui primamente esposto ed anzi di essere lui l’autore delle critiche e delle conclusioni a cui artatamente era stato condotto dallo schiavo fedele. Fedele, perché critico. Questo è il rapporto logico naturale tra il politico e l’economista.

 

 

Tratti dalla visione immediata dei mali, delle miserie, delle ineguaglianze, della necessità di elevare i loro popoli a più alte condizioni di vita, gli uomini politici sono spinti a fare ciò che essi reputano il bene, a cercare i mezzi per alleviare dolori e miserie, a promuovere spese pubbliche, risanamenti, bonifiche; rimboschimenti, a dare incremento all’educazione ed all’istruzione dei più, a diminuire le cause e la durata delle malattie, ad assicurare a tutti un minimo decente di vita. Lo schiavo economista non nega la bontà del fine, e consente nella necessità di giungere alla meta; aggiunge anzi che non esiste una meta ultima, ma toccata la cima che oggi appare più alta, altre si profileranno all’orizzonte ed anche quelle dovranno essere scalate.

 

 

Ma ricorda sommessamente che, dal giorno in cui Dio, nel momento in cui lo cacciava dal paradiso terrestre, ordinò al primo uomo: tu lavorerai col sudore della tua fronte, il principio fondamentale economico fu e rimane e rimarrà sempre la limitazione dei mezzi atti a conseguire i fini numerosi e mutevoli ed ognora moltiplicantisi che gli uomini si propongono. Da un lato aspirazioni, desideri, bisogni indefiniti e non mai sazi; dall’altro mezzi limitati.

 

 

Gli avanzamenti della scienza e della tecnica fanno ogni giorno arretrare, in maniere che ogni volta appaiono insperate e stupende, l’ostacolo posto dalla limitazione dei mezzi alla soddisfazione dei desideri umani; ma i desideri dell’uomo corrono di più di quel che non corra la scienza nell’apprestare nuovi mezzi ai cresciuti e nuovi bisogni. Se lo sguardo dell’uomo non fosse così rivolto verso il nuovo e verso l’alto, in che egli si distinguerebbe dalle specie animali? Feconda è perciò la illimitatezza dei desideri umani e causa ultima degli avanzamenti della tecnica. Ma ad ogni istante il limite esiste; ad ogni istante il mezzo usato per conseguire un dato fine non può contemporaneamente essere adoperato per conseguire un altro fine.

 

 

Perciò oggi la scienza economica è correttamente definita la scienza delle scelte; ed ufficio dello schiavo economista è di ricordare all’uomo politico che scegliere bisogna; e che nessun giudizio sulla convenienza di far qualcosa, di spendere il denaro pubblico per un dato fine può mai essere un giudizio assoluto; ma è sempre un giudizio comparativo; e che in ogni dato momento, posti i mezzi in quel momento esistenti, un voto positivo a favore di un capitolo di qualsiasi bilancio pubblico o privato vuole necessariamente, per definizione, dire un voto negativo contro un altro capitolo. Verità evidente; ma spiacevolissima a molti politici di tutti i paesi del mondo, i quali desidererebbero contentar tutti e nel tempo stesso non scontentare il contribuente chiamato a pagare le imposte che pur si devono riscuotere se si vuole che l’uno o l’altro fine si consegua.

 

 

Lo schiavo economista sa anche che le buone intenzioni non giovano spesso a raggiungere il fine; che, pur chiari i fini e pur esistenti i mezzi, non sempre i mezzi sono congrui al raggiungimento del fine; e che se anche si raggiunga un dato fine, alla lunga quella consecuzione medesima può avere sapore di amaro tosco. Un economista, il cui nome non è ricordato dagli storici delle teorie economiche, e giustamente è trascurato, non potendosi a lui ascrivere alcun nuovo teorema, ma ebbe acutissimo il senso della applicazione delle verità economiche note ai suoi tempi, Federico Bastiat, scrisse un opuscolo: Quel che si vede e quel che non si vede nell’economia politica, il cui titolo potrebbe ancora oggi essere il vademecum dello schiavo economista. Non conta nulla risolvere un problema. Non esistono in economia problemi singoli.

 

 

Tutto si tiene nel meccanismo economico. Non di rado il mezzo che si suppone e forse è adatto a risolvere un dato problema, ad impedire il ribasso del prezzo di una merce o di un gruppo di merci, a dare occupazione ad un dato gruppo di lavoratori, ad innalzare il tenor di vita di una categoria sociale, quel mezzo pone ed aggrava altri problemi, rialza e ribassa altri prezzi, con nocumento universale, provoca la disoccupazione di ben più vaste schiere di lavoratori e condanna alla miseria categorie sociali più numerose di quelle con quel mezzo innalzate.

 

 

Ufficio ingrato dello schiavo economista è di porre sotto gli occhi dell’uomo politico, dalla sua umanità tratto a fare il bene che si vede, le eventuali conseguenze dannose ultime della sua azione. Può darsi che sotto altri aspetti, di ordine pubblico o di preservazione nazionale, il piccolo bene presente debba essere preferito al maggior danno futuro. Rimane fermo l’ufficio dello schiavo che ricorda a chi deve deliberare che una scelta fra vantaggi presenti e danni futuri deve essere fatta; e fatta a ragion veduta. Vorrei perciò – e qui il mio discorso si rivolge in modo particolare agli studenti – che il fervore rinnovellato di discussione, anche intorno ai problemi economici e sociali contemporanei, di cui mi si dice date oggi prova nelle radunanze dei vostri circoli di cultura e di interfacoltà, fosse tenuto a freno dalla presenza di qualcuno degli economisti schiavi di cui ho parlato dianzi.

 

 

Ricordate sovratutto che la battaglia intorno ai diversi ideali sociali che voi professate rimarrà sterile, rimarrà infeconda, apparterrà sin dall’origine al limbo delle cose che mai non furono; ricordate che da quella battaglia voi non trarrete frutti se non di odio distruttivo, se manterrete quelle discussioni nel campo degli ideali da raggiungere, delle buone intenzioni da attuare. L’antico proverbio dice che di buone intenzioni è lastricato il pavimento dell’inferno; vorrei aggiungere che la lotta intorno alle intenzioni, anche ottime, ha per se stessa il risultato fatale di precipitare nell’inferno della discordia e della dissoluzione i popoli che vi si addicono.

 

 

Ma quelle vostre discussioni saranno invece feconde per voi di ammaestramenti utili per la vostra condotta futura nella società di cui vi apprestate a diventare il ceto dirigente nei vari campi della vita politica ed economica, se non vi dimenticherete mai di saggiare le intenzioni alla dura cote della limitazione e della adeguatezza dei mezzi scelti per attuarle. Perciò non è degno di rimanere nel sacro recinto della università il giovane che a 20 anni sa già tutta la verità intorno a ciò che si deve fare per salvare il mondo.

 

 

È bello l’entusiasmo di chi aspira alla salvazione; ma ad impedire che l’entusiasmo travalichi nel fanatismo, ascoltate lo schiavo economista il quale vi rammenta che gli ideali sono il nulla, sono una quantità negativa se la loro attuazione urta contro la indisponibilità dei mezzi, contro la inadeguatezza di essi o contro il loro uso più urgente per la consecuzione di altri ideali.

 

 

Forse l’impazienza dei giovani – e guai se i giovani non fossero impazienti ed entusiasti! – stupisce altresì dinanzi ad una curiosa maniera di comportarsi degli economisti chiamati od autoffertisi a dar consigli a governi od a parlamenti. Per lo più, costoro ripugnano dalle soluzioni diritte le quali prendono nettamente di fronte l’ostacolo e tentano di rovesciarlo.

 

 

Ripugnano perché, al pari del costruttore di strade in montagna, diffidano della bontà delle soluzioni rapide e delle strade diritte. Le resistenze e le reazioni atte a mandare a monte qualunque azione, sono troppo forti. Meglio le strade traverse, le mosse aggiranti, le vie lunghe che paiono tornare all’infinito su se stesse. Il politico, il quale voglia il successo immediato, è indotto a guardare di traverso un consigliere tanto freddo e scoraggiante. Scoraggiante tuttavia solo nell’apparenza. Ché lo schiavo economista conosce i limiti delle sue conoscenze. E sa che, quando egli ne esce fuori, entra in un campo ben più vasto e ricco e vario di quel che non sia il già bello e ricco mondo delle scelte fra i molti e varii ed indefiniti desideri, nel quale, con mezzi limitati, egli è costretto a muoversi, a calcolare, a concludere. Egli sa di non recare al politico la chiave della decisione risolutiva.

 

 

Egli, appunto perché vive dentro al mondo economico, non ha nessuna simpatia per le interpretazioni economiche della storia. Ben altri, ben più profondi, ben più efficaci sentimenti e passioni muovono gli uomini, per i quali le scelte fra il più e il meno e le leggi della uguaglianza marginale della utilità ponderata dei beni hanno poco peso. Se il politico ha l’intuito compiuto del momento nel quale la nazione vive; se la sua azione risponde alle esigenze, alla volontà matura e ragionata del popolo, troverà nello schiavo economista un mentore, non mai un dottrinario fanatico.

 

 

Alla modestia il consigliere è indotto dalla consapevolezza della distanza la quale corre fra gli schemi di interpretazione della realtà da lui assiduamente perfezionati e la realtà intiera, la realtà vivente, per la conoscenza della quale egli nei suoi schemi ha tenuto conto di alcuni dati soltanto, laddove i più gli sono ignoti o malamente e grossolanamente noti. Ufficio suo, non secondo a quello della critica è dunque quello di apprestare i dati, bene scelti ai fini della indagine scientifica, che il politico deve conoscere prima di agire.

 

 

Era grande, sotto tale rispetto, la tradizione britannica delle pubbliche inchieste rigorose che precedettero tutte le maggiori riforme monetarie economiche e sociali del secolo tra il 1815 ed il 1914; né la tradizione è del tutto spenta in quel paese. Anche noi abbiamo tradizioni gloriose. L’inchiesta agraria, l’inchiesta sulle condizioni dei contadini nel mezzogiorno sono monumenti che resteranno. è di ieri in Italia la pubblicazione di una indagine statistica, diretta, con la collaborazione dei migliori economisti agrari italiani, dal nostro collega nella facoltà agraria Giuseppe Medici, sulla distribuzione della proprietà fondiaria in Italia.

 

 

Da anni, forse da quando l’Italia divenne una, si discute tra noi di riforma agraria; ma sempre si discusse senza conoscere i dati del problema quanti sono i proprietari in Italia? Sono decine o centinaia di migliaia o milioni? Quanta superficie occupano i piccolissimi, i piccoli, i medi, i grandi proprietari? Come varia la distribuzione nelle diverse regioni d’Italia? «Hic sunt leones»: la risposta che si leggeva un tempo sulle carte dell’Africa tenebrosa, era sino a ieri la sola risposta che si potesse dare al quesito.

 

 

La più parte degli stranieri da cui talvolta ho occasione di essere intervistato sui maggiori problemi nostri non va – in ciò favorita da una deteriore letteratura giornalistica – al di là della conoscenza derivata dall’antico motto latino: «latifundia perdidere Italiam». Oggi, per la prima volta, noi sappiamo quanti sono i proprietari, quanta terra possiedono distintamente per classi di superficie e di reddito; se sia vero che la Sicilia sia la regione tipica della grande proprietà ovvero del latifondo, che è cosa diversa; conosciamo per la prima volta che cosa sieno e dove sieno situate le maggiori proprietà italiane, che si scopre essere sovratutto concentrate non nel mezzogiorno o nelle isole, ma nella ubertosa e non latifondistica Toscana; impariamo quanta parte (più di un quinto) della terra italiana sia già di proprietà dello Stato, dei comuni o di enti pubblici e con quali risultati economici sia condotta.

 

 

Ufficio primo dello studioso non è di imporre al legislatore una sua soluzione del problema della riforma fondiaria o di ogni altro problema sociale; ma di dire ad essi: ecco i dati del problema; e la soluzione alla quale tu giungerai sia quella propria ai fatti nostri attuali indagati con il solo intento di conoscerli nella loro compiuta realtà. Nel campo della conoscenza, lo schiavo economista può in altra maniera ancora servire al politico: chiarendo cioè che il problema è posto in maniera da renderlo insolubile o da condurre a risultati opposti a quelli

desiderati.

 

 

Gli economisti hanno appreso dai colleghi matematici che nessun problema può essere risoluto se il numero delle condizioni indipendenti e non contradditorie, che noi vogliamo siano soddisfatte, non sia uguale al numero delle incognite.

 

 

Un paese assediato, ad esempio, non può distribuire ad ognuno dei cittadini 400 grammi di pane o di farina al giorno, al prezzo di 50 lire al chilogrammo di pane e 70 per la farina; se, essendo i cittadini 45 milioni e non essendoci la possibilità di far gravare sui contribuenti la perdita, né di introdurre frumento dall’estero, gli agricoltori al prezzo del frumento corrispondente a quel prezzo del pane producono soltanto 50 milioni di quintali invece degli 80 che sono necessari per ubbidire alle condizioni poste di quantità e di prezzo. Occorre mutare i dati del problema: o scemare la razione od aumentare il prezzo; o costringere con la forza – scarsamente efficace – o con allettative di maggior prezzo gli agricoltori a produrre di più, ovvero ottenere in prestito od in dono dagli amici stranieri il frumento mancante.

 

 

Gli esempi della impossibilità di risolvere i problemi, quando le condizioni postulate si contraddicono od il loro numero non sia uguale al numero delle incognite, si potrebbero moltiplicare. Se qualche volta si udì e si ode tuttora favoleggiare di battaglie monetarie fra paesi poveri e paesi ricchi, fra paesi capitalisti e paesi proletari, di guerre fra dollaro e sterlina, al luogo delle favole infantili si devono porre sempre (qui sarebbe fuor di luogo persino la riserva del quasi sempre) posizioni insolubili di problemi dovuti a cause esclusivamente interne proprie ad ogni paese che sia costretto a svalutare la sua unità monetaria.

 

 

A tanto compito, tanto più arduo quanto più raffrenato dalla consapevolezza, da parte della nostra confraternita, dei limiti delle nostre conoscenze, non forse è impari la scienza economica nel suo stato presente? Per fermo, noi non siamo ingenuamente persuasi che sia possibile codificare la scienza economica in un trattato definitivo. Siamo invece travagliati da sempre nuovi dubbi sulla compiutezza dei teoremi accolti ieri e siamo sospinti dalla critica ad una revisione continua di essi. Ma son critiche e dubbi costruttivi.

 

 

Non mai, come oggi, il panorama offerto a chi, distratto da altre cure, per un istante si affaccia avido di sentir almeno l’eco del travaglio scientifico che pur nel campo che era un tempo il suo prediletto, non mai il panorama è apparso tanto luminoso e beneaugurante. Si moltiplicano le riviste di scienza pura ed applicata; risorgono le effemeridi di storia economica, si stenta a tener dietro ai soli titoli di libri e di comunicazioni nei quali sembra contenersi un qualche contributo al progresso delle conoscenze. Tutto il mondo è divenuto un unico cantiere. I nomi di scuole diverse son pallidi ricordi di divergenze di metodo oramai superate.

 

 

Non esistono più contrasti decisivi, se non di predilezione naturale verso questo o quel campo di studio; ed ogni metodo è a volta a volta adoperato in ragione della sua adeguatezza alla materia indagata. Pochi osano richiamarsi ai principii od ai metodi di una scuola per difendere una tesi od oppugnare quella avversaria; perché le scuole servono se offrono altrui schemi, strumenti, concetti nuovi e questi, appena offerti, divengono patrimoni universali e nessuno studioso vuole squalificar se stesso rinunciando all’uso di un metodo, di uno schema utile a scoprire nuove verità solo perché il metodo o lo schema è stato elaborato da chi ha lavorato in una università o scuola diversa dalla sua. Perciò le vecchie antipatie tra economisti puri ed economisti storici; fra inventori di schemi e studiosi delle istituzioni sono cessate; ed il rispetto degli uni verso gli altri è pari soltanto alla noncuranza sprezzante con cui tutti insieme d’accordo guardiamo all’improntitudine di coloro che decisi a sottrarsi alla dura disciplina nostra, vorrebbero trasformare una scienza che non posseggono in strumento di propaganda e di lotta per raggiungere fini concreti vantaggiosi a questa od a quella classe, a questo od a quell’interesse particolare. Il fervore della ricerca è siffattamente intenso nel momento presente da turbare talvolta gli spiriti desiderosi di quiete.

 

 

Lo studioso che sia stato temporaneamente assente – e quanti non furono durante la guerra incatenati dallo stato ad assolvere compiti ben più urgenti della contemplazione della verità pura! – e ricorda, ad esempio, i semplici pochi tipi fondamentali di mercato che ai suoi tempi tenevano il campo: concorrenza pura, monopolio puro, e, in mezzo, duopolio, oligopolio, monopolio bilaterale; e d’un tratto legge che taluno studioso egregio ha, invece di una mezza dozzina, individuato, ossia analizzato e teorizzato 200 forme diverse di mercato ed altri ne ha elencato 900, è indotto, con la peritanza propria di chi non sa e vorrebbe apprendere, a chiedere: l’analisi spinta a tanta e non chiusa moltiplicazione di tipi giova davvero alla conoscenza della realtà?

 

 

L’utilità del moltiplicare modelli o schemi con cui lo scienziato cerca di approssimarsi gradatamente ad una sempre più compiuta intelligenza del vero non sottostà anche essa, come tante altre azioni umane, alla legge della produttività decrescente? Il fervore nella formulazione dei casi o tipi non fa correre il rischio di smarrire, studiando ad uno ad uno gli alberi, il senso e la visione della foresta? Il timido dubbio non vuole tuttavia essere una critica; è un augurio. è sempre accaduto, nella storia dell’avanzamento di una scienza, che le epoche delle analisi particolari si alternassero a quelle delle sintesi; ed è sempre accaduto che gli studiosi dediti appassionatamente alla ricerca della verità, atti a trarre da una idea, da una ipotesi tutto ciò che essa è capace di rendere, ansiosi di analizzare a fondo un frammento della realtà presente o di una vicenda passata; pronti a perfezionare uno schema, un modello, una formula esistente siano più numerosi di quei pochi i quali dagli studi, dalle ipotesi, dalle analisi particolari altrui traggono la sintesi potente, la quale illumina per qualche decennio il cammino degli studiosi.

 

 

Non lamentiamoci troppo del resto se i Law, i Cantillon, i Galiani, gli Smith, i Ricardo, i Mill, i Ferrara, i Gossen, i Jevons, i Marshall, i Fischer, i Pareto non si incalzino ogni anno sospingendosi gli uni gli altri e togliendo il respiro ai più umili eppur necessari lavoratori bisognosi di trovare un punto di appoggio, per il momento sicuro, nelle loro indagini particolari.

 

 

Se, dopo Pareto, un nuovo punto di appoggio non è ancora trovato, la colpa, felice colpa, è dovuta a ciò che il maggiore innovatore, ho nominato il Keynes, fu sovratutto un iconoclasta. Troppo cercò il nuovo; troppo irrise agli errori dei grandi che non avevano errato se non nel vedere un momento della realtà diverso da quello da lui visto; ed è incerto quale dei momenti fosse davvero il più rilevante; ed è assai dubbio se gli eretici da lui esaltati meritassero di prendere il posto dei classici, il cui contributo era stato consacrato dal tempo.

 

 

Quando la sintesi nuova verrà, e verrà sicuramente, essa non distruggerà nulla di ciò che in due secoli di gloriosi progressi è stato costruito. Un grande indagatore delle cause per cui le società umane crescono, si fortificano, grandeggiano e decadono, Federico Le Play – il quale ebbe il solo torto di irridere alla scienza economica, che, al pari dei più che ne parlano male o ne parlano troppo, non aveva mai curato di conoscere – scrisse un giorno una verità solenne: che nelle scienze sociali tutto è stato detto. Il creatore della nuova sintesi, che tutti attendiamo, sarà colui il quale, nulla dimenticando di quel che fu detto ed è ancor vivo nella lenta faticosa elaborazione bisecolare della nostra scienza, offrirà agli studiosi un modello sintetico meglio atto di quelli passati ad interpretare questa nostra realtà economica contemporanea, tanto più varia, tanto più ricca, tanto più complessa della realtà di ieri; ed anche tanto più soggetta a mutazioni, che noi chiamiamo crisi e che gli storici soltanto potranno dire se abbiano condotto l’umanità verso la distruzione o verso mete più alte.

 

 

Auguro all’università italiana che, rinnovando la gloria del decennio 1890-1900, faccia già parte della nostra confraternita studiosa o stia per entrarvi colui il quale darà al mondo la nuova sintesi della nostra scienza.

 


[1] Il 31 ottobre 1949 il prof. Luigi Einaudi usciva, per compiuti limiti di età, dall’insegnamento, tenuto per cinquant’anni negli istituti tecnici di Cuneo e di Torino e, contemporaneamente, prima come libero docente e poi dall’1 novembre 1902 come professore di ruolo, nella università di Torino. Il rettore Mario Allara ed il Senato accademico vollero consentire che egli porgesse l’ultimo saluto a colleghi ed a studenti a mezzo del discorso inaugurale dell’anno accademico 1949-50.

[2] Tradotto nello stesso anno in inglese col titolo Economie science and economists at the presati day; in francese col titolo Science économique et économistes d’aujourd’hui. [Ndr.].

Concetto e limiti della uguaglianza nei punti di partenza

Concetto e limiti della uguaglianza nei punti di partenza[1]

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 169-246

 

 

 

 

90. Il dominus del mercato: la domanda effettiva dei beni diretti.

 

La teoria economica la quale sta a fondamento della esigenza dell’uguaglianza nel punto di partenza tra gli uomini viventi nel medesimo tempo e nel medesimo paese è nota. Nessun metodo di suffragio sta a pari di quello che automaticamente, spontaneamente si stabilisce sul mercato. Invano si è tentato, con elaborati metodi di suffragio proporzionale, di attribuire al singolo cittadino quel giusto proporzionato peso che nella decisione degli affari pubblici gli spetta nella sua qualità di uomo. Le differenze di età, di sesso, di attitudini ad interpretare e far propri i programmi dei candidati, l’intervallo fra una elezione e l’altra, i resti di voti perduti o non utilizzabili vietano che i governanti siano, se non con assai larga approssimazione, la espressione genuina della volontà quotidianamente mutabile dei governati. Nelle faccende economiche, invece, è certo che la volontà di ogni uomo, di ogni donna, dei giovani e dei vecchi, dei sani e dei malati, dei savi e dei pazzi, dei geni e dei mediocri, dei bambini medesimi inetti a parlare si fa sentire ad ogni ora, istantaneamente, ed è ubbidita. Gli uomini dispongono, per ottenere che il governo economico del paese sia quello che essi vogliono e sia condotto nella maniera e per i fini da essi desiderati, di un’arma assai più potente ed efficace della scheda elettorale; ed è la domanda effettiva, appoggiata cioè da un numero più o meno alto di unità monetarie, ad es., di lire, da essi recate sul mercato. Il re del mondo economico, in un libero mercato, è il consumatore ed egli ha, ministro ubbidiente, esecutore fedele dei suoi ordini, il prezzo. Il consumatore che, in veste di uomo bisognoso di un abito o di un libro, di una cura medica o di un divertimento, o di massaia affaccendata a far le spese di casa, si reca in una bottega, in un ufficio a contrattare ed acquistare merci o servigi, quegli, con la sua domanda, consiglia e decide gli imprenditori – agricoltori, industriali, artigiani, professionisti, commercianti, a produrre il tale o tal altro bene, nella quantità desiderata dai consumatori. L’imprenditore, il quale non interpreta bene i desideri presenti dei consumatori o non riesce ad intuirne i desideri futuri, e produce la merce od i servigi non richiesti dai consumatori o richiesti in una quantità minore di quella per errore prodotta ed offerta, perde ed alla lunga deve abbandonare la partita. Le perdite e i fallimenti sono uno strumento per eliminare dal governo economico i ministri incapaci od infedeli ben più efficace dei plebisciti e delle votazioni parlamentari. La loro forza è silenziosa, ma inesorabile. La domanda stabilisce non solo quel che si deve, ma anche il quanto si deve produrre, in modo perfettamente corrispondente alla scelta liberamente compiuta dai consumatori. Ognuno di questi, ad ogni momento, distribuisce la qualunque ricchezza da lui posseduta in modo da destinarla all’acquisto dei beni da lui reputati più urgenti. Né egli destina una qualunque anche minima parte della ricchezza sua, del qualunque numero di lire disponibile per lui in quel momento, ad acquistare una data dose di un bene che per lui, a suo esclusivo giudizio, abbia un indice di importanza onore dell’indice di importanza di una dose di un altro bene pur da lui desiderato; ma si regola in modo che, al margine, le ultime dosi dei singoli beni e servigi da lui acquistati abbiano un uguale indice di importanza. Poiché egli, con la sua domanda effettiva, così comanda, gli imprenditori – produttori debbono ubbidire e di fatto ubbidiscono e producono i beni ed i servigi nella quantità e nella qualità desiderata dai consumatori. Né v’ha comando che non sia ubbidito e comando che sia trascurato, quando esso sia espresso a mezzo di una bastevole somma di denaro; ché l’interesse di guadagnare e il timore di fallire obbligano gli imprenditori a cercare ansiosamente non solo di comprendere ma di prevedere i desideri, efficacemente manifestati, dei consumatori. Né, nell’ubbidire, l’imprenditore può rivalersi sfruttando il consumatore colla pretesa di un prezzo esoso. Ché, di nuovo, il meccanismo automatico del mercato costringe l’imprenditore a spingere la produzione sino al punto nel quale l’ultima unità di bene prodotto costi a lui quanto è il prezzo che sul mercato i consumatori sono disposti a pagare per ottenerla. Ben può darsi che a lui convenga produrre solo un milione di unità del bene allo scopo di ottenere un lucro massimo; ma se, data una quantità offerta di un milione di unità il prezzo al quale tutta la quantità offerta viene altresì domandata è dieci, ed il produttore, dopo aver soddisfatto a tutte le spese, compreso l’interesse corrente sul capitale investito ed il compenso ordinario per l’opera sua di direzione e di organizzazione, a quel prezzo ottiene ancora un profitto di due, altri, se non lui, ha interesse ad aumentare la produzione ed a crescerla, a cagion d’esempio, a un milione e duecentomila unità, sino a quel punto cioè nel quale la somma dei costi, ad esempio nove, sia precisamente uguale al prezzo nove che i consumatori, data la quantità di numerario da essi posseduta, sono disposti a pagare per acquistare tutte le unità offerte. A quel prezzo nove, si stabilisce un equilibrio fra quantità domandata ed offerta ed il prezzo nove, uguale al costo marginale, diventa prezzo effettivo o prezzo di mercato.

 

 

91. La domanda effettiva dei beni diretti determina l’utilizzazione, la manutenzione, la rinnovazione e l’incremento dei beni strumentali.

 

Il consumatore non è soltanto il re del mondo economico perché con la sua domanda effettiva ordina quel che si deve e quanto si deve produrre e comanda agli imprenditori produttori di consegnargli la merce prodotta ad un prezzo uguale al costo sostenuto; ma è re, perché attraverso il mercato egli fissa i prezzi, oltreché dei beni direttamente da lui desiderati e consumati, anche dei beni «strumentali», i quali servono cioè alla produzione dei beni diretti; oltreché del pane, i prezzi delle farine e del frumento e dei forni e degli aratri e dei concimi e delle sementi e delle terre necessarie a produrre il pane; oltreché delle case, dei mattoni e della calce e della sabbia e del ferro e del legname lavorato a porte e finestre e pavimenti e delle foreste e delle miniere da cui si traggono i tronchi ed i minerali necessari a produrre travi e ferro; e così di tutti gli altri innumerevoli beni strumentali necessari a produrre i beni desiderati ed acquistati dagli uomini. Il prezzo del pane pronto per essere consumato a sua volta invero determina i prezzi di tutti i fattori che sono entrati nella sua produzione, che in quel prezzo trovano la loro somma e nulla più e nulla meno. Il che vuol dire che, con la sua domanda, il consumatore determina quella che è la remunerazione spettante ai fornai che hanno impastato la farina e cotto il pane, agli agricoltori che hanno lavorato i campi, ai meccanici i quali hanno foggiato l’aratro, ai fonditori che hanno fuso l’acciaio, ai minatori, i quali hanno scavato il minerale di ferro, da cui l’acciaio, l’aratro e quindi il grano, la farina e il pane sono stati, per infinitesima particella, ricavati. La domanda di pane, insieme a quella della bevanda e del vestito e delle scarpe e della casa e dei divertimenti e dei viaggi e dei libri, fatta dai consumatori, ciascuna in quella data quantità e per quelle date qualità corrispondenti alla quantità di numerario disponibile in lor mano, determina l’indirizzo comparativo che gli imprenditori debbono dare, pena il fallimento, alla produzione. Essa stabilisce quali beni capitali esistenti – terre aratorie o prative od a colture arboreo – forestali, case, stabilimenti industriali, ferrovie, porti, canali ecc. – debbono essere mantenuti e rinnovati perché esista una offerta attiva, uguale alla domanda, dei beni diretti, prodotti col loro ministero, atta a compensare il costo della loro conservazione e quali debbono essere trascurati e lasciati a poco a poco decadere perché non giovano a produrre beni domandati a prezzi atti a remunerare la produzione. Essa induce gli imprenditori ad aumentare la quantità dei beni strumentali, ossia ad impiantare nuovi stabilimenti, a migliorare le terre destinate a talune colture, a scavar nuove miniere, a costruir ferrovie, porti, lanciare linee di navigazione ogni qualvolta l’imprenditore veda o speri di godere di un margine di profitto fra il prezzo di vendita ed il costo di produzione; margine dovuto a chi sa interpretare i desideri presenti e sovratutto quelli futuri dei consumatori, i desideri di beni noti e sovratutto di beni ancora ignoti, ma capaci di fare appello alla fantasia e al gusto della gente fornita dei mezzi d’acquisto a ciò opportuni. Il profitto, che talvolta si ottiene dagli imprenditori più abili nell’indovinare i gusti latenti di consumatori potenziali od i gusti nuovi di consumatori eccitati all’acquisto dalla novità dell’offerta, tuttavia sfugge continuamente; ché, dopo il primo inventore, subito altri dieci, altri cento, altri mille imprenditori si lanciano sul nuovo bene e lo riproducono e lo moltiplicano e ne fanno discendere il prezzo al limite uguale al costo marginale di produzione. Il profitto non è, esso, il re del mercato, è un segugio dall’odorato finissimo, sempre lanciato alla caccia della selvaggina nuova atta a soddisfare i gusti ed a sollecitare l’appetito del consumatore sovrano.

 

 

92. Robinson Crusoè e la eguaglianza fra quantità domandata e quantità prodotta dei beni economici.

 

Chi è, a guardar bene, il re del mondo economico? Robinson Crusoè, nell’isola deserta, ordinava metodi e fini della produzione così come fa il consumatore moderno. Ma poiché egli era solo, ordinava a se stesso. Non sprecava tempo e lavoro, che erano per lui il numerario, il denaro, il mezzo con cui egli faceva domanda di beni, a soddisfare desideri ultimi nella scala da lui fissata in mente per se stesso, ma li dedicava a produrre direttamente i beni che egli giudicava più urgenti; e via via soddisfatti questi, dedicava il tempo e il lavoro residui a procacciare a sé soddisfazioni di grado meno intenso. Era chiaro ai suoi occhi che egli poteva far domanda solo dei beni da lui prodotti ed entro i limiti di quantità e di qualità, assoluti e proporzionali, dei beni prodotti. Quantità prodotta e quantità domandata erano per lui quantità uguali. Non poteva egli crescere la quantità domandata di un bene se prima non aveva cresciuto la quantità prodotta; e gli conveniva crescerla solo, se dopo averla paragonata con la quantità di ogni altro bene che egli avrebbe potuto produrre con il tempo e la fatica per lui ancora disponibili, giudicava che quel bene gli dava, in confronto con gli altri, una soddisfazione da lui giudicata maggiore.

 

 

93. La uguaglianza in regime di divisione di lavoro.

 

Così accade anche oggi, attraverso ad un nitrico grandissimo di rapporti fra uomo ed uomo, intrico diventato ogni giorno più fitto e complicato dal momento in cui gli uomini si accorsero che, continuando nel metodo dei Robinson Crusoè, ossia producendo, come s’usava, ciascuno in casa tutto quello che alla famiglia abbisognava, poco e male si produceva; e via via si estese il principio della divisione del lavoro, in virtù del quale il contadino semina il campo e miete e trebbia il frumento, il mugnaio lo macina ed il fornaio lo impasta e riduce a forma di pane; ed in realtà molti più uomini diversamente provvedono, ognuno per una piccolissima parte, a produrre i pani fragranti i quali allietano, od allietavano in tempi più miti, le nostre tavole. Ma il filo conduttore rimane quello antico: non Robinson Crusoè produttore impone a Robinson Crusoè di consumare pane, perché egli ha voluto coltivare quel campo a frumento; ma Robinson Crusoè consumatore ha deciso, a un certo momento della sua vita solitaria, che valeva la pena di rinunciare a consumar subito quella manciata di frumento salvata dal naufragio della nave per assicurarsi in anni futuri una provvista regolare di farina e di pane. Se egli si fosse contentato di latte, non avrebbe perso tempo alla fatica agricola; ma si sarebbe dedicato tutto alla pastorizia. Fu l’indole della sua domanda, varia per diversità di beni e delle loro qualità, che lo indusse a dedicare tempo e lavoro e cioè a produrre quei certi beni in quella data quantità. Ancor oggi il consumo determina la produzione; e ancora la offerta non è se non un aspetto della domanda. Il consumatore fa quella certa domanda ed ordina quella certa produzione, perché e in quanto è egli medesimo produttore. Il fornaio non potrebbe far domanda dei beni e servigi svariatissimi destinati a soddisfare i vari suoi desideri se non in quanto egli abbia prodotto una quantità equivalente di pane che egli prevede sarà da altri domandata. La somma dei prezzi dei beni e servizi prodotti e venduti da ogni produttore è il suo reddito; è il mezzo col quale egli interviene sul mercato a far domanda di beni e servigi, presenti e futuri, che sono il reddito di altri, per un valore uguale all’ammontare del suo reddito.

 

 

94. Condizioni dell’uguaglianza fra quantità domandata e quantità offerta di beni e servigi esistenti innanzi al 1914: universalità del sistema aureo, rispetto dei contratti, eliminazione dello spazio e del tempo, contratti a termine, città di mercato mondiale.

 

Che in ogni momento, la domanda di beni e servigi recata da ogni capo-famiglia o consumatore attivo sui mercato mercé l’offerta del suo reddito (somma dei prezzi dei beni e dei servigi da lui prodotti al netto dei costi) trovi la esatta contropartita nella offerta di beni e servigi portata sui mercato dai produttori, è la meraviglia delle meraviglie, è il giocattolo miracoloso che per poco gli uomini impazziti non distrussero dopo il 1914. Erasi, in quell’agosto 1914, che agli storici avvenire parrà la fine del secolo d’oro dell’economia mondiale, creato, al disopra e al di là dei confini legali fra stato e stato, delle dogane, delle distanze, delle lingue, dei costumi, un meccanismo complicatissimo fondato:

 

 

  • sulla unità sostanziale dei sistemi monetari, basati tutti, od almeno i principali di essi, sulla moneta d’oro o su monete permutabili a vista e senza alcuna inchiesta in un peso noto d’oro fino;
  • sui rispetto dei contratti, in virtù del quale le obbligazioni contratte in un dato paese dovevano essere adempiute in quello e in tutti gli altri paesi del mondo, sotto la sanzione sicura della perdita immediata del credito dell’inadempiente;
  • sulla nazione dello spazio e del tempo, sicché il compratore era certo di poter disporre a distanza di mesi e di migliaia di miglia della merce convenuta in una data precisa quantità e qualità;
  • sulla possibilità della cancellazione dei contratti stipulati, grazie alla stipulazione di uno o di parecchi contratti in senso inverso aventi la medesima scadenza e per l’importo della medesima quantità e qualità della merce prima acquistata; cosicché ad ognuno era dato di potere, osservando il contratto antico, uscire dal mercato nel quale si era entrati o rientrarvi quando se ne fosse usciti;
  • sulla costituzione di «piazze» o grandi mercati, come Chicago e Budapest per i cereali, Londra e Le Havre per le lane, Londra per i metalli, S. Paolo, Genova e Trieste per il caffè, Milano e Lione per le sete, i Lloyd, di Londra per i noli marittimi ecc. ecc. nei quali ad ogni momento si potevano acquistare e vendere per contanti ed a termine qualsiasi quantità di merci o di servigi tipici, sulla cui qualità non insorgeva dubbio alcuno; sicché i prezzi che ivi si formavano ed erano immediatamente dal telefono e dal telegrafo fatti noti in tutte le altre piazze del mondo, provocavano subito la stipulazione di altri contratti da parte di chi coll’arbitraggio industriavasi a profittare delle differenze di prezzo anche di minuti centesimi; e così i prezzi si uguagliavano, con la rapidità del lampo, in tutti i paesi del mondo, e questo era di fatto divenuto un mercato solo.

 

 

Il meccanismo meraviglioso funzionava senza che ad esso presiedesse alcuna mente ordinatrice; l’orologio segnava il passar del tempo con precisione cronometrica senza che nessuno mai l’avesse caricato. L’ordine perfetto nasceva dalla mancanza di chi regolasse la marcia dei complicatissimi ordigni, gli uni negli altri incastrati e tutti gli uni dagli altri interdipendenti, dello stupendo meccanismo. Il re consumatore, anzi centinaia di milioni di re consumatori, nessuno sapendo e nessuno occupandosi degli altri, col solo recarsi sul mercato, il quale tendeva, oltre le infinite varietà dei suoi aspetti tecnici e dei suoi luoghi, a diventare un solo mercato unificato nel mondo intiero, ordinava quante e quali cose dovessero essere prodotte, faceva ad esse travalicare oceani e continenti e superare il trascorrere inesorabile del tempo, indirizzava i risparmi e li trasformava in capitali investiti nelle maniere più opportune, affinché in quell’ora di quel giorno ed in quel luogo sul desco di una famiglia europea comparissero cibi confezionati con carni in conserva provenienti dall’Argentina, vini italiani o spagnuoli, frutta fresche africane, zucchero delle Antille, caffè del Brasile e questi fossero serviti a uomini vestiti con panni e lini tessuti con lane australiane e con cotoni nordamericani.

 

 

Tutto ciò era meraviglioso eppure sembrava ovvio, ché tutti si erano abituati all’idea che le diversità e le variazioni dei prezzi e le differenze fra i prezzi delle materie prime e dei beni finiti pronti al consumo regolassero le azioni degli uomini e li spingessero qua a scavar miniere, là a coltivar terre, altrove a foggiare il ferro od a filare e tessere lane e sete e cotoni; e poi a noleggiar navi ed a spedire merci, attraverso i mari e le terre, dai luoghi di origine sino al luogo preciso dove esse erano attese dai consumatori forniti della quantità del numerario atta a farne acquisto.

 

 

95. Significato del concetto «domanda effettiva».

 

I «desideri» non sono «domanda». Il mercato è un meccanismo perfettamente adatto alla domanda, ma non si occupa dei desideri; è indifferente alla distribuzione del numerario fra i cittadini.

 

 

«Forniti della quantità di numerario atta a fare acquisto delle merci desiderate!» Ecco il grande atto di accusa elevato contro l’economia di mercato. Questa è, sì, un meccanismo meraviglioso atto ad indirizzare la produzione verso i beni ed i servizi «desiderati» dagli uomini ed a fare a questi giungere i beni e servizi medesimi nella precisa quantità e della precisa qualità opportune a soddisfare i loro «bisogni»; ad una condizione tuttavia: che per «desideri» e «bisogni» non si intendano quelli che sono o sarebbero ritenuti tali dagli uomini, ma quelli soltanto, i quali possano trasformarsi in una domanda effettiva, corroborata dal possesso del numerario all’uopo occorrente. Perciò, il povero nullatenente dovrà ricorrere all’elemosina per piatire dal mercato il tozzo di pane ed il ricco epulone, dopo avere saziato il suo appetito verso ogni sorta di desideri più capricciosi, rimarrà con ampia riserva di numerario, alla quale la sua stanca fantasia non saprà più trovare alcun impiego. Lo strumento perfetto «economia di mercato» può servire dunque ai fini più diversi: ad indirizzare e distribuire la produzione in una società nella quale i redditi siano ripartiti nei modi più diversi e contrastanti. Siano i redditi ridotti alla perfetta uguaglianza numerica monetaria; ed i consumatori, re del mercato, faranno, a seconda dei gusti individuali, domanda di beni e servigi alquanto, ma non troppo, diversa l’uno dall’altro, perché il reddito basterà a soddisfare poco più delle esigenze fondamentali della vita. Si produrranno più pane e cibi semplici, vestiti e scarpe ordinarie e minor copia di beni secondari e superiori, comunemente detti di comodo o di lusso. I costumi dovranno essere spartani e l’industria dovrà essere meno varia. Scemeranno gli artigiani-artisti e si ridurrà il numero dei fornitori di raffinati singolari beni e servigi personali. Siano i redditi invece disugualissimi e distribuiti lungo una scala la quale vada dalle poche unità monetarie giornaliere appena bastevoli a sostenere la vita più miserabile alle cifre altissime delle migliaia e centinaia di migliaia di unità monetarie al giorno; ed i consumatori, sempre re, ordineranno al mercato altre produzioni, meno abbondanti quelle grossolane, più varie e fini e capricciose quelle superiori. Il mercato, descritto dagli economisti, si adatta dunque egualmente bene ai più diversi tipi di società e la sua eccellenza lascia insoluto il problema, moralmente e politicamente, sostanziale: quale delle diverse forme di distribuzione dei redditi è la migliore?

 

 

96. Scarsa rilevanza di fatto dei tentativi di una diversa distribuzione del numerario.

 

Probabilmente le idee le quali corrono solitamente tra i più intorno alla possibilità di mutare in maniera notabile la quantità di numerario disponibile per le moltitudini col portar via il supero ai ricchi non sono fondate sulla esperienza dei fatti. In un libro, consacrato a dimostrare l’avvento «fatale» dell’economia collettivistica in luogo della gloriosa, «eppure» tramontante, economia da lui detta «capitalistica»[2], lo Schumpeter calcola che «nel paese più capitalisticamente moderno del mondo», gli Stati Uniti d’America nel 1929, ossia innanzi alla grande crisi, in un tempo di piena prosperità; i percettori di redditi superiori a 50.000 dollari all’anno, i soli che egli consideri veramente sia pure moderatamente ricchi, percepissero 13 sui 93 miliardi di reddito nazionale. Deducendo però dai 13 miliardi le somme spese, per coazione legale o morale, per imposte e sottoscrizioni e doni a fini pubblici e quelle consacrate al risparmio, che è ufficio pubblico al quale in ogni società si deve provvedere ed è nelle «economie di mercato» affidato sovratutto ai redditi alti e medi, la somma disponibile per il consumo dei ricchi si riduce a non più di 4 miliardi e un terzo, circa il 4,6% del reddito nazionale totale. Se poi si tiene conto che solo in parte i percettori di redditi alti sono ricchi «oziosi», laddove molti sono professionisti di grido e capi effettivamente dirigenti delle grandi imprese economiche, rimunerati, in ogni tipo di società, anche collettivistiche, con compensi assai alti, il residuo appartenente ai ricchi «oziosi» e ripartibile a pro delle moltitudini a stento potrebbe essere reputato superiore all’1% e tutt’al più potrebbe essere spinto al 2 percento. Se si voglia ripartir qualcosa di più del quasi zero, bisogna scendere assai più in basso nella scala dei redditi; ed appiattire quasi del tutto la piramide o meglio trottola sociale, al solo intento di abolire o ridurre la sezione della trottola situata al disotto della più larga base, supposta uguale al minimo necessario ad una vita decente.

 

 

Non si è riportato qui il calcolo dello Schumpeter se non perché fu costrutto da un economista e statistico di grande valore e per giunta storico persuaso del fatale tramonto della civiltà dell’economia di mercato. Ben si sa che siffatti calcoli sono grandemente ipotetici, ignorando essi quali mutazioni avverrebbero nella produzione della ricchezza in più ed in meno e quale la risultante finale della variazione in una società nella quale i redditi fossero ripartiti diversamente dal modo odierno. Il calcolo vuole dimostrare soltanto che, fermi rimanendo tutti gli altri dati del problema, una ripartizione ugualitaria del reddito nazionale totale oggi esistente non muterebbe in maniera apprezzabile le sorti delle moltitudini; e, tenuto conto del costo e delle resistenze generate dalla mutazione, probabilmente le peggiorerebbe.

 

 

97. Scarsa variabilità della distribuzione dei redditi nel tempo.

 

Né si vuole opporre alle richieste di elevazione degli umili e di abbassamento dei grandi la replica sconsolata la quale può essere dedotta dalla celebre legge paretiana della distribuzione dei redditi: inutile cercar di mutare la distribuzione dei redditi, ché questa sembra storicamente essere costante. In tempi e luoghi diversi esiste una distribuzione dei redditi che si può dir naturale. Bresciani[3] calcolando quanti individui su cento abbiano un reddito inferiore al reddito medio del paese, trovò che in Inghilterra la percentuale scemò dall’82% nel 1801 all’80% nel 1850-51, risalì all’83% nel 1879-80, ridiscese all’81% nel 1913 e ritornò all’80% nel 1924; ed in Prussia, che è l’altro grande paese per il quale si posseggono dati riducibili ad omogeneità lungo un periodo di tempo ragguardevole, la percentuale variò appena dal 78% nel 1875 al 79% nel 1913. Né mutazioni grandiose di struttura economica, né variazioni notabili di peso dell’attività agricola o commerciale o manifatturiera, né guerre né paci sembrano avere efficacia a mutare la distribuzione dei redditi; sicché Pareto quasi finisce di ritenerla una espressione delle qualità innate di attitudine al procacciamento della ricchezza da parte degli uomini.

 

 

98. L’indifferenza del mercato non dipende dalla mancanza di istituzioni correttive?

 

Non si vuole qui opporre siffatta sconsolata replica, perché se anche fosse vero che la distribuzione della ricchezza segna una norma costante, e precisamente quella accertata dalle indagini del Pareto, del Bresciani e di altri insigni, ciò accade entro società nelle quali facciano difetto istituzioni consapevolmente intese a mutare quella distribuzione; e nel tempo dall’inizio dell’800 a oggi, sebbene la legislazione sociale, le leggi di tutela del lavoro delle donne e dei giovani, la libertà di associazione, la diffusione dell’istruzione e la produzione economica subissero variazioni profonde e tutte favorevoli all’elevazione delle sorti delle classi più numerose, nelle somme linee rimase invariato il quadro di una società economica nella quale non esistevano freni vigorosi al successo delle qualità umane favorevoli al procacciamento della ricchezza. Rimane perciò vivo l’atto di accusa rivolto contro il formalismo dei pregi attribuiti al meccanismo del mercato. Quel meccanismo lavora con perfezione mirabile; ma dà la risposta congrua alle domande che arrivano sino ad esso, da quelle di plutocrati miliardari alle infime di mendicanti straccioni. Il meccanismo è un impassibile strumento economico, il quale ignora la giustizia, la morale, la carità, tutti i valori umani.

 

 

99. La esigenza della uguaglianza nei punti di partenza.

 

Si ignori la esigenza di coloro i quali, partendo dalla premessa della uguaglianza degli uomini, vorrebbero che ognuno potesse, in ogni momento della vita, fare una domanda di beni e di servizi uguale a quella di ogni altro uomo. La esigenza contraddice apertamente ad altre esigenze, pur morali, le quali vogliono che ad ognuno sia diversamente dato secondo i suoi meriti ed a constatazioni empiriche universali le quali provano la impossibilità della persistenza di società inspirate al concetto della uguaglianza assoluta o della proporzionalità ai bisogni. Proporzionalità che, dovendo essere osservata secondo le regole oggettive proprie dei comandi legislativi, non potrebbe non ridursi alla uguaglianza, sia pure temperata dalla considerazione di circostanze esterne, accertabili imparzialmente, come l’età, il sesso, la salute, il mestiere e simiglianti. Un consenso abbastanza largo sembra, nel contrasto fra le opposte esigenze della proporzionalità ai bisogni od ai meriti, essersi affermato intorno ad un altro principio: quello della uguaglianza nei punti di partenza.

 

 

Qual colpa ha un bambino di essere nato da genitori miserabili e per giunta viziosi, alcoolizzati ed ignavi e di essere perciò costretto a morte precoce ed in caso di sopravvivenza, a vita dura, in stanze sovraffollate, in ambiente privo di ogni luce spirituale e morale, predestinato alla miseria, alla delinquenza o alla prostituzione? Qual merito ha un altro bambino, se, nato frammezzo ad agi, ha avuto salva la vita anche se di costituzione debole, l’ha potuta fortificare con gli esercizi fisici, nell’aria pura dei monti o del mare, ha avuto larghe possibilità di coltivar la mente, di frequentar scuole ed ottenere titoli, che gli hanno aperto la via ad una fruttuosa carriera, del resto facilitata dalle molte relazioni di parentela, di amicizia e di affari dei genitori? Il povero resta dunque povero e il ricco acquista ricchezza non per merito proprio, ma per ragion di nascita; ed ai posti di comando, nelle imprese economiche, nel governo degli stati, nell’amministrazione pubblica, nelle lettere, nelle scienze, nelle arti, nell’esercito giungono non i più meritevoli, ma quelli che meglio furono favoriti dalla sorte dalla nascita. Quante invenzioni utili, quante scoperte scientifiche, quanti capolavori di scultura, di pittura, di poesia, di musica non poterono mai giungere a perfezione, perché l’uomo, il quale vi avrebbe potuto dar nascimento, dovette sino dai primi anni addirsi a duro brutale lavoro, che gli vietò di far germogliare e fruttificare le qualità sortite da natura? La produzione medesima economica non sarebbe forse grandemente diversa da quella che è e maggiore se tutti gli uomini potessero ugualmente dar prova delle proprie attitudini di lavoro, di invenzione, di iniziativa e di organizzazione? La produzione è quella che è, partendo dalla premessa che solo una minoranza degli eletti può giungere sino ai posti di comando; ma sarebbe ben diversa se la selezione degli eletti potesse farsi tra l’universale degli uomini.

 

 

100. Cautele necessarie nella valutazione degli effetti della disuguaglianza nei punti di partenza.

 

V’ha una grande virtù nella esigenza morale della uguaglianza nei punti di partenza. Ma gioverebbe assai se i suoi banditori non la esponessero spesso unicamente in termini che sanno troppo di esagerazione retorica per essere atti a cogliere la realtà vera. Il contrasto fra lo sciocco «figlio di papà», il quale occupa i posti più remunerativi ed il «genio misconosciuto» il quale trascina una vita miserabile in lavori oscuri perché ebbe la disavventura di nascere da genitori poveri impressiona nella bocca del tribuno o nelle pagine del romanziere celebre; ma quale statistico ha potuto mai misurare la frequenza del fatto? La vita dura non è forse la cote alla quale sono provati i caratteri saldi e tenaci; e non furono durante il secolo 19esimo ed ancora oggi nel secolo 20esimo numerosi i casi di coloro per i quali si addimostrò vero il monito del volere è potere? Vi è qualche indizio, il quale consenta di dare una misura anche approssimativa dei geni o semplicemente degli uomini meritevoli di un comando più o meno elevato i quali, per colpa della miseria, non siano giunti al luogo al quale l’indole del loro ingegno li faceva adatti? Le agevolezze moltiplicatesi nell’ultimo secolo di educazione e di istruzione gratuita, di borse di studio non hanno grandemente ridotto gli impedimenti a salire, i quali, del resto, nelle epoche storiche di artigianato, di bottega e di piccole imprese economiche apparivano ben minori di quanto parvero diventare nell’epoca moderna delle grandi imprese, delle grandi banche e dei consorzi industriali e commerciali? Esistono studi intorno alla frequenza maggiore o minore di self-made men, di uomini venuti su dal nulla e giunti a posti di comando? Se si dovesse giudicare da prime impressioni, si dovrebbe concludere che gli homines novi siano in tutti i paesi e in tutti i rami della vita politica, religiosa, intellettuale, artistica ed economica la maggioranza degli arrivati. Se si dovesse giudicare dalla esperienza, corroborata dalla sapienza dei proverbi, si dovrebbe giudicare che il privilegio della nascita ha ben scarsa persistenza attraverso le generazioni; ché il proverbio afferma che la sostanza messa insieme dal padre è per lo più conservata dal figlio e fatta svaporare dal nipote. Chi, se non un curioso erudito Baudi di Vesme, ha mai fatto indagini intorno ai discendenti di famiglie nobili i quali, dal medioevo in qua di secolo in secolo, sono ritornati al popolo e si sono confusi di nuovo tra contadini, fabbri, scrivani, popolo minuto, perdendo a poco a poco persino la ricordanza degli illustri antenati dai quali sono discesi?

 

 

101. Paragone con le condizioni di «lealtà» poste nelle gare di corse.

 

Sebbene non se ne possegga alcuna esatta misura, fa d’uopo affermare tuttavia che se la disuguaglianza dei punti di partenza potesse essere eliminata sarebbe notabilmente variata la produzione dei beni e dei servizi a causa delle agevolezze concesse a tutti gli uomini di far valere nel modo migliore le proprie attitudini. Come una gara di corse non è considerata leale se tutti i concorrenti non balzano in avanti nel medesimo momento e se qualche concorrente è impedito da qualche particolare inconveniente dal far valere le sue qualità; così la gara della vita tra gli uomini non appare leale se a tutti non sia concessa la medesima opportunità di partenza per quel che riguarda l’allevamento, la educazione, la istruzione e la scelta del lavoro. Se poi, durante la vita, l’uno riesce e l’altro soccombe, l’uno giunge a posti elevati di comando e l’altro ubbidisce in posizioni subordinate, l’uno accumula ricchezze e l’altro non riesce a formarsi un patrimonio o consuma tutti i suoi guadagni, qui il merito o la colpa è dei singoli, che sono diversi l’uno dall’altro ed hanno ottenuto quel che singolarmente hanno meritato.

 

 

102. L’esigenza della uguaglianza non vuol dire taglio netto fra le successive generazioni; ed imponendo un minimo di agevolezze nei punti di partenza, non vieta lo sforzo dei genitori per elevare i figli al disopra del minimo.

 

L’esigenza dell’uguaglianza nel punto di partenza vuol dire dunque che vi possono essere ricchi, mediocri e poveri, forti e deboli, arrivati e rimasti in coda, potenti che comandano ed umili che ubbidiscono durante la vita sino al momento della morte; ma tutti debbono partire ugualmente nudi od ugualmente provveduti nel giorno nel quale si inizia per l’uomo la vita produttiva ed indipendente? Evidentemente no. L’esigenza postulata non significa vi debba essere un taglio netto fra una generazione e l’altra, sicché, ove la vita produttiva indipendente si supponga iniziata ai 20 anni, la disuguaglianza possa nascere e perdurare solo fra i 20 ed i 70 anni, supponendo quest’ultima sia l’età terminale della vita umana. L’idea della perpetuazione della specie, della continuità della famiglia non avrebbe senso se i genitori tra i 20 ed i 70 anni non potessero provvedere diversamente con i loro mezzi diversi di guadagno personale e con le proprie relazioni di parentela, di amicizia, di colleganza e di posizione sociale ad allevare, educare, istruire ed agevolare nella vita i figli tra la nascita ed i 20 anni. Essa vuol dire soltanto che se i genitori non riescono per incapacità od ignoranza o mancanza di mezzi a dare ai loro figli un minimo di sanità fisica, di istruzione e di educazione atto a consentire ad essi di partecipare alla gara della vita senza troppo grave soma iniziale, qualcun altro debba provvedere a dare quel minimo che sia indispensabile affinché essi non siano costretti ad accettare subito quelle qualsivoglia più basse occasioni di lavoro che ad essi si presentano e possano attendere fino al limite dei 20 anni od a quell’altro che l’opinione prevalente nella società giudichi più adatto, a fare la scelta di lavoro da essi considerata meglio conforme alle loro attitudini. L’esigenza postulata non vieterebbe dunque ai genitori, posti più in alto nella scala sociale, di dare ai propri figli una educazione ed una preparazione migliore di quella minima garantita a tutti dall’ente pubblico. Non vieterebbe neppure ai genitori, preoccupati di morire innanzi tempo o di perdere le proprie attitudini a procacciarsi col lavoro un reddito bastevole, di assicurare in qualche maniera, anche in loro mancanza, ai figli quella formazione morale ed intellettuale che essi giudicassero opportuna per il loro avvenire. Esisterebbe dunque una qualche disuguaglianza nei punti di partenza fra i giovani i quali a 20 anni hanno potuto fruire delle agevolezze di vita, di studio, di educazione e di relazioni apprestate, direttamente o con provvidenze assicurative, dai genitori elevatisi con i loro sforzi di lavoro e coloro i quali hanno potuto utilizzare solo le minime agevolezze offerte dall’ente pubblico. Persisterebbe ancora una certa disuguaglianza: i genitori potrebbero, elevandosi e risparmiando, usare dei propri mezzi esclusivamente per dare ai propri figli educazione, istruzione e lancio nella vita. Non sarebbe esclusa la trasmissione di una casa fornita di qualche adiacenza di giardino od orto, di mobilio, di biancheria, di libri, di oggetti d’arte o di ornamento limitatamente all’uso personale della famiglia. Sarebbe, in questo tipo di disuguaglianza, esclusa la trasmissione ereditaria di sostanze produttive di reddito pecuniario, atte a consentire ai figli di condurre una vita indipendente in tutto od in parte dall’obbligo di lavorare.

 

 

103. Non è accetta universalmente a tutti la condizione che a tal fine sia vietata la proprietà privata dei mezzi di produzione.

 

Anche così interpretata, con una certa larghezza, la norma dell’uguaglianza dei punti di partenza suppone però una società collettivistica, nella quale il possesso ed il governo dei mezzi di produzione, dalla terra alle sue migliorie, dagli impianti industriali alle macchine ed agli utensili, dalle ferrovie ai porti, dai magazzini commerciali alle case d’affitto, dalle miniere agli acquedotti, dalle centrali idroelettriche alle reti di distribuzione, dagli acquedotti ai gasometri spetti allo stato o ad altro ente pubblico; e nella quale all’ente regolatore pubblico spetti la determinazione di quel che deve essere prodotto per soddisfare alle esigenze dei consumi quotidiani e di quel che deve essere parimenti prodotto per conservare l’attrezzatura industriale, agricola e commerciale (cosidetta quota di manutenzione e di sostituzione) e per darvi incremento progressivo (risparmio). Qui si enuncia la condizione alla quale è subordinata la persistenza del tipo sopra definito di limitazione della disuguaglianza, solo per constatare che quel tipo non può essere accettato da tutti coloro i quali ripugnano a vivere in una società collettivistica, perché diventare funzionari di un unico datore di lavoro appare ai loro occhi troppo grande sciagura morale.

 

 

104. Escluso il collettivismo pieno, l’uguaglianza nei punti di partenza sembra richiedere un’imposta ereditaria nel tempo stesso uguagliatrice e stimolatrice.

 

Se la condizione non può da costoro essere accettata, può la norma della uguaglianza dei punti di partenza essere fatta altrimenti osservare? Se noi non vogliamo una società collettivistica, se noi ammettiamo che debba continuare ad esistere, accanto alla sfera pubblica, una sfera privata della vita economica, l’uguaglianza nei punti di partenza dovrebbe essere compatibile con due condizioni, le quali dovrebbero ambedue coesistere. Dovrebbe cioè in primo luogo l’imposta ereditaria falcidiare, alla morte di ogni uomo, tutta l’eccedenza della sostanza che egli in vita ha saputo cumulare al di là di quanto basti a garantire la vita del coniuge superstite, la educazione e la istruzione dei figli sino alla maggiore età economica, la sussistenza dei figli inetti, per deficienze fisiche o mentali, a procacciarsi il sostentamento, il possesso della casa, provveduta di adiacenze, di mobilio, di libri ed oggetti vari, reputata bastevole alla famiglia sopravvivente; sicché la sostanza riservata sia tenuta entro limiti atti ad impedire disuguaglianze apprezzabili nei punti di partenza. In secondo luogo, la imposta falcidiatrice ed uguagliatrice dovrebbe lasciare sussistere lo stimolo necessario affinché l’uomo durante la sua vita produttiva, suppongasi dai 20 ai 70 anni, lavori quant’è necessario affinché siano conservati in buon essere i mezzi di produzione (terre migliorate, case d’affitto, impianti industriali, scorte vive e morte dell’agricoltura, e scorte di materie prime, di semi-lavorati e di prodotti finiti), necessari al regolare funzionamento della vita economica nella sfera non pubblica (quota di manutenzione e di sostituzione), ed affinché gli esistenti mezzi di produzione siano incrementati così come richieggono le invenzioni di nuove macchine, di nuovi processi e di nuovi beni e l’esigenza di un continuo miglioramento nel tenor di vita degli uomini (risparmio).

 

 

105. Incompatibilità fra i due connotati. I beni strumentali sono una continua creazione.

 

Basta porre le due condizioni per vedere come esse siano incompatibili tra di loro. Il capitale esistente non è, come immaginano taluni ingenui, una quantità data della quale si possa disporre a piacimento di un qualunque riformatore. Coloro i quali parlano di trapasso della proprietà dei mezzi di produzione dai cosidetti capitalisti agli operai ed ai contadini, compresi i tecnici e gli impiegati, e nel tempo stesso non vogliono il collettivismo (comunismo o socialismo, che sono sinonimi) non sanno quel che si dicono, non avendo essi riflettuto al contenuto necessario delle parole pronunciate. Il capitale è una creazione continua e faticosa dell’uomo. La casa abbandonata a se, in breve volger d’anni è soggetta alle infiltrazioni delle piogge, alle rotture dei tubi d’acqua, alla degradazione degli infissi e dei pavimenti e diventa inabitabile. La terra non curata e non restaurata si degrada; la sua fertilità scema e la produttività si riduce. Bastano pochi anni, durante i quali l’agricoltore pensi soltanto a «cogliere i frutti» della vigna, del frutteto, del prato e del campo perché la vigna sia invasa dalla gramigna e le viti uccise dalle crittogame, perché gli olivi periscano vittime dei nemici pullulanti nel mondo vegetale ed animale ed inselvatichiscano e campi e prati producano erbacce invece di frumento e di erbe nutrienti. Gli impianti industriali hanno forse una vita la quale vada in media oltre il decennio? Non rinnovata e non sostituita da macchine più perfezionate, la macchina esistente diventa in breve volger d’anni ferraccio. Il capitale esistente è men che nulla se non è conservato e rinnovato ed accresciuto. Accresciuto, si aggiunge, perché noi non possiamo immaginare una società stazionaria, composta di uomini i cui gusti, per quantità e qualità di beni, non mutino col tempo; i cui bisogni, astrazion fatta dall’incremento determinato da un aumento della popolazione, che potrebbe anche venir meno, non aumentino col tempo e cioè non diventino più vari e raffinati. Le quali verità sono così evidenti che non varrebbe la pena di neppure enunciarle, se spesso non ci si dimenticasse della illazione la quale logicamente segue alla esigenza della conservazione e dell’incremento del capitale. Importa che qualcuno provveda al compito ora affermato necessario; e due sole sono le maniere sin qui inventate. O vi provvede la collettività o vi provvedono i singoli uomini.

 

 

106. I piani delle società collettivistiche sono imposti dalla necessità di consacrare il lavoro di una parte degli uomini alla conservazione ed all’incremento dei beni strumentali.

 

In una società collettivistica provvede all’uopo l’autorità pubblica, e cioè lo stato e gli enti delegati dallo stato. I cosidetti piani quinquennali russi non hanno altro significato. Essi vogliono dire che, durante un dato periodo di tempo, suppongasi un quinquennio, il lavoro degli uomini viventi è diviso in due parti. Alcuni lavoreranno a produrre beni diretti, ossia alimenti, vestiti, scarpe, bevande, combustibili per riscaldamento e per cucina, mezzi di illuminazione e servizi pure diretti di insegnamento, di stampa e diffusione di libri e di giornali, di conservazione della salute fisica, della sicurezza sociale, della difesa nazionale, della giustizia ed in genere tutti i beni ed i servizi che sono consumati dagli uomini di giorno in giorno, beni e servizi i quali costituiscono il reddito consumato, goduto dagli uomini. Costoro, che così lavorano, danno opera a produrre beni e servizi diretti non soltanto per se stessi, ma anche per il secondo gruppo di uomini i quali invece sono addetti alla produzione dei beni strumentali. Chiamansi così tutti i beni i quali non giovano immediatamente a soddisfare un bisogno dell’uomo, ma gioveranno in seguito. Chi è occupato a costruire dighe su un fiume ed a compiervi un grande impianto idroelettrico, chi costruisce uno stabilimento industriale od è addetto alla produzione delle macchine che vi saranno collocate, chi scava un canale d’irrigazione o rimboschisce la montagna o risana la palude od impianta vigneti, oliveti, aranceti o frutteti, chi innalza muretti su un terreno in pendio, chi costruisce case nuove, e chi provvede a mantenere, restaurare, rinnovare impianti e canali e muretti e piantagioni, non produce nulla che possa immediatamente od anche nell’anno in corso e talvolta per quinquenni e decenni essere goduto. Egli lavora e deve perciò vivere; ma non può vivere sul frutto del lavoro proprio, ché questo non è assimilabile dal suo organismo. Il produttore di beni strumentali deve essere mantenuto dal frutto del lavoro del produttore di beni diretti. Ridotti alla loro espressione più semplice, i piani quinquennali russi non furono altro se non il comando dato a 50 su 100 lavoratori (dirigenti, tecnici, impiegati, contadini ed operai) di provvedere col lavoro proprio a mantenere se stessi e gli altri 50 lavoratori ai quali invece era comandato di lavorare per provvedere alla fabbricazione dei beni strumentali (capitali) necessari alla attrezzatura civile e militare del paese. In altre parole, ai russi fu comandato di vivere per cinque anni, e poi per altri cinque e poi per un terzo quinquennio col prodotto del lavoro di metà della popolazione, per consentire all’altra metà di produrre beni futuri. Siamo nel quarto quinquennio e la produzione degli uomini destinata alla produzione di beni strumentali o futuri (detti anche beni capitali) che si supponeva non fosse inferiore al 50%, oggi, date le urgenze della guerra, è forse cresciuta. Il che in termini conformi all’uso del parlare europeo occidentale, vuol dire che la popolazione intiera ha dovuto assoggettarsi ad un prelievo del 50% e probabilmente più sul proprio reddito allo scopo di provvedere all’incremento dell’attrezzatura industriale, sovratutto bellica, del paese.

 

 

107. Gli uomini egoisti individuali e gli uomini costruttori. Il medioevo ed il concetto dell’eterno.

 

Chi non voglia una società collettivistica, nella quale necessariamente i piani di produzione e di distribuzione della ricchezza vengono dall’alto ed ogni traccia di libertà, di determinazioni individuali economiche è spenta, deve trovare altra via per conservare e crescere il capitale esistente. Ci si accorge allora che la vera unità sociale non è l’individuo isolato ma la famiglia.

 

 

Vi sono certamente due tipi di uomini: coloro che pensano a sé soli e quindi restringono i propositi d’avvenire alla propria vita od al più a quella della compagna della vita loro. Ad ogni generazione il corso della vita ricomincia. Essi creano le società stazionarie, anzi regressive, ché se tutti gli uomini fossero simili ad essi, non sarebbe neppure conservato il capitale esistente. Il tipico investimento dell’individuo egoista provvisto di salario di lavoro, intellettuale o manuale, è la pensione vitalizia. Se costoro risparmiano, il risparmio è investito in una annualità su una o su due teste ed è distrutto interamente al termine della vita dell’individuo o della coppia di individui. A che conservare qualcosa, se per essi il mondo muore al termine della vita terrena?

 

 

Accanto agli uomini, i quali concepiscono la vita come godimento individuale, vi sono altri uomini, fortunatamente i più, i quali, mossi da sentimenti diversi, hanno l’istinto della costruzione. Forse in nessuna epoca storica l’istinto della costruzione fu così evidente come nel medioevo, quando si costruiva per l’eternità. I castelli erano fortezze, con muraglie dallo spessore ciclopico e le case erano torri che volevano sfidare i secoli. Non si parlava di prestiti di denaro ad interesse, rimborsabili e perciò consumabili entro pochi anni, ma di costituzione di rendite perpetue, grazie a cui il debitore diventava proprietario della somma ricevuta e non aveva obbligo di restituzione; ma il creditore diventava a sua volta proprietario in perpetuo di una rendita garantita dal fondo assoggettato, soggiogato all’onere. Il fondo, e non il proprietario del fondo, era obbligato in perpetuo al pagamento della rendita. Il fedecommesso, il maggiorasco contenevano l’idea della perpetuità, della continuità delle generazioni. Chi aveva costrutto il castello, la torre, la casa, chi aveva dissodato il terreno boscoso od incolto e vi aveva eretto una masseria voleva che il castello, la torre, la casa, la masseria rimanesse per sempre nella sua famiglia. Era vivo in tutta l’Europa il principio delle famiglie-ceppo, nelle quali il podere veniva trasmesso di primogenito in primogenito o di ultimogenito in ultimogenito e gli altri sciamavano all’intorno o lontano a creare nuove famiglie; ma taluno rimaneva, celibe, nella casa paterna, ad aiutare gli altri e tutti, se la sventura li coglieva, vi potevano ritornare a cercarvi ospitalità e conforto negli ultimi anni della vita. Il tipo della famiglia-ceppo che si perpetua sul fondo non frazionabile perdura in talune regioni germaniche e scandinave; ma in forme diverse è vivo dappertutto. Il padre non risparmia per sé; ma spera di creare qualcosa che assicuri nell’avvenire la vita della famiglia. Non sempre l’effetto risponde alla speranza, ché i figli amano talvolta consumare quel che il padre ha cumulato; e se non i figli, i nipoti od i pronipoti potranno appartenere alla specie degli egoisti individuali, i quali non guardano oltre il momento che fugge od oltre la soglia della morte. Ma se i figli sono parecchi, come è uso dei costruttori, l’istinto della perpetuità si rinnova in taluno di essi; e se l’uno scialacqua, l’altro riscatta colla fatica diuturna i frammenti sparsi della costruzione paterna; e la famiglia dura, talvolta nei secoli. Se mancano i figli, l’uomo dotato dell’istinto della perpetuità costruisce perché un demone lo urge a gettare le fondamenta di qualcosa. Il patrimonio sarà destinato ai parenti, ad opere pie, a scopi educativi o benefici. Non si costruisce perché alla morte, la casa costruita sia venduta all’incanto ed il denaro ricavato sia dato alla collettività anonima per essere speso. Ciò ripugna profondamente al risparmiatore. Nessuno abbandona volontariamente la propria eredità allo stato, perché questi ne consumi il valsente per provvedere alle spese correnti pubbliche. Il testatore pensa alla «fondazione» del museo, della collezione di libri raccolta in una stanza col nome del fondatore. del giardino pubblico, del parco destinato al riposo della cittadinanza, dell’asilo infantile, dell’orfanatrofio, dell’ospedale dei vecchi. Se l’opera fondata non potrà portare, per la piccolezza dell’offerta, il nome del fondatore, questo sarà iscritto su una lapide, in un albo di benemeriti, posto al disotto di un busto in marmo o di un ritratto ad olio. Vi sono avari, i quali conducono vita stenta e confessano di cumulare per il piacere di cumulare, perché la contemplazione del gruzzolo crescente è cagion per essi di intenso piacere; ma in fondo al loro animo vi è un proposito: essere segnalato, nel ricordo dei beneficati, tra i benemeriti di un’opera pia, del Cottolengo o dei Salesiani a Torino, dell’Ospedal maggiore a Milano o tra i fondatori di illustri premi universitari od accademici.

 

 

108. L’ideale della città-giardino.

 

Coloro che così vorrebbero costruire per l’eternità hanno una concezione dell’uguaglianza nei punti di partenza ben più alta di quelli che vorrebbero che la gara ricominciasse per tutti ad ogni generazione; che il risparmio fosse investito esclusivamente nell’uomo ed in quelle cose materiali, le quali sono come il prolungamento della persona umana: la casa dove si abita, il mobilio, i libri, gli oggetti cari, il piccolo giardino, dove si coltivano i fiori e gli ortaggi e si allevano, insieme col cane ed il gatto, i volatili da cortile. L’ideale della città-giardino supera certamente quello dell’alveare della grande città, dove gli uomini non si conoscono, dove tutti hanno lo stesso volto, e, per fuggire la noia della vita nelle due camere, cucina e bagno, corrono tutti allo stesso cinematografo, ascoltano la medesima radio, leggono il medesimo giornale e si entusiasmano alle medesime gare di uomini che si prendono a pugni o giocano alla pallacorda; ma i figli pagano, appena possono, una pensione alimentaria alla madre e fanno, con quel che avanza dei loro salari, borsa a sé, consumandola in sigarette od in calze di falsa seta; salvo a ricominciare da capo, in unioni legali o libere, nella solita cellula dell’alveare cittadino, che tutto adegua ed appiattisce. Vi è, nella città-giardino, l’inizio della costruzione; la famiglia comincia a diventar qualcosa di distinto e superiore alle persone fisiche in cui essa si concreta nella generazione presente. Vi sono le mura della casa, le stanze, il terreno circostante, gli oggetti acquistati od ereditati dagli avi, i quali dicono: qui, entro queste mura, voi siete nati, qui siete cresciuti, qui avete avuto l’esempio dei vecchi, i ricordi di quel che di bene e di male essi fecero, l’indicazione della via che dovete seguire e di quella che dovete fuggire. I ritratti che pendono alle pareti, gli album famigliari, i libri annotati vi dicono di generazioni nelle quali regnò la concordia fra padre e madre e crebbe la prosperità della famiglia e di generazioni nelle quali invece dominò la discordia ed il disamore e la famiglia decadde e dal naufragio si salvarono appena pochi oggetti, ad ammaestramento dei venturi.

 

 

109. L’ideale della città-giardino non vive di vita autonoma.

 

Tuttavia, sebbene l’ideale sia posto già più in alto, una società composta di città-giardino, di villette e di casette sparse nei sobborghi è cosa fragile, la quale non vive di vita indipendente, autonoma. L’uomo non è più il salariato puro, colui che vive del tutto alla dipendenza altrui; egli trae già dalla casa propria un senso di autonomia, la sua persona non è più un atomo vagante simile a tutti gli altri atomi, egli possiede un prolungamento esterno di sé, attorno a cui può prendere corpo ed anima la famiglia, un focolare attorno al quale gli altri individui che da lui nascono si possono raccogliere e presso cui possono trovare protezione. Come vive però là città-giardino? Essa non ha in se stessa le fonti della vita. Si è compiuto per fermo un passo innanzi nella costruzione di una società stabile, perché accanto ai beni di consumo immediato gli uomini hanno cominciato ad apprezzare i beni di consumo durevoli. È nato il senso del tempo che verrà, del tempo nel quale chi ha costrutto la casa, adunato i libri, acquistato i mobili e gli oggetti non sarà più vivo; ma le cose da lui create conforteranno ancora la vita dei figli e dei nipoti. È nata la famiglia; ma questa non vive ancora. Non può nemmeno vivere del proprio lavoro; come può vivere se tutti ugualmente pensano soltanto a risparmiare quel che è necessario per i consumi dell’oggi e del domani? L’uomo, per vivere, deve uscire dalla casa e recarsi altrove, dove adatti strumenti produttivi – terreni coltivati ed appoderati, fabbriche, laboratori, ferrovie, ponti, strade, porti, scuole, mezzi di trasporto, macchine e strumenti di ogni sorta – gli consentano di produrre, trasportare, scambiare e distribuire gli alimenti, i vestiti, le scarpe, i libri, le cose che egli poi consumerà e in cui vivrà ed avrà ed alleverà ed educherà una famiglia. Chi crea questo mondo esterno grazie a cui si producono i beni di consumo immediati e durevoli che l’uomo vuole possedere e godere? Chi se non l’uomo medesimo? Chi non vuole una società collettivistica nella quale lo stato stabilisce coattivamente quanta parte degli uomini viventi produce beni diretti e quanta parte beni strumentali, deve consentire alla necessità che l’uomo sia stimolato a risparmiare quanto occorre affinché sia conservato e sia cresciuto il capitale esistente in ogni dato momento nella società. Ed in una società libera, nella quale non sia coattivamente stabilito che ogni uomo debba destinare il 70% del proprio reddito al consumo, il 10% alla conservazione del capitale o patrimonio preesistente, ed il 20% al risparmio – suppongasi che questa sia nel dato tempo e luogo la distribuzione del reddito in media occorrente affinché il capitale esistente sia mantenuto e cresciuto in guisa da consentire alla popolazione (stazionaria o crescente) di migliorare gradatamente il proprio tenore di vita – fa d’uopo consentire agli uomini di manifestare liberamente le proprie preferenze; e gli uni consumeranno tutto, gli altri risparmieranno il 5, od il 10, od il 20% e vi sarà chi, per avarizia o per larghezza di reddito, risparmierà il 50, il 70 od il 90% del proprio reddito; ed accadrà che in media, dopo aver provveduto ad accantonare il 10% a titolo di quota di manutenzione, il risparmio giungerà al 20% del reddito nazionale, quanto basta a crescere convenientemente il capitale esistente nel paese.

 

 

110. Il tipo dell’uomo dilapidatore.

 

Facendo astrazione dagli squilibri momentanei fra risparmio ed investimento, la destinazione che gli uomini in media facciano del 20% del proprio reddito al risparmio fa sì che la produzione riceva un indirizzo peculiare diverso da quello che esisterebbe se il risparmio fosse nullo o diversamente superiore od inferiore allo zero. Il risparmio è inferiore allo zero quando gli uomini, non potendo consumare il capitale esistente a fini di godimento perché non è possibile fisicamente che gli uomini consumino, col mangiare, bere, vestire e divertirsi, la terra, le piante, le macchine, le scorte di materie prime tali e quali, trascurano di mantenerle, di rinnovarle quando sono deperite, di sostituirle quando non sono più atte, per mutati gusti o per invenzioni di nuovi strumenti, al loro ufficio produttivo. L’uomo, il quale faticherebbe 30 sui 300 giorni lavorativi all’anno per conservare e rinnovare il capitale esistente e durante i 30 giorni non potrebbe perciò produrre nessun bene o servizio atto a soddisfarei suoi desideri di godimento, può rinunciare all’opera di conservazione e dedicare anche i 30 giorni a produrre beni diretti. Talvolta segue siffatta condotta per ragioni superiori di salvezza del paese; come quando in tempo di guerra si sfruttano le dosi di fertilità accumulate nel terreno con fatiche lunghe di lavorazione o con ammegliamenti di concimazione o di irrigazione o di livellamento; ed in tal caso la degradazione del terreno è giustificata dal nobile fine. Può invece seguire la stessa condotta per avidità di godimenti immediati; ed in tal caso la quantità dei beni di consumo o godimento presente cresce a scapito della produttività futura. Il capitale esistente si degrada, la terra è assoggettata a coltura di rapina e scema di valore perché gli uomini non guardano all’avvenire. In ogni società vi sono dilapidatori i quali trascurano il buono stato delle loro case e dei loro terreni, riducono le loro fabbriche in breve volger di anni ad un cumulo di stridule ferraglie e conducono se stessi alla rovina.

 

 

111. Quello dell’uomo conservatore.

 

Il risparmio è nullo, quando gli uomini si limitano a serbare intatto il valore del patrimonio posseduto. Faticano i 30 giorni necessari, sui 300 lavorativi, per mantenere terreni, case, macchinari in buono stato e per sostituirli quando siano fisicamente od economicamente inservibili; ma vogliono dedicare tutti gli altri 270 giorni a produrre beni di consumo, siano deperibili come gli alimenti o durevoli come la casa o la vettura automobile o la radio. Se tutti gli uomini agissero in tal modo, la società sarebbe stazionaria, il tenor di vita non muterebbe, né muterebbe il numero degli uomini. Se il numero crescesse, il tenor di vita dovrebbe abbassarsi. Potrebbero mutare i gusti, ma a soddisfare i nuovi gusti farebbe d’uopo durare la medesima fatica richiesta dal soddisfacimento dei gusti precedenti. Tutto il lavoro degli uomini, col concorso di un capitale (beni strumentali o mezzi di produzione), intatto, sarebbe consacrato alla produzione di beni di consumo e questi si identificherebbero coll’intiero reddito netto, tutto reddito consumabile e consumato.

 

 

112. E quello dell’uomo risparmiatore.

 

Il risparmio è positivo, ad es. del 20% del reddito, quando gli uomini, dopo aver faticato i 30 giorni necessari alla conservazione e rinnovazione del capitale esistente, serbato così intatto, deliberano di dividere i restanti 270 giorni in due parti; e 210 giorni (70% di 300) li destinano alla produzione di beni e servizi di diretto consumo e 60 giorni (20% di 300) alla produzione di beni strumentali: piantagioni, strade poderali, dissodamenti, macchine nuove, impianti industriali, bonifiche, rimboschimenti, ferrovie, porti, bacini d’acqua per la produzione di energia elettrica ecc. ecc. Nello stesso tempo restano modificate la produzione da un lato, ché, oltre alle 10 unità di beni di sostituzione o manutenzione del capitale esistente, si producono 70 unità di beni di consumo e 20 unità di beni strumentali; e la distribuzione del reddito dall’altro lato, ché si destinano 10 unità di reddito a comprare beni di sostituzione, 70 ad acquistare beni di consumo e 20 unità di reddito a risparmio, il che vuol dire ad investimento in beni strumentali. La quota del reddito che è consumata fa domanda di beni di consumo; e la quota del reddito che è risparmiata fa domanda di beni strumentali.

 

 

113. In una società risparmiatrice esiste una divisione del lavoro fra produttori di beni di consumo e beni strumentali la quale non coincide con quella fra dilapidatori, conservatori e risparmiatori.

 

Non occorre che ogni uomo consacri 30 giorni a produrre beni di sostituzione, 210 a produrre beni di consumo, i quali costituiscono il reddito consumato e 60 giorni a produrre beni strumentali in cui si investe il suo reddito risparmiato. Ciò fa l’agricoltore, il quale di fatto può consacrare 10 giorni del suo tempo ai lavori di manutenzione delle strade poderali, dei sentieri, dei canali di irrigazione ecc., 210 alle opere ordinarie di coltivazione, che gli frutteranno il frumento, il granoturco, il vino, l’olio, il latte, la lana, di cui si ciberà o si vestirà; e 60 giorni alle opere di ammegliamento, di piantagione, di dissodamento, di rettifica di canali di scolo o di strade poderali, da cui egli spera in avvenire un incremento di produzione. I 210 giorni gli forniscono il reddito consumabile e da lui consumato; laddove i 60 giorni sono il suo risparmio, da lui investito direttamente nella terra e danno luogo ad un incremento del valore capitale e del reddito del podere.

 

 

In regime di divisione del lavoro, il processo di investimento è scisso da quello del risparmio. In media gli uomini ripartono, sì, il proprio reddito totale in tre parti: il 10% del reddito lordo totale alla manutenzione e mera sostituzione del capitale esistente; il 70% al consumo ed il 20% al risparmio. Ma schiere diverse di uomini attendono ai tre diversi compiti: 30 uomini su 300 attendono a serbare intatto il capitale esistente (quote di manutenzione e sostituzione), 210 a produrre beni e servizi di consumo diretto (reddito consumato) e 60 a produrre beni strumentali (risparrmio-investimento-aumento del capitale esistente). Grazie allo scambio fra gli uomini che così si sono divisi i compiti, il frutto del lavoro dei 210 uomini che si sono dedicati a produrre beni e servizi di consumo, è distribuito fra tutti i 300 uomini componenti la nostra società immaginaria; e questo frutto consumabile si mantiene intatto grazie al lavoro dei 30 uomini che riparano e sostituiscono il capitale esistente; ed anzi di anno in anno cresce grazie al lavoro dei 60 che si dedicano a produrre nuovi beni strumentali. Se però in media gli uomini non risparmiassero il 20% del reddito, se cioè non vi fossero, accanto agli uomini dilapidatori che distruggono ed agli uomini conservatori che puramente conservano, altri uomini detti risparmiatori, i quali, oltre a conservare intatto il patrimonio esistente, risparmiano una quota positiva del proprio reddito netto che può andare dall’1 al 80% ed in media è del 20% del reddito nazionale totale (lordo di quote di manutenzione), il capitale esistente non solo non crescerebbe ma di anno in anno degraderebbe, con irrimediabile decadimento del tenor di vita generale.

 

 

114. In una società non comunistica, deve esistere il risparmio volontario con la proprietà privata dei beni strumentali.

 

È dimostrato così che, ove non si voglia affidare allo stato il compito di costringere coattivamente gli uomini a conservare e ad incrementare il capitale esistente; ove non si voglia cioè che lo stato coattivamente ripartisca gli uomini in 30 destinati a conservare il capitale esistente, 210 a produrre beni e servizi di consumo diretto e 60 a produrre nuovi beni strumentali ossia a crescere il capitale esistente, deve esistere un meccanismo che induca gli uomini ad assolvere volontariamente il compito necessario.

 

 

Il meccanismo è la attribuzione agli uomini risparmiatori della proprietà dei beni strumentali i quali sono stati creati dal risparmio. Per qual motivo l’uomo rinvierebbe il godimento di parte del proprio reddito ad un momento futuro, quando sapesse a priori che delle 100 parti del reddito solo le 70 consumate rimangono di spettanza del risparmiatore e le 20 risparmiate, insieme con le 10 destinate alla manutenzione, passano in proprietà di qualcun altro, di un ente pubblico, il quale ne avrebbe la compiuta disponibilità?

 

 

Il risparmio volontario è assurdo se la proprietà della cosa risparmiata non spetta al risparmiatore. L’alternativa è il risparmio obbligatorio, ossia in primo luogo il prelievo forzoso, con l’imposta sul reddito del cittadino, non solo delle 10 parti destinate alla conservazione ma anche delle 20 consacrate all’incremento del capitale esistente ed in secondo luogo l’impiego pubblico delle somme così accantonate. La sostituzione del risparmio obbligatorio a quello volontario significa la sostituzione di un tipo collettivistico di organizzazione della società economica a quello di mercato. La scelta fra i due tipi è fatta dagli uomini per molteplici ragioni, che non accade qui discutere. Coloro i quali sono contrari al tipo collettivistico per lo più sono mossi dalla convinzione, derivata dall’osservazione e dal ragionamento, che così fatto tipo sia sinonimo con il comando dall’alto, epperciò incompatibile con la libertà politica e personale dell’uomo.

 

 

Il risparmio volontariamente compiuto può essere volontariamente affidato per l’impiego all’ente pubblico; ma rimane pur sempre, sia a mezzo del rimborso della somma mutuata sia a mezzo della vendita dei titoli di debito pubblico, nella piena disponibilità del risparmiatore. Questi, che oggi ha rinviato ad un tempo futuro il consumo delle 20 unità, potrà così domani, sorgendo nuove circostanze, consumare in tutto od in parte il risparmio prima compiuto. Possono verificarsi malattie costose, può crescere la figliuolanza bisognosa di educazione, può, coll’aumentare della somma risparmiata, essere pensabile l’acquisto di beni di consumo durevoli (la casa, la vettura automobile ecc.) prima inaccessibili. Il meccanismo del mercato offre agevolezze infinite di investimenti temporanei o duraturi e di disinvestimenti successivi, sì da soddisfare alle più varie esigenze dei risparmiatori.

 

 

Se il principio del risparmio volontario importa logicamente la proprietà della cosa risparmiata, non è altrettanto evidente la logica necessità di un’altra diversa illazione, per cui il risparmiatore possa trasmettere per eredità o donazione ad altri (figli o discendenti o parenti od eredi in genere) la proprietà delle cose acquistate a mezzo del risparmio. Non tutti i risparmiatori sono mossi dai medesimi motivi e alcuni di questi paiono compatibili con la trasmissione allo stato della proprietà della ricchezza accumulata – chiameremo così d’or innanzi le cose nelle quali è stato investito il risparmio – all’atto della morte del risparmiatore.

 

 

115. Le varie fonti del risparmio: il non saper cosa fare del reddito. Colui che non sa per lo più appartiene alla schiera dei dilapidatori.

 

Vi è una prima quota del risparmio la quale da taluno è caratterizzata colla frase: «quel tale dispone di reddito siffattamente ampio, che, dopo avere soddisfatto a tutti i propri desideri, anche, se vuolsi, a quelli più capricciosi, non sa cosa farsi di quel che gli rimane ed è obbligato a risparmiarlo e ad investirlo, pur di trovare al reddito una destinazione». Dubito assai che questa frase non sia una figura retorica di intellettuali, i quali osservano il mondo colla lente del cinematografo, delle spiagge mondane, dei circoli di ballo e dei luoghi di ritrovo di gente sfaccendata od equivoca. Coloro che soddisfano ad inclinazioni comunemente giudicate voluttuarie o capricciose non appartengono al mondo dei risparmiatori, ma piuttosto a quello dei dilapidatori. Costoro non creano risparmio, ma danno fondo al risparmio altrui: essi sono gli eredi o gli sfruttatori, non i creatori delle fortune, dei capitali esistenti. Convertono i beni strumentali esistenti in beni di consumo; non rinunciano a questi per costruire nuovi beni capitali. Rispetto a questa gente non si può parlare di mezzi atti ad impedire che essi trasmettano ad altri il risparmio che non hanno prodotto, ma di mezzi atti ad impedire che essi ricevano il risparmio altrui. Possiamo tuttavia immaginare astrattamente, per compiutezza teorica di indagine e non per ossequio a tipi propri di una letteratura deteriore, per lo più immorale se non addirittura pornografica, che esista una prima categoria di risparmiatori i quali risparmiano una parte del proprio reddito, perché non saprebbero quale altro uso farne. Se questa categoria potesse essere distinta dalle altre, sembra che nessuno o scarso nocumento nascerebbe dalla norma la quale devolvesse, alla morte del risparmiatore, od anche prima, la ricchezza accumulata allo stato. Non allo stato in genere, atto per lo più solo a consumare il provento delle imposte, ma allo stato quale ente pubblico incaricato di gerire e conservare i beni strumentali costituiti col risparmio privato[4].

 

 

116. I risparmiatori per istinto. Gli «avari» non sono indifferenti alla sorte del risparmio dopo la loro morte.

 

Una seconda categoria di risparmiatori è quella di coloro che sono tali per istinto. Nel linguaggio comune costoro sono detti «avari»; e risparmiano a qualunque costo, perché essi si compiacevano un tempo nella contemplazione del crescere del mucchio d’oro o nell’ascoltare il gioioso tintinnio del suo fluire di tra le dita del contemplatore, ed oggi, venuto meno a causa della appropriazione dell’oro da parte dei tesori pubblici o delle banche centrali e non sostituito siffatta specie di godimento da quello del cumulare pacchi di biglietti da mille, sono forzati a cumulare carte valori, obbligazioni di debito statali o fondiarie o private, azioni di società, titoli di proprietà di terreni o case. Risparmierebbero costoro se sapessero che alla loro morte il patrimonio cumulato è destinato a passare in proprietà dell’ente pubblico? La risposta è dubbia. Vi è nel fondo dell’animo loro una certa indifferenza rispetto alla sorte del patrimonio dopo il momento supremo; ma forse è più vivace il sentimento, la speranza che il frutto dell’opera compiuta non vada dispersa. Perciò sono frequenti i testamenti di cosidetti avari i quali diseredano parenti per destinare tutto il loro patrimonio ad una fondazione che ricordi il loro nome, ad un’opera benefica che iscriva il loro nome nell’albo dei benemeriti o faccia dire una messa annua in suffragio della loro anima, o ad un istituto scientifico, che bandisca premi ad incremento di un particolare ramo di scienze o distribuisca borse a giovani studiosi. Ognuno di noi ha conosciuto uomini assai facoltosi, i quali si compiacevano di menar vita semplice e talvolta inutilmente dura pur di poter cumulare un patrimonio cospicuo, destinato a questa o quell’opera pia, il Cottolengo, le opere salesiane, l’ospedale maggiore, l’ospizio dei vecchi, che essi reputavano maggiormente benefica; e non di rado si spogliarono in vita della ricchezza posseduta, pur continuando a cumulare i frutti del lavoro personale o del patrimonio residuo allo scopo di integrare, in morte, le donazioni già fatte. È presumibile che minore sarebbe il capitale costituito dagli avari se costoro sapessero che tutto sarebbe appropriato da un ente pubblico diverso da quello da essi preferito. Sarebbe per lo meno necessario consentire la facoltà all’uomo di testare e di destinare la propria sostanza a quelle, vecchie o nuove, fondazioni benefiche scientifiche educative sportive od altre le quali rispondessero a scopi di interesse pubblico.

 

 

117. Il risparmio derivante dal bisogno di fondare una famiglia.

 

Poiché fu già supposto che all’uomo fosse consentito di compiere risparmi nella misura necessaria a provvedere ai propri bisogni futuri in caso di malattia, infortunio, disoccupazione, vecchiaia ed a quelli del coniuge e dei figli, limitatamente per questi all’inizio della vita produttiva, e quindi anche per tutta la vita, se impotenti al lavoro per difetti fisici o mentali; poiché fu supposto che l’uomo potesse trasmettere in eredità beni durevoli, come la casa di abitazione, il terreno annesso per godimento della famiglia, il mobilio, i libri, e oggetti vari di uso e di ornamento, quale ulteriore stimolo al risparmio può avere l’uomo? Un primo stimolo è dato dal desiderio di «fondare» una famiglia. Il contadino non acquista nuovi terreni in aggiunta a quelli ereditati dal padre, se a sua volta non ha figli. A che pro allargare il podere, renderlo capace di divisione tra due o tre figli, se quel che è posseduto basta ad assorbire il lavoro suo e dell’unico figlio? Perciò la terra ha un prezzo più alto là dove le famiglie sono numerose che là dove prevale il sistema dell’unico figlio. È istintivo nell’uomo provveduto di figli il bisogno di garantirli contro le difficoltà che egli ha dovuto sormontare per giungere all’indipendenza economica. Il lavoro manuale od intellettuale, applicato al podere od alla fabbrica od al negozio propri, l’esercizio della professione preferita non assillato dall’urgenza di procacciarsi a qualunque costo una occupazione qualsiasi; la lunga attesa di studi richiesta per la preparazione all’insegnamento superiore o per l’entrata nella magistratura richieggono il possesso di un patrimonio, sia pure modesto, il quale ecceda i limiti di beni di consumo durevoli. Lo scapolo, i coniugi senza figli possono contentarsi di una pensione vitalizia, la quale sia pagata sino all’ultimo momento della vita; il padre di famiglia risparmia purché e se reputa di aver fondato qualcosa che sia di sostegno nella vita ai figli ed ai nipoti. Amplia la casa, perché essa possa ospitare, almeno per qualche mese dell’anno, le famiglie dei figli; la vuole divisibile affinché ognuna delle famiglie che da lui discendono possa allogarvisi. Non concepisce la casa come un ente a sé stante. Il «castello» fu sempre e, divenuto villa o casa di campagna, è ancora adesso un ente artificioso, mancante di vita propria, cagione di spese, le quali non possono essere sopportate dal proprietario sfornito di mezzi. Perciò castelli e ville decadono, sono abbandonati e finiscono di ridursi a rovine pittoresche se attorno ad essi non esista la terra coltivata, con i cui frutti la famiglia può vivere e conservare e migliorare la casa avita. Il palazzotto o la villa di città hanno significato solo come accessorio di una impresa economica che dia alla cosa inerte la vita. Se il risparmiatore che fonda una famiglia non avesse la speranza di far godere i discendenti dei frutti del capitale accumulato, il cumulo non avrebbe luogo e la collettività sarebbe di altrettanto più povera. Quelle case, quelle fabbriche, quei negozi, quelle terre migliorate non esisterebbero.

 

 

118. Il risparmio derivante dal bisogno di fondare un’impresa.

 

Il secondo stimolo al risparmio eccedente i beni durevoli d’uso diretto del risparmiatore è il bisogno di «fondare» l’impresa. Anche questa è opera istintiva. Quando si riprodusse l’opinione comune per la quale i facoltosi risparmiano perché non sanno come consumare gran parte dei propri redditi, si aggiunse subito che coloro i quali si trovano veramente nella condizione di «non sapere» appartengono quasi sempre alla categoria dei dilapidatori e non dei costruttori di fortune. Qui si parla di risparmiatori, che vuol dire di gente la quale ha il senso dell’avvenire ed, avendo provveduto alle necessità quotidiane, preferisce beni futuri a beni presenti. Se non risparmiano perché costretti dall’istinto di fondare la famiglia, ubbidiscono all’altro istinto del fondare l’impresa. Nella stessa maniera come il professionista, l’ingegnere, l’avvocato, il medico, non vede mai giunto il momento di ritirarsi dall’esercizio della professione e godere di un meritato riposo, sicché negli elogi che di lui sono pronunciati o scritti si dice che egli «rimase sino all’ultimo sulla breccia del lavoro»; nella stessa maniera che per coloro i quali sono giunti a posti direttivi o di rilievo, l’andare in pensione è atto non volontario, ma imposto dalla norma inesorabile di legge per i limiti di età e spesso i pensionati si adattano ad occupazioni di scarso rilievo e poco remunerate, pur di poter dire di sé: «ancora sono atto a qualche cosa»; così l’industriale, il commerciante, il banchiere, l’agricoltore non si rassegna a porre un limite alla sua impresa; anzi la vagheggia sempre più forte e grande e dominatrice. Ognuno di costoro ambisce a far riconoscere la sua impresa come «primaria» fra le altre. Investire una parte, spesso la più gran parte del reddito dell’impresa nell’acquistare nuove macchine, nel costruire un nuovo padiglione, nell’abbellire le vetrine del negozio, nel trasportarlo dai ristretti locali, dove ebbe inizio la sua fortuna, in altri più spaziosi e centrali e bene arredati; il costruire nuove stalle e nuove case coloniche, il migliorare le strade poderali, far opere di irrigazione e di bonifica, impiantare nuove vigne e nuovi frutteti od oliveti od agrumeti, il rimboschire il monte o sistemare il pascolo alpino non appaiono spesso neppure atti volontari di preferenza di beni futuri a beni presenti, di scelta fra il consumo ed il risparmio. Per questo tipo di risparmiatori il motivo dell’azione è l’istinto, è la necessità psicologica di fare più perfetta l’impresa alla quale si è dedicato la vita. Di solito codesti cosidetti ricchi vivono vita modesta e parca di cibi e di godimenti materiali; primi ad arrivare sul luogo del lavoro ed ultimi ad abbandonarlo. Quelli che li osservano, pensano: perché tanto lavorare e faticare? perché non gustare, come sarebbe ad essi possibile e lecito, qualcuna delle dolcezze della vita? Perché rimanere, talvolta, rozzi e poco coltivati, occasione di sorriso ironico per gli intellettuali? Ma fate che essi discorrano dell’impresa che han creato e diventano eloquenti ed inspirati al par del sacerdote e del poeta. Chi li ascolta si avvede di trovarsi dinnanzi a uomini sperimentati e sapienti, i quali hanno creato qualcosa che senza la loro opera non sarebbe esistito. Essi hanno ubbidito, col dedicare la vita alla propria impresa e col rinunciare, senza sacrificio, anzi con inconsapevole soddisfazione, al godimento presente del reddito, allo stesso demone interno, al quale ubbidisce lo studioso, che, bene avanti negli anni, trascorre la giornata fra i libri ed i nipotini, i visitatori ed i famigli stupiscono dicendo: perché costui seguita a studiare? quale bisogno ha di continuare a leggere, affaticando il cervello, se ha già ottenuto la laurea e compiuto la sua carriera? Ma come lo studio non affatica il cervello ed è una esigenza naturale della vita dello studioso, così l’attendere all’impresa e l’ampliarla e il condurla ai primi posti non è cagion di fatica o di rinuncia alcuna all’imprenditore di industrie, di terre o di commerci.

 

 

119. Il bisogno del risparmio degli enti collettivi.

 

L’orgoglio dei fondatori di famiglie o di imprese non è solo un fatto individuale. L’istinto del risparmiare dell’uomo persona fisica si propaga presto a quei complessi di uomini che si chiamano enti collettivi, società anonime, società cooperative, enti semi-pubblici. Notabile parte del risparmio nuovo che ogni giorno va formandosi nelle società moderne non è risparmio individuale, bensì collettivo. La società anonima, dopo avere riconosciuto che il reddito netto, depurato dalle quote mandate a riserva per insolvenze future, per deprezzamento di scorte, per ricostituzione degli impianti deperiti, per rischio di cambi o di mutazioni monetarie, per fondi vari di indennità di licenziamento o di riposo ai dipendenti, per opere sociali, è di un milione di unità monetarie, non distribuisce agli azionisti ed agli amministratori se non una parte dell’utile conseguito; e manda 300.000 o 400.000 unità ad ulteriore riserva. I motivi che si danno per l’operato sono vari: l’opportunità di fronteggiare i rischi di crisi impreviste o di inasprimenti fiscali, la necessità di alleggerire la situazione debitoria dell’impresa verso le banche, la convenienza di trasformare gli impianti, oramai antiquati. Ma si tratta di pretesti; ché in verità si vuole ampliare l’impresa; crescerne l’attitudine di lotta contro le imprese concorrenti; e raggiungere la vetta tra le imprese dello stesso tipo. La lettera delle leggi vigenti e dello statuto vorrebbe che tutto il milione fosse ripartito tra gli amministratori e gli azionisti proprietari. Sottoscriverebbero però costoro volentieri alla nuova emissione di azioni necessarie ad ampliare l’impresa; ossia compirebbero volontariamente l’opera individuale di risparmio all’uopo necessaria? O non è meglio fare a meno di distribuire una parte dell’utile ed impiegarlo subito a comprare macchine nuove od a costruire il nuovo padiglione? Gli azionisti, in fondo, sono forse danneggiati, se si cresce il valore capitale dell’impresa e si rende questa atta a fruttare redditi maggiori in avvenire? Il consiglio direttivo di un acquedotto municipale o di una rete tranviaria o del gasometro o della centrale elettrica della città non reputa forse di fare opera pienamente corretta se, invece di versare nella cassa del comune tutto il reddito netto dell’impresa pubblica, ne preleva una parte prima della chiusura dei conti e la destina, sotto nome di riserva di deperimento o sostituzione o rinnovazione, a migliorare gli impianti, a crescerne la potenzialità produttiva? Questo è risparmio dovuto all’istinto di chi ha la cura dell’impresa e la vuole fare sempre più prospera e robusta.

 

 

120. Il comportamento del legislatore di fronte alle diverse specie di risparmio.

 

È logico che diversa possa essere la condotta del legislatore di fronte alle diverse specie del risparmio:

 

 

  • 1) di beni durevoli (casa, mobilio, giardino od orto e cose annesse) destinati all’uso personale del risparmiatore e dei suoi famigliari; e di quell’ulteriore capitale necessario al coniuge superstite od ai figli sino all’inizio della loro vita economica;
  • 2) compiuto dai ricchi oziosi i quali non saprebbero che cosa fare del reddito risparmiato;
  • 3) compiuto dagli avari, risparmiatori per esigenza della loro indole propria;
  • 4) compiuto istintivamente dai fondatori di famiglia;
  • 5) e, per lo stesso istinto, dai fondatori di imprese. Sembra pacifica, rispetto al risparmio posto nella prima categoria, la convenienza di consentire che i genitori procaccino ai figli i mezzi di essere allevati ed istruiti sino alla loro maggiore età produttiva ed assicurino al coniuge superstite ed ai figli inabili al lavoro i mezzi di sussistenza per il resto dei loro giorni.

 

 

È grandemente incerto il peso del risparmio della seconda categoria; ed è disputabile se una parte notevole del risparmio degli avari (terza categoria) sarebbe ancora prodotta se non fosse impedita la trasmissione ereditaria; e pare certo che una quota notabilissima dei risparmi dovuti all’istinto proprio dei fondatori di famiglia e di imprese cesserebbe di aver luogo se non esistesse la trasmissione ereditaria.

 

 

Nelle condizioni odierne, nelle quali, per la tendenza ancora prevalente della popolazione a crescere e sovratutto per la necessità di promuovere l’incremento della produzione epperciò l’innalzamento del tenor di vita dei popoli, tuttora basso nei paesi più civili, nei quali il reddito medio è pur discreto, e bassissimo, straordinariamente basso, nei paesi dove tenue è il reddito medio, è possibile rinunciare alla formazione di una qualunque delle categorie di risparmio sopra elencate? Pare potersi rispondere con tutta sicurezza di no; sicché è legittima la illazione che, ove non si voglia attribuire allo stato il compito di formare, con un prelievo forzoso sul reddito collettivo, il nuovo risparmio assolutamente necessario per l’incremento pure necessario, della produzione, l’istituto della eredità deve essere conservato.

 

 

121. L’eredità si riferisce alle cose; ma il limite di essa si misura a norma del valore in moneta stabile. Il caso dei beni durevoli di consumo.

 

Prima di discutere quali limiti debbano essere posti all’istituto medesimo e quali altri istituti debbano essere creati allo scopo di modificare gli effetti del limitato diritto ereditario allo scopo di ubbidire all’altro principio ugualmente logico e necessario di garantire a tutti gli uomini la possibilità di iniziare, senza disparità dannose, il corso della vita, importa esaminare un altro punto capitale. Ammesso cioè il principio della eredità questa deve riguardare le cose esistenti nel patrimonio del defunto, ovvero il loro valore monetario? La questione non riguarda il risparmio della prima categoria: quello che il capo-famiglia investe nei beni durevoli destinati all’uso proprio e dei famigliari: la casa, il mobilio, e simili. Qui il capo – famiglia è libero di dare al risparmio d’uso quella qualunque forma che a lui paia più opportuna: di cose concrete materiali ovvero di denaro utile a procacciare a sé ed ai famigliari le cose ad essi necessarie. Probabilmente, il capo darà ad una parte del risparmio famigliare una forma reale ed a un’altra parte una forma monetaria. Quest’ultima forma sarà scelta di solito per i fondi destinati a garantire un reddito al coniuge superstite e i mezzi di allevamento e di istruzione per i figli. Se il genitore non crede, per ragione del proprio lavoro od impiego, di acquistare la casa propria, darà anche a questa parte la forma monetaria di un capitale il cui reddito basti al pagamento dell’affitto di casa.

 

 

Ove l’unità monetaria sia stabile, non dovrebbe essere difficile di stabilire un limite di valore entro il quale il risparmio trasmesso per eredità si reputi possedere indole di fondo famigliare trasmissibile senza impedimento veruno di generazione in generazione nella forma che al defunto sia piaciuto scegliere.

 

 

122. Nel caso dei beni strumentali la convenienza degli eredi provvede alla loro trasformazione.

 

Il problema si presenta solo per le altre categorie del risparmio. Pure essendo la sua trasmissione ereditaria legittima e necessaria nell’interesse comune, essa deve aver luogo in natura e cioè nella forma data al risparmio dal defunto, ovvero nel suo equivalente in denaro? Si pone il quesito da chi ritiene che gli eredi di colui il quale ha risparmiato ed ha costrutto una fortuna sotto forma di podere, di fabbrica, di laboratorio, di negozio, di ufficio siano inetti a gerirla. La risposta è ovvia e perentoria. Se inetti, una breve esperienza persuaderà gli eredi della convenienza di vendere. Se vorranno salvare i rottami della fortuna avita dal naufragio, essi dovranno trasformare l’indole dell’investimento, in guisa che esso sia più conforme alle loro attitudini. Il processo di trasformazione è rapidissimo per l’avviamento degli uffici professionali, per i quali il figlio medico presto vende al sostituto del padre l’avviamento dell’ufficio paterno d’avvocato, insieme con le raccolte giurisprudenziali che ne ornavano lo studio, riservando a sé solo i libri di cultura generale ed i ricordi personali; è pronto per i negozi, gli uffici di rappresentanza, i laboratori e le industrie, il cui rendimento cade senz’altro a zero senza l’intervento quotidiano del «padrone». È forse più lento e può durare per una generazione o due, se si tratti di poderi di campagna, ma anche qui spunta inesorabile il giorno nel quale il podere, non più curato dall’occhio vigile di colui il quale lo aveva creato, aveva ricostrutto le case rurali, riattato le strade poderali, curate le piantagioni, dà segni di vecchiaia e di mancanza di reddito netto, il giorno nel quale è vero il vecchio adagio del mezzadro il quale: «signor padrone – dice – venga a dividere la sua metà», ed il quarto padronale non basta a pagare le imposte e le spese minime inevitabili di manutenzione delle case, di concimazione e di cure contro le malattie delle piante. Ben prima che questo momento giunga, un mediatore è giunto a fare offerte di vendita e poi un secondo ed un terzo; e le offerte sono così allettanti, il reddito netto dei titoli di tutto riposo che si potrebbero acquistare col ricavo della vendita è tanto superiore a quello del podere, che l’animo del proprietario cittadino, oramai lontano dalle cose rustiche, non regge alla tentazione; e la proprietà passa al nuovo acquirente, il quale restaurerà, bonificherà, costruirà strade, farà piantagioni. Il processo è lento assai per le case d’affitto cittadine, la cui decadenza è meno avvertita; in cui bastano poche cure di manutenzione per tenere il fabbricato in buono stato locativo. Ma giungono anche qui i giorni della resa dei conti; quando la casa, costrutta secondo sistemi antiquati, più non regge alla concorrenza delle nuove abitazioni; ed ai vecchi inquilini appartenenti ai ceti medi amanti della casa si sono a poco a poco sostituiti inquilini nuovi, appartenenti a ceti via via meno affezionati alla dimora, a gente la quale non appartiene neppure al ceto dei lavoratori abituati a stare nei quartieri periferici, ma vive di professioni svariate, talvolta equivoche e la casa è divenuta scura, male abitata, dalle scale rotte e viscide per umidità cancrenosa. In un certo momento, i proprietari i quali facevano amministrare da altri il fabbricato, odono parlare di risanamento necessario, sono minacciati di multe dall’ufficio di igiene municipale, vedono crescere senza tregua le imposte; finché l’amministratore parla di alternativa fra il demolire il fabbricato e ricostruirlo ovvero venderlo; ed un mediatore offre per la sola area un prezzo superiore al valore capitalizzato degli affitti netti. La casa è venduta, affettasi di dire con rincrescimento; e l’area passa in mano di chi vi costruisce un fabbricato di dieci piani, di stile moderno, con molta aria e molte finestre; con uffici e laboratori ed appartamenti affittati, a metro quadrato, a canone triplo delle vecchie abitazioni dai pavimenti sgangherati e dalle finestre, le quali lasciavano passare il vento. Nessun interesse pubblico preminente viene leso dal processo ora descritto.

 

 

123. Il «milionario» in tempi di svalutazione monetaria. Necessità di mutare i nomi usati nel linguaggio monetario.

 

Invero, la lesione al principio dell’uguaglianza nei punti di partenza è affermata rispetto alla trasmissione non dei patrimoni in generale, ma dei patrimoni superiori a una certa dimensione e di quelli consistenti nella proprietà di determinate «grandi» imprese. Trattasi di concetti diversi che occorre accuratamente distinguere. Naturalmente, si suppone che esista un metro monetario stabile e che siasi formata una opinione generale ragionevole intorno al significato delle parole «piccolo» «medio» «grande» applicate ai valori patrimoniali. Nel linguaggio comune, la attribuzione ad un uomo del connotato di «milionario» ha in tutti i paesi suscitato l’idea della ricchezza, diversa a seconda dei paesi, ma pure sempre ricchezza. Il milionario inglese in lire sterline e quello americano in dollari era venti volte più ricco del milionario tedesco, in marchi, e venticinque volte più del milionario francese, italiano o svizzero nei franchi o lire, tra di loro, prima del 1914, equivalenti. Oggi il milionario inglese e quello americano possono ancora essere considerati ricchi, sebbene la loro ricchezza, rimasta uguale in moneta, sia stata dimezzata in sostanza ossia in potenza d’acquisto; e sebbene il reddito della medesima ricchezza monetaria sia stato ridotto dalle imposte ad una mera frazione, probabilmente non superiore ad una quarta o quinta parte in Inghilterra, di quello antico. Ad ogni modo, la parola milionario non ha perso nei paesi anglo-sassoni del tutto l’antico significato. Non l’ha perso del tutto in Svizzera, anche se l’attuale milionario ha dimensioni forse neppure eguali, quanto a patrimonio, alla metà e, quanto a reddito, al quarto del milionario ante-1914. In Italia, come pure in Francia, sarà necessario invece procedere ad una revisione profonda dell’unità monetaria ovvero del vocabolario. La lira, anche quando sarà stabilizzata, frenandone ad un certo punto il precipitare nella via discendente, ha perso oggi ogni relazione con l’antica lira tradizionale, alla quale si riferivano i concetti di povero, agiato e ricco. Una fortuna di 100.000 lire del 1914, fruttante al corso dei titoli di stato d’allora 3.500 lire all’anno, era considerata l’inizio della agiatezza di una famiglia della modesta borghesia. Con quel reddito, una vedova, col carico di quattro figli, vivendo misuratissimamente in un villaggio di campagna, poteva far studiare in città i figli maschi sino al compimento degli studi universitari, a condizione che i figli ottenessero, studiando assai, la esenzione dalle tasse scolastiche ed abbreviassero la dimora all’università a non più di otto o nove mesi dell’anno. Oggi, a tenere lo stesso luogo nella società, occorrerebbe, secondo il rapporto di 40 ad 1, una fortuna di 4 milioni ed un reddito di 140.000 lire, ovvero in eventuali rapporti fra lira 1914 e lira futura di 100, 200 e 300 ad 1 occorrerebbero rispettivamente fortune di 10, 20 o 30 milioni di lire e redditi di 350.000, 700.000 ed 1.000.000 lire. Parlare di milionari in lire come se fossero ricchi, è oggi una burlesca facezia.

 

 

In verità, la lira ha cessato di essere una unità monetaria appropriata ad un paese nel quale l’unità di consumo non sia più il bicchiere d’acqua come bevanda, un pugno di riso bollito come cibo, ed uno straccio attorno ai fianchi come vestito. I brasiliani, quando si trovarono di fronte allo stesso frangente, ebbero la fortuna di possedere una unità monetaria, il reis, anteponendo alla quale il prefisso mil, se ne poté cavare una nuova unità di milreis, non sgradevole alla pronuncia nell’uso comune. Ma in Italia il «cento-lire» e il «mille-lire» sarebbero parole troppo larghe e non entrerebbero nell’uso quotidiano; e poiché adottare il dollaro o la sterlina parrebbe atto di servitù allo straniero, converrà ricorrere a vecchie parole paesane, come il fiorino o lo zecchino o lo scudo; sì da ridare alla parola «milionario» un significato plausibile.

 

 

124. L’innalzamento del minimo a mezzo della estensione dei servizi pubblici gratuiti.

 

Fatta la quale ipotesi, è chiarito il problema del limite da porsi alla trasmissione dei «grandi» patrimoni allo scopo di evitare le eccessive disuguaglianze nei punti di partenza tra i giovani giunti all’età produttiva.

 

 

L’innalzamento del minimo si opera con la graduale estensione del campo dei servizi pubblici gratuiti. L’ente pubblico dovrà, fra l’altro, gradualmente provvedere a fornire ai ragazzi istruzione elementare, refezione scolastica, vestiti e calzature convenienti, libri e quaderni ed ai giovani volenterosi, i quali diano prova di una bastevole attitudine allo studio, la possibilità di frequentare scuole medie ed università a loro scelta senza spesa o con quella sola spesa la quale possa essere sostenuta dal giovane disposto a lavorare senza nocumento degli studi; e le scuole dovranno essere varie ed adatte, per numero e per attrezzatura, alle occupazioni diverse manuali od intellettuali ai quali i giovani si sentiranno chiamati.

 

 

125. L’abbassamento del massimo si ha in primo luogo con la riduzione delle imposte sui consumi, con l’imposta progressiva sul reddito normale con detrazione del credito dei contribuenti verso lo stato a titolo di assicurazioni sociali.

 

L’abbassamento del massimo si opera con le imposte. Il meccanismo è noto ed è applicato in tutti i paesi civili con metodi sempre più perfezionati. Abolite tutte le imposte dette indirette, le quali colpiscono, col nome di tasse di registro e bollo, di dazi doganali o di imposte sulla produzione (accise) o sui consumi, i beni di consumo o strumentali nel momento in cui stanno producendosi e conservate unicamente, in questo campo, le imposte su alcuni beni di consumo diffuso e secondario nell’ordine dei bisogni fisiologici (tabacco, vino, bevande alcooliche, tè, caffè, scommesse, giuoco e, se vuolsi, teatri, cinematografi, circhi, corse di cavalli, di cani, esibizioni di uomini professionisti in gare sportive e simiglianti prove di volontà di spendere un reddito superfluo alle esigenze della vita reputate comunemente necessarie o vantaggiose fisiologicamente o spiritualmente), il congegno tributario dovrà fondarsi su due pilastri: l’imposta sul reddito e quella ereditaria. La prima destinata, col sussidio delle imposte sui consumi serbate in vita, a provvedere alle spese correnti del bilancio annuo dell’ente pubblico; la seconda a quelle del bilancio ultra – annuale, rivolto a provvedere alla estensione graduale del campo dei servizi pubblici gratuiti e ad una politica di lavori pubblici ed interventi diversi atti a promuovere la occupazione regolare ed, entro i limiti del possibile, compiuta di tutti gli uomini desiderosi di lavorare. L’imposta sul reddito, partendo dal concetto che sia reddito imponibile quel che l’uomo medio dovrebbe ottenere se usasse convenientemente, ossia secondo le norme osservate dal lavoratore o produttore ordinario, i mezzi produttivi personali e materiali da lui posseduti, dovrebbe essere per tutti i contribuenti prelevata ad un saggio uguale determinato dal fabbisogno dell’ente pubblico, suppongasi del 30 percento. Dal debito d’imposta dovrebbe, per tutti, sotto e sopra al limite dei milionari, essere, con avvedimenti contabili semplici, dedotto il credito dei contribuenti – e contribuenti sarebbero tutti indistintamente gli uomini viventi nel corpo politico ed i capi-famiglia in rappresentanza della moglie e dei figli minori d’età od incapaci al lavoro – verso l’ente pubblico a causa degli assegni che per ogni figlio o per i vecchi o per gli invalidi l’ente pubblico medesimo volesse attribuire ai cittadini. Così sarebbe osservato il principio dell’uguaglianza di tutti rispetto all’imposta; ma, discendendo nella scala dei redditi, ad un certo punto i contribuenti vedrebbero compensato il proprio debito d’imposta dal credito per assegni sociali e, discendendo ancora, avrebbero diritto di riscuotere un saldo a proprio favore. Colui che, vecchio, non possedesse altro reddito all’infuori della pensione pubblica, lo vedrebbe ugualmente decurtato del 30%, a testimonianza necessaria della propria partecipazione agli oneri della cosa pubblica. Per i milionari, ossia per coloro i quali avessero un reddito uguale a quello che il milionario mediamente capace dovrebbe normalmente ricavare dal suo patrimonio – e peggio per lui se a tanto non giungesse – per i milionari dunque, definiti come coloro i quali avessero un reddito di 30.000 lire zecchine da capitale o di 60.000 lire zecchine da lavoro, all’imposta normale si dovrebbe aggiungere una sovraimposta progressivamente crescente dall’1% sino, suppongasi, ad un massimo del 30% per i redditi di 100.000 lire zecchine da capitale e di 200.000 lire zecchine da lavoro. L’erario pubblico sarebbe così debitore di una differenza a saldo per i contribuenti minori sino, suppongasi, a 360 lire zecchine, e creditore, a partire dai redditi di 360 lire zecchine, di una imposta del 30% del reddito, diminuita per tutti dell’ammontare degli assegni sociali ed aumentata da una sovraimposta crescente dall’1 al 30% per i redditi superiori a 30.000 lire zecchine se da capitale ed a 60.000 se da lavoro.

 

 

L’esemplificazione numerica sopra fatta non ha alcun valore di consiglio, essendo fatta al solo scopo metodologico di chiarire il congegno dell’imposta; spettando invece ad ogni legislatore di applicare il concetto generico alle condizioni particolari del paese.

 

 

126. Il limite dell’imposta ereditaria normale, e l’avocazione del valore monetario del patrimonio allo stato in tre generazioni.

 

L’avvicinamento fra gli estremi sarebbe ancora ulteriormente favorito dall’imposta ereditaria. La quale dovrebbe anch’essa ridursi alla massima semplicità: e così, e sempre a mero scopo di esemplificazione, una tariffa uniforme minima od anche l’esenzione per tutte le quote ereditarie assegnate dal defunto a fini pubblici di beneficenza o di istruzione; una tariffa minima od anche l’esenzione per le quote ereditarie fino al milione assegnate alla vedova ed ai figli; una tariffa crescente moderatamente sino al 10% per le quote superiori al milione assegnate parimenti alla vedova ed ai figli; ed una tariffa variabile crescente, come già si usa, dall’1% per le quote minime superiori a 1.000 lire zecchine al 20% per le quote massime superiori al milione per gli altri parenti e del doppio per i parenti oltre il terzo grado e gli estranei. L’imposta così congegnata varrebbe tuttavia solo per il «primo» trapasso da colui che ha formato il patrimonio alla generazione successiva. Libero cioè il creatore di una fortuna, piccola o grande, di trasmetterla, franca d’imposta ereditaria o gravata da moderate imposte, alla generazione successiva od a scopi collettivi da lui preferiti; ed incoraggiata perciò la formazione del risparmio ed il suo investimento produttivo. Ma, a partire da questo punto, come propose un tempo l’ing. Rignano, la quota spettante alla collettività crescerebbe. Il padre, il quale ha accumulato, nonostante l’imposta sul reddito del 30%, un patrimonio di 1.000.000 di lire zecchine, lo potrebbe trasmettere intatto al figlio; ma il nipote od altri che ricevesse lo stesso patrimonio dal figlio, dovrebbe versare allo stato una imposta ereditaria del terzo sull’ammontare originario; il pronipote un altro terzo e col terzo trapasso il resto del patrimonio di 1.000.000 di lire zecchine finirebbe di essere tutto trasmesso all’ente pubblico. Poiché il creatore della fortuna può darsi vegga vivo con i suoi occhi il pronipote, sarebbe sicuro di vedere trasferita a lui una terza parte della fortuna; ma poiché è impossibile andare più innanzi nel seguito delle generazioni l’una all’altra fisicamente note, a quel punto la trasmissione della fortuna prenderebbe fine. Se il figlio vorrà trasmettere al figlio suo (nipote del padre) intatta la fortuna, ricevuta dal padre, di 1.000.000 di lire zecchine, dovrà lavorare e risparmiare almeno 333.333 lire, le quali essendo create da lui, non sarebbero soggette ad imposta ereditaria; e così pure dovrebbe fare il nipote. Quelle sole famiglie durerebbero, che serbassero virtù di lavoro e di ricostruzione, non di mera conservazione. Una fortuna, la quale non fosse diuturnamente ricostituita con nuovo risparmio, sarebbe ridotta dall’imposta inesorabilmente e gradualmente a zero col trascorrere di tre generazioni dopo quella del suo creatore. Ma si annullerebbe di fatto prima, se è vero essere, come afferma la sapienza Popolare, assai più difficile conservare una fortuna del crearla. La imposta ereditaria avrebbe sovratutto lo scopo e l’effetto di accelerare il processo per sé naturale e di volgere a profitto della cosa pubblica la tendenza alla dilapidazione propria delle nuove generazioni non astrette al lavoro dalla necessità di procacciarsi da vivere.

 

 

127. L’imposta successoria avocatrice suppone una moneta stabile.

 

Il meccanismo tributario ora descritto suppone una moneta stabile. Non si tratterebbe invero di devolvere all’ente pubblico una miscela di frazioni di patrimonio consistenti in beni stabili, fondi rustici, carature di stabilimenti industriali, azioni ed obbligazioni, miscela fastidiosa ad amministrare e cagione di perdite e di inganni per l’erario; ma i valori corrispondenti. Determinato nel primo inventario al momento del passaggio della fortuna dal suo creatore al figlio l’ammontare di essa, ad es. in lire zecchine 1.250.000, sarebbe dedotto l’ammontare minimo, suppongasi di lire 250.000 franco d’imposta perché uguale alla somma ritenuta necessaria al sostentamento della vedova, dei figli minori ed impotenti al lavoro e per assicurare ad essi una casa, ammontare uguale per tutti, qualunque fosse il grado della loro ricchezza; e sarebbe senz’altro fissata in 333.333,33 lire zecchine l’imposta ereditaria, la quale dovrebbe essere versata per tre volte all’erario pubblico: al momento della morte del figlio, del nipote e del pronipote. Sui registri degli uffici catastali ipotecari per la proprietà immobile e sui libri degli enti e società emittenti azioni ed obbligazioni verrebbe iscritto privilegio a favore dell’erario per l’ammontare dell’imposta totale di 1.000.000 di lire zecchine, frazionate alle scadenze sopra dette. Il privilegio escluderebbe ogni possibilità per gli eredi di dilapidare il patrimonio ricevuto in eredità.

 

 

128. L’eliminazione degli eredi incapaci a gerire imprese od a conservare patrimoni conseguente all’imposta successoria avocatrice.

 

Risoluto così il problema della devoluzione graduale e totale all’ente pubblico nel giro di poche generazioni dei patrimoni tassabili superiori ad un certo ammontare, suppongasi di 1.000.000 di lire zecchine, è contemporaneamente risoluto il problema del comando degli eredi sulle imprese facenti parte dei patrimoni superiori a quell’ammontare. Dicesi invero che il creatore di una fortuna ha dimostrato di avere le attitudini necessarie a costruire e governare l’impresa il cui valore è indice della fortuna medesima. Il fondatore di un grande stabilimento industriale con 1.000 e più operai, il quale ha il valore di 10 milioni di lire zecchine, ha dimostrato, col fatto della creazione ed organizzazione, col credito che egli si è saputo assicurare, di avere le qualità necessarie a governare l’impresa. Chi meglio di lui atto al comando? Ma i figli, ma i nipoti ed i pronipoti? Vi è ragion di credere che essi, insieme alla fortuna, abbiano ereditato le qualità che fanno i grandi capitani d’industria? Perché essi dovrebbero avere il diritto legale, oltreché di godere della fortuna del padre o nonno o bisnonno, anche di governare l’impresa, di sceglierne i dirigenti, gli impiegati, i tecnici e gli operai? Facciasi astrazione per il momento dal problema del miglior modo di selezione dei dirigenti le imprese economiche; e si limiti qui l’indagine alle attitudini degli eredi saggiate alla cote dell’imposta ereditaria. Il figlio ha ereditato il governo dell’impresa che vale nette 10 milioni di lire zecchine, delle quali, suppongasi, 5 milioni sono proprietà di obbligazionisti, correntisti, depositanti diversi per fondi di indennità di licenziamento e vari, e 5 di azionisti, dei quali egli è il primo, possessore di 3 milioni di lire zecchine di azioni. Sui registri pubblici è iscritto un privilegio per altrettanto credito di 3 milioni a favore dell’erario pubblico, esigibile per un terzo alla sua morte, per un terzo alla morte del figlio suo o genero o parente od amico e per un terzo alla morte del nipote. Se egli vuole conservare il governo dell’impresa creata dal padre e trasmetterlo intatto al figlio suo, fa d’uopo che egli sappia almeno aumentare il valore totale del suo patrimonio da 3 a 4 milioni di lire zecchine; perché solo così il figlio suo potrà assolvere, alla sua morte, il tributo di 1 milione ed ereditare la padronanza dell’impresa. Se egli semplicemente conserva invariato il valore dell’impresa, il figlio suo invece di 3 milioni di lire zecchine in azioni ne possederà solo 2, avendo dovuto vendere azioni per il valsente di 1 milione allo scopo di pagare l’imposta e sarà caduto in minoranza in confronto agli altri azionisti. Sarà inoltre scaduto il suo credito; ché correntisti e banche ed obbligazionisti fanno poco volentieri credito ad un’impresa, la quale non sia governata da mano ferma e nella quale l’equilibrio che prima esisteva, sino alla morte del fondatore, fra capitale proprio dell’impresa (5 milioni) e capitale accattato a prestito (5 milioni), sia guasto dal privilegio creditorio di 1 milione a favore dello stato, il quale più o meno presto ma sicuramente deve condurre ad un trapasso di azioni in mani ignote. Il credito e la prosperità dell’impresa riposano dunque sull’attitudine del figlio a risparmiare; e così ad ogni generazione successiva. Se essi saranno capaci a ricostituire, col risparmio, il patrimonio ogni volta ereditato, essi conserveranno il governo dell’impresa; e lo conserveranno meritamente perché il loro risparmio deriverà da nuovo impulso dato all’impresa medesima. Altrimenti, saranno estromessi dal governo dell’impresa a mano a mano siano costretti a vendere le azioni ereditate per poter pagare l’imposta. Non è necessario che gli eredi governino essi medesimi l’impresa; basta sappiano scegliere dirigenti atti a crescerne il valore; così risparmiando, potranno conservare il patrimonio ed insieme il diritto di scelta dei dirigenti. Ma che cosa si può chiedere di più ai proprietari di un’impresa economica fuor del saper scegliere bene i governatori di essa? Sceglier bene vuol dire saper distinguere fra i funzionari, i tecnici, gli impiegati e gli operai gli uomini atti ad assumere uffici, minori o maggiori, di comando, sapere conservare armonia fra i dipendenti, saper crescere la produttività dell’impresa e quindi il reddito di tutti i partecipanti al prodotto totale. O gli eredi posseggono queste qualità e ad ogni generazione ricostruiranno il terzo del patrimonio ereditato e prelevato dall’imposta; o non le possederanno e l’inesorabile opera dell’imposta ereditaria li priverà insieme del patrimonio e del governo dell’impresa.

 

 

129. L’uguaglianza nei punti di partenza, se si riferisse ad uomini nudi, condurrebbe ad una società di mandarini, con preferenze per i figli dei mandarini.

 

L’uguaglianza nei punti di partenza non vuole perciò dire uguaglianza di uomini nudi i quali, giunti all’età economicamente produttiva, si lancino all’arrembaggio per la conquista della ricchezza, della fama, degli onori, dei posti migliori. Una società, nella quale veramente ad una nuova generazione dovesse ricominciare il libro della vita, sarebbe un inferno di uomini scatenati a lottare gli uni contro gli altri per il primato, ovvero un falanstero o monastero governato da mandarini. Qual è in quella società, il criterio di scelta per l’avanzamento se non le prove, gli esami, i concorsi? Contro l’uniformità, contro la subordinazione verso il giudice della prova del lavoro del concorso, unico rifugio sarebbe il possesso eventuale della casa paterna, dei ricordi e mobili famigliari, dell’appartamento cittadino, dell’orto e del giardino nel suburbio o nella campagna. Non piccolo presidio; ma non bastevole a salvare dal grigiore di una vita sottoposta al comando altrui sino al giorno nel quale non si possa salire a posti di comando, prima umili e poi alti. Ed ogni volta la medesima vicenda: mantenimento ed educazione compiuta a carico dell’ente pubblico, prove di attitudine ai diversi mestieri ed occupazioni manuali ed intellettuali, esami, concorsi, carriera, promozioni, conquista di posti più o meno segnalati, oscurità o fama, riposo con pensione; la famiglia ridotta ad un ospizio provvisorio dal quale si parte per l’esame. L’essenza di una siffatta società è l’avanzamento attraverso prove di esame. Il giovane nudo, uguale ad ogni altro giovane, non può a proprio rischio e di propria iniziativa cercare e tentare la sua via. Egli non dispone dei mezzi di produzione, ma soltanto di quelli di consumo non convertibili nell’altro tipo di beni; e deve sottoporsi a prove continue per ottenere impiego ed avanzamento. Ad ogni passo un esaminatore lo sottopone a prove (test) di intelligenza, di forza, di destrezza. Le prove sono fissate secondo schemi dettati dalla scienza e la punteggiatura è automatica. Tizio è classificato buono per l’avvocatura, Caio per la potatura delle viti, Sempronio per la composizione di novelle fantastiche; né è lecito deviare dalla via così determinata, senza nuove prove di esami, di sperimenti, di domande e risposte in minimi di «tempi» la cui durata è decisiva per l’esito. Contempliamo la società perfetta del mandarino, in cui l’uguaglianza nei punti di partenza e nelle promozioni successive si sostanzia nella prontezza mnemonica nel rispondere ai quesiti, nella attitudine ad indovinare le risposte conformi alle idee dell’esaminatore, nella capacità di ossequio e di intrigo nell’accaparrarsi il favore dei superiori. Si crea una società di burocrati, tutta diversa da una società di uomini liberi, legati da forti vincoli di famiglia e di luogo.

 

 

130. Le disuguaglianze ereditarie apparenti a danno delle femmine, dei sacerdoti e dei figli cittadini. Come nasce la disuguaglianza tra figli ugualmente dotati dal padre.

 

L’uguaglianza ai punti di partenza suppone la continuità della famiglia e la preservazione dei valori i quali non si estinguono coll’individuo, ma si tramandano di generazione in generazione. Il contadino, il quale ha ereditato il podere dal padre, avendo, come accade, tre figli maschi e tre femmine, risparmia dapprima allo scopo di costituire la dote alle figlie e mandarle con Dio. A lui non cade in mente di essere ingiusto verso di esse, se la dote non è uguale alla sesta parte del patrimonio ereditato, ma alla dodicesima od a quell’altra la quale sia imposta come minima dal codice civile. Le figlie non perpetuano il nome della famiglia. Quel che egli deve dare è quel tanto che valga a farle rispettare nella famiglia in cui entrano, l’abitudine al lavoro e quei modesti costumi che le facciano buone madri di famiglia. Di più né egli ne altri sente di dover dare; e né le ragazze né i generi si aspettano di più. Coi figli invece la norma è l’uguaglianza. Chiedeva un inquirente, che aveva la mente rivolta alla conservazione del bene di famiglia ed al trapasso del podere indiviso a pro del primogenito o dell’ultimogenito: non è un peccato dividere in tre parti questo bel podere, che basta appena ad una famiglia? E la madre rispondeva: che mai dite? correrebbero coltelli tra i fratelli! Il costume italiano, se non quello germanico o scandinavo è un altro; dotate le figlie e dotati con la legittima anche i maschi, che, fattisi preti o cittadini professionisti, abbiano abbandonato la famiglia, il resto della vita è consacrato a crescere il podere, cosicché esso basti alle due o tre famiglie che porteranno il nome avito, sicché alla morte del padre, ognuno dei figli, il quale sia rimasto sulla terra, possegga un patrimonio non troppo minore e, se possibile, superiore a quello che il padre ha ereditato. Poiché fra la benedizione data, con la dote, alle figlie ed al sacerdote, e la morte del padre corrono solitamente parecchi anni, durante i quali il padre ed i figli maschi lavorano all’incremento del podere, tutti reputano giusto che la divisione in parti uguali avvenga, alla morte del padre, esclusivamente tra i figli i quali sono rimasti, lavorando, con i vecchi. L’incremento avviene per due vie. In virtù della prima, il podere di venti ettari il quale trent’anni prima, quando il padre lo ereditò, era capace di mantenere appena una famiglia, alla fine ne mantiene due. I campi sono stati migliorati, spianati, arati in profondo. Con duro lavoro gli appezzamenti incolti sono stati scassati e ridotti a coltura redditizia. Alle antiche rotazioni sfruttatrici di grano e granoturco si sono sostituite rotazioni miglioratrici ed induttrici di azoto con il trifoglio o l’erba medica o la sulla. Il carico di bestiame che giungeva a malapena ad un paio di buoi magri ed una vacca sfiancata è cresciuto; e nella stalla vivono un paio di buoi grassi, due vacche, quattro vitelli da allevamento, due maiali ed un cavallo. La stalla si è ampliata e schiarita; una concimaia razionale utilizza il letame che prima aduggiava il cortile ed era dilavato dalle piogge. Dopo di aver provveduto agli animali, si è anche pensato ai cristiani. La cucina è sempre quella, ampia ed accogliente; ma accanto e sopra sono state aggiunte, un po’ imbrogliate le une nelle altre, parecchie altre camere per le età ed i sessi diversi. Il podere non è più lo stesso e può alimentare due famiglie. Poiché i figli sono tre, occorre crescerlo ancora.

 

 

La divina provvidenza vuole che, accanto alle famiglie che salgono, vi siano le famiglie le quali discendono. Erano fratelli i due padri; ma laddove il primo ebbe sei figli e dotò convenientemente le tre femmine, il secondo non fece mai bene. Aveva avuto, il primo, la fortuna – ma fu fortuna o saggezza? – di sposare donna casalinga, assestata, curante del marito, dei figli, del pollaio e delle pecore, la quale faceva trovare sempre pronta, a tempo giusto, la colazione, il pranzo, la merenda e la cena; due volte al giorno la minestra calda fragrante e, sempre, col pane qualche companatico; aggiustati i panni e grossamente ben tacconati gli abiti da lavoro; pulite la stalla e la cucina e le camere. Simili a sé aveva allevato le ragazze, sicché i giovani dei dintorni che sapevano da qual casa uscivano, gliele portarono via a gara quasi prima che fossero da marito, né sofisticarono, prima o poi, sulla dote, tanto ne furono contenti. Il secondo, il quale da giovane amava andare in festa ed ai balli, aveva scelto invece donna piacente e prosperosa, che lo allietò senza tregua di molti figli. Ma dello scuro della casa non si compiaceva, più confacendole lo stare sull’uscio di casa a spettegolare coi passanti e colle vicine. Sempre in faccende e mai nulla di fatto. Il cane ed il gatto mangiavano i pulcini; i ladri rubavano i capponi e le oche; la stalla scura di ragnatele e di sporcizia; nella cucina non si sapeva dove porre i piedi sul pulito. A mezzogiorno od a sera, l’uomo ritornando a casa, doveva contentarsi di pane e formaggio e di un bicchiere di vino. «Noi poveri paesani – badava a dire la donna – dobbiamo faticare da mane a sera e neppur la domenica possiamo sederci a tavola tranquilli a mangiare la minestra». Frattanto la cognata dava, con la stessa terra, minestra tutti i giorni ai suoi e la casa era lieta e ridente. Qui gli uomini siedono a tavola al caldo; là, non si sa come, ogni tanto un tintinnio avverte che qualche vetro si è rotto; e la donna scempia si querela: «in campagna, si sa, il vento passa dappertutto; non come in città, dove le case in faccia riparano; qui i vetri sono sempre rotti; e noi, poveretti, non abbiamo i denari per farli rimettere». Frattanto il marito, tra i colpi d’aria ed il cibo asciutto, si ammala; ed i quattrini sfumano a pagare un garzone che lo sostituisca nei lavori. Se capita la grandine, la stretta di caldo, l’invasione della peronospora non combattuta a tempo – siamo corsi subito, imperversa la donna, e le foglie erano già bianche di muffa!; ma il fratello un’ora prima con una irrorazione tempestiva aveva ancora salvato il raccolto – ecco che fa d’uopo vendere un campo per tirare innanzi. Chi lo compra? Il fratello, che aveva ricevuto dal padre la stessa parte, che aveva subito la stessa grandinata, che aveva dovuto lottare contro la stessa invasione peronosporica. Al momento buono, accadde che l’uno aveva messo da parte i denari, del quale l’altro aveva bisogno. Così una famiglia sale e l’altra scende. L’uno cresce il fondo avito e consente ai suoi figli di muovere nella vita passi sicuri; l’altro si stanca a curvar la schiena ogni giorno a zappare la terra al solleone o sotto la pioggia e sogna più facili ricchezze. Vende il campo o lo ipoteca; e col ricavo acquista un camioncino e una macchina da far pasta. I conti preventivi sono lampanti; tanti poderi visitati, tanti chilogrammi di farina da trasformare in paste alimentari, che le massaie saranno liete di avere con poca spesa, affrancandosi dalla noia faticosa delle tagliatelle fatte in casa. L’incasso giornaliero è sicuro; alla fine di due o tre anni, camioncino e macchina sono pagati, e, dopo, tutto è reddito netto. Purtroppo, il diavolo ci mette la coda; le paste, senza uova, si spappolano cuocendo; i clienti volenterosi si diradano; il petrolio rincara. Non sarà gran male vendere il camioncino e sostituirlo con un vecchio mulo, che giunto nel cortile del podere farà girare la ruota della macchina. Il lavoro rallenta ancor più e non paga le spese. Dopo pochi anni, quel contadino, che lavorando, avrebbe potuto vivere nel suo, se ne va ramingo ad allogarsi come manovale e discorre della fortuna avversa col fratello, il quale nell’inverno lo accoglie talvolta nella stalla ben popolata e calda.

 

 

131. La persistenza dei patrimoni nelle famiglie è dovuta a fattori morali; che soli possono sormontare l’ostacolo dell’imposta ereditaria avocatrice.

 

Lungo tutta la scala sociale, i medesimi fatti sono chiari e dimostrano che l’unità sociale non è l’individuo, ma la famiglia. Un’impresa dura, secolare, nella medesima famiglia, là dove l’onestà, l’ordine nella vita, la temperanza nei godimenti consentono di cumulare riserve per i giorni avversi, per le annate dalle vacche magre. Lentamente cresce, di generazione in generazione, il patrimonio di esperienza, di affiatamento con i dipendenti, di amichevoli rapporti con i clienti. Se ad ogni generazione si dovesse ricominciare dallo zero, codesto patrimonio di tradizioni e di relazioni, spesso assai più prezioso del patrimonio pecuniario e materiale, andrebbe disperso, senza vantaggio per nessuno. Accanto alle banche, le quali sin dall’origine furono costituite per azioni e si presentarono al pubblico con volto anonimo, vivono in ogni città banche private, delle quali nessun cliente si cura di indagare il capitale versato. Portano un nome, che significa, di padre in figlio, onestà, puntualità, osservanza degli impegni presi, prudenza negli investimenti, osservanza scrupolosa dell’unica regola che il banchiere, degno del suo nome, deve osservare: «come debbo investire le somme altrui, le quali mi sono affidate, in modo da essere sicuro di restituirle al tempo fissato?». L’improvvisatore, il progettista, l’uomo fornito di idee facili e tutte promettenti bada a raccogliere depositi; l’erede prudente di un nome accreditato pensa all’obbligo di restituire. Il primo fallirà o scaricherà, se i suoi depositi montano a miliardi, sullo stato le conseguenze della sua avventatezza. Il secondo potrebbe lavorare senza capitale e tuttavia prospererebbe. Perché il figlio non deve poter ricevere dal padre e dall’avo l’eredità di un punto di partenza nella vita, che fu posto in alto senza recare danno anzi recando vantaggio alla collettività?

 

 

I più grandi giornali del mondo – e si potrebbe aggiungere le maggiori case editrici che durarono oltre il secolo – furono all’inizio l’opera di un uomo ma furono continuate da famigliari conservatori gelosi di una tradizione onorata. Alla radice del «Times», del «Manchester Guardian», dell’«Economist» ci sono un Walter, uno Scott, un Wilson; e lungo il secolo si leggono, tenaci tutori della onorabilità del foglio quotidiano o settimanale, i nomi dei figli, dei genitori e dei nipoti del fondatore. Così, anche, era stata creata in Italia la grandezza del «Corriere della sera», della «Stampa», del «Giornale d’Italia», della «Gazzetta del popolo», del «Giornale di Sicilia» e di tanti altri. Non il capitale anonimo, ma uomini che si chiamavano Torelli-Viollier, Albertini, Frassati, Bergamini, Botero, Ardizzone crearono la fortuna del giornale, fortuna che dipendeva esclusivamente da qualità intellettuali e morali e più da queste che da quelle. L’intelligenza di uno scrittore può essere presa a nolo; ma non si negozia il senso morale di chi vuole il suo diario esponga la sua opinione e non quella dell’industriale che paga gli annunci, del dittatore che impone opinioni, del pubblico tumultuante esasperato da demagoghi. In Italia si volle distruggere questo patrimonio prezioso famigliare, sostituendolo con leggi scritte; e per un ventennio più non avemmo giornali; né questi esistono nella Germania nazista o nella Russia comunista, dove, come tra noi, si leggono soltanto bollettini i quali esprimono la volontà di chi comanda. La libertà di stampa non esiste se non vi è continuità di possesso famigliare dei giornali, delle riviste, delle case editrici; o se, dove per il trascorrere del lungo tempo la famiglia fondatrice viene meno o si disperde, non si riesce a creare un istituto, indipendente da ogni ingerenza pubblica o privata, atto a conservare la continuità dell’idea incarnata nell’impresa. L’imposta ereditaria, del tipo che fu descritto sopra, può e deve efficacemente intervenire per obbligare gli eredi, in poche generazioni, a rifare, col proprio sforzo, il capitale materiale di macchine, di edifici, di scorte tramandato dall’avo; così come può e deve intervenire ad obbligare l’attuale proprietario di un fondo a riacquistare col proprio risparmio la terra quale l’avo l’aveva consegnata al padre suo. Ma il nome, ma la tradizione, ma l’esperienza sono ricchezza propria della famiglia, che, serbata in essa, reca vantaggio agli altri e, toltale, rimane distrutta con danno universale.

 

 

132. La venalità delle cariche giudiziarie fu in tempi di assolutismo inizio e garanzia dell’indipendenza della magistratura.

 

Bene massimo fra tutti in un paese è l’indipendenza della magistratura, sola garanzia di giustizia che è fondamento dei regni. Ma la indipendenza della magistratura non si ottiene abilitando i giovani forniti del sesto senso necessario ad emergere nella vita e che per essi è quello giuridico, ad addottorarsi grazie a borse di studio in legge ed a partecipare, tra i venti ed i venticinque anni, ai concorsi di ammissione alla carriera giudiziaria. Il concorso attesta, forse, l’attitudine alla interpretazione della legge; non, quel che sovratutto monta, la fermezza del carattere morale. Il concorso, anzi, pone tutti, a parità di intelligenza, alla medesima stregua: tutti uguali, l’arrivista, il procacciante, colui che pesa il torto e la ragione al lume della sola giurisprudenza, e l’uomo retto, che non transige colla coscienza e non si piega, per esigenze di carriera, ai desideri dei superiori e dei potenti. Concorso e promozioni per esami e per anzianità sono formule tipiche di chi non tollera disuguaglianze di trattamento, e vuole tutto sia valutato alla stregua di punti di merito, e sono formule necessarie ad evitare l’arbitrio. Ma con corsi e promozioni per esami eccitano anche le ambizioni e sono scuole di servilismo verso chi deve pronunciare il giudizio. Debbono perciò essere corretti, se si vuole che il magistrato sia libero, con rimedi inspirati a criteri che formalmente sanno di privilegio e di disuguaglianza. Il rimedio varia da tempo a tempo, assume forme diversissime e può anche prendere nome di spirito di corpo o di casta. Nella Francia di antico regime, innanzi al 1789, lo spirito di corpo si concretava nella venalità delle cariche giudiziarie. Venalità e giustizia paiono due concetti contraddittori ed invece la prima fu, per secoli, salda garanzia dell’altra. mercante, il quale aveva mandato il figlio agli studi ed era riuscito ad addottorarlo in legge, acquistava una carica di consigliere o di presidente in uno dei parlamenti o di altra corte giudiziaria a favore del figlio; il quale, divenuto così nobile di toga, fondava una famiglia chiamata a dare, uno dopo l’altro, magistrati all’ordine giudiziario. Proprietari, in virtù del titolo accademico, che era cosa personale, e del prezzo pagato, che era cosa trasmissibile, di una carica giudiziaria, codesti magistrati si consideravano sovrani e resistevano, se dottrina e coscienza lo ordinassero, agli editti del principe. In Francia, occorreva un solenne letto di giustizia, con l’intervento di tutta la corte e dei pari del regno, perché i tribunali si adattassero a registrare editti sgraditi, prendendo a testimonianza, con solenne rimostranza, che esse cedevano soltanto alla forza; in Piemonte senati e camere dei conti interinarono parimenti editti reputati contrari alle tradizioni, all’ordine legislativo vigente, alle pattuizioni fra sovrani e popoli, soltanto dopo tre ripetuti comandi (iussu) e protestando di cedere soltanto, contro la propria volontà e coscienza, al comando espresso; cosicché l’effetto morale del comando agli occhi del popolo restava annullato; ed a Potsdam il mugnaio replicava a Federico secondo, che voleva ingiustamente la casa sua: vi sono dei giudici a Berlino! Abolita per sempre, con la rivoluzione francese, la proprietà e la venalità delle cariche giudiziarie, rimase la tradizione nelle famiglie dei magistrati; ed ancor oggi in Francia e forse anche altrove, di padre in figlio si tramanda il deposito di massime, di tradizioni, di vita riservata, di orgoglio di appartenere ad un ceto posto fuori e al disopra del resto del mondo che può produrre quel fiore supremo della civiltà, che è il magistrato incorruttibile. Che se anche i magistrati di antica famiglia sono una minoranza, essi danno il tono al corpo intiero. I nuovi venuti, tratti da ceti sociali mercantili o agricoli nei quali sono diffusi sentimenti latitudinari intorno ai limiti fra la mera onestà del non far torto altrui e l’imperativo duro del render stretta giustizia, si avvedono presto di vivere in un mondo diverso da quello consueto, il quale vincola e limita i loro modi, le loro parole, l’espressione dei loro sentimenti ed imprime su di essi quasi un’impronta sacerdotale.

 

 

133. L’indipendenza della magistratura oggi connessa con la persistenza dello spirito di corpo proprio di un ceto chiuso.

 

I cento, e non più, giudici inglesi sono forse individui scelti, all’inizio della loro carriera, per concorso accessibile a tutti i giovani forniti dei medesimi titoli? Non pare. Il caso, le relazioni famigliari consigliarono al giovane, uscito dagli studi umanistici, di entrare in uno degli studi legali od uffici di avvocato di cui sono costituiti i cosidetti «Inns of Court»; e qui dopo avere assistito riverente ai riti periodici dei pranzi onorati dalla presenza degli anziani e dopo avere sostenuto qualche esame e più aver fatto lungo tirocinio in uno studio, diventa barrister o avvocato patrocinante presso qualcuna delle corti del regno. Se egli acquista clientela e, salito in fama di avvocato principe, guadagna larghi emolumenti, taluno comincia a dirlo degno di salire dalla sbarra (bar) dove si tengono gli avvocati, al banco (bench) dove siedono i giudici. Nominato, sa di fare un grave sacrificio economico, lo stipendio del giudice, anche elevato, essendo sempre inferiore Agli emolumenti lucrati come avvocato, ma sa di diventare non solo pari agli altri giudici, ma la voce medesima del sovrano, che lo ha cresimato giudice e che per bocca sua dichiara il torto e la ragione. Chi ha creato costui, il quale crede di essere ed è superiore in dignità a chiunque copra altissima carica politica od elettiva? Ad un nuovo recente presidente americano, il quale aveva ritenuto inavvertitamente, di richiamare l’attenzione di un giudice della Suprema corte su una interpretazione da lui proferita di un punto di diritto allora controverso, la risposta fu: «signor presidente, io sono un giudice!».

 

 

La risposta riassume l’orgoglio di chi sente di appartenere ad un corpo il quale trova la sua legge solo in se stesso, nella coscienza di un dovere compiuto. Ma un corpo è una famiglia chiusa, non un’accolta di individui giunti prima degli altri, senza conoscersi, al traguardo, dopo essere partiti nello stesso istante dal medesimo punto. Nel corpo si entra per lenta ascensione, al cui fondo sta una scelta dettata da ragioni morali, che sono ragioni di privilegio e non di uguaglianza.

 

 

134. La famiglia è inconcepibile in una società non differenziata.

 

Quello di «famiglia» non è un concetto il quale stia a se. Non esistono famiglie in tutti i tipi di società; ma soltanto in quelli nei quali la famiglia può vivere e perpetuarsi. Là dove vivono famiglie, vivono anche ceti, gruppi, vicinanze, amicizie, comunità, mestieri, professioni, associazioni libere ed aperte, corpi chiusi esclusivi. Esiste una società differenziata, articolata, elastica, mobile, consapevole; esiste un popolo e nasce e cresce uno stato. Là dove invece un uomo ed una donna stanno insieme per ragioni di lavoro e di utilità, non esistono né casa, né vicini, né amici, né corpi; ma individui singoli, classi composte di individui raggruppati per connotati oggettivi di salario, di stipendio, di patrimonio o di reddito. Classi e non ceti; individui e non uomini; atomi e non anime.

 

 

135. Le case alveari e la inesistenza della famiglia. Ivi è uguaglianza nei punti di partenza per uomini nudi.

 

Che cosa vuol dire uguaglianza nei punti di partenza individuali? Ecco la casa ad appartamenti in città. È comoda, ben congegnata: i quartieri sono minimi, di una o due stanze, con bagno e cucinetta. Riscaldamento centrale; nella cucinetta di tre o quattro metri quadrati, ghiacciaia, cucina elettrica od a gas, acqua corrente fredda e bollente, in tutte le ore del giorno e della notte. Radio, grammofono, telefono. Al piano terreno i servizi centrali. Ad ore fisse un impiegato della casa vien su a pulire e far le stanze, a tirar su il falso letto e nasconderlo, insieme con i materassi e le lenzuola, nell’armadio, sicché sino a sera la stanza diventa salotto da stare e cosidetto studio, dove si guardano le ultime novità prese a prestito dalla biblioteca circolante. Nella cucinetta, la signora prepara rapidamente il primo asciolvere del mattino, col latte che è venuto su ad ora giusta dal servizio centrale del pianterreno. Poi, ciascuno va al suo lavoro; ed i due si rivedono alle cinque, al tè presso amici o in una sala da tè. Hanno fatto colazione, in piedi o rapidamente, nel ristorante annesso all’ufficio od alla fabbrica dove lavorano. La sera, forse, la trascorrono insieme se la signora non si annoia troppo a preparare il pranzo, sovratutto con roba in scatola. Ma al pian terreno, il ristorante comune è accogliente e risparmia fatica. Poi il cinematografo. Una lavanderia ed una stireria comune provvedono, a prezzo fisso, alle esigenze di casa. Probabilmente, nel semisotterraneo vi è anche la bottega del barbiere, del manicure, e l’istituto di bellezza per la signora. La casa è quasi un albergo, dove i servizi funzionano automaticamente. Gli inquilini non è necessario si conoscano e si frequentino. Un cenno del capo, un atto di cortesia all’incontro nell’ascensore ed è tutto. Sono forse costoro uomini o non invece comparse le quali si dileguano indistinte dopo essere rimaste per qualche tempo sulla scena del teatro sociale? Amici od amiche o non invece conoscenze a cui si dà del tu, che si incontrano al circolo, al caffè, nei campi del golf o della pallacorda, nelle sale di conversazione e di conferenze, e, se non si incontrano più, si dura fatica a ricordarne il nome ed il viso? Che ci sta a fare il bambino in una casa ad appartamenti? Dove gioca, dove corre e cade, dove sono i piccoli amici coetanei? Fratelli non ci sono od al più ve n’è uno. Troppa noia allattare ed allevare tanti bambini. In quel piccolo appartamento non ci sarebbe più pace. Deve forse la donna rinunciare all’impiego ed al lavoro, che consentono comodità, vestiti, calze, cinematografo e gite? Sacrificarsi e perché? A vent’anni, se femmina, la bambina d’oggi è destinata ad andare, con un altro uomo, ad abitare in un altro appartamento; e la si vedrà di rado e di furia. Se maschio, l’impiego lo porterà forse in un’altra città. Una lettera ogni tanto ricorderà che un tempo si aveva avuto un figlio, che si è reso indipendente e probabilmente considera i genitori come gente antiquata, che ha altri gusti e con cui non c’è modo di capirsi. Frattanto, non c’è la sala per i lattanti, l’asilo per i bambini? Non vi sono forse suore, magnifiche di amore per i figli altrui, nutrici ed istitutrici educate in istituti appositi, le quali sono pronte a pigliarsi cura dei bambini della gente affaccendata nel non far nulla o costretta a lavorare per guadagnarsi la vita. Per la gente facoltosa vi sono filantropi intelligenti pronti a sostituirsi ai genitori con l’aiuto di suore cattoliche o protestanti o laiche; per i mediocri ed i poveri provvedono lo stato, il comune e le istituzioni benefiche. Nessuno deve essere abbandonato a sé; tutti i nati hanno diritto alla medesima educazione ed istruzione; dall’asilo per i lattanti all’asilo infantile, su su fino alle scuole elementari, al ginnasio, al liceo, all’università. Poiché tutti gli uomini sono uguali, qualcuno veglia affinché le medesime nozioni siano egualmente offerte a tutti, con la scuola unica in basso, sino almeno a tre anni dopo le scuole elementari. Poi si concede, con molta ripugnanza, che taluno impari il latino ed il greco e la filosofia; meglio sarebbe se tutti, per suggerimento di genitori o di maestri che tirano al sodo, attendessero in primo luogo alle cose tecniche, utili nella vita quotidiana, alla fisica, alla chimica, alla stenografia, alle lingue moderne, alla contabilità, al disegno, alla meccanica, relegando alle horae subsicivae quelle cose che i vecchi chiamavano umanità e mettevano a fondamento della cultura. Così, a venti od a ventidue anni il giovane si presenterà a correre la gara della vita alla pari con ogni altro giovane, maschio o femmina, tutti egualmente formati fisicamente ed intellettualmente, tutti uguali per vestito, scarpe ed acconciatura di testa. Tutti destinati a trascorrere le ore lavorative nell’ufficio o nello stabilimento, pubblico e privato, dove la carriera, dato l’uguale punto di partenza, sarà offerta con diversità nei punti di arrivo a seconda del merito. L’uno percorrerà solo i gradi dovuti all’anzianità; l’altro diventerà direttore generale o membro del consiglio di amministrazione. Ma ogni uomo vivrà con una donna in una casa ad appartamenti; l’uno fruendo di una stanza sola e l’altro di tre o quattro, arredate con maggior lusso e con maggior comodità di servizi comuni. L’uno avrà una sola vettura automobile e l’altro ne possederà una per ciascuna persona di famiglia. Ma nessuno avrà più di uno o due figli; e nessuno avrà gran casa, che i domestici privati sono scomparsi, da quando gli uomini hanno cominciato ad apprezzare l’indipendenza. Il cameriere o la cameriera che fa i servizi di pulizia giungono anche essi in automobile e, compiuto il servizio secondo l’orario stabilito, ritornano nella propria casa ad appartamenti, dove alla lor volta i servizi sono compiuti da addetti dello stesso loro tipo.

 

 

136. Dove non esiste la famiglia, domina il programmismo.

 

Una società così composta può essere, per accidente, una società libera; ma è accidente storico. Essa è, fatalmente, destinata ad essere governata secondo un piano, un programma bene congegnato, bene incastrato in tutti i suoi elementi. La casa ad appartamenti è essa stessa un programma. A seconda del numero degli abitanti, delle vie, delle distanze, della localizzazione degli uffici, degli stabilimenti, dei luoghi di lavoro, vi deve essere un optimum nelle dimensioni di ogni singola casa. Trenta, quaranta appartamenti, con altrettante coppie di uomo e donna; tanti pasti in comune e tanti separati, tanti servizi di lavanderia, di stireria, di rammendo, di bucato. Il perito ingegnere od architetto costruisce la casa; altro perito maggiordomo organizza i servizi interni. E così per i servizi esterni: di ristorante, botteghe di caffè e di tè, teatri, cinematografi, asili, scuole, circhi, fori per adunanze e spettacoli. Parimenti per le fabbriche, le manifatture e le imprese agrarie. Uomini periti calcolano i chilogrammi di pane, di pasta, di carni, di pesce, di verdura, di frutta, i capi di vestiario e di scarpe, le lenzuola, i grammofoni, i dischi, le radio, gli apparecchi telefonici, le automobili ecc. ecc. bisognevoli per ogni abitante in media. Poiché i desideri degli uomini sono suppergiù uguali per ogni gruppo di reddito, statistici e contabili fanno i calcoli del fabbisogno; periti tecnici valutano gli ettari, le macchine, le superfici coperte occorrenti per la produzione; e nei luoghi opportuni, tenuto conto dei mari, dei fiumi, dei canali navigabili, delle ferrovie, delle distanze, delle montagne, costruiscono dighe, creano laghi artificiali, fanno impianti idroelettrici, fanno sorgere città industriali, dissodano ed arano e coltivano terreni. Perché l’uomo dovrebbe ribellarsi alla vita comoda, che gli è offerta al minimo costo, nella casa ad appartamenti, con gite in automobile, radio, grammofono, telefono e libri a prestito; e con i bambini curati in scuole ed asili luminosi e sani, e recati sino all’età nella quale potranno cominciare anch’essi a condurre la medesima vita tranquilla e contenta in una casa ad appartamenti nuova di zecca, più comoda e meglio organizzata di quella dei genitori?

 

 

137. Ma, se così piace agli uomini, non è una società di parassiti.

 

Quella che ora è stata descritta non è una caricatura. È l’ideale onesto di molti uomini. Una società, nella quale una parte degli uomini e delle donne abbia ideali simili a questi non è una società corrotta e decadente. Questi uomini e queste donne, che lavorano in uffici ed in fabbriche e ivi danno un rendimento uguale perlomeno al salario ricevuto, possono tenere la testa alta. Non sono parassiti. Hanno gusti uniformi, desiderano i beni ed i servizi che tutti desiderano; non sono pronti a sacrificarsi troppo per le generazioni venture. Poiché lo stato provvede alla istruzione dei figli e li mette in grado di partecipare, a parità con altri, alla gara della vita, perché essi dovrebbero sacrificarsi di più? Poiché tutti coloro che lavorano sono sicuri di una carriera decorosa, poiché qualcuno provvede ai casi di malattia, di infortuni, di disoccupazione, poiché è assicurata una pensione di vecchiaia, vi è ragione di rinunciare a usufruire oggi dei beni della vita per un futuro posto al di là del termine della vita? I figli non godranno dei medesimi vantaggi e maggiori di quelli di cui fruirono i genitori?

 

 

138. È una società di uomini impiegati, ubbidienti. Manca chi comanda.

 

Il vizio di una società cosiffatta è quello di essere composta di onesta gente di tipo normale. Gli uomini nudi o normali hanno l’animo dell’impiegato. Sono nati ad ubbidire. È normale che molti uomini, forse i più, siano nati ad ubbidire. Un esercito è composto di molti soldati e di un solo generale; e guai se tutti i soldati pretendessero di comandare e di criticare gli ordini del generale. Correrebbe diritto alla disfatta. Ma guai anche ad un esercito, di cui i soldati e gli ufficiali subalterni e superiori, su su sino al comandante in capo attendessero sempre, prima di muovere un passo e sparare un colpo di fucile o di cannone, l’ordine del superiore gerarchico! L’esercito sarebbe sopraffatto dall’avversario più agile, più deciso, dei quali i membri fossero forniti, ciascuno entro i limiti del compito ricevuto, di spirito di iniziativa. Vedemmo centinaia, talvolta migliaia di uomini armati arrendersi a un pugno di uomini. Ma i primi aspettavano gli ordini degli ufficiali subalterni, e questi dei superiori e gli ufficiali superiori invano chiedevano nell’ora del pericolo istruzioni al comandante supremo; laddove i secondi erano guidati da un caporale risoluto, il quale aveva visto essere urgente ed efficace intimidire il nemico numeroso con l’uso pronto della mitragliatrice. Così è in una società. Accanto agli uomini che ubbidiscono, i quali compiono degnamente il lavoro ad essi assegnato, adempiono scrupolosamente all’ufficio coperto, vi debbono essere gli uomini di iniziativa, i quali danno e non ricevono ordini, compiono un lavoro che nessuno ha ad essi indicato, creano a stessi il compito al quale vogliono adempiere. La società ideale non è una società di gente uguale l’una all’altra; è composta di uomini diversi, i quali trovano nella diversità medesima i propri limiti reciproci. La società ideale si compone di gente che comanda e di gente che ubbidisce, di uomini al soldo altrui e di uomini indipendenti. La società non vivrebbe se accanto agli uni non vi fossero gli altri. Essa deve espellere dal proprio seno soltanto i criminali, i ribelli ad ogni disciplina sociale, gli irregolari incoercibili; e poiché espellerli non può, deve creare le istituzioni giuridiche necessarie a ridurre al minimo il danno della loro mala condotta. Per tutti gli altri, ossia per la grandissima maggioranza degli uomini viventi in società, l’ideale è la varietà e la diversità. Non esiste una regola teorica la quale ci dica quando la diversità degenera nell’anarchia e quando la uniformità è il prodromo della tirannia. Sappiamo soltanto che esiste un punto critico, superato il quale ogni elemento della vita sociale, ogni modo di vita, ogni costume che era sino allora mezzo di elevazione e di perfezionamento umano diventa strumento di degenerazione e di decadenza.

 

 

139. La teoria del punto critico nella scienza economica.

 

La teoria del «punto critico»[5] è fondamentale nella scienza, sia economica sia politica, degli uomini viventi in società. In economia, dicesi teoria dei gradi decrescenti di utilità. Il primo bicchiere d’acqua ridà la vita all’assetato nel deserto, sicché, per non morire costui è pronto a dare per esso tutta la propria sostanza; il secondo è bevuto ancora con avidità; il terzo ed il quarto sono ancora desiderati. Ma, ad un certo punto, mutevole a seconda delle circostanze, l’offerta non è più gradita; e poi diventa addirittura spiacevole, sinché, crescendo tuttora l’offerta, questa finirebbe per essere reputata nociva e pericolosa e finalmente mortale; come nel caso di straripamenti di fiumi, rotte di argini, distruzioni di case, di raccolti e di vite umane. Il lucro, altissimo dapprima per i beni nuovi, coll’intensificarsi della concorrenza scema, diventa inferiore a quello normale e crescendo ancora l’offerta del bene, dà luogo ad una perdita. I punti critici qui sono due: il primo che fa scendere il lucro al disotto del normale e rende antieconomica, ma tuttavia vitale, l’impresa; il secondo che lo abbassa al disotto dello zero e prelude alla rovina. Tutte le teorie economiche e finanziarie sono pervase da considerazioni relative ai punti critici.

 

 

140. La teoria del punto critico nelle scienze politiche.

 

Così sono anche le teorie politiche. È ragionevole che due sposi cerchino di costituirsi un nido che sia tutto loro proprio e nel tempo stesso non riduca la donna in pochi anni ad un tronco sformato dalla fatica del far cucina, dello strofinare, pulire, lavare e stirare; e perciò la casa ad appartamenti, con servizi centrali, soddisfa ad una esigenza di un certo momento della vita umana. Ma quando l’abitudine della convivenza sia cosa fatta, quando sono passati i primi trasporti dell’amore e siano sopraggiunti i figli, i genitori salgono ad un livello superiore, superano il punto critico morto del loro duplice egoismo individuale se si decidono a rinunciare a qualcuna delle comodità offerte dalla casa ad appartamenti e si muovono verso una più ampia casa ordinaria, verso, se possibile, una casa, anche piccola, ma indipendente, con orto e giardino, nella quale possa vivere non più la coppia degli sposi, che è fatto transitorio, ma la famiglia che è fatto permanente, destinato a perpetuarsi nei secoli.

 

 

141. Il punto critico nell’uso della radio.

 

È ragionevole che ogni famiglia, anche modesta, aspiri al possesso della radio, che la tiene in contatto col mondo, che consente audizioni musicali elevatrici, con minimo costo e senza danno per l’adempimento dei doveri famigliari. Ma la radio fu altresì frutto della rabbia sentita dal demonio che è in noi contro lo spirito di critica il quale conduce gli uomini a ribellarsi contro la ripetizione, contro l’ordinario, contro ciò che tutti dicono e pensano; e in quel giorno l’uomo – demonio inventò questo che può diventare strumento perfettissimo di imbecillimento della umanità quando cada in mano di chi se ne valga a scopo di propaganda. Propaganda orale e vocale, insinuante, quotidiana mille volte più efficace della propaganda scritta e stampata. La voce comanda, ordina di pensare in un certo modo, ingiuria il disubbidiente e lo scettico; e colla figura della ripetizione ottiene effetti sorprendenti di ubbidienza cieca, di persuasione convinta a cui nessuna parola scritta può giungere. Il passaggio dalla radio che allieta ed istruisce e fa dimenticare i dolori, alla radio che è causa di imbecillimento della umanità è graduale. Chi sa premunirsi dall’andare oltre il punto critico nell’uso della radio?

 

 

142. Il punto critico nel numero dei figli.

 

È ragionevole che gli sposi usino prudenza nelle relazioni sessuali sì che il numero dei figli non cresca repentinamente e troppo ed i genitori non siano costretti a fatiche disumane per allevarli e, non riuscendo nell’intento, i figli crescano male educati, rissosi, insofferenti di ogni disciplina e presto dediti al vagabondaggio ed al vizio. Il punto critico sia nel trovare il giusto limite fra l’osservanza del comandamento del crescite et multiplicamini e l’ubbidienza al dovere di dare ai figli salute fisica ed educazione spirituale. Nessun figlio od un figlio solo è dapprima indice di egoismo nei genitori e cagione poscia di ansie continue per la vita e l’avvenire del figlio; ma dodici figli, come usava nelle vecchie famiglie, vuol dire apparecchiare, tra i tanti, una recluta alla delinquenza od alla infelicità, cagione di angoscie ai genitori e di vergogna ai famigliari. Socialmente, ove si ritenga pericolosa la caduta della popolazione di uno stato al disotto di un certo numero, il punto critico si raggiunge quando la fecondità media dei matrimoni non è bastevole a mantenere costante quel numero. Ma il punto critico sociale è sempre la risultante dei singoli punti critici validi per ogni famiglia?

 

 

143. Il punto critico nelle regole monastiche.

 

Come per i singoli istituti sociali ed i diversi costumi, così esiste un punto critico, al di là del quale una società degenera e decade per esagerazione di uno dei suoi elementi. Una società di onesta gente ubbidiente diventa presto vittima del tiranno o morta gora di impiegati e di mandarini, la cui carriera si svolge attraverso ad esami e concorsi, concorsi ed esami, gerarchie di gradi, di onorificenze e di stipendi. Chiamavasi «regola» quella che S. Benedetto, S. Francesco e gli altri fondatori avevano dato agli ordini monastici; così come oggi si chiamano «piani» o «programmi» quelli che i consigli dirigenti delle società comunistiche formulano per la organizzazione del lavoro e la giusta ripartizione del prodotto totale sociale fra tutti i cittadini. La «regola» era fondata sullo spirito di rinuncia dell’individuo, sulla dedizione dei singoli al bene comune, sull’abbandono dei beni terreni per la conquista della felicità eterna. Finché durò lo spirito di rinuncia, di dedizione, di abbandono, conventi e monasteri prosperarono; si dissodarono lande incolte, la vita materiale e spirituale risorse attenuando la ferocia dei costumi barbari, furono coltivate le discipline sacre e profane ed i conventi diventarono fari luminosi di cultura in mezzo alle tenebre medioevali. Giunse tuttavia il momento in che i più degni, i fratelli maggiormente dotati dello spirito di carità, di rinuncia e di ubbidienza riluttarono ad assumere le redini del convento e queste caddero in mano agli ambiziosi, agli ipocriti, a coloro che perseguivano ideali terreni. Dappertutto, a distanza di cento anni dalla fondazione, più o meno, si assiste alla medesima vicenda: un padre guardiano, un priore il quale per adornare meglio l’altare o per fare sfoggio di liete accoglienze ai potenti della terra, esige strettamente le prestazioni dovute dai villani deditizi, i quali avevano donato sé, i famigliari e la terra al convento in cambio di protezione; riduce il cibo ed i vestiti prima ai conversi e poi ai fratelli. L’uguaglianza tra i fratelli ed i conversi è violata a favore dei cadetti delle grandi famiglie feudali; le cariche vengono attribuite a preferenza ai fratelli privilegiati e poi diventano ereditarie; sinché verso la fine del secolo 19esimo l’antica uguaglianza comunistica è venuta meno e sul convento impera l’abate commendatario, designato tra i cadetti della famiglia che forse in origine aveva dotato il convento di qualche terra. I redditi delle terre conventuali sono suoi; ed i frati vivono di questue e di elemosine. Trascurate le sacre funzioni, negletti gli studi, la vita trascorre uniforme nell’adempimento dei riti consueti ed in inutili maldicenze. Sinché i contenti furono poveri, solo gli uomini pronti al sacrificio vi entravano; e questi si dedicavano con entusiasmo a dissodar la terra, a leggere negli antichi codici, a predicare la parola di Cristo; e tra i migliori l’ottimo era, per consenso universale eletto capo. Ma egli non aveva uopo di comandare, ché bastava il suo esempio a fare osservare spontaneamente da tutti la regola. Così il convento prosperava; e le donazioni dei fedeli affluivano; e molti desideravano dedicar ad esso sé e la famiglia ed i beni, sicuri di ottenerne protezione e pace. Ma la ricchezza partorisce la corruzione; agli uomini del sacrificio si aggiungono i procaccianti, gli amanti della vita detta contemplativa perché comoda. I grandi destinano al convento i cadetti e questi ambiscono i posti di comando; e così ha inizio la decadenza.

 

 

144. Il punto critico nelle società comunistiche. Il programma nelle scoperte scientifiche, nelle opere letterarie ed artistiche.

 

Non diverso è il giudizio sulle società comunistiche, dove si è oltrepassato il punto critico dell’equilibrio tra la sfera pubblica e quella privata; e tutti i mezzi di produzione sono divenuti pubblici. Se tutti gli uomini fossero nati all’ubbidienza e se esistesse un mezzo di selezione per cui i migliori fossero portati ai posti di comando, quella società potrebbe vivere e se non grandeggiare, rendere contento l’universale. Ma ridotta nelle campagne la sfera privata a quella d’uso, all’economia della casa dove la famiglia vive, dell’orto e del giardino, degli animali da cortile e di quell’unico grosso capo il quale può essere alimentato coll’erba del breve terreno circostante alla casa; scomparsa del tutto ogni sfera privata nelle città all’infuori delle poche camere d’abitazione, subito si vede quanto sia grande il potere di coloro che stanno ai posti di comando, là dove si compilano i piani della produzione e si sovraintende alla loro esecuzione. Ai posti di comando si delibera quanta parte dei fattori di produzione – terre, macchine, scorte, lavoro – debba essere destinata a produrre beni strumentali (risparmio-investimenti) e quanta a produrre beni di consumo. Se i dirigenti hanno l’occhio intento più al futuro che al presente, minore sarà la quota destinata a produrre beni presenti e più basso il tenore di vita della popolazione. Il lavoro, impiegato a costruire ferrovie nuove, a regolar fiumi, a contenere acque ed a renderle atte a produrre energia elettrica od a irrigar campi non può essere contemporaneamente destinato a produrre frumento o carni o latte o vestiti o case. Se i dirigenti paventano o desiderano guerra di difesa o di conquista, hanno il potere di destinare i fattori produttivi a creare mezzi strumentali di guerra invece che di pace. Per ciò che si riferisce ai beni di consumo, essi hanno il potere – e perché, avendolo, non lo userebbero? – di scegliere quei beni i quali, secondo il loro criterio, sono più utili ai consumatori. Al luogo della domanda volontaria essi hanno la facoltà di porre un loro proprio criterio, il quale potrà essere oggettivo, scientifico, ad es. l’ottima dieta alimentare calcolata con i più perfetti metodi consigliati dalla fisiologia e dall’igiene, ma è diverso da quello che spontaneamente sarebbe adottato dagli uomini consumatori. Se trattasi di beni di consumo durevoli, gli ordinatori del piano hanno il potere di dichiarare preferenze per le vetture automobili, o per gli apparecchi radio o per quelli telefonici, o per una camera di più; e la scelta può essere determinata da ragioni economiche o politiche o propagandistiche. Chi, se non le autorità dei piani, deciderà quali classici debbano essere ristampati, quali correnti di idee diffuse nei libri, nelle riviste e nei giornali? Chi sceglierà, fra le innumerevoli proposte di invenzioni, quelle le quali meritano di essere sperimentate e poi attuate? Chi adotterà metodi, diversi da quelli usati, nel produrre, nel vendere, nel trasportare? L’unico criterio il quale sembra dovere essere accolto è quello consigliato, comandato dalla scienza. Il programma, se non è di umiliazione, come nei conventi, alla volontà di Dio, di rinuncia ai propri desideri a vantaggio altrui, non è nulla se non è razionale. Solo la ragione, guidata dalla scienza, decide le scelte che devono essere compiute dai dirigenti fra le tante vie le quali si presentano dinnanzi ad essi. La scienza di chi? La scienza teorica insegnata nelle scuole, accolta dagli scienziati già famosi; la scienza applicata con successo da tecnici accreditati, i quali hanno già fatto le loro prove; ovvero la scienza la quale si oppone ora ai principi accolti, che pretende di scuoterne le fondamenta astratte e le applicazioni concrete? I dirigenti del piano non possono arrischiare le risorse, sempre limitate, della collettività in esperimenti, i quali potrebbero riuscire male. Affideranno il nuovo, il mai tentato, l’innovatore ad un laboratorio studi, a uso istituto universitario sperimentale. Frattanto, il metodo usato sarà quello già provato, già sperimentato. Una società a programma non può subito tentare il nuovo. Che se, nelle cose riguardanti la materia, la produzione dei beni materiali, le invenzioni finiranno pur sempre, essendo apprensibili dalla ragione, con l’essere accolte, quali probabilità ci saranno che il nuovo e il diverso trovino accoglienza nelle cose dello spirito? Quale la sorte di colui il quale affermasse che, accanto ai libri indirizzati a spiegare ed a descrivere il «programma», a dimostrarne la razionalità, a chiarire i vantaggi del consumare quei tanti grassi e proteine e vitamine le quali compongono l’ottima razione posta dai dirigenti a disposizione dei consumatori, devono essere pubblicati libri i quali cerchino di dimostrare la necessità di lasciare ai dirigenti il piano alimentare la mera facoltà del consiglio, non mai della decisione? Spettare questa decisione all’uomo singolo, al quale deve essere riconosciuto il diritto di non seguire i piani ottimi dei dirigenti, di mettere sotto i piedi i consigli più razionali della scienza; di preferire il pane di segala, se così gli talenta, a quello di frumento, pur maggiormente nutritivo, di mettere la polenta al disopra della carne; di non volerne sapere della radio o del telefono o dei giornali pubblicati col consenso dei dirigenti intellettuali; ma di volere invece dar opera a restaurare una cappella distrutta dagli atei o di voler acquistare un giornale straniero, il quale ogni giorno pubblica critiche delle economie a programma ed insegna che i programmi consacrano l’onnipotenza dei dirigenti?

 

 

145. Il bando agli eretici, l’ostracismo ai ribelli al programma.

 

Come nei conventi, coloro i quali non credono nella «regola» e discutono qualcuno degli articoli di fede su cui la regola è fondata, sono eretici vitandi e, scomunicati, sono posti al bando della comunità, così i ribelli ai principi medesimi del programma in una società comunistica sono corpi estranei, i quali non possono essere tollerati. Anche se si fa astrazione dallo sterminio fisico dei milioni di eretici, presunti tali perché appartenenti ai ceti dell’aristocrazia o della borghesia o della vecchia intelligenza, anche se non si voglia, contro le offerte testimonianze, prestar fede ai processi contro gli eretici usciti fuori dalle file medesime dei comunisti ma non ossequenti in tutto al comando dei dirigenti, è evidente che in una società programmata o comunistica il dissidente, colui che nega il diritto dei dirigenti di decidere al luogo dei singoli uomini nelle cose che li riguardano singolarmente non può né ora né poi né mai essere tollerato. In tempi divenuti più gentili, meno feroci per essere oramai il sistema saldo in arcione, l’eretico deve essere se non soppresso, messo al bando. L’ostracismo è la sanzione più tenue si possa immaginare contro il ribelle ai programmi. La scelta dei nuovi dirigenti è fatta in ragione dell’ossequio prestato a coloro i quali già si trovano a capo dei corpi, dei consessi direttivi dei programmi. Prima importa essere ammessi a dirigere; e poi si potrà dimostrare che la via seguita fino ad ora non è in tutto razionale, ma può e deve essere modificata in ossequio alla ragione. Il dettame della scienza deve, prima di diventare norma di condotta, passare attraverso alla trafila degli organi costituzionali. Giova ciò al progresso della scienza e delle sue applicazioni? Anche se non si voglia risolvere il quesito, importa constatare che il metodo dei programmi applicato a tutta la vita, quella materiale e quella intellettuale, accentua il carattere di uniformizzazione, di livellamento, di adeguamento ad un metro comune che è proprio della civiltà moderna industriale e ne costituisce uno dei maggiori pericoli. In omaggio alla ragione, in ossequio alla scienza, la vita che è il nuovo, che è l’insolito, che è varietà, che è contrasto, che è dissidio, che è lotta, perde la sua medesima ragione d’essere.

 

 

146. Il punto critico segna il passaggio dagli uomini vivi agli automi.

 

Ancora una volta, coll’estendere il programma fuori della sua sfera propria, che è quella pubblica, alla sfera che è invece propria dell’individuo, della famiglia, del gruppo sociale, della vicinanza, della comunità, della associazione volontaria, della fondazione scolastica benefica educativa, tutti istituti coordinati bensì ed interdipendenti ma forniti di propria vita autonoma, di propria volontà, noi abbiamo oltrepassato il punto critico. Siamo di fronte non ad una società di uomini vivi, ma ad un aggregato di automi manovrati da un centro, da una autorità superiore. Sinché in costoro non siano ancora spenti altri impulsi, altri sentimenti ereditati dalle generazioni passate, succhiati col sangue materno, appresi dalla tradizione degli avi, questi automi saranno dei magnifici soldati pronti ad ubbidire al comando di chi ordina loro di farsi uccidere; ma non sono cittadini consapevoli, non sono uomini, i quali a chi comanda di compiere un atto contro coscienza sappiano rispondere: no, fin qui comanda Cesare, al di qua ubbidiamo solo a Cristo ed alla nostra coscienza.

 

 

147. La società di uomini liberi è un fatto morale. Essa esiste anche nelle galere.

 

Quale è dunque la società, nella quale gli uomini si sentano veramente liberi e liberamente operino? La risposta è venuta da Socrate, è venuta da Cristo. Non dalla società la quale circonda l’uomo viene la libertà; ma dall’uomo stesso. L’uomo deve trovare in se stesso, nel suo animo, nella forza del suo carattere la libertà che va cercando. La libertà è spirito non è materia. Il prigioniero, il quale potrebbe acquistare la libertà se chiedesse grazia al tiranno e non la scrive perché non riconosce nel tiranno e nei suoi giudici la potestà di giudicarlo, è uomo libero. L’eretico, il quale potrebbe coll’abiura od anche solo colla dissimulazione, l’ebreo, il quale potrebbe, facendosi marrano, salvare la vita, ed invece confessa la sua fede e cammina diritto verso il rogo, è uomo libero. Il pensatore potrebbe dichiarare nel libro apertamente il suo pensiero, purché nella dedica, nella prefazione e nella chiusa avvertisse che i principi da lui esposti si muovono in un campo terreno ed astratto e non infirmano l’osservanza dovuta ai precetti della religione dominante od ai comandamenti della setta che è padrona dello stato. Se non scrive la dedica perché sente che il suo pensiero mina appunto quella religione o il potere di quella setta e non la scrive, pur sapendo di correre il rischio di prigionia o di morte, quegli è uomo libero.

 

 

148. La libertà può esistere nei conventi e nelle imprese comunistiche; ma può esistere anche, fuori degli uomini gregari, tra artigiani, capitani d’industria, agricoltori, professionisti, artisti.

 

La libertà, che è esigenza dello spirito, che è ideale e dovere morale, non abbisogna di istituzioni giuridiche che la sanciscono e la proteggono, non ha d’uopo di vivere in questa o quella specie di società politica, autoritaria o parlamentare, tirannica o democratica; di una particolare economia liberistica o di mercato ovvero comunistica o programmata. La libertà esiste, se esistono uomini liberi; muore se gli uomini hanno l’animo di servi. I fratelli che si riuniscono a vita religiosa, e rinunciando ai beni del mondo, mettono tutte le loro ricchezze in monte per sé e per i poveri, e conducono quella vita che al padre guardiano piace di ordinare e consumano quei cibi e vestono quei panni che sono ad essi distribuiti d’autorità, quei fratelli sono liberi nella società comunistica che essi ogni giorno consapevolmente vogliono e ricreano. Potrebbero uscire dal convento; ma poiché volontariamente vi rimangono, si riconosca che quella società comunistica è un frutto della libera determinazione. Quegli operai, i quali, volendo sottrarsi alle dipendenze di un imprenditore, hanno, con lunghi mesi di rinuncia, risparmiato inizialmente il fondo necessario ad acquistare badili e zappe e vanghe e carrette e cavalli ed a mantenere nell’attesa se stessi e la famiglia ed hanno costituito una cooperativa, inspirata al principio: tutto il prodotto del lavoro a chi lavora ed hanno, fattisi terrazzieri, assunto un appalto di lavoro e quel lavoro hanno compiuto a regola d’arte; ed avendolo meritato, hanno ottenuto il credito necessario ad allargar l’impresa; ma sempre perseverarono nel principio che tutti i nuovi lavoranti, dopo bastevole prova di onestà e di laboriosità, diventassero soci e sempre, tratti dal loro seno, ebbero capi pronti ad ordinarne la fatica, con remunerazione non diversamente misurata da quella dei gregari; quegli operai, anche essi, sono uomini liberi, sebbene ed appunto perché essi persistono nel condursi vicendevolmente secondo principî comunistici, conservando in comune gli strumenti della produzione e ripartendo tra i singoli soltanto i frutti del lavoro comune. Ma è anche libero l’artigiano, proprietario della bottega, del macchinario, degli utensili e delle scorte, il quale acquista sul mercato le materie prime, assolda, pagando il salario corrente, i garzoni di cui si aiuta e vende il prodotto direttamente alla clientela. Nessun cliente è costretto, dall’amicizia, dalla vicinanza, o da vincoli legali a servirsi di lui; nessun apprendista o garzone è legato, ognuno potendo offrire ad altri i propri servigi ed i più irrequieti si muovono infatti frequentemente dall’uno all’altro, né è grave la difficoltà per il giovane laborioso e di buona volontà, di mettere su bottega per proprio conto. L’artigiano trova libertà nella letizia del lavoro compiuto, nella soddisfazione di averlo condotto a termine a perfetta regola d’arte, nella meritata lode del cliente. In una economia di mercato, non programmata dall’alto, molti imprenditori ed operai, proprietari e contadini e professionisti sono uomini liberi. Forse non sanno di esserlo; ma di fatto sono. L’industriale, il quale è riuscito a produrre una data merce ad un costo minore dei concorrenti e ne ha cresciuto lo spaccio, con risparmio dei consumatori e vantaggio proprio, il quale, forse senza proposito deliberato, ha contribuito con la sua domanda e grazie all’incremento del prodotto, a migliorare il compenso pagato agli operai nella sua industria, sente di essere stato qualcheduno, sente di aver creato qualcosa che prima non esisteva. Se anche la sua creazione è effimera, ha recato, finché durò, vantaggio a qualcuno. L’orgoglio che egli sente, forse grossolano, forse oggetto di compassione per gli eredi di una secolare fine educazione, è orgoglio d’uomo, di uomo che volle e riuscì. I suoi sentimenti paiono terra terra; né egli innalza lo sguardo verso l’alto; ma senza il demone interiore che agitava il suo spirito, egli non avrebbe creato qualcosa. Il proprietario il quale, giunto verso la sera della vita, ricorda i lunghi decenni durante i quali egli ha rinunciato a godere il frutto della sua terra e col risparmio così compiuto, l’ha trasformata con strade nuove e case ricostruite e spianamenti ed impianti di frutteti o di vigneti o di oliveti o con opere di irrigazione, sicché dove viveva miseramente una famiglia, oggi due o tre famiglie traggono vita decorosa, sente, anch’egli, di aver creato qualcosa. Quelle case, quegli spianamenti, quegli alberi fruttiferi, quei campi fecondi sono cose materiali sì, ma sono creazioni del suo spirito, che volle quel risultato invece di altre cose materiali che avrebbe potuto godere lungo quel mezzo secolo: dal fumo delle sigarette, a cui rinunciò, all’eccitazione del gioco, dai viaggi con amici o famigliari ai pranzi in lieta compagnia, dalla frequenza a spettacoli agli sport invernali. La volontà sua libera decise altrimenti ed egli ora si compiace di avere fatto quell’uso della sua libertà. Così l’avvocato, ripensando la sera al lavoro della giornata trascorsa, ricorda di avere licenziato il cliente che gli faceva sperare forte lucro se avesse consentito a difendere una causa ingiusta e si compiace del buon consiglio, dato ad altro cliente con modico compenso, di transigere, a risparmio di spese forensi e giudiziarie, una lite pur fondata su sicure ragioni. Così il medico medita sulla diagnosi che gli fa sperare di ridonar presto la salute ad un ammalato od all’altra che gli ha fatto sconsigliare un intervento chirurgico, lucroso per lui ma inutile per il cliente, oramai condannato. La voce della coscienza gli dice: anche se non avrai coltivato, prolungandola innocuamente, la malattia dell’uno e sfruttato la speranza di salvezza dell’altro cliente, tu hai compiuto il tuo dovere. Hai usato della tua libertà per rinunciare al vantaggio che poteva venirti dal danno altrui; epperciò tu sei uomo libero.

 

 

149. I nemici della libertà possono esistere in tutti i tipi di società economiche.

 

Sì; in ogni tipo di società e di economia, l’uomo che ubbidisce alla voce della coscienza, è libero. La libertà individuale, dell’uomo consapevole, dell’uomo che sa di dovere ubbidire alla voce del dovere non dipende da fatti esteriori come l’organizzazione sociale e politica. Queste sono non la causa, ma il risultato della libertà o della sua mancanza. Se in una società esiste un bastevole numero di uomini veramente liberi, non importa quale sia la sua organizzazione economica sociale o politica. La lettera non potrà uccidere lo spirito. Una economia comandata o programmata dall’alto presuppone o cagiona od in ogni modo è inscindibilmente collegata con la tirannia dei pochi e la servitù dei più, se nei pochi e nei più manca il sentimento della libertà, se i pochi intendono giovarsi del potere per affermare la propria dominazione ed i più si acquetano al comando e perfezionano le qualità di intrigo di adulazione e di ubbidienza cieca che giovano a far ascendere a posti di comando. Ma se domini invece senso del dovere, coscienza civica, abnegazione individuale, rispetto alla persona altrui, potranno essere commessi errori, i risultati ottenuti potranno essere inferiori a quelli ideali sperati; ma quella sarà la società voluta dalla coscienza collettiva. E se così è, perché altri può asseverare non esistere libertà? è nemico di libertà tanto il legislatore il quale vieta al fratello di rinunciare al voto professato altra volta ed oggi non più rispondente alla coscienza, quanto quegli il quale espelle a forza i fratelli dal convento dove essi liberamente intendono rimanere. È nemico di libertà tanto il governante il quale usa la forza legale o morale per costringere l’uomo a lavorare nella fabbrica appartenente allo stato quanto quegli che, in una economia di mercato, vieti od impedisca, a chi vuole vivere comunisticamente, di costruire una impresa informata a criteri contrari alla proprietà individuale dei mezzi di produzione. Gli eretici hanno ragion di vivere in ogni tipo di società; sia che, in una economia di mercato, eretici siano coloro i quali volontariamente deliberano di mettere sforzi e risparmi in comune e ripartire il frutto del lavoro presente e di quello passato secondo la regola del bisogno od altra voluta dalla comunità, sia che, in una economia comunistica, eretici siano coloro i quali deliberano di non lavorare in comune e di ripartirsi tra loro i frutti dell’impresa individuale secondo le regole dello scambio in libera contrattazione. Dove gli ortodossi sono tali per comando dall’alto e gli eretici sono messi al bando dall’acqua e dal fuoco; dove è impossibile la fuga degli anacoreti nel deserto o nella foresta, ivi non è libertà, se non per i santi e gli eroi.

 

 

150. Della libertà desiderata dall’uomo comune e delle forze sociali contrarie alla tirannia.

 

Neghiamo forse così l’insegnamento il quale afferma il dominio dello spirito sulla materia, la indipendenza della libertà dalle istituzioni sociali e politiche ed ordina all’uomo: cerca la libertà in te stesso, nella tua volontà di essere libero? No. Accanto alla libertà dell’eroe che sfida la galera, del martire il quale confessa la fede in Cristo dinnanzi alle belve del circo, del pensatore, il quale, ignorando il tiranno e reputandolo non esistente, dichiara la verità senza preoccuparsi delle conseguenze di essa, vi ha invero la libertà dell’uomo, dell’insegnante, dell’artista, del contadino, del risparmiatore, del lavoratore, del giornalista, dell’amministratore pubblico, del cittadino comune, in genere, il quale vuole godere della libertà pratica, della libertà intesa e desiderata dalla maggior parte degli umani: quella di pensare ad alta voce, di scrivere e di pubblicare quel che ad ognuno capita di pensare e di voler scrivere senza essere guidato e diretto da una autorità superiore coattiva; di operare e lavorare e muoversi senza dovere obbedire ad altre regole se non quelle dichiarate in leggi scritte, deliberate da organi legislativi eletti secondo la volontà liberamente e segretamente manifestata da tutti gli uomini; di lodare biasimare, senza ingiuria o calunnia, legislatori e governanti senza tema di carcere, di multe o di confische; di tentare di cacciar di seggio il governo in carica se a taluno riesca di conquistare la maggioranza degli elettori o degli eletti; di rimanere al governo sinché non si sia cacciati via dalla maggioranza medesima degli elettori e degli eletti; di condurre la propria vita, da solo od associato ai propri compagni di lavoro, costruendo imprese individuali od associate o cooperative o comunistiche, entro limiti posti dalla legge esclusivamente allo scopo di impedire che ognuno danneggi l’uguale diritto altrui a condurre medesimamente la propria vita a proprio piacimento. L’uomo della strada, l’uomo comune, quando cerca di riassumere in poche parole quella che egli intende per libertà, è portato ad identificarla con uno stato di cose nel quale non esista il tiranno, il dittatore in tempo di pace, sia che il tiranno a sua volta ubbidisca alla volontà dei pochi sia che si faccia eco o sfrutti la volontà o gli oscuri desideri delle moltitudini. Egli sa che la mala pianta della tirannide, coll’accompagnamento necessario dello stato di polizia, della mancanza della indipendenza della magistratura, dello spionaggio universale e persino famigliare, della soppressione della libertà di stampa e della sostituzione ai giornali dell’unico bollettino, con titoli diversi, della voce del padrone, della riduzione ad uno solo dei partiti politici, delle elezioni plebiscitarie al 99% dei sì, prospera volentieri in un dato clima economico e preferisce perciò una struttura della società nella quale al sorgere del tiranno siano posti argini variamente efficaci di forze sociali avverse per indole propria alla tirannia. Egli sa che la tirannia è vicina quando esista una disparità notevole nelle fortune e nei redditi dei cittadini, sicché accanto a pochi ricchissimi si osservino moltitudini di nullatenenti e non esista un numeroso e prospero ceto medio; sì che il tiranno può venir fuori sia dai pochi desiderosi di disporre di uno strumento della propria dominazione economica, sia dai molti ai quali il demagogo ambizioso di conquistare il potere assoluto prometta il saccheggio delle ricchezze dei pochi. Egli sa che la tirannia è vicina ed anzi è già quasi in atto quando lo stato abbia cresciuto siffattamente i suoi compiti che troppa parte della popolazione attenda i mezzi di esistenza da un pubblico impiego in una delle tradizionali pubbliche amministrazioni ovvero in qualcuna delle nuove gestioni industriali assunte dallo stato; poiché quando l’uomo dipende per il pane quotidiano da un funzionario statale il quale sta al disopra di lui, e questi a sua volta dipende da un funzionario ancor più alto situato, nasce una gerarchia di uomini ubbidienti invece di una società di liberi cittadini. Perciò l’uomo della strada, nemico del tiranno e desideroso di vivere liberamente così come piace all’uomo comune, desideroso di pace e di giustizia, involontariamente, pur non avendo notizia di alcuna teoria in proposito, aborre dai tipi di società i quali si avvicinino al punto critico; aborre cioè ugualmente dalle società dove la ricchezza è concentrata in poche mani come da quelle nelle quali i beni strumentali, i cosidetti strumenti della produzione, sono posseduti da una mitica cosidetta collettività, che vuol dire il gruppo politico o sociale impadronitosi del potere, qualunque sia la formula, nazionalistica o razzistica o comunistica, con la quale si sia giustificata la conquista del potere. Egli sa o sente che questi tipi di società e di governo tendono alla tirannia ed, essendo instabili, abbisognano di sempre nuove conquiste e sono perciò inesorabilmente tratti alla guerra.

 

 

151. La riprova tratta dalla esperienza di un paese dove esistono le condizioni favorevoli alla libertà e contrarie alla tirannia.

 

L’uomo comune aspira dunque, come sempre accadde in passato e sempre accadrà, ad un ideale; ha dinnanzi agli occhi un suo paradiso in terra. È un ideale, che i cantori dell’eroico, che gli ammiratori del superuomo, che gli spregiatori delle cose umili e dei propri simili, guardano forse con disprezzo e reputano troppo terra a terra. È l’ideale della maggioranza dei cittadini del paese del quale in questo momento, pur ansiosi di tornare in patria, siano gli ospiti. È un paese dove non esistono i ricchissimi e dove il numero dei grandi ricchi va rapidamente diminuendo; dove le fortune non tendono ad uguagliarsi, ma il distacco fra i redditi minimi ed i massimi va scemando; dove la confederazione ed i cantoni acquistano sempre nuovi compiti sociali ed economici, dopo lunghe defatiganti discussioni le quali si concludono in assensi quasi unanimi; dove comuni, cantoni e confederazione sono gelosi tutori delle proprie autonomie e non soffrono invadenze altrui; dove le varie nazionalità convivono concordi in una emulazione feconda; dove i partiti più diversi coesistono non solo nei parlamenti ma nei governi; e nei consigli di stato dei cantoni e nel consiglio federale collaborano conservatori e radicali, liberali e socialisti, protestanti e cattolici, in modo siffatto che la deliberazione del collegio diventa la volontà dei singoli i quali, all’atto di entrare nel collegio, hanno rinunciato ad essere il portavoce della propria parte. In questo ospitale paese, il tiranno non incute soltanto orrore, come accade anche nei paesi che gli prestano ubbidienza forzata, ma desta sentimenti di attiva repugnanza e contrasto. Se si indaga la ragione della repugnanza, una se ne scopre, e principalissima, nella costruzione medesima di questa società libera: la varietà e la autonomia delle sue forze economiche sociali e politiche. Esistono numerosi dipendenti dallo stato: ma dipendono da enti diversi ed autonomi: da comuni, da cantoni, dalla confederazione, da enti pubblici forniti di vita propria. I dipendenti pubblici talvolta sono eletti dal popolo, talaltra sono nominati dall’alto; e spesso non hanno dinnanzi a sé una carriera, l’ambizione di percorrere la quale li renda mancipi ed adulatori dei superiori. I proprietari di terreni sono numerosi; e sebbene esista varietà grande nella grandezza del possesso, non si conoscono latifondi, salvo che per le montagne e foreste comunali. L’industria è sviluppata e moderna; ma non esistono colossi sopraffattori, anche per la mancanza di materie prime e di carbone, che fortunatamente costringe la Svizzera ad acquistarli vendendo all’estero al minimo costo manufatti e macchinari di qualità a prezzi di concorrenza. Sicché, essendo tante le forze sociali, di artigiani, di contadini, di proprietari, di industriali, di commercianti, di professionisti, le quali sono indipendenti dallo stato e fra loro contrastanti, la tirannia non trova il luogo propizio al suo prosperare e la libertà amata dall’uomo comune trionfa ed ai nostri occhi invidiosi appare incrollabile. Ho parlato di un’utopia ed ho analizzato, così come deve fare l’uomo di studio, un fatto? A noi che contempliamo angosciati lontani dalla patria la fine sanguinosa miseranda di un esperimento che si disse eroico, che si affermò inspirato ad ideali patriottici di grandezza, lo spettacolo di libertà e di concordia fervida di discussioni e di contrasti che vediamo attorno a noi sembra un racconto di utopia; ma poiché esso esiste e poiché anche in Italia, qua e là in diverse regioni ed or sì or no in tempi diversi, quell’utopia fu una realtà, dobbiamo concludere che l’analisi fatta in quest’anno di alcuni fattori di una struttura sociale stabile non fu una professione di fede, sibbene una ricerca obbiettiva delle leggi scientifiche di alcuni aspetti della realtà. Che monta se talvolta il rimpianto di una realtà che avrebbe potuto essere diversa da quella che fu ha dato alle mie parole un colore passionale che non doveva essere e non era nelle mie intenzioni? Voi che mi avete ascoltato, mi avete già perdonato e al di là del linguaggio, talvolta apparentemente oratorio, avete visto il contenuto, che è puramente di esposizione di relazioni di interdipendenza e di causalità.

 

 

Basilea-Ginevra-Losanna, fine settembre 1943-10 dicembre 1944.

 

 



[1] La parte III contiene la materia delle prime lezioni che l’A. si riprometteva di tenere nel semestre invernale del 1944 all’Università di Ginevra; per cause di forza maggiore il corso non ebbe inizio e anche la stesura delle lezioni rimase interrotta.

[2] L’aggettivo improprio «capitalistico», che egli non riesce però a definire, invece del qualificativo neutro o tecnico «di mercato» è correntemente usato da JOSEPH A. SCHUMPETER nell’opera Capitalism, Socialism and Democracy, London, 1943. I dati riferiti nel testo si leggono a pp. 192-93.

[3] COSTANTINO BRESCIANI-TURRONI, Introduzione alla politica economica, Torino 1942, p. 361.

[4] Rimane impregiudicato il punto «quali» beni strumentali convenga siano geriti dall’ente pubblico; e se non si debba qui distinguere fra beni strumentali i quali, per la loro indole particolare, siano atti alla proprietà e gestione pubblica e beni strumentali atti invece alla proprietà e gestione privata. Se anche dovessero per eredità cadere in proprietà dell’ente pubblico beni capitali appartenenti alla seconda categoria, sarebbe sempre possibile, per mezzo di scambi di mercato, addivenire ad una opportuna redistribuzione.

[5] Meglio di ogni altro Emanuele Sella ha esposto, sapendo di illustrare un punto fondamentale della scienza, la teoria del punto critico, la quale perciò si dovrebbe intitolare al suo nome.

Di alcuni problemi di politica sociale

Di alcuni problemi di politica sociale[1]

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 39-168

 

 

 

 

Capito I. I presupposti teorici della legislazione sociale

 

22. I presupposti teorici della legislazione sociale.

 

L’argomento della presente lezione è: I presupposti teorici della legislazione sociale[2]. Come accade per i titoli di tutte le lezioni, di tutti gli articoli e di tutti i libri, anche per questa lezione fu necessario ridurre al minimo le parole usate; e perciò è giusto dare qualche spiegazione intorno ai due aggettivi sociale e teorico:

 

 

  • legislazione sociale, in quanto è la parola più larga che si poteva adoperare per riassumere tutto quello che è intervento dello stato nelle cose sociali;
  • presupposti teorici, in quanto ebbi lo scopo di limitare a me stesso il campo della trattazione. In questa sala ancora arriva l’eco delle lezioni che tanti anni fa hanno tenuto in un’altra aula, in quella proprio a questa contrapposta, Leon Walras e Vilfredo Pareto, i due grandi che, creando la «Scuola di Losanna», hanno informato la scienza economica di tutto il mondo per almeno due terzi di secolo, e quell’eco mi dice che il nostro dovere di economisti, è quello di tenerci stretti e limitati al nostro specifico compito, di evitare qualsiasi divagazione e di usare nelle investigazioni che facciamo, quegli strumenti che gli economisti hanno imparato ad usare sempre meglio in due secoli (la nostra scienza ha suppergiù questa età) ed hanno dato prova di avere qualche efficacia nel campo investigativo. Se usciamo da questo nostro campo specifico potremo diventare politici, propagandisti, moralisti; cesseremo perciò di essere quel per cui possiamo dire qualcosa che meriti di essere ascoltato.

 

 

23. Il concetto di concorrenza.

 

C’è uno strumento noto, da tutti conosciuto, ma che per lo più è assunto secondo altri punti di vista, come se si trattasse di una istituzione storica o politica o giuridica[3]. Per noi economisti esso è semplicemente uno schema astratto che noi adoperiamo allo scopo di trovare una via per penetrare dentro la realtà.

 

 

Gli economisti si trovano di fronte ad una realtà più complessa di quella che si presenta ai fisici, ai chimici, ai naturalisti, agli astronomi, ecc. ecc. Noi non possiamo servirci dei loro strumenti di indagine e sovratutto di quello dell’esperimento combinato con il ragionamento, e dobbiamo per conseguenza inventare qualche imperfetto surrogato col quale si tenta di vedere la realtà attraverso una sua semplificazione. Non possiamo, come il chimico fa nei suoi crogiuoli, combinare i diversi elementi primi di una società e, variandone le dosi a piacimento, osservare le leggi del suo comportamento Non possiamo creare società; dobbiamo limitarci ad osservarle. Invece della compiuta realtà, afferriamo una parte sola di essa e ce ne serviamo allo scopo di penetrare dentro qualcuno degli aspetti della realtà intiera. Le conclusioni sono parziali; esse non sono vere di tutta la verità, ma ci servono per poter poi riuscire a capire qualcosa della realtà.

 

 

Quando hanno immaginato lo strumento di indagine detto della concorrenza, che cosa hanno voluto dire gli economisti? Essi hanno supposto un mondo con molti compratori e venditori, molti produttori e molti consumatori. Ognuno di questi lo supposero di certe non troppo grosse dimensioni; nessuno talmente grosso da poter con la sua azione influenzare l’azione degli altri. Ancora: tutti coloro che intervengono sul mercato – produttori e consumatori – sono mobili, e non solo possono muoversi, ma entrare liberamente in ognuno degli impieghi, professioni e mestieri, in ognuno dei mercati ed anche uscirne quando lo vogliano. Costoro hanno quel grado di prevedibilità massima che gli uomini possono avere. Cercano di intuire, di prevedere gli avvenimenti entro i limiti in cui l’occhio umano può farlo. Dispongono delle loro forze di lavoro e degli altri fattori di produzione (capitali materiali) per frazioni divisibili e possono quindi aumentare o diminuire i loro investimenti di lavoro o di risparmio a seconda della loro convenienza. Ancora i fattori produttivi sono riproducibili, in modo che le quantità ulteriori non presentino maggiori difficoltà di procacciamento di quelle precedenti.

 

 

Se noi supponiamo che lo schema astratto si attui, se noi supponiamo di vivere, di ragionare in un mondo in cui sia vera la ipotesi astratta della concorrenza, arriviamo al risultato che i prezzi praticati sul mercato sarebbero uguali a quelli che si chiamano i costi di produzione. Ciò vuol dire, che ognuno riceverebbe come prezzo dei propri prodotti, dell’uso del proprio capitale e delle proprie forze di lavoro, quella remunerazione che corrisponde esattamente al costo, al merito, al contributo fornito alla produzione complessiva.

 

 

Ognuno dei produttori, spinto dal proprio interesse personale, andrebbe avanti nell’applicazione dei propri fattori produttivi, lavoro, terra, capitali materiali, sino al punto nel quale il compenso ricevuto sia ancora uguale al costo dello sforzo sostenuto. L’impiego di tutti i fattori produttivi sarebbe un impiego di equilibrio, dato il quale non si otterrebbe in nessun punto una remunerazione maggiore di quella che si ha in ogni altro punto. Se per avventura in qualche impiego si manifestasse un margine oltre il compenso ordinario, subito quel margine verrebbe assorbito dai fattori mobili che esistono sul mercato, i quali si sposterebbero verso quell’impiego così da fare scomparire con tutta rapidità quei profitti che si fossero per qualche attrito manifestati. Né è necessario che lo spostamento abbia luogo, se non per eccezione, ad opera dei fattori già impiegati. Ogni giorno nuovi risparmi si formano; ogni giorno nuovi uomini giungono all’età produttiva. Basta lo spostamento dei nuovi sopravvenuti per ricondurre all’uguaglianza la remunerazione marginale dei fattori produttivi.

 

 

24. In regime di concorrenza non esistono problemi sociali di intervento dello stato.

 

È evidente che se questo schema astratto che gli economisti hanno inventato allo scopo di capire qualche cosa di ciò che accade nella realtà, si verificasse di fatto, il problema di questa lezione non esisterebbe né ci sarebbe occasione di parlare dell’intervento dello stato nelle cose economiche.

 

 

L’intervento non avrebbe ragione di essere quando ognuno fosse pagato in ragione dei propri meriti. Quando non ci fossero sacche di extra guadagni, lo stato non avrebbe ragione di intervenire. Le cosidette questioni sociali non esisterebbero. Gli imprenditori[4] sarebbero indotti a spingere l’impiego dei fattori produttivi sino a che la remunerazione pagata ad ognuno di essi non fosse superiore alla loro produttività marginale ed effettuerebbero l’impiego dei vari fattori produttivi uniformemente in guisa che la produttività marginale e la remunerazione fossero eguali per tutti i fattori produttivi e la somma delle remunerazioni eguagliasse il prezzo ricavato dal prodotto. Dico che la somma delle remunerazioni uguaglierebbe il totale ricavo della vendita del prodotto, perché ogni unità del prodotto sarebbe venduta, anche se ottenuta a costi più bassi ad un prezzo uguale al costo dell’unità marginale; ed ogni unità di fattore produttivo sarebbe remunerata con un compenso uguale al compenso marginale, non potendosi dare nel medesimo mercato due prezzi diversi per unità uguali di un medesimo bene o servizio. Il ricavo totale della produzione uguaglierebbe cioè il totale dispendio delle remunerazioni ai fattori produttivi, ossia il totale del costo per l’imprenditore. Nessun resto rimarrebbe da distribuire e tutti i fattori riceverebbero una remunerazione uguale alla loro produttività marginale[5].

 

 

25. Come lo schema della concorrenza non risponda alla realtà presente.

 

Se invece di parlare oggi, 1944, avessi parlato nel 1914, avrei potuto aggiungere subito che lo schema della concorrenza corrispondeva in gran parte alla realtà. Non era tutta la realtà, ma ne rifletteva gran parte. Era vero che esisteva, ed era vivacissima, la concorrenza tra prodotto e prodotto; era anche vero che non si erano ancora ingigantiti i grandi complessi monopolistici, sorti ed ingrossati nei trent’anni che corsero dal ’14 in poi. Era vero anche che nel ’14 funzionavano in più casi istituzioni di cui ora si è in parte obliterata l’opera (oggi, difatti, la banca non esiste, la borsa non esiste, non esistono stanze di compensazione, non esistono contratti a termine, non esistono arbitraggi, ecc.) tutte forze che facevano sì che la mutabilità, la mobilità, la permutabilità, la divisibilità, di cui gli economisti parlano in astratto, fossero cose vere e reali. Di una qualunque piazza di Europa era lecito dire che essa faceva tutt’uno con quelle dell’America; ed era vero quindi che se il prezzo dei grani, quello della lana e del cotone e del caffè ecc. ecc. erano un po’ superiori in un luogo in confronto di un altro, era in pochi istanti possibile concludere contratti a contanti ed a termine per parificarli. Tutte queste cose erano una realtà e facevano si che innanzi al ‘14 il campo in cui l’ipotesi astratta della libera concorrenza si verificava fosse un campo molto più vasto di quanto si immaginava di solito dai critici dottrinari anche allora numerosi. Se è vero che il secolo tra il 1814 ed il 1914, tra la fine delle grandi guerre napoleoniche e l’inizio della passata guerra mondiale, fu uno dei secoli più felici della storia del mondo, paragonabile solo al secolo degli Antonini, se è vero che non mai i salari aumentarono tanto, non mai si ebbe un così notevole incremento di benessere, questi fatti grandiosi di incremento nella produzione e di miglioramento nella distribuzione della ricchezza in gran parte derivavano dalla circostanza che l’ipotesi della concorrenza aveva trovato una attuazione abbastanza ampia. Esistevano anche allora attriti, ostacoli alla sua piena attuazione; ma attriti ed ostacoli erano stimolo a migliorare e perfezionare, non a negare.

 

 

Oggi tuttavia il campo in cui l’ipotesi della concorrenza si verifica è molto meno ampio che nel 1914. Per una serie di circostanze, in gran parte, ma non in tutto, dovute alla guerra, la visione che oggi si ha è di un mondo diverso. Esistono ancora molti produttori, molti agricoltori, molti medi e piccoli industriali ed artigiani, più di quanto ci possiamo immaginare; ma vi sono anche, in tutti i paesi ed in campi importanti dell’attività produttiva, grandissimi produttori i quali con la loro azione dominano il mercato e fanno sì che gli altri debbano conformare la loro azione a quella dei pochi. Banche, borse, contratti a termine, ecc., non esercitano più quell’azione uguagliatrice che ad essi spettava. Sono scomparsi i contratti a termine, grande strumento di parificazione; e le banche in molti paesi sono divenute organi di raccolta del risparmio per conto dei governi. I mercati controllati oggi non sono più dei mercati comunicanti. Al posto di una bella aperta moderna città fornita di edifici pubblici, di chiese, di abitazioni per appartamenti e di case individuali fornite di giardini e di spazi aperti, noi vediamo città irte di alte torri medioevali, di grattacieli che gittano la loro ombra sulla moltitudine di basse abitazioni che paiono ancora essere tollerate ai loro piedi.

 

 

Il quadro è tirato al nero, ché fortunatamente le imprese indipendenti non monopolistiche danno ancora il massimo contributo proporzionale al prodotto totale sociale; ma indubbiamente l’ombra proiettata dai grattacieli sulla moltitudine delle case ordinarie si profila minacciosa sull’orizzonte.

 

 

26. L’ipotesi del monopolio.

 

Gli economisti non hanno aspettato il trentennio dal 1914 al 1944 per formulare lo schema adatto a raffigurarci quest’altro aspetto della realtà. Risale al 1838 il libro delle Ricerche matematiche sulla ricchezza in cui Agostino Cournot formulava nitidamente l’ipotesi estrema opposta a quella della concorrenza. L’ipotesi è quella del monopolio. Egli disse: immaginiamo che sul mercato invece di molti ci sia un solo produttore. L’unico produttore domina completamente il mercato; egli decide come crede quanta merce si deve produrre, e, se non quanta merce, egli decide a quale prezzo essa deve essere venduta. A quale prezzo? La conclusione fu semplice, come sono sempre semplici, intuitive, le grandi scoperte le quali hanno segnato una tappa nel progresso della scienza. Il monopolista cioè – disse Cournot – stabilisce quel prezzo o quell’insieme di prezzi che diano a lui il massimo di guadagno netto.

 

 

In regime di concorrenza, il prezzo tende al costo, a rimunerare il merito, ad essere uguale alla produttività marginale dei singoli partecipanti alla produzione. Il monopolista invece non si occupa di vendere molto o poco, ma di guadagnare un massimo di profitto netto. Se questo è il prezzo od il sistema dei prezzi che si stabilisce sul mercato, e nei limiti in cui lo è, è evidente che esso produce due risultati principali:

 

 

  • 1) Quello di limitare la produzione. Invece di produrre la massa dei beni che gli uomini avrebbero avuto a loro disposizione se agisse la legge della concorrenza, si riduce la produzione. Il produttore che dalla concorrenza si troverebbe spinto a produrre sino al limite in cui il costo sia uguale al prezzo, ha, invece, in regime di monopolio, interesse a spingere la produzione solo sino al punto in cui la quantità venduta moltiplicata per il prezzo unitario e diminuita del costo di produzione gli dia un profitto netto massimo. E questa quantità è evidentemente minore. È certo che in regime di monopolio noi abbiamo una massa minore di beni e di servigi a disposizione degli uomini e questi si trovano meno bene perciò di quel che sarebbero in regime di concorrenza.
  • 2) Ed è vero anche che in regime di monopolio questa quantità minore di beni è distribuita in modo diverso dal modo osservato in regime di concorrenza. Invece di remunerare i singoli fattori in rapporto al rispettivo merito, qui nascono grosse sacche di profitti a favore dei monopolisti; Questi assorbono una proporzione notevole, più o meno grande, di una massa minore di produzione. La società rimane danneggiata.

 

 

27. La prima ragione fondamentale dell’intervento dello stato.

 

È evidente ora quale sia quindi una delle ragioni fondamentali di intervento dello stato nelle cose economiche. Gli economisti non danno giudizi di merito; ma questi sono le conseguenze logiche dell’una e dell’altra ipotesi. La esposizione dei due schemi estremi è fatta dall’economista come se si trattasse dell’analisi del moto delle stelle. Il giudizio spetta al politico, al filosofo, al moralista. Questi, constatando l’analisi astratta condotta dall’economista, probabilmente concluderà che il secondo sistema, del monopolio, conduce all’ingiustizia, ad una situazione socialmente insopportabile da modificarsi con l’intervento dello stato. L’economista non sa che cosa sia giusto od ingiusto; ma constata che la situazione da lui teorizzata nel caso del monopolio conduce a conseguenze che il politico, che il moralista, che l’uomo della strada definiscono ingiuste e ne trae la conseguenza che a lui è chiesto di indicare la via di evitare quelle conseguenze. Chiara è la linea da seguire, ed è quella della soppressione o della limitazione dei monopoli e della ricostituzione in una maniera o nell’altra della concorrenza o di una situazione simile a quella che esisterebbe se l’ipotesi della concorrenza si attuasse.

 

 

La lotta contro i monopoli ha due aspetti. La lotta contro i monopoli che si possono chiamare artificiali, e la lotta contro i monopoli cosidetti naturali.

 

 

28. La lotta contro i monopoli artificiali.

 

Se i monopoli si sono ingranditi tanto, se nel trentennio passato hanno assunto un’importanza prima ignota, non è che questo sia un fatto naturale, un fatto di Dio o della natura. No, la moltiplicazione dei monopoli, di quelli che si dicono trusts, cartelli, consorzi, fu dovuta a quello che si dice il fatto del principe, all’opera cioè attiva e determinata del legislatore. È il legislatore il quale ha creato i monopoli e dopo averli creati, si impaurisce delle loro risultanze dannose. La sola maniera logica di combattere e distruggere i monopoli che hanno una origine artificiale è di distruggere l’artificio. Prima del 1914 i dazi doganali, i dazi di protezione istituiti dagli stati ai confini del territorio nazionale contro le importazioni estere erano i grandi colpevoli dei sindacati che anche allora, in misura minore, esistevano. I produttori dell’interno si coalizzano molto più facilmente in un paese protetto di quanto potrebbero fare se i confini fossero aperti, se dall’estero si potessero importare merci in concorrenza a quelle nazionali. È molto più facile mettersi d’accordo con alcuni concorrenti nazionali che con molti concorrenti esteri. In quanto i monopoli devono ai dazi la loro origine, la loro forza, il rimedio è ovvio: per distruggerli fa d’uopo ridurre la protezione doganale, ridurre od abolire i dazi.

 

 

Accanto al vecchio istituto dei dazi doganali, il solo normalmente conosciuto prima del ‘14, sono sorti nell’ultimo trentennio tanti altri istituti creatori di monopoli: esagerata tutela dei brevetti, contingentamenti, licenze per poter ingrandire od impiantare fabbriche e stabilimenti in concorrenza con le fabbriche e stabilimenti esistenti, licenze da chiedersi ad uffici di stato, o, peggio, a congreghe in cui sono sovratutto rappresentati i vecchi produttori. Autarchia vuol dire monopolio dei nazionali, privilegi di ogni sorta. Se i monopoli si sono moltiplicati ciò accadde massimamente perché lo stato ciò ha voluto espressamente, perché ha dato forza di legge a norme le quali hanno favorito ed incrementato o rafforzato le tendenze monopolistiche. È chiara qui la via d’uscita. Aboliamo le leggi che hanno condotto al risultato di costituire delle sacche di profitti a favore di questo o quel complesso industriale, ed avremo risolto un grande problema: avremo aumentata la produzione e ne avremo migliorata la distribuzione.

 

 

29. La lotta contro i monopoli naturali.

 

Certo il compito non è finito. Col buttare a terra quei colossi coi piedi d’argilla che sono i monopoli artificiali, avremo fatto molto, avremo fatto il più, di gran lunga la miglior parte del lavoro antimonopolistico ma non avremo fatto tutto. Parecchio rimarrà di monopolistico nel mondo perché esistono monopoli i quali hanno cause che, in contrasto a quelle artificiali, si possono chiamare naturali: le ferrovie, le industrie elettriche, le imprese di gas, luce, di illuminazione, di acqua potabile, di tranvie e simili.

 

 

Non è la legge, ma la necessità economica, una necessità quasi fisica che crea qui il monopolio. Potremo noi immaginare che ci siano due ferrovie in concorrenza le quali servano le stesse città terminali, Torino-Milano, con lo stesso percorso intermedio? Non è un’ipotesi assurda; e la nostra legge italiana sui lavori pubblici del 1865 prevedeva già che ciò non potesse durare e, ad evitare inutili sprechi di capitali, lo ha vietato.

 

 

Non fu così dappertutto negli altri paesi: dal 1830 al 1870-80 negli Stati Uniti ci fu concorrenza nelle ferrovie. Non poteva durare. Se si costituisce invero una seconda ferrovia tra i medesimi punti terminali ed i medesimi punti intermedi a far concorrenza ad una più antica già esistente, quale mezzo ha la seconda impresa di attirare a sé una parte del traffico? Ridurre le tariffe; ma se così fa il secondo vettore, deve subito imitarlo anche il primo se non vuole perdere tutto il traffico. Se uno dei due da 10 passa a 9, così deve anche fare il secondo; ma allora il primo riduce la tariffa a 8 e di nuovo lo segue il secondo. Presto si arriva di questo passo sino a zero. E si è arrivati talvolta a meno zero! Si seppe di casi nei quali certe imprese ferroviarie americane per far concorrenza all’avversario, giunsero a promettere ai viaggiatori durante il percorso gratuito anche il pranzo gratuito. A quale scopo? Per mettere l’avversario ritenuto più debole nella necessità di cedere le armi. A un certo punto nella lotta economica tra due imprese legate alla linea ferroviaria, consapevoli che non possono rimuovere il capitale investito nelle gallerie, nelle massicciate, nei ponti, nelle stazioni, ecc. ecc. senza perderlo del tutto, c’è uno dei due il quale deve cedere per primo. Per accordo tra i due o per fallimento di uno dei due, rimane in vita una impresa sola la quale diventa monopolistica. Epperciò la legge italiana del 1865, prevedendo la fine fatale della concorrenza nel campo ferroviario, la vietò fin dall’origine, negando la possibilità della concessione di costruzione e di esercizio sulla stessa linea a due compagnie concorrenti. È ragionevole evitare uno spreco di capitali che darebbe risultati certamente negativi. Lo stesso si dica per le tranvie. In corso Vittorio Emanuele a Milano, o in via Roma a Torino, possiamo immaginare noi che si impiantino due o tre paia di binari per le tranvie? Sarebbe una confusione spaventosa. Se aggiungessimo poi alla concorrenza nelle tranvie, quella per il gas, la luce, l’acqua potabile, l’illuminazione, le nostre vie non sarebbero più vie, ma trincee nelle quali operai dovrebbero continuamente lavorare per riparare molteplici impianti mutuamente concorrenti. Con un solo impianto si fanno le riparazioni di notte, ma quando le imprese concorrenti fossero molte il tempo notturno non basterebbe. Mancherebbe la ragione stessa dell’impresa, che è di rendere servigio, non di disturbare i cittadini.

 

 

Dove il monopolio è naturale, fa difetto il rimedio proprio dei monopoli artificiali. Qui non c’è nessuna legge la quale abbia creato il monopolio. Il monopolio è venuto da sé.

 

 

Talvolta provvede inopinatamente l’ingegno umano a scalzare i monopoli esistenti, coll’inventare nuovi sistemi che costituiscano un’alternativa al vecchio sistema. L’invenzione dei mezzi automobilistici fu un rimedio spontaneo il quale ricreò la concorrenza nelle ferrovie con vantaggio grande degli utenti. Ma il fatto strano si fu che gli uomini si sono dati un gran da fare per impedire che la concorrenza risorta tanto vantaggiosamente producesse i suoi effetti. In quasi tutti i paesi le ferrovie, specie se di stato, chiesero ed ottennero coll’uno o coll’altro pretesto che fosse limitata la concorrenza che ad esse facevano i nuovi mezzi automobilistici.

 

 

Se non interviene l’ingegno umano a scalzare i monopoli naturali, bisogna riconoscere che il rimedio normale usato contro i monopoli artificiali (abolizione della legge creatrice del monopolio) non serve. Occorre l’intervento diretto dello stato, dei comuni, delle provincie, dell’ente pubblico in genere diretto a creare un surrogato al monopolio privato, a costituire una alternativa ad esso. Il principio generale, alla cui mera enunciazione mi debbo forzatamente limitare, è che l’ente pubblico deve trasformare il monopolio privato in monopolio pubblico, il quale dovrebbe vendere i suoi servizi al costo. L’ente pubblico, dichiarando che i monopoli naturali sono servizi pubblici, li può quindi esercitare direttamente o darli in concessione a compagnie private concessionarie stabilendo le modalità necessarie perché le tariffe di vendita dei servigi al pubblico corrispondano sempre al costo. Il concetto informatore è: mantenendo l’esercizio dell’impresa in quella forma monopolistica che è sua naturale, ricostituire, ad opera dell’ente pubblico, quella che era la conseguenza della concorrenza, ossia la vendita dei prodotti ad un prezzo uguale al costo.

 

 

Qui le difficoltà non sono nel concetto informatore, ma nella applicazione di esso. Esercizio diretto o esercizio per delegazione? Concessione a tempo lungo o breve? Concessione a tempo fisso o indeterminato? Quali controlli sono escogitabili per far sì che il costo pubblico non sia superiore al costo privato? E che le sacche di profitti a favore del monopolista non siano sostituite, nelle imprese pubbliche, da sacche di stipendi inutili a troppi impiegati politici? ecc. ecc. Ma trattasi di difficoltà che in un clima di continuo attento controllo dei cittadini nella cosa pubblica non sono del tutto insormontabili.

 

 

30. La seconda critica allo schema della concorrenza.

 

Gli economisti nel formulare lo schema della concorrenza avevano fatto e dovevano fare astrazione da quello che si può chiamare il momento originario dell’attività dell’uomo sul mercato. Essi hanno supposto che sul mercato intervenissero molti consumatori, ciascuno provveduto di una determinata potenza di acquisto, per lo più detta moneta. Ed hanno descritto quale sia, in quella ipotesi, il comportamento dei richiedenti e degli offerenti, quali siano i prezzi dei beni di consumo, i salari, gli interessi, le rendite, i prezzi dei beni capitali, ecc. ecc. La descrizione è continuamente perfezionata; lo è su linee pacifiche tra gli studiosi.

 

 

Ma gli economisti stessi videro che dietro a quella ipotesi del ciascuno provveduto di una determinata potenza di acquisto c’era un problema fondamentale insoluto.

 

 

John Stuart Mill fin da un secolo fa nei suoi Principî di economia politica (vedi traduzione italiana nella prima serie della «Biblioteca dell’economista» e numerose edizioni francesi) aveva detto che la produzione era governata da leggi fisiche, ma la distribuzione della ricchezza dalla volontà umana. Leon Walras aveva soggiunto: la produzione è regolata da leggi naturali, la distribuzione dalla giustizia. E Vilfredo Pareto concluse: la ripartizione dei redditi tra i titolari può essere modificata senza cessare di soddisfare a condizioni di massimo di ofelimità (utilità economica). Esprimerei il medesimo concetto notando, al seguito di Wicksteed[6] che lo schema della concorrenza non ha potuto tener conto del momento originario dell’attività dell’uomo quando egli si presenta sul mercato.

 

 

Lo schema parte dalla premessa che molti consumatori intervengano sul mercato. Questi intervengono con i mezzi che ciascuno di essi possiede. Ma la quantità relativa dei mezzi che ognuno possiede e con cui interviene sul mercato non è più un fatto che possa essere analizzato solamente con l’analisi economica; è un fatto giuridico, storico, politico, che dipende anche dalle istituzioni vigenti nelle diverse società (eredità, educazione, ambiente, monopoli esistenti, guadagni di concorrenza, ecc. ecc.). Noi possiamo, sì, constatare che chi ha 10 lire al giorno da spendere, impiega razionalmente queste sue disponibilità, dando ad ogni lira, ad ogni centesimo l’uso che a lui pare migliore. Se ha fame, certo non comprerà il libro perché gli occhi gli si annebbierebbero per l’appetito; ma acquisterà prima quel che gli occorre per cibarsi e poi penserà al resto. Egli cercherà di distribuire le 10 lire in modo da soddisfare innanzitutto ai bisogni più urgenti e in guisa che ogni unità (lira o soldo che sia) monetaria sia utilizzata al margine con uguale vantaggio subbiettivo. Sarebbe assurdo infatti che l’uomo spendesse 1 lira per comprare un bene che per lui ha una utilità solo come 8, quando potrebbe acquistare ancora un bene che ha per lui una utilità come 9. Le ultime lire spese debbono avere per lui una utilità uguale in modo che le utilità ottenute dalle ultime lire dei beni da lui acquistati siano uguali. Colui, però, il quale ha la disponibilità di 100.000 lire, per un kg. di pane sarà disposto a spendere anche 10.000 lire, mentre colui, che ha soltanto 10 lire, potrà anche darsi debba spenderle tutte per quel kg di pane, e rimanere privo di mezzi per acquistare altro. Potrebbe anche darsi che colui il quale, pur spendendo 10.000 lire per lo stesso kg di pane resterebbe ancora con 90.000 lire, glielo porti via tutto sicché l’altro non trovi più pane. Normalmente il pane è venduto a prezzi accessibili ai più, ma in tempi di scarsità, come sono i tempi di guerra, si fanno i razionamenti affinché il pane non sia distribuito in ragione dei mezzi che i diversi uomini hanno a loro disposizione ma tutti possano avere quel certo quoziente di pane che, data la quantità disponibile, spetta ad ogni consumatore. È evidente che lo schema della concorrenza (o del monopolio) rimane in ogni caso perfetto; ma ben altra è la qualità dei beni e dei servizi che si producono, ben altra è la distribuzione dei beni e dei servizi fra gli uomini, a seconda della maniera con cui i mezzi disponibili sono inizialmente distribuiti fra gli uomini. Se noi supponiamo che una società sia composta tutta da uomini che hanno 10 lire al giorno da spendere, i beni saranno distribuiti in una certa maniera. Se invece noi supponiamo che su 45 milioni la maggior parte abbia 10 lire soltanto e pochissimi 100.000 lire è evidente che sia la quantità che la qualità dei beni che si producono saranno diverse da quelle che si avrebbero nell’ipotesi ugualitaria. Il punto determinante è il possesso di una certa quantità di mezzi che ognuno dei cittadini ha al momento originario del suo arrivo sul mercato.

 

 

31. Diversità degli ideali possibili rispetto al momento originario.

 

Gli ideali degli uomini riguardo alla distribuzione delle ricchezze vanno dal caso estremo della uguaglianza assoluta a quello della disuguaglianza pure assoluta. Taluno può auspicare il verificarsi della tesi estrema in cui le moltitudini abbiano poco e uno solo abbia molto; ed altri aspirerà invece alla uguaglianza assoluta. E vi sarà chi propenderà a favore di soluzioni intermedie. Qui non decide l’economista. Io credo che oggi persino i dannunziani più invasati abbiano rinunciato all’ideale del superuomo di Nietzsche. Forse non ci sono neppure molti i quali sostengano l’idea dell’uguaglianza assoluta perfetta, non fosse altro perché questa non può durare. Ambe le soluzioni estreme sono foriere di tirannia. La maggior parte degli uomini probabilmente si pone l’ideale di una maggiore (maggiore in confronto ad una situazione giudicata ingiusta) uguaglianza nei punti di partenza. Che gli uomini nel momento originario in cui giungono alla maturità economica e si presentano sul mercato abbiano a propria disposizione mezzi non perfettamente uguali e nel tempo stesso non concentrati presso pochissimi o uno solo, ma distribuiti senza disuguaglianze troppo marcate tra individuo ed individuo è forse l’opinione dominante presso coloro che si dicono persone sensate. Quale sia l’equità ideale, è problema che ognuno risolve secondo il suo punto di vista. I più probabilmente aspirano ad una società lontana parimenti dagli estremi della assoluta eguaglianza ovvero della miseria delle masse e dell’opulenza dei pochissimi. Il primo è l’ideale del formicaio, il secondo quello della schiavitù. Le ripartizioni estreme sono antipatiche ai più, perché sinonime di tirannia, di perdita di libertà.

 

 

32. La seconda via dell’intervento dello stato.

 

Ed ecco qui il secondo campo aperto a quella che si chiama la legislazione economica sociale. Qui l’intervento opera nel senso di cercare di avvicinare, entro i limiti del possibile, i punti di partenza e si sviluppa secondo due linee: una è quella dell’abbassamento delle punte; l’altra quella dell’innalzamento dal basso.

 

 

33. L’abbassamento delle punte.

 

Istituzione antica è quella delle imposte progressive; ed al problema si tratta di trovare la soluzione ottima che sia lontana dal taglio delle teste dei papaveri di Tarquinio il Superbo o dal brodetto degli spartani, e più vicino possibile alle liturgie dei greci dell’epoca d’oro del secolo di Pericle. Per via di voto del popolo o in gran parte anche per spontanee donazioni delle classi alte, forse fu quella una delle epoche nella quale i cittadini facoltosi davano il maggior contributo proporzionale alle spese pubbliche. I monumenti dell’Acropoli di Atene sono una testimonianza ancora viva della coscienza sociale formata sotto la guida di un grande uomo di stato il quale aveva persuaso il popolo a non eccedere nelle confische e i grandi a donare volontariamente. Questi grandi monumenti ci danno la prova di quel che si era potuto fare grazie alla concordia degli animi, alla collaborazione tra grandi, medi e poveri che si era andata creando in quella città, situazione durata pochissimo e che venne a morire quando scomparve l’uomo che aveva operato il miracolo. L’abbassamento delle punte per mezzo delle imposte richiede un assai elevato senso civico ed un uso delle imposte che vada veramente a vantaggio della collettività. Assai anni fa, ho avuto la ventura di conoscere l’ultimo dei rappresentanti della dinastia dei filosofi Naville, il primo dei quali fu amico del conte di Cavour, il figlio e il nipote insegnanti ambedue di grido in filosofia nella università di Ginevra. L’ultimo nella sua modesta casa diceva: Veda, io posseggo questa casa e anche un piccolo podere al di là del confine, sul Saleve, in Savoia. Suppergiù il reddito dei due possessi è uguale. In Francia pago solo la terza parte delle imposte che pago qui, eppure di quelle mi lamento e di queste mi dico contento e le pago volentieri. Di quelle mi lagno perché non ne vedo i risultati, non vedo i vantaggi per la collettività. Di quel che pago io qui invece son ben lieto e contribuisco volentieri perché so a qual fine queste imposte vanno a finire, lo scopo collettivo cui esse sono consacrate.

 

 

Alla creazione di uno spirito civico simile a questo si deve mirare. Le imposte allora sono vantaggiose alla collettività quando le minoranze, che sovratutto sono chiamate a pagarle, sanno che non l’odio e l’invidia le hanno determinate, ma il vantaggio pubblico del raggiungimento di fini universalmente reputati buoni. Lo scopo delle imposte progressive non è quello di impedire la formazione dei profitti di concorrenza. Il ciel volesse che, in regime di concorrenza, molti imprenditori guadagnassero molto. Ciò vorrebbe dire che essi hanno molto creato, hanno inventato nuovi metodi di produrre a basso costo ed hanno avvantaggiato i propri simili.

 

 

L’imposta deve proporsi non di distruggere i profitti di concorrenza; ma di assorbirne a vantaggio dello stato quella parte che lasci sussistere l’incentivo a continuare a produrli. Quanto ai profitti di monopolio, lo scopo non è tanto quello di tassarli quanto di impedirne la nascita, come si dimostrò dianzi.

 

 

34. L’innalzamento dal basso.

 

Dopo l’abbassamento delle punte che si ottiene sovratutto con un efficace e nel tempo stesso stimolante uso delle imposte, c’è innalzamento dal basso. In un corso compiuto di legislazione sociale ci si dovrebbe occupare di tutti questi argomenti. La legislazione sociale non è cosa nuova nell’Europa continentale e sovratutto in Inghilterra. Qui il suo inizio data da secoli; e non l’inizio, ma la decisione più importante risale al tempo della regina Elisabetta ed ebbe poi un incremento grandioso in tutto il secolo scorso. il piano Beveridge, di cui tanto si parla, ridotto ad una cifra numerica in fondo avrebbe per risultato di far spendere al paese nelle varie forme di assicurazione sociale, invece dei 432 milioni di lire sterline che si sono spese nel 1938, 650 milioni subito dopo la fine della guerra ed 830 milioni dopo un ventennio. Non è una novità dunque, ma un ampliamento di istituzioni che già in varie forme sussistono. In Italia, possiamo ricordare gli scritti di Camillo Cavour e del suo collaboratore Petitti di Roreto che già verso il 1850 proponevano piani di legislazione sociale. Le leggi che a grado a grado, patrocinate da uomini di tutte le varie correnti politiche d’Italia, e tra i nomi più noti fa d’uopo ricordare quello di Luigi Luzzatti, entrarono in vigore, stanno a testimoniare che su questa via un notevole cammino è stato percorso e che l’opera avvenire dovrà essere non di creazione dal nulla, ma di riforma di integrazione e di perfezionamento.

 

 

35. Il minimo nazionale di vita. La limitazione dei beni.

 

Poiché non mi è possibile in questa lezione introduttiva, entrare nei particolari, dirò solo quale sia il concetto informatore della legislazione sociale. Si tratta di giungere per vie diverse ed adatte a far sì che ogni uomo vivente in una società sana disponga di un certo minimo di reddito.

 

 

Si può discutere se ciò significhi diritto al minimo. Repugno alla affermazione di un vero e proprio diritto, reputando più vantaggioso giungere altrimenti allo stesso risultato. Basti affermare il principio generale che in una società sana l’uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario alla vita. In fondo tutta l’opera delle trade-unions inglesi, un’opera che oramai dura da più di un secolo, mira ad obbligare l’imprenditore a pagare agli operai un minimo di salario, minimo che deve essere garantito a tutti coloro assunti a lavoro. Poiché quel risultato fu ottenuto dalle trade-unions inglesi, quelle stesse che da noi sono chiamate «sindacati operai», con sforzo secolare, con scioperi, ricorso a comitati di conciliazione, a trattative paritetiche, il minimo ottenuto con grande sforzo non è più un incitamento all’ozio. Non si spreca, come per tanti anni si temé e si rimproverò, nel vino e nell’ozio quello che è durato anni e anni di sforzo per poter essere ottenuto. Si spreca quel che si ottiene d’improvviso, per intimidazione e senza merito.

 

 

Se le classi operaie in Inghilterra ed anche in Italia (si ricordi il progresso compiuto tra il 1880 e il 1914, testimoniato da tanti dati e frutto anche di uno sforzo consapevole) sono riuscite ad affermare il diritto al minimo di salario, con ciò non si è fatto nulla che sia contrario ad alcuna legge economica. Si è affermato e conquistato il principio che il prestatore d’opera possa, forte della solidarietà con gli altri operai e dei fondi da lui volontariamente accumulati nel suo sindacato, trattare da paro a paro con l’imprenditore ed ottenere che siano garantite a tutti i lavoratori condizioni uguali minime di salario e di lavoro.

 

 

Non sempre, tuttavia, si lavora, non sempre si può godere del minimo di salario. Disoccupazione, infortuni, malattie, invalidità e vecchiaia, attentano alla continuità del lavoro. E allora la domanda è se lo stato per mezzo delle imposte non dovrebbe garantire a tutti un minimo in tutte le contingenze della vita nelle quali sia impossibile di lavorare. E c’è di più. Taluno sostiene invero la tesi che il minimo di punto di partenza dovrebbe essere garantito, astrazion fatta dalle circostanze in cui uno si trova nella vita. Egli dovrebbe fruire dell’assicurazione del minimo solo perché nasce.

 

 

Se un consenso abbastanza largo si trova, sia pure con le cautele necessarie, per la tesi del minimo nei casi di impossibilità a lavorare, i dubbi sono assai più grandi per la seconda tesi. Queste idee possono essere accolte; entro quali limiti necessariamente potranno essere accolte? La soluzione dipenderà sempre da molte circostanze, dalla ricchezza del paese, dal livello di vita, dalla distribuzione delle proprietà, circostanze che dovrebbero essere esaminate caso per caso prima di giungere ad una conclusione che abbia il marchio della attuabilità e non delle semplici fantasie che sono per lo più socialmente pericolose[7]. Anche chi ammette il concetto del minimo nei punti di partenza, sa che bisogna cercare di stare lontani dall’estremo pericolosissimo dell’incoraggiamento all’ozio.

 

 

Questo è il freno che deve stare sempre dinnanzi ai nostri occhi. Dobbiamo evitare il pericolo di ricreare qualche cosa come il panem et circenses che ha portato alla rovina del mondo romano. Non sono stati tanto i barbari che hanno fatto cadere l’impero romano; ma l’impero era marcio in se stesso; ed una delle cause della decadenza interna era che i cittadini romani sdegnavano di essere soldati, lavoratori, perché, mantenuti dallo stato, preferivano andare ad assistere nel foro agli spettacoli, alla caccia data ai cristiani dalle belve, ecc. ecc.

 

 

L’idea nostra dovrebbe essere un’altra, ossia che il minimo di esistenza non sia un punto di arrivo ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini. C’è del vero in quel che si dice che molte invenzioni non prendono corpo, che molti progetti non si attuano perché i più degli uomini sono costretti a una vita dura che assorbe tutte le loro forze e la loro intelligenza. Se un minimo di punto di partenza consentisse ai giovani di poter continuare a studiare, a fare ricerche, ad inventare, a trovare la propria via senza dover fin da troppo giovani lavorare nelle fabbriche, verrebbero fuori studiosi e inventori che oggi non ne hanno la possibilità. A questo ideale dobbiamo tendere.

 

 

Ma non dimentichiamo mai che quando Dio cacciò Adamo ed Eva dal paradiso terrestre disse loro: «voi guadagnerete il vostro pane col sudore della fronte». Il pane deve diventare certo più abbondante per tutti ed anche altre molte cose dovranno essere messe a disposizione gratuita degli uomini. Ma in perpetuo durerà la legge per cui gli uomini sono costretti a strappare col lavoro alla terra avara i beni di cui essa è feconda.

 

 

Capitolo II. Le assicurazioni sociali

 

36. Le origini storiche.

 

A tutti gli uomini viventi in una società civile deve essere data la possibilità di elevarsi da un minimo tenor di vita verso l’alto. Possibilità non equivale a diritto. Questo è un concetto giuridico, di cui il contenuto è assai incerto e che qui non si vuole discutere. Possibilità è invece una situazione di fatto, alla quale si può giungere per molte vie diverse.

 

 

Una di queste è indicata dalle parole «piano Beveridge», le quali hanno corso il mondo nei due ultimi anni ed hanno acquistato il valore di un mito, uno di quei miti che improvvisamente fanno appello ai sentimenti, alle idealità dei popoli. Sessant’anni fa circa, un mito, assai vicino spiritualmente a questo, aveva reso tutta l’Europa ammirata dall’iniziativa assunta dal Bismarck quando volle dotare la Germania di un compiuto sistematico ordinamento di assicurazioni sociali: dalla vecchiaia alla invalidità, dagli infortuni alle malattie, dalla maternità alla morte, alla disoccupazione. In ogni evento della vita, il tedesco doveva sentire la protezione della mano preveggente e potente della patria, che lo doveva salvare dalla inopia, dall’angoscia del pensiero rivolto alla moglie ed ai figli derelitti, dalla incertezza del domani. Non monta che il Bismarck avesse, seguendo il consiglio dei cosidetti socialisti della cattedra, dei professori tedeschi di economia politica avversari della tradizione liberale classica, voluto sovratutto porre un argine all’avanzata minacciosa dei socialisti in parlamento ed in piazza e dimostrare agli operai che essi non erano paria e che ad essi paternamente pensava e provvedeva il vecchio forte stato tedesco. Dinnanzi alla creazione dell’euritmico sistema di assicurazioni sociali in virtù del quale i lavoratori ed i datori di lavoro erano chiamati a contribuire in parti eguali ed i cittadini – contribuenti, per mezzo delle imposte, dovevano integrare il contributo delle due parti, interessate l’una, quella dei lavoratori, ad ottenere aiuto negli eventi sfortunati della vita e l’altra, dei datori di lavoro, alla pace sociale, l’Europa ammirò ed imitò. Anche l’Italia imitò, un po’ alla volta per avvicinamenti successivi compiuti a mano a mano essi erano consentiti dalla situazione della pubblica finanza e dalle esigenze dell’opinione e finì per creare un sistema di assicurazioni non dissimile da quello tedesco.

 

 

L’Inghilterra non aveva imitato; perché le sue tradizioni erano più antiche e diverse. Risalivano al 1601, quando un atto della regina Elisabetta sancì il diritto del cittadino britannico, lavoratore o non, caduto in povertà, ad essere mantenuto dai guardiani dei poveri. Costoro prendevano il luogo dei conventi e delle altre fondazioni religiose che nel medioevo avevano assolto l’ufficio dell’assistenza ai poveri. Riformata la chiesa da Enrico ottavo, confiscate le proprietà dei conventi, secolarizzate le fondazioni ecclesiastiche, lo stato assunse su di sé i compiti prima assolti dalla carità dei fedeli e fu sancito il diritto del povero a porsi a carico dello stato, diritto che ancora oggi è il fondamento della legislazione sociale britannica. Le date storiche le quali ricordano le variazioni di questa legislazione sono:

 

 

  • 1834: quando in virtù di una grande inchiesta e di un celebre rapporto si abolirono quasi in tutto i soccorsi elemosinieri distribuiti a domicilio ai poveri, e distribuiti con larghezza siffatta che essi erano divenuti quasi una integrazione del salario dei lavoratori, salario che perciò non era necessario fosse sufficiente al mantenimento della famiglia operaia. Data dalla legge del 1834 l’ascesa della classe lavoratrice: l’industria non più parassita delle imposte locali a carico della terra e quindi non più interessata alla protezione agricola e costretta a pagare salari normali agli operai; questi ringagliarditi nella loro lotta (favorita dalla abolizione del 1824 delle leggi proibitive del diritto di associazione) per la osservanza dei salari normali, sufficienti a mantenere la famiglia tipica del lavoratore normale, orgogliosi di non cadere mai a carico della legge dei poveri e persuasi fosse quasi un marchio di indegnità morale l’essere stati ricoverati in una casa dei poveri (Work-house).
  • 1909: quando una seconda grande inchiesta e particolarmente il rapporto di minoranza steso dai coniugi Sidney (ora Lord Passfield) e Beatrice Webb, socialisti fabiani ed autori di classici libri sulla storia del movimento operaio e sulla democrazia industriale[8], diedero impulso ad una trasformazione iniziata fin dal 1897 dell’antico indistinto sistema dell’aiuto ai poveri attraverso la casa di lavoro ed i guardiani dei poveri, in un sistema di assistenza e di assicurazione, differenziato a seconda dell’evento dannoso: indennizzi in caso di morte e di invalidità, pensioni di vecchiaia, sussidi di malattia e di maternità, sussidi di disoccupazione, sussidi per le famiglie numerose. Ma, come accade in quel paese in ogni campo, la legislazione assicurativa erasi formata a pezzi e bocconi, senza un piano d’insieme, con dei grossi buchi male tappati da norme occasionali e con bizzarre sovrapposizioni involontarie di provvedimenti successivi non coordinati. L’opera di assicurazione e di assistenza sociale costò nel 1938-39 ai lavoratori, ai datori di lavoro, allo stato ed agli enti locali la somma grandiosa di 342 milioni di lire sterline e costerebbe, anche rimanendo immutata, 432 milioni nel 1945. Ma le bizzarrie del sistema, non dissimile in ciò dalla costituzione medesima del paese, che nessuno sa precisamente in quali documenti sia scritta, eppure esiste ed opera e non diverso dallo stesso cosidetto impero britannico, che nessun giurista continentale oserebbe definire eppure è una realtà vivente, sono senza numero; e basti dire che il cittadino il quale vuole ricevere il sussidio assicurativo contro la disoccupazione deve rivolgersi a certi funzionari del ministero del lavoro; ma se vuole riscuotere il sussidio assistenziale (dato quando per il trascorrere del tempo di disoccupazione cessa il diritto al sussidio assicurativo) deve rivolgersi agli ufficiali locali del Consiglio di pubblica assistenza. Se poi egli cade malato o diventa invalido, deve far capo alle associazioni autorizzate (società di mutuo soccorso, leghe operaie, società mutue di assicurazione, ecc.) di cui egli è socio e sono controllate dai ministeri della pubblica sanità d’Inghilterra, Scozia e Galles. Se egli è cieco deve ricorrere ai consigli di contea, di borgo e di città e questi a lor volta dipendono in genere dai sopradetti ministeri della pubblica sanità, ma per quel che tocca l’educazione, dal ministero dell’educazione. L’infortunato sul lavoro deve accordarsi col datore di lavoro rispetto all’ammontare dell’indennità; che se l’accordo falla, decide l’arbitrato della corte di contea; salvo, per le controversie di carattere medico, il parere conforme di un perito medico. L’incrocio di competenze è ancora più singolare per le pensioni di vecchiaia; se si tratti delle pensioni gratuite concesse a tutti i vecchi, perché tali, sono competenti certi comitati nominati dai consigli di contea, di borgo e di città, su informazioni fornite dai funzionari dei commissari alle dogane ed alle accise (imposte di fabbricazione), ai quali accidentalmente era stato in origine affidato questo servizio; se si tratta invece di nuove pensioni assicurative dovute in aggiunta ai lavoratori i quali hanno pagato i relativi contributi, fa d’uopo ricorrere ai tre ministeri inglese, scozzese e gallese della pubblica sanità; ed infine il supplemento di pensione, concesso in taluni casi, deve essere richiesto ai funzionari locali del consiglio di pubblica assistenza. Ma il povero generico al quale le indennità ed i sussidi specifici ora elencati non sono applicabili o non bastano, deve per aiuto rivolgersi ai comitati di pubblica assistenza dei consigli di contea e di borgo. Né i vecchi guardiani dei poveri sono scomparsi del tutto; ché, nell’aggrovigliato sistema venuto su nel secolo presente, anch’essi hanno talvolta la loro da dire.

 

 

37. Il piano Beveridge.

 

Forse, la spiegazione insulare più ovvia e decisiva del piano Beveridge è quella di mettere un po’ di ordine nelle indicibili bizzarrie di cui è intessuta la legge vigente britannica, le quali costringono le persone afflitte da qualche disgraziato evento a correre da Erode a Pilato, a pagare ed a riscuotere a e da uffici diversi, a dolersi di vuoti di legislazione, i quali lasciano scoperti taluni casi ed a profittare di sovrapposizioni, grazie alle quali l’interessato ha la scelta, per l’identico caso, fra sussidi differenti e sceglie naturalmente quello a lui più favorevole. All’uopo l’autore del piano semplifica, coordina, integra e sfronda. Il cittadino con una carta unica, con un contributo unico acquista il diritto ad ottenere, ricorrendo ad un numero limitato e chiaro di ufficiali competenti, i sussidi che a lui spettano nei diversi eventi della sua vita; e l’ammontare dei sussidi è calcolato in maniera razionale, intendendosi per razionalità l’osservanza di certi rapporti laici fra il beneficio dell’un sussidio e quello degli altri, di maggiore o minore importanza. Fissato, a cagione d’esempio, la pensione di quiescenza per la coppia marito di 65 anni e moglie di 60 anni in 40 scellini alla settimana, quella dell’individuo solo è fissata in 24 scellini; e così pure in 40 e 24 scellini sono determinati i sussidi alla coppia ed all’individuo solo in caso di infortunio dai 21 anni in su, in 20 per gli individui soli dai 18 ai 20 anni ed in 15 ai ragazzi e ragazze di 16 e 17 anni. E così via.

 

 

La necessità della semplificazione e del coordinamento, se è più urgente in Inghilterra, dove gli istituti vengono su in ogni campo per caso, per esperienze successive, sotto l’impulso di circostanze contingenti, è però ugualmente sentita in ogni paese. Anche in Italia la legislazione sociale si è formata a poco a poco, dalle prime leggi sulla prevenzione e assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e sulle pensioni volontarie di vecchiaia e di inabilità dopo il 1880 a quelle sulle casse malattie, sulle pensioni obbligatorie, sulla disoccupazione, sulla maternità, sugli assegni famigliari. Anche la nostra legislazione è ricca e varia e farraginosa; ed anch’essa richiede un’opera di sfrondamento e di coordinamento, con semplificazione degli strumenti amministrativi e quindi dei costi.

 

 

Ma il piano Beveridge ha mire più ambiziose di quelle di un semplice coordinamento delle membra disjecta della legislazione vigente. Esso si inspira ad un principio: quello di garantire in tutti gli eventi della vita nei quali venga meno il guadagno od il reddito personale, «un reddito minimo sufficiente ad assicurare la sussistenza della famiglia». Ed il minimo è uguale a quello sufficiente a coprire le spese del vivere (alimenti, vestiti, casa, riscaldamento, ecc.) secondo il tenor di vita considerato sufficiente nell’ante – guerra (1938). Le cifre sono riportate provvisoriamente ai dati di prezzi previsti per il 1945 e dovranno essere di tempo in tempo rivedute per tener conto del mutato livello dei prezzi e del mutato tenor di vita.

 

 

38. I principi dell’assicurazione sociale.

 

Si astragga per un momento dalla questione di principio: se un minimo debba essere garantito. Così come è presentato, in verità il piano non affronta il problema nella sua più semplice formulazione e si limita ad affermare che, ove si verifichino certi eventi dannosi od onerosi economicamente: infortunio, invalidità, vecchiaia, morte, matrimonio, figliuolanza, vedovanza, malattie, disoccupazione, un’indennità o sussidio o pensione deve essere attribuita all’assicurato. I problemi che debbono essere discussi in proposito non sono specificatamente inglesi o italiani o tedeschi. Si presentano uguali in tutti i paesi. Le particolarità locali, imposte dalla diversità del tenor di vita, dal livello dei redditi, dalle possibilità finanziarie, dovrebbero essere esaminati a parte. Qui si vogliono soltanto toccare i problemi di principio, i quali debbono essere risoluti partendo dalla premessa dell’intervento statale determinato dal verificarsi di dati eventi dannosi od onerosi.

 

 

Deve un piano di sicurezza sociale riferirsi all’uomo cittadino ovvero al lavoratore? A questa prima domanda l’esperienza continentale risponde al lavoratore, quella britannica all’uomo. La legislazione continentale, inspirata al modello tedesco, bismarckiano, supponeva l’esistenza di un rapporto di dipendenza fra datore di lavoro e lavoratore, la tripartizione dei contributi in ragione dell’interesse dei datori di lavoro e della collettività (stato) alla pace sociale e dell’interesse dei lavoratori alla pensione o indennità o sussidio. Poiché a fondamento del piano è posto l’ideale della pace sociale, l’intervento non ha ragione di essere là dove non esistono parti contrapposte od attriti sociali. Quindi i piani continentali non contemplano, in principio, le persone non occupate a scopo lucrativo, quelle poste al disotto dell’età lavorativa, le donne di casa, gli artigiani, i professionisti, gli artisti indipendenti, gli industriali, i commercianti.

 

 

La legislazione britannica, date le sue origini connesse con la antica legge dei poveri, sorta in un’epoca (1601) nella quale non esisteva l’industria moderna con i suoi rapporti di lavoro fra industriali ed operai, non si ispira al concetto della pace sociale tra parti contrapposte, bensì all’altro della pace pubblica, dell’ordine di giustizia che lo stato, rappresentante della collettività, ha per scopo di mantenere sul territorio nazionale. Perciò nel piano Beveridge, che è, ripetesi, sovratutto un riassunto ed un coordinamento ed un ampliamento di istituti vigenti e di principi accolti, noi vediamo rientrare nel campo assicurativo contemplato 18.100.000 salariati (classe prima), 2.600.000 altre persone occupate a scopo di guadagno, inclusi i datori di lavoro, i commercianti di ogni specie (seconda), 9.450.000 donne di casa (terza), 2.300.000 persone in età lavorativa non occupata a scopo di guadagno (quarta), 9.800.000 persone al disotto dell’età lavorativa (quinta) e 4.750.000 persone a riposo, le quali hanno oltrepassato i limiti dell’età lavorativa (sesta). Ogni classe contribuisce naturalmente, e riceve, in ragione delle proprie particolari esigenze. Solo le classi quinta e sesta non contribuiscono nulla, i primi perché troppo giovani, i secondi perché appartenenti all’età in cui, invece di contribuire, si ha diritto di ricevere. La classe tipica è la prima, dei salariati, i quali ricevono tutti i benefici; la seconda dei lavoratori indipendenti e la quarta non partecipano ai sussidi di disoccupazione ed alle pensioni di infortunio, perché gli eventi relativi non hanno per essi rilevanza od applicazione.

 

 

Tra i due tipi, quello britannico è il solo generale; né si vede come la legislazione degli altri paesi possa sottrarsi alla tendenza verso una uguale generalizzazione. Ogni uomo non è forse uguale ad ogni altro uomo? L’evento «infortunio» o «malattia od «onere di famiglia numerosa» o «morte» o «matrimonio» non produce gli stessi effetti in tutti i casi? Quale differenza vi è fra il lavoro prestato al soldo di un datore di lavoro e quello indirizzato senz’altro intermediario dal negoziante, dall’industriale, dall’artigiano, dal professionista, dall’artista al servizio del pubblico? Il vecchio non è forse tale, quale sia stata la sua vita precedente? Si può discutere sulle difficoltà di applicazione ai casi diversi da quello dell’operaio alle dipendenze altrui, non sul principio. In una società nella quale non esistono privilegi di classe, nella quale ogni uomo è uguale giuridicamente ad ogni altro uomo, il concetto della pax publica non può non essere riconosciuto preminente e prevalere su quello della mera pace sociale.

 

 

Taluno può dubitare che la generalizzazione del sistema urti contro il rimprovero di attribuire indennità, pensioni o sussidi a chi, provveduto di mezzi propri, non ha bisogno di ricorrere all’aiuto pubblico. Perché versare, ad esempio, la pensione di 40 scellini[9] la settimana alla coppia di vecchi che possiede già un reddito indipendente uguale o superiore a quell’ammontare medesimo? Alla domanda il ceto operaio britannico ha risposto in modo decisivo ed unanime: «meglio dar la pensione a tutti, anche ai ricchi, anche ai ricchissimi, piuttosto che costringere tutti e perciò anche noi lavoratori, a dare la prova della mancanza di mezzi propri. Se v’ha istituto odiato dalla grandissima maggioranza della popolazione, questo è il means test; il giudizio che dovrebbe essere ed è oggi istituito in Inghilterra per chiarire se il vecchio, se il malato, se l’invalido possiede o non possiede mezzi propri siffatti da scemare il nostro diritto alla pensione o sussidio. Noi non ne vogliamo sapere; sia perché è impertinente inquirire nelle nostre cose private, sia e sovratutto perché è immorale ed è economicamente scoraggiante togliere a noi il diritto di pensione solo perché e nella misura nella quale noi siamo stati morigerati e previdenti ed abbiamo durante la nostra vita lavorativa accumulato un peculio per i giorni di avversità o per la vecchiaia. La prova dei mezzi è un premio all’imprevidenza ed allo spreco. Perché risparmiare, perché far rinunce se poi noi saremo trattati alla stessa stregua di chi non ha mai pensato all’indomani? Non monta che la pensione debba essere data anche ai ricchi. Innanzitutto essi avranno, come noi, pagato i contributi obbligatori; nella stessa misura nostra, e cioè del 22,4% del costo totale del piano; e non si vede perché il loro beneficio debba essere minore del nostro. In secondo luogo essi avranno contribuito inoltre, essi soli e non noi, il 15,4% se datori di lavoro e certamente la massima parte del 60,5% dell’onere totale, che è la quota spettante allo stato ossia ai contribuenti. Quindi essi avranno versato assai di più di quanto riceveranno; e non v’ha ragione perché essi non siano trattati alla stessa stregua degli altri. Come nelle scuole non è fatta, nell’assegnare le borse ed i premi di studio, alcuna distinzione di classe ed i premi sono assegnati al più meritevole, povero o ricco egli sia, così i benefici della sicurezza sociale devono andare a vantaggio di tutti. Sicurezza nell’avvenire non vuol dire abbassamento di nessuno; significa innalzamento di tutti. Perciò noi lavoratori, che respingiamo la prova dei mezzi propri come lesiva della dignità umana e moralmente nemica dei nostri sforzi individuali di previdenza, e vogliamo rinvenire nella legislazione assicuratrice una spinta a salire e non a discendere, chiediamo che anche i ricchi partecipino ai vantaggi del programma di sicurezza sociale».

 

 

Questa la risposta dei lavoratori, questo il verdetto della opinione pubblica britannica. Che sono, risposte e verdetti informati a criteri che l’economista non può ignorare, ancorché posti fuori del suo territorio specifico. Poiché egli deve partire da premesse, che non lui, ma il politico, il moralista, il filosofo pongono come fini della vita, giova riconoscere che la risposta dei lavoratori britannici è virile ed è conforme ai principi fondamentali che alla legislazione sociale erano stati assegnati qui nella lezione introduttiva.

 

 

Nel giudicare invero, come adesso si deve fare, di questo o di quel ramo di assicurazione in particolare, quali criteri dovremmo usare? È chiaro che, volendo mantenere fede ai principi posti, la bilancia del pro e del contro si muove in un senso o nell’altro a seconda che quel particolare tipo di assicurazione giova o nuoce all’elevazione della persona umana (principio del minimo che è punto di partenza e non meta di arrivo), favorisce e non ostacola la mobilità, la divisibilità, la prevedibilità, la riproducibilità del lavoro e la libertà di entrata e di uscita dal mestiere (principio della concorrenza).

 

 

39. L’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.

 

Non si vede come l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro – per ora la legislazione, anche semplicemente proposta, dei paesi civili si limita a questi e non si estende agli infortuni in genere; ma il ragionamento potrebbe essere generalizzato – contrasti con i criteri ora chiariti. L’infortunio è un evento paragonabile all’incendio. Nella medesima maniera come la traslazione del rischio dell’incendio dalla casa incendiata su tutte o su moltissime case incendiabili scema il rischio del costruire e del tenere case, cresce il grado di prevedibilità del reddito futuro e per tal modo dà incremento alle costruzioni, aumenta l’offerta delle case e ne diminuisce il prezzo d’uso per i consumatori e perciò giova alla collettività; così l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro riparte su un gran numero di datori di lavoro (ed attraverso ad essi su un grandissimo numero di consumatori dei beni e dei servigi da essi prodotti) il rischio che altrimenti colpirebbe un solo lavoratore od un solo datore di lavoro, obbligato al risarcimento; scema il rischio – quello almeno che sarebbe calcolato individualmente nel caso di non assicurazione – del lavoro; dà tranquillità e fiducia al lavoratore, il quale guarda all’avvenire (prevedibilità) con maggior sicurezza per sé e per la famiglia; ispirando fiducia lo incoraggia a dar prova di tutta la sua attività lavorativa; e per conseguenza innalza moralmente l’uomo. Se colui che, lavorando, rende servigio altrui ha le proprie membra od attitudini menomate e se coloro – che sono tutti gli altri cittadini – a cui egli ha reso servigio non si sforzano, almeno con indennizzo pecuniario, di restituire in integro la sua persona, nasce nella società un sentimento di torto non risarcito; e la pax publica, che è il fine supremo dello stato, non è osservata. L’assicurazione, levando di mezzo le conseguenze economiche dell’infortunato sul lavoro, elimina le differenze di rischio fra l’industria pericolosa e quella immune e rende più agevole il passaggio del lavoro dall’una all’altra. Crescendo la mobilità del lavoro ed agevolando la concorrenza, aumenta la produttività del lavoro. In una società di uomini perfetti e previdentissimi in cui lo schema della concorrenza si attuasse perfettamente, i salari nelle industrie rischiose sarebbero, è vero, più alti che non nelle industrie comuni; ed i lavoratori non consumerebbero il dippiù ma lo accantonerebbero per il giorno della disgrazia. Ma rimarrebbe pur sempre la necessità della assicurazione volontaria per trasferire il rischio dal singolo, che non ha ancora compiuto l’opera di accantonamento sufficiente, alla collettività dei lavoratori, che per la legge dei grandi numeri accantonano, in una società perfetta, di giorno in giorno le somme necessarie a coprire il rischio totale; e poiché gli uomini non sono né perfetti né previdenti, giova che l’assicurazione sia obbligatoria. Giova tanto più in quanto è norma osservata in tutte le legislazioni ed anche in quella italiana che, a differenza degli altri tipi di assicurazione, nei quali l’onere è ripartito per lo più in varia misura fra assicurati, datori di lavoro (se ci sono) e contribuenti, nel caso degli infortuni i lavoratori sono esenti da ogni contributo, reputandosi che la macchina, ossia l’impresa, ossia ancora i consumatori dei beni venduti dall’impresa siano, essi, chiamati a restituire economicamente in integro la persona fisica menomata dell’infortunato.

 

 

40. L’assicurazione per le pensioni di vecchiaia.

 

Fondamento della pensione di vecchiaia è il vantaggio morale, dal quale deriva il vantaggio economico. Soltanto l’uomo fiducioso in se stesso e nel suo avvenire risparmia e si eleva. Colui il quale non è sicuro rispetto al futuro, colui il quale sa di dover chiedere ricovero all’ospizio o di dover vivere della carità dei figli o del prossimo, non tenta neppure di provvedere colle sole sue forze all’avvenire. Il compito gli appare troppo duro e la fatica eccessiva. Ove invece egli sappia che un minimo di vita gli è assicurato nella vecchiaia, non solo è spinto a lavorare con tranquillità durante gli anni migliori, ma è incoraggiato ad aggiungere qualcosa a quel che è già suo. È difficile cominciare a prepararsi col risparmio attuale la prima lira di pensione per quando si saranno compiuti i 65 anni; ma se le prime 100 lire (ante-1914) di pensione sono già assicurate, è assai più probabile si rifletta ai vantaggi che si potrebbero ottenere se, mercé uno sforzo attuale di rinuncia a beni presenti, ossia di risparmio, a quelle 100 lire certe si potessero aggiungere altre 10 o 20 o 50 o 100 lire supplementari. Non sempre il ragionamento: «è più facile partire da 100 che dallo zero» è vero; ché molti uomini hanno saputo prendere le mosse dal nulla; ma pare non infondata la tesi di coloro i quali affermano essere la volontà umana spesso debole e soggetta alle tentazioni immediate e pronta allo scoraggiamento dinnanzi alle difficoltà iniziali.

 

 

La pensione di vecchiaia è tuttavia un povero surrogato di quel più alto tipo di società nella quale essa è inutile perché il vecchio possiede nella casa propria, nel podere ereditato o costrutto a pezzo a pezzo, nel patrimonio formato col risparmio volontario, nell’affetto di una famiglia saldamente costituita il presidio sicuro contro l’impotenza della vecchiaia.

 

 

La pensione di vecchiaia è il frutto fatale – e qui si adopera l’aggettivo sia nel senso di inevitabilità storica come in quello di inferiorità morale – del tipo di società che a poco a poco si è venuto creando sotto i nostri occhi: di grandissime imprese dalle quali dipendono migliaia e decine di migliaia di impiegati e di operai, di città enormi, tentacolari, dove in caseggiati a molti piani si accumulano moltitudini di persone ignote le une alle altre, viventi di giorno in giorno col provento di salari, di lavoro, scissi dalla terra e dalla casa, senza altro appoggio nella vita fuor del libretto di risparmio, su cui sono scritte cifre, le quali non dicono nulla al cuore ed alla mente di chi pur ha rinunciato a consumare i beni rappresentati da quelle cifre. In questo tipo di società la pensione di vecchiaia è una sciagurata necessità, pallido surrogato di quel che in altri tipi di società sono il possesso della casa, dell’orto, del campo, la possibilità di vegliare, da vecchi, ai giochi dei figli dei propri figli ed ai lavori dei ragazzi, l’orgoglio di dare ancora una qualche opera ai lavori dell’orto e della casa, che non sia una prigione melanconica di due stanze in fondo ad un cortile nero ed oscuro, ma sia aperta al sole e si apra su un po’ di terra propria. Il tipo di vita imposto dalla grande città contemporanea è davvero fatale? Non è possibile la ricostruzione, nei modi imposti dalla grande industria, di tipi diversi di vita? Ardue domande, che qui basti aver posto, allo scopo di affermare che la pensione di vecchiaia è un surrogato di metodi moralmente più elevati immaginabili allo scopo di provvedere alla vecchiaia.

 

 

Il pregio suo specifico, che sopravviverebbe anche in un tipo superiore di convivenza umana, è un altro: quello di offrire anche al vecchio provvisto di mezzi propri e tanto più a colui che ne è sprovvisto, una ragione autonoma di vita, destinata a perir con lui e a non essere tramandata ai figli ed agli eredi. Può sembrare contraddittorio e paradossale, dopo quanto si è detto intorno alla eccellenza del presidio offerto al vecchio dalla casa, dall’orto, dal terreno od altro patrimonio tangibile e visibile, affermare che al vecchio giova anche il diritto ad una pensione vitalizia, destinata a morire con lui. Ma gli uomini sono quelli che l’eredità, i costumi, la religione, l’educazione, le leggi li hanno fatti; ed in essi vivono talvolta, non troppo di rado, purtroppo, i residui inconfessati e subconsci dei sentimenti che, millenni or sono ed ancor oggi in mezzo alle tribù selvagge, spingono i vecchi, divenuti impotenti alla battaglia ed alla caccia, a radunare essi stessi i figli, i discendenti ed i vicini ed a condurli nel luogo dove, per loro comando, è scavata la fossa, nella quale si adagiano per essere tolti di vita e coperti di terra. La loro giornata è finita ed essi non sono più buoni a nulla. Meglio morire che essere di peso alla tribù che deve muoversi per sfuggire al nemico o combatterlo o andare alla cerca del nutrimento. Così è di tanti vecchi ancor oggi. Impotenti al lavoro essi si ritirano umiliati dinnanzi ai figli ed alle nuore che hanno preso il governo della casa e della terra. Casa e terra appartengono tuttavia ad essi; ma a che vale se non sono capaci a coltivarla? Essi hanno il senso della propria inutilità e questo li uccide anzi tempo. Abbiano invece una pensione la quale duri per tutta la loro vita e non oltre ed essi non saranno più impotenti ed avviliti. Uomini tra uomini, sentiranno e con essi sentiranno figli e nuore e nipoti, di apportare qualcosa alla cosa comune; qualcosa che verrebbe meno se essi morissero. Epperciò essi vivono e sanno di poter vivere senza essere del tutto a carico di altri. Rispetto ed affetto ed affermazione della propria personalità sono il frutto della pensione di vecchiaia; sicché questa contribuisce a poco a poco ad attenuare il senso di dispregio in che i giovani tengono i vecchi, i quali li hanno preceduti ed oggi sono incapaci a seguitare la fatica, la quale ha consentito ai figli, ora dimentichi, di intraprenderla nella pienezza delle loro forze[10].

 

 

Nella società moderna la pensione di vecchiaia deve tener conto di una tendenza: quella dell’invecchiamento crescente della popolazione. Si legge nel rapporto Beveridge che nella Gran Bretagna i vecchi (di 56 anni compiuti se uomini e 60 se donne) erano il 6,2% della popolazione nel 1901; ma crebbero al 12% nel 1941 e si calcola saranno il 14,5% nel 1951 ed il 20,8% nel 1971. Tende cioè a crescere in modo preoccupante la quota della popolazione totale la quale non lavora più ed è a carico altrui ed a diminuire la quota di coloro i quali producono e contribuiscono. Quanto più la tendenza (dovuta alla diminuzione della natalità, al prolungamento della durata della vita umana e ad altre cause) si accentua, tanto più il problema finanziario dei beni e dei servigi, in cui si concreta la pensione, diventa difficile a risolvere. Né la soluzione può trovarsi in una dilazione generalizzata dai 65 e 60 ai 70 e 65 anni dell’inizio della pensione; ché questa sarebbe causa di disparità di trattamento tra coloro che a 65 anni sono davvero impotenti al lavoro e cadrebbero, nel tempo innanzi ai 70 anni, in miseria dolorosa e quelli che a 70 anni sono vigorosi e floridi. Il rimedio si trova nell’incoraggiare il prolungamento volontario dell’età nella quale si chiede la pensione; così come fa il Beveridge, il quale alla pensione di vecchiaia sostituisce la pensione di quiescenza; e questa si distingue dalla prima, perché il vecchio può se vuole e se ne è capace, continuare a lavorare anche dopo i 65 anni se uomo e 60 anni se donna ed in tal caso la pensione cresce di 2 scellini la settimana per ogni anno di ritardo per la coppia di marito e moglie e di 1 scellino per la pensione individuale. Il ritardo a 70 anni recherebbe la pensione da 40 a 50 scellini la settimana per la coppia e da 24 a 29 scellini per l’individuo. L’erario vede notevolmente diminuito, grazie al ritardo, l’onere da esso sopportato; la collettività si giova del prodotto del lavoro dei vecchi, che altrimenti deperirebbero in un ozio forzato; e la possibilità offerta ai vecchi di lavorare allontana effettivamente l’inizio della decadenza fisica e quindi della vera vecchiaia.

 

 

41. Le assicurazioni di matrimonio e maternità e gli assegni famigliari.

 

I sussidi assegnati per l’evento del matrimonio, della maternità e gli assegni famigliari (questi in ragione del numero dei figli a carico, oltre al primo ed al secondo od altro numero) hanno di solito una spiegazione, che si enuncia con le parole politica demografica. La protrazione dell’epoca del matrimonio e la diminuzione del saggio di natalità avevano fatto sorgere in Francia sin dal principio del secolo lo spettro della decadenza demografica. Ma quello che allora si diceva il mal francese, oggi è divenuto una caratteristica di tutti i paesi civili; né l’Italia vi si sottrae e la decadenza sarebbe già iniziata, se l’abbondanza dei figli nell’Italia meridionale non ponesse ancora un freno precario alla tendenza già spiccatissima nell’Italia settentrionale. I premi al matrimonio ed alla maternità (le cure gratuite per le madri partorienti possono essere equiparate all’assicurazione malattie) e gli assegni famigliari, ossia le aggiunte al salario del capo-famiglia in ragione del numero dei figli a carico dovrebbero avere per scopo di incoraggiare la costituzione di nuove famiglie e di dare una controspinta alle ragioni di prudenza le quali persuadono a limitare il numero medio dei figli al disotto di quei tre – ma in taluni paesi il numero sale a quattro – che sembra il minimo necessario, tenuto conto dei celibi e delle nubili e delle coppie infeconde, a mantenere invariato, di generazione in generazione, il numero dei viventi.

 

 

Se il mezzo pecuniario (sussidi a matrimoni e maternità, assegni famigliari, esenzione di imposte ai padri di famiglie numerose) sia adatto a raggiungere il fine dell’aumento o del freno alla diminuzione della popolazione, è problema il quale non si risolve se non in parte, forse irrilevante, con ragionamenti economici. Non si mettono al mondo figli allo scopo di lucrare un premio di 100 lire ante-1914 od un assegno famigliare di 50 centesimi (sempre di lire ante-1914 che pure erano qualche cosa in potenza d’acquisto); o così accade solo ad opera della quota più imprevidente della popolazione, di quella parte che per la lunga miseria, l’eredità morbidica, l’alcoolismo, i costumi rilasciati sarebbe invece socialmente vantaggioso si astenesse dalla procreazione, perché i figli a lor volta andranno a crescere le file dei grossi e piccoli delinquenti, degli alcoolizzati, dei vagabondi, delle prostitute che vivono al margine della società. Le variazioni della popolazione non dipendono se non in piccola parte da fattori economici, e sono sovratutto in rapporto a fattori morali. È ragionevole che i genitori si preoccupino della sorte riservata ai figli; e non desiderino di averne se non quel numero che essi si sentono in grado di poter allevare ed educare, sicché essi serbino e migliorino la posizione sociale che era propria della loro generazione. Ma il miglioramento delle condizioni economiche dei genitori non è bastevole all’uopo; anzi può produrre l’effetto contrario. La pratica del figlio unico da parte del piccolo proprietario terriero francese, il quale vuole conservare intatto al figlio il fondo paterno ed anzi crescerlo con l’apporto della dote della nuora, anch’essa figlia unica; la sterilità peculiare delle famiglie ricche provano l’inefficacia del mezzo economico in se stesso considerato. Solo con grande titubanza è lecito indicare mezzi adatti: la ricostruzione della vita famigliare in case individuali, fornite di orti e di giardini, poste all’infuori del centro delle grandi città, dove le moltitudini vivono ammucchiate in una o due stanze in casolari rassomiglianti a formicai, dai quali si fugge all’osteria o sulla strada; la sicurezza di dare ai figli custodia istruzione ed educazione in asili infantili, scuole elementari e medie, dove ai ragazzi è consentito di ricevere, senza onere incomportabile, libri, assistenza sanitaria preventiva, sorveglianza durante i giochi e le ginnastiche e gli esercizi sportivi; la promessa di borse di studio in gran numero, le quali rendano possibile l’ascesa ai volonterosi; il rifiorimento dei legami fra città e campagna, grazie ai quali la famiglia non dipende più esclusivamente dal salario settimanale, ma questo è integrato dalla proprietà, anche minuscola, di una terra che dà alla famiglia luce, aria, ortaggi, frutta, che occupa nelle ore di ozio, in modo piacevole l’opera del capo-famiglia e rende vivo il vincolo fra genitori e figli. Più che sussidi pecuniari, al matrimonio ed alla maternità paiono efficaci le cliniche dove le madri abbiano ospitalità e cura prima e dopo il parto, l’offerta di concorsi nell’acquisto delle suppellettili necessarie all’inizio della vita famigliare, la provvista di case economiche e sane alle nuove coppie, le quali non posseggano già casa propria. Tutto ciò, infine, il quale giovi a diminuire le incertezze della vita, e, senza togliere lo stimolo a migliorare le proprie condizioni, scemi l’incubo dell’evento imprevedibile apportatore di disoccupazione, è fattore, indiretto sì ma efficace, di saldezza sociale ed è ostacolo a quella specie di lento suicidio collettivo che vien fatto palese dalla diminuzione del saggio di natalità.

 

 

Ma gli assegni famigliari hanno una propria spiegazione indipendente dalla politica demografica. Il salario è fissato dal mercato e dai contratti collettivi di lavoro, in un importo, ragionato a tempo od a cottimo, il quale non varia in funzione del numero dei figli del lavoratore. Né potrebbe variare senza creare un interesse nei datori di lavoro a preferire i celibi agli ammogliati e gli ammogliati senza figli agli ammogliati con famiglie numerose; preferenza atta a provocare disoccupazione in questi ultimi. La norma di mercato contraddice tuttavia ad una esigenza di equità, la quale vorrebbe che i padri di famiglie numerose potessero, col frutto del loro lavoro, provvedere al mantenimento ed alla educazione dei figli. Che la miseria sia in funzione del numero dei figli, pare probabile. Una recente inchiesta condotta nella città di Bristol ha dato i seguenti risultati (tutti in per cento del numero totale):

 

 

Numero dei figli al disotto dei 14 anni per ogni famiglia

0

1

2

3

4 e più

Totali

Proporzione corrispondente delle famiglie aventi il numero indicato di figli

57,4

21,8

12,1

5,1

3,6

100

Su 100 famiglie del gruppo sono al disotto della linea della povertà

8,4

6,5

11,1

24,8

51,3

10,3

Delle famiglie del gruppo sono in un luogo che sta almeno del 100% al disopra della linea della povertà

53,3

35,8

15,9

4,3

1,2

40,5

 

 

È difficile che questi risultati siano eccezionali o casuali. Essi riguardano tutti famiglie il cui capo lavoratore manuale guadagna, se non specializzato, 42 scellini o se impiegato non più di 5 lire sterline la settimana. Le variazioni sono regolari. A mano a mano che il numero dei figli aumenta:

 

 

  • diminuisce la proporzione delle famiglie del gruppo: dal 57,4% per le famiglie senza figli al 3,6% per le famiglie con 4 figli e più;
  • aumenta di gruppo in gruppo la proporzione delle famiglie del gruppo medesimo, le quali si trovano al disotto della linea della povertà. Laddove in media il 10,3% del totale appartiene a quello che gli inglesi chiamano il submerged tenth, il decimo che non riesce ad alzar la testa al disopra della miseria, la proporzione cresce col crescere del numero dei figli, sino al 51,3% per il gruppo con 4 figli e più. Poche sono le famiglie di questo gruppo; ma di queste poche più della metà è caduta al disotto della linea di miseria;
  • scema di gruppo in gruppo la proporzione delle famiglie le quali riescono a migliorare notevolmente la loro sorte. Laddove il 40,5% delle famiglie considerate riesce, nonostante i modesti guadagni, a superare di più del 100% il livello considerato di povertà, solo il 15,9% delle famiglie con due figli giunge alla meta, ma appena il 4,3% di quelle con 3 figli e l’1,2% di quelle con 4 figli e più si solleva ad un tenor di vita superiore.

 

 

È chiaro che la regola del mercato, la quale attribuisce ai lavoratori ugual salario per ugual lavoro, senza riguardo al numero dei figli, contraddice all’esigenza della giustizia sentita dall’universale la quale vuole che l’aumento della figliuolanza non tragga le famiglie nella miseria e non scoraggi l’operaio dal lavoro. Cercarono di provvedere all’uopo le casse di compensazione istituite dapprima volontariamente da taluni industriali in seno alla loro intrapresa o al gruppo delle loro intraprese e poi generalizzate, ad esempio in Italia, dalla legge e rese obbligatorie per grandi categorie di lavoratori. Il datore di lavoro è chiamato dalla legge sugli assegni famigliari a versare un contributo costante per occupato celibe od ammogliato, improle o padre di famiglia, ad una cassa comune. In tal modo è salvo il principio della indifferenza del datore di lavoro rispetto agli operai, poco importando a lui se l’assunto al lavoro sia celibe o padre di dieci figli. Ma la cassa preleva dal fondo comune i premi assegnati ai capi di famiglia in proporzione al numero dei figli. Nel piano Beveridge l’assegno è di 8 scellini settimanali per figlio oltre il primo, per il quale nulla si propone di dare, reputandosi che il padre debba e possa provvedere ad esso col proprio reddito; sicché distribuendo l’assegno totale su tutti i figli, compreso il primo, esso si palesa progressivo.

 

 

La razionalità della spiegazione che così viene fornita degli assegni famigliari non fa venir meno la rilevanza dell’osservazione già implicitamente fatta a proposito della giustificazione detta della politica demografica; è l’assegno, il dono in denaro, mezzo sufficiente a trarre su dalla miseria il decimo sommerso? Perché delle famiglie con egual numero di figli 0, 1, 2, 3, 4 e più rispettivamente l’8,4, il 6,5, l’11,1, il 24,8 ed il 51,3% sono al disotto e quindi il 91,6, il 93,5, l’88,9, il 75,2 ed il 48,7%, sono al disopra della linea della miseria?

 

 

Il numero dei figli non è uguale in ogni gruppo; e, data l’indole delle famiglie considerate, non è suppergiù uguale il salario? Non vi sono forse casi in cui famiglie con salario minore e con numero di figli minore non si sono lasciate cadere entro la miseria del decimo sommerso? Quali sono le caratteristiche morali, spirituali, famigliari delle famiglie cadute al disotto e di quelle rimaste al disopra della linea? Se il fattore «salario» non è decisivo, l’assegno famigliare non rischia di mancare sovente al fine suo che non è il maggior guadagno dell’operaio padre di famiglia, ma l’elevazione della famiglia? Chi assicura che l’assegno famigliare non sia male speso? Non sarebbero perciò più efficaci quegli altri tipi di preferenze per il capo-famiglia, di cui già si è detto: la concessione di casa ampia provvista di orto, l’offerta di giardini d’infanzia, di asili con refezione, di cure mediche preventive per i bambini ed i ragazzi, le settimane al mare od alla montagna, la borsa di studio nelle scuole medie e superiori?

 

 

42. L’assicurazione malattia.

 

L’assicurazione malattia pone ed ha posto in Italia gravi problemi, i quali si riducono a quello della scelta fra la organizzazione uniforme di stato e la libera iniziativa di privati, associazioni, fondazioni anche incoraggiate e sussidiate dallo stato. Se l’assicurazione malattia dovesse servire solo ad offrire a tutti i malati i servigi di un medico fiscale, anche ben pagato – laddove i medici delle mutue e delle casse malattie sono oggi in Italia mediocremente pagati e rendono servigi corrispondenti al trattamento ricevuto – meglio non farne nulla. Tra medico fiscale e malato esiste relazione non di fiducia, ma di sospetto. Senza la volonterosa cooperazione dei medici e la libera scelta del medico da parte del malato, l’assicurazione contro le malattie costa e non rende; ed è per giunta creatrice di odio e di sentimenti antisociali. In un paese come l’Italia, nel quale l’assistenza ospitaliera ha così grandi tradizioni, perché inaridire le fonti della carità privata, perché porre un limite all’incremento degli ospedali, degli ambulatori, delle case di cura, di riabilitazione fisica, di cure preventive ai mari ed ai monti ad opera della carità privata e degli enti pubblici?

 

 

Quando tutti i malati, i quali non avessero i mezzi di curarsi in casa, fossero sicuri di trovare assistenza e medicine in ospedali pubblici e semi-pubblici, a che pro una macchina assicurativa lavorante a gran costo ed a vuoto? Quando fossero eliminate le difficoltà derivanti dall’obbligo di rimborso delle spese ospedaliere da parte del comune dove il malato ha il domicilio di soccorso; quando insomma l’accoglimento del malato, di qualunque malato a semplice richiesta in un ospedale o luogo di cura fosse immediato e certo e gratuito, a che pro marchette e contributi ed impiegati e denari che vanno e vengono e si registrano? La lotta contro le malattie, compresi gli infortuni per il tempo di cura, è tipicamente estranea al campo assicurativo. Sarà d’uopo sormontare pregiudizi, offrire agevolezze e larghezze di scelta, attrezzare gli ospedali per accogliere malati senza difficoltà anche in momenti di punta; ma come non si rimandano a casa i bambini per mancanza di maestre o di aule scolastiche, così nessun malato dovrebbe essere abbandonato sulla strada od in casa qualora desideri essere curato in un ospedale. Nessun malato dovrebbe essere trattenuto a casa dal timore di abbandonare incustoditi i bambini; ché asili e doposcuola e convitti dovrebbero essere in grado di ospitare questi durante le malattie dei genitori. Per fermo l’insieme di questi servizi costerebbe; ma sarebbero con ogni probabilità denari spesi assai fruttuosamente.

 

 

Se l’assistenza ospitaliera, pubblica o volontaria, non fosse o non paresse, particolarmente nel periodo transitorio, bastevole, più che l’assicurazione, ingombrante per uffici, carte, marchette, versamenti e simili, gioverebbe la semi – gratuità dell’assistenza medica a sfollare gli ospedali. Siano liberi i medici di farsi iscrivere in un registro; ed abbiano i malati la facoltà di scegliere tra i medici iscritti il medico di fiducia. Ogni visita sia rimunerata in parte dal malato ed in parte da una cassa alimentata col provento di imposte. Se le imposte debbano essere generali o speciali (di scopo) sono problemi delicati i quali dovrebbero discutersi a fondo. Se le casse possano anche essere organizzate da fondazioni caritatevoli o da società di mutuo soccorso e non solo da enti pubblici è altro problema, che io risolverei nel senso della libertà. Il punto essenziale è che il malato, il quale volontariamente rinuncia alla cura ospitaliera interamente gratuita, sia costretto a pagare una quota parte del costo della visita medica privata, costo stabilito secondo tariffe note e concordate tra gli enti pubblici ed i collegi dei medici. Se la parte spettante al malato debba essere di una metà, di un terzo o di un quarto della tariffa intiera, è problema secondario. Il punto essenziale è che la quota spettante al malato sia da questi sentita. Solo a questa condizione si crea la fiducia tra il malato ed il medico da lui scelto, che è premessa indispensabile della efficacia della cura. La sorveglianza e la repressione degli abusi di connivenza fra malati e medici a «marcar visita» dovrebbero essere ufficio delle casse paganti, dell’ordine dei medici e sovratutto di una risvegliata coscienza pubblica.

 

 

43. L’assicurazione contro la disoccupazione.

 

Tutt’altre sono le considerazioni che fa sorgere l’assicurazione contro la disoccupazione. Beveridge propone, come fu detto sopra, 40 scellini la settimana per la coppia di marito e moglie; 24 per l’uomo con moglie occupata, e per l’uomo e la donna soli, 20 per la persona sola, fra i 18 e 20 anni, 15 per i ragazzi e le ragazze fra i 16 ed i 17 anni, 16 per la moglie lavoratrice disoccupata. Queste cifre, ricordiamolo, sono state calcolate partendo dal principio di dare ad ognuno quel che occorre per condurre una vita decente conforme a quel tenore che è considerato indispensabile per una famiglia operaia. Non ripeterò l’osservazione ovvia che molti uomini se provveduti nell’ozio necessario per vivere, non sentono affatto lo stimolo del lavorare, ché invece il Beveridge opina essere la sicurezza del vivere incitamento a lavorare per guadagnare di più e migliorare la propria posizione. L’augurio sarebbe fondato se i salari medi fossero notevolmente superiori ai 40 scellini settimanali ai disoccupati; ma è illogico lo siano durevolmente. Come si calcolano oggi i 40 scellini settimanali, se non appunto sul reddito necessario al mantenimento normale della famiglia operaia, che a sua volta è il reddito intorno a cui si aggirano i salari normali? Se domani i salari aumenteranno ciò vorrà dire un aumento del tenor di vita ed un innalzamento automatico della base su cui è calcolato il sussidio di disoccupazione. Dal circolo vizioso non si esce se non ammettendo che il sussidio sia calcolato su una base più bassa di quella reputata normale per la famiglia operaia. Si aggiunga che il sussidio di disoccupazione è dato senza limitazione di tempo ed è soggetto solo all’obbligo di seguire corsi di tirocinio per impiego diverso da quello originario, di accettare un’occupazione adatta (suitable) e di recarsi, contro rimborso delle spese di viaggio, in altra località dove sia possibile ottenere un’occupazione adatta. Non è imposto alcun obbligo di dimostrare mancanza di mezzi propri. Varranno codesti freni a scemare il pericolo dell’incitamento a non trovare mai l’occupazione adatta alle proprie attitudini? Si può fondatamente rimanere scettici. Più che scettici, si deve essere allarmati di fronte all’altro grande pericolo dell’assicurazione contro la disoccupazione: quello di creare o rafforzare il monopolio dell’offerta del lavoro a cui le leghe operaie intendono. Si ha un bel dire che noi viviamo in un mondo di monopoli o quasi monopoli; che ai monopoli di parte imprenditrice è naturale si oppongano i monopoli di parte operaia; ma pare certo che, se non dell’economista, il quale si diverte con indifferenza a studiare le più varie specie di monopoli, fra cui quelli bilaterali, sia compito dell’uomo di stato – ed i riformatori sociali in questa sede non possono fare appello all’indifferenza dell’economista, ma fanno proposte in qualità di uomini di stato periti ossia consapevoli degli effetti delle loro proposte – non di creare e favorire, bensì di reprimere e limitare i monopoli.

 

 

Che i sussidi di disoccupazione sufficienti alla vita della famiglia del disoccupato favoriscano la posizione monopolistica delle leghe operaie pare verità non facile ad essere contraddetta. La lega operaia, a cui siano iscritti 100 mila operai occupati, nel contrattare il salario è naturalmente indotta a cadere con l’altra parte d’accordo su un salario, ad ipotesi, di 30 lire (1914) settimanali, dato il quale gli imprenditori abbiano interesse, a parità di altre condizioni, ad assorbire tutti i 100.000 operai. Se al salario 30 conviene agli imprenditori impiegare soltanto 90.000 operai, la lega, non esistendo sussidi statali di disoccupazione, deve provvedere essa, con i suoi fondi, a mantenere i 10.000 operai disoccupati. Ma poiché essa trae i suoi fondi dai contributi dei soci, i 90.000 operai occupati dovranno prelevare sul proprio salario di 30 lire la somma necessaria per mantenere i 10.000 disoccupati. Se il sussidio è fissato in 20 lire settimanali, con un costo complessivo di 200.000 lire, sono 2,20 lire circa che ogni occupato deve detrarre dal suo salario per mantenere i disoccupati. Il salario netto si riduce perciò per lui da 30 a 27,8 lire settimanali. Conviene a lui insistere sulle 30 lire? sì, se le 27,8 lire nette residue sono superiori alle 27 lire di cui si dovrebbe contentare se gli imprenditori, per indursi a occupare non 90.000 ma 100.000 operai non potessero pagare di più; no, se essi sono inferiori alle 28 lire che gli imprenditori si decidessero invece a pagare per impiegare tutti i 100.000 operai disponibili. La disoccupazione potenziale è dunque un freno alle pretese delle leghe operaie di crescere il salario al disopra del livello dal quale tutta la mano d’opera disponibile sarebbe assorbita.

 

 

L’assicurazione contro la disoccupazione, accollando l’onere di essa ad un fondo praticamente alimentato, al di là di un minimo, dai contribuenti, libera le leghe operaie dall’incubo di dovere provvedere all’onere della disoccupazione che esse creano. Se esse insistono sulle 30 lire settimanali e nascono perciò 10.000 disoccupati, l’onere delle 20 lire di sussidio (200.000 lire in totale) ricade sul fondo. Perché preoccuparsene? E perché non tentare di spingere i salari a 35 lire, anche a costo di aumentare il numero dei disoccupati a 20.000? Paga il fondo: 400.000 lire la settimana invece di 200.000. Un limite teorico-economico non si vede tanto facilmente; sebbene di fatto un limite politico ci sia, se si vogliono evitare reazioni troppo vaste e spettacolose nell’opinione pubblica. Ma, entro dati limiti, la manovra, simile in tutto a quella di tutti i monopolisti di parte imprenditrice, i quali calcolano il prezzo di massimo rendimento netto, riesce.

 

 

Il sussidio di disoccupazione è uno dei tanti fattori di pubblico irrigidimento, i quali hanno reso difficile l’operare del sistema di libera concorrenza ed hanno fatto concludere alla fatale rovina di esso. Se si vuole abolire o ridurre la disoccupazione, fa d’uopo ridare elasticità al meccanismo dei prezzi e quindi dei salari; fa d’uopo non abolire ogni responsabilità delle leghe operaie per gli effetti del loro operare, ma crescerla. Invece di accollare allo stato l’onere dei disoccupati, che gli operai creano con la loro vittoriosa insistenza su un livello di salari superiore al livello di equilibrio fra quantità domandata e quantità offerta di mano d’opera, fa d’uopo che questa responsabilità ricada viemmeglio sulle leghe. Pare certo che l’assicurazione statale contro la disoccupazione sia uno degli elementi più pericolosi e dubbi dell’intero sistema di assicurazioni e di assistenza sociale. Qui il ritorno alla responsabilità diretta degli interessati sarebbe fecondo. Dovrebbero essere istituite indagini sulle cause della disoccupazione, rivolte a dare un peso quantitativo ad ognuna di esse, distinguendo quella parte che può essere dovuta alla politica dei salari da parte delle leghe da quella che è dovuta ad altri fattori estranei e generali (crisi economiche, guerre, ecc.); e questa soltanto dovrebbe essere oggetto di assicurazione.

 

 

44. Gli argomenti non decisivi a proposito della garanzia statale di un minimo di vita.

 

I piani di assicurazione e di sicurezza sociale che finora si sono esaminati per quanto tocca i loro principi essenziali – ed essi poco differiscono, quanto ai principi, da un paese all’altro del continente europeo – hanno questo di caratteristico: che essi sono rivolti ad assicurare il lavoratore (sistemi continentali: tedesco, italiano, francese) o l’uomo in genere (tendenzialmente sistema inglese) contro gli effetti di taluni eventi i quali fanno cessare, interrompono o riducono l’attitudine ad ottenere un reddito (morte, invalidità, vecchiaia, infortunio, malattie, disoccupazione) ovvero riducono l’attitudine del reddito a soddisfare le esigenze cresciute della famiglia (matrimonio maternità, figliuolanza numerosa). Se non si verifica l’evento, non nasce la ragione di ottenere l’indennità, l’assegno, il sussidio, la pensione.

 

 

Posti dinnanzi ai problemi propri di ogni branca di assicurazione di un minimo di assistenza al verificarsi dell’evento dannoso, taluni si sono chiesti se non facesse d’uopo di affrontare il problema nella sua interezza; e, postoché il fine sarebbe quello di garantire a tutti gli uomini viventi non l’uguaglianza di fatto ma l’uguaglianza nel punto di partenza, conchiusero: lo stato attribuisca ad ogni persona fisica dal momento della nascita sino alla morte il diritto ad una pensione uguale in ammontare al necessario alla vita. Il minimo di vita potrebbe essere definito, nella ipotesi più stretta, essere la somma annua necessaria a mantenere una persona invalida o vecchia (incapace cioè al lavoro) in discrete condizioni di conforto; od anche quella annua somma che sia per l’appunto sufficiente per alimentare, vestire ed educare un bambino od un ragazzo fino all’età lavorativa; o, nella accezione più larga, la somma atta a soddisfare i bisogni normali di un essere umano, vivente in una società civilizzata. Questa seconda definizione corre sotto il nome del giudice Higgins, giudice capo della prima corte istituita verso la fine del secolo scorso (in Australia) per decidere, con arbitrato obbligatorio, le contese del lavoro. Poiché la teoria che qui si esamina è quella del punto di partenza, sembra che la concezione più stretta sia quella che meglio la definisca; laddove la seconda più larga risponderebbe meglio all’idea del punto di arrivo, nel quale l’uomo potrebbe adagiarsi, senza aspirare ad altro.

 

 

Nel giudicare il principio della pensione universale di stato, appannaggio di ogni uomo vivente dall’età zero al momento del supremo viaggio finale, giova non attardarsi su punti secondari. Non paiono perciò vantaggi decisivi:

 

 

  • quello della semplificazione del servizio. Sarebbero aboliti controlli, visite, uffici, organizzazioni sanitarie, di rieducazione per i disoccupati, ecc. ecc. Ogni vivente riceverebbe ad es., alla fine della settimana o del mese, un assegno postale che gli sarebbe pagato a casa dal portalettere delle raccomandate, come ogni altro vaglia postale, sulla semplice constatazione della sua identità personale o della sua esistenza in vita; o, meglio, progredendo la educazione economica, a mezzo di un accreditamento periodico su un conto corrente di banca o di cassa di risparmio. La semplificazione e il risparmio sarebbero certamente grandi; ma il maggior costo del sistema dell’assicurazione contro i singoli eventi dannosi non sarebbe decisivo se il maggior costo fosse compensato, come è probabile sarebbe, dalla maggior sicurezza di far pervenire l’aiuto nei casi nei quali esso è richiesto, ad esclusione dei casi più numerosi, nei quali esso fosse superfluo;
  • quello della via diritta e rapida per raggiungere il fine della sicurezza di vita in confronto a quello incerto e lungo e tortuoso del provvedere nei soli casi, accertabili con difficoltà e dietro inchieste fastidiose, nei quali la sicurezza è già venuta meno. Se, in difesa del principio della pensione universale, non sta altro argomento, esso deve essere respinto per una ragione di indole generale. Nelle cose economiche e sociali, la via diritta, salvo eccezioni rarissime, è la via falsa. Solo la via storta, lungo la quale gli uomini cadono, ritornano sui propri passi, esperimentano, falliscono e ritentano e talvolta riescono, è la via sicura e, di fatto, più rapida. Ricordatevi sempre, quando ascolterete qualcuno il quale vi prometterà, con sicurezza spedita, la certa soluzione di un problema sociale, il quale vi offrirà lo specifico per le malattie sociali, il quale vi farà vedere, al di là di un periodo temporaneo di costrizioni necessarie per vincere il nemico, l’avvento del benessere e dell’abbondanza, il quale vi denuncerà un mostro da combattere (ad es. il capitalismo od il comunismo, od il fascismo od il reazionarismo, ecc. ecc.), allo scopo di far trionfare l’angelo e il paradiso terrestre (ad es. lo stesso comunismo od il socialismo od il corporativismo, ecc.), ricordatevi che colui il quale così vi parla e, nella ipotesi migliore, un illuso e più probabilmente un ciarlatano e diffidatene. Solo la via lunga, seminata di triboli è la buona; perché solo percorrendola, l’uomo impara a migliorare se stesso ed a rendersi degno della meta a cui vuol giungere. Se altro vantaggio, fuor della semplicità e della rapidità, non presentasse, il principio del minimo assicurato a mezzo di una pensione universale di stato dovrebbe essere perciò respinto.

 

 

Non pare d’altro canto argomento contrario e decisivo quello dell’enorme costo necessario all’attuazione del piano. È difficile istituire calcoli in proposito. Se noi partissimo per l’Inghilterra dall’ipotesi dei 16 scellini la settimana (ai prezzi del 1938 e cioè 20 ai prezzi del prossimo dopoguerra che è la cifra sopra più volte ricordata), la quale è a base del piano Beveridge, il costo di una pensione universale di stato di quell’importo (ossia di circa 42 lire sterline [1938] l’anno), moltiplicato per i 45 milioni di abitanti, corrisponderebbe ad un costo annuo di circa un miliardo e 900.000.000 di lire sterline. Che sarebbe un onere non piccolo, il quale, aggiungendosi alle altre spese statali e pubbliche, assorbirebbe una notevolissima parte delle lire sterline cinque miliardi e 200.000.000, calcolate (sempre ai prezzi del 1938) come misura di reddito nazionale totale annuo britannico del dopoguerra. Né appare, a primo tratto, meno grave l’onere di una pensione universale di stato in Italia uguale, in lire italiane ante-1914, a lire 300 all’anno a persona. Per i 45 milioni di italiani, l’onere risulterebbe di annui miliardi 13,5 in lire italiane ante-1914, a cui aggiungendosi, nelle stesse lire, 2,5 miliardi per le ordinarie spese pubbliche di allora, si otterrebbe una somma di circa 16 miliardi, i quali dovrebbero essere prelevati su un reddito nazionale annuo, calcolato prima del 1914 in circa 20 miliardi delle stesse lire.

 

 

Stando così le cose, il problema, almeno per l’Italia, apparirebbe senz’altro insolubile; poiché a meno di essere vittime di allucinazioni ottimistiche, nessuno può credere che nel nostro paese l’amministrazione finanziaria riesca a conoscere e ad accertare un reddito nazionale di 20 miliardi di lire, quando si sapesse che ciò dovesse servire a prelevare imposte per l’ammontare di 16 miliardi.

 

 

Non pare tuttavia che l’argomento dell’impossibilità e della assurdità utopistica sia decisivo. Per due ragioni. La prima si è che, se a 20 miliardi si calcolava il reddito nazionale italiano del 1914, nessuno può prevedere quale potrà essere, rimarginate che siano le distruzioni belliche – e potrebbero esserlo in pochissimi anni se gli italiani attendessero, anche attraverso a vivacissime discussioni, assiduamente al lavoro di ricostruzione del paese -, il reddito nazionale del dopoguerra. Se gli italiani sapranno trarre partito dai grandiosi progressi verificatisi nell’ultimo trentennio nella tecnica produttiva, quella cifra dei 20 miliardi del 1914 potrebbe diventare un mero ricordo di un passato lontano, di gran lunga superato dalla realtà.

 

 

La seconda ragione si è che quelle cifre di 20 miliardi di reddito nazionale e di 16 miliardi di oneri diventerebbero cifre prive di senso nell’ipotesi della pensione universale di stato. Gli uomini, invero, muniti di un minimo di capacità di acquisto farebbero una domanda di beni e di servigi diversa da quella che oggi fanno. Aumenterebbe la capacità di acquisto dei poveri e scemerebbe quella dei ricchi. Beni e servigi diversi sarebbero richiesti; diversa sarebbe la produzione, diversi i prezzi. E poiché i redditi singoli, e perciò anche la somma dei redditi singoli (cosidetto reddito nazionale totale), altro non sono se non la somma dei prezzi dei beni e dei servigi prodotti e venduti dai singoli individui, depurati dai relativi costi di produzione, così il reddito nazionale totale, probabilmente cresciuto nella massa fisica a causa del progresso tecnico, sarebbe ancor più diverso, da quello che è, quanto alla sua valutazione monetaria. Inutile perciò attardarsi intorno a calcoli finanziari ed economici, dei quali si ignora del tutto la consistenza. Giova meglio esporre i dati teorici del problema.

 

 

45. Gli argomenti favorevoli.

 

A favore della pensione universale di stato stanno i seguenti motivi:

 

 

  • 1) Essa darebbe ai giovani la possibilità di aspettare il momento migliore per entrare nella vita lavorativa. Oggi, il figlio del povero, del lavoratore, dell’impiegato semplice deve addirsi al lavoro, non appena trascorsa l’età fino al termine della quale le leggi del paese impongono la frequenza obbligatoria alla scuola elementare o vietano l’entrata in fabbrica. Sia vera la ragione della miseria addotta dai genitori, o sia un pretesto addotto da questi per preferire all’adempimento dei loro doveri verso i figli altre egoistiche soddisfazioni personali, il risultato è il medesimo: il giovane povero in questi casi entra nella vita privo di cultura generale e di tirocinio tecnico. Rimane per tutta la vita un lavoratore semplice, non qualificato, incapace ad ottenere il salario corrente che si dà ai lavoratori non qualificati; facile preda della disoccupazione, della malattia, del vizio.
  • 2) Se non a tutti, se non ai più tenaci ed intraprendenti e intelligenti, la necessità del lavoro quotidiano immediato vieta a molti di trarre partito dalle qualità creatrici inventive organizzatrici che essi possono avere in sé. Quante invenzioni, quanti progressi tecnici rimangono soffocati in germe dal grigiore della fabbrica quotidiana, che dopo qualche anno trasforma il giovane pieno di speranze in uomo maturo rassegnato e sfiduciato! Anche chi non voglia esagerare l’importanza dei germi così soffocati, deve riconoscere che un certo peso esiste in questa argomentazione.
  • 3) La necessità di offrire subito la propria forza di lavoro non solo impedisce che questa venga poi sul mercato migliorata in qualità e fornita perciò di una produttività più alta, ma vieta che la concorrenza si attui in pieno. Molti i quali, sicuri dal bisogno per sé e la famiglia, preferirebbero la vita indipendente, il rischio della professione libera, del mestiere artigiano, della gestione di un proprio negozio, della coltivazione di un campo, di un orto, di un frutteto, di una vigna prima presa a mezzadria, poi in fitto e poi acquistata, sono, dalla necessità di guadagnare subito per vivere, costretti a locarsi altrui, come impiegati, salariati, manovali. Concorrenza vuol dire scelta, opzione, possibilità non solo di offrirsi sul mercato, ma anche di ritirarsi dal mercato. Anche chi dalle proprie osservazioni sia tratto a credere che la maggioranza degli uomini viventi in città sia desiderosa di vita tranquilla, con stipendio e salario certi, e non ambisca le incertezze delle professioni e delle occupazioni indipendenti, deve riconoscere che tale non è l’inclinazione degli uomini viventi in campagna, abituati dalla nascita a considerare naturali le vicissitudini e le incertezze dei raccolti; e tale non è l’inclinazione della minoranza più energica ed attiva degli uomini anche cittadini, sempre insofferente dell’ubbidire altrui. La possibilità di uscire dal mercato, data dalla pensione di stato, muterebbe i dati del problema e probabilmente farebbe aumentare il livello delle remunerazioni, sovratutto mutando ed innalzando la produttività del lavoro di coloro che continuassero ad offrirsi.
  • 4) I datori di lavoro, per far pendere la bilancia della scelta a proprio favore, per scemare l’interesse al moltiplicarsi delle piccole imprese indipendenti, industriali, e sovratutto agricole, dovrebbero sforzarsi ad attrarre a sé gli uomini non solo con l’offerta di rimunerazioni migliori, ma anche di condizioni esterne del lavoro medesimo più simpatiche. Sarebbe interesse degli imprenditori di accompagnare al compenso pecuniario quello che spesso, agli occhi del lavoratore, vale assai di più, e cioè il premio per il lavoro ben fatto, consistente in lodi, in distinzioni, in miglioramento di carriera, in invito a partecipare alla gestione ed al perfezionamento di quel ramo di lavoro, del reparto, dell’officina. L’operaio fedele e capace, l’impiegato anziano, acquisterebbe una posizione morale nell’impresa, di valore non minore dalla posizione finanziaria.

 

 

46. Gli argomenti contrari.

 

Alle ragioni favorevoli ora esposte si contrappongono due sostanziali argomentazioni:

 

 

  • 1) Anche se per avventura si ritenga che la attribuzione del diritto ad una pensione vitalizia atta a garantire l’indispensabile all’esistenza sia economicamente pensabile; anche se si reputi possibile, affermato il principio, limitarlo, ad es., alla cifra di 300 lire italiane ante-1914 all’anno, ed abbiamo già veduto a quale salto nel buio si andrebbe incontro, salto che si è preferito sopra non analizzare, trovandoci di fronte all’inconoscibile, non si può chiudere gli occhi dinnanzi al rischio sociale gravissimo che la proposta contiene: quella dell’incitamento all’ozio.

 

 

La natura umana è siffattamente impervia all’allettativa del vivere, anche soltanto nel grado inferiore considerato ammissibile secondo il costume del paese, senza lavorare, da poter essere sicuri che una percentuale notevole degli uomini viventi non preferisca l’ozio al lavoro? Basterà l’impulso dato agli altri 80% per compensare il minor prodotto dovuto all’ozio di un 20%? E se la percentuale degli oziosi crescesse, il problema non diverrebbe insolubile? Quale la influenza cumulativa dell’esempio offerto dalla vita oziosa della minoranza sul contegno di una maggioranza inizialmente energica e laboriosa? Domande alle quali ciascuno di noi è chiamato a dare una risposta seria a seconda della sua esperienza degli uomini, delle sue osservazioni, del luogo in cui vive, della sua professione e di quella dei suoi colleghi. L’essenziale è di persuadersi che i problemi sociali sono complicati, che essi non presentano soluzioni facili e che in un paese libero la classe dirigente deve abituarsi a discutere con serietà di studi, di osservazioni e di ragionamenti, stando lontana, come dalla peste, dai faciloni e dai demagoghi.

 

 

  • 2) Principiis obsta. Se anche dapprima si abbia la forza di fissare la pensione di stato ad un livello che sia un mero punto di partenza, siamo noi sicuri di poterci fermare a tal punto? Se 300 lire ante-1914, sono, ad ipotesi, quel minimo, chi potrà fermare a quel punto la concorrenza nel promettere e nel dare? Sarà possibile rifiutare, dopo aver dato il panem, anche i circenses? Già in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove il piano Beveridge è stato largamente discusso ed acclamato, vi è chi osservò che i 40 scellini per la coppia ed i 24 per l’uomo singolo a settimana provvedono solo ai bisogni ragionevoli, conformi al tenor di vita usuale oggi nelle classi lavoratrici, per l’abitazione, gli alimenti, i vestiti, le cure mediche e le altre concorrenze usuali indispensabili della vita. Ma l’uomo non vive di solo pane. Occorrono anche svaghi e riposi, qualche settimana in montagna od al mare, la frequenza di qualche cinematografo, o teatro, ecc. Ad un questionario recente diramato dal settimanale svizzero «Die Nation» (Berna, 11 maggio 1944) alla domanda: «quando e quale pensione per ogni singola persona vecchia ritenete dovrà essere assicurata dalla Confederazione?» il 58,9% rispose che la vecchiaia pensionabile cominciava ai 60 anni e solo il 41,1% preferì i 65 anni; e, relativamente al quantum, nessuno si contentò dei 600 franchi all’anno, solo il 5,5% di coloro che manifestarono un’opinione si rassegnò ai 900 franchi all’anno; ma il 16,5% preferiva i 1.200 franchi, il 13,7% i 1.500; il 21,2% saliva ai 1.800 franchi, il 25,5% ai 2.400 franchi ed un 17,6% chiese i 3.000 franchi all’anno.

 

 

La concessione di un dono gratuito non produce di solito gratitudine e sforzo per meritare il dono, ma recriminazioni per l’insufficienza di esso. Come le scene più abbominevoli di contegno indecente fra persone ordinariamente bene educate si osservano nei grandi ricevimenti, nei quali è offerto elegante ed abbondante rinfresco; così è temibile la corsa al chiedere da parte degli elettori e al promettere di partiti politici aumenti alla miserabile spregevole cifra della pensione di stato. Dopo brevissimi anni si dimenticherà la premessa essenziale del sistema: che la misura della pensione debba essere fissata ad un livello che sia un punto di partenza, e si finirà per mutarla in guisa che essa sia per i più il punto di arrivo, crescendo a dismisura lo stimolo dell’ozio. Anche limitata ai vecchi, la richiesta fatta dal nucleo più grosso di coloro che risposero al questionario di «Die Nation» di una pensione individuale di 2.400 franchi all’anno, è siffatta da far allibire i finanzieri più spregiudicati, ed i sociologhi più ottimisti. Quanto più si dovrebbe allibire rispetto al principio della pensione universale! Roma non cadde sotto i colpi dei barbari. Era già caduta prima, guasta dalla corruzione interna la quale aveva trovata lapidaria espressione nelle immortali parole panem et circenses.

 

 

Capitolo III. Le associazioni (sindacati, leghe) operaie

 

47. Premessa.

 

Accanto ai piani di sicurezza sociale e di pensione universale che trovano il loro punto di partenza in un intervento dello stato a favore dei più, fa d’uopo studiare le iniziative e le lotte condotte per il proprio innalzamento dai lavoratori medesimi. Si vuole accennare a quelle che si chiamano trade-unions in Inghilterra, syndicats ouvriers in Francia, leghe operaie in Italia[11].

 

 

48. La corporazione medioevale.

 

Poiché, in tempi recenti, si fece riferimento, anche nel nome, alle corporazioni medioevali d’arti e mestieri, giova notare che esse attraversarono due fasi nettamente di stinte, la prima quella che va dal Duecento alla fine del Quattrocento (1200-1500 d. C.) e l’altra che si può dire propria dell’epoca degli stati moderni accentrati (secoli 17esimo e 18esimo).

 

 

Qualunque sia stata l’origine delle corporazioni medioevali d’arti e mestieri, si ricolleghino esse alle scuole od associazioni romane o siano il risultato della lenta trasformazione di spontanee associazioni religiose le quali accomunavano gli uomini addetti al medesimo lavoro a scopo di preghiera, di funerali, di festa in occasione della ricorrenza del santo patrono, di mutua assistenza nei casi di malattia, noi vediamo sorgere la corporazione nelle città medioevali italiane del 1200-1300 per libero atto di volontà degli artigiani. Non lo stato (comune o signoria o vescovo) crea la corporazione; ma questa sorge dal bisogno sentito dagli uomini esercenti il medesimo mestiere od arte di riunirsi allo scopo di difendere gli interessi comuni, di stabilire regole di condotta nei rapporti con i clienti, nella fissazione dei prezzi, nella tutela della onorabilità del gruppo per quanto riguarda la genuinità e la bontà della merce. Accadde talora che le associazioni fra maestri e lavoranti divenissero fattori importanti della vita del comune e persino costituissero il comune medesimo, quando la somma del potere nel comune fu attribuita in tutto od in parte ai capi della corporazione (consoli). Ed accadde anche che le norme che le corporazioni avevano date a se stesse ricevessero una specie di crisma od approvazione da parte del comune; ma ciò non vietava che la legge potesse essere mutata dai componenti il corpo medesimo, richiedendosi nuovo crisma di approvazione dal comune e magari anche da qualche autorità superiore. Ma ciò non faceva venir meno il carattere essenziale della corporazione medioevale: quella di essere una creazione spontanea, volontaria e mutabile degli interessati. Essa non era rivolta a mantener privilegi; ché l’entrata nel mestiere era aperta a chi ne aveva la capacità; ed ancora non avevano preso piede le norme rigide, in virtù delle quali solo chi aveva seguito un periodo più o meno lungo di tirocinio (apprendista) poteva diventare garzone o lavorante; e solo chi aveva compiuto il capolavoro, maestro. Non erano rari i casi di giovani, i quali avendo attitudini e mezzi, impiantavano subito bottega e diventavano maestri o soci di maestri; laddove altri faceva a meno del tirocinio e diventava subito lavorante. La lotta politica e la lotta sociale, che erano caratteristica dei comuni medioevali, improntavano di sé anche le associazioni degli artigiani. Artigiani, e non operai semplici, ché la distinzione fra datori di lavoro e lavoratori era assai meno marcata d’oggi ed agevolmente si passava dall’una all’altra condizione; e la vita dei lavoranti e dei maestri era spesso comune, tutti facendo parte della medesima famiglia.

 

 

49. La corporazione decadente dei secoli XVII e XVIII.

 

Il quadro muta, quando dalla vita libera del comune medioevale si passa, attraverso lenta variazione, alla vita regolata e cristallizzata delle grandi monarchie dei secoli 17esimo e 18esimo, e delle minori aggregazioni politiche formatesi accanto ai regni di Francia, Inghilterra, Spagna ed all’impero di nazione germanica. I governi, a scopo di polizia e di dominazione, cercano di regolare quelle che un tempo erano libere associazioni di mestiere. Queste volentieri consentono ad accettare i regolamenti regi, dai quali traggono una posizione di privilegio e di esclusivismo; ed i governi a loro volta consentono ai privilegi, perché ne ricavano «finanze», ossia pagamento di tasse, che nel complesso danno al pubblico erario, in quei tempi ancora in cerca di entrate sicure, ragguardevole vantaggio. La descrizione che può farsi del sistema cosidetto corporativo verso la meta del secolo 18esimo è la seguente:

 

 

  • a) Esiste un inquadramento degli addetti ai diversi lavori in altrettante corporazioni. Coloro che attendono alla confezione delle scarpe nuove sono iscritti nella corporazione dei calzolai, coloro che le riparano in quella dei ciabattini. Gli addetti ai grossi lavori dei tetti e dei soffitti delle case o fabbricano ruote di carri, sono carpentieri; quelli che fabbricano vetture per viaggiatori sono falegnami specialisti e gli altri che attendono ai mobili ordinari o fini sono falegnami o stipettai. Ma il calzolaio non può fare il ciabattino e viceversa; il carpentiere che fabbrica travature di tetto o ruote di carro non può attendere alla confezione del corpo della vettura e viceversa; il falegname ordinario non può fabbricare il mobile impiallicciato; lo stipettaio non può invadere il campo del falegname. Nascono contese fra ciabattini e calzolai, fra carpentieri e fabbricanti di vetture, fra falegnami e stipettai per la determinazione dei confini rispettivi dei campi di lavoro. Le entrate delle corporazioni sono in gran parte assorbite, oltreché dalle spese per le feste in onore del santo patrono, da quelle per i litigi interminabili contro le «usurpazioni» delle altre corporazioni. Nuovo motivo di dipendenza delle corporazioni dai tribunali («Consolati») ordinati dal principe a risolvere le questioni economiche; e di servitù al potere politico.
  • b) Esiste una gerarchia fra i componenti le corporazioni. Queste hanno ottenuto il privilegio di provvedere, esse sole e cioè i loro membri, ai beni ed ai servigi desiderati dal pubblico, adducendo il motivo che soltanto così poteva essere assicurata ai clienti una merce genuina o garantito un lavoro ben fatto. Per dare al pubblico cotale garanzia, era necessario di assicurarsi che gli addetti al mestiere fossero idonei. Quindi, un vero e proprio sistema scolastico di corsi di insegnamento e di esami, simile a quello che comunemente si suole indicare col nome di mandarinato cinese. Lo statuto degli apprendisti del 1562 della regina Elisabetta stabilisce che nessuno possa, nelle «città di mercato», ossia nelle città industriali quali allora esistevano, diventare garzone (operaio), se prima non ha compiuto sette anni di tirocinio. Solo dopo un periodo più o meno lungo di tirocinio, l’apprendista, non pagato o male pagato ed obbligato a servire presso un determinato padrone per tutto il tempo del tirocinio, diveniva garzone, operaio libero di sé e di muoversi da un padrone all’altro. Ma egli non può aprire bottega o laboratorio per conto proprio se non dopo un certo congruo numero di anni, che gli statuti delle corporazioni determinano. Per diventare padrone o maestro il garzone deve compiere il cosidetto capolavoro: un paio di scarpe, un mobile, un carro agricolo, una vettura di lusso ecc. Giudici sono i maestri già esercenti la medesima arte.
  • c) La corporazione adempie ad un servigio pubblico. Poiché gli statuti corporativi prescrivono che soltanto apprendisti, garzoni e maestri approvati possano mettere sul mercato beni e servigi ben fatti, occorre che il pubblico consenta agli esercenti l’arte i mezzi di vivere onestamente, secondo il grado rispettivo che essi hanno nella società.

 

 

Da un lato, perciò, la corporazione deve garantire al pubblico la bontà del lavoro. Il che fa con regolamenti minuziosi, i quali prescrivono le materie prime genuine che sole possono essere adoperate ed i metodi e procedimenti di lavoro da seguire per la perfezione del lavoro. D’altro canto, la corporazione esige che il pubblico paghi per il lavoro compiuto prezzi o compensi che siano dalla corporazione medesima, con l’approvazione del tribunale, del consolato o dell’autorità regia competente, considerati adeguati. Sono previste sanzioni per chi esiga prezzi eccessivi o troppo bassi o compia lavori i quali si allontanino, per la materia adoperata o per il procedimento usato, dalle regole corporative. Le sanzioni vanno fino alla confisca della merce ed alla esposizione di essa e anche del colpevole alla pubblica berlina sulla piazza del mercato.

 

 

  • d) La gerarchia diventa una aristocrazia di uguali. Né i prezzi potrebbero essere mantenuti, né i metodi approvati sarebbero seguiti, se qualcuno dei maestri si elevasse troppo sugli altri, se, assoldando egli molti apprendisti e garzoni, aumentasse assai la produzione e, per venderla, dovesse abbassare i prezzi o deteriorare, a parità di prezzo, la qualità della merce. Le corporazioni perciò tendono, a tutela dei garzoni e dei loro salari, a limitare l’entrata nel mestiere, ossia il numero degli apprendisti; ed a tutela dei maestri, il numero dei garzoni giudicati degni di vedere approvato il loro capolavoro o capo d’opera. Oggi i collegi dei professori, incaricati di esaminare gli studenti universitari o medi o primari non hanno alcun interesse personale ad approvare pochi o molti studenti. Ma nelle corporazioni privilegiate del ‘600 e ‘700 i maestri in carica avevano interesse, in qualità di esaminatori, a non approvare i capolavori che erano ad essi presentati, allo scopo di non crearsi nuovi concorrenti. Erano facilmente ammessi i figli od i generi dei maestri in carica; agli altri l’accesso al libero esercizio del mestiere era ostacolato da ritardi o rifiuti di accettazione del capolavoro e da forti tasse di ammissione.
  • e) L’aristocrazia di uguali si trasforma in un corpo chiuso quasi ereditario; alla porta dei quali una folla di paria attende invano di poter essere autorizzata a guadagnarsi il pane od a guadagnarlo in modo indipendente. Ebbe grande successo nel 1768 una favola francese Chinki: histoire cochinchinoise, nella quale, attribuendola, secondo il costume del tempo, a lontani paesi asiatici, l’autore, un abate Coyer, raccontava la storia di due contadini, fratello e sorella, giunti dalla campagna per guadagnarsi il pane nella città, i quali, respinti, un dopo l’altro, da tutti i capi d’arte, finiscono per cadere fatalmente nella delinquenza e nella malavita. L’opuscolo fu bruciato, per ordine dei parlamenti (corti giudiziarie), sulle pubbliche piazze di Francia per mano dell’esecutore delle alte opere di giustizia; ma fu ciononostante largamente letto e contribuì efficacemente alla abolizione venuta poi delle corporazioni.
  • f) Gerarchie ed aristocrazie, di operai e di maestri, tendono a credere ad un sofisma tra i più divulgati: che è quello della quantità fissa di lavoro da farsi o di merce da vendere. La domanda di servigi o di beni viene considerata come un fondo od una torta che si tratti di dividere fra gli interessati. Quanto più cresce il numero degli interessati, tanto più, rimanendo invariata la torta, scema il quoziente di lavoro da fare o il guadagno o salario da percepire per ognuno dei maestri o lavoranti. Di qui l’avversione verso qualunque novità o progresso tecnico o commerciale, che faccia temere un aumento nella produzione, una variazione nella qualità ed un aumento nell’offerta, a cui sembra necessariamente conseguire, col relativo ribasso nei prezzi, una diminuzione nei guadagni o salari. La corporazione diventa un organo conservatore, di vecchi metodi e di beni e servigi antiquati. Le iniziative spontanee, le invenzioni industriali, le nuove vie sono negate e debbono necessariamente trovare altro sfogo.

 

 

50. L’abolizione delle corporazioni e la affermazione della libertà del lavoro.

 

Lo sfogo fu trovato in due maniere tipicamente diverse. L’uno è il mezzo rivoluzionario, alla francese. Dopo un primo tentativo di abolizione compiuto dal ministro Turgot nel 1776 e presto sconfessato dal debole Luigi Sedicesimo, una legge Chapelier del 1791 le abolisce definitivamente al momento della rivoluzione e, andando innanzi nella reazione contro gli abusi della decadenza corporativistica, dichiara illecita qualunque specie di associazione operaia o padronale intesa a conseguire con l’abbandono del lavoro (sciopero) o con la chiusura delle fabbriche (serrata) una variazione nelle condizioni del lavoro, un aumento di prezzi o simili.

 

 

L’altro modo è quello, tipicamente inglese, dell’aggiramento pacifico. Poiché lo statuto degli apprendisti della regina Elisabetta imponeva vincoli corporativi alle «città di mercato», gli individui più intraprendenti, gli operai che sarebbero rimasti, come paria, alla porta dei laboratori industriali, fondarono botteghe, laboratori, imprese fuor del territorio di quelle città. Manchester, Birmingham, Leeds, ecc. sorsero in rasa campagna o da piccoli borghi e diventarono grandi e potenti, a scapito delle vecchie città privilegiate, come York. Queste rimasero, coi loro privilegi, attaccate alla teoria del quantum fisso di lavoro e di domanda ed intristirono a poco a poco. Le nuove città industriali prosperarono e giganteggiarono ed, in un clima di libertà, coi fatti dimostrarono che il ribasso dei prezzi, che le nuove merci o quelle fabbricate con metodi diversi da quelli antichi prescritti dagli statuti creano nuova domanda e nuovo lavoro. Alla fine del secolo 18esimo la trasformazione era avvenuta ed una legge del 1799 dichiarava anche in Inghilterra illecita ogni coalizione di operai o di padroni che avesse per iscopo di chiedere o rifiutare aumenti di salario o diminuzione di ore di lavoro.

 

 

51. La riaffermazione della libertà di associazione nel secolo XIX

 

La reazione contro i vincolismi corporativi era giunta così all’estremo opposto, sino a negare, al principio del secolo XIX, il diritto degli operai e dei datori di lavoro ad associarsi insieme per raggiungere risultati di interesse comune, ed a reputare reato punibile lo sciopero e la serrata. Ma presto si delinea la resistenza contro l’estremo che, per assicurare la libertà, nega una delle libertà fondamentali dell’uomo che è quella di associazione.

 

 

Prima l’Inghilterra, dove una legge del 1824, promossa da un antico operaio divenuto industriale, Francis Place, dichiara lecite le associazioni operaie. Leggi successive (conseguenti ad una celebre sentenza giudiziaria del 1867 la quale aveva dichiarato privi di validità giuridica i contratti collettivi di lavoro, perché stipulati in offesa alla libertà di contrattazione da parte degli individui) del 1871, del 1906, e del 1927 costruiscono il sistema giuridico, da cui le leghe operaie inglesi traggono vita. Riconosciuta non solo la liceità delle leghe, ma anche la loro capacità a possedere un patrimonio e a stare ed essere convenute in giudizio per quanto si riferisce alla gestione del patrimonio medesimo, le leghe non possono però essere chiamate in giudizio ed essere dichiarate responsabili finanziariamente per le conseguenze che una loro azione relativa a contese del lavoro abbia arrecato alla parte padronale od a terzi. Gli atti relativi a scioperi ed a serrate non possono, se compiuti per decisioni collettive di leghe o ad istigazioni dei capi di queste, condurre i partecipanti a conseguenze penali o finanziarie diverse da quelle che si verificherebbero se fossero compiuti da individui singoli per deliberazione individuale; e d’altro canto nessun atto compiuto da una persona singola in relazione ad una contesa del lavoro dà luogo ad azione solo perché esso abbia per iscopo di indurre altri ad abbandonare il lavoro, violare un contratto di impiego od altrimenti interferire con la normale utilizzazione del capitale e del lavoro altrui. La lega insomma può consigliare, aiutare, organizzare abbandoni del lavoro o scioperi; non perciò essa può essere convenuta in giudizio ed essere chiamata, con i propri fondi, a risarcir danni che dall’abbandono del lavoro derivino altrui. Solo atti di violenza fisica o morale legittimano chiamate in giudizio degli individui singoli che se ne sono resi colpevoli.

 

 

In Francia una legge imperiale del 24 maggio del 1864 abolisce le pene criminali contro gli accordi per sospendere il lavoro ed una legge Waldeck Rousseau del 1884, revocando la legge Chapelier del 1791, regola in modo liberale le associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro.

 

 

In Italia il nuovo codice penale del 1889 – facendosi eco di un celebre processo di Mantova, nel quale un giovane avvocato, divenuto poi noto professore e politico socialista, Enrico Ferri, s’era acquistata la prima fama ottenendo l’assoluzione di contadini accusati di avere, associandosi insieme, violato la legge, la quale proibiva le coalizioni a scopo di aumentare salari o variare le condizioni del lavoro – non parla più dei reati di sciopero, di serrata e di coalizione; e dichiara punibile esclusivamente il fatto di colui il quale, in occasione di sciopero o di serrata, commetta atti rivolti ad impedire, con la violenza fisica o morale, ad altri di lavorare o non lavorare a suo piacimento. La quale è la sola posizione giuridicamente corretta.

 

 

52. Le caratteristiche delle leghe operaie alla vigilia della grande guerra.

 

Sulla base della legislazione liberale ora accennata, il movimento associazionistico operaio e padronale si sviluppa nel secolo XIX in tutto il mondo di civiltà occidentale (Europa, al di qua della Russia, Stati Uniti d’America, Canadà, Australia, Nuova Zelanda, paesi latini centro e sud americani). Nella impossibilità di descriverne adeguatamente lo sviluppo, basti accennare alle caratteristiche principali, quali alla vigilia della prima grande guerra mondiale si erano andate precisando:

 

 

  • a) Le leghe operaie (dette con varietà di vocabolario, trade-unions in Inghilterra, syndicats in Francia, sindacati o leghe in Italia) potevano avere carattere politico confessionale. Siffatta caratteristica era minima in Inghilterra, dove la religiosità essendo generale e non avendo le diverse confessioni religiose proprie organizzazioni politiche, le leghe erano sorte al di fuori delle dispute religiose ed anche di quelle politiche. Le trade-unions rimasero e rimangono ancora ora al di fuori dei partiti politici. Il partito del lavoro sorse in parte dal loro seno, e la più parte dei trade-unionisti sono anche laburisti; ma tra i due movimenti non vi è connessione necessaria; né il partito laburista ha di fatto scopi di palingenesi sociale e si propone invece di conseguire risultati specifici legislativi di volta in volta favorevoli ai ceti operai.

 

 

Sul continente, le leghe operaie hanno invece sempre fin dall’origine, serbato legami stretti con i partiti politici. Dappertutto il grosso degli operai organizzati in leghe aderì al partito socialista. Venivano dopo le leghe cattoliche ed ultime vari tipi di leghe indipendenti o liberali e sovratutto (Francia e Italia) sindacaliste, che pare volesse significare un socialismo di tipo rivoluzionario, rivolto alla conquista ed alla gestione diretta della fabbrica.

 

 

Tra i due metodi si rivelò più saldo, e capace di conseguire risultati concreti progressivamente maggiori, quello britannico del non-confessionalismo, né religioso né politico. Ed è il solo che ancora oggi duri vigoroso.

 

 

  • b) Le leghe operaie appartengono al tipo dell’associazione libera. Non sono create dalla legge, né da questa regolate, se non per la forma esteriore, come Francia.
  • c) Le leghe operaie, derivando dalla volontà di associarsi di singoli individui, hanno grande varietà di forme, particolarmente nei paesi anglo-sassoni. Esistono ivi a lato a lato:

 

 

  • associazioni di mestiere, le quali accomunano operai appartenenti alla medesima arte o ramo di lavoro: macchinisti ferroviari, compositori tipografi a mano od a macchina (linotipisti), addetti alle macchine rotative, sarti da uomo, ecc.;
  • associazioni di industria, le quali comprendono insieme operai addetti alla medesima industria, come per esempio gli operai, uomini e donne, addetti alla filatura e alla tessitura della lana, dai semplici manovali, ai filatori, ai tessitori, agli stampatori, agli apprettatori, ecc. Non il lavoro compiuto, ma l’industria a cui si è addetti, è il criterio decisivo;
  • associazioni generali, le quali riuniscono insieme operai appartenenti ad industrie e lavori diversi.

 

 

Le prime (di mestiere) sono di solito le associazioni più antiche, più salde ed anche più esclusivistiche (per le condizioni di ammissione al mestiere); le ultime sono le più recenti, quelle che giungono a raggruppare sotto le proprie insegne più rapidamente un gran numero di lavoratori, ma anche sono soggette a defezioni altrettanto rapide in caso di insuccesso (tipico il Congress of Industrial Organization, il cosidetto C.I.O., contro l’antica differenziata American Federation of Labour, A.F.L.).

 

 

Contrariamente ai paesi anglo-sassoni, dove l’associazione di mestiere (craft) conserva grande importanza, sul continente il tipo dominante è dato dalle altre due forme: d’industria e generali; e queste talvolta si chiamavano camere del lavoro, sebbene questo nome più propriamente significasse luogo od edifici dove avevano sede materiale le varie associazioni. Ma il fatto di essere riunite in una sede dava alle associazioni di mestiere e di industria un carattere di generalità e di solidarietà con il resto del ceto operaio, che era estraneo alle più antiche leghe di mestiere.

 

 

  • d) La varietà di forme e la libertà di associazione escludevano, almeno in massima, i problemi di inquadramento. Gli operai e i datori di lavoro, non essendo obbligati ad iscriversi, potevano a loro piacimento scegliere la lega alla quale affidare la tutela dei propri interessi: se di mestiere o di industria o generale; e non era escluso che si affiliassero contemporaneamente a parecchie leghe. Ciò è vero ancora adesso, particolarmente nei paesi anglo – sassoni. Nei paesi continentali europei, forse anche per la forma di mente giuridica di taluni componenti il movimento, transfughi dalla borghesia (caratteristica quasi ignota invece nei paesi anglo – sassoni) affiorava già prima del 1914 la tendenza a volere estendere l’organizzazione operaia a tutti gli operai, chiamando i datori di lavoro a prelevare le quote di associazione con trattenuta sul foglio paga. Se il sistema fosse stato generalizzato, evidentemente si sarebbe imposto il problema dell’inquadramento, ossia della lega destinataria delle quote prelevate sul salario di tutti gli operai della fabbrica. Ma si era appena agli inizi ed alla pretesa i più resistevano ancora.
  • e) Le leghe, sorte dapprima dappertutto come associazioni locali, avevano presto veduto la necessità di federarsi con le leghe di località vicine; e via via di estendere la propria azione a circoscrizioni più vaste.

 

 

L’allargamento è connesso con la formazione delle associazioni di opposta parte padronale. Se una lega locale sorge a tutela degli operai tessili di un borgo biellese contro i datori di lavoro locali, essa può, con scioperi successivi nei singoli stabilimenti, durante i quali gli operai degli stabilimenti attivi sussidiano gli operai scioperanti dello stabilimento reso dallo sciopero inattivo, riuscire a battere ad uno ad uno gli industriali separati. Ma la manovra non riesce più, se gli industriali, svegliati dall’insuccesso, si riuniscono anch’essi in lega e rispondono, con la serrata di tutti gli stabilimenti, allo sciopero a spizzico. Gli operai replicano, federando la lega locale con le leghe locali del Biellese intiero; e ripetendo la manovra per singole località, facendo sussidiare gli operai a volta a volta scioperanti in un luogo dagli operai ancora attivi delle altre località della regione. Ma gli industriali replicano anch’essi federandosi in leghe provinciali. A poco a poco, al di sopra delle leghe locali, si costituiscono così da ambe le parti, federazioni provinciali, regionali, nazionali. E le federazioni nazionali delle diverse industrie si riuniscono in potenti Confederazioni, da un lato dei lavoratori e dall’altro dei datori di lavoro dell’industria.

 

 

  • f) A questo processo di allargamento corrisponde al tempo stesso un processo che si può chiamare di razionalizzazione delle contese del lavoro.

 

 

Quando le contese hanno contenuto locale, limitato ad una fabbrica di borgo o di città, ha gran peso l’elemento personale e sentimentale. Si sciopera per impulso di malcontento, per eccitamento provocato da un discorso eloquente di un propagandista politico. Il rischio è piccolo; si spera nella solidarietà e nei soccorsi degli amici, dei vicini, dei compagni rimasti al lavoro nelle fabbriche del luogo. Alla fine, se lo sciopero non riesce, alla peggio, saranno due o tre caporioni i quali pagheranno per tutti col licenziamento e con un viaggio verso un villaggio più ospitale.

 

 

Ma se la cerchia della contesa si allarga, lo sciopero non è più deliberato in un comizio improvvisato, ma è frutto meditato di deliberazioni e di rinvii, dal consiglio della lega locale a quello della federazione provinciale, e di qui alla federazione regionale ed a quella nazionale. Se occorre, si procede a referendum tra i soci. Bisogna che il caso sia davvero importante, perché interessi i soci di altri luoghi; occorre che le ragioni siano davvero solide e il momento davvero propizio per decidere i consigli della lega ad impegnare, a sostegno della domanda di una parte sola, le forze di tutti, ossia i fondi di riserva, alimentati con le quote volontarie dei soci, quote accumulate in anni di attesa. Non si rischiano alla leggera fondi, che possono servire per scopi più gravi, e che servono ogni giorno ad adempiere ai fini propri della lega, che non siano di resistenza: sussidi di viaggio ai disoccupati in cerca di lavoro in altre località, sussidi per malattie, disgrazie, casi particolari non contemplati dalle leggi assicurative in vigore; e, non dimentichiamolo, mantenimento del personale della lega.

 

 

Invero, non appena la lega ha cessato di essere un organo puramente locale, che il compagno più volenteroso fa vivere col lavoro di qualche ora strappata di sera o di domenica al riposo; ed è divenuta un organo provinciale o regionale o nazionale, è sorta la necessità di una burocrazia permanente. Una burocrazia non di impiegati nominati per concorso ed indifferenti allo scopo della lega; ma dei migliori compagni, tolti dalla designazione spontanea dei compagni al lavoro della miniera, della officina, del laboratorio, della terra e mandati a rappresentarli nel capoluogo, insieme ad altri migliori venuti da altre parti. Costoro sono talvolta, ma non necessariamente, i più eloquenti, spesso sono i più persuasivi, quelli che gli operai ritengono i migliori rispetto allo scopo della resistenza. I capi debbono pure avere modo di vivere; e ottengono uno stipendio a carico dei fondi della lega. Ma occorre perciò che i fondi ci siano e non siano dispersi in agitazioni futili, per intenti fuor del possibile pratico. Inconsapevolmente l’agitatore puro diventa prudente; sente che non basta l’entusiasmo per guidare i compagni alla vittoria nelle questioni di orario, di salario, di cottimi. L’entusiasmo può bastare all’agitatore politico per vincere una battaglia elettorale. Per spuntare una battaglia sui cottimi, occorre conoscere prezzi e costi, sapere valutare il rendimento e la velocità di una macchina; non rimanere a bocca aperta quando il segretario della parte padronale tira fuori disegni e calcoli quasi algebrici e formule con equazioni; non farsi mettere nel sacco a sentir parlare di corsi dei cambi e di dazi che impacciano la vendita all’estero. Tra periti bisogna farsi più che periti e essere più istruiti e più competenti degli avversari. Muta il tipo del capo; da agitatori importa diventare calcolatori; da garibaldini trasformarsi in generali curvi a disegnare mosse di eserciti su carte dello stato maggiore; artiglieri capaci di calcolare traiettorie per colpi che devono arrivare a segno a distanza. Anche dalla parte padronale si opera una analoga trasformazione; e gli industriali più intransigenti nella loro concezione del “dentro la mia fabbrica il padrone sono io” finiscono per adattarsi a riporre fiducia in negoziatori esperti, prudenti, accomodanti, ripugnanti a giocare alla leggera il tutto per il tutto.

 

 

Ecco aperta la via all’accomodamento, al compromesso, al contratto collettivo. Il diritto ad usare l’arma dello sciopero o della serrata, a ricorrere all’estrema ratio della prova di forza rimane sempre; ma vi si ricorre il meno che si può. Quanto più il campo della controversia diviene ampio, tanto più diventa necessario tener conto dell’opinione dei terzi, di coloro che dalla battaglia, dalla sospensione del lavoro rimarrebbero danneggiati, dei dipendenti delle industrie affini collegate, dei clienti, dei fornitori, dei bottegai. Se la contesa è nazionale, i terzi divengono moltitudini; e la loro opinione acquista peso grande nella decisione; e il peso può giungere al punto da imporre alle due parti, incapaci di venire da sole ad un compromesso, di adire all’arbitrato di un terzo imparziale, accettato da ambedue come perito e nel tempo stesso come giudice. Ma l’imposizione non è fatta dal comando della legge o dal pugno di un dittatore; è il frutto della convinzione intima, alla quale le due parti partecipano, della impossibilità di rimbalzare anche su moltitudini di innocenti estranei le conseguenze di una lotta a coltello combattuta fra contendenti accesi nella difesa di quel che ambedue ritengono il proprio buon diritto.

 

 

53. Differenze tra paese e paese.

 

La evoluzione sopra descritta aveva avuto la sua attuazione più precisa nell’Inghilterra antebellica, dove si era costituita una burocrazia trade-unionista, quella che oggi dà i migliori elementi anche al partito del lavoro, divenuto partito di governo; una burocrazia venuta dalla gamella, alla quale gli operai si mantengono fedeli, sinché il compagno scelto a capo adempie fedelmente al suo compito di difensore degli interessi morali e materiali dei mandanti; una burocrazia di organizzatori-periti, sicuri di non essere licenziati per capricci elettorali, ma di essere mantenuti a vita nel loro posto, sinché lavorano a vantaggio degli altri, perché i compagni hanno il senso del «diritto al posto» ed hanno scrupolo a rinviare al pozzo od al banco dell’officina od alla vanga chi per tanti anni, in loro difesa, si è dedicato al lavoro della lega.

 

 

Venivano a distanza, nell’attuazione di questo che può essere chiamato l’ideale trade-unionista:

 

 

  • gli Stati Uniti d’America, dove era ed è ancora grande l’instabilità sociale e dove l’uomo energico, con le stesse qualità con le quali si era saputo elevare a capo dei suoi compagni, poteva e può essere attratto a compiti economicamente più interessanti, di pioniere nella fondazione di nuove città o nella messa a coltura di nuove terre, di creatore di nuove imprese ecc. ecc.;
  • la Germania, dove per il genio del paese, per la commistione delle lotte del lavoro con le lotte politiche, lo stato maggiore operaio aveva largamente finito per trasformarsi in una burocrazia politica, preoccupata sovratutto di ottenere dallo stato leggi di tutela e di assicurazione e di vegliare alla osservanza di quelle leggi. Caduto, sotto i colpi del nazional-socialismo, lo stato della repubblica di Weimar, anche l’organizzazione leghista, burocratizzata fino all’eccesso, cadde;
  • la Francia, dove la costituzione frammentaria delle imprese – 8 milioni di imprenditori ed artigiani e coltivatori indipendenti contro 10 milioni di lavoratori indipendenti, industriali commerciali ed agricoli, alla vigilia della prima grande guerra – faceva e fa sperare a molti lavoratori di potersi «stabilire» per conto proprio e li fa perciò soci instabili delle leghe; e dove il contrasto politico fra socialisti rivoluzionari e marxisti e sindacalisti e comunisti e cattolici assorbiva e forse assorbe il meglio delle energie degli uomini che in Inghilterra sarebbero dei modesti laboriosi organizzatori di leghe rivolte ad ottenere risultati concreti immediati.

 

 

L’Italia, nonostante qualche superficiale rassomiglianza con l’instabilità politica francese, nonostante i contrasti verbali fra socialisti riformisti e sindacalisti e cattolici sociali, nonostante la grande importanza conservata dall’artigianato, dalla piccola impresa e dagli agricoltori indipendenti, aveva, nei grandi centri urbani ed industriali e nelle campagne della pianura padana toccato, col movimento delle leghe e con quello connesso delle cooperative di produzione, di consumo e sovratutto di lavoro, un grado di sviluppo, che, se non fosse stato turbato dalle intemperanze politiche del tempo disordinato del 1919-21 e dalla reazione successiva, lasciava bene sperare nella formazione di uno stato maggiore di organizzatori operai e padronali capace di risolvere le questioni del lavoro con soluzioni di compromesso non inferiori per duttilità e variabilità tecnica a quelle in uso nei più progrediti paesi anglo-sassoni.

 

 

54. L’ordinamento sindacale corporativo.

 

È noto quale sia il contenuto dell’ordinamento corporativo costituito in Italia dalla Carta del lavoro dell’aprile 1926 e dalle leggi successive al vario mobile ordinamento anteriore al 1922. Esso non aveva alcuna sostanziale affinità con l’ordinamento corporativo medioevale; e, se affinità c’era, riscontravasi con le corporazioni del ‘600 e del ‘700 ed era inconsapevolmente derivata dalla medesima origine spirituale: la monarchia burocratica accentrata dell’età moderna ed il totalitarismo dei moderni governi dittatoriali.

 

 

In apparenza, la Carta del lavoro consacrava il principio della libertà sindacale. Liberi i lavoratori ed i datori di lavoro di associarsi o non; liberi di costituire ed aderire alle associazioni da essi preferite. Ma se questa era la lettera della legge e giovò formalmente ad ottenere per i sindacati italiani del tempo fascistico l’ammissione ai consigli ed alle assemblee dell’Ufficio internazionale del lavoro di Ginevra, ammissione che era stata dapprima ad essi negata perché quei sindacati non erano ritenuti genuini rappresentanti degli operai, era di fatto vero:

 

 

  • che non era consentita ad altri che agli aderenti alla dottrina fascistica la costituzione e la iscrizione a sindacati operai e padronali. L’on. Rinaldo Rigola fu il solo a cui, per ragioni personali, fu consentito di mantenere in vita a Milano una «Associazione di studio dei problemi del lavoro» ed una rivistina «I problemi del lavoro»; associazione e rivista che si facevano perdonare la esistenza grazie ad ampie illustrazioni della politica e della giurisprudenza corporativa vigente in Italia. Ma poi anche quella associazione di semplice studio e quella rivista furono soppresse;
  • che non solo di fatto si poté costituire una sola associazione per ogni mestiere od industria; ma quella unica associazione per essere riconosciuta legalmente ed acquistare perciò la personalità giuridica doveva essere fascistica;
  • che la libertà di non associarsi era messa nel nulla dal fatto che i sindacati non ebbero origine da bisogni realmente sentiti da lavoratori e datori di lavoro; ma dopo di essersi sostituiti ai vecchi sindacati – i vecchi sindacati socialisti cattolici o sindacalisti si sciolsero presto – i nuovi si estesero gradualmente a tutto il territorio nazionale, non per creazione spontanea dal basso ma per propagginazione dall’alto, anche là dove nessun lavoratore o nessun datore di lavoro avesse prima espresso alcuna intenzione di riunirsi in associazione;
  • che i sindacati estesero la loro azione anche al difuori del loro campo proprio di azione, che sembra sia quello nel quale lavoratori e datori di lavoro debbono tra loro necessariamente discutere del contratto di lavoro. I sindacati corporativi italiani si estesero anche agli artigiani, per i quali la parte opposta è data dai clienti, ai professionisti ed agli esercenti arti liberali, per cui medesimamente non ha luogo la stipulazione di contratti di lavoro e per cui i sindacati fascisti presero il posto dei vecchi onorati ordini forense, medico ecc., che avevano compiti di disciplina morale e di tutela della dignità professionale.

 

 

In breve l’ordinamento sindacale corporativo comprese nelle sue fila tutta la popolazione lavoratrice e produttiva italiana e furono creati gli istituti:

 

 

  • a) della appartenenza obbligatoria di ogni italiano addetto a qualsiasi lavoro manuale ed intellettuale, indipendente o dipendente, ad un suo sindacato. La quale appartenenza dava luogo alla esazione di contributi obbligatori, esatti colle norme coattive delle imposte, e fluenti a vantaggio delle organizzazioni sindacali e quasi interamente nelle casse delle due grandi Confederazioni paritetiche (dei lavoratori e dei datori di lavoro) dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, dei trasporti, delle banche e delle assicurazioni, dell’artigianato, dei professionisti ed artisti, ecc. ecc. Trattavasi di grossi bilanci, talvolta di centinaia di milioni di lire, sottoposti al cosidetto controllo parlamentare ed alimentanti una numerosa burocrazia, cresciuta a lato della burocrazia ministeriale e, in ragione, dicevasi, della men sicura carriera, assai più largamente, almeno nei gradi superiori, remunerata;
  • b) della iscrizione cosidetta volontaria. Tutti erano appartenenti e chiamati a pagare forzosamente i contributi obbligatori. Solo coloro che presentavano domanda, se privi di squalifiche morali o politiche, erano iscritti; e dovevano pagare contributi aggiuntivi volontari. In realtà, poiché la iscrizione ai sindacati era talvolta legalmente e per lo più di fatto richiesta per essere ammessi ai lavori od impieghi od all’esercizio di prestazioni professionali, a poco a poco la più parte dei lavoratori, dei datori di lavoro e dei professionisti dovette iscriversi; cosicché il numero degli iscritti tendeva ad avvicinarsi al numero degli appartenenti;
  • c) dall’istituto dell’appartenenza derivò logicamente l’altro dell’inquadramento, in tutto simile a quello proprio delle corporazioni decadenti dell’età assolutistica. Poiché tutti debbono contribuire forzosamente, è necessario sapere a quale sindacato si appartenga e si possa essere ascritto. Rinascono le contese fra sindacato come un tempo le risse fra calzolai e ciabattini. I mezzadri sono lavoratori o datori di lavoro; e debbono pagare tributo alla Confederazione dei lavoratori dell’agricoltura od a quella degli agricoltori? Trattandosi di milioni di persone, il punto era interessante e fu deciso che la qualità di prestatori d’opera manuale prevalesse nei mezzadri su quella di associati nell’esercizio e nella direzione dell’impresa agraria. Ma ogni tanto contese sottili del genere insorgevano e dovevano essere mediate.

 

 

Come le altre controversie, anche questa era mediata in base a criteri politici. Avrebbe dovuto in verità esistere una mediazione giuridica. La legge aveva sancito il principio che solo il sindacato «riconosciuto» – gli altri liberi, che non si formarono mai, non avevano personalità giuridica – avesse la personalità ed insieme la rappresentanza giuridica di tutti gli appartenenti, fossero o non fossero iscritti ai sindacati. Le condizioni del lavoro non potevano essere regolate con convenzioni particolari, se non quando la stipulazione individuale sancisse condizioni migliori, per il lavoratore, di quelle portate dal contratto collettivo. I contratti collettivi potevano essere stipulati solo dalle organizzazioni sindacali; e quando fossero approvati dalle organizzazioni e pubblicati nelle forme disposte dalla legge, acquistavano forza obbligatoria per tutti gli appartenenti all’industria od al mestiere, arte o professione. Per le arti e professioni, non potendo darsi controversia sul lavoro, ma solo controversie coi clienti e questi non essendo inquadrabili – col tempo si sarebbe giunti anche a tanto! – trattavasi di formulare tariffe di prestazioni d’opera, che i clienti avrebbero dovuto obbligatoriamente accettare.

 

 

Se i sindacati, se le federazioni o confederazioni contrapposte non riuscivano a mettersi d’accordo, la controversia poteva essere deferita al tribunale del lavoro, che era una sezione della Corte d’appello, a cui aggiungevansi dal presidente della corte taluni periti scelti su una lista paritetica da lui stesso compilata ogni anno su presentazione delle rappresentanze sindacali. Ma, se furono frequenti i ricorsi alla magistratura del lavoro relativi a controversie individuali, derivanti cioè dalla interpretazione contrastante delle leggi vigenti e dei contratti collettivi in essere, furono rare le controversie su punti nuovi per dissidi sulla formulazione di un contratto collettivo nuovo. Le controversie morivano prima, perché le due parti finivano per mettersi d’accordo.

 

 

Non però per incontro di due volontà opposte, di consenso collettivo contrattuale, come nelle leghe propriamente dette, ma per imposizione dall’alto.

 

 

55. Come il sindacalismo corporativo fosse una branca della pubblica amministrazione.

 

Ciò accadeva sovratutto per l’indole peculiare di quelle cosidette rappresentanze sindacali. Un sindacato o lega operaia o padronale, dove esiste sul serio, ha come sua caratteristica essenziale di essere una formazione spontanea. Operai si riuniscono dapprima all’osteria, poi sulla piazza, poi nei locali di un edificio eretto a spese del ceto operaio e che un tempo, già si disse sopra, chiamavasi camera del lavoro; industriali si riuniscono prima al ristorante, poi al circolo, quindi nelle sale di una apposita associazione; e li per atto di spontanea fiducia, scelgono coloro che li guidano nei rapporti con l’altra parte. Scelta, non elezione a data fissa; e se le elezioni regolari si fanno, è pura forma. L’uomo o gli uomini scelti vengono dalle file degli operai e degli industriali medesimi e rimangono in carica finché fanno bene, finché serbano la fiducia dei compagni o dei colleghi; o finché la fiducia medesima non li promuova a cariche più alte, di segretari o di presidenti della federazione provinciale, poi regionale e poi nazionale. L’elezione è un mero mezzo di manifestare o confermare apertamente un mandato di fiducia, che deve persistere di fatto in ogni momento, se il sindacato o la lega deve vivere. Manchi la fiducia; il fiduciario non metta più passione, entusiasmo, lavoro, studio nel compito quotidiano, e la fiducia vien meno, i soci non pagano più le quote, la lega intristisce; alle prime avvisaglie di nuove controversie si disanima perché si sa che la partita è perduta. Un’altra lega, condotta da uomini più zelanti e entusiasti, ne prende il posto. Al luogo della lega di mestiere sottentra quella di industria o quella generale; il posto della lega socialista è preso da quella sindacalista o cattolica.

 

 

Nel sistema corporativo italiano era sancito bensì il principio che gli uomini insigniti di cariche sindacali dovevano essere eletti dagli iscritti; e i primi eletti avrebbero dovuto eleggere i segretari e presidenti provinciali e via via più su, sino alle cariche supreme delle confederazioni nazionali. Ma il principio era rimasto lettera morta. Se talvolta i soci erano convocati, era per udir la lettura di nomi che venivano approvati ad alzata di mano ad unanimità. Ma i nomi venivano dall’alto, con designazioni fatte d’autorità, dalle gerarchie, come dicevasi, superiori.

 

 

Ossia i sindacati non erano sindacati; ma pure branche della amministrazione governativa centrale; branche parallele e simili a quelle che si chiamavano ministeri, prefetture, questure, podesterie, ecc. ecc. Il ministro o, meglio, il capo del governo, sceglieva e nominava i presidenti delle confederazioni e i funzionari più grossi; e, discendendo per li rami, i funzionari più grossi sceglievano i minori, e questi gli inferiori. Il reclutamento non avveniva per scelta spontanea dal basso, tra gli operai stessi, tra gli industriali che riconoscevano la qualità di segretario o presidente, o meglio capo, in chi aveva saputo convincerli meglio, in chi ne aveva espresso più opportunamente la miglior volontà consapevole; in chi, per auto-designazione, li aveva condotti alla vittoria o anche alla onorata sconfitta. No. Il reclutamento del personale dei sindacati fascistici o corporativi avveniva come quello di qualunque pubblica amministrazione, talora per pubblico concorso, più spesso per amicizia, raccomandazioni, meriti acquistati nel partito e simili. Popolavano quegli uffici ed erano qualificati delegati e ispettori di zona, segretari, ispettori o direttori locali, giovani laureati in legge e scienze economiche, diplomati in agraria, ragionieri, cavalieri e commendatori, in luoghi dove ci si sarebbe aspettato di trovare uomini, se non in tuta o in blusa e dalle mani callose, almeno abituati a linguaggio diverso da quello solito burocratico. Dietro gli sportelli stavano le solite signorine, come in qualunque ufficio postale. Erano quei sindacati organi diretti dello stato totalitario, i quali registravano e cercavano di attuare la volontà del «capo», strumenti di governo, grazie a cui anche i ceti indipendenti del governo venivano a poco a poco ridotti a dipendenti. L’industriale, il commerciante, l’agricoltore, il professionista, l’operaio, l’artigiano, non negozia più in regime corporativo i prezzi dei prodotti, il compenso delle prestazioni, non organizza più l’impresa nel modo che a lui sembra più conveniente, ma – attraverso gli ammassi ai quali deve versare i suoi prodotti, i contingenti grazie ai quali ottiene combustibili e materie prime, i consorzi pubblici i quali assegnano i concimi chimici ed il petrolio per la trattrice e lo zolfo e il solfato di rame per le vigne, l’ufficio di collocamento sindacale, che gli invia operai a tale o tale salario, i sindacati che gli prescrivono le condizioni del lavoro e gli vietano di aumentare i salari anche a coloro che lo meritano con la minaccia di togliere a chi lavora il libretto di lavoro, il permesso di residenza, lo obbligano a lavorare come e dove egli non vorrebbe – cessa di essere una persona, la quale ha una volontà e la può, senza pericolo di morte di fame, far valere nelle forme legali e diventa un impiegato, un servo di chi è al potere.

 

 

Questa è l’essenza del cosidetto sistema corporativo: la trasformazione di una società varia e sciolta di industriali indipendenti, di agricoltori padroni delle loro terre, di commercianti liberi di rischiare, di lavoratori liberi di muoversi da un’impresa all’altra, di uomini dotati ciascuno di una più o meno grande capacità di resistenza alle pretese altrui, capaci di associarsi diversamente per la difesa dei propri interessi, capaci di contrattare, e di non contrattare, liberi di manifestare il proprio pensiero, in una società di impiegati, molti impiegati anche nel nome e moltissimi solo nel fatto; impiegato anche se non percepisce stipendio propriamente detto, perché dipendente da qualcuno che sta sopra e gli ordina come e quanto produrre, a che prezzo comperare e a quale vendere, quale salario riscuotere, e se egli non ubbidisce, pronuncierà l’interdizione dell’acqua e del fuoco, gli nega – risuscitando con altro nome l’antico istituto della servitù della gleba – il permesso di residenza ossia gli toglie l’assegno delle cose necessarie per lavorare e l’accesso al lavoro.

 

 

56. Quid della sola variante all’ordinamento sindacale corporativo ritenuta necessaria dai più dopo la caduta del regime?

 

Quando, dopo il 25 luglio 1943, cadde il regime alla cui preservazione era volto l’ordinamento sindacale corporativo, l’opinione se non unanime, dominante, fra gli uomini che nei diversi partiti politici, risorti in quel tempo, si occuparono del problema, fu che sovratutto dovesse essere mutata una caratteristica di quell’ordinamento ed ai più non cadde in mente dovesse mutarsene alcuna altra: l’ordinamento, parve concludessero i più, può sussistere purché esso non riceva l’indirizzo dall’alto, ma derivi la vita dal basso. Eleggano operai e datori di lavoro, artigiani e professionisti con votazione libera segreta i loro rappresentanti sindacali nei sindacati locali, e questi alla loro volta eleggano i rappresentanti delle federazioni e confederazioni superiori. Le elezioni siano fatte a sistema proporzionale, così che ogni tendenza politica o sociale abbia modo di farsi valere proporzionatamente alle sue forze. Il sistema che fino a ieri, grazie alle scelte dall’alto, fu strumento di dominazione, diverrà senz’altro, con le elezioni dal basso, organo di democrazia.

 

 

57. Si inizia lo studio degli effetti delle leghe.

 

Importa studiare il problema richiamandoci ai principi fondamentali. Trattasi in sostanza di esaminare quali siano gli effetti derivanti dall’azione delle leghe operaie e di quelle padronali. Le osservazioni che per semplicità di discorso si riferiscono alle leghe operaie, si intendono applicabili senz’altro, con le sole modificazioni dovute alla diversità dei soggetti, anche alle leghe dei datori di lavoro intese a contrattare con quelle operaie le condizioni di lavoro. Pur per semplicità di discorso, si discorrerà soltanto del salario e delle sue mutazioni, come se nell’ammontare del salario si riassumessero tutte le condizioni del lavoro; e in verità, anche le variazioni dell’orario, del suo frazionamento, dei riposi, e delle altre condizioni del lavoro: di carriera, di sicurezza nel posto, di igiene, di vacanze gratuite o rimunerate, di doppie paghe o gratificazioni, possono, con opportuni accorgimenti, risolversi quantitativamente in un po’ più o in un po’ meno di salario.

 

 

58. Il salario nell’ipotesi di concorrenza perfetta.

 

Se supponiamo inesistente la lega, ma supponiamo che lavoratori e datori di lavoro siano capaci a contrattare, siano molti da una parte e dall’altra, siano atti ad entrare o a uscire a piacimento, nel o dal mestiere, essendo in grado di attendere senza costo apprezzabile il momento nel quale, a loro giudizio, è conveniente contrattare, se noi supponiamo cioè che esistano, sul mercato del lavoro, le condizioni note di piena concorrenza, noi diciamo che: il salario sarà quello, dato il quale, la quantità domandata di unità di lavoro (ogni lavoratore equivalendo ad una o più unità di lavoro a seconda del genere del lavoro compiuto, della sua perizia acquisita, della sua intelligenza naturale, della realtà delle sue attitudini, e di qui innanzi parlandosi di lavoratori si intenderà quello corrispondente all’unità in base a cui tutti gli altri lavoratori sono valutabili a seconda del loro proprio coefficiente di produttività) sarà uguale alla quantità offerta;

 

 

  • e poiché gli imprenditori hanno interesse ad impiegare tutte quelle unità di lavoro il cui salario non ecceda il prezzo che può essere ricavato, dopo dedotte tutte le altre spese non relative al salario (materie prime, combustibile, spese generali, imposte, interessi correnti sul capitale impiegato, profitti normali di impresa a copertura dei rischi e della remunerazione del lavoro di direzione, ecc. ecc.) dalla vendita del prodotto ottenuto con l’applicazione di quella medesima unità di lavoro;
  • e poiché la applicazione delle successive unità di lavoro dà luogo a prodotti diversi; ma finché il prodotto, per ogni successiva unità di lavoro applicata, copre i costi, non cessa l’interesse dell’imprenditore all’applicazione e quindi alla domanda di ulteriori unità di lavoro;
  • e l’interesse vien meno solo quando l’applicazione di una successiva unità di lavoro dà luogo ad un prodotto di valore inferiore al costo del salario per l’imprenditore;
  • resta perciò dimostrato che l’ammontare del salario, in condizioni di equilibrio, supposta agente in pieno la concorrenza, è uguale al ricavo netto della vendita del prodotto dell’ultimo lavoratore impiegato, lavoratore che perciò dicesi marginale. Se 100.000 sono i lavoratori (unità di lavoro) esistenti, e il ricavo netto del prodotto del lavoro dei primi 80.000 lavoratori è, suppongasi, di 12 lire (1914) per ogni giornata di lavoro a testa, degli ulteriori 10.000 è di 10 lire e degli ultimi 10.000 è di 8 lire, 12 lire sarà il salario di equilibrio se occupati sono 80.000 lavoratori, 10 lire se gli occupati sono 90.000 ed 8 lire se gli occupati sono 100.000. L’esempio è grossolano ed ipotetico, ed ha per iscopo di far vedere che il numero degli occupati è in funzione dell’ammontare del salario e questo è uguale alla produttività marginale del lavoro. Ma l’imprenditore non può pagare al giorno a testa 12 lire ai primi 80.000 lavoratori occupati, 10 ai successivi 10.000 ed 8 agli ultimi 10.000 perché:

 

 

  • a) non si può distinguere fra lavoratore e lavoratore (tra unità di lavoro), perché per la legge cosidetta di indifferenza dei prezzi, una stessa unità di lavoro non può essere pagata 12 lire per l’uno, 10 per l’altro ed 8 per il terzo lavoratore. In regime di concorrenza crescerebbe talmente l’offerta sul mercato dove si pagano 12 lire e si restringerebbe quella dove si pagano 8, da ricondurre i valori alla uguaglianza;
  • b) né si può fare una media ponderata e pagare:

 

 

 

 

 

a testa, perché all’imprenditore non conviene pagare 11,40 lire al penultimo gruppo che rende solo 10 lire e così pure all’ultimo che frutta solo 8 lire;

  • c) e d’altro canto per la medesima legge di indifferenza, il prezzo di ogni unità di tutta la quantità di prodotto ottenuto, se è, ad es., di 24 lire finché la produzione è solo quella dei primi 80.000 lavoratori, scema a 20 se la produzione cresce in funzione degli aggiunti penultimi 10.000 e scende a 16 se la produzione ulteriormente cresce per l’aggiunta degli ultimi 10 mila sicché all’imprenditore, se 100.000 sono gli occupati, non resta, pagate le altre spese, alcun margine per pagare ad alcuno un salario superiore a 8 lire. Notisi che affermando che 12, 10, 8 lire sono i valori di equilibrio e di mercato se gli occupati sono 80.000 e rispettivamente 90.000 e 100.000 non si afferma nient’altro se non che quelli sono i valori di mercato e che essi sono uguali alla produttività marginale degli operai. Costoro hanno, nelle condizioni postulate, tutto ciò che ad essi può essere pagato. Evidentemente, ove le condizioni mutino e ad esempio:

 

 

–       gli operai siano diversi da quelli che sono e la loro produttività diventi rispettivamente 15, 12,50 e 10,

–       gli altri fattori della produzione siano diversi da quelli che sono; e, ad esempio, il saggio di interesse da pagarsi sul capitale sia del 3 invece che del 5%, e i rischi dell’imprenditore siano minori di quello che sono, e diverse siano la sua capacità di organizzazione dell’impresa, la produttività delle macchine adottate, i metodi di produzione e di vendita, anche i valori di mercato saranno diversi. Il che si esprime dicendo genericamente che i valori (reali e non solo monetari) aumentano in funzione del progresso tecnico ed economico, dell’avanzamento delle invenzioni e del perfezionamento dell’organizzazione dell’impresa.

 

 

59. Degli effetti della lega operaia ferma restando l’ipotesi della libera concorrenza.

 

Qui possiamo vedere quali sono gli effetti che la lega operaia consegue a vantaggio degli operai, rimanendo entro i limiti della ipotesi della piena concorrenza. L’ipotesi implica che la lega non intenda mutare i termini dell’offerta sul mercato delle unità di lavoro esistenti: 80.000, 90.000, 100.000. La lega non varia il salario dalle 12, 10 e 8 lire, che, per ipotesi, sono, date le tre diverse quantità offerte, i valori di mercato. Non potendo essa, per sua virtù, mutare la produttività marginale del lavoratore, la lega non può mutare i valori da quello che è il livello di equilibrio.

 

 

La lega può tuttavia rendere più facile, meno lungo il processo del contrattare, alla fine del quale si giunge, supponendo che il numero dei lavoratori sia di 100.000 e la produttività marginale dell’ultimo lavoratore impiegato sia di 8 lire al giorno, ad un salario di mercato di 8 lire. Il suo compito è quello di superamento degli attriti che in ogni mercato vietano di raggiungere subito, senza costi inutili, la posizione di equilibrio.

 

 

Gli operai non sanno che in un luogo o in un’industria la richiesta di unità di lavoro è viva e nell’altra langue? E la lega, la quale accentra informazioni, avverte gli operai e ne facilita lo spostamento dai luoghi dove il salario è, per l’abbondanza dei lavoratori, 6 a quella dove per la scarsità è 10 e provoca la parificazione ad 8. La lega fa ciò, dando informazioni e accordando sussidi di viaggio a coloro che altrimenti mancherebbero di mezzi per spostarsi.

 

 

Gli operai, data la scarsità delle informazioni individuali possedute, di solito limitate ad una piccola cerchia di territori e di conoscenze, ignorano la possibilità che alcune industrie nuove promettenti offrono. La lega, agendo come una centrale di informazioni, facilita, se non agli anziani, attaccati al loro mestiere, ai giovani l’avvio verso i mestieri a produttività alta e contribuisce a togliere sperequazioni, che qua produrrebbero eccessi e là deficienze di produzione e così imperfezioni nella provvista dei beni domandati sul mercato.

 

 

Gli operai, pressati dalle esigenze di vita della famiglia, sarebbero disposti ad accettare salari inferiori al corso, 8 lire di mercato? È vero che l’inferiorità non durerebbe, per la conseguente intensificazione della domanda di unità di lavoro da parte dell’imprenditore che a 7 lire farebbero domanda, ad essi conveniente, di altri 5.000 lavoratori, e poiché costoro non esistono, per ipotesi, il salario dei 100.000 esistenti finirebbe per aumentare al livello di equilibrio di 8 lire. Ma il superamento dell’attrito può avvenire solo dopo settimane o mesi o forse anni. La lega, consentendo ai lavoratori di attendere qualche tempo e di locare la propria forza di lavoro a ragion veduta, consente di superare più rapidamente cotali attriti.

 

 

60. Degli effetti della lega nell’ipotesi di monopolio unilaterale della sola lega dei datori di lavoro ovvero dei lavoratori.

 

Se soltanto questi fossero gli scopi e gli effetti delle leghe operaie, essi non esorbiterebbero dagli scopi e dagli effetti di un bene organizzato ufficio di collocamento, collegato con una salda società di mutuo soccorso. Il mondo di idee e di sentimenti in cui sorgono le leghe operaie e un altro. Nel linguaggio proprio del ceto operaio quelle idee e quei sentimenti si riassumono nelle parole resistenza e conquista. Gli operai sentono di essere vittime di un sopruso, di una ingiustizia e reagiscono ed a loro volta intendono conquistare mete più alte. Se noi vogliamo spogliare le parole usate dal loro involucro sentimentale e ridurre quelle idee e quei sentimenti al loro contenuto puro economico, noi ci troviamo di fronte ad un caso tipico di applicazione della teoria del prezzo di monopolio. Gli operai sono persuasi che gli imprenditori, riuniti in lega, operanti come una persona sola tendano a ridurre i salari al minimo, al livello della pura sussistenza materiale, all’indispensabile per consentire la continuazione della specie e massimamente di un’abbondante fornitura di mano d’opera.

 

 

Astrazione fatta dall’intenzione e dai desideri, che nelle cose economiche non contano, noi diremo che il monopolista imprenditore (o la lega degli imprenditori) tende sul mercato del lavoro a domandare quella quantità di unità di lavoro ovvero a pagare quel salario (le due determinazioni sono alternative ed equivalenti), dato il quale diventa massimo il suo guadagno netto. Se cioè l’esperienza prova che il massimo guadagno netto si ottiene mettendo sul mercato quella quantità di merce la quale corrisponde ad una occupazione di 80.000 lavoratori, questa e non altra sarà la quantità di unità di lavoro domandata dall’imprenditore se monopolista. Ed in tale situazione non monta che la produttività marginale dell’ultimo degli 80.000 lavoratori occupati sia di 8 lire; il monopolista imprenditore o la lega padronale monopolistica pagherà quel salario di 7 o anche 6 lire, a cui la minaccia di un’armata di 20.000 disoccupati, i quali si offrono in concorrenza sul mercato, potrà costringere gli 80.000 occupati ad adattarsi, volenti o nolenti. Il monopolista non potrà offrire meno di 6 lire, per non degradare troppo la capacità produttiva del lavoratore e subire perciò un danno maggiore del vantaggio della diminuzione del salario; e 6 lire sarà il salario pagato nell’ipotesi fatta.

 

 

Supponiamo ora che non l’imprenditore o la lega degli imprenditori sia il monopolista, ma sia invece monopolista la lega dei lavoratori. Avremo in tal caso un monopolista, lega operaia, la quale contratta, per conto di tutti gli operai disponibili, con molti imprenditori fra loro concorrenti. La lega naturalmente, se non incontra alcun freno alla sua azione e se intende unicamente alla consecuzione del massimo vantaggio dei suoi soci, tenderà a determinare il saggio del salario ovvero il numero dei soci, la cui forza di lavoro sarà da essa offerta sul mercato, a quel livello che renda massimo il guadagno netto della lega medesima. Quando ciò si verificherà? Evidentemente, quando sia un massimo la somma dei salari individuali lucrati dai singoli lavoratori occupati, depurata dalla somma dei sussidi che la lega medesima dovrà pagare al residuo dei soci lavoratori rimasti disoccupati in conseguenza della sua politica dei salari. Se noi supponiamo, ampliando alquanto l’esempio sopra fatto:

 

 

  • che il numero totale dei lavoratori esistenti e tutti soci della lega sia di 100.000;
  • che i salari considerati e sperimentati dalla lega siano 8, 10, 12, 15 e 18 lire, al giorno;
  • che a questi salari il numero dei lavoratori domandati ed occupati dagli imprenditori sia rispettivamente di 100.000, 90.000, 80.000, 70.000 e 60.000, risultando correlativamente in 0, 10.000, 20.000, 30.000 e 40.000 il numero degli operai soci disoccupati;
  • che la lega abbia conseguentemente veduto la necessità di prelevare sul salario degli operai occupati un sussidio sufficiente a mantenere i soci disoccupati abbastanza soddisfatti sì da indurli a contentarsi del sussidio medesimo e ad astenersi dal recare sul mercato la propria forza di lavoro;
  • che il sussidio medesimo sia stato fissato dalla lega in 6 lire al giorno quando il salario degli occupati era fissato a 10 lire, in 7 contro un salario di 12 lire, in 9 contro un salario di 15 ed in 9,25 contro un salario di 16 lire, sussidio crescente col crescere del salario per non accentuar troppo la differenza fra il sussidio di disoccupazione ed il salario spettante al lavoratore;

 

 

il calcolo di convenienza della lega sarà il seguente:

 

 

Salario quotidiano del lavoratore

Numero dei lavoratori occupati

Salario complessivo dei lavoratori occupati

Numero dei lavoratori disoccupati

Sussidio individuale al disoccupato

Sussidio complessivo

Residuo netto a favore dei lavoratori occupati

Salario netto individuale quotidiano dei lavoratori occupati

in lire

in lire

in lire

 

in lire

in lire

in lire

in lire

1

2

1×2=3

4

5

4×5=6

3-6=7

7:2=8

8

100.000

800.000

800.000

8

10

90.000

900.000

10.000

6

60.000

840.000

9,33

12

80.000

960.000

20.000

7

140.000

820.000

10,25

15

70.000

1.050.000

30.000

9

270.000

780.000

11,14

16

60.000

960.000

40.000

9,25

370.000

590.000

9,83

 

 

Il calcolo è puramente esemplificativo, e suppone una compattezza così assoluta nella lega che ben raramente, salvo in talune leghe antiche di mestiere, con rigidissime norme di reclutamento, si può verificare. Ma qui si vuole soltanto studiare un estremo caso teorico. È chiaro che alla lega conviene mantenere 30.000 operai disoccupati, pagare ad essi un sussidio di 9 lire al giorno, pur di riuscire ad imporre un salario quotidiano di 15 lire, che, depurato da una trattenuta di 9 lire da versare al fondo disoccupati, dà luogo ad un salario netto di 11,14 lire al giorno. Alla lega non conviene chiedere 16 lire, perché il numero dei disoccupati salirebbe a 40.000, il fondo di sussidio riuscirebbe troppo gravoso ed il salario netto dei lavoratori occupati risulterebbe di sole 9,83 lire, anziché del massimo possibile di 11,14 lire.

 

 

Ecco dunque quali sono le due soluzioni nell’ipotesi dell’esistenza del monopolio unilaterale, da parte o dei datori di lavoro o dei lavoratori. Se esiste il solo monopolio dei datori di lavoro, il salario è di 6 lire al giorno per ognuno degli 80.000 lavoratori occupati ed esiste un’armata di 20.000 disoccupati rigettati a carico della pubblica carità. Se esiste il solo monopolio dei lavoratori il salario e di 15 lire al giorno per ognuno dei 70.000 lavoratori occupati, i quali prelevando 3,86 lire sul proprio salario e riducendolo così ad 11,14 lire nette, mantengono con un sussidio individuale di 9 lire i 30.000 operai disoccupati.

 

 

Ambe le soluzioni comportano conseguenze, che di solito si usa giudicare dannose. Il giudizio è solo in parte economico ed è sovratutto politico e morale. Economicamente, in ambi i casi si ha una diminuzione di produzione, dovuta all’ozio forzato di 20.000 ovvero 30.000 lavoratori, probabilmente connesso con l’ozio di altri fattori produttivi (macchine, terreni, ecc.) e con quello di altri lavoratori (intellettuali o manuali, dirigenti e esecutivi) che in caso di occupazione completa in quell’industria sarebbero stati occupati in altre industrie. Moralmente e politicamente, si hanno masse di lavoratori disoccupati che la pubblica carità o la solidarietà dei compagni deve mantenere a carico di un fondo di beni scemato in confronto a quello che sarebbe stato in condizioni di concorrenza.

 

 

Le due leghe, ragionando amendue per un campo ristretto, non si preoccupano delle ripercussioni che la loro condotta esercita sul mercato in generale, modificando offerta e domanda di merce, prezzi, costo della vita. Esse pensano che il loro interesse in queste modificazioni è infinitesimo ed il danno che eventualmente i loro soci subiscono per siffatte ripercussioni è così piccolo da non meritare di essere considerato.

 

 

61. Degli effetti della lega nell’ipotesi di monopolio bilaterale

(coesistenza di leghe monopolistiche, padronali ed operaie).

 

Quid se il monopolio esiste da ambo le parti? Se si erigono, l’una contro l’altra, due leghe monopolistiche, l’una dei datori di lavoro e l’altra dei lavoratori? È chiaro che il salario sarà fissato ad un prezzo che si trova situato fra i due estremi, l’uno delle 6 lire di massima convenienza per il monopolio leghista padronale e l’altro delle 15 lire di massima concorrenza per il monopolio leghista operaio. A qual punto esso si fisserà, è determinato dalla considerazione delle rispettive forze dei due enti monopolistici che si fronteggiano. Possiamo elencare alcuni elementi di forza nel modo seguente:

 

 

  • L’approssimazione maggiore o minore delle due leghe alla situazione di monopolio perfetto. Esistono dei selvaggi, detti black legs (gambe nere) nei paesi anglosassoni e crumiri in Italia, che minano la compattezza della lega? La lega padronale è riuscita ad instaurare un monopolio perfetto, o vi è pericolo che essa sia battuta in breccia da nuovi concorrenti, i quali siano disposti ad utilizzare l’armata di riserva dei disoccupati? Le dimensioni dell’impresa, le difficoltà di trovare disponibili i fattori produttivi necessari nei luoghi convenienti (terreni, caduta di acque ecc.), sono tali da sconsigliare ai nuovi venuti di accingersi al tentativo di scrollare il monopolio della lega padronale? Gli ostacoli posti dalla lega operaia al tirocinio degli apprendisti sono così forti da rendere vana la speranza degli imprenditori di trovare, fuori dalla lega, nuove reclute al lavoro? La solidarietà fra gli operai è così salda, da non rendere pensabili offerte al ribasso di disoccupati stanchi dell’elemosina ricevuta e dell’ozio forzato a cui sono condannati? A seconda della risposta di fatto data nei singoli casi ai quesiti, il salario si avvicinerà più all’uno che all’altro dei due opposti livelli monopolistici.
  • Le dimensioni rispettive delle riserve accumulate dalle due leghe monopolistiche contrapposte. Chi ha più filo fa più tela; quella delle due leghe la quale possiede, nelle sue riserve, il mezzo di far durare più a lungo i suoi soci nella lotta, quella riesce a definire la controversia nel senso a sé più favorevole.
  • La grandezza rispettiva delle perdite previste da ognuna delle due parti in caso di sospensione del lavoro. La lega operaia istituisce un bilancio dei profitti e delle perdite di quella che può essere chiamata la impresa dello sciopero: all’attivo del bilancio sarà iscritto il valore attuale dell’eccesso di salario oltre il livello attuale o dell’apprezzamento delle altre migliorie nelle condizioni del lavoro che si presumono conseguenti alla vittoria. Al passivo si iscriverà il valore attuale delle perdite subite dagli operai per i salari non ricevuti durante l’abbandono del lavoro e la diminuzione nelle riserve della lega. A seconda che il saldo sarà passivo od attivo e, se attivo, più o meno grande, la lega spingerà più o meno verso il massimo a sé favorevole le proprie richieste. Dal canto suo la lega padronale istituirà un calcolo analogo: all’attivo il valore attuale della diminuzione di salario o del peggioramento, per gli operai, delle condizioni di lavoro o del successo conseguito nella resistenza alle domande operaie, al passivo le perdite per commesse non eseguite, per multe o penalità da pagare in caso di non esecuzione tempestiva dei contratti, per spese generali di interessi, provvigioni e sconti bancari sui debiti, riparazioni e manutenzioni di impianti, custodia, imposte, ecc. ecc. che sono normalmente coperte dalla produzione e vanno egualmente sopportate in caso di sciopero o di serrata.
  • La valutazione subbiettiva data dalle due parti al saldo monetario così conseguito, quale interpretata dai dirigenti delle due leghe e quale modificata da un’interpretazione nella quale ognuno dei dirigenti fa, consapevolmente o no, entrare anche la valutazione subbiettiva dei vantaggi o danni personalmente subiti dai medesimi dirigenti. Il dirigente, invero, è tratto a tener conto, nell’apprezzamento dei risultati della lotta, degli effetti che, ad esempio, deriveranno da una diminuzione delle riserve e dalla difficoltà della sua ricostituzione in caso di sconfitta rispetto alla persistenza od alle dimensioni della remunerazione assegnatagli per la sua opera di dirigenza. Il capo-lega e, sovratutto, il segretario di una salda e vecchia federazione, ha l’occhio sempre rivolto alle possibilità del compromesso, il quale serbi intatte le riserve della lega per l’adempimento dei suoi obblighi di istituto, come amministrazione, mutuo soccorso, aiuto di disoccupazione e di viaggio agli operai.
  • La misura nella quale ognuna delle due parti contraenti prevede le mosse dell’altra parte.

 

 

In un mercato di concorrenza, dove contrattano molti operai e molti imprenditori, non si può tener conto nel contrattare, se non nel complesso generico, delle singole mosse altrui, essendo queste troppo numerose. Ma nella contrattazione a due, ognuna delle due parti, come nel gioco degli scacchi, decide le proprie mosse a seconda della previsione che può fare delle successive mosse della parte avversa, mosse che si devono supporre le più razionali possibili in correlazione alle nostre medesime. Non è detto che nella gara, le migliori previsioni siano fatte sempre dalla medesima parte; ché la prevalenza spetterà al dirigente più abile o perito, a qualunque parte appartenga.

 

 

  • La misura nella quale ognuna delle parti riuscirà a conquistare il favore dei terzi (opinione pubblica). Se si tratta di piccole contese relative a poche decine o centinaia di operai, il favore dei terzi poco conta. A mano a mano però che il numero degli operai e degli imprenditori interessati nella disputa cresce, cresce il numero delle persone che per ripercussione sono colpite dalle conseguenze di esse: appartenenti ad industrie fornitrici o clienti connesse, che si vedono mancare i clienti od i fornitori e debbono sospendere o limitare il lavoro, bottegai che perdono i clienti paganti e debbono porsi il quesito se convenga far credito ai disoccupati, municipi che debbono provvedere a soccorrere le famiglie degli scioperanti. L’opinione di costoro manifestata cogli atti e attraverso ai giornali ha una influenza economica e morale non piccola, e può determinare la vittoria di una delle parti a seconda del giudizio dato sul fondamento economico e sociale delle sue pretese o della sua resistenza.

 

 

Ha grande peso il fattore «sussidi pubblici agli operai disoccupati». Abbenché i sussidi di disoccupazione non riguardino in alcun caso gli operai disoccupati volontariamente e tali sono gli scioperanti, abbiamo già veduto (vedi cap. secondo, paragrafo 43) come il livello del salario abbia influenza sul quantum degli operai occupati, e come la lega operaia monopolistica unilaterale debba aver riguardo, nella determinazione del salario di massima convenienza all’ammontare del salario netto dall’onere della quota di sussidio a favore degli operai disoccupati; e poiché la quota di sussidio cresce, per il crescere del numero dei disoccupati, con l’aumentare del salario, così è possibile determinare il punto al di là del quale non conviene spingere il salario. Ma se invece il sussidio può essere fatto gravare, come accade ove esistono casse pubbliche di assicurazione contro la disoccupazione, sugli imprenditori e sovratutto sullo stato (contribuenti), e poiché in questo caso la disoccupazione non appare come volontaria, non derivando da sciopero (sebbene in realtà sia dovuta ad una consaputa politica dei salari deliberata dalla lega) e deve perciò legalmente dare luogo al pagamento del sussidio, la detrazione dal salario, della quale la lega deve tenere conto, è ridotta a quella minor parte del sussidio statale la quale grava sugli operai, ed è quindi fornita una spinta alla lega a spingere più in su le sue pretese.

 

 

62. Interessi comuni e interessi contrastanti delle leghe padronali ed operaie monopolistiche.

 

Ove si tenga conto dei fattori ora esaminati, le due leghe monopolistiche contrapposte hanno alcuni scopi comuni:

 

 

  • di mettere a carico di terzi (stato, ossia contribuenti) la massima parte dell’onere del mantenimento dei disoccupati, così da non dover esse più preoccuparsi, se non nella minor possibile misura, di questo fattore di diminuzione dei rispettivi redditi netti;
  • di ridurre la quantità delle unità di beni e servizi prodotti e messi sul mercato a quella che, moltiplicata per il prezzo relativo e dedotte tutte le altre spese gravanti sulla produzione ridotta al livello di massima convenienza, dà luogo ad un massimo di prodotto netto, intendendosi per prodotto netto la somma dei salari spettanti agli operai e dei profitti conseguiti dagli imprenditori.

 

 

L’accordo per la consecuzione dello scopo comune e, da ognuna delle due parti contraenti, subordinato alla condizione che la divisione del massimo di prodotto netto fra le due parti avvenga in modo che:

 

 

  • il salario dell’operaio sia superiore a quello che egli otterrebbe in condizioni di concorrenza;
  • il profitto dell’imprenditore sia medesimamente superiore a quello di concorrenza. Se così non fosse, ne la lega operaia avrebbe interesse a scemare la offerta di mano d’opera al disotto della totalità, né a quella imprenditrice converrebbe restringere l’utilizzazione dei fattori produttivi al disotto della utilizzazione totale. La situazione delle forze rispettive dirà a qual punto il salario sarà determinato, fra il minimo di miglior convenienza per la lega imprenditrice ed il massimo meglio conveniente per la lega operaia. Ma si può affermare che, sia che il livello del salario sia il massimo netto conveniente agli operai ed il minimo conveniente agli imprenditori, ovvero si fissi al contrario al massimo di convenienza per gli imprenditori e minimo per gli operai ovvero ancora tenga un luogo intermedio fra i due, i seguenti effetti sono acquisiti, diversi da quelli esaminati nel caso della lega la quale rispetti le regole di concorrenza;
  • nasce un esercito di disoccupati, il quale tende ad andare a carico del fondo delle imposte;
  • la quantità dei beni e dei servizi posti a disposizione dei consumatori scema;
  • alcuni consumatori, dal rialzo dei prezzi, sono costretti a rinunciare al consumo; ed i consumatori residui a consumare quantità minori;
  • la struttura dell’industria varia, riducendosi le sue dimensioni e variando così la quantità di fattori produttivi domandati e la massa dell’occupazione esistente nei rami industriali connessi;
  • varia la distribuzione delle ricchezze, crescendo da un lato la quota del flusso produttivo che va a vantaggio dei monopolisti, operai ed imprenditori, e crescendo il numero degli esclusi dalla distribuzione primaria del reddito totale sociale e costretti a contentarsi della distribuzione secondaria (elemosine e sussidi statali ad operai disoccupati e ad imprese decadenti) e di quella pubblica (lavori pubblici di fortuna, mantenimento artificiale di soldati sotto le armi per scemare l’eccesso della disoccupazione e per ovviare ai disordini sociali conseguenti all’ozio);
  • si accentuano da un lato i fattori di irrigidimento e di imprevedibilità delle azioni economiche, e dall’altro lato le caratteristiche di instabilità sociale e politica, le quali provocano sempre nuovi interventi dello stato; e questi crescono ulteriormente l’irrigidimento dell’organismo sociale e la sua incapacità a muoversi ed a mutarsi in funzione delle esigenze della mutata tecnica, dell’accresciuta capacità ad usare la ragione in conformità alle nuove esigenze tecniche ed economiche.

 

 

63. La norma comune del contratto collettivo ed i suoi effetti.

 

Un giudizio un po’ meno incompiuto degli effetti delle leghe operaie male potrebbe essere tuttavia dato se non si cercasse di rendersi conto del contenuto dell’istituto che alle leghe operaie è considerato come il frutto migliore della loro secolare opera e cioè «il contratto collettivo».

 

 

Noi possiamo, dal punto di vista economico, definire «collettivo» il contratto stipulato fra la lega degli operai e quella degli imprenditori per la determinazione della «norma comune» delle condizioni di lavoro (salario, orario, intervallo di riposo quotidiano, vacanze settimanali ed annuali, gratuite o pagate, conservazione del posto in caso di malattie, infortuni, invalidità, basi del cottimo, ecc. ecc.). Caratteristica essenziale del contratto collettivo è «la norma comune». Se noi riassumiamo «nell’ammontare del salario» tutte le varie condizioni del contratto di lavoro, è norma comune quella in virtù della quale l’ammontare del salario è fissato per tutti gli appartenenti alla lega in modo che nessun operaio possa ricevere e nessun imprenditore possa pagare meno del salario base. Il salario può essere a giornata ed allora si dirà che la norma è ad esempio 10 lire al giorno, od a cottimo, ed in tal caso si dirà che la norma è, ad esempio, x lire per ogni 1.000 colpi di spola per il tessitore in lana.

 

 

Effetto della norma comune sarebbe che non essendo consentito un salario inferiore a 10 lire al giorno, sono eliminati dal mercato del lavoro quei lavoratori la cui produttività netta è inferiore a 10 lire al giorno, sicché gli operai, per poter essere occupati debbono spingere la propria produttività, con tirocinio più perfezionato, con maggior diligenza o attenzione, sino a quel minimo. D’altro canto, possono rimanere sul mercato solo quegli imprenditori, i quali sappiano organizzare l’impresa e utilizzare i fattori produttivi in modo che il lavoratore meno produttivo lucri almeno 10 lire al giorno. Restano automaticamente eliminati dal mercato, grazie alla sanzione automatica del fallimento, quegli imprenditori i quali, pagando 10 lire, perdono, a causa dei maggiori costi derivanti dalla loro minore capacità in relazione al prezzo del mercato, che è uguale per tutti. La norma comune del contratto collettivo è causa di eliminazione degli operai e degli imprenditori inferiori e dell’innalzamento forzato di tutti coloro che possiedono attitudini latenti atte a giungere sino al minimo imposto dalla norma comune.

 

 

Il giudizio, implicitamente favorevole, che così viene dato del contratto collettivo, incontra taluni limiti i quali si possono così esporre:

 

 

  • è interesse collettivo che vengano eliminati dal mercato del lavoro tutti quei lavoratori, i quali per causa del sesso, dell’età più avanzata, di non rimediabili difetti fisici od intellettuali non giungono alla produttività richiesta, ma bene potrebbero essere occupati a salari di 9 o di 8 o 7 lire? Non è questa, in sostanza, una politica restrittiva della produzione? Restrizione di produzione e interesse collettivo, qualunque sia il criterio del peso rispettivo, sono due concetti compatibili fra loro? In un’epoca, nella quale cresce la proporzione degli uomini anziani e vecchi in confronto dei giovani e maturi, è conforme all’interesse generale la norma la quale tende ad eliminare dalla produzione una quota crescente della popolazione?
  • è nell’interesse generale che vengano parimenti eliminati quegli imprenditori i quali non riescono ad organizzare l’impresa in modo da utilizzare ad un costo non superiore a 10 gli operai i quali riuscirebbero a guadagnare 10 in un’impresa normale? Se la non utilizzazione dipende dall’incapacità dell’imprenditore, la norma non pare sia dannosa. L’eliminazione a mezzo del fallimento constata solo il fatto che quell’imprenditore non aveva le qualità necessarie al capo, pur avendo forse, ed eminenti, le qualità del dirigente e funzionario. È bene che egli sia, con gli argomenti propri dell’economia di mercato (perdita di capitale, credito, fallimento) indotto a dedicarsi a quell’ufficio al quale è più adatto. Ma la non utilizzazione fino al limite 10 può derivare dalla inferiorità di fattori produttivi diversi dal lavoro: località scelta per l’impresa meno favorevole per lontananza dalla città, dal luogo delle materie prime, dal mercato di smercio, dalla possibilità di facile riparazione al macchinario, dall’industrie complementari, ecc. ecc. Ragionando al puro punto di vista economico, può essere conveniente trasportare il luogo dell’impresa dal sito meno adatto a quello più adatto, il che spesso significa ubbidire alla regola di concentrazione di una o molte industrie in una località (grande, grandissima città) la quale trae dalla concentrazione medesima ragione di economie interne ed esterne ragguardevoli. Può darsi però che gli uomini siano di opinione diversa. Può darsi cioè che gli imprenditori si contentino di un profitto minore del profitto normale x, che gli operai si contentino del salario 8 invece di quello 10, perché essi apprezzano altri vantaggi non economici, come la residenza nella piccola città o nel borgo campagnolo, la vita condotta là dove tradizioni e relazioni di famiglia, affetto verso vicini, amici, abitudini di vedere quel campanile, quell’orizzonte, quelle case, rendono la vita medesima più piacevole, là dove si ritiene i figli possano ricevere un’educazione migliore. È conforme all’interesse collettivo che la norma comune del contratto collettivo costringa gli imprenditori a pagare 10 in moneta, senza tener conto dei complementi psicologici e sociali del salario, quando, tenuto conto di tutti gli elementi monetari e spirituali del calcolo, gli imprenditori sono soltanto disposti a pagare e i lavoratori sono contenti di ricevere solo 8? È vero che essi stimano almeno 2 i vantaggi non economici ora ricordati e sarebbero disposti a contentarsi di 8, ma, a causa della regola comune, l’imprenditore deve invece pagare 10 ed è perciò costretto dalla concorrenza del mercato ad abbandonare la partita.

 

 

È nell’interesse generale che la regola comune del contratto collettivo faccia passare i vantaggi calcolabili economicamente al disopra di quelli che hanno valore non calcolabile in lire, soldi e denari?

 

 

  • è nell’interesse generale che la norma comune favorisca il radicarsi nell’animo del lavoratore di sentimenti avversi a crescere la produzione al disopra di quella che basta a pagare il salario 10? È vero che, secondo l’opinione dei teorici del contratto collettivo, la norma 10 è solo un minimo, al disopra dei quali è lecito ricevere e pagare salari maggiori. Anzi la norma dovrebbe essere un punto di partenza per toccare produttività e remunerazioni più elevate. Ma è vero anche, per attestazione di osservatori imparziali e per testimonianza dei medesimi operai, che la norma comune fa sorgere e radica nell’animo del lavoratore l’idea che sia un male spingere la produzione troppo al disopra della fatica necessaria a guadagnare 10.

 

 

Due sentimenti confluiscono a radicare quell’idea.

 

 

In primo luogo il ripetuto sofisma della «quantità fissa di merce da produrre e vendere» e perciò della «quantità fissa di lavoro da fare». Si crede siano vendibili, ad esempio, 100.000 tonn. di un dato bene in una data unità di tempo. Se ogni operaio in quella unità di tempo produce 100 tonn., c’è lavoro per 1.000 operai; se ne produce 125 il numero degli operai occupati si riduce a 800. L’operaio «sente» che, per colpa sua, 200 suoi compagni sono disoccupati. È erronea la premessa della quantità fissa, essendo invece la quantità di merce producibile e vendibile in funzione del prezzo di vendita, dei beni concorrenti e complementari, del reddito monetario reale dei compratori, ed è perciò erronea la conseguenza semplicistica che gli operai ne traggono. Ma l’idea resiste ed opera sull’animo dei lavoratori inducendoli ad assumere la norma comune come il dettame della legge morale dalla quale importa non scostarsi.

 

 

In secondo luogo è vero che, in momenti di prevalenza della parte imprenditrice, la norma comune è stata fatta storicamente servire ad estorcere lavoro non pagato agli operai. Il criterio per la determinazione della norma, supponiamo, di «10 lire al giorno» nella fissazione dei lavori a cottimo è quello di una base (x lire per ogni 1.000 colpi di spola, y lire per ogni tonn. di carbone cavato dalla miniera e portato alla bocca del pozzo) siffatta che la grande maggioranza degli operai, data l’abilità e la forza da essi posseduta, dato lo stato della tecnica, data la organizzazione esistente dei fattori produttivi, riesce a guadagnare, moltiplicando la quantità x o y per il numero delle migliaia di colpi di spola o per il numero delle tonn. di carbone, almeno 10 lire al giorno. Guadagna meno o più di 10 lire soltanto una piccola minoranza di operai segnalati da uno scarto troppo forte dalla linea mediana. Se la base del cottimo è stata scelta con siffatto criterio, il lavoratore non ha ragione di lamentarsi, né si querela. Accade però talvolta che la base del cottimo è stata scelta in modo che solo una piccola minoranza di operai eccezionalmente dotati (detti tiracollo nel linguaggio degli operai di qualche regione italiana, o stachanovisti, se di tipo esageratamente propulsivo, nella Russia attuale) riesce a guadagnare 10 lire al giorno. La grande maggioranza sta al disotto, o se arriva sino a quel limite, può far ciò solo a prezzo di fatiche logoranti ed invecchiamento precoce. Dalla constatazione del fatto vero si comprende come le leghe operaie ragionevolmente pongano ormai la massima cura nello stabilire la norma comune a quel livello al quale la grande maggioranza degli operai può giungere con una prestazione normale di lavoro, ma si comprende anche come gli operai guardino a coloro i quali superano il salario uguale alla norma comune come a traditori della classe, a strumenti dell’imprenditore, il cui operato nuoce alla lega nelle trattative per la stipulazione del contratto collettivo. Tizio e Caio non sono forse giunti a guadagnare, su quella base, 12 o 15 lire? dicono gli imprenditori; e perché anche gli altri, con un po’ di buona volontà, non potrebbero fare altrettanto? Ed ecco, temono le leghe, la base del cottimo abbassarsi da x o da y ad x meno m ad y meno n. L’operaio teme di far meglio, anche quando potrebbe, perché non vuole essere strumento di depressione dei guadagni dei suoi compagni.

 

 

Non è questa una critica decisiva contro la norma comune, ma è critica la quale dimostra la delicatezza propria del processo di sua fissazione.

 

 

La norma comune fa sorgere nell’animo dei dirigenti leghe operaie sentimenti di avversione non solo a tutto ciò che tende a differenziare un operaio da un altro, ma anche a tutto ciò che gioverebbe a legare l’operaio all’impresa, a farlo salire nella gerarchia industriale. Si discorrerà in seguito dei sistemi di partecipazione ai profitti con le varianti di azionariato operaio e di partecipazione a gestione dell’industria); qui basti perciò accennare che solitamente le leghe operaie sono avverse a così fatti metodi di cointeressenza e di trasformazione dell’operaio verso il tipo dell’associato all’imprenditore. Partecipare agli utili dell’impresa, essere cointeressato nella gestione di questa, significa essere un transfuga della classe operaia. Invece di una fronte unita, taluni tra gli operai guardano con occhio benevolo verso l’altra parte, si sentono legati alle argomentazioni degli imprenditori. Per ottenere il piatto di lenticchie di una quota variabile di incerti profitti, gli operai sono invitati a rinunciare al loro diritto di primogenitura, che è la norma comune del contratto collettivo.

 

 

64. Il criterio di conformità dell’azione delle leghe all’interesse collettivo è l’approssimazione massima all’impiego di tutti gli operai occupabili.

 

L’economista, il quale ricerca quali siano i risultati delle azioni degli uomini, non ha, dopo quanto fu sopra esposto, il compito di pronunciare lodi o condanne delle leghe operaie e della loro politica. Abbiamo veduto quali siano gli effetti delle azioni delle leghe quando esse:

 

 

  • a) si limitano a correggere le imperfezioni proprie del mercato del lavoro anche in regime di concorrenza;
  • b) od invece tendono a creare a proprio vantaggio un monopolio di offerta di mano d’opera;
  • c) e, in questa seconda ipotesi, debbano tener conto dell’analogo tentativo dell’imprenditore di creare per conto proprio un monopolio della domanda medesima;
  • d) nello stipulare il contratto collettivo esse si attengano ad una norma comune, la quale si adatti alle esige, diverse per età, per abilità, forza, localizzazione dei diversi gruppi operai;
  • e) ovvero esse tendano a fissare la norma comune in guisa da essere adatta alla produttività di quegli operai soltanto che possono soddisfare a certe esigenze minime, irraggiungibili o repugnanti a forti gruppi di minoranza, ed abbiamo concluso che nelle ipotesi a) e d) l’azione delle leghe operaie deve in massima ritenersi conforme, e nell’ipotesi b), c) e e) disforme dall’interesse collettivo.

 

 

Questi effetti e le relative conclusioni si riferiscono ad una politica della lega operaia che potrebbe essere definita di assecondamento o di opposizione all’azione di quei fattori i quali da un lato favoriscono la realizzazione dell’ipotesi teorica di concorrenza e dall’altro tendono verso l’attuazione della realtà dell’ipotesi di monopolio.

 

 

È possibile enunciare in una proposizione semplice quale sia la politica delle leghe operaie che più si avvicina al limite della massima conformità all’interesse collettivo? Direi che la politica di massima conformità sarà quella il cui risultato sia l’impiego della totalità degli operai occupabili.

 

 

Se 100.000 sono gli operai occupabili, è conforme all’interesse collettivo quella politica, ossia quella norma comune del contratto collettivo in virtù della quale gli imprenditori hanno interesse ad impiegare tutti i 100.000 operai, ed è disforme quella per cui si crea nell’imprenditore l’interesse contrario. Quando si dice tutti gli operai occupabili si deve aggiungere occupabili tenuto conto dei fattori di occupabilità sui quali può influire l’azione della lega. Se ad esempio, una crisi economica di dimensioni eccezionali riduce da 100.000 a 50.000 il numero degli operai che gli imprenditori possono, nelle transitorie condizioni di mercato o di prezzo dei prodotti dell’industria, occupare, non è certo con la riduzione della norma comune da 10 lire ad 8, a 6 e magari a 4 lire, che può essere creato interesse negli imprenditori ad aumentare la domanda da 50.000 nuovamente a 100.000 operai. Troppe altre circostanze influiscono sulla soluzione del problema, perché il ribasso della norma comune giovi ad ottenere l’effetto desiderato. Potrebbe anzi quel ribasso condurre ad effetto opposto, se l’industria produce beni domandati dagli operai medesimi, riducendo la loro capacità di acquisto. Delicatissimi sono sempre i problemi i quali devono essere affrontati dai dirigenti le leghe operaie e padronali; e perciò si può bene concludere che il loro successo od insuccesso, la conformità o disformità della loro politica all’ o dall’interesse collettivo dipende in notevolissima parte dall’intelligenza e dalla perizia con cui essi sanno interpretare ed anticipare le incognite del mercato e ad esse adattare le soluzioni accolte in modo da raggiungere più rapidamente, con un minimo di attriti, quei risultati di piena occupazione degli operai disponibili che sarebbero più faticosamente ottenuti nei mercati imperfetti che in realtà noi conosciamo, per il libero gioco della domanda e dell’offerta.

 

 

65. La lega può aver cresciuto la produttività dell’operaio.

 

Nient’altro davvero? Sì. La lega operaia può pretendere correttamente di aver ottenuto, nei casi di azione conforme all’interesse collettivo, oltre il risultato di più rapida parificazione dei salari alla produttività marginale del gruppo totale dei lavoratori occupabili, anche un altro risultato e cioè quello del rialzo della produttività marginale medesima. Oltre ad aver fatto, in Italia e nella bassa padana, più velocemente salire il salario da 1-2 lire al giorno per il bracciante agricolo, quale era il salario corrente di fatto fra il 1870 e il 1880 a quello di 3 lire quale, in un mercato perfetto di concorrenza avrebbe dovuto essere allora il salario normale, non è escluso che la lega abbia cresciuto il salario normale medesimo da 3 a 5 lire al giorno, perché crebbe la produttività dell’operaio e creò interesse negli imprenditori ad impiegarli a 5 invece che a 3 lire al giorno. La lega, spiegò Vilfredo Pareto, non produsse per sua virtù specifica cotal risultato, che sarebbe stato miracoloso, e nelle cose economiche non si hanno miracoli. Essa poté avere quell’effetto indirettamente, perché essa agì come un fermento di elevazione, di trasformazione nella massa contadina ed operaia. Quei contadini e quegli operai, i quali prima non sapevano neppure di essere uomini, che quasi consideravano se stessi quali servi della terra, che non osavano chiedere miglioramenti, perché pensavano che i salari fossero stati fissati quali erano da una legge o fatalità contro cui era vano ribellarsi, che perciò erano tratti a lavorare ed a produrre nei limiti della rimunerazione ottenuta, si sentirono per la prima volta uomini tra uomini, compresero di valere qualche cosa se uniti con i propri compagni. La nuova consapevolezza del propria valore li trasformò, non subito, ma poco a poco; fece loro comprendere l’utilità del saper leggere e scrivere, del saper discutere dei propri affari. I giovani furono diversi dai genitori e dai nonni. Il mito dell’appartenenza ad una classe che poteva aspirare a qualche cosa perché lavorava la terra o nella fabbrica, li fece capaci di lavorare meglio. Divenuti diversi da quelli che erano, ottenuti i primi aumenti di salario, che probabilmente erano solo di avvicinamento e di parificazione alla produttività esistente, mangiarono vestirono e calzarono meglio, pretesero una casa più sana, riposi più lunghi, acquistarono in salute fisica, e in vigoria mentale. Furono migliori contadini e migliori operai. Non per virtù propria intrinseca ma per virtù del mito di elevazione che era contenuto nell’associazione, nell’unione ai compagni, nell’azione comune, nel convincimento nuovo di essere e di valere qualche cosa, la lega fece sì che l’uomo nuovo meritasse ed ottenesse un salario più alto.

 

 

Questa è la lega che eleva ed è conforme all’interesse collettivo. Accanto ad essa, talvolta confusa con essa, vive ed agisce un’altra lega: quella che crede nel mito della restrizione, del privilegio, del monopolio, della quantità di lavoro fisso esistente, che deve essere diviso per il numero minimo possibile di compagni. Il primo tipo di lega, creando nuova ricchezza, crescendo la produttività materiale e spirituale dell’uomo, eleva tutti gli operai; il secondo tipo, creando la carestia, favorisce gruppi ristretti a danno degli esclusi, crea un ceto di paria. Il primo tipo è proprio di una società sana, progressiva, stabile; il secondo è germe di malcontento, di invidia, di instabilità rivoluzionaria. L’economista, in quanto uomo, desidererebbe anche che gli altri uomini intendessero alla creazione del primo tipo ed oppugnassero il secondo tipo, ma, in quanto studioso di economia, non può non limitarsi a dire: queste sono le conseguenze dei diversi tipi immaginabili di azione. Spetta agli uomini la scelta.

 

 

66. La scelta fra molteplicità od unicità, libertà od obbligatorietà nelle leghe.

 

Ed ora si può affrontare la discussione del problema legislativo che si presenta in tutti i paesi ed anche in Italia: l’ordinamento sindacale ereditato dal ventennio scorso deve essere conservato nella linea essenziale, mutando solo il modo di reclutamento dei dirigenti, facendoli cioè eleggere dal basso, invece che nominare dall’alto, ovvero si deve ritornare al sistema vigente prima del 28 ottobre 1922? I quesiti sono questi: Molteplicità od unicità della lega? Libertà o obbligatorietà di appartenenza alla lega?

 

 

67. Contenuto del tipo delle leghe molteplici e libere.

 

Molteplicità e libertà delle leghe significa che ogni lavoratore è libero di iscriversi o di non iscriversi ad una lega, può scegliere quella fra le diverse leghe a cui gli piace iscriversi e paga quote o contributi solo alla lega prescelta e solo finché gli piaccia di rimanere ad essa iscritto. In questo tipo di leghe, che era il solo conosciuto nei paesi anglo-sassoni, il solo cioè che esistesse nei paesi in cui unicamente le leghe (sindacati) operaie ebbero vita secolare, continuamente progressiva e sempre più salda, il solo il quale abbia resistito alla prova del tempo ed abbia conseguito a vantaggio delle classi lavoratrici risultati non effimeri e sostanziali:

 

 

  • a) non hanno luogo elezioni determinate con regole generali dalla legge. Ogni lega si regge da sé secondo i propri statuti e secondo il suo costume;
  • b) il segretario dirigente della lega è scelto per designazione spontanea dei compagni, è il migliore del gruppo, è l’oratore naturale di esso. Egli dura in carica sinché dura la fiducia dei compagni. La fiducia non viene meno se non per cause serie. I compagni sanno invero che egli ha abbandonato il lavoro della miniera, del campo, dell’officina, per dedicarsi al lavoro dell’organizzazione, per trattare per conto dei compagni con i padroni, sanno che egli ha preso altre abitudini di lavoro e non potrebbe ritornare al vecchio mestiere. Se egli invecchia, i compagni lo designeranno ad un posto migliore o meno faticoso nella lega medesima, o nella federazione. Non lo abbandoneranno sul lastrico. Non si tratta di far prova, come nelle elezioni comunali e nazionali, della forza di un partito. Si tratta di non abbandonare chi ha dedicato la vita ai compagni. Se egli non è in colpa, è doveroso conservargli fiducia e posto. D’altro canto, il segretario dirigente sa che i compagni prelevano sul loro salario la quota necessaria per far vivere la lega e anche lui. Sa che e a quel posto per rendere servizio e che quel posto gli può essere conservato solo e finché rende servizi utili ai suoi compagni. Se egli si addormenta, se la lega non è attiva, non segue il mercato dei prezzi, non riesce a migliorare le condizioni di lavoro quando è possibile, i compagni non pagano più le quote e si iscrivono all’altra lega affine o diversa la quale dà prova di maggiore attività. Il dirigente non può addormentarsi. Non può agitarsi al solo scopo di agitarsi, perché condurrebbe la lega alla sconfitta e di nuovo i soci diraderebbero e la cassa della lega inaridirebbe. Deve ottenere risultati positivi concreti e l’esperienza gli ha appreso che questi si ottengono, più che con la lotta ad ogni piè sospinto, con le trattative ed i compromessi. Non si rinuncia alla estrema ratio della lotta, dello sciopero o della serrata, ma, salvo che a parole, se ne fa il minor uso possibile. Egli, che è il generale, ha il dovere di risparmiare la vita dei suoi soldati e di non condurli al macello;
  • c) per quanto faccia, l’organizzatore il quale vuole organizzare per organizzare, crear contese per procacciare soci alla sua lega, non ci riesce. Dove operai o padroni sono già d’accordo, dove già si pagano i salari normali, dove non esiste la materia del contendere, la lega libera non sorge, o se sorge non dura. A che pro organizzare, far pagare quote, crear liti al solo scopo di far vivere uno stato maggiore di organizzatori La lega si fonda e persiste e prospera colà dove essa ha una ragione di essere, dove rende servizi agli affiliati, dove essa consente ad altre leghe di offrire i propri servigi agli stessi affiliati, laddove è possibile il confronto con altre leghe di mestieri affini, dalle quali gli affiliati hanno ottenuto o si ripromettono di ottenere risultati migliori;
  • d) l’organizzatore non può esaurire, anche se lo volesse, il suo compito nella lotta e nella resistenza. Alla lunga l’atteggiamento fiero della lotta stanca e lascia malcontenti i soci, per la manchevolezza e il costo dei risultati. Occorre sostituire alla guerra qualche cosa d’altro, le trattative, le discussioni, gli accordi. Alla figura dell’agitatore, dell’oratore, del capo-sciopero si sostituisce la figura del delegato, del contraente, che impara le finezze del discutere, dell’opporre ragioni a ragioni, dati a dati, che è mosso da sentimenti, ma non li mette in mostra e preferisce ragionare di prezzi, di costi, di cottimi, di velocità e di rendimento di macchine e sa dimostrare essere possibile variare quel salario, quella base di cottimo, quell’orario, quell’intervallo di riposo senza condurre ad irreparabile rovina l’industria; sa ribattere i dati dell’altra parte, fondati su dati veri di costo assunti dai libri di un’impresa che lavora a costi alti, con dati di costo altrettanto veri applicabili ad un’impresa, la quale ha saputo ridurre i suoi costi ad un livello inferiore e così mettendo in luce il contrasto proprio dell’altra parte, quella imprenditrice, giova alla parte propria ed insieme spinge, con vantaggio dell’universale, l’impresa a perfezionarsi. Può accadere ed è accaduto che, ferma restando la regola che i capi delle leghe debbano provenire dalle file dei gregari ed avere esercitato un mestiere, si apra una gara fra i migliori, simili a quella dell’esame di concorso per l’accesso alle pubbliche cartiere; e nei libri dei coniugi Webb si leggono cenni su programmi di storia civile e del lavoro, di algebra e di disegno, di legislazione industriale e sociale, di elementi di finanza pubblica e privata, ai quali sono stati sottoposti gli operai desiderosi di adire agli uffici più delicati delle grandi federazioni. Avanzamento, questo, non esclusivo dei paesi anglo – sassoni, ché il senatore Francesco Ruffini amava raccontare agli amici di essere stato scelto, quando era rettore dell’università di Torino, a presidente, il che voleva dire arbitro della decisione, in un collegio paritetico di delegati della lega padronale e di quella operaia, e di aver avuto durante le discussioni, lunghe e faticose, avvenute in sua presenza, l’impressione di trovarsi dinnanzi a membri operai, i quali ragionavano così come avrebbero potuto fare i suoi colleghi giuristi della facoltà torinese di giurisprudenza ed a membri padronali, che egli metteva a paro dell’ottimo nostro bidello Talpone, benevolo consigliere di studenti e non di rado consultato anche dagli insegnanti come memore conservatore di venerande tradizioni accademiche. Agili e periti gli operai, tradizionalisti gli industriali. Questa era la meta, toccata solo in piccola parte, verso la quale tendeva, attraverso errori e incertezze, forse non in tutto inevitabili, il movimento operaio italiano nel dopoguerra: di giovare come pungolo al ceto industriale, talvolta propenso ad adagiarsi troppo sulle posizioni acquisite.

 

 

68. Contenuto del tipo della lega unica e obbligatoria.

 

Purtroppo, nello stesso movimento operaio affioravano altre tendenze, desiderose di rafforzare, col sussidio della legge, la situazione conquistata con lo sforzo e con la lotta. E fin da prima dell’altra guerra si udirono voci provenienti dalle leghe operaie di tendenza socialista, che erano indubbiamente le più forti, le quali reclamavano:

 

 

  • il diritto esclusivo per se stesse ad essere rappresentate nel consiglio superiore del lavoro, eliminando ogni rappresentanza delle leghe a sfondo cattolico o sindacalista od altro diverso;
  • l’obbligo legale degli imprenditori a trattenere sul foglio di paga degli operai le quote da versare nella cassa della lega, e si intendeva dai promotori fosse la lega più forte, quella a tipo socialistico. L’osservatore deve constatare che ogni istituzione che abbia avuto origine ed alimento da forza vera, che è solo la forza morale della libertà, è tratta, quando ha raggiunto un grado notevole di successo, a calpestare le ragioni della sua medesima grandezza ed a chiedere coazione, costrizione, privilegio, monopolio. Di questa tendenza, propria della natura umana, si giovarono, facendosene interpreti, coloro i quali attuarono il regime cosidetto corporativistico, sostituendo:
  • alla libertà di associazione l’obbligatorietà dell’appartenenza alla lega;
  • alla varietà e molteplicità e spontaneità ossia non universalità delle leghe l’unicità di esse.

 

 

I risultati si videro, e furono di asservimento di ambe le parti, operai e datori di lavoro, ad un unico comando, inteso a crescere e perpetuare il proprio dominio.

 

 

69. La variante delle elezioni dal basso nella lega unica ed obbligatoria.

 

Muterebbe qualche cosa al nuovo principio la mera variante delle elezioni dal basso al luogo della scelta dall’alto? In sostanza si tratterebbe di applicare alla gerarchia sindacale gli stessi metodi che si applicavano un tempo alle gerarchie amministrative comunali, provinciali e statali. Nello stesso modo, come, prima del 1922, gli elettori erano chiamati, per circoscrizioni territoriali, ad eleggere consiglieri comunali, provinciali e deputati al parlamento e dal seno degli eletti erano poi tratti i sindaci e le giunte nei comuni, i presidenti e le giunte amministrative nelle provincie, ed i consigli dei ministri nello stato, e sindaci, presidenti e ministri alla loro volta nominavano, sia pure con qualche garanzia di concorso, ma inevitabilmente dall’alto, tutta la gerarchia amministrativa dei funzionari centrali e locali, dai direttori generali e dai prefetti agli uscieri, per mezzo di cui la macchina comunale, provinciale e statale era fatta agire, così in avvenire gli elettori sarebbero chiamati, per circoscrizioni professionali, ad eleggere a suffragio maggioritario o, come pare, proporzionale, i capi-operai ed i capi-datori di lavoro da mettere alla testa dell’unica lega operaia o padronale, la quale, così come accadeva durante il ventennio, avrebbe la rappresentanza dell’intiera classe appartenente al mestiere o all’industria e stipulerebbe contratti collettivi obbligatori per tutti gli appartenenti, soci o non soci, così come le norme e le leggi approvate dai consigli provinciali, comunali, e dal parlamento erano obbligatorie per tutti i cittadini, fossero o non questi elettori votanti. Possono essere varie le opinioni intorno al modo di elezione dei capi delle federazioni provinciali e regionali, se cioè la elezione debba essere diretta da parte degli elettori della circoscrizione più larga ovvero a doppio grado facendo scegliere i capi delle federazioni provinciali dal voto dei capi delle leghe locali, e quelle delle federazioni nazionali dal voto dei capi delle federazioni provinciali. Qualunque sia il modo prescelto, sarebbe certo che i capi eletti avrebbero il compito di nominare, sia pure secondo date norme di reclutamento e a norma di dati requisiti, i quali, per il carattere pubblico della scelta, dovrebbero essere obbiettivi uguali per tutti, dimostrabili con titoli (di studio e di carriera precedente, ecc. ecc.) i funzionari od impiegati o comunque si vogliano chiamare, incaricati di far funzionare la macchina burocratica della rappresentanza professionale e di eseguire i molteplici incarichi di determinazione dei contratti di lavoro, della loro esecuzione, e dei conseguenti inevitabili interventi nella gestione dell’industria e del regolamento del lavoro.

 

 

Poco importa si dica che il meccanismo così creato dovrebbe essere agile, svelto, inspirato a concetti non burocratici e altrettali ottime intenzioni. Di fatto il sistema metterebbe:

 

 

  • a) al luogo di soci volontari, pronti ad andarsene e a non pagare quote, se il servizio ottenuto non risponda ai propri desideri, appartenenti obbligati a pagare contributi, necessariamente esigibili per mano dell’esattore delle imposte e con la procedura forzosa esattoriale;
  • b) al luogo di capi, scelti spontaneamente dai soci delle leghe e mutabili senza apparato di elezioni ove non soddisfino alle esigenze dei compagni, ma di fatto tenuti al loro posto sinché non abbiano demeritato, eletti non mutabili se non a date fisse, distanziate una all’altra da intervalli di almeno un anno e forse più, e soggetti, per la rielezione, ai mutabili umori del corpo elettorale;
  • c) al luogo di compagni che si prestino, per lo più gratuitamente, nelle ore serali a coadiuvare i segretari ed i presidenti permanenti delle leghe nei rapporti minuti personali quotidiani con i soci, funzionari posti dietro lo sportello di un ufficio, incaricati di sbrigar pratiche, per mezzo di moduli e questionari stampati;
  • d) al luogo di associazioni viventi di vita sovratutto morale, dimostrata dalla fiducia di soci volontariamente disposti a pagar quote, ma ugualmente pronti a non pagare più nulla, ove la lega dimostri di non giovare più di fatto ad una esigenza vera, enti di diritto pubblico viventi, anche contro la volontà dei soci, del provento di imposte obbligatorie, da cui trarrebbero l’autorità necessaria ad imporre servigi, siano e non questi richiesti;
  • e) al luogo di un limitato manipolo di capi numerati, finché servono, e di ausiliari spesso volontari gratuiti, tratti dalle file medesime dei soci, una burocrazia pagata dal fondo delle imposte e dotata delle qualità proprie di ogni burocrazia, che sono la moltiplicazione per scissiparità e la tendenza all’autogenerazione di sempre nuovi compiti, atti a giustificare il numero crescente di capi eletti e di burocrati scelti per concorso e l’inasprirsi progressivo dei contributi forzosamente prelevati a carico dei contribuenti.

 

 

Alle quali logiche caratteristiche del sistema che si vorrebbe perpetuare, illudendosi di mutarlo con la semplice introduzione di metodi elettivi alla base, ci si dovrebbe sottomettere, come ci si sottomette alla necessità della esistenza delle organizzazioni comunali, provinciali e statali, se fosse veramente vantaggioso alla collettività lo scopo che si vuole conseguire. Ma l’analisi fatta dinnanzi ha dimostrato che le leghe producono effetti vantaggiosi solo quando esse si propongono scopi di adeguazione dei salari e delle altre condizioni del lavoro al tipo che spontaneamente si attuerebbe in condizioni di perfetta concorrenza e quando esse si propongano altresì l’intento di trasformare l’uomo lavoratore ispirandogli consapevolezza del proprio valore morale e dandogli così nuova dignità di vita. E questi risultati si ottengono solo con la lega libera, opera volontaria e creatrice dell’uomo unito con i compagni e da questa unione reso capace non solo di volere ma anche di attuare propositi non accessibili all’uomo isolato. L’analisi ha dimostrato che le leghe invece producono effetti dannosi quanto più esse si avvicinano al tipo dell’ente il quale monopolizza la offerta e la domanda della mano d’opera; né i danni scemano in conseguenza dell’accordo eventuale fra i due monopoli stessi. Ma la lega unica e obbligatoria attua nel modo più perfetto che immaginar si possa il tipo dell’ente monopolisticamente padrone di tutta la offerta e di tutta la domanda di lavoro, e il carattere monopolistico è condotto al massimo dalla potestà che la lega unica ed obbligatoria ha di prelevare contributi, anche a carico dei ricalcitranti.

 

 

Rimane perciò dimostrato che se la lega volontaria e molteplice può essere campo di innalzamento dei lavoratori, la lega unica ed obbligatoria tende ad essere strumento di oppressione, e mezzo, inavvertito forse ma sicuro, alla prosecuzione o nuova instaurazione del tipo di stato autoritario e totalitario.

 

 

Capitolo IV. La partecipazione ai profitti

 

70. Perché si studia la partecipazione ai profitti e non altri metodi di partecipazione degli operai alla gestione dell’impresa.

 

Con l’assicurazione sociale, il lavoratore tende ad ottenere la sicurezza di un minimo di vita in tutti i casi nei quali a lui viene a mancare per infortunio, invalidità, vecchiaia, malattia, disoccupazione od è resa manchevole per oneri di famiglia la fonte normale del reddito, che è il lavoro. L’intento che dapprima si cercò di conseguire con il mutuo soccorso, ossia con le sole forze del lavoratore associato, oggi si vuole ottenere con i contributi, obbligatori per legge, del lavoratore medesimo, del datore di lavoro, e, per la collettività dei contribuenti, con le imposte di stato.

 

 

Con l’associazione – per lo più volontaria e molteplice, ma in alcuni stati e momenti storici obbligatoria ed unica – il lavoratore stipula con i datori di lavoro un contratto collettivo, nel quale sia sancita una norma comune, osservata da tutti gli appartenenti al gruppo, relativa alle condizioni di lavoro, norma la quale garantisca al lavoratore un minimo di vita durante il lavoro.

 

 

I due istituti della assicurazione e dell’associazione si integrano a vicenda, riferendosi a due momenti contrapposti della vita del lavoratore: quello del non lavoro e quello del lavoro.

 

 

L’uomo però auspica, al di là di un minimo, ad elevarsi. Il che si ottiene in variabilissime maniere, che qui non occorre esaminare tutte: col risparmio individuale, fondamento iniziale all’uscita dalla condizione di lavoratore semplice, con l’intrapresa di una bottega da artigiano, di un negozio commerciale, di un laboratorio industriale, con l’assunzione di un terreno in partecipazione, di un fondo rustico a mezzadria od a fitto e finalmente con l’acquisto della proprietà di una terra. L’elevazione si ha anche senza assunzione di un’impresa propria, come quando il lavoratore od impiegato acquista la casa propria o l’appartamento di abitazione, sia pagando l’intero prezzo, sia assolvendone solo una piccola parte in contanti ed impegnandosi a pagare il resto a rate. Del che si hanno in Svizzera numerosissimi esempi; e, tra le due grandi guerre, le cooperative edilizie britanniche provvidero a fornire ai loro soci oltre un milione di case a proprietà individuali con pagamenti rateali.

 

 

Trattasi tuttavia di metodi tradizionali di elevazione, che, per essere ben noti e per essere di virtù sociale altrettanto nota, non formano oggetto di viva controversia. Dibattiti più vivi si odono intorno ad altri mezzi di elevazione, i quali sembrano più moderni. Uno è quello della espropriazione, senza indennità o con indennità nominale (espressa cioè in una moneta destinata a perdere potenza di acquisto o calcolata con criteri tali da far rimanere l’indennità assai al disotto del prezzo corrente della cosa espropriata), degli attuali impianti industriali, ferroviari, navali ecc. e della loro successiva gestione da parte dei tecnici, impiegati ed operai.

 

 

L’altro è quello della preparazione alla futura gestione da parte operaia, attraverso l’esperienza e direbbesi il tirocinio di commissioni interne di fabbrica. Queste, variamente composte di tecnici impiegati ed operai, comincerebbero fin d’ora ad esercitare un controllo sulla gestione dell’industria, sia a tutela dei lavoratori, sia per giungere alla conoscenza esatta dei costi, dei metodi di lavorazione, di acquisto e di vendita, dei prezzi, sì da rendere a poco a poco i lavoratori capaci di partecipare alla gestione e ai guadagni dell’industria e finalmente atti ad assumere la gestione medesima, al luogo degli attuali proprietari. In un corso, il quale ha per iscopo di analizzare fatti esistenti, sembra meno adatto l’esame di proposte le quali sovratutto si riferiscono a quel che deve essere. La scienza economica non è una scienza di quel che deve essere – compito proprio della morale e della politica – ma di quel che è[12]. Essa analizza quel che è scomponendolo nei suoi elementi essenziali, sì da trarne luce per illuminare gli effetti di eventuali proposte di riforma; ma il punto di partenza è sempre l’analisi di qualche aspetto della realtà. Ora le proposte di espropriazione e di gestione dei lavoratori, di commissioni interne di controllo si trovano ancora troppo nel campo delle cose che dovrebbero essere, per poter fare vantaggioso oggetto di analisi.

 

 

Se noi facciamo astrazione dall’esperimento russo, troppo poco conosciuto nel suo funzionamento effettivo economico e sociale, epperciò di scarso interesse scientifico per quanto riguarda il suo ordinamento di diritto, tre sono gli esperimenti sociali compiuti dai lavoratori, da soli o con l’aiuto dei datori di lavoro, dei quali si hanno notizie abbastanza sicure perché sulla base di esse l’analisi economica possa dar luogo a qualche fruttuosa considerazione:

 

 

  • la partecipazione ai profitti;
  • l’azionariato operaio;
  • la cooperazione di produzione.

 

 

Essendo impossibile, per la ristrettezza del tempo, intraprendere lo studio di queste tre specie di esperimenti sociali realmente compiuti per un periodo di tempo lungo e per un numero di casi abbastanza grande, mi limiterò allo studio della partecipazione ai profitti. Questo presenta il vantaggio di essere oggetto attuale di proposte varie di applicazione obbligatoria su vastissima scala e di mettere a tempo stesso in luce elementi utili a dare un primo giudizio intorno agli altri due sistemi.

 

 

71. Cenni bibliografici e storici.

 

L’idea della partecipazione ai profitti presenta innanzitutto il vantaggio di una lunga storia[13] la quale potrebbe essere fatta risalire alla millenaria applicazione che nella sua formula più semplice si è fatta nell’agricoltura con la mezzadria e con le altre maniere di partecipazione del contadino al prodotto della terra, e nella pesca con la tradizionale divisione del prodotto in parti aliquote fra padroni della barca e marinai addetti alla pesca. Anche limitandoci alle applicazioni vere e proprie nell’industria, nel commercio e nella finanza, si può ricordare che il primo notevole documento sulla partecipazione è il decreto napoleonico, datato dal quartiere generale di Mosca il 15 ottobre 1812, il quale regola la partecipazione degli attori della Comèdie française agli utili netti dell’esercizio del Théâtre français. In virtù di quel decreto, gli attori oltre ad un assegno fisso annuo, aumentato dai feux, ossia da un supplemento per ogni recita, ricevono – e questa è la loro remunerazione essenziale – una parte degli utili netti della gestione, calcolati a fine anno. Gli utili sono divisi in 24 quote di cui una inviata a riserva per spese impreviste, una mezza quota ad un fondo abbellimento e riparazioni, un’altra mezza quota al fondo pensione, e le 22 rimanenti quote sono divise fra gli attori sociétaires, in ragione di un minimo di 1/8 di quota ai sociétaires più giovani e meno famosi sino al massimo di una quota ai più famosi ed anziani. L’utile è per metà versato in contanti ai beneficiari e per l’altra metà ad un fondo pensione per gli stessi attori.

 

 

Tra gli altri esempi più noti e tuttora in essere ricordiamo quello della Maison Leclaire iniziato nel 1842, del familistero di Guise, stabilito dal fondatore Godin nel 1876, entrambi caratteristici per la loro derivazione storica dall’ambiente del socialismo detto usualmente utopistico, alla Saint-Simon ed alla Fourier, dominante nella Francia della prima metà del secolo 19esimo e per la loro trasformazione in vere cooperative di lavoro e di produzione; quelli dei grandi magazzini del Bon marché e della Samaritaine, dove la generosità dei proprietari fa passare la proprietà e la gestione agli impiegati ed addetti, e quello Michelin (1898), nel quale è dominante il giudizio del datore di lavoro nella fissazione e distribuzione della quota utili al personale.

 

 

72. Definizione e requisiti essenziali della partecipazione.

 

Analizziamo il sistema quale lo si può ricostruire dall’esperienza ormai secolare. La definizione che sembra più adatta a riassumere questa esperienza è quella data dal Consiglio superiore del lavoro francese nella sessione del novembre 1923.

 

 

«La partecipazione ai profitti è un contratto in virtù del quale il datore di lavoro si impegna a distribuire, in aggiunta al pagamento del salario normale, fra i salariati della sua impresa, una parte degli utili netti, senza partecipazione alle perdite».

 

 

I requisiti essenziali della partecipazione sono dunque i seguenti:

 

 

  • a) essa risulta da una convenzione libera volontaria, tacita od espressa, stipulata fra datore di lavoro e lavoratori appartenenti alla sua impresa. Non si conoscono esempi di partecipazione obbligatoria, imposta in generale dalla legge, od almeno non si conoscono esempi di partecipazione obbligatoria generale, i quali siano stati applicati per periodi di tempo apprezzabilmente estesi;
  • b) la quota utile è una aggiunta al salario normale, ossia quel salario il quale è pagato all’operaio normale in virtù delle convenzioni di mercato, della consuetudine o delle tariffe sindacali. Perciò non possiamo considerare partecipazione vera e propria la quota che nella mezzadria agricola od in contratti analoghi costituisce il salario o parte integrante del salario spettante al lavoratore;
  • c) la quota assegnata al lavoratore è una quota degli utili eventuali ottenuti in un dato intervallo di tempo dall’impresa;
  • d) la partecipazione è agli utili e non alle perdite. L’operaio non è vero socio, il quale partecipi alla gestione sociale in ambo i sensi, ma quasi socio, il quale partecipa solo se e quando si ottengono utili. Non può essere neppure assimilato all’azionista privilegiato, perché questi ha bensì una priorità sull’azionista ordinario, se utili vi sono, ma se vi sono perdite e se a coprire queste non basta l’apporto del capitale versato dall’azionista ordinario, può l’azionista privilegiato essere chiamato a subirle, laddove il lavoratore partecipante non può essere chiamato mai a versare, neppure in piccola parte, le somme necessarie a colmare le perdite subite dall’impresa.

 

 

73. Tipi di partecipazione.

 

Se la partecipazione agli utili è attribuzione al lavoratore di una parte degli utili dell’impresa, vari possono tuttavia essere i tipi dell’impresa ai cui utili l’operaio è chiamato a partecipare. Ogni impresa può essere considerata nel suo complesso o frazionata in sotto imprese aventi ciascuna una propria autonomia economica. Se si fa astrazione dai casi nei quali non si tratta di una vera partecipazione agli utili, ma di quote di salario (quota mezzadrile, parte del pescatore, interessamento nelle vendite per il commesso di un negozio, un’annata di premio o percentuale di premio ai produttori di assicurazioni) possiamo elencare così i principali tipi:

 

 

  • a) L’impresa consiste nell’esecuzione di un determinato lavoro affidato al lavoratore singolo o più frequentemente ad un gruppo di lavoratori. Un rapporto della Maison Leclaire, la quale applica del resto la partecipazione anche al profitto dell’impresa nel suo complesso, così descrive il caso: «un contratto speciale permette alla squadra che ha finito un lavoro, di sapere se essa ha ottenuto un risultato conveniente per il suo lavoro. Noi sappiamo esattamente, alla fine dell’esecuzione di un contratto o di un lavoro qualunque, quanta mano d’opera e quanta materia prima sono state impiegate. Il misuratore passa, fa i suoi calcoli, redige un rapporto ed appura subito l’utile conseguito. Ciò incoraggia gli operai e ci permette ottenere utili». Il sistema ha il vantaggio di garantire all’operaio una quota degli utili alla cui produzione egli ha direttamente contribuito, senza interferenza dei risultati diversi e forse anche negativi ottenuti con l’esecuzione di altri lavori. L’alea del lavoratore è limitata ai risultati di un singolo lavoro.
  • b) L’impresa si estende all’insieme dei lavori compiuti in un determinato reparto di uno stabilimento, o in un dato stabilimento di un complesso industriale più vasto. In uno stabilimento cotoniero, il quale lavori il cotone dal momento nel quale esso è introdotto come greggio al momento della vendita all’ingrosso come tessuto, potremmo distinguere la lavorazione nei suoi stadi successivi della filatura, torcitura, coloritura, apprettatura. Ogni reparto è concepito come un’impresa a sé stante, la quale riceve in carico la merce greggia o semilavorata dal reparto precedente e la riconsegna lavorata al reparto susseguente, a prezzi predeterminati di carico e scarico dalla direzione generale. L’utile ripartibile è un utile «industriale» risultante dal saldo differenziale fra il prezzo di entrata più i costi specifici di lavorazione e generali dello stabilimento ed il prezzo di uscita, ambi i quali prezzi di entrata e di uscita sono prezzi non di mercato ma puramente contabili.

 

 

Impiegati ed operai sono interessati esclusivamente ad ottenere un massimo di utile industriale. Quel che avverrà della merce finita, quando essa passerà dai reparti industriali all’ufficio vendita, è estraneo al calcolo. I singoli reparti possono avere ottenuto un dato utile ripartibile e tuttavia l’azienda nel suo complesso può conseguire un utile diverso dalla somma degli utili passati e forse anche perdere, innanzitutto perché il prezzo di realizzo effettivo può essere diverso da quello calcolato finito all’ufficio di vendita, sia perché l’ufficio di vendita deve tenere conto di spese generali, rischi, insolvenze, ecc. ecc. propri, diversi da quelli attribuiti ai singoli reparti. I lavoratori cointeressati, come non devono temere i risultati negativi degli altri reparti, così non devono preoccuparsi delle eventuali perdite dell’impresa nel suo complesso. Se essi hanno contribuito efficacemente alla buona produzione del proprio reparto, hanno possibilità di partecipare ad un utile non annullabile del diverso meno operoso comportamento dei lavoratori appartenenti ad un altro reparto.

 

 

  • c) L’impresa ai fini della partecipazione degli operai agli utili si identifica con impresa considerata nella sua intierezza sia economica che giuridica. Questa è la partecipazione in senso proprio, della quale principalmente si discuterà qui, essendo quella che sola è considerata nei programmi e nei progetti venuti alla luce in questi ultimi tempi in Italia. Di essa quindi saranno in seguito più ampiamente studiati contenuto, requisiti e problemi.

 

 

74. Divisione degli utili.

 

Come è detto nella definizione il sistema vuole che una parte degli utili sia attribuita al personale dipendente dall’impresa. Quale parte? Escludiamo senz’altro la grossolana divisione a metà. Essa è spesso già disadatta nella mezzadria, dove l’uniformità della quota contrasta con le differenze di produttività dei fondi, per cui l’identica quota risulta ora più ora meno bastevole a compensare il lavoro della famiglia mezzadrile sicché fu necessario con patti addizionali vari trovare modo di ovviare alla sperequazione propria del sistema. Ma la sperequazione sarebbe intollerabile nell’industria, nella quale l’importanza del capitale e del lavoro variano moltissimo da caso a caso. Si devono dividere, ad esempio, gli utili di una miniera di carbone, di lignite, di ferro, di zolfo? Qui spesso, il costo del lavoro è parte rilevantissima, che può andare sino all’80 e 90% del costo totale del prodotto. In questi casi, l’attribuzione al lavoro del 50% dell’utile netto svaluta troppo l’apporto del lavoro e sopravaluta quello del capitale. Si deve ripartire l’utile netto di un impresa di produzione e di distribuzione dell’energia elettrica agli utenti industriali, esclusa la distribuzione minuta ai singoli consumatori di luce elettrica, che è compito di imprese affiliate? Qui il capitale investito è di centinaia di milioni, se non di miliardi di lire, ed invece, una volta costruiti gli impianti di presa, con i loro laghi artificiali, i loro canali di presa e le centrali di trasformazione, l’impresa è fatta funzionare da un piccolo numero di operai e tecnici, talvolta poche decine. La distribuzione degli utili metà a metà convertirebbe i pochi dipendenti in nababbi pagati assai meglio del più alto funzionario dello stato. Importa perciò che la divisione degli utili avvenga secondo l’importanza rispettiva del capitale e del lavoro, importanza misurata secondo criteri omogenei. Epperciò:

 

 

  • a) si tiene conto da un lato del capitale investito e dall’altro lato del valore capitalizzato dei servizi dell’operaio. Il metodo è poco usato, perché pone il problema della capitalizzazione del salario dell’operaio, problema complicato, dovendosi, come nel calcolo per indennità per infortunio, tener conto dei guadagni probabili futuri dell’operaio, della sua vita probabile lavorativa futura, e dello sconto dei guadagni medesimi al momento attuale. Calcolo necessario perché al capitale investito dall’imprenditore bisogna paragonare il capitale investito dell’operaio, che non è il suo salario, ma il valore della sua persona;
  • b) data la complicazione e l’incertezza dei quali calcoli, si preferisce tener conto da un lato degli interessi sul capitale investito dal datore di lavoro e dall’altro lato dei salari riscossi dai lavoratori. I termini del paragone sono omogenei, perché ambedue sono reddito o remunerazione dei due fattori capitali e lavoro. Se in un dato esercizio, nelle due imprese A e B, le somme ricevute a titolo di interesse del capitale e di salario e stipendi dai dipendenti furono rispettivamente:

 

 

 

Interessi

Al capitale

Salari e stipendi ai dipendenti

 

%

%

A

40.000.000

80

10.000.000

20

B

10.000.000

20

40.000.000

80

 

 

l’utile netto verrà in A attribuito per l’80% al capitale e per il 20% al lavoro, e in B inversamente per il 20% al capitale e per l’80% al lavoro.

 

 

Fissata la quota al lavoro, essa deve essere distribuita fra le diverse categorie di lavoratori. Sempre si distingue fra i dirigenti ed i dipendenti. Nel familistero di Guise, il 25% degli utili è assegnato alle cosidette capacità; il 4% all’amministratore gerente, tante volte 1% quanti membri del consiglio, ma non più del 16%, ai consiglieri, il 2% al consiglio di sorveglianza, il 2% a disposizione del consiglio per remunerare servizi eccezionali e l’1% per borse di studio ad uno o più allievi uscenti dalle scuole del familistero. Nello stabilimento Leclaire, il 15% degli utili va a favore dei due gerenti. Nei grandi magazzini del Bon marché di Parigi (Aristide Boucicaut vi iniziò la partecipazione nel 1877) il 2% è assegnato ai consiglieri di amministrazione e il 14% ai direttori e sottodirettori e agli impiegati superiori. Nella Samaritaine, pure grandi magazzini di Parigi, il fondatore Ernest Cognacq attribuì il 15% alla gerenza. È regola generale dunque tener conto dello specialissimo apporto che alla creazione degli utili apportarono i gerenti od amministratori o direttori.

 

 

La quota spettante ai dipendenti non è, inoltre, mai ripartita in parti uguali. I coefficienti dei quali si tiene conto sono per lo più i seguenti:

 

 

  • a) l’ammontare dello stipendio o salario ricevuto nell’anno, supponendosi che esso sia indice del contributo dato dall’operaio alla produzione;
  • b) l’anzianità nell’impresa, volendosi premiare i dipendenti che dimostrarono meglio il loro attaccamento all’impresa. Il criterio è visto di malocchio dalle leghe operaie, le quali vi scorgono un mezzo per legare l’operaio all’impresa singola e scemare la sua solidarietà con i compagni di lavoro;
  • c) la funzione coperta. È criterio che accentua quello dell’ammontare del salario e cresce la parte di coloro che, senza avere funzioni direttive hanno una posizione particolare di fiducia;
  • d) la remunerazione aggiunta per ore straordinarie o per gratifiche, reputandosi che siano indice di particolare operosità del dipendente;
  • e) i carichi di famiglia. Dove non esistono casse per assegni famigliari, la quota utili vien fatta servire ad integrare il salario con un sovrappiù proporzionato ai diversi carichi di famiglia. Lo scopo è sempre quello di rendere l’operaio affezionato all’impresa;
  • f) il merito individuale. È criterio riservato alla valutazione soggettiva del datore di lavoro. Il signor Michelin, che nel 1898 introdusse la partecipazione nei suoi stabilimenti per la produzione della gomma elastica a Clermont Ferrand, a spiegare la sua avversione alle regole fisse, scriveva:

 

 

«Nei primi tempi osservavo tra gli operai alcuni che erano una vera élite. La loro devozione mi era stata così utile ai nostri inizi ossia in un’epoca nella quale le difficoltà superavano di gran lunga i benefici, che mi risolsi a compensarli quando vennero anni migliori. Poiché essi avevano lavorato più di quanto mi dovessero per la loro paga, ritenni giusto di dover dar loro più della loro paga. Perciò fondai la partecipazione. Sapevo che essi prendevano a cuore in tutto l’interesse della casa e che essi, al par di me, volevano fabbricare il miglior pneumatico possibile. Essi curavano di evitare lo spreco delle merci e delle materie prime e di ben utilizzare gli strumenti del lavoro, perché capivano che in ciò sta una gran ragione di grande economia, e seguivano con la maggiore attenzione le consegne loro date, in modo che il loro lavoro fosse sempre perfettamente eseguito. Se essi reputavano vantaggioso modificare una maniera di lavorare o cambiare una macchina, lo dicevano ai capi, e li avvertivano quando qualche cosa non andava bene nelle gomme, nelle tele e nelle altre materie prime. E se capitava loro di commettere uno sbaglio, invece di nasconderlo e di dirsi: tanto peggio!, non se ne accorgeranno!, segnalavano la cosa ai loro capi affinché la fabbricazione non ne soffrisse. Per essere un buon partecipante, bisogna essere come costoro. Ci tengo ad affermare che se un uomo non ha tutte queste qualità, se egli non dà al lavoro una cura continua, se egli cerca di cavarsela, se egli non pensa: “Io voglio che il mio lavoro sia ben fatto”, costui non è degno di diventare e neppur di continuare ad essere un partecipante. Vennero operai da me dicendomi: “Ho sei anni di presenza nella ditta, dovrei essere partecipante”. S’ingannavano. La partecipazione non è fatta per premiare l’anzianità. La partecipazione è riservata agli uomini intelligenti e coscienziosi che ci aiutano con tutte le loro forze a far sì che il pneumatico Michelin sia sempre il miglior pneumatico del mondo».

 

 

Tipiche dichiarazioni, queste del Michelin, perché mettono in luce quella che vedremo essere la vera sostanza della partecipazione agli utili; che non è di dare agli operai una quota di utili venuti fuori, non si sa come, dall’impresa, sibbene di riconoscere che coloro i quali hanno contribuito a creare l’utile, hanno ragione di avere quella parte di esso che loro spetta. E se così è, la partecipazione ha un limite: il lavoratore ha ragione di ricevere l’utile, che egli ha creato e nella misura nella quale lo ha creato.

 

 

In tema di divisione degli utili, giova ricordare i casi monopolistici nei quali la partecipazione non può essere limitata ai datori di lavoro ed ai lavoratori. Poiché l’utile deriva in parte dalla situazione di monopolio nella quale si trova l’impresa, la divisione dell’utile fra le sole due parti sovraindicate avrebbe natura di divisione del bottino fra i complici di un ladrocinio. È accaduto perciò che il legislatore – qui è intuitivo il dovere del legislatore di intervenire per vietare ai complici di condurre a termine l’operazione di spoglio dei consumatori – intervenisse a regolare la divisione, imponendo che, se questa deve aver luogo, si badi prima all’interesse pubblico. Così ad esempio, i quaderni di concessione dell’impresa del gas nei quartieri meridionali di Londra, stabilivano che la South Metropolitan Gas Company, dopo aver versato il 5% di interessi alle azioni ordinarie, destini il 75% degli utili eventuali ad abbuoni di prezzo a favore dei consumatori di gas, il 12,50% agli azionisti ordinari (e cioè non ai privilegiati, i quali hanno una tal quale garanzia di reddito) e il 12,50% agli impiegati ed operai associati.

 

 

Ma la consecuzione degli utili è subordinata alla condizione che il prezzo sia inferiore ad 11 denari per therm, che è l’unità di misura del gas. Se il prezzo è di 11 d. o superiore ad 11 d. nessun utile può essere ripartito. Così si crea un interesse comune nell’imprenditore e nel lavoratore al ribasso del prezzo, ossia al vantaggio dei terzi prima che al proprio. Ma, anche ribassato il prezzo, poiché trattasi di impresa di servizio pubblico (gas) tipicamente monopolistica, il 75% dell’utile va devoluto ai consumatori e solo il 25% ai produttori (datori di lavoro e lavoratori).

 

 

75. Destinazione della quota spettante al lavoro.

 

Gli esperimenti fatti indicano tre vie principali.

 

 

76. Il pagamento in contanti.

 

È sistema preferito in Inghilterra e negli Stati Uniti dove si vuol dare immediatamente al lavoratore la sensazione di toccare con mano la somma alla quale ha diritto. Il datore di lavoro non pretende sostituirsi al dipendente nel giudizio intorno al miglior uso da dare alla quota utili e si affida al suo senso di dignità di uomo e di responsabilità verso la famiglia.

 

 

77. Il pagamento differito con capitalizzazione.

 

Altri invece teme che il lavoratore, ricevendo una somma discreta tutta insieme al momento della approvazione del bilancio sociale, sia tratto a sprecarla od a farne uso poco vantaggioso per sé e per la famiglia, e ricorre perciò al sistema di capitalizzare la somma medesima a vantaggio del lavoratore.

 

 

  • a) con iscrizione della somma in un libretto di risparmio individuale, cosicché si costituisca a poco a poco un patrimonio il quale diventerà disponibile per il lavoratore dopo il trascorrere di un dato numero di anni ed in seguito al verificarsi di un determinato tempo;
  • b) con versamento su un conto individuale presso apposita cassa allo scopo di costituzione di una pensione vitalizia, riversibile talvolta a pro della moglie e dei figli minorenni;
  • c) con una combinazione in proporzioni varie dei due sistemi precedenti;
  • d) con acquisto e custodia per conto del lavoratore di titoli di tutto riposo, disponibili come si è detto sopra.

 

 

I sistemi finora descritti hanno la caratteristica comune di essere investimenti operati nella moneta del paese. Funzionavano abbastanza bene nel secolo scorso dal 1814 al 1914 quando, per una combinazione di casi che può dirsi essere stata un unicum nella storia del mondo, si diffuse la convinzione essere conveniente per gli stati mantenere invariata la unità monetaria in peso e in titolo e quindi discretamente costante la potenza d’acquisto della stessa unità monetaria. Gli uomini durante quel secolo si persuasero esistesse in realtà quella mitica astrazione detta «investimento in titoli di tutto riposo», principalmente titoli di stato, di credito fondiario, crediti ipotecari e simili. Le svalutazioni monetarie susseguenti al 1914 riportarono gli uomini verso la realtà storica normale che è il disordine monetario, ossia le falsificazioni, ora dette svalutazioni monetarie. Salvo alcune eccezioni parziali, e paiono lodevolissime anche le parziali (Svizzera e paesi anglo – sassoni), non esiste più l’investimento di tutto riposo. Persino le assicurazioni sulla vita sono divenuti giochi d’azzardo sul valore futuro della unità monetaria.

 

 

Non per la sola ragione ora detta, ma anche per essa, si preferisce talvolta la capitalizzazione con:

 

 

  • e) acquisto di azioni o carature della medesima impresa, presso la quale il lavoratore è ammesso alla partecipazione agli utili. Queste dovrebbero avere il vantaggio, in confronto ai titoli cosidetti di tutto riposo, di essere quote di comproprietà nel patrimonio della ditta medesima, quindi quote parti di cose, di cosidetti valori reali, sottratte alle conseguenze delle svalutazioni monetarie, e per giunta quote parti del patrimonio di un’impresa alla cui prosperità il lavoratore è interessato e che egli conosce per pratica di vita quotidiana.

 

 

Essendo però dominante nel sistema della partecipazione il principio che il lavoratore non debba partecipare alle perdite, si vuole evitare, nei limiti del possibile, che anche nell’investimento della sua quota utili egli sia soggetto a perdite. Perciò non si offrono a lui azioni ordinarie o comuni, che sono le azioni le quali hanno il diritto a partecipare ultime agli utili, le quali ricevono cioè tutto quel che resta, ma solo quel che resta dopo aver pagate tutte le spese, alimentati i fondi di riserva, pagati gli interessi fissi agli obbligazionisti, i dividendi agli azionisti privilegiati, le interessenze agli amministratori ed ai delegati, e che, in caso di liquidazione dell’impresa, ricevono tutto ma anche qui solo quel che resta del patrimonio sociale, dopo aver provveduto al soddisfacimento di tutte le passività. Le azioni comuni od ordinarie possono ricevere un grosso dividendo e godere di notevoli aumenti del proprio valore, ma possono anche non ricevere nulla e ridursi a valore zero. Dati i quali rischi, si preferisce perciò di solito assegnare, in pagamento della quota utili ai lavoratori azioni privilegiate, le quali sono azioni ossia quote di patrimonio, che perciò non ricevono un interesse fisso convenuto, ma un dividendo variabile. Però, a differenza delle ordinarie, il dividendo è assegnato alle azioni privilegiate in precedenza a quelle ordinarie. Se utili ci sono, ad es., viene prima ripartito un dividendo sino al 5% alle privilegiate, poi, se resta qualcosa, un dividendo sino al 10% alle ordinarie, poi, se resta ancora qualcosa, tutto il supero può essere assegnato alle ordinarie, ovvero diviso fra queste e le privilegiate, con prevalenza a favore delle ordinarie, le quali correndo maggiori rischi, hanno diritto ad avere maggiori eventuali vantaggi.

 

 

Il sistema qui descritto chiamasi anche dell’azionariato operaio.

 

 

Non è indispensabile che i lavoratori diventino azionisti della propria impresa solo attraverso l’impiego della quota utili ad ognuno spettante. Essi possono investire in tal modo altri risparmi propri costituiti da altre fonti. Taluno vorrebbe investire in quelle azioni le somme destinate alle indennità di licenziamento od altrimenti promesse ai dipendenti. Naturalmente il possesso di azioni dà diritto al lavoratore di partecipare alle assemblee degli azionisti e il diritto di elettorato attivo e passivo per i consigli di amministrazione. Talvolta, si usa attribuire al gruppo dei lavoratori possessori di azioni sociali il diritto a sé stante di nominare, separatamente dagli altri azionisti, uno o più consiglieri di amministrazione, aventi i medesimi compiti degli altri membri del consiglio.

 

 

Il grave inconveniente dell’investimento in azioni è proprio quello di essere un investimento in azioni e di quella impresa. Ai piccoli risparmiatori, ai lavoratori, i quali cominciano la loro carriera di investitori non si può dare il consiglio di scegliere proprio quel tipo di investimento dei propri risparmi che corre un massimo di rischi.

 

 

Al tirocinante – risparmiatore occorre un investimento sicuro. A parte una riserva di depositi a risparmio presso di una cassa di risparmio per la somma minima necessaria a parare alle più urgenti necessità della vita (malattia, disoccupazione, funerali, ecc.) non coperte da particolari assicurazioni, si possono enunciare, in ordine di importanza e di sicurezza di investimento per il lavoratore: il mobilio e l’arredamento della casa, l’acquisto dell’appartamento, della casetta di abitazione, l’acquisto dell’orto o giardino. Investimenti che nei paesi socialmente più progrediti, come la Svizzera, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, sono facilitati da banche ipotecarie e da società mutue edilizie, le quali giungono ad anticipare l’80% e persino il 90% del prezzo di acquisto, con larghe more per il pagamento rateale della residua somma. L’investimento dicesi consigliabile, nonostante leghi l’operaio alla località dove egli risiede e ne diminuisca la mobilità, perché lo spinge ad ulteriore risparmio, lo affeziona alla famiglia, dà sanità ai figli; e dal punto di vista psicologico, l’oggetto in cui si è investito il risparmio rimane sotto gli occhi dell’investitore, il quale non solo gode i frutti, ma li gode direttamente traendone vantaggi morali oltre quelli puramente economici. Il risparmiatore risparmia i denari dell’osteria, e guadagna in salute nel lavoro dell’orto e consuma prodotti di valore superiore alla fatica del lavoro, divenuto quasi divertimento, e di sapore migliore di quelli acquistati sul mercato.

 

 

Più in là non si può andare nel dar consiglio al lavoratore- risparmiatore; non certo si può dare ad essi decentemente il consiglio di acquistare azioni dell’impresa presso cui lavorano. L’impresa può andar bene o male. L’azione acquistata a 100, anche se privilegiata, può ribassare a 70, a 50, a zero. L’operaio, anche se il consiglio era dato in buona fede, avrà certamente l’impressione di essere stato defraudato. Quel consiglio che a malapena si potrebbe dare ad un risparmiatore facoltoso, che può variare i suoi investimenti, che può correre il rischio di perdere una decima parte di essi, perché ha l’alea di non perdere o di guadagnare sugli altri, si ha il dovere morale di non darlo al lavoratore, per il quale la perdita di mille lire può essere cagione di scoraggiamento grave e forse di sofferenza. È evidente che un impiego che il consigliere finanziario imparziale ha il dovere di non dare al singolo, non può essere un mezzo per risolvere un problema importante per la collettività. Il giudizio può mutare se l’investimento in quote o azioni o carature di comproprietà significhi il passaggio della proprietà e della gestione dell’impresa dal datore di lavoro ai lavoratori. Siamo ai casi già ricordati della Maison Leclaire e del Bon marché e della Samaritaine di Parigi e del familistero di Guise. In questi casi, il datore di lavoro, avendo di mira lo scopo di donare l’impresa ai dipendenti, e nello stesso tempo volendo togliere l’apparenza del dono, che corrompe e crea malcontento in chi lo riceve, al quale sembra spesso di avere ricevuto troppo poco, sia in quantità assoluta sia relativamente agli altri beneficiati, immagina (Godin, nel familistero di Guise) espedienti allo scopo di dimostrare di aver rimborsato a se stesso il capitale con le quote utili che in ogni modo gli spettano, lega l’impresa in parte notevole ad un ente autonomo, creato nell’interesse dei dipendenti; e fa pagare le quote di comproprietà abbandonate ai dipendenti mercé le quote utili ad essi spettanti. Qui il lavoratore diventa non un azionista come tutti gli altri; ma un azionista il quale compera le azioni o carature in quanto continua a lavorare nell’impresa e sa che anche gli altri azionisti hanno le stesse opportunità ed a tutti i dipendenti è offerta la possibilità, osservate certe condizioni, di diventare azionisti. Sembra che il successo dell’esperimento sia anzitutto in ragione dell’efficacia delle condizioni poste al divenire ed al cessare di essere partecipanti (su di che vedi in seguito i paragrafi 80 ed 81).

 

 

78. Il pagamento alla collettività dei dipendenti.

 

Nella maggior parte dei casi la partecipazione agli utili, se conseguita in modo non contrario a ragione, ossia se proporzionale al peso del lavoro nella produzione del reddito, dà luogo ad una constatazione: in media la quota attribuita all’operaio singolo è una quantità così tenue, da parer irrilevante in confronto al salario normale, nulla più di una modesta gratificazione, neppure uguale a quei doppi mesi o doppie settimane che la consuetudine ed i contratti collettivi hanno generalizzato in molti paesi. In questi casi val la pena di iniziare un esperimento, il quale contrariamente alle grandi promesse, ubbidisce al proverbio: Parturiunt montes, nascitur ridiculus mus? è parso perciò a taluni datori di lavoro che si imponesse, data la modestia del risultato capace solo di creare malcontento, una destinazione degli utili che, evitando lo sminuzzamento della somma assegnata al lavoro in quote individuali impalpabili, raggiungesse effetti apprezzabili per il complesso dei lavoratori. Se cento lire a testa per operaio non mutano se non di poco la sua situazione economica, cento moltiplicate per diecimila o per centomila operai, consentono di destinare a scopo di interesse comune a tutti gli operai somme non spregevoli di 100.000 o un 1.000.000 di lire.

 

 

La casa Dollfus-Mieg et C.ie, primaria nell’industria tessile a Mulhouse nell’Alsazia, sovvenziona così sale di maternità, sale di asilo per bambini, scuole e patronati scolastici, sanatori, case di abitazione a buon mercato per gli operai e le loro famiglie; incoraggia assicurazioni ed investimenti volontari con concorsi percentuali che efficacemente integrano i risultati dello sforzo compiuto dall’operaio e così ne stimola le iniziative. È probabile che l’effetto utile dell’impiego a scopi collettivi sia superiore in molti casi, forse nella maggioranza dei casi, a quello dell’impiego individuale. Talvolta i due mezzi possono essere usati contemporaneamente.

 

 

I signori Cognacq, nell’operare il passaggio della proprietà dei Grands Magasins de la Samaritaine di Parigi ai loro dipendenti, riservarono 18.000 azioni ad una fondazione Cognacq, la quale provvede al mantenimento di sale di maternità, ospedali, asili per bambini, case di riposo, abitazioni a buon mercato a favore dei dipendenti e delle loro famiglie.

 

 

79. Gestione dei fondi.

 

Quando gli utili non sono versati in contanti agli interessati, sorge il problema della loro gestione. Questa può essere affidata all’impresa medesima che vi provvede a proprio criterio. Se però le cose dell’impresa volgono male, i fondi spettanti agli operai corrono il rischio di essere considerati come un mero credito di questi verso l’impresa e di essere rimborsati agli operai in moneta di fallimento, nella stessa percentuale usata rispetto agli altri creditori. Si preferisce perciò affidare la gestione dei fondi ad un ente o cassa, costituita giuridicamente in forma autonoma, sicché le sue sorti siano indipendenti da quelle dell’impresa; e tale che dell’amministrazione facciano parte delegati degli stessi operai. Ad evitare anche la responsabilità dell’amministrazione separata, talune imprese usano versare le quote utili operaie ad una cassa pubblica di pensioni o di previdenza sociale, la quale abbia fini di vantaggio per le maestranze, analoghi a quelli che si è proposta l’impresa.

 

 

80. Inizio del diritto alla partecipazione e clausole di decadenza.

 

La semplice appartenenza come lavoratore all’impresa non basta quasi mai a dare diritto alla partecipazione. Nessuno pensa che l’avventizio, colui il quale fugacemente passa, come una meteora, in un’impresa, abbia ragione di partecipare agli utili. Occorre un minimo di collaborazione, di fedeltà, di dimostrata affezione all’impresa, minimo che può essere in rapporti alla durata dell’appartenenza (un anno o più), al grado raggiunto nella gerarchia, allo zelo dimostrato e simili.

 

 

Frattanto le quote utili si accumulano a credito dell’operaio, e gli saranno versate quando si verificherà l’evento, a cui sono state condizionate. Quid, se l’evento non si verificherà se, ad esempio, l’operaio non raggiunge i cinque, i dieci, i venti anni di servizio, dopo i quali soltanto il fondo accumulato a suo credito diventa esigibile? La quota, per lo più, non va a favore dell’impresa, la quale potrebbe essere sospettata di cercar pretesti di non pagare, a proprio vantaggio egoistico; ma a favore della massa dei partecipanti. Il che in modo particolare accade quando la gestione è affidata ad una cassa autonoma.

 

 

La clausola di decadenza per non compiuto periodo di appartenenza all’impresa è avversata dalle leghe operaie, le quali veggono in essa uno strumento per legare l’operaio all’impresa e togliergli quella libertà di movimento e di abbandono di lavoro che è condizione necessaria per ottenere il salario normale più favorevole. Per il piatto di lenticchie di una partecipazione differita l’operaio rinuncierebbe così al suo diritto di primogenitura che è l’associazione con i compagni di lavoro rivolta a conseguire il salario normale. L’obbligazione, tuttavia, non è perentoria e potrebbe far propendere verso il metodo (vedi sopra, paragrafo 76) di pagare la quota utili in contanti alla chiusura di ogni singolo bilancio.

 

 

La clausola di decadenza è frequentemente applicata nei casi nei quali la partecipazione agli utili si rivolge, più che agli operai, ad impiegati incaricati di funzioni di iniziativa. Tipici i cosidetti produttori nelle imprese di assicurazione, i quali ricevano, oltre un minimo insufficiente stipendio fisso, una quota dei premi riscossi nei contratti di assicurazione da essi messi in vita; od altrimenti partecipino agli utili dell’impresa con utili accantonati in un fondo. Il produttore si trova spesso dinnanzi all’alternativa: rimanere al servizio della compagnia e godere del fondo utili ovvero licenziarsi per passare al servizio di altra compagnia e perdere il diritto al fondo. Scelga egli stesso, si dice, fra il vantaggio della miglior paga presso il nuovo datore di lavoro ed il danno della perdita del fondo accumulato al suo credito. La cosa sembra avere importanza sovratutto morale, ché la prospettiva della perdita frena il produttore dal passare al servizio di altri, portando a questi, oltre alla sua esperienza, anche la clientela prima ottenuta a pro del primo datore di lavoro.

 

 

81. La condizione principale del successo nella partecipazione-gestione.

 

Se la partecipazione agli utili non si esaurisce nella distribuzione a fine d’anno di una somma in contanti ai partecipanti, ma vuol creare un vincolo più o meno permanente fra impresa e lavoratori, l’esperienza ha dimostrato la necessità non solo di una scelta, ma di una gerarchia nella maestranza. Il fondatore dell’impresa Leclaire, la più antica conosciuta nel campo industriale, distingue ad esempio i lavoratori in membri del noyau (o nocciolo della maestranza totale); ed in sociétaires, ausiliari ed apprendisti.

 

 

I primi costituiscono un corpo scelto, da una decima ad una sesta parte del numero totale, al quale sono affidati i compiti gelosi della nomina dei due gerenti dell’impresa, dei capireparto e del presidente della Société de prévoyance et de secours mutuels, instituita in seno all’impresa, ormai divenuta una vera cooperativa di produzione e di lavoro (decorazione case). Il noyau, costituito in origine dal fondatore, si perpetua col sistema della cooptazione o chiamata. Il sistema, essenzialmente aristocratico, era il metodo elettorale proprio delle costituzioni repubblicane di stati che durarono lunghi secoli (Venezia, Genova, città anseatiche ecc.) per la scelta di una parte degli ufficiali reggitori dello stato. Si conserva per tradizione nelle corporazioni o ghilde, che costituiscono la città di Londra; ed è in uso nelle facoltà universitarie e nelle accademie scientifiche. Qui nessun altro metodo migliore è stato trovato per assicurare la buona scelta di persone, le quali costituiscono o dovrebbero costituire un corpo scelto di uguali. Gli uguali già in carica sono investiti della facoltà di cooptare i nuovi membri in caso di posti vacanti, ossia di chiamare altri a far parte del loro gruppo; ed i chiamati diventano immediatamente gli uguali degli anziani. È la sola forma di democrazia la quale sia compatibile con la persistenza di un corpo aristocratico. Una elezione dal di fuori, ad esempio dal governo, dal parlamento, da un corpo elettorale più o meno vasto, guasterebbe immediatamente il corpo, ed introdurrebbe elementi di disgregazione e di faziosità, laddove il fattore esse di persistenza è la stima morale reciproca di uomini, i quali, cooptando il nuovo venuto, dimostrano di ritenerlo in tutto degno di divenire un loro uguale.

 

 

Nell’industria l’elezione dei capi col voto di tutti i lavoratori dipendenti dall’impresa sembra dall’esperienza essere dimostrato incompatibile con la persistenza dell’impresa. Non vi è nessuna ragione per credere che un corpo elettorale di 100, di 1.000 o 10.000 dipendenti di una impresa industriale, scelga come amministratori e dirigenti dell’impresa i migliori. Facilmente sono nominati coloro che promettono maggiori vantaggi immediati alla generalità, aumenti di salari, utili più alti. I capi eletti non possono più mantenere la disciplina fra gli elettori, da cui attendono la rielezione. L’impresa è votata, con sicurezza assoluta, alla rovina. D’altro canto, non esiste più, in questo tipo di impresa, un metodo che, venuto meno il «padrone» od «il consiglio di amministrazione nominato dall’assemblea degli azionisti», permetta di scegliere i dirigenti dall’alto. Non vi è altra scelta possibile: o l’impresa privata, in cui ai fornitori del capitale (soci, azionisti) è affidata la scelta dei dirigenti (amministratore delegato, consiglio di amministrazione, gerenti) e questi alla loro volta scelgono, scendendo gerarchicamente, i direttori, sotto-direttori, capi-reparto, impiegati ed operai; ed il sistema funziona, tutto sommato, con un successo notevole; ovvero l’impresa partecipante – cooperativa – associata, nella quale un nucleo limitato di partecipanti, scelto generalmente dal fondatore dell’impresa, si perpetua per cooptazione, ossia elevando o chiamando a se i migliori fra coloro i quali hanno dato prova di attaccamento all’impresa. L’impresa economica non può essere governata, se si vuole la sua persistenza, ossia «se si vuole che essa non fallisca», per elezione a suffragio universale; ma richiede il governo monarchico o quello aristocratico di un corpo di uguali.

 

 

Nel familistero di Guise, altro esempio classico di partecipanti agli utili, voltosi in gestione dei partecipanti per volontà del fondatore, la gerarchia è più complessa:

 

 

  • gli associés i quali devono abitare il familistero (città operaia creata dal fondatore attorno allo stabilimento, con abitazioni separate e servizi centrali facoltativi di cucina, lavanderia, ricreazione, asili per bambini, ecc., all’incirca secondo il modello di Fourier, di cui il fondatore Godin era un seguace) da almeno 5 anni, avere almeno 25 anni, possedere almeno una quota del capitale sociale ed essere stati cooptati dall’assemblea degli associati medesimi. All’assemblea generale degli associés spettano i poteri ultimi, che sono quelli della scelta dell’amministratore-gerente e del consiglio di gerenza; oltreché di consigli speciali per il familistero, di sorveglianza, ecc.;
  • b) i sociétaires, che possono essere ammessi dal consiglio di gerenza e dall’amministratore-gerente, dopo almeno 3 anni di abitazione nel familistero e 21 anni di età. Si veda che la condizione non è un dato numero di anni di lavoro nello stabilimento ma quella di un minimo di tempo di abitazione nel familistero. Poiché il numero degli appartamenti è inferiore al numero dei lavoratori, e poiché alcuni preferiscono abitare fuori, quel che si chiede non è solo la comunione del lavoro, ma questa insieme ad una comunione in un modo di vita, che dimostri la volontà dell’operaio di assimilare la sua alla concezione di vita dei suoi compagni. Si osservi ancora che laddove gli associés, ossia i lavoratori del nucleo centrale, sono scelti secondo il modo aristocratico di chiamata fra uguali (cooptazione), e questi nominano i capi; alla loro volta i sociétaires, ossia i membri del nucleo di secondo grado, sono scelti in modo autocratico dai capi (amministratore-gerente e consiglio di gerenza). L’insieme del nucleo centrale (associés) e del nucleo circostante (sociétaires) potrebbe in certa guisa paragonarsi al collegio dei cardinali, i quali sono nominati dal papa regnante ed alla loro volta scelgono nel proprio seno il novello papa. La persistenza bimillenaria del tipo di governo della chiesa è indizio che cotal metodo di scelta è favorevole alla vita dell’ente;
  • c) i partecipanti ammessi dal medesimo consiglio di gerenza insieme all’amministratore-gerente. Debbono lavorare da almeno un anno nello stabilimento, avere 21 anni di età ed abitare nel familistero;
  • d) gli ausiliari, personale fluttuante non ammesso alla partecipazione agli utili, ristretta ai primi tre gruppi;
  • e) gli intéressés, che erano e non sono più membri attivi della società; ma partecipano agli utili per la parte relativa alle quote di capitale che essi posseggono per eredità o per acquisto.

 

 

L’esistenza di questa ultima categoria segnala un pericolo che minaccia la vita dell’impresa in partecipazione e di quella cooperativa: la separazione progressiva delle persone dei lavoratori e dei possessori delle quote di capitale. Se anche, in un primo tempo, il fondatore ha provveduto a che le quote di comproprietà dell’impresa passassero, per attribuzioni di quote utili o per sottoscrizione, ai lavoratori, dal più alto ai minori operai, chi garantisce che le quote od azioni trapassino, per eredità o per acquisto, in mano di persone che appartengano al corpo dei lavoratori (dirigenti impiegati tecnici operai) effettivi dell’impresa?

 

 

Godin, fondando il familistero di Guise, ha cercato di garantire anche per l’avvenire la persistenza dell’associazione fra capitale e lavoro da lui voluta. Il possesso delle azioni è condizionato all’ufficio o lavoro prestato. Come il fondatore Godin ha rimborsato a se stesso il capitale con gli utili dell’impresa, così è prescritto che il gerente e gli associés o sociétairs, cessando di partecipare attivamente col lavoro possano ed i loro eredi debbano vendere le loro azioni ai loro successori nel nucleo o sotto-nucleo; e questi abbiano diritto di riscattare le azioni stesse, con pagamento graduale sia con la loro quota utili sia con risparmi altrimenti accumulati. Il fine è quello di operare una rotazione continua del possesso delle azioni, in guisa che la massima parte di queste siano in possesso dei lavoratori effettivi. Qualche residuo in mano di gruppi di intéressés è tuttavia sempre possibile e non si può negare che il sistema funzioni a questo riguardo con attriti non piccoli.

 

 

82. I problemi contabilistici della partecipazione.

 

L’utile da ripartire ha come punto di partenza il saldo del conto profitti e perdite dell’esercizio dell’impresa in un dato periodo di tempo, di solito l’anno; ed il saldo deve essere uguale a quello che risulta dall’inventario patrimoniale della fine dell’anno in corso, supponendo invariata la consistenza patrimoniale netta in confronto a quella dell’esercizio precedente. Così ad esempio:

 

 

CONTO PROFITTI E PERDITE

Profitti

Perdite

da merci vendute

18

spese generali

2

interessi attivi, provvigioni ecc.

2

spese lavorazione

8

 

Deperimento

4

 

interessi passivi e perdite

1

Totale

20

Totale

15

 

saldo utili

5

 

Totale

20

 

 

CONTO PATRIMONIALE

Attivo

Passivo

edifici e terreni

20

A terzi

impianti e macchinari

20

c/c passivi

10

scorte merci

10

obbligazioni

10

crediti e titoli

10

 

Totale

50

Totale

20

    riserva

5

    capit. netto

20

   

Totale

25

    saldo utili

5

   

Totale

50

 

 

Se tutti i dati dei due conti fossero dati di fatto oggettivi, la cifra dei saldo sarebbe anch’essa un fatto incontrovertibile oggettivo. Talune cifre sono di questo tipo: ad es., il ricavo delle merci vendute, gli interessi attivi incassati, le spese generali di lavorazione sostenute (stipendi, salari, assicurazioni), i prezzi delle materie prime, effettivamente pagate, gli interessi passivi e le perdite per insolvenze nel conto profitti e perdite; le somme dovute a terzi in conto corrente o per obbligazioni emesse; il capitale versato e le somme mandate a riserva. Ma tutte le altre cifre sono valutazioni e cioè ipotesi che l’amministratore fa intorno al valore delle diverse attività o passività elencate nell’inventario.

 

 

Le ipotesi variano a seconda della premessa dalla quale si parte.

 

 

Se si suppone che l’inventario sia compilato da un liquidatore di un’impresa la quale ha cessato di funzionare, la stima è informata a determinati criteri. In questo caso bisogna dare alle attività le valutazioni adatte ad una liquidazione; calcolare il prezzo che si può realizzare vendendo sul mercato cose le quali si ignora se potranno essere utilizzate ai fini per le quali furono costrutte; che forse dovranno essere trasformate per servire a qualche uso. Può darsi che il terreno, liberato dagli edifici che gli stanno sopra, valga come area edilizia di più di quello che valeva quando era vincolato all’uso precedente; ma è possibile che gli edifici abbiano solo valore di demolizione e che gli impianti e le macchine debbano essere venduti come rottami. Le sole scorte avranno un prezzo di mercato.

 

 

Se si suppone invece che il compilatore dell’inventario parta dalla premessa che l’impresa sia viva ed operante, farà una certa altra stima dei terreni, degli edifici, degli impianti e delle macchine. In questo caso non si ha bisogno di vendere l’impianto tutto assieme. Lo si vende, giorno per giorno, per frazioni piccolissime trapassate nel valore delle merci fabbricate, delle quali ogni unità contiene quella che si può chiamare l’usura (o deperimento) delle macchine, dell’utensile, dell’edificio, e delle altre attività deperibili, le quali vanno logorandosi durante la lavorazione. Perciò la stima che si fa delle attività è informata ad un altro criterio od almeno non è soltanto quella del prezzo che si potrebbe ricavare dalla vendita sul libero mercato. Fa d’uopo prevedere il prezzo ricavabile dalle unità piccolissime di macchine, di impianto, di edificio trasfuse nelle merci vendute e tal prezzo è dedotto, con opportuni ragionamenti tecnici ed economici, dal prezzo prevedibile delle merci che si venderanno in avvenire durante la vita della macchina che si tratta di valutare e nelle quali le macchine stesse si saranno, per lavorazione e logorio, convertite. Cotal prezzo sarà a sua volta diverso a seconda che lo stimatore considera più o meno lunga la vita dell’impresa viva ed operante. Se egli limita la sua considerazione ad 1 anno, la stima che farà delle merci vendibili, del costo loro di produzione, del reddito netto e della quota attribuibile di esso alla macchina sarà diverso da quello che farà se egli allunga il suo sguardo ad una vita di 5, di 10, di 50 anni od alla fine se egli la suppone perpetua. Mutano, col mutare delle premesse, le valutazioni.

 

 

Le premesse sono anche soggettive. Si può valutare una impresa allo scopo di soddisfare il desiderio dell’imprenditore di rendere conto a se stesso del proprio stato patrimoniale, ovvero allo scopo di rendere conto della propria gestione ai proprietari (azionisti di una società anonima o soci in nome collettivo od in accomandita) od a terzi creditori od allo stato tassatore. Ogni volta mutano i criteri di compilazione di bilancio. Il procuratore all’imposta di ricchezza mobile non accetta, sulla base delle proprie istruzioni e delle leggi che deve applicare, quasi mai criteri usati legittimamente per proprio conto dal contribuente; e nelle trattative tra le due parti, – e possono essere trattative condotte dalla finanza con le associazioni industriali, – si concordano criteri, che non sono sempre quelli seguiti nei confronti con gli azionisti e riconosciuti legittimi da periti e, occorrendo, da tribunali.

 

 

Se si sa quanto si è speso in salari, che cosa mai si può dire su quanto si è speso a titolo di deperimento impianti e macchinari? L’amministratore, il quale chiede al tecnico quanti anni la tale o tal altra macchina durerà, si sente rispondere: data la resistenza dei materiali di cui la macchina è composta, dato il lavoro che essa deve fare, il numero dei giorni all’anno e delle ore al giorno per cui deve lavorare e la velocità dei giri compiuti dalle sue ruote è prevedibile che la macchina duri 10 anni. Se la macchina è costata 100.000 lire, l’amministratore metterà da parte ogni anno 10.000 lire (ossia considererà come spesa nel conto profitti e perdite una quota deperimento di 10.000 lire) allo scopo di poter mettere insieme in 10 anni la somma di 100.000 lire necessarie per ricomperare una macchina nuova al luogo di questa vecchia, la quale dopo 10 anni avrà il valore del ferraccio di cui e composta. E l’amministratore, così operando, si metterà in pace con la sua coscienza la quale gli fa obbligo di conservare intatto il capitale esistente, non suo ma di spettanza degli azionisti. Un altro amministratore, più prudente, non si contenterà di valutare (e di accantonare) come spesa 10.000 lire all’anno; ma iscriverà 12.000 o 15.000 lire, perché pensa che, se la macchina potrà durare in stato di lavorare fisicamente per tutti i 10 anni, può darsi che dopo il settimo o l’ottavo anno essa sia divenuta antiquata a causa dell’invenzione di una nuova macchina più perfetta. Deperimento economico che si aggiunge al deperimento fisico.

 

 

Ad ogni voce patrimoniale, il medesimo dibattito si rinnova. Nel complesso, può essere ragionevole tanto una cifra di 4 come una cifra di 2 o di 6 milioni. Se si scrive 4, gli utili risultano, come nell’esempio fatto sopra, di 5 milioni, se 2, gli utili salgono a 7, se 6 gli utili scendono a 3 milioni.

 

 

All’attivo del conto patrimoniale, le scorte sono valutate 10 milioni. Si assume come criterio di valutazione il prezzo corrente delle scorte medesime (cotone o lana o carbone o filati o laminati, ecc. ecc.) al 31 dicembre, data di chiusura del bilancio? Criterio ragionevole, se il bilancio deve fotografare la situazione delle cose al 31 dicembre. Ma un altro amministratore avrebbe potuto valutare le scorte al prezzo d’acquisto effettivo che fu di 12 milioni. I conti non devono forse tener dietro ai fatti? In tal caso l’utile sarebbe aumentato da 5 a 7 milioni. Un terzo, presentando il bilancio ai soci ed azionisti al 31 marzo successivo, può credere opportuno di valutare le scorte al prezzo corrente, ancor più basso, del giorno in cui il bilancio è messo sotto gli occhi dell’interessato, che è di 9 milioni, riducendo gli utili, per questo motivo, a 4 milioni. Un quarto amministratore, infine, più prudente ancora, osservando la tendenza calante dei prezzi, prevede che quando le scorte saranno state lavorate e trasformate in filati o tessuti o rotaie, ed i prodotti finiti saranno venduti, egli ne ricaverà un prezzo ancor più basso, da non prevedersi superiore ad 8 milioni. Ecco gli utili scendere a 3 milioni.

 

 

I crediti ed i titoli esistenti in portafoglio sono stimati 10 milioni. Perché non 8 o 12 a seconda delle previsioni su fatti futuri, come il prezzo di vendita dei titoli nel giorno in cui si vorranno vendere o le insolvenze eventuali dei debitori?

 

 

A seconda dei criteri con cui è impostato il bilancio e di quelli più meno prudenti o larghi di valutazione, oscilla la cifra finale in cui tutte queste variazioni nelle stime vanno a cadere, che è la cifra degli utili. Possiamo avere scarti fra 5 milioni di lire di perdite e 10 milioni di lire di utili. E tutte le cifre diverse sono tutte egualmente vere. Nessuna è falsa per falsità oggettiva. Tutte opinabili. Quid est veritas? E se, per ipotesi assurda, esistesse in tema di finanza la verità vera converrebbe sempre dichiararla? Se l’anno si chiudesse con 5 milioni di lire di perdita, converrebbe dichiararla con scredito dell’impresa, diradando la clientela, allontanando i creditori, a causa di una circostanza che può essere transitoria? L’amministratore saggio non opererà bene, nell’interesse di tutti, degli azionisti, dei creditori, dell’impresa e quindi degli operai, sopravalutando edifici, terreni, impianti e scorte per 10 milioni e facendo così figurare un utile di 5 milioni invece di una perdita di 5? Se egli salva l’impresa, non avrà ben meritato della cosa comune? Se egli poi, in passato, aveva sottovalutato le stesse attività per la stessa cifra di 10 milioni (queste sottovalutazioni si chiamano riserve nascoste), non sarà nel suo pieno diritto oggi di riportare le valutazioni al vero, per non confessare una perdita, che pur ci fu nell’anno in corso ma che egli spera sia transitoria? Di nuovo, ubi est veritas?

 

 

Si tace qui, perché porrebbe problemi i quali dovranno essere risoluti quando le unità monetarie avranno finito di rotolare e si saranno riassestate, dell’incognita spaventosa derivante dalle svalutazioni monetarie. Una macchina della durata probabile di 10 anni e del costo di 50 mila lire può essere, in tempi di moneta stabile, ammortizzata accantonando annualmente 5 mila lire. Ma se alla fine del decennio quella macchina costerà 3 milioni, è evidente che un accantonamento di 5 mila lire non basta e sarebbe necessario accantonare annualmente 300 mila lire, e cioè una somma sei volte maggiore del prezzo nominale d’acquisto. Quando le monete ballano il ballo di San Vito, tutti i conti diventano un gioco del lotto.

 

 

Le osservazioni sin qui fatte hanno per iscopo di mettere in chiaro che la partecipazione ai profitti, il cui intendimento era di mettere pace ed armonia tra capitale e lavoro, incitando amendue a lavorare bene per crescere la torta degli utili da ripartire, in realtà può essere come il vaso di Pandora, da cui si drizzano fuori ogni sorta di serpenti velenosi. Avranno i datori di lavoro e lavoratori le medesime opinioni in merito alle valutazioni delle singole voci del bilancio? Se il datore di lavoro guarda al futuro e costruisce il bilancio con la prudenza che si addice a chi vuol conservare l’impresa viva per lunghi anni, l’operaio non avrà ragione di usare criteri propri del tempo breve, del solo anno per cui egli è chiamato al lavoro? Il domani che cosa è? Sarà l’operaio ancora al lavoro nello stesso stabilimento? Se l’anno 1944 dà un utile, perché accantonarne una parte a favore degli operai del 1945 o del 1946 o di anni ancora più lontani?

 

 

Se questa è una ragione ottima per riservare la partecipazione al nucleo degli operai anziani, affezionati all’impresa; non è motivo per negare agli operai partecipanti il diritto alla conoscenza dei criteri in base ai quali il bilancio fu compilato. Cotal diritto chiamasi controllo operaio. A un socio, ché tale è il partecipante, nonostante non partecipi alle perdite, non si può negare il diritto di vedere i conti. Ma i conti non si fanno esaminare compiuti neanche agli azionisti veri e propri. Con la spesa di poche centinaia di lire un tizio qualunque, magari l’avvocato o il fiduciario dell’impresa concorrente, acquisterebbe il diritto di penetrare entro i registri più gelosi dell’impresa, di conoscere fornitori e clienti, prezzi, costi di lavorazione, ecc. ecc. I codici commerciali non consentono diritti così estesi che potrebbero essere letali all’avvenire dell’impresa; né li si potrebbero consentire agli operai partecipanti, tra i quali si potrebbero infiltrare arnesi dei concorrenti. Tuttavia les bons comptes font les bons amis; e se la partecipazione deve poter funzionare bene, non può non accompagnarsi ad un certo grado di controllo da parte operaia. Di nuovo si palesa la condizione restrittiva che essa è qualcosa adatta ad un gruppo scelto, ad una aristocrazia degli operai, i quali conoscono i limiti della fiducia che essi devono ripone in chi amministra l’impresa e scelgono fiduciari revisori dei conti degni di fede, da cui si contenteranno di sapere, nulla chiedendo di più, se non che i conti sono stati redatti con i criteri più oggettivi e prudenti che in tale opinabile materia potevano essere adottati.

 

 

La partecipazione ai profitti non è dunque atta a risolvere problemi generali attinenti alla universalità degli operai; non è la soluzione di uno stato di guerra tra il datore di lavoro e lavoratore; ché anzi, essa per sua virtù esaspera gli attriti dai quali nasce la guerra. Essa è il coronamento di uno stato preesistente di reciproca stima e fiducia. Non crea la pace sociale; la rinsalda. È un fattore di pace, che agisce in seguito a lunghe esperienze ed a faticosa educazione economica. Imposta dal di fuori inferocisce gli animi e li eccita alla discordia; venuta su dal di dentro dell’impresa, prepara la trasformazione dei salariati in soci.

 

 

83. Problemi economici della partecipazione.

 

La conclusione si rafforza, se si bada all’aspetto economico del problema. Qui il profitto od utile dell’impresa non è più una mera cifra controversa contabile: saldo di conti. Occorre analizzare il contenuto sostanziale di quella cifra.

 

 

84. Utile (profitto) non è interesse.

 

È pacifico, anzitutto, che il saldo utile non comprende né la remunerazione corrente del lavoratore, che è lo stipendio o salario, ne la remunerazione corrente del capitale, che è l’interesse. Qui si assume la parola interesse in uno dei parecchi significati possibili: la remunerazione che sul mercato si determina per i capitali che l’imprenditore chiede a prestito da se stesso o da altri per l’esercizio dell’industria. Se la concorrenza è perfetta, questa è la remunerazione anche per i capitali già investiti. Nella misura in cui la concorrenza non è perfetta, il mercato determina la remunerazione, detta interesse, solo per i risparmi in cerca di investimento, e quelli investiti ricevono invece una rendita o quasi rendita. Sarebbe certo bene usare una terminologia meno incerta, anche per non complicare la faccenda col problema dell’interesse che non è una remunerazione, ma un semplice vincolo fra due quantità uguali, divise da un intervallo di tempo. Ai fini della presente discussione, la definizione data sopra sembra però sufficiente. Se l’impresa non riesce a pagare il salario ai lavoratori e l’interesse al capitale investito, essa non è viva né vitale. L’istituto della compartecipazione degli operai agli utili non è fatto per i morti ed i moribondi. Un’impresa, la quale non frutta al capitale almeno l’interesse che potrebbe conseguire investendosi in titoli detti di tutto riposo, in prestiti ipotecari, in cartelle fondiarie, è destinata a languire e morire. L’interesse comprende il compenso vero e proprio dell’uso del capitale, suppongasi il 3% ed il compenso per i rischi prevedibili in quel genere di impresa, suppongasi il 2 percento. Quando il 3% si ottiene depositando i propri risparmi in una cassa di risparmio, se si vuole indurre il risparmiatore a investire in una impresa industriale, la quale presenta un certo rischio di perdita e di insuccesso, bisognerà dargli una aggiunta, supponiamo il 2 percento. L’aggiunta non è un reddito propriamente detto, ma quel tanto che in media compensa il risparmiatore del rischio di perdere il capitale. Al risparmiatore resta solo netto l’interesse del 3% il supero in media per lui equivale a zero.

 

 

85. L’utile non esiste in condizioni di concorrenza.

 

Dedotto l’interesse (compenso netto del capitale più quota rischio), che cosa resta?

 

 

Fatta l’ipotesi di concorrenza, nulla. Non appena rimane un saldo residuo, se è vero che i fattori produttivi sono disponibili senza limite, che possono essere portati sul o ritirati dal mercato senza attrito, che sono mobili e divisibili, come può durare un utile? Subito nuovi imprenditori si volgerebbero verso quell’industria od i vecchi aumenterebbero la produzione, fino a che, ribassando i prezzi, l’utile scompaia. Neppure l’imprenditore potrebbe, in regime di concorrenza, ottenere una remunerazione superiore al salario normale per il lavoratore a cui sia affidata la direzione e gestione dell’impresa. Né più né meno come il salario per ogni altro lavoratore. Il profitto dell’imprenditore è un vero salario che il mercato determina al livello sufficiente a rendere l’offerta di quel particolare genere di lavoro, detto direzione dell’impresa, uguale alla domanda.

 

 

La partecipazione degli operai ai profitti non è mezzo adatto per diminuire l’interesse del capitale, né il compenso dell’imprenditore. Mezzi adatti sono, a scemare l’interesse, tutti quelli che giovano a crescere la produzione del risparmio (moneta stabile, sicurezza, giustizia, rispetto dei contratti), a diminuire i rischi dell’impresa; sono tutti gli strumenti che scemano la incertezza nel funzionamento del meccanismo economico (stabilità degli ordinamenti giuridici, assenza di arbitri e di favoritismi ecc.). Mezzi adatti a scemare il compenso degli imprenditori sono le scuole offerte a tutti, le borse di studio assegnate ai giovani volonterosi, la possibilità di aspettare a chi si sente di salire. Soltanto ciò può rendere meno rara la merce «imprenditore» e scemarne il prezzo, ossia il compenso.

 

 

Data una certa produzione di risparmio e una certa offerta di imprenditori, i saggi di interesse e di compenso del lavoro d’impresa sono quelli che sono. Ma, se esiste concorrenza, il profitto non esiste. Non esiste quindi possibilità di partecipazione degli operai ad un profitto inesistente. Vacuus cantabit contra latronem viator.

 

 

86. L’utile da monopoli artificiali.

 

Se profitto esiste, ciò accade in primo luogo, come fu spiegato nella lezione introduttiva, perché dazi doganali, contingenti, privilegi di appalto, limitazioni al sorgere di nuove imprese ed all’entrata nel mestiere, brevetti, danno luogo a monopoli artificiali pieni o parziali (cartelli, consorzi, trusts e simili). Ma in tal caso quell’utile è dannoso alla collettività. Scema la massa dei beni e servigi messi a disposizione degli uomini; e la minor massa è più disugualmente ripartita.

 

 

Una eventuale divisione del profitto da monopolio tra datore di lavoro e lavoratore equivarrebbe dunque alla divisione del bottino tra i ladroni. Socialmente la partecipazione dei lavoratori ai profitti di monopolio è dannosa perché interessa, oltre ai datori di lavoro, i lavoratori a spogliare la collettività dei consumatori. Altra via non v’è, per fare l’interesse dei più, fuor di sopprimere quel profitto abolendo le cause che vi diedero origine e che derivano da un atto del legislatore. Questi, che ha istituiti i dazi, li può abolire. Può modificare, ad esempio, la legge sui brevetti industriali, abolire le limitazioni al sorgere di nuove imprese. E così via.

 

 

87. L’utile da monopoli naturali.

 

Non ripeto cose già dette e note, intorno ai monopoli che hanno cause, dette naturali, perché non dipendenti da un atto positivo dal legislatore. È il caso delle ferrovie, delle tranvie, del gas luce, delle forze elettriche, delle aree edilizie, degli impianti con unità di grandi dimensioni non – divisibili ecc. ecc. Qui è più difficile trovar modo di eliminare il profitto; e la discussione verte sulle diverse maniere di statizzazione, municipalizzazione, enti autonomi, imprese delegate, così da scegliere quei tipi che meglio giovino a conseguire i due scopi della riduzione dei costi al minimo (in che si comprende non solo la riduzione dei costi di produzione dei prodotti noti, ma anche la «invenzione» dei prodotti nuovi) e della vendita ad un prezzo uguale ad un costo marginale tendente al minimo. Non sembra sia agevole scoprire sistemi di gestione pubblica i quali siano adatti a conseguire questi due fini contemporaneamente. Non ha importanza alcuna il fatto – che è un puro fatto bruto che può avere significati diversissimi – che l’impresa pubblica non ottenga profitti dove l’impresa privata sì. Se l’impresa pubblica produce al costo 10 e vende a 10, senza conseguire alcun profitto, laddove quella privata produce al costo di 8 e vende a 9, il profitto 1 è ottenuto senza danno, anzi con vantaggio dei consumatori, i quali guadagnano 1. In questo caso il profitto può essere oggetto di compartecipazione operaia, senza che con ciò si possa a costoro rimproverare di aver parte ad alcun guadagno monopolistico a danno dei consumatori.

 

 

Più grave è la discussione intorno al punto: trattasi, nei casi di consorzi, accordi, cartelli, trusts tra imprenditori, di veri casi di monopolio o meglio di oligopolio, intesi a conseguire veri e propri guadagni monopolistici, ovvero di strumenti, i quali assumono l’apparenza monopolistica, allo scopo di conseguire nei brevi periodi iniziali la possibilità di sormontare le perdite conseguenti alla necessità di lanciare nuovi prodotti, di esperimentare nuovi sistemi produttivi?

 

 

Se la sopravvivenza nella lotta economica impone che nei successivi:

 

 

tempi

I

II

III

situazione

si osservino i prezzi

10

8

6

A

invece che i prezzi variabili

da 11

a 7

da 9

a 5

da 8

a 4

B

 

 

i quali ultimi conseguirebbero ad un sistema di imprese concorrenti nel significato della concorrenza vera e propria;

 

 

  • e se la situazione B possa di fatto considerarsi come una situazione storicamente assurda, perché la lotta stremerebbe le imprese concorrenti nel tempo primo siffattamente da non consentire loro il tempo ed i mezzi di attuare quelle invenzioni di nuovi prodotti e di nuovi sistemi a cui esse intendono; di modo che non si possa comprendere con quali mezzi esse od altre imprese si troverebbero in grado di iniziare nel tempo secondo altre trasformazioni nell’offerta dei prodotti e nella struttura dei modi di produrli; e tanto meno ciò accadrebbe nel tempo terzo.
  • se, cioè, nella situazione A, grazie ad accordi tra imprese concorrenti od a manovre strategiche da parte dei più forti (segreti, brevetti, minacce di svendita in parte attuate ecc.), il prezzo si mantiene nel tempo relativamente costante intorno al livello 10, il quale consente un guadagno superiore a quello normale;
  • tale prezzo deve essere considerato un prezzo di monopolio; e devesi paragonare il prezzo 10 costante del tempo primo in regime di accordi a quello da 11 a 7, in media «più basso», che si sarebbe avuto in regime di concorrenza nel medesimo tempo; o non invece a quello 8 che si stabilisce nel tempo secondo e 6 nel tempo terzo, prezzi la cui esistenza effettiva fu l’effetto del mantenimento dei prezzi 10 ed 8 nei due tempi precedenti?

 

 

Domande alle quali non è agevole rispondere; e che lasciano permanere nella mente dell’osservatore un dubbio intorno alla effettiva natura di molti di quelli che si chiamano guadagni di monopolio. Sono essi veri e propri guadagni di monopolio che dovrebbe essere compito del legislatore di far scomparire, ovvero premi di assicurazione contro il rischio delle innovazioni industriali? In questo secondo caso l’indagine si sposta allo studio del problema discusso ulteriormente (vedi paragrafi 88 ed 89).

 

 

88. L’utile da rischi imprevedibili.

 

Si raggruppano in questa sezione i rischi i quali, per la loro imponenza e la loro relativamente scarsa frequenza, non sono oggetto normale di assicurazione presso imprese esercenti anche le branche più rare di assicurazione: guerra grossa, rivoluzioni sociali, svalutazioni e rivalutazioni monetarie aventi dimensioni eccezionali; rischi per cui è difficile trovare assicuratori persino nella cerchia dei Lloyds di Londra, dove notoriamente esistono persone o gruppi di persone pronte ad assumere a proprio carico i rischi più impensati.

 

 

Questi guadagni sono forse quelli i quali nei tempi recenti hanno maggiormente attirato l’attenzione pubblica ed hanno fatto pensare alla convenienza sociale di chiamare gli operai a parteciparvi. Essi sembrano avere le seguenti caratteristiche:

 

 

  • di essere, quando si verificano, imponenti;
  • di essere localizzati presso un numero ristretto di persone fisiche e giuridiche; speculatori avvertiti, faccendieri interponentisi fra privati bisognosi di permessi, autorizzazioni, assegni di valute, di contingenti di importazione di materie prime, e di esportazione di prodotti nazionali, di autorizzazioni a nuovi impianti e le autorità pubbliche incaricate di distribuirle; imprese particolarmente bene situate per profittare dei rivolgimenti pubblici sociali ed economici;
  • di essere apparentemente diffusi nella generalità ed invece in realtà concentrati presso pochi. Se, in seguito a svalutazione monetaria, i prezzi salgono, tutti sembrano essere avvantaggiati da salari stipendi profitti più vistosi. In realtà, sono beneficiati solo coloro i quali riescono a vendere i loro prodotti ed i loro servigi ad un prezzo proporzionatamente cresciuto di più di quanto sia cresciuto in media il prezzo dei prodotti e dei servizi che essi ordinariamente erano e sono soliti ad acquistare; e costoro sono quei pochi che già si disse sopra: speculatori, intermediari ed imprese industriali, agricole e commerciali venditrici di prodotti a prezzi cresciuti più dell’ordinario.

 

 

È chiaro che dovendo rispondere alla domanda quale sia la economica da osservare dallo stato rispetto a questi guadagni, la sola risposta logica è far quel che si possa per eliminare le cause le quali danno origine ai guadagni medesimi. Sicché questi non presentano interesse rispetto alla partecipazione ai profitti degli operai. Sembrerebbe anzi dannoso creare negli operai una qualsiasi aspirazione a partecipare ai guadagni tanto contrastanti con il vantaggio collettivo.

 

 

Per lo più la partecipazione non potrebbe aver luogo, non essendo speculatori, intermediari e faccendieri propensi ad impiegare in numero apprezzabile lavoratori; e se avesse luogo in talune grosse imprese creerebbe una classe di privilegiati tra i lavoratori, oggetto di invidia e di inquietudine per i dipendenti dalle più numerose imprese disadatte a prender parte alla baldoria dei prezzi.

 

 

89. L’utile da variazioni nell’organizzazione e nella struttura dell’impresa.

 

Rimane quella che è la sola fonte permanente di profitti, la sola la quale sia conforme all’interesse collettivo. Se l’imprenditore:

 

 

  • sa vedere, nell’infinita varietà delle pseudo-invenzioni offertegli, quelle le quali in verità consistono nel mettere sul mercato prodotti nuovi corrispondenti ad una domanda potenziale capace di voltarsi in effettiva (vetture automobili, grammofoni, frigoriferi, radio ecc. ecc.) o nell’introdurre nuovi o più perfezionati metodi tecnici di produrre o di vendere merci antiche o nuove;
  • sa intuire le variazioni dei gusti della clientela vicina o lontana, attuale o futura;
  • sa scegliere, meglio di altri, i suoi collaboratori, gli impiegati e gli operai; e sa organizzare e dirigere meglio il lavoro;
  • sa apprezzare i suoi collaboratori in guisa da far fare ad essi la carriera più adatta alle loro attitudini; sa risvegliare lo spirito di emulazione ed insieme di collaborazione; sa distribuire i premi in guisa che la diversità di essi sembri a tutti rispondente a giustizia; sa ricreare nel suo stabilimento la gioia del lavoro e con incoraggiamenti alle famiglie provviste di figliolanza, con asili e scuole, con opere sociali varie, con la costituzione di case operaie, creare un ambiente siffatto da migliorare e crescere la produzione;
  • sa creare simpatie tra sé ed i clienti, in modo da procurare la formazione di quella particolare invisibile ricchezza che dicesi avviamento (vetrine invitanti, commessi gentili, consegna a casa, cambio volenteroso e pronto di merce non perfetta ecc. ecc.);
  • sa usare mezzi strategici di accordi, invece che di lotta, con i concorrenti, atti a conservare, per brevi tratti di tempo, costanza ai prezzi e ad accumulare riserve convenienti a compiere un nuovo passo sulla via dei perfezionamenti tecnici e delle innovazioni e quindi della riduzione dei prezzi in un secondo tempo; e questa politica segue senza urtare contro la opinione pubblica;
  • costui, usando questi ed altri mezzi, che la sua fantasia creatrice gli additerà meglio di quel che altri possa descrivere in libri compilati in base all’esperienza del passato, guadagnerà profitti.

 

 

Sono questi profitti ripartibili con collaboratori, impiegati e operai? La risposta pare affermativa ed è subordinata, affinché si dia luogo alla creazione di un istituto permanente, alla sola condizione che la partecipazione agli utili degli operai sia essa stessa uno dei fattori di creazione dei profitti che si vogliono ripartire.

 

 

Essere questo fattore vuol dire:

 

 

  • che i partecipanti non temano dalla partecipazione alcuna conseguenza sfavorevole alle dimensioni del loro salario o stipendio normale;
  • che essi non temano dalla partecipazione medesima alcuna conseguenza sfavorevole alla loro mobilità ed indipendenza morale rispetto all’impresa;
  • che essi siano incoraggiati dalla partecipazione ad interessarsi meglio del lavoro che loro è affidato e a sentirsi parte operante dell’impresa, sì da assumere eventuali iniziative di proposte e suggerimenti;
  • che essi abbiano fiducia nella dirittura morale dell’imprenditore; sicché quando i fiduciari da essi medesimi scelti li assicurano che i conti redatti dall’impresa corrispondono al vero, non chiedano più in là, consapevoli che il successo dell’impresa può essere subordinato al mantenimento di segreti rispetto al pubblico, ai concorrenti ed ai dipendenti medesimi.

 

 

Le condizioni ora enunciate non possono essere soddisfatte dalle maestranze in genere ma da quella parte soltanto di esse che la permanenza in una impresa per un certo tempo minimo, il riconoscimento dei compagni, le mansioni coperte, hanno elevato al disopra del mero avventizio, dell’impiegato ed operaio casuale, e cioè solo dal nucleo più o meno ampio dei collaboratori, dal più umile al più elevato in grado, dell’imprenditore. Tutto ciò sembra anche significare che la partecipazione agli utili non può essere il risultato di una norma legislativa obbligatoria, necessariamente generale ed uniforme e probabilmente feconda solo di attriti, discordia e cresciuta instabilità sociale, ma, se vuole essere permanente, deve il frutto di uno spirito di collaborazione e di aperta discussione, il quale non può avere radice se non in un clima di liberi volontari esperimenti.

 

 



[1] Questa parte fu edita in litografia, in-4° grande, col nome dell’insegnante, in pp. 15 + 84 + 2 c. n. n. a cura del Campo universitario italiano della Università di Losanna (ma in unione al campo di Ginevra e col concorso del «Fonds européen de secours aux étudiants») dall’Ufficio dispense, Losanna 1944. Il capitolo primo di detta parte fu anche pubblicato, nello stesso formato ed a cura dello stesso Campo universitario di Losanna col titolo dell’indice e col sottotitolo «Lezione introduttiva al corso di politica economica tenuta all’Università di Losanna il 24 marzo 1944»; pp. 15, Losanna 1944.

[2] Gli studenti italiani hanno la fortuna di poter leggere, se in qualche biblioteca del paese che li ospita riescono a trovarla, la migliore guida che si possegga oggi, tra quelle che ci offre la letteratura scientifica non solo italiana ma straniera: l’Introduzione alla politica economica del prof. COSTANTINO BRESCIANI-TURRONI (seconda ed., Torino 1943). Occorre, nel leggerla, usare lo stesso metodo che si deve osservare per qualunque libro di scienza: ossia affrontarlo con la dovuta umiltà di spirito, quella che si usa nell’imparare i principi del calcolo o della meccanica razionale; nel caso presente liberando la propria mente da qualunque preoccupazione derivante dalla consueta letteratura deteriore, propagandistica, da qualunque parte la propaganda venga ed il cui solo frutto è quello di fare strage nella attitudine aperta che i giovani debbono avere ed hanno quando si tratta delle materie che fanno parte del loro curriculo tecnico di studi. Un altro libro, che forse si potrà trovare in una traduzione italiana o francese, e che merita di essere consigliato, è quello dell’olandese PIERSON, Problemi fondamentali di economia e di finanza (Torino, trad. it. verso il 1900). È consigliabile omettere, leggendo, le appendici allegate dal traduttore italiano, non perché non siano ottime, ma perché pare inutile studiare in un primo momento problemi italiani quali si presentavano verso il principio del secolo.

[3] La semplificazione implicita nell’uso degli strumenti di indagine accolti dagli economisti appare lecita in quanto questi strumenti sono definibili, in quanto cioè di essi si possono dare connotati abbastanza ben precisabili. La concorrenza ed il monopolio, così come sono definiti nel testo, ed altri simili come oligopolio, possono essere qualificati con gli aggettivi molti, non troppo dissimili, uno solo, unilaterale, o bilaterali ed altrettali. Vi sono invece altri schemi dei quali si parla molto, e vengono fuori spesso nei discorsi e nelle discussioni, come capitalismo, proprietà privata, proprietà collettiva, proletariato, borghesia e simili, i quali sono del tutto inservibili nella investigazione scientifica, non hanno mai condotto ad alcuna conclusione seria e perciò devono essere abbandonati ai dilettanti. La ragione della inservibilità sta nell’impossibilità di poter definirli in modo univoco e tollerabilmente precisabile. Un utile esercizio sarebbe quello di tentare di dare definizioni precise di questi altri concetti assai divulgati.

[4] Ma teoricamente potrebbe essere un ministro della produzione in uno stato collettivistico. PARETO e più largamente dopo di lui, il colonnello ENRICO BARONE, professore di economia politica nella facoltà economica di Roma, aveva dimostrato che il ministro della produzione, se vuole davvero raggiungere il risultato del massimo di produzione e di ofelimità (utilità economica) per la collettività, deve seguire né più né meno le regole che la teoria stabilisce per il caso della concorrenza. Leggere del primo il Cours d’économie politique, professato all’Università di Losanna (tradotto in italiano, Torino 1943), e del secondo il saggio Il ministro della produzione pubblicato originariamente nel «Giornale degli economisti» ed ora in «Saggi», e tradotto in inglese e francese nel volume di VON HAYEK, Economic Collectivist Planning (London e Paris). Le difficoltà che il ministro della produzione incontrerebbe per risolvere il problema del massimo che l’economia di concorrenza risolve automaticamente sono pratiche e di fatto insormontabili. leggere la dimostrazione che di ciò dà il BRESCIANI nel volume sopra citato.

[5] Non meraviglia che un grande filosofo, l’Hegel, colpito dallo spettacolo del mondo economico dominato dalla concorrenza nel quale si ottengono risultati che paiono miracolosi di massima produzione e di conformità ai contributi forniti dai singoli fattori di produzione, esclamasse: «Tutta questa moltitudine di atti apparentemente slegati e senza guida è tenuta insieme da una necessità che automaticamente interviene. Scoprire questa necessità è oggetto dell’economia politica, la quale è una scienza che fa onore al pensiero, perché trova le leggi di una massa di casi. È un interessante spettacolo il vedere come ogni cosa sia connessa all’altra e reagisca nell’altra, come le particolari sfere di azioni si raggiungano e influiscano nelle altre e da esse siano promosse e ingrandite. Questa concatenazione ella quale a prima vista non si crede, perché tutto sembra lasciato all’arbitrio del singolo, è oltremodo naturale e rassomiglia al sistema planetario, che all’occhio mostra soltanto movimenti irregolari; ma le cui leggi possono tuttavia essere conosciute». Riconoscimenti cosiffatti della bellezza della scienza economica provenienti da un grande pensatore in un’epoca in cui essa era ancora giovane possono consolare delle accuse provenienti dai laici.

[6] Se taluno degli studenti ha conoscenza della lingua inglese, non raccomanderò mai abbastanza la lettura, anzi lo studio attento del Common Sense of Political Economy del WICKSTEED recentemente ristampato a Londra, con un’introduzione del prof. Robbins. Un imperfetto surrogato di esso, imperfetto non per il valore dell’opera ma esclusivamente a causa della data (1884) della pubblicazione, è quel gioiello che ha per titolo Principii di economia politica di MAFFEO PANTALEONI. A coloro che volessero risalire più addietro, sono da segnalare i Principii, riesumati dopo molti anni da manoscritti e dispense litografiche, di FRANCESCO FERRARA (Zanichelli, Bologna), i quali danno un’idea di quello che era la nostra scienza in un momento in cui l’idea della «libertà» infiammava gli spiriti degli uomini anche nel campo scientifico.

[7] La legislazione lascia fuori del proprio campo quello che gli inglesi chiamano il submerged tenth, il decimo sommerso degli incapaci, dei costituzionalmente deboli, dei deficienti, dei criminali, dei vagabondi, degli oziosi. Qui non servono minimi, e non si fanno conquiste. La carità, l’educazione, la beneficenza, i riformatori, le case di salute debbono essere chiamati a raccolta per ridurre progressivamente il decimo ad una ventesima, ad una cinquantesima parte della società. Indagini recenti proverebbero che già si è in molti paesi al disotto del decimo. È significativo il fatto che Lord Beveridge, dopo avere scritto i due noti volumi sui metodi di intervento coattivo dello stato, intitolati l’uno Report on Social Insurance and Allied Services, del novembre 1942, e l’altro Full Employment in a Free Society, del novembre 1944 (trad. it., Torino 1948), abbia ritenuto necessario pubblicare quest’anno un terzo volume intitolato Voluntary Action, il quale illustra l’opera volontaria delle varie forme di carità e filantropia, volte in parte anche alla salvezza del decimo sommerso. [Annotazione apposta dal curatore della presente edizione nel dicembre 1948].

[8] Entrambi tradotti nella quarta e nella quinta serie della «Biblioteca dell’economista», con un’appendice tradotta nella «Nuova collana di economisti».

[9] Allo scopo di chiarire grossolanamente le idee, si può dire che i 40 scellini di cui si parla come di pensione o sussidio che sarebbe la base finale nel piano Beveridge corrisponderebbero all’incirca a 24 lire italiane ante-1914, circa 100 lire al mese. Nessuno può dire a quante lire correnti equivalgono ora le 100 lire ante-1914. Con le debite amplissime riserve, si può forse dire che esse corrispondono, per grandissimo circa, a 200 franchi svizzeri attuali (1944). E questi paiono bastevoli a mantenere in Svizzera, strettamente ma decentemente, la coppia indicata.

[10] Chi parla, ricorda sempre l’esempio di un vecchio, divenuto quasi immobile per gli acciacchi della vecchiaia, oggetto di compassione per gli altri e di avvilimento per se stesso. Ma il vecchio improvvisamente ricominciò a camminare e, nei giorni di festa, ripercorse la lunga strada che lo portava alla chiesa del villaggio ed ogni mese si recava all’ufficio postale. Era accaduto che la morte di uno dei figli nella grande guerra gli aveva fatto assegnare una modestissima pensione. Ma questa bastò per farlo ridivenire un uomo; per essere onorato e curato dai parenti e dai vicini e per vivere ancora assai anni vegeto e non inutile a sé ed agli altri. Né l’esempio fu l’unico; ed a chi sappia guardare, si ripete particolarmente per le vecchie vedove, non più derelitte e spregiate dalle nuore. Leggasi, purtroppo in un numero del tempo dell’Italia occupata dal nemico («Corriere della sera», 22 aprile 1944), un articolo (La nuova padrona di Giovanni Comisso) sulla sorte riservata alle contadine divenute vedove.

[11] Per quegli studenti i quali ne avessero la possibilità, si raccomanda la lettura delle opere seguenti:

 

  • G.SAINT-LEON MARTIN, Histoire des corporations d’arts et métiers.
  • ARMANDO SAPORI, Saggi di storia economica medioevale (per il tempo di fioritura delle corporazioni).
  • DAL PANE, Raccolta di documenti sul tempo della decadenza ed abolizione delle corporazioni in Italia (Ispi, Milano).
  • SIDNEY e BEATRICE WEBB, Storia del Trade-unionismo inglese e La democrazia industriale (nella quarta e quinta serie della «Biblioteca dell’economista», con appendice alla «Storia», nella «Nuova collana di economisti»).
  • ROBERTO MICHELS, Storia del movimento operaio e del movimento socialista in Italia.
  • RIGOLA, AZIMONTI, RIGUZZI, Opere varie sulla storia del movimento operaio in Italia, edite da Laterza (Bari) e dai Problemi del lavoro, Milano.
  • EINAUDI, Le lotte del lavoro (edite da Gobetti, Torino).

 

Si chiede venia, se non potendo citare i libri dopo controllo diretto, i titoli dovettero essere indicati approssimativamente.

[12] A chiarimento della affermazione fatta nel testo, si osservi che un qualunque ordinamento sociale ed economico si può studiare da due punti di vista.

 

Quello della sua formulazione scritta nei testi legislativi. Ad esempio, la carta del lavoro italiano del 1926 e le leggi connesse per quel che riguarda l’ordinamento corporativo italiano, la costituzione ultima delle repubbliche socialiste sovietiche russe, i progetti di falanstero compilati da Fourier. Questi documenti possono essere importanti per il giurista, il quale voglia esporre, ricostruendoli sistematicamente, i diversi sistemi deliberati dal legislatore (fascistici italiani o comunistici russi), od immaginati dal riformatore (Fourier). Lo studio di questi documenti può interessare il cultore di diritto pubblico, curioso di sapere in qual modo talun riformatore (Fourier ad es.) si propone di ricostruire il mondo, od in qual altro modo taluni gruppi di governanti (fascisti o comunisti) mettevano per iscritto la formula (Mosca) o il mito (Pareto) che ad essi appariva conveniente predicare allo scopo di guidare i governati ai fini, di solito ben diversi, della loro azione concreta. Quei documenti servono scarsamente ad interpretare una data realtà storica e sono di quella realtà spesso una raffigurazione volutamente addestrata. Più che per l’interpretazione della realtà essi servono all’interpretazione delle motivazioni pubbliche, esteriori, apparenti della realtà medesima, con la quale essi non hanno per lo più niente a che fare. Vedemmo nel capitolo precedente (terzo) come la formula dell’associazione sindacale corporativa italiana fosse la volontarietà con rappresentanza e come la realtà fosse invece l’obbligatorietà senza rappresentanza; questa seconda, ossia la realtà, è il solo oggetto di studio della scienza.

 

Per ciò, nello stesso modo come non interessa alla scienza lo studio della legge sindacale corporativa italiana o quello della costituzione scritta russa che non furono applicate e sono costruzioni astratte e non realtà viva ed è invece oggetto di studio scientifico la costituzione inglese o quella americana o lo statuto italiano del 1848, perché quelle tradizioni (costituzione inglese) o quei documenti (costituzione americana, 1787, e statuto italiano, 1848) durano o durarono specie trasformandosi lungo il loro operare; così non possono formare oggetto di studio scientifico i tanti progetti di commissioni interne volte a dare all’operaio il senso della gestione dell’impresa se non nella limitatissima misura nella quale quei progetti ebbero un primo inizio di applicazione; e formano invece oggetto di studio le applicazioni svariate dei concetti di partecipazione ai profitti, di azionariato operaio, di cooperative di produzione; perché queste applicazioni sona fatti reali, accaduti in passato o operanti al presente. L’esperienza fatta consente di esaminare come in verità gli uomini si siano comportati nel tentativo di attuare la formula, quali reazioni il tentativo abbia suscitato, quali effetti si siano ottenuti. Il ragionamento può analizzare quei fatti e quelle reazioni e quegli effetti nello stesso modo come analizza un fenomeno fisico od una reazione chimica. L’economista, come suole, sulla base di quella analisi può dire al politico: se vuoi raggiungere l’effetto a, comportati in tale modo, se vuoi raggiungere l’effetto b comportati in tale altro modo; e può dir ciò basandosi sull’analisi di fatti realmente accaduti, del comportamento effettivo dell’uomo dinanzi alle scelte a lui offerte e non su utopistici pronostici dei risultati di congegni immaginari descritti in certi documenti o libri e mai più veduti nella realtà.

[13] È di un’ampia letteratura, della quale si ricorderanno qui soltanto alcuni dei titoli più significativi:

 

Esiste innanzi tutto in Francia sino dal 1879 una Société pour l’étude pratique de la participation aux bénéfices, la quale pubblica sin dal medesimo anno una rivista trimestrale intitolata «Bulletin de la participation aux bénéfices», in cui sono riassunti periodicamente i risultati delle esperienze le quali si vanno facendo del sistema in Francia e negli altri paesi industriali del mondo.

 

Tra i libri vanno ricordati:

 

VICTOR BOHMERT, La participation aux bénéfices, Ètude pratique sur ce mode de rémunération du travail, traduit par Albert Trombert, Chaix et Guillaumin, Paris 1888. Tradotto anche in italiano in una edizione di Dumolard

 

ALBERT TROMBERT, La participation aux bénéfices, exposé des différentes méthodes adoptées, pouvant servir de guide pratique pour l’application du régime, Chaix, Paris 1924.

 

DAVID F. SCHLOSS, I metodi di rimunerazione del lavoro. Tradotto dall’inglese all’italiano nella «Biblioteca dell’economista», serie quarta.

 

Questi documenti e libri consentono di ricorrere a più ampia letteratura di inchieste e statistiche in materia, specialmente francesi, inglesi ed americane.

Sull’economia di mercato, introduzione alla politica sociale

Sull’economia di mercato, introduzione alla politica sociale[1]

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 3-36

 

 

 

 

1. Che cosa è un mercato.

 

Siete mai stati in un borgo di campagna in un giorno di fiera? In mezzo al chiasso dei ragazzi, alle gomitate dei contadini e delle contadine le quali vogliono avvicinarsi al banco dove sono le stoffe, i vestiti, le scarpe ecc. da osservare, confrontare, toccare con mano ed alle grida dei venditori, i quali vi vogliono persuadere che la loro roba è la migliore di tutte, la sola che fa una gran bella figura quando l’avete addosso, la sola che vi farà prima infastidire voi di portarla che essa di essere frustata, quella che è un vero regalo in confronto al poco denaro che dovete spendere per acquistarla? Quella fiera è un mercato, ossia un luogo dove, a giorno fisso e noto per gran cerchia di paesi intorno, convengono a centinaia i camion, carri ed i carretti dei venditori carichi delle merci, delle cose più diverse, dai vestiti alle scarpe, dalle casseruole da cucina ai vomeri per l’aratro, dalle lenzuola alle federe, dalle cianfrusaglie per i ragazzi ai doni alla fidanzata per le nozze. Sulla fiera si offre di tutto; e ci sono sempre molti che offrono la stessa cosa. E sulla fiera convengono da ogni parte, da gran cerchia di villaggi e di casolari posti attorno al grosso borgo, dove ci sono piazze ed osterie atte ad ospitare e dare da mangiare a tanta gente, migliaia, moltitudini di compratori, desiderosi di rifornirsi delle cose che ad essi mancano. Specialmente nella fiera di pasqua e in quella dei santi l’afflusso dei compratori e dei venditori è grande. Arrivano a torme i compratori perché sanno che dove c’è grande concorso è sempre più facile trovare ciò di cui si ha bisogno e trovarlo alle migliori condizioni di prezzo: e giungono numerosi i venditori, perché sanno che, dove c’è grande moltitudine di gente desiderosa di comprare, è sempre più agevole vendere la merce e venderla bene. I compratori desiderano di acquistare a buon mercato ed i venditori di vendere a caro prezzo. Spinti da motivi opposti essi si affrettano verso lo stesso luogo, verso la fiera, il mercato.

 

 

Anche la bottega è un mercato. Di botteghe dove si vendono le stesse verdure, la stessa carne, le stesse qualità di pane o di panni o di scarpe, ce ne sono molte nello stesso rione della città, spesso nella stessa via, se questa è un po’ frequentata. La gente passa dinnanzi alle vetrine, guarda qualità e prezzi e confronta. Se il cliente si decide ad entrare può darsi che egli si trovi solo a faccia a faccia col bottegaio. Ma in realtà né l’uno né l’altro è solo. Il bottegaio sa che accanto a lui ci sono altri bottegai, venditori della stessa merce, pronti a portargli via il cliente se egli pretenda un prezzo troppo alto. Il cliente ha già osservato e confrontato e sa che non gli conviene tirare troppo sul prezzo perché tanto egli non troverebbe la roba altrove a più buon mercato. I concorrenti, venditori e compratori, non sono lì presenti a strapparsi l’uno all’altro i clienti o la roba; ma sebbene invisibili, ci sono.

 

 

Forse vi sarà accaduto anche di passare un qualche mattino, tra le undici e il mezzogiorno, dinnanzi ad un palazzo su cui è scritto «BORSA». Se la curiosità vi ha spinto ad entrare nel salone centrale o ad avvicinarvi al padiglione vetrato che sta in mezzo al cortile d’onore, avrete osservato gran folla di signori, abbastanza ben vestiti, che ogni tanto tirano fuori di tasca un taccuino ed una matita e segnano qualcosa. Alcuni sono seduti e silenziosamente annotano in seguito a segni impercettibili che essi colgono a volo sulle labbra di qualche collega. Altri sono congestionati in volto e urlano parole che voi non capite a persone che stanno lontane ed urlano anch’esse parole incomprensibili. Ragazzi, fattorini e commessi corrono incessantemente tra il gruppo della gente silenziosa o vociferante e certe cabine poste lungo le pareti del salone e che voi scoprite essere cabine telefoniche e portano avanti e indietro messaggi verbali o rapidamente tracciati a matita su pezzi di carta. Anche quello è un mercato. Non vi si vedono le merci negoziate; perché per comprare e per vendere non è sempre necessario, come si fa sulle fiere e nelle botteghe, vedere e toccare con mano la merce. Nelle borse si vendono titoli di stato, azioni di società anonime, obbligazioni di comuni o di istituti di credito fondiario, ossia pezzi di carta aventi un valore più o meno alto ma tutti uguali, quelli della stessa specie, gli uni agli altri. Non è necessario vedere e toccare, perché il venditore non può consegnare, quando sia giunto il momento di eseguire il contratto, se non quel preciso pezzo di carta con su scritte quelle certe parole e non altro. Ci sono borse nelle quali, invece che pezzi di carta, si negoziano derrate e merci; frumento, granoturco, seta, lana, cotone, argento, rame, stagno, zinco, piombo, ghisa ecc. ecc. Qui parrebbe necessario vedere e toccare; ma sarebbe un grosso imbroglio per centinaia e migliaia di venditori arrivare in borsa ciascuno con un grosso carico, anche se si tratti di minuscoli campioni da distribuire ai compratori in pegno della qualità della merce che dovrà essere consegnata. I campioni ci sono; ma sono ideali e sono già fissati dai regolamenti della borsa. Ad esempio, quando si negozia frumento, compratori e venditori si riferiscono tacitamente ad un certo tipo o ad un certo altro tipo di frumento, d’inverno o di primavera, duro o tenero, di un certo peso specifico, per es. 78 kg per hl, con un certo grado di impurità, ovvero sia di materie estranee, supponiamo l’1 percento. Quello è il frumento che si contratta e che deve essere consegnato al prezzo convenuto. Si capisce che non sempre si potrà consegnare frumento di quella precisissima qualità. Forse il peso specifico sarà di kg 78,30, ovvero di 77,50 invece dei convenuti 78; ovvero le impurità saranno del 2 o del 0,50% invece che dell’1 percento. Ma il regolamento della borsa, conosciuto da tutti preventivamente, stabilisce già quali aumenti o quali diminuzioni percentuali si debbano apportare al prezzo convenuto se la qualità effettiva è alquanto migliore o peggiore di quella «tipo».

 

 

Si potrebbe continuare negli esempi; ma ormai pare abbastanza chiaro che cosa sia un mercato. È un luogo dove convengono molti compratori e molti venditori, desiderosi di acquistare o di vendere una o più merci. Invece di merci, si possono negoziare quelli che si chiamano servigi. Alla mietitura o alla vendemmia, tutti sanno che di gran mattino, fra le quattro e le sei, su certe piazze del borgo convengono i mietitori e le vendemmiatrici che intendono andare ad opera a servigio altrui e convengono altresì gli agricoltori i quali hanno il frumento in piedi da far mietere o le uve da staccare nella vigna. Nelle città il sistema è mutato un po’ e ci sono gli uffici di collocamento, privati e pubblici, dove convengono datori di lavoro che hanno bisogno di operai ed operai che desiderano trovare lavoro. Il punto essenziale da tenere in mente è che il mercato è un luogo dove convengono molti compratori e molti venditori. Bisogna aggiungere subito alla parola convengono anche qualche altra parola: è un luogo dal quale compratori e venditori possono uscire quando ad essi non convenga stipulare il contratto. Se ad es., il mietitore o la vendemmiatrice giunti sul mercato fossero presi per il collo, per modo di dire, dal carabiniere o costretti ad andare a lavorare a mietere per 30 lire al giorno quando il prezzo di mercato è 50; o a vendemmiare per 10 lire invece che per 20, quello non sarebbe più un mercato, ma uno strumento di schiavitù. Qui vogliamo spiegare che cosa sia un mercato e non che cosa furono in passato, o possono essere al presente in certi paesi, gli ergastoli degli schiavi. Parimenti, quando si tratta di merci, perché ci sia un vero mercato, occorre che il venditore possa rifiutarsi a vendere o il compratore possa rifiutarsi di comprare senza troppo grave suo danno. Certo, è sempre meglio, se conviene, vendere o comprare subito invece che aspettare; ma, entro certi limiti, l’aspettare può essere conveniente. Perché ci sia vero mercato, occorre però che le due parti siano libere di non mettersi d’accordo. Se il venditore dispone di una merce ingombrante e pesantissima che costerebbe l’ira di Dio a ritrasportare in magazzino, o di frutta o verdura che, se non è venduta subito, marcisce, non è che il mercato non ci sia più. Esso esiste sempre; ma comporta per una delle parti alcuni rischi di cui conviene tener conto preventivamente se non si vuole essere presi per il collo dall’altra parte.

 

 

2. Perché non si deve parlare di prezzo giusto od ingiusto.- Il prezzo di mercato.

 

Sebbene ciascuno si faccia un’idea propria di ciò che sia la giustizia, compratori e venditori, arrivando sul mercato aspirano ambedue, gli uni a pagare e gli altri a riscuotere il prezzo giusto. Innanzitutto bisogna ficcarsi bene in mente che l’aggettivo giusto, appiccicato dietro al sostantivo prezzo, è un corpo estraneo, il quale in verità non ha niente a che fare col mercato di cui ci occupiamo. Sul giusto e sull’ingiusto dà la sentenza il giudice, dinnanzi al quale vanno due i quali litigano intorno alla proprietà di un pezzo di terra od intorno al diritto di tenere aperta una finestra sull’orto del vicino. Il giudice può dare una sentenza, perché egli si può basare sul codice, sulle leggi, sui regolamenti, sui contratti scritti e verbali, sulle testimonianze, le quali lo istruiscono sul punto litigioso. Egli può dire ad uno dei due: tu sei nel torto e non hai il diritto di aprire la finestra sull’orto del vicino; oppure può sentenziare che egli è nel giusto ed il vicino ha torto a non volergliela lasciare aprire. Ma che cosa potrebbe dire il giudice a proposito di due contadini di cui l’uno pretende per la sua vacca 2.000 lire e l’altro non la vuol pagare più di 1.800 lire? Essi hanno amendue torto ed amendue ragione. A meno che una legge od un regolamento od una commissione, nominata in base ad una legge, eccezionalmente, come accade in tempo di guerra, dica che quella vacca vale 1.900 lire, il giudice non sa dir niente in materia. Ciascuno dei due contraenti ha le sue idee intorno al prezzo delle vacche. Il primo le ha sempre vendute, le vacche di quella razza peso ed attitudine a dar latte ed a far vitelli, a 2.000 lire e gli pare che gli si farebbe torto a dargli un soldo di meno. Oppure egli sa di averla comprata, quand’era una piccola manzetta, a 500 lire e poi gli è costata tanto fieno, tanta crusca, tanti mangimi a tirarla su ed a portarla al punto in cui si trova che proprio non può darla a meno di 2.000 lire, senza subire, come dice lui, una perdita. Oppure ha rifiutato alla fiera passata 2.100 lire, quando per quelle vacche tutti pagavano 2.150 lire, ed ora se si decide a darla a 2.000 lire è proprio per un tratto di amicizia verso il compratore che egli conosce da tanto tempo. In fondo in fondo, a pensarci bene, il venditore considera prezzo giusto per lui quel prezzo che gli darebbe il mucchio di denaro più grosso possibile compatibilmente con le idee che lui e gli altri si sono fatte sulla possibilità di ottenere un buon guadagno. Il venditore vorrebbe, arrivando sul mercato, non vedere nessuna altra vacca in giro o vederne il minor numero possibile. Per lui ci sono sempre troppe vacche in vendita. Il suo ideale è la scarsità.

 

 

Il compratore parte da idee opposte. Quando l’altro gli dice che non può dare la vacca a meno di 2.000 lire perché altrimenti perderebbe soldi in confronto alle sue spese, egli tra sé e sé pensa: «Costui dice di perdere; ma, anche se fosse vero, e non e`, perderebbe solo perché non conosce le sue bestie e le alleva male. In mano mia, con meno crusca e meno farinetta, che son troppo care, ma più fieno ed erbe passate al trinciaforaggi, più digeribili e meno sprecate, ne avrei tirato su una gran bella bestia spendendo meno. Non è giusto che egli pretenda tanto, solo perché non si intende di vacche. La si sarebbe potuta vendere a 2.100 lire la fiera passata? E che colpa ne ho io, se si è lasciata sfuggire l’occasione quando di vacche sul mercato ce n’erano poche e valevano molto? Adesso ce n’è abbondanza e sono ribassate». Il compratore è dunque colui che vorrebbe sempre l’abbondanza in giro, per pagare poco la roba.

 

 

Che cosa c’entra il giusto o l’ingiusto tra le due schiere che vengono sul mercato: i produttori, o venditori i quali vorrebbero la scarsità perché i prezzi fossero alti ed i consumatori, o compratori i quali sono fautori dell’abbondanza, perché i prezzi siano bassi?

 

 

Tra i due decide il mercato, il quale non afferma che un prezzo sia più giusto dell’altro; ma dice semplicemente: quello è il prezzo. Il prezzo che si paga sul serio, effettivamente; non il prezzo basso di abbondanza desiderato dai consumatori o compratori e neppure il prezzo di scarsità che sarebbe l’ideale dei produttori o venditori.

 

 

3. Come si fa il prezzo di mercato e che cosa esso vuol dire.

 

Il prezzo che si fa sul mercato, il prezzo che per usare il qualificativo più breve possibile possiamo chiamare prezzo di mercato, non è né giusto né ingiusto. È quello che è; è un prezzo fatto. Ecco tutto. E quale è il prezzo che si fa sul mercato? Supponiamo che per una data fiera dei santi (1 novembre) o di san Martino (11 novembre) siano arrivati 10.000 cavoli che i contadini e anche i non contadini sono soliti ad acquistare in quell’epoca per metterli in una fossa nell’orto ben coperti di terra e di frasche e consumarli a poco a poco d’inverno e sino a quando l’orto famigliare non abbia ricominciato a dare verdura fresca. I 10.000 cavoli sono giunti di gran mattino e sulla piazza c’era già un po’ di gente. Si cominciano a barattare parole, richieste ed offerte. Da 70 centesimi di offerta ed 1,20 di richiesta, finisce che in un batter d’occhio tutti i 10.000 cavoli sono venduti suppergiù a 90 centesimi l’uno. Certo, quello pareva un prezzo fatto, un prezzo di mercato. Capita tuttavia quella volta che, non appena la provvista esistente è finita, arrivano altri compratori, parecchi e parecchi altri compratori, e cominciano a gridare alla camorra: non essere giusto che quei primi arrivati abbiano accaparrato essi tutti i cavoli a 90 centesimi, e che essi, i nuovi venuti, ora li debbano pagare 1,20 ricomprandoli da coloro che li avevano accaparrati artificiosamente. Camorra sporca, perché i venditori si erano messi d’accordo coi pochi accaparratori per sbarazzare il mercato e non far più trovare niente in vista.

 

 

I compratori disillusi vanno dal sindaco o dall’assessore delegato per lamentarsi che non si sono fatte le cose per bene. Per impedire le beghe e le recriminazioni, il sindaco o l’assessore avrà però di solito previsto il caso; e sarà probabilmente stato approvato un regolamento, il quale dirà che non possono iniziarsi le contrattazioni prima di una certa ora. Che cosa significa ciò? Che non solo occorre, perché ci sia un mercato, che esistano molti compratori e molti venditori, che ognuno sia libero di comprare o di vendere o di andarsene senza aver concluso nulla, ma occorre anche che tutti, o almeno tutti coloro che hanno l’abitudine di arrivare sul mercato in ore ragionevoli possano dire la loro, sicché non ci siano favoritismi per l’uno o per l’altro degli intervenuti.

 

 

Se queste condizioni, ed altre che sarebbe troppo lungo e complicato enunciare, si verificano, noi possiamo dire che sul mercato le merci, le derrate ed i servigi sono negoziati e scambiati ad un prezzo, dato il quale, in quel giorno e nelle ore fissate dai regolamenti o dalla consuetudine, la quantità domandata è uguale a quella offerta. Se al prezzo di 1 lira, dopo che la campana od il banditore abbia dichiarata aperta la fiera, tutti i 10.000 cavoli offerti sono venduti, se alla tariffa di 50 lire al giorno tutti i mietitori disposti a lavorare a quel salario hanno trovato da collocarsi presso agricoltori pronti a pagare quel medesimo salario, noi diciamo che il prezzo di 1 lira l’uno per cavolo, ed il salario di 50 lire per la giornata di lavoro del mietitore sono quei tali prezzi e salari, i quali hanno fatto sì che tutti i venditori disposti a vendere i cavoli a 1 lira l’uno o meno e tutti i lavoratori disposti a lavorare alla mietitura a 50 lire o meno, trovassero compratori o datori di lavoro pronti a pagare quel prezzo o quel salario.

 

 

Il prezzo di mercato non ci dice nulla intorno alla giustizia in astratto di pagare 1 lira l’uno i cavoli o 50 lire la giornata i lavoratori. Ci dice solo che a quel prezzo il mercato si è vuotato. I compratori i quali hanno pensato che i cavoli fossero troppo cari ad 1 lira se ne sono tornati a casa; i venditori i quali sperano di venderli poi a 1,10, li hanno riposti in qualche magazzino e sulla fiera non è rimasta merce invenduta. I mietitori ai quali la giornata di 50 lire è parsa insufficiente, se ne sono tornati a casa, probabilmente perché hanno pensato che non ne valesse la pena di patire tutto quel caldo e quel sudore quando essi avevano una giornata meno faticosa assicurata per 30 lire. Gli agricoltori, a cui pagare 50 lire al giorno per la mietitura parve eccessivo, se ne sono andati pensando che in fin dei conti potevano ricorrere all’alternativa di sudare e mietere essi stessi un po’ più a lungo fino a notte inoltrata. La luna c’è e fa chiaro; e se anche si tira in lungo un giorno di più, il tempo volge al bello e il rischio della grandinata sul raccolto pendente non pare tale da spingere a tirar fuori di tasca le 50 lire. Ognuno ha fatto i propri calcoli individuali e ne è risultato che i cavoli che si sono venduti, hanno barattato padrone ad 1 lira ed i mietitori, che si sono allogati, hanno convenuto 50 lire: ed il resto se n’è andato con Dio. La piazza è pulita. Un altro prezzo non avrebbe vuotata la piazza. Se per esempio, il prezzo della giornata del mietitore fosse inizialmente di sole 45 lire, invece di 100 mietitori offerti e collocati a 50 lire, ce ne sarebbero 90 soli offerti e 110 domandati. Se fosse di 55 lire, ci sarebbe una offerta di 110 mietitori ed una domanda di soli 90. La situazione sarebbe falsa, non stabile, gli economisti direbbero squilibrata. Perciò il prezzo di una lira per cavolo o di 50 lire per giornata di mietitura che rende la domanda uguale all’offerta e vuota la piazza, si dice prezzo di mercato, o prezzo fatto. Sui libri scritti dagli economisti si chiama anche prezzo di equilibrio. Nel parlare comune, è più semplice dirlo prezzo di mercato.

 

 

4. In un mercato in concorrenza il prezzo tende al costo.

 

Quale è il significato o meglio il contenuto del prezzo di mercato in un mercato di concorrenza, ossia in un mercato dove intervengono molti compratori e molti venditori, dal quale tutti possono uscire senza comprare o senza vendere, un mercato in cui nessuno dei compratori o dei venditori sia così grosso e prepotente da dettare la legge agli altri, in cui tutti possano dire la loro uniformandosi ai regolamenti pubblici noti, in cui si sia sicuri che i contratti stipulati vengano adempiuti?

 

 

Il significato sostanziale ed essenziale è che quel prezzo tende ad essere quello che compensa le spese necessarie a produrre la merce, se si tratta di merci, o compensa, secondo il giudizio dato dagli interessati nelle condizioni in cui si trovano, la fatica del compiere il lavoro, se si tratta di servigi ossia di prestazioni di lavoro manuale o intellettuale. Se i cavoli costano per fitto del terreno, spese di coltivazione, concimi, raccolta e trasporto solo 80 centesimi l’uno, alla lunga 80 centesimi sarà il prezzo e non 1 lira. Al prezzo di una lira i coltivatori guadagnano troppo e ci sarà chi estenderà la coltura dei cavoli; e questi arriveranno sulle fiere dei santi in quantità aumentata. Se si vorrà venderli tutti bisognerà ridurre il prezzo ad 80 centesimi. Se la giornata di mietitura a 50 lire è superiore al compenso normale richiesto per quel genere di lavoro, la buona novella si diffonderà rapida come il lampo e dalle montagne e dai villaggi lontani arriveranno sul luogo nuovi mietitori che al paese guadagnavano soltanto 20 lire al giorno e sono disposti ad affrontare sulla piana il solleone di luglio per guadagnare anche solo 40 lire. Può darsi allora che per sbarazzare la piazza, data la maggior abbondanza di mietitori, occorra ridurre la giornata del mietitore a 45 lire: e quello sarà il nuovo prezzo di mercato.

 

 

5. Perché si paga un prezzo anche per i doni di Dio.

 

Il mercato non produce solo questi effetti: di uguagliare i prezzi che si fanno e le mercedi che si pagano per le diverse specie di lavoro. Si disse sopra che i cavoli possono costare solo 80 centesimi a produrli, perché tanto bisogna spendere per la coltivazione, la concimazione, la raccolta, il trasporto e per il fitto del terreno.

 

 

Che cosa è il capitolo di spesa che si chiama fitto del terreno? Si capisce subito che si debba pagare il necessario per il lavoro dei contadini che zappano il campo dove sono piantati i cavoli, che lo mondano dalle cattive erbe, che attendono al raccolto ed al trasporto del prodotto. Si capisce che si debba pagare il necessario per il lavoro di direzione e di amministrazione dell’agricoltore che corre il rischio di anticipare le spese e non sa se poi i cavoli potrà venderli bene od in perdita. Ma non si capisce perché si debba pagare qualcosa per l’uso della terra dove si piantano i cavoli. La terra non è forse un dono di Dio, un regalo della natura?

 

 

Due sole riflessioni in merito. Non è vero che la terra, almeno quella che noi conosciamo nei paesi civili e in particolare in Italia, sia un dono della natura. Un grande italiano, un grande patriota dell’epoca del risorgimento, Carlo Cattaneo, ha scritto che la terra non è una creazione, è una costruzione. Nella natura non esistono terre coltivabili; ci sono soltanto paludi, foreste, deserti, terre incolte improduttive. Il terreno che noi conosciamo in Italia è frutto di secoli, anzi di millenni di fatica, di intelligenza, di sacrifici delle generazioni passate degli italiani. Se gli uomini d’oggi si ostinassero a non voler pagare nulla per il suo uso, chi vorrebbe ancora far risparmi ed impiegarli a mantenere nello stato attuale ed a migliorare continuamente la terra? In pochi anni – bastano pochissimi anni a distruggere il lavoro di generazioni – la terra ritornerebbe allo stato selvatico improduttivo.

 

 

In secondo luogo se non si pagasse nulla per l’uso della terra allo scopo di coltivare cavoli, chi ci direbbe se sia meglio coltivare quella terra a cavoli od a patate?

 

 

6. Il mercato registra domande e non bisogni; ed indirizza la produzione in corrispondenza della domanda.

 

Qui siamo arrivati al punto centrale del discorso. Il mercato non è solo un mezzo per stabilire dei prezzi che soddisfino contemporaneamente produttori e consumatori e diano a ciascuno di coloro che hanno contribuito alla produzione un compenso proporzionato ai loro costi ed alla loro fatica, né più né meno del sufficiente a tale scopo, ma è sovratutto uno strumento, un meccanismo per mezzo del quale gli uomini indirizzano, guidano la produzione in guisa che si producano precisamente quelle cose, quei beni e precisamente di quella qualità e in quella quantità che corrisponde alla domanda che essi effettivamente fanno. Badisi bene che, affermando essere il mercato lo strumento adatto per indirizzare la produzione nel senso di produrre beni e servigi, precisamente nella quantità e della qualità corrispondenti alla domanda degli uomini, non si afferma che il mercato indirizzi altresì la produzione a produrre beni e servigi nella quantità e nella qualità che sarebbe desiderata dagli stessi uomini. Questi fanno quella domanda che possono, con i mezzi, con i denari che hanno disponibili. Se avessero altri e maggiori mezzi, farebbero un’altra domanda: degli stessi beni in quantità maggiore o di altri beni di diversa qualità. Sul mercato si soddisfano domande, non bisogni. Una donna che passa davanti una vetrina sente un bisogno intenso del paio elegante di calze che vi è esposto; ma non avendo quattrini in tasca, o non avendone abbastanza, non fa alcuna domanda. Il mercato è costruito per soddisfare domande, non desideri.

 

 

Gli uomini fanno domanda di cavoli e patate? Cavoli in tale quantità e patate in tale altra quantità? Disponendosi a pagare i cavoli 1 lira l’uno e le patate 100 lire al quintale, i compratori dicono agli agricoltori che hanno i terreni adatti: fate in modo da destinare ai cavoli i terreni che servono meglio a produrre cavoli ed alle patate i terreni che sono più adatti a produrre patate. Se gli agricoltori si sbagliano e coltivano patate in collina, in terreni aridi invece che in montagna, e cavoli in montagna invece che in pianura, i terreni male usati non lascieranno nessun margine dopo pagate le spese. Il coltivatore, l’affittuario non potrà pagare il fitto al proprietario del terreno e farà fallimento. Il fallimento è la sanzione, la pena, necessaria e vantaggiosa, per quegli affittuari, per quegli industriali, per quei negozianti che non sono capaci a fare il loro mestiere, che utilizzano male terre, capitali, materiali, macchine, impiegati, operai. Il fitto del terreno diventa massimo quando ogni terreno è destinato a quella coltivazione o a quella rotazione (successione di coltivazioni diverse in successivi anni o successive stagioni) che su di esso dà il miglior risultato. Ogni proprietario è interessato in questo modo a cercare ed a trovare precisamente quella coltivazione che per il suo fondo dà i risultati migliori. Se si pagasse ugualmente zero o cento o mille lire all’anno di fitto per tutte le specie di terreni, quale ragione vi sarebbe ancora di cercare la utilizzazione migliore dei terreni?

 

 

Nella stessa maniera il consumatore dà l’indirizzo alla migliore produzione industriale. Chi deve decidere se si devono produrre più locomotive ferroviarie o più vetture automobili? L’industria non ha per iscopo di fabbricare locomotive ed automobili. Essa è fatta invece per soddisfare la domanda degli uomini. Non sono le macchine e le cose che debbono comandare agli uomini; ma sono gli uomini i quali debbono dire che cosa si deve fabbricare per soddisfare ai loro desideri, a quei desideri che si manifestano con una domanda effettiva. Gli uomini viaggiano di più in ferrovia? Affollano i treni? Crescono perciò gli incassi delle ferrovie? E i dirigenti di queste daranno alle fabbriche competenti ordinazioni di vetture o di locomotive ferroviarie; e la gente viaggerà meglio in ferrovia, più rapidamente e più comodamente. Appunto come desiderava. Gli uomini preferiscono invece l’automobile? Si aspira a possedere, come in qualche paese ci si è già arrivati, almeno un’automobile per ogni famiglia? E gli uomini prenoteranno automobili, e i produttori le sforneranno a milioni all’anno. Tecnici, operai, ingegneri, contabili, verranno, coll’offerta di migliori salari, spostati da altre industrie verso quella automobilistica; ed i capi delle imprese automobilistiche faranno domanda di risparmi nuovi per acquistare macchine, allargare stabilimenti, comprare materie prime e porteranno via i risparmi ad altre imprese con l’offerta di un interesse più alto. Nella stessa maniera come i terreni capaci di fruttare i fitti più alti sono destinati alle colture più adatte, alle derrate più domandate dai compratori, così la necessità di pagare un interesse per i capitali fa sì che i risparmi si impieghino nelle industrie, che sono capaci di fruttare almeno quell’interesse e non nelle altre che non riescono a tanto; il che vuol dire che la necessità di pagare un interesse e il desiderio da parte degli imprenditori (industriali ed agricoltori) di guadagnare, oltre l’interesse da versare ai risparmiatori – capitalisti, il profitto più alto possibile per se stessi, spingono gli imprenditori a dedicarsi alla produzione di quei beni, di quei servigi per cui i compratori sono disposti a pagare prezzi più allettanti, ossia ancora precisamente quei beni e quei servigi che sono più domandati, con maggior relativa intensità di domanda da parte del compratore. Naturalmente, se taluni dei consumatori o compratori fossero meglio provveduti di mezzi d’acquisto (denaro), ed altri avessero a propria disposizione mezzi meno abbondanti, amendue farebbero domande diverse da quelle che fanno. Gli uni soddisferebbero, con una domanda maggiore, più largamente a certi loro bisogni che oggi debbono comprimere. Gli altri dovrebbero contentarsi di chiedere meno roba; lasciando insoddisfatti certi desideri, ai quali oggi indulgono.

 

 

Il mercato, che non conosce bisogni, ma domande, è il servo ubbidiente della domanda che c’è. Soddisfa quelle domande, che non rimangono nella sfera platonica dei desideri, ma si manifestano effettive, corroborate dal possesso di una corrispondente potenza d’acquisto (denaro). Esso indirizza la produzione nel senso di soddisfare la domanda esistente. Se cambiasse il tipo della domanda, il mercato, che è uno strumento e non un fine, si adatterebbe da sé, automaticamente, a soddisfare la nuova domanda. Non possiamo chiedere al mercato di darci più di quello che esso può dare, di dare ad esempio, del denaro (potenza d’acquisto) a chi non ne ha o ne ha poco per consentirgli di far domanda di cose atte a soddisfare desideri da lui sentiti magari intensamente, ma non potuti soddisfare; né di togliere denaro a chi ne abbia moltissimo e può far domanda di cose atte a soddisfare certi bisogni, che di solito si considerano dai più semplici capricci.

 

 

Il compito, caso mai ciò si creda opportuno, spetta non al mercato, ma ad altre istituzioni o ad altri meccanismi; ad es. alle imposte progressive sui grandi redditi da un lato, o alle indennità di infortunio, per citare un esempio, dall’altro lato. Il mercato registra quello che esiste. Muta la domanda? ed ecco il mercato registrare la domanda nuova, fissare nuovi diversi prezzi, nuovi diversi salari, dare nuovo diverso indirizzo alla produzione.

 

 

7. Non confondiamo il meccanismo del mercato col meccanismo della distribuzione della ricchezza.

 

Ci sono alcuni scrittori, tecnici o propagandisti, i quali immaginano di aver fatto una grande scoperta, col dire che la produzione in avvenire non dovrà più essere indirizzata allo scopo di dare un profitto agli imprenditori, bensì allo scopo di rendere servigio agli uomini, di soddisfare i bisogni veri dei consumatori. Costoro fanno una grande confusione. Essi confondono due meccanismi diversi che soddisfano a due diverse esigenze. L’un meccanismo è quello che, data la domanda che c’è, cerca di soddisfare a questa nel miglior modo possibile. Questo meccanismo, questo strumento è noto da secoli e non attende affatto di essere scoperto: quello strumento, quel meccanismo si chiama mercato ed è quello che, purtroppo con eccessiva brevità, si è cercato di descrivere sopra. Ed è anche il solo meccanismo efficace all’uopo, provato e riprovato da una esperienza secolare, anzi millenaria.

 

 

Esso è, si aggiunga, il solo efficace se ci si tiene fermi al principio che il padrone delle decisioni da prendere sia l’uomo medesimo, il quale, avendo desideri, aspirazioni e bisogni, cerca di soddisfarli, nella misura dei mezzi che egli ha a disposizione, e nel modo da lui stesso stabilito.

 

 

C’è o si desidera poi che esista un altro meccanismo, grazie al quale gli uomini, per soddisfare i loro desideri, abbiano una diversa, talvolta maggiore (e qui il pensiero va sovratutto ai poveri) e talvolta minore (e qui il pensiero corre ai ricchi e ricchissimi) disponibilità di mezzi d’acquisto, di mezzi atti a trasformare i desideri ed i bisogni in domanda effettiva? Che qualcosa ed anzi che molto possa farsi all’uopo è opinione diffusa. Ma per raggiungere l’intento, non giova distruggere il meccanismo esistente di mercato, costrutto per conseguire un dato scopo, quando invece si vuole raggiungere un altro scopo, anch’esso importantissimo. Giova invece creare un meccanismo separato non facile ad essere congegnato, probabilmente composto di pezzi numerosi e svariati, il quale sia atto a raggiungere il nuovo diverso scopo. Scopo il quale poi, in sostanza, è quello di una distribuzione dei mezzi d’acquisto, di quella che comunemente si chiama ricchezza e meglio direbbesi reddito, più ugualitaria, con minore miseria in basso e minore dovizia in alto.

 

 

Confondere idee diverse, vuol dire non concludere niente. Confondere, come qui si fa da tanti, meccanismi diversi, vuol dire fracassare amendue. Senza nessun costrutto.

 

 

8. Si può affidare a qualcun altro la decisione intorno ai bisogni degli uomini?

 

C’è un gruppo di questi confusionari i quali per meglio soddisfare i bisogni degli uomini, hanno cominciato a fare una bella pensata: quella cioè che gli uomini non sapessero quel che si facevano o facessero cioè domande non corrispondenti ai loro veri desideri, ai loro veri bisogni; e fosse perciò necessario che qualcun altro si incaricasse di decidere lui, per conto degli uomini, quel che costoro dovessero acquistare e comperare. Naturalmente, se noi partiamo dal principio che non gli uomini debbano, ognuno per conto proprio, decidere, in ragione dei mezzi posseduti, quel che essi vogliono acquistare; ma la decisione debba essere presa da qualcun altro, possiamo fare a meno del mercato. In certi casi può essere ragionevole, e può anche rispondere alla necessità e persino ad un vantaggio sociale, che la decisione su quel che l’uomo deve consumare spetti non a lui ma a qualcun altro. Si può e si deve anzi affermare che il campo entro il quale la decisione spetta a qualcun altro, diverso dall’interessato, in certe epoche storiche e in certe circostanze è stato grande e potrà di nuovo acquistare in avvenire importanza notevolissima.

 

 

Nel medioevo fiorivano i conventi e durano ancora oggi. Chi sono i monaci e le monache se non persone le quali hanno abdicato in mano dei loro superiori ad ogni facoltà di manifestare desideri, alla libera scelta delle loro soddisfazioni? Mangiano, vestono, dormono, vegliano, abitano così come vuole la regola e come ordina il padre guardiano. La loro economia non è di mercato: ma di ubbidienza agli ordini venuti dai superiori. Se essi sono felici di vivere così, perché non rispettare la loro volontà? Di solito, però gli uomini amano vivere a loro talento e non come i monaci del convento.

 

 

In una città assediata, in un paese, piccolo o grande, circondato da nemici, il mercato non può funzionare, perché se anche i consumatori richiedono maggior quantità di pane e niuna quantità di giornali, i produttori non possono seguire le loro indicazioni. Pane non se ne può produrre, tra un raccolto e l’altro, se non entro i limiti in cui esiste frumento, e di giornali se ne può produrre tutto quel numero che è consentito dalla disponibilità di carta da giornale. Perciò, accade che qualcun altro, e in questo caso il governo dica: affinché il pane duri fino alla fine dell’assedio o della guerra e affinché nessuno muoia di fame, occorre che ognuno consumi non più di grammi 100 o 150 o 200 al giorno di pane, – e occorre istituire razioni, tessere, ecc. Poiché qualcun altro, ossia di nuovo il governo, ha interesse che esistano giornali e si stampino le notizie e i comunicati da esso desiderati, può darsi che si ordini che le cartiere seguitino, con cellulosa di pioppo o paglia o altre materie prime, che potrebbero essere destinate a scopi forse ritenuti più urgenti dai compratori, a fabbricare carta da giornali per stampare e vendere molti giornali, con nomi diversi, ma tutti uguali l’uno all’altro, quando basterebbe un unico bollettino quotidiano su un foglietto di dimensioni ridotte a divulgare le notizie desiderate dal pubblico. Il qualcun altro fa per il pane quel che tutti desiderano, per i giornali quel di cui, se fossero liberi di decidere a loro talento, tutti farebbero probabilmente volontieri a meno. Se la necessità dell’assedio o della guerra impone razionamenti e tessere non è evidente però che, non appena sia possibile, tutti tireranno il fiato quando il mercato potrà essere ristabilito?

 

 

Talvolta, il qualcun altro non vuole, per ragioni che la opinione pubblica considera normalmente buone, che i consumatori possano liberamente manifestare i loro gusti sul mercato e così indirizzare la produzione. Ad es. quasi tutti gli stati perseguitano con imposte, proibizioni, limitazioni di orario e di vendita, rispetto a certi gruppi di persone (ad es. i giovani e le donne), la vendita delle bevande alcooliche; tutti vietano e puniscono l’acquisto e la vendita di stupefacenti. Limitano e sopprimono il mercato, per ragioni di igiene di moralità di salvezza delle nuove generazioni, di tutela contro le terribili malattie provenienti dall’uso degli stupefacenti e dall’abuso delle bevande alcooliche.

 

 

Per la maggior parte dei consumi, le scelte sono tuttavia innocue, non recano danno né a chi le fa né ad altri e possono perciò essere lasciate liberamente agli interessati. Tutto al più gioverà che qualcun altro, enti pubblici istituzioni religiose o filantropiche od educative, dia opera allo scopo di insegnare ai consumatori a fare scelte buone dal punto di vista della sostanziale utilità, giudicata con criteri scientifici obbiettivi, della merce e allo scopo di dissuaderli dall’acquisto di merci la cui utilità oggettiva, nutritiva, fisiologica ecc. è minore della perdita che si sostiene rinunciando ad altre cose che si potrebbero acquistare allo stesso prezzo. Il pubblico si lascia non di rado guidare da una pubblicità interessata e giova che una educazione scientificamente imparziale e oggettiva, attenui gli errori commessi dagli uomini nel distribuire il reddito tra i vari consumi, pur lasciando ad essi la decisione ultima.

 

 

Può anche darsi che il qualcun altro sia persuaso che molti uomini spendono male il loro reddito, consumando ad esempio troppe bevande o facendo troppo lusso inutile di frivole aggiunte al vestito o sprecando denari nell’adornarsi o nella toletta, e dedicando troppa poca parte del salario alla casa. Se l’uomo di stato ritiene che la buona vita famigliare, che il possesso di una casa anche piccola e di un modesto orto, sia saldo fondamento di una società sana e prospera, si può ammettere che lo stato, ad incoraggiare l’accesso delle classi operaie alla proprietà della casa e dell’orto, costruisca strade adatte prolungando le tranvie, faccia gli impianti necessari di illuminazione acqua fognatura e favorisca così la formazione, nella vicinanza della città, di borghi operai ameni ed attraenti. All’uopo esso li fornirà anche di giardini pubblici, di scuole, di servizi pubblici, di campi di divertimento, di chiese e simili.

 

 

Si può pensare che lo stato sussidi anche la costruzione delle case, cosicché queste possano essere vendute a prezzo inferiore al costo con concessione di lungo tempo per il pagamento a rate. Siccome probabilmente queste case saranno molto richieste e probabilmente in numero maggiore di quelle offerte, bisognerà trovare qualche altra regola diversa da quella del mercato per scegliere coloro che dovranno avere la casa: e si darà la preferenza per es. ai padri di famiglia con prole numerosa, agli anziani, ai più assidui al lavoro, ai domiciliati da più tempo nella località ecc. ecc.

 

 

9. Gli uomini non intendono rinunciare al loro diritto di scegliere le cose che vogliono acquistare.

 

Tengasi però bene in mente che si tratta di eccezioni, che sono approvabili ed anche utili sinché sono una eccezione. L’eccezione può anche diventare imponente senza abolire la regola della libertà degli uomini di indirizzare la propria domanda nel senso preferito individualmente da ciascuno di noi. Se diventasse regola, ciò vorrebbe dire che noi accettiamo il principio che gli uomini non possono più decidere essi quel che vogliono acquistare, ma deciderebbe sempre qualcun altro. È probabile che la grande maggioranza degli uomini desideri spendere i mezzi che possiede come meglio crede, senza lasciarsi dettare la legge da nessun altro, ossia desideri la continuazione del mercato, unico mezzo finora scoperto per ottenere lo scopo.

 

 

10. I monopolisti ed i prezzi di monopolio.

 

Non sempre però il mercato è quello che sopra fu descritto. I compratori per lo più sono sempre molti e si fanno concorrenza nel comperare e spingere su i prezzi, ma non sempre i venditori sono molti e pronti a farsi concorrenza. Capita che il fabbricante di una merce sia uno solo e domini il mercato. Oppure sono molti, ma ce n’è uno o alcuni tanto grossi che si dice che i prezzi sono «fatti» da essi. Forse avete sentito parlare di quel fabbricante di mattoni e tegole che nel proprio paese, dove è lui solo a venderli, vende i mattoni a 150 lire al mille, e le tegole a 200 lire (sono prezzi di qualche anno fa, prima della guerra presente): ed invece nei paesi un po’ più lontani, dove deve tener conto della concorrenza di altri mattonai, vende gli stessi mattoni e le stesse tegole a 120 e 150 lire rispettivamente. Bella giustizia, bel rispetto dei compaesani! dice la gente del luogo, far pagare cari i mattoni e le tegole a noi e darli a buon mercato ai forestieri!

 

 

Eppure, dal punto di vista del mattonaio, la cosa è naturale: in paese è egli solo a vendere, fuori c’è la concorrenza. La concorrenza, che è la salvaguardia del consumatore, in paese non c’è più; ed i clienti sono presi per il collo. Questi produttori che sono soli o quasi soli si chiamano monopolisti o quasi-monopolisti. Può darsi che essi siano parecchi ed anche abbastanza numerosi, ma capita che si mettano d’accordo ad agire come uno solo; ed in questo caso al loro complesso si dà il nome di consorzio, sindacato, trust, cartello.

 

 

Il risultato è sempre lo stesso: il monopolista non è più costretto dalla concorrenza a fissare un prezzo uguale al costo di produzione; ma può fissare lui la quantità di merce che vuol produrre o vendere ovvero il prezzo che vuol farsi pagare; epperciò il prezzo tenderà naturalmente ad essere quello che gli dà il massimo guadagno netto. Non sempre la cosa gli riuscirà completamente; perché un po’ di concorrenza c’è sempre ed egli può temere che, a guadagnare troppo come potrebbe, si risvegli la voglia in altri di impiantare una fabbrica concorrente. Ma in generale egli aspira e tende ad ottener il massimo guadagno netto.

 

 

11. Col monopolio si produce di meno e si distribuisce peggio il minor prodotto.

 

Ciò facendo, il monopolista è cagione, oltrecché di altri, sovratutto di due grossi malanni. In primo luogo, per guadagnare di più egli deve aumentare i prezzi, di poco o di molto, in confronto ai prezzi di concorrenza; e perciò, a prezzi più alti, egli vende e produce meno roba. Se al prezzo di 8 si domanda e si produce e si vende un milione di kg di una data merce, al prezzo di 10 la domanda e perciò la produzione e la vendita diminuiscono, ad es., ad 800.000 kg. C’è un bel numero di compratori, quelli che consumavano i 200.000 kg, i quali rimangono a bocca asciutta e devono stringersi la cintola; e ci sono coloro, i quali continuano a consumare gli 800.000 kg. rimasti, ma li devono pagare 10 invece di 8. In secondo luogo, nascono i profitti e guadagni di monopolio. Prima, quando il mercato era in concorrenza, i produttori si dovevano accontentare di guadagnare quel che era “necessario” per indurli ad arrischiare i loro risparmi e quelli presi a prestito dalle banche e per indurli ad organizzare e dirigere le imprese, che è una specie di lavoro indispensabile e assai produttivo. Ora, essi insaccano grossi guadagni supplementari, non più dovuti al merito di lavorare, organizzare ed arrischiare, ma dovuti al demerito di avere sbarazzato il campo di tutti i concorrenti o di essersi messi, gli antichi concorrenti, d’accordo per taglieggiare i consumatori.

 

 

12. Due specie di monopoli e due metodi di lotta contro di essi.

 

Si può dire perciò che, mentre il mercato in concorrenza è benefico e rende servigio, il mercato in monopolio è dannoso e rende disservigi alla generalità degli uomini. Siccome in queste pagine si vuole soltanto descrivere il mercato e spiegarne nelle somme linee il funzionamento, non è il luogo di descrivere anche i mezzi adatti a far venir meno o a diminuire i danni dei monopoli. Basti accennare che la lotta contro i monopoli deve essere considerata come uno dei principali scopi della legislazione di uno stato, i cui dirigenti si preoccupino del benessere dei più e non intendano curare gli interessi dei meno. La battaglia contro i monopoli può essere condotta lungo due direttive. Ci sono dei monopoli, la maggior parte a parere di taluni, i quali sono dovuti precisamente ad una legge dello stato. Se lo stato ha stabilito dei dazi doganali, dei contingentamenti, delle proibizioni contro le importazioni estere, dei divieti di stabilire nuove fabbriche ecc. ecc., lo stato con la sua legge medesima ha ridotto o distrutto la concorrenza che potrebbe venire dall’estero o da nuovi fabbricanti. In questi casi è chiaro che basta abolire la legge che ha creato il monopolio, perché questo sia distrutto. In altri casi il monopolio è dovuto a cause indipendenti dalla legge, a cause quasi tecniche. Ad es., la concorrenza in una stessa città e negli stessi rioni di molte tranvie, di molte imprese di acqua potabile o di gas o di luce elettrica, ed, entro certi limiti, la concorrenza di parecchie ferrovie tra le stesse città, non è possibile e, se tentata, non dura. Siccome qui il monopolio si può dire quasi naturale, non lo si può più abolire, e bisogna regolarlo. Lo stato interviene per fissare le tariffe massime, il genere dei servizi, ovvero può decidersi ad esercitare lui stesso l’industria monopolistica, facendosi rimborsare il puro costo. Purché non ci pigli troppo gusto. Secoli fa, quando si introdusse in Europa la foglia del tabacco, alcuni stati dissero appunto di voler esercitare essi quell’industria a tutela dei consumatori. Finì come tutti sanno, che il tabacco è venduto da certi stati a 3, 4 e in certi casi fin 10 volte il costo della produzione dei sigari e delle sigarette.

 

 

Capitò per accidente che i governi, profittando del monopolio del tabacco per farci su un guadagno enorme, fecero cosa inappuntabile. L’imposta che i governi percepiscono per mezzo del monopolio del tabacco è una delle migliori imposte che si possano immaginare. Dato che non possiamo fare a meno di imposte, è meglio che esse colpiscano una merce che è diventata di larghissimo consumo e per molti è necessaria quasi come il pane, ma la quale può tuttavia essere considerata indice di una disponibilità di reddito volontariamente destinato a soddisfare un bisogno considerato dal legislatore di intensità minore di quella da lui attribuita ai bisogni pubblici, disponibilità che perciò lo stato può senza troppo scrupolo colpire con imposta anche forte. Ma non bisogna generalizzare l’andazzo di monopolizzare questa o quella produzione a favore dello stato. Ebbe buoni effetti il «chinino di stato» che del resto non è un monopolio; ma li ha dannosi il monopolio del sale che è un alimento di prima necessità. E non è accaduto forse recentemente, quando le vetture automobili e gli autocarri cominciarono a fare una viva concorrenza alle ferrovie con grande vantaggio del pubblico, che parecchi stati proprietari delle ferrovie invece di rallegrarsi del vantaggio generale, si allarmassero per il danno alle proprie finanze e mettessero ogni sorta di bastoni fra le ruote alla benefica concorrenza dei nuovi sistemi automobilistici?

 

 

Nessun rimedio esiste contro questi pericoli, all’infuori di una vigile illuminata opinione pubblica, capace di scoprire la verità in mezzo all’imbroglio di pretesti o di frasi fatte con cui si riesce ad ingannarla.

 

 

13. I prezzi di mercato non sono arbitrari, né in potestà dei produttori.

 

Prezzi di un mercato dominato dalla concorrenza, prezzi di un mercato monopolistico e prezzi dei tanti altri tipi di mercato, nei quali non c’è più la perfetta concorrenza e non esiste ancora un monopolio perfetto, hanno in comune una caratteristica: quella di non essere arbitrari.

 

 

Una delle idee più comunemente diffuse è che i prezzi siano fatti da chi vende, da chi produce, da chi porta la roba sul mercato. Certo il produttore desidera vendere al più alto prezzo possibile. Ma di desideri è lastricato anche il pavimento dell’inferno. Tutti desideriamo qualche cosa che non abbiamo; ma poi ci adattiamo a fare quel che si può. Così anche i produttori, così i venditori. Persino il monopolista che vorrebbe vendere a 10 lire, deve poi adattarsi a vendere ad 8, se a 10 lire i compratori sfumano in troppi ed egli perde di più col vender poco di quanto guadagni coll’aumentare il prezzo. Se egli potesse prendere per il collo i compratori e costringerli a comprare quanta merce egli vuol loro accollare al prezzo da lui fissato, la sua prepotenza non avrebbe limiti. Fortunatamente per essi, i consumatori hanno una via di scampo: di piantarlo in asso, lui e la sua merce o, se non piantarlo, ridurre le compere, ricorrere a surrogati. Un bel giorno, accadde ad uno dei governi italiani di incoraggiare un sindacato siciliano degli zolfi, che aumentò i prezzi a carico degli inglesi e degli americani, gran consumatori di zolfo. Tanto sono ricchi – si diceva – e possono pagare! Invece quelli si inferocirono e cominciarono prima ad estrarre lo zolfo dalle piriti, e poi cercarono zolfo per mare e per terra e, cerca cerca, finirono per trovarne nel Texas, e, per giunta, estraibile a più buon mercato di quello siciliano. Ai brasiliani saltò in mente, un altro bel giorno, di valorizzare il caffè ossia di pretendere un prezzo del caffè di semi-monopolio. Siamo noi – dicevano – i principalissimi produttori di caffè del mondo; e converrà pure che gli americani del nord, francesi, italiani, ecc., gran bevitori di caffè, si indirizzino a noi! Mal gliene incolse loro; perché in altri paesi si estese la coltura del caffè e sovratutto, per l’attrattiva dell’alto prezzo artificiale, si estese nel Brasile medesimo. Ad un certo punto ci fu sul mercato tanto caffè che ai prezzi della così detta valorizzazione non fu più potuto vendere; e si ebbe lo scandalo, di cui tutti i giornali parlarono, del caffè gettato in mare od utilizzato come combustibile nelle caldaie delle locomotive ferroviarie. Non fu affatto uno scandalo; ma la logica conseguenza dell’errore di aver preteso, costituendo un monopolio, far pagare ai consumatori un prezzo troppo alto. Lo scandalo, sia detto tra parentesi, fu un altro: che i governi di certi paesi consumatori resero nello stesso tempo il caffè inaccessibile ai propri connazionali, sia col colpirlo all’entrata con dazi altissimi sia addirittura col proibirne la importazione.

 

 

In un mercato libero nessuno fa quel che vuole, né i produttori, né i consumatori. Il governo aumenta l’imposta sulle case? E tutti dicono: i proprietari non soffrono nulla, bastando ad essi aumentare i fitti. Errore. I proprietari desiderano sì aumentare i fitti; ma se l’avessero potuto fare li avrebbero aumentati senza aspettare lo stimolo dell’accresciuta imposta. Se non l’avevano fatto, ciò era accaduto perché gli inquilini non si possono prendere per il collo. Se i fitti aumentano, ci si restringe in appartamenti di un numero di stanze minore; si rinuncia a certe comodità; si va a vivere nei sobborghi. Vengono fuori alloggi sfitti; e se si vogliono affittare, i proprietari devono pure decidersi ad abbassare i canoni di locazione. La questione dell’influenza delle imposte sui prezzi è certamente più complicata di quel che ora si è detto. Basti qui avere osservato che, anche in questo caso, i proprietari non possono fare quel che vogliono.

 

 

Devono ubbidire al mercato, il quale automaticamente, per il gioco dell’affluire dei venditori quando i prezzi, rialzando, lasciano un margine attraente di profitto e dell’uscire dei compratori quando il rialzo li costringe a non far seguire ai desideri una domanda effettiva, e per il corrispondente gioco dell’uscire dei venditori ed affluire dei consumatori a prezzi calanti, fa sì che si stabilisca quel tal prezzo, dato il quale la quantità domandata è uguale alla quantità offerta. E così si stabiliscono automaticamente i prezzi del lavoro (salari e stipendi), dei capitali (interessi), delle terre (fitti). Forse che il proprietario di un’area fabbricabile nel centro di Milano o di Roma esercitava un arbitrio quando chiedeva ed otteneva (parliamo di una diecina di anni fa quando i prezzi in lire avevano un significato) un prezzo di 20.000 lire al metro quadrato, nel tempo stesso in cui in certe regioni italiane certi terreni agricoli valevano, sì e no, 10 centesimi all’uguale metro quadrato (1.000 lire all’ettaro)? No, il mercato compiva automaticamente, nel contrasto fra compratori e venditori, un processo che si chiama capitalizzazione dei redditi. È vero che l’area fabbricabile di Milano o di Roma non fruttava nulla, neppure una spiga di grano; laddove il fondo della Basilicata produceva qualche po’ di grano. Ma l’aspirante compratore dell’area faceva i suoi conti sul reddito del palazzo che avrebbe potuto costruire a sei ad otto o dieci piani e sul reddito netto che ne avrebbe potuto cavare affittandolo a negozi, uffici e appartamenti di abitazione; e se il calcolo gli dava come frutto netto da imposte, spese di gestione, assicurazione, riparazioni, ammortamento ed interesse sul capitale investito nella costruzione dell’edificio un residuo di 100 lire per metro quadrato e per piano, ossia moltiplicato per dieci piani, di 1.000 lire per metro quadrato, egli era disposto a pagare l’area a 20.000 lire al metro quadrato, perché avrebbe ricavato dall’investimento un frutto del 5%, che era quello corrente per quel tipo di impiego. Invece l’aspirante acquirente del fondo basilicatese se, fatti i conti dello stato del fondo, dei capitali scorte vive e morte da investire, del rendimento in frumento, dei costi di coltivazione, raccolta, trasporto, imposte, ecc. ecc., riusciva al risultato, possibilissimo, di un reddito netto di 50 lire all’ettaro, non era disposto a pagare, capitalizzando il reddito al saggio di interesse, supponiamo, del 5%, un prezzo capitale maggiore di 1.000 lire all’ettaro e cioè di 10 centesimi per metro quadrato. A formare questi due prezzi così diversi di 20.000 lire e di 10 centesimi per la stessa superficie (ma in luoghi diversi) di un metro quadrato, la volontà del proprietario detentore del terreno non c’entra né per cicca né per berlicca. Il mercato sovranamente decide e decide sulla base di un dibattito nel quale tutti i fattori rilevanti di decisione vengono messi in piazza da chi ha interessi contrastanti e non vuole lasciarsi mettere nel sacco: prospettive di prodotto, di costi, di incertezze di riuscita, probabilità di avvenimenti futuri. Tutto viene dosato e pesato; e dal tira e molla del mercato esce fuori in tempo talvolta brevissimo, quasi istantaneo (prezzi dei titoli in borsa), e talvolta lentissimo, defatigante, con un andirivieni di intermediari ripetuto le decine e centinaia di volte, a distanza di giorni, di mesi e di anni (prezzi dei terreni agricoli), il prezzo di mercato. A quel prezzo avviene il trapasso della merce, del servigio, del titolo, della casa o del fondo. Nulla sinora è stato inventato a sostituire il meccanismo del mercato, fuori della sua abolizione e della sua sostituzione con un ordinamento regolato dall’alto, in virtù di comandi e di decisioni abbassate dalle autorità supreme a quelle intermedie e da queste a quelle inferiori e finalmente ai cittadini; come è sempre accaduto nelle caserme e nei reclusori.

 

 

Chi non voglia trasformare la società intera in una immensa caserma o in un reclusorio, deve riconoscere che il mercato, il quale raggiunge automaticamente il risultato di indirizzare la produzione e di soddisfare alla domanda effettiva dei consumatori, è un meccanismo che non può essere alla leggera fracassato per vedere, come fanno i bambini per i giocattoli, come è fatto dentro. Esso merita invece di essere studiato attentamente per essere a poco a poco perfezionato. Innanzi all’altra grande guerra esso aveva raggiunto un alto grado di perfezione; e sarebbe un gran bel fatto se in qualche anno potessimo riguadagnare il gran terreno che negli ultimi trent’anni abbiamo perduto!

 

 

14. Quel che sta attorno alla fiera ed influisce su di essa.

 

Fin qui si è parlato del mercato sia di quello benefico in concorrenza, sia di quello dannoso in monopolio, come se fosse qualcosa che sta a sé. Bisogna, nello spiegarsi, per forza far così, per non far nascere confusione nella testa dei lettori. Il mondo vero è qualcosa di così complicato e vario e mutevole che per ordinare le idee e vederci un po’ chiaro, è necessario affrontare la sua descrizione ad un passo per volta. Così si è fatto sin qui per il mercato. Ma tutti coloro i quali vanno alla fiera, sanno che questa non potrebbe aver luogo se, oltre ai banchi dei venditori i quali vantano a gran voce la bontà della loro merce, ed oltre la folla dei compratori che ammira la bella voce, ma prima vuole prendere in mano le scarpe per vedere se sono di cuoio o di cartone, non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia dei carabinieri che si vede passare sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del municipio, col segretario ed il sindaco, la pretura e la conciliatura, il notaio che redige i contratti, l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno sulla fiera. E ci sono le piazze e le strade, le une dure e le altre fangose che conducono dai casolari della campagna al centro, ci sono le scuole dove i ragazzi vanno a studiare. E tante altre cose ci sono, che, se non ci fossero, anche quella fiera non si potrebbe tenere o sarebbe tutta diversa da quel che effettivamente è.

 

 

15. L’influenza delle abitudini sui prezzi.

 

In poche pagine, non si può descrivere a fondo l’influenza che quel che ci sta attorno esercita sul mercato. Bisogna necessariamente limitarsi ad alcuni casi.

 

 

Perché al contadino ed al borghigiano piace comperare alla fiera? Non solo perché egli vi ha una gran scelta di roba, che di solito nel villaggio non c’è; non solo perché ci sono molti venditori che si fanno concorrenza; ma anche perché egli non conosce personalmente i venditori e non ha alcun timore di offenderli a piantarli lì, se la roba o il prezzo non gli conviene e ad avvicinarsi ad un altro, per vedere se può fare un miglior contratto. Di solito nel paese suo, egli non osa comportarsi così. Suo padre, sua madre si sono sempre forniti in quella bottega. Sono, bottegaio e cliente, amici di famiglia. Se egli facesse risuolare le scarpe da un altro ciabattino, il giorno stesso in tutto il villaggio se ne parlerebbe e sarebbero guai per lui. «Che torto ti ho fatto, – gli chiederebbe o gli farebbe chiedere l’amico ciabattino, – perché tu mi abbia abbandonato? Forse che quell’altro lavora meglio di me?» Cosa rispondergli! Che la risuolatura è costata tre lire di meno? Ma la risposta è pronta: «Tuo padre, tua madre, tu, tua moglie non avete mai dovuto lamentarvi di me. Il mio lavoro è fatto secondo coscienza. Se badi alle tre lire, segno è che non hai riguardo al lavoro ben fatto». Come fare a dirgli che anche l’altro ciabattino lavora coscienziosamente? Sarebbero freddezze, dispiaceri, inimicizie. Il costume ha dunque non di rado grande importanza nel modificare i risultati in confronto a quelli che si otterrebbero in un mercato vero e proprio che è quello in cui compratori e venditori non si conoscono o si comportano come se non si conoscessero ed i prezzi sono determinati esclusivamente dalla convenienza. In un mercato vero e proprio dove nessuno conosce l’un l’altro o meglio, non ha ragioni di amicizia, soggezione o dipendenza verso altri, i prezzi, i salari, i fitti ecc. si muovono più rapidamente e continuamente; mentre dove dominano il costume, la consuetudine, le relazioni di vicinato e di famiglia, si paga per ogni cosa o per ogni servigio quello che si usa pagare, quel che è considerato giusto, quel che nella testa di ognuno corrisponde a quel che si deve pagare. È frequente sentirsi rispondere: «Faccia lei, lei ha più cognizione di me, lei sa quel che ha sempre pagato». La risposta è imbarazzante, e spesso costringe a pagare un po’ di più di quel che si sa essere il prezzo di mercato. Ma si paga per conservare le buone relazioni di vicinato e di saluto. Sarà più facile trovare la roba o ottenere qualche servigio la prima volta che se ne avrà bisogno.

 

 

16. L’influenza della legge sul mercato.

 

Non bisogna dimenticare, fra le circostanze che influiscono sul mercato, la legge. Anche se non conoscete il codice, quello civile o commerciale o penale, siete però probabilmente andati dall’avvocato o dal notaio perché vi redigesse un atto o vi sbrogliasse una vostra faccenda un po’ litigiosa. E vi siete accorti allora che voi non potete fare tutto ciò che volete; non potete nemmeno mettervi d’accordo a fare con altri quello che ad amendue piacerebbe di fare. Ci sono delle regole, alle quali si deve ubbidire; dei sistemi a cui vi dovete uniformare. Non si può, se si vuole fare testamento, lasciar tutta la terra a un figlio solo e niente agli altri; tutto ai figli maschi e niente alle femmine. Ai contadini per lo più parrebbe naturale di lasciar tutto ai figli maschi che hanno sempre lavorato coi genitori. Essi non credono di fare alcun torto alle femmine, lasciandole, nel giorno del gran viaggio ultimo, andare con Dio con la semplice loro benedizione. Perché non si devono contentare della dote che hanno ricevuto al momento del matrimonio? Se i mariti se ne sono accontentati allora, che ragione c’è che oggi vengano a ficcare il naso nella eredità e mettere nei guai i figli maschi, che già avranno tante difficoltà a dividersi tra loro in parti uguali quella poca terra? Eppure, devono rassegnarsi; il codice italiano passato permetteva ad essi di disporre solo della metà del patrimonio; l’altra metà, la legittima, doveva essere per forza divisa in parti uguali tra tutti i figli, maschi e femmine. Il codice nuovo riduce ancora di più la disponibile, fino ad un terzo od a un quarto. Il notaio vi ha forse spiegato che il codice civile vuole ciò per impedire che la terra resti tutta in proprietà dei primogeniti, come si usava una volta. Gli altri figli dovevano andare per il mondo a procacciarsi da vivere, ed il primogenito restava a casa, ben provveduto. Ed accadeva che, per queste ed altre ragioni, ci fossero troppe grandi tenute, troppi di quelli che nell’Italia, da Roma in giù, si chiamano latifondi, male coltivati, perché i proprietari hanno troppa terra. La divisione tra i figli, imposta dal codice, ha avuto per effetto che in parecchie regioni d’Italia, in Francia; in Svizzera, le grosse tenute si sono spezzate; ogni proprietario ha avuto meno terra da coltivare e l’ha coltivata meglio. La produzione dei terreni è aumentata. I contadini lavoranti, meglio richiesti, hanno ricevuto salari migliori e hanno lavorato per un numero di giorni maggiore. Sul mercato, tutto è mutato: salari, fitti e prezzi.

 

 

Certamente, non sono mutati solo per la ragione ora detta; ma questa ha contribuito in una certa misura al cambiamento. Si vede perciò come una disposizione della legge, come quella che il padre può disporre di una parte sola del suo patrimonio e la parte restante, spesso la maggior parte, deve dividerla ugualmente tra i figli, può influire sul mercato.

 

 

17. L’importanza delle imposte sulle eredità.

 

Voi sapete, anche perché siete andati o i vostri genitori sono andati a pagare qualche tassa all’ufficio del registro, che le eredità non spettano sempre tutte ai figli ed ai parenti, ma che lo stato se ne piglia la sua bella parte, una parte tanto più grossa quanto più grossa è la eredità o quanto più lontano nell’ordine della parentela è il parente beneficato. Ciò non accade solo perché lo stato deve pur vivere ed ha bisogno che i cittadini gli paghino le imposte. Accade anche perché coloro che hanno fatto le leggi hanno creduto bene che i figli ed i parenti lontani non godano tutto il frutto del lavoro e del risparmio dei loro vecchi e per impedire che le fortune rimangano immobilizzate di padre in figlio nella stessa famiglia. Dice il proverbio: il padre fa dei sacrifici, delle rinunce, risparmia e si fa un patrimonio; il figlio lo conserva ed il nipote se lo mangia. In generale ciò è probabilmente abbastanza vicino al vero. Ma i legislatori hanno creduto bene di dare una tal quale spinta a questo processo naturale, anche per arrivare in tempo a far godere almeno in parte la società intiera, rappresentata dallo stato, dei patrimoni accumulati in passato dagli avi, prima che i nipoti ed i pronipoti se li mangino. Mangiare per mangiare, si è detto, è meglio che mangi lo stato, a nome e per conto di tutti. Non bisogna, anche qui, spingere la tesi troppo oltre. L’ideale sarebbe che i patrimoni non li mangiasse nessuno, né i nipoti, né lo stato. E c’è anche l’altro motivo, già detto prima a proposito della legittima, che mettendo una tassa tanto più forte quanto più elevato è il patrimonio, si impedisce il perpetuarsi dei patrimoni troppo grossi e si favorisce il loro frazionamento.

 

 

C’è chi, tenendo conto dell’ora detto, vorrebbe che la tassa di successione fosse ancora modificata nel senso che i patrimoni pagassero di più non solo in ragione della loro grandezza, ma anche in ragione della loro antichità. Per esempio, quel fondo dovrebbe pagare il 10 per cento quando passa dal padre al figlio; lo stesso fondo pagherebbe un altro 40 per cento passando dal figlio al nipote; e finalmente il restante 50 per cento passando dal nipote al pronipote; cosicché il pronipote in realtà, di quel fondo, non erediterebbe più niente. Ma se il nipote ha aggiunto al fondo vecchio un altro nuovo, allora il pronipote pagherebbe su questo solo il 10 per cento e così via. Naturalmente, la tassa colpirebbe il valore del fondo e non il fondo per sé. L’essenziale della idea sarebbe che le eredità siano trasferite solo entro certi limiti da una generazione all’altra, per costringere le nuove generazioni a lavorare invece di perdere il tempo nell’ozio. Comunque sia di ciò, si vede come le leggi sulle eredità influiscano sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza e quindi sui mercati, sui salari e sui prezzi. Le leggi buone producono buoni risultati e quelle cattive li producono cattivi. Le une incitano allo spreco, le altre al lavoro. Sul mercato si formano sempre i prezzi in modo automatico; ma i prezzi che si formano sono diversi a seconda che ci sono pochi o molti proprietari, a seconda che la gente è spinta a lavorare, ad inventare, a progredire, od a seconda che languisce nell’ozio. Perciò grande è l’importanza del fare leggi buone.

 

 

18. L’influenza sul mercato della buona o cattiva moneta, dei buoni governi e di quelli cattivi.

 

Si pensi al danno che i più hanno dovuto sopportare ed ai guadagni che i meno hanno ottenuto a causa della cattiva moneta che i governi hanno stampato e mandato in giro nei diversi paesi.

 

 

Si ricordi quel che è accaduto al marco tedesco, alla corona austro-ungarica e in minori proporzioni alla lira italiana, al franco francese, al franco belga ecc. dopo l’altra grande guerra. I governi per far fronte alle spese pubbliche, non incassando abbastanza imposte e non trovando sufficiente credito, stamparono biglietti, taluni in misura stragrande. I cittadini, trovandosi tutta quella carta in mano – ricevuta per stipendi, paghe, forniture ecc. – cercavano di comprare merci e facevano salire i prezzi. I governi, che dovevano perciò pagare più caro tutto ciò che ad essi bisognava, dovevano stampare carta-moneta in quantità ancor maggiore di prima. Chi la riceveva a sua volta, volendola spendere, doveva pagare tutto ancor più caro. Era un circolo vizioso, senza fine dicendo. In tali condizioni nessuno risparmia. Perché risparmiare, se a mettere da parte 100 marchi o corone o lire o franchi che oggi comprano un litro di olio, domani le stesse 100 unità compreranno solo più mezzo litro di olio e poi un quarto di litro di olio? Ma, se nessuno risparmia, come le industrie troveranno domani i capitali di cui hanno bisogno; come si potranno far lavorare gli operai? Questi debbono ogni mese chiedere un aumento di salario, non per migliorare, ma semplicemente per compensare il crescente carovita; ma più crescono i salari, più la roba costa cara a produrre e bisogna aumentare i prezzi. È una corsa al disordine e alla rovina di tutti. Tutti sono sfiduciati e irritati. Guadagnano solo gli intermediari, gli speculatori, coloro che arrivano a vendere in fretta più cara la loro merce prima che siano aumentate le spese delle loro materie prime e i salari pagati ai loro operai. Cosa vale la fortuna dei pochi in confronto alla rovina del paese? Perché ciò è accaduto? Si potrebbe discorrere molto in proposito; ma la cosa essenziale da tenere in mente è questa: in Svizzera il paese è stato amministrato bene da un Consiglio federale, composto di gente per bene, onesta, che voleva fare l’interesse dei cittadini, dalla cui elezione esso in fondo proveniva. Esso ha fatto fronte ai bisogni della Confederazione (ed i governi cantonali a quelli dei cantoni ed i consigli municipali a quelli dei municipi) con i sistemi ordinari, senza ricorrere al torchio dei biglietti, ossia senza stampare nuovi biglietti, più del necessario. In Italia invece, le cose sono andate come tutti sanno; e mentre si diceva di volere difendere la lira fino all’ultimo sangue, si seguitò a stampare biglietti ed a furia di crescere, quella carta, di cui 20 anni fa ce ne erano in giro solo 20 miliardi ed ora ce ne saranno 200 e la cifra cresce quotidianamente, quella carta è diventata cartaccia e non vale quasi più niente. In Germania e in Austria marchi e corone andarono a finire a zero. Auguriamo e speriamo che in Italia stavolta la corsa al ribasso si arresti prima e che la lira possa essere fermata ad un certo punto. Ma il paragone si impone.

 

 

Ecco l’importanza di un buon governo e di un’amministrazione onesta che sappia ispirare fiducia nell’avvenire e sicurezza nel presente; ed all’opposto di un governo dal quale nascono solo sfiducia, cattiva sicurezza, disordine nei prezzi, nei valori, nei redditi, in tutto ciò che riguarda la vita quotidiana.

 

 

19. La libertà di associazione operaia e di sciopero ed i salari.

 

Un ultimo esempio – ma si potrebbe seguitare a lungo – sulla influenza delle leggi sui prezzi di mercato. Il salario è il prezzo che si paga per una giornata di lavoro dell’operaio. Varia, naturalmente, a seconda della specie del lavoro, della capacità e laboriosità dell’operaio e di molte altre circostanze. Ma varia anche a seconda del codice penale e del modo come esso è interpretato. Prima del 1880 la giornata del contadino bracciante nella valle del Po, nelle province più fertili dell’Italia, stava su una lira per gli uomini e sui 50 centesimi per le donne. Questo l’on. Giolitti, l’antico presidente del consiglio, ricordò più volte al parlamento. Le cause erano molte; ma una merita di essere ricordata; il codice penale di quel tempo considerava reato lo sciopero e reato l’accordo di più lavoratori e ancor più l’incitamento allo scopo di scioperare.

 

 

Come potevano i lavoratori, uno ad uno, far sentire le proprie ragioni? Essi erano, nel contrattare il salario, in condizioni di inferiorità di fronte ai padroni, i quali, essendo in pochi, si potevano, senza farlo sapere a nessuno, mettere facilmente d’accordo e tener bassi i salari. I lavoratori scioperarono lo stesso. Si ebbero alcuni processi celebri, fra cui quello di Mantova, i quali richiamarono l’attenzione del parlamento sull’ingiustizia del codice.

 

 

Un nuovo codice penale, del 1889, detto Zanardelli, dal nome del guardasigilli proponente, abolì il reato di sciopero. Gli accordi diventarono leciti e furono proibiti solo gli atti con cui si fosse tentato di impedire, con la violenza fisica o morale, di andare al lavoro a coloro che non volevano scioperare. Il che è giusto, perché ognuno deve essere libero di lavorare o non lavorare, a suo piacimento, se non si vuol far risorgere la schiavitù. «Il risultato fu che si cominciò a scioperare liberamente ed i salari salirono. I padroni per un po’ si lamentarono, ma alla fine avevano dovuto riconoscere che non tutto il male viene per nuocere. Sotto la spinta di salari più alti, essi, se non vollero andare in malora, dovettero usare macchine più perfezionate ed adottare sistemi produttivi più moderni nelle fabbriche. Nelle campagne provvidero ad usare concimi chimici, ad applicare rotazioni razionali fra le diverse coltivazioni, introdussero falciatrici, mietitrici meccaniche, motoaratrici; e, producendo di più, poterono pagare salari più elevati. Ecco come una modificazione del codice penale ha contribuito a far arrivare più grano, più bestiame sul mercato, a far ribassare i prezzi, a far aumentare i salari».

 

 

L’analisi del fenomeno, quale l’on. Giolitti usava fare, col solito suo metodo estremamente semplificatore, non era forse in tutto esatta. Non si può affermare che la liceità delle leghe e degli scioperi e l’azione delle leghe e degli scioperi siano state la causa determinante dei rialzi dei salari, dell’adozione delle macchine agricole e del perfezionamento dell’agricoltura italiana dopo il 1890. Anche qui non bisogna cadere nell’errore di credere che basti chiedere qualcosa e scioperare ed organizzarsi per ottenere quel che si vuole. Come gli industriali e gli agricoltori non possono fissare i prezzi che vogliono, così gli operai non possono ottenere i salari che vogliono. In definitiva il mercato comanda ad amendue. A sua volta, tuttavia, il mercato deve tener conto delle mutazioni che si sono verificate nel mondo. Quei contadini del mantovano o della bassa lombarda che erano pagati una lira al giorno erano gente miserabile, che aveva poca istruzione, che aveva sì poche pretese, ma rendeva forse ancor meno. I contadini della nuova generazione, capaci di intendersi e di associarsi, atti ad occuparsi della cosa comune, capaci di resistere con le loro leghe a quelle che essi considerano prepotenze, furono uomini diversi, i quali cominciarono ad apprezzare l’istruzione, anche tecnico-agricola e pretesero di essere meglio pagati sapendo di valere di più! È naturale che i loro salari diventassero più alti.

 

 

Erano altri e diversi i lavoratori i quali arrivavano sul mercato. Erano diversi anche gli agricoltori che li occupavano: capaci di applicare nuovi metodi colturali, di ottenere maggiori prodotti. Mutati i dati del problema, mutarono i risultati e si ebbero salari più alti, prodotti maggiori, redditi della terra cresciuti e prezzi capitali maggiori.

 

 

Dopo, venne un altro governo, che ritolse ai lavoratori il diritto di sciopero e vi sostituì le corporazioni con cui affermava di conciliare l’interesse di tutte le classi. In realtà quello fu un sistema che rappresentò l’interesse e la volontà di una persona sola e del gruppo che gli stava attorno. Pur non volendo qui fare della politica, si deve esprimere per lo meno il dubbio che il nuovo sistema abbia giovato alla nazione, ai produttori, ai lavoratori ed ai consumatori.

 

 

20. L’influenza delle possibilità per tutti di tirocinio e di istruzione.

 

Poiché parliamo di salari, discorriamo ancora di un fatto che forse avrà già attirato la vostra attenzione. Fattorini di banca, commessi di bottega, non quelli anziani, sperimentati, di fiducia, che tengono il negozio, ma quelli giovani, che fanno le corse, i ragazzi degli ascensori degli alberghi che aprono le porte, i portapacchi capaci di correre in bicicletta, sono spesso pagati poco e male. Pigliano dei gran scapaccioni, ma denari pochi. Passano così gli anni migliori della vita e dopo il servizio militare, se la caserma non li ha migliorati, non son più buoni a fare le corse e debbono adattarsi ad ogni sorta di mestiere. Mestieri qualunque che tutti son buoni a sbrigare, che non richiedono grande istruzione, lungo tirocinio e sono i peggio pagati di tutti. Eppure, se non avessero dovuto cominciare a quindici anni a fare il ragazzino delle corse, anche costoro avrebbero potuto imparare a fare qualche buon mestiere, con maggiori esigenze di tirocinio e di istruzione, ma in compenso più sicuro e meglio pagato.

 

 

La spiegazione che si dà è sempre la stessa: i genitori erano poveri ed avevano bisogno di mettere subito il ragazzo a lavorare. Ed i ragazzi, si sa, corrono volentieri in bicicletta e si pavoneggiano ad aprire porte di ascensori in una bella divisa con i bottoni luccicanti; tanto più se in giunta hanno qualche soldo in tasca ed acchiappano mance. Poi da vecchi la spurgano. Non sempre la spiegazione è buona; ché i genitori talvolta non erano tanto poveri quanto ubriaconi o noncuranti dei figli ed incapaci a indirizzarli. Comunque sia, c’è qualcosa che non va nella educazione di tanti ragazzi e di tante ragazze e nei salari che in conseguenza si formano sul mercato. Supponete che, invece di essere costretti o invogliati a lavorare troppo presto, quei ragazzi avessero potuto seguitare a studiare; a frequentare una scuola tecnica o industriale o magari il ginnasio, a seconda della inclinazione. Supponiamo che tutti i giovani volenterosi possano studiare sino a che il loro desiderio di apprendere sia soddisfatto; che senza incoraggiare i poltroni desiderosi soltanto di scaldare i banchi della scuola, si offrano a tutti coloro che lo desiderassero e che dimostrassero, studiando sul serio, di essere meritevoli dell’aiuto loro offerto, modeste sufficienti borse di studio; forse che sul mercato del lavoro non si sarebbero, giunti a diciotto, a venti, a venticinque anni, presentati in qualità di tecnici capaci di disegnare e di dirigere macchine, chimici periti in uno stabilimento, contabili pratici di tener conti, contadini capaci di potare frutta, periti di orticoltura, di floricoltura, di incroci di bestiame e di volatili ecc. ecc., gente insomma capace di contribuire all’incremento della produzione e di meritare salari assai migliori di quelli a cui può aspirare un pover’uomo che non è più in grado di fare le corse e di portare pacchi, ma sa fare solo cose che tutti sono buoni a fare? E si noti che anche quelli che fossero rimasti a portare pacchi ed a fare lavori comuni, trovandosi sul mercato in meno, potrebbero avere lavoro più sicuro e meglio rimunerato. Chi esclude che qualcuno di questi ragazzi, avendo la possibilità di studiare, non faccia qualche scoperta grande? Anche senza esagerare questa possibilità e, pur tenendo conto del fatto che chi ha davvero la scintilla del genio riesce non troppo di rado a trovare la sua strada attraverso le prove più dure, bisogna riconoscere che talvolta le difficoltà per i poveri sono così grandi che nessun volere è potere le può vincere. Ecco perciò come un cattivo o un buon sistema di educazione, come la possibilità offerta a taluni soltanto od a tutti di seguire i diversi stadi d’istruzione, dalla elementare alla media ed alla superiore universitaria, possa influire sulla vita economica, sulla formazione dei prezzi e dei salari e degli stipendi e dei profitti, possa rallentare o stimolare la produzione della ricchezza. Durante il secolo scorso e quello presente si sono, ricordiamolo per non incorrere nell’errore di credere che in passato non si sia fatto nulla, compiuti enormi progressi in materia di istruzione. Dal giorno in cui quasi tutti in Italia erano analfabeti ad oggi in cui l’analfabetismo è un’eccezione, si son fatti dei gran bei passi avanti. Appunto i progressi compiuti ci persuadono di quelli ugualmente imponenti che si debbono ancora fare. È un errore grave credere che sia dannoso mettere tanta gente allo studio. Non ce ne sarà mai troppa, fino a che tra i sei ed i venti – venticinque anni ci sarà qualcuno il quale non abbia avuto l’opportunità di studiare quanto voleva e poteva. Il male non sta nella troppa istruzione, come non sta nel produrre troppa roba. Di roba non ce n’è mai troppa al mondo. Quel che occorre è che non ve ne sia troppa di un genere e troppo poca di un altro. Parimenti, in fatto di educazione, il danno non è che ci sia troppa gente istruita, ma che ci siano troppi avvocati e troppo pochi medici o viceversa; troppi disegnatori e troppo pochi contabili o viceversa; troppi contadini che coltivano cereali e troppo pochi che piantino patate o viceversa; e così via.

 

 

21. Conclusione: il compito del mercato e come lo si può indirizzare.

 

A dare le opportune indicazioni, a dire quel che si deve fare e quel che non si deve fare, a indirizzare i produttori, industriali, agricoltori, commercianti verso i rami di lavoro nei quali esiste una scarsità relativa ed allontanarli da quelli nei quali c’è una relativa abbondanza in confronto alla domanda esistente dei corrispondenti prodotti, ad insegnare ai giovani od ai loro genitori quale è il tipo di istruzione che conviene più seguire in un certo momento, provvede il mercato. Vi provvede facendo ribassare i prezzi delle merci prodotte con abbondanza eccessiva, e rialzare quelli di cui vi è scarsità. Vi provvede facendo rialzare i salari degli operai più richiesti e ribassare quelli dei mestieri troppo affollati; vi provvede dando profitti agli imprenditori i quali scoprono le merci nuove o provvedono a servizi domandati dal pubblico e mandando in malora (fallimento) coloro che producono merci cattive, non richieste od a costo troppo alto.

 

 

Ma il mercato non può essere abbandonato a se stesso. Il legislatore, ossia noi stessi che dobbiamo eleggere coloro che fanno le leggi, dobbiamo sapere che il mercato può essere falsato da monopoli. Fin che si tratta di piccole trincee che ogni produttore scava intorno a sé per proteggersi contro i concorrenti, poco male. Possiamo tollerare, anzi non ci dispiace, che un negoziante gentile, con buone parole, sorrisi cortesi e ringraziamenti cordiali, eserciti una specie di monopolio sulla clientela a danno del burbero e maleducato; ma possiamo impedire che monopolisti veri e propri rialzino i prezzi, scemino la produzione e guadagnino grosso.

 

 

Così pure possiamo e perciò dobbiamo far sì che il mercato utilizzi le sue buone attitudini a governare la produzione e la distribuzione della ricchezza entro certi limiti, che noi consideriamo giusti e conformi ai nostri ideali di una società, nella quale tutti gli uomini abbiano la possibilità di sviluppare nel modo migliore le loro attitudini, e nella quale, pur non arrivando alla eguaglianza assoluta, compatibile solo con la vita dei formicai e degli alveari – che per gli uomini si chiamano tirannidi, dittature, regimi totalitari – non esistano diseguaglianze eccessive di fortune e di redditi. Perciò noi dobbiamo darci buone leggi, buone istruzioni, creare un buon sistema di istruzione accessibile e adatto alle varie capacità umane, creare buoni costumi. Dobbiamo perciò cercare di essere uomini consapevoli, desiderosi di venire illuminati e di istruirci e dobbiamo, in una nobile gara, tendere verso l’alto. Il mercato, che è già uno stupendo meccanismo, capace di dare i migliori risultati entro i limiti delle istituzioni, dei costumi, delle leggi esistenti, può dare risultati ancor più stupendi se noi sapremo perfezionare e riformare le istituzioni, i costumi, le leggi, entro le quali esso vive allo scopo di toccare più alti ideali di vita.

Lo potremo se vorremo.

 

 



[1] Ristampa di Che cos’è un mercato, Locarno, Tip. f.lli Mole, 1944, pp. 44, ripubblicato l’anno successivo col titolo I mercati e i prezzi in Uomo e cittadino, a cura del Comitato italiano di cultura sociale, Gümligen (Berna), YMCA, 1945, pp. 181-225.

Prefazione – Lezioni di politica sociale

Prefazione

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. XV-XVIII

 

 

 

 

Il presente volume fu dettato nell’anno 1944 quando l’Autore dimorava in Svizzera ed è il risultato dell’insegnamento da lui tenuto in quel paese.

 

 

La prima parte, di introduzione generale sul mercato economico, fu scritta per invito del «Comitato italiano di cultura sociale» allo scopo di fornire una traccia o testo, che servisse di norma agli incaricati di impartire le lezioni di speciali corsi di educazione civica i quali furono tenuti nei duecento campi nei quali erano albergati circa ventimila italiani rifugiati nella ospitale Svizzera fra il settembre e il novembre del 1943 allo scopo di sottrarsi al servizio dell’invasore. Altri rifugiati contribuirono con sommari intitolati Fede nell’avvenire, Sommario di un cinquantennio, Il cittadino e lo stato, La nazione nel mondo, L’economia regolata; toccò all’autore di compilare il capitolo su “Il mercato ed i prezzi” che qui si ristampa a guisa di introduzione.

 

 

La parte seconda è il rendiconto stenografico delle lezioni dettate dall’autore nel semestre di primavera del 1944 nei due campi universitari della Università di Ginevra e della Scuola di ingegneria di Losanna a studenti italiani iscritti nelle facoltà di giurisprudenza, scienze economiche ed ingegneria. A quei corsi collaborarono, ciascuno per la propria materia, professori svizzeri e professori italiani rifugiati in Isvizzera.

 

 

La parte terza contiene la materia delle prime lezioni del corso che l’autore doveva tenere nel semestre invernale nella medesima Università di Ginevra. Allo scopo di agevolare la compilazione delle dispense fino dall’inizio dell’anno scolastico, l’insegnante aveva messo per iscritto la materia delle prime lezioni. Risulta da una annotazione che il corso doveva iniziarsi con la trattazione del «concetto e dei limiti dell’uguaglianza nei punti di partenza», che qui si riproduce; proseguendo poi con la discussione di alcuni altri problemi fondamentali di politica sociale, determinati dalla importanza assunta nella economia contemporanea dai prezzi di monopolio o quasi monopolio (cartelli, consorzi, trusts ecc.); dalle modificazioni indotte dalla pubblicità nella domanda dei consumatori; dalla mancata coincidenza del risparmio e degli investimenti (crisi economiche); dalla estensione dei servizi pubblici gratuiti o semigratuiti. La partenza dalla Svizzera avvenuta nel dicembre 1944 di un gruppo di insegnanti e uomini politici italiani per invito del governo di Roma impedì che il corso avesse inizio e che la stesura delle lezioni continuasse oltre la materia delle prime lezioni.

 

 

Essendo ora le lezioni riprodotte così come furono dettate o preparate, si notano nel testo parecchie ripetizioni, nate da ciò che le diverse parti riguardavano un pubblico diverso (dirette a soldati la prima parte ed a studenti universitari la seconda e la terza) e momenti diversi di insegnamento. Ma si preferì non togliere le ripetizioni, allo scopo di non rimaneggiare un testo volutamente serbato nella stesura originaria.

 

 

La lontananza dalla suppellettile libraria esistente in Italia e la difficoltà di consultare nella Svizzera il necessario materiale bibliografico spiega perché le citazioni, ad eccezione di alcuni libri in lingua francese, siano fatte a memoria. Anche qui si preferì serbare la forma originaria, tuttoché talvolta approssimativa e quindi particolarmente invisa all’autore, del quale forse è nota la avversione a riferimenti bibliografici abbondanti ed inesatti.

 

 

È anche superfluo avvertire che gli esempi in lire e franchi si riferiscono al livello dei prezzi esistente nel 1944 ed al ricordo che l’autore aveva dei prezzi correnti in Italia nel 1943. Il richiamo che talvolta si legge tra parentesi a lire 1914 potrebbe facilitare, con l’uso di un moltiplico forse non inferiore a 300, la conversione approssimativa in lire attuali.

 

 

Dovrebbe essere inutile avvertire che il tipo del ragionamento adottato nelle presenti lezioni come in tutte le altre scritture dell’autore è sempre quello ipotetico: se noi supponiamo che esista una certa premessa, deriva da essa questa o quella conseguenza e non mai quella precettistica: è desiderabile, è bene, è comandato da qualcuno operare in questo o quel modo. Soltanto il primo tipo fa parte della scienza; laddove dovremmo riservare il secondo al territorio della morale o della politica. D’altro canto, la ripetizione continua nel parlare di forme a tipo ipotetico è, fa d’uopo confessarlo, estremamente fastidiosa per insegnanti ed ascoltatori; sicché può accadere che il discorso, invece di normativo, appaia talvolta inteso a dar consigli o precetti. Giova sperare che il lettore voglia, mentalmente, sostituire alla apparenza precettistica la sostanza ipotetica, introducendo la riserva tacita sempre presente del se noi supponiamo che. La riserva della presenza ipotetica prende in qualche caso la forma del: chi non voglia; seguendone che chi non voglia A deve volere invece B o C. Ad esempio, accade in qualche caso, particolarmente nella parte terza, leggere: chi non voglia il tipo di società collettivistico e, cionondimeno, per ragioni le quali non hanno nulla a che fare con la scienza economica, ma invece molto con la morale, con il costume, con la politica, con la stabilità sociale, reputi necessario evitare le conseguenze degli estremi di uguaglianza perfetta o di disuguaglianza troppo notabile nelle condizioni economiche tra uomo e uomo, epperciò ritenga vantaggiosa una certa uguaglianza nei punti di partenza, deve reputare logica questa o quella condotta del legislatore. Risulta da certi appunti che i paragrafi da 129 a 150 dovevano essere, e per le circostanze accennate sopra non furono, riscritti allo scopo di spiegare più ampiamente le ragioni, d’indole sovratutto morale e politica, per le quali non si riteneva desiderabile il tipo di società anzidetto; quel che monta è che, posta quella premessa, il ragionamento successivo sia logico. Compito della scienza non è di inculcare una fede; ma di insegnare il metodo di osservare i fatti (economici od altri) e di ragionare correttamente intorno ad essi. Perciò qualcuno stupirà che lo scrittore di queste pagine, volutamente semplici ed in qualche parte popolari, non abbia predicato quel verbo liberistico di cui lo si dice banditore; intrattenendosi invece quasi esclusivamente sui problemi attinenti alle limitazioni della libertà d’azione economica e sociale dell’uomo. Non poté predicare nessun verbo, né liberistico né comunistico, perché da più di duecento anni, da quel 1734 nel quale Cantillon scrisse l’Essai, la scienza economica studia le leggi le quali regolano le azioni degli uomini, e non fa prediche.

 

 

Possibilità di studio per tutti

Possibilità di studio per tutti

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 33-35

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 546-548

 

 

 

 

Poiché parliamo di salari, discorriamo ancora di un fatto che forse avrà già attirato la vostra attenzione. Fattorini di banca, commessi di bottega, – non quelli anziani, sperimentati, di fiducia, che tengono il negozio, ma quelli giovani, che fanno le corse, – i ragazzi degli ascensori degli alberghi che aprono le porte, i portapacchi capaci di correre in bicicletta, sono spesso pagati poco e male. Pigliano dei gran scapaccioni, ma danari pochi. Passano così gli anni migliori della vita e dopo il servizio militare, se la caserma non li ha migliorati, non son più buoni a fare le corse e debbono adattarsi ad ogni sorta di mestiere. Mestieri qualunque che tutti sono buoni a sbrigare, che non richiedono grande istruzione, lungo tirocinio e sono i peggio pagati di tutti. Eppure, se non avessero dovuto cominciare a quindici anni a fare il ragazzino delle corse, anche costoro avrebbero potuto imparare a fare qualche buon mestiere, con maggiori esigenze di tirocinio e di istruzione, ma in compenso più sicuro e meglio pagato.

 

 

La spiegazione che si dà è sempre la stessa: i genitori erano poveri ed avevano bisogno di mettere subito il ragazzo a lavorare. Ed i ragazzi, si sa, corrono volentieri in bicicletta e si pavoneggiano ad aprire porte di ascensori in una bella divisa con i bottoni luccicanti; tanto più se in giunta hanno qualche soldo in tasca ed acchiappano mance. Poi da vecchi la spurgano.

 

 

Non sempre la spiegazione è buona; ché i genitori talvolta non erano tanto poveri quanto ubriaconi o noncuranti dei figli ed incapaci a indirizzarli. Comunque sia; c’è qualcosa che non va nella educazione di tanti ragazzi e di tante ragazze e nei salari che in conseguenza si formano sul mercato.

 

 

Supponete che, invece di essere costretti o invogliati a lavorare troppo presto, quei ragazzi avessero potuto seguitare a studiare; a frequentare una scuola tecnica o industriale o magari il ginnasio, a seconda della inclinazione. Supponiamo che tutti i giovani volenterosi possano studiare sino a che il loro desiderio di apprendere sia soddisfatto; che senza incoraggiare i poltroni, desiderosi soltanto di scaldare i banchi della scuola, si offrano a tutti coloro che lo desiderassero e che dimostrassero, studiando sul serio, di essere meritevoli dell’aiuto loro offerto, modeste sufficienti borse di studio; forse che sul mercato del lavoro essi non si sarebbero presentati a diciotto, a venti, a venticinque anni, in qualità di tecnici capaci di disegnare e di dirigere macchine, chimici periti in uno stabilimento, contabili pratici di tener conti, contadini capaci di potare frutta, periti di orticoltura, di floricoltura, di incroci di bestiame e di volatili ecc. ecc., gente insomma capace di contribuire all’incremento della produzione e di meritare salari assai migliori di quelli a cui può aspirare un pover’uomo che non è più in grado di fare le corse e di portare pacchi, ma sa fare solo cose che tutti sono buoni a fare? E si noti che anche quelli che fossero rimasti a portare pacchi ed a fare lavori comuni, trovandosi sul mercato in meno, potrebbero avere lavoro più sicuro e meglio rimunerato.

 

 

Chi esclude che qualcuno di questi ragazzi, avendo la possibilità di studiare, non faccia qualche scoperta grande? Anche senza esagerare questa possibilità e, pur tenendo conto del fatto che chi ha davvero la scintilla del genio riesce non troppo di rado a trovare la sua strada attraverso le prove più dure, bisogna riconoscere che talvolta le difficoltà per i poveri sono così grandi che nessun «volere è potere» le può vincere.

 

 

Ecco perciò come un cattivo o un buon sistema di educazione, come la possibilità offerta, a taluni soltanto od a tutti, di seguire i diversi stadi d’istruzione, dalla elementare alla media ed alla superiore universitaria, possa influire sulla vita economica, sulla formazione dei prezzi e dei salari e degli stipendi e dei profitti, possa rallentare o stimolare la produzione della ricchezza.

 

 

Durante il secolo scorso e quello presente si sono, ricordiamolo per non incorrere nell’errore di credere che in passato non si sia fatto nulla, compiuti enormi progressi in materia di istruzione. Dal giorno in cui quasi tutti in Italia erano analfabeti ad oggi, in cui l’analfabetismo è un’eccezione, si son fatti dei gran bei passi avanti. Appunto i progressi compiuti ci persuadono di quelli ugualmente imponenti che si debbono ancora fare.

 

 

È un errore grave credere che sia dannoso mettere tanta gente allo studio. Non ce ne sarà mai troppa, fino a che tra i sei ed i venti – venticinque anni ci sarà qualcuno il quale non abbia avuto l’opportunità di studiare quanto voleva e poteva. Il male non sta nella troppa istruzione, come non sta nel produrre troppa roba. Di roba non ce n’è mai troppa al mondo. Quel che occorre è che non ve ne sia troppa di un genere e troppo poca di un altro. Parimenti, in fatto di educazione, il danno non è che ci sia troppa gente istruita, ma che siano troppi avvocati e troppi pochi medici o viceversa; troppi disegnatori e troppo pochi contabili o viceversa; troppi contadini che coltivano cereali e troppo pochi che piantino patate e viceversa; e così via.

Il sindacalismo corporativo

Il sindacalismo corporativo

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 104-106

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 504-506

 

 

 

 

Un sindacato o lega operaia o padronale, dove esiste sul serio, ha come sua caratteristica essenziale di essere una formazione spontanea. Operai si riuniscono dapprima all’osteria, poi sulla piazza, poi nei locali di un edificio eretto a spese del ceto operaio e che un tempo, già si disse sopra, chiamavasi camera del lavoro; industriali si riuniscono prima al ristorante, poi al circolo, quindi nelle sale di una apposita associazione; e li per atto di spontanea fiducia, scelgono coloro che li guidano nei rapporti con l’altra parte.

 

 

Scelta, non elezione a data fissa; e se le elezioni regolari si fanno, è pura forma. L’uomo o gli uomini scelti vengono dalle file degli operai e degli industriali medesimi, e rimangono in carica finché fanno bene, finché serbano la fiducia dei compagni o dei colleghi; o finché la fiducia medesima non li promuova a cariche più alte, di segretari o di presidenti della federazione provinciale, poi regionale e poi nazionale. L’elezione è un mero mezzo di manifestare o confermare apertamente un mandato di fiducia, che deve persistere di fatto in ogni momento, se il sindacato o la lega deve vivere. Manchi la fiducia; il fiduciario non metta più passione, entusiasmo, lavoro, studio nel compito quotidiano, e la fiducia vien meno, i soci non pagano più le quote, la lega intristisce; alle prime avvisaglie di nuove controversie si disanima, perché si sa che la partita è perduta. Un’altra lega, condotta da uomini più zelanti e entusiasti, ne prende il posto. Al luogo della lega di mestiere sottentra quella di industria o quella generale; il posto della lega socialista è preso da quella sindacalista o cattolica.

 

 

Nel sistema corporativo italiano era sancito bensì il principio che gli uomini insigniti di cariche sindacali dovevano essere eletti dagli iscritti; e i primi eletti avrebbero dovuto eleggere i segretari e presidenti provinciali e via via più su, sino alle cariche supreme delle confederazioni nazionali. Ma il principio era rimasto lettera morta. Se talvolta i soci erano convocati, era per udire la lettura di nomi che venivano approvati ad alzata di mano ad unanimità. Ma i nomi venivano dall’altro, con designazioni fatte d’autorità dalle gerarchie, come dicevasi, superiori.

 

 

Ossia i sindacati non erano sindacati; ma pure branche della amministrazione governativa centrale; branche parallele e simili a quelle che si chiamavano ministeri, prefetture, questure, podesterie, ecc. ecc. Il ministro o, meglio, il capo del governo, sceglieva e nominava i presidenti delle confederazioni e i funzionari più grossi; e, discendendo per li rami, i funzionari più grossi sceglievano i minori, e questi gli inferiori. Il reclutamento non avveniva per scelta spontanea dal basso, tra gli operai stessi, tra gli industriali che riconoscevano la qualità di segretario o presidente, o meglio capo, in chi aveva saputo convincerli meglio, in chi ne aveva espresso più opportunamente la miglior volontà consapevole; in chi, per auto-designazione, li aveva condotti alla vittoria o anche alla onorata sconfitta.

 

 

No. Il reclutamento del personale dei sindacati fascistici o corporativi avveniva come quello di qualunque pubblica amministrazione, talora per pubblico concorso, più spesso per amicizia, raccomandazioni, meriti acquistati nel partito e simili. Popolavano quegli uffici, ed erano qualificati delegati ed ispettori di zona, segretari, ispettori o direttori locali, giovani laureati in legge e scienze economiche, diplomati in agraria, ragionieri, cavalieri e commendatori, in luoghi dove ci si sarebbe aspettato di trovare uomini, se non in tuta o in blusa e dalle mani callose, almeno abituati a linguaggio diverso da quello solito burocratico. Dietro gli sportelli stavano le solite signorine, come in qualunque ufficio postale.

 

 

Erano quei sindacati organi diretti dello stato totalitario, i quali registravano e cercavano di attuare la volontà del “capo”, strumenti di governo, grazie a cui anche i ceti indipendenti del governo venivano a poco a poco ridotti a dipendenti. L’industriale, il commerciante, l’agricoltore, il professionista, l’operaio, l’artigiano, non negozia più, in regime corporativo, i prezzi dei prodotti, il compenso delle prestazioni; non organizza più l’impresa nel modo che a lui sembra più conveniente; ma – attraverso gli ammassi ai quali deve versare i suoi prodotti, i contingenti grazie ai quali ottiene combustibili e materie prime, i consorzi pubblici i quali assegnano i concimi chimici ed il petrolio per la trattrice e lo zolfo ed il solfato di rame per le vigne, l’ufficio di collocamento sindacale, che gli invia operai a tale o tale salario, i sindacati che gli prescrivono le condizioni del lavoro e gli vietano di aumentare i salari anche a coloro che lo meritano con la minaccia di togliere a chi lavora il libretto di lavoro, il permesso di residenza, lo obbligano a lavorare come e dove egli non vorrebbe – cessa di essere una persona, la quale ha una volontà e la può, senza pericolo di morte di fame, far valere nelle forme legali e diventa un impiegato, un servo di chi è al potere.

 

 

Questa è l’essenza del cosiddetto sistema corporativo: la trasformazione di una società varia e sciolta di industriali indipendenti, di agricoltori padroni delle loro terre, di commercianti liberi di rischiare, di lavoratori liberi di muoversi da un’impresa all’altra, di uomini dotati ciascuno di una più o meno grande capacità di resistenza alle pretese altrui, capaci di associarsi diversamente per la difesa dei propri interessi, capaci di contrattare, e di non contrattare, liberi di manifestare il proprio pensiero, in una società di impiegati, molti anche impiegati nel nome e moltissimi solo nel fatto; impiegato anche se non percepisce stipendio propriamente detto, perché dipendente da qualcuno che sta sopra e gli ordina come e quanto produrre, a che prezzo comperare e a quale vendere; quale salario riscuotere, e se egli non ubbidisce, pronuncerà l’interdizione dell’acqua e del fuoco, gli negherà – risuscitando con altro nome l’antico istituto della servitù della gleba – il permesso di residenza, ossia gli toglie l’accesso al lavoro.

Automi e uomini vivi

Automi e uomini vivi

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 233-238

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 316-319

Liberismo e liberalismo, RRicciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 185-190

La società pianificata

La società pianificata

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 225-231

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 310-316

 

 

 

 

Ecco la casa ad appartamenti in città. È comoda, ben congegnata: i quartieri sono minimi, di una o due stanze, con bagno e cucinetta. Riscaldamento centrale; nella cucinetta di tre o quattro metri quadrati, ghiacciaia, cucina elettrica od a gas, acqua corrente fredda e bollente, in tutte le ore del giorno e della notte. Radio, grammofono, telefono. Al piano terreno i servizi centrali. Ad ore fisse un impiegato della casa vien su a pulire e far le stanze, a tirar su il falso letto e nasconderlo, insieme con i materassi e le lenzuola, nell’armadio, sicché sino a sera la stanza diventa salotto da stare e cosidetto studio, dove si guardano le ultime novità prese a prestito dalla biblioteca circolante. Nella cucinetta, la signora prepara rapidamente il primo asciolvere del mattino, col latte che è venuto su ad ora giusta dal servizio centrale del pianterreno. Poi, ciascuno va al suo lavoro; ed i due si rivedono alle cinque, al tè presso amici o in una sala di tè. Hanno fatto colazione, in piedi o rapidamente, nel ristorante annesso all’ufficio od alla fabbrica dove lavorano. La sera, forse, la trascorrono insieme, se la signora non si annoia troppo a preparare il pranzo, sovratutto con roba in scatola. Ma al pian terreno, il ristorante comune è accogliente e risparmia fatica. Poi il cinematografo. Una lavanderia e una stireria comune provvedono, a prezzo fisso, alle esigenze di casa. Probabilmente, nel semisotterraneo vi è anche la bottega del barbiere, del manicure, e l’istituto di bellezza per la signora. La casa è quasi un albergo, dove i servizi funzionano automaticamente. Gli inquilini non è necessario si conoscano e si frequentino. Un cenno del capo, un atto di cortesia all’incontro nell’ascensore, ed è tutto.

 

 

Sono forse costoro uomini o non invece comparse le quali si dileguano indistinte dopo essere rimaste per qualche tempo sulla scena del teatro sociale? Amici od amiche o non invece conoscenze a cui si dà del tu, che si incontrano al circolo, al caffè, nei campi del golf o della pallacorda, nelle sale di conversazione e di conferenze, e, se non si incontrano più, si dura fatica a ricordarne il nome ed il viso? Che ci sta a fare il bambino in una casa ad appartamenti? Dove gioca, dove corre e cade, dove sono i piccoli amici coetanei? Fratelli non ci sono od al più ve n’è uno. Troppa noia allattare ed allevare tanti bambini. In quel piccolo appartamento non ci sarebbe più pace. Deve forse la donna rinunciare all’impiego ed al lavoro, che consentono comodità, vestiti, calze, cinematografo e gite? Sacrificarsi e perché? A vent’anni, se femmina, la bambina d’oggi è destinata ad andare, con un altro uomo, ad abitare in un altro appartamento; e la si vedrà di rado e di furia. Se maschio, l’impiego lo porterà forse in un’altra città. Una lettera ogni tanto ricorderà che un tempo si aveva avuto un figlio, che si è reso indipendente e probabilmente considera i genitori come gente antiquata, che ha altri gusti e con cui non c’è modo di capirsi. Frattanto, non c’è la sala per i lattanti, l’asilo per i bambini? Non vi sono forse suore, magnifiche di amore per i figli altrui, nutrici ed istitutrici educate in istituti appositi, le quali sono pronte a pigliarsi cura dei bambini della gente affaccendata nel non far nulla o costretta a lavorare per guadagnarsi la vita? Per la gente facoltosa vi sono filantropi intelligenti, pronti a sostituirsi ai genitori con l’aiuto di suore cattoliche o protestanti o laiche; per i mediocri ed i poveri provvedono lo stato, il comune e le istituzioni benefiche. Nessuno deve essere abbandonato a sé; tutti i nati hanno diritto alla medesima educazione ed istruzione; dall’asilo per i lattanti all’asilo infantile, su su fino alle scuole elementari, al ginnasio, al liceo, all’università.

 

 

Poiché tutti gli uomini sono uguali, qualcuno veglia affinché le medesime nozioni siano egualmente offerte a tutti, con la scuola unica in basso, sino almeno a tre anni dopo le scuole elementari. Poi si concede, con molta ripugnanza, che taluno impari il latino ed il greco e la filosofia; meglio sarebbe se tutti, per suggerimento di genitori o di maestri che tirano al sodo, attendessero in primo luogo alle cose tecniche, utili nella vita quotidiana, alla fisica, alla chimica, alla stenografia, alle lingue moderne, alla contabilità, al disegno, alla meccanica, relegando alle horae subsicivae quelle cose che i vecchi chiamavano umanità e mettevano a fondamento della cultura.

 

 

Così, a venti od a ventidue anni, il giovane si presenterà a correre la gara della vita alla pari con ogni altro giovane, maschio o femmina, tutti egualmente formati fisicamente ed intellettualmente, tutti uguali per vestito, scarpe ed acconciatura di testa. Tutti destinati a trascorrere le ore lavorative nell’ufficio o nello stabilimento, pubblico e privato, dove la carriera, dato l’uguale punto di partenza, sarà offerta con diversità nei punti di arrivo a seconda del merito. L’uno percorrerà solo i gradi dovuti all’anzianità; l’altro diventerà direttore generale o membro del consiglio di amministrazione. Ma ogni uomo vivrà con una donna in una casa ad appartamenti; l’uno fruendo di una stanza sola e l’altro di tre o quattro, arredate con maggior lusso e con maggior comodità di servizi comuni. L’uno avrà una sola vettura automobile e l’altro ne possederà una per ciascuna persona di famiglia. Ma nessuno avrà più di uno o due figli; e nessuno avrà gran casa, ché i domestici privati sono scomparsi, da quando gli uomini hanno cominciato ad apprezzare l’indipendenza. Il cameriere o la cameriera che fanno i servizi di pulizia giungono anche essi in automobile e, compiuto il servizio secondo l’orario stabilito, ritornano nella propria casa ad appartamenti, lontanissima, che si possa verificare quell’unicum, che fece riuscire l’esperimento in Germania? No. Vi sono, si, un milione circa di lavoratori disoccupati; ma dove sono, salvoché nell’industria tessile, la quale non ha bisogno di credito da nessuno, le scorte in attesa di lavorazione? Dove è il carbone giacente sui piazzali? Dove sono le macchine inerti? Dove è l’energia elettrica offerta dai produttori e rifiutata dagli utenti?

 

 

Perciò, se oggi si stampassero 300 miliardi di biglietti nuovi per offrire credito nuovo, aggiuntivo all’industria, l’effetto non sarebbe creazione di nuovo lavoro; ma famelico assalto degli industriali, provvisti di nuovo credito e di nuovi biglietti, alle materie prime esistenti, al carbone di mese in mese assegnatoci, all’energia elettrica, di cui oggi si lamenta la scarsezza. L’effetto unico sarebbe non l’aumento della produzione, ma l’aumento dei prezzi di ciò che è necessario all’industria per lavorare. Che cosa sta al disotto dell’aumento dei prezzi, il quale potrebbe essere un fatto puramente nominale, di numeri grossi sostituiti a numeri piccoli? Sta la continuazione del fenomeno più doloroso, anzi più atroce, più socialmente disintegratore tra tutti quelli i quali hanno sconvolto la società italiana in questo triste dopoguerra.

 

 

Chi paga l’aumento dei prezzi? Se tutti i prezzi, se tutti i salari, se tutti i redditi aumentassero nella stessa misura, sarebbe mera polvere negli occhi, sarebbe il solito manzoniano alzarsi in piedi di tutti i comizianti per veder meglio l’oratore. Ma così non è. Vi sono intiere vaste classi sociali, i cui prezzi, le cui remunerazioni non aumentano, o non aumentano proporzionatamente, all’aumento dei prezzi.

 

 

Vi sono i contadini delle Puglie, i quali lavorano 150 giorni all’anno per salari lentissimi a muoversi.

 

 

Vi sono i vecchi, le vedove, i bambini, i ragazzi i quali vivono del reddito fisso di risparmi passati e stanno lentamente morendo di fame, perché sarebbe stato necessario che gli appartenenti ai ceti medi indipendenti avessero risparmiato in passato dieci milioni di lire ciascuno dove alla lor volta i servizi sono compiuti da addetti dello stesso loro tipo.

 

 

Una società così composta può essere, per accidente una società libera; ma è accidente storico. Essa è, fatalmente, destinata ad essere governata secondo un piano, un programma bene congegnato, bene incastrato in tutti i suoi elementi.

 

 

La casa ad appartamenti è essa stessa un programma. A seconda del numero degli abitanti, delle vie, delle distanze, della localizzazione degli uffici, degli stabilimenti, dei luoghi di lavoro, vi deve essere un optimum nelle dimensioni di ogni singola casa. Trenta, quaranta appartamenti, con altrettante coppie di uomo e donna; tanti pasti in comune e tanti separati, tanti servizi di lavanderia, di stireria, di rammendo, di bucato. Il perito ingegnere od architetto costruisce la casa; altro perito maggiordomo organizza i servizi interni. E così per i servizi esterni: di ristorante, botteghe di caffè e di tè, teatri, cinematografi, asili, scuole, circhi, fori per adunanze e spettacoli. Parimenti per le fabbriche, le manifatture e le imprese agrarie. Uomini periti calcolano i chilogrammi di pane, di pasta, di carni, di pesce, di verdura, di frutta, i capi di vestiario e di scarpe, le lenzuola, i grammofoni, i dischi, le radio, gli apparecchi telefonici, le automobili, ecc. ecc., bisognevoli per ogni abitante in media. Poiché i desideri degli uomini sono suppergiù per ogni gruppo di reddito, statistici e contabili fanno i calcoli del fabbisogno; periti tecnici valutano gli ettari, le macchine, le superfici coperte occorrenti per la produzione; e nei luoghi opportuni, tenuto conto dei mari, dei fiumi, dei canali navigabili, delle ferrovie, delle distanze, delle montagne, costruiscono dighe, creano laghi artificiali, fanno impianti idroelettrici, fanno sorgere città industriali, dissodano ed arano e coltivano terreni. Perché l’uomo dovrebbe ribellarsi alla vita comoda, che gli è offerta al minimo costo, nella casa ad appartamenti, con gite in automobile, radio, grammofono, telefono e libri a prestito; e con i bambini curati in scuole ed asili luminosi e sani sino all’età nella quale potranno cominciare anch’essi a condurre la vita tranquilla e contenta in una casa ad appartamenti nuova di zecca, più comoda e meglio organizzata di quella dei genitori?

 

 

Quella che ora è stata descritta non è una caricatura. È l’ideale onesto di molti uomini. Una società, nella quale una parte degli uomini e delle donne abbia ideali simili a questi, non è una società corrotta e decadente. Questi uomini e queste donne, che lavorano in uffici ed in fabbriche e ivi danno un rendimento uguale perlomeno al salario ricevuto, possono tenere la testa alta. Non sono parassiti. Hanno gusti uniformi, desiderano i beni ed i servizi che tutti desiderano; non sono pronti a sacrificarsi troppo per le generazioni venture. Poiché lo stato provvede alla istruzione dei figli e li mette in grado di partecipare, a parità con altri, alla gara della vita, perché essi dovrebbero sacrificarsi di più? Poiché tutti coloro che lavorano sono sicuri di una carriera decorosa, poiché qualcuno provvede ai casi di malattia, di infortuni, di disoccupazione, poiché è assicurata una pensione di vecchiaia, vi è ragione di rinunciare a usufruire oggi dei beni della vita per un futuro posto al di là del termine della vita? I figli non godranno dei medesimi vantaggi e maggiori di quelli di cui fruirono i genitori?

 

 

Il vizio di una società cosiffatta è quello di essere composta di onesta gente di tipo normale. Gli uomini nudi o normali hanno l’animo dell’impiegato. Sono nati ad ubbidire. È normale che molti uomini, forse i più, siano nati ad ubbidire. Un esercito è composto di molti soldati e di un solo generale; e guai se tutti i soldati pretendessero di comandare e di criticare gli ordini del generale. Correrebbe diritto alla disfatta. Ma guai anche ad un esercito, di cui i soldati e gli ufficiali subalterni e superiori, su su sino al comandante in capo, attendessero sempre, prima di muovere un passo e sparare un colpo di fucile o di cannone, l’ordine del superiore gerarchico! L’esercito sarebbe sopraffatto dall’avversario più agile, più deciso, i componenti del quale fossero forniti, ciascuno entro i limiti del compito ricevuto, di spirito di iniziativa. Vedemmo centinaia, talvolta migliaia di uomini armati arrendersi a un pugno di uomini. Ma i primi aspettavano gli ordini degli ufficiali subalterni, e questi dei superiori e gli ufficiali superiori invano chiedevano nell’ora del pericolo istruzioni al comandante supremo; laddove i secondi erano guidati da un caporale risoluto, il quale aveva visto essere urgente ed efficace intimidire il nemico numeroso con l’uso pronto della mitragliatrice.

 

 

Così è in una società. Accanto agli uomini che ubbidiscono, i quali compiono degnamente il lavoro ad essi assegnato, adempiono scrupolosamente all’ufficio coperto, vi debbono essere gli uomini di iniziativa, i quali danno e non ricevono ordini, compiono un lavoro che nessuno ha ad essi indicato, creano a se stessi il compito al quale vogliono adempiere. La società ideale non è una società di gente uguale l’una all’altra; è composta di uomini diversi, i quali trovano nella diversità medesima i propri limiti reciproci. La società ideale si compone di gente che comanda e di gente che ubbidisce, di uomini al soldo altrui e di uomini indipendenti. La società non vivrebbe se accanto agli uni non vi fossero gli altri. Essa deve espellere dal proprio seno soltanto i criminali, i ribelli ad ogni disciplina sociale, gli irregolari incoercibili; e poiché espellerli non può, deve creare le istituzioni giuridiche necessarie a ridurre al minimo il danno della loro mala condotta. Per tutti gli altri, ossia per la grandissima maggioranza degli uomini viventi in società, l’ideale è la varietà e la diversità.

 

 

Non esiste una regola teorica la quale ci dica quando la diversità degenera nell’anarchia e quando la uniformità è il prodromo della tirannia. Sappiamo soltanto che esiste un punto critico, superato il quale ogni elemento della vita sociale, ogni modo di vita, ogni costume, che era sino allora mezzo di elevazione e di perfezionamento umano, diventa strumento di degenerazione e di decadenza.

Il messaggio dopo il giuramento

«Risorgimento liberale», 13 maggio 1948

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 3-5

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Buenos Aires, Asociacíon Dante Alighieri, 1965, pp. 35-38[1]

Nella seduta comune della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, del mercoledì 12 maggio 1948, il presidente della Repubblica lesse il seguente messaggio:

Signori senatori, signori deputati!

Il giuramento che ho testé pronunciato, obbligandomi a dedicare gli anni, che la costituzione assegna al mio ufficio, all’esclusivo servizio della nostra comune patria, ha una significazione la quale va al di là della scarna solenne sua forma.

Dinnanzi a me ho l’esempio luminoso dell’uomo insigne che per il primo ha coperto, con saggezza grande, con devozione piena e con imparzialità scrupolosa, la suprema magistratura della nascente Repubblica italiana. Ad Enrico De Nicola va il riconoscente affetto di tutto il popolo italiano, il ricordo devoto di tutti coloro i quali hanno avuto la ventura di assistere ammirati alla costruzione quotidiana di quell’edificio di regole e di tradizioni senza le quali nessuna costituzione è destinata a durare. Chi gli succede ha usato, innanzi al 2 giugno 1946, ripetutamente del suo diritto di manifestare una opinione, radicata nella tradizione e nei sentimenti suoi paesani, sulla scelta del regime migliore da dare all’Italia; ma, come aveva promesso a se stesso ed ai suoi elettori, ha dato poi al nuovo regime repubblicano voluto dal popolo qualcosa di più di una mera adesione. Il trapasso avvenuto il 2 giugno dall’una all’altra forma istituzionale dello stato fu non solo meraviglioso per la maniera legale, pacifica del suo avveramento, ma anche perché fornì al mondo la prova che il nostro paese era oramai maturo per la democrazia; che se è qualcosa, è discussione, è lotta, anche viva, anche tenace fra opinioni diverse ed opposte; ed è, alla fine, vittoria di una opinione, chiaritasi dominante, sulle altre.

Nelle vostre discussioni, signori del parlamento, è la vita vera, la vita medesima delle istituzioni che noi ci siamo liberamente date; e se v’ha una ragione di rimpianto nel separarmi, per vostra volontà, da voi è questa di non poter partecipare più ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune; e di non potere più sentire la gioia, una delle più pure che cuore umano possa provare, la gioia di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui a confessare a se stessi di avere, in tutto o in parte, torto e ad accedere, facendola propria, alla opinione di uomini più saggi di noi. Giustino Fortunato, uno degli uomini che maggiormente onorarono il mezzogiorno e questa camera, sempre fieramente si leva contro le calunnie di coloro i quali, innanzi al 1922, avevano in spregio il parlamento perché in esso troppo si parlava; ed ascriveva a sua somma ventura di aver molto imparato ascoltando colleghi, di lui tanto meno dotti, ed a merito dei dibattiti parlamentari di aver creato un ceto politico, venuto su dal suffragio a poco a poco allargato e già divenuto quasi universale, un ceto politico migliore di quello che, all’alba del risorgimento, era stato fornito dal suffragio ristretto.

Or qui si palesa il grande compito affidato a voi, che avete il grave dovere di attuare i principi della costituzione ed a me, che la legge fondamentale della Repubblica ha fatto tutore della sua osservanza.

Tra le due date, del 1848 e del 1948, ricordate nel giorno centenario da ambedue i vostri presidenti, è nato un problema nuovissimo, che nel secolo scorso grandi pensatori politici avevano dichiarato insolubile: quello di far durare sistemi democratici quando a votare ed a deliberare sono chiamate non più ristrette minoranze di privilegiati ma decine di milioni di cittadini tutti uguali dinnanzi alla legge.

Il suffragio universale parve ed ancor pare a molti incompatibile con la libertà e con la democrazia. La costituzione che l’Italia si è ora data è una sfida a questa visione pessimistica dell’avvenire.

Essa afferma due principi solenni: conservare della struttura sociale presente tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia della libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello stato e la prepotenza privata; e garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza. A quest’opera sublime di elevazione umana noi tutti, parlamento, governo e presidente siamo chiamati a collaborare. Venti anni di governo dittatoriale avevano procacciato alla patria discordia civile, guerra esterna e distruzioni materiali e morali siffatte che ogni speranza di redenzione pareva ad un punto vana. Invece, dopo aver salvata, pur nelle diversità regionali e locali e pur dolorosamente mutilata, la indistruttibile unità nazionale dalle Alpi alla Sicilia, stiamo ora tenacemente ricostruendo le distrutte fortune materiali e per ben due volte abbiamo dato al mondo una prova ammiranda della nostra volontà di ritorno alle libere democratiche competizioni politiche e della nostra capacità a cooperare, uguali tra uguali, nei consessi nei quali si vuole ricostruire quell’Europa donde è venuta al mondo tanta luce di pensiero e di umanità. Signori senatori, signori deputati, volto lo sguardo verso l’alto, intraprendiamo umilmente il duro cammino lungo il quale la nostra tanto bella e tanto adorata patria è destinata a toccare mete ognor più gloriose di grandezza morale, di libera vita civile, di giustizia sociale e quindi di prosperità materiale. Ancora una volta si elevi in quest’aula il grido di Viva l’Italia!


[1] Con il titolo Mensaje dirigido a las Cámaras reunidas en sesión conjuncta [ndr].

Giustizia e libertà

Giustizia e libertà

«Corriere della Sera», 25 aprile 1948

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 117-122

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires, 1965, pp. 97-102[1]

 

 

 

 

Le due grandi guerre mondiali hanno prodotto alcuni stranissimi paradossali effetti.

 

 

Al par di tutte le guerre anche esse hanno sostituito alla libera economia di mercato, che dominava il mondo innanzi al 1914, una economia collettivistica o comunistica o socialistica. Così facendo, le grandi guerre mondiali non hanno nulla mutato, salvoché per l’ordine delle grandezze, alle fatali esigenze proprie della guerra. Una società in guerra è necessariamente una società collettivistica, dove il capo comanda e tutti gli altri ubbidiscono.

 

 

Il collettivismo è la legge ferrea dei tempi di guerra; legge eterna ed inviolata. Il paradossale e lo strano sta in ciò che i popoli, che sempre hanno riconosciuto la necessità dell’economia comandata dall’alto in tempo di guerra, in passato, dopo essersi rassegnati a sopportarla per la salvezza della patria finché era necessario, la abbattevano a gran furia al ritorno della pace; ed oggi invece, pur continuando a sopportarla come un male necessario durante la lotta e pur augurando ed a grandi grida chiedendo al ritorno della pace la scomparsa di quelle che si dicono le bardature di guerra, le vogliono poi perpetuare sotto altri nomi, di piani o di programmi o di coordinamenti che sono altrettanti sinonimi del collettivismo economico.

 

 

Questa del denunciare i nefasti del collettivismo bellico, che pur fu e sarà sempre necessario, e del celebrare i fasti del collettivismo di pace, che pure è certamente inutile e dannoso, è una delle tante manifestazioni patologiche dello stravolgimento mentale, da cui pare i popoli siano affetti da un terzo di secolo in qua. Sia lecito di affermare che lo stravolgimento ha la sua ultima origine nella supina irreflessiva accettazione di alcuni luoghi comuni, derivati da teorie divenute popolari verso la metà del secolo scorso, ignorate (sarebbe troppo onore dire confutate) da lunghi decenni nel mondo scientifico e sopravvissute ed anzi accettate come inconcusse verità solo nel mondo politico. In una delle sue tante pagine geniali, scintillanti di intuizioni pericolosamente assunte a guida sicura dai suoi ammiratori, Keynes scrisse che la caratteristica dominante delle dottrine correnti nei ceti e nei partiti politici avanzati è quella di farsi l’eco dello stato del pensiero scientifico economico corrente una o parecchie generazioni prima. Quello che i politici ritengono il non plus ultra del moderno, del nuovo, del socialmente rivoluzionario è invece l’eco stantia di ciò che alcuni studiosi, allora solitari, pensavano da trenta a cinquant’anni prima. Dopo, la scienza è progredita; ma i politici ancora rimasticano le vecchie dottrine tramontate. Fra trenta o cinquant’anni i politici si accorgeranno che al mondo pensarono e scrissero i Cournot, i Gossen, i Walras, i Menger, i Von Wieser, i Marshall, i Pareto, i Pantaleoni, i Wicksell, i Clark, per citare solo alcuni grandi morti che più influirono sul pensiero economico contemporaneo e forse opereranno sull’azione politica fra una generazione. Per ora i politici suppongono ancora che abbiano consistenza le teorie del valore e del sopravalore che Marx ed i suoi corifei avevano dedotto da Ricardo; ed ancora si sentono menomati da un complesso di inferiorità dinanzi a dottrinari intenti a ripetere teoremi che non hanno oramai diritto di cittadinanza in nessun manuale scolastico degno di essere offerto alla meditazione dei giovani.

 

 

Vogliamo invece tentare di esporre due tra i tanti canoni pratici che si possono dedurre da quello che può considerarsi il corpo accettato della dottrina economica contemporanea? Due soli; ma forse i più illuminanti tra quelli che i politici dovrebbero conoscere per sapere in quale senso si debba operare per correggere i vizi di quella meravigliosa economia di mercato od impresa libera che neppure il comunismo forzatamente imposto al mondo dalle due grandi guerre è riuscito a distruggere del tutto e che è ancora l’unico strumento vivo che salva gli uomini dalla carestia e dalla morte.

 

 

Il primo canone è che il male sociale ha le sue origini nel monopolio; e che la lotta contro le ingiustizie e le disuguaglianze sociali ha nome di lotta contro il monopolio. Il monopolio sta alla radice delle sopraffazioni dei forti contro i deboli, delle punte di ricchezze stravaganti ed immeritate, le quali provocano invidia e ribellione nelle moltitudini. È falso che la proprietà sia il furto. L’inventore della frase, Proudhon, oggi probabilmente la muterebbe, egli stesso, nell’altra: il monopolio è il furto. La proprietà frutto del lavoro e del risparmio non è ottenuta col danno altrui, bensì col vantaggio sovra tutto di chi non ha proprietà, del lavoratore padrone delle sole sue braccia. Se al mondo esistessero molte imprese concorrenti tra di loro; se l’accesso alle nuove imprese non fosse ostacolato da vincoli, il prezzo dei beni tenderebbe verso il costo di produzione marginale, ed il margine tenderebbe verso costi ribassanti per la concorrenza creatrice dei migliori contro gli incapaci. Se l’uomo ottiene le cose e i servigi di cui ha bisogno ad un prezzo tendente verso il costo del produttore migliore, mutar sistema sarebbe privo di senso comune e gioverebbe solo agli incapaci ed agli imbroglioni esperti nel conquistare, spacciando formule demagogiche, il potere a vantaggio proprio. In regime di concorrenza, anche i profitti degli imprenditori tenderebbero al costo, ossia a compensare i sacrifici ed il lavoro compiuti dall’imprenditore; e l’interesse del risparmio tenderebbe al minimo necessario per provocare la formazione del risparmio medesimo. L’esperienza prova che questa è la maniera meno costosa per la collettività di compensare imprenditori e risparmiatori, di gran lunga meno costosa dei salari, e compensi che si debbono pagare a funzionari e controllori e sorveglianti in una economia comunistica.

 

 

Il male, il furto nasce quando la legge in primo luogo ed in grado minore la tecnica sostituiscono alla economia di concorrenza la economia di privilegio e di monopolio. Quando lo stato, con le sue leggi, pone limiti, vincoli al sorgere di nuove imprese; quando con dazi, contingenti, favori fa si che taluno dei produttori possa impedire ad altri di fargli concorrenza, allora nasce, oltre al profitto corrente, dovuto alla abilità, alla energia, alla creazione intraprendente, il profitto di monopolio. Il profitto di monopolio è davvero il ladrocinio commesso a danno della collettività; è davvero il nemico numero uno della economia libera, della economia progressiva. Primo canone dunque: lotta contro il monopolio. E, prima di tutto, contro gli innumerevoli monopoli creati dalla legge e che sono serbati in vita dai mille e mille inganni con cui i falsi ragionatori riescono a persuadere i molti industriali danneggiati ed i moltissimi operai danneggiatissimi a farsi, per mezzo dei loro rappresentanti, paladini di protezioni, di favori, di vincoli. Smantellato l’edificio dei favori legali ai monopolisti, ben poco rimarrà in vita; e quel che rimarrà potrà essere combattuto con imprese pubbliche, esercite da enti creati all’uopo e vincolati nelle tariffe dei prezzi a carico dei consumatori.

 

 

Il secondo canone deriva dalla constatazione che, per se stessa, ove sia eliminato il monopolio, l’economia di concorrenza ottiene risultati di gran lunga più perfetti di quelli propri di ogni altro tipo economico, entro i limiti posti dalla domanda di beni e di servigi provenienti dagli uomini viventi in una data società. L’economia di mercato è indifferente, è agnostica rispetto alla natura propria della domanda e produce al massimo buon mercato ciò che il pubblico domanda. Se i consumatori domandano bevande alcooliche, l’economia di mercato produce spiriti; se veleni, veleni; se gioielli e pizzi, soddisfa a questa domanda con la stessa indifferenza con cui provvede al pane, alle scarpe ed ai vestiti.

 

 

Qui si apre un vasto campo agli sforzi degli uomini, intesi a migliorare le sorti degli uomini. Non si deve perciò distruggere la macchina che produce ai minimi costi; bensì, indurla a produrre quei beni che siano giudicati dai più come gli ottimi per la collettività. La via per raggiungere lo scopo è segnata da gran tempo. La imposta in genere, se adoperata entro i limiti posti dall’esperienza allo scopo di non distruggere l’incentivo a produrre ed a migliorare, è strumento efficace a tagliare gli alti papaveri ed a ridurre gli altissimi redditi a misure più modeste. Vi sono paesi, come la Svizzera e l’Inghilterra, nei quali, con aliquote meno bestialmente alte di quelle vigenti in Italia, ma osservate, le grandi fortune vanno diradandosi in modo siffatto da destare preoccupazioni rispetto alla possibilità di dare incentivo al nuovo risparmio. La imposta ereditaria può essere congegnata in maniera da costringere gli eredi a ricostituire entro due o tre generazioni le fortune ereditarie, se essi le vogliono conservare.

 

 

Tutto ciò ha un nome: far sì che gli uomini nella lotta per la vita possano partire da punti non troppo diversi. Il frutto delle imposte sui redditi e sui patrimoni più alti deve servire a dare a tutti, anche ai figli dei più poveri, le possibilità di essere educati ed istruiti, si da gareggiare con i figli di coloro che si trovano più in alto nella scala sociale. La società moderna che già provvede all’istruzione elementare gratuita, che già fornisce gratuitamente l’uso di molti servizi (parchi pubblici, asili infantili, ambulatori, cure mediche, acqua, fognatura, ecc.) deve proporsi mete ben più alte. Il confine tra i beni gratuiti ed i beni costosi deve essere gradatamente spostato a favore dei primi. Non sono un ideale assurdo un minimo di casa gratuita assicurata a tutti, l’istruzione gratuita fornita a tutti i meritevoli sino all’università ed oltre, la sicurezza di vita nella vecchiaia e tanti altri servigi che oggi neppure possiamo concepire.

 

 

Ma i due postulati fondamentali, lotta contro il monopolio e massima possibile uguaglianza nei punti di partenza assicurata ai poveri come ai ricchi, possono essere attuati solo se noi cercheremo di serbare in vita, perfezionandolo continuamente, il mirabile meccanismo di una libera economia che nel 1914 avevamo ereditato dai secoli passati e che, nonostante i nostri sforzi suicidi, non siamo ancora riusciti a distruggere. La lotta diuturna per la libertà, contro la tirannia dei monopolisti privati e del monopolista collettivo, è la premessa necessaria di una società economicamente e socialmente più equa. Giustizia non esiste là ove non vi è libertà.



[1] Tradotto in spagnolo con il titolo Justicia y liberdad [ndr].

La terza via sta nei piani?

«Corriere della Sera», 15 aprile 1948.

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 359-364

Liberismo e liberalismo, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 203-207

Chi vuole dunque la libertà? La libertà pratica, quella che si desidera nei rapporti con i propri simili, con gli inferiori ed i superiori, con i governati ed i governanti; la libertà di muoversi, di parlare, di credere, di scrivere, di scegliere i propri modi di vita, di avere e di cercar di soddisfare i propri gusti senza chiedere il permesso altrui, di lavorare secondo la propria inclinazione e nel luogo di propria scelta? Né il monopolismo privato né il monopolismo pubblico soddisfano all’esigenza della libertà: non il primo perché rende gli uomini schiavi dell’unico o dei pochi proprietari degli strumenti di produzione; non il secondo perché instaura un rapporto di conformismo e di ubbidienza di coloro che sono collocati in basso verso coloro che stanno in alto nella gerarchia politica. L’uomo comune non è libero nell’uno né nell’altro tipo di struttura sociale, perché dipende per il pane, suo e della famiglia, da coloro i quali posseggono, se monopolisti privati, o regolano se monopolisti pubblici, i mezzi di produzione, epperciò distribuiscono i mezzi di vita.

Quale è dunque il tipo di struttura economica che soddisfa meglio all’esigenza della libertà? Troppa gente, a questo punto, comincia a balbettare, affermando di essere pronta ad accogliere le più coraggiose affermazioni delle idee nuove, di rendersi conto di quel che di buono c’è nel socialismo, nel collettivismo, nel comunismo; e conclude: siamo tutti socialisti – si tratta di misura e di gradualità – arriveremo anche noi alla stessa meta – si tratta di arrivarci con garbo e con le buone maniere. Fa d’uopo affermare che, cosi pensando ed operando, non ci si mette su una strada la quale possa condurre ad una meta qualsiasi. Combinando insieme ideali eterogenei e repugnanti, si arriva male, tardi e con gran costo alla meta finale comunistica, funesta a quella libertà che noi abbiamo sopratutto in onore. La terza via non si scopre con la confusione e cercando di conciliare il diavolo con l’acqua santa, il meccanismo esistente nell’Occidente con l’opposto regime orientale. L’unico risultato è quello di fracassare il meccanismo esistente senza mettere nulla al suo posto. La pianificazione o è collettivistica o non esiste; essa non può essere parziale e, per agire, deve essere totale.

Contro la confusione mentale noi dobbiamo innanzi tutto proclamare alto che sinora l’umanità non ha inventato nessun sistema economico produttivo di più copiosa ricchezza e meglio distribuita, nessun sistema atto a far vivere più largamente le grandi moltitudini umane di quello nel quale vive il mondo occidentale, il mondo di noi europei occidentali, degli americani e dei paesi politicamente indipendenti ed abitati e governati da discendenti di europei. Uno scrittore americano ha dato ad un suo libro il titolo: Capitalism the creator; il capitalismo creatore. Il titolo non è appropriato perché il capitalismo, come tutte le altre personificazioni in ismo, essendo esso stesso una creazione dello spirito umano, è esso stesso derivato da qualcosa d’altro e non può trasmettere altrui se non ciò che l’uomo gli dà. Ma il titolo serve a chiarire che oggi, come ieri, chi crea ricchezza, chi crea benessere, chi distribuisce equamente o ingiustamente i beni della terra è l’uomo; ed è l’uomo nella infinita varietà della sua natura, delle sue virtù e dei suoi difetti, dei suoi desideri e dello sforzo posto nel soddisfarli. Assoggettiamo l’uomo ad una regola uniforme, sia questa imposta da un’oligarchia di monopolisti privati, sia da un ceto di tecnici sapienti posti al vertice della macchina collettiva (monopolismo comunistico); e voi avrete, in ambi i casi, la tirannia economica, la distruzione del ribelle, l’uniformità nell’ubbidienza, la graduale scomparsa dello spirito creatore.

Viviamo invece nella nostra società contemporanea, difettosa sinché si voglia, ma varia, ma snodata, composta di milioni di imprese indipendenti l’una dall’altra, concorrenti tra di loro od a volta a volta indotte a collegarsi ed a riunirsi e poi, di nuovo, a frantumarsi ed a rivaleggiare, ed avremo creato l’humus fecondo per la creazione, per il progresso, per l’emulazione, per l’ascesa spontanea dei più operosi, dei più meritevoli e per la discesa dei neghittosi e degli incapaci. Le società dei monopolisti privati e dei monopolisti collettivi sono parimenti società nelle quali si sale non per virtù propria, non per il consenso spontaneo altrui; ma in virtù delle arti, moralmente degradanti ed economicamente distruttive, del favore cercato dall’inferiore presso il superiore. Se le amministrazioni pubbliche si salvano dal prevalere degli intriganti e dei piaggiatori, ciò accade perché esse sono solo una parte della società intera; e perché spontaneamente ad esse accorrono coloro che hanno l’animo del soldato e sentono, come un sacerdozio, l’ufficio del giudice o dell’insegnante o dell’amministratore. Ed altri invece, che ha l’animo volto alle cose economiche, fa il commerciante, l’agricoltore, l’industriale, l’artigiano e lucra o perde a seconda della sua capacità di organizzare bene o male la sua impresa. E v’ha chi non vuol correre rischi, né di comandi civili o militari, né di imprese economiche pio o meno fortunate, e si mette al soldo altrui. Egli preferisce od è costretto a preferire, perché non ha tempo o mezzi da aspettare, l’occupazione a salario altrui. L’agricoltore, il quale diventi insofferente di sopportare sul podere, suo o tolto in fitto od a mezzadria, le vicende delle stagioni, delle grandinate, delle piogge e della siccità si reca in città, dove sul salario non piove o non grandina, e dove si corre invece il rischio della disoccupazione. La caratteristica dei paesi occidentali non è, come si favoleggia negli imparaticci di una storia economica deteriore, quella entità mitica astratta detta capitalismo; ma sono invece quelle cose vive che si chiamano economia di mercato o ad impresa libera; dove gli uomini creano e contrattano fra di loro e non ubbidiscono né al monopolista privato, che essi, ove non ne siano impediti a forza dalla legge, ogni giorno combattono e distruggono; né all’unico datore pubblico di lavoro. Il ribelle non è, come nelle società monopolistiche e comunistiche, ridotto a paria; non è reietto, messo al bando, come nel medioevo, dall’acqua e dal fuoco. Egli crea ogni giorno, a migliaia, imprese concorrenti a quella che minaccia la libertà altrui con la sua forza prepotente; e tentando ogni giorno, in quella che scioccamente si chiama anarchia economica ed è invece continua perpetua creazione di nuove giovani imprese, rivali di quelle già stabilite, offre ai suoi simili il mezzo di salvarsi dalla tirannia. Coloro i quali nella concorrenza non riescono a durare, sono bensì colpiti dalla sanzione del fallimento, lievissima sanzione in confronto della morte economica, la quale si abbatte sui ribelli nelle società monopolistiche private o sui cosidetti sabotatori nelle società collettivistiche.

In una società economica, come quella italiana, nella quale, a fare un solo esempio, vi sono oggi 22.930.909 proprietari di terreni e vi sono 9.988.123 proprietà rurali, e queste vanno dalle minutissime alle grandissime, nel grande numero vi è la garanzia contro la dominazione dei pochi monopolisti privati o dell’unico dittatore pubblico. Nelle società nostre, dove, se si fa astrazione dai vincoli e dalle bardature ereditate dalla guerra e dalla dittatura, i ceti professionali non dipendono dallo stato, ma dal favore della clientela; dove gli agricoltori sono ancora re in casa propria e portano i propri prodotti al mercato e non sono costretti – e giova sperare che gli ultimi residui degli ammassi forzosi scompaiano – a consegnarli a prezzi fissati ad un padrone anonimo detto stato; dove esistono ed esisteranno sempre, ove non siano aboliti per legge, artigiani e commercianti ed industriali piccoli e medi, non è possibile, ove gli uomini ciecamente e supinamente non vi si sottomettano, la tirannia. Non siamo un paese dove tutti siano dipendenti da qualcuno posto in alto e dove si sia, per paura della fame, costretti a dir di sì a chi abbia conquistato il potere. Vivono nelle nostre società milioni di uomini appartenenti a ceti indipendenti dal monopolista privato o dal leviatano statale. Questi ceti indipendenti sono ancora, per fortuna, la grandissima maggioranza del popolo italiano, come degli altri popoli di civiltà occidentale; ed in questi ceti indipendenti sta il presidio ultimo della libertà civile e politica.

Noi dobbiamo conservare questa nostra preziosa struttura economica, frutto di esperienza secolare e causa e garanzia di avanzamento tecnico ed economico e di innalzamento mai più visto delle condizioni materiali e morali delle moltitudini. Le due grandi guerre mondiali hanno fatto compiere alla nostra struttura economica un lamentevole regresso verso il monopolismo privato (protezioni doganali, contingenti, restrizioni, divieti fecondi di camorre e di privilegi) e verso il collettivismo statale. La  gente frettolosa ha scambiato il regresso per il sole dell’avvenire ed annuncia la morte dell’economia libera, senza sapere che così prognostica e prepara anche la morte della libertà politica.

Agli uomini che vogliono mantenersi liberi fa d’uopo dire che essi debbono fermarsi sulla via del suicidio. La struttura economica attuale deve essere perfezionata ma non distrutta. Dobbiamo andare verso l’alto, verso una libertà maggiore, non scendere in basso verso la schiavitù. Si afferma con ciò che noi viviamo nel migliore dei mondi possibili, e che non c’è nulla da fare per migliorare la struttura sociale presente? Certamente no; ma altrettanto sicuramente bisogna aggiungere che perfezionare non vuol dire distruggere. È necessario abbattere tutto ciò che ostacola l’aumento della ricchezza e del reddito sociale totale; ed è necessario distribuire meglio, togliendo le punte estreme all’ingiù ed all’insù, la ricchezza esistente. Ma è necessario aver ben chiaro in mente che a ciò non si giunge togliendo forza a quella che è la virtù creatrice della ricchezza materiale come dei beni spirituali: la libertà.

Il Blocco nazionale a Campobasso. L’aiuto dello stato è strumento di solidarietà. Un elevato messaggio di Einaudi al comizio tenuto dagli on. Morelli e Colitto

Il Blocco nazionale a Campobasso. L’aiuto dello stato è strumento di solidarietà. Un elevato messaggio di Einaudi al comizio tenuto dagli on. Morelli e Colitto

«Risorgimento liberale», 13 aprile 1948

 

Chi vuole la libertà

Chi vuole la libertà

«Corriere della Sera», 13 aprile 1948

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 112-117

Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 198-202

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires, 1965, pp. 123-128[1]

 

 

 

 

La libertà di cui parlo non è quella della coscienza individuale la quale vive anche nelle galere e nei campi di concentramento e fa gli eroi ed i martiri; ma è la libertà pratica dell’uomo comune, dell’italiano medio di esporre pubblicamente, senza timore, il proprio pensiero e di difenderlo contro gli avversari; la libertà delle minoranze di far propaganda contro la maggioranza e di cercare di diventare maggioranza; la libertà di esercitare o non esercitare quel qualunque mestiere o professione piaccia al singolo, senza altri vincoli od impedimenti fuor di quelli richiesti dal diritto altrui di non essere danneggiato dall’operato nostro; la libertà di muoversi da luogo a luogo senza sottostare a vincoli che, quando ci sono, non sono nient’affatto diversi dal domicilio coatto o dalla servitù della gleba; la libertà di dir corna del prossimo e del governo e massimamente di questo, nei giornali e sulle piazze; salvo a pagare il fio, con adeguate pene in denaro o in anni di carcere, delle proprie calunnie ed ingiurie.

 

 

Quali sono i mezzi atti ad attuare queste libertà e le altre scritte nelle costituzioni di tutti i popoli liberi ed anche nella nuova costituzione italiana? Oggi è assai popolare ed accettata l’idea che le libertà civili e politiche, proclamate nelle carte dei diritti dell’uomo della fine del secolo XVIII non possano stare da sé, anzi non abbiano vita vera se non siano accompagnate da un’altra libertà, quella economica. A che serve la libertà politica a chi dipende da altri per soddisfare ai bisogni elementari della vita? Fa d’uopo dare all’uomo la sicurezza della vita materiale, dargli la libertà dal bisogno, perché egli sia veramente libero nella vita civile e politica, perché egli si senta davvero uguale agli altri uomini e libero dall’obbligo di ubbidire ad essi nella scelta dei governanti, nella manifestazione del pensiero e delle credenze. La libertà economica è la condizione necessaria delle credenze. La libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica.

 

 

C’è del vero nella tesi. La libertà che per l’uomo singolo è un fatto morale, il quale esiste e fiorisce in qualunque clima economico, per l’uomo comune, nei rapporti con i suoi simili, è un fatto strettamente connesso con la struttura economica della società. Vi sono due estremi nei quali sembra difficile concepire l’esercizio effettivo, pratico della libertà: all’un estremo tutta la ricchezza essendo posseduta da un solo colossale monopolista privato; ed all’altro estremo dalla collettività. I due estremi si chiamano comunemente monopolismo e collettivismo: ed amendue sono fatali alla libertà.

 

 

Il primo estremo coincide suppergiù col termine ultimo assegnato alla struttura detta capitalistica della società nel manifesto dei comunisti del 1848: quando, divorati i piccoli industriali ed agricoltori dalla concorrenza vittoriosa dei medi e questi da quella dei grandi e così via dei grandissimi e dei colossali, tutta l’umanità gemerebbe sotto la ferula di un solo o di pochi monopolisti, padroni assoluti della sorte delle moltitudini. Nessuno potendo vivere se non a salario del monopolista, tutti sarebbero suoi schiavi ed ogni manifestazione del pensiero, della religione, della stampa, della parola sarebbe alla mercé dell’unico padrone. Arduo sarebbe invero immaginare che, in siffatta situazione economica, possa sopravvivere la libertà, eccetto che nel più intimo e nascosto foro della coscienza individuale. Se ciò è vero, bisogna aggiungere subito che la previsione del manifesto dei comunisti del 1848 appare oggi la più irreale delle tante farneticazioni scritte nelle mille e mille “utopie” di cui si ha notizia nelle storie delle dottrine sociali. La tendenza della concorrenza a distruggere se stessa ed a convertirsi nel suo opposto, nel monopolio, non trova conferma nella storia di nessun paese durante il secolo scorso dopo il 1848. In nessun paese lo spettacolo di autofagia descritto un secolo fa ha trovato attuazione; sicché, spazientiti, i comunisti quando vollero in Russia impadronirsi del potere non aspettarono il fatidico momento; ma colsero la prima occasione favorevole militare e politica senza altrimenti occuparsi della esistenza o meno di un propizio ambiente economico.

 

 

All’altro estremo, la ipotesi della ricchezza, dei beni strumentali, dei cosiddetti mezzi di produzione posseduti unicamente dalla collettività (ipotesi che si dice dai più collettivistica o comunistica ed alla quale io non vorrei affibbiare alcun aggettivo) è ugualmente fatale alla libertà. Se noi supponiamo che, salvo forse la casa, il mobilio e gli altri beni di consumo e forse un pezzo d’orto, in quantità definita, tutti i beni strumentali – terre, stabilimenti, scorte, ferrovie, strade, porti, ecc. ecc. – appartengano alla collettività, non avremmo forse noi riprodotto, salvo un particolare, la prima ipotesi della società capitalistico monopolistica? L’unico elemento differenziale sarebbe che, nella ipotesi del monopolio privato, il cosiddetto (adopero spesso l’aggettivo “cosiddetto” per mettere in guardia il lettore contro l’uso inevitabile di parole del linguaggio comune, parole spesso improprie e ribelli a definizioni precise) “profitto” spetterebbe al monopolista, laddove nel caso del monopolio collettivo o pubblico dicesi che il profitto spetterebbe alla collettività. Pur supponendo, cosa contestabilissima, che un profitto continui ad esistere e che, esistendo, sia destinato alla collettività, chiaro è che la libertà sarebbe morta. L’ipotesi suppone invero che l’economia di tutto il paese sia regolata secondo un piano fissato da una autorità centrale ed attuato da organi od autorità o corpi o uffici o organizzazioni o cooperative o comunità (il nome di nuovo non conta) via via sempre più localizzati o specializzati sino a giungere all’unità (stabilimento, reparto, fattoria, magazzino, ecc. ecc.) operante e lavorante. Il sistema non può operare se chi sta in basso non ubbidisce a chi sta in alto; ed esso non differisce sostanzialmente dalle organizzazioni che noi conosciamo sotto il nome di ministeri, con i loro gradi gerarchici e le loro categorie funzionali, muniti dei necessari uffici e sotto uffici periferici. In una organizzazione consimile, che un tempo si usava dire burocratica, ma non muta indole se, mutato nomine, la si dice pianificata, possono manifestarsi talune libertà specifiche, come quelle della critica alla bontà di questo o quel procedimento amministrativo o tecnico, di questa o quella determinazione delle merci da produrre e dei prezzi relativi. Le critiche possono risalire dal basso in alto e contribuire alla formazione definitiva del piano; ma la possibilità ed anche la eventuale frequenza delle critiche tecniche scendenti ed ascendenti non muta nulla alla necessaria struttura del tipo collettivistico della società; che è quello della dipendenza gerarchica di coloro che sono situati in basso da coloro che sono situati in alto; dell’operaio dal capo squadra; di questo dal capo reparto, del capo reparto dall’ingegnere direttore di sezione e così via, ascendendo per li rami ai direttori generali ed ai membri dei supremi consigli dei piani. In una struttura che è necessariamente gerarchica, il rapporto tra uomo e uomo non è quello di libertà, sibbene quello di dipendenza. Nessun uomo che non voglia porsi fuori del sistema può sottrarsi al rapporto di dipendenza. Anche l’uomo lavoratore, manuale o intellettuale, è un elemento del piano. Egli non può spostarsi a suo piacimento da mestiere a mestiere e da piano a piano, ma deve compiere quella funzione alla quale è ritenuto dai capi più adatto e nel luogo fissato dal piano. Se egli falla, le sanzioni sono, e non possono non essere, le solite: richiamo, rimprovero, ritardo nell’avanzamento, riduzione del salario, sospensione di esso e nei casi più gravi, licenziamento. Che cosa, logicamente, vuol dire licenziamento? L’impossibilità di trovar lavoro e pane, per sé e la famiglia, presso un altro imprenditore; ché questo in una società collettivistica non esiste. Se si vuole, ciononostante, lavorare e sopravvivere fa d’uopo rassegnarsi a qualche specie inferiore di lavoro; tipo colonie punitive, o lavori forzati.

 

 

Le considerazioni fatte sopra non sono una critica agli uomini i quali stanno al sommo della gerarchia in una società collettivistica. Essi debbono agire in questo modo, se vogliono che la macchina sociale agisca o funzioni; così come il generale dell’esercito non può tollerare, pena la dissoluzione e la sconfitta, indisciplina e disubbidienza tra gli ufficiali ed i soldati. Come in tempo di guerra, la sanzione ultima contro il ribelle è necessariamente la fucilazione, così in una società collettivistica la sanzione ultima contro il ribelle è, e non può non essere, il lavoro forzato. Dove sta di casa, in una società siffatta, la libertà? La libertà di lavorare e di non lavorare, la libertà di fare il contadino o diventare operaio in città; la libertà di parlar male e di agitarsi contro coloro che stanno in alto? La libertà di criticare non i particolari tecnici, i quali non contano nulla, ma la sostanza, il principio stesso del sistema? La libertà di agitarsi e tenere adunanze e comizi contro i capi dei piani, la libertà di scrivere libri e di pubblicar giornali per dimostrare che il tipo di società collettivistica nega la libertà all’uomo, gli vieta di esercitare il mestiere preferito, nel luogo prescelto dal singolo individuo? La libertà di produrre, per consumarli, prodotti non compresi nel piano voluto dalla collettività o meglio dagli uomini preposti agli organi supremi della produzione? La libertà di emigrare all’estero anche contro l’obbligo che il piano contempla di rimanere in paese, perché il piano suppone l’utilizzazione di tutti gli uomini viventi in quel dato territorio?

 

 

Il sistema partorisce necessariamente conformismo alle idee di volta in volta affermate in alto. Quando si sa che, espulsi dall’unico meccanismo produttivo, non vi ha più alcuna possibilità di vita, fuor dei campi di lavoro obbligatorio, gli uomini tendono ad assumere il colore dei superiori ed a mutare il proprio colore secondo le mutazioni di quello. Le intenzioni dei dirigenti possono essere ottime, possono essere nelle parole ed anche nelle intenzioni volte a dar benessere a tutti; ma la conseguenza logica del sistema e una sola: conformismo, ossia schiavitù spirituale e mancanza del bene supremo che è la libertà.

 

 

Conclusione: coloro i quali si acconciano al monopolismo economico privato, e coloro i quali predicano il collettivismo o comunismo economico pubblico sono, tutti, consapevolmente o non, nemici acerrimi della libertà.



[1] Tradotto in spagnolo con il titolo Quién quiere la liberdad [ndr].

Chi vuole la pace?

Chi vuole la pace?

«Corriere della Sera», 4 aprile 1948

Chi vuole la pace? Vallecchi, Roma, pp. 5-10

La guerra e l’unità europea, Edizioni di Comunità, Milano, 135-141

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 638-643

Scritti sull’unità politica europea, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, 1995, pp. 63-69

 

 

 

 

Il grido: «Vogliamo la pace!» è troppo umano, troppo bello, troppo naturale per una umanità uscita da due spaventose guerre mondiali e minacciata da una terza guerra sterminatrice, perché ad esso non debbano far eco e dar plauso tutti gli uomini i quali non abbiano cuor di belva feroce.

 

 

Ma, subito, all’intelletto dell’uomo ragionante si presenta l’ovvia domanda: «Come attuare l’umano, il cristiano proposito?».

 

 

Non giova far appello ad ideali nuovi, a trasformazioni religiose o sociali. Unica guida sono l’esperienza storica ed il ragionamento. Questo ci dice che non può essere reputato mezzo sicuro per impedire le guerre quello che, pur esistendo, non le ha sinora impedite. Non è un mezzo sicuro una religione piuttosto che un’altra; perché le guerre si accompagnano alle religioni più disparate; e neppure la religione cristiana proibisce di difendere il proprio paese contro l’aggressione ingiusta. Sempre accadde, contro i comandamenti divini, che taluni uomini siano dediti al furto, all’ozio, al vagabondaggio, all’omicidio ed alle guerre; sicché ai buoni non resta che difendersi con la forza contro i malvagi. Non sono un mezzo sicuro le trasformazioni sociali; ché si combatterono guerre cruente in tutti i regimi sociali tra pastori ed agricoltori, in regime di proprietà collettive delle tribù e delle genti, durante il feudalesimo e la servitù della gleba, prima e dopo il sorgere e il fiorire della borghesia. La teoria dello spazio vitale imperversò prima e durante il nazismo; ed oggi pare guidare i comunisti russi. Eredi dei millenni, in cui gli uomini conducevano vita belluina ed antropofaga, gli uomini talvolta immaginano, sotto la guida di falsi profeti, di arricchire spogliando altrui. Gli uomini pacifici del mondo contemporaneo, i quali sapevano o facilmente intuivano che la guerra non doveva recare se non morte e rovina, si lasciarono ingannare dai pochi frenetici di dominio a guerreggiare a vicenda; ed i risparmiatori videro sfumati i loro risparmi, gli imprenditori minacciato il possesso delle fabbriche e delle terre ed i lavoratori ridotto il compenso della fatica.

 

 

Se un paragone si deve fare tra opposti sistemi di organizzazione sociale come fomentatori di guerre, la conclusione è una sola: tanto più facile è conservare la pace quanto più numerose sono le forze economiche esistenti in un paese che siano indipendenti dallo stato (cosidetta volontà collettiva) e tanto più è agevole scendere in guerra quanto più l’economia è accentrata sotto la direzione di un’unica volontà. Una società di milioni di proprietari indipendenti, di numerosi industriali e commercianti, è una società la quale intende agli scambi con i paesi stranieri, per vendere sui mercati migliori i propri prodotti ed acquistare a buon mercato i desiderati prodotti esteri. I molti che desiderano migliorare la propria fortuna hanno bisogno della pace ed aborrono dalla guerra. Nei paesi dove il potere economico è invece accentrato nello stato, ivi nascono i monopolisti, ivi si ottiene ricchezza cercando i favori dei governanti ed ivi gli ideali di vittoria e di gloria dei capi alimentano la sete di guadagni improvvisi e grossi degli avventurieri i quali stanno attorno al potere. Le società borghesi dove i privilegiati monopolisti concessionari di favori statali sono potenti, sono avventurose e bellicose.

 

 

Agli amatori di preda a danno dello straniero si possono opporre le sole armi che valgono contro i predoni della roba altrui a danno del compaesano e del concittadino. Quando non esisteva e là dove oggi non esiste uno stato bene organizzato, spesseggiano furti ed assassini. Che cosa hanno inventato gli uomini per tenere a segno ladri e assassini? Poliziotti, giudici e prigioni. Se non esiste lo stato, l’uomo giusto e buono deve difendersi da sé, con grande fatica e scarso risultato. Viene meno in lui la voglia di lavorare, di produrre e di risparmiare; e l’intera società immiserisce. Lo stato ha perciò assunto su di sé il compito di scegliere e stipendiare poliziotti, giudici e guardie carcerarie; sì che i buoni possano respirare, lavorare e contribuire a ridurre la miseria e a crescere il benessere universale.

 

 

Contro le carneficine ed i latrocini all’ingrosso compiuti col nome di guerre da un popolo contro un altro popolo non esiste rimedio diverso da quello di cui l’esperienza antichissima ed universale ha dimostrato l’efficacia contro gli assassini ed i furti compiuti ad uno ad uno dall’uomo contro l’uomo: la forza. Fa d’uopo esista una forza superiore agli stati singoli. Come lo stato con i poliziotti, i giudici ed i carcerieri fa stare a segno ladri ed assassini, così è necessario che una forza superiore allo stato, un superstato, faccia stare a segno gli stati intesi ad aggredire, violentare e depredare altrui.

 

 

Chi vuole la pace deve volere la federazione degli stati, la creazione di un potere superiore a quello dei singoli stati sovrani. Tutto il resto è pura chiacchiera, talvolta vana, e non di rado volta a mascherare le intenzioni di guerra e di conquista degli stati che si dichiarano pacifici. Giungiamo quindi alla medesima conclusione alla quale si era stati condotti altra volta, discorrendo della bomba atomica. Non basta gridare: abbasso la bomba atomica! viva la pace! per volere sul serio l’abbasso e il viva. Fa d’uopo volere o perlomeno conoscere qual è la condizione necessaria bastevole perché l’una e l’altra volontà non restino parole gettate al vento. Siffatta condizione si chiama forza superiore a quella degli stati sovrani, si chiama federazione di stati, si chiama super-stato. Se un giudice delle malefatte deve esistere, se l’aggressore deve essere preso per il collo e costretto a desistere dalla rapina, deve esistere una forza, uno stato superiore agli altri il quale possa farsi ubbidire dagli stati singoli, devono anzi gli stati singoli essere privati del diritto e della possibilità della guerra e della pace.

 

 

E, badisi bene, il super-stato non può essere una qualunque società delle nazioni od anche una organizzazione delle nazioni unite. Il 18 gennaio 1918 su queste stesse colonne sostenevo la tesi che l’idea della società delle nazioni – allora non ancora fondata, ma già rumorosamente propugnata da molti fantasiosi idealisti, tra i quali s’era cacciato, più rumoroso di tutti, quel Benito Mussolini che poi tanto la svillaneggiò e contribuì a distruggerla – era idea vana e destinata al fallimento. Non v’ha ragione di pensare oggi diversamente rispetto alla organizzazione che l’ha sostituita. Come i fatti mi hanno dato ragione per la società delle nazioni, così oggi tutti si avvedono che l’ONU non è efficace strumento di pace per il mondo. A che cosa serve una lega, una associazione, la quale deve ricorrere al buon volere di ognuno degli stati associati per mettere a posto lo stato malfattore recalcitrante al volere comune? Priva di forza propria militare, una società di stati è fatalmente oggetto di ludibrio e di scherno.

 

 

Sinché la Svizzera fu una semplice lega di cantoni sovrani, ognuno dei quali aveva un proprio esercito, proprie dogane e propria rappresentanza diplomatica con le potenze straniere, essa rimase soggetta ad influenze del di fuori e non possedeva vera unità nazionale. Solo nel 1848, creato finalmente dopo le tristi esperienze della guerra intestina un governo federale, abolite le dogane interne e passati dai cantoni alla confederazione il diritto di stabilire dazi al confine federale, il diritto di battere moneta, quello di mantenere un esercito e di avere rapporti con l’estero, sorse la Svizzera unita e federale. Una esperienza analoga s’era fatta due terzi di secolo innanzi in quelli che diventarono poi gli Stati Uniti d’America. Se gli Stati Uniti odierni nacquero e grandeggiarono, se nessuno minaccia la pace nel territorio della repubblica stellata, ciò è dovuto soltanto al genio di Washington e dei suoi collaboratori i quali videro che lo stato che essi avevano fondato nella guerra di liberazione era perduto se non si faceva il gran passo; se i singoli stati non rinunciavano al diritto di circondarsi di dogane, al diritto di battere moneta, a quello di mantenere un esercito proprio e di inviare all’estero una propria rappresentanza diplomatica. Rinunciando ad una parte della sovranità, i 13 stati confederati serbarono ed ancora posseggono il resto; che è il più perché riguarda i beni morali e spirituali del popolo. Il gran passo fu fatto quando la costituzione del 26 luglio 1788 ebbe cominciamento con le famose parole: We the people of the United States, noi popolo degli Stati Uniti e cioè non noi tredici stati, ma noi «il popolo intero degli Stati Uniti» abbiamo deciso di fondare una più perfetta unione. Con quelle parole, gli Stati Uniti d’America soppressero la guerra nell’interno del loro immenso territorio: creando un nuovo stato non composto di stati sovrani, ma costituito direttamente da tutto il popolo degli Stati Uniti; e superiore perciò agli stati creati dalle frazioni dello stesso popolo viventi nei territori degli stati singoli. Vano è immaginare e farneticare soluzioni intermedie. Il solo mezzo di sopprimere le guerre entro il territorio dell’Europa è di imitare l’esempio della costituzione americana del 1788, rinunciando totalmente alle sovranità militari ed al diritto di rappresentanza verso l’estero ed a parte della sovranità finanziaria. Se su questa via si deve e si potrà procedere gradatamente, siano benedette la unione doganale stipulata fra l’Olanda, il Belgio ed il Lussemburgo (Benelux) e quella firmata fra l’Italia e la Francia. Ma sia ben chiaro che si tratta appena di un cominciamento, oltre il quale dovrà farsi ben presto deciso e lungo cammino.

 

 

Quando noi dobbiamo distinguere gli amici dai nemici della pace, non fermiamoci perciò alle professioni di fede, tanto più clamorose quanto più mendaci. Chiediamo invece: volete voi conservare la piena sovranità dello stato nel quale vivete? Se sì, costui è nemico acerrimo della pace. Siete invece decisi a dar il vostro voto, il vostro appoggio soltanto a chi prometta di dar opera alla trasmissione di una parte della sovranità nazionale ad un nuovo organo detto degli Stati Uniti d’Europa? Se la risposta è affermativa e se alle parole seguono i fatti, voi potrete veramente, ma allora soltanto, dirvi fautori della pace. Il resto è menzogna.

Chi vuole la bomba atomica?

Chi vuole la bomba atomica?

«Corriere della sera», 28 marzo 1948

Chi vuole la pace? Vallecchi, Roma, pp. 11-17

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 634-638

Scritti sull’unità politica europea, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, 1995, pp. 55-61

 

 

 

 

Alla domanda: «sei contro l’uso della bomba atomica?» non c’è uomo al mondo che non risponda: «Sì!». Le incertezze ed i dissidi sorgono soltanto quando si continua domandando: «quale mezzo efficace proponi contro quell’uso?». Il mero divieto accettato e sottoscritto da tutti gli stati sovrani in una solenne convenzione internazionale, sarebbe quel mezzo? Suppongo che tutti si sia d’accordo nel ritenere che un patto internazionale, il quale puramente e semplicemente facesse divieto agli stati contraenti di ricorrere all’uso della bomba atomica, sarebbe uno dei tanti pezzi di carta destinati, quando sorgesse la necessità di applicarli, a finire nel cestino della cartastraccia. Un rinnovato patto Kellogg, il quale mettesse al bando dell’umanità gli stati e gli uomini rei di fabbricare e di usare la bomba atomica, sarebbe senza esitanza sottoscritto da tutti gli stati; ma non scemerebbe affatto la inquietudine da cui i popoli sono pervasi al solo pensiero che, nonostante il divieto, la fabbricazione del micidiale congegno continui, ed anzi crescerebbe il sospetto che taluno stato malintenzionato, fiducioso nella buona fede altrui, si prepari ad assaltare inopinatamente l’avversario. Non si distinguono cioè i fautori dagli avversari dell’uso della bomba atomica, per ciò solo che gli uni si rifiutino e gli altri accettino di sottoscrivere una convenzione di messa al bando dell’arma atomica. Chi abbia per avventura sottoscritto un manifesto contro l’uso della bomba atomica non ha alcuna ragione di tacciare colui che abbia rifiutato di sottoscrivere quel manifesto come nemico dell’umanità e propugnatore nefando dell’uso di questa micidialissima tra le armi. Potrebbe essere vero l’opposto: che cioè il sottoscrittore dei manifesti di bando sia, consapevolmente o no, appunto colui il quale, negando i mezzi per far osservare il divieto, di fatto è il più efficace banditore dell’uso della bomba. In questa materia, come in tale altre politiche e sociali, quel che non si vede è assai più importante di quel che si vede. Non basta scrivere sui giornali e gridare sulle piazze il proprio abominio contro la bomba atomica. Scritture e discorsi non servono a nulla, finché non si siano chiaramente indicati i mezzi sufficienti a fare osservare il divieto. Vi è un criterio in base al quale soltanto si può giudicare se alle parole corrispondano intenzioni serie, propositi decisi veramente ad allontanare dall’umanità il grande flagello. Il dilemma è: si vuole che il divieto agisca entro l’ambito della piena sovranità degli stati rinunciatari (all’uso della bomba atomica), ovvero si riconosce che il divieto presuppone una rinuncia alla sovranità medesima? Questa è la cote alla quale fa d’uopo saggiare la serenità e la sincerità dei propositi di coloro i quali affermano di essere contrari all’uso, della bomba atomica.

 

 

Se si parte dalla premessa di conservare la sovranità piena degli stati firmatari, è inutile procedere oltre. Quel patto sarebbe ipocrita e servirebbe soltanto ad alimentare sospetti e ad accelerare il fatale cammino verso la distruzione della civiltà umana. Inutile far seguire al bando la promessa di ogni singolo stato di non fabbricare l’arma vietata; vanissima la cerimonia della distruzione delle bombe esistenti; arcivana la obbligazione sottoscritta di lasciar ispezionare le proprie fabbriche da commissioni di periti internazionali, incaricati di andar cercando sospette fabbricazioni di prodotti atti ad essere poi insieme combinati per ottenere la deprecata arma. Pattuizioni, promesse, obbligazioni cosiffatte furono già sperimentate dopo la prima grande guerra contro la Germania vinta, e non impedirono che dieci anni fa la Germania si presentasse al mondo formidabilmente armata, anzi armatissima, in mezzo a nazioni quasi disarmate. Quale speranza v’ha di impedire ricerche, sperimenti, successi e fabbricazioni nei territori, talvolta vastissimi, spesso inaccessibili di taluni dei grandi stati moderni? Quale probabilità avrebbero quei disgraziati investigatori di avere effettivo accesso agli stabilimenti produttori, contro le mille arti con le quali uno stato sovrano può impedire che lo straniero sul serio indaghi, verifichi, si accorga in tempo del pericolo e lo denunci? Farebbe d’uopo immaginare che lo stato sovrano effettivamente rinunci, per convinzione unanime dei suoi cittadini, all’idea di servirsi di quell’arma; ma subito si vede trattarsi di una farneticazione irreale. Si può forse evitare che non sia universalmente riconosciuta ed affermata la necessità di proseguire e perfezionare gli studi sull’atomo a scopi scientifici ed industriali? Troppo promettenti sono le indagini e le scoperte in tal campo, perché dappertutto non si cerchi di non rimanere ultimi nella stupenda gara. Ma la gara volta a beneficio degli uomini è fatalmente congiunta con quella volta al loro sterminio. Come sarebbe possibile ai futuri ispettori dell’ONU o di altro consimile consesso di accertarsi, arrivando improvvisi sul luogo del meditato delitto, se un processo, se un impianto volto a fin di bene, non sia usato nascostamente a scopi bellici? Farebbe d’uopo che gli ispettori fossero essi stessi fabbricanti di bombe atomiche; appartenessero cioè ad organizzazioni segretamente mantenute da stati malfattori, ed intese a produrre bombe distruttive invece di energie benefiche. Soltanto coloro che fabbricano il prodotto proibito ne conoscono i segreti di fabbricazione; laddove gli ispettori internazionali conoscerebbero solo i processi leciti, quelli che conducono ad ottenere prodotti vantaggiosi all’avanzamento industriale. Vi ha qualche minima probabilità che lo stato contravventore impresti i propri tecnici, periti nelle fabbricazioni proibite, al corpo di ispettori internazionali incaricati di reprimere l’illecito?

 

 

Giuocoforza è riconoscere che, finché si rimanga nei confini del concetto degli stati sovrani, la proibizione dell’arma atomica è pura utopia. Poiché ogni stato sovrano ha il diritto, ha il dovere di vivere e di difendersi: proibizioni ed ispezioni servirebbero solo a tessere reciproci inganni, ad accelerare ricerche, a moltiplicare sperimenti, allo scopo di essere i primi a possedere le bombe sufficienti per prendere alla sprovveduta il nemico.

 

 

Il problema non si supera se non con la rinuncia alla sovranità militare da parte dei singoli stati. Vi è forse qualcuno dei venticinque cantoni e mezzi cantoni svizzeri o dei quarantotto stati nord-americani il quale abbia la menoma preoccupazione per l’uso eventuale della bomba atomica da parte di uno dei confederati? No; perché nessuno dei cantoni svizzeri o degli stati nord-americani ha una qualsiasi potestà militare, la quale spetta unicamente alla confederazione. Le armi, siano palesi o segrete, sono studiate perfezionate fabbricate conservate dall’unico governo federale; ed i cantoni e gli stati, privi di organizzazione militare propria, non hanno la possibilità di meditare ed attuare biechi disegni contro altri cantoni o stati facenti parte del medesimo corpo sovrano.

 

Su questa via sta l’unica speranza di salvezza. È una via lunga; ma occorre cominciare a percorrerla, se non si vuol perdere tempo in diatribe inutili od in camuffamenti ipocriti di propositi malevoli. Non giova delegare ad ispettori internazionali compiti assurdi; importa che gli ispettori siano anche i soli produttori. La prima esigenza è quella del trasferimento ad un corpo internazionale, ad un vero superstato, sia pure per il momento limitato nei suoi scopi del possesso di tutte le materie prime, di tutti i giacimenti di minerali atti alla produzione della bomba atomica. Nessuna fabbrica dovrebbe esistere fuor di quelle appartenenti all’ente internazionale atomico, il quale dovrebbe trarre il suo personale da tutti gli stati aderenti in condizioni di parità. Ma gli uomini appartenenti al corpo non sarebbero più funzionari americani o russi o inglesi od italiani o francesi ecc.; sarebbero funzionari dell’ente e legati da vincoli di fedeltà ad esso solo. Costoro, essendo parte di un ente produttore della bomba atomica e necessariamente periti nella conoscenza del punto nel quale la fabbricazione cessa di essere industriale e lecita e diventa bellica (sembra che un siffatto momento o punto esista e sia accertabile), non sarebbero dei meri ispettori spesso incapaci a penetrare nei segreti altrui; ma autori e partecipanti dei nuovissimi procedimenti tecnici, dei segreti più impensati e sarebbero in grado, in quanto ciò si possa sperare, di comprendere se in uno degli stati consociati si proceda oltre il punto lecito, sì da poter denunciare alla società degli stati firmatari il pericolo e dar tempo ad essa di reprimerlo. E poiché tra il momento in cui nella fabbricazione si valica il punto lecito e quello in cui la maledetta bomba atomica è perfetta pare intercorra oggi un tempo abbastanza lungo, gli stati innocenti, avvertiti della minaccia proveniente dallo stato malvagio, avrebbero il tempo di accingersi essi stessi alla produzione di bombe adatte alla controffesa.

 

 

Chi darà forza al corpo internazionale monopolista dei giacimenti di materie atte a fabbricare bombe atomiche? Monopolista della utilizzazione a scopi industriali di quella materia, od almeno controllore di quella utilizzazione? Chi vieterà ai singoli stati sovrani di impadronirsi delle fabbriche atomiche esistenti sul loro territorio e di nascondere l’esistenza di giacimenti atti a produrre le necessarie materie prime? Ardue domande; che occorre candidamente porci se vogliamo risolvere il problema della pace. Per ora ho cercato solo di dimostrare che un patto internazionale di bando della bomba atomica è proposito vano e probabilmente ipocrita; che altrettanto vano sarebbe un patto che, conservando la sovranità militare dei singoli stati, facesse ingenuo affidamento su un corpo di ispettori internazionali; e che condizione necessaria per la repressione dell’uso della bomba atomica è il trasferimento della proprietà e dell’impiego di tutto ciò che serve alla sua produzione ad un ente internazionale superiore ai singoli stati.

 

 

Ma è condizione possibile ed è essa sufficiente?

Il mito del colossale

Il mito del colossale

«Corriere della Sera», 29 febbraio 1948

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 355-359

 

 

 

 

Nessuna profezia è stata meglio contraddetta dai fatti di quella che venne di moda nelle pubblicazioni divulgative popolari del manifesto dei comunisti del febbraio 1848. La società capitalistica morirà di morte naturale, senza spargimento di sangue. Quando le medie imprese, producendo a più basso costo, avranno ingoiato le piccole; quando, per la stessa ragione, le grosse avranno distrutte le medie imprese, le grossissime le grosse e le colossali le grossissime; quando, in nome e per effetto della maggiore economicità e del più basso prezzo, alcune fra le colossali avranno conquistato l’intiero proprio mercato, basterà ai rappresentanti della grandissima maggioranza dei cittadini in ciascun paese mettere in pensione, anche con largo appannaggio, i pochi capitani e proprietari delle noverate colossali imprese superstiti, perché la società capitalistica si trasmuti in collettivistica. La sostituzione di una dozzina di imprenditori privati con altrettanti direttori generali nazionalizzati avverrà senza che quasi nessuno se ne accorga; nulla essendo sostanzialmente mutato nella struttura della società economica e nei rapporti fra le classi sociali.

 

 

Qualche attuazione della profezia si ebbe qua e là, in casi particolari, non per via del colossale, bensì di caratteristiche tecniche peculiari di talune industrie. Ad esempio, il nostro paese fu tra i primi a nazionalizzare l’istituto di emissione, estromettendo con indennizzo i vecchi azionisti ed affidando al governo la scelta dei capi della banca d’Italia; seguì la Francia, ed i due paesi latini furono recentemente imitati in Inghilterra.

 

 

Ma i casi sono rari e non probanti. Altre ragioni: la natura pubblica dell’industria, i suoi caratteri monopolistici, il tipo di prodotti fabbricati, come biglietti di banca ovvero cannoni e corazzate, spiegano siffatte nazionalizzazioni. Il “colossale” agì scarsamente ed agì a rovescio; come quando in Italia talune imprese, divenute nel tempo stesso grosse e decotte, dovettero essere accolte in un ospedale di stato, per ragioni d’ordine pubblico. Siffatta ragione, che è il contrario del basso costo, dura tuttavia e lo stato è “minacciato” ogni tanto di dovere accollarsi nuove imprese private, non perché la nazionalizzazione sia conveniente economicamente o socialmente, ma perché quelle imprese sono economicamente in stato fallimentare, e dicesi che allo stato faccia d’uopo assumerle, ben sapendo che le perdite cresceranno, allo scopo di serbare le maestranze al lavoro a spese di altri più numerosi e più miserabili lavoratori. Col quale metodo crescono povertà e disoccupazione.

 

 

Ma non v’ha segno veruno che la profezia del colossale “economico”, del colossale, schiacciante con l’arma dei bassi costi i grossissimi, i grossi, i medi ed i piccoli, stia per avverarsi. Non parliamo dell’Italia, terra classica di piccola gente, di tredici milioni di proprietari di terreni agricoli, più di uno per ogni famiglia, e di non so quanti milioni di proprietari di case, di medi e di piccoli industriali, di commercianti e bottegai, di artigiani indipendenti , sicché il numero dei cosiddetti capitalisti (parola questa spropositata e lontanissima dal raffigurare la realtà effettuale dei rapporti sociali) è superiore a quello dei cosidetti proletari (altra parola anacronistica); ma dove di palingenesi spontanea del capitalismo, destinato un secolo fa a diventare un mostro a sette teste che il nuovissimo gigante collettivo d’un colpo avrebbe tagliate, non v’ha traccia.

 

 

In tutto il mondo, dove ad ucciderla non si impieghi la forza coattiva delle forze armate dello stato, la media e la piccola gente è dura a morire; e quel che più conta, nonostante sia vessata da imposte differenziali, torturata da divieti, permessi, contingenti ed altre diavolerie inventate dagli amatori delle discipline e dei piani imposti dall’alto, resiste e prospera contro i colossi. Se talvolta i colossi trionfano, per lo più – vi sono eccezioni, ma sono numerate ciò accade non per virtù propria, ma grazie a privilegi e favori largiti dalla buona gente, la quale va farneticando intorno alla necessità di provvedere all’interesse ed al bene pubblico invece che al profitto privato e quasi sempre è vittima inconsapevole di chi architetta imbrogli a danno del prossimo.

 

 

Egli è che troppo si è dissertato nei trattati della scienza economica di quelle che sono chiamate nel linguaggio divenuto internazionale «economies of large scale’s production», economie che si possono ottenere producendo in dimensioni più vaste; e sarebbe tempo di studiare invece più attentamente le «diseconomies», gli aumenti di costo che derivano dall’aumentare, oltre ad un certo punto, le dimensioni dell’impresa. Troppo ci si è contentati di ripetere stupidi luoghi comuni sulle economie che si possono ottenere con l’aumentare le dimensioni dell’impresa e quindi col distribuire, dicesi, le spese generali e fisse su una massa maggiore di prodotti; e troppo ci si è scordati di quella faccenda del «sino ad un certo punto» che è la chiave di volta della soluzione del problema, non della più grossa dimensione, ma della “ottima” dimensione dell’impresa. Quei tali luoghi comuni sulla «large scale» che tengono così gran luogo ad un tempo in certi manuali scolastici e in opuscoli di propaganda collettivistica, dovrebbero essere soppiantati da indagini sul luogo della “ottima” impresa. Quel che si sa ci induce a concludere che quel luogo non sta esclusivamente, né nella piccola, né nella media, né nella grande o nella colossale impresa. Di volta in volta, di tempo in tempo, di luogo in luogo il punto od il momento dell’ “ottimo” si ferma su tutti i tipi di dimensioni. Non è lo stesso in pianura, in collina, o in montagna; non è lo stesso nei terreni irrigati od in quelli aridi; non è lo stesso nelle culture cerealicole o foraggere o nelle due insieme combinate, nei vigneti o negli oliveti e negli agrumeti. Non è lo stesso nell’industria di produzione ed in quella di distribuzione dell’energia elettrica; e, per questa, varia dalle agglomerazioni cittadine a quelle di campagna; e così via all’infinito.

 

 

Sovratutto non bisogna dimenticare che il maggior limite al grosso, al grossissimo ed al colossale è dato dal limitato potere del cervello e della volontà dell’uomo. Si possono ingrossare capannoni, treni di lavorazione, macchinari; ma il cervello e la volontà dell’uomo, la sua attitudine a vedere, a comprendere, ad organizzare ed a comandare sono quello che sono e non crescono nella stessa misura in cui si ingrossano gli impianti industriali. Val la pena di ascoltare quel che sino dal 1925 dichiarava ai suoi azionisti il presidente della General Motors Corporation, uno dei colossi industriali degli Stati Uniti, la quale normalmente impiega 250.000 persone: «Praticamente in tutti i nostri rami di attività noi soffriamo di quell’inerzia che è conseguenza delle nostre grandi dimensioni. È duro per noi trasformare in azione le idee che ci sembrano buone. Bisogna agire attraverso a tanta gente; e uno sforzo sovrumano (tremendous) è necessario per realizzare qualcosa di nuovo. Talvolta sono costretto a concludere che la General Motors è così vasta e la sua forza di inerzia così grande da rendere impossibile a noi di agire veramente come capi».

 

 

D’allora in poi la General Motors ha fatto sforzi notabili per controbilanciare i danni del colossale. Ha decentralizzato, ha spronato le sue trenta sezioni ad agire in modo autonomo, a farsi concorrenza l’un l’altra, a comprare ed a vendere da o ad estranei, a fare il meno possibile piani e programmi dall’alto. Qualche risultato sembra si sia ottenuto e pare anche che la società disputi passo a passo con un certo successo il terreno ai minori concorrenti. Ma il difetto dell’elefantiasi rimane. Più crescono le dimensioni dell’impresa, più il dirigente vede disperdere l’impulso del suo comando attraverso direttori, vice direttori, ispettori e sotto ispettori. Quel comando, quell’indirizzo, quel piano che nell’impresa governabile da un uomo solo non costa nulla, perché è il frutto immediato del cervello e della volontà di un uomo, diventa costoso quando deve attuarsi attraverso telefonate, lettere, ispezioni, scritturazioni contabili complicate, carte che vanno e vengono. Cresce il numero dei lavoratori non manuali, delle maniche con lustrino; e ad un certo punto – quel tale certo punto che è il dominus del problema delle dimensioni – la macchina dà rendimenti decrescenti. Ad un certo momento, scrive Dennison, non basta decentrare. Si presenta la scelta fra il “coordinare”, col rischio di restringere il margine lasciato all’iniziativa individuale, con i conseguenti pericoli di inerzia e di atrofia; ed il “decentrare” ed allora si evitano siffatti pericoli, ma nascono rischi di spreco e mala amministrazione per la mancanza di controllo da parte di coloro che soli hanno interesse a volere si facciano sul serio economie.

 

 

Coloro che chiacchierano di programmi generali, di coordinazione pianificata fra industria ed industria, fra regione e regione, fra paese e paese; che immaginano stravagantemente che le nazionalizzazioni siano una panacea per i mali sociali ed uno strumento per crescere la produzione dei beni e migliorarne la distribuzione, dovrebbero riflettere sull’insuccesso del colossale nell’economia e sui pericoli dell’inerzia dei colossi. Insuccessi e pericoli crescono a mille doppi in quel più vero colosso che è la macchina statale. Per il leviatano statale non si tratta soltanto di inerzia, la quale per fortuna, nei limiti nei quali agisce ancora l’economia di mercato, è combattuta dal fallimento del colosso e dalla vittoria dei concorrenti. Quando la macchina statale diventa colossale, non c’è solo più inerzia; nasce la ossificazione della società intera. Invece dell’inerzia limitata dal fallimento, c’è la tirannia, a cui nei tempi moderni il solo rimedio è la guerra sfortunata. Sullo sfondo delle nazionalizzazioni e dei piani si intravvede lo spettro della disfatta e della servitù.

Non cantabit

Non cantabit

«Corriere della Sera», 9 dicembre 1947

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 350-354

 

 

 

 

Cantabit vacuus coram latrone viator. Ride cantando o canta ridendo il viandante sorpreso senza un soldo sulla strada maestra dal malandrino. Quando non si ha in tasca nemmeno l’orologio, e gli abiti non val la pena di portarli via, viandante e brigante possono darsi la mano ed andar ciascuno con Dio. Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa, ad ogni stringimento di vite delle imposte mandava gli informatori per i crocicchi e per le piazze e finché le spie gli riferirono che i siracusani camminavano mesti ed irosi gli uni contro gli altri, seguitò a crescere i giri della vite. Solo quando, dopo il bando di nuovo feroce balzello, gli informatori gli raccontarono, stupefatti, di aver visto i cittadini incontrarsi ed abbracciarsi con ilare viso, pronunciò: «Ora basta! È chiaro che oramai nulla resta, per i miei esattori, da portar via ai cittadini».

 

 

Si può, oggi, prestare fede alla sapienza dei broccardi venerandi ed a quella dei racconti di Plutarco? Ahimè no, od almeno non gli può prestar fede il personaggio più nudo fra quanti viandanti errano, coperti di pochi drappi, per le vie della terra. Quel personaggio, si chiami, a seconda dei paesi e dei tempi, ministro delle finanze o del tesoro o del bilancio, se ne va oggi, un po’ dappertutto, povero e nudo e dovrebbe reputare di essere al sicuro dalle domande timide o minacciose dei suoi simili; chi nulla ha, che cosa può dare? A chi può unicamente rammostrare i 300 miliardi di disavanzo del bilancio pubblico che cosa si può chiedere? A chi possiede soltanto ricchezze o quantità che in aritmetica si dicono negative, od allinea costantemente da qualche mese nei saldi della sua contabilità cifre rosse; a chi sta cioè sotto zero, c’è qualcuno il quale osi chiedere, nonché miliardi, centinaia o migliaia di lire?

 

 

Eppure no. Quel che al misero uomo privato nessuno chiede, tutti chiedono al misero uomo pubblico. Accade per i denari quel che per i posti. Invano ti sforzi a spiegare al postulante che quell’istituto, che quella banca, che quell’ufficio non ha posti vacanti, che anzi vi sono più impiegati di quel che vi siano sedie disponibili, che v’è ingombro e sarebbe necessario licenziare gente per non perdere o per non fare acrobazie allo scopo di dimostrare di non perdere; che, a continuar su questa china, ben presto non si potranno più pagare stipendi e salari perché in cassa non ci sarà più un soldo, né si potrà più accattare una lira a prestito; tempo perso. Il postulante strizza l’occhio e replica: se lei vuole, può; a me basta un posto solo, un piccolo impiego, che basti a campare; siamo in tanti in casa ed il guadagno del padre non basta a sfamar tutti; un impiego di più non manda in rovina una casa così grossa, su cui vivono tante migliaia di impiegati. Viene in mente la favola dell’asino di cui la soma è caricata di un granello solo per volta. E così piccola cosa un chicco di grano! Eppure alla fine l’asino paziente stramazza a terra, per non alzarsi più.

 

 

Così è del bilancio dello stato. Non giova rammostrare i 300 miliardi di disavanzo, ricordare quel che dovrebbe essere evidente per tutti, non essere cioè un buco, un vuoto, una quantità negativa, un meno che zero materia interessante per nessuno. Acqua fresca che passa e non lascia traccia. I più benevoli strizzano l’occhio e: milione più milione meno, scusate l’errore: miliardo più miliardo meno non conta; potete aggiungere senza timore una unità al buco dei 300. I più impazienti inviano telegrammi furibondi, minacciosi di rappresaglie immediate se subito non si ubbidisce al comando di allargare il buco.

 

 

Se Tizio viene richiesto dall’amico di trarre a favor suo un assegno sul proprio conto corrente che ha già il saldo scritto in rosso, Tizio agevolmente si difende osservando di non volere, traendo un assegno a vuoto, andare in galera al solo scopo di usare compiacenza. Ma tuttodì siffatte richieste di trarre assegni a vuoto sono fatte ai tesorieri dello stato. Capitò in un solo giorno ad uno di costoro di vedersi presentare domanda di assegni a vuoto per 52 miliardi. Pochi, gli osservò un collega. Se si addizionano le cifre di parecchi giorni, si arrivi a montanti ben più grossi.

 

 

Come accade che gente per bene, la quale guarderebbe con orrore alla mera supposizione di potere per errore mettere la firma sotto un assegno tirato sopra una banca, senza essere sicuri di possedere i fondi necessari ad onorare l’assegno, come accade che questi dabbenuomini non si facciano alcuno scrupolo di richiedere e poi insistere nel richiedere e quindi gridare e minacciare se il tesoriere dello stato non si arrende subito, con entusiasmo, all’invito di commettere quel che per l’individuo sarebbe sicuramente un reato? Come accade che tutti strizzino l’occhio, guardino senza commuoversi la filza dei saldi scritti in rosso e concludano unanimi: poiché si fece trenta, si faccia trentuno. Un piccolo miliardetto, una piccola decina di miliardi in più non fa né ficca. Dopo il trenta viene il trentuno; se si sono dati miliardi per il nord, se ne devono dare per il sud; se si sono dati per le meccaniche, bisogna darli per l’olio che non si vende neppure ai prezzi d’ammasso; per la seta che non si vende affatto e su cui i setaioli perdono 3000 lire al chilogrammo; per le piccole e medie aziende, le quali non sono pagate dalle grosse; per gli artigiani i quali veggono i clienti disertare i loro laboratori; per gli agricoltori posti di fronte al rovinio dei prezzi del bestiame che debbono mandare al macello, perché i fienili sono paurosamente scarsi di fieno e così via dicendo.

 

 

Come accada che nessuno abbia la minima esitazione nel chiedere ai tesorieri dello stato di trarre assegni a vuoto su un conto corrente con saldo in rosso, ossia negativo, è notissimo. Esiste invero una differenza fondamentale fra il privato e lo stato. Il privato non può obbligare nessuno a pigliar sul serio i suoi assegni a vuoto; anzi se tenta il colpo corre il rischio di essere acciuffato e condotto a guardare il sole a scacchi. Ma gli assegni sul disavanzo, emessi dal tesoriere dello stato, si chiamano biglietti della Banca d’Italia ed hanno il privilegio del corso forzoso. I cittadini, il signor pubblico, il signor tutto il mondo, sono obbligati ad accettare in pagamento dei loro crediti gli assegni tirati dallo stato sui torchi della Banca d’Italia. Eccetto brevi intervalli, noi viviamo in regime di corso forzoso dei biglietti di banca sino dal 1866; e si può riconoscere l’impossibilità di presto uscirne; anzi si può riconoscere che il regime possa funzionare abbastanza bene, risparmiando al paese la fatica occorrente per cambiar metodo e ritornare al regime aureo, ed ancora si può ammettere che entro limiti prudenziali, si possa e talvolta si debba nell’interesse pubblico procedere, con i biglietti, a salvataggi di questa o quella impresa industriale od agricola o bancaria. Tanti anni fa, Maffeo Pantaleoni, acutissimo analizzatore dei disastri economici, in uno stupendo saggio su La caduta del credito mobiliare scrisse la teoria dei salvataggi; ed a quel che egli disse nulla vi è da aggiungere. Salvataggi se ne possono e se ne debbono fare in ogni momento storico, quando sia in gioco l’interesse pubblico.

 

 

Ad una condizione: che coloro i quali chiedono e coloro i quali autorizzano i salvataggi sappiano di commettere un atto moralmente condannabile, socialmente iniquo ed economicamente pericoloso. Posti dinnanzi alla scelta fra il pericolo immediato per l’ordine pubblico ed il male, ci si può decidere per il male; purché chi chiede e chi concede sappiano di chiedere e concedere il male.

 

 

Aumentare consapevolmente e volutamente la circolazione dei biglietti allo scopo di correre al salvataggio di questa o quella impresa pericolante, la quale non può pagare l’indomani i salari e non li può pagare, – in parte quale parte? – a causa di quel divieto dei licenziamenti, che è oggi il massimo produttore in Italia di disoccupazione operaia, ed in parte a causa di errori commessi in passato dai dirigenti, può essere e, in determinati casi, è una necessità politica; ma coloro i quali si sottomettono alla necessità debbono aver ben chiaro in mente che essi commettono un atto:

 

 

  • moralmente condannabile, perché è male trarre assegni a vuoto ed il male morale non cessa di essere tale solo perché compiuto dall’uomo pubblico invece che dal privato;

 

  • socialmente iniquo, perché la svalutazione della moneta, conseguente all’aumento della circolazione a scopo di salvataggio, va massimamente a danno delle classi non organizzate, dei ceti medi dei risparmiatori e dei lavoratori indifesi e, tra i lavoratori, di quelli peggio pagati;

 

  • economicamente pericoloso, perché con le emissioni a vuoto di pezzi di carta si tamponano per il momento le falle più pericolose negli argini del fiume in piena; ma il livello della piena continua perciò a crescere ed il tamponamento degli argini diventa di giorno in giorno più difficile.

 

 

Giova compiere un atto, sapendo che esso è moralmente condannabile, socialmente iniquo, ed economicamente pericoloso? Non so se il quesito sia ben posto di fronte ad un atto, il quale politicamente sia ritenuto necessario per la salvaguardia dell’ordine pubblico, supremo compito dello stato, di qualunque stato. Mi pare certissimo però che giovi sapere, nel momento dell’inchinarsi alla necessità, di compiere un atto il quale ha i connotati morali, sociali ed economici sopra elencati. Giova in quel momento non illudersi sulla natura di ciò che si fa, non immaginare di fare invece cosa buona, socialmente giusta ed economicamente vantaggiosa. Chi chiede salvataggi, li presenta sempre con l’orpello di false virtù e trova sempre patroni disposti ad avallare con sofismi inverecondi la tesi contraria alla morale ed alla economia. La consapevolezza del male compiuto può dunque porre freni al male medesimo, conseguendo così quel migliore risultato a cui, nell’ordine delle cose possibili, è consentito ai miseri mortali di aspirare.

Assemblea plenaria dei Comitati nazionali del Consiglio nazionale delle ricerche (15 dicembre 1947). Discorso dell’on. prof. Luigi Einaudi

Assemblea plenaria dei Comitati nazionali del Consiglio nazionale delle ricerche (15 dicembre 1947). Discorso dell’on. prof. Luigi Einaudi

«Ricerca scientifica e ricostruzione», dicembre 1947, pp. 1932-1933

In estratto: Spoleto, S. a. Arti grafiche Panetto & Petrelli, 1947, pp. 19-20

 

Chi vuole la disoccupazione?

Chi vuole la disoccupazione?

«Corriere della Sera», 12 novembre 1947

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 345-350

 

 

 

 

Evidentemente, nessuno. Ma nel combatterla, si è tratti a percorrere la via più facile, quella che si vede subito, che appare la più plausibile, ad effetto immediato e certo. L’industriale licenzia operai? Obblighiamolo per legge ad astenersene, ed ecco creato il blocco dei licenziamenti. L’agricoltore non impiega i braccianti senza lavoro in lavori di miglioria o di bonifica? Obblighiamolo ad assumere, a seconda delle culture, un dato numero di braccianti per ettaro. Ecco l’imponibile della mano d’opera. Gli uomini stanno a casa, mentre le donne, pagate a salario più basso, sono occupate? Limitiamo la proporzione delle donne agli uomini negli impieghi. Reduci, mutilati, invalidi sono senza lavoro? Stabiliamo una percentuale obbligatoria di impiego a loro favore nelle imprese aventi più di 10 ovvero 20 o 50 dipendenti. C’è chi lavora 48 ore e fa, in aggiunta, ore straordinarie, e chi non lavora affatto? Fissiamo un massimo di 40 ore di lavoro per tutti; cosicché i disoccupati possano essere assorbiti dalle ore rimaste libere.

 

 

Sono, queste, norme umanitarie, che si raccomandano per la immediatezza dei loro effetti, ed innanzi alle quali si fa brutta figura a rimanere scettici. Purtroppo, però, è noto da gran tempo, almeno da quando, or è un secolo, Federico Bastiat scrisse con quel titolo un opuscolo famoso, è noto essere, nelle cose economiche, molto più importante quel che non si vede di quel che si vede. Di solito subito si vede il lato buono, umano delle cose e ci si dimentica del brutto e del dannoso che c’è sotto; ma, trascorso poco tempo, quel che c’è di malefico vien fuori ed allora coloro stessi i quali avevano voluto la causa del male gridano… contro chi? Non, come dovrebbero, contro se stessi; sibbene contro le solite teste di turco dette reazionari, capitalisti, speculatori, sfruttatori, economisti dottrinari sicofanti della borghesia.

 

 

Ove si voglia ragionare, fa d’uopo affermare che blocco dei licenziamenti, imponibile di mano d’opera, obblighi di assunzione di una determinata categoria o quantità di uomini o donne sono varietà particolari di una specie più ampia: ossia delle “imposte” il cui provento sia destinato a sovvenire i disoccupati. Invece di istituire un’imposta di ammontare sufficiente a mantenere, ad esempio, un milione di disoccupati che le imprese industriali o agricole non hanno convenienza ad impiegare e di usare provento dell’imposta per dare sussidi ai disoccupati ovvero per fare da essi eseguire lavori pubblici o di bonifica, si dice ai singoli imprenditori industriali ed agricoli: tu paga il salario a 100, tu a 1000 e tu a 5000 operai in più di quelli che ti occorrono, cosicché, tra tutti insieme, il milione di lavoratori non sia buttato sul lastrico.

 

 

Quale dei due metodi è relativamente migliore? Non dico assolutamente ottimo, perché l’ottimo si ha quando, senza imposte di sorta veruna, non ci sono disoccupati. Ma se per disgrazia i disoccupati esistono, quale dei due metodi si deve preferire, pur sapendo che amendue soffrono di inconvenienti ed incontrano ostacoli? Col sistema dell’imposta propriamente detta, il legislatore sceglierà quella che appaia meglio distribuita sui contribuenti in grado di pagarla e, trattandosi di un fine – lotta contro la disoccupazione – interessante tutta la collettività, l’imposta sarà fatta cadere non soltanto sugli imprenditori industriali ed agricoli i quali capitano a lavorare nei luoghi dove vivono i disoccupati, ma su tutti i datori di lavoro i quali abbiano redditi passibili di imposta. Dal punto di vista della equa, della giusta distribuzione delle imposte, non si vede la ragione per la quale quel particolare ammontare di imposta, il quale serve a conseguire il fine pubblico della lotta contro la disoccupazione, debba essere fatto gravare esclusivamente su quelle imprese nel cui seno e nata la disoccupazione, e non su tutti i membri della collettività nazionale giudicati atti a pagare imposte. Per opinare diversamente, sarebbe necessario dimostrare che gli imprenditori singoli sono responsabili, essi e non altri, del fatto che i loro operai sono rimasti senza lavoro. Naturalmente qui non si parla di responsabilità derivanti da altre cause diverse dal blocco dei licenziamenti e simili provvidenze legislative. Se un’impresa va male per incapacità dei dirigenti, per irrazionale programma di lavoro, per eccesso di immobilizzazioni e simili, le sanzioni sono in Russia l’invio in Siberia, e nei paesi occidentali la dichiarazione di fallimento o, nei casi dolosi, di bancarotta fraudolenta, con relative sanzioni penali. Non di questi casi si discorre qui; ma di quelli nei quali la disoccupazione sia connessa a fatti generali economici, quali sono costi alti, difficoltà di vendere, chiusure di mercati e simili. Non è escluso che talvolta possa dimostrarsi che la colpa della mancanza di lavoro è dovuta, anche in questi casi, esclusivamente agli imprenditori; ma sembra difficilissimo fornire in molti casi la necessaria prova, essendo contrario al buon senso che un imprenditore licenzi l’operaio se e finché il prodotto netto del lavoro dell’operaio medesimo sia uguale al salario pagato. Logicamente, l’imprenditore si decide a licenziare l’operaio solo quando il prodotto netto di questo vale solo 8 o 9 contro un costo di salario 10, e quando dopo lungo attendere non spera più che le cose si possano in qualche modo o tempo aggiustare ed i ricavi coprano di nuovo le spese. Finché si guadagna qualcosa, anche poco, od almeno non si perde, è assurdo che le imprese licenzino chi collabora con esse nel guadagnare od alla peggio, in attesa di tempi migliori, nel sopravvivere.

 

 

La ripartizione dell’imposta per la lotta contro la disoccupazione sui singoli imprenditori collegati con il fatto lamentato è dunque contraria alle regole fondamentali della perequazione tributaria; e, come tutte le violazioni di quelle regole, partorisce mali effetti. L’esistenza della sperequazione è anzi per lo più messa in luce dai suoi effetti malvagi. Non sono poche invero le imposte che il legislatore ha proclamato sagge ed eque e che l’esperienza dei cattivi risultati dimostra essere invece scempie ed inique.

 

 

Quali sono i mali effetti dei tipi di imposte in natura dianzi noverati aventi lo scopo di promuovere occupazione?

 

 

In primo luogo l’aumento del costo di produzione delle merci e derrate prodotte negli opifici dove il blocco dei licenziamenti costringe ad impiegare un numero notabile di operai in soprannumero. Sembra vero che in qualche paese del mondo, per ogni commessa di costruzioni di nuove navi a gran fatica strappata all’estero, si perdano fior di miliardi perché su quella nave gravano i costi dei lavoratori necessari e di quelli inutili; e poiché i clienti esteri pagano per la nave i prezzi di concorrenza sul mercato mondiale e non sono affatto disposti a pagarla il doppio del prezzo corrente solo per consentire a un certo numero di operai e di impiegati e di dirigenti di tirar la paga senza contribuire alla produzione, così accade che la farsa non può continuare a lungo. Finché si trova il merlo – chiamato in linguaggio nobile “stato” ed in linguaggio volgare pantalon dei bisognosi disposto a regalare i miliardi per tappare i buchi, si tira innanzi. Ma i nodi debbono pure un bel giorno venire al pettine; ossia si deve alla perfino riconoscere che il sistema dei costi artificialmente alti non può durare. Quando il merlo contribuente si rifiuta a pagare, la baracca si sfascia; l’impresa è decotta ed invece di 10 mila i disoccupati diventano 20 o 25 mila.

 

 

Se in una accademia o in una università c’è un accademico o un professore in soprannumero, il male finisce lì. Gli accademici, i quali in mancanza di assegno si contentano dappertutto di far parte di un corpo rigorosamente numerato, avranno il danno che l’onere, invece di ripartirsi su soli 40, si ripartirà su 41. Il professore in soprannumero dovrà cercarsi faticosamente gli studenti che lo stiano ad ascoltare, e potrà anche darsi che lo sforzo sia fecondo di bene. La macchina accademica od universitaria, se i soprannumero sono pochi, non è tuttavia guasta. Seguita a lavorare. I guai cominciano quando i soprannumero crescono a 10 od a 20. Costoro guatano in cagnesco gli anziani, nel subconscio ne augurano la dipartita anzi tempo od almeno la messa a riposo. Nascono e crescono i pettegolezzi e le discordie; e, se gli studenti se ne accorgono, la scuola va in rovina per indisciplina e rilassatezza.

 

 

Cosi è negli opifici. I lavoratori in soprannumero crescono i costi per un doppio verso: per il costo dei salari ad essi pagati a vuoto e per il disordine che essi creano nell’intero meccanismo. Se in un reparto bastano 100 fra dirigenti sovrastanti e lavoratori ed il loro prodotto netto, tolte le materie prime e gli altri coefficienti di costo, è 100.000; ove il numero cresca a 150, il prodotto non cresce né a 120.000 né a 150 mila, anzi probabilmente scema ad 80.000. L’inutile affollamento partorisce mala distribuzione del lavoro, ingombro, disordine, istintiva riduzione della assiduità e rendimento del lavoro; ognuno temendo, se lavora bene, di far palese l’inutilità dei soprannumero e forse di se stesso. Impossibile mantenere la disciplina. I capi, costretti a cercar lavoro purchessia, anche a perdita, per tenere occupata tanta gente, si avviliscono; ed i migliori se ne vanno, lasciando sul posto gli scoraggiati e gli ambiziosi carrieristi, proni ai voleri dei dipendenti più rumorosi, i quali temono di essere eliminati in caso di riordinamento. Ad un certo punto, hanno ragione gli operai, i quali affermano che l’impresa potrebbe rifiorire se fosse meglio organizzata: ma trattasi di un circolo vizioso, dal quale non si esce se non eliminando dirigenti deboli e lavoratori in soprannumero.

 

 

Se questi sono i tristi effetti delle imposte speciali, che si potrebbero dire in natura, fatte pagare ai singoli imprenditori, invece che alla collettività, la conclusione è chiara: i tipi di imposte detti blocco dei licenziamenti, imponibili di mano d’opera, ecc. ecc., sono cagione di alti costi. E poiché “alti costi” sono “sinonimi”, sono un’altra parola per indicare il fatto di produzione scarsa a parità di sforzi umani; e poiché “produzione scarsa a parità di sforzo” è a sua volta “sinonimo” di “scarso reddito nazionale totale” noi siamo autorizzati ad affermare che quei tipi di imposta cagionano, producono, partoriscono miseria, salari bassi, disoccupazione diffusa.

 

 

C’è invero una disoccupazione palliata nera miserabile la quale è peggiore della disoccupazione palese. Questa è visibile a tutti ed impone il soccorso, esige le provvidenze di sussidi legali o di lavori pubblici, compiuti altresì, secondo taluno oggi vuole, a mezzo di squadre di lavoro. Accanto ad essa c’è la disoccupazione di chi lavora a bassi salari e di chi lavora solo un giorno o due. In qualche paese del mondo, dove si afferma non esistere disoccupazione, siamo sicuri che a causa della bassa produzione media non imperversi la disoccupazione palliata? La scarsa occupazione di taluni contadini meridionali non è davvero per nulla collegata con le imposte del tipo particolare di cui si discorse sopra?

L’altro sofisma

L’altro sofisma

«Corriere della Sera», 26 ottobre 1947

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 340-345

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires, 1965, pp. 91-97[1]

 

 

 

 

I sofismi in materia di moneta sono come le ciliege, che una tira l’altra ed il gusto di mangiarne cresce più se ne mangia. L’altro giorno discorsi del sofisma della “produzione”, il quale, mutando i termini del problema: chi reca al mercato merci, attira a se stesso altre merci, fra le quali, se a lui conviene, anche la merce oro, dice: chi reca al mercato pezzetti di carta, chiamati biglietti o moneta bancaria, incoraggia o provoca la produzione di merci, laddove si sarebbe dovuto dire: attira a se stesso la merce che sarebbe spettata ad altri, senza aumentare di un etto il prodotto sociale totale. Stavolta si discorre di un altro sofisma, che si potrebbe chiamare della “proporzionalità susseguente”. I pseudo ragionatori dicono: «La quantità di moneta circolante è aumentata, a un dipresso, trenta volte, ma i prezzi delle cose e dei servigi sono aumentati, pure a un grande incirca, di cinquanta volte. È evidente lo squilibrio e sono evidentissimi i suoi danni. Industriali, agricoltori e commercianti devono spendere in media cinquanta volte più di prima per gli impianti, i macchinari, le materie prime, i combustibili, i salari, ecc. ecc., e dispongono solo di trenta volte più in circolante monetario. Mancano i biglietti per far girare la macchina produttiva. Aumentate anche la circolazione da 30 a 50 volte; non abbiate paura di crescerla da 640 a l000 miliardi di lire. Voi non avrete in questa maniera fatto dell’inflazione; avrete semplicemente ristabilito l’equilibrio di prima. Gli industriali ricevendo a titolo di sconti e di sovvenzioni 50 volte la moneta che ricevevano prima, saranno in grado di far fronte a 50 volte la spesa di materie prime, combustibili, rinnovamento macchinari, interessi, salari, ecc. ecc. Ristabilita così la loro tranquillità d’animo, non più assillati dalla necessità di procacciarsi affannosamente il denaro per far fronte alle esigenze quotidiane dell’azienda, le ruote della produzione ricominceranno a girare; gli operai lavoreranno, i prodotti saranno esportati, si otterrà valuta per acquistare grano, carbone, olii minerali, cotone, ecc.».

 

 

Il quadro è bellissimo; e sarebbe davvero un imperdonabile delitto rifiutare l’avvento del migliore dei mondi se a ciò bastasse una iniezione di carta moneta. Purtroppo, la esperienza di ogni giorno ci dimostra cosa accade ad occasione delle iniezioni di carta moneta sul mercato. Quel che taluno propone accade già e la sola differenza fra le proposte ed i fatti quotidiani è la seguente: che oggi la quantità della carta moneta cresce in conseguenza e dopo l’aumento dei prezzi, senza che ciò si faccia a bell’apposta; laddove i medici monetaristi vorrebbero che si anticipasse volontariamente, consapevolmente una fase di un processo a catena, nel quale non si sa bene che cosa sia il prima e che cosa sia il dopo. Non indaghiamo storicamente che cosa sia accaduto nel 1944, nel 1945 e nel 1946. La faccenda ha avuto aspetti diversi e talvolta prima venne la moneta e poi seguirono i prezzi; talaltra viceversa. Quando gli alleati scesero in Sicilia e poi avanzarono in Italia, sembra esatto dire che prima venne la cateratta delle am-lire e poi venne l’aumento dei prezzi; e pare altresì esatto dire che prima vennero gli 8 ed i 10 ed i 12 miliardi di lire di biglietti nuovi consegnati, ogni mese, per comando di Mussolini, dalle officine al nord della Banca d’Italia ai tedeschi, poi venne la splendida da parte di costoro e di qui seguì l’aumento dei prezzi.

 

 

Oggi, la successione cronologica e logica dei fatti è diversa. Non c’è nessuna Banca d’Italia la quale, piazzatasi sul mercato, inviti il colto pubblico e l’inclita guarnigione a venire alla raccolta dei biglietti. Oggi nessuno offre inizialmente biglietti nuovi a chi ne abbia bisogno ed offra garanzie sufficienti di rimborso. Il processo è inverso ed è di nuovo quello che un quarto di secolo fa, dopo l’altra guerra, mi descriveva Bonaldo Stringher, primo ad avere il titolo di governatore della Banca d’Italia: «Io non do via biglietti per il gusto di darli via. Aspetto di darli a chi ha il diritto di chiederli; e se i diritti si riferiscono a cifre più grosse di prima, purtroppo a me tocca di stampare e di dar via quantità maggiori di biglietti». Se, ad esempio, ogni mese lo stato usa pagare ai suoi impiegati, operai, pensionati civili, militari e di guerra, assistiti, ecc. ecc. 20 miliardi di lire ed a ciò bastano, per ipotesi benedetta, le sue entrate; ma ad un certo momento accade di dover pagare una tredicesima mensilità o di dover crescere stipendi, salari e pensioni di un decimo, i pagamenti si devono ugualmente e puntualmente fare, nonostante che dall’altra parte del conto tenuto dalla tesoreria Banca d’Italia le imposte o i buoni del tesoro non gittino abbastanza. La Banca d’Italia paga i 20 miliardi della tredicesima mensilità con biglietti nuovi ed addebita il tesoro di altrettanto.

 

 

Ecco una causa o se non una causa un fatto primo da cui deriva l’aumento della circolazione. Nel campo privato, il giro è un po’ più lungo, ma non perciò meno efficace. L’industriale ha bisogno di più biglietti per fare le paghe, per comprare il carbone od il cotone od il ferro, o le macchine ordinate un anno fa? Prima dà fondo al suo conto attivo in banca; poi chiede alla sua banca di sovvenirlo, con sconto di cambiali od affidamenti in conto corrente. A sua volta la banca provvede a fornire denaro ai clienti, ricorrendo prima ai denari che i suoi affezionati depositanti le hanno affidato; e poi, se questi non bastano, ritirando parte dei depositi che essa aveva presso il tesoro e l’istituto di emissione. Durante la guerra e nei primi tempi susseguenti, 1945 e parte del 1946, tutte le banche, non sapendo o non volendo impiegarli direttamente, usarono riversare parte dei depositi nelle casse del tesoro – sovratutto attraverso l’intermediario della Banca d’Italia -; e ciò fu cosa da esse desideratissima perché, in tempi di assenza di impieghi remunerativi, ne ricevevano un frutto dal 3 al 4,50 per cento. Ma nella seconda metà del 1946 e nel 1947, offrendosi sempre più facili occasioni di impiego nelle industrie, le banche ritirarono parte dei depositi fatti presso l’istituto di emissione; e, non bastando i ritiri, portarono, cosa mai più vista da anni, salvo che per i risconti degli ammassi grano, carta al risconto della Banca d’Italia. Per una via e per l’altra, le banche chiesero biglietti alla Banca d’Italia e costrinsero questa ad aumentare la circolazione. Se i biglietti aumentarono dal febbraio al maggio (ambi inclusi) di circa 61 miliardi e dal giugno al settembre di circa 111 miliardi, ciò non accadde per il gusto di stampare e cacciar fuori biglietti; ma perché taluni, stato o industriali premuti dalla necessità di spendere di più per l’aumento dei salari e dei prezzi, ritirarono denari propri o si procacciarono, con sovvenzioni, diritti a ritirare denari altrui; e queste domande finirono per gravare sull’istituto di emissione.

 

 

Sembra dunque abbastanza certo che oggi il prius non siano i biglietti, ma i salari ed i prezzi. Crescono salari e prezzi e quindi o, se non si vuole usare il quindi, dopo cresce la circolazione. La cosidetta restrizione del credito non è altro se non un tentativo di frenare la velocità del giro della spirale che dall’uno all’altro fatto, dal fatto aumento dei prezzi e dei salari al fatto aumento della circolazione, porta all’annientamento del valore della lira. La cosidetta restrizione dice una cosa modestissima: «Voialtre banche ponete un limite ai ritiri di fondi dal tesoro e dall’istituto di emissione, e scegliete oculatamente la carta da portare al risconto; eliminate, sfrondate il superfluo, così da ridurre la velocità del movimento che, se fosse lasciato libero, ci spingerebbe verso l’abisso».

 

 

Che cosa vogliono i sofisti della “proporzionalità susseguente”? Poiché oggi i prezzi ed i salari crescenti o cresciuti spingono all’aumento della circolazione ed alla loro volta i biglietti cresciuti consolidano ed inaspriscono gli aumenti avvenuti nei prezzi e nei salari, rovesciamo l’ordine attuale degli accadimenti e ritorniamo all’epoca delle am-lire e dei tedeschi nell’alta Italia. Invece di contemplare una Banca d’Italia che, riluttante, deve consegnare lire a chi ha acquistato il diritto di chiederle, invitiamo la Banca d’Italia a portarsi in piazza ed a suon di tamburo invitare il colto e l’inclita, ossia gli industriali a venire alla cerca di biglietti nuovi. Se questa non è roba da matti, io non so davvero dove stia di casa il manicomio. In un momento nel quale il processo inflazionistico opera da sé, e fa d’uopo mettere in opera tutti i freni – e quelli sin qui usati sono morbidissimi ed è sperabile possono rimanere tali, per la relativa tempestività dell’azione – per rallentarlo ed arrestarlo, si viene invece freschi freschi a dire: «Invece di freni, adoperate l’acceleratore; invece di limitare la domanda altrui di biglietti nuovi, offritene voi per correre dietro all’aumento dei prezzi».

 

 

Vanissima illusione questa di aumentare i biglietti, ossia in genere i mezzi di pagamento, nella speranza di raggiungere prezzi. Se, mentre la circolazione aumentava da 1 a 30, i prezzi aumentavano da 1 a 50 ciò non accadde senza qualche buona ragione. Sovratutto, la roba da far circolare, le merci e le derrate le quali sono le cose raffigurate nei prezzi, scemarono in quantità. Se 300 lire di biglietti si applicano a 6 unità di merci invece che 10 lire a 10 unità, è facile il calcolo. Prima c’erano 10 lire contro 10 unità di merce; e quindi ogni unità di merce valeva 1 lira; dopo ci sono 300 lire (30 volte 10) contro 6 unità di merce, quindi ogni unità di merce vale 50 lire (50 volte 1). Se ora le lire, per iniezione voluta di biglietti, aumentassero ulteriormente da 300 a 500 e le merci e derrate restassero 6 – ed ho cercato di far vedere nell’articolo precedente che solo per miracolo miracoloso l’incremento dei biglietti riesce ad aumentare la produzione è evidente che i prezzi aumenterebbero nel rapporto di 500 a 6, ossia a circa 80. Questo processo si è verificato in Germania ed in Austria e si chiama inflazione galoppante. Vogliamo noi che il processo si ripeta in Italia? A parole, tutti rispondiamo di no. Non pochi dicono di no ad alta voce, ma con ugual vigoria di parole, applicate ai disgraziati operai disoccupati e fabbriche chiuse, vogliono il si. È necessario perciò che siano smascherati i sofismi, con i quali coloro i quali vogliono il si e cioè vogliono la dissoluzione del paese, fingono di far coro con la brava gente che ha orrore dell’inflazione galoppante.



[1] Tradotto in spagnolo con il titolo El otro sofisma [ndr].

Il sofisma

Il sofisma

«Corriere della Sera», 19 ottobre 1947

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 335-340

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires,1965, pp. 85-90[1]

 

 

 

 

Il baccano sorto attorno alla cosidetta restrizione del credito ha dato luogo ad una fioritura di sofismi. Fioritura naturale, perché i ragionamenti nascono solo attorno ai fatti accaduti o probabili, laddove le immaginazioni spontanee od artefatte non possono non partorire sofismi. Che la restrizione sia un fatto non vero è oramai manifesto; ché: 1) nessun ordine o consiglio o sollecitazione di restringere il credito ad alcuno venne mai né dal tesoro né dall’istituto di emissione; 2) le banche impiegarono a favore dell’industria e del commercio tutto ciò che ricevettero dai risparmiatori: 252,5 miliardi impiegati contro 272,6 ricevuti nel 1946; 219,4 miliardi impiegati contro 188,1 ricevuti nei primi sette mesi del 1947; e per dare negli ultimi mesi più di quel che di giorno in giorno ricevevano dovettero ritirare e non dare fondi al tesoro ed alla Banca d’Italia; 3) le norme impartite dal comitato interministeriale per il credito ed il risparmio attenuarono e non inasprirono le norme precedenti e sono assai miti di quelle vigenti nella più parte dei paesi dove si ha cura di mantenere intatto il credito pubblico; 4) le norme stesse non vennero improvvise, ma furono preannunciate sin dal gennaio, dichiarate esplicitamente nel marzo ed a lungo discusse in adunanze di interessati e nella stampa tecnica dal febbraio all’agosto; 5) sicché le banche poterono il 30 settembre scorso trovarsi in generale in regola con le prescrizioni nuove senza aver versato, anzi dopo aver ritirato lungo l’anno decine di miliardi, col solo mantenere in essere i depositi ancora rimasti presso il tesoro e l’istituto di emissione.

 

 

Se dunque gli organi di tutela del credito e del risparmio nulla avessero detto o fatto, la restrizione del credito avrebbe ugualmente avuto luogo, con alcune varianti; di cui la principale sarebbe stata quella che le banche non avrebbero potuto darne la colpa ad inesistenti ordini, ma avrebbero dovuto dire il fatto nudo e crudo: che non potevano in avvenire essere consentite nuove aperture di credito se non nella misura in che nuovi depositi venissero dai risparmiatori. La banca essendo un mero intermediario, essa non può dare all’industria se non ciò che riceve dai depositanti.

 

 

No, si replica dai sofisti. Il dovere del sistema bancario, incluso l’istituto di emissione, ad un certo momento è di dare più di quel che esso riceve dal pubblico. Se, ad esempio, il totale dei depositi esistenti in Italia è di 1000 miliardi e se la prudenza consiglia di tenere investiti 150 miliardi (il famigerato 15 per cento) presso il tesoro e la Banca d’Italia, in conto corrente o in titoli ed altri 150 miliardi in contanti ed in titoli liquidi presso di sé ossia in totale quel 30 per cento che la esperienza indica come il minimo necessario per essere in grado di far fronte alle domande di rimborso; se quindi le banche possono dare e danno all’industria tutti i 700 miliardi disponibili, può darsi pure che i 700 miliardi non bastino. L’industria, piccola media e grande, ha d’uopo di credito più ampio. Essa può lavorare più intensamente di quel che far non si possa con un credito aperto dalle banche di 700 miliardi. La somma è per fermo egregia ed è tutto ciò che i risparmiatori hanno prodotto ed offrono, fatta deduzione dei 300 miliardi che le banche debbono investire in depositi e titoli liquidi, per essere pronte ad adempire il loro primo e sommo ed unico dovere, che è di rimborsare i depositanti. Unico dovere, dico, perché le banche sono le fiduciarie di coloro che ad esse hanno affidato i loro denari; ed esse possono servire l’industria nei limiti nei quali ciò è consentito dal dovere loro primo verso coloro che in esse hanno fiducia. Se si pensa che altrove, in Inghilterra e negli Stati Uniti, contrade pur non ultime nel progresso economico, le banche danno non più del 20 o 30 per cento dei depositi e conti correnti, si può facilmente osservare che dando il 70 per cento, le banche italiane offrono all’industria tutto e forse al di là di ciò che è possibile dare. Né il 30 per cento residuo resta ozioso, ché esso, attraverso il tesoro, sovviene alle esigenze delle imprese economiche statali.

 

 

Ma no, si afferma. L’industria non può contentarsi dei 700 miliardi. Essa ne può utilizzare ben di più: 800, 900 o 1000 miliardi. Qualcuno deve dare il di più. Se i depositi volontari del pubblico presso le banche non bastano, intervenga lo stato e provveda a fornire i 300 miliardi necessari in più di quelli offerti dal pubblico. Avremo un aumento della circolazione; i biglietti della Banca d’Italia cresceranno da 640 a 900 od a 1000 miliardi. Ma non saranno biglietti fabbricati a vuoto, e non faranno aumentare i prezzi; ché ai 300 miliardi di lire di biglietti in più corrisponderà un uguale o maggiore incremento della produzione, ossia di merci gettate sul mercato. Maggior produzione, minore disoccupazione.

 

 

È questo un ragionamento ovvero un sofisma? V’ha un caso nel quale ci troviamo di fronte ad un ragionamento; e quell’unico caso fu illustrato dall’amico Bresciani nel libro classico su La caduta del marco tedesco ed in numerosi articoli. Ridotto in moneta spicciola, lo si può formulare così: esiste in un paese un insieme di fattori produttivi disoccupati? Ci sono cioè in un paese, non solo centinaia di migliaia o milioni di operai disoccupati, ma ci sono anche contemporaneamente ed in giusta proporzione fabbriche inerti, macchinari che non lavorano, scorte abbondanti che nessuno acquista, mucchi di carbone sui piazzali che vanno a male, milioni di kWh di energia elettrica producibile che nessuno domanda? Se così è, può darsi che una iniezione artificiale di moneta biglietti o di moneta bancaria serva a mettere in moto la macchina arrugginita; a consentire agli industriali di combinare insieme lavoratori, fabbriche, macchine, scorte, carbone, energia elettrica, ecc. ecc., che oggi stanno con le mani in mano ed a dare quella spinta per cui, insieme collaborando, i fattori, ora inerti e disuniti, insieme combinati diano luogo ad una feconda produzione. Può darsi, dico, ma è rarissimo che la manovra riesca. Riuscì in Germania dopo la caduta del marco, perché di fatto esistevano le condizioni richieste: contemporaneità della disoccupazione di lavoratori, fabbriche, macchine, scorte, ecc., che attendevano la spinta e la spinta venne a tempo, un po’ ad opera dell’iniezione di credito ed un po’ ad opera della fiducia inspirata da nuovi governanti dell’epoca pre-hitleriana. Ma non riuscì, ed il fiasco fu clamoroso, né in Inghilterra né negli Stati Uniti, durante la grande crisi. Mancò in ogni caso qualcosa: o le fabbriche o le scorte o le macchine disoccupate o la spinta psicologica, la quale appartiene all’ordine degli imponderabili.

 

 

V’ha oggi in Italia una qualche probabilità, anche lontanissima che si possa verificare quell’unicum, che fece riuscire l’esperimento in Germania? No. Vi sono, si, un milione circa di lavoratori disoccupati; ma dove sono, salvochè nell’industria tessile, la quale non ha bisogno di credito da nessuno, le scorte in attesa di lavorazione? Dove è il carbone giacente sui piazzali? Dove sono le macchine inerti? Dove è l’energia elettrica offerta dai produttori e rifiutata dagli utenti?

 

 

Perciò, se oggi si stampassero 300 miliardi di biglietti nuovi per offrire credito nuovo, aggiuntivo all’industria, l’effetto non sarebbe creazione di nuovo lavoro; ma famelico assalto degli industriali, provvisti di nuovo credito e di nuovi biglietti, alle materie prime esistenti, al carbone di mese in mese assegnatoci, all’energia elettrica, di cui oggi si lamenta la scarsezza. L’effetto unico sarebbe non l’aumento della produzione, ma l’aumento dei prezzi di ciò che è necessario all’industria per lavorare.

 

 

Che cosa sta al disotto dell’aumento dei prezzi, il quale potrebbe essere un fatto puramente nominale, di numeri grossi sostituiti a numeri piccoli? Sta la continuazione del fenomeno più doloroso, anzi più atroce, più socialmente disintegratore tra tutti quelli i quali hanno sconvolto la società italiana in questo triste dopoguerra.

 

 

Chi paga l’aumento dei prezzi? Se tutti i prezzi, se tutti i salari, se tutti i redditi aumentassero nella stessa misura, sarebbe mera polvere negli occhi, sarebbe il solito manzoniano alzarsi in piedi di tutti i comizianti per veder meglio l’oratore. Ma così non è. Vi sono intiere vaste classi sociali, i cui prezzi, le cui remunerazioni non aumentano, o non aumentano proporzionatamente, all’aumento dei prezzi.

 

 

Vi sono i contadini delle Puglie, i quali lavorano 150 giorni all’anno per salari lentissimi a muoversi.

 

 

Vi sono i vecchi, le vedove, i bambini, i ragazzi i quali vivono del reddito fisso di risparmi passati e stanno lentamente morendo di fame, perché sarebbe stato necessario che gli appartenenti ai ceti medi indipendenti avessero risparmiato in passato dieci milioni di lire ciascuno per assicurare alle famiglie un reddito uguale a quello dell’operaio o dell’impiegato dei gruppi più numerosi.

 

 

Vi sono i pensionati la cui pensione non segue subito le variazioni, dei prezzi.

 

 

Vi sono, fra gli operai e gli impiegati pubblici e privati, i padri di famiglia i quali con un solo stipendio, debbono provvedere alla moglie ed ai figli in età non lavorativa.

 

 

Vi sono… Ma la lista è troppo lunga di coloro i quali sono andati o stanno andando a fondo nella atroce lotta sociale che è frutto della svalutazione monetaria.

 

 

Talvolta è necessario adattarsi al male. Il decreto in pro delle industrie meccaniche è senza dubbio inflazionistico. Sono, in valore attuale, 30 miliardi di credito derivante da risparmio forzato, risparmio compiuto da coloro che non possono rivalersi dell’aumento di prezzi provocato dall’inflazione con un aumento proporzionale dei propri redditi. Sono alcuni ceti di contadini, principalmente meridionali, sono gli appartenenti al ceto medio coloro i quali dovranno stringere un po’ più la cintola per impedire che talune imprese meccaniche, principalmente settentrionali, debbano chiudere. Ma sono 30 e non 300 miliardi; ma dovranno essere dati dagli amministratori del fondo solo a quegli industriali i quali dimostrino di potersi riorganizzare e vivere poi di vita propria.

 

 

Contadini meridionali ed appartenenti al medio ceto di tutta Italia sono pronti a qualche ulteriore sacrificio; ma non a morire a vantaggio altrui. Giunti ad un certo punto, bisogna dir basta!



[1] Tradotto in spagnolo con il titolo El sofisma [ndr].

Questo titolo terzo

Questo titolo terzo

«Corriere della Sera», 21 maggio 1947

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 330-335

 

 

 

 

[Questo titolo terzo] della Costituzione rassomiglia al secondo per alcune caratteristiche peculiari. A differenza del primo titolo, il quale detta norme sulle libertà essenziali dell’uomo (libertà personale, libertà di unione, di associazione, di religione, ecc.) e del titolo quarto il quale dichiara i diritti del cittadino (diritto al voto, accesso libero ai pubblici uffici, obbligo del servizio militare e simili), i titoli secondo e terzo proclamano aspirazioni, desideri, indirizzi, promesse. Si dice che questa sia la grande novità delle costituzioni modernissime, le quali in tal maniera intenderebbero elevarsi al disopra della concezione dei due secoli decimottavo e decimonono, preoccupati soltanto di garantire l’uomo singolo, il cittadino individuo contro le prepotenze dello stato. Oggi, si afferma, lo stato siamo noi; ed importa perciò che noi proclamiamo quali sono le nostre volontà di cittadini insieme associati per il bene comune.

 

 

Ho gran paura che, così pensando, noi viviamo in uno strano mondo di illusioni. L’opinione che i diritti dell’uomo e del cittadino abbiano perduto importanza in confronto ai diritti dell’uomo sociale non è affatto conforme alla esperienza storica. I diritti dell’uomo non corrono mai tanto pericolo di essere sopraffatti come nelle epoche storiche in cui domina il numero, in cui la volontà dei più informa la legislazione. In questi tempi è massima la propensione a costringere i meno ad uniformarsi alla volontà dei più, anche nel territorio che deve essere sacro contro l’invadenza della cosiddetta volontà comune. Accadde un giorno, durante il ventennio fascistico, che una camera deliberasse essere dogma economico l’autarchia ed anatemizzasse quei pochi teorici ostinati nel professare che l’autarchia era veramente una troppo povera cosa perché potesse essere discussa. E può accadere domani che un parlamento, espressione, della volontà popolare, anatemizzi i disgraziati che repugnassero ad accogliere e ad insegnare una qualche particolare teoria del valore o una peculiare interpretazione della storia e degli avvicendamenti delle classi sociali. Epperciò non è affatto inutile sancire nella costituzione il principio che l’insegnamento scientifico è libero. I compilatori dell’articolo, invece di contestarsi di affermare il diritto di ogni uomo ad insegnare e predicare quel che a lui pare e piace meglio, si imbrogliarono poi comicamente in un confuso congegno di scuole parificate o non, di esami di stato, di ammissioni ai diversi ordini di scuola, che dio solo sa che cosa abbiano a fare con quel documento solenne che si usa chiamare “costituzione”. Ma quel che vogliono dire i “diritti sociali” del titolo terzo è assai più difficile intendere. Si assuma ad esempio l’art. 39, oggi fuso con qualche altro; ma di cui la sostanza è rimasta invariata.

 

 

L’iniziativa economica è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

 

 

Lasciamo da parte l’ultimo mezzo periodo, che da tempo è entrato a far parte della legislazione universalmente accolta, con le norme sul lavoro delle donne e dei fanciulli, sui limiti alle ore di lavoro, sulla igiene e sicurezza nelle fabbriche e nelle miniere. Caratteristico dello spirito dei redattori è il contrapporre due concetti dei quali l’uno dovrebbe limitare l’altro:

 

 

Concetto primo: l’iniziativa economica privata è libera.

 

 

Concetto secondo: essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.

 

 

Il primo espone un principio di massima: gli uomini sono liberi di attendere a quelle imprese economiche che loro sembreranno più convenienti. Il secondo vuole limitare l’affermata libertà di iniziativa.

 

 

Il proposito non sarebbe malvagio se con la seconda proposizione si fossero messe insieme parole aventi un significato qualsiasi. Ma basta aprire un qualunque libro elementare per apprendere che “non esiste” una definizione scientifica dell’utilità sociale. Basta riflettere:

 

 

  • che l’utilità “sociale” non è quella dei “singoli” individui componenti una società;

 

  • che l’utilità “sociale” non equivale alla somma aritmetica delle utilità degli individui componenti la società. Essa risulta da una combinazione chimica spirituale dalla quale nasce qualcosa che non è misurabile;

 

  • che, se anche potessimo ammettere per un istante la ipotesi assurda che l’utilità del tutto sia uguale alla somma delle utilità degli individui, noi ci troveremmo dinnanzi ad uno dei più celebrati pons asinorum della scienza economica. Gli inglesi l’hanno chiamato l’ostacolo del no bridge e con queste due parole si insegna nelle scuole di tutto il mondo. Non esiste ponte tra l’utilità di un individuo Tizio e quella di un altro individuo Caio. Tizio sente per un pane l’utilità 10? Ciò vuole soltanto dire che nella “sua” testa egli dà il punto 10 al pane in confronto del punto 9 che dà al bicchiere di vino od al punto 8 dato alla sigaretta. Perciò lui Tizio preferisce il pane al vino od alla sigaretta; e se ha i soldi occorrenti in tasca, compra pane e non vino e non sigarette. È un affare, un calcolo individuale suo; dipendente dalla sua conformazione fisiologica e psicologica. Caio sente per l’identico pane l’utilità 15? Anche questo è un fatto suo, dipendente dalla stima diversa che gli fa del pane in confronto agli altri beni, i quali si offrono ai suoi sguardi in quel momento.

 

 

Diremo perciò che l’utilità sociale, che l’utilità di quella piccola società composta di due sole persone (se fosse composta, come tutte le società sono, di milioni o di decine di milioni il problema diverrebbe ancor più insolubile) sia di 10 più 15, ossia 25? No; ché Tizio sa che l’utilità del pane per lui è 10, perché così egli ha classificato il pane in confronto agli altri beni da lui desiderati; e parimenti Caio sa che la utilità del pane per lui è 15. Ma nessuno dei due e nessun altro sa se l’utilità del pane, se il piacere che Tizio prova nel consumare il pane, se il dolore che egli subirebbe se fosse privato del pane, piaceri o dolori a cui Tizio attribuisce il punto 10, sia maggiore o minore del piacere o dolore sentito da Caio ed al quale costui, nell’intimo foro della sua sensibilità, ha attribuito il punto 15. Sono due quantità di utilità eterogenee, le quali fanno capo ad individui senzienti diversi: eterogenee epperciò incommensurabili. L’operazione è altrettanto priva di senso, come sarebbe la somma di cani e di gatti, di cavalli e di topi.

 

 

I costituenti hanno immaginato di aver posto un limite alla libertà dell’iniziativa privata e non hanno detto nulla. Non dicendo nulla, hanno detto al legislatore futuro: «Tu interpreterai le parole “utilità sociale” come ti parrà più opportuno. Secondo vorrà la tua coscienza, secondo la interpretazione che tu darai di quel che alla coscienza popolare sembrerà essere in quel momento la quantità indefinibile detta “utilità sociale”, tu allargherai o restringerai a tuo piacere il campo della iniziativa privata, che io ho proclamato libera».

 

 

Può darsi che il non dir niente sia, dopotutto, il sommo della sapienza. Ma confessiamo che i legislatori moderni hanno grandemente perfezionato l’arte del non dir niente, attraverso un apparato mai più visto di parole. Si è battagliato mesi per giungere, in questo titolo terzo, a compromessi, il cui contenuto è zero.

 

 

In assemblea, vi fu chi, preoccupato di questo niente dell’art. 39, aveva immaginato di trovare il limite alla libertà assoluta della iniziativa privata, proponendo di cancellare le parole «in contrasto con l’utilità sociale» perché senza senso e di sostituirle con altre che a lui parevano più concrete:

 

 

La legge non è strumento di formazione di monopoli economici: ed ove questi esistano li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta.

 

 

Quale è invero la sola, la vera degenerazione dell’iniziativa privata? Che essa, invece di svolgersi nell’ambito della concorrenza o di una tollerabile approssimazione allo stato di concorrenza, dia origine ad un monopolio. Se c’è e finché c’è concorrenza possiamo lasciar mano libera all’iniziativa privata. I prezzi delle cose prodotte e vendute tenderanno verso il costo di produzione (del produttore marginale); e che cosa il consumatore può pretendere di più?

 

 

Il danno nasce quando esiste monopolio, ossia quando una merce è venduta da un solo produttore o da un gruppo di produttori, i quali dominano il mercato. Il monopolista fissa i prezzi ad un livello tale che gli diano il massimo profitto; e perciò:

 

 

  • produce una quantità di beni minore di quella che si produrrebbe se la concorrenza esistesse;

 

  • fa sì che i consumatori debbano rinunciare ad una parte dei beni che, a prezzo minore, sarebbero disposti ad acquistare e debbano pagare il resto a prezzo di monopolio, rinunciando così al consumo di altri beni che pur desidererebbero acquistare;

 

  • costringe alla disoccupazione i lavoratori che sarebbero altrimenti chiamati a cooperare alla produzione di quel che oggi invece non si produce e non si consuma. Se si voleva dare un senso, un contenuto al comandamento di porre limiti razionali alla libertà dei privati produttori di fare quel che ad essi conviene, sarebbe stato necessario dire:

 

  • che la legge non deve essa stessa creare i monopoli economici, come ogni giorno fa con la protezione doganale, con i divieti ai nuovi impianti industriali, con i contingenti, con l’abuso dei brevetti, con le società a catena, ecc. ecc.

 

  • che, se, indipendentemente dalla legge, il monopolio esiste, esso debba essere sottoposto a pubblico controllo in una delle tante maniere che l’esperienza ha insegnato.

 

 

Naturalmente, nessuna cosa è tanto odiata dai politici e specialmente da quei politici i quali stravagantemente immaginano di avere scoperto nuove vie alla economie rimettono a nuovo regolamenti arcifrusti della più sciagurata ed oscura epoca di decadenza mercantilistica; nessuna cosa è tanto odiata quanto il parlar chiaro. Epperciò l’emendamento fu respinto e si preferì rimanere anche per l’art. 39 in quella nebbia che è propria di tutto il titolo terzo e sarà feconda in avvenire di quell’arbitrio che le costituzioni sono per l’appunto chiamate ad impedire.

Il diritto allo sciopero

Il diritto allo sciopero

«Corriere della Sera», 19 febbraio 1947

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 514-517

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 844-848

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 267-270

 

 

 

 

L’art. 57 del progetto di costituzione presentato dalla commissione dei 75 alla costituente dice: «Tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero». È questa una formulazione alquanto diversa di un principio che il secolo scorso, 1800 anni dopo Cristo, aveva riaffermato, abolendo dapprima la tratta degli schiavi e poi mettendo fine quasi contemporaneamente, tra il 1860 ed il 1870, alla servitù della gleba (l’uomo non può abbandonare la terra dove è nato) in Russia ed alla schiavitù dei negri (l’uomo non può abbandonare il padrone) negli Stati Uniti.

 

 

Risorgono talvolta forme particolari di schiavitù, le quali legano l’operaio alla fabbrica destinata alla produzione bellica; ma sono norme di eccezione, rigidamente ristrette al tempo di guerra.

 

 

Il diritto allo sciopero è una applicazione del concetto, prevalso nelle società civili del secolo XIX, della abolizione della schiavitù e della instaurazione della libertà del lavoro. Che cosa infatti significherebbe la negazione del diritto di sciopero? Evidentemente l’obbligo del lavoratore di lavorare non quando a lui piace ed alle condizioni liberamente da lui discusse ed accettate, ma quando ad altri piace ed a condizioni diverse da quelle accettate da lui. Quest’obbligo ha un nome preciso e dicesi “schiavitù”. Non monta essere schiavi di un imprenditore privato o dello stato; ciò che all’uomo sovra ogni altra cosa importa essendo di non essere schiavo di nessuno.

 

 

Dovendo scegliere, è evidentemente preferibile essere schiavi (parola tecnica usata per indicare il fatto di non poter abbandonare il lavoro senza il consenso altrui) di un imprenditore privato che dell’imprenditore unico (stato). Infatti gli imprenditori privati sono molti e non è quindi assurdo fuggire, sia pure illegalmente, dall’uno all’altro, ed essere ricevuti a braccia aperte da quest’altro imprenditore bisognoso di lavoratori. Inoltre, è più facile, e l’esperienza storica reca di ciò testimonianze innumeri, ai lavoratori concertarsi contro imprenditori privati e riuscire a violare la legge vincolatrice della libertà umana, di quanto non sia agevole concertarsi contro lo stato, che fa la legge a suo piacimento. Dove esiste la schiavitù esiste invero altresì una qualche maniera di governo tirannico; ed il tiranno può avere interesse ad ingraziarsi i lavoratori contro gli imprenditori privati, non mai contro se stesso.

 

 

In ogni caso gli uomini giustamente desiderano di non essere costretti a fare scelta fra due mali; ma vogliono la libertà. Epperciò il diritto di sciopero è sacrosanto. I codici civili dei paesi moderni avevano già concordemente formulato il principio del diritto allo sciopero, affermando la nullità dei patti con i quali taluno si fosse obbligato a prestare, senza limiti di tempo, l’opera propria a favore altrui.

 

 

La abolizione della schiavitù od il suo sinonimo detto “diritto di sciopero” suppone tuttavia un dato clima economico. È un istituto che vive quando nella società agiscono determinate condizioni, tra le quali principalissima è quella ricordata sopra della libertà degli uomini di acquistare, a propria scelta, i beni ed i servizi da essi desiderati. Il lavoratore ha il sacrosanto diritto di abbandonare la fabbrica che non è in grado di pagargli il salario da lui giudicato bastevole a compensare le proprie fatiche ed a consentirgli quel tenore di vita al quale egli giudica di avere diritto. Ma il consumatore ha uguale ragione di non essere costretto da nessuno ad acquistare al prezzo di 20 mila lire un abito, solo perché i lavoratori chiedono – e scioperano per ottenerlo – un salario siffatto che il produttore non può mettere sul mercato l’abito ad un prezzo inferiore a 20 mila lire. Al diritto di sciopero dei lavoratori, alla loro esigenza di non essere sottoposti a schiavitù, corrisponde l’ugual diritto dei consumatori di non acquistare le merci prodotte dai lavoratori. Non sono due diritti diversi: bensì due facce del medesimo diritto. Tra i due, i lavoratori ed i consumatori, vi è l’intermediario detto comunemente industriale che gli economisti usano, dal 1738 in poi, chiamare “imprenditore”: colui il quale, a suo rischio e vantaggio, mette insieme i fattori produttivi – area, stabilimenti, macchine, scorte di materie prime e di semilavorati, dirigenti, impiegati, lavoratori -; ne paga il prezzo di mercato ed offre il prodotto finito al consumatore. Se i due estremi, lavoratore e consumatore, fanno sciopero, i primi perché non ritengono di essere pagati abbastanza, gli altri perché ritengono il prezzo dei prodotti superiore al vantaggio che si ripromettono dal loro acquisto, l’imprenditore, il quale sta in mezzo dei due, non può rimanere fermo. Anch’egli, se non vuol perdere i suoi capitali – e la perdita dei capitali non giova a nessuno – deve potersi muovere. Il suo diritto a muoversi ha un nome abbreviato ed è diritto alla “serrata”. In sostanza, il diritto alla serrata degli imprenditori ha un contenuto semplice e necessario. Non si può immaginare che, là dove i lavoratori hanno il diritto – sacrosanto diritto, innato nell’uomo libero – di incrociare le braccia e di rifiutarsi a lavorare a condizioni da essi non accettate volontariamente, vi sia talun altro il quale sia costretto a tenere il proprio stabilimento aperto ed a pagare salari che egli giudica superiori al ricavo, dedotte le altre spese del prodotto da lui posto sul mercato. Se l’imprenditore potesse “costringere” i consumatori a pagare il prezzo di 20 mila lire per un abito, che gli è costato, fra salari, materie prime, ammortamenti, interessi sul capitale preso a prestito od ottenuto dai soci, ecc., altrettanta somma, l’imprenditore potrebbe fare a meno di “serrate”. Basterebbe aumentare i prezzi e qualunque salario sarebbe razionale. Fatta astrazione dal significato monetario della manovra, non vi sarebbe alcun limite all’aumento dei salari.

 

 

Ma così non è. I consumatori non hanno nessun obbligo di acquistare alcuna merce ad alcun prezzo prefissato. Anch’essi hanno diritto allo sciopero. Anch’essi hanno diritto a non diventare schiavi di chi vuol vendere una data merce ad un dato prezzo. Essi scioperano, riducendo il consumo o rinunciando del tutto al consumo della merce rincarata. Epperciò, l’imprenditore, posto fra l’incudine ed il martello, ha il diritto di serrata, ossia di riorganizzare la sua impresa, di mutare il genere della produzione, di ridurre o crescere il numero degli operai, di tentare nuovi mercati per adattarsi alle condizioni contemporaneamente poste dai lavoratori e dai consumatori, tra le quali egli deve pur trovare un mezzo di conciliazione. Diritto di sciopero e diritto di serrata sono due fattori o condizioni di un sistema economico improntato a libertà. Se togliamo l’un diritto aboliamo anche l’altro. Se l’imprenditore non può aprire, chiudere, allargare, restringere l’impresa; se il lavoratore non può abbandonare il lavoro, ciò significa che noi viviamo nel clima economico della schiavitù: in quel clima nel quale un’autorità superiore, un tiranno dice al lavoratore: «tu lavorerai tante e tante ore al giorno, per tale e tale salario»; all’imprenditore: «tu comprerai la materia prima a tal prezzo, pagherai i lavoratori con tale salario e venderai i prodotti tuoi a tale prezzo»; ed al consumatore: «io ti distribuirò d’autorità i prodotti dell’industria in tale quantità e ad un prezzo tale, che tutto ciò che è stato prodotto secondo il nuovo piano sia compensato interamente ed a tempo debito». Ma gli uomini non amano vivere in un siffatto clima, odiano la schiavitù e sono persuasi di aver diritto, nelle diverse loro manifestazioni di lavoratori, di imprenditori, di consumatori, a scioperare contro chi pretende di farli vivere secondo le regole poste dai potenti della terra.

Intervista con Luigi Einaudi. Quali sono gli scopi del Fondo monetario e della Banca mondiale – I molteplici vantaggi e gli obblighi finanziari – Il contributo dei due istituti alla ricostruzione internazionale e allo sviluppo dei rapporti economici

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«Risorgimento Liberale», 5 ottobre 1946

Vocabolario

Vocabolario

«Corriere della Sera», 8 settembre 1946

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 326-330

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Firenze, Olschki, 2001, pp. 226-229

 

 

 

 

Il quasi venticinquennio di dominazione e di ricordi fascistici ha bruttato, fra le tante cose, anche il vocabolario italiano. Se governo democratico ha un significato, ciò accade esclusivamente e tutto perché esso sia sinonimo di governo di discussione. Camere, giornali, elezioni, sono strumenti efficaci di governo democratico non perché gli uomini di governo siano i tali invece dei tali altri, siano scelti in un modo piuttosto che in un altro. Suppergiù, in qualunque forma di governo, autocratico o democratico, esercitano la somma del potere coloro i quali desiderano il potere e riescono a conquistarlo in maniera conforme al regime. La differenza consiste solo in ciò che nei regimi autocratici giungono e restano al potere coloro i quali non possono sopportare la critica, perché questa, sovratutto se mossa dalle lance spezzate giornalistiche, dimostrerebbe che essi non posseggono le qualità intellettuali o morali necessarie all’esercizio del potere, ovvero compiono atti sconvenienti all’interesse pubblico od alla morale. Perciò, nei regimi autocratici, la critica, che per definizione è libera ed è mossa dal pubblicista anonimo inteso a servire i lettori e la propria parte politica contro le avverse fazioni, non esiste. Si muovono “attacchi” i quali vengono dal di dentro e sono autorizzati dal dittatore o dai suoi segugi. Chi è “attaccato” si sente perduto, perché egli non possiede l’ufficio per meriti suoi, ma perché reputato servitore utile della banda imperante. Se egli cade, cade nel nulla; a meno che gli si appresti, a guisa di pensione, una sinecura economicamente fruttifera. Colui il quale è pubblicamente criticato sui bollettini ufficiali che da sé ancora si appellano impropriamente giornali, sa quale è la sua sentenza. Egli si rassegna al sacrificio, salvo che egli abbia in mano documenti atti ad infamare l’attaccante, il quale ambisce al suo posto, e il suo patrono, e che di quei documenti possa servirsi.

 

 

Altri regimi si dicono e sono democratici perché e finché sono fondati sulla libertà illimitata di critica. Non le parole contano, ma la sostanza della critica. Un ministro del buon tempo antico, accusato alla camera come concussionario e dilapidatore del pubblico denaro, sorridendo si alzò e: «debbo supporre – disse – che l’onorevole collega abbia colle sue parole voluto manifestare il suo dissenso intorno al provvedimento che io ho l’onore di difendere oggi», e continuando dimostrò la fondatezza dell’opinione sua e l’inconsistenza delle critiche avversarie. Nulla deve essere ed è così grato all’uomo di governo in un regime democratico quanto la critica. Essa è il suo sostegno maggiore; essa gli permette di chiarire e di migliorare le sue proposte. Se non fosse criticato, egli dovrebbe temere di essere reputato uomo da nulla, il quale passa come ombra sulla scena politica, destinato a non ricomparirvi mai più. Può darsi che vi sia qualche malinconico sopravvissuto del tempo fascistico, il quale muova ancora “attacchi”. Ma poiché e se gli uomini di governo in regime democratico sono forniti di virtù proprie e non sono fantocci ubbidienti ad un tirafili, essi hanno il dovere di non curarsi degli attacchi o di interpretarli, ad imitazione del ministro del buon tempo antico, come maniere alquanto disadorne di critica. Un’altra parola degenerata nell’uso fascistico è quella di “speculazione”. Nobilissima parola, forse la più alta che a titolo di onore possa essere applicata all’opera di chi gerisce imprese politiche ed economiche; ma parola malamente usata nel venticinquennio scorso.

 

 

Cominciarono i fascisti a vituperare i loro avversari accusandoli di voler speculare sugli errori da essi, fascisti, commessi. Era un dovere preciso degli avversari di “trarre profitto od occasione o vantaggio” dall’assassinio di Matteotti per abbattere Mussolini e i suoi seguaci. Furono bollati come “speculatori” della Quartarella, e “speculazione” divenne parola infamante nel nuovissimo vocabolario fascistico. Ognuno il quale aprisse bocca per avanzare osservazioni riserve critiche fu tacciato di “speculazione” politica. Consueto stravolgimento del senso proprio delle parole, per cui l’infamia non cade sul ladro bensì su quegli che denuncia il ladrocinio.

 

 

L’uso della parola “speculazione” oggi si è alquanto attenuato, sebbene non scomparso affatto nel linguaggio politico. Invece di essere grato alle osservazioni altrui, le quali gli permettono di perfezionare opinioni e propositi, l’uomo criticato, sommando le due improprietà di linguaggio, grida alla “speculazione” di chi lo “attacca”.

 

 

Peggiore è il malo uso fatto della parola “speculazione” nel linguaggio economico. Qui l’errore è più antico, perché già l’on. Giolitti, alieno dalla teoria economica, sebbene fornito di buon senso quotidiano, usava qualificare le “borse”, le quali talvolta, come è loro ufficio, gli davano qualche dispiacere, per “antri di speculatori”. Si additano, ad esempio, al pubblico disprezzo coloro i quali in mercato crescente vendono ad un prezzo più alto di quello di acquisto. Di che cosa è composta la stalla dell’agricoltore? Di un certo numero di mucche da latte, si supponga 100 o di quel numero di pezzi di carta, ad esempio 100 mila lire l’una, che egli sborsò per acquistarle? Cento mucche ovvero 10 milioni di lire? Ogni persona di buon senso risponderà: 100 mucche e non 10 milioni di unità astratte, utili soltanto alla misurazione economica delle cose. Se ora ogni mucca aumenta di prezzo a 200 mila lire, l’allevatore dovrà vendere le sue mucche a 100 mila lire l’una (prezzo di costo) ovvero a 200 mila lire (prezzo di mercato)? Il politicante ordinario e lo scriba quotidiano, intesi ambedue a sollecitare l’invidia dei non pensanti, rispondono 100 mila lire e tacciano l’allevatore di “speculazione” se opta per le 200 mila lire. L’uomo di buon senso – non occorre essere economista di professione risponderà invece decisamente: il prezzo di vendita è 200 mila lire. Se l’allevatore vende a meno, costui non sa il suo mestiere ed è predestinato infallantemente alla rovina. Se egli vende infatti a 100 mila lire come rifornirà la stalla? Non al prezzo antico, che non esiste più, ma al prezzo nuovo. Col ricavo della vendita – 100 mila – della mucca vecchia egli può comprare, poiché il prezzo è di 200 mila lire, solo una mezza mucca nuova. Alla fine egli si troverà con sole 50 mucche nella stalla; ossia avrà diminuito il patrimonio zootecnico suo e per conseguenza quello nazionale alla metà di quello che era. Si vuole ciò? Si vuole che scemi la produzione del latte delle carni dei cuoi, si vuole che crescano i prezzi e diminuisca il reddito nazionale? Si costringano i produttori a vendere ai prezzi di costo invece che a quelli di mercato; si vituperino coloro i quali operano razionalmente con la taccia di speculatori. Si otterrà oggi il favore delle folle; ma si sarà fatalmente e giustamente lapidati domani dalle stesse folle.

 

 

Fa d’uopo riportare la parola “speculazione” al suo significato genuino; che è quello di chi guarda all’avvenire, di chi tenta, a suo rischio, di scrutare (speculare) l’orizzonte lontano ed indovinare i tempi che verranno. Purtroppo, gli “speculatori” veri sono rarissimi. Se la meteorologia a mala pena riesce a fare brevi previsioni sul tempo futuro, ancor più difficile è all’uomo fare previsioni sul futuro economico. Gli uomini dotati della facoltà divina della previsione sono rarissimi. La più parte di noi uomini comuni agisce come le pecore, che dove l’una va, le altre vanno. Ma quando tutti corrono in un verso, possiamo essere sicuri che quel verso conduce all’abisso. I rarissimi veri “speculatori” si sono oramai voltati da un’altra parte in cerca di quegli indizi che appena appena si intravedono all’orizzonte e che indicano le vie della nuova produzione dei nuovi gusti e quindi dei guadagni vantaggiosi agli speculatori ed alla collettività. Quel che tutti fanno – e tra i tutti si noverano massimamente i politici, intenti a seguire le folle e nemicissimi perciò degli speculatori – è certamente uno sbaglio. Vi è sempre un limite alla convenienza, ma poiché quel limite è sempre sorpassato dagli uomini, animali per essenza imitatori, è sommamente vantaggioso che i pochi “speculatori” suonino il campanello d’allarme per gli sbagli che si stanno facendo e additino le vie dell’avvenire. A costoro non occorre erigere statue, ché essi agiscono nel proprio interesse e corrono spontaneamente il rischio dei propri errori. Non intralciamone tuttavia l’opera feconda di guida alle moltitudini paghe di ripetere le idee lette ogni mattino; e, sovratutto, non copriamoci di ridicolo con lo storcere il significato corretto delle parole, innalzando idoli vani ed abbassando quel che nell’umanità è rarissimo.

Vocabolario

Vocabolario

«Corriere della Sera», 8 settembre 1946

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 326-330

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Firenze, Olschki, 2001, pp. 226-229

 

 

 

 

Il quasi venticinquennio di dominazione e di ricordi fascistici ha bruttato, fra le tante cose, anche il vocabolario italiano. Se governo democratico ha un significato, ciò accade esclusivamente e tutto perché esso sia sinonimo di governo di discussione. Camere, giornali, elezioni, sono strumenti efficaci di governo democratico non perché gli uomini di governo siano i tali invece dei tali altri, siano scelti in un modo piuttosto che in un altro. Suppergiù, in qualunque forma di governo, autocratico o democratico, esercitano la somma del potere coloro i quali desiderano il potere e riescono a conquistarlo in maniera conforme al regime. La differenza consiste solo in ciò che nei regimi autocratici giungono e restano al potere coloro i quali non possono sopportare la critica, perché questa, sovratutto se mossa dalle lance spezzate giornalistiche, dimostrerebbe che essi non posseggono le qualità intellettuali o morali necessarie all’esercizio del potere, ovvero compiono atti sconvenienti all’interesse pubblico od alla morale. Perciò, nei regimi autocratici, la critica, che per definizione è libera ed è mossa dal pubblicista anonimo inteso a servire i lettori e la propria parte politica contro le avverse fazioni, non esiste. Si muovono “attacchi” i quali vengono dal di dentro e sono autorizzati dal dittatore o dai suoi segugi. Chi è “attaccato” si sente perduto, perché egli non possiede l’ufficio per meriti suoi, ma perché reputato servitore utile della banda imperante. Se egli cade, cade nel nulla; a meno che gli si appresti, a guisa di pensione, una sinecura economicamente fruttifera. Colui il quale è pubblicamente criticato sui bollettini ufficiali che da sé ancora si appellano impropriamente giornali, sa quale è la sua sentenza. Egli si rassegna al sacrificio, salvo che egli abbia in mano documenti atti ad infamare l’attaccante, il quale ambisce al suo posto, e il suo patrono, e che di quei documenti possa servirsi.

 

 

Altri regimi si dicono e sono democratici perché e finché sono fondati sulla libertà illimitata di critica. Non le parole contano, ma la sostanza della critica. Un ministro del buon tempo antico, accusato alla camera come concussionario e dilapidatore del pubblico denaro, sorridendo si alzò e: «debbo supporre – disse – che l’onorevole collega abbia colle sue parole voluto manifestare il suo dissenso intorno al provvedimento che io ho l’onore di difendere oggi», e continuando dimostrò la fondatezza dell’opinione sua e l’inconsistenza delle critiche avversarie. Nulla deve essere ed è così grato all’uomo di governo in un regime democratico quanto la critica. Essa è il suo sostegno maggiore; essa gli permette di chiarire e di migliorare le sue proposte. Se non fosse criticato, egli dovrebbe temere di essere reputato uomo da nulla, il quale passa come ombra sulla scena politica, destinato a non ricomparirvi mai più. Può darsi che vi sia qualche malinconico sopravvissuto del tempo fascistico, il quale muova ancora “attacchi”. Ma poiché e se gli uomini di governo in regime democratico sono forniti di virtù proprie e non sono fantocci ubbidienti ad un tirafili, essi hanno il dovere di non curarsi degli attacchi o di interpretarli, ad imitazione del ministro del buon tempo antico, come maniere alquanto disadorne di critica. Un’altra parola degenerata nell’uso fascistico è quella di “speculazione”. Nobilissima parola, forse la più alta che a titolo di onore possa essere applicata all’opera di chi gerisce imprese politiche ed economiche; ma parola malamente usata nel venticinquennio scorso.

 

 

Cominciarono i fascisti a vituperare i loro avversari accusandoli di voler speculare sugli errori da essi, fascisti, commessi. Era un dovere preciso degli avversari di “trarre profitto od occasione o vantaggio” dall’assassinio di Matteotti per abbattere Mussolini e i suoi seguaci. Furono bollati come “speculatori” della Quartarella, e “speculazione” divenne parola infamante nel nuovissimo vocabolario fascistico. Ognuno il quale aprisse bocca per avanzare osservazioni riserve critiche fu tacciato di “speculazione” politica. Consueto stravolgimento del senso proprio delle parole, per cui l’infamia non cade sul ladro bensì su quegli che denuncia il ladrocinio.

 

 

L’uso della parola “speculazione” oggi si è alquanto attenuato, sebbene non scomparso affatto nel linguaggio politico. Invece di essere grato alle osservazioni altrui, le quali gli permettono di perfezionare opinioni e propositi, l’uomo criticato, sommando le due improprietà di linguaggio, grida alla “speculazione” di chi lo “attacca”.

 

 

Peggiore è il malo uso fatto della parola “speculazione” nel linguaggio economico. Qui l’errore è più antico, perché già l’on. Giolitti, alieno dalla teoria economica, sebbene fornito di buon senso quotidiano, usava qualificare le “borse”, le quali talvolta, come è loro ufficio, gli davano qualche dispiacere, per “antri di speculatori”. Si additano, ad esempio, al pubblico disprezzo coloro i quali in mercato crescente vendono ad un prezzo più alto di quello di acquisto. Di che cosa è composta la stalla dell’agricoltore? Di un certo numero di mucche da latte, si supponga 100 o di quel numero di pezzi di carta, ad esempio 100 mila lire l’una, che egli sborsò per acquistarle? Cento mucche ovvero 10 milioni di lire? Ogni persona di buon senso risponderà: 100 mucche e non 10 milioni di unità astratte, utili soltanto alla misurazione economica delle cose. Se ora ogni mucca aumenta di prezzo a 200 mila lire, l’allevatore dovrà vendere le sue mucche a 100 mila lire l’una (prezzo di costo) ovvero a 200 mila lire (prezzo di mercato)? Il politicante ordinario e lo scriba quotidiano, intesi ambedue a sollecitare l’invidia dei non pensanti, rispondono 100 mila lire e tacciano l’allevatore di “speculazione” se opta per le 200 mila lire. L’uomo di buon senso – non occorre essere economista di professione risponderà invece decisamente: il prezzo di vendita è 200 mila lire. Se l’allevatore vende a meno, costui non sa il suo mestiere ed è predestinato infallantemente alla rovina. Se egli vende infatti a 100 mila lire come rifornirà la stalla? Non al prezzo antico, che non esiste più, ma al prezzo nuovo. Col ricavo della vendita – 100 mila – della mucca vecchia egli può comprare, poiché il prezzo è di 200 mila lire, solo una mezza mucca nuova. Alla fine egli si troverà con sole 50 mucche nella stalla; ossia avrà diminuito il patrimonio zootecnico suo e per conseguenza quello nazionale alla metà di quello che era. Si vuole ciò? Si vuole che scemi la produzione del latte delle carni dei cuoi, si vuole che crescano i prezzi e diminuisca il reddito nazionale? Si costringano i produttori a vendere ai prezzi di costo invece che a quelli di mercato; si vituperino coloro i quali operano razionalmente con la taccia di speculatori. Si otterrà oggi il favore delle folle; ma si sarà fatalmente e giustamente lapidati domani dalle stesse folle.

 

 

Fa d’uopo riportare la parola “speculazione” al suo significato genuino; che è quello di chi guarda all’avvenire, di chi tenta, a suo rischio, di scrutare (speculare) l’orizzonte lontano ed indovinare i tempi che verranno. Purtroppo, gli “speculatori” veri sono rarissimi. Se la meteorologia a mala pena riesce a fare brevi previsioni sul tempo futuro, ancor più difficile è all’uomo fare previsioni sul futuro economico. Gli uomini dotati della facoltà divina della previsione sono rarissimi. La più parte di noi uomini comuni agisce come le pecore, che dove l’una va, le altre vanno. Ma quando tutti corrono in un verso, possiamo essere sicuri che quel verso conduce all’abisso. I rarissimi veri “speculatori” si sono oramai voltati da un’altra parte in cerca di quegli indizi che appena appena si intravedono all’orizzonte e che indicano le vie della nuova produzione dei nuovi gusti e quindi dei guadagni vantaggiosi agli speculatori ed alla collettività. Quel che tutti fanno – e tra i tutti si noverano massimamente i politici, intenti a seguire le folle e nemicissimi perciò degli speculatori – è certamente uno sbaglio. Vi è sempre un limite alla convenienza, ma poiché quel limite è sempre sorpassato dagli uomini, animali per essenza imitatori, è sommamente vantaggioso che i pochi “speculatori” suonino il campanello d’allarme per gli sbagli che si stanno facendo e additino le vie dell’avvenire. A costoro non occorre erigere statue, ché essi agiscono nel proprio interesse e corrono spontaneamente il rischio dei propri errori. Non intralciamone tuttavia l’opera feconda di guida alle moltitudini paghe di ripetere le idee lette ogni mattino; e, sovratutto, non copriamoci di ridicolo con lo storcere il significato corretto delle parole, innalzando idoli vani ed abbassando quel che nell’umanità è rarissimo.

Difesa della nostra storia. Gli uomini d’oggi non hanno il diritto di offendere la memoria dei loro vecchi, mutilando anche il ricordo di quel che le loro terre erano state, di quel che i loro padri avevano operato e sofferto

Difesa della nostra storia. Gli uomini d’oggi non hanno il diritto di offendere la memoria dei loro vecchi, mutilando anche il ricordo di quel che le loro terre erano state, di quel che i loro padri avevano operato e sofferto

«La Nuova stampa», 22 agosto 1946

«Il Mondo», settembre 1946, pp. 17-18[1]

 

Pianificazioni. Piani privati e piani statali. L’operaio svizzero e la sua casetta. Come si comporta il governo sovietico. Risparmio volontario e risparmio coatto. Si paga 10 al contadino e si vende 60 al consumatore

Pianificazioni. Piani privati e piani statali. L’operaio svizzero e la sua casetta. Come si comporta il governo sovietico. Risparmio volontario e risparmio coatto. Si paga 10 al contadino e si vende 60 al consumatore

«Il Subalpino», 21 maggio 1946

«Il Cittadino», 22 maggio 1946[1]

«La Verità», 25 maggio 1946[2]

«Corriere di Novara», 29 maggio 1946[3]

 

Pianificazioni. Piani privati e piani statali. L’operaio svizzero e la sua casetta. Come si comporta il governo sovietico. Risparmio volontario e risparmio coatto. Si paga 10 al contadino e si vende 60 al consumatore

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«Il Subalpino», 21 maggio 1946

«Il Cittadino», 22 maggio 1946[1]

«La Verità», 25 maggio 1946[2]

«Corriere di Novara», 29 maggio 1946[3]

 

Pianificazioni. Piani privati e piani statali. L’operaio svizzero e la sua casetta. Come si comporta il governo sovietico. Risparmio volontario e risparmio coatto. Si paga 10 al contadino e si vende 60 al consumatore

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«Il Subalpino», 21 maggio 1946

«Il Cittadino», 22 maggio 1946[1]

«La Verità», 25 maggio 1946[2]

«Corriere di Novara», 29 maggio 1946[3]

 

Pianificazioni. Piani privati e piani statali. L’operaio svizzero e la sua casetta. Come si comporta il governo sovietico. Risparmio volontario e risparmio coatto. Si paga 10 al contadino e si vende 60 al consumatore

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«Il Subalpino», 21 maggio 1946

«Il Cittadino», 22 maggio 1946[1]

«La Verità», 25 maggio 1946[2]

«Corriere di Novara», 29 maggio 1946[3]

 

 

Pianificazioni. Piani privati e piani statali. L’operaio svizzero e la sua casetta. Come si comporta il governo sovietico. Risparmio volontario e risparmio coatto. Si paga 10 al contadino e si vende 60 al consumatore

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«Il Subalpino», 21 maggio 1946

«Il Cittadino», 22 maggio 1946[1]

«La Verità», 25 maggio 1946[2]

«Corriere di Novara», 29 maggio 1946[3]

 

Il nuovo libro di Keynes

«Corriere della Sera», 22 gennaio 1926
Invece di pubblicare una seconda edizione del volume diventato celebre The Economic Consequences of the Peace, il Keynes ha preferito dargli un seguito con un nuovo volume A revision of the Treaty (Londra, Macmillan). Sarebbe stato augurabile che, contemporaneamente alla edizione inglese fosse uscita anche quella italiana. Gli italiani discorrono molto di problemi economici e sociali e delle ingiustizie del Trattato di Versaglia; ma non hanno molta pazienza di leggere neanche questo che è sicuramente il più chiaro, perspicuo, ben ragionato libro che sia comparso sull’aspetto economico della pace. I pochi che hanno voglia di informarsi direttamente, di prima mano e non per sentito dire, faranno bene ad ogni modo a procurarsi questo secondo volume. Come del primo, la lettura ne è affascinante. Il Keynes è un economista che sa scrivere e sa presentare ragionamenti non facili con forma cristallina. Al suo libro converrà attingere forse parecchie volte e per dilucidare parecchi problemi. Oggi, mi limito ad estrarre i dati i quali sono necessari ad illustrare la sua proposta finale e pratica.

La tesi fondamentale del libro è che i due anni passati dopo la pubblicazione del primo volume hanno dimostrato la verità di ciò che egli allora affermava. Le successive conferenze: Sanremo (19-26 aprile 1920), Hythe (15 maggio e 19 giugno 1920), Boulogne (21-22 giugno 1920), Bruxelles (2-3 luglio 1920), Spa (5-16 luglio 1920) Bruxelles (16-22 dicembre 1920), Parigi (24-30 gennaio 1921), Londra (1-7 marzo 1921), Londra di nuovo (29 aprile e 5 maggio 1921) sono altrettante tappe verso il ricupero della sanità mentale in materia di riparazioni. Quanto cammino si è fatto dal giorno in cui, nell’autunno del 1918 il Signor Lloyd George conquistava una schiacciante maggioranza nelle elezioni generali alla Camera dei Comuni sventolando dinanzi al corpo elettorale il programma: la Germania deve pagarci tutte le spese e perdite di guerra!, ad oggi, in cui lo stesso Lloyd George si apparecchia ad ottenere dagli elettori una maggioranza ugualmente favorevole di deputati al grido: Via da noi il calice amaro delle riparazioni tedesche! Noi non vogliamo accettare dalla Germania neppure uno scellino! L’esame critico delle frasi e delle teorie grazie a cui si è operata una così stupefacente trasmutazione di idee, frasi e teorie inventate di volta in volta dagli uomini politici e dai giornalisti per acquetare le voglie di quella terribile tiranna che è la pubblica opinione, è un esame esilarante e mortificante, comico e tragico nel tempo stesso. Per ora riassumiamo, riproducendo uno schema del Keynes, le frasi successive del cambiamento. Le cifre segnate qui sotto sono quelle che la Germania avrebbe dovuto ogni anno pagare per trent’anni in miliardi di lire-oro:

Fase prima: Somma promessa nelle elezioni generali inglesi del 1918 …………………36,0

Fase seconda : Previsioni del ministro delle Finanze francese,

signor Klotz, nella seduta della Camera del 5 settembre 1919 ………………………….22,5

Fase terza: Somma fissata dalla Commissione delle Riparazioni

nell’aprile 1921 ……………………………………………………………………. 10,3

Fase quarta: Somma fissata nell’accordo di Londra del maggio

1921, nell’ipotesi che le esportazioni tedesche raggiungano i

10 miliardi di marchi, ossia il doppio del 1920 ……………………………………. 5,8

Eppure, anche questa cifra che è meno di un sesto di quella sbandierata nel fervore della vittoria e poco più della metà di quella fissata a Londra, è da relegare nel dominio delle utopie. Il Keynes adduce a prova della sua tesi molti fatti, di cui ne ricorderò solo due: il primo è che il bilancio in corso dell’impero tedesco, supponendo che 1 marco oro sia uguale a 20 marchi carta – ed una diversa ipotesi ingrosserebbe le cifre da una parte e dall’altra senza mutare la sostanza delle cose – reca un’entrata di 59 miliardi di marchi contro un’uscita di 93,5 miliardi di marchi, non comprese le riparazioni. Poiché queste oscillano, a seconda delle esportazioni, da 70 a 90 miliardi di marchi, è evidente che le entrate dovrebbero essere triplicate per poter far fronte alle spese correnti ed alle riparazioni. È ciò possibile? Il Keynes ne dubita assai ed adduce a conforto del suo dubbio quest’altra considerazione: il reddito medio di ogni tedesco, supponendo, sempre 1 marco oro uguale a 20 marchi carta, non può oggi calcolarsi superiore a 5.000 marchi carta. Il carico delle riparazioni, anche calcolate solo a 70 miliardi di marchi carta, risulta di 1.170 marchi a testa, maschi e femmine, vecchi e bambini compresi. Ove si riesca a ridurre le spese pubbliche da 93 a 60 miliardi all’anno, con uno sforzo difficilissimo a compiersi, sono 1.000 marchi di imposta, oltre ai 1.170 per le riparazioni che ogni tedesco dovrebbe pagare. A lui rimarrebbe un reddito netto di 2.830 marchi carta, qualcosa come 177 lire oro all’anno, aventi probabilmente la potenza d’acquisto che oggi avrebbero in Italia da 1 a 1,50 lire al giorno delle nostre attuali lirette carta. È possibile che per trenta anni di seguito un Paese di 60 milioni di abitanti si assoggetti alla dura esistenza che sarebbe richiesta per vivere con poco più di una delle nostre attuali lire al giorno a testa, allo scopo di potere pagare agli alleati le riparazioni, sia pure ridotte alla cifra fissata nel maggio a Londra?

Siccome la politica dovrebbe fondarsi su realtà e non su chimere, il Keynes propone di adattarsi alla realtà, cancellando in primo luogo dai 132 miliardi di marchi oro (in capitale) fissati dalla commissione delle riparazioni, i 74 miliardi corrispondenti al valore capitale attuale delle pensioni e sussidi dovuti ai superstiti della guerra ed alle loro famiglie. Bisogna cancellarli, sia perché non c’è la lontana probabilità di riscuoterli, sia perché essi sono stati richiesti, se non ingiustamente in senso astratto, in contrasto con la lettera e con lo spirito del patto d’armistizio, in seguito a cui la Germania abbassò le armi, patto che era debito d’onore degli alleati osservare.

I restanti 58 miliardi si debbono, a loro volta, ridurre, secondo il Keynes, a 30 miliardi, poiché gli alleati presentarono conti esagerati del valore dei danni arrecati dai tedeschi e dai loro alleati nelle terre invase. Il punto è disputabile; ma certo le osservazioni fatte dall’autore sulle esagerazione dei valori attribuiti alle case distrutte nella Francia e nel Belgio fanno riflettere. Ai 30 miliardi aggiungendo i 6 miliardi che pacificamente la Germania si è obbligata a pagare al Belgio, in rimborso dei prestiti fatti a questo dagli alleati, giungiamo ad una indennità totale di 36 miliardi di marchi oro. Questa è una cifra che il Keynes dichiara nel tempo stesso giusta e sopportabile dalla Germania; ed egli propone di attribuirne anzitutto 18 miliardi alla Francia e 3 miliardi al Belgio. Il resto, ossia 15 miliardi, andrebbe pro-forma ripartito così: 11 miliardi all’Impero britannico, 2 miliardi agli Stati Uniti, 1 miliardo all’Italia ed 1 miliardo agli altri Paesi riuniti insieme. In realtà, il piano delle indennità tedesche, dovrebbe essere congiunto ad una contemporanea rinuncia alla esazione dei propri crediti da parte almeno dell’Inghilterra e possibilmente dagli Stati Uniti, rinunciando in compenso gli altri Paesi, salvo la Francia ed il Belgio, alle indennità tedesche. Il piano, che il Keynes giudica ora il più vicino alle possibilità si svilupperebbe nel seguente modo:

Francia . – Oggi ha diritto sulla carta a riscuotere dalla Germania da 1,85 a 2,39 miliardi di marchi oro all’anno; ma deve all’Inghilterra ed agli Stati Uniti 1,48 miliardi per il servizio dei prestiti ricevuti. Incasso netto problematico da 0,37 a 0,91 miliardi all’anno. Con la proposta Keynes, la Francia rimarrebbe creditrice di soli 18 miliardi di marchi oro in capitale, equivalenti a 1,08 miliardi all’anno; ed in compenso non dovrebbe più nulla agli Stati Uniti ed alla Inghilterra. Il credito verso la Germania, essendo di tanto più piccolo, sarebbe molto più sicuro; e l’incasso netto sarebbe superiore.

Belgio . – Adesso legalmente ha diritto, ad una cifra incerta tra 280 e 368 milioni. Riceverebbe invece 3 miliardi in capitale, ossia 180 milioni quasi certi all’anno.

Inghilterra . – Oggi ha teoricamente diritto al 22 per cento dei 132 miliardi in capitale, ossia a 29 miliardi. Con le proposte Keynes essa avrebbe diritto ad 11 miliardi, a 10 dei quali dovrebbe senz’altro rinunciare a beneficio della Germania. Il miliardo residuo lo riscuoterebbe, mettendolo però a disposizione dell’Austria e della Polonia, affinché questi Paesi, aiutati molto moderatamente, possano mettere in ordine il loro meccanismo monetario e finanziario. Essa dovrebbe rinunciare altresì a tutti i propri crediti verso la Francia, l’Italia, il Belgio e gli altri Paesi alleati, a condizione che questi rinunciano alle indennità tedesche. Nonostante queste rinunce, l’Inghilterra dovrebbe rimborsare i suoi debiti verso gli Stati Uniti.

Italia. – Questa ha oggi il solito diritto teorico al 10 % delle indennità tedesche, ossia a 13,2 miliardi, più un diritto, ancor più problematico, ad una maggiore proporzione delle indennità austriache e bulgare. Dovrebbe darvi di frego, ricevendo in compenso il condono di 476 milioni di lire sterline di debiti verso l’Inghilterra e l’impossibilità morale per gli Stati Uniti di esigere i propri crediti, oggi valutati a 1.809 milioni di dollari. Anche astrazion fatta di questi ultimi, la cancellazione di un debito di 476 milioni di lire sterline equivale bene ad un credito incerto di 13,2 milioni di marchi oro.

Il congegno poggia tutto, come si vede, sulla buona volontà dell’Inghilterra e degli Stati Uniti di rinunciare ai propri crediti. Il Keynes dice che la buona volontà dell’Inghilterra è sicura; che nessuno dei suoi concittadini considera possibile o pensabile di far pagare gli alleati; ed afferma che, nonostante ogni apparenza in contrario, presto si vedrà che gli Stati Uniti sono della stessa opinione. L’Inghilterra, sopra tutto, ha interesse grandissimo a far bella figura, rinunciando alle indennità tedesche ed ai crediti verso gli alleati e pagando viceversa i suoi debiti verso gli Stati Uniti, perché ha interesse alla pacificazione dell’Europa. Questo risultato, se ottenuto, vale, e al di là, ogni sacrificio pecuniario. Gli altri paesi, Francia, Italia e Belgio, lucrano tutti dalla sistemazione proposta. Alla Germania viene consentito, con un debito ridotto a 18 miliardi verso la Francia e 3 verso il Belgio, di riprendere una nuova vita pacifica nel consorzio delle nazioni europee. Questo il piano del Keynes.

Albi di giornalisti

Albi di giornalisti

«Il risorgimento liberale», 12 dicembre 1945

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 592-597

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 972-978

Giornali e giornalisti, Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia, Firenze, Sansoni, 1974, pp. 43-50

The future of the Italian press

The future of the Italian press

«Foreign affairs», aprile 1945, pp. 505-509

«Nuova antologia», luglio 1945, pp. 207-216[1]

 

 

 

 

Italy lost her last remnants of liberty when the freedom of the press was abolished in January 1925 and all Italian newspapers became, despite their different titles, nothing but Official Gazettes or Master’s Voices. A proper solution of the problem how to restore that lost freedom is essential to the restoration of truly democratic government in Italy.

 

 

Until Italy is completely liberated from the Germans and neo-Fascists, and so long as newsprint continues to be extremely scarce, some regulation of the number and size of newspapers is obviously unavoidable. The responsible occupying authorities limited the number of papers to one for each political party. This makeshift, however, cannot be prolonged if the aim is to revive truly free political life in Italy.

 

 

Italy has never had anything to compare with the weeklies of Anglo-Saxon countries, and past experience does not encourage us to rely on the weekly press for the political education of the people. Dailies will continue to be almost the only channel through which electors can be led to form a strong democratic government truly representative of the will of the people. Today nobody knows what this will is; probably, indeed, no such thing as a popular will exists. Hopes, fears, shibboleths, slogans, rumors sway the country. Without a truly free press, representing all shades of opinion, the general elections to be held eventually will be much more like a Napoleonic, Mussolinian or Hitlerian plebiscite than a reasoned selection of the best men to be put at the helm of the state.

 

 

II

The party press: its merits and limitations

The new dailies – whether published legally in Naples or Rome, or illegally in Milan or Turin, and including the local papers in the smaller cities – are organs of the different political parties. In this respect the old newspapers like «Avanti!» which were suppressed in Italy during the Fascist regime may be classified as new also; for they are party organs too. To the extent that the mouthpieces of the parties – Liberal, Conservative, Christian-Democratic, Action, Socialist, Communist – openly declare their affiliations their standing is perfectly honorable. Indeed, they form a strong and necessary pillar of any proper political structure. It is all-important that people who for 21 years were kept in absolute darkness about the differences of political parties should be able to consider programs and hear contrasting views as to how best to achieve the country’s economic, social and moral reconstruction.

 

 

In addition, there will, of course, be dailies which are organs of various economic and social organizations. Trade unions, for instance, will publish their daily newspapers. Well and good, provided they admit that they are published to represent the ideas and interests of such-and-such a group. But the party papers and those devoted to representing special economic or social interests do not together form the press which is needed most urgently in Italy. The party press and the group press are not an independent press. They are the loyal and useful organs of their respective parties and groups, cogs in the party or group machinery. Not the editor is master, but the party caucus, the organization meeting. Only conformist opinions will have any chance of reaching the eye of the public. An outsider, the independent critic, the man in the street, will find it as difficult to catch the public eye as it is difficult for a back-bencher in the House of Commons to catch the eye of the Speaker. If all dailies are bound to be the organs of a political party or of a social or economic group, it will be necessary to organize a new party or a new trade union before undertaking to publish a new daily, thus increasing the fearful profusion and confusion of parties already existing in liberated Italy. Too many parties are perhaps an unavoidable reaction to the one-party Fascist system; but the reaction threatens to go so far as to make any strong government impossible.

 

 

There lurks a danger in the party press. It is highly improbable that party programs will establish general political and social aims corresponding to what the people at large would spontaneously desire. In countries such as Great Britain or the United States, where political discussion has never been interrupted, the attention of the public is focussed on specific problems. Full employment, education, housing policy, reclaiming of arid or waste lands, flood control and the development of waterways offer American examples. They are usually concrete problems, more or less capable of solution in practical terms. The political class in Britain or America is an established group; it changes slowly and its leaders are well known. New men emerge from time to time; but their appearance does not revolutionize what happens in the political arena.

 

 

In Italy things are very different. On July 25, 1943, the Fascist world disappeared at a stroke. New men emerged whose names were as unknown as those of the old guard who had survived in exile. The best of them have spent years in Fascist prisons or camps. Born and educated in a climate of revolt and conspiracy, they think in terms of revolutionary change, of the inevitability of great social upheavals. Many of the younger men are pure intellectuals, with no background of solid economic and social training.

 

 

The so-called corporative theories which were taught during the Fascist regime were an ill-digested abracadabra of slogans, which changed rapidly according to the whim of the dictator. In their place, the generation 20 to 40 years of age is now eagerly absorbing other ill-digested propaganda, mostly abridgements of Marxism or Leninism.

 

 

In this climate, where old men, half forgotten, are reappearing, and where new young men are emerging and striving to form a new political class, radical solutions are apt to feature all party programs and their slogans in the daily press. Apart from how to liquidate the remnants of Fascism, the problems most discussed in Italy today are: republic or monarchy, the socialization of banks and great industries, distribution of the land, workers’ councils in the factories, profit-sharing, the introduction of the Russian kolhoz system on the land, etc. Nobody knows if the Italian people want these or other things, because none of them is discussed on its merits. All are accepted, more or less, by the parties because they think that something big must be done to satisfy the masses, which are suffering the consequences of 20 years of Fascist rule and the present war. With parties which court the electoral favor of the masses, and a daily press whose editors will not dare to do battle against slogans apt to catch votes for their masters, who will undertake the urgent task of forming a reasoned public opinion? Only a daily press whose editors have a strong background of ideals of political and social freedom, but who at the same time are independent of parties.

 

 

III

 

The independent press before fascism

Before 1922, and even until January 4, 1925, Italy had a great independent press. Its origin was very much like that of the great press in England, where the «Times« had at its start a Walter, the «Manchester Guardian» a Scott, the «Economist» a Wilson. A few cases may be mentioned. A strong journalist, Botero, created the «Gazzetta del Popolo» in 1848 in Turin, when that city was the moral capital of divided and Austrian-ruled Italy; and the newspaper remained the property of Signor Botero and of his associate and follower, Signor Cerri, and their descendants, until the advent of Fascism. In Turin, also, an even older daily with a small circulation, called until 1896 the «Gazzetta Piemontese», was renamed the «Stampa» by a young man, then a lecturer at the University, Signor Frassati, who worked hard and gained for it second place among Italian newspapers: its circulation in time reached 500,000 copies. He remained the exclusive proprietor until 1925. First place surely was held by the «Corriere della Sera» of Milan, created in 1876 by a great journalist, Signor Torelli Viollier, with the aid of a small group of devoted friends. At his death, the editor’s chair was given to his former secretary, Signor Luigi Albertini, a young man who began his career as an economist with a book on the eight-hour day. Under his editorship, the «Corriere della Sera» reached a circulation of over a million copies.

 

 

These dailies, and many others, had the following characteristics:

 

 

  1. They were independent of financial or economic big interests. In some cases, like that of the «Corriere della Sera», industrialists were among the proprietors; but the editor of that paper, first Signor Torelli Viollier and then Signor Albertini, was its sole manager, with unlimited liability and responsibility, and his associates had only control over the yearly balance-sheet. The «Gazzetta del Popolo» and the «Stampa» were exclusively family concerns.

 

  1. The editors were persuaded that honesty was the best rule and that the only road to financial prosperity was to rely exclusively on the daily nickel, the yearly subscriptions of regular readers, and advertisements. Once a newspaper accepted subventions from private interests it was doomed. Whereas the independent dailies achieved circulations of half a million or a million copies, those which were subsidized by financial or other interests sank to ten or twenty thousand copies and registered losses instead of profits for their proprietors. Advertisers had no influence whatever on the political or economic policies of the independent newspapers. It has often been alleged that almost all the big French newspapers sold their pages to various banking or economic interests and even to foreign governments: but no such reproach could be made to the great Italian press. Its moral standards were of the highest, and it made money, in some cases a great deal of money. Honesty did pay. The capitalized value of one of the above-mentioned newspapers, in which only $50 had originally been invested, was valued at one time at over $4,000,000.

 

  1. The newspapers were ruled by an autocrat called the editor. No party caucus or political friend had any power to influence his policy. A few editors, such as Signori Frassati, Albertini and Bergamini, after they had achieved supremacy in the journalistic world, were made senators, but they were not truly political men. The politicians in general hated them because there was no way of obtaining anything from them, their aim being the successful performance of a public duty. They had, indeed, political tendencies; but they remained above all critical. Their task was to report, as fully and as impartially as possible, facts and opinions. They tried hard to guide and form the opinions of their readers. In a country where protectionism prevailed in the programs of practically all parties, the economic pages of the «Corriere della Sera» and of the «Stampa» were entrusted by the editors to two university professors who for 25 years, from 1900 to 1925, struggled to enlighten public opinion about the vagaries and effects of protectionism, bad money, monopolies and economic privileges. The advent of Fascist totalitarianism marked the end of independent journalism in Italy. One by one, the old editors were obliged to surrender. Owing to a technical fault in the deed of association, Senator Albertini was obliged to withdraw from the editorship and his family from the proprietorship of the «Corriere della Sera». Senators Frassati (Stampa) and Bergamini (Giornale d’Italia) were likewise obliged to sell their property rights respectively to the FIAT concern and to a Signor Armenise. The «Gazzetta del Popolo» passed from the Cerri family and its associates to the SIP (electricity) concern. If they had not sold their interests, the newspapers would have been suppressed by the Fascist Government. Thus, violence – a legal violence indeed, but violence all the same – expelled the old editors and proprietors in 1925 from the guidance of the Italian press.

 

 

IV

The present situation and the future

In the interval between 1925 and 1944 these glorious old newspapers were prostituted. They became mere propaganda tools in the hands of the Fascists. Therefore some say: «Their very name means shame. Suppression is the only way to make them expiate their sins».

 

 

Beware of too-logical reasoners. Their moralism cloaks a struggle among the political parties. Every party would be only too glad if it could become the master of the «Corriere della Sera» or the «Stampa»; but as it is afraid that some other party might be the winner in the race, it prefers that none should have them. This is the gist of the matter. This is the real reason why they want the old papers eliminated and only those dailies published which are party organs. Nor can the problem be solved by having the government, or some government-controlled committee, take over the management of the old papers.

 

 

Any such course means the suppression of critical independent opinion. The Socialist, Communist and Christian-Democratic Parties are mass parties, well organized. Their official newspapers, «Avanti!», «Unità» and «Popolo», will obviously have a following among the organized members of their respective parties. Intermediate, liberal opinions are to be found among the middle class, in the professions, both public and private, and also among independent agriculturists, artisans, small and medium landed and house proprietors. They were never organized in the past; and it is improbable they ever will be. These classes, which are the backbone of Italian society and control perhaps a majority of votes, cannot be reached by the party press. Cut them off from the great daily press, and they are practically cut off from political life.

 

 

The Italy of the future will be ruled by the men elected by the people at large. What is wanted is that all shades of opinion can be presented to the public so that the electors will make a reasoned choice. What is wanted is that independent public opinion should be placed again in the position of relying upon an independent press. This situation is not especially Italian; it is worldwide. Italy has a chance to give a sound solution to a general problem presented in many countries.

 

 

The principles which should govern the renaissance of the independent press are the following:

 

 

  1. Present proprietors must be expelled, for two reasons. First, their position is morally indefensible. They ignominiously made themselves subservient voices of the dictator. Second, they are suspected of being voices of private interests. The «Stampa» (Turin) is now the property of the gigantic FIAT concern (automobiles and engineering); the «Gazzetta del Popolo» of the SIP (one of the biggest electricity trusts); the «Corriere della Sera» of the Crespi family (cotton); the «Giornale d’Italia» of a Signor Armenise who was recently indicted before the Court of Justice as a Fascist profiteer.

 

  1. The present proprietors must be duly indemnified. A judicial expert can estimate the present value of the expropriated concern. The buyers will have to pay the price. If the state has a claim on the proceeds because of taxes, general or special, such as taxes on Fascist profiteering, a special lien should be placed upon it.

 

  1. An option should be given the old proprietors who were expelled from their property in 1925, or to their heirs, or to a group headed by them, to repurchase, at the stated price, the concern which was formerly their property. In many cases, the option will be taken up. In a regime of freedom, the daily press, if well managed, is bound to be again, as of old, one of the most prosperous ventures of the country.

 

  1. Guarantees should be exacted to make sure that special private interests will not acquire predominance.

 

  1. The editor should be solely responsible for the political, economic, financial and general policy of the newspaper. If he is willing, he should also be entrusted with the management of the concern (as was the rule before 1925 for the «Corriere della Sera», the «Stampa», and probably others also). Once appointed, the editor should not be dismissed nor have his powers restricted without the consent of the body outlined below.

 

 

The present offers an unhoped-for occasion for adopting in Italy a method which I think was first initiated in Great Britain, when the proprietorships of the «Times» and of the «Economist» were transferred from the Walter and Wilson families to shareholders’ companies. It was deemed necessary to guarantee that these world-famed institutions should not become the property of financial or other interests which might have policies running contrary to the public interest. A body of trustees was created – men enjoying universal respect – with the duty and right of consenting to the appointment of new editors and to any transfer of shares, thereby ensuring the future independence of the newspapers.

 

 

There would not be any difficulty in adopting some such device in Italy. Of course the system need not be enforced for the small fry. Only those newspapers which have reached a circulation of at least 100,000 copies and are not the official organs of a political party or of a trade union or other economic association need appoint a Board of Trustees. Once selected, the Board should be self-recruiting.

 

 

An editor who is bound to obey the directions of a party caucus is not a true editor. He is a servant of other men. He cannot create: he can only follow. His paper will never be great. Only the editor who is free to diffuse independent ideas can make and keep a newspaper great. Italy, and all Europe, needs great independent newspapers to lead men again into the ways of freedom.

 

 



[1] Ristampato con il titolo Il problema dei giornali [Ndr.].

Il problema dei giornali

«Nuova Antologia», vol. 434, luglio 1945, n. 1735

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 559-570 e 579-592

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 932-971

Giornali e giornalisti, Sansoni, Firenze, 1974, pp. 51-94

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 157-184

Dopo un breve periodo di limitazione, vi è stata, particolarmente nella capitale, una fioritura di giornali, che ci può sembrare eccessiva e non è nuova. In ogni momento di grandi commozioni politiche, dal 1789 al 1793 in Francia, nel 1798 e 1799, quando crollavano i regni e fiorivano le repubbliche in Italia, e di nuovo nel 1848 e nel 1849, e poi nel 1859 e nel 1860, nei momenti critici del nostro risorgimento, il numero dei giornali, dei fogli e delle effemeridi di ogni sorta si moltiplicò. Fioritura destinata ad essere effimera, anche se ai tempi rivoluzionari non avessero fatto seguito, come dopo il 1800 od il 1849, anni di governo illiberali o tirannici. Alla lunga tutti si stancano di perdere denaro, anche in difesa propria, quando ci si avvede che lo scopo non può essere conseguito per quella via. Giova per ora alla moltiplicazione dei fogli quotidiani e delle riviste la stessa scarsità della carta, divenuta perciò un bene razionato e distribuito con criteri detti “di giustizia”, i quali forse sono necessari ad evitare accaparramenti da parte degli imprenditori meglio provveduti, ma sono certamente irrazionali e dunque sostanzialmente ingiusti. Il favore del pubblico non giova a far crescere la tiratura del giornale ben fatto, il quale fornisce notizie vere e commenti reputati indipendenti ed aggiustati dai lettori; ché il distributore ufficiale di un bene scarso (carta), è costretto a seguire criteri oggettivi di graduatoria, come l’uguaglianza o l’anzianità od altrettanti metri formali. Di qui nasce, come per tutti i beni scarsi, l’effetto ovvio dell’aggiustamento illegale, grazie al quale i giornali scarsamente venduti trasferiscono ai giornali più diffusi l’eccesso delle assegnazioni a prezzi di mercato nero. Ma l’aggiustamento è imperfetto, sia perché l’industria del fondare giornali allo scopo di non essere letti ed aver largo margine di carta vendibile (diceva già Costanzo Chauvet, desideroso di non sprecare in carta l’assegno ricevuto sui fondi segreti: «a me basterebbe stampare tre copie del Popolo romano: una per il ministro dell’interno, una per il procuratore del re ed una per me”), diventa sempre meno redditizia quanto più cresce il numero dei concorrenti al riparto del bene scarso, sia perché i prezzi esorbitanti di mercato nero pongono un limite alla convenienza dell’acquisto di carta da parte dei giornali diffusi. Il rimedio si avrà quando la carta tornerà ad essere una merce venduta a prezzi uguali al costo marginale, e il rimedio si attuerà tanto più presto quanto più liberamente si consentirà l’entrata della carta dall’estero. In regime di mercato libero, il pubblico deciderà sovranamente quali giornali debbano sopravvivere e quali morire; e la sua sarà una decisione presa di giorno in giorno spontaneamente, senza minacce e pressioni di governi, di spiriti o di gruppi sociali; né gli inserzionisti potranno opporsi al voto segreto e libero dei compratori al minuto e degli abbonati, essendo evidente il loro interesse a preferire i giornali a tiratura maggiore e migliore.

Rimarranno in vita i giornali “dichiaratamente” di partito o di gruppi sociali e quelli indipendenti. Tutt’e tre le specie hanno ragione di vita e posseggono dignità morale; le due prime perché ogni partito ed ogni organizzazione economica o sociale ha diritto di esporre e difendere i propri convincimenti e di attirare a sé il maggior numero di partitanti o di organizzati; e la terza perché partiti politici ed organizzazioni sociali sono, per definizione, corpi già costituiti e l’interesse massimo della collettività è invece volto all’avvenire, al nuovo, al non ancora costituito, all’idea che non ha ancora acquistato favore bastevole a giustificare la formazione di un partito o di una lega o sindacato. Solo l’uomo, la persona, il cervello pensante è capace di creare il nuovo, di non inchinarsi agli andazzi, di pronunciare le verità spiacevoli ai più. Solo il giornale indipendente espone l’idea nata nel cervello di chi la mette sulla carta e non quella che è riuscita già ad affermarsi nei consessi o nei consigli dei partiti politici e dei gruppi sociali, e che, per essere riuscita a tanto, dimostra senz’altro di essere un’idea non certamente nuova, probabilmente già passata al vaglio di parecchie generazioni, forse già antiquata o, come si usava dire nel tempo fascistico per le idee fornite dell’attributo di giovinezza eterna, superata. Poiché una società qualsiasi lentamente muore se vive solo di idee vecchie, ed anche rapidamente si dissolve se corre esclusivamente dietro alle idee “nuove”, fondate per lo più su ragionamenti formalmente veri, i quali tengono conto solo di taluni elementi della complicatissima struttura sociale e sono perciò storicamente e razionalmente falsi, in una società progressiva e salda debbano coesistere giornali di partito, giornali di gruppo e giornali indipendenti.

Per restringerci a questi ultimi, il metodo accolto rispetto alle imprese proprietarie dei grandi giornali indipendenti parmi pericoloso. Invece di espropriare coloro i quali fecero scempio di onorande testate e di restituirle agli antichi proprietari i quali fossero disposti a pagare a chi di ragione – e questi potrebbe essere in parte l’erario pubblico – il pieno prezzo odierno di stima, si sottoposero quelle imprese, per ora, sembra, senza il diritto a comparire col titolo antico, ad un regime commissariale, del quale, astrazion fatta dalla dignità degli odierni commissari, le conseguenze non possono non essere politicamente pessime. Se il regime commissariale ha una significazione, esso significa dare il giornale in mano al governo od al comitato di partiti il quale designa i commissari. Si perpetua il sistema dei giornali i quali paiono tali e sono invece, come al tempo fascistico, bollettini ufficiali o voci del padrone. Non monta che della voce del padrone si facciano eco comitati interni eletti dai redattori, impiegati ed operai dello stabilimento nel quale si stampa il giornale, o fiduciari di uno o di parecchi partiti, i quali siano riusciti ad impadronirsi dell’impresa. Quello non è un giornale indipendente; ma un organo del governo o del ministro o del comitato che nominerà il commissario. Anche le gazzette ufficiali hanno un proprio ufficio; ma importa che il pubblico sia addottrinato intorno a questa loro vera natura. Il metodo, che pare sia stato tentato a Milano di un Corriere di informazioni il quale, per la rassomiglianza della testata e dell’aspetto tipografico, fu dal pubblico ricevuto come un surrogato del Corriere della Sera, apparve subito essere espediente incongruo. Non basta che il direttore sia una egregia persona ed al gerente o commissario sia affidato esclusivamente il compito di conservare intatto il patrimonio dell’impresa. Né il direttore puòdirigere, se non sia interamente e contrattualmente indipendente da governi, da partiti, da ingerenze dei proprietari dell’impresa; né l’impresa vive, quando chi la gerisce abbia unicamente il compito di conservarla. Solo un’impresa liberamente indirizzata dal direttore-gerente o dal direttore, al quale il gerente sia subordinato, è viva e vitale. Un’impresa che sia altrimenti congegnata può sopravvivere a lungo, vivendo del suo passato; ma è destinata a morire.

Il problema non è dunque quello di rappezzare ibridi metodi; ma l’altro di garantire l’indipendenza della stampa, non affiliata in modo dichiarato ad un partito o ad un credo o ad un interesse (di operai, di contadini, di imprenditori, di banchieri, di proprietari, di artigiani, di mezzadri, ecc.), contro il pericolo che oggi si definisce delle «forze oscure della reazione in agguato», ed è, se si voglia parlare in lingua volgare, quello della partigianeria, delle informazioni inesatte o false o capziose, dei commenti inspirati ad interessi particolari, contrastanti con l’interesse dei più.

Si vuole per lo più conseguire l’intento, indubbiamente alto, anzi imperiosamente richiesto dal bene comune, con mezzi legali. Dei quali il primo è una variante dell’antico “diritto di rettifica”, consentito a coloro i quali ritengono che, a lor danno, un fatto sia stato narrato in maniera non rispondente al vero o si sia pubblicato un commento ingiurioso o diffamatorio. Si vorrebbe cioè che, in ogni giornale una determinata quota dello spazio, ad esempio, una decima od una quinta od altra parte, sia riservata alla inserzione di rettifiche o di repliche inviate dai direttori o redattori od anche lettori di altri giornali, i quali reputassero lesa in qualche modo la verità nella narrazione e la equità del commento degli accadimenti quotidiani. Il lettore del Corriere della Sera – supponiamo per un momento di ritornare ai tempi antichi pre-fascistici – non correrebbe il rischio di essere addormentato da un commento troppo prudente o da una versione attenuata di un incidente parlamentare, od inferocito da un articolo acceso o da una narrazione ingrossata ad arte; ché, il giorno dopo, potrebbe leggere sul suo stesso giornale la rettifica o la replica del direttore dell’Avanti!; e lo stesso accadrebbe per i lettori dell’Avanti!, ammoniti subito, nel corpo del loro stesso giornale, dell’esistenza di circostanze taciute o male narrate o di possibili diverse interpretazioni dei redattori o lettori del Corriere della Sera.

Le varianti del concetto sono molte; ma suppergiù si possono ridurre all’idea che sia opportuno far presenti ad ogni lettore le diverse facce dello stesso fatto o problema. Per fermo la cosa è opportuna, ma il mezzo è incongruo. Innanzitutto la diversità nel vedere e nel commentare il medesimo fatto è insopprimibile. È impossibile che occhi appartenenti ad uomini diversi veggano uniformemente il medesimo fatto. Non esiste la storia o la cronaca oggettiva. Per ciò solo che un fatto, per essere appreso, dovette passare attraverso gli occhi e il cervello di due uomini diversi, quel fatto è e non può non essere narrato in modi diversi e forse contraddittori. A seconda della conformazione del cervello, dell’educazione, delle tendenze religiose o politiche, delle relazioni sociali, degli affetti familiari, quel che sembrò all’uno atto di ascesi religiosa, pare all’altro affetto da bassa superstizione; l’entusiasmo politico prende aspetto di gregarismo follaiuolo; il fervore rivoluzionario di brigantaggio. Ubi est veritas? Il lettore del Corriere della Sera, che probabilmente non sdegna di leggere spesso o talvolta l’Avanti!, sarebbe, invece che convertito, irritato dalle rettifiche impostegli, in virtù di legge, sul suo proprio giornale dall’avversario; e la rettifica sortirebbe effetto contrario a quello auspicato; così come accade od accadeva per quelle che i giornali pubblicavano obtorto collo sotto il titolo: «Riceviamo per mano d’usciere e pubblichiamo a norma di legge».

La rubrica delle rettifiche e dei dibattiti forzosi finirebbe per cadere in disuso, perché i lettori non comprenderebbero la necessità di leggere sul proprio giornale il riassunto delle notizie e delle argomentazioni che più ampiamente e genuinamente potrebbero scorrere nelle colonne del giornale avversario. Il direttore di un giornale, il quale indulgesse a siffatta pratica verso i giornali avversari, finirebbe per essere reputato uomo di poco buon gusto ed essere tenuto in conto di giornalista attaccabrighe, nomea, alla quale nessun uomo di valore è particolarmente affezionato. Il rimedio della “rettifica” è uno dei tanti esempi di degenerazione “legale” di un “costume”, il quale merita di entrare “volontariamente” nell’uso. Derivano dal “costume” e non dalla “legge” la rubrica delle “lettere al direttore”, oramai principalissima e popolarissima nei giornali di lingua inglese e palestra preferita dei lettori convinti della bontà di idee contrarie a quella del direttore; e quella, già divulgata in Italia innanzi al 1925, dei brevi riassunti degli articoli principali degli altri giornali; e finalmente la larghezza con la quale i giornali di informazione italiani trasmettevano da Roma i commenti dei giornali delle più diverse tendenze. Ma il rimedio, efficace se volontario, diventa irritante e fastidioso se coattivo. La libertà di stampa trova in se stessa rimedio alla propria unilateralità. Se il direttore di un giornale indipendente il quale non informa i lettori sulle opinioni diverse dalle sue, non sa l’abici del suo mestiere, il direttore, che vuole a forza far entrare le sue idee nella testa dei lettori del giornale d’altra tendenza, presto o tardi finisce di essere giustamente reputato da tutti, ed a giusta ragione, seccatore e jettatore. Ambedue sono destinati a condurre il proprio giornale a rovina.

Maggior favore incontrò in passato e incontra di nuovo rimedio della “pubblicità”. Si vuole che nella gestione dei giornali si possa guardare da tutti, come in una casa di vetro; e che perciò debbano essere resi di pubblica ragione i nomi dei proprietari, dei soci, dei fornitori di capitali in conto corrente od a mutuo, dell’importo delle quote e crediti di ognuno e di tutte le variazioni di esso; e siano pubblici, insieme con i documenti giustificativi, anche i conti delle entrate per vendita al minuto, abbonamenti, pubblicità e sovvenzioni d’ogni specie; e così pure delle spese tipografiche, telefoniche, telegrafiche, di quelle per stipendi assegni e gratificazioni; a direttori redattori impiegati ed operai; così che si possa ad ogni momento conoscere l’origine e la destinazione delle somme passate attraverso il giornale. Scopo della pubblicità è di sapere se il giornale sia assoggettato all’influenza di forze economiche o finanziarie o politiche, le quali possono essere contrarie all’interesse pubblico e, se queste forze esistono, denunciarle al tribunale dell’opinione pubblica e, smascheratele, ridurle all’impotenza.

L’esigenza della pubblicità merita di essere discussa ai fini del raggiungimento di fini pubblici diversi da quelli sopra considerati. Se si ritiene necessario di accertare i redditi netti assoggettandoli all’imposta, il legislatore può dare al procuratore alle imposte ampia facoltà di visione dei libri e documenti sociali. Siffatte facoltà son già date, amplissime, in Italia; e non si vede come il farne oggetto di nuova legiferazione possa crescerne l’uso efficace. Può darsi, parimenti, che in avvenire si diano a taluni pubblici ufficiali o magistrati facoltà di investigazione nei libri e nella contabilità di private e pubbliche imprese, allo scopo di accertare se esse usino metodi monopolistici, come, ad esempio, accordi per minimi di prezzo, restrizioni di clientela, accaparramento di brevetti e simili, atti a danneggiare i consumatori. Nella recente pratica nordamericana si hanno esempi cospicui di tali investigazioni promosse da magistrati o da commissioni pubbliche per combattere coalizioni monopolistiche.

Dubito che un sistema di pubblicità particolare per i giornali sia efficace a dar purezza allo scrivere quotidiano. Quando mai si vide che diffamatori ricattatori intimidatori pistolettatori non sapessero vestire purissime candide vesti di difensori della verità, di propugnatori di sacrosanti principi, pronti a morire per la difesa della loro fede? Quando mai si vide che il prezzo del ricatto fosse scritturato sui libri regolarmente tenuti dall’impresa giornalistica, creata allo scopo di ricattare diffamare intimidire e puntar pistole? Vedemmo prima e durante il ventennio fascistico nascere e fiorire giornali fondati sulla intimidazione; eppure i loro libri non avrebbero dato modo all’investigatore più sottile di trovare la prova del reato commesso. Forseché è vietato ad una banca di versare il prezzo dell’abbonamento per conto di dieci cento o mille dipendenti? È forse illecito preferire l’uno all’altro giornale per la pubblicità? Chi può conoscere i biglietti da mille forniti, senza alcun contrassegno, a titolo di ricordo, fra le pagine di un libro donato al giornalista dalla penna agile a scrivere sentenze vantaggiose al donatore? In questa delicata materia giornalistica l’arma della pubblicità è a doppio taglio. Si parte dalla premessa, dimostrata agli occhi miei dalla esperienza universale, che l’impresa giornalistica, la quale ubbidisce ad interessi particolari diversi da quello proprio del giornale – vender notizie vere e scrivere commenti ritenuti corretti da chi scrive – non può guadagnare; anzi è condotta necessariamente alla meta fatale: scarsa vendita e perdita in conto esercizio e in conto capitale. Se gli interessi difesi dal giornale sono particolari, gli interessati ben sapranno mettere a capo dell’impresa filantropi o credenti disposti a sacrificar tempo e denaro per la difesa di quel particolare interesse, che può essere quello della protezione doganale ad una industria, del promuovimento di una iniziativa anti-economica. Quei filantropi stipendieranno sociologhi ed economisti, pronti a dimostrare che solo così si dà lavoro ad operai disoccupati e stringeranno alleanza con organizzatori sindacali illusi che quella sia la via migliore a procacciar lavoro ai loro operai. Chi oserà condannare il filantropo il quale perde denari?

Il giornale “indipendente” definito come scrissi nel 1928 e ripetei nel 1944, se è diretto da uomo capace energico ardente e credente nella sua missione, ubbidiente solo a Dio ed alla sua coscienza ed a nessun altro, non può non guadagnare. Poiché Dio concede a pochissimi uomini, in ogni generazione e in ogni grande paese, le qualità di capacità energia fede ed ardente visione, necessarie a fare il capo di un giornale indipendente, così è fatale che quell’uomo faccia guadagnare assai all’impresa. Egli vende notizie e pubblicità a prezzi di mercato, a prezzi non superiori, anzi inferiori, se misurati per unità di pubblicità venduta, a quelli degli emuli, i quali perdono; ma poiché il pubblico lo segue, egli guadagna dove gli altri perdono. Guadagna, perché rende servizi migliori, perché sa procacciare al suo giornale le notizie più fresche dai paesi più lontani, perché si circonda di redattori e collaboratori scelti con cura e remunerati meglio di quelli dei giornali concorrenti. Come in tutte le imprese bene organizzate, egli vende a buon mercato e guadagna assai, perché i suoi costi sono alti, perché remunera largamente i suoi collaboratori, dal compositore al redattore capo, perché alla fine dell’anno od al chiudersi di qualche brillante servizio invia, senza attendere richiesta, a chi rese il servizio, particolari eccezionali guiderdoni.

Eccolo, in regime di pubblicità giornalistica, fatto oggetto di accuse invereconde. Guadagnò? Perciò rubò. La canea dei versipelle pennivendoli non consente al pubblico, ignaro del meccanismo della grande fortunata impresa giornalistica, di far propria l’idea elementare che sta a fondamento del successo: che solo il venditore onesto di notizie vere e di commenti creduti veri da chi li scrive può aver fortuna. Poiché si tratta di idea elementare, della stessa idea per cui fa, alla lunga, fortuna, modesta o grande non monta, colui che produce e vende frutta serbevole e sapida e non marcia e verminosa, vino genuino e non acqua tinta, panni duraturi e non stracci che la prima pioggia dissolve; quella idea stenta ad entrare nella testa del pubblico, invincibilmente tratto a comprare il giornale buono e altrettanto invincibilmente credulo alle calunnie più inconsistenti contro di esso.

Impotente a seguire la gente prezzolata da interessi inconfessabili, la pubblicità imposta dalla legge, praticata da autorità obbligata ad agire per regole generali, inspirata dall’odio istintivo contro chi si eleva per meriti propri, assai difficilmente riesce a punire il colpevole, e facilmente giova a frastornare ed impedire il bene. Congegnata così come si legge nei testi legislativi di prima il 1914, essa è impotente a conseguire l’unico suo fine pubblico, non proprio all’industria giornalistica, intendo dire il fine della lotta contro i monopoli. In Italia non è attuale il problema che si pone in Inghilterra e negli Stati Uniti per alcuni gruppi giornalistici di grande tiratura e di scarsa influenza politica; non già per i Times od il Manchester Guardian e lo Scotsman, ma per i Daily Mail, i Daily Sketch e simili, e cioè i cosiddetti giornali gialli a tiratura di milioni di copie. Essi spesso sono una piccola rotella in gigantesche imprese che vanno dal possesso delle foreste alle cartiere, dalle cartiere ai mezzi di trasporto, dalle agenzie fornitrici di notizie ai giornali quotidiani della metropoli e della provincia, alle riviste settimanali e mensili, alle biblioteche circolanti. Il problema si pone: sono vantaggiose queste imprese verticali? Non minacciano l’esistenza del giornale indipendente, impresa a se stante, ridotta a mendicare la carta e le notizie dal colosso monopolizzatore che gli è sorto accanto? Per togliere il pericolo, giova statizzare od altrimenti dar pubblico carattere al colosso, asservendolo allo stato ed al partito dominante e così distruggendo per altra via l’indipendenza che è garanzia di libertà? Formidabili problemi, i quali si profilano appena sull’orizzonte, ché la concorrenza tra i parecchi colossi è ancora viva, e prosperano tuttora, nonostante il fracasso, i giornali indipendenti, i soli i quali abbiano presa sulla opinione pubblica; conservatrice The Times, liberale The Manchester Guardian o laburista The Labour Herald. Ad escludere il pericolo, basterà in Italia aprir le porte alla carta straniera da giornali, in esenzione di dazio.

Fa d’uopo persuadersi che non esiste e non esisterà mai alcun rimedio legale atto a garantire l’indipendenza della stampa quotidiana. Anche il rimedio da me segnalato nella nota dei Foreign Affairs[1] a nulla varrebbe se fosse imposto dalla legge. Se il legislatore imponesse di istituire, «accanto al consiglio di amministrazione delle imprese giornalistiche un consiglio di fiduciari» incaricato di dare il benestare alla scelta del direttore ed al trapasso delle azioni o carature dall’uno all’altro socio, avremmo creato soltanto un organo cartaceo, privo di efficacia, qualcosa di simile ai soliti “collegi sindacali”, a cui è affidato il controllo della veridicità dei conti delle società anonime. Se tutti i giornali debbono avere al loro lato un collegio di probi uomini incaricati di affermare, secondo il dettame della loro coscienza, che il tale scelto come direttore dai proprietari è persona onorevole e veritiera, dove si troveranno i probi uomini pronti a scartare il tal’altro perché disonorevole e bugiardo? Se i probi uomini debbono affermare per tutti i giornali, ed anche solo per quelli che superano una data tiratura, che l’aspirante azionista o caratista non ha interessi contrastanti con l’interesse pubblico, quale mai probo uomo oserà diffamare il suo simile affermando l’impurità dei suoi propositi? No. Siffatti metodi riescono solo se volontari ed eccezionali. Quando gli inglesi seppero che i proprietari dei Times o dell’Economist a salvaguardare in perpetuo la buona fama del loro giornale, avevano affidato ad un collegio composto dei tali e tali uomini eminenti ed universalmente stimati l’ufficio di approvare le scelte dei futuri direttori ed i trapassi futuri delle azioni, si sentirono rassicurati. Badisi però che la scelta del collegio iniziale fiduciario non fu imposta da alcun pubblico potere né fu affidata ad alcuna autorità. Quei tali uomini parvero bene scelti; e parve a tutti buona cosa che, venendo a morire alcuno di essi, i sopravvissuti scegliessero, fossero statutariamente chiamati a scegliere, con giudizio insindacabile, l’uomo destinato a sostituirlo e così via in perpetuo.

In questa materia non giovano le elezioni, le scelte fatte da corpi pubblici e simili. Siamo in un campo assai vicino a quello delle accademie scientifiche o delle facoltà universitarie. Questi sono corpi chiusi, necessariamente chiusi, ai quali non si addicono metodi qualsisiano di suffragio di estranei. La loro prosperità dipende da una scelta iniziale. Siano venti o quaranta o cento persone autoelettesi in società private e poi riconosciute dal governo, come accadde in Inghilterra od in Piemonte; o siano originariamente scelte da un Richelieu o da un Federico II, la vita dell’accademia dipende dalla cooptazione che di nuovi membri faranno man mano i sopravissuti, cooptazione e cioè chiamata insindacabile e non motivata, fatta dai soci in carica, di altre persone che essi stimano via via degni di essere fatti senz’altro uguali a se stessi. Il metodo della cooptazione durò per secoli a garantire la stabilità degli ordinamenti statali nelle repubbliche marinare di Venezia e Genova; e poi fu disusato nelle cose politiche. Ma nessun altro metodo mai si inventò e probabilmente mai si inventerà a garantire la buona scelta dei membri dei corpi accademici. Quel metodo affida agli accademici ed agli insegnanti in carica il duro compito di scegliere coloro che, appena scelti, diventeranno in tutto gli uguali degli elettori, ed ai quali sarà affidato in avvenire l’arduo ufficio di perpetuare la reputazione del corpo. Non esistono regole le quali garantiscono la buona scelta; ché il giudizio, se deve essere primamente scientifico, deve in ugual misura essere anche morale e riguardare la dirittura di carattere degli aspiranti ad entrare nel corpo. Perciò ottimi sono quegli statuti, i quali più che sancire il diritto delle maggioranze a cooptare un nuovo socio, garantiscono il diritto di veto di una piccola minoranza, in taluni casi persino del quinto dei cooptanti, contro le nuove ammissioni. In una piccola società è sacro il diritto, se non dell’uno, dei pochi, di non ammettere nel proprio seno persona della quale non si abbia stima e della quale non si vorrebbe essere costretti a stringere la mano. Chi si senta menomato dal rifiuto di cooptazione dei soci di un accademia sia libero di fondarne una nuova libera. Se conquisterà fama, col tempo otterrà degno riconoscimento; e sarà anch’essa aristocratica, come quella alla quale in origine si contrappose.

Avrà successo quel giornale il quale primo oserà sottoporre volontariamente la scelta del direttore e dei soci futuri al giudizio di un consiglio fiduciario, purché la scelta originaria dei fiduciari incontri il consenso spontaneo dell’opinione pubblica. In un primo momento pensai che forse i fiduciari potrebbero essere tali in ragion dell’ufficio coperto: il primo presidente della corte d’appello, il rettore dell’università, il cardinale arcivescovo, il presidente della massima associazione operaia locale e simiglianti autorevoli persone. Ma al metodo ostano due difficoltà: di cui la prima si è che non sempre quegli uomini possono essere vogliosi od atti ad assumere il fastidioso e geloso incarico; e la seconda è che le medesime persone potrebbero esser chiamate a dare giudizi, sia pure di sola dirittura morale, intorno a uomini appartenenti a differenti e contrastanti tendenze politiche, religiose e sociali e correrebbero il rischio di essere trascinati in mezzo a spiacevoli competizioni di parte. Perciò val meglio riconoscere francamente il fatto: che il responso dei fiduciari non ha e non può avere alcuna virtù tratta dalla legge o dall’autorità. Nessuno può asserire, in virtù dell’ufficio coperto, che il tale è uomo moralmente probo. Questo è un giudizio personale insindacabile, del quale non può essere fornita alcuna prova. Dinnanzi a siffatta impossibilità, sembra ottimo partito rinunciare alle finzioni legali e concludere: «questi sono gli uomini, uomini e non cariche, ai quali, ed ai successori che essi liberamente vorranno scegliere, noi affidiamo il giudizio morale sulla rettitudine dei direttori e dei proprietari futuri del giornale. Se noi avremo scelto bene e se essi sceglieranno bene i loro successori, il pubblico avrà fiducia in noi e crederà nella nostra parola. Se noi ci saremo sbagliati, pagheremo il fio del nostro errore. Altri, che avrà scelto meglio, acquisterà credito e lettori e ci sopravanzerà».

La conclusione è destinata a lasciare disillusi coloro i quali credono nei rimedi legali ai mali morali. Poiché è certo che a siffatti mali non giovano anzi nuocciono quei rimedi, giova tentare la via opposta: che è di promuovere il volontario ricorso ad un rimedio puramente morale.

 

[1] «Il momento attuale offre un’occasione insperata per adottare in Italia un metodo che io credo abbia avuto inizio dapprima in Gran Bretagna, quando le aziende del Times e dell’Economist passarono dalle famiglie Walter e Wilson nelle mani società per azioni. Si ritenne necessario garantirsi che questi istituti di fama mondiale non avessero a diventare proprietà di gruppi finanziari o d’altra specie, gli interessi dei quali potessero imporre direttive contrarie all’interesse pubblico. Fu creato un comitato fiduciari (Board of trustees) composto da uomini di sicura stima con l’obbligo e il diritto di approvare o meno la nomina di nuovi direttori e ogni trasferimento di azioni, assicurando in tal modo, per l’avvenire, l’indipendenza di quei giornali. Non ci sarebbe alcuna difficoltà a adottare in Italia un qualche espediente analogo. Non occorrerebbe, senza dubbio, applicare il sistema ai casi di minimo rilievo. Soltanto quei giornali che avessero raggiunto una tiratura, dicasi, di almeno 100 mila copie e non fossero gli organi ufficiali di un partito politico o di un sindacato o di un’altra associazione economica, dovrebbero essere sottoposti al controllo del “comitato dei fiduciari”. Una volta scelto, il comitato dovrebbe provvedere alla propria continuazione mercè il metodo della cooptazione». (Dall’articolo The future of Italian press pubblicato sul quaderno dell’aprile 1945 di «Foreign Affairs», pp. 505-509 e ripubblicato in italiano su «La nuova antologia» del luglio 1945, unitamente al presente articolo).

Il giornalismo italiano fino al 1915[1]

Il giornalismo italiano fino al 1915[1]

«Nuova antologia», luglio 1945

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 559-570

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 932-971

Giornali e giornalisti, Sansoni, Firenze, 1974, pp.51-94

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 157-184

 

 

 

 

La Storia del Croce rimarrà nella nostra letteratura per avere primamente narrato il travaglio della vita italiana durante un periodo storico (1871-1915), intorno al quale era venuta formandosi, fin da quando esso era in pieno sviluppo, l’opinione con facilità accettata e divenuta quasi pacifica, di mediocrità grigia, di abbassamento morale intellettuale ed economico, di disintegrazione politica e sociale. Si contrapponeva quel periodo al glorioso risorgimento nazionale e si provava una stretta di cuore a tanta decadenza. Gran merito del libro di Croce è di aver dimostrato, in modo definitivo, che l’Italia dal 1871 al 1915 non fu né mediocre né decadente, né disintegrata; che in quegli anni grandi problemi furono posti, vissuti e, per quanto si possono risolvere problemi, risoluti; che una intensa e varia esperienza economica e intellettuale fu accumulata, sicché alla fine l’Italia era diversa da quella del 1860 – 1870 e perciò più atta a superare le nuove prove che l’attendevano nel 1915. Naturalmente, il Croce, filosofo e storico, dà la dimostrazione del suo assunto in conformità al suo abito mentale, alla sua concezione della vita, così come da tutti gli storici sempre si fece e, sinché non si scopra quell’entità fantastica detta storia “oggettiva”, sempre si farà. Perciò ognuno di noi, leggendo, pensa che, se egli si fosse sentito da tanto da scrivere quella storia l’avrebbe scritta diversamente, perché, trattandosi di accadimenti vicini, ricordati ancora da molti, ognuno se ne era fatta un’idea propria, diversa probabilmente da quella che espone il Croce. Il guaio si è che bene spesso le idee dei lettori sono confuse e non organate; laddove il Croce ha rivissuto quel periodo, lo ha riorganizzato nella sua testa e ci ha dato una storia dove si legge almeno chiara una affermazione conclusiva: che un’Italia c’era e che quel che essa fece dal 1871 al 1915 non fu né mediocre né infecondo. Altri dirà che l’Italia d’allora fu diversa da quella che vide il Croce e che le cose compiute furono quando mediocri e quando alte per ragioni e in momenti differenti da quelli osservati da lui; e potrà darsi che queste altre storie, quando saranno scritte, siano anch’esse degne di rimanere come quella che ci sta dinnanzi agli occhi. Allo scopo di recare un lievissimo contributo a questa opera di revisione continua del concetto che noi ci facciamo del passato, io, invece di riassumere un libro che, immagino, sarà stato già meditato da tutti coloro sotto i cui occhi cadranno queste linee, rileverò una lacuna che mi pare di scorgere chiaramente nella Storia.

 

 

Parmi cioè che il Croce dia troppa importanza, quanto a capacità di foggiare i destini italiani, ai dibattiti che si accendevano sui piccoli fogli d’avanguardia mensili o settimanali, che si scrivevano e leggevano tra giovani e certamente contribuirono assai a creare le correnti di idee dominanti poi nel paese; troppa non in sé, ma in rapporto allo scarsissimo peso che egli dà a quell’altra specie di fogli, che era la sola letta dal pubblico, la sola attraverso a cui le idee elaborate dai filosofi e dagli scienziati ed agitate dai giovani giungevano al grosso pubblico, agivano sugli uomini politici e li facevano determinare a questa o quella azione concreta. La lingua batte dove il dente duole; e si perdonerà perciò a chi, in altri tempi, per quasi trenta anni, visse la vita del giornalismo quotidiano, di augurare che qualcuno scriva la storia del giornalismo italiano dal 1860 al 1915. Sarebbe un capitolo non ultimo della storia generale d’Italia in quel tempo e dimostrerebbe quanto si fosse allora faticato e che cosa grande fosse stata costrutta in quel campo. I più avevano avvertito che a poco a poco il giornalismo si era trasformato; e per lo più si lamentava che da foglio di idee, fatto vivere dai fedeli di un gruppo o di un partito, per difendere le idee del partito, il giornale fosse diventato un notiziario fondato su calcoli mercantili di vendita di copie al pubblico e di avvisi agli inserzionisti di pubblicità. Ed altro ancora si lamentava: che i giornali non più facili a fondare da chi aveva molte idee in testa e punti denari in tasca, dovessero essere mantenuti, a suon di milioni, da gruppi bancari ed industriali, intesi, in tal modo coperto, a difendere i propri interessi privati, per lo più contrastanti col pubblico interesse. Uomini di alto sentire nutrivano opinioni così fatte; ai quali era impossibile persuadere esistessero giornali che non fossero l’organo di questo o quell’interesse, dei cotonieri, dei siderurgici, degli armatori, degli agrari e via dicendo. Non faccio nomi, ché sarebbero invidiosi; ma ognuno, riandando mentalmente a quei tempi, sa porre sotto la finca dei cotonieri e dei siderurgici e degli armatori e degli agrari il nome del giornale o dei giornali universalmente reputati essere l’organo di quei particolari interessi. E questi si dicevano “inconfessabili” e si promuovevano disegni di legge in virtù dei quali i gerenti dei giornali avrebbero dovuto farne confessione periodica ed aperta.

 

 

Questa sarebbe, se la si facesse scrivere dal così detto uomo della strada, uomo, per convinzione propria, accorto e bene in grado di non lasciarsi ingannare dalle apparenze, la storia, in riassunto, del giornalismo italiano dopo il 1860 e fino al 1915. Una storia dunque di decadenza, di abiezione materialistica, di penne prezzolate; con forse qualche eccezione per i giornali di partito, superstiti quasi soltanto nel campo dei partiti estremi. Non giurerei, a vederlo citare così pochi giornali e questi quasi soltanto di color rosso, che il Croce non partecipi alquanto al sentire comune; e non abbia giudicato necessario di parlare della forza e della influenza dei giornali, perché li reputava probabilmente mancanti di forza propria, meri traduttori in carta stampata di quelle altre forze, economiche per lo più e raramente di partito, le quali sole erano vive ed originarie.

 

 

Eppure nessuna storia sarebbe così lontana dal vero come questa scritta dall’uomo della strada; cieco dinanzi al sorgere e all’affermarsi di una delle forze più vive ed autonome caratteristiche della civiltà moderna. Esistevano, è vero, giornali di interessi e giornali di partito; ma i pratici di giornalismo sapevano che i giornali di interessi, se erano numerosi e clamorosi, erano tuttavia un investimento a fondo perduto da parte dei siderurgici armatori agrari cotonieri, allo scopo di poter addormentare la coscienza degli uomini politici a cui si chiedevano provvedimenti protezionistici o favori di appalti o di sovvenzioni e si doveva far mostra di chiederli in nome di qualche principio. Ma non erano letti da nessuno e non esercitavano alcuna presa sull’opinione pubblica, perché, in regime di concorrenza di idee, il fiuto del pubblico era infallibile ed esso, pur protestando che i giornalisti erano tutte penne prezzolate, comprava e pagava solo quei fogli che in cuor suo sentiva non essere pagati da altri che dai suoi soldi. Pur letti erano i giornali di partito, specialmente quelli socialisti, quasi soli sopravissuti della specie; ma quelli stessi che avidamente li compravano e li leggevano per rafforzarsi nella propria fede religiosa, spesso acquistavano un secondo e un terzo giornale, di notizie, per sapere, dicevano essi, come andavano le cose in questo vil mondo borghese. Le grosse tirature dell’«Avanti!» non fecero diminuire mai, ed io sono persuaso crebbero la vendita dei fogli di notizie.

 

 

Che cosa era quest’ultima varietà giornalistica? Era la creazione di alcuni pochi uomini, tanto pochi che forse si stenta a far passare, noverandoli, tutte le dita di una mano, i quali avevano capito che nel mondo moderno c’era posto per una industria nuova, indipendente da tutte le altre industrie, intesa a vendere al pubblico notizie e avvisi di pubblicità. Sembra un’idea da poco; ma quegli industriali, i quali fornivano milioni per fondare giornali e poi si arrabbiavano nel constatare che nessuno leggeva i loro giornali ed essi avevano buttato i milioni, non avevano capito che i milioni erano inutili anzi dannosi; ché il mezzo più sicuro per non vendere neppure una copia era quello di spendere denari di altre industrie per far vivere quella giornalistica; che l’unica speranza di successo era, per il fondatore di un giornale, di non accettare quattrini da nessuno e far fuoco con la propria legna. Ignoravano, costoro, che il maggior giornale italiano di notizie era stato iniziato dal suo fondatore senza un soldo, sulla base di una modesta cambiale firmata da alcuni suoi facoltosi amici, e scontata nei modi ordinari; cambiale che fu a poco a poco rimborsata coi proventi del giornale medesimo; il quale, d’allora in poi, sempre pagò a quegli amici ed ai loro eredi fior di dividendi e, sempre dando e mai ricevendo alcunché, poté perciò mantenersi, anche nei loro rispetti, indipendentissimo. Ignoravano che il secondo, per tiratura, giornale di notizie fu assunto, da chi ne rimase proprietario per circa un trentennio, con un modesto apporto, impiegato a salvare la continuità del nome dalla rovina a cui l’aveva tratto l’essere stato sino allora un giornale di partito e di battaglia politica. E dopo quel primo ed unico apporto, sempre quel giornale fornì utili generosi, perché non ricevette mai nulla da nessuno, fuorché dai soldi dei suoi lettori e dal prezzo degli avvisi di pubblicità apertamente stampati e venduti come tali. Da questa premessa perentoria nacque la conseguenza che il giornale di notizie dové, per vivere, vendere unicamente quelle notizie e quegli avvisi che erano meglio in grado di crescere la sua vendita, ossia i suoi introiti. Nella lotta della concorrenza sopravvissero quei giornali i cui dirigenti avevano, dopo la prima fondamentale detta sopra, afferrata un’altra idea semplice; che il pubblico voleva avere, in cambio del suo soldo, merce genuina e non avariata e cioè notizie vere e non false ed avvisi utili e non ingannevoli. Anche qui so di andare contro a un vezzo, che i lettori comunemente affettavano, di reputare fandonie molte delle cose lette sui giornali e imbrogli il più degli avvisi che si leggevano nelle quarte pagine. Ma era un’affettazione, contraria alla convinzione sostanziale di quei medesimi lettori, i quali ben sapevano scegliere il grano dal loglio, l’inventore di notizie sensazionali dal pacato espositore di fatti accaduti secondo le diverse versioni appurabili nel febbrile volgere di poche ore e di pochi minuti; le quarte pagine degli appuntamenti amorosi e della chiave infallibile per vincere al lotto del frate napoletano, dalle quarte pagine, dove, accanto ai residui di specifici farmaceutici ancora, non si sa perché, richiesti dal pubblico, si leggevano sovratutto avvisi di prodotti industriali, richieste ed offerte di lavoro, di case, di oggetti ed altrettanti servigi di intermediazione forniti gratuitamente ad un pubblico, che in cambio del suo soldo aveva già ricevuto abbondante pascolo di notizie. Raccolta e diffusione di notizie vere ed interessanti e fornitura di avvisi utili, ecco i prodotti venduti da questa nuova industria. Se la fabbricazione di tessuti, di macchine, di frutta serbevoli richiede miracoli di intelligenza, di organizzazione, di collaborazione di migliaia di persone, una dall’altra dipendenti ed insieme operose per un fine comune; non è a dire quali tesori di intelligenza, di prontezza di decisione, di sapiente ed elastica organizzazione richiedesse la fabbricazione di quel prodotto immateriale delicatissimo che è la notizia vera e l’avviso utile. L’Italia assolse mirabilmente quel compito e l’assolse ad un costo così basso che aveva del miracoloso. Chi ricorda il soldo dell’anteguerra e paragona mentalmente i grandi giornali italiani di quel tempo ai «Times» di Londra, «Temps» di Parigi, alla «Frankfurter Zeitung» tedesca, ai «New York Times» od alla «Chicago Tribune» deve concludere che i nostri giornali non erano secondi a nessuno; e se riflette poi al minor avanzamento in materia di avvisi, assai più sordi, in paragone, per la minore ricchezza italiana, a rispondere agli sforzi dei direttori di giornali, concluderà forse che, per quanto tocca la materia propria del giornale, in punto di fattura tecnica, di buon gusto nella presentazione e di eleganza nella esposizione delle notizie, a qualche giornale italiano doveva senza fallo essere attribuito il primato assoluto in tutto il mondo.

 

 

Su questo granitico fondamento industriale erasi, a poco a poco, innalzata una nuova forza sociale e politica, indipendente da governi, da partiti e da gruppi economici. Se si volesse definire con una parola sola od una frase questa nuova forza si resterebbe imbarazzati. Non si identificava con l’elettorato, perché quei giornali spesso non avevano per sé i risultati delle elezioni politiche ed amministrative; e di qui traevano argomento gli avversari o meglio i criticati da quei giornali a dire che questi rappresentavano solo se stessi. Non si identificava con il favore momentaneo del pubblico, perché quei giornali per lo più rimanevano freddi di fronte agli idoli od alle passioni del momento. Se una parola può grossolanamente essere adoperata, si può dire che quei giornali rappresentavano, a lungo andare, una delle correnti dominanti nel paese di quella cosa indistinta e inafferrabile, ma tuttavia reale ed esistente, che è l’opinione pubblica. Gli uomini politici del tempo, i partitanti, i difensori di questo o di quel gruppo economico, grandemente si inquietavano quando si agitava dinanzi ad essi lo spettro dell’opinione pubblica; ed i capi dei partiti parlamentari non capivano perché, usciti vittoriosi dalle elezioni che avevano dato loro il crisma del suffragio dell’opinione pubblica “legale”, non potessero attuare il loro programma o far trionfare le loro tesi, dinnanzi alle critiche di quelli che si proclamavano da sé rappresentanti dell’opinione pubblica “vera” del paese. Anche qui essi non avevano capito che elezioni voto parlamento erano necessarie forme legali; mere forme esteriori, tuttavia, di un qualche cosa di più profondo che era la libera discussione tra tutti coloro i quali avevano qualcosa da dire intorno ai problemi importanti per la nazione. Discutere il pro e il contro di un provvedimento, le varie soluzioni di un problema, decidersi a ragion veduta per la soluzione più conveniente, era il vero bisogno del cittadino non quello di sapere se la soluzione era conforme al credo dell’uno o dell’altro partito, alla fede di uno od altro uomo politico. Ciò videro subito i giornali di notizie, i quali aprirono le loro colonne alla discussione dei problemi più importanti di politica estera ed interna economici, militari e culturali del paese; e li discussero necessariamente all’infuori dei reticolati dei partiti, degli interessi dei gruppi e delle predilezioni occasionali degli uomini politici. Essi non potevano fare diversamente, perché se avessero condisceso agli interessi dei gruppi od avessero difeso ad oltranza i programmi di un partito essi sapevano che avrebbero, forse, acquistato il favore del momento di un pubblico facilmente persuaso da pseudo ragionamenti con cui si possono sempre coonestare programmi partigiani o interessi particolari; ma a scapito del favore permanente di quel medesimo pubblico, risvegliato ad un tratto dall’insuccesso di una politica popolare o messo sull’avviso dalla critica dei gruppi danneggiati. Poiché la vita del giornale andava al di là di quella effimera di un gabinetto o di un partito, il giornale di notizie doveva mantenersi indipendente da ministri e da parlamentari, ai quali non poteva, con loro grande rabbia e scorno, rendere servigio di articoli laudativi, di rendiconti estesi di discorsi e di programmi e talvolta doveva infliggere critiche irriverenti per insulsaggini dette o per errori commessi; sicché da ministri e da parlamentari il giornale di notizie era insieme temuto e cordialmente odiato. Odiato, anche perché quei giornalisti professionali, i quali avevano creduto di farsi sgabello della loro forza giornalistica per far carriera politica, si erano veduti bellamente messi alla porta dai direttori dei giornali di notizie, subito dall’esperienza fatti persuasi essere, per la loro impresa, mortale il pericolo nascente dalla subordinazione dell’indirizzo del giornale o anche di una sola rubrica di esso ai fini privati od all’ambizione, sia pur nobile, di un redattore o collaboratore.

 

 

Non minore era l’odio dei gruppi economici, i quali non riuscivano, a cagion d’esempio a comprendere perché i soci di qualche potente giornale non avessero alcuna voce in capitolo nel determinare l’indirizzo politico e sovratutto economico del giornale; e talun collega di industria di qualcuno di quei soci, male sapeva spiegarsi come costoro, molto correttamente, non varcassero mai le soglie della stanza di direzione, neppure per avanzar il sommesso desiderio di veder trattato in un senso o nell’altro qualche grosso problema di dazi o di imposte o di sovvenzioni che stava a cuore della classe; e si angustiavano apprendendo che della soluzione da darsi, sul giornale, a quei problemi era arbitro, non il socio o padrone del giornale, ma un semplice teorico, il quale non riceveva nessuno, ma godeva la fiducia personale del direttore. Ma quei soci e quei proprietari e quei direttori sapevano che solo così, in perfetta indipendenza da partiti e da gruppi, si creava una forza destinata a far presa sull’opinione pubblica ed a crescere autorità morale ad una impresa sorta come una bottega di notizie e di avvisi, ma capace di conservare a sé una clientela affezionata, solo a condizione di darle, insieme con le notizie vere e gli avvisi utili, un lume, una guida per orizzontarsi nel groviglio dei problemi contemporanei politici internazionali economici culturali.

 

 

Che anche su questa via, illuminata da grandi esempi forestieri, l’Italia si fosse avanzata dal 1860 al 1915 in guisa che ciò che era inesistente prima era un fatto compiuto allo scoppio della guerra e compiuto in maniera non inferiore a quella osservata nei paesi di esperienza più antica, parmi fatto storico abbastanza importante da meritare un capitolo in una storia che narri gli accadimenti italiani di quel tempo. Importante, perché la creazione di una forza economica e tuttavia diversa e indipendente dalle altre forze economiche, di una forza politica, separata e indipendente dai partiti politici, di una forza culturale diversa e non coincidente né con la scuola né con i gruppi di filosofi o letterati; di una forza la cui condizione assoluta perentoria di vita era il rendere servigio al pubblico di notizie vere, di avvisi utili e di discussioni indipendenti, era un grandissimo passo compiuto nella elevazione del cittadino italiano, messo in grado di giudicare, tra il cozzo di opinioni differenti, le soluzioni che gli erano presentate da gruppi economici, da partiti politici, da scuole, da chiese e da sette. Ed era, quello, un avvenimento storicamente importante anche perché cresceva il numero delle forze che si contendevano il dominio del paese e, tenendo a freno gruppi economici e partiti politici, potentemente giovava a dare, in tutto, la supremazia a quell’intelligenza meditante o filosofica che, fra le altre forze, più merita, secondo la sentenza di Platone, di guidare i popoli. Ma come poteva farsi sentire la divina filosofia nel clamore degli interessi materiali e nella vociferazione dei partiti politici, ansiosi di afferrare, la mercé di un qualunque simbolo, il potere, se non si fosse costituita una forza nuova, dalla necessità di vita costretta a scoprire, sia pure con ritardo e con ovvia circospezione, la via atta a giovare permanentemente alla nazione?

 

 

Il fiorire del giornale vivo di una vita propria rispondeva altresì ad una mutazione profonda verificatasi inavvertitamente, in Italia in proporzione forse meno rilevante di altrove, ma tuttavia abbastanza marcata, nei metodi di effettivo governo dei popoli. Le costituzioni, sorte alla fine del secolo XVIII in Europa e in America ed estese poi dappertutto, avevano creato un meccanismo di elezioni parlamentari gabinetti, a cui legalmente era affidata la somma dei poteri legislativi ed esecutivi. Sinché le funzioni degli stati rimasero ristrette, quel meccanismo funzionò abbastanza bene, anche perché al potere si avvicendavano gruppi ristretti di uomini appartenenti a classi politiche esercitate nella difficile arte di governare gli uomini. Col giganteggiare degli stati moderni, con l’affittirsi dei loro compiti, divenuti ognora più tecnici e delicati, con l’estendersi dell’interesse politico a strati sempre più larghi della popolazione, il vecchio meccanismo costituzionale diventò presto insufficiente alla bisogna. Quei pochi uomini che formavano i parlamenti e si alternavano al potere nei gabinetti, diventarono incapaci a dominare la grande e crescente mole degli affari pubblici. Non perciò era possibile e conveniente mutare metodi di governo. Coloro che allora proclamavano il fallimento dei politicanti incompetenti e affannosamente cercavano e discutevano soluzioni di parlamenti professionali, in cui il potere fosse affidato ai competenti dei singoli rami di industria o di commercio o di agricoltura o di arti o di scienza, non s’erano avveduti che sotto ai loro occhi il problema andava, faticosamente e per tentativi, risolvendosi. La soluzione non stava nel far legislatori i competenti dei diversi rami dell’attività umana: ché, come ben dimostrò il Croce in altro luogo, l’attività politica è diversa dall’attività professionale e tecnica; ed una congrega di industriali, di negozianti, di artisti e di scienziati non sarà mai, appunto perché composta di uomini ottimi in altri diversi campi della attività umana, un’assemblea politica. La soluzione stava nel conservare il potere in mano ai politici; e nel tempo stesso nel rendere questi accessibili alle influenze dei gruppi sociali. Il processo era visibilissimo sovratutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove ogni interesse, anche minimo, ogni idea, anche balzana, si trasformava in un’associazione, in un movimento, in un circolo; e ognuno di questi raggruppamenti si sforzava di far proseliti, di acquistare rinomanza e forza, di farsi sentire nelle aule legislative. I grandi emendamenti alla costituzione americana non originarono dalla classe politica propriamente detta. Basti citare l’emendamento che introdusse l’imposta sul reddito nel sistema delle imposte federali, dovuto alla tenace propaganda scientifica di pochi studiosi, tra cui eccelle il Seligman, e quello che proibì le bevande alcooliche, imposto da associazioni proibizionistiche e da gruppi religiosi.

 

 

Il meccanismo suffragistico e parlamentare era la forma legale, attraverso a cui facevasi sentire l’impero effettivo dei raggruppamenti professionali, degli interessi economici, delle nuove correnti di idee. Ma il tipo di governo della cosa pubblica, che così andavasi costituendo, aveva questo di caratteristico: che nessuna legge riconosceva i gruppi, le associazioni, le organizzazioni economiche religiose e classistiche. Era un caleidoscopio di forze, che si formavano, divenivano potenti e si scioglievano. Ad ogni decennio le forze dominanti erano diverse da quelle che nel decennio precedente avevano tenuto il primo piano sulla scena del mondo. Tale associazione che aveva in un certo momento fatto tremare la società dalle fondamenta qualche anno dopo era un mero ricordo storico. Nessuna legge l’aveva riconosciuta, nessun testo ne aveva irrigidita la struttura e l’aveva perpetuata nel tempo. Ogni forza si faceva sentire sinché aveva un’anima, un pensiero, qualcosa da dire al mondo, una battaglia da sostenere e forze atte a vincere.

 

 

Il giornale di notizie ebbe gran parte nello scoprire, nell’incoraggiare le forze sociali, meritevoli di esercitare un’influenza sulle sorti del proprio paese. Poiché la sua forza consisteva nel farsi eco delle correnti di opinione pubblica, nel sentire i bisogni del popolo del cui favore quotidiano viveva, il giornale doveva ogni giorno scoprire i bisogni di carattere pubblico che erano insoddisfatti e pur meritavano attenzione. Il quotidiano veniva, in questo ufficio, rimorchiato dai fogli settimanali e dai giornali d’avanguardia, il cui compito era per l’appunto di far sapere che un’idea era sorta, che un gruppo si era formato, che qualche nuovo scopo pretendeva di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, del parlamento e del governo. Ma, sebbene venisse dopo, il grande giornale di notizie non aveva perciò un compito meno grave; spettando ad esso di scegliere, fra i mille e mille, quegli scopi, quegli interessi, quelle iniziative che rispondevano davvero ad un bisogno reale del paese. E scelti, farsene paladino e imporli all’attenzione dei politici. Si capisce perciò come ai giornali di notizie interessassero poco le elezioni o queste dessero loro torto; poiché quando uno scopo, un programma era talmente maturo da essere fatto proprio dai politici e da mutarsi in ragione di lotta elettorale, altri gruppi, altre idee, già stavano formandosi; la collettività, che si era scissa secondo certe linee in relazione ai vecchi problemi, già si scindeva diversamente in rapporto a nuovi problemi; ed il giornale, per ufficio suo chino coll’orecchio a terra per intuire la direzione delle nuove onde sociali, bandiva nuove campagne, poneva nuovi problemi, con inquietudine dei politici arrivati, i quali vedevano messa in forse la propria situazione, nel momento in che credevano di aver raggiunto la meta. La guerra interruppe questo lento lavorio di trasformazione sostanziale degli ordini costituzionali, entro i quadri immutati delle forme antiche; e subordinando tutti gli intenti a quello della salvezza dello stato, ridiede importanza alla classe politica propria in confronto alle altre forze sociali.



[1] Nel quaderno del settembre-ottobre del 1928 della mia rivista «La Riforma Sociale», pubblicavo, a titolo di recensione di alcuni scritti di Benedetto Croce, principalissimo tra i quali la Storia d’Italia dal 1871 al 1915, una nota intitolata Dei concetti di liberismo economico e di borghesia e sulle origini materialistiche della guerra. Sia perché l’argomento esorbitava da quello proprio del saggio, sia perché la nota aveva già assunto dimensioni ragguardevoli, non trovarono luogo in quel quaderno gli ultimi nove paragrafi, i quali discutevano il problema del compito avuto nella storia italiana d’innanzi al 1922 dai giornali detti di informazione. Nell’occasione della raccolta in un volume di Saggi (Torino, 1933, un vol. in ottavo di pp. x-161-550), degli estratti degli studi comparsi sulla mia rivista, quei nove paragrafi, videro la luce da carte 142 a 151. Ma il volume giacque pressoché inedito essendo stato stampato in sole cento copie, subito distribuite tra amici. Quando perciò Alberto Albertini, scrivendo la vita del fratello (Luigi Albertini, Roma, aprile 1945), documento insigne di storia e di biografia, ricordò quei paragrafi e taluno me ne richiese, durai fatica a rintracciarne qui in Roma una copia, che mi fu cortesemente data a prestito dalla vedova dell’allievo ed amico non dimenticato Carlo Pagni. Da quella copia trascrissi le pagine contenenti l’analisi storico – critica del giornale “indipendente” in Italia; e le ripubblico oggi quali le scrissi allora, senza nulla mutarvi, sembrandomi che esse non siano prive di qualche interesse nel dibattito che oggi si conduce nel nostro paese a proposito della stampa quotidiana.

La teoria del non intervento

La teoria del non intervento

«Il risorgimento liberale», 19 giugno 1945

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 630-633

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 141-144

 

 

 

 

Le discussioni di San Francisco si trascinano più a lungo di quel che forse una parte della opinione pubblica immaginava, perché in quella città gli uomini si trovano davvero dinnanzi al dilemma essenziale, il quale travaglia e travaglierà ancora per gran tempo le società moderne: debbono queste essere organizzate a forma di stati sovrani, ovvero ognuno degli stati esistenti deve rassegnarsi all’intervento degli altri stati nei propri affari interni?

 

 

Il problema fondamentale della società moderna non sarà avviato a soluzione, se gli uomini non si persuaderanno che esiste un solo vero nemico del progresso e della libertà e questo è il mito dello stato sovrano, il mito della assoluta indipendenza degli uomini viventi in un dato corpo politico dagli altri uomini viventi in ogni altro corpo politico. Quel mito e null’altro fu alla radice delle due grandi guerre mondiali, poiché lo stato, ove sia sovrano perfetto, non può non essere autosufficiente in se stesso, ed è costretto a conquistare lo spazio vitale bastevole alla sua propria vita indipendente. Deve perciò conquistare il mondo. L’Attila di ieri fu un mero strumento di questa idea infernale. Un pazzo si fece banditore dell’idea, ma l’idea era e rimane radicata nell’animo di molti, di troppi uomini. Sinché non l’avremo strappata dall’animo nostro, non avremo pace. Coloro i quali fanno risalire il trionfo della guerra o della pace al prevalere di questa o quella classe sociale, capitalistica o proletaria, non sanno ragionare. Industriali ed operai, proprietari e contadini, professionisti ed artigiani, tutti sono dal proprio interesse costretti a volere la pace; poiché la pace vuol dire arricchimento altrui e quindi arricchimento proprio; vuol dire mercati fiorenti e quindi alta produzione; vuol dire progresso tecnico, epperciò incremento del benessere. Il mondo civile, attraverso guerre che oggi appaiono piccole, ebbe pace dal 1815 al 1914; e mai non si ebbe tanto avanzamento economico in tutte le classi sociali, tra i lavoratori non meno che tra gli industriali, come in quel secolo d’oro.

 

 

Ma se gli uomini cadono preda del sofisma dello stato sovrano assoluto autonomo indipendente, essi vogliono logicamente anche lo stato autosufficiente, conquistatore dello spazio vitale, spinto da una forza fatale alla conquista del mondo intero, perché solo con la conquista totale si raggiunge l’autosufficienza e la indipendenza compiuta. Sovranità piena politica non è pensabile se non esiste anche la indipendenza economica. Se si debbono chiedere altrui materie prime, carbone, se si deve chiedere altrui licenza di passare attraverso mari e stretti non si è veramente sovrani perfetti. Sovranità ed autosufficienza economica (autarchia) sono indissolubilmente legate l’una all’altra. Chi vuole sovranità ed autosufficienza vuole perciò la conquista senza fine di tutto il mondo conosciuto, vuole la guerra perpetua.

 

 

Il mito della sovranità perfetta dello stato è dunque la vera solo causa della guerra. Stati tirannici artistocratici o democratici, individualisti o socialisti, oligarchici od operai, se cadono vittime di questo mito, se rifiutano di riconoscere la verità che l’esistenza propria è condizionata all’esistenza altrui, si fanno inconsapevolmente paladini del principio della autosufficienza economica; e di fatto quasi sempre gli stati, credendosi sovrani, furono ugualmente, senza distinzione di regime, in passato e saranno in avvenire protezionisti contro le merci straniere; vietarono e vieteranno l’immigrazione dello straniero; vietano e vieteranno ai nazionali di conoscere le civiltà straniere se queste siano più alte; mossero e muoveranno alla conquista di fiumi, di mari, di porti e di mercati; furono e saranno conquistatori di terre abitate da altre genti. La teoria dello spazio “vitale” non fu peculiare all’Italia fascista od alla Germania nazista. La vedemmo trionfare in Persia, in Roma, in Egitto, nella Spagna di Filippo II, nella Francia di Luigi XIV e di Napoleone; spingere la Russia comunistica al par di quella zaristica alla conquista dei continenti e dei mari caldi, portare, quasi per caso ed in ossequio a cieche forze elementari, l’Inghilterra nell’India, in Australia, e farle attraversare tutta l’Africa da Alessandria d’Egitto alla Città del Capo. L’uomo di stato il quale crede alla autonomia perfetta dell’idea di stato, è costretto a battagliare senza tregua per toccare la meta ultima irraggiungibile del dominio universale, alla pari di colui che, cavalcando la tigre, non può – ammonisce la leggenda indiana – balzare a terra per la paura di esserne divorato.

 

 

Perciò coloro i quali ancora restano fedeli alla teoria del non intervento degli stati stranieri negli affari interni di ogni stato sovrano, teoria cara agli italiani nell’epoca del risorgimento per naturale reazione all’Austria, pronta a reprimere i moti insurrezionali negli stati minori italiani, non hanno imparato la lezione delle due ultime guerre. La guerra mondiale fu combattuta contro la teoria del non intervento. Gli alleati, qualunque sia stata l’occasione della loro entrata in guerra, in verità combatterono per affermare l’obbligo di intervenire negli affari interni di uno stato, il cui regime era una minaccia continua alla loro esistenza. Essi lottarono e sacrificarono vite ed averi per proclamare solennemente che non è tollerabile la persistenza in un qualunque angolo del mondo di uno stato inspirato ad ideali distruttivi tirannici e totalitari. A stento, con repugnanza, trascinati a viva forza, gli alleati dovettero riconoscere che il regime di ogni stato non è un affare interno, che esso invece è un affare il quale interessa lo straniero non meno che il nazionale, perché un regime, il quale opprime la libertà umana all’interno, è un germe di infezione per tutto il mondo. Perciò occorre armarsi e combattere e soffrire per abbattere il regime che, abbandonato a sé, rovinerebbe il mondo intero. Perciò è assurdo pensare che gli alleati possano, dopo la vittoria, disinteressarsi del regime politico interno dei così detti stati sovrani. La vittoria degli alleati è vittoria dell’idea, della interdipendenza reciproca degli stati, vittoria del principio che nessuno stato può considerarsi sicuro se non esiste nel mondo intero un comune modo di pensare e di operare nei rapporti fra individuo e stato, fra stato e stato, fra stato e regime, fra stato e chiesa, fra stato ed associazioni. Gli uomini non potranno reputare se stessi veramente liberi, veramente franchi dal pericolo della tirannia, veramente capaci di progresso e sottratti ad ogni pericolo di reazione, se non quando sapranno che il loro proprio stato nazionale, sia esso vincitore o vinto, sia legato da un sistema di vincoli e reso impotente ad andare al di là dei limiti infrangibili posti dalla volontà comune degli uomini appartenenti al mondo civile. L’equilibrio fra stati sovrani, che era un tempo mero rapporto di forze contrastanti, deve oggi nascere dalla limitazione dei poteri degli stati sovrani. La limitazione vorrà tuttavia dire esaltazione. Lo stato, reso impotente ad armarsi contro gli altri stati, a chiudere le proprie frontiere contro gli uomini ed i prodotti stranieri, costretto dal diritto delle genti a rispettare la libertà e la personalità dei propri cittadini, a cui sia nuovamente consentita facoltà di sottrarsi con la emigrazione ai propri governi tirannici, lo stato troverà finalmente lo stimolo e la forza di adempiere ai fini suoi propri di benessere, di cultura, di giustizia.

Giraudoux, la leggenda e noi (a proposito di alcuni brani di «Sans pouvoirs», citati dall’articolo «L’Attesa» nel numero del 24 febbraio)

Giraudoux, la leggenda e noi (a proposito di alcuni brani di «Sans pouvoirs», citati dall’articolo «L’Attesa» nel numero del 24 febbraio)

«L’Italia e il secondo Risorgimento», 10 marzo 1945

Il nuovo liberalismo

Il nuovo liberalismo

«La Città libera», 15 febbraio 1945, pp. 3-6

«L’Opinione», 20 maggio 1945

Poiché si parla di nuovo liberalismo, viene spontanea la scettica domanda: in che cosa il nuovo liberalismo si distingua dal vecchio. La risposta è ovvia: non esiste alcuna differenza sostanziale, di principio, fra i due liberalismi. Il liberalismo è uno e si perpetua nel tempo; ma ogni generazione deve risolvere i problemi suoi, che sono diversi da quelli di ieri e saranno superati e rinnovati dai problemi del domani.

Perciò anche i liberali debbono porsi ad ogni momento il quesito: come debbo oggi risolvere i problemi del mio tempo, in guisa che la soluzione adottata giovi a conservare il bene supremo che è la libertà dell’uomo, il che vuol dire la sua elevazione morale e spirituale?

Il liberale non risolve i problemi d’oggi ripetendo come un pappagallo: libertà! libertà! Perciò i liberali possono essere ma non sono necessariamente “liberisti”. Sono tali in dati campi e sovrattutto in quello delle dogane per ragioni di calcolo economico e di convenienza morale-politica; ma non sono tali in altri campi.

Adamo Smith, colui che dagli illetterati (in economica) è proclamato l’arci-liberista per antonomasia – ed i suoi seguaci sono detti, in segno di disprezzo, liberisti smithiani – è anche colui il quale proclamò che la difesa della patria è molto più importante della ricchezza: «defence is more important than opulence»; – difese storicamente l’atto di navigazione, ossia la protezione della marina mercantile; – scrisse parole di fuoco contro la proprietà assenteista della terra. Non so che cosa scriverebbe Adamo Smith se vivesse oggi; ma certamente dovrebbe porsi e cercare di risolvere non i problemi del 1776, sì quelli del 1945.

I liberali negano che la libertà dell’uomo derivi dalla libertà economica; che cioè la libertà economica sia la causa e la libertà della persona umana nelle sue manifestazioni morali e spirituali e politiche sia l’effetto. L’uomo moralmente libero, la società composta di uomini i quali sentano profondamente la dignità della persona umana, crea simili a sé le istituzioni economiche. La macchina non domina, non riduce a schiavi, a prolungamenti di se stessa se non quegli uomini i quali consentono di essere ridotti in schiavitù.

Esiste un legame fra la libertà economica da un lato e la libertà in genere e la libertà politica in particolare dall’altro canto; ma è legame assai più sottile di quel che sia dichiarato nella comune letteratura propagandistica.

Non è vero che nella società moderna agli uomini faccia difetto la libertà perché la proprietà dei mezzi di produzione spetti ad una classe detta capitalistica. Astrazion fatta dalla circostanza che in molti paesi, e fra essi si devono noverare assai regioni italiane o, meglio, amplissime zone di ogni regione italiana, il numero dei capitalisti supera quello dei non capitalisti, ed astraendo anche dal fatto certissimo che la divisione della società nelle due classi dei capitalisti e dei proletari non è nemmeno una astrazione teorica atta a raffigurarci qualche aspetto fondamentale della storia umana e che invece le classi ed i ceti sono molti ed intrecciati e che non vi è quasi uomo, non vi è famiglia la quale non faccia parte contemporaneamente di parecchie categorie sociali; astrazion fatta da queste che sono circostanze di gran rilievo, fa d’uopo affermare che nessuna soluzione, né quella privata, né quella pubblica della proprietà dei mezzi di produzione, per se stessa è capace di aiutare a risolvere il problema della libertà.

Al limite, non lo risolve il sistema della proprietà privata piena, quiritaria, nella quale la terra, le acque, le miniere, gli impianti industriali, le scorte di lavorazione sono nel possesso assoluto del proprietario, che ne dispone come crede senza dover rendere conto a nessuno del suo operato. Tutti i legislatori di tutti i tempi e di tutti i luoghi hanno negato il principio della disponibilità illimitata ed assoluta della cosa da parte del proprietario ed hanno fissato limiti entro i quali la libertà d’azione del proprietario deve muoversi. Limiti più stretti per le miniere e per le acque, più larghi per la terra e più ampi ancora per i macchinari e le scorte. La analisi economica moderna, ignorata a torto dagli scrittori socialisti, risale al libro scritto nel 1838 da Agostino Cournot ed addita nel monopolio il fattore essenziale e si può dire unico per cui la proprietà dei mezzi di produzione, cessando di rendere servigi e di farli pagare ad un prezzo uguale al costo minimo del produttore marginale, diventa invece causa di disservizio e fa pagare i beni prodotti a prezzi di monopolio, con guadagni inutili al punto di vista produttivo ed antisociali al punto di vista distributivo.

I liberali non dicono con Proudhon: la proprieté c’est le vol, la proprietà è il furto, ché la proposizione proudhoniana è falsa storicamente ed è smentita dall’esperienza quotidiana; ma affermano: le monopole c’est le vol, il monopolio è il furto. Consapevoli della verità dell’analisi economica moderna, i liberali affermano che la schiavitù economica non è possibile là dove esiste la concorrenza, dove contro gli imprenditori esistenti, possessori di imprese in atto, agrarie industriali e commerciali, possono opporsi nuovi imprenditori, nuovi commercianti, nuovi speculatori sul futuro; ed affermano nel tempo stesso che là dove esiste il monopolio la produzione tende a diminuire, la domanda di lavoro ed i salari a diminuire, i profitti ultranormali a nascere ed ingigantire e la distribuzione del reddito nazionale a guastarsi a profitto di un numero ristretto di privilegiati ed a danno delle moltitudini. Perciò essi non vogliono l’intervento dello stato contro la proprietà, la quale è risparmio, è indipendenza, è autonomia della persona, è continuità della famiglia, è stimolo ad avanzamento economico; e non vogliono distruggere né la proprietà privata dei beni di consumo, né quella degli strumenti di produzione. I liberali non partono in guerra contro la ricchezza risparmiata, né contro quella ottenuta in libera concorrenza dagli uomini dotati di iniziativa, i quali osano, rischiano e riescono. Essi non vogliono neppure sopprimere la speculazione, se questa vuol dire antiveggenza, adattamento dei mezzi presenti a bisogni futuri, che i più non veggono, che l’occhio di lince dei pochissimi scopre innanzi agli altri e di cui, scopertili, lo speculatore preordina, con lucro proprio e vantaggio di gran lunga maggiore dei più, i mezzi di soddisfacimento.

Ma i liberali vogliono, poiché essi l’hanno conosciuta, andare alla radice del male, del danno sociale, che è il monopolio. Vogliono che la spada della legge scenda, inesorabile, su coloro i quali hanno costruito attorno alla propria impresa una trincea, per impedire l’accesso altrui a quel campo chiuso. Poiché molti, forse la maggior parte dei monopoli, sono artificiali, ossia creati dalla legge medesima, essi vogliono abolite le proibizioni, i vincoli, i dazi, i privilegi i quali fanno sì che non tutti quelli i quali vogliono lavorare, lo possano, tutti quelli i quali vogliono iniziare nuove imprese, nuovi commerci, tutti quelli i quali vogliono muovere concorrenza alla gente già collocata, già a posto, riescano ad attuare i loro propositi.

Via i dazi, via i contingentamenti, via le concessioni esclusive, via i brevetti a catena perpetuantisi, via le società privilegiate, via le compagnie monopolistiche, via tutto ciò che soffoca, che, col pretesto di disciplinare, strozza gli uomini intraprendenti, e li costringe a corrompere coloro i quali danno le concessioni, i permessi, le licenze.

Ma i monopoli non sono soltanto quelli creati dalla legge, che, per abbatterli, basta volere distruggere la legge che li ha creati. Vi sono anche monopoli “naturali”, i quali traggono origine dalla impossibilità di moltiplicare le imprese concorrenti; e contro questi monopoli, i liberali vogliono l’intervento dello Stato, il quale a volta a volta assuma o controlli o regoli l’esercizio dell’industria monopolistica. Essi ricordano che, tant’anni innanzi che la socializzazione divenisse una parola di moda, due grandi liberali, Camillo di Cavour e Silvio Spaventa, avevano voluto l’esercizio di stato delle ferrovie; rammentano che, col loro appoggio, Ivanoe Bonomi nel 1916 aveva dichiarato pubbliche, ossia nazionalizzate tutte le acque italiane da cui possono trarsi derivazioni di forza idraulica o di irrigazione.

Essi vogliono proseguire su questa via e sono pronti a proporre ed a discutere caso per caso la via più opportuna per sottrarre al dominio privato le industrie le quali abbiano chiare le caratteristiche monopolistiche; via la quale nell’un caso sarà quella dell’esercizio diretto, in un altro quello della creazione di enti autonomi, in un terzo quello della società anonima con maggioranza statale nel possesso delle azioni, e tal volta anche nell’esercizio delegato ad imprese private con quaderni d’onere rispetto all’esercizio ed alle tariffe. Attorno ad un tavolo verde gli uomini di buona volontà possono e debbono mettersi d’accordo, avendo di mira lo scansare i due pericoli massimi, i quali incombono sul mondo economico moderno; il primo dei quali si è l’impero dei sindacati, dei consorzi, dei trusts, siano essi monopoli o sindacati di industriali o di lavoratori, ed il secondo si è la formazione del più colossale e spaventevole monopolio, che è quello dello stato. All’altro limite invero, il luogo della proprietà privata assoluta è preso dalla proprietà assoluta dello stato padrone di tutti i mezzi di produzione.

Nessuna tirannia più dura si può immaginare di quella la quale fa dipendere la vita dell’uomo, la sussistenza della famiglia dalla volontà di chi comanda dall’alto. Non ha importanza alcuna sapere se chi comanda si sia impadronito del potere con la forza o l’abbia ottenuto per elezione. Importa invece sapere se chi vuole lavorare debba chiedere lavoro, avanzamento, agiatezza, fama, unicamente ad un capo, ad un gruppo che possiede il potere politico o possa, ove voglia, conquistare tutto ciò facendo appello direttamente, colle sue forze, ai compratori dei beni e servizi che egli crede di essere capace di offrire. Dove tutto dipende dallo stato, ivi è schiavitù, ivi al posto dell’emulazione nasce l’intrigo, al luogo dei migliori trionfano i procaccianti. Perciò i liberali vogliono sia distinto il campo dell’azione privata da quello dell’azione pubblica. Discutiamo se questa specie di attività economica debba essere lasciata, e con quali regole giuridiche, all’iniziativa privata e se quell’altra specie debba invece essere assunta o concessa o regolata dallo stato. Il criterio di distinzione tra l’uno e l’altro campo non è il piccolo od il grosso, il piccolo lasciato ai privati ed il grosso assunto dall’ente pubblico. Questa è distinzione grossolana; ché il grosso merita di cadere nel campo pubblico solo quando esso sia sinonimo di monopolistico.

Ma i liberali non reputano che il problema del massimo di produzione sia il solo e possa essere posto da solo. Quando anche si riesca a foggiare il meccanismo produttivo, per mezzo di una ricca varietà di tipi privati e pubblici di intrapresa, in guisa da raggiungere un massimo di produzione, noi avremo soltanto toccato un massimo entro i limiti della domanda esistente. Se in un paese vi è un ricchissimo solo ed un milione di uomini sprovveduti di beni di fortuna, noi possiamo, sì ottenere un massimo di prodotto; ma è il massimo proprio di quel tipo di distribuzione della ricchezza. Tutto diverso è il massimo che si otterrebbe in un altro paese dove tutti gli uomini avessero uguale reddito individuale. Diversi i massimi e diversi i tipi e le varietà dei beni prodotti. Noi liberali giudichiamo, per ragioni morali, detestabili ambi quei tipi, perché ambi forieri di servitù per gli uomini. Servo nel primo paese il milione di uomini dell’unico proprietario; servi nel secondo di un tiranno, perché è impossibile mantenere tra gli uomini, disuguali per intelligenza, per attitudine al lavoro ed al risparmio, per inventività, la uguaglianza assoluta senza la più intollerabile costrizione. Noi liberali auspichiamo una società nella quale la distribuzione del reddito nazionale totale sia siffatta che non esistano redditi inferiori al minimo reputato generalmente in ogni paese sufficiente alla vita che ivi può condursi in relazione alla massa totale del flusso del reddito nazionale; e non esistano neppure redditi permanentemente superiori ad un livello reputato socialmente pericoloso. A tal fine due principalissimi strumenti debbono essere adoperati, dei quali l’uno è l’imposta e l’altro è la scuola.

L’imposta, sul reddito e successoria, deve essere congegnata in maniera da incoraggiare la formazione dei nuovi e dei cresciuti redditi e da decimare i redditi antichi e costituiti, sicché ad ogni generazione i figli siano costretti a rifare in parte ed i nepoti e pronipoti a rifar ancora per la restante parte la fortuna avita ove intendano serbarla intatta; sicché se non vogliano o non vi riescano siano costretti ad andare a fondo. La scuola, al limite, deve essere congegnata in modo tale che tutti i giovani meritevoli possano gratuitamente, senza pagamento di tassa veruna, percorrere tutti gli ordini di scuola, dall’asilo infantile alle scuole di perfezionamento post-universitario, ed essere provveduti di vitto, alloggio, assistenza sanitaria, libri ed altri strumenti di studio. Solo così sarà possibile abolire quella che è la macchia fondamentale dell’ordinamento sociale moderno; che non è tanto la disuguaglianza nelle fortune esistenti, rimediabile con l’imposta, quanto la disuguaglianza nei punti di partenza. Quando al figlio del povero saranno offerte le medesime opportunità di studio e di educazione che sono possedute dal figlio del ricco; quando i figli del ricco saranno dall’imposta costretti a lavorare, se vorranno conservare la fortuna ereditata; quando siano soppressi i guadagni privilegiati derivanti da monopolio e siano serbati ed onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza con la gente nuova e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e dei contadini, oltre che dal medio-ceto; quando il medio-ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi non avremo una società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi.

Ben è vero che l’ideale di una società varia di tipi di intrapresa, di istituti pubblici e privati, ricca per l’aggiunta di sempre nuovi redditi e per la eliminazione dei redditi parassitari è un ideale che non può essere raggiunto in breve giornata. Ma vi sono paesi i quali da quell’ideale non sono lontanissimi, dove in tempo di pace i massimi redditi pagano allo stato, ove non si calcoli il gravame delle imposte successorie e di quelle sui consumi, il 60-70 per cento del loro ammontare; ed in tempo di guerra assolvono il 97 per cento; dove le imposte successorie costringono alla liquidazione dei patrimoni aviti ed alla vendita dei libri dei quadri ed altri oggetti artistici familiari, coloro che non sanno col lavoro ricostituire ogni giorno le fortune ereditate; dove gli sforzi per garantire a tutti l’uguaglianza nei punti di partenza datano da più di cent’anni ed ognora vanno intensificandosi.

Questi paesi possono essere detti capitalistici da chi non ne conosce il meccanismo intimo e la sua capacità di adattamento; in verità essi tendono verso la creazione della città libera, nella quale a tutti gli uomini è dato, ove vogliano lavorare, di conquistare l’indipendenza economica, indipendenza da qualsiasi padrone, sia esso un privato imprenditore od un capo gerarchico o, peggiore di tutti i padroni, una entità misteriosa lontana anonima chiamata stato. Se l’uomo può dire: questa è la mia casa, questa è la mia terra, questa è la mia arte, il mio mestiere, il mestiere del quale i miei simili hanno bisogno; se egli può ergere la fronte dinanzi a chi vuole imporgli un contrassegno di fede o di partito per consentirgli di lavorare, non perciò l’uomo è già libero. Ma poiché egli possiede una riserva e non è più obbligato a mendicare altrui ogni giorno il diritto di lavorare, nemmeno da taluno che egli abbia in qualche giorno dell’anno eletto a suo capo, egli non è più schiavo e se anche egli non sia un eroe, se anche egli sia un uomo qualunque, uno dei molti uomini che trapassano facendo semplicemente il loro dovere, può credersi ed essere uomo libero.

Il mito dello stato sovrano

Il mito dello stato sovrano

«Il risorgimento liberale», 3 gennaio 1945[1]

«L’Italia e il secondo risorgimento», 10 marzo 1945[2]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 625-630

Scritti sull’unità politica europea, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, 1995, pp. 35-40[3]

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 96-100

 

 

 

 

In una lettera indirizzata a Luigi Albertini, direttore del «Corriere della Sera» e pubblicata (a firma “Junius” e ristampata dai Laterza di Bari nelle Lettere politiche di Junius) nel numero del 5 gennaio 1918, criticavo i disegni di una costituenda «Società delle nazioni», quando altri, che poi fu gran parte nel distruggerla, presiedeva ad una adunata di popolo indetta allo scopo di propugnare la costituzione di una associazione italiana per il promuovimento della idea societaria. Sostenevo nella lettera la tesi che l’idea medesima della società delle nazioni era sbagliata in principio e perciò caduca e promuovitrice di guerra. Facile era la profezia; ché il presidente Wilson, apostolo nobilissimo dell’idea della società delle nazioni, non aveva bisogno di appellarsi ad esempi storici memorandi di insuccesso, come quelli della lega anfizionica del sacro romano impero di nazione germanica o della santa alleanza. Gli bastava guardarsi indietro, indagando le ragioni per le quali i tredici stati originari del suo grande paese avevano dovuto mutare alla radice il loro ordinamento. Scrivevo in quella oramai vecchia lettera:

 

 

Leggesi in tutte le storie come gli Stati Uniti siano vissuti sotto due costituzioni: la prima disposta dal congresso del 1776 ed approvata dagli stati nel febbraio 1781, la seconda approvata dalla convenzione nazionale il 17 settembre 1787 ed entrata in vigore nel 1788. Sotto la prima, l’unione nuovissima minacciò ben presto di dissolversi; sotto la seconda gli Stati Uniti divennero giganti. Ma la prima parlava appunto di «confederazione ed unione» dei 13 stati, come oggi si parla di «società delle nazioni» e dichiarava che ogni stato «conservava la sua sovranità, la sua libertà ed indipendenza ed ogni potere, giurisdizione e diritto non espressamente delegati al governo federale». La seconda invece non parlava più di «unione fra stati sovrani», non era più un accordo fra governi indipendenti; ma derivava da un atto di volontà dell’intero popolo, il quale creava un nuovo stato diverso e superiore agli antichi stati. «Noi – così dice lapidariamente il preambolo della vigente costituzione federale – noi, popolo degli Stati Uniti, allo scopo di fondare una unione più perfetta, stabilire la giustizia, assicurare la tranquillità interna, provvedere per la comune difesa, promuovere il benessere generale e garantire le benedizioni della libertà per noi e per i posteri nostri, decretiamo e fondiamo la presente costituzione per gli Stati Uniti d’America». Ecco sostituito al «contratto», all’«accordo» fra stati sovrani per regolare “alcune” materie d’interesse comune, l’«atto di sovranità del popolo americano tutto intero», il quale crea un nuovo stato e gli dà una costituzione e lo sovrappone, in una sfera più ampia, agli stati antichi, serbati in vita in una sfera più ristretta.

 

 

Ve n’era urgente bisogno. Quei sette anni di vita, dal 1781 al 1787, della “società” delle 13 nazioni americane, erano stati anni di discordie, di anarchia, di egoismo tali da far rimpiangere a molti patrioti il dominio inglese e da far desiderare a non pochi l’avvento di una monarchia forte, che fu invero offerta a Washington e da questi respinta con parole dolorose, le quali tradivano il timore che l’opera faticosa sua di tanti anni non dovesse andare perduta. La radice del male stava appunto nella sovranità e nell’indipendenza dei 13 stati. La confederazione, appunto perché era una semplice “società” di nazioni, non aveva una propria indipendente sovranità, non poteva prelevare direttamente imposte sui cittadini. Dipendeva quindi, per il soldo dell’esercito e per il pagamento dei debiti contratti durante la guerra dell’indipendenza, dal beneplacito di 13 stati sovrani. Il congresso nazionale votava spese, impegnava la parola della confederazione e, per avere i mezzi necessari, indirizzava richieste di danaro ai singoli stati. Ma questi o negligevano di rispondere o non volevano, nessuno tra essi, essere i primi a versare le contribuzioni nella cassa comune. «Dopo brevi sforzi» – così scrive il giudice Marshall nella sua classica Vita di Washington, riassumendo le disperate e ripetute invocazioni e lagnanze che a centinaia sono sparse nelle lettere del grande generale e uomo di stato – «dopo brevi sforzi compiuti per rendere il sistema federale atto a raggiungere i grandi scopi per cui era stato istituito, ogni tentativo apparve disperato e gli affari americani si avviarono rapidamente ad una crisi, da cui dipendeva l’esistenza degli Stati Uniti come nazione … Un governo autorizzato a dichiarare guerra, ma dipendente da stati sovrani quanto ai mezzi di condurla, capace di contrarre debiti e di impegnare la fede pubblica al loro pagamento, ma dipendente da 13 separate legislature sovrane per la preservazione di questa fede, poteva soltanto salvarsi dall’ignominia e dal disprezzo qualora tutti questi governi sovrani fossero stati amministrati da persone assolutamente libere e superiori alle umane passioni». Era un pretendere l’impossibile. Gli uomini forniti di potere non amano delegare questo potere ad altri; ed è perciò quasi impossibile, conchiude il biografo, «compiere qualsiasi cosa, sebbene importantissima, la quale dipenda dal consenso di molti distinti governi sovrani». Ed un altro grande scrittore e uomo di stato, uno degli autori della costituzione del 1787, Alessandro Hamilton, così riassumeva in una frase scultorea la ragione dell’insuccesso della prima società delle nazioni americane: «il potere, senza il diritto di stabilire imposte, nelle società politiche, è un puro nome».

 

 

Questi ammonimenti solenni non possono essere dimenticati. Oggi, vi è in Italia un gruppo di giovani, temprati alla dura scuola della galera e del confino nelle isole, il quale è deliberato a mettere il problema della federazione in testa a tutti quelli i quali debbono essere discussi nel nostro paese. Non senza viva commozione ricevetti, durante i lunghi trascorsi anni oscuri, una lettera scrittami dal carcere da Ernesto Rossi, nella quale mi si ricordava l’antica lettera e mi si diceva il suo deliberato proposito di volere operare per tradurre in realtà l’idea federalistica. L’opera sinora si è forzatamente limitata, dentro e fuor del confino, in Italia ed all’estero, a convegni, ad opuscoli, fogli tiposcritti e giornaletti a stampa. Sia consentito all’antico oppugnatore dell’idea societaria, di aggiungere, agli opuscoli già divulgati in materia, una professione di fede.

 

 

Noi federalisti non difendiamo una tesi la quale sia a vantaggio di alcun paese egemonico, né dell’Inghilterra, né degli Stati Uniti, né della Russia. Vogliamo porre il problema nei suoi nudi termini essenziali, affinché l’opinione pubblica conosca esattamente quali condizioni debbano essere necessariamente osservate affinché l’idea federale possa contribuire, invece di porre ostacoli, al mantenimento della pace. Se si vuole fra venticinque anni una nuova guerra la quale segni la fine d’Europa, si scelga la via della società delle nazioni; se si vuole tentare seriamente di allontanare da noi lo spettro della distruzione totale, si vada verso l’idea federale. La via sarà tribolata e irta di spine; né la meta potrà essere raggiunta d’un tratto. Quel che importa è che la meta finale sia veduta chiaramente e si intenda strenuamente raggiungerla.

 

 

Perché l’idea della società delle nazioni è infeconda e distruttiva? Perché essa è fondata sul principio dello stato “sovrano”. Questo è oggi il nemico numero uno della civiltà umana, il fomentatore pericoloso dei nazionalismi e delle conquiste. Il concetto dello stato sovrano, dello stato che, entro i suoi limiti territoriali, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuor di quei limiti, è oggi anacronistico ed è falso. Quel concetto è un idolo della mente giuridica formale e non corrisponde ad alcuna realtà. In un mondo percorso da ferrovie, da rapide navi, da aeroplani, nel quale le distanze sono state annullate da telegrafi e telefoni con o senza fili, gli stati, che un giorno parevano grandi, come l’Italia, la Francia, la Germania, l’Inghilterra, a tacer di quelli minori, sono diventati piccoli come nel quattrocento eransi rimpiccioliti i liberi comuni medievali, e Firenze e Bologna e Milano e Genova e Venezia avevano dovuto dar luogo a più ampie signorie e queste poi nel 500 e nel 600 dovettero cedere il passo dinnanzi ai grandi stati moderni. Pensare che uno stato, sol perché si dice sovrano, possa dare a se stesso leggi a suo libito, è pensare l’assurdo. Mille e mille vincoli legano gli uomini di uno stato agli uomini di ogni altro stato. La pretesa alla sovranità assoluta non può attuarsi entro i limiti dello stato sedicente sovrano. Gli uomini, nella vita moderna signoreggiata dalla divisione del lavoro, dalle grandi officine meccanizzate, dalle rapide comunicazioni internazionali, dalla tendenza ad un elevato tenore di vita, non possono vivere, se la loro vita è ridotta ai limiti dello stato.

 

 

Autarchia vuol dire miseria; e necessariamente spinge gli uomini alla conquista. Gli uomini viventi entro uno stato sovrano debbono, sono dalla necessità del vivere costretti ad assicurarsi fuor di quello stato i mezzi di esistenza, le materie prime per le proprie industrie e gli sbocchi per i prodotti del loro lavoro. Qualunque sia il regime sociale che gli stati si sono dato, essi sono costretti alla conquista dello spazio vitale. L’idea dello spazio vitale non è frutto di torbide immaginazioni germaniche od hitleriane; è una logica fatale conseguenza del principio dello stato sovrano. Quella idea non ha limiti. Necessariamente porta al tentativo di conquista nel mondo. Andrebbe al di là, se fosse fisicamente possibile. Non esiste uno spazio vitale autosufficiente. Quanto più uno stato si ingrandisce, tanto più le sue industrie ingigantiscono e diventano voraci assorbitrici di materie prime e bisognose di mercati sempre più ampi. Quando pare di essere giunti alla fine, sempre fa difetto una materia essenziale, senza di cui il meccanismo economico, divenuto colossale, si incanta. La necessità del dominio mondiale è carne viva e sangue rosso indispensabile alla vita del mito dello stato sovrano. Ossia, poiché tutti gli stati sovrani vantano il medesimo e giusto diritto allo spazio vitale, al dominio mondiale, perché senza di esso non possono vivere o vivrebbero solo se si rassegnassero ad una vita miserabile economicamente ed oscura spiritualmente, indegna della società umana, il mito dello stato sovrano significa, è sinonimo di “guerra”. La guerra del 1914-18, quella presente e l’orrenda maggiore carneficina che si prepara per l’avvenire furono sono e saranno il risultato necessario del falso idolo dello stato sovrano. Uomini più ossessionati degli altri hanno assunto la responsabilità di scatenare gli eccidi. Ma la causa profonda era la falsa idea della quale essi si fecero apostoli.

 

 

Fa d’uopo che tutti ci facciamo apostoli dell’idea contraria. Quella della società delle nazioni non solo è monca, ma va contro il fine che si vuol raggiungere. Poiché essa è ancora una lega fra stati “sovrani”, essa rinnega il principio dal quale muove. Ponendoli gli uni accanto agli altri, acuisce gli attriti fra stati, li moltiplica, proclama al mondo la volontà degli uni a non volere adattarsi all’uguale volontà degli altri, epperciò cresce le occasioni di guerra.

 

 

Altra via d’uscita non v’è, fuor di quella di mettere accanto agli stati attuali un altro stato. Il quale abbia compiti suoi propri ed abbia un popolo “suo”. Invece di una società di stati sovrani, dobbiamo mirare all’ideale di una vera federazione di popoli, costituita come gli Stati Uniti d’America o la Confederazione elvetica. Gli organi supremi, parlamento e governo, della confederazione non possono essere scelti dai singoli stati sovrani ma debbono essere eletti dai cittadini della confederazione. Esercito unico e confine doganale unico sono le caratteristiche fondamentali del sistema. Gli stati restano sovrani per tutte le materie che non siano delegate espressamente alla federazione; ma questa sola dispone delle forze armate, ed entro i suoi confini vi è una cittadinanza unica ed il commercio è pienamente libero. Fermiamoci a questi punti che sono gli essenziali e da cui si deducono altre numerose norme. Entro i limiti della federazione la guerra diventa un assurdo, come sono divenute da secoli un assurdo le guerre private, le faide di comune e sono represse dalla polizia ordinaria le vendette, gli omicidi ed i latrocini privati. La guerra non scomparirà, ma sarà spinta lontano, ai limiti della federazione. Divenute gigantesche le forze in contrasto, anche le guerre diventeranno più rare; finché esse non scompaiano del tutto, nel giorno in cui sia per sempre fugato dal cuore e dalla mente degli uomini l’idolo immondo dello stato sovrano.



[1] Con il titolo Contro il mito dello stato sovrano [ndr].

[2] Con il titolo Contro il mito dello stato sovrano [ndr].

[3] Con il titolo Contro il mito dello stato sovrano [ndr].

Maior et sanior pars

«Idea», 1, gennaio 1945[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 92-112

La costituzione degli stati moderni è fondata sul principio della maior pars, della maggioranza. Quando i cittadini, in voto libero e segreto, hanno dichiarato, con la maggioranza della metà più uno, di voler il tale uomo a capo del governo, accolto il tale principio nella raccolta delle leggi, osservata una politica di pace oppure di guerra, nazionalizzata ovvero restituita alla privata iniziativa una data industria, attuato un piano economico governato dall’alto invece che dal mercato, preferita la libertà dell’insegnamento al monopolio scolastico dello stato o viceversa, il sindacato unico obbligatorio ai sindacati liberi e molteplici oppure il contrario, quando la maggioranza dei cittadini ha votato, direttamente o per mezzo dei suoi rappresentanti, nell’uno o nell’altro senso, tutto è finito. Vox populi vox Dei. La questione è decisa ed alla minoranza non rimane se non inchinarsi ed ubbidire. Anche se la minoranza sia composta di quarantanove su cento e minima sia la disparità con la maggioranza di cinquantuno, la voce della major pars ha parlato. Se questa voce non fosse ubbidita, la minoranza comanderebbe alla maggioranza; i quarantanove prevarrebbero sui cinquantuno. Ed è certamente più irrazionale che i quarantanove comandino ai cinquantuno di quanto non sia che la volontà dei cinquantuno prevalga su quella dei quarantanove. Tutta la logica del governo democratico sta in questo semplice nudo ineccepibile ragionamento. Eppure, noi sentiamo di non essere persuasi. Sentiamo che vi può essere una tirannia dei cinquantuno altrettanto dura, altrettanto odiosa, come la tirannia dell’uno, dei pochissimi su cento. Da secoli, da millenni la sapienza popolare ha affermato la distinzione fra la democrazia e la demagogia; fra la democrazia che è il governo della maggioranza “vera” e la demagogia che è il governo della maggioranza “falsa”. Ambedue sono il governo che deriva dai cinquantuno su cento; e tuttavia c’è nell’aria, c’è nel metodo di governare, c’è nelle leggi, c’è nel modo di vita, nei costumi, nelle relazioni sociali, nella vita spirituale qualcosa che ci dice: quello non è governo di popolo, non è governo di una maggioranza che abbia diritto di governare.

A varî segni noi siamo tratti ad affermare che quella, se è la major pars non è la sanior pars, che i meliores sono rimasti tra i meno ed i pejores hanno dominato i più ed hanno parlato come se fossero la voce di tutti. Accade ciò perché tra i più sono numerosi gli ignari, i quali non hanno alcuna attitudine a giudicare dei grandi problemi della cosa pubblica; od i poltroni, pronti ad usare del potere di coazione dello stato per vivere a spese di coloro i quali lavorano; o gli egoisti individuali, repugnanti a sacrificare il momento che fugge alle ragioni dell’avvenire; od i procaccianti, larghi promettitori alle folle di prossimi avventi del paradiso in terra? Chi non sa la difficoltà del mantenere, largamente promette e procaccia a sé il facile suffragio delle maggioranze. Alla major pars l’istinto spontaneo dell’uomo vivente nella società politica contrappone la sanior pars degli scolastici, la classe politica di Gaetano Mosca, la élite di Vilfredo Pareto[2].

Ma già Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto avevano chiarito che né le classi politiche né i ceti scelti (le élites) si identificano con i meliores, con i «savî» con i «prudenti», con i «buoni uomini», ai quali nelle ore del pericolo gli uomini ricorrono per averne consiglio o guida. La classe politica può essere moralmente od intellettualmente inferiore alla media degli uomini componenti la società dalla quale è tratta. Il problema fondamentale politico non sta nel costituire veramente un governo di maggioranza. Qualunque sia la struttura formale dello stato, il potere spetta sempre ad una piccola minoranza. Se noi chiamiamo società democratica quella nella quale il governo sia intento a procacciare il bene morale e materiale massimo possibile degli uomini componenti oggi e dimani la collettività nazionale, noi diremo che il fine della società democratica ha tanto maggiori probabilità di essere raggiunto quanto meglio la «maggioranza» riesce ad identificare gli eletti con la sanior pars del ceto politico. Al suffragio della maggioranza si offrono molti gruppi politici concorrenti, i quali presentano qualità morali intellettuali speculative esecutive economiche diversissime. Tra essi si noverano uomini che intendono, pur conservando le forme della libertà legale, a tirannia, ossia a procacciare onori ricchezze potere a se stessi; ed altri che, se anche siano mossi da legittima ambizione di primeggiare, vogliono elevar se stessi procacciando il bene dei più. La scelta, che la maggioranza faccia di un gruppo piuttosto ché di un altro non risolve il problema; essendo notevoli le probabilità, che in tutti i gruppi politici concorrenti vi sia una frequenza pressoché costante di qualità demagogiche e cioè egoistiche a favor del gruppo e di qualità democratiche e cioè volte al bene comune. Ove non esistano freni al prepotere dei ceti politici, è probabile che il suffragio della maggioranza sia guadagnato dai demagoghi a procacciare potenza onori e ricchezze a sé, con danno nel tempo stesso della maggioranza e della minoranza. I freni hanno per iscopo di limitare la libertà di legiferare e di operare dei ceti politici governanti scelti dalla maggioranza degli elettori. In apparenza è violato il principio democratico il quale dà il potere alla maggioranza; in realtà, limitandone i poteri, i freni tutelano la maggioranza contro la tirannia di chi altrimenti agirebbe in suo nome e, così facendo, implicitamente tutelano la minoranza. I freni esistono ed agiscono se gli uomini sono disposti a «tolleranza». La maggioranza, la quale avrebbe il potere di legiferare e decidere, tollera che la minoranza le vieti di agire a sua posta. I freni possono essere scritti nelle tavole fondamentali della legge. Se il principio della maggioranza fosse davvero decisivo, il comando legislativo ed esecutivo dovrebbe essere assunto dalla maggioranza della camera eletta a suffragio universale e segreto dei cittadini. Entro i limiti logici di quel principio non hanno luogo né la seconda camera, né le prerogative del capo dello Stato, né le dichiarazioni di incostituzionalità da parte di alcuna suprema corte giudiziaria. Tutti questi istituti non hanno ragion d’essere se si pensi che la maggioranza dei designati dal suffragio universale e segreto abbia diritto di avere una volontà e di farla eseguire. Essi vivono invece perché la maggioranza tollera che altri dica: tu sei la maggioranza dei delegati dei cittadini contati per teste; ma accanto a te esiste un’altra maggioranza di taluni uomini designati dall’eredità, dalle cariche coperte, dalla nomina regia o presidenziale, da corpi territoriali (stati, regioni, comuni)o professionali (università, accademie, corporazioni professionali) e talvolta, come accadeva in talune repubbliche saggiamente amministrate, persino dalla sorte. Siano costoro chiamati anziani o savi o senatori, essi hanno per legge il compito di rivedere, ritardare, modificare la volontà manifestata dalla maggioranza. Si riconosce, accanto al principio del contare le teste, che è il fondamento del governo democratico, sostituito al principio dello spaccarle, fondamento del governo tirannico, un altro principio: quello del pesarle; e si escogitano criteri oggettivi non arbitrari i quali facciano riconoscere le persone alle quali si vuole affidare il compito ritardatore dell’attuazione immediata della volontà della maggioranza. Non si nega che questa debba da ultimo prevalere; ma la si vuole difendere contro la sua propria intemperante frettolosità. Le passioni politiche possono persuadere a sopraffazione contro la parte avversaria; la riflessione imposta dall’obbligo di sentire gli anziani induce a tolleranza. Talvolta la moderazione è imposta dall’obbligo fatto dalla costituzione alla maggioranza di interrogare nuovamente se stessa a distanza di qualche tempo. Se la sua volontà è ugualmente ferma su quel punto, essa dimostra di essere dovuta non ad impulso improvviso, ma a ponderato giudizio; e la volontà può dar luogo all’azione.

L’obbligo delle maggioranze speciali, dei due terzi, dei tre quarti e perfino dei quattro quinti dei votanti o degli aventi diritto al voto è un altro aspetto dei vincoli che la maggioranza impone a se stessa contro la intemperanza, che nei momenti di grande passione politica la condurrebbe a sopraffare le minoranze. La volontà della maggioranza semplice non è ritenuta bastevole, se non è confortata da un più largo assenso. Alla formazione iniziale dello stato nella maniera odierna ha presieduto un equilibrio di forze sociali o territoriali, di tendenze di pensiero, di correnti politiche, mancando il quale lo stato non sarebbe sorto ed oggi sarebbe diversamente costituito. È naturale che le forze le quali erano giunte ad un dato equilibrio, quando per la fondazione o la nuova costituzione dello stato occorreva il loro consenso unanime, non intendono consentire ad una mutazione notabile di quell’equilibrio in seguito ad un subitaneo rivolgimento nella volontà della semplice maggioranza momentanea dei cittadini. Sarebbe troppo facile ad un gruppo numeroso di sopraffare un altro più sparuto dopoché questi ha rinunciato, entrando a far parte del nuovo stato, a quelle armi che prima gli avrebbero consentito di resistere alla sopraffazione altrui. Un tempo, innanzi alla rivoluzione francese, la resistenza alla volontà della maggioranza prendeva la forma di franchigie, di atti di dedizione, di statuti municipali o regionali, i quali non potevano essere violati dal principe, in cui si incarnava la volontà generale, senza che su di lui cadesse la taccia di mancata fede a giuramenti solenni. Nelle costituzioni federali odierne la volontà della maggioranza semplice od anche speciale più alta dei cittadini dell’intiera federazione non può prevalere contro la resistenza dei cittadini appartenenti alla minoranza degli stati federati. Questi si unirono inizialmente agli altri a date condizioni, le quali non possono essere mutate ove non concorra il loro particolare consenso. La maggioranza semplice può deliberare per le cose le quali non toccano negli stati unitari i principi fondamentali della vita civile e politica e negli stati federali, inoltre, i principi regolatori dei rapporti fra gli stati singoli e la federazione; ma per queste materie essenziali la maggioranza deve tollerare che la minoranza si opponga all’attuazione di nuove norme, le quali non sarebbero state consentite dai fondatori dello stato ove questi, al tempo in cui vissero, avessero dovuto deliberare tenendo conto delle nuove circostanze del tempo presente. Si vede qui la ragione profonda dei freni al potere delle maggioranze. I freni sono il prolungamento della volontà degli uomini morti, i quali dicono agli uomini vivi: tu non potrai operare a tuo libito, tu non potrai vivere la vita che a te piaccia; tu devi, sotto pena di violare giuramenti e carte costituzionali solenni, osservare talune norme che a noi parvero essenziali alla conservazione dello stato che noi fondammo. Se tu vorrai mutare codeste norme, dovrai prima riflettere a lungo, dovrai ottenere il consenso di gran parte dei tuoi pari, dovrai tollerare che taluni gruppi di essi, la minor parte di essi, ostinatamente rifiutino il consenso alla mutazione voluta dai più. Noi non volemmo porre i freni per capriccio o per smisurata opinione di noi stessi. Noi, che forse uscimmo da lotte cruente, che sapemmo quali ostacoli si debbono superare per fondare uno stato atto a durare nel tempo, sapevamo che uno stato si fonda e dura quando raccoglie attorno a sé il consenso della quasi universalità dei suoi cittadini. Noi non volemmo creare qualcosa che rispondesse alle aspirazioni fuggevoli della nostra sola generazione; ma riassumemmo nella nostra volontà quella di molte generazioni le quali avevano lottato e sofferto perché noi avessimo la ventura di toccare la meta che essi si proponevano. Perciò non volemmo che gli uomini viventi accidentalmente in un istante della successione dei secoli potessero sconvolgere d’un tratto l’opera nostra ed, obbligandoli a riflettere e ad ottenere il consenso dei meno, volemmo assicurare che la loro volontà fosse derivata da convinzioni profonde.

I freni legali scritti nelle costituzioni sono rigidi. La maggioranza speciale dei 66 su 100 non ha alcun rimedio contro l’ostinazione dei 34 su 100, i quali si rifiutino di accettare le proposte di legge presentate dalla maggioranza, nei casi gravi in cui la costituzione richiegga il consenso dei due terzi, il che vuol dire di 67 su 100. Se il 67° voto, che è decisivo, rimane fermo, l’ostacolo legale non può essere superato. In momenti di grande tensione politica, quando gli uomini diventano intolleranti, la mancanza di una valvola di sicurezza può condurre ad un mutamento violento del regime. La maggioranza la quale governa può essere tratta ad usare della forza per superare l’ostinazione della minoranza aggrappata al suo diritto di sbarrare la via alle riforme richieste ad alte grida dal popolo.

Il valore dell’ostacolo non deve essere esagerato. Se una minoranza di senatori americani rifiutò il voto al trattato di Versailles ed impedì l’adesione degli Stati Uniti alla Società delle Nazioni, quella minoranza si faceva in quel momento eco dell’opinione dei moltissimi ben decisi a ritornare all’isolamento tradizionale ed a non lasciarsi impigliare nelle contese europee; e la maggioranza incerta non era bene convinta della saggezza delle deliberazioni alle quali aveva acceduto. Quando invece il presidente Roosevelt volle superare l’ostacolo del diniego alla costituzionalità delle leggi del New Deal ostinatamente opposto dalla maggioranza dei giudici della corte suprema, egli si trovò dinnanzi a due contrastanti affermazioni della volontà della maggioranza dei cittadini. I quali erano bensì convinti che le leggi del New Deal dovessero entrare in vigore; ma erano altrettanto decisi a impedire che il presidente potesse, con un’infornata di nuovi giudici – egli aveva chiesto al congresso una legge la quale sanzionasse l’aumento del numero dei giudici della corte suprema e la legge, se votata, sarebbe certamente stata costituzionale, ed i nuovi giudici scelti dal presidente, avrebbero mutato la maggioranza della corte – sopraffare la volontà della corte quale essa era costituita. Dal dilemma legalmente insolubile si uscì grazie al senso di responsabilità storica dei giudici medesimi, alcuni dei quali, rinunciando a valersi della inamovibilità vitalizia garantita dalla costituzione e più dalla consuetudine ultrasecolare, richiesero di potersi ritirare dall’ufficio; e diedero così modo al presidente di compiere il numero antico scegliendo giudici favorevoli al New Deal. Ma la resistenza della corte suprema non fu vana; ché le nuove leggi approvate dal congresso attenuarono le punte le quali avevano eccitato critiche ragionate tra il pubblico ed i giudici più conservatori.

Un vecchio broccardo inglese afferma che la camera dei comuni può far tutto, salvo trasformare un uomo in donna e viceversa. Come tutti i broccardi, esso tace che vi sono tante cose che il legislatore potrebbe fare, ma non fa, perché un’invisibile misteriosa mano gli chiude la bocca e gli vieta di dire una parola diversa da quella che i secoli hanno inciso nelle coscienze degli uomini. I popoli hanno continuato per secoli a dilaniarsi ed a distruggersi per imporre altrui il proprio credo e da ogni strage nascevano nuovi martiri a chiedere la libertà di coscienza; sinché gli uomini si sono persuasi di non potere rinunciare alla libertà di professare la religione che essi individualmente preferiscono. Per millenni gli uomini hanno prima ucciso e divorato, poi ucciso e dato in pasto alle belve, poi ridotto in schiavitù il nemico, il forestiero, il debole; ma poiché gli schiavi hanno seguitato a ribellarsi, i popoli hanno scritto nei codici il principio che nessun uomo possa essere privato, anche se egli consentisse, della sua libertà personale, salvo nei casi contemplati dalla legge penale. Poiché i potenti, i re, i dominatori hanno usato sottoporre ad arresto arbitrario coloro che essi reputavano loro avversari o trattenere in carcere gli accusati di un delitto senza tradurli dinnanzi al giudice od inquisire a libito loro nelle case private, gli uomini insorsero e combatterono contro l’arbitrio e fu sancito il principio che il cittadino non potesse essere arrestato o la sua casa perquisita senza mandato del giudice; e nessuno potesse essere trattenuto in arresto preventivo, ma dovesse immediatamente essere deferito al giudizio del magistrato; e giudice dovesse essere quello proprio dell’accusato, colui cioè al quale la legge attribuiva l’ufficio innanzi che il presunto reato fosse commesso. Per secoli gli uomini furono perseguitati, incarcerati, martoriati, perché essi dichiaravano un pensiero, professavano opinioni, pubblicavano scritti sgraditi al ceto dominante ed alla maggior parte della popolazione; ma poiché i perseguitati, i bruciati vivi, i sepolti nei mastii delle fortezze dicevano parole ascoltate dagli uomini ed i tiranni sono vinti più dalla forza del pensiero che da quella delle armi, fu sancito nei codici il diritto di ognuno di esprimere liberamente il proprio pensiero colla parola e con gli scritti, purché la manifestazione esteriore del pensiero non ecciti il turbamento violento dell’ordine pubblico. È divenuto così, tra i popoli civili, dogma accettato che la maggioranza credente debba tollerare la pubblica espressione di altre fedi o della mancanza di fede; che la maggioranza repubblicana debba tollerare la pubblica propaganda della monarchia e viceversa; che la maggioranza anticomunista debba tollerare la divulgazione colla parola e cogli scritti dei principi comunistici, e viceversa; che i propugnatori della libertà degli scambi internazionali debbano tollerare ed anzi eccitare la dimostrazione della bontà dei vincoli doganali; che i legislatori debbano considerare come tabù, come cosa intoccabile i principi della libertà di coscienza, di religione, di pensiero, di stampa, della inviolabilità della persona umana e del domicilio privato contro gli arresti e le perquisizioni arbitrarie. Se in qualche contrada nuovamente imperversarono le polizie segrete, i giudizi amministrativi, i confinamenti politici, i tribunali speciali, noi giudicammo che quelle contrade erano sottoposte a tirannia e non facevano più parte del consorzio dei popoli civili.

Qual è la fonte da cui vien fuori l’alone di intoccabilità posto attorno a certi principi? Se si ficca lo sguardo in fondo, si giunge a Cristo, il quale annunciò agli uomini che essi erano tutti uguali innanzi a Dio e, dichiarandoli uguali, proclamò che il fine della vita era il perfezionamento, l’elevazione morale della persona umana. Tuttociò che degrada, opprime la persona umana, tuttociò che costringe l’uomo a fingere di credere, di pensare, di agire in modo contrario alla coscienza, è il male, è il peccato. La legge esteriore, la norma coattiva non può entrare nel dominio riservato alla coscienza, senza violare deformare sminuire la persona umana; e non può impedire neppure la manifestazione esteriore della fede e del pensiero perché l’uomo non vive isolato nella società e, quando non violi l’uguale diritto altrui, ha diritto di far proseliti, di conquistare nuove coscienze alla propria fede ed al proprio pensiero. Erra chi afferma che la fede, che la credenza in una data visione della vita sia un affare privato. Colui il quale ristringe la fede alle pratiche del culto e non informa a quella fede tutta la propria vita, la vita religiosa e quella civile, la vita economica e politica, la vita del pensiero e quella dell’operare pratico, non è un vero credente. Colui il quale assume a principio regolatore la libertà, non può limitarlo alla libertà del pensare solitario, ma deve vivere e predicare ed agire conformemente alla sua convinzione della vita. Poiché i principi della libertà di coscienza, di religione, di pensiero, di stampa sono divenuti carne viva dell’uomo moderno, l’offesa recata in questa materia alla libertà di un uomo solo in una società composta di milioni di uomini è giustamente reputata offesa recata a tutti gli uomini.

Giungiamo qui all’estremo della tolleranza; che è l’intolleranza verso qualunque potere di una maggioranza anche fortissima che si arrogasse di toccare i diritti fondamentali della persona umana. In quel campo neppure l’unanimità di tutti gli uomini viventi in una società politica varrebbe a giustificare la legge coercitiva negatrice delle libertà fondamentali dell’individuo. Quella invero non sarebbe unanimità, ché gli uomini viventi oggi non possono negare l’eredità dei loro padri, la quale ha diritto di rivivere nei figli ancora non nati. Gli uomini possono rinunciare temporaneamente all’esercizio di date libertà esteriori, quando il pericolo incombe di vedere rovinare la società politica, la patria e con essa le vere libertà che sono quelle interiori e spirituali. Salus publica suprema lex esto;, ed i popoli affidano perciò temporaneamente ad un dittatore poteri di vita e di morte. Ma poteri siffatti possono essere affidati solo a chi sia pronto a rinunciarvi non appena sia passato il pericolo; né mai i poteri stessi possono estendersi sino a sopprimere i diritti della persona umana i quali non siano incompatibili con la salvezza dello stato in guerra. Anche nell’ora del pericolo, giova che la libertà di coscienza e di pensiero, che il diritto della libera critica dell’opera dei governanti siano serbati vivi. Unico limite alle libertà fondamentali è il pericolo di giovare al nemico, che quelle libertà vuole distruggere. Perciò sono razionali le norme che l’ordinanza del consiglio federale svizzero del 22 settembre 1939 sulla protezione della sicurezza del paese ha dettato per limitare in tempo di guerra i diritti individuali di libertà:

  • Ogni persona deve ottemperare all’ordine che l’organo competente dell’esercito gli dia in ordine alle esigenze della sicurezza del paese. Gli organi competenti dell’esercito hanno il diritto di penetrare in qualsiasi momento negli immobili costruzioni ed altri locali e farvi perquisizioni ove la sicurezza del paese lo richiegga. Essi possono procedere a perquisizioni sulla persona di persone sospette. Su richiesta di un organo competente dell’esercito, ogni persona ha l’obbligo di aprire i locali ed i mobili di cui essa dispone e di esibire tutti gli oggetti e documenti che vi siano contenuti. Gli oggetti ed i documenti medesimi possono essere sequestrati.
  • In tutti i paesi in guerra o soggetti a pericolo nemico sono ordinate temporanee limitazioni alla libertà del singolo. Nella medesima maniera si risolvono i quesiti relativi alla repressione dei tentativi di sovvertire gli ordinamenti politici e sociali vigenti in un paese. Verso la metà del secolo scorso un gruppo di scrittori politici cattolici si fece paladino di una tesi respinta poscia dai dottori della chiesa.

Noi vogliamo utilizzare il principio, posto dalle leggi liberali, della libertà di insegnamento, di religione, di stampa, di riunione per far propaganda a favore di un ordinamento cristiano e cattolico dello stato. Ma quando noi avremo, col favore della libertà, conquistato il potere, noi non potremo dimenticare di essere, noi cattolici, possessori della verità, e di avere il dovere di inculcarla altrui e di opporci a qualsiasi insegnamento o propaganda contraria alla verità di fede. Perciò noi sopprimeremo quelle libertà che ci avranno consentito di conquistare il potere. Noi siamo logici ora, perché invochiamo le leggi liberali vigenti e saremo logici in seguito, quando obbediremo all’obbligo che la nostra fede ci fa di combattere l’errore.

Poco prima due uomini insigni, due pensatori i quali esercitarono una influenza profonda sul pensiero moderno, Enrico di Saint-Simon ed Augusto Comte sostennero, partendo da un principio diverso, la medesima tesi. Se la scienza è vera scienza, come può essa condurre all’errore? Se lo scienziato consiglia, se il legislatore legifera e il ministro esegue sulla base di un principio scientifico, di una verità dimostrata dalla matematica, dalla fisica, dalla chimica, dalla meccanica razionale, come potrebbero le conseguenze dell’azione essere erronee? Come potrebbero essere ammesse tergiversazioni e discussioni e contrasti intorno al miglior modo di far leggi? Vi è un «unico modo di risolvere i problemi ed è quello indicato dalla “scienza”». Ogni altra maniera è assurda ed antisociale. Lo scienziato, il quale conosce la verità, il quale sa le vie lungo le quali la verità si attua, non tollera, non può tollerare discussioni e resistenze. C’è forse qualcuno il quale neghi la verità della legge di gravitazione? Perché si dovrebbero negare le verità della meccanica sociale scoperte dalla scienza? Non esistono due verità scientifiche intorno al medesimo problema; la vera verità, che è una sola, si impone. Chi la nega è un criminale antisociale e deve essere eliminato.

Più di cent’anni fa, Saint Simon, il grande precursore del socialismo pianificatore, proclamando che un ordine sociale perfetto è possibile solo se «assegniamo ad ogni individuo o nazione la precisa specie di attività a cui sono adatti», si scagliava contro la «rivoltante mostruosità», contro il «dogma antisociale» della libertà di coscienza e dichiarava essere necessario un «potere sprituale» il quale deliberatamente costruisca il codice morale che gli uomini debbono osservare (nel Producteur 1825-1827). Dopo venti anni di intrinsichezza spirituale con Augusto Comte, altro precursore del socialismo organizzatore, Giovanni Stuart Mill era costretto a concludere melanconicamente nell’Autobiografia che i piani di organizzazione scientifica della società, accarezzati anche da lui per tanto tempo, erano «il più compiuto sistema di despotismo spirituale e temporale mai uscito da cervello umano, eccetto forse quelli concepiti da Ignazio di Lodola». Sentenze intolleranti verso la libertà di coscienza e del pensiero si leggono nuovamente in modernissimi libri i quali pretendono di illustrare i compiti sociali della scienza. In Inghilterra studiosi ammiratori dei piani “scientifici” atti ad amministrare le cose sociali, scrivono  (I.G. Crowter, The social relations of Sciences, 1941; L. Hogben, Science for the Citizen, 1938; ed altri) libri di 665 pagine per dimostrare che non solo si debbono far piani scientifici per organizzare l’umana gente e condurla al porto della felicità, ma che anche la scienza deve proporsi come “unico” scopo il bene sociale. Ogni ricerca scientifica cosidetta disinteressata, rivolta alla scoperta della verità pura è perciò antisociale e futile. La resistenza degli scienziati al controllo sociale delle loro ricerche e la loro pretesa ad una compiuta libertà di pensiero è irragionevole.

Non v’ha dubbio che da queste correnti di pensiero discendono nel tempo stesso la morte della scienza e la fine della libertà pratica. Non esiste libertà pratica, non esiste ordinamento democratico libero se ai cittadini non si dia ampia facoltà di parlare ed agire allo scopo di mutare gli uomini ed i sistemi esistenti di governo. L’ordinamento detto “totalitario”, qualunque sia il suo nome, qualunque sia la sua ideologia, è sinonimo di tirannia; nega la ricerca scientifica, la quale consiste nel sostituire una visione più perfetta dei fatti e della vita ad una visione più imperfetta; ma la visione più perfetta dell’oggi è pur sempre monca e probabilmente erronea ed importa sia continuamente provata e riprovata alla cote della critica, allo scopo di giungere via via a verità più alte o più generali, sebbene probabilmente sempre imperfette. Quell’ordinamento nega medesimamente la libertà pratica degli uomini, perché li costringe a vivere secondo una norma che è detta ottima da taluni uomini, i quali negano agli altri il diritto di proporre altre norme di vita, che i cittadini forse preferirebbero.

Il quesito politico il quale deve essere risoluto è: dobbiamo tollerare la esistenza di gruppi e di partiti, decisi a profittare della libertà ad essi garantita dagli ordinamenti democratici per abolire, una volta conquistato legalmente il potere, quella libertà di pensiero e di azione che aveva ad essi consentito di giungere al potere? Una società di uomini liberi non deve sbarrare il passo a coloro i quali, apertamente od implicitamente, si propongono il fine di costituire uno stato tirannico, in cui il gruppo che è riuscito ad ottenere per una volta la maggioranza dei suffragi, impedirà in seguito alle minoranze di muovere, nelle maniere legali, opposizione al governo costituito e di tentare di divenire nuovamente maggioranza? È doveroso che i poteri legislativi, esecutivi e giudiziari di un paese democratico dicano: «noi siamo decisi a garantire il rispetto più ampio al diritto di opposizione di qualunque partito, qualunque sia il suo credo politico sociale religioso morale. Ad una condizione: che si tratti di partiti ugualmente decisi, ove ad essi riesca di conquistare il potere, a garantire a noi, divenuti minoranza, uguale diritto di critica, di opposizione e di propaganda. Noi non possiamo consentire il diritto di propaganda a chi professa di volere distruggere la base medesima dell’ordinamento democratico, che è la libertà di critica e di opposizione». Questa posizione del problema deve essere nettamente negata. In primo luogo perché essa è futile. Gli uomini i quali, una volta conquistato il potere, negheranno la libertà, manderanno a morte, alla galera, al confino o, se vorranno dar prova di straordinaria mitezza, all’esilio gli oppositori, oggi certamente sono tra i più ferventi paladini di libertà. Nella fase preparatoria della conquista del potere, nessuno è, più di essi, fervente assertore di libertà per tutti i partiti. Finché siano minoranza, essi affermano il diritto di critica, di opposizione e di propaganda per tutti i partiti. Come distinguere, fra i tanti partiti che tutti, in tutti i paesi, vogliono la libertà ed oppugnano la tirannia, quelli i quali negheranno la prima ed instaureranno la seconda? Sarebbe d’uopo fare il processo alle intenzioni; inquisire nei più riposti segreti della mente umana; creare strumenti polizieschi propri della tirannia medesima, dalla quale si aborre. Oppure bisognerebbe argomentare dalla dottrina del partito che si presume negatore futuro di libertà alle sue conseguenze liberticide logicamente necessarie. Ma non basta, ad esempio, che nel programma dei comunisti si parli di dittatura del proletariato, per dedurre che il comunismo è “necessariamente” un regime di tirannia, sia pure a vantaggio degli operai. Il postulato può interpretarsi nel senso che, giunta la pienezza dei tempi, l’ordinamento attuale della proprietà appaia privo di contenuto, sicché la sua sostituzione con un ordinamento comunistico sia conforme all’interesse generale e non sia contestata se non da minoranze insignificanti e rassegnate a non diventar mai più maggioranza. L’interpretazione è fondata su previsioni storicamente ed economicamente assai dubbie; ma non può essere esclusa a priori; ed a priori non possono essere escluse costruzioni teoriche di economie comunistiche pianificate dal centro, le quali siano o sembrino compatibili con il mantenimento della libertà.

I credenti nell’idea della libertà non fondano tuttavia la loro negazione su una argomentazione empirica. Essi affermano che un partito ha diritto di partecipare pienamente alla vita politica anche quando esso sia dichiaratamente apertamente liberticida. Allo scopo di sopravvivere, gli uomini liberi non debbono rinnegare le proprie ragioni di vita, la libertà medesima della quale si professano fautori. Bisogna combattere i partiti liberticidi, mettere in luce l’errore dei loro programmi, usare di tutti i mezzi di propaganda offerti per convincere i cittadini dell’errore che essi commetterebbero rinunciando, in cambio della promessa, impossibile a mantenersi, di un bugiardo effimero apparente vantaggio materiale, al bene supremo della libertà spirituale e morale, dalla quale unicamente derivano i beni terreni. Gli uomini amanti della tolleranza civile hanno il dovere di combattere sino all’ultimo; ma, combattendo, non possono rinunciare ad essere se stessi. Epperciò essi debbono concludere: «se, nonostante la nostra parola e la nostra opposizione, i cittadini preferiscono i liberticidi a noi, segno è che essi non apprezzano il bene supremo, e fruges consumere nati, rinunciano alle ragioni della vita, che è liberazione continua dal male, che è lotta, che è sofferenza, aspirazione verso l’alto, verso il perfezionamento morale. Tale essendo la loro volontà, la loro sorte è segnata. Noi destinati a morire, formuliamo l’augurio che l’esperienza non sia troppo dura e troppo lunga per il popolo accecato e non occorra in avvenire troppo sangue e troppa fatica per riconquistare la perduta libertà. Sinché avremo fiato e potremo parlare seguiteremo ad ammonire i concittadini sulla sorte che li attende ove porgano ascolto alle parole lusingatrici della Circe liberticida; ma se gli uomini vorranno seguirla e tramutarsi in bestia, tal sia di loro».

Nulla può dunque fare lo stato democratico per impedire che gruppi o partiti liberticidi minino le sue stesse fondamenta? Nulla che violi la libertà degli uomini di darsi, se credono, un governo tirannico; ma tutto ciò che valga ad impedire che alla mutazione degli ordini liberi si giunga colla violenza e coll’inganno, fuor della volontà, liberamente manifestata, dei cittadini. Perciò mi sembrano indice di tolleranza e di libertà le seguenti norme, che leggo nell’ordinanza del 5 dicembre 1938 del consiglio federale svizzero, le quali puniscono variamente:

  • chi intraprenda a rovesciare o mettere in forse in modo illecito l’ordinamento sulla costituzione della confederazione o di un cantone;
  • chi, in particolare, favorisca una propaganda straniera tendente a modificare le istituzioni politiche della Svizzera;
  • chi, pubblicamente ed in modo sistematico, vilipenda i principi democratici, i quali stanno a fondamento della confederazione e dei cantoni, ed in particolare coloro i quali consapevolmente lancino o diffondano a tal uopo informazioni inesatte;
  • chi pubblicamente ecciti all’odio contro taluni gruppi della popolazione per ragion di razza, religione o nazionalità.

E queste altre le quali integrano quelle ora riprodotte:

Il consiglio federale può sciogliere i gruppi o le imprese che compromettano la sicurezza esterna od interna del paese o limitare ovvero interdire la loro attività politica e confiscarne i beni.

Il consiglio federale può, se necessario, vietare espressamente talune specie di propaganda dirette contro le fondamenta politiche e culturali della Svizzera.

Anche quando nessuna persona determinata può essere accusata o condannata, il consiglio federale può vietare per un massimo di sei mesi o per sempre in caso di recidiva, i giornali o periodici i quali abbiano servito alla perpetrazione di uno degli atti previsti nella ordinanza.

Le autorità cantonali debbono vietare le manifestazioni e particolarmente le radunanze ed i cortei, i quali si presuma possano dar occasione o provocare infrazioni alla ordinanza; e, se necessario, il consiglio federale medesimo può pronunciare il divieto.

Le norme, sebbene redatte in linguaggio generico, sono evidentemente indirizzate contro le mene naziste – quelle fascistiche, sebbene non ignote, non ebbero mai sostanziale importanza – di sovvertimento dei liberi ordini politici della confederazione; ma potrebbero essere e furono applicate anche contro tentativi comunistici. Esse in sostanza non sono volte contro la parola o gli scritti intesi a negare le basi dell’ordinamento democratico; sì contro i mezzi illeciti, contrari alle leggi, usati nella propaganda liberticida; contro la calunnia, la diffamazione, il vilipendio sistematico, l’opera di odio antisociale, specie se assoldata da potenze straniere. Lo stato rispetta tutte le idee, anche quelle più repugnanti all’uomo libero; ma non tollera che la propaganda delle idee antiliberali assuma forme esteriori nocive all’ordine pubblico ed alla sicurezza della nazione. La linea di distinzione fra il mezzo lecito e quello illecito, fra la predicazione pacifica e l’eccitamento alla violenza ed al disordine, fra la convinzione spontanea e la professione esterna assoldata dal nemico è, sì, sottile. Ma ogni distinzione giuridica di tal genere è delicatissima; e l’unica guarentigia per la libertà del cittadino contro i soprusi dell’autorità politica è l’indipendenza della magistratura. Se esistano magistrati consapevoli della loro missione, il cittadino non corre alcun pericolo a causa dei divieti posti a tutela dei liberi ordinamenti. Là dove i magistrati ubbidiscono al cenno del politico, a che pro andar cercando guarentigie nella lettera delle leggi? La legge, sia d’ordine costituzionale che ordinaria, non può essere opera della sola maggioranza. Almeno non può essere tale, ove essa debba durare a lungo ed essere applicata fruttuosamente. Se la norma di legge fu voluta dalla maggioranza contro la netta opposizione di una minoranza notabile e convinta; se essa lasciò uno strascico di importanti interessi lesi e se la lesione è reputata ingiusta da forti gruppi di interessati; se essa offese ideali cari a talune regioni o città o gruppi sociali, non illudiamoci. Quella chiamasi legge, ma è un’arma di lotta di gruppo contro gruppo, di regione contro regione, di città contro città. Essa eccita resistenze, provoca nuove lotte, inacerbisce gli animi. Può darsi essa prevalga alla lunga sulle forze che la contrastano; ma gli strascichi di odii e di vendette che essa lascia dietro di sé sono forse più dannosi dei benefici che se ne ritraggono.

La legge duratura, feconda ha per caratteristica essenziale l’adesione della minoranza ai deliberati della maggioranza. Adesione non vuol dire voto favorevole. La critica, il contrasto all’approvazione di un disegno di legge, articolo per articolo, capoverso per capoverso, parola per parola è collaborazione altrettanto efficace alla nuova legge quanto e forse più, della difesa del testo originale. L’oppositore, il quale, dopo vivacissima discussione e lunghe schermaglie, è riuscito a far modificare la dizione di un articolo, a far introdurre un nuovo comma, ad attenuare o ad accentuare la norma originariamente proposta, è forse più orgoglioso della variazione chiesta ed ottenuta con tanta fatica di quel che non sia il ministro proponente del suo trionfo nel voto finale. La legge diventa il frutto comune della maggioranza e della minoranza. Anche colui il quale ha dato il voto contrario deve riconoscere che nella formulazione ultima si è tenuto conto del suo contributo, che in essa si rispecchia un aspetto della sua volontà ed è tratto ad inchinarsi alla volontà della maggioranza. Il tipico risultato del contrasto liberamente manifestato è il compromesso fra le parti e le tendenze opposte; ed il compromesso conduce alla adesione leale della minoranza alla decisione lungamente contrastata alla quale la maggioranza finalmente è giunta.

Il “compromesso” ha due significati opposti: del do ut des fra interessi opposti e dell’avvicinamento fra partiti estremi. Il primo è moralmente e politicamente deprecabile; il secondo è strumento di stabilità sociale. Il compromesso del do ut des non è indice di tollerante adattamento parziale alle idee opposte, sì invece di puro calcolo partigiano egoistico. L’avvocato degli industriali cotonieri freddamente calcola quanti voti può aggiungere a quelli dei suoi fidi se egli, mercanteggiando, promette il voto favorevole dei venti suoi affiliati alle proposte sostenute singolarmente dagli avvocati dei lanaiuoli, dei siderurgici, dei meccanici, dei cerealicultori e dei viticultori. Nessuno di questi gruppi ha ideali da difendere, nessuno bada all’interesse generale. Basta ad ognuno di contrattare con i rappresentanti di interessi diversi la propria adesione alle richieste altrui pur di ottenere l’adesione altrui alle richieste proprie. Così nascono le tariffe doganali, le quali proteggono non le industrie le quali abbiano ragioni di interesse generale da far valere (industrie nascenti, industrie in transizione o soggette a svendite temporanee ecc. ecc.), ma quelle le quali sono politicamente forti e possono influire su un numero maggiore di rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori. Così nascono le distribuzioni dei lavori pubblici tra regioni diverse e tipi diversi di occupazione. Non si bada al piano preordinato in tempi prosperi, di lavori atti ad assorbire, nella maniera più adatta a compiere opere di interesse generale, gli operai che saranno disoccupati nei tempi di crisi; ma si contrattano opere per soddisfare ad esigenze politiche elettorali nei tempi e nei luoghi preferiti dalle parti le quali dispongono dei voti necessari a formare maggioranze parlamentari. Ovvero anche, nel sistema proporzionale, quando i partiti si moltiplicano e basta il possesso di un quoziente elettorale per dar luogo ad un partito, ognuno di essi intende ad attuare il proprio piccolo programma, che può essere il voto alle donne o la parificazione della scuola privata a quella pubblica o il divorzio o la proibizione delle bevande alcooliche o il dazio sul grano o l’unicità dei sindacati operai e padronali e simili cose sconnesse tra loro e forse derivanti da correnti ideali opposte; ed ogni partito vende all’altro il voto nelle cose altrui per conseguirne l’assenso al proprio postulato. Questo è falso compromesso, il quale trasforma i codici in antologie di norme arlecchinesche e dà il governo in mano a faccendieri intriganti.

Il vero compromesso è invece avvicinamento tra gli estremi, superamento degli opposti in una unità superiore. In verità maggioranze composte di uomini fermamente convinti della bontà di un programma non esistono. Pochi uomini posseggono un proprio sistema di idee, una ferma convinzione intorno ai problemi fondamentali della convivenza sociale. Intorno ai pochi si adunano i seguaci, e con essi formano parti politiche, scuole letterarie od artistiche, raggruppamenti sociali o religiosi. Pochi sono i capi ed i seguaci veramente convinti e sono minoranze più o meno attive nella predicazione e nella propaganda. La grande maggioranza degli uomini non pensa colla propria testa. Aderisce al pensiero ed alla volontà altrui. Ma vuole essere persuasa. Alla grande massa che non pensa, dispiacciono, salvo quando essa è folla radunata in piazza, i colori vivi abbaglianti; e la attirano invece le sfumature, le finte di transizione. Per conquistare gli incerti, i dubbiosi, i non pensanti è necessario che i partiti organizzati abbandonino una parte di se stessi, quella parte che allontanerebbe un troppo gran numero di titubanti. Fa d’uopo che ogni parte faccia proprio quel che di buono, di attraente per la moltitudine degli incerti vi è nel programma della parte avversa. In questa necessità di ottenere e conservare il favore della moltitudine politicamente passiva è radicato il gioco politico dell’appropriazione dei punti migliori dei programmi avversari. La legislazione sociale, le riforme tributarie ed agrarie, proposte dapprima da filantropi solitari, da apostoli di comunismo e di socialismo utopistico o rivoluzionario, da organizzatori operai, da liberali utilitaristi, furono quasi sempre attuate, nei paesi politicamente sani, dai conservatori. Non a caso; ché, filtrate attraverso il vaglio della discussione, le riforme perdono della asperità e crudezza originarie; da enunciazioni vaghe di principi si voltano in norme precise giuridiche, da paurose minacce di sovvertimento sociale in garanzie feconde di elevazione di tutti gli uomini. I conservatori, i quali hanno il vanto di attuare la riforma, non ne sono in verità i soli e neppure forse i veri autori; ché nel linguaggio tecnicamente perfetto della legge sono tradotte le predicazioni del filantropo, gli insegnamenti del sacerdote, le arringhe degli oratori comunisti, gli eccitamenti degli organizzatori, i ragionamenti degli economisti liberali. Filantropi, sacerdoti, socialisti, organizzatori, economisti non sono pienamente contenti della traduzione che i conservatori hanno fatto delle loro idee; e tuttavia veggono in quelle formule giuridiche, in quelle norme precise riprodotta, quando sia giunta la pienezza dei tempi – ed il contributo dei conservatori lungiveggenti sta appunto nella scelta del momento più adatto alla riforma – la sostanza del loro pensiero, in quanto essa è atta ad essere tradotta in azione. Sicché, quando la norma è da ultimo promulgata, come legge, essa non è in verità l’espressione della volontà di una parte intesa a sopraffare l’avversario, ma della volontà generale. La legge è osservata da tutti, è legge attiva e fruttuosa perché è frutto del compromesso fra gli opposti, e della adesione dei meno alla norma deliberata da coloro che si sono fatti l’eco della volontà dei più. La legge è sempre formalmente coattiva; ma è viva ed operosa solo se ad essa aderisce subito, senza rimpianto, la minoranza vinta. Soltanto allora il popolo dice: questa e legge. E ad essa ubbidisce.

 

[1] Con il titolo «Maior et senior pars», ossia della tolleranza e dell’adesione politica [ndr.].

[2] Della distinzione, usata dai canonisti medievali, fra major e sanior pars, avevo letto primamente in Il principio maggioritario, di Edoardo Ruffini, Bocca, Torino 1927.

I problemi economici della federazione europea

I problemi economici della federazione europea
Ed. La Fiaccola, Milano, 1945

 

 

 

 

«Avec le principe sacré de la liberté du commerce, tous les prétendus intérêts de posséder plus ou moins de territoire, s’évanouissent par ce principe, que le territoire n’appartient point aux nations, mais aux individus; que la question de savoir si tel canton, tel village doit appartenir à telle province, à tel Etat, ne doit être décidée que par l’intérêt qu’ont les habitants de tel canton, de tel village, de se rassembler pour leurs affaires dans le lieu où il leur est le plus commode d’aller». Turgot

 

 

CAPITOLO I

I COMPITI ECONOMICI DELLA FEDERAZIONE

 

1. Necessità di elencare tassativamente i compiti

 

Federazione europea dal punto di vista economico vuol dire attribuzione alla autorità federale di alcuni compiti economici definiti tassativamente nel documento costitutivo della federazione, definiti cioè in modo tale che la autorità federale abbia soltanto il potere di attendere ai compiti compresi nell’elenco, tutti gli altri non elencati rimanendo di competenza dei singoli stati federati. Giova perciò, allo scopo di attenuare i sospetti ed i timori di larghe correnti di opinione o di forti gruppi di interessi, ridurre al minimo assolutamente necessario il numero dei compiti attribuiti alla federazione fin dal principio. Col tempo, l’esperienza fatta ed il consenso crescente dei popoli consentiranno che l’elenco di quei compiti venga allungato osservando le formalità prescritte per l’approvazione di emendamenti alla costituzione federale; formalità che saranno certamente non facili ad osservare: maggioranza speciale, superiore alla metà dei voti delle due camere del parlamento federale, maggioranza speciale degli stati federati espressa con modalità particolare. Se gli ostacoli all’approvazione degli emendamenti saranno superati, ciò accadrà perché l’estensione dei compiti dell’autorità federale sarà entrata nella coscienza della grandissima maggioranza dei cittadini della federazione ed insieme dei cittadini della massima parte degli stati federati, persuasi dei benefici ottenuti dall’esperienza passata. Frattanto giova che la esperienza iniziale sia ristretta a quei compiti senza adempiere ai quali la federazione sarebbe praticamente non esistente.

 

 

2. Posta, telegrafi, telefoni, trasporti internazionali per ferrovia, per mare, per aria, su canali e su fiumi. Quid delle forze idrauliche?

 

Alcuni di questi compiti hanno indole tecnica e sono quelli che già sin d’ora sono internazionalizzati od il difetto della internazionalizzazione dei quali fa apparire, con la forza dell’evidenza intuitiva, anacronistica la persistenza nel mondo contemporaneo degli stati singoli sovrani: la posta, il telegrafo, il telefono, il regolamento dei trasporti interstatali per ferrovia, per fiumi e canali navigabili, per mare e per aria. Una amministrazione postale telegrafica e telefonica federale può evidentemente gestire questi servizi, di natura evidentemente tecnica, con molto più economicità e in modo assai più efficace di quanto possa accadere con amministrazioni separate. Ed è chiaro anche come il regime dei laghi alpini, dei grandi fiumi come il Danubio, il Rodano, l’Elba, il Reno ed, attraverso il Ticino, il Po, possa essere meglio regolato da una autorità federale, la quale tenga conto di tutti gli interessi particolari e possa disporre le opere d’arte necessarie nei luoghi più adatti, che non da singoli stati gelosi custodi di interessi locali non sempre coincidenti con quelli generali. I problemi connessi con il regime degli stretti e del sorvolo aereo degli spazi territoriali nazionali trovano una soluzione nell’ambito federale assai più agevole che non nel contrasto fra i singoli stati sovrani.

 

 

Oggetto di controversia può essere il punto se anche il regolamento delle forze idrauliche debba diventare materia federale; e pare ovvio che all’autorità federale debba essere attribuito il regolamento di quelle forze idrauliche le quali derivano o sono strettamente connesse con il regolamento dei laghi e dei fiumi interstatali. Per le altre forze idrauliche i pareri possono essere discordi, ai vantaggi connessi con la possibilità di utilizzare, con scambi opportuni, al massimo le forze aventi origine in territori statali diversi e periodicità diversa di massime e di minime stagionali, contrapponendosi da taluno l’opportunità di non offendere troppo i sentimenti di priorità e di proprietà propri delle popolazioni in cui le forze idrauliche sono localizzate. E costoro perciò sostengono essere meglio rinviare, a scanso di opposizioni iniziali, la federalizzazione delle forze idrauliche, fatta la eccezione sopradetta, ad un momento futuro.

 

 

3. Moneta e surrogati della moneta. Vantaggi del trasferimento alla federazione

 

Non parrebbe controversa la devoluzione alla Federazione del regolamento della moneta e dei surrogati alla moneta. Il disordine attuale delle unità monetarie in tutti i paesi del mondo, le difficoltà degli scambi derivanti dall’incertezza dei saggi di cambio tra un paese e l’altro e più dalla impossibilità di effettuare i cambi medesimi, hanno reso evidente agli occhi di tutti il vantaggio che deriverebbe dall’adozione di un’unica unità monetaria in tutto il territorio della Federazione. Se dappertutto in Europa o almeno nell’Europa federata, si ragionasse e si conteggiasse e si facessero prezzi di beni e di servigi, ad esempio, per adoperare una parola neutra, in lire zecchine, quanta semplificazione, quanta facilità nei pagamenti, nei trasferimenti di denaro, nei regolamenti dei saldi! Nel caso che, l’autorità federale intendesse ritornare al sistema aureo, ciò vorrebbe dire avocazione all’autorità medesima del diritto di adottare l’unica nuova unità monetaria d’oro ed i necessari sottomultipli divisionari d’argento, di nikel, di rame per i minuti pagamenti, come pure del diritto di istituire un’unica Banca Centrale o di emissione incaricata di emettere i biglietti permutabili a vista in oro. Nel caso nel quale non si intendesse ritornare al tipo aureo, l’autorità federale, pur riservandosi il diritto di battere nuovamente ed eventualmente moneta d’oro, avrebbe sempre l’esclusività della battitura delle monete divisionarie d’argento, di nikel e di rame e della emissione dei biglietti della Banca centrale espressi nella nuova unità monetaria, pongasi la lira zecchina. Sarebbe abolito cioè il diritto dei singoli stati federati di battere moneta propria con denominazioni, pesi e titoli propri e di istituire banche centrali con diritto di emissione indipendente di biglietti. Potrebbe essere solo consentito che la zecca o la Banca centrale, agendo forsanco per mezzo di filiali locali, battesse esemplari di monete, con impronte diverse per ogni stato ma con denominazione, peso e titolo uniformi. Sarebbe ben chiaro che questa diversità avrebbe indole puramente sentimentale; ché i biglietti e le monete diversamente improntate sarebbero emessi esclusivamente dall’autorità federale e nella quantità da essa e non dai singoli stati fissata; e tutti dovrebbero essere mutuamente intercambiabili senza alcun ostacolo.

 

 

Il vantaggio del sistema non sarebbe solo di conteggio e di comodità nei pagamenti e nelle transazioni interstatali. Per quanto altissimo, il vantaggio sarebbe piccolo in confronto di un altro, di pregio di gran lunga superiore, che è l’abolizione della sovranità dei singoli stati in materia monetaria. Chi ricorda il malo uso che molti stati avevano fatto e fanno del diritto di battere moneta non può aver dubbio rispetto alla urgenza di togliere ad essi cosifatto diritto. Esso si è ridotto in sostanza al diritto di falsificare la moneta (Dante li avrebbe messi tutti nel suo inferno codesti moderni reggitori di stati e di banche, insieme con maestro Adamo) e cioè al diritto di imporre ai popoli la peggiore delle imposte, peggiore perché inavvertita, gravante assai più sui poveri che sui ricchi, cagione di arricchimento per i pochi e di impoverimento per i più, lievito di malcontento per ogni classe contro ogni altra classe sociale e di disordine sociale. La svalutazione della lira italiana e del marco tedesco, che rovinò le classi medie e rese malcontente le classi operaie fu una delle cause da cui nacquero le bande di disoccupati intellettuali e di facinorosi che diedero il potere ai dittatori. Se la federazione europea toglierà ai singoli stati federati la possibilità di far fronte alle opere pubbliche col far gemere il torchio dei biglietti, e li costringerà a provvedere unicamente con le imposte e con prestiti volontari avrà, per ciò solo, compiuto opera grande. Opera di democrazia sana ed efficace, perché i governanti degli stati federati non potranno più ingannare i popoli, col miraggio di opere compiute senza costo, grazie al miracolismo dei biglietti, ma dovranno, per ottenere consenso a nuove imposte o credito per nuovi prestiti, dimostrare di rendere servigi effettivi ai cittadini.

 

 

4. Di alcune riserve teoriche al governo federale della moneta

 

Il trasferimento alla Federazione del diritto esclusivo di battere moneta e di emettere biglietti non opererà da solo il miracolo di garantire ai popoli una moneta buona. Miracoli non accadono mai in materia economica. Ma la possibilità di falsificare l’unità monetaria scema con lo scemare delle probabilità di guerre e di rivolgimenti sociali violenti; epperciò scema in un sistema federale che toglie le cause di siffatti eventi od almeno le rende meno potenti. La grande pubblicità dei dibattiti nelle assemblee federali, il contrasto degli interessi regionali, il vigile controllo dei rappresentanti dei singoli stati contribuiscono al medesimo risultato.

 

 

Di fronte al quale cadono talune riserve le quali sono messe innanzi da un gruppo di teorici, particolarmente inglesi, di cui il più noto e rappresentativo è Lord Keynes, e che qui non è il luogo di discutere particolareggiatamente. Riassumendo, dicono costoro che ad un singolo stato può convenire in dati momenti, particolarmente di crisi, svalutare l’unità monetaria (cambi esteri variabili) e tenere fermi i prezzi all’interno, piuttosto che tener ferma l’unità monetaria (cambi esteri costanti) e lasciare ribassare i prezzi all’interno. Si dice che il primo metodo è più dolce e blando dell’altro, perché non ribassando i prezzi nominali all’interno non occorre ribassare i salari nominali in moneta. Nulla cambia alla sostanza delle cose, trattandosi solo di differenti metodi di ovviare o di limitare i danni delle crisi. Come bene afferma il Robbins, non occorre che i federalisti prendano posizione in tale delicata e difficile materia. Se, come si deve, spetterà all’autorità federale di regolare la materia monetaria, l’autorità medesima potrà, in casi particolarmente gravi, deliberare di fare omissioni particolari di biglietti circolanti o di allargare le aperture di credito da parte della banca centrale di emissione solo nel paese dove cotal metodo di cura apparisse conveniente e potrà in tal caso stabilire saggi particolari di cambio fra i biglietti la cui circolazione sia ristretta ad un solo stato ed i biglietti aventi circolazione federale. Ma si ricorda la riserva quasi solo per memoria essendo praticamente certo che in un grande stato federale quel metodo di cura delle crisi apparirà senz’altro sconsigliabile di fronte ad altri più efficaci, e che le crisi medesime saranno meno gravi di quel che siano in un mondo spezzettato ed irto di gelosie internazionali.

 

 

5. Delle imposte da attribuirsi alla Federazione. Dazi doganali ed accise. Esclusione dei contributi statali e di sovrimposte federali sulle imposte statali. L’imposta federale sul reddito netto totale. Esclusione di un’imposta successoria federale

 

Si può rimanere alquanto più incerti intorno alla attribuzione del diritto di stabilire imposte alla federazione. La regola che a questa spettino soltanto quei compiti i quali esplicitamente le sono assegnati nella Carta costituzionale deve essere approvata anche in questa materia. Se è facile l’accordo sul principio che la Federazione debba poter prelevare solo alcune date imposte elencate e nessun’altra, meno agevole è la risposta alla domanda: quali imposte elencare? Su un gruppo di esse non cade dubbio: poiché, come si vedrà subito, alla sola Federazione spetta il regolamento del commercio internazionale, così, per logica conseguenza, alla sola Federazione spetta l’esazione dei dazi doganali sulle merci importate dall’estero entro la nuova allargata linea doganale e di quegli eventuali rarissimi dazi di uscita sulle merci esportate all’estero e degli ancor più rari dazi di transito che venissero conservati o nuovamente istituiti. Ai dazi doganali sono parificati tutti i diritti di statistica, di registro, le sovratasse ferroviarie, portuali, fluviali, aeree gravanti sul trasporto di merci tra uno stato e l’altro e con l’estero, sotto la apparenza dei quali si possono mascherare impedimenti al traffico interstatale. Alla sola Federazione spetta di regolare, con imposte e tasse, questa materia. Per illazione altrettanto logica spetta unicamente alla Federazione il diritto di stabilire imposte sulla produzione o fabbricazione di merci all’interno (accise). Dazi sulle merci estere ed accise sono come fratelli siamesi, ché dove sono gli uni anche le altre forzatamente compaiono. Se un dazio di 1000 lire al quintale colpisce lo zucchero importato dall’estero, altrettanta accisa deve colpire lo zucchero fabbricato all’interno; altrimenti, se l’accisa fosse solo di 800 lire, nessuno comprerebbe zucchero estero e lo stato perderebbe il provento del maggior dazio; e se l’accisa fosse di 1200 lire, nessuno fabbricherebbe zucchero all’interno, ché tutti acquisterebbero lo zucchero estero. Bene la Federazione potrà stabilire, a suo criterio, accise di 1000, 800 o 1200 lire, ma deve, essa sola e non gli stati federati, essere padrona di decidere in argomento, se non si vuole che ognuno degli stati federali ad arbitrio annulli gli effetti della politica economica voluta dalla Federazione.

 

 

Sebbene sia accertato che i proventi doganali e delle accise sono stati bastevoli a sovvenire in passato ai bisogni di talune Federazioni (Stati Uniti d’America e Confederazione svizzera), si deve constatare che non sono più bastevoli oggi e che non v’ha ragione di affermare lo debbano essere in una futura Federazione europea. Un metodo che pare debba essere escluso è quello dei contributi degli stati federati, siffattamente misurati da bastare al disavanzo fra le spese federali ed il gettito dei dazi ed accise. Le esperienze fatte nella Federazione australiana e quelle che, in materia analoga, si possono ricordare per i rapporti fra stato, comuni e province nel Regno delle due Sicilie ed in Toscana dimostrano le difficoltà di sovvenire congruamente in tal modo ai bisogni federali senza eccitare malcontento e resistenza negli stati federati. Nemmeno sembra conveniente dare alla Federazione il diritto di sovrimporre con decimi o centesimi addizionali sulle imposte statali; ché la distribuzione delle imposte sui cittadini europei varierebbe da stato a stato a seconda della gravezza delle imposte e dei metodi di accertamento usati nei singoli stati. All’identico servizio pubblico federale contribuirebbero qua, dove l’imposta statale è fortemente progressiva, più i ricchi e meno i modesti contribuenti, là, dove l’imposta statale è proporzionale o blandamente progressiva, meno i ricchi e più i modesti, con offesa al principio della uguaglianza fra tutti i cittadini appartenenti alla federazione. La soluzione che finì per imporsi nelle maggiori Federazioni (USA) e che converrebbe accogliere sin dal principio nella Federazione europea, pare sia l’attribuzione a questa del diritto di stabilire in concorrenza, ossia contemporaneamente ai singoli stati federati, una propria imposta a base generalissima, che il consenso pressoché universale addita nella imposta sul reddito netto complessivo dei cittadini. Nulla di male accadrà se la Federazione e i singoli stati, adoperando il medesimo strumento tributario, lo applicheranno con criteri differenti rispetto alla graduazione (progressività), ai minimi esenti, alle detrazioni per oneri di famiglia, per assicurazioni, per debiti, e ai metodi di accertamento. La varia esperienza la quale così si farà, l’emulazione nella ricerca e nell’accertamento della materia imponibile non mancherà di produrre il buon effetto di additare a poco a poco alla Federazione ed agli stati federati la via migliore comune da seguire.

 

 

Data la elasticità e la larghissima base della imposta sul reddito, non pare consigliabile di dare alla Federazione le facoltà di esigere altre imposte; nemmeno quelle successorie, le quali dovrebbero essere riservate ai singoli stati troppo stretti essendo i legami di esse col diritto di famiglia e delle successioni, che ogni stato continuerà a regolare secondo le proprie tradizioni storiche e i propri ideali sociali.

 

 

6. Il regolamento federale dei trasporti delle cose e delle persone. Duplice contenuto di esso.

 

Più vivaci i dubbi opposti all’attuazione del postulato fondamentale: alla sola Federazione spetta il regolamento dei trasferimenti di persone e di cose fra l’uno e l’altro stato federato e fra la Federazione e l’estero. Due sono le affermazioni contenute nel postulato. In primo luogo alla sola Federazione spetta il diritto di conchiudere trattati di commercio, di navigazione e di emigrazione con gli stati esteri. In secondo luogo è fatto divieto ai singoli stati federati di imporre qualsiasi restrizione al traffico interstatale di persone e di cose con divieti di immigrazione, restrizioni di domicilio e di residenza ai cittadini appartenenti ad altro fra gli stati federati, con dazi di entrata, di uscita o di transito, con tariffe differenziali ferroviarie, fluviali, lacuali, marittime, automobilistiche, con privative industriali, marchi, contrassegni, diritti di sosta, licenze, visite e limitazioni a proposito di malattie contagiose ed altrettanti pretesti di qualsiasi genere. Tutta la materia del traffico interstatale di persone o cose è unicamente regolata dalle autorità federali.

 

 

7. Attribuzione all’autorità federale del commercio con gli stati esteri. Federazione è sinonimo di unico territorio doganale.

 

Non v’ha sostanziale controversia sul primo punto. Libero scambisti e protezionisti sono d’accordo nel ritenere che quel qualunque regime il quale sarà ritenuto più conveniente per l’Europa federata nel suo complesso di fronte al resto del mondo debba essere deciso dal Parlamento federale e non dal Parlamento dei singoli stati. Il Parlamento federale deve avere la potestà di decidere se l’Europa debba circondarsi di alte frontiere contro le importazioni dalla Russia, dagli Stati Uniti, dai paesi asiatici ed americani meridionali, dall’Australia, ovvero se essa debba adottare una politica di protezione moderata o di dazi puramente fiscali. Il solo Parlamento federale dovrà decidere quale sia la politica doganale da adottare nei rapporti con le colonie appartenenti ai singoli stati o alla Federazione. Solo al Parlamento federale spetterà di decidere se la emigrazione e l’immigrazione siano libere o contingentate e quali trattati siano in proposito da stipulare con i paesi d’immigrazione. Il territorio federale non è forse unico? Le dogane non sono forse un’entrata esclusiva del tesoro federale? Una diversità di dazi per i diversi tratti della frontiera internazionale avrebbe per unico effetto di fare affluire le merci ai porti a dazi minimi, dai quali le merci si irradierebbero per tutto il territorio federale. La necessità di un unico sistema federale doganale è talmente evidente che nessuna controversia mai è sorta in proposito. Federazione vuol dire innanzitutto lega doganale, vuol dire unico territorio doganale.

 

 

8. Divieto di ostacoli al commercio interstatale. Sua evidente necessità per togliere una causa potente di guerra.

 

La necessità della seconda parte del postulato economico, ossia del divieto fatto ai singoli stati federati di opporre essi un qualsiasi impedimento, con qualsiasi pretesto e con qualsiasi denominazione, al traffico interstatale di persone e di cose entro l’unico territorio federale, è altrettanto evidente; ma per l’appunto siffatta evidente necessità è l’ostacolo massimo, di natura economica, alla Federazione. Questa è voluta per togliere la possibilità di guerre; e poiché le barriere doganali fra stato e stato, gli impedimenti di ogni altra specie al commercio interstatale, le varie forme di autarcia sono una potente causa di guerra, così è necessario che siano abolite le barriere fra uno stato e l’altro stato federato e sia costituito un unico territorio entro il quale uomini e cose possano liberamente muoversi. La Svizzera non sarebbe una Federazione se il Cantone di Ginevra potesse chiudersi in se stesso, proteggere le proprie industrie «nazionali», stabilendo dazi contro le merci provenienti dal cantone di Vaud o di Friburgo o di Berna; e se così potesse fare ogni cantone, che è uno stato sovrano, contro le merci di ogni altro cantone. Gli Stati Uniti di America non sarebbero una Federazione, se lo stato di New York potesse vietare, a protezione della sua agricoltura, l’introduzione della carne proveniente dagli ammazzatoi di Chicago o del frumento degli stati del centro; e se ognuno degli stati volesse far sorgere una propria industria automobilistica e perciò gravasse di forti dazi le automobili di Ford, solo perché questi ha i propri stabilimenti a Detroit, in un altro stato.

 

 

Appunto perché un’Europa federata vuol dire unico territorio doganale, liberamente aperto, senza alcun impedimento all’infuori di quelli naturali della distanza e dei relativi costi differenziali di trasporto alle importazioni di merci provenienti da qualunque altro punto del territorio federato, si moltiplicano le diffidenze ed i dubbi e le critiche.

 

 

CAPITOLO II

LA FILOSOFIA DELLA SCARSITÀ

E QUELLA DELL’ABBONDANZA

 

1. Fra le opposizioni, quelle provenienti dal campo agricolo non sono le più vivaci. Le regioni agricole europee sono più complementari che concorrenti

 

Volendo por mente alle più probabili critiche ad una Federazione europea, forse le più vivaci non provengono dai rappresentanti dell’agricoltura. Gli agricoltori temono sovratutto la concorrenza del frumento della Russia, del Canadà, dell’Argentina, dell’Australia, della carne congelata dell’Argentina o australiana, della lana australiana od argentina, del cotone americano. Ma tutte queste derrate alimentari e materie prime vengono da paesi situati all’infuori del territorio probabile di una Federazione europea e questa, se così delibererà il parlamento federale, potrà sempre difendersi contro importazioni le quali sembrassero pericolose per gli agricoltori. I paesi situati entro i limiti del territorio federato sono piuttosto complementari che concorrenti. L’Italia e la Francia del nord, la Germania il Belgio, l’Olanda, i paesi scandinavi, a tacere di quelli polacchi, sono pronti ad assorbire masse crescenti di frutta, di agrumi, di ortaggi, di fiori, di olio, di vino dei paesi meridionali; né, tanta essendo la sete di latticini tra i consumatori, è probabile che il burro della Danimarca ed i formaggi svizzeri facciano venire meno la produzione locale degli altri paesi. In un grande mercato unificato, la concorrenza orizzontale fra agrumi, i vini, gli olii, gli ortaggi, le frutta delle penisole iberica, italiana e greca diventerà emulazione feconda, come quella che esiste fra la California e la Florida negli Stati Uniti d’America; emulazione nell’offrire prodotti migliori, meglio presentati e scelti ad un pubblico più ampio ed avidissimo di consumare.

 

 

2. Mutazione del tipo dell’impresa in funzione della estensione del mercato

 

Avidissimo perché in una Europa unificata, la capacità produttiva del lavoro e del capitale sarà grandemente accresciuta in confronto a quella che è oggi in una Europa spezzettata in più di venti stati. Può sembrare che la estensione territoriale non abbia nulla a che fare con la maggiore o minore produttività delle singole imprese agricole ed industriali. Non sono, in uno stato piccolo o grande, ugualmente disponibili le macchine, gli utensili, gli impianti? Non ci sono gli stessi campi, le stesse vigne, gli stessi orti? Non vivono, nei campi e nelle officine, gli stessi uomini e non sono atti a compiere lo stesso lavoro? Anche in stati piccoli di territorio come la Svizzera e la Cecoslovacchia o la Danimarca, non vi è forse la possibilità di applicare sino ai suoi limiti estremi quella divisione del lavoro, alla quale si fanno risalire i maggiori progressi della produzione? Non occorrono le centinaia di milioni, bastano anche i semplici milioni di abitanti per consentire la più specificata divisione di compiti e di lavorazioni; e ne sia testimone la Svizzera, la quale si è imposta per taluni prodotti fini – orologio, macchinario elettrico ecc. – su tutti i mercati del mondo. Ma l’esempio medesimo della Svizzera prova invece quale sia l’importanza somma del fattore «estensione» del mercato per la prosperità di un paese. Coefficiente massimo e condizione necessaria della grandezza industriale di questo piccolo paese è la possibilità per esso di estendere la sua attività ad un mercato assai più ampio di quello suo ristretto nazionale. Consideriamo per un istante quel fattore semplicissimo della produzione che si chiama «albero da frutta», sia pesco, o melo, o pero. Molti di noi hanno assistito durante la loro vita alla trasformazione radicale del modo di coltivare ed utilizzare l’albero produttivo di frutta. Quando il mercato era ristretto al villaggio od al grosso borgo vicino, l’albero era a pieno vento, situato dove il buon Dio aveva fatto cadere e fecondato il seme, nei campi e nei prati; il contadino lo lasciava venir su alla ventura; i ragazzi vi si arrampicavano sopra per mangiare i frutti acerbi, come oggi accade ancora spesso per le ciliege; e quel che non marciva caduto per terra o non si metteva in serbo per l’inverno per uso famigliare, si portava in ceste o su carretti al mercato, vendendolo bene o male, a seconda dell’accidentale abbondanza o scarsità della merce presente in quel giorno sul mercato. Il ricavo della frutta non contava nel bilancio dell’agricoltore. Era un dippiù. Ad un certo momento, taluni cominciarono a capire che la frutta scelta può essere venduta in città, nel capoluogo della regione, a Torino, a Genova, a Milano. Il contadino vede che gli conviene potare gli alberi per indurli a fruttificare regolarmente e non sprecare tanto terreno per niente. Ma, finché gli alberi sono così sparpagliati e alti, il raccolto è costoso, le cure insetticide, le irrorazioni cupriche od altre contro le malattie delle piante, sono costose per la gran perdita di tempo e lo spreco della roba. Questi alberi nei campi disturbano l’aratura, specialmente se divenuta nel frattempo meccanica, od impacciano la falciatura dell’erba. Con le loro fronde vigorose fanno ombra alle culture sottostanti. Frattanto compaiono mercanti cittadini i quali vanno in giro a vedere se loro convenga fare acquisti in blocco di frutta e, discorrendo, fanno capire ai contadini come ad essi non convenga comprare la frutta a ceste, una qui l’altra là, di qualità, forma e dimensioni svariate, lisce o bitorzolute, mal presentate o belle, alla rinfusa. Un po’ per volta, la scena cambia. I grandi alberi a pieno vento, sparpagliati qua e là, sono abbattuti; e si vedono crescere nei siti più riparati dal vento, meglio soleggiati, alberi di mezza statura, tenuti mondi da rami infruttiferi, bene aereati all’interno, potati con arte, o, meglio, l’albero cessa di essere tale, diventa nano, ad altezza d’uomo, regolato, costretto, deformato a spalliera, a cordone verticale od orizzontale. Il contadino è divenuto un artista; è andato a sentire le lezioni di potatura del professore ambulante; possiede arnesi; maneggia pompe e irrora a tempo le gemme, le foglie, le bacche da frutta; pulisce il tronco e lo dipinge di bianco o di verde; colloca al piede anelli di panno, entro cui si ricoverano le larve dannose, che egli poi brucia. La raccolta medesima è addomesticata; si fa in tempi diversi, a poco a poco, in guisa da distaccare la frutta quando è il momento migliore per la spedizione. Nasce la divisione del lavoro. Un contadino non porta più la frutta al mercato a spalle nelle ceste o nel carretto che l’ammacca tutta con i suoi sobbalzi. Poiché ne val la pena, il mercante passa a parecchie riprese nell’anno sul fondo dove l’agricoltore ha un terreno specializzato, un raccolto pendente che giunge oramai alle decine di quintali: a consigliare cure, a contrattare in primavera il prezzo del raccolto intiero per quando sarà maturo a rischio e pericolo suo; ad effettuare la raccolta, con personale suo, con mezzi suoi di trasporto, con una prima cernita. A poco a poco le cose si perfezionano. L’agricoltore non coltiva più una miscellanea di frutta di diverse qualità e denominazione, mature ad epoche diverse, ma si specializza in tre, due, e forse una sola qualità, quella di rendimento massimo, più adatta al clima ed al terreno. Alla fine, quello che era un ingombro, una perdita di tempo, una occupazione di ragazzi festanti e quella frutta che, se non era lasciata marcire per terra, andava a finire nel truogolo del maiale, è diventata la materia prima di una grande industria, la quale non si conclude nella campagna. Sorgono laboratori e magazzini per la scelta, l’impaccatura, la messa in iscatole, in ceste ben confezionate, la spedizione; per la destinazione di talune qualità alle fabbriche di conserve, di marmellate. Il lavoro dell’uomo, gli alberi, il terreno che prima erano malamente utilizzati e sprecati, ora sono trasformati. In luogo del contadino ignorante ci sono ora agricoltori che conoscono i nomi in latino delle diverse qualità di frutta, che maneggiano arnesi e prodotti chimici, che apprezzano i diversi tipi di potatura. Altra gente e che merita di essere pagata per quel che vale. Ci sono negozianti, che, senza prendere per il collo l’agricoltore come accade nei giorni di mercato abbondante, pagano la merce ai prezzi noti di mercato; ci sono, industriali speditori, i quali sanno dove spedire la merce per ricavarne il maggior utile.

 

 

Da quale causa è venuta la trasformazione? Dall’allargarsi del mercato. Quella frutta, la quale finiva un tempo sulle tavole dei professionisti e negozianti e signori del borgo, che si accontentavano dei tipi locali e li trovavano, anche se malamente presentati, migliori per sapore, di quelli di ogni altro paese del globo terracqueo, ora va nelle grandi città dell’alta Italia, della Germania, dell’Inghilterra, in Scandinavia. Occorre che sia ben presentata, incartata, fresca, non ammaccata, tutta uguale, senza vermi, senza semi, colla pelle sottile. Perciò, la frutticoltura è divenuta un’industria ed un’arte. Se invece di barriere e di dazi ad ogni piè sospinto, di fermi alle frontiere, di documenti complicati di esportazione, tutta l’Europa fosse un mercato unico, quanto più facile vendere, quanta maggiore domanda nascerebbe, che oggi è latente e non può essere soddisfatta! Oggi una famiglia di agricoltori, può vivere e vivere bene attendendo ad una fatica interessante, attenta ed intelligente in un ettaro solo di terreno, là dove invece occorreva sfaticare in venti. In luogo di sprecare alberi, terreno e fatica l’uomo è stato persuaso dalla ampiezza del mercato a trasformare se stesso e la terra e gli alberi sì da renderli dieci e venti volte più produttivi. Si sarebbe ottenuto tutto ciò senza l’allargamento del mercato? Su un piccolo mercato il contadino non avrebbe avuto interesse a trasformarsi in frutticoltore, per la mancanza di clienti abbastanza numerosi e raffinati da richiedere frutta scelta e ben presentata. Non avrebbe avuto ragione d’essere un ceto di negozianti raccoglitori ed un altro di mercanti esportatori, non si sarebbero potute impiantare scuole di frutticultura, né da queste sarebbero usciti i tecnici specializzati nella produzione di piantine delle qualità migliori da vendere agli agricoltori e nell’insegnamento sul luogo delle pratiche di potatura e di medicazione delle piante. Quanto più si allarga il mercato, tanta maggiore è la probabilità di trovare clienti desiderosi di consumare prodotti di qualità e pronti ad offrire il prezzo occorrente a coprire i costi più alti del prodotto fine. Ma l’esistenza di uno smercio sufficiente di prodotti fini, rendendone comune la conoscenza, divulgando i metodi di produrli, finisce alla lunga per diminuire i costi medesimi. Quello che prima era merce offerta ai pochi, deve essere offerta, se vuol essere venduta ai molti nella quantità crescente la quale arriva sul mercato, a prezzi ribassati, i quali tuttavia, compensano i costi. La concorrenza, che con un mercato ampio è assai più arduo sopprimere o limitare che su un mercato ristretto, agisce e costringe i produttori a ridurre i prezzi sino al livello del costo marginale.

 

 

3. La tendenza dei profitti derivanti da nuovi metodi produttivi a scomparire col tempo a causa della concorrenza. Reazioni dei produttori. Varie maniere di restrizione della produzione.

 

È naturale che i produttori vedano di mal occhio la lotta reciproca, la concorrenza, la quale li costringe a rinunciare ai profitti appena intravisti. Vi è un tipo di profitto, tutti i costi sopportati durante la produzione, compresi nei costi l’interesse corrente sul capitale investito ed il compenso normale per l’opera di direzione e di organizzazione dell’impresa, il quale è socialmente ed economicamente vantaggioso; ed è il profitto che va a colui il quale primo inventa un nuovo prodotto od un nuovo modo di fabbricare il prodotto antico a costo minore, il quale primo sa apprezzare una nuova invenzione, una nuova macchina, un nuovo processo chimico, una più felice maniera di presentare la merce al cliente, una disposizione più attraente ed artistica della merce offerta in vetrina, una combinazione più comoda di pagamento, di rimessa della merce a domicilio, anche in luoghi lontani della città, di ordinazione su cataloghi o su listini. Sono infinite le maniere con le quali il produttore (agricoltore, industriale, negoziante) si industria a rendere al cliente un servigio migliore e riesce così ad ottenere un profitto. Ma il profitto guadagnato in tal maniera logora l’intelletto, impone una tensione continua per la ricerca del nuovo e del diverso, ed è temporaneo, sfuggente. L’idea nuova oggi non lo è più domani, il nuovo prodotto, il nuovo processo tecnico, la nuova presentazione della merce, non appena conosciuta, subito si divulga. La concorrenza la sfrutta, i prezzi ribassano ed il profitto sfuma. Contro la malaugurata tendenza dei profitti a svanire nel nulla, i produttori reagiscono nei modi più svariati. Talvolta in maniera corretta, come quando tentano di mantenere il segreto intorno ad una invenzione (forse che il tale ristorante non profitta a causa del mistero da cui è circondata la manipolazione del giusto punto di cottura e con la dovuta manipolazione di ingredienti, di una celebre bistecca di formaggio o di una pizza alla napoletana ancor più famosa? Ed i clienti non si lagnano sebbene la loro curiosità di penetrare il mistero non possa essere soddisfatta), o ricorrono alla protezione legale di un brevetto temporaneo. Ma spesso essi non si contentano delle maniere corrette, e tentano tutte le vie possibili per rendere permanenti quei profitti che hanno la brutta abitudine di dileguarsi troppo presto. A tale scopo essi sostituiscono i disservigi ai servigi; invece di accrescere la produzione tendono a limitarla; invece di aumentare la massa dei beni migliori messi a disposizione degli uomini, la diminuiscono, invece di diminuire i prezzi li aumentano. Il produttore se è costretto dalla concorrenza a rendere servigio altrui col ribasso dei prezzi o col miglioramento della qualità o in ambedue i modi, per se stesso ci ripugna. Se potesse faticare poco o nulla, vendere ad alto prezzo e guadagnare molto lo farebbe volentieri. Non perché sia un produttore ed i produttori siano peggiori degli altri uomini. Lavorare meno che si può e tirare la paga egualmente è una tendenza connaturata all’uomo od almeno alla grande maggioranza degli uomini. Gli altruisti, i filantropi, i francescani, sono i meno, e fa d’uopo confessare essere un bene che ce ne siano ad esempio e monito altrui, ma siano pochi. Che cosa sarebbe il mondo se tutti fossero seguaci di S. Francesco?

 

 

4. Lo stato piccolo favorisce la restrizione, il disservizio; lo stato grande la concorrenza ed il servizio. La difesa contro l’inondazione; l’invasione della merce straniera. Dazi, contingenti, restrizioni di valuta.

 

Se è naturale che la maggior parte degli uomini cerchi di fare l’interesse proprio, è anche ovvio impedire che, nel fare il proprio interesse, gli uomini, scelgano la via più comoda, che è quella di rendere disservizio altrui con lo scemare la produzione e crescere i prezzi. Fa d’uopo invece creare un ambiente esterno siffatto che l’uomo sia costretto a rendere servizio con l’aumentare la produzione e diminuire i prezzi. Orbene, vi è a questo riguardo un contrasto stridente fra lo stato piccolo e lo stato grande; intendendo oggi per stato piccolo tutti quelli che hanno la estensione e l’importanza economica della Francia, o dell’Italia o della Germania e per stato grande quelli che hanno l’estensione e l’importanza economica degli Stati Uniti d’America. Poste, ferrovie, piroscafi, telegrafi, telefoni, radio, velivoli hanno resi economicamente piccoli gli stati che all’epoca delle guerre di nazionalità sembravano grandissimi. All’ombra dei piccoli stati la politica della restrizione, del disservizio, si afferma e facilmente trionfa. L’industriale e l’agricoltore nazionale fanno appello con successo a sentimenti profondamente radicati nell’animo. Lo straniero, il vicino, ecco il nemico contro il quale occorre difendersi. Occorre difendere ‘agricoltura nazionale, l’agricoltura italiana o francese o germanica contro, non si dice alla concorrenza, che potrebbe sembrare l’espressione di un interesse privato, ma contro l’invasione del frumento straniero russo od argentino, del vino straniero spagnolo od italiano, delle cotonate straniere inglesi, delle vetture automobili straniere, italiane, tedesche o nordamericane. Bisogna difendere l’industria nazionale contro l’inondazione dei prodotti esteri, i quali col loro vile prezzo minacciano di distruggere l’economia nazionale, di togliere lavoro agli operai nazionali, di gettare sul lastrico in preda alla carestia milioni e decine di milioni di disoccupati. Per non creare la fame in mezzo e per causa della abbondanza bisogna difendere il popolo contro il nemico che ci minaccia dal di fuori; per creare lavoro bisogna rendere costosa con dazi doganali l’importazione delle merci estere concorrenti con le nostre; e se non bastano i dazi, bisogna limitare a quantità prefissate (contingenti) l’importazione delle merci che assolutamente non si possono produrre in paese; e se ancora non basta bisogna limitare i mezzi di pagamento, per coloro i quali vorrebbero importare merci dall’estero, alla esatta misura nella quale l’estero acquista merci nazionali (compensazione o clearing bilaterale); ed alla fine, se occorre, vietare addirittura l’importazione di tutte le merci iscritte nella lista delle merci proibite. La campagna dei proibizionisti o restrizionisti si fonda in gran parte sull’uso di parole trasferite dal significato proprio ordinario ad un significato traslato per figura poetica o bellica. Difendersi si deve contro il nemico aggressore; e perciò il restrizionista addita lo straniero, il quale in verità si presenta come amico pacifico venuto ad offrire le cose sue a buone condizioni, quasi fosse nemico venuto a recarci offesa.

 

 

5. Accordi, cartelli fra industriali protetti allo scopo di limitare la produzione. Divieti di nuovi impianti.

 

Frattanto all’ombra di queste figure rettoriche, le quali fanno colpo sulle moltitudini attonite ed impreparate a vedere la realtà attraverso il trucco poetico, gli industriali nazionali, sicuri contro la concorrenza estera, stipulano tra loro accordi di prezzo o si ripartiscono, come gli antichi feudatari, i mercati paesani, e praticano la loro politica restrizionistica di aumenti di prezzi e di diminuzione della produzione, che sono fatti sinonimi tra di loro. Per aumentare i prezzi bisogna ridurre la quantità di merce prodotta ed offerta all’interno. Caso mai, se si è prodotto un supero, lo si svenderà all’estero (dumping) a prezzo più basso che all’interno. Non arrivano a contarsi sulle dita di una mano sola in tutto il mondo gli esempi di consorzi, trusts, o cartelli di industriali, i quali abbiano venduto all’interno a miglior mercato che all’estero ed il caso è tanto incredibile e raro che nei libri se ne ricorda un esempio solo, quello del sindacato tedesco della potassa, che, per un certo tratto della sua vita, vendette in Germania, a favore dei suoi propri connazionali quel concime chimico a prezzo più basso che ai forestieri. Normalmente gli stranieri, i quali possono comprare altrove, sono favoriti contro i nazionali i quali sono pigliati per il collo e non potendo, perché i dazi e i contingenti e i clearing lo vietano, dirigersi altrove, sono forzati a dire grazie! al compaesano, nell’atto in che costui porta via il loro denaro di tasca.

 

 

Anzi, poiché, se la concorrenza estera non c’è più od è limitata, possono sempre venir fuori nuovi concorrenti dall’interno medesimo, si inventano altre figure rettoriche, e, piangendo sull’«anarchia» della concorrenza «sfrenata», si impietosiscono gli organi legislativi e li si inducono a votare leggi in virtù delle quali nessun industriale può costruire nuovi od allargare vecchi impianti senza un’autorizzazione governativa. E questa viene data solo se, studiata la domanda, sentite le osservazioni degli industriali già esercenti, il governo si persuada che quel nuovo impianto è davvero necessario per soddisfare i bisogni effettivi della popolazione. Il che è cosa senza senso, in primo luogo perché nessuno conosce quali siano i bisogni potenzialmente effettivi degli uomini riguardo a beni vecchi o nuovi, ed in secondo luogo perché la sola quantità nota, ed è la domanda, varia in funzione del prezzo; e se è di un milione di quintali, se il sindacato degli industriali esistenti mantiene i prezzi a dieci, diventerebbe di un milione e mezzo se la concorrenza del nuovo imprenditore consentisse di scemare i prezzi a sette. Ma i vecchi, influendo con i loro piagnistei e con la corruzione politica sulle deliberazioni dei corpi incaricati di autorizzare quella nefanda novità che sono i nuovi impianti, strozzeranno questi in fasce e disciplineranno, con parola rubata anch’essa al proprio linguaggio militare o scolastico, la produzione affinché questa sia la più scarsa possibile.

 

 

6. Alla filosofia della scarsità, propria dello stato piccolo, si contrappone la filosofia dell’abbondanza, propria dello stato grande. Le maggiori difficoltà di accordi e di un loro successo in una Federazione europea in confronto alla facilità negli stati nazionali.

 

Alla filosofia della scarsità impersonata nello stato piccolo si contrappone la filosofia dell’abbondanza propria dello stato grande. Non già che lo stato grande sia per se stesso il rimedio contro i restrizionismi, le proibizioni, le protezioni. Anche in un’Europa unificata l’autorità federale potrà, come già dicemmo, stabilire dazi, divieti, restrizioni alle importazioni dall’estero, ma, come accade ora negli Stati Uniti di America, per l’ampiezza medesima del mercato interno i danni del restrizionismo incidono assai meno gravemente in uno stato grande che in uno stato piccolo. Sarà assai più difficile mettere d’accordo gli agricoltori della Danimarca con quelli della Sicilia per chiedere protezioni contro i cereali russi o canadesi o argentini; perché se alcuni cerealicultori siciliani, quelli grossi o grossissimi se pur ci saranno ancora, nel silenzio della grandissima maggioranza di proprietari agricoli della stessa regione, che sono quelli medi e minuti delle zone costiere, o intensamente coltivate, chiederanno di essere protetti, gli agricoltori danesi protesteranno perché interessati ad ottenere a buon mercato cereali di qualità per se stessi e cereali inferiori per il bestiame lattifero, ed in queste proteste saranno spalleggiati dagli agricoltori olandesi e da quelli lombardi, interessati per le medesime ragioni a diminuire il costo ed a crescere col basso prezzo lo spaccio delle carni e dei latticini. Sarà parimenti più difficile mettere i siderurgici tedeschi e francesi e italiani e cecoslovacchi d’accordo, per chiedere protezione contro una ipotetica importazione nordamericana, con gli industriali meccanici che dall’importazione a buon mercato del ferro e dell’acciaio attendono ribassi di costi. Quand’anche poi una tariffa doganale alla frontiera europea potesse essere in qualche modo imbastita, come lo è negli Stati Uniti, la vastità del mercato interno, la osservanza del principio del libero commercio fra gli stati federati, il nessun interesse di ognuno degli stati federati di limitare i nuovi impianti nel proprio territorio e l’interesse evidente di ognuno di essi di promuovere le nuove iniziative interne renderebbero più difficili gli accordi ed in ogni modo meno nocivi, per la incapacità dei sindacati, i quali pure si formassero, di reprimere il sorgere di nuovi concorrenti. Gli argomenti sentimentali, retorici, razionalistici, i quali oggi hanno tanto peso a persuadere il grosso degli elettori a sottomettersi alle taglie dei monopolisti nazionali per il bene e a difesa della patria italiana o francese o tedesca o ungherese, perderebbero assai della loro capacità di presa quando l’ente da difendere fosse l’Europa nella sua integrità ed il nemico da combattere diventasse il «pericolo bolscevico», il «pericolo giallo» o il «pericolo americano». Gli eccitatori di discordia e di odio internazionale non trovando più eco col ricorso ad argomenti sentimentali, dovrebbero far appello ad argomenti economici concreti del tipo che si usa chiamare realistico.

 

 

7. Lo stato più grande è favorevole ai consorzi?

 

Si oppone da taluni a siffatta visione ottimistica degli effetti della federazione la probabilità che i grandi complessi industriali, ad esempio quelli della siderurgia della Ruhr o della Slesia, giovandosi delle loro dimensioni colossali e non più impediti dalle difese doganali, possano distruggere ad una ad una le migliori imprese preesistenti in Italia, in Francia, in Spagna e negli altri più piccoli stati federati. All’uopo la ditta gigante può temporaneamente ribassare i prezzi sui mercati proprii della ditta minore, costringendola al fallimento od alla resa a discrezione, e può far ciò perché le perdite così subite possono essere, per la maggior produzione e le più ampie riserve, più facilmente sopportate da essa che dalla impresa meno grande.

 

 

La teoria suppone implicitamente che il colossale sia sinonimo di forza e di bassi costi, che basti cioè ingrandirsi a dismisura per ripartire le proprie spese generali su una massa maggiore di prodotti, diminuire così i costi ed essere in grado di battere la concorrenza dei produttori a dimensioni minori. La verità è diversa: ché l’ingrandimento delle dimensioni è vantaggioso sino ad un certo punto, sino a quel punto cioè nel quale si sia raggiunta la combinazione ottima dei fattori produttivi. Sino a quel punto ingrandimento significa possibilità di applicare meglio gli ultimi ritrovati della tecnica, della lavorazione in serie ed a catena, di sfruttare al massimo i vantaggi della localizzazione vicino alle miniere ed alle materie prime, della divisione del lavoro. Ma al di là di quel punto, ingrandimento vuol dire solo giustapposizione di impianti simili gli uni agli altri, moltiplicazione delle gerarchie e dei controlli, con perdita economica per la efficacia e la rapidità delle deliberazioni. Molti cosidetti colossi hanno i piedi di argilla, perché la loro grandezza dipende solo dalla possibilità di sfruttare i margini eccessivi di profitti consentiti dalla chiusura del mercato interno alla concorrenza estera. Il colossale che sia anche «naturale», ossia che per vivere deve fondarsi esclusivamente sulle sole sue forze, non può eccedere nel fissare i prezzi, perché la stessa sua grandiosa produzione lo costringe, per esitarla, a tenersi moderato nei prezzi. L’ingrandimento ottenuto, così come si narra, con battaglie condotte ad uno ad uno contro i rivali fino ad assorbirli, aumenta il capitale che deve essere remunerato ed aumenta i costi, scemando la capacità della grandissima impresa di sostenere la concorrenza della impresa nuova costituitasi sulla base delle dimensioni ottime razionali, la quale non ha da remunerare se non il capitale minimo indispensabile alla produzione.

 

 

È del resto compito del legislatore intervenire contro talune maniere di condotta economica le quali abbiano caratteristiche manifestamente aggressive. Già in tutti i paesi è stato accolto ed è osservato il principio, ad es., che la ferrovia debba pubblicare le sue tariffe per trasporto merci ed applicarle ugualmente in confronto a tutti gli utenti. Essa può applicare tariffe più basse a chi faccia una spedizione a carro completo in confronto a chi spedisca la stessa merce a colli o casse separate, ma deve applicare tariffa uguale, senza favorire Tizio o Caio, a chiunque spedisca a carro completo. È probabile che lo stesso principio della pubblicità dei prezzi e delle tariffe si applichi in avvenire ad un maggior numero di beni e di servizi, sicché il prezzo basso di vendita adottato dal colosso in una data zona allo scopo di costringere qui alla resa un concorrente diventi immediatamente applicabile su tutto il mercato federale ed ogni cliente possa pretendere il rimborso della differenza ed il risarcimento dei danni in caso di discriminazione. In avvenire gli stati dovranno più frequentemente che in passato intervenire nelle cose economiche, talvolta, in casi ben precisi e ragionati, per sostituirsi all’azione manchevole o dannosa dei privati, più spesso per porre le regole necessarie a far sì che l’azione dei privati si svolga in conformità alle regole del gioco di concorrenza. Tra le quali regole vi sono quelle della possibilità di conoscere i prezzi correnti sul mercato e l’altra della unicità del prezzo dello stesso bene sullo stesso mercato e nel medesimo tempo. Non si nega che questi interventi non siano delicatissimi e di non facile esecuzione, ma è chiaro che non si deve rinunciare ai vantaggi della concorrenza su un mercato vasto solo perché l’ingrandimento del mercato impone allo stato federale la soluzione di problemi più complicati di quelli che si presentano su un mercato piccolo.

 

 

8. I piccoli stati sono più moderati dei grandi nella loro politica protezionistica?

 

Vi è chi obbietta alla federazione non essere provato che i piccoli paesi siano più esclusivisti dei grandi ed anzi si afferma che essi sono costretti dalla piccolezza a tenere le porte aperte alle importazioni allo scopo di approvvigionarsi più agevolmente sui mercati di maggior convenienza e di poter ottenere alle proprie esportazioni più favorevoli accoglienze nel maggior numero dei paesi stranieri. Laddove invece il grande stato accarezza l’idea della autosufficienza ed è più pronto ad aggredire i vicini allo scopo di procacciarsi i vantaggi del cosidetto spazio vitale. La teoria ha una qualche riprova parziale nei fatti. Vi fu chi ha calcolato il livello delle tariffe daziarie nei diversi paesi europei, intendendo per livello (od indice di altezza) dei dazi doganali la percentuale media dell’ammontare del dazio rispetto al valore delle merci soggette al dazio. Ed ha trovato che il Belgio ha aumentato dal 1913 al 1931 il livello della protezione doganale solo dal 14,2 al 17,4%, la Svizzera dal 10,5 al 26,4% e la Svezia l’ha ridotto dal 27,6 al 26,8 per cento. Ma, in compenso la Rumania, pur paese economicamente piccolo, crebbe il livello protettivo dal 30,3 al 63%, la Jugoslavia dal 22,2 al 46%, la Cecoslovacchia dal 22,8 al 50%, l’Ungheria dal 22,8 al 45%, l’Austria dal 22,8 al 36%, la Bulgaria dal 22,8 al 96,5%, la Finlandia dal 35 al 48,2%, e su su salendo in dimensioni, la Spagna andò dal 37 al 68,5%, la Polonia si mantenne alta fra il 72,5 ed il 67,5%, la Francia passò dal 23,6 al 38%, l’Italia dal 24,8 al 48,3%, la Germania dal 16,7 al 40,4 per cento. In verità salvo alcuni pochi paesi tradizionalmente liberistici e ragionevoli, il virus protezionistico e monopolistico è potente e di sé infetta tutti i paesi, quando si riesca a far vibrare la corda del nazionalismo e dell’indipendenza politica ed economica. Gli stati piccoli moderatamente liberistici, Svizzera, Belgio, Olanda, Svezia, Danimarca, Norvegia, sono tutti paesi industrializzati o ad agricoltura specializzata, laddove gli stati piccoli protezionistici sono paesi ad agricoltura estensiva. Anche se i primi potranno subire qualche momentaneo danno da una eventuale politica protezionistica della Federazione, in complesso la bilancia sembra pendere a favore della inclusione in una grande area doganale, entro la quale essi potranno costituire un fattore potente di moderazione.

 

 

Solo coll’allargare lo spazio doganale e col privare gli stati singoli del diritto di chiudersi in se stessi, si riesce a mettere un freno all’imperversare dell’idea per cui non solo ogni stato, ma ogni provincia, ogni distretto ed ogni comune e quasi ogni casa vorrebbe essere in grado di difendersi contro ogni altro paese, provincia, distretto, comune o casa. Potrà darsi che l’Europa unificata si cinga di alte barriere doganali contro le altre costellazioni politiche mondiali, ma non è probabile. I contrasti fra stati interessati alla libertà degli scambi col resto del mondo e quelli desiderosi di chiudersi in se stessi, fra i ceti commerciali e quelli agricoli, la esistenza di una concorrenza vivace già nell’interno della federazione indurranno ad un a politica moderata. A che prò rialzare i dazi contro gli Stati Uniti od il Giappone o la Cina, quando già nell’interno della federazione i prezzi sono tenuti a freno dalla concorrenza? Se anche poi l’Europa volesse emulare gli Stati Uniti nell’adottare a sbalzi una politica protezionistica, il male sarebbe attenuato dalla ampiezza del mercato interno entro cui liberamente beni e servizi potrebbero circolare.

 

 

CAPITOLO III

CHE COSA FAREMO SE NON SAREMO PIÙ PROTETTI?

 

1. Dell’argomento protezionistico dell’industria bambina. Errore di concepire l’entità «industria» invece di quella «impresa». Premi invece di dazi. Confronto fra i due sistemi di incoraggiamento alle industrie nuove.

 

La Federazione potrà, se vorrà, continuare a proteggere con dazi le industrie interne, e gli stati federati potranno aggiungere premi a favore delle imprese nuove sorte nel territorio statale.

 

 

Se si comincia a ragionare, subito si vede che la Federazione non è pericolosa, anzi favorevole al fiorire delle industrie. Argomento principe, quasi si direbbe unico, addotto a favore della protezione doganale è quello che si chiama delle industrie bambine. È argomento che si intitola al nome dell’economista Giovanni Stuart Mill che lo consacrò nei suoi famosi Principi di economia politica. Lo consacrò, e non lo inventò, ché lo leggiamo esposto prima, ad esempio, in un non meno celebre rapporto sulle manifatture dell’americano Hamilton (1791). Dice l’argomento delle industrie giovani o bambine: un paese agricolo, il quale voglia diventare anche industriale – e si può consentire che questa sia ambizione legittima di ogni paese – si trova dinnanzi a un ostacolo: la concorrenza dei paesi industriali vecchi, i quali posseggono già una industria antica, bene attrezzata, bene organizzata, padrona della clientela. La nuova, giovane industria, la quale deve fare le ossa, che deve educare la maestranza, formarsi uno stato maggiore di tecnici e venditori, introdursi nella clientela, non può per qualche anno vendere ad 8, che è il prezzo di mercato corrente, poiché i suoi costi sono 10. Economicamente quell’industria non può nemmeno nascere. Eppure, superato quel primo periodo di infanzia, forse, l’industria nuova sarà capace di vendere non che ad 8, persino a 7, con vantaggio dei consumatori. Dia lo stato una protezione temporanea, per 5 anni, per 10 anni, per il tempo necessario a fare le ossa, alla industria bambina. Trascorso il periodo dell’allevamento, essa butterà via le dande o le grucce dei dazi e si reggerà da sé, liberamente, per le vie del mondo.

 

 

Forse nessun ragionamento economico apparentemente impeccabile fu mai più solennemente sconfitto dalla realtà. L’esperienza insegnò che mai nessuna industria divenne da bambina, giovane e, da giovane adulta; ma tutte bamboleggiarono invecchiando e chiesero e non di rado ottennero sempre più alti dazi. Sicché il grande divulgatore medesimo della teoria Giovanni Stuart Mill, in lettere posteriori di un ventennio alla pubblicazione dei Principi ed indirizzate ad autorevoli parlamentari dell’Australia, dove la sua teoria aveva goduto notevole popolarità ed ottenuto favorevole accoglienza, si indusse a solenne abiura. Era accaduto là, ed accadde altrove sempre, che, dopo il pasto, la fiera belva avesse più fame che pria. I teorici erano invero partiti da una idea fantastica: che esistesse una entità detta «industria». Molti partono anche oggi da questa che è una pseudo idea. Nessuno mai vide la cosa detta «industria»: e solo si vedono e si contemplano «imprese industriali» od «imprese agricole», appartenenti a Tizio od a Caio, alla società alfa od alla società beta. Può darsi che, a fine di brevità espositiva, si dia al complesso di tante imprese di filatura del cotone esistenti in Italia il nome di industria italiana della filatura del cotone; ma non dimentichiamo che la realtà vera è composta dalle singole imprese appartenenti a Tizio o a Caio, ad alfa od a beta. Supponiamo pure che nel paese di «Nuova Terra» nell’anno di grazia 1944 esista bambina, anzi neonata l’industria composta delle quattro imprese appartenenti a Tizio, Caio, alfa e beta. Lo stato concede per dieci anni un dazio sufficiente a far superare a queste quattro imprese il difficile periodo dell’allattamento, svezzamento ed allevamento. Chi vieterà a Sempronio ed a Mevio, alla società gamma ed a quella delta di nascere in «Nuova Terra» rispettivamente nel secondo, quarto, sesto ed ottavo anno del decennio? E perché a Marco non sarà lecito di impiantare una nuova fabbrica allo scadere del decennio? Il dazio non era stato invero stabilito per creare un monopolio a favore dei già nati, ma per offrire alla collettività allo scadere del decennio, una «industria» vitale atta a vivere da sé colle proprie forze. Alla fine del decennio lo stato potrebbe bensì abolire i dazi per quel che ha tratto alle imprese di Tizio, Caio, alfa e beta; ma che cosa farà dinnanzi alle querele delle ancora giovinette od infanti imprese di Sempronio e Mevio, di gamma e di delta; e come si comporterà di fronte alla mamma ancora fresca di parto del neonato Marco? Giocoforza sarà prorogare la vita dei dazi, sino alla virilità universale; la quale non giunge mai, essendo che le imprese vecchie, al par degli uomini vecchi usano morire e sempre nuove imprese neonate allietano con i loro vagiti la «Nuova Terra» i cui padri coscritti non trovano mai il momento buono per allentare o togliere le dande ai bambini pullulanti. Talché il padre putativo della teoria, Giovanni Stuart Mill, concludeva essersi ormai convinto che bisognasse mutar strada ed in luogo dei dazi concedere premi alle «imprese» nascenti. Essere i dazi illusori e corruttori, perché il pubblico si persuade che essi non costino nulla a nessuno e, col solo limitare od impedire la importazione delle merci concorrenti estere, facciano coltivare campi, innalzare e fumare comignoli di fabbriche, diano lavoro ad operai e simili cose miracolose. Laddove il dazio, che è una cifra, un comando di legge, da solo non crea nulla e non fa crescere neppure uno spigo di grano. Se ha una virtù è quella di spostare capitale e lavoro esistenti da un impiego ad un altro. Gli uomini, se non esistesse il dazio, non starebbero con le mani in mano. Coltiverebbero pomodori o mele o viti non protette; ed il dazio li induce ora a coltivare grano, che essi prima non coltivavano perché ad essi costava, a produrlo, 25 franchi al quintale, laddove veniva importato dall’estero al prezzo di 17,50 franchi. Se ora il grano estero è colpito da un dazio di franchi 7,50, lo si può coltivare perché anche l’importatore dall’estero non lo può vendere a meno di 17,50 più 7,50 = 25 franchi.

 

 

La differenza fra 17,50 prezzo antico (o prezzo della concorrenza estera o prezzo in regime di libertà) e 25 prezzo nuovo (o prezzo interno al riparo della protezione di 7,50) si divide in due parti. La prima non frutta nulla ai proprietari [sic] di terreni a frumento; è puro rimborso di costo. Il proprietario vende bensì il grano a venticinque invece che 17.50; ma poiché a lui costa 25, il suo utile è zero. La differenza è assorbita dalle maggiori spese di lavorazione, di concimazione e di raccolta del grano. Si dà lavoro ai contadini che coltivano i campi a grano; ma è un lavoro fatto a vuoto, fatica fatta per faticare, senza costrutto. Lo scopo del produrre non è quello di far lavorare ossia di provocare fatica; ma è quello di ridurre la fatica al minimo possibile, a parità di prodotto. Se quei contadini, facendo la fatica misurata con franchi 17.50, producevano prima tanti pomodori o frutta o vino od agrumi, con cui avrebbero potuto acquistare un quintale di frumento estero, c’è qualche sugo a far fare loro la maggior fatica misurata con franchi 25, per avere la soddisfazione di mangiare un pane costoso? Non è quella fatica sprecata? Non avrebbero quei contadini fatto meglio a far la fatica di 7.50, e col resto del loro tempo occuparsi a produrre qualcosa d’altro o magari occuparsi a far niente? L’ozio, il riposo, è un bene come un altro ed è compito dell’educazione insegnare ad occuparlo bene, nell’istruzione propria, nell’educazione dei figli, nell’abbellimento della casa, nell’interessamento alla cosa pubblica.

 

 

Ma non è necessario che i proprietari di terreni a grano spendano tutti 25 franchi a produrre il grano all’interno. Vi sarà chi spende 25, chi 20, chi solo 18 e magari, coloro che son più bravi o dispongono di terreni migliori, perfino solo 15. Poiché il prezzo della concorrenza estera senza dazio era di 17.50 ed ora col dazio è di 25 anche il prezzo interno è, nei due casi, 17.50 e 25. Quando il prezzo è di 17.50 producono grano solo coloro il cui costo va dai 15 ai 17.50; e costoro guadagnano da 2.50 a zero. Quando il prezzo è 25, la coltivazione si allarga e producono grano tutti coloro il cui costo va da 15 a 25 con un guadagno che va da 10 a zero per quintale. L’effetto del dazio perciò è:

 

 

  • 1) di aumentare il prezzo per tutti i consumatori da 17.50 a 25, ossia di 7.50 franchi al quintale. Se il consumo nazionale è di 80 milioni di quintali di frumento, l’onere per i consumatori è di 600 milioni di franchi;

 

 

  • 2) di far guadagnare qualcosa ai proprietari di terreno a grano. Se noi supponiamo, per fare il caso semplice, che 10 milioni di quintali siano prodotti al costo di 15 franchi, 30 milioni al costo di 25 franchi; i primi guadagnano 10 franchi al quintale (100 milioni in tutto), i secondi 7 (210 milioni) i terzi 1 (20 milioni) ed i quarti nulla. Il guadagno netto dei proprietari sarà di 100 + 210 + 20 + 0 = 330 milioni, contro una maggior spesa dei consumatori di 660 milioni. La differenza, come si disse sopra, di 270 milioni è sfumata in fatica senza costrutto, in spese senza corrispettivo.

 

 

C’è una buona ragione perché gli agricoltori si illudano di guadagnare 600 milioni e guadagnano in realtà 330 milioni? Per quale legge divina od umana è lecito inoltre trasferire questi milioni da una categoria all’altra dei cittadini? Se si dicesse ai cittadini consumatori: andate in giro e quando vedete su una porta di una casa, scritto: Tizio, proprietario di terreni coltivati a grano, entrate e pagate a Tizio, ora 10, ora 7, ora 5, ora 3 ed anche 1 franco per quintale di grano da lui prodotto e pagate ciò senza nulla ricevere in cambio, nemmeno la ricevuta, non sareste indignati della proposta e, potendo, non rovescereste il governo ed i deputati che avessero fatto la strana proposta? Eppure questo è ciò che i cittadini di molti stati fanno, perché si sono lasciati imbrogliare la testa dalle figure retoriche della difesa della patria contro l’invasione, contro l’inondazione delle merci estere.

 

 

La Federazione europea eliminerà, nell’interno del territorio europeo, lo scandalo per quel che si riferisce alla concorrenza interstatale, e lo renderà più difficile per quanto riguarda la protezione contro il frumento proveniente dagli stati posti fuori della Federazione. Ché se l’autorità federale, il Parlamento federale riterrà essere nell’interesse generale (ad esempio per assicurare contro il pericolo di restare privi di frumento in tempo di guerra) promuovere la coltivazione del frumento su terreni dove esso costi più di 17.50 franchi al quintale – supponendo sempre che 17.50 sia il prezzo della concorrenza nordamericana, argentina, australiana – essa avrà sempre a propria disposizione, un mezzo chiaro, onesto, meno costoso di raggiungere il risultato: quello di dare un premio per ogni quintale di frumento prodotto in più di quella certa quantità che si produceva o si sarebbe prodotta senza premio. Agronomi periti non si troveranno di fronte all’impossibile quando fossero chiamati a rispondere al quesito: su questo o quel fondo quanto grano sarebbe conveniente produrre al prezzo di 17.50 franchi? Stabilita la base, il punto di partenza, non è impresa assurda fissare il premio di 5, di 10 franchi al quintale, necessario a spingere la produzione al più alto limite desiderato. Se la Federazione non intende imbarcarsi nell’impresa, ben lo potrebbe fare ogni stato federato o persino ogni regione o provincia o contea o comune. Decideranno gli elettori se ad essi convenga di sobbarcarsi all’onere, se convenga costruire una scuola, fare una fognatura, creare un parco pubblico, ovvero incoraggiare questo o quel ramo di agricoltura o di industria.

 

 

O non ha il comune di Savigliano in Piemonte offerto un sussidio, in terreni ed in denaro, a chi fondasse sul suo territorio uno stabilimento, che prese infatti il nome di «Officine di Savigliano» e prospera ancor oggi? Oh! non danno la Federazione ed i cantoni svizzeri a gara sussidi a chi prosciuga paludi, costruisce canali irrigatori? Oh! non si danno in Italia ed altrove aiuti a chi, con costo troppo alto e non remunerativo per lui, intraprende opere utili anche all’universale? Non furono costruite così la più parte delle ferrovie in un’Europa montagnosa e difficile ad essere trasformata ed unificata? Perché dovrebbe essere più difficile seguitare a promuovere culture e industrie reputate di interesse pubblico in un’Europa federata che in un’Europa divisa? Tutto ciò che si risparmierà in armamenti destinati ad ammazzarci l’un l’altro ed a distruggere la civiltà europea, potrebbe essere destinato a gara dalla Federazione, dagli stati federati, dai cantoni, dalle provincie, dai comuni a promuovere ogni iniziativa che fosse reputata utile all’universale. Purché i cittadini sappiano perché si spende; decidano a ragione veduta il quanto da spendere e le imposte da prelevare all’uopo ed a carico di chi: purché siano resi i conti delle spese e dei risultati ottenuti. Il dazio è la finanza illusoria, che dà l’impressione di non spendere molto ed anzi di non spendere nulla e di ottenere solo vantaggi. Il premio è la finanza onesta che squaderna il dare e l’avere e pone i cittadini dinnanzi al dilemma che ognuno di noi risolve ogni giorno per le occorrenze quotidiane della vita: questo paio di scarpe oppure questo cappello; questo libro ovvero questi divertimenti; questo appartamento di tre stanze, oppure quest’altro appartamento di due camere sole ed il margine per andare a passare un mese ai monti? Sussidiare quel proprietario affinché produca 100 quintali di frumento in più, oppure lasciarlo arbitro di tenere il suo terreno a pascolo od a bosco? Se ben ragionato, il sussidio può essere conveniente. Purché se ne conosca l’ammontare, sia dato a tale o tal’altra persona conosciuta per nome e cognome, in cambio di un impegno preciso da parte sua di far qualcosa che non farebbe se non fosse sussidiata; e purché il sussidio continui solo finché consigli comunali o provinciali, parlamenti statali o federali giudichino opportuno di farne sopportare l’onere ai contribuenti per raggiungere lo scopo voluto.

 

 

2. La regola del forte che porta il debole in un’Europa federata. La questione del nord e del sud Italia; degli stati poveri e degli stati ricchi in Europa.

 

Il discorso potrebbe finire qui, con la dimostrazione che la Federazione non ostacola, anzi agevola quella qualunque politica di incoraggiamento che i singoli stati federati volessero condurre a pro di questa o quella branca di industria incipiente o pericolante o altrimenti reputata di interesse generale. Nessun cantone svizzero si è mai sentito impedito di fare opera vantaggiosa a pro delle iniziative locali a causa della esistenza della Confederazione. Anzi i cantoni più poveri, quelli che per la loro situazione montagnosa o poco fertile devono più duramente lottare contro le difficoltà opposte dalla ingrata natura, usano per l’appunto presentare le loro «rivendicazioni» alle autorità federali e queste concorrono alle iniziative locali, considerate utili anche nell’interesse generale, in ragione inversa alla ricchezza: più ai cantoni più poveri e meno a quelli più ricchi, secondo la regola del «forte il quale porta il debole». In un’Europa federata, gli stati più ricchi ed industriosi vedrebbero immediatamente la convenienza di attrezzare economicamente e di elevare verso il proprio livello i territori e gli abitanti degli stati più poveri; e l’opera di elevazione sarebbe favorita dalla facilità dei traffici, dall’unica cittadinanza, da regole uniformi di diritto per i rapporti interstatali e dall’unicità della moneta. Il commercio non prospera nella miseria altrui e sul latrocinio a danno dei clienti; suppone, invece, e provoca arricchimento reciproco.

 

 

La considerazione ora fatta annulla il rimprovero mosso al concetto federativo di tendere a concentrare l’industria nelle località più favorite: nord della Francia, regione renana, Slesia, nord d’Italia, lasciando deserte di commerci e di industrie vastissime regioni, dove le condizioni appaiono meno propizie. L’argomento è artificioso, in quanto suppone una limitazione delle opportunità di lavoro che in realtà non esiste. Ogni regione ha attitudini sue proprie, non esistono regioni sfornite addirittura di ogni attitudine. Il problema vero è quello di scoprire e sfruttare nel miglior modo possibile le attitudini proprie di ogni contrada; non nel ridurre tutto il mondo ad un deserto agricolo o pastorale allo scopo di concentrare l’attività di elaborazione delle materie prime in pochi centri manifatturieri. Presto si vedrebbe che questi centri, privi di sbocchi inaridirebbero ed impoverirebbero. Perché i centri, prosperino occorre che il resto del mercato abbia un’alta capacità di acquisto; e questa non si ottiene se gli uomini si dedicano soltanto alla agricoltura ed alla pastorizia. Negli Stati Uniti medesimi, dove lo sviluppo industriale aveva dapprima seguito le indicazioni naturali offerte dalle miniere di carbone e di ferro, dalla vicinanza alle coste marittime ed ai grandi laghi, lo studio più attento delle risorse naturali ha persuaso ad una più larga diffusione dell’attività industriale. La istituzione della Tennessee Valley Authority per lo sfruttamento delle forze idrauliche dei grandi fiumi degli stati centrali, prelude ad uno spostamento dell’industria verso il sud centrale. Le urgenze della guerra hanno fatto sorgere nuove industrie belliche negli stati, prima quasi esclusivamente pastorali e minerari, delle Montagne Rocciose ed è probabile che larghi residui di queste nuove attività rimarranno anche in pace. Come nella Svizzera i singoli cantoni, così negli Stati Uniti i vari stati federati fanno a gara nell’attirare a sé capitali in cerca di impiego e chiedono alle federazioni aiuti atti a promuovere l’utilizzazione delle risorse sinora non abbastanza sfruttate. Non vi è ragione perché lo stesso indirizzo non abbia a prevalere in una Federazione europea e di questo non abbiamo ad avvantaggiarsi massimamente le regioni più arretrate e depresse. Furono scritti in passato libri intitolati Nord e Sud, nei quali si voleva dimostrare la tesi che le regioni meridionali erano state, in Italia, danneggiate, nella ripartizione delle spese pubbliche, a vantaggio delle regioni settentrionali. Proporzionalmente alla loro ricchezza, poiché questa era sovratutto territoriale e visibile, le regioni meridionali pagavano maggiormente delle regioni settentrionali la cui fortuna era mobile ed occultabile al fisco. Laddove, quanto a spese, il Nord si avvantaggiava per la localizzazione dei corpi d’armata verso il confine politico, per i porti militari pure situati nel nord, per le maggiori richieste per le scuole, strade, ponti, ferrovie presentate dagli abitanti del nord in confronto a quelli del sud. I libri valsero a suscitare vive discussioni; fu riformato il sistema tributario ed oggi è probabile, ed è anche giusto, che le proporzioni siano rovesciate e che l’Italia meridionale riceva, tenuto conto delle necessità tecniche proporzionatamente alle imposte pagate, una quota maggiore di quella attribuita all’Italia settentrionale dei vantaggi delle spese pubbliche. È probabile che altrettanto accadrebbe nell’Europa federata; e che il ricavo delle imposte fiscali sarebbe distribuito proporzionatamente di più a favore, ad esempio, della Spagna, della Balcania, della Grecia, dell’Italia meridionale e delle isole, della Polonia, che del Belgio e dell’Olanda, dell’Italia settentrionale, della Francia, della Germania, della Svizzera e dei paesi scandinavi, dove il reddito individuale ed il tenor di vita è più alto.

 

 

3. La distribuzione delle imposte nuove in un’Europa federata necessariamente favorirà le regioni meno ricche. Così pure la distribuzione del credito da parte della Banca centrale europea.

 

Ciò accadrà però, si osserva, grazie a nuove imposte, in aggiunta ed accanto a quelle antiche. Conserveremo, si teme, tutte le antiche imposte pagate ai comuni, alle provincie ed agli stati; ed in aggiunta pagheremo nuove imposte alla Federazione. Cosicché il vantaggio delle spese federali sarà illusorio; ché ce le pagheremo ognuno di noi, di tasca nostra, con nuove imposte federali.

 

 

L’osservazione non è in primo luogo esatta; poiché talune imposte statali saranno necessariamente trasferite alla Federazione, come quelle doganali e le imposte di fabbricazione; e col loro provento si dovrà provvedere alle spese della difesa nazionale, trasferite completamente alla Federazione. Per quel che non sarà coperto dai dazi e dalle accise, la Federazione dovrà istituire certamente nuove imposte. Ma noi possiamo prevedere con sicurezza a quale tipo di imposte ricorrerà la Federazione, osservando su quale base siano imperniati i sistemi tributari dei paesi più ricchi. Si tratterà di una imposta sul reddito complessivo dei contribuenti – persone fisiche, ad aliquota crescente col crescere del reddito. Anche se si partirà dal basso, anche se saranno chiamati a pagare tutti i contribuenti aventi un reddito, ad ipotesi da 100 lire sterline in su, si tratterà pur sempre di reddito di almeno 1500 lire italiane ante 1914 (in Italia prima del 1914 il minimo imponibile per i redditi di lavoro era di 640 lire all’anno), qualcosa come 7500 lire del 1922, come 12.000 del 1938, come 20.000 del 1943, ecc. ecc., ossia qualcosa che all’incirca potrà essere considerato come il reddito sufficiente ad una vita normale della famiglia operaia. La imposta su questi redditi, già superiori al minimo, sarà ad aliquota minima, ad es. del 0,50%; ed andrà via via crescendo sino, ad es., al 10% per i redditi da 10.000 sterline in su (150.000 lire italiane ante 1914). La Federazione dovrà mantenersi moderata nelle sue aliquote perché sullo stesso reddito graveranno inoltre imposte statali, provinciali, comunali e di enti diversi. Siccome in realtà non esiste un’Italia povera ed una Francia ricca; ma vi sono italiani poveri ed italiani ricchi, francesi poveri e francesi ricchi, svizzeri poveri e svizzeri ricchi, non esisterà uno scaglionamento di paesi in relazione al pagamento delle imposte, ma uno scaglionamento di individui italiani, francesi, svizzeri, tedeschi, mescolati insieme e susseguentisi l’un l’altro a seconda dei rispettivi redditi. Così come oggi si fa già nei singoli stati, saranno i contribuenti più ricchi coloro i quali dovranno sopportare il peso proporzionatamente maggiore delle spese pubbliche, e se i contribuenti più ricchi saranno più numerosi nell’Italia del nord che nell’Italia del sud, in Germania, in Francia, in Svizzera, nel Belgio, in Olanda, in Scandinavia piuttostoché nel bacino del Danubio, in Polonia, nei Balcani, in Grecia, in Spagna, nell’Italia meridionale, saranno gli stati della prima categoria quelli sui quali cadrà proporzionatamente il peso massimo delle imposte. Se poi, come è ovvio e ragionevole supporre, la Federazione cercherà di migliorare i servizi pubblici, per quanto ad essa spetta – grandi vie di comunicazione, ferrovie, porti, linee marittime ed aeronautiche – nelle regioni che ne sono più difettose piuttostoché in quelle che ne sono già provvedute, gli stati più poveri della seconda categoria ne profitteranno in maggior misura. Se, grazie, all’unificazione della moneta e della circolazione monetaria, l’Istituto centrale federale eserciterà una influenza notevole sulla distribuzione del credito in un’Europa unificata, sarà altresì ovvio e razionale che le correnti di credito siano da esso dirette dagli stati e dai centri dove si accumula, per la maggior parte del risparmio possibile e dove è meno probabile trovare nuove vie all’investimento dei capitali, verso gli stati più poveri, dove esistono ancora possibilità di investimenti per il grado più basso, a cui è giunto il livello della vita economica. Accadrà in una Europa federata quel che è accaduto nell’Italia unita. Non si sono visti i risparmi ed i capitali disponibili risalire dalla Sardegna, dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Basilicata verso Genova, Torino e Milano; non fosse altro perché quei risparmi erano miseri e diffidenti. Furono invece i capitali del Nord che iniziarono le centrali elettriche, che impiantarono stabilimenti nella zona del porto di Napoli, che intrapresero talune importanti bonifiche agricole. Con ciò non si vuole affermare che il più non sia stato fatto dai meridionali medesimi, rinati a nuova operosità per il risvegliato spirito di emulazione verso quel che altri aveva già fatto. Si vuol soltanto dire che i risparmi affluiscono dai paesi già civilizzati, dove le occasioni di investimento sono forse più facili ed ampie ma meno allettanti, per la maggior concorrenza ed il più diffuso spirito di iniziativa, verso i paesi più arretrati, dove le occasioni di investimento, per la minore disponibilità di risparmio e la minore educazione industriale degli abitanti, sono più promettenti, e non viceversa. L’Italia, tra il 1860 ed il 1890, ha costrutto la sua attrezzatura ferroviaria, stradale, portuale, ha iniziato le prime bonifiche (esempio classico quella ferrarese, arditamente intrapresa da capitali stranieri, precipuamente svizzeri, e chiusa infelicemente come accade quasi sempre ai pionieri, per passare a mani italiane, che ne godettero poi i frutti con una saggia amministrazione, sinché nel dopoguerra le azioni caddero in mano a filibustieri) in parte con risparmi propri; ma in parte con capitali presi a prestito all’estero. Capitali che poi furono restituiti. La Federazione, facilitando al massimo i rapporti finanziari fra stato e stato, accrescendo la sicurezza degli investimenti, garantendo l’osservanza delle leggi con un imparziale tribunale federale, non potrà non giovare grandemente a un tale processo di trasfusione di capitali dagli stati più ricchi a quelli più poveri.

 

 

4. La domanda del «cosa produrremo?» se la Federazione avvilirà i prezzi delle cose che prima conveniva produrre nel chiuso mercato statale.

 

Nonostante l’evidenza di queste argomentazioni persistono i dubbi, retaggio naturale di secoli di diffidenza e di lotta, e le incertezze di coloro i quali si sono adagiati in situazioni di fatto esistenti e temono il finimondo se queste dovessero essere mutate. Che cosa faremo noi, chiedono alcuni, se l’unificazione economica del territorio europeo, ci costringerà ad affrontare la concorrenza dei prodotti degli altri stati federati? Che cosa produrremo al luogo del frumento, della carne, del vino, delle vetture automobili, delle macchine, che prima noi producevamo nel territorio italiano e che non potremo più vendere e quindi produrre, di fronte alla concorrenza vittoriosa dei produttori germanici o francesi o svizzeri o cecoslovacchi! Che cosa ne sarà della Fiat la quale dà lavoro ad un terzo, se non alla metà della popolazione torinese? Che cosa della Pirelli, della Montecatini, dell’Ansaldo, dell’Ilva, della Cogne? Che cosa di tant’altre imprese, le quali affermano di vivere solo grazie al possesso assicurato, col mezzo della protezione daziaria, del mercato interno?

 

 

5. L’esperienza dello Zollverein tedesco e della unificazione italiana. Il caso delle vetture automobili. Non esistono fattori insuperabili di maggior costo. Insussistenza dell’argomento delle imposte.

 

Che cosa accadrà? Quel che deve accadere in un paese nel quale si è lasciata facoltà agli industriali, agli agricoltori, ai lavoratori di scegliere le vie le quali ad essi appaiono più remunerative invece di quelle che appaiono tali ad altri. Quando l’Italia fu unificata nel 1860, quando in Germania fu conclusa nel 1833 la Unione doganale (Zollverein), ci furono Cassandre le quali predissero il finimondo: in Piemonte la rovina delle industrie della seta e della lana non più protette contro la concorrenza della più agguerrita industria lombarda, la quale disponeva del grande mercato austriaco; nel napoletano la rovina delle industrie locali, fortemente protette, per la concorrenza di quelle settentrionali. Dopo un non lungo periodo di assestamento, le industrie ritrovarono il loro equilibrio e cominciarono, grazie alla maggiore capacità di assorbimento del mercato nazionale triplicato e quintuplicato per estensione e numero di consumatori, la ascesa la quale condusse nel 1914 il paese a possedere una vigoria economica ed una attitudine di adattamento alle esigenze grandiose della prima guerra mondiale, quale nessuno avrebbe potuto immaginare nel 1860.

 

 

Per quale ragione mai non si dovrebbe continuare a fabbricare vetture automobili ed autocarri in Italia? Il maggior costo, in confronto al costo estero, dei materiali, adoperati nella costruzione, è quantità trascurabile in confronto al costo totale il quale consta essenzialmente di interessi e quote di manutenzione ed ammortamento sugli impianti e sul macchinario, sugli edifici, sul terreno, di mano d’opera e di spese generali. In un mercato ampio come l’europeo, impianti e macchinari possono essere acquistati da una fabbrica italiana alle stesse condizioni come da una fabbrica francese o tedesca od inglese. A meno di supporre che gli ingegneri ed i funzionari, solo perché italiani, siano meno capaci di organizzare il lavoro e gli acquisti e le vendite degli ingegneri e dei funzionari inglesi, tedeschi o francesi; a meno di supporre che gli operai, solo perché italiani, siano meno in grado di maneggiare i loro utensili e di sorvegliare ed utilizzare le macchine dei loro compagni stranieri, quale ragione vi è perché il costo di una vettura o di un carro sia superiore al costo straniero? Le spese generali? Dipenderà dalla abilità dei dirigenti di farle diminuire, approfittando della potestà di vendere, senza ostacoli di dazi, le vetture in un mercato di parecchie centinaia di milioni di compratori, in media meglio provveduti, di mezzi di acquisto, piuttosto che su un mercato di soli quarantacinque milioni di compratori ridotti, dall’alto prezzo, ad invidiare altrui le possibilità di fornirsi del comodo mezzo di trasporto. Le imposte? L’argomento delle forti imposte le quali si debbono pagare in paese in confronto di quelle più basse che si pagano all’estero è messo nel nulla dal fatto che esso si ascolta, identico, in bocca agli industriali di tutti i paesi; dove, senza eccezione, ci si lamenta di trovarsi, per questo riguardo, in condizioni di inferiorità rispetto all’estero. Fosse anche, il che non è, fondato, quale sarebbe la portata dell’argomento? Forse che, aumentando, col dazio, il prezzo delle automobili in Italia, il peso delle imposte in Italia scema? No, anzi cresce. Le imposte, che esistevano prima, restano tali e quali. Il dazio sulle automobili straniere non fa diminuire di un soldo il fabbisogno dello stato. Se questo aveva prima trenta miliardi all’anno di spese da sopportare e di conseguenti imposte da prelevare sui contribuenti, trenta miliardi restano né più né meno. La fabbrica di automobili seguita a pagare le imposte che pagava prima. La sola differenza è che essa riesce, se già non ci riusciva prima, a farsele rimborsare dai compratori d’automobili, grazie al maggior prezzo di vendita che può riscuotere, non avendo più da sopportare la concorrenza estera. Passando sopra a qualche complicazione, tutta la sostanza dell’argomento a favore dei dazi si riduce ad una diversità di opinione intorno al miglior metodo di ripartire le imposte. È meglio che le imposte, delle quali lo stato non può fare a meno, siano pagate (sotto forma di imposte sui fabbricati, di ricchezza mobile, di negoziazione e sui dividendi e interessi delle azioni, di registro e bollo ecc. ecc.) dai fabbricanti di automobili, di seterie, di lanerie, di cotonate, di rayon, di macchine, di navi, dai produttori di frumento, di vino, di bestiame, di formaggi, ovvero dai consumatori acquirenti di tutte queste cose sotto forma di rimborso delle imposte medesime ai produttori attraverso un più alto prezzo delle cose vendute? Poiché le imposte debbono essere pagate, dal dilemma non si esce. Chi è meglio le paghi? Se i fabbricanti di automobili, di frumento, di cotonate, ecc. ecc. sono persuasi della bontà della loro causa si facciano avanti e sostengano la tesi: noi non vogliamo più pagare imposte sul reddito della nostra terra, dei nostri fabbricati e della nostra industria, sui dividendi e interessi distribuiti ad azionisti ed obbligazionisti; e riteniamo giusto che le imposte siano pagate solamente da chi acquista e compera automobili, macchine, vestiti, scarpe, pane, carne e vino.

 

 

Se avranno buone ragioni a sostegno della loro tesi, nessuno rifiuterà di ascoltarli. Non è escluso che l’opinione pubblica in qualche caso li conforti col suo appoggio. Può darsi, ad esempio, che, pur non esentando i fabbricanti di automobili dall’obbligo di pagare imposte sui loro redditi, l’opinione pubblica riconosca unanimemente essere corretta una imposta sui consumatori di automobili per due ragioni; in primo luogo a titolo di rimborso dell’usura particolare che il traffico automobilistico provoca alle strade ordinarie; ed in secondo luogo perché l’uso di una vettura può essere l’indizio di un reddito posseduto dal possessore della automobile, reddito, che può ritenersi opportuno di tassare per mezzo di quell’indizio. Ma, salvo pochi casi ben specificati e ben dimostrati, è difficile che, dinanzi al tribunale dell’opinione pubblica trionfi, se chiaramente e nettamente posta, la tesi che debba toccare al consumatore del pane o delle scarpe o dei vestiti o dell’aratro l’obbligo di pagare la imposta che di solito è fatta gravare sul reddito di coloro i quali hanno contribuito a produrre tutti questi beni. Per farla trionfare, gli industriali e gli agricoltori debbono imbrogliare le carte e lasciare intendere che, con i dazi, si sia inventato un metodo miracoloso per non più pagare le imposte. Sia ben chiaro che i dazi non aboliscono nessuna imposta; e l’unico effetto in proposito è di farle pagare a chi è meno in grado di sopportarle. Ciascun paese, ciascun popolo è chiamato a sopportare le conseguenze di quelle disgrazie od inferiorità che lo affliggono: a cercare di cavarne quel migliore partito che gli è mai possibile. Se la sfortuna volle che esso fosse mal governato e che quindi su di lui cadessero imposte gravose, egli non rimedia alla disgrazia col caricarsi di un’altra imposta, quale è un dazio doganale. Unico rimedio è cangiar governo e stabilirne uno il quale gli faccia pagare imposte poco gravose. Badisi che imposta «poco gravosa» non vuol dire imposta «bassa», perché se un’imposta è alta, ma il governo amministra bene, dà pubblici servizi vantaggiosi, può darsi, anzi è certo, che quell’imposta alta pesa meno di una imposta apparentemente bassa, ma riscossa da un governo prevaricatore.

 

 

6. In un mercato ampio, aperto alla concorrenza, gli imprenditori dovranno ingegnarsi. È vantaggioso che così sia.

 

Se gli ingegneri e gli agronomi sono poco periti nel loro mestiere o sono rari o addirittura non ci sono, se non ci sono maestranze, se i capitalisti non osano arrischiare i loro risparmi nelle industrie, il rimedio non consiste nel chiudere le frontiere alle merci estere. A quei malanni non si rimedia dicendo agli ingegneri: non logoratevi il cervello a fabbricare automobili per il popolo che si possano vendere a 200 dollari l’una, suppongasi a 1000 lire ante 1914; ciò è faticoso e logorante e vi farà guadagnare quattrini solo se riuscite a vendere, invece di 20.000 automobili nuove all’anno, almeno 200.000. Il governo stabilirà un dazio alla frontiera, vieterà ai concorrenti esteri di impiantarsi in Italia, salvo col vostro consenso; e così voi potrete sfruttare il mercato interno vendendo le stesse automobili popolari a 400 dollari l’una e contentandovi di venderne solo 20.000. Non fa d’uopo che il governo dica ai contadini: se volete diventare buoni meccanici, non basta fare un qualche tirocinio dal biciclettaio o dal fabbro o dal riparatore del paese, ma occorre che facciate in città qualche più lunga e grama vita di apprendista, che andiate a qualche scuola serale, e che vi rendiate capaci di guadagnarvi il salario decente che spetta ad un operaio che si rispetti. Con un bravo dazio, il fabbricante è sicuro di sé e potrà impiegarvi anche se renderete poco. Paga il consumatore forzato ad acquistare la macchina paesana invece di quella estera. Ai capitalisti timidi il dazio dice: state tranquilli che io vi garantisco un onesto frutto del vostro capitale. Sarà ottenuto alle spalle dei vostri concittadini; ma sarà certo. Così i capitalisti restano timidi; ma chi non risica non rosica e le grandi imprese importano sempre grandi rischi.

 

 

Chi vuole la Federazione europea offre il vero rimedio alla gravità delle imposte, alla timidità dei capitali, all’imperizia delle maestranze ed alla ingordigia degli industriali. La Federazione, abolendo gli eserciti e le marine e le aviazioni «statali», ne diminuisce il costo; ché un esercito solo, sebbene meglio armato e meglio istruito costa, per testa di abitante, meno di quattro o cinque grossi e di una ventina di piccoli eserciti separati, di cui solo un paio agguerriti sul serio, e diminuendo le probabilità di guerra, scema il costo di preparazione alla guerra. Le imposte diventeranno forse ancora più alte d’adesso; ma essendo indirizzate ad opere di pace saranno meno gravose di quelle odierne e, se gli italiani ed i francesi e i tedeschi non più guasti da nazionalismi rabbiosi sapranno darsi buoni governi nazionali, saranno persino feconde ossia non costeranno nulla, perché un servizio non costa nulla quando avvantaggia almeno tanto quanto costa. I capitalisti, non avendo la comodità di sottoscrivere prestiti statali senza limiti per far fronte a spese di guerra o di preparazione alla guerra, dovranno rassegnarsi a ricevere interessi, invece che del 4 o del 5%, solo del 3 e del 2 e forse anche dell’1%, e saranno costretti a cercare impieghi più attraenti, sebbene più rischiosi, nell’industria e nell’agricoltura. Se a coltivare frumento la terra renderà troppo poco e forse nulla, i proprietari dovranno rassegnarsi a restringere le superfici coltivate a cereali ai terreni più adatti, dove sarà possibile produrre frumento a prezzi di concorrenza, supponiamo 4 o 5 dollari attuali al quintale equivalenti all’ingrosso a 12/15 lire ante 1914. Non si produrranno forse più 80 milioni di quintali all’anno, ma se ne produrranno sempre molti; ché i contadini i quali vivono sul proprio ed i mezzadri ed i fittuari vorranno sempre produrre in casa, per una vecchia abitudine difficile a smettere, il pane che mangiano; e vi saranno sempre agricoltori, i quali, fatti i conti, riscontrando che in un’Europa unificata, potranno procurarsi concimi chimici, aratri, aratrici, mietitrici, trebbiatrici, petrolio a prezzi di concorrenza, non gravati da dazi, la coltivazione del frumento non sarà del tutto da disprezzarsi, e che, con una buona rotazione, con arature profonde e concimazione adeguata, sarà possibile cavar dal fondo quei 20/40 quintali secondo le stagioni e le esposizioni ed il clima ed i terreni, i quali, anche a 12/15 lire ante 1914, daranno un reddito netto relativamente remunerativo. Che se qualche terreno non converrà assolutamente coltivarlo a grano, e se si tratterà non di qualche ettaro, ma anche di forse 2 sui 5 milioni di ettari coltivati a frumento in Italia, non perciò cascherà il mondo. In molti casi il proprietario agricoltore avrà fatto i suoi conti e, non più sostenuto dalla protezione doganale e dai conseguenti prezzi alti, avrà ripetuto il motto di un grande agricoltore del mezzogiorno, uno dei maggiori agronomi dell’epoca immediatamente susseguente al Risorgimento, il senatore De Vincenzi: «nel mezzogiorno coltivare frumento è come giocare a primiera». L’agricoltore semina ed il vento che viene dall’Africa si porta via la messe prossima a maturazione. Se vorrà salvarsi occorrerà si ingegni. Acquisterà trattrici e metterà sossopra il terreno, cercando di immagazzinare negli strati profondi quella poca acqua venuta dal cielo e rullando con altre macchine il terreno superficiale per non lasciarla evaporare. O trivellerà il fondo per captare le correnti d’acqua sotterranee cercando di congiungere insieme acqua e sole, che sono gli agenti più fecondi della produzione agraria nei climi mediterranei. Innalzerà barriere di piante ai limiti dei campi contro l’imperversare dei venti. Alleerà la sulla ed altre foraggiere ai cereali e arricchirà di humus la terra, intraprenderà culture industriali di ortaggi, se avrà potuto provvedersi di acqua; o ricorrerà alla vite, all’olivo, al mandorlo, ecc. ecc. se la sua terra è pertinacemente asciutta. Si adatterà a non avere redditi per anni e forse per decenni lavorando per i figli e per i nipoti. Se non vorrà o non potrà far nulla di ciò, perché gli faranno difetto la perizia, la volontà tenace ed il credito – ma il credito va sempre a chi ha perizia e volontà – neppure in tal caso cascherà il mondo. Basterà che egli se ne vada fuori dei piedi e cessi di disturbare il prossimo seguitando a ripetere al caffè o al circolo la solita solfa: cosa dobbiamo coltivare al luogo del frumento se ci levano il dazio? Andarsene con i suoi piagnistei e con i suoi debiti ipotecari improduttivi e lasciare il luogo a chi non si quereli e non chieda l’elemosina a nessuno.

 

 

Se altro risultato l’abolizione del dazio sul frumento e sulle altre derrate agrarie, compreso il vino, l’olio, le frutta, il bestiame non dovesse avere sarebbe già questo un grande risultato: di sbarazzarci dei proprietari neghittosi, dei latifondisti i quali vivono in città, della gente che affitta le terre ad intermediari e si interessa solo a riscuotere fitti. Tanto meglio se quei terreni non renderanno più nulla e, gravati di imposta invariabile, dovranno essere venduti a prezzo eguale ad una metà, ad una terza o ad una quarta parte dei prezzi toccati in regime di protezione. Qualche altro le comprerà. I compratori saranno di due specie. Capitalisti cittadini, disposti ad investire capitali in migliorie, in costruzione di strade e di case, in arature profonde, in complementi di bonifiche, in opere secondarie di irrigazione, – le opere grosse di bonifica di irrigazione e di rimboschimento non possono che essere l’opera di consorzi pubblici – in piantagioni. Sarà la minor parte come superficie e saranno, come sempre accadde in Italia, di esempio e di sprone agli altri. Gli altri compratori saranno i contadini, i quali con il loro lavoro sapranno coltivare il frumento con vantaggio dove i vecchi proprietari non riuscivano; ed a poco a poco inizieranno, forse un po’ in disordine e senza un piano, tante altre coltivazioni alle quali i signori che al caffè discutevano del dovere del governo di proteggere l’agricoltura nazionale non avevano mai pensato. Questi contadini converrà che lo stato, libero dalle cure della guerra, grazie alla Federazione europea, li aiuti, aprendo esso le strade, promuovendo la costruzione delle case e incoraggiando con sussidi quei complementi di opere di bonifiche e di irrigazione alle quali il capitalista cittadino provvederà poi da sé. Lo stato nazionale provvederà a costruire nei centri naturali, dove già non esistano, case e per l’acquisto di concimi, sementi, attrezzi, affidati a consorzi liberamente costituiti dagli stessi contadini od affittati a volenterosi negozianti, i quali volessero tentare la fortuna nelle campagne. Ed accanto alla scuola, vi sarà il podere sperimentale, con l’agronomo del villaggio pronto a recarsi dappertutto a dar consigli gratuiti e rassegnato a non vedersi ascoltato, se i suoi consigli saranno imparaticci libreschi e non frutto di esperienza illuminata dal sapere.

 

 

Non è così, o suppergiù così, che in tanta parte della Liguria, dove fu possibile, i sassi furono trasformati in giardini di fiori? Se quei liguri avessero seguitato a chiedere agli uomini politici e agli economisti: cosa faremo adesso che il frumento ci arriva da tutte le parti del mondo, e nonostante il dazio, si vende a prezzi che sono la metà od il terzo del costo a cui noi lo produciamo sui quattro palmi di terra che a furia di muretti e di gerle abbiamo accumulata sui greppi dei nostri colli? Che cosa faremo, oggi che gli olivi invecchiano e le olive son scadute di prezzo, sicché non franca neppure la spesa di abbacchiarle e di raccoglierle? Che cosa faremo noi che, con reddito zero, dobbiamo pagare imposte e sovraimposte fondiarie sproporzionate? Poiché nessuno rispondeva, ché non è mestiere né dei politici né degli economisti rispondere a siffatte domande, qualcuno ha cominciato a dar l’esempio; e su quei greppi e in quelle brevi piane ha costruito cisterne e ha ampliato quelle vecchie; ha, con spese diaboliche, raccolto a goccia a goccia l’acqua piovana; ha costrutto, per poterla centellinare, canaletti in cemento o in piombo ed ha coltivato ortaggi e fiori. Sono venute su primizie, che il pioniere ha cominciato a vendere a Savona e a Genova, eppoi, estendendosi il mercato, a Torino ed a Milano. Dopo di lui sono venuti altri, molti altri, la più parte proprietari non di un ettaro, che è già una specie di latifondo, ma di mezzo ettaro, di un quarto di ettaro, di mille metri quadrati e meno; ed i fiori della Liguria sono giunti a Nizza, a Parigi, a Londra, a Berlino, a Stoccolma; e sarebbero seguitati ad andare, in sempre e più belle e nuove varietà, iniziate da qualcuno ed imitate dagli altri, se la guerra non avesse rovinato anche questa iniziativa. La Federazione europea, la quale vuole togliere le cause della guerra in Europa, farà rifiorire questa industria e provocherà il fiorire di tante altre industrie agricole, dal vino all’olio, dalle pesche alle pere, dagli ortaggi agli agrumi.

 

 

7. L’autarcia, lo spezzettamento dei mercati non producono materie prime, carboni e capitali. L’esempio svizzero. La scoperta di vendere ad alto prezzo beni di qualità fina.

 

Ai soliti piagnoni i quali chiedono: come faremo senza materie prime, senza carbone, senza denari a ricostruire l’Italia dopo la guerra distruttrice? rispondiamo: le grosse spese militari, i dazi doganali, l’autarcia, ci hanno forse dato in passato materie prime, carbone e quattrini? Non c’erano, quando i dazi erano moderati e non esisteva l’autarcia[1]; ma dazi ed autarcia non ci diedero le miniere di ferro e di carbone, i pozzi di petrolio che non avevamo, le piantagioni di cotone e di gomma elastica, a cui i nostri terreni non sono adatti e le greggi di pecore alle quali mancano i pascoli, da noi trasformati a culture più redditizie. Eppure, se confrontiamo il 1914 col 1860 l’Italia aveva progredito parecchio e teneva un luogo non ultimo nello arringo delle nazioni produttrici. Perché dubitare che in un mercato più ampio, in un clima politico più libero e sicuro, non si sappia progredire almeno come si fece quando eravamo soli? Perché ritenerci da meno della Svizzera, la quale senza carbone e senza ferro, senza piombo e senza stagno, senza rame e senza zinco, senza cotone e senza gelsi da seta, senza cacao e senza agrumi, senza petrolio e senza gomma elastica, non solo conserva la tradizionale industria alberghiera, non solo mantiene il primo posto nell’industria orologiaia, ma vende in tutto il mondo macchine elettriche, motori, autocarri a prezzi di affezione, cioccolata e conserve di frutta ed alimentari? Li vende perché si è specializzata in prodotti fini ed ha fatto la scoperta ovvia e nello stesso tempo geniale che a vendere roba buona ad alto prezzo, si trova sempre, in un mondo il quale va elevandosi in benessere materiale, qualcuno pronto ad acquistarla. Questa è la nostra via; e non giova rimuginare sui benefici che si possono ottenere seguitando a produrre, all’ombra dell’autarcia economica e dell’isolamento politico quel che tutti son buoni a produrre, le merci ordinarie, come il frumento che è meglio lasciar coltivare dove la terra val poco, perché non esistono altri usi alternativi, o tessuti ordinari, che è preferibile lasciar filare e tessere agli indiani ed ai giapponesi che dicesi per ora si contentino, per vivere, di un piatto di riso cotto nell’acqua e infilato in bocca con le bacchettine.

 

 

CAPITOLO IV

DI ALCUNI ERRORI E TIMORI VOLGARI IN MATERIA ECONOMICA

 

1. L’uso nelle discussioni economiche di parole trasportate dal proprio ad altro significato.

 

Per ora nessuno propone di includere cinesi, giapponesi ed indiani nella costituenda Federazione europea; epperciò questa potrà, se lo riterrà opportuno, difendersi, circondandosi di una barriera doganale bastevolmente alta, contro l’importazione delle merci a buon mercato prodotte dalle genti divoratrici di riso; ma non è fuor di luogo chiarire quanto siano infondate le preoccupazioni di coloro i quali temono, dalla costituzione di un grande mercato europeo, entro il quale uomini e merci possano liberamente muoversi, danni senza numero per il loro paese. Questi danni sono convenientemente descritti in maniera pittoresca con frasi del seguente tipo: – il paese sarà «inondato» da merci estere a buon mercato; – ci sarà una «invasione» di merci a basso prezzo, contro la quale i produttori nazionali saranno impotenti a resistere; – in breve ora, dinnanzi alla strapotenza dei concorrenti esteri agguerriti, forniti di capitali a buon mercato, la capacità di acquisto del paese sarà esaurita. Esaurite le poche scorte d’oro, incapace a vendere all’estero le proprie merci a prezzi abbastanza bassi, con che mezzi il paese acquisterà ancora il necessario per alimentarsi e vivere? Gli stranieri si precipiteranno come cavallette sul paese, e acquisteranno, a vil prezzo, le nostre terre, le nostre case e le nostre fabbriche, sin che alla fine i nazionali siano ridotti allo stato di salariati proletari, al soldo del forestiero; – ovvero, se vorremmo mantenerci indipendenti, mancherà il lavoro, i fumaioli saranno lasciati spegnere, le maestranze dovranno emigrare in cerca di un pane; e il paese ritornerà allo stato della pastorizia e della caccia. Rimarranno nelle città guide per istruire e mendicanti per divertire i forestieri, amanti di antichità, di musei e di rovine.

 

 

Il quadro è terrificante; ma deriva gran parte del suo valore dall’uso di figure rettoriche le quali non hanno niente a che vedere con la sostanza del problema. Le parole «inondazione», «invasione», «guerra economica», «conquista» sono importate da fatti che appartengono ad un mondo tutto diverso da quello degli scambi economici, dei quali unicamente si tratta. Un terreno è «inondato» dall’acqua straripante dai fiumi e torrenti, quando l’acqua, coprendolo di sabbia e di sassi, distruggendo raccolti, colmando canali, guastando strade e piantagioni, ne riduce per anni ed anni la produttività ed è causa di sforzo grande per ricondurlo alla fertilità antica. In che modo possiamo assimilare a tal fatto indubbiamente dannoso l’importazione a basso prezzo di prodotti esteri? Importazione di frumento a 15 lire ante 1914 al ql., invece che a 25 od a 30, per sé significa soltanto «messa a disposizione di uomini di una massa maggiore di frumento». Anche se l’inondazione di frumento giungesse sino al punto, che è assurdo, di consentirci di entrare gratuitamente in possesso del frumento necessario ai nostri bisogni, il fatto in sé non potrebbe da nessuno essere considerato dannoso. Eliminata la necessità di fare lo sforzo necessario a procurarci il frumento, noi potremmo dedicare tutta l’opera nostra resa così disponibile a far qualcosa altro; per esempio, a fabbricare, perdendo all’uopo solo una parte del tempo reso libero dal regalo che qualcuno ci farebbe della materia prima, pane così ben fatto, di forme ed aspetti così diversi ed attraenti, paste alimentari così ben confezionate ed a prezzi così bassi da essere accessibili a tutte le borse e così gradite al palato da crescere l’appetito e la salute dei felici consumatori. Questo, e nient’altro, vuol dire per se stessa «l’inondazione» delle merci estere.

 

 

Parimenti, «l’invasione» delle medesime merci non è connessa col clangore delle trombe, con il fischio delle palle, il tuonare dei cannoni, l’urlo delle bombe cadenti dall’alto, il fumo ed il terrore degli incendi, con cui nella immaginazione degli uomini è connessa l’invasione nemica vera e propria. L’invasione delle merci estere è per sé medesima connessa con l’idea di offerte attraenti al prezzo 5 di merci che noi eravamo abituati ad acquistare al prezzo 6 od 8 o 10, di merci più solide o nuove al posto di altre di scarsa durata e di forma antiquata, di cataloghi ben redatti, i quali ci offrono piantine straniere di rose novità al prezzo di 1 lira l’una al luogo di piantine nazionali al prezzo di lire 2, di commessi i quali ci assicurano che quella stoffa è pura lana forestiera, laddove quella nazionale è mista di cotone e di rayon. Se le allegazioni sono vere, quella è per fermo una invasione sui generis, dalla quale non ci sentiamo danneggiati, una invasione la quale per sé cresce la comodità della nostra vita. In fondo in fondo noi ci augureremo che così gentile invasione giungesse sino al punto di riempirci la casa di ogni ben di Dio mangereccio, di mobili eleganti, di ninnoli graziosi, di scarpe e di vestiti, durevoli e gradevoli all’occhio.

 

 

2. L’importazione di merci estere ci priva dei mezzi di acquistarle?

 

Se qualche dubbio rimane in noi dinnanzi ad inondazioni ed invasioni di indole così peculiare, esso deriva da una preoccupazione: di non avere i mezzi di provocare inondazione ed invasione, di essere ridotti allo stato del Re Mida che moriva di fame perché tutto quel che toccava si convertiva in oro. Al contrario, noi non potremmo, per mancanza di mezzi, toccar nulla delle belle cose straniere, le quali ci inonderebbero, ci invaderebbero, ci assalirebbero da ogni parte. Non potremmo nulla toccare perché le merci stesse straniere ci avrebbero privato dei mezzi di acquistarle.

 

 

Come ciò possa accadere, si tenta di spiegare nella seguente maniera: il consumatore nazionale, provveduto di una data somma di denaro, andando sul mercato segue la regola della miglior sua convenienza; e se la merce straniera, di uguale qualità gli è offerta a prezzo minore, sceglie questa. I produttori nazionali sarebbero nella impossibilità di vendere e quindi di produrre. E poiché nessun consumatore è tale, nessuno è provveduto di denaro, se non ha prima venduto qualcosa – il suo lavoro, i servigi della sua casa, del suo terreno, della sua industria – se nessuno ha potuto vendere niente per la concorrenza al ribasso della merce estera, nessuno è provveduto di denaro e nessuno può acquistare le merci estere delle quali benevolmente i produttori stranieri ci vorrebbero inondare, o con le quali essi vorrebbero invadere le nostre case. La inondazione o la invasione producono così l’effetto terrificante di inaridire i nostri campi, di spegnere i nostri fumaioli pure restandosene nell’alveo dei fiumi o non valicando i sacri limiti della patria. Basta, in questo genere particolarissimo di operazioni belliche, la pura minaccia per produrre l’effetto voluto dal nemico.

 

 

3. Insussistenza di siffatta condotta economica. La divisione del lavoro. Producendo un bene, gli uomini in realtà mirano ad un altro o ad altri beni. Lo scambio incrociato con tre o più permutanti. Le cose prodotte misurano il costo, le cose acquistate il compenso della fatica della produzione.

 

In verità non si comprende quale vantaggio possa il nemico ripromettersi da una siffatta condotta della guerra economica. Vuole o non vuole l’avversario – seguitiamo per il momento ad usare la barocca terminologia usata per indicare la persona di chi ci offre «senza costringerci ad accettare», una merce a noi presumibilmente gradita ad un prezzo minore di quello preteso da altri – vuole o non vuole venderci la sua merce? Se sì, quale interesse ha a privarci del mezzo di acquisto? Per lui la vendita non ha lo scopo di procurarsi denaro. In ogni caso non ha lo scopo di procurarsi la nostra moneta nazionale, che oggi in ogni paese consiste di biglietti, pezzi di carta stampata con su certe parole e certi ghirigori, i quali non hanno corso se non nel paese d’origine. Lo scopo, al più, è quello di procacciarsi moneta universale, avente corso dappertutto, ossia moneta d’oro. Ma l’esperienza, ovvia costante e generalissima, ci dice che neppure questo è il fine vero dello scambio. Gli uomini quando hanno ricevuto oro, moneta universale, non trovano ad essa nessun uso diretto. A meno di essere avari, assorti nella contemplazione e nel palpeggio delle monete d’oro, ognuno si affretta a cambiare l’oro in merci, in derrate, in servigi (fitti di casa, rappresentazioni teatrali, viaggi, servigi personali di domestici, di parrucchieri, di manicuri ecc. ecc.). Se, per il momento, l’uomo non ha desideri abbastanza intensi da indursi a separarsi dalla moneta, la deposita in banca, riservandosi di ritirarla più o meno presto, quando vorrà convertirla in merci o servigi; e la banca la dà a mutuo a chi se ne serve per comprare merci o servigi (materie prime e mano d’opera per l’esercizio dell’industria sua) salvo a restituirla quando avrà rivenduto il prodotto delle sue operazioni in industriali. In ogni caso il produttore produce merci e le vende non per procurarsi denaro, il quale non ha per lui nessuna utilità diretta, bensì, per mezzo del denaro, per acquistare le merci ed i servigi dei quali ha bisogno. L’avvocato dà pareri, in parte per il gusto di esporre la propria opinione su argomenti che lo interessano; ma, al punto di vista economico, dà pareri allo scopo di procurarsi vestiti, alimenti, casa, riscaldamento per sé e per la famiglia. L’artigiano intarsia, sì, con diligenza lo stipo, ordinatogli dal cliente, perché a lui piace il lavoro ben fatto; ma lo scopo del suo lavoro non è di fabbricare e possedere stipi intarsiati; ma, col mezzo di questi provvedere sé e la famiglia di alimenti, scarpe, vestiti, casa, medicine e via dicendo. Lo scopo della sua produzione non sono le cose da lui prodotte; sono quelle da lui desiderate ed acquistate.

 

 

L’avvocato e lo stipettaio hanno riflettuto che se volessero da sé produrre le scarpe, i vestiti, gli alimenti, l’appartamento di cui hanno bisogno, non verrebbero probabilmente a capo di nulla; e, volendo far tutto da sé, si ridurrebbero a vivere, come i selvaggi o come Robinson Crosuè, in grotte od in capanne di frasche, miseramente ed in continuo affanno di morire di fame o di freddo; ed hanno concluso che il partito migliore era quello di fabbricare solo pareri e solo stipi. Essi si sono specializzati in questa bisogna e vi hanno raggiunto un grado più o meno alto di eccellenza. Così hanno fatto tutti gli altri uomini; e così è nata quella la quale si chiama divisione del lavoro. La quale non conosce confini di stati o di province o di comuni. Se non esistessero dazi e confini e passaporti, tutto il mondo sarebbe un paese solo; e tutti gli uomini si scambierebbero i loro prodotti l’un l’altro. A nessuno verrebbe in mente di parlare di inondazioni di stipi in casa dell’avvocato e di pareri in casa dello stipettaio; perché tutti comprenderebbero che l’avvocato ricorre allo stipettaio soltanto quando desidera uno stipo e che lo stipettaio ricorre all’avvocato soltanto quando sa di avere vantaggio ad ascoltarne il parere. Non occorre, perché lo stipettaio possa vendere lo stipo all’avvocato, che egli attenda il momento, che potrebbe non giungere mai, di aver bisogno dei suoi pareri. A questo mondo, basta che ci sia sempre qualcuno bisognoso di pareri d’avvocato, per es. il sarto a cagione di un cliente litigioso. Il sarto chiede e paga il parere dell’avvocato; questi, colla moneta ricevuta acquista lo stipo; e lo stipettaio a sua volta si fa fare il vestito dal sarto. Così il sarto ha avuto il parere, che era il bene da lui desiderato, l’avvocato possiede e gode lo stipo e lo stipettaio veste panni. Estendiamo, a 100, a 1000, ad 1 milione, a 100 milioni di persone l’esempio ora fatto per tre persone e, salvo la complicazione, nulla sarà cambiato al quadro. In regime di divisione del lavoro, ognuno produce non per sé, ma per gli altri; ed ognuno considera il costo della merce da lui acquistata in ragione del costo, della fatica sopportata nel produrre la merce da lui data in cambio. Per l’avvocato il costo dello stipo non è dato dal numero delle lire da lui pagate per acquistarlo, ma dalla fatica durata, dal tempo consumato nel pensare e nell’elaborare il parere da lui dato al sarto. Le lire sono numeri astratti, che per sé non significano nulla. Quel che conta è la fatica, l’energia mentale spesa nel produrre il parere. Si potrebbe anche dire che per l’avvocato il costo dello stipo è dato dal sacrificio sofferto nel rinunciare a quell’altro bene, ad es. un grande trattato giuridico, a cui egli ha preferito lo stipo. Mentalmente, lo stipettaio reputerà caro od a buon mercato l’abito nuovo paragonandolo al numero di giorni consumati ed all’abilità impiegata nel fabbricare lo stipo. Se egli, vendendo lo stipo, riesce a procurarsi un vestito, un paio di scarpe ed un cappello, riterrà di avere avuto tutta questa roba a buone condizioni; se solo il vestito, si lagnerà che il lavoro dello stipettaio è male remunerato. E così per il sarto.

 

 

4. Gli scambi hanno luogo fra persone e non fra stati.

 

Le merci ed i servigi si pagano con le merci ed i servigi; ed il denaro serve solo per facilitare gli scambi. Se l’avvocato e lo stipettaio si trovassero uno di fronte all’altro, non avverrebbe alcuno scambio; ché l’avvocato desidera bensì lo stipo, ma lo stipettaio non sa cosa farsene dei pareri dell’avvocato. Per fortuna c’è il sarto, il quale ha litigato con il suo cliente, ed ha urgenza del parere dell’avvocato; mentre lo stipettaio è disposto a farsi fare il vestito dal sarto; e così tutte le cose si accomodano.

 

 

Si accomoderebbero anche fra sarti, stipettai ed avvocati o meglio fra fabbricanti di panni inglesi, segherie produttrici di assi per mobili della Scandinavia e fioristi della riviera ligure; se i singoli stati non costituissero unità territoriali separate e non venisse in mente l’idea balzana che gli scambi, invece di verificarsi fra fabbricanti i panni inglesi i quali hanno bisogno di mobili fabbricati con assi scandinavi, segherie scandinave, i cui proprietari vogliono rallegrare la loro merce con fiori freschi recisi liguri, e fioristi liguri i quali vogliono vestire panni inglesi, si verificano invece fra Inghilterra, Svezia ed Italia. Ed allora, invece di concepire i tre scambiatori come tre brave persone le quali, dopo avere un po’ litigato sul prezzo, si mettono d’accordo per effettuare lo scambio tripartito conveniente a tutti e tre, si guarda a tre stati, a tre paesi, a tre nazioni le quali, ringhiando l’una contro l’altra, si «inondano», si «invadono» reciprocamente con merci destinate a mandare in rovina il nemico, l’avversario intento a distruggere l’industria nazionale.

 

 

5. Anche il produttore peggio situato può combinare la produzione in guisa da avere qualcosa da vendere.

 

Nove decimi delle contese fra stato e stato derivano da finzioni e trasposizioni verbali di questo genere; ma questa è certamente la più balzana fra le figure retoriche adoperate nel linguaggio volgare e politico per rappresentare tragicamente un fatto elementare della vita quotidiana; gli scambi avvengono a causa della divisione del lavoro introdottasi tra gli uomini per accrescere la massa di ricchezza prodotta da tutti e per accrescere quindi la massa di beni che ognuno può procacciarsi vendendo agli altri le cose da lui stesso prodotte in maggiore abbondanza, grazie alla specializzazione del lavoro. Non vi è uomo, per quanto inabile e scarsamente fornito di capitali, il quale qualcosa non sia in grado di produrre. Anche l’agricoltore italiano il quale sia ridotto a coltivare un terreno ingratissimo, qualcosa è in grado di produrre. Egli può scegliere due vie: o coltivare in quel terreno tutte le derrate di cui ha bisogno; frumento, granoturco, erba per le pecore, bosco per trarne legna da riscaldamento, viti per il vino, olivi per l’olio, ortaggi per il desco famigliare. Egli spera in questo modo di non aver bisogno di acquistare nulla, ché il poderetto gli fornisce tutto ciò di cui ha bisogno. Nel forno famigliare cuocerà egli stesso il pane; la donna sua gli filerà e tesserà la lana delle pecore; nel frantoio e nella cantina produrrà olio e vino; ortaggi e frutta basteranno alla parca mensa. Oppure egli, osservando che nel pascolo l’erba viene grama, le viti non prosperano e le pannocchie di granoturco riescono stente, si ridurrà a coltivare, oltre l’orto di casa, frumento alternato con culture erbacee miglioratrici ed a curare bene e rinnovare gli olivi esistenti sul fondo. In verità, egli non ha la libertà di scelta fra le due vie; ché in ogni caso ha bisogno di vendere qualcosa per procacciarsi i beni ed i servizi, che assolutamente non può produrre da sé: le scarpe, i vestiti, il petrolio o l’acetilene o la luce elettrica per la illuminazione, i servigi pubblici (imposte), i libri scolastici per i ragazzi, le medicine ecc. Il contadino fa il conto, pressapoco, quale sia l’ammontare complessivo che egli deve spendere in denaro per procacciarsi le cose di cui ha bisogno e che non può cavare dal podere, supponiamo 3.000 lire; e, fatte le sue esperienze, si appiglia a quella combinazione di culture ed a quel reparto della superficie di terreno del suo podere che gli dà, oltre alle derrate da lui direttamente consumate, la possibilità di procurarsi, con il minimo di fatica, le 3.000 lire a lui necessarie. Fra le tante combinazioni di frumento, erbe foraggere (il che vuol dire bestiame grosso o minuto da vendere, latticini, formaggi) ed ulivi una ve ne sarà che gli dà il desiderato risultato. Se la sua terra è povera, forse non riuscirà a cavarne le 3.000 lire per gli acquisti in denaro; ed in tal caso egli un po’ rinuncerà a consumare una quota ulteriore dei suoi prodotti ed un po’ ridurrà le spese fatte fuor del podere, ad esempio, da 3.000 a 2.500 lire.

 

 

La sterilità della sua terra non gli impedisce di vendere; riduce solo la massa dei beni che egli può offrire in vendita e quella dei beni che egli può comprare. Se un dazio aumenterà il prezzo del suo grano, non perciò cresce la quantità di grano che, con identica fatica, egli si procura; cresce solo la quantità dei beni che egli si può procurare. Egli sta meglio; ma sta peggio il consumatore del grano, suo connazionale, il quale sarà costretto ad acquistare il pane a più alto prezzo ed avrà, ad ugual fatica, una massa di beni minore a sua disposizione. Potrà darsi e sarà in media anche probabile, che quel consumatore di pane stenti la vita ancor più del contadino produttore del pane. Ad ogni modo, non è vero che la mancanza del dazio protettivo per il grano costringa ad abbandonare i terreni a grano. Costringe a variare le culture per produrre il sovrappiù necessario alla vita e che il contadino non può produrre da sé. Seppoi un terreno è veramente tanto sterile che il contadino, stentando e logorandosi, non riesce a cavarne il necessario ad una vita miserabile, forseché sarà un male se quel fondo ritornerà a pascolo od a bosco e se il contadino, rimasto disoccupato, andrà in città a fare un mestiere che gli dia qualcosa di più di quel che gli offre la terra grama? L’abbandono della montagna, attorno a cui si sparge tanto inchiostro, è un fatto economicamente logico. Invece di consumare 10 o 20 giorni di lavoro a produrre un quintale di segale su un terreno impervio, il montanaro preferisce lavorare 5 soli giorni in fabbrica, lucrando così la somma occorrente per acquistare un quintale di buon frumento. C’è sugo a indurre col dazio il montanaro a seguitare nella coltura della segale con gran fatica, quando con minor fatica e col solo abbandono della terra a segale in montagna, egli si procura egualmente il buon pane? Lo scopo dell’attività umana non è quello di faticare a coltivare terre in luoghi ingrati; ma di far vivere gli uomini in condizioni degne. Se gli uomini ritengono di potersi procacciare i mezzi di vita altrimenti che col coltivar terreni sulla cima del monte Bianco, sarebbe assurdo rendere conveniente ad essi faticar molto per ottenere poco. Anche se questo poco sarà venduto ad alto prezzo, gli uomini potranno nel loro complesso consumar poco e dovranno vivere malamente.

 

 

6. L’errore di rallegrarsi della diminuzione delle importazioni e dell’aumento delle esportazioni. È vero, a parità di altre condizioni, il contrario. Le esportazioni sono il costo, la fatica; le importazioni sono il compenso, lo scopo della fatica durata nel lavorare.

 

Posti così, nella loro nudità, i fatti, è evidente essere errata la concezione che comunemente si espone nel parlare e nello scrivere quotidiano, delle importazioni e delle esportazioni. Per lo più, giornalisti ed uomini politici si rallegrano quando possono annunciare che le importazioni dall’estero sono diminuite e le esportazioni verso l’estero sono aumentate, sia in volume che in denaro. Sembra che il paese arricchisca perché incassa molto e spende poco. Può darsi che ci sia del vero nell’opinione così esposta; se ad esempio ciò vuol dire che noi esportando un miliardo di più di quanto non abbiamo importato, abbiamo esportato macchine locomotive, rotaie, ecc. ed abbiamo così fatto investimenti di capitale all’estero, senza subito ottenere il pagamento. Lo otterremo poi, si spera con utile, ricevendo negli anni futuri interessi, dividendi e quote di ammortamento. Può anche darsi che, esportando un miliardo di più dell’importato, abbiamo rimborsato un debito vecchio, liberandoci dell’onere di pagare in avvenire i relativi interessi. Possono darsi altre ipotesi ancora, le quali spiegano razionalmente il fatto. Ma, parlando in generale, che cosa vuol dire importare? Evidentemente, ricevere merci e derrate che noi desideriamo e che godremo; le quali ci serviranno a soddisfare nostri diretti bisogni od a fare impianti industriali o migliorie agricole fruttifere in avvenire. Cosa vuol dire esportare? Altrettanto evidente, dare merci e derrate che a noi costano fatica, privarcene, rinunciare a farne uso. Le esportazioni sono il sacrificio, il costo da noi sostenuto; le importazioni sono il vantaggio, il bene da noi desiderato. Razionalmente discorrendo, i nazionali di qualunque paese hanno interesse a ridurre al più possibile le esportazioni ad aumentare il più possibile le importazioni. Le esportazioni sono il costo, che noi vorremmo minimo, delle importazioni che noi vorremmo massime. Se noi discorressimo, cosa che è fuor di luogo, in termini morali, dovremmo dire che le esportazioni sono il male e le importazioni sono il bene. Nella vita privata quando di solito ragioniamo bene, tutti desideriamo esportare poco, ossia dare pochi pareri d’avvocato, pochi stipi o vestiti ed importare in cambio assai, ossia l’avvocato uno stipo preziosamente intarsiato, il sarto un parere ben elaborato, che gli faccia vincere la causa col cliente, e lo stipettaio un vestito di lana pura ben confezionato. Poiché tutti desideriamo la stessa cosa: esportare molto ed importare assai, i desideri non possono per nessuno essere pienamente soddisfatti. Il mercato deciderà quali siano le ragioni di scambio, ossia il prezzo dei pareri degli avvocati, degli stipi più o meno bene intarsiati o dei vestiti di lana pura o mista. Resta il fatto che nessuno, né individuo, né quella accolta di individui che è detta stato, corre il pericolo, che sarebbe augurabile, di restare soffocato dalla inondazione delle merci. Ognuno compra, ai prezzi del mercato, solo quella quantità di beni e servigi che uguaglia quella che può dare in cambio e nessuno, a meno che egli sia un mendicante od un lestofante, gli darà mai nulla in cambio di niente.

 

 

7. Bassi salari dei paesi poveri ed alti salari dei paesi ricchi. Insussistenza dei reciproci timori; e spinta verso l’alto in virtù della vicendevole concorrenza.

 

Una volta che ci si sia ben messi in mente che i beni ed i servigi si scambiano esclusivamente con beni e servigi, verrà meno la preoccupazione che, a sentir parlare di federalismo europeo, è messa innanzi da parti opposte; dai danesi, i quali pagando ai loro casari alti salari per la confezione del burro e del formaggio venduto in Inghilterra, temono la concorrenza del burro e del formaggio della Lombardia, dove i salari monetari sono uguali alla metà di quelli correnti in Danimarca, o, peggio, dei prodotti degli Abruzzi e delle Calabrie dove forse non arrivano alla quarta parte; e nel tempo stesso dai lombardi e dagli abruzzesi i quali temono, quando tutto il mercato europeo fosse unificato, di non potere resistere alla concorrenza, nonostante i bassi salari da essi pagati, dell’industria casearia danese, fornita di impianti, di meccanismi, di frigoriferi tanto più perfezionati e di mezzi di comunicazione tanto più rapidi.

 

 

Intanto si rifletta che formaggi lombardi e caciocavalli abruzzesi coesistono in Italia; e sinora non si sono distrutti a vicenda, nonostante i bassi salari, la primitività dei mezzi produttivi e le abitudini randagie di transumanza degli abruzzesi, ed i più alti salari, la sedentarietà nelle stalle e gli impianti più perfezionati dei lombardi. Se gli abruzzesi sono più sobri ed i lombardi più esigenti, c’è però una punto di incontro nel prezzo dei prodotti rispettivi, i quali, a parità di bontà e di altre qualità di sapore e di profumo variamente apprezzate dai diversi consumatori, debbono avere un prezzo identico sullo stesso mercato e nello stesso momento. Se a parità di prezzo di vendita del prodotto, il casaro lombardo riceve venti lire al giorno di salario ed il pastore abruzzese solo dieci lire, ciò vuol dire che si è formato un equilibrio per cui le due industrie possono coesistere nonostante la diversità dei salari. Dobbiamo anche qui rovesciare la proposizione solita: non già i salari determinano il prezzo, ma il prezzo determina i salari. Sul mercato italiano unificato, con molti attriti e molte deviazioni dovute alle peculiarità dei formaggi prodotti, dei gusti delle diverse regioni, dei costi dei trasporti, si forma dall’incontro delle quantità offerte e domandate di formaggio un prezzo dello stracchino lombardo e del caciocavallo abruzzese. Da quel prezzo dipende il ricavo dell’impresa casearia nelle due regioni. Se il salario è di 20 lire al giorno in Lombardia e di 10 lire ai giorno negli Abruzzi, ciò vuol dire che l’impresa casearia è organizzata in tal maniera nelle due regioni, la qualità e la produttività dei prati e dei pascoli è tale, le razze del bestiame lattifero e la offerta e la domanda di mano d’opera sono rispettivamente siffatte che dal ricavo della impresa l’imprenditore è messo in grado ed è costretto dalla concorrenza degli altri imprenditori a pagare venti lire al casaro lombardo e solo dieci lire al pastore abruzzese. Col tempo, tutte queste condizioni potranno mutare; anzi sono già mutate. La transumanza, ossia l’emigrazione delle pecore dalle montagne abruzzesi alle piane della campagna romana durante l’inverno ed il ritorno alla montagna nell’estate, si è attenuata col progredire dell’agricoltura stabile nella campagna romana. Oggi, maggior copia di latticini si produce in loco nelle grandi imprese della campagna, con mezzi tecnici perfezionati ed a cosidetto alto costo, ossia pagando alti salari non dissimili da quelli usati in Lombardia; ma l’alto costo è la conseguenza, non la causa, dell’alto prezzo a cui i nuovi latticini di qualità si vendono sulla piazza di Roma. Si sono trasformati i prodotti; e per trasformarli si è dovuto organizzare l’industria su basi tecniche moderne. Il pastore abruzzese il quale si contentava di dieci lire al giorno, perché la sua produttività era quella che era e correlativamente le sue esigenze di cibo, vestito e casa erano quelle che erano, si è trasformato in operaio specializzato, di cui il numero, la produttività, le esigenze sono diverse, ed a queste differenti condizioni del mercato del lavoro corrispondono salari di venti lire al giorno; e questi salari maggiori, possono essere pagati perché il latte è venduto in condizioni ed a prezzi diversi da quelli propri del caciocavallo abruzzese. Se la trasformazione tecnica ed economica della industria continuerà, accadrà probabilmente che non si sentirà più parlare di pastori abruzzesi pagati a dieci lire al giorno, di transumanza delle pecore e siffatte tradizioni antiche. Ma il latte pastorizzato ad alto prezzo non avrà ucciso il caciocavallo pecorino; né gli alti salari avranno eliminati i bassi salari o viceversa. Nessuno sarà morto; ma si sarà, anzi si è già operata una trasformazione nel tipo dell’industria casearia per la quale, col progredire della tecnica produttiva, quei lavoratori, i quali prima dovevano contentarsi di partecipare al magro banchetto di una industria a bassa produttività per unità di lavoro impiegata, oggi ed in avvenire potranno partecipare al prodotto crescente di una industria progredita. Che se l’industria danese è già oggi ad un livello più alto di produttività di quella lombarda ed i suoi casari possono perciò godere di salari, ad esempio, di 40 lire al giorno, né essi avranno a temere della concorrenza dei produttori lombardi od abruzzesi, né questi di quella dei danesi. Costoro pagano salari alti perché hanno saputo organizzare tecnicamente la produzione del latte in maniera più complessa, specializzandosi nella produzione del burro per il mercato inglese; epperciò rinunciando da un lato alla elaborazione del latte nelle singole aziende rurali e dall’altro all’alimentazione del bestiame lattifero col solo o col prevalente prodotto del podere.

 

 

L’industria si è specializzata e diversificata. Importatori e produttori di mangimi specialmente destinati alle vacche da latte forniscono agli agricoltori una quota notevole degli alimenti necessari alla stalla; sicché quelli prodotti dal podere diventano quasi parte secondaria o subiscono essi stessi una trasformazione preventiva, aiutata da sostanze importate dal di fuori ed utili a conservare sapidità e freschezza. Né l’agricoltore elabora il latte; il quale invece due volte al giorno è trasportato, grazie ad una particolare organizzazione cooperativa di trasporto, a latterie pure cooperative, dove, coi mezzi tecnici più moderni, dal latte si ottengono i diversi prodotti ai costi minimi; ed i residui sono restituiti alle fattorie medesime per l’alimentazione del bestiame, specie porcino, laddove il burro, controllato e stampigliato ed impaccato, è spedito in Inghilterra da imprese di trasporti marittimi, pure essi facenti parte della organizzazione cooperativa danese. I salari alti pagati ai contadini ed agli operai specializzati, i quali contribuiscono al prodotto ultimo non debbono essere considerati come un costo dell’impresa, ma invece come il frutto della organizzazione diversa e più produttiva che in quel paese si è saputo instaurare. Il basso salario del pastore abruzzese non può fare concorrenza all’alto salario del casaro danese; perché a raggiungere l’intento della concorrenza, quel salario, rimasto invariato, dovrebbe incastrarsi in una organizzazione simile a quella danese; ma in tal caso il casaro abruzzese non sarebbe più tale e, diventato operaio specializzato pretenderebbe ed otterrebbe, data la sua diversa e maggiore produttività salari uguali a quelli danesi. Né i salari alti della Danimarca fanno concorrenza a quelli più bassi abruzzesi; perché ad ottenere l’effetto di porre eventualmente lo stesso prodotto (burro) sul medesimo mercato (inglese) a prezzo minore di quello possibile per l’industria casearia abruzzese fu d’uopo che quella danese si attrezzasse in modo compiutamente diversa; sicché il prezzo eventualmente più basso del burro e il risultato non dei soli alti salari, ma della divisione del lavoro fra importatori e produttori di mangimi specializzati, agricoltori produttori di latte, cooperative di ritiro del latte nelle fattorie, e di una trasformazione nelle latterie, imprese di trasporto per mare, imprese di distribuzione nei centri di consumo. Se l’industria danese volesse anche conquistare il mercato italiano, dovrebbe attrezzarsi all’uopo, sopportare costi di trasporto e di vendita probabilmente più alti. Alla lunga l’esempio delle imprese meglio organizzate reagisce su quelle antiquate; ma il processo non è rapido e lascia tempo agli adattamenti necessari per spingere in alto la produttività ed i salari dei luoghi più arretrati. Una Federazione economica europea, rendendo i mercati nazionali intercomunicanti tra di loro, accelera il processo, con vantaggio particolarmente dei paesi a bassi salari, obbligati dalla concorrenza a perfezionare i loro sistemi produttivi ed a mettersi in grado di rimunerare più largamente le diverse categorie dei propri collaboratori.

 

 

CAPITOLO V

FEDERALISMO E VALORI SPIRITUALI

 

Gli avversari del federalismo muovono un’accusa finale contro di esso. Partendo dalla premessa che i valori spirituali, che il fervore degli studi scientifici, che l’intensità della vita letteraria artistica musicale, che la cultura politica debbano avere come fondamento un grande rigoglio economico, affermano che in un’Europa federata scompariranno le culture nazionali od almeno queste inaridiranno, accentrandosi ogni movimento culturale nei luoghi dove sarà concentrato il movimento economico.

 

 

Innanzitutto, osserviamo nuovamente che Federazione europea è sinonimo di divisione del lavoro e non di accentramento economico. Può darsi che talune industrie, come quella siderurgica, si concentrino nei luoghi più vicini alle miniere di ferro ed alle miniere di carbone. Ma i luoghi così designati dalla natura non sono uno solo e non si trovano in un solo paese. D’altro canto, località sprovviste di carbone e di ferro, come il litorale ligure, possono essere accessibili alle materie prime per la facilità dei trasporti marittimi e, perciò solo, essere in grado di produrre a buon mercato. Lo sviluppo delle industrie di macchinario elettrico e dell’orologeria in Svizzera dimostra che quel che conta per la attitudine a progredire economicamente è sovratutto la capacità degli uomini ed organizzare le imprese al punto di vista della perfezione tecnica ed a quello vendita.

 

 

Nella storia, gli esempi più illustri di prosperità economica, non sono legati ad una specializzazione imposta dai luoghi, ma alla capacità di saper lavorare bene in luoghi talvolta sprovvisti dalla natura di fertilità naturale, di abbondanza di miniere, di retroterra ampio: Venezia, Genova, Firenze, le città olandesi sorte in mezzo alle acque, le città anseatiche, Trieste e Londra. Il fatto veramente importante della prosperità economica è l’uomo. In un’Europa unificata, la attività economica, sarà il frutto della capacità degli uomini a sapere sfruttare le meravigliose occasioni offerte da un mercato amplissimo, nel quale la domanda prenderà aspetti tanto ricchi e varii da stimolare al massimo l’ingegno degli eletti chiamati a dirigere imprese. Nulla ci dice che la percentuale degli organizzatori economici sia minore in un paese che in un altro; e che la emulazione di essi debba assumere l’aspetto di una corsa di tutti verso pochi luoghi che nessuna Provvidenza ha designato al privilegio del monopolio economico.

 

 

La esperienza dei paesi federati esistenti non ci fornisce alcun indizio di un siffatto concentramento: né nella Svizzera l’industria si è concentrata nel cantone dove risiede la città capitale; ma fatta ragionevole parte alle occasioni diverse presentate dalle montagne, dai fiumi e dai laghi, si può dire che lo sviluppo sia in diversa maniera equamente distribuito su tutto il territorio della Confederazione. Negli Stati Uniti d’America, la vita economica non è concentrata nella Empire city di New York; ma la Nuova Inghilterra, gli stati della costa atlantica, le città centrali dei grandi laghi, i centri carboniferi come Pittsburgh, le città della costa del Pacifico ed ora anche le regioni delle montagne rocciose (Far West) e quelle della costa del golfo del Messico partecipano vivamente allo sviluppo economico. Dovunque esiste la possibilità di un profitto, ivi accorrono i capitali; e poiché le possibilità di profitti sono date dalla terra, dal clima, dalle miniere, dalle acque, soltanto i nudi deserti o le alte montagne sfuggono alla legge della progressiva utilizzazione; ed anzi anche i deserti e le montagne, col diffondersi della ricchezza e delle possibilità di ozio risanatore, offrono lo strumento all’esercizio di una delle industrie, quella turistica, destinata col tempo ad assumere uno sviluppo sempre più grandioso. La guerra, e non la pace, favorisce concentramenti artificiali ed i monopoli. La Federazione, garantendo la pace, dà modo ad ogni regione o meglio ai suoi abitanti di far valere al massimo le proprie attitudini.

 

 

Non vi è traccia, nelle federazioni esistenti, di alcuna tendenza a concentrare la vita intellettuale e spirituale in alcune poche località disertando le altre. L’esempio della Svizzera insegna di nuovo. Sebbene la costituzione del 1874 lo consenta, la Confederazione non ha fondato, accanto al Politecnico di Zurigo, nessuna Università federale; e non vi è alcuna probabilità lo faccia, dinnanzi alla gelosa cura con la quale i Cantoni difendono e fomentano le proprie università, dalla più antica dalla vita semimillenaria di Basilea, attraverso quelle di Ginevra, Losanna, Berna, Zurigo, Neuchâtel, all’ultima di Friburgo. Gareggiano fra di loro i centri culturali ed editoriali di Ginevra, di Zurigo, di Basilea, di Losanna; e neppur centri minori, come quello del Canton Ticino, difettano di una simpatica attività letteraria ed artistica. Non vi è una città la quale imponga alle altre i proprii giornali; e diarii pubblicati a Ginevra, a Losanna, a Zurigo ed a Basilea hanno sempre avuto fama ed autorità internazionali, nonostante il limitato numero di lettori ai quali si indirizzano.

 

 

Negli Stati Uniti si osserva il medesimo fenomeno. New York non è il centro della vita culturale americana. Ai giornali ed agli editori di New York fanno concorrenza, spesso vittoriosa, giornali ed editori di Washington, Filadelfia, Boston, Chicago e San Francisco. Talune delle riviste settimanali di maggior diffusione, come la Saturday Evening Post e Life non vedono la luce nella capitale commerciale del nuovo mondo. Università di gran fama sorsero fuori di New York: a Cambridge Mass (Harvard) a New Haven (Yale), a Princeton (Princeton Un.), od in città solo in seguito diventate gigantesche, come la Chicago University. La università di California non sorse a S. Francisco, ma in una piccola cittadina del golfo; e la Stanford University fu eretta in rasa campagna. I singoli stati e gli uomini del luogo hanno l’orgoglio di fondare e far prosperare una università propria in concorrenza con quelle degli stati e delle altre città.

 

 

Il che non accade per accidente. Federazione invero è il contrario di assoggettamento dei varii stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, come la Francia (Parigi), la Germania (Berlino), la Spagna (Madrid), dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto al basso. Ma Federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici: difesa nazionale, moneta e comunicazioni. La funzione di difesa e di offesa contro il nemico richiede il massimo di concentrazione di comando in un solo luogo e di ubbidienza delle varie parti dell’organismo nazionale. Sono le funzioni economiche del governo della moneta, delle poste, telegrafi e telefoni, delle ferrovie, della navigazione aerea e simili che richiedono unicità di direttive. Liberiamo gli stati da questi compiti accentratori, affidandoli a corpi tecnici federali, quanto più è possibile privi di splendore esteriore; facciamo sì che siano adempiuti da tecnici militari ed economici; e noi avremo non scemata ma accresciuta l’importanza morale e spirituale dei singoli stati, ai quali continuerà a spettare il governo delle cose che sono veramente importanti per gli uomini: la giustizia, la sicurezza, l’educazione, i rapporti di famiglia, la tutela dei deboli, le assicurazioni sociali, la lotta contro la indigenza, le bonifiche, i rimboschimenti. La Federazione ha bensì un fondamento economico. Essa è il risultato necessario delle moderne condizioni di vita le quali hanno unificato il mondo al punto di vista economico, trasformandolo in un unico mercato. Spiritualmente, essa mira però alla meta opposta; che è quella di liberare l’uomo dalla necessità di difendere a mano armata il proprio piccolo territorio contro i pericoli di aggressioni nemiche ed a lui, così liberato, consente di aspirare a prendere parte, utilizzando al massimo le risorse del proprio piccolo territorio, alla vita universale. Liberazione dalla materia e non asservimento ad essa: questa è la ragion d’essere della Federazione; epperciò anche è sua ragion d’essere non la mortificazione ma la esaltazione dello spirito.

 

 



[1] Seguito a scrivere autarcia e non autarchia; perché, come ha dimostrato, primo in Italia, il Brondi in una vecchia nota presentata all’Accademia delle scienze di Torino, lo scrivere autarchia è uno sproposito, quella parola riferendosi esclusivamente alla sovranità politica, laddove la parola greca la quale significa autosufficienza economica è precisamente autarcia.

Governo parlamentare e presidenziale

Governo parlamentare e presidenziale

«La nuova Europa», 31 dicembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 85-92

Riflessioni di un liberale sulla democrazia (1943-1947), Olschki, Firenze, 2001, pp. 90-95

 

 

 

 

In un articolo, nel quale ho letto un riferimento assai benevolo al mio ritorno in Italia, “il politico” definisce «pura astrazione» un quadro da me delineato sul Risorgimento liberale del tipo di governo con un primo ministro. Che questi, una volta designato, scelga i suoi colleghi in guisa che rappresentino le forze parlamentari da cui è stato designato, ma con scelta insindacabile e che il gabinetto così costituito debba governare come un tutto unitario, cessando i singoli ministri di rappresentare i partiti, da cui trassero origine, pare al “politico” «un punto di arrivo ideale» piuttostoché «una situazione concreta in continuo svolgimento, attraverso la quale è necessario tendere a quel punto». Ed “il politico” aggiunge che qui si scambia il governo parlamentare (tipo inglese) con quello presidenziale (tipo americano, o svizzero, quest’ultimo però, fatto capitale, collegiale).

 

 

Vorrei, senza fare alcun riferimento alla situazione politica attuale italiana, offrire qualche chiarimento intorno ai due tipi di governo, quello parlamentare e quello presidenziale, che la “dottrina” classica considera come assai diversi l’uno dall’altro e quasi contrapposti. Ma la “dottrina” è stata fabbricata dai cultori del diritto pubblico, i quali argomentano dal testo delle costituzioni scritte e si accorgono delle consuetudini solo quando esse sono codificate in trattati venerandi per l’autorità degli scrittori.

 

 

Sarebbe parlamentare quel governo, il quale deriva sostanzialmente la sua origine, costituzione autorità dalla camera elettiva, nasce in virtù di un voto di fiducia e muore in conseguenza di un voto di sfiducia della stessa camera; e questo sarebbe il tipo dominante nella Gran Bretagna e nei Dominions e quello che correva o tendeva ad affermarsi nei paesi scandinavi, nell’Olanda, nel Belgio, nella Francia e nell’Italia di prima il 1922. Sarebbe presidenziale quel governo, il quale trae la sua autorità dal voto diretto degli elettori. Questi (Stati Uniti) scelgono il presidente ed il presidente a sua volta sceglie i membri del gabinetto, responsabili solo verso di lui e non verso le due camere del congresso, del quale non sono mai parte ed al quale non possono neppure presentarsi. Le due camere discutono, in assenza dei ministri, le proposte di legge presentate dal presidente, e modificate o sostituite dalle commissioni delle due camere ed, a parità, i disegni di legge offerti dai singoli rappresentanti o senatori.

 

 

Il legame fra il potere esecutivo (presidente) e quello legislativo (congresso) si crea attraverso ad “amici” ufficiosi del presidente, membri di una delle due camere e sostenitori in esse delle idee e delle proposte dell’”amministrazione”. Il sistema funziona, nonostante attriti non piccoli, in virtù di quella mirabile capacità di adattamento alle istituzioni esistenti, che è propria degli anglosassoni. Recentemente, il signor Cordell Hull ha iniziato una mutazione di fatto nei rapporti fra “amministrazione” e “congresso” per mezzo di relazioni orali presentate ai senatori ed ai rappresentanti riuniti in sedute ufficiose (informal), e con rapporti quotidiani coi membri più influenti dei due corpi, intesi a tenerli al corrente dei propositi dell’amministrazione e ad eccitare i pareri di essi, innanzi che si traducano in realtà. Siamo ancora lontanissimi dal sistema dei voti di fiducia; ma si tende a creare un ponte tra i due poteri, cosicché il legislativo sia informato preventivamente delle intenzioni dell’esecutivo e diminuisca così il pericolo di un voto contrario al fatto compiuto, da parte del congresso e specialmente del senato, come quello che impedì la ratifica del trattato di Versailles.

 

 

Il caso svizzero è peculiare. Non tanto perché l’esecutivo (governo) è nominato dall’assemblea nazionale, ossia dai membri delle due camere invece che dal voto popolare, come accade per il presidente americano, e neppure perché non esiste un “presidente”, capo dello stato o capo del governo, ma solo un collegio di ministri, che è nel tempo stesso posto a capo dello stato e del governo ed è presieduto a turno da uno dei suoi componenti, fornito di poteri puramente cerimoniali; quanto perché la consuetudine ha profondamente innovato nella lettera la costituzione, la quale prevede la nomina quadriennale. Sia nei cantoni come nella confederazione, la consuetudine ha mutato di fatto la nomina dei membri del collegio governante da quadriennale (in genere temporaneo) in vitalizio. Non si può parlare di cariche a vita in senso stretto, ma di cariche le quali durano, come dice la terminologia anglosassone, during good behaviour, finché il ministro reputa di essere in grado di adempiere convenientemente al proprio ufficio. Vi furono consiglieri federali (ministri) i quali si dimisero o non accettarono la rielezione per ragioni di famiglia, di salute o di età o per mutate circostanze politiche (è il caso recentissimo del Pilet Golaz); sono rarissimi i casi di consiglieri non rieletti, quando essi allo scadere del quadriennio avessero nuovamente posto la loro candidatura. Una volta eletto a far parte del governo, il ministro rinuncia all’esercizio della professione liberale od alle cariche economiche lucrative prima coperte. Se dopo quattro od otto anni lo si mandasse a spasso gli si farebbe un torto grosso, che l’opinione pubblica guarderebbe di traverso. Come potrebbe egli riconquistare la clientela o riottenere la perduta carica? Il diritto di non rielezione rimane in vigore come valvola di sicurezza; ma di fatto non è esercitato se non rarissimamente. Ad agevolare le volontarie dimissioni per ragioni di età o di malattia, sono stati via via stabiliti termini relativamente brevi per l’acquisto del diritto a pensione; e ad accentuare la stabilità sono adottate in un numero sempre maggiore di cantoni norme di divieto di esercizio di professioni private per i consiglieri di stato in carica.

 

 

Se il “vitaliziato” sia un istituto il quale possa applicarsi nei nostri paesi non so; ma par lecito affermare che esso è uno dei fattori, e non il minore, di quella buona amministrazione per cui la Svizzera può essere additata ad esempio agli altri paesi del mondo. Forse non è favorevole ai voli dei “grandi” uomini o degli uomini “di genio”; ma è dubitabile se al buon governo dei popoli giovino più gli uomini “grandi”, ovvero quelli semplicemente “savi”.

 

 

Più complicata è la trasformazione del tipo di governo parlamentare via via avvenuta nei paesi riuniti dal simbolo della corona britannica. La teoria dice che gli elettori eleggono i membri della camera dei comuni e che questa è la vera sovrana: fa e disfà i ministeri, fa leggi, può fare qualunque legge, anche la più innovatrice, eccetto, dice la dottrina, quella di cambiare gli uomini in donne e viceversa. La realtà d’oggi – frutto di un’evoluzione storica la quale non data né dalla seconda né dalla prima grande guerra, ma ha origini assai più lontane – è tutta diversa. La camera dei comuni non fa né disfà i ministeri, non vota mai leggi le quali abbiano origini nella camera medesima e vota quasi sempre e soltanto i disegni di legge che le sono messi innanzi dal governo. Essa ha ancora un compito importantissimo: che è quello di interrogazione e di critica dell’operato del governo. Colle interrogazioni, i deputati obbligano il governo a render conto delle proprie azioni, colle critiche essi riescono a variare in meglio od in peggio i disegni di legge. Talvolta, la camera vota contro taluna singola proposta del gabinetto; ma i voti contrari non fanno crisi, come la buonanima di Depretis legiferò laconicamente tant’anni fa a proposito di un voto a lui contrario del senato italiano: «il senato non fa crisi». La camera dei comuni registra, accetta le crisi che sono imposte al gabinetto, all’infuori dell’aula, da quella forza indefinibile che si chiama l’opinione pubblica. Nei grandi momenti storici, quando l’opinione pubblica diventa agitatissima, anche la camera dei comuni si commuove, ma la commozione non giunge al voto contrario.

 

 

Essa è legata, come i vassalli al signore feudale, da una specie di giuramento di fedeltà. Come il vassallo era leale e fedele verso il signore, così il membro della maggioranza è leale e fedele verso il primo ministro, e quello della minoranza verso il capo o leader dell’opposizione. Si può votar contro nelle faccende tecniche, di minor conto. Chi votasse contro nelle cose di gran momento, senza prima sciogliersi solennemente, con una lettera scritta, datata e sottoscritta, dal vincolo di fedeltà verso il capo, sarebbe squalificato per sempre. Si resta persone onorevoli e si può aspirare in avvenire ad una carica di governo, solo quando si sia chiesto lo scioglimento dall’obbligo di fedeltà. Solo così si soddisfa al dovere della loyalty, della leale osservanza del dovere di fedeltà al capo.

 

 

Non si tratta qui di reminiscenze feudali; ma di istituti nuovi, imposti dalla complicazione della vita moderna. Quando lo stato adempieva a pochi e ben definiti uffici, e gli impiegati erano in scarso numero, ci si poteva prendere il lusso di cambiare ministri e ministeri, di lasciar proporre e fare le leggi ai singoli deputati. Ma da quando la macchina amministrativa e quella legislativa si sono complicate ed ingrossate a dismisura, si è dovuto riconoscere che la macchina si sarebbe incantata e non avrebbe più lavorato, se non ci fosse stato un capo che vi mettesse ordine. Ordine rigoroso nel calendario, anzi nell’orario della camera dei comuni; tante ore ed anzi tanti minuti alle interrogazioni; tanti giorni ed ore alla discussione dei disegni di legge; tali giorni, ben misurati, alle questioni di politica interna ed internazionale od ai problemi della guerra. Ordine nella distribuzione del lavoro amministrativo fra i membri del governo. Occorre un capo per tenere a segno gli ottanta e talvolta più membri del ministero, fra ministri, sottosegretari, commissari, segretari parlamentari, segretari privati, tratti dalle due camere, e guidare la decina o quindicina di membri del gabinetto propriamente detto ed i cinque o sei membri del gabinetto di guerra.

 

 

Epperciò è sorta ed è ingigantita la figura del primo ministro. Trent’anni fa, in nessun testo di legge era menzionato il primo ministro. Era già allora il primo personaggio del regno; ma, quando i comuni si recavano alla sbarra della camera dei signori a sentir leggere il discorso della corona, il primo ministro era un commoner qualunque, mescolato alla folla degli M.P. (members of parliament). Oggi, le elezioni si fanno nel suo nome ed in quello del capo della o delle opposizioni. Gli eletti della maggioranza debbono fedeltà a lui, perché sono stati da lui presentati agli elettori; e nello stesso modo gli eletti della minoranza debbono fedeltà al loro capo, perché si presentarono agli elettori sotto la sua egida. Il capo della maggioranza è anche il primo ministro; ed il capo della minoranza è il futuro primo ministro, è colui che ha l’ufficio di dimostrare che le proposte del governo sono disadatte, monche od addirittura cattive. Anche questo è un ufficio pubblico. Come il primo ministro forma il ministero in carica, così il capo dell’opposizione ha dietro di sé un’ombra di ministero (shadow cabinet); ed ambi i ministeri, quello in carica e l’altro che gli si oppone, stanno l’uno di fronte all’altro seduti in prima fila, nella camera dei comuni. Dietro, e parecchi di essi in piedi, sta la folla dei deputati, i back benchers. I primi riescono facilmente a parlare; i secondi stentano assai a farsi innanzi; e si dichiarano fortunati se riescono a colpire l’occhio dello speaker (presidente della camera) e ad ottener licenza di parlare. Il capo dell’opposizione è un personaggio ufficiale; è remunerato con uno stipendio ed ha stanze apposite, con qualche impiegato, affinché egli possa sostenere il carico senza troppo disagio.

 

 

Come immaginare che, in ambiente siffatto, la camera dei comuni possa originare essa una crisi politica? La crisi nasce fuori della camera; quando il primo ministro segue una politica la quale ha condotto all’insuccesso o non e più conforme all’opinione pubblica, manifestata nei giornali, nei comizi, nelle adunanze dei partiti e dei gruppi politici. Neppure allora la maggioranza abbandona il suo capo. Questi riceve qualche lettera di fedeli, i quali dichiarano di non poter più far parte del partito di maggioranza. Ma sono poche ed i più, mormorando, restano ligi alla bandiera. Spetta al capo sentir la voce del tempo e dimettersi, affinché il re, capo dello stato, possa scegliere nella maggioranza un altro primo ministro. Per lo più, il primo ministro prega il re, – nei Dominions il viceré o governatore suo rappresentante – di usare della prerogativa di indire nuove elezioni, affinché gli elettori, interrogati, decidano chi, tra il primo ministro in carica ed il capo dell’opposizione, debba assumere il potere. La decisione spetta in realtà non a tutti gli elettori, ma ai soli indecisi, agli incerti, i quali col loro spostamento fanno inclinare il grosso del numero da una parte o dall’altra. Gli elettori conservatori o laburisti o liberali, che siano ben fermi nelle loro convinzioni, contano poco nell’agone elettorale. Il loro voto si sa a priori quale è; ed e sempre voto di minoranze relativamente piccole. Decisivo è il voto di coloro, i quali stanno a vedere e si voltano verso l’una o l’altra parte, a seconda del successo ottenuto, o dell’insuccesso subito dal governo e dell’attrattiva esercitata dal programma del capo dell’opposizione.

 

 

Il quadro che ho tracciato del governo parlamentare è testimonianza di una profonda trasformazione avvenuta in esso. Come negli Stati Uniti, la figura ed i poteri del presidente sono dominanti; così sono passati al primissimo luogo nella Gran Bretagna, nell’Australia, nella Nuova Zelanda, e nell’Unione Sud Africana, nel Canada e nell’Irlanda la figura ed i poteri del primo ministro. Le camere elettive hanno pur sempre compiti di grandissimo momento, ché la discussione dei progetti di legge e la critica degli atti di governo acquistano ognor più importanza nelle nostre complicate società moderne. Tutto fa credere tuttavia che di fatto, se non nella dottrina, sempre tarda a teorizzare la realtà, si assista nel mondo contemporaneo ad un avvicinamento sempre maggiore fra i due tipi di governo, presidenziale e parlamentare. Sopravviverà forse questa sola distinzione: che il tipo presidenziale americano è rigidamente codificato nella legge scritta; mentre il tipo del primo ministro all’inglese è più sciolto, perché regolato dalla sola consuetudine. Se il primo tipo non diede luogo a rotture violente, ciò si deve non alla rigidità del sistema, ma al senso di rispetto alla legge proprio di quei cittadini ed ai poteri di interpretazione del valore della legge, arrogatisi dalla corte suprema ed oramai non contraddetti da alcuno. Se la scioltezza della consuetudine inglese non degenerò in licenza, ciò è dovuto forse alla sana imperturbabilità del medio uomo britannico, il quale, posto dinanzi ad una novità, comincia a dire: è assurdo, e poi sentenzia: non è scritto nella Bibbia; e finalmente, se la novità s’impone con l’evidenza del bene, conclude: l’ho sempre detto!

Tutti facciamo piani

Tutti facciamo piani

«Il risorgimento liberale», 19 dicembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 321-326

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires, 1965, pp. 129-134[1]

Il governo dell’industria in Italia, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 80-82

 

 

 

 

Forse non è inopportuno ridurre al loro reale significato talune parole, le quali hanno finito per assumere un valore mitico, quasi misterioso. Fra di esse hanno avuto luogo notabile negli ultimi tempi quelle di “piani”, “pianificazione”, piani “quinquennali”, “decennali”, “settennali” e simili. C’è attorno ai piani, un alone mitico, e par quasi che basti fare un piano perché qualcosa di buono o nuovo o rivoluzionario abbia ad uscirne fuori. Un’idea sembra non acquisti dignità politica od economica se non è tradotta in un piano. Antiche istituzioni, radicate nei secoli e via via integrate e cresciute attorno al tronco tradizionale, commossero l’opinione pubblica britannica solo quando la loro codificazione, snellimento e perfezionamento presero il nome di “piano Beveridge”, e quel piano divenne segnacolo in vessillo di programmi anche in paesi, come l’Italia o la Francia o la Germania o la Svizzera, dove una parte e spesso una gran parte degli istituti contenuti nel “piano Beveridge” esisteva e operava da tempo e tutti ne avrebbero potuto studiare i risultati talora ottimi e talvolta mediocri o perfino dannosi.

 

 

Tant’è: il “piano” è divenuto un “mito” e, come tale, corre il mondo, suscitando entusiasmi e timori, sicché è divenuto persino difficile dichiarare in parole semplici quel che un “piano” sia. Per sormontare la difficoltà creata dal mito, ricordiamo che ognuno di noi, nessuno escluso, fa continuamente piani e ogni giorno li rinnova e muta ed adatta alle circostanze. La massaia, la quale al mattino riflette intorno al modo di risolvere il tormentoso problema di alimentare i suoi cari, fa nella sua mente un piano: ricapitola le esigenze passate; fa passare in rassegna le botteghe e le vie nelle quali la ressa è minore, dove i padroni o le commesse la conoscono e le usano qualche gentilezza, e dispone, e cioè “pianifica”, la successione delle sue corse allo scopo di renderle più efficaci che le sia possibile. Confronta, partendo sempre dall’esperienza passata, i prezzi con i desideri, fa e rifà i conti e si sforza di ottenere quella distribuzione delle lire possedute che meglio soddisfi alle esigenze famigliari.

 

 

Ciascuno di noi nell’esercizio del proprio mestiere è costretto a far piani. Da quasi mezzo secolo esercito il mestiere dell’agricoltore; e, naturalmente, ho commesso in principio un mucchio di spropositi, ed, altrettanto naturalmente, dalle esperienze fallite, ossia dai piani sbagliati, è venuta fuori la possibilità di far piani tollerabilmente corretti. Ad esempio, dovendo costruire una casa rustica, allo scopo di frazionare il fondo di 18 ettari in due fondi più piccoli, ho, vista l’esperienza dei vicini, fatto il contrario di quel che, in quei luoghi, tutti fanno. Il “piano” del contadino delle mie colline piemontesi, quando si tratta di sdoppiare tra due fratelli un podere, è quello di stare appiccicati il più possibile gli uni agli altri. Pur di fare economia: un pozzo solo, un abbeveratoio solo, un’aia comune; muri divisori ai quali ci si può appoggiare. Il “piano” dei periodi “brevi”, direbbero gli economisti. Ma il piano a breve scadenza, se risparmia subito qualcosa nella spesa in conto capitale aumenta notevolmente le spese di esercizio, con la creazione di servitù di passaggio, di vista, con il fomento dei litigi tra donne per le pecore, le galline, le uova, che non si sa di chi siano, per l’acqua del pozzo insufficiente, ecc. ecc.

 

 

Perciò il “piano” del periodo “lungo” conduce alla conseguenza della costruzione isolata, nel centro tecnico economico più adatto dell’appezzamento che si vuole separare dal podere od erigere in podere separato. Dove si costruirà la casa? Quale la via di accesso migliore alla strada pubblica, indipendente da quella che conduce alla casa originaria? Quale il numero e l’ampiezza delle camere di abitazione del mezzadro; quali le dimensioni della stalla, del fienile, degli accessori? Dove ci costruirà il pozzo? Come sarà orientata la casa, in relazione al sole, alla protezione contro i venti ed alle comodità di aia e di accesso? Tutti questi problemi richiedono soluzioni diverse a seconda dell’estensione del podere; della connessa composizione della famiglia colonica e del numero dei capi di bestiame i quali possono essere allevati nel podere. Anche questo piano può essere concepito in ordine al tempo breve od al tempo lungo. Se si bada alla produzione presente od a quella presumibilmente prossima, le dimensioni, ad esempio, della stalla, dei portici per i carri e gli attrezzi agricoli e dei fienili sono tali e tali; né conviene abbondare nei margini per non gravare troppo nel costo capitale. Ma l’improbabile di oggi può diventare la realtà del domani, epperciò anche nel piano minimo di una casa colonica occorre far si che l’ampliamento sia possibile, senza che faccia d’uopo di guastare nulla del già fatto, per semplice adesione, che non turbi la logica del fabbricato e la sua attitudine a soddisfare alle esigenze della famiglia colonica e della coltivazione del podere.

 

 

Quelli dei quali ho discorso sono “piani” individuali, famigliari, propri delle economie singole di consumo o delle minime imprese produttive. Di qui si sale via via ai piani della costruzione e dell’esercizio di un negozio, di uno stabilimento industriale, di una impresa di esercizi pubblici (tram, gas, luce elettrica); e più su ai piani di coordinamento di più imprese appartenenti ad una medesima industria, di complessi di imprese estese ad industrie diverse, di esercizio di reti ferroviarie nazionali, di porti connessi con ferrovie e linee di navigazione. Più su ancora, i piani possono estendersi al complesso delle imprese agricole, commerciali, industriali di un paese, e, andando ancora innanzi, al coordinamento di imprese appartenenti a stati diversi.

 

 

In sostanza, il “piano” non è altro che un insieme di atti o di propositi con i quali si studiano e si precisano i mezzi più congrui per raggiungere un dato fine. Il fine che si vuol conseguire può essere piccolo o grande, può essere presente o posto nel futuro vicino od in quello lontano. Il piano di una massaia concerne un fine immediato, quello della costruzione di una casa di abitazione ha un fine posto nel futuro prossimo; laddove un piano di bonifica integrale (prosciugamento di paludi sistemazione di torrenti o fiumi, imbrigliamento di terreni franosi e rimboschimenti) riguarda un futuro non prossimo ed anzi per lo più lontano. Vi sono piani per un giorno, un anno, cinque anni e vi sono piani secolari. I singoli, di solito, attendono ai piani brevi; gli enti pubblici a quelli lunghi, ed ambedue i tipi di piano sono necessari.

 

 

La distinzione fondamentale tra i piani è quella di buoni e cattivi, ossia fra quelli in cui i mezzi adeguati sono adatti e quelli in cui sono disadatti al fine che si vuol conseguire. Valente è il tecnico il quale fa piani buoni, anche e sopratutto dal punto di vista economico, e non pare che di tecnici valenti ci sia abbondanza. Né pare che i piani buoni coincidano con i presupposti ideologici che stanno a fondamento delle varie dottrine politiche e sociali. Non è dimostrato che sia necessariamente buono il piano comunista o quello liberale o quello corporativo.

 

 

La sola verità che si può ritenere certa in merito ai piani è questa: che cinque o dieci uomini, appartenenti a correnti differenti d’opinione, sono fatalmente portati a discutere a perdifiato senza giungere mai ad alcuna conclusione, se la discussione punta sul miglior sistema di piani da adottare in relazione ad un qualunque sistema ideologico socialistico, liberistico, comunistico, corporativistico. Ma gli stessi cinque o dieci uomini chiamati a discutere quale sia il miglior piano da adottare per un dato preciso fine, che sarà il ristabilimento della rete ferroviaria del mezzogiorno d’Italia, il rimboschimento di un dato gruppo di montagne dell’Appennino, la ricostruzione di una città distrutta o danneggiata dai bombardamenti, si mettono, si devono certamente mettere d’accordo. Nello stadio attuale della tecnica, nelle condizioni presenti della provvista dei mezzi economici, in quel dato luogo e tempo, esiste certamente la soluzione “ottima” di quel problema; ed è inverosimile che tra quei cinque o dieci uomini non vi sia chi la veda, e sottoposto al fuoco di fila delle osservazioni e delle critiche degli altri non la rimugini, la modifichi e la conduca a quella massima perfezione che è possibile in questa nostra valle di lagrime. Il perché del successo ottenuto nelle faccende sociali ed economiche dagli anglosassoni, il perché dell’alto tenor di vita toccato da essi, il massimo conosciuto tra i popoli civili, è anche oserei dire in notabile misura, dovuto alla loro repugnanza invincibile a porsi i problemi “ultimi” nel far piani, alla loro incapacità istintiva a porsi i grossi problemi giuridici e politici di principio ed alla loro inclinazione a spezzare i problemi grossi in problemi piccoli e ad affrontarli ad uno ad uno senza impacciarsi soverchiamente della euritmia e della logica, delle quali sono invece innamoratissimi i francesi. La logica verrà poi, necessariamente, da sé. Quando tutti i problemi singoli sono sul serio ben risoluti, secondo la loro logica intima, le parti vi incastrano bene l’una nell’altra e l’insieme opera con efficacia. Una visione d’insieme deve esistere, ma essa in fondo consiste nell’usare i mezzi congrui per raggiungere i singoli fini.

 

 

Sempre si fecero e sempre si faranno piani. Ma chi li fa? Qui il problema si sposta e si riduce ad una discussione sui limiti di due opposti metodi di compilare piani: l’uno che procede dal basso e l’altro che parte dall’alto; l’uno che nasce dal mercato libero e l’altro da una autorità di comando. Questa è la vera distinzione sostanziale fra i piani; non quelle che si attaccano a parole indefinibili, né la distinzione è fatta per scegliere tra l’uno e l’altro metodo, quasi essi si escludano a vicenda. Vi sono estesi campi nei quali sarebbe errore grave abbandonare il metodo dei piani, spontaneamente nati sul mercato nella concorrenza dei molti consumatori e dei molti produttori, e vi sono campi, probabilmente non meno estesi, nei quali sarebbe errore parimente grave non attenersi al metodo dei piani formati dall’autorità dall’alto.

 

 

Qui, nella ricerca della linea “ottima” di confine tra i due campi, fervono vivacissimi i contrasti. Non tuttavia per ragioni economiche sostanziali, sibbene per l’impeto delle passioni politiche e sociali.

 

 

Il metodo ed il contenuto dei piani pongono, si, problemi intricati e difficili, ma questi paiono e talvolta diventano insolubili solo perché gli uomini, più che a discutere, intendono a sopraffarsi ed a distruggersi l’un l’altro ed insieme a rovinare l’umanità medesima.



[1] Tradotto in spagnolo con il titolo Todos hacemos planes [ndr].

Prime impressioni

«Risorgimento liberale», 13 dicembre 1944

Giovani dalla parola infiammata, ardenti di passione patriottica e civile, desiderosi di bene, fiduciosi nel valore della propria parte politica; un uomo grande, venerato ed ammirato per l’altezza del pensiero, il quale rinuncia a continuare la pubblicazione della rivista a cui egli aveva dato valore universale, per diventare guida ed animatore di quei giovani: ecco le primissime impressioni di Roma. Di fronte a questo quadro romano di ardore e di fede, nel paese per quattordici mesi ospitalissimo, un’aula elettorale silenziosa, dove al banco alcuni uomini verificano tranquillamente le carte dell’elettore, e poi questi adempie al suo ufficio dietro una tenda che assicura il segreto. Nell’anticamera i rappresentanti dei partiti offrono taciti i programmi e le liste. Alla fine della giornata si fanno calcoli complicati per proclamare gli eletti; e l’indomani la vita politica continua ordinatamente. Nuovi uomini seguono ai vecchi, lentamente; le parti mutano nome e fini, non metodi. I radicali dominatori assoluti della Svizzera nel 1848 e poi ancora nel 1874, oggi conservano ancora tre posti di consigliere federale su sette; ma gli altri sono attribuiti ai conservatori cattolici e protestanti, al rappresentante dei contadini e a un socialista. Presto i socialisti diventeranno due; e, passata la guerra, ove acquistino nuovi proseliti, il partito comunista, che ora per stare nella legalità si chiama partito del lavoro, avrà il suo rappresentante nel consiglio federale.

Già ne ha uno, nel Consiglio di stato del cantone di Basilea città. I due quadri della lotta, dell’entusiasmo, della fede e del lavoro pertinace di preparazione da una parte e della gestione pacifica preceduta da discussioni cortesi dall’altra, non si contraddicono. Forse si suppongono.

Quaranta anni fa, l’ultimo dei tre Naville, che si succedettero nell’insegnamento filosofico di Ginevra, nel cortile del palazzo di città di quella piccola repubblica un tempo commossa da lotte civili acerbissime mi diceva: «qui, giovane, feci anch’io alle fucilate. Oggi, invece, discutiamo sui giornali e decidiamo con la scheda». E mi esaltava il valore delle alte imposte da lui pagate a cagione della politica sociale e dei servizi pubblici perfezionati dai padri coscritti ginevrini.

I contrasti appassionati odierni possono condurre al bene. Vedo che oggi si discute in Italia intorno alla fonte del potere politico. Qualunque siano le opinioni che ognuno di noi può avere intorno alla migliore organizzazione politica, se di monarchia ovvero repubblica, se di presidenza all’americana od alla francese, se di capo unico o di consiglio direttoriale, vi sono alcuni punti fondamentali che, se non sono osservati, non esiste un governo, un governo qualsiasi e lo stato non funziona.

La fonte del potere politico è una sola: la volontà del popolo liberamente manifestata, nel segreto dell’urna, per mezzo della scheda elettorale. Dove vi è intimidazione o paura, da qualunque parte provenga l’intimidazione e qualunque sia la causa della paura, ivi non hanno luogo elezioni, ma si celebra un rito funebre ad opera di minoranze audaci e decise al colpo che dovrà ad esse dare il potere assoluto.

Accanto al depositario della volontà popolare, vi deve essere colui che la interpreta. Re ereditario o presidente eletto, egli non ha il compito di governare, ma di accettare la designazione che gli elettori hanno implicitamente fatto di colui il quale dovrà costituire il governo. Talvolta la designazione è dubbia. Non lo è quasi mai in Inghilterra, dove la corona sa di «dovere» rivolgersi a Gladstone od a Disraeli, a Lloyd George od a Salisbury, a Mac Donald od a Baldwin, a Chamberlain od a Churchill. In caso di dubbio il Primo Ministro in carica prega il Sovrano od il Presidente di interpellare il popolo affinché, in nuove elezioni, meglio chiarisca la sua volontà.

Quando la volontà sia chiara, il primo ministro sceglie i suoi colleghi. Naturalmente, li sceglie in guisa che essi rappresentino le varie correnti della maggioranza, od, in caso di coalizioni, necessarie nelle ore gravi, sovratutto di guerra, le diverse opinioni esistenti in seno ai parlamenti. Ma la scelta è fatta a suo giudizio insindacabile, perché i ministri da lui scelti costituiscono un gabinetto che deve governare solidariamente ed unitamente. Nessun governo può esistere, se i singoli ministri non assumono l’impegno morale e lealmente vi tengono fede di lavorare in modo esclusivo alla attuazione di quei fini in cui sono caduti d’accordo. La constatazione più sicura che hanno potuto fare coloro i quali hanno dovuto per le note circostanze osservare la vita politica svizzera è questa: che i consigli federali ed i consigli di stato che là governano la confederazione ed i cantoni, sebbene composti di uomini di parti differenti, governano come un tutto. Non esiste la volontà del ministro delle finanze federale socialista, o di quello degli esteri radicale o dell’altro delle ferrovie cattolico, ma una volontà unica, formatasi discutendo attorno al tavolo ministeriale. Il consigliere federale (ministro) socialista cessa, non appena diventi membro del corpo supremo esecutivo della confederazione, di rappresentare la volontà del partito, per trasformarsi in esecutore della volontà unica del consiglio federale. Egli influirà ovviamente, in relazione alle sue attitudini intellettuali e politiche ed alla forza della parte sua politica, sulle decisioni del governo; ma queste sole hanno valore, non i deliberati delle parti, da cui i singoli ministri provengono. Qualunque mandato imperativo i parlamentari, od i comitati che provvisoriamente possono sostituirli, volessero dare o qualunque organo di controllo essi volessero istituire accanto al gabinetto, è atto solo a produrre anarchia ed a rendere impossibile ogni specie di governo. Se il gabinetto governa male, unica arma legale è il voto di sfiducia, che obbliga il capo dello stato a seguire la nuova designazione gli venga fatta dalla maggioranza parlamentare. Rimane fermo il punto capitale: che la volontà popolare, attraverso alle elezioni od a spontanee formazioni, designa l’uomo al quale il capo dello stato affida il compito di comporre un governo il quale riscuota la fiducia dei parlamenti (o dei comitati provvisoriamente sostituiti ai parlamenti). Ma il governo o gabinetto non può essere l’emanazione delle parti politiche singole od associate. Un governo diretto di parlamenti o di gruppi politici è sinonimo di tirannia.

Parlamenti e gruppi politici designano e giudicano; non possono né devono governare.

La via breve

«L’Italia e il secondo Risorgimento», 2 dicembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 75-85

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 79-87

Nel febbraio del 1921 il problema della finanza italiana era stato risoluto mercè l’abolizione del prezzo politico del pane, causa di un disavanzo di 500 milioni di lire al mese, il quale non poteva essere coperto né da imposte né da prestiti. Era chiusa così definitivamente la fonte da cui traeva origine la finanza dei biglietti, che minacciava di trarre al nulla il valore della lira. Stabilizzata di fatto questa intorno ad un livello, che finì di aggirarsi sulle 120-130 lire per ogni lira sterlina oro, era tolta la causa essenziale di insicurezza, di disordine mentale e morale, che impediva la ripresa.

Gli uomini politici, ubbidienti alla abitudine tradizionale del loro ceto di vedere ingigantiti i segni del passato e di non scorgere quelli dell’avvenire, seguitavano ad essere pessimisti. Nitti, uomo di prontissimo ingegno, ma facilmente soggetto alle impressioni del momento, nel marzo del 1922 faceva a Melfi lugubri pronostici sul pericolo della fame incombente nell’Italia, sull’eccedenza di un miliardo al mese in lire oro del consumo sulla produzione italiana, sui 31 miliardi di buoni del tesoro in circolazione, sulla caduta della Banca italiana di sconto. Qualche mese dopo, il buon Facta, dimentico di nutrir fiducia, malinconicamente esclamava: «Noi stiamo peggio della Francia, che ha ferro e carbone e basta a sé per il grano; peggio della Germania, che ha segale e carbone e lignite; peggio dell’Inghilterra, che ha carbone e cotone e domina colle sue flotte il mare libero». Invano, taluno ammoniva che nel 1921 il capo delle tempeste era stato sorpassato; che l’abolizione del prezzo politico del pane, deprecata od auspicata dai partiti detti di massa come segnacolo in vessillo della sollevazione degli operai, non aveva avuto alcuna eco, dimostrandosi col fatto avere il popolo maggior buon senso dei suoi capi, ed essere il popolo pronto a riconoscere l’assurdità di pagare una lira al chilogrammo quel pane che costava tre lire. Invano si ricordava che il grano, come in genere tutte le materie prime, al ritorno della pace doveva cessare di essere una merce rara per i consumatori affamati e doveva ridivenire un ingombro per i produttori. Invano, quello stesso taluno, memore di avere il 12 agosto 1919 scritto sul Corriere della Sera che il problema delle materie prime non era un problema economico, bensì un problema morale e che dinnanzi ad un popolo serio, lavoratore, tecnicamente capace, tutti i provveditori di materie prime si sarebbero messi in ginocchio; essi, “non noi”; constatava il 17 aprile 1922 che la sua facile profezia si era avverata e «che le materie prime erano oramai preoccupanti non per noi che le consumiamo, ma per i paesi produttori che non trovano a venderle».

L’andazzo era di far eco al pessimismo. Di fatto la marea insurrezionistica andava ritirandosi. L’occupazione delle fabbriche era finita ed erasi mutata in scioperi per adeguamento di salari alle mutate circostanze, in agitazioni e contrasti per ottenere il riconoscimento del diritto degli operai al controllo delle condizioni del lavoro nelle fabbriche ed alla cognizione dei redditi, cognizione preliminare ad una partecipazione alla gestione e al prodotto delle industrie. L’invasione delle terre si trasformava in un tentativo confuso di spezzamento del latifondo, ossia di posizione aperta di un problema, il quale deve essere affrontato con mezzi adeguati alla grandezza del fine da raggiungere. Quell’invasione diveniva il preludio della sostituzione avvenuta di poi di affittuari grossi e piccoli, di mezzadri e di contadini coltivatori diretti nella proprietà di un milione di ettari posseduti prima da gente disadatta a continuare nel possesso di una terra non amata.

Scioperi, serrate, agitazioni agrarie, richieste di controlli e di partecipazioni operaie erano sintomi di rigoglio, di vita fervida, che sarebbe stato d’uopo padroneggiare e guidare. I ceti politici, i quali erano stati capaci di condurre l’Italia alla vittoria, i quali avevano saputo organizzare le forze vive del paese per la resistenza contro l’invasore nemico, non furono pari all’impresa sociale. Sorpresi dalle conseguenze non della guerra, ma dei turbamenti sociali connessi indirettamente con la guerra (svalutazioni monetarie e conseguenti impoverimenti ed arricchimenti in parte reali ed in parte numerici o nominali) in un momento nel quale una profonda trasformazione si operava, per il suffragio universale, nel loro seno, irrigiditi nei rispettivi vangeli dall’introduzione del sistema proporzionalistico, il quale aggravava le difficoltà inevitabili del passaggio dal governo eletto da tre a quello eletto da dieci milioni di elettori, quei ceti, non più vecchi e non ancora nuovi, non furono capaci di costituire un governo. Vano è, oggi, pesare, col bilancino dell’orafo, le responsabilità delle parti contrastanti, e sentenziare se sia stata maggiore la colpa dei demagoghi vociatori, i quali come accadde ognora in passato, ed accadrà di nuovo domani, e sarà in avvenire, auspicavano rivoluzione, bagno di sangue, tagli di teste, conquista del potere e così terrorizzavano la grande maggioranza dei cittadini, ricchi, mediocri e poveri, la quale in Italia possiede la virtù massima politica che è il buon senso – sola corte sovrana, la quale, ammoniva Ferdinando Galiani, non faccia mai vacanza – e la spingevano a partiti estremi di resistenza; ovvero quella dell’on. Giolitti quando scetticamente volle che gli operai si rompessero le corna coll’esperimento della occupazione delle fabbriche ed ancora oggi trova laudatori, immemori che dovere d’ogni governo è far rispettare la legge qualunque essa sia, salvo poi a mutarla nelle maniere legali; oppure se a tutte sovrasti la colpa di un piccolo gruppo ­– e fu certamente un piccolo gruppo, al quale rimasero estranee la grandissima maggioranza dei medi e piccoli industriali e proprietari di terreni, ed una minoranza non irrilevante degli stessi maggiori industriali ed agricoltori, incolpevoli dell’assalto al pubblico danaro – di industriali e di agrari, impervi di fronte alle esigenze di ascesa dei ceti lavoratori e decisi a conservare ad ogni costo le posizioni monopolistiche conquistate in passato.

L’Italia non risorgerà se al motto nefando: «a noi il paese!» ed alla risposta dissolvente: «la colpa è degli altri!», gli italiani, dopo avere affidato al giudice il compito di punire i colpevoli di reato comune, di tradimento, di favoreggiamento verso il nemico, di illecito arricchimento, non reciteranno, ciascuno nell’intimo foro della coscienza, il mea culpa. Chi ricorda quegli anni tra il 1919 ed il 1922, sa l’ansia dalla quale tutti erano tormentati, ansia di uscire da due incubi, l’uno bellico e l’altro postbellico. L’incubo bellico era quello dei legamenti, detti allora bardature, i quali avevano reso tutti dipendenti dallo stato, per ottenere permessi di comprare e di vendere, di lavorare o non lavorare, di essere assunti in uno stabilimento, di avere iniziative di commercio o di industria o di migliorie agricole od edilizie. Roma incombeva su tutto ed una burocrazia onesta, ma tarda pareva aduggiasse l’operosità di tutti. Si voleva respirare, si voleva agire, si voleva lavorare senza ad ogni istante presentarsi ad uno sportello a piatire da un impiegato indifferente la definizione di una pratica resa interminabile dal moltiplicarsi di formalità e dall’andirivieni di cartacce inutili. Ci si era dimenticati che i legamenti, che le bardature erano una necessità assoluta dello stato di guerra; e si voleva ridivenire subito uomini liberi. L’incubo postbellico era quello della discordia e della incertezza. Ne erano oppressi tutti: operai ed industriali, commercianti, impiegati, agricoltori, contadini. In fondo agli scioperi apparentemente più violenti stava il desiderio degli operai di non essere più in balia dell’ignoto, di ricevere un salario che, stabilizzata la lira, volesse dir qualcosa di concreto, di essere assicurati contro le eventualità che minacciano la salute, la continuità del lavoro, la sussistenza e la pace famigliare. I profeti promettevano tutte queste cose in fondo all’attuazione di un loro vangelo; ma gli uomini volevano, più che il vangelo, la sostanza, che era vita sicura ed avvenire sereno. Gli uomini, tutti, avevano dimenticato che l’ansia e l’incertezza sono le compagne inseparabili della vita; e che sicurezza assoluta e vita tranquilla sono sempre desiderati, ma non mai raggiunti né raggiungibili se non attraverso una lotta di tutti i giorni, una fatica sempre rinnovata. Poiché si erano oltrepassati i limiti entro i quali gli uomini tollerano i vincoli da una parte e l’ansia dall’altra, gli italiani desideravano libertà dai vincoli e sicurezza contro l’ignoto; né avvertivano che a poco a poco essi andavano già liberandosi dai vincoli di guerra e riconquistando la sanità mentale, attraverso discussioni e concessioni reciproche.

In quel momento apparve il salvatore e promise agli italiani libertà dai vincoli: «Noi vogliamo – così fu proclamato nel discorso di Udine del 20 settembre 1922 – noi vogliamo spogliare lo stato di tutti i suoi attributi economici. Basta con lo stato ferroviere, con lo stato postino, con lo stato assicuratore. Basta con lo stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello stato italiano». Il salvatore promise anche sicurezza ed elevazione morale, indicando i compiti i quali sarebbero rimasti allo stato: «Resta la polizia che assicura i galantuomini dagli attentati dei ladri e dei delinquenti; resta il maestro educatore delle nuove generazioni; resta l’esercito che deve garantire l’inviolabilità della patria e resta la politica estera. Non si dica che così vuotato lo stato rimane piccolo. No! rimane grandissima cosa, perché gli resta tutto il dominio dello spirito, mentre abdica a tutto il dominio della materia».

La promessa non poteva essere mantenuta. Lo stato non può abdicare al dominio della materia, la quale, per l’uomo, è tutt’uno con lo spirito. Non è possibile limitare i compiti dello stato. Né lo stato si identifica con il governo centrale ma comprende le regioni, le provincie, i comuni e l’infinita varietà degli enti con fine pubblico. Così inteso, lo stato non è indipendente e nemico dei cittadini; ma è una continua creazione di essi ed adempie a tutti i fini, che i cittadini non possono raggiungere da soli, o raggiungono meglio se la loro azione consociata è rivolta a fine pubblico. La promessa non poteva essere mantenuta anche perché non si dice ad un uomo: fa tu, salva tu il paese per imporgli poi di non far nulla. L’uomo fece quel che era consentaneo alla natura sua e di questo aspetto dell’opera sua qui non giova occuparsi. La storia dei vent’anni seguiti al 28 ottobre 1922 dipese solo in parte, forse in piccola parte, dall’indole dell’uomo. Dipese sovratutto dal sistema. La dittatura romana, duratura per sei mesi od un anno, non toccava gli ordinamenti fondamentali della società, poiché era destinata a sormontare un pericolo grave ed imminente; e questo venuto meno, il, dittatore ritornava ad arare il campo. I pieni poteri in un paese, nel quale la stampa sia libera ed i controlli parlamentari agiscano, sono limitati nel fine e nel tempo e non guastano la struttura politica ed economica del paese. Chiuso, ad esempio, il tempo di guerra, la vita normale riprende, con quelle modificazioni che i parlamenti vorranno deliberare, anche in base all’esperienza compiuta.

La dittatura moderna è fatalmente cosa diversa. Essa vuole salvare il paese dal disfacimento economico sociale e ricreare lo stato. Per qual via? Per quella breve, del comando dall’alto. Non la discussione che si accusa di tirare le cose in lungo; non la deliberazione dei corpi legislativi, i quali si dice essere impotenti, nel contrasto tra i partiti e le classi, ad esprimere una volontà unica e pronta. Questa della discussione, sui giornali o nella bottega delle chiacchiere parlamentari (anche qualche impaziente inglese parla della britannica talking shop) è la via lunga, tortuosa, a giravolte, con cadute e ritorni su se stessi. Si imbocchi la via breve, diritta che porta sulla vetta senza pentimenti. Alla discussione si sostituisca l’azione; quella che non lascia luogo a dubbi, del capo che sa e comanda.

Il terreno era propizio in Italia; come fu propizio in altri tempi in Francia e lo era, per antica tradizione, in Germania. Napoleone aveva creato la macchina di governo, pronta al servizio del capo. Bastava insediarsi al ministero dell’interno per aver sottomano la tastiera dei prefetti e dei questori, abituati ad ubbidire a direttive venute dal centro. Nei governi parlamentari quelle direttive erano talvolta incerte, perché dovevano tener conto delle varie correnti dell’opinione pubblica. In regime di dittatura le direttive parvero risolute e precise; ma, poiché i fatti e le situazioni cangiano ognora, divennero mutabilissime e contraddittorie. Fu necessario, a mascherare le incessanti fatali mutazioni, persuadere le genti che il governo dall’alto è sempre saggio. Ove non odano critiche, le genti sono facilmente credule e le altre pecore vanno dove l’una va. Non a caso si dovette a poco a poco, trasformare la camera in una accolta di “sì”; e sopprimere i giornali. Era necessario che al luogo dei giornali fossero istituiti bollettini riproducenti, secondo gli ordini quotidiani romani, un’unica voce, quella del padrone. Il capo redasse, come già faceva Napoleone, i bollettini quotidiani delle sue vittorie; e le voci diverse commentarono ed amplificarono. Condizione necessaria perché un paese possa essere condotto alla meta da un capo, è che il popolo creda nella verità e nella bontà della meta designata e dei mezzi adoperati. Come potrebbe un esercito vincere, se i soldati potessero discutere l’ordine del capitano? In un esercito ben condotto, non debbono esistere corpi ed amministrazioni indipendenti.

Non può restare indipendente la magistratura, perché la legge, più che quella scritta, è quella che volta a volta il capo crea, per risolvere caso per caso i problemi che ogni giorno sorgono ed hanno sempre aspetti singolari. La volontà del capo non è arbitrio, ma interpretazione pronta della legge non scritta della salvezza del paese.

Non può restare indipendente la scienza, l’università, la scuola. A che giova la scienza, se non al progresso della patria? Via dunque gli ideologi, disse già Napoleone, i quali perseguono il fine egoistico della ricerca della verità per se stessa. Quella sola verità merita di essere cercata, la quale è rivolta al bene ed alla grandezza del paese, così come grandezza e bene sono interpretati dal capo.

Non possono essere indipendenti industriali, agricoltori, commercianti, professionisti, operai, contadini. Non può essere data licenza di lottare gli uni contro gli altri per fini di classe. Epperciò essi siano organizzati in sindacati pubblici, messi al luogo dei sindacati che operai e contadini ed industriali avevano variamente foggiato per la tutela dei propri interessi. Al di sopra dei sindacati stiano le corporazioni, organi parastatali creati allo scopo di dire ad ognuno ciò che sia lecito fare nell’interesse pubblico. Solo quando ognuno, per lavorare a salario od esercitare mestiere manuale o professione liberale o per acquistare semenze o concimi o materie prime od aprir bottega o laboratorio o per costruire un edificio o fare un impianto industriale debba essere socio di un sindacato e soltanto grazie alla tessera ricevuta riceva licenza di lavorare o di produrre, si può avverare la profezia dell’Apocalisse (cap. XIII, versetti 16 e 17) del tempo in cui «tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e servi debbono mostrare nella mano destra il carattere e chi non ha il carattere (la tessera) o non invoca il nome (del capo) non può comprare né vendere».

Soltanto quando non vi sia nel paese alcuno il quale possa orgogliosamente affermare di non dipendere in alcuna maniera dal capo, soltanto quando tutti, per vivere, debbano mostrare nella palma della mano il segno della ubbidienza, soltanto allora sarà raggiunta la pienezza dei tempi.

La via breve, la via regia, la via diritta dell’affidarsi al salvatore condusse sì alla pienezza dei tempi. Ma quali tempi? Anche qui la meta era segnata e non fu arbitraria. Centosessant’anni prima che gli italiani scegliessero la via breve del salvazionismo, nel 1760, uno scrittore oggi letto solo dai pochi curiosi della storia delle teorie economiche, il marchese di Mirabeau, padre del grande rivoluzionario, scriveva:

Ove un solo centro di distribuzione e una sola città esistano nel reame, tutti sono occupati ad ottenere posti ed impieghi, a sollecitare aumenti di stipendi e di pensioni, ad aver parte alle elargizioni del principe…, a giungere alla fortuna con tutti i metodi di intrigo suggeriti dalla cupidigia… Gli arricchiti fanno sfoggio di lusso, poiché il buon uso delle ricchezze male acquistate è rarissima cosa in questo mondo e poiché, per sentire il valore della ricchezza, bisogna averla acquistata a gran fatica. I favoriti approfittano delle debolezze del principe per impadronirsi del denaro pubblico e per acquistare una potenza dannosa allo stato. La giustizia diviene venale e le leggi medesime creano il male, perché il loro simulacro è un mero spettro favorevole all’ingiustizia. I soli speculatori potranno accumulare ricchezze e, per mezzo dei loro corrispondenti all’estero, assicurarle con investimenti solidi. Il congegno dello stato e della società si riduce ad una cornice vuota destinata a frantumarsi al primo urto del nemico. Quando il nemico giunge, lo stato è già in situazione di piena anarchia e non ha più alcuna consistenza ed alcuna durata.

Ventinove anni più tardi, nel 1789, il nemico previsto da Mirabeau padre venne dall’interno; e lo stato, ridotto ad una cornice vuota, ad un corpo senza anima, si dissolse perché non esisteva più.

Nel 1943, quando il nemico sbarcò in Italia, lo stato italiano era ridotto anch’esso ad una cornice vuota, ad un corpo senza anima. Quando la vita politica, economica, spirituale di una nazione di 45 milioni dipende da un unico centro; quando a poco a poco tutte le forze indipendenti dello stato sono venute meno; quando non esistono più comuni, province, corpi universitari e di magistratura, perché tutti guardano a Roma per essere nominati e promossi ed insigniti di onori; quando i quadri dell’esercito sono composti di uomini i quali attendono da un uomo o da un partito, qualunque esso sia, la promozione e la carriera; quando non esistono più né industriali, né agricoltori, né proprietari, né artigiani, né operai, né contadini i quali siano tali di fatto invece che soltanto di nome; quando industriali ed operai, proprietari e contadini, artigiani, commercianti e professionisti sono divenuti tutti dipendenti dal governo, da cui attendono permessi, licenze, forniture e che vieta ad essi di agire liberamente e di associarsi e discutere; quando persino la chiesa, pur rimanendo ultima forza autonoma a confortare i disperati nell’ombra dei templi, non può uscire all’aperto se non per atto di cerimonie esteriori, che cosa è rimasto dello stato?

Lo stato non è una organizzazione meramente giuridica sovrapposta dall’alto sui cittadini. Lo stato vive nei cittadini medesimi, nei loro eletti al governo politico; ma anche e sovratutto nei comuni, negli enti pubblici, nelle chiese, nelle scuole, nel foro, nelle fabbriche, nei campi dove gli uomini operano, vengono a contatto, si associano e si dissociano, pensano, pregano e si divertono. Quando persino il gioco dei fanciulli ed i divertimenti degli adulti, quando persino la ricerca della salute nei mari e sui monti sono disciplinati dall’alto ed i giovani debbono trovare la gioia del divertirsi in un dopolavoro ufficiale, che cosa è lo stato, se non una struttura estranea all’uomo, una cornice vuota? Nella estate del 1943 gli italiani erano giunti in fondo alla via che essi avevano scelto ventun’anni prima. Su quella via, breve e diritta, erano balenati dinnanzi ai loro occhi imperi, fortune e grandigie; ma poiché quella via significava la rinuncia degli italiani alla dura lotta, al diuturno sforzo, al rischio continuo in favore della chimera della sicurezza, della pace, della tranquillità, della prosperità assicurata e promessa da altri, quella via doveva necessariamente fatalmente condurre sull’orlo dell’abisso. Chiunque fosse stato il salvatore, il messia, qualunque fosse stato il verbo, il vangelo, quella era la meta alla quale si doveva arrivare. A quella stessa meta si giungerebbe di nuovo, fra dieci, fra vent’anni se nuovamente gli italiani, ansiosi di trarsi indietro dall’abisso al quale oggi sono affacciati, si affidassero ad un uomo, ad un partito, ad un mito, ad una forza venuta dal di fuori: russa, inglese od americana. Dobbiamo, sì, recitare il mea culpa; ma dobbiamo anche orgogliosamente affermare: La salvezza è in noi e soltanto in noi!

Il grande esperimento

Il grande esperimento

«L’Italia e il secondo risorgimento», 25 novembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 68-75

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 73-79

 

 

 

 

Venticinque anni fa, gli italiani furono posti dinnanzi ad un grande problema: il massimo problema che le società moderne debbono risolvere se non vogliono perire: l’immissione del popolo, di tutto il popolo nello stato. Non era un problema nuovo, né peculiare all’Italia. Un secolo innanzi Alessio di Tocqueville, traendo nel gran libro su La démocratie en Amérique le fila di quel che aveva visto negli Stati Uniti, si poneva, angosciato, il quesito: sopravviverà la democrazia, sopravviverà la civiltà quando la società non sarà più composta di proprietari, di industriali, di artigiani, di commercianti, di professionisti, di uomini indipendenti, ma di grandi masse umane proprietarie delle loro sole braccia, non attaccate da alcun vincolo materiale e spirituale alla terra, al borgo, alla città e pronte a darsi in braccio al demagogo che ad esse faccia promesse di benessere e di felicità?

 

 

Quarant’anni dopo, il grande storico Jacob Burckhardt, meditando nel suo studio basilese sulle sorti di Europa, vedeva ripetersi la vicenda dell’impero romano distrutto non dai barbari, ma dalle folle dei circhi avide di panem et circenses; e lo stato, per assicurare alimenti e divertimenti alle masse, s’era irrigidito, era divenuto una macchina colossale comandata dall’alto, priva di spontanea interiore, tutti servi del principe e da questi ordinati in cerchie ed in corporazioni chiuse e legati insieme da mortale meccanica solidarietà; finché, all’urto del barbaro, condotto talvolta da romani, fuggiti nelle selve germaniche in cerca di vita più sciolta e libera lo stato era caduto perché l’uomo il quale non ha in sé le ragioni di vita, non è capace di alzare il braccio per difendersi.

 

 

Angosciato anch’egli, Jacob Burckhardt chiedeva nel 1870: che cosa sarà dell’Europa quando le moltitudini andranno all’assalto dello stato dietro la guida dominatrice di un capo popolo?

 

 

Fra il 1912 ed il 1918 l’Italia aveva affrontato il grande problema, attribuendo il diritto di suffragio prima a tutti i maggiorenni forniti di un censo minimo e di studio elementare e poi a tutti i maggiorenni in genere ed anche ai minorenni i quali avessero combattuto nella grande guerra. Il corpo elettorale era salito improvvisamente da 3 a 9 e poi a 10 milioni di uomini; e fra essi un quarto erano analfabeti. Una improvvisa profonda mutazione del ceto politico si imponeva. Al luogo del gruppo ristretto di uomini probi, illustri gli uni per ingegno e per scritti, amati gli altri per le lunghe prove sofferte nelle galere e negli esili, sperimentati i più nelle cariche pubbliche amministrative, i quali avevano, tra l’indifferenza universale, compiuta la miracolosa opera del risorgimento, entrava sulla scena politica un ceto nuovo di uomini in gran parte ignoti; e tra non pochi demagoghi, i migliori di essi erano organizzatori operai e contadini, nuovi tuttavia alla pratica legislativa ed all’amministrazione dello stato.

 

 

L’esperimento del governo dei più, anzi di tutti, fu turbato e reso più aspro dalla guerra del 1914-18. Non sovratutto a causa delle sofferenze umane e delle perdite materiali.

 

 

Le perdite di uomini e le sofferenze dei mutilati e dei combattenti furono sopportate con animo virile. Le perdite materiali, limitate del resto al Veneto, non superarono la capacità di resistenza del paese. Siccome le spese di una qualunque guerra sono coperte esclusivamente con mezzi presenti; siccome è assurdo il concetto si possano costruire cannoni e fucili, fabbricar munizioni, vestire e nutrire soldati con mezzi futuri; così fu la generazione di uomini vissuta tra il 1914 ed il 1918 e, per qualche strascico di liquidazione, tra il 1919 ed il 1922, quella che sopportò tutto l’onere, tutta la fatica della condotta della guerra. In lire del 1914, quella guerra costò all’Italia 46 miliardi di lire (gli altri 19 furono pagati dalle anticipazioni di carbone, ferro, grano, cotone, lana, armamenti, ecc., fatteci dagli alleati a titolo di prestiti mai restituiti e quindi non gravanti sul reddito nazionale); onere enorme per un paese, il cui reddito annuo totale (somma dei redditi individuali di tutti gli italiani) era calcolato allora in 20 miliardi di lire. Dal 30 al 50 per cento del reddito nazionale fu assorbito dalle spese di guerra.

 

 

Ma l’onere non avrebbe lasciato traccia alcuna, se vi si fosse potuto provvedere con imposte e con prestiti propriamente detti. Finita la guerra, il reddito nazionale rimasto invariato avrebbe subito una non grande variazione nella sua distribuzione a causa del pagamento degli interessi del nuovo debito pubblico dai contribuenti ai creditori dello stato.

 

 

Non fu così, perché il sistema tributario preesistente al 1914 non era fornito della elasticità necessaria, ossia della capacità ad espandersi, la quale è data sovratutto da una ben congegnata imposta sul reddito complessivo, atta ad essere temporaneamente cresciuta da aliquote del 10 per cento ad altre più alte del 20, del 30, del 50 per cento del reddito. Insigne per altri rispetti, il sistema tributario italiano soffriva e soffre tuttavia per l’altezza grossolana delle aliquote sue anche in tempo di pace. Come aumentare il gettito di imposte sui terreni e sui fabbricati che, se si tiene conto dei cosiddetti centesimi addizionali comunali e provinciali, giungevano in pace al 20, al 30 e al 40 per cento del reddito, a seconda dei luoghi? Come triplicare o quadruplicare la massima imposta sul reddito, quella di ricchezza mobile, se questa era già, nella sua aliquota generale, del 20 per cento? Si quadruplica un 10 per cento; è difficile quadruplicare – eppur sarebbe necessario in tempo di guerra – un 20 od un 30 per cento.

 

 

Fu giuocoforza istituire la pessima tra le imposte, che fu il torchio dei biglietti. Non essendo riuscito a farsi consegnare a forza, con le imposte, o per invito, con i prestiti volontari, tutto il fabbisogno per la condotta della guerra, lo stato dovette stampare biglietti. All’incirca la quantità dei biglietti di banca fu, tra il 1914 ed il 1919, aumentata da 2,2 a 10 miliardi di lire. Lo stato poté così, con gli 8 miliardi di lire di biglietti, che al tesoro costarono solo le spese di carta e di stampa, recarsi sul mercato ed, in concorrenza con i cittadini provvisti di soli 2,2 miliardi di lire di potenza di acquisto, acquistare i beni ed i servizi a se stesso necessari.

 

 

La massa dei beni e dei servizi (reddito nazionale) prodotta ogni anno rimanendo la stessa, un po’ per volta, a mano a mano che i biglietti crescevano, si trovò di fronte non più due, ma tre e poi quattro e poi cinque, sei, sette, otto, nove e dieci miliardi di biglietti. Ossia i prezzi aumentarono e con essi aumentarono le quattro o cinque volte i redditi dei cittadini, i quali altro non sono se non la somma dei prezzi delle merci e dei servizi prodotti e venduti dai cittadini.

 

 

Il reddito del contadino è la somma, ad esempio dei prezzi dei quintali di grano da lui venduti; il reddito del medico è la somma dei prezzi (onorari) dei suoi servizi di medico. Moltiplicandosi i prezzi per cinque, si moltiplicano automaticamente per cinque i redditi.

 

 

Anche qui, i risultati sarebbero stati del tutto innocui se, nel 1919 tutti i redditi si fossero contemporaneamente visti moltiplicati per cinque. Sarebbe accaduto un fenomeno simile a quello che Alessandro Manzoni descrisse, parlando della folla che s’alzava in punta di piedi per vedere il gran cancelliere Ferrer quando nella carrozza portava in salvo il tremante vicario di provvisione: tutti alzandosi in punta di piedi per veder meglio, ognuno vedeva esattamente come prima.

 

 

Se tutti i redditi crescono nel tempo stesso da uno a cinque, ognuno resta nella medesima situazione sociale di prima. Sono mutati i nomi, sono mutate le voci numeriche delle cose; tutti paiono essere divenuti più ricchi per numero di lire ricevute o possedute; ma la massa dei beni e dei servizi acquistati con quelle tante più lire e invariata.

 

 

I risultati non furono tuttavia innocui; ché i prezzi ed i redditi non variano tutti insieme e tutti nella stessa misura. Vi sono redditi i quali restano fissi per ragion contrattuale: chi aveva dato a mutuo allo stato 100.000 lire e riceveva 3.500 lire di interesse annuo, con cui una famiglia di medio ceto poteva modestamente vivere, continuò a ricevere 3.500 lire svalutate e poté vivere per due o tre mesi, invece che per un anno. La rendita essendo perpetua, il creditore non poté chiedere alcun aumento di interesse. Chi poté, alla scadenza, farsi rimborsare il capitale, si trovò fra mano 100.000 lire svalutate, il cui reddito, anche se eventualmente cresciuto a 4.000 o 5.000 lire, ebbe però una potenza di acquisto grandemente inferiore a quella antica delle 3.500 lire pre-1914. I pensionati vecchi, provvisti di pensioni di 100 lire al mese – ed erano, allora, pensioni discrete -ottennero sussidi di caro vita di qualche decina o cinquantina di lire, insufficientissimi al cresciuto costo della vita. Gli impiegati stentarono a far aumentare gli stipendi da uno a tre ed alla fine, con i prezzi cresciuti a cinque, subirono un abbassamento nel loro stato sociale. Gli operai riuscirono meglio ad equilibrare salari con prezzi; ma tardi ed attraverso ad agitazioni ed a scioperi costosi e perturbati. Gli inquilini si avvantaggiarono a causa del vincolo dei fitti, a danno dei proprietari di case; gli affittuari a danno dei proprietari dei terreni.

 

 

Fu, sovratutto, la distruzione e l’impoverimento dei ceti medi, viventi in parte del frutto dei risparmi compiuti in passato da essi medesimi o dai loro vecchi. Fu l’inoculazione di un microbo sociale distruttivo: il paragone insidioso che ogni uomo fa delle proprie mutate sorti con quelle di ogni altro uomo. Sinché una società è stabile, sinché le mutazioni dei redditi, dei ceti, delle industrie, delle professioni sono graduali, vi può essere lotta, emulazione, anche malcontento che sono sempre stimolanti; ma non esiste la rabbia di tutti contro tutti, che conduce alla dissoluzione sociale. Anche chi ha veduto i propri redditi crescere da uno a cinque e perciò non ha sofferto nulla per la svalutazione monetaria, non si volta indietro a commiserare coloro i quali sono rimasti fermi all’unità od hanno visto aumentare i propri redditi solo da uno a due, a tre od a quattro e sono perciò immiseriti. No. Costui guarda innanzi, a coloro, i quali, per essere agricoltori coltivatori diretti o fittavoli, o industriali, o commercianti o speculatori hanno profittato subito e meglio dell’aumento dei prezzi ed hanno visto aumentare i propri redditi a sei, a sette, a dieci. Chi si locupletò, col crescere del reddito a dieci, guarda al fortunatissimo, che fruì del moltiplico venti. Nessuno è contento. Tutti sono dominati dall’ansia del futuro incerto. Scriveva nel 1771 Ferdinando Galiani, forse l’italiano di più vivo pronto penetrante ingegno del secolo XVIII: «Se la svalutazione monetaria violasse soltanto la fede pubblica, sarebbe peccato venialissimo. Essa fa ben peggio: essa uccide la gioia pubblica… La gioia interna del cuore dell’uomo, la vera gioia è il risultato del riposo e della sicurezza che l’uomo sente rispetto al suo stato ed al suo avvenire. Se il valore monetario di tutte le cose è mutato, il turbamento si impadronisce di tutti i cuori, tutti ignorano la propria sorte e la gioia scompare dal mondo» (a p. 280 dei Dialogues sur le commerce des blés).

 

 

Questo era lo stato degli animi nel momento nel quale dovevano vedersi i primi frutti del grande esperimento del suffragio universale iniziato nel 1912 e sospeso dalla guerra. Le riforme sociali, le quali avrebbero potuto aver luogo con successo in un ambiente di fervida discussione; le lotte del lavoro (alcuni miei articoli di prima e d’allora furono poi raccolti con questo titolo di Lotte del lavoro da Piero Gobetti, indimenticabile allievo) che dovevano essere e sarebbero state feconde di progresso sociale, caddero in un clima stravolto di odi passionali di classi contro classi, tutte scontente e in aspettazione dell’avverarsi del millennio, dell’avvento del Salvatore.

 

 

Le prime risultanze del nuovo parlamento eletto dalle masse popolari, improvvisamente chiamate a partecipare alla vita dello stato, furono causa di terrore per molti. Grossi e piccoli, ricchi e mediocri ed umili tremarono: che sarà di noi, fuscelli travolti nella bufera? Piccoli episodi parvero giganteschi. Ricordo Giovanni Faldella, antico giornalista, scrittore di penetranti schizzi di Montecitorio e di lievi novelle a sfondo piemontese, in vecchiaia senatore ed assiduo frequentatore della biblioteca di quel corpo, dirmi un giorno: hai visto che nella camera ci sono persino dei tiraborse? Alludeva ad una domanda di autorizzazione a procedere per lieve furto presentata contro un neo deputato. Al mite Faldella, passato intatto, come la grande maggioranza dei parlamentari suoi coetanei, attraverso gli scandali della Banca romana, quella domanda di autorizzazione a procedere pareva annunciatrice della decadenza dell’elettorato che inviava e della camera che accoglieva uomini imputati di cosa tanto degradante.

 

 

Pochi si sottraevano all’impressione pessimistica. Giustino Fortunato, grande e da tutti onorato parlamentare tra il 1880 ed il 1920, persisteva invece nell’aver fiducia. Egli che aveva avuto famigliarità con molti venerandi uomini del risorgimento ed aveva assistito a discussioni non seconde a nessuna delle più famose della camera dei comuni, sosteneva che le violenze verbali ed i tumulti della nuova camera sorta dal suffragio universale non dovevano spaventare, ma invece essere presagio di bene. Era necessario che gli uomini nuovi, che gli organizzatori di leghe operaie e contadine mandati in parlamento dai loro compagni a popolare le file dei socialisti e dei cattolici, facessero il loro tirocinio, si addestrassero al lavoro di far leggi e di controllare il governo. Tra quegli uomini nuovi sarebbero certo emersi amministratori seri e governanti esperti, e sarebbero stati non inferiori persino agli uomini della antica destra, i quali furono sinora il fior dei nostri consessi legislativi. Migliori perché scelti non dai pochi, ma dai più.

 

 

Questa era la sentenza vera che ancora oggi deve darsi di quell’esperimento. Era naturale, era fatale che in quei primi anni venissero alla ribalta della scena politica i demagoghi, i promettitori larghi, gli annunciatori di messianici rivolgimenti; ma era altrettanto certo che negli uffici, nelle commissioni i dove si compie il vero lavoro legislativo, avrebbero finito per imporsi i lavoratori seri e che, alla scuola degli anziani, dal mondo operaio e contadino sarebbero venuti fuori politici di prim’ordine, capaci di trovare le vie per portare, senza scosse distruttive, il nostro paese a più alto grado di vita civile. Ed era certo che, scomparso il disavanzo dal bilancio dello stato in virtù della legge Giolitti-Soleri del 27 febbraio 1921, abolitrice del prezzo politico del pane, e tolta così la causa “unica” la quale faceva lavorare il torchio dei biglietti, avrebbe avuto termine la svalutazione della lira. Chiuso il ciclo dei disavanzi e delle degradazioni monetarie, gli uomini avrebbero ricominciato a guardare fiducia nell’avvenire, e l’esperimento del governo di tutti avrebbe potuto compiersi in un ambiente economiche non più turbato dallo spettro dell’abisso, nel quale tutti avevano paura di cadere ad ogni istante.

 

 

L’esperimento non poteva allora essere condotto a termine, e non potrà esserlo in avvenire, senza lotta e senza dolori. I ceti possidenti, i ceti medi avrebbero dovuto rassegnarsi a dimostrare ad ogni giorno, ad ogni ora il proprio diritto a vivere in virtù dell’opera ogni giorno ed ogni ora compiuta; avrebbero dovuto rassegnarsi a guardare in faccia questa verità: essere oramai tramontato “per sempre” il sogno della vita tranquilla all’ombra di un investimento sicuro dei propri risparmi.

 

 

Per non avere voluto riconoscere la verità che la vita è lotta continua – e tutti in quei fatali anni dal 1919 al 1922, tutti senza eccezione di ceti o classi, di ricchi e di poveri anelarono alla tranquillità, alla sicurezza, alla prosperità riposante – per aver voluto quasi unanimi sottrarsi alla lotta, che abbatte i deboli ma innalza i forti, gli italiani furono condotti ad un porto di pace. Pace sì, ma quella che regna a Varsavia. Fu la pace del reclusorio.

 

 

Junius

Giornalisti e leghe

Giornalisti e leghe

L’Italia e il secondo risorgimento, 18 novembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 571-579

Giornali e giornalisti, Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia, Firenze, Sansoni, 1974, pp. 31-41

 

 

 

 

Il problema dei giornalisti è, nonostante i numerosi punti di contatto, distinto da quello dei giornali. Esso è stato posto un mese fa dal congresso delle leghe dei lavoratori britannici, il quale ammise nell’aula, dove si tenevano le sedute, solo i giornalisti iscritti alla lega. Per rappresaglia, i direttori dei giornali britannici decisero di boicottare le sedute del congresso, astenendosi dal pubblicarne i resoconti. Non so se ed a quale compromesso si sia giunti in Inghilterra; ma so che la questione è importante sia per quanto riguarda la libertà di stampa, sia per quel che tocca il diritto dei lavoratori del giornale ad organizzarsi per la tutela dei loro interessi.

 

 

Si premetta innanzitutto che il problema non tocca il diritto indiscutibile dei redattori, cronisti, collaboratori ed altri lavoratori intellettuali del giornale di organizzarsi in associazioni intese a difendere gli interessi economici e morali dei loro soci.

 

 

Il problema è unicamente quello di sapere se, al diritto indiscutibile delle associazioni giornalistiche ad esistere, corrisponda l’obbligo dei direttori dei giornali di assumere soltanto giornalisti iscritti alla associazione. Il che vuol dire esclusione dal lavoro giornalistico di tutti coloro i quali non siano iscritti alla associazione.

 

 

Faccio astrazione dal quesito connesso, ma non identico, se l’iscrizione possa avvenire ad una tra parecchie associazioni concorrenti o debba aver luogo presso una sola associazione, la quale, essendo unica, dovrebbe avere necessariamente carattere pubblico. Il quesito è importantissimo, ma non è peculiare alle associazioni giornalistiche e deve essere discusso a parte, per non confondere problemi differenti.

 

 

Il problema dell’obbligo generico dell’appartenenza ad una qualunque associazione (lega, sindacato, ordine, ecc.) è più generale; ma nel caso dei giornali esso assume aspetti singolari, i quali toccano davvicino l’interesse pubblico.

 

 

Quale motivo addusse il congresso 1944 delle leghe dei lavoratori britannici a sostegno del rifiuto di ammettere nell’aula delle sedute giornalisti i quali non fossero iscritti all’associazione? Pare che il motivo addotto fosse questo: che solo un giornalista giudicato degno di far parte dell’associazione giornalistica presenti le garanzie morali necessarie richieste a chi deve compilare un rendiconto imparziale, oggettivo, non tendenzioso di una discussione, di un fatto, di un avvenimento.

 

 

Il motivo era bene scelto; ed era in verità il solo che potesse essere addotto. Il congresso delle leghe operaie, come la camera dei comuni, od il consiglio comunale o la qualunque assemblea, o comizio, o consiglio di ente pubblico o privato ed in generale la persona od ente la quale compia fatti od assuma posizioni, discuta, agisca in modo che i suoi atti o decisioni o parole possano presentare un interesse per il pubblico, può essere considerato come un fornitore di notizie, di giudizi, di discussione ai giornali; ed ha un interesse a che le notizie, i giudizi e le discussioni giungano al pubblico in modo rispondente a verità.

 

 

Questo, del rispetto alla verità, è il solo interesse che abbia carattere pubblico e sia rispettabile. Non è interesse pubblico e non è rispettabile il desiderio dei congressi, parlamenti, consigli, comizi, enti e persone che le notizie ed i fatti siano riferiti esclusivamente da proprî affiliati, obbligati a seguire quelle che siamo stati abituati a sentir chiamare le “direttive” del fornitore delle notizie e dei fatti. Se l’obbligo della iscrizione del giornalista alla lega volesse dire che, nel compilar rendiconti e nel narrare fatti, il giornalista deve seguire le direttive o gli ordini della lega, dove mai andrebbe a finire la libertà di stampa? Durante il ventennio fascista non esistettero giornali nel nostro paese, perché i giornalisti dovevano ubbidire a “direttive”. C’è forse differenza tra il ricevere direttive da un ministero della stampa e propaganda ovvero da una lega o dal gruppo o partito il quale comanda alla lega? Assolutamente no. Perciò la lega non può arrogarsi il monopolio di fornire le notizie al pubblico, col mezzo di giornalisti ubbidienti alle direttive della lega.

 

 

Difatti, sembra che il congresso britannico pretendesse soltanto che l’iscrizione alla lega fosse lo strumento necessario ed efficace a garantire l’indipendenza e l’imparzialità del resocontista. Il congresso, fornitore di notizie, afferma cioè in sostanza che la iscrizione alla lega non è richiesta nell’interesse proprio, egoistico di fornitore di notizie, ma in quello generale, pubblico della consecuzione della verità. Non la tutela propria mosse il congresso; bensì quella del pubblico desideroso di conoscere la verità e di non vederla contraffatta dall’interesse di parte o di classe. Il terreno era indubbiamente bene scelto, poiché nessuno può affermare che sia invece interesse pubblico che i fatti od i dibattiti giungano a notizia dei lettori dei giornali in maniera difforme dalla verità.

 

 

Il problema sembra ora chiarito e si riduce al punto se l’appartenenza alla lega giornalistica sia garanzia di verità.

 

 

Vi son casi nei quali l’interesse pubblico ha richiesto per determinati uffici la appartenenza ad un ordine: degli avvocati, dei medici, degli ingegneri, dei notai, ecc.

 

 

Si può dubitare sino a qual punto siano valide codeste ragioni; ma non si può contestare che esse traggono dalla concorde esperienza dei tempi e dei luoghi un notabile fondamento.

 

 

È lecito estendere il ragionamento da questi pochi casi a quello dei giornalisti? Si può asseverare che la appartenenza all’ordine dei giornalisti sia prova delle qualità intellettuali e morali richieste per la trascrizione fedele e veritiera dei fatti e degli avvenimenti?

 

 

Le qualità intellettuali si provano per gli avvocati, i medici, gli ingegneri, i farmacisti, i notai con esami sostenuti dinnanzi a commissione universitarie o statali. Dobbiamo istituire scuole di giornalismo e diplomi o lauree come condizione alla appartenenza all’ordine o lega o sindacato dei giornalisti? Nessuna idea può apparire più ingenua e lontana dal raggiungimento dello scopo come la scuola di giornalismo. Questa fa il paio con altre scuole balorde, come degli organizzatori sindacali, che vedemmo istituite nel ventennio passato allo scopo preciso di rendere spregevole e ridicola la funzione coperta. Vedemmo giovanotti diplomati far da sopracciò nei sindacati operai e padronali in luogo dei soli organizzatori degni di questo nome, che sono gli uomini venuti su dal piccone di muratore, dalla zappa di contadino, dall’ufficio di direzione e venuti su perché chiamati dalla fiducia dei compagni. Così dei giornalisti. Orator fit. Non esistono scuole di oratoria. Oratori si nasce o si diventa per esperienza. Non esistono cattedre o scuole di giornalismo. Solo giornalisti falliti possono dedicarsi a questo secondo mestiere. Un giornalista nato o fatto si ride dei professori di giornalismo. È bene che i giornalisti conoscano storia od economia o filosofia; ma devono essere storie od economie o filosofie vere, non ridotte ad uso dei giornalisti. È bene che i giornalisti sappiano scrivere; scrivere, casomai, si apprende nei licei e nelle facoltà di lettere, non in scuole per giornalisti. E non occorre affatto aver licenze liceali e lauree in lettere per avere idee e saperle mettere per iscritto.

 

 

Manzoni e Leopardi non avevano licenze e lauree; né Benedetto Croce si laureò mai in nessuna università. Winston Churchill, grande giornalista, fu pessimo scolaro; né portò a termine, pare, regolarmente gli studi. Nessuno dei veri grandi giornalisti del nostro tempo attribuì ai papiri delle lauree e dei diplomi, anche se li possedeva, il menomo peso. Furono giornalisti nonostante e non mercé le lauree ed i diplomi.

 

 

Ove si lasci da un canto questa buffa storia delle dimostrazioni da darsi, con una qualche maniera di esami, della attitudine ad essere iscritti nell’ordine giornalistico, resta la prova della attitudine morale a dir la verità. C’è qui un barlume di vero; ma direi che esso sia limitato ai corpi chiusi. È vero ed è necessario che le facoltà universitarie e le accademie scientifiche e, in un campo diverso, i circoli di società valutino attentamente le qualità morali di coloro i quali aspirano ad entrare nella facoltà od accademia o circolo. Vi è una cattedra vacante in una facoltà composta di 12 membri e concorrono due scienziati, ambi valorosi, dei quali il primo ha maggior valore scientifico, ma è noto come attaccabrighe o scontroso con gli allievi, od ha una vita privata dubbia? È chiaro che gli undici votanti preferiranno quasi sempre ad unanimità l’aspirante valoroso scientificamente, sebbene in grado minore dell’altro e lasceranno che l’uomo più celebre e giustamente più celebre gridi all’ingiustizia ed alla camorra. Essi lo hanno valutato anche, come era loro stretto dovere, al punto di vista morale e, avendolo trovato calante, hanno preferito l’uomo più modesto ma inattaccabile.

 

 

Quel diritto di esclusiva, il quale necessariamente deve essere esercitato nei piccoli corpi chiusi, come le facoltà e le accademie, può essere esteso ai grandi corpi aperti, come le associazioni dei giornalisti? Le differenze sono notevoli. Là, non si tratta di un problema economico. Il professore resta professore, anche se da Siena non è chiamato a Firenze, o da Parma a Pavia. La non chiamata non toglie all’insegnante o all’aspirante accademico i mezzi di vita. Invece, il rifiuto di iscrizione in un sindacato giornalistico, toglierebbe, se l’iscrizione fosse necessaria per esercitare la professione, la possibilità di vita all’escluso. Vogliamo ricostituire la scomunica medievale e, per giunta, affidarne l’esercizio ai concorrenti del giudicabile? I consigli dei sindacati giornalistici sono composti di giornalisti; e sarebbe atroce se a costoro fosse data facoltà di negare ad un giovane (od anche ad un anziano o vecchio) il diritto di esercitare il mestiere, sotto pretesto di inettitudine a dire la verità. Se un giornalista si è reso moralmente indegno, siano i tribunali ordinari od i giurì d’onore a condannarlo per i reati o per le indelicatezze commesse. Nessun direttore di giornale vorrà assumere al suo servizio un condannato per reati comuni. Nemmeno a questi si nega, tuttavia, la possibilità dell’ammenda; e si fondano patronati per i liberati dal carcere allo scopo di facilitare ad essi la ripresa del lavoro e la redenzione. Il problema è di costume morale e deve essere risoluto caso per caso dai direttori dei giornali, i quali, nell’interesse proprio, sono i migliori tutori della illibatezza della impresa da essi governata. Sarebbe immorale che il giudizio sulla moralità dei giornalisti fosse pronunciato dai soci dei sindacati giornalistici, i quali hanno un interesse economico alla limitazione del numero di coloro i quali hanno il diritto di esercitare la professione. Risusciteremmo in pieno la vecchia corporazione, non quella viva e vigorosa dei comuni medievali, ma quella decadente dei secoli XVII e XVIII, quand’era divenuta mancipia dell’assolutismo; e la risusciteremmo nel suo contenuto peggiore, che era il diritto di esclusiva aris et focis dei giovani aspiranti ad esercitare un mestiere.

 

 

Se escludiamo il diritto delle associazioni giornalistiche a giudicare, come maestri, delle attitudini intellettuali, e, come magistrati, della dignità morale dei giornalisti, che cosa rimane del problema posto? Unicamente questo: e l’associazione dei lavoratori del giornale lo strumento adatto a garantire al pubblico che i rendiconti e le notizie ed i commenti pubblicati dai giornali siano veritieri e non tendenziosi? Qui siamo giunti al nocciolo sostanziale del problema; e qui la soluzione è una sola: non esiste il giudice, perché il solo fatto del porre il problema dimostra che chi lo pone è nemico della verità e della libertà di stampa.

 

 

Esiste invero un solo criterio per giudicare se una affermazione o un principio o una notizia sia vera o falsa: la libertà di contraddirla. Chi afferma che può esistere un giudice della verità, della tendenziosità, della capziosità, afferma necessariamente, trattandosi di sinonimi, che è lecita la censura della stampa, che è cosa buona esista qualcuno il quale dichiari che quello è il rendiconto esatto, che quella è la notizia vera, che quello è il commento o giudizio imparziale. Chi afferma ciò, afferma necessariamente che deve esistere un ministero della stampa e propaganda, il quale abbia diritto di segnare le “direttive” ai direttori dei giornali e di censurarne l’operato. Che il censore si chiami ministero della stampa e propaganda e trasformi i giornali in bollettini della voce del padrone; o si chiami associazione dei giornalisti, non monta. Salvo che in tempo di guerra e per le notizie relative alla guerra, nessun censore di nessuna specie e sotto qualsivoglia nome, è tollerabile in paese libero.

 

 

Dobbiamo dunque rassegnarci alle notizie tendenziose, se non apertamente false ed ai commenti capziosi, se non chiaramente calunniosi? Ebbene sì. La tendenziosità e la capziosità sono inevitabili in ogni notizia ed in ogni commento o giudizio. Che cosa è uno scrittore il quale non abbia i suoi occhi per vedere, il suo cervello per giudicare? Egli è un manovale del giornalismo, non un giornalista. Non v’è occhio che veda come vedono altri occhi, non v’è cervello che giudichi come gli altri cervelli. Se esistono, quelli sono occhi di un cieco, cervelli inetti a pensare. Ogni cronaca, ogni rendiconto, ogni giudizio se è vivo e pensato deve offendere, come scorretto e tendenzioso e capzioso, qualcuno che ha visto o giudicato lo stesso fatto con altri occhi e con altro cervello.

 

 

Nulla di più irriverente alla libertà del pensiero di andar cercando rimedi a siffatto irrimediabile e necessario e benefico stato di cose. L’oratore in un’assemblea o in un comizio non può sperare di ottenere imparzialità, la imparzialità da lui desiderata, nemmeno se egli fornisce il testo preciso del discorso da lui pronunciato al giornalista; poiché è diritto assoluto, irrecusabile del giornalista di tagliare, sfrondare e riassumere il discorso secondo il criterio suo proprio; e tagliando, sfrondando e riassumendo ricreare il discorso secondo detta il suo cervello, quello del giornalista e non quello dell’oratore. È chiaro che la eccellenza nell’arte giornalistica sarà conseguita da colui il quale riesce ad immedesimarsi siffattamente nel pensiero dell’oratore, da riprodurlo o riassumerlo con la fedeltà ed obbiettività massima; ma è chiaro altresì che l’eccellenza raggiunta è opera esclusiva insindacabile del giornalista. Chi si lagna della infedeltà nei rendiconti, dimostra di essere uomo di cattivo gusto. Nove volte su dieci è un esibizionista, il quale pretenderebbe che i giornali si occupassero di lui e dei suoi cosidetti pensieri, sebbene egli sia il signor “nessuno” ed i suoi pensamenti siano rifriggiture di nozioni mal digerite. Quell’una volta su dieci, in cui la querela abbia un certo fondamento, il, chiamiamolo così, danneggiato ha diverse maniere di ristabilire quella che a lui pare la verità. La peggiore di tutte è la richiesta di una rettifica, per mano di usciere o per atto di cortesia, al giornale colpevole di tendenziosità o di capziosità. Se non si tratti di rettificare fatti o dati precisi, la rettifica finisce di essere più lunga della notizia o del commento tendenzioso e la richiesta dell’inserzione offende il diritto sacrosanto del direttore del giornale di comporre il giornale secondo i criteri i quali paiono buoni a lui e di non lasciarsi trascinare a polemiche e controrettifiche e spiegazioni quasi sempre inconcludenti e noiose.

 

 

Esistono sempre giornali di altri partiti, di altre tendenze, i quali saranno ben lieti di ospitare, non rettifiche (le quali indicano la mancanza di ogni più elementare senso di buon costume giornalistico in chi, facendole, non si limita a restaurare dati precisi di fatto senza apprezzamenti o controversie), ma riesposizioni o rielaborazioni di pensiero o di condotta letteraria o politica od artistica. Che cosa sono i giornali di parti avverse se non mezzi di far giungere al pubblico la espressione di pensieri contrastanti? E non è forse uno dei tanti modi di esprimere pensieri contrastanti quello di narrare il medesimo fatto in maniere differenti, di giudicare pessimo quell’atto o giudizio che altri considera ottimo? Il pubblico, nel contrasto, è il solo giudice sovrano. È ovvio ed è bene che i giornali di parte, dove i fatti e i giudizi sono necessariamente tendenziosi, siano letti soltanto dai seguaci risoluti di quella parte e dagli avversari altrettanto decisi a cercare motivi di polemica; ed è ugualmente ovvio che il grande pubblico si rivolga invece di preferenza ai giornali i cui direttori si sforzano di raggiungere la obbiettività massima compatibile con la fralezza della natura umana. Ma è anche ovvio e necessario che gli uni e gli altri giornali non siano frastornati dai rompiscatole, sempre pronti ad accusare di tendenziosità o di parzialità o di incompiutezza ed a pretendere rettifiche ed integrazioni. Costoro, i rompiscatole, meritano ed ottengono, in regime di vera libertà di stampa, una sanzione decisiva; il silenzio. Silenzio di tomba sui loro atti e misfatti, sui loro pensieri o pensamenti.

 

 

Sino a che non si giunga all’ingiuria, alla diffamazione od alla calunnia, il giornale deve essere libero di scrivere e non scrivere, di far rendiconti lunghi o brevi, di esporre notizie nel modo che meglio talenti al direttore, di giudicare bene o male, di ragionare colla testa o coi piedi. Si può essere sicuri che, in regime di libertà compiuta di stampa, il giornale sistematicamente tendenzioso o falsificatore sarà giudicato tale anche dai lettori e vedrà ridursi la sua tiratura e la sua pubblicità. Se vorrà, nella gara quotidiana, sopravvivere, dovrà correggersi da sé. Se non lo farà, andrà a fondo.

 

 

L’ingiuria, la calunnia e la diffamazione sono materia di tribunali penali. Fummo, in Italia, indulgentissimi in proposito; e converrà cambiar metro. Norme severe, se necessario, dovranno essere introdotte ed osservate per punire i calunniatori, gli ingiuriatori ed i diffamatori a mezzo dei giornali, alla pari dei colpevoli ordinari di calunnia, di ingiuria e di diffamazione. Anzi più. La circostanza che il reato fu compiuto a mezzo della pubblica stampa deve essere considerata come un’aggravante e la pena deve essere perciò accresciuta e non diminuita. Se l’opinione pubblica incoraggerà i giudici ad essere severissimi, spietati contro i reati di giornalismo, grande giovamento ne ritrarrà la nostra missione.

 

 

Junius

Contro la proporzionale

«L’Italia e il secondo risorgimento», 4 novembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 59-67

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 125-139

“Proporzionalismo” è, come la più parte delle parole in “ismo”, parola degenerata; variazione impura dell’idea di “proporzione” che è bellezza, che è giustizia, che è sapienza, che è uguaglianza. Il Partenone, che non è perfetto rettangolo, che non è perfettamente perpendicolare, le cui colonne non sono perfettamente equidistanti, è proporzione ed è perciò bellezza perfetta. Il grattacielo novecentistico che ubbidisce compiutamente alle regole della uguaglianza e perpendicolarità è bruttezza perfetta. Uomini ubbidienti alle regole della uguaglianza e della giustizia numericamente perfetta inventarono il metodo detto “proporzionale” nella formazione dei consessi legislativi. Il metodo non si applica ordinariamente nella scelta dei membri dei senati o camere alte, sia che essi derivino, in tutto od in parte, da nomina regia o presidenziale o siano tratti da particolari gruppi o ceti sociali ovvero siano i delegati di stati o comuni federati o di circoscrizioni territoriali più o meno autonome. Qui ebbero gran peso gli accidenti storici, i quali presiedettero alla formazione degli stati moderni, e le forze sociali o politiche o militari, dalle quali sorse un dato tipo di stato o di costituzione; e poiché gli accidenti e le forze non ubbidiscono alle regole della logica pura, le camere alte sono necessariamente costruzioni violatrici per antonomasia dei comandamenti della logica pura e della geometria politica. Non per questa ragione esse operano bene o male; ma per altre cause che qui sarebbe fuor di luogo esaminare.

Le esigenze della giustizia si impongono invece ovviamente, a parere dei più, nella scelta dei membri delle camere elettive. Nessun altro metodo migliore essendosi nei tempi moderni escogitato fuor del contare le teste e del dare il maggior peso politico al maggior numero degli elettori, il problema parve ridursi a quello della scoperta del metodo migliore da usarsi nel contare le teste degli elettori. Due metodi opposti si possono applicare in proposito: quello del collegio elettorale piccolo, i cui elettori sono chiamati ad eleggere a maggioranza un solo deputato e quello del collegio grande, in cui gli eletti siano scelti in base alla forza proporzionale degli aderenti ai vari partiti concorrenti.

Ove si scelga il primo metodo e si supponga che la futura camera italiana sia composta di 500 membri, come era all’incirca prima del 1922 e che gli italiani giungano a 45 milioni, dovremo dividere il territorio nazionale in 500 collegi, ognuno dei quali, forte di circa 90.000 abitanti, sarà chiamato ad eleggere un deputato.

In Italia lo si usava eleggere a maggioranza assoluta dei votanti. Se gli elettori iscritti, supponendo per il momento che le donne siano escluse dal voto, sono, ad es. 25.000, ed i votanti 20.000, era dichiarato eletto quel candidato il quale riportava almeno 10.001 voti. In Inghilterra, basta la maggioranza relativa; e, perciò, se i candidati sono tre e 20.000 i votanti ed il candidato conservatore riporta 9000 voti, quello laburista 8000 e il liberale 3000 voti, è dichiarato eletto il candidato conservatore, sebbene rappresenti solo una minoranza degli elettori votanti. Anche in Italia poteva accadere che i candidati fossero tre o più e nessuno di essi riuscisse eletto a maggioranza assoluta alla prima votazione; ed allora si procedeva nella successiva domenica ad una seconda votazione detta di ballottaggio, limitata però, nell’esempio fatto sopra, ai due soli candidati conservatore e laburista, rimasti primi in lizza; e riusciva eletto chi dei due riportava il maggior numero dei voti. Il secondo criterio è parso agli italiani più giusto, perché consente agli elettori di esprimere le loro preferenze di maggioranza a favore dell’uno o dell’altro candidato.

Non appena tuttavia si comincia a parlare di “giustizia” nella scelta dei deputati, subito si vede che il sistema del piccolo collegio, detto uninominale, non soddisfa alle esigenze della giustizia nella ripartizione dei mandati e può dar luogo a risultati strani. Siano 1.000.000 gli elettori votanti di una grande regione e 50 i deputati da eleggere. Se 400 mila sono gli elettori conservatori, 400 mila i laburisti e 200 mila i liberali, a ragion di aritmetica proporzionalistica ai conservatori spetterebbero nel grande unico collegio esteso all’intera regione 20, ai laburisti 20 ed ai liberali 10 deputati. Ma se la regione è divisa in 50 piccoli collegi, chiamati a scegliere ciascuno un solo deputato, possono accadere le combinazioni più impensate. Può darsi, ad esempio, che i 400 mila elettori laburisti siano concentrati in 10 grossi borghi industriali, dove essi, possedendo la maggioranza assoluta, mandano alla camera dieci deputati. I 200 mila liberali sono forti in sole tre cittadine commerciali ed una universitaria e ricevono perciò 4 soli mandati. I conservatori hanno la maggioranza relativa nei 36 altri collegi, a popolazione prevalentemente rurale o mista ed ottengono 36 mandati, sebbene in parecchi di essi la loro maggioranza relativa ovvero (se sia applicato il metodo italiano) assoluta, sia esigua. I liberali sono ridotti ad una piccola pattuglia, i laburisti hanno una rappresentanza inferiore alla loro forza nel paese, ed i conservatori stravincono oltre ogni giustizia.

Accanto a quello dell’ingiustizia un altro inconveniente si rinfaccia al piccolo collegio uninominale ed è il grado molto notevole di mutabilità nella composizione della camera elettiva in confronto a quella del corpo elettorale. Cresca invero da 400 a 420 mila il numero degli elettori laburisti e scemi a 391 mila il numero degli elettori conservatori ed a 189 mila quello degli elettori liberali. Nell’unico grande collegio regionale con rappresentanza proporzionale (1 eletto ogni quoziente di 20 mila elettori o frazione più alta di 20 mila) i laburisti ottengono 21 mandati, i conservatori 20 ed i liberali 9. La composizione della rappresentanza parlamentare muta, secondo giusta ragione, di poco. Invece, nel sistema dei piccoli collegi, la maggioranza conservatrice, che in 20 sui 36 collegi posseduti era piccola, può andare perduta a favore dei laburisti. Se questi conservano le loro forze nei 10 loro vecchi collegi, ecco il numero dei laburisti balzare da 10 a 10 più 20, ossia 30 e diventare maggioranza; e poiché i conservatori da 36 si riducono a 16 mandati ed i liberali conservano i 4 collegi, il potere passa ai laburisti. È la classica frana (land slide) elettorale. Un “minimo” spostamento di voti basta a mandare l’uno piuttosto che l’altro partito al potere; che è nuova ingiustizia aggiunta alla prima.

Giova subito dire che nei paesi anglosassoni, nei quali il regime democratico si è meglio affermato come atto a governare grandi stati, l’opinione pubblica è rimasta nella sua grandissima maggioranza praticamente insensibile a questa che parrebbe chiara ed evidente dimostrazione della ingiustizia propria del sistema del piccolo collegio uninominale. Invano la piccola pattuglia liberale, la quale tende ad essere a poco a poco eliminata dall’abbandono degli elettori, pure fedeli ai principii del partito, ma disgustati dalla inutilità dei voti assegnati ad una parte schiacciata fra le due maggiori, tentò anche recentemente di dimostrare l’ingiustizia di assegnare 36 mandati al partito che aveva appena ottenuto il 40% dei voti, 10 soli a quello che aveva per sé il favore del 40% degli elettori e quattro al terzo partito che pure disponeva del 20% dei suffragi. Invano tentò di far presente ai conservatori il rischio di diventare minoranza di parlamento e di dover perciò abbandonare il potere se venti sole migliaia di elettori avessero spostato il loro voto. Conservatori e laburisti rimasero insensibili alle argomentazioni di ingiustizia e di mutabilità governativa e deliberarono di tenersi stretti al vecchio metodo del collegio piccolo uninominale.

Si interessarono tutti, sia detto di passata, assai di più ad un’altra questione, che a noi parrebbe piccolissima, quella della eventuale convenienza di ricostruire l’aula della Camera dei comuni distrutta dai bombardamenti tedeschi, in modo che nella nuova aula potessero star seduti tutti i deputati di cui nella vecchia aula un buon terzo doveva stare in piedi a causa dell’angustia dello spazio. Ed, unanimi, deliberarono non solo di non ricostruire l’aula ad anfiteatro così da far parlare l’oratore al numero massimo di colleghi e di conservare la vecchia forma rettangolare, che fa parlare l’oratore solo alla parte avversa; ma di mantenerla nelle sue antiche anguste dimensioni, sì da obbligare nelle sedute affollate molti membri a star in piedi in fondo alla sala. Deliberarono così, perché ritennero che una delle condizioni essenziali del buon funzionamento del regime parlamentare sia quella che l’aula dei dibattiti non si converta in un comizio rivolto al pubblico, ma conservi il carattere di una stanza nella quale gli uomini del governo in carica intervengono a difendere l’opera propria e gli uomini del governo futuro sorgono a criticare l’opera medesima; in un’atmosfera di mutua stima e di sforzo di vicendevole persuasione rivolto al bene comune.

Le ragioni per le quali la madre dei parlamenti non si interessò quasi affatto al dibattito tra i fautori del sistema proporzionale nel grande collegio e quelli del sistema di maggioranza nel piccolo collegio sono complesse. Esse si possono riassumere in due specie di considerazioni, attinenti le une ai limiti e le altre ai compiti dei partiti nella vita politica. Attinenti in primo luogo ai limiti; e qui sia osservato subito che i partiti sono un mero strumento. La vita politica, la partecipazione consapevole dei cittadini alla cosa pubblica non consiste nel creare partiti e nel votare per gli uomini designati dai partiti. Questi non sono un fine, un ideale; sono un semplice mezzo con il quale si cerca di rendere più agevole ai cittadini di formarsi una opinione e di rendere efficace ed attiva l’opinione medesima. È utile che coloro i quali per la loro comune cultura, per l’affinità dei loro interessi, per la simiglianza dei loro ideali di vita intendono avviare lo stato verso una meta ritenuta preferibile ad altre, si raggruppino insieme e cerchino di far proseliti, di ottenere aderenti al proprio ideale e di persuaderli ad inviare nel parlamento uomini deliberati a far trionfare nelle leggi e nell’azione concreta di governo gli ideali comuni. Altri, che ha diversi ideali, è bene si unisca con coloro con i quali ha comunanza di idee, per tentare parimenti di guadagnare il favore degli elettori. Non esiste a priori un limite al numero delle correnti politiche diverse, le quali possono manifestarsi a mezzo dei partiti. Invece di cinque o sei, i partiti potrebbero diventare dieci o dodici o ridursi a due o tre, come accade nei paesi dove il meccanismo parlamentare funziona più efficacemente. Come in tutte le cose umane, l’utilità dei partiti, che è di raggruppamento degli uomini aventi opinioni comuni per il raggiungimento di scopi comuni di carattere politico, incontra limiti, oltrepassati i quali l’utilità si converte in danno. Può essere conveniente riunirsi in partiti per dare a talune correnti di idee una rappresentanza nel parlamento; ma quale scopo avrebbe – per porre un caso estremo – aderire a questo od a quel partito allo scopo di fare prevalere questa o quella opinione filosofica o religiosa, questa o quella teoria scientifica? La verità filosofica – se debba essere rappresentata dalla dottrina immanentistica o trascendentale o esistenziale -; la verità economica – se la teoria del valore-lavoro sia vera o falsa, se la teoria della moneta- lavoro abbia un qualche senso -; la verità storica – se le variazioni storiche si spieghino o non col materialismo economico – non sono decise da alcuna maggioranza in qualsiasi parlamento. Se anche una unanimità parlamentare decida, come tra applausi fragorosi consentì una tal quale assemblea in regime totalitario, che la teoria dell’autarchia economica è la sola vera e la sola lecita, basta la dimostrazione contraria di un solo studioso ribelle per mettere nel nulla qualsiasi deliberazione di partiti e di parlamenti. Esistono idee tendenze opinioni credenze le quali sono al di fuori della azione dei partiti e su cui questi non possono menomamente influire. Gli italiani non devono trovare alcun impedimento alla libera varia spontanea espressione dei loro desideri, delle loro aspirazioni, delle loro tendenze, dei loro propositi. Il fatto che i partiti, quelli sorti o apparsi alla gran luce dopo il 25 luglio, hanno provvisoriamente assunto la rappresentanza degli italiani non ha affatto per conseguenza che gli italiani debbano essere rappresentati esclusivamente dai partiti medesimi, né che essi debbano farsi valere soltanto attraverso ad essi.

Principiis obsta. Importa fin da ora, fin dal primo inizio della nuova vita politica italiana, affermare nel modo più chiaro e reciso – non adopero, perché ripugnante, la brutta parola “inequivocabile” venuta di moda a scopo di intimidazione nel tempo del ventennio fascista – che gli italiani non hanno affidato e non debbono affidare ad alcun partito o riunione di partiti la rappresentanza delle loro idee e dei loro interessi. Esiste forse una qualsiasi differenza fra l’impero esclusivo dell’unico partito fascista sulle cose della educazione, dello sport, della stampa, della editoria, del commercio, dell’economia ecc. ecc., e l’esclusività che si vorrebbe attribuire ai partiti nei rapporti fra i cittadini e lo stato? Inavvertitamente, lo spirito fascista, caduto il regime, proietta ancora la sua triste ombra su di noi. Inavvertitamente, quando ci rivolgiamo a “qualcuno”, ad un uomo, ad un partito, ad un gruppo, perché ci guidi, ci indirizzi noi facciamo dedizione della nostra volontà, noi rinunciamo ad essere uomini e cittadini.

Perché la libertà, la democrazia, l’autogoverno diventino una realtà viva, perché noi non ci limitiamo a mutar fianco sul letto di dolore, ma ci risolviamo a rizzarci in piedi, uopo è, ad esempio, che gli italiani:

  • ricostituiscano essi la loro stampa, che sarà o non sarà di partito, a seconda dei propositi di chi farà questo o quel giornale; e la sola esigenza sarà che siano dichiarati apertamente i partiti dei quali ogni giornale sarà l’organo o gli uomini individualmente, all’infuori dei partiti, responsabili della pubblicazione;
  • manifestino liberamente le loro opinioni ed i loro voti e li facciano pervenire, dove e come vogliono e possono, sia al governo legale, sia al partito da ognuno preferito, sia direttamente all’opinione pubblica in genere;
  • formino, oltre ed accanto ai partiti, comitati e movimenti intesi a propugnare idee che non trovano luogo od accoglimento nei programmi dei vari partiti o non vi trovano quel luogo eminente che a taluno può sembrare essere il loro proprio. Vi è chi crede essere la federazione europea o quella degli stati democratici un punto programmatico di primissima importanza nelle decisioni le quali dovranno essere prese alla fine della guerra? Reputa altri dovere essere agitata sovratutto l’idea della immediata abolizione della protezione doganale, dei vincoli al commercio internazionale e simili? Chi ha queste opinioni sia libero di costituire leghe, movimenti, associazioni a quello scopo particolare; leghe e movimenti intesi ad agire sulla opinione pubblica, sul parlamento, sul governo, sui partiti medesimi, senza il beneplacito e senza la sanzione o l’intermediazione necessaria di verun partito o comitato di partito. Ed i comitati ed i movimenti e le leghe siano, se così piace, momentanei ed effimeri; comitati di studio e di iniziativa, destinati a raccogliere temporaneamente tutti coloro che in un certo momento ritengono un problema così importante da dovere essere illustrato a quanti, privati ed enti pubblici, partiti o parlamenti o governi, possono avere una qualche voce nel decidere in merito.

Solo dopo aver posto nettamente la distinzione tra i partiti e le opinioni, tra il compito dei partiti politici e quello delle varie correnti religiose, filosofiche, sociali, economiche e politiche, è possibile dare un giudizio intorno alla pretesa di tutte le correnti ideali ed economiche esistenti in un paese di essere rappresentate nei parlamenti in proporzione alla propria importanza numerica. Quella pretesa fu sin dal 1842 chiaramente posta da Victor Considerant in uno dei primi scritti proporzionalistici: «tutte le opinioni, anche le più assurde e mostruose, hanno diritto di essere Rappresentate».

Ebbene no. È necessario dichiarare invece apertamente che questa della rappresentanza delle opinioni è, come tante altre, come ad esempio quella della autodecisione dei popoli e della separazione assoluta del potere legislativo da quello esecutivo o della sovranità dei parlamenti sui governi, e, peggiore di tutte, della sovranità piena degli stati indipendenti, una concezione distruttiva anarchica, inetta a dar vita a governi saldi. La rappresentanza proporzionale fu inventata da aritmetici raziocinatori, inetti a capire che i paesi non si governano con le regole del due e due fanno quattro, e del 38 più 15 maggiore di 47. Nossignori: due e due possono fare cinque e 47 vale certamente meglio di 38 più 15. I parlamenti non sono società di cultura od accademie scientifiche. Sono organi, il cui scopo unico è quello di formare governi stabili e di controllarne l’azione. Come disse il primo ministro del primo governo laburista, Ramsay Mac Donald, le elezioni non si fanno per contare le opinioni, per fare il censimento (census, in inglese) delle sette, dei ceti, dei partiti, dei movimenti, dei gruppi sociali, religiosi, politici, ideologici in cui si fraziona una società, la quale sia composta di uomini vivi e pensanti; ma si fanno per mettersi d’accordo in primissimo luogo sul nome della persona che in qualità di primo ministro sarà chiamato a governare il paese, e in secondo luogo sul nome di coloro che collaboreranno con lui o che ne criticheranno l’operato. Le elezioni hanno cioè, per scopo di creare il consenso (consensus e non census) intorno ad un uomo ed al suo gruppo di governo ed intorno a chi oggi sarà il suo critico e domani ne prenderà il posto se gli elettori gli daranno ragione. Se non si vuole l’anarchia, questo e non una sterile accademica rassegna di opinioni è lo scopo unico preciso di un buon sistema elettorale.

Risponde alla esigenza il sistema della proporzionale? No. I suoi fautori, ossessionati dall’idea curiosa che un parlamento debba essere la fotografia della infinita varietà delle opinioni che lottano in un paese libero, hanno dimenticato curiosamente che esiste un rapporto fra il sistema elettorale vigente in un paese ed il numero delle frazioni e dei gruppi in cui si divide il suo parlamento. Vogliamo che il numero dei partiti, dei gruppi, dei sottogruppi parlamentari si moltiplichi all’infinito? Dobbiamo in tal caso scegliere la proporzionale; ma dobbiamo nel tempo stesso sapere che, così facendo, avremo fatto quel che meglio si poteva per impedire il funzionamento di un governo solido, duraturo ed operoso. Colla proporzionale, ossia con un collegio elettorale grande (ad es. Lombardia, Piemonte, Emilia ecc.), chiamato ad eleggere, supponiamo, 50 deputati, scelti in modo che ogni gruppo, il quale giunga almeno a 20 mila elettori, abbia un proprio rappresentante, noi diamo un premio al moltiplicarsi dei gruppi. Ognuno, il quale abbia o creda di avere un’idea capace di attirare a sé 20 mila elettori, promuoverà la formazione di un proprio gruppo. C’è chi vuole sia posto un dazio sul grano? O chi dice essere un inaudito sopruso l’obbligo della vaccinazione? O chi voglia la denuncia del concordato col Vaticano? O la introduzione obbligatoria della partecipazione ai profitti degli operai? O chiede sia introdotto l’istituto del divorzio? C’è chi è comunista staliniano? Ovvero trotzkista? Od anarchico di una delle varie confessioni anarchiche? O liberale all’antica, o neo-liberale? Conservatore-liberale? Conservatore-riformista? Cristiano-centrista o cristiano comunisteggiante? Perché il possessore di una opinione distinta e ben netta, di un programma particolare da attuare, il quale a lui paia sovra ogni altro importante, non dovrebbe tentare di costituire un gruppo? Ed ecco i 50 deputati della Lombardia divisi in quattro o cinque o dieci gruppi, provveduti ognuno di tanti deputati quanti sono i quozienti di almeno 20 mila elettori che ogni gruppo è riuscito a raccogliere sotto la sua bandiera. Ed ecco i 50 deputati del Piemonte divisi in altri tre o quattro o sei gruppi, non identici necessariamente ai gruppi lombardi. In ogni grande collegio, in Liguria, nel Veneto, in Toscana, in Sicilia, gli interessi, le opinioni, i gruppi sociali sono diversi ed i gruppi hanno una particolare fisionomia; ed ecco i parlamenti frazionarsi all’infinito. Pur non esagerando, la probabilità della formazione di tre o quattro grossi partiti e di una diecina di minori gruppi è evidente ed irrimediabile. Con siffatta composizione non è improbabile che la formazione di una maggioranza di governo dipenda dall’appoggio di qualche gruppo minore, il quale non rappresenta alcun interesse veramente generale o nazionale, ma una qualunque idealità particolare, cara ad una piccola minoranza della nazione. Se ci sono venti deputati divorzisti ed altrettanti deputati anticoncordatari decisi a vendere il proprio voto al più alto prezzo, pur di far trionfare il proprio particolare punto di vista, ci troveremo dinnanzi ad un governo di coalizione, il quale sarà costretto a far votare dalla propria maggioranza la legge divorzista o quella anticoncordataria od un’altra qualunque legge, senza che vi sia alcuna benché minima probabilità che quella legge sia sul serio voluta dalla maggioranza degli elettori. I deputati sono eletti su programmi particolaristici classistici professionali religiosi, i quali interessano questa o quella minoranza, questa o quella fazione. Ogni gruppo spinge avanti il proprio programma particolare; e la legislazione che ne esce è un composto bizzarro di norme particolaristiche, volute ognuna da una piccola minoranza e tali che sarebbero, se il referendum fosse una maniera ragionevole di formulare leggi in faccende talora complicatissime, respinte tutte dalla grandissima maggioranza dei cittadini.

In fondo la proporzionale è il trionfo delle minoranze; ognuna delle quali ricatta le altre ed il governo, il quale dovrebbe essere l’espressione della maggioranza, per costringere parlamentari e governi a votare e proporre leggi volute dai singoli gruppi. Cinquanta divorzisti eletti come tali e formanti gruppo a sé sono una forza ben diversa da cinquanta deputati, i quali hanno iscritto il divorzio in un programma più generale di un partito ad ideali complessi, di cui il divorzismo è solo uno dei tanti aspetti. Il gruppo dei divorzisti che non si preoccupa d’altro che del divorzio è disposto a dare il voto a chiunque gli prometta di far trionfare il suo piccolo ideale e può, all’uopo, addivenire alle alleanze più illogiche. I divorzisti generici invece, se facciano parte di una maggioranza che non vuol rinunciare al governo o di una minoranza che non vuole perdere la speranza di conquistarlo, daranno al divorzio un posto adeguato nell’ordine gerarchico dei fini da conseguire; e solo se esso sia veramente richiesto dalla coscienza giuridica nazionale lo anteporranno agli altri e giocheranno su esso le fortune del partito.

Insieme ai ricatti, la proporzionale favorisce il dominio dei comitati elettorali e toglie all’elettore ogni effettiva libertà di scelta dei propri rappresentanti. In un grande collegio, come la Lombardia od il Piemonte, nel quale l’elettore deve scrivere o far proprii i nomi di 50 candidati, quale conoscenza mai l’elettore ha di ogni singolo candidato? Ne conoscerà uno o due o tre; gli altri per lui sono meri nomi. Egli deve votare la lista quale gli è presentata dal comitato. Ogni cancellazione o sostituzione di nomi sarebbe vana. Tanto varrebbe che egli si astenesse dalle urne. Più il metodo viene perfezionato con i sistemi delle preferenze dell’abbinamento delle liste o dei voti cumulati, più imbrogliamo la testa dell’elettore medio e più cresciamo il potere dei comitati che combinano le preferenze, i cumuli, gli abbinamenti. L’elettore buon uomo ha creduto di dare il voto ad una lista perché in essa aveva veduto i nomi di persone stimate e note; ed alla fine, con sua stupefazione, vede quei nomi cacciati in fondo alla lista, epperciò non eletti. In testa, sono arrivati i traffichini, coloro che combinano e pasticciano liste, preferenze, cumuli e simiglianti imbrogli.

Nei grandi collegi regionali o, peggio, nazionali, che sono l’accompagnamento necessario della proporzionale, il partito fatalmente diventa una organizzazione dominata dall’alto. Dai comitati spontaneamente formatisi tra uomini dimoranti nella medesima città (o comune), e poi via via raggruppati in comitati provinciali, regionali e nazionali, nasce l’organizzazione; e questa vuol dire un ufficio, anche mobile o provvisorio, con uno o parecchi segretari, un consiglio, un presidente o somiglianti organi direttivi. Si costituisce una gerarchia, che originariamente mossa dal basso all’alto, presto diventa interdipendente tra il basso e l’alto. Se il partito acquista una organizzazione nazionale, fatalmente finisce per preponderare l’azione, la decisione che va dall’alto al basso. Si crea una macchina; ed è la macchina la quale in sostanza designa i candidati al parlamento, distribuisce le cariche, formula i programmi, influisce sulla composizione dei governi. Guai all’uomo politico indipendente, il quale non segua le direttive del partito, il quale osi criticare gli uomini del partito di governo od i capi designati al futuro governo dei partiti di opposizione. Nasce la tirannia del partito, funesta come qualsiasi altra tirannia. Napoleone perfezionò l’istituto degli “intendenti” dell’antico regime e dei “commissari” della convenzione e creò la macchina “prefetto”, che aduggia ed annulla in Francia ed in Italia il valore della democrazia. Non meno funesta è la macchina del partito. In taluni paesi, i pericoli della “macchina” di partito sono apparsi così evidenti, che, sotto la pressione dell’opinione pubblica, i legislatori hanno dovuto emanare norme allo scopo di assicurare la libertà e la effettiva manifestazione della volontà degli aderenti ai partiti. Il costume politico, accanto alle leggi, ha negli Stati Uniti regolato oramai le elezioni dei “candidati” alle cariche parlamentari e pubbliche “in seno ai singoli partiti” altrettanto minuziosamente come le elezioni “tra i candidati” da parte degli elettori in genere, allo scopo di sottrarre la scelta dei candidati al monopolio dei comitati municipali, provinciali, statali e nazionali, comitati i quali nel loro insieme costituiscono la “macchina” del partito.

I comitati, divenuti padroni delle elezioni, fanno invero degenerare l’istituto del mandato rappresentativo; che, se vale qualcosa, è un mandato di fiducia dato ad una persona, affinché questa voti od operi nel modo che la coscienza gli detta nelle circostanze ognora mutabili della vita pubblica. Ma i comitati non vogliono nei parlamenti uomini dalla coscienza indipendente; sì invece uomini che attuino quel programma che sta scritto nelle tavole della legge del partito o del gruppo o gruppetto; epperciò si inventano i mandati imperativi, con le dimissioni in bianco, sottoscritte dai candidati prima delle elezioni e spedite d’ufficio al presidente della camera quando il deputato recalcitri agli ordini del comitato del partito, del gruppo o gruppetto. Il flagello dei comitati non è proprio della proporzionale; ma è aggravato da questa. Che cosa è il candidato invero, se non un numero di una lista? È forse egli una “persona” atta a pensare e deliberare in modo autonomo? No. Egli è stato votato perché iscritto in una lista. Talvolta gli elettori non scrivono neppure il suo nome; e sono invitati a votare per la lista bianca o verde o rossa o gialla. Se egli, bianco, alla camera vota coi verdi, è un traditore e sarà espulso. Moltiplicando i partiti, ed asservendoli ai comitati, la proporzionale favorisce le dittature ed i colpi di mano. Col sistema della maggioranza nel piccolo collegio, ogni partito ha la speranza di diventare in avvenire maggioranza seguendo le vie legali della persuasione degli incerti. Ma quale mai speranza può avere una minoranza di… – chiamiamoli divorzisti od antivaccinisti per non designare in modo particolare questo o quel partito o tendenza od opinione – quale speranza, dico, possono avere i divorzisti o gli antivaccinisti di diventare maggioranza? Nessuna. La proporzione dà ad ogni partito o gruppo tanti rappresentanti quanti sono gli elettori aderenti a quel credo. Quale probabilità ha il divorzista di far proseliti tra gliantivaccinisti e di diventare così maggioranza? Nessuna: il divorzista resta tale e l’antivaccinista pure. Perché dovrebbe accedere all’opinione altrui? Altro rimedio non resta, per conquistare la maggioranza, se non ricorrere all’antico accettato e lodato metodo dello spaccare le teste degli avversari, invece di contarle, come è usanza delle contrade civili.

Se in questa materia le statistiche valessero qualcosa, varrebbe la pena di fare il conto dei paesi governati dopo il 1918 da costituzioni perfettissime elaborate da costituenti sapientissime e naturalmente retti da parlamenti eletti a norma delle più raffinate regole proporzionalistiche. Si vedrebbe che nei paesi i quali dimenticarono l’aurea massima secondo cui le sole costituzioni vitali sono quelle che o non furono mai scritte, come quella britannica o se in tempi oramai remoti (1787, 1830, 1848 ecc.) furono scritte, i costumi e gli emendamenti ne cambiarono la faccia in modo da renderle di fatto una cosa tutta diversa da quella originaria; si vedrebbe che quasi sempre le assemblee proporzionalistiche andarono a finire nella dittatura. Uno scrittore americano fece quel conto; ed essendogli venuto fuori il bel risultato che dopo il 1919 la proporzione finì bene in stati abitati da 40 milioni di abitanti e finì male, ossia la dittatura, in assai più stati, popolosi di ben 200 milioni, concluse, che la proporzionale è il vero cavallo di Troia con cui i regimi autoritari riescono a penetrare nelle fortezze democratiche. Insigne fra i casi di tradimento della proporzionale fu quello italiano, dove nessun governo duraturo poté reggere dopo il 1918.

Bisogna rassegnarsi a piantarla lì con i piccoli giochetti aritmetici della cosidetta giustizia proporzionale nel decidere intorno a faccende serie come sono la scelta dei legislatori e dei governi. Non è cosa seria presentare liste composte non di nomi di persone, ma di formule stampate nei più diversi colori dell’iride. L’elettore fa d’uopo sia costretto a decidersi: o Tizio o Caio. Se anche Sempronio e Mevio si vogliono presentare ai suffragi dei conterranei, buon pro, lor faccia. Ma l’elettore deve, se vuol scrivere qualcosa, metter giù un solo nome, quello della persona che a lui pare più meritevole dell’alto onore. In Italia, se i deputati dovranno essere 500, si dovran fare 500 collegi o distretti elettorali di circa 90 mila abitanti l’uno. Un distretto di 90 mila abitanti è una entità naturale. Gravita attorno a una cittadina, ad un luogo di mercato; è composto di borghi aventi interessi comuni, abitati da gente che ha reciproci rapporti quotidiani. I candidati sono personalmente conosciuti dai loro amici: proprietari od industriali, operai o contadini, bottegai od artigiani, non di rado professionisti noti e più o meno stimati. Saranno celebrità locali? Tanto meglio. In un parlamento si infiltrano sempre troppi uomini celebri, illustri in questa o quell’arte o scienza e sovratutto nell’oratoria. Manca invece la gente la quale viene dal basso, che ha compiuto le sue prove facendo il sindaco o l’assessore dei comuni, governando leghe degli operai, cooperative o consorzi agricoli, amministrando opere pie od ospedali.

Il collegio piccolo, nel quale un solo candidato riesce eletto, non è certo il toccasana. Tirannie di comitati, mandati imperativi, imbrogli di faccendieri, imbottimento di crani della buona gente ad opera di chiacchiere di arrivisti sono mali inevitabili. Nessun parlamento al mondo vi si può  sottrarre. La mediocrità di tanti deputati italiani d’innanzi al 1922 era dovuta al sistema amministrativo accentrato, che faceva di ogni deputato un galoppino procacciante favori agli elettori. Ridiamo vita autonoma ai comuni ed alle regioni, mandiamo a spasso i prefetti ed avremo risanato in gran parte, nel solo modo adatto, la vita parlamentare. Se non è il toccasana, il collegio piccolo è il solo modo di forzare l’elettore a decidersi. È da riflettere persino se non convenga abolire il ballottaggio e proclamare vincitore subito il candidato il quale ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti. Se i votanti sono 20.000 e Tizio ha avuto 8000 voti, Caio 7000 e Sempronio 5000; sia eletto senz’altro Tizio, sebbene non abbia raggiunto la metà più uno dei voti. Peggio per gli elettori i quali non hanno saputo decidersi e tra il bianco di Tizio e il rosso di Caio, hanno preferito il grigio di Sempronio. In Inghilterra, tra i conservatori ed i laburisti, i liberali sono stritolati e perdono costantemente terreno. Gli elettori liberali si stancano di disperdere i loro voti e finiscono per riversare i loro voti, a seconda delle inclinazioni, sui conservatori e sui laburisti. Vecchio (sebbene abbia l’ingenuità di credermi, con altri quattro gatti dispersi nei cantoni più diversi del mondo, un neo liberale) liberale quale sono, non mi allarmo affatto di questa scomparsa del liberalismo in Inghilterra. Innanzitutto, può ben darsi che il malcontento dell’elettore medio verso i due partiti dominanti provochi una rinascita del partito liberale. In ogni caso quella scomparsa è apparente e vuol dire soltanto che il liberalismo sta permeando, sta trasformando i due grandi partiti; rende più aperti alle idee nuove i conservatori e più cauti e sperimentati i laburisti, che da noi si direbbero socialisti; rende liberale il conservatorismo e crea il socialismo liberale.

Le maggioranze nei parlamenti vivi sono fabbricate dagli elettori i quali non sono iscritti ai partiti organizzati; dagli uomini i quali giudicano governi e parlamenti alla cote sperimentale dei risultati ottenuti. Le camere hanno nei paesi moderni due uffici: l’uno è quello di costituire il governo del paese e ciò è compito della maggioranza; l’altro è quello di criticare l’opera del governo così costituito, e ciò è opera della minoranza. Se la maggioranza è di 4 e la minoranza è di 1, il governo è forte e può durare sino alla fine della legislatura; e la minoranza può pienamente esercitare l’ufficio suo che è quello di dimostrare che quel che fa il governo è mal fatto ed è criticabile a questo o quel punto di vista. Spetta agli elettori, alle prossime elezioni, dare un giudizio sull’operato del governo e sulle critiche dell’opposizione. Nessun male ed anzi molto bene se in queste nuove elezioni il mutamento anche solo di 2000 voti dai conservatori ai laburisti trasforma la maggioranza di 4 dei primi in una minoranza di 2; e se i laburisti da 1 diventano 3. Un buon sistema elettorale ha appunto per scopo di consentire agli incerti, ai 2000 su 100.000, la cui opinione non è già bell’e fatta, di spostarsi e di dar la vittoria all’una od all’altra delle due parti. La frana elettorale che gli inglesi chiamano landslide ed è impossibile nel sistema proporzionalistico, non è un male. Non è la massa degli elettori fedeli, la quale conta e deve contare. I conservatori fedeli rimarranno sempre tali, anche se il partito conservatore commettesse un sacco di spropositi durante la sua permanenza al potere; ed i fedeli laburisti chiuderanno sempre gli occhi dinnanzi agli errori dei propri rappresentanti. Chi decide e merita di decidere sono gli incerti, gli oscillanti, i quali giudicano sui risultati; fedeli ai conservatori sinché costoro fanno bene, rivoltosi in caso contrario. Il pendolo elettorale oscilla esclusivamente per merito della gente indipendente la quale regola la sua opinione non sulle parole, ma sui fatti. La rivolta degli elettori incerti consente alla pubblica opinione di farsi valere attraverso o nonostante la macchina dei partiti che tiene salda in pugno la massa degli elettori fedeli la quale non desidera formarsi una opinione propria ma accetta bell’e fatta l’opinione dei gruppi e dei loro capi. Grazie a questa opinione media indipendente ed oscillante ci si può sottrarre, nei collegi elettorali piccoli, dove le elezioni sono decise, tra pochi candidati noti, col sistema della maggioranza assoluta o, meglio, con quello della maggioranza relativa, alla molteplicità dei partiti ed allo spezzettamento dei gruppi politici nella camera elettiva. Gli elettori, che i partitanti si compiacciono di chiamare amorfi, votano a favore del partito che, facendo bene, ha commesso il minimo numero di errori o che dà affidamento di far meglio. Grazie ad essa nasce un governo saldo, che dispone di una forte maggioranza e non teme la critica della minoranza. Che importa che la minoranza sia piccola o grande? Purché essa esista, se anche ridotta di numero, se anche ridotta ai sette o cinque dei corpi legislativi del secondo impero e purché essa esponga critiche fondate, essa è sicura di spostare a proprio favore gli indipendenti e di conquistare la vittoria. Appetto di questi vantaggi che assicurano il buon governo del paese, che cosa conta il vanto dell’ossequio alla giustizia astratta del sistema proporzionalistico? Irrigidendo le opinioni, consentendo solo lentissimi spostamenti nelle assemblee legislative, essa è la consacrazione del dominio dei partiti i quali patteggiano tra di loro la condiscendenza propria alle idee altrui a condizione di reciprocità nella adesione altrui alle idee proprie. Al compromesso fecondo dinnanzi all’elettore medio indipendente il cui voto bisogna conquistare con la bontà dei programmi e più dei risultati conseguiti, si sostituisce il do ut des dei gruppi dei jacobins nantis, dei partitanti sicuri di conservare una parte del potere pur di lasciar godere della residua porzione altri partitanti anch’essi già arrivati.

L’errore massimo di principio della proporzione è di confondere la lotta feconda delle parti, dei gruppi, degli ideali, dei movimenti, la quale ha luogo nel paese, con la deliberazione e l’azione dei parlamenti dei governi. Nessun parlamento, nessun governo funziona se il sistema elettorale irrigidisce i partiti, i gruppi, le classi, i ceti sociali, le tendenze, le idee, dandone la rappresentanza esclusiva a talune persone elette perché mandatarie di quei gruppi o di quelle idee. Occorre vi sia un congegno il quale obblighi le idee, i gruppi, i ceti a cercare quel che essi hanno di essenziale, di comune con altri, a classificare i fini, a rivolgere la propria azione verso quel fine che ha il consenso dei più. I divorzisti hanno ragione di patrocinare il loro fine; ma è gran bene che lo attuino soltanto quando esso sia divenuto convinzione della maggioranza, quando questa lo abbia messo in testa al proprio programma. Se siano eletti come gruppo politico autonomo, i divorzisti sono una peste sociale, un germe di dissoluzione della società politica. Ove gli stessi uomini siano scelti perché, in contrapposto ad altri uomini, furono ritenuti i migliori, essi hanno necessariamente interessi ed ideali complessi da far trionfare, di cui il divorzio è uno solo. Da demolitori si convertono in costruttori. L’idea nuova non si difende e non si fa trionfare nei parlamenti. Essa nasce nei libri e nelle riviste, si propaga nei giornali, dà origine ad associazioni, a gruppi di propaganda, conquista l’opinione pubblica, e cioè l’opinione media, quella di coloro che non sono già gli adepti di un credo. Solo allora, ed è bene che ciò accada solo allora, se non si vuole che i parlamenti siano popolati da inventori sociali, da fanatici, da gente tocca nel cervello, gli uomini politici se ne accorgono. Solo allora i capi della minoranza vedono in quel movimento un pretesto per criticare il governo, il quale non ha ancora capito l’importanza della nuova idea. Solo allora i capi della maggioranza di governo, costretti a difendersi, si occupano del problema posto dall’idea nuova e vanno al contrattacco, dimostrando che l’idea non è nuova ed è sbagliata. La lotta si accende e, se davvero l’idea è nuova e vitale, viene il giorno in cui il capo della maggioranza, se vuol sopravvivere, proclamerà: l’ho sempre detto anch’io! e, convertendo quell’idea in legge, la fa trionfare nel momento giusto. Se il trionfo, per ricatto di gruppi, avesse avuto luogo prima, sarebbe stato ingiusto ed effimero.

Glorie e pericoli delle leghe operaie

Glorie e pericoli delle leghe operaie

«L’Italia e il secondo risorgimento» 12 agosto 1944

«La città libera», 22 marzo 1945[1]

«Il Progresso liberale», 16 febbraio 1946[2]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 507-514

 

 

 

 

Leghe operaie monopoliste e profittatrici? Non è la domanda medesima un’ingiuria agli scopi, all’indole del movimento, il quale innalzò dappertutto in Europa i lavoratori dalla miseria e dall’abbrutimento ad una condizione civile di vita, li chiamò a prender parte alla vita collettiva e politica, uomini integri e consapevoli, invece di strumenti passivi della volontà altrui? Questo, l’elevazione e la trasformazione dell’uomo lavoratore, fu il grande servizio che il movimento di libera associazione, iniziato al principio dell’800 in Inghilterra, variamente diffuso in Europa durante la prima metà del secolo, giunto in Italia poco dopo il 1870, rese al mondo. I lavoratori divennero cittadini quando cominciarono a trattare da pari a pari con i datori di lavoro; e, divenuti pari, furono lavoratori diversi da quelli di prima, sicché, in un ambiente di emulazione e di lotta, in un’atmosfera di libera contrattazione, e perciò informata, invece che ad ubbidienza comandata, all’osservanza di obblighi liberamente assunti ed osservati, essi contribuirono alla produzione più e meglio di prima e meritarono maggiori salari e condizioni più umane di vita.

 

 

L’aumento dei salari e la diminuzione delle ore di lavoro non fu la automatica conseguenza della mera associazione, del presentarsi uniti, invece che isolati, a contrattare. A nulla sarebbe valso il contratto collettivo, se la produzione non fosse aumentata e se la torta del reddito lordo da spartire non fosse cresciuta: il fermento innovatore che provocò, per effetto dell’opera delle leghe, l’aumento del prodotto lordo da spartire, fu la volontà dei lavoratori di vivere meglio, fu la deliberata volontà, resa manifesta dall’unione fraterna di tutti i lavoratori, di non continuare a soggiacere alle condizioni misere alle quali prima erano rassegnati. L’uomo che rialza il capo è diverso da colui il quale lo inchinava ossequioso; e costringe, col suo drizzarsi, l’altra parte a mutare sé e l’impresa sua, se vuole essere capace a trattare come uomo chi non vuole essere più servo. Chi scrive ha sempre veduto, sino dal 1897, quando descriveva i primi scioperi dei lanaiuoli nella Val Sessera (Biellese), in questa trasformazione dell’uomo lavoratore il vero grande servizio reso al mondo dalle leghe operaie; e se anche gli accadde di sentirsi in una delle assemblee legislative italiane vivacemente disapprovato per avere nel 1920, in pieno periodo cosidetto bolscevico, sostenuto la tesi che le lotte sociali allora imperversanti in Italia erano una grande promessa per l’avvenire del paese; se nel 1924 riaffermò la tesi nella introduzione ad un volume dal titolo Le lotte del lavoro, nel quale un indimenticabile diligentissimo suo allievo, presto divenuto scrittore ed editore insigne, epperciò tolto di vita dai fascisti, Piero Gobetti, volle adunare taluni suoi scritti sul movimento operaio; quella tesi, che era allora apparsa eterodossa, è stata confermata pienamente dall’esperienza del ventennio fascistico. Che non fu di pace sociale e di collaborazione fra lavoratori e datori di lavoro, ma di asservimento di ambedue le parti alla volontà ed ai fini di chi comandava. Mossi dalla paura tremante della lotta feconda, i datori di lavoro rinunciarono, per il piatto di lenticchie del divieto di sciopero, al diritto di primogenitura della libera direzione della loro impresa, e si rassegnarono a divenire gli esecutori degli ordini dello stato onnipotente; si sottrassero alle ansie della concorrenza, e vi sostituirono l’intrigo e la corruzione per ottenere favori a danno degli esclusi. Gli operai, a cui fu fatto divieto di associarsi liberamente in difesa dei propri interessi, in parte si abituarono a lasciarsi governare da funzionari corporativi, a cui la vita della miniera, della fabbrica e della terra era ignota; ed in parte ritornarono a cospirare in segreto ed a popolare carceri e luoghi di confino. Vent’anni perduti per l’educazione economica e sociale del paese, e perduti quando erasi già iniziata tra noi la mutazione del tipo del capo – lega operaio! Erano, sì, ancora numerosi gli oratori da comizi e gli agitatori frenetici, da null’altro sentimento mossi fuorché dal bisogno di far rumore, di provocare disordini e di marciare alla conquista di sempre nuove mete. Ma quello non era più il tipo di capo-lega più influente tra i suoi compagni. I lavoratori apprezzavano ognora meglio il dirigente attento, il bravo organizzatore, studioso dei problemi della fabbrica e del lavoro, il quale conosceva statistiche e dati su produzione e su prezzi e sapeva tener testa, nelle discussioni su salari e su cottimi, ai delegati della lega degli industriali.

 

 

Non dimenticherò mai, e lo ripeterò ogni qual volta ne avrò occasione, il motto finale che Francesco Ruffini, maestro di scienza e di vita, trasse da una sua esperienza di super – arbitro in una controversia tra operai ed industriali torinesi: «Durante tutta la discussione, i delegati operai discutevano quasi fossero miei colleghi (professori della facoltà giuridica dell’Università di Torino), ma i delegati padronali parlavano come il nostro bidello!». Il nostro bidello era uomo amatissimo da professori e studenti, ed il paragone voleva soltanto significare che il livello di cultura economica e tecnica raggiunto dai migliori operai era già, un quarto di secolo fa, più elevato di quello dei migliori tra gli industriali. Con siffatto materiale umano, lunga strada si poteva percorrere, se il cammino non fosse stato rotto dal silenzio ventennale imposto dalla tirannide. Il silenzio non ha soltanto vietato che la lotta, non più quella incomposta e violenta dei comizi e degli scioperi, prendesse sempre più sostanza di trattative e discussioni sulla base dei dati di fatto e di ragionamenti. Esso ha instillato nel movimento operaio un veleno, di cui i sintomi sono palesi anche fuori d’Italia e forse soprattutto nella terra madre di ogni avanzamento operaio, nell’Inghilterra; ma appaiono, per l’eredità infausta del regime corporativo, più gravi oggi fra noi che altrove. Anche in Inghilterra, le leghe, potentissime come non mai, tendono a profittare della loro potenza a vantaggio esclusivo dei propri soci; ma solo in Italia si vorrebbe da molti, forse dai più, consacrare siffatta esclusività con la creazione legale del sindacato unico. Le riflessioni che seguono non sono rivolte contro l’unicità, liberamente scelta, dall’associazione operaia entro la cornice della libertà legalmente assicurata ai lavoratori di costituire associazioni autonome indipendenti da quella detta unica. Esse sono rivolte contro la tendenza ad attribuire ad una associazione, comunque costituita, il monopolio delle contrattazioni fra datori di lavoro e lavoratori.

 

 

Il problema può essere posto nella sua nudità così:

 

 

Se una lega operaia riesce a riunire tutti gli operai appartenenti ad un dato mestiere in una data regione economica – intendendo per regione economica quella, dalla quale non è facile emigrare o nella quale non è agevole entrare per trovar lavoro -; e se il livello dei salari al quale tutti gli operai disponibili, supponiamo 100 mila, sarebbero occupati è di sei lire (antiche pre-1914) al giorno, può darsi che la lega abbia interesse a creare disoccupazione.

 

 

Che esista un livello di salari al quale tutti i cento mila operai sarebbero occupati, è certo. Gli imprenditori (datori di lavoro) hanno sempre interesse ad occupare un nuovo operaio, oltre quelli già occupati, sino a quando il salario pagato non sia superiore al valore (netto da tutte le altre spese, compreso un normale profitto per l’industriale) dell’aggiunta di prodotto che si ottiene coll’impiego dell’operaio supplementare. La produttività dell’operaio marginale determina il salario dell’operaio. Gli imprenditori potrebbero impiegare 90 mila operai e pagare a ciascuno di essi un salario di 8 lire (ripeto ancora una volta, ad evitare equivoci, 8 lire ante-1914) perché il 90 millesimo operaio aggiunge col suo lavoro al prodotto antedecedente un prodotto nuovo avente il valore di 8 lire. Ma, se si debbono impiegare altri 5 mila operai, questi aggiungeranno al prodotto, divenuto per ciò più abbondante e di minor prezzo solo più un valore netto, suppongasi, di 7 lire; e se ne debbono impiegare ancora 5 mila, questi aggiungeranno solo più un valore netto di 6 lire al giorno.

 

 

L’imprenditore può così pagare 8 lire se impiega 90 mila operai, perché vende il prodotto ad un prezzo che gli lascia, dedotte le altre spese, 8 lire disponibili; ma se ne impiega 95 mila può pagare a tutti solo più 7 lire, perché il prodotto ribassa, tutto, di prezzo, in modo da lasciargli solo più un margine disponibile di 7 lire, e così dicasi per il salario 6, se egli impiega 100 mila operai.

 

 

Né l’imprenditore può pagare ai primi 90 mila operai un salario di 8 lire, agli ulteriori 5 mila un salario di 7 lire ed agli ultimi finalmente solo 6 lire; perché i consumatori, i quali sono liberi di comperare o non comperare la sua merce, non comprano certamente le partite offerte ad 8 lire, quando ve ne sono disponibili a 7 ed a 6 lire. Tutta la merce, uguale di qualità, posta in vendita sullo stesso mercato e nel medesimo momento è venduta allo stesso prezzo; e se la si vuol vendere tutta, come si deve supporre, fa d’uopo venderla al prezzo di 6 lire.

 

 

Or si guardi all’interesse della lega. Se questa, padrona assoluta dell’offerta di lavoro, offre sul mercato 100 mila operai, deve accettare il salario di 6 lire al giorno. Ma essa può dire a 10 mila dei suoi soci, scelti per spontanea dichiarazione o per minore anzianità o con altri vari criteri: «voi non lavorerete e riceverete, ognuno di voi, dalla mia cassa un sussidio di disoccupazione di 6 lire al giorno pari al salario intero che avreste lucrato se io vi mandassi al lavoro, insieme con gli altri 90 mila vostri compagni».

 

 

Accantonati così gli ultimi 10 mila operai, la lega offre sul mercato solo 90 mila unità di lavoro e consegue un salario di 8 lire al giorno, che moltiplicato per 90 mila dà un salario complessivo di 720.000 lire giornaliere. Pur deducendo le 60 mila lire necessarie a pagare il sussidio di 6 lire al giorno ai 10 mila operai disoccupati, restano disponibili 660 mila lire per i 90 mila operai occupati, il che vuol dire un salario di lire 7,33 al giorno; che è maggiore delle 6 lire che si sarebbero dovute accettare se si fossero voluti impiegare tutti i 100 mila operai appartenenti alla lega.

 

 

Anche tenendo conto di qualche trattenuta necessaria a far funzionare il meccanismo della lega, resta dimostrato che la lega può avere interesse a rarefare il mercato del lavoro, per rialzare il saggio netto dei salari ricevuti dai suoi soci occupati.

 

 

Così facendo, la lega fa il vantaggio dei soci occupati, ma reca alla società taluni gravissimi danni:

 

 

  • crea l’abitudine dell’ozio in una parte dei lavoratori, li disamora dal lavoro e li trasforma in un peso morto sociale, di malo esempio alla famiglia, ai compagni, alla vicinanza;

 

  • scema la produzione dei beni, da quella che si sarebbe messa sul mercato ad un prezzo corrispondente al salario 6 a quella minore che può essere venduta al prezzo corrispondente al salario 8; e perciò priva una parte della popolazione, che avrebbe acquistato a 6 e non può comperare ad 8, delle soddisfazioni che avrebbe ottenuto o creduto di ottenere dal consumo del bene;

 

  • costringe la restante parte della popolazione, quella che continua ad acquistare al prezzo cresciuto corrispondente al salario 8, a privarsi dei beni che avrebbe potuto acquistare se avesse potuto risparmiare la differenza fra 8 e 6 rispetto al bene in discorso;

 

  • inutilizza i fattori di produzione che avrebbero potuto essere impiegati in congiunzione con i 10 mila operai, i quali sono stati persuasi ad oziare;

 

  • e finalmente danneggia, con ripercussioni che per brevità si rinuncia a perseguire, le industrie fornitrici di materie prime, di combustibili, di macchine ecc. alla industria, la cui attività rimane ridotta.

 

 

Nell’ipotesi fatta sopra, si è supposto che la lega dovesse provvedere con i suoi mezzi a pagare il necessario sussidio agli operai disoccupati. Ma che dire quando una legge provvidenziale la esoneri dall’obbligo oneroso? Quando cioè un fondo di assicurazione contro la disoccupazione provveda esso al mantenimento dei disoccupati? Talvolta, per salvare le apparenze, si accolla una parte, la più piccola difficilmente superiore al 20 per cento dell’onere, agli operai ed ai datori di lavoro. Ma è una finta; ché, alla fine, dopo qualche tempo chi paga è un signore anonimo detto contribuente o consumatore.

 

 

La lega, sicura che lo stato, ossia tutti i cittadini in genere, provvederà ai disoccupati, chiederà ed otterrà un salario di 9 occupando solo 85 mila operai, di 10 occupandone 80 mila, di 11 occupandone 75 mila.

 

 

E qui mi fermo, sebbene non esista un limite logico all’ascesa monopolistica dei salari ed alla riduzione della produzione in regime di monopolio delle leghe, combinato con la assicurazione statale contro la disoccupazione; ché alla perfine una qualche reazione dovrà pure intervenire a vietare che si prosegua nel malo andazzo di creare ozio, disoccupazioni, carestia di beni ed impoverimento generale.

 

 

La politica egoistica da parte delle leghe operaie non è normalmente un fatto isolato. Essa si accompagna ad una politica ugualmente egoistica dei consorzi, accordi, cartelli e trusts tra imprenditori, intesi anch’essi a crescere i loro profitti col produrre “disservizi” di scarsa produzione e di alti prezzi. Ma scarsa produzione e prezzi alti vogliono dire impoverimento e miseria e producono malcontento. Il quale sfocia in richieste di interventi legislativi; e, poiché ben di rado gli interventi sono fondati su una analisi scientifica delle cause del male, ma su varie impressioni sentimentali, essi per lo più conducono a rimedi incongrui ed ulteriormente dannosi come protezioni doganali, manipolazioni, ossia falsificazioni monetarie, nazionalizzazioni, ossia burocratizzazioni e cioè irrigidimento ed incadaverimento dell’apparato produttivo.

 

 

Principiis obstat, dunque. Nel tempo stesso che, per salvare gli industriali indipendenti, quelli che non hanno chiesto aiuto al fascismo e non avranno domani bisogno dello stato per creare il nuovo e recare, profittando, servigio alla società, fa d’uopo partire in guerra contro ogni sorta di monopoli e privilegi; così importa fin dal principio negare alle leghe operaie ogni sorta di esclusività e monopolio. Le vecchie gloriose leghe britanniche e, vivaddio! anche le vecchie benemerite leghe operaie italiane e l’antica confederazione del lavoro sorsero e prosperarono in regime di libertà, reclutarono soci volontari e non “appartenenti” forzati, vissero col provento incerto di quote pagate finché ai soci piaceva pagarle in cambio dei servizi ricevuti e non col ricavo forzoso di centinaia di milioni di lire riscosse a mezzo della cartella esattoriale.

 

 

Se noi vogliamo che il movimento operaio ritorni ad essere quello che fu, sprone al progresso economico e sociale e fattore di elevazione umana, dobbiamo volere le leghe libere; libere, se così vogliono i soci, di unirsi o di vivere separate, non l’unica lega monopolistica, onnipotente in virtù di legge. I migliori contratti collettivi non furono quelli stipulati dalle universali uniche e coattive confederazioni fascistiche; ma quelli che erano stipulati prima del 1922 in Italia e sono oggi stipulati e, nonostante siano privi di sanzioni, sono osservati nei paesi di libertà. E dobbiamo volere altresì che le leghe libere si ispirino al principio di chiedere ed ottenere quelle condizioni del lavoro e quei salari, dati i quali tutta la popolazione lavoratrice sia occupata. Ogni altra politica non può non condurre all’impoverimento economico ed alla degradazione morale della collettività tutta e massimamente della classe lavoratrice.



[1] Con il titolo Glorie e pericoli delle leghe operaie. Una lega operaia monopolistica può avere interesse a creare disoccupazione? [ndr].

[2] Con il titolo Industria. Gloria e pericoli delle leghe operaie [ndr].

Glorie e pericoli delle leghe operaie

Glorie e pericoli delle leghe operaie

«L’Italia e il secondo risorgimento» 12 agosto 1944

«La città libera», 22 marzo 1945[1]

«Il Progresso liberale», 16 febbraio 1946[2]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 507-514

 

 

 

 

Leghe operaie monopoliste e profittatrici? Non è la domanda medesima un’ingiuria agli scopi, all’indole del movimento, il quale innalzò dappertutto in Europa i lavoratori dalla miseria e dall’abbrutimento ad una condizione civile di vita, li chiamò a prender parte alla vita collettiva e politica, uomini integri e consapevoli, invece di strumenti passivi della volontà altrui? Questo, l’elevazione e la trasformazione dell’uomo lavoratore, fu il grande servizio che il movimento di libera associazione, iniziato al principio dell’800 in Inghilterra, variamente diffuso in Europa durante la prima metà del secolo, giunto in Italia poco dopo il 1870, rese al mondo. I lavoratori divennero cittadini quando cominciarono a trattare da pari a pari con i datori di lavoro; e, divenuti pari, furono lavoratori diversi da quelli di prima, sicché, in un ambiente di emulazione e di lotta, in un’atmosfera di libera contrattazione, e perciò informata, invece che ad ubbidienza comandata, all’osservanza di obblighi liberamente assunti ed osservati, essi contribuirono alla produzione più e meglio di prima e meritarono maggiori salari e condizioni più umane di vita.

 

 

L’aumento dei salari e la diminuzione delle ore di lavoro non fu la automatica conseguenza della mera associazione, del presentarsi uniti, invece che isolati, a contrattare. A nulla sarebbe valso il contratto collettivo, se la produzione non fosse aumentata e se la torta del reddito lordo da spartire non fosse cresciuta: il fermento innovatore che provocò, per effetto dell’opera delle leghe, l’aumento del prodotto lordo da spartire, fu la volontà dei lavoratori di vivere meglio, fu la deliberata volontà, resa manifesta dall’unione fraterna di tutti i lavoratori, di non continuare a soggiacere alle condizioni misere alle quali prima erano rassegnati. L’uomo che rialza il capo è diverso da colui il quale lo inchinava ossequioso; e costringe, col suo drizzarsi, l’altra parte a mutare sé e l’impresa sua, se vuole essere capace a trattare come uomo chi non vuole essere più servo. Chi scrive ha sempre veduto, sino dal 1897, quando descriveva i primi scioperi dei lanaiuoli nella Val Sessera (Biellese), in questa trasformazione dell’uomo lavoratore il vero grande servizio reso al mondo dalle leghe operaie; e se anche gli accadde di sentirsi in una delle assemblee legislative italiane vivacemente disapprovato per avere nel 1920, in pieno periodo cosidetto bolscevico, sostenuto la tesi che le lotte sociali allora imperversanti in Italia erano una grande promessa per l’avvenire del paese; se nel 1924 riaffermò la tesi nella introduzione ad un volume dal titolo Le lotte del lavoro, nel quale un indimenticabile diligentissimo suo allievo, presto divenuto scrittore ed editore insigne, epperciò tolto di vita dai fascisti, Piero Gobetti, volle adunare taluni suoi scritti sul movimento operaio; quella tesi, che era allora apparsa eterodossa, è stata confermata pienamente dall’esperienza del ventennio fascistico. Che non fu di pace sociale e di collaborazione fra lavoratori e datori di lavoro, ma di asservimento di ambedue le parti alla volontà ed ai fini di chi comandava. Mossi dalla paura tremante della lotta feconda, i datori di lavoro rinunciarono, per il piatto di lenticchie del divieto di sciopero, al diritto di primogenitura della libera direzione della loro impresa, e si rassegnarono a divenire gli esecutori degli ordini dello stato onnipotente; si sottrassero alle ansie della concorrenza, e vi sostituirono l’intrigo e la corruzione per ottenere favori a danno degli esclusi. Gli operai, a cui fu fatto divieto di associarsi liberamente in difesa dei propri interessi, in parte si abituarono a lasciarsi governare da funzionari corporativi, a cui la vita della miniera, della fabbrica e della terra era ignota; ed in parte ritornarono a cospirare in segreto ed a popolare carceri e luoghi di confino. Vent’anni perduti per l’educazione economica e sociale del paese, e perduti quando erasi già iniziata tra noi la mutazione del tipo del capo – lega operaio! Erano, sì, ancora numerosi gli oratori da comizi e gli agitatori frenetici, da null’altro sentimento mossi fuorché dal bisogno di far rumore, di provocare disordini e di marciare alla conquista di sempre nuove mete. Ma quello non era più il tipo di capo-lega più influente tra i suoi compagni. I lavoratori apprezzavano ognora meglio il dirigente attento, il bravo organizzatore, studioso dei problemi della fabbrica e del lavoro, il quale conosceva statistiche e dati su produzione e su prezzi e sapeva tener testa, nelle discussioni su salari e su cottimi, ai delegati della lega degli industriali.

 

 

Non dimenticherò mai, e lo ripeterò ogni qual volta ne avrò occasione, il motto finale che Francesco Ruffini, maestro di scienza e di vita, trasse da una sua esperienza di super – arbitro in una controversia tra operai ed industriali torinesi: «Durante tutta la discussione, i delegati operai discutevano quasi fossero miei colleghi (professori della facoltà giuridica dell’Università di Torino), ma i delegati padronali parlavano come il nostro bidello!». Il nostro bidello era uomo amatissimo da professori e studenti, ed il paragone voleva soltanto significare che il livello di cultura economica e tecnica raggiunto dai migliori operai era già, un quarto di secolo fa, più elevato di quello dei migliori tra gli industriali. Con siffatto materiale umano, lunga strada si poteva percorrere, se il cammino non fosse stato rotto dal silenzio ventennale imposto dalla tirannide. Il silenzio non ha soltanto vietato che la lotta, non più quella incomposta e violenta dei comizi e degli scioperi, prendesse sempre più sostanza di trattative e discussioni sulla base dei dati di fatto e di ragionamenti. Esso ha instillato nel movimento operaio un veleno, di cui i sintomi sono palesi anche fuori d’Italia e forse soprattutto nella terra madre di ogni avanzamento operaio, nell’Inghilterra; ma appaiono, per l’eredità infausta del regime corporativo, più gravi oggi fra noi che altrove. Anche in Inghilterra, le leghe, potentissime come non mai, tendono a profittare della loro potenza a vantaggio esclusivo dei propri soci; ma solo in Italia si vorrebbe da molti, forse dai più, consacrare siffatta esclusività con la creazione legale del sindacato unico. Le riflessioni che seguono non sono rivolte contro l’unicità, liberamente scelta, dall’associazione operaia entro la cornice della libertà legalmente assicurata ai lavoratori di costituire associazioni autonome indipendenti da quella detta unica. Esse sono rivolte contro la tendenza ad attribuire ad una associazione, comunque costituita, il monopolio delle contrattazioni fra datori di lavoro e lavoratori.

 

 

Il problema può essere posto nella sua nudità così:

 

 

Se una lega operaia riesce a riunire tutti gli operai appartenenti ad un dato mestiere in una data regione economica – intendendo per regione economica quella, dalla quale non è facile emigrare o nella quale non è agevole entrare per trovar lavoro -; e se il livello dei salari al quale tutti gli operai disponibili, supponiamo 100 mila, sarebbero occupati è di sei lire (antiche pre-1914) al giorno, può darsi che la lega abbia interesse a creare disoccupazione.

 

 

Che esista un livello di salari al quale tutti i cento mila operai sarebbero occupati, è certo. Gli imprenditori (datori di lavoro) hanno sempre interesse ad occupare un nuovo operaio, oltre quelli già occupati, sino a quando il salario pagato non sia superiore al valore (netto da tutte le altre spese, compreso un normale profitto per l’industriale) dell’aggiunta di prodotto che si ottiene coll’impiego dell’operaio supplementare. La produttività dell’operaio marginale determina il salario dell’operaio. Gli imprenditori potrebbero impiegare 90 mila operai e pagare a ciascuno di essi un salario di 8 lire (ripeto ancora una volta, ad evitare equivoci, 8 lire ante-1914) perché il 90 millesimo operaio aggiunge col suo lavoro al prodotto antedecedente un prodotto nuovo avente il valore di 8 lire. Ma, se si debbono impiegare altri 5 mila operai, questi aggiungeranno al prodotto, divenuto per ciò più abbondante e di minor prezzo solo più un valore netto, suppongasi, di 7 lire; e se ne debbono impiegare ancora 5 mila, questi aggiungeranno solo più un valore netto di 6 lire al giorno.

 

 

L’imprenditore può così pagare 8 lire se impiega 90 mila operai, perché vende il prodotto ad un prezzo che gli lascia, dedotte le altre spese, 8 lire disponibili; ma se ne impiega 95 mila può pagare a tutti solo più 7 lire, perché il prodotto ribassa, tutto, di prezzo, in modo da lasciargli solo più un margine disponibile di 7 lire, e così dicasi per il salario 6, se egli impiega 100 mila operai.

 

 

Né l’imprenditore può pagare ai primi 90 mila operai un salario di 8 lire, agli ulteriori 5 mila un salario di 7 lire ed agli ultimi finalmente solo 6 lire; perché i consumatori, i quali sono liberi di comperare o non comperare la sua merce, non comprano certamente le partite offerte ad 8 lire, quando ve ne sono disponibili a 7 ed a 6 lire. Tutta la merce, uguale di qualità, posta in vendita sullo stesso mercato e nel medesimo momento è venduta allo stesso prezzo; e se la si vuol vendere tutta, come si deve supporre, fa d’uopo venderla al prezzo di 6 lire.

 

 

Or si guardi all’interesse della lega. Se questa, padrona assoluta dell’offerta di lavoro, offre sul mercato 100 mila operai, deve accettare il salario di 6 lire al giorno. Ma essa può dire a 10 mila dei suoi soci, scelti per spontanea dichiarazione o per minore anzianità o con altri vari criteri: «voi non lavorerete e riceverete, ognuno di voi, dalla mia cassa un sussidio di disoccupazione di 6 lire al giorno pari al salario intero che avreste lucrato se io vi mandassi al lavoro, insieme con gli altri 90 mila vostri compagni».

 

 

Accantonati così gli ultimi 10 mila operai, la lega offre sul mercato solo 90 mila unità di lavoro e consegue un salario di 8 lire al giorno, che moltiplicato per 90 mila dà un salario complessivo di 720.000 lire giornaliere. Pur deducendo le 60 mila lire necessarie a pagare il sussidio di 6 lire al giorno ai 10 mila operai disoccupati, restano disponibili 660 mila lire per i 90 mila operai occupati, il che vuol dire un salario di lire 7,33 al giorno; che è maggiore delle 6 lire che si sarebbero dovute accettare se si fossero voluti impiegare tutti i 100 mila operai appartenenti alla lega.

 

 

Anche tenendo conto di qualche trattenuta necessaria a far funzionare il meccanismo della lega, resta dimostrato che la lega può avere interesse a rarefare il mercato del lavoro, per rialzare il saggio netto dei salari ricevuti dai suoi soci occupati.

 

 

Così facendo, la lega fa il vantaggio dei soci occupati, ma reca alla società taluni gravissimi danni:

 

 

  • crea l’abitudine dell’ozio in una parte dei lavoratori, li disamora dal lavoro e li trasforma in un peso morto sociale, di malo esempio alla famiglia, ai compagni, alla vicinanza;

 

  • scema la produzione dei beni, da quella che si sarebbe messa sul mercato ad un prezzo corrispondente al salario 6 a quella minore che può essere venduta al prezzo corrispondente al salario 8; e perciò priva una parte della popolazione, che avrebbe acquistato a 6 e non può comperare ad 8, delle soddisfazioni che avrebbe ottenuto o creduto di ottenere dal consumo del bene;

 

  • costringe la restante parte della popolazione, quella che continua ad acquistare al prezzo cresciuto corrispondente al salario 8, a privarsi dei beni che avrebbe potuto acquistare se avesse potuto risparmiare la differenza fra 8 e 6 rispetto al bene in discorso;

 

  • inutilizza i fattori di produzione che avrebbero potuto essere impiegati in congiunzione con i 10 mila operai, i quali sono stati persuasi ad oziare;

 

  • e finalmente danneggia, con ripercussioni che per brevità si rinuncia a perseguire, le industrie fornitrici di materie prime, di combustibili, di macchine ecc. alla industria, la cui attività rimane ridotta.

 

 

Nell’ipotesi fatta sopra, si è supposto che la lega dovesse provvedere con i suoi mezzi a pagare il necessario sussidio agli operai disoccupati. Ma che dire quando una legge provvidenziale la esoneri dall’obbligo oneroso? Quando cioè un fondo di assicurazione contro la disoccupazione provveda esso al mantenimento dei disoccupati? Talvolta, per salvare le apparenze, si accolla una parte, la più piccola difficilmente superiore al 20 per cento dell’onere, agli operai ed ai datori di lavoro. Ma è una finta; ché, alla fine, dopo qualche tempo chi paga è un signore anonimo detto contribuente o consumatore.

 

 

La lega, sicura che lo stato, ossia tutti i cittadini in genere, provvederà ai disoccupati, chiederà ed otterrà un salario di 9 occupando solo 85 mila operai, di 10 occupandone 80 mila, di 11 occupandone 75 mila.

 

 

E qui mi fermo, sebbene non esista un limite logico all’ascesa monopolistica dei salari ed alla riduzione della produzione in regime di monopolio delle leghe, combinato con la assicurazione statale contro la disoccupazione; ché alla perfine una qualche reazione dovrà pure intervenire a vietare che si prosegua nel malo andazzo di creare ozio, disoccupazioni, carestia di beni ed impoverimento generale.

 

 

La politica egoistica da parte delle leghe operaie non è normalmente un fatto isolato. Essa si accompagna ad una politica ugualmente egoistica dei consorzi, accordi, cartelli e trusts tra imprenditori, intesi anch’essi a crescere i loro profitti col produrre “disservizi” di scarsa produzione e di alti prezzi. Ma scarsa produzione e prezzi alti vogliono dire impoverimento e miseria e producono malcontento. Il quale sfocia in richieste di interventi legislativi; e, poiché ben di rado gli interventi sono fondati su una analisi scientifica delle cause del male, ma su varie impressioni sentimentali, essi per lo più conducono a rimedi incongrui ed ulteriormente dannosi come protezioni doganali, manipolazioni, ossia falsificazioni monetarie, nazionalizzazioni, ossia burocratizzazioni e cioè irrigidimento ed incadaverimento dell’apparato produttivo.

 

 

Principiis obstat, dunque. Nel tempo stesso che, per salvare gli industriali indipendenti, quelli che non hanno chiesto aiuto al fascismo e non avranno domani bisogno dello stato per creare il nuovo e recare, profittando, servigio alla società, fa d’uopo partire in guerra contro ogni sorta di monopoli e privilegi; così importa fin dal principio negare alle leghe operaie ogni sorta di esclusività e monopolio. Le vecchie gloriose leghe britanniche e, vivaddio! anche le vecchie benemerite leghe operaie italiane e l’antica confederazione del lavoro sorsero e prosperarono in regime di libertà, reclutarono soci volontari e non “appartenenti” forzati, vissero col provento incerto di quote pagate finché ai soci piaceva pagarle in cambio dei servizi ricevuti e non col ricavo forzoso di centinaia di milioni di lire riscosse a mezzo della cartella esattoriale.

 

 

Se noi vogliamo che il movimento operaio ritorni ad essere quello che fu, sprone al progresso economico e sociale e fattore di elevazione umana, dobbiamo volere le leghe libere; libere, se così vogliono i soci, di unirsi o di vivere separate, non l’unica lega monopolistica, onnipotente in virtù di legge. I migliori contratti collettivi non furono quelli stipulati dalle universali uniche e coattive confederazioni fascistiche; ma quelli che erano stipulati prima del 1922 in Italia e sono oggi stipulati e, nonostante siano privi di sanzioni, sono osservati nei paesi di libertà. E dobbiamo volere altresì che le leghe libere si ispirino al principio di chiedere ed ottenere quelle condizioni del lavoro e quei salari, dati i quali tutta la popolazione lavoratrice sia occupata. Ogni altra politica non può non condurre all’impoverimento economico ed alla degradazione morale della collettività tutta e massimamente della classe lavoratrice.



[1] Con il titolo Glorie e pericoli delle leghe operaie. Una lega operaia monopolistica può avere interesse a creare disoccupazione? [ndr].

[2] Con il titolo Industria. Gloria e pericoli delle leghe operaie [ndr].

Liberalismo

«L’Italia e il secondo Risorgimento», 29 luglio 1944

È la dottrina di chi pone al di sopra di ogni altra meta il perfezionamento, la elevazione della persona umana.

È una dottrina morale, indipendente dalle contingenze di tempo e di luogo.

L’uomo libero perfetto è colui il quale, per non rinunciare alle sue idee di fronte al tiranno, si è lasciato condannare alla galera e, pur di non chiedere al tiranno di essere liberato, resta in galera.

L’uomo libero è Spinoza, il quale non accetta la cattedra di Eidelberg [sic] che Carlo Luigi gli offre assicurandogli philosophandi libertatem amplissimam, perché il principe lo prega di trattare con rispetto la religione dominante e preferisce serbare ancor più ampia libertà di pensare guadagnandosi il pane col pulire i diamanti.

Politicamente, il liberalismo è la dottrina la quale inculca alla minoranza il dovere di rispettare la volontà della maggioranza, tutti gli uomini avendo la stessa dignità di persona.

Esso non repugnerebbe a preferire alla major la melior pars, se fosse possibile di conoscerla.

Ma poiché ad accertare la qualità più alta della persona converrebbe spaccar le teste, preferisce di contarle.

Ma invita la maggioranza a non attuare propositi i quali offendano profondamente la minoranza; ché la vita politica non si perfeziona se il proposito della maggioranza, tradotto in legge, non sia confortato dall’adesione attiva della minoranza.

La major pars, la quale ottiene, dopo una discussione, in cui ad ognuno sia stato consentito di opporre la sua ragione alle ragioni altrui, l’adesione della minoranza, dimostra col fatto di essere altresì la melior pars, perché ha saputo astenersi dall’esercitare tirannia, che è pessima quando sia esercitata da una maggioranza del popolo contro i proprii uguali.

Il liberalismo è perciò una dottrina di limiti; e la democrazia diventa liberale solo quando la maggioranza volontariamente si astiene dall’esercitare coazione sugli uomini nei campi che l’ordine morale insegna essere riservati all’individuo, dominio sacro alla persona.

Liberale è quella democrazia che, pur potendo violarli, rispetta taluni tabù, che si chiamano libertà di religione, di coscienza, di parola, di stampa, di riunione ed impone a tutte queste libertà solo i limiti esterni formali imposti dalla necessità della convivenza pacifica.

Liberale è quella società politica nella quale ogni uomo può dire: «la mia casa è il mio castello e nessuno mi può strappare ad essa se non per ordine del magistrato e questi è obbligato a lasciarmi libero se, entro un tempo dato, l’accusatore pubblico non riesce a provare la mia colpa».

Liberale è quella società politica nella quale nessuno può essere privato della sua cosa, della sua proprietà, senza un procedimento legale condotto in base ad una legge.

Ma questi ed altri tabù, senza di cui non esiste società liberale, non sono osservati in tutte le organizzazioni sociali.

Non esiste, è vero, legame diretto fra liberalismo e struttura economica; perché l’uomo moralmente libero sfida il tiranno dal fondo della galera o cammina diritto verso la catasta di legna sulla quale sarà bruciato vivo per voler tener fede alla sua credenza.

Ma poiché gli uomini vivono associati, uopo è constatare che quei tabù sacri all’uomo libero corrono gravissimo anzi sicuro pericolo in una società nella quale: – tutti gli uomini dipendano da un centro – sia questo una persona sola chiamata imperatore o duce ovvero un consiglio di eletti o di autodesignati – per il pane, per la carriera, per l’avanzamento, per la gloria; – nessuno possegga un reddito indipendente da quello fornito o derivato dal centro, neppure il reddito del polire diamanti, che assicurava a Spinoza quella libertà assoluta di filosofare, a cui egli unicamente aspirava; – nessuno possa creare od illudersi di creare una famiglia, una fondazione, un ente morale dotato di vita perpetua ed indipendente dal centro; – non esistano enti morali, comuni, vicinanze, regioni, chiese, associazioni fomite di vita propria indipendente dal centro; – il centro presume di essere fornito di autorità propria assoluta, indipendente non solo dagli uomini, dagli enti, dai comuni, dalle chiese, dalle associazioni esistenti sul suo territorio, ma dagli altri centri o stati posti al di fuori di esso.

Una società cosiffatta non è liberale, ma è conformista.

L’«amico degli uomini», il padre del grande Mirabeau, prediceva nel 1750 che una società nella quale vita, avanzamento, carriera, onori e gloria dipendessero tutto da un centro, sarebbe caduta al primo urto del nemico interno od esterno.

Cadde infatti la Francia monarchica, che tutta si incentrava a Versailles, come prima era caduto l’impero romano che tutto si incentrava in Cesare, come rovineranno in futuro tutte le società che si diano interamente ad un uomo o ad un idolo.

Via il prefetto!

«L’Italia e il secondo Risorgimento», 17 luglio 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 52-59

In difesa della libertà e della democrazia, La stampa moderna, Roma, 1954, pp. 5-7

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 703-711

«Quale impresa», XXII, 10, ottobre 1996, pp. 22-24

Scritti di Luigi Einaudi nel centenario della nascita, Sansoni, Firenze, 1975, pp. 49-58

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 59-65

Via il prefetto! A cura di Davide Cadeddu, «Storia, Amministrazione, Costituzione. Annale dell’Istituto per la Scienza dell’Amministrazione pubblica», 12, 2004, pp. 41-48

Proporre, in Italia ed in qualche altro paese di Europa, di abolire il “prefetto” sembra stravaganza degna di manicomio. Istituzione veneranda, venuta a noi dalla notte dei tempi, il prefetto è quasi sinonimo di governo e, lui scomparso, sembra non esistere più nulla. Chi comanda e chi esegue fuor dalla capitale? Come opera l’amministrazione pubblica? In verità, il prefetto è una lue che fu inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone. Gli antichi governi erano, prima della rivoluzione francese, assoluti solo di nome, e di fatto vincolati d’ogni parte, dai senati e dalle camere dei conti o magistrati camerali, gelosissimi del loro potere di rifiutare la registrazione degli editti regii, che, se non registrati, non contavano nulla, dai corpi locali privilegiati, auto-eletti per cooptazione dei membri in carica, dai patti antichi di infeudazione, di dedizione e di annessione, dalle consuetudini immemorabili. Gli stati italiani governavano entro i limiti posti dalle “libertà” locali, territoriali e professionali. Spesso “le libertà” municipali e regionali erano “privilegi” di ceti, di nobili, di corporazioni artigiane ed erano dannose all’universale. Nella furia di strappare i privilegi, la rivoluzione francese distrusse, continuando l’opera iniziata dai Borboni, le libertà locali; e Napoleone, dittatore all’interno, amante dell’ordine, sospettoso, come tutti i tiranni, di ogni forza indipendente, spirituale o temporale, perfezionò l’opera. I governi restaurati trovarono comodo di non restaurare, se non di nome, gli antichi corpi limitatori e conservarono il prefetto napoleonico. L’Italia nuova, preoccupata di rinsaldare le membra disiecta degli antichi ex-stati in un corpo unico, immaginò che il federalismo fosse il nemico ed estese il sistema prefettizio anche a quelle parti d’Italia, come le province ex-austriache, nelle quali la lue erasi in filtrata con manifestazioni attenuate. Si credette di instaurare libertà e democrazia e si foggiò lo strumento della dittatura.

Democrazia e prefetto repugnano profondamente l’una all’altro. Né in Italia, né in Francia, né in Spagna, né in Prussia si ebbe mai e non si avrà mai democrazia, finché esisterà il tipo di governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto. Coloro i quali parlano di democrazia e di costituente e di volontà popolare e di autodecisione e non si accorgono del prefetto, non sanno quel che si dicono. Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato del tipo napoleonico. Gli uomini di stato anglo-sassoni, i quali invitano i popoli europei a scegliersi la forma di governo da essi preferita, trasportano inconsciamente parole e pensieri propri dei loro paesi a paesi nei quali le medesime parole hanno un significato del tutto diverso. Forse i soli europei del continente, i quali sentendo quelle parole le intendono nel loro significato vero sono, insieme con gli scandinavi, gli svizzeri; e questi non hanno nulla da imparare, perché quelle parole sentono profondamente da sette secoli. Essi sanno che la democrazia comincia dal comune, che è cosa dei cittadini, i quali non solo eleggono i loro consiglieri e sindaci o presidenti o borgomastri, ma da sé, senza intervento e tutela e comando di gente posta fuori del comune od a questo sovrapposta, se lo amministrano, se lo mandano in malora o lo fanno  prosperare. L’autogoverno continua nel cantone, il quale è un vero stato, il quale da sé si fa le sue leggi, se le vota nel suo parlamento e le applica per mezzo dei propri consiglieri di stato, senza uopo di ottenere approvazioni da Berna; e Berna, ossia il governo federale, a sua volta, per le cose di sua competenza, ha un parlamento per deliberare le leggi sue proprie ed un consiglio federale per applicarle ed amministrarle. E tutti questi consessi ed i 25 cantoni e mezzi cantoni e la confederazione hanno così numerosissimi legislatori e centinaia di ministri, grossi e piccoli, tutti eletti, ognuno dei quali attende alle cose proprie, senza vedersi mai tra i piedi il prefetto, ossia la longa manus del ministro o governo più grosso, il quale insegni od ordini il modo di sbrigare le faccende proprie dei ministri più piccoli. Così pure si usa governare in Inghilterra, con altre formule di parrocchie, borghi, città, contee, regni e principati; così si fa negli Stati Uniti, nelle federazioni canadese, sudafricana,  australiana e nella Nuova Zelanda. Nei paesi dove la democrazia non è una vana parola, la gente sbriga da sé le proprie faccende locali (che negli Stati Uniti si dicono anche statali), senza attendere il la od il permesso dal governo centrale. Così si forma una classe politica numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. Non è certo che il vaglio funzioni sempre a perfezione; ma prima di arrivare ad essere consigliere federale o nazionale in Svizzera, o di essere senatore o rappresentante nel congresso nord americano, bisogna essersi fatto conoscere per cariche coperte nei cantoni o negli stati; ed essersi guadagnato una qualche fama di esperto ed onesto amministratore. La classe politica non si forma da sé, né è creata dal fiat di una elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso; per scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle quali delega la amministrazione delle cose locali piccole; e poi via via quelle delle cose nazionali od inter-statali più grosse.

La classe politica non si forma tuttavia se l’eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile per l’opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l’eletto non è responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire, ad intrigare, a raccomandare, a cercare appoggi. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia?

Finché esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l’attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro dell’interno. Costui è il vero padrone della vita amministrativa e politica dell’intero stato. Attraverso i suoi organi distaccati, le prefetture, il governo centrale approva o non approva i bilanci comunali e provinciali, ordina l’iscrizione di spese di cui i cittadini farebbero a meno, cancella altre spese, ritarda l’approvazione ed intralcia il funzionamento dei corpi locali. Chi governa localmente di fatto non è né il sindaco né il consiglio comunale o provinciale; ma il segretario municipale o provinciale. Non a caso egli è stato oramai attruppato tra i funzionari statali. Parve un sopruso della dittatura ed era la logica necessaria deduzione del sistema centralistico. Chi, se non un funzionario statale, può interpretare ed eseguire le leggi, i regolamenti, le circolari, i moduli i quali quotidianamente, attraverso le prefetture, arrivano a fasci da Roma per ordinare il modo di governare ogni più piccola faccenda locale? Se talun cittadino si informa del modo di sbrigare una pratica dipendente da una legge nuova, la risposta è: non sono ancora arrivate le istruzioni, non è ancora compilato il regolamento; lo si aspetta di giorno in giorno. A nessuno viene in mente del ministero, l’idea semplice che l’eletto locale ha il diritto e il dovere di interpretare lui la legge, salvo a rispondere dinnanzi agli elettori della interpretazione data? Che cosa fu e che cosa tornerà ad essere l’eletto del popolo in uno stato burocratico accentrato? Non un legislatore, non un amministratore; ma un tale, il cui merito principale è di essere bene introdotto nei capoluoghi di provincia presso prefetti, consiglieri e segretari di prefettura, provveditori agli studi, intendenti di finanza, ed a Roma, presso i ministri, sotto-segretari di stato e, meglio e più, perché di fatto più potenti, presso direttori generali, capi divisione, segretari, vice segretari ed uscieri dei ministeri. Il malvezzo di non muovere la “pratica” senza una spinta, una raccomandazione non è recente né ha origine dal fascismo. È antico ed è proprio del sistema. Come quel ministro francese, guardando l’orologio, diceva: a quest’ora, nella terza classe di tutti i licei di Francia, i professori spiegano la tal pagina di Cicerone; così si può dire di tutti gli ordini di scuole italiane. Pubbliche o private, elementari o medie od universitarie, tutto dipende da Roma: ordinamento, orari, tasse, nomine degli insegnanti, degli impiegati di segreteria, dei portieri e dei bidelli, ammissioni degli studenti, libri di testo, ordine degli esami, materie insegnate. I fascisti concessero per scherno l’autonomia alle università; ma era logico che nel sistema accentrato le università fossero, come subito ridiventarono, una branca ordinaria dell’amministrazione pubblica; ed era logico che prima del 1922 i deputati elevassero querele contro quelle che essi imprudentemente chiamarono le camorre dei professori di università, i quali erano riusciti, in mezzo secolo di sforzi perseveranti e di costumi anti accentratori a poco a poco originati dal loro spirito di corpo, a togliere ai ministri ogni potere di scegliere e di trasferire gli insegnanti universitari e quindi ogni possibilità ai deputati di raccomandare e promuovere intriganti politici a cattedre. Agli occhi di un deputato uscito dal suffragio universale ed investito di una frazione della sovranità popolare, ogni resistenza di corpi autonomi, di enti locali, di sindaci decisi a far valere la volontà dei loro amministrati appariva camorra, sopruso o privilegio. La tirannia del centro, la onnipotenza del ministero, attraverso ai prefetti, si converte nella tirannia degli eletti al parlamento. Essi sanno di essere i ministri del domani, sanno che chi di loro diventerà ministro dell’interno, disporrà della leva di comando del paese; sanno che nessun presidente del consiglio può rinunciare ad essere ministro dell’interno se non vuol correre il pericolo di vedere “farsi” le elezioni contro di lui dal collega al quale egli abbia avuto la dabbenaggine di abbandonare quel ministero, il quale dispone delle prefetture, delle questure e dei carabinieri; il quale comanda a centinaia di migliaia di funzionari piccoli e grossi, ed attraverso concessioni di sussidi, autorizzazioni di spese, favori di ogni specie adesca e minaccia sindaci, consiglieri, presidenti di opere pie e di enti morali. A volta a volta servo e tiranno dei funzionari che egli ha contribuito a far nominare con le sue raccomandazioni e dalla cui condiscendenza dipende l’esito delle pratiche dei suoi elettori, il deputato diventa un galoppino, il cui tempo più che dai lavori parlamentari è assorbito dalle corse per i ministeri e dallo scrivere lettere di raccomandazione per il sollecito disbrigo delle pratiche dei suoi elettori.

Perciò il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e le sue ramificazioni! Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa macchina centralizzata; nemmeno lo stambugio del portiere. Se lasciamo sopravvivere il portiere, presto accanto a lui sorgerà una fungaia di baracche e di capanne che si trasformeranno nel vecchio aduggiante palazzo del governo. Il prefetto napoleonico se ne deve andare, con le radici, il tronco, i rami e le fronde. Per fortuna, di fatto oggi in Italia l’amministrazione centralizzata è scomparsa. Ha dimostrato di essere il nulla; uno strumento privo di vita propria, del quale il primo avventuriero capitato a buon tiro poteva impadronirsi per manovrarlo a suo piacimento. Non accadrà alcun male, se non ricostruiremo la macchina oramai guasta e marcia. L’unità del paese non è data dai prefetti e dai provveditori agli studi e dagli intendenti di finanza e dai segretari comunali e dalle circolari ed istruzioni ed autorizzazioni romane. L’unita del paese è fatta dagli italiani. Dagli italiani, i quali imparino, a proprie spese, commettendo spropositi, a governarsi da sé. La vera costituente non si fa in una elezione plebiscitaria, a fin di guerra. Così si creano o si ricostituiscono le tirannie, siano esse di dittatori o di comitati di partiti. Chi vuole affidare il paese a qualche altro saltimbanco, lasci sopravvivere la macchina accentrata e faccia da questa e dai comitati eleggere una costituente. Chi vuole che gli italiani governino se stessi, faccia invece subito eleggere i consigli municipali, unico corpo rimasto in vita, almeno come aspirazione profondamente sentita da tutti i cittadini; e dia agli eletti il potere di amministrare liberamente; di far bene e farsi rinnovare il mandato, di far male e farsi lapidare. Non si tema che i malversatori del denaro pubblico non paghino il fio, quando non possano scaricare su altri, sulla autorità tutoria, sul governo la colpa delle proprie malefatte. La classe politica si forma così: col provare e riprovare, attraverso a fallimenti ed a successi. Sia che si conservi la provincia; sia che invece la si abolisca, perché ente artificioso, antistorico ed anti-economico e la si costituisca da una parte con il distretto o collegio o vicinanza, unità più piccola, raggruppata attorno alla cittadina, al grosso borgo li mercato, dove convengono naturalmente per i loro interessi ed affari gli abitanti dei comuni dei dintorni, e dall’altra con la grande regione storica: Piemonte, Liguria, Lombardia, ecc.; sempre, alla pari del comune, il collegio la regione dovranno amministrarsi da sé, formarsi i propri governanti elettivi, liberi di gestire le faccende proprie del comune, del collegio e della provincia, liberi di scegliere i propri funzionari e dipendenti, nel modo e con le garanzie che essi medesimi, legislatori sovrani nel loro campo, vorranno stabilire.

Si potrà discutere sui compiti da attribuire a questo o quell’altro ente sovrano; ed adopero a bella posta la parola sovranità e non autonomia, ad indicare che non solo nel campo internazionale, con la creazione di vincoli federativi, ma anche nel campo nazionale, con la creazione di corpi locali vivi di vita propria originaria non derivata dall’alto, urge distruggere l’idea funesta della sovranità assoluta dello stato. Non temasi dalla distruzione alcun danno per l’unità nazionale. L’accentramento napoleonico ha fatto le sue prove e queste sono state negative: una burocrazia pronta ad ubbidire ad ogni padrone, non radicata nel luogo, indifferente alle sorti degli amministrati; un ceto politico oggetto di dispregio, abbassato a cursore di anticamere prefettizie e ministeriali, prono a votare in favore di qualunque governo, se il voto poteva giovare ad accaparrare il favore della burocrazia poliziesca ed a premere sulle autorità locali nel giorno delle elezioni generali; una polizia, non collegata, come dovrebbe, esclusivamente con la magistratura inquirente e giudicante e con i carabinieri, ma divenuta strumento di inquisizione politica e di giustizia “economica”, ossia arbitraria. L’arbitrio poliziesco erasi affievolito all’inizio del secolo; ma lo strumento era pronto; e, come già con Napoleone, ricominciarono a giungere al dittatore i rapporti quotidiani della polizia su gli atti e sui propositi di ogni cittadino sospetto; e si potranno di nuovo comporre, con quei fogli, se non li hanno bruciati prima, volumi di piccola e di grande storia di interesse appassionante. E quello strumento, pur guasto, è pronto, se non lo faremo diventare mero organo della giustizia per la prevenzione dei reati e la scoperta dei loro autori, a servire nuovi tiranni e nuovi comitati di salute pubblica.

Che cosa ha dato all’unità d’Italia quella armatura dello stato di polizia, preesistente, ricordiamolo bene, al 1922? Nulla. Nel momento del pericolo è svanita e sono rimasti i cittadini inermi e soli. Oggi essi si attruppano in bande di amici, di conoscenti, di borghigiani; e li chiamano partigiani. È lo stato il quale si rifà spontaneamente. Lasciamolo riformarsi dal basso, come è sua natura. Riconosciamo che nessun vincolo dura, nessuna unità è salda, se prima gli uomini i quali si conoscono ad uno ad uno non hanno costituito il comune; e di qui, risalendo di grado in grado, sino allo stato. La distruzione della sovrastruttura napoleonica, che gli italiani non hanno amato mai, offre l’occasione unica di ricostruire lo stato partendo dalle unità che tutti conosciamo ed amiamo; e sono la famiglia, il comune, la vicinanza e la regione. Così possederemo finalmente uno stato vero e vivente.

Di taluni insegnamenti della Svizzera nel momento presente

«Svizzera italiana», 30 dicembre 1943, pp. 485-498

 

Agli Svizzeri non è stato in un momento o nell’altro della loro varia e lunga storia, insegnato a proclamarsi un grande popolo. Se non erro, uno dei loro maggiori scrittori, Jacob Burckhardt, si è fatto anzi teorico dei piccoli popoli. Ma io vorrei che gli italiani, ai quali si è insegnato per venti anni che essi, eredi degli antichi romani, dovevano muovere alla conquista di un impero sempre più vasto, per diventare un popolo sempre più grande, leggessero l’articolo che Fulvio Bolla ha pubblicato nel quaderno di aprile di questa rivista e nel quale si chiarisce come anche i piccoli popoli possano essere economicamente grandi.

 

«La Svizzera non ha materie prime, né carbone, né petrolio, né ferro, né altri preziosi metalli usuali, non ha sbocchi al mare e non possiede colonie opulenti da cui trarre ricchezze abbondanti, non ha uno spazio ampio a sua disposizione, tanto meno terre di una fertilità eccezionale, non possiede in fondo uno spazio vitale perché i suoi abitanti non sono in grado di vivere autarchicamente sul loro territorio… Eppure la Svizzera è prospera per non dire ricca e il suo popolo ha raggiunto un livello di esistenza elevato ed invidiato da paesi ricchi di territorio, di mare, di materie prime nel sottosuolo e di altro ancora… La Svizzera dimostra che l’adattamento degli uomini alle esigenze del loro paese può rendere sufficiente un territorio inizialmente insufficiente, può rendere inutili certi fattori descritti dai teorici come indispensabili… Si può avere un’industria metallurgica senza avere né ferro né carbone, si può avere un’industria di macchine elettriche senza avere il rame per fare i fili, si può avere l’industria tessile senza avere colonie che forniscano cotone, si può avere un’industria della cioccolata senza avere colonie che diano cacao. Come è possibile questo? Non occorre saperlo teoricamente: in Isvizzera tutto ciò esiste, segno che è possibile».

 

 

Contro il filosofo seguace di Zenone, il quale dimostrava teoricamente l’impossibilità del moto, Diogene non rispose con un ragionamento teorico: continuava ad andare su e giù per il portico. Se Diogene si muove, il movimento esiste, il movimento è possibile.

 

 

«La Svizzera – continua il Bolla – realtà viva ed operante si presenta con caratteri tali che non è possibile farla entrare negli schemi teorici dei novatori. La sua prosperità è inspiegabile se valgono i ragionamenti di chi predica intorno agli spazi vitali. Ma la sua prosperità è. Epperò la Svizzera appare nell’Europa di oggi nella posizione beffarda e pericolosa di Diogene che va sotto ai portici silenziosamente mentre l’altro filosofo prosegue la sua dimostrazione. Le parole di questo si sono perse nel nulla, vinte dai silenziosi passi del cinico. Così le parole dei novatori si perdono di fronte alla Svizzera silenziosa».

 

 

Perché Fulvio Bolla non è andato innanzi nel suo ragionamento calzante ed invece di manifestare i suoi dubbi, non ha concluso che le teorie dei novatori dello spazio vitale non solo «non convincono» ma sono anche false e bugiarde?

 

 

Miti e non teorie, le direbbe Pareto, formule politiche, correggerebbe forse Gaetano Mosca. Tedeschi ed italiani sono stati condotti alla guerra col miraggio della conquista dello spazio vitale, delle materie prime, delle colonie. Ad essi è stato detto che i popoli giovani hanno diritto di prendere il posto dei popoli vecchi, che i paesi dinamici i quali salgono devono succedere nell’impero del mondo ai paesi decadenti, che gli have nots, i popoli poveri non possono tollerare la sopraffazione degli have, dei popoli beati possidentes. La Svizzera, che non ha spazio vitale, che non ha colonie, che non ha materie prime, che è prospera, nonostante sia naturalmente povera, che è spiritualmente grande nonostante sia geograficamente piccola è una lezione vivente per tutti coloro i quali sono ansiosi di scovrire, attraverso l’esperienza del passato, le verità le quali possono salvare il mondo da una nuova guerra e dalla distruzione totale.

 

 

Si cominci ad affermare un principio fondamentale. In un mondo nel quale gli stati siano molti ed ognuno di essi sia privo del così detto spazio vitale, i pretesti di guerra sono meno numerosi e meno decisivi di quelli che si offrirebbero in un mondo che fosse diviso in pochi grandissimi spazi vitali. Oggi, che gli stati indipendenti sono ancora nel mondo una sessantina, nessuno di essi ha la possibilità di procurarsi nel suo territorio tutte le materie prime di cui ha bisogno. Ogni stato sa inoltre che, per conquistare uno spazio vitale veramente autosufficiente, gli converrebbe proporsi pressoché la conquista dell’intero mondo; impresa così vasta che persona sennata non può immaginare. Ogni stato sa che nessun altro stato monopolizza esclusivamente la materia prima che in quel momento gli fa difetto, sa che potrà sempre procurarsi quella materia prima dal territorio di uno dei tanti stati, i quali la producono. La coesistenza di molti stati è favorevole, nei limiti nei quali gli uomini sono capaci di compiere atti razionali, all’attuazione della sola politica delle materie prime la quale sia conforme alle esigenze della giusta loro ripartizione. Che cosa è il giusto in proposito? Un ordinamento nel quale le materie prime siano utilizzate da coloro i quali ne sanno trarre il miglior partito possibile. Tra due compratori, l’uno dei quali è atto a ricavare dallo stesso chilogrammo del medesimo cotone greggio un prodotto del valore dieci mentre un altro ne ricava un prodotto del valore undici è preferibile il secondo.

 

 

Questi invero è colui il quale fornisce, a parità di consumo di materia prima, un prodotto finito il quale è volontariamente preferito dai consumatori per la sua maggiore utilità, maggior utilità di cui il più alto prezzo è appunto l’indice. Per ottenere il prodotto di più alto pregio quell’imprenditore ha dovuto utilizzare la materia prima con procedimenti più raffinati, ha dovuto ricorrere ad una maestranza più esperta, ha dovuto cioè pagare direttamente ed indirettamente salari più elevati ed ha dovuto perciò promuovere un’accurata selezione ed un’elevazione tecnica delle maestranze medesime. Quale il mezzo per far sì che la materia prima vada a finire nello stabilimento dell’industriale svizzero che produce tessuti di qualità alta e non in quello dell’industriale della Carolina del Nord che produce tessuti correnti per i negri degli stati del sud? È la possibilità che ambedue possano concorrere all’acquisto del cotone americano sul mercato della Nuova Orleans. Se il mercato del cotone è libero, se tutti possono concorrere alle medesime condizioni, che cosa vuol dire che il prezzo in un dato giorno e per una determinata qualità di cotone è di 10,45 centesimi e non 10,44 e non 10,46 per libbra? Vuol dire che al prezzo di 10,45 centesimi e non agli altri prezzi la quantità domandata fu uguale in quel giorno e per quella qualità e su quel mercato alla quantità offerta. Vuol dire che, se il prezzo fosse stato di 10,46 una parte della merce offerta sarebbe rimasta invenduta e, premendo sul prezzo, l’avrebbe fatto discendere a 10.45, laddove, se il prezzo fosse stato di 10,44 la quantità domandata sarebbe stata maggiore dell’offerta e la domanda insoddisfatta premendo sul prezzo l’avrebbe fatto salire a 10,45.

 

 

Ma, a questo livello, hanno potuto acquistare solo quei compratori i quali potevano pagare 10,45 a causa della buona utilizzazione che essi si proponevano di fare del cotone. Poterono comprare gli industriali svizzeri, che producono tessuti di qualità e di prezzo relativamente alto e possono sopportare costi alti. Dovettero farne a meno alcuni tra gli industriali della Carolina del Nord, i quali producono tessuti andanti buoni per i paesi dei paesi caldi. Se vollero lavorare, costoro dovettero contentarsi di cotone con fibre più corte e scadenti.

 

 

Forseché esiste un altro criterio il quale sia atto a ripartire più giustamente le materie prime nei vari paesi del mondo? Sarebbe forse conveniente – giusto nel linguaggio giuridico e morale – che i cotoni migliori andassero a finire negli stabilimenti dove si fabbricano tessuti grossolani e quelli scadenti fossero dati a quegli industriali i quali, dovendo pagare salari alti ad operai specializzati e valenti, debbono necessariamente fabbricare merce fina di prezzo relativamente alto? All’attuazione della regola economica – e perciò giusta – basta una condizione: che tutti possano acquistare le materie prime su qualunque mercato alle stesse condizioni di ogni altro compratore, che cioè non esistano condizioni di favore per nessuno, né per i connazionali dei produttori né per gli appartenenti a stati amici o alleati. La condizione necessaria e sufficiente è che nelle relazioni internazionali viga la medesima regola che vale nell’interno di ogni stato, per gli abitanti di ogni cantone in ogni altro cantone della Svizzera, per i piemontesi, lombardi ecc. in ogni altra regione d’Italia. Non è facile per fermo che la condizione possa attuarsi nei rapporti internazionali così ovviamente come pare ovvio si avveri nell’interno di ogni stato, ma è certo più facile si avveri quando esistono, tra piccoli e grossi, 60 stati indipendenti che non quando il mondo sia diviso, come sarebbe la pretesa della teoria dello spazio vitale, tra quattro o cinque grandi imperi mondiali. La concorrenza nel comprare e nel vendere che tende ad attuarsi nel primo caso e che spinge i tanti stati ad accettare, non avendo nessuno la possibilità di dominare gli altri, la regola dell’uguale trattamento, del fair play, della clausola della nazione più favorita, non esisterebbe più quando il mondo fosse diviso fra quattro o cinque grandi spazi vitali. Ogni grande impero disporrebbe di quasi tutte le materie prime e difetterebbe solo di alcune di esse e per procacciarsele dipenderebbe solo da uno o da due altre grandi aggregazioni politiche.

 

 

Ma se la teoria dello spazio vitale ha un senso, essa vuol dire che ogni grandissimo stato vorrebbe riservare per sé, per i propri industriali le materie prime nate sul suo territorio ed escludere gli industriali stranieri dall’usarne od almeno dal procacciarsele a condizioni ugualmente favorevoli. Qual senso avrebbe invero sopportare i costi delle guerre necessarie a conquistare lo spazio vitale se si dovessero poi spalancare le porte agli stranieri e lasciare che essi si provvedessero nel territorio detto «spazio vitale» alle medesime condizioni dei nazionali?

 

 

Ma sarebbe l’esclusivismo pretesto a nuova guerra. L’unico o prevalente possessore della materia prima mancante agli altri cercherebbe naturalmente di profittare della propria situazione monopolistica, ed in contrapposto, ed altrettanto naturalmente, gli imperi bisognosi tenterebbero, coalizzandosi tra di loro, di imporgli colla forza la concessione di forniture a prezzi soddisfacenti. Il ricorso alla guerra da parte del più forte per procacciarsi il prezioso anello mancante di una compiuta catena economica è il risultato fatale della teoria. La conquista dello spazio vitale non contenta mai il conquistatore, anzi rende più acuta la sete della conquista.

 

 

I cittadini di uno stato, come la Svizzera, i quali da secoli hanno posto un limite alle proprie aspirazioni territoriali, ben presto si avvedono che «spazio vitale» e «mancanza di materie prime» sono frasi prive di contenuto e che l’uomo può vivere e prosperare anche senza soddisfare quelle aspirazioni astratte. Non esiste nessun paese del mondo, nel quale l’oro e le gemme, la gomma elastica e il petrolio, la lana ed il cotone, il ferro ed il carbone, si trovino in abbondanza per i cantoni delle strade, pronti ad essere appropriati dal primo venuto. Dappertutto le materie prime hanno un costo di produzione, dappertutto occorre fatica per estrarle dalle viscere della terra, o per farle crescere dopo averle seminate, e dappertutto, se non ci si mettono di mezzo le teorie dello spazio vitale e i relativi tentativi monopolistici ed antimonopolistici dei paesi produttori e di quelli consumatori, il prezzo di quelle materie prime tende verso il livello del costo di produzione marginale, ossia verso il livello del costo di produzione di quell’ultima più costosa dose della merce che occorre produrre per soddisfare, ai prezzi correnti, la domanda del mercato.

 

 

Accadde talvolta che taluna merce, come il caffè e la gomma elastica, sia caduta al di sotto di quel livello, infliggendo perdite fortissime ai produttori, ed accadde tal altra che, per un aumento improvviso della domanda, i prezzi superassero quel livello e sembrassero prezzi di monopolio. Ma normalmente in tempi di pace, i prezzi tendono verso il livello del costo così come fu definito sopra.

 

 

Ed allora, si chiede l’uomo di buon senso: val la pena di partire in guerra per ottenere con la forza e con un dispendio spaventevole di vite umane e di ricchezze preziose quel che posso procacciarmi col lavoro? La scelta fra l’ideale del grandissimo spazio vitale nel quale si produce gran parte delle materie prime necessarie all’industria moderna e quello ristretto al piccolo territorio svizzero insufficiente a far vivere i suoi abitanti, è la stessa scelta che ogni popolo ad un certo punto della sua storia deve fare fra la guerra e la pace, fra l’economia della rapina e quella del lavoro. Dormono nel profondo dell’animo umano gli istinti del selvaggio, del barbaro, che, unico mezzo per procacciarsi quel che non ha, conosce l’uccisione, la rapina ed il furto a danno di chi possiede. Ma anche se lo si ammanta con il linguaggio figurato dello spazio vitale, del diritto dei popoli giovani contro i popoli vecchi, dei paesi poveri contro i paesi ricchi, il metodo bellico rimane pur sempre un mezzo antieconomico di procurarsi quel che desidera. Se si sommano le perdite delle vite umane cagionate dalle guerre di conquista, gli interessi e l’ammortamento dei capitali impiegati a fondo perduto nel valorizzare i territori occupati, il minor ricavo del lavoro dei popoli assoggettati e sfruttati economicamente, ben presto si vede che il prezzo delle materie prime che paiono gratuite ai teorici imperialistici, perché ottenute con la guerra, è assai più alto di quello che si pagherebbe normalmente nella concorrenza degli acquirenti e dei venditori su mercati liberi.

 

 

Il problema si riduce a rispondere alla domanda che l’industriale svizzero pone a sé stesso: «per produrre le macchine elettriche in cui intendo specializzarmi, che cosa mi conviene di più, aggregarmi od associarmi od in altro modo partecipare ad una grande costellazione politica, capace di estendere il suo dominio su territori abbondanti di carbone, di ferro e degli altri metalli dei quali ho bisogno per fabbricare le mie macchine elettriche, ovvero non imbrogliare le due questioni, dell’appartenenza o fede politica e della convenienza economica e, standomene contento al mio piccolo stato, cercare di procacciarmi carbone e ferro e metallo dove meglio mi sarà possibile?».

 

 

L’uomo di buon senso subito si avvede che la seconda alternativa gli è assai più conveniente. Innanzi tutto perché le sue forze fisiche, la sua intelligenza nativa e le sue abilità acquisite possono essere consacrate in misura maggiore, senza distrazioni eccessive per preparazioni a guerre e ad armamenti aventi lo scopo di assalire altrui, allo studio dei mezzi migliori per ottenere macchine elettriche perfette con un minimo impiego di materiali. In secondo luogo egli non è obbligato a vendere a preferenza le sue macchine dentro la grande costellazione politica della quale fa parte, ma può scegliere quello o quelli tra i tanti mercati che è o sono disposti a pagarle al più alto prezzo. Finalmente, egli non è obbligato ad acquistare il ferro e il carbone e i metalli nel territorio del grande spazio vitale di cui qualche tentatrice sirena lo invita a far parte, dove i prezzi possono essere più alti di quelli che corrono altrove, ma può scegliere con indifferenza il mercato produttore nel quale egli li può acquistare al minimo prezzo. Sicché, se egli è davvero esperto nel produrre buone macchine elettriche – ma ciò dipende da lui, dall’essere egli davvero un uomo moderno, agguerrito negli studi teorici e nelle loro applicazioni pratiche, buon commerciante di prodotti finiti e buon intenditore di materie prime, buon organizzatore di operai pagati bene è probabile ch’egli riesca a vendere più e meglio dei concorrenti del grande spazio vitale, appunto perché egli non ha mai posseduto né aspirato a possedere territori sconfinati ed a gloriarsi di colonie. L’appartenenza ad un paese non imperialistico fu per lui cagione di ricchezza e non di povertà, perché lo indusse a perfezionare le qualità di lavoro e di industria, che son poi quelle con le quali si riesce a produrre ed a vendere buone materie prime e buoni prodotti finiti.

 

 

Non dico che i liguri od i biellesi della mia Italia non abbiano imparato altrettanto bene degli svizzeri la lezione del buon senso, essi che dai sassi cavano o cavavano fiori ed ortaggi venduti in tutta Europa; o dal mare sapevano trarre commerci lucrosi, sfruttando nel ‘600 e nel ‘700 la vanagloria dei signori spagnuoli, i quali traevano a rovina il loro paese per l’albagia di possedere le miniere d’oro e d’argento nello spazio vitale più ampio che allora esistesse, essi che, utilizzando i salti d’acqua delle loro montagne, seppero nel biellese creare una solida industria laniera.

 

 

Tuttavia l’esempio della Svizzera va additato agli italiani come quello del paese, che, riponendo tutta la propria forza economica nell’eccellenza del lavoro compiuto, ha raggiunto uno dei livelli più alti che nel mondo si conoscono non solo di ricchezza, ma anche di larga diffusa sua distribuzione, aliena ugualmente dagli eccessi della miseria e della opulenza.

 

 

La rinuncia svizzera alla gloria dei possessi coloniali ed a quella di vedere pitturati nel proprio colore vasti territori asiatici, africani od australiani, è davvero una rinuncia? Qui si pone uno dei più gravi problemi del momento attuale. Non basta dimostrare che la conquista di una colonia non è economicamente un buon affare. Si può essere persuasi che il provento netto della colonia non potrà remunerare il capitale impiegato dallo stato colonizzatore nelle spese della conquista militare e nell’apprestamento dell’attrezzatura stradale, ferroviaria, amministrativa, igienica, scolastica del territorio conquistato, che probabilmente il capitale impiegato dallo stato non solo non otterrà alcuna remunerazione, ma sarà cagione di oneri ragguardevoli per lunghissimo periodo di tempo alla madrepatria. Si può essere persuasi che il capitale impiegato da imprenditori privati e da società nella bonifica e nella coltivazione dei terreni adatti alla colonizzazione europea avrebbe forse, assai alla lunga, dato qualche reddito agli imprenditori solo se questi avessero profittato di larghi sussidi statali a fondo perduto per la costruzione di edifici rurali, di strade secondarie e poderali e per le opere di bonifica e di irrigazione. Si può essere convinti che, anche fatte queste ipotesi di larghissimi sacrifici della madrepatria, questa non avrebbe probabilmente potuto avviare verso la colonia una emigrazione di milioni di contadini piccoli e medi proprietari autonomi, perché le condizioni di vita delle contrade non ancora costituite in stati indipendenti liberi non sono generalmente favorevoli alla popolazione bianca, la quale debba vivere continuamente sul podere, ma impongono al bianco di trascorrere ogni tre o quattro anni un lungo periodo di vacanza in clima diverso europeo, cosicché quei territori si palesano propizi soltanto a quella che si chiama colonizzazione da parte di grandi imprenditori, dirigenti di aziende capitalistiche coltivate manualmente da indigeni adusati al clima, colonie cioè di sfruttamento e non di popolamento, colonie vantaggiose, sì, ad un numero ristretto di ardimentosi grandi agricoltori ed insieme agli indigeni, di cui l’iniziativa bianca sarebbe capace di innalzare il tenor di vita, ma inette a raggiungere il risultato di apprestare uno sbocco ad una esuberante popolazione agricola metropolitana.

 

 

Si può essere persuasi di tutto ciò e d’altro ancora: della non convenienza economica di strappare ai beati possidenti colle armi, giacché colle buone non sarebbe mai possibile, colonie antiche e già assestate come la Tunisia ed il Marocco o qualche ampia fetta dell’Africa tropicale francese, o britannica o belga. Anche qui, se si tenga conto dell’investimento di capitali nella condotta della guerra di conquista, e di quelli grandiosi per la riattrezzatura distrutta o danneggiata nelle operazioni belliche, del moto di indipendenza che spinge il mondo arabo e, a quel che si sa, anche le popolazioni indigene nere dell’Africa, a sottrarsi allo sfruttamento da parte dei bianchi, a pretendere autonomie politiche ed economiche, ad esigere la cessazione di quelle forme di colonizzazione europea che implicano semplice sfruttamento della mano d’opera indigena e l’instaurazione di tipi di governo economico, nei quali ai bianchi spettino solo quei guiderdoni che siano il compenso normale di funzioni effettivamente compiute, è probabilissimo si debba giungere alla conclusione che le imprese coloniali, anche se si tratti di territori cosidetti ricchi e non di zone sterili o malariche trascurate dai primi giunti nell’arringo coloniale, sono imprese economicamente improduttive, se non sterili. La quale conclusione si rafforza riflettendo alla difficoltà somma di instaurare, a vantaggio della madrepatria, nei tempi moderni, un qualche sistema di preferenze doganali, i cui danni Adamo Smith aveva già dimostrato per i tempi suoi. Gli accordi di Ottawa sono una palla di piombo al piede dell’Inghilterra, indotta ad acquistare dalle colonie derrate agricole e materie prime anche quando sarebbe ad essa più conveniente farne acquisto altrove ed a danneggiare se stessa nella vendita dei prodotti finiti in confronto ai paesi liberi da siffatte pastoie, e sono fonte di attriti interimperiali quando essa, per ricambio, incerto e sempre sospettato, richiegga favori alle sue esportazioni nelle colonie.

 

 

Tutto ciò discusso e concluso, il problema non è risoluto. I popoli poveri, giovani, combattivi vogliono forse ottenere ricchezza quando si decidono a combattere? O la ricchezza non è un miraggio vano che i capi additano ai popoli, quando invece la meta vera è unicamente quella della conquista della gloria, del prestigio, della potenza militare e politica? Con ragionamenti economici non si distrugge la volontà di potenza e di espansione di popoli i quali vogliono conquistare un posto al sole. Il problema, che non è economico, deve essere posto politicamente e storicamente. Orbene, l’esperienza dimostra che la forza sola non basta. Non basta dire, anche quando è vero: noi siamo un popolo numeroso, crescente di numero, desideroso e bisognoso di espansione, provvisto delle armi necessarie affinché all’aspirazione segua l’effetto. La forza scompagnata dall’idea non è vera forza e da essa non seguono ricchezza e potenza, sì bene miseria ed umiliazione.

 

 

Sull’impero spagnuolo non tramontò il sole, finché, agli avventurieri in cerca d’oro e d’argento si accompagnavano missionari intesi a convertire gli indiani alla parola di Cristo. Quando rimasero soli gli aguzzini decisi ad arricchire, l’oro e l’argento delle nuove Indie recarono alla Spagna solo ozio, miseria e decadenza economica morale e politica. L’antico impero britannico si sfasciò e le 13 colonie, ribellandosi, dimostrarono che la forza, messa al servizio esclusivamente della volontà di potenza e del privilegio economico, non bastava a conservare quel che non la forza, ma il lavoro dei coloni in cerca di libertà religiosa aveva creato nell’America settentrionale. Il nuovo impero britannico risorse e crebbe e non pare sia giunto al termine della sua lunga vita non perché l’Inghilterra del XIX secolo sia stata capace di maggior forza che nel XVIII secolo, ma perché nel decennio tra il 1830 ed il 1840 un gruppo di uomini si fece banditore di un’idea e quell’idea trovò un uomo di stato, Lord Durham, che la consacrò nel celebre rapporto che da lui prese il nome. La tavola della legge del nuovo impero fu: le colonie non sono fatte per la madrepatria, ma la madrepatria ha la missione di fondare a sue spese le colonie, di educarle a governo libero e di assicurare la loro indipendenza politica ed economica anche e sovrattutto di fronte a se stessa. Solo la nuova idea, messa al servizio della forza, rinsaldò il rinnovato impero britannico. Arricchita di sempre crescente contenuto, essa fu codificata nel cosidetto Statuto di Westminster, in virtù del quale ai Dominions del Canada, dell’Africa del sud, dell’Australia, della Nuova Zelanda fu riconosciuta la compiuta indipendenza economica, politica, militare, diplomatica di cui godevano di fatto già prima, fu attribuito il diritto di secessione dal complesso della Comunità britannica delle nazioni, al quale sono legati solo dal vincolo ideale della persona del Re, e fu persino devoluto al governo elettivo dei singoli stati il diritto di proporre direttamente al Re, senza passare attraverso il governo britannico, il nome del viceré rappresentante della persona del Re. Verso questo tipo di indipendenza assoluta stanno orientandosi l’India e le altre colonie, ancora amministrate direttamente dalla corona con la cooperazione larghissima e crescente di parlamenti locali. Ed è grazie all’idea della graduale ascesa verso l’indipendenza politica compiuta, che le antiche colonie, diventate stati indipendenti, combatterono e combattono accanto alla madrepatria durante la passata e la presente grandi guerre. Solo grazie alla consapevolezza di potere, volendo, rimanere neutrali, come fece e fa, senza contrasto con l’Inghilterra, l’Irlanda, i dominions e le colonie fanno sacrifici di sangue e di danaro in difesa di una causa che, perciò, essi considerano comune. Dalla convinzione profonda di dover difendere l’idea della convivenza in una libera comunità di nazioni indipendenti trae forza l’impero britannico. Oggi è diventato storicamente assurdo che la forza pura, la mera volontà di potenza e di dominio riesca ad acquistare capacità maggiore di espansione di una forza la quale acquista ognor nuovo alimento dalla propria superiorità morale e spirituale. Oggi, se si vuole partecipare alla colonizzazione, al popolamento ed allo sfruttamento dei paesi nuovi e di quelli semi inciviliti bisogna porre al servizio della forza non meri interessi egoistici materiali della madrepatria, ma un’idea la quale uguagli e superi l’idea che ha fatto e conserva la grandezza dell’Impero britannico. Di crear qualcosa di meno alto non solo non vale moralmente la pena, ma, quel che monta, non ci si riesce. Le forze materiali le quali stanno dietro all’idea dello spazio vitale, della grande Asia e simiglianti concezioni puramente economiche materialistiche razzistiche fisiologiche (sangue, gioventù) demografiche si sono ripetutamente dimostrate inferiori a quelle che, forse più lentamente, sono chiamate a raccolta dalla necessità di difendere altre idee: della libera convivenza dei popoli, della loro cooperazione volontaria, dell’emancipazione progressiva dei popoli meno inciviliti e della loro elevazione a dignità uguale a quella dei popoli che oggi guidano i destini del mondo. Poiché questa è la realtà, non resta che inchinarsi ad essa. Poiché colla guerra non si riesce a sostituire un tipo inferiore di conquista ad uno superiore di conservazione, giuocoforza è, se si vuole conquistare un posto nel mondo superiore a quello fin qui raggiunto, rassegnarsi a mettersi al servizio di un’idea più alta di quella che ha fatto la fortuna dei grandi imperi che si sono succeduti nella storia.

 

 

Quale possa essere un’idea più alta di quella della comunità britannica delle nazioni non è compito di un semplice studioso dire. L’idea verrà fuori dalla necessità della convivenza di tanti diversi popoli tutti decisi a difendere, a rischio della vita, la propria individualità nazionale.

 

 

L’idea dello spazio vitale ossia della esclusività del possesso di vasti territori da parte di un popolo egemone si è dimostrata sterile. Comunque volgano le sorti della guerra presente, dinnanzi alla resistenza disperata dei popoli, la teoria degli spazi vitali ha dimostrato la propria inettitudine a creare un nuovo mondo migliore dell’antico.

 

 

Qui, di nuovo, può soccorrere l’insegnamento svizzero. Come ripetutamente ha chiarito nelle pagine di questa rivista lo Janner, l’idea che rende viva e vitale la Svizzera, che ha trasformato un paese diverso per lingue, per religioni, per costumi, per razze, in una vera nazione, non è un’idea materiale geografica od economica. Se queste fossero le forze che tengono insieme la Svizzera, da lungo tempo essa non esisterebbe più. La Svizzera vive ed è una nazione perché è decisa a far convivere d’accordo popoli diversi. L’idea che ha creato la nazione svizzera è la stessa che fa combattere il boero, vinto, accanto all’Inghilterra vincitrice, che dà al boero vinto il governo del paese nel quale i due popoli convivono, che persuade il francese del Canada a lottare insieme ai discendenti dei conquistatori britannici, che pone i pochi figli dei maori neozelandesi fianco a fianco degli inglesi che avevano quasi sterminati i loro antenati: l’idea della convivenza pacifica di popoli, di razze, di lingue, di religioni, di costumi diversi. Ma la Svizzera ha spinto l’attuazione dell’idea ad un grado più elevato di quanto non abbia fatto la Comunità britannica delle nazioni. Questa, dopo avere distrutto l’egemonia inglese, dopo aver ridotto la Gran Bretagna allo stato onorifico di «primus inter pares» fra stati ugualmente sovrani, non ha ancora saputo tra essi creare l’organo coordinatore. Nel momento supremo della successione del Re per l’abdicazione di Edoardo VIII, hanno funzionato il telefono e gli accordi verbali dei governi degli stati indipendenti legati dalla persona del Re, affinché la successione si verificasse nel medesimo istante. E fu un trionfo -amareggiato solo dal ritardo di un giorno da parte dell’Irlanda del sud, desiderosa di accentuare in tal modo e con l’uso di una formula singolare la propria indipendenza assoluta ed il proprio stato legale di repubblica – fu un trionfo dell’empirismo tradizionale britannico, il quale non pone mai problemi astratti ma risolve volta per volta i singoli problemi concreti con compromessi, ripugnanti bensì allo spirito logico francese ed italiano, ma suscettivi di funzionare con efficacia. Non è però astratto, sì bene concreto il problema della coordinazione dell’azione comune, quello della sostituzione al metodo lento della fornitura, ad occasione di una guerra improvvisa, di contingenti di uomini e di denaro, da parte di ogni stato facente parte della comunità britannica delle nazioni, di un metodo rapido efficace atto a guarentire la pace e la difesa. Certo, fu magnifico lo spettacolo dell’adesione volontaria, operata in misura e con modalità diverse, con o senza coscrizione obbligatoria, dei cinque stati all’impresa comune. Tuttavia se fu moralmente superbo, il metodo fu pericoloso rispetto alla consecuzione dello scopo, perché l’impresa non poté non essere condotta con una qualche lentezza e superando attriti faticosi. Manca alla Comunità britannica delle nazioni quel che per la Svizzera sono il Parlamento ed il Consiglio federale, quel che per gli Stati Uniti sono il Congresso ed il Presidente.

 

 

Avranno gli uomini di stato chiamati a deliberare dopo la fine della guerra sulle sorti dei popoli la fantasia e la volontà di imitare e di emulare l’esempio svizzero? Il quale, si badi, è superiore a quello medesimo nordamericano, perché negli Stati Uniti si fondono, come in un crogiuolo, dopo qualche generazione i discendenti degli inglesi, degli irlandesi, dei tedeschi, degli scandinavi, degli italiani e degli slavi e danno origine ad una nazione nuova, diversa da quelle componenti e fornita di propria individualità, laddove nella Svizzera le tre o quattro stirpi confederate conservano la propria lingua ed i proprii caratteri e tuttavia sono decise a convivere e perciò costituiscono una nazione sola, una e trina.

 

 

Probabilmente no, e sarà grande sciagura perché essi non avranno saputo perciò spegnere i germi di una prossima futura guerra più spaventevole di quella odierna, destinata finalmente a sradicare del tutto dalla terra attraverso un bagno di sangue l’idea nefasta dello stato sovrano perfetto in se stesso, dotato di piena autonomia di fronte agli stati sovrani ugualmente perfetti ed indipendenti. Finché l’idea dello stato sovrano perfetto, padrone assoluto, sia pure per volontà della maggior parte dei consociati, delle sorti di questi, non sia interamente sradicata dalla mente e dal cuore degli uomini, è impossibile che il mondo possa aver pace. Sinché non diventi pacifica la persuasione che la sovranità non esiste perfetta in nessun tipo di stato, ma essa è diffusa e distribuita fra tanti tipi di stato (lo stato federale, gli stati confederati, i comuni, le corporazioni, le chiese, le associazioni, gli individui ecc.) e nessuno può usurpare il terreno altrui e, per decidere delle cose supreme della guerra e della pace, occorre il consenso, dato nelle forme più diverse, di tutti i tipi coesistenti di stato, il mondo non potrà avere pace.

 

 

Occorre perciò spogliare a poco a poco dei suoi attributi il nemico numero uno, che è l’idea dello stato sovrano perfetto. Occorre trasportare dallo Stato sovrano ad organi diversi, internazionali, alcuni degli attributi che oggi appaiono proprii dello stato, cosicché la sovranità non risieda più intiera nello stato ma sia variamente attribuita ad organi superstatali, dotati di vita, di finanza e di organi proprii, organi non denunciabili dagli stati singoli se non con atti destinati col tempo a parere assurdi agli occhi degli uomini e quindi impossibili.

 

 

La creazione o, meglio, la moltiplicazione di organi comuni di governo di taluni aspetti della vita, particolarmente economica, dei popoli, si impone se si vuole diminuire la superficie di attrito dalla quale nascono le guerre, organi grazie ai quali i rappresentanti dei diversi stati imparino a conoscersi, a tollerarsi, a stimarsi ed a lavorare in comune per una causa comune a tutti. L’insuccesso, che fin dal 1918 e 1919 ebbi facilmente a prevedere, della Società delle Nazioni, organo privo di forza militare, di entrate finanziarie e di rappresentanza propria, e la convinzione della immaturità dell’idea della federazione vera e propria, spingono oggi ad invocare la moltiplicazione di «Unioni» economiche simili alla Unione postale internazionale, alla Unione internazionale per le privative industriali ed i marchi di fabbrica od alla Banca dei pagamenti internazionali, le quali hanno tutte sede in Svizzera. È forse utopistico sperare che anche il sistema dei mandati coloniali possa essere trasformato e generalizzato seguendo la medesima linea direttiva?

 

 

Quando si riconosca che le conquiste coloniali non possono avere, nell’interesse stesso della nazione colonizzatrice, fini economici egoistici, ma debbono invece avere lo scopo del benessere dei popoli meno inciviliti e la loro progressiva educazione a compiuta autonomia di governo, quando, durante il periodo intermedio di educazione, lo stato protettore non rivendichi, reputandolo a se medesimo dannoso, alcun privilegio economico, quando cioè si generalizzi il principio della porta aperta e questo sia in buona fede applicato alle merci ed agli uomini provenienti e indirizzati da e a tutti gli stati stranieri, quale interesse può avere lo stato protettore a riservare a sé l’amministrazione esclusiva del paese di mandato? Perché accollarsi l’onere esclusivo degli investimenti a fondo perduto nell’attrezzatura di strade, ferrovie, porti, canali, scuole, ospedali, chiese ecc. ecc. necessaria a rendere quel paese degno di piena autonomia di governo? Agli stati protettori odierni gioverebbe attribuire una partecipazione relativamente elevata nei consigli di governo e nell’onere dell’amministrazione, ma non tale da escludere una partecipazione attiva e passiva di tutti gli altri stati. Se agli inglesi, ai francesi, ai belgi, agli italiani, agli egiziani, ai sudafricani potranno essere riconosciute particolari maggioranze nei consigli di governo dei paesi di colonia diretta, dei protettorati, dei mandati e delle zone di influenza finora appartenuti a ciascuno di quei popoli, la costituzione di una o di parecchie «Unioni coloniali» aperte agli stati originari ed a tutti gli altri che potessero in seguito essere ammessi (Stati Uniti, Germania, Russia, Svizzera, Paesi scandinavi ecc. ecc.) inizierebbe lo smantellamento dell’idea dello stato sovrano perfetto e preparerebbe la futura federazione europea od occidentale. All’amministrazione comune federativa del grande territorio coloniale africano parteciperebbero in varia misura, a seconda del rispettivo grado di attitudine e di organizzazione politica, anche i popoli amministrati. Col progredire del tempo, un numero crescente di compiti sarebbe devoluto dall’amministrazione federale a quella delle ex colonie o protettorati, ritornati a piena dignità di stati autonomi, a somiglianza di quanto accade, in forme diverse, nel passaggio dalla situazione di «territori» a quella di «stati» nella federazione degli Stati Uniti d’America. Ma taluni compiti – difesa, grandi ferrovie continentali, poste e telegrafi, dogane, rappresentanza diplomatica – non dovranno mai essere trasferite dall’unione ai singoli territori. La diminuita partecipazione degli stati colonizzatori e quella cresciuta dei popoli coloniali alla gestione della cosa comune dovranno significare rafforzamento e non indebolimento dell’organo comune di governo.

 

 

I vantaggi economici maggiori della nuova politica coloniale sarebbero principalmente goduti dai cosidetti paesi poveri e giovani. Ove non si faccia questione di mero prestigio e si consenta che le carte geografiche rimangano colorate così come sono presentemente, coi colori delle rispettive potenze dominanti o protettrici o mandatarie, ma si osservi rigorosamente, grazie al controllo dell’«Unione coloniale» il principio della porta aperta a tutti i cittadini degli stati appartenenti alla Unione, sarebbero i popoli europei capaci di più larga emigrazione, meglio atti ad esportare risparmi ed a farli fruttificare con impieghi giudiziosi, quelli che trarrebbero maggior profitto dalla pace instaurata nel grande territorio africano. Tutti avendo le medesime opportunità di riuscita, nessuno potrebbe lagnarsi della migliore riuscita altrui, ché questa non potrebbe essere attribuita ad altra causa che al merito. La diversità nei punti di partenza rispetto al possesso di capitali non avrebbe gran peso.

 

 

Il ritorno della pace, se questa non sia una semplice tregua d’armi, darebbe un siffatto impulso alla formazione di capitali nuovi, che questi diverrebbero presto quel che in certi momenti furono il caffè, la gomma elastica, il cotone, il carbone: a drug in the market, una merce venduta sotto costo, ossia in compenso di un interesse nominale. Se oggi il saggio di interesse per lunghi investimenti non è del 0,50 o dell’1 per cento, la colpa è esclusivamente delle guerre e delle rivoluzioni. In Isvizzera dove da lunghi anni le une e le altre sono conosciute solo per le loro dannose ripercussioni, il saggio d’interesse per i prestiti pubblici e privati è tra i più bassi del mondo. Di gran lunga più importante del possesso del capitale, diventerebbe l’attitudine ad usarlo. Non i capitalisti sarebbero i padroni degli imprenditori, non i lavoratori, dotati di qualche iniziativa, dovrebbero chiedere in ginocchio l’aiuto dei capitalisti, ma viceversa. Ora, se un popolo è veramente giovane, il che vuol dire fornito di energia e di capacità di lavoro, esso non corre alcun pericolo di rimanere indietro nella gara della colonizzazione, ove questa sia veramente aperta a tutti.

 

 

Ecco perciò l’ideale che deve trionfare alla fine della guerra attuale, se questa deve essere davvero, se non l’ultima guerra, almeno il preludio ad un lungo periodo di pace: il riconoscimento dell’uguale diritto di tutti i popoli ad utilizzare i beni della terra. Ideale conciliabile colla permanenza delle attuali sovranità politiche, ove il concetto di sovranità sia svuotato del contenuto di assolutezza e di esclusivismo che ora lo rende cagione di odi e di guerre, e sottoposto, insieme ad altri vincoli, a quello fondamentale dell’uguale trattamento economico e giuridico di tutti gli uomini, qualunque sia la loro razza, la loro religione, la loro lingua. Non è questo l’ideale che dà oggi alla Svizzera la caratteristica vera di nazione?

 

 

Al disopra dei confini materiali, al di sopra dei limiti segnati dalle montagne, dai fiumi e dai mari, e di quelli ereditati dalle sorti varie delle lotte passate, gli uomini si sentono concittadini, parte della medesima nazione, quando essi inseguono un medesimo ideale di vita. La nazione è un atto morale e non fisico e non fisiologico. Non la terra e non il sangue creano le nazioni, ma la volontà di vivere insieme secondo norme comuni e per raggiungere un comune ideale. La guerra odierna è la prova della necessità in cui si trovano gli europei di creare metodi di vita comune. Se i mezzi voluti da taluno per raggiungere il fine devono essere riprovati, il fine della cooperazione i tutti i popoli è pur necessario.

 

 

Ferrovie, navigazione, telegrafo, telefono, radio hanno resa assurda la vita chiusa nell’ambito di ogni stato separato. È necessario, se si vogliono evitare guerre future, se non si vuole che fra un quarto di secolo l’Europa sia messa nuovamente a fuoco ed a sangue, inventare qualche nuova forma di convivenza pacifica. Se la forma più perfetta della federazione tra popoli di stirpi, di lingua e di religioni diverse, appare oggi prematura ai più, uopo è tuttavia avvicinarsi gradatamente a quell’ideale e creare vincoli siffatti all’operare indipendente separato degli stati che un’azione di guerra appaia ognora più rischiosa nell’attuazione e incerta nei risultati. Quando le ferrovie siano governate da un ente superstatale esse saranno strumento meno agile in mano di quello degli stati che volesse muovere guerra agli altri. Quando le colonie fossero governate da «Unioni», nel governo delle quali ogni stato avesse solo una partecipazione, sarebbe scarsamente possibile ad uno stato fazioso trarne uomini e mezzi per la condotta di una guerra. Quando l’emissione della moneta e dei suoi surrogati cartacei fosse riservata ad un Istituto internazionale, la fabbricazione di carta moneta falsa, questa suprema risorsa degli stati belligeranti, sarebbe meno comoda per chi volesse turbare la pace. Quando l’Unione postale universale non fosse soltanto, come è oggi, una camera di compensazione, ma gerisse direttamente le poste i telegrafi ed i telefoni, un ostacolo, almeno momentaneo, sarebbe frapposto ai perturbatori della pace internazionale e di quella interna. Ritardo ostacolo remora, non certo impedimento assoluto; ma quando si dice ritardo ostacolo remora si dice anche possibilità di compromessi, di trattative, di accordi o di interventi repressivi degli istinti belluini atavici che spingono a risolvere i problemi con la violenza invece che colla persuasione. Le limitazioni internazionali ai poteri dei singoli stati sovrani gioverebbero a togliere valore al nemico numero due della civiltà contemporanea, ossia all’idea che basti e convenga impadronirsi del potere per procacciare la felicità di questa o quella classe sociale. La «dittatura del proletariato», la conquista del potere da parte di qualche gruppo eletto di uomini persuasi di possedere il segreto della rinnovazione della società, ecco il nemico numero due, logica conseguenza dell’idea dello stato sovrano perfetto, il quale tutto può fare per crescere la somma della felicità umana. Dopo secoli di guerre atroci gli uomini si sono finalmente persuasi che lo stato è impotente ad agire nel campo della religione e del pensiero. Occorre si persuadano che all’operare dello stato debbono essere posti vincoli numerosi di altra specie, sicché ai suoi temporanei governanti desiderosi di attuare un qualunque loro proposito, sia richiesto il consenso di tanti altri stati, di tanti altri organi di governo superstatale, da rendere difficilissimo il mal fare, il fare rapidamente, il mutare e il rimutare che nelle cose di governo sono quel che il male ed il peccato sono nelle cose della morale e della religione.

 

 


[1] In calce la data: «15 agosto 1943» [Ndr.].

Non attendersi troppo

Non attendersi troppo

«Corriere della Sera», 8 settembre 1943

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 306-310

 

 

 

 

Mi è accaduto di questi giorni di sentirmi dire, a voce e per iscritto: «I lettori aspettano da voialtri economisti… ». Che cosa si aspetta? Temo assai di più di quanto possiamo dare. Purtroppo, non possiamo fare previsioni sull’avvenire. Ci fu un tempo, prima della grande crisi del 1929-32, nel quale le previsioni economiche erano divenute di moda. Particolarmente negli Stati Uniti si erano impiantati laboratori, dove si manipolavano statistiche e si tracciavano curve rappresentative di quel che era accaduto in passato: curve di prezzi che prima andavano su e poi andavano giù e di nuovo su, con un certo andamento che, a guardarlo ed a calcolarlo, presentava qualche regolarità. Tutto ciò era assai bello ed istruttivo ed anche fecondo di deduzioni importanti, per il passato. Ma per l’avvenire? Quando gli statistici dei laboratori od osservatori economici si azzardarono ad allungare le curve dal passato certo nel futuro incerto, quando cioè osarono far previsioni, fu un clamoroso insuccesso. Anche se la mano che prolungava le curve era delicata e previdente, essa fatalmente trascurava un terribile “se”. Non è lecito dire: “poiché” in passato le cose dei prezzi, dei redditi, ecc. andarono così, seguiteranno ad andare nello stesso modo in avvenire. Bisogna invece dire: “se” in avvenire le circostanze le quali determineranno i prezzi, i redditi, ecc. saranno le stesse che furono in passato, è probabile che l’andamento dei prezzi e dei redditi sia lo stesso. Ma quel “se” non si verifica mai, qualcosa muta certo. Mutano i gusti degli uomini si fanno invenzioni di macchine nuove, di merci nuove, di procedimenti industriali ed agricoli, mutano i costi di produzione, i mezzi di comunicazione. Tutto muta continuamente, talvolta adagio e talvolta in fretta; nulla si riproduce nella stessa precisa maniera che in passato. Quindi le previsioni sono difficilissime ed azzardatissime; e un economista il quale usasse indulgere in previsioni, presto si squalificherebbe. Perciò è anche difficilissimo e sconsigliabile dar consigli particolari sul modo di comportarsi nelle faccende private: se convenga comprare o vendere, preferire un titolo ad altro, imprestare a breve o a lungo termine, investire in terreni o in case, od in azioni, od in buoni del tesoro. Si possono fare considerazioni generali utili, inspirate all’esperienza passata; ed era divenuto prima dell’altra guerra celebre un libro: Come impiegare la mia fortuna di Paolo Leroy Beaulieu; libro che aveva, come quelli di cucina, avuto imitazioni anche in Italia, e la migliore era stata tra noi quella del compianto amico Giuseppe Prato. In conclusione lo studioso deve starsene sulle generali, perché, a voler consigliare l’un titolo o l’altro, l’un podere o l’altro, bisognerebbe che lo studioso diventasse qualcos’altro: banchiere, agente di cambio, mediatore di terreni. Costoro consigliano, perché si suppone abbiano conoscenze specifiche, fanno quel mestiere da tempo, assumono la responsabilità, almeno morale, del consiglio dato, conoscono le circostanze particolari, personali, famigliari di chi chiede il consiglio e adattano questo a quelle.

 

 

Il compito vero dello studioso è un altro: aiutare il pubblico a comprendere i fatti che accadono, le idee o proposte che sono nell’aria o sono largamente discusse. Che cosa vuol dire “spazio vitale”? Che cosa sta sotto la parola “autarchia”? Che si intende per “indipendenza economica dallo straniero”? Che cosa significa il contrasto fra popoli ricchi e popoli poveri? Come si deve leggere un conto del tesoro? Che differenza v’ha fra entrate e spese effettive ed entrate e spese per movimenti di capitali nel medesimo conto? Qual è il contenuto vero della frase che l’economia deve essere subordinata alla politica? Perché i calmieri sui prezzi non hanno senso senza un tesseramento effettivo?

 

 

Chiarendo e spiegando, l’economista compie un ufficio al quale talvolta gli uomini non si attendevano: fa vedere che spesso le idee proposte, le quali sono messe innanzi da politici, da riformatori, da filantropi con le migliori intenzioni, raggiungono risultati opposti a quelli che i proponenti si ripromettevano. Nella scienza economica è vero oggi, come cent’anni fa, che quel che “non si vede” è molto più importante di quel che “si vede”; verità che aveva fornito il titolo ad un opuscolo, pubblicato giusto cent’anni fa e divulgatissimo allora, di Federico Bastiat.

 

 

Chiarendo e spiegando, gli economisti danno il vero contributo, che è in loro potere, alla cosa pubblica, perché segnalano ai politici i limiti di quel che essi possono fare con vantaggio generale; indicano le condizioni vantaggiose a porsi con leggi entro le quali gli uomini possono svolgere liberamente la loro attività senza danni altrui.

 

 

Ad esempio, gli economisti sono favorevoli ai sindacati operai che non siano monopolistici, alle assicurazioni vecchiaia, invalidità, infortuni, maternità legittima, perché se ne ripromettono elevazione materiale e morale degli uomini; e si ripromettono tale effetto, perché l’esperienza del passato sembra essere in proposito probante. Sono incerti rispetto all’assicurazione malattie, l’esperienza essendo in materia contrastante, a seconda degli scopi e dei limiti qua e là accolti. Sono incertissimi rispetto all’assicurazione disoccupazione, essendo troppo preoccupanti i dati e le prove intorno al pericolo di generare tanta più disoccupazione quanto più la si vuol evitare.

 

 

Se, quando scoppia una crisi, gli economisti non invocano per lo più dai governi di correre al salvataggio delle banche e degli industriali pericolanti, anzi, salvo casi ben definiti, affermano il dovere dei governi di lasciare fallire chi deve, ciò non fanno per durezza di cuore; ma perché, analizzando i fatti, studiando le esperienze passate, essi si sono convinti che in generale vale più prevenire che reprimere, val più evitare per tempo che troppi industriali prima perdano la testa immaginando guadagni fantastici e se la rompano poi quando, trovandosi in troppi a fabbricar la stessa merce, la devono svendere a prezzi di fallimento. Né gli economisti perciò consigliano ai governi di scegliere essi, tra i tanti aspiranti industriali, quei pochi che meritano di diventare produttori effettivi. Non consigliano ciò, perché temono l’arbitrio e dubitano forte che in tal modo si scelgano i migliori. Sono invece abbastanza d’accordo nel ritenere debba essere consentito alle banche di emissione di far per tempo il loro mestiere, quello dimostrato efficace da una esperienza secolare: restringere gli sconti, rendere caro il denaro a coloro i quali, quando tutti si montano la testa, corrono con leggerezza a chiedere a prestito il denaro altrui, rarefare i capitali privati disponibili sul mercato, assorbendoli con la vendita di titoli pubblici ecc. ecc. Non consigli dunque, ma dimostrazioni del modo come da una data causa nascono gli inevitabili effetti, e chi non vuole gli effetti non deve volere la causa; non previsioni, ma ricordo di quanto si fece od accadde in passato, affinché gli uomini, dall’esperienza fatti guardinghi, evitino di ricadere negli errori che li condussero dianzi a mali passi. Non gli economisti debbono fabbricar panni di lana artificiale, non essi debbono scegliere fra il coltivar grano o pomodori, sibbene gli industriali e gli agricoltori. Compito degli economisti è di segnalare (ai politici spetta toglierli di mezzo) gli ostacoli artificiali, i quali fanno si che industriali ed agricoltori siano indotti a fare la mala scelta, a produrre la merce costosa piuttosto che quella a basso costo, la cattiva invece di quella buona. Non condurre gli uomini al guinzaglio o porre ad essi le dande come ai bambini, ma sgrombrare [sic] la via dagli sterpi e dalle pietre e poi dire a chi lavora e produce: va e per te ti nutri. Ecco quel che all’incirca, molto all’incirca, possono rispondere gli economisti alle ansiose domande di ammaestramenti e di consigli che ad essi sono rivolte.

L’autarcia e i suoi danni

L’autarcia e i suoi danni

«Il giornale d’Italia», 3 settembre 1943

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 303-306

 

 

 

 

Se si vuole definire che cosa voglia dire la parola divenuta oggi notoria, sebbene non popolare, ci si trova anzitutto dinnanzi ad un equivoco vocabolaristico; ché, a parlare propriamente, autarchia è presa in due sensi non sinonimi, l’uno politico e l’altro economico. È “autarchico” l’ente, stato, comune o provincia, il quale ha facoltà proprie di governo per le quali non dipende da altri enti superiori. In questo senso la parola autarchia si identifica con quella di dominio, padronanza, signoria politica; ed è il suo senso proprio.

 

 

In senso economico, autarchia vorrebbe invece significare bastevolezza, autosufficienza, la condizione di quella persona od ente o stato, il quale basta a se stesso e non ha, per questa o quella merce o derrata, bisogno di ricorrere ad altri.

 

 

Si dice, ad esempio, autarchico rispetto al grano quello stato il quale produce nel territorio nazionale tutto il grano necessario alla alimentazione del suo popolo.

 

 

I greci distinguevano con due parole simili, ma non uguali, i due significati ed il collega Brondi, che per il primo analizzò in Italia la differenza in una nota all’Accademia delle scienze di Torino, propose di trasportare in lingua italiana l’uso greco, usando la parola autarchia per significare autodominio politico ed autarcia per indicare la autosufficienza economica.

 

 

Taluno ritiene poco rilevante la distinzione, reputando che la autarcia od autosufficienza economica sia la condizione e quasi la prefazione della autarchia od autodominio politico. L’essere bastevoli a sé economicamente, parrebbe così la condizione indispensabile per essere anche bastevoli a se stessi, ossia compiutamente indipendenti politicamente.

 

 

La cosa è grandemente dubbia. In qual modo, si può chiedere, uno stato di cose come quello dell’autarcia od autosufficienza economica, la quale non è conseguibile se non quando lo stato si allarghi sino a comprendere il mondo intiero, può garantire la indipendenza politica dei singoli stati, per i quali è assurdo che essa possa essere raggiunta mai se non per rarissima eccezione?

 

 

L’autosufficienza economica può essere un fatto in tempi e luoghi primitivi, quando, essendo i bisogni umani limitatissimi, ogni famiglia od ogni tribù viveva dei beni da essa medesima prodotti. L’ideale di Gandhi, il quale fila il cotone con la rocca a mano, può essere un simbolo di protesta contro l’Inghilterra, ma riporterebbe l’India indietro di millenni.

 

 

Nei moderni tempi civili, quando i bisogni degli uomini si sono tanto moltiplicati e cresciuti, quando la divisione del lavoro ha consentito l’aumento incredibile dei beni messi a disposizione degli uomini, quando in ogni paese si deve ricorrere a materie prime prodotte in svariatissime altre contrade, quando ogni uomo si specializza nel produrre un bene od un servigio solo, anzi spessissimo una minuta frazione di un sol bene o servizio, autarcia od autosufficienza vuol dire ritorno a condizioni primitive preistoriche di civiltà, ad un tenor di vita che nessun popolo moderno sopporterebbe mai a lungo. Giova tuttavia proporsi l’autosufficienza come strumento temporaneo, lamentevole sinché si voglia, ma necessario e quasi fatale in tempo di guerra!

 

 

Non è qui il luogo di discutere le condizioni dalle quali dipende la vittoria in guerra. Troppe sono queste condizioni, e per lo più non economiche, perché sia possibile farvi anche un fugace accenno. Mi ristringerò ad alcune poche riflessioni pertinenti in modo specifico alla autosufficienza.

 

 

Poiché le guerre si conducono per vincere e non per perdere e poiché per vincere occorre, fra l’altro, abbondanza di mezzi e di uomini, possiamo chiederci: l’autosufficienza od autarcia conduce a quell’abbondanza di mezzi e di uomini che è una delle condizioni essenziali della vittoria? La risposta è una sola, ed è univoca: no. La autosufficienza economica significa produrre in paese anche quelle merci e quelle derrate che altrimenti, se con leggi proibitive o dazi o sussidi o contingentamenti non se ne rendesse artificialmente conveniente la produzione all’interno, si importerebbero dall’estero. Lasciate a se stesse, nove decimi delle merci autarciche cesserebbero d’un tratto di essere prodotte e al posto loro sottentrerebbero di nuovo il cuoio naturale, la gomma elastica delle piantagioni, il petrolio estratto dai pozzi, il cotone la lana naturali, il caffè genuino. Gli uomini, salvo poche eccezioni di beni nuovi rispondenti a nuove o cresciute esigenze, tornerebbero, se potessero, a rifornirsi delle merci e delle derrate genuine perché migliori e meno costose dei surrogati autarcici.

 

 

Quale è il significato di questa verità essenziale ed evidente? Che noi, se vogliamo produrre merci autarciche dobbiamo sopportare costi maggiori. E questa verità a sua volta è sinonimo di un’altra: che noi, per ottenere col surrogato lo stesso risultato, lo stesso rendimento che otterremmo colla merce genuina, dobbiamo sottostare ad uno sforzo maggiore. A parità di risultato, dove prima impiegavamo l’opera di 10 uomini, siamo costretti ad impiegare il lavoro di 12, 15, di 20 e più uomini.

 

 

Non occorrono ragionamenti complicati per riuscire alla constatazione ora fatta, la quale, se appena appena vi si rifletta, è terrificante. In un momento in cui tutti gli sforzi della nazione in guerra debbono essere tesi per ottenere la vittoria, in un momento nel quale importa per la vittoria utilizzare nel modo più perfetto la capacità produttiva degli uomini; in un momento, nel quale importa lasciar liberi i servizi diretti della guerra guerreggiata, il numero massimo di soldati e di ufficiali, ecco che la politica di autosufficienza economica ci persuade ad utilizzare male gli uomini, a far loro compiere un grande sforzo per ottenere un piccolo risultato, ecco che, invece di produrre molto a basso costo, noi ci sforziamo di produrre poco ad alto costo.

 

 

Dicesi che la autosufficienza è una dolorosa necessità di una guerra nella quale si deve osare anche questo metodo antieconomico, al par di altri, come le emissioni di carta moneta, parimenti dannose e deprecande. Dicesi che la autosufficienza è l’ultima ratio alla quale si deve ricorrere quando altri mezzi fanno difetto; ma si riconosce che la vittoria, scopo della guerra, si consegue tanto più pianamente quanto meno si è obbligati a far appello alla autosufficienza, ossia alla automutilazione delle nostre capacità di produrre merci genuine e buone e atte ad essere scambiate con altre merci genuine e buone. La qual verità aveva già riconosciuto in memorande pagine la Commissione italiana sulle spese della grande guerra passata, quando dimostrò che la vittoria era stata conseguita dall’Italia nonostante il protezionismo doganale che in quel tempo, prima del 1914, era una mitissima varietà di quella politica che poi si intitolò di autarchia. La commissione non disse e qui non si vuole affermare che in tempo di guerra a quell’arma non si debba ricorrere, quando vi si sia forzati; ma l’arte del condurre le guerre consiste anche nel non essere forzati a compiere cosa che si sa essere dannosa a noi stessi; o, meglio, consiste nell’essere forzati a far cosa costosa e dannosa nella misura minima veramente indeprecabile.

Il problema delle materie prime

Il problema delle materie prime

«Corriere della Sera», 29 agosto 1943[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 299-303

 

 

 

 

La pace che tutti vogliamo ha esigenze economiche rispetto alle quali è facile assumere fantasmi per realtà, errori per verità, ed essere perciò spinti ad agire in maniera contraria allo scopo che si vuole perseguire. Il vocabolario economico è stato così pervertito nell’uso quotidiano, da farci considerare garanzie di pace quelle che invece sono indubbiamente cagione di gelosie internazionali e fomite di guerra. Ad assicurare pace ed indipendenza si invocano autarchie, sfere d’influenza, possesso di materie prime, ripartizione di colonie; e si seminano invece germi di conflitti e di guerre.

 

 

Nessuna disputa più funesta di quella sulle materie prime; e nessuna cagione più potente di conflitti internazionali dell’idea, divulgata in solenni discorsi, della loro “giusta” ripartizione. Ripartire “equamente” le materie prime significa precisare uno o parecchi criteri, in base ai quali diplomatici e periti, riuniti attorno al tavolino verde di una conferenza internazionale, ripartirebbero tra le diverse nazioni del mondo le cosidette materie prime. Quali siano i criteri, nessuno finora ha mai dichiarato in modo intelligibile.

 

 

Che cosa sono, innanzitutto, le materie prime? Il carbone, il minerale di ferro, i metalli vari, la gomma elastica o non anche il frumento, la lana, il cotone, la seta, il riso, le olive, l’uva, le arance, i limoni? Ogni sostanza la quale sia estratta dalle viscere della terra ed ottenuta con la coltivazione della stessa è materia prima. Non sono forse materia prima di industrie grandiose le spiagge del mare, le montagne, la bellezza del panorama, la salubrità dell’aria? Esiste un criterio logico per distinguere l’una materia prima dall’altra?

 

 

Se anche si supponga, per assurdo, eliminata questa prima inestricabile difficoltà, la quale dovrebbe costringere ogni nazione a mettere nel monte delle cose da ripartire il meglio e la maggior parte dei beni prodotti sul suo territorio, quali i criteri della “giusta” ripartizione? Se i criteri debbono essere, come sarebbe evidentemente necessario, semplici, oggettivi, sottratti all’arbitrio dei ripartitori, ci si presentano primi ed ovvi quelli della proporzionalità al numero degli abitanti, alla superficie produttiva dei singoli paesi. Ma subito, dobbiamo scartarli perché essi non hanno alcun, neppur lontanissimo, rapporto con la capacità di utilizzazione delle materie prime. Distingueremo tra uomini gialli, bianchi e neri? Scenderemo a distinzioni fra uomini e donne, vecchi ed adulti e giovani e ci fermeremo sugli adulti?

 

 

Ma bisognerà precisare ancor più perché vi sono adulti di tante specie e solo alcune specie di adulti sono atte ad utilizzare bene le materie prime. Se badiamo alle superfici produttive dei diversi territori nazionali, quali i criteri per misurare l’attitudine delle diverse qualità e positure dei terreni ad utilizzare le infinite specie di materie prime? Quante migliaia di periti dovrebbero essere convocati per accapigliarsi, ognuno tirando l’acqua al mulino della propria nazione, intorno al “giusto” modo di ripartire le materie prime? e quanta materia di conflitti si appresterebbe a diplomatici ed a fautori di guerre?

 

 

Assumeremo invece come criterio la capacità di assorbimento delle industrie consumatrici delle materie prime? Ma tra quelle industrie non potrebbero noverarsi per fermo le non ancora nate. Come misurare la capacità di utilizzazione di ciò che non esiste, di ciò che è ancora nello stadio del progetto più o meno vago? Ebbimo, anche in Italia, applicazioni del criterio di distribuire qualcosa in base alla capacità produttiva quando si diede a commercianti ed industriali diritto ad importare talune merci straniere in base a ciò che ognuno aveva importato in non so qual semestre, parmi, del 1934. Funestissimo metodo, il quale consacrò il privilegio dei già noti, di coloro che erano già impiantati, ad esclusione di quei commercianti di quegli industriali, i quali, se avessero potuto liberamente provvedersi sul mercato di ciò che a lor bisognava, avrebbero potuto iniziare nuove intraprese, muover concorrenza ai vecchi, produrre e vendere a costi minori.

 

 

Nessun criterio più sbagliato e più dannoso può immaginarsi della proporzionalità alle posizioni acquisite. Quel che importa assicurare e promuovere non è mai quel che esiste, l’impresa già fondata, l’iniziativa, già sviluppata, il mestiere florido; si invece quel che non esiste, l’idea nuova feconda la quale deve ancora tradursi in atto, i giovani che domani prenderanno il posto dei vecchi, l’impresa appena iniziata, la quale supererà presto quelle anziane, l’invenzione nuova la quale distruggerà i profitti di quella già applicata. Quel che esiste è il passato, che domani sarà superato e morto. Quel che non esiste è il nuovo, è il progresso, è il servigio migliore reso all’umanità.

 

 

Chi potrà mai, al tavolo verde della “giusta” ripartizione delle materie prime, scoprire i criteri per misurare il non noto, il non nato; chi ardirà di valutare l’importanza relativa dei progetti non attuati, delle invenzioni non ancora sperimentate?

 

 

Non esistono, dunque, per quanto si sappia, i criteri oggettivi per ripartire “equamente” le materie prime, ed i criteri arbitrari hanno un solo significato: conflitti e guerre.

 

 

Eppure l’esperienza storica aveva, sovratutto nel secolo d’oro del progresso economico che corse dal 1814 al 1914, scoperto il modo automatico di fare la migliore giustizia umanamente possibile nella ripartizione delle materie prime; ed era che governi, diplomatici, periti e tavoli verdi non si occupassero affatto di questa faccenda, ed era di lasciare che le materie prime andassero con le loro gambe a chi più le meritava.

 

 

Fa d’uopo, certamente, sbarazzarsi dell’idea infantile e grottesca la quale è il sostrato di tante vane discorse intorno alle materie prime: che queste siano qualcosa che in certe contrade del mondo gli uomini trovano per le strade per accidente o si procacciano senza fatica o con fatica minima. Non esistono materie prime le quali non siano costose e non debbano essere pagate a chi le produce. Normalmente, le materie prime che più fan colpo sull’immaginazione umana sono le più costose. Che cosa v’è di più attraente dell’oro? Che cosa v’ha che più dell’oro sembri ai più “trovato per caso” e fonte di ricchezza insperata?

 

 

Eppure è fatto certissimo, noto a tutti coloro che hanno studiato il problema, che il prezzo corrente dell’oro non rimborsa in media le spese di cavar l’oro dalle viscere della terra. Vi sono, è vero miniere fecondissime ma ve ne sono assai più, di gran lunga assai più, di infeconde, nelle quali si spendono capitali e lavoro senza alcun pro. Purtroppo, “a priori”, non si possono distinguere le buone dalle cattive miniere, e si è costretti a coltivare ambedue; sicché il costo medio di produzione dell’oro supera il prezzo di vendita. Così fu dall’origine del mondo; e se agli uomini non piacesse correr dietro alle venture nessuno coltiverebbe miniere d’oro.

 

 

Sbarazzata la mente dall’idea balorda della gratuità delle materie prime, riconosciamo la logica perfetta del criterio adottato nel secolo XIX per distribuirle: che è la vendita al più alto offerente. Chi paga le materie prime al più alto prezzo ha giusto diritto ad ottenerle.

 

 

Altri dica che il criterio è materiale e mercantile; io replico che nessun criterio è più giusto e morale. Dare le materie prime a chi le paga a più alto prezzo significa darle all’industriale capace e negarle all’incapace; darle a chi ha spirito inventivo e negarle a chi lavora secondo sistemi già conosciuti; darle all’inventore che ha trovato le nuove vie di combinare i fattori produttivi e negarle agli arrivati i quali lavorano oggi come ieri. Che cosa vuol dire dare le materie prime a chi le paga dieci invece che a colui il quale è disposto a pagarle soltanto nove? Significa darle a colui il quale dalla stessa qualità e quantità di materie prime è capace di trarre prodotti di pregio maggiore, che sono meglio desiderati dal pubblico e sono da questo meglio pagati.

 

 

Esiste o può essere immaginato un motivo plausibile per cui le materie prime debbono invece essere date a chi dimostra, col fatto di non volerle pagare abbastanza, di non essere capace a produrre merce buona e desiderata, così come lo è invece il suo concorrente?

 

 

In verità, il problema delle materie prime, il suo trasporto cioè dal piano economico privato, nel quale esso trova la sua razionale automatica soluzione, al piano politico, nel quale esso è assolutamente insolubile, fu una tragica invenzione di periti economici messi al servigio degli attizzatori di conflitti internazionali e di guerre. Il problema delle materie prime non esiste. Esso è una invenzione artificiosa, che deve rientrare nel nulla, dal quale non avrebbe mai dovuto uscire.

 



[1] Con il titolo Materie prime [ndr].

La tempesta monetaria

La tempesta monetaria

«Corriere della Sera», 22 agosto 1943

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 295-299

 

 

 

 

Heri dicebamus… Un mese prima del giorno nel quale Luigi Albertini era forzato ad abbandonare il governo ed Alberto Albertini la direzione di questo giornale, avevo cercato, il 29 ottobre 1925, di dimostrare che talune tacite simpatie dei ceti industriali ed agricoli verso una politica inflazionistica urtavano contro la vanità delle emissioni cartacee. Sembrava e sembra ancora a molti i quali debbono far la paga a fine settimana, onorare le tratte giunte a scadenza, pagare le materie prime della propria industria, che l’emettere biglietti non sia pericoloso perché il biglietto corrisponde in questo caso ad un affare sano, a merce realmente esistente, ad un lavoro effettivamente compiuto.

 

 

Domani, al ritorno della pace, costoro ricominceranno a dire: sui 96.541 milioni di biglietti della Banca d’Italia circolanti, secondo le recentissime dichiarazioni del ministro delle finanze, alla data del 20 luglio 1943, ve ne erano 92.121 emessi, a detta dello stesso ministro, per conto diretto ed indiretto del tesoro, ossia per fronteggiare le spese di guerra e solo 4.400 milioni circolavano per conto del pubblico, ossia perché erano stati inizialmente emessi per essere dati a prestito a noi che lavoravamo e producevamo merci e derrate desiderate dal pubblico dei consumatori. Questa seconda specie di biglietti non può far male perché ad essa corrisponde una realtà di cose materiali, utili, desiderate, sempre atte a procacciar denaro a chi le possiede.

 

 

Al solito, in un articolo di giornale non ci si può attardare ad esporre le premesse, riserve e condizioni dei problemi trattati, ma si deve chiarire, sotto pena di creare confusione nella testa dei lettori, una idea sola; epperciò, come già diciotto anni fa alla vigilia di sospendere il mio ufficio di pubblicista, mi limiterò a chiarire che le simpatie verso l’inflazione buona sana produttivistica sono fondamentalmente prive di sostanze. C’è in esse una vaga intuizione di qualcosa che meriterebbe di essere studiato, ma è bene insistere preliminarmente sulla fondamentale vanità dell’idea. In quel lontano articolo avevo costrutto uno specchietto assai semplice, nel quale si mettevano a confronto le situazioni al 31 dicembre 1913 ed al 31 agosto 1925. Al 31 dicembre 1913 la quantità circolante di biglietti era di 2.800 milioni di lire, ed al 31 agosto 1925 quella quantità era cresciuta a 21.500 milioni. Gli italiani si vedevano scivolare fra le dita 7,7 volte tanto biglietti da 50, 100, 500 e mille lire. Parevano molti e pareva di potere con tanti più biglietti fare assai più di prima e produrre molta più roba buona, utile desiderata da tutti. Vanitas vanitatum et omnia vanitas si potrebbe ripetere con l’Ecclesiaste. Il valore di quei tanti biglietti era diminuito in proporzione inversa alla loro quantità. I 2.800 milioni del 1913 avevano quella tale capacità di acquisto che era loro propria e che noi possiamo indicare con n. 1; e perciò come potenza d’acquisto valevano 2.800 milioni. I 21 mila e 500 milioni del 31 agosto 1925 avevano una potenza d’acquisto assai minore, che, sulla base dei dati ufficiali, calcolavo in 0,138 per unità. Se noi moltiplichiamo 21.500 milioni di lire per 0,138 noi dobbiamo concludere che i 21.500 milioni del 1925 avevano una potenza d’acquisto di 2.900 milioni di unità.

 

 

Tanto fracasso, tanto scompiglio, tanta moltiplicazione di cifre, di redditi, di patrimoni, di frutti, di prezzi, di salari, tanto rinfacciarsi reciproco di sfruttatori, profittatori, speculatori, ecc., per giungere quasi alla stessa realtà di prima! Il che non vuol dire che, a pescar nel torbido delle cifre grosse nominali monetarie, molti non si fossero arricchiti e moltissimi impoveriti; ché anzi questa fu la tragedia vera di quelle emissioni cartacee e questa fu l’origine prima degli sconvolgimenti sociali e politici derivati dalla guerra passata. Da quella tregenda non nacque certamente alcun risultato effettivo di realtà diversa e maggiore di prima.

 

 

Ed ora? Non sono in grado di rifare lo specchietto del 1925. Oggi, noi studiosi di cose economiche, al pari di ogni altra categoria di studiosi, lavoriamo male. Gli annuari, le statistiche, le cifre che ci sono, sono rimasti in città, nascosti in cantine o messi in case; e, peggio, statistiche e dati non si pubblicano più per una sbagliata ragione di tutela dell’interesse pubblico. Auguro che non solo il ministero delle finanze, ma tutti i ministeri e l’ufficio centrale di statistica, riprendano la pubblicazione periodica, rapida delle situazioni e dei dati monetari, finanziari ed economici, di tutti i dati i quali valgano a far conoscere la effettiva situazione in cui noi ci troviamo. La verità, per quanto grave, non sarà mai così brutta come l’immaginazione fantasticante intorno ad una realtà non conosciuta.

 

 

Se lo specchietto del 1925 non si può con serietà rifare, per mancanza ed ignoranza di dati, si può tentare di imitarlo per congettura. Al 30 giugno del 1935 i biglietti della Banca d’Italia si aggiravano sui 17 miliardi di lire; ed oggi ammontano a 96,5 miliardi, 5,7 volte tanto. Supponiamo che i 17 miliardi di lire del 1935 acquistassero con ciascuna lira una unità di roba: merci, derrate, servizi personali, fitti di case, ossia acquistassero 17 miliardi di unità: Quante unità acquistano i 96,5 miliardi odierni? Se interroghiamo i dati ufficiali sul costo della vita dovremmo dire che la potenza d’acquisto della lira sia ridotta a qualcosa come 0,40-0,50 in confronto all’1 del 1935. I 96,5 miliardi di lire avrebbero una potenza d’acquisto di circa 43 miliardi di unità di roba in confronto ai 17 miliardi che si acquistavano coi 17 miliardi di lire innanzi alla guerra etiopica. Noi sentiamo che la conclusione non può essere vera. Dove è tutta questa roba che si dovrebbe poter acquistare in più in confronto al 1935? Anche includendovi, come si deve, tutte le cose necessarie alla guerra, è chiaro che questa non è la realtà.

 

 

Due sono le spiegazioni. La prima è che il 96,5 miliardi di lire di biglietti sono bensì stati emessi, ossia imprestati a qualcuno, dalla Banca d’Italia; ma non tutti circolano. È probabile che almeno 20 miliardi siano tesaurizzati, ossia tenuti in cassa o nel materasso da chi vuole avere denaro liquido, liquidissimo per provvedere alle urgenze improvvise della vita in momenti difficili. Quel che circola, in parte circola più lentamente. È un’altra specie di tesaurizzazione. Non si sa perché, ma si preferisce tenere sottomano il biglietto per spenderlo se viene l’occasione. Ogni giorno di più di dimora del biglietto in tasca è un giorno di tesaurizzazione. Il biglietto è come se non esistesse. Nei libri degli economisti il fatto si esprime dicendo essere diminuita la velocità di circolazione della moneta. Che diminuisca il numero o diminuisca la velocità di circolazione dei biglietti è la stessa cosa.

 

 

La seconda spiegazione è il mercato nero. La potenza di acquisto della lira si calcolò sopra essere diminuita dal 1935 al 1943 come da 1 a 0,40-0,50 sulla base del costo della vita. Ma questo, a sua volta, è calcolato sulla base dei prezzi dei generi di tessera. Certamente questi sono prezzi veri per le cose che si possono acquistare a prezzi di tessera. Ma sono veri anche i prezzi di mercato nero. Per far calcoli esatti, bisognerebbe conoscere quali sono i prezzi di mercato nero e quanta parte di ciò che si spende si indirizzi al mercato nero in confronto a ciò che va al mercato legale. Tante curiosità, tante incognite. Prezzi e proporzione variano da luogo a luogo, da famiglia a famiglia, da un giorno all’altro. Facciamo, per tagliar corto, l’ipotesi grossolanissima, che in media tra mercato bianco e nero la capacità d’acquisto della lira si sia ridotta dal 1935 al 1943 da 1 a 0,25; e facciamo l’ipotesi anche incertissima, che, dedotte le varie specie di biglietti tesaurizzati, i biglietti effettivamente circolanti ci aggirino sui 70 miliardi. So che i colleghi statistici a giusta ragione giudicheranno queste ipotesi come cervellotiche. Ma poiché probabilmente anche essi non sono in grado di offrire ipotesi migliori, tanto vale ragionare sulle mie. Ecco che dividendo 70 per 0,25 noi possiamo calcolare che la gran massa dei biglietti oggi circolanti acquista 17,5 miliardi e mezzo di unità di roba in confronto ai 17 miliardi che si acquistarono nel 1935 coi 17 miliardi di lire circolanti allora. Con questa differenza, che nel 1913 i 17 miliardi per due terzi circa erano roba utile in tempo di pace e nel 1943 i 17,5 miliardi sono per assai più di metà composti di roba che serve alla guerra.

 

 

Astrazion fatta da ciò, non è evidente che tutto questo colossale edificio di carta stampata è composto di vuoto, di nulla di reale? Purtroppo, questo è un vuoto reale che turba gli animi e scatena gli uomini gli uni contro gli altri. Attenuare, limitare, compensare i disastri della tempesta monetaria attuale, sarà il massimo problema sociale del dopoguerra. Fu già così dopo il 1918; e dal non aver veduto ciò chiaramente, derivò in gran parte la tragedia dei venticinque anni che or terminano nel sangue.

Ma non occorrono decenni…

Ma non occorrono decenni…

«Il Giornale d’Italia», 22 agosto 1943

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 291-294

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Buenos Aires, Asociacíon Dante Alighieri, 1965, pp. 81-84[1]

 

 

 

 

«Occorrono decenni per ricostruire l’edificio distrutto in 20 anni di malgoverno; occorre la fatica di una generazione per riparare al malfatto di coloro che hanno considerato l’Italia come paese di conquista». Ebbene no. Queste parole, che si lessero in qualche giornale, giuste perché intese a persuadere gli italiani della necessità di ritornare al lavoro fecondo ed alla fatica lieta, sono eccessivamente pessimistiche. Non occorrono decenni per ricostituire economicamente un paese. Bastano anni. Non è bene scoraggiare gli uomini con la visione apocalittica di una intiera vita di stenti, allietata solo dalla speranza di consegnare un mondo migliore ai figli ed ai nepoti. Se vorremo, quel mondo migliore lo vedremo anche noi.

 

 

Perché tanti sono scoraggiati dal pensiero dei decenni di duro lavoro necessari a rifarsi un posto nel mondo? Perché si pensa che la ripresa, che il ritorno al benessere siano possibili soltanto grazie ad elementi materiali, alla formazione di nuovi capitali, ai prestiti larghi di denaro o di merci dall’estero. Si crede di essere poveri, perché non si ha oro, non si hanno miniere, non si hanno materie prime, perché tante case e tanti impianti furono distrutti ed occorre rifarli. Certamente tutto ciò è vero; e se manca di strumenti, l’uomo non può lavorare e produrre. Ma i capitali materiali non sono quel che più importa per la rinascita. Napoleone, nell’epoca in cui si avviava alla rovina, diceva: una notte di Parigi basta a riparare alle perdite di una grande battaglia. Ragionava così, perché gli uomini erano per lui allora un elemento materiale, la carne da cannone necessaria per le sue vittorie. Ma la vittoria non venne più, perché mancò agli uomini l’animo, la volontà, la fede che li aveva fatti prima vincitori. Perché Napoleone, giunto al sommo del potere, non si era ricordato di quando, all’inizio della sua fortunosa carriera, primo console, aveva fatto risorgere la Francia? Questa, al 18 brumaio dell’anno VIII, non crebbe, a causa del colpo di stato che portò Napoleone al potere, la sua ricchezza in beni materiali. Era e rimase fiaccata da tanti anni di torbidi rivoluzioni. Non nacque, in quell’attimo, uno strumento od un aratro di più. Ma era rinata, colla cacciata dei residuati del giacobinismo e dei malversatori, la fiducia nell’avvenire; era rinata la sicurezza di godere i frutti del proprio lavoro; era rinata la certezza di non vedersi a volta a volta confiscare quei frutti dai gabellieri dell’antico regime o dagli agenti concessionari del direttorio.

 

 

Gli ideologi che Napoleone fingeva di disprezzare e temeva, gli economisti, dei cui libri (come del Trattato di Giambattista Say) egli vietava la ristampa, gli avrebbero spiegato una delle ragioni del Suo successo come primo console. Gli uomini guardano in sostanza al reddito; ed, attraverso a questo, vedono il capitale. Se essi hanno un reddito, hanno possibilità di risparmiare; e quanto più risparmiano, tanto più sono disposti a cedere il risparmio a un basso saggio di interesse o frutto. Ma, se il saggio di interesse è del 3 per cento invece che del 6%, quel medesimo terreno, quella stessa casa, quello stesso impianto industriale che, rendendo 6, valeva prima, al 6%, l00 lire, dopo, al 3%, vale o tende a valere 200 lire. Non è mutato niente nel terreno, nella casa, nell’impianto; ma gli uomini valutano tutto ciò il doppio e diventano ottimisti.

 

 

Il reddito, tuttavia, non nasce da sé. Non aumenta per virtù spontanea. Esso nasce dalla combinazione che qualcheduno fa dei fattori produttivi. Non importa nulla che esistano gli uomini lavoratori, che esistano i terreni e le piante, che ci siano gli impianti industriali e le navi ed i porti. Se tutto ciò è fermo, non c’è reddito e gli uomini stentano. Occorre che qualcuno – e questo qualcuno noi economisti abbiamo l’abitudine di chiamarlo imprenditore – combini, faccia funzionare tutti questi elementi dispersi e disgregati.

 

 

In qualunque tipo di società si viva, nessun imprenditore combina ed organizza gli elementi, i fattori della produzione, se non ha fiducia, se non ha sicurezza se corre troppi rischi, se le prospettive di vendere ciò che ha prodotto vengono a mancare.

 

 

La produzione, la quale è una combinazione di elementi produttivi, la quale consiste nel far funzionare e cooperare insieme ciò che per se stesso è diviso, non è un fatto materiale, è invece sovratutto un fatto spirituale. Create il disordine sociale, create il costringimento forzato a fare soltanto quel che piace a chi dall’alto pretende di disciplinare, di regolare e di ordinare tutto; obbligate il lavoratore a lavorare per forza, togliendogli la libera disponibilità delle proprie braccia e della propria mente; e – salvo epoche transitorie di eccezionale comprensione bellica – voi avete abolito una delle molle principali dell’azione economica. Fate che i piani predisposti dall’imprenditore siano messi nel nulla, non dal fatto di Dio (grandine, siccità, raccolti abbondanti, ribassi di prezzi), contro di cui nessuno si può lamentare e che si mettono anticipatamente in calcolo; ma dal fatto del principe, dal getto continuo di leggi nuove imprevedute, imprevedibili, artefatte dagli interessati, dal fluire contraddittorio di ordini, di circolari, di pressioni provenienti da capi e funzionari forniti della infallibilità propria di chi si contraddice ad ogni due giorni; e la macchina economica più non funziona o funziona a vuoto.

 

 

Se invece gli uomini possono fare affidamento sull’avvenire; se essi sanno che le leggi vigenti non muteranno, se non dopo libera e larga discussione, alla quale tutti abbiano diritto di partecipare; se essi sanno che le leggi vigenti non possono essere modificate dall’arbitrio di nessun capo, ma debbono essere applicate secondo l’interpretazione di un magistrato indipendente; oh! siate sicuri che i capitali materiali per la rinascita del paese occorreranno d’ogni dove, dall’interno e dall’estero.

 

 

Con Napoleone primo console, scomparsa la moneta di carta nel disprezzo di tutti, la Francia non rimase priva di moneta. I vecchi scudi d’argento ed i vecchi luigi d’oro ricomparvero da sé; e la vita ricominciò, più fervida di prima. Oggi, in Italia, è difficile e sarebbe inutile che ritornasse un oro che qui non c’è e che noi non vogliamo chiedere in regalo a nessuno; ma la stessa lira di carta sarà guardata con occhio ben diverso quando si ravviverà la fiducia che essa sarà fermata nella sua china discendente. Persino una qualche nuova inflazione, un qualche miliardo di più di biglietti potrebbe, se usato a crear credito in un clima di fiducia, promuovere occupazione e combinazione di elementi produttivi inerti e creare reddito e ricchezza.



[1] Tradotto con il titolo No se necésitan decenios [ndr].

Lineamenti di una politica economica liberale

Lineamenti di una politica economica liberale

Roma, Movimento Liberale Italiano, 1943

Milano, Delegazione Alta Italia Pli, 1945

Roma, Pli, 1945

I liberali non possono promettere, a guerra finita, il millennio a nessuno, non ai ricchi ed ai poveri, non agli industriali ed ai proprietari e non perciò neppure agli operai ed ai contadini. Essi non possono mettersi avanti in formule vaghe come “nazionalizzazione”, “socializzazione”, “terra ai contadini”, minimo reddito assicurato a tutti, i cui risultati sarebbero disillusioni acerbe per le masse e sopravvento, col favore inconscio di ingenui utopisti, di nuovi arrivisti e di nuovi plutocrati, probabilmente peggiori di quelli che furono il frutto di simili predicazioni vent’anni or sono.

I liberali non possono illudere il popolo promettendogli ricchezze e prosperità e larghi guadagni in seguito ad una guerra e ad un regime che di tanto disastro morale e materiale fu causa per il nostro paese. Essi promettono soltanto quel che sanno di poter mantenere: e cioè di porre le condizioni dalle quali, con lo sforzo intenso di qualche anno e con la tolleranza reciproca di tutti i volenterosi, uscirà una nuova Italia più prospera, più saggia della attuale, nella quale si produrrà più grande quantità di ricchezza e questa sarà più equamente distribuita, con l’elevamento delle masse e con il taglio delle teste dei papaveri, i quali si siano, senza merito proprio e legittimi titoli, elevati sopra gli altri.

Essi sono contrari alle violenze espropriatrici, alle grandi riforme ad effetto immediato imposte con metodi giacobini, in tutto uguali ai metodi di forza usati dai partiti totalitari. Ma sono aperti a qualunque ideale, purché esso sia il frutto di aperta, libera discussione, alla quale partecipino tutte le tendenze, tutti i partiti economici e sociali. Dai cattolici sociali ai comunisti, tutti debbono far sentire la loro voce; e quando una maggioranza sicura e ragionata si sia costituita attorno ad una soluzione, le minoranze avranno, in un regime liberale, non solo il dovere negativo di sottomettersi, ma quello positivo di collaborare. Quali siano i metodi costituzionali con i quali dovrà essere garantito l’esercizio del diritto di discussione e di libera ragionata deliberazione, non è qui il luogo di esporre.

Alla ribalta della discussione, i liberali porteranno i seguenti problemi: in primissimo luogo la lotta contro la plutocrazia. Non la lotta contro l’industriale che tenta nuove vie, che organizza meglio l’impresa, che accresce la produzione in modo remunerativo in libera competizione con tutti i concorrenti. Non la lotta contro il proprietario il quale migliora le sue terre, contro il fittabile che applica allo sfruttamento delle terre altrui una esperienza acquisita, forse in parecchie generazioni di strenui lavoratori, capitali accumulati col risparmio ed operosità quotidiana. Quella che si impone invece è la lotta a fondo contro tutti coloro che nelle industrie, nei commerci, nelle banche, nel possesso terriero hanno chiesto i mezzi del successo ai privilegi, ai monopoli naturali ed artificiali, alla protezione doganale, ai divieti di impianti di nuovi stabilimenti concorrenti, ai brevetti a catena micidiali per gli inventori veri, ai prezzi alti garantiti dallo Stato.

La lotta a fondo, senza quartiere dovrà essere combattuta su due fronti. In primo luogo sbarazzando il terreno da tutti i privilegi, vincoli, protezioni, contingentamenti, leggi, senza di cui la plutocrazia non avrebbe conquistato quei successi economici e quella corruttrice influenza politica che oggi l’ha fatta padrona del nostro paese.

Il momento per combattere la lotta contro i privilegi è proprio il presente. Sotto l’egida di uomini persuasi in buona fede che il paese andrebbe alla deriva se essi non fossero pronti a salvarlo, agricoltori incapaci a produrre economicamente il grano ed industriali impotenti a rinnovare i loro impianti chiedono allo stato prezzi di favore, sussidi e concorsi niente affatto necessari alla ricostruzione. In un momento in cui tutti sono sicuri di vendere a buoni prezzi qualunque cosa prodotta, si osa chiedere il ristabilimento dei dazi doganali protettivi. Taluni partitanti incoraggiano di nuovo all’assalto contro il denaro pubblico, nella vana illusione di procacciar lavoro agli operai.

In secondo luogo nei casi nei quali la lotta sul primo fronte non sia sufficiente, sottoponendo al controllo pubblico le imprese le quali abbiano su di sé stampato il marchio naturale del monopolio. Noi non useremo la parola nazionalizzazione, perché essa è equivoca e spesso priva di contenuto. Ma daremo opera ai fatti. Ad esempio per ricordare un esempio solo, l’industria idroelettrica è, in Italia, nazionalizzata sin dall’epoca liberale, perché tutte le acque appartengono nel nostro paese al demanio pubblico e, scaduti i sessanta anni dalla concessione, anche gli impianti ricadono, senza alcun indennizzo, in piena e libera proprietà dello Stato. Noi vogliamo andare più innanzi; e poiché lo scopo della nazionalizzazione, od almeno il principalissimo scopo, è quello di rendere servigio al pubblico ad un prezzo non superiore al costo, noi chiederemo che anche durante il sessantennio di concessione, lo Stato intervenga permanentemente e non in modo saltuario e disordinato a determinare, attraverso discussione e con giudizio di arbitri imparziali, il massimo di tariffa che potrà dalle società concessionarie essere applicato alle diverse categorie di utenti della energia prodotta e venduta dalle società concessionarie. E così si dovrà fare in ogni caso, variamente a seconda della natura dell’industria; e ché in un caso lo Stato potrà esercitare direttamente certe industrie (ad es.: fra le altre, quella degli armamenti, per cui probabilmente interverranno altresì regolazioni internazionali); in altro caso l’eserciterà per mezzo di società, in cui esso sarà il principale azionista, in altri mediante varie forme di concessione ad Enti pubblici o a società private, sempre con regolazione dei prezzi. I liberali escludono soltanto gli interventi inutili, disturbatori di attività private anche rilevanti, le quali si svolgano alla luce del sole, senza chiedere alcun privilegio, senza imporre prezzi di monopolio ai consumatori, senza ottenere alcun sussidio dallo Stato.

Dopo la lotta contro la plutocrazia, la lotta contro il latifondo. Ma non la lotta a base di spreco di miliardi, di costruzione di false case rurali per falsi contadini stipendiati dall’erario. La lotta contro il latifondo è lotta per la redenzione della terra, che è lotta di secoli. Quasi compiuta nell’alta e nella media Italia, salvo in talune zone montagnose ed in altre ancora ribelli alla bonifica, essa ha ancora un vasto campo di azione nell’Italia meridionale e nelle isole. E sarà opera di giustizia verso queste regioni, le quali tanto hanno sofferto per il regime di privilegio instaurato a favore delle industrie prevalentemente localizzate nell’alta Italia. Ma noi non daremo, a titolo di compenso, nessun privilegio alle regioni latifondistiche. Intensificheremo l’opera di bonifica integrale, colà appena iniziata: bonifica dalla malaria, dalle paludi, dalle inondazioni torrentizie; rimboschimenti, imbrigliamenti; strade pubbliche e poderali. Correlativamente a queste opere di ricostruzione di un suolo eroso dalla incuria secolare, dovrà procedere l’opera di appoderamento. La quale non potrà e non dovrà essere foggiata su unico tipo. Questo è errore gravissimo, che spiega l’insuccesso della lotta che con lo stesso nome, a scopi politici e propagandistici, si conduce da tanto tempo, da quando ancora l’Italia non era unita. Le condizioni dei luoghi, la struttura sociale, i costumi degli abitanti detteranno le regole del successo. Non è irragionevole che il contadino desideri vivere insieme con i contadini; e perciò la piccola e media proprietà coltivatrice, parcellare ed autonoma dovrà fare come la macchia d’olio; ed i poderi affittirsi attorno ai centri abitati e via via allontanandosi dai centri conquistare gradualmente terreno a spese della grande proprietà industriale. A questa spetterà dapprima sopportare i costi e godere i frutti eventuali della trasformazione delle ampie estensioni di terreno a cultura cerealicola estensiva e a pascolo in fattorie dotate di fabbricati rurali, di stalle modello, di strade, di case d’abitazione, di chiese e scuole. Su queste fattorie industriali dovrà formarsi una classe contadina istruita, partecipe in parte ai rischi ed ai vantaggi delle culture, educata gradualmente a diventare essa stessa proprietaria. Consideriamo utopia dannosa quella che si ammanta del titolo di “riforma agraria” e che vorrebbe d’un tratto costituire, dove non esiste, un forte ceto di proprietari coltivatori; baluardo e sostegno della società. Là dove il ceto esiste, esso fu il risultato di una lenta opera educativa, che tuttora prosegue. Noi vogliamo estenderla a tutta Italia; e siamo persuasi che solo così si riuscirà a generalizzare un sistema sociale, che del resto vanta già in tante regioni d’Italia settentrionale e media amplissime applicazioni.

Ma la lotta contro la plutocrazia e il latifondo dovrà anche essere combattuta, a parer nostro, sovratutto con un’azione diretta ad innalzare le masse ed a renderle degne e capaci di prendere parte al governo economico della società. Non vogliamo, si avverte subito, paternalismo e largizioni. La politica del panem et circenses repugna profondamente allo spirito liberale. Deve essere dato mezzo alle classi operaie e contadine di conquistare, elevando se stesse, sorti migliori. Le assicurazioni sociali, che danno sicurezza di vita, come quelle per la invalidità e la vecchiaia, per gli infortuni, per la maternità, iniziate dai regimi liberali, dovranno dal rinnovellato liberalismo, essere portate a compimento. Alla disoccupazione si dovrà provvedere in guisa che i sussidi non siano di eccitamento all’ozio e, per il controllo mutuo degli operai, rafforzino la loro libera organizzazione sindacale. Così pure alla assicurazione malattie dovrà essere tolto tutto ciò che oggi la rende invisa a malati ed a medici, ponendo la scelta dei medici e il controllo della malattia entro il quadro di casse locali e professionali elettive da parte di ambo le parti interessate.

Sovratutto, alla elevazione delle classi operaie e contadine contribuirà la restituzione piena della libertà sindacale. Al luogo del sindacato unico, strumento, sotto qualunque governo, di oppressione poliziesca, dovranno ritornare i sindacati liberi, che gli industriali e gli operai organizzeranno, ogni qualvolta ne sentiranno il bisogno, secondo le proprie tendenze spirituali e i proprii interessi professionali. Non si deve aver paura della eventuale concorrenza di sindacati diversi. In Italia ed altrove la libertà sindacale ha favorito l’aumento dei salari, la diminuzione della giornata di lavoro e sovratutto la dignità del lavoratore, che da paro a paro tratta, attraverso i suoi uomini migliori, con i datori di lavoro. Operai e industriali, contadini e proprietari non si elevano trattando, attraverso ad impiegati non scelti da essi e formanti una burocrazia occupata solo a giustificare stipendi; ma attraverso il sacrificio di quote volontariamente da essi pagate e uomini da essi scelti. Sarà da studiare quale sia la miglior maniera di rappresentanza dei lavoratori e degli imprenditori, in un “Consiglio nazionale del lavoro” e in “Consigli di risoluzione delle controversie del lavoro” e quali siano le attribuzioni da attribuirsi a questi organi rappresentativi professionali in un rinnovato regime di libera rappresentanza politica.

I liberali non possono promettere aumenti notevoli di guadagni a tutti gli operai come effetto di una generalizzata obbligatoria partecipazione ai profitti. Essi ricordano che in Inghilterra, patria della più antica e solida organizzazione sindacale, le leghe operaie sono sempre state diffidentissime verso la partecipazione, che esse definiscono il cavallo di Troia introdotto dagli industriali nella fortezza sindacale. I profitti sono infatti, per chi non li confonda grossolanamente con la normale remunerazione del risparmio, per loro natura un di più ottenuto dalle migliori imprese ed inesistente nella generalità dei casi. La partecipazione ai profitti è, perciò, un fatto di minoranza. Ove si riconosca – come dopo breve esperienza i rappresentanti degli operai sarebbero costretti a fare – questa sua natura, la partecipazione potrà, se congegnata variabilmente, per accordi volontari, in maniera adatta alla singolarità delle imprese diversissime le une dalle altre, riuscire a promuovere la formazione di gruppi scelti di tecnici e di operai qualificati atti a promuovere il miglioramento dell’industria.

L’azione dello Stato liberale non si esaurirà nei compiti fin qui enunciati. In un rapido quadro, non si può tutto esporre. Basti dire che Stato liberale non vuol dire Stato assente, ma Stato che vigile agisce ogni giorno per adempiere ai fini suoi proprii. La politica dei lavori pubblici, antico vanto dei regimi liberali, i quali avevano costruito tra il 1860 ed il 1914 ferrovie, strade, porti ed avevano dato al paese gli strumenti materiali della vittoria, dovrà essere perfezionata e servire a due compiti. Il primo che è quello di rendere sempre più esteso e ricco quello che si può chiamare il demanio nazionale. Non vi è limite alla quantità di opere pubbliche destinate a rendere più feconda l’opera dei produttori e più bella la vita dei cittadini. Ricostruzione delle città distrutte dalla guerra, rimboschimenti, bonifiche, ponti, canali navigabili, strade e poi strade ed ancora strade, nazionali, comunali, vicinali, poderali, scuole, giardini pubblici, città giardino, case rurali e così via, quanto è ancora da fare ed a quante esigenze si dovrà provvedere!

Mentre non si vede un limite alle esigenze imposte da una vita pubblica sempre più intensa e ad una vita civile nella quale l’uomo avrà gratuito accesso collettivo a molte soddisfazioni che sono ancora l’appannaggio di pochi, lo Stato liberale, dovrà nel condurre la sua politica di lavori pubblici, aver l’occhio intento a conseguire un altro scopo: che è di farla agire come volante regolatore della attività economica generale; rallentando l’opera sua nei tempi di prosperità e accelerandola nei tempi di crisi, così da mantenere, entro i limiti del possibile, continua e piena l’occupazione dei lavoratori.

Politica anche non nuova, che gli uomini della generazione fra il 1880 ed il 1900, inconsapevoli di teorie economiche troppo eleganti venute ora di moda, avevano adombrato creando nel bilancio dello stato la categoria del “movimento dei capitali”, anticipazione memoranda di quelli che furono poi chiamati bilanci o piani quinquennali e settennali. Ma politica che dovrà essere raffinata col mantenere quadri elastici di dirigenti tecnici economici i quali preparino, nei tempi prosperi, i piani dei lavoratori avvenire e sappiano metterli in atto gradatamente a mano a mano che rallenti l’attività privata. Il che non vuol dire politica finanziaria allegra da parte dello Stato; ma anzi richiederà severità grande nel maneggio del pubblico denaro. Il conte di Cavour, il grande politico liberale, il maggior uomo politico liberale del secolo XIX, ritenne sempre compatibile l’ideale del pareggio del bilancio statale e quello di una forte politica economica progressiva; ed ai fautori del pareggio borbonico a corte vedute e ad ogni costo, che era il pareggio della miseria, contrapponeva il suo pareggio, che consentiva gli investimenti nelle grandi ferrovie transappenniniche e transalpine, lo ampliamento dei porti commerciali e militari, l’entrata del Piemonte e, col Piemonte, dell’Italia, nelle gare economiche internazionali.

Così dovrà essere ancora una volta per la nuova Italia. Nei consessi internazionali, l’Italia non chiederà diritto ad avere materie prime a prezzi di favore, che sarebbe elemosina avvilente e servile, ma diritto a comprare liberamente dappertutto le materie prime a prezzo di mercato. E perché mai l’italiano nuovo, che vogliamo libero, elevato spiritualmente e tecnicamente istruito, dovrebbe essere incapace, come ci calunniarono sempre i nostri tiranni, a procacciarsi, in gara con altri, le materie prime che egli giudicherà conveniente di comprare? Ma l’Italia chiederà altresì, con offerta di reciprocità, di poter vendere dovunque i prodotti della sua industria e della sua terra. Niente ripartizioni forzate e pseudo sapienti dei campi di attività delle diverse nazioni. Gli italiani sentono di potersi conquistare un posto al sole colla propria attività e non temono di misurarsi in gara con altri. L’Italia liberale aderirà agli schemi, discussi in comune, per allentare gradatamente i vincoli doganali ed altri che oggi soffocano, come immane piovra, qualunque sforzo di lavoro; e sin d’ora augura prossimo il giorno in cui le barriere doganali siano allontanate dai suoi confini politici e portate a confini lontani di salde Unioni doganali internazionali.

Ma entro i confini delle libere nazioni del mondo i suoi figli dovranno potersi muovere liberamente. Siamo pronti a discutere le modalità della graduale liberazione dei cittadini dei paesi liberi dai vincoli che oggi impacciano la emigrazione permanente temporanea, dai paesi a popolazione sovrabbondante a quelli dove esiste ancora un margine disponibile di aumento. La libertà di movimento degli uomini nel mondo è la nostra meta. Non abbiamo paura che gli stranieri invadano il nostro paese, perché ci sentiamo capaci di assimilare i nuovi venuti. Né abbiamo paura che gli italiani abbandonino la madre patria se sapremo renderla di nuovo aperta a tutte le idee, a tutte le libere iniziative e perciò prospera e degna di ospitare uomini liberi.

Lo Stato liberale, il quale è antiplutocratico ed antiugualitario non avrà bisogno di prendere a prestito da altri i principii della sua politica tributaria. Non avrà da far altro che risalire alle sue tradizioni, quando gli eredi di Cavour avevano costruito un sistema tributario duro e semplice, che per lunghi anni portò al vanto di essere uno dei migliori del mondo. Bisognerà menar l’ascia demolitrice nella confusa boscaglia degli istituti tributari vessatori, improvvisati, improduttivi, creati o peggiorati nel ventennio. Le imposte dovranno tornare ad essere:

certe. Per correre dietro a dottrinarismi forestieri abbiamo dimenticato questa che è la qualità essenziale di ogni imposta. Non importa pagar molto, purché si sappia quanto si deve pagare e lo si sappia per tempo, in modo che ognuno possa fare i conti di quel che può fare, di quel che può intraprendere, senza odiose inquisizioni, senza pericolo di multe improvvise e imprevedute;

poche e semplici. È impossibile ridurre tutte le imposte ad una sola; ma occorre evitare che il contribuente non riesca più ad orientarsi in mezzo alle imposte e contributi o tasse di ogni sorta che da ogni parte lo minacciano e lo turbano;

stabilite sui godimenti e non sulla fatica. Bisogna abolire le imposte le quali gravano sulla produzione e sulle transazioni, che puniscono colui che lavora, mentre lavora e produce e commercia e cerca di spingere al massimo il suo reddito. Lo Stato deve aspettare il momento nel quale il cittadino ha ottenuto il reddito e lo consuma. Perciò le imposte sugli scambi, sui trapassi dei beni e delle cose sono pessime e se possibile converrà abolirle o almeno ridurle. Il peso delle imposte che non potrà, se si vorrà liquidare onorevolmente la eredità del passato e far fronte ai compiti vecchi e nuovi dello Stato, essere lieve, dovrà gravare sui redditi e sui consumi. Sui redditi superiori al minimo assolutamente necessario alla vita, se si tratta di imposte personali, sui redditi oggettivi dei beni fondiari e della ricchezza mobiliare, sui consumi che siano indice di una possibilità di spendere al di là delle cose di prima necessità;

graduate in modo da attenuare le disuguaglianze nella distribuzione delle fortune, senza intaccare l’interesse al risparmio ed agli investimenti. Le imposte siano uno strumento nella lotta contro la plutocrazia e il latifondismo e diano i mezzi per moltiplicare i beni di uso gratuito a vantaggio di tutti. L’arte del finanziere in uno Stato liberale dovrà consistere nello scoprire il punto critico al di là del quale l’imposta, crescendo ancora, deprimerebbe l’interesse a risparmiare e l’interesse alle nuove iniziative, che sono le condizioni di ogni progresso nella produzione della ricchezza e quindi della sua migliore distribuzione.

Strumento principale tributario della lotta con la plutocrazia ed il latifondismo e per l’ampliamento del demanio pubblico di beni di uso gratuito deve essere l’imposta successoria. Non quella tradizionale, la quale dovrà essere abolita in tutte le sue forme e sostituita da un’unica imposta che si potrebbe chiamare di avocazione. Supponendo, premessa necessaria a tutti i ragionamenti di riforma sensata, una moneta stabile, se il risparmiatore abbandona alla sua morte un patrimonio di un milione di lire, questo dovrebbe trapassare intatto al figlio, ma soggetto ad un’ipoteca per altrettanta somma a favore dello stato, ipoteca che le successive generazioni dovrebbero assolvere, un terzo per volta, ad ogni successivo trapasso per causa di morte. Così il risparmiatore sarebbe sicuro di tramandare al figlio l’intero suo risparmio; ma il patrimonio non potrebbe essere conservato se non da coloro che ad ogni, generazione lo ricostruissero per un terzo e dimostrassero col fatto di meritare di conservarlo. Gli inetti, i poltroni, sarebbero in tre generazioni del tutto espropriati a vantaggio dello stato. Senza stabilire un legame rigoroso aritmetico tra le due quantità, il provento dell’imposta successoria, ossia di un’imposta la quale in principio riduce il patrimonio privato, dovrebbe essere fatto servire all’incremento del patrimonio pubblico e principalmente all’attuazione di piani regolatori, i quali leghino la città alla campagna, creino strade, parchi nazionali, città giardini case a buon mercato ed in determinati casi gratuite (in sostituzione dei falansteri o ricoveri per vecchi) poste tra il verde e in rapida comunicazione con le città.

I nostri propositi saranno vani, se noi non ridaremo sicurezza alle transazioni, sovratutto sicurezza a quella che è già oggi e diventerà ognora più la maggior parte del reddito nazionale, ossia alla remunerazione dei capi e dei soldati del grande esercito del lavoro. Gran vanto dello Stato liberale del secolo XIX fu l’aver dato, per la prima e l’unica volta nella storia di un lungo periodo di tempo, e per la maggior parte dei paesi civili, stabilità alla moneta. Vanto e miracolo che il nuovo Stato liberale dovrà rinnovellare. Problema formidabile sarà quello di ridare ad una moneta che la guerra del 1914-18 aveva già ridotto ad un quarto della sua potenza d’acquisto – ma era ancora un quarto, inferiore ai due terzi della sterlina inglese ma superiore all’ottavo del franco francese! – e vent’anni di malgoverno hanno ridotto ad una evanescente parte di se stessa, tanto più evanescente quanto più rettoricamente clamorose le dichiarazioni di volerla difendere ad ogni costo. Compito formidabile, se si pensa che si dovrà escludere ogni forzata innaturale rivalutazione, che ripetute esperienze, antiche e recenti, hanno dimostrato causa di crisi profonde e di vasta disoccupazione. Ci dovremo necessariamente limitare al compito meno ambizioso e solo possibile e benefico di porre un fermo allo scivolio della lira verso il nulla e di ricominciare da quel punto fermo, che l’esperienza della graduale liberazione dei cambi e dei prezzi ci insegnerà quale possa essere, una nuova vita. E poiché, non per colpa nostra, quel punto fermo vorrà dire gravissimo danno per la classe media detentrice di impieghi (titoli di Stato, obbligazioni, cartelle fondiarie, crediti ipotecari e privati) a reddito fisso e dei numerosissimi percettori di stipendi, pensioni, assicurazioni sulla vita stilati in lire, si imporrà il problema della restituzione. La quale dovrà essere in integro per gli enti morali, a cui la svalutazione monetaria ha praticamente tolti i mezzi di vita e parziale e variabile per le altre categorie di danneggiati a seconda della data certa degli investimenti compiuti e della determinazione della cifra nominale degli stipendi, delle pensioni, dei salari, dei diritti a indennità assicurative ecc. ecc. Alle ingiustizie compiute contro i risparmiatori ed i lavoratori intellettuali a reddito fisso a causa del ventennio di malgoverno, lo stato liberale opporrà quell’opera di umana giustizia riparatrice quale maggiore l’attento studio delle possibilità finanziarie dello stato e dell’economia nazionale faranno ritenere possibile. Uno Stato il quale vuole elevare le classi lavoratrici al livello dei ceti medi non può abbandonare alla sua sorte il ceto medio esistente, che è stato e sarà di nuovo domani, grandemente aumentato di numero e quasi universalizzato, il fondamento più sicuro di una salda struttura sociale.

Ipotesi astratte ed ipotesi storiche e dei giudizi di valore nelle scienze economiche

«Atti della R. Accademia delle scienze di Torino», vol. 78, 1942-1943, tomo II, pp. 57-119

1. – Uniformità astratte e uniformità storiche. Il metodo delle approssimazioni successive. L’uso dello sperimento inibito nelle scienze sociali. Le uniformità astratte sono vere sub specie aeternitatis. [p. 9]

2. – Rapporti tra schemi astratti e realtà concrete. Gli economisti intervengono, quasi tutti, nelle polemiche poste dalla vita quotidiana. [p. 10]

3. – Stretti legami fra teoremi e consigli. Differenza tra la posizione dei problemi economici nel quadro dell’equilibrio generale e in quello degli equilibri parziali. Identità teorica fra il problema di prima approssimazione risolto da Walras e da Pareto nello schema dell’equilibrio generale ed il problema concreto del prezzo del frumento di una data qualità in un dato istante risolto dagli operatori di una grande borsa dei cereali. [p. 11]

4. – Alla soluzione col calcolo, impossibile per la mancanza dei dati di fatto e la difficoltà di metterli in equazioni, si sostituisce la soluzione ottenuta per intuito dagli operatori. [p. 14]

5. – I vecchi economisti, anche i maggiori, come Cantillon e Ricardo, e non di rado i recenti teorici, come Gossen e Walras, accanto alla norma astratta pongono il consiglio ed il progetto. Le verità monetarie hanno quasi sempre avuto occasione dall’opportunità di consigli concreti. L’economista talora «scopre» le soluzioni ai problemi, talaltra traduce in linguaggio ipotetico le soluzioni già trovate dagli uomini della pratica. [p. 16]

6. – Leggi astratte feconde se atte a spiegare la realtà concreta. Leggi empiriche valide a spiegare i legami esistiti in un dato luogo e intervallo di tempo. Valore delle leggi empiriche. [p. 18]

7. – Della coincidenza fra leggi astratte e uniformità concrete. Del cosidetto fallimento della scienza economica e della verificazione dei suoi teoremi ad occasione della guerra. [p. 20]

8. – Strumenti (tools) di indagine teorica e di verificazione empirica dei teoremi teorici. Strumenti teorico-storici. Infecondità di questi ultimi. Inettitudine di essi a spiegare gli avvenimenti storici. [p. 21]

9. – Gli schemi devitiani dello stato monopolista e di quello cooperativo nella scienza delle finanze. Cauto uso degli schemi da parte del loro proponente. [p. 24]

10. – Degli schemi di Fasiani applicati allo studio degli effetti delle imposte. Nota sulla necessarietà della connessione fra l’imposta generale definita in un dato modo e l’ipotesi dello stato monopolistico. [p. 26]

11. – Della definizione del tipo di stato «monopolistico» e della ragionevolezza della ipotesi che ad esso si confacciano le illusioni come sistema, mentre possono essere assenti nei due altri tipi di stato cooperativo e moderno. [p. 27]

12. – La esemplificazione delle illusioni finanziarie nello stato monopolistico è propria del sottotipo di stato monopolistico in cui la classe dominante per vie non logiche sfrutta i dominati in modo da preparare e determinare la propria rovina. Necessità di una attenta revisione dei giudizi storici intorno alla finanza degli stati di antico regime. [p. 32]

13. – Analisi dei concetti di stato cooperativo e moderno. [p. 36]

14. – Se dominanti e dominati sono tutt’uno, la distinzione fra stato cooperativo e quello moderno è un assurdo. Nello stato non esistono cittadini singoli distinti dal gruppo, ed il gruppo non esiste come entità a sé distinta dai cittadini. [p. 38]

15. – Lo stato può perseguire fini proprii degli individui come singoli; ma trattasi di mezzo tecnico per conseguire fini che gli individui potrebbero conseguire, da soli o liberamente associati, anche senza l’opera dello stato. L’esempio delle colonie: i fini singoli sono perseguibili anche per mezzo di compagnie private; i fini statali sono quelli della madrepatria. [p. 40]

16. – Nello stato moderno il potere non può essere esercitato nella preoccupazione esclusiva degli interessi del gruppo pubblico considerato come una unità. Se così fosse non ci troveremmo dinnanzi ad uno stato «moderno», bensì alla deificazione dello stato sopra l’individuo. – Inconsistenza del concetto di dualismo fra individuo e stato, e di uno stato trascendente posto fuori e al di sopra degli individui. [p. 43]

17. – Il vero contrasto è quello dialettico fra stato e non-stato; che sempre coesisterono e coesistono l’uno accanto all’altro. Esso è un aspetto del contrasto profondo tra le forze del bene e quelle del male. [p. 46]

18. – L’astensione dell’economista dai giudizi di valore, legittima per ragioni di divisione del lavoro, non è sostenibile ai fini di una più generale conoscenza della verità. – La volontà dello stato è la stessa volontà dello scienziato. – La scelta posta da Demostene: guerra contro Filippo il Macedone ovvero feste e spettacoli. Differenza fra il chimico e l’economista. [p. 48]

19. – L’atteggiamento di indifferenza dell’economista per i motivi delle scelte è radicata nello studio del prezzo nel caso di libera concorrenza. – Lo studio dei casi di monopolio, di concorrenza limitata e simili impone di risalire al di là della scelta, sino ai motivi di esse, per rendersi ragione della scelta fatta e delle sue modalità. – Lo stesso automatismo della ipotesi della piena concorrenza è un artificio. [p. 51]

20. – La convenzione, in base alla quale l’economista puro, quello applicato, il politico, il giurista ecc. studiano diversi aspetti della realtà, necessaria per ragioni di divisione scientifica del lavoro, è talvolta impossibile ad osservare. [p. 53]

21. – Diritto di insurrezione, e diritto di scomunica a proposito dei limiti all’indagine scientifica. – Lo studio della classe politica non esclude lo studio della classe eletta. [p. 54]

22. – Schemi e realtà. – Mutando la realtà mutano altresì gli schemi. [p. 57]

23. – Il dato posto dal politico della esenzione di un minimo sociale di esistenza non è un dato ultimo. [p. 58]

24. – L’appello dal papa male informato al papa bene informato. [p. 60]

25. – Il dato posto dal legislatore è soggetto a giudizio in relazione ai fini posti alla società umana. [p. 62]

26. – Possono gli economisti sottrarsi all’obbligo di formulare giudizi di valore? [p. 63]

27. – Non esistono limiti artificiali alla indagine scientifica. I fini gli ideali della vita determinano le scelte fatte dagli uomini. Non è possibile studiare le scelte fingendo di ignorare i fini, dai quali esse traggono origine. [p. 66]

1. – Le uniformità delle quali si occupano le scienze economiche sono di due specie: l’una astratta e l’altra storica.

La ricerca della legge astratta è preceduta dal se. Se noi supponiamo che in un determinato momento e luogo, si attui l’ipotesi della concorrenza piena, e che in questa ipotesi lo stato prelevi un’imposta personale sul reddito netto dei cittadini; e se noi supponiamo che la società di cui si parla sia statica, ossia che in essa non si formi alcun nuovo risparmio, la popolazione ed i suoi gusti non variino, se noi supponiamo che ecc. ecc., le conseguenze le quali derivano dall’imposta immaginata sono tali e tali. In seguito si fanno variare ad una ad una le circostanze supposte, od altre si aggiungono a quelle già poste; e, ad ogni variazione dei dati del problema, con appropriati ragionamenti si compiono le opportune deduzioni. Ad agevolare l’indagine, si pone innanzitutto il problema secondo l’ipotesi più semplice, facendo entrare in campo il minimo numero di dati; e poi via via lo si complica introducendo ipotesi nuove più complicate e più numerose. Il procedimento logico è da tempo conosciuto col nome di metodo delle approssimazioni successive; ed ha il vantaggio di avvicinare a mano a mano gli schemi teorici alla realtà senza tuttavia giungere mai alla contemplazione di questa. Gli schemi estremi della piena concorrenza e del pieno monopolio, quelli intermedi della concorrenza imperfetta e del monopolio imperfetto e le loro innumeri sottospecie non sono presentati dagli studiosi come quadri o fotografie della realtà, ma come disegni a grandi linee atti a raffigurare, con tratti appena sbozzati e poi alquanto più decisi, la realtà, senza che mai si possa giungere a tener conto nello schema di tutte le circostanze le quali in un dato momento e luogo la compongono. Pur senza potere controllare, come si fa nelle scienze fisiche e chimiche, i risultati del ragionamento astratto coll’esperimento fabbricato a bella posta nelle condizioni volute, se le premesse sono poste con chiarezza e se si è ragionato rigorosamente, i teoremi ai quali giungono gli economisti sono veri, entro i limiti delle premesse fatte.

Essi sono leggi astratte, le quali ci dicono che cosa necessariamente accadrebbe ogniqualvolta si verificassero nella realtà tutte e sole le premesse poste dal ragionatore.

Non occorre affatto collocare premesse problema ragionamento e teorema in un determinato luogo e tempo storico politico o morale, perché il teorema dimostrato sia vero. Esso è vero sub specie aeternitatis; è una verità di cui non è necessario dimostrare la conformità ai fatti accaduti, appunto perché l’indagatore non si proponeva affatto quello scopo.

2. – Tuttavia, se la scienza economica consistesse soltanto nella posizione di problemi astratti e nella dimostrazione di leggi parimenti astratte, essa non avrebbe quel pur minimo seguito tra i laici che ancora è suo e non eserciterebbe quella qualunque influenza, sia pure modestissima, sulle faccende umane della quale può tuttavia vantarsi. Seguito ed influenza sono dovuti alla connessione che studiosi e laici reputano esistente tra gli schemi astratti e la realtà concreta, fra i problemi ed i teoremi di prima approssimazione ed i problemi e le relative soluzioni urgenti nella vita quotidiana delle società umane. Il fisico, il chimico e l’astronomo possono, se vogliono, trascorrere intera la vita senza preoccuparsi menomamente delle applicazioni concrete che altri trarrà dai teoremi da essi scoperti. L’economista no. Nessun economista è mai rimasto rigidamente chiuso entro l’eburnea torre dei primi principii, dei teoremi di prima approssimazione. Pantaleoni e Pareto, per ricordare solo i due grandi morti della passata generazione, furono altrettanto pugnaci combattenti nel dibattito dei problemi attuali del loro tempo quanto grandi teorici.

L’atteggiamento assunto nelle battaglie della vita concreta reagì ripetutamente sul loro modo di porre i problemi teorici. Posero somma cura nel distinguere il teorema dal consiglio; cercarono di evitare ogni contaminazione tra l’uno e l’altro; talvolta, parlarono – specialmente uno di essi (Pareto), con dispregio ed ironia degli economisti letterari che confondevano la scienza con la politica, e davan consigli ai principi invece di dichiarare uniformità; ma, distinguendo e chiarendo, non cessarono mai di rimbrottare, criticare, vilipendere, rarissimamente lodare governanti e governati, segnalando la via da scansare e quella da percorrere. Egli è che, nelle scienze economiche, esiste il terreno proprio dei teoremi, e quello dei consigli; ma questi due terreni non sono separati e indipendenti l’uno dall’altro. Gli economisti che hanno qualcosa da dire, pur divertendosi talvolta a vilipendere l’altra e forse miglior parte di se stessi, coltivano a scopo di conoscenza e smuovono a scopo di agire sulla realtà; gli imitatori, i pedissequi, incapaci di vedere i legami fra i due aspetti della persona intiera, fanno teoria insipida e forniscono quei consigli che sanno accetti ai potenti.

3. – In verità tra i teoremi ed i consigli vi ha legame strettissimo.

Quando Walras e Pareto costruiscono la teoria dell’equilibrio generale, le premesse dei loro ragionamenti sono nel tempo stesso poche e molte: poche nel senso che essi assumono certe situazioni semplificate: perfetta concorrenza o perfetto monopolio, illimitata riproducibilità dei fattori produttivi o limitazione di questo o quel fattore, mercato libero o mercato chiuso e simili; molte nel senso che essi non suppongono che, mutando una delle premesse del problema, tutte le altre premesse rimangano invariate. Anzi suppongono che, contemporaneamente ed a causa delle variazioni di uno dei dati del problema, tutti gli altri corrispondentemente mutino; che, per lo spostarsi e durante lo spostarsi di uno dei punti del firmamento economico, tutti gli altri punti si muovano, influenzati dal moto del primo ed alla lor volta reagenti su questo moto. Così essi giungono alla conquista forse più generale e certo più feconda della scienza economica moderna: sul mercato domina sovrana la legge di interdipendenza, sicché non è possibile mutare il prezzo di un bene qualsiasi senza che il prezzo di tutti gli altri beni, vicini o lontani, presenti o futuri, muti anch’esso, di poco o di molto. Ma quanta strada si deve fare per passare da questo principio o da quell’altro per il quale il prezzo di un bene diretto è, su un dato mercato, quello che rende uguale la quantità domandata alla offerta e rende uguali altresì nel tempo stesso le quantità domandate ed offerte dei beni strumentali e dei servizi produttivi, del risparmio e dei capitali occorsi alla produzione dei beni diretti, quanta strada occorre fare per passare dalla formulazione dei teoremi generalissimi alla formulazione dei teoremi più vicini all’uomo vivente, i soli i quali di fatto interessano costui, quelli per cui ci si dovrebbe spiegare perché il prezzo del quintale di frumento, in quel momento e luogo e in quelle condizioni di mercato, è 25 e non 30, 240 e non 300 lire! Tanta strada che in verità nessuno l’ha neppur tentata! Marshall, disperato, intraprese la via degli equilibri parziali, ossia dello studio delle leggi del prezzo fatta l’ipotesi che non tutte le premesse del problema mutino contemporaneamente ma, coeteris paribus, muti una premessa sola per volta o mutino poche, quel numero cioè le cui variazioni la limitata mente umana giunge a seguire ed a combinare insieme. Su questa via, la quale è, in fondo, dopo il ragionato omaggio reso alla teoria dell’equilibrio generale, quella seguita da tutti gli economisti teorici, notevoli progressi sono stati compiuti. Ma, per la detta limitazione della mente umana, è stato sinora e rimarrà per lunga pezza impossibile complicare il problema e moltiplicare i dati o le premesse di esso, in modo da poter tener conto anche solo di una piccola parte dei numerosi dati che occorrerebbe considerare per risolvere caso per caso il problema concreto. Sulla via delle approssimazioni successive ad un certo punto ci si deve arrestare. Ben di rado gli economisti vanno al di là di un secondo o terzo stadio nell’approssimazione alla realtà. Per giungere a questa, quanti scalini converrebbe scendere dall’alta cima dove stanno i contemplatori delle verità prime! Se i Walras ed i Pareto potessero da quelle alte cime, dove il loro sguardo spazia e domina gli orizzonti, e vede le leggi del prezzo nei diversi tipi di mercato, scendere giù giù, sino al fondo di un mercato concreto, ad esempio giù sino al fondo del rumoroso fragoroso rombante di urla e di gesti frenetici pozzo (pit) dei cereali di Chicago, essi risolverebbero un problema scientifico, della stessa precisa natura di quelli che già avevano risoluto ponendo le equazioni corrette delle loro prime approssimazioni. I Walras ed i Pareto, se possedessero la onniveggenza necessaria, porrebbero silenziosamente, in quel luogo ove ora si agitano centinaia di uomini convulsi e congestionati, le migliaia di equazioni richieste dalle migliaia di incognite da determinare; e quante incognite tra i dati che pur si dovrebbro conoscere! Conosciamo o dobbiamo intuire, ossia determinare ponendo rapidissimamente le opportune equazioni, la superficie, la fertilità, la posizione ecc. dei terreni che furono o saranno destinati alla coltivazione del frumento nel Dakota, nell’Iowa, nell’Indiana, nell’Alberta, nelle Calabrie, in Lombardia, in Sicilia, in Russia, nell’Australia, nell’Argentina e nell’India ecc.; il numero e la produttività dei lavoratori destinati a quella coltivazione; la quantità del risparmio necessario a produrre gli strumenti e le macchine agricole; i mezzi ed i costi dei trasporti per fiume per terra per mare per aria; i gusti ed i redditi dei consumatori di frumento sparsi nei diversi paesi del mondo, e nel tempo stesso i terreni, i fattori produttivi, i consumi attinenti a tutti i beni che possono essere concorrenti o succedanei al frumento? Quegli ingegni sovrani avrebbero dinnanzi a sé, posto in equazioni, tutto il quadro del mondo economico e sociale fotografato in quell’istante; e la fotografia sarebbe nel tempo stesso la visione in scorcio di quel mondo nel suo previsto divenire futuro e nelle ripercussioni che quel divenire esercita sull’operato del mondo presente. Se quel calcolo potesse compiersi e se in quell’attimo il prezzo calcolato fosse di 1 dollaro e 27 centesimi per staio (bushel) del frumento di quella data varietàe qualità, quel prezzo avrebbe il valore di legge scientifica necessaria. Necessaria perché essa sarebbe la logica inevitabile conseguenza di tutte le opportune premesse chiaramente poste e ragionate.

4. – Di fatto, quei calcoli sono al di là delle possibilità della mente umana ragionante; ed al posto dei Walras e dei Pareto noi vediamo nel pozzo del frumento di Chicago – e, per altri beni economici, nelle altre borse dove si determinano o si determinavano quotidianamente i prezzi dei principali beni o valori pubblicamente negoziati – migliaia o centinaia di vociferatori ossessionati e congestionati, i quali a furia di urla e di gesti giungono anch’essi in quell’attimo a quel medesimo risultato di dollari 1 e 27 centesimi per staio di frumento di quella certa varietà e qualità. Come vi giungono? In fondo, il processo è quel medesimo, che se fosse possibile, avrebbero osservato i Walras ed i Pareto. Anche gli speculatori in cereali del pozzo del frumento di Chicago pongono in equazione i dati del problema: terreni coltivati o che saranno coltivati a frumento in concorrenza con i terreni destinati ad altre culture; produttività di quei terreni e particolarmente di quelli marginali; costi dei fattori produttivi; costi dei trasporti; inclemenze stagionali o vicende favorevoli alla vegetazione del frumento; raccolti maturati o maturandi nei varii paesi del mondo; rimanenze esistenti; gusti e redditi dei consumatori; passaggi del frumento dagli elevatori ai mulini e da questi ai forni ed ai pastifici; dazi doganali e divieti di importazione nei paesi consumatori; concorrenza del riso e della segala e delle patate; concorrenze di negozianti singoli, di cooperative di agricoltori, di consorzi (trusts) di mulini; monopoli di ferrovie e di compagnie di navigazione sui laghi, ecc. ecc. Tutti questi dati del problema ed altri ancora sono tenuti presenti dagli operatori sui frumenti, presenti e futuri, del pozzo di Chicago, sulla base di notizie di agenzie, di cablogrammi ai giornalisti, di informazioni particolari telefoniche; ed è una corsa affannosa dalle cabine telefoniche al pozzo; ed ogni telefonata è un avviso che permette di sostituire un dato certo o approssimativo ad una incognita nel sistema di equazioni che si tratta di risolvere tumultuosamente ed affannosamente in quel momento. Dal tumulto di notizie e di dati spesso contrastanti ed incerti nasce in quell’attimo quel prezzo: 1 dollaro e 27 centesimi per moggio. Se questo è, in quell’attimo, il prezzo che rende la quantità domandata uguale a quella offerta, io non vedo nel processo il quale condusse a quel prezzo nulla di diverso dal procedimento scientifico, con il quale l’economista puro ha risolto il suo problema di prima approssimazione sulla base di poche premesse esplicitamente e chiaramente poste. Non esiste diversità alcuna fra le leggi astratte di prima approssimazione poste dal teorico nella solitudine dello studio e le leggi concrete poste dagli operatori nel tumulto del mercato. Ambe sono leggi: le prime si dicono astratte perché vere nei limiti delle poche premesse fatte; le seconde concrete perché vere dato l’operare di tutte le premesse esistenti, note ed ignote; le prime si dicono vere sub specie aeternitatis perché e finché il teorico non muta le premesse del problema; le seconde sono vere solo per un attimo, perché, quello trascorso, mutano istantaneamente e sicuramente i dati del problema; le prime possono essere enunciate e dimostrate nelle memorie accademiche e nei trattati della scienza, perché si possano fare ragionamenti, spesso eleganti, e talora stupendi, intorno alle vicendevoli azioni e reazioni di alcune poche forze ben definite; le seconde non si leggono mai scritte in nessun libro perché frutto di impressioni fuggevoli, di intuiti miracolosi, di quel certo magico fluido che fa i veggenti, i profeti, i capitani, i capi di stato e fa anche i grandi operatori, i quali, sinché non giunge anche per essi la giornata di Waterloo, dettano le leggi dei prezzi nei mercati dei beni economici. Cesare e Napoleone scrissero memorie; ma i grandi operatori non sanno né scrivere né fare discorsi. Farebbe d’uopo che qualche economista si facesse loro segretario e trascrivesse, novello Boswell, le confidenze che i Johnson delle borse consentissero a far loro. Ma gli economisti di secondo piano, ai quali cotale ufficio spetterebbe, preferiscono guardare dall’alto al basso i pratici e sputar il disprezzo dei puri su coloro che si attentano a fotografare gli intuiti degli uomini i quali fanno o registrano i prezzi veri sui mercati effettivi. Se, per miracolo, taluno fosse disposto ad ascoltare, probabilmente guasterebbe il rendiconto, trascrivendolo nel linguaggio economico puro, dimenticando cioè che quel che contraddistingue la realtà dallo schema è che il linguaggio di questo è diventato tecnico ossia proprio a dar conto delle sole premesse e dei ragionamenti che fan parte dello schema ed è affatto disadatto a spiegare i tanti dati sconosciuti alle prime e seconde e terze approssimazioni, dei quali l’operatore sui mercati effettivi tiene conto perché è nato nel mestiere o vi è vissuto a lungo o perché, grazie ad un peculiare suo sesto senso, ne ha miracolosamente l’intuito.

5. – Per l’indole di coloro che le enunciano, le leggi prettamente scientifiche ricavate dai pratici dalle equazioni risolute per intuito invece che per calcolo, prendono, se messe per iscritto, quasi sempre la forma di consigli o progetti; e come consigli quelle leggi sono entrate a far parte del corpo della scienza ad opera dei vecchi economisti. Rarissimo ed ammirando è il caso di grandi operatori pratici, come Cantillon e Ricardo, i quali scrivendo libri teorici, seppero per lo più usare un linguaggio dichiarativo di mere leggi. Ma anche codesti grandi non di rado alla enunciazione di principii teorici aggiunsero il consiglio od il progetto. Fecero, così operando, cosa estranea alla scienza? Fece opera extra-scientifica il Walras ed il Gossen quando propugnarono talune loro riforme monetarie o tributarie terriere? Distinguerei la forma dal contenuto. Oggi, che ci siamo sentito le tante volte ripetere il precetto, che in bocca ai Cairnes ed ai Pareto si ascolta con rispetto, essere la scienza rivolta a dettar leggi e non a fabbricar progetti, una certa impazienza è legittima verso chi manifestamente dimostra, nel suo modo di porre i problemi, di non essere mosso dall’intento di ricerca della verità, ma da qualche fine pratico, inteso il fine pratico non nel senso detto sopra di avvicinamento alla realtà, ma di consecuzione di vantaggi proprii o di un ceto sociale o professionale o di piaggeria verso i potenti o verso le folle. Ma quando si tratti di mera forma dello scrivere, sieno i colpevoli economisti antichi o moderni, direi essere doverosa in proposito la maggiore indulgenza. Quel che monta non è affatto la forma del discutere, ma il suo contenuto. Quasi tutte le verità scoperte in materia monetaria ieri ed oggi ebbero ad occasione progetti e consigli. Le falsificazioni monetarie del medioevo, gli abbassamenti ed i rialzamenti delle monete immaginarie in confronto a quelle effettive nei secoli XVII e XVIII, i corsi forzosi nel primo quarto dell’ottocento, i sistemi bimetallistici tra il 1850 ed il 1880, le svalutazioni e le rivalutazioni monetarie del 1914-1940 non furono forse l’occasione di grandi scritti teorici in materia monetaria? E parecchi tra gli scritti i quali segnarono in essa un’orma duratura non presero forse la forma di polemiche e di contro-progetti? Non si vuole sminuire il merito degli economisti teorici venuti di poi, i quali tradussero in linguaggio scientifico i precetti degli scopritori; ma pare certamente di pessimo gusto svillaneggiare costoro ed esaltare i primi. La fatica del tradurre una proposizione dal tipo precettistico:

«Non coniate una moneta d’oro la quale abbia in confronto ad una moneta d’argento dello stesso peso e titolo una facoltà liberatrice come 15,5 ad 1, quando nel comune commercio un chilogrammo d’oro si scambi con 16 chilogrammi d’argento, perché il paese rimarrà del tutto privo di monete d’oro, con grande incomodo del pubblico» nella proposizione identica di tipo scientifico od ipotetico:

«Se, cambiandosi in comune commercio 1 chilogramma d’oro contro 16 chilogrammi d’argento, vengono coniate con quel peso e titolo una moneta d’oro ed una d’argento, ma questa abbia invece legalmente una potenza liberatrice uguale ad una quindicesima parte e mezza di quella d’oro, la moneta (argento) relativamente svilita nel rapporto commerciale in confronto a quello legale, rimarrà sola in circolazione»

è in verità fatica piccolissima e direi d’ordine, quando si sia appresa la modesta tecnica all’uopo occorrente. Non dico che i precetti antichi e moderni si possano sempre altrettanto facilmente tradurre in principii teorici; ma dico accadere non di rado anche oggi che l’attenzione degli economisti su un dato problema sia risvegliata dalla soluzione data ad esso in concreto in un dato luogo e tempo e che le prime trattazioni abbiano la forma di progetti di altre e diverse soluzioni; e può accadere, sebbene più difficilmente, che, nel corso di quelle discussioni e di quei progetti, si espongano, sul problema da risolvere, sugli allegati effetti che derivavano dalla soluzione eventualmente già accolta e sui diversi effetti della nuova proposta soluzione, considerazioni le quali sono in sostanza ragionamenti e teoremi puramente scientifici. Se le cose stanno così, l’economista venuto dopo, il quale compisse la versione dalla terminologia precettistica in quella ipotetica, compirebbe opera indubbiamente utile; ma l’utilità didattica dell’esercitazione non lo autorizzerebbe menomamente a sputare con dispregio sul piatto dal quale ha tratto il suo vitale nutrimento; né sminuirebbe il senso di fastidio col quale si debbono guardare coloro i quali per aver compiuto quel modesto ufficio di traduttore dal linguaggio vivo dei combattenti in quello smorto convenzionale dei ripetitori reputano se stessi inventori del teorema che hanno soltanto rivestito della solita terminologia scolastica. Quale abisso tra codesti, per lo più boriosissimi, traduttori e gli scienziati che in silenzio offrono agli studiosi le verità che davvero essi hanno per i primi scoperte!

6. – Se le leggi di cui si è parlato sin qui sono francamente astratte, e perciò regolano necessariamente i rapporti fra circostanze premesse fatti definiti numerati e pesati così come piacque all’indagatore, pare diversa l’indole di altre uniformità ragionate intorno a premesse o schemi storici. Se in economia io definisco l’ipotesi del monopolio puro come quella dell’imprenditore privato unico produttore-offerente di un dato bene su un dato mercato in un dato momento, senza alcun freno né di concorrenti potenziali né di succedanei e neppure di vincoli legislativi e ne deduco che il prezzo di mercato sarà quello determinato dal punto di Cournot del massimo utile netto, io non affermo che in questo mondo esista o sia mai esistito od esisterà di fatto mai un monopolista puro epperciò che il prezzo possa di fatto essere stabilito precisamente nel luogo del punto di Cournot. La mia è una proposizione ipotetica e la legge del prezzo che ne deduco è una legge puramente astratta. Se in qualunque epoca storica ed in qualunque luogo l’ipotesi per avventura si verificasse, la legge del prezzo sarebbe necessariamente quella ora dichiarata. In verità, non accade necessariamente che il prezzo sia regolato di fatto in alcun momento o luogo per l’appunto da quella legge o dalle altre che si formulano nelle ipotesi, pure astratte, della piena concorrenza o del monopolio bilaterale e così via dicendo. Le ipotesi e conseguenti leggi astratte sono soltanto tipi dai quali si può trarre qualche indizio intorno al modo nel quale si comportano i prezzi e le loro uniformità nella realtà concreta, che è complessa e mutevole.

Diremo che le ipotesi o premesse o schemi o tipi sono fecondi quando, paragonando le leggi astratte alle uniformità accertate empiricamente noi riscontriamo una rassomiglianza più o meno chiara tra la legge astratta ed il comportamento concreto. Anzi si può tenere il cammino inverso; e dalla osservazione precisa del comportarsi di date serie di fatti empirici trarre l’enunciato di leggi, non astratte e non necessarie, intorno alle relazioni realmente esistite, ad es., in un dato luogo e per un dato tratto di tempo, per un dato bene o per parecchi beni, fra quantità prodotte, consumate e relativi prezzi. Dalla circostanza che l’elasticità della domanda e della offerta di un dato bene nel luogo x per l’intervallo di tempo da A a B ubbidì ad una certa legge, si può trarre stimolo ad indagare se quella legge possa essere applicabile in tutto o in parte anche ad altri beni o ad altri luoghi o tempi ai primi rassomiglianti. Eccellono in queste indagini gli statistici e gli econometrici, i quali danno prova di tanta maggior consapevolezza scientifica quanto più sono timidi nell’estendere e nel generalizzare uniformità osservate in un dato luogo o tempo.

L’osservazione invero non consente, se non con molta circospezione e con delicatissimi espedienti, di tener conto di tutti od almeno dei principali dati i quali hanno fatto sì che l’elasticità della domanda e dell’offerta fosse in quel momento e luogo quella che fu e non altra. Chi ci sa dire quale influenza ebbero nella determinazione della legge empirica scoperta l’altezza dei redditi nominali e reali, la loro distribuzione tra le diverse classi sociali, il numero ed i gusti dei consumatori, la concorrenza di altri beni, presenti e futuri, ecc. ecc.? Basta che uno di questi fattori muti ed ecco non essere la legge empirica vera nell’altro luogo o momento. Ciononostante, gli sforzi compiuti nell’accertamento di leggi empiriche o di fatto, non estrapolabili al di là del momento luogo e bene considerati, sono sommamente lodevoli; e tanto più lo diverranno quanto più le indagini saranno prolungate nel tempo e nello spazio, quanto più la raffinatezza dei metodi impiegati consentirà di accertare il peso e le variazioni di ognuno dei fattori influenti sulla legge empirica e quanto più gli indagatori riusciranno a mano a mano ad immaginare schemi o tipi, i quali pur rimanendo empirici, siano sempre meglio atti a raffigurare il comportamento di dati fenomeni economici per lunghi tratti di tempo e ampi territori. La scoverta di siffatti schemi o tipi empirici alla sua volta potrà fornire il destro ai teorici di immaginare premesse schemi o tipi astratti semplificati, coincidenti o quasi con il comportamento dei dati empirici, da cui si possono ricavare nuovi teoremi illuminanti. Salvo la moderna maestria del metodo, il consiglio di adoperare congiuntamente i procedimenti logici deduttivi ed induttivi, il ragionamento astratto e la sua verificazione empirica fu sempre lodato; e quel grande logico astratto che fu il Jevons trasse molta parte della fama di cui ancora gode dalla maestria con la quale passava dall’astrazione all’osservazione, e da questa traeva stimolo per nuove feconde astrazioni.

7. – È singolare la coincidenza frequente fra le leggi formulate dagli economisti teorici in prima approssimazione e il comportamento concreto dei fatti economici più comuni anche in circostanze nuove e straordinarie. Quella taccia che i laici ingenuamente mossero durante e dopo la guerra passata e muovono nuovamente oggi: «la guerra, il dopo guerra e la nuova guerra hanno consacrato il fallimento della scienza economica» bene può rivoltarsi così: «la guerra il dopo guerra e la nuova guerra hanno dimostrato quanto fossero esatte e, parlando figuratamente, inesorabili le leggi poste dagli economisti classici; e non mai si videro meglio verificate le conseguenze che quelli avevano segnalate delle abbondanti emissioni cartacee, dei calmieri senza requisizioni e senza tessere, delle tessere stabilite per quantità incongrue rispetto ai prezzi; mai non si videro tanto magnificati i turbamenti sociali da impoverimenti ed arricchimenti, che i classici avevano descritto a loro tempo in tono minore per la minore gravità delle cause che vi avevano dato origine. Sicché quella che ai laici parve il fallimento della scienza economica fu invece un trionfo suo grande; e fallirono solo le stravaganti aspettazioni dei laici, i quali, innocenti di tutto quanto fu scritto nei libri degli economisti, immaginavano che questi fossero negromanti, atti a impedire che l’errore partorisse il danno a lui intrinseco, che le leggi fabbricate senza por mente all’interdipendenza di tutte le azioni e le forze economiche producessero effetti opposti a quelli benefici previsti dai cosidetti periti, ossia da gente segnalata per la propria ignoranza di tutto ciò che sta al di fuori della loro limitata provincia; fallirono solo gli illogici ragionamenti di industriali agricoltori e commercianti i quali, attissimi a formulare per intuito teoremi e corollari particolari identici a quelli generali esposti dagli economisti teorici in teoria pura, sono tratti dall’interesse a disconoscere la validità dei teoremi medesimi non appena si trascorra dal loro campo proprio a quello generale e vorrebbero che gli economisti dimenticassero teoremi e corollari per farsi fautori di altri confacenti a quei privati interessi. Il che non potendo accadere vilipendono la scienza come cosa inutile e gli scienziati quasi nemici della patria».

8. – La fecondità dell’uso simultaneo ed alternativo nella scienza economica della deduzione e dell’induzione, dello schema astratto e dell’osservazione empirica di dati comportamenti di fatto ha stimolato l’impiego di espedienti o strumenti (gli anglosassoni li chiamano appunto tools) diversi da quelli tradizionali. Non dirò degli strumenti recentemente inventati o proposti od usati da taluni moderni economisti, esaltati dapprima e poi facilmente obliterati e quindi ripresi; e così si videro susseguirsi gli strumenti del reddito del consumatore, del moltiplicatore, del rapporto fra risparmio ed investimento per spiegare le fluttuazioni o crisi economiche, le variazioni monetarie e così via. È bene che ogni strumento faccia le sue prove, che saranno poi quelle dell’abilità logica dell’operaio il quale lo adopra; e rimarranno in piedi quelli i quali avranno dimostrato di valere sul serio qualcosa. Voglio invece accennare all’uso di schemi, i quali stanno di mezzo fra quelli tradizionali astratti estremamente semplificati e quelli empirici proposti per descrivere la legge del variare di un dato fenomeno (ad es. prezzo di un bene) in un dato luogo e tempo. Essi non sono semplificati come i primi e non aspirano a descrivere alcuno stato di fatto empiricamente esistito in un dato luogo e tempo. Sono, direi, schemi teorico-storici. Tengono del teorico, perché non pretendono di raffigurare alcun momento preciso dell’accaduto; ma hanno in sé qualcosa di storico, perché vorrebbero riassumere i lineamenti tendenziali caratteristici di istituti storicamente esistiti, degni di studio per il sommo rilievo che ebbero nel determinare in certe epoche il destino dell’umanità.

A tal genere di schemi sembra appartenere la sequenza delle economie della caccia, della pastorizia, della agricoltura e dell’industria in cui taluno ha distinto i successivi momenti della vita economica dell’umanità; o quella della schiavitù, della servitù della gleba, delle corporazioni, del lavoro libero e di nuovo delle associazioni libere o pubbliche, in cui altri ha raffigurato le successive fasi dell’organizzazione del lavoro; o quella ancora del comunismo primitivo, della proprietà individuale (artigianato), del capitalismo semplice (impresa a manifattura), del capitalismo complesso (consorzi, cartelli, società ramificate) e del collettivismo di stato, con cui si volle descrivere il succedersi dei tipi di organizzazione dell’attività economica. Ma subito si vede che questi non sono né schemi teorici né schemi storici di fecondità scientifica. Non sono schemi o strumenti di lavoro atti a fecondare l’indagine astratta perché non sono abbastanza semplici e chiaramente precisabili. Noi possiamo definire l’ipotesi della libera concorrenza (quella situazione nella quale sul mercato intervengono molti produttori e molti consumatori, la presenza o l’assenza di ciascuno dei quali non esercita sul mercato una influenza apprezzabile sul prezzo dei beni negoziati) o quella del monopolio, o quella della produzione a costi costanti crescenti o decrescenti, perché si tratta di premesse semplici, le quali danno luogo a calcoli quantitativi, a più od a meno e consentono l’impostazione di ragionamenti su un dato numero di incognite. Proviamoci invece a definire l’economia della caccia, della pesca, della pastorizia, la schiavitù, il corporativismo medievale, la servitù della gleba, il capitalismo primitivo o quello moderno! Si avranno descrizioni necessariamente complesse, con molti ma e se e riserve di tempo e di luogo. Nulla che possa dare luogo a ragionamenti di tipo quantitativo, che possano essere compiuti a fil di logica. Si provi qualcuno a mettere per iscritto premesse chiare relative ad uno di questi schemi e veda se gli riesce di cavarne fuori qualcosa che rassomigli anche lontanamente alla trafila logica delle premesse, corollari, lemmi e teoremi che si leggono, dicasi ad esempio, nei Principi di Pantaleoni.

Sono quegli schemi fecondi per l’indagine storica? Qui vale l’esperienza. Gli autori degli schemi se ne servirono per classificare gli avvenimenti e gli istituti economici; ed i seguitatori riclassificarono, echeggiando e, a lor detta, perfezionando. Ma si trattava di giocattoli, presto sostituiti, come accade per i bambini, da altri più nuovi e graziosi. La storia non si presta ad essere ridotta a schemi e tipi uniformi. Dovrebbero, gli schemi essere senza numero per avere un qualche sapore. Storia si fa di fatti singoli, individuali, non di tipi. Lo storico, sì, deve avere un’idea, un filo conduttore per scegliere i fatti singoli ai suoi occhi importanti di mezzo agli innumerevoli fatti e fatterelli che non contano nulla. Ma l’idea che guida lo storico non è uno schema astratto, classificatorio. L’idea-guida, il filo conduttore, è quella che ha indotto gli uomini ad operare, a lottare, a vivere ed a morire. Non può essere la schiavitù o l’artigianato od il capitalismo, che sono semplici parole descrittive di modi esteriori di vita, i quali traggono la loro ragion d’essere da sorgenti ben più profonde. L’uomo crea l’impresa, riduce i suoi simili in schiavitù o si libera da essa, coltiva la terra o conduce greggi spinto dalla sete di ricchezza, dal piacere del dominio, dalla parola di Cristo, il quale ha proclamato gli uomini tutti uguali dinnanzi a Dio, dall’aspirazione alla libertà ed al perfezionamento morale. Le idee ed i sentimenti, razionali ed irrazionali guidano gli uomini dall’uno all’altro tipo di organizzazione economica. I tipi e le classi e le forme non spiegano nulla. Sono espedienti mnemonici didattici per orizzontarsi, non sono storia. Sono buttati via, non appena, usandoli, si veda quanto sia limitato e tutt’affatto scolastico il vantaggio che se ne può ricavare.

9. – Poiché coloro che ne fecero uso li dichiararono esplicitamente ed implicitamente[2] schemi puramente teorici, senza riferimento ad alcuna particolare verificazione di fatto, parrebbero immuni dalla critica gli schemi modernamente proposti dal De Viti De Marco per la scienza finanziaria, dello stato monopolistico e dello stato cooperativo, ai quali il Fasiani aggiunge ora lo schema dello stato moderno. Chi ricorda la condizione caotica della cosidetta scienza delle finanze nell’epoca nella quale il De Viti iniziò l’opera sua chiarificatrice non può non riconoscere che quegli schemi non abbiano sommamente giovato a dare alla scienza finanziaria una struttura compatta e logica ed ordinata. Il De Viti ragionò: essendo i prezzi privati e pubblici, i contributi e le imposte null’altro che il prezzo dei beni pubblici prodotti dallo stato e da esso forniti ai cittadini, perché non si dovrebbero usare quelle medesime ipotesi del monopolio (stato monopolistico od assoluto) e della concorrenza (stato cooperativo) che tanti e tanto utili servizi avevano reso nella scienza economica? Ed egli adoperò quei due strumenti di indagine con eleganza e con successo. Il successo fu dovuto forse sovrattutto all’uso cautissimo che egli ne fece là dove essi veramente chiarivano i problemi trattati, e cioè nell’impostazione dei singoli problemi. Quel che è caratteristico nel trattato del De Viti non è invero la bipartizione della economia pubblica entro i due schemi; è invece la tesi che i problemi della finanza pubblica (il De Viti anzi dice della economia finanziaria) sono problemi economici, i quali devono essere discussi con gli stessi criteri usati nella scienza economica. A volta a volta, senza impacciarsi troppo dei due schemi politici (stato monopolistico e stato cooperativo), egli discusse i singoli problemi finanziari, come se fossero problemi di prezzo, usando ora l’ipotesi del monopolio, ora quella della libera concorrenza, a seconda che meglio l’una o l’altra ipotesi si attagliava a ciascun problema particolare. Con questo suo trattare i problemi di finanza come problemi economici, il De Viti si attirò le critiche di coloro i quali reputano essere invece quei problemi prevalentemente politici e sociologici o giuridici. Poiché anche la scienza finanziaria è e rimarrà a lungo una scienza astratta e deve necessariamente vivere di schemi, più o meno vicini alla realtà, e poiché tra tutti gli schemi quello economico è sinora il solo il quale abbia prodotto una costruzione avente in sé una qualche logica, un certo ordine ed abbia un contenuto discreto di teoremi abbastanza bene dimostrati, anch’io[3] preferisco lo schema economico ed attendo che altri faccia fruttificare schemi diversi.

10. – È riuscito il Fasiani nel suo magnifico recentissimo tentativo a dimostrare che gli schemi dello stato monopolistico cooperativo e moderno hanno una propria virtù teorica? Sono scettico per quanto riguarda la parte essenziale della indagine del F., quella che a giusta ragione assorbe metà delle pagine del trattato, e si riferisce ai problemi della traslazione e degli effetti delle imposte. L’a. avrebbe potuto, se avesse voluto, scrivere quelle pagine che tanto onore fanno alla scienza italiana, senza ricorrere ai tools dei tre tipi di stato; e quelle pagine non avrebbero certo perduto nulla della loro perspicuità ed eleganza logica. Ma una adeguata dimostrazione del mio atteggiamento negativo richiederebbe una lunga analisi che in questa sede sarebbe fuor di luogo.[4]

11. – La difficoltà di usare gli schemi di stato offerti dal De Viti e perfezionati dal Fasiani per condurre innanzi le indagini delicate di traslazione delle imposte, le sole che di teoria pura economica si incontrino nel campo variopinto della scienza finanziaria, pone il quesito se quegli schemi abbiano indole astratta ovvero storica.[5] Sono essi soltanto ipotesi immaginate dalla mente dello studioso per trarne leggi teoriche vere sub specie aeternitatis o sono anche strumenti di interpretazione approssimata della realtà storica?

Assumo la definizione dei tre tipi di stato quali sono poste dal Fasiani. Fatta la premessa che in esso siano riconosciute «la libertà e l’integrità personale e la proprietà privata» lo stato monopolistico è definito come quella «organizzazione in cui una classe eletta dirigente (i dominanti) eserciti il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominanti»[6] (I, 42).

Se la sistematica dell’ordinamento finanziario di uno stato cosiffatto fosse rispetto alle imposte soltanto quello riassunto dalla sapienza popolare nell’antichissima massima del pelar la gallina senza farla gridare o, rispetto alle spese, quella del dare alle spese utili ai dominanti l’aspetto di spese utili a tutti od al gruppo non oserei dire che essa sia propria di un peculiare qualsiasi tipo di stato, essendo stata seguita anche dai legislatori che agivano e volevano ed erano persuasi di agire nell’interesse di tutti e di ciascuno (stato cooperativo) o della collettività (stato moderno); ed essendo i limiti all’operato delle illusioni tanti e tanto potenti da rendere ben piccolo il campo di azione di quel sistema anche nel tipo di stato più accentuatamente monopolistico.

Ma l’osservazione, storicamente fondata, non è tale logicamente. Né il De Viti, né il Fasiani, né altri che abbia assunto la distinzione fra stato monopolistico e stato cooperativo a punto di partenza delle proprie indagini affermò che stati cosiffatti siano mai esistiti in questo o quell’altro luogo o tempo. Se ciò avessero sostenuto, sarebbero caduti nell’errore di scambiare la realtà che è sempre complicata e unica e non soggetta a ripetizione con lo schema astratto o modello teorico, utile per il ragionamento che voglia spiegare qualche aspetto particolare della realtà.

Contrariamente a quanto immaginarono i critici frettolosi, i quali condannarono l’analisi della finanza condotta col criterio degli schemi o modelli teorici a sfondo economico perché non conformi a realtà e, così criticando, dimostrarono di ignorare la natura propria della indagine scientifica nel campo delle nostre scienze astratte, i teorici dei tipi sopradetti di stato non si proposero un problema storico, sibbene un problema di logica che io direi degli strumenti. Secondo questa logica un criterio non è assunto a scopo di indagine storica di fatti realmente accaduti, ma allo scopo di estrarre dai fatti storici accaduti quelli soltanto che si ritengono proprii a caratterizzare il concetto medesimo. Caratterizzano perciò il tipo di stato monopolistico soltanto quei fatti senza di cui quel tipo cade o si trasforma in un diverso od opposto tipo; laddove i fatti medesimi possono essere assenti dai tipi opposti, senza che questi vengano meno.

Il Fasiani, ad esempio, pone il trattato delle illusioni finanziarie nel libro il quale esamina le caratteristiche dello stato monopolistico, reputando che la teoria di esse sia propria di questo caso limite di stato ed estranea («non c’è posto per essa») negli altri due casi limite dello stato cooperativo e dello stato moderno. Non che illusioni non possano darsi in materia di entrate e spese anche negli altri due tipi di stato; ma solo nel tipo monopolistico quelle «illusioni si raggruppano fino a formare una vera tendenza, un sistema. Ciò che conta storicamente, non è già che uno stato in una certa epoca abbia un insieme di entrate e spese che implichino questa o quella illusione, ma piuttosto che, nel suo complesso, l’ordinamento finanziario si avvicini o si allontani dal caso limite in cui le illusioni sono sistema» (I, 70).[7]

I tipi di stato cooperativo moderno possono in verità vivere senza creare illusioni finanziarie, anzi raggiungono la perfezione quanto più le illusioni sono assenti dal loro armamentario legislativo ed amministrativo e governanti e governati apprezzano perfettamente senza veli il vantaggio delle spese pubbliche e l’onere dei tributi necessari a compierle; ed è vero altresì che il sistema delle illusioni non ripugna invece al tipo di stato monopolistico, così come fu sopra definito.

Non mi soffermo sulla riserva premessa alla definizione, per la quale lo stato monopolistico sarebbe tenuto a rispettare «la libertà e l’integrità personale e la proprietà privata» sia perché di cosiffatta riserva non si vede si faccia poi uso nel prosieguo del discorso talché può essere messa nel novero degli strumenti di ricerca divenuti caduchi per non uso, sia perché la riserva può intendersi come un modo abbreviato di enunciare il proposito di escludere dai casi studiati di imposta quelli della riduzione in massa dei dominati a schiavi o della espropriazione in massa dei dominati. Metodi grossolani e contrastanti con quella della illusione di essere liberi e proprietari in che i dominanti vogliono tenere i dominati. La riserva insomma può voler dire soltanto che ai dominati può, se conviene ai dominanti, essere tolta la libertà e proprietà, purché essi si illudano di non aver perduto né l’una né l’altra.

Caratteristica essenziale dello strumento logico detto stato monopolistico pare dunque quella di far uso di illusioni finanziarie, allo scopo di raggiungere più agevolmente il fine proprio della classe dirigente di esercitare il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominati. Da quale esperienza storica è stata astratta l’indicazione dello scopo ora detto?

12. – Volto pagina e vedo che, dopo aver ricordata la solenne definizione che, per bocca di Sully, Enrico IV diede non so se dello stato cooperativo o di quello moderno:

«Dio essendo il vero proprietario di tutti i regni e non essendone i re che gli amministratori debbono tutti rappresentare ai popoli colui di cui tengono il posto, per le sue qualità e le sue perfezioni. Soprattutto essi non regneranno come lui se non in quanto regneranno come padri» (I, 77).

si elencano esempi – tratti da tempi nei quali i ceti dirigenti francesi ed un po’ quelli borbonici tra il secolo XVIII e il secolo XIX ed ancora quelli democratici dell’epoca umbertina stavano preparando i torbidi rovinosi degli ultimi Valois o le rivolte della Fronda o la rivoluzione del 1789, od i Borbonici scavavano l’abisso tra sé e le nascenti energie borghesi e popolari meridionali. E mi fermo, ché il quadro delle oscurità del bilancio dell’epoca umbertina disegnato dal Puviani è tirato sul nero; e in esso si dimentica che nessuno in Italia era tratto in inganno dagli espedienti maglianeschi cuciti a grosso fil bianco e tutti ne discutevano; ed in virtù di siffatte discussioni l’Italia giunse al 1914 dotata di una finanza, che se era, al par di altre, impreparata all’improvviso grandioso sforzo della guerra mondiale, superato tuttavia con successo, era però solida ed onesta e chiara.

Non intendo avventurarmi troppo nell’uso dell’altro strumento di indagine che si dice delle azioni logiche e non logiche; ma parmi di potere affermare che il sistema delle illusioni finanziarie, quale almeno risulta dalla esemplificazione addotta dal Puviani e perfezionata dal Fasiani non si può dir propria del tipo generico di stato monopolistico. Farebbe d’uopo perlomeno distinguere il tipo nei seguenti sottotipi:

a)    il tipo in cui la classe dominante compie consapevolmente solo quelle azioni di sfruttamento dei dominati le quali giovano alla conservazione del proprio potere;

b)    il tipo in cui la classe dominante si comporta nello stesso modo inconsapevolmente, per vie non logiche;

c)    il tipo in cui la classe dominante per vie non logiche (si possono escludere le vie logiche perché, eccetto i casi, qui esclusi per definizione, di sacrificio di se stesso a vantaggio dei più o della collettività, nessuna classe politica corre volutamente consapevolmente al suicidio) sfrutta i dominati in modo da preparare e determinare la propria rovina.

I fatti di illusione addotti negli scritti dei due autori ricordati sono tratti dall’arsenale storico dei tempi in cui il tipo di stato esistente si approssimava all’ultimo sottotipo (c). Lo studio è grandemente suggestivo, sia al punto di vista storico come a quello teorico; ma è lo studio di un sottotipo peculiare. Per la Francia, non ci dà il quadro della finanza del tempo di Enrico IV con Sully, né quello di Luigi XIV con Colbert, né quello di Bonaparte primo console, né l’altro della restaurazione, ossia delle epoche nelle quali la Francia fu grande o restaurò le fortune compromesse nei tempi precedenti di torbidi, o di decadenza o di follia di grandigia. Per l’Italia non so in verità quale tempo appartenga a quel sottotipo (c); ché la raffigurazione della finanza umbertina è, già dissi, una parodia calunniosa, e le tinte scure usate dal Bianchini per descrivere la finanza borbonica meritano revisione attenta, almeno per lunghi tratti del secolo XVIII e, ad intervalli, anche degli anni fra il 1815 ed il 1860. Ma la finanza toscana, sotto i Lorenesi fu un modello; e non sapendosi nulla di quella dei Medici, non se ne può parlar male sulla fede di dicerie di cronisti. I bilanci e conti pubblicati della repubblica veneta offrono un quadro di rigorosa amministrazione del denaro pubblico.

Pubblicammo, io e Prato, i bilanci piemontesi dal 1700 al 1713, testimonianza di costumi austeri e di grandi risultati ottenuti con misurato dispendio; e potrei, se avessi voglia e tempo, render conto altresì fino all’ultimo denaro, oggi si direbbe centesimo, dei tributi incassati, delle spese compiute e dei mezzi di tesoreria usati negli stati sabaudi dal 1714 al 1798. Si rendeva ossequio alla pubblicità ed al controllo finanziario secondo i criteri e le cognizioni del tempo. Invece di bilanci stampati e distribuiti a parlamentari ed a giunte del bilancio, i bilanci ed i consuntivi erano redatti a mano, discussi dai consigli delle aziende, controllati dagli uffici del controllo generale e della Camera dei conti. Diversa la forma, era identica la sostanza e non so se meno efficace. Lievissime le tracce di sfruttamento dei dominati da parte dei dominanti. Tenui gli stipendi pagati a ministri, ambasciatori, alti officiali, e spiegabili col permanere non tanto delle istituzioni, logorate dal tempo, quanto dei sentimenti feudali, per cui i signori sentivano il dovere di servire il principe.

Prima di astrarre dalla realtà storica, allo scopo di interpretarla, caratteristiche teoriche proprie dei tipi di stato non cooperativi e non moderni importa chiedere: dove e quando esistettero sottotipi dello stato monopolistico diversi dal sottotipo (c), ossia degli stati votati alla propria rovina? Quali furono le caratteristiche precise degli stati monopolistici di tipo A e B ossia auto conservantisi? Quale peso proporzionale ebbe in quegli stati lo sfruttamento dei dominati da parte dei dominanti e la tutela, voluta od inconsapevole, degli interessi di tutti o del gruppo? Se si riscontrasse, per avventura, che negli stati detti monopolistici, durati a lungo la tutela degli interessi di tutti o del gruppo assorbì e non poteva non assorbire la maggior parte, dicasi i nove decimi e più delle risorse pubbliche e solo un decimo fu destinato a gratificazione della classe dominante; e se, in aggiunta, questa decima od altra qualunque tenue parte fu il compenso pagato al ceto dirigente perché tale e perché un qualunque stato ha bisogno di un ceto dirigente e questo è scelto o si sceglie in funzione delle idee del tempo e può prendere talvolta perciò l’apparenza di dominante, classificheremo ancora quello o quegli stati tra i monopolistici? E se no, diremmo che il tipo dello stato monopolistico sia proprio solo degli stati governati a vantaggio di dominanti correnti verso la propria rovina? Se così fosse conserverebbe ancora quel tipo di stato la dignità necessaria per figurare allato ai tipi cooperativo e moderno, dei quali si suppone la persistenza, almeno entro i limiti del tempo, nei quali essi serbino la propria natura e non degenerino nell’opposto tipo monopolistico votato alla rovina? Quali sarebbero, per avventura, le caratteristiche teoriche proprie di quel tipo peculiare di stato? Domande, alle quali non mi attento di dare una risposta; ma alle quali converrebbe rispondere innanzi di attribuire allo strumento logico stato monopolistico la virtù di chiave logica utile ad interpretare e sistemare un aspetto o una sezione dei fatti finanziari. Qui si pone un problema di logica. Storicamente, nessuno stato fu mai monopolistico puro o cooperativo puro e probabilmente nessun stato sarà mai costrutto in modo da potersi considerare puramente moderno. L’obiezione, ripetesi, non ha valore al fine dell’indagine teorica. Quel che monta, anche a codesto fine, è che le caratteristiche assunte, per astrazione dalla realtà, a qualificare, ad ipotesi, lo stato monopolistico siano congrue alla sua propria natura. Deve, sì o no, quello stato agire in modo da provvedere alla propria auto conservazione? Se così agisce, per via logica o non logica, è concepibile che esso non provveda massimamente oltreché alla potenza della classe politica dominante, al benessere ed alla sicurezza dei governati? Se a ciò non intende (sottotipo c), corre o non corre quello stato verso il suicidio? Basterebbe, per render legittima l’indagine, assumere ipoteticamente che lo stato monopolistico sia quello in cui i dominanti esercitano il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominati, qualora l’esperienza storica dimostrasse che, nei casi nei quali l’ipotesi si approssimò alla sua attuazione, perciò lo stato correva alla rovina, laddove nei casi nei quali lo stato si mantenne, la realtà fu perciò diversa dall’ipotesi e più vicina, nonostante le forme apparentemente monopolistiche, all’ipotesi teorica dello stato cooperativo?

Badisi che qui non si nega il diritto all’indagatore di porre quelle qualsisiano ipotesi astratte che egli giudica più adatte ai ragionamenti intrapresi; si afferma solo che se le ipotesi fatte hanno, oltreché un intento di esercitazione raziocinativa, lo scopo di giovare alla interpretazione della realtà storica, esse debbono essere da questa astratte e raffigurare aspetti ben chiari di quella realtà. Sembra perciò che non si possano elencare indiscriminatamente fatti appartenenti a tempi e luoghi diversi, senza compiere di essi una attenta ventilazione per collocare ognuno di essi nella sua propria cornice, ed appurarne il vero significato, così da non attribuire allo stato duraturo cosidetto monopolistico caratteristiche che probabilmente -non dico certamente, ché l’indagine è tuttora da fare – sono proprie invece soltanto dello stato monopolistico suicida, del tipo, a cagion d’esempio, della monarchia decadente dei Luigi XV e XVI, di Napoleone dalla campagna di Spagna e di Russia a Waterloo, dello czar Nicola II e simiglianti autocrati dall’orgoglio o dall’eredità fatti ciechi dinnanzi all’abisso.

13. – Dubbi ancora più profondi fanno sorgere le ipotesi degli stati cooperativo e moderno.[8] Sarebbe cooperativa una organizzazione statale «in cui il potere sia esercitato nell’interesse di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, ma avendo di mira gli interessi particolari di ciascuno o almeno della maggioranza»; e moderna quella «in cui il potere sia esercitato invece nella preoccupazione degli interessi del gruppo pubblico, considerato come una unità» (I, 42).

Passo sopra alle complicazioni le quali nascono da ciò che, secondo l’autore della distinzione, il punto del distinguere «sta nel criterio a cui si informa la decisione, più che nei risultati positivi conseguiti»; e dalla coincidenza possibile e frequente dell’interesse particolare dei singoli e della loro maggioranza con l’interesse del gruppo, sicché «perseguendo direttamente e per via logica l’uno, si attui incidentalmente e per via non logica anche il secondo»; o, viceversa «perseguendo in modo diretto e logico la potenza e la conservazione del gruppo, si ottenga il risultato non logico (non previsto né deliberatamente voluto) di procurare a tutti od alla maggioranza dei consociati un guadagno individuale» (I, 49).

E passo sopra anche ad altre complicazioni, fra le quali quella nascente dal modo di esprimere la profezia, secondo la quale «lo stato nazionalistico rappresenta l’ultima e la più viva espressione della evoluzione della civiltà europea, non solo perché viene cronologicamente dopo lo stato assoluto e lo stato liberale, ma perché ne rappresenta una negazione e una trasformazione» (I, 55). Dove, se le parole dovessero essere interpretate alla lettera, non si vede in qual modo lo stato nazionalistico potrebbe essere considerato posteriore a quello assoluto, quando il compito delle grandi monarchie assolute di Carlo V e Filippo II, di Enrico IV e di Luigi XIV fu appunto quello di creare gli stati nazionali al disopra dello spezzettamento feudale e cittadino; e quando stato liberale e stato nazionale nacquero in Italia e in Germania nell’epoca medesima del risorgimento. Ma si tratta di questioni di parole e dell’uso dell’aggettivo nazionalistico oggi superato ed anacronistico, al luogo di quello moderno neutro ed adatto a tutti i tempi.

Sia nello stato cooperativo che in quello moderno non esiste più la distinzione fra dominanti e dominati. Esiste, si, un ceto dirigente politico; ma esso, in qualunque modo sia scelto, per elezione popolare, per cooptazione, per eredità, per autodesignazione, opera nell’interesse esclusivo particolare della totalità o della maggioranza dei singoli cittadini (stato cooperativo) ovvero in quello della collettività (stato moderno).

14. – Dico che, posta la premessa della mancanza di contrasto e separazione fra dominanti e dominati, la distinzione fra i due tipi di stato è logicamente assurda, appunto perché essa si riferisce allo stato ed agli uomini in quanto appartenenti allo stato. Supporre che il ceto dirigente di uno stato cooperativo si possa preoccupare solo degli interessi dei cittadini come singoli, sia pure della totalità o della maggioranza di essi è supporre che esso agisca come se lo stato non esistesse, come se i cittadini di uno stato fossero un semplice aggregato di atomi l’uno distinto dall’altro e riuniti solo dalla opportunità tecnica di conseguire, senza danno di nessuno, taluni vantaggi particolari meglio di quanto otterrebbero con l’opera individuale separata. No. Lo stato non è una mera società per azioni. A causa dello stato i cittadini cessano di essere dei singoli; diventano altri da quel che erano prima o, poiché non esistettero mai fuor di uno stato, da quel che si può artificiosamente immaginare sarebbero fuor di esso; la loro personalità non è più quella dell’uomo, ma dell’uomo vivente in una società organizzata a forma di stato. Non si può, neppure a scopo di mero strumento logico di indagine, immaginare che l’uomo resti, nello stato, il singolo considerato come singolo, ossia come una astrazione; e che si possa fare il conteggio dei singoli e constatare la esistenza di totalità o di maggioranze più o meno grandi.

Noi in verità non sappiamo che cosa siano entità dette uomini isolati, Robinson Crusoè viventi in un’isola deserta, privi di conoscenza di quel che poteva essere stata la loro vita in società e non legati, come era il Robinson Crusoè di Daniele Defoe, ad essa dal desiderio di ritornare a farne parte. I soli uomini da noi conosciuti, anche storicamente o per relazioni di viaggiatori, sono uomini viventi in società e dalla vita comune con altri uomini resi veri uomini, ricchi di cultura, di energia interiore, forniti di passioni di dominio o di fama, ovvero dotati di umiltà e di amore verso gli altri; uomini insomma e non automati simili a quelli immaginati nel tempo dell’illuminismo. La persona, l’individuo nell’uomo diventa più vario e ricco in quanto esso vive insieme con altri uomini e la società o collettività non è un che di distinto dagli uomini che la compongono ed esiste soltanto in quanto essa trasforma gli uomini e da atomi sperduti od automati meccanici ne fa uomini veri. Perciò il concetto degli appartenenti al gruppo pubblico e quello del gruppo pubblico considerato come unità hanno senso solo se considerati unitamente e inscindibilmente l’uno dall’altro; non ne hanno veruno quando si pretenda figurarli ed assumerli disgiuntamente.

Già dissi che lo strumento di indagine, se vuole essere fecondo, deve avere una qualche parentela con la realtà; e la realtà non è quella di un uomo, di cento uomini, di un milione di uomini, ognuno in se stesso considerato e numerato; ma è quella dell’uomo vivente dentro la collettività, trasformato da questa, avente fini che sono tali in quanto egli fa parte della collettività. Discorrere di interessi particolari di ciascuno si può, con moltissima cautela, quando si tratti di faccende private, entro i limiti nei quali lo stato non interviene. Ma se noi pensiamo a scopi che sono perseguiti attraverso o dentro lo stato, noi ipso-facto pensiamo a scopi i quali sono proprii dell’uomo in quanto parte della collettività, scopi, i quali possono riuscire di vantaggio ai singoli non in quanto tali, ma in quanto membri della collettività. Non esistono più, nello stato, interessi particolari ed interessi della collettività; ma gli uni sono fusi negli altri, e gli uni si possono conseguire solo se si conseguono gli altri. Né a caso i ceti dirigenti usano un linguaggio, il quale, se spesso è improprio, è indice della loro consapevolezza della inscindibilità dei fini privati e di quelli collettivi (nel senso di fini proprii della collettività come unità, come insieme). Se sul serio supponiamo, perciò, attuata l’idea dello stato cooperativo, ipso facto vediamo attuata l’idea dello stato moderno.

separatamente assunti, che ne fanno parte. Può trasportare la lettera di Tizio; e così facendo rende servigio a lui e non a Caio. Ma questa è mera tecnica; è un modo economicamente od altrimenti reputato vantaggioso per raggiungere fini che potrebbero altresì essere perseguiti coll’azione individuale: di trasporti ferroviari, tramviari, postali, telegrafici, telefonici, di illuminazione, di istruzione professionale ecc. ecc. Ed è tecnica propria di tutti i tipi di stato, non peculiare allo stato cooperativo. Se lo stato decide di costruire una strada, che i singoli proprietari beneficati – e si può supporre che il beneficio sia ottenuto praticamente solo dai proprietari serviti dalla strada – non riuscirebbero a costruire con accordo spontaneo, l’intervento dello stato è, di nuovo, un mero mezzo tecnico per raggiungere o raggiungere meglio un fine che i singoli sarebbero incapaci a conseguire od a conseguire perfettamente. Ed è mezzo usato da tutti i tipi di stato e non peculiare a quello cooperativo. Ossia, ancora, lo stato detto cooperativo non può, se è stato, limitarsi ai fini che tornano vantaggiosi particolarmente ai singoli od almeno alla maggioranza di essi. Lo stato il quale si limiti a perseguire fini vantaggiosi ai singoli, anche a tutti i singoli non ha vita autonoma. Esso suppone la esistenza di un altro stato, cosidetto moderno, il quale persegua fini proprii della collettività assunta nel suo insieme. Prima esiste lo stato, il quale assicura la vita della collettività, la difende contro il nemico esterno, la conserva e la esalta contro le forze di disgregazione interna (giustizia, sicurezza, istruzione); e tutti questi fini sono proprii della collettività una e indivisibile; sono fini non apprezzabili se non attraverso ad artifici convenzionali, appunto perché essi non sono fini propri degli uomini singoli, soli capaci di valutazione economica. Poi, lo stato, già formato e forte e duraturo, può prendersi il lusso di venire in aiuto dei singoli, assumendo compiti e perseguendo fini che essi da soli non potrebbero perseguire o perseguirebbero imperfettamente: costruire strade vicinali, cercare sbocchi coloniali ad agricoltori e commercianti ed industriali ardimentosi, esercitar poste e ferrovie. Lo stato cooperativo puro è acefalo; ed ha vita puramente complementare a quella dello stato moderno.

Un esempio addotto dal Fasiani è illuminante.

«Durante l’ondata di pacifismo dilagante in Europa subito prima della guerra 1914-18 si è da vari autori negata la convenienza delle Conquiste coloniali, in quanto il costo dell’impresa supera, a loro dire, il valore del flusso di reddito che se ne può trarre.

Prescindiamo pure dal fatto che la conclusione era del tutto arbitraria e priva di qualunque base seria. Ma il modo stesso con cui il problema veniva impostato, dimostra che gli autori che lo proponevano avevano esclusivamente di mira una organizzazione in cui il potere sia esercitato nell’interesse di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, ma avendo di mira gli interessi particolari di ciascuno o almeno della maggioranza. Soltanto in questa il problema della conquista può assumere l’aspetto di un bilancio fra i sacrifici che i singoli son chiamati a sopportare e i vantaggi che ne possono trarre. In una organizzazione in cui il potere sia esercitato invece nella preoccupazione degli interessi del gruppo pubblico, considerato come una unità, il problema è assai più vasto e complesso. La conquista non è più una questione di dare ed avere nel bilancio dei singoli, ma riguarda la sorte del gruppo pubblico come tale: le sue possibilità di espansione, la sua potenza militare e politica, la formazione e la decadenza del suo imperialismo. Non è più in gioco l’interesse del singolo, ma l’interesse del gruppo considerato come unità» (I, 47-48 e 42).

Supponiamo di aver superato le difficoltà di valutazione dei costi e dei redditi dell’impresa coloniale, rispetto alla quale sembra probabile la conclusione che il bilancio si chiuda sul serio in perdita per l’imprenditore (stato o compagnia), rimanendo incerta, perché sinora non indagata, la natura della chiusura del bilancio per i singoli coloniali andati al seguito dell’imprenditore; e supponiamo altresì di aver superato le difficoltà della valutazione dei fini di potenza e di espansione dello stato, concepito come unità, il quale inizia l’impresa coloniale. Dico che il primo bilancio, del costo dell’impresa col flusso dei redditi che se ne possono trarre, non è il bilancio di uno stato; ed aggiungerei anzi che quasi non lo interessa. Concepita come un bilancio di dare ed avere economico, l’impresa coloniale è propria di una società di azionisti perseguenti fini di arricchimento. Se vogliamo attribuirla allo stato, essa pare propria dello stato monopolistico, il cui gruppo dominante la mediti per arricchire se stesso ed i proprii affiliati o cadetti. Una società coloniale per azioni, è, sì, costituita allo scopo di crescere il reddito degli azionisti consociati al di là di quanto costoro potrebbero ottenere se isolatamente e separatamente si avventurassero a colonizzare paesi nuovi o barbari. Ma una società per azioni non è lo stato, il quale, se è tale, deve perseguire fini i quali sono proprii degli uomini in quanto essi facciano parte di una collettività politica. Qual è il bilancio del dare e dell’avere individuale del raggiungimento dei fini della sicurezza, della giustizia, della difesa o potenza nazionale, della pubblica igiene, i quali, da che mondo è mondo, sono caratteristici dello stato, di un qualunque stato il quale sia inteso alla propria conservazione? Se l’organizzazione di cui si parla pensa, iniziando un’impresa coloniale, solo ad un bilancio di costi e di redditi, quella non è stato, è semplicemente una compagnia coloniale, che io anzi direi senza carta, perché tutte le vecchie carte di concessione di conquiste coloniali imponevano obblighi di espansione, di potenza militare, di influenza politica a pro della madrepatria. Se una organizzazione coloniale è veramente stato, se essa emana od è la lunga mano dello stato, essa necessariamente persegue fini di gruppo, fini proprii degli uomini viventi e in quanto viventi nella collettività nazionale della madrepatria. Insomma, lo stato cooperativo o non è stato ovvero è tutt’uno con lo stato moderno; e, qualunque ne sia il nome, si chiama semplicemente stato e persegue i fini suoi proprii.

16. – I fini proprii dello stato, non possono, d’altro canto, essere concepiti fini esclusivi del gruppo considerato come una unità. Se lo stato cooperativo, concepito come perseguente soltanto fini dei singoli che lo compongono, è acefalo; lo stato moderno, concepito come perseguente esclusivamente fini della collettività considerata nella sua unità, è un mostro. L’ipotesi suppone l’assurdo: che possa darsi uno stato il quale operi nel proprio interesse di collettività senza preoccuparsi degli interessi degli uomini vivi che lo compongono. Non è, se si voglia conoscere la realtà, supponibile che nello stato moderno «l’interesse dei singoli sia d’importanza affatto secondaria rispetto all’interesse del gruppo considerato come un organismo». Immaginare che in quel tipo di stato l’attività finanziaria possa essere «perseguita anche se non accresce il benessere individuale della totalità o della maggioranza dei consociati» (I, 43) è fare ipotesi la quale non ha alcun addentellato con la realtà.

Partire dalla premessa che esista una unità detta stato, dei cui interessi la classe politica possa nell’esercizio del potere preoccuparsi esclusivamente, invece che degli interessi particolari di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, è partire da una premessa irreale. Non esiste infatti l’unità stato concepita come distinta dai cittadini dello stato medesimo. Per dare corpo all’ombra fa d’uopo uscire dal campo proprio dei due tipi di stato, cooperativo e moderno; concepire l’esistenza effettiva di un’entità, diversa e sovrapposta agli uomini, ossia entrare nel campo proprio del tipo di stato monopolistico. Se è vero che l’uomo isolato non esiste, se è vero che non esistono i due, i tre, i mille, i milioni di individui componenti la collettività, separatamente considerati, se è vero che i due, i tre, i mille, i milioni di individui sono tali quali sono perché viventi nella società; se è vero che di interessi dei singoli non può parlarsi, se non in quanto essi singoli facciano parte della collettività; se è vero che di interessi della collettività non possa parlarsi se non in quanto essi siano anche interessi dei componenti di essa; è vero che il dualismo fra individuo e collettività è concepibile solo se la collettività si incarni in qualcuno, uomo singolo o gruppo di uomini, ossia si incarni nella classe politica. Cacciato dalla porta il concetto dello stato monopolistico rientra dalla finestra della entità superiore, diversa e trascendente, detta stato concepito come unità.

Si spogli del resto la tesi della sua terminologia crudamente economica. Lo stato non è un ente il quale persegue fini economici, di interessi, intesi nel senso nel quale questa parola è comunemente assunta di vantaggi misurabili in lire, soldi e denari. Lo stato ossia gli uomini viventi nella società politica perseguono fini, economici morali politici, proprii del loro vivere collettivo dentro lo stato. Assumere che essi possano distinguere i fini conseguibili per mezzo dello stato in fini vantaggiosi ad essi come singoli e in altri vantaggiosi ad essi come collettività è risuscitare quel dualismo fra i singoli e lo stato, che apparve già dianzi erroneo discorrendo dello stato cooperativo. Il dualismo fra i singoli e il tutto appare anzi qui sotto un aspetto più terrificante e pericoloso; in quanto è fondato sulla premessa di uno stato il quale pensi e provveda solo alla collettività e non agli uomini che ne fanno parte. La concezione non è moderna; è antica come i tiranni greci, come l’Etat c’est moi di Luigi XIV; è il ritorno alla pagana deificazione dello stato sopra l’individuo. Cristo sarebbe venuto indarno sulla terra se noi non fossimo persuasi che lo stato non ha altro scopo se non la elevazione morale e spirituale dell’uomo vivente nella società dei suoi simili. L’elevazione dell’uomo singolo non può non aver luogo nello stato; deriva dal contatto necessario di ogni uomo libero con tutti gli altri uomini liberi, dalla emulazione reciproca di essi. Non esistono fini dello stato i quali non siano anche fini degli uomini, di tutti gli uomini, dei morti, dei vivi e dei non nati ancora.

Nella società organizzata gli uomini viventi acquistano la consapevolezza del legame inscindibile che li avvince alle generazioni passate ed a quelle future. Non lo stato come ente pensa ai trapassati ed ai nascituri, ma gli uomini associati e fatti diversi, esprimono, per mezzo dello stato, la volontà di perseguire fini, i quali vanno oltre la loro vita caduca e radicati nel passato si protendono nel lontano avvenire. Come potrebbero gli uomini isolati, anche se viventi a milioni gli uni accanto agli altri pensare e provvedere a fini relativi a gente non viva? Gli uomini, insieme viventi, sono essi lo stato. Essi e non qualche cosa di trascendente che stia sopra e al di là di essi, anche se questo qualcosa lo decoriamo col nome di collettività o di gruppo o di stato. Per vedere un tipo di stato il quale persegua esclusivamente fini della collettività, come unità, bisogna ritornare indietro di millenni. Ma forse neppure nell’Egitto o nella Persia antichi si può trovare qualcosa che rassomigli al mostro che ci si vorrebbe presentare sotto la denominazione di stato moderno. Anche allora gli uomini credevano in qualche cosa. Anche quando elevavano le piramidi, e cadevano uccisi dalla fatica, gli uomini credevano di salire così più facilmente in cielo, essi e non la loro mitica unità collettiva.

Migliaia di martiri sono morti per protestare contro l’idolo trascendentale dello stato posto al disopra e fuori degli uomini che lo compongono. Un grande santo e uomo di stato, Tommaso Moro, è salito sul patibolo perché non volle riconoscere che lo stato fosse giudice nelle cose della coscienza; e ammetteremmo oggi che possa esistere uno stato moderno il quale persegua fini proprii del solo gruppo e possa quindi comandare all’uomo, in ubbidienza al gruppo, di violare i comandamenti che la coscienza gli detta?

Sì, un mostro cosifatto di stato può essere esistito; ma non è moderno né compatibile con la libertà dell’uomo. Lo stato moderno è quello e solo quello il quale persegue fini di elevazione morale e spirituale e perciò e solo perciò anche di benessere economico degli uomini nei quali lo stato medesimo si sostanzia e si compone. Elevazione non di ipotetici uomini selvaggi viventi isolati nelle foreste, ma di uomini viventi nella società dei loro simili.

17. – Certo, col sostituire alla nozione di stato, nel quale «il potere sia esercitato nell’interesse di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, ma avendo di mira gli interessi particolari di ciascuno o almeno della maggioranza» (cosidetto stato cooperativo), o in cui esso sia invece esercitato «nella preoccupazione degli interessi del gruppo pubblico, considerato come una unità» (cosidetto stato moderno), la nozione di stato, nel quale «il potere è esercitato al fine della elevazione morale e spirituale e perciò economica degli uomini viventi in società» noi siamo scivolati od ascesi dalla concezione del dualismo fra stato monopolistico e stato cooperativo (con la variante di moderno) al contrasto dialettico fra stato e non-stato, fra lo stato il quale vuol vivere e durare e il non-stato il quale a quello si contrappone e lo dissolve. Senza volerlo, i teorici i quali come De Viti e Fasiani hanno creato la figura astratta dello stato monopolistico, hanno in quella figura sintetizzato le forze che in ogni momento storico minano l’esistenza dello stato e lo conducono alla rovina.

Lo stato monopolistico, che sia veramente tale e in cui si riscontrino caratteristiche che lo distinguano sul serio dallo stato cooperativo o moderno, è solo quello che sopra fu detto il sottotipo (c) dello stato in cui i governanti per vie non logiche sfruttano i dominati in modo da preparare e determinare la propria rovina. Uno stato in cui ciò non accada potrà essere assoluto od oligarchico, monarchico o repubblicano, retto da uno, da pochi o molti, ma non può dirsi monopolistico, sinché non si sia dimostrato, e sarebbe dimostrazione meravigliosa a darsi, che la sua classe dirigente «eserciti il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominati». Ma questo è il non-stato, che sempre è esistito e sempre esisterà accanto allo stato. Sempre, in ogni momento storico, vi è il pericolo che le forze di dissoluzione prevalgano su quelle creative e organizzatrici; che gli egoismi individuali prevalgono sul bene comune. Sinché in un paese sono vive ed operose le forze morali intellettuali ed economiche le quali innalzano gli uomini, esiste lo stato e questo dura, lotta, prospera. Quando nel paese diventano forti e prevalenti le forze le quali degradano gli uomini, può in apparenza durare la forma esteriore dello stato; ma è forma senza contenuto. Al primo urto essa si dissolve e tutti vedono che essa era il non-stato. L’impero romano d’occidente nel quarto e quinto secolo stava dissolvendosi internamente; e, prevalendo in esso le forze disgregatrici, i potenti volgevano a proprio profitto i tributi pagati dai più, invece di volgerli al vantaggio comune.

Quando vennero i barbari, essi altro non fecero se non constatare la scomparsa già avvenuta dello stato.

La distinzione, che appartiene al mondo della realtà e della storia, fra stato e non-stato è ben altrimenti feconda di quella astratta fra tipi di stato monopolistico, cooperativo e moderno. Sempre, in ogni momento e in ogni luogo, coesistono, ad esempio, tributi che accompagnano lo stato nella sua ascesa e ne sono nel tempo stesso effetto e condizione; sempre vi sono altri tributi i quali agevolano il non-stato nel suo fatale percorso verso l’abisso e sono causa e manifestazione della sua decadenza. Sempre gli effetti del primo tipo di imposte sono stati e saranno diversi da quelli del secondo tipo; e gli effetti diversi sono stati e saranno nel tempo stesso effetto e causa e manifestazione della prosperità degli stati e della rovina dei non-stati. Alla luce della distinzione storica tratta dalla realtà i fatti singoli si illuminano e si concatenano; laddove legate a definizioni astratte in materie ribelli all’astrazione, elegantissime dimostrazioni teoriche perdono alquanto del loro splendore di verità sempiterne. Perché, ove si vogliano costrurre sistemi, non costrurre sulla realtà, che è sempre la stessa, ossia è sempre lotta, sforzo, superamento, conquista, frammezzo a caduta e ricorsi, di più alti ideali di vita?

La distinzione fra i tipi di stato monopolistico e cooperativo appare come una distinzione definitoria, la quale lascia nell’ombra la caratteristica veramente fondamentale della contemporanea coesistenza dei due tipi in ogni tempo e luogo. È la coesistenza la quale spiega l’alternarsi delle classi politiche, la decadenza della classe al potere, il sorgere di nuove forze sociali, le quali divengono a poco a poco ceto politico, atto a conquistare il potere ed a volgerlo a vantaggio morale e materiale dei componenti la collettività e nel tempo stesso già provvedute di quei motivi egoistici, i quali col tempo faranno si che il potere venga esercitato nell’interesse dei dominanti, colla rovina della cosa pubblica e del gruppo dominante medesimo. Il contrasto dialettico fra stato e non-stato che sempre coesistono e lottano per la prevalenza è, in altra sede, il contrasto eterno fra Dio e Satana, fra il bene e il male, fra la materia e lo spirito; o, meglio, è il contrasto che è dentro di noi, che ci fa soffrire e godere, che ci salva dalla morte e dal nulla per la vita che è continua lotta, continuo sforzo.

Così scrivendo è chiaro che, travalicando i confini della scienza economica astratta, abbiamo pronunciato giudizi di valore.

18. – Può, del resto, l’economista astenersi dal pronunciare giudizi di valore, intendendo per essi giudizi sul bene e sul male morale e spirituale proprii delle scelte che gli uomini fanno ed allo studio delle quali ragionevolmente si limita, per ragioni di divisione del lavoro, il campo specifico della sua indagine? La domanda non è se egli possa, volendo, astenersi dallo scrivere su problemi sui quali non ha meditato a bastanza; ché, evidentemente se il motivo del silenzio è questo, la astensione è degna di lode. È invece se egli debba essere scomunicato se si azzarda ad uscire fuor dello studio delle scelte fatte dagli uomini, perché colpevole di condotta antiscientifica.

Se è vero che il non-stato coesiste per lo più con lo stato, l’economista, il quale, per definizione, conosce ed indaga i vincoli fra l’uno e l’altro, pone, per suo istituto, in luce le ragioni per le quali si passa dall’uno all’altro e l’uno tende a prevalere sull’altro. Là dove esiste uno stato fornito di indefettibilità, ed in esso, per definizione, la volontà della classe politica è la stessa cosa della volontà di tutti ed insieme della collettività, l’economista, il quale discute di questi problemi, altro non è se non la voce di tutti, la voce della collettività. Egli non può dire: ascolto e registro; poiché se ascolta opinioni o propositi che a lui paiono infondati, egli che è parte della collettività e quindi, per definizione, parla per conto ed a nome della collettività, non può rinunciare a contrapporre argomento ad argomento, a fare che la volontà sua, che egli sa più illuminata, diventi la volontà della collettività.

Sapendo che il dato, dal quale egli dovrebbe nelle sue indagini prendere le mosse, è incompatibile con altri dati che pure sono stati fissati dalla classe politica, o che a lui sono noti per la sua partecipazione, necessaria partecipazione, alla classe politica, egli non può fare a meno di dichiarare siffatta incompatibilità e di spingere la volontà politica, che è la sua stessa volontà, a modificare o l’uno o l’altro dei dati. Egli si decide a favore di una scelta ovvero di un’altra per qualche ragione da lui ritenuta valida; la ragione valida per lui, che la deve render pubblica, è, secondo opinano gli economisti che ragionano utilitaristicamente, quella del vantaggio per tutti o per la collettività; ovvero è, a detta di altri ed a parere dello scrivente, l’imperativo dell’elevazione morale e quindi materiale degli uomini.

Quando Demostene, ahimè! troppo tardi, fece deliberare dal popolo ateniese che il theoricon e, in generale, gli avanzi di bilancio fossero versati nella cassa di guerra invece che distribuirli gratuitamente ai cittadini, egli riuscì nell’intento solo perché seppe far sorgere viva dinnanzi ai loro occhi l’immagine del pericolo, minaccioso per la libertà cittadina, degli eserciti di Filippo il Macedone. La sequenza:

  • la libertà cittadina è per gli ateniesi il bene massimo;
  • la libertà è minacciata da Filippo il Macedone;
  • senza una pronta preparazione alla guerra, la minaccia di Filippo non può essere scansata;
  • la preparazione richiede mezzi pecuniari;
  • la limitazione dei mezzi richiede la rinuncia alla distribuzione del theoricon ai cittadini desiderosi di feste e di spettacoli;
  • feste e spettacoli sono un bene di pregio inferiore a quello della libertà cittadina;
  • quindi importa mutare la scelta: guerra invece di feste e spettacoli; non può essere mutilata solo perché l’economista ritenga di dovere partire dalla scelta già fatta (feste e spettacoli ovvero preparazione alla guerra) dall’assemblea dei cittadini e non si azzardi a pronunciare su quella scelta un giudizio di valore che sarebbe politico-morale. Tutto quel che accade: feste o spettacoli, imposte sui ricchi o sui poveri, imposte alte o basse, imposte che si trasferiscono in un modo o in un altro, che incidono su questi o su quei cittadini, tutto è frutto di giudizii, di atti di volontà; e l’economista, il quale contempla e registra e analizza e concatena scelte, costi di servizi pubblici, tipi di imposte, contempla e registra ed analizza quel che egli stesso, insieme con gli altri, parte inscindibile della collettività, ha giudicato e voluto. Il chimico non può far sì che l’idrogeno e l’ossigeno non siano quel che sono, e non ha d’uopo di formulare giudizi di bene o di male su quel che è come è indipendentemente dalla sua volontà; ma l’economista fa sì, egli insieme con gli altri e per le sue maggiori conoscenze egli più degli altri, che i dati del suo problema siano quel che sono. La sua volontà contribuì alla scelta dei servizi e vi contribuì perché egli sapeva quali sarebbero state le uniformità derivanti dalla scelta fatta e quali sarebbero state le diverse uniformità derivanti da una diversa scelta. Perché la classe politica ed egli con essa ed egli all’avanguardia di essa preferì l’una sequenza di uniformità all’altra? Perché egli ritenne che la libertà cittadina (destinazione del theoricon e degli avanzi di bilancio alla cassa di guerra contro Filippo di Macedonia) era il bene; e che le feste e gli spettacoli erano, in quel momento, il male. Theoricon, avanzi di bilancio, libertà e servitù cittadina, bene e male sono tutti fatti o concetti legati gli uni agli altri; e non esiste alcuna ragione plausibile perché la ricerca scientifica debba arrestarsi dinnanzi al bene ed al male, dinnanzi agli ideali ed alle ragioni della vita quasi si trattasse di intoccabili.

Si potrà dire che, a quel punto, lo scienziato deve chinare, reverente, il capo dinnanzi a qualcosa a cui la sua mente non giunge, ed intorno a che solo i profeti i mistici i filosofi dissero parole illuminanti. Si potrà dire che da quel momento nel quale le scelte sono fatte e registrate, comincia, in ossequio a legittimi canoni di divisione del lavoro, il compito specifico dell’economista: se gli uomini hanno deciso di fare le tali e tali scelte, con tutto quel che segue. Ma se quel che segue a sua volta ha influenza sulle scelte compiute, se i risultati delle scelte e le scelte medesime reagiscono sui motivi di queste, come si può dire: di qui comincia la scienza; e prima c’e… che cosa? Fuor della scuola non esistono i vincoli di cortesia accademica i quali vietano ad un insegnante di usurpare il terreno altrui; e la curiosità scientifica non ha limiti alle sue domande sul come delle cose.

19. – L’atteggiamento di indifferenza dell’economista verso i motivi delle scelte è, probabilmente, radicato nella premessa dei ragionamenti classici intorno al prezzo in caso di libera concorrenza. Quando l’attenzione era rivolta solo allo studio di questo caso, che di fatto dominava di gran lunga su tutti gli altri, l’economista poteva credere che l’azione dell’individuo e quindi sua fosse inetta a produrre, con una scelta diversa, una qualsiasi impressione sui prezzi. L’azione infinitesima del singolo era di fatto nulla rispetto alle scelte verificantisi sul mercato ed al sistema di prezzi che ne seguiva; e poteva essere ritenuto ovvio partire dalla constatazione delle scelte senza risalire più in là nello studio dei legami tra i fatti. Non fu più così quando si cominciò a studiare il caso del monopolio. Si dovette forzatamente ricercare quale fosse il motivo che spingeva il monopolista produttore a scegliere quella quantità di merce da produrre o quel prezzo di vendita. Si dovette ammettere che il monopolista produttore ponesse a fondamento delle sue azioni il motivo, non si sa se bello o brutto, cattivo o buono, del massimo lucro netto. Si riconobbe cioè che quella teoria del prezzo del monopolio non parte dalla mera constatazione di una scelta già fatta; ma dalla premessa che quella scelta di quantità o di prezzo è motivata dalla volontà della consecuzione di un dato fine. Senza quel motivo e quel fine, la scelta sarebbe stata diversa. Oggi, che si studiano i casi di concorrenza imperfetta o di monopoli parziali o bilaterali, gli economisti hanno dovuto costrurre ragionamenti assai complicati intorno all’atteggiamento dei pochi concorrenti o dei monopolisti rivali, ed intorno alle ipotesi che ognuno di costoro fa sui movimenti altrui. I giocatori di scacchi non movono le loro pedine solo sulla base dei movimenti altrui già avvenuti (constatazione di scelte già avvenute) ma cercano di indovinare i motivi che i rivali possono avere di compiere questo o quel movimento futuro. Il generale sul campo di battaglia ragionando sui motivi probabili dell’avversario cerca di intuirne i movimenti e su questi regola i proprii. L’economica moderna è sempre più largamente intessuta di studi sulle previsioni (anticipations è divenuta parola frequentissima, fin troppo, nei libri e nei saggi di economia pura anglosassone) delle azioni altrui e sulle conseguenti variazioni delle azioni dell’individuo considerato. Si potrà dire che ciò non cambia sostanzialmente l’indole del problema; e che, in fondo, l’economista non cerca se non di rappresentare dinnanzi alla propria mente il quadro non solo delle scelte passate e presenti ma anche di quelle future, le quali influiscono sulle scelte e sui prezzi e su tutte le quantità economiche presenti. Se è facile limitarsi a constatare scelte già avvenute e ragionar su queste e contentarsi di cotali constatazioni e ragionamenti, è tuttavia altrettanto facile prevedere scelte future, senza ricostruire colla fantasia i motivi che gli uomini probabilmente avranno di compiere questa a preferenza di quella scelta? Non siamo noi indotti così, quasi a viva forza, a riforgiare l’intiera catena causale che, per ragioni di divisione del lavoro, avevamo spezzato in un punto? Il caso medesimo della libera concorrenza, tipica rappresentazione dell’automatismo di milioni di produttori e di consumatori, tutti di modeste dimensioni, tali che l’azione dell’uno può ritenersi del tutto inetta ad influenzare l’azione degli altri e le variazioni dei prezzi sul mercato, è in verità un meraviglioso artificio. Quell’automatismo, quel muoversi non concertato di milioni di atomi, quell’incontrarsi non preordinato di contraenti, nessuno dei quali sa o si cura dell’azione altrui è in realtà il frutto di un concerto, di una vigile continua azione rivolta ad impedire vengano meno le premesse di quell’automatismo e di quell’apparente disordine. Il concerto e l’azione si chiamano codice civile, codice di commercio, giurisprudenza, giudici, discussioni sulle riviste, sui giornali, nei parlamenti, nei consessi professionali, i quali hanno per fine e vorrebbero avere per risultato – e l’ebbero e l’hanno, qua e là, in maggiore o minor misura – di impedire il sorgere di monopoli, di inventar surrogati alla concorrenza palesatasi in dati casi scarsamente vitale, di abolire o limitare i motivi alla creazione di monopoli e di quasi monopoli. Concerto ed azione sono intessuti di passioni e di azioni rivolte a conquistar dominio su altri od a liberar gli uomini da qualche giogo, a deprimere o ad innalzare.

20. – La convenzione in virtù della quale l’economista puro studia le uniformità più generali di prima approssimazione del sistema di prezzi in regime di libera concorrenza, l’economista applicato le uniformità più vicine alla realtà concreta, e quindi, eventualmente, le forze le quali limitano l’azione della concorrenza e ne indaga gli effetti e indica i mezzi grazie ai quali sarebbero tolti di mezzo gli effetti della limitazione, ed il politico, ed il giurista enunciano i principii o formulano le norme legislative od amministrative atte ad eliminare od a ridurre le limitazioni alla concorrenza, quella convenzione ha una utilità pratica indiscutibile, ma nulla più. Quanto più la rappresentazione che noi ci facciamo della realtà passa dal tipo della istantanea fotografica a quella della cinematografia estesa nel tempo, dalla statica alla dinamica, tanto meglio scelte fatte, scelte future e previste, conseguenze delle scelte fatte e motivi delle scelte future si innestano e si compenetrano le une negli altri, sì da rendere monca e spesso illogica la trattazione separata di ognuno degli aspetti di un unico problema.

21. – La trattazione autonoma di un solo aspetto dell’unico problema è certo perfettamente legittima. Chi vuole studiare le leggi del prezzo in regime di libera concorrenza ha mille ragioni di non voler essere disturbato dalle vociferazioni di coloro i quali gli vorrebbero imporre di dichiarare se, a parer suo, la libera concorrenza sia un bene od un male, sia tollerabile o non dal legislatore liberale o socialista o conservatore o cattolico, sia storicamente destinata a scomparire e, se per avventura scomparisse, sia capace di risurrezione. Chi vuole studiare le leggi dell’imposta in una situazione ipotetica da lui definita con esattezza ha ragione di cacciar fuor dall’uscio i disturbatori, i quali vorrebbero invece che egli desse un giudizio storico o morale o politico intorno ai regimi di monopolio o di concorrenza, che egli ha assunto come premessa delle sue indagini. Contro siffatte prepotenze ogni studioso ha diritto di insorgere.

Il diritto di insurrezione non implica però il diritto di scomunica contro altre ricerche. Chi studia il modo di agire della classe politica, intesa nel senso di gruppo di persone le quali posseggono le qualità, qualunque esse siano, necessarie in quel tempo, per esercitare il comando dello stato ha perfettamente ragione di limitare il suo studio alla classe politica intesa in quel senso e non in un altro. Ma non ha il diritto di escludere che altri studi la medesima classe politica diversamente definita, sì, ad esempio, da legittimare veramente l’uso, altrimenti improprio, della terminologia di classe eletta. L’aveva definita Platone come composta di pochi «uomini divini… i quali hanno saputo serbarsi puri da corruzione». Essi debbono essere ricercati dai cittadini «per terra e per mare, in parte per rafforzare quel che v’è di saggio nelle leggi del loro paese ed in parte per correggere quel che può essere in quelle di difettoso. Non è possibile la perfezione nella repubblica, se non si osservano e non si cercano questi uomini o se ciò si fa male». La concezione della classe politica come quella la quale consiste in quei gruppi di uomini che aspirano alla conquista del potere, o riescono a conquistarlo ed a conservarlo per un tempo più o meno lungo, concezione dominante nei libri classici di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto, non è la sola possibile. Accanto ad essa, esiste non di rado un’altra classe, di uomini che non aspirano al potere, e non di rado sono perseguitati da coloro che detengono il potere. Sono i cristiani dei primi due secoli, i grandi filosofi, i saggi ed i virtuosi d’ogni tempo. Hanno essi il potere morale e talvolta sono assai più potenti di coloro che detengono il potere politico. Costoro compongono la classe eletta. Assai di rado accade che la classe eletta sia chiamata a governare gli stati od abbia parte preponderante e decisiva nel governo. Nascono in quei rarissimi casi gli stati prosperi pacifici e stabili; ed in questi stati tende ad essere osservata la legge morale, le relazioni fra le classi sociali non sono turbate da discordia e da invidia, le condizioni economiche della nazione progrediscono, intendendosi per progresso quella situazione della quale gli uomini sono malcontenti solo perché anelano tuttavia ad innalzare se stessi, e la finanza pubblica è congegnata in modo da riposare sul consenso universale.

Perché non dovrebbe essere oggetto di studio scientifico fra le tante specie di classi politiche e di formule da esse adoperate per governare i popoli anche quella particolare specie la quale, ubbidendo alla legge morale, assicura la persistenza e la risurrezione dei popoli grazie alla formula eterna del decalogo e sola sembra perciò aver diritto all’appellativo di eletta? Perché, astrazion fatta da questi rarissimi quasi leggendari casi di stati governati da una classe eletta, non dovrebbe essere oggetto di studio scientifico l’operare perenne, talvolta inavvertito, ma sempre attivo, della classe eletta a scuotere il dominio delle classi politiche le quali di fatto sono al governo degli stati, ma non potranno durare a lungo se conducano gli stati al male ed alla rovina e seminino i germi della discordia civile e della disfatta militare? Lo studio della classe eletta non è altrettanto rilevante ed ugualmente possibile come quello della classe meramente politica? Non è esso lo studio di quel che dura accanto a quel che passa, delle forze e delle idee le quali guidano l’umanità verso l’alto, accanto a quello delle forze e delle idee le quali lo traggono in basso? Certamente è ardua impresa definire l’alto e il basso; ma la difficoltà non ha mai scoraggiato gli indagatori amanti della ricerca scientifica. Si farebbe grave ingiuria all’intelletto umano se lo si dichiarasse inetto a distinguere fra Dio e Satana. Chi, aborra da siffatte considerazioni quasi fossero estranee alla scienza, ma reputi tuttavia pertinente ad essa l’indagine dell’alternanza delle classi politiche al potere, dei vincoli esistenti fra la composizione delle classi politiche, il tipo e la durata dello stato esistente, la quantità e la qualità delle entrate e delle spese pubbliche;

deve reputare ugualmente pertinente alla scienza: l’indagine dell’esistenza nella collettività di classi elette distinte dalla classe politica, od immedesimate con essa, dei vincoli esistenti fra classe eletta, classe politica, persistenza, decadenza, dissoluzione e resurrezione dello stato, contentezza o malcontento, prosperità o rovina della collettività.

Non pare che classi elette, persistenza, decadenza, dissoluzione, risurrezione, contentezza, malcontento, prosperità, rovina (b) siano concetti di più ardua definizione o descrizione di classe politica, potere, interesse a conquistare ed a conservare il potere (a), né pare che la ricerca dei vincoli esistenti tra i fatti (b) sia di indole diversa di quella dei vincoli tra i fatti (a). Se è vero che i vincoli (a) sono spiegati dai (b) e solo per contrasto o reazione gli (a) spiegano i (b), si deve concludere che, pure essendo amendue scientifiche, la indagine (a) è posta su un piano inferiore a quello (b).

22.- Il diritto di limitare i proprii studi all’investigazione delle leggi del prezzo in regime di concorrenza piena o limitata o di monopolio o polipolio non implica dunque l’affermazione, ben diversa, che la scienza finisca a quel punto e che gli sforzi altrui intesi ad investigare se l’attuazione della concorrenza piena o del monopolio sia o non sia conforme a un certo ideale di vita cadano fuori del territorio scientifico. Il diritto di limitare le proprie investigazioni alle leggi dell’imposta in regime di stato monopolistico arbitrariamente definito non implica altresì il diritto di negare carattere scientifico all’indagine ben diversa sulla conformità ai fatti di quella definizione e sulla logica di altre diverse definizioni dei tipi di stato. Dall’insurrezione non è lecito trascorrere alla scomunica, perché si dichiarerebbe così che l’ipotesi della libera concorrenza o dello stato monopolistico sono meri parti della fantasia solitaria degli economisti in cerca di temi di esercitazione accademica. Se così fosse, se i «se» premessi ai ragionamenti economici fossero assolutamente arbitrari, l’economista potrebbe dire: qui finisce la scienza, tutto ciò che è al di là non esiste, non può formare oggetto di scienza, perché io ho creato il problema, io ho creato i dati di essi; e non devo render ragione a nessuno del perché delle mie creazioni. Ma così non è. I «se» premessi al ragionamento economico non sono creazioni solitarie ed arbitrarie. Sono tratti dalla realtà vivente. Sono astrazioni grandemente semplificate della realtà. Di questa realtà fanno parte le passioni, i sentimenti, gli ideali politici religiosi morali, le idee intorno al male ed al bene, gli interessi di famiglia di classe di regione, i rapporti tra le classi ed i ceti componenti la collettività, la legislazione e le consuetudini vigenti, e così via. Questa realtà, così varia e ricca e mutevole, è grandemente difficile da investigare; ma non vi è alcuna ragione plausibile perché essa non possa formare oggetto di indagine altrettanto scientifica quanto quella che gli economisti hanno costruito attorno alle ipotesi semplificate della libera concorrenza o del monopolio, od i finanzieri cercano di costruire attorno a quelle degli stati monopolistici, cooperativo o moderno. Supponiamo che gli uomini si formino la convinzione che un regime di libera concorrenza sia intollerabile per ragioni morali, che esso urti contro la coscienza umana; e che la convinzione acquisti tale vigore e tale universalità da indurre effettivamente gli uomini a sopprimere ogni traccia del regime di libera concorrenza. Anche gli economisti finirebbero di abbandonare una premessa di ragionamento priva di qualsiasi addentellato con la realtà. Quale interesse esisterebbe a studiare leggi di fatti inesistenti? Altrove[9] ho scritto che se la scomparsa della libera concorrenza si verificasse a favore di un regime a tipo collettivistico o comunistico, finirebbero persino di esistere gli economisti. Altri investigatori prenderebbero il loro posto: non so chi o come qualificati, probabilmente descrittori di pubbliche contabilità o di gestioni amministrative. Tanto stretti sono i vincoli fra la realtà e l’indole della scienza che quella realtà a volta a volta consente di creare.

23. – Noi non possiamo porre alla impostazione scientifica dei problemi economici limiti atti ad escludere i giudizi di valore. Se in uno stato, nel quale la classe politica si preoccupi, nell’esercizio del potere, esclusivamente dell’elevazione morale ed intellettuale e perciò anche materiale della grande maggioranza e possibilmente di tutti gli uomini componenti la collettività, si osservi dominare il concetto della esenzione dall’imposta di un minimo non solo fisico ma sociale di esistenza, diremo noi che la impostazione scientifica del problema dell’esenzione del minimo sociale consista semplicemente nel prendere atto, come di un dato, della opinione espressa in merito dalla classe politica? È vero che l’andare al di là di questa constatazione, il cercare di rendersi ragione del valore morale del minimo accolto sia un uscir fuori dal campo scientifico? Non si vuole con ciò menomamente indagare se sia ragionevole il tentativo di andare alla cerca del vero o giusto o perfetto minimo sociale. Non v’ha dubbio che non esiste un criterio perfetto di giustizia in tal materia opinabile; ed avrei invano irriso ai miti della giustizia tributaria se ritenessi logica la costruzione di qualche altro mito del genere. Il quesito è diverso. Suppongasi che in un determinato momento storico il legislatore, organo sensibilissimo dell’opinione del ceto politico dirigente e dei sentimenti del popolo governato, tenuto conto del livello dei prezzi e dei redditi e del costo della vita, abbia deliberato che il minimo sociale di esistenza per cui sia da concedersi la esenzione dalle imposte, sia di 6000 denari[10] all’anno per famiglia. Diremo noi che a chi si proponga soltanto di studiare le uniformità del fenomeno finanziario non spetti menomamente il compito della soluzione del problema del miglior minimo sociale di esistenza, e cioè dell’esame critico della soluzione adottata; e che lo scienziato debba accettare senz’altro quella soluzione come un dato dei problemi di cui egli specificamente si occupa? Diremo noi che si debba scetticamente contemplare la soluzione accolta dalla classe politica come un giudizio il quale «può essere buono o cattivo, giusto o ingiusto, sensato o no, a piacere di questo o quel finanziere»; ma è «per lo scienziato» meramente «un fatto, un dato dei problemi di cui si occupa» (II, 59-60)? Mai no. Non vi è affatto alcuna necessità logica la quale costringa lo studioso a spogliarsi volontariamente e gratuitamente degli attributi della sua virilità scientifica. Quei 6000 danari all’anno per famiglia non sono affatto l’ultima Thule della sua ricerca. Appunto perché sono un dato del problema che egli deve studiare, essi non hanno alcuna particolare degnità; ed egli li può voltare e rivoltare in tutti i sensi e dopo avere studiato gli effetti del dato, risalire alle origini di esso, col sussidio di altri dati pertinenti o non al suo proprio campo di investigazione. Se, a cagion d’esempio, studiando gli effetti dell’applicazione del dato, egli riscontrasse l’uniformità: «dati i 6000 denari di esenzione per ogni famiglia dall’imposta, nasce un disavanzo di 5000 su 30.000 milioni nel bilancio dello stato nel luogo e nel tempo di cui si tratta» non ne discenderebbe forse l’altra uniformità: «poiché la situazione di disavanzo di 5000 su 30.000 milioni non può durare, è necessario che mutino altri dati del problema: o che si tratti di accendere un debito annuo di 5000 milioni, o che si riducano le spese di altrettanto o che, se ambe le vie non siano accette alla opinione dei ceti politici dirigenti, si modifichi il minimo, riducendolo, suppongasi, da 6000 a 4000 denari»?

24. – Non è così dimostrato che i 6000 denari fissati, ad ipotesi, dal ceto politico dirigente non sono affatto il dato del problema per lo scienziato; che la cosidetta opinione o giudizio del ceto politico è qualcosa che egli contribuisce a formare ed a modificare, lui scienziato, colla analisi degli effetti che dall’adozione di questo o quel minimo derivano o deriverebbero al bilancio dello stato? È uscito lo scienziato, così facendo, dal suo campo proprio? Ha dato consigli? Ha proposto ricette? Si è fatto paladino della assoluta o perfetta giustizia tributaria? Ha preteso di sostituire il suo giudizio a quello della classe politica? Ancora no. Si è semplicemente appellato dal papa male informato al papa bene informato. Ha semplicemente esposto alcune ulteriori uniformità che paiono anch’esse di natura strettamente scientifica. Ha detto: se questo è il dato, se questa è la premessa, queste sono le conseguenze; se il dato muta in un dato senso ed in una data misura, queste altre sono le conseguenze. Se noi supponiamo che l’equilibrio del bilancio sia un altro dato, sta che equilibrio del bilancio e 6000 denari esenti dall’imposta sono, in quelle contingenze di luogo e di tempo, due dati incompatibili tra di loro. Dopo di che, parrebbe che il giudizio definitivo sia di nuovo lasciato alla classe politica dirigente. Ma questo sarebbe un modo assai improprio di esprimersi. La classe politica dirigente, la quale non governi nell’interesse proprio, ma in quello della elevazione degli uomini componenti la collettività, non dà, non può dare un giudizio arbitrario. Dà il giudizio che deve dare, posto il fine che per la sua indole deve raggiungere. Altrimenti cadremmo fuori dell’ipotesi di una classe politica dirigente la quale ecc. ecc. (come sopra). Epperciò, se noi supponiamo, come dobbiamo, che lo scienziato sia colui il quale, conoscendo tutti i dati conoscibili del problema che si tratta di risolvere: esigenze di minimo sociale di esistenza, esigenze di bilancio, struttura del sistema d’imposta, possibilità e convenienza di variare l’ammontare delle spese pubbliche e private, possibilità e convenienza di indebitamento dello stato e, sovrattutto, fine di elevamento umano, antivede anticipa e sollecita la soluzione del problema che in definitiva dopo ripetute esperienze, sarà data dalla classe politica dirigente, noi neghiamo che scienza sia quella la quale si limita a prendere atto delle premesse volute dalla classe politica. Sottoponendo ad esame critico le prime provvisorie soluzioni, esaminandone e chiarendone gli effetti, lo scienziato compie opera che in apparenza è di critica, in sostanza è rivolta alla conoscenza di uniformità nel modo di comportarsi dei dati, da lui esaminati ad uno ad uno e nel loro insieme. Se egli conosce maggior numero di dati di quelli noti alla classe politica dirigente, dovrebbe forse far finta di ignorarli?

Che cosa sono questi paraocchi che taluni scienziati puri si vorrebbero mettere e che vieterebbero ad essi di guardare al di là delle opinioni manifestate dalla classe politica dirigente? Egli non indirizza ad essa male parole; ma candidamente tiene conto anche dei dati, a lui noti e per inavvertenza (nel caso dello stato moderno) o per interesse proprio (nel caso dello stato monopolistico) ignorate dalla classe medesima. Talvolta, nell’ansia di compiere il dover suo, egli dimentica di dare alle sue conclusioni la forma ipotetica del se e pare egli consigli e comandi o giudichi. In realtà, qualunque sia la forma del suo discorrere, egli adempie al dover suo che è di tener conto, nell’indagine, di tutti i dati del problema di cui egli è a conoscenza. Se pochi, la sua soluzione del problema sarà imperfetta; se molti, meglio si avvicinerà a quella perfezione alla quale giustamente aspira.

Lo studioso, il quale non va al di là del giudizio della classe politica, fa come Ponzio Pilato: si lava le mani del vero problema scientifico. Se egli assume che i 6000 denari del minimo sociale di esistenza siano il dato del problema che non può criticare, perché tale è la opinione in merito del ceto politico dirigente, egli non fa opera scientifica. Il nome dell’opera sua è un altro: egli serve qualcuno e merita il titolo di giurista dell’imperatore.

25. – In verità, non merita questa taccia lo studioso il quale semplicemente metta in luce la impossibilità della coesistenza di due o più dati contemporaneamente posti dalla classe politica. Eccolo diventato senz’altro critico. Illustrando le incompatibilità reciproche di parecchi dati posti nel tempo medesimo dal legislatore, i critici sono tratti fatalmente a passare oltre i limiti che essi avevano posto dapprima alla propria indagine. Né essi veggono un limite qualsiasi alla loro analisi critica. Se è ovvio che lo scienziato metta in rapporto il dato 6000 denari all’anno con i dati relativi al bilancio dello stato, al livello medio dei redditi, alla composizione economica delle classi sociali, perché non sarebbe altrettanto ovvio metterlo in rapporto con altri dati o forze, storicamente più rilevanti? Perché non, ad esempio, con le conseguenze della politica del panem et circenses? Esentare, oltre il minimo fisico dell’esistenza, un’aggiunta al minimo stesso, detta sociale, non è riconoscere il principio che le classi più numerose della società debbano godere dei servigi pubblici senza nulla pagare allo stato? Facciasi astrazione dalla circostanza che per lo più il minimo sociale d’esistenza in realtà non è tale sul serio, perché le classi più numerose pagano imposte sui consumi più che bastevoli ad assolvere il loro debito verso la cosa pubblica; e suppongasi che sul serio quel minimo sia rispettato. Può lo scienziato non porsi il quesito: quali conseguenze saranno per derivare dal dato rispetto all’ammontare delle pubbliche spese ed alla distribuzione del loro costo? Quale finirà di essere la pressione dei tributi sulle classi rimaste sole a sopportare l’onere? Quali saranno gli effetti sulla produzione e sul risparmio? Quali gli effetti se il dato fosse diverso, maggiore o minore? Quali gli effetti del dato sul morale dei beneficati e dei contribuenti? Ossia sui loro sentimenti e sulla loro condotta verso lo stato? Il principio che l’uomo provveduto di un reddito famigliare non superiore ai 6000 denari all’anno ha diritto ai servizi gratuiti dello stato in qual modo reagirà sulle opinioni e sullo stato d’animo di coloro i quali hanno i 7000 o gli 8000 denari all’anno? In qual modo reagirà sull’ammontare dei servizi pubblici i quali via via saranno chiesti allo stato dai ceti forniti, in principio, del diritto di goderne gratuitamente?

A poco a poco lo stato non tenderà a passare dal tipo della città periclea a quello della Atene vittima designata di Filippo il Macedone, dal tipo di Roma repubblicana a quello di Roma del basso impero? Sebbene, a questo punto, lo studioso sia obbligato, pur industriandosi a salvare la forma, a pronunciare giudizi di valore sulla preferibilità della città periclea a quella demostenica o della Roma repubblicana all’impero dioclezianeo, non appartengono forse codesti quesiti altresì al campo proprio dell’indagine scientifica, della ricerca di uniformità teorico-storica? Da a nasce b, da b nasce c; e c reagisce su b e su a.

26.- Non si afferma con ciò menomamente che il ricercatore debba occuparsi di tutti codesti quesiti; e risalendo dall’uno all’altro, debba giungere alla contemplazione della causa causarum. Bene fa colui il quale vuole scavare a fondo in un dato campo a circoscrivere esattamente il territorio delle sue investigazioni ed a dire: più in là io non aspiro ad andare.

Così operano gli studiosi serii e meritano lode. Altra è tuttavia la divisione del lavoro ed altra è la scomunica. Altro è dire: più in là non vado; altro soggiungere: quel che è al di là non è scienza. Porre la volontà intenzionale del ceto politico dirigente come un dato e partire da quel dato è per fermo un porre correttamente i confini del proprio ragionare. Ma non è corretto soggiungere: quel dato è un primo al di là del quale non è ufficio della scienza di andare. Senza volerlo, col solo chiarire gli effetti, io contribuisco a modificarlo, io stimolo a mutarlo più o meno profondamente. Mettendo in luce i vincoli di quel dato con altri dati, dipendenti o indipendenti dal giudizio del ceto politico governante, io dimostro che esistono certe leggi, certe uniformità le quali fanno sì che quel dato riveli la sua indole caduca e stabile, apparente o sostanziale. Intervengo nella formazione dei giudizi; giudico io stesso. Possono ragionevolmente gli economisti sottrarsi alla necessità di formulare giudizi di valore? Certamente, se, giunti al limine di questa necessità, tacciono, essi possono a testa ben alta affermare di aver compiuto la loro missione od almeno, la parte più ardua e nobile di essa. Si pensi alle maniere solitamente tenute dalla classe politica nei tentativi di dimostrare la convenienza economica per la collettività di provvedimenti intesi a favorire interessi particolari. Si vuole un dazio doganale protettivo, il quale, con danno dei più dei consumatori e produttori, avvantaggi una particolare industria e talvolta un singolo imprenditore? Sempre si dirà che il dazio giova a dar lavoro agli operai, a redimere il paese della servitù straniera, a far rimanere oro in paese. Se l’economista, oggettivamente analizzando il provvedimento, dimostra che l’occupazione operaia sarà invece probabilmente ridotta, che la servitù straniera è un mito inesistente e che la quantità d’oro esistente in paese certamente non aumenterebbe grazie al dazio, egli avrà assolto nel tempo stesso al suo specifico compito scientifico ed alla difesa della morale politica; poiché è immorale trarre in inganno l’opinione pubblica facendo apparire conforme all’interesse pubblico quel che invece conduce soltanto al particolare vantaggio privato.

Del pari, accade che la classe politica, la quale intende ad un allargamento del territorio metropolitano o coloniale, cerchi di rendere popolare il proposito affermando che la conquista sarà feconda di vantaggi economici non pochi e non piccoli per i ceti più numerosi della popolazione della madrepatria. Se l’economista, indagando le probabili conseguenze della conquista, giungerà ad opposta conclusione; se egli dimostrerà che la conquista sarà invece cagione di oneri economici non lievi, che essa imporrà sacrifici notevoli e lungamente duraturi alla madrepatria, che, ove si raggiungano col tempo gli scopi di ampliamento della civiltà che stanno al sommo delle dichiarazioni dei promotori dell’impresa, saranno sovratutto beneficate le popolazioni indigene, alle quali saranno recati i doni della istruzione, della igiene, della tecnica, laddove la colonia darà qualche vantaggio solo ad alcuni pochi commercianti ed imprenditori agricoli metropolitani; se egli metterà in luce che la meta finale della conquista, compiuta effettivamente con intenti di diffusione del vivere civile, sarà di destare col trascorrere del tempo nelle popolazioni coloniali l’aspirazione alla indipendenza e quindi alla separazione di fatto, se non formale, dal corpo metropolitano; non avrà egli, tenendosi stretto rigidamente al suo proprio campo di analisi economica, compiuto perciò opera politica di altissima moralità? Una impresa coloniale mossa dalla speranza di lucro economico conduce a breve andare a disillusioni economiche, epperciò presto fiaccamente è abbandonata a metà o, se pur condotta militarmente a termine, non è seguita dalla necessaria lunga costosa opera di costruzione economica e politica. Se invece essa, conformemente alle conclusioni dell’economista, è iniziata avendo ben chiara dinnanzi alla mente la nozione dei costi e dei sacrifici presenti e dei vantaggi indiretti lontanissimi, le sue probabilità di riuscita saranno ben più grandi. Chi costruisce sapendo che non lui, ma i suoi lontani nepoti e sovratutto genti a lui ignote e forestiere godranno il frutto dell’opera sua, quegli costruisce per l’eternità, quegli abbrevia, appunto perché non vi intese, i tempi della riuscita, quegli veramente procaccia grandezza alla madrepatria.

L’economista, il quale, posto dinnanzi ad un proposito dell’uomo di stato, freddamente ne indaga gli effetti e ne studia le relazioni necessarie con altri propositi e con altri istituti, e più in là non si attenta di andare, ci appare dunque come un vero sacerdote della scienza. Indagare verità, non dar consigli: ecco la sua divisa che più faticosa e ardua e moralmente coraggiosa non si saprebbe immaginare.

27. – Ma, indagando verità, lo studioso inevitabilmente pone a se stesso la domanda: posso io evitare di dare un giudizio sulle opinioni, sulle credenze, sulle deliberazioni dei ceti politici; il che, nei tipi di stato cooperativo o moderno, quando lo stato è l’eco della volontà dei governati, interpretata dalla classe politica, vuol dire un giudizio sulle opinioni, sulle credenze, sulle deliberazioni degli uomini viventi in società? Par certo che, dati certi fini, si fanno certe scelte, e, dati altri fini, si fanno altre scelte. Ed anche questa è una uniformità scientifica. Gli economisti la possono bensì espellere dal territorio che essi hanno impreso a coltivare; ma poiché non esiste nessuna ragione plausibile per fissare i confini di un qualunque territorio scientifico secondo una linea piuttosto che secondo un’altra, vi potrà essere qualcuno diversamente curioso degli altri, il quale legittimamente studierà i vincoli tra fini e scelte, non foss’altro per indagare se la consacrazione che egli ha fatto di se stesso a quella scienza non sia per avventura sacrificio ad idolo privo di anima.

Gli economisti hanno le loro sorti legate a quel tipo di società in cui gli uomini compiono le loro scelte liberamente, entro i limiti posti dalle istituzioni, dalle tradizioni, dai costumi, dalla cultura, dalle leggi, dal clima, dall’ambiente politico sociale religioso e morale, dall’indefinito vario moltiplicarsi dei desideri in relazione ai redditi delle diverse classi sociali. Dire che le scelte sono determinate dai fini voluti dagli uomini, è dire che esse sono in funzione dei varii e molti fattori, i quali compongono i fini; e poiché fra i fattori e le scelte fatte intercedono rapporti che possono essere quantitativi non si vede la ragione decisiva perché gli economisti debbano fermarsi nelle loro indagini al fatto scelta.

Se si vuole, chiameremo economisti alfa gli indagatori delle uniformità successive al fatto scelta; e economisti beta coloro che indagano altresì le uniformità che, attraverso le scelte, legano, ad es., i costumi, le leggi, le istituzioni, la distribuzione dei redditi ai prezzi. Ma la differenza sarà di mera divisione del lavoro e priva di contenuto sostanziale. E poiché non tutti i motivi delle scelte sono misurabili quantitativamente, quale ostacolo vieta, in nome della scienza, all’indagatore di pronunciare un giudizio intorno alla relativa dignità dei diversi motivi e dei diversi fini perseguiti dagli uomini? Necessariamente, quando non si voglia rinunciare all’uso della ragione, si è indotti da ultimo a formulare giudizi morali sui motivi delle proprie scelte decisioni ed azioni private e pubbliche. Perché a questo punto, così strettamente legato con le scelte fatte, dovrebbe tacere la scienza? Perché gli economisti, con viso arcigno, dovrebbero ringhiare: fate voi politici, fate voi uomini: create una società liberale o comunistica o plutocratico-protezionistica ed io, serenamente, oggettivamente, studierò le relazioni tra i fatti, qualunque siano, che voi avrete creato. No; serenità ed oggettività non esistono nelle cose umane. L’economista il quale sa quali siano le leggi regolatrici di una società economica liberale o comunistica o plutocratico-protezionistica non può non aver fatto, a norma del suo ideale di vita, la sua scelta; ed ha il dovere di dichiararne le ragioni. Chi, al par dello scrivente, aborre dall’ideale comunistico o plutocratico- protezionistico non può far a meno di palesarsi fautore dell’ideale liberale;[11] e questa visione della vita non può fare a meno di esercitare un’influenza preponderante sulla trattazione, che egli fa, dei problemi economici. Quasi tutti gli economisti, anche quando hanno simpatie operaie o socialistiche o interventistiche, in sostanza vogliono osservata la condizione fondamentale della libera scelta da parte degli uomini dei proprii fini e quindi anche dei proprii consumi. E poiché questa condizione è incompatibile con la persistenza di un ordinamento comunistico o plutocratico-protezionistico, essi implicitamente vogliono un ordinamento liberale della società. Perché astenersi studiosamente dal manifestar questa che è la loro fede? Ma i classici furono reputati grandi anche perché ebbero una fede e compirono indagini astratte durature perché le premesse dell’indagare erano poste dalla fede che avevano in un certo ordinamento sociale. Se avessero avuto altra fede, avrebbero poste altre premesse; ed i loro ragionamenti sarebbero stati probabilmente infecondi, così come furono nel tempo stesso scientificamente infecondi i ragionamenti di coloro che erano partiti da ideali utopistici o, come Marx, derivarono la premessa del valore-lavoro dal fine di sommuovere le moltitudini contro il mito capitalistico. Se le premesse ed i ragionamenti degli economisti furono fecondi di grandi risultamenti scientifici, grazie debbono essere rese anche ai loro ideali di vita. Consapevolmente o non, essi possedevano e posseggono un certo ideale; ed in relazione ad esso ancor oggi pensano e ragionano. Perché tacerlo; e perché chiudere gli occhi dinnanzi ai legami strettissimi i quali intercedono fra quel che si vuole e quel che si fa? fra l’ideale e l’azione? Che cosa sono codesti fatti, dei quali soltanto la scienza dovrebbe occuparsi, se non il risultamento delle azioni umane, ossia, da ultimo, degli ideali che muovono gli animi?


[1] Nota del Socio nazionale Luigi Einaudi presentata nell’adunanza del 17 febbraio 1943 della classe di scienze morali della Reale Accademia delle scienze di Torino [Ndr.].

[2] La dichiarazione è implicita nei Principii di economia finanziaria (Torino, Einaudi, 1938) dell’originatore dello schema Antonio De Viti De Marco ed è esplicita nei Principii di scienza delle finanze (Torino, Giappichelli, 1942) di Mauro Fasiani che ho recensito nel quaderno del marzo 1942 della «Rivista di storia economica». Le citazioni che si faranno qui di seguito colla indicazione, tra parentesi, del numero romano del volume ed arabico della pagina si riferiscono a questa segnalata opera.

[3] (Avendo anch’io commesso il peccato comune agli insegnanti di scrivere o dover scrivere i miei Principii di scienza delle finanze (Torino, 1940).

[4] Vedine un cenno nel par. 3 della mia recensione nel quaderno del marzo 1942 della «Rivista di storia economica». A quel cenno intorno alla mancanza di connessione logica fra una certa definizione dell’imposta generale e la presenza del tipo monopolistico di stato seguì una corrispondenza, la conclusione della quale pare potersi riassumere così: 1) lo scrivente nega quella connessione perché ritiene che ove si definisca generale un’imposta quando, anziché «un ristretto settore di economia» percuota, sia da sola, sia costituendo con altre un insieme, «vasti settori o, al limite, tutti i settori» della medesima economia (F. I, 258), l’ipotesi della esistenza di un’imposta generale non è necessariamente legata con l’ipotesi della esistenza dello stato monopolista; e con quest’ultima non è necessariamente legata la stessa ipotesi, quando essa riceva l’ulteriore connotato che il gettito ne sia impiegato a crescere i redditi dei dominanti. Non è dimostrabile cioè che solo nello stato monopolistico possa istituirsi «un’imposta generale il cui gettito sia impiegato a crescere i redditi di taluno, ossia di una parte sola di coloro i quali hanno pagato l’imposta», che è il modo generico di formulare il concetto particolare che il gettito sia devoluto a crescere il reddito di certe persone dette dominanti. Un’imposta di questo tipo può postularsi anche nel caso dello stato cooperativo o di qualunque altro tipo di stato, bastando pensare alle imposte il cui gettito, ottenuto da tutti o da molti cittadini è impiegato a favore di altri o di alcuni solo tra essi: interessi del debito pubblico, pensioni di vecchiaia e simili (le cosidette transfer expenditures, le quali non implicano per se stesse il consumo di beni e servigi e sono diverse dalle exhaustive expenditures, le quali implicano una controprestazione da parte del beneficiario: stipendi a pubblici funzionari, pagamento di forniture allo stato, ecc. e cioè il consumo di beni e servigi i quali non possono perciò essere altrimenti impiegati. (Cfr. Pigou, A study in public finance, p. 19-20). Quindi non essendo il concetto dell’imposta generale il cui gettito sia destinato a crescere il reddito di taluni a spese di altri collegato logicamente e necessariamente col concetto dello stato monopolistico, l’ipotesi di quest’ultimo è superflua e non aggiunge nulla alla trattazione che degli effetti dell’imposta generale, con o senza il connotato anzidetto, si può fare; 2) ma il Fasiani replica essere «pretesa arbitraria ed eccessiva» quella della «dimostrazione dell’appartenenza esclusiva delle transfer expenditures allo stato monopolista» o l’altra della «dimostrazione che effetti di un tal genere non possano essere studiati nell’ipotesi dello stato cooperativo o moderno. In questo problema, come in tutti gli altri, basta molto meno. Basta il concetto di tendenza e di norma… Io non contesto che anche in uno stato cooperativo esistano imposte le quali trasferiscono redditi: ad es., da coloro che non posseggono titoli di debito pubblico a coloro che li posseggono. Non nego quindi che si possano studiare gli effetti di un’imposta di tal tipo anche nell’ipotesi di uno stato cooperativo. Dico però che tendenzialmente, nello stato cooperativo, l’imposta non è di tal genere, mentre lo è nello stato monopolistico. Sicché la sede più appropriata per studiarne gli effetti, gli è quella dell’ipotesi di uno stato monopolista e non quella di uno stato cooperativo. Se queste proposizioni sono esatte, ne deriva questa conseguenza: col mio modo di impostare un problema, io so che gli effetti tendenziali dell’imposta nello stato monopolista sono quelli di un tributo trasferente redditi; mentre gli effetti tendenziali dell’imposta nello stato cooperativo sono quelli di un tributo il cui gettito è impiegato in una exhaustive expenditures»… E questa «credo sia una verità più generale di quella che si ottiene studiando gli effetti dell’imposta indipendentemente dal tipo di stato in cui si applica».

A questo punto la discussione potrebbe aver termine, essendo ormai i disputanti d’accordo nel ritenere che tra le due ipotesi – imposta generale con semplice trasferimento di reddito e stato monopolista – non esiste una connessione, logicamente necessaria, ma un’altra specie di connessione, che il Fasiani dice di tendenza o di norma (frequenza). Diremo astratta o empirica siffatta connessione? Le verità che se ne deducono sono uniformità logiche o uniformità empiriche? Che cosa vuol dire verità più generale applicata ad un’ipotesi, la quale, come fatto empirico o storico, ha nello stato cooperativo o moderno verificazioni (interessi del debito pubblico, pensioni di vecchiaia, di invalidità, indennità di assicurazione per infortuni, disoccupazione ecc., istruzione gratuita, spese sociali per giardini teatri divertimenti pubblici ecc.) forse più imponenti, e si vorrebbe dire a guardarne la massa assoluta e quella relativa al reddito nazionale, di gran lunga più imponenti di quelle (appannaggi reali, spese di corte, spese di fasto, mantenimento delle varie specie di pretoriani, oligarchi e loro satelliti ecc, ecc.) che si osservano, sempre fatta ragione al reddito nazionale del tempo, negli stati detti monopolistici? Se anche sia impresa ardua e probabilmente vana il dare giudizio comparativo sull’imponenza relativa di quelle spese nei due tipi di stato, sembra legittimo il dubbio se non convenga, invece di generalità maggiore o minore delle verità assodate, disputare di mera convenienza didattica di seguire l’un metodo o l’altro di esposizione. Il primo, che sarebbe quello da me preferito: di studiare gli effetti delle imposte, facendo astrazione del tipo di stato nel quale possono eventualmente, con maggiore o minor frequenza, verificarsi; che è indagine teorica od astratta, compiuta sub specie aeternitatis; riservandosi di indagare poscia in sede teorica-storica in quali tipi di stato le diverse qualità di imposta ed i loro effetti proprii più frequentemente si verifichino. L’altro metodo, che sarebbe preferito dal F., vuole indagar prima quali maniere di imposte siano tendenzialmente proprii dell’uno o dell’altro tipo di stato, allo scopo di trattare separatamente, a proposito dell’uno e dell’altro tipo, delle maniere di imposta ad esso più confacenti. A proposito del quale metodo, lo scrivente non riesce a liberarsi del senso di inquietudine derivante dal non sapere se ci si trovi dinnanzi a leggi astratte ovvero empirico-storiche; inquietudine nel caso specifico fugata dal nitido fulgore delle dimostrazioni che, dimentico dei tipi di stato, il F. immediatamente dà in sede di teoria astratta di traslazione delle imposte.

[5] Si errerebbe supponendo che le considerazioni le quali seguono nel testo siano una critica delle teorie che sulla base di certe definizioni dello stato sono esposte dal De Viti e dal Fasiani. Devesi riaffermare esplicitamente che lo studioso ha diritto, in sede astratta, di porre quella qualunque definizione dello stato che a lui piaccia. Non ha rilievo, in quella sede astratta, verificare se le definizioni date dello stato monopolistico o cooperativo o moderno raffigurino o meno la realtà. Nel mondo di ipotesi teoriche in cui quelle trattazioni si muovono importa solo verificare se i ragionamenti condotti sulla base di quelle ipotesi siano corretti ed illuminanti. Se si faccia la ovvia riserva di possibili discussioni intorno a particolari problemi, ad es. quella accennata nella nota precedente, le opere ricordate del De Viti e del Fasiani eccellono per la chiara maestria del dedurre logicamente teoremi rilevanti da premesse chiare.

Il quesito che qui si pone è un altro, diverso da quello proprio della discussione ipotetica. Sono quelle definizioni dei diversi tipi di stato altresì atte ad interpretare la realtà storica? Non era affatto necessario che il De Viti, il Fasiani od altri ancora si ponessero il quesito; né, se lo posero, faceva d’uopo lo discutessero. È frequente nei recensenti il brutto vezzo di rimproverare agli autori di non avere studiato un problema diverso da quello che essi vollero porsi. Questa è critica impertinente, comune in coloro che, impotenti a condurre a termine indagini proprie, sempre si lagnano che altri, che pur fece, non abbia fatto meglio o diversamente. Non è però illegittimo reputare che le ipotesi presentate od i ragionamenti condotti in un libro possano anche dar luogo a quesiti diversi da quelli propostisi dall’autore considerato; e nel testo si vuole appunto discutere uno di questi diversi quesiti. Nel qual modo pare si dia anzi più ampio rilievo alle premesse poste dagli autori considerati, discutendo se esse, oltre ad essere strumento di indagine teorica, siano per avventura altresì canone atto ad interpretare la realtà. La conclusione eventualmente negativa può giovare a segnalare i limiti della validità concreta dei teoremi correttamente dimostrati veri nella loro propria sede astratta.

[6] Il F. talvolta qualifica il tipo così definito come assoluto o medievale (I, 51 e passim). Ma poiché si tratta evidentemente di sinonimi approssimativi, sui quali il pensiero non si ferma e dei quali solo in senso latissimo e parziale si vede l’uguaglianza di significato con il qualificativo comunemente usato adopererò solo la terminologia normale di stato monopolistico.

[7] Si può dubitare se lo strumento detto dello stato monopolistico abbia avuto parte nella formazione della teoria delle illusioni finanziarie se si pensa che il suo primo trattatista lungamente ne discorse senza farne menzione. Almeno questa è l’impressione che si ha nel leggere la Teoria della illusione finanziaria di Amilcare Puviani (Palermo, Sandron, 1903). È del pari dubbio se la teoria dei «limiti ai fenomeni di illusione» possa essere considerata come un frutto dello strumento logico stato monopolistico. Esso è piuttosto, nella formulazione che ne dà il F., la risultante di due forze: da un lato gli artifici illusionistici usati dallo stato e dall’altro la resistenza dei contribuenti. Ne risulta perciò una trattazione in cui ha gran parte il calcolo economico ordinario; un capitolo del trattato sugli effetti delle imposte.

[8] Il Fasiani usa promiscuamente l’aggettivo liberale invece che cooperativo e nazionalistico e corporativo invece che moderno. Mi asterrò dai sinonimi, sembrandomi che l’aggettivo liberale abbia un contenuto ben più vasto e complesso di quel che non sia quello del più adatto, perché modesto e meramente economico, aggettivo cooperativo. Quanto al tipo di stato moderno conosciuto solo per accenni generali, non userò gli aggettivi nazionalistico e corporativo, il primo perché, di fronte alle tendenze moderne, comuni ai due campi combattenti, verso le grandi formazioni politiche ultranazionali, esso appare cosa del passato ed il secondo perché peculiare, sinora, al nostro paese. Moderno essendo aggettivo privo di significato sostanziale, e contenente solo un attributo temporale, sembra meglio adatto alla materia incandescente che sta ora solidificandosi. Non mi giovo dell’altra definizione dei due tipi di stato: cooperativo quello in cui i governanti aspirano ad un massimo di utilità per la società, e moderno quello in cui i governanti aspirano ad un massimo di utilità della società, perché sebbene più concise, richieggono nel lettore uno sforzo mentale rinnovato ad ogni volta questi deve raffigurarsi nella mente la condotta della classe politica. La condotta medesima è resa invece con evidenza immediata dalle equivalenti definizioni riportate nel testo.

[9] In Le premesse del ragionamento economico e la realtà storica in Rivista di storia economica, quaderno del settembre 1940, p. 197, e segg.

[10] Uso come unità monetaria di conto denaro, che, per la sua indole storica, non ha oramai alcun addentellato con le unità monetarie oggi correnti e non può dar luogo ad alcuna impressione di troppo o di troppo poco.

[11] Liberale e non liberistico; ché liberismo è concetto assai più ristretto, sebbene abbastanza frequentemente compatibile col liberalismo; ed ha un contenuto concreto di applicazione, in particolare a certi problemi sovratutto commerciali e doganali. Il liberalismo implica un ideale di vita e vien fuori da imperativi morali assoluti; il liberismo, assai più modestamente, enumera inconvenienti che la natura umana oppone all’attuazione di ragionamenti, in se stessi corretti, i quali condurrebbero a taluni interventi dello stato compatibilissimi con l’ideale liberale. Il liberalismo è ideale di vita; il liberismo è mera pratica contingente derivata sovratutto da considerazioni politico-morali.

«Atti della R. Accademia delle scienze di Torino», vol. 78, 1942-1943, tomo II, pp. 57-119

1. – Uniformità astratte e uniformità storiche. Il metodo delle approssimazioni successive. L’uso dello sperimento inibito nelle scienze sociali. Le uniformità astratte sono vere sub specie aeternitatis. [p. 9]

2. – Rapporti tra schemi astratti e realtà concrete. Gli economisti intervengono, quasi tutti, nelle polemiche poste dalla vita quotidiana. [p. 10]

3. – Stretti legami fra teoremi e consigli. Differenza tra la posizione dei problemi economici nel quadro dell’equilibrio generale e in quello degli equilibri parziali. Identità teorica fra il problema di prima approssimazione risolto da Walras e da Pareto nello schema dell’equilibrio generale ed il problema concreto del prezzo del frumento di una data qualità in un dato istante risolto dagli operatori di una grande borsa dei cereali. [p. 11]

4. – Alla soluzione col calcolo, impossibile per la mancanza dei dati di fatto e la difficoltà di metterli in equazioni, si sostituisce la soluzione ottenuta per intuito dagli operatori. [p. 14]

5. – I vecchi economisti, anche i maggiori, come Cantillon e Ricardo, e non di rado i recenti teorici, come Gossen e Walras, accanto alla norma astratta pongono il consiglio ed il progetto. Le verità monetarie hanno quasi sempre avuto occasione dall’opportunità di consigli concreti. L’economista talora «scopre» le soluzioni ai problemi, talaltra traduce in linguaggio ipotetico le soluzioni già trovate dagli uomini della pratica. [p. 16]

6. – Leggi astratte feconde se atte a spiegare la realtà concreta. Leggi empiriche valide a spiegare i legami esistiti in un dato luogo e intervallo di tempo. Valore delle leggi empiriche. [p. 18]

7. – Della coincidenza fra leggi astratte e uniformità concrete. Del cosidetto fallimento della scienza economica e della verificazione dei suoi teoremi ad occasione della guerra. [p. 20]

8. – Strumenti (tools) di indagine teorica e di verificazione empirica dei teoremi teorici. Strumenti teorico-storici. Infecondità di questi ultimi. Inettitudine di essi a spiegare gli avvenimenti storici. [p. 21]

9. – Gli schemi devitiani dello stato monopolista e di quello cooperativo nella scienza delle finanze. Cauto uso degli schemi da parte del loro proponente. [p. 24]

10. – Degli schemi di Fasiani applicati allo studio degli effetti delle imposte. Nota sulla necessarietà della connessione fra l’imposta generale definita in un dato modo e l’ipotesi dello stato monopolistico. [p. 26]

11. – Della definizione del tipo di stato «monopolistico» e della ragionevolezza della ipotesi che ad esso si confacciano le illusioni come sistema, mentre possono essere assenti nei due altri tipi di stato cooperativo e moderno. [p. 27]

12. – La esemplificazione delle illusioni finanziarie nello stato monopolistico è propria del sottotipo di stato monopolistico in cui la classe dominante per vie non logiche sfrutta i dominati in modo da preparare e determinare la propria rovina. Necessità di una attenta revisione dei giudizi storici intorno alla finanza degli stati di antico regime. [p. 32]

13. – Analisi dei concetti di stato cooperativo e moderno. [p. 36]

14. – Se dominanti e dominati sono tutt’uno, la distinzione fra stato cooperativo e quello moderno è un assurdo. Nello stato non esistono cittadini singoli distinti dal gruppo, ed il gruppo non esiste come entità a sé distinta dai cittadini. [p. 38]

15. – Lo stato può perseguire fini proprii degli individui come singoli; ma trattasi di mezzo tecnico per conseguire fini che gli individui potrebbero conseguire, da soli o liberamente associati, anche senza l’opera dello stato. L’esempio delle colonie: i fini singoli sono perseguibili anche per mezzo di compagnie private; i fini statali sono quelli della madrepatria. [p. 40]

16. – Nello stato moderno il potere non può essere esercitato nella preoccupazione esclusiva degli interessi del gruppo pubblico considerato come una unità. Se così fosse non ci troveremmo dinnanzi ad uno stato «moderno», bensì alla deificazione dello stato sopra l’individuo. – Inconsistenza del concetto di dualismo fra individuo e stato, e di uno stato trascendente posto fuori e al di sopra degli individui. [p. 43]

17. – Il vero contrasto è quello dialettico fra stato e non-stato; che sempre coesisterono e coesistono l’uno accanto all’altro. Esso è un aspetto del contrasto profondo tra le forze del bene e quelle del male. [p. 46]

18. – L’astensione dell’economista dai giudizi di valore, legittima per ragioni di divisione del lavoro, non è sostenibile ai fini di una più generale conoscenza della verità. – La volontà dello stato è la stessa volontà dello scienziato. – La scelta posta da Demostene: guerra contro Filippo il Macedone ovvero feste e spettacoli. Differenza fra il chimico e l’economista. [p. 48]

19. – L’atteggiamento di indifferenza dell’economista per i motivi delle scelte è radicata nello studio del prezzo nel caso di libera concorrenza. – Lo studio dei casi di monopolio, di concorrenza limitata e simili impone di risalire al di là della scelta, sino ai motivi di esse, per rendersi ragione della scelta fatta e delle sue modalità. – Lo stesso automatismo della ipotesi della piena concorrenza è un artificio. [p. 51]

20. – La convenzione, in base alla quale l’economista puro, quello applicato, il politico, il giurista ecc. studiano diversi aspetti della realtà, necessaria per ragioni di divisione scientifica del lavoro, è talvolta impossibile ad osservare. [p. 53]

21. – Diritto di insurrezione, e diritto di scomunica a proposito dei limiti all’indagine scientifica. – Lo studio della classe politica non esclude lo studio della classe eletta. [p. 54]

22. – Schemi e realtà. – Mutando la realtà mutano altresì gli schemi. [p. 57]

23. – Il dato posto dal politico della esenzione di un minimo sociale di esistenza non è un dato ultimo. [p. 58]

24. – L’appello dal papa male informato al papa bene informato. [p. 60]

25. – Il dato posto dal legislatore è soggetto a giudizio in relazione ai fini posti alla società umana. [p. 62]

26. – Possono gli economisti sottrarsi all’obbligo di formulare giudizi di valore? [p. 63]

27. – Non esistono limiti artificiali alla indagine scientifica. I fini gli ideali della vita determinano le scelte fatte dagli uomini. Non è possibile studiare le scelte fingendo di ignorare i fini, dai quali esse traggono origine. [p. 66]

1. – Le uniformità delle quali si occupano le scienze economiche sono di due specie: l’una astratta e l’altra storica.

La ricerca della legge astratta è preceduta dal se. Se noi supponiamo che in un determinato momento e luogo, si attui l’ipotesi della concorrenza piena, e che in questa ipotesi lo stato prelevi un’imposta personale sul reddito netto dei cittadini; e se noi supponiamo che la società di cui si parla sia statica, ossia che in essa non si formi alcun nuovo risparmio, la popolazione ed i suoi gusti non variino, se noi supponiamo che ecc. ecc., le conseguenze le quali derivano dall’imposta immaginata sono tali e tali. In seguito si fanno variare ad una ad una le circostanze supposte, od altre si aggiungono a quelle già poste; e, ad ogni variazione dei dati del problema, con appropriati ragionamenti si compiono le opportune deduzioni. Ad agevolare l’indagine, si pone innanzitutto il problema secondo l’ipotesi più semplice, facendo entrare in campo il minimo numero di dati; e poi via via lo si complica introducendo ipotesi nuove più complicate e più numerose. Il procedimento logico è da tempo conosciuto col nome di metodo delle approssimazioni successive; ed ha il vantaggio di avvicinare a mano a mano gli schemi teorici alla realtà senza tuttavia giungere mai alla contemplazione di questa. Gli schemi estremi della piena concorrenza e del pieno monopolio, quelli intermedi della concorrenza imperfetta e del monopolio imperfetto e le loro innumeri sottospecie non sono presentati dagli studiosi come quadri o fotografie della realtà, ma come disegni a grandi linee atti a raffigurare, con tratti appena sbozzati e poi alquanto più decisi, la realtà, senza che mai si possa giungere a tener conto nello schema di tutte le circostanze le quali in un dato momento e luogo la compongono. Pur senza potere controllare, come si fa nelle scienze fisiche e chimiche, i risultati del ragionamento astratto coll’esperimento fabbricato a bella posta nelle condizioni volute, se le premesse sono poste con chiarezza e se si è ragionato rigorosamente, i teoremi ai quali giungono gli economisti sono veri, entro i limiti delle premesse fatte.

Essi sono leggi astratte, le quali ci dicono che cosa necessariamente accadrebbe ogniqualvolta si verificassero nella realtà tutte e sole le premesse poste dal ragionatore.

Non occorre affatto collocare premesse problema ragionamento e teorema in un determinato luogo e tempo storico politico o morale, perché il teorema dimostrato sia vero. Esso è vero sub specie aeternitatis; è una verità di cui non è necessario dimostrare la conformità ai fatti accaduti, appunto perché l’indagatore non si proponeva affatto quello scopo.

2. – Tuttavia, se la scienza economica consistesse soltanto nella posizione di problemi astratti e nella dimostrazione di leggi parimenti astratte, essa non avrebbe quel pur minimo seguito tra i laici che ancora è suo e non eserciterebbe quella qualunque influenza, sia pure modestissima, sulle faccende umane della quale può tuttavia vantarsi. Seguito ed influenza sono dovuti alla connessione che studiosi e laici reputano esistente tra gli schemi astratti e la realtà concreta, fra i problemi ed i teoremi di prima approssimazione ed i problemi e le relative soluzioni urgenti nella vita quotidiana delle società umane. Il fisico, il chimico e l’astronomo possono, se vogliono, trascorrere intera la vita senza preoccuparsi menomamente delle applicazioni concrete che altri trarrà dai teoremi da essi scoperti. L’economista no. Nessun economista è mai rimasto rigidamente chiuso entro l’eburnea torre dei primi principii, dei teoremi di prima approssimazione. Pantaleoni e Pareto, per ricordare solo i due grandi morti della passata generazione, furono altrettanto pugnaci combattenti nel dibattito dei problemi attuali del loro tempo quanto grandi teorici.

L’atteggiamento assunto nelle battaglie della vita concreta reagì ripetutamente sul loro modo di porre i problemi teorici. Posero somma cura nel distinguere il teorema dal consiglio; cercarono di evitare ogni contaminazione tra l’uno e l’altro; talvolta, parlarono – specialmente uno di essi (Pareto), con dispregio ed ironia degli economisti letterari che confondevano la scienza con la politica, e davan consigli ai principi invece di dichiarare uniformità; ma, distinguendo e chiarendo, non cessarono mai di rimbrottare, criticare, vilipendere, rarissimamente lodare governanti e governati, segnalando la via da scansare e quella da percorrere. Egli è che, nelle scienze economiche, esiste il terreno proprio dei teoremi, e quello dei consigli; ma questi due terreni non sono separati e indipendenti l’uno dall’altro. Gli economisti che hanno qualcosa da dire, pur divertendosi talvolta a vilipendere l’altra e forse miglior parte di se stessi, coltivano a scopo di conoscenza e smuovono a scopo di agire sulla realtà; gli imitatori, i pedissequi, incapaci di vedere i legami fra i due aspetti della persona intiera, fanno teoria insipida e forniscono quei consigli che sanno accetti ai potenti.

3. – In verità tra i teoremi ed i consigli vi ha legame strettissimo.

Quando Walras e Pareto costruiscono la teoria dell’equilibrio generale, le premesse dei loro ragionamenti sono nel tempo stesso poche e molte: poche nel senso che essi assumono certe situazioni semplificate: perfetta concorrenza o perfetto monopolio, illimitata riproducibilità dei fattori produttivi o limitazione di questo o quel fattore, mercato libero o mercato chiuso e simili; molte nel senso che essi non suppongono che, mutando una delle premesse del problema, tutte le altre premesse rimangano invariate. Anzi suppongono che, contemporaneamente ed a causa delle variazioni di uno dei dati del problema, tutti gli altri corrispondentemente mutino; che, per lo spostarsi e durante lo spostarsi di uno dei punti del firmamento economico, tutti gli altri punti si muovano, influenzati dal moto del primo ed alla lor volta reagenti su questo moto. Così essi giungono alla conquista forse più generale e certo più feconda della scienza economica moderna: sul mercato domina sovrana la legge di interdipendenza, sicché non è possibile mutare il prezzo di un bene qualsiasi senza che il prezzo di tutti gli altri beni, vicini o lontani, presenti o futuri, muti anch’esso, di poco o di molto. Ma quanta strada si deve fare per passare da questo principio o da quell’altro per il quale il prezzo di un bene diretto è, su un dato mercato, quello che rende uguale la quantità domandata alla offerta e rende uguali altresì nel tempo stesso le quantità domandate ed offerte dei beni strumentali e dei servizi produttivi, del risparmio e dei capitali occorsi alla produzione dei beni diretti, quanta strada occorre fare per passare dalla formulazione dei teoremi generalissimi alla formulazione dei teoremi più vicini all’uomo vivente, i soli i quali di fatto interessano costui, quelli per cui ci si dovrebbe spiegare perché il prezzo del quintale di frumento, in quel momento e luogo e in quelle condizioni di mercato, è 25 e non 30, 240 e non 300 lire! Tanta strada che in verità nessuno l’ha neppur tentata! Marshall, disperato, intraprese la via degli equilibri parziali, ossia dello studio delle leggi del prezzo fatta l’ipotesi che non tutte le premesse del problema mutino contemporaneamente ma, coeteris paribus, muti una premessa sola per volta o mutino poche, quel numero cioè le cui variazioni la limitata mente umana giunge a seguire ed a combinare insieme. Su questa via, la quale è, in fondo, dopo il ragionato omaggio reso alla teoria dell’equilibrio generale, quella seguita da tutti gli economisti teorici, notevoli progressi sono stati compiuti. Ma, per la detta limitazione della mente umana, è stato sinora e rimarrà per lunga pezza impossibile complicare il problema e moltiplicare i dati o le premesse di esso, in modo da poter tener conto anche solo di una piccola parte dei numerosi dati che occorrerebbe considerare per risolvere caso per caso il problema concreto. Sulla via delle approssimazioni successive ad un certo punto ci si deve arrestare. Ben di rado gli economisti vanno al di là di un secondo o terzo stadio nell’approssimazione alla realtà. Per giungere a questa, quanti scalini converrebbe scendere dall’alta cima dove stanno i contemplatori delle verità prime! Se i Walras ed i Pareto potessero da quelle alte cime, dove il loro sguardo spazia e domina gli orizzonti, e vede le leggi del prezzo nei diversi tipi di mercato, scendere giù giù, sino al fondo di un mercato concreto, ad esempio giù sino al fondo del rumoroso fragoroso rombante di urla e di gesti frenetici pozzo (pit) dei cereali di Chicago, essi risolverebbero un problema scientifico, della stessa precisa natura di quelli che già avevano risoluto ponendo le equazioni corrette delle loro prime approssimazioni. I Walras ed i Pareto, se possedessero la onniveggenza necessaria, porrebbero silenziosamente, in quel luogo ove ora si agitano centinaia di uomini convulsi e congestionati, le migliaia di equazioni richieste dalle migliaia di incognite da determinare; e quante incognite tra i dati che pur si dovrebbro conoscere! Conosciamo o dobbiamo intuire, ossia determinare ponendo rapidissimamente le opportune equazioni, la superficie, la fertilità, la posizione ecc. dei terreni che furono o saranno destinati alla coltivazione del frumento nel Dakota, nell’Iowa, nell’Indiana, nell’Alberta, nelle Calabrie, in Lombardia, in Sicilia, in Russia, nell’Australia, nell’Argentina e nell’India ecc.; il numero e la produttività dei lavoratori destinati a quella coltivazione; la quantità del risparmio necessario a produrre gli strumenti e le macchine agricole; i mezzi ed i costi dei trasporti per fiume per terra per mare per aria; i gusti ed i redditi dei consumatori di frumento sparsi nei diversi paesi del mondo, e nel tempo stesso i terreni, i fattori produttivi, i consumi attinenti a tutti i beni che possono essere concorrenti o succedanei al frumento? Quegli ingegni sovrani avrebbero dinnanzi a sé, posto in equazioni, tutto il quadro del mondo economico e sociale fotografato in quell’istante; e la fotografia sarebbe nel tempo stesso la visione in scorcio di quel mondo nel suo previsto divenire futuro e nelle ripercussioni che quel divenire esercita sull’operato del mondo presente. Se quel calcolo potesse compiersi e se in quell’attimo il prezzo calcolato fosse di 1 dollaro e 27 centesimi per staio (bushel) del frumento di quella data varietàe qualità, quel prezzo avrebbe il valore di legge scientifica necessaria. Necessaria perché essa sarebbe la logica inevitabile conseguenza di tutte le opportune premesse chiaramente poste e ragionate.

4. – Di fatto, quei calcoli sono al di là delle possibilità della mente umana ragionante; ed al posto dei Walras e dei Pareto noi vediamo nel pozzo del frumento di Chicago – e, per altri beni economici, nelle altre borse dove si determinano o si determinavano quotidianamente i prezzi dei principali beni o valori pubblicamente negoziati – migliaia o centinaia di vociferatori ossessionati e congestionati, i quali a furia di urla e di gesti giungono anch’essi in quell’attimo a quel medesimo risultato di dollari 1 e 27 centesimi per staio di frumento di quella certa varietà e qualità. Come vi giungono? In fondo, il processo è quel medesimo, che se fosse possibile, avrebbero osservato i Walras ed i Pareto. Anche gli speculatori in cereali del pozzo del frumento di Chicago pongono in equazione i dati del problema: terreni coltivati o che saranno coltivati a frumento in concorrenza con i terreni destinati ad altre culture; produttività di quei terreni e particolarmente di quelli marginali; costi dei fattori produttivi; costi dei trasporti; inclemenze stagionali o vicende favorevoli alla vegetazione del frumento; raccolti maturati o maturandi nei varii paesi del mondo; rimanenze esistenti; gusti e redditi dei consumatori; passaggi del frumento dagli elevatori ai mulini e da questi ai forni ed ai pastifici; dazi doganali e divieti di importazione nei paesi consumatori; concorrenza del riso e della segala e delle patate; concorrenze di negozianti singoli, di cooperative di agricoltori, di consorzi (trusts) di mulini; monopoli di ferrovie e di compagnie di navigazione sui laghi, ecc. ecc. Tutti questi dati del problema ed altri ancora sono tenuti presenti dagli operatori sui frumenti, presenti e futuri, del pozzo di Chicago, sulla base di notizie di agenzie, di cablogrammi ai giornalisti, di informazioni particolari telefoniche; ed è una corsa affannosa dalle cabine telefoniche al pozzo; ed ogni telefonata è un avviso che permette di sostituire un dato certo o approssimativo ad una incognita nel sistema di equazioni che si tratta di risolvere tumultuosamente ed affannosamente in quel momento. Dal tumulto di notizie e di dati spesso contrastanti ed incerti nasce in quell’attimo quel prezzo: 1 dollaro e 27 centesimi per moggio. Se questo è, in quell’attimo, il prezzo che rende la quantità domandata uguale a quella offerta, io non vedo nel processo il quale condusse a quel prezzo nulla di diverso dal procedimento scientifico, con il quale l’economista puro ha risolto il suo problema di prima approssimazione sulla base di poche premesse esplicitamente e chiaramente poste. Non esiste diversità alcuna fra le leggi astratte di prima approssimazione poste dal teorico nella solitudine dello studio e le leggi concrete poste dagli operatori nel tumulto del mercato. Ambe sono leggi: le prime si dicono astratte perché vere nei limiti delle poche premesse fatte; le seconde concrete perché vere dato l’operare di tutte le premesse esistenti, note ed ignote; le prime si dicono vere sub specie aeternitatis perché e finché il teorico non muta le premesse del problema; le seconde sono vere solo per un attimo, perché, quello trascorso, mutano istantaneamente e sicuramente i dati del problema; le prime possono essere enunciate e dimostrate nelle memorie accademiche e nei trattati della scienza, perché si possano fare ragionamenti, spesso eleganti, e talora stupendi, intorno alle vicendevoli azioni e reazioni di alcune poche forze ben definite; le seconde non si leggono mai scritte in nessun libro perché frutto di impressioni fuggevoli, di intuiti miracolosi, di quel certo magico fluido che fa i veggenti, i profeti, i capitani, i capi di stato e fa anche i grandi operatori, i quali, sinché non giunge anche per essi la giornata di Waterloo, dettano le leggi dei prezzi nei mercati dei beni economici. Cesare e Napoleone scrissero memorie; ma i grandi operatori non sanno né scrivere né fare discorsi. Farebbe d’uopo che qualche economista si facesse loro segretario e trascrivesse, novello Boswell, le confidenze che i Johnson delle borse consentissero a far loro. Ma gli economisti di secondo piano, ai quali cotale ufficio spetterebbe, preferiscono guardare dall’alto al basso i pratici e sputar il disprezzo dei puri su coloro che si attentano a fotografare gli intuiti degli uomini i quali fanno o registrano i prezzi veri sui mercati effettivi. Se, per miracolo, taluno fosse disposto ad ascoltare, probabilmente guasterebbe il rendiconto, trascrivendolo nel linguaggio economico puro, dimenticando cioè che quel che contraddistingue la realtà dallo schema è che il linguaggio di questo è diventato tecnico ossia proprio a dar conto delle sole premesse e dei ragionamenti che fan parte dello schema ed è affatto disadatto a spiegare i tanti dati sconosciuti alle prime e seconde e terze approssimazioni, dei quali l’operatore sui mercati effettivi tiene conto perché è nato nel mestiere o vi è vissuto a lungo o perché, grazie ad un peculiare suo sesto senso, ne ha miracolosamente l’intuito.

5. – Per l’indole di coloro che le enunciano, le leggi prettamente scientifiche ricavate dai pratici dalle equazioni risolute per intuito invece che per calcolo, prendono, se messe per iscritto, quasi sempre la forma di consigli o progetti; e come consigli quelle leggi sono entrate a far parte del corpo della scienza ad opera dei vecchi economisti. Rarissimo ed ammirando è il caso di grandi operatori pratici, come Cantillon e Ricardo, i quali scrivendo libri teorici, seppero per lo più usare un linguaggio dichiarativo di mere leggi. Ma anche codesti grandi non di rado alla enunciazione di principii teorici aggiunsero il consiglio od il progetto. Fecero, così operando, cosa estranea alla scienza? Fece opera extra-scientifica il Walras ed il Gossen quando propugnarono talune loro riforme monetarie o tributarie terriere? Distinguerei la forma dal contenuto. Oggi, che ci siamo sentito le tante volte ripetere il precetto, che in bocca ai Cairnes ed ai Pareto si ascolta con rispetto, essere la scienza rivolta a dettar leggi e non a fabbricar progetti, una certa impazienza è legittima verso chi manifestamente dimostra, nel suo modo di porre i problemi, di non essere mosso dall’intento di ricerca della verità, ma da qualche fine pratico, inteso il fine pratico non nel senso detto sopra di avvicinamento alla realtà, ma di consecuzione di vantaggi proprii o di un ceto sociale o professionale o di piaggeria verso i potenti o verso le folle. Ma quando si tratti di mera forma dello scrivere, sieno i colpevoli economisti antichi o moderni, direi essere doverosa in proposito la maggiore indulgenza. Quel che monta non è affatto la forma del discutere, ma il suo contenuto. Quasi tutte le verità scoperte in materia monetaria ieri ed oggi ebbero ad occasione progetti e consigli. Le falsificazioni monetarie del medioevo, gli abbassamenti ed i rialzamenti delle monete immaginarie in confronto a quelle effettive nei secoli XVII e XVIII, i corsi forzosi nel primo quarto dell’ottocento, i sistemi bimetallistici tra il 1850 ed il 1880, le svalutazioni e le rivalutazioni monetarie del 1914-1940 non furono forse l’occasione di grandi scritti teorici in materia monetaria? E parecchi tra gli scritti i quali segnarono in essa un’orma duratura non presero forse la forma di polemiche e di contro-progetti? Non si vuole sminuire il merito degli economisti teorici venuti di poi, i quali tradussero in linguaggio scientifico i precetti degli scopritori; ma pare certamente di pessimo gusto svillaneggiare costoro ed esaltare i primi. La fatica del tradurre una proposizione dal tipo precettistico:

«Non coniate una moneta d’oro la quale abbia in confronto ad una moneta d’argento dello stesso peso e titolo una facoltà liberatrice come 15,5 ad 1, quando nel comune commercio un chilogrammo d’oro si scambi con 16 chilogrammi d’argento, perché il paese rimarrà del tutto privo di monete d’oro, con grande incomodo del pubblico» nella proposizione identica di tipo scientifico od ipotetico:

«Se, cambiandosi in comune commercio 1 chilogramma d’oro contro 16 chilogrammi d’argento, vengono coniate con quel peso e titolo una moneta d’oro ed una d’argento, ma questa abbia invece legalmente una potenza liberatrice uguale ad una quindicesima parte e mezza di quella d’oro, la moneta (argento) relativamente svilita nel rapporto commerciale in confronto a quello legale, rimarrà sola in circolazione»

è in verità fatica piccolissima e direi d’ordine, quando si sia appresa la modesta tecnica all’uopo occorrente. Non dico che i precetti antichi e moderni si possano sempre altrettanto facilmente tradurre in principii teorici; ma dico accadere non di rado anche oggi che l’attenzione degli economisti su un dato problema sia risvegliata dalla soluzione data ad esso in concreto in un dato luogo e tempo e che le prime trattazioni abbiano la forma di progetti di altre e diverse soluzioni; e può accadere, sebbene più difficilmente, che, nel corso di quelle discussioni e di quei progetti, si espongano, sul problema da risolvere, sugli allegati effetti che derivavano dalla soluzione eventualmente già accolta e sui diversi effetti della nuova proposta soluzione, considerazioni le quali sono in sostanza ragionamenti e teoremi puramente scientifici. Se le cose stanno così, l’economista venuto dopo, il quale compisse la versione dalla terminologia precettistica in quella ipotetica, compirebbe opera indubbiamente utile; ma l’utilità didattica dell’esercitazione non lo autorizzerebbe menomamente a sputare con dispregio sul piatto dal quale ha tratto il suo vitale nutrimento; né sminuirebbe il senso di fastidio col quale si debbono guardare coloro i quali per aver compiuto quel modesto ufficio di traduttore dal linguaggio vivo dei combattenti in quello smorto convenzionale dei ripetitori reputano se stessi inventori del teorema che hanno soltanto rivestito della solita terminologia scolastica. Quale abisso tra codesti, per lo più boriosissimi, traduttori e gli scienziati che in silenzio offrono agli studiosi le verità che davvero essi hanno per i primi scoperte!

6. – Se le leggi di cui si è parlato sin qui sono francamente astratte, e perciò regolano necessariamente i rapporti fra circostanze premesse fatti definiti numerati e pesati così come piacque all’indagatore, pare diversa l’indole di altre uniformità ragionate intorno a premesse o schemi storici. Se in economia io definisco l’ipotesi del monopolio puro come quella dell’imprenditore privato unico produttore-offerente di un dato bene su un dato mercato in un dato momento, senza alcun freno né di concorrenti potenziali né di succedanei e neppure di vincoli legislativi e ne deduco che il prezzo di mercato sarà quello determinato dal punto di Cournot del massimo utile netto, io non affermo che in questo mondo esista o sia mai esistito od esisterà di fatto mai un monopolista puro epperciò che il prezzo possa di fatto essere stabilito precisamente nel luogo del punto di Cournot. La mia è una proposizione ipotetica e la legge del prezzo che ne deduco è una legge puramente astratta. Se in qualunque epoca storica ed in qualunque luogo l’ipotesi per avventura si verificasse, la legge del prezzo sarebbe necessariamente quella ora dichiarata. In verità, non accade necessariamente che il prezzo sia regolato di fatto in alcun momento o luogo per l’appunto da quella legge o dalle altre che si formulano nelle ipotesi, pure astratte, della piena concorrenza o del monopolio bilaterale e così via dicendo. Le ipotesi e conseguenti leggi astratte sono soltanto tipi dai quali si può trarre qualche indizio intorno al modo nel quale si comportano i prezzi e le loro uniformità nella realtà concreta, che è complessa e mutevole.

Diremo che le ipotesi o premesse o schemi o tipi sono fecondi quando, paragonando le leggi astratte alle uniformità accertate empiricamente noi riscontriamo una rassomiglianza più o meno chiara tra la legge astratta ed il comportamento concreto. Anzi si può tenere il cammino inverso; e dalla osservazione precisa del comportarsi di date serie di fatti empirici trarre l’enunciato di leggi, non astratte e non necessarie, intorno alle relazioni realmente esistite, ad es., in un dato luogo e per un dato tratto di tempo, per un dato bene o per parecchi beni, fra quantità prodotte, consumate e relativi prezzi. Dalla circostanza che l’elasticità della domanda e della offerta di un dato bene nel luogo x per l’intervallo di tempo da A a B ubbidì ad una certa legge, si può trarre stimolo ad indagare se quella legge possa essere applicabile in tutto o in parte anche ad altri beni o ad altri luoghi o tempi ai primi rassomiglianti. Eccellono in queste indagini gli statistici e gli econometrici, i quali danno prova di tanta maggior consapevolezza scientifica quanto più sono timidi nell’estendere e nel generalizzare uniformità osservate in un dato luogo o tempo.

L’osservazione invero non consente, se non con molta circospezione e con delicatissimi espedienti, di tener conto di tutti od almeno dei principali dati i quali hanno fatto sì che l’elasticità della domanda e dell’offerta fosse in quel momento e luogo quella che fu e non altra. Chi ci sa dire quale influenza ebbero nella determinazione della legge empirica scoperta l’altezza dei redditi nominali e reali, la loro distribuzione tra le diverse classi sociali, il numero ed i gusti dei consumatori, la concorrenza di altri beni, presenti e futuri, ecc. ecc.? Basta che uno di questi fattori muti ed ecco non essere la legge empirica vera nell’altro luogo o momento. Ciononostante, gli sforzi compiuti nell’accertamento di leggi empiriche o di fatto, non estrapolabili al di là del momento luogo e bene considerati, sono sommamente lodevoli; e tanto più lo diverranno quanto più le indagini saranno prolungate nel tempo e nello spazio, quanto più la raffinatezza dei metodi impiegati consentirà di accertare il peso e le variazioni di ognuno dei fattori influenti sulla legge empirica e quanto più gli indagatori riusciranno a mano a mano ad immaginare schemi o tipi, i quali pur rimanendo empirici, siano sempre meglio atti a raffigurare il comportamento di dati fenomeni economici per lunghi tratti di tempo e ampi territori. La scoverta di siffatti schemi o tipi empirici alla sua volta potrà fornire il destro ai teorici di immaginare premesse schemi o tipi astratti semplificati, coincidenti o quasi con il comportamento dei dati empirici, da cui si possono ricavare nuovi teoremi illuminanti. Salvo la moderna maestria del metodo, il consiglio di adoperare congiuntamente i procedimenti logici deduttivi ed induttivi, il ragionamento astratto e la sua verificazione empirica fu sempre lodato; e quel grande logico astratto che fu il Jevons trasse molta parte della fama di cui ancora gode dalla maestria con la quale passava dall’astrazione all’osservazione, e da questa traeva stimolo per nuove feconde astrazioni.

7. – È singolare la coincidenza frequente fra le leggi formulate dagli economisti teorici in prima approssimazione e il comportamento concreto dei fatti economici più comuni anche in circostanze nuove e straordinarie. Quella taccia che i laici ingenuamente mossero durante e dopo la guerra passata e muovono nuovamente oggi: «la guerra, il dopo guerra e la nuova guerra hanno consacrato il fallimento della scienza economica» bene può rivoltarsi così: «la guerra il dopo guerra e la nuova guerra hanno dimostrato quanto fossero esatte e, parlando figuratamente, inesorabili le leggi poste dagli economisti classici; e non mai si videro meglio verificate le conseguenze che quelli avevano segnalate delle abbondanti emissioni cartacee, dei calmieri senza requisizioni e senza tessere, delle tessere stabilite per quantità incongrue rispetto ai prezzi; mai non si videro tanto magnificati i turbamenti sociali da impoverimenti ed arricchimenti, che i classici avevano descritto a loro tempo in tono minore per la minore gravità delle cause che vi avevano dato origine. Sicché quella che ai laici parve il fallimento della scienza economica fu invece un trionfo suo grande; e fallirono solo le stravaganti aspettazioni dei laici, i quali, innocenti di tutto quanto fu scritto nei libri degli economisti, immaginavano che questi fossero negromanti, atti a impedire che l’errore partorisse il danno a lui intrinseco, che le leggi fabbricate senza por mente all’interdipendenza di tutte le azioni e le forze economiche producessero effetti opposti a quelli benefici previsti dai cosidetti periti, ossia da gente segnalata per la propria ignoranza di tutto ciò che sta al di fuori della loro limitata provincia; fallirono solo gli illogici ragionamenti di industriali agricoltori e commercianti i quali, attissimi a formulare per intuito teoremi e corollari particolari identici a quelli generali esposti dagli economisti teorici in teoria pura, sono tratti dall’interesse a disconoscere la validità dei teoremi medesimi non appena si trascorra dal loro campo proprio a quello generale e vorrebbero che gli economisti dimenticassero teoremi e corollari per farsi fautori di altri confacenti a quei privati interessi. Il che non potendo accadere vilipendono la scienza come cosa inutile e gli scienziati quasi nemici della patria».

8. – La fecondità dell’uso simultaneo ed alternativo nella scienza economica della deduzione e dell’induzione, dello schema astratto e dell’osservazione empirica di dati comportamenti di fatto ha stimolato l’impiego di espedienti o strumenti (gli anglosassoni li chiamano appunto tools) diversi da quelli tradizionali. Non dirò degli strumenti recentemente inventati o proposti od usati da taluni moderni economisti, esaltati dapprima e poi facilmente obliterati e quindi ripresi; e così si videro susseguirsi gli strumenti del reddito del consumatore, del moltiplicatore, del rapporto fra risparmio ed investimento per spiegare le fluttuazioni o crisi economiche, le variazioni monetarie e così via. È bene che ogni strumento faccia le sue prove, che saranno poi quelle dell’abilità logica dell’operaio il quale lo adopra; e rimarranno in piedi quelli i quali avranno dimostrato di valere sul serio qualcosa. Voglio invece accennare all’uso di schemi, i quali stanno di mezzo fra quelli tradizionali astratti estremamente semplificati e quelli empirici proposti per descrivere la legge del variare di un dato fenomeno (ad es. prezzo di un bene) in un dato luogo e tempo. Essi non sono semplificati come i primi e non aspirano a descrivere alcuno stato di fatto empiricamente esistito in un dato luogo e tempo. Sono, direi, schemi teorico-storici. Tengono del teorico, perché non pretendono di raffigurare alcun momento preciso dell’accaduto; ma hanno in sé qualcosa di storico, perché vorrebbero riassumere i lineamenti tendenziali caratteristici di istituti storicamente esistiti, degni di studio per il sommo rilievo che ebbero nel determinare in certe epoche il destino dell’umanità.

A tal genere di schemi sembra appartenere la sequenza delle economie della caccia, della pastorizia, della agricoltura e dell’industria in cui taluno ha distinto i successivi momenti della vita economica dell’umanità; o quella della schiavitù, della servitù della gleba, delle corporazioni, del lavoro libero e di nuovo delle associazioni libere o pubbliche, in cui altri ha raffigurato le successive fasi dell’organizzazione del lavoro; o quella ancora del comunismo primitivo, della proprietà individuale (artigianato), del capitalismo semplice (impresa a manifattura), del capitalismo complesso (consorzi, cartelli, società ramificate) e del collettivismo di stato, con cui si volle descrivere il succedersi dei tipi di organizzazione dell’attività economica. Ma subito si vede che questi non sono né schemi teorici né schemi storici di fecondità scientifica. Non sono schemi o strumenti di lavoro atti a fecondare l’indagine astratta perché non sono abbastanza semplici e chiaramente precisabili. Noi possiamo definire l’ipotesi della libera concorrenza (quella situazione nella quale sul mercato intervengono molti produttori e molti consumatori, la presenza o l’assenza di ciascuno dei quali non esercita sul mercato una influenza apprezzabile sul prezzo dei beni negoziati) o quella del monopolio, o quella della produzione a costi costanti crescenti o decrescenti, perché si tratta di premesse semplici, le quali danno luogo a calcoli quantitativi, a più od a meno e consentono l’impostazione di ragionamenti su un dato numero di incognite. Proviamoci invece a definire l’economia della caccia, della pesca, della pastorizia, la schiavitù, il corporativismo medievale, la servitù della gleba, il capitalismo primitivo o quello moderno! Si avranno descrizioni necessariamente complesse, con molti ma e se e riserve di tempo e di luogo. Nulla che possa dare luogo a ragionamenti di tipo quantitativo, che possano essere compiuti a fil di logica. Si provi qualcuno a mettere per iscritto premesse chiare relative ad uno di questi schemi e veda se gli riesce di cavarne fuori qualcosa che rassomigli anche lontanamente alla trafila logica delle premesse, corollari, lemmi e teoremi che si leggono, dicasi ad esempio, nei Principi di Pantaleoni.

Sono quegli schemi fecondi per l’indagine storica? Qui vale l’esperienza. Gli autori degli schemi se ne servirono per classificare gli avvenimenti e gli istituti economici; ed i seguitatori riclassificarono, echeggiando e, a lor detta, perfezionando. Ma si trattava di giocattoli, presto sostituiti, come accade per i bambini, da altri più nuovi e graziosi. La storia non si presta ad essere ridotta a schemi e tipi uniformi. Dovrebbero, gli schemi essere senza numero per avere un qualche sapore. Storia si fa di fatti singoli, individuali, non di tipi. Lo storico, sì, deve avere un’idea, un filo conduttore per scegliere i fatti singoli ai suoi occhi importanti di mezzo agli innumerevoli fatti e fatterelli che non contano nulla. Ma l’idea che guida lo storico non è uno schema astratto, classificatorio. L’idea-guida, il filo conduttore, è quella che ha indotto gli uomini ad operare, a lottare, a vivere ed a morire. Non può essere la schiavitù o l’artigianato od il capitalismo, che sono semplici parole descrittive di modi esteriori di vita, i quali traggono la loro ragion d’essere da sorgenti ben più profonde. L’uomo crea l’impresa, riduce i suoi simili in schiavitù o si libera da essa, coltiva la terra o conduce greggi spinto dalla sete di ricchezza, dal piacere del dominio, dalla parola di Cristo, il quale ha proclamato gli uomini tutti uguali dinnanzi a Dio, dall’aspirazione alla libertà ed al perfezionamento morale. Le idee ed i sentimenti, razionali ed irrazionali guidano gli uomini dall’uno all’altro tipo di organizzazione economica. I tipi e le classi e le forme non spiegano nulla. Sono espedienti mnemonici didattici per orizzontarsi, non sono storia. Sono buttati via, non appena, usandoli, si veda quanto sia limitato e tutt’affatto scolastico il vantaggio che se ne può ricavare.

9. – Poiché coloro che ne fecero uso li dichiararono esplicitamente ed implicitamente[2] schemi puramente teorici, senza riferimento ad alcuna particolare verificazione di fatto, parrebbero immuni dalla critica gli schemi modernamente proposti dal De Viti De Marco per la scienza finanziaria, dello stato monopolistico e dello stato cooperativo, ai quali il Fasiani aggiunge ora lo schema dello stato moderno. Chi ricorda la condizione caotica della cosidetta scienza delle finanze nell’epoca nella quale il De Viti iniziò l’opera sua chiarificatrice non può non riconoscere che quegli schemi non abbiano sommamente giovato a dare alla scienza finanziaria una struttura compatta e logica ed ordinata. Il De Viti ragionò: essendo i prezzi privati e pubblici, i contributi e le imposte null’altro che il prezzo dei beni pubblici prodotti dallo stato e da esso forniti ai cittadini, perché non si dovrebbero usare quelle medesime ipotesi del monopolio (stato monopolistico od assoluto) e della concorrenza (stato cooperativo) che tanti e tanto utili servizi avevano reso nella scienza economica? Ed egli adoperò quei due strumenti di indagine con eleganza e con successo. Il successo fu dovuto forse sovrattutto all’uso cautissimo che egli ne fece là dove essi veramente chiarivano i problemi trattati, e cioè nell’impostazione dei singoli problemi. Quel che è caratteristico nel trattato del De Viti non è invero la bipartizione della economia pubblica entro i due schemi; è invece la tesi che i problemi della finanza pubblica (il De Viti anzi dice della economia finanziaria) sono problemi economici, i quali devono essere discussi con gli stessi criteri usati nella scienza economica. A volta a volta, senza impacciarsi troppo dei due schemi politici (stato monopolistico e stato cooperativo), egli discusse i singoli problemi finanziari, come se fossero problemi di prezzo, usando ora l’ipotesi del monopolio, ora quella della libera concorrenza, a seconda che meglio l’una o l’altra ipotesi si attagliava a ciascun problema particolare. Con questo suo trattare i problemi di finanza come problemi economici, il De Viti si attirò le critiche di coloro i quali reputano essere invece quei problemi prevalentemente politici e sociologici o giuridici. Poiché anche la scienza finanziaria è e rimarrà a lungo una scienza astratta e deve necessariamente vivere di schemi, più o meno vicini alla realtà, e poiché tra tutti gli schemi quello economico è sinora il solo il quale abbia prodotto una costruzione avente in sé una qualche logica, un certo ordine ed abbia un contenuto discreto di teoremi abbastanza bene dimostrati, anch’io[3] preferisco lo schema economico ed attendo che altri faccia fruttificare schemi diversi.

10. – È riuscito il Fasiani nel suo magnifico recentissimo tentativo a dimostrare che gli schemi dello stato monopolistico cooperativo e moderno hanno una propria virtù teorica? Sono scettico per quanto riguarda la parte essenziale della indagine del F., quella che a giusta ragione assorbe metà delle pagine del trattato, e si riferisce ai problemi della traslazione e degli effetti delle imposte. L’a. avrebbe potuto, se avesse voluto, scrivere quelle pagine che tanto onore fanno alla scienza italiana, senza ricorrere ai tools dei tre tipi di stato; e quelle pagine non avrebbero certo perduto nulla della loro perspicuità ed eleganza logica. Ma una adeguata dimostrazione del mio atteggiamento negativo richiederebbe una lunga analisi che in questa sede sarebbe fuor di luogo.[4]

11. – La difficoltà di usare gli schemi di stato offerti dal De Viti e perfezionati dal Fasiani per condurre innanzi le indagini delicate di traslazione delle imposte, le sole che di teoria pura economica si incontrino nel campo variopinto della scienza finanziaria, pone il quesito se quegli schemi abbiano indole astratta ovvero storica.[5] Sono essi soltanto ipotesi immaginate dalla mente dello studioso per trarne leggi teoriche vere sub specie aeternitatis o sono anche strumenti di interpretazione approssimata della realtà storica?

Assumo la definizione dei tre tipi di stato quali sono poste dal Fasiani. Fatta la premessa che in esso siano riconosciute «la libertà e l’integrità personale e la proprietà privata» lo stato monopolistico è definito come quella «organizzazione in cui una classe eletta dirigente (i dominanti) eserciti il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominanti»[6] (I, 42).

Se la sistematica dell’ordinamento finanziario di uno stato cosiffatto fosse rispetto alle imposte soltanto quello riassunto dalla sapienza popolare nell’antichissima massima del pelar la gallina senza farla gridare o, rispetto alle spese, quella del dare alle spese utili ai dominanti l’aspetto di spese utili a tutti od al gruppo non oserei dire che essa sia propria di un peculiare qualsiasi tipo di stato, essendo stata seguita anche dai legislatori che agivano e volevano ed erano persuasi di agire nell’interesse di tutti e di ciascuno (stato cooperativo) o della collettività (stato moderno); ed essendo i limiti all’operato delle illusioni tanti e tanto potenti da rendere ben piccolo il campo di azione di quel sistema anche nel tipo di stato più accentuatamente monopolistico.

Ma l’osservazione, storicamente fondata, non è tale logicamente. Né il De Viti, né il Fasiani, né altri che abbia assunto la distinzione fra stato monopolistico e stato cooperativo a punto di partenza delle proprie indagini affermò che stati cosiffatti siano mai esistiti in questo o quell’altro luogo o tempo. Se ciò avessero sostenuto, sarebbero caduti nell’errore di scambiare la realtà che è sempre complicata e unica e non soggetta a ripetizione con lo schema astratto o modello teorico, utile per il ragionamento che voglia spiegare qualche aspetto particolare della realtà.

Contrariamente a quanto immaginarono i critici frettolosi, i quali condannarono l’analisi della finanza condotta col criterio degli schemi o modelli teorici a sfondo economico perché non conformi a realtà e, così criticando, dimostrarono di ignorare la natura propria della indagine scientifica nel campo delle nostre scienze astratte, i teorici dei tipi sopradetti di stato non si proposero un problema storico, sibbene un problema di logica che io direi degli strumenti. Secondo questa logica un criterio non è assunto a scopo di indagine storica di fatti realmente accaduti, ma allo scopo di estrarre dai fatti storici accaduti quelli soltanto che si ritengono proprii a caratterizzare il concetto medesimo. Caratterizzano perciò il tipo di stato monopolistico soltanto quei fatti senza di cui quel tipo cade o si trasforma in un diverso od opposto tipo; laddove i fatti medesimi possono essere assenti dai tipi opposti, senza che questi vengano meno.

Il Fasiani, ad esempio, pone il trattato delle illusioni finanziarie nel libro il quale esamina le caratteristiche dello stato monopolistico, reputando che la teoria di esse sia propria di questo caso limite di stato ed estranea («non c’è posto per essa») negli altri due casi limite dello stato cooperativo e dello stato moderno. Non che illusioni non possano darsi in materia di entrate e spese anche negli altri due tipi di stato; ma solo nel tipo monopolistico quelle «illusioni si raggruppano fino a formare una vera tendenza, un sistema. Ciò che conta storicamente, non è già che uno stato in una certa epoca abbia un insieme di entrate e spese che implichino questa o quella illusione, ma piuttosto che, nel suo complesso, l’ordinamento finanziario si avvicini o si allontani dal caso limite in cui le illusioni sono sistema» (I, 70).[7]

I tipi di stato cooperativo moderno possono in verità vivere senza creare illusioni finanziarie, anzi raggiungono la perfezione quanto più le illusioni sono assenti dal loro armamentario legislativo ed amministrativo e governanti e governati apprezzano perfettamente senza veli il vantaggio delle spese pubbliche e l’onere dei tributi necessari a compierle; ed è vero altresì che il sistema delle illusioni non ripugna invece al tipo di stato monopolistico, così come fu sopra definito.

Non mi soffermo sulla riserva premessa alla definizione, per la quale lo stato monopolistico sarebbe tenuto a rispettare «la libertà e l’integrità personale e la proprietà privata» sia perché di cosiffatta riserva non si vede si faccia poi uso nel prosieguo del discorso talché può essere messa nel novero degli strumenti di ricerca divenuti caduchi per non uso, sia perché la riserva può intendersi come un modo abbreviato di enunciare il proposito di escludere dai casi studiati di imposta quelli della riduzione in massa dei dominati a schiavi o della espropriazione in massa dei dominati. Metodi grossolani e contrastanti con quella della illusione di essere liberi e proprietari in che i dominanti vogliono tenere i dominati. La riserva insomma può voler dire soltanto che ai dominati può, se conviene ai dominanti, essere tolta la libertà e proprietà, purché essi si illudano di non aver perduto né l’una né l’altra.

Caratteristica essenziale dello strumento logico detto stato monopolistico pare dunque quella di far uso di illusioni finanziarie, allo scopo di raggiungere più agevolmente il fine proprio della classe dirigente di esercitare il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominati. Da quale esperienza storica è stata astratta l’indicazione dello scopo ora detto?

12. – Volto pagina e vedo che, dopo aver ricordata la solenne definizione che, per bocca di Sully, Enrico IV diede non so se dello stato cooperativo o di quello moderno:

«Dio essendo il vero proprietario di tutti i regni e non essendone i re che gli amministratori debbono tutti rappresentare ai popoli colui di cui tengono il posto, per le sue qualità e le sue perfezioni. Soprattutto essi non regneranno come lui se non in quanto regneranno come padri» (I, 77).

si elencano esempi – tratti da tempi nei quali i ceti dirigenti francesi ed un po’ quelli borbonici tra il secolo XVIII e il secolo XIX ed ancora quelli democratici dell’epoca umbertina stavano preparando i torbidi rovinosi degli ultimi Valois o le rivolte della Fronda o la rivoluzione del 1789, od i Borbonici scavavano l’abisso tra sé e le nascenti energie borghesi e popolari meridionali. E mi fermo, ché il quadro delle oscurità del bilancio dell’epoca umbertina disegnato dal Puviani è tirato sul nero; e in esso si dimentica che nessuno in Italia era tratto in inganno dagli espedienti maglianeschi cuciti a grosso fil bianco e tutti ne discutevano; ed in virtù di siffatte discussioni l’Italia giunse al 1914 dotata di una finanza, che se era, al par di altre, impreparata all’improvviso grandioso sforzo della guerra mondiale, superato tuttavia con successo, era però solida ed onesta e chiara.

Non intendo avventurarmi troppo nell’uso dell’altro strumento di indagine che si dice delle azioni logiche e non logiche; ma parmi di potere affermare che il sistema delle illusioni finanziarie, quale almeno risulta dalla esemplificazione addotta dal Puviani e perfezionata dal Fasiani non si può dir propria del tipo generico di stato monopolistico. Farebbe d’uopo perlomeno distinguere il tipo nei seguenti sottotipi:

a)    il tipo in cui la classe dominante compie consapevolmente solo quelle azioni di sfruttamento dei dominati le quali giovano alla conservazione del proprio potere;

b)    il tipo in cui la classe dominante si comporta nello stesso modo inconsapevolmente, per vie non logiche;

c)    il tipo in cui la classe dominante per vie non logiche (si possono escludere le vie logiche perché, eccetto i casi, qui esclusi per definizione, di sacrificio di se stesso a vantaggio dei più o della collettività, nessuna classe politica corre volutamente consapevolmente al suicidio) sfrutta i dominati in modo da preparare e determinare la propria rovina.

I fatti di illusione addotti negli scritti dei due autori ricordati sono tratti dall’arsenale storico dei tempi in cui il tipo di stato esistente si approssimava all’ultimo sottotipo (c). Lo studio è grandemente suggestivo, sia al punto di vista storico come a quello teorico; ma è lo studio di un sottotipo peculiare. Per la Francia, non ci dà il quadro della finanza del tempo di Enrico IV con Sully, né quello di Luigi XIV con Colbert, né quello di Bonaparte primo console, né l’altro della restaurazione, ossia delle epoche nelle quali la Francia fu grande o restaurò le fortune compromesse nei tempi precedenti di torbidi, o di decadenza o di follia di grandigia. Per l’Italia non so in verità quale tempo appartenga a quel sottotipo (c); ché la raffigurazione della finanza umbertina è, già dissi, una parodia calunniosa, e le tinte scure usate dal Bianchini per descrivere la finanza borbonica meritano revisione attenta, almeno per lunghi tratti del secolo XVIII e, ad intervalli, anche degli anni fra il 1815 ed il 1860. Ma la finanza toscana, sotto i Lorenesi fu un modello; e non sapendosi nulla di quella dei Medici, non se ne può parlar male sulla fede di dicerie di cronisti. I bilanci e conti pubblicati della repubblica veneta offrono un quadro di rigorosa amministrazione del denaro pubblico.

Pubblicammo, io e Prato, i bilanci piemontesi dal 1700 al 1713, testimonianza di costumi austeri e di grandi risultati ottenuti con misurato dispendio; e potrei, se avessi voglia e tempo, render conto altresì fino all’ultimo denaro, oggi si direbbe centesimo, dei tributi incassati, delle spese compiute e dei mezzi di tesoreria usati negli stati sabaudi dal 1714 al 1798. Si rendeva ossequio alla pubblicità ed al controllo finanziario secondo i criteri e le cognizioni del tempo. Invece di bilanci stampati e distribuiti a parlamentari ed a giunte del bilancio, i bilanci ed i consuntivi erano redatti a mano, discussi dai consigli delle aziende, controllati dagli uffici del controllo generale e della Camera dei conti. Diversa la forma, era identica la sostanza e non so se meno efficace. Lievissime le tracce di sfruttamento dei dominati da parte dei dominanti. Tenui gli stipendi pagati a ministri, ambasciatori, alti officiali, e spiegabili col permanere non tanto delle istituzioni, logorate dal tempo, quanto dei sentimenti feudali, per cui i signori sentivano il dovere di servire il principe.

Prima di astrarre dalla realtà storica, allo scopo di interpretarla, caratteristiche teoriche proprie dei tipi di stato non cooperativi e non moderni importa chiedere: dove e quando esistettero sottotipi dello stato monopolistico diversi dal sottotipo (c), ossia degli stati votati alla propria rovina? Quali furono le caratteristiche precise degli stati monopolistici di tipo A e B ossia auto conservantisi? Quale peso proporzionale ebbe in quegli stati lo sfruttamento dei dominati da parte dei dominanti e la tutela, voluta od inconsapevole, degli interessi di tutti o del gruppo? Se si riscontrasse, per avventura, che negli stati detti monopolistici, durati a lungo la tutela degli interessi di tutti o del gruppo assorbì e non poteva non assorbire la maggior parte, dicasi i nove decimi e più delle risorse pubbliche e solo un decimo fu destinato a gratificazione della classe dominante; e se, in aggiunta, questa decima od altra qualunque tenue parte fu il compenso pagato al ceto dirigente perché tale e perché un qualunque stato ha bisogno di un ceto dirigente e questo è scelto o si sceglie in funzione delle idee del tempo e può prendere talvolta perciò l’apparenza di dominante, classificheremo ancora quello o quegli stati tra i monopolistici? E se no, diremmo che il tipo dello stato monopolistico sia proprio solo degli stati governati a vantaggio di dominanti correnti verso la propria rovina? Se così fosse conserverebbe ancora quel tipo di stato la dignità necessaria per figurare allato ai tipi cooperativo e moderno, dei quali si suppone la persistenza, almeno entro i limiti del tempo, nei quali essi serbino la propria natura e non degenerino nell’opposto tipo monopolistico votato alla rovina? Quali sarebbero, per avventura, le caratteristiche teoriche proprie di quel tipo peculiare di stato? Domande, alle quali non mi attento di dare una risposta; ma alle quali converrebbe rispondere innanzi di attribuire allo strumento logico stato monopolistico la virtù di chiave logica utile ad interpretare e sistemare un aspetto o una sezione dei fatti finanziari. Qui si pone un problema di logica. Storicamente, nessuno stato fu mai monopolistico puro o cooperativo puro e probabilmente nessun stato sarà mai costrutto in modo da potersi considerare puramente moderno. L’obiezione, ripetesi, non ha valore al fine dell’indagine teorica. Quel che monta, anche a codesto fine, è che le caratteristiche assunte, per astrazione dalla realtà, a qualificare, ad ipotesi, lo stato monopolistico siano congrue alla sua propria natura. Deve, sì o no, quello stato agire in modo da provvedere alla propria auto conservazione? Se così agisce, per via logica o non logica, è concepibile che esso non provveda massimamente oltreché alla potenza della classe politica dominante, al benessere ed alla sicurezza dei governati? Se a ciò non intende (sottotipo c), corre o non corre quello stato verso il suicidio? Basterebbe, per render legittima l’indagine, assumere ipoteticamente che lo stato monopolistico sia quello in cui i dominanti esercitano il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominati, qualora l’esperienza storica dimostrasse che, nei casi nei quali l’ipotesi si approssimò alla sua attuazione, perciò lo stato correva alla rovina, laddove nei casi nei quali lo stato si mantenne, la realtà fu perciò diversa dall’ipotesi e più vicina, nonostante le forme apparentemente monopolistiche, all’ipotesi teorica dello stato cooperativo?

Badisi che qui non si nega il diritto all’indagatore di porre quelle qualsisiano ipotesi astratte che egli giudica più adatte ai ragionamenti intrapresi; si afferma solo che se le ipotesi fatte hanno, oltreché un intento di esercitazione raziocinativa, lo scopo di giovare alla interpretazione della realtà storica, esse debbono essere da questa astratte e raffigurare aspetti ben chiari di quella realtà. Sembra perciò che non si possano elencare indiscriminatamente fatti appartenenti a tempi e luoghi diversi, senza compiere di essi una attenta ventilazione per collocare ognuno di essi nella sua propria cornice, ed appurarne il vero significato, così da non attribuire allo stato duraturo cosidetto monopolistico caratteristiche che probabilmente -non dico certamente, ché l’indagine è tuttora da fare – sono proprie invece soltanto dello stato monopolistico suicida, del tipo, a cagion d’esempio, della monarchia decadente dei Luigi XV e XVI, di Napoleone dalla campagna di Spagna e di Russia a Waterloo, dello czar Nicola II e simiglianti autocrati dall’orgoglio o dall’eredità fatti ciechi dinnanzi all’abisso.

13. – Dubbi ancora più profondi fanno sorgere le ipotesi degli stati cooperativo e moderno.[8] Sarebbe cooperativa una organizzazione statale «in cui il potere sia esercitato nell’interesse di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, ma avendo di mira gli interessi particolari di ciascuno o almeno della maggioranza»; e moderna quella «in cui il potere sia esercitato invece nella preoccupazione degli interessi del gruppo pubblico, considerato come una unità» (I, 42).

Passo sopra alle complicazioni le quali nascono da ciò che, secondo l’autore della distinzione, il punto del distinguere «sta nel criterio a cui si informa la decisione, più che nei risultati positivi conseguiti»; e dalla coincidenza possibile e frequente dell’interesse particolare dei singoli e della loro maggioranza con l’interesse del gruppo, sicché «perseguendo direttamente e per via logica l’uno, si attui incidentalmente e per via non logica anche il secondo»; o, viceversa «perseguendo in modo diretto e logico la potenza e la conservazione del gruppo, si ottenga il risultato non logico (non previsto né deliberatamente voluto) di procurare a tutti od alla maggioranza dei consociati un guadagno individuale» (I, 49).

E passo sopra anche ad altre complicazioni, fra le quali quella nascente dal modo di esprimere la profezia, secondo la quale «lo stato nazionalistico rappresenta l’ultima e la più viva espressione della evoluzione della civiltà europea, non solo perché viene cronologicamente dopo lo stato assoluto e lo stato liberale, ma perché ne rappresenta una negazione e una trasformazione» (I, 55). Dove, se le parole dovessero essere interpretate alla lettera, non si vede in qual modo lo stato nazionalistico potrebbe essere considerato posteriore a quello assoluto, quando il compito delle grandi monarchie assolute di Carlo V e Filippo II, di Enrico IV e di Luigi XIV fu appunto quello di creare gli stati nazionali al disopra dello spezzettamento feudale e cittadino; e quando stato liberale e stato nazionale nacquero in Italia e in Germania nell’epoca medesima del risorgimento. Ma si tratta di questioni di parole e dell’uso dell’aggettivo nazionalistico oggi superato ed anacronistico, al luogo di quello moderno neutro ed adatto a tutti i tempi.

Sia nello stato cooperativo che in quello moderno non esiste più la distinzione fra dominanti e dominati. Esiste, si, un ceto dirigente politico; ma esso, in qualunque modo sia scelto, per elezione popolare, per cooptazione, per eredità, per autodesignazione, opera nell’interesse esclusivo particolare della totalità o della maggioranza dei singoli cittadini (stato cooperativo) ovvero in quello della collettività (stato moderno).

14. – Dico che, posta la premessa della mancanza di contrasto e separazione fra dominanti e dominati, la distinzione fra i due tipi di stato è logicamente assurda, appunto perché essa si riferisce allo stato ed agli uomini in quanto appartenenti allo stato. Supporre che il ceto dirigente di uno stato cooperativo si possa preoccupare solo degli interessi dei cittadini come singoli, sia pure della totalità o della maggioranza di essi è supporre che esso agisca come se lo stato non esistesse, come se i cittadini di uno stato fossero un semplice aggregato di atomi l’uno distinto dall’altro e riuniti solo dalla opportunità tecnica di conseguire, senza danno di nessuno, taluni vantaggi particolari meglio di quanto otterrebbero con l’opera individuale separata. No. Lo stato non è una mera società per azioni. A causa dello stato i cittadini cessano di essere dei singoli; diventano altri da quel che erano prima o, poiché non esistettero mai fuor di uno stato, da quel che si può artificiosamente immaginare sarebbero fuor di esso; la loro personalità non è più quella dell’uomo, ma dell’uomo vivente in una società organizzata a forma di stato. Non si può, neppure a scopo di mero strumento logico di indagine, immaginare che l’uomo resti, nello stato, il singolo considerato come singolo, ossia come una astrazione; e che si possa fare il conteggio dei singoli e constatare la esistenza di totalità o di maggioranze più o meno grandi.

Noi in verità non sappiamo che cosa siano entità dette uomini isolati, Robinson Crusoè viventi in un’isola deserta, privi di conoscenza di quel che poteva essere stata la loro vita in società e non legati, come era il Robinson Crusoè di Daniele Defoe, ad essa dal desiderio di ritornare a farne parte. I soli uomini da noi conosciuti, anche storicamente o per relazioni di viaggiatori, sono uomini viventi in società e dalla vita comune con altri uomini resi veri uomini, ricchi di cultura, di energia interiore, forniti di passioni di dominio o di fama, ovvero dotati di umiltà e di amore verso gli altri; uomini insomma e non automati simili a quelli immaginati nel tempo dell’illuminismo. La persona, l’individuo nell’uomo diventa più vario e ricco in quanto esso vive insieme con altri uomini e la società o collettività non è un che di distinto dagli uomini che la compongono ed esiste soltanto in quanto essa trasforma gli uomini e da atomi sperduti od automati meccanici ne fa uomini veri. Perciò il concetto degli appartenenti al gruppo pubblico e quello del gruppo pubblico considerato come unità hanno senso solo se considerati unitamente e inscindibilmente l’uno dall’altro; non ne hanno veruno quando si pretenda figurarli ed assumerli disgiuntamente.

Già dissi che lo strumento di indagine, se vuole essere fecondo, deve avere una qualche parentela con la realtà; e la realtà non è quella di un uomo, di cento uomini, di un milione di uomini, ognuno in se stesso considerato e numerato; ma è quella dell’uomo vivente dentro la collettività, trasformato da questa, avente fini che sono tali in quanto egli fa parte della collettività. Discorrere di interessi particolari di ciascuno si può, con moltissima cautela, quando si tratti di faccende private, entro i limiti nei quali lo stato non interviene. Ma se noi pensiamo a scopi che sono perseguiti attraverso o dentro lo stato, noi ipso-facto pensiamo a scopi i quali sono proprii dell’uomo in quanto parte della collettività, scopi, i quali possono riuscire di vantaggio ai singoli non in quanto tali, ma in quanto membri della collettività. Non esistono più, nello stato, interessi particolari ed interessi della collettività; ma gli uni sono fusi negli altri, e gli uni si possono conseguire solo se si conseguono gli altri. Né a caso i ceti dirigenti usano un linguaggio, il quale, se spesso è improprio, è indice della loro consapevolezza della inscindibilità dei fini privati e di quelli collettivi (nel senso di fini proprii della collettività come unità, come insieme). Se sul serio supponiamo, perciò, attuata l’idea dello stato cooperativo, ipso facto vediamo attuata l’idea dello stato moderno.

separatamente assunti, che ne fanno parte. Può trasportare la lettera di Tizio; e così facendo rende servigio a lui e non a Caio. Ma questa è mera tecnica; è un modo economicamente od altrimenti reputato vantaggioso per raggiungere fini che potrebbero altresì essere perseguiti coll’azione individuale: di trasporti ferroviari, tramviari, postali, telegrafici, telefonici, di illuminazione, di istruzione professionale ecc. ecc. Ed è tecnica propria di tutti i tipi di stato, non peculiare allo stato cooperativo. Se lo stato decide di costruire una strada, che i singoli proprietari beneficati – e si può supporre che il beneficio sia ottenuto praticamente solo dai proprietari serviti dalla strada – non riuscirebbero a costruire con accordo spontaneo, l’intervento dello stato è, di nuovo, un mero mezzo tecnico per raggiungere o raggiungere meglio un fine che i singoli sarebbero incapaci a conseguire od a conseguire perfettamente. Ed è mezzo usato da tutti i tipi di stato e non peculiare a quello cooperativo. Ossia, ancora, lo stato detto cooperativo non può, se è stato, limitarsi ai fini che tornano vantaggiosi particolarmente ai singoli od almeno alla maggioranza di essi. Lo stato il quale si limiti a perseguire fini vantaggiosi ai singoli, anche a tutti i singoli non ha vita autonoma. Esso suppone la esistenza di un altro stato, cosidetto moderno, il quale persegua fini proprii della collettività assunta nel suo insieme. Prima esiste lo stato, il quale assicura la vita della collettività, la difende contro il nemico esterno, la conserva e la esalta contro le forze di disgregazione interna (giustizia, sicurezza, istruzione); e tutti questi fini sono proprii della collettività una e indivisibile; sono fini non apprezzabili se non attraverso ad artifici convenzionali, appunto perché essi non sono fini propri degli uomini singoli, soli capaci di valutazione economica. Poi, lo stato, già formato e forte e duraturo, può prendersi il lusso di venire in aiuto dei singoli, assumendo compiti e perseguendo fini che essi da soli non potrebbero perseguire o perseguirebbero imperfettamente: costruire strade vicinali, cercare sbocchi coloniali ad agricoltori e commercianti ed industriali ardimentosi, esercitar poste e ferrovie. Lo stato cooperativo puro è acefalo; ed ha vita puramente complementare a quella dello stato moderno.

Un esempio addotto dal Fasiani è illuminante.

«Durante l’ondata di pacifismo dilagante in Europa subito prima della guerra 1914-18 si è da vari autori negata la convenienza delle Conquiste coloniali, in quanto il costo dell’impresa supera, a loro dire, il valore del flusso di reddito che se ne può trarre.

Prescindiamo pure dal fatto che la conclusione era del tutto arbitraria e priva di qualunque base seria. Ma il modo stesso con cui il problema veniva impostato, dimostra che gli autori che lo proponevano avevano esclusivamente di mira una organizzazione in cui il potere sia esercitato nell’interesse di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, ma avendo di mira gli interessi particolari di ciascuno o almeno della maggioranza. Soltanto in questa il problema della conquista può assumere l’aspetto di un bilancio fra i sacrifici che i singoli son chiamati a sopportare e i vantaggi che ne possono trarre. In una organizzazione in cui il potere sia esercitato invece nella preoccupazione degli interessi del gruppo pubblico, considerato come una unità, il problema è assai più vasto e complesso. La conquista non è più una questione di dare ed avere nel bilancio dei singoli, ma riguarda la sorte del gruppo pubblico come tale: le sue possibilità di espansione, la sua potenza militare e politica, la formazione e la decadenza del suo imperialismo. Non è più in gioco l’interesse del singolo, ma l’interesse del gruppo considerato come unità» (I, 47-48 e 42).

Supponiamo di aver superato le difficoltà di valutazione dei costi e dei redditi dell’impresa coloniale, rispetto alla quale sembra probabile la conclusione che il bilancio si chiuda sul serio in perdita per l’imprenditore (stato o compagnia), rimanendo incerta, perché sinora non indagata, la natura della chiusura del bilancio per i singoli coloniali andati al seguito dell’imprenditore; e supponiamo altresì di aver superato le difficoltà della valutazione dei fini di potenza e di espansione dello stato, concepito come unità, il quale inizia l’impresa coloniale. Dico che il primo bilancio, del costo dell’impresa col flusso dei redditi che se ne possono trarre, non è il bilancio di uno stato; ed aggiungerei anzi che quasi non lo interessa. Concepita come un bilancio di dare ed avere economico, l’impresa coloniale è propria di una società di azionisti perseguenti fini di arricchimento. Se vogliamo attribuirla allo stato, essa pare propria dello stato monopolistico, il cui gruppo dominante la mediti per arricchire se stesso ed i proprii affiliati o cadetti. Una società coloniale per azioni, è, sì, costituita allo scopo di crescere il reddito degli azionisti consociati al di là di quanto costoro potrebbero ottenere se isolatamente e separatamente si avventurassero a colonizzare paesi nuovi o barbari. Ma una società per azioni non è lo stato, il quale, se è tale, deve perseguire fini i quali sono proprii degli uomini in quanto essi facciano parte di una collettività politica. Qual è il bilancio del dare e dell’avere individuale del raggiungimento dei fini della sicurezza, della giustizia, della difesa o potenza nazionale, della pubblica igiene, i quali, da che mondo è mondo, sono caratteristici dello stato, di un qualunque stato il quale sia inteso alla propria conservazione? Se l’organizzazione di cui si parla pensa, iniziando un’impresa coloniale, solo ad un bilancio di costi e di redditi, quella non è stato, è semplicemente una compagnia coloniale, che io anzi direi senza carta, perché tutte le vecchie carte di concessione di conquiste coloniali imponevano obblighi di espansione, di potenza militare, di influenza politica a pro della madrepatria. Se una organizzazione coloniale è veramente stato, se essa emana od è la lunga mano dello stato, essa necessariamente persegue fini di gruppo, fini proprii degli uomini viventi e in quanto viventi nella collettività nazionale della madrepatria. Insomma, lo stato cooperativo o non è stato ovvero è tutt’uno con lo stato moderno; e, qualunque ne sia il nome, si chiama semplicemente stato e persegue i fini suoi proprii.

16. – I fini proprii dello stato, non possono, d’altro canto, essere concepiti fini esclusivi del gruppo considerato come una unità. Se lo stato cooperativo, concepito come perseguente soltanto fini dei singoli che lo compongono, è acefalo; lo stato moderno, concepito come perseguente esclusivamente fini della collettività considerata nella sua unità, è un mostro. L’ipotesi suppone l’assurdo: che possa darsi uno stato il quale operi nel proprio interesse di collettività senza preoccuparsi degli interessi degli uomini vivi che lo compongono. Non è, se si voglia conoscere la realtà, supponibile che nello stato moderno «l’interesse dei singoli sia d’importanza affatto secondaria rispetto all’interesse del gruppo considerato come un organismo». Immaginare che in quel tipo di stato l’attività finanziaria possa essere «perseguita anche se non accresce il benessere individuale della totalità o della maggioranza dei consociati» (I, 43) è fare ipotesi la quale non ha alcun addentellato con la realtà.

Partire dalla premessa che esista una unità detta stato, dei cui interessi la classe politica possa nell’esercizio del potere preoccuparsi esclusivamente, invece che degli interessi particolari di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, è partire da una premessa irreale. Non esiste infatti l’unità stato concepita come distinta dai cittadini dello stato medesimo. Per dare corpo all’ombra fa d’uopo uscire dal campo proprio dei due tipi di stato, cooperativo e moderno; concepire l’esistenza effettiva di un’entità, diversa e sovrapposta agli uomini, ossia entrare nel campo proprio del tipo di stato monopolistico. Se è vero che l’uomo isolato non esiste, se è vero che non esistono i due, i tre, i mille, i milioni di individui componenti la collettività, separatamente considerati, se è vero che i due, i tre, i mille, i milioni di individui sono tali quali sono perché viventi nella società; se è vero che di interessi dei singoli non può parlarsi, se non in quanto essi singoli facciano parte della collettività; se è vero che di interessi della collettività non possa parlarsi se non in quanto essi siano anche interessi dei componenti di essa; è vero che il dualismo fra individuo e collettività è concepibile solo se la collettività si incarni in qualcuno, uomo singolo o gruppo di uomini, ossia si incarni nella classe politica. Cacciato dalla porta il concetto dello stato monopolistico rientra dalla finestra della entità superiore, diversa e trascendente, detta stato concepito come unità.

Si spogli del resto la tesi della sua terminologia crudamente economica. Lo stato non è un ente il quale persegue fini economici, di interessi, intesi nel senso nel quale questa parola è comunemente assunta di vantaggi misurabili in lire, soldi e denari. Lo stato ossia gli uomini viventi nella società politica perseguono fini, economici morali politici, proprii del loro vivere collettivo dentro lo stato. Assumere che essi possano distinguere i fini conseguibili per mezzo dello stato in fini vantaggiosi ad essi come singoli e in altri vantaggiosi ad essi come collettività è risuscitare quel dualismo fra i singoli e lo stato, che apparve già dianzi erroneo discorrendo dello stato cooperativo. Il dualismo fra i singoli e il tutto appare anzi qui sotto un aspetto più terrificante e pericoloso; in quanto è fondato sulla premessa di uno stato il quale pensi e provveda solo alla collettività e non agli uomini che ne fanno parte. La concezione non è moderna; è antica come i tiranni greci, come l’Etat c’est moi di Luigi XIV; è il ritorno alla pagana deificazione dello stato sopra l’individuo. Cristo sarebbe venuto indarno sulla terra se noi non fossimo persuasi che lo stato non ha altro scopo se non la elevazione morale e spirituale dell’uomo vivente nella società dei suoi simili. L’elevazione dell’uomo singolo non può non aver luogo nello stato; deriva dal contatto necessario di ogni uomo libero con tutti gli altri uomini liberi, dalla emulazione reciproca di essi. Non esistono fini dello stato i quali non siano anche fini degli uomini, di tutti gli uomini, dei morti, dei vivi e dei non nati ancora.

Nella società organizzata gli uomini viventi acquistano la consapevolezza del legame inscindibile che li avvince alle generazioni passate ed a quelle future. Non lo stato come ente pensa ai trapassati ed ai nascituri, ma gli uomini associati e fatti diversi, esprimono, per mezzo dello stato, la volontà di perseguire fini, i quali vanno oltre la loro vita caduca e radicati nel passato si protendono nel lontano avvenire. Come potrebbero gli uomini isolati, anche se viventi a milioni gli uni accanto agli altri pensare e provvedere a fini relativi a gente non viva? Gli uomini, insieme viventi, sono essi lo stato. Essi e non qualche cosa di trascendente che stia sopra e al di là di essi, anche se questo qualcosa lo decoriamo col nome di collettività o di gruppo o di stato. Per vedere un tipo di stato il quale persegua esclusivamente fini della collettività, come unità, bisogna ritornare indietro di millenni. Ma forse neppure nell’Egitto o nella Persia antichi si può trovare qualcosa che rassomigli al mostro che ci si vorrebbe presentare sotto la denominazione di stato moderno. Anche allora gli uomini credevano in qualche cosa. Anche quando elevavano le piramidi, e cadevano uccisi dalla fatica, gli uomini credevano di salire così più facilmente in cielo, essi e non la loro mitica unità collettiva.

Migliaia di martiri sono morti per protestare contro l’idolo trascendentale dello stato posto al disopra e fuori degli uomini che lo compongono. Un grande santo e uomo di stato, Tommaso Moro, è salito sul patibolo perché non volle riconoscere che lo stato fosse giudice nelle cose della coscienza; e ammetteremmo oggi che possa esistere uno stato moderno il quale persegua fini proprii del solo gruppo e possa quindi comandare all’uomo, in ubbidienza al gruppo, di violare i comandamenti che la coscienza gli detta?

Sì, un mostro cosifatto di stato può essere esistito; ma non è moderno né compatibile con la libertà dell’uomo. Lo stato moderno è quello e solo quello il quale persegue fini di elevazione morale e spirituale e perciò e solo perciò anche di benessere economico degli uomini nei quali lo stato medesimo si sostanzia e si compone. Elevazione non di ipotetici uomini selvaggi viventi isolati nelle foreste, ma di uomini viventi nella società dei loro simili.

17. – Certo, col sostituire alla nozione di stato, nel quale «il potere sia esercitato nell’interesse di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, ma avendo di mira gli interessi particolari di ciascuno o almeno della maggioranza» (cosidetto stato cooperativo), o in cui esso sia invece esercitato «nella preoccupazione degli interessi del gruppo pubblico, considerato come una unità» (cosidetto stato moderno), la nozione di stato, nel quale «il potere è esercitato al fine della elevazione morale e spirituale e perciò economica degli uomini viventi in società» noi siamo scivolati od ascesi dalla concezione del dualismo fra stato monopolistico e stato cooperativo (con la variante di moderno) al contrasto dialettico fra stato e non-stato, fra lo stato il quale vuol vivere e durare e il non-stato il quale a quello si contrappone e lo dissolve. Senza volerlo, i teorici i quali come De Viti e Fasiani hanno creato la figura astratta dello stato monopolistico, hanno in quella figura sintetizzato le forze che in ogni momento storico minano l’esistenza dello stato e lo conducono alla rovina.

Lo stato monopolistico, che sia veramente tale e in cui si riscontrino caratteristiche che lo distinguano sul serio dallo stato cooperativo o moderno, è solo quello che sopra fu detto il sottotipo (c) dello stato in cui i governanti per vie non logiche sfruttano i dominati in modo da preparare e determinare la propria rovina. Uno stato in cui ciò non accada potrà essere assoluto od oligarchico, monarchico o repubblicano, retto da uno, da pochi o molti, ma non può dirsi monopolistico, sinché non si sia dimostrato, e sarebbe dimostrazione meravigliosa a darsi, che la sua classe dirigente «eserciti il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominati». Ma questo è il non-stato, che sempre è esistito e sempre esisterà accanto allo stato. Sempre, in ogni momento storico, vi è il pericolo che le forze di dissoluzione prevalgano su quelle creative e organizzatrici; che gli egoismi individuali prevalgono sul bene comune. Sinché in un paese sono vive ed operose le forze morali intellettuali ed economiche le quali innalzano gli uomini, esiste lo stato e questo dura, lotta, prospera. Quando nel paese diventano forti e prevalenti le forze le quali degradano gli uomini, può in apparenza durare la forma esteriore dello stato; ma è forma senza contenuto. Al primo urto essa si dissolve e tutti vedono che essa era il non-stato. L’impero romano d’occidente nel quarto e quinto secolo stava dissolvendosi internamente; e, prevalendo in esso le forze disgregatrici, i potenti volgevano a proprio profitto i tributi pagati dai più, invece di volgerli al vantaggio comune.

Quando vennero i barbari, essi altro non fecero se non constatare la scomparsa già avvenuta dello stato.

La distinzione, che appartiene al mondo della realtà e della storia, fra stato e non-stato è ben altrimenti feconda di quella astratta fra tipi di stato monopolistico, cooperativo e moderno. Sempre, in ogni momento e in ogni luogo, coesistono, ad esempio, tributi che accompagnano lo stato nella sua ascesa e ne sono nel tempo stesso effetto e condizione; sempre vi sono altri tributi i quali agevolano il non-stato nel suo fatale percorso verso l’abisso e sono causa e manifestazione della sua decadenza. Sempre gli effetti del primo tipo di imposte sono stati e saranno diversi da quelli del secondo tipo; e gli effetti diversi sono stati e saranno nel tempo stesso effetto e causa e manifestazione della prosperità degli stati e della rovina dei non-stati. Alla luce della distinzione storica tratta dalla realtà i fatti singoli si illuminano e si concatenano; laddove legate a definizioni astratte in materie ribelli all’astrazione, elegantissime dimostrazioni teoriche perdono alquanto del loro splendore di verità sempiterne. Perché, ove si vogliano costrurre sistemi, non costrurre sulla realtà, che è sempre la stessa, ossia è sempre lotta, sforzo, superamento, conquista, frammezzo a caduta e ricorsi, di più alti ideali di vita?

La distinzione fra i tipi di stato monopolistico e cooperativo appare come una distinzione definitoria, la quale lascia nell’ombra la caratteristica veramente fondamentale della contemporanea coesistenza dei due tipi in ogni tempo e luogo. È la coesistenza la quale spiega l’alternarsi delle classi politiche, la decadenza della classe al potere, il sorgere di nuove forze sociali, le quali divengono a poco a poco ceto politico, atto a conquistare il potere ed a volgerlo a vantaggio morale e materiale dei componenti la collettività e nel tempo stesso già provvedute di quei motivi egoistici, i quali col tempo faranno si che il potere venga esercitato nell’interesse dei dominanti, colla rovina della cosa pubblica e del gruppo dominante medesimo. Il contrasto dialettico fra stato e non-stato che sempre coesistono e lottano per la prevalenza è, in altra sede, il contrasto eterno fra Dio e Satana, fra il bene e il male, fra la materia e lo spirito; o, meglio, è il contrasto che è dentro di noi, che ci fa soffrire e godere, che ci salva dalla morte e dal nulla per la vita che è continua lotta, continuo sforzo.

Così scrivendo è chiaro che, travalicando i confini della scienza economica astratta, abbiamo pronunciato giudizi di valore.

18. – Può, del resto, l’economista astenersi dal pronunciare giudizi di valore, intendendo per essi giudizi sul bene e sul male morale e spirituale proprii delle scelte che gli uomini fanno ed allo studio delle quali ragionevolmente si limita, per ragioni di divisione del lavoro, il campo specifico della sua indagine? La domanda non è se egli possa, volendo, astenersi dallo scrivere su problemi sui quali non ha meditato a bastanza; ché, evidentemente se il motivo del silenzio è questo, la astensione è degna di lode. È invece se egli debba essere scomunicato se si azzarda ad uscire fuor dello studio delle scelte fatte dagli uomini, perché colpevole di condotta antiscientifica.

Se è vero che il non-stato coesiste per lo più con lo stato, l’economista, il quale, per definizione, conosce ed indaga i vincoli fra l’uno e l’altro, pone, per suo istituto, in luce le ragioni per le quali si passa dall’uno all’altro e l’uno tende a prevalere sull’altro. Là dove esiste uno stato fornito di indefettibilità, ed in esso, per definizione, la volontà della classe politica è la stessa cosa della volontà di tutti ed insieme della collettività, l’economista, il quale discute di questi problemi, altro non è se non la voce di tutti, la voce della collettività. Egli non può dire: ascolto e registro; poiché se ascolta opinioni o propositi che a lui paiono infondati, egli che è parte della collettività e quindi, per definizione, parla per conto ed a nome della collettività, non può rinunciare a contrapporre argomento ad argomento, a fare che la volontà sua, che egli sa più illuminata, diventi la volontà della collettività.

Sapendo che il dato, dal quale egli dovrebbe nelle sue indagini prendere le mosse, è incompatibile con altri dati che pure sono stati fissati dalla classe politica, o che a lui sono noti per la sua partecipazione, necessaria partecipazione, alla classe politica, egli non può fare a meno di dichiarare siffatta incompatibilità e di spingere la volontà politica, che è la sua stessa volontà, a modificare o l’uno o l’altro dei dati. Egli si decide a favore di una scelta ovvero di un’altra per qualche ragione da lui ritenuta valida; la ragione valida per lui, che la deve render pubblica, è, secondo opinano gli economisti che ragionano utilitaristicamente, quella del vantaggio per tutti o per la collettività; ovvero è, a detta di altri ed a parere dello scrivente, l’imperativo dell’elevazione morale e quindi materiale degli uomini.

Quando Demostene, ahimè! troppo tardi, fece deliberare dal popolo ateniese che il theoricon e, in generale, gli avanzi di bilancio fossero versati nella cassa di guerra invece che distribuirli gratuitamente ai cittadini, egli riuscì nell’intento solo perché seppe far sorgere viva dinnanzi ai loro occhi l’immagine del pericolo, minaccioso per la libertà cittadina, degli eserciti di Filippo il Macedone. La sequenza:

  • la libertà cittadina è per gli ateniesi il bene massimo;
  • la libertà è minacciata da Filippo il Macedone;
  • senza una pronta preparazione alla guerra, la minaccia di Filippo non può essere scansata;
  • la preparazione richiede mezzi pecuniari;
  • la limitazione dei mezzi richiede la rinuncia alla distribuzione del theoricon ai cittadini desiderosi di feste e di spettacoli;
  • feste e spettacoli sono un bene di pregio inferiore a quello della libertà cittadina;
  • quindi importa mutare la scelta: guerra invece di feste e spettacoli; non può essere mutilata solo perché l’economista ritenga di dovere partire dalla scelta già fatta (feste e spettacoli ovvero preparazione alla guerra) dall’assemblea dei cittadini e non si azzardi a pronunciare su quella scelta un giudizio di valore che sarebbe politico-morale. Tutto quel che accade: feste o spettacoli, imposte sui ricchi o sui poveri, imposte alte o basse, imposte che si trasferiscono in un modo o in un altro, che incidono su questi o su quei cittadini, tutto è frutto di giudizii, di atti di volontà; e l’economista, il quale contempla e registra e analizza e concatena scelte, costi di servizi pubblici, tipi di imposte, contempla e registra ed analizza quel che egli stesso, insieme con gli altri, parte inscindibile della collettività, ha giudicato e voluto. Il chimico non può far sì che l’idrogeno e l’ossigeno non siano quel che sono, e non ha d’uopo di formulare giudizi di bene o di male su quel che è come è indipendentemente dalla sua volontà; ma l’economista fa sì, egli insieme con gli altri e per le sue maggiori conoscenze egli più degli altri, che i dati del suo problema siano quel che sono. La sua volontà contribuì alla scelta dei servizi e vi contribuì perché egli sapeva quali sarebbero state le uniformità derivanti dalla scelta fatta e quali sarebbero state le diverse uniformità derivanti da una diversa scelta. Perché la classe politica ed egli con essa ed egli all’avanguardia di essa preferì l’una sequenza di uniformità all’altra? Perché egli ritenne che la libertà cittadina (destinazione del theoricon e degli avanzi di bilancio alla cassa di guerra contro Filippo di Macedonia) era il bene; e che le feste e gli spettacoli erano, in quel momento, il male. Theoricon, avanzi di bilancio, libertà e servitù cittadina, bene e male sono tutti fatti o concetti legati gli uni agli altri; e non esiste alcuna ragione plausibile perché la ricerca scientifica debba arrestarsi dinnanzi al bene ed al male, dinnanzi agli ideali ed alle ragioni della vita quasi si trattasse di intoccabili.

Si potrà dire che, a quel punto, lo scienziato deve chinare, reverente, il capo dinnanzi a qualcosa a cui la sua mente non giunge, ed intorno a che solo i profeti i mistici i filosofi dissero parole illuminanti. Si potrà dire che da quel momento nel quale le scelte sono fatte e registrate, comincia, in ossequio a legittimi canoni di divisione del lavoro, il compito specifico dell’economista: se gli uomini hanno deciso di fare le tali e tali scelte, con tutto quel che segue. Ma se quel che segue a sua volta ha influenza sulle scelte compiute, se i risultati delle scelte e le scelte medesime reagiscono sui motivi di queste, come si può dire: di qui comincia la scienza; e prima c’e… che cosa? Fuor della scuola non esistono i vincoli di cortesia accademica i quali vietano ad un insegnante di usurpare il terreno altrui; e la curiosità scientifica non ha limiti alle sue domande sul come delle cose.

19. – L’atteggiamento di indifferenza dell’economista verso i motivi delle scelte è, probabilmente, radicato nella premessa dei ragionamenti classici intorno al prezzo in caso di libera concorrenza. Quando l’attenzione era rivolta solo allo studio di questo caso, che di fatto dominava di gran lunga su tutti gli altri, l’economista poteva credere che l’azione dell’individuo e quindi sua fosse inetta a produrre, con una scelta diversa, una qualsiasi impressione sui prezzi. L’azione infinitesima del singolo era di fatto nulla rispetto alle scelte verificantisi sul mercato ed al sistema di prezzi che ne seguiva; e poteva essere ritenuto ovvio partire dalla constatazione delle scelte senza risalire più in là nello studio dei legami tra i fatti. Non fu più così quando si cominciò a studiare il caso del monopolio. Si dovette forzatamente ricercare quale fosse il motivo che spingeva il monopolista produttore a scegliere quella quantità di merce da produrre o quel prezzo di vendita. Si dovette ammettere che il monopolista produttore ponesse a fondamento delle sue azioni il motivo, non si sa se bello o brutto, cattivo o buono, del massimo lucro netto. Si riconobbe cioè che quella teoria del prezzo del monopolio non parte dalla mera constatazione di una scelta già fatta; ma dalla premessa che quella scelta di quantità o di prezzo è motivata dalla volontà della consecuzione di un dato fine. Senza quel motivo e quel fine, la scelta sarebbe stata diversa. Oggi, che si studiano i casi di concorrenza imperfetta o di monopoli parziali o bilaterali, gli economisti hanno dovuto costrurre ragionamenti assai complicati intorno all’atteggiamento dei pochi concorrenti o dei monopolisti rivali, ed intorno alle ipotesi che ognuno di costoro fa sui movimenti altrui. I giocatori di scacchi non movono le loro pedine solo sulla base dei movimenti altrui già avvenuti (constatazione di scelte già avvenute) ma cercano di indovinare i motivi che i rivali possono avere di compiere questo o quel movimento futuro. Il generale sul campo di battaglia ragionando sui motivi probabili dell’avversario cerca di intuirne i movimenti e su questi regola i proprii. L’economica moderna è sempre più largamente intessuta di studi sulle previsioni (anticipations è divenuta parola frequentissima, fin troppo, nei libri e nei saggi di economia pura anglosassone) delle azioni altrui e sulle conseguenti variazioni delle azioni dell’individuo considerato. Si potrà dire che ciò non cambia sostanzialmente l’indole del problema; e che, in fondo, l’economista non cerca se non di rappresentare dinnanzi alla propria mente il quadro non solo delle scelte passate e presenti ma anche di quelle future, le quali influiscono sulle scelte e sui prezzi e su tutte le quantità economiche presenti. Se è facile limitarsi a constatare scelte già avvenute e ragionar su queste e contentarsi di cotali constatazioni e ragionamenti, è tuttavia altrettanto facile prevedere scelte future, senza ricostruire colla fantasia i motivi che gli uomini probabilmente avranno di compiere questa a preferenza di quella scelta? Non siamo noi indotti così, quasi a viva forza, a riforgiare l’intiera catena causale che, per ragioni di divisione del lavoro, avevamo spezzato in un punto? Il caso medesimo della libera concorrenza, tipica rappresentazione dell’automatismo di milioni di produttori e di consumatori, tutti di modeste dimensioni, tali che l’azione dell’uno può ritenersi del tutto inetta ad influenzare l’azione degli altri e le variazioni dei prezzi sul mercato, è in verità un meraviglioso artificio. Quell’automatismo, quel muoversi non concertato di milioni di atomi, quell’incontrarsi non preordinato di contraenti, nessuno dei quali sa o si cura dell’azione altrui è in realtà il frutto di un concerto, di una vigile continua azione rivolta ad impedire vengano meno le premesse di quell’automatismo e di quell’apparente disordine. Il concerto e l’azione si chiamano codice civile, codice di commercio, giurisprudenza, giudici, discussioni sulle riviste, sui giornali, nei parlamenti, nei consessi professionali, i quali hanno per fine e vorrebbero avere per risultato – e l’ebbero e l’hanno, qua e là, in maggiore o minor misura – di impedire il sorgere di monopoli, di inventar surrogati alla concorrenza palesatasi in dati casi scarsamente vitale, di abolire o limitare i motivi alla creazione di monopoli e di quasi monopoli. Concerto ed azione sono intessuti di passioni e di azioni rivolte a conquistar dominio su altri od a liberar gli uomini da qualche giogo, a deprimere o ad innalzare.

20. – La convenzione in virtù della quale l’economista puro studia le uniformità più generali di prima approssimazione del sistema di prezzi in regime di libera concorrenza, l’economista applicato le uniformità più vicine alla realtà concreta, e quindi, eventualmente, le forze le quali limitano l’azione della concorrenza e ne indaga gli effetti e indica i mezzi grazie ai quali sarebbero tolti di mezzo gli effetti della limitazione, ed il politico, ed il giurista enunciano i principii o formulano le norme legislative od amministrative atte ad eliminare od a ridurre le limitazioni alla concorrenza, quella convenzione ha una utilità pratica indiscutibile, ma nulla più. Quanto più la rappresentazione che noi ci facciamo della realtà passa dal tipo della istantanea fotografica a quella della cinematografia estesa nel tempo, dalla statica alla dinamica, tanto meglio scelte fatte, scelte future e previste, conseguenze delle scelte fatte e motivi delle scelte future si innestano e si compenetrano le une negli altri, sì da rendere monca e spesso illogica la trattazione separata di ognuno degli aspetti di un unico problema.

21. – La trattazione autonoma di un solo aspetto dell’unico problema è certo perfettamente legittima. Chi vuole studiare le leggi del prezzo in regime di libera concorrenza ha mille ragioni di non voler essere disturbato dalle vociferazioni di coloro i quali gli vorrebbero imporre di dichiarare se, a parer suo, la libera concorrenza sia un bene od un male, sia tollerabile o non dal legislatore liberale o socialista o conservatore o cattolico, sia storicamente destinata a scomparire e, se per avventura scomparisse, sia capace di risurrezione. Chi vuole studiare le leggi dell’imposta in una situazione ipotetica da lui definita con esattezza ha ragione di cacciar fuor dall’uscio i disturbatori, i quali vorrebbero invece che egli desse un giudizio storico o morale o politico intorno ai regimi di monopolio o di concorrenza, che egli ha assunto come premessa delle sue indagini. Contro siffatte prepotenze ogni studioso ha diritto di insorgere.

Il diritto di insurrezione non implica però il diritto di scomunica contro altre ricerche. Chi studia il modo di agire della classe politica, intesa nel senso di gruppo di persone le quali posseggono le qualità, qualunque esse siano, necessarie in quel tempo, per esercitare il comando dello stato ha perfettamente ragione di limitare il suo studio alla classe politica intesa in quel senso e non in un altro. Ma non ha il diritto di escludere che altri studi la medesima classe politica diversamente definita, sì, ad esempio, da legittimare veramente l’uso, altrimenti improprio, della terminologia di classe eletta. L’aveva definita Platone come composta di pochi «uomini divini… i quali hanno saputo serbarsi puri da corruzione». Essi debbono essere ricercati dai cittadini «per terra e per mare, in parte per rafforzare quel che v’è di saggio nelle leggi del loro paese ed in parte per correggere quel che può essere in quelle di difettoso. Non è possibile la perfezione nella repubblica, se non si osservano e non si cercano questi uomini o se ciò si fa male». La concezione della classe politica come quella la quale consiste in quei gruppi di uomini che aspirano alla conquista del potere, o riescono a conquistarlo ed a conservarlo per un tempo più o meno lungo, concezione dominante nei libri classici di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto, non è la sola possibile. Accanto ad essa, esiste non di rado un’altra classe, di uomini che non aspirano al potere, e non di rado sono perseguitati da coloro che detengono il potere. Sono i cristiani dei primi due secoli, i grandi filosofi, i saggi ed i virtuosi d’ogni tempo. Hanno essi il potere morale e talvolta sono assai più potenti di coloro che detengono il potere politico. Costoro compongono la classe eletta. Assai di rado accade che la classe eletta sia chiamata a governare gli stati od abbia parte preponderante e decisiva nel governo. Nascono in quei rarissimi casi gli stati prosperi pacifici e stabili; ed in questi stati tende ad essere osservata la legge morale, le relazioni fra le classi sociali non sono turbate da discordia e da invidia, le condizioni economiche della nazione progrediscono, intendendosi per progresso quella situazione della quale gli uomini sono malcontenti solo perché anelano tuttavia ad innalzare se stessi, e la finanza pubblica è congegnata in modo da riposare sul consenso universale.

Perché non dovrebbe essere oggetto di studio scientifico fra le tante specie di classi politiche e di formule da esse adoperate per governare i popoli anche quella particolare specie la quale, ubbidendo alla legge morale, assicura la persistenza e la risurrezione dei popoli grazie alla formula eterna del decalogo e sola sembra perciò aver diritto all’appellativo di eletta? Perché, astrazion fatta da questi rarissimi quasi leggendari casi di stati governati da una classe eletta, non dovrebbe essere oggetto di studio scientifico l’operare perenne, talvolta inavvertito, ma sempre attivo, della classe eletta a scuotere il dominio delle classi politiche le quali di fatto sono al governo degli stati, ma non potranno durare a lungo se conducano gli stati al male ed alla rovina e seminino i germi della discordia civile e della disfatta militare? Lo studio della classe eletta non è altrettanto rilevante ed ugualmente possibile come quello della classe meramente politica? Non è esso lo studio di quel che dura accanto a quel che passa, delle forze e delle idee le quali guidano l’umanità verso l’alto, accanto a quello delle forze e delle idee le quali lo traggono in basso? Certamente è ardua impresa definire l’alto e il basso; ma la difficoltà non ha mai scoraggiato gli indagatori amanti della ricerca scientifica. Si farebbe grave ingiuria all’intelletto umano se lo si dichiarasse inetto a distinguere fra Dio e Satana. Chi, aborra da siffatte considerazioni quasi fossero estranee alla scienza, ma reputi tuttavia pertinente ad essa l’indagine dell’alternanza delle classi politiche al potere, dei vincoli esistenti fra la composizione delle classi politiche, il tipo e la durata dello stato esistente, la quantità e la qualità delle entrate e delle spese pubbliche;

deve reputare ugualmente pertinente alla scienza: l’indagine dell’esistenza nella collettività di classi elette distinte dalla classe politica, od immedesimate con essa, dei vincoli esistenti fra classe eletta, classe politica, persistenza, decadenza, dissoluzione e resurrezione dello stato, contentezza o malcontento, prosperità o rovina della collettività.

Non pare che classi elette, persistenza, decadenza, dissoluzione, risurrezione, contentezza, malcontento, prosperità, rovina (b) siano concetti di più ardua definizione o descrizione di classe politica, potere, interesse a conquistare ed a conservare il potere (a), né pare che la ricerca dei vincoli esistenti tra i fatti (b) sia di indole diversa di quella dei vincoli tra i fatti (a). Se è vero che i vincoli (a) sono spiegati dai (b) e solo per contrasto o reazione gli (a) spiegano i (b), si deve concludere che, pure essendo amendue scientifiche, la indagine (a) è posta su un piano inferiore a quello (b).

22.- Il diritto di limitare i proprii studi all’investigazione delle leggi del prezzo in regime di concorrenza piena o limitata o di monopolio o polipolio non implica dunque l’affermazione, ben diversa, che la scienza finisca a quel punto e che gli sforzi altrui intesi ad investigare se l’attuazione della concorrenza piena o del monopolio sia o non sia conforme a un certo ideale di vita cadano fuori del territorio scientifico. Il diritto di limitare le proprie investigazioni alle leggi dell’imposta in regime di stato monopolistico arbitrariamente definito non implica altresì il diritto di negare carattere scientifico all’indagine ben diversa sulla conformità ai fatti di quella definizione e sulla logica di altre diverse definizioni dei tipi di stato. Dall’insurrezione non è lecito trascorrere alla scomunica, perché si dichiarerebbe così che l’ipotesi della libera concorrenza o dello stato monopolistico sono meri parti della fantasia solitaria degli economisti in cerca di temi di esercitazione accademica. Se così fosse, se i «se» premessi ai ragionamenti economici fossero assolutamente arbitrari, l’economista potrebbe dire: qui finisce la scienza, tutto ciò che è al di là non esiste, non può formare oggetto di scienza, perché io ho creato il problema, io ho creato i dati di essi; e non devo render ragione a nessuno del perché delle mie creazioni. Ma così non è. I «se» premessi al ragionamento economico non sono creazioni solitarie ed arbitrarie. Sono tratti dalla realtà vivente. Sono astrazioni grandemente semplificate della realtà. Di questa realtà fanno parte le passioni, i sentimenti, gli ideali politici religiosi morali, le idee intorno al male ed al bene, gli interessi di famiglia di classe di regione, i rapporti tra le classi ed i ceti componenti la collettività, la legislazione e le consuetudini vigenti, e così via. Questa realtà, così varia e ricca e mutevole, è grandemente difficile da investigare; ma non vi è alcuna ragione plausibile perché essa non possa formare oggetto di indagine altrettanto scientifica quanto quella che gli economisti hanno costruito attorno alle ipotesi semplificate della libera concorrenza o del monopolio, od i finanzieri cercano di costruire attorno a quelle degli stati monopolistici, cooperativo o moderno. Supponiamo che gli uomini si formino la convinzione che un regime di libera concorrenza sia intollerabile per ragioni morali, che esso urti contro la coscienza umana; e che la convinzione acquisti tale vigore e tale universalità da indurre effettivamente gli uomini a sopprimere ogni traccia del regime di libera concorrenza. Anche gli economisti finirebbero di abbandonare una premessa di ragionamento priva di qualsiasi addentellato con la realtà. Quale interesse esisterebbe a studiare leggi di fatti inesistenti? Altrove[9] ho scritto che se la scomparsa della libera concorrenza si verificasse a favore di un regime a tipo collettivistico o comunistico, finirebbero persino di esistere gli economisti. Altri investigatori prenderebbero il loro posto: non so chi o come qualificati, probabilmente descrittori di pubbliche contabilità o di gestioni amministrative. Tanto stretti sono i vincoli fra la realtà e l’indole della scienza che quella realtà a volta a volta consente di creare.

23. – Noi non possiamo porre alla impostazione scientifica dei problemi economici limiti atti ad escludere i giudizi di valore. Se in uno stato, nel quale la classe politica si preoccupi, nell’esercizio del potere, esclusivamente dell’elevazione morale ed intellettuale e perciò anche materiale della grande maggioranza e possibilmente di tutti gli uomini componenti la collettività, si osservi dominare il concetto della esenzione dall’imposta di un minimo non solo fisico ma sociale di esistenza, diremo noi che la impostazione scientifica del problema dell’esenzione del minimo sociale consista semplicemente nel prendere atto, come di un dato, della opinione espressa in merito dalla classe politica? È vero che l’andare al di là di questa constatazione, il cercare di rendersi ragione del valore morale del minimo accolto sia un uscir fuori dal campo scientifico? Non si vuole con ciò menomamente indagare se sia ragionevole il tentativo di andare alla cerca del vero o giusto o perfetto minimo sociale. Non v’ha dubbio che non esiste un criterio perfetto di giustizia in tal materia opinabile; ed avrei invano irriso ai miti della giustizia tributaria se ritenessi logica la costruzione di qualche altro mito del genere. Il quesito è diverso. Suppongasi che in un determinato momento storico il legislatore, organo sensibilissimo dell’opinione del ceto politico dirigente e dei sentimenti del popolo governato, tenuto conto del livello dei prezzi e dei redditi e del costo della vita, abbia deliberato che il minimo sociale di esistenza per cui sia da concedersi la esenzione dalle imposte, sia di 6000 denari[10] all’anno per famiglia. Diremo noi che a chi si proponga soltanto di studiare le uniformità del fenomeno finanziario non spetti menomamente il compito della soluzione del problema del miglior minimo sociale di esistenza, e cioè dell’esame critico della soluzione adottata; e che lo scienziato debba accettare senz’altro quella soluzione come un dato dei problemi di cui egli specificamente si occupa? Diremo noi che si debba scetticamente contemplare la soluzione accolta dalla classe politica come un giudizio il quale «può essere buono o cattivo, giusto o ingiusto, sensato o no, a piacere di questo o quel finanziere»; ma è «per lo scienziato» meramente «un fatto, un dato dei problemi di cui si occupa» (II, 59-60)? Mai no. Non vi è affatto alcuna necessità logica la quale costringa lo studioso a spogliarsi volontariamente e gratuitamente degli attributi della sua virilità scientifica. Quei 6000 danari all’anno per famiglia non sono affatto l’ultima Thule della sua ricerca. Appunto perché sono un dato del problema che egli deve studiare, essi non hanno alcuna particolare degnità; ed egli li può voltare e rivoltare in tutti i sensi e dopo avere studiato gli effetti del dato, risalire alle origini di esso, col sussidio di altri dati pertinenti o non al suo proprio campo di investigazione. Se, a cagion d’esempio, studiando gli effetti dell’applicazione del dato, egli riscontrasse l’uniformità: «dati i 6000 denari di esenzione per ogni famiglia dall’imposta, nasce un disavanzo di 5000 su 30.000 milioni nel bilancio dello stato nel luogo e nel tempo di cui si tratta» non ne discenderebbe forse l’altra uniformità: «poiché la situazione di disavanzo di 5000 su 30.000 milioni non può durare, è necessario che mutino altri dati del problema: o che si tratti di accendere un debito annuo di 5000 milioni, o che si riducano le spese di altrettanto o che, se ambe le vie non siano accette alla opinione dei ceti politici dirigenti, si modifichi il minimo, riducendolo, suppongasi, da 6000 a 4000 denari»?

24. – Non è così dimostrato che i 6000 denari fissati, ad ipotesi, dal ceto politico dirigente non sono affatto il dato del problema per lo scienziato; che la cosidetta opinione o giudizio del ceto politico è qualcosa che egli contribuisce a formare ed a modificare, lui scienziato, colla analisi degli effetti che dall’adozione di questo o quel minimo derivano o deriverebbero al bilancio dello stato? È uscito lo scienziato, così facendo, dal suo campo proprio? Ha dato consigli? Ha proposto ricette? Si è fatto paladino della assoluta o perfetta giustizia tributaria? Ha preteso di sostituire il suo giudizio a quello della classe politica? Ancora no. Si è semplicemente appellato dal papa male informato al papa bene informato. Ha semplicemente esposto alcune ulteriori uniformità che paiono anch’esse di natura strettamente scientifica. Ha detto: se questo è il dato, se questa è la premessa, queste sono le conseguenze; se il dato muta in un dato senso ed in una data misura, queste altre sono le conseguenze. Se noi supponiamo che l’equilibrio del bilancio sia un altro dato, sta che equilibrio del bilancio e 6000 denari esenti dall’imposta sono, in quelle contingenze di luogo e di tempo, due dati incompatibili tra di loro. Dopo di che, parrebbe che il giudizio definitivo sia di nuovo lasciato alla classe politica dirigente. Ma questo sarebbe un modo assai improprio di esprimersi. La classe politica dirigente, la quale non governi nell’interesse proprio, ma in quello della elevazione degli uomini componenti la collettività, non dà, non può dare un giudizio arbitrario. Dà il giudizio che deve dare, posto il fine che per la sua indole deve raggiungere. Altrimenti cadremmo fuori dell’ipotesi di una classe politica dirigente la quale ecc. ecc. (come sopra). Epperciò, se noi supponiamo, come dobbiamo, che lo scienziato sia colui il quale, conoscendo tutti i dati conoscibili del problema che si tratta di risolvere: esigenze di minimo sociale di esistenza, esigenze di bilancio, struttura del sistema d’imposta, possibilità e convenienza di variare l’ammontare delle spese pubbliche e private, possibilità e convenienza di indebitamento dello stato e, sovrattutto, fine di elevamento umano, antivede anticipa e sollecita la soluzione del problema che in definitiva dopo ripetute esperienze, sarà data dalla classe politica dirigente, noi neghiamo che scienza sia quella la quale si limita a prendere atto delle premesse volute dalla classe politica. Sottoponendo ad esame critico le prime provvisorie soluzioni, esaminandone e chiarendone gli effetti, lo scienziato compie opera che in apparenza è di critica, in sostanza è rivolta alla conoscenza di uniformità nel modo di comportarsi dei dati, da lui esaminati ad uno ad uno e nel loro insieme. Se egli conosce maggior numero di dati di quelli noti alla classe politica dirigente, dovrebbe forse far finta di ignorarli?

Che cosa sono questi paraocchi che taluni scienziati puri si vorrebbero mettere e che vieterebbero ad essi di guardare al di là delle opinioni manifestate dalla classe politica dirigente? Egli non indirizza ad essa male parole; ma candidamente tiene conto anche dei dati, a lui noti e per inavvertenza (nel caso dello stato moderno) o per interesse proprio (nel caso dello stato monopolistico) ignorate dalla classe medesima. Talvolta, nell’ansia di compiere il dover suo, egli dimentica di dare alle sue conclusioni la forma ipotetica del se e pare egli consigli e comandi o giudichi. In realtà, qualunque sia la forma del suo discorrere, egli adempie al dover suo che è di tener conto, nell’indagine, di tutti i dati del problema di cui egli è a conoscenza. Se pochi, la sua soluzione del problema sarà imperfetta; se molti, meglio si avvicinerà a quella perfezione alla quale giustamente aspira.

Lo studioso, il quale non va al di là del giudizio della classe politica, fa come Ponzio Pilato: si lava le mani del vero problema scientifico. Se egli assume che i 6000 denari del minimo sociale di esistenza siano il dato del problema che non può criticare, perché tale è la opinione in merito del ceto politico dirigente, egli non fa opera scientifica. Il nome dell’opera sua è un altro: egli serve qualcuno e merita il titolo di giurista dell’imperatore.

25. – In verità, non merita questa taccia lo studioso il quale semplicemente metta in luce la impossibilità della coesistenza di due o più dati contemporaneamente posti dalla classe politica. Eccolo diventato senz’altro critico. Illustrando le incompatibilità reciproche di parecchi dati posti nel tempo medesimo dal legislatore, i critici sono tratti fatalmente a passare oltre i limiti che essi avevano posto dapprima alla propria indagine. Né essi veggono un limite qualsiasi alla loro analisi critica. Se è ovvio che lo scienziato metta in rapporto il dato 6000 denari all’anno con i dati relativi al bilancio dello stato, al livello medio dei redditi, alla composizione economica delle classi sociali, perché non sarebbe altrettanto ovvio metterlo in rapporto con altri dati o forze, storicamente più rilevanti? Perché non, ad esempio, con le conseguenze della politica del panem et circenses? Esentare, oltre il minimo fisico dell’esistenza, un’aggiunta al minimo stesso, detta sociale, non è riconoscere il principio che le classi più numerose della società debbano godere dei servigi pubblici senza nulla pagare allo stato? Facciasi astrazione dalla circostanza che per lo più il minimo sociale d’esistenza in realtà non è tale sul serio, perché le classi più numerose pagano imposte sui consumi più che bastevoli ad assolvere il loro debito verso la cosa pubblica; e suppongasi che sul serio quel minimo sia rispettato. Può lo scienziato non porsi il quesito: quali conseguenze saranno per derivare dal dato rispetto all’ammontare delle pubbliche spese ed alla distribuzione del loro costo? Quale finirà di essere la pressione dei tributi sulle classi rimaste sole a sopportare l’onere? Quali saranno gli effetti sulla produzione e sul risparmio? Quali gli effetti se il dato fosse diverso, maggiore o minore? Quali gli effetti del dato sul morale dei beneficati e dei contribuenti? Ossia sui loro sentimenti e sulla loro condotta verso lo stato? Il principio che l’uomo provveduto di un reddito famigliare non superiore ai 6000 denari all’anno ha diritto ai servizi gratuiti dello stato in qual modo reagirà sulle opinioni e sullo stato d’animo di coloro i quali hanno i 7000 o gli 8000 denari all’anno? In qual modo reagirà sull’ammontare dei servizi pubblici i quali via via saranno chiesti allo stato dai ceti forniti, in principio, del diritto di goderne gratuitamente?

A poco a poco lo stato non tenderà a passare dal tipo della città periclea a quello della Atene vittima designata di Filippo il Macedone, dal tipo di Roma repubblicana a quello di Roma del basso impero? Sebbene, a questo punto, lo studioso sia obbligato, pur industriandosi a salvare la forma, a pronunciare giudizi di valore sulla preferibilità della città periclea a quella demostenica o della Roma repubblicana all’impero dioclezianeo, non appartengono forse codesti quesiti altresì al campo proprio dell’indagine scientifica, della ricerca di uniformità teorico-storica? Da a nasce b, da b nasce c; e c reagisce su b e su a.

26.- Non si afferma con ciò menomamente che il ricercatore debba occuparsi di tutti codesti quesiti; e risalendo dall’uno all’altro, debba giungere alla contemplazione della causa causarum. Bene fa colui il quale vuole scavare a fondo in un dato campo a circoscrivere esattamente il territorio delle sue investigazioni ed a dire: più in là io non aspiro ad andare.

Così operano gli studiosi serii e meritano lode. Altra è tuttavia la divisione del lavoro ed altra è la scomunica. Altro è dire: più in là non vado; altro soggiungere: quel che è al di là non è scienza. Porre la volontà intenzionale del ceto politico dirigente come un dato e partire da quel dato è per fermo un porre correttamente i confini del proprio ragionare. Ma non è corretto soggiungere: quel dato è un primo al di là del quale non è ufficio della scienza di andare. Senza volerlo, col solo chiarire gli effetti, io contribuisco a modificarlo, io stimolo a mutarlo più o meno profondamente. Mettendo in luce i vincoli di quel dato con altri dati, dipendenti o indipendenti dal giudizio del ceto politico governante, io dimostro che esistono certe leggi, certe uniformità le quali fanno sì che quel dato riveli la sua indole caduca e stabile, apparente o sostanziale. Intervengo nella formazione dei giudizi; giudico io stesso. Possono ragionevolmente gli economisti sottrarsi alla necessità di formulare giudizi di valore? Certamente, se, giunti al limine di questa necessità, tacciono, essi possono a testa ben alta affermare di aver compiuto la loro missione od almeno, la parte più ardua e nobile di essa. Si pensi alle maniere solitamente tenute dalla classe politica nei tentativi di dimostrare la convenienza economica per la collettività di provvedimenti intesi a favorire interessi particolari. Si vuole un dazio doganale protettivo, il quale, con danno dei più dei consumatori e produttori, avvantaggi una particolare industria e talvolta un singolo imprenditore? Sempre si dirà che il dazio giova a dar lavoro agli operai, a redimere il paese della servitù straniera, a far rimanere oro in paese. Se l’economista, oggettivamente analizzando il provvedimento, dimostra che l’occupazione operaia sarà invece probabilmente ridotta, che la servitù straniera è un mito inesistente e che la quantità d’oro esistente in paese certamente non aumenterebbe grazie al dazio, egli avrà assolto nel tempo stesso al suo specifico compito scientifico ed alla difesa della morale politica; poiché è immorale trarre in inganno l’opinione pubblica facendo apparire conforme all’interesse pubblico quel che invece conduce soltanto al particolare vantaggio privato.

Del pari, accade che la classe politica, la quale intende ad un allargamento del territorio metropolitano o coloniale, cerchi di rendere popolare il proposito affermando che la conquista sarà feconda di vantaggi economici non pochi e non piccoli per i ceti più numerosi della popolazione della madrepatria. Se l’economista, indagando le probabili conseguenze della conquista, giungerà ad opposta conclusione; se egli dimostrerà che la conquista sarà invece cagione di oneri economici non lievi, che essa imporrà sacrifici notevoli e lungamente duraturi alla madrepatria, che, ove si raggiungano col tempo gli scopi di ampliamento della civiltà che stanno al sommo delle dichiarazioni dei promotori dell’impresa, saranno sovratutto beneficate le popolazioni indigene, alle quali saranno recati i doni della istruzione, della igiene, della tecnica, laddove la colonia darà qualche vantaggio solo ad alcuni pochi commercianti ed imprenditori agricoli metropolitani; se egli metterà in luce che la meta finale della conquista, compiuta effettivamente con intenti di diffusione del vivere civile, sarà di destare col trascorrere del tempo nelle popolazioni coloniali l’aspirazione alla indipendenza e quindi alla separazione di fatto, se non formale, dal corpo metropolitano; non avrà egli, tenendosi stretto rigidamente al suo proprio campo di analisi economica, compiuto perciò opera politica di altissima moralità? Una impresa coloniale mossa dalla speranza di lucro economico conduce a breve andare a disillusioni economiche, epperciò presto fiaccamente è abbandonata a metà o, se pur condotta militarmente a termine, non è seguita dalla necessaria lunga costosa opera di costruzione economica e politica. Se invece essa, conformemente alle conclusioni dell’economista, è iniziata avendo ben chiara dinnanzi alla mente la nozione dei costi e dei sacrifici presenti e dei vantaggi indiretti lontanissimi, le sue probabilità di riuscita saranno ben più grandi. Chi costruisce sapendo che non lui, ma i suoi lontani nepoti e sovratutto genti a lui ignote e forestiere godranno il frutto dell’opera sua, quegli costruisce per l’eternità, quegli abbrevia, appunto perché non vi intese, i tempi della riuscita, quegli veramente procaccia grandezza alla madrepatria.

L’economista, il quale, posto dinnanzi ad un proposito dell’uomo di stato, freddamente ne indaga gli effetti e ne studia le relazioni necessarie con altri propositi e con altri istituti, e più in là non si attenta di andare, ci appare dunque come un vero sacerdote della scienza. Indagare verità, non dar consigli: ecco la sua divisa che più faticosa e ardua e moralmente coraggiosa non si saprebbe immaginare.

27. – Ma, indagando verità, lo studioso inevitabilmente pone a se stesso la domanda: posso io evitare di dare un giudizio sulle opinioni, sulle credenze, sulle deliberazioni dei ceti politici; il che, nei tipi di stato cooperativo o moderno, quando lo stato è l’eco della volontà dei governati, interpretata dalla classe politica, vuol dire un giudizio sulle opinioni, sulle credenze, sulle deliberazioni degli uomini viventi in società? Par certo che, dati certi fini, si fanno certe scelte, e, dati altri fini, si fanno altre scelte. Ed anche questa è una uniformità scientifica. Gli economisti la possono bensì espellere dal territorio che essi hanno impreso a coltivare; ma poiché non esiste nessuna ragione plausibile per fissare i confini di un qualunque territorio scientifico secondo una linea piuttosto che secondo un’altra, vi potrà essere qualcuno diversamente curioso degli altri, il quale legittimamente studierà i vincoli tra fini e scelte, non foss’altro per indagare se la consacrazione che egli ha fatto di se stesso a quella scienza non sia per avventura sacrificio ad idolo privo di anima.

Gli economisti hanno le loro sorti legate a quel tipo di società in cui gli uomini compiono le loro scelte liberamente, entro i limiti posti dalle istituzioni, dalle tradizioni, dai costumi, dalla cultura, dalle leggi, dal clima, dall’ambiente politico sociale religioso e morale, dall’indefinito vario moltiplicarsi dei desideri in relazione ai redditi delle diverse classi sociali. Dire che le scelte sono determinate dai fini voluti dagli uomini, è dire che esse sono in funzione dei varii e molti fattori, i quali compongono i fini; e poiché fra i fattori e le scelte fatte intercedono rapporti che possono essere quantitativi non si vede la ragione decisiva perché gli economisti debbano fermarsi nelle loro indagini al fatto scelta.

Se si vuole, chiameremo economisti alfa gli indagatori delle uniformità successive al fatto scelta; e economisti beta coloro che indagano altresì le uniformità che, attraverso le scelte, legano, ad es., i costumi, le leggi, le istituzioni, la distribuzione dei redditi ai prezzi. Ma la differenza sarà di mera divisione del lavoro e priva di contenuto sostanziale. E poiché non tutti i motivi delle scelte sono misurabili quantitativamente, quale ostacolo vieta, in nome della scienza, all’indagatore di pronunciare un giudizio intorno alla relativa dignità dei diversi motivi e dei diversi fini perseguiti dagli uomini? Necessariamente, quando non si voglia rinunciare all’uso della ragione, si è indotti da ultimo a formulare giudizi morali sui motivi delle proprie scelte decisioni ed azioni private e pubbliche. Perché a questo punto, così strettamente legato con le scelte fatte, dovrebbe tacere la scienza? Perché gli economisti, con viso arcigno, dovrebbero ringhiare: fate voi politici, fate voi uomini: create una società liberale o comunistica o plutocratico-protezionistica ed io, serenamente, oggettivamente, studierò le relazioni tra i fatti, qualunque siano, che voi avrete creato. No; serenità ed oggettività non esistono nelle cose umane. L’economista il quale sa quali siano le leggi regolatrici di una società economica liberale o comunistica o plutocratico-protezionistica non può non aver fatto, a norma del suo ideale di vita, la sua scelta; ed ha il dovere di dichiararne le ragioni. Chi, al par dello scrivente, aborre dall’ideale comunistico o plutocratico- protezionistico non può far a meno di palesarsi fautore dell’ideale liberale;[11] e questa visione della vita non può fare a meno di esercitare un’influenza preponderante sulla trattazione, che egli fa, dei problemi economici. Quasi tutti gli economisti, anche quando hanno simpatie operaie o socialistiche o interventistiche, in sostanza vogliono osservata la condizione fondamentale della libera scelta da parte degli uomini dei proprii fini e quindi anche dei proprii consumi. E poiché questa condizione è incompatibile con la persistenza di un ordinamento comunistico o plutocratico-protezionistico, essi implicitamente vogliono un ordinamento liberale della società. Perché astenersi studiosamente dal manifestar questa che è la loro fede? Ma i classici furono reputati grandi anche perché ebbero una fede e compirono indagini astratte durature perché le premesse dell’indagare erano poste dalla fede che avevano in un certo ordinamento sociale. Se avessero avuto altra fede, avrebbero poste altre premesse; ed i loro ragionamenti sarebbero stati probabilmente infecondi, così come furono nel tempo stesso scientificamente infecondi i ragionamenti di coloro che erano partiti da ideali utopistici o, come Marx, derivarono la premessa del valore-lavoro dal fine di sommuovere le moltitudini contro il mito capitalistico. Se le premesse ed i ragionamenti degli economisti furono fecondi di grandi risultamenti scientifici, grazie debbono essere rese anche ai loro ideali di vita. Consapevolmente o non, essi possedevano e posseggono un certo ideale; ed in relazione ad esso ancor oggi pensano e ragionano. Perché tacerlo; e perché chiudere gli occhi dinnanzi ai legami strettissimi i quali intercedono fra quel che si vuole e quel che si fa? fra l’ideale e l’azione? Che cosa sono codesti fatti, dei quali soltanto la scienza dovrebbe occuparsi, se non il risultamento delle azioni umane, ossia, da ultimo, degli ideali che muovono gli animi?

 

[1] Nota del Socio nazionale Luigi Einaudi presentata nell’adunanza del 17 febbraio 1943 della classe di scienze morali della Reale Accademia delle scienze di Torino [Ndr.].

[2] La dichiarazione è implicita nei Principii di economia finanziaria (Torino, Einaudi, 1938) dell’originatore dello schema Antonio De Viti De Marco ed è esplicita nei Principii di scienza delle finanze (Torino, Giappichelli, 1942) di Mauro Fasiani che ho recensito nel quaderno del marzo 1942 della «Rivista di storia economica». Le citazioni che si faranno qui di seguito colla indicazione, tra parentesi, del numero romano del volume ed arabico della pagina si riferiscono a questa segnalata opera.

[3] (Avendo anch’io commesso il peccato comune agli insegnanti di scrivere o dover scrivere i miei Principii di scienza delle finanze (Torino, 1940).

[4] Vedine un cenno nel par. 3 della mia recensione nel quaderno del marzo 1942 della «Rivista di storia economica». A quel cenno intorno alla mancanza di connessione logica fra una certa definizione dell’imposta generale e la presenza del tipo monopolistico di stato seguì una corrispondenza, la conclusione della quale pare potersi riassumere così: 1) lo scrivente nega quella connessione perché ritiene che ove si definisca generale un’imposta quando, anziché «un ristretto settore di economia» percuota, sia da sola, sia costituendo con altre un insieme, «vasti settori o, al limite, tutti i settori» della medesima economia (F. I, 258), l’ipotesi della esistenza di un’imposta generale non è necessariamente legata con l’ipotesi della esistenza dello stato monopolista; e con quest’ultima non è necessariamente legata la stessa ipotesi, quando essa riceva l’ulteriore connotato che il gettito ne sia impiegato a crescere i redditi dei dominanti. Non è dimostrabile cioè che solo nello stato monopolistico possa istituirsi «un’imposta generale il cui gettito sia impiegato a crescere i redditi di taluno, ossia di una parte sola di coloro i quali hanno pagato l’imposta», che è il modo generico di formulare il concetto particolare che il gettito sia devoluto a crescere il reddito di certe persone dette dominanti. Un’imposta di questo tipo può postularsi anche nel caso dello stato cooperativo o di qualunque altro tipo di stato, bastando pensare alle imposte il cui gettito, ottenuto da tutti o da molti cittadini è impiegato a favore di altri o di alcuni solo tra essi: interessi del debito pubblico, pensioni di vecchiaia e simili (le cosidette transfer expenditures, le quali non implicano per se stesse il consumo di beni e servigi e sono diverse dalle exhaustive expenditures, le quali implicano una controprestazione da parte del beneficiario: stipendi a pubblici funzionari, pagamento di forniture allo stato, ecc. e cioè il consumo di beni e servigi i quali non possono perciò essere altrimenti impiegati. (Cfr. Pigou, A study in public finance, p. 19-20). Quindi non essendo il concetto dell’imposta generale il cui gettito sia destinato a crescere il reddito di taluni a spese di altri collegato logicamente e necessariamente col concetto dello stato monopolistico, l’ipotesi di quest’ultimo è superflua e non aggiunge nulla alla trattazione che degli effetti dell’imposta generale, con o senza il connotato anzidetto, si può fare; 2) ma il Fasiani replica essere «pretesa arbitraria ed eccessiva» quella della «dimostrazione dell’appartenenza esclusiva delle transfer expenditures allo stato monopolista» o l’altra della «dimostrazione che effetti di un tal genere non possano essere studiati nell’ipotesi dello stato cooperativo o moderno. In questo problema, come in tutti gli altri, basta molto meno. Basta il concetto di tendenza e di norma… Io non contesto che anche in uno stato cooperativo esistano imposte le quali trasferiscono redditi: ad es., da coloro che non posseggono titoli di debito pubblico a coloro che li posseggono. Non nego quindi che si possano studiare gli effetti di un’imposta di tal tipo anche nell’ipotesi di uno stato cooperativo. Dico però che tendenzialmente, nello stato cooperativo, l’imposta non è di tal genere, mentre lo è nello stato monopolistico. Sicché la sede più appropriata per studiarne gli effetti, gli è quella dell’ipotesi di uno stato monopolista e non quella di uno stato cooperativo. Se queste proposizioni sono esatte, ne deriva questa conseguenza: col mio modo di impostare un problema, io so che gli effetti tendenziali dell’imposta nello stato monopolista sono quelli di un tributo trasferente redditi; mentre gli effetti tendenziali dell’imposta nello stato cooperativo sono quelli di un tributo il cui gettito è impiegato in una exhaustive expenditures»… E questa «credo sia una verità più generale di quella che si ottiene studiando gli effetti dell’imposta indipendentemente dal tipo di stato in cui si applica».

A questo punto la discussione potrebbe aver termine, essendo ormai i disputanti d’accordo nel ritenere che tra le due ipotesi – imposta generale con semplice trasferimento di reddito e stato monopolista – non esiste una connessione, logicamente necessaria, ma un’altra specie di connessione, che il Fasiani dice di tendenza o di norma (frequenza). Diremo astratta o empirica siffatta connessione? Le verità che se ne deducono sono uniformità logiche o uniformità empiriche? Che cosa vuol dire verità più generale applicata ad un’ipotesi, la quale, come fatto empirico o storico, ha nello stato cooperativo o moderno verificazioni (interessi del debito pubblico, pensioni di vecchiaia, di invalidità, indennità di assicurazione per infortuni, disoccupazione ecc., istruzione gratuita, spese sociali per giardini teatri divertimenti pubblici ecc.) forse più imponenti, e si vorrebbe dire a guardarne la massa assoluta e quella relativa al reddito nazionale, di gran lunga più imponenti di quelle (appannaggi reali, spese di corte, spese di fasto, mantenimento delle varie specie di pretoriani, oligarchi e loro satelliti ecc, ecc.) che si osservano, sempre fatta ragione al reddito nazionale del tempo, negli stati detti monopolistici? Se anche sia impresa ardua e probabilmente vana il dare giudizio comparativo sull’imponenza relativa di quelle spese nei due tipi di stato, sembra legittimo il dubbio se non convenga, invece di generalità maggiore o minore delle verità assodate, disputare di mera convenienza didattica di seguire l’un metodo o l’altro di esposizione. Il primo, che sarebbe quello da me preferito: di studiare gli effetti delle imposte, facendo astrazione del tipo di stato nel quale possono eventualmente, con maggiore o minor frequenza, verificarsi; che è indagine teorica od astratta, compiuta sub specie aeternitatis; riservandosi di indagare poscia in sede teorica-storica in quali tipi di stato le diverse qualità di imposta ed i loro effetti proprii più frequentemente si verifichino. L’altro metodo, che sarebbe preferito dal F., vuole indagar prima quali maniere di imposte siano tendenzialmente proprii dell’uno o dell’altro tipo di stato, allo scopo di trattare separatamente, a proposito dell’uno e dell’altro tipo, delle maniere di imposta ad esso più confacenti. A proposito del quale metodo, lo scrivente non riesce a liberarsi del senso di inquietudine derivante dal non sapere se ci si trovi dinnanzi a leggi astratte ovvero empirico-storiche; inquietudine nel caso specifico fugata dal nitido fulgore delle dimostrazioni che, dimentico dei tipi di stato, il F. immediatamente dà in sede di teoria astratta di traslazione delle imposte.

[5] Si errerebbe supponendo che le considerazioni le quali seguono nel testo siano una critica delle teorie che sulla base di certe definizioni dello stato sono esposte dal De Viti e dal Fasiani. Devesi riaffermare esplicitamente che lo studioso ha diritto, in sede astratta, di porre quella qualunque definizione dello stato che a lui piaccia. Non ha rilievo, in quella sede astratta, verificare se le definizioni date dello stato monopolistico o cooperativo o moderno raffigurino o meno la realtà. Nel mondo di ipotesi teoriche in cui quelle trattazioni si muovono importa solo verificare se i ragionamenti condotti sulla base di quelle ipotesi siano corretti ed illuminanti. Se si faccia la ovvia riserva di possibili discussioni intorno a particolari problemi, ad es. quella accennata nella nota precedente, le opere ricordate del De Viti e del Fasiani eccellono per la chiara maestria del dedurre logicamente teoremi rilevanti da premesse chiare.

Il quesito che qui si pone è un altro, diverso da quello proprio della discussione ipotetica. Sono quelle definizioni dei diversi tipi di stato altresì atte ad interpretare la realtà storica? Non era affatto necessario che il De Viti, il Fasiani od altri ancora si ponessero il quesito; né, se lo posero, faceva d’uopo lo discutessero. È frequente nei recensenti il brutto vezzo di rimproverare agli autori di non avere studiato un problema diverso da quello che essi vollero porsi. Questa è critica impertinente, comune in coloro che, impotenti a condurre a termine indagini proprie, sempre si lagnano che altri, che pur fece, non abbia fatto meglio o diversamente. Non è però illegittimo reputare che le ipotesi presentate od i ragionamenti condotti in un libro possano anche dar luogo a quesiti diversi da quelli propostisi dall’autore considerato; e nel testo si vuole appunto discutere uno di questi diversi quesiti. Nel qual modo pare si dia anzi più ampio rilievo alle premesse poste dagli autori considerati, discutendo se esse, oltre ad essere strumento di indagine teorica, siano per avventura altresì canone atto ad interpretare la realtà. La conclusione eventualmente negativa può giovare a segnalare i limiti della validità concreta dei teoremi correttamente dimostrati veri nella loro propria sede astratta.

[6] Il F. talvolta qualifica il tipo così definito come assoluto o medievale (I, 51 e passim). Ma poiché si tratta evidentemente di sinonimi approssimativi, sui quali il pensiero non si ferma e dei quali solo in senso latissimo e parziale si vede l’uguaglianza di significato con il qualificativo comunemente usato adopererò solo la terminologia normale di stato monopolistico.

[7] Si può dubitare se lo strumento detto dello stato monopolistico abbia avuto parte nella formazione della teoria delle illusioni finanziarie se si pensa che il suo primo trattatista lungamente ne discorse senza farne menzione. Almeno questa è l’impressione che si ha nel leggere la Teoria della illusione finanziaria di Amilcare Puviani (Palermo, Sandron, 1903). È del pari dubbio se la teoria dei «limiti ai fenomeni di illusione» possa essere considerata come un frutto dello strumento logico stato monopolistico. Esso è piuttosto, nella formulazione che ne dà il F., la risultante di due forze: da un lato gli artifici illusionistici usati dallo stato e dall’altro la resistenza dei contribuenti. Ne risulta perciò una trattazione in cui ha gran parte il calcolo economico ordinario; un capitolo del trattato sugli effetti delle imposte.

[8] Il Fasiani usa promiscuamente l’aggettivo liberale invece che cooperativo e nazionalistico e corporativo invece che moderno. Mi asterrò dai sinonimi, sembrandomi che l’aggettivo liberale abbia un contenuto ben più vasto e complesso di quel che non sia quello del più adatto, perché modesto e meramente economico, aggettivo cooperativo. Quanto al tipo di stato moderno conosciuto solo per accenni generali, non userò gli aggettivi nazionalistico e corporativo, il primo perché, di fronte alle tendenze moderne, comuni ai due campi combattenti, verso le grandi formazioni politiche ultranazionali, esso appare cosa del passato ed il secondo perché peculiare, sinora, al nostro paese. Moderno essendo aggettivo privo di significato sostanziale, e contenente solo un attributo temporale, sembra meglio adatto alla materia incandescente che sta ora solidificandosi. Non mi giovo dell’altra definizione dei due tipi di stato: cooperativo quello in cui i governanti aspirano ad un massimo di utilità per la società, e moderno quello in cui i governanti aspirano ad un massimo di utilità della società, perché sebbene più concise, richieggono nel lettore uno sforzo mentale rinnovato ad ogni volta questi deve raffigurarsi nella mente la condotta della classe politica. La condotta medesima è resa invece con evidenza immediata dalle equivalenti definizioni riportate nel testo.

[9] In Le premesse del ragionamento economico e la realtà storica in Rivista di storia economica, quaderno del settembre 1940, p. 197, e segg.

[10] Uso come unità monetaria di conto denaro, che, per la sua indole storica, non ha oramai alcun addentellato con le unità monetarie oggi correnti e non può dar luogo ad alcuna impressione di troppo o di troppo poco.

[11] Liberale e non liberistico; ché liberismo è concetto assai più ristretto, sebbene abbastanza frequentemente compatibile col liberalismo; ed ha un contenuto concreto di applicazione, in particolare a certi problemi sovratutto commerciali e doganali. Il liberalismo implica un ideale di vita e vien fuori da imperativi morali assoluti; il liberismo, assai più modestamente, enumera inconvenienti che la natura umana oppone all’attuazione di ragionamenti, in se stessi corretti, i quali condurrebbero a taluni interventi dello stato compatibilissimi con l’ideale liberale. Il liberalismo è ideale di vita; il liberismo è mera pratica contingente derivata sovratutto da considerazioni politico-morali.

Del concetto dello «stato fattore di produzione» e delle sue relazioni col teorema della esclusione del risparmio dall’imposta

Del concetto dello «stato fattore di produzione» e delle sue relazioni col teorema della esclusione del risparmio dall’imposta

«Giornale degli economisti e annali di economia», luglio–agosto 1942, pp. 301-331

In estratto: Padova, CEDAM, 1942, pp. 35

Liberismo e comunismo

Liberismo e comunismo

«Argomenti», dicembre 1941, pp. 18-34[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 264-287

Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 162-184

 

 

 

 

Forse è opportuno, piuttosto che insistere in una discussione resa ardua dalla diversità delle premesse dovute alla diversa preparazione intellettuale ed alle diverse tendenze sentimentali o politiche o sociali, chiarire talune di queste premesse; e sono ben lieto me ne offra occasione il suggestivo scritto che precede.[2]

 

 

Che cosa si intende per ordinamento liberistico o comunistico o capitalistico, della cui conformità o compatibilità col concetto di libertà o con l’ideale liberale si discute? A seconda della definizione data e, più che della definizione, del contenuto concreto posto teoricamente o constatato storicamente per quegli ordinamenti, la discussione può recare a conclusioni se non diverse almeno intonate o motivate diversamente.

 

 

Il liberismo certo non è un’astrazione, bensì un ordinamento concreto. Quale è il suo contenuto? P. S. non aderisce alla opinione volgare, propria della gente innocente di qualsiasi peccato di cultura economica, secondo la quale il liberismo si identificherebbe con un ordinamento nel quale all’uomo fosse lecito di fare qualunque cosa, salvo, s’intende, ammazzare, rubare, ecc., lo stato rimanendo ridotto ai compiti elementari di soldato, magistrato, poliziotto, tutore dei cordoni sanitari contro la peste, il colera, la febbre gialla e simili. Egli intende il liberismo «nel senso dei moderni economisti, come intervento dello stato limitato a rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera concorrenza». Benissimo detto. Qualche parola in più non sarà tuttavia male spesa a chiarire il concetto. Innanzitutto, bisogna insistere sul punto che la «libera concorrenza», alla quale in quella definizione si accenna, appartiene a tutt’altro ordine di concetti da quello di liberismo. Questo è un ordinamento concreto; quella è un’astrazione. La configurarono gli economisti puri o teorici per avere in mano uno schema dal quale partire per esporre le loro leggi, che sono leggi astratte, in tutto simili a quelle della geometria o della meccanica razionale, vere sub specie aeternitatis, finché non mutino le premesse. L’economista dice: «Supponiamo che… i produttori venditori della merce x sieno molti, che ognuno di essi produca e venda solo una piccola quantità della detta merce, tale cioè che il produrla o non produrla, venderla o non venderla, non produca effetto sensibile sulla quantità totale recata sul mercato; supponiamo che anche i consumatori della merce x siano molti, che ognuno di essi intenda acquistare solo una piccola quantità di essa, supponiamo che… ecc. ecc. Avremo quella situazione che è definita di libera concorrenza; ed in questa situazione accade che il prezzo sia ecc. ecc.». Tutto ciò è pura astrazione, lecita lecitissima per costruire un corpo di leggi astratte, le quali avranno una parentela più o meno stretta con le leggi del prezzo delle merci quali si verificano sul mercato concreto, a seconda che le premesse del mercato concreto si avvicineranno più o meno alle leggi del mercato astratto, dello schema posto dall’economista come premessa del suo ragionamento.

 

 

C’è chi, a leggere tutti quei «supponiamo» si impazientisce. Quarantasette anni fa, il fondatore, che non sono io, della rivista «La Riforma Sociale» buon’anima, nel programma prendeva in giro per l’appunto le teorie che «si vogliono dare anche ora come assolute e imporre nella pratica della vita quotidiana» e sono esposte «in libri dove due terzi dei periodi cominciano con le parole: Let us suppose, If it be assumed, If we can imagine, Let us now introduce, Suppose an event to occur, But suppose a lot of persons, ecc.». In questo mezzo secolo gli economisti hanno continuato a foggiare premesse col «supponiamo»; anzi, per far arrabbiare i loro naturali nemici che sono i pratici, hanno finito per abolire le premesse in lingua volgare che qualcosa dicevano al lettore, contentandosi di abbreviature con lettere dell’alfabeto. Gli economisti hanno ragione nel seguire i comandamenti metodologici della scienza che è astratta; e soltanto il buon gusto e la sensibilità economica, che nessuno si può dare se non ce l’ha, possono ad essi consigliare i limiti dello schematizzare e dell’astrarre; ché, in fin dei conti, la scienza economica dovrebbe preoccuparsi – e tutti i grandi economisti se ne sono preoccupati – di fornire schemi astratti i quali giovino alla interpretazione della realtà concreta.

 

 

Di fronte allo schema astratto della libera concorrenza, i pratici ed i politici si sono trovati d’accordo su un punto: che lo schema della concorrenza piena, con i suoi molti venditori e produttori, col mercato aperto a tutti nell’entrata e nell’uscita, col prezzo il quale in ogni momento è uguale al costo di produzione di quel produttore, la cui offerta è necessaria a rendere la quantità offerta uguale a quella domandata e tende verso il costo del produttore a costo minimo, è un bellissimo schema, ma lontanissimo o lontano o ad ogni modo diverso dalla realtà concreta. In questo basso mondo imperano monopoli, consorzi, leghe, privilegi, brevetti, limitazioni fisiche o giuridiche, ignoranze, ecc. ecc., sicché tra lo schema astratto e la realtà concreta non c’è alcuna rassomiglianza.

 

 

A questo punto l’unanimità si guasta ed i politici si partono in due schiere che per brevità dirò degli interventisti e dei liberisti. I primi sono assai variopinti e vanno dai comunisti puri ai semplici programmisti, con programmi più o meno estesi. Essi sono accomunati dall’idea che direi della strada breve. Poiché in concreto la libera concorrenza non esiste, fa d’uopo che qualcuno regoli e disciplini il meccanismo economico. Poiché l’automatismo conduce – si afferma o si osserva o si pretende di osservare – al monopolio dei più forti, occorre che qualcuno, ossia lo stato, guidi gli uomini nella loro condotta economica e li costringa a operare nel senso del vantaggio collettivo. Talvolta si afferma di volere lasciare ai singoli libertà di iniziativa, limitando l’azione dello stato a qualche campo considerato più importante dal punto di vista collettivo, od alla fissazione delle condizioni di vendita (massimi di prezzi, calmieri) o di produzione (graduatorie nella fornitura delle materie prime, licenze di apertura di nuove fabbriche o di ampliamento delle antiche). All’ala estrema dei programmisti, si trovano i comunisti, i quali tacciano i colleghi più tiepidi di inconseguenza; osservando che non è possibile regolare solo alcuni rami o punti del meccanismo economico e sociale; ché, fissato un prezzo, tutti gli altri mutano e reagiscono. Non si può fissare il prezzo del pane, senza fissare quello della farina e della legna per accendere il forno e dell’uso del capitale forno e della mano d’opera e poi, via via, dei servizi dei mugnai e dei trasporti per ferrovia e per mare e del grano all’origine, e del lavoro dei contadini e dei prezzi delle terre; e poiché fissar tutto in concreto è pressoché impossibile, la sola soluzione logica, secondo i comunisti, è la assunzione generale della produzione e della distribuzione dei beni della terra da parte della collettività intera, ossia dello stato.

 

 

I liberisti sono gente che l’esperienza ha fatto profondamente scettica intorno alla attualità concreta dei “programmi” e nemica acerrima della assunzione compiuta di tutto il meccanismo economico da parte del leviatano statale. Essa non crede del resto che il mondo concreto sia davvero lontanissimo, oggi ed in molte epoche storiche passate, dallo schema astratto della piena concorrenza. Diverso sì e un po’ più complicato di quanto lo schema supporrebbe. Ma non lontanissimo né opposto. Là dove il mondo concreto sembra più lontano dallo schema astratto della piena concorrenza, fa d’uopo, se si vuole argomentare logicamente, chiedersi: Perché è lontano? Alla domanda gli economisti à la page coloro i quali hanno una paura verde di apparire “superati”, e che perciò tentano ad ogni quarto d’ora di superare se stessi, rispondono con un gran rimbombo di parole, tra le quali emergono: fatale andare del capitalismo, alto capitalismo, la concorrenza che sbocca nel monopolio, i grossi che schiacciano i piccoli, la legge dei costi decrescenti, il grande macchinario, la tecnica o tecnocrazia. Tutte chiacchiere prive di senso, se non siano analizzate. Chi ha fatto l’analisi? Chi ha distinto caso per caso per ogni consorzio o trust o cartello o monopolio, le ragioni del suo fiorire, se fiorì, o del suo decadere, quando decadde? Quale è la proporzione rispettiva dei monopoli o monopoloidi o consorzi intesi ad imporre prezzi superiori a quelli che sarebbero di concorrenza, i quali debbono la loro esistenza a positivi atti del legislatore e di quelli che sono dovuti a cause “tecniche”, intendendo per tali quelle cause che possono essere spiegate col tipo dell’industria esercitata, colle sue dimensioni, colle caratteristiche della merce prodotta e del mercato? Sinché questa indagine non sia stata fatta con serietà, tutte quelle parole intorno alla concorrenza morta e seppellita ed al trionfo fatale dei monopolisti – che spesso sono, nel linguaggio volgare ed in quello degli economisti ansiosi di non apparire superati, spesso confusi con gli imprenditori semplicemente “grossi” – rimangono parole, che il vento disperde.

 

 

Non ho la certezza, ma qualcosa di più del sospetto, che la proporzione maggiore dei più pericolosi consorzi di produttori, di quelli i quali veramente riescono ad estorcere prezzi arieggianti al monopolio, debbano la loro vita ad atti positivi del legislatore: dazi doganali, contingentamenti, inibizione di concorrenza da parte di nuovi venuti, brevetti e privative di ogni genere, favori negli appalti, imposte di fabbricazione, enti semi pubblici forzosi ecc. ecc. È assai dubbio se l’opera dei rimanenti monopoli o sindacati o consorzi si allontani veramente in modo apprezzabile dallo schema della concorrenza o non ne sia invece, in mutate circostanze, una nuova maniera di attuazione.

 

 

Quante strida si levarono nel secolo scorso, fra il 1820 ed il 1880, contro le leghe operaie, qualificate come tentativi di estorcere salari e condizioni di lavoro superiori a quelli naturalmente determinati dal libero gioco del mercato! E poi si vide che quelle strida erano per lo più a vuoto; ché il mercato libero suppone contraenti conoscitori delle quantità domandate ed offerte, capaci di entrare e di uscire, ossia di offrire o ritirare l’offerta della propria mano d’opera, ed invece l’operaio od anche l’industriale singolo spesso non conosce il mercato, e per lo più è costretto ad offrirsi e quindi ad accettare salari o prezzi inferiori al normale. Le leghe operaie non contraddicono dunque allo schema della concorrenza; ma sono uno strumento perfezionato della piena più perfetta attuazione di quello schema. S’intende entro certi limiti; dei quali uno è libertà dell’operaio e dell’industriale di entrare o non entrare nella lega, di contrattare per mezzo o all’infuori di essa. Anche qui il vero pericolo monopolistico nasce dal privilegio legale concesso dal legislatore a certe leghe a danno o ad esclusione di certe altre, o addirittura dall’esclusiva attribuita ad una di esse.

 

 

L’intervento «dello stato limitato a rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera concorrenza» non è perciò tanto “limitato” come pare. Esso si distingue in due grandi specie: rivolta la prima a rimuovere gli ostacoli creati dallo stato medesimo e l’altra intesa a porre limiti a quelle forze, chiamiamole naturali, le quali per virtù propria ostacolerebbero l’operare pieno della libera concorrenza.

 

 

La prima specie di intervento appare a primo tratto piana, poiché si tratta solo di abrogare leggi e norme vincolatrici, le quali creano il deprecato malanno. Il dazio protettore, il contingentamento, il divieto di iniziare, senza licenza, nuove intraprese creano il monopolio? Si aboliscano dazi contingentamenti e divieti! In un batter d’occhio lo scopo è conseguito. Si dimentica che quei dazi contingentamenti e divieti debbono la loro origine a forze economiche e politiche, le quali se sono state tanto potenti da ottenere la promulgazione di quelle leggi, saranno abbastanza forti da impedirne la abrogazione. Sicché in sostanza, quella che i cosidetti liberisti invocano non è affatto una mera mutazione nella legislazione, ma una lunga faticosa difficile contrastata opera di educazione economica sociale e politica, rivolta a persuadere il cittadino, ossia i ceti, i gruppi sociali e politici i quali agiscono sul legislatore, che una certa politica è quella più confacente all’interesse dei più dei viventi e delle generazioni venture. Altro che “fato” generatore di monopoli e distruttore della concorrenza! Quel fato si chiama Tizio e Caio, gruppo tale o tal altro, il quale direttamente dispone del legislatore o indirettamente, attraverso giornali, riviste, economisti ansiosi di non apparire superati, avvocati, maneggioni influisce sulla opinione pubblica e crea l’ambiente favorevole alla desiderata legislazione favoreggiatrice. Contro questo fato, che è poi volontà di mal fare, non c’è nessun rimedio fatato e semplice. La via diritta non serve. Bisogna rassegnarsi ai viottoli scoscesi ed agli andirivieni della educazione economica e morale. Sovratutto morale: ricordati di non rubare.

 

 

L’altra specie di intervento intesa a porre limiti alle forze naturali, proprie “eventualmente” del tipo dell’industria o del mercato o del prodotto o del momento tecnico, le quali ostacolino l’azione della libera concorrenza, non è di ardua persuasione, ma è tanto più delicata nell’attuazione. Gli uomini sono presti a persuadersi, quando c’è qualcosa che va male, ad invocare il braccio forte dello stato. Qui è la gran forza degli interventisti di tutte le razze, dai semplici ingenui programmisti ai comunisti puri. Perché lo stato, perché il governo non ci pensa? È la soluzione dei deboli, i quali, incapaci o indolenti nel fare il bene, si affidano a qualcuno che pensi e provveda per conto loro. I liberisti – seguito a chiamarli così per ossequio all’abitudine, ma bisogna davvero inventare un altro nome, tanto il loro atteggiamento mentale è lontano dal laissez faire, laissez passer – sanno che coll’incapacità e coll’indolenza non si ottiene niente; che i governi sono quelli che i popoli fanno e meritano e che è vano tentare di cavar da popoli incapaci e indolenti governi capaci di far bene, se prima il politico di genio non abbia provveduto a mutare i poltroni in gente alacre e gli incapaci in avidi di apprendere. Epperciò i liberisti non si propongono di “fare” il bene; ma solo di mettere gli uomini nella condizione di potere procurarselo da sé, quando vogliano o sappiano usare i mezzi all’uopo opportuni.

 

 

Si potrebbe citare assai esempi di siffatti tipi di intervento liberistico. Ne ricorderò due soli. Primo: il regime ereditario. Lo ricordo, perché lo vedo fatto argomento di esempio anche dallo scrittore della nota, alla quale sto appendendo queste mie considerazioni metodologiche. Senza dubbio il figlio del ricco è, sul mercato dove si incontrano produttori e consumatori di beni e di servigi, favorito in confronto del figlio del povero. Non c’è uguaglianza nei punti di partenza. Il comunista risolve alla spiccia il problema, sopprimendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, ossia, praticamente, di tutto, salvo i mobili che possono stare nel numero di camere (metri quadrati) che il legislatore fisserà. Costui, in quanto sia un credente nel suo verbo, è un buon uomo, il quale immagina che di ostacoli al mondo esista solo quello della ricchezza e ignora che l’esistenza di un certo numero e di una certa dose di essi può essere necessaria per neutralizzare altri e ben più formidabili ostacoli che operano a danno dei buoni, degli operosi, degli intraprendenti, degli studiosi, dei valori seri e fecondi. In una società dove tutto è dello stato, dove non esiste proprietà privata salvo quella della roba di casa, che sta nella casa tipica assegnabile a tutti – suppongasi dieci metri quadrati in media a testa, ma non credo si giunga a tanto nell’Europa contemporanea -, dove la produzione è organizzata collettivamente, per mezzo di piani i quali debbono essere elaborati al centro, qual è l’ostacolo, veramente formidabile che gli uomini di ingegno, intraprendenti, onesti, volonterosi, ecc. ecc., fatalmente incontrano sulla loro via? Quello dell’intrigo. Mirabeau padre l’aveva già osservato nel 1760 in un brano da me altra volta ricordato (ed ora in Saggi sul risparmio e l’imposta, p. 352):

 

 

«On ne seroit occupé qu’à obtenir des places et des pensions, qu’à parteciper aux liberalités du Prince, qu’à eviter le travail, qu’à parvenir à la fortune par toutes les voyes de collusion que la cupidité peut suggérer, qu’à multiplier les abus dans l’ordre de la distribution et des dépenses».

 

 

Quando tutti dipendono da tutti, quale è lo strumento di ascesa? Cattivarsi il favore di chi sta un gradino più in su e così via via fino al grado supremo. Non è la capacità di intrigo, di piaggeria, di connivenza un formidabile ostacolo contro gli onesti, gli intraprendenti, i lavoratori, gli studiosi seri, i valori veri, i quali nulla odiano più che la necessità di procacciarsi il favore altrui?

 

 

Epperciò il liberista esiterà assai dinnanzi all’abolizione della eredità come mezzo per abolire uno dei tanti ostacoli che esistono a questo mondo contro la uguaglianza nei punti di partenza. Egli cercherà invece nella esperienza del passato quali siano i temperamenti, le vie di mezzo da adottare (imposte ereditarie, quote legittime, facoltà di testare, ecc. ecc.), allo scopo di eliminare i casi nei quali massimo è il danno del favore ereditario concesso ai fortunati, senza abolire i vantaggi di creazione di un ceto sociale indipendente dal principe, sicuro contro le sopraffazioni dei potenti – la mia casa è il mio castello -, di promuovimento dei vincoli familiari, di stimolo al risparmio che l’istituto della eredità può produrre. Si intende che il liberista non pensa che i vantaggi si possano ottenere, che l’ostacolo ereditario possa essere conservato senza un’opera continua di illuminazione, la quale ad ogni generazione dimostri col ricordo di esperienze passate, col confronto con altri tipi di organizzazione sociale quali sono le ragioni le quali consigliano la conservazione dell’istituto.

 

 

Secondo esempio: le privative industriali. Queste oggi, attraverso un secolo di legislazione favorevole all’istituto della privativa dell’inventore sulla sua invenzione, sono divenute un vero scandalo. La privativa è oggi una beffa per l’inventore povero e d’ingegno, al quale soltanto il legislatore in origine aveva pensato. A costui il diritto di privativa praticamente non giova; che la quasi totalità delle invenzioni è opera collettiva, di sperimentatori calcolatori tecnici i quali lavorano in laboratori o gabinetti installati da grandi ditte industriali. Il brevetto oggi è divenuto uno strumento di dominio e di monopolio delle grandi intraprese, le quali possono permettersi il lusso di stipendiare fisici chimici matematici avvocati, intentar liti al povero inventore isolato il quale si illude di aver scoperto qualcosa, impedirgli di far uso della propria invenzione, costringerlo a cederla al grosso già avviato, il quale con mille raggiri cercherà di perpetuare la validità del proprio brevetto bene al di là dei 15 o 25 anni di legge.[3] Di fronte a siffatta miseranda fine delle privative industriali, il liberista quale via sceglierà? L’abolizione pura e semplice del diritto di privativa industriale? Sì, se si potesse essere sicuri, ed invece è solo probabile, che il segreto di fatto è arma migliore della privativa legale per dare all’inventore, isolato o collettivo, un compenso adeguato. In ogni caso, contrariamente all’andazzo odierno, se la privativa dovesse essere conservata, la legislazione relativa dovrebbe informarsi a due criteri: riduzione della durata al minimo, inferiore notevolmente a quello attuale, necessario per consentire all’inventore la possibilità una iniziale applicazione; e diritto per tutti di usare, senza il consenso dell’inventore, privative e relativi perfezionamenti col pagamento di un canone temporaneo stabilito per legge o dal magistrato in misura atta a non consentire prezzi di monopolio all’inventore.

 

 

Fuor di esempi, il liberista non è colui il quale vuole un intervento “limitato” nelle faccende economiche. Il criterio di distinzione fra l’interventista ed il liberista non sta nella “quantità” dell’intervento, bensì nel “tipo” di esso. Astraendo dall’interventista comunista il quale risolve il problema abolendo l’intervento medesimo – che cosa è invero quello comunista se non uno stato il quale non “interviene” più, perché ha avocato a sé tutta la gestione economica? – il criterio del distinguere sarebbe il seguente: il legislatore interventista dice all’uomo: tu farai questo o quello; lavorerai od opererai così e così; questo è l’industria o il commercio o la piantagione agricola che nell’interesse collettivo devi esercitare e nella misura e secondo un programma che io ti indicherò. Ecco il piano siderurgico, tessile, cerealicolo che tu devi attuare. Poiché siete in parecchi, ecco la proporzione che avrai a te assegnata. Lo stato, nel sistema interventistico e programmistico, insegna agli uomini, industriali agricoltori commercianti artigiani professionisti intellettuali, ciò che essi debbono fare e come lo debbono fare; fissa o disciplina o regola i prezzi e quindi i costi ed i guadagni; li varia a seconda di quelle che egli crede esigenze collettive. Il metodo interventistico è preferito dagli uomini, la grandissima maggioranza dei quali aborre dalle iniziative, dalle responsabilità e dai rischi. Su questa via regia, diritta, breve gli uomini immaginano di giungere alla felicità, al benessere, al bene.

 

 

Il legislatore liberista dice invece: io non ti dirò affatto, o uomo, quel che devi fare; ma fisserò i limiti entro i quali potrai a tuo rischio liberamente muoverti. Se sei industriale, potrai liberamente scegliere i tuoi operai; ma non li potrai occupare più di tante e tante ore di giorno notte, variamente se adolescenti, donne o uomini; li dovrai assicurare contro gli infortuni del lavoro, la invalidità, la vecchiaia, le malattie. Dovrai apprestare stanze di ristoro per le donne lattanti, e locali provvisti di docce e di acqua per la pulizia degli operai; osservare nei locali di lavoro prescrizioni igieniche e di tutela dell’integrità degli operai. Potrai contrattare liberamente i salari con i tuoi operai; ma se costoro intendono contrattare per mezzo di loro associazioni o leghe, tu non potrai rifiutarti e dovrai osservare i patti con esse stipulati. Tu, nel vendere merci, non potrai chiedere allo stato alcun privilegio il quale ti consenta di vendere la tua merce a prezzo più alto di un qualunque tuo concorrente, nazionale o forestiero; e se, dopo accurate indagini, un tribunale indipendente accerterà che tu godi di qualche privilegio che non sia la tua intelligenza o intraprendenza o inventività, il quale ti consentirebbe di vendere la tua merce a prezzo superiore a quello che sarebbe il prezzo normale di concorrenza, il tribunale medesimo potrà fissare un massimo, da variarsi di tempo in tempo, per i tuoi prezzi.

 

 

E così di seguito: nel regime liberistico la legge pone i vincoli all’operare degli uomini; ed i vincoli possono essere numerosissimi e sono destinati a diventare tanto più numerosi quanto più complicata diventa la struttura economica. La legge, ossia non il governo o potere amministrativo, bensì la norma discussa apertamente, largamente, in seguito a pubbliche inchieste, con interrogatori pubblici di tutti gli interessati e di tutti coloro i quali reputino di avere qualcosa da dire in argomento; la legge fatta osservare da magistrati ordinari, indipendenti dal governo e posti al di fuori e al disopra dei favori del governo. E questa non è, evidentemente, una via regia o diritta o rapida o sicura verso il benessere, verso la felicità, verso il bene. Anzi tutto il contrario. È via lunga, ad andate e ritorni, piena di trabocchetti e di imboscate, faticosa ed incerta. tale perché non può essere diversa; perché gli uomini debbono fare sperimenti a loro rischio, debbono peccare e far penitenza per rendersi degni del paradiso; perché essi non si educano quando qualcuno si incarica di decidere per loro conto ed a loro nome quel che debbono fare e non fare, ma debbono educarsi da sé e rendersi moralmente capaci di prendere decisioni sotto la propria responsabilità.

 

 

Dopo essermi tanto indugiato su quel che è il contenuto di un ordinamento liberistico, posso essere più breve intorno all’ordinamento comunistico. Nella discussione sui rapporti fra libertà e liberismo, fra ideale liberale e comunismo, in coloro i quali sostengono la tesi che l’uomo politico liberale possa servirsi dello strumento comunistico per ottenere l’elevamento degli uomini, mi è parso di intravvedere una certa impazienza verso coloro i quali sostengono che la libertà è incompatibile coll’ordinamento comunistico. O che forse c’è una sola definizione del comunismo? O che questo si identifica colla Russia di Lenin e di Stalin? Quale incompatibilità c’è fra libertà ed una maggiore giustizia sociale, fra libertà e legislazione sociale, fra libertà ed assunzione di certe industrie da parte dello stato, fra libertà e un compiuto ordinamento comunistico nel quale sia conservata agli uomini la piena libertà di scelta delle occupazioni e dei costumi preferiti; fra libertà e ordinamento comunistico, nel quale sia negata ai consociati ogni libertà di scelta delle occupazioni e dei consumi, ma la rinuncia sia, come accadeva nei monasteri benedettini o francescani, liberamente voluta ed anzi accettata da tutti i componenti la collettività?

 

 

La più parte delle dispute ha luogo perché i contendenti non si intendono sul significato delle parole da essi usate; ed è perciò che volentieri, se fosse possibile ma non è per la necessità di usare parole corte per esprimere concetti lunghi, abolirei l’uso delle parole liberismo e comunismo (o socialismo) perché equivoche. Ho già detto sopra come un ordinamento detto liberistico sia vincolante forse più, sebbene in senso diverso, dell’ordinamento interventistico. Così è equivoca del pari la parola comunismo e socialismo. Che sugo c’è a classificare sotto la voce ordinamento comunistico o socialistico – la differenza tra le due parole è impalpabile e indefinibile, e perciò, le uso promiscuamente – una semplice aspirazione ad una più o meno ampia giustizia sociale o ad una statizzazione (o municipalizzazione o pubblicizzazione e mi si perdoni la parola ostrogota usata per indicare la attribuzione ad un ente pubblico, che sono maniere solo tecnicamente diverse di attuare il medesimo concetto) di qualche industria da parte dello stato? Davvero nessuno, posto ché liberisti e interventisti fanno amendue propri questi ed altri consimili strumenti che essi possono reputare atti al maggiore elevamento degli uomini e solo si disputa in quali casi e con quali modalità essi siano atti a raggiungere quello scopo di elevamento; e la disputa ha importanza esclusivamente in ragione dei casi e delle modalità di applicazione e non ne ha nessuna quanto al principio, che tutti sono disposti ad accettare in generale.

 

 

A me sembra che parecchi tra i contendenti siano nel discutere troppo indulgenti verso il “generico”. Parlare “in generico” equivale a non dir nulla od almeno ad esporre banalità; ed è una banalità ammettere prima che in qualche parte del mondo o in qualche epoca storica, passata presente o futura, un dato provvedimento può essere od essere stato o tornerà ad essere giovevole all’elevamento umano, e concludere che quindi il politico liberale lo avrebbe dovuto fare o farà bene a farlo suo. L’interesse non sta in ciò; ma nel vedere perché in quella parte del mondo od in quella epoca storica quel provvedimento, il quale poteva essere e fu altrove ed in altra epoca cagione di male, fu causa, invece, di bene. Finché si tratta di provvedimenti od ordinamenti parziali o singoli, forse è facile cadere d’accordo. Diremo nocivo ed illiberale quel provvedimento di maggior giustizia sociale, in virtù del quale, essendosi il principe di una società complicata e numerosa di milioni di persone persuaso essere ingiusto che Tizio possegga 100 e Caio soltanto 50, egli ordina a Tizio di dare a Caio 15, cosicché l’uno scemi ad 85 e l’altro cresca a 65, con minore disparità fra i due. Nocivo ed illiberale perché arbitrario, dipendente dal beneplacito o dal capriccio del principe, con offesa al senso di sicurezza dei cittadini e quindi con nocumento alla spinta a produrre ed a consumare.

 

 

Si potrà discutere invece sulla misura; ma non sarà detta né nociva né illiberale e molti affermeranno essere invece liberale quella norma di legge generale, annunciata prima e duratura e prevista, in virtù della quale ad ognuno che abbia 100 venga imposto un tributo di 15 destinato a promuovere opere di bene o contributi assicurativi vari a favore di tutti coloro i quali, appartenendo alla medesima società numerosa e complicata, abbiano meno di 50, progressivamente in ragione del loro aver meno. Un provvedimento cosiffatto non è arbitrario anzi è universale; non è incerto ma è preannunciato; non turba la sicurezza degli averi, anzi la garantisce per la solidarietà che crea nei consociati. Si può e si deve discutere intorno alla misura del contributo ed alla specie delle opere di bene e dei tipi di assicurazione; che vi sono misure tollerabili ed altre eccessive; e vi sono tipi altamente educativi (pensioni di vecchiaia) ed altri (indennità di disoccupazione) i quali, oltre un certo punto, che l’amico Emanuele Sella chiamerebbe critico, dal produrre effetti morali ed educativi trascorrono a produrne altri immoralissimi e corruttori. Anzi il punto critico vi è sempre; ché persino le pensioni di vecchiaia, lodevoli sovra ogni altra assicurazione sociale a cagione del rispetto verso i vecchi che esse inducono e diffondono tra le popolazioni rustiche, spesso crudelissime verso i vecchi impotenti al lavoro, possono divenire corruttrici quando per il loro eccesso distolgano dal risparmio uomini nell’età giovane e matura, e dal lavoro vecchi attissimi al lavoro, ottimi lavoratori sino a quel momento, divenuti oziosi e viziosi quando ad essi paia di poter vivere senza far nulla, malo esempio a sé ed agli altri. Dovendo definire, direi comunistico quel qualunque provvedimento di maggior giustizia sociale o di statizzazione il quale vada oltre il punto critico, e liberale quello il quale sapientemente riesca a stare alquanto al di qua di esso. Dal che è manifesto che tutto l’interesse della disputa non sta nel provvedimento, ma nelle modalità le quali lo rattengono entro i limiti del punto critico o glieli fanno oltrepassare.

 

 

In verità, però, quando si parla di incompatibilità fra ideale liberale e comunismo non si pensa dai più a codesti parziali provvedimenti sociali. Si pensa a qualcosa di compiuto, ad un tipo finito di ordinamento economico; e questo ordinamento lo si identifica, abbastanza ragionevolmente mi pare, poiché disputando conviene avere almeno una idea approssimativa di quel di cui si discorre, con un ordinamento nel quale agli uomini sia inibito di avere la proprietà privata di qualunque cosa non cada entro la categoria dei beni “diretti”, ossia destinati al consumo od uso personale o della famiglia, con la restrizione ulteriore che non si possa possedere oltre una certa quantità fisica di codesti beni diretti – ad esempio, una vettura automobile e non due, una casa di x camere od y metri quadrati per ogni membro della famiglia e non un castello, un giardino e non un parco e simili – e che i beni diretti posseduti non possano essere locati in affitto a terzi contro compenso di un canone. Tutto il resto, tutti cioè i beni che gli economisti chiamano “strumentali” sono nell’ordinamento comunistico proprietà dello stato, od in parte dello stato e in parte dei comuni o di altri enti pubblici specificati per luoghi o per industrie o per fini. Le modalità possono essere infinite; il carattere distintivo stando in quel “tutti”; che, se invece di tutti i beni strumentali siano accomunati solo alcuni di essi, la disputa tornerà ad essere quella del punto critico, restando al di qua del quale rimaniamo nel mondo liberale ed oltrepassandolo cadiamo nel comunismo.

 

 

Anche se sia osservata la regola del “tutti”, non è del resto necessariamente offeso l’ideale liberale. Se la società comunistica è composta di monaci, i quali “volontariamente” sacrificano ogni loro avere a pro della cosa comune e si riducono a lavorare ed a pregare agli ordini del padre guardiano ed a ricevere quei soli cibi e vestiti e giacigli che al padre guardiano piaccia di assegnare ad ognuno di essi, quella è una società che intende ad elevare se stessa; ed in certe epoche storiche diede opera ad elevare anche la società intera che viveva attorno ad essa. Non vi è alcuna offesa, anzi esaltazione della libertà umana, se certi gruppi di uomini rinunciano e si sacrificano e dissodano foreste e redimono paludi a maggior gloria di Dio. S. Benedetto e S. Francesco promossero l’elevazione degli uomini ad essi contemporanei ed esaltarono l’aspirazione degli uomini verso la libertà.

 

 

Del pari non vi è nulla di contrario alla libertà nelle generose aspirazioni e nei tenaci ripetuti tentativi degli Owen, dei Cabet, dei Fourier e degli altri utopisti di fondare in Europa e in America società comunistiche. La imperfetta riuscita dei tentativi dimostra la fragilità della natura umana, la quale non riesce ad attuare durevolmente i buoni propositi; non prova affatto che quei tentativi fossero, come è volgare costume asserire, antiscientifici. La pigrizia mentale di tutti coloro i quali hanno accettato la terminologia di “utopisti”, usata a titolo di scherno da Marx a carico dei suoi predecessori, è almeno altrettanto ammiranda come la sfacciataggine di costui. Se ben si rifletta, la distinzione fra gli Owen, i Cabet, i Fourier e gli altri classificati fra i socialisti utopisti ed i Marx ed Engels, i quali da sé si autodefiniscono socialisti scientifici, sta in ciò che i primi dissero: siano socialisti coloro i quali spontaneamente decidono di vivere insieme, in tutto od in parte, di lavorare e di produrre insieme, di spartire tra di loro, con una regola da essi accettata, i beni da essi prodotti; ed i quali, così decidendo, riconoscono agli altri il diritto di vivere così come ad essi meglio aggradi, con vincoli diversi da quelli di comunione e di cooperazione che ai socialisti piace di accettare. Laddove i socialisti scientifici inventarono un gergo da cui dedussero che la società “fatalmente” era incamminata verso il cannibalismo esercitato dai grossi a danno dei piccoli, sinché, avendo il cannibale più grosso divorato tutti i minori consorti, ad esso sarebbe stata agevolmente tagliata la testa e la collettività si sarebbe messa al suo posto, instaurando il regno della felicità. Siccome l’avvenimento tardava a verificarsi, accadde che, nel paese più lontano dalla sua verificazione, per la ignavia e la corruttela delle classi dirigenti i Lenin e gli Stalin tagliassero sul serio la testa ai componenti di quelle classi e di altre classi ancora ed instaurassero un regime che si dice comunistico e forse è solo la contraffazione del comunismo.

 

 

Tra parentesi, chi merita sul serio l’attributo di “utopistico”? Gli Owen, i Cabet, i Fourier, i Saint Simon, e gli altri, irrisi come utopisti, i quali, se non riuscirono a far durare collettività in tutto comunistiche, furono tra i maggiori creatori e promuovitori del grandioso movimento cooperativo, il quale ha, si, mutato la faccia di talune società umane? Chi abbia un’idea anche vaga dei risultati meravigliosi ottenuti dalla cooperazione britannica di consumo, con le sue innumeri cooperative locali, con le due grandi associazioni di acquisto e produzione e vendita all’ingrosso d’Inghilterra e di Scozia, con le sue fabbriche e le sue flotte; chi sappia di quale trasformazione nell’edilizia popolare sia stata feconda l’opera delle società cooperative edilizie britanniche; chi ricordi la persistente sempre rinnovata opera delle società di mutuo soccorso, divenute oggi in quel paese le maggiori cooperatrici dello stato nella assicurazione malattie, non può a meno di riconoscere che quei vilipesi utopisti, quei sognatori calunniati da Marx riuscirono a creare, in nome dell’ideale comunistico, istituti vivi e grandiosi e fecondi di stupendo elevamento materiale e morale per le classi operaie. E che cosa crearono i socialisti “scientifici”? Non certo il movimento operaio propriamente detto, là dove esso davvero conquistò, come di nuovo in Gran Bretagna, posizioni oggi incrollabili di fronte ai ceti industriali nella contrattazione dei salari, delle ore e delle condizioni di lavoro; ché quel movimento si svolse del tutto fuori dell’influenza del socialismo scientifico e se deve qualcosa a qualche ispirazione, questa fu la medesima ispirazione di libertà religiosa e politica la quale sta alla radice, così come di tanti altri istituti, anche delle correnti di pensiero dette del socialismo utopistico. Per non discutere su contraffazioni, facciamo astrazione dal gergo apocalittico di Marx e dall’opera dei profittatori odierni di quel gergo; e immaginiamo una società comunistica compiuta e perfetta, nella quale ad uno o più enti pubblici sia dunque riservata la proprietà e l’esercizio di tutti i beni strumentali (quelli che nel gergo cosidetto scientifico dei marxisti si chiamano strumenti di produzione). Altrove[4] furono già esaminate le ipotesi varie che si possono fare in proposito. Non le riesporrò, per non ripetermi e non dilungarmi. Dirò solo che delle due ipotesi estreme l’una, a parer mio, è utopistica; ed è quella secondo cui l’ente o gli enti pubblici padroni dei beni strumentali e del loro esercizio (ossia organizzatori di tutta la produzione dei beni diretti di consumo e del risparmio, che è produzione di nuovi beni strumentali) riconoscerebbero e rispetterebbero ed avrebbero per iscopo di promuovere la massima più ampia libertà degli uomini di scegliere le proprie occupazioni e di distribuire il proprio reddito tra i beni di consumo. È la premessa dei ragionamenti con cui Pareto, Barone e Cabiati concludono alla identità delle soluzioni comunistiche con quelle date dalla perfetta libera concorrenza. La verificazione di siffatta premessa richiede la verificazione di parecchie altre premesse politiche, morali, religiose, intellettuali. Suppone che nella immaginata società comunistica i dirigenti siano davvero l’emanazione dei governati e ne attuino pienamente le aspirazioni; suppone che nei cittadini esista unanimità di propositi, o se vi sono dispareri e dopo discussione la maggioranza si sia pronunciata, la minoranza volentieri acceda[5] e collabori; suppone che esistano mezzi attraverso i quali le minoranze, anche le più piccole, possano liberamente esprimere e far valere le proprie opinioni o credenze contrarie a quelle della maggioranza e ad esse sia garantito nel modo più ampio il diritto di trasformarsi in maggioranza, se ad esse riesca di persuadere i più.

 

 

Tutto ciò, storicamente, sulla base della esperienza fin qui osservata e dalla quale non possiamo dipartirci se non con buone ragioni, è utopistico, fantasticamente utopistico. Abbiamo osservato ordinamenti concreti forniti di una dose maggiore o minore di libertà; ma in nessuno di essi mai si vide che coloro, i quali in un certo momento erano i dirigenti politici, fossero anche i dirigenti economici assoluti, ossia padroni della vita e della morte di tutti i cittadini, arbitri di escluderli dall’acqua e dal fuoco, se non ubbidissero ai loro comandi. Chi, dotato di tale autorità, non soggiacque alla tentazione di diventare uno Stalin? Chi non trovò pretesto o giustificazione a diventarlo, nel dovere da lui sentito di non cedere il posto ad un Trotzki, da lui giudicato a sé inferiore e nemico dell’ideale scritto nelle tavole della legge?

 

 

La ipotesi corrispondente alla natura umana è l’altra: quella per cui chi ha il potere politico assoluto se ne serve non al perfezionamento degli uomini, ma a crescere ed affermare il potere proprio e del gruppo dirigente. Se poi, come accade in una società comunistica piena, il gruppo dirigente, oltre il potere politico, possiede anche il pieno potere economico, per quale mai ragione misteriosa dovrebbe astenersi dall’usarne? Per rendere ossequio al principio che i governanti sono fatti per i governati, che il ministro della produzione deve produrre quel che piace e nella misura in cui piace ai consumatori di desiderare? Eh! via; questi principi possono essere scritti od essere implicitamente contenuti negli scritti teorici di Pareto, Barone e Cabiati; ma i politici e i ministri della produzione di uno stato, il quale abbia a sua disposizione l’arma terribile del possesso e dell’esercizio di tutti i beni strumentali, se ne sono sempre infischiati (Incas del Perù, Russia attuale) e sempre se ne infischieranno. Che sottoposti a siffatto giogo, i popoli alla lunga ne traggono argomento per rivoltarsi e che così attraverso i secoli, per tesi ad antitesi, si giunga alla libertà e si attuino ideali umani più alti, può darsi. Ma che il processo storico di rivolta dimostri la compatibilità fra comunismo e ideale liberale, direi sia una barzelletta.

 

 

«Non è un ordinamento economico, ma solo la coscienza politica che può garantire o compromettere la libertà… né il filosofo né l’economista in quanto tali hanno nulla a dire in questioni pratiche; la parola spetta solo al politico».

 

 

È lecito esporre qualche considerazione sui pericoli che presenta la attribuzione della competenza nel decidere di questioni pratiche ai soli politici? Mi astengo dal parlar di quel che possono dire e fare i filosofi, sebbene le tante belle parsuasive pagine di Benedetto Croce contro i filosofi, i quali almanaccano escogitazioni di sublimi veri tratti dal proprio cervello e non sanno nulla della vita e non vivono nella storia, e le sue lodi ai cultori di scienze particolari i quali dalle loro conoscenze ed esperienze concrete sono tratti a filosofar bene, mi facciano dubitare della inettitudine dei filosofi alla pratica. Al Croce medesimo la qualità di filosofo non credo sia stata poco giovevole nell’amministrar ottimamente, come egli fece, le cose della pubblica istruzione in Italia ed altre cose pubbliche minori in Napoli.

 

 

Parliamo solo degli economisti. D’accordo che essi, in quanto fanno il loro mestiere, sono dei puri astrattisti. Fabbricano schemi e ragionano in base a quelli. Però sarebbe inesatto dire che quei teoremi non hanno nulla a che fare colla pratica. Quegli schemi sono, anzi debbono essere via via complicati con successive approssimazioni, sì da renderli ognora più vicini alla realtà. Non giungeranno mai a fotografare del tutto la realtà, che è complicatissima e mutabilissima; ma talvolta arrivano ad un grado di approssimazione notevole, tale che le leggi e teoremi finali certamente non dovrebbero parere e non sono disutili al politico il quale debba intuire e studiare e risolvere problemi concreti.

 

 

Dopo la grande guerra, diventò di moda presso la gente frettolosa dire che essa aveva distrutto sbugiardato tutte le leggi economiche; ed invece era vero che quella guerra fu crogiolo quasi sperimentale dal quale riuscirono ridimostrate e nuovamente illustrate e pienamente confermate quelle leggi; e lo sbugiardamento immaginato dai frettolosi consisteva semplicemente in ciò che essi ed i politici non avevano mai saputo dove stavano di casa quelle leggi ed accumulando spropositi credevano ingenuamente che questi non avrebbero avuto degna sanzione; e quando la sanzione venne, strillarono contro la scienza economica quasi questa li dovesse salvare dalle conseguenze dei loro spropositi. L’esperienza fatta nell’altra guerra avrebbe dovuto insegnare che nel risolvere questioni pratiche economiche al politico giova la conoscenza delle essenziali leggi teoriche economiche; e se egli non ha avuto modo prima di procacciarsi una solida cultura in argomento – il che non solo è lecito, ma può essere considerato normale, altra essendo la preparazione dell’economista da quella del politico – giova però l’attitudine a distinguere, tra i suoi consulenti, gli improvvisatori ed i cerretani dai tecnici seri. Dico che il puro intuito non giova nel risolvere questioni pratiche economiche e scegliere le conoscenze vere da quelle spurie. Darò, di quel che dico intorno alla insufficienza dell’intuito, tre esempi: Napoleone, Cavour e Giolitti.

 

 

È curioso leggere nelle memorie del suo grande ministro del tempo, il conte Mollien, gli appunti intorno alla mentalità economica di Napoleone. È mentalità divulgatissima tra gli uomini e si dice del “progettista”. Quasi tutti coloro i quali discorrono di economia pubblica – non di quella particolare loro, della loro impresa, nella quale possono essere espertissimi – appartengono al genere dei progettisti. Hanno una cabala pronta a fornir denari allo stato, per salvare questa o quella industria, per porre rimedio a questo o quel malanno o crisi. Il guaio è che costoro non sentono quasi mai ragione ed è inutile perdere tempo a smontare la cabala. È un lavar la testa ai cani. L’intuito economico di Napoleone – e perciò egli faceva eccezione alla regola propria dei “progettisti” – consisteva nell’afferrare fulmineamente le obbiezioni di Mollien, nel farle proprie e nel rivoltare la propria argomentazione, cosicché Mollien non aveva presto altro da fare se non inchinarsi alla decisione dell’imperatore; che era invece la decisione da lui abilmente, senza parere, suggerita contro il progetto fantastico stravagante di Napoleone. Ma l’intuito ancor più penetrante di Napoleone fu nell’aver scelto Mollien, economista di nascita e di studio, e di averlo, finché regnò, tenacemente conservato, nonostante le lezioni che ne riceveva, ministro del tesoro; come tenne del pari sempre a capo delle finanze un altro grande ministro, Gaudin, duca di Gaeta.

 

 

Il conte di Cavour non aveva invece, nelle cose economiche, bisogno di consiglieri; che il grande politico aveva studiato sul serio la scienza economica teorica ed era stato insieme banchiere e finanziere ed agricoltore pratico, emulo di quegli economisti inglesi, i quali erano anche banchieri o commercianti ed agenti di cambio e che egli tanto ammirava e di parecchi dei quali era amico. In lui si cumulavano l’intuito fulmineo del politico, la conoscenza dell’economista teorico, la pratica dell’imprenditore di cose economiche concrete. Chi dubita che la riunione di tutte queste qualità non abbia contribuito a fare di lui quel grande che fu? Maggiore di quanti uomini politici vanti il secolo XIX? Egli non correva rischio di sbagliarsi chiedendo, prima di decidere, consiglio all’uomo competente in questioni economiche concrete delle quali per avventura non si fosse mai occupato; che egli aveva nella sua organizzazione mentale e nella sua preparazione scientifica gli strumenti sicuri per giudicare l’uomo da lui interrogato e le soluzioni a lui offerte.

 

 

Non si può negare che Giolitti avesse una dose non comune di intuito politico; ma non aveva bastevole preparazione economica e mancava di alcune delle qualità necessarie a dare il giusto peso ai dati del problema che egli doveva risolvere. Giolitti fu il tipico, anzi il maggior rappresentante di quella classe laboriosa, onesta di amministratori pratici, i quali governarono i dicasteri italiani dal 1876 al 1914; gente la quale guardava con sospetto i teorici e credeva che bastasse la “pratica” a “governar bene”; e quella frase del governè bin sentii appunto dalla bocca di Giolitti a riassumere l’essenza dell’arte del governo. Ma non si governa bene senza un’ideale. Era penoso, ascoltando i discorsi di Giolitti, vedere come, discutendo di cose economiche, egli passava sopra, con qualche barzelletta o qualche volgare frase demagogica, al punto essenziale del problema, per ottenere il plauso ovvio della maggioranza alla sua tesi. A lui accadde talvolta di giungere con l’intuito alla soluzione buona; ad esempio, quando propose e tenacemente volle nel 1921 l’abolizione del prezzo politico del pane, che minacciava di trarre nell’abisso la finanza e la moneta italiana. Gli giovò, qui, l’incubo, spaventevole per un uomo assestato come egli era, dei miliardi di disavanzo che ogni dì si cumulavano e crescevano; e volle farla finita. Il merito suo fu in questa occasione grandissimo e vale a riscattare la colpa delle leggi demogogiche d’imposta da lui fatte approvare e di tutto quel che di bene avrebbe potuto, negli anni fortunati in cui governò, operare in economia e in finanza e non fece. Giovò a lui l’avere come emulo un dottrinario, il Sonnino; il quale, per essere un dottrinario e non un teorico, diffettava dei freni che al teorico impediscono di cercare di attuare i propri schemi teorici; mentre il dottrinario, per definizione privo di senso scientifico ed insieme di intuito politico, vorrebbe fare e, incapace a muovere la materia sorda, non può. Ma Giolitti lo irrideva a torto. Avrebbe invero potuto sorridere di Sonnino il conte di Cavour; non egli, Giolitti, il quale ebbe una sola grande idea: quella di immettere le classi lavoratrici e contadine a partecipare al governo politico ed economico del paese; ma, a differenza di Cavour, mancava a lui la conoscenza del meccanismo economico e non seppe perciò andar oltre la nozione empirica del lasciar fare a socialisti ed operai l’esperimento necessario. Troppo poco per un uomo di stato, il quale deve sapere capeggiare ed indirizzare le forze sociali alle quali egli ha inteso aprire l’accesso al potere.

 

 

Un politico che sia un puro politico è qualcosa di difficilmente definibile ed a me pare un mostro, dal quale il paese non può aspettarsi altro che sciagure. Come possiamo immaginare un politico che sia veramente grande – della razzamaglia dei politicanti non val la pena di occuparsi, anche se temporaneamente riscuotono gran plauso ed hanno seguito frenetico – il quale sia privo di un ideale? E come si può avere un ideale e volerlo attuare, se non si conoscano i bisogni e le aspirazioni del popolo che si è chiamati a governare e se non si sappiano scegliere i mezzi atti a raggiungere quell’ideale? Ma queste esigenze dicono che il politico non deve essere un mero maneggiatore di uomini; deve saperli guidare verso una meta e questa meta deve essere scelta da lui e non imposta dagli avvenimenti mutevoli del giorno che passa. Il vizio di Giolitti fu di non possedere le qualità necessarie per attuare l’idea dell’elevamento delle masse che era nell’aria e che egli professava e intendeva far propria. Era uno scettico, adusato dalla quotidiana pratica amministrativa ed elettorale a disprezzare gli italiani, che avrebbe dovuto ed a parole diceva di voler innalzare. Il suo giudizio coincideva con quello di un gran fabbricante di abiti fatti, il quale: «gli italiani» – diceva «camminano gobbi» e gli abiti fatti si adattano perciò male al loro dorso. «Gli italiani camminano gobbi», ripeteva Giolitti e perciò non fanno guerre. Ma egli non li educò e sforzò a voler fortemente e se sul Grappa e sul Piave stettero valorosamente in campo, non fu merito suo; mentre era stato merito di Emanuele Filiberto l’aver costretto i piemontesi del tempo suo, poltroni famigerati tutti, nobili e plebei, a divenire il popolo guerriero per antonomasia fra gli italiani.

 

 

Non esiste una coscienza politica la quale da sé garantisca la libertà ed elevi i popoli. La coscienza politica è un composto di vivo sentimento morale, di amore di patria, di fierezza individuale, di solidarietà di famiglia, di classe e di nazione, di indipendenza economica, che il politico esalta ed utilizza a fini pubblici. Se di quella coscienza esistono i germi, essi possono essere fatti crescere o possono essere distrutti, a seconda della comparsa sulla scena del mondo, di uomini superiori o mediocri. In sostanza, gli uomini governati e governanti creano nel tempo stesso la libertà sotto tutti i suoi aspetti: politico, economico, religioso, di stampa, di propaganda. Se alla radice dell’azione degli uomini vi è libertà morale, come è possibile che essi creino istituti economici che li leghino e li riducano alla condizione di servi, privi della facoltà di scegliere le proprie occupazioni, di soddisfare ai propri gusti, di lavorare fuor degli ordini di funzionari gerarchicamente sovrapposti? Tanto varrebbe dire che gli uomini per elevarsi e per conquistar libertà decidano di delegare ad un dittatore il compito permanente di pensare, di scrivere e di parlare per loro conto. Possono e debbono farlo durante un assedio od un tumulto, volgendo tempi di guerra esterna o civile; ma se si acquetano ad ubbidir sempre, essi sono servi e non liberi.



[1] Con il titolo Intorno ai contenuti di liberismo, comunismo, interventismo e simili. Anche in estratto, Stamperia fratelli Parenti di G., Firenze, 1941 [ndr].

[2] Lo scritto era intitolato: A proposito della discussione fra Croce ed Einaudi. P.S. vi riassumeva e commentava in cinque pagine i termini della controversia intorno alle premesse del ragionamento economico (che aveva avuto inizio sulla «Rivista di storia economica» nel giugno 1937 e si era protratta nei quaderni del settembre 1940 e del marzo 1941), concludendo che «non è un ordinamento economico, ma solo la coscienza politica che può garantire o compromettere la libertà».

[3] Cfr. Rileggendo Ferrara, nel quaderno del marzo 1941 della «Rivista di storia economica».

[4] Cfr. Le premesse del ragionamento economico e la realtà storica, nel quaderno del settembre 1940 della «Rivista di storia economica».

[5] Sul concetto di “accessione” cfr. i paragrafi 265 e 266 dei Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino 1940.

Le premesse del ragionamento economico

Le premesse del ragionamento economico

«Rivista di storia economica», marzo 1941, pp. 179-199[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 248-258

Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 151-161

 

 

 

 

Nel dibattito iniziato nel quaderno di settembre 1940 della «Rivista di storia economica» intervenne Benedetto Croce con la seguente nota:

 

 

Un dubbio e una riserva che sono nel libro testé pubblicato dal sempre da tutti rimpianto Aldo Mautino (La formazione della filosofia politica di B. C., Torino 1941, pp. 129) e l’importante discussione sulle premesse del ragionamento economico e la realtà storica, che leggo nell’ultimo fascicolo della «Rivista di storia economica», V, 179-99, mi muovono a riesporre alcuni punti della mia teoria etica e politica per metterli sotto gli occhi degli amici specialisti di economia. Non entrerò in lunghi sviluppi, che ho dati altrove, ma enuncerò le mie tesi in modo schematico, quasi sommario, che mi sembra in questo caso debba tornare più efficace.

 

 

  • Liberismo e comunismo sono due ordinamenti irrealizzabili e irrealizzati nella loro assolutezza. Ciò (dopo che furono abbandonati gli entusiasmi alla Bastiat circa il primo, e quando si sia usciti dal fanatismo irriflessivo assai frequente circa il secondo, che ricorda certi folli propositi di asceti) è, credo, pacifico tra gli economisti.

 

  • L’uno e l’altro ordinamento non sono per sé concetti di economia né propongono quesiti risolubili dalla scienza economica. La scienza economica sta senz’essi; cioè prescindendo da essi. La ragione di questi è che l’uno e l’altro sono tendenze o tentativi di ordinamento totale della vita e società umana, e pertanto di ordinamento etico.

 

  • Sotto questo aspetto, non solo sono incapaci, come si è detto, di attuarsi in pieno, ma l’uno e l’altro, come principii, sono illegittimi. Se ben si meditino, si riducono l’uno alla proposizione che «tutto è lecito» e l’altro all’altra che «niente è lecito». A quel dilemma aveva già risposto, or son diciannove secoli, san Paolo, pronunziando che «tutto è lecito all’uomo ma non tutto è proficuo».

 

  • Ben diverso è il principio del liberalismo, che è etico ed assoluto, perché coincide col principio stesso morale, la cui formula più adeguata è quella della sempre maggiore elevazione della vita, e pertanto della libertà senza cui non è concepibile elevazione né attività. Al liberismo come al comunismo il liberalismo dice: Accetterò o respingerò le vostre singole e particolari proposte secondo che esse, nelle condizioni date di tempo e di luogo, promuovano o deprimano l’umana creatività, la libertà. Con ciò quelle proposte stesse, ragionate diversamente, vengono redente e convertite in provvedimenti liberali.

 

  • Quel che si celebra e loda come opera e gloria del liberismo, se ben si ricerca a fondo, si riconduce all’opera della coscienza etica, della volontà del bene, e per essa al liberalismo; e, viceversa, quel che si lamenta di certi effetti del liberismo nasce da una superficiale o corrotta interpretazione del liberalismo. La legislazione operaia e altrettali provvedimenti poterono essere considerati antiliberistici, ma non solo non erano antiliberali, sì invece sanamente liberali, in quanto concorrevano all’elevazione dell’uomo.

 

  • All’obiezione che mi è stata fatta, e che ritrovo nel volume del Mautino, che la mia distinzione tra liberalismo e liberismo è bensì giusta, ma che bisogna guardarsi dal farne una “contrapposizione”, come avrei fatto io, perché «Il liberalismo ha come sua base il liberismo inteso come iniziativa individuale, operosità e libera concorrenza, come selezione di capacità e via dicendo», è da rispondere, in primo luogo (oh, mi fosse dato di rivolgere questa risposta al caro giovane che abbiamo perduto e farne materia di conversazione con lui!), che io non “contrappongo” i due concetti, ma, per le ragioni dette di sopra, li considero “disparati”, l’uno un principio assoluto, l’altro la tendenza a un particolare ordinamento empirico. E, quanto alla base di cui il liberalismo avrebbe bisogno nel liberismo, la risposta è che la libertà come moralità non può avere altra base che se stessa, e morale non sarebbe se fosse legata a un dato economico, che in questo caso sarebbe materiale, e per questa via si tornerebbe al deplorato materialismo storico. («La libertà è un concetto borghese», ecc. ecc.).

 

  • Ma l’obiezione, se nella sua formulazione non è valida, contiene un motivo vero, che è di affermare che la libertà o l’attività morale non può concretarsi se non in azioni che sono insieme utili ed economiche, e deve servirsi delle forze che le è possibile di volta in volta raccogliere intorno a sé e piegare ai propri fini. Di ciò ho discorso altrove, e anche di recente vi sono tornato sopra con maggiore particolarità nei Paralipomeni al libro sulla Storia (inclusi nel recente volume: Il carattere della filosofia moderna, paragrafi 24 e 25). La conclusione è che il liberalismo ha bisogno non di “basi” ma di “mezzi” economici e politici, e che questi non possono mai essere fissati in certi mezzi ad esclusione di certi altri: per esempio, in certe classi sociali, in certi ordinamenti della proprietà terriera, delle industrie, delle banche, ecc., cose tutte mutevoli e transeunti, laddove il principio della libertà è costante ma devono essere ritrovati e adoperati caso per caso, conforme alle situazioni storiche, e saranno più o meno duraturi secondo la maggiore o minore durevolezza di queste; e che il ritrovarli non è opera del teorico né dell’economia né dell’etica, ma dell’ingegno o genialità politica. A questo punto mi fermo perché, come diceva Goethe, l’appello al genio, e in questo caso al genio politico, è già espresso nel magnifico inno della Chiesa: «Veni, Creator Spiritus…»: inno che noi, filosofi e scienziati, non possiamo se non ricantare ad una voce con l’umile plebe.Benedetto Croce

 

 

Mentre ringrazio il maestro ed amico per la luce che egli ha voluto recare nella discussione del problema, non so resistere alla tentazione di ripensare le cose dette dal Croce nella maniera che suppongo – dico “suppongo” ché, in quanti mai diversi linguaggi discorre oggi la nostra confraternita! – propria degli economisti.

 

 

Croce va al fondo del problema quando osserva che “liberismo” e “comunismo” non sono per sé concetti di economia, né propongono quesiti risolubili dalla scienza economica. Questa prescinde da essi; e pone ipotesi astratte. Le quali notoriamente sono quelle estreme di concorrenza e di monopolio e le intermedie, variabilissime, di concorrenza imperfetta, di monopolio limitato, ecc. ecc.

 

 

Poste quelle ed altre premesse, la scienza economica vi ragiona sopra, senza preoccuparsi se esse siano o non conformi alla realtà; e le illazioni alle quali arriva sono valide entro i limiti delle fatte premesse. Talvolta pare che essa usi altro procedimento, come negli studi bellissimi e fecondi, oggi divulgati, i quali partono, ad esempio, dalla considerazione di dati concreti su quantità prodotte e consumate, importate ed esportate, rimanenze a principio od a fine d’anno o di mese e prezzi relativi. Ma, se ben si guarda, quei dati sono semplicemente il materiale di cui la mente si serve per scomporre, combinare, astrarre “durante” il ragionamento, invece che “a riprova” del ragionamento compiuto.

 

 

Mossi dal desiderio di non ragionare a vuoto, gli economisti mentre ragionano o dopo aver ragionato ambiscono naturalmente appurare se le fatte premesse ed i conseguenti ragionamenti abbiano qualche parentela con la realtà concreta che lor si svolge attorno. Così, dopo aver posto la premessa astratta della piena concorrenza ed averne determinato le condizioni molti imprenditori produttori e molti consumatori, inettitudine dell’entrata o del ritiro di ognuno degli imprenditori o dei consumatori nel o dal mercato ad influire sul mercato medesimo, mancanza di attriti in quest’entrare od uscire, riproducibilità dei fattori produttivi a costi costanti, ecc. ecc. gli economisti sono immediatamente forzati ad aggiungere che la premessa da essi posta è un mero strumento di studio e non ha immediato preciso riscontro con la realtà. La premessa ed i conseguenti ragionamenti debbono perciò essere reputati mero vaniloquio? Il politico non ne trae alcun vantaggio? Lo scetticismo sarebbe grandemente esagerato. Quelle premesse giovano, fra l’altro, a dimostrare che “liberismo” e “comunismo ” che, se sono qualcosa, sono due “ordinamenti” e non due concetti scientifici, non sono mezzo adatto ad attuare in concreto la premessa della “piena concorrenza”.

 

 

Si ammetta infatti che questa, condizionata come sopra si disse, conduca a quel tipo di prezzo dei beni e dei servigi che dicesi uguale al costo di produzione; e che la premessa opposta del monopolio pieno conduca invece a quell’altro tipo di prezzo che garantisca all’imprenditore il massimo di profitto. Si ammetta ancora – sebbene taluno possa tenere diverso avviso – che l’opinione comune degli uomini preferisca quell’ordinamento economico concreto il quale sia atto a far tendere i prezzi od i più dei prezzi verso il limite del costo di produzione ad un diverso ordinamento il quale garantisca agli imprenditori monopolisti un massimo di profitto. Dovremo considerare il liberismo od il comunismo strumenti adatti per attuare, entro i limiti del possibile, l’ordinamento preferito? Che sarebbe poi quello in virtù del quale, in una società nella quale i punti di partenza siano, per quant’è storicamente possibile, non troppo disformi, agli imprenditori spetti un compenso non superiore al valore del loro apporto di lavoro di dirigenza e di intrapresa al prodotto comune, ai capitalisti non più del valore del loro apporto di risparmio, ai lavoratori non più del valore del loro apporto di opera manuale od intellettuale e questi compensi esauriscano, senza residuo, il valore del prodotto totale. Certo, il liberismo, ordinamento concreto, non sarebbe lo strumento adatto che noi cerchiamo. Se infatti esso si riduce, come il Croce rigorosamente dichiara, alla proposizione che «tutto è lecito», il liberismo non è strumento adatto ad impedire il crearsi di guadagni di monopolio. Se tutto è lecito, è lecito anche, come accadde tra il 1870 ed il 1900 negli Stati Uniti, a talun astuto produttore di petrolio accordarsi con talun magnate di ferrovie per stabilire tariffe di favore per il suo petrolio e così battere i concorrenti e sfruttare il monopolio proprio; è lecito assoldare ivi bande armate private per costringere operai a recarsi al lavoro alle condizioni volute da industriali negrieri; è lecito corrompere od influire sui legislatori per ottenere dazi protettivi, privilegi, premi e divieti di associazioni operaie; è lecito a queste di impedire colla violenza fisica o morale ad altri operai di recarsi al lavoro, ecc. ecc. Se il liberismo del «tutto è lecito» fosse pensabile in concreto, gli economisti dovrebbero constatare che la loro premessa astratta della piena concorrenza, pure conservando il proprio valore logico di strumento di ricerca, non troverebbe alcuna attuazione, anzi l’opposto, in un vivente ordinamento liberistico. Per rendersi ragione dei fatti esistenti, dei prezzi, dei salari, dei profitti correnti dentro l’ordinamento detto liberistico, essi dovrebbero ricorrere ad altri strumenti astratti di ricerca: l’ipotesi di monopolio perfetto od imperfetto, di monopoloidi, di monopoli bilaterali e simiglianti.

 

 

Suppongasi che ad un politico cada in mente di promuovere un ordinamento economico concreto siffatto che l’ipotesi della piena concorrenza – e cioè di prezzi di salari di profitti tendenti al costo di produzione; ossia scevri, ognuno di essi, da qualunque traccia di guadagno di monopolio – vi trovi quella migliore attuazione che in questo mondo imperfetto è immaginabile. Quel politico, penso, dovrebbe far suo il detto di san Paolo del «tutto è lecito all’uomo ma non tutto è proficuo» che il Croce ricorda a conclusione della sua terza tesi; dovrebbe cioè porre gran cura nel definire quel che è lecito, distinguendolo da quel che è illecito. Le norme seguenti: «non è lecito far lavorare le donne di notte – non è lecito far lavorare i fanciulli prima che essi abbiano compiutamente assolti gli obblighi della istruzione elementare – non è lecito licenziare gli operai capi od addetti a associazioni operaie estranei alle associazioni operaie – è obbligatoria l’assicurazione degli operai contro gli infortuni del lavoro, contro l’invalidità e la vecchiaia – non è lecito il monopolio delle invenzioni industriali a favore dell’inventore oltre un brevissimo periodo di salvaguardia – è necessaria la istituzione di imposte o di altre norme giuridiche atte a ridurre le differenze iniziali di posizione tra uomo e uomo nei limiti consentiti dalla necessità di promuovere la formazione di tanto risparmio quanto occorra a ridurre il saggio dell’interesse ad un minimo – non è, per chiudere l’elenco che sarebbe assai lungo, lecito od è obbligatorio compiere o non compiere gli atti a, b, c,… n» – contraddicono senza forse all’ordinamento liberistico, ma sono invece la condizione necessaria per attuare un ordinamento concreto il quale si avvicini quanto sia possibile all’ipotesi astratta della libera concorrenza. Si noverano, tra gli economisti viventi, taluni, sparpagliati nei più diversi paesi del mondo, ai quali se un’etichetta dovesse opporsi che non fosse ad essi sgradita converrebbe l’aggettivo di “neo liberali”. Ad essi riuscirebbe fastidiosa la qualifica di “liberisti” nel senso del “tutto è lecito”; e preferirebbero l’altra di “neo liberali” come più atta a chiarirli uomini desiderosi di vedere, nel campo economico, attuata la premessa di “piena concorrenza” con tutti gli innumeri vincoli giuridici che quella premessa comporta. Essi vorrebbero vedere attuata quella premessa non per se stessa, né come fine dell’agire umano, bensì come “mezzo” o “strumento” per «una sempre maggiore elevazione della vita, dell’umana creatività e pertanto della libertà senza cui non è concepibile elevazione né attività».

 

 

Sono costoro d’accordo coll’insegnamento di Benedetto Croce intorno al “principio” del liberalismo? Qualche dubbio, debbo confessarlo, rimane nella mia mente se rifletto all’attitudine di quasi indifferenza – ma forse si tratta di indifferenza apparente – con cui il Croce guarda ai mezzi, che egli sopra definisce «mutevoli e transeunti», da adoperarsi «caso per caso» in conformità «alle situazioni storiche» e da ricercare «non dal teorico né dell’economia né dell’etica, ma dall’ingegno o genialità politica». Ed altrove discorrendo dei vari mezzi: liberismo, protezionismo, monopolismo, economia regolata e razionalizzata, autarchia economica, egli insiste nel dire che nessuno di essi «può vantare verso gli altri carattere morale avendo tutti carattere economico e non morale, e potendo ciascuno a sua volta, secondo le varie situazioni storiche, essere adottato o essere rigettato dalla volontà morale… E si dica lo stesso dell’ordinamento della proprietà capitalistico o comunistico o altro che sia, anch’esso di necessità vario e non mai fissabile secondo un disegno di generale e definitivo comodo e benessere, che non solo è utopistico, ma intrinsecamente non ha che vedere con la morale, la quale non può mirare e non mira all’impossibile benessere individuale né generale, ma all’excelsius» (in Il carattere della filosofia moderna, VII, pp. 118-19). Se si è senz’altro d’accordo col Croce nel respingere le «rievocazioni e celebrazioni storiche della libertà economica come premessa o concomitanza dell’altra e civile e morale libertà» e nel ritenere «che i benefici effetti, che si sogliono riportare alle istituzioni dell’economia liberistica, erano in realtà manifestazioni della libertà morale che investiva quelle istituzioni e se ne giovava, e perciò non tanto condizioni quanto conseguenze» (p. 242) si prova un vero stringimento di cuore nell’apprendere da un tanto pensatore che protezionismo, comunismo, regolamentarismo e razionalizzamento economico possono a volta a volta secondo le contingenze storiche diventare mezzi usati dal politico a scopo di elevamento morale e di libera spontanea creatività umana. Forse appunto questa istintiva incoercibile ripugnanza a concepire quegli specifici “mezzi” come atti a raggiungere un fine di elevazione umana faceva scrivere al Mautino che «il liberalismo ha come base il liberismo, inteso come iniziativa individuale, operosità, libera concorrenza come selezione di capacità; e via dicendo. Cadendo nel protezionismo, nel parassitismo di industrie e di lavoratori verso lo stato ecc., ci si avvia a negare anche il liberalismo nel suo valore più schiettamente politico e morale» (loc. cit. sopra dal Croce). Quante volte discorsi con lui di questo tormentoso problema, pur riconoscendo al principio liberale autonomia, primato ed esclusiva dignità etica, sempre ripugnavo a pensare che quel principio potesse assumere come mezzo per la sua attuazione strumenti come il protezionismo, il comunismo, il regolamentarismo e simili. Perché sentivo e sento quella repugnanza? Se interrogo me stesso, parmi che in fondo essa provenga dall’identificazione istintiva che io faccio di quei mezzi con il male morale, con la frode economica, con la violenza politica, con l’oppressione del debole da parte del forte, con la sostituzione dell’intrigo e dell’arrembaggio all’aperta e libera competizione, con la negazione del diritto dell’uomo a far valere tutto se stesso, senza nocumento ingiusto altrui e nel tempo stesso senza avvilimento verso i potenti e gli arrivati. Questione di definizione o di parole, come avrebbe detto l’amico arguto e meditante Giovanni Vailati? Credo od almeno spero di no. Spero che quella identificazione dei mezzi a me repugnanti con il male morale non sia un giochetto di parole, sì invece il frutto di quel poco o tanto io abbia appreso dalla meditazione degli accadimenti economici del passato e dalla esperienza della vita presente. Per ristringermi ad un punto solo, al mezzo cioè del protezionismo doganale, pur tenuissima varietà di specie ben più vasta e pur tenuissima sciagura morale in confronto al comunismo,[2] io veggo in astratto i casi – esposti non mai dai fautori del protezionismo concreto ma solo e sempre da studiosi teorici – nei quali è dimostrabile essere un dazio doganale mezzo adatto al raggiungimento di un fine, incremento della produzione totale, incremento di salari e di lavoro, promovimento di industrie destinate a gran rigoglio ecc. ecc., ritenuto generalmente desiderabile. Ma veggo subito altresì che di quelle posizioni astratte del problema è praticamente quasi impossibile osservare una applicazione concreta; vedo quasi sempre di quelle ammissioni teoriche tra profitto filibustieri e saccheggiatori del pubblico denaro, instauratori di industrie falsamente giovani e non mai destinate a maturanza, contrabbandieri di industrie destinate non alla difesa bensì allo sterminio della patria. E son forzato a concludere: quel mezzo, in concreto, come azione politica, come fatto storico, non può essere adoperato se non come strumento, oltreché di danno economico – e sarebbe il danno minore -, di male morale,di oppressione dei più degni a vantaggio degli indegni procaccianti; e ad aggiungere: quei pochi, pochissimi casi in che quel mezzo, astrattamente ben ragionato, è suscettivo di applicazione concreta, forse ché esso non può essere fatto rientrare nella ipotesi di concorrenza, nel ristabilimento cioè di quelle condizioni di piena, libertà di entrare o di uscire nel o dal mercato, di gran numero di produttori o di consumatori, ecc. ecc., le quali erano state obliterate da qualche circostanza, eliminabile dal legislatore, di ignoranza, di attrito momentaneo, di limitazione parziale, o di monopolio di qualche fattore produttivo?

 

 

Se il liberismo del «tutto è lecito» non interessa gli economisti né come ipotesi astratta né come ordinamento concreto, essi si chiedono: un ordinamento giuridico dell’economia, che sia un’approssimazione concreta all’ipotesi astratta della libera concorrenza e sia perciò atto a mettere gli uomini, in conformità alle esigenze di ogni situazione storica particolare, nelle condizioni migliori per competere, ciascuno secondo le proprie attitudini, gli uni con gli altri per raggiungere il massimo grado di elevazione morale, può essere messo alla pari con altri ordinamenti protezionistici comunistici regolamentaristici che l’esperienza insegna fecondi di sopraffazione, di monopolio, di abbassamento morale? Forse, innanzi di discutere, converrebbe definire chiaramente quel che si intende per protezionismo, regolamentarismo comunismo e fino a che punto questi ed altri simili ordinamenti possano essere considerati atti ad attuare l’ipotesi astratta della piena concorrenza e se, essendo così atti, possono essere, senza ingenerare troppo gravi equivoci, indicati con parole comunemente applicate ad ordinamenti ben più estesi e ben diversi. Se perciò noi assumiamo le parole “protezionismo” e “mercantilismo” nel loro tradizionale significato storico, quando Aldo Mautino (nel quaderno di settembre 1940, p. 149 di questa rivista) scriveva: lo Smith combatte le leggi mercantili anche ove possano parere economicamente non svantaggiose, come «impertinenti segni di schiavitù» e «manifesta violazione dei più sacri diritti degli uomini»; «dinanzi alla libertà non si fanno calcoli di dare ed avere e chi cerca nella libertà vantaggi o danni ha animo disposto a servire», egli, la cui vita fu tanto ingiustamente breve, non dimostrava quanto il suo animo fosse aperto all’insegnamento della storia del passato e di qualche vivente sua esperienza?

 

 

Non dunque si può affermare che un qualsiasi ideale di vita esige mezzi di attuazione a se stesso congrui? Che se talvolta sembra che il mezzo incongruo sia stato adoperato da politici animati da alti ideali, una indagine accurata non è probabile dimostri che quel mezzo (ad esempio protezionismo) non cagionò il danno morale di cui soltanto è capace, perché il politico seppe nel tempo stesso usare altri mezzi, far muovere altre forze che vietarono a quel mezzo di condurre ai risultati suoi necessari? Spunti di quell’indagine si leggono qua e là sparsi nei libri di teoria e di storia economica; ma sarebbe fuor di luogo pretendere che essi siano sempre dovuti a studiosi consapevoli dei legami i quali intercedono fra principi morali, ipotesi astratte ed ordinamenti concreti.

 

 

Non voglio offrire una soluzione al problema. Ma il problema esiste. Non noi, che la sentiamo, sì coloro, che, al par di Benedetto Croce, sanno guardare al fondo delle cose, possono dirci le ragioni per le quali sentiamo tanta ripugnanza morale a guardare conindifferenza alla scelta fra i vari mezzi economici che ai politici si offrono per promuovere l’elevazione spirituale dei popoli.



[1] Con il titolo Ancora su «Le premesse del ragionamento economico». Anche in estratto, Einaudi, Torino, 1941 [ndr].

[2] Per chi ritenesse eccessivo il giudizio morale mio sul comunismo, giova far presente una riserva. Può darsi che, nella giovinezza del mondo, tra uomini abituati a rudimentali tipi di vita in comune, il genio politico abbia potuto giovarsi del “mezzo” esistente, unico a lui offerto, di ordinamento comunistico per trarre gli uomini a conseguire più alto ideale di vita. Ma nelle società complicate civili moderne – forse il discorso si applica anche a società più antiche, come quelle dell’epoca imperiale romana – come può apparire conciliabile l’idea della elevazione morale con l’impiego, senza di cui un ordinamento comunistico è impensabile, dello strumento burocratico esteso a tutte le occupazioni umane? Di uno strumento “necessariamente” definito come l’autorità da cui, discendendo gerarchicamente dall’alto al basso, dipendono il modo del vivere, del pensare esteriore, del parlare, dell’agire e la vita stessa di tutti gli uomini, tutti fatti servi di chi sta sopra ad essi? L’uomo politico, il quale faccia uso di siffatto strumento, non può, quasi per definizione volere l’elevazione dei suoi concittadini. Egli ne vuole, sebbene di ciò non sempre sia consapevole, l’abbassamento; ed ha egli stesso anima di servo.

Dei criteri informatori della storia dei prezzi questi devono essere espressi in peso d’argento o d’oro o negli idoli usati dagli uomini?

Dei criteri informatori della storia dei prezzi questi devono essere espressi in peso d’argento o d’oro o negli idoli usati dagli uomini?

«Rivista di storia economica», V, n. 1, marzo 1940, pp. 43-51

Perché l’imposta straordinaria progressiva sui dividendi delle società commerciali non fu estesa alle società straniere operanti in Italia

Perché l’imposta straordinaria progressiva sui dividendi delle società commerciali non fu estesa alle società straniere operanti in Italia

«Rivista italiana di dottrina e giurisprudenza delle imposte dirette», 1939, n. 2, pp. 145-155

 

Di una prima stesura della ‘Ricchezza delle Nazioni’ e di alcune tesi di Adamo Smith intorno alle attribuzioni dei frutti del lavoro

«Rivista di storia economica», III, 1938, pp. 50-60

1. – Quando nel 1776 la Ricchezza delle Nazioni venne al mondo, al nome dell’autore seguiva il ricordo dell’insegnamento tenuto da AdamoSmith fino a 12 anni prima: «formerly professor of Moral Philosophyin the University of Glasgow». Il monumento che nel novembre 1937 l’Università di Glasgow eresse col libro dello Scott (Adam Smith as student and professor, Glasgow, 1937) in memoria della immatricolazione avvenuta, precisamente 200 anni prima, di Adamo Smith comestudente nell’Ateneo che lo ebbe poi maestro e, divenuto celebre, rettore, è dovuto alle cure di William Robert Scott, il quale ha il grande onore di essere “Adam Smith Professor of Political Economy in the University of Glasgow”. La riverenza verso il creatore dell’insegnamento da lui oggi impartito ha stimolato l’autore della classica opera sulla storia delle società per azioni in Inghilterra, Scozia ed Irlanda fino al 1720, a consacrare anni di ricerche pazientissime e sagaci allo studio della vita e degli scritti del suo grande predecessore. È suggestivo il mistero che aleggia intorno a questi, che parrebbero, dati i tempi in cui visse, fatti ovviamente conoscibili: vita e scritti dell’uomo universalmente tenuto come il padre della scienza economica. Eppure, fino a poco tempo fa non si sapeva quasi nulla della sua famiglia e la notizia degli scritti si restringeva a quella delle due opere famosissime pubblicate dallo Smith vivo (1759: La teoria dei sentimenti morali e 1776: La ricchezza delle nazioni) ed al volume postumo dei saggi, edito nel 1795 dagli esecutori testamentari Joseph Black e James Hutton. Della mancanza di notizie sui suoi scritti la colpa era dello Smith medesimo, il quale poco prima di morire aveva voluto fossero distrutti i manoscritti inediti suoi, conservati nello scrittoio con rialzo, che la signora Bannerman piamente conserva in Edimburgo.

2. – A poco a poco, tuttavia, qualche maggior luce si è cominciata a fare intorno al mondo intellettuale sociale religioso e politico in cui Adamo Smith visse.

Le tappe principali dell’impresa sono le seguenti:

– nel 1793 Dugald Stewart legge alla Società reale di Edimburgo una notizia della vita e degli scritti del maestro ed amico. Su molti fatti e giudizi questa è la più autorevole fonte contemporanea. L'”Account” fu poi ripubblicato a guisa d’introduzione dei postumi Essays on Philosophical Subjects dello Smith e di nuovo nel decimo volume delle Collected Works dello Stewart (1858);

– nel 1894 James Bonar ricostruisce l’elenco dei libri posseduti dallo Smith; e nel 1932 ne pubblica una seconda edizione assai arricchita. ( A Catalogue of the Library of Adam Smith, London, Macmillan). È opera mirabile di pazienza e di erudizione, la quale ci fa rivivere il mondo

libresco, in mezzo al quale lo Smith visse. A segnalare il profitto che egli trasse dai suoi libri, il Bonar ha trascritto in inchiostro rosso i brani nei quali lo Smith cita o utilizza qualcuno dei libri da lui posseduti;

– nel 1895 John Rae pubblica (Life of Adam Smith, London, Macmillan) quella che rimane ancor oggi la miglior vita dello scrittore. Lettere edite ed inedite, ricordi di contemporanei, ricca aneddotica ci presentano Adamo Smith vivo, umano, benevolo, benefico, famigerato per

la distrazione e nel tempo stesso espertissimo amministratore delle cose altrui ed osservatore acuto dei fatti della vita economica contemporanea. Le lacune non sono poche nel libro di Rae; qualche notizia incerta ed anche, raramente, non esatta; ma il grosso del lavoro è compiuto;

– nel 1895 Edwin Cannan scopre, ad occasione di una conversazione nella quale si capitò a parlare anche di Adamo Smith, il manoscritto degli appunti che nel 1763 uno studente aveva preso assistendo alle lezioni di Adamo Smith (Lectures on Justice, Police, Revenue and Arms, 1896, Oxford, at the Clarendon Press). Scoperta capitale, perché consentì di conoscere quale fosse il punto al quale era giunta la meditazione dello Smith innanzi che, recatosi in Francia, in qualità di precettore del giovane Duca di Buccleuch, egli avesse avuto occasione di conoscere le persone e la dottrina dei fisiocrati.

Dopo il 1896 non c’è nulla di veramente nuovo: la seconda edizione dell’elenco di Bonar, qualche piccola notizia qua e là (mi sia consentito ricordare, sebbene minima, la riesumazione del racconto della visita, nel 1788, di un italiano, il cavalier Luigi Angiolini, al famoso scozzese, da me fatta in La riforma sociale del marzo – aprile 1933, in Nuovi saggi, 1937, pagg. 328 e segg. e in questo volume, pagg. 83 – 86).

3. – Oggi, aspettato con impazienza dagli smithiani sparsi nel mondo, vien fuori il libro dello Scott. Frutto di almeno un decennio di lavoro, esso è un vero monumento. A leggere l’elenco dei colleghi studiosi parenti bibliotecari ed archivisti che l’infaticabile Scott mise a duro contributo di ricerche per venire a capo di qualche particolare, grosso o minimo, della vita dello Smith, c’è da rimanere allibiti. Per risolvere talun intricato problema genealogico intorno alla famiglia Smith il signor A. T. Mc Robert fece passare a foglio a foglio, naturalmente con l’entusiasmo che l’erudito mette nelle piccole cose, nove piedi cubi di carte d’archivio della città di Aberdeen. Alla fine il documento cercato saltò fuori e, nota con soddisfazione l’a., con «una eccellente firma» di Adamo Smith. Per quale grande economista italiano fu spesa altrettanta fatica e con ugual frutto? Viene, grazie alla buona scuola crociana ed a Fausto Nicolini, in mente il nome di Galiani; sebbene lo spunto a Nicolini non sia stato dato dall’interesse intellettuale per la scienza economica ma da quello per l’amico degli enciclopedisti e della marchesa d’Epinay, per l’uomo che brillò di luce vivissima in una società di uomini in cui tutti parevano avere abbondanza di esprit. Vengono in mente il carteggio dei due Verri ed i dotti suoi editori Greppi, Giulini e Seregni; ma anche qui l’interesse è letterario filosofico politico mondano, non certo economico in primo luogo.

4. – Lo Scott divise in quattro parti l’opera; delle quali la prima (pagg. 1 – 126) è quella narrativa. In essa l’a. non volle rifare la vita del Rae, la quale sfruttava ottimamente le fonti conosciute al tempo suo e non potrà essere riscritta con vantaggio se prima il materiale ancora inesplorato, ad esempio quello dell’archivio delle dogane Scozzesi di cui Adamo Smith fu commissario, non sia stato fatto oggetto di studio attento; ma volle invece fornire un completamento al Rae che ne integrasse la narrazione per la prima e meno nota parte della vita dello Smith dalla nascita (1723) alle dimissioni dalla cattedra di Glasgow (1763).

Nella seconda parte (pagg. 129 – 314) sono contenuti documenti relativi alla famiglia Smith, alla sua carriera come studente e professore, alla amministrazione da lui tenuta del patrimonio dell’Università, al suo interessamento per la biblioteca, alla parte da lui tenuta nei conflitti insorti intorno ai poteri delle varie autorità accademiche – e qui è pubblicata per la prima volta una lunga relazione dello Smith sui poteri rispettivi del rettore, suprema autorità accademica, in gran parte onorifica, e del principal che era il vero sovraintendente agli studi. Arricchiscono la seconda parte 83 lettere in gran parte inedite, di e ad Adamo Smith provenienti soprattutto dai fondi della famiglia Bannerman, discendente di Davide Douglas, Lord Reston, cugino ed erede dell’economista.

La terza parte (pagg. 315 – 356) consiste nella stampa della prima stesura di alcuni iniziali capitoli della Ricchezza delle Nazioni. La scoperta dello Scott fu giusto guiderdone di ricerche condotte con logico intuito nelle carte dell’archivio dei Duchi di Buccleuch, del terzo dei quali, come è noto e si disse sopra, lo Smith per tre anni fu precettore. Sembra che il manoscritto fosse stato inviato dallo Smith a Charles Townshend, secondo marito della contessa di Dalkeith, vedova del padre di Enrico, il giovane duca del quale lo Smith aspirava ad essere guida intellettuale durante il viaggio che, secondo il costume del tempo, quell’erede di un gran nome e di una grande fortuna si apprestava a condurre per alcuni anni sul continente. Il manoscritto, inteso forse a persuadere della attitudine dello Smith all’ufficio desiderato, rimase tra le carte del Townshend e quando egli morì, cancelliere dello Scacchiere, nel 1767 fu dalla vedova portato, con altre carte, a Dalkeith, dove d’allora in poi era rimasto.

Nella quarta parte l’occhio si diletta contemplando una ricca serie di fac – simili: di firme di Adamo Smith, in diverse epoche della sua vita, del padre, della madre, di cugini, di indici autografi di volumi di miscellanee messe insieme da A. S., di lettere, di estratti di conferenze date da A. S., in copie dovute alla mano di amanuensi con correzioni autografe del manoscritto della or ricordata minuta ecc. ecc.

Alcuni fac simili sottopongono il lettore al supplizio di Tantalo. Ecco, a pag. 390 il titolo di un catalogo che, soddisfacendo 113 anni prima l’esigenza alla quale ubbidì il Bonar dopoché era già avvenuta la dispersione, Adamo Smith fece compilare, o dettò al suo segretario, dei libri da lui posseduti nel 1781; ed a pag. 391 la riproduzione di una pagina del catalogo medesimo. Una marca amministrativa ci ricorda che il manoscritto si trova oggi, insieme con circa 300 volumi appartenenti alla biblioteca smithiana, nella biblioteca della Università imperiale di Tokio. Quando i colleghi giapponesi ci daranno l’elenco, se non di tutti, di quei libri posseduti da Smith nel 1781, i quali non figurano nel catalogo Bonar? (cfr. qui, a pag. 106, i numeri 11 e 12).

Lo Scott dice che i libri mancanti all’elenco Bonar non sono molti (pag. 124); ma un confronto fra il fac simile della pag. 41 ed il catalogo Bonar ci permette di osservare che questi non riuscì a trovare la traccia di 4 sui 5 volumi dell’Ami des hommes, dell’ Essai sur les Ponts et chaussées, la Voierie et les Corvées (e la Réponse del marchese di Mirabeau?), di Le Commerce et le Gouvernement del Condillac, del secondo volume dell’Ordre naturale et essentiel del Le Mercier de la Rivière, di due opere sull’agricoltura del Monceau e di un anonimo Le Reformateur.

Questa minuziosa ricerca non è dettata da vano stimolo di mera erudizione. Con l’appurare le date alle quali le biblioteche di Edimburgo e di Glasgow acquistarono, nel tempo nel quale Adamo Smith non poteva presumibilmente ancora provvedere ad una raccolta propria, libri inglesi e forestieri, principalmente francesi, di economia politica, lo Scott ha voluto seguire l’arricchimento progressivo del pensiero smithiano. Una delle conclusioni più importanti è che nel 1763, alla vigilia della partenza per la Francia, presumibilmente lo Smith non aveva conoscenza diretta della letteratura fisiocratica; eppure aveva, come risulta dalle lezioni e più dalla minuta ora scoperta, già chiari in mente ed in parte aveva già scritto i primi capitoli dell’opera pubblicata nel 1776.

5. – L’opera è illustrata da 18 riproduzioni di ritratti, medaglioni, stampe, monete, (la testa di Adamo Smith nel 1797 fu coniata su denari e mezzi denari scozzesi); ed è chiusa oltreché da copiosissimi indici, da sette appendici, di cui cinque riguardano cose famigliari, una la fortuna di Smith in Russia ed una, forse la più interessante, la sua maniera di scrivere. Adamo Smith era lento nello scrivere; anzi repugnava a prendere la penna in mano. Perciò dettava e correggeva. Ma anche la correzione la quale implicava raschiature e richiedeva sostituzioni, a causa delle parole scritte dai suoi amanuensi, gli riusciva faticosa. Di qui una certa difficoltà nell’incorporare le aggiunte nel testo, una relativa frequenza di digressioni e talvolta una non perfetta fusione del nuovo coll’antico. Chi legge la Ricchezza delle nazioni, s’imbatte talvolta nella parola opulence, invece di quella da lui comunemente usata wealth (ricchezza). Adamo Smith, il quale aveva cominciato con «opulenza» aveva invece finito collo scartarla a favore della più tecnica e neutra «wealth»; ma non sempre riuscì a superare il fastidio della raschiatura e della sostituzione. Il sopravvivere di «opulenza» perciò può essere indizio di una redazione più antica.

6. – È un così grande uomo, parmi sentir chiedere, codesto Adamo Smith da giustificare tante cure editoriali e tanto devoto culto quasi religioso, che parrebbero dovuti solo agli Alighieri ed ai Shakespeare? Non pochi economisti teorici dubiteranno ed in una lista di una mezza dozzina di creatori della economia pura non ho visto ricordato il nome di lui. Tuttavia egli ha serbato finora e probabilmente serberà nei secoli il gran luogo che la tradizione gli ha assegnato di fondatore della nostra scienza. Quasi certamente Petty, Cantillon, e Galiani sono più grandi teorici di Adamo Smith ed i fisiocrati lo sopravanzano come sistematori dei fatti economici, di cui essi hanno veduto meglio la unità e la continuità. Nessuno, tuttavia, meglio di Adamo Smith ha interpretato il tempo in cui egli visse. C’era un mondo il quale crollava, materiato di vincoli protezionistici nel commercio interno ed esterno, nelle relazioni con le colonie, nella regolamentazione delle industrie e delle arti, nei privilegi delle corporazioni, nel libero movimento degli uomini e delle cose da luogo a luogo e da tempo a tempo. Quel mondo era battuto in breccia da centinaia di opuscoli, da pubblicisti esasperati dal persistente trionfo di volgari errori intorno alla bilancia del commercio, di superstizioni monetaristiche, di sofismi intesi a giustificare privilegi oramai privi di contenuto. A tratti i parlamenti ordinavano l’abbruciamento sulle pubbliche piazze di fogli insolenti ed incendiari i quali assalivano gli interessi cari ai parlamentari. Ma i pubblicisti erano detti panfletisti e scribi; ma Petty e Cantillon erano troppo secchi e troppo tecnici per far presa; ma il capolavoro di Galiani era reputato frutto immaturo di un estroso genio ventenne; ma i fisiocrati erano giustamente irrisi per il gergo stravagante e le tabelle incomprensibili. Nonostante si vivesse nel secolo dell’illuminismo e della ragion ragionante i privilegi non potevano, massimamente in Inghilterra, essere vinti da un puro ragionatore. Venne un osservatore minuzioso della vita quotidiana, un critico il quale fondava i ragionamenti sulla esperienza storica, un moralista persuaso che le azioni scorrette sono alla lunga un cattivo affare per le nazioni e scrisse il libro, dal quale veramente si può far datare una nuova epoca nella storia del mondo. Quel libro era, per accidente, scritto in un inglese classico sonante ed ebbe anche per ciò quasi tanta fortuna come la contemporanea storia della decadenza e della rovina dell’Impero romano di Gibbon; con gran stizza di Samuele Johnson dittatore del mondo letterario britannico, il quale per nessuno dei due trionfatori ebbe mai simpatia. Trionfatore fu veramente lo Smith, che il secondo Pitt poco dopo dalla tribuna parlamentare proclamava maestro. Corre la leggenda che l’epoca smithiana sia chiusa; e non è ben certo se e quando sia cominciata. Occorsero, dopo la comparsa del libro, 70 anni prima che la libertà del commercio internazionale fosse proclamata in Inghilterra; e se la separazione delle 13 colonie nord americane provò subito la fondatezza delle critiche di lui ai regimi restrittivi coloniali, il programma smithiano di un impero britannico sta appena ora faticosamente attuandosi. È vero che il mondo stia ora ritornando ai metodi di politica economica che Adamo Smith aveva distrutto? Per dimostrare il ritorno sarebbe necessario dimostrare la inesistenza della esperienza storica sulla quale Adamo Smith aveva fondato i suoi ragionamenti demolitori. Se egli avesse formulato, come è compito degli economisti teorici, pure ipotesi astratte, sarebbe fuor di luogo parlare di passato e di presente, di epoche e di fasi storiche. Il segreto della fortuna dello Smith fu che egli formulò soltanto quelle ipotesi le quali servivano ad interpretare i fatti del suo tempo. Il suo libro è uno strumento di interpretazione di fatti accaduti; e poiché quei fatti di vincoli, di privilegi, di superstizioni sempre si rinnovano, lo strumento da lui apprestato ha valore perenne.

7. – Essendo vivi oggi come ieri i problemi posti da Adamo Smith si comprendono il culto votato alla sua memoria e la religione con la quale si va in cerca delle briciole sfuggite al rogo al quale egli aveva votato i suoi manoscritti. Quale è il contributo nuovo che il volume dello Scott fornisce alla conoscenza dell’uomo privato, di quello politico e dello scienziato?

8. – Quanto all’uomo, abbiamo la conferma delle verità che sono volutamente ignorate solo da coloro i quali, avendo attribuito a sproposito allo Smith la creazione del fantoccio detto homo oeconomicus, attribuiscono, con sproposito anche più grossolano, a lui le qualità di cui essi adornano quel fantoccio. In verità, egli era uomo di esemplari virtù umane. Amò teneramente la madre, con la quale visse sino alla morte, avvenuta (1784) in tarda età pochi anni prima della sua (17 luglio 1790). Rimase scapolo forse per non distaccarsi dalla madre e forse più per scarsa fortuna e una tal quale sua incertezza nelle cose amorose. Predilesse i parenti e della educazione dei più giovani di essi ebbe gran cura. Ma gli furono anche attaccatissimi gli allievi; e delle sue diligenze a prò di essi rimangono testimonianze numerose nelle lettere ora pubblicate dallo Scott. Non ebbe nemici, neppure tra i colleghi, avverso ai quali talvolta dovette, per ragion d’ufficio, concludere in occasione di invidiose pretese di cattedre e di onorari; e tra avversari, specie tra avversari accademici, irritabile genus, fu arbitro ascoltato. Ebbe amici fedelissimi. Nella conversazione talvolta li stupiva; ed invero amava, contrariamente all’uso dei dottrinari, stimolare altrui alla disputa ponendo i problemi in maniera nuova o paradossale o non conforme alla dottrina filosofica da lui sostenuta in genere (pagg. 98 – 99).

Visse semplicemente, senza sfarzo, anche quando le rendite sue, sommati i redditi patrimoniali con il vitalizio concessogli dal Duca di Buccleuch e l’onorario di commissario alle dogane scozzesi, pare superassero le mille lire sterline l’anno, che era per quei tempi somma ragguardevole. Ma in silenzio aiutava, a mezzo della madre e poi direttamente, i bisognosi; sicché il patrimonio pervenuto al cugino Lord Reston si chiarì assai inferiore al prevedibile.

Sull’uomo pubblico, lo Scott fornisce qualche particolare degno di nota. A 26 anni egli manifestava già diffidenza verso l’intervento della politica nell’economia.

L’uomo – scriveva Adamo Smith nel 1749 – è generalmente considerato dagli uomini di stato e dai progettisti come la materia prima di una specie di meccanica politica… Tutti i governi, i quali frastornano il corso naturale delle cose, e forzano queste in altra direzione e tentano di arrestare ad un qualche particolare istante il progresso della società, sono impropri (unnatural) e per mantenersi son costretti a diventare oppressivi o tirannici (pag. 54).

Le dispute faziose dei partiti lo impazientivano. In una lettera a Lord Fitzmaurice del 21 febbraio 1759 scriveva:

Sono lieto di non sentir più parlare di fazioni parlamentari. Quantunque di tanto in tanto un qualche spirito di parte conferisca alla vita del paese (tho a little faction now and then gives spirit to the nation), l’abuso persistente di esso ostruisce tutti gli affari pubblici e toglie ai migliori ministri la possibilità di fare molto bene (pag. 241).

Incaricato dal corpo accademico di Glasgow di redigere l’indirizzo di omaggio dell’università al nuovo Re Giorgio III, succeduto nel trono il 25 ottobre 1760 al nonno Giorgio II, usa maschio linguaggio:

I fedeli sudditi delle Maestà Vostre (l’indirizzo era anche rivolto alla regina) non possono non concepire gli auspici più radiosi di felicità dal regno di un principe nato ed educato in mezzo ad essi, abituato ai loro costumi, informato delle loro leggi, amante della loro costituzione e desideroso di governarli così come si addice a popolo generoso marziale e libero. Tanto alta è l’opinione che i vostri oramai riuniti ed affezionatissimi sudditi unanimemente hanno della magnanimità e della disinteressata virtù delle Maestà Vostre, da farli convinti che voi non desiderate, che voi non intendete governarli in altro modo, che voi tenete così cari i privilegi dei vostri sudditi come le prerogative della vostra corona, che voi siete orgoglioso di essere il re di un popolo libero e che, ben lungi dall’ingelosirvi dell’ardente spirito di libertà che anima naturalmente il petto di ogni britanno, voi generosamente ambite accarezzarlo e secondarlo. Tutti i membri di questa vostra devota e leale università riguardano principale merito proprio di essere stati sempre sinceramente e fervidamente attaccati al ramo protestante della vostra illustre famiglia e di aver sempre considerato la legge che la introdusse fra noi come il fondamento più sicuro della religione e della libertà della Gran Bretagna; ed essi si sono costantemente sforzati di inculcare nella gioventù affidata alle loro cure sentimenti di leale fedeltà quali si addicono ai sudditi di una monarchia fondata su principi di libertà (pagg. 167 – 8).

9. – La minuta della prima stesura della Ricchezza delle nazioni sembra, quanto allo scienziato, offrire la prova definitiva che le idee svolte nei primi due capitoli del libro pubblicato poi nel 1776 ed in parte nei seguenti intorno ai prezzi, alla moneta, agli scambi ed agli ostacoli ad essi frapposti dai governi erano già formate nella mente di Adamo Smith prima che egli avesse contatti diretti con i fisiocrati, e che il legame fra la dottrina smithiana e quella fisiocratica si restringeva alla derivazione comune dalle fonti dottrinali preesistenti. La prova è raggiunta attraverso a delicate indagini sulla calligrafia dell’amanuense e sul tipo di carta usata per la stesura della minuta ora scoperta, le quali persuasero lo Scott che il manoscritto fu redatto a Glasgow intorno al 1763.

10. Si sapeva che il linguaggio di Smith verso coloro che non possono essere detti, secondo il significato letterario della parola, lavoratori, era spesso duro; sicché dal suo libro altri potrebbe, come in parte fece Antonio Menger, dedurre autorevole conferma della teoria la quale attribuisce al lavoro diritto a tutto il reddito sociale e reputa l’interesse, il profitto e la rendita risultato di un furto legale a danno dei lavoratori:

Tra le nazioni civili e laboriose… molti uomini che non lavorano affatto consumano il prodotto di fatiche dieci e spesso cento volte maggiori di quello che è consumato dalla maggior parte dei lavoratori… (W. of N., pag. 2 dell’ed. Cannan).

Nelle società primitive e rozze… l’intero prodotto del lavoro spetta al lavoratore… (libro primo, cap. sesto, pag. 49).

Nelle società nelle quali il capitale si è accumulato nelle mani di privati l’intiero prodotto del lavoro non appartiene sempre al lavoratore… Non appena la terra di un paese è divenuta proprietà privata, i proprietari, simili in ciò a tutti gli uomini, amano raccogliere dove essi non hanno mai seminato. La legna della foresta, l’erba del campo e tutti i frutti naturali della terra, i quali, quando la terra era proprietà comune, costavano al lavoratore unicamente la fatica del raccogliere, acquistano anche per lui un costo addizionale. Egli deve pagare per ottenere licenza di raccogliere e deve dare al proprietario una parte di ciò che il suo lavoro coglie e produce… (ivi, pag. 51).

Il prodotto del lavoro è il compenso o salario naturale del lavoro. Nella condizione originale di cose, la quale precede la appropriazione della terra e la accumulazione del capitale, l’intero prodotto del lavoro spetta al lavoratore. Egli non deve spartire nulla col proprietario o col padrone… appena la terra diventa proprietà privata il proprietario domanda una quota (rendita) di quasi tutto il prodotto che il lavoratore può ricavare o raccogliere da essa… il profitto (a vantaggio di colui che anticipa al lavoratore la sussistenza) è una ulteriore detrazione dal prodotto del lavoro impiegato nel coltivare la terra (ivi, cap. ottavo, pagg. 66 – 7).

11. – Se la forma definitiva con la quale Adamo Smith presenta nel 1776 il suo pensiero è chiara, quanto più incisivo è il discorso nella minuta del 1763! In una società incivilita il povero provvede nel tempo stesso a sé ed al lusso enorme dei suoi superiori. La rendita, consacrata a sostenere la vanità di un proprietario ozioso, è tutta guadagnata grazie alla fatica del contadino. L’uomo denaroso indulge ad ogni sorta di godimenti ignobili e sordidi, a spese del mercante e del trafficante, ai quali egli dà a mutuo capitale ed interesse. Gli indolenti e frivoli cortigiani sono nello stesso modo mantenuti, vestiti ed alloggiati grazie al lavoro di coloro i quali sono chiamati a pagare le imposte all’uopo necessarie. Fra i selvaggi, al contrario, ogni individuo gode dell’intero prodotto della sua propria fatica. Non vi sono in mezzo ad essi proprietari, usurai ed esattori… Una divisione equa ed uguale del prodotto di una grande società non può mai darsi. In una società composta di 100 mila famiglie, vi sono forse 100 famiglie, le quali non lavorano affatto e tuttavia, grazie alla mera violenza od alla più ordinata oppressione della legge, impiegano (utilizzano) una quota della fatica dell’intiera società maggiore di ogni altro gruppo di 10 mila famiglie. La divisione di quel che, dopo questo enorme diffalco, rimane disponibile non è affatto proporzionata al lavoro di ogni individuo. Il ricco mercante, il quale consuma la maggior parte del suo tempo nel lusso e nelle feste, gode di una proporzione assai più grande dei frutti della sua impresa di tutti gli impiegati e contabili i quali pur compiono il lavoro. Questi, alla loro volta, pur avendo assai tempo a propria disposizione e non soffrendo quasi altro fastidio fuorché l’obbligo di attendere all’ufficio, ottengono una parte assai più vistosa del prodotto totale di quanto non faccia un numero triplo degli artigiani, i quali, sotto la loro direzione, durano una fatica assai più severa ed assidua. L’artigiano poi, lavorando generalmente sotto un tetto, protetto contro le intemperie, a suo comodo ed aiutato dal comodo di innumerevoli macchine, ottiene un compenso proporzionatamente assai più pingue di quello del povero contadino, il quale deve combattere col suolo e con le stagioni e, sebbene produca la materia necessaria a contentare il lusso di tutti gli altri membri della collettività e sopporti, quasi si direbbe, sulle spalle l’intiero edificio della società umana, sembra schiacciato dal gran pondo della terra e sepolto fuori dalla vista di ognuno nelle fondazioni più profonde dell’edificio (minuta citata, ed. Scott, pagg. 326 a 328).

12. – Queste frasi sono scritte ad occasione della celebre dimostrazione dei vantaggi della divisione del lavoro (esempio dello spillo), con la quale si apre il libro e vogliono illustrare la tesi sostanziale dello Smith: che pur essendo remunerato con una mera e relativamente piccola quota dell’intiero prodotto del suo lavoro, il lavoratore nelle società incivilite gode di un benessere incomparabilmente superiore a quello del selvaggio, il quale pur teneva per sé il frutto intiero del proprio lavoro, e superiore a quello dei più grandi capi e principi delle epoche nelle quali non esistevano proprietari e capitalisti pronti a vivere del frutto del lavoro altrui.

Alla conclusione storicamente ottimista dei vantaggi della divisione di compiti tra lavoratore, risparmiatore, imprenditore o proprietario si giunge così attraverso una infiammata denuncia della iniquità di privare il lavoratore dell’intero frutto del suo lavoro. Era quella davvero una denuncia? Voleva Adamo Smith affermare che al tempo suo, nelle condizioni tecniche esistenti di divisioni del lavoro e di classi il lavoratore fosse l’unico fattore della produzione e si potesse senza effetti dannosi privare di una quota del prodotto i proprietari ed i capitalisti? Entro che limiti possiamo scorgere nelle frasi ora lette una condanna di quell’assetto economico che si usò poi chiamare capitalistico? La condanna era morale od economica o tutte e due insieme? Questioni grosse a risolvere le quali sarebbe necessario leggere le frasi non, come si fece sopra, staccate dal resto del discorso, ma dentro in quel discorso e non solo in quel o quei capitoli, ma in tutta l’opera dello scrittore.

13. – Impresa grossa, sebbene allettante. Per ora, basti far rilevare il mutamento di tono avvenuto dal 1763 al 1776 nelle frasi lette staccatamente, avulse dal resto del discorso. Nella minuta avanti lettera del 1763 c’è l’impeto sdegnato del moralista. Adamo Smith, anche se poi dirà che «la opulenza più grande si estende agli ordini più bassi della collettività», accentua il concetto della «disuguaglianza» nella distribuzione della proprietà (pag. 328). La violenza o la oppressione della legge fanno sì che colui che più fatica meno riceva. Vanità di proprietari oziosi, godimenti ignobili e sordidi, indolenza e frivolità di cortigiani, miseria dei contadini sono il frutto di una organizzazione sociale la quale cagiona enormi diffalchi dal prodotto comune a prò di infime minoranze – nelle 100 famiglie su 100 mila di Adamo Smith non si sente il preannuncio delle 200 famiglie le quali, secondo gli oratori del fronte popolare, governano la Francia o delle 60 le quali, a sentire i Rooseveltiani, dominano gli Stati Uniti? – e di gradino in gradino opprime la massa infima sotto un peso intollerabile di ingiustizie.

Nel 1776, le frasi anche se lette ad una ad una hanno perso il loro sapore incendiario. Adamo Smith constata un fatto: che il prodotto sociale totale non è più un tutto indistinto, interamente fatto proprio dal lavoratore; ma è un insieme distinto in quote, una sola delle quali è trattenuta dal lavoratore. C’è qualche ricordo della indignata condanna antica nell’accenno ai proprietari «i quali amano raccogliere dove non hanno mai seminato»; ma è un accenno obbiettivo; il quale può essere anch’esso interpretato non come affermazione della ingiustizia della loro partecipazione alla raccolta, ma come mera constatazione del fatto che i proprietari non hanno compiuto essi medesimi l’atto materiale della seminagione. Il moralista, il quale condanna l’ingiustizia, non è assente, ma si è ritirato nello sfondo del quadro; ed in prima linea sulla scena rimane l’economista il quale constata: nelle epoche primitive della società umana l’appropriazione di tutto l’indistinto prodotto da parte del lavoratore, libero da ogni tributo verso proprietari e capitalisti; e nelle società incivilite la divisione del prodotto sociale in quote, di cui quella minore, per testa, spetta al lavoratore e la più grossa ai proprietari ed ai capitalisti. Adamo Smith non guarda ancora ai due fatti dal di fuori, come se si trattasse di un cadavere da sezionare; egli è ancora parte di essi e l’animo suo ripugna dinanzi a quella che alla sua diritta coscienza appare una ingiustizia. Ma subito lo storico prende il sopravvento e gli fa osservare: eppure il lavoratore delle epoche primitive, il quale riceve tutto, è miserabile, laddove il lavoratore dei tempi moderni inciviliti, il quale riceve la minor parte, è un ricco epulone in confronto al suo antenato! Perché? Al perché risponde l’economista con la dimostrazione degli effetti meravigliosi della divisione del lavoro.

Il processo mentale è identico nel 1763 e nel 1776: le tre anime di moralista, di storico e di economista che erano in Adamo Smith pongono insieme il problema, il quale è proprio di tutto l’uomo vivente in società e non può essere risoluto compiutamente solo sulle basi di una astratta ipotesi moralistica od illuministica od economistica, sibbene su quella dell’esame critico di tutta la realtà. Ma nel 1763 la posizione dominante era quella moralistica dell’ingiustizia della attuale organizzazione sociale e la correzione storico-economica appariva come un’attenuante: nonostante l’ingiustizia il povero lavoratore di oggi sta meglio del più ricco potente di un tempo. Nel 1776 la disuguaglianza è un mero fatto che si tratta di spiegare. La teoria della divisione del lavoro pone un nuovo problema: poiché il lavoratore, il quale riceve solo una parte del prodotto sociale totale, sta tanto meglio dei suoi antenati, la attribuzione delle altre parti aliquote ai proprietari ed ai lavoratori ha una spiegazione? Qui comincia l’analisi superba della rendita, del profitto e dell’interesse, superba più dal punto di vista di spiegazione della realtà storica che da quello della teoria pura economica, con cui continua il gran libro. Ecco la conclusione principale che mi pare di ricavare dal confronto fra le due stesure: dal 1763 al 1776 Adamo Smith, senza rinunciare alla pienezza del suo giudizio, che è insieme morale, storico ed economico, nella sempre più raffinata meditazione dell’oggetto proprio della scienza che egli stava per fondare, studia i fatti sempre più dal punto di vista economico. Il fatto dominante non è più l’ingiustizia nella ripartizione della ricchezza; è l’altro che la nuova ripartizione ha grandemente cresciuto il benessere dei più miseri. Egli risolve l’apparente paradosso ricorrendo alla osservazione storica dei frutti della divisione del lavoro. E qui si ferma; ma l’economista par chiedere al moralista, che è tanto vivo in lui: sulla base dei fatti da me storicamente constatati ed economicamente analizzati, non c’è nulla davvero da rivedere nella tesi moralistica della ingiustizia? Era posta così la gran domanda, alla quale dopo 160 anni non si è ancora risposto.

Il peccato originale e la teoria della classe eletta in Federico Le Play

«Rivista di storia economica», I, 1936, pp. 85-118

1. – Federico Le Play scienziato ha avuto la disgrazia di cadere in mano di due qualità di specialisti: gli statistici ed i riformatori sociali. Colpa di lui, che tanto insisté sul «metodo» da far credere che quello fosse la sostanza del suo pensiero e tanto predicò contro gli art. 826 e 832 del codice civile napoleonico da diventare il capo riconosciuto di tutta la brava gente la quale reputa essere la libertà testamentaria una delle riforme od addirittura “la” riforma essenziale per la soluzione dei massimi problemi sociali. Considero perciò disgraziata la sorte del Le Play, sebbene io tenga in assai conto il metodo del bilancio di famiglia che va col suo nome e non sia favorevole alla disponibile di appena un quarto dell’asse ereditario ed alla divisione forzosa degli immobili fra i coeredi volute dal codice napoleonico.

2. – Su tutti i due punti approvo pienamente i suoi insegnamenti. Togliere ai genitori il diritto di disporre, come essi credono meglio, della propria fortuna, premiando i figli buoni e laboriosi e punendo gli scioperati e sconoscenti od almeno rinviando alla generazione seguente di nipoti il godimento della quota che sarebbe spettata al figlio reprobo; peggio, negare al genitore il diritto di assegnare in natura i propri beni, specie la casa e i fondi aviti, è causa di dissoluzione famigliare. Quasi sempre i genitori non hanno ragione di fare e non fanno parzialità tra i figli e preferiscono lasciare a questi la cura di spartirsi amichevolmente i beni ereditati; ma in quella rarissima occasione nella quale essi reputano doveroso dar la preferenza all’uno sugli altri od assegnare in natura i proprii beni, essi devono potere assolvere la propria missione. Napoleone ed i suoi consiglieri non vollero, perché ad essi premeva distruggere le vecchie classi dirigenti e perciò frantumare la proprietà terriera. Ma Le Play ricorda che, quando volle ricostruire una nuova classe dirigente, Napoleone ricreò i maggioraschi. In Italia, la questione non è viva, perché essendo[1] la disponibile uguale alla metà dell’asse ereditario, è consentita ai genitori una libertà di azione bastevolmente grande, mentre al tempo stesso si difendono i figli contro ingiuste antipatie dei genitori; né è vietato a questi di assegnare, osservata la regola della legittima, i singoli beni cadenti in successione a questo od a quel figlio. Le Play lodava la legislazione ereditaria vigente in Savoia, che era quella piemontese, divenuta poi italiana; ed al legislatore italiano probabilmente non avrebbe chiesto nulla. Ma sarebbe stato il primo a protestare contro quella riduzione al minimo della sua dottrina, la quale farebbe credere a chi legge i sunti correnti nei manuali di storia delle dottrine economiche che il suo nome possa identificarsi unicamente con le consuete critiche alla polverizzazione della proprietà e con le proposte in favore di beni di famiglia, del diritto del testatore, della conservazione legislativa delle famiglie-ceppo ecc. ecc. Le Play pregiava le leggi buone; ma soprattutto esaltava le buone tradizioni, le sane usanze, le consuetudini stabili; ed a lui sarebbe bastato, in fatto di leggi, che queste non distruggessero tradizioni usanze consuetudini buone sane e stabili. Il vero problema che egli studiò fu l’origine delle tradizioni usanze consuetudini buone e stabili e le cause del prevalere di quelle contrarie; ed in questo studio sta il suo vero apporto alla costruzione della scienza sociale.

3. – Sono anche ammiratore del “metodo” inventato dal Le Play dei bilanci di famiglia. Tanto lo ammiro che da più di un quarto di secolo mia moglie ed io compiliamo[2] – a parlar propriamente mia moglie compila ogni anno il conto consuntivo della spesa e forse io potrò da sparsi taccuini ricostruire quello delle entrate – un bilancio della nostra famiglia secondo il preciso schema Le Play, alquanto differenziato nella sezione quarta (sezione prima: nutrimento; seconda: abitazione; terza: vestiti) delle spese relative ai bisogni morali, alle ricreazioni ed alla salute. Poiché i bilanci Le Play sono minutissimi ed ogni cosa acquistata deve essere indicata per specie e non per categoria, con le quantità in peso o volume o numero, i prezzi unitari e gli importi complessivi, così, se un giorno a noi due verrà in mente e potremo utilizzare quel materiale, forse ne verrà fuori un non inutile contributo alla storia del modo di vivere di una famiglia del medio ceto italiano nel tempo corso dal primo decennio del secolo all’anno in cui il ciclo sarà chiuso. Questa possibilità di ricordare attraverso le cifre dei bilanci famigliari le nostre piccole vicende intime la debbo al Le Play; e poiché non tengo diarii, quella filza di quaderni è in pratica il solo ricordo delle cose compiute quotidianamente che noi potremo trasmettere ai nostri figli. I quali lo dovranno perciò all’insegnamento del Le Play.

4. – Detto ciò per attestare a lui la mia riconoscenza ed ai lettori la mia opinione che il suo modello di bilancio di famiglia sia superiore a quanti furono dappoi proposti, debbo aggiungere che gli statistici, col fare rientrare il bilancio di famiglia Le Play entro lo schema dei metodi statistici gli hanno reso un pessimo servizio. Il suo discepolo Cheysson volle nel 1890 collocare, l’uno accanto all’altro, 100 bilanci di Le Play e della sua scuola ( Les budgets comparés des cent monographies de familles publiés d’aprés un cadre uniforme dans “Les ouvriers européens” et “Les ouvriers des deux mondes” avec une introduction par E. Cheysson, en collaboration avec M. Alfred Toqué, in «Bulletin de l’Institut international de statistique», tome V 1er livr., pagg. 1-157), contentandosi saggiamente di pubblicare i valori assoluti e percentuali di ogni bilancio in sé considerato, senza tentare somme e medie. Naturalmente, gli statistici cominciarono a dire che quello era un materiale infido, ché si trattava di numeri troppo piccoli; che non vi era omogeneità di tempo e di luogo; che i dati medesimi erano soggetti a dubbio per la esattezza dei pesi e dei valori sino al centesimo. Di fronte a contadini diffidenti per istinto, come pretendeva Le Play di apprezzare per filo e per segno fatti che nemmeno gli interessati solitamente conoscono? Non dunque osservazioni di fatti veri, anche se pochi; ma ricostruzioni arbitrarie di un osservatore, sia pure acutissimo e genialissimo. Quindi materiale inutilizzabile col metodo statistico, il quale suppone fenomeni di massa, osservati in grande numero, con procedimenti uniformi e con certezza di rilevazione.

Credo anch’io che il metodo Le Play sia inutilizzabile dal punto di vista statistico. Aggiungo che non è affatto uno sminuire il valore dei bilanci di famiglia, quali sono oggi compilati dagli uffici di statistica, sulla base di questionari distribuiti o di inchieste eseguite fra migliaia di famiglie, il dire che i bilanci Le Play sono e devono rimanere (i suoi e quelli riveduti da lui) un’altra cosa. Essi sono un documento storico, dunque non statistico. Non contengono osservazioni su masse, sibbene su individui singoli. Anche nell’ipotesi estrema, chiaramente esageratissima, che neppure uno dei bilanci Le Play fotografi la realtà esatta del bilancio di quella data famiglia nel luogo e nel periodo di tempo dichiarato, ed i dati di essi debbano perciò essere dichiarati inservibili ai fini della indagine statistica, non ne sarebbe affatto sminuito il valore storico. Storia è ricostruzione di fatti individui, compiuta da chi vede gli avvenimenti col “suo” occhio, sceglie con la “sua” logica i fatti da narrare in mezzo agli altri innumerevoli fatti a lui indifferenti, e li colora secondo la visione delle cose umane che è “sua”. Lo statistico non ha diritto di scelta fra i 100 od i 1000 bilanci di famiglia a lui offerti entro i limiti del gruppo che egli deve studiare. Può essere, dalla limitazione dei mezzi e del tempo, costretto a studiare solo 10 su 100 o su 1000 bilanci; ma la scelta deve essere fatta quanto più egli possa, a caso, senza uso del suo arbitrio o di un giudizio da lui preordinato. Può, nella scelta, essere guidato dalla opportunità di tener conto di quei bilanci, i quali mettono in luce certe caratteristiche: ad es. esercizio di un dato mestiere, numero dei figli, possesso della casa ecc., ecc.; ma i casi in cui quella caratteristica esiste non possono essere oggetto, entro i limiti in cui l’indagine è tecnicamente e finanziariamente possibile, di scelta arbitraria da parte sua.

Invece lo storico sceglie secondo l’arbitrio suo. Fra le tante famiglie, osserva quella che a lui sembra la più rappresentativa o tipica. Perché a lui sembri tale, forse neppure egli è in grado di dire. Un’impressione, una sentenza, un modo di vivere, l’opinione di persone stimabili del luogo hanno contribuito alla scelta. Allo storico può accadere altresì di combinare insieme le osservazioni relative a due o tre famiglie in un quadro che a lui sembri veramente tipico. Celeberrimi dipinti di grandi maestri non sono forse un’astrazione? Eppure essi fanno rivivere un’epoca meglio di fotografie fedelissime. Le Play immaginava di fare opera di statistico ed invece scrisse storie. Le sue monografie russe dipingono i rapporti sociali fra grandi proprietari e contadini, carbonai, pastori, del tempo della servitù della gleba (1844 e 1853) meglio di tanti dotti volumi accademici e di tanti celebri romanzi; la figura del mezzadro della vecchia Castiglia (1840-47) balza viva sullo sfondo di una società nella quale il grande di Spagna è assai più vicino al lavoratore di quanto non si possa dedurre dai racconti di maniera di guerriglie sociali. L’antica Francia prima della rivoluzione è stata da lui fotografata nel 1856 nella monografia sul contadino a famiglia-ceppo del Lavedan nel Bearn. Sainte-Beuve e Taine, quali avevano una qualche dimestichezza con le fonti storiche, facevano gran conto di Le Play. Egli aveva l’occhio dello storico.

5. – La differenza fra gli storici dicasi storici dell’economia, poiché qui si discorre di cose economiche, ma il discorso vale per tutte le specie di storici – i quali scrivono libri, che leggendoli si sente che sono falsi dalla prima all’ultima parola, nonostante narrino o raccontino fatti tutti veri e storici i quali danno una visione vera del tempo investigato, nonostante raccolgano solo alcuni fatti, scelti ad arbitrio, essendo dunque tutta posta nell’occhio, dobbiamo chiederci: quale era la specie di occhio posseduto da Le Play?

Tanti anni fa, ad occasione di certi miei studi di economia mineraria (1900), mi accadde di far passare la raccolta degli Annales des mines del secolo scorso; e vidi allora per la prima volta la firma di Federico Le Play in calce ad informatissimi studi di arte ed economia mineraria. Suppongo che nessuno legga più quegli studi, i quali all’ingegnere moderno probabilmente non dicono nulla che sia oggi praticamente utilizzabile. A me, che cercavo e cercherei ancora legami fra prezzo e costi di produzione, fra salari e interessi e profitti di intrapresa, e variazione di questi legami nel tempo, di quegli studi di Le Play rimase il ricordo come di capolavori. Le Play era maestro nell’arte dell’ingegnere; maestro compiuto, epperciò, senza che egli ne fosse consapevole, maestro nell’arte economica. Come economista teorico, egli era e più si reputava un eretico. Non aveva simpatia per gli economisti e, quando poteva, parlava svantaggiosamente di Adamo Smith e degli economisti liberali, ai quali oltreché agli enciclopedisti ed agli utilitaristi del secolo XVIII, imputava la responsabilità dei mali della società moderna. Ciò gli accadeva, perché non aveva penetrato lo spirito della scienza economica, la quale non è liberale né socialistica, né altra cosa, ma è scienza di costi e di prezzi, di scelte tra mezzi limitati per raggiungere i fini voluti dagli uomini; ma forzato dall’arte sua di ingegnere, in cui era sommo, giungeva, nello studio dei problemi concreti, alle conclusioni medesime degli economisti, attraverso il medesimo metodo, e colle stesse forme di ragionamento. Chi legga la sua monografia sul calmiere del pane (cfr. sotto n. 13) e quella sulla lotta fra legna e carbone (cfr. n. 11) non può fare a meno di collocarlo, nonostante le sue proteste, nella schiera degli economisti classici.

L’abito mentale dell’ingegnere, il quale si pone il problema tecnico, in quanto esso aiuti a conseguire un fine di minimo costo, entro lo schema della massima convenienza economica, lo portava dunque a vedere la realtà. Voleva vederla attraverso la meditazione teorica; ma non scompagnava questa dalla osservazione. Ripetutamente egli insiste sul vantaggio tratto, anche in indagini tecniche, dalla osservazione del modo tenuto nel lavorare dai pratici artigiani, minatori e fonditori. Ascriveva allo studio dell’arte praticata per tradizione almeno tanta importanza come allo studio dei libri; epperciò fino all’ultimo rimase scettico intorno alla utilità delle scuole professionali ed a queste preferì il tirocinio cominciato in età giovanile nelle officine.

6. – Fin qui avremmo avuto soltanto un Le Play eminente scrittore di monografie industriali, emulo e probabilmente maggiore del nostro Giulio, di cui altra volta tentai tracciare il ritratto (in La riforma sociale, gennaio/febbraio 1935 e, in questo volume, pagg. 203-212). L’indagatore tecnico economico divenne il costruttore di una teoria del mondo sociale per circostanze accidentali. Nei suoi libri (O. E. L., 17-34) si legge il racconto delle prime osservazioni fatte da giovinetto in libere corse sulla riva della Senna vicino ad Honfleur, in compagnia di pescatori e contadini, dell’influenza esercitata da amici di famiglia che gli facevano rivivere gli uomini dell’antico regime, dai negatori razionalisti, che avevano fatto la rivoluzione, ai tradizionalisti, i quali avevano fatto la forza della vecchia Francia. Un infortunio gravissimo di laboratorio (inverno 1829/830), che lo costringe per 18 mesi all’inazione ed alla meditazione, pone dinanzi alla sua mente il problema del perché della vita e dei fini di essa (O. E. L., 40). Da quel momento comincia una nuova fase nella sua attività intellettuale. I lunghi viaggi intrapresi grazie, dapprima, alle conseguite borse di studio e poscia ad incarichi dei governi del suo paese e forestieri lo portano a percorrere, spesso a piedi, quasi tutta l’Europa fino agli Urali, alla Scandinavia ed alle Sierre spagnuole. L’ufficio di studio e di riorganizzazione di grandi imprese minerarie è per lui occasione a studiare l’uomo che in quelle imprese lavora. Egli si chiede: perché l’uomo, ed egli intende l’uomo del popolo, il contadino, l’operaio, il minatore, il fonditore, è contento o malcontento? Perché vuole uscire dal suo stato o rimanervi? Perché una società è prospera e stabile ed un’altra èinstabile o disorganizzata o corrotta?

7. – In apparenza, il problema di Le Play è quello del predicatore, dell’evangelista, del profeta, il quale intende combattere il male e propugnare il bene; ed in verità a tal fine di bene egli ha fondato società, unioni per la pace sociale, raggruppato intorno a sé uomini ansiosi di fare il bene sociale. Ma la sostanza profonda è diversa. Il suo problema era puramente scientifico: cercare le leggi delle uniformità sociali. Egli intese a risolverlo con strumenti rigorosamente scientifici. Se guardiamo sotto e dentro la veste esteriore, la quale fa sorridere lo studioso abituato al linguaggio degli economisti professionali[3], Le Play (11 aprile 1806/5 aprile 1882) appartiene alla schiera dei grandi scrittori del secolo XIX che hanno ficcato lo sguardo in fondo alle ragioni di vita delle società politiche, i quali si chiamano – sia lecito citare anche, insieme con i teorici, i nomi di taluni grandi giornalisti – Burke, Mallet du Pan, De Maistre, Gentz, Tocqueville, Taine, Mosca, Pareto. Quest’ultimo si inquieterebbe a vedersi messo insieme con uomini i quali profetizzavano, evangelizzavano o combattevano; ma la verità comanda di guardar sotto alle formule religiose o politiche la sostanza scientifica. Con maggiore o minore vigoria e consapevolezza, gli scrittori ora citati reagiscono tutti contro l’idea che gli uomini siano guidati nell’agire dalla ragione ragionante, e che una società viva possa essere creata dal raziocinio. Si chiami istinto, o caso, o tradizione o classe e formula politica o elite e residuo, esistono forze potenti, talvolta misteriose le quali spiegano la grandezza e la decadenza, la permanenza e il disfacimento delle società. Che Le Play distingua le popolazioni (società) in «modèles» o «soumises à la tradition, stables, ebranlée et désorganisées», che egli, per riconoscerle ed analizzarle, si giovi dello strumento “bilancio di famiglia” in fondo non ha alcuna importanza decisiva per caratterizzare la sua visione del mondo; per definire la ricostruzione che questo singolare ingegnere, economista per intuito spontaneo e scrittore politico autodidatta, compie delle ragioni di variazione delle società umane.

La sua “scuola” in fondo è morta; e solo la devozione di pochi discepoli ne serba viva la scintilla. Dalla guerra in poi non si sono più pubblicati bilanci di famiglia nella grande collezione da lui iniziata. Dalle riforme inspirate al principio della libertà testamentaria (aumento della disponibile, assegnazione in natura dei beni ereditari, criteri restrittivi per la constatazione della lesione enorme, diritto di pagare saldi in denaro nelle divisioni ereditarie, riduzione delle imposte di successione nella cerchia famigliare), al dovere di patronato dei datori di lavoro verso gli operai, alla diffusione della proprietà della casa, al riposo domenicale, alla difesa delle autonomie regionali o locali, il mezzo secolo trascorso dopo la morte di Le Play ha eliminato quel che in esse era di caduco ed ha fatto diventare le altre patrimonio comune di grandi correnti dell’opinione pubblica o scopo dell’azione dei legislatori e degli uomini di governo. Resta la sua dottrina; viva per quel che essa ha fornito alla costruzione sempre incompiuta della scienza che egli chiamava sociale ed in lingua italiana meglio si dice politica. Nella schiera illustre sopra ricordata sarebbe ingiusto tacere il nome di Le Play.

8. – Una delle fatiche sue più singolari fu il “vocabolario sociale”, nel quale egli volle definire con precisione le trecento parole costitutive del linguaggio proprio della scienza sociale (cfr. qui sotto n. 2; O. E. I., 441-49). Il profeta, l’apostolo usa un linguaggio mistico, atto a colpire sentimento ed immaginazione. Le Play vuol costruire una scienza e comincia col definire le parole usate. Il succo della dottrina è dato da quelle parole con le quali egli fissò i connotati dei ceti dirigenti della società. Quel che altri chiamò poi “classe politica”, od “élite”, egli disse “autorités naturelles”; e sono «coloro il cui potere deriva nella vita privata dalla natura degli uomini e delle cose». Essi sono «nella famiglia, il padre; nell’opificio, il principale; nella vicinanza, il saggio designato dall’affezione e dall’interesse della popolazione». È dunque fornito di autorità naturale ed, elevandosi sovra gli altri, li dirige e comanda, astrazion fatta dall’ordinamento legale del paese, colui il quale a comandare è designato dal sangue, dalla posizione sociale e dalla sapienza del consiglio. L’autorità derivata dall’essere riconosciuto atto a dar consiglio altrui è la più alta e Le Play la chiama autorità sociale. Ne sono rivestiti «coloro i quali sono divenuti, grazie alla loro virtù, i modelli della vita privata, i quali dimostrano una forte tendenza verso il bene, presso tutte le razze, in tutte le condizioni e in tutti i regimi sociali; e, coll’esempio della loro famiglia e del loro opificio, con la scrupolosa pratica del decalogo e delle consuetudini della pace sociale, acquistano l’affetto ed il rispetto di tutti coloro che li circondano e così fanno regnare il benessere e la pace nel vicinato». Chi di noi non ha conosciuto qualcuno di questi uomini? Spesso non hanno alcuna carica ufficiale, non furono mai ministri, né senatori, né deputati; non brigarono cariche di sindaci, consiglieri, non ebbero offerte o non accettarono quelle di podestà o fiduciari politici o sindacali. Furono talvolta conciliatori; poiché il loro ufficio naturale è di star seduti sotto l’albero del villaggio a comporre liti, ammonire i malcreati e dar consiglio ascoltato agli umili. Essi sono dappiù dei potenti della terra, ché i potenti passano e la parola del saggio rimane. Non conosce il suo mestiere l’inquirente sociale il quale, giunto in un villaggio, non cerca, attraverso la voce spontanea del popolo, l’uomo saggio, il notabile, ricco o mediocre di fortuna, al quale gli abitanti si volgono per consiglio. Le autorità legali gli parleranno di gravezza di imposte, di desideri di aiuti o di interventi governativi, di iniziative a prò della economia locale. L’uomo saggio non dirà nulla di ciò, poiché nel villaggio a ciò nessuno pensa; ma informerà sui costumi, sui vecchi, sui bambini, sulle famiglie e sulle ragioni eterne della loro prosperità o decadenza.

Le Play si compiaceva a trarre da Platone (Le leggi, lib. XII) la definizione degli uomini che sono guida ai popoli: «Si trovano sempre, mescolati nella folla, uomini divini, in verità poco numerosi, di cui il commercio ha pregio inestimabile, i quali non nascono più frequenti negli stati civili che negli altri. I cittadini, i quali vivono sotto un buon governo, devono andare alla cerca di questi uomini, i quali hanno saputo serbarsi puri da corruzione; debbono cercarli per terra e per mare, in parte per rafforzare quel che v’é di saggio nelle leggi del loro paese, ed in parte per correggere quel che può essere in quelle di difettoso. Non è possibile la perfezione nella repubblica, se non si osservano e non si cercano questi uomini o se ciò si fa male».

9. – Le autorità naturali ricevono forza dalla virtù morale e dal costume. Nelle società semplici il padre è onnipotente e, fra i padri, taluno acquista autorità particolare; e diventa capostipite di genti nobili. Nobili sono «coloro i quali per virtù o servizi eminenti o per la pratica delle grandi tradizioni dei loro antenati sono divenuti i modelli della vita pubblica». La nobiltà è «il fiore delle classi superiori e dirigenti in una società modello. La vera nobiltà non consiste nella trasmissione del sangue, del nome e dei titoli, ma nella pratica della legge morale e nella devozione al pubblico interesse». Come non ricordare la definizione della nobiltà che nel 1793 il marchese Henry Costa de Beauregard dava alla sposa all’annuncio che le sue armi scolpite nella pietra del castello di Beauregard erano state spezzate e le sue pergamene di famiglia erano state bruciate ai Villard? «Ben sono sciocchi coloro i quali immaginano di averla fatta finita con noi perché hanno spezzato le nostre armi o disperso i nostri archivi. Finché non ci avranno strappato il cuore, non potranno impedirgli di battere per tutto ciò che è virtuoso e grande, non potranno impedirgli di preferire la verità alla menzogna e l’onore a tutto il resto; finché non ci avranno strappato il cuore, non potranno vietare che esso sia riscaldato da un sangue che non venne mai meno; finché non ci avranno strappata la lingua, non potranno vietarci di ridire ai nostri figli che la nobiltà consiste esclusivamente nel sentimento raffinato del dovere, nel coraggio posto nell’adempirlo e nella fedeltà sino all’estremo alle tradizioni della famiglia» [4].

L’élite di Le Play non si confonde dunque con la classe dirigente nel senso comunemente oggi invalso. Pareto dà il nome di classe eletta od élite a coloro i quali hanno gli indici più elevati nel ramo della loro attività e chiama perciò a far parte della “classe eletta di governo” tutti coloro i quali sono riusciti ad entrare nel ceto governante: il senatore che è stato nominato per il censo ricevuto in eredità, il deputato che «in certi paesi si fa eleggere pagando gli elettori e lusingandoli, se occorre, col dimostrarsi democratico sbracciato, socialista, anarchico»; l’Aspasia di Pericle, la Maintenon di Luigi XIV, la Pompadour di Luigi XV, la quale «ha saputo cattivarsi un uomo potente ed ha parte nel governo che egli fa della cosa pubblica» (Trattato, §§ 2027 a 2036). Nulla di più repugnante allo spirito di Le Play di questa mescolanza; per lui l’elite è il meglio – perciò tradussi con fiore – delle classi dirigenti e superiori in una società prospera; è quella piccola e rarissima parte delle classi dirigenti la quale compie opera intesa ad ottenere certi risultati, che egli qualifica di “prosperità” per la nazione o lo stato o il gruppo. Una classe la quale conduce la società alla rovina, alla disorganizzazione ed alla decadenza può essere dirigente, non è elite.

La terminologia di Le Play è preferibile, dal punto di vista della proprietà del linguaggio, a quella di Pareto. Repugna collocare una grande favorita come la Pompadour nella classe eletta, mentre pare ovvio dichiararla importante parte della classe dirigente. Dirigere è ufficio proprio anche del capo di una banda di contrabbandieri di alcool, divenuto potentissimo nella vita politica americana; ad essere “eletto” occorrono qualità morali, le quali sono assenti nei capi contrabbandieri e nelle mantenute.

10. – Le Play era mosso da ragioni più profonde di questa terminologica ad attribuire la qualità di classe scelta ad una parte soltanto della classe dirigente. Dal 1661 in poi la Francia è certamente stata governata da una classe dirigente; ma dal 1661 al 1762 re e cortigiani si fecero coll’esempio predicatori di corruzione, dal 1762 al 1789 filosofi e letterati propagarono l’«errore fondamentale»; dal 1789 in poi letterati, violenti e predatori, si associarono per distruggere le costumanze del bene. Le Play non chiama a far parte della “classe eletta” coloro che ebbero allora la direzione politica e spirituale della società francese. Il fiore della classe dirigente poté nelle epoche ora dette, essere negletto, perseguitato, cacciato di Francia dopo la revoca dell’editto di Nantes, decimato dalla ghigliottina; ma rimase “la” classe eletta e, salvando la verità fondamentale e la tradizione di bene, salvò la Francia. Rare volte accade, secondo il Le Play, che la classe dirigente sia anche la classe eletta; ma in quelle rare occasioni in cui le due classi diventano una sola si pongono per secoli le fondamenta della grandezza duratura di un paese. Una di quelle rare occasioni fu il regno di Enrico IV, continuato da Luigi XIII (1582/1643), quando, all’ombra dell’editto di Nantes (1598), cattolici e protestanti gareggiarono nel servire lo stato; e santi come S. Francesco di Sales e Giovanna di Chantal, filosofi e teologi come Descartes e Bossuet, Nicole e Pascal, statisti come Pasquier, Du Harlay e Sully, fecero veramente grandeggiare il nome della Francia nel mondo e alcuni di essi collo splendore della loro fama consentirono a Luigi XIV di attribuire a sé il vanto del secolo d’oro, in verità dovuto all’opera dei suoi predecessori.

11. – La distinzione fra classe dirigente e classe eletta è fondamentale per l’intelligenza della visione della storia propria del nostro autore. Criterio di essa non è la formula adoperata per governare, bensì l’osservazione dei risultati a cui conduce l’opera compiuta dalla classe dirigente. È malagevole riassumere le osservazioni disperse nelle migliaia di pagine scritte dal Le Play; e dovrò contentarmi forzatamente di accenni utili ad illuminare di scorcio il pensiero di lui. Criterio sufficiente ad escludere una data classe dirigente dal novero di quelle elette è il versare di essa nell’«errore fondamentale», ossia nella «credenza alla perfezione originale» dell’uomo. Fu questa, riassume Le Play nel vocabolario, «un’opinione introdotta in Francia nel XVIII secolo da scrittori inglesi e tedeschi; professata in seguito da J.-J. Rousseau; propagata dai salotti parigini: adottata, come principio essenziale, dai riformatori novatori del 1789, del 1830, del 1848 e del 1870; ammessa, più o meno apertamente, dalle moderne teorie ostili allo spirito di tradizione… Secondo gli adepti dell’errore, il bambino nasce con la tendenza innata verso il bene. Perciò il male, il quale esiste dappertutto, è il risultato di un’azione corruttrice, intesa, fin dalle prime età, a corrompere la natura umana. Da questa opinione, la cui falsità è universalmente conosciuta dalle madri, dai medici, dai maestri di scuola derivano logicamente i tre falsi dogmi della libertà sistematica, dell’uguaglianza provvidenziale e del diritto di rivolta. L’osservazione delle società le quali applicano siffatti dogmi ne dimostra la incompatibilità con la pace e la stabilità sociale».

12. – Il lettore affrettato può credere che Le Play tragga dall’ossequio ad un dogma di fede le sue opinioni intorno alla verità ed all’errore, intorno al bene ed al male; e forse Pareto lo classificherebbe tra i metafisici. Colui che novera tra le maggiori felicità della sua esperienza intellettuale la lettura di quasi tutto ciò che scrisse Le Play facilmente si persuase che altra è la verità. Non una delle affermazioni sue ha origine diversa dall’osservazione dei fatti, osservazione sua o di altri. A differenza farò di chi ricorre alla rinfusa a testimonianze di pensatori e di pennaioli senz’arte né parte, di santi e di romanzatori quotidiani gialli, Le Play non ammette alla dignità di testimonio se non chi egli sa avere le qualità necessarie per osservare bene. Chi è il giudice delle qualità proprie dell’uomo? Non Rousseau, il quale opinava in relazione alla dottrina che soleva costruire; ma la madre, il medico, il maestro, il sacerdote, i quali hanno visto il bambino appena nato, lo hanno seguito nei primi anni coll’ansia di chi generò e di chi deve educare e non hanno ragione di veder male o di mentire. Ha ragione Gian Giacomo di scrivere nella Lettre à Christophe de Beaumont, archevéque de Paris che «il principio fondamentale di tutta la morale, in base al quale ho ragionato in tutti i miei scritti… è che l’uomo è un essere naturalmente buono, il quale ama la giustizia e l’ordine; né esiste perversità originale nel cuore umano ed i movimenti spontanei della natura sono sempre giusti»; od ha ragione Le Play di opporgli il brano di sant’Agostino nelle Confessioni (I, VII, XIX)? Il brano ricorre troppe volte nelle opere del Le Play per non riprodurlo interamente: «La debolezza degli organi è innocente nei bambini; ma non è innocente il loro animo. Ho visto, ho visto io stesso un bambinetto divorato dalla gelosia. Egli non parlava ancora; ma, pallidissimo, guardava con occhio torvo il suo fratello di latte… è innocenza, in un bambino, non voler dividere una fontana di latte così abbondante e persino troppo abbondante, con un bambino debole come lui ?… Questa è, Dio mio, l’innocenza dei bambini? No, non esiste l’innocenza. Quel che essi sono coi loro maestri e precettori per ottenere noci, palle ed uccelli, più tardi sono coi re ed i magistrati per ottenere oro, terre, schiavi. Cogli anni muta l’oggetto della passione; ed i supplizi più atroci prendono il posto dei castighi della fanciullezza. Ma in fondo, è sempre la stessa cosa. Voi, Gesù, avete certo pensato solo di darci una lezione di umiltà nella piccola statura dei fanciulli, quando avete detto: Il reame dei cieli è di quelli che rassomigliano ai fanciulli». Così opinando, Le Play poteva cadere in errore; ma nel modo tenuto dagli uomini di scienza. Il suo metodo era rigorosamente scientifico, se si reputa tale quello fondato sulla osservazione della realtà compiuta da persone capaci di contemplarla.

13. – Dall’erronea credenza nella perfezione originale dell’uomo nascono i tre falsi dogmi: 1) della libertà sistematica; ed invero «l’uomo, nato perfetto, creerebbe dappertutto il regno del bene, se gli fosse permesso di seguire le sue inclinazioni naturali. Il male universale non può dunque derivare che dalle istituzioni coercitive le quali finora sono state il fondamento di tutta la società; e che bisogna perciò distruggere sistematicamente per restituire agli uomini la libertà originaria»; 2) della uguaglianza provvidenziale; poiché «gli uomini nascendo ugualmente perfetti, dovrebbero esercitare il medesimo potere e godere dei medesimi vantaggi se la società fosse fondata sulla giustizia»; 3) del diritto di rivolta: «gli uomini nascono invero perfetti; e creerebbero dappertutto il regno del bene, se essi potessero collaborare tutti in condizioni di piena libertà ed uguaglianza. Tutti i governi hanno finora mantenuto gli uomini nelle condizioni opposte, e di qui il dominio universale del male. Fa d’uopo perciò rovesciare con la forza tutti i governi che tollerano i regimi di coazione e di disuguaglianza».

14. – Dimostrato l’errore fondamentale, cadono i tre falsi dogmi che ne derivano. Classe eletta è quella che meglio interpreta ed attua la costituzione propria degli uomini, la quale d’altra parte non è riassunta nei dogmi opposti a quelli che derivano dalla credenza nella «perfezione originale». Colui il quale dall’osservazione dell’indole degli uomini è portato a credere nella verità del “peccato originale” non perciò ne deduce i dogmi della coazione legale, della disuguaglianza e della ubbidienza assoluta. I legisti, tipici teorici della coazione e dell’autorità legale, sono agli occhi di Le Play fattori secondari e spesso negativi della classe eletta. Nelle società prospere si ricorre alle leggi coattive solo laddove non basta l’esempio morale delle autorità naturali e sociali; ed il moltiplicarsi delle leggi coattive è indice del trascorrere delle società dal tipo prospero e stabile al tipo instabile e disorganizzato.

15. – Se criterio negativo dell’attitudine a far parte della classe eletta è il versare nell’errore fondamentale, criterio positivo della prosperità di una società ad opera della classe eletta governante è il grado di osservanza del decalogo: adorare un solo dio e reprimere gli idoli, non pronunciare invano il nome di Dio, rispettare il padre e la madre, non ammazzare, non rubare, non testimoniare il falso, non commettere adulterio, non desiderare la roba d’altri. Ecco le regole che, osservate nelle cose private e pubbliche, conducono i popoli alla prosperità e, violate, alla rovina. Le Play studiò ad una ad una centinaia di famiglie, nei climi fisici, storici e politici più diversi; ne analizzò minutamente le condizioni di vita materiale ed intellettuale; e, quando volle andare in fondo alle ragioni della felicità o del malcontento, del prosperare o dell’impoverire, sempre si rifece al decalogo e studiò il modo come gli uomini si comportavano dinanzi ai suoi comandamenti. Questa è la chiave magica, la quale ci rivela i segreti della storia dei popoli. Come egli distinse la classe eletta da quella governante e chiamò “eletta” quella che non solo regge, come fanno tutte le classi governanti, i destini dei popoli, ma li conduce alla prosperità, così egli distinse nella storia dei popoli differenti alternanti stati o modi di essere; e disse di “prosperità” uno di essi, definendolo così: «Risultato che l’azione ripetuta del bene produce sulla condizione fisica e morale delle società. La prosperità si manifesta soprattutto attraverso la pace e la stabilità. Essa offre, secondo i luoghi, le razze ed i tempi, due termini estremi di semplicità e di complicazione, segnalati dalla natura dei mezzi di sussistenza. Nella “prosperitò semplice” la sussistenza dipende quasi esclusivamente dalla raccolta regolare delle produzioni spontanee del suolo e delle acque. Nella “prosperità complicata” la sussistenza proviene in gran parte dai prodotti del lavoro umano. Quando la natura dei luoghi lo consente, essa genera ricchezza accumulata, cultura intellettuale e potenza politica” (in n. 2, O. E. I., 471).

L’ordine degli accadimenti è dunque il seguente: 1) esistenza di una classe eletta, tale perché conosce ed applica il decalogo; 2) capacità della classe eletta ad insegnare ai popoli la pratica del decalogo; 3) pace e stabilità sociali che per conseguenza esistono nella società ed in cui consiste la “prosperità”; e dalla quale derivano ricchezza cultura e potenza, in grado maggiore o minore a norma delle condizioni di luogo, di razza e di tempo. Ricchezza, cultura e potenza possono esistere anche laddove non esiste “prosperità” definita come sinonimo di pace e stabilità sociale e come conseguenza della pratica del decalogo da parte della classe eletta e dei popoli da essa guidati. Avremo il secolo di Luigi XIV minato alla base dai vizi della classe dirigente; non i tempi di Enrico IV e di Luigi XIII, nei quali fu costrutta la Francia. Il teorico politico non può non distinguere fatti diversi; e non può contentarsi di spiegare l’accaduto sol perché accaduto. Vi è un accaduto, i cui connotati sono pace e stabilità sociale; e diremo questo tipo di “accaduto” conseguenza dell’osservanza della legge morale e qualificheremo “eletta” quella classe dirigente la quale è capace di produrre tali specie di “accaduti”. Vi sono altri “accaduti” i cui connotati sono la discordia, l’irrequietudine, il malessere sociale, e la rivolta; e li diremo connessi con l’esistenza di una classe dirigente, la quale non conforma la sua azione all’osservanza del decalogo. Tutti “accaduti” e tutte classi “dirigenti” che lo storico analizza e spiega. Ma quale differenza fra gli uni e gli altri! E quale infimo luogo hanno nella spiegazione dello storico la ricchezza, la razza, il clima e il tempo e gli schemi astratti imperniati in questi concetti!

16. – Dalla “prosperità” le nazioni possono trascorrere alla “sofferenza”, che è momentanea, quando deriva solo dai disordini atmosferici ed è facilmente guaribile, ovvero duratura, se deriva dalla discordia e dalla instabilità e può condurre alla rovina sociale. Questa non è mai irreparabile per una società. Gli uomini di pace possono ricondurre alla prosperità una società sofferente o rovinata; non lo possono i letterati ed i legisti. Né lo possono, insiste ripetutamente il Le Play, i giovani, presso i quali dominano le tendenze al male. Una società la quale non sia retta dagli, uomini maturi e dai vecchi non può prosperare. Solo gli uomini maturi possono, se sono spiriti eletti, acquistare la “scienza del mondo”; poiché essa si ottiene assai più grazie all’esperienza ed all’educazione che all’insegnamento scolastico. San Francesco Saverio consegnava a Goa nel 1549 le seguenti istruzioni al padre Gaspard Barzée il quale partiva per la missione di Ormuz: «Dovunque vi troviate, anche di passaggio, cercate di conoscere, per mezzo degli abitanti più rispettabili, le inclinazioni del popolo, gli usi del paese, la forma del governo, le missioni e tutto quel che riguarda la vita civile. Voi maneggerete più facilmente gli uomini, quando voi possediate siffatte nozioni, voi avrete su di essi maggiore autorità, voi saprete su quali punti dovete maggiormente appoggiarvi nella vostra predicazione. Si hanno spesso in poco pregio i consigli dei religiosi, perché essi non conoscono il mondo… Ma quando se ne incontra uno il quale sa vivere ed ha l’esperienza delle cose umane, lo si ammira come un uomo straordinario… La scienza del mondo non si apprende però nei manoscritti e nei libri stampati; bensì nei libri viventi, nelle relazioni con uomini sicuri ed intelligenti. Grazie a questa scienza voi farete più bene che con tutti i ragionamenti dei dottori e tutte le sottigliezze della scuola» (O. E. I., 474). Il vero maestro degli uomini, la guida dei popoli non è chi scrive, ma chi parla. Le Play cita Platone in Fedro: «Colui, il quale spera di insegnare altrui un’arte mettendola per iscritto e colui il quale spera di attingerla ivi… sono veramente troppo ingenui… se pensano che uno scritto possa servire a qualcosa di più che a risvegliare i ricordi di colui il quale conosce già il soggetto che vi è trattato» (O. E. I., 108). E ricorda il comandamento di Cristo ai discepoli: «Vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe… Voi sarete presentati, a causa mia, ai governanti ed ai re per rendermi testimonianza… Quando sarete portati dinanzi ad essi, non preoccupatevi punto del modo come parlerete cioè di quello che direte. Ciò che dovrete dire vi sarà detto in quel momento, perché non voi parlerete, ma lo spirito del padre vostro che è in voi» (San Marco, X, 16 a 20 in O. E. I., 573). Il che vuol dire essere i popoli guidati al bene non da coloro i quali insegnano la legge scritta o la scienza dei libri, ma dagli uomini i quali dicono la parola della verità, quella che essi sono forzati di dire dal comandamento della coscienza.

17. – Uomo di poche scelte letture, egli cita soprattutto la Bibbia (antico e nuovo testamento), Confucio, il Corano, s. Agostino, s. Bernardo, s. Tommaso, Aristotile, Platone, Erodoto, Senofonte, Cicerone, Tacito, Seneca, Marco Aurelio, Bacone, Bossuet, Locke, Vico, Burke, Montesquieu, De Maistre, Montalembert, Tocqueville, De Bonald, l’abate Huc. Combatteva contro Voltaire, Rousseau, Adamo Smith, Napoleone I, Buechner. Teneva vicino al capezzale e meditava i Saggi di Montaigne. Ma il libro è per lui l’uomo. Per tutta la vita egli seguì il metodo tenuto durante i 200 giorni del primo viaggio quando nell’estate del 1829, percorrendo 6800 chilometri a piedi, visitò le regioni comprese fra la Mosella, la Mosa, il Reno, il mare del Nord, il Baltico e le montagne dell’Erzgebirge della Turingia e dell’Hundsruck: «mettersi in rapporto intimo con le popolazioni ed i luoghi, allo scopo di stabilire una distinzione netta fra i fatti essenzialmente locali e quelli che hanno un carattere di interesse generale. Cercare ansiosamente di conoscere le “autorità sociali” di ogni località; osservare le loro pratiche; ascoltare con rispetto i giudizi da esse recati su uomini e su cose». Da questa preparazione sono venute fuori le centinaia di saggi che altri ed egli stesso disse «monografie di famiglia» e sono invece pagine di un veggente intorno alle ragioni per le quali i popoli vivono contenti o soffrono, prosperano od avanzano, o regrediscono e decadono e poi riprendono e riconquistano la stabilità e la pace sociale.

18. – Coloro che, leggendo libri, sentono il bisogno di collocare l’autore dentro le categorie che essi per comodità di intelligenza e di insegnamento hanno stabilito, e veggono che Le Play comincia colla descrizione dei luoghi ed insiste sulla influenza che la steppa, il bosco, il mare, la miniera, l’agricoltura, il mestiere esercitano sulla vita di coloro che vi sono addetti, sono indotti ad accomunarlo ai molti che spiegano la storia del mondo con le caratteristiche geografiche metereologiche telluriche tecniche dei luoghi abitati e del lavoro compiuto. Altri che lo scorge descrittore minuzioso dei costumi, investigatore delle ragioni per le quali in dati tempi prevalsero schiavitù, servitù della gleba, ed altre specie di contratti di lavoro, ammiratore dei vincoli consuetudinari fra padroni ed operai, delle tradizioni famigliari, promotore di riforme legislative atte a conservare la famiglia-ceppo, il bene di famiglia, se per rispetto alla decenza del linguaggio, si astiene dal dirlo reazionario, lo chiama però conservatore alla De Bonald od alla De Maistre. Altri ancora, ricordando i suoi costanti richiami all’importanza della religione, la sua abbominazione verso gli economisti e gli enciclopedisti lo dirà un precursore del socialismo cristiano, del corporativismo cattolico. Chi ascolta la predicazione calda degli scritti minori, gli appelli accorati agli uomini da bene, l’eccitamento ad unirsi in leghe per la pace sociale lo colloca fra i tanti invasati i quali credono di aver trovato la soluzione del problema sociale.

Tutte queste classificazioni e collocazioni, forse utili all’uso mnemonico, sono in fondo nettamente false. Sebbene la sua descrizione della steppa russa e della influenza che essa ha esercitato nella vita dei popoli che l’abitarono o la traversarono sia una delle rappresentazioni artistiche della vita pastorale primitiva più stupende che io conosca, Le Play non è un determinista geografo[5] . Sebbene egli abbia fissato nel bronzo i tratti essenziali della famiglia rurale dell’antico regime di prima della rivoluzione, e sebbene abbia descritto come nessun altro le caratteristiche dei rapporti di patronato e dei vincoli corporativi, egli non è un tradizionalista reazionario. Sebbene egli abbia trascorso la seconda metà della vita a predicare la «riforma sociale», egli non è un agitatore ed un riformista. Od, almeno, queste sue doti potenti di osservatore del mondo fisico e di rievocatore di società passate non sono quelle sue essenziali. È tempo si riconosca essere stato egli uno dei creatori della moderna scienza politica. Certamente egli non ha scritto col proposito voluto di costruire un libro scientifico. Né ha eccitato, come altri fece, il disprezzo contro tutti coloro che, studiando l’uomo, non affettarono di spogliarsi di tutte le qualità umane, di ogni interesse per la materia indagata e non misero alla stessa stregua, quasi si trattasse di sezionare e studiare un minerale o un cadavere, tutti i sentimenti ed i ragionamenti dell’uomo. Il che è un piccolo giochetto vocabolaristico, facile e comodo il quale non aggiunge però niente alla conoscenza della verità. A che pro irridere a coloro che scrissero per dichiarare i mezzi con i quali gli uomini possono procurare a sé la beatitudine eterna del paradiso, quando l’irrisore ripete le stesse idee, traducendole in gergo cosidetto scientifico di ricerca delle leggi secondo le quali vivono gli uomini in determinate società le quali hanno i connotati alfa e beta e gamma? Questo è un trucco ridicolo. Le Play non immaginò che gli scienziati potessero perdere tempo in siffatte delicatezze di linguaggio e parlò di classi dirigenti, di classi elette, di società prospere o decadenti, di formule atte a tenere salde od a disgregare le società nel linguaggio eterno di Mosè e di Cristo. Cercò le formule sulla bocca dei pastori degli Urali, dei contadini della steppa russa, dei nomadi della Siria, dei pescatori della Norvegia, dei minatori della Germania, dei contadini della Sierra spagnuola e dei Pirenei baschi e trovò che dappertutto erano uguali le formule le quali fanno prosperare e quelle che fanno decadere. Non confuse la prosperità con la ricchezza, né la decadenza con la povertà. Analizzò tutti questi concetti ed in fondo alla prosperità ed alla ricchezza, alla decadenza ed alla povertà, trovò la presenza o la mancanza del rispetto alla legge morale.

19. – Se tutta l’opera del Le Play è una battaglia contro l’errore fondamentale della credenza nella perfezione originale degli uomini, essa non è però una battaglia contro la ragione. Chi adula l’uomo, dichiarandolo nato nell’innocenza e pronto a conoscere il vero ed a fare l’onesto, può essere demagogo, tiranno, o sofista ragionante; non è certo uomo di scienza. Questi parte dal concetto opposto, di osservazione comune, del peccato originale e indaga le forze che talvolta sono riuscite a trasformare la belva primitiva nell’immagine di Dio. Siffatte forze non sono la ricchezza e la potenza, né la scienza tecnica ed economica dell’acquistarle; non sono le leggi scritte, né i comandamenti dei generali che fondarono o rovesciarono i grandi imperi. Quelle forze nascono dal lento cumularsi della esperienza dei frutti del bene e del male e dall’ascendente acquistato dai saggi i quali avevano osservato le maniere con le quali gli uomini, nati tutti peccatori, possono diventar migliori o bere sino in fondo la coppa dell’abbominazione. La ragione dei credenti nel dogma della perfezione originale dell’uomo è frutto di superbia. La ragione di coloro che guardano al vero è fatta di umiltà.

20. – Sainte-Beuve e Montalembert ascrissero a gloria di Le Play la “grande scoperta” del principio primo della scienza sociale: «in questa materia non v’ha nulla da scoprire» (cfr. sotto n. 2, O. E. I., XII). Forse sentenza più profonda non fu mai detta. In una delle sue opere meno note (cfr. sotto n. 13, pag. 94) Le Play osserva che «i perfezionamenti più fecondi sono quelli i quali si compiono in qualche maniera spontaneamente nella costituzione sociale, per il fiorire delle idee e dei costumi, coll’accordo tacito dei governi e dei popoli». Gaetano Mosca, condusse ad alto grado di perfezione la teoria della formula politica, come strumento di governo usato dalla classe politica. Il contributo proprio di Le Play fu la segnalazione del criterio di scelta fra le tante formule politiche le quali hanno governato il mondo. Il ceto eletto governa il mondo, applicando la formula che i saggi hanno elaborato nei secoli in ubbidienza alla legge morale. Tra le tante classi dirigenti e le tante formule da esse usate, si può chiamare classe eletta quella soltanto la quale assicura la persistenza e la risurrezione dei popoli grazie alla formula eterna del decalogo. I sei volumi degli ouvriers européens sono sovratutto una stupenda storia delle vicende delle società umane a partire dal momento in che la classe eletta osservatrice della formula eterna è sopraffatta da altri tipi di classi dirigenti. Fa d’uopo non lasciarci vincere dalle apparenze e reputare libro di storia quello solo che è scritto secondo le regole tradizionali. Chi pigli a leggere uno dei grandi libri sulla grandezza e decadenza di Roma o sul cominciare crescere corrompersi e rivoltarsi della rivoluzione francese è costretto a commuoversi, a gridare, ad entusiasmarsi, a tremare, con gioia o con ansia quasi si trattasse della vita di persona amata. Orbene, Le Play ha compiuto per l’umanità intiera il miracolo a cui giungevano pochi grandi storici per i due avvenimenti la cui narrazione ad ogni volta colpisce con novità di aspetti la fantasia umana e fa pensare con angoscia o speranza alle sorti della società presente. La via scelta da lui era insolita ed egli la scelse senza voler far storia.

Nell’Europa dal 1829 al 1879 egli osservò taluni fossili viventi, da lui detti «famiglie», rappresentanti tipici di stati differenti della storia umana. Egli ordinò quei fossili, secondo il criterio della osservanza del decalogo eterno. Scoperse che le aggregazioni umane si avvicinano o si allontanano dalla prosperità, che vuol dire contentezza e stabilità sociale, a seconda che esse ascoltano o dispregiano la parola dei veri eletti, dei saggi i quali, senza uopo di leggere libri o leggendone uno solo, insegnano la legge morale. Quei fossili non appartengono allo stesso paese; tuttavia raffigurano, grazie alla potenza di visione di chi li scelse e descrisse, la successione delle epoche storiche nello stesso paese. Messi in ordine, dal tipo più felice a quello più malcontento e disorganizzato, essi ci narrano la storia degli uomini nel tempo della loro progrediente decadenza. È una storia tragica, la quale non turba meno di quel che facciano le pagine potenti di Gibbon e di Rostovtzev su Roma. Di pagina in pagina, con ansia crescente, noi ci chiediamo: dove vanno gli uomini? Ma l’ordine dei fossili viventi può essere rovesciato. Fu un giorno di grande gioia per Le Play, quando un giovane amico (cfr. sotto n. 23, pag. 209) gli pose sott’occhio un brano di Vico nella traduzione di Michelet: «Quivi, in esso nascere dell’Iconomica, la compierono nella loro idea ottima, la quale è: ch’i padri col travaglio e con l’industria lascino a’ figliuoli patrimonio, ov’abbiano e facile e comoda e sicura la sossistenza, anco mancassero esse città, acciocché in tali casi ultimi almeno si conservino le famiglie, dalle quali sia speranza di risurger le nazioni» (Oeuvres choisies, Paris, 1835, t. II, pagg. 107-108; ma qui si citò dall’ed. Nicolini, Bari, Laterza, 1913, parte seconda, pag. 407). Dunque, tradusse nel suo linguaggio il Le Play, uno dei maggiori filosofi della storia che mai sieno vissuti confermava la conclusione delle sue diuturne osservazioni sulla famiglia nucleo della società. Se sopravvivono alla rovina Vico pensava alla rovina da insulti bellici, Le Play a quelle da dissoluzione interna morale – talune famiglie sane, non esiste un fato invincibile, il quale conduca necessariamente la società alla morte. Le formule usate da classi dirigenti, le quali non si ispirano alla legge morale, non sono fatalmente destinate a prevalere. La classe eletta, la sola veramente dirigente nei millennii, non è in esse. Sopravvivano operanti ed insegnanti alcuni saggi, alcune famiglie ed alcuni gruppi sociali inspirino tuttora la loro azione all’insegnamento dei saggi, e le epoche di prosperità possono ritornare. Come in un decennio Enrico IV rialza la Francia dalle rovine materiali e dalla corruttela morale dei tempi delle guerre civili e dei Valois e pose le fondamenta della grandezza della Francia del secolo XVII, così un altro sapiente e forte potrà risuscitare la Francia dalla rovina della guerra del 1870 e dalla intossicazione della grande guerra del 1914-1918. Coloro che affettano di parlare solo scienza, non trovano la legge morale tra gli ingredienti delle loro leggi sociologiche. Sia perdonato ad essi e sia consentito di affermare che Le Play vide più lungi nelle ragioni vere le quali spiegano le alterne vicende dei popoli.

Il saggio, che precede, intorno al contenuto scientifico della dottrina di Le Play è una specie di introduzione alla descrizione bibliografica delle opere di lui e di quelle di talun suo allievo e di poche fonti di esse. La descrizione continua il viaggio che altrove (in La riforma sociale del marzo/aprile 1935, e in questo volume, pagg. 3-26) avevo iniziato tra i miei libri, discorrendo, nella prima tappa di esso, di Francesco Ferrara. Per le ragioni allora dette – necessità di elencare solo i libri effettivamente visti dal bibliografo, divisamento di compilare, ad imitazione di quel che Morellet, Mac Culloch e Papadopoli avevano fatto per i proprii libri, Bonar per i libri di Adamo Smith e la vedova per quelli di Alfredo Marshall, il catalogo dei libri da me raccolti in tanti anni, di proposito o per accidente, intorno a taluni economisti o a taluni problemi economici, catalogo per molti rispetti monco in confronto a quello di pubbliche biblioteche e per talun rispetto istruttivo, e desiderio di dare qualche aiuto forse non spregevole ai giovani desiderosi di formarsi una biblioteca economica scelta senza troppi errori per contenuto e per costi di acquisto – anche la presente bibliografia comprenderà esclusivamente libri in mio possesso.

1. LES OUVRIERS EUROPÉENS: Études sur les travaux, la vie domestique et la conduite morale des populations ouvrières de l’Europe précédées d’un exposé de la méthode d’observation , Paris, à l’imprimerie impériale, 1855. Un vol. in folio, pagg. 301. La copia reca la dedica dell’a. a Michel Chevalier, e l’ex-libris di questi. Lo Chevalier aveva dato la figlia in sposa al figlio di Le Play. Dalla biblioteca dello Chevalier era passata a quella del genero Paul Leroy-Beaulieu.

Il formato, incomodissimo, del volume fu determinato dal proposito di far stare per intero in due sole pagine, a sinistra per le entrate e a destra per le spese, ciascuno dei 36 bilanci di famiglie operaie qui raccolti. Precede una introduzione generale e segue una appendice, amendue sul metodo e sullo scopo della ricerca, che egli dice di inchiesta diretta e preferibile alle ricerche statistiche, da lui tenute in poco conto perché:

1) «fanno astrazione da tutte le considerazioni collegate solo accessoriamente ai fatti interessanti l’autorità pubblica»; 2) «non tengono conto né della natura particolare degli individui, né del carattere proprio all’ambiente in cui vivono»; 3) non rispondono all’«osservazione diretta dei fatti», e si riducono alla «compilazione ed interpretazione più o meno plausibile di fatti raccolti da punti differentissimi di vista e per lo più estranei all’interesse scientifico». Perciò, «nonostante la loro apparente generalità e la loro seducente regolarità, i documenti statistici hanno scarsamente contribuito al progresso della scienza sociale. Gli uomini di stato ne hanno tratto talvolta vantaggio allo scopo di sostenere una data tesi, ma gli uomini sperimentati negli affari raramente li mettono a fondamento della loro politica e della loro amministrazione». Il detto, posto in epigrafe, tratto dall’Eloge de Vauban di Fontenelle: «S’informava con cura del valore delle terre, del loro frutto, del modo di coltivarle, delle masserizie dei contadini, del loro vitto ordinario, del prodotto giornaliero delle loro fatiche; particolari in apparenza spregevoli ed abbietti, i quali tuttavia appartengono alla grande arte del governare» chiarisce la ragione e lo scopo dell’opera. Forse, se l’avesse conosciuto, Le Play avrebbe aggiunto quest’altra notizia di Mirabeau sul modo di informarsi di Cantillon: «Viaggiando, egli voleva precisare ogni cosa: scendeva dalla vettura per interrogare il contadino nel campo, saggiava le qualità della terra, ne provava il gusto, prendeva note ed un calcolatore, che egli conduceva sempre con lui, metteva tutto in pulito la sera all’albergo».

L’edizione del 1855 non aveva soddisfatto pienamente il Le Play, il quale, cedendo al consiglio degli amici, aveva consentito a sopprimere le conclusioni di teoria e di riforma sociale – «un mezzo volume di verità che i miei concittadini non potevano tollerare» – ristringendole a poche frasi conclusive: «il luogo che una società occupa dipende sicuramente dalle sue condizioni materiali e dalle sue, istituzioni politiche; ma i fattori essenziali di preminenza sono di ordine morale». Perciò non ristette sinché non poté pubblicare una seconda edizione del suo opus magnum.

2. LES OUVRIERS EUROPEENS: Études sur les travaux, la vie domestique et la condition morale des populations ouvrières de l’Europe d’aprés les faits observés de 1829 à 1855, avec des épilogues indiquant les changements survenus depuis 1855 , 2e ed. en 6 tomes. Tours, Alfred Mame et fils, in ottavo.

Tome 1er: La méthode d’observation appliquée, de 1829 à 1879, à l’étude des familles ouvrières en trois livres ou précis sommaire touchant les origines, la description et l’histoire de la methode avec une carte geographique des 57 familles décrites, 1879, pagg. XII, 1 c. s. n., pagg. 648.

Tome 2e: Les ouvriers de l’orient et leurs essaims de la Mediterranée; populations, soumises à la tradition, dont le bien-être se conserve sous trois influences dominantes: le décalogue eternel, la famille patriarcale et les productions spontanee du sol , 1877, pagg. XXXIV, 1 c. s. n., pagg. 560.

Tome 3e: Les ouvriers du nord et leurs essaims de la Baltique et de la Manche; popolations guidées par un juste mélange de tradition et de nouveau dont le bien- ê tre provient de trois influences principales: le décalogue eternel, la famille-souche et les productions spontanées du sol ou des eaux , 1877, pagg. XLII, 1 c. s. n., pagg. 513.

Tome 4e: Les ouvriers de l’occident. 1re série: Populations stables, fidéles à la tradition, devant les envahissements de la nouveauté, soumises au décalogue et à l’autorité paternelle, suppléant à la rareté croissante des productions spontanees par la communauté, la proprieté individuelle et le patronage , 1877, pagg. XLII, 1 c. s. n., pagg. 575.

Tome 5e: Id., IIme série: Populations ébraulées, envahies par la nouveauté, oublieuses de la tradition, peu fidéles au décalogue et à l’auzorité paternelle, suppléant mal à la rareté croissante des productions spontanées par la communauté, la proprieté individuelle et le patronage , 1878, pagg. L, 1 c. s. n., pagg. 535.

Tome 6e: Id., IIIme série: Populations desorganisées égarées par la nouveauté, méprisant la tradition, révoltées contre le décalogue et l’autorité paternelle, empêchées par la désorganisation du travail et de la proprieté de supleer à la suppression des productions spontanées, 1878, pagg. L, 1 c. s. n., pagg. 568.

In questa edizione, di formato più maneggevole, le famiglie tipiche osservate crescono da 36 a 57, ed i volumi dal secondo al sesto si distinguono sistematicamente in quattro parti: un’introduzione sulla struttura sociale dei paesi abitati dalle famiglie considerate; le monografie, redatte tutte secondo un unico modello (luogo, organizzazione industriale, composizione della famiglia, mezzi e modi di esistenza, storia, costumi ed istituzioni – bilanci delle entrate e delle spese e conti annessi – elementi diversi proprii alla costituzione sociale del luogo); un riassunto alfabetico e metodico delle parole, idee e particolari essenziali ed un epilogo sulle variazioni sopravvenute dopo il 1855 nello stato sociale delle popolazioni. Il primo volume contiene la sintesi delle indagini: origine, descrizione e storia del “metodo”. Il Le Play non parla della sua “dottrina”, ma del suo ” metodo”; che era quello della ricerca delle essenziali verità sociali.

Nella compilazione delle monografie di famiglia, il Le Play si giovò spesso dell’opera altrui; «d’apres les renseignements recueillis sur les lieux» è la locuzione adoperata da lui per segnalare la collaborazione di A. de Saint-Leger, A. Paux, Ad. Focillon, A. Saglio, A. Cochin ed E. Landsberg, Courteille ed J. Gautier o la paternita` esclusiva di E. Pelbet, A. de Saint-Leger ed E. Pelbet, Ad. Focillon, E. Landsberg, Narcisse Cotte, Ubaldino Peruzzi (monografia del mezzadro toscano, nel IV volume), S Coronel ed F. Allan, T. Smith, Ratier, A. Paillette e Sergio Suarez, A. Duchatellier, A. Dauby, De Barive, P. A. Toussaint e T. Chale. La formula adoperata fa ritenere che la collaborazione o la paternità riguardasse la raccolta e prima elaborazione dei materiali e la discussione dei risultati. La redazione definitiva e le conclusioni recano l’impronta uniforme del Le Play.

Il sottotitolo di ogni volume riassume i tratti caratteristici della situazione di ogni famiglia nella scala dei valori sociali.

3. LES OUVRIERS DES DEUX MONDES. Études sur les travaux, la vie domestique et la condition morale des populations ouvrières des diverses contrees et sur les rapports qui les unissent aux autres classes, publiées sous forme de monographies par la Société internationale des études pratiques d’economie sociale.

Nel 1856 Le Play fondava la Società internazionale di studi pratici di economia sociale, uno dei cui scopi era quello di promuovere la redazione e la stampa di monografie di famiglie sul modello di quelle contenute negli Ouvriers Européens. Editrice la medesima società. Una prima serie di 5 volumi reca le seguenti date: I, 1857, pagg. 464; II, 1858, pagg. 504; III, 1861, pagg. 470; IV, 1862, pagg. 500; V, 1885, pagg. III-536. La pubblicazione seguì rapidamente nei primi anni con le 37 monografie contenute nei volumi dal primo al quarto. La prima puntata del quinto volume con tre monografie, comparve nel 1875; le ultime tra il 1883 ed il 1885. Il volume intiero è datato dal 15 aprile 1885. Dalle monografie contenute nei primi quattro volumi furono tratte, in gran parte, le ventuno le quali accrebbero la seconda edizione (1877-79) degli Ouvriers

Européens ; cosicché vi ha un certo accavallamento tra le due pubblicazioni; tutte due pubblicate, sino al primo terzo del quinto volume, sotto gli occhi del fondatore della società.

Morto il Le Play nel 1882 e compiuto il quinto volume, la Società inizia nel l887 una seconda serie, la quale reca la firma degli editori Firmin Didot et C.ie: I, 1887, pagg. VlII-532; II, 1890, pagg. X-560; III, 1892, pagg. XVI-483; IV, 1895, pagg. VIII-535; V, 1899, pagg. XII-590. Una terza serie comprende due volumi chiusi: I, 1904, pagg. VIII-578 con un fascicolo supplementare di pagg. 48 ed una carta geografica; II, 1908, pagg. VIII-519 con un fascicolo supplementare di pagg. 32. I fascicoli supplementari furono dedicati a monografie di officina.

Fra i collaboratori delle tre serie degli Ouvriers des deux mondes, oltre il nome di Le Play e quelli, già ricordati, di A. Focillon, E. Delbert, A. de Saint-Leger, U. Peruzzi, Narcisse Gotte, A. Dauby, T. Chale, P. A.

Toussaint, Courteille ed J. Gautier, S. Coronel ed F. Alan, incontriamo, accanto a quelli di industriali, operai, agricoltori, sacerdoti raccomandati per la loro attitudine a conoscere bene i fatti investigati, i nomi di studiosi che poi acquistarono bella rinomanza: Pierre du Maroussem contribuisce nove monografie di famiglia e le due di opificio sopra ricordate. Urbain Guerin pure nove, Armand Julin due, Claudio Jannet una, Victor Brants due, A. Delaire tre, Augustin Cochin una, Ippolito Santangelo Spoto tre, delle quali notabile quella su una fase recente delle vicende del curioso esperimento sociale iniziato da Ferdinando IV di Borbone nella colonia di S. Leucio vicino a Caserta, la contessa Maria Pasolini quella sul mezzadro romagnolo.

4. LA RÉFORME SOCIALE EN FRANCE, déduite de l’observation comparée des peuples européens, Paris, Plon, 1864, in ottavo; tome 1er, pagg. XII-440; tome 2e, pagg. 4 s. n. – 480.

A questa, che è la prima edizione, fecero seguito parecchie altre, di cui l’ultima pubblicata durante la vita dell’autore è la sesta «corrigée et refondue», presso Alfred Mame et fils, Tours, 1878, in 4 volumi in sedicesimo: I, pagg. XC-2 s. n., 371; II, pagg. 4 s. n., 460; III, pagg. 4 s. n., 529; IV, pagg. 4 s. n., 468. Nel 1901 uscì una ottava edizione, che gli editori Mame, in un avis au lecteur dichiarano essere una semplice ristampa della sesta con l’unica variante del ritorno alla divisione in tre volumi, usata nelle precedenti (terza, quarta e quinta) edizioni. I rimaneggiamenti e mutamenti fra la prima e la sesta edizione sono parecchi ed attestano la cura con la quale il Le Play rivedeva ogni volta questo suo libro, fra tutti, nonostante la non piccola mole, il più divulgato. Avvertenze, introduzioni, appendici, rinvii chiariscono metodicamente lo

scopo e il contenuto del libro. I capitoli diventano libri ed i paragrafi capitoli. Nella prima edizione, oltre ad una introduzione su «Les idées préconcues et les faits» ed una conclusione su «Les conditions de la réforme» sette capitoli riguardano: la religione, la prosperità, la famiglia, il lavoro, l’associazione, i rapporti privati, il governo. Nella sesta edizione, la materia dei libri è quella medesima dei vecchi capitoli; ma il libro quinto dell’associazione, si divide in due parti: “communautés” (comunanze, cooperative, società per azioni) e “corporazioni”; ed il settimo, del governo, si divide in due parti: la scelta dei modelli e la corruzione e le riforme in Francia. Alla conclusione del 1864 è aggiunto un epilogo dettato nel 1878. Le appendici da 5 diventano 11. Il copioso indice alfabetico ed analitico della prima edizione si trasforma nell’ultima in due indici delle parole usate in un significato particolare e degli autori citati.

5. L’ORGANISATION DU TRAVAIL, selon la coutume des ateliers e la loi du décalogue, avec un précis d’observations comparées sur la distribution du bien et du mal dans le régime du travail, les causes du mal actuel et les moyens de réforme, les objections et les réponses, les difficultés et les solutions.

La seconda edizione, che ho sott’occhio, è dei Mame di Tours, 1870, pagg. XII-564. In epigrafe, dal Testament politique di Richelieu (1, II, 10): «Les politiques veulent, en un État bien réglé, plus de maîtres és arts mécaniques que de maîtres és arts libéraux». Importante documentazione sul diritto di testare in Francia, sulla ferocia dei contadini verso i genitori vecchi, sulla aberrante opinione della superiorità dei giovani sui vecchi.

6. L’ORGANISATION DE LA FAMILLE selon le vrai modèle signalé par l’histoire de toutes les races et de tous les temps, avec trois appendices par M M. E. Cheysson, F. Le Play et C. Jannet, Paris, Tequi, 1871, pagg. XXVII-318.

La prima appendice, ad opera dell’ing. E. Cheysson, è un documento storico d’importanza eccezionale: la narrazione della rovina incombente a causa del codice civile nel 1869 sulla famiglia Melouga, che il Le Play nel 1856 aveva assunto a modello di ottima organizzazione sociale. Un conto redatto dal Le Play del modo con cui le piccole sostanze sono divorate dai legisti, uomini di preda (app. II), dà modo allo Jannet di esporre la tesi giuridica propria dei paesi a famiglia ceppo (app. III).

7. LA PAIX SOCIALE APRES LE DESASTRE, selon la pratique des peuples prospères. Réponse du 1er Juin 1871 aux questions recues par l’auteur entre le 4 septembre 1870 et le 31 mai 1871. 2de éd. complétée par un épilogue de 1875, Tours, Mame, 1876, pagg. 167.

Libretto, a domande e risposte, di popolarizzazione delle idee dell’a., che egli vede confermate dal disastro della guerra del 1870.

8. LA CONSTITUTION DE L’ANGLETERRE, considérée dans ses rapports avec la loi de Dieu et les coutumes de la paix sociale, précédée d’aperçus sommaires sur la nature du sol el l’histoire de la race, avec la collaboration de M. A. Delaire , Tours, Mame, 1875; tome I, pagg. LXIII-340; II, pagg. 4 s. n. – 437.

Quadro dell’Inghilterra di due terzi di secolo addietro, la cui prosperità (Le Play non adopera il termine “grandezza”, estraneo alla sua concezione dei popoli veramente grandi e spesso incompatibile con la prosperità concepita come morale, assai più che materiale) egli poggia sui quattro fattori dell’autorità dei genitori, sanzionata dal testamento e fortificata dal giurì, della gerarchia derivata dalle famiglie-ceppo e immedesimata colla terra, della monarchia nazionale, e della subordinazione della vita pubblica alla legge di Dio.

9. LA RÉFORME EN EUROPE ET LE SALUT EN FRANCE. Le programme des unions de la paix sociale, avec une introduction de M. H.- A. Munro Butler Johnstone, Tours, Mame, (1876), pagg. 300

Coi n. 7 ed 8, è il contributo dato dal Le Play al movimento di ricostruzione sociale sorto dalla rovina del 1870. Quando bonapartisti, legittimisti e orleanisti perdavano in vane dispute la battaglia per il ritorno alla monarchia ereditaria, il Le Play insisteva nell’insegnare che il vero problema non stava nel restaurare una qualsiasi forma di governo, ma nel creare le idee, i costumi e le istituzioni di pace e di stabilità sociale. Tra le istituzioni atte ad impedire le convulsioni sociali egli elenca il consiglio privato, il parlamento, il ministero e la corte suprema di giustizia, di cui il primo e l’ultimo composti di membri a vita responsabili legalmente dei propri atti e forniti del diritto di porre il veto alle leggi violatrici della legge di Dio e del diritto delle genti. L’elasticità dei poteri componenti la sovranità non deriva tuttavia dalla legge scritta, ma dal costume.

10. LA CONSTITUTION ESSENTIELLE DE L’HUMANITÉ, exposé des principes et des coutumes qui créent la prosperité ou la souffrance des nations, Tours, Mame, 1a ed. 1881, 2a ed., 1893, pagg. XVI-360.

Una nota della seconda edizione avverte che questo libro è l’espressione definitiva del pensiero del Le Play, morto pochi mesi dopo avervi dato l’ultima mano. Da segnalare l’appendice sull’opera di propaganda libraria delle diverse associazioni create da Le Play ed in questa il sunto della storia della casa tipografica Alfred Mame di Tours.

11. De la methode nouvelle employée dans les forêts de la Carinthie pour la fabrications du fer et des principes que doivent suivre les propriétaires de forêts et d’usines au bois pour soutenir la lutte engagée dans l’occident de l’Europe, entre le bois et le charbon de terre , Paris, Carilian-Goeury et V.or Dalmont, 1853. Extrait des “Annales des mines”, 5e serie, tome III, in ottavo, pagg. 205 e 6 tavole.

Tipico esempio degli scritti disseminati negli «Annales des mines». Analisi precisa dei costi di produzione e dei prezzi del ferro fabbricato con i due metodi opposti e della dimostrazione dei legami esistenti fra proprietà fondiaria, suo frazionamento e regime successorio, metodi di sfruttamento dei boschi e prezzi del ferro.

12. Enquête sur la boulangerie du département de la Seine, ou recueil de dépositions concernant le commerce du blé, de la farine e du pain, faites en 1859, devant une commission présidée par M. Boinvilliers, president de la section de l’interieur, recueillies par la sténographie, revues par M. Le Ptay, conseilleur d’état rapporteur, puis par les déposants, coordonnées et complétées par une table alphabétique et analytique des matieres, Paris, Imprimerie nationale , in quarto, pagg. 8 s. n. XI-834.

13. Question de la boulangerie du departement de la Seine. Deuxième rapport aux sections réunies du commerce et de l’intérieur, du Conseil d’État, sur le commerce du blé, de la farine et du pain, par M. F. Le Play, conseiller d’État, rapporteur , Paris, Imprimerie imperiale, 1860, in quarto, pagg. 299.

Dovrebbe precedere al n. 12 un Premier rapport, distribuito il 23 gennaio 1858, redatto anch’esso dal Le Play, sulla base del quale il Consiglio di Stato deliberò il 22 giugno 1858 di procedere all’inchiesta, di cui i resultati sono contenuti nel n. 12 e di far redigere dal Le Play il secondo rapporto (n. 13). Caratteristici della cura meticolosa con la quale il L. P. elaborava ogni suo scritto sono, anche nel volume delle deposizioni, gli indici metodici e alfabetici minutissimi ed i rinvii. Caratteristiche le conclusioni, rigorosamente ed esclusivamente dedotte, come è costume dell’autore, dalle osservazioni di fatto compiute a Parigi, nei dipartimenti e, per confronto, a Londra ed a Bruxelles, favorevoli alla abolizione graduale del sistema di regolamentazione del commercio del frumento, della farina e del pane. Caratteristiche perché Le Play, ingegnere, osservatore e tradizionalista, ragiona e conclude nello stesso modo come quell’Adamo Smith, che egli faceva responsabile di tanta parte dei mali sociali del suo tempo. La verità è che non esistono scuole economiche; ma si può distinguere solo, come diceva Pantaleoni, fra coloro che sanno e quelli che non sanno l’economia; o, come io correggerei, fra coloro che sanno e quelli che non sanno ragionare entro i limiti del loro sapere. Le Play, che sapeva ragionare ed aveva visto, con occhio profondo, molte cose, ragionava come un perfetto economista nelle questioni prettamente economiche, con questo di più, che egli sapeva, con la stessa bontà di ragionamento, collegare l’esame del lato economico con quello degli altri aspetti della vita. Come al n. 11 per i legami fra regime dei boschi e regime successorio, così al n. 13 sono illuminati i legami fra la regolamentazione ufficiale delle panatterie e la difficoltà dei garzoni ad elevarsi nella gerarchia sociale. Con quello del Giulio, altrove ricordato (in La riforma sociale, gennaio/febbraio 1935, pag. 100 e segg. e in questo volume, pagg. 203-212), i rapporti del Le Play sono modello, sinora non superato e sempre degno di studio di metodo nella condotta di indagini economiche concrete.

14. Voyages en Europe 1829/1854, extraits de sa correspondance, publiés par M. Albert Le Play, senateur, Paris, Plon Nourrit et C.ie, 1899, in sedicesimo, pagg. 4 s.n.- 345.

Alle lettere sono fatte precedere una breve prefazione del figlio, una notizia biografica di Lefebure de Fourcy, ispettore generale delle miniere ed una bibliografia interessante per le pubblicazioni diverse da quelle di economia sociale.

 


[1] Nel 1936, ché in seguito la disponibile fu malauguratamente scemata [nota del 1952].

[2] O, meglio, compilavamo sino a venti anni addietro, usanza buona che le vicende di tempi tumultuosi ci costrinsero a dimenticare [Nota aggiunta nel 1952].

[3] G.H. BOUSQUET nel suggestivo studio Le douar Aghbal, in «Revue d’economie politique» del gennaio/febbraio 1935, pag. 99, dopo aver detto di lui: «c’est un auteur dont les buts n’ont rien de scientifique» gli rende testimonianza di gran debito e lo raccomanda sovratutto «aux gens epris d’abstractions comme antidote». Il presente saggio ha per iscopo di mettere in luce gli elementi scientifici della teoria Leplayana. Ma poiché questa è una teoria storica, non può servire di antidoto se non alla teoria astratta di coloro i quali vorrebbero giovarsi di una certa astrazione per interpretare la realtà anche là dove all’uopo gioverebbe un’altra astrazione.

[4] COSTA DE BEAUREGARD, Un homme d’autrefois, Paris, 1900, pag. 146.

[5] Come non è tale Taine, nonostante il bello e sciagurato capitolo introduttivo della Storia della letteratura inglese, il quale in sostanza ha ben poco a fare col testo susseguente. Eppure tutti si fermano lì e di lì giudicano di lui. Tutti i pappagalli sputano su Taine ripetendo in coro: race, milieu e moment; che sarebbero i tre fattori da cui nell’introduzione è fatto discendere l’état moral di un popolo, dal quale état moral discenderebbero alla loro volta la sua letteratura, la sua filosofia, la sua società e la sua arte. Che è certo cosa da ridere; ma perché non andare avanti e leggere: «Tout vient du dedans chez lui, je veux dire de son âme et de son génie; les circonstances et les dehors n’ont contribué que médiocrement à le développer» (Histoire ecc., II, 164). Naturalmente, qui si parla di Shakespeare; e per lui Taine butta dalla finestra i tre fattori, buoni per descrivere gli scrittori qualunque, di cui non si saprebbe cosa dire se non si inquadrassero nella race, nel milieu e nel moment. Ma oramai a Taine è appiccicato il cartellino della race ecc. ecc e guai a dimenticarsi la finca!

Come non si devono ristampare i nostri classici

«Rivista di storia economica», I, 1936, pp. 75-80
Si confrontino le due edizioni di un brano delle prefazioni di Francesco Ferrara:

Edizione originale (1853)

Ristampa (1889)

dell’introduzione al vol. XIII della prima serie
(H.C. CAREY, Principii economia politica) della
“Biblioteca dell’economista” pagg. LIV a LVI:

Quale sarebbe la vera fra queste due teorie che
mirano a conseguenze così profondamente
diverse? – Sembrerà un paradosso, ma io non
saprei astenermi dal profferirlo: teoreticamente,
le due dottrine non sono che una; e la differenza
fra Carey e Ricardo non è di principio, ma
puramente di fatto.
…………………………………………………………….

La quistione è unicamente di fatto. Che cosa è
avvenuto finora nel mondo? Quale fra le due
ipotesi si è avverata? Il progresso della
coltivazione è proceduto colla ipotesi di Ricardo,
o con quella di Carey? È la fame e la popolazione
crescente ciò che ne ha determinato l’estensione,
deteriorando sempre più la condizione de’
lavoranti, migliorando quella del proprietario?
o sono i progressi del sapere, e delle sue
applicazioni, ciò che, rendendo possibile
l’estensione della coltura, ha formato il benessere
di ambe le parti?

Carey ha, ne’ Principii che qui pubblichiamo, e
soprattutto nell’altra sua opera Il passato,
il presente e il futuro
, mirabilmente svolto
la quistione di fatto. Egli ha pienamente ragione.
Il fatto, preso in complesso, sta tutto in suo favore,
e mostra che l’ipotesi provvidenziale la fatalità che
evidentemente il Creatore ha preposto alle grandi
evoluzioni de’ secoli, è l’ipotesi sua non quella
della scuola inglese; è l’ipotesi del progresso e
dell’armonia, non quella del regresso e
dell’antagonismo. Il fatto, preso in complesso,
si è che, ognidove, nella parte del mondo che
siamo abituati a chiamare incivilita, la produzione
del suolo si è ingigantita coll’andare de’ secoli;
e due fenomeni si sono presentati ad un tempo.
Il lavoro ha esteso le sue conquiste sulla natura;
metodi, strumenti, capitale hanno di periodo
in periodo raddoppiato e triplicato la capacità
produttiva del suolo; la quantità delle superficie
coltivate si estese, a misura appunto che il lavoro
diveniva più produttivo; la palude si mutò in
campo arabile, si vestì di grano la rocca; e l’uomo,
lottando col sole e col ghiaccio, con la valle e
col monte, coll’alluvione e colla marea, penò
ma vinse. Se l’ipotesi di Ricardo fosse una
storica verità, è evidente che a quest’ora
il genere umano avrebbe dovuto indietreggiare
ben più, di quello che ha saputo avanzarsi;
e tutta questa estensione avvenuta nella
coltura del suolo, avrebbe dovuto affamare
le masse per ridurre la nostra specie a pochi
e stranamente doviziosi signori, attorniati
da una immensa massa di lavoranti estenuati.
La storia depone, tutta, in un senso
precisamente contrario. Questa desolante
condizione che, nella ipotesi di Ricardo,
sarebbe la funesta conclusione del progresso
dell’agricoltura, è quella invece da cui siamo
partiti; è la condizione della schiavitù,
della servitù, del ryot, del turco. Qui, la
quistione di fatto non lascia alcun dubbio.
Ogni tradizione ed ogni cronaca, d’ogni parte
incivilita del mondo, concorre a mostrarci che
noi siam venuti da un’epoca in cui la Rendita
era metà, un terzo, di ciò che è, e pur
nondimeno rappresentava allora il 50 o 60%
della produzione, nella quale adesso entrerà
appena per un 15 o 20%. Concorre a mostrarci
che, quando la Rendita era una metà od un
terzo di ciò che trovasi oggi allora appunto
il contadino, che oggi ha il suo pane, la sua
carne, la sua birra
, viveva d’una putrida aringa,
d’una manciata d’orzo ed avena e celebrava come
pubblica festa il giorno in cui si scannasse un vitello,
e salassava le capre per cibarsi del loro sangue coagulato,
e prevedeva nel suo calendario, come oggi prevediamo
l’eclisse, il ritorno periodico della fame. La coltura
si estese; dalle terre A, dalle terre più fertili,
passò su rocche e paludi.

Perché mai? Per una pressione crescente? No;
la pressione ci fu, ma non avrebbe potuto che
distruggere la razza umana, se collo stimolo
della fame non si fosse aguzzato l’ingegno umano;
se l’aratro, che era un cono e squarciava appena
la terra, non si fosse convertito in una spirale
cilindrica che capovolge e stritola la zolla;
se non fosser venute le strade, le rotaie, i vapori,
tutto ciò che ha centuplicato la capacità
produttiva della terra e dell’uomo. Alla storia
possiamo aggiungere l’osservazione medesima
del presente. Le rendite sono, assolutamente,
più basse, e relativamente più alte, ove il lavoro
è men produttivo, e la condizione del coltivatore
più sciagurata. Sono in Asia dapprima, poi in
Polonia, in Russia, in Ispagna, in Sardegna, in Sicilia,
dove meno è produttivo il travaglio, non dove
le terre A non abbiano a soffrire la concorrenza
delle terre B. E quando la scuola Ricardiana si
è spaventata a vedere che il fitto delle terre
inglesi montava, e prese per una calamità
questa progressiva tendenza della Rendita,
confuse la quantità assoluta colla relativa,
non si accorse che l’aumento del proprietario lungi
di nuocere, rivelava un gran beneficio sopraggiunto
alle masse, era una rata minore di un maggior prodotto.
Teoreticamente adunque, il ripeto, le due dottrine
non sono che una; teoreticamente, niuno de’ due
valenti economisti può respingere la legge invocata
dall’altro, senza rinunziare a quella che invoca egli
stesso. La minaccia di una penuria crescente si può,
con Ricardo, vaticinare, come effetto di quello stesso
principio da cui si possono vaticinare le più liete
speranze contemplate da Carey. E se il fatto storico,
preso nelle sue grandi espressioni, finora depone
in favore dell’economista americano, perché mai
dal passato non potremmo presagire il futuro?
Da ciò che la coltivazione più estesa è stata sin
ora un fenomeno costantemente legato alla
cresciuta produttività del lavoro; – da ciò che
la risultante di tutte le contrarietà, in mezzo
alle quali il genere umano è passato, fu sempre
il progresso; M. Carey ha tutto il diritto di
argomentare che si debba aver fede nella
tendenza ascensionale dell’umanità, e sostenere
che la teoria della Rendita nulla in se stessa
presenti per lasciarci recare in dubbio una
sì lieta speranza; tutta anzi concorre a farcela
coltivare, con crescente fiducia nella bontà
ed onnipotenza del Creatore. Questa fiducia io la divido.

in Esame storico-critico di economisti e dottrine
economiche del secolo XVIII e prima metà del XIX
.
Vol. I, parte seconda, pagg. 688 a 690.

XXVIII. Or, qual’è la vera fra queste due teorie,
che riescono a conseguenze così diverse?
Sembrerà un paradosso, ma io la vedo così:
teoreticamente
, le due dottrine non sono
che una dottrina sola; e la differenza fra Carey
e Ricardo non è di principio, ma puramente di fatto.

…………………………………………………………….

La quistione è unicamente di fatto. Che cosa è
avvenuto finora nel mondo? Quale fra le due
ipotesi si è avverata? Il progresso della
coltivazione è proceduto secondo l’ipotesi di Ricardo,
oppure secondo quella di Carey? Furono la fame
e la popolazione crescente che ne determinarono
l’estendimento
,deteriorando sempre più la
condizione dei lavoratori e migliorando di
continuo
quella dei proprietari? Oppure furono
i progressi del sapere e delle sue applicazioni,
di guisa
che, di pari passo coll’estendimento
della coltura, sia proceduto il benessere così
dei proprietari come dei lavoratori?

Carey ha, nei suoi Principii e sopratutto nell’altra
sua opera il passato, il presente e il futuro,
mirabilmente svolto la quistione di fatto.
Egli ha pienamente ragione. Il fatto, nelle
sue grandi linee, è quale egli lo pone
;
la fatalità, che evidentemente il Creatore
ha preposto alla grande evoluzione dell’umanità,
è l’ordine assunto
dall’ipotesi di Carey, non
quello della scuola inglese; è l’ipotesi del
progresso e dell’armonia, non quella del
regresso e dell’antagonismo. Il fatto,
preso in complesso, si è che, ognidove,
nella parte del mondo che siamo abituati
a chiamare incivilita, la produzione del
suolo si è andata attraverso i secoli
ingigantendo
; e due fenomeni si sono
prodotti
ad un tempo: il lavoro ha esteso le sue
conquiste sulla natura; metodi, strumenti,
capitale, hanno di periodo in periodo raddoppiato
e triplicato la capacità produttiva del suolo;
la
superficie della terra coltivata si andò
estendendo
a misura appunto che il lavoro
diveniva più produttivo; la palude si mutò in
campo arabile: l’arida roccia si vestì di grano;
e l’uomo, in dura lotta cogli ardori e col gelo,
con la valle e col monte, coll’alluvione e colla
marea, penò ma vinse. Se l’ipotesi di Ricardo
fosse la verità storica, è evidente che a
quest’ora il genere umano avrebbe dovuto
indietreggiare ben più di quanto non sia
progredito
; e quell’estendimento della coltura
del suolo avvenuto attraverso ai secoli,
ai millennii
, avrebbe dovuto affamare
l’umanità, riducendola
a pochi e stranamente
doviziosi signori, attorniati da un’immensa
massa di lavoratori estenuati. Ma la storia
depone, tutta,nel senso contrario. Questa
desolante condizione, che, nella ipotesi
di Ricardo, sarebbe quella, a cui dovrebbe
metter capo
il progresso dell’agricoltura,
è invece quella da cui siamo partiti: è
la condizione della schiavitù, della servitù,
del ryot, del turco. Qui, il punto di fatto
non lascia luogo a dubbio. Ogni tradizione
ed ogni cronaca, di ogni parte del mondo
ed incivilita, ci parla di un’epoca, in cui la
Rendita,pur essendo quantitativamente
la metà il terzo di ciò che è ora, si porta
via via 50-60% del prodotto, mentre ora
prende appena il 15-20
%; -concorre a
mostrarci come appunto quando la
Rendita era una metà od un terzo di
ciò che è ora, il contadino che oggi ha
il suo pane, la sua carne, il suo vino,
vivesse
di una putrida aringa, di una
manciata d’orzo e di avena, e prevedesse
nel suo calendario, come oggi prevediamo
le eclissi, il ritorno periodico della fame.
La coltura si estese; dalle terre miglior, passò
via via alle più cattive, alle roccie, alle paludi.
Perché mai? Per una pressura crescente? No;
la pressura ci fu, ma non avrebbe potuto
che distruggere la razza umana, se collo
stimolo della fame non si fosse aguzzato
l’ingegno umano; se l’aratro, che era un cono
e grattava a mala pena la terra, non
fosse diventata la spirale cilindrica che fende,
rivolta e rompe
la zolla; se non fossero venute
le strade, le rotaie, le macchine a vapore,
tutto ciò che ha centuplicato la capacità
produttiva della terra e dell’uomo.
Alla storia possiamo aggiungere l’osservazione
medesima del presente. Le rendite sono
assolutamente
, più basse, e relativamente
più alte ove il lavoro è men produttivo e la
condizione del coltivatore più disgraziata:
in Asia dapprima, poi in Polonia, in Russia,
nella
Spagna, in Sardegna, in Sicilia, dove
il lavoro
è meno produttivo. E quando la
scuola Ricardiana si è spaventata a vedere
il fitto delle terre inglesi crescere e prese
per una calamità questa progressiva tendenza
della Rendita, essa confuse la rendita come
quantità assoluta colla rendita come quantità
relativa o quota di prodotto; non vide come
tale
aumento, lungi dal nuocere alle masse,
dipendesse da un fatto ad esse benefico,
dall’essere cioè la rendita una quota minore
di un prodotto maggiore
.
Teoreticamente adunque, giova ripeterlo,
le sue dottrine non sono che una dottrina
sola
; teoreticamente niuno dei due valenti
economisti può respingere la legge posta
dall’altro, senza rinunziare a quella che pone
egli stesso. La minaccia di una penuria
crescente si può, con Ricardo, vaticinare
come effetto di quello stesso principio in
base al quale
si possono vaticinare le più
liete sorti contemplate da Carey. E se
il fatto storico, preso nelle sue grandi
linee
, finora depone in favore dell’economista
americano,perché dal passato non potremmo
trarre il presagio
del futuro? Da ciò che
l’estendimento della coltura fu finora
un
fenomeno costantemente legato alla cresciuta
produttività del lavoro; da ciò che la risultante
di tutte le prove, attraverso alle quali il genere
umano è passato, fu sempre il progresso; M. Carey
ha tutto il diritto di argomentare che si debba aver
fede nella tendenza ascensionale della umanità e
di sostenere che la teoria della Rendita nulla ha in
se stessa, che possa far vacillare in noi una sì
lieta speranza; che tutta, anzi, concorre a farcela
nudrire, con crescente fiducia nella bontà ed
onnipotenza del Creatore.
E
questa fiducia, io la sento.

In fondo le differenze sono minime. Piccole variazioni di parole. Minutaglie. Roba sulla quale lo studioso, il quale bada alla sostanza, non sente affatto bisogno di soffermarsi.

Ebbene, no. Quel bravo laboriosissimo uomo, che si chiamò Ludovico Eusebio e curò la ristampa delle prefazioni del Ferrara, non ebbe certamente sentore dei suoi misfatti. Era l’andazzo dei tempi. Il barone Custodi, assai più benemerito uomo, fece altrettanto e peggio nei suoi 50 volumi degli scrittori italiani classici di economia politica. Aggiustare lo stile era ed è ancora per taluno peccato assai veniale. Custodi aggiustava anche il pensiero tagliando via od attenuando quelle frasi che più offendevano il sentire dei tempi. Dall’aggiustare lo stile all’aggiustare il pensiero il passo è brevissimo.

Oggi siamo divenuti più rigorosi. Una ristampa come quella procurata fra l’89 ed il ’90 dall’U.T.E.T. delle prefazioni del Ferrara sarebbe intollerabile. Intollerabile in tutti i sensi: per le aggiunte, a scopo di ingrossamento, di roba altrui alle prefazioni proprie dell’autore, per la eliminazione di appendici di questo – perché sostituire alla bibliografia sulla moneta e sui banchi di Ferrara, fatica in se stessa singolare e di valor superiore, entro i suoi limiti, a quelle, più note, del Jevons e del Soetbeer ed alla «notizia sui banchi degli stati sardi», primo saggio di storia dei banchi che poi diedero luogo alla Banca d’Italia, la riproduzione di alcune pagine del Messedaglia e del Fauchille? – per l’arbitraria divisione del testo in paragrafi inesistenti nell’originale, per la disposizione delle prefazioni in ordine diverso da quello cronologico delle pubblicazioni ed infine e sovratutto per le correzioni stilistiche. Alle quali confesso non avevo ancora prestato attenzione quando, (vedi sopra, nei paragrafi 8 e 9 della prima parte del presente saggio, pp. 21 e segg.) mi ero già lamentato delle malefatte dell’Eusebio. Poi, mi accadde un giorno di invitare uno studente a leggermi il brano riportato sopra, che io dovevo commentare. Egli leggeva nell’originale; ed io avevo sott’occhio la ristampa eusebiana. Per un po’ immaginai lo studente si arrogasse una certa libertà di lettura; ma poi dovetti inorridire sul serio.

Più o meno, in quasi tutte le pagine della ristampa, il curatore od il correttore delle bozze del Ferrara o amendue d’accordo hanno sostituito la propria fantasia stilistica alla scrupolosa fedeltà al testo originale. L’unica giustificazione lecita sarebbe stato il consenso del Ferrara. Ma, sebbene questi fosse sempre (vedi la lettera del 16 luglio 1890 al Bodio nella ristampa delle Memorie di statistica) tenacemente avverso alla proprietà letteraria e dichiarasse inutile chiedere a lui autorizzazione a ripubblicare suoi scritti, non credo la sua avversione al diritto di proprietà su di essi giungesse sino al punto di dar facoltà ai nuovi editori di rimaneggiarne a lor talento il testo. Di siffatta facoltà e neppure di un rimaneggiamento suo non v’ha traccia; anzi il rifiuto, ricordato dal Bertolini, ad accettare compenso per la ristampa, pare indizio che a questa egli non ebbe parte.

Un giorno accadrà – auguriamolo – che le opere del Ferrara saranno ristampate. Speriamo che allora il curatore vorrà rispettare le regole elementari insegnate dai filologi per la riproduzione dei testi passati, fra cui principalissima è la fedeltà al testo originario. Se qualche variante di carattere tipografico (i soliti u in v, lo scioglimento delle abbreviazioni ecc.) o di punteggiatura, è introdotta, devono indicarsene i casi e i limiti.

È lecito mutare l’ordine della materia o ricomporre ad unità quelle che al curatore paiono membra disiecta di un tutto? È il caso, per il Ferrara medesimo, delle Lezioni di economia politica ricomposte recentemente (Bologna, Zanichelli, 1935) ed amorosamente dalla dott. Gilda de Mauro-Tesoro. Siccome si volle offrire al pubblico qualcosa che fosse come la summa sistematica del pensiero ferrariano e poiché in apposita appendice fu dato il mezzo al lettore di ricostruire il processo di compilazione, riterrei il rimaneggiamento spiegabile ai fini suoi. In una edizione critica delle opere del Ferrara, anche questo rimaneggiamento sarebbe però del tutto illecito. Ogni scritto ferrariano dovrà essere stampato nella sua integrità e forma originaria: niente frazionamento in capitoli e paragrafi non segnati dall’autore; niente soppressione di frasi iniziali o terminali rivolte a studenti ed uditori; niente mutazione delle citazioni e dei riferimenti originari. Citazioni e riferimenti vanno integrati fra parentesi quadre in calce alla pagina, cosicché si distingua senz’altro quel che è dell’autore da quel che il curatore aggiunse.

È lecito mutare l’ordine cronologico degli scritti? Qui il problema è complesso. Delle opere del Turgot si hanno tre edizioni; il primo curatore (Dupont de Nemours) ed il terzo (Schelle) seguirono un ordine cronologico; laddove il secondo (Daire) impaziente della “confusione” dell’altro metodo, preferì l’ordine sistematico. In principio, deve essere adottato l’ordine cronologico, perché consente al lettore di seguire via via lo sviluppo del pensiero dell’autore è di rendersi ragione del suo mutare ed arricchirsi. Non si possono però ignorare gli inconvenienti pratici del sistema: un trattato di 500 pagine sui principii della scienza fa una figura buffa, se incastrato fra due lettere di carattere prevalentemente famigliare, o fra due sonetti. Una classificazione a grandi linee può dunque essere consigliabile: i libri stampati a sé dall’A., i quali hanno acquistato una individualità storica propria, possono continuare a conservarla, beninteso ponendoli, gli uni rispetto agli altri, in ordine cronologico. Le memorie di economia possono formare un gruppo distinto da quelle filosofiche o storiche. La corrispondenza può stare a sé. Nel caso di Ferrara una classificazione opportuna potrebbe essere: I) Prefazioni ed altre memorie di teoria e di storia economica statistica e finanziaria; II) Lezioni e prolusioni, stampate, litografate e manoscritte; III) Relazioni e discorsi parlamentari, ministeriali ed elettorali; IV) Minori articoli su giornali quotidiani o settimanali, politici economici varii, ai quali potrebbe aggiungersi il carteggio tra il Ferrara ed i suoi corrispondenti. Le lezioni e prolusioni dovrebbero seguire le prefazioni e memorie, perché nell’ordine ideologico ne sono la derivazione. In ognuna delle quattro parti l’ordine dovrebbe essere, a costo di qualche ripetizione e di qualche apparente incongruenza – i “principii” messi in coda a qualche “applicazione” -, rigorosamente ed esclusivamente quello cronologico.

Bisogna aggiungere introduzioni, note, illustrazioni ai testi pubblicati? Sì, se si tratta di introduzioni e note atte ad illustrare il testo (sue edizioni, suoi manoscritti, autografi o non, e controversie relative; relazioni anche ideologiche del testo pubblicato con altri dello stesso o di altri autori, illustrazioni del “significato” delle tesi sostenute dall’autore o delle parole e frasi da lui adottate); no, assolutamente no, se si tratta di un attaccapanni a cui appendere una teoria, anche magnifica, del curatore, o un’indagine storica propria intorno ad un argomento suppergiù già trattato dall’autore. Il curatore delle Opera omnia di Ferrara avrebbe già così grandi benemerenze da acquistare in questo campo, che nulla guadagnerebbe, ad es. se volesse aggiungere alla illustrazione dei testi anche la ricostruzione critica del pensiero teorico di lui. Non che Ferrara non lo meriti, e che non sia urgente di studiare oggi quel che è vivo e quel che è morto del suo pensiero. Ma non è ufficio del curatore, come tale, della edizione che sarebbe doveroso consacrar all’economista italiano principe del secolo XIX.

Tuttociò è elementare per i curatori di classici letterari e storici; e chi fa diversamente è guardato con compatimento, come uno che fa un mestiere diverso dal suo. C’è qualche buona ragione perché gli economisti debbano seguire altre regole? Se interrogo Schelle per Turgot, Cannan per Smith, Harsin per Dutot e per Law, De Bernardi per Dupuit, mi pare rispondano di no. Io stesso, pubblicando taluni scritti inediti di Verri ed ora di Malestroit, ho cercato di seguire le regole pacifiche tra i filologi. E poiché, a proposito di Malestroit, mi vennero fatte certe considerazioni sulla moneta immaginaria, per non intrufolarle nella introduzione al volume, le pubblicai a parte in questo medesimo fascicolo della rivista.

Viaggio tra i miei libri «La Riforma Sociale», marzo

Viaggio tra i miei libri

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1935, pp. 227-243

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 381-397

Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1953, pp. 3-26

Catalogo della Biblioteca di Luigi Einaudi. Opere economiche e politiche dei secoli XVI-XIX, Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1981, pp. 11-16

Di altri scatoloni pseudo-commerciali e pseudo-bancari

Di altri scatoloni pseudo-commerciali e pseudo-bancari

«La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1935, pp. 1-22

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 137-157

Origini e identità del credito speciale, Angeli, Milano, 1984, pp. 282-303

Luca Einaudi, Riccardo Faucci, Roberto Marchionatti, Selected economic essays, Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2006, pp. 87-98

 

 

 

 

IL RAZIONALIZZATORE. – Troppi sono gli intermediari, troppi i parassiti, i quali allontanano il produttore dal consumatore. Bisogna avvicinare i due estremi della catena, riducendo al minimo il numero degli anelli intermedi. Bisogna far cessare la gazzarra degli improvvisati negozianti, i quali hanno d’uopo, per vivere, di taglieggiare il consumatore. In Italia i venditori al minuto sono oltre 542 mila, più di 1 ogni 77 abitanti. Tutta una razzamaglia di venditori ambulanti, di piccole imprese famigliari, di medi negozi, di doppioni male attrezzati, accanto ai grandi negozi specializzati, ai grandi magazzini di novità ed a prezzo unico, agli spacci cooperativi, alle provvide, agli spacci di fabbrica e agli spacci diretti dei produttori. Occorre sottoporre il commercio al minuto ad una disciplina unitaria, eliminare il superfluo ed organizzare, sotto l’egida di robusti organismi corporativi, quel che nel commercio esiste di vitale.

 

 

L’OSSERVATORE. – Grosso grossissimo problema quel che è posto dal critico degli intermediari parassiti. Converrebbe innanzi tutto precisare quel che si intende per parassitismo e se fra i tanti tipi di intermediari ve ne sia davvero uno che tenga fra tutti la palma. Mario Luporini, direttore centrale della Rinascente, pur trovandosi a capo di una delle maggiori organizzazioni italiane di vendita al minuto, energicamente nega[i] ai grandi magazzini simiglianti al suo ragione di esclusività rispetto agli altri. Rivenditori ambulanti, piccole imprese famigliari, grossi magazzini specializzati od a prezzo unico, cooperative, spacci di produttori hanno tutti un compito proprio, che gli altri non possono assolvere. Ognuno di essi giova, non nuoce, alla vita altrui. Ognuno di essi perisce se costa, vive se profitta altrui.

 

 

Il grossista?

 

 

Esso «non è né una fatalità né un peso. Quando esiste, esso non grava affatto sul ciclo produttivo. È un collaboratore e un consigliere del produttore. Quasi sempre è uno specialista che fa spendere molto meno di quello che spenderebbe il fabbricante se volesse avere filo diretto col dettagliante o viceversa».

 

 

Il merciaio ambulante?

 

 

«Ancora oggi, in pieno secolo novecentista, egli assolve una sua specifica importante e insostituibile funzione… Questo modesto commerciante, il quale gira tutte le vie d’Italia, si inerpica su tutte le montagne e, come sei o sette secoli or sono continua ad offrire la sua merce sulle piazzette dei più umili paeselli, svolge un attività essenziale alla completa espressione del commercio al minuto».

 

 

Le imprese famigliari, i piccoli e medî negozi?

 

 

Utilissimi tutti, anzi necessari. «Il compratore deve disporre della merce di cui ha bisogno, esclusivamente nel luogo, nel tempo, nella qualità e nella quantità che il consumatore desidera. È al consumatore che la produzione, attraverso al commercio, deve servire… Ciò sarebbe impossibile se il commercio al minuto dovesse essere esercitato attraverso un solo tipo di organismo. Occorre che, a seconda delle condizioni locali e di fatto prevalenti, l’organizzazione del commercio escogiti idonee forme di adattamento.

Poveri produttori e poveri consumatori se non fosse così! Il grande magazzino non potrebbe mai ramificare le sue filiazioni nei luoghi che oggi più economicamente, si badi bene a questo, sono serviti dal commercio ambulante o dalla piccola azienda famigliare. Altrettanto impossibile sarebbe la esistenza, nei grandi centri, d’una filiale del grande magazzino ad ogni angolo di strada, per sostituire la funzione ora svolta dalla piccola e dalla media azienda. Lo stato attuale di organizzazione distributiva risponde insomma a un principio economico fondamentale: quello del raggiungimento del massimo effetto (in questo caso la diffusione capillare della funzione distributiva) con il minimo mezzo.

L’organizzazione attuale è il risultato di un processo selettivo di ordine secolare, avvenuto in ossequio al criterio dell’adattamento dell’organismo alla funzione e all’ambiente. Come il grossista è necessario per sostituirsi nel rischio commerciale al produttore e per concedere il credito d’esercizio ai negozianti al minuto, così la varietà dei negozi di vendita è elemento indispensabile per la corretta e completa funzione distributiva. Il campo d’azione di ognuno di questi organismi coesistenti è limitato dal campo di azione di ogni altro. Perciò si è ristretto ai luoghi impervi o alle discontinuità cittadine il mercato di smercio degli ambulanti, ed alle località periferiche quello delle aziende famigliari, le quali dominano il mercato al minuto da secoli. Nel complesso però questi svariati organismi formano un insieme efficiente ed armonico, la cui potenza di penetrazione negli svariati ceti in cui si suddividono economicamente i milioni di consumatori, disseminati in tutta Italia, sarebbe distrutta se, in modo artificioso, vi si volesse porre mano, pur essendo vero che la cosiddetta razionalizzazione deve essere perseguita ed attuata anche dalle aziende commerciali, fino ai limiti del possibile e del ragionevole. Cioè: anche nelle attrezzature commerciali si può e si deve progredire se non si vuole restare indietro, con danno proprio ed altrui. Sarebbe fuori della realtà chi credesse che in questo campo non c’è più niente da fare».

 

 

IL RAZIONALIZZATORE. – E sia così rispetto alla necessità dei diversi tipi di imprese commerciali. Non potrete negar tuttavia che, in ogni tipo, il numero dei partecipanti al banchetto della provvigione sul prezzo ultimo pagato dal consumatore sia stravagamente alto. Che il distacco fra i prezzi al minuto e quelli all’ingrosso sia notabile e crescente niuno vorrà porre in dubbio. Né v’ha del pari niun dubbio cha la moltiplicazione nel numero degli spacci sia prima tra le cause del grave malanno.

 

 

«Data una certa massa di vendita al minuto del valore 100, la quale da’ un utile lordo di 30, se esistono 10 negozianti, ognuno venderà, in media, per 10 ed avrà un utile di 3, sufficiente a coprire tutte le spese valutate a 2 ed a lasciare un utile netto di 1. Se adesso si suppone che il numero dei negozianti salga a 20, il valore medio delle vendite scende a 5 per testa e l’utile lordo d’ogni negozio si abbassa a 1,5. Ma Poiché gli oneri d’esercizio non sono d’altrettanto diminuiti, l’utile lordo, oltre a non lasciare utile netto, non copre più nemmeno le spese. Di qui una difesa dei venditori rivolta all’aumento dei prezzi unitari, che assicuri lo stesso utile netto di prima».[ii]

 

 

La dimostrazione del 1934 riproduce querele antiche. Una commissione incaricata 25 anni addietro dal sindaco di Torino «di studiare i provvedimenti adatti a risolvere il problema del caro dei viveri» riferiva (giugno 1910) a mezzo del presidente e relatore Achille Loria:

 

 

«Una ragione forse anche più significante dell’attuale rincaro venne additata con grande lucidità dal testimone cav. Pia, con esclusivo riferimento, gli è vero, al mercato della carne, ma estendibile però senza tema di errore a qualsiasi altro prodotto. È questa causa, come egli ha osservato, “è il grande aumento nel numero degli spacci, dovuto all’uso invalso presso molti buoni operai, per ispirito di indipendenza, e coll’intento di migliorare le loro condizioni, di abbandonare il lavoro salariato per mettere su un proprio spaccio”. Gli è che i salari cresciuti negli ultimi tempi hanno consentito agli operai, od ai più sobrii ed economi, di accumulare un piccolo capitale, di cui essi intendono ragionevolmente valersi per assurgere a condizione indipendente. Ora poiché nell’industria prevale oggidì incontestata la grande azienda, mentre il commercio schiude tuttora qualche possibilità di esistenza alle piccole imprese, così gli operai non possono altrimenti valersi delle fatte economie che aprendo un negozio; di qui il forte incremento, da noi constatato, nel numero degli esercizi, relativamente alla popolazione ed agli affari. Ora, l’aumento nel numero degli spacci, scemando la massa di affari di ciascun esercente, fa che esso non possa conseguire il necessario profitto se non mediante una elevazione del prezzo unitario, la quale, in tali condizioni, non si accompagna ad alcun miglioramento nella condizione dell’esercente, anzi può accompagnarsi ad un peggioramento delle sue sorti, e talora è appena bastevole a preservarlo dal disavanzo altrimenti ineluttabile. Ed ecco come si spiega che l’aumento così sensibile nei prezzi nel mercato al minuto non si accompagni ad alcuna ascensione nella sorte dei nostri esercenti, anzi si compia frammezzo alle universali testimonianze del loro crescente travaglio. Con ciò si spiega perché i prezzi sono più alti precisamente nei mercati meno affollati; per esempio, il prezzo della verdura è più alto nel mercato del serraglio che nei negozi circostanti più affollati».

 

 

L’OSSERVATORE. – Già in seno alla commissione torinese del 1910 vi era stato chi, dal moltiplicato numero dei minuti esercenti non deduceva le illazioni dichiarate dall’amico e compaesano Pia, probo e peritissimo negoziante in carni, ed osservava «che l’aumento dei prezzi al minuto non è effetto ma causa del cresciuto numero dei rivenditori»;[iii] ed oggi, di nuovo, Luporini, peritissimo tra i dirigenti imprese commerciali, soggiunge che in un solo caso, quello di monopolio, possono i venditori di una data merce fissare il prezzo a quell’altezza che, in funzione di una determinata quantità di affari, assicuri loro il massimo utile.

 

 

«Come potrebbero i commercianti, così divisi ed accaniti l’uno contro l’altro nell’accaparrarsi il cliente, agire all’unisono in un indirizzo che danneggerebbe immediatamente la massa, a vantaggio degli immancabili dissenzienti? Come è possibile pensare ad un tacito accordo di centinaia di migliaia di individui, aventi i più svariati ceti di clientela, operanti nei più diversi luoghi e dotati essi stessi della più difforme mentalità?» (loc. cit., pag. 23).

 

 

In verità stravaganza logica più inverosimile non si può immaginare di questa:

 

 

  • nel tempo primo il prezzo del pane in una città, il numero dei panettieri essendo di 100 per ogni centomila abitanti, è di 1,80 lire per chilogrammo;

 

  • a tal prezzo i 100 panettieri lavorando, con una resa di chilogrammi di pane, 300 chili di farina al giorno in media pagano salari normali ai garzoni e vivono con la decenza propria a uomini del loro stato;

 

  • nel tempo secondo, 25 garzoni, avendo raggranellato un modesto risparmio, decidono di trasformarsi in panettieri. Poiché il consumo del pane per tal ragione non aumenta, ogni forno, invece di 300, lavora in media soltanto 240 chilogrammi di pane. Le spese generali – fitto del negozio, interesse ed ammortamento del capitale di impianto del forno, imposte, spese fisse di commessa alla vendita e ragazzo per le corse a casa dei clienti – si debbono ripartire su un numero minore di chilogrammi di pane. Il costo totale, compreso il salario al panettiere, cresce da 1,80 ad 1,90 al chilogrammo;

 

  • i consumatori di pane, adunati a comizio, decidono di essere ben lieti che sia loro porta occasione di far vivere decentemente 125 panettieri invece di 100 e si proclamano disposti a pagare lire 1,90 invece di 1,80 per ogni chilogrammo di pane acquistato.

 

 

Poiché tutto può accadere fuorché ad occasione dell’immaginario comizio i consumatori piglino la deliberazione enunciata; Poiché i consumatori resisteranno certissimamente, per quanto sta in loro, al desiderio dei 25 aspiranti panettieri; Poiché i consumatori avranno dalla loro opinione pubblica ed autorità; Poiché i 100 panettieri antichi non hanno alcun interesse ad aumentare il prezzo da 1,80 ad 1,90, restando col guadagno di prima e procacciandosi odio dai clienti, così è evidente che al ragionamento manca un anello.

 

 

Se la catena logica fosse solida, dovrebbe potere essere capovolta. Così:

 

 

  • nel tempo primo, essendo il numero dei panettieri in una città 125 per ogni centomila abitanti, la media lavorazione di farina 240 chilogrammi per forno, il prezzo del pane 1,90 lire per chilogrammo, si riconosce che il caro del pane è dovuto all’eccesso nel numero dei panettieri;

 

  • nel tempo secondo, per porre termine allo scandalo, il numero dei panettieri è sottoposto a regolamento e ridotto a 100 per ogni centomila abitanti. La media lavorazione di farina è cresciuta a 300 chilogrammi per forno.

 

 

Scema forse il prezzo del pane da 1,90 ad 1,80 lire per chilogrammo?

 

 

L’esperimento fu fatto; durò centinaia d’anni. I risultati furono descritti da Alessandro Manzoni nel capitolo sulla carestia de I promessi sposi e sono chiariti in tre scritti, mai abbastanza meditati, di Camillo Cavour (1851, ed in La Riforma Sociale, 1915, pag. 300 e seg.), Carlo Ignazio Giulio (Torino, 1851) e Federico Le Play (Parigi, 1860).

 

 

Con la mirabile sua capacità a vedere i fatti veri e rilevanti, ben diversi dai fatti apparenti e stupidi, il conte di Cavour così tranquillizzava coloro i quali, attaccati al regime dei regolamenti, paventavano che i panettieri profittassero della conquistata libertà per coalizzarsi ed aumentare il prezzo del pane:

 

 

«Le coalizioni sono talvolta possibili nelle industrie il di cui esercizio richiede lunga pratica, non comune abilità e alti capitali, ed ancora in queste l’esperienza ci dimostra che esse sono di breve durata: ma in un’arte come quella del panettiere, accessibile ad una infinità di persone, che esige pochi capitali e mezzi affatto volgari, i pericoli delle coalizioni sono veramente immaginari. … D’ora in avanti sarà possibile lo stabilire in questa città una panetteria con un capitale di sole lire 5.000. Ora ogni individuo di mediocre operosità e di bastevole onestà non durerà fatica a raccogliere questa tenue somma e ciò tanto più che, sia i proprietari di case per dar credito alle loro botteghe, sia i negozianti da grano e da farine per agevolare il loro negozio sono in generale disposti a somministrare fondi ai panettieri bisognosi» (loc. cit., 317-7).

 

 

Quando mai si vide che il minor numero dei produttori faccia ribassare i prezzi ed il numero cresciuto favorisca le coalizioni e inasprisca i prezzi? Come osservava il commissario torinese del 1910 questo è un supporre che la coda muova il gatto e non viceversa. A buon conto, salvo che in Russia, gatto o re del mercato sono ancor i consumatori, ed i produttori devono ballare così come è loro ordinato dai gusti e dai mezzi dei consumatori.

 

 

Per secoli (in Torino dal 1679 al 1851) i produttori erano riusciti, camuffandosi da consumatori, a persuadere costoro che, per avere pane buono ed a buon mercato, faceva d’uopo stabilire le piazze di forno (e cioè il numero dei panettieri) e la meta (calmiere) del pane. Il risultato fu pane cattivo e caro.

 

 

Federico Le Play, relatore nel 1860 al consiglio di stato di Francia, ricordava la teoria, fin d’allora corrente, che «il prezzo del pane deve diminuire a mano a mano che scema il numero dei forni ed aumenta la clientela forzata di ognuno di essi», ma soggiungeva subito che, fatte diligenti inchieste, il prezzo del pane era invece risultato più alto a

Parigi, città di regolamentazione e di numero ristretto di fornai, che a Londra ed a Bruxelles, città sotto cotal rispetto libere e provvedute perciò di più numerosi forni. Poiché un fatto in sé non conta, se non lo si spieghi, così il Le Play seguitava, esponendo le ragioni per le quali il prezzo del pane non solo capita ad essere, ma ragionevolmente deve essere più caro in regime di regolamentazione che in quello di libertà dei forni:

 

 

«Il privilegio attribuito ai forni da panettiere dà ad essi un valore fittizio il quale pesa sui consumatori. Le 601 piazze da forno privilegiate parigine del 1856 avevano un valore venale di 36 milioni, forse ridotto oggi (1860) a 25 milioni, destinati a ribassare forse ancora di 5 milioni in seguito alla concorrenza. La esagerazione del valore delle piazze assorbe improduttivamente i capitali dei fornai. Di qui un onere annuo, il quale deve essere prelevato sul pubblico, in aggiunta alle spese ed ai benefici proprii della fabbricazione del pane.

 

 

«Un confronto fra Parigi e Londra mette in luce sovrattutto la situazione inferiore del fornaio parigino per quanto riguarda la agiatezza, la capacità commerciale, l’attività e l’iniziativa ed in generale l’insieme delle condizioni dalle quali dipende il livello sociale. Questa inferiorità è la conseguenza fatale del regime regolamentare per indole sua limitatore e reagisce in modo pernicioso sui metodi produttivi parigini. L’agiatezza e la capacità degli esercenti sono elemento essenziale di prosperità per ogni industria e fattore decisivo di moderazione del prezzo dei suoi prodotti. L’abbassamento del livello sociale dei forni è ognor più notabile a mano a mano che la regolamentazione diventa più rigorosa.

 

 

«L’organizzazione parigina è viziata altresì dalla situazione fatta agli operai comuni. In un’epoca in cui l’industria si concentra sempre più in grandi officine, dirette da pochi imprenditori a capo di una moltitudine di salariati, non v’ha evidentemente alcun motivo per distruggere sistematicamente questi modesti organismi industriali, grazie ai quali l’operaio intelligente e laborioso può elevarsi alla condizione di padrone. Nel sistema di Londra, gli operai abili, i quali abbiano fatto qualche risparmio, creano, con poca spesa, un nuovo esercizio ed a poco a poco giungono nel loro mestiere, se non alle alte posizioni, le quali richieggono tradizione ed attitudini, almeno ad un posto medio capace di dare l’agiatezza e di far godere la stima dei vicini. Il principio della limitazione si oppone a Parigi sempre più a questa elevazione graduale degli operai scelti ed è perciò in contrasto formale con uno dei principali bisogni della nostra costituzione sociale.

 

 

«Ma il principale inconveniente del sistema è la riduzione medesima del numero dei fornai. Costoro in fatto adempiono per un certo numero di famiglie agglomerate i servizi che nella maggior parte d’Europa hanno luogo nel seno della famiglia. Il forno può essere invero considerato come il complemento della cucina domestica e per adempiere al suo ufficio precipuo deve essere intimamente mescolato con la popolazione. L’esigenza diventa ogni dì più imperiosa a Parigi, ove è desiderato, mattino e sera, il pane tratto un momento prima dal forno e son richieste svariate forme appropriate ad ogni pasto. Questi bisogni, già così complessi nel corso regolare della vita famigliare, si modificano spesso improvvisamente per numerosi incidenti derivanti da rapporti di parentela e di amicizia. Il panettiere non deve provvedere soltanto al servizio del pane; nell’organizzazione spontanea e normale serbata nella provincia e che è in pieno fiore a Londra, il forno offre un concorso più diretto alla alimentazione delle famiglie; facilitando, ad ogni momento, la cottura di certi particolari piatti e sostituendo interamente la cucina domestica in talune circostanze in cui la famiglia intera attende al lavoro quotidiano. Siffatti intimi rapporti facili a Londra e Bruxelles dove la proporzione dei forni è di 1 ogni 500 abitanti diventa difficile a Parigi, dove la proporzione è di 1 a 2.000. Poche famiglie sono in grado di cambiare il forno che non li soddisfa ed altre perdono gran tempo nelle corse fatte al forno. I novatori i quali vorrebbero rivoluzionare il commercio del pane riducendo indefinitamente il numero dei forni non tengono conto di questo pesante servizio imposto, collo scaricarne i fornai, alle famiglie; ed assimilano implicitamente i quartieri della città ad un ospedale, in cui il consumatore riceve alle ore prescritte, un cibo che egli non ha diritto di scegliere. Siffatte tendenze derivano in ultima analisi dall’idea comunistica…

 

 

«I contrasti fra pasticcieri e panettieri provano anch’essi l’incompatibilità del regime di limitazione con le idee del nostro tempo. I pasticcieri allegano giustamente non potere lottare contro i panettieri, i quali usurpano parte della loro industria, se ad essi non sia a sua volta consentita la fabbricazione del pane. Essi presentano le prove del ricatto subito da taluni panettieri i quali obbligano i pasticcieri vicini a pagare una taglia se vogliono evitare una concorrenza rovinosa. Essi, in poche parole, chiedono di essere autorizzati a fabbricar pane ovvero che ai fornai sia proibito di fabbricare pasticcerie. La pretesa, riconosciuta giusta dai sindaci dei fornai, è stata, dopo profonda discussione, fatta sua dal senato. Il governo è dunque obbligato, in pieno secolo XIX, a riprendere gli interminabili dibattiti delle corporazioni di antico regime; esso deve proibire ai panettieri la fabbricazione dei dolci perché, servendosi di un forno già riscaldato per altro scopo, essi potrebbero produrle a più basso costo dei pasticceri.

 

 

«L’errore fondamentale della limitazione è l’idea che il buon mercato possa risultare dalla attribuzione obbligatoria dei clienti ai produttori. In tutti i tempi ed in tutte le professioni la vendita a buon mercato è stata invece condizionata alla spontanea formazione della clientela.[iv] Dappertutto la produzione a basso costo è il frutto dell’iniziativa di padroni abili ed intelligenti, a cui la maggioranza deve tener dietro sotto pena di fallimento.

 

 

«I panettieri di Parigi si ingannano stranamente del resto, immaginando di rimediare in pieno ai loro mali coll’ottenere, in aggiunta alla limitazione del numero dei padroni e delle botteghe da forno, anche quella del numero dei forni per ogni bottega. Nonostante il nuovo ostacolo, gli uomini migliori riusciranno ad accrescere notabilmente i loro affari, aumentando le dimensioni dei forni ed organizzando i turni di giorno e di notte. Se ci poniamo per tale via, vi è un sol mezzo di neutralizzare le migliori capacità ed è di limitare la quantità di pane che il forno può ogni giorno produrre. Ma, perché un siffatto regolamento sia eseguito, la maggioranza non sospetta di abilità e di intelligenza dovrà evidentemente sorvegliare davvicino l’operato della minoranza. Ognuno dovrà, trascurando i proprii, occuparsi sovrattutto di frastornare gli affari dei colleghi. Non è difficile comprendere che un nuovo aumento sul prezzo del pane sarà la conseguenza pratica del nuovo progresso» (pag. 68-72).

 

 

Con le varianti dettate dai luoghi e dai tempi, le considerazioni esposte settantacinque anni or sono dal Le Play sono vere oggi. Se il numero dei forni da pane e delle pasticcerie – queste in particolar modo, anche ad occhio, vanno moltiplicandosi in modo singolare – delle rosticcerie, delle latterie, dei verdurai, dei fruttivendoli ed in genere dei venditori di tutte le cose necessarie all’alimentazione è cresciuto e tuttodì cresce, il fatto non è dovuto al caso, Né può dirsi un artificio. Non basta che ad uno scemo venga in mente di aprir nuova bottega perché il pubblico, non forzato, accorra a lui e gli paghi prezzi più alti per rimunerarlo della sua scemenza. Gli uomini non sono ancora così svaniti come pretenderebbero i dottrinari della teoria della limitazione che farebbe scemare i prezzi e della concorrenza che li farebbe aumentare. Fornai, pasticcieri, rosticcieri, se vogliono vivere, devono rendere qualche reale servizio ai clienti. Talvolta può darsi siano servizi di pura conoscenza personale con i singoli clienti: «pagherà domani» «questo è un dolce fatto apposta secondo il suo gusto» – «manderò il pane fresco appuntino alle otto del mattino, a mezzogiorno od alle sette di sera», se si tratta di clienti agiati, od «alle sette, dodici e mezza e otto» se si tratta di operai; e non c’è che da svoltar l’angolo della strada e il cliente sprovvisto di telefono trova quanto gli occorre ed il bambino può scendere a far la provvista, senza che la mamma abbia paura del tram o dell’automobile. Al banco sta un macellaio gioviale o una commessa di panettiere che sa dir la sua a tutte le madame e le tote che fanno il giro mattutino, ed il cliente non ha l’impressione di entrare in un ministero, con direttori impiegati commessi cassieri, tanti che ci si perde la testa a studiare le competenze. Ricordiamo le arie che si davano gli stessi panettieri e macellai quando, nel tempo della guerra, bisognava impetrare umilmente, tessera alla mano, ci dessero quel che spettava al prezzo dovuto! I servizi di comodità, di buone maniere, e quelli sostanziali ricordati dal Le Play di cucina privata e di forno (da panettiere, da pasticcere, da rosticcere, ecc.); devono essere pagati perché consentono di sostituire alla cucina privata, la quale del resto nelle case moderne va riducendosi ad un bugigattolo, ad un armadio, in cui non ci si può neppure rigirare, un’organizzazione che offre, purché vicina, purché “di fiducia”, agevolezze pronte e, in fondo, a miglior mercato della cucina individuale per chi ha bisogno di lavorare o non può prendersi il lusso della cuoca privata, la quale poi, se è alle prime armi e pagata come novizia, manda in malora qualunque cosiddetto piacere della tavola. Nessun panettiere, nessun pasticciere, nessun rosticciere è di troppo, se è capace a rendere servizio, a vendere roba buona ed a venderla bene, con bei sorrisi e belle parole, invece che con brutta maniera; tutti sono di troppo se pretendono che, solo perché esistono ed hanno speso gran denari in vetrine e banchi e lumi e commessi, il cliente sia entusiasta di comprare roba qualunque a prezzi alti. I carestiosi hanno sempre in bocca i diritti della categoria, conculcati da chi, senza avere la necessaria preparazione professionale, usurpa il loro mestiere. Le nuove corporazioni – appunto perché sono una cosa diversa da quelle di vecchio regime, ricordate dal Le Play, le quali infastidivano governi e giudici con i loro piati incessanti per violato territorio di caccia bandita, – devono star lontane come dalla peste da bottegai industriali artigiani i quali, in foja di querela contro la clientela, vorrebbero riformarne i gusti, insistono sulla necessità di prezzi equi, equi per tutti, tali da far vivere i produttori e nulla più; purché, si intende, i produttori siano in numero giusto e non si permetta l’accesso al primo venuto, senza preparazione, senza titoli. Il vero nerbo delle nuove corporazioni è composto della gente che lavora e che riesce; che, riuscendo, paga imposte allo stato e non chiede allo stato favori o sussidi.

Il criterio per distinguere i buoni dai cattivi membri delle corporazioni è il successo. Chi perde quattrini, suoi o dei creditori, nella propria impresa, colui è un falso commerciante, falso industriale, e dunque falso corporativista. Chi rende altrui sul serio servizio, guadagna; chi perde, salvo casi estremi di forza maggiore o di caso fortuito da provarsi rigorosissimamente, perde perché non è capace di rendere altrui effettivo servizio.

 

 

IL PRIMO SPECIALIZZATORE. – Le banche devono applicare i principii della scienza. Ognuno deve fare il proprio mestiere. Il pubblico deve imparare a conoscere dal nome medesimo dell’ente a cui si affida di che morte moriranno i suoi denari. Siano “banche” quelle le quali ricevono depositi a vista od a

breve scadenza e li impiegano in sconto di carta commerciale, in anticipazioni e riporti a fine mese su merci e su titoli ed in altre operazioni destinate a fornire il capitale di esercizio degli industriali e dei commercianti. Siano “istituti” quelli che ricevono depositi a lunga scadenza od emettono obbligazioni a 10, 20 o 50 anni e ne impiegano il ricavo in sovvenzioni a lunga scadenza per impianti industriali, acquisto di macchine, mutui di miglioria agricola o costruzioni edilizie. Si avrà sicurezza solo quando il breve deposito andrà a braccetto col breve impiego, il medio col medio, il lungo col lungo. Vi deve essere parallelismo temporale fra i due piatti della bilancia, cosicché il banchiere sia sempre pronto a restituire quanto ha ricevuto alla scadenza fissata.

 

 

IL SECONDO SPECIALIZZATORE. – Non basta. Fa d’uopo specializzare oltreché nel tempo, nella specie del credito. Il banchiere deve conoscere i suoi clienti. L’agricoltura ha esigenze diverse da quelle proprie dell’industria elettrica, e queste son differenti dalle altre proprie delle industrie pesanti della siderurgia, della metallurgia e della meccanica. Chi serve i tessili non conosce a fondo i chimici Né si può pretendere che gli edili siano ben serviti da chi conosce a fondo l’industria navale, dal cantiere all’armamento. Le banche devono specializzarsi a seconda dei grandi cicli e rami di produzione, con gli stessi criteri con i quali si sono costituite le corporazioni. Anzi la banca, secondando il processo generale di auto disciplina delle forze economiche, deve mettersi in grado di oggettivarsi sempre meglio, spogliandosi di quelle antiquate caratteristiche che la facevano una industria così rigidamente personale. Non più credito alla persona del cliente individuo; ma credito alla industria organizzata e disciplinata, epperciò sicura di vita operosa e continua.

 

 

IL TERZO SPECIALIZZATORE. – Non basta ancora. La distribuzione del credito non deve avvenire solo su basi temporali e funzionali. Essa deve anche essere spaziale. Non si risusciti la vecchia disputa dei pochi e dei molti. Le banche in Italia sono indiscutibilmente troppe. Tutte hanno voluto mietere nel medesimo campo; che è il risparmio dei veri risparmiatori, i quali sono i proprietari rustici, i fittabili, i contadini delle campagne, gli impiegati, i commercianti, i professionisti dei borghi e delle città piccole e grosse. Quindi migliaia di banche e banchette minori e migliaia di sedi succursali filiali agenzie delle banche e casse maggiori, sparse in ogni villaggio e in ogni rione cittadino, tutte intente a pompar denaro ed a riversarlo nei pochissimi grandi centri. La agricoltura, la industria e il commercio sparsi, locali e di modeste dimensioni son perciò lasciati all’asciutto; il capitale è offerto in abbondanza alle grosse imprese, per investimenti grossi e piccoli; e si ha eccesso di investimenti speculativi e conseguenti dissesti bancari. Importa sostituire alla concorrenza irrazionale dei molti aspiranti a pascolar sul medesimo terreno, una razionale distribuzione della banca nello spazio; così che si instauri un ben ordinato contemperamento fra piccole, medie e grosse banche, indipendenti l’una dall’altra, cosicché la piccola banca sia interessata entro i limiti del possibile ad utilizzare sul luogo i risparmi raccolti nel luogo medesimo, salvo a giovarsi della media banca regionale e l’impiego del sovrappiù eccedente ai bisogni locali ed a riceverne aiuto in caso di richieste anormali di rimborsi. Parimenti si deve comportare la banca media regionale rispetto alla grande banca di commercio e questa rispetto alla banca centrale di emissione; la quale, spoglia dal vincolo dei rapporti diretti colla clientela agricola commerciale ed industriale, potrà  adempiere esclusivamente e perciò perfettamente al suo compito di banca delle banche, suprema regolatrice del credito e della moneta del paese.

 

 

PARLA UN PRIMO TEORICO. – Esiste davvero una differenza fra impieghi lunghi e impieghi brevi? Che cosa è il tempo in banca? Se noi supponiamo, per un istante, un mercato chiuso, in cui lavori una sola banca, è difficile immaginare in che cosa possa consistere la differenza fra credito a 30 anni, a 5 anni, a 6 mesi, a 15 giorni. Vi è in quel paese, un fabbisogno, ad ipotesi, di un miliardo di lire di capitale, distribuito per 400 milioni in fabbricati, ferrovie, porti, canali, migliorie agricole ed altri impianti fissi della durata media di 30 anni, 300 milioni in macchinari ammortizzabili in 5 anni, 200 milioni in materie prime, semenze, arnesi, materie in lavorazione realizzabili in media in 6 mesi e 100 milioni in prodotti finiti nei magazzini dei produttori, grossisti e negozianti al minuto, destinati a raggiungere in media in 15 giorni il consumatore. Se questa, arbitrariamente scelta a puro scopo di esemplificazione, od un’altra qualsiasi più conforme a realtà, è la proporzione intercedente fra i varii tipi di impiego del capitale nell’immaginario mercato, è chiaro che i 100 milioni investiti in prodotti finiti pronti nei diversi magazzini per il consumo sono altrettanto “fissi” come i 400 milioni impiegati in fabbricati, i 300 in macchinari od i 200 in materie prime. Se noi supponiamo, come si suppone comunemente e si deve supporre dai teorici, che l’imprenditore unico o i molti imprenditori siano puri imprenditori ossia organizzatori del capitale e del lavoro altrui e lavorino con capitale assunto tutto a prestito presso l’unica banca, è chiaro che la pretesa brevità – 15 giorni – dell’impiego per sovvenzioni su prodotti finiti, in confronto della immaginata lunga durata – 30 anni – dell’impiego n fabbricati o porti o ferrovie o canali è una finzione puramente contabile. È tanto poco possibile disinvestire i 100 milioni investiti in prodotti finiti – per intenderci in pane, carne macellata, vino in fiaschi, vestiti fatti, scarpe, ombrelli, ecc., ecc. – quanto i 400 che hanno la forma di canali, fabbricati, ecc. Disinvestire equivarrebbe a non fornire all’imprenditore i mezzi per compiere l’ultimo anello della catena economica: non trasformare la farina in pane, i cuoiami in scarpe, il feltro in cappelli, i panni in vestiti. Si può, se si vuole, ciò fare. Ma bisogna ben ricordarsi che ciò significa arrestare nel tempo stesso la fabbricazione dei prodotti intermedi. Se la farina non può trasformarsi in pane, a che pro’ la farina? Ciò significa altresì inutilizzare i 300 milioni investiti in macchine ed i 400 in impianti fissi. Se i rapporti ottimi fra le diverse specie di investimento sono quaranta, trenta, venti e dieci per cento dell’investimento totale, la permanenza dell’ultimo dieci per cento è altrettanto necessaria quanto la permanenza delle altre quote parti. La banca non può rifiutarsi, sotto pena di arrestare l’intero meccanismo produttivo, di rinnovare indefinitamente lo sconto delle cambiali rappresentanti i 100 milioni di beni finiti, pronti al consumo. Questi 100 milioni sono immobilizzati né più né meno come tutti gli altri milioni facenti parte del miliardo totale. Il tratto differenziale fra quelli che comunemente vengono chiamati prestiti lunghi e prestiti brevi non è dunque la “durata”. Il problema non muta indole solo perché, invece di una sola, le banche sono cento o mille. Con molto andirivieni, il complesso delle banche deve trattare alla stessa stregua impieghi lunghi ed impieghi brevi; non immobilizzandosi mai cioè né in quelli lunghi né in quelli brevi. Devono “girare” tanto gli uni come gli altri. Una banca adatta, per la natura dei suoi depositi, agli impieghi lunghi si immobilizza se l’impiego non si ammortizza con la dovuta velocità e intensità; così come la banca adatta agli impieghi brevi si immobilizza se le cambiali sono rinnovate o decurtate invece che onorate alla scadenza. Una banca la quale immaginasse di salvarsi dalle immobilizzazioni, vulgo ora detti “congelamenti”, solo col fare prestiti “brevi” si sbaglierebbe di grosso; d’ogni teoria volta a differenziare tra banca e banca col criterio della durata è errata alla radice.

 

 

PARLA UN SECONDO TEORICO. – Il logico specializzar banche a seconda dell’industria servita? Mai non s’è visto nessun calzolaio appendere sulla bottega l’avviso: qui si vendono scarpe solo ai contadini. Il cittadino passerebbe oltre, sogghignando: scarpe buone per piedi rustici incalliti dai sassi e sporchi di terra! Il contadino sospettoso: costui crede di farmela, rivendendomi i rifiuti della città! Il commerciante accorto vende ad ogni cliente la merce a lui adatta, dopo averlo persuaso che quella è la merce migliore fabbricata a bellaposta per il migliore dei clienti, che è precisamente sempre quello a cui si parla. Nessun industriale e quindi neppure il banchiere ha interesse a limitar ad ogni costo la sua clientela ad un ceto particolare. Che cosa accadrà se gusti di quel ceto mutano? Che cosa accadrebbe al malavventurato banchiere, il quale si fosse specializzato nel far credito ai lanieri od ai cotonieri od ai setaioli od ai siderurgici e l’industria prediletta subisse una crisi? Purtroppo, in talune zone la specializzazione vien da sé, perché quel centro è tutta lana o tutto cappelli o tutto mobilio. Ma il banchiere, il quale abbia buon senso e prudenza, avrà imparato dall’esperienza passata a tener gran conto di quella che noi vilipesi teorici diciamo teoria della compensazione dei rischi; ed avrà cercato, per quanto sta in lui, clientela fuor del ramo dominante nella sua zona; avrà preso a riporto titoli sicuri nella borsa più vicina – un tempo i migliori direttori di casse di risparmio usavano assai di siffatto prezioso volante regolatore alla unilateralità dei loro investimenti; ma poi ebbero divieto di continuare, non si sa per qual misteriosa ragione, forse perché «riporto» è una parola che ha l’aria speculativa e la gente che sta negli uffici vede il diavolo dietro certe parole e non è mai andata a leggere nel dizionario che «speculare» vuol dire «guardare nel futuro», che a chi gli riesce è una delle più rare e felicissime virtù di cui gli uomini possono essere adorni -; od avrà ingrossato il suo conto corrente presso una banca consorella di altra regione. Più variati sono gli impieghi, ed a parità di altre circostanze, più oculato e tranquillo è il banchiere. Specializzazione funzionale è dunque una frase priva di senso. Il banchiere che la pigliasse sul serio, scaverebbe da sé la propria fossa.

 

 

INTERVIENE UNO STORICO DELL’ECONOMIA. – La tesi che le banche debbono essere poche, ciascuna al suo posto, le piccole nei luoghi piccoli, le medie nei medi centri, le grosse nei grandi e tutte insieme collegate e interdipendenti, su su fino alla banca centrale, fa il paio con quelle tante tesi di tendenze economiche che ogni tanto nascono, diventano di gran moda e poi, dopo un po’, nessuno ne parla più. Adesso, i fabbricanti di tesi storiche si attaccano al corporativismo, che è tutt’altra cosa ed ha scopo ben diverso e più alto da quello di servire di attaccapanni per codesti pseudo-storici delle fatalità economiche. Farebbero meglio, costoro, a non dimenticare l’infortunio accaduto al maggiore della compagnia dei profeti di fatalità economiche, Carlo Marx. Il quale, in combutta con Federico Engels, predisse un bel giorno la fine, per scoppio spontaneo di supercrescenza, del capitalismo. La fine doveva arrivare, anno più anno meno, verso il 1890. Era la storia dei pesci grossi che mangiano i piccoli. Marx ed Engels volevano dire che i grossi industriali stavano mangiando i piccoli, e poi i grossissimi li chiamarono in seguito cartelli, trust, ecc. – avrebbero mangiato i grossi; Finché un colosso avrebbe mangiato i grossissimi. Allora il proletariato avrebbe tagliato la testa, o, misericordiosamente, messo in pensione il colosso ed instaurato pacificamente il socialismo. Tutto ciò fondato su teorie, che ora si direbbero di razionalizzazione od economicità della grande intrapresa in confronto della piccola, ecc., ecc. Non ne fu nulla; e se qualcuno andò colle gambe all’aria furono i palloni gonfiati, i grossissimi, i colossi. Anche nel mare, del resto, pare corrano maggior pericolo di scomparire le balene che i pesciattoli. La dimensione e la distribuzione territoriale sono due soli tra i numerosissimi fattori i quali agiscono sulla sopravvivenza delle imprese; ed a seconda degli altri fattori con cui si combinano, essi agiscono da caso a caso in sensi diversi. Talora, anche nelle banche, sono più economiche le piccole e le medie banche, talora le grosse. Talora prospera la filiale locale di una grande banca cittadina, talaltra invece il banchiere indipendente del luogo. Non si può neppure dire che sia sconsigliabile la creazione di una nuova filiale in una città o in una zona di città o di campagna già servita da due o tre filiali di altre banche. Questo è uno dei più grossi scatoloni vuoti che abbiano mai preso onorevole luogo nei trattati di banca. Là dove i direttori di due o tre filiali non trovano tanto lavoro da pagar le spese e perciò mandano alle direzioni centrali rapporti sulla necessità di intese per ridurre le troppe filiali concorrenti ad una sola, cosicché ciascuna banca lavori organicamente e disciplinatamente in un particolare campo, senza rubarsi i clienti, ecco arrivare un banchiere locale nuovo od una filiale nuova di altra banca e prosperare. Il lavoro di banca, come qualunque altro lavoro, non è qualcosa di preesistente che si tratti semplicemente di occupare. Da un pezzo i giuristi, pure annoverando la “occupazione” tra i mezzi di acquisto della proprietà, hanno cura di avvertire che è mezzo andato giù di moda, non essendovi oramai nei paesi civili alcun terreno nuovo libero da occupare. I razionalizzatori bancari dovrebbero degnarsi di imparare qualcosa dalla prudenza dei giuristi e ficcarsi ben bene in mente che il lavoro bancario non è una torta da dividere, e che le fette non sono il risultato della divisione di una quantità fissa per un numero variabile di partecipanti al banchetto; sicché se le filiali sono tre, essendo l’importo trenta, il quoziente sia dieci, se due cresca a quindici, se una sola balzi a trenta. Gli affari bancari, come quelli di industria e di commercio, non vanno così. L’importo è il termine, non il punto di partenza dell’operazione aritmetica. Può ben darsi che se le filiali o banche che lavorano in un luogo ci riducano da 3 ad 1, il lavoro si riduca a 5 e quell’una rimasta stia peggio di prima; ed invece, se le filiali o banche crescono da 3 a 4, il lavoro totale cresca a 50, e pur accaparrando la nuova arrivata 17 per sé, le altre veggano la loro fetta crescere da 10 a 11. L’appetito fa trottare l’asino. Il lavoro è una continua creazione; ed è creato non dagli scatoloni vuoti del ripartire giustamente il lavoro che c’è; ma dall’emulazione che lascia creare al più capace il lavoro che non c’è. La sola regola buona insegnata dalla storia delle banche di tutti i tempi e di tutti i paesi è dunque di non attaccarsi rigidamente a nessuna regola.

 

 

IL BANCHIERE PRATICO. – Sì, qualche regola esiste; ma è vecchia come Abacucco e frusta come la barba di Noè. Forse forse le regole si potrebbero ridurre a due: «il banchiere conosce un solo dovere, quello verso i suoi depositanti» – «il banchiere piglia i denari di tutti, anche dei cattivi, ma li dà via solo ai buoni». Se il banchiere non dimentica questi due fondamentali precetti, egli può passare brutti giorni, giorni ansiosi, ma,

per quanto valgono le umane previsioni, egli passerà incolume attraverso la tormenta e giungerà sano e salvo in porto.

 

 

Se le due regole sono diventate carne della sua carne, il banchiere è in grado di dar corpo sostanzioso anche alle formule in sé stesse vuote del lungo e del breve, della specializzazione funzionale e territoriale, del grosso e del piccolo.

 

 

Se qualcuno dice al banchiere: tu devi fare operazioni lunghe, perché i tuoi depositi sono a lunga scadenza, ovvero devi fare operazioni brevi, perché i tuoi depositi sono a breve scadenza, egli non scambierà il consiglio, entro certi limiti saggio, per quell’altro: tu che hai depositi lunghi fa “solo” operazioni lunghe, perché queste “sono” per te sicure e tu che hai depositi brevi fa “solo” operazioni brevi, perché queste “sono” per te sicure. Egli sa che quel “solo” e quel “sono” sono fuor di posto, anzi son per lui parole pericolosissime.

 

 

Il banchiere o l’ente, che riceve depositi lunghi o si procaccia fondi con emissione di obbligazioni sa invece tante altre case, fra le quali sono forse degne di ricordo le seguenti:

 

 

  • che egli non può dare a mutuo il cento per cento dei suoi fondi anche se ricevuti a lunga scadenza; ma deve tenerne parte disponibile o investita a breve scadenza. Qualcuno dei suoi clienti non avrà bisogno di nuovi mutui in un momento nel quale al banchiere non giova fare nuove emissioni? Le annualità passive che egli deve certamente solvere a tempo debito sulle obbligazioni emesse non scadranno in un momento in cui i debitori suoi dovrebbero, ma non possono, pagare a lor volta equivalenti annualità di interessi e di ammortamento? Poiché a lui non conviene far fallire i debitori suoi che sa imbarazzati ma solidi e deve e vuol pagare, giova a lui tenere investita a breve termine una parte delle sue disponibilità;

 

  • che vi sono flussi di fondi lunghi i quali non si rinnovano a scadenza, o si rinnovano soltanto dopo un intervallo. Vi sono ondate nei depositi vincolati. Ad un certo momento si riducono, Poiché sono apparsi all’orizzonte dei depositanti impieghi attraenti. Guai al banchiere che, fidando nella rinnovazione dei depositi a un anno, a cinque anni, avesse fatto impieghi più lunghi!

 

  • che quella dei mutui che si ammortizzano entro x anni, dimodoché la banca alla fine ha avuto il rimborso dagli industriali ed ha estinto tutte le obbligazioni emesse in contropartita è osservazione la quale deve essere integrata dall’altra che l’industriale, il quale ha alla fine dell’anno rimborsato un ventesimo del suo debito, vede in quel momento medesimo logorato il suo macchinario per un valore equivalente al debito rimborsato, diguisaché egli deve contrarre un nuovo debito per rinnovare macchinari ed impianti. Il banchiere, per fornirgli i fondi necessari, se il momento non è propizio per nuove emissioni, deve attingere alle sue riserve liquide ossia investite a breve tempo.

 

 

A sua volta, il banchiere, il quale riceve depositi brevi, non può, come racconta la storia della specializzazione temporale, impiegarli tutti in impieghi brevi, che sarebbero il servizio di riscossioni e pagamenti per conto dei clienti, sconti di cambiali, aperture di crediti in conto corrente, crediti documentati e di corriere, riporti su titoli, servizi di cassa, crediti di accettazione, ecc., ecc. Non può, perché tutto questo è lavoro che rende solo a condizione che i saggi passivi di interesse siano nulli o bassissimi, le imposte tenui, le spese generali di amministrazione e quelle specifiche di manipolazione di ogni operazione ridotte al minimo per la massa cospicua di affari fatti. Se il lavoro cade al disotto della media, la grossa banca diventa passiva. Possono sostenersi le medie e le piccole, con poche filiali, gerarchia ridotta, occhio del padrone, ecc. Il banchiere avveduto non solo non può osservare la regola dell’astensione dagli impieghi lunghi, ma non è affatto necessario per lui o conveniente nell’interesse dei clienti attivi e passivi che egli vi obbedisca ciecamente, ad ogni costo. Nessuna regola sensata si può dare in generale. Se il banchiere riceve depositi grossi, di industriali o di commercianti, e sono il fondo di esercizio di questi, il quale accidentalmente riposa tra un acquisto e l’altro di materia prima, egli deve stare sul chi vive e fare impieghi liquidi, meglio se riscontabili a vista presso l’istituto di emissione. Per tutto il tempo che fu a capo del Credito mobiliare, il Balduino vide sempre con sospetto i depositi unitari grossi; e quando non era soddisfatto dei motivi del deposito e della persona del depositante, tanto faceva, racconta Pantaleoni (Scritti, terzo, 377), da arrivare a sbarazzarsi del deposito e del depositante. Se tanto sospetto non piace, certamente occorre sempre tenersi pronti al rimborso e quindi aborrire gli impieghi lunghi.

 

 

Chi oserebbe invece dire che le casse di risparmio debbono seguire la medesima regola? Eppure esse ricevono sovrattutto depositi a vista o, se vincolati, a breve scadenza. Ma son depositi unitariamente piccoli o modesti, di contadini, domestici, operai, pensionati, impiegati, redditieri, piccoli e medi artigiani, commercianti, industriali. In gran parte sono risparmi definitivi, ossia somme che, se si può, non si ha intenzione di toccare, salvo, in parte, quando sorpassino una certa cifra, per acquistare buoni del tesoro, consolidato, eventualmente un appartamento. Il grosso lo si tiene lì, pensando a malattie, ad acciacchi della vecchiaia, a nozze, a morti, ad eventi cioè che non capitano tutti i giorni e possono non capitare mai. Se capitano, accade poi non di rado che l’uomo assestato e previdente – e lo è, se è cliente della cassa di risparmio – vi provvede in altro modo, senza «toccare il capitale». Per fortuna, per questa brava gente «toccare il capitale» – capitale è, nella loro mente, quella qualunque somma di cui essi potrebbero, volendo, disporre ad ogni momento, ma non ne hanno disposto da un po’ di tempo, ad es. da un anno, ed allora essendo circondata da un alone sacro ha cessato, non si sa perché, di far parte del reddito disponibile ed è divenuta misteriosamente capitale, epperciò «intoccabile», che è definizione buona, almeno come tutte le altre offerte dagli economisti – è delitto vergognoso, peccato mortale, di cui sentirebbero il dovere di accusarsi in confessione. La cassa di risparmio che ha raccolto intorno a sé codeste perle di depositanti, perché dovrebbe osservare la regola della specializzazione temporale ed astenersi dagli impieghi lunghi? Per rendere ossequio ad un mito privo di senso, secondo cui, in fatto di depositi e di impieghi, il lungo va col lungo e il breve va col breve? Le regole sono osservabili se buone. Se no, è logico dimenticarsene. A parer mio, perciò, le casse federate di risparmio del Piemonte le quali al 31 dicembre 1933 avevano ricevuto 3.478 milioni di lire, avevano fatto benissimo, sebbene nessuna di esse avesse emesso obbligazioni a lunga scadenza ed il grosso delle loro disponibilità provenisse da depositi brevi o vincolati a tempo che alla comune dei mortali appare breve – l’anno è una unità di tempo breve -, ad investire il 25,39% delle loro disponibilità in mutui, cessione quinto stipendi, partecipazioni, che, ad occhio e croce, hanno tutta l’aria di investimenti lunghi, ed il 48,38% in titoli di proprietà, che sono impieghi brevi secondo un modo di dire che è verissimo Finché non se ne abusa. Si dice che l’impiego in titoli è breve, perché in un battibaleno i titoli si vendono in borsa. Ma è un battibaleno che corre per 100 milioni, per 200; ma se si volessero sul serio realizzare i 1.683 milioni di titoli di proprietà delle casse federate piemontesi bisognerebbe attendere che si sia fatto il mercato, ossia che gli acquirenti abbiano digerito i titoli delle emissioni precedenti o si siano formati nuovi strati di acquirenti. Ossia bisogna aspettare che si sia formato un nuovo risparmio, il che, anche in una regione vasta e operosa e risparmiatrice come è il Piemonte, non è impresa né di un giorno né di un mese. Con tutto ciò nessuno può avere nulla a ridire, se non per lodare i dirigenti delle casse piemontesi per la prevalenza data agli impieghi relativamente lunghi. Se il mercato non offre impieghi brevi sicuri a sufficienza, si dovrebbe forse ridurre, in ossequio al mito temporale, all’un per cento l’interesse offerto ai depositanti? A depositanti, notisi, i quali hanno il vezzo di non volersi impegnare né per dieci né per cinque anni a tenere i loro soldi fermi alla cassa ed i più vogliono “salvarsi” il diritto di farseli dare il giorno dopo; ma, in sostanza, sono attaccati come ostriche alla cassa, e, ben giustamente, tengono i denari depositati non per un giorno od un mese, o cinque o dieci anni, ma per tutta la vita. Quanti impiegati agli sportelli ed alla cassa non sono invecchiati insieme coi loro clienti, puntuali ogni anno a venirsi a far “marcare” gli interessi sul “libretto!”. “Marcare”, non “ritirare”; ed appena “marcato” l’interesse diventa capitale, sacro ed intoccabile. Con questa sorta benemerita di depositanti, sarebbe un non senso che la lettera uccidesse lo spirito e la cassa rinunciasse, come il bonzo davanti all’idolo, a ragionare con la sua testa.

 

 

Non vi è, economicamente, nessuna ragione di distinguere fra cassa e banca. Amendue devono osservare le due regole poste sopra: «il banchiere ha doveri solo verso i depositanti» «il denaro, preso da tutti, deve essere dato solo ai clienti buoni». Se il banchiere ha depositi brevi ed unitariamente grossi ed oscillanti, è bene per lui star lontano dagli impieghi lunghi; se egli ha depositi brevi, ma unitariamente piccoli e stabili, può e nell’interesse dei suoi depositanti deve impiegare una parte in impieghi di media e lunga durata. Quale a questa “parte” non si può dire in generale. Se il banchiere sa il suo mestiere, se è oculato e prudente, cadrà sulla proporzione giusta: 10, 20 o 30 o più per cento. Se non lo sa, se non ha fiuto, e se immagina sperar bene tenendosi al 10%, anche il 10 può essere molto troppo. Forseché si è sicuri che lo sconto di cambiali o l’apertura di conto corrente per il circolante di esercizio siano sul serio impieghi brevi? Come ricordò sopra il “teorico”, lo sconto è breve se la cambiale è ritirata alla scadenza, e se nuove cambiali vengono presentate allo sconto senza legame Né di tempo Né di causa con quella estinta. Ma se, con o senza identità di titolo, la cambiale viene rinnovata con detrazioni scalari, quello è un mutuo lungo bello e buono. Tocca al banchiere non lasciarcisi pigliare o, cadutovi, ritirarsene bel bello, con garbo, con espressioni di affetto verso il cliente, a cui si vuol dare addio prima che fallisca. L’apertura di conto corrente è breve, è commerciale, è di esercizio se il totale delle somme prelevate va a zig zag, toccando talvolta il massimo e cadendo talvolta al disotto dello zero, con un credito del cliente verso la banca. Se le variazioni coincidono con quelle verosimilmente proprie dell’esercizio del cliente, il banchiere si sente sicuro. Ma se il conto corrente ha una mala tendenza a salire sempre ed a non scendere mai, se toccato il massimo si ferma, il banchiere mastica amaro. È caduco nel pantano; e deve pensare a ritrarsene pian piano, senza scandalo, ma con fermezza. Per non incoraggiare i clienti all’immobilizzo, sono giustamente onorate talune classiche avvertenze, che si dicono delle commissioni e del bonifico. Facendo pagare, ad esempio, una commissione del 0,25% non sull’ammontare medio del saldo passivo del conto corrente durante il trimestre, ma sulla cifra di punta massima, si incoraggia il cliente a non toccare il soffitto dell’apertura di credito. Bonificando tutta la commissione se il cliente non sta in debito per più di dieci giorni consecutivi, il cinquanta per cento se la situazione debitoria si cambia in creditoria entro venti giorni – se il conto sta in debito per più di 20 giorni si paga la commissione intiera – si fa sentire al cliente che l’apertura di credito non equivale ad un mutuo, ma è una agevolezza di fisarmonica per potere far fronte agli impegni senza imbarazzo, e resta inteso che il cliente non solo può fare prelievi per pagamenti, ma anche, Poiché nel movimento del suo esercizio incassa, deve fare versamenti in banca.

 

 

Non bisogna del resto prendere sul serio neppure la regola dell’andare in credito una volta ogni dieci od ogni venti giorni o perlomeno una volta all’anno. Se il cliente per andare in credito presso la sua banca, pianta un chiodo da un’altra parte, non è meglio stia in debito permanente, più o meno, presso la solita banca? Almeno il banchiere lo potrà sorvegliare direttamente; Né si può costringere a far prestiti alla propria banca chi ha bisogno del denaro altrui.

 

 

Le regole della specializzazione temporale, funzionale e spaziale devono dunque accettarsi cum granu salis. Il vero essenziale è: non commettere errori. È un errore impiegare a lungo termine quel che sì deve restituire subito; ma sarebbe un errore non impiegare bene a lungo tempo e indursi ad impiegar male è improduttivamente per l’ubbia di volere impiegar corto i depositi a vista che si sa invece destinati di fatto a rimanere in banca vita natural durante dei depositanti. È un errore dar denari ad un’industria diversa da quella locale, non perché sia diversa, ma se e perché, essendo diversa o lontana, non è ben conosciuta. È un errore, per il banchiere specializzato nel conoscere contadini, far mutui al cittadino, non perché non sia ottima cosa far mutui ai cittadini solvibili ed ottimissima distribuire i rischi fra contadini e cittadini, ma perché egli, Tizio banchiere individuo, conosce a fondo i suoi polli contadini ma si lascerebbe imbrogliare dal primo filibustiere cittadino, capitato a tir di mano dei milioni dei suoi depositanti.

 

 

L’errore degli errori, l’errore pessimo e massimo è, in banca, di porsi una regola rigida; o, il che fa lo stesso, voler imporre un regolamento rigido alla condotta dei banchieri. Il regolamento, se regola sul serio, impedisce soltanto le operazioni buone e non vieta le cattive. L’unico regolamento accettabile sarebbe quello che ordinasse ai banchieri di far solo operazioni buone. Lunghe o brevi, a contadini o a cittadini, all’agricoltura od all’industria elettrica, in Lombardia ovvero in Sicilia, purché buone, ossia atte a consentire al banchiere di far fronte, al giusto momento, all’unico dovere che egli ha: restituire i depositi ai depositanti. Il banchiere non ha alcun altro dovere, non deve avere alcun altra preoccupazione. Egli serve il paese solo se sa e sente di non avere alcun altro dovere. Se qualcuno gli capita tra i piedi e gli ciancia di doveri della banca verso l’agricoltura o l’industria o il commercio o l’espansione della bandiera nazionale nei mari del mondo, lo lasci cianciare, ma non gli dia un soldo. Agricoltura, industrie, commerci e bandiere non restituiscono i denari persi in imprese sballate od improduttive. Se le iniziative sono buone, se il richiedente è persona seria ed onesta, sono queste qualità le quali parlano da sé e fanno cacciar fuori denari ai più diffidenti. Il paese si serve aprendo la borsa alle persone serie ed oneste, agli industriali che hanno sempre fatto onore ai loro impegni, hanno mangiato pane e cipolle pur di non lasciar cadere una cambiale in protesto; e chiudendola ermeticamente ai moratoriati, ai concordatari che non hanno neppure pagato la rata minima del 30%, ai falliti, a coloro che son disposti a pagare il 10% di interesse per ottenere denaro da impiegare all’uno per cento. Chi regala denaro a costoro, prepara disillusioni, rovine e disoccupazione, alleva clienti per gli ospedali ed i convalescenziari pubblici, aguzza chiodi da piantare nel bilancio dello stato. Chi è senza pietà per chi non merita credito e dà, entro i limiti della sanità, il denaro a lui affidato in sacro deposito soltanto alla gente sana, fa davvero prosperare agricoltura ed industria, moltiplicar commerci e sventolare gloriosa la bandiera nazionale nei mari più lontani.

 



[i] Mario Luporini, Costi di distribuzione e prezzi al minuto, alla vigilia delle corporazioni. Relazione destinata al congresso nazionale dei dirigenti aziende commerciali. Roma, 1934. A cura della Associazione nazionale fascista dirigenti aziende commerciali, p. 45.

[ii] A carta 22 della memoria sopra lodata così aveva riassunto il Luporini le argomentazioni in materia di prezzi dei razionalizzatori del commercio al minuto.

[iii] A carta 15 della ricordata Relazione. Torino, tip. Vassallo.

[iv] Nel 1851 il conte di Cavour così esponeva il vantaggio che i migliori panettieri traggono dalla formazione spontanea della clientela: «La massima parte dei panettieri, ed in ispecie i più in credito, smerciano gran parte dei loro prodotti a persone solite a provvedersi nelle loro botteghe, colle quali non regolano i conti che ad epoche più o meno lontane: secondo che un negozio ha un numero maggiore o minore di questi clienti, esso è reputato avere un maggiore o minore valore d’avviamento, ciò che costituisce un capitale reale. Ora egli è evidente che una biasimevole coalizione tra i panettieri avrebbe per inevitabile effetto di far perdere ai meglio avviati una gran parte della loro clientela, ciò che costituirebbe per loro una perdita molto maggiore del momentaneo beneficio che dall’accennata coalizione possono sperare (loc. cit., pag. 356)».

 

La inclusione del debito pubblico nelle valutazioni della ricchezza delle nazioni

La inclusione del debito pubblico nelle valutazioni della ricchezza delle nazioni

«Bulletin de l’Institut intemational de statistique», 1935, n. 2, pp. 271-279

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 315-330

 

 

 

 

1. – Una stesura italiana della presente nota è meno utile, perché il lettore mio connazionale poteva già conoscere taluni degli elementi di essa nell’articolo Del cosidetto prelievo dell’imposta e dei suoi effetti sulla valutazione del reddito e della ricchezza del paese.[1] Nella presente nota il problema non è studiato dal punto di vista economico, ma esclusivamente da quello della valutazione statistica della ricchezza nazionale e della correttezza della inclusione in essa dell’ammontare dei titoli di debito pubblico. Distinguo perciò tre casi principali:

 

 

a)    Il debito pubblico è contratto dallo stato a scopo di investimento economicamente remuneratore. In tal caso o si valuta l’impianto e non si deve più tener conto dei titoli di debito pubblico che lo rappresentano. O si valutano i titoli ed allora bisogna, in questa sede, tenere conto solo fino al limite del valore dell’impianto. Se la valutazione dei titoli è in eccesso al valore dell’impianto, l’eccedenza è parte del debito pubblico generale gravante nel fondo delle imposte e ne segue le sorti.

 

b)    Il debito pubblico è contratto per scopi generali (disavanzi, guerre, ecc.) e il suo servizio grava sul fondo delle imposte pagate dai percettori di redditi di capitale. Qualunque sia la soluzione data al problema degli effetti della spesa del provento del prestito, sia cioè, dopo il debito e la spesa, la ricchezza privata aumentata diminuita o rimasta stazionaria, la inclusione dei titoli di debito pubblico si impone. Lo statistico non studia gli effetti del debito; sibbene accerta i fatti esistenti prima e dopo. L’accertamento sarebbe parziale, se in ogni caso non si tenesse conto del valore del debito.

 

c)    Il debito, sempre per scopi generali, grava sul fondo delle imposte pagate dai lavoratori, manuali ed intellettuali. Se lo statistico vuol fare paragoni fra tempi e luoghi diversi, non deve tener conto dei titoli di debito pubblico perché questi capitalizzano imposte prelevate su redditi personali, ossia capitalizzano l’uomo, che, salvo nei tempi e luoghi di schiavitù, non è compreso nelle valutazioni della ricchezza delle nazioni. Ma lo statistico deve far solo paragoni? No. Uno dei suoi compiti, in questa materia, è quello di fotografare il processo crescente di capitalizzazione dell’uomo, attraverso la creazione di titoli negoziabili pubblici e privati, processo in virtù del quale l’uomo riesce ad estrarre dal se stesso libero, non negoziabile, non pignorabile, una quota cartacea la quale può esser negoziata, data in pegno, messa forzatamente all’asta, ridotta in potere altrui.[2]

 

 

2. – A dimostrare le tesi ora poste, si esaminino ora in breve le poche opinioni che sul problema discusso sono state espresse nella dottrina.

 

 

«Non potrei biasimare troppo chi includesse il debito pubblico nel capitale nazionale… l’espressione monetaria di tutto il restante capitale nazionale essendo infatti minore di quel che sarebbe altrimenti per la somma del debito;… se non ci fosse il debito pubblico, i terreni, le case, ecc., si scambierebbero a un valore superiore a quel che ora posseggono. Il debito, secondo quest’opinione, rappresenta una certa distribuzione di parte del capitale del paese, e noi non abbiamo una visione completa di questo se non ve lo includiamo».

 

 

In questo brano di The Growth of Capital di Giffen (p. 22) abbiamo la più autorevole formulazione del principio d’inclusione dei debiti pubblici nelle statistiche della ricchezza nazionale.

 

 

Lo Stamp osservava nel 1916 che l’esistenza di un debito pubblico non sempre è causa di una corrispondente riduzione nella valutazione di altre fonti d’entrata.

 

 

«Se i nostri valori fossero fissati da uno straniero, con mentalità scambistica, il quale andasse in cerca di un reddito in Inghilterra o altrove, l’esistenza dell’onere per il servizio del debito pubblico senza corrispettivo o addirittura oneroso abbasserebbe la sua stima delle nostre possibilità di fronte a paesi che, a parità di altre circostanze, ne fossero liberi; ma siccome la maggior parte dei probabili concorrenti è soggetta a gravami consimili, ecco che la difficoltà è ridotta al minimo. Tuttavia, i valori sono essenzialmente determinati da considerazioni di concorrenza interna, e sebbene un onere differenziale sul possesso di capitali senza un onere corrispondente sui guadagni di lavoro potrebbe alterare le loro posizioni rispettive, il fatto che l’onere è equamente distribuito su entrambi le classi senza possibilità di evasione, lascia immutati i valori rispettivi. Tuttavia i valori nel loro insieme potrebbero mutare relativamente all’intermediario generale dei prezzi, l’oro; ma, anche qui le agevolazioni creditizie hanno un giuoco tanto maggiore sui risultati che una depressione nei valori potrebbe essere facilmente compensata da un sistema creditizio meglio sviluppato. Tutto sommato, appare probabile che qualsiasi effetto di un debito antico, simile per carattere ed identità a quelli generalmente esistenti, agirebbe, se pure potesse esistere, nel senso di deprimere i valori, ma certo non in proporzione del debito in questione. È perciò un duplicare quasi interamente i valori, aggiungere il valore dei debiti consolidati al pieno valore della proprietà nazionale» (in British Income and Property, pp. 390-391).

 

 

Un’ulteriore considerazione induce lo Stamp ad aggiungere,

 

 

«che i consolidati sono un’ipoteca sui redditi guadagnati oltre che sui redditi non guadagnati, entrambi essendo soggetti ad imposta allo scopo di servire l’interesse sui debiti pubblici».

 

 

Perciò, se includiamo l’intero debito pubblico nella valutazione della ricchezza nazionale, sarà soltanto

«necessario ridurre la valutazione della proprietà nella proporzione dei consolidati il cui servizio è a carico della proprietà medesima, invece che del debito tutto quanto» (ibidem, p. 391).

 

 

Il professor Corrado Gini non fa la distinzione netta dello Stamp fra le imposte[3] sul reddito guadagnato e quelle sul reddito non guadagnato; ma spiega meglio e prima (1914) dello Stamp il fondamento teoretico della tesi secondo la quale l’imposta interessi non causa un corrispondente abbassamento nella valutazione di tutte le altre voci della ricchezza nazionale. Pur accettando in generale la teoria dell’abbassamento, egli rileva che «solo nel caso in cui l’imposta colpisse in uguale misura tutte le categorie di patrimonio, e il mercato nazionale si potesse riguardare come un mercato chiuso, sarebbe da ammettere, secondo l’opinione corrente fra gli economisti, che i prezzi dei beni materiali non rimarrebbero alterati dall’imposta».

 

 

Sembra che al Gini non manchino sospetti sull’attendibilità della suddetta «opinione corrente», ma non vi si diffonde, e aggiunge semplicemente che

 

 

«la stessa quantità di denaro che, prima dell’imposta, comperava un patrimonio che dava un reddito x, comprerà, dopo dell’imposta, un patrimonio che dà un reddito , dove k è la frazione del reddito assorbito dall’imposta». (L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni, p. 17, note).

 

 

3. – La teoria corrente sull’azione reciproca fra le valutazioni del debito pubblico, le altre voci della ricchezza nazionale e la ricchezza nazionale totale si può così riassumere:

 

 

1)    L’esistenza di titoli del debito pubblico è, in generale, la causa di una diminuzione nella valutazione di quelle altre voci della ricchezza nazionale, il cui reddito viene diminuito da imposte conseguenti al pagamento di un interesse sul debito pubblico (Giffen).

 

2)    Non avverrà ribasso alcuno, tuttavia, nella valutazione di altre voci, nel caso in cui il debito sia contratto per scopi economicamente produttivi;

 

3)    né quando l’imposta sull’interesse sia equamente distribuita su tutte le fonti di reddito, sicché non venga causato spostamento di capitali o di risparmi, nè venga incoraggiata importazione di capitali all’estero. In questo caso, essendo il mercato nazionale chiuso, la riduzione del reddito dopo l’imposizione non equivale a una riduzione nella valutazione dei capitali (Gini, Stamp).

 

4)    Perciò, l’inclusione del debito pubblico nelle valutazioni statistiche della ricchezza nazionale è consentita solo nei limiti in cui l’imposta interessi causa un ribasso totale o parziale nella valutazione del capitale di altre voci del reddito e in proporzione al ribasso medesimo;

 

5)    ed è inoltre consentita soltanto per quella parte del debito pubblico il cui servizio d’interesse è a carico della quota capitalizzabile del reddito nazionale, cioè del reddito non guadagnato, escluso il reddito guadagnato (Stamp).

 

 

4. – Ad apprezzare pienamente l’utilità della teoria ora esposta ai fini della misurazione statistica della ricchezza nazionale si richiede un’analisi ulteriore. Dobbiamo cominciare distinguendo fra debito contratto per scopi economicamente produttivi e quello contratto per scopi generali.

 

 

Se uno stato o qualunque corpo pubblico s’indebita per scopi economicamente produttivi, non sorge un problema di valutazione. Le ferrovie di stato danno un reddito netto per lo meno uguale all’interesse pagato sulle obbligazioni delle ferrovie di stato medesime? Il valore di questa branca fisica di ricchezza (ferrovie) è quindi l’intero valore, e cioè la capitalizzazione in 1.000 milioni di lire al saggio corrente d’interesse, diciamo il 5%, dei 50 milioni di lire di reddito netto. Se lo includiamo nella nostra valutazione della ricchezza nazionale, non è necessario includere il valore corrente degli 800 milioni di obbligazioni al 5% emesse per costruire la rete delle ferrovie di stato. Se, d’altra parte, includiamo gli 800 milioni di obbligazioni nella valutazione della ricchezza privata, dobbiamo valutare a 200 milioni di lire la capitalizzazione dei profitti differenziali derivanti al pubblico erario dalla gestione delle ferrovie di stato.

 

 

Il profitto differenziale può essere dovuto non all’efficace funzionamento industriale delle ferrovie, né a un semplice elemento monopolistico, ma al monopolio rinforzato garantito dallo stato. Il reddito monopolistico di 10 milioni di lire è perciò un’imposta sul trasporto di merci e passeggeri; e, come tale, non va capitalizzata, tranne che nel caso in cui, in contemplazione di esso siano state emesse obbligazioni. Le obbligazioni devono allora essere stimate parte del debito generale dello stato.

 

 

Se le ferrovie dello stato vengono gestite con perdita, dando soltanto un reddito netto di 30 milioni contro una spesa d’interesse di 40 milioni su 800 milioni di obbligazioni, noi dobbiamo includere nella valutazione soltanto la capitalizzazione in 600 milioni al saggio corrente d’interesse del 5% del reddito netto delle ferrovie. Quanto alla differenza di 200 milioni fra la valutazione delle ferrovie in 600 milioni e la valutazione delle obbligazioni di stato in 800 milioni, essa partecipa della natura di un debito generale non produttivo economicamente. Essa fa carico al fondo generale delle imposte; e dovrà esservi o no incluso secondo la soluzione data al problema dell’inclusione del debito generale.

 

 

5. – Il caso del debito generale è di gran lunga il più importante, dato che i debiti di stato sono essenzialmente contratti in conseguenze di guerre, di disavanzi generali del bilancio, di opere pubbliche (bonifica di terre, rimboschimento, ferrovie, piani regolatori, ecc.) che sono improduttive o soltanto parzialmente produttive al diretto punto di vista economico.

 

 

Due principali questioni vanno qui analizzate: è l’inclusione del debito pubblico una doppia registrazione rispetto al reddito capitalizzabile (chiamato, in Gran Bretagna, reddito non guadagnato) e quale è la logica dell’inclusione rispetto al reddito non capitalizzabile (cosidetto reddito guadagnato)?

 

 

6. – Anzitutto, il problema del doppio conteggio rispetto al reddito capitalizzabile. L’inclusione dei titoli di consolidato e di altre obbligazioni di stato, non fa, secondo un gruppo di teorici doppio con la registrazione dei terreni delle case e delle altre voci della ricchezza nazionale. Infatti, se il miliardo di lire del debito di stato non esistesse, non esisterebbe nemmeno l’imposta annuale di 50 milioni necessaria per il pagamento dei relativi interessi. Perciò, se supponiamo che il debito di un miliardo sia la parte del debito pubblico totale che è imputabile al reddito capitalizzabile, terreni case e altre voci della ricchezza frutterebbero 50 milioni di reddito netto in più se il debito non, esistesse e sarebbero valutati 1 miliardo di più. Questa ricchezza di un miliardo è qualcosa di reale ed esistente; e se non la vediamo sotto forma di valor capitale di terreni, ecc., dobbiamo tenerne conto sotto forma di obbligazioni del debito di stato.

 

 

Le imposte per il servizio del debito, risponde l’altro gruppo di teorici, sono ben lungi dal ridurre i valori capitali dei terreni delle case, ecc., tassati. Quelli che pagano le imposte non possono, essendo l’imposta generale, spostare i loro investimenti in campi non tassati. E nemmeno di solito possono mandare all’estero il loro capitale: poichè soltanto la confisca riesce a scacciare il capitale da un paese. Gli investitori si abituano a minori saggi di investimento: al 4 invece del 5%. I valori capitali dei terreni, delle case, ecc., non decrescono. L’inclusione dei debiti di stato, garantiti sugli immutati valori capitali della ricchezza privata, sarebbe certo una doppia registrazione.

 

 

Questa controversia ci porta in regioni alquanto nebbiose, che gli statistici, in quanto tali, non sono chiamati ad esplorare. Il problema, se l’incremento del debito pubblico cagioni una variazione nelle valutazioni di mercato della ricchezza privata è certo un elegante problema teorico. La sua soluzione dipende dalla soluzione del quesito, se l’imposizione in generale e l’imposizione allo scopo speciale di provvedere al servizio del debito pubblico producano un mutamento nell’interesse netto o saggio di capitalizzazione. È mia opinione[4] che, in teoria pura, l’imposizione in generale deve essere la causa di un abbassamento nel saggio d’interesse e che, anche nel caso di un debito di guerra, le probabilità sono più favorevoli a un abbassamento che a un rialzo di questo saggio. Tuttavia ritengo che questa ricerca non sia concludente dal punto di vista statistico. Non si chiede agli statistici di fare valutazioni sul mondo quale dovrebbe essere o diverso da ciò che è in realtà, ma di registrare ed elaborare valutazioni fatte nel mondo reale in cui viviamo. Lo studio delle premesse o delle possibilità non spetta allo statistico, ma all’economista, al sociologo o al politico. Qualunque mutamento nel saggio d’interesse consegua alla creazione del debito di stato o, meglio, alla spesa del ricavo del prestito, la norma di valutazione è la medesima. Muta soltanto il risultato della valutazione.

 

 

Supponiamo che la valutazione anteguerra della ricchezza nazionale sia di 1 miliardo, capitalizzazione, al 5%, di un reddito perpetuo annualmente capitalizzabile di 50 milioni. Viene dichiarata una guerra, che provoca una spesa di 10 milioni all’anno per quattro anni, a carico di questo reddito capitalizzabile.[5] Supponiamo che lo stato abbia raccolto i 40 milioni per mezzo di prestito prelevato sui risparmi annuali del paese e li abbia spesi totalmente per la condotta della guerra, cioè per uno scopo non (economicamente) remunerativo. Certo, il paese è più povero, per l’ammontare di 40 milioni, di quel che sarebbe stato se non vi fosse stata guerra. Ma la stessa somma potrebbe essere stata spesa in qualche rovinoso capriccio, e gli statistici non l’avrebbero ugualmente trovata alla fine della guerra. L’unico loro compito è valutare i terreni, le case, le obbligazioni statali, ecc. rimasti alla fine della guerra. Tre congetture principali sono possibili: 1. il flusso del reddito capitalizzabile non è mutato e perciò, se le altre circostanze sono immutate, anche il saggio d’interesse è immutato; 2. il flusso è aumentato, e il saggio d’interesse probabilmente diminuito; 3. il flusso è diminuito e il saggio d’interesse probabilmente aumentato. Che un aumento nel flusso del reddito annuale si accompagni solitamente con un abbassamento del saggio d’interesse e viceversa, si può senz’altro accettare. Delle relative probabilità di verifica di queste tre congetture io non devo qui occuparmi. Possiamo descrivere il risultato nel modo seguente (in milioni di lire):

 

 

 

 

 

Valutazione nell’anteguerra

 

Valutazione nel dopoguerra

 

 

immutata

mutata in meglio

mutata in peggio

 

Saggio di interesse 5 5 4 6
Flusso del reddito annuo pagato come imposta interessi, attraverso lo stato, ai possessori dei 40 milioni di lire di titoli di debito pubblico 2 1,60 2,40
Residuo rimasto ai contribuenti

50

48

52,40

45,60

Totale …

50 50 54 48
Valore capitale del reddito annuo dei titoli di debito pubblico 40 40 40
delle altre voci della ricchezza nazionale

 

1.000

960

1.310

760

Totale …

1.000 1.000 1.350 800

 

 

I risultati sono notevolmente diversi, secondo le diverse congetture fatte. Certo la guerra può avere effetti disparatissimi secondo gli scopi cui mira, i risultati ottenuti e le reazioni psicologiche sulle classi sociali, sullo spirito d’intrapresa, ecc. Non dobbiamo dimenticare che la nostra non è una ricerca storica nè morale nè economica ma soltanto statistica. La ricchezza nazionale totale può essere rimasta immutata al miliardo o essere salita a 1.350 milioni o diminuita a 800. Possiamo rallegrarci o desolarci di questo risultato, ma usciremmo dal nostro argomento. Il nostro unico compito è di valutare esattamente a quanto ammonti la ricchezza esistente.

 

 

Sarebbe senza dubbio un errore omettere le obbligazioni statali in 40 milioni, quando la ricchezza totale è immutata in 1 miliardo, perché l’esclusione farebbe apparire la ricchezza valutata a soli 960 milioni. Ma sarebbe ugualmente un errore ometterle quando, per ragioni varie connesse o non con la guerra, la ricchezza privata salisse a 1.350 milioni. Per quali ragioni misteriose noi dovremmo capitalizzare soltanto una parte di tutti i 54 milioni del totale reddito nazionale annuo? Che faremmo nel caso di un abbassamento nella valutazione totale? Nostro compito è usare in ogni caso la stessa norma e tener conto dei fatti accertati. Se il flusso annuo di reddito capitalizzabile è di 50, 54 o 48 milioni e se il saggio d’interesse è del 5, 4 o 6%, questi sono i dati dai quali dobbiamo partire. Il valore capitalizzato totale è di 1 miliardo, 1.350 o 800 milioni, divisi, in ciascun caso, in due parti: la prima, proprietà di certi cittadini e capitalizzata sotto forma di terreni, case, navi, negozi, ecc., la seconda, proprietà di altri o dei medesimi cittadini e capitalizzata sotto forma di obbligazioni statali. In ciascun caso, dobbiamo includere queste ultime se non vogliamo lasciare un vuoto nella valutazione. Dobbiamo lasciare ad altri, o a noi stessi in altra veste, qualsiasi ricerca sulla filosofia del perché e del come dei possibili mutamenti nella valutazione e distribuzione della ricchezza nazionale in conseguenza della guerra.

 

 

7. – In secondo luogo, dovremmo includere nella valutazione della ricchezza nazionale quella parte del debito di stato il cui servizio d’interesse grava sul reddito non capitalizzabile? Qui il problema non è di doppia registrazione o di vuoto nella valutazione della ricchezza nazionale; ma di mutamento nei metodi di valutazione. Negli anni anteguerra il reddito non capitalizzabile (guadagnato o di lavoro) percepito dai salariati, stipendiati, professionisti, ecclesiastici, scrittori, artisti, industriali, commercianti, direttori di ditte ecc., come remunerazione per il lavoro manuale o intellettuale compiuto, ammontava, diciamo, a 200 milioni di lire italiane. Il mercato non capitalizzava questo reddito; sicché nessuna voce appariva a rappresentarlo nella valutazione della ricchezza nazionale. Poi, durante i quattro anni di guerra, lo stato contrasse oltre quello dei 10 milioni annui di cui si discorse sopra, un ulteriore debito annuo di 40 milioni per un totale di 160 milioni, al cui servizio d’interesse provvedono imposte gravanti su redditi non capitalizzabili. Quali che siano il saggio d’interesse e l’ammontare dell’imposta, è nata una nuova voce capitale, titoli di debito pubblico consolidato, o altre obbligazioni statali, qualcosa come 160 milioni. Le obbligazioni sono negoziabili e vengono considerate dai possessori come una ricchezza, ricchezza autentica, non diversa, per nessun rispetto, dai 40 milioni delle medesime obbligazioni garantite da imposte sul reddito capitalizzabile. Dovranno i 160 milioni venir inclusi nella valutazione della ricchezza nazionale?

 

 

La difficoltà di separare il totale debito di 200 milioni nelle due quote di 40 e 160 milioni rispettivamente a carico del reddito capitalizzabile e non capitalizzabile non ci deve imbarazzare, perché un’empirica divisione proporzionale al carico approssimativo di imposizione generale sulle due specie di reddito sarebbe normalmente sufficiente agli effetti statistici. Ciò che veramente si può obbiettare all’inclusione è che essa renderebbe impossibile ogni confronto storico e internazionale delle valutazioni della ricchezza nazionale.

 

 

Da quando è stata abolita la schiavitù non usa di solito capitalizzare nè gli uomini nè i loro redditi personali o di lavoro. Un debito pubblico gravante sui redditi non capitalizzabili o di lavoro introdurrebbe surrettiziamente nelle valutazioni statistiche della ricchezza nazionale una nuova voce, che sarebbe una valutazione capitale dell’uomo travestita. O noi dobbiamo valutare gli uomini in tutti i tempi o in tutti i paesi, e allora ci tocca includere quella parte del debito pubblico, il cui servizio di interessi è garantito sul lavoro o sul reddito guadagnato, perché le obbligazioni statali sono parte del totale valore attuale, attuariamente calcolato, degli uomini – tanto maggiore è il debito pubblico, tanto minore è il valore attuariale dei futuri redditi, scontati al momento attuale, del lavoro libero da imposte – oppure riconosciamo l’inopportunità di calcolare i valori dell’uomo su criteri ipotetici e largamente arbitrari, e dobbiamo per amore della simmetria e del confronto escludere dalle valutazioni della ricchezza nazionale quella parte del debito pubblico che è una capitalizzazione della capacità dell’uomo di pagare le imposte.

 

 

8. – Sin qui, va bene. La conclusione è davvero un commovente omaggio alla religione della simmetria nelle ricerche statistiche. È assai dubbio però se la simmetria e il confronto sono gli unici criteri e fini della statistica. Gli statistici che si occupano di misurare soltanto la ricchezza materiale, escludendo i lavori umani, hanno ragione di escludere dalle loro valutazioni la parte del debito pubblico il cui servizio di interessi è garantito da imposte su redditi non capitalizzabili. Non dobbiamo tuttavia chiudere gli occhi al fatto che simili valutazioni sono insensatamente arbitrarie. La loro giustificazione ultima è il desiderio d’includere soltanto quelle voci materiali di valori capitali, come i terreni, le case, i negozi, le ferrovie, le navi, ecc., che si possono ritenere gli autentici valori di mercato dei componenti capitalistici del reddito nazionale, esclusa qualunque capitalizzazione dei componenti personali del medesimo reddito. L’intento, per quanto lodevole, è utopistico. I componenti personali e capitalistici del reddito nazionale sono così inestricabilmente intrecciati da riuscire sovente indistinguibili. Inoltre, siamo poi sicuri che il mercato – dobbiamo scendere in definitiva alle valutazioni del mercato per sentirci su terreno solido – apprezzi sempre soprattutto i componenti capitalistici del reddito nazionale? O non piuttosto la continuità e la certezza del flusso del reddito futuro? Il valore capitale di terreni, case, azioni, obbligazioni a interesse fisso, è il risultato delle valutazioni che il mercato fa dei fattori immateriali, oltre che materiali, della produzione della ricchezza. I valori capitali di voci apparentemente del tutto materiali fluttuano secondo i mutamenti della politica, dei desideri e degli usi umani, della abilità dei proprietari, della struttura sociale. La cosidetta sopravalutazione della terra in paesi o regioni a piccola proprietà, non è un risultato di un maggiore reddito lordo o netto, ma di una speciale struttura sociale che rende gli uomini avidi di piccoli appezzamenti di terra. I capricci della moda producono spesso alti e bassi nei valori capitali dei beni urbani nei quartieri residenziali o mercantili.

 

 

9. – Il debito di stato non è che uno dei molti espedienti inventati dall’uomo allo scopo di dare continuità e certezza a redditi che hanno indole personale e quindi effimera. Non si capitalizzano di solito i salari dei funzionari o impiegati pubblici o privati, né gli onorari dei professionisti, perché la loro esistenza dipende dalla vita dell’individuo, ed anzi dalla loro vita produttiva. Salari e onorari sono inseparabili dall’uomo, e l’uomo non è una voce negoziabile della ricchezza. Ma se lo stato preleva da salari e onorari una data quota e la trasforma in imposta e poi in interessi del debito pubblico, questa parte diviene quasi perpetua. È pagabile dall’individuo in vita, e poi dai suoi successori nella professione, nella carriera, negli impieghi pubblici o privati. Acquista un’esistenza separata, continua media e certa. Diventa un reddito capitalizzabile. Quando un negoziante fortunato capitalizza il suo avviamento, emettendo azioni od obbligazioni, le quali traggono valore esclusivamente dal complesso personale detto avviamento, egli cerca similmente di convertire un reddito personale non capitalizzato in un altro capitalizzabile, e facilmente negoziabile. La vita economica è piena di sfumature, sia materiali che spirituali, che presentano uno straordinario interesse allo studio. L’intento del confronto non è che uno fra i molti intenti statistici; e disgraziatamente, è assai ingannevole. Più interessante è forse un altro scopo: lo studio del grande processo col quale sempre più numerose voci della ricchezza divengono misurabili, mentre altre cadono nell’oscurità. L’uomo, quand’era uno schiavo, era un essere negoziabile, e si può dire che la schiavitù sia stata sotto qualche rispetto un paradiso per lo statistico. La libertà dell’uomo significò la chiusura di parte delle riserve di caccia della statistica.

 

 

Nuovi o nuovamente ingranditi sistemi finanziari cospirano ad ingrandire nuovamente, in modo più sfuggente ma interessantissimo, il territorio statistico. La progressiva conquista che la valutazione del mercato ha fatto di campi di reddito che parevano chiusi alla capitalizzazione, significa per lo statistico qualcosa di più che un ostacolo a confronti storici. Significa la possibilità d’investigare molti sottili espedienti per cui le fatiche e le capacità personali sono mobilitate, capitalizzate, rese negoziabili e prestabili. L’uomo che paga sul suo stipendio un’imposta annua di 500 lire per servire l’interesse sulla quota a lui spettante del debito pubblico, ricomprando la medesima quota al prezzo di 10.000 lire, diventa, si può dire, padrone di se stesso fino a concorrenza di 10.000 lire, sotto forma di un pezzo di carta chiamato consolidato od obbligazione di stato. Se ha bisogno di credito, può impegnare se stesso depositando le 10.000 lire di consolidato come garanzia sussidiaria per un prestito. In teoria pura, egli si chiude in prigione; e la prigione è la cassaforte di una banca. Ma intanto egli è libero di pensare ai suoi affari, ai congiunti e agli amici. Nessuno sospetta che egli sia un prigioniero. Una piramide di depositi e crediti bancari si crea sulla base dell’originaria capitalizzazione, attraverso all’imposta e al debito pubblico, dell’uomo. Non è forse questa una nuova promettente riserva di caccia per gli statistici?



[1] Cfr. sopra il saggio VI.

[2] Fin qui il riassunto italiano presentato, insieme con la nota, dell’autore alla sessione di Londra dell’Istituto internazionale di statistica. Segue il testo tradotto dall’originale inglese. Nella versione, le cifre, del resto ipotetiche, espresse nel testo originale in lire sterline, furono ridotte a lire italiane.

[3] Naturalmente noi ci occupiamo qui soltanto di quelle imposte che furono create in servizio del debito pubblico; le quali imposte chiameremo d’ora innanzi, per brevità imposte interessi.

[4] Cfr. Osservazioni critiche ecc. riprodotte come secondo saggio del presente volume.

[5] La guerra costa inoltre una somma di quaranta milioni, tratti annualmente anche essi dai risparmi annuali; ma di questi ci occuperemo dopo, poiché sono un carico sul reddito di lavoro (guadagnato), non capitalizzabile.

Intorno alla teoria della produttività dell’imposta. Considerazioni metodologiche

Intorno alla teoria della produttività dell’imposta. Considerazioni metodologiche

«Giornale degli economisti e rivista di statistica», novembre 1934, pp. 794-797

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 273-279

 

 

 

 

Non intendo in queste poche pagine scritte in omaggio ad Ulisse Gobbi discutere di alcun problema di sostanza, ma illustrare qualche errore di logica nella impostazione di problemi economici. Negli scritti del Gobbi ho sempre e sovratutto ammirato la spontaneità con la quale egli in brevissima proposizione annulla fatiche lungamente durate da altri nel costruire teorie mancanti di qualcuno degli anelli necessari per la concatenazione logica del ragionamento. Egli scorge immediatamente il difetto e col mero accenno all’anello mancante ruina l’edificio. Virtù del loico, si può dire, e non dell’economista. A torto od a ragione, penso che l’economica sia un ramo della logica applicata ad un particolare subietto. Grossi libri, che gli autori immaginano avere scritto attorno a cose economiche, non hanno con l’economica nessuna parentela, perché mancanti di logica. Talune brevi note presentate da Gobbi all’Istituto lombardo di scienze e lettere, contengono, perché logiche, più sostanza economica di quegli sterminati scritti.

 

 

Si discute del vecchio problema, che per brevità dirò del carattere produttivo delle spese pubbliche o dell’azione produttiva economica dello stato? A negare o limitare il valore delle teorie le quali assegnano efficacia produttiva o di accrescimento della ricchezza nazionale alla spesa pubblica ed all’azione condotta dallo stato attraverso quella spesa si enunciano proposizioni del tipo seguente:

 

 

1. Quella qualunque teoria è inconsistente perché non è statisticamente possibile determinare quale parte dell’aumento (o eventualmente della diminuzione) del capitale e del reddito dei singoli sia conseguenza delle spese dello stato e quale del loro lavoro e delle loro iniziative.

 

 

Come se la proposizione non potesse, invertita, scriversi così: una teoria la quale attribuisca al lavoro ed all’iniziativa dei singoli un merito produttivo sarebbe inconsistente perché non è statisticamente possibile determinare quale parte dell’aumento (o eventualmente della diminuzione) del capitale e del reddito dei singoli sia conseguenza del loro lavoro e della loro iniziativa e quale delle spese dello stato. È pacifico che «statisticamente» non si prova né l’una né l’altra delle due proposizioni; ma la loro eventuale validità non deriva da prove statistiche, ma da ragionamenti ben costruiti, corroborati, se possibile, da osservazioni storiche e statistiche.

 

 

2. – Una teoria la quale dia peso alla produttività delle spese pubbliche è soggetta, al limite, alla critica seguente: può darsi che una nazione, grazie alla attività dei suoi abitanti si arricchisca con un governo che spende troppo poco o malamente ed inversamente può darsi che un’altra nazione per effetto della pigrizia e degli eccessivi consumi dei privati si impoverisca malgrado che lo stato faccia un’ottima politica della spesa.

 

 

Della verità o virtù della dottrina cristiana non si dà giudizio segnalando i vizi della corte romana all’epoca della riforma. Anzi, – dichiaravano a ragione gli scrittori cattolici – i vizi dei papi, se veri e ripetuti, proverebbero viemmeglio la verità dell’insegnamento di Cristo sopravvissuto al malo esempio dei suoi seguaci. L’azione ottima dello stato può essere, per fermo, annullata dall’ignavia degli abitanti; ed inversamente. Ma quanto più il paese sarebbe andato a fondo se all’ignavia degli abitanti si fosse aggiunta la mala condotta dei governi. Nessuna luce viene, per sé, anche qui, dalla osservazione storica o statistica. Né verrà mai, essendo assurdo che la mera osservazione risponda a quesiti concernenti l’operare congiunto di fattori complessi. Risponde, di nuovo, il ragionamento, a cui la osservazione serve da riprova.

 

 

3. – L’ordinamento dello stato è una delle condizioni e circostanze che esercitano una influenza favorevole sulla economia nazionale (A). Le condizioni o circostanze che esercitano una influenza favorevole sulla economia nazionale appartengono alla categoria dei capitali immateriali (B).

 

 

Dunque lo stato è il più grande capitale immateriale di una nazione (C).

 

 

Non esistono però capitali immateriali; ma solo capitali materiali o prestazioni di lavoro (D).

 

 

Lo stato non è un capitale immateriale perché questi non esistono; e non è neppure un capitale materiale, essendo qualcosa di differente e di più di un prodotto economico (E).

 

 

La proposizione B è una mera definizione e la C una illazione da essa. Ogni definizione è arbitraria e per se medesima incapace di nulla provare. Se esistano o non esistano capitali immateriali (D), se sia o non sia lo stato un capitale materiale, od invece qualcosa di più o di meno di un prodotto economico (E), possono essere problemi interessanti o semplicemente divertenti. Certo, sono estranei al problema; il quale è: lo stato, concepito come stato, coi fini suoi proprii e coi modi di agire ad esso pertinenti e chiaramente diversi dai modi di agire dei noti personaggi economici è o non è una delle condizioni o circostanze le quali esercitano una influenza sulla economia nazionale? Questo è il vero problema; non gli altri, del come chiamarlo o paragonarlo o classificarlo, i quali invece sono aggeggi atti a fornire senza termine argomento a dissertazioni concorsuali ed accademiche.

 

 

4. – È implicito in una delle teorie le quali affermavano la produttività delle spese dello stato il concetto che questa produttività sia sempre superiore a quella delle imprese private (A).

 

 

Ma ciò non è vero, come troppi numerosi esempi di imprese pubbliche male condotte e passive hanno dimostrato e dimostrano (B).

 

 

Certamente la proposizione A è erronea; ma non in virtù della B. La B è proposizione empirica: esistono imprese pubbliche male condotte e sono condotte male anche moltissime imprese private. Argomentare dall’uno o dall’altro esempio per dimostrare la superiorità delle imprese private o pubbliche è evidente sofisma; ché il problema è di limiti, non di sostituzione intiera dell’un tipo all’altro di impresa.

 

 

Doveva dirsi che la A è la forma ingenua della dottrina della produttività delle spese pubbliche; ed essere ovvio che i primi formulatori cadessero in peccato di entusiasmo. Compito dello storico è di estrarre il vero essenziale, se esiste, trascurando il caduco. È malvezzo condannabile attaccarsi a qualche improprietà dei classici per parere dappiù di essi. Pareto sminuì la propria grandezza applicando l’attributo di «errate» alle teorie che egli perfezionava; Marshall e Pantaleoni crebbero la loro coll’usanza contraria.

 

 

5. – Una teoria, ad esempio quella del De Viti, immagina schemi astratti – i ben noti di stato monopolista o di stato cooperativo – per studiare il comportamento finanziario dello stato nelle due situazioni supposte?

 

 

Si obbietta: il fenomeno finanziario è invece regolato da principii ad esso estrinseci, e cioè dagli stessi principii politici giuridici morali religiosi che in ogni periodo storico prevalgono in una società e specialmente nelle sue classi dirigenti.

 

 

Tizio studia la calata di Carlo VIII in Italia. Si obbietta:

 

 

Cristoforo Colombo in quel torno di tempo scopriva l’America; e questa si deve studiare.

 

 

Caio indaga sapientemente la traslazione dell’imposta. In un concorso lo bocciano perché non ha studiato il diritto comparato in tema di doppia tassazione.

 

 

Quando mai si finirà di affermare che una teoria è sbagliata perché non si occupa de omni scibili, perché ha delimitato esattamente il proprio campo, perché ha dato prova di aver compreso che la ricerca scientifica sottostà ad un minimo di esigenza: ragionare entro i limiti delle fatte premesse? Forse mai. L’indagatore tenta di appagare la brama di conoscere il vero, sostituendo alla premessa altrui, a ragione reputata inadeguata, una propria che si giudica migliore. Se Tizio analizza la premessa propria, estraendone tutte le verità in essa implicite, fa opera feconda. Se e poiché egli si affanna invece a dimostrare che la premessa altrui è inadeguata, Tizio non fa avanzare d’un passo la scienza. Ognuno deve sapere che qualsiasi premessa è inadeguata e che qualsiasi teoria da essa dedotta è irreale. È implicito in tutti i libri della scienza economica, da Cantillon in poi; è dichiarato in tutte le trattazioni sul metodo, da Senior a Cairnes, da Menger a Sidgwick, da Cossa a Berardi, da Keynes (padre) a Robbins, che la scienza economica studia una parte sola della realtà, quella contenuta in una o più premesse semplificate. La esperienza di due secoli ha dimostrato che questa è la via meno incerta, se pur più lunga, di conoscere la realtà. A ripetere queste verità non v’ha altro merito, se non quello di copiare cose lette in giovinezza, adattandole alla stupefazione provata nel vederle misconosciute e, se ripetute, talvolta reputate nuove. La stupefazione tuttavia vien meno riflettendo quanto sia viva, ed umanamente viva, l’ansia di abbracciare d’un colpo con occhio d’aquila tutta la realtà. Pochi economisti osano confessare a se stessi di appartenere ad una compagnia, di tra la quale sinora nessun veggente è sorto capace di tanta potenza di visione.

Prime linee di una teoria dei doppioni

Prime linee di una teoria dei doppioni

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1934, pp. 255-264

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 93-101

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 225-235

 

 

 

 

“Doppioni” e “triploni” sono parole di aver recato in uso le quali il merito spetta in Italia, a quanto io ricordo, a Luigi Luzzatti; e che stanno ritornando di moda in relazione ai piani un po’ dappertutto messi innanzi nei mondo per razionalizzare e disciplinare la produzione. Pare irragionevole che laddove bastano dieci imprese a soddisfare la domanda corrente sul mercato, se ne impiantino dodici col solo risultato di crescere le spese generali, aumentare i costi e ribassare i prezzi; e si osserva che evidentemente i creatori della undicesima e dodicesima ebbero per iscopo non di esercitare sul serio industria, ma di ricattare i più vecchi industriali e farsi comprare con profitto. Sicché il divieto preventivo della mala pratica riscuote plauso. Sembra parimenti irragionevole che, se un’impresa risulta dalla fusione di due o più imprese precedenti, l’imprenditore continui a lasciar produrre ed offrire sul mercato gli stessi tipi di merce da ognuna di esse. Probabilmente potrà convenire di chiudere quello degli stabilimenti, il quale lavori a costi troppo elevati e specializzare i rimasti, sicché ognuno si dedichi alla produzione della merce o del tipo, per cui il suo costo sia minimo. Né ve sostanziale differenza se, invece di piena proprietà da parte dell’imprenditore, la maggioranza del capitale o la quota, il cui voto è decisivo, sia posseduta o soggetta al controllo di un unico gruppo finanziario o consorzio o banca od ente creditizio. Il dirigente ha interesse ad evitare i doppioni, ad eliminare le imprese, giuridicamente autonome ed economicamente collegate, le quali per i costi troppo alti sono un peso, ed a distribuire il lavoro in guisa che ogni intrapresa attenda solo alla produzione di quei beni economici nella quale essa eccella in confronto alle altre. Pare ragionevole altresì che le merci prodotte, se uguali, non siano poste sul mercato dalle diverse imprese con metodi di concorrenza, con offerte a prezzi calanti in mercato calante, si da danneggiare l’unico proprietario; ma che questi ne regoli lo smercio, sicché esso abbia luogo col suo massimo vantaggio.

 

 

L’evidenza delle considerazioni ora fatte, pur essendo sempre ovvia, non impressiona se si tratti della migliore utilizzazione di capitali del valore di qualche milione o anche di qualche decina di milioni di lire, e gli interessi in gioco paiano perciò privati. Ma se si tratti di centinaia di milioni o di miliardi di lire, se sia in gioco la sorte di migliaia o di decine di migliaia di azionisti creditori impiegati ed operai, gli interessi son così vasti e numerosi da attirare l’attenzione pubblica. Centinaia o migliaia di altre intraprese veggono la loro sorte volgere lieta od avversa a seconda che quel complesso importante segua una condotta razionale o sbagliata. Se poi non si tratti di unità di miliardi, ma il gruppo disponga di impianti ed investimenti così vari e vistosi da toccare i dieci, i dodici, e fino i quindici miliardi di lire, ecco il problema del diritto all’esistenza di tutte le imprese appartenenti al gruppo essere universalmente considerato di interesse nazionale.

 

 

Se la parola è divulgata, non appare agevolmente definibile il contenuto del problema che la parola fa sorgere. Quali sono i connotati necessari e sufficienti del “doppione” economico?

 

 

Non pare che tra i connotati, s’intende “necessari” e “sufficienti”, sia compreso il “numero” delle imprese le quali offrono una data merce su un dato mercato. Noi siamo abituati a concepire, per talune merci, a decine e a centinaia di migliaia e non di rado a milioni il numero delle imprese produttrici, senza che tal fatto provochi in noi il sorgere del concetto di doppione. Son milioni i produttori di frumento, di carne, di verdure, di vino; e nessuno parla di doppioni. Basta invece talvolta che un’impresa sola si ingrossi troppo, perché quel “troppo” assuma la stessa significazione del doppione.

 

 

Neppure si suole identificare il “doppione” col “nuovo”. Se il nuovo produttore è meglio attrezzato e produce a costi più bassi, duplonico sarà il vecchio e non il nuovo concorrente.

 

 

Neanche si può accusare di duplonismo colui il quale, con la sua condotta, provoca il ribasso dei prezzi. Se egli, a prezzi bassi, profitta, e qualcun’altro, venuto prima, forse assai tempo prima, è ridotto a perdere, costui e non il ribassatore duploneggia.

 

 

Si può assumere, ad indice dell’esistenza di doppioni, il fallimento o lo stato fallimentare di alcuni tra i produttori? Certamente no, se la proporzione dei decotti non eccede quella che l’esperienza dimostra essere normale in ragione della incapacità, inesperienza, improntitudine, mancanza di capitali propri, eccessivo indebitamento, ecc., ecc. di coloro che si avventurano ad esercitare mestieri a cui sono disadatti. La stolidità umana non è un difetto oggettivo di un qualsiasi meccanismo economico e produrrebbe malanni anche in un sistema nel quale, ad ipotesi, i doppioni fossero impensabili. chiaro altresì che il “normale” nei fallimenti variò dallo zero in tempo di guerra, ove chiunque aveva successo nell’industria poiché lo stato-cliente pagava prezzi uguali ai costi individuali, al dieci o venti per cento ad anno nei tempi di crisi nei quali gli uomini capaci ad adattar l’impresa ai nuovi rapporti di moneta, di prezzi, di costi, di mercati diventano una piccola percentuale del numero totale degli imprenditori. Sicché il doppione avrebbe come sintomo non il moltiplicarsi dei fallimenti, ma un certo moltiplicarsi oltre la proporzione normale. Il qual concetto quanto sia vago è facilmente chiaro a tutti, riducendosi ad una raccomandazione fatta allo studioso di indagare, il più sottilmente egli possa, le cause dei fallimenti delle imprese economiche.

 

 

Per lo più si collega la nozione del “doppione” con quella del “ricatto”, ossia con l’intenzione del fondatore della nuova impresa, più che di esercitarla sul serio, di farsi acquistare, con lucro suo, da coloro che nella medesima industria già tenevano il campo. Qui si può discutere dapprima come l’intenzione del ricattare si faccia manifesta; il presunto ricattatore ponendo evidentemente gran cura nel tener celata anzi nel negare la sua intenzione; e non solo nel negare, ma nel compiere ogni atto utile a dimostrare la serietà del proposito di attuare e continuare con impegno la impresa, sino al trionfo proprio ed alla rovina altrui. L’intenzione di ricattare rimane dunque nascosta, sino al momento ultimo in cui essa diventa perfetta, col fatto dell’avvenuta vendita della cosa sua da parte del duplonista. Ma allora il problema muta in quello di trovare la migliore utilizzazione da parte dei vecchi imprenditori dei nuovi acquistati impianti.

 

 

Giova, più che fare il processo alle intenzioni, analizzare le condizioni le quali consentono il vigoreggiare di quella particolar specie di ricatto che dicesi duplonismo. Non sembra frequente il ricatto duplonico in un mercato in cui sia operante la concorrenza ed i profitti dell’industria non siano superiori al frutto che dall’impiego del capitale e dell’ingegno organizzatore si può ottenere normalmente. Il duplonista – inteso nel senso di colui che inizia impresa allo scopo di venderla a chi si suppone abbia interesse ad ucciderla – non è uomo ordinario. Calcola la perdita altrui conseguente alla sua minaccia e questa deve essere tanto forte da consentire agli altri di pagargli un prezzo del silenzio superiore alle spese non recuperabili d’impianto da lui sostenute. Ma se i vecchi appena guadagnavano il profitto ordinario, il rischio della operazione per lui è troppo forte. Ed è troppo forte anche se oggi i profitti siano eccezionalmente elevati; ma il mercato sia aperto alla concorrenza dei capitali disponibili, e sia agevole prevedere che essi in tempo non lungo si ridurranno al normale. Il duplonista non è il volgare imitatore, il quale fa quello che gli altri fanno e si caccia in un’industria perché ne vede le attuali apparenze prospere; ma èchi specula ossia antivede per lo spazio del numero minimo di anni necessario per la riuscita della operazione comminatoria.

 

 

L’esistenza di un profitto ordinario o transeunte non basta dunque a legittimare l’avventura. Occorre qualcosa di più; ossia un profitto superiore al normale, la cui permanenza sia in una qualche misura garantita da fattori di mercato chiuso; ossia da qualcheduna delle trincee che gli imprenditori riescono a costruire attorno al proprio campo con dazi doganali, monopoli naturali o legali, limitazioni consortili e simili. Il duplonismo è un surrogato unilaterale della concorrenza là dove questa non può vivere od è morta. Il capitale e il lavoro tendono ovviamente ad affluire nei campi economici trincerati allo scopo di godere delle occasioni più favorevoli di salario o di profitto, che ivi si godono in confronto ai campi economici aperti; e se non vi si ponga rimedio, l’afflusso cessa solo quando il, saggio di profitto e di salario si sia ivi ridotto, per diluizione su una massa di capitale e di lavoro superiore al necessario, diluizione comunemente conosciuta sotto il nome di annacquamento, al livello corrente nei campi aperti, anzi al disotto, perché l’esistenza della trincea fa supporre a risparmiatori, lavoratori ed imprenditori di godere entro di essa maggior sicurezza di reddito, credenza che si sconta sempre con un reddito minore.

 

 

I rimedi contro il duplonismo ricattatorio possono essere diretti ed indiretti. Sono diretti quelli rivolti a vietare preventivamente ed a punire il sorgere di imprese duploniche. La scarsa esperienza in argomento non consente di trarre auspici sicuri per l’avvenire. Poiché l’impresa duplonica fiorisce ai margini dell’anormale economico, e poiché le imprese minacciate non possono, per ottenere difesa dallo stato contro la minaccia, addurre il vero motivo che è il timore di vedere ridotti i propri profitti al normale, esse debbono inventar pretesti di interesse generale. I quali essendo male fondati non consentono una difesa efficace.

 

 

Sono rimedi indiretti quelli i quali mirano alla radice del male; e poiché il duplonismo è figlio dei profitti anormali e questi di una qualche forma di trinceramento, il rimedio sta nei colmare e livellare la trincea. La via è traversa; ma, come accade spesso in economia, conduce più rapidamente e più sicuramente alla meta. La riduzione del dazio doganale, la abolizione di favori nelle gare pubbliche, l’esercizio rigoroso dei poteri normativi sui prezzi per le imprese esercenti servizi pubblici costringono le imprese esistenti a ridurre i prezzi e fanno ritornare i profitti al livello normale. Il duplonismo muore da sé, per mancanza del necessario alimento.

 

 

Talvolta la critica anti-duplonica è una mera formula ideologica di cui può essere opportuno servirsi per combattere contro chi nell’esercitare industria non cade sotto la sanzione giuridica contro il colpevole di concorrenza sleale (uso di mezzi giuridicamente illeciti) ma accortamente si giova di formule per sé corrette, ma non applicabili al caso specifico. Suppongasi che una impresa bisognosa della concessione pubblica, ad esempio, per derivazione di acqua per produzione di forza, od irrigazione, per trasporto automobilistico su vie ordinarie o su autostrade, per costruzione ed ampliamento di porti, sia riuscita ad ottenere la richiesta autorizzazione dai competenti corpi e consigli, i mutui di favore da parte di enti pubblici di credito contemplati dalle vigenti leggi, i sussidi, chilometrici o diversi, ammessi dalla legislazione o che ai corpi locali è consentito dare a promuovimento della industria locale. Quale via di resistenza è aperta alle imprese danneggiate dalla concorrenza della nuova impresa? Abbiano quelle imprese, per ipotesi, ragioni di dolersi della concorrenza perché, essendo esse capaci e sperimentalmente pronte ad esercitare gli stessi servizi a prezzi non più alti di quelli che seguirebbero al sorgere dell’impresa nuova, non si vede la ragion pubblica della concessione dei crediti di favore e dei sussidi pubblici. Tuttavia ad esse non è agevole ottenere: che l’autorizzazione all’esercizio non sia data, quando gli enti locali e le rappresentanze professionali per imponderabili ragioni sentimentali la chieggano; – che gli istituti pubblici di credito non concedano i contemplati mutui di favore: perché ai grossi si e ai piccoli no?; – che stato ed enti locali non concedano a Tizio il sussidio dato a Caio. Le imprese esistenti non hanno agevolezza di impostare la opposizione alla nuova impresa sui punti ora detti. Lo stato e gli enti pubblici possono opinare di dover concedere i favori di legge a tutti indistintamente e più ai piccoli e agli umili che ai grossi e ai potenti. Finché i fondi iscritti od iscrivendi in bilancio non siano esauriti, è difficile persuadere l’autorità competente ad attendere un momento futuro in cui di essi si possa fare miglior uso. Ad uno ad uno interpellati, ciascuno nei limiti della propria competenza, i corpi consultivi hanno dato parere favorevole. Soccorre invece all’uopo l’accusa di duplonismo. La nuova impresa deve essere espunta perché inutile doppione di quelle esistenti. Se ben si guarda, però, l’accusa è essa stessa un doppione. È la forma ideologicamente simpatica accettabile all’opinione pubblica di altre argomentazioni le quali purtroppo, per la repellente aridità propria dei ragionamenti obiettivi, non sono destinate a far presa sulla opinione medesima. Se i corpi competenti non concedessero autorizzazioni, se gli istituti di credito non facessero aperture di credito, se i sussidi fossero rifiutati in tutti quei casi nei quali non fosse dimostrato all’evidenza che il vantaggio della proposta impresa è almeno uguale ai sacrifici sofferti da altre imprese e dall’erario pubblico, il doppione non sorgerebbe. Nei casi nei quali non giovano le normali difese razionali contro gli investimenti anti economici, può darsi perciò sia utile l’intervento di una linea arretrata di difesa, ossia della legislazione antiduplonica.

 

 

Non è questo il solo caso in cui una formula ideologica di significato sostanzialmente vago e quasi inafferrabile giovi ad eliminare gli effetti eventualmente dannosi di altre ideologie. Suppongasi, e ciò accadde in quasi tutti i paesi del mondo, che la urgenza politica e sociale della crisi abbia condotto al salvataggio di un certo numero di imprese private e queste siano oggi dipendenti da qualche pubblico istituto, sicché i profitti e le perdite eventuali finiranno di cadere a vantaggio od a carico del pubblico erario. È ovvia la opportunità, anzi la necessità di eliminare le intraprese le quali, dopo un tempo di riorganizzazione più o meno lungo, siano irrimediabilmente passive, il che vuol dire incapaci a remunerare al saggio corrente il “nuovo” capitale che di anno in anno, per ammortamenti od ampliamenti, farà d’uopo investire. Qui la teoria della inutilità dei doppioni potrà giovare a sormontare le difficoltà derivanti dai timori di disoccupazione operaia e dalla resistenza dei dirigenti e degli interessi regionali e locali. Il peccato di duplonismo è facile ad intendersi, ha una forza di persuasione che argomentazioni più fondate ma più complesse non avrebbero. Come è possibile all’ente pubblico vendere a buone impresa A, quando l’acquirente sappia che l’ente conserva la proprietà della concorrente impresa B e tema che questa venda a prezzi inferiori ai suoi, grazie a facilitazioni di credito e di sussidi all’acquirente vietati? Se l’ente vuol vendere deve prima riorganizzare, eliminare i doppioni, rimettere in piedi i rimasti e sbarazzarsene ad un colpo.

 

 

Anche qui, se ben si rifletta, il pericolo non è nel doppione in sé o questo è mero sintomo esteriore di una più profonda malattia. Un ente od un gruppo può avere il controllo su imprese in cui sono investiti miliardi o decine di miliardi di lire di capitale, e parecchie tra le imprese controllate possono esercitare la medesima industria; e tuttavia non esistere doppioni. Se due, se dieci imprese del medesimo ramo coprono intieramente il costo intero o vi è ragion fondata di ritenere lo copriranno in futuro, coll’aggiunta dell’annualità occorrente per restituire le perdite passate, non vi è doppione. Potrebbe discutersi se la concentrazione in un numero minore cresce il rendimento dell’insieme; ma alla domanda è tanto difficile dare adeguata risposta, il rischio di cagionar, concentrando, perdita invece che aumento di profitti è tanto grande, che davvero conviene osservare il consiglio della prudenza di non cercare il meglio quando già si possiede il bene. Il duplonismo è, a ben guardare, solo una maniera rettorica e sotto certun rispetto più efficace di significare “perdita”. La quale, quando sia identificata, deve eliminarsi, se non si vuole che le mele mezze guastino le buone. Ma come conoscere l’esistenza di perdite? Il contadino che in montagna lavora dieci fazzoletti di terreno da lui definiti campi, si accorge in un paio di generazioni, al ritorno dal servizio militare od in occasione del rimpatrio estivo, di essere in perdita quando vede di dover impiegare trenta giornate di lavoro per produrre su quei fazzoletti quello stesso quintale di frumento che egli sa valere giù in fondo valle 100 lire ed ha nel portafoglio 100 lire da lui guadagnate in otto o dieci giorni di lavoro a salario. Di qui lo spopolamento della montagna; il quale altro non è se non abbandono di imprese in perdita a favore di imprese lucrative. I più degli imprenditori privati si accorgono di essere in perdita quando il loro capitale proprio è tutto immobilizzato, il conto corrente in banca è passivo e la banca chiede decurtazione del debito, né v’ha comodità di trovare credito altrove. Questo è il dies irae, dies illa che apre gli occhi a tanti i quali fino a quel punto immaginavano di guadagnare.

 

 

A mano a mano che l’impresa ingrossa, e ingrossandosi, riesce a fornirsi di capitale con emissioni di azioni, di obbligazioni, di aperture di credito, diventa sempre più difficile sapere se si guadagni o si perda.

 

 

La linea di distinzione fra spese in conto esercizio per riparazioni ammortamenti svalutazioni e quelle in conto investimenti è così sottile che perdite annose, pur gravi e gravide di malessere, possono a fatica essere rintracciate al passivo dei bilanci sotto la specie di aumenti di capitale o di indebitamento ed all’attivo sotto quella di accresciuto valore degli impianti. Soltanto un grosso improvviso ostacolo riesce a rendere manifesta la malsania propria dell’impresa. Se poi questa faccia parte di un complesso privato o semi-pubblico, l’accertamento di perdite può essere quasi impossibile. Le interferenze fra spesa di esercizio ed investimento di capitale si complicano con interferenze di prezzi. Anzi esistono ancora ed in quali limiti veri prezzi nei grossi complessi industriali? O non piuttosto accertamenti di costi da parte della branca o impresa produttrice e relativo addebitamento alla branca od impresa consumatrice appartenente al medesimo complesso?

 

 

Quale ragione v’è di supporre, se manchi il termine di paragone in un prezzo effettivo di mercato, che l’importo addebitato sia un prezzo o non piuttosto la registrazione del fatto storico del costo sopportato dall’impresa produttrice? Il redde rationem si avrà soltanto al termine dalla catena produttrice, quando la merce finita, carica di tutti i costi successivi di produzione addebitati come se fossero prezzi nel passaggio dell’impresa A alla B, da questa alla C, alla D e così via, giunge al consumatore definito. Allora si vedrà in quale rapporto il prezzo ultimo 10 stia al prezzo di mercato e si potrà giudicare se il complesso guadagni o perda. A chi tuttavia attribuire il guadagno o la perdita? Il guadagno finale può essere la somma di saldi positivi e negativi riferiti alle singole imprese; e così la perdita. Come individuare i saldi negativi ed eliminare le imprese in perdita? Quid, se il prezzo di mercato non è un prezzo di concorrenza? Se il complesso industriale considerato gode di una posizione monopolistica sul mercato può darsi che il prezzo 10 consenta soltanto l’utile corrente al capitale investito; ma, senza quel monopolio, il prezzo, pur consentendo l’istesso utile, sarebbe stato 8; quindi è chiaro che il complesso ha sopportato falsi costi per l’ammontare 2, ossia ha perduto ed è riuscito, grazie alla sua posizione monopolistica, ad accollare la perdita ai consumatori. Ovvero il complesso, per l’indole della sua produzione, ha lo stato od altri enti pubblici come principalissimi clienti; e questi pagano non prezzi di mercato, i quali forse non esistono, ma prezzi pubblici o politici. Dei quali la caratteristica è quella di essere calcolati a totale copertura dei costi sopportati dai produttori. Come appurare qui eventuali perdite? Inestricabile ricerca; a chiudere la quale si possono a mala pena trovare indizi nel crescere del costo delle forniture ai ministeri militari od a quelli dei trasporti e dei lavori pubblici. Ma un “crescere” rispetto a quale punto di riferimento? Ed esiste un riferimento logico e precisabile?

 

 

Dinanzi alle quali domande è ovvio che l’amministratore pubblico, persuaso che taluna delle branche od imprese salvata appartenenti al gruppo dia luogo a perdite irrimediabili, ed impotente, nonostante gli indizi probanti palesatigli dai suoi periti tecnici, a precisare la perdita in modo luminosamente probatorio, ricorra alla formula duplonica come a strumento meglio efficace a raggiungere l’ottimo fine di eliminare una causa di perdita ripetuta. Cancellare i doppioni, razionalizzare e concentrare l’industria: ecco formule semplici, comprensibili, confacenti ai tempi, le quali si sostituiscono, con vantaggio pubblico, alla costruzione, più laboriosa e talvolta dubbia, di un esatto bilancio di profitti e perdite. Par dunque che il concetto duplonico vanti legittimamente diritto di cittadinanza nella scienza economica; ma che il suo valore sia sovratutto mitico. Appunto perciò quel valore è grande; poiché gli uomini son governati più dal mito che dalla ragione.

Francesco Ruffini

Francesco Ruffini

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1934, pp. 219-220

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 416-417

Francesco Ruffini, Comitato per le onoranze, s.l., C. Olivetti e C., 1954, pp. 15-17[1]

A vent’anni dalla morte. Francesco Ruffini, «Stampa», 24 ottobre 1954[2]

100 anni fa nasceva a Carrù Luigi Einaudi, «L’Unione monregalese», 28 marzo 1974, p. 7

Scritti di Luigi Einaudi nel centenario della nascita, Sansoni, Firenze, 1975, pp. 47-48

La corporazione aperta

La corporazione aperta

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1934, pp. 129-150

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 72-92

Ombretta Mancini, Francesco Perillo, Eugenio Zagari, La teoria economica del corporativismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1982, pp. 483-506

Debiti

Debiti

«La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1934, pp. 13-27

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 58-71

Le crisi finanziarie, Il Mulino, Bologna, 1985, pp. 169-181

Selected economic essays, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006, pp 112-123

Il cosidetto principio produttivistico dell’imposta

Il cosidetto principio produttivistico dell’imposta

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1933, pp. 373-380[i]

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 179-186

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 281-293

 

 

 

 

Recensione generica delle applicazioni di un aggettivo malauguratamente usato.

 

 

1. – Mi accadde alcuni anni or sono di contrapporre in un libro di storia (La guerra ed il sistema tributario italiano, 1927) al sommo principio utilitario del sacrificio minimo, in nome del quale si erano commesse tante sciocchezze durante e subito dopo la guerra, un altro principio verso cui tra il 1922 ed il 1925 erasi iniziato il ritorno nella pratica legislativa italiana ed a cui in quella occasione detti il nome di principio “produttivistico”. Quel nome ebbe fortuna; sicché furono divulgate memorie ed articoli per discutere il principio cosi appellato, quasi che a favore o contro di esso si siano o possano istituirsi scuole opposte di ricercatori, dette con proprietà di linguaggio “scuole” e non “sindacati di imbecilli” come preferiva Pantaleoni, perché costituite attorno ad una idea o teoria e non attorno ad una persona. Senonchè più vedevo adoperato l’aggettivo “produttivistico” e più cresceva in me il fastidio del vederlo appiccicato al sostantivo “principio”; e naturalmente il fastidio era aumentato dal ricordo benevolo che talvolta qualcuno faceva di me come autore o rinnovatore o seguitatore di quel principio. Del mio stato d’animo annoiato mi corre obbligo di dar ragione, allo scopo di chiarire la mia parte di responsabilità nel mettere o rimettere al mondo se non il principio, l’appellazione di esso.

 

 

2. – Quando nei discorsi ubbidii alla necessità di chiudere in poche parole espressive una lunga narrazione storica degli erramenti, in gran parte involontari, accaduti in materia tributaria durante la guerra italiana. Gli italiani, e non soltanto essi, ma i francesi ed i tedeschi e tanti altri, avrebbero potuto, se avessero avuto i nervi saldi, adattarsi a vivere spartanamente, dando ognuno di essi allo stato, a titolo di imposta, il soprappiù del proprio reddito al di là dell’assolutamente necessario  alla vita fisica. Se si fossero decisi a siffatta condotta,[ii] lo stato avrebbe potuto condurre la guerra senza ricorrere a prestiti e soprattutto senza aprire la cateratta della fiumana di carta moneta la quale tanti danni produsse e produce ancora. A quella ipotetica patriottica condotta diedi nel libro il nome usato dall’Edgeworth di «sommo principio utilitario del sacrificio minimo»; e dedicai gran parte del libro a chiarire le ragioni, alcune delle quali di sommo peso, per cui gli uomini di governo, ubbidendo ai sentimenti manifestati dai popoli con abbondante vociferazione, applicarono, invece di norme inspirate a quella condotta, una improvvisata disordinata demagogica contraffazione di essa. Dopo aver descritte le vicende e gli effetti lacrimevoli di quella applicazione contraffatta ed esposto i disegni di riforma tributaria elaborati nel frattempo dagli stessi governi col consiglio di studiosi e con verbale omaggio alla necessità di ritornare alle tradizioni italiane del tempo del risorgimento e della prima costruzione finanziaria del regno (1860-1866), dimostrai come al ritorno si fosse dato, tra il 1922 e il 1925, vigoroso inizio dal presente governo, ad opera principalmente del ministro delle finanze De Stefani. Poiché l’effetto principale della applicazione contraffatta del cosidetto principio del sacrificio minimo era di terrorizzare i possidenti ed i risparmiatori, di disamorarli dall’industria e di provocar perciò incremento di miseria e di disoccupazione, dissi che la condotta opposta ossia di una condotta tributaria inspirata sostanzialmente al buon senso, consigliere di imposte “moderate”, prelevate a carico di chi può pagare perché ha avuto prima modo di guadagnare e prelevate in modo da lasciar sussistere lo stimolo al lavoro, al risparmio, all’intraprendenza, e di imposte “certe” ossia esatte senza arbitrii, senza imposizioni, senza vane ricerche dei redditi effettivi, con riguardo massimamente ai redditi ordinari – poteva essere chiamata «dell’imposta produttivistica». La mia mala ventura volle che alle norme pratiche di condotta ora indicate dessi il nome di «principi»; parola che, per essere adoperata in un libro di storia, ossia di narrazione di fatti realmente accaduti in un tempo ed in un luogo determinati, male avrei del resto potuto immaginare potesse essere storta a significare “legge scientifica” ossia, nelle discipline astratte, legge “astratta” o “teorica” di valore universale nei limiti delle fatte premesse.

 

 

3. – Quelle due regole del “sacrificio minimo” – vero e contraffatto – (poi detta dello stoicismo e meglio si direbbe dell’eroismo o spartanesimo) e del “produttivismo” sono invero mere norme di condotta pratica, espresse abbreviatamente con parole stenografiche volte ad illustrare la condotta degli uomini in due momenti storici successivi della vita collettiva. Nel primo momento, della guerra o del pericolo nazionale imminente, gli uomini, dimentichi delle urgenze e delle comodità della vita, sacrificano tutto il disponibile sull’altare della patria (finanza di guerra). Nel secondo momento, non si può pretendere che gli uomini dimentichino la loro natura e cessino di desiderare di vivere e di operare per conseguire i fini a cui sono propensi: epperciò bisogna che l’imposta sia prelevata tenendo conto che gli uomini non lavorano, non producono, non risparmiano, non azzardano senza l’aspettativa di un reddito bastevole a legittimare il loro affannarsi nel lavorare, risparmiare ed intraprendere (finanza di pace). Due quadri di condotta; non due leggi teoriche. Di legge teorica, ossia di spiegazione ragionata delle due specie di condotta non v’è traccia nei due quadri; Né doveva esservi. Per assurgere alla dignità di “principio” o di “legge teorica” della distribuzione delle imposte, le due regole di condotta avrebbero dovuto rispondere alla domanda: come la condotta tributaria degli uomini si incastra nel corpo di leggi le quali ne dichiarano la condotta economica generale?

 

 

4. – A dare una risposta era certamente incapace il principio del sacrificio minimo, che dirò edgeworthiano dal nome del suo più insigne espositore. Affinché non mi si dica che il fastidio odierno della ripetizione altrui di principi prima da me accettati mi fa andare in cerca di postume critiche, riproduco esposizione e critica del principio del sacrificio minimo da un mio vecchio corso universitario del 1910-1911.

 

 

Se noi supponiamo una collettività composta di tre contribuenti, Tizio fornito di un reddito di 1.000 lire, Caio di 2.000 e Sempronio di 3.000 lire, se noi supponiamo che la utilità delle successive dosi (per brevità migliaia di lire) del reddito sia decrescente e che la utilità del primo migliaio di lire sia indicata dall’indice 1.000 ut[ilità], quella del secondo migliaio da 500 ut, e quella del terzo da 333,33 ut, il reddito della collettività risulta il seguente in lire ed in ut:

 

 

Reddito in lire

Reddito in ut

Tizio……………………

1000

1000=

1000 –

Caio……………………

2000

1000+500=

1500 –

Sempronio…………..

3000

1000+500+333,33=

1.833,33

______

______

TOTALE

6000

4.333,33

 

 

Se noi supponiamo che il fabbisogno dello stato sia di 3.000 lire, è evidente che, se si vuole cagionare alla collettività il minimo sacrificio, bisogna cominciare a prelevare il terzo migliaio da Sempronio, perché, così operando, gli si cagiona il minimo sacrificio di 333,33 ut; ed in seguito continuare prelevando 1.000 lire di nuovo su Sempronio ed insieme 1.000 lire su Caio, perché così si cagiona ad ognuno di essi un sacrificio di 500 ut; ed in totale, esentando del tutto Tizio, un sacrificio di 1.333,33 ut sulla intiera collettività. Che è il minimo sacrificio possibile. Qualunque diversa distribuzione dell’imposta produrrebbe un sacrificio maggiore del minimo; e deve perciò essere scartata.

 

 

Questa l’esposizione del principio, alla quale facevo subito seguire la critica, esaminando il problema dai punti di vista psicologico, economico e finanziario. Riproduco[iii] solo la critica psicologica: «facendo il calcolo, così semplice a prima vista, si è dovuto sommare una quantità di sacrificio di 333,33 di Sempronio con una ulteriore quantità di sacrificio di 500 di Sempronio e con una quantità di 500 di Caio. Ma è possibile fare questa somma? Bisogna vedere cosa sono i sacrifici individuali. Essi sono sensazioni che hanno i singoli individui nel perdere una certa quantità di ricchezze o nell’acquistarne una quantità supplementare. Ora questa sensazione è individuale di Sempronio quando egli la prova e così pure di Caio quando la prova Caio. Ciascuno può misurare e paragonare in sé le proprie sensazioni e dire che l’una è maggiore o minore di un’altra; ma sempre, dico, individualmente. Come si farebbe mai a paragonare le sensazioni di Tizio con quelle che ha avuto Caio? Sono quantità che sono incommensurabili e imparagonabili tra di loro, né si è ancora inventato uno strumento per misurare [paragonare] le diverse sensazioni degli individui. L’operazione è corretta apparentemente; ma in fondo uguale a quella di chi sommasse 333,33 asini con 500 cavalli ovvero con 500 sacchi di grano. Quindi in realtà non ha nessun significato».[iv]

 

 

Alla critica pensata nel 1910 non ho nulla da mutare. Il solito timor reverenziale di cui sono sovraprese lo persone bene educate dinanzi ai grandi nomi mi aveva trattenuto, pur dopo avere smantellato pezzo a pezzo la teoria edgeworthiana, dal dichiarare apertamente che essa non valeva un’acca e che perciò le deduzioni relative all’imposta progressiva che se ne ricavavano erano parimenti prive di senso; ed avevo cercato di conservare a quella teoria un posto di eccezione per i tempi di eccezione, come quelli di guerra, in cui gli uomini è bene non ragionino troppo quando, per salvare la nave che minaccia di affondare, si devono decidere a gettare in mare tutte le loro suppellettili. Sta di fatto che il cosidetto principio del sacrificio minimo non è né il capo né la coda di un principio di ripartizione delle imposte. Semplicemente, non esiste. A dare un nome alla condotta tributaria degli uomini nell’ora del pericolo si possono usare altre vie fuor del ricorrere all’abracadabra della somma dei sacrifici sentiti da individui differenti.

 

 

5. – Le parole «produttivismo» o «imposta produttiva» o «principio produttivistico delle imposte» adoperate ad indicare la condotta degli uomini in tempi normali sono forse meno illogiche, perché pongono esigenze di buon senso, di prudenza, di astensione dal terrorismo da parte dei finanzieri; ma, in qualità di parole teoriche, valgono forse anche meno di quella di «principio del sacrificio minimo». Troppi equivoci possono venirne fuori.

 

 

6. – Primo e più grossolano di tutti; quello del trarre i laici ad immaginare che il pagare o prelevare imposte possa essere paragonabile senz’altro al lavorare, al risparmiare, all’investire, all’intraprendere; e che, come dall’atto del lavorare ci si attende un risultato del lavoro, da quello del risparmiare un interesse, così dall’atto del pagare imposte il contribuente debba attendersi un incremento immediato e diretto nella produzione sua. Poiché nessun uomo sensato può accogliere una così goffa teoria, il lasciarla, anche per equivoco, intravvedere, basta per screditare chi fu supposto enunciarla. Tutti sanno che quanto si è pagato all’esattore delle imposte, più non ritorna. Laddove se si paga altrui salario od interesse si riceve l’equivalente in prodotto di lavoro o in uso di capitale. La capacità a fornire un equivalente diretto è un non senso in materia di imposta.

 

 

7. – Cadrebbe parimenti in equivoco chi, tratto dal suono delle parole, interpretasse il principio produttivistico nel senso che lo stato debba prelevare le imposte: primo negativamente, in guisa da scemare per il minimo ammontare la produzione della ricchezza da parte dei privati, lasciando il più possibile invariate le posizioni relative dei contribuenti e costante il loro interesse a produrre; e 2o positivamente, in guisa da crescere al massimo la produzione della ricchezza da parte della collettività. Questi due effetti negativo o positivo sono di solito – direi sempre se la parola “sempre” non fosse impropria a designare avvenimenti storici prevedibili secondo l’esperienza ordinaria della vita, ma non razionalmente necessari per logica dimostrazione – susseguenti ad un buon sistema tributario; ma non chiariscono il principio informatore dell’azione dello stato. Il quale appunto perché stato, non è un produttore di ricchezze alla pari dell’industriale ed agisce come stato, ossia per fini i quali non hanno a che fare con la produzione della ricchezza. Non può quindi lo stato proporsi, come norma fondamentale della sua condotta, uno scopo, come è quello di rendere minima la distruzione o massima la produzione della ricchezza, il quale è estraneo alla sua natura.

 

 

8. – Fin qui, trattasi di grossi equivoci, chiari alla prima meditazione. Più sottile è l’equivoco, in che può essere caduto il lettore non attento di una mia memoria del 1919 (Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta, in Atti della R. accademia delle Scienze di Torino, 1918-1919, vol. 54, pag. 1080-1083). Usando lo strumento della tabella mengeriana, dimostrai allora che il ragionamento puro economico porta «a collocare la destinazione ad imposta nel quadro generale della ripartizione della ricchezza ed a concludere che la destinazione di una certa quota di ricchezza ad imposta e di quella quota precisamente la quale risulta dalla osservanza della legge della ripartizione più conveniente della ricchezza è condizione necessaria per rendere massima la fecondità della ricchezza posseduta dall’uomo. …Nello stesso modo come non è pensabile e possibile… il soddisfacimento del bisogno del cibo senza quello del bisogno di bere, vestir panni, aver casa, così non è né pensabile né possibile vivere, allevar figli, risparmiare, così come si conviene ad uomo, se lo stato non garantisce le condizioni del vivere civile e non apparecchia migliori condizioni per l’avvenire. Nello schema teorico, la destinazione di una certa dose complessiva di ricchezza ad imposta e la sua conversione in beni pubblici non è… più o meno feconda della destinazione di quella medesima dose ad impieghi privati. Essa, se il calcolo fu condotto correttamente, è la destinazione la quale dà il massimo risultato pensabile. Destinare ad imposta una quantità maggiore o minore, sarebbe un errore economico».

 

 

9. – Il discorrere, che in questo brano si fa, di imposta come «condizione necessaria per rendere massima la fecondità della ricchezza» e l’uso successivo del concetto di imposta «come fattore della massima produttività complessiva della ricchezza» può dare ragionevolmente luogo alla seguente interpretazione:

 

 

  • in primo luogo, il cittadino, supposto consapevole dell’esistenza di fini individuali e collettivi e, in qualità di membro della collettività, atto ad apprezzare l’importanza rispettiva di essi, distribuisce la propria ricchezza tra fini privati individuali e fini collettivi, ossia raggiungibili soltanto attraverso l’azione coattiva statale, tra fini presenti e fini futuri, in modo che l’utilità marginale delle ultime dosi soddisfatte dei diversi fini sia uguale. Rispetto ai fini pubblici ed ai beni relativi il giudizio di uguaglianza è dato dallo stato in rappresentanza degli individui;

 

  • in secondo luogo, il prelievo delle imposte operato così come impone la regola ora detta, ha per effetto di rendere massima la fecondità della ricchezza o massima la produttività complessiva della ricchezza.

 

 

10. – La proposizione b è razionale entro i limiti in cui i cittadini, agendo attraverso lo strumento coattivo statale, si propongano fini economici. È certissimo che il mantenimento della difesa razionale della sicurezza, della giustizia, della pubblica viabilità, di un congruo apparecchio di pubblica educazione, di legislazione sociale e simili giova potentemente anzi è condizione necessaria perché gli uomini lavorino producano, risparmino. È certissimo che l’opera dello stato è fattore potente di massimizzazione del reddito nazionale, e cioè della somma dei redditi degli individui. «Il massimo di produttività è uno solo e questo si raggiunge con “una data” combinazione dei vari fattori, quella che l’esperienza dimostra più conveniente. La teoria economica finanziaria afferma che in quella data combinazione entra anche lo stato e che quindi il pagamento di una data imposta, quella dimostrata più conveniente dall’esperienza, è condizione necessaria perché lo stato intervenga nella misura più opportuna, come fattore di quella combinazione complessa, la quale dà luogo al massimo di produttività». E cioè, ove gli uomini si propongano fini di acquisto della ricchezza, lo stato rende possibile la consecuzione di quei fini. «Naturalmente» – osservavo nel 1919 – «lo stato agisce come fattore produttivo in conformità all’essere suo: non cioè come industriale od organizzatore della produzione, ma come ente politico: soldato magistrato educatore difensore degli interessi generali esercente quelle imprese che non sarebbero affatto o sarebbero male esercitate dai privati imprenditori e (loco citato 1083).

 

 

11. – Non è necessario tuttavia che gli uomini si propongano fini di acquisto di ricchezza: essi possono proporsi non solo la massima produzione di beni materiali, ma, aggiungevo, pure il massimo di beni e spirituali e la e massima elevazione e propria. L’indipendenza della patria, la predicazione di un credo religioso, la consecuzione di un ideale di vita, il raggiungimento di un alto livello di cultura, la preservazione della libertà individuale, il perfezionamento dei singoli componenti la collettività, sicché il massimo numero di essi sia messo in grado di partecipare consapevolmente alla vita pubblica sono fini che possono non avere un legame diretto e forse neppure indiretto con il fine della consecuzione di beni economici, valutabili in lire, soldi e denari. Pur sono fini che gli uomini si propongono mercè lo strumento dell’azione coattiva statale. Ecco che l’imposta cessa di essere “produttiva” persino nel senso più largo esposto dianzi (proposizione b), senza cessare con ciò di essere “economica” o, come altrove dissi, “ottima” (proposizione a).

 

 

12. – La sostanza dell’azione “economica” non sta invero nell’essere “produttiva” di beni economici; ma nell’essere congrua rispetto al raggiungimento del fine che l’uomo si propone. Vuole l’uomo arricchire? È azione “economica” quella che conduce all’arricchimento, non quella che trascina alla povertà. Vuole l’uomo perfezionare la propria mente o il proprio carattere, anche a costo di rinuncia a ricchezza posseduta o sperata? È azione “economica” quella che consiglia di impiegare i mezzi esistenti (numerario, lavoro, risparmio) in modo da raggiungere il fine dell’elevazione morale od intellettuale. L’economica non è scienza di fini, ma di mezzi. Perciò l’imposta è “economica” (ottima), se congegnata in modo da favorire il conseguimento, per mezzo dell’azione coattiva statale, dei fini di incremento della ricchezza collettiva, o di potenza o di elevazione intellettuale o morale o religiosa che gli uomini si propongono.

 

 

13. – L’aggettivo “produttivo” applicato all’imposta è dunque proprio nel solo caso in cui siano soddisfatte due condizioni: che il fine voluto dagli uomini radunati in società politica sia l’incremento della ricchezza e che il mezzo tributario all’uopo scelto sia congruo. Tutto sommato ritengo tuttavia prudente abbandonare l’uso di quell’aggettivo perché:

 

 

  • fa scambiare ai tonti la produttività intesa come conseguenza dell’azione dello stato operante secondo la sua natura con una assurda produttività diretta di ogni singolo ammontare di imposta pagata;

 

  • fa scambiare ai frettolosi “una” delle “conseguenze” dell’imposta ottima (incremento della ricchezza) con il fine diretto dell’imposta;

 

  • trae i disattenti ad immaginare che lo stato si proponga solo fini economici e perciò l’imposta debba essere ordinata alla consecuzione di quei fini.

 

 

14. – Anzi, Poiché è difficilissimo svellere dalla mente degli uomini l’idea che gli economisti quando parlano di operare economico intendono riferirsi non solo all’operare ma anche al fine per cui si opera, opinerei conveniente abbandonare, negli scritti non destinati agli iniziati, persino l’uso dell’aggettivo “economica” applicato all’imposta. Gli iniziati sanno che quell’aggettivo non si riferisce ai fini degli uomini, ma esclusivamente ai mezzi atti a raggiungere quei fini. Fa d’uopo però osservare che accanto agli iniziati, vivono e prosperano gli impermeabili, i consaputi calunniatori ed i laici; e riflettere sull’opportunità di non dare alimento ai vaniloqui ed alle perversità. Perciò proposi l’aggettivo “ottima”; il quale non avendo una precostituita significazione, può servire efficacemente ad indicare quella imposta la quale meglio raggiunge, secondo l’enunciato della proposizione a, i fini che l’uomo politicamente organizzato si propone. Qualunque altro aggettivo (a cagion d’esempio “logica” o “razionale”), del resto, sia il benvenuto, purché ci liberi dal vano crescente frastuono intorno al cosidetto principio dell’imposta produttivistica.

 



[i] Con il titolo Il cosidetto principio dell’imposta produttivistica. Recensione generica delle applicazioni di un aggettivo malauguratamente usato.

[ii] Che in un libro piu recente, pur di storia, chiamai “stoica”. Spero che mal non mi incolga pel nuovo aggettivo e che non sorga una nuova battaglia intorno al principio “stoico” della ripartizione delle imposte. Ché di nuovo l’errore dei battaglianti di assumere come “stoica” sul serio una condotta la quale con la condotta dichiarata dalla filosofia stoica non ha nulla a che fare, ricadrebbe su di me, che invece adoperai quell’aggettivo attribuendolo, in conformità all’uso corrente, proprio a tanti discorritori in lingua italiana e lecito perciò a me narratore di avvenimenti, a chi rinuncia, con consaputa freddezza di calcolo, agli agi della vita ordinaria per conseguire un fine di ordine superiore, nel caso presente l’incolumità della patria. Eroico o spartano o patriottico, sarebbero stati aggettivi ugualmente vantaggiosi; senza che evidentemente, sia essi sia quello usato contenessero in sé qualsiasi pretesa alla dignità di “principio”, utilizzabile per chiarire teoricamente il problema della ripartizione delle imposte.

[iii] Da pagina 362 a 364 del Corso di scienza delle finanze, raccolto dal dott. GIULIO FENOGLIO, Torino, 1911.

[iv] Cfr. in questo fascicolo, l’articolo di PAUL N. ROSENSTEIN – RODAN su La complementarietà, ecc., pag. 273, nota (4). Il mio ragionamento del 1910 applicava al problema fondamentale della finanza la perspicua dimostrazione del no bridge data dal Vicksteed in Alphabet of economic science, 1888, pag. 69-77.

 

Il cosidetto principio della imposta produttivistica. Recensione generica delle applicazioni di un aggettivo malauguratamente usato

Il cosidetto principio della imposta produttivistica. Recensione generica delle applicazioni di un aggettivo malauguratamente usato

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1933, pp. 373-380

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 281-293

 

 

 

 

1. – Mi accadde alcuni anni or sono di contrapporre in un libro di storia (La guerra ed il sistema tributario italiano, 1927) al sommo principio utilitario del sacrificio minimo, in nome del quale si erano commesse tante sciocchezze durante e subito dopo la guerra, un altro principio verso cui tra il 1922 ed il 1925 erasi iniziato il ritorno nella pratica legislativa italiana ed a cui in quella occasione detti il nome di principio «produttivistico». Quel nome ebbe fortuna; sicché furono divulgate memorie ed articoli per discutere il principio così appellato, quasi che a favore o contro di esso si siano o possano istituirsi scuole opposte di ricercatori, dette con proprietà di linguaggio «scuole» e non «sindacati di imbecilli» come preferiva Pantaleoni, perché costituite attorno ad una idea o teoria e non attorno ad una persona. Senonché più vedevo adoperato l’aggettivo «produttivistico» e più cresceva in me il fastidio del vederlo appiccicato al sostantivo «principio»; e naturalmente il fastidio era aumentato dal ricordo benevolo che talvolta qualcuno faceva di me come autore o rinnovatore o seguitatore di quel principio. Del mio stato d’animo annoiato mi corre obbligo di dar ragione, allo scopo di chiarire la mia parte di responsabilità nel mettere o rimettere al mondo, se non il principio, l’appellazione di esso.

 

 

2. – Quando ne discorsi ubbidii alla necessità di chiudere in poche parole espressive una lunga narrazione storica degli erramenti, in gran parte involontari, accaduti in materia tributaria durante la guerra italiana. Gli italiani, e non soltanto essi, ma i francesi ed i tedeschi e tanti altri, avrebbero potuto, se avessero avuto i nervi saldi, adattarsi a vivere spartanamente, dando ognuno di essi allo stato, a titolo di imposta, il soprappiù del proprio reddito al di là dell’assolutamente necessario alla vita fisica. Se si fossero decisi a siffatta condotta,[1] lo stato avrebbe potuto condurre la guerra senza ricorrere a prestiti e soprattutto senza aprire la cateratta della fiumana di carta moneta la quale tanti danni produsse e produce ancora. A quella ipotetica patriottica condotta diedi nel libro il nome usato dall’Edgeworth di «sommo principio utilitario del sacrificio minimo»; e dedicai gran parte del libro a chiarire le ragioni, alcune delle quali di sommo peso, per cui gli uomini di governo, ubbidendo ai sentimenti manifestati dai popoli con abbondante vociferazione, applicarono, invece di norme inspirate a quella condotta, una improvvisata disordinata demagogica contraffazione di essa. Dopo aver descritte le vicende e gli effetti lacrimevoli di quella applicazione contraffatta ed esposto i disegni di riforma tributaria elaborati nel frattempo dagli stessi governi col consiglio di studiosi e con verbale omaggio alla necessità di ritornare alle tradizioni italiane del tempo del risorgimento e della prima costruzione finanziaria del regno (1860-1866), dimostrai come al ritorno si fosse dato, tra il 1922 e il 1925, vigoroso inizio dal presente governo, ad opera principalmente del ministro delle finanze De Stefani. Poiché l’effetto principale della applicazione contraffatta del così detto principio del sacrificio minimo era di terrorizzare i possidenti ed i risparmiatori, di disamorarli dall’industria e di provocar perciò incremento di miseria e di disoccupazione, dissi che la condotta opposta – ossia una condotta tributaria inspirata sostanzialmente al buon senso, consigliere di imposte «moderate», prelevate a carico di chi può pagare perché ha avuto prima modo di guadagnare e prelevate in modo da lasciar sussistere lo stimolo al lavoro, al risparmio, all’intraprendenza, e di imposte «certe» ossia esatte senza arbitrii, senza imposizioni, senza vane ricerche dei redditi effettivi, con riguardo massimamente ai redditi ordinari – poteva essere chiamata «dell’imposta produttivistica». La mia mala ventura volle che alle norme pratiche di condotta ora indicate dessi il nome di «principi»; parola che, per essere adoperata in un libro di storia, ossia di narrazione di fatti realmente accaduti in un tempo ed in un luogo determinati, male avrei del resto potuto immaginare potesse essere sorta a significare «legge scientifica» ossia, nelle discipline astratte, legge «astratta» o «teorica» di valore universale nei limiti delle fatte premesse.

 

 

3. – Quelle due regole del «sacrificio minimo» – vero e contraffatto – (poi detta dello stoicismo e meglio si direbbe dello eroismo o spartanesimo) e del «produttivismo» sono invero mere norme di condotta pratica, espresse abbreviatamente con parole stenografiche volte ad illustrare la condotta degli uomini in due momenti storici successivi della vita collettiva. Nel primo momento, della guerra o del pericolo nazionale imminente, gli uomini, dimentichi delle urgenze e delle comodità della vita, sacrificano tutto il disponibile sull’altare della patria (finanza di guerra). Nel secondo momento, non si può pretendere che gli uomini dimentichino la loro natura e cessino di desiderare di vivere e di operare per conseguire i fini a cui sono propensi; epperciò bisogna che l’imposta sia prelevata tenendo conto che gli uomini non lavorano, non producono, non risparmiano, non azzardano senza l’aspettativa di un reddito bastevole a legittimare il loro affannarsi nel lavorare, risparmiare ed intraprendere (finanza di pace). Due quadri di condotta; non due leggi teoriche. Di legge teorica, ossia di impostazione astratta delle due specie di condotta non v’è traccia nei due quadri; né doveva esservi. Per assurgere alla dignità di «principio» o di «legge teorica» della distribuzione delle imposte, le due regole di condotta avrebbero dovuto rispondere alla domanda: come la condotta tributaria degli uomini si incastra nel corpo di leggi le quali ne dichiarano la condotta economica generale?

 

 

4. – A dare una risposta era certamente incapace il principio del sacrificio minimo che dirò edgeworthiano dal nome del suo più insigne espositore. Affinché non mi si dica che il fastidio odierno della ripetizione altrui di principi prima da me accettati mi fa andare in cerca di postume critiche, riproduco esposizione e critica del principio del sacrificio minimo da un mio vecchio corso universitario del 1910-1911.

 

 

Se noi supponiamo una collettività composta di tre contribuenti, Tizio fornito di un reddito di 1.000 lire, Caio di 2.000 e Sempronio di 3.000 lire, se noi supponiamo che la utilità delle successive dosi (per brevità migliaia di lire) del reddito sia decrescente e che la utilità del primo migliaio di lire sia indicata dall’indice 1.000 ut[ilità], quella del secondo migliaio da 500 ut, e quella del terzo da 333,33 ut, il reddito della collettività risulta il seguente in lire ed in ut:

 

 

 

Reddito in lire

Reddito in ut

Tizio

1.000

1.000

= 1.000 –
Caio

2.000

1.000 + 500

= 1.500 –
Sempronio

3.000

1.000 + 500 + 333,33

= 1.833,33

Totale …

6.000

4.333,33

 

 

Se noi supponiamo che il fabbisogno dello stato sia di 3.000 lire, è evidente che, se si vuole cagionare alla collettività il minimo sacrificio, bisogna cominciare a prelevare il terzo migliaio da Sempronio, perché, così operando, gli si cagiona il minimo sacrificio di 333,33 ut; ed in seguito continuare prelevando 1.000 lire di nuovo su Sempronio ed insieme 1.000 lire su Caio, perché così si cagiona ad ognuno di essi un sacrificio di 500 ut; ed in totale, esentando del tutto Tizio, un sacrificio di 1.333,33 ut sulla intiera collettività. Che è il minimo sacrificio possibile. Qualunque diversa distribuzione dell’imposta produrrebbe un sacrificio maggiore del minimo; e deve perciò essere scartata.

 

 

Questa l’esposizione del principio, alla quale facevo subito seguire la critica, esaminando il problema dai punti di vista psicologico, economico e finanziario. Riproduco[2] solo la critica psicologica: «facendo il calcolo, così semplice a prima vista, si è dovuto sommare una quantità di sacrificio di 333,33 di Sempronio con una ulteriore quantità di sacrificio di 500 di Sempronio e con una quantità di 500 di Caio. Ma è possibile fare questa somma? Bisogna vedere cosa sono i sacrifici individuali. Essi sono sensazioni che hanno i singoli individui nel perdere una certa quantità di ricchezze o nell’acquistarne una quantità supplementare. Ora questa sensazione è individuale di Sempronio quando egli la prova e così pure di Caio quando la prova Caio. Ciascuno può misurare e paragonare in sé le proprie sensazioni e dire che l’una è maggiore o minore di un altra; ma sempre, dico, individualmente. Come si farebbe mai a paragonare le sensazioni di Tizio con quelle che ha avuto Caio? Sono quantità che sono incommensurabili e imparagonabili tra di loro, né si è ancora inventato uno strumento per misurare [paragonare] le diverse sensazioni degli individui. L’operazione è corretta apparentemente; ma in fondo uguale a quella di chi sommasse 333,33 asini con 500 cavalli ovvero con 500 sacchi di grano. Quindi in realtà non ha nessun significato».[3]

 

 

Alla critica pensata nel 1910 non ho nulla da mutare. Il solito timor reverenziale da cui sono sovraprese le persone bene educate dinanzi ai grandi nomi mi aveva trattenuto, pur dopo avere smantellato pezzo a pezzo la teoria edgeworthiana, dal dichiarare apertamente che essa era erronea e che perciò le deduzioni relative all’imposta progressiva che se ne ricavavano erano parimenti prive di senso; ed avevo cercato di conservare a quella teoria un posto di eccezione per i tempi di eccezione, come quelli di guerra, in cui gli uomini è bene non ragionino troppo quando, per salvare la nave che minaccia di affondare, si devono decidere a gettare in mare tutte le loro suppellettili. Sta di fatto che il cosidetto principio del sacrificio minimo non è né il capo né la coda di un principio di ripartizione delle imposte. Semplicemente, non esiste. A dare un nome alla condotta tributaria degli uomini nell’ora del pericolo si possono usare altre vie fuor del ricorrere all’abracadabra della somma dei sacrifici sentiti da individui differenti.

 

 

5. – Le parole «produttivismo» o «imposta produttiva» o «principio produttivistico delle imposte» adoperate ad indicare la condotta degli uomini in tempi normali sono forse meno illogiche, perché pongono esigenze di buon senso, di prudenza, di astensione dal terrorismo da parte dei finanzieri; ma, in qualità di parole teoriche, valgono forse anche meno di quella di «principio del sacrificio minimo». Troppi equivoci possono venirne fuori.

 

 

6. – Primo e più grossolano di tutti, quello del trarre i laici ad immaginare che il pagare o prelevare imposte possa essere paragonabile senz’altro al lavorare, al risparmiare, all’investire, allo intraprendere; e che, come dall’atto del lavorare ci si attende un risultato del lavoro, da quello del risparmiare un interesse, così dall’atto del pagare imposte il contribuente debba attendersi un incremento immediato e diretto nella produzione sua. Poiché nessun uomo sensato può accogliere una così goffa teoria, il lasciarla, anche per equivoco, intravvedere, basta per screditare chi fu supposto enunciarla. Tutti sanno che quanto si è pagato allo esattore delle imposte, più non ritorna. Laddove se si paga altrui salario od interesse si riceve l’equivalente in prodotto di lavoro o in uso di capitale. La capacità a fornire un equivalente è un non senso in materia di imposta.

 

 

7. – Cadrebbe parimenti in equivoco chi, tratto dal suono delle parole, interpretasse il principio produttivistico nel senso che lo stato debba prelevare le imposte: primo negativamente, in guisa da scemare per il minimo ammontare la produzione della ricchezza da parte dei privati, lasciando il più possibile invariate le posizioni relative dei contribuenti e costante il loro interesse a produrre; e secondo positivamente, in guisa da crescere al massimo la produzione della ricchezza da parte della collettività. Questi due effetti negativo o positivo sono di solito – direi sempre se la parola «sempre» non fosse impropria a designare avvenimenti storici prevedibili secondo l’esperienza ordinaria della vita, ma non razionalmente necessari per logica dimostrazione – susseguenti ad un buon sistema tributario; ma non chiariscono il principio informatore dell’azione dello stato. Il quale appunto perché stato, non è un produttore di ricchezze alla pari dell’industriale ed agisce come stato, ossia per fini i quali non hanno a che fare con la produzione della ricchezza. Non può quindi lo stato proporsi, come norma fondamentale della sua condotta, uno scopo, come è quello di rendere minima la distruzione o massima la produzione della ricchezza, il quale è estraneo alla sua natura.

 

 

8. – Fin qui, trattasi di grossi equivoci, chiari alla prima meditazione. Più sottile è l’equivoco, in che può essere caduto il lettore non attento di una mia memoria del 1919. Usando lo strumento della tabella mengeriana, dimostrai allora che il ragionamento puro economico porta «a collocare la destinazione ad imposta nel quadro generale della ripartizione della ricchezza ed a concludere che la destinazione di una certa quota di ricchezza ad imposta e di quella quota precisamente la quale risulta dalla osservanza della legge della ripartizione più conveniente della ricchezza è condizione necessaria per rendere massima la fecondità della ricchezza posseduta dall’uomo. …Nello stesso modo come non è pensabile e possibile… il soddisfacimento del bisogno del cibo senza quello del bisogno di bere, vestir panni, aver casa, così non è né pensabile né possibile vivere, allevar figli, risparmiare, così come si conviene ad uomo, se lo stato non garantisce le condizioni del vivere civile e non apparecchia migliori condizioni per l’avvenire. Nello schema teorico, la destinazione di una certa dose complessiva di ricchezza ad imposta e la sua conversione in beni pubblici non è… più o meno feconda della destinazione di quella medesima dose ad impieghi privati. Essa, se il calcolo fu condotto correttamente, è la destinazione la quale dà il massimo risultato pensabile. Destinare ad imposta una quantità maggiore o minore, sarebbe un errore economico».

 

 

9. – Il discorrere, che in questo brano si fa, di imposta come «condizione necessaria per rendere massima la fecondità della ricchezza» e l’uso successivo del concetto di imposta «come fattore della massima produttività complessiva della ricchezza» può dare ragionevolmente luogo alla seguente interpretazione:

 

 

a)    in primo luogo, il cittadino: supposto consapevole dell’esistenza di fini individuali e collettivi e, in qualità di membro della collettività, atto ad apprezzare l’importanza rispettiva di essi, distribuisce la propria ricchezza tra fini privati individuali e fini collettivi, ossia raggiungibili soltanto attraverso l’azione coattiva statale, tra fini presenti e fini futuri, in modo che l’utilità marginale delle ultime dosi soddisfatte dei diversi fini sia uguale. Rispetto ai fini pubblici ed ai beni relativi il giudizio di uguaglianza è dato dallo stato in rappresentanza degli individui;

 

b)    in secondo luogo, il prelievo delle imposte operato così come impone la regola ora detta, ha per effetto di rendere massima la fecondità o produttività complessiva della ricchezza.

 

 

10. – La proposizione b è razionale entro i limiti in cui i cittadini, agendo attraverso lo strumento coattivo statale, si propongano fini economici. È certissimo che il mantenimento della difesa nazionale, della sicurezza, della giustizia, della pubblica viabilità, di un congruo apparecchio di pubblica educazione, di legislazione sociale e simili giova potentemente anzi è condizione necessaria perché gli uomini lavorino, producano, risparmino. È certissimo che l’opera dello stato è fattore potente di massimizzazione del reddito nazionale, e cioè della somma dei redditi degli individui. «Il massimo di produttività è uno solo e questo si raggiunge con una data combinazione dei vari fattori, quella che l’esperienza dimostra più conveniente. La teoria economica finanziaria afferma che in quella data combinazione entra anche lo stato e che quindi il pagamento di una data imposta, quella dimostrata più conveniente dall’esperienza, è condizione necessaria perché lo stato intervenga nella misura più opportuna, come fattore di quella combinazione complessa, la quale dà luogo al massimo di produttività». E cioè, ove gli uomini si propongano fini di acquisto della ricchezza, lo stato rende possibile la consecuzione di quei fini. «Naturalmente» – osservavo nel 1919 – «lo stato agisce come fattore produttivo in conformità all’essere suo: non cioè come industriale od organizzatore della produzione, ma come ente politico: soldato magistrato educatore difensore degli interessi generali esercente quelle imprese che non sarebbero affatto o sarebbero male esercitate dai privati imprenditori» (cfr. qui sopra, pag. 199).

 

 

11. – Non è necessario tuttavia che gli uomini si propongano fini di acquisto di ricchezza; essi possono proporsi non solo la massima produzione di beni materiali, ma, aggiungevo, pure il massimo di beni «spirituali», la «massima elevazione» propria. L’indipendenza della patria, la predicazione di un credo religioso, la consecuzione di un ideale di vita, il raggiungimento di un alto livello di cultura, la preservazione della libertà individuale, il perfezionamento dei singoli componenti la collettività, sicché il massimo numero di essi sia messo in grado di partecipare consapevolmente alla vita pubblica sono fini che possono non avere un legame diretto e forse neppure indiretto con il fine della consecuzione di beni economici, valutabili in lire, soldi e denari. Pur sono fini che gli uomini si propongono mercé lo strumento dell’azione coattiva statale. Ecco che l’imposta cessa di essere «produttiva» persino nel senso più largo esposto dianzi (proposizione b), senza cessare con ciò di essere «economica» o, come altrove dissi, «ottima» (proposizione a).

 

 

12. – La sostanza dell’azione «economica» non sta invero nell’essere «produttiva» di beni economici; ma nell’essere congrua rispetto al raggiungimento del fine che l’uomo si propone. Vuole l’uomo arricchire? È azione «economica» quella che conduce all’arricchimento, non quella che trascina alla povertà. Vuole l’uomo perfezionare la propria mente o il proprio carattere, anche a costo di rinuncia a ricchezza posseduta o sperata? È azione «economica» quella che consiglia di impiegare i mezzi esistenti (numerario, lavoro, risparmio) in modo da raggiungere il fine dell’elevazione morale od intellettuale. L’economia non è scienza di fini, ma di mezzi. Perciò l’imposta è «economica» (ottima), se congegnata in modo da favorire il conseguimento, per mezzo dell’azione coattiva statale, dei fini di incremento della ricchezza collettiva, o di potenza o di elevazione intellettuale o morale o religiosa che gli uomini si propongono.

 

 

13. – L’aggettivo «produttivo» applicato all’imposta è dunque proprio nel solo caso in cui siano soddisfatte due condizioni: che il fine voluto dagli uomini radunati in società politica sia l’incremento della ricchezza e che il mezzo tributario all’uopo scelto sia congruo. Tutto sommato ritengo tuttavia prudente abbandonare l’uso di quell’aggettivo perché:

 

 

  • fa scambiare ai tonti la produttività intesa come conseguenza dell’azione dello stato operante secondo la sua natura con una assurda produttività diretta di ogni singolo ammontare di imposta pagata;

 

  • fa scambiare ai frettolosi una delle conseguenze dell’imposta ottima (incremento della ricchezza) con il fine diretto dell’imposta;

 

  • trae i disattenti ad immaginare che lo stato si proponga solo fini economici e perciò l’imposta debba essere ordinata alla consecuzione di quei fini.

 

 

14. – Anzi; poiché è difficilissimo svellere dalla mente degli uomini l’idea che gli economisti quando parlano di operare economico intendono riferirsi non solo all’operare ma anche al fine per cui si opera, opinerei conveniente abbandonare, negli scritti non destinati agli iniziati, persino l’uso dell’aggettivo «economica» applicato all’imposta. Gli iniziati sanno che quell’aggettivo non si riferisce ai fini degli uomini, ma esclusivamente ai mezzi atti a raggiungere quei fini. Fa d’uopo però osservare che accanto agli iniziati, vivono e prosperano gli impermeabili, i consaputi calunniatori ed i laici; e riflettere sull’opportunità di non dare alimento ai vaniloqui ed alle perversità. Perciò proposi l’aggettivo «ottima»; il quale non avendo una precostituita significazione, può servire efficacemente ad indicare quella imposta la quale meglio raggiunge, secondo l’enunciato della proposizione a, i fini che l’uomo politicamente organizzato si propone. Qualunque altro aggettivo (a cagion d’esempio «logica» o «razionale»), del resto, sia il benvenuto, purché ci liberi dal vano crescente frastuono intorno al cosidetto principio dell’imposta produttivistica.

 



[1] Che in un libro più recente, pur di storia, chiamai «stoica». Spero che mal non si incolga pel nuovo aggettivo e che non sorga una nuova battaglia intorno al principio «stoico» della ripartizione delle imposte. Ché di nuovo l’errore dei battaglianti di assumere come «stoica» sul serio una condotta la quale con la condotta dichiarata dalla filosofia stoica non ha nulla a che fare, ricadrebbe su di me, che invece adoperai quell’aggettivo attribuendolo, in conformità all’uso corrente, proprio a tanti discorritori in lingua italiana e lecito perciò a me narratore di avvenimenti, a chi rinuncia, con consaputa freddezza di calcolo, agli agi della vita ordinaria per conseguire un fine di ordine superiore, nel caso presente l’incolumità della patria. Eroico o spartano o patriottico, sarebbero stati aggettivi ugualmente vantaggiosi; senza che evidentemente, sia essi sia quello usato contenessero in sé qualsiasi pretesa alla dignità di «principio», utilizzabile per chiarire teoricamente il problema della ripartizione delle imposte.

[2] Da pagina 362 a 364 del Corso di scienza delle finanze, raccolto dal dott. Giulio Fenoglio, Torino, 1911.

[3] Cfr. Paul N. Rosenstein-Rodan su La complementarietà, in «La Riforma Sociale», 1933, pag. 273. Il mio ragionamento del 1910 applicava al problema fondamentale della finanza la perspicua dimostrazione del no bridge data dal Wicksteed in Alphabet of economic science, 1888, pag. 69-77.

Dei libri italiani posseduti da Adamo Smith, di due sue lettere non ricordate e della sua prima fortuna in Italia

Dei libri italiani posseduti da Adamo Smith, di due sue lettere non ricordate e della sua prima fortuna in Italia

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1933, pp. 203-218

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 317-332

Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1953, pp. 71-88

Il mio piano non è quello di Keynes

Il mio piano non è quello di Keynes

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1933, pp. 129-142

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 221-234

Lucio Villari, Il capitalismo italiano del Novecento, Laterza, Bari, 1972, 1975, pp. 279-298

Selected economic essays, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006, pp. 124-136

 

 

 

 

The Means to Prosperity, by JOHN MAYNARD KEYNES. (Macmillan and Co., St. Martin’s Street, London, 1933, pag. 37. Prezzo 1 sc. net).

 

 

Il “saggio” del Keynes… Adopero la parola “saggio” non avendone trovata altra migliore al luogo dell’inglese tract e del francese pamphlet. Ma in realtà “saggio” non traduce bene il concetto di scrittura d’occasione, strumento di battaglia politica od economica, che è caratteristica degli scritti brevi veementi, nei quali furono condotte battaglie pratiche o dichiarati principi teorici. La letteratura economica, la grande letteratura economica è tipicamente composta di saggi. Chi facesse un dizionario delle scoperte economiche, colla citazione delle fonti, in cui primamente quelle scoperte furono enunciate, citerebbe assai più brevi saggi che grossi libri. La parola “libello” era un tempo usata, assai propriamente, per tal sorte di scritti brevi e significativi; ma non si può usar più, a causa del malo uso fattone.

 

 

Il “saggio” del Keynes, dunque, può essere riassunto in proposizioni così concatenate:

 

 

I. – Supponiamo che la crisi odierna sia dovuta ad un difettoso funzionamento dei congegni mentali psicologici, i quali conducono alle decisioni ed agli atti di volontà degli uomini; che siano un paradosso i tanti operai edili disoccupati quando tanto bisogno v’ha di case; che il problema non sia di mezzi e di volontà di lavorare; non sia né tecnico, né agricolo, né commerciale, né organizzativo, né bancario. Ma sia un problema dello spirito, ed assomigli all’imbarazzo di due abili conducenti di autocarri in perfetto stato, i quali, incontrandosi in ampio spazio, non san proseguire perché, ignorando le leggi della strada, cozzano per non sapere chi debba andare a destra e chi a sinistra. Il paradosso economico odierno sta nella mancanza di contatto tra fattori produttivi disponibili – uomini disoccupati, macchine inoperose, terre incolte, materie prime inutilizzate – e desiderio o bisogno dei beni che i fattori disoccupati produrrebbero, se fossero occupati.

 

 

II. – Normalmente, il contatto tra fattori produttivi e desiderio di beni è posto da imprenditori in cerca di profitti. Il meccanismo economico è messo in moto da imprenditori, i quali, acquistando sul mercato fattori produttivi e vendendo prodotti, compiono nella società odierna l’ufficio del padre di famiglia nelle società patriarcali chiuse, del priore o guardiano nei conventi medievali, del ministro della produzione in una società collettivistica. Ma l’imprenditore opera, ossia corre rischi, quando vede la possibilità di un profitto, di una differenza positiva fra il prezzo ricevuto dai prodotti venduti ed il costo dei fattori produttivi acquistati. Stabilito il contatto, messa in moto l’impresa, questa basta a sé stessa, perché i fattori produttivi consumano quanto essi medesimi producono. Non materialmente gli stessi beni, ché questi sono dati in scambio di beni prodotti da altri; ma in sostanza gli stessi sotto mutata specie.

 

 

Oggi il contatto non si opera, perché l’imprenditore non spera profitti. La macchina economica è incantata. I fattori produttivi, beni strumentali e uomini, rimangono disoccupati ed i desideri degli uomini restano insoddisfatti. I fattori produttivi occupati devono assoggettarsi a taglie enormi per mantenere in vita quelli disoccupati. Occorre disincantare la macchina.

 

 

III. – Poiché, al disincanto, non giova il normale motivo economico del profitto, fa d’uopo trovare uno spediente. Vuolsi dar lavoro ad un milione di disoccupati? Basta, a 10.000 lire a testa,[1] un fondo di 10 miliardi di lire. Se gli imprenditori privati non osano, osi lo stato. Sui 10 miliardi spesi, lo stato è sicuro di ricuperarne, tra quel che risparmia in minori sussidi ai disoccupati e quel che lucra per cresciute imposte sul cresciuto reddito dei contribuenti, almeno cinque.

 

 

IV. – Supponiamo che lo stato ottenga a mutuo da qualcuno che lo possiede (o lo crea) il fondo dei 10 miliardi di lire; supponiamo che il mutuo sia concesso a lunga scadenza ed a tenue (intendendosi tenue probabilmente qualcuno dei più bassi saggi storicamente conosciuti) saggio di interesse. Ecco utilizzati i fattori produttivi, già esistenti e disponibili: terre da bonificare, specchi d’acqua da trasformare in porti, materiali edilizi da ridurre a case finite e uomini disoccupati da applicare alle terre, alle acque ed alle case. Ecco creato il miracolo del rimettere in moto la macchina economica, senza aumentare i prezzi dei fattori produttivi e dei prodotti. La spesa pubblica si esaurirebbe in gran parte nel crescer prezzi o nell’importare di più dall’estero, se non esistessero margini di fattori produttivi disoccupati. (If there were little or no margin of unemployed resources, then … the increased expenditure would largely waste itself in higher prices and increased imports. Riproduco il testo, perché dopo assai rompimento di capo, conclusi che il sugo del discorso è in queste poche parole). Se invece esistono veramente uomini e fattori produttivi disoccupati, il contatto operato tra essi non è cagione di dannose perturbazioni in seno ad altri gruppi sociali. Sarebbe come se il milione di disoccupati potesse essere trasportato in un isola finora deserta ed ivi provvedesse da sé alla propria vita. Qual danno subirebbe il resto della collettività? Anzi avrebbe due vantaggi: risparmiare la falcidia dei sussidi di disoccupazione e distribuire su di sé e sugli ex disoccupati, invece che su di sé soltanto, il costo delle spese pubbliche (imposte).

 

 

Il problema si complicherebbe se esistessero solo operai disoccupati e non anche fattori materiali produttivi disponibili; perché in tal caso la nuova domanda da parte dei 10 miliardi di lire di fondo statale si rovescierebbe sulla massa fissa degli altri fattori produttivi e ne farebbe crescere il prezzo. Lo stato si metterebbe in concorrenza con gli imprenditori privati, scompigliandone tutte le basi di calcolo economico, con conseguenze non facilmente prevedibili. Nell’ipotesi fatta, nulla di tutto ciò: esistono uomini, macchine, terre,navi, ferrovie, porti inoperosi; che non producono, perché dissociati. Mettiamoli a contatto; e coi beni prodotti, gli uomini disoccupati alimenteranno sé stessi, senza nulla chiedere altrui, anzi cessando di ricevere da altri elemosina. Probabilmente, anzi, il prodotto totale crescere in misura più che proporzionale al maggior lavoro prestato. Ché, se, dove 9 milioni di uomini lavorano ad alimentarne 10, il prodotto unitario è 90 milioni di unità, dove lavorano tutti 10, per la più perfetta divisione del lavoro e il maggior stimolo al lavoro dovuto alla invariata falcidia delle imposte, il prodotto unitario sarà probabilmente 100 + x milioni di unità.

 

 

V. – Pare dunque che a risolvere pienamente il paradosso economico odierno manchi solo un anello della catena: i 10 miliardi di lire di fondo necessario allo stato per far domanda sul mercato dei fattori produttivi atti a creare il nuovo prodotto.

 

 

In paesi antiquati e da economisti antiquati, come lo scrivente, la risposta alla domanda: dove trovare i 10 miliardi sarebbe: presso i risparmiatori. Fino a qualche anno fa, quando si parlava di risparmio, il pensiero correva al solito bonus pater familias, il quale guadagna all’anno al mese od al giorno 100 e, spendendo 80, reca i restanti 20 alla cassa di risparmio od alla banca. Se, a furia di 20, lungo un anno si costituisce un fondo di 10 miliardi, ecco lo spediente, il device cercato ed utile a mettere in moto la macchina. Qualche minore attrito dovrà essere superato: perché lo stato possa farsi mutuare 10 miliardi, occorrerà probabilmente che il fondo del nuovo risparmio annuo sia parecchio superiore ai 10 miliardi, essendo incredibile che non esista altresì una domanda privata di risparmio, non foss’altro da parte di quegli ostinati che, pure in tempo di crisi, continuano ad essere afflitti dalla malattia della pietra o da quella del campo bene sistemato o della bottega in perfetto ordine e simiglianti pazzie anti economiche, che sono però la ragion di vita di tanti più uomini che non si creda. All’uomo della strada ed agli economisti antiquati pare dunque assurdo trovare a prestito 10 miliardi, se prima i 10 miliardi non siano stati messi da parte e non siano tuttora disponibili. Senza la lepre non si fanno pasticci di lepre.

 

 

VI. – Pare invece che nei paesi avanzati i pasticci di lepre si facciano ora con i conigli. Ho l’impressione cioè che da qualche tempo gli economisti inglesi siano assidui alla nobile fatica di cercar conigli da sostituire alle lepri. Quando sentono parlare di risparmio all’antica, fanno smorfie. O che non ci sia bisogno di tanta fatica o di tanta rinuncia, perché le disgrazie attuali non sono dovute a carestia, terremoti e guerre e neppure a difetto di fattori produttivi, ma al difettoso operare di una qualche rotella nella testa degli uomini; o che sia disperata impresa indurre gli uomini a risparmiare, con i redditi tanto falcidiati e con le imposte così alte (incomes are so curtailed today and taxation so much increased, that many people are already, in the effort to maintain their standard of life, saving less than sound personal habits require), sta di fatto che molti economisti d’avanguardia rivolgono a preferenza la loro attenzione al surrogato di risparmio piuttostoché al risparmio inteso nel senso tradizionale. Che cosa sia cotal surrogato di risparmio non è facile spiegare. È un certo che di nebuloso, un composito di concetti vecchi e plausibili e di astrazioni nuove. La paternità, involontaria e ad altro scopo indirizzata, risalirebbe ad un economista di non grande fama, appartenente alla pleiade ricardiana, James Pennington, il quale nel 1829 (in una nota comunicata a Tommaso Tooke e da questi pubblicata in appendice allo scritto A letter to Lord Grenville on the effects ascribed to the resumption of cash payments on the value of the currency, London, John Murray, 1829) avrebbe dimostrato che le banche possono, entro certi limiti, crear credito. La teoria secondo la quale prima il risparmiatore mette da parte 20 lire (o 10 miliardi tra tutti i risparmiatori di un paese insieme), poi le reca alla banca e finalmente la banca le dà a mutuo all’imprenditore o, se questi sia timido, allo stato per mettere in moto la macchina economica incantata, sarebbe una teoria antiquata o, per lo meno, insufficiente. C’è, accanto a questa, e nei paesi moderni parrebbe di ben maggior portata, un’altra teoria, la quale direbbe che prima la banca apre un fido al cliente (imprenditore o stato), poi il cliente trae assegni sulla banca fino a concorrenza del fido ricevuto, poscia il beneficiario dell’assegno se ne fa accreditare l’importo presso la stessa o un’altra banca e così finalmente nascono i depositi in banca; in media i depositi presso le banche essendo conseguenti ed equivalenti alle aperture di credito concesse dalle banche medesime.

 

 

VII. – Ecco afferrata la coda del coniglio indispensabile a manipolare il pasticcio desiderato. Bisogna dar modo alle banche di fare un’apertura di credito di 10 miliardi. Se gli imprenditori privati non vogliono saperne di chiedere credito neppure al 3% od al 2%, perché temono di perdere sulle imprese ad essi consigliate, sia concesso il credito allo stato, il quale non ha d’uopo di fare conti di profitti e costi e può trovare un profitto (minori sussidi ai disoccupati, maggior gettito delle imposte), dove ai privati non sarebbe concesso.

 

 

VIII. – Ma le banche non possono aprir crediti, sia alla maniera antica dopo aver ricevuto depositi, sia alla maniera nuova dell’aprir previamente crediti sapendo che saranno poi coperti da depositi, se non osservino talune regole prudenziali insegnate dalla esperienza. Per ogni 100 lire di depositi, occorre vi siano solo 100 y lire di aperture di credito, y essendo la riserva in contanti (biglietti) o in depositi a vista presso gli istituti di emissione che le banche prudenzialmente devono serbare per essere sempre pronte a far fronte alle domande di rimborso dei depositi; che è vizio, quello di farsi rimborsare, comune ai depositanti fatti all’antica ed a quelli venuti fuori alla moderna. E cioè i depositi e quindi le aperture di credito sono una funzione, un multiplo delle riserve possedute dalle banche ordinarie di credito. Se l’esperienza, a cagion d’esempio, consigliò una riserva del 10%, le banche ordinarie possono, tra brevi e lunghe, consentire aperture di credito solo fino al multiplo di nove volte le riserve possedute. Anche i teorici della «banca la quale crea il credito» ammettono che la potestà creatrice iniziatrice della banca non sia arbitraria.

 

 

IX. – A sua volta, la riserva delle banche ordinarie, consistendo in biglietti emessi dagli istituti centrali di emissione o in depositi a vista presso i medesimi istituti, non è una quantità arbitraria. Essa è una frazione della massa totale di biglietti emessi in un paese, il resto trovandosi sparpagliato in numerosissime piccole o grosse riserve di biglietti, in ogni dato momento esistenti nelle tasche o nei cassetti di privati cittadini o di enti diversi.

 

 

X. – La massa totale dei biglietti circolanti in un paese è, dal canto suo, un multiplo della riserva oro posseduta dall’istituto centrale di emissione. Se l’esperienza o le leggi, le quali dovrebbero essere esperienza cristallizzata, consigliano agli istituti centrali di emissione di tenere una riserva uguale al 40% dei biglietti, l’ammontare totale dei biglietti non può essere maggiore di due volte e mezza l’ammontare della riserva.

 

 

Anzi, poiché l’esperienza insegna regole elastiche invece che rigide, cova in tempi pericolosi crescere la proporzione della riserva ai biglietti. In tempi normali, se la riserva oro è di 10 miliardi, i biglietti circolanti possono spingersi a due volte e mezza, ossia a 25 miliardi. In tempi di crisi, quando per far fronte a richieste di pagamenti all’estero, la riserva oro si è ridotta ad 8 miliardi e si è in ansia per ulteriori riduzioni, l’istituto centrale riduce prudentemente il multiplo a due e la massa dei biglietti emessi a 16 miliardi.

 

 

XI. – Rifacendo, ora, il cammino all’inverso, scopriamo facilmente l’espediente, il rimedio, il device di Keynes:

 

 

  • se ad una riserva oro di 8 miliardi, corrisponde, al multiplo 2 ossia alla proporzione del 50%, una massa di biglietti circolante di 16 miliardi;

 

  • se dei 16 miliardi circolanti, 4 si trovano nelle casse delle banche ordinarie di credito (casse di risparmio ed altri istituti di credito compresi) e costituiscono la riserva biglietti delle banche medesime;

 

  • se ad una riserva biglietti di 4 miliardi delle banche ordinarie corrisponde un’attitudine di queste ad aprir credito per l’ammontare di 4 x 9 = 36 miliardi; quale condizione è sufficiente per raddoppiare quest’ultima attitudine, ossia per portare le aperture di credito da 36 a 72 circa?

 

La risposta è ovvia: aumentare sufficientemente le riserve oro dell’istituto centrale;

 

  • se queste sono cresciute da 8 a 10, ecco l’istituto centrale, più tranquillo, pronto a spingere la massa di biglietti emessa dal multiplo 2 a quello 2,5 e la circolazione a 25 miliardi;

 

  • se dei 25 miliardi circolanti, un quarto, come dianzi, ossia 6,25 miliardi, costituisce la riserva biglietti delle banche ordinarie di credito;

 

  • se le banche ordinarie di credito, forti di una riserva tanto cresciuta, spingono il loro multiplo di creazione di aperture di credito da 9 a 12, ecco le aperture di credito balzare a 6,25 x 12 = 75 miliardi. Ossia, ecco più che raggiunto l’effetto desiderato.

 

 

XII. – Quella ora ordinatamente ragionata è la genesi della proposta sensazionale di Keynes: si crei una massa di 5 miliardi di dollari oro di biglietti internazionali ad opera di un istituto centrale mondiale di emissione, la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea od altra. I biglietti dovrebbero essere accettati alla pari dell’oro; non dovrebbero entrare nella circolazione effettiva; sarebbero usati esclusivamente dalle tesorerie degli stati partecipanti, dagli istituti centrali di emissione e sarebbero equiparati alla riserva oro propriamente detta degli istituti medesimi.

 

 

I biglietti dovrebbero essere forniti a mutuo, contro obbligazioni oro di identico ammontare a saggio bassissimo di interesse, a quei  governi i quali ne facessero richiesta e si obbligassero ad abolire qualsiasi restrizione sui cambi esteri e ogni dazio e contingente doganale che fosse stato introdotto non a causa di una data politica economica, ma esclusivamente per difendersi contro importazioni da paesi esteri a valuta deprezzata o contro esportazioni di capitali.

 

 

I governi e gli istituti di emissione potrebbero, subordinatamente al ritorno alla libertà dei cambi ed a quella degli scambi di merci, fare dei biglietti ricevuti l’uso che reputassero migliore: pagar debiti esteri urgenti, ridare equilibrio al bilancio, espandere le emissioni interne cartacee sulla base della cresciuta riserva aurea.

 

 

Ogni stato avrebbe diritto a ricevere a prestito una quota dei cinque miliardi la quale fosse proporzionale alla massa di riserva aurea posseduta nel 1928, fino ad un massimo di 450 milioni di dollari per ognuno di essi. Ogni stato sarebbe responsabile, in proporzione alla propria quota, delle perdite subite nella gestione della nuova massa monetaria.

 

 

XIII. – Fin qui, il ragionamento fila diritto. Pericolosamente come sulla lama di un rasoio, ma diritto. Ad un tratto, dal cielo cade un bolide: «il consiglio direttivo [del nuovo istituto centrale mondiale di emissione] dovrebbe far uso delle sue facoltà discrezionali rispetto all’ammontare complessivo dei biglietti emessi [al disopra o al disotto dei 5 miliardi di dollari oro] o rispetto al saggio di interesse da caricare sulle obbligazioni oro rilasciate dagli stati aderenti, esclusivamente allo scopo di evitare, per quanto sia possibile, un rialzo nel livello dei prezzi oro dei prodotti fondamentali costituenti il commercio internazionale al disopra di un livello convenuto – forse quello del 1930 – posto tra il livello presente e quello del 1928».

 

 

Tutto un capitolo del saggio era infatti stato dedicato dal Keynes ad illustrare i modi di rialzare i prezzi. Che sia conveniente anzi necessario rialzare il livello generale dei prezzi non è messo in dubbio neppure per un istante dall’autore, il quale non reputa neppure necessario indicare le ragioni di tale meta. Sir Arthur Salter, dichiarandosi in un bell’articolo sullo Spectator del 24 marzo favorevole oggi alla proposta del Keynes osserva, ragionando dal punto di vista della odierna situazione di fatto inglese: che una espansione creditizia è oggi opportuna, perché il mondo si trova al fondo della fase discendente del ciclo economico, che già sono corsi tre anni di restrizioni di credito, i quali hanno ridotto i prezzi ed i costi ed eliminate le imprese dubbie e cattive, che non si può consentire ancora ai prezzi di andar giù in faccia ad un immenso onere di debiti e di pesi fissi di ogni specie, che perciò quello presente o non più è il momento buono per dare con una politica coraggiosa di credito e di lavori pubblici una scudisciata ai prezzi; che oggi, a differenza del 1931, l’Inghilterra può prendersi il lusso di prestiti grandiosi e di lavori pubblici, il bilancio dello stato essendo tornato all’equilibrio ed essendo granitico il credito pubblico.

 

 

XIV. – Non discuto il valore del bolide in sé stesso; ma affermo che esso è un corpo estraneo rispetto al ragionamento proprio del Keynes. Il quale moveva dalla premessa dell’esistenza di fattori produttivi disponibili, che occorresse far muovere con uno espediente, senza toccare il livello generale dei prezzi. Che altro volevano dire le parole sopra riprodotte che «se non vi fosse stato un margine di risorse disponibili, la maggiore spesa [degli enti pubblici o di privati, non monta] si sarebbe esaurita anzi sprecata [would largely waste itself] nel provocare aumenti di prezzi ed aumenti di importazione?». E prima aveva insistito che la nuova spesa [in lavori pubblici] doveva essere aggiuntiva e non sostitutiva della spesa che sarebbe altrimenti fatta dai privati; e che, per scemare la disoccupazione, la nuova spesa doveva rivolgersi a fattori produttivi disponibili. «Se le risorse del paese fossero già interamente utilizzate, gli acquisti aggiuntivi [ad opera dei lavori pubblici] darebbero principalmente luogo a più alti prezzi ed a cresciute importazioni».

 

 

XV. – La caduta del bolide non ha, si ammetta, importanza troppo grande. Giova segnalarla, a mettere in luce come il Keynes sia incerto fra due scopi della sua proposta: dar modo agli stati di potere, con prestiti pubblici, occupare i fattori produttivi disponibili, senza variare i prezzi, oppure dare una spinta ad una politica espansionistica di credito, la quale spinga i prezzi all’insù, ricrei i profitti e perciò lo stimolo ad agire per gli imprenditori privati. Interpretando nel modo più conforme all’intenzione dello scrittore, si può anche ritenere che il bolide non sia un corpo estraneo, ma una seconda fase del processo logico. La catena compiuta sarebbe in tal caso la seguente:

 

 

a)    si crea la nuova massa monetaria internazionale;

 

b)    la riserva, così cresciuta, degli istituti di emissione consente una politica creditizia espansiva;

 

c)    se ne giovano dapprima gli stati per dare, con prestiti e lavori pubblici, lavoro ai disoccupati ed utilizzare i fattori produttivi inerti;

 

d)    in seguito a questa prima spinta, la fiducia rinasce, i prezzi risalgono, spuntano speranze di profitti, gli imprenditori si svegliano. La macchina economica arrugginita, sollecitata dall’olio dell’ottimismo, si muove piano piano dapprima e poi via via più velocemente. La crisi è finita.

 

 

La ricostruzione del pensiero dell’insigne economista di Cambridge non ha per iscopo di facilitare la critica ai particolari della sua proposta principale. In quanto essa dice che nei punti di avvallamento della curva del ciclo economico, una politica di lavori pubblici ad opera dello stato è conveniente, essa riespone una teoria classica. Con le opportune cautele riguardo ai limiti della efficacia dei lavori pubblici, ed alla necessità di non continuare nei lavori quando la curva del ciclo dalla valle fonda volga a risalire verso il monte, la teoria classica è anche pacifica.

 

 

Volli, invece, ricostruendo, offrire un esempio tipico della pericolosità del camminare diritti sui fili di rasoio. Tutta la catena poggia, nella sua parte principale, sulla verità della proposizione prima, che la crisi presente sia dovuta al difettoso funzionamento di qualche congegno mentale psicologico dell’agire umano; e nella sua parte aggiunta (il bolide della proposizione XIII) che a ricrear profitti e quindi a ridare, dopo il primo impulso dei lavori pubblici statali, incentivo all’operare spontaneo degli imprenditori giovi il rialzo del livello generale dei prezzi. Se queste due premesse sono vere, la sequenza è vera. Se il mondo è sossopra perché gli uomini disoccupati non riescono a mettersi a contatto con le cose disponibili, è logico che basta a raddrizzarlo e farlo muovere lo spintone, l’espediente, il device di Keynes. Sia qualsivoglia lo spediente, aperture di credito a spizzico delle banche o la reflazione all’ingrosso con diluvio internazionale di carta stampata, lo spediente può giovare. Contro una malattia dello spirito, l’incantesimo, il medico deve farsi stregone ed operare con uguali arti di incanto. Tra le stregonerie tiene, giustamente, gran luogo la fabbrica di carta stampata. Poiché i popoli non credono più, dopo l’esperienza del dopoguerra, nella carta stampata nazionale, esorcizziamoli con carta stampata a timbro internazionale. Se ciò giovi a fugar dal loro corpo il demonio del pessimismo e dell’inerzia, esorcizziamo.

 

 

È però la crisi davvero una malattia dello spirito dovuta a cotal specie di incanto? Keynes riconosce, sul bel principio del saggio, che «se la nostra povertà fosse dovuta alla carestia o al terremoto od alla guerra, se a noi mancassero cose materiali od i mezzi di produrle, noi non potremmo sperare di trovare le vie del ritorno alla prosperità altrove fuorché nel duro lavoro, nel risparmio e nello spirito inventivo». Ammette per un momento e per ipotesi astratta, solo per negare che quelle siano le cause della malattia: «In realtà, le nostre difficoltà sono notoriamente di un’altra specie». E segue la proposizione sopra esposta come prima. Io direi che “notoriamente” le cause dei nostri malanni sono proprio quelle da lui negate: la guerra e le malattie da essa inoculate nello spirito degli uomini, ossia ingordigia, voglia di improvvisi arricchimenti, impazienza della dura fatica, incapacità alla rinuncia ed al risparmio, intolleranza del lungo aspettare il frutto della fatica; spirito di nazionalismo intollerante, il quale ha chiuso ogni popolo in sé stesso ed ha inutilizzato gran parte delle risorse naturali esistenti, producendo gli stessi effetti delle carestie d’un tempo; fanatismi religiosi in Russia, in Cina ed in India, religiosi anche se in forme nuove comunistiche o xenofobe o gandhiste, che fanno preferire agli uomini di star senza cibo e senza panni, pur di non aver contatti pericolosi con infedeli. Come si può pretendere che la crisi sia un incanto, e che a manovrare qualche commutatore cartaceo l’incanto svanisca, quando tuttodì, anche ad avere gli occhi mediocremente aperti, si è testimoni della verità del contrario? Si osservano, è vero, casi di disgrazia incolpevole, di imprese sane travolte dalla bufera. Ma quanti e quanti esempi di meritata punizione! Ogni volta che, cadendo qualche edificio, si appurano i fatti, questi ci parlano di amministratori ed imprenditori incompetenti, od avventati, o disonesti. Le imprese dirette da gente competente e prudente passano attraverso momenti duri, ma resistono. Gran fracasso di rovine invece attorno a chi fece in grande a furia di debiti, a chi progettò colossi, dominazioni, controlli e consorzi; a chi per sostenere l’edificio di carta, fabbricò altra carta e vendette carta a mezzo mondo; a chi, invece di frustare l’intelletto per inventare ed applicare congegni tecnici nuovi o metodi perfetti di lavorazione e di organizzazione riscosse plauso e profitti inventando catene di società, propine ad amministratori-comparse, rivalutazioni eleganti di enti patrimoniali. L’incanto c’è stato e non è ancora rotto; ma è l’incanto degli scemi, dei farabutti e dei superbi. A iniettar carta, sia pure carta internazionale, in un mondo da cui gli scemi, i farabutti ed i superbi non siano ancora stati cacciati via se non in parte, non si guarisce, no, la malattia; ma la si alimenta ed inciprignisce. Non l’euforia della carta moneta occorre; ma un pentimento, la contrizione e la punizione dei peccatori, l’applicazione inventiva dei sopravvissuti. Fuor del catechismo di santa romana chiesa non c’è salvezza; dalla crisi non si esce se non allontanandosi dal vizio e praticando la virtù.

 

 

Giovasse, almeno, la stregoneria della carta stampata a ricrear profitti ed a ridar perciò impulso all’opera degli imprenditori privati! Ahime! Ché anche qui la catena del ragionamento pare spezzata! Sembra, a sentir taluno, che gli anelli siano:

 

 

a)    sulla base delle cresciute riserve, le banche crescono le aperture di credito a prezzo mite;

 

b)    i lavori pubblici condotti a mezzo del credito danno la prima spinta ai prezzi;

 

c)    il rialzo dei prezzi ricrea i profitti o la speranza dei profitti;

 

d)    la rinnovata speranza dei profitti dà impulso allo spirito di intrapresa privata.

 

 

La proposizione c: il rialzo dei prezzi ricrea i profitti è vera soltanto nell’ipotesi che i lavori pubblici condotti a mezzo del credito spingano in su precisamente quei prezzi i quali devono crescere per ristabilire l’equilibrio. La mancanza di profitti non proviene dal fatto che i prezzi siano bassi, ma dal fatto ben diverso che essi sono squilibrati fra di loro. Se tutti i prezzi fossero ribassati del 50% – o, per ogni bene, nelle proporzioni necessarie a tener conto delle condizioni, nel frattempo mutate, di produzione e di domanda – la crisi non esisterebbe; ché si può vendere in profitto a cinquanta come a cento, se i prezzi dei fattori produttivi sono pure scemati a cinquanta. La crisi e la mancanza dei profitti nascono dallo squilibrio dei prezzi, dal fatto che taluni prezzi non ribassarono o non furono lasciati ribassare; e, poiché i prezzi sono reddito per gli uni e costo per gli altri, molti perdono e perdono soprattutto gli imprenditori. Un rialzo dei prezzi che fosse dovuto a lavori pubblici compiuti per mezzo di inflazione creditizia lascerebbe sussistere la sproporzione fra prezzo e prezzo, ossia fra costi e ricavi. Forse la crescerebbe.[2]

 

 

Se è vero, ad esempio, che talune derrate agricole e talune materie prime minerarie sono ribassate troppo in relazione a taluni prodotti industriali, ai prezzi del lavoro e dei servizi pubblici (imposte) ed agli interessi dei debiti, sarebbe necessario che la domanda derivante dai nuovi mezzi di spendere offerti dalla creazione della nuova massa monetaria si rivolgesse esclusivamente verso i beni ed i servigi relativamente deprezzati. Un programma cosiffatto è nell’ordine delle possibilità umane? Esistono strumenti di misurazione raffinati abbastanza per valutare gli squilibri dei prezzi fra merce e merce? Esistono strumenti adatti a distinguere il ribasso di prezzo proveniente da squilibrio dai ribassi dovuti a ragioni tecniche: riduzione di costi, mutazione di gusti? Perché, se un tempo esisteva equilibrio

 

 

tra differenti beni

A

B

C

D

ai prezzi

10

12

8

15

ed ora i prezzi correnti

8

4

7

5

 

 

non consentono ai produttori di B e di D di lavorare proficuamente, cosicché essi riducono fortemente la loro domanda di A e di C, perché immaginare che la crisi possa essere liquidata, iniettando carta moneta nel mondo ed aumentando del 50% i prezzi a:

 

 

12

6

10,50

7,50

?

 

 

Lo squilibrio esiste tuttavia; B e D non potendo essere prodotti ai prezzi (costi) relativamente troppo alti di A e di C. È possibile fare le iniezioni in guisa da raggiungere nuovamente il livello di partenza: 10, 12, 8 e 15? Come operare il miracolo? Siamo noi sicuri che il livello, che era equilibrato alla partenza, sia tale ancora adesso? Oh!, non è meglio tener duro e, come consiglia il Machlup, con saggi di sconto sufficientemente alti, forzare i B ed i D a liquidare, alla più svelta, le rimanenze ingombranti di magazzino, anzi con ulteriori tracolli di prezzo, ma con contemporanei aggiustamenti nelle quantità prodotte; sicché alla fine, sbarazzato il campo dell’invenduto minaccioso, i prezzi ritornino a 6 e ad 8? Nel frattempo, anche i produttori di A e di C, costretti a pagare il denaro caro, e posti di fronte ad attenuate richieste di B e di D, avranno dovuto anch’essi cedere sui prezzi. I consorzi costituiti per resistere avranno abbassate le armi e si saranno sciolti; ed alla fine un nuovo equilibrio si potrà formare ai prezzi:

 

 

7

6

5

8

 

 

Al nuovo livello, si torna a profittare ed a guadagnare. La crisi è finita.

 

 

Il grande scoglio alla liquidazione sono i prezzi fissi per legge (imposte) o per contratti a lunga scadenza (interessi di debiti pubblici e privati) o per convenzioni rigide fra gruppi sociali (stipendi, salari). In fondo, i congegni inflazionistici sono immaginati allo scopo di assaltare di fianco con manovra avvolgente fortilizi che si giudica impossibile espugnare con assalti frontali. I contribuenti, schiacciati da un peso troppo forte di imposte (compresi gli interessi dei debiti pubblici); gli industriali e gli agricoltori, impotenti a pagare, in tempi di prezzi calanti, imposte, salari ed interessi invariati, sperano nella manovra monetaria. Nel tempo I se il reddito nazionale era 100 e la quota di esso assorbita dai percettori di redditi fissi (impiegati pubblici, interessi di debiti pubblici e privati) era 25 e quella ottenuta dai redditi semifissi (stipendi privati, salari, canoni di fitto, ecc.) era 40, ai percettori di redditi variabili (proprietari diretti conduttori, fittaioli, mezzadri, industriali, commercianti, artigiani, professionisti) rimanevano 35. La situazione era grosso modo equilibrata.

 

 

Se nel tempo II, essendo i prezzi ridotti del 35%, epperciò il reddito nazionale sommando a 65, la quota assorbita dai percettori di redditi fissi rimanendo invariata a 25 e quella ottenuta dai redditi semifissi riducendosi forse a 30, ai percettori di redditi variabili, a coloro che corrono il rischio del più o del meno, rimangono evidentemente solo 10. Essi, che sono molti, si lagnano di non poter più vivere.

 

 

Se tutti i prezzi fossero fluidi, tutti si ridurrebbero di un terzo circa: a 17, 27 e 21. Poiché alla fluidità si oppongono leggi, controlli, consuetudini, pressioni imponenti di vigorose forze sociali, i rappresentanti dei redditi variabili, schiacciati tra l’incudine degli oneri fissi e semifissi e il martello dei prezzi calanti, persuasi della impossibilità di ottenere riduzioni di imposte, concordati amichevoli con i creditori, consensi sindacali a riduzioni di salari, invocano con ansia lo spediente, il quale consenta di rialzare nuovamente prezzi e redditi da 65 a 100, col minimo attrito e col contento universale. Keynes annuncia all’uopo la ricetta dei 5 miliardi di dollari oro stampati ad incremento delle riserve auree.

 

 

Ma, oramai l’equilibrio originale è rotto. Chi ci dice si debba ritornare ai rapporti vecchi di 25 per i redditi fissi, 40 per i semifissi e 35 per i redditi variabili? Quando si stampa carta, si ha pur voglia di far le cose con garbo e con giustizia. Ma nell’arraffa arraffa mondiale dei 5 miliardi di dollari oro, vincono i più svelti; e non meraviglierebbe affatto che imposte e creditori riuscissero a portar la loro quota da 25 a 35: i salariati ed altri semifissi da 30 a 40, sicché i variabili restassero con i rimanenti 25; meglio di 10, ma non tanto come appare, Poiché i 10 erano sui 65 ed i 25 son sui 100. I variabili parteciperebbero, inoltre, forse tutti ugualmente alla cuccagna o la preferenza andrebbe ai più svelti?

 

 

Chi ricordi che il disordine sociale del dopoguerra fu dovuto non alla guerra in sé, ma alla inflazione monetaria la quale si accompagnò sebbene non necessariamente, ad essa,[3] rimane sgomento dinanzi alle possibili conseguenze sociali di un nuovo sperimento cartaceo a tanta poca distanza da quello recente. Sperimenti cosiffatti si possono, sebbene con gravissimo pericolo, ripetere solo a distanza di un secolo l’uno dall’altro: guerra europea, 1914 – 1918; assegnati francesi, 1790-1796; sistema di Law, 1715-1720. Oggi, ripetere l’esperimento, potrebbe significare il crollo della civiltà occidentale.

 

 

Si conosce la replica degli inflazionisti o riflazionisti, come oggi essi preferiscono chiamarsi: la reflazione sarà prudente, limitata al necessario per risollevare i prezzi ed i redditi non da 65 a 100, ma appena ad 80, circondata da garanzie strettissime. Tutto sommato, ritengo che i percettori dei redditi variabili corrano minor rischio nel fare buon giuoco a cattiva fortuna piuttostoché nel reagire con spedienti. Lo spediente monetario val come tentare la fortuna a Montecarlo. Può andar bene; ma può rinnovare il disordine del 1918-1920. Nuovi arricchimenti gratuiti e nuovi impoverimenti incolpevoli farebbero ridivampare l’incendio, che faticosamente sembrava andasse spegnendosi, degli odi e delle invidie sociali. Come sempre accadde nella storia, i lestofanti, i procacciatori, gli arricchiti saprebbero porsi in salvo per tempo. Cadrebbero gli innocenti, gli industriali, gli agricoltori, i commercianti probi e sensati, i quali hanno fin qui resistito all’urto della crisi.

 

 

No. Si corre minor rischio a pagare imposte alte ed interessi invariati. Dal meglio rassegnarsi a non avere reddito, ed a lasciarne godere temporaneamente la propria quota, a guisa di premio di assicurazione della pace sociale, ad impiegati ed operai. Alla lunga, chi riuscirà a pagare gli interessi pattuiti, vedrà salire alto il proprio credito. Stati e privati potranno convertire i proprii debiti, appena sia legalmente possibile, dall’8 al 6%, dal 6 al 5%, dal 5 al 4 ed al 3 e forse al 2 e ½ per cento. La rigida osservanza della parola data, spinta benanco alla sopportazione di quella che è o pare ingiustizia sostanziale, è ancora e sarà per un pezzo la miglior garanzia di successo nella vita degli individui e dei popoli.

 



[1] Traduco a modo mio in lire italiane i calcoli del Keynes, senza entrare nei particolari dimostrativi. Avverto che, anche sotto altri aspetti, il mio è un riassunto, che non pretendo letterale, del saggio del Keynes. Trascuro una parte notevole delle sue argomentazioni, che a me, sebbene forse non a lui, paiono estravaganti rispetto al punto essenziale; e riespongo quest’ultimo come lo ricostruissi nella mia mente, con qualche amplificazione, inutile per gli iniziati, necessaria a chi vuole ritessere la catena del ragionamento in tutti i suoi anelli. Può darsi che, riducendo ed amplificando, io abbia mutato. Resta inteso che il riassunto e le critiche si riferiscono non al saggio originale del Keynes, ma alla mia ricostruzione.

[2] Leggasi su questo punto ed in generale sulla politica manovriera del credito un saggio, che non esito a dichiarare stupendo per classica forza e dirittura di ragionamento, di FRITZ MACHLUP, Zur Frage der Ankurbelung durch Kreditpolitik, in Zeitschrift für Nationalökonomie, Band IV, Heft 3, pag. 398 – 404. La lettura di questo e di altri saggi pubblicati dalla rivista viennese mi fa pensare che oggi la palma della eccellenza tra le effemeridi economiche, che per qualche anno dopo il 1890 parve vinta da Roma ed erasi poi trasferita a Londra ed a Cambridge (U.S.A.) sia ora disputata, con esito incerto, da Vienna. È prezzo dell’opera, contro la diffusa opinione, della quale si fa eco anche il Keynes, essere un deciso ribasso del saggio dello sconto vantaggioso alla liquidazione e al superamento della crisi, riprodurre la lapidaria sentenza del Machlup: «La politica del saggio dello sconto degli istituti di emissione ha indubbiamente una grande importanza anche nella fase della discesa. Secondo l’opinione dei più, l’importanza sua starebbe in un alleggerimento o lenimento della crisi attraverso la riduzione rapida e decisa del saggio dello sconto. Secondo la mia opinione l’importanza sta in un differimento della liquidazione della crisi, in un prolungamento della situazione depressiva precisamente dovuti alle facilitatrici riduzioni del saggio dello sconto. Se è vero che il superamento della crisi consiste in un ristabilimento dell’equilibrio fra costi e prezzi, il quale renda nuovamente possibile una produzione la quale copra i costi e lasci un profitto; se è vero inoltre che l’equilibrio nei prezzi si raggiunge tanto più rapidamente quanto più presto si liquidano le rimanenze di merci invendute e quanto più rapidamente si spingono all’ingiù i costi dei fattori produttivi e della forza di lavoro; se è vero finalmente che un cresciuto saggio di sconto accelera lo svuotamento dei magazzini ed il tracollo dei prezzi, la rapida riduzione del saggio dello sconto è evidentemente un mezzo atto a prolungare la crisi. Misericordiose riduzioni del saggio dell’interesse recano sollievo. Esse spingono a mantenere le posizioni al rialzo, le quali alla fine devono pure essere abbandonate; esse rendono possibile la temporanea prosecuzione di produzioni le quali da ultimo devono pure essere sospese; esse consentono di prolungare saggi di remunerazione, che si dimostreranno infine insopportabili; in breve, esse producono un differimento nella liquidazione della crisi. Lenimento della crisi vuol dire prolungamento del processo di cura della crisi». Il Machlup giunge perciò alle seguenti proposizioni elegantemente paradossali: «Laddove un rialzo prematuro del saggio dello sconto durante la fase ascendente del ciclo economico accorcia il rialzo (e quindi attenua la crisi conseguente), un ribasso prematuro del saggio dello sconto nella fase discendente può prolungare la depressione. Laddove un rialzo troppo tardivo del saggio di sconto lungo la fase ascendente prolunga il rialzo (e quindi aggrava la crisi conseguente), il ritardo nel ribasso del saggio di sconto durante la fase discendente può abbreviare la depressione».

[3] Ho cercato, per l’Italia, di dimostrare innocente la guerra, dei mali sociali che la seguirono e di narrare le fasi e le cause del disordine post-bellico nel volume La condotta economica e gli eletti sociali della guerra italiana, testé pubblicato nella «Collezione Carnegie» dal Laterza di Bari.

Epilogo

Epilogo

La Condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, Laterza, Bari – Yale University Press, New Haven, 1933, pp. 397-416

 

La crisi e le ore di lavoro

La crisi e le ore di lavoro

«La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1933, pp. 1-20

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 269-288

 

 

 

 

La intervista che il senatore Giovanni Agnelli, Presidente della F.I.A.T., concesse nel giugno scorso alla United Press, provocando una eco mondiale di discussioni, fu altresì occasione di un amichevole scambio di vedute fra l’Agnelli ed il direttore di questa rivista. Poiché da ultimo quello scambio diede luogo ad un breve carteggio, riteniamo opportuno pubblicare quelle lettere. Nelle quali, più che disputare, si volle mettere in carta punti di vista non contrastanti nella meta finale e divergenti soprattutto nella diversa importanza assegnata ai fattori di attrito i quali ostacolano il passaggio da una ad altra posizione di equilibrio nell’economia mondiale.

 

LA RIFORMA SOCIALE

 

 

Torino, 5 gennaio 1933

 

 

On. Collega,

 

 

Ella mi ha chiesto, un giorno in cui ebbimo occasione di discorrere insieme intorno alla intervista da me concessa alla United Press sulla crisi, di riassumere le mie considerazioni, limitatamente a quella che si suole chiamare disoccupazione “tecnica”.

 

 

Partiamo dalla premessa che in un dato momento, in un dato paese, ad ipotesi nella parte industrializzata di questo nostro mondo, vi siano 100 milioni di operai occupati. Sia il loro salario medio di un dollaro al giorno. Scelgo il dollaro sia perché è moneta da parecchie generazioni invariata in un dato peso d’oro, sia perché mi consente di esporre calcoli semplicissimi col minimo uso di operazioni aritmetiche, corrispondendo il salario di un dollaro (19,50 lire, 25 franchi francesi, 5 franchi svizzeri, 3 ½ scellini, ecc.), ad una misura di compenso giornaliero abbastanza accettabile in generale. Sulla base di un dollaro, ogni giorno nasce una domanda di 100 milioni di dollari di beni e servizi, ed ogni giorno industriali ed agricoltori producono e mettono sul mercato 100 milioni di dollari di merci e servizi. Produzione, commercio, consumo, si ingranano perfettamente l’un l’altro. Non esistono disoccupati. Non si parla di crisi. Noi industriali diciamo, nel nostro linguaggio semplice, che gli affari vanno. Alla macchina economica non occorrono lubrificanti.

 

 

Ad un tratto – in verità le cose si svolgono diversamente, per sperimenti vari e successivi; ma debbo semplificare – uno o parecchi uomini di genio inventano qualcosa; e noi industriali facciamo a chi arriva prima ad applicare la o le invenzioni le quali promettono risparmio di lavoro e maggior guadagno. Quando le nuove applicazioni si siano generalizzate, risulta che con 75 milioni di uomini si compie il lavoro il quale prima ne richiedeva 100. Rimangono fuori 25 milioni di disoccupati. All’ingrosso, oggi vi sono per l’appunto 25 milioni di disoccupati nel mondo.

 

 

Quale la causa? La incapacità dell’ordinamento del lavoro a trasformarsi con velocità uguale alla velocità di trasformazione dell’ordinamento tecnico.

 

 

Prima dell’invenzione occorrevano 100 milioni di giornate di lavoro di otto ore l’una fornite da 100 milioni di operai, ossia 800 milioni di ore di lavoro al giorno, a produrre una data massa di merci e servizi. Dopo l’invenzione bastano, per produrre la stessa massa di merci e servizi, 600 milioni di ore di lavoro. Ad otto ore al giorno, è bastevole il lavoro di

75 milioni di operai. Gli altri 25, disoccupati, consumano assai meno. La domanda si riduce al disotto del livello precedente. Dopo un po’ basteranno 70 e poi 60 milioni di operai a produrre quanto il mercato richiede. È una catena paurosa che a noi pratici pare svolgersi senza fine, sebbene voialtri economisti ci abbiate abituati a credere che ad un certo punto si deve ristabilire l’equilibrio. Quel certo punto fa a noi l’impressione, soprattutto quando siamo sulla china discendente, di non arrivare mai.

 

 

Il danno sembra a me derivare dallo sfalsamento esistente tra due velocità: la velocità del progresso tecnico, il quale dal primo al secondo momento ha ridotto di un quarto la fatica necessaria a produrre, e la mancanza di progresso nell’organizzazione del lavoro, per cui l’operaio che lavora seguita a faticare le stesse otto ore al giorno di prima. Rendiamo uguali le velocità dei due movimenti progressivi, quello tecnico e quello, chiamiamolo così, umano. Poiché, a produrre una massa invariata di beni e servizi, occorrono 600 invece che 800 milioni di ore di lavoro, tutti i 100 milioni di operai occupati nel primo momento per 8 ore al giorno, rimarranno occupati nel secondo momento per sei ore al giorno. Poiché essi producono la stessa massa di beni di prima, il salario rimarrà invariato in un dollaro al giorno. La domanda operaia di beni e servizi resta di 100 milioni di dollari. Nulla è mutato nel meccanismo economico, il quale fila come olio colato. Non c’è disoccupazione, non c’è crisi.

 

 

Dopo essermi creato nella fantasia un mondo economico in cui, pur compiendosi invenzioni, non v’è disoccupazione tecnica e non si verificano i collassi spaventevoli nella domanda a cui noi oggi assistiamo, il dubbio mi assale di avere forse, per essermi voluto tenere al semplice, al pratico, a quanto si vede, trascurato qualcuno di quei fattori invisibili, di cui soprattutto parmi si dilettino gli economisti. Ha il mio dubbio un fondamento?

 

GIOVANNI AGNELLI al senatore LUIGI EINAUDI, in Torino

 

 

Torino, 10 gennaio 1933

 

 

On. Collega,

 

 

No, il suo dubbio non ha fondamento per quanto tocca la meta ultima alla quale si deve mirare. Il progresso tecnico non avrebbe senso se dovesse servire soltanto a creare disoccupazione, crisi e malcontento sociale. È possibile che gli anni a venire ci facciano assistere ad un nuovo meraviglioso incremento della capacità produttiva del mondo. Negli Essays in persuasion il Keynes afferma che, come nell’ultimo secolo la massa dei beni posti a disposizione di ogni uomo è stata moltiplicata per quattro, così entro un secolo si moltiplicherà almeno per otto, e pochissima fatica, di tre ore al giorno al più, farà d’uopo per ottenere il risultato stupendo di vivere una vita otto volte più larga dell’attuale. Non sono d’accordo col Keynes su tutti i punti della sua tesi e ho detto i motivi del disaccordo in Il problema dell’ozio nel primo fascicolo del 1932 di «La Cultura»; ma non mi pare dubitabile che, se gli uomini vorranno contentarsene, potranno procacciarsi fra un secolo con tre o quattro ore di lavoro al giorno una massa di beni di gran lunga superiore a quella che oggi acquistano con otto e dieci ore. Le macchine non si inventano per il gusto di fabbricare grande copia di beni e neppure per dar maggior guadagno ai fabbricanti; ma perché gli uomini possano faticare di meno a produrre le cose di cui abbisognano ed abbiano tempo libero a dedicare all’ozio od a procacciarsi altri nuovi beni. Al limite noi non vediamo da un lato un milione di uomini possessori ed operatori a gran fatica di macchine ed egoistici esclusivi consumatori dei beni prodotti e dall’altro lato novantanove milioni di disoccupati viventi di elemosina; bensì cento milioni di uomini i quali, con minima fatica per ognuno di essi, godono tutti del prodotto ottenuto grazie al muto ausilio delle macchine. Né questa è previsione; è lieta realtà dell’oggi confrontata con la penuria del passato. Se oggi si lavora per otto ore al giorno per un salario di un dollaro, un secolo fa si lavorava dodici e quindici e talvolta più ore per un salario di venti, di trenta, di cinquanta centesimi di dollaro. Mutazione codesta dovuta in gran parte alle invenzioni tecniche, le quali hanno dato modo agli uomini nei cent’anni corsi dalla fine delle guerre napoleoniche alla guerra mondiale, di migliorare le loro condizioni di vita più che non avessero potuto fare nei sedici secoli trascorsi fra l’aurea età antoniniana dell’impero romano e la rivoluzione francese.

 

 

Il dissenso colle sue vedute non riguarda dunque la meta finale ed il corso secolare degli avvenimenti. Esso sta, come per lo più accade, nei tempi brevi e negli attriti secondari.

 

 

Consenta ch’io affronti il problema per approssimazioni successive, procedendo per ora da un caso semplice ad un altro più complesso.

 

 

Supponiamo di essere all’origine dei tempi nuovi meccanizzati, in un’epoca in cui i beni economici si producevano a mano, non esisteva capitale tecnico, il processo produttivo era breve ed i beni prodotti ripartivansi tutti a titolo di salario ai lavoratori; chiamando salario ogni specie di compenso al lavoro e lavoratori tutti coloro che davano opera alla produzione, dal manovale al direttore dell’opificio. L’ipotesi è fatta non per affermare che in epoche storiche note gli uomini lavorassero colle loro sole mani, ma unicamente per evitare complicazioni. Possiamo immaginare che lo scarso capitale tecnico necessario appartenesse ai lavoratori medesimi, come accade oggi ai fabbri ed altri artigiani di villaggio. Ad un certo momento la prima macchina è inventata; intendendo per macchina qualunque procedimento tecnico atto a risparmiare lavoro; e si trovò anche chi, rinunciando a godere di una parte dei beni prima prodotti o goduti o faticando di più in vista dell’avvenire (risparmio) produsse e fece funzionare la macchina. Suppongasi ancora: che la invenzione operi uniformemente in tutti i campi del lavoro umano e diminuisca ugualmente la fatica di ogni lavoratore; che la macchina sia usata così da produrre maggior copia di quei beni che per l’appunto sono maggiormente desiderati e nella misura desiderata dagli uomini; e che i lavoratori i quali sappiano inventare e risparmiare la macchina continuino a lavorare ed a guadagnare salario ed in aggiunta godano un compenso per il loro merito di invenzione e di risparmio.

 

 

In queste condizioni io posso immaginare che la crisi derivante dalla macchina sia lieve e breve durante il passaggio dal primo al secondo momento:

  Prima dell'introduzione della macchina Dopo l'introduzione della macchina
Ore di lavoro giornaliere totale 800 600
Ore di lavoro per operaio occupato 8 6
Numero di operai occupati 100 100
Produzione ( in unità di beni o dollari ) 100 120
Salari agli operai occupati, 1 doll. x100 ( in unità di beni o dollari ) 100 Totale 100 Totale

Compenso agli inventori – risparmiatori (in unità di beni o dollari)

100 20 120

 

 

 

 

La tabellina non richiede molte spiegazioni aggiuntive:

 

 

Ho supposto che l’unità di misura della produzione, del salario e della domanda sia un dollaro costante, ossia avente una capacità di acquisto di una unità mista di beni o servizi invariata da un momento all’altro. Salto sopra, in questo modo, a grosse difficoltà di misurazione derivanti dal fattore monetario e dalle variazioni dei gusti degli uomini nei successivi momenti. Salto forse mortale, ma necessario per non complicare subito terribilmente il problema. Suppongo cioè che, aumentando la massa dei beni e servizi prodotti da 100 a 120 unità, si conservi la possibilità di far circolare col nome di un dollaro ognuna di quelle unità di beni e servizi. Non si possano cioè aumentare (o diminuire) le unità di beni o servizi prodotti senza che in qualche misterioso modo, che qui non si indaga, entrino in circolo i dollari necessari ad effettuare gli scambi, in modo che ogni unità di beni abbia sempre il medesimo nome di un dollaro. Faccio l’ipotesi per tener conto dell’abito mentale che hanno gli uomini – gli economisti, a furia di stare attenti nel discorrere acquistano talvolta l’abito contrario di pensare e parlare in termini di unità di beni; ma non possono pretendere che altri si adatti alle loro peculiarità – di pensare e parlare in termini di lire, franchi, sterline, dollari.

 

 

Non mi preoccupo, sempre per non complicare il problema, di indagare quale sia la specie dei beni prodotti e consumati; e principalmente non indago se si tratti di beni diretti o pronti per il consumo o di beni strumentali, ossia macchine, edifici, impianti, migliorie, strade, materie prime o intermedie, ecc., ecc. Probabilmente, prima della introduzione della macchina, il ciclo produttivo era breve e praticamente i beni prodotti potevano considerarsi, in una data unità di tempo, soprattutto beni diretti. Dopo la macchina, il ciclo produttivo si allarga, l’importanza dei beni strumentali cresce, gli uomini incoraggiati dai primi risultati della macchina, sono indotti a fabbricarne altre, il che vuol dire a spendere parte del loro tempo a fabbricare mezzi atti a produrre di più in avvenire (risparmio).

 

 

A rischio di dar scandalo a qualcuno dei miei amici amanti della raffinatezza nel ragionare economico, – ma essi mi daranno venia pensando che qui non con essi discorro ma con un industriale a ragione impaziente di arrivare al nocciolo dell’argomento – passo sopra alle complicazioni prodotte dalla eventuale manchevole sincronia nella produzione dei beni diretti e strumentali, nel consumo e nel risparmio e mi contento di constatare che la macchina ha avuto parecchie conseguenze notevoli:

 

 

  • ha scemato la fatica del produrre da 800 a 600 ore giornaliere e ridotto l’orario dei lavoratori da otto a sei ore;

 

  • ha conservato agli operai, tutti occupati, lo stesso salario di un dollaro al giorno per una fatica ridotta;

 

  • ha aumentato la massa totale prodotta da 100 a 120 dollari; i 20 dollari in più essendo il compenso degli inventori della macchina e dei risparmiatori che l’hanno fabbricata. Non importa, ai nostri fini, sapere quanta parte vada agli uni e quanta agli altri. Probabilmente essi vorranno che il maggior prodotto assuma non solo la forma di beni diretti, beni e servizi più fini che inventori e risparmiatori intendono consumare subito, ma quella anche di beni strumentali (risparmio), nuove macchine destinate a futuro ulteriore aumento di produzione.

 

 

La situazione descritta sul secondo momento è stabile? Sì, quando siano soddisfatte talune condizioni:

 

 

  • che i 20 dollari di maggior prodotto siano dagli inventori e dai risparmiatori ritenuti compenso bastevole alla loro opera di inventori e di risparmiatori. Se così non fosse, le macchine non si introdurrebbero. La cifra di 20 dollari è puramente esemplificativa. La cifra vera dipende da tutte le condizioni le quali influiscono a determinare sul mercato il saggio dell’interesse ed il compenso degli inventori imprenditori; ed è, in ogni momento, un dato noto;

 

  • che gli organizzatori della produzione (imprenditori) abbiano saputo utilizzare le macchine in modo da produrre precisamente quelle unità di beni e servizi diretti che i 100 lavoratori sono disposti a consumare subito (tenuto conto del fatto che quelli tra essi i quali sono anche inventori – risparmiatori possono e vogliono consumare oltre ad una unità ciascuno di beni – salario, un certo numero di ulteriori unità di beni diretti) ed in aggiunta quel numero di unità di beni strumentali in che gli inventori – risparmiatori ritengono conveniente investire i dollari di maggior compenso che essi hanno deciso di risparmiare.

 

 

Le quali due condizioni non vengono naturalmente soddisfatte da sé. Occorrono all’uopo capacità, intuito ed organizzazione. Attraverso a qualche incertezza, a qualche tentativo mal riuscito, ad errori più o meno presto riparabili, non a stati di crisi profonda, un nuovo equilibrio pare possa a primo aspetto essere raggiunto.

 

 

Dalla esposizione ora fatta appare invece chiaro perché la soluzione non sia stabile. Mi soffermerò su uno, fra i parecchi, perché principalissimo. Non è conforme a realtà supporre che il progresso tecnico sia generale, ossia diffuso uniformemente in tutti i campi della umana attività. Le macchine si inventano non dico a capriccio od a caso, ma per virtù d’ingegno; e l’ingegno degli uomini si avventa or contro l’uno or contro l’altro degli ostacoli che la natura ad essi oppone senza che di questo avventarsi sia dato delineare un piano ordinato. Le invenzioni vanno ad ondate, irregolarissime per direzione ed intensità.

 

 

Semplifichiamo anche qui e supponiamo che la macchina fecondi uniformemente una metà del campo produttivo ed abbandoni a sé l’altra metà. Otteniamo un quadro, anch’esso errato, perché l’irregolarità della fecondazione è enormemente più accentuata, meno errato tuttavia del quadro precedente ed atto a fornirci qualche spunto per la interpretazione di quel che accade intorno a noi.

 

 

  Prima dell'introduzione della macchina Dopo l'introduzione della macchina
    Occupazioni stazionarie Occupazioni progressive Totale

Ore giornaliere di lavoro totale

800 400 200 600

Ore giornaliere per operaio occupato

8 6 6 6

Numero di operai occupati

100 66.66 33.33 100

Produzione (in unità di beni o dollari)

100 5 70 120

Salari agli operai occupati ad 1 dollaro ciascuno al giorno (in unità di beni o dollari)

100 TOT: 100 66.66 TOT: 66.66 33.33 TOT: 53.33 100 TOT: 120

Compenso agli investitori – risparmiatori (in unità di beni o dollari)

20 20

Margine attivo o passivo fra produzione da un lato e spese (salario – compenso) dall'altro (in unità di beni o dollari)

  -16.66 +16.66  

 

 

 

 

 

 

Nel primo momento, innanzi alla introduzione della macchina, le condizioni del lavoro e della produzione sono uniformi in tutte le industrie (epperciò si scrisse una colonna sola) ed il conto torna. C’è equilibrio fra entrate (produzione) e spese (salari ai lavoratori, il compenso agli inventori-risparmiatori non essendo ancora sorto). Nel secondo momento, l’equilibrio c’è nel complesso; ma esso maschera il contrasto netto esistente fra i due gruppi.

 

 

A differenza di quanto si era supposto prima, la macchina agisce soltanto sulla metà delle occupazioni. Quindi, ferma rimanendo la colonna dei totali, nel primo gruppo (stazionario) le ore complessive di lavoro restano 400 e con esse si ottengono i soliti 50 dollari (unità di beni) di produzione; nel secondo gruppo le ore di lavoro sono ridotte da 400 a 200 e con esse si ottengono 70 invece di 50 dollari di produzione. Se si vogliono occupare tutti i 100 operai disponibili, essendo 600 le ore di lavoro complessive, la giornata di lavoro deve essere ridotta per tutti a sei ore. Ecco che il primo gruppo (lo stazionario) è costretto ad occupare 66,66 operai, laddove il secondo gruppo (quello progressivo con le macchine) ne occupa solo 33,33. Insieme i 100 disponibili. Non c’è per il momento disoccupazione.

 

 

Ma il sistema non funziona, perché il gruppo stazionario dovendo pagare il consueto salario di un dollaro al giorno per ogni operaio, è costretto a sborsare 66,66 dollari in salari, mentre il ricavo della produzione è di soli 50 dollari; con una perdita di 16,66 dollari, laddove il gruppo progressivo, pur pagando un dollaro al giorno ai 33,33 operai e 20 dollari di compenso agli inventori-risparmiatori, tiene la spesa nei limiti di 53,33 dollari contro un ricavo-prodotto di 70 dollari, e perciò guadagna 16,66 dollari.

 

 

Non io ho posto la condizione che il salario ad orario ridotto sia mantenuto in un dollaro. È condizione essenziale del piano esposto nella Sua intervista. Io mi sono limitato ad aggiungere implicitamente che essa sia una condizione “seria”, ossia che il dollaro, in che i salari siano pagati, sia nel secondo momento lo stesso dollaro del primo momento, ossia abbia la capacità di acquistare dopo la medesima massa di beni e servizi che acquistava prima. Se noi “all’uopo” fabbrichiamo moneta, mutano i dati del problema; i salari continuando a chiamarsi “un dollaro”, ma acquistando solo gli otto od i sette od i sei decimi dei beni che si acquistavano prima con quel nome monetario. Il che assai giustamente Ella non vuole.

 

Poiché ciò Ella non vuole, è manifesto che il sistema urta contro un ostacolo. Non è possibile che all’introduzione della macchina segua permanentemente il duplice risultato di offrire un guadagno – nell’esempio fatto 16,66 dollari, ma possono essere 166 o 1.666 milioni od altra qualunque quantità – al gruppo progressivo e di multare con perdita equivalente il gruppo stazionario. Nessuno può perdere indefinitamente; ed appena taluno si accorge della perdita e scopre che il perché di essa sta nella forzosa uniformità della riduzione delle ore di lavoro in “tutti” i campi dell’attività umana, subito protesta contro la norma ugualitaria sinché riesce ad impedirne l’attuazione od a farla revocare. Se a tanto non si giunge, è inevitabile la reazione spontanea del gruppo stazionario. I lavoratori appartenenti al gruppo veggono che il loro salario giornaliero di un dollaro (66,66 dollari in tutto) è decurtato da una perdita di 16,66 dollari in tutto, equivalenti a 0,33 dollari ognuno, cosicché il salario netto si riduce a 0,66 dollari; laddove i 33,33 lavoratori del gruppo progressivo, senza alcun merito superiore, guadagnano netti un dollaro l’uno, più un profitto di 16,66 dollari in totale, uguale a 0,50 dollari a testa al giorno; senza calcolare i 20 dollari di compenso agli inventori-risparmiatori.

 

 

Perché 0,66 contro 1,50? Le occupazioni stazionarie tendono ad essere abbandonate e quelle progressive a divenire sopraffollate. A meno che si decretino carte di assegnazione forzosa ai diversi mestieri (servitù della gleba), il sistema non può durare. Esiste una crisi, dalla quale non si esce se non abolendo il sistema di forzosa ugualitaria riduzione delle ore di lavoro.

 

 

Se ben si osserva, la ragione dell’insuccesso sta in ciò che il gruppo progressivo ha voluto far gravare sul gruppo stazionario la parte maggiore del costo della disoccupazione conseguente alla macchina. Se la norma obbligatoria delle 6 ore universali non fosse stata introdotta, che cosa sarebbe invero accaduto?

 

 

Nel gruppo stazionario nulla: 50 operai sarebbero bastati dopo, come prima, ad otto ore al giorno, a produrre i soliti 50 dollari di prodotto; ed ognuno dei 50 operai avrebbe continuato a godere del solito salario di un dollaro al giorno. Nel gruppo progressivo, 25 operai invece di 50 sarebbero stati sufficienti, ad otto ore al giorno, in 200 ore di lavoro complessive, a produrre 70 dollari, ossia 20 in più di prima. Pagando 25 dollari agli operai occupati (un dollaro al giorno, come sempre), 20 dollari a titolo di compenso agli inventori – risparmiatori, sarebbero rimasti 25 dollari disponibili in mano degli imprenditori ed organizzatori dell’industria.

 

 

Il sugo del problema è tutto qui: che cosa fare del margine disponibile nel gruppo progressivo, dopo pagato il solito salario agli operai rimasti occupati ed il necessario compenso agli inventori-risparmiatori? Ella, in sostanza, vuole riservarne la massima parte (16,66 su 25 dollari) agli imprenditori di quel gruppo e consente a sacrificarne soltanto 8,33 per pagare la differenza fra i 25 operai che basterebbero a produrre, ad otto ore al giorno, i 70 dollari di produzione ed i 33,33 occorrenti a sei ore. Ma, così facendo, Ella lascia senza lavoro ancora 16,66 operai; e perché lavorino, Ella li accolla al gruppo stazionario, obbligandolo ad assoldare, grazie alla norma delle sei ore obbligatorie e generali, 66,66 operai invece di 50. Vedemmo già che la soluzione così offerta non è duratura. Né poteva esserlo, non essendovi alcun motivo poiché il gruppo stazionario debba prestarsi a perdere affinché il gruppo progressivo ottenga profitti straordinari di intrapresa abbandonando sul lastrico od accollando altrui la maggiore parte dei disoccupati, divenuti tali in conseguenza della introduzione della macchina. Qualunque soluzione voglia darsi al problema dei disoccupati, non certo si può ricorrere a quella che Ella vagheggia, poiché, dico io, ragionando secondo la logica economica, essa non è duratura ed è destinata al fallimento; perché, aggiunge l’uomo della strada, essa non risponde al sentimento comune di giustizia. È forse colpa degli “stazionari”, se gli inventori non inventarono macchine adatte alla loro industria?

 

 

Opposta alla Sua, è la soluzione implicitamente patrocinata da un nostro collega, il senatore Federico Ricci, il quale sostiene che il costo della disoccupazione debba gravare esclusivamente o principalmente sulle industrie che vi diedero causa, ossia sul gruppo progressivo. Lo schema Ricci, sulla base degli stessi dati della tabellina precedente, potrebbe essere il seguente:

 

 

  Dopo l'introduzione della macchina
  Occupazioni stazionarie Occupazioni progressive Totale

Ore di lavoro giornaliere totale

400 200 600

Ore di lavoro per operaio occupato

8 8 8

Numero di operai occupati

50 25 75

Produzione (in unità di beni o dollari)

50 70 120

Salario agli operai occupati ad 1 dollaro

ciascuno al giorno (in unità di beni o dollari)

50 TOT: 50 25 TOT: 70 75 TOT: 120

Compenso agli inventori – risparmiatori

(in unità di beni o dollari)

20 20

Disponibile per sussidi a disoccupati,

guadagno di intrapresa, ecc. (in unità di beni o dollari)

70 25

 

 

Naturalmente non pretendo che questo mio schema riproduca esattamente il pensiero del collega Ricci. Esso è stato costruito da me allo scopo di mettere in luce che se la macchina è davvero feconda, essa può dare un prodotto bastevole a pagare l’antico salario agli operai rimasti occupati, un compenso agli inventori – risparmiatori ed un residuo disponibile per pagare sussidi ai disoccupati. Altrimenti, perché si userebbero macchine?

 

 

La conclusione alla quale mi sembra di poter giungere è che la macchina deve essa medesima sanare le ferite cagionate dalla sua introduzione. Se la macchina è tale e non un gingillo, essa deve dare un maggior prodotto di cui gli usi sono stati e continueranno probabilmente ad essere in avvenire parecchi:

 

 

in un primo luogo, fornire un compenso ai suoi inventori ed a coloro che seppero risparmiare ossia faticare per fabbricarla. Questa parte del maggior prodotto si può dire “necessaria” perché se essa non c’è o non si prevede ci sia, gli inventori non inventano – preferiranno, se hanno la testa fatta per inventare, dedicarsi alla teoria pura, la quale dà maggiori soddisfazioni morali – ed i risparmiatori non risparmiano;

 

 

in secondo luogo, dare un prodotto agli imprenditori i quali corrono il rischio dell’introduzione della macchina. Il profitto è temporaneo, Poiché, divenuta nota sperimentata l’invenzione, altri imprenditori l’adottano pretendendo compensi sempre minori fino allo zero;

 

 

in terzo luogo, dare un sussidio ai disoccupati. Il sussidio può essere gratuito, oppure fornito in cambio di lavori compiuti a pro’ dello stato e di altri enti pubblici (lavori pubblici). Se gratuito, il sussidio sarà notevolmente inferiore al salario corrente, per non far sorgere interesse all’ozio nei lavori; se fornito in cambio di lavori pubblici potrà essere un salario pieno o meno pieno a seconda si ritenga conveniente portare mano d’opera dalle occupazioni private a quelle pubbliche o semplicemente eliminare disoccupati. In qualunque modo fornito, l’aiuto ai disoccupati deve essere siffattamente congegnato da mantenere vivo in essi il desiderio di uscire dalla professione del disoccupato o dell’addetto ai lavori pubblici. Questi sono rimedi provvisori ad una situazione di crisi transitoria. I disoccupati devono cercarsi essi medesimi una nuova permanente occupazione. La massa, che non ha capacità inventive, seguirà i pochi più irrequieti o gli inventori per vocazione, i quali troveranno il nuovo bene o servizio da offrire agli uomini. In passato si è sempre usciti così dalle crisi di disoccupazione tecnica. Ho l’impressione che Ella sia alquanto scettico sulla possibilità di inventare oggi nuovi beni da offrire ai consumatori. Rispondo che non bisogna mai disperare dalle attitudini degli uomini ad arrangiarsi. L’appetito è un grande stimolante dello spirito inventivo. Perché improvvisamente, dopo tante palmari prove della buona volontà degli uomini a considerare urgente l’acquisto di cose che venti anni prima erano ignote o reputate di gran lusso, dovremo disperare della esistenza in futuro di altrettanta buona volontà?

 

 

Ho cercato di dimostrare altra volta le impossibilità di riassorbire nella produzione degli “stessi” beni “tutti” gli operai resi disoccupati dalla macchina e la necessità di creare all’uopo una domanda di nuovi beni (nel fascicolo del gennaio-febbraio 1932 di questa rivista lo studio su Costo di produzione, leghe operaie e produzione di nuovi beni per eliminare la disoccupazione tecnica). Ma la domanda nuova non sorge se i disoccupati dormono sonni tranquilli all’ombra di un sussidio permanente largo e sicuro e se i risparmiatori sono certi di dare a prestito a buone condizioni agli enti pubblici tutto il risparmio disponibile. Occorre, perché il nuovo sia cercato e trovato, che qualcuno abbia necessità di trovarlo: i risparmiatori per impiegare fruttuosamente il risparmio, i lavoratori per guadagnare salari pieni invece di sussidi parziali; gli inventori per vendere brevetti agli imprenditori e questi ultimi per conquistare profitti. La disperazione della fame è mala consigliera, ma gran lievito di progresso sono l’onesto malcontento, il desiderio del meglio, l’alea dell’incerto domani!

 

 

in quarto luogo, il maggior prodotto della macchina deve anche essere utilizzato sotto forma di ozio. La riduzione delle ore di lavoro, della quale Ella si è fatto paladino seguendo la tradizione dei grandi capitani dell’industria moderna, ha inizio colle industrie progressive. Queste usufruiscono in parte del margine di maggior prodotto creato dalla macchina per ridurre l’orario degli operai. La riduzione delle ore di lavoro al di sotto delle 12 e delle 15 consuetudinarie non cominciò un secolo fa dall’agricoltura o dalle piccole industrie artigiane tecnicamente stazionarie. Ebbe inizio nelle industrie tessili e in quelle meccaniche antesignane del progresso in quel tempo. Via via la rivalità tra le industrie progressive e quelle stazionarie nell’assorbimento degli operai migliori estese la riduzione delle ore di lavoro dalle prime alle seconde. Ma non fu rivoluzione repentina e generale, la quale crescerebbe la massa totale delle rovine; fu lenta trasformazione avvenuta a poco a poco per graduale diffusione così da rendere massimo il vantaggio e minimo il danno della novità tecnica. Il massimo vantaggio si ebbe quando la riduzione delle ore di lavoro ed il contemporaneo incremento del salario giornaliero, ebbero luogo gradualmente, sicché gli operai non furono d’un tratto beneficati da troppo ozio e troppa paga, di cui avrebbero, per ignoranza, forse fatto malo uso – ed era il pretesto cinquant’anni fa per lo più addotto dagli industriali poco intelligenti per contestare i loro rifiuti – ma via via ebbero la consapevolezza di meritare, grazie a prestazioni migliori, l’ozio ed il salario duramente conquistati e conoscendone il valore, seppero trarne buon pro’ con un elevamento del tenore di vita proprio e della famiglia. Il minimo danno si ebbe quando le industrie stazionarie, costrette dalla fuga dei lavoratori verso le industrie progressive (abbandono della campagna e dei mestieri casalinghi poco pagati e corsa alla fabbrica) a ridurre a poco a poco le ore di lavoro e ad aumentare le paghe, si videro ridotte a redditi esigui e talvolta soggette a qualche perdita, sebbene non ancora tratte alla disperazione e furono indotte ad inventare anch’esse, ossia a riorganizzarsi e ad adottar macchine. Il progresso industriale non si compie, se non per eccezione, per grandi mutamenti improvvisi, bensì per imitazione diffusiva, per gentile pressione di fallimenti singoli eliminatori degli incapaci e conseguente sopravvivenza dei più elasticamente adattabili tra gli imprenditori. Una “modesta” multa (di sussidi di disoccupazione, di imposte per lavori pubblici, di riduzione di ore di lavoro) a carico di tutte le imprese, anche di quelle stazionarie, mi pare opportuna. Una improvvisa generale riduzione nella misura sufficiente ad assorbire l’intera disoccupazione tecnica sarebbe disastrosa. Perciò l’onere della imposta di disoccupazione (chiamiamo così l’insieme dei tributi prelevati per dar sussidi o fornire lavori pubblici ai disoccupati) deve essere distribuito sulla collettività nella stessa maniera con cui si distribuiscono in generale le imposte. Discorso litigioso nel quale non voglio inoltrarmi, bastandomi riaffermare di passaggio le mie predilezioni verso un sistema il quale più che i guadagni effettivi tenda a colpire le possibilità oggettive di guadagno, così da lasciare un margine agli imprenditori capaci di rinnovare e da multare gli imprenditori tardigradi. Ecco un punto rispetto al quale mi sento più vicino alle idee implicite nel suo progetto che a quelle derivanti logicamente dalle proposte del collega Ricci, sebbene non tanto vicino da incorrere in quello che a me sembra l’eccesso della uniforme riduzione delle ore di lavoro in tutte le industrie.

 

 

Concludendo, il divario fra le nostre opinioni parmi soprattutto relativo al fattore “tempo”. Ella ha fede nelle soluzioni incisive e rapide. Ricordo come Ella un giorno mi parlasse di imprese di ingegneri costruttori a cui oggi un industriale, desideroso di far sorgere negli Stati Uniti come in Italia, in Russia come nell’India uno stabilimento, può rivolgersi; e quelle imprese nel tempo convenuto impiantano lo stabilimento perfettamente attrezzato secondo i dettami della tecnica più moderna, pronto a funzionare al comando dell’imprenditore. Ammiro la prontezza e la sicurezza odierne, in confronto all’empirismo ed ai tentativi d’un tempo. Guai se coloro i quali comandano – ed Ella è comandante di un esercito industriale – non avessero fede nella virtù del comando ubbidito! A me, semplice osservatore, questo nostro mondo economico appare troppo ricco di forze contrastanti e divergenti per poter essere “comandate”, tutte insieme, a muoversi e a progredire nella direzione e colla velocità desiderata dal generale. Enorme è la virtù dell’inerzia; ed a volerne vincere la resistenza con una norma generale si rischia di provocare troppo disordine e troppa rovina. La resistenza si vince meglio agendo sui punti elastici del sistema e costringendo indirettamente i punti rigidi a seguire i movimenti iniziati laddove si osa e si può innovare.

 

 

Finora ho sempre parlato di disoccupazione tecnica come se questa fosse la causa unica e principale dei 25 milioni di disoccupati che pare esistano oggi nel mondo. Prima di chiudere la mia già lunga lettera desidero mettere le mani avanti. Non Le pare che questa sia una grossissima esagerazione? Che davvero i disordini militari e politici della Cina, le agitazioni indiane, la chiusura in se stessa della Russia, lo stato di agitazione politica e sociale dell’Europa centrale, il nazionalismo ultra trionfante, creatore di minuscoli impoveriti mercati chiusi, follemente intesi a creare industrie artificiali, le moltiplicate barriere doganali, i disordini monetari, lo squilibrio conseguente fra i diversi gruppi di prezzi, fra salari e profitti fra interessi fissi e dividendi, fra imposte crescenti e redditi calanti non abbiano nulla a che fare con la disoccupazione? Le confesso che la mia meraviglia è non che ci siano 25 milioni di disoccupati nel mondo; ma che in mezzo a tanti malanni, a tanta pazzia collettiva ingigantita dalle vociferazioni di tanti spacciatori di empiastri, i disoccupati non siano molti di più. Fra le tante disoccupazioni, la disoccupazione tecnica da macchina, ossia da progresso industriale, mi pare davvero la meno rilevante fra tutte.

 

 

Dio volesse che al mondo ci fosse solo quella varietà di disoccupazione la quale dicesi tecnica! Penso che darebbe pochi fastidi ad industriali e ad uomini di governo. La disoccupazione tecnica non è una malattia; è una febbre di crescenza, un frutto di vigoria e di sanità. È una malattia, della quale non occorre che i medici si preoccupino gran fatto, ché essa si cura da sé. Gravi sono invece le altre specie di disoccupazione; gravi Poiché nate dalla follia umana. Contro di esse non giova il rimedio della riduzione delle ore di lavoro; ché il rimedio tecnico non è adatto a guarire le malattie mentali. Noialtri industriali ed economisti dobbiamo farci da un lato e lasciare il passo ai veri competenti, ai sacerdoti di Dio, ai banditori di idee ed ai reggitori dei popoli. Se costoro non sanno o non vogliono salvare gli uomini, che cosa possiamo fare noi produttori di beni materiali o commentatori delle azioni economiche degli uomini?

 

LUIGI EINAUDI

 

al senatore GIOVANNI AGNELLI

 

Presidente della F.I.A.T. in Torino

 

 

Torino, 20 gennaio 1933

 

On. Collega,

 

 

Poiché Ella me ne muove invito, ripiglio in mano la penna, non per continuare una discussione, nella quale è ovvio che, come in quasi ogni altro dibattito di questa natura, ad un accordo tra i contendenti, per la diversità dell’abito mentale e degli scopi teorici o pratici dell’indagine è quasi impossibile giungere, ma per mettere innanzi al pubblico qualche punto di vista che non mi sembra Ella abbia toccato od almeno abbastanza illustrato.

 

 

Lasciamo, per il momento da un lato le altre cause possibili della disoccupazione, per limitare il discorso a quella particolare specie di essa che dicesi tecnica. Ella dà a questa un peso minore di quanto io non faccia, nella determinazione del complesso preoccupante fenomeno. Impressioni della realtà, ambe forse ugualmente difficili a corroborare con dimostrazioni precise. La guerra, i disordini cinesi e indiani, l’innalzamento delle dogane possono aver anch’essi provocato disoccupazione. Ma forse hanno agito sovrattutto nel senso di inacerbire gli effetti della causa tecnica la quale preesisteva, ad es., alla guerra e da essa fu solo parzialmente modificata. La distruzione di ricchezze provocata dalla guerra, l’enorme fabbisogno di mezzi bellici prima e di mezzi di ricostruzione poscia mascherarono, per dir così, dal 1914 al 1921, il problema della difficoltà di trovare uno sbocco ai prodotti, potenzialmente cresciuti in misura grandiosa, dell’industria progredita tecnicamente. Quando i bisogni di rifornimento delle riserve e di ricostruzione furono soddisfatti, il problema si presentò ingigantito. Il mondo, il quale per una decina d’anni aveva dovuto e potuto assorbire tutti i beni che la tecnica aveva reso disponibili, si trovò d’un tratto dinanzi ad una potenzialità produttiva “straordinaria”, la quale non trovava più la sua contro-partita in una potenzialità straordinaria di consumo. Il consumo “ordinario” non bastò più ad assorbire il fiume di prodotti che l’industria produceva. Se la guerra non si fosse verificata, il problema si sarebbe ugualmente presentato; ma, diluito in lunghi anni, sarebbe parso meno pauroso. Venuto fuori d’improvviso, colse l’umanità di sorpresa, e gli uomini corsero al riparo, chiudendo i mercati interni con alte dogane, con regolamenti monetari e con ogni specie di difese. Fecero bene o male? Non discuto il punto, per non uscir fuori dai limiti posti in questo nostro scambio di vedute. Mi basti di aver giustificato la mia impressione che il fattore tecnico sia, nella crisi presente, fondamentale.

 

 

Se così è, il Suo riconoscimento che la disoccupazione da causa tecnica debba “alla lunga” essere eliminata precisamente nella maniera da me indicata, ossia con una riduzione notevole delle ore di lavoro, con la conquista di maggiore “ozio” a favore degli uomini, ozio che gli uomini sapranno utilizzare per il loro elevamento fisico, intellettuale e morale, il suo riconoscimento, dico, parmi decisivo. Ella aggiunge la riserva “alla lunga”, che ho l’impressione sia un po’ divenuta di moda tra gli economisti, i quali non amano pregiudicarsi affermando soluzioni precise ai problemi d’oggi; ed enumera ragioni plausibili della necessità di procedere a gradi, incominciando dalle industrie progredite per passare via via a quelle più arretrate. E sia. Quel che a me soprattutto pare importante non è l’enumerare le difficoltà, le quali si oppongono al raggiungimento immediato di una meta, che Ella medesimo considera fatale e benefica; ma affermare che la meta esiste, che essa deve essere ad ogni costo ed al più presto raggiunta. Penseranno gli interessati a valorizzare ed a ingigantire le difficoltà, anche quelle infondate. Se i fautori della riforma non insistono nel loro ideale di bene, chi supererà le difficoltà e chi appoggerà i governi, i quali, al pari di quello italiano, coraggiosamente hanno affermato nei congressi internazionali la tesi buona?

 

 

La difficoltà massima che Ella ha esposto è l’ingiustizia di scaricare sulle industrie stazionarie l’onere della disoccupazione derivante dall’impiego delle macchine nelle industrie progredite. L’onere deve cadere sulla collettività intiera ed essere da questa distribuito, afferma Lei, nel modo con cui si distribuiscono le imposte in generale, ossia sulle spalle di coloro i quali possono pagare.

 

 

È Ella davvero sicuro che le industrie “stazionarie” non possano pagare? Il mio pensiero di semplice osservatore corre ai prodotti, i quali non hanno sentito in questi ultimi anni o decenni le influenze delle macchine, ed io vedo che i produttori hanno saputo egregiamente tutelarsi contro il rialzo dei costi della mano d’opera, delle imposte e degli altri oneri. Sono esempi della vita ordinaria che ognuno può controllare: il prezzo della confezione dei vestiti, della confezione e non del panno, né del filo, né dei bottoni, Né della fodera. Forse che il prezzo della confezione non si è moltiplicato per assai più del coefficiente di svalutazione monetaria, il quale dal 1914 in qua oscilla in Italia fra tre e quattro? L’abito che si pagava 70 lire anteguerra non si paga forse, invece di 200-250 come richiederebbe il ragguaglio monetario, ben 300-400 lire? Le verdure, molte specie di frutta, prodotti tipici della mano d’opera, non si sono moltiplicate per quattro, ma per sei e per dieci. I prezzi dei servigi personali, i servigi dei barbieri, ad es., sono aumentati più che in proporzione alla svalutazione monetaria. Nei villaggi i contadini erano giunti nel 1914 a pagare la barba domenicale dieci centesimi, invece del soldo tradizionale del tempo della nostra gioventù, ma ora pagano 50 centesimi, e nelle città si è passati dalle una e due lire, a seconda della finezza del servizio, alle cinque ed otto lire. Nei teatri, i posti, che un tempo si pagavano da una a due lire, ora valgono da cinque a quindici lire.

 

 

Lascio a Lei di tradurre le osservazioni da me fatte sulla vita ordinaria nelle formule generali o teoriche proprie degli studiosi di economia. Io ho tentato solo di esprimerle nel linguaggio delle tabelline che Ella ha amato costruire nella Sua lettera, ed, in questo tentativo, la riflessione mi ha persuaso che probabilmente la divergenza nostra sta nella identificazione che Ella pose come assiomatica fra unità di beni e unità di dollari nel determinare la quantità ed i valori della produzione. Sono d’accordo con Lei nel ritenere che il salario ipotetico di un dollaro al giorno debba essere una cosa seria, ossia invariata, in potenza di acquisto, dopo come prima della riduzione delle ore di lavoro. Se la quantità prodotta era prima di 100 unità di beni, venduti in tutto a 100 dollari, e se essa, per effetto della macchina, cresce dopo a 120 unità di beni, cresca altresì a 120 dollari e non più la sua valutazione totale, cosicché con un dollaro si comperi dopo in media tanta merce come si comprava prima. Ma questa è regola relativa all’insieme dei beni, non ai singoli beni. Purché l’insieme delle 120 unità di beni valga 120 dollari, la condizione dell’uguaglianza della capacità di acquisto del dollaro od unità monetaria in genere è soddisfatta. I rapporti di prezzo dei singoli beni tra di loro possono invece variare e di solito variano da un tempo all’altro. Le osservazioni che ho fatto sopra e quelle relative al grande ribasso dei prezzi delle merci prodotte nelle industrie fortemente progredite ed industrializzate mi paiono probanti nel senso di permettere la conclusione: che il valore dei beni in moneta non sia variato nelle medesime proporzioni della variazione delle quantità dei beni medesimi, e che si sia effettuato uno spostamento a danno dei beni prodotti dall’industria meccanizzata a favore di quelli prodotti unicamente o prevalentemente dal lavoro. Rifaccio, secondo questo criterio, la Sua tabella seconda ed ottengo i seguenti risultati:

 

 

Prima

Dopo

L’introduzione della macchina

400

8

100

100

100

100

} 100

Occupazioni stazionarie

Occupazioni progressive

Totale

Ore giornaliere di lavoro: totale ………………………..

400

6

66,66

50

60

66,66

} 66,66

– 6,66

200

6

33,33

70

60

33,33

20

} 53,33

+ 6,66

600

6

100

120

120

100

20

} 120

Ore giornaliere per operaio occupato ……….
Numero di operai occupati ……………………
Produzione in unità di beni ………………………….
Produzione in dollari …..
Salario agli operai occupati, ad 1 dollaro ciascuno al giorno (in unità di beni o dollari) …
Compenso agli inventori risparmiatori (in unità di beni o dollari) ………….. 
Margine attivo o passivo fra produzione da un lato e spese (salario e compenso) dall’altra (in unità di beni o dollari) … 

 

 

Ella, supponendo che i valori in moneta (dollari) variassero nella stessa misura e nello stesso tempo delle variazioni delle quantità di beni, naturalmente concludeva che le industrie stazionarie, dovendo spendere 66,66 dollari per salari, si trovassero in una situazione insostenibile di fronte ad un incasso di soli 50 dollari, laddove le industrie progressive potevano contrapporre ad una spesa di soli 53,33 dollari un incasso di 70, con lucro ragguardevole. E chiedeva: perché provocare con legge ugualitaria questa che è nel tempo stesso una impossibilità economica ed un’ingiustizia sociale? Io osservo che le forze economiche rimediano spontaneamente al male. Le industrie progressive producendo 70 unità di beni non possono più venderle ad un dollaro l’una, ma devono ribassare il prezzo, riducendo l’incasso, ad es., a 60 dollari. Ma la domanda di merce da parte dei consumatori rimane costante, perché la quantità di moneta disponibile per gli acquisti è determinata in complessivi 120 dollari. Quella parte del reddito totale che non si è dovuto spendere per le merci prodotte a minor costo della industria meccanizzata, resta disponibile per l’acquisto dei beni e dei servigi prodotti dalle industrie stazionarie nelle quali gioca solo il lavoro umano. Possono così crescere e crescono relativamente i prezzi dei biglietti di teatro, dei servizi personali, delle verdure, dei fiori, sicché pur essendo solo 50 le unità prodotte, il prezzo di esse diventa 60. Ad un totale di beni di 120 unità rispondono 120 dollari, ma i 120 dollari invece di dividersi nelle stesse proporzioni dei beni (50 e 70) si dividono in proporzioni diverse (60 e 60), cosicché crescono relativamente i prezzi dei beni prodotti dal lavoro e scemano quelli dei beni prodotti dalle macchine. In questo modo, nel mio schema esemplificativo, la perdita delle industrie stazionarie si riduce a 6,66 dollari, dai 16,66 dollari del Suo calcolo, ed il guadagno delle industrie progressive si riduce parimenti da 16,66, a 6,66 dollari. Con un piccolo ulteriore spostamento dei prezzi non è impossibile giungere al pareggio.

 

 

Non pretendo di aver in tal modo dimostrato che la riduzione generale uniforme delle ore di lavoro possa operarsi rapidamente senza inconvenienti. Ho voluto soltanto indicare una delle vie lungo le quali l’aggiustamento può aver luogo. Gli aggiustamenti ed i riequilibramenti non si operano in pieno da sé. Bisogna aiutare le forze naturali. Ai disoccupati, che oggi l’umanità e la legge vietano di abbandonare alla carità privata, bisogna dar modo di seguitare a far domanda di beni. La riduzione proporzionale e generale delle ore di lavoro risolve il problema di distribuire il lavoro equamente fra tutti gli uomini, dando a tutti due ore addizionali di ozio. Si crea così certamente un altro problema: quello dei rapporti di prezzo fra le merci prodotte a poco costo grazie alle macchine e quelle prodotte ad alto costo, perché richiedenti un’alta dose di lavoro. È un problema di riequilibrio di prezzi, il quale si risolverà in avvenire nella stessa maniera come si è sempre risoluto in passato: aumentando il prezzo dei prodotti di alto costo e scemando quello dei prodotti di poco costo. Non è del resto naturale che gli uomini paghino poco le merci che le macchine si incaricano esse di produrre con poca spesa ed invece paghino care quelle che richieggono ancor oggi ad essi fatica di braccia e di mente?

 

GIOVANNI AGNELLI

 

al senatore LUIGI EINAUDI

 

in Torino

 

Piani

Piani

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1932, pp. 291-297

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 479-487

 

  …

Costo di produzione, leghe operaie e produzione di nuovi beni per eliminare la disoccupazione tecnica. A proposito di una nuova collana di ristampe di economisti

Costo di produzione, leghe operaie e produzione di nuovi beni per eliminare la disoccupazione tecnica. A proposito di una nuova collana di ristampe di economisti

«La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1932, pp. 61-73

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 389-402

 

  …

Contributi fisiocratici alla teoria dell’ottima imposta

Contributi fisiocratici alla teoria dell’ottima imposta

«Atti della R. Accademia delle scienze di Torino», 1931-1932, pp. 433-456

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, pp. 331-361

 

 

 

 

La nota vuole estrarre dalla letteratura fisiocratica, spogliandoli della loro particolare forma, alcuni fondamentali principii, la cui validità non appare legata con le sorti cadute della dottrina della «scuola». Le citazioni sono tratte[1] dagli scritti del marchese di Mirabeau, del Mercier de la Rivière, del Dupont de Nemours, del granduca di Baden e del Saint – Péravy; senza por mente alle sfumature le quali possono distinguere il pensiero dell’uno da quello dell’altro, sia perché nella materia qui considerata le sfumature sono irrilevanti sia perché di nessun gruppo di economisti può dirsi come dei fisiocrati che essi abbiano in verità costituito una «scuola», – «setta» al dir degli avversari – i cui scritti erano letti e discussi in collegio e sottoposti ad attenta revisione dal maestro, il Quesnay. Se inoltre si trae qualche brano dalle «riflessioni» del Turgot sebbene questi abbia voluto sempre tenersi indipendente dalla scuola, ciò si fa perché egli con singolare efficacia chiarisce alcuni dei problemi posti dagli altri fisiocrati.

 

 

Alla presente nota diede occasione la lettura nuovamente fatta dallo scrivente di alcuni principali scritti fisiocratici lettura fatta, come è ovvio, con gli occhi suoi della mente disposti a collocare le pagine lette nello schema che, a torto od a ragione, egli usa nella interpretazione dell’imposta. Del resto, così si rifà continuamente la storia delle dottrine: per ritrovare negli scritti degli antichi i germi di quelle che oggi a noi paiono verità.

 

 

I fisiocrati hanno ragione di rivendicare l’onore di avere per primi costruito una teoria sistematica della scienza economica. Altri può pretendere al titolo di fondatore della scienza; nessuno può contestare ai fisiocrati il vanto di dirsi i consapevoli pretendenti a quel titolo. Il «Tableau oeconomique» è forse incomprensibile; ma è certamente un tentativo efficace di costruire uno schema del processo non mai chiuso e sempre nuovo della produzione e del consumo. Ma qui finiscono le loro giuste rivendicazioni: ché la peculiare dottrina del «prodotto netto», fatta subito oggetto di satira ne «L’Homme aux quarante écus» di Voltaire, cadde dinnanzi all’esame critico degli economisti, i quali a poco a poco estesero il concetto di produttività dall’agricoltura a tutti gli altri tipi della umana attività.

 

 

Non sarebbe tuttavia corretto dar soverchio peso al «prodotto netto», all’«imposta unica», ed all’altro noto formulario della setta; epperciò cercai chiarire la sostanza viva di quelle parole morte. Non si rende giustizia ai fisiocrati quando si identifica la loro teoria sull’imposta col concetto dell’imposta unica sul prodotto netto della terra. Importa difendere i fisiocrati contro la caricatura che essi stessi fecero della propria teoria e che ai teorici venuti di poi piacque esagerare. Essi da sè si difendono quando si riproducano in ordine logico le loro parole medesime.

 

 

I. – L’imposta non è arbitraria.

 

 

Se le imposte sono malamente costrutte e distribuite, le conseguenze sono dannose.

 

 

«Il ne dépend pas des hommes d’asseoir l’Impôt selon leur caprice… Personne ne conteste aux ignorans le pouvoir physique de tomber dans de grandes erreurs; mais les loix naturelles les soumettent à des punitions très séveres, inévitablement attachées à ces erreurs, et c’est tout ce que l’on veut dire ici» – Dupont De Nemours, De l’origine et des progrès d`une science nouvelle, 1768, p. 40; ed. Paris, 1910, p. 20.

 

 

I fisiocrati affrontano il problema in maniera veramente scientifica. Essi non affermano che l’imposta debba essere costruita in un dato modo per ragioni poste aprioristicamente. Affermano soltanto che alcune imposte producono effetti, ordinariamente detti buoni; laddove altre imposte producono altri risultati, dal comune consenso dichiarati cattivi.

 

 

II. – Il soggetto di diritto non è necessariamente il soggetto di fatto dell’imposta.

 

 

«J’ai à mes gages un homme à qui je donne 100 francs, parce que 100 francs sont le prix nécessaire de sa main d’oeuvre, le prix fixé par concurrence établie sur une grande liberté: ces 100 francs sont à lui; il les reçoit de moi en échange d’une valeur de 100 francs en traveaux: établissez sur lui un impôt de la même somme; il ne pourra plus vivre, à moina que je ne lui donne 200 francs. Cependant pour ces 200 francs, je ne recevrai de lui que le mêmes travaux, que la même valeur qu’il me donnoit auparavant; il y aura donc la moitié de cette somme que je lui donnerai sans qu’il l’achete, et dont il se servira pour payer l’impôt: d’aprés cela n’est – il pas sensible que c’est sur moi que l’impôt retombe, et non pas sur lui? Tout impôt acquitté par un salarié dont le salaires augment en proportion, n’est certainement point supporté par le salarié: cet inpôt est à la charge de ceux qui, par l’augmentation de ses salaires, lui fournissent gratuitement les moyens de payer» (Mercier De La Rivière, L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques. 1767, II, 112-3).

 

 

Nel brano citato il Mercier de la Rivière parte dalle ipotesi di illimitata concorrenza fra operai e fra imprenditori e di uguaglianza del salario al minimo necessario per l’esistenza. Altrove, le ipotesi implicite variano:

 

 

«Parmi les diverses manieres de mettre un impôt aur les salaires il en est une à la quelle on a donné le nom d’impôt sur les consommations… Le propre d’un tel impôt est donc de faire diminuer la mation ou la valeur vénale des marchandiaes sur les quelles il est établi. Dans les deux cas, le premier vendeur de ses marchandises est également en perte; mais le dernier cas est celui qui doit naturellement ariver, parce qu’on veut vendre à quelque prix que ce soit; que d’ailleurs la diminution du prix d’une marchandise est une suite nécessaire de la diminution de son débit» (Id., II, 206-208).

 

 

Se alle ipotesi qui poste di una offerta rigida («on veut vendre à quelque prix que ce soit») e di una domanda elastica («le propre d’un tel impôt est de faire diminuer la consommation») si aggiunga quella, consueta negli stati di antico regime, di classi o regioni immuni dalla imposta, resta dimostrata la verità di un’altra proposizione:

 

 

III. – Se, per effetto della imposta stabilita in ragione della quantità venduta di una merce, il prezzo della merce aumenta di meno dell’ammontare dell’imposta, i consumatori esenti dall’imposta sono avvantaggiati.

 

 

«A l’égard d’un impôt sur la vente des productions cueillies dans l’intérieur de la nation, et dont le commerce reste libre cependant entre le vendeur et l’acheteur, cnmme il n’est pas possible d’y assujettir toute une même espece de productions, il en résulte un inconveniént singulier: cette marchandise diminue de prix non seulement pour les consommateurs qui ne peuvent se la procurer qu’en payant des droits; mais encore pour tous les autres qui n’ont point de droits à payer, en supposant néammoins que cette production ait besoin de cette première classe de consommateurs. Chaque lieu où se cueille une production est une sorte de marché public formé par la concurrence des vendeurs: là, chacun achete au même prix, toutes choses égales d’ailleurs; et la concurrence des acheteurs établit un prix courant qui devient une loi commune: que vous ayez des droits à payer après l’achat, ou que vous ayez des droits, vous n’achetez ni plus ni à meilleur marché. Ainsi dès que parmi les consommateurs dont le débit d’une production a necessairement besuin, il s’en trouve qui sont chargés de payer des droits, il sont forcés de dinsinuer le premier prix d’achat; et cette diminution fait tomber également le prix courant de cette production pour touts les autres acheteurs. Je dis que les consommateurs sujets aux droits sont forcés de diminuer le premier prix d’achat, et cela est facile à cocevoir: l’établissement de ces droits n’augmente point, dans ces consommateurs, les moyens qu’ils avoient pour dépenser; il faut donc qu’ils achetent cette production moins cher, ou qu’ils en achetent une moindre quantité, la surabondance de cette production en fait necessairement diminuer la valeur. Impossible donc d’empêcher que le prix de cette production ne diminue et ne diminue pour tous les acheteurs indistinctement» (Id., id., II, 208-210).

 

 

Oltreché delle premesse già ricordate intorno alla natura della domanda ed alla specialità dell’imposta ed a quelle del coeteris paribus e dell’unicità del prezzo del medesimo bene sullo stesso mercato e nello stesso momento il Mercier de la Riviere fa uso efficace di altri strumenti di ragionamento, dei quali meritano di essere ricordati due. Il primo consiste nel concepire la domanda dei beni come proveniente distintamente da strati successivi di consumatori, i quali entrano in scena a mano a mano che il prezzo, scemando, rende il bene ad essi accessibile («en supposant… que cette production ait besoin de cette… classe de consommateurs …» «les consommateurs dont le débit d’une production a nécessairement besoin»); ed il secondo sta nell’importanza singolarissima data al concetto del reddito del consumatore. Non i produttori sono costretti a ridurre il prezzo di vendita, sibbene i consumatori a scemare il prezzo d’acquisto dei beni quando questi sono percossi da imposta; perché il tributo non aumenta «i mezzi che i consumatori hanno di spendere». Il richiamo ripetuto alla «necessità» non come a qualcosa di fatale per comando divino o per combinazioni naturali incombenti, sibbene come a constatazione di un vincolo fra causa ed effetto, compie il quadro della ricerca puramente scientifica intesa dai fisiocrati a rispondere alla domanda: chi paga l’imposta? Quali sono gli effetti della sua percussione generale o parziale?

 

 

IV. – L’imposta, stabilita sull’oggetto non proprio, tende a spostarsi sinchè non siasi trasferita sull’oggetto suo proprio.

 

 

«Quand on veut, disait un grand ministre, tirer les choses de leur centre et de l’élément qui leur est propre, il faut de la force, il faut du travail; mais elles se replacent d’elles-mêmes» (Mirabeau, Théorie de l’impôt, 1760, 359).

 

 

Saint – Péravy applica la massima dapprima all’imposta sugli interessi dei capitali dati a prestito:

 

 

«La proportion entre les prêteurs et les emprunteurs est la seule cause décisive du prix de l’argent ou de son intérêt. La loi ne pouvant pas changer la raison de ce concours général, le taux des contractants se rendra toujours indépendant de son autorité. L’emprunteur ne doit pas mieux réussir à forcer le prêteur de subir la diminution de l’impôt sur son intérêt, que de prêter à un fur plus bas celui du concours general. On ne peut pas plus le présumer maître de la première condition qua la séconde. Ainsi le fur naturel de l’argent prenant toujour l’ascendant sur le fur légal qui s’efforce on vain de le saisir et de le fixer, la reprise de l’impôt sur les rentes est calculée par le prêteur, et exigée par lui en sus du fur naturel; ce qui le fait renchérir et retomber sur l’emprunteur qui s’abuse, s’il prétend le gagner» (Saint – Péravy, Mémoire sur les effets de l’impôt indirect sur le revenue des propriétaires des bien fonds, 1768, 66). Poscia all’imposta sulle case:

 

 

«Le terrein sur lequel elles [les maisons] sont construites; les matériaux qui les composent, et la main – doeuvre qu’a coûté leur arrangement, représentent le capital qui forme leur valeur. Cette manière de l’employer ne peut être censée avoir été adoptée par personne, que dans la certitude d’en retirer un profit combiné avec celui de ses autres emplois, et en raison de leur solidité. Rien ne doit pouvoir diminuer cette proportion. Ce n’est point l’impôt qui doit réussir à l’affaiblir; il est incontestable qui il doit être aux dépens du locataire en renchérissement dei loyers. En effet, supposez un instant qu’il soit retenu aux possesseurs des maisons, en déduction des baux; alors l’emploi e l’argent en bâtisse deviendroit moins favorable que tous ceux dont il est susceptible dans les mains de l’industrie; aussi-tôt on cesseroit de construire de nouvelles maisons; on refuseroit même de construire de nouvelles maison; on refuseroit même de rebâtir celles que le feu et la vétusté detruiroient; conséquemment le nombre en diminueroit, jusqu’à ce que la demande en concurrence des locataires, eut élevé le prix des loyers au pair de l’indemnité de l’impôt en faveur des possesseurs de maisons» (Id., id., 68-69).

 

 

La proposizione quarta è fondata sulla premessa della esistenza di un saggio «naturale» di interesse o di pigione: e s’intende per naturale quel saggio il quale rende la quantità offerta dei capitali a mutuo o delle case uguale alla quantità domandata. Fondandosi su osservazioni d’indole puramente economica e non sui giudizi etici, il saggio «naturale» non si intende imposto dalla consuetudine, dalla legge o da sentimenti di giustizia o di equità; ma è alla lunga conforme alle condizioni esistenti del mercato del risparmio o delle case. Se l’imposta riduce il saggi dell’interesse o delle pigioni al disotto del livello naturale, la sanzione non è etica o giuridica, ma economica. Il saggio ridotto è instabile. Non si forma abbastanza nuovo risparmio per soddisfare al «concours general», alle richieste esistenti; le case vecchie deperiscono e nuove non sorgono. Il saggio deve rilevarsi per ristabilire l’equilibrio.

 

 

La proposizione quarta può, in forma più approssimata alla realtà, essere esposta come segue:

 

 

V. – Oggetto proprio dell’imposta non possono essere le spese di produzione; perciò, se stabilita su queste, essa tende a spostarsi. «Avant d’extraire la portion de l’État sur les biens des Citoyens, il faut prélever les frais de tout genre» afferma Mirabeau (loc. cit. 424). Enumerando, egli dichiara che il prodotto della terra deve innanzitutto servire:

 

 

«1) A la subsistance de ceux qui les font naître. 2) A la subsistance de ceux qui les façonnent. 3) A celle de ceux qui les voiturent; ce qui comprend Agriculture, Industrie et Commerce. Toutes ces parties sont de droit franches, libres et immunes» (loc. cit., 424).

 

 

Anche questa è proposizione prettamente economica, la quale si deduce, come fu chiarito sopra, dalla osservata impossibilità che il saggio del salario degli agricoltori, dei manifattori e dei commercianti scenda al disotto di quello naturale, che è (cfr. la proposizione prima) uguale al minimo per l’esistenza. Come può l’imposta ridurre i salari al disotto del minimo? Il tentativo sarebbe non solo vano, ma dannoso. Qui ha luogo una tra le più feconde proposizioni fisiocratiche:

 

 

VI. – La traslazione, pure inevitabile, della imposta stabilita sulla spesa di produzione è causa di attriti ossia di perdite di ricchezza. Gli adepti della setta fisiocratica elaborarono assai sottilmente la distinzione fra le vecchie e note imposte, i cui effetti possono essere scontati dagli imprenditori e le nuove imposte le quali cadono su di essi quando essi hanno già iniziato la produzione. Le prime sono fastidiose:

 

 

«Si l’on établissait des impositions sur les personnes, sur les marchandises, sur les dépenses, sur les consommation; la perception de ces impositions serait fort couteuse; leur existence gênerait la liberté des travaux humains, et augmenterait nécessairement les frais de Commerce et de culture.

 

 

Cette augmentation de frais de commerce et de culture, ces taxes dispendieuses entre la production et la consommation, n’augmenteraient la richesse d’aucun acheteur consommateur, et ne pourraient faire dépenser à qui que ce fut plus que son revenu.

 

 

Elles forceraient donc les acheteurs à mésoffrir sur les denrées et les matières premières en raison de la taxe, et de la perception couteuse de la taxe, et de l’accroissement de frais intermédiaires de commerce et de fabrication que la taxe et sa perception occasionneraient.

 

 

Elles feraient donc baisser nécessairement d’autant le prix de toutes les ventes de la première main.

 

 

Les cultivateurs qui font ces ventes se trouveraient donc en déficit dans leur recette, de toute la diminution du prix de leurs denrées et matières premières.

 

 

Ils seraient donc forcés d’abandonner la culture des terreins mauvais ou médiocres, qui avait la diminution du prix des productions, ne rendaient que peu rien par de-là le remboursement des frais de leur exploitation et qui par cette diminution de la valeur des récoltes ne pourraient plus rembourser ces frais nécessaires pour les cultiver. De-là naîtrait une première et notable diminution dans la masse totale des subsistances, dans l’aisance du Peuple, et bientôt dans la population.

 

 

Les cultivateurs seraient forcés en outre, de retrancher, ou sur le revenu des propriétaires, ou sur les dépenses de leur culture, une somme égale au deficit qu’ils éprouveraient dans leur recette» (Dupont De Nemours, 1768, pp. 42-3; 1910, pp. 21-22).

 

 

Ma le seconde sono assai peggiori:

 

 

«Mais si l’imposition augmente pendant le cours du bail du fermier, elle enleve les avances d’exploitation avec un progrès très rapide; elle éteint le produit total qui doit fournir le revenu, restituer les reprises du fermier, payer les salaires aux ouvriers employés à la culture, et entretenir les engrais de la terre; alors les biens se détériorent et tombent en non valeur. Ainsi l’imposition qui enleve les richesses d’exploitation est une dévastation qui ruine les fermiers, qui anéantit les revenus des propriétaires et du souverain et qui éteint la retribution dont subsistent les autres classes d’hommes» (Mirabeau, loc. cit., 477-478).

 

 

La scuola ha elaborato minutamente la proposizione sesta, fondamentale nel «sistema», la quale si riduce in sostanza ad affermare che l’imposta stabilita su un reddito appena sufficiente alla vita del contribuente, ove non possa essere e per la parte per cui non può essere immediatamente traslata su altro reddito capace a sopportarla, deve essere dal contribuente soluta sui fondi da lui in passato accumulati, con danno gravissimo e progressivo per il flusso corrente della ricchezza nuovamente prodotta. Saint-Péravy, scrupoloso elaboratore della dottrina dei maestri, dedica gran parte del suo libro a studiare gli effetti dell’imposta che la scuola chiama «indiretta», perché non assisa sull’oggetto suo proprio, e distingue l’imposta in «permanente» se antica e «sopravvegnente» (impôt survenant), se nuova o meglio imprevista. Distinzione, quest’ultima, che taluno può avere avuto l’impressione di incontrare, elaborata, in moderni scrittori, i quali a lungo insistono sulla importanza della previsione e prevedibilità della imposta nello studio dei suoi effetti, ma era stata già finemente cesellata dalla scuola. La quale, per bocca massimamente di Saint – Péravy, combina, alla foggia moderna – ed altro forse non manca fuor che l’uso delle lettere dell’alfabeto per denotare le varie combinazioni di fattori considerati, – le diverse specie di imposta permanente e sopravvegnente con le varie dosi di anticipazioni culturali degli imprenditori agricoli, primitive od iniziali (migliorie, piantagioni, macchine) ed annuali (sementi, concimazioni, salari) e ne ragiona le conseguenze sulla degradazione delle culture derivanti dalla imposta male assisa e non trasferibile immediatamente sull’oggetto suo proprio pongasi mente che tra le premesse fisiocratiche era compresa quella che una anticipazione culturale di 100 importasse in media un raccolto susseguente (réproduction) di 210, di cui 100 a titolo di restituzione delle anticipazioni fatte (reprises des avances), 10 a titolo di interesse e 100 a titolo di reddito (revenu); premessa che, essendo derivata dalla asserita osservazione di fatti contingenti del tempo in cui i fisiocrati scrivevano, non ha importanza teorica prendendo le mosse da siffatte premesse, Saint – Peravy discute l’ipotesi, da lui assunta tra le più semplici, dell’imposta assisa sul coltivatore, il quale abbia fatto soltanto anticipazioni annuali:

 

 

«Pour peu qu’on examine le sort des fermiers, qui, pressés par la création d’un nouvel Impôt, n’ont d’autres ressources pour y satisfaire que leurs reprises composées de leurs avances annuelles avec leurs intérêts; si le genre de leur culture n’est fondé que sur des avances annuelles, il n’est pas douteux qu’ils commenceront pour sacrifier ces intérêts pour ne point entamer leurs avances; mais au moindre accident dans les récoltes, ne trouvant plus dans ses intérêts les secours qu’ils devoient leur ménager, et qui ne leur avoient été accordes que pour ces moments de crise, il sont forces d’entamer leurs avances elles-mêmes. Alors la reproduction suivante sera diminuée en raison de deux cents dix pour cent de ce qu’ils auront commencé à en sacrifier. Avec une récolte aussi affaiblie, il ne leur est plus possible de se remettre au pair en reportant la dépense du nouvel impôt sur les seuls intérêts des avances pour l’année suivante. Le vuide de la récolte qu’ils supportent seuls par le droit injuste conserve aux propriétaires de refuser de leur en tenir compte pendant le cours des baux, les réduit à ne pouvoir plus payer l’impôt qu’en reprenant de nouveau sur leurs avances: elles seront diminuées chaque année, non seulement de la reprise répétée de l’impôt; mais encore du vuide de la reproduction qui sera augmenté progressivement jusqu’au moment de l’échéance des baux: alors presque ruines ils ne pourront plus former d’engagements avec les propriétaires, que conséquemment à la foible culture que l’épuisement de leurs richesses d’exploitation leur permettra de soutenir, et aprés leur avoir précompté la charge du nouvel impôt» (loc. cit., 161-163).

 

 

Saint – Péravy dimostra in tal modo che l’imposta assisa sull’affittavolo non può incidere su di lui se non per il tempo residuo della locazione; anzi il proprietario previggente ha interesse ad accettarne subito la traslazione sul canone di affitto ad evitare il maggior danno altrimenti incombente su di lui al termine del contratto. Se egli accetta subito la traslazione, il danno si limita all’ammontare dell’imposta; se egli, giovandosi della lettera del contratto, si ostina nel rifiuto di accollarsi subito l’imposta, dovrà sottostare alla fine medesimamente ad una riduzione uguale all’imposta ed in aggiunta alle conseguenze della degradazione della coltura derivata dai minori capitali di anticipazione rimasti in possesso dell’affittavolo. Quanto sia grande la «degradazione» – così la chiamano i fisiocrati – che l’imposta non traslata esercita sul capitale d’anticipazione è chiarito da ripetute tabelline che i fisiocrati costruiscono per ognuna delle combinazioni ipotetiche da essi esaminate. Eccone una (riprodotta da loc. cit., 164), relativa all’ipotesi: 1) di un’imposta di 1.000 lire annue; 2) di un saggio di interesse del 10% sul capitale di anticipazione; 3) di un raccolto di 210 (100 réprise, 10 interesse e 100 reddito, come detto sopra) per ogni 100 anticipate. È chiaro che se l’imposta porta via 1.000 lire al capitale d’anticipazione, nell’anno medesimo il raccolto scemerà di 2.100 lire; nel secondo anno l’anticipazione sarà perciò ridotta delle 2.100 lire non fornite dalla terra nell’anno precedente, più delle 1.000 lire d’imposta non traslata; cosicché il raccolto diminuirà di 6.510 lire (3.100 reprise, 310 interessi e 3.100 reddito); e così via.

 

 

Iere annee 1.000 l.
qui aurorient réproduit à la premiére récolte 

2.100 l.

IIe annee 2.100 l.L’impôt 1.000 l. } 3.100

qui auroient reproduit a la seconde récolte

6.510 l.

IIIe annee 6.510 l.L’impôt 1.000 l. } 7.510

qui auroient réproduit à la troisième récolte

15.771 l.

IVe annee 15.771 l.L’impôt 1.000 }16.771

qui auroient réproduit la quatrième récolte

35.219 l.

Ve annee 35.219 l.L’impot 1.000 l. }36.219

 

 

Poiché in regime di libera concorrenza tra fittavoli, il «reddito» spettante al proprietario, a titolo di canone di affitto è uguale, secondo i dati sperimentali osservati dai fisiocrati, al capitale di anticipazione annuo (nel caso ipotetico qui studiato non esistono anticipazioni iniziali), il rifiuto del proprietario ad accollarsi per cinque anni 1.000 lire all’anno dell’imposta «survenante», la quale ha sorpreso il fittavolo a mezzo il corso della locazione, e gli ha cagionato la perdita di 36.219 lire del suo capitale di anticipazione, costa a lui, durante il nuovo periodo di affitto, la perdita annua di 36.219 lire di reddito.

 

 

Non hanno importanza i dati empirici usati nel calcolo, i quali diedero luogo da parte dei contemporanei a critiche di difformità dall’esperienza concreta; ed invece importa assaissimo il metodo tenuto nel porlo e ragionarlo. Metodo rigoroso, perché ridotto allo studio delle conseguenze prodotte dall’imposta nei due casi estremi: di non traslazione e di traslazione sull’oggetto suo proprio, che è il reddito netto dell’impresa, ad esclusione delle spese anticipate dall’imprenditore e dai relativi interessi. Se l’imposta è subito traslata il percettore del reddito vede questo scemato del semplice montare di essa; se la traslazione tarda e l’imposta «depreda» il capitale anticipato dall’imprenditore, il reddito netto dell’intrapresa tanto più scema quanto più a lungo è durata la depredazione.

 

 

Chi volesse, potrebbe trovare nella esclusione, sostenuta dai fisiocrati, degli interessi dall’imposta, una anticipazione della teoria della esenzione del risparmio dall’imposta. In verità, la teoria fisiocratica dell’imposta sugli interessi del capitale si fonda essenzialmente non sul concetto che la tassazione dell’interesse fa doppio con quella del risparmio da cui proviene il capitale fruttifero di interessi, ma sul principio che l’interesse non è capace d’imposta. Nitidamente scrive il Turgot:

 

 

«Le mille écus que rétire chaque année un homme qui a prêté soixante mille francs ne sont point une rétribution que la culture ou le commerce rendent gratuitement à celui qui a fait les avances; est le prix et la condition de cette avance, sans laquelle l’entreprise ne pourroit subsister. Si cette rétribution est diminuée le capitaliste retirera son argent, et l’entreprise cessera. Cette retribution doit donc être sacrée et jouir d’une immunité entière, parce quelle est le prix d’une avance faite à l’entreprise, sans laquelle l’entreprise ne pourroit subsister. Y toucher, ce seroit augmenter le prix de avances de toutes les entreprises, et par conséquent diminuer les entreprises elles-mêmes, c’est-a-dire, la culture, l’industrie et le commerce….. En un mot, le capitaliste prêteur d’argent doit être considéré comme marchand d’une denrée absolument nécessaire à la production des richesses, et qui ne sauroit être à trop bas prix. Il est aussi déraisonnable de charger son commerce d’un impôt, que de mettre un impôt sur le fumier qui sert à engraisser les terres» (Réflexions sur la formation et la distribution des richesses, in Oeuvres de

Mr Turgot, 1808, tome 5e, 121-123).

 

 

Nitida è la tesi, dimenticata poscia, in tempi più leggiadramente intesi alla «giustizia» tributaria, che l’imposta non deve preoccuparsi di colpire tutti i redditi. Non il reddito dei cittadini, ma il sovrappiù creato dallo stato è l’oggetto proprio dell’imposta.

 

 

Dupont De Nemours descrive con linguaggio incisivo le perniciose conseguenze delle imposte malamente distribuite, le quali non si possono subito trasferire:

 

 

«Si les baux qui engageraient les cultivateurs vis-à-vis des propriétaires, avaient plusieurs années a courir, et si les premiers ne pouvaient les résilier; la dégradation deviendrait progressive, et d’autant plus rapide que le cultivateur serait forcé de payer tous les ans le même loyer et la même imposition, sur une récolte affaiblie tous les ans par l’effet de ces payemens, auxquels il ne pourrait satisfaire qu’en retranchant tous les ans sur les dépenses de sa culture.

 

 

Cette dégradation, si redoutable à la population, retomberait nécessairement à la fin sur les propriétaires fonciers et sur le Souverain, soit par la ruine des entrepreneurs de culture, soit par l’expiration de leurs baux.

 

 

Ceux des entrepreneurs de culture auxquels il resterait encore le moyen de renouveller leurs baux, instruits par l’expérience, stipuleraient de maniere à se dédommager des pertes qu’ils auraient essuyées, ou du moins à ne pas s’exposer à en faire de pareilles à l’avenir. Leurs facultés affaiblies ne leur permettant pas de conduire leur exploitation aussi avantageusement que par le passé, ils ne s’engageraient qu’en raison de l’impuissance où les aurait réduits la perte d’une partie de leurs richesses, de la diminution arrivée dans le prix des ventes de la première main, et de la surchage de l’impositon indirecte et des frais de sa perception.

 

 

L’appauvrissement de ces entrepreneurs de culture, et la ruine des autres auxquel il ne resterait plus la faculté de faire les avances des frais de l’exploitation, détourerait les hommes riches de se livrer à une profession qui ne leur présenterait que la perspective de la perte de leur fortune. La culture de la plus grande partie des terres resterait abandonnée à des malheureux manouvriers sans moyens, auxquels les propriétaires fonciers seraient obliges de fournir la subsistance. Alors, impossibilité de se procurer des animaux vigoureux pour exécuter les travaux avec force et avec célérité, et des bestiaux en assez grande quantité pour fumer les terres; disette des engrais nécessaires; insuffisance des réparations et de l’entretien indispensable des bâtiments, des fosses, etc.; extinction presque entière des récoltes, des subsistances, de la population, du produit net qui constitue la richesse des propriétaires fonciers, du revenu public qui ne peut être qu’une part de ce produit net, de la puis sance du Souverain qui est fondée sur le revenu public»  Impositions indirects; Pauvres Paysans. Pauvres Paysans; Pauvres Royaume. Pauvre Royaume; Pauvre Souverain. (Dupont De Nemours, 1768, pp. 46-48; 1910, pp. 22-23).

 

 

VII. – È conveniente, ad evitare gli attriti della traslazione (arricchimento di taluni, per la proposizione terza e perdita di capitale e di reddito in generale, per la proposizione sesta), assidere senz’altro l’imposta sull’oggetto suo proprio che è quella parte del reddito totale sociale, la quale costituisce la remunerazione necessaria della classe politica.

 

 

È noto quale fosse l’oggetto proprio dell’imposta, secondo i fisiocrati. Poiché questo fu da essi identificato col «prodotto netto» della terra e poiché le remunerazioni di tutti i componenti la società, all’infuori del “prodotto netto” percepito dai proprietari della terra, furono da essi considerate puri rimborsi di spesa, caduta la teoria del prodotto netto parve caduta altresì tutta l’analisi fisiocratica. In verità, la identificazione dell’«oggetto proprio» dell’imposta col «prodotto netto» non pare essenziale alla teoria fisiocratica.

 

 

Leggasi nell’Abrégé des principes de l’économie politique dell’adepto più illustre, perché principe regnante, della «scuola», Carlo Federico granduca di Baden, la definizione del produit net.

 

 

«Produit net, qui est la part qui revient au proprietaire, et qui fait qu’il peut vivre sans travailler, et que sa personne devient par là disponible»; ed ancora «ce qui est remis franc et quitte des fraix annuels de la cultivation, entre les mains du proprietaire; mais ce produit net a d’autres destinations importantes et indispensables; ces destinations sont: 1) L’entretien et même l’amélioration des avances foncières»; 2) L’acquittement des charges sociales (Carlsrouh, 1786, 23, 23 e 26).

 

 

Il granduca di Baden echeggiava le parole scritte da un più grande economista, il Turgot, il quale, rispetto al punto che qui ci interessa, rispecchia le opinioni della «scuola». Prodotto netto per lui

 

 

«est cette partie indépendante et disponible que la terre donne et pur don à celui qui la cultive au-delà de ses avances et du salaire de ses peines; et c’est la part du propriétaire ou le revenu avec lequel celui ci peut vivre sans travail, et qu’il porte où il veut… La classe des propriétaires [est] la seule qui n’étant point attachée par le beison de la subsistance à un travail particulier, puisse être employée aux besoins généraux de la société, comme la guerre et l’administration de la justice, soit par un service personnel, soit par le paiement d’une partie de ses revenus avec laquelle l’Etat ou la société soudoie des hommes pour remplir ces fonctions. Le nom qui lui convient le mieux par cette raison, est celui de classe disponible» (Réflexions, cit., tome 5e, 15-16).

 

 

Dove, sovratutto nelle parti sottolineate, si vede che il reddito «disponibile» perché «indipendente» dalle quote necessarie a compensare i fattori economici della produzione, non è, per il Turgot e per il granduca di Baden, dato ai proprietari perché essi trascorrano la vita nell’ozio, anzi perché essi, resi per tal modo immuni dal lavoro che gli antichi avrebbero detto «servile», possano dedicarsi interamente agli uffici pubblici. Ed è interessante notare come l’imposta sia da Turgot concepita quasi uno spediente usato dalla classe dirigente per esimersi da quegli uffici pubblici i quali fossero al disotto della sua dignità e potessero essere soddisfatti da agenti mercenarii.

 

 

Il prodotto totale annuo o reddito nazionale di una data aggregazione di uomini si può dunque dividere in due parti: cui l’una è la remunerazione «necessaria» dei lavoratori, capitalisti ed imprenditori, necessaria perché restituisce ad essi le anticipazioni compiute durante il periodo produttivo e fornisce il reddito bisognevole a mantenere lavoratori ed imprenditori a seconda del tenore di vita ordinario corrente nel paese ed a remunerare il capitale di anticipazione; l’altra è un «sovrappiù» il quale permette a chi lo percepisce di «vivere senza lavorare». Il nucleo sostanziale del concetto del produit net non è di essere proprio esclusivamente della terra. Così credettero i fisiocrati medesimi; non avvedendosi che essi, forse non primi nell’esporla, ma primi certo nell’analizzarla così a fondo, mettevano innanzi l’idea che esistesse nel prodotto annuo sociale una parte non dovuta allo sforzo, al lavoro, al risparmio dei componenti la società economica in stretto senso, una parte che perciò diventava «disponibile». Membri di una società la quale, per quanto trasformata, serbava ancora le assisi formali del feudalesimo, in cui le classi dirigenti erano tratte sovratutto dai proprietari di terre, in cui gli uomini del terzo stato divenuti ricchi o investiti di cariche pubbliche ambivano a nobilitarsi acquistando terre, i fisiocrati identificarono il reddito «disponibile» con il reddito netto fondiario. La identificazione era un accidente storico, non la sostanza della teoria. Sostanziale alla teoria fisiocratica era il concetto di una quota «disponibile» del prodotto sociale totale, la quale non era la remunerazione necessaria di una delle classi «economiche»: quota da essi riconosciuta di spettanza della classe proprietaria. Che essi abbiano alle classi economiche dei lavoratori, dei capitalisti e degli imprenditori agricoli, industriali e commerciali attribuito un semplice rimborso di spesa e le abbiamo persino qualificate in parte di «sterili», assegnando alla classe proprietaria l’unico reddito «netto» o «nuovo», è uno di quegli accidenti storico terminologici, di cui abbondano tutte le scienze e in particolare quella economica. Se si guarda al di là della terminologia, talvolta stravagante e del sistema, bizzarramente logico e rifinito, dei fisiocrati, quel che rimane della classificazione fisiocratica del reddito nazionale si riduce a ciò che le «altre» quote erano inaccessibili all’imposta perché «proprie» ossia «necessarie» a chi le percepiva laddove una quota, uguale al «sovrappiù» residuo non necessario, risultava «disponibile».

 

 

I capitalisti, i manifattori ed i mercanti erano troppo affaccendati per avere molto tempo disponibile per servire il pubblico capitalisti e mercanti, giungendo alla ricchezza, compravano terra come primo passo all’acquisto di un titolo, e, per i figli, alle cariche giudiziarie, militari e burocratiche. Turgot si industriò a distinguere fra il capitalista ed il suo reddito come uomo, il capitalista appartiene alla classe disponibile:

 

 

Le capitaliste prêteur d’argent appartient, quant’à sa personne, à la classe disponible (Titolo del capitolo 93 delle Réflexions, V, p. 119).

 

 

Ma nulla può essere dedotto dal suo reddito a titolo di imposta, perché l’interesse del capitale cadrebbe al disotto del livello necessario a promuovere il risparmio e l’investimento.

 

 

«Cette retribution… être sacrée et jouir d’une immunité entière, parce qu’elle est le prix d’une avance faite à l’entreprise, sans la quelle l’entreprise ne pourrait subsister. Y toucher, ce serait augmenter le prix des avances de toutes les entreprises, et par conséquent diminuer les entreprises elles – mêmes, s’est-à-dire, la culture, l’industrie et le commerce» (Réflexions, v, p. 122).

 

 

Il salario dei lavoratori ed il profitto dei manifattori e dei mercanti non sono disponibili per il servizio dello stato, sia quanto ai redditi sia quanto a chi li percepisce. Le occupazioni industriali e mercantili rendono gli uomini disadatti ai più alti uffici. L’interesse del capitale sta di mezzo; non è disponibile come reddito ma consente al suo percettore agi bastevoli per il servizio pubblico. Solo la classe proprietaria raggiunge tuttavia la piena dignità, perché reddito e persona sono disponibili amendue per l’imposta e per il servizio dello stato.

 

 

Leggiamo di nuovo (pag. 33) l’Abrégé del granduca di Baden, che a ragione può dirsi la summa summarum della «dottrina»:

 

 

LE DROIT

que la classe proprietaire a de jouir du revenu, suppose de meme

DES DEVOIRS

qui sont

 

1) L’acquit fidele de ses charges. 

 

 

 

 

 

 

Qui consistent à contribuer aux charges publiques, et à entretenir les avances foncières

2) La protection de tous les droits de ceux qui vivifient la propriété foncière 

 

 

 

 

C’est d’être juste envers le cultivateur et de le protéger contre les erreurs publiques et les injustices privées, par le recours à l’autorité, et la connaissance des droits et des devoirs sociaux

3) Le service gratuit envers la societè 

 

 

 

 

 

C’est de vaquer à quelques unes des parties qui rentrent dans les trois points qui renferment les besoins sociaux ; et cela, sans exiger un salaire proportionné au besoin absolu de sa subsistance

4) La justedistribution

de ses depenses,

d’ou dependent le

droit et le

patrimonie d’une

grande portion

de la societè.

 

Il y a une juste direction des dépenses, et une autre qui est nuisible, et par conséquent injuste

 

 

Il «reddito», il solo che i fisiocrati così denominassero, spettante ai proprietari, può tradursi con la parola di sovrappiù» ad indicare che esso è un residuo «disponibile» dopo remunerate le classi «economiche». Nonostante il gergo usato dai fisiocrati, per cui esso ci appare come un dono gratuito o puro fornito dalla natura ai proprietari della terra, quel «sovrappiù» in verità non si identifica nè con la rendita ricardiana, nè con le sopravvenienze derivanti dal vivere sociale (redditi di congiuntura) ed ha in se assai poco del gratuito e del liberamente disponibile. Dal contesto delle illustrazioni fisiocraticbe, quel reddito ci appare «necessario» al par di ogni altro. «Sovrappiù» rispetto alla remunerazione necessaria o corrente per le classi economiche, esso è la remunerazione necessaria per la classe politica. Alla medesima stregua, gli «altri» redditi potrebbero essere definiti un «sovrappiù» rispetto alla remunerazione necessaria alla classe politica.

 

 

In ossequio alla concezione feudale della società politica propria dei fisiocrati il «reddito» o «sovrappiù» è gravato da varie specie di servitù pubbliche. Esso spetta alla classe proprietaria, poiché essa è anche classe dirigente: serve lo stato gratuitamente o con onorari inferiori a quelli che sarebbero economicamente correnti e necessari (terzo dovere); esercita il patronato verso i dipendenti e ne assume la difesa contro i soprusi pubblici e privati (dovere secondo); esercita il patronato verso i clienti, così da promuovere occupazioni oneste e scoraggiare le frivole (dovere quanto, oggi da taluni economisti detto «dovere dei consumatori»); assicura il progresso economico della nazione, fornendo all’agricoltura ed industria i capitali di impianto, che i fittabili non hanno interesse di impiegare (les avancers foncieres del dovere primo); e finalmente paga le imposte (dovere primo). In sostanza, tutto il «sovrappiù» disponibile è devoluto a fini pubblici, in parte a mezzo dello stato (imposte) ed in parte a mezzo della classe dirigente proprietaria. Quando il granduca di Baden definisce il reddito disponibile come quello che permette alla classe proprietaria di «vivere senza lavorare», egli non intendeva con ciò riferirsi ad un vivere in ozio volgare, ma a quegli «ozi» i quali consentono ed impongono una vita intensamente consacrata alla cosa pubblica. I fisiocrati s’erano posti un ideale di classe dirigente non identificata con lo stato, anzi indipendente da esso; ma tutta penetrata del sentimento profondo dei doveri sociali. La quota maggiore del reddito disponibile spettava, in questa concezione storica politica, alla classe dirigente se e finché adempieva ai suoi doveri sociali. Quando, per egoismo o decadenza, la classe dirigente più non avesse adempiuto a quei doveri, il sovrappiù sarebbe rimasto disponibile per altri. La rivoluzione dell’89 si incaricò di designare i successori all’ufficio divenuto vacante per volontaria abdicazione della antica classe politica. Frattanto, le imposte, se assise direttamente sul sovrappiù disponibile, non avrebbero potuto essere trasferite su altri. Su chi trasferirle, se tutti gli altri redditi erano «necessari» agli appartenenti alle classi economiche?

 

 

VIII. – L’imposta assisa sul sovrappiù disponibile del reddito nazionale, non lo può assorbire tutto.

 

 

Questa ottava proposizione è dimostrabile in modo indipendente dalla ora dichiarata concezione storica politica della classe dirigente propria dei fisiocrati. Se invero lo stato assorbisse con l’imposta tutto il sovrappiù disponibile (tous les revenus, nella terminologia fisiocratica, le altre entrate non essendo reddito, ma compenso di lavoro o di anticipazioni), lo stato disporrebbe di tutta la ricchezza nazionale, sia attraverso ai fittavoli e coltivatori delle terre diventate sue, sia attraverso gli industriali e commercianti per mezzo di cui spenderebbe il sovrappiù. Rispondendo alla tesi immaginaria di chi volesse sostenere essere indifferente che la riscossione e la erogazione del sovrappiù avvenga ad opera dello stato o di una classe proprietaria dirigente il marchese di Mirabeau tracciò un quadro vivo degli effetti della imposta confiscatrice.

 

 

«Si le Prince, dit-on, enlevoit par un impot exorbitant tous les revenus, quel mal en arriveroit il? Le revenus ne rentreroient-ils pas annuellements par ses dépenses dans la circulation, et ne feroient-il pas vivre de la sorte toutes les classes d’usufruitiers, de gagistes, d’artisans, et de travailleurs de tout genre?

 

 

Il en arriveroit, I°. Qu’il n’y auroit plus qu’un centre de distribution, et qu’une ville dans le royaume.

 

 

II°. Qu’on ne seroit occupé qu’à obtenir des places et des emplois la Cour, qu’à solliciter des augmentations des gages et des pensions, qu’à participer aux libéralités du Prince, qu’… éviter le travail, qu’à parvenir à la fortune par toutes les voyes de collusion que la cupidité peut suggérer qu’à multiplier les abus dans l’ordre de la distribution et des dépenses.

 

 

III°. Comme l’homme quelconque n’est qu’un, et ne sçauroit regir avec indépendance que ce qu’il voit et touche, le propriétaire universel seroit dépendant pour toute la portion de sa propriété qui seroit hors de se portée. Le Gouvernement des biens seroit donc livré à l’Agence, c’est-à-dire, à des particuliers à qui la propriété seroit étrangère et qui ne penseroient qui leur propre fortune, et à celle de leurs coopérateurs dans l’œuvre d’iniquité.

 

 

IV°. Tout agent qui songe à son propre fait, est forcé à conniver aux déprédations des autres, d’ou s’ensuit que tout à la Cour dégénereroit en brigandage.

 

 

V°. Que ceux que le Souverain enrichiroit, précipiteraient les dépenses du coté du luxe de décoration et de fantaisie, attendu que le bon usage des richesses mal acquises est un phénomène ici bas, attendu encore que pour sentir le prix de la richesse, il faut l’avoir péniblement acquise.

 

 

VI°. Le petit nombre même d’entre ces privilégies, qui voudroient acquérir des biens et assurer des revenus à leur postérité, porteroient leur richesses chez l’étranger, sçachant bien que rien n’est assuré dans le pays, ou cercheroient à se faire des fonds sur l’Etat, fonds d’une nature sourde et fragile, mais rongeurs des gains et des facultés d’autrui, et par là même, ressorts actif de la révolution.

 

 

VII°. La culture livrée à des manœuvres précaires, et par tant de voies accumulées privee des richesses, ne feroit que languir, les revenus diminueroient chaque jour, et s’anéantiroient enfin.

 

 

IIX°. Les courtisans et les favoris profiteroient de l’enfance et de la caducité des Souverains pour s’emparer des revenus du fisc, et pour acquérir une puissance dangereuse à l’Etat et au Souverain.

 

 

IX°. La noblesse, sans patrie et sans possessions, seroit réduite à un service militaire purement mercenaire, tandis que la solde équitable et l’éntrerien nécessaire seroient refusés au soldat».

 

 

X°. La magistrature, n’ayant plus de propriétés, la Justice seroit vénale, et les loix même seroient un mal; par il ne faut plus de loix, où il n’y a plus de propriété, et le vain simulacre de celles qui demeureroient encore, ne seroit plus qu’un spectre favorable à l’injustice: je le répete, il ne faudroit plus de loix, et sans loix que devient la société et l’Etat.

 

 

XI°. Il n’y auroit que les commerçans qui, indépendamment d’une constitution d’Etat si désunie, si bouleversée et si passagère, pourroient assembler des richesses, et se former par leurs correspondances avec les autres nations, des possessions ou des propriétés assurées. De là naîtroit dans la Nation, un Etat républicain et nécessaire, qui éluderait la domination absurde et désordonnée.

 

 

XII°. L’oppression enfin ayant appris au peuple le secret de Diogène, de jeter se tasse et de boire dans le creux de sa main, il s’abandonneroit à la paresse et a une orgueilleuse indigence, et vivroit dans l’oisiveté et dans l’indépendance. Le tableau de l’Etat et de la société ne conserveroit plus que le cadre facile à rompre par le moindre effort étranger… En un mot, un Etat où le tribut enlevroit le revenu du territoire, seroit un Etat en pleine anarchie, sans consistance et sans durée» (op. cit., 167-171 in disteso e di nuovo, nel résumé a pagine 449-451).

 

 

Alla concezione fisiocratica della società prospera, progressiva, ad opera di uno stato inteso ai suoi fini proprii e di una classe indipendente, nulla repugnava maggiormente del tipo, descritto con parola incisiva dal Mirabeau, di una società in cui tutti i poteri e tutta la ricchezza fossero accentrati nel principe (leggi «stato»), sicché tutti i cittadini, divenuti suoi servitori, dipendessero da lui per mezzi di vita. Corruzione politica, lusso dei favoriti, mancanza di interesse a produrre, incremento delle qualità di intrigo, mala sicurezza, preferenza per gli investimenti mobiliari e precari, esportazione dei capitali, nesso sociale ridotto a forma senza sostanza, impotente dinnanzi al primo urto del nemico.

 

 

IX. – L’imposta in una società prospera e salda, non può alla lunga assorbire se non quella parte del sovrappiù che è disponibile per lo stato, perché proprio di esso.

 

 

Questa nona è un semplice corollario e quasi una trascrizione, in altre parole, della proposizione ottava. Se l’imposta, assisa altrove, necessariamente si trasferisce sul sovrappiù, e se del sovrappiù non può dal principe essere appropriata quella parte la quale è necessaria alla conservazione di una classe dirigente indipendente dal principe medesimo; logica è la deduzione che, nella stessa guisa nella quale le altre quote del prodotto sociale totale sono la remunerazione dei servigi resi dagli agricoltori, dagli industriali, dai commercianti e dai loro dipendenti, così anche il sovrappiù sia da un lato la remunerazione dei servigi della classe dirigente e dall’altro il compenso dei servigi resi alla società dallo stato. La teoria fisiocratica del prodotto netto così analizzata si riduce a dire che alla classe dirigente e allo stato spetta e di regola, in una società ordinata e prospera, è data quella remunerazione che è loro propria. Il concetto di un reddito netto e disponibile, franco dalla necessità di pagare i servigi degli uomini intesi alla produzione economica in senso stretto, si riduce a dire che, nella società supposta, anche la classe dirigente e lo stato noti possono non ricevere una propria adeguata remunerazione.

 

 

Per chi si ponga, come facevano i fisiocrati, dal punto di vista della classe dirigente e dello stato, le altre quote del prodotto sociale apparivano «spesa» e soltanto quelle proprie della classe dirigente e dello stato erano il «residuo», il «disponibile» il «prodotto netto» il «reddito» propriamente detto. L’errore di visuale, in cui, oltre ai fisiocrati, tanti altri, dai più diversi punti di vista, caddero, non deve far velo a noi si da farci dimenticare la verità fondamentale esposta dai fisiocrati, la quale è quella tradotta nella proposizione ottava.

 

 

La proposizione non è una tautologia. Nella stessa guisa in cui il salario, l’interesse e il profitto sono quantità determinate dal mercato dei servizi del lavoro, del capitale e dell’imprenditore, nè possono essere variati arbitrariamente dalla legge o dall’artificio senza provocare reazioni molteplici nell’assetto economico, così l’imposta è una quantità determinata in funzione dell’importanza dei servigi necessari ed utili resi dallo stato. Ove la quantità dell’imposta cresca al di là dei suoi limiti propri, nascono le conseguenze descritte nella proposizione ottava. La società da prospera e salda cade nell’anarchia; dello stato solo la corteccia esterna «le cadre facile à rompre par le moindre effort étranger».

 

 

X. – L’imposta appropriata ai servigi adeguatamente resi dallo stato non è un prelievo sul reddito dei contribuenti, anzi è condizione questo raggiunga il massimo.

 

 

L’ultima e più importante fra le tesi tributarie fisiocratiche è dalla «scuola» esposta in forma congrua al «sistema» ed alla conseguente terminologia; epperciò sempre più importa guardare, attraverso la forma, alla sostanza del pensiero. Qui si riproduce, fra le tante scritte in proposito, una pagina di Mercier de la Riviere:

 

 

«Je ne crois pas qu’on puisse trouver parmi les institutions sociales, rien de plus heurex pur eux et pour leurs sujets tout à la fois [di questo considerare les Souverains comme co-propriétaires du produit net des terres de leurs domination]: d’un coté, le revenu d’un Souverain se trouve être le produit d’un droit semblable à tous les autres droits de propriétés, et qui tient, comme aux, l’essence même de la société; d’un autre coté, les sujet ne voient rien dans ce droit qui puisse leur paraitre onéreux: le Souverain considéré dans son droit de co-propriété, n’est plus à leurs yeux qu’un grand propriétaire, qui ne jouit point aux dépens des autres; qui tout au – contraire, leurs est uni par l’intérêt commun qu’ils ont tous donner la plus grande consistence et la plus grande valeur possible à leurs propriétés communes» (II, 26).

 

 

La divisione del prodotto netto delle terre fra i proprietari fondiari e l’amministratore delle entrate pubbliche

 

 

«a rendu le corps politique, par-conséquent le Souverain qui le représent, co-proprietaire de ce produit; partage, qui bien loin d’avoir été onéreux aux première propriétaires fonciers, s’est trouvé nécessaire et avantageux pour eux, puisqu’il leur procuroit la sureté de leurs propriétés, et la liberté d’en jouir: aussi n’-a-t-il lieu qu’a raison de son utilité.

 

 

Avant ce partage le corps politique n’ayant aucune consistence, le droit de propriétés n’ètoit point, dans le fait, un droit solide et constant, et la possession des terres, si tant est quelles fussent cultivées, ne pouvant être garanties par aucune force capable de la mettre à l’abri des violences, elles ne pouvoient avoir aucune vénalité, aucune valeur courante dans le commerce. Mais au moyens de ce partage, la propriétés foncière devenant un droit certain, aussi solidement établi qu’il pouvoit l’être, les terres ont pu être défrichées sans aucun risque pour la dépense que le défrichement exigeoit; alors elles ont acquis un valeur vénale, non en raison de la totalité de leur produit net, mais en raison seulement de la portion de ce produit net, que ce même partage laissoit à la disposition du propriétaire foncier. Cette portion seule est devenue aliénable; l’autre portion ne pouvant l’être, puisqu’elle étoit désignée pour devoir appartenir incommutablement au Souverain, et former dans sa main une sorte de richesse commune, destinée à l’utilité commune de toute la nation; ainsi des lors tous les acquéreurs n’ont payé les terres qu’à un prix relatif à la portion, que leur acquisition leur donnoit droit de prendre dans le produit de ces mêmes terres.

 

 

Si le revenu public s’est, en quelque sorte, formé aux dépens des revenus particuliers dont jouissoient les premiers possesseurs des terres, il est sensible qu’ils n’ont fait ce prétendu sacrifice, que parce qu’il leur étoit avantageux de le faire, et que sans cela, ils ne pouvoient s’assurer aucune propriété foncière, aucuns produits» (loc. cit., II, 36-38).

 

 

Due sono le regole fondamentali dell’imposta:

 

 

«la première, que pour ne point détruire les droits de propriété dans les sujet, il ne doit avoir rien d’arbitraire; la seconde, que pour n’avoir rien d’arbitraire, il ne doit être que le produit d’une co-propriété acquise incommutablement au Souverain, et renfermée dans des bornes qui soient posées tout à la fois et pour elle et pour toutes les propriétés particulières. Dans cet objet naturel et immuable, il est évident que le revenu public et le revenu particulier de chaque propriétaire n’étant que le résultat d’un partage dans une masse commune, ils se trouvent naturellement en société, sans jamais pouvoir se confondre; qu’ils ne peuvent croitre l’un sans l’autre; qu’ainsi les intérêts du Souverain et ceux de la nation, quoiqu’aux yeux de l’ignorance ils paroissent opposes entre eux, sont cependant des intérêts communs, qui, bien loin de se choquer naturellement, adoptent les mêmes principes, tendent même but, et pour le remplir, ne peuvent employer que les mêmes moyens»  (loc. cit., II, 32-33).

 

 

Dal contesto del ragionamento e particolarmente dalle parti da me sottolineate si deduce che l’imposta non è, nella concezione fisiocratica un prelievo compiuto a carico e con riduzione dei redditi privati, che essa non è causa di alcun onere o sacrificio.

 

 

«Par cette forme les cultivateurs payent selon leurs engagemens libres et volontaires la valeur du produit net à ceux qui en sont propriétaires. Il leur est très – avantageux qu’une partie de ce produit net passe entre les mains de l’autorité Souveraine; puisque c’est l’unique moyen de mettre cette autorité à portée de protéger leurs droits de propriété. Et cela ne leur est nullement à charge; puisqu’ils n’ont aucun droit à de propriété sur le produit net, qu’ils sont contraints par la concurrence d’en tenir compte en entier à qui il appartient, et que peu leur importe qu’une partie de ce produit net s’appelle impôt, tandis que l’autre s’appelle fermage, pourvu qu’on n’exige rien d’eux au-delà du produit à net, et que leurs reprises soient toujours franches, intactes et assurées.

 

 

Par cette forme les propriétaires fonciers qui paraissent payer l’impôt sur leurs revenus, le payent au contraire sur une augmentation de richesses disponibles ou de produit net qui n’existerait pas sans l’établissement de l’impôt; puisque c’est la sureté que l’impôt donne à la propriété, qui a seule pu soutenir et favoriser les entreprises et les travaux, par les quels la culture est parvenue au point de faire naitre un produit net tant soit peu considérable.

 

 

Par cette forme l’impôt, auquel appartient une part proportionnelle du produit net, est donc très – avantageux aux propriétaires fonciers; puisqu’il étend leurs richesses et les jouissances qu’ils peuvent se procurer. Il forme une espèce de propriété commune inaliénable; il n’entre dans aucun des contrats que les propriétaires fonciers passent ensemble; lorsqu’ils achètent et vendent des terres, ils n’achètent ni ne vendent l’impôt, ils ne disposent que de la portion du produit qui leur appartient, l’impôt prélevé. Ainsi l’existence de cet impôt n’est pas plus à charge à aucun des propriétaires fonciers que le droit qu’ont les autres propriétaires sur les domaines qui limitent le sien.

 

 

Par cette forme l’impôt est très – avantageux à la classe des hommes qui ne subsiste que de salaires; puisqu’il leur procure la sûreté et la jouissance de toute l’étendue de leurs droits de propriété personnelle et mobiliaire. Et il ne leur est nullement à charge; puisque loin de retrancher rien de la somme des salaires, ni de la facilité de les obtenir, il en augmente la masse par l’augmentations des richesses, qui résulte de l’assurance complette de tous les droits de propriété.

 

 

Par cette forme la liberté des travaux humains est la plus grande qu’il soir possible; la concurrence, entre tous ceux qui font exécuter, et entre tous ceux qui exécutent ces travaux, la plus étendue qu’il soit possible; l’état des propriétaires fonciers le meilleur qu’il soir possible; la multiplication des richesses, et du produit net, la plus rapide qu’il soit possible; et par conséquent le revenu public toujours proportionné au produit net, sans cesse augmentant, le plus considérable qu’il soir possible» (Dupont De Nemours, 1768, pp. 57-60; 1910, pp. 27-28).

 

 

Redditi privati ed imposta sono quote di una massa comune; e l’assegnazione della sua quota propria allo stato è condizione necessaria affinché anche i privati siano posti in grado di acquistare e godere quella che di essi è propria. Senza l’imposta, gli averi dei privati non solo non avrebbero avuto alcun valore commerciale, ma non sarebbero neppure sorti. I fisiocrati anticipano la teoria recentemente chiarita,[2] secondo la quale se è vero che l’imposta fa diminuire il prezzo dei beni capitali del suo ammontare capitalizzato (supposons – dice Mercier de la Riviere, in loc. cit., II, 39, – «que le prix courant des terres soit le denier 20: un particulier, avec 40 mille francs, achete une terre de 2 mille livres de revenu, et qui donne 1.000 livres à impôt; mais elle en vaudroit 60 mille, si l’impôt ne prenoit pas ces 1.000 livres dans le produit net de cette terre»); è vero anche che la diminuzione ha luogo nel quadro più ampio di una situazione nella quale l’imposta ha reso possibile a beni capitali di formarsi (les terres ont pu êtredefrichées) e di acquistare un valore venale (elles ont acquis une valeur vénale). Che reddito e prezzo capitale dei beni economici si ripartano poscia fra lo stato ed i privati possessori e conseguenza logica del fatto primo, che amendue hanno contribuito alla loro creazione, e che senza il concorso di entrambi né il reddito né il capitale sarebbero esistiti per nessuna delle due parti. Si comprende perciò come il Mercier de la Riviere adoperi a malincuore la parola «imposta»:

 

 

«C’est à regret que je donne au revenu public le nom d’impôt: ce terme est toujours pris en mauvaise part; il annonce une charge dure à porter, et dont chacun voudroit être exempt; le revenu public au-contraire…., n’a rien d’affligeant: en remontant à son institution, on voit qu’elle est le fruit de son utilité» (op. cit., II, 40).

 

 

Commentando le Réflections di Turgot, là dove questi nota che il compratore di un fondo rustico non capitalizza e non paga la parte di reddito destinata all’imposta, Dupont de Nemours osserva:

 

 

«Telle est la vérité sur laquelle est fondée cette observation générale des Economistes, qu’attribuer aux dépenses sociales une portion régulière du revenu que produisent les terres, (ce qui ne se fait jamais que parce qu’on en a reconnu l’utilité, la nécessité, l’avantage pour les propriétaires) et s’abstenir des autres formes de contribution: ce n’est pas mettre un impôt; c’est établir une société amicale entre le Gouvernement et la Nation, c’est en une seule fois et pour l’avenir supprimer tous les impôts» (nota a Réflexions cit., tome 5e, 125).

 

 

Dove è singolarmente precisa la restrizione dell’uso della parola imposta ai prelievi male assisi, cagion di attriti e di danno per la società, laddove l’imposta propria non è un onere, ma il risultato di una adeguata distribuzione del reddito sociale fra i partecipanti privati e pubblici; e dove è chiaro che dalla teoria particolare dell’ammortamento dell’imposta fondiaria i fisiocrati avevano già saputo assurgere alla più generale teoria della con onerosità anzi del vantaggio della imposta congrua e bene assisa.

 

 

Con qualche incertezza di pensiero e con parecchie stravaganze di forma i fisiocrati hanno gettato così le fondamenta della teoria pura dell’imposta, di cui la proposizione decima qui sopra formulata è fulcro essenziale. Se le proposizioni nona e decima definiscono i limiti ed il contenuto di quello che altrove ho chiamato imposta «economica» «neutra» od «ottima», la proposizione ottava, concedendo che in tempi determinati e in particolari regimi politici l’imposta assuma forma e contenuto di «taglia»,[3] dimostra che la teoria fisiocratica è capace di approssimazioni singolarmente efficaci ad una realtà storica della quale nel tempo stesso essa illustra l’indole effimera, quasi ombra di (stato destinato a svanire all’urto di una realtà vera e salda. A creare la realtà duratura, accanto a tant’altre condizioni spirituali morali politiche ed economiche, concorre anche, concludasi con Mercier de la Rivière, la condizione dell’avere l’imposta cessato di essere un onere per i cittadini, per diventare un reddito pubblico attribuito, con vantaggio dei cittadini, allo stato a riconoscimento dell’opera sua.

 

 

Possiamo ora scorgere quale sia stato il vero contributo fisiocratico alla teoria dell’imposta. I fisiocrati affermarono che il reddito totale sociale includeva una quota residua, che era la remunerazione della classe politica. Questa quota da determinare non è propria degli agricoltori, dei giornalieri, dei manifattori, dei mercanti, dei capitali ecc., perché essa è invece il frutto del lavoro compiuto dalla classe politica, operante individualmente a mezzo dei suoi componenti ovvero collettivamente a mezzo dello stato. L’attribuzione, collo spediente del diritto di proprietà e dell’imposta, della quota sovraddetta alla classe politica ed allo stato non è un onere per i non proprietari e per i contribuenti, nella stessa maniera come l’attribuzione dei salari ai lavoratori, dell’interesse ai capitalisti o del profitto agli imprenditori non è un onere per le altre classi. Si tratta di produrre e poi di distribuire il reddito totale sociale a tutti gli aventi diritto. Lo storico della economica non deve indugiarsi intorno alle formule caduche della teoria fisiocratica. Noi possiamo negare che la quota «residua» sia la stessa cosa del cosidetto «prodotto netto» e che la classe politica si identifichi con i resti della classe proprietaria feudale della vecchia Francia; ma abbiamo il dovere di scrutare sino in fondo il significato vero del credo fisiocratico. Non affermo che i fisiocrati siano stati i primi ed i soli economisti i quali abbiano formulato correttamente il problema dell’imposta; sì che essi per i primi lo formularono consapevolmente come un problema non di peso gravante sugli omeri dei produttori individuali allo scopo di alimentare il consumo della macchina statale, ma di distribuzione fra i fattori produttivi – lo stato incluso in questi, a norma del suo ufficio proprio – del reddito totale sociale prodotto da quei medesimi fattori. È forse possibile risalire a spunti dispersi della teoria messi innanzi da scrittori più antichi; ma la prima consapevole formulazione dei principii è dovuta ai fisiocrati.

 



[1] Rispettando la grafia, punteggiatura ed accentuazione delle edizioni ricordate tra parentesi nel testo. Per i soli corsivi, lo scrivente sostituì all’uso fattone dagli autori citati l’arbitrio proprio inteso a dar risalto a quelle che a lui parvero parole o frasi essenziali del pensiero fisiocratico.

[2] Cfr. la esposizione fattane dallo scrivente in Osservazioni critiche ecc. riprodotte, come saggio secondo, nel presente volume.

[3] Cfr. per i connotati dell’imposta «taglia» contrapposta a quella «grandine» o «neutra» le citate Osservazioni critiche, Cap. II, V e VI e Contributo alla ricerca dell’«ottima» imposta, Milano, 1929, passim e specie in sezione quarta dell’introduzione.

Nuove riflessioni in disordine sulla crisi. Della fantasia economica e della mutazione nella domanda di beni conseguente alla guerra

Nuove riflessioni in disordine sulla crisi. Della fantasia economica e della mutazione nella domanda di beni conseguente alla guerra

«La Riforma Sociale», novembre-dicembre 1931, pp. 563-577

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II,pp. 361-378

 

  …

Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo

Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1931, pp. 186-194

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, pp. 275-284

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 207-218[1]

Liberismo e liberalismo, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 121-133

 

 

Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo

Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1931, pp. 186-194

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, pp. 275-284

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 207-218[1]

Liberismo e liberalismo, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 121-133

 

Liberismo e liberalismo

Liberismo e liberalismo

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1931, pp. 186-194[1]

A proposito di Benedetto Croce, Capitoli introduttivi di una storia dell’Europa nel secolo decimonono. Atti della Reale Accademia di scienze morali e politiche, Napoli, 1930, pp. 291-337[2]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 207-218

Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 121-133[3]

Antologia degli scritti politici dei liberali italiani, Il Mulino, Bologna, 1962, pp. 196-206

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires, 1965, pp. 143-154[4]

Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli, 1988, pp. XXXI-215

 

 

 

 

 

Nei tre capitoli della memoria[5] il Croce delinea il sorgere della religione della libertà in quel grande periodo tra il 1815 ed il 1848 che fu la matrice vera dell’Europa contemporanea; spiega come a quella si contrapponessero altre fedi, la cattolica romana, l’assolutismo monarchico, il democratismo e il comunismo, e chiarisce la distinzione tra il romanticismo teoretico e speculativo e quello pratico, sentimentale e morale. Nuocerebbe dopo avere indicato il tema della memoria, sunteggiarla; essendo impossibile dare, col sunto, l’impressione di quanta gioia dello spirito e di quanto stimolo a meditare dia questa, come ogni altra scrittura del Croce. Basta la notizia bibliografica per incitare a leggerla negli atti dell’Accademia napoletana e per far desiderare, a chi l’abbia letta ed agli altri che non abbiano a ciò agevolezza, che presto si compia la promessa, contenuta nel titolo, della nuova storia del secolo decimonono. Sarà narrazione la quale, muovendo di Francia, dirà quanta parte, a fare quella storia, abbiano avuto anche le altre nazioni europee e, chissà!, pur quelle fuor di Europa se, a formar l’Europa d’oggi, il Croce ritenga abbiano contribuito correnti spirituali sorte o ringagliardite o mutate fuor della breve cerchia europea.

 

 

 

Altra volta (in Dei concetti di liberalismo economico e di borghesia e sulle origini materialistiche della guerra, in «La Riforma Sociale» del settembre-ottobre 1928), ho preso occasione da scritture crociane per discorrere intorno a taluni concetti che mi parvero degni di approfondimento. Ritornerò stavolta su un punto già allora studiato, quello del rapporto fra i concetti di liberalismo in generale e di liberismo economico. Allora avevo negato che gli economisti dessero, come il Croce pareva intendere, valore di principio economico al «liberismo»; osservando essere compito della scienza economica unicamente la ricerca della soluzione economicamente più conveniente per raggiungere un dato fine. Ma il fine non è posto dagli economisti e spesso non è un fine economico, ma politico, morale, religioso; ma la soluzione più conveniente non sempre è quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale od altro ancora. Soggiungevo solo che, di fatto ed in via tutt’affatto empirica, per lo più accade siano sbagliati o pretestuosi i motivi dell’intervento, sicché il liberismo economico spesso si raccomanda come ottima regola «pratica».

 

 

Nella nuova memoria il Croce abbassa ancor più il valore astratto del concetto di liberismo economico. Non solo esso è concetto inferiore e subordinato a quello più ampio di liberalismo; ma non pare neppure conservi l’antica posizione di «legittimo principio economico». Leggesi invero nel saggio odierno:

 

 

«Come oramai dovrebbe essere pacifico, il liberalismo non coincide col cosidetto liberismo economico, col quale ha avuto bensì concomitanze, e forse ne ha ancora, ma sempre in guisa provvisoria e contingente, senza attribuire alla massima del lasciar fare e lasciar passare altro valore che empirico, come valida in certe circostanze e non valida in circostanze diverse. Perciò né esso può rifiutare in principio la socializzazione di questi o quelli mezzi di produzione, né l’ha poi sempre rifiutata nel fatto, ché anzi ha attuato non poche socializzazioni; e solamente esso le critica e le contrasta in casi dati e particolari, quando cioè è da ritenere che la socializzazione arresti o deprima la produzione della ricchezza e giunga al contrario effetto, non di un eguale miglioramento economico dei componenti di una società, ma di un impoverimento complessivo, che spesso non è neppure eguale». (p. 33)

 

 

Dove l’A. sembra identificare l’operare economico del «liberalismo» con quello che a me nella recensione citata, pareva essere il contenuto del «principio economico, il quale non è né liberistico né interventistico» né comunistico, e non afferma doversi seguire sempre la massima del lasciar fare e lasciar passare, ma l’altra della soluzione volta per volta più conveniente. Sebbene si sia così bene incamminati sulla via della chiarificazione dei concetti, non parmi si sia peranco giunti alla meta; cosicché non è forse inutile elencare i diversi significati che la parola «liberismo» può avere in economia, con alcuna chiosa sui rapporti di esso col «liberalismo».

 

 

Nel linguaggio corrente, adoperato soprattutto nelle scritture dei laici, si ritiene «liberistica» una maniera di ragionare che è invece puramente astratta ed è propria della scienza economica, perché scienza e perciò astrazione. Se l’economista scrive: «supponiamo che i permutanti agiscano in un mercato libero e che vi sia in esso concorrenza fra molti venditori e fra molti compratori», i laici ritengono che per aver posto siffatta premessa, l’economista sia “anche” un liberista pratico. Ma egli pone anche premesse diverse, come quando scrive: «supponiamo che sul mercato libero intervengano un solo venditore e molti compratori»; o come quando avverte: «supponiamo che, intervenendo sul mercato un solo venditore e molti compratori, il mercato non sia libero, ma regolato dallo stato secondo il criterio, ad esempio, del massimo utile collettivo». Nel primo caso, il ragionatore parte dalla “premessa” della libera concorrenza; nel secondo, da quella del monopolio privato puro; nel terzo, da quella del monopolio pubblico. Il ragionatore può nutrire fede liberistica o comunistica od altra ancora. Noi di ciò nulla sappiamo in sede di ragionamento scientifico, dove interessa soltanto porre adeguate premesse al rigoroso ragionare astratto e dedurre tutte le illazioni contenute nelle premesse. La premessa di mercato libero o di individui agenti per motivi egoistici non è un «principio» economico; è un puro strumento di ragionamento ed ha valore esclusivamente astratto. Tutta la scienza economica è un’astrazione pura; e non può non essere tale. Nessuno è in grado di dominare tutti i fattori della realtà, nella loro molteplicità e continua variabilità, ed è giocoforza costruire schemi astratti, manovrando un piccolissimo numero di fattori. Le generazioni successive di economisti si lusingano di potere via via crescere il numero dei fattori manovrati e di poterli manovrare con ragionamenti via via più delicati. Guai se non avessero questa lusinga! Guai se, trascinati dall’entusiasmo, non si illudessero talvolta di avere rasentato, mercé la scelta dei fattori ai loro occhi più rilevanti, la realtà! Lo scoraggiamento troncherebbe, durante la fatica, le ali alla fantasia divinatrice. L’hiatus tra lo schema astratto e la realtà rimane pur sempre incolmabile alla scienza; e solo il fiuto del politico, e la potenza visiva dello storico possono gettare un ponte fra di essi.

 

 

La ipotesi astratta liberistica dalla forma: «supponiamo che…» può passare alla formulazione precettistica, quando all’economista si chieda di risolvere un problema concreto sulla base di puri ragionamenti economici. Terribile pretesa, alla quale l’economista avrebbe ragione di sottrarsi, ben sapendo che il puro ragionamento economico non può risolvere il problema concreto. Tuttavia, il sentimento del dovere verso la cosa pubblica è spesso più forte, e moralmente dovrebbe essere sempre più forte, dei suoi scrupoli scientifici; ed egli si induce ad apportare il suo contributo, accanto e contemporaneamente al fisico, al chimico, al giurista, allo storico, al filosofo ed al politico, che nei problemi concreti tutti gli altri riassume, o dovrebbe riassumere, alla soluzione desiderata.

 

 

Di fronte ai problemi concreti, l’economista non può essere mai né liberista, né interventista, né socialista ad ogni costo; ma a volta a volta osteggia i dazi doganali protettivi, perché reputa che l’attività economica sia massima quando sia aperta senza limiti la via alla concorrenza della merce estera; è favorevole alle leggi limitatrici del lavoro delle donne e dei fanciulli, alla proibizione del lavoro notturno, al risarcimento degli infortuni sul lavoro, alle pensioni di vecchiaia, perché considera cotali freni e presidi legislativi mezzi efficaci a crescere la produttività operaia; è contrario alla socializzazione universale perché prevede che essa attenuerebbe l’interesse a produrre; ma vuole che lo stato consideri le ferrovie come industria pubblica, reputando dannoso alla collettività il monopolio privato dei mezzi di trasporto. E così via, ogni problema darà luogo ad una soluzione sua propria, dettata da un appropriato calcolo di convenienza. Se la soluzione è liberistica essa si impone non perché liberistica, ma perché più conveniente delle altre. La convenienza di una soluzione, evidente sulla base di date premesse, viene meno quando la premessa muti. È noto che, per ragionamento puro economico, il protezionismo è preferibile al libero scambio, in determinate ipotesi di industrie nuove (Hamilton, Stuart Mill) o di svendita temporanea dovuta a sfruttamento di nuovi territori e di nuove invenzioni. Teoricamente, la questione è giudicata a favore della protezione temporanea; ma rarissimi sono gli economisti, i quali, dopo avere esposto il teorema, non soggiungano subito che la prudenza pratica consiglia di non applicare la conclusione astratta, essendo difficilissimo, per non dire impossibile, scoprire, fra le tanti postulanti, l’industria giovane la quale, sostenuta nei primi anni dai dazi contro la concorrenza estera, giungerà a vivere di vita propria; ancor più difficile scoprire quella che giova proteggere temporaneamente, perché la concorrenza straniera che oggi la ucciderebbe è destinata presto a svanire e conviene risparmiare al paese la perdita del capitale oggi impiegato nella industria nazionale, e poi, il costo della sua ricostruzione a pericolo passato; e quasi assurdo, finalmente, a tacer d’altro, che un’industria provvisoriamente per questi motivi protetta riconosca essere giunto per essa il momento della virilità od essere trascorso il nembo che la minacciava. Siamo sempre nel caso del liberismo per calcolo di convenienza; ma il calcolo è più complesso, ed è condotto sulla base di un più gran numero di fattori.

 

 

Dalla frequenza dei casi in cui gli economisti, per ragioni contingenti, inclinano a raccomandare soluzioni liberistiche dei singoli problemi concreti, è sorto un terzo significato, che io direi religioso, della massima liberistica. «Liberisti» sarebbero, in questa accezione, coloro i quali accolgono la massima del lasciar fare e del lasciar passare quasi fosse un principio universale. Secondo costoro l’azione libera dell’individuo, a lui ispirata dall’interesse individuale, coinciderebbe sempre coll’interesse collettivo. Alcune frasi di Adamo Smith: «L’individuo fa senza tregua ogni sforzo per impiegare il proprio capitale nel modo più vantaggioso. Ben vero egli cerca il suo beneficio e non quello della società; ma le cure che egli pone nel cercare il proprio personale vantaggio lo conducono naturalmente o, meglio, necessariamente, a preferire per l’appunto quella particolare specie di impiego che è più vantaggioso alla società… Pur perseguendo il proprio interesse personale, egli lavora spesso a vantaggio della società in modo più efficace che se egli vi intendesse per espresso proposito… Ognuno pensa solo al proprio guadagno; ma nel far ciò l’individuo è condotto, come in molti altri casi, da una mano invisibile a raggiungere un fine a cui egli non aveva affatto inteso (Wealth of Nations, ed. Cannan, vol. I, pp. 419 e 421)» – hanno potuto far credere che la identificazione dell’interesse individuale e dell’interesse collettivo fosse un «principio» connaturato alla scienza economica. Troppi sono tuttavia i luoghi in cui lo stesso Adamo Smith ha insistito sulla opposizione di interessi fra classe e classe, fra i singoli e la collettività; troppi quelli in cui egli elenca le ragioni d’intervento dello stato per la consecuzione di fini preclusi all’azione individuale od a questo contrastanti, perché sia lecito dare alle frasi di Adamo Smith nulla più che un valore storico – la «mano invisibile» ricorda la «divina provvidenza» o la «natura», delle terminologie varie usate al tempo suo – o contingente a problemi particolari del tempo da lui in quel momento discussi. Tutta la storia posteriore della dottrina sta a dimostrare che la scienza economica, come dianzi si chiarì, non ha nulla a che fare con la concezione religiosa del liberismo.

 

 

Non direi tuttavia che la concezione religiosa del liberismo sia priva di valore pratico. Ne può anzi avere uno grandissimo. Giova moltissimo che, di fronte all’andazzo di tutto chiedere allo stato, di tutto sperare dalla azione collettiva, si erga fieramente il liberista ad accusare di poltronaggine l’interventista e di avidità il protezionista. Messa fuori causa la scienza, la figura morale del primo si erge nella vita pratica e politica di mille cubiti al disopra dei suoi oppositori. Senza di lui, lo stato non solo adempirebbe ai compiti che gli son propri ed integrerebbe l’azione individuale laddove l’integrazione è conveniente, ma, intervenendo nelle cose economiche ad istigazione dei furbi e degli sciocchi, farebbe il danno della collettività.

 

 

Esiste un nesso tra la concezione astratta, quella precettistica e quella religiosa del liberismo economico. Si giunge di solito al precetto liberistico per mezzo di un ragionamento astratto. Il credente nel liberismo arrivò alla fede dopo essersi persuaso, con molti o pochi ragionamenti astratti, che le soluzioni diverse da quelle liberistiche erano per tutti i problemi concreti a lui noti (qualche eccezione c’è anche per il credente, ma, per la sua minima importanza, presto egli la dimentica) dannosi alla collettività. Tutte tre le concezioni, inoltre, hanno questo di comune fra di loro: che esse si muovono nell’ambito dell’economia e non hanno un legame necessario con la visione liberale del mondo. Il liberista può essere fautore di un sistema di governo assoluto; del che l’esempio più famoso resta il liberismo doganale inaugurato in Francia da Napoleone III, col consiglio dello Chevalier, e contro le critiche del Thiers e di altri liberali, che poi lo disfecero al tempo della terza repubblica. E può accadere l’inverso: che il liberale sia anche liberista, come fu nel decennio tra il 1850 e il 1860 il conte di Cavour in Piemonte, contro l’opposizione dei reazionari, che erano anche protezionisti.

 

 

Ma v’ha un’ultima concezione del liberismo economico che io direi storica e che mi pare affratellata e quasi immedesimata col liberalismo, sì da riuscire quasi impossibile scindere l’uno dall’altro. Il Croce quasi lascia supporre che se fosse vero «che il corso storico delle cose portasse al bivio o di danneggiare e scemare la produzione della ricchezza, conservando l’ordinamento capitalistico cioè della proprietà privata, o di garantire e aumentare la produzione, abolendo la proprietà privata… il liberalismo non potrebbe se non approvare e invocare per suo conto quella abolizione (p. 33)». Ammissione che l’A. subito distrugge in una delle sue più belle pagine avvertendo che, quando così fosse veramente ed il comunismo arricchisce materialmente gli uomini, li impoverirebbe spiritualmente, riducendoli pari a quelli che Leonardo definiva «transiti di cibi». L’ammissione, anche subito negata, è tuttavia spaventevole troppo per non eccitare qualche dubbio. Che io porrei così: un liberalismo il quale accettasse l’abolizione della proprietà privata e l’instaurazione del comunismo in ragione di una sua ipotetica maggiore produttività di beni materiali, sarebbe ancora liberalismo? Può cioè esistere l’essenza del liberalismo, che è libertà spirituale, laddove non esista proprietà privata e tutto appartenga allo stato? So bene essere difficilissimo definire dove finisca la proprietà privata e dove cominci quella dello stato. Può invero concepirsi un comunismo in cui lo stato non possegga e non gerisca direttamente alcuna proprietà; l’attuale assetto economico russo essendo lontanissimo, ad esempio, dall’assorbimento giuridico di ogni proprietà nello stato. E, al contrario, può darsi un regime giuridico di proprietà privata, nel quale lo stato sia onnipotente ed i proprietari privati siano di fatto funzionari dello stato. Qui non si vuol discutere di parole, ma di sostanza. Della quale il succo è che, se comunismo esiste davvero, non possono esistere forze indipendenti da quella dello stato. Una sola deve essere la volontà la quale dirige e fissa la produzione e la distribuzione dei beni economici. La volontà unica potrà a volta a volta avere come strumento di azione organi burocratici di un’amministrazione unica accentrata o corpi autonomi o cooperative o persino società anonime concessionarie. Il mezzo scelto come strumento d’azione non monta. Essenziale alla vita del sistema è che gli strumenti d’azione non abbiano una volontà propria, diversa ed indipendente da quella dello stato e del gruppo politico in cui lo stato si impersona. Se la volontà è unica, è possibile raggiungere gli ideali che lo stato comunistico si propone: massimizzazione della ricchezza materiale ovvero del benessere sociale definito nella maniera voluta dalla dottrina dominante, distribuzione a seconda del bisogno o del merito o di una data combinazione del criterio del bisogno e di quello del merito e di altri criteri ancora. Se le volontà sono invece parecchie ed indipendenti le une dalle altre; se, pur abolita formalmente la proprietà privata, la “cooperativa” o l'”ente autonomo” (il trust pubblico come lo chiamano in Russia) o la “società concessionaria” hanno un potere proprio, derivante dalla volontà dei soci o dei partecipanti al lavoro, la organizzazione collettivistica è morta. Esistono, al luogo suo, organismi vivi che intendono raggiungere fini proprî, vantaggiosi alla collettività particolare, e non coincidenti necessariamente coi fini ritenuti utili dallo stato per la collettività generale.

 

 

Se la volontà è unica e la società collettivistica è perfetta, non può non esistere se non una sola ideologia, un solo credo spirituale. Non sono tollerabili ideologie concorrenti, eresie le quali sono altrettante forze indipendenti, le quali intendono necessariamente a distruggere ed a sostituire la ideologia dominante; forze assai più efficaci di quelle materiali o formali perché aventi radice nello spirito. Il comunismo non può dunque tollerare la libertà di pensiero, che lo trasformerebbe e minerebbe a breve andare. Il comunismo può ammettere la critica tecnica; e, da quel che si legge negli scritti di osservatori avveduti, la critica tecnica è largamente ammessa ed anzi vivamente incoraggiata nella Russia bolscevica. La critica tecnica è invero inoffensiva; perché parte dalla premessa propria della ideologia attuale russa che scopo della vita sia la consecuzione della massima quantità totale di prodotto in una data unità di tempo. Non è ammessa e non è ammissibile la critica di principio, la quale sostenga che lo scopo della vita non sia quello suddetto; ma vi possano essere tanti scopi della vita quanti sono i corpi, i gruppi e le unità sociali. Questa è eresia; e ben lo avverte il gruppo dirigente, il quale sa che, ammessa la libertà per i gruppi legalmente riconosciuti, “enti autonomi”, “cooperative”, “repubbliche autonome” della U.R.S.S., di determinare da sé il proprio scopo della vita, inevitabilmente gli scopi si moltiplicheranno; i gruppi si scinderanno e la moltiplicazione degli scopi e dei gruppi giungerà sino alla famiglia ed all’individuo. Risorgerà la volontà dell’uno contro la volontà del tutto; l’uno ritornerà a concepire la vita ed i suoi scopi diversamente dagli altri uno e dal tutto. Finirà la cattolicità comunistica e rifiorirà la libertà.

 

 

Perciò il liberalismo non può (nemmeno per figura rettorica) assistere concettualmente all’avvento di un assetto economico comunistico, come pare ammetta il Croce. Esso vi ripugna per incompatibilità assoluta. Non può esistere libertà dello spirito, libertà del pensiero, dove esiste e deve esistere una sola volontà, un solo credo, una sola ideologia. Se per libertà del pensiero non si intende solo quella di poter pensare e meditare dentro a se stesso; – ed anche la libertà di pensare con se stesso è mortificata in quelle condizioni – se essa implica la libertà di comunicare ad altri il proprio pensiero, quella libertà non può esistere nel comunismo. La libertà del pensare e dunque connessa necessariamente con una certa dose di liberismo economico, con che non si intende, avvertasi bene, collegare il liberalismo con uno qualunque dei tre significati tecnici dapprima elencati del liberismo economico. La concezione storica del liberismo economico dice che la libertà non è capace di vivere in una società economica nella quale non esista una varia e ricca fioritura di vite umane vive per virtù propria, indipendenti le une dalle altre, non serve di un’unica volontà. In altri termini e per non lasciare aperta alcuna via al rimprovero di far dipendere la vita dello spirito dall’economia, lo spirito libero crea un’economia a se medesimo consona e non può creare perciò un’economia comunistica che è economia asservita ad un’idea, qualunque sia, imposta da una volontà, per definizione e per ragion di vita, intollerante di qualsiasi volontà diversa. Lo spirito, se è libero, crea un’economia varia, in cui coesistono proprietà privata e proprietà di gruppi, di corpi, di amministrazioni statali, coesistono classi di industriali, di commercianti, di agricoltori, di professionisti, di artisti, le une dalle altre diverse, tutte traenti da sorgenti proprie i mezzi materiali di vita, capaci di vivere, se occorre, in povertà, ma senza dover chiedere l’elemosina del vivere ad un’unica forza, si chiami questa stato, tiranno, classe dominante, sacerdozio intollerante delle fedi diverse da quella ortodossa. Devono, nella società libera o liberale, l’individuo, la famiglia, la classe, l’aggruppamento, la società commerciale, la fondazione pia, la scuola, la lega artigiana od operaia ricevere bensì la consacrazione della propria vita legale da un organo supremo, detto stato; ma devono sentire e credere di vivere ed effettivamente vivere di vita propria, coordinata alla vita degli altri ma non immersa nella vita del tutto e derivante dalla tolleranza dell’organo del tutto. Come le tante forze vive ed autonome debbano essere fatte coesistere; come esse debbano contribuire alla vita del tutto ed alla creazione dell’organo che impersona l’universale è altro discorso che ci condurrebbe lungi. Basti avere posto per fermo caposaldo che senza la coesistenza di molte forze vive di linfa originaria non esiste società libera, non esiste liberalismo. Può esistere una società comunistica, al tempo stesso nemica irreducibile del liberismo economico e del liberalismo.



[1] Con il titolo Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo [ndr].

[2] Con il titolo Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo [ndr].

[3] Con il titolo Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo [ndr].

[4] Tradotto in spagnolo con il titolo De los distintos significados de concepto de liberalismo económico y de sus relacíones con el liberalismo [ndr].

[5] Benedetto Croce, Capitoli introduttivi di una storia dell’Europa nel secolo decimonono. Memoria letta all’Accademia di scienze morali e politiche della Società reale di Napoli (Napoli, 1931. Un vol. di pp. 51, estratto dal vol. LIII, parte prima, degli Atti della Accademia sopradetta).

Relazione per la presentazione in omaggio di 25 volumi dei Journals of the Continental Congress (1774-1789) donati dalla direzione della «Library of Congress» di Washington

Relazione per la presentazione in omaggio di 25 volumi dei Journals of the Continental Congress (1774-1789) donati dalla direzione della «Library of Congress» di Washington

«Atti della R. Accademia delle scienze di Torino», vol. 65, 1929-1930, tomo II, pp. 8-9

 

 

 

 

Il Socio Einaudi presenta i venticinque volumi finora pubblicati dei Journals of the Continental Congress 1774-1789, pubblicati di sui verbali originali conservati nella Biblioteca del Congresso in Washington. Ognun sa quale sia stata l’importanza del Congresso continentale nel preparare, deliberare e condurre a glorioso termine la lotta per la conquista della indipendenza dalla corona britannica delle tredici colonie. Ma i verbali originali delle sedute del Congresso radunatosi dapprima nel 1774 a guisa di rappresentanza libera non-ufficiale di uomini desiderosi di difendere i tradizionali diritti del cittadino britannico, tra cui principalissimo quello di essere giudicato da un giurì di uguali e di non essere chiamato dinanzi a tribunali metropolitani per delitti commessi nelle colonie, non erano mai stati pubblicati nella loro integrità. La Library of Congress, essendo venuta in possesso in seguito a consegna da parte del Dipartimento di Stato dei manoscritti originali, ne deliberò la pubblicazione condotta con rigorosi criteri scientifici. Cominciata nel 1904, essa avrebbe dovuto comprendere 14 o 15 volumi ed essere compiuta in 5 o 6 anni. I volumi sinora venuti alla luce sono già 25 e giungono alla fine del 1783; mancando ancora la documentazione relativa agli ultimi sei anni per il compimento della grandiosa iniziativa. Il ritardo è dovuto alla ricchezza dell’apparato bibliografico, al numero dei documenti (relazioni, petizioni, memorie) aggiunti ad illustrazione dei verbali, alla introduzione di numerosi facsimili dei documenti più importanti, frontespizi e prime pagine di taluni di essi già stampati e divenuti rarissimi. I Journals sono la fonte più sicura e più ampia che si conosca non solo sulla storia della indipendenza delle tredici colonie, ma sovratutto per la storia della formazione della costituzione vigente negli Stati Uniti. Non è senza commozione che si assiste al graduale svolgersi delle idee di uno Stato federativo indipendente, dal primo patto di associazione del 20 ottobre 1774, qui riprodotto in facsimile, sino alla promulgazione della Costituzione che ancora, quasi invariata, regge quel paese. I Journals sono stampati in numero limitato di copie; ed oggi parecchi volumi sono esauriti per il pubblico. Rimangono in possesso della Library of Congress alcune poche copie complete, destinate esclusivamente ad «istituzioni pubbliche dove esse siano necessarie a scopi di ricerca». Non dubito che la Classe sarà grata agli ufficiali della Biblioteca per avere consentito alla nostra Accademia di possedere un così prezioso strumento di studio.

Del cosidetto prelievo dell’imposta e dei suoi effetti sulla valutazione del reddito e della ricchezza di un paese

Del cosidetto prelievo dell’imposta e dei suoi effetti sulla valutazione del reddito e della ricchezza di un paese

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1929, pp. 225-238

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte I, pp. 77-92

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 295-314

Del cosidetto prelievo dell’imposta e dei suoi effetti sulla valutazione del reddito e della ricchezza di un paese

Del cosidetto prelievo dell’imposta e dei suoi effetti sulla valutazione del reddito e della ricchezza di un paese

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1929, pp. 225-238

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte I, pp. 77-92

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 295-314

 

 

 

 

Il prelievo dell’imposta dal reddito dei contribuenti dà origine a qualche curioso paradosso contabile.

 

 

Supponiamo, come fanno il De Viti ed il Ricci[1], una società nella quale si produca nella unità di tempo «anno», un solo bene diretto, il pane, simbolo di tutti i beni e servigi diretti utili all’uomo. Chiamiamo 1 lira ogni unità del bene pane; e supponiamo che la produzione annua della società sia di 100.000 pani o 100.000 lire. La distribuzione dei pani o delle lire, ognuna delle quali da diritto ad acquistare sul mercato un pane, si faccia nel seguente modo:

 

 

[1] Al fabbricante di aratri od altri strumenti agricoli………………………………………………………………….

L 20.000

All’agricoltore, che produce il frumento………………………………………………………………………………

”  20.000

Al mugnaio, che trasforma il frumento in farina…………………………………………………………………..

”  20.000

Al fornaio, che trasforma la farina in pane………………………………………………………………………….

”  20.000

Allo Stato, che crea l’ambiente giuridico-politico necessario alla attuazione della vita economica……………………………………………………………………………………………………………………..

”  20.000

Totale produzione annua

L. 100.000

 

 

Le ipotesi fatte suppongono un tessuto sociale tenue, una distribuzione a parti uguali della produzione, probabilmente disforme dalla realtà, un consumo totale degli strumenti agricoli nell’anno, che anch’esso non è probabile. Esse sono assunte così semplici allo scopo dimostrativo, e l’assumerle diversamente non muterebbe le conclusioni.

 

 

Il totale della produzione può essere chiamato anche reddito sociale o nazionale (R) ed è netto per la società o nazione, essendo uguale alla somma dei redditi netti (r1, r2, r3, r4, ed r5) dei singoli collaboratori alla produzione totale.

 

 

Avremo così:

 

[2]    R = r1 + r2 + r3 + r4 + r5

 

Come spiega bene il De Viti (Pag. 211), lo Stato può prelevare la sua quota dal prodotto totale direttamente tutta a carico del fornaio, il quale ha R o 100.000 pani o lire in bottega. In tal caso si dice che l’aliquota dell’imposta, o quota spettante allo Stato di R, è 20-100 R, ossia il 20 per cento del reddito netto nazionale. Il fornaio, il quale aveva in bottega il valsente di 100.000 lire, e se lo vede ridotto ad 80.000 lire, terrà per sé un quarto di 80.000 lire e distribuirà, via via ritornando indietro, i restanti tre quarti tra gli altri collaboratori. Ognuno di essi rimarrà con 20.000 lire, ossia giusto con la quinta parte della produzione totale. Nessuno di essi avrà avuto l’impressione di essersi veduta portar via dall’imposta una parte della cosa propria; perché il prelievo dello Stato fatto in blocco alla fine del periodo produttivo, avrà avuto, oltreché la sostanza, anche l’apparenza di remunerazione pagata allo Stato per il suo contributo alla produzione del reddito totale sociale o nazionale (R). Ognuno ricevendo r1, r2, ecc., riterrà di aver ricevuto tutto il suo.

 

 

Le imposte, ordinariamente, non si distribuiscono però in questa maniera. Lo Stato non conosce R ossia il reddito netto nazionale e non si rivolge al fornaio come rappresentante della collettività  produttrice di beni diretti. Ciò accade in parte solo per certe imposte dette di fabbricazione ed altre sui consumi; ma per la peculiarità del loro comportamento contabile, possiamo qui farne astrazione. Lo Stato conosce solo i redditi (r) netti dei singoli, e giunge alla conoscenza di questi redditi netti attraverso ad un conteggio di prodotti lordi e di spese. Così:

 

 

[3] 

Prodotto lordo

P

Spese di

produzione

S

Prodotto netto

p

Imposta

i

Reddito

netto

r

Fabbricante di aratri……..

25.000

25.000

5.000

20.000

Agricoltore…………………..

50.000

25.000

25.000

5.000

20.000

Mugnaio……………………..

75.000

50.000

25.000

5.000

20.000

Fornaio……………………….

100.000

75.000

25.000

5.000

20.000

Stato…………………………..

20.000

20.000

Reddito netto sociale (R)

100.000

100.000

 

 

La tabella chiarisce:

 

 

  • che il prodotto lordo (P) ultimo (del fornaio) è uguale alla somma dei prodotti netti (p) dei quattro contribuenti; ed invero ognuno di essi successivamente ha dedotto dal proprio prodotto lordo (valore dei prodotti crescente di gradino in gradino nella scala produttiva) il valore del prodotto lordo consegnatogli dal produttore precedente;

 

 

  • che la somma dei prodotti netti (p) è uguale alla somma dei redditi netti (r), l’unica differenza essendo che R è ripartito, nella colonna dei prodotti netti, solo tra quattro produttori privati laddove nella colonna dei redditi netti è ripartito tra questi e il produttore pubblico o Stato.

 

 

Il vizio, psicologico, del metodo sta in ciò che i quattro produttori privati immaginano di avere essi prodotto un valore di 25.000 lire ciascuno, da cui lo Stato preleva poi 5.000 lire d’imposta, cosicché il tributo assume parvenza di qualcosa portato via dallo Stato a chi l’aveva primamente prodotto. Sembra che la società produttrice, composta dei quattro produttori privati, abbia prodotto un valore di 100.000 lire e poi venga una persona estranea alla produzione (Stato) a sottrarre 20.000 lire, riducendo il reddito netto ad 80.000 lire. In generale l’attenzione si fissa sull’equazione.

 

 

[4] P – i = r1 + r2 + r3 + r4

 

 

Nasce confusamente l’idea di un reddito lordo uguale a P, che invece è il prodotto lordo ultimo della società e di un reddito netto che invece di essere, come è, uguale al prodotto lordo ultimo o al reddito netto sociale (P ed R) sarebbe uguale a P – i ossia alla somma dei redditi netti dei quattro produttori privati. Il reddito netto (r5) del quinto produttore pubblico (o Stato), assume per il volgo, insieme al nome di imposta, la sembianza di qualcosa persa o distrutta o spesa. È una impressione volgare, che importa rilevare, perché ha lasciato traccie profonde nella terminologia scientifica, la quale discorre di continuo di «prelievo» dell’imposta dai redditi privati, e ricerca la «incidenza» di essa su questo piuttosto che su quel reddito dei privati. La terminologia è insensata, e chiunque di leggieri se ne persuade guardando le equazioni [1] e [2], da cui risulta che lo Stato, ricevendo r5, ha né più né meno della quota che a lui spetta per il contributo apportato all’opera comune.

 

 

Oltre a subire l’illusione psicologica di «prelievo» sul «proprio» reddito, i contribuenti, a causa del modo tecnico tenuto nell’accertamento della imposta, sono punti da un prepotente bisogno di far rendere ossequio alla giustizia distributiva. «Non paghiamo forse noi 5.000 lire d’imposta sulle 25.000 lire di “nostro”, reddito?; e perché i funzionari pubblici, a cui lo Stato trasmette, a titolo di stipendio, le 20.000 lire riscosse come imposta[2] non dovrebbero pagare anch’essi tributo?» La querela essendo fondata, il legislatore non può non accoglierla. I risultati sono pure tuttavia puramente formali; poiché l’imposta che dev’essere del 20 per cento per parità di trattamento cogli altri contribuenti, non può colpire le 20.000 lire distribuite ai funzionari pubblici. Ché le ridurrebbe a 16.000 lire e sarebbe rotto l’equilibrio fra le remunerazioni nette di produttori, i quali hanno prestato uguale lavoro, gli uni (privati) ricevendo 20.000 lire e l’altro (pubblico) 16.000 lire. E che farebbe lo Stato delle 4.000 lire così prelevate? Rimarrebbero in sospeso, sarebbero ridate ai produttori privati con ulteriore offesa all’equilibrio tra le remunerazioni o disperse al vento? Il problema, si risolve agevolmente, crescendo la remunerazione nominale dei funzionari, pubblici da 20.000 a 25.000 lire, cosicché l’imposta del 20 % le riduca alle stesse 20.000 lire degli altri produttori (Ricci, art. cit., p. 897).

 

 

Nasce a questo punto una nuova distribuzione del reddito sociale, che può essere raffigurata come dallo schema seguente:

 

Distribuzione effettiva

Distribuzione per scrittura

 

Prodotto lordo

P

Spese di produzione

S

Prodotto netto

p

imposta

i

Reddito netto

r

Reddito imponibile legale

π

imposta

i

Reddito netto legale

ρ

Fabbric. di aratri…….

25.000

25.000

5.000

20.000

25.000

5.000

20.000

Agricoltore

50.000

25.000

25.000

5.000

20.000

25.000

5.000

20.000

[5] Mugnaio…

75.000

50.000

25.000

5.000

20.000

25.000

5.000

20.000

Fornaio….

100.000

75.000

25.000

5.000

20.000

25.000

5.000

20.000

Stato (o funzionari dello Stato)…

T. 20.000

20.000

25.000

5.000

20.000

Reddito netto sociale (R)..

T. 100.000

T. 100.000

T. 100.000

Reddito imponibile sociale per scrittura (π)………….

T. 125.000

Prelievo totale di imposta per scrittura (ι)

T. 25.000

 

 

 

Che cosa siano le quantità ed ι è assai difficile dire. Il Ricci nota assai bene che ci si arriva «se non si fa attenzione» nel ragionare, che sono cose «che appaiono», che si tratta di redditi «apparenti»: che «in realtà il reddito nazionale o prodotto netto nazionale» è solo quello che io ho chiamato R, perché «il vero numero di pani che la nazione ha prodotto e consumato durante l’anno», è solo, nel caso sopra detto, di 100.000; e gli altri (25.000) pani «non esistono se non sulla carta». Ma alla fin fine, forse per disperazione, egli si adatta ad attribuire una patente di esistenza in vita a questa entità immaginaria e la chiama «reddito apparente» o «reddito lordo in rapporto all’imposta».

 

 

In realtà le cifre che stanno a destra dello schema [5] non sono reddito né lordo né netto. Sono semplici espedienti contabili o di scrittura usati per dare l’impressione di usare giustizia verso tutti. Non è mai esistito un reddito sociale di 125.000 lire; poiché se nella realtà i pani sono 100.000 e valgono 1 lira l’uno, non c’è trucco contabile che riesca a farli diventare 125.000 lire. La quota spettante allo Stato nella produzione comune è di 20.000 pani o 20.000 lire; e nessun prestidigitatore riesce a portarla a 25.000 lire. I redditi imponibili legali π, le imposte ι ed i loro totali sono utili espedienti scritturali adoperati per eliminare le conseguenze di un errore di sostanza: quello per cui si lascia credere ai contribuenti che essi avevano prodotto p e che il prelievo dell’imposta è fatto a loro danno. Il giorno in cui tutti si saranno persuasi che la vera distribuzione del reddito netto sociale è la [1], sarà distrutto il fondamento del grottesco abracadabra contabile raffigurato nella distribuzione per scrittura [5].

 

 

Frattanto, sinché l’abracadabra sussiste sulle scritture pubbliche per riflesso delle idee confuse vaganti nella mente dei contribuenti e dei trattatisti rispetto all’indole dell’imposta, taluno discorre di reddito nazionale o sociale uguale a , ossia a 125.000 lire. E può sembrare che in seguito alla riduzione del debito pubblico o suo riscatto, con o senza intervento di una imposta straordinaria sul patrimonio, il reddito nazionale anzidetto sia soggetto a diminuzione.

 

 

Ho detto sopra come il gonfiamento per «scrittura» del reddito nazionale sia la conseguenza contabile dell’idea di uguaglianza tributaria applicata all’idea storta che le imposte siano pagate sul serio dai contribuenti con la roba loro. È chiaro che ad ogni riduzione d’imposta, il gonfiamento scritturale scemerà  e scemeranno per conseguenza i redditi scritti su qualche libro contabile. Spingendo l’ipotesi sino all’estremo, supponiamo, per assurdo[3], che lo Stato non spenda nulla per i servigi pubblici propriamente detti e che tutte le 25.000 lire prelevate, secondo lo schema per scrittura [5], a titolo di imposta, e ridotte a loro volta a 20.000 lire nette da tributo, siano destinate a fare il servizio degli interessi di un debito perpetuo di 500.000 lire 4 per cento.

 

 

Supponiamo che i creditori dello Stato i quali riscuotono le 25.000 lire di interessi siano in un primo momento un gruppo speciale, vivente di quel reddito. In un secondo momento, avendo gli altri quattro gruppi sociali accumulato qualche risparmio, i creditori vendono ad essi in parti uguali le 500.000 lire di capitale nominale di titoli di debito pubblico ed emigrano[4]. Restano a far parte della collettività considerata solo i fabbricanti di aratri, gli agricoltori, i mugnai ed i fornai, provvisti ciascuno del reddito antico, più una quarta parte delle 25.000 lire di reddito da debito pubblico. Ad un certo punto (momento terzo) essi si accorgono che potrebbero fare un bel falò dei loro titoli di debito pubblico e nel tempo stesso abolire le imposte così da conservare immutato il reddito netto. Così fanno[5]. Ma in quel punto certi statistici si accorgono che il reddito nazionale è diminuito da 125.000 lire a 100.000 lire, e certi finanzieri notano che, se lo Stato volesse stabilire, per qualche, nuova occorrenza, imposte, dovrebbe distribuirle su una base imponibile minore di prima. Così:

 

 

[6] 

Momento primo

                      Momento secondo

Momento terzo

 

 

 

 

 

Fabbricante di aratri
Agricoltore
Mugnaio
Fornaio
Creditori pubblici
Totali

 

Reddito imponibile legale  Imposta Reddito netto legale
 

25.000

 

5.000

 

20.000

25.000 5.000 20.000
25.000 5.000 20.000
25.000 5.000 20.000
 

25.000

 

5.000

 

20.000

125.000 25.000 100.000

 

Reddito imponibile legale
Antico Da debito pubblico Totale imposta Reddito netto legale
 

25.000

 

6.250

 

31.250

 

6.250

 

25.000

25.000 6.250 31.250 6.250 25.000
25.000 6.250 31.250 6.250 25.000
25.000 6.250 31.250 6.250 25.000
 

 

100.000

 

 

25.000

 

 

125.000

 

 

25.000

 

 

100.000

 

Reddito imponibile legale

 

Imposta Reddito netto legale
 

25.000

 

 

25.000

25.000 25.000
25.000 25.000
25.000 25.000
 

 

 

100.000 100.000

 

 

 

Che il gonfiamento prima e lo sgonfiamento poi del cosidetto reddito imponibile sia tutta una fantasmagoria è manifesto dalla circostanza che nei tre momenti il reddito netto dei cinque e poi dei quattro gruppi fu sempre di 100.000 lire; e poiché i cinque o quattro gruppi costituiscono la totalità della collettività è chiaro che nient’altro essi produssero e consumarono e distribuirono. Le tre colonne intitolate «reddito netto legale» raffigurano anche il reddito netto «effettivo», quale risulta dallo schema [1].

 

 

Le osservazioni precedenti non significano che le scritturazioni conseguenti ad imposta non abbiano conseguenze importantissime sostanziali; e bene le mette in luce il Fasiani[6]. Significano soltanto che bisogna stare attenti alle illusioni ottiche prodotte dall’imposta in materia di stima del reddito di un paese. Forse l’illusione più singolare è quella relativa alla valutazione della ricchezza nazionale. Si ponga mente ancora allo schema [5]. Nel momento «primo», i creditori pubblici sono in possesso di titoli di debito pubblico, i quali danno il frutto lordo di 25.000 e netto di 20.000 lire. Se il saggio di interesse è del 4 per cento, i titoli hanno un valore corrente capitale di 500.000 lire e per tal somma sono registrati nell’inventario della ricchezza nazionale. Il resto della ricchezza nazionale è dato dalla capitalizzazione di quella parte del reddito di 20.000 lire nette spettanti agli altri quattro gruppi, la quale derivi dall’impegno di capitale. Se noi supponiamo che le 20.000 lire derivino per tre quarti parti dal lavoro prestato dai componenti il gruppo, e per un quarto del capitale da essi impiegato, poiché il reddito di lavoro non si capitalizza (eccettoché nei paesi a schiavi), avremo che delle sole 5.000 lire di reddito da capitale corrisponde, al 4 per cento, un valore capitale di 125.000 lire per ognuno dei quattro gruppi. Nel momento «secondo», nulla è mutato nella valutazione «totale». Il reddito «capitalizzabile» è sempre 25.000 lire lorde e 20.000 lire nette da titoli di debito pubblico e di una quarta parte delle 100.000 lire lorde e 80.000 lire nette da impiego di capitali investiti nell’agricoltura e nell’industria. È mutata solo la distribuzione della proprietà della ricchezza nazionale. Il passaggio dei titoli di debito pubblico dal gruppo speciale dei creditori pubblici ai quattro altri gruppi non esercita nessuna influenza sull’ammontare del reddito netto da capitale; epperciò anche sull’ammontare del capitale corrispondente.

 

 

Momento primo Momento secondo
[7] Reddito netto capitalizzabile proveniente da  

Capitale corrispondente al 4% al reddito come contro

Reddito netto capitalizzabile proveniente da  

Capitale corrispondente al 4% al reddito come contro

Capitali investiti nell’industria e nella agricoltura Possesso di titoli di debito pubblico  

 

Tot.

Capitali investiti nell’industria e nella agricoltura Possesso di titoli di debito pubblico  

 

Tot.

Fabbricante di aratri………………….

5.000

5.000

125.000

5.000

5.000

10.000

250.000

Agricoltore………….Mugnaio…………….

Fornaio………………

Creditori pubblici…

5.000

5.000

5.000

20.000

5.000

5.000

5.000

20.000

125.000

125.000

125.000

500.000

5.000

5.000

5.000

5.000

5.000

5.000

10.000

10.000

10.000

250.000

250.000

250.000

Totale

20.000

20.000

40.000

1.000.000

20.000

20.000

40.000

1.000.000

 

 

Mutano invece i valori nel momento «terzo». Il quale è caratterizzato dalla circostanza che i quattro gruppi, stanchi di pagare, come contribuenti, un’imposta di 6.250 lire, destinata a ritornare nelle loro tasche in qualità di creditori pubblici, decidono di sopprimere in un atto medesimo imposta e debito pubblico riducendo così le scritturazioni alla loro realtà effettiva. Scompaiono le cifre, create per convenzione contabile, del reddito «imponibile» assommanti a immaginarie 125.000 lire e restano quelle sole del reddito netto di 100.000 lire, vive e scritte, effettive legali nel tempo medesimo. La capitalizzazione si effettua così:

 

 

[8]

Reddito netto

totale

Di cui provenienti da

Capitale corrispondente al 4% al reddito come contro

lavoro e non capitalizzabili 3/4

capitale e capitalizzabili 1/4

Fabbricante di aratri

25.000

18.750

6.250

156.250

Agricoltore

25.000

18.750

6.250

156.250

Mugnaio

25.000

18.750

6.250

156.250

Fornaio

25.000

18.750

6.250

156.250

Totale

100.000

75.000

25.000

625.000

 

 

Perché nel passaggio dal momento «secondo» al momento «terzo» scompaiono 375.000 lire della cosidetta ricchezza nazionale? – La risposta è ovvia. Finché esistevano le 20.000 lire di reddito dei titoli di debito pubblico, esse, sia che appartenessero ad un gruppo sociale autonomo sia che, appartenendo, pro-rata, ai gruppi dei produttori privati, avessero vita puramente formale, erano «capitalizzabili», e corrispondevano ad un capitale di 500.000 lire. Non appena i titoli sono estinti, cessa la capacità di capitalizzazione del loro reddito e vi subentra la «eventuale» capacità del reddito dei residui gruppi sociali. L’agricoltore, ad esempio, il quale nel momento «secondo» aveva: nel momento «terzo» aboliti i titoli di debito pubblico, che gli procuravano un reddito nominale di 6.250 lire ed abolite le conseguenti imposte, con altrettanto gravame, rimane con il reddito, prima lordo ed ora netto, che nello schema [9] è raffigurato da cifre in corsivo. E poiché, come allo schema [8], le sole 6.250 lire provenienti da capitale sono capitalizzabili, il suo capitale risulta di sole 156.250 lire[7]

 

 

[9]

un reddito lordo per

e pagava imposta per

rimanendo con reddito netto di

e possedeva perciò un capitale di

Dall’impiego di lavoro nell’agricoltura………

18.750

3750

15.000

Dall’impiego di capitale nell’agricoltura………

6.250

1250

5.000

125.000

Totale

25.000

5000

20.000

Di possesso di titoli di debito pubblico…..

6.250

1250

5.000

125.000

Totale generale

31.250

6250

25.000

250.000

 

 

La creazione di titoli di debito pubblico ha dunque per effetto di «creare» e la loro estinzione di «distruggere» valori capitali, nei limiti in cui il servizio del debito è compiuto con imposte gravanti redditi di lavoro. Se il servizio del debito è fatto con imposte gravanti redditi di capitale, il titolo di debito pubblico ha soltanto per effetto di «spostare» la valutazione dal capitale colpito, ad esempio, terra, al titolo. Come nello schema [11], se la terra paga 5.000 lire d’imposta essa vale solo 31.250 lire, corrispondenti al suo reddito netto di 1.250 lire; ma il titolo a cui sono pagate le 5.000 lire d’imposta vale 125.000 lire. La somma di amendue (terra + titolo) ha un reddito di 1.250 + 5.000 = 6.250 lire ed una valutazione capitale di 156.250 lire. Non importa nulla come il totale sia distribuito tra le due parti. Esso non varia, sia che sia maggiore o minore o nulla la parte attribuita al titolo. In sostanza, l’unico valor capitale esistente è quello corrispondente al reddito totale della terra: 6.250 lire. La creazione di titoli di debito pubblico ha solo per effetto di fare passare una parte del reddito e del valor capitale al nome dei possessore del titolo; la loro estinzione di farli ritornare al nome del proprietario del terreno.

 

 

Ben altri sono gli effetti di quella parte del debito pubblico, il cui servizio grava sui redditi di lavoro. Prima, il reddito totale spettava al lavoratore, il quale, essendo un uomo, in regime di padronanza sulla propria persona, non è capitalizzato dal mercato. Economisti e statistici discutono di «capitali personali» e talvolta si azzardano a valutarli. Il mercato no. Il titolo di debito pubblico il cui servizio è fatto con imposta sui redditi di lavoro da luogo a quel processo di capitalizzazione dei redditi del lavoro a cui il mercato si rifiuta, finché il reddito rimane proprio dell’uomo – lavoratore. Se, come nello schema [9] l’agricoltore ricava dal suo lavoro 18.750 lire e le tiene tutte per sé, a quel reddito non corrisponde alcun capitale. Ma se lo Stato preleva dal suo reddito 3.750 lire per fare il servizio duna parte del debito pubblico, ecco il reddito dividersi in due parti:

 

 

  • l’una, rimasta all’agricoltore, di lire 15.000 che continua a non essere capitalizzata;

 

  • l’altra, detta imposta di lire 3.750, la quale, attraverso allo Stato, è versata al possessore dei titoli di debito pubblico. Un capitale viene «creato» che prima non esisteva; poiché il titolo, fruttando 3.750 in perpetuo al 4 per cento ha un valor capitale di lire 93.750. Se il debito viene estinto e il reddito è restituito all’agricoltore, in quanto lavoratore, ecco «distrutto» un uguale capitale.

 

 

«Creazione» e «distruzione» sono qui, ovviamente, parole adoperate in senso traslato. In realtà non si crea e non si distrugge niente di effettivo, di reale. Si fanno passare valori esistenti, da una forma che il mercato conosce soltanto sotto la specie «reddito» ad un’altra forma che il mercato conosce ed apprezza anche sotto la forma «capitale». Il debito pubblico è cioè un congegno tecnico per dare una valutazione «di mercato» a certi capitali, quelli «personali», che normalmente formano oggetto solo di speculazioni teoriche da parte degli economisti e degli statistici.

 

 

Dalle osservazioni fin qui fatte si possono dedurre alcune illazioni metodologiche:

 

 

  • in primo luogo, i redditi devono essere valutati al netto dalle imposte quando si vuol fare il calcolo del reddito netto nazionale;

 

  • ai redditi netti degli altri contribuenti bisogna aggiungere il reddito netto dei funzionari, creditori ed altri dipendenti dello Stato;

 

  • in secondo luogo, se si vuole fare il calcolo della ricchezza nazionale fa d’uopo distinguere chiaramente se si intenda tener calcolo dei soli capitali materiali o di questi e dei capitali personali insieme;

 

  • nel primo caso, è necessario fare una stima, la quale non potrà non essere grossolana, della quota del debito pubblico, il cui servizio è compiuto con imposte sui redditi di capitale e tener conto solo di questa parte, ad esclusione di quella il cui servizio si compie con imposte gravanti i redditi di lavoro;

 

  • nel secondo caso, quando cioè lo statistico ambisce a valutare non solo le terre, le case, le miniere e le altre ricchezze mobili e immobili esistenti nel paese ma anche gli uomini, i cosidetti capitali personali, si deve aggiungere alla somma degli altri valori capitali, anche l’importo totale del capitale debito pubblico[8].

 

 

D’indole non più metodologica, ma sostanziale è un’altra illazione. Si domanda: le cose dette sopra gittano luce sul problema della convenienza di ammortizzare il debito pubblico? Sembra a me che da esse resti rafforzata la opinione del De Viti intorno alla preferenza da darsi al processo di ammortamento spontaneo, da cui così mirabilmente messo,in luce. Si sa in che cosa consista il processo. A mano a mano che gli originari contribuenti[9], i quali nel primo momento, avevano dovuto privarsi di 5.000 lire di reddito per versarlo ai creditori pubblici, risparmiano, essi riscattano i titoli di debito pubblico, diventando nel tempo stesso contribuenti e creditori pubblici. Quando, idealmente, i contribuenti originari hanno acquistato titoli per 6.250 lire lorde di reddito, equivalenti a 6.250 lire di imposta da ciascheduno di essi pagata, il processo effettivo di ammortamento è compiuto. Il debito pubblico è solo vivo per «scrittura» non più in realtà. Esso dà luogo ad una semplice partita di giro, non ad attuali sacrifici e benefici effettivi. Lo Stato potrebbe, come nel momento terzo, passare la spugna sulle scritturazioni ed il debito pubblico, già divenuto nome senza soggetto, svanirebbe come fantasma, senza lasciare di sé alcuna traccia.

 

 

Conviene, tuttavia, passare, col colpo di spugna, dal momento secondo al momento terzo?

 

 

Non conviene ai contribuenti capitalisti, poiché il titolo di debito pubblico, consentiva ad essi di frazionare il valore capitale del proprio terreno, o casa od industria, ecc., ecc., in due parti: l’una, quella attaccata al terreno o casa od industria, difficilmente alienabile o ipotecabile, o alienabile ed ipotecabile con una certa difficoltà o in seguito a date formalità, e l’altra, quella attaccata al titolo di debito pubblico, alienabile e pignorabile senza difficoltà senza perdita di tempo, con un minimo costo di formalità, spese, imposte e tasse[10].

 

Ma ben più grandi sono i vantaggi dei contribuenti lavoratori. Il lavoratore urta contro un grande scoglio: la difficoltà  di mobilitare, di ipotecare, di alienare sé medesimo. È principio sacrosanto che l’uomo non possa, neppure per atto suo volontario ridursi in schiavitù; ma è utilità evidente che l’uomo possa ottenere credito a saggi non usurai. Il credito personale, fondato sulla mera fiducia, è spesso usuraio. L’esistenza dei titoli di debito pubblico può scemare la difficoltà.

 

 

Deve premettersi:

 

 

  • che il debito pubblico sia stato originariamente creato per una causa seria;

 

  • che non sia stato caricato sui redditi di lavoro il servizio di una quota del debito pubblico maggiore di quella la quale su di essi correttamente può essere fatta gravare;

 

  • che l’ammortamento «spontaneo» si sia già attuato, anche per la quota gravante sui redditi di lavoro e che quella quota sia venuta in possesso di lavoratori, suppergiù per importi corrispondenti alle imposte da essi pagate.

 

 

Se le premesse sono osservate (altrimenti è ovvio che diverse siano le conclusioni) il titolo di debito pubblico è divenuto un mero espediente contabile. Come tale, è utile. Il lavoratore il quale guadagna 10.000 lire all’anno e deve pagare 1.000 lire di tributo, restando con 9.000 lire di reddito di lavoro, se possiede egli stesso 25.000 lire di titoli di debito pubblico che gli fruttano 1.000 lire, ha ancora 10.000 lire di reddito in tutto, di cui 1.000 da capitale. Queste possono, all’occorrenza, essere alienate od impegnate, con vantaggio sommo, in date urgenze della vita, del lavoratore.

 

 

Se il debito viene estinto, il lavoratore non paga più l’imposta di 1.000 lire ma nemmeno esige più le 1.000 lire di reddito dei titoli. Il reddito totale resta sempre 10.000 lire, tutto personale, poco mobilizzabile, poco utile in gravi emergenze.

 

 

Obbietto: questi sono i vantaggi del risparmio, comunque impiegato. Può darsi. Si risparmierebbe, tuttavia, nella stessa misura se esistessero soltanto case, terreni, imprese industriali; e se l’invenzione del debito pubblico non consentisse ai lavoratori di investire in sé medesimi, in un titolo la cui garanzia in ultima analisi talvolta consiste nella loro medesima persona? il crescere della superficie di garanzia del credito, dalle gioie agli immobili,dagli immobili alle imprese industriali, da queste alla parola data dalla persona del debitore non ha avuto davvero nessuna influenza sul crescere del risparmio effettivo? Quei gonfiamenti immaginari nei valori dei redditi e dei patrimoni che abbiamo visto essere la conseguenza talvolta paradossale dell’imposta e del debito pubblico non hanno davvero nessuna parentela spirituale con quei fenomeni di risparmio «forzato» a cui da qualche tempo ingegni sottili dedicano ragionamenti raffinati con risultati speculativi certamente stimolanti?

 



[1] A. De Viti De Marco, I primi principii della economia finanziaria (Roma, 1928, pag. 209 e seg.); Umberto Ricci, La taxation de l’epargne (in «Revue d’economie politique», 1927, n. 3, paragafi 6 e 8).

[2] L’imposta non serve solo a pagare funzionari civili e militari, ma anche a fare il servizio degli interessi del debito pubblico e ad acquistare le cose necessarie alla vita dello stato. Ma poiché qualunque pagamento fatto da privati o dallo Stato si risolve da ultimo, in creazione di redditi netti di qualcuno, il ragionamento esposto nel testo è valido in ogni caso.

[3] Trattandosi di ipotesi teorica, il procedimento pur assurdo è lecito. Va da sé che le conseguenze a cui si arriverà, saranno vere entro i limiti in cui si ridurranno le spese in seguito alla scomparsa del debito pubblico.

[4] L’ipotesi dell’emigrazione è necessaria, per non far variare da un momento all’altro il patrimonio e il reddito del gruppo. Se gli altri quattro gruppi risparmiassero 500.000 lire e il loro reddito crescesse di 25.000 lire all’anno, ma rimanessero nel gruppo i creditori dello Stato, il reddito, sociale crescerebbe di 25.000 lire. Emigrando i creditori con le 500.000 lire ricevute in cambio dei loro titoli, il reddito nazionale non muta e l’unica circostanza mutata è quella (esistenza o meno del debito pubblico) di cui si vuole studiare l’effetto. L’ipotesi dell’emigrazione dei vecchi creditori pubblici equivale all’altra che, fin dal principio, i creditori pubblici non fossero una classe distinta dalle altre quattro, ma queste avessero mutuato allo Stato, come nella sezione seconda dello schema [6], ciascuna 125.000 lire in capitale su cui riscuotevano 6.250 lire di interessi annui, equivalenti, di fatto, alle 6.250 lire di imposta a ciascuno attribuite.

[5] Applicando il processo ideale delineato da A. DE VITI DE MARCO in Saggi di economia e di finanza (Roma 1898), pag. 107. Il «Contributo alla teoria del prestito pubblico» del De Viti è fondamentale per la concezione dell’ammortamento «naturale» o «spontaneo».

[6] Nell’articolo Di alcuni effetti dell’estinzione del debito pubblico mediante un’imposta sul capitale (in «La Riforma Sociale» del maggio-giugno 1929 e specie al paragrafo 9).

[7] La conclusione può mutare rispetto all’importo se si suppone che le imposte non siano distribuite, come per semplicità  si ammise nel testo, uniformemente sui redditi di capitale e di lavoro; ma gravino di più sui redditi di capitale che su quelli di lavoro. Se fermi rimanendo in lire 6.250 gli interessi di debito pubblico di cui bisogna fare il servizio, le imposte relative si distribuissero per 1.250 lire (si lascia, anche qui, per semplicità, invariata questa cifra convenzionale, per non dovere variare tutte le altre) sul reddito dagli interessi medesimi, dividendo le residue 5.000 per esatta metà fra redditi di lavoro e di capitale, lo schema [9] si trasforma in quest’altro:

 

 

[10]

Reddito lordo

Imposta

Reddito netto

Capitale

Reddito proveniente dall’impiego di lavoro nell’agricoltura

18.750

2500

16.250

Reddito proveniente dall’impiego di capitale nell’agricoltura

6.250

2500

3.750

93.750

Totale

25.000

5000

20.000

Reddito proveniente dal possesso di titoli del debito pubblico

6.250

1250

5.000

125.000

Totale generale

31.250

6250

25.000

218.750

 

 

il patrimonio dell’agricoltore invece di essere, come nello schema [9] di 250.000 lire, è di sole 218.750 lire, perché l’imposta riduce più fortemente, essendo differenziata, il quarto del suo reddito terriero proveniente da capitale. E per converso, l’abolizione contemporanea del debito pubblico e dell’imposta, riducendo il suo reddito a 25.000 lire nette (vedi le cifre in corsivo), di cui 6.250 da capitale, fa si che egli possegga ancora un capitale di 156.250 lire. Ossia la sua perdita di capitale, differenza fra 218.250 e 156.250, ossia 62.500 lire ossia a 93.750 lire.

 

 

Se si supponesse che, sempre fermo rimanendo in 1.250 lire la quota gravante convenzionalmente sui titoli di debito pubblico, tutte le altre 5.000 lire di imposta gravassero sui redditi di capitale, agli schemi [9] e [10] si dovrebbe sostituire il seguente:

 

 

[11]

Reddito lordo

Imposta

Reddito netto

Capitale

Reddito proveniente dall’impiego di lavoro

 

 

 

18.750

18.750

Reddito proveniente dall’impiego di capitale

 

 

 

6.250

5000

1.250

31.250

Totale

 

25.000

5000

20.000

Reddito proveniente dal possesso di titoli di debito pubblico

6.250

1250

5.000

125.000

Totale generale

31.250

6250

25.000

156.250

 

 

Il patrimonio risulta di sole 156.250 lire, perché l’imposta assorbe gran parte del suo reddito da capitale. Perciò la conservazione e l’abolizione del debito pubblico e dell’imposta è indifferente, per la valutazione del suo patrimonio, poiché di quanto diminuisce il suo reddito da titoli di debito pubblico (lire 5.000 capitalizzabili in 125.000 lire) di altrettanto aumenta, per la abolizione dell’imposta relativa, il suo reddito da capitale (lire 5.000 capitalizzabili in 125.000 lire).

[8] Questa mi pare la norma metodologica da sostituire a quelle che solitamente sono discusse dagli statistici. Cfr. per ricordare una trattazione meritamente reputata, quella contenuta nei paragrafi 8 e 9 dell’opera di C. GINI, L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni (Torino, 1914) dove è ben messo in luce che il debito pubblico può essere solo condizionalmente incluso nella valutazione della ricchezza nazionale. Nel testo si è cercato di chiarire la linea teorica caratteristica di distinzione fra la parte che, deve essere e quella che non deve essere inclusa.

[9] Si guardi allo schema [4] e si chiamino originari contribuenti le prime quattro categorie di produttori privati. L’ultima è dei risparmiatori che, anticipando nel primo momento 500.000 lire allo Stato, diventarono creditori pubblici.

[10] Il vantaggio per i risparmiatori – capitalisti enunciato nel testo appare diverso da un altro vantaggio che il De Viti nel citato saggio così descrive: «L’ordinamento del debito pubblico, per la facile negoziabilità dei suoi titoli e la relativa stabilità  e regolarità  dei corsi, rende talvolta servigi notevoli nel facilitare operazioni di credito privato. Cioè chi offre credito, anche a breve scadenza, compera, e chi domanda credito vende titoli del debito pubblico, salvo a invertire l’operazione alla scadenza. Questa compra – vendita avvicina con la massima rapidità il mutuante al mutuatario e compie con la massima garanzia l’operazione creditoria, risparmiando l’intervento costoso di un apposito intermediario. È lo stato che facendo il servizio degli interessi per suo conto, fa anche da intermediario in operazioni di credito fra i privati. Non è già che il debito pubblico, secondo una vieta teoria, sia ricchezza pel paese; ma la conservazione sul mercato di un certo numero di titoli di debito pubblico mette lo stato in condizioni di produrre, senza aumento di costo, l’utilità  addizionale di offrire ai privati un meccanismo cantabile, che facilita loro vere operazioni creditorie e risparmia il banchiere o un istituto di credito».

Liberismo, borghesia e origini della guerra[1]

Liberismo, borghesia e origini della guerra[1]

«La Riforma Sociale», settembre-ottobre 1928[2]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 187-207

 

 

 

 

Le scritture del Croce elencate in nota dalla seconda alla quarta si rileggono raccolte nel volumetto intitolato Aspetti morali, il quale anche contiene, in aggiunta, tre altri saggi: Stato e chiesa in senso ideale e loro perpetua lotta nella storia; Giustizia internazionale e Pessimismo storico. Quale sia il contenuto di esse non mi attenderò a dire; poiché una bibliografia sunteggia utilmente il libro recensito quando esso è troppo costoso o non facilmente accessibile; il che non può dirsi di scritti raccolti oggi nei divulgatissimi volumetti del Laterza. Basti dire che il Contributo alla critica di me stesso è indispensabile alla conoscenza della formazione mentale del critico e del filosofo e che gli Aspetti morali della vita politica sono il complemento necessario di quegli Elementi di politica in cui il Croce aveva riassunto la sua concezione della politica, necessario per rimediare o correggere il «senso di disorientamento, o almeno di meraviglia» provato forse, dice l’autore, da qualche lettore dei suoi Elementi di politica «nel percorrere il giro che vi è delineato della filosofia della politica, senza vedervi trattata e nemmeno toccata una dottrina così cospicua, che ha avuto tanta parte negli ultimi secoli della storia europea, e l’ha ancora, qual è la concezione liberale». L'”appendice” odierna ha per iscopo, in succo, di dimostrare che quella omissione non era disconoscimento dell’importanza della concezione liberale, ma, per converso, «un modo implicito di riconoscerla pertinente a una sfera diversa e superiore». Come il Croce dimostri la sua tesi non voglio qui malamente ridire, quando il succoso volumetto è tale che ogni lettore curioso di chiarire dinnanzi agli occhi della sua mente parole quotidianamente ripetute ha il dovere di meditarlo e quando il Croce, come è suo costume, ha ristretto il suo ragionamento al numero minimo di parole, al disotto delle quali sembra impossibile scendere.

 

 

Il ricordo, che qui si fa, di scritti del Croce, ha per iscopo di segnalare che in essi è probabile i nostri lettori trovino stimolo a riflettere anche in quel campo economico che si può supporre sia loro proprio. Questo è sempre stato il frutto maggiore dell’opera del Croce e quello di cui egli medesimo pare maggiormente, a ragione, compiacersi nella «critica di se stesso», ricordata prima nell’elenco: di provocare i lettori a ripensare alle cose lette. La meditazione filosofica italiana dell’ultimo quarto di secolo deriva quasi tutta, per consenso o per dissenso, dal Croce. Non altrettanto direi della meditazione economica, sebbene egli accenni qua e là nella Storia d’Italia (ad esempio, a p. 253, là dove si dice che «dall’opera della Critica e dei suoi collaboratori… presero origine innumeri indagini, discussioni, monografie e, si può dire, tutto quanto di concreto si fece allora in Italia… nella filosofia… dell’economia») ad una azione dominante della sua sulla filosofia economica. Gli economisti italiani del primo quarto del secolo presente o non filosofarono pubblicamente per iscritto; o se pretesero esporre una loro filosofia, mossero come il Pareto, da premesse e si avanzarono per vie che al Croce dispiacquero per fermo assai. In verità, il solo punto di contatto di cui si abbia pubblica notizia tra l’economia e la filosofia è l’atteggiamento “liberistico” di taluni economisti; perché è il solo punto in cui agli economisti accada di manifestare, in un senso o nell’altro, certe loro idee sul mondo, sulla vita, sullo stato e somiglianti concetti generali e volentieri indugino in scorribande sui terreni di confine tra la scienza loro, che è tecnica, le scienze vicine della politica o della morale e la filosofia in generale. Anche il problema del valore, il quale un tempo teneva così gran parte nei trattati economici e chiamava a raccolta premesse attinte alla filosofia utilitaria, si e andato via via trasformando in un problema di prezzi, dove, se hanno importanza fattori di utilità e di costi, questi sono considerati sempre meglio come fattori di un sistema di equilibrio, come dati primi, che all’economista non interessa investigare nella loro ragion d’essere o causalità, ma esclusivamente nel loro operare al fine di condurre ad un sistema di prezzi, di salari, di profitti, di imposte, di quantità prodotte, consumate, risparmiate. Perciò è probabile che al filosofo sia talvolta cagione di stupore l’indifferenza, con cui l’economista guarda, quando vuol risolvere questioni sue economiche, a discussioni od a concetti che al filosofo paiono importanti e tali sono di fatto; ma non per risolvere problemi di economia. Perciò gli economisti sono passati accanto, tra il 1890 e il 1900, ai problemi marxistici del valore e del sopra lavoro, al cui studio il Croce die’ tanto contributo di pensiero, senza mostrar quasi di avvedersene. Erano problemi che non li riguardavano, quasi neanche come curiosità di una fase precedente del pensiero economico. Marx, come tanti altri, non si era accorto che la via da lui battuta, sulle tracce dei grandi classici del primo terzo del secolo, conduceva ad un vicolo cieco; né aveva saputo che ad Oxford nel 1833 il Lloyd si era incamminato sulla nuova via, su cui dal 1850 al 1860 si travagliò l’italiano Ferrara, e percorrendo la quale si e giunti al corpo attuale ricevuto di dottrine.

 

 

Il solo punto visibile di contatto è, ripeto, quello che il Croce discute in due saggi letti all’accademia napoletana, parlando dei rapporti tra liberismo e liberalismo e dei presupposti filosofici della concezione liberale. Della sua tesi fondamentale, che il “liberismo” sia un concetto inferiore e subordinato a quello più ampio del “liberalismo” non è chi non veda la giustezza. Il “liberismo” fu la traduzione empirica, applicata ai problemi concreti economici, di una concezione più vasta ed etica, che è quella del liberalismo; e va da sé che i traduttori, non sempre consapevoli dell’esistenza di altri mondi all’infuori di quello in cui essi, per nobilissimi fini e con risultati non spregevoli, si arrabattavano e combattevano, dessero valore di norma o legge superiore a quella regola empirica, del lasciar fare e del lasciar passare, la quale effettivamente aveva giovato in tanti casi a crescere la ricchezza e la prosperità delle nazioni moderne. Oggi, però, non solo non v’è più nessuno il quale dia alla regola empirica del lasciar fare e del lasciar passare (cosidetto liberismo economico) valore di legge razionale o morale; ma non oserei neppure affermare che vi sia tra gli economisti chi dia al “liberismo” quel valore di «legittimo principio economico» che il Croce (pag. 40 di Aspetti morali) sembra riconoscergli indiscutibilmente. Di un “principio” economico detto del liberismo non v’è traccia, suppongo, nella moderna letteratura economica. Se v’è, è solo per chiarire che quella è una posizione anti economica del problema; come ve ne sono tante, che si trascinano per abitudine nelle pagine dei laici. Come oggi non v’è, tra gli economisti, nessuno il quale prenda partito pro o contro la grande o la piccola proprietà, la grande o la piccola industria, la mezzadria o l’affittanza o la conduzione diretta; e il semplice porre il problema in quel modo basta a togliere al proponente titolo di economista, perché il vero problema è invece di sapere quale delle soluzioni sopra indicate sia, in date condizioni di clima, di giacitura dei terreni, di popolazione, di mercati, ecc., la più adatta a raggiungere certi fini che possono essere economici, morali, demografici, politici, fini la cui graduatoria deve essere stabilita sulla base di una data concezione generale della vita (Croce direbbe sulla base di una legge morale da attuare); così nessun economista risolve un qualsiasi problema di condotta economica facendo appello ad un preteso principio economico liberistico e saggiando la bontà della condotta scelta alla cote del detto principio. Questa è una posizione logica inaccettabile; poiché l’essere una certa soluzione liberistica invece che autoritaria non vuol dire affatto che quella sia la soluzione economica. La premessa è un fine da raggiungere; e poiché i fini sono molti, anche qui lo stabilire la graduatoria dei fini non è compito dell’economista, ma di chi sta più in alto di lui. Croce ha su questo punto parole scultorie: chi deve decidere «non può accettare che beni siano soltanto quelli che soddisfano il libito individuale, e ricchezza solo l’accumulamento dei mezzi a tal fine; e, più esattamente, non può accettare addirittura, che questi siano beni e ricchezza, se tutti non si pieghino a strumenti di elevazione umana». L’economista cerca di risolvere i problemi suoi partendo appunto da siffatta premessa. Da Adamo Smith a Marshall – e si potrebbe risalire più in su e venire sino ai viventi – questa è sempre stata la premessa e il fine delle fatiche degli economisti; non mai il procacciamento dei beni materiali. Naturalmente «è sempre stata», quando si faccia astrazione dagli epigoni, dagli abbreviatori, dai popolarizzatori e, nei grandi, dalle maniere abbreviate e stenografiche di esprimersi e dal fastidio di ripetere cose notissime. Ma, anche negli epigoni e nei popolarizzatori, tipo Bastiat, come si spiegherebbe quel loro entusiasmo, quel loro calore, quella fiamma che li accendeva e li faceva talora martiri dell’idea, se essi avessero avuto di mira meri beni materiali e non invece più alti beni morali ideali?

 

 

Posta la premessa, il compito dell’economista è modesto, sebbene, per la compilazione dei rapporti economici e sociali, grandemente irto di incertezze e difficoltà: cercare la soluzione economica più adatta per raggiungere il fine; la quale soluzione può non essere la più economica o la meno costosa di tutte, se per essa si raggiunga bensì il fine economico del maggior accumulamento di ricchezza, ma non l’altro fine, quello veramente cercato e voluto, della massima elevazione umana. Già Adamo Smith in una celebre frase diceva che la difesa di una nazione è di gran lunga più importante della sua opulenza (libro IV, cap. lI; a p. 429 del vol. I dell’ediz. Cannan); e qual ricerca è più frequente nei libri di Marshall e di Pigou del danno che la aspirazione a certi massimi di redditi individuali e anche collettivi arreca al raggiungimento di fini superiori? Quel che assai volte sommessamente gli economisti, dopo avere osservato e riflettuto, concludono è che, a raggiungere il fine voluto – che può essere di un massimo di ricchezza, se il massimo di ricchezza coincide od è compatibile coll’ideale superiore della vita umana, ma può non essere un massimo, se il fine superiore da raggiungere non lo consente – giova che lo stato non se ne impacci. Ma può non giovare e può convenire intervengano lo stato od altri enti pubblici coattivi od altre forze sociali collettive. Il che non si può sapere a priori, l’esperienza sola essendo giudice in tale materia contingente. Quel che dà sommo fastidio agli economisti non è l’intervento dello stato nei casi in cui esso è ottimo strumento per raggiungere il fine; ma il pretendere, che spesso si fa, di raggiungere con tal mezzo il fine magnificato superiore o spirituale, mentre in realtà si toccano più vicini materiali fini concreti ed i furbi lo sanno e vogliono solo, con quelle chiacchiere, far credere ai gonzi, i quali sono i più, che l’intervento da essi auspicato ha scopi altissimi, indiscutibili. Il che, a cagion d’esempio, apertamente si dice oggi negli Stati Uniti, dove i contrabbandieri introduttori di bevande spiritose, timorosi che il ritorno alla libertà moderata del bere guasti loro il mestiere, sussidiano le leghe proibizionistiche e la California è “secca” ossia proibizionista, perché pare venda, grazie al divieto di bere, più care le uve delle quali è produttrice. Queste tuttavia sono mere difficoltà concrete di applicare il principio. La tesi vera parmi dunque essere questa: che il liberismo non è né punto né poco “un principio economico”, non è qualcosa che si contrapponga al liberalismo etico; è una “soluzione concreta” che talvolta e, diciamo pure abbastanza sovente, gli economisti danno al problema, ad essi affidato, di cercare con l’osservazione e il ragionamento quale sia la via più adatta, lo strumento più perfetto per raggiungere quel fine o quei fini, materiali o spirituali che il politico o il filosofo, od il politico guidato da una certa filosofia della vita ha graduato per ordine di importanza subordinandoli tutti al raggiungimento della massima elevazione umana.

 

 

Per parlare figuratamente in linguaggio economico, la scienza economica non è una produttrice di beni diretti, né materiali, né morali, a pro degli uomini. Essa produce soltanto beni strumentali: strumenti logici per la scelta del metodo migliore per ottenere quei beni diretti che agli uomini piace ottenere. E si comprende perciò come la scienza economica si affini e progredisca coll’affinarsi dei fini perseguiti dagli uomini. Se in un paese, come la Russia bolscevica, prevale una concezione della vita materialistica e comunistica, gli economisti devono risolvere problemi di massima puramente materiali, entro i limiti di una concezione la quale deprime i fini spirituali, facendo gli uomini schiavi dello stato dominatore ed organizzatore universale; epperciò deprime anche la possibilità di raggiungere fini subordinati materiali, arrugginendo gli strumenti produttivi, disanimando il lavoro, scoraggiando il risparmio. Epperciò, a quel che se ne sa, quei disgraziati studiosi sono ridotti alla pietosa condizione di contabili di dare e di avere di una grossa impresa statale male attrezzata; e la scienza economica imbarbarisce. Nei paesi invece, nei quali ferve la vita morale e spirituale, e gli uomini si propongono sempre più alti ideali di vita libera, varia e feconda, anche si moltiplicano e si aggrovigliano i problemi economici; e intelligenze sottilissime sono invogliate a risolvere problemi ognora più complicati; sicché anche questa scienza strumentale, che è l’economia, progredisce e si manifesta in una letteratura meravigliosa, la cui bellezza estetica, sovratutto in certi libri monetari, per la apparente astrusità fortunatamente inaccessibili al volgo, talvolta commuove e rapisce nella stessa maniera che fa un capolavoro di Michelangelo o di Raffaello.

 

 

Perché sia equivoco il concetto di borghesia, e detto dal Croce in una assai suggestiva nota, nella quale i differenti significati di quel concetto sono così elencati:

 

 

  • concetto “giuridico” per cui nella storia medievale e in parte in quella moderna chiamasi “borghese” il cittadino del borgo o della città non feudale o il componente di uno degli “stati” dell’antico ordinamento politico;

 

  • concetto “economico”, col quale si designa come “borghese” il possessore degli strumenti della produzione, ossia del capitale, in contrapposizione al proletario o salariato;

 

  • concetto “sociale” per cui si chiama “borghese” quel che non è né troppo alto, né troppo basso, il “mediocre” nel sentire, nel costume, nel pensare;

 

  • e finalmente il concetto “storico” in cui per “borghese” e per “borghesia” si vuole intendere una personalità spirituale intera e, correlativamente, un’epoca storica, in cui tale formazione spirituale domini o predomini. Contro questo ultimo concetto e traendone occasione a discorrere di talune opere recenti del Sombart e del Groethuisen, il Croce muove in guerra con assai finezza di argomentazione; e chiarisce che l’identificazione tra il concetto di borghesia e quello di civiltà moderna fu il risultato della polemica condotta da due opposte parti contro la società nata dalla rivoluzione francese: da un lato dagli aristocratici e fautori degli antichi regimi e dall’altro dai proletari e operai; i socialisti, fattisi portavoce di questi ultimi, condannandola in nome del futuro più o meno prossimo, laddove i primi la disprezzavano in nome di un passato più o meno remoto. Giovava, alla polemica aristocratica, identificare il borghese «col capitalista, con lo speculatore, col bottegaio arricchito e poi ancora col politicante, col demagogo, e con altri tipi che diventarono tipi di romanzi e di commedie a tutti noti»; come giovava alla polemica socialistica, la quale pure ebbe una visione storicamente più larga del compito della borghesia, identificare la civiltà moderna con un tipo di ordinamento economico, a cui il Marx e l’Engels intendevano sostituire una nuova concezione della vita. In realtà gli aristocratici miravano più in alto e, attraverso la borghesia, volevano abbattere «la filosofia moderna, che aveva disfatto e sostituito la teologia; la critica, che aveva dissolto e dissolveva di continuo i dommi; l’ordinamento liberale degli stati, che si affermava contro l’ordinamento autoritario, i parlamenti succeduti alle corti e alle consulte di stato; la libera concorrenza, che si era aperta la strada contro i sistemi mercantili e protezionistici; la mobilità della ricchezza contro l’immobilità delle primogeniture e dei fedecommessi e degli altri vincoli; la tecnica, che sconvolgeva le vecchie abitudini; i bisogni di nuovi agi, che abbattevano i vecchi castelli e altri edifici, e rifacevano e ampliavano le vecchie città; il sentire democratico, che misurava l’uomo con la sola misura della pura umanità, cioè con quella dell’energia intellettuale e volitiva e via discorrendo». Che se i socialisti accettavano le conquiste “borghesi”, si illusero tuttavia di rovesciarle e di fondare una nuova scienza, una nuova etica, una nuova concezione della vita sulla distruzione dell’ordinamento borghese della produzione; laddove la filosofia, la morale, l’arte, il pensiero, sorti nell’età moderna «non sono formazioni borghesi o economiche, ma umane e perciò speculative, estetiche, morali e non soffrono superamento se non nella stessa loro cerchia e per ragioni loro intrinseche e in quella cerchia continuamente si superano, si arricchiscono, si particolareggiano, si trasformano e non però danno segno di mai abbandonare il loro principio direttivo, quello che si è venuto formando e affinando attraverso tutta la storia, e che, attraverso il medioevo, e all’uscita da esso, e particolarmente poi tra il sette e l’ottocento, parve addirittura un rovesciamento dell’antico principio, laddove ne era uno svolgimento dialettico e un potenziamento».

 

 

Dopo la qual dimostrazione, la tesi del Croce può considerarsi pacifica; ed il pseudo concetto di età borghese messo al posto del concetto vero di età o civiltà moderna dovrebbe essere abbandonato per sempre. Giova, a rafforzare la tesi crociana, aggiungere che, anche nel più ristretto campo economico, l’idea di un “ordinamento borghese” è equivoco, infecondo e meritevole di essere abbandonato. Verso questo ristretto concetto della borghesia il Croce manifesta qualche indulgenza, come quando (pag. 56) ammette che si possa immaginare il rovesciamento dell’ordinamento economico o borghese della produzione o come quando accorda essere legittimo (pag. 47 e sopra sotto b) un concetto economico di “borghese” in qualità di possessore degli strumenti della produzione ossia del capitale, in contrapposto al proletario o salariato; e solo vorrebbe sostituirlo «con quello più corretto di capitalista e non lasciarlo oscillare in rappresentazioni formate con altri e diversi caratteri, per modo che si finisca, come si suole, con l’includere tra i borghesi ed escludere dai proletari o salariati i professionisti, gli scienziati, i letterati pei loro abiti di vita e il genere del loro lavoro, laddove, economicamente, la differenza tra questi e i lavoratori cosidetti delle officine è inesistente o evanescente».

 

 

Qui mi pare si annidi un grosso equivoco, legittimato dalla complicazione straordinaria della vita moderna, per cui, a volere scrivere correttamente, bisognerebbe ad ogni affermazione, ad ogni definizione intorno ai concetti di “borghese”, di “capitalista” di “professionista”, di “proletario”, di “lavoratore” far seguire un nugolo di attenuazioni, di qualificazioni, di “ma” e di “se”, da rendere il discorso esitante e poco conclusivo. lascerò stare da parte i “ma” e i “se” e andrò diritto allo scopo, affermando che se la civiltà moderna, come giustamente afferma il Croce, non può, se non con evidente equivoco identificarsi con “età borghese”; è vero anche che nel campo economico non esiste, nell’età moderna, un ordinamento “borghese” o “capitalistico” nel senso che la caratteristica dominante del sistema economico sorto nel secolo XVIII sia l’aver affidato il governo economico del mondo al borghese inteso nel senso di «capitalista possessore degli strumenti della produzione» in contrapposto al proletario o salariato, considerato come mero strumento di lavoro in mano del capitalista. L’inclusione voluta dal Croce, dei «professionisti, scienziati e letterati» nel ceto dei proletari o salariati avrebbe dovuto metterlo sull’avviso che nella contrapposizione delle due classi e nella funzione eminente e direttiva assegnata al capitalista si annidava un equivoco; poiché, se salariato è colui il quale esegue un lavoro, per conto e secondo gli ordini del capitalista, tale non è né il professionista, né il letterato, né lo scienziato. In verità, anche in questo caso fa d’uopo ricordare che l’inveramento di un nuovo concetto non avviene d’un colpo, ma a gradi e quel che era in germe nel principio contrario a poco a poco si attua ed, attuandosi, cresce e via via si trasforma; sicché ad ogni momento appare diverso da quel che era nel momento precedente. Pur tenendo conto di ciò, è evidente che la caratteristica dominante della struttura economica moderna, da quella che si suol chiamare rivoluzione industriale in qua, non è il “capitalista”, ma l’imprenditore, l’inventore, l’organizzatore, il capitano di uomini e di strumenti. Il che non si vide chiaramente subito, dai reazionari e dai socialisti e neppure dagli economisti, perché accadde dapprima e continuò ad accadere per lungo tempo che gli imprenditori, gli organizzatori, i capitani fossero anche capitalisti o possessori degli strumenti di produzione. A poco a poco tuttavia si cominciò a vedere ed oggi è manifesto a tutti quanti sappiano guardare nel cuore dell’economia moderna, che questo era un fatto non necessario, non logico e secondario. “Capitalista” tende sempre più ad essere l’azionista, l’obbligazionista, il depositante presso banche e casse di risparmio; e la massima parte del capitale impiegato nelle industrie e nei commerci tende ad essere proprietà di una classe di persone, le quali, più correttamente, invece di capitalisti – parola che, per mala tradizione vocabolaristica originata, suppongo, dal cosidetto socialismo scientifico, reca in sé una significazione di padrone, di ordinatore, di dominante – dovrebbero essere designate col nome di risparmiatori o produttori e venditori della merce “risparmio”, che altri trasformerà in capitale. Questi “altri” sono gli imprenditori od organizzatori o inventori o capitani di banche, di società anonime, di imprese industriali, agricole e commerciali private. Questi tendono ad essere i veri dominatori del mondo economico moderno. Quando, nel linguaggio volgare, si pretende di qualificare il signor Morgan dicendolo “miliardario”, si commette un solennissimo sproposito storico; poiché egli è Morgan, ossia un uomo potente sui destini del mondo, non perché possegga alcune decine di milioni di dollari, ma perché ha ai suoi ordini centinaia di migliaia di servi della gleba, i cosiddetti capitalisti o meglio risparmiatori, i quali, umili ai suoi cenni, producono risparmio e lo mettono a sua disposizione, paghi di ricevere da lui, si e no, qualche interesse o dividendo, a titolo di compenso. Il capitalista, come tale, tende ad essere uno zero o pressoché uno zero nel mondo economico. Gran parte del risparmio viene prodotto automaticamente e verrebbe prodotto anche se non si promettesse alcun compenso al risparmiatore; un’altra parte, cospicua e crescente, viene prodotta all’insaputa dei cosidetti capitalisti, azionisti di società, i cui amministratori decidono di dare agli azionisti quella parte dei profitti che ad essi sembra opportuna e l’altra viene accantonata ossia risparmiata, piaccia o non piaccia ai servi capitalisti. E son portate in palma di mano e giustamente reputate le più solide società del mondo quelle le quali, come usano quasi tutte le imprese di assicurazione, non danno agli azionisti neppure un centesimo dei guadagni industriali annui, ma unicamente i frutti degli accantonamenti passati. Vero dominatore del mondo economico non è colui che fornisce la materia bruta “capitale”, così come dominatrici non sono le cose materiali, i mattoni e la calce, le macchine e le forze motrici di cui si compone un’impresa; ma è l’uomo. L’uomo intelligente, che sa ed agisce: dall’amministratore delegato ai direttori, ai tecnici, agli operai. Chiamare costoro proletari o lavoratori e contrapporli, in istato di subordinazione, a quella figura comica che è il “capitalista” moderno è davvero un capovolgimento della realtà. Il “capitalista” è forse ancor qualcosa nelle piccole aziende, nell’agricoltura dove l’imprenditore è proprietario di una grossa percentuale o della totalità degli strumenti della produzione; ma a mano a mano che si ascende verso l’alto, verso quelle che sono le tipiche costruzioni economiche del mondo moderno, la sua importanza vanisce sempre più, fino a diventare puramente passiva ed automatica. Non è del resto razionale che così sia? Nel mondo moderno, dominato dalla critica filosofica e dalla scienza, come poteva darsi che una parte dell’attività umana fosse governata da chi ha per funzione, importantissima bensì, ma specifica e spesso automatica e talvolta, come si disse sopra, involontaria e inconsapevole, di produrre risparmio ossia di rinunciare al godimento di beni presenti per un vantaggio avvenire? Godono i risparmiatori un compenso per il servizio reso alla società; e meritamente lo godranno finché siano in pochi ad esercitare quella funzione; e converrebbe probabilmente ai lavoratori che il compenso pagato fosse più sicuro di quanto non sia in conseguenza di ricorrenti traversie monetarie. Converrebbe, perché se, grazie a quella sicurezza, la virtù della previdenza si generalizzasse e si accentuasse, ben potrebbe accadere che gli uomini provveduti dell’intelligenza necessaria a trasportare nel tempo il risparmio, pretendessero di ricevere, invece di dare, un compenso per la fatica di restituire dopo un anno il capitale oggi ricevuto in deposito!

 

 

V’ha di più. L’indole sostanziale dell’economia moderna non è chiarita pienamente neppure coll’osservazione fatta ora: che il “capitale” messo insieme dai risparmiatori non è il padrone, sibbene il servo degli imprenditori. Bisogna aggiungere che il capitale fabbricato dai risparmiatori tende ad essere richiesto in misura sempre minore dagli imprenditori in aiuto alle loro creazioni economiche. Vorrebbe “servire”; ma viene respinto con fastidio quando realmente gioverebbe a “creare” qualcosa di nuovo ed accettato solo quando gli imprenditori desiderano “realizzare” il frutto, già ottenuto, della loro iniziativa, per riposare dalle passate fatiche o tentare nuove creazioni.

 

 

Quando, a cagion d’esempio, si pensa ai grandi giornali moderni, all’imponenza dei loro impianti di edifici, di macchinari, di servizi ed alle decine e talvolta centinaia di milioni di lire che essi valgono, la mente dei più corre a questi milioni e pensa che senza capitalisti quei giornali non sarebbero sorti ed è tratta a collocare senz’altro il “giornale” nella categoria delle imprese dominate dal capitalismo, dalla banca, dalla finanza e simiglianti entità materialistiche.

 

 

La verità è ben diversa; e tipica è l’origine di quello che fu, durante un non breve periodo storico, uno dei maggiori e forse il più perfetto giornale del mondo. Quel giornale fu fondato senza un centesimo di capitale proprio degli iniziatori, sul fondamento di una cambiale dell’ordine di grandezza delle 100.000 lire italiane, scontata grazie al credito dei firmatari da una banca qualunque e rimborsata dal gerente in pochi anni cogli utili dell’impresa. Il “risparmio” nel senso tradizionale di somma messa da parte soldo a soldo dai risparmiatori e dato all’imprenditore perché egli lo impieghi, intervenne nella creazione di quella grandiosa impresa col solo compito di anticipo provvisorio sui primi utili; e questi primi e quelli che vennero dipoi, in cifre crescenti, consentirono a poco a poco di costruire edifici al luogo di quelli presi a nolo, di comprar macchine al posto di quelle di altrui spettanza dapprima utilizzate, di impiantar servizi costosi, di assoldare redattori di vaglia. I capitalisti, che avevano fornito solo il nome, ricevettero dai due imprenditori, i quali, uno dopo l’altro, ebbero il governo di quella impresa, fior di utili e, quando vollero, poterono vendere le loro quote ideali di comproprietà per valsenti mai immaginati certamente nell’istante in cui avevano, con una firma, aiutato il primo iniziatore a far sorgere l’intrapresa.

 

 

Ed ho in mente un’altra grande impresa giornalistica, appena seconda, nel suo paese, a questa ora menzionata, la quale andava a rotta di collo quando un giovane energico, accortissimo conoscitore del pubblico, intervenne con poche quarantamila lire a tappare i buchi aperti dall’antico, cuor d’oro, ma distratto, proprietario; e l’impresa andò subito bene, fornì utili invece di perdite e, cresciuta, diventò potente ed il pubblico favellò di capitali cospicui che essa valeva; laddove il capitale non c’entrava né punto né poco nella sua creazione, ma l’imprenditore aveva creato l’impresa, prodotto i capitali, pagato dividendi a sé ed ai soci.

 

 

Che se questi paiono esempi piccoli e poco probanti, si badi all’esperienza della “Ford” e della “General Motors Company” degli Stati Uniti, le due massime imprese produttrici di vetture automobili del mondo, due delle massime creazioni, usasi ripetere, del capitalismo moderno. Quei che hanno letto i libri e gli articoli del Ford sanno che il capitale e le banche non entrano per nulla nella creazione e nell’incremento della sua impresa; sanno che alla radice della gigantesca organizzazione odierna stanno ventottomila sparuti dollari sborsati dai membri della famiglia Ford e che tutto il resto venne fornito ed è fornito oggi dalla impresa medesima. Parimenti, alla radice della “General Motors Company”, la grande concorrente di Ford, sta una famiglia geniale, discendente da quel Du Pont De Nemours che noi economisti conosciamo come fisiocrate, divulgatore dei fisiocrati, compilatore di effemeridi economiche in Francia prima della rivoluzione. La famiglia Du Pont creò l’impresa, l’ampliò cogli utili interni; e se condiscese poi ad emettere azioni nel pubblico ed a ricevere il concorso di quelli che si chiamano comunemente risparmiatori capitalisti, ciò fece quando il successo era stato raggiunto, quando l’impresa non aveva bisogno più dell’aiuto di nessuno e avrebbe potuto indefinitamente alimentarsi con gli utili interni, pur pagando fior di dividendi ai comproprietari. I Du Pont, consentendo, dissero in sostanza che il periodo formativo dell’impresa era trascorso, che valeva la pena di tirare le fila e di vendere per un prezzo presente, gli utili capitalizzati futuri e con quel prezzo tentare cose nuove e ripetere l’esperimento in altro campo. Storicamente, sembra dunque irreale la tesi che considera il capitalista come signore dell’intrapresa e più vicina alla realtà quest’altra successione di avvenimenti:

 

 

  • l’imprenditore paga o promette di pagare (uno dei segreti della formazione delle grandi imprese automobilistiche moderne pare sia consistito nell’intervallo fra l’acquisto dei mezzi di produzione e il loro pagamento) gli strumenti ed i collaboratori della produzione; li paga al prezzo di mercato, senza sfruttare nessuno, anzi facendo crescere sul mercato il pregio dei fattori richiesti;
    • col ricavo della produzione paga i fattori di produzione, e reimpiega nell’impresa gli utili ottenuti;

 

  • quando l’impresa ha raggiunto l’optimum o quello che egli ritiene l’optimum di organizzazione e di produttività netta, egli capitalizza gli utili probabili futuri, vendendoli ai risparmiatori;

 

  • i quali entrano in scena quando il ciclo industriale ascendente è chiuso; quando si tratta sovratutto di conservare e, se di ampliamenti ancora si parla, sono ampliamenti lungo linee note, profittevoli se si segue il precetto di compierli con il reimpiego degli utili interni, rovinosi spesso quando davvero si faccia appello a capitale fresco estraneo. Se al capitale nuovo conviene ricorrere, ciò si fa per lo più attraverso obbligazioni o indebitamenti, serbando, anche nella forma legale, qualità di servo al capitale.

 

 

Guai al capitale ammesso a partecipare agli utili delle intraprese, dietro pagamento di un congruo prezzo di acquisto degli utili futuri – epperciò appunto dicesi capitale – se esso non è in grado di conservare o di trovare l’uomo ai cui servigi umilmente mettersi! Ricordo sempre una interessantissima conversazione con un economista americano, L. C. Marshall, in cui egli mi narrava degli sforzi che le corporazioni (società anonime) del suo paese fanno spesso per conservarsi un uomo alla testa; e questi comincia coll’entrare con la promessa del 10 per cento degli utili e, alla scadenza del contratto, pretende il 25 per cento; e in seguito vuole la consegna gratuita di un quarto delle azioni e poi della metà e poi le esige tutte; e ogni volta gli azionisti assentono riducendosi a puri creditori o quasi, perché val meglio contentarsi delle briciole abbandonate dal capo che correre l’alea di rimanere privi dell’opera da essi stimata necessaria alla vita dell’impresa. E, conversando, il mio pensiero ricorreva a casi italiani di uomini che, entrati in camicia o quasi in un’impresa, ne erano divenuti i padroni e nulla temevano di peggio i soci capitalisti che di vederli andarsene e perciò li ricolmavano di doni, di uso di automobili, di interessenze crescenti, di quote gratuite di comproprietà. Eppure i dirigenti, secondo la terminologia marxistica, dovrebbero essere classificati tra i proletari e gli azionisti tra i capitalisti e questi dovrebbero star sopra ai primi: e borghesi dovrebbero essere detti i capitalisti e non borghesi, perché accaniti lavoratori, i dirigenti!

 

 

Il concetto di “borghese”, oltreché essere equivoco dal punto di vista storico considerato dal Croce, lo è dunque ugualmente da un punto di vista economico; e poiché non lo si può, senza abbassarlo al livello delle commedie, applicare a quei poveri untorelli di capitalisti, né decentemente si può svalutare l’intelligenza direttiva degli imprenditori e capitani d’industria col nomignolo di “borghese”, così miglior consiglio pare sia quello di abbandonar del tutto lo sfortunato vocabolo, relegandolo, oltreché a significare il mediocre nel sentire, nel costume e nel pensare, a due altri usi, che non vedo ricordati dal Croce: il primo dei quali è comune tra soldati, per indicare le persone non obbligate a vestire uniforme militare, ed il secondo è frequente nelle campagne del Piemonte, dove i “signori” ed i “contadini” chiamano “borghesi” o boursüas i bottegai e in genere il minuto medio ceto del concentrico degli abitati. Così, modestamente, finiscono le grandi categorie storiche!

 

 

La teoria del materialismo storico continua ad occupare il Croce, sia nel Contributo alla critica di me stesso, sia negli Aspetti morali della vita politica; e bene a ragione poiché pochi diedero, al par di lui, opera fruttuosa a chiarire il significato e l’importanza di quella teoria. Ma non so tacere due impressioni: la prima si è che il Croce sia, quasi senza avvedersene, portato a valutare o a dare importanza a scritture di teoria o di storia economica, a seconda che esse si occupino o meno di quel problema. L’efficacia, ad esempio, dell’opera del Sombart a pro del progresso della storia economica e sociale è assai diversamente apprezzata nel mondo degli economisti; laddove gli storici politici, pur criticandola e respingendola, fanno gran rumore attorno ad essa; ed anche il Croce ne tiene un conto che, da quel che egli stesso ne dice, appare immeritato. Meritato o no, importa rilevare che se le scoperte o le affermazioni degli storici tipo Sombart hanno un valore, quel qualunque loro valore non ha alcun rapporto con l’indole cosidetta economica dei loro studi o con un’autorità che potesse derivare dalla circostanza di affermarsi o di essere creduti economisti. Indole ed autorità cosiffatte non sono universalmente riconosciute dai cultori dell’economia.

 

 

La seconda impressione è che, anche nei giudizio di avvenimenti recenti, quella filosofia materialistica eserciti tuttora una influenza eccessiva sul pensiero del Croce, sì da indurlo ad affermazioni che a me non paiono provate. Il che, per connessione a quanto si legge nel Contributo alla critica di me stesso, si può osservare sovratutto rispetto ad una tesi sostenuta nella Storia d’Italia.

 

 

Non posso cioè consentire nell’accettazione, che parmi il Croce faccia (cfr. in Storia, p. 292-93 e 345) della teoria secondo cui la guerra ultima sarebbe stata «ricca di motivi industriali e commerciali, tutta nutrita d’incomposte brame e di morbosa fantasia»: una sorta di guerra del «materialismo storico» o dell’«irrazionalismo filosofico». Non oso dir nulla dell’influenza dell’irrazionalismo filosofico; ma quel dare al “materialismo storico” (che nella nota a p. 345, è del resto, ricordato da solo) importanza di fattore determinante della guerra parmi davvero non conforme alla verità storica. È, lo so, quell’opinione propria non solo del Croce, ma di moltissimi che oggi discorrono ancora delle origini della guerra. Ma appunto l’essere quell’opinione la più accettata dovrebbe essere bastevole motivo ad allontanarne il Croce, troppo disdegnoso delle opinioni comunemente accettate. È ovvio pensare che la guerra mondiale sia stata causata dal desiderio reciproco di sopraffarsi economicamente della Germania e dell’Inghilterra; a cui poi si sarebbero aggregati gli Stati Uniti nell’impresa di arraffa-arraffa dei mercati di vendita e nel tentativo di conquista del dominio economico mondiale. Ed è vero che nella letteratura germanica ante-bellica si trovano abbastanza copiose tracce di libri o libercoli intesi a dimostrare la necessità assoluta per la Germania di imporre con la spada il dominio della propria economia sugli altri paesi del mondo. È vero anche che tra i sovventori della letteratura allarmistica degli anni anteriori alla guerra figurarono, come risultò in taluni scandalosi processi giapponesi pre-bellici, grandi imprese di armamento e di forniture militari, ansiose di crescere per tal modo le loro vendite agli stati. Ma, contro alle forze economiche le quali spingevano alla guerra, sia perché di essa vivevano (imprese di armamenti), sia perché reputavano od immaginavano di avvantaggiarsi da un’annessione forzosa di territori provveduti di materie prime o di mercati di vendita, stavano le altre forze economiche, ben più numerose e importanti e potenti, le quali traevano alimento dalla pace e vedevano con terrore ogni prospettiva di guerra. Nessuno immaginava che si potesse guadagnare di più nel tempo di guerra; e se avessero avuto tanta forza di immaginazione, i più avrebbero allontanato da sé l’amaro calice dei sopraprofitti bellici, perché avrebbero avuto altresì la capacità di vedere, al di là dell’effimero guadagno, il danno permanente dell’intervento opprimente statale, della legislazione confiscatrice, della propria rovina probabile a pro dei nuovi venuti, del malcontento delle classi operaie, del pericolo di rivoluzioni sociali o del propagarsi di infezioni sovvertitrici dai paesi rimasti vittime della peste comunistica. Tutta la banca, il che vuol dire il cervello dirigente della macchina economica, tutta l’industria che provvede ai bisogni ordinari della popolazione civile, tutta quella che era occupata alle costruzioni di case ed agli impianti nuovi, tutta l’agricoltura, che teme le devastazioni dei foraggiatori e, se lontana dal teatro della guerra, ritiene non a torto che la tranquillità del lavoro operoso sia la garanzia migliore di buoni sbocchi per le sue derrate, tutto il commercio, che desidera pacifiche le vie di terra e di mare, erano contro la guerra. Quelle che si agitavano e facevano rumore erano poche industrie al margine, specificatamente viventi sugli apprestamenti bellici, il che non vuole ancora dire sulla guerra, ovvero da una loro particolare e temporanea crisi spinte a farneticare salvezza in una novità qualunque che desse loro quei mercati che da sé erano incapaci a trovarsi. Non parlisi poi dei teorizzatori dell’economia, i quali erano fin troppo propensi a porre la pace come una delle condizioni essenziali per la produzione della ricchezza. L’onere di provare la verità della tesi secondo cui la guerra mondiale sarebbe stata una guerra tipica del «materialismo storico» ossia dovuta principalmente «a motivi industriali e commerciali» spetta dunque a chi l’assevera; e poiché sinora quella prova, s’intende una prova seria, non dedotta dalle vociferazioni di pseudo-economisti di nessuna reputazione scientifica, non è stata data, parmi si possa, assai più fondatamente, contrapporre alla tesi del Croce l’altra che la guerra fu decisa contro l’interesse e la volontà delle forze economiche più potenti, che della guerra avevano terrore e seppero adattarvisi solo a stento ed attraverso a un ben comprensibile smarrimento ed a timori diffusi di catastrofe. Ossia, in quel momento, le forze ideali, qualunque si fossero, ebbero il sopravvento sulle forze materiali ed economiche; ed ebbe nuovamente ragione Adamo Smith quando proclamava che «la difesa ha importanza di gran lunga maggiore della opulenza». Gli interessi materiali si inchinarono dinanzi alle ragioni ideali che in ogni stato decisero della partecipazione alla guerra; l’istinto pacifico del mercante, del banchiere, del manifattore, del contadino cedette il posto all’impulso patriottico dell’uomo che sapeva di gittare nella fornace ardente i beni suoi materiali pur di salvare e crescere certi beni spirituali od immateriali che, se non da tutti erano visti chiaramente, in confuso erano profondamente sentiti dai più e li  spingevano allo sbaraglio.

 

 

Come il Croce sia giunto a dare ai motivi economici un così gran posto tra i fattori determinanti della guerra, si può arguire pensando al posto ragguardevole che egli ha sempre dato al problema degli studi intorno al materialismo storico. Si ha quasi l’impressione, leggendolo, che i dibattiti accesi intorno all’importanza del fattore economico come determinante dei destini della umanità, e di quelle che Marx chiama le sovrastrutture politiche, religiose, morali e perfino letterarie abbiano davvero avuto gran parte nella storia del pensiero italiano ed europeo di un certo periodo prima del 1915. Per fermo, ripetasi, va messa in gran luce l’importanza del contributo recato dal Croce alla chiarificazione del problema. Ma anche qui spetta ai suoi assertori dimostrare che quel problema fosse davvero dominante e quasi esclusivo e che la sua importanza fosse quasi un riflesso della dominazione effettiva che i fattori economici avevano nel mondo, tanto effettiva e grande da condurre poi alla guerra. Rovesciata, come fu fatto sopra, la tesi storica la quale connette la guerra a motivi economici, resta non dimostrata l’altra tesi che per un certo periodo anteriore al 1915 fosse diffusa e dominante nei ceti che pensavano la concezione materialistica della vita.

 

 

È curioso che quel modo di vedere non interessò quasi affatto gli economisti, i quali per ragioni di studio avrebbero dovuto occuparsene di più; e ciò accadde non per una certa loro ristrettezza mentale, quanto piuttosto perché essi non amarono perdere tempo in esercitazioni, forse utili agli storici, bisognosi di dare importanza anche a fattori di solito trascurati, ma poco suggestive per chi dalla consuetudine quotidiana con essi era portato a dare ai fattori economici solo quella subordinata posizione che essi si meritano ed aspirava, per tirare il fiato alla sera, a qualcosa di più alto che non fossero i soliti prezzi e salari e profitti. Sta di fatto che quei dibattiti passarono come acqua limpida sull’incremento, che allora fu tanto e così rapido, della scienza economica, senza quasi lasciar traccia di sé. Quei dibattiti lasciarono invece tracce profonde nell’incremento «continentale europeo» della potenza delle classi operaie. Ma qui il Croce mirabilmente chiarisce come quelle idee di materialismo storico agirono, non per quello che esse letteralmente dicevano, ma come idea atta a dare coscienza di se ad uomini da secoli addormentati e di se stessi inconsapevoli. Cosicché la fiamma che in Italia e fuori d’Italia si accese al lume della concezione materialistica della vita, fu, tra molto disordine e confusione di lingue, una rinnovata coscienza umana in masse che prima erano quasi brute. La lotta per la elevazione delle paghe, per il maggior riposo quotidiano e domenicale, per la sicurtà contro gli infortuni e la vecchiaia e le malattie parve, in bocca ai socialisti, una lotta per lo spossessamento materiale delle classi dirigenti. Fu, in realtà, ed oggi, a distanza, appare chiaramente essere stata una lotta per l’elevazione morale e spirituale non delle masse soltanto, ma anche delle classi proprietarie, che si volevano in apparenza distruggere.



[1] Benedetto Croce, Contributo alla critica di me stesso, Gius. Laterza e Figli, Bari 1926. Un vol. in ottavo di pp. 77; Il presupposto filosofico della concezione liberale. Estratto dagli «Atti della Accademia di scienze morali e politiche della società reale di Napoli», vol. L, parte prima, pp. 12, 1927; Contrasto di ideali politici in Europa dopo il 1870. Estratto c. s., LI, parte prima, pp. 17, 1927; Liberismo e liberalismo. Estratto c.s., LI, parte prima, pp. 7, 1927; Di un equivoco concetto storico: la “borghesia”. Estratto c. s., LI, parte prima, pp. 21, 1927; Aspetti morali della vita politica. Appendice agli Elementi di politica, Gius. Laterza e Figli, Bari 1928. Un vol. in ottavo di pp. 91.

[2] Con il titolo Dei concetti di liberismo economico e di borghesia e sulle origini materialistiche della guerra [ndr].

Stock Exchange Boom – The Public and Fixed-Interest Securities – State Short-Dated Bills – Unemployment – Imports of Coal and Raw Materials – Coal Reserves for State Railways

Stock Exchange Boom – The Public and Fixed-Interest Securities – State Short-Dated Bills – Unemployment – Imports of Coal and Raw Materials – Coal Reserves for State Railways

«The Economist», 19 maggio 1928, p. 1036

 

 

The Real Monetary Problem – Balance of Payments -Budget Surpluses – Circulation and Public Deposits

The Real Monetary Problem – Balance of Payments -Budget Surpluses – Circulation and Public Deposits

«The Economist», 10 luglio 1926, pp. 69-70

 

 

 

 

Turin, July 6

 

 

The vagaries of the rate of exchange, which has gradually increased from the level of 125 lire to the pound sterling at the end of April to about 140 lire at the present time, continue to be the most important problem in the economic life of Italy. I will try to indicate what is, in my judgment, the exact economic point on which the solution of the problem depends. It is not the so-called balance of trade. True, we have had, in the first four months of the year, an excess of imports over exports of 3,761.1 million lire; but we had an almost exactly equal excess in the past year of 3,746.1 million lire; and even if we suppose that the total excess for the whole year will be the same as in 1925 – viz., 7,896.8 million lire – we do not get at a figure appreciably higher than the pre-war figures, which oscillated around 1,200 million gold lire from 1860 onwards – i.e., from the birth of the united Italy we always had an excess of imports over exports, and rates of exchange were frequently at par. In 1923 and 1924, notwithstanding the excess of imports over exports, the international balance of payments was evenly balanced, remittances of emigrants, expenditure by foreigners travelling in Italy, national merchant marine income, &c, making up for the commercial gap. We have not, for 1925 and 1926, figures for the invisible items of the balance of payments, but there is no probability that they will differ very much from past experience.

 

 

The Budget balance is no longer a factor in the falling value of the lira. Whatever opinions may be held about present Italian politics, one fact is certain that figures published in the official documents over the signatures of the Director-General of the Treasury and of the Accountant-General of the State are undoubtedly true. Charges of forged figures, which I sometimes see in foreign newspapers, are absolutely untenable. The published figures show the real situation of the Italian Budget. I am almost tempted to say that the situation is too strong. In the first 11 months of the past financial year the surplus of revenue over expenditure was 811.8 million lire. And this is not the end of surpluses. In our system of accounting, in the revenue figure we include the taxes to be recovered, and on the expenditure side the disbursement to be made on account of the appropriations of the year. At the end of the year the Treasury retains more or less big sums of money, which are not technically surpluses, because at some future date, possibly a very distant date – let us say 1930 – a call can be made on them for meeting belated expenditures appropriated in 1925-26. Cash surpluses are, therefore, much larger than Budget surpluses.

 

 

How much larger cash surpluses are than Budget surpluses can be judged from July 1, 1925, to May 31, 1926, figures; the surplus of actual revenue over actual expenditure was 3,049.6 million lire, as against 811.8 million lire Budget surplus. True, the difference is not technically a surplus, it may, in fact, be expended one or two, or perhaps 10, years hence. But, as a matter of fact, it is not being expended at present, and it is highly probable that, in the course of time, many appropriations will become obsolete, and the corresponding expenditure never will be made, so that what is at present only a cash surplus will become a true Budget surplus.

 

 

Our Treasury is, therefore, in a very strong position. The Finance Minister can boast of a Budget surplus of about 800 million lire, and of an additional unexpended surplus of 2,200 million lire. These surpluses are, for the time being, so big that the Finance Minister can view with equanimity the increase in prospective public works expenditure, which is the consequence of the Government’s grandiose programme of reconstruction of Southern Italy.

 

 

The only feature which calls for explanation, and for a very prudent policy, is a different one, on which financial critics usually do not lay any stress. In spite of the big Budget and cash surpluses, the Treasury found it necessary to increase the total of public internal debt from 90,847 million lire at June 30, 1925, to 92,033 million lire at May 31, 1926. Why? The reasons are many, and it would take too much space to enumerate them. Among them is one which bears directly on the paper money problem, and which can be explained only by a reference to paper issue figures:

 

 

 

Bank of Issue and State Notes Issued

 

Commercial Discounts

Sums Held by the State Treasury in Current Account at the Bank of Italy

 

For Trade Account

1

Total

2

December 31, 1923

6,185.8

19,674.3

4,690.2

2,011.2

June 30, 1924

6,054.6

19,952.8

4,638.3

756.5

December 31, 1924

6,788.6

20,541.9

4,483.6

807.7

June 30, 1925

8,268.8

21,117.0

5,225.6

236.2

December 31, 1925

8,766.0

21,449.6

5,929.0

1,550.2

May 31, 1926

7,416.3

19,816.5

6,168.3

2,471.0

 

 

The figures in columns 1 and 2 are good; the total of paper issue, after reaching top figures at the end of 1925, is diminishing, and is being kept under the 20 billions level, which is the safety line of our foreign exchange. Also figures of issues of notes for trade account are at present decreasing. But column 3 shows that commercial discounts – that is, the mass of bills and acceptances discounted by the banks of issue – are continually increasing. Our banks of issue, notwithstanding the limitation of note issue, support an expanding structure of commercial and industrial activity. They do not support the expansion by the increase of their private deposits, for these deposits are practically stationary. The means of support come out of public deposits. After decreasing to a minimum of 236.2 million lire at June 30, 1925, public deposits rose to the big figure of 2,471 million lire at May 31, 1926. This figure of public deposits at the banks of issue is, perhaps, the most significant one in the interesting and well-compiled monthly bulletin of our Treasury. It means, in short, that the Treasury utilises the best portion of its Budget and cash surpluses in keeping a big deposit at the Bank of Italy; and this public deposit is the source from which the Bank of Italy draws the means to make larger advances to commerce and industry, notwithstanding the decrease in note issue. As it is, public deposits are note issues in being. For, if the Treasury were to diminish its deposits to 236.2 million lire as at June 30, 1925, then the total note issue would be forced to jump up by about 2 billion lire. This is the crux of the present situation, which lies not in the balance of payments, not in the Budget situation, but in the risk of an increase in note issue consequent upon an unforeseen obligation causing the Treasury to withdraw deposits from the Bank of Italy. The monetary problem, from a strictly monetary point of view, can be put thus: how to keep the total note issue under the 20 billions level, even when the public deposits are reduced to their normal level of, let us say, 500 million lire.

 

 

Italy has solved other bigger financial problems, and she will solve this lesser monetary problem. Gradual restriction of discounts by banks of issue to the 4 billion lire level, gradual corresponding increase of discounts by other ordinary banks and savings banks through an increase of private saving – these are the only visible methods by which it will be possible to put an end to the risky business of financing industry through public de­posits. Signor De Stefani decreased public deposits from 2,011.2 to 236.2 million lire; the present Minister will, no doubt, attentively watch this last door remaining open to a possible increase of circulation, and close it in the course of time against all future threats against the stability of the lira.

The American Settlement – The Dollar Subscription -Total of the Public Debt – Stabilisation of the Lira Policy -Loans on the U. S. Market – Money Scarcity

The American Settlement – The Dollar Subscription -Total of the Public Debt – Stabilisation of the Lira Policy -Loans on the U. S. Market – Money Scarcity

«The Economist», 19 dicembre 1925, pp. 1049-1050

 

Premesse e prospettive dei negoziati anglo italiani per la sistemazione del debito di guerra: Stati Uniti ed Inghilterra di fronte all’obbligo dell’Italia

Premesse e prospettive dei negoziati anglo italiani per la sistemazione del debito di guerra: Stati Uniti ed Inghilterra di fronte all’obbligo dell’Italia

«Corriere della Sera», 22 novembre 1925[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 546-549

Ginevra

Ginevra

«Corriere della Sera», 29 settembre 1925

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 491-495

La dottrina liberale

«Corriere della Sera», 6 settembre 1925

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 458-462

Il bel volume che Guido De Ruggiero pubblica nella «Collezione storica» del Laterza (un volume legato alla Bodoniana, pagine 511, 1925) col titolo Storia del liberalismo europeo, è nella Prima parte, una amplissima e dotta sintesi delle correnti di pensiero le quali dal secolo XVIII in poi, in Inghilterra, Francia, Germania ed Italia, hanno creato, sviluppato, perfezionato il liberalismo e, nella seconda parte, una vigorosa sintesi del contenuto attuale del liberalismo in Europa. Delle due, la prima comprende quasi i quattro quinti dell’opera ed è arricchita da una copiosa e scelta bibliografia. Essa è grandemente istruttiva su libri, scrittori, problemi oggi in parte dimenticati; ma è anche quella la quale si presta meno ad un riassunto, essendo essa stessa la sintesi del pensiero di centinaia di scrittori, tra grandi e minori, i quali alla formazione del pensiero liberale hanno dato un contributo. Il De Ruggiero ha compiuto opera assai meritoria, ricordando alle nuove generazioni da quante e ricche e alte fonti scaturisca quel pensiero che di sé ha informato la legislazione e l’arte di governo nell’ultimo secolo nel mondo occidentale; e come i partiti e le correnti d’idee le quali sembravano più avverse al concetto dello stato liberale abbiano invece contribuito ad arricchirlo di un contenuto nuovo. È forse questa una delle conclusioni più interessanti del volume, che il De Ruggiero nella seconda parte a giusta ragione largamente sviluppa.

Il socialismo – il quale al liberalismo sembra nimicissimo e di esso si dichiara l’antitesi, il quale con la teoria della lotta di classe e del materialismo storico ha portato nella spiegazione della storia e dei rapporti umani una secchezza, una unilateralità profondamente aliene alla dottrina liberale – ha fornito invece nuovo materiale all’idea ed alla pratica liberale.

Stringendo insieme gli operai in vista delle contingenze della lotta di classe, il socialismo ha realizzato un valore spirituale permanente: ha elevato una massa di uomini, che aveva trovato in una condizione di servile abbrutimento, al livello umano degli avversari da combattere, ha eccitato in essa un sentimento di dignità e di autonomia, ha favorito il suo intimo processo di differenziamento. Gran parte di ciò che conta oggi un operaio, come uomo e non solo come macchina o merce, è dovuto al socialismo, che ci si presenta, così, come il più grande movimento di emancipazione umana dei tempi nostri, dopo la rivoluzione francese… . Con l’associazione, l’operaio ha realizzato non soltanto questi vantaggi individuali, ma ha imparato anche a coltivare uno spirito di socievolezza, che doveva accrescere i primi guadagni… . Gli operai che della vita sociale non conoscevano che i duri vincoli di dipendenza, hanno imparato a trattare da uomini con altri uomini, sul piede di eguaglianza; quindi a discutere, a polemizzare, a fare opera di persuasione e di critica.

Tutto ciò il socialismo considerato non come dottrina, ma come movimento operaio, ha potuto fare entro l’ambiente creato dallo stato liberale; e si sono venuti creando tra il socialismo e il liberalismo, rapporti ideali, fecondi per amendue:

Col fatto stesso che il socialismo reclamava libertà per le sue organizzazioni, doveva in qualche modo sottostare alla legge della libertà; e col fatto stesso che esso entrava in rapporto con altre correnti politiche e sociali, nell’ambito di un medesimo stato, doveva anche sottostare al gioco delle competizioni politiche, al quale poteva addestrarlo, più che il suo astratto schematismo dottrinale, l’esperienza già matura e scaltrita del liberalismo. È stata una scuola di inestimabile pregio per il giovane partito socialista: una scuola di vita nel più alto senso della parola, che gli ha dato il senso politico del realizzabile e del chimerico, di ciò che è parziale e di ciò che è totale, di ciò che è amministrazione e di ciò che è governo. Il socialismo ha cominciato ad imparare la sterilità della violenza, l’importanza del consenso e dei fattori morali in genere nel governo degli uomini; l’innovazione profonda che subiscono gli interessi strettamente economici quando sono portati al foco dell’attività politica.

Ma anche il liberalismo ha tratto gran vantaggio del movimento operaio promosso dalla dottrina socialista. Esso «ha potuto constatare che il problema della libertà non si compendiava in un’astratta dichiarazione dei diritti, lasciando, di fatto, ai più forti l’opportunità di far valere i proprii a detrimento di quelli dei più deboli; ma che bisognava integrare la dichiarazione con la sanzione pratica e coi mezzi di far valere quei diritti per tutti».

Anche la chiesa cattolica ha esercitato nei tempi moderni «una grande funzione liberale». Quel compito di difesa contro l’assolutismo che nei secoli XVII e XVIII fu, nei paesi tedeschi e britannici, assolto dal profondo sentimento religioso del popolo, venne invece nei paesi latini assunto dalla chiesa romana, in luogo dei cittadini troppo scettici. La chiesa dovette, per difendere se stessa dall’invadenza dello stato, creare una forza separata dallo stato; e dal suo conflitto con lo stato nacque per la coscienza individuale la possibilità di uno sviluppo libero ed autonomo.

A poco a poco, per il moltiplicarsi delle forze sociali, per l’intrecciarsi degli interessi, per il succedersi delle correnti di pensiero e delle fedi religiose, il liberalismo viene a costituire quasi l’ambiente, il terreno comune di cultura, in cui i germi di forze, di idee, di tendenze opposte si incontrano, si fondono in una unità superiore. Assai efficacemente, il De Ruggiero sintetizza il suo pensiero così:

L’efficacia educativa del metodo liberale sta appunto in ciò, che esso attenua e cancella ogni sentimento di dommatica sufficienza ed ogni prevenzione verso le tesi opposte alle proprie; e così facendo, apre la mente al nuovo, svela motivi profondi di verità nelle tesi avversarie, suscita il convincimento che vi è una collaborazione superiore di tutte le attività, un’intima concordia in tutte le discordie. In questo modo l’orgoglio si contempera di umiltà, e la fiducia si trasferisce dagli individui contingenti e caduchi all’individualità superiore dello spirito che tutti li contempla e li riscatta.

Vuol forse ciò dire che lo stato liberale sia, come è volgare accusa, agnostico, indifferente, impotente? Il De Ruggiero nega; e posto di fronte ad una delle enunciazioni più caratteristiche della accusa, quella dello stato «ateo» così risponde:

Non si può chiamare stato ateo, quello che, accogliendo sotto la sua legge comune tutti i culti, mostra di riconoscere che v’è in essi una superiore parentela divina, malgrado le differenze dei nomi e delle forme. E siffatto riconoscimento procede non già da una nuova formula religiosa più comprensiva delle altre, escogitata dallo stato, ma unicamente dal rispetto che esso ha per la coscienza degli individui. Posto infatti che solo le manifestazioni spontanee della coscienza possono avere un valore religioso, è posto anche il valore del differenziamento che la libera attività della coscienza pone in essere.

Così è. Lo stato liberale non è agnostico, né in materia di fede, né in materia economica o di morale. Esso ha una dottrina ed in base a questa dottrina agisce. Quando lo stato si astiene dall’intervenire nelle controversie religiose e non vuole sancire la supremazia di una chiesa sulle altre, ciò fa perché sua dottrina è che al senso del divino possa elevarsi solo la coscienza individuale. Perché, così opinando, dovrebbe forzare la coscienza individuale ad una fede? o non invece, come fa, mettere le coscienze individuali in grado di scegliersi e di crearsi quella fede in cui meglio esse si adagiano? Perché dovrebbe, passando all’economia, lo stato sostituirsi all’individuo, creare una organizzazione paternalistica o comunistica della produzione e degli scambi, quando invece è opinione, è principio dello stato liberale che l’individuo possa meglio raggiungere il massimo vantaggio nella produzione e negli scambi agendo liberamente? Quando così opera, lo stato liberale non è agnostico; ma conseguente al suo principio, ma logico nella sua attuazione. Epperciò anche, se si persuade che l’individuo libero di agire, sopraffà altrui e va contro all’interesse collettivo, lo stato liberale non indugia a porre limiti alla libertà assoluta degli individui. Di qui hanno origine le leggi sul lavoro delle donne e dei fanciulli, sul lavoro di notte, sul riposo domenicale, sulle pensioni di vecchiaia e sulle assicurazioni contro gli infortuni e le malattie. Sempre lo stato liberale agisce partendo dalla premessa, la quale è sua fede e sua ragion d’essere, che l’individuo debba essere messo nelle migliori condizioni per sviluppare la pienezza della sua personalità, per arricchire di nuovi beni, materiali e morali, se medesimo e la collettività, per concorrere e collaborare, singolarmente ed associatamente, nelle forme più svariate ed adatte ai singoli fini, con gli altri individui appartenenti alla medesima collettività. Col perfezionarsi e col complicarsi della vita collettiva, crescono i limiti ed i vincoli all’azione individuale; ma il loro crescere ha sempre per iscopo di promuovere lo sviluppo intimo, spontaneo della personalità umana. Il liberalismo si diversifica dal socialismo da una parte e dall’autoritarismo dall’altro, perché queste due dottrine, sebbene opposte, concordano per ciò che fanno dipendere il progresso umano da un impulso venuto dal di fuori, dall’organizzazione, dal governo, dalla legge, impulso che preme sull’individuo e lo spinge ad innalzarsi; laddove la dottrina liberale nega che l’impulso esterno sia efficace, e se consente allo stato, alla forza esterna la capacità di far qualcosa, questo qualcosa sta nel togliere gli impedimenti e nel creare le condizioni, nel segnare le vie, nel marcare i passi, entro cui ed attraverso a cui l’individuo deve da sé trovare, col proprio intimo perfezionamento, collo sforzo faticoso, coll’esperienza vissuta, attraverso a contrasti e ad insuccessi, in contrasto e in collaborazione con altri individui, separati od associati, la via della salvezza. Negare la virtù del paternalismo, affermare la fecondità della auto educazione, vuol forse dire non avere una fede, una dottrina? Mai no. Vuol dire anzi avere una fede virile, una dottrina maschia. Vuol dire credere ed agire affinché l’uomo si innalzi, in società con altri uomini, ognora più in alto, verso un ideale divino.

I nuovi provvedimenti per le costruzioni di case: le agevolazioni edilizie

I nuovi provvedimenti per le costruzioni di case: le agevolazioni edilizie

«Corriere della Sera», 27 agosto 1925

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 441-444

 

 

 

 

I provvedimenti deliberati dal consiglio dei ministri a favore delle nuove costruzioni si possono, per quanto si può giudicare dal breve riassunto ufficiale, distinguere in due parti.

 

 

Vi è una prima norma, la quale interessa esclusivamente i comuni, gli istituti per le case popolari, gli enti pubblici e cooperativi, gli industriali, che si occupano della costruzione di case «popolari». Non è cosa che interessi i privati costruttori. Alle case popolari costruite dagli enti competenti viene definitivamente e permanentemente concessa l’esenzione dalla imposta e dalle sovrimposte comunali per 25 anni. Nel tempo stesso pare si sia definita la questione dell’appellativo e dei privilegi concessi alle case «economiche». Per spiegare la cosa un po’ all’ingrosso, la legislazione vigente prendeva in considerazione due ordini di case privilegiate: quelle «economiche» e quelle «popolari». Nessun dizionario distingue in modo preciso queste due categorie di case; ma secondo decreti, regolamenti e pratica, si può dire che «popolari» fossero le case veramente tali, quelle che fossero, ad esempio, divise in appartamenti di non più di sei ambienti o vani. «Economiche» erano invece quelle che erano qualcosa di più delle popolari; e secondo la pratica potevano andare sino a dieci ambienti o vani e, tirando, a dieci camere. Col tirare, si diceva che si fossero finite per chiamare «economiche» anche case fabbricate con un certo lusso, appartenenti ad impiegati superiori, con scale di marmo, ecc. ecc. Se ho capito bene, il decreto odierno sopprime la distinzione tra case economiche e case popolari; e proclama che il privilegio permanente della esenzione dei 25 anni spetti alle sole case «popolari». Pare che per case popolari si debbano intendere, d’ora innanzi, solo quelle le quali sono costituite da appartamenti di non più di tre vani, oltre la cucina, l’ingresso ed i servizi. L’agevolazione per le case popolari è estesa altresì alle case costruite direttamente in proprietà individuale da singoli lavoratori dei campi, delle officine e da artigiani in quanto sorgano in comuni non capoluoghi di provincia. Ciò allo scopo di incoraggiare la tendenza a rimanere nelle campagne e nei piccoli centri.

 

 

L’altra parte del decreto riguarda invece tutti i costruttori di case ed ha per scopo evidente di render ragione alle richieste vivissime degli interessati i quali vedevano avvicinarsi con spavento la ghigliottina del 31 dicembre 1926. Ho trattato ripetutamente di questo problema; ed ho esposto le ragioni per le quali occorreva in primo luogo che si desse un affidamento ai costruttori timorosi di non arrivare, per le case già iniziate, ad ottenere l’abitabilità entro il 31 dicembre 1926 ed in secondo luogo che si disciplinasse il passaggio graduale dal sistema di esenzione venticinquennale al sistema normale.

 

 

Ambe queste richieste sono state accolte; e di ciò ritengo debbano l’edilizia e l’economia nazionale trarre notevole vantaggio. In primo luogo ai costruttori di fabbricati «di già iniziata costruzione» verrà dato modo di ottenere l’identificazione di questi loro fabbricati in corpo. Ottenutala, essi non saranno più jugulati a finire entro il 31 dicembre 1926; ma avranno tempo a completarli fino al 31 dicembre 1928. Cesserà così la corsa ai mattoni, alla calce, ai cementi, al ferro; e cesseranno i fantastici aumenti di prezzo di tutti questi coefficienti di fabbricazione. Con maggior calma, si fabbricherà anche meglio e più solidamente.

 

 

In secondo luogo viene creato un regime transitorio anche per le case non ancora iniziate. Qui il comunicato è sobrio e converrà ritornare sull’argomento a decreto uscito. Da informazioni non ufficiali dei giornali parrebbe che il reddito dei fabbricati non ancora iniziati al 25 agosto 1925 debba godere, dopo l’abilitabilità, dell’esenzione completa per due anni ed in seguito entri in tassazione per un quindicesimo all’anno sino ad essere tassato completamente al 17esimo anno dopo l’abilitabilità. E così un fabbricato, iniziato dopo il 25 agosto 1925 e finito entro il 31 dicembre 1926, sarebbe esente per il 1927 e il 1928, tassato per 1/15 del reddito per il 1929, per 2/15 per il 1930 e così via sino ad entrare in tassazione completa nel 1944.

 

 

A quest’ultima norma si possono muovere due osservazioni:

 

 

  • a) non essere giusto che ai fabbricati iniziati dopo il 25 agosto 1925 ma finiti entro il 31 dicembre 1926 sia tolto il beneficio dell’esenzione venticinquennale di cui essi godevano in virtù delle leggi vigenti. Si cominciò il fabbricato con l’acquisto dell’area, con la demolizione eventuale delle costruzioni vecchie e cadenti, con i progetti, con la preparazione delle maestranze e dei materiali. Chi ha fatto tutto ciò ed era sicuro di finire entro il 1926, perché non dovrebbe godere del beneficio promessogli dalla legge vigente ed in base a cui anticipò capitali, studiò, progettò?

 

  • b) avrei preferito alla tassazione a fette successive il sistema della esenzione decrescente ma completa. I costruttori preferiscono una esenzione completa per 10 anni piuttosto che una tassazione crescente che cominci dopo 20 anni con 1/15 e giunga all’intiero dopo i 17 anni dall’abilitabilità. Si e` più sicuri di poter fare i conti certi; mentre la tassazione crescente ha il vizio di far temere che la finanza largheggi negli imponibili, sapendo di poter tassare solo in parte.

 

 

Il sistema della esenzione decrescente col tempo, ma totale finché dura, è chiaro, più incoraggiante, tale da evitare ai costruttori il rischio maggiore che essi temono, ossia la caduta in tassazione. Sarebbe stato desiderabile altresì che il limite normale di esenzione da 2 anni fosse portato a 10 anni.

 

 

Dissi già che, nelle mutate condizioni sociali, allo scopo di incoraggiare la formazione di nuovo risparmio, che altrimenti non si costituirebbe, e di promuovere la diffusione della proprietà della casa, l’antica esenzione dei due anni sia assolutamente insufficiente e sia necessario fermarsi sul concetto dei 10 anni, come esenzione di carattere permanente a favore di tutti i fabbricati nuovi, senza eccezione di sorta alcuna. Auguriamoci dunque che la lettura del decreto e le norme regolamentari successive confermino e migliorino la favorevole impressione destata dall’odierno comunicato riassuntivo.

 

 

L’opera di De Stefani e il compito del successore

L’opera di De Stefani e il compito del successore

«Corriere della Sera», 9 luglio 1925

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 360-362

 

 

 

 

Le dimissioni dell’on. De Stefani dall’ufficio che egli ha tenuto per due anni e mezzo con amore del pubblico bene, ferma difesa dell’erario, volontà di ritorno alle tradizioni antiche di palazzo Quintino Sella, devono essere commentate su queste colonne col medesimo spirito oggettivo da cui furono sempre ispirati i quotidiani giudizi sull’opera sua. Lodammo il ministro delle finanze quando seppe dare di scure nella selva selvaggia della legislazione di guerra e restituire gli ordinamenti tributarii all’antica semplicità, pur facendo fare ad essi un passo non piccolo verso le forme più progredite in uso nei paesi economicamente forti. Altri ministri, prima di lui, avevano preparato progetti ampii e razionali; ma i progetti erano rimasti sulla carta e la legislazione concreta si guastava ogni giorno più a causa di espedienti empirici, per balzelli di fortuna, brutti nella forma e irrazionali nello spirito. De Stefani volle e seppe fare tabula rasa di tutte le vaghe efflorescenze fiscali belliche; e se preferì non attuare di colpo una riforma tributaria organica, usò però degli strumenti tecnici di cui disponeva per introdurre ad una ad una riforme indirizzate ad uno scopo voluto e così concatenate fra loro che, a guardarla oggi nel suo complesso, l’opera sua appare veramente l’attuazione organica di un piano. Dissentimmo in qualche punto, come nell’abolizione dell’imposta successoria ed in quella dell’imposta sul vino: ma il dissenso ci permette con maggior libertà di riconoscere che l’opera dell’on. De Stefani rappresenta un periodo di fecondo ritorno del sistema tributario italiano alle sue classiche tradizioni liberali.

 

 

Come ministro del tesoro, l’on. De Stefani lega altresì il suo nome alla ferma resistenza contro l’incremento delle pubbliche spese, di stato e locali, allo sforzo diuturno di chiamare il pubblico a resistere alle tentazioni allettatrici di nuove spese, alla riduzione del debito pubblico interno da 95 a 91 miliardi, al «fermo» posto all’aumento della circolazione. Meriti grandi, che forse si giudicheranno in avvenire non essere stati offuscati dall’errore grave da lui commesso con la legislazione affrettata, inutilmente interventista, a cui si decise sullo scorcio del febbraio scorso.

 

 

Chi aveva seguito per ventotto mesi con largo, se pure indipendente, consenso di massima il ministro, il quale rendeva omaggio alle tradizioni scientifiche ed alla pratica liberale, dovette mutare la lode in critica quando vide lo stesso ministro decidersi ad una vana campagna di dominazione e di tutela dei mercati finanziari. Il fine era buono, che la difesa dell’erario, ché la lotta per il risanamento della circolazione stanno in cima al pensiero di tutti. Fu disadatto il metodo tenuto per raggiungere il fine buono: la disorganizzazione dei mercati finanziari partorì invero conseguenze vastissime e imprevedute: turbò il mercato di cambi che voleva tutelare: depresse i valori di stato che voleva esaltare.

 

 

Il nuovo ministro, che sarà chiamato a sostituire De Stefani, deve rimediare a questa mancanza di intuito concreto che, in un affare di grande momento, condusse il ministro uscente in una via senza uscita. E poiché l’errore di De Stefani non fu errore di principio, ma di malleabilità, di plasmabilità dei metodi di attuazione, così il compito del nuovo ministro dovrà essere essenzialmente quello di fondere la tenace insormontabile difesa dei principii con i necessari adattamenti alle esigenze dell’esperienza concreta.

 

 

E per limitare il discorso a quello che è al sommo del pensiero di tutti nel momento presente, il problema è: Come difendere la lira e nel tempo stesso ridare la fiducia al mercato? Difendere la lira vuol dire difendere tutto: poiché difesa della lira vuol dire freno alle spese, bilancio in pareggio, circolazione di biglietti stazionaria o decrescente, trasformazione progressiva dei debiti da brevi in lunghi, uso degli avanzi di cassa per il ritiro delle partite più pericolose dei prestiti pubblici. E tutto ciò si riassume ancora in una parola: «fermo» alla circolazione totale dei biglietti.

 

 

Non è questo un programma che possa attuarsi per virtù di decreti, occorrendo invece un’azione costante e vigilante su tutti i rami della pubblica amministrazione e contro tutte le impazienti richieste dei progettisti di spese.

 

 

Se il sacrificio di un ministro varrà ad attuare viemmeglio il piano del ministero di non varcare i limiti attuali della circolazione, il sacrificio sarà stato vantaggioso al paese. Ma che quel programma sia mantenuto chiedono non solo tutte le classi a reddito fisso, le quali non vogliono che il valore della lira diminuisca al di sotto del livello presente; chiedono non solo le classi risparmiatrici, le quali da un aumento della circolazione e dal conseguente rinvilio della moneta vedrebbero distrutti i moventi a risparmiare. Lo chiede anche la grande maggioranza delle classi industriali ed agricole, le quali anelano ad un metro stabile degli scambi, le quali vogliono essere liberate dall’ossessione dell’incertezza sui debiti e sui crediti. Lo chiedono in particolar modo le grandiose industrie, vanto dell’Italia nuova, come quella idroelettrica, le quali hanno d’uopo di enormi capitali di impianto e non sono in grado di procurarseli se non possono promettere ai risparmiatori una regolarità di reddito che è incompatibile con le oscillazioni nei cambi. Facile cosa è trovare capitali per imprese a breve durata; difficile attrezzare un paese per le opere di lunga lena; tanto più difficile quanto più è variabile il metro in cui si misurano le industrie, i prezzi, gli interessi.

 

 

Ridonare la fiducia ai mercati finanziarii: ecco il compito del nuovo ministro. Ridonarla, osservando le esigenze della difesa della lira: ecco la necessità suprema della economia nazionale.

 

 

Italy. Stock exchange crisis over. Weakness of the lira. Inter allied debts New super tax. The increase of taxation since the war. Comparative burdens of taxations

Italy. Stock exchange crisis over. Weakness of the lira. Inter allied debts New super tax. The increase of taxation since the war. Comparative burdens of taxations

«The Economist», 13 giugno 1925, pp. 1188-1189

Italy. Stock exchange troubles. Suspension of new regulations. Revival of speculation. The problem of revaluation. Unfavourable reception of the Churchill budget

Italy. Stock exchange troubles. Suspension of new regulations. Revival of speculation. The problem of revaluation. Unfavourable reception of the Churchill budget

«The Economist», 9 maggio 1925, pp. 915-916

 

 

La crisi francese

La crisi francese

«Corriere della Sera», 12 aprile 1925

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 218-221

 

 

 

 

La crisi, provocata dalle dimissioni di Herriot, non è soltanto una crisi ministeriale. È un po’ una crisi interna di tutta la Francia. Non che ci sia alcun che di inquietante nelle sue condizioni. Al contrario, sotto certi aspetti, esse sono sempre invidiabili. La Francia è ricca e non dipende che in piccola misura dall’estero per le materie prime: non ha disoccupazione, anzi, è costretta ad importare la mano d’opera straniera: le sue officine lavorano ininterrottamente, i suoi commerci sono prosperi ed anche l’agricoltura si è riavuta dalle conseguenze della guerra. Ma, mentre l’economia generale del paese è buona, le sue finanze sono in cattivo stato. Il bilancio non è al pareggio; il franco non preserva più di un quarto del suo valore prebellico; il torchio ha lavorato a più riprese e i limiti legali della circolazione monetaria sono stati oltrepassati.

 

 

I responsabili di questa irregolare situazione dicono che le circostanze per la Francia erano eccezionali. C’erano le regioni devastate da ricostruire; le pensioni dei mutilati e delle vittime della guerra da pagare; c’erano le grosse spese per l’esercito, ritenute necessarie per il mancato patto di sicurezza cogli anglosassoni, e gli obblighi assunti, per la stessa ragione, verso gli alleati orientali. Tutte cose inconfutabili, in linea di fatto. Ma se le circostanze erano eccezionali l’errore è stato di non averle fronteggiate con maggiore risolutezza e spirito di sacrificio. La Francia ha avuto il torto di fare assegnamento per i suoi bisogni immediati sulle riparazioni, e, mancate queste, di ricorrere a dei prestiti, anziché di imporre delle forti tasse dirette. Tutti i governi, uno dopo l’altro, hanno battuto la stessa strada, col risultato che hanno indebitato il paese nel dopoguerra più che nella guerra, e che Herriot, ultimo venuto e certo non più responsabile dei suoi predecessori, si è trovato sulle spalle un peso di 166 miliardi con delle scadenze prossime e gravosissime.

 

 

I lettori sanno per quali incidenti parlamentari questo stato di cose sia ora venuto pubblicamente in discussione. Quando il primo aprile il Clémentel ha annunciato in senato la decisione del governo di procedere ad una emissione di titoli e di buoni speciali, pur dichiarando che per l’impiego limitato che di essi si intendeva fare non si poteva parlare di inflazione, le condizioni della tesoreria non hanno potuto a meno di essere messe in relazione con quelle del bilancio. Il senato, fortemente ostile ad Herriot, insorse, nella evidente speranza di provocare una crisi di gabinetto. Clémentel, in disaccordo col presidente del consiglio, diede le dimissioni e fu immediatamente sostituito col De Monzie, il quale elaborò un nuovo progetto finanziario, consistente non in un prelevamento sul capitale – come vorrebbero i socialisti – ma in un contributo eccezionale, volontario e controllato. Nel frattempo, Herriot si ripresentò alla camera, facendo una vigorosa difesa dell’opera propria ed attaccando, con imprudente vivacità, gli avversari. La camera gli accordò la fiducia, ma il senato, dove Herriot riportò venerdì la discussione, lo ha battuto e costretto a dimettersi.

 

 

Non si può ancora dire come la crisi ministeriale sarà risolta. Si può dire soltanto, dal punto di vista internazionale, che essa non poteva scoppiare in un momento più inopportuno, sia per i negoziati in corso relativi al patto di sicurezza, sia per gli effetti che essa può avere a favore della candidatura di Hindenburg nelle prossime elezioni presidenziali in Germania. Del resto la crisi, come notavamo, trascende, nella sua essenza, le sorti di un uomo o di un partito. Herriot ha indubbiamente commesso degli errori tattici, ma è evidente che l’ambasciata al Vaticano, le leggi laiche, le agitazioni studentesche, sono stati appena dei motivi di inasprimento della lotta condotta da tempo e a fondo contro di lui dalla parte più reazionaria della borghesia francese, la quale vorrebbe sottrarsi ai minacciati provvedimenti fiscali e scaricare sopra altre spalle le passività della guerra, o, qualora dovesse proprio pagare, vorrebbe avere almeno il modo di rifarsi con uno stringimento di freni all’interno e una politica di utilizzabile soggezione delle classi lavoratrici.

 

 

La cosa non sorprende: è una tendenza, purtroppo, generale. Ovunque, in una forma o nell’altra, sotto questa o quella etichetta, la reazione delle classi plutocratiche cerca di guadagnare terreno. Sembra un fenomeno storico ineluttabile. La guerra, significando distruzione di proprietà, paralisi dei commerci, crisi delle industrie, è sempre seguita da tempi duri e difficili nei quali il compito della riedificazione spetta alle classi capitalistiche. Ma troppe sono le opportunità e le tentazioni per queste classi di scambiare, in simili contingenze, l’interesse proprio per l’interesse della nazione e il perseguimento di una posizione di privilegio sociale e di predominio politico per una politica realistica, in antitesi alle utopie demagogiche e rivoluzionarie. Di qui la difficoltà di riprendere il ritmo normale della vita e di stabilire quel giusto equilibrio, senza di cui un paese non può godere che illusoriamente i frutti della pace e dell’ordine interno. Solo colla legalità, la prudenza e la previdenza una saggia borghesia può sperare di ricondurre in porto la nave e di assicurare effettivamente dei vantaggi per sé e per il paese.

 

 

Anche il «Times» toccava giorni sono questo stesso argomento e faceva un suggestivo confronto fra quello che succede oggi nel mondo e quello che, in condizioni non molto diverse, vi succedeva un secolo fa. Allora, come adesso, l’Europa era scossa, agitata, tormentata per effetto della rivoluzione francese e del cataclisma napoleonico; ma, mentre il continente, per paura del giacobinismo – ch’era poi il bolscevismo d’allora – si abbandonava alla santa alleanza, alle restaurazioni, alla lotta contro tutte le idee liberali, alle persecuzioni della stampa, alle repressioni poliziesche, in Inghilterra c’erano uomini che presentivano tutti i pericoli di una tale politica e sconsigliavano di seguire la corrente dei tempi. Tra questi il ministro Canning, un liberal tory, cioè un conservatore illuminato, avversario deciso della ideologia rivoluzionaria, che egli aveva anzi combattuto nell’Anti-Jacobin, ma, nello stesso tempo, diffidente delle tendenze reazionarie all’estero e all’interno e consigliere di ragionevolezza, di moderazione e di equità.

 

 

Rievocando l’esempio di Canning e dei tempi in cui egli visse il «Times», di cui la politica non può essere sospetta, prendeva nettamente posizione contro quei conservatori inglesi del giorno d’oggi, che si mostrano insofferenti delle istituzioni parlamentari e democratiche e sperano di importare forme e sistemi di insofferenza straniera nel paese di Pitt, di Peel e di Gladstone. Il giornale osservava che oggi, come un secolo fa, il ritorno alla quiete e alla sicurezza è ugualmente ostacolato dagli entusiasti del dispotismo come da quei «sentimentali internazionalisti che scambiano le astrazioni per la realtà». E proseguiva analizzando la vera natura del conservatorismo, che, caratterizzato da un cauto empirismo, non muta mai nulla radicalmente, ma adatta le vecchie istituzioni alle nuove circostanze ed è tanto lontano dalle vuotaggini di certi riformatori come dalla durezza del reazionario.

 

 

Non v’è dubbio che in Inghilterra saranno i conservatori moderati e prudenti, auspicati dal «Times», che avranno ragione dei die-hards ed altrettanto auguriamo avverrà in Francia, dove le classi dirigenti hanno una lunga e salda tradizione di governo. Comunque si risolva la crisi presente non ci pare possibile un ritorno alla politica della Ruhr, ora che l’applicazione del piano Dawes comincia a dare i suoi frutti, e nemmeno una politica reazionaria all’interno, dove urterebbe contro la resistenza della parte più intelligente della nazione e contro il blocco sano, forte e consapevole della piccola borghesia e della piccola proprietà terriera.

 

 

Che cosa è rimasto dei decreti

Che cosa è rimasto dei decreti

«Corriere della Sera», 12 aprile 1925

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 215-217

 

 

 

 

La conclusione riassuntiva che si può ricavare dal viluppo di decreti, di circolari e regolamenti, i quali si sono susseguiti dal 7 marzo in poi intorno all’ordinamento degli agenti di cambio è la seguente: che le cose rimangono sostanzialmente quali erano innanzi a quella data, con queste due differenze:

 

 

  • 1) che decadranno dalla carica quegli agenti di cambio, i quali non potranno essere

 

  • chiamati dal governo a far parte del primo terzo del ruolo delle corporazioni, a numero limitato;
  • cooptati in un secondo terzo dai primi nominati;
  • riuniti in società in accomandita od in nome collettivo, e come tali componenti l’ultimo terzo delle corporazioni chiuse;
  • eletti agenti in sovrannumero con diritto di sopravvivenza agli agenti facenti parte delle corporazioni.

 

 

Tutti gli agenti in carica hanno diritto di far parte di una o di un’altra delle categorie sovramenzionate, a meno che, da soli, o riuniti nelle società dell’ultimo terzo, non siano in grado di fornire la cauzione da 500.000 a 1 milione di lire, a seconda delle piazze, cauzione che potrà essere fornita, oltrecché in titoli di stato, anche e fino al 45% in titoli industriali.

 

 

Il succo dei decreti si riduce perciò in sostanza all’elevamento della cauzione dalle attuali 50-100.000 lire a 500.000-1 milione di lire; ed alla riduzione automatica che deriverà da siffatta esigenza. Gli agenti che non vorranno o potranno sottoporsi all’aumento della cauzione, dovranno tentare di unirsi con altri in società in accomandita o in nome collettivo, allo scopo di distribuire su parecchi l’onere della cauzione. Non riuscendovi, dovranno abbandonare la carica, a meno che, a norma dell’art. 1 del regolamento per l’applicazione dei decreti, le camere di commercio, le deputazioni di borsa ed i consigli sindacali degli agenti di cambio non promuovano una variazione in meno nella cauzione.

 

 

Non è dunque nemmeno certo che la cauzione debba rimanere fissa a Milano, Torino e Genova ad 1 milione. Su rimostranze dei corpi tecnici locali potranno concedersi diminuzioni, congegnate in modo tale che ben pochi degli agenti di cambio attuali siano costretti ad abbandonare la carica. Sarebbe stato meglio che, con disposizione transitoria si fosse concessa agli agenti la possibilità di integrare la cauzione in un ragionevole lasso di tempo. L’urgenza costringerà i meno facoltosi – che non sempre sono i meno prudenti e meno avveduti consiglieri del pubblico – a lasciarsi jugulare da capitalisti disposti a diventare loro fornitori di fondi a condizioni troppo onerose; laddove un più lungo tempo avrebbe consentito agli agenti in carica di provvedersi delle occorrenti cauzioni senza onere eccessivo. Continuerà perciò sebbene assai attenuato, un certo stato d’animo inquieto nelle borse, non favorevole all’assestamento dei mercati.

 

 

  • 2) che il numero degli agenti di cambio al massimo potrà essere quello attuale; e tenderà, per morti e naturali eliminazioni, a ridursi col tempo a quello fissato dai decreti per le singole corporazioni: 60 a Milano, 45 a Torino e Genova, ecc. ecc. Tuttavia, il principio della corporazione chiusa non può dirsi abbia trionfato in tutto, poiché, anche qui, l’art. 1 del regolamento stabilisce che i ministri delle finanze e dell’economia nazionale, le camere di commercio, le deputazioni di borsa ed i consigli sindacali degli agenti di cambio potranno promuovere una variazione nel numero degli agenti di cambio assegnati ad ogni borsa. Lo spiraglio lasciato aperto alle nuove forze è però strettissimo, poiché i corpi esistenti hanno una naturale tendenza a chiudersi in se stessi ed a rispettare, se si tratta di altri corpi, le posizioni acquisite. Come potranno i giovani forniti delle attitudini opportune all’esercizio della professione riuscire a far muovere il complicato macchinario, senza di cui il numero non può da 60 essere portato a 70 o ad 80?

 

 

Ad ogni modo legiferare su questo punto non era evidentemente urgente, postoché lo stato di fatto attuale non viene mutato e tutti gli agenti in carica possono venire mantenuti quando forniscano la cauzione. Il decreto-legge deve quindi essere considerato caduco anche agli occhi di chi ammette il decreto-legge nei casi di urgenza. Qui urgenza non v’era, poiché l’attuazione dei provvedimenti limitatori ad un numero fisso minimo viene rimandata ad un’azione futura lontana. Perché dunque non contentarsi di un normale disegno di legge presentato al parlamento?

 

 

L’unico punto in cui i decreti modifichino d’urgenza l’ordinamento degli agenti di cambio è dunque la cauzione. La quale era divenuta manifestamente inadeguata a causa della svalutazione della lira. Ed anche qui, il problema meritava di essere portato dinanzi al parlamento. Non v’era urgenza di innovare nulla nel caso specifico degli agenti di cambio, rispetto a cui non avevasi notizia di insolvenze apprezzabili. Ed invece poteva essere e può essere importante sottoporre all’esame parlamentare il quesito se le cauzioni, garanzie ecc., richieste per legge in somme fisse espresse in lire, non debbano essere interpretate in lire-oro anziché in lire-carta. Il problema, forse, interessa soltanto se posto in tesi generale; mentre pare assai limitata l’importanza del piccolo problema della cauzione degli agenti di cambio; importanza non certo tale da consigliare, da sola, il soqquadro nelle borse a cui si assiste da più di un mese.

 

 

Decreti e leggi

Decreti e leggi

«Corriere della Sera», 10 aprile 1925

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 211-214

 

 

 

 

All’infuori delle discussioni tecniche intorno al merito dei provvedimenti che in materia di borsa si succedono l’uno all’altro con rapidità vertiginosa, vi è un principio generale da ribadire: ed è il danno di legiferare per decreti anziché per leggi. Il confronto fra ciò che è accaduto per l’ordinamento militare e ciò che è accaduto per le borse è ammonitore. L’on. Di Giorgio, pur convinto della bontà dei suoi propositi, li sottopone al senato. Dopo un ponderato esame della commissione tecnica, chiarimenti chiesti e ricevuti, dotte relazioni di maggioranza e di minoranza, si apre il dibattito pubblico dinanzi all’assemblea. Parlano i marescialli d’Italia, i generali d’esercito, i vincitori della nostra guerra. Il ministro difende l’opera sua. L’assemblea impara, penetra a fondo nell’alto problema, illuminato da tutti i lati, nell’interesse del paese, e poiché si vede che l’assemblea non è persuasa, il presidente del consiglio dichiara di volere riesaminare il problema. Non è questa la giusta procedura legislativa? Non sono forse tutti rimasti convinti che, con così largo e profondo dibattito, i più sacri interessi d’Italia sono stati salvaguardati? Il parlamento non ha dimostrato di essere pienamente in grado di esercitare il suo altissimo compito? Non fu un bene che la imperfetta e perciò dannosa legge di ordinamento non potesse essere attuata?

 

 

Guardisi invece che cosa accadde per i decreti sulle borse, tipico esempio di quasi tutti i decreti legge, passati, presenti e futuri. Nel silenzio di un gabinetto ministeriale, col consiglio non responsabile di non si sa quale cosidetto esperto, si immagina di scorgere un male e si crede che un decreto possa curarlo. Il decreto vien fuori, e subito si vede che o il male non esisteva od il decreto è disadatto a curare il male. Ed un altro decreto e poi un terzo e poi un quarto e poi dichiarazioni ufficiose ed ufficiali e comunicati Stefani e comunicati Pace, Sacerdoti, Navotti e colloquii con De Stefani e con Stringher e con Pace intervengono a modificare, chiarire, soggiungere, distinguere. E lo scompiglio negli animi degli interessati, lo sconcerto nelle quotazioni, l’ansia negli operatori crescono ogni giorno; sinché le borse sono chiuse.

 

 

A questo punto, una sola cosa seria e vantaggiosa rimane da fare e noi confidiamo che l’on. De Stefani la farà: dichiarare che i decreti-legge sono revocati, tutti senza eccezione e trasformati in disegni di legge da presentare, a ragion veduta, al parlamento.

 

 

È ora che da tutti si riconosca che una legge non può imporsi alla coscienza dei cittadini se non è una vera legge, ossia se non è sottoposta previamente alla pubblica discussione e se non è votata dal parlamento. I decreti-legge sono stati cagione di così grandi mali che davvero importa sia messa su di essi una pietra sepolcrale. Per sempre e per tutti i casi.

 

 

I decreti-legge sulle borse erano del tutto inidonei a raggiungere l’effetto che nella mente del ministro si proponevano: la stabilizzazione o rivalutazione della lira. Tant’è vero che raggiunsero l’effetto opposto: di diffondere l’orgasmo ed il panico. Anche se si sarà riusciti per questo a trovare una formula la quale salvaguardi i diritti acquisiti degli agenti di cambio e ne quieti l’agitazione, il decreto legge non diventerà buono. C’è qualcun altro, il quale ha diritto di parlare al di fuori degli agenti di cambio; ed è l’interesse generale. È nell’interesse generale, è utile al progresso economico del paese che sia limitato il numero degli agenti di cambio? Questi, se si rispettano i diritti acquisiti, sono pronti a dir di sì; perché ogni professione è interessata a divenir monopolista, ad impedir l’accesso agli estranei, a dividere la torta fra un numero decrescente di partecipanti. Ma l’interesse pubblico dice di no; poiché afferma che la torta può diventar grande, che l’afflusso del risparmio può crescere solo se le borse sono aperte a tutti, solo se varia e ricca e specializzata è la classe dei professionisti intesi, in mutua concorrenza, a rendere servigi ai risparmiatori ed alle industrie. Ora come si possono far sentire i difensori dell’interesse generale, anche contro l’umano egoismo degli stessi agenti di cambio? Solo in una pubblica discussione, solo attraverso un dibattito parlamentare, le opposte idee possono chiarirsi, combattersi, incontrarsi.

 

 

C’era urgenza di emanare i decreti? L’esperienza prova che a fare in fretta si perde più tempo che a fare con calma. Ed i parlamenti hanno, dopotutto, tra i loro principalissimi uffici quello di far andare a fondo il novantanove per cento delle idee le quali tentano di diventare legge. Ed è un ufficio altissimo ed utilissimo, poiché il novantanove per cento delle idee dei progettisti consiste di idee storte e dannose.

 

 

Nei paesi che hanno dietro a sé una lunga storia parlamentare, l’esperienza ha dimostrato la necessità assoluta dell’esistenza di organi incaricati di operare un’accurata selezione tra le idee legislative. Non solo è vero, come ha osservato testé al senato il sen. Albertini, che in Inghilterra, in Francia, negli Stati uniti ed in genere in tutti i dominii britannici il decreto legge è ignoto e lo stato funziona e nessun ministro si lamenta di non poter far marciare la macchina amministrativa, nonostante che la complicazione di alcuna di quelle macchine sia maggiore della nostra; ma è vero anche che negli Stati uniti una buona parte delle stesse leggi, in certi momenti la maggior parte di esse, è annullata dalla magistratura. Questa, dalle corti minori sino alla suprema corte, si è arrogato il diritto di esaminare le leggi, leggi vere, formalmente perfette, votate dalle camere e sanzionate dal presidente, e di scrutarne la costituzionalità. Dapprima le corti si limitarono a giudicare se la legge era d’accordo con la costituzione scritta: ma via via, argomentando dall’impossibilità di applicare una legge non giusta, le corti giudiziarie sono giunte ad annullare una qualsiasi legge purché contraria al concetto che del giusto e dell’equo le corti di volta in volta si fanno. E l’annullamento delle leggi operato dalle corti non è particolare giudiziario applicato al singolo caso discusso dinanzi alla corte. È pieno, assoluto, di fronte a tutti. Le leggi annullate dalle corti di giustizia non fanno più parte della raccolta delle leggi. Non esistono più.

 

 

Vano dunque è lo spettro che si agita in Italia: che lo stato non possa più funzionare se il governo è privo del potere, nei casi estremi, di far decreti aventi vigore di legge. Lo stato vive, forte e rispettato, laddove al governo tale diritto è assolutamente interdetto. Ed il rispetto alla legge giunge negli Stati uniti a tanto che le corti supreme di giustizia possono dire: «anche il parlamento si è sbagliato. La sua legge è nulla, perché contraria ai principii supremi di giustizia, di cui io, corte giudiziaria, sono l’interprete». Il che vuol dire semplicemente non che si misconoscano i diritti del parlamento; ma che la consuetudine, creatrice di legge, ha affermato che a far leggi non bastano due camere, ma ne occorrono tre: la camera dei rappresentanti, il senato e l’alta corte di giustizia, composta di pochi uomini, inamovibili finché ad essi piaccia di rimanere in carica, senza limiti d’età, indipendenti dalle passioni di popolo e dalle pressioni di governo. Le tradizioni europee ed italiane impediscono di imitare questo sistema tricamerale, radicato nella storia locale, e nelle tradizioni giuridiche anglo-sassoni. Ma si cessi almeno di sostenere che la legge è un metodo antiquato di legiferare. È invece il solo che tuteli gli interessi collettivi, che non sacrifichi gli interessi permanenti alle passioni momentanee. Nonché legalizzare i decreti leggi, ossia autorizzare il governo a fare leggi senza previa pubblica discussione, importa moltiplicare i freni a far leggi improvvisate; rendere severa la guarentigia di una discussione approfondita. Con altri mezzi, ossia col ristabilire in pieno l’autorità del parlamento, occorre raggiungere l’effetto a cui negli Stati uniti si intende coll’intervento dell’alta corte: rendere impossibile che entri in vigore una legge la quale, dopo aperto dibattito, non sia dalla coscienza pubblica, accettata come legge giusta.

 

 

Le novità tecniche degli ultimi decreti

Le novità tecniche degli ultimi decreti

«Corriere della Sera», 9 aprile 1925

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 208-210

 

 

 

 

Esaminate dal punto di vista tecnico, le novità contenute nell’ultimo comunicato Stefani chiariscono quanto sia inestricabile il groviglio in cui era andato a cacciarsi il ministro delle finanze e dal quale è sperabile che l’intervento del presidente del consiglio lo abbia tratto.

 

 

Estensione ai contratti di vendita dell’obbligo del deposito prima limitato ai contratti di acquisto. Esempio caratteristico delle regolamentazioni consequenziarie a cui un primo decreto costringe. Appena si decretò che i compratori a termine dovessero versare subito una specie di cauzione del 25%, fra le altre obbiezioni si addusse questa: che in tal modo si favorivano i ribassisti-venditori, non obbligati a cauzione, contro i rialzisti compratori che devono versarla. Siccome l’obbiezione era giusta, viene ora il rimedio: anche i venditori devono depositare il 25% (gradualmente, ma in luglio ci arriveremo) dei titoli venduti. Il taccone è peggiore del buco. Se prima le borse non potevano funzionare per un verso, domani non funzioneranno per tutti e due i versi. Come se la caveranno gli operatori ad osservare la legge, con la molteplicità e l’incastro dei contratti, a termine, a premio, di acquisto, di vendita, succedentisi, a seconda delle vicende del mercato, gli uni agli altri nello stesso senso o nei due sensi, da parte di persone che, nove volte su dieci, non posseggono e non hanno nessuna intenzione di ritirare o di consegnare i titoli acquistati o venduti, è quasi impossibile immaginare? L’art. 4 fu fabbricato, con tutte le sue successive varianti, da chi evidentemente ritiene che i soli contratti seri siano i contratti a contanti o quelli a termine destinati a chiudersi con la effettiva consegna o ritiro dei titoli e del danaro; e reputa tutte le altre specie di contratti quasi una invenzione del diavolo.

 

 

Se è così, i decreti sono idonei allo scopo; ma sia ben chiaro che in tal caso i 60 ed i 45 agenti di cambio sono troppissimi e sarebbero bastati una mezza dozzina al massimo. Se le borse sono quello che sono, se devono aiutare l’incanalamento del risparmio verso le industrie, i contratti speculativi devono continuare ad essere i nove decimi dei contratti di borsa; e se le cose stanno così, l’articolo 4 ed i suoi amminicoli sono inapplicabili.

 

 

Ammissione di società in nome collettivo fra gli agenti esclusi dai primi due terzi. A Milano ed a Torino, per comprendere i 200 o 120 agenti che si volevano escludere, avrebbe bisognato costituire società in nome collettivo composte in media di 8 soci. Chi se le immagina? Se un agente di cambio è serio, non va a mettersi in società in nome collettivo, il che vuol dire con responsabilità illimitata e solidaria, con colleghi, di cui non sia assolutamente sicuro. Si fa presto a vedersi mangiato l’intiero patrimonio da poche operazioni di un socio un po’ avventato o poco scrupoloso! In società di questo genere entrerebbero gli agenti di tipo speculativo, che hanno in passato guadagnato in fretta il milione necessario per la cauzione e che non temono di avventurarlo in cerca di altri guadagni. Chissà mai quale concetto aveva il decretista di una società in nome collettivo per credere che ci potessero entrare persone curanti del proprio patrimonio! Società in nome collettivo ce ne sono molte; ma sono tra fratelli, tra amici intimi, tra persone che si conoscono a fondo. Vengono su dalla vita; non si improvvisano a tamburo battente. Forse, i giuristi troveranno qualche spediente per stipulare società che non siano tali. Ma, oltreché pericolose, valeva la pena di tanto baccano per stimolare a nuove finzioni?

 

 

Al lume dei fatti, si vede ora quanto sia stata esagerata la richiesta di un milione come cauzione degli agenti. Se ci fu un mese difficile per la liquidazione, quello fu marzo. Eppure non consta che in marzo, nonostante il tracollo dei valori e gli scarti fortissimi da pagare, sia saltato in Italia un solo agente di cambio. La esorbitante cauzione sarebbe dunque stata inutile. Forse sarebbe stata d’impaccio. Per non saltare o semplicemente per non fare brutta figura, il che può equivalere a saltare, l’agente è bene possegga mezzi liquidi, non cauzioni in titoli, vincolate, non utilizzabili se non dietro formalità e cautele. Tutto ciò che si metterà nella cauzione, sarà sottratto ai mezzi liquidi, disponibili per il giro degli affari. Cauzione adeguata sta bene; ma cauzione esorbitante pare debba avere questo solo risultato: che dietro all’agente di cambio starà il capitalista, il quale vorrà dividere gli utili o ricevere un interesse lautissimo, oltre al rimborso delle imposte di ricchezza mobile, complementare, ecc., che la pubblicità della cauzione farà capitare addosso all’agente. Insomma, i decreti sono come le ciliege: uno tira l’altro, ma gli ultimi sono peggiori dei primi.

 

 

La preparazione silenziosa della vittoria monetaria

La preparazione silenziosa della vittoria monetaria

«Corriere della Sera», 1 aprile 1925

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 198-201

 

 

 

 

Il discorso dell’on. De Stefani al senato contiene, intorno al problema della lira, riflessioni sulla delicatezza del meccanismo economico, il quale si è «adattato a certi prezzi, a certe condizioni di credito, a certe ampiezze e previsioni di credito». Da queste parole del ministro giova trarre alcune illazioni ammonitrici: questa massimamente che, nel presente anno, il quale «è un anno decisivo, il quale può avere una sua propria grandezza» bisogna fare grandi cose, senza dirle. Mi sia consentito di augurare a questo proposito che l’on. De Stefani voglia compiere silenziosamente gli atti necessari al raggiungimento del fine che egli si propone di raggiungere in materia monetaria.

 

 

Quale sia questo fine, egli non l’ha detto in maniera esplicita. Parrebbe da certe parole potersi arguire che egli miri, colla auspicata riduzione della circolazione, ad un rialzo nel valore della lira dagli attuali 21 centesimi ad un livello non si sa di quanto superiore; ma gli accenni sopra riportati alla delicatezza della situazione dei mercati e del credito farebbero dubitare che egli preferisca invece la stabilizzazione intorno al livello attuale; e verso tale sentenza parrebbe orientarsi più decisamente quando considera «le future eccedenze di bilancio come un sacro patrimonio per la ricostruzione». Se si vuole non solo difendere il raggiunto pareggio, ma ottenere un avanzo di entrata, parrebbe logico concludere che si voglia mantenere la lira al presente livello. Se la lira si rivalutasse, come potrebbero i contribuenti pagare le attuali imposte? Ricordiamo sempre che rivalutazione della lira è sinonimo di prezzi diminuiti; e che prezzi diminuiti sono alla loro volta sinonimo di redditi monetari scemati. Se, ai redditi attuali, i contribuenti stentano a pagare le imposte attuali, è chiaro che, quando i redditi, in seguito alla rivalutazione della lira, saranno diminuiti, i contribuenti potranno pagare imposte minori delle attuali. Dato ciò, e dato che la diminuzione delle imposte non potrebbe esser compensata nel bilancio dello stato da una adeguata diminuzione di spese, sia perché questa diminuzione non potrebbe verificarsi che a lunghissima scadenza, sia perché per certi capitoli (come per citarne uno, l’interesse dei debiti) non potrebbe verificarsi del tutto, è chiaro che la rivalutazione della lira non può non avere uno di questi due effetti :

 

 

  • ricomparsa del disavanzo nel bilancio dello stato, se i contribuenti non potranno più pagare le imposte attuali;
  • inasprimento della attuale pressione tributaria, se si vorranno far tuttavia pagare ai contribuenti le imposte attuali; inasprimento tanto più grave quanto più sarà accentuata la rivalutazione e quindi diminuiti i redditi monetari.

 

 

Dal dilemma non si può uscire, a meno di supporre che di quanto si rivaluti la lira, di altrettanto cresca la produzione nazionale. Dico la produzione espressa in quintali, metri, ettolitri, non in valori monetari, la quale non ha alcun significato. Su questa via di uscita si può fare un certo affidamento; ma alla lunga, molto alla lunga. Se si pensa essere incertissimo se si sia dal 1914 ad oggi verificato un aumento reale (non monetario) della produzione italiana (dicasi anzi mondiale), si può concludere essere prudente non fare troppo assegnamento; per qualche anno sulla via d’uscita.

 

 

Dunque l’interpretazione più plausibile che si deve dare alle parole con cui il ministro ha messo innanzi al senato gli ideali della difesa dell’avanzo di bilancio, della riduzione della circolazione, della riduzione del debito pubblico, del «graduale ma immancabile apprezzamento della lira» e della diminuzione della pressione tributaria, parmi questa: che egli voleva riservarsi libertà di manovra, così da poter scegliere fra questi ideali quello che, durante l’anno in corso, gli sembrasse più vantaggioso. Tanto più che in materia monetaria, le cose buone si possono fare senza sbalordire con nuove leggi, con nuovi decreti o comunicati. In nessun campo, come in questo, è utile l’antipatia al riformismo legislativo, di cui l’on. De Stefani si è vantato. Il caso dei recenti decreti sulle borse è stato istruttivo. L’on. De Stefani si proponeva un fine vantaggioso: il miglioramento della lira o fors’anco solo la sua difesa contro una piccola ondata di sfiducia che aveva fatto salire il cambio del dollaro da 23,50 fin verso 25, e ribassare il valore oro della lira da 22 a 21 centesimi.

 

 

A raggiungere il lodevole fine, i decreti furono per lo meno inutili, come sono inutili i provvedimenti clamorosi. La materia monetaria è più delicata a trattare di quella finanziaria, appunto perché per essa i decreti non servono. Il ministro delle finanze ha per un altro verso riaffermata questa verità, quando ha negato di aver mai ordinato agli istituti di emissione di ridurre di un miliardo gli sconti. È questa una nuova edizione della voce assurda corsa giorni fa della riduzione di un miliardo delle anticipazioni sui titoli di stato solite a rinnovarsi dagli istituti di emissione alla fine di ogni mese. Che cosa sarebbe accaduto se davvero, per ridurre di un miliardo la circolazione per conto del commercio, si fosse voluta attuare d’un colpo tale idea balzana? Che le banche e casse di risparmio, le quali oggi acquistano volentieri buoni del tesoro perché possono con essi battere moneta quasi senza spesa, presentandoli a garanzia di anticipazioni alla Banca d’Italia (pagano il 6,50% di interesse sulle anticipazioni e ricavano, a causa del modo di conteggiare l’imposta di ricchezza mobile, dai buoni un po’ più del 6%) domani non avrebbero più potuto battere moneta. Non potendolo, non avrebbero potuto impiegare quel danaro in borsa, in riporti all’8%. Per non rinunciare all’8%, esse sarebbero, alla scadenza dei buoni, state costrette a chiederne il rimborso; e il tesoro sarebbe stato costretto ad emettere biglietti od a crescere il frutto dei buoni al disopra del 4 ½ (6% per le banche). Sarebbe cominciata una corsa al rialzo tra saggio dei riporti e frutto dei buoni, il quale alla fine ci avrebbe lasciato probabilmente con un miliardo di più di circolazione per conto dello stato ad esatta compensazione del miliardo iniziale di diminuzione nella circolazione per conto del commercio.

 

 

Ben fece il ministro a non attenersi a così stolida procedura per ottenere l’intento di sgonfiare la circolazione.

 

 

In verità non esiste una formula di legge o di decreto che serva all’uopo. La formula adatta si scopre nei rapporti quotidiani tra tesoro e banche; e non dico fra tesoro e banche di emissione, ma fra tesoro, banche di emissione, banche ordinarie, casse di risparmio, agenti di cambio. Opportuni scambi di vedute tra quei pochi uomini che dirigono i mercati italiani valgono più di cento decreti. Quando il fine che il tesoro si propone sia ben chiaro e sia stato vagliato a fondo dai non moltissimi uomini veramente esperti in materia, non è impossibile trovare la via concreta per attuare quel fine. Le bombe improvvise scompaginano posizioni esistenti, arricchiscono gli uni e sacrificano gli altri. Un piccolo modesto prudenziale giro di vite ai saggi di riporto, una piccola percentuale di maggiore scarto nei riporti medesimi, una progressiva eliminazione di clienti di second’ordine, un mezzo per cento di più nel saggio ufficiale dello sconto – cosa che fu fatta e rientrava nelle attribuzioni ordinarie del ministro – purché ripetuti per parecchi mesi, non producono nessuno sconquasso e raggiungono effetti duraturi. Col tatto, con l’affiatamento, con il silenzio nessun turbamento si produce. Ogni banca penserà ad applicare le regole convenute con gli adattamenti e le attenuazioni imposte dalla particolare natura del cliente o dell’affare. Alle misure clamorose si sostituisce così l’attuazione silenziosa di una politica precisa, frutto delle direttive del tesoro e dell’esperienza dei dirigenti del mercato monetario. Di questa politica le tracce nel conto del tesoro saranno da prima impercettibili; ma, essendo cumulative nel tempo, il bollettino della vittoria sarà all’ora sua immancabile.

 

 

Sindacalismo gentiliano

Sindacalismo gentiliano

«Corriere della Sera», 2 novembre 1924

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 861-865

 

 

 

 

L’allocuzione del sen. Gentile, la quale fu già ampiamente discussa su questo giornale per quanto tocca la parte politica di cosidetta rivendicazione del diritto di riformare lo statuto, merita di essere esaminata altresì per quanto si riferisce alla parte di essa che vorrebbe essere costruttiva. Cosa strana, l’oratore, il quale ha dedicato cinque colonne a ridimostrare un diritto di riforma, il quale, colla clausola in senso progressivo, si trova esposto in tutti i trattati elementari di diritto costituzionale, non ha creduto opportuno di consacrare neppure due colonne intiere a delineare gli scopi della voluta riforma. La parte costruttiva della orazione è invero assai scarsa e, analizzata accuratamente, si riduce ad affermare un fine; la necessità di uno stato forte «che sia capace di fare delle leggi e di farle rispettare, custode e vindice dei diritti della nazione… tutore della divisione dei poteri», che il regime parlamentare puro tende a confondere. Intorno al qual fine anche scarsi dissensi possono sorgere, salvo forse tra i comunisti, trattandosi di massime universalmente accettate e che c’è poco merito a ripetere, mentre grandissimo sarebbe il vantaggio di applicarle.

 

 

Per passare, nell’impresa della creazione dello stato forte, dalle parole ai fatti, quale mezzo indica il sen. Gentile? Ove si faccia astrazione dalle semplici ripetizioni del concetto medesimo, di volere lo stato forte, altro non si legge fuorché l’esaltazione del sindacalismo, definito «uno di quei fatti grandiosi a carattere universale e necessario, solenne, che prima o poi bisogna studiare e intendere».

 

 

Con tutte le riserve imposte dai canoni di prudenza necessari ad osservare nell’interpretazione del pensiero, a maglie larghissime ed a fondo nebuloso, del filosofo divenuto riformatore politico, parrebbe che l’esigenza massima politica del momento presente sia di dare, nel gioco dei fattori politici, importanza, forse limitata in principio ma destinata a crescere col tempo, al sindacalismo. Questa esigenza discenderebbe da una profonda mutazione avvenuta nel pensiero politico dalla fine del secolo diciottesimo ad oggi «il liberalismo tipo secolo diciottesimo, che non conosceva altro che individui, ha fatto il suo tempo». Bisogna guardare alla

 

 

«massa popolare non più dispersa e confusa nella amorfa accumulazione quantitativa degli astratti individui, tutti uguali postulati del vecchio liberalismo atomistico e naturalistico del secolo diciottesimo, ma il reale popolo, il reale cittadino qual è e vale e si deve far valere nell’organismo delle forze produttive che allo stato spetta di riconoscere, garantire e promuovere, secondo i suoi fini supremi, sempre essenzialmente etici, se non voglia essere travolto da forze avverse incoercibili».

 

 

È difficile immaginare quale concreto significato abbiano queste enunciazioni in generale. Parrebbe che esse tendessero a sostituire, in tutto o più probabilmente in parte, ai parlamenti eletti a base esclusiva di voto universale, individuale, segreto, parlamenti o parte di parlamenti (frazione elettiva del senato?) eletti a base del voto di gruppi sociali, sindacati, corporazioni. Gli uomini verrebbero ripartiti, a norma dei fini «etici» dello stato, in corporazioni – di contadini giornalieri, di mezzadri, di proprietari, di professionisti, di industriali, di operai, ecc. ecc. – e le corporazioni manderebbero rappresentanti al parlamento. I quali rappresentanti invece di essere, «atomistici», «anarchici», «astratti» e «dissolutori», sarebbero «organici», «concreti» e «rispettosi dello stato forte».

 

 

Quali probabilità vi siano che il fine si raggiunga con tal mezzo, potremo meglio discutere quando avremo sotto gli occhi formule legislative precise invece di enunciati di gran massima. Frattanto, non sarà disutile osservare che il propugnatore di questa novità politica non sembra avere un’idea chiara di quel «fatto grandioso, carattere universale e necessario, solenne» a cui vorrebbe dare altrettanto solenne riconoscimento nella nostra carta costituzionale. La mancanza di chiarezza è tanto più lamentevole, se si pensa che l’oratore parlava in una occasione che, almeno egli, doveva considerare solenne.

 

 

Questo sindacalismo, questo fatto «grandioso» che cosa è in sostanza? A leggere le parole del sen. Gentile, la sua storia parrebbe dividersi in due periodi: innanzi e dopo la guerra.

 

 

Prima della guerra «il sindacalismo era portato dalla sua origine marxista, dalla astrattezza dalla sua concezione economica e dallo stesso primo impeto e ardore della sua fede proletaria verso l’internazionalismo». Dopo la guerra «sotto la guida genialmente moderatrice del nostro on. Rossoni», sorse il «sindacalismo nazionale, per cui anche i lavoratori vengono via via acquistando il concetto e il sentimento della patria, a cui è legato il loro destino».

 

 

A chi si vuol far credere che siffatto contrapposto scolpisca la storia di quel sindacalismo, che il Gentile definisce «fatto grandioso, a carattere universale»?

 

 

Lasciamo stare il sindacalismo nazionale, di cui duce è il Rossoni. Nonché essere un fatto «universale» esso è limitato a talune zone ed occupazioni della sola Italia. Nel nostro paese, esso, in talune industrie, come quella metallurgica, non ha alcun peso effettivo; in altre, si afferma da troppi che i suoi successi numerici siano solo dovuti alla forza, al timore della disoccupazione e delle rappresaglie economiche, perché non sia desiderabile di fare l’esperienza del nuovo tipo di sindacalismo in regime di piena libertà di associazione e di assoluta parità di tutela giuridica per gli affiliati a qualunque specie di organizzazione. Se si pensi inoltre che, nei consessi internazionali del lavoro, i sindacati «nazionali» italiani poterono sedere, contro il voto dei rappresentanti operai, solo grazie all’appoggio dei delegati padronali e governativi, possiamo concludere che nel dopoguerra, il «fatto grandioso» che il sen. Gentile vuole inserire «quando assume la forma del sindacato nazionale» nella carta statutaria italiana, non è certamente «universale». Forse non è neppure esistente.

 

 

Per quant’è della storia prebellica, i connotati attribuiti al sindacalismo dal sen. Gentile non rispondono alla realtà storica. Il sindacalismo prebellico avrebbe avuto in primo luogo origini marxistiche, in secondo luogo avrebbe obbedito ad una concezione economica astratta; ed in terzo luogo avrebbe avuto tendenze internazionalistiche.

 

 

Con questi connotati si descrive bensì un certo sindacalismo, od un certo aspetto del sindacalismo; e più precisamente si suppone che l’ideologia europea e continentale della parte più rumorosa, vociferatoria, politicante del movimento associativo operaio fosse tutto il sindacalismo. L’ipotesi è completamente irreale e fantastica. Essa trascura del tutto gli aspetti più benefici e concreti delle leghe operaie e contadine di difesa di classe, delle cooperative di lavoro, di produzione, di consumo e di banca, strettamente uniti col movimento di difesa di classe. Tutto questo movimento, veramente «grandioso», non era e non è affatto astratto, non ha affatto tendenze internazionalistiche, e per nove decimi si svolse all’infuori di ogni influenza marxistica. I braccianti delle bonifiche, gli operai della valle padana e del genovesato, i quali crearono, attraverso ad esperienze varie, per lo più disgraziate, talune potenti organizzazioni di vendita di merci, di affitto di terreni, di assunzione di lavori pubblici, avevano dapprima avuto per iniziatori alcuni entusiasti imbevuti di idee socialistiche. Ma il successo economico e sociale lo dovettero a uomini che avevano attitudini concrete, per nulla astratte, di organizzatori, di commercianti, di conduttori di uomini. Costoro agivano su un terreno preciso e circoscritto, facevano il vantaggio del proprio gruppo, spesso in concorrenza con altri gruppi, e poco s’impacciavano, salvoché a parole, di internazionalismo e di pacifismo. Quale storia è quella che non guarda ai movimenti di classe quali furono in realtà, non bada alla profonda trasformazione operatasi nel contadino dell’Alta Italia, negli operai delle grandi città industriali e dei maggiori porti italiani nel trentennio dal 1880 al 1910; non studia quale parte abbia avuto il movimento associativo a creare il nuovo cittadino italiano; ma riassume tutta una storia varia e feconda in una generica accusa di astrattismo e di internazionalismo? Che dire poi del sindacalismo, «realmente più vero e grandioso» che è quello dei paesi anglosassoni? Qui, in Inghilterra e poi negli altri paesi appartenenti allo stesso gruppo di nazioni, sorsero i primi sindacati, in un tempo in cui Marx non era neppure nato; qui ebbero una storia varia, ricchissima, per lunghi anni strettamente insulare. Qui diedero luogo ad una mirabile e concretissima esperienza economica e sociale. Qui si veggono apparire davvero i primi germi di una nuova vita economica e politica, più feconda delle vite passate, perché allargata alle grandi masse umane. Ma nei paesi anglosassoni le masse operaie hanno ben trovato la maniera di penetrare nella vita politica, di influire su di essa potentemente, talora di tenere esse stesse, senza sconvolgimenti sociali il governo del paese; senza sentire perciò la necessità di chiedere riforme artificiose della carta costituzionale.

 

 

Come, dunque, si può partire dalla premessa del «fatto grandioso» del sindacalismo per giungere alla conclusione vaga di una riforma corporativa del parlamento, quando si misconoscono così profondamente la storia passata e la realtà presente del sindacalismo medesimo? Questa mancanza di logica connessione fra premessa e realtà, e fra realtà ed aspirazioni riformatrici dà corpo al sospetto che la riforma costituzionale sia voluta da quei sindacati o corporazioni, che traggono ragione di vita non dal libero consenso, non dall’interesse sentito dei gruppi sociali che le corporazioni affettano di rappresentare, ma dal bisogno che hanno i dirigenti delle cosidette corporazioni di affermare il proprio dominio con il riconoscimento giuridico, con la partecipazione alla funzione legislativa, con il prestigio derivante dall’essere considerati organi ufficiali dello stato. Se non fosse così, perché parlare soltanto delle corporazioni «nazionali» tipo Rossoni, come delle sole degne di rappresentare il popolo reale? Forseché tutti gli altri sindacati, o leghe o confederazioni non hanno dietro di sé maestranze talora imponenti? O forseché, anche in regime di suffragio atomistico, ogni corporazione non è in grado di mandare suoi rappresentanti al parlamento, in ragione della sua reale forza di attrazione e persuasione? L’antico liberalismo, vecchio stile, a torto è accusato come atomistico ed anarchico. La libertà di associazione operaia trovò difensori strenui nei vecchi liberali, i quali a buon diritto possono, di fronte ai nuovi riformatori, vantarsi di essere i paladini della rappresentanza organica delle reali forze sociali, libere di organizzarsi nei modi più consentanei ai loro ideali, contro la rappresentanza organizzata artificiosamente a favore di un partito dominante.

 

Banche con aggettivi

Banche con aggettivi

«Corriere della Sera», 23 agosto 1924

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 178-183

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1923-1924), vol. VII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 808-813

Selected Economic Essays, Ente per gli Studi Monetari, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006, pp. 99-102

 

 

 

 

Esistono talune combinazioni di parole, le quali, appena pronunciate, fanno subito pensare che esse siano state messe insieme per artificio, sicché le parole così combinate si guardino in cagnesco e durino fatica a tollerarsi scambievolmente. Così è della combinazione “banca fascista” che si sentì poco fa pronunciare quasi fosse una innovazione urgentissima nel meccanismo economico e politico esistente oggi in Italia.

 

 

Nuova del tutto la combinazione non è, perché sono numerose in Italia le combinazioni aventi suono consimile di “banca cattolica” e non poche le banche le quali, senza portare nel titolo la traccia esteriore della propria fede, sono o furono in mano al partito socialista o ad uomini di questo partito. I socialisti avevano preferito mettere le mani su istituti bancari cooperativi di cui il capitale era prevalentemente fornito dallo stato o da enti semipubblici, soggetti alle pressioni statali; ma, talvolta, come a Torino, avevano anche fondato una cassa di risparmio, alimentata da veri risparmi popolari, in seno alla propria alleanza cooperativa. Così facendo, avevano imitato le famose cooperative all’ingrosso inglesi e scozzesi, ognuna delle quali ha creato nel proprio seno un fiorente ramo bancario. Ed è vivace negli Stati Uniti un movimento popolare il quale sprona gli operai a portare i propri risparmi esclusivamente a casse create dalle leghe di lavoratori, cosicché i risparmi operai giovino non alle imprese capitalistiche, ma vengano adoperati per facilitare la creazione di cooperative di produzione o per fornire capitale circolante alle cooperative di consumo.

 

 

Tutto ciò è perfettamente lecito e può essere vantaggioso. Colui il quale ha una fede deve essere libero di usare tutti i mezzi a sua disposizione per far trionfare i propri ideali. Se il cattolico vuol giovare a commercianti, ad agricoltori, ad industriali cattolici e non a quelli protestanti od israeliti od agnostici, porti pure i risparmi suoi alla banca cattolica; e così dicasi del socialista o del fascista.

 

 

Occorre por mente soltanto a talune condizioni. La prima delle quali si è che i socialisti sono bensì liberi di portare denaro alla banca socialista; e così i cattolici ed i fascisti; ma a nessuno sia lecito di far versare nella propria banca di parte i risparmi “altrui” colla forza della legge o colla prepotenza del governo. Fu un tempo in cui su queste colonne si criticarono i socialisti non perché avessero istituito casse di risparmio in seno alle proprie cooperative, ma perché erano riusciti ad agguantare, per la debolezza dei governi, i risparmi del pubblico generico e attraverso a sedicenti istituti semipubblici, a farli convergere a favore di proprie imprese buone e cattive. Libero cioè ogni cattolico o socialista o fascista di depositare i propri risparmi presso la banca del proprio cuore; vietato a tutti di servirsi dell’arma della legge o delle influenze di governo per impadronirsi dei risparmi di coloro che intesero depositare i propri denari in una banca o cassa senza aggettivo.

 

 

Perciò assumo come premessa indiscutibile che la banca fascista, se sarà creata, riceva i depositi volontari dei propri affiliati; ma non disponga neppure di un centesimo dei miliardi depositati presso le casse postali di risparmio ed amministrati dalla cassa depositi e prestiti.

 

 

Entro questi limiti, il problema della banca fascista ha il valore di uno dei tanti esperimenti che si fecero e si fanno nel campo delle banche di partito. Ho l’impressione che le banche cattoliche o socialiste od operaie le quali non sono fallite o non sono state liquidate siano almeno tanto poche quanto in genere sono poche le banche ordinarie “senza aggettivi” le quali sopravvivono nella difficile battaglia per acquistare una clientela attiva e passiva. L’arte bancaria è un’arte difficilissima; e l’aggiunta d’un aggettivo qualunque al titolo è atto, forse, soltanto a crescere difficoltà già per se stesse eccezionali.

 

 

Le difficoltà dell’arte bancaria sono eccezionali. Il capo di un’impresa industriale o commerciale la quale ha avuto successo, è, per fermo, senz’altro un uomo di valore. Non si crea e non si fa prosperare un’industria senza conoscere bene materie prime, metodi di lavorazione, mercati, maestranze, senza aver rischiato, lavorato, studiato, maneggiato uomini. Ma il banchiere non deve conoscere soltanto una industria, ma tutte quelle a cui fa fido, non un mercato, ma molti mercati, perché da un qualunque punto della terra può venire la bufera che ridurrà od annullerà il valore della carta da lui scontata. Il banchiere deve conoscere non solo i prezzi di una o poche materie prime, di uno o pochi prodotti finiti, l’andamento dei salari in una industria. Tutti i prezzi lo interessano e tutti egli deve seguire; ed in aggiunta egli deve conoscere a fondo la struttura e la consistenza patrimoniale delle imprese a cui affida denari non suoi.

 

 

Egli dispone, è vero, oggi di sussidi ignoti ai 5 antecessori. Le grandi banche moderne hanno impiantato uffici studi ed uffici sviluppo, i cui archivi contengono dati preziosissimi, accumulati con pazienza, in seguito a rapporti riservati su ognuno che possa aver bisogno dell’aiuto della banca. Quale felicità per uno studioso se riuscisse a leggere in questi archivi! quale ampia messe di notizie ignorate sullo sviluppo economico dei vari paesi! Una banca nuova, la quale sorga oggi, dovrà durare gran pena di anni, forse di decenni per accumulare i tesori di esperienza e di notizie che le banche esistenti hanno messo insieme attraverso ad esperienze fortunate o disastrose. La nuova banca dovrà rifare le stesse esperienze, commettere gli stessi errori, prima di poter guardare con sicurezza l’avvenire. Ma tutto sarà vano – archivi bene ordinati, esperienza accumulata, personale esecutivo scelto attraverso setacci finissimi – se non si possederà il fattore primo di successo di una banca: l’uomo.

 

 

«Riceveva i clienti in piedi; li faceva parlare ed in quindici minuti li giudicava. Non accadde mai che si sbagliasse», così, pochi giorni or sono, un italiano che all’estero fa onore al suo paese mi scolpiva il direttore di una grande banca. E così lessi sempre, quasi con le stesse parole, nei libri di memorie e di ricordi di banchieri. Ufficio del banchiere è invero quello di affidare denari altrui all’uomo capace e probo, il quale sappia farli fruttare a proprio vantaggio ed, al momento stipulato, li restituisca. Solo i fatui possono immaginare che questo sia un compito facile. Nel mondo economico non ne esiste altro più difficile. Tutti credono se stessi capaci; e tanto più ne sono persuasi quanto più farneticano di progetti scombinati, di invenzioni sballate, e quanto minore è la propria capacità direttiva. Tutti dichiarano di essere probi, specialmente quando si è portati a trovare poi pretesti per proclamarsi correttissimi e disgraziati se non si può restituire. Il banchiere invece ha un dovere solo: impiegare in modo sicuro il denaro dei propri fiduciari.

 

 

Se egli ha un momento di falsa pietà, se diventa inutilmente ottimista o fiducioso, egli è perduto. E cioè sono perduti i denari dei depositanti. Anche un uomo medio, purché sia un uomo fino, attento e conoscitore dei propri simili, può governare con successo una piccola banca o cassa di provincia. Ma poiché la banca fascista dovrà essere, suppongo, una banca nazionale, non potrà reggersi se non sia governata da alcuni uomini – uno solo non basta nelle grandi organizzazioni bancarie moderne – di primissimo ordine.

 

 

In qualunque paese questi uomini sono di una rarità estrema. Fortunate quelle banche le quali riescono ad assicurarsene i servigi!

 

 

In una banca di partito, sia cattolica o socialista o fascista, la difficoltà di trovare i proprî governanti cresce oltremisura in confronto alle banche senza aggettivi, per la necessità in cui essi si trovano di non dimenticare l’aggettivo ingombrante che parrebbe condizionare l’attività del loro istituto. Parlo, s’intende, delle grandi banche a carattere nazionale; non dei piccoli istituti, quasi estremi, per dar credito a cooperative affiliate alla medesima organizzazione operaia.

 

 

Può accadere, nei paesi meno evoluti politicamente e bancariamente, che anche le banche senza aggettivi debbano pagar taglia alla politica. Ma trattasi di un ramo inferiore o spurio della propria attività. O trattisi di ottenere sovvenzioni statali alle industrie connesse con la banca o di far star zitti gli importuni i quali minacciano interventi legislativi, o governativi, o giornalistici fastidiosi, c’è all’uopo, suppongo, lo specialista addetto a queste opere di bassa cucina. Tutto ciò non rende, ma costa. Nel capitolo delle spese generali si imposta una somma, la cui erogazione non spetta al banchiere, ma all’esperto assoldato all’uopo. Tutto ciò è deplorevole; ma non tocca l’ufficio essenziale della banca.

 

 

La banca con aggettivo, oltre questa percentuale di costo, assimilabile economicamente, sebbene moralmente più bassa, alla percentuale dei fallimenti, deve fronteggiare un altro rischio. Il dirigente deve lottare non solo contro gli uomini non capaci e non probi, desiderosi del denaro dei suoi depositanti, ma contro coloro che, non essendo né capaci né probi, gli chiedono denaro in virtù del proprio aggettivo, perché cattolici, perché socialisti o perché fascisti. Se egli per un istante cede, fatalmente, irrimediabilmente, conduce la banca alla rovina. Le cronache dei giornali hanno narrato, anche recentemente, di banche cattoliche rovinate per tal causa. Il dirigente una banca con aggettivo ha dunque il dovere di ripudiare, innanzi ad ogni altra cosa, precisamente l’aggettivo di cui si fregiano gli uomini che lo onorarono della loro fiducia. Anzi questo ripudio deve essere una condizione essenziale della accettazione dell’ufficio da parte sua. Se egli non pone questa premessa preliminare, possiamo essere sicuri che egli è uomo dappoco, immeritevole del posto. Il dirigente deve essere pronto a compiere il suo lavoro di scelta della clientela fra cattolici, fra socialisti, fra fascisti, come se nel suo spirito fosse sempre presente un’altra parola: nonostante. Quando una banca fa credito ai soli cattolici, irresistibile è la tentazione in quelli che han bisogno di credito, di dichiararsi cattolici, anche se la loro fede è scarsa. E poiché chi assume il colore della parte a cui lo attraggono vantaggi materiali non è uomo probo, così il banchiere deve durare l’addizionale fatica di scernere, tra i molti postulanti, i puri, i convinti.

 

 

Facendo così, egli espone la sua banca al pericolo di dover lasciare inoperosi i propri capitali. I puri, i convinti, gli entusiasti di un’idea non si reclutano per lo più tra industriali e commercianti, che, affaccendati nelle loro cose, hanno l’abitudine di non interessarsi troppo della cosa pubblica ed il torto di accodarsi a chi loro promette tranquillità presente. Di qui un’altra difficoltà per il dirigente della banca con aggettivi: quella di preferire tra gli aderenti all’aggettivo quelli che aderiscono ad esso con indifferenza, così come aderirebbero ad un qualunque altro aggettivo, che promettesse loro sconti più favorevoli di quelli consentiti da altra banca. Il che si riduce da ultimo a concludere che la banca con aggettivo avrà tanta maggiore probabilità di vita e di successo quanto più l’aggettivo sarà dimenticato ed affatto trascurato dai dirigenti e quanto più grande sarà l’abilità del banchiere nello scegliere, tra i postulanti con o senza aggettivo, solo gli uomini capaci e probi, deliberati a restituire le somme avute in prestanza. Il che si riduce a dire che, qualunque sia il loro nome, di banche buone ve né una specie sola e che vano è il tentativo di mutare, cambiandone il nome, la natura di esse.

Stato liberale e stato organico fascista

«Corriere della Sera», 16 agosto 1924

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 794-798

Passiamo sopra alle difficoltà spinose di attuazione del nuovo ordinamento costituzionale a base di corporazioni e di consigli tecnici poiché esse potranno formare oggetto di attento esame nel caso poco probabile che l’Italia volesse fare quest’altro esperimento di novità vecchie. Per ora siamo ancora nel campo delle formule generali; ed importa cominciare a discutere il principio.

Forse non è dubbia la massima che un qualunque regime costituzionale deve essere approvato o condannato, a seconda della sua capacità od inettitudine a creare una classe politica degna di reggere la somma delle cose dello stato. Carte costituzionali e statuti sono puri strumenti per questo fine; diventano venerandi quanto meglio e più a lungo l’esperienza ne ha dimostrato l’attitudine alla formazione di una buona classe politica. Saggiato a questa pietra di paragone, quale giudizio comparativo si deve dare del decrepito ed esaurito stato demo-liberale e del nuovo stato fascista, organizzato in corporazioni ed in consigli tecnici?

Lo stato demo – liberale, il quale affida i poteri legislativo ed esecutivo ai designati dalla maggioranza di un parlamento scelto da un suffragio universale o larghissimo, di uomini votanti nella loro indistinta qualità di cittadini, crea la propria classe politica col seguente congegno:

  • libertà illimitata di discussione per cui ogni uomo può colla parola e collo scritto cercare di dimostrare l’errore o l’insufficienza delle idee e dei propositi di ogni altro uomo, il quale aspiri a partecipare alla vita pubblica;
  • assenza di qualunque posizione acquisita personale; per cui ognuno, il quale sia giunto ad alta posizione politica è sempre soggetto ad essere scalzato da un qualunque nuovo venuto, il quale sappia meglio cattivarsi il favor popolare;
  • assenza di qualunque posizione acquisita da parte dei grandi gruppi di interessati. Se gli industriali, se gli agricoltori, se gli intellettuali, se i contadini o gli operai vogliono far sentire la loro voce, debbono agire per mezzo dello strumento discussione. Debbono cioè organizzarsi, parlare, agitarsi per attrarre a sé gli elettori; per dimostrare che i loro interessi meritano attenzione o tutela.

Il sistema politico che si chiama liberale non ignora dunque gli interessi economici, le forze organiche, le tradizioni, le idee. Neppure dice che lo stato debba rimanere indifferente e lasciarsi malmenare dagli interessi contrastanti. Chi parla così, fa la caricatura dello stato liberale; non ne sfiora neppure l’intima sostanza. Lo stato liberale ha una fede: quella che il diritto di governare spetta a chi abbia maggior forza di persuasione, a chi abbia un più alto ideale di vita; a chi, per attuare questo ideale, abbia la forza di farne diuturna propaganda, di imporne, colla persuasione, l’accettazione al popolo così da ottenerne il voto ed il consenso.

L’idea che vince, andando al potere, non rimane, nello stato liberale, passiva; ma di sé permea tutto lo stato e lo fa agire e lo spinge verso i fini che sono suoi proprii. Il proprio, il caratteristico dello stato liberale, non è, come favoleggiano i nuovissimi critici, l’assenza di idee proprie, la tolleranza e l’indifferenza verso tutte le idee; sta nel timore che deve continuamente avere ogni idea, ogni tendenza, ogni interesse, giunto al governo attraverso il regime di pubblica discussione, di essere soppiantato dall’idea avversa, dalla tendenza opposta, dall’interesse contrastante. Perciò l’idea al governo, per vivere, deve sforzarsi a vivere sempre meglio; deve coll’opera propria dimostrare di essere operosa e viva e più feconda delle idee concorrenti. Se di tale sforzo continuo non è capace, essa cadrà e darà luogo al dominio di altre idee, le quali di sé informeranno lo stato e lo faranno agire in conformità ai loro proprii caratteri.

Accade talvolta che il governo cada in mano di procaccianti e di mediocri; che per arrivare al potere si piaggino le passioni più basse del popolo; che, invece di elevarlo alla conquista dei grandi ideali lo si abitui alla richiesta di vergognose elemosine. La concorrenza può agire nel senso di far cacciare la classe politica più buona da altre classi politiche ognora più cattive. Ma qualunque regime, di monarca assoluto, di tiranno, di aristocrazia, non è forse soggetto ad uguali o peggiori vizi? Ma se la realtà è inferiore all’ideale, forseché dobbiamo darne colpa al concetto di stato liberale? Questo concetto è una formula politica, simile in ciò a tutte le altre che gli si contrappongono; né può estrarre dal paese gli uomini che non ci sono; non può d’un tratto costringere una popolazione apatica o materialistica od ingorda a fare scelte migliori di quelle a cui dalle proprie mediocri attitudini è portata.

Lo stato liberale offre però alle minoranze animate da alti ideali, composte di uomini di forte carattere il mezzo migliore per imporsi ad una collettività disorientata e fiacca. Se neanche queste minoranze coraggiose e colte esistono, quale altra formula sarebbe capace di crearle per propria taumaturgica virtù?

Il nuovo stato fascista-corporativo-tecnico offre forse questa formula miracolosa? Ahimè! esso conduce a ben diverse e gravi conseguenze. Se la formula significa qualcosa di serio, essa deve significare che non gli «uomini» eleggono, discutono, sono oggetto di promesse, di inviti, di educazione; ma gli «organismi», le «corporazioni», gli «interessi» materiali ed intellettuali.

Dunque, sarà giuocoforza dividere gli uomini in gruppi, classificarli, organizzarli. La classificazione non potrà essere mobile, a volontà dei partecipanti, ché allora ricadremmo nell’antica deprecata anarchia atomistica. Ci dovrà essere in principio una legge la quale dirà: i calzolai contano tanto, i meccanici tanto, i professori medi tanto, gli universitari tanto, ecc. ecc. Ad ogni gruppo sociale, di proprietari, di contadini, di intellettuali, di ufficiali, di impiegati bisognerà dare un peso politico; attribuire cioè un coefficiente di partecipazione al governo della cosa pubblica.

Per lunghi anni, ogni corporazione conserverà nello stato quel peso politico che le fu attribuito in principio. Per cambiare i rapporti tra i pesi politici quale mezzo esisterà fuor di una rivoluzione periodica? I corpi costituiti sono tenacissimi dei loro privilegi; e guardano con sospetto ai nuovi venuti. Per decenni avremo selvaggi senza voto, mestieri «nuovi», nuovi interessi, nuovi ideali privi del diritto legale di partecipare alla vita politica del paese.

Quale sarà questa vita? Una vita miserabile per fermo, di cui la trama quotidiana sarà data da mediocri patteggiamenti sulla divisione delle spoglie comuni tra le corporazioni inizialmente più potenti.

Peggio: chiunque conosce il modo con cui oggi si forma la classe dirigente dei gruppi associativi liberi, sa che essa non è frutto di libera, aperta competizione; ma di selezioni casualmente avvenute tra persone per lo più in altre faccende occupate. Il che vuol dire che nei gruppi corporativi predomina l’autoselezione; prevalgono coloro che professionalmente si dedicano alla gestione dell’interesse comune. È diffuso il tipo del segretario politico, del segretario di lega, del professionale il quale dalla politica trae i mezzi di vita.

Nello stato liberale la scelta della classe politica può avvenire anche all’infuori dei professionali: i grandi interessi pubblici sono sempre alla ribalta. I giornali concentrano su di essi l’attenzione del pubblico; i dibattiti si accendono; le polemiche imperversano; la classe politica si affina nell’esercizio continuo e violento di cattivarsi l’opinione pubblica. Uomini di vaglia sono attratti dalla grandezza e dal fulgore della lotta. Questa cosa indefinibile, fatta dagli ondeggiamenti delle masse intermedie, dei non partitanti, che si spostano incessantemente dai rossi ai bianchi ai tricolori o viceversa, questa opinione pubblica è la vera dominatrice. Il pendolo politico continuamente oscilla e salva il paese dalle esperienze estreme pericolose.

In un regime corporativo, dove mai si nasconderà l’opinione pubblica? È pensabile che ci sia un’opinione pubblica dei cotonieri, dei facchini dei porti, dei ferrovieri, dei professori d’università, degli artisti? Ma tutti questi sarebbero piccoli interessi complottanti per procacciare a sé benefizi privati ai danni della collettività. Uno stato siffatto potrà esprimere una ben meschina classe politica di oscuri professionisti in confronto alla ricca gamma di valori umani che possono essere il risultato del regime di discussione. Eppure si osa dire che questo ludibrio di stato agirà in virtù di quell’idea che il consunto stato liberale più non possiede!

In verità, il nuovo stato avrebbe un compito: cristallizzare il potere in mano di quel gruppo di conquistatori che nel momento della sua formazione avessero saputo mettere le mani sugli organismi corporativi chiamati a fornire gli uomini di governo. Tolta di mezzo l’opinione pubblica, distratte le menti dalla discussione dei grandi problemi nazionali, concentrati gli sforzi degli individui nella difesa dei proprii interessi di gruppo contro i gruppi concorrenti al saccheggio dello stato e contro le minacce dell’insorgere di nuove forze selvagge non classificate, gli uomini via via si avvilirebbero alla condizione di mendicanti. Lo stato avrebbe l’apparenza di forte, perché i capi distributori facilmente otterrebbero l’omaggio dei dipendenti. Colosso dai piedi di creta; ché le mutazioni incessanti dell’organismo sociale, gli spostamenti continui delle forze economiche e sociali lo renderebbero ben presto anacronistico. La lotta fra i privilegiati intesi a tenere per sé il potere, fonte di ricchezza, ed i diseredati, ansiosi di conquistare una posizione legale corrispondente alle proprie virtù, fatalmente condurrebbe ad una rivoluzione distruggitrice di così detestabile ordinamento statale.

Ma la rivoluzione non verrà, ché gli italiani non vogliono il dominio permanente di nessuna minoranza conquistatrice; ma, fedeli agli ideali dello stato liberale, intendono che le classi politiche si alternino al potere, conquistandone a volta a volta il diritto mercé sforzi incessanti per creare nuovi più perfetti ideali di governo.

Il silenzio degli industriali

Il silenzio degli industriali

«Corriere della Sera», 6 agosto 1924

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 765-769

 

 

 

 

Le rappresentanze degli industriali, dei commercianti e degli uomini d’affari si sono finora mantenute in un silenzio così prolungato intorno agli avvenimenti politici più recenti da far dubitare forte se esso non sia il frutto di una meditata deliberazione. Contro lo stato di illegalismo, contro le minacce di seconda ondata, contro la soppressione della libertà di stampa hanno protestato i giornali, i collegi professionali degli avvocati, i partiti politici pure aderenti al governo attuale, come i liberali, ed alta si è sentita ieri la voce dei combattenti. Soltanto i capitani dell’Italia economica tacciono.

 

 

Se si discorre con taluno di essi, con coloro che si può supporre rappresentino gli interessi più larghi dell’economia nazionale, l’impressione che se ne ricava non è già quella di approvazione delle esorbitanze verbali degli estremisti del fascismo, e dei frenetici di dittature e di plotoni d’esecuzione. Gli industriali non approvano le minacce; ma, affettando di considerare gli agitati gridatori come degli innocui maniaci, insistono sulla necessità preminente di un governo forte; e ritengono che la tranquillità sociale, l’assenza degli scioperi, la ripresa intensa del lavoro, il pareggio del bilancio siano beni tangibili, effettivi, di gran lunga superiori al danno della mancanza di libertà politica, la quale, dopotutto, interessa una minoranza infima degli italiani, alle cui sorti essi scarsamente si interessano. Prima bisogna lavorare, produrre, creare le condizioni materiali di una vita larga; il pensare, il battagliare politicamente sono beni puramente ideali, dei quali si può anche fare a meno. I più cinici, i più aderenti ad una inconsapevole concezione materialistica della vita aggiungono che val la pena di pagare un tenue tributo di danaro e di libertà, pur di salvarsi dal pericolo del bolscevismo, dell’anarchia, della distruzione della ricchezza. O il regime attuale, con tutte le sue restrizioni alla libertà politica o il bolscevismo. Tra i due, la scelta non è dubbia. Inutili le promesse di una via di mezzo. Fatalmente, la restaurazione dei metodi ordinari di governo parlamentare, della libertà statutaria di stampa, vorrebbe dire ritorno ai metodi giolittiani e nittiani di adulazione e di debolezza verso i partiti rossi. A Kerenski seguirebbe fatalmente Lenin. Vogliamo cadere, chiedono gli uomini della finanza, negli orrori del bolscevismo?

 

 

Questa maniera di ragionare diffusissima nelle classi industriali italiane, prova soltanto come ai grandiosi progressi tecnici verificatisi recentemente in Italia non abbia corrisposto un uguale progresso nella educazione politica dei dirigenti l’industria. La nuova generazione sorta durante la guerra sente ancora troppo la modestia delle sue origini e non sa elevarsi al livello a cui le generazioni precedenti, dopo lungo tirocinio, erano riuscite a salire. Nessuno che volga lo sguardo all’avvenire, che non si contenti della tranquillità presente, ma desideri una duratura pace sociale, può ritenere che l’acquiescenza alla dittatura, la rassegnazione alle seconde ondate, la idolatria verso i puri beni materiali siano un terreno fecondo per una vera pace sociale. Non lo credono, qualunque siano le parole che pronunciano a fior di labbra, neppure gli espositori della teoria della rassegnazione. I fatti economici sono complessi; ed è probabile che una reazione di borsa si sarebbe manifestata, dopo le pazzie dei primi mesi del 1924, anche senza il delitto Matteotti; ma la pesantezza delle quotazioni, la diminuzione straordinaria degli affari, lo stento con cui si collocano le emissioni in corso sono senza dubbio l’indice di uno stato di apprensione. I risparmiatori, quando pensano all’investimento dei loro capitali, sono assai più accorti politici di quelli che si arrogano la rappresentanza dei grandi interessi economici. Hanno avuto paura del bolscevismo ed hanno in quel tempo lasciato cadere le quotazioni a limiti vilissimi. Oggi non temono più l’avvento del bolscevismo; sentono che il clima storico non è più in Italia, come in nessun altro paese del mondo, favorevole a pazzi sperimenti comunisti; sanno che anche i più deboli uomini di governo prenderebbero coraggio contro gli imitatori in ritardo di Mosca, sentendosi forti del consenso della grande maggioranza di coloro che hanno fatto la guerra, delle classi medie ed anche delle schiere migliori dei lavoratori. Temono invece le rivoluzioni a ripetizione, le minacce continue, i colpi di testa farinacciani. Temono la reazione dell’odio accumulato contro le lunghe prepotenze di chi si erige al disopra della legge. Al tempo della licenza, le classi medie risparmiatrici le quali sono le vere fornitrici di capitali ai grandi industriali, si dilettavano a parlar male del parlamento e dei giornali; ma ora sommessamente confessano che, dopotutto, la tribuna parlamentare e quella giornalistica sono preziose valvole di sicurezza contro il malcontento. Tolte queste valvole, che cosa rimane fuorché il contrapporsi di violenza a violenza? Tra i diversi modi di reagire alla febbre bolscevica, le borse, pur composte in maggioranza di adoratori del pugno forte, agiscono ed è questo soltanto che monta – come se fossero persuase invece che il metodo inglese o francese della discussione, della libera manifestazione del pensiero per mezzo della stampa sia alla lunga più rassicurante del metodo della forza.

 

 

Non a torto corre nel mondo dei finanzieri un vago senso di malessere che induce gli speculatori ad alleggerire le posizioni, a stare ad aspettare. Lo speculatore valuta zero il passato. Quel che conta è solo l’avvenire. Si vorrebbe vedere nell’avvenire sicurezza, tranquillità, non imposte con le minacce, ma conquistate con la persuasione. Non pochi temono che l’ondata, rovesciandosi, colpisca in pieno l’industria, considerata responsabile degli eccessi peggiori del regime di coercizione. L’opinione pubblica, è inutile tacerlo, considera in blocco con sospetto gli industriali. Quando si è veduto che i finanziatori del giornale di Filippelli erano grandi industriali, quando si parla correntemente di acquisti fatti a colpi di milioni di quotidiani atti a influenzare o fabbricare la pubblica opinione; quando si vede che i soli giornali i quali abbiano plaudito al decreto sulla stampa sono quelli di cui non sono chiare le origini finanziarie ed i quali hanno d’uopo per vivere, di generosi sacrifici pecuniari dell’alta finanza; quando si ricordano le circolari della confederazione dell’industria e del commercio incitanti a versare fondi di propaganda durante le elezioni a favore del partito dominante, è facile l’illazione: dunque l’industria non può vivere se non provvede a crearsi un ambiente favorevole; dunque il capitalismo trae le sue ragioni di esistenza dalla corruzione, dagli affari conchiusi con lo stato od attraverso i governi; dunque si sopprime la libertà di stampa allo scopo di consentire ai ricchi di sfruttare il popolo con contratti leonini e con protezioni jugulatorie.

 

 

L’accusa ed il sospetto non toccano la grandissima maggioranza degli industriali, degli agricoltori e dei banchieri italiani, i quali vivono di un lavoro sano e fecondo. Ma il terribile si è che questa grandissima maggioranza non veda il pericolo a cui va incontro col non separare nettamente le proprie sorti da quelle dei pochi profittatori ed interessati all’oscurità ed al silenzio. No. L’industria italiana non vive di lavori pubblici, non vive di favori governativi; di fatto non è per lo più neppure vantaggiata dalla protezione governativa. L’industria italiana non ha perciò paura del bolscevismo: chi ha le mani nette, chi vive del proprio lavoro, chi è necessario in una organizzazione economica sana, non può essere soppresso. Faccia a faccia con gli operai, in aperto dibattito, l’industriale creatore di vigorose imprese industriali non dovrebbe temere di vedere negata la sua ragion d’essere.

 

 

Ciononostante egli può commettere suicidio. Per debolezza, per lasciar correre, per non aver fastidi, gli industriali italiani hanno commesso la propria rappresentanza ad alcuni pochi, i quali reputano atto supremo di saggezza comprar la pace giorno per giorno, propiziarsi con tributo adeguato i potenti della terra, ottenere per largizione ciò che avrebbero diritto di pretendere per giustizia. Stiano attenti i mal consigliati! Se c’è qualcosa che oggi in Italia possa rendere l’animo delle moltitudini favorevole nuovamente a barbare teorie orientali, sconfessate oramai da tutti i capi responsabili del movimento operaio del mondo occidentale, questo qualcosa non è l’attrattiva del vangelo di Mosca; è la repulsione verso le prediche di violenza e di compressione. Gli industriali, i finanzieri, i quali si rallegrano della scomparsa assoluta degli scioperi dopo la marcia su Roma e solo per questo affermano la loro solidarietà ad ogni costo anche cogli estremisti del fascismo, paiono ciechi. Ben fragili sono le fondamenta di mercati finanziari che riposano su un terreno così sdrucciolevole. Non senza ragione i valori di borsa rifiutano di salire più in su. Risaliranno, nel giorno in cui, – essendo pienamente liberi gli operai di abbandonare il lavoro sotto la guida di quei qualunque condottieri, bianchi, rossi o tricolorati, che liberamente essi si saranno scelti – gli scioperi non avranno luogo od avranno luogo in scarso numero perché industriali lungimiranti avranno saputo evitare a tempo la sciagura, con trattative accorte, con sforzi vittoriosi per concedere il massimo possibile alle maestranze, pur facendo vigoreggiare l’intrapresa. Se si ficca lo sguardo in fondo, la preferenza di tanti industriali per la pace sociale imposta dal governo e consigliata dall’amore del quieto vivere. Vogliono lavorare, essi dicono, e non essere seccati da memoriali, da leghe, da discussioni, che fanno perder tempo. Eppure, bisogna rassegnarsi. Per governare un’industria oggi non basta essere valentissimi tecnici e commercianti accorti. Importa altrettanto e forse più, essere condottieri di uomini. Non si lavora per produrre tessuti o rotaie o frumento, sibbene per creare condizioni di vita sempre più alte per tutti coloro, dai capi ai gregari, che partecipano alla produzione. E tra queste condizioni di vita, insieme col pane, forse più del pane medesimo, va annoverata la dignità di uomo libero. Gli industriali italiani non sono oppressori. L’accusa, che fu ad essi rivolta, è ingiusta. Ma essi devono evitare pur l’apparenza di esserlo. La politica del silenzio, in momenti così drammatici, delle rappresentanze industriali, prende, agli occhi del pubblico, aspetto servile. Non è pericolosissimo far pensare agli operai che il proprio avvilimento sia il prezzo della compiacenza padronale?

Situazioni di bilancio

Situazioni di bilancio

«Corriere della Sera», 29 aprile 1924

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 691-694

 

 

 

 

Il conto del tesoro al 31 marzo 1924, dopo trascorsi nove mesi dall’esercizio in corso, consente di valutare con maggiori particolari la situazione di sostanziale pareggio annunciata dal ministro delle finanze alla Scala.

 

 

Il documento più significativo, tra i molti pubblicati nel conto, dovrebbe essere la «situazione di bilancio» ossia quella che riassume non solo il fatto ma anche il diritto, non solo le spese erogate, ma anche quelle semplicemente impegnate; e ciò unicamente per la competenza dell’esercizio in corso, senza residui di anni precedenti ad incursioni in quelli avvenire. La situazione di bilancio ci dice, in milioni di lire, e limitatamente alle partite effettive, ordinarie o straordinarie, quanto segue:

 

 

Previsione per l’intero esercizio

 

Entrate Spese Disavanzo
Previsione all’inizio dell’esercizio

 

15.565,5

18.181,6

– 2.616,1

Variazioni avvenute dal luglio al marzo

 

113,7

918,1

– 804,4

Previsione ultima

 

15.679,2

19.099,7

– 3.420,5

 

 

La tabellina vuol dire che, se si fossero attuate esattamente le previsioni fatte al principio dell’anno, si sarebbe avuto un disavanzo di 2.616,1 milioni di lire. Poiché invece, durante i 9 mesi dal 10 luglio 1923 al 31 marzo 1924 il ministro delle finanze dovette rassegnarsi ad iscrivere in bilancio 918,1 milioni di nuove spese, mentre poté far variare le entrate in più solo per 113,7 milioni di lire, la previsione di disavanzo al 31 marzo 1924 era variata in modo da doversi prevedere un disavanzo di 3.420,5 milioni di lire.

 

 

Si sa però che le «previsioni» si dilungano molto dalla «realtà». Nel caso presente, la regola dei nove mesi trascorsi fu assai migliore delle previsioni. Per raffrontare la realtà dei nove mesi alla previsione di un anno, il ministro riduce quest’ultima alla quota che presumibilmente si può intendere relativa ai nove mesi ed ottiene i seguenti risultati:

 

 

 

 

Entrate Spese Disavanzo
Quota di previsione per i nove mesi

 

11.760,4

14.324,7

– 2.564,3

Accertamenti di entrate e di impegni

di spese per i nove mesi

 

13.286,2

13.495,8

– 209,6

Miglioramento

 

1.525,8

828,9

– 2.354,7

 

 

Le entrate «accertate», il che vuol dire riscosse o di sicura riscossione, nei nove mesi superarono di 1.525,8 milioni di lire quelle che presumibilmente erano prevedibili per i nove mesi (1.760,4) in confronto alla previsione ultima, di 15.679,2 milioni, fatta per l’intiero esercizio. Ma le spese «impegnate» e cioè erogate o da erogarsi per impegni presi, restarono di 828,9 milioni inferiori a quelle che dovevano impegnarsi nei nove mesi sul totale di 19.099,7 milioni previsto per l’anno intiero. Il risultato si è che il disavanzo prevedibile per i nove mesi in 2.564,3 milioni, si realizza solo per 209,6 milioni di lire.

 

 

Come i lettori vedono, mi sono tenuto strettamente alle entrate e spese effettive, senza badare affatto a quelle entità misteriose che si chiamano «movimento di capitali» e «costruzione di strade ferrate». Lo stesso compilatore annulla il valore reale di queste entità dichiarando che un disavanzo che figurerebbe per i nove mesi, nientemeno che di 1.989,5 milioni di lire, è un fantasma perché trova compenso nella diminuzione dei debiti di tesoreria.

 

 

Se il bilancio di competenza dei nove mesi si chiude con un disavanzo di 209,6 milioni, la cassa si deve trovare assai meglio. Racimolo qua e là qualche «indizio» della situazione della cassa, non potendo prendere sul serio la cifra che più direttamente dovrebbe raffigurarci la situazione di cassa, che sarebbe il «fondo di cassa». Questo, che era al 30 giugno 1923 di 4.579,6 milioni, si troverebbe ridotto al 31 marzo 1924 a 2.536,7 milioni. Evidentemente, per lo stato, il «fondo di cassa» deve avere un significato diverso da quello che ha per i comuni mortali. Come è possibile che il «fondo di cassa vero» – non quello risultante nel conto del tesoro in virtù chissà quali scritturazioni – sia diminuito tra le due date del 30 giugno 1923 e del 31 marzo 1924 quando la Banca d’Italia, tesoriera dello stato, dichiara di avere in cassa in conto corrente danaro dello stato per 1.270,6 milioni di lire al 30 giugno 1923 e per 1.875,1 milioni di lire al 20 marzo 1924? Come lo dice questa cifra, la cassa deve essere migliorata notevolmente. Ce ne sono vari indizi. È vero che i debiti interni, astrazion fatta della cancellazione del debito della Sudbahn, che non implicò uscita di danaro, crebbero nei nove mesi di 149 milioni; ma i debiti esteri, astrazion fatta delle scritturazioni inglesi, diminuirono di 183 milioni di lire. L’aumento di 149 milioni nei debiti interni fu in lire-carta; ma la diminuzione di 183 milioni nei debiti esteri, essendo avvenuta in qualche altra specie di lire, la diminuzione ammonta a non si sa quanto, ma certo almeno a parecchio più di mezzo miliardo di lire-carta. Come si sarebbe potuto fare ciò senza una buona cassa?

 

 

Il «conto del tesoro» quello in senso proprio, il quale non si impaccia di «competenza dell’anno in corso» e mette entrate e spese tutte in un mucchio, a qualunque esercizio, passato presente e futuro e non bada, come fa la «situazione del bilancio» prima esaminata, ad «accertamenti» di entrate e «impegni» di spese, ma registra invece «incassi» e «pagamenti», ci dice che nei soliti primi nove mesi capitò quanto segue, in milioni di lire:

 

 

Entrate effettive ordinarie e straordinarie

 

15.596,4

Spese come sopra

 

15.359,9

Supero degli incassi sui pagamenti

 

236,5

 

 

Quest’ultimo, che ci denuncia un supero di 236,5 milioni di lire, è all’ingrosso un equivalente del conto della serva. Quello di prima, che registrava un disavanzo di 209,6 milioni, è il risultato dei più raffinati metodi di contabilità logismografica, per l’Italia, è alla testa di tutti i paesi del mondo. Confesso di avere un debole per il conto della serva, che si capisce facilmente: tanto incassato da una parte, tanto speso dall’altra; mentre il conto raffinato della scienza poggia su tali e così fini premesse che può essere condotto a qualunque conclusione piaccia al compilatore ottenere. Stavolta c’è anche una ragione sentimentale di preferire il conto della serva; ed è che chiude meglio dell’altro. Qualunque di essi il lettore preferisca, ricordi tuttavia sempre che amendue dipendono, in misura non troppo differente, dalla smentita che riceverà nel fatto della pretesa, rinnovata or ora dal presidente americano signor Coolidge, di ottenere il rimborso dei suoi crediti. L’equilibrio, tuttora delicatissimo del bilancio italiano, riposa tutto sulla premessa di far astrazione dei debiti interalleati. Se questi entrassero in conto, andrebbe all’aria tutto. La voragine del disavanzo si riaprirebbe, la lira sarebbe minacciata, nuovi squilibri sociali, nuove rovine delle classi a reddito fisso, nuovi arricchimenti di profittatori. Le conseguenze sarebbero siffattamente disastrose, che non si può forse attribuire alle parole quella elettorale ad uso interno ad esse attribuita da autorevoli diari forestieri.

 

La bellezza della lotta

La bellezza della lotta

«La Rivoluzione liberale», 18 dicembre 1923

Le lotte del lavoro, Piero Gobetti, Torino 1924, pp. 5-19

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 495-503

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 833-843

 

La bellezza della lotta

La bellezza della lotta

«La Rivoluzione liberale», 18 dicembre 1923

Le Lotte del lavoro, Piero Gobetti, Torino 1924, pp. 7-19

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 495-503

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 833-843

Selected economic essays, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006, pp. 66-72

Rileggendo gli scritti sui problemi del lavoro, che l’editore Piero Gobetti ha desiderato che io riesumassi dalle riviste e dai giornali su cui li ero andati pubblicando dal 1897 in qua, mi sono accorto che essi obbedivano ad alcune idee madri, alle quali, pur nel tanto scrivere per motivi occasionali e sotto l’impressione di circostanze variabili di giorno in giorno, mi avvedo, con un certo perdonabile compiacimento intimo, di essere rimasto fedele; lo scetticismo invincibile, anzi quasi la ripugnanza fisica, per le provvidenze che vengono dal di fuori, per il benessere voluto procurare agli operai con leggi, con regolamenti, col collettivismo, col paternalismo, con l’intermediazione degli sfaccendati politici pronti a risolvere i conflitti con l’arbitrato, con la competenza, con la divisione del tanto a metà; e la simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé e, in questo sforzo, lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere ed a perfezionarsi. Il socialismo scientifico ed il collettivismo russo, in quanto schemi di organizzazione della società o tentativi di applicare praticamente quegli schemi, non mi interessano. Sono al disotto del niente. Invece il socialismo sentimento, quello che ha fatto alzare la testa agli operai del Biellese o del porto di Genova, e li ha persuasi a stringere la mano ai fratelli di lavoro, a pensare, a discutere, a leggere, fu una cosa grande, la quale non è passata senza frutto nella storia d’Italia. Il collettivismo è un ideale buono per le maniche col lustrino e serve solo a far morire di fame e di noia la gente. Sono puri socialisti, del tipo noioso, coloro i quali vogliono far risolvere le questioni del lavoro da arbitri imparziali, incaricati di tenere equamente le bilance della giustizia, e vogliono far compilare le leggi del lavoro da consigli superiori, in cui, accanto ed al disopra alle due parti contendenti, i competenti, gli esperti, i dotti, i neutri insegnino ai contendenti le regole del perfetto galateo.

Oggi, gli ideali burocratici sono ridivenuti di moda. Sott’altro nome, l’aspirazione dei dirigenti le corporazioni fasciste di trovare un metodo, un principio, per far marciare d’accordo imprenditori ed operai, è ancora l’antico ideale collettivistico. La lotta combattuta per insegnare agli operai che l’internazionalismo leninista era una idea distruttiva e che la nazione era condizione di vita civile fu una cosa santa; ma il credere che si possa instaurare in terra l’idillio perfetto tra industriali ed operai, sotto la guida di qualche interprete autorizzato dell’interesse supremo nazionale, è una idea puramente burocratico – comunistica. Tanti sono socialisti senza saperlo; come tanti che si dissero socialisti o furono a capo di movimenti operai contro gli industriali erano invece di fatto puri liberali. Un industriale è liberale in quanto crede nel suo spirito di iniziativa e si associa con i suoi colleghi per trattare con gli operai o per comprare o vendere in comune; è puro socialista quando chiede allo stato dazi protettivi. L’operaio crede nella libertà ed è liberale quando si associa ai compagni per creare uno strumento comune di cooperazione o di difesa; è socialista quando invoca dallo stato un privilegio esclusivo a favore della propria organizzazione, o vuole che una legge o la sentenza del magistrato vieti ai crumiri di lavorare. Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato collo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d’accordo con altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento con la forza, che lo esclude se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferiti, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi. I nomi non contano: l’ideale rimane quello che esso è intrinsecamente, qualunque sia la denominazione sua esteriore.

Oggi, il problema operaio in Italia ha cambiato nome: invece di federazioni o di camere del lavoro rosse o bianche o gialle, si parla di corporazioni fasciste. Quale è il contributo sostanziale che esse hanno recato al problema del lavoro? Parlo dei principi, non dei particolari. Non ha importanza il fatto che in parecchi casi le corporazioni si comportino nello stesso modo delle antagoniste rosse; che anch’esse usino talvolta violenze contro gli avversari o contro i crumiri o gli adepti di altre fedi; che esse pronuncino anatemi o boicottino altrui od ambiscano a monopoli. Queste possono essere accidentalità passeggere, non connaturate alla dottrina. Quale sia questa dottrina io tenterei di chiarire così:

«Il principio della lotta fra le due classi degli imprenditori e degli operai è nocivo alla produzione. Ognuno dei due combattenti immagina di poter raggiungere un massimo di vantaggio distruggendo ed espropriando l’avversario. L’imprenditore tenta di ridurre l’operaio al salario minimo; l’operaio vorrebbe annullare il reddito del capitale. In conseguenza della lotta e della sopraffazione dell’una parte sull’altra, sono alla lunga danneggiate ambedue ed è danneggiata sovratutto la nazione. Diminuisce la produzione ed impoverisce perciò la collettività; lo stato si indebolisce verso l’estero e si sgretola all’interno. La corporazione sorge per combattere questa politica suicida. Col suo medesimo nome essa afferma l’idea della costruzione, dell’ossequio al principio superiore della nazione, al quale gli egoismi particolari di classe debbono sacrificarsi. La corporazione non sacrifica l’operaio all’imprenditore; né l’imprenditore all’operaio; essa vuole riunire in una sintesi superiore le due rappresentanze finora ostili. Le corporazioni operaie e quelle padronali debbono rimanere distinte e indipendenti l’une dall’altre; ma, pur tutelando i propri interessi, ognuna di esse deve essere consapevole della necessità di non offendere l’industria, di non indebolire la nazione. Se le due corporazioni non sanno trovare la via dell’accordo fecondo, vi deve essere chi, nel momento critico, pronunci la parola risolutiva, dichiari la soluzione giusta alla quale tutti debbono inchinarsi».

«L’arbitro non deve avere la mentalità né dell’operaio né dell’imprenditore. Deve essere l’uomo che s’inspira alle necessità nazionali, che è educato nella dottrina del sacrificio del presente all’avvenire, che sa ricomporre in sintesi le vedute e gli interessi discordanti delle due parti unicamente intese al guadagno immediato».

La dottrina ora esposta è una nuova formulazione, con linguaggio mutato, di teorie le quali si sono di volta in volta sforzate di ritrovare l’unità perduta attraverso i conflitti fra uomini e classi. Le armonie economiche di Bastiat, la teoria dell’equilibrio economico, non sono forse anche tentativi di sintesi, sforzi per vedere il punto nel quale sul mercato, per un attimo, le forze si equilibrano e si raggiunge un risultato che può essere di massima felicitazione della collettività? Gli economisti come è loro costume, parlano di equilibrio, di prezzi, di mercato, di massima soddisfazione. I teorici delle corporazioni parlano di nazione e di soggezione delle classi alla volontà superiore che incarna l’interesse della nazione. Il linguaggio formale è diverso, il contenuto sostanziale è uguale.

Il problema non è di negare l’equilibrio fra le forze contrastanti; cosa che sarebbe assurda. È di trovare il metodo col quale quell’equilibrio possa essere raggiunto col minimo costo, colla minore superficie di attrito. Non è neppure necessario all’uopo scegliere l’una formula più che l’altra: purché l’equilibrio si raggiunga, possono riuscire utili le contrattazioni dirette, le leghe, le corporazioni, l’arbitrato, perfino il colpo di sterzo dell’uomo posto in situazione di autorità per togliere le parti dal punto morto in cui si erano cacciate. L’ideale della nazione o quello dell’interesse collettivo, l’aspirazione cooperativa o quella partecipazionistica sono tutte formule atte a condurre all’equilibrio. Ma tutte sono pure armi strumentali le quali sono vive e feconde soltanto quando siano adoperate in condizioni favorevoli. Quali siano queste condizioni non si può dire in modo tassativo. Ne enumero alcune tra le più caratteristiche.

È preferibile l’equilibrio ottenuto attraverso a discussioni ed a lotte a quello imposto da una forza esteriore. La soluzione imposta dal padrone, dal governo, dal giudice, dall’arbitro nominato d’autorità, può essere la ottima; ma è tenuta in sospetto, appunto perché viene da altri. L’uomo vuole sapere perché si decide e vuole avere la illusione di decidersi volontariamente. Bisogna lasciare rompersi un po’ le corna alla gente, perché questa si persuada che lì di contro c’è il muro e che è vano darvi di cozzo. Nella lotta e nella discussione si impara a misurare la forza dell’avversario, a conoscerne le ragioni, a penetrare nel funzionamento del congegno che fa vivere ambi i contendenti.

L’equilibrio stabile è più facilmente raggiunto dal tecnico che dal politico. Affidare cioè la risoluzione delle questioni del lavoro al ministro, al prefetto, al fiduciario fascista od al deputato conservatore illuminato, è indizio di scarsa educazione industriale. La soluzione, a cui il politico tende, è in funzione dell’equilibrio politico, non di quello economico. Entrano in gioco fattori di tranquillità esteriore, di accaparramento elettorale, di propiziazione di gruppi politici. Poiché l’equilibrio in funzione di fattori puramente economici sarebbe diverso, l’una o l’altra delle parti o tutt’e due cercano una compensazione alla perdita che debbono sopportare in favori economici ottenuti dal potere politico: all’equo trattamento corrisponde un aumento dei sussidi chilometrici, al controllo operaio sulle fabbriche tien dietro la tariffa doganale del luglio 1921, le piccole concessioni strappate da prefetti amanti del quieto vivere sono dolcificate dalle commende e dalle chincaglierie cavalleresche di cui, non si sa perché, gli industriali sono ghiottissimi. Non accade che l’offesa all’equilibrio economico duri. Qualcuno paga sempre il costo dell’offesa.

L’educazione dei tecnici capaci della soluzione dei problemi del lavoro si fa attraverso la lotta, tanto meglio quanto più questa è aperta e leale. Orator fit. Il buon arbitro non si fa sui libri, nei comizi elettorali, nella pratica prefettizia, non nei partiti, nei fasci, nei parlamenti. Solo l’operaio della miniera o della officina sente la vita del lavoro; solo l’industriale sente la gloria ed ha l’orgoglio della impresa. Troppi avvocati, troppi politicanti, troppi uomini abili, accomodanti, soluzionisti hanno rovinato il movimento operaio italiano. Ci sono stati troppo pochi uomini rudi, pronti a sbranarsi, ma pronti anche a sentire quel che in fondo al loro animo c’era di comune: l’amore al lavoro compiuto, l’orgoglio del capolavoro, il desiderio di metterlo al mondo perfetto. Solo discutendo faccia a faccia, queste due razze di uomini possono giungere a riconoscere le proprie sovranità rispettive: l’uno sulla direzione, sulla organizzazione e sulla invenzione della impresa, l’altro sulla propria forza di lavoro. La sovranità sui mattoni, sulle macchine, sulle merci non conta. È cosa morta, la quale vive soltanto perché l’organizzatore ed il lavoratore apprezzano e fanno valere quel che ognuno di essi apporta di proprio nell’opera comune. È bene che ognuno custodisca gelosamente l’esclusivo dominio sul proprio compito, che è, per l’imprenditore, di organizzare l’impresa e per l’operaio di prestare la propria opera manuale ed intellettuale. È bene che ognuno risenta vivamente l’ingerenza altrui nel proprio campo. Gli imprenditori sfiaccolati, che si rassegnano a lasciarsi controllare dai propri dipendenti, gli operai privi di orgoglio, i quali affidano la tutela del proprio lavoro a fiduciari non usciti dalle proprie file, sono mezzi uomini. Con questi omuncoli non si costruisce per l’avvenire. Si guadagnano forse denari, ma non si innalza l’edificio dell’industria, non si cresce valore alla personalità umana.

Perché l’equilibrio duri, è necessario che esso sia minacciato ad ogni istante di non durare. Chi vorrà leggere le pagine di questo libro, vedrà quanto sia antica la mia repugnanza verso i monopoli industriali ed operai. Ad un certo momento, le leghe rosse, accortesi di essere diventate potenti in un mondo di vili borghesi, frammezzo a magistrati prontissimi a rendere servigi invece che a dare sentenze, vollero essere sole padrone del lavoro: negarono ai bianchi ed ai gialli il diritto di esistere, si arrogarono il diritto esclusivo di eleggere rappresentanti nel consiglio superiore del lavoro e si apprestarono a negare il diritto del parlamento a correggere le decisioni del consiglio del lavoro caduto in loro mani. Fu il segnale della loro rovina. Oggi le corporazioni fasciste paiono avviarsi a commettere il medesimo errore. Anch’esse negano il diritto all’esistenza dei rivali sconfitti e ad uno ad uno li espellono dalle cooperative, dalle camere del lavoro, dai consigli del lavoro, dal parlamento. Solitudinem faciunt et pacem appellant. Anche ora, e sovratutto ora, bisogna negare che l’equilibrio esista nel monopolio, nella soppressione di diritto o di fatto degli avversari. Ho descritto, nei primi saggi di questo volume, gli sforzi che nel 1897 e nel 1900 compievano alcuni gruppi di operai italiani. A tanta distanza di tempo, riandando coi ricordi a quegli anni giovanili, quando assistevo alle adunanze operaie sui terrazzi di via Milano in Genova, o discorrevo alla sera in umili osterie dei villaggi biellesi con operai tessitori, mi esalto e mi commuovo. Quelli furono gli anni eroici del movimento operaio italiano. Chi vide, raccapricciando, nel 1919 e nel 1920, le folle briache di saccheggio e di sangue per le vie delle grandi città italiane, non riconobbe i figli di quegli uomini, che dal 1890 al 1900 nascevano alla vita collettiva, comprendevano la propria dignità di uomini ed erano convinti di dover rendersi degni dell’alta meta umana a cui aspiravano. Lo spirito satanico della dominazione, inoculato da politicanti tratti dalla feccia borghese, li travolse e li trasse a rovina. Perché l’equilibrio duri, bisogna che esso sia continuamente in forse. Bisogna che nessuna forza legale intervenga a cristallizzare le forze, ad impedire alle forze nuove di farsi innanzi contro alle forze antiche, contro ai beati possidentes. Perché gli industriali rendano servigi effettivi alla collettività, fa d’uopo che lo stato non dia ad essi il privilegio di servire la collettività, non li tuteli con i dazi protettori contro la concorrenza straniera; non li costituisca in consorzi a cui la gente nuova non possa aspirare. Perché gli operai si innalzino moralmente e materialmente, importa che ad ogni istante gli organizzatori rossi possano sfidare i bianchi e questi i rossi ed i fascisti amendue e con essi i gialli e tutti siano sotto l’incubo del sorgere di altri miti organizzativi. È diventato di moda oggi irridere alla pretesa di suscitare la concorrenza nel mondo delle organizzazioni padronali ed operaie; e si addita l’esempio delle corporazioni fasciste, le quali, nimicissime del monopolio sinché questo era tenuto dai rossi, ora che ne hanno la forza, lo pretendono per sé. E si vuol dimostrare che ciò non è solo frutto di prepotenza politica, ma di esatto calcolo economico, poiché solo coll’unicità e col monopolio della organizzazione possono gli operai ottenere il massimo di guadagno. Su di che non occorre disputare; poiché di ciò non si tratta.

Instaurino pure, se ci riescono, operai ed imprenditori, il monopolio del lavoro e dell’impresa. Ciò che unicamente si nega è che lo stato sanzioni legalmente il monopolio medesimo, vietando ad altri di combatterlo e di distruggerlo, ove ad essi basti il coraggio. Il punto fermo è questo, non quello della convenienza del monopolio. Finché il monopolio, padronale od operaio, è libero, finché è lecito a chiunque di criticarlo e di tentare di abbatterlo, può esso recare qualche danno; ma è danno forse non rilevante e transitorio. La condizione necessaria di un equilibrio duraturo, vantaggioso per la collettività, vantaggioso non solo agli industriali ed agli operai organizzati, ma anche a quelli non organizzati, non solo a quelli viventi oggi, ma anche a quelli che vivranno in avvenire, non è l’esistenza effettiva della concorrenza. È la possibilità giuridica della concorrenza. Altro non si deve chiedere allo stato, se non che ponga per tutti le condizioni di farsi valere, che consenta a tutti la possibilità di negare il monopolio altrui. La possibilità giuridica della negazione dà forza al monopolio, se utile davvero al gruppo e forse alla collettività, poiché la sua persistenza, contro alla libertà di ognuno di combatterlo, è la sola dimostrazione persuasiva della sua ragione di vivere. Qual merito o qual virtù si può riconoscere invero a chi, per vivere, fa appello alla spada del braccio secolare?

In verità poi, le organizzazioni, quando non siano rese obbligatorie dallo stato, non conservano a lungo il monopolio. La storia dei consorzi industriali e delle leghe operaie è una storia caleidoscopica di ascese, di decadenze, di trasformazioni incessanti. Ad ogni momento debbono dimostrare di meritare l’appoggio dei loro associati. Ed è impossibile, non aiutando il braccio secolare, che questa dimostrazione sia data a lungo. Gli uomini sono troppo egoisti o cattivi o ignari perché, trovandosi a capo di una organizzazione potente, non soccombano alla tentazione di trarne profitto per sé, a danno dei propri rappresentati o non si addormentino nella conseguita vittoria o non tiranneggino i reietti dal gruppo dominante. A rendere di nuovo l’organizzazione viva, operante e vantaggiosa agli associati ed agli estranei, uopo è che essa sia di continuo assillata e premuta da rivali di fatto o dal timore del loro nascere. L’equilibrio, di cui parlano i libri di economia, la supremazia della nazione a cui si fa oggi appello non sono ideali immobili. Essi sono ideali appunto perché sono irraggiungibili; appunto perché l’uomo vive nello sforzo continuo di toccare una meta, la quale diventa, quando pare di averla raggiunta, più alta e più lontana. L’equilibrio consiste in una successione di continui mai interrotti perfezionamenti, attraverso ad oscillazioni, le quali attribuiscono la vittoria ora a questa, ora a quella delle forze contrastanti. La gioia del lavoro per l’operaio e della vittoria per l’imprenditore, sta anche nel pericolo di perdere le posizioni conquistate e nel piacere dello sforzo che si deve compiere per difenderle prima e per conquistare poi nuovo terreno. Tolgasi il pericolo, cessi il combattimento, e la gioia del vivere, del possedere, del lavorare diventa diversa da quella che è sembrata gioia vera agli uomini dalla rivoluzione francese in poi. Non che la “quiete” di chi non desidera nulla, fuorché godere quel che si possiede, non possa essere anche un ideale e che la sua attuazione non sia bella. Ho descritto in un capitolo di questo libro la vita felice del lazzarone napoletano nel meraviglioso secolo XVIII, che fu davvero l’età dell’oro della contentezza di vivere, del buon gusto, della tolleranza e dell’amabilità. Purtroppo la natura umana è cosiffatta da repugnare alla lunga al vivere quieto e tranquillo. Se questo dura a lungo, è la quiete della schiavitù, è la mortificazione dello spirito. Alla quiete che è morte è preferibile il travaglio che è vita.

Significati e insegnamenti delle elezioni inglesi. Gli sforzi per un nuovo equilibrio dei partiti. Fattori politici e fattori economici.

Significati e insegnamenti delle elezioni inglesi. Gli sforzi per un nuovo equilibrio dei partiti. Fattori politici e fattori economici.

«Corriere della Sera», 9 dicembre 1923

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 488-491

Price Variations – Good Crops and Vintage – Cost of Living Rising -Working-Class Savings and Unemployment -The new Regulation of the Public Services

Price Variations – Good Crops and Vintage – Cost of Living Rising -Working-Class Savings and Unemployment -The new Regulation of the Public Services

«The Economist», 8 dicembre 1923, pp. 1014-1015

 

Il patto marinaro e le sue interpretazioni

Il patto marinaro e le sue interpretazioni

«Corriere della Sera», 18 novembre 1923

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 454-458

 

 

 

 

Siamo innanzi ad una nuova formula del «patto marinaro».

 

 

La formula ha nome di «nota interpretativa» presentata da un fiduciario di D’Annunzio, nota non accettata dagli armatori, nonostante le premure del governo e l’opinione espressa in un comunicato ufficioso dell’Agenzia Stefani che la nota metta «sotto una luce di equità e di collaborazione sociale il patto sine nomine». Quale sia il valore giuridico del patto e delle note interpretative è difficile intuire, dappoiché il commissario per la marina mercantile, on. Ciano, si è limitato a dichiarare, a nome del governo, di volere «dare esecuzione alle clausole del patto che lo riguardano direttamente». Parrebbe perciò che il patto sia esecutivo solo per le clausole che riguardino direttamente il commissariato per la marina mercantile; ma quali siano tali clausole, non è facile intendere anche a chi rilegga ripetutamente il patto. Non direi che riguardi il commissariato l’obbligo fatto al governo di restituire alla cooperativa Garibaldi le somme di credito verso lo stato, perché pare che questa sia una faccenda spettante al ministro delle finanze; né l’altro obbligo di agevolare l’acquisto delle navi cisterna alla r. marina superflue, poiché questo è affare della marina militare e non di quella mercantile. Certi problemi secondari come la concessione di indennità alle famiglie degli equipaggi di due piroscafi affondati in guerra parrebbero solo riferirsi al commissariato. Che cosa altro nel patto riguardi l’on. Ciano, non si capisce davvero; e forse la dichiarazione del commissario di voler dare esecuzione solo a ciò che lo tocca direttamente può essere stato un modo garbato di dire al D’Annunzio, al capitano Giulietti, ed agli armatori: «sbrigatevela voi, ché io mi lavo le mani di un arruffio che ogni giorno diventa più imbrogliato».

 

 

Questo famigerato patto è davvero un grosso garbuglio. Parrebbe che le note «interpretative» dovessero chiarire il testo; ma sembra che l’ufficio loro sia invece quello di confondere le idee. È noto che uno dei punti maggiormente controversi del patto sia l’obbligo fatto agli armatori di eseguire sulle paghe dei marinai una trattenuta del 2%, versandone l’importo alla federazione marinara. Sarebbe molto interessante sapere di preciso come in questo punto le «note» interpretino il «patto». Ma se v’è chi possa formarsi su di ciò una opinione chiara e ferma, quegli è bravo. Ecco i due testi:

 

 

Patto d’Annunzio

 

 

Il contributo dei marinai federati, che ha nome antico e recente di significato spirituale e di fraterna comunanza «Provvisione di benefizio», sarà obbligatorio nella misura del 2 %.

 

 

Ma puramente volontario, nella misura del 3 %, sarà quello destinato alla compagnia cooperatrice «Garibaldi». E sarà nei contratti di arruolamento inscritta la formula riguardante l’uno e l’altro contributo, concordata e statuita.

 

 

E dell’impiego socialmente benefico sarà data guarentigia onorevole.

Nota interpretativa

 

 

Fermo restando il principio della libertà d’organizzazione, che il patto, del resto, non contrasta, è inteso che il contributo del 2 % riguarda esclusivamente i rapporti tra la F.I.L.M. e i suoi associati, parimenti la esazione del contributo, la quale dovrà essere effettuata in modo che non risultino in alcuna guisa turbati il lavoro, la disciplina, i rapporti gerarchici. Quindi nessuna clausola riguardante il contributo, ovvero l’esazione, sarà inserita nei contratti di arruolamento, e l’esazione sarà in ogni caso effettuata fuori di bordo e col mezzo di persone che non siano alle dipendenze degli armatori. Analogamente per le quote destinate alla compagnia cooperatrice «Garibaldi», gli armatori, come si asterranno da azioni che possano ostacolare il libero versamento dei tributi da parte dei marittimi, così non applicheranno alcuna sanzione diretta o indiretta contro coloro che non effettueranno pagamenti.

 

 

 

 

D’ora innanzi, i codici bisognerà farli scrivere dai poeti. Saranno ben scritti ed in aggiunta, si saprà cosa vogliono dire. Che cosa abbia voluto D’Annunzio è chiarissimo: gli armatori siano responsabili dell’esecuzione obbligatoria di un pagamento del 2% da parte dei marinai federati alla cassa della federazione; essendo tale pagamento vincolativo per ambi le parti, e gli armatori debbono avvertire i marinai nel contratto di arruolamento che essi eseguiranno sulle paghe tale trattenuta del 2%, vogliano essi oppure no; un ulteriore contributo del 3% alla cooperativa Garibaldi è invece volontario; i marinai saranno invitati nel contratto di arruolamento ad eseguire tale pagamento; ma l’armatore lascerà in materia i marinai liberi di fare quel che vogliono.

 

 

Le note interpretative rendono incerto ciò che era chiarissimo. Il 3% per la Garibaldi continua ad essere volontario. Gli armatori hanno solo l’obbligo di non ostacolare il versamento e di non punire coloro che non verseranno. Ma su ciò nessuno disputava. La disputa era invece sul punto se il 2% destinato alla federazione dovesse essere obbligatorio, come volevano i federati o libero come volevano gli armatori. D’Annunzio aveva sentenziato in favore dell’obbligatorietà e aveva così, per logica e necessaria conseguenza, obbligato gli armatori ad eseguire a forza la trattenuta sulle paghe le «note» non negano affatto e quindi confermano l’obbligatorietà del pagamento; e solo dichiarano:

 

 

  • che il 2% riguarda solo la federazione ed i suoi associati; proposizione questa perfettamente che gli armatori debbono eseguire la trattenuta per conto della federazione;

 

 

  • che l’esazione del contributo deve essere effettuata in modo che non ne risultino in alcuna guisa turbati il lavoro, la disciplina, i rapporti gerarchici; epperciò deve essere in ogni caso effettuata fuori di bordo e col mezzo di persone che non siano alle dipendenze degli armatori. Regolare, come qui si fa, le modalità dell’esazione, conferma implicitamente l’obbligatorietà del pagamento. Gli armatori restano ugualmente obbligati alla trattenuta, purché il materiale versamento del suo importo sia fatto fuori bordo ad un incaricato della federazione;

 

 

  • dell’esazione e del contributo non si farà menzione nel contratto di arruolamento. Ma se gli armatori sono, in virtù del patto, obbligati ad eseguire le trattenute ed i marinai sono obbligati a versare il 2% alla F.I.L.M., così come debbono obbligarsi essendoché le note li proclamano liberi di organizzarsi; ed un accordo fra la federazione ed il governo a disciolto le corporazioni marinare fasciste; e gli armatori possono praticamente assumere solo personale organizzato – che cosa importa che del 2% si parli oppure no nel contratto di arruolamento?

 

 

Insomma, il contributo del 2% è obbligatorio sì o no; e gli armatori hanno un qualsiasi obbligo di eseguire la trattenuta sulle paghe, a bordo o fuori bordo, con impiegati proprii o con fiduciari della federazione? Ci voleva tanto a parlar chiaro; e per qual motivo invece si sono adoperate frasi volutamente oscure, le quali non mancheranno di procacciare anni di liti ad armatori ad a marinai?

 

 

L’altro punto disputato nel patto marinaro era quello dei regolamenti organici; ed ecco messi di fronte patto e note.

 

 

Patto D’Annunzio

 

 

Sarà interamente osservato l’impegno, assunto dal regio governo, di non sottoporre a nuova discussione i «regolamenti organici» che determinano il servizio degli addetti alle compagnie di navigazione.

 

 

Essi regolamenti non potranno in ogni modo essere ripresi se non quando sia superato il disagio, economico che tuttavia travolge la nazione; e ogni ritocco sarà fatto con largo spirito di equità verso gli addetti e non con intento di menomare il diritto acquistato.

Nota interpretativa

 

A partire dal primo febbraio 1924 i regolamenti organici verranno applicati con le norme risultanti dalla lettera Rossoni del 22 marzo 1923 pur rispettando lo spirito dell’art. 2 del patto che esclude ogni intenzione di menomare i diritti acquisiti. La formulazione degli articoli dei nuovi regolamenti, in correlazione alle menzionate norme, sarà deferita alla commissione di cui al numero seguente.

 

 

Anche qui, il poeta era stato chiarissimo: mantenuti intatti per ora i vigenti regolamenti organici, nessuna variazione vi si potrà apportare «se non quando sia superato il disagio economico che tuttavia travaglia la nazione»; ed anche allora si dovranno rispettare i diritti acquisiti.

 

 

Le note interpretative dicono invece: i regolamenti organici debbono essere variati subito, a norma della lettera Rossoni; ma pur variandoli subito si rispettino i diritti acquisiti. Disgraziatamente, la lettera Rossoni, che altra volta ebbi già qui a lodare per la sua assennatezza, pone i seguenti capisaldi per la riforma dei regolamenti organici:

 

 

  • le sole direzioni responsabili debbono fissare l’ordinamento interno, amministrativo e tecnico delle aziende;
  • le promozioni debbono farsi per merito ed a scelta, salvi restando i diritti di carriera economica anche per anzianità;
  • siano bilateralmente libere le parti di risolvere il contratto di impiego con giusta indennità.

 

 

L’interprete si è evidentemente trovato a mal partito quando contemporaneamente ha voluto far salvi i diritti acquisiti in base ai regolamenti vigenti e far entrare in vigore subito nuovi regolamenti inspirati a principii tutt’affatto diversi; ed ha scaricato l’insolubile problema sulle spalle di una commissione arbitrale. Ma che razza di interpretazione è questa che dice tutto il contrario del patto che tuttavia professa di voler mantenere in vigore; sicché, dopo averlo negato nella clausola essenziale, lo riafferma in quella successiva, che rende impossibile la negazione? Patto e note sono un vero nido di vespe. Per non esserne punti a sangue, sarà giocoforza soffocare col fumo le vespe nel nido; e far redigere al poeta un nuovo patto, chiaro, univoco, che dica chiaramente quel che vuol dire, traducendo in buona lingua italiana la volontà concorde delle parti contendenti.

 

National Feelings on the Greek Affair – Politics and Labour Congress – Splitting of Agricultural Land -Rates of the Succession Duty – Octrois and the Municipalities

National Feelings on the Greek Affair – Politics and Labour Congress – Splitting of Agricultural Land -Rates of the Succession Duty – Octrois and the Municipalities

«The Economist», 22 settembre 1923, p. 440

 

Parlamenti e classe politica

«Corriere della Sera», 2 giugno 1923

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 264-269

Singolare la fortuna di questi Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca (seconda edizione, con una seconda parte inedita. Un vol. di pp. IX – 514, F.Ili Bocca, Torino). In piena fioritura parlamentare, quando appena, con i ministeri Depretis, si disegnavano malcerte le prime degenerazioni trasformistiche, egli, giovane di 25 anni, pubblicava nel 1883 il libro Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare il quale rimane con pochissimi altri, forse soltanto con quelli di Turiello, l’analisi più profonda della vita politica italiana di quel tempo. Oggi, è facile parlar male del governo parlamentare, della sua instabilità, della sua inefficienza amministrativa. Ma affermare che queste non sono che manifestazioni superficiali di una concezione radicalmente sbagliata della organizzazione politica, che il dogma della sovranità del popolo non ha nessuno dei caratteri della verità scientifica; e proporre, quaranta anni or sono, al posto dei dogmi metafisici della rivoluzione francese, i concetti della «formola politica» e della «classe politica»: questo è ciò che nella scienza dicesi «scoprire» terre nuove. Dopo Mosca, sono venuti altri scrittori giustamente celebrati; e, prima di lui, si possono trovare in scrittori grandissimi i germi delle idee che egli sistematizzò e riassunse nei due principii fondamentali che io riassumerei così.

Primo: il governo di un paese non è e non può mai essere retto dalla maggioranza del popolo e neppure da una genuina rappresentanza della maggior parte dei cittadini. Questa è una utopia pericolosa e distruggitrice della convivenza sociale. Il governo politico deve essere in mano di una minoranza organizzata. Mosca ha dato alla minoranza organizzata, costituita da quelle persone le quali in un paese emergono per ricchezza, cultura, capacità amministrativa ed anche arte di cattivarsi le moltitudini e di imbrogliare i governati, il nome di «classe politica». Dalla buona scelta e formazione della classe politica dipende la fortuna di un paese. A seconda che in essa predominano le qualità di valore, intelligenza, devozione al paese, indipendenza economica, ovvero quelle di intrigo, sopraffazione, avidità di danaro, e dipendenza dai pochi o dalle folle che possono dare la ricchezza, variano i risultati ottenuti.

Secondo: il predominio, necessario ed utile, della classe politica ha bisogno, per conservarsi, di una ideologia, a cui Mosca dà il nome di «formula politica»: e questa può essere la forza, la eredità, il diritto divino, la sovranità popolare. Presso a poco, tutte queste formule si equivalgono, essendo desse puramente la manifestazione esteriore verbale delle vere ragioni per le quali la classe politica afferma la sua capacità a governare le moltitudini.

Dodici anni più tardi, nel 1895, queste idee, le quali prima erano venute fuori dall’analisi delle forme di governo realmente operanti in Italia, trovarono la loro sistemazione scientifica negli Elementi di scienza politica ed ora tornano in pubblico in una seconda edizione, in cui gli Elementi del 1895 sono conservati intatti, senza alcuna modificazione; ma coll’aggiunta di un nuovo libro, in cui il problema fondamentale politico è ripensato a fondo.

In un articolo di giornale, necessariamente breve, non è possibile esporre compiutamente il processo mentale per cui un autore è giunto alle sue conclusioni. Giova, passando sopra a quelle che sono forse le parti essenziali, guardare di scorcio ad un aspetto solo del vasto problema considerato. Il libro di Mosca è un trattato delle forze per le quali sorgono, si rafforzano e decadono gli stati ed i governi. In questo mondo politico, dominato dai concetti di una «classe politica» la quale governa imponendosi alle moltitudini con una «formula politica», qual è il posto della forma di governo parlamentare? Questo è il modo giornalistico di porre un problema generale. Ponendolo così, noi ne restringiamo sicuramente la portata, ma lo si rende vivo. La singolarità della posizione di Mosca è la seguente: che, dopo aver cominciato nel 1882 a scrivere un libro, dalla cui lettura si esce critici convinti del parlamentarismo e persuasi che fa d’uopo cercare altri metodi più perfetti di governo, egli, nella conclusione del suo nuovo libro – ché questa edizione è un vero nuovo libro – scrive la più valida difesa, che si possa fare, del governo rappresentativo. Non è già che le idee fondamentali siano mutate; resta ferma la negazione della ideologia di Rousseau del governo fondato sull’espresso consenso dei consociati. Ma quarant’anni di osservazioni e di esperienza sui difetti della natura umana hanno persuaso l’autore che la perfezione non è raggiungibile in materia politica e che il governo rappresentativo offre forse la combinazione praticamente migliore del sistema dei contrappesi e dei compromessi, per cui il potere supremo non è libero di agire a sua posta, ma esistono parecchi poteri ognuno dei quali controlla e limita gli altri e tanto meglio li controlla e li limita, quanto più i diversi poteri rappresentano frazioni differenti e contrastanti della classe politica.

Gli altri tipi di governo: governo assoluto, dittatura del proletariato, repubblica social democratica, governo sindacale delle classi organizzate, sarebbero un regresso di fronte al tipo di governo rappresentativo, perché trarrebbero la propria classe politica da una sola sorgente, distruggendone ben presto ogni vitalità spontanea. La distrugge il governo assoluto, perché il favore del principe o del capo è il solo modo di arrivare a far parte della classe politica, la quale finisce perciò di essere composta solo di cortigiani. La distrugge la dittatura del proletariato, ove il potere cade in mano dei furbi che sanno condurre le plebi e sanno vivere dei proventi del lavoro di queste. Il che altresì accadrebbe qualora un regime di socialismo temperato assorbisse le iniziative più redditizie, le trasformasse in imprese di stato e rendesse la carriera di ognuno dipendente dal favore dei reggitori delle amministrazioni economiche statali. Parimenti, in un regime di rappresentanze politiche tratte dalle classi professionali, il modello del dirigente politico diventa l’organizzatore, stipendiato della propria organizzazione. In ognuno dei sistemi politici che si possono contrapporre a quello rappresentativo, il vizio fondamentale sta nel creare una classe politica uniforme, burocratica, asservita allo stato, che essa è chiamata a reggere e ad amministrare. Lo stato che recluta i suoi governanti tra i suoi servitori; che fa dipendere la carriera e la fortuna dei governanti dalle ricchezze che essi possono trarre dallo stato medesimo: ecco un tipo di stato decadente, votato all’immiserimento ed alla barbarie. Lo stato rappresentativo è invece fondato sull’esistenza di forze indipendenti e distinte dallo stato medesimo: resti di aristocrazia terriera, classi medie che traggono la loro propria vita dall’esercizio di industrie, di commerci e di professioni liberali, rappresentanti di operai organizzati di industrie non viventi di mendicità statale. Se queste condizioni sono soddisfatte, noi abbiamo un governo veramente libero; in cui i funzionari non sono l’unica classe politica esistente, ma una delle tante forze, dal cui contrasto e dalla cui cooperazione sorge la possibilità di un’azione veramente utile al tutto.

Mosca chiama «fortissimo» questo regime, perché ha potuto incanalare verso fini d’interesse collettivo una somma immensa di energie individuali e nello stesso tempo non le ha schiacciate e soppresse; e ha perciò lasciato ad esse una vitalità sufficiente per conseguire altri grandi risultati, sopra tutto nel campo scientifico e letterario e in quello economico.

E Mosca giunge perciò ad affermare che se durante l’epoca che ora accenna a tramontare i popoli di civiltà europea hanno potuto mantenere il loro primato nel mondo ciò si deve in massima parte ai benefici effetti del loro regime politico.

Certamente anche il regime rappresentativo è suscettibile di miglioramenti, sovratutto indiretti. Il Mosca ne addita due, relativi alla disciplina della libertà di stampa e di associazione. Rispetto a cui oggi si oscilla tra l’estremo di una sfrenata licenza in tempi di governi deboli e di compressione arbitraria in tempi di governi forti. Occorrerebbe che la legge definisse esattamente quali sono i reati di stampa e perseguire i veri responsabili dei reati, ossia gli scrittori; e farebbe d’uopo parimenti che la legge dichiarasse con precisione quali sono i limiti entro i quali è consentito ai cittadini associarsi ed al di là dei quali comincia il diritto dello stato a difendersi contro le organizzazioni attentatrici alla sua sovranità. L’onnipotenza assoluta della stampa e delle associazioni è altrettanto dannosa alla collettività come l’onnipotenza dello stato. Se si guarda in fondo, si vede dunque che l’essenza dei regimi rappresentativi non sta nella formula della sovranità popolare, sta nella creazione di una classe politica variegata, colta, economicamente indipendente, la quale diriga il paese attraverso organi di governo sufficientemente unificati per potere agire, ma non abbastanza sciolti da vincoli da diventare onnipotenti e tirannici. L’errore forse più grave della generazione che oggi volge al tramonto è di avere negletta la formazione di una cosiffatta classe politica, i cui componenti amino, come si esprime il Mosca, tutto ciò che è od appare nobile e bello e consacrino una buona parte della loro attività ad elevare od a salvare dalla decadenza la società nella quale vivono. Costituiscono essi quella piccola aristocrazia morale ed intellettuale che impedisce all’umanità di imputridire nel fango degli egoismi e degli appetiti materiali, ed a questa aristocrazia principalmente si deve se molte nazioni sono uscite dalla barbarie e non vi sono mai del tutto ricadute.

La unificazione d’Italia si deve ad una aristocrazia di questo genere formatasi nei travagli silenziosi di pensiero e di opere volti dal 1821 al 1848. L’aristocrazia di giovani appartenenti alle classi medie, la quale diede durante la grande guerra prova di tanta virtù militare, trasformando rozzi contadini in soldati difensori dell’Italia, deve oggi dar prova di altrettanta virtù civile e, coll’educazione politica e col freno imposto ai proprii generosi impulsi, deve dare all’Italia quella classe politica colta, indipendente e capace di cui il nostro paese ha massimamente bisogno.

Signor De Stefani’s speech – An Italian Geddes Committee -The Deficit for 1923-24 – New Debts after 1914 -Treasury Control – Economic Improvement

Signor De Stefani’s speech – An Italian Geddes Committee -The Deficit for 1923-24 – New Debts after 1914 -Treasury Control – Economic Improvement

«The Economist», 26 maggio 1923, pp. 1194-1195

 

 

Zuccheri

Zuccheri

«Corriere della Sera», 5 maggio 1923

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 224-227

 

Wholesale Prices – Cost of Living – Stabilisation of the Lira -Abolition of Obstructive Taxes and a new Tax on Turnover -Hotel and Restaurant Taxes

Wholesale Prices – Cost of Living – Stabilisation of the Lira -Abolition of Obstructive Taxes and a new Tax on Turnover -Hotel and Restaurant Taxes

«The Economist», 14 aprile 1923, p. 789

 

 

Pieni poteri

Pieni poteri

«Corriere della Sera», 1 dicembre 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 973-976

 

Il contributo del primo che passa

«Corriere della Sera», 15 novembre 1922

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 46-49

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, 953-955

Importa spiegare precisamente in che cosa consista l’obbiezione ai pieni poteri in materia di imposte. Non è una difesa delle prerogative della camera né di quelle del senato. Poca cosa, per se stesse, queste prerogative in tempi calamitosi e dinanzi alle esigenze urgenti dell’erario. L’educazione politica è oramai abbastanza progredita nel nostro paese, per comprendere che il parlamento non trae la sua vera ragion d’essere dalla sovranità popolare, dal suffragio universale e simiglianti formule. Non perché composto di eletti del popolo, un parlamento ha diritto di vivere accanto ad un governo. È oramai pacifico, nella scienza e nella pratica, che tutti i parlamenti e tutti i governi sono l’emanazione di minoranze organizzate, secondo la formula di Gaetano Mosca o di élites secondo quella di Vilfredo Pareto. E Giusti aveva già detto nei suoi versi immortali che i meno tirano i più. La vera ragion d’essere dei parlamenti sta nella discussione, non segreta ma pubblica. Ed ancor più a fondo, il valore dei parlamenti sta nella possibilità che, in una pubblica discussione, vengano a galla gli argomenti pro e contro ad una tesi del primo che passa, dell’uomo ignoto, di colui che non conta nulla nella vita pubblica, che non è né consigliere comunale, né deputato, né senatore, né ministro, che non è nulla; che forse non sa nulla fuor di una certa cosa. Una cosa sola. La cosa che egli ha vissuto, che ha sentito, per cui ha sofferto, ha perso, ha guadagnato.

Come siamo ignoranti noi tutti, noi che scriviamo, che legiferiamo, che amministriamo in confronto del primo che passa! Perché la legislazione di guerra, frutto di pieni poteri, elaborata in segreto da uomini, talvolta competenti, quasi sempre versati in un pubblico ufficio, non di rado studiosi maestri di quella particolare disciplina, fu, in media, tanto inferiore alla legislazione dell’ante guerra, elaborata nella piena luce delle discussioni parlamentari? Non già perché deputati e senatori fossero più dotti o più pratici dei ministri, dei funzionari, degli esperti. Probabilmente, anzi certamente, deputati e senatori erano meno capaci, meno competenti, più ignoranti. Ma dietro a loro stava l’uomo che passa, l’uomo ordinario, colui che sa una cosa sola. Costui non può opporsi ad un decreto legge, perché non ne sa nulla. Un consesso di dotti e di esperti elaborò il decreto legge sull’imposta patrimoniale. Cero anch’io e mi batto il petto per i delitti commessi. Massimo fra tutti l’art. 56 che sanciva il privilegio dello stato per tutti i beni mobili ed immobili del contribuente. Nessuno vi fece attenzione, perché era ficcato nelle norme procedurali e passò liscio come una semplice ripetizione di una norma consuetudinaria. L’uomo che passa l’avrebbe fermato subito; perché egli si chiamava, in quel caso, notaio, pronto ad accorgersi dell’enormità del vincolo posto ai trapassi, amministratore di credito fondiario, costretto a mettersi le mani nei capelli per l’offesa recata al credito pubblico. Altra volta il “primo che passa” si chiama agricoltore, commerciante, agente di cambio, magistrato, avvocato, ragioniere, scrivano, commesso di negozio, impiegato di banca, agente delle imposte. Ognuno di costoro ha visto bene una cosa; e quando viene alla luce un disegno di legge ne rileva gli errori, le imperfezioni, le lacune. Il parlamento vale qualcosa solo perché è l’eco della gente che non si sa come si chiami, che non conta nulla; ma fa arrivare la sua voce ammonitrice nel breve o lungo intervallo che passa fra il momento in cui un disegno di legge viene depositato sul banco della presidenza della camera o del senato e quello in cui diventa legge.

La vera garanzia della vita e della libertà e degli averi dei cittadini sta in quell’intervallo di pubblicità. Qui è la principale virtù dei parlamenti; e questa virtù non possiamo ucciderla. Sia pure breve quell’attimo di pubblicità; sia congegnato come si vuole il metodo per dar la parola al “primo che passa”; ma quell’attimo, quel metodo devono esistere. Un governo forte ama la luce ed il dibattito. Può avere in non cale la voce dei parlamentari; non può ignorare la voce di colui che aveva una osservazione giusta da fare. Certo, la vociferazione dei parlamenti, le ondate di carta stampata dei giornali sono ossessionanti; certo quasi tutto quel che si dice e si scrive non vale il tempo e la carta all’uopo consumati. Ma sinora l’unico metodo riuscito per scernere il frumento dal loglio è stato il dar libertà a tutti di parlare e di scrivere. Il rischio di un governo che, per fare, chiede il segreto e l’assoluzione dai pubblici dibattiti è un rischio troppo forte. Altri ha detto che, se si lascia tempo al pubblico di sapere e discutere ciò che si vuol fare, non si può più far niente, perché gli interessi contrari all’opera buona si coalizzano, congiurano, sommuovono e creano ostacoli insormontabili. È vero il contrario. Il vero ostacolo all’opera feconda sta nel segreto. Sotto la sua egida, i soli che riescono a farsi sentire sono gli interessi dei potenti della terra, degli uomini astuti, delle clientele fortemente costituite. Queste penetrano dappertutto e sanno tutto. Il governo del tempo aveva preteso di circondare di un segreto impenetrabile l’imminente decreto sull’imposta patrimoniale dell’autunno del 1919. Prima che uscisse, viaggiando in treno, mi avvidi che una copia esattissima era arrivata in mano dei potenti che avevano interesse a farlo naufragare. Come infatti accadde.

Il segreto nuoce solo a chi non ha legami, nuoce all’uomo che bada ai fatti suoi e che non saprebbe neppure dove cominciare per informarsi dei pericoli che lo minacciano. Perciò non per amore del parlamento, ma per la tutela della gente ordinaria, lavoratrice, dei produttori che creano la ricchezza del paese, di coloro che non intrigano, ma vogliono solo essere lasciati vivere, fa d’uopo che un attimo di pubblica discussione sia garantito. Un governo forte, un governo che sa volere, che vuole salvare il paese, deve, prima di agire nel campo tributario, inchinarsi a chi non è nulla, ascoltare la sua voce. Poscia, la via dell’azione gli e aperta; e gli sarà piana a percorrere.

Per lo stato

Per lo stato

«Corriere della Sera», 4 novembre 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 926-932

 

Parole e fatti

Parole e fatti

«Corriere della Sera», 27 settembre 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 863-866

 

Zucchero

Zucchero

«Corriere della Sera», 26 agosto 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 787-790

 

Lo sperpero delle sovvenzioni

Lo sperpero delle sovvenzioni

«Corriere della Sera», 4 luglio 1922

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 428-433

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1923-1924), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 730-735

 

 

 

 

Sono da meditare le seguenti cifre sull’ammontare delle sovvenzioni destinate a società di navigazione italiane per l’esercizio dei servizi marittimi postali e commerciali, tenendo conto, per l’esercizio 1922-23, della nota di variazione 1011 bis presentata alla camera dall’on. Peano il 16 marzo scorso:

 

 

1862

milioni

8

1877

»

9

1893

»

12

1910

»

13

1914

»

20

1922

Italianeex austo-ungariche

140

100

240

»

240

1923

Italianeex austo-ungariche

160

140

300

»

300

 

 

Per l’ultima cifra non è esatto parlare di sovvenzioni. Dopo lo scoppio della guerra, nessuna delle compagnie sovvenzionate volle continuare i servizi a proprio rischio, riscuotendo le sovvenzioni fissate per legge. Avrebbero perso somme enormi; né si poteva pretendere che esse andassero in pochi mesi dritte dritte al fallimento. Ma la soluzione a cui ci si attenne fu questa: che le compagnie seguitassero ad esercitare le linee ex-sovvenzionate e lo stato pagasse la differenza fra entrate e spese. C’è qualche variante tra compagnia e compagnia; c’è qualche cointeressenza negli incassi lordi; ma nelle grandi linee la situazione terrificante è quella ora detta. Ci sono delle compagnie le quali fanno correre i mari vicini e lontani da navi velocissime come l’Esperia, che tutti ci invidiano, dice l’on. De Vito, o da vecchie carcasse settantenni, le quali consumano tanto carbone da oscurare i cieli col fumo e ballano una tarantella da far venire il mal di mare anche ai veterani più agguerriti delle traversate transatlantiche. Le compagnie spendono, ed il tesoro italiano paga le note a piè di lista. Riscuote altresì gli incassi; ma la differenza fra la spesa e l’incassato è spaventevole. Che cosa si sia perso durante la guerra, non è mai stato detto. Si parla di miliardi; ed il fatto che si sono persi ancora 240 milioni nel 1921-22, quando il carbone era tanto ribassato, e si preventivano 30 milioni nel 1922-23 dà una vaga idea di quanto si deve essere perso prima.

 

 

Urge perciò uscire da una situazione così pericolosa, per cui i privati spendono e lo stato paga. In confronto di questo sistema, qualunque tipo di sovvenzione è un beneficio. Almeno si sa di che morte si muore.

 

 

Ciò non vuol dire che si debba spendere in sovvenzioni qualunque somma venga in mente ai dilettanti di navalismo di chiedere. Prima della guerra si combatterono epiche battaglie pro e contro i 12 ed i 20 milioni. Parevano allora, ed erano, somme enormi, in parte non piccola ingiustificate. Adesso siamo saliti non a cinque volte tanto, ma a quindici volte tanto; sebbene la nostra lira non sia ancora tanto deprezzata da giustificare siffatti voli pindarici. E si è stabilito una specie di sacrosanto diritto alla sovvenzione, diritto pel quale si battono non soltanto i capitalisti interessati, ma anche intere città e intere regioni. Il caso dell’agitazione che si sta svolgendo a Trieste per il ripristino di una linea soppressa con l’Egitto è tipico e significativo. Non tocca a noi discutere la questione di merito, tanto più che gli elementi di fatto non appaiono neanche molto chiari. In realtà non pare si tratti di una linea soppressa, ma semplicemente della riduzione del numero dei viaggi; né è chiaro se la riduzione sia definitiva o temporanea, e neppure si capisce come il governo abbia potuto, secondo quanto si annuncia, ordinare il disarmo di un piroscafo addetto alla linea, quando, tutt’al più, trattandosi di un piroscafo di proprietà privata, il governo poteva annunciare che toglieva la sovvenzione. Ma comunque sia di ciò, quel che non si può ammettere è che questioni di tal genere diventino oggetto di agitazioni violente e di campagne di piazza; e tanto meno si capisce tutto ciò se, come dice un ordine del giorno del partito fascista, «la linea è tutt’altro che passiva per lo stato e per la società». Che la linea possa essere tutt’altro che passiva per lo stato, il quale, secondo ogni rassomiglianza, non fa che pagare una sovvenzione, non pare probabile. Ma se la società ci guadagna, perché non continua ad esercitare la linea per conto suo anche senza la sovvenzione dello stato? Ed è concepibile che tutta una regione si agiti per ottenere un sussidio a una ditta in un esercizio già per se stesso attivo? E come si può pensare di salvare l’autorità e la compagine dello stato, il che significa salvare anche l’erario, in base a imposizioni e intimidazioni di questo genere?

 

 

Che qualcosa lo stato debba spendere in sovvenzioni tutti riconoscono. Il dissidio nasce sugli scopi e sulla misura. Vi è un primo gruppo di servizi sovvenzionati, di cui un paese come l’Italia non può far senza; e sono i servizi postali con le isole e con le colonie. Lo stato, come tale, ossia come organo politico, militare, di cultura deve avere un mezzo di comunicare con la Sicilia, con la Sardegna, con l’Elba, con Zara, con la Tripolitania, la Cirenaica, l’Eritrea, la Somalia ed il Benadir, con Rodi. Lo stato deve assicurare le comunicazioni postali ai cittadini ed ai coloni che il mare separa dalla penisola. Su questo punto non si discute; anche perché, contenuta nei limiti del necessario, la spesa è modesta.

 

 

Vi è un secondo gruppo di sovvenzioni le quali sono spiegate colla ragione del prestigio nazionale: come si fa a non perdere, osserva il ministro della marina, un milione di lire per viaggio per avere il piacere e l’onore di far sventolare la bandiera italiana sulla più bella nave che solchi i mari tra l’Italia e l’Egitto? Come si fa a non dimostrare coi fatti agli abitanti delle coste del Levante e del Mar Nero che nel mondo ci siamo anche noi ed abbiamo delle belle o brutte navi da far navigare?

 

 

C’è un terzo gruppo di sovvenzioni che diconsi commerciali: le une a lunga portata, come sarebbe il promuovimento dei traffici diretti con l’India, la Cina, il Giappone, la Scandinavia, il Centro ed il Sud America, ecc. ecc.; le altre a tiro di fucile dalla costa, e sono le linee di cabotaggio fra porto e porto, fra rada e rada, lungo tutte le numerose cittadine che si specchiano nel Tirreno e nell’Adriatico.

 

 

Queste due ultime sorta di linee, quelle politiche e quelle commerciali, sono grandi ingoiatrici di sovvenzioni. Le linee postali, propriamente dette, sono in confronto delle povere untorelle. Né si può dire che anche le altre servano alla posta, poiché lettere e pacchi possono essere spedite in molte maniere, senza ricorrere al costoso espediente dei servizi sovvenzionati. Quando non si tratti delle isole e delle colonie, non v’è alcuna giustificazione “postale” alla spesa per sovvenzioni.

 

 

Le giustificazioni politiche e commerciali sono grandemente calanti di peso. Il prestigio politico male si difende con lo spreco pazzesco che si fa con i vapori velocissimi. Trasportare a sottocosto degli inglesi sull’Esperia è leggermente ironico; ed è cosa da provocare nei beneficati commenti poco benevoli verso l’Italia, quando si sappia che l’esercizio è condotto in condizioni di assoluta antieconomicità. Poiché, del resto, le navi sovvenzionate non brillano di solito per venustà, rapidità e attitudine a navigare, esse ci fanno poco onore e poco conferiscono al prestigio dell’Italia. Nell’India, dice sempre il lodato ministro della marina, viviamo di ricordi gloriosi; che non è una gran bella maniera di vivere.

 

 

Val la pena del resto di vivere di milioni buttati nel mare nel tempo presente? I veri, i grandi marinai rispondono di no. Ballin, senza dubbio il maggior navigatore della Germania antebellica, respingeva con disprezzo i sussidi governativi, come addormentatori e dannosi alla compagnia Amburgo-America da lui fatta giganteggiare. Così fanno oggi i capi delle grandi compagnie inglesi di navigazione; e così dicono parecchi tra i migliori uomini che onorino l’Italia marinara.

 

 

Le sovvenzioni costano molto allo stato e rendono pochissimo agli armatori. La nave da carico guadagna quando è libera di correre dove il traffico la attira, quando può fermarsi dove c’è merce da caricare ed abbandonare i luoghi dove non c’è nulla da fare; quando può combinare i viaggi più redditizi e variare le combinazioni per correre dietro alle variabili correnti delle merci e dei passeggeri. Così arricchiscono gli armatori; così si promuovono i traffici, così si porta onorata la bandiera della patria sui mari lontani.

 

 

Ma la marina sovvenzionata è la negazione di tutto ciò che è elasticità, progresso, vittoria. Essa è legata da quaderni d’oneri minutissimi che, in contraccambio della sovvenzione, la vincolano a viaggi fissi, a noli determinati, ad organici di personale esuberanti. Le navi sovvenzionate sono quelle che straccamente, regolarmente, approdano in porti dove non c’è nulla da caricare, solo per far le pratiche regolamentari con i capitani di porto; sono quelle che si fermano, fischiando, dinanzi a minuscole cittadine, per assistere all’andirivieni delle barche destinate a ritirare e consegnare un sacco vuoto di posta; sono quelle che non potendo rialzare i noli quando c’è traffico, fanno in quei momenti una concorrenza deleteria alle navi libere della bandiera nazionale, e, non potendoli ribassare quando il traffico langue, si vedono allora disertate dalle merci a favore forse della bandiera estera libera. Le navi sovvenzionate sono quelle che scoraggiano il sorgere della marina mercantile libera; poiché l’armatore teme, e giustamente teme, la concorrenza che l’armatore sovvenzionato può fargli attingendo al pozzo di San Patrizio del denaro pubblico. Le navi sovvenzionate sono quelle che essendo sicure di toccare la sovvenzione al 27 del mese, si abituano a condurre la vita dell’impiegato, emarginando pratiche su per i mari. Epperciò, le compagnie sovvenzionate italiane mettevano a far la vita dell’impiegato le loro carcasse più venerande; ma inviavano le navi moderne e veloci sulle linee libere del Plata. E qui guadagnavano, mentre là vivacchiavano a spese pubbliche; malamente, come è uso di tutti coloro che vivono a carico del bilancio statale. Eppure le linee sovvenzionate crescono ognora di numero: l’orgoglio municipale, la soddisfazione di avere un approdo nella propria rada, la rivalità malintesa fra Genova, Napoli, Palermo, Venezia, a cui ora si aggiunge Trieste, l’interesse elettorale dei deputati marittimi hanno contribuito ad accreditare la leggenda dei fini politici e commerciali che le sovvenzioni dovrebbero proporsi. È la vecchia sfatata teoria che il traffico segue la bandiera, sicché basti mandare in giro una bandiera perché il traffico la segua.

 

 

Mentre è vera l’opposta tesi che la bandiera segue il traffico; e massimamente nel momento presente non si promuove il traffico rovinando il bilancio pubblico e dissestando lo stato. Prima il pareggio e quindi la moneta sana e stabile. Poi i traffici verranno e il prestigio economico dell’Italia crescerà per il valore dei suoi commercianti, come crebbe il prestigio politico per il valore dei suoi soldati.

Contro la servitù della gleba

Contro la servitù della gleba

«Corriere della Sera», 7 giugno 1922

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 491-495

 

 

 

 

Il carattere spettacoloso delle adunate fasciste in Bologna ha attirato sinora l’attenzione del pubblico quasi soltanto sul lato politico del problema. I fascisti chiedevano l’allontanamento del prefetto; e giustamente il governo rispose di non potere neppure porsi il problema, se prima non cessavano le adunate fasciste. Ora che il terreno è sgombro dall’elemento politico perturbatore, è possibile guardare il problema nella sua sostanza e chiedersi: quale è il motivo che ha messo i fascisti emiliani contro il prefetto di Bologna?

 

 

Dalle notizie dei giornali, dalle lettere dei corrispondenti inviati sul luogo esce fuori un punto essenziale: qui noi ci troviamo di fronte non ad un fenomeno particolare al contado bolognese; ma ad uno dei tanti esempi di un fenomeno che ha nome qua «porto di Genova», là «diritto al mestiere», nel medio evo «servitù della gleba», nella Russia zarista «vincolo del contadino al comune», nella Russia bolscevica «esercito del lavoro», ecc. ecc. Passando sopra alle particolarità locali e storiche, le quali non hanno una importanza decisiva, si potrebbe descrivere così il processo che ha condotto al decreto Mori:

 

 

Si richiede la libertà di lavoro; di associazione e di sciopero. È il movimento iniziato contro il codice penale passato, il quale considerava reato gli scioperi e le coalizioni di operai le quali non fossero state giustificate da una “ragionevole” causa. Col codice vecchio il diritto dell’operaio e del contadino di muoversi da un posto ad un altro, di abbandonare il lavoro, di concertarsi con gli altri operai per vincere nella lotta per più alti salari, dipendeva così dall’arbitrio del giudice, il quale poteva ritenere giusta ovvero ingiusta la causa che mosse l’operaio a concertarsi od a scioperare.

 

 

Quella era una buona battaglia, vinta in nome della libertà; ed era una battaglia la quale meritava di essere vinta. Chi non ha il diritto di abbandonare il lavoro, dopo il preavviso legale e salvo libere pattuizioni contrarie, non può dire di essere uomo libero. Egli è quasi uno schiavo.

 

 

Purtroppo gli uomini invocano la libertà fino a quando essa è ad essi utile; ma subito la calpestano, appena diventa fastidiosa. Il secondo atto del processo si chiama monopolio delle organizzazioni. Come la chiesa, e non solo quella cattolica, invoca la libertà della scuola sino a che essa non è la più forte; ma impone la scuola confessionale appena si sente potente e sicura di mantenere il potere, così le organizzazioni contadine, le quali avevano vinto fino al 1900 memorabili battaglie per affermare il diritto alla libertà di lavoro, di sciopero e di coalizione, ben presto tendono al monopolio. Tutti i contadini debbono entrare nelle organizzazioni; non vi debbono essere dissidenti. Ad uno ad uno nell’Emilia si costringono i mezzadri, i piccoli proprietari, gli affittuari lavoratori diretti a chinare il capo. Qua e là durano resistenze; ma la tendenza è chiara: tutti i lavoratori, a qualunque specie appartengano, debbono entrare a far parte di una sola grande organizzazione, la quale colle sue leghe di resistenza, colle sue cooperative di consumo, di lavoro, di produzione deve stringere in un solo fascio tutte le forze lavoratrici, per portarle a poco a poco alla conquista degli strumenti di produzione ed alla gestione diretta dell’impresa agricola.

 

 

Quando tutti diventano organizzati, il problema si complica. In modo assoluto sempre, e con maggiore intensità in taluni momenti, la popolazione lavoratrice in parecchie plaghe dell’Emilia è sovrabbondante. Non tutta è occupabile agli elevati salari a cui le organizzazioni si sono spinte. In regime di libertà – di lavoro, di sciopero, di organizzazione, di serrata – il problema si sarebbe risoluto con la eliminazione di una parte dei lavoratori, i quali sarebbero emigrati verso altri mestieri o in altre regioni od all’estero. In regime di monopolio, la valvola dell’emigrazione non funziona. Perché deve emigrare uno piuttostoché l’altro dei coalizzati? Non funziona neppure la valvola della disoccupazione dei lavoratori meno produttivi, meno volonterosi, meno capaci. Perché deve essere disoccupato piuttosto un lavoratore che l’altro? Ecco instaurato il sistema del porto di Genova: anche nell’agro emiliano nasce il turno di lavoro che vuol dire disoccupazione distribuita su tutti. Invece di esservi 1 disoccupato su 3, tutti e tre i lavoratori lavorino solo 4 giorni su 6. Ma in tal modo il costo del lavoro cresce; perché i contadini finiscono per abituarsi all’idea di dover guadagnare in quattro giorni la somma necessaria per vivere tutta la settimana. Il che inevitabilmente reagisce sulla domanda di lavoro. L’affittuario, dovendo pagare troppo cara la mano d’opera, cerca di sostituirla con macchine, rinuncia a lavori meno necessari, trasforma le culture in modo da diminuire il quantitativo di giornate di lavoro necessarie per coltivare un dato fondo. Crescendo così la disoccupazione, le leghe controbattono imponendo agli affittuari agricoli l’assunzione di un numero minimo di contadini per unità di superficie. Il conduttore del fondo non può assoldare meno di tanti uomini per ogni ettaro. Le organizzazioni monopolistiche dicono di volere con tal metodo collaborare alla produzione, costringendo i conduttori troppo avari a curare attentamente la coltivazione intensiva della terra. In realtà, noi qui siamo arrivati all’estrema applicazione della teoria monopolistica tutti i lavoratori viventi in un dato territorio hanno il diritto di essere occupati in quel territorio – a turno – a salari determinati dalla organizzazione – con obbligo per i conduttori di impiegare un carico minimo di lavoratori per unità di superficie.

 

 

Siamo arrivati all’estremo; perché nessuna impresa resiste a tale pressione verso gli alti costi, se non in circostanze eccezionali. Solo gli alti prezzi della guerra e del post-guerra consentirono alle imprese agricole di sopportare i costi inerenti in questo ferreo meccanismo. Adesso che i prezzi non sono più quelli massimi, che per taluni prodotti, come la canapa, si è discesi da 1.000 lire per quintale a circa 200 ed il prodotto di due annate giace invenduto, il monopolio si spezza.

 

 

Si spezza anche perché una organizzazione così generale, estesa a tutti, a uomini aventi attitudini e non di rado interessi divergenti, non può durare che per mezzo di una costrizione tirannica. Solo il regime del terrore, della intimidazione, può costringere i datori di lavoro a spendere 10 quando basterebbe spendere 5, ad occupare 10 lavoratori laddove basterebbe occuparne 5. Solo la paura di apparire transfuga può indurre tutti i lavoratori a marciare a passo di parata, ad essere occupati quando e dove piace al capoccia della lega; solo il timore di essere boicottato può indurre l’uomo a convertirsi in un numero di una serie, laddove con l’abilità e la capacità proprie egli sarebbe in grado di ascendere nella scala sociale.

 

 

Tutto questo ribollimento di impazienze contro il monopolio di una organizzazione unica, ha preso nell’Emilia il nome di fascismo. Nel Ravennate è antica la lotta tra repubblicani e socialisti, ed ha economicamente una natura non differente. Sotto l’egida fascista, rotto l’incanto del terrore rosso, sorgono organizzazioni concorrenti, i sindacati nazionali, contro le vecchie organizzazioni rosse. Anch’esse reclamano il diritto al lavoro; anch’esse vogliono che i propri soci siano assunti da enti pubblici e da privati a parità di condizioni con i soci delle leghe rosse. Esse reclamano il diritto di far muovere i propri organizzati dalle piaghe dove la richiesta di mano d’opera è minore a quelle in cui è più intensa.

 

 

L’organizzazione rossa, la quale vede minacciato il proprio monopolio di fatto, perché essa non è più sola a raccogliere sotto le proprie bandiere i lavoratori, fa l’ultimo tentativo e strappa al governo ed al prefetto un decreto con cui si vieta ai lavoratori di spostarsi da certe zone a certe altre zone agrarie.

 

 

Il significato del decreto è chiarissimo: esso tende a trasformare l’antico ed oramai distrutto monopolio di fatto in un monopolio di diritto. Solo le leghe e le cooperative esistenti in certi luoghi avranno diritto di distribuir lavoro ai propri soci. Se quelle leghe sono le vecchie leghe rosse, solo esse potranno dar lavoro. I reprobi venuti dal di fuori, appartenenti alla organizzazione concorrente, siano sottoposti all’interdetto dall’acqua e dal fuoco.

 

 

Il decreto, riflettasi bene, instaura in Italia il sistema della servitù della gleba, di cui nella storia si parla come del sistema il quale nel medio evo costringeva gli uomini a vivere sulla terra dove erano nati e loro proibiva di recarsi altrove a migliorare la loro sorte. Forse il prefetto di Bologna ha pensato di compiere uno di quegli atti che i giornali qualificano di «audacemente rivoluzionario», pensando che Lenin aveva decretato lo stesso principio per obbligare gli operai posti dalla fame in fuga da Pietrogrado e da Mosca, a restare ivi a lavorare nei suoi stabilimenti; ma sta di fatto che questa si chiama in linguaggio proprio servitù della gleba e non altrimenti. L’incredibile è che un prefetto, con un suo decreto, abbia abolito la libertà del lavoro, la quale implica libertà di movimento del lavoratore. Se si vuole che la servitù della gleba sia nuovamente ristabilita, nell’anno di grazia 1922 ed in quell’Italia la quale per la prima aveva iniziato nell’epoca dei comuni la lotta per la sua abolizione, sia. Ma sia instaurata non per decreto di prefetto, ma per voto del parlamento.

Banca di Sconto – State Railway Material – Circulation – Clearings – Bank of Italy – Security and Commodity Prices

Banca di Sconto – State Railway Material – Circulation – Clearings – Bank of Italy – Security and Commodity Prices

«The Economist», 13 maggio 1922, pp. 905-906

 

 

 

 

Turin, April 30

 

 

The affairs of the Banca Italiana di Sconto are nearing the end. A decree of the Rome Civil Tribunal has given consent to a plan, which gives creditors 58 and 65 per cent, of their credits at various stated dates before December 31, 1923. On the ashes of the “Sconto” will arise a new Banca Nazionale di Credito, which will be, however, primarily a concern charged with the winding-up of the parent.

 

 

The Government has laid on the table of the Chamber a Bill authorising State railways to order 1,750 millions lire worth of railway materials in the next five years. No objection can be raised against the principle of pre­paring a plan of railway reconstruction. But rumour is current that the 1,750 millions lire order will be exclusively given to the Ilva concern, where work is scarce and there are fears of increasing unemployment. It is also stated that the Government will renounce several hundred millions of excess profits tax due from “Ansaldo”, for the same purpose of preventing the closing up of their shops. The peril is that, if these rumours prove true, there will be a scramble on the part of manufacturers and traders to obtain similar favours.

 

 

The most important event of the month, from the point of view of eco­nomic students, has been the issue of the annual report of Signor Stringher to the shareholders of the Banca d’ltalia. He gives the following figures of circulation of the three banks of issue and of the State. (See table at p. 245).

 

 

The figures testify to a laudable effort to keep constant the amount of total issues. The increase at December 31, 1921, was obviously due to fears of panic consequent on the closing up of Banca Italiana di Sconto, but as nothing happened notes have come back to the issuing banks. With the

 

 

 

(In Millions of Lire)

 

 

Banking Issues

 

 

 

 

Commercial

For State Account

Total

State Notes

Total

December  31, 1918

4,584 7

7,165-6

11,750-3

2,124-1

13,874-4

    »            »    1919

5,651-6

10,629-7

16,281-3

2,271-3

18,552-6

June          30, 1920

7,483-9

10,333-1

17,817 0

2,270-3

20,087-3

December 31,   »

8,988-9

10,742-

19,731-7

2,269-3

22,001-0

June          30, 1921

9,436-6

8,722-2

18,158-9

2,268-4

20,427-3

December  31,   »

10,704-1

8,504-8

19,208-9

2,268-3

21,477-2

February    20, 1922

9,507-9

8,643-7

18,156-6

2,268-3

20,419-9

 

 

progressive liquidation of State wheat, coffee, meat, and other enterprises the issues for account of the State are diminishing, with a corresponding increase in the commercial circulation. Clearings have continued to increase in 1921 as against preceding years:

(In Millions of Lire)

 

 

Sums Cleared

 

1913

53,711-3

1916

59,307-2

1917

159,695-2

1918

182,193-4

1919

259,319-9

1920

519,916-6

1921

649,481-8

 

 

The statistics relate to the Clearing Houses of Genoa, Milan, Rome, and Florence. For 1921 the figures for Trieste are added. However, the total Trieste figure is only 9,861.8 millions.

 

 

The operations of the Bank of Italy are also increasing, as will be seen below:

 

 

(In Millions of Lire)

 

 

Bill Discounted

Advances on Securites

1913

429-1

92-8

1916

466-6

245-3

1917

600-4

399-0

1918

768-3

626-0

1919

862-5

782-0

1920

2,423-6

2,079-4

1921

3,189-3

2,401-1

 

 

As paper inflation has not increased since June 30, 1920, the extraordinary increases of discounts and advances in the last two years are startling. No increase in the effective activities of the banks can justify the sudden jump. The process is evidently not one of healthy growth, but of a transference to the shoulders of the Bank of Italy of the task of financing industrial concerns. Banks of issue, instead of being bankers’ bankers, are transformed into ordinary bankers, in direct touch with traders and manufacturers. This position, although it cannot be called perilous, claims the closest attention.

 

 

In the meantime, profits of the issue banks are increasing. With a paid capital of 180 millions lire and a reserve of 60 millions, the gross profits of the Bank of Italy reached in 1921 the huge sum of 500.4 millions lire, against 394.9 in 1920. Of this sum 15 millions were paid in “ordinary” taxes, 55 millions to funds for risks and amortisations, and 106.2 millions to various administrative and other expenses. The distribution of the net profits in recent years is explained in the following table:

 

 

(In Millions of Lire)

 

 

 

Year

Shareholders

 

State

 

Dividend

 

To Reserve

 

Total

State Part of the    Net Profits

Tax on Issue of       Notes

 

Total

1913

14.4

14.4

4.8

1.4

6.2

1916

14.4

10.6

25.0

15.7

2.5

18.2

1917

14.4

15.9

30.3

21.0

16.2

37.2

1918

14.4

18.1

32.5

23.0

56.6

79.7

1919

16.5

10.9

27.4

18.1

91.4

100.5

1920

18.0

12.8

30.8

21.5

197.0

218.5

1921

18.0

8.2

26.2

16.9

281.1

298.0

Total

191.1

82.0

273.1

150.4

656.9

897.3

 

 

Most of the money paid to the State Exchequer is a windfall of which it would be unwise to prophesy the repetition. Moreover, banks of issue are highly complaining that the State is absorbing all the gross profits of the huge increase of discounts, whereas the unexpired risks pertaining to the same discounts are left on the shoulders of the shareholders, whose dividends have risen only slightly notwithstanding the great depreciation of the paper money in which dividends are paid. In a different degree, the same complaint is heard from all joint stock companies in Italy. Dividends have risen little or nothing since 1914, and almost the whole increase of profits is going into the State Exchequer. This goes a long way to explain why in Italy there are no traces of the booms in shares which are charac­teristic of periods of paper depreciation in Germany. A general index number for securities which compares present with pre-war prices is not avail able. But Professor Bachi publishes monthly a number index for share prices, where 100 is the price for December, 1918:

 

 

December, 1921

March, 1922

 

Banks

94-19

90-47

Railways

50-84

50-09

Land transportation

58-45

61-46

Navigation

53-97

47-56

Cotton

125 08

115-75

Jute

102-15

108-27

Wool

118-41

118-35

Hemp and flax

155-41

124-64

Silk

153-85

128-62

Mines

53-23

50-14

Iron and steel

17-77

13-95

Engineering

32-81

18-12

Motor cars

56-29

47-55

Electricity

67-95

68-36

Chemicals

58-98

54-66

Sugar

101-54

96-92

Food

107-33

98-80

Water supply

90-35

87-06

Building & land

100-64

93-23

Miscellaneous

112-26

103-62

General index

63-84

56-70

 

 

In Italy the present level of security prices is lower than in 1914, notwithstanding the depreciation of paper money. The slump is the most sen­sible in iron and steel (a decrease of 86.05 per cent, on the December, 1918, level), engineering, navigation, motor-cars, railways.

 

 

The motor-car industry is greatly hampered by the dwindling of the demand for high-priced motor-cars in the United States and by high duties in most foreign States. Bachi’s commodity index number (based upon the average price for 1920=100) shows that the decrease of prices has been continuous for the last six months:

 

 

 

Number of Commodities

 

 

Oct.

 

Nov.

 

Dec.

 

Jan.

 

Feb.

 

March

Vegetable foods

25

116-4

115-3

113-7

111-6

108-8

106-7

Animal foods

25

116-4

115-3

113-7

111-6

108-8

106-7

Chemicals

11

75 0

76-0

74-0

73-0

73 0

71-8

Textiles

12

73-2

74-5

77-0

72-4

67-9

64-9

Minerals and metals

16

63 0

63-9

64-1

63-9

61-6

59-2

Building materials

6

90-3

88-4

87-9

91-6

90-9

84 1

Vegetables

5

116-0

113-4

112-4

112-4

110-8

102-8

Miscellaneous

12

94-7

93-9

93-9

94-3

92-2

87-2

General index (basis 1920)

100

95 0

94-8

93-9

92-4

90 1

85-4

General index (basis 1901-1905)

100

747-2

745-7

739 1

727-3

708-7

672-1

 

 

Whereas the class index numbers are given on the basis 1920, the general index number is given also on the basis of 1901-5. There is a 10 per cent, decline in the half-year, but we are yet on a level six to sevenfold high­er than in 1901-5.

Al bando

Al bando

«Corriere della Sera», 14 aprile 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 669-672

 

Il conflitto

Il conflitto

«Corriere della Sera», 5 aprile 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 644-648

 

 

 

 

Ha fatto molto bene l’on. Tittoni a porre nei suoi veri termini il conflitto di cui si parla fra senato e camera.

 

 

Gli oratori, i quali alla camera si sono pronunciati contro l’atteggiamento assunto negli ultimi tempi dal senato, hanno parlato di spirito di reazione dominante nella camera alta. È comodo porre il problema in tal modo; ma non è rispondente a verità. La discussione non è, come hanno affettato di credere gli on. Modigliani, Mauri e compagni, fra il senato agrario, difensore dei proprietari di terre e di case, censitario e la camera tutrice dei diritti dei contadini e degli operai. Questa è una alterazione consaputa ed oratoria del problema. Sarebbe curioso ed interessante fare un confronto tra il reddito medio dei componenti delle due camere. Contrariamente alle apparenze, delle due camere, la meglio provveduta finanziariamente con tutta probabilità non è quella senatoria. In questa abbondano impiegati e pensionati, civili e militari, i quali non hanno certo la prerogativa della ricchezza. Attraverso ad una grande dignità esteriore, si intravvedono non di rado sacrifici nobilmente e silenziosamente sopportati. Neppure la esistenza di una categoria di senatori nominati per censo è ragion bastevole per far credere che il senato rappresenti categorie privilegiate. Con le altissime aliquote attuali delle imposte, basta avere 20.000 lire di reddito all’anno, talvolta anche meno, ed avere la ventura o la sfortuna di averle tutte registrate nei ruoli fiscali, per pagare 3.000 lire d’imposta ed avere il titolo alla eleggibilità senatoria. La differenza più importante tra i senatori ed i deputati dal punto di vista economico – e ne parliamo solo perché alla camera si insistette tanto sul carattere reazionario e latifondista del senato – è forse la seguente: che per la loro età più alta e per la loro composizione sociale i senatori hanno redditi sotto forme più visibili: stipendi, pensioni, redditi di terreni e fabbricati, titoli nominativi; mentre per la maggior giovinezza e le professioni militanti e liberali, i deputati hanno redditi più oscillanti e meno apprensibili all’imposta. La nominatività dei titoli ha incontrato le prime palesi ostilità nel gruppo socialista, il quale fu il solo, all’epoca della demagogia finanziaria giolittiana, a fare qualche pubblica riserva in proposito. Tutto ciò che si può dire oggi con fondamento di realtà è che il senato è forse più sensibile alla pressione tributaria, perché i redditi dei suoi componenti sono più gravati di balzelli. Da questo punto di vista, il senato potrebbe socialmente essere considerato in prevalenza come l’emanazione di quelle classi medie, proprietarie, esercenti professioni liberali, burocratiche, le quali sono state le più danneggiate dalla guerra. I nuovi ricchi, i beneficiari dei rivolgimenti monetari recenti hanno nel suo seno rappresentanti scarsi e privi di influenza. Non sappiamo se altrettanto si possa dire della camera elettiva.

 

 

Nella camera alta, come bene ha proclamato l’on. Tittoni, è vivo il senso non della difesa degli interessi costituiti, ma della difesa del diritto e della costituzione. Gli interessi costituiti possono essere turbati; né sarà certo il senato quello che vorrà o potrà opporre una barriera ai mutamenti legislativi. Nell’ambiente di palazzo Madama c’è una repugnanza profonda e crescente contro le mutazioni per arbitrio del governo. L’on. Mauri ieri, come poco prima, in altro argomento, l’on. De Vito, ha esposto con ingenuità ammirabile una teoria stupefacente. Costoro dicono cose, le quali avrebbero eccitato l’indignazione dei nostri padri, i quali lottarono per abbattere i governi assoluti; e le dicono, ciò che sovratutto addolora, coll’aria dell’innocenza più candida. Ad essi fare un decreto-legge sembra cosa altrettanto ovvia come contemplare il sole di mezzogiorno. Quando si trattò di estendere i comitati di conciliazione dalle vecchie alle nuove province, l’on. Mauri ha pensato di apportarvi una piccola variante; rendere le sentenze dei comitati obbligatorie nelle nuove, mentre nelle vecchie province erano puramente indicative di un’opinione non costrittiva. Una cosa da nulla, non è vero? O forse non era consigliata dall’esperienza? Poi si accorse, anche per effetto di lettere e telegrammi di organizzatori suoi correligionari, che quella piccola novità poteva essere reimportata nel vecchio regno e fece a tal fine un decretino, di poche righe. Che cosa c’è di più ovvio di tutto ciò? C’era bisogno di disturbare camera e senato per così poco ?

 

 

Qui è il vero conflitto tra le due camere. Non sulla sostanza del decreto. A parere di molti senatori e di qualche deputato il decreto è sostanzialmente reazionario, se almeno si definisce per «reazione» un movimento inteso a farci ritornare verso forme produttive non compatibili con la necessità di produrre molto e di far vivere largamente le varie classi produttive, verso forme produttive non distinguibili in sostanza dalle medievali corporazioni d’arti e mestieri e dalle caste ereditarie e adatte solo a condizioni misere di esistenza. Non è però sulla sostanza che ora si discute. Il punto del conflitto sta nel sapere se si debba o no discutere su una qualunque proposta prima di tradurli in formula legislativa o se si debba invece delegare al governo la facoltà legislativa. Il senato dice che si deve discutere, afferma che i decreti-legge, di qualunque genere, anche se sancissero una norma carissima alla maggioranza dei senatori, sono incompatibili in uno stato libero e costituzionale. La camera invece loda i decreti-legge ed invita il governo a farne dei nuovi. Persino l’on. Meda, uomo temperato di governo e vecchio parlamentare, presenta ordini del giorno per invitare il governo a presentare decreti-legge.

 

 

Che ciò facciano socialisti e popolari, è abbastanza logico. Amendue questi partiti appartengono a chiese, le quali si giovano della libertà solo per distruggerla. Quando si odono socialisti e popolari invocare la libertà e partecipare a congressi in difesa della libertà di stampa, si sente che essi parlalo una lingua straniera. Chi ha un credo da attuare, è intollerante. Quando si vuole la dittatura del proletariato non si può volere la libertà delle altre classi, neppure la libertà di discutere. Né possiamo dimenticare che gli scrittori cattolici ripetutamente hanno dichiarato la libertà di stampa e di scuola essere uno stadio intermedio, tollerabile sinché la società non voglia ritornare cattolicamente unita alla professione dell’unica verità affermata dalla chiesa. Si capisce perciò che quando essi sono al potere o vi influiscono per interposta persona, socialisti e popolari non abbiano scrupoli nella scelta dei mezzi con cui attuare il loro credo. Se c’è a portata di mano il decreto-legge, e se questo evita i fastidi di una discussione, tanto meglio.

È invece incomprensibile che a questa teoria diano mano i non­socialisti e i non-popolari. Salvo la sparuta minoranza di destra, anch’essa scissa internamente, nessuno si fece vivo alla camera per difendere il principio in base a cui è sorto e vive lo stato costituzionale moderno. Il principio dice: qualunque novità può essere introdotta nella legislazione, quando essa sia preceduta da una pubblica discussione. Il decreto-legge e la legge ordinaria in fondo si diversificano solo per ciò: che il primo è preparato in segreto ed esce alla luce improvvisamente; la seconda è preparata bensì dal governo; ma questo non la può mettere in vigore, senza una previa pubblica discussione. Col decreto-legge si creano posizioni acquisite, fatti compiuti che dopo non possono più essere distrutti; si tiene conto dei desideri solo di coloro che desideravano o prevedevano la norma. La procedura normale della legge è una garanzia per tutti; per i ricchi e per i poveri, per i credenti ed i miscredenti per gli interessati in un senso e gli interessati in un altro senso. Presentato il disegno di legge al parlamento, tutto il pubblico ne ha notizia. Ognuno può calcolarne le conseguenze; considerarlo dal punto di vista della propria esperienza. Ognuno può aver qualcosa di utile da osservare, qualche modificazione vantaggiosa da suggerire: qualche fondata obbiezione da sollevare. Si evitano errori, i quali potrebbero essere irrimediabili. Si impedisce il danno e la vergogna di vedere inosservate le norme, emanate in furia da gente priva di esperienza e di dottrina.

Non basta l’esistenza di una coalizione nel gabinetto ad impedire le sopraffazioni di un partito. Praticamente, ogni ministro è quasi sovrano nel campo specifico della propria competenza. Solo un presidente molto energico e molto autorevole potrebbe impedire che il ministro popolare d’agricoltura legiferi popolarmente e quello socialistoide del lavoro legiferi socialisticamente, quando si può legiferare per decreto-legge. Il compromesso, che è l’anima dei governi rappresentativi, si converte in una bassa tolleranza delle reciproche prepotenze, invece di essere la risultante di parecchie volontà contrapposte in aperta gara. La lotta contro il decreto-legge doveva perciò partire dai partiti liberali e democratici della camera. Non ingaggiare tale lotta, significa per quei partiti rinunciare alla propria ragion d’essere; significa ridursi alla condizione di umili caudatari dei due partiti organizzati di classe. Chi non ha un’idea da difendere, ma abbraccia supinamente quelle dell’avversario, merita di scomparire. E scomparirà. La difesa dell’idea liberale, che è l’idea della discussione pubblica, fu assunta dal senato e non è meraviglia che contro di esso si rivolgano le ire dei partiti nemici della discussione e della libertà. Non dicano però essi che la lotta è fra la reazione plutocratica e la democrazia operaia e contadina. L’accusa è fantastica ed ipocrita. La lotta è fra lo spirito di tirannia inerente nei partiti di setta, socialisti e popolari, e l’idea liberale. Per accidente, in assenza di un partito liberale forte e bene organizzato nella camera elettiva, la difesa dell’idea liberale è stata assunta dalla camera alta, dove vivono ancora molti uomini, i quali non sanno persuadersi che i sacrifici secolari durati nel formare lo stato italiano siano stati vani. Appunto perché si tratta di una lotta tra due idee, essa va oltre gli istituti che le impersonano. Essa è lotta alta e solenne; e sarebbe una sciagura se essa finisse con la vittoria dell’idea oscurantistica tiranna, nemica della libera discussione. Come non vedere che sono in giuoco le conquiste più sacre per l’elevazione e la libertà umana? Le bastonate e le distruzioni di cui giustissimamente si lamentarono ieri a Roma i rappresentanti della stampa italiana sono fatti gravi. Ma il decreto-legge è ben peggio dell’incendio e del saccheggio delle tipografie dei giornali; è l’annullamento assoluto della funzione più nobile della stampa, che è il diritto di discutere in tempo gli atti di chi detiene il potere politico e può, ove non sia frenato, disporre a suo libito della vita e degli averi dei cittadini.

 

 

Proposed Tax on Bearer Securities – Duty on Wheat Postponed – Banca di Sconto Affairs – State Revenue

Proposed Tax on Bearer Securities – Duty on Wheat Postponed – Banca di Sconto Affairs – State Revenue

«The Economist», 1 aprile 1922, p. 627

 

 

 

 

Rome, March 26

 

 

The new Finance Minister, Signor Bertone, has laid on the table of the House of Deputies a Bill imposing a tax of 15 per cent, on the dividends of State bearer securities. If a bondholder desires to be exempted from the tax, he can do so by inscribing the security to his name. If accepted by Parliament this Bill will put an end to the compulsory inscription of all securities. Signor Giolitti had made compulsory inscription one of the chief items of his financial programme, and by the Law of September 24, 1920, the principle was formally introduced into our legislative code. Signor Giolitti foresaw many good results from its adoption, of which the chief was the certainty that taxpayers could no more escape succession tax, capital levy, and income-tax. Having securities inscribed to their name, taxpayers would be obliged to fill in tax forms correctly, whereas at present the custom of omitting bearer securities altogether is prevalent.

 

 

Joint stock companies have been unable to issue new shares, for no capitalist would touch an inscribed share. Unfortunate subscribers to such shares cannot get rid of them, for they are unsaleable, and no bank would think of making advances upon them. In Italy the public is bent on having bearer securities, and the methods of transferring inscribed shares are clumsy and costly. The Treasury found itself obliged to recognise facts, for it was impossible for the State to issue Consols or other bonds liable to the compulsory inscription. The only State security which has a market is the seven-year Exchequer bonds, as these were, by the Law of Septem­ber 24, 1920, exempted from compulsory inscription. At last the Government has yielded to the lesson of hard facts, and the new Bill, while maintaining the principle of compulsory inscription – the present Cabinet is made up by Giolitti followers and a formal renunciation of a cherished shibboleth of the old chief was impossible – authorises every possessor of State or private securities to keep them in bearer form if they will submit themselves to a 15 per cent, tax on the dividends. Foreigners and Italian residents abroad will have also to pay the tax if they object to technicalities of the inscription. The new tax will not be favourable to the easy marketing of Italian State securities.

 

 

A recent decree has postponed to July 1, 1922, the duty on wheat, which was suspended during the war and was to be re-established on April 1, 1922. The duty is 7.50 gold lire, corresponding to about 30 paper lire per quintal. As the price is to-day about 110 lire, the duty would have added from 25 to 30 per cent, to the bread price. It seems unlikely that the duty on wheat will be eventually restored, as the Socialist and popular parties are obliged to oppose it. Perhaps this will be the beginning of the wane of protectionism. Agricultural interests will feel more and more aggrieved by high duties on implements, machinery, and textiles not counterbalanced by protective duties on agricultural products.

 

 

The affairs of the Banca Italiana di Sconto are stationary. By a decree of the Roma Tribunal a balance-sheet dated December 31, 1921, has been published in which the assets are estimated at 4,929.2 millions lire, and the liabilities (exclusive of capital and the reserves) at 5,916.7 millions lire. Of these 1,673.7 are privileged, so that only 3,255.5 millions are left to be shared among 4,243 millions lire of ordinary credits. The various classes of creditors and employees, though divided among themselves, are bent on obtaining the maximum aid from the banks of issue and the public Exche­quer. It is not known exactly what shape State aid will take.

 

 

A recent official report states that the public revenue for the first eight months of the financial year 1921-22 (July to February) was 8,425 millions lire, against 7,016 millions lire for the corresponding months of 1920-21. The tax yield for the whole year can be estimated at 12,500 millions lire, against 2,500 in 1913-14. Adding about 2,500 millions lire paid to pro­vinces and municipalities, we reach a sixfold increase on the pre-war year. As the purchasing power of the lira has been only reduced to one-fourth or one-fifth of its pre-war value, it appears that taxation has more than kept pace with the increase in paper incomes.

Competenza ministeriale

Competenza ministeriale

«Corriere della Sera», 16 febbraio 1922

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 41-46

 

 

 

 

Signor direttore,

 

 

Quando nell’officina governativa romana sopravviene una di quelle interruzioni che prendono il nome di crisi di gabinetto, nei caffè, nei circoli, nei privati conversari, molti lettori di giornali non sanno trattenersi dal ripetere ancora una volta la nota sentenza: perché anche i ministeri tecnici soffrono le vicende dei partiti? Perché ad ogni sei mesi od ogni anno mutano i ministri della guerra, della marina, delle poste e dei telegrafi, dell’agricoltura, dell’industria? Un guerriero, un marinaio, un esperto postale, un agricoltore, un industriale non sarebbero a lor posto in siffatti uffici? Che cosa importano il color rosso o nero o tricolore, le simpatie o le antipatie verso il fascismo col saper organizzare bene l’esercito, scegliere il miglior tipo di nave da guerra, por termine al disservizio postale ed alle sofferenze degli abbonati al telefono? Passi per gli interni e per gli esteri, materia squisitamente politica, passi per il tesoro e le finanze, ministeri che un tempo dicevansi di competenza particolare degli eletti dal popolo; chiudiamo gli occhi sui favori che i grandi elettori attendono dal ministro dei lavori pubblici; acquietiamoci a malincuore alla gara di dominio sulle cose dell’istruzione la quale dura da sessant’anni tra massoneria e cattolicesimo. Ma, per tutto il resto, a che pro la fantasmagoria di incompetenti, i quali giungono al potere senza nessuna preparazione, debbono essere a poco a poco ammaestrati e sono perciò dominati dai burocrati; ma sono spazzati via appena abbiano cominciato ad apprendere l’abicì del mestiere?

 

 

Fa d’uopo, signor direttore, ripetere le ragioni per le quali le querele dei benpensanti non soltanto non hanno la menoma probabilità di trovare ascolto presso i politici, bensì anche non sono fondate sulle necessità di un buon governo nei tempi democratici e particolarmente nei tempi difficili che corrono? Che quelle querele siano vane, tutti sono persuasi, bisognando, per sperare ad esse ascolto, immaginare l’assurdo che i politici del parlamento rinunciassero d’un tratto ad una metà dei posti solitamente ad essi offerti in tempo di crisi. Poiché ognuno dei 535 rappresentanti del popolo ha ricevuto, oltrepassando l’incantata soglia, il crisma della sapienza universale, sarebbe supremamente disdicevole supporre che essi vogliano far gitto di tale preziosissima facoltà, quando tutti concordano nell’affermare che di molta sapienza fa mestieri per condurre a salvamento la pericolante nave della patria.

 

 

V’è di più: ben può dirsi che quelle querele sono infondate anche in ragione. Coloro che invocano la competenza al governo dei ministeri tecnici, dimenticano che la virtù da essi invocata deriva intieramente dalla regola della divisione del lavoro e che questa regola, rettamente intesa, conduce a tutt’altre conseguenze di quelle da essi immaginate. Dicesi competente il generale o l’ammiraglio perché per tutta la vita si è dedicato allo studio ed al governo degli eserciti e delle flotte; competente l’agricoltore che ha studiato i misteri della terra nelle scuole e nei libri ed ha cimentato le sue conoscenze alla prova dei campi; competente l’ingegnere elettrotecnico, che sempre visse in mezzo a impianti elettrici; competente l’avvocato, che studiò sui codici ed arringò nei tribunali; competente il medico, che dall’intuito suo e dalla lunga pratica ha imparato a conoscere malattie e guarir malati. Ma tutti costoro, appunto perché singolarmente periti nelle loro arti specifiche, non perciò sono competenti in politica, che è un’arte tutta diversa e specializzata, in cui si acquista perizia come si fa in ogni altra arte, con lo studio e con l’applicazione diuturna. Governare un paese non è la stessa cosa che guidar eserciti con fortuna o coltivare campi con successo o salvar malati da malattie mortali. È un’altra cosa; difficilissima per fermo, ma diversa. Governare un paese vuol dire governar uomini, indirizzandone gli sforzi ad un fine comune e collettivo. Non basta un buon teologo per fare un buon papa; poiché il papa, se ha da essere pure un buon teologo, e potrebbe forse esserlo, senza danno della chiesa, mediocre, deve sovratutto essere un ottimo guidatore di uomini dal punto di vista religioso; e se la chiesa dura da tanti secoli, si è perché una finissima selezione porta ai fastigi della tiara uomini pii e nel tempo stesso peritissimi dei sentimenti e delle passioni da cui sono governati gli uomini.

 

 

Perciò i sospiri dei benpensanti verso l’avvento dello “specialista” al governo dei ministeri tecnici sono destinati a rimanere per somma ventura inascoltati; nessuno essendo più incompetente a governar gli uomini di chi è perito in tutt’altra cosa. Della quale verità si ebbe una conferma segnalatissima nella Germania e nell’Austria, quando si videro i loro governi composti di tecnici espertissimi per lunga abitudine e per accurata selezione nella conoscenza dei dicasteri a cui erano preposti a battersi dinanzi i governi di Francia, d’Inghilterra, d’Italia e degli Stati Uniti, pullulanti di politici generici astuti nelle schermaglie parlamentari, ma assai poco famigliari con le faccende tecniche ministeriali; a cominciare dal più abile di tutti, il signor Lloyd George, segnalato per innata repugnanza ad ogni sorta di letture ed orgoglioso per l’incapacità sua allo studio di qualsiasi verità scritta. Gli uomini di governo germanici conoscevano perfettamente i tecnicismi; ma ignorando gli uomini e le passioni, i desideri, le debolezze loro, furono vinti dai politici avversari, i quali si erano specializzati nel condurre per mano quell’eterno fanciullo che è l’uomo. Venuti su in forza del teorema della divisione del lavoro l’avevano dimenticato proprio nel punto essenziale, per cui al politico è ordinato di essere perito precisamente nel mestier suo, che è la politica.

 

 

Ma non trionfino di soverchio i politici italiani nell’ascoltar siffatta conclusione; ché purtroppo molte delle magagne della nostra vita pubblica derivano dal che essi, al peccato veniale di nulla sapere della te degli istituti a cui sono preposti, aggiungono per lo più il mortalissimo peccato di essere ignari eziandio della speciale loro materia, che è quella politica. La preparazione che i politici italiani hanno all’alto ufficio è vero spesso miseranda. Una proporzione smisurata uomini di legge, raramente pari al compito di conoscitori e di difensori del diritto, spesso miseri azzeccagarbugli di provincia, non pochi agitatori di professione, tra i quali meno peggio sono i cosiddetti “organizzatori”, esperti a guidar masse nelle competizioni di classe, alcuni uomini di affari e per uomo d’affari in Italia non s’intende spesso l’industriale o il commerciante capo di un’impresa indipendente ma l’intermediario di favori governativi ed il procacciatore di doti o di sussidi o di premi a pro di società anonime o di cooperative, che sono tutt’uno nello spillar denari ai contribuenti -: ecco di quali elementi sociali è tessuto per una discreta parte il nostro parlamento. Sebbene anche i parlamenti britannico e francese siano, dopo la introduzione del suffragio universale, grandemente decaduti, pure non sono decaduti quanto il nostro. Chi sfogli gli atti verbali delle sedute del parlamento subalpino e di quello italiano sino alla caduta della destra e li confronti con gli atti odierni, sente una fitta al cuore: che tanto dotti e solenni sono quei primi documenti, altrettanto sciatti e volgari e spropositati sono gli ultimi; tanto frequenti erano un tempo i ricordi di letture fatte e di esperienze vissute, sentito l’ossequio alla scienza, vogliosi gli oratori di contribuire “forse ingenuamente” al progresso della civiltà; altrettanto è ripetuto oggi lo scherno verso la dottrina, il disprezzo verso i teorici ed ostentato l’amore per la “pratica”, nuovissimo feticcio, la quale nel dizionario della Crusca dovrebbe essere nuovamente definita come l’arte di appropriarsi, con grandi proteste di onestà e di tutela dell’interesse pubblico, il denaro altrui con qualche astuta gherminella legislativa, mentre “teorico” è chi denuncia siffatte lestezze di mano. In Inghilterra ed in Francia vive ancora il nucleo di una classe politica, simile a quello che fece l’Italia dal 1848 al 1876; e per classe politica si intende un gruppo di uomini, educati ad Eton o ad Harrow, istruiti ad Oxford od a Cambridge o all’École libre des sciences politiques, non vergognosi di saper citare qualche frase di Demostene o di Cicerone, abituati fin dall’infanzia all’idea di reggere la cosa pubblica, conoscitori dei precedenti antichi e moderni dei rispettivi parlamenti, periti di paesi stranieri, attraverso i quali hanno viaggiato, capaci di scrivere, come lo è ad esempio il signor Asquith, e sarebbe azzardato dire lo sia il suo rivale italiano, on. Giolitti, una pagina di sapore classico: continuatori di una tradizione politica che essi non hanno in spregio ed a cui con diuturno studio si sforzano di riattaccarsi. Bastano venti o trenta uomini di tal fatta per tenere alto il decoro di un parlamento e per impedire alla marmaglia di avere il sopravvento. Ma il compito è facilitato dalla estrazione diversa di quella che in Inghilterra chiamano «rank and file» della camera dei comuni: dove abbondano e sono onorati gli industriali, i commercianti, gli organizzatori operai, questi ultimi impiegati distinti, con stipendi ragguardevoli, i quali hanno, per conquistare il posto, superato difficili prove di storia, di tecnica, di economia.

 

 

Avevamo, sino a qualche decennio fa, un argomento di consolazione nel bassissimo livello parlamentare del congresso degli Stati Uniti: affiliati alla Tammany Hall, ciurmadori politici di quart’ordine, saltimbanchi irlandesi, corruttori e corruttibili. Sfortunatamente per i paragoni, mentre noi ci abbassavamo, oltre Oceano il livello politico si elevava. Successive campagne “civiche” ebbero un benefico influsso sulla composizione sociale delle assemblee politiche e dello stato maggiore governante di quel grande paese; e non mai, salvo nei giorni di Washington, l’ambiente politico toccò un’altezza maggiore, qualunque essa sia, d’oggi. Il risultato del dislivello crescente fra la nostra classe politica e quelle straniere, non fu tardo a farsi sentire.

 

 

La politica estera è fatta dagli uomini politici, con le idee e la preparazione che essi l’anno. Le discussioni di politica estera, nel parlamento italiano hanno un andamento disperatamente provinciale e tradiscono una spaventevole incomprensione dei grandi problemi che si agitano nel mondo. Gli azzeccagarbugli di Montecitorio vedono l’intrigo e l’avidità inglesi e l’albagia francese in fondo ad ogni questione la quale debba essere risoluta anche dall’Italia. E ci proclamiamo vittime altrui, perché noi non sapemmo essere più furbi ed accorti di altri. Non è l’accortezza, purtroppo, una merce manchevole sul mercato politico italiano; ma la furbizia a poco giova nelle aspre tenzoni internazionali, dove vincono coloro i quali hanno dietro di sé la forza di tradizioni secolari e di una perizia politica aspramente guadagnata con diuturna preparazione di studi e di esperienza. L’università e in ispecie la facoltà giuridica italiana han mancato all’ufficio loro di addestrare una forte e sapiente classe politica. Ma se anche mancato non avessero, quanti dei politici avrebbero capito che bisognava cominciar di lì? Avevan veduto la furbizia portar certuni su su fino ai sommi gradi. Perché faticar più di costoro?

 

 

Junius

C’è una parità dei cambi?

C’è una parità dei cambi?

«Corriere della Sera», 7 gennaio 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 506-509

 

 

 

 

Osserva il sen. Tittoni – in un suo lucido articolo su «i grandi problemi economici internazionali», in cui riassume, con rara compiutezza, le varie fasi attraversate dalla discussione dei problemi delle materie prime, dei monopoli, dei prezzi differenziali, dei cambi e dei crediti internazionali – che il problema dei cambi è anzitutto interno: equilibrare il bilancio con rigorose economie, evitando le imposte sperequate e disseccatrici; ridurre le spese militari; restaurare il bilancio dello stato. Ecco i rimedi meglio atti a correggere l’eccessiva asprezza dei cambi. Ma è anche un problema internazionale ed il presidente del senato, come già prima l’on. Luzzatti, propone che siano iniziati studi dai rappresentanti delle tesorerie e delle banche di emissione dei vari stati, allo scopo di conchiudere un accordo internazionale per la regolazione dei cambi. I lavori preparatori per una discussione internazionale sono già stati iniziati ed è merito della Società delle nazioni di essersene fatta iniziatrice. Bisogna anzitutto ricordare, come quelli che più a fondo hanno sviscerato la materia specifica monetaria, i due rapporti, del 1920 e del 1921, di Gustavo Cassell, professore nella università di Stoccolma, ben noto ai cultori delle discipline economiche, come uno dei più eminenti economisti contemporanei. Ma debbono essere consultati altresì i rapporti del 1920 del nostro prof. M. Pantaleoni, dell’inglese Pigou, professore a Cambridge, dell’olandese Bruins e del francese Gide. I giornali hanno già pubblicato ampi rendiconti del rapporto del 1921 dell’italiano prof. Gini sulle materie prime, a cui bisogna aggiungere per il 1921 quelli degli inglesi Kitchin e Strakosch sulla questione dell’oro. Sono rapporti di tecnici, che non possono essere riassunti e discussi con leggerezza e brevità. In questo articolo vorrei soltanto dare un’idea parziale delle controversie le quali sorgono persino sul significato del cosidetto «ristabilimento» o ricostituzione dell’equilibrio internazionale, ora rotto, dei cambi.

 

 

La mente del pubblico ricorre senz’altro, quando sente parlare della necessità di assestare i cambi, all’antico rapporto legale ante bellico. Poiché la sterlina, prima della guerra, valeva 25 lire e 22 centesimi italiani, sembra naturale che la parità dei cambi debba essere quella e non altra. Il pubblico ha la convinzione tenace che debbano bastare 25 lire italiane a comprare una lira sterlina; che l’attuale svilimento sia temporaneo; che si debba fare ogni sforzo per ritornare alla antica parità; che ogni altro rapporto sia artificiale, speculativo, avvilente e dannoso per l’Italia.

 

 

È ben noto che invece gli economisti unanimi non attribuiscono affatto all’antico rapporto di 1 a 25 questo carattere intangibile, fisso, naturale. Ci sono parecchie ottime ragioni a favore del ritorno all’antico rapporto; ragioni sovratutto morali, sociali e politiche. Ma in se stesso il rapporto di 1 a 25 non ha un valore né maggiore né minore di qualsiasi altro rapporto. Anche il rapporto di 1 a 50, o quello di 1 a 100 o persino di 1 a 1.000 è buono, purché sia stabile e definitivo. Le due monete, lira sterlina inglese e lira italiana, che si confrontano, sono due pezzi di carta, non permutabili, nessuna delle due, in oro, le quali non hanno quindi nessun termine fisso di riferimento reciproco. Il rapporto può essere alto o basso, a seconda della massa proporzionale e rispettiva delle due specie di biglietti. Precisamente come accade quando si vogliono scambiare tra di loro due merci diverse. Non c’è nessuna ragione a priori perché oggi il rapporto tra le due monete abbia ad essere di 1 a 25. Bisognerebbe che le quantità emesse di carta stessero oggi nei due paesi, tenuto conto della diversa massa dei beni da far circolare e di tant’altri coefficienti, nello stesso rapporto reciproco in cui stavano prima della guerra le rispettive quantità monetarie circolanti. Il che sicuramente non è.

 

 

L’essere il rapporto 1 a 50 od 1 a 100 invece che 1 a 25 non fa né caldo né freddo all’Italia, purché il rapporto sia stabile e definitivo. Se noi vendiamo le nostre merci a 100 invece che a 25, qual sacrificio sopportiamo pagando 100 lire italiane, invece di 25, 1 lira sterlina? Nessunissimo.

 

 

Purtroppo, le cose non sono così semplici, come le ho sopra descritte; perché il rapporto non è stabile, ma variabile; perché non è definitivo, ma soggetto a mutazioni future; perché non tutti vendono le loro merci o ricavano i loro redditi nella misura di 100 invece di 25; ecc. ecc. Ma il ragionamento serve a chiarire che il vecchio rapporto di 1 a 25 non ha in sé nulla di sacro; e che il ritorno ad esso è discutibile e deve essere difeso con buone ragioni. Le quali non mancano ai difensori della tesi del ritorno; ma non si possono limitare ad un atto di fede.

 

 

È dunque completamente arbitraria la determinazione della nuova parità? Al disopra della parità corrente, che oggi è 1 a 95, domani 1 a 91, e ieri era 1 a 105, non esiste un centro di gravità attorno a cui le parità quotidiane oscillano? Prima della guerra, il centro di gravità era 1 a 25, ed intorno a questo rapporto, chiamato la pari dei cambi, oscillavano le quotazioni giornaliere. Se se ne discostavano troppo, esse in breve erano forzate a ritornarvi.

 

 

Dove oggi è posto il centro di gravità? Il prof. Cassell risponde: nel rapporto tra le potenze d’acquisto delle due monete. Facciamo un calcolo il più semplice possibile. In Inghilterra tra l’agosto 1914 ed il principio di novembre 1921 il costo della vita è cresciuto del 103 per cento. Il che vuol dire che la stessa massa di merci e servigi che prima si comperava con 100 lire sterline, oggi si compra solo con 203 lire sterline. A Torino, tra le stesse due date, il costo della vita è cresciuto del 337 per cento; il che vuol dire che bisogna spendere 447 lire italiane dove prima bastavano 100. Se noi dividiamo 447 per 203, ricaviamo che il costo della vita è in Italia cresciuto 2,20 più che in Inghilterra. Il che, supponendo i prezzi uniformi nell’anteguerra nei due paesi, vuol dire che oggi non comperiamo più in Italia con 25 lire quel che in Inghilterra si compra con 1 lira sterlina; ma occorrono 25 lire moltiplicate per 2,20, ossia 55,50 lire italiane circa. Il Cassell chiamerebbe questa di 1 a 55,50 la nuova parità monetaria tra la lira sterlina e la lira italiana. Una lira sterlina comprando in Inghilterra la stessa quantità di roba che in Italia si compra con 55,50 lire italiane, e vigendo anche nei tempi perturbati odierni l’antica regola aritmetica che due cose uguali ad una terza sono uguali tra di loro, ne discende che «sostanzialmente» 1 lira sterlina è uguale a 55,50 lire italiane.

 

 

Il corso dei cambi è diverso: esso segna circa 95. Il Cassell direbbe che la differenza in più è la parte caduca o speculativa o dovuta a cause eterogenee e probabilmente transeunti, come sarebbero il credito del paese, la buona o cattiva politica finanziaria, i rapporti di debito e credito per ragioni commerciali e diverse tra ognuno dei due e l’estero, ecc. ecc. Ma il nucleo sostanziale è quello. Il rapporto di 1 a 55,50 spiega come gli inglesi vivano a buon mercato in Italia; poiché essi, acquistando con 1 lira sterlina ben 95 lire italiane, possono, con 55 di esse, vivere così bene come vivevano in Inghilterra e risparmiarne 40. Non risparmiano la differenza tra 95 e 25, come credono molti; bensì tra 95 e 55, la quale ultima cifra di 55 è la vera nuova parità monetaria, mentre quella di 25 è morta e sepolta e non risuscita più; ma risparmiano ad ogni modo parecchio. Nella stessa maniera come gli italiani risparmiano parecchio, andando a vivere in Germania ed in Austria.

 

 

Chiudo a questo punto, senza affermare che il concetto della nuova parità monetaria come lo espose il Cassell sia esente da critiche. Basti concludere come verità fuori discussione che i vecchi rapporti monetari non sono una verità rivelata, a cui si debba prestare cieca fede. È perciò aperta la disputa sulla convenienza rispettiva di ritornare a quella vecchia parità oppure di fermarci su una nuova parità; e sulla scelta, ove si abbracci il partito della nuova parità, fra le varie parità possibili, di cui quella del Cassell sarebbe una.

 

 

Riflessioni

Riflessioni

«Corriere della Sera», 6 gennaio 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 501-505

 

Domande

Domande

«Corriere della Sera», 4 gennaio 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 497-500

 

Diminuire i buoni del tesoro

Diminuire i buoni del tesoro

«Corriere della Sera», 13 dicembre 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 478-480

 

 

 

 

Un piccolo quadro, costruito sul riassunto ufficiale dell’esposizione finanziaria, merita un breve commento. È il quadro, in miliardi di lire, del debito pubblico italiano:

 

 

31 luglio 1914

30 giugno 1919

31 ott. 1920

31 ott. 1921

Debiti perpetui e redimibili

14,8

28,4

48,9

49,3

Buoni del tesoro a 3,5 e 7 anni

5,7

4,6

5,7

Buoni del tesoro da 3 a 12 mesi

0,4

15,0

10,7

23,0

Conto corr. con la Cassa depositi e prestiti

0,5

0,6

0,6

Biglietti di stato e di banca per conto dello stato

0,5

8,6

12,7

10,6

Totale debiti interni

15,7

58,2

77,5

89,2

Debiti esteri

19,2

20,6

21,0

Totale generale

15,7

77,4

48,1

110,2

 

 

Passiamo sopra alla cifra dei debiti esteri, la quale cresce negli ultimi esercizi solo per il cumularsi di interessi non pagati col capitale, ed è un grosso enigma. La somma di 21 miliardi di debiti esteri con 89,2 miliardi di debiti interni è un’assurdità, perché i primi sono espressi in lire alla pari con le sterline ed i dollari, ed i secondi in lire-carta. Se calcolassimo i 21 miliardi al cambio del giorno, forse diventerebbero 90 e porterebbero il debito pubblico vero a 180 miliardi di lire. Ma chi può credere che l’Italia possa pagare e l’Inghilterra e gli Stati uniti vogliano esigere sul serio una somma fantastica come sarebbe quella di 90 miliardi di lire?

 

 

Passiamo dunque al debito interno. Qui c’è una cifra promettente ed un’altra spiacevole. È promettente la diminuzione da 12,7 a 10,6 miliardi dei biglietti di stato (5 e 10 lire) e dei biglietti di banca emessi per conto dello stato. Se, senza premere, si potesse a poco a poco ridurre la circolazione, i cambi potrebbero stabilizzarsi e, senza tornare affatto al livello antebellico, cosa per tanti rispetti non augurabile, i prezzi potrebbero perdere quella loro asperità, la quale è dovuta ad elementi imponderabili di apprensione politica e finanziaria. Notisi però subito che non è vero che la circolazione sia diminuita di 2,1 miliardi di lire. Mentre diminuiva di questo ammontare la circolazione cosidetta «per conto dello stato», aumentava da 8 miliardi e 230 milioni a 9 miliardi e 775 milioni, ossia di 1,5 miliardi la circolazione cosidetta «per conto del commercio». È questa una distinzione formalistica e priva di senso sostanziale che, unici al mondo, ci ostiniamo in Italia a mettere in grande evidenza. Tanto è senza senso la distinzione, che lo stesso ministro del tesoro è costretto a dichiarare che a determinare 1 miliardo e 545 milioni di aumento della circolazione «per cosidetto conto del commercio» hanno parte notevole certi acquisti fatti dalle banche di emissione di «titoli di stato». Dunque, se il tesoro si fa anticipare dalle banche di emissione direttamente, ad esempio, 500 milioni di lire in biglietti, questa è circolazione «per conto dello stato»; se lo stesso tesoro si fa scontare dalle stesse banche di emissione i medesimi 500 milioni, presentando allo sconto altrettanti buoni del tesoro, questa è circolazione «per conto del commercio»! Eh, via; non sarebbe meglio di abbandonare una distinzione così cervellotica, la quale oramai è oggetto di riso universale e, a torto, fa sospettare il tesoro di voler nascondere una parte dell’aumento di circolazione dovuto a sua responsabilità?

 

 

Deducendo 1 miliardo e 545 milioni di aumento da una parte dai 2 miliardi e 100 milioni di diminuzione dall’altra – a stretto rigore la sottrazione non si potrebbe fare perché la prima cifra si ferma al 30 settembre, mentre la seconda va sino al 31 ottobre; ma ci si può passar sopra, deplorando soltanto che neppure il ministro del tesoro, che è tutto dire, conosca alla data dell’8 dicembre l’ammontare della circolazione al 31 ottobre – troviamo che la circolazione in un anno è diminuita di 600 milioni di lire. Per le ragioni altra volta dette intorno ai pericoli di un ribasso troppo rapido della circolazione, si sarebbe quasi portati a concludere che i 600 milioni di riduzione sono un ottimo risultato, forse l’ottimo tra gli ottimi.

 

 

«Si sarebbe» – è scritto sopra ed a bella posta. Poiché accanto a questa buona cifra bisogna scriverne subito un’altra brutta, anzi bruttissima: i buoni del tesoro ordinari, da 3 a 12 mesi di scadenza, sono aumentati in un anno da 10,7 a 23 miliardi di lire. Questa è davvero una situazione di tesoro preoccupante. A che cosa serve diminuire di qualche briciola i biglietti circolanti quando crescono tanto i buoni ordinari? Badisi che un buono ordinario, che scadrà domani, fra pochi giorni o mesi, è sempre un biglietto «in potenza». Lo erano ieri; lo possono ridiventare domani. Lo erano ieri; poiché non bisogna dimenticare che i contadini ed anche molta altra gente fino a ieri avevano paura di tutto e tenevano i propri risparmi in biglietti. Scemata la paura, hanno convertito i biglietti in buoni; sicché la circolazione di biglietti forse è diminuita solo in apparenza. Parecchi miliardi di biglietti, che nel 1919 e nel 1920 erano tesaurizzati, adesso gonfiano effettivamente la circolazione. Non siamo nient’affatto sicuri che domani, per una qualsiasi circostanza di turbamento politico o di crisi economica, i detentori di buoni vogliano riconvertire una parte dei loro 23 miliardi in biglietti contanti; ed ecco il governo costretto a far lavorare il torchio, messo da parte solo momentaneamente.

 

 

La conclusione che si deve cavare dalla tabella è chiara ed univoca: il massimo sforzo del tesoro nel presente momento, del tesoro come esecutore tecnico delle esigenze finanziarie dello stato, deve consistere nel consolidare quanta più larga parte è possibile del debito fluttuante dei 23 miliardi di buoni ordinari. Bisogna diminuire quella cifra e presto. Bisogna offrire ai portatori dei 23 miliardi di buoni un titolo appetibile, desiderato ed a lunga scadenza. Ad ogni costo importa liberare il tesoro dall’incubo di un debito rimborsabile a breve scadenza di 23 miliardi di lire.

 

 

I limiti del protezionismo

I limiti del protezionismo

«Corriere della Sera», 11 ottobre 1921

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 424-428

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 396-400

 

 

I limiti del protezionismo

I limiti del protezionismo

«Corriere della Sera», 11 ottobre 1921

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 424-428

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 396-400

 

 

 

 

La protezione doganale è uno dei tantissimi casi di intervento dello stato; e come per tutti gli altri casi, anche per questo si può dire che esso può ammettersi soltanto quando si riesca a dimostrare che lo stato, intervenendo, arreca un qualche beneficio, economico o politico o militare o morale o sociale, alla collettività. Gli economisti non sono nemici per principio dei dazi doganali. Altrettanto varrebbe dire che essi sono nemici del carbon fossile per amore sviscerato verso la energia elettrica. Manifestamente siffatta posizione logica sarebbe assurda: poiché a volta a volta si deve preferire nei singoli casi il carbon fossile o l’energia elettrica a seconda della maggior convenienza comparativa. Rispetto ai dazi doganali protettivi, si deve soltanto avere disprezzo ed odio per i falsi ragionamenti con cui si vuol presentare per vantaggioso quello che è invece un danno o si vuol affermare congruo a raggiungere un fine un mezzo che vi è assolutamente disadatto.

 

 

L’onere della prova della necessità e della utilità di un dazio spetta a coloro che lo chieggono. Essi vogliono che il capitale ed il lavoro di un paese, invece di indirizzarsi spontaneamente a produrre le merci a cui si sentirebbero più adatti, quelle per cui potrebbero lavorare al minor costo comparativo, siano, dall’intervento dello stato, il quale con un dazio impedisce o rende difficile l’importazione di una data altra merce dall’estero, spinti a produrre quest’altra merce. Capitale e lavoro non produrrebbero questa merce la quale costa 10 e vale 8, perché ad 8 è offerta dall’estero. Con un dazio di 2 si porta il prezzo a 10 e si rende conveniente la produzione. E sia. Gli economisti non hanno nulla in contrario, purché si dica chiaramente e precisamente quale è lo scopo che si vuole ottenere imponendo alla collettività il sacrificio di 2 – pagare 10 quel che si potrebbe avere ad 8 è un sacrificio – e si dimostri, in modo anche approssimativamente persuasivo, che con quel mezzo (dazio) lo scopo verrà ottenuto. Non basta – se lo ficchino bene in testa gli industriali italiani – dire che un prodotto costa in Italia 10, mentre all’estero costa 8, per avere diritto ad avere un dazio di 2. Non basta, anche se inesplicabilmente la relazione Alessio, non certamente scritta da lui, se devo giudicarla dal linguaggio deplorevole in essa usato, per giustificare un dazio, non di rado scrive che esso è richiesto «in vista delle condizioni sfavorevoli, in cui questa industria si svolge da noi». E punto e basta (ad es. per la birra in fusti). Come se questa incredibile motivazione non dovesse invece essere sufficiente per far concludere che quella industria non deve essere protetta. Si protegge un’industria, che si svolge in condizioni sfavorevoli, se si spera che essa riuscirà a vincere questi ostacoli, o se essa è necessaria per la difesa del paese o se c’è insomma qualche altro motivo per proteggerla. Ma il divario nudo e crudo, dei costi, che pure l’argomento principe delle più recenti relazioni doganali (ahi! quanto diverse da quelle Lampertico – Ellena!) fa vergogna.

 

 

Per trovare i motivi di una ragionevole protezione doganale bisogna leggerli nei libri degli economisti che, soli, si diedero la pena di esporli, di precisarli, di limitarli. Esponiamone taluni, i più famosi, di quei casi, senza avere menomamente la pretesa di esaurirne l’elenco.

 

 

  • Uno sarebbe la preesistenza di una tariffa protettiva. Ogni persona di buon senso ammette che non si può passare dal regime di serra calda a quello dell’aria aperta. Neppure l’amico Giretti e cito il nome del più antico e tenace liberista italiano chiede l’abolizione immediata di tutti i dazi. Per ora si sarebbe, immagino, rassegnato a lasciar vivere i vecchi dazi, anche pagabili in oro. Ma, ricordiamolo bene, quel che col decreto Alessio si è fatto non è stato il conservare il muro esistente, ripararlo dove era sbrecciato, livellarne il culmine dove, per gli accidenti dei tempi, presentava ondulazioni incomprensibili. No. Tutto ciò l’avremmo tollerato per qualche anno anche noi liberisti, finché a cose più calme non fosse stato possibile procedere alla graduale demolizione. Noi gridiamo contro l’inconsulto, quasi generale elevamento del muro, cagione di alti costi, di formazione di nuovi potenti interessi acquisiti, di nuove e colossali trasposizioni di fortune da classi a classi, da regioni a regioni, dalle classi sventurate a redditi fissi a quelle arricchite a redditi variabili, dalle regioni più povere e più arretrate, specie del mezzogiorno, a quelle ricche e commerciali ed industriose dell’alta Italia. Su questo giornale non si difende, no, la causa dell’industria lombarda, come sguaiatamente insinuano i giornali dei siderurgici. Si difende la causa dei poveri, dei dimenticati, di quelli a cui la tariffa enorme porta via il pane di bocca. Ancor ieri un modesto pensionato ferroviario mi scriveva denunciandomi il rialzo da 7 a 9 lire al kg. del prezzo dell’olio estero di semi, che egli comperava per l’impossibilità di acquistare il troppo caro olio d’oliva, rialzo dovuto alla nuova tariffa doganale; e mi diceva che per lui il rialzo era cagione di disagio penoso. Noi difendiamo la causa di costoro, opponendoci alle esorbitanze della nuova tariffa.

 

  • Un altro caso sarebbe la necessità di assicurare, a costo di permanenti e gravi sacrifici, una industria necessaria per la fabbricazione dei materiali bellici. È un caso non inventato dopo il 1914: ché nei nostri libri si trovava scritto da tempo. Naturalmente, il caso non deve essere stiracchiato in guisa da servire a difendere i dazi universali, con la comoda teoria che tutto serve alla condotta della guerra. Trattasi delle sole industrie belliche in senso stretto, di quelle per cui testé alla conferenza di Ginevra si è discusso se non convenisse sottrarle addirittura all’industria privata per renderle industrie esclusivamente di stato, sia che questo le gerisca direttamente o le affidi a temporanei concessionari. È questa una tesi seria, suffragata da ottime ragioni; come è pure seria la tesi di coloro i quali sostengono doversi riservare all’uso pubblico e bellico i minerali di ferro dell’isola dell’Elba, i quali finora sono la migliore e più comoda nostra, purtroppo piccolissima, risorsa nazionale bellica.

 

  • Il terzo sarebbe quello, esposto dallo Stuart Mill, della necessità di subire un sacrificio attuale, rincarando con un dazio protettivo la vita per la generazione presente allo scopo di permettere ad un’industria nuova di affermarsi nei primi anni contrastati a pro delle generazioni venture. Ma lo stesso Stuart Mill notò poscia in una lettera famosa che della sua teoria delle industrie giovani o bambine o nuove si era abusato stranamente, facendo passare per giovani, industrie prive di qualsiasi possibilità di irrobustirsi, diventando adulte, e dichiarando sempre più giovani industrie che, per l’età veneranda, meritavano invece il titolo di decrepite. Chi giudica della gioventù e dell’attitudine a raggiungere l’età adulta della vita autonoma, senza dande di dazi? Chi stabilisce il periodo di allevamento, passato il quale inesorabilmente bisogna abolire i dazi protettivi? In Italia, ad ogni rinnovazione di tariffe, nel 1878, nel 1887, nel 1921, le stesse industrie diventano sempre più bambine; nessuna dichiara di essere arrivata alla virilità. Eppure, sono passati tanti anni!

 

 

List, il grande teorico del protezionismo, insieme con l’Hamilton, espose in termini diversi il medesimo concetto: dallo stadio agricolo non si passa spontaneamente allo stato industriale. Bisogna creare l’ambiente in cui l’industria possa svilupparsi; capitalisti, imprenditori, operai sorgono più facilmente quando esiste già qualcosa, quando ci sono già imprese impiantate, quando la cultura industriale, il gusto e l’amore per il rischio industriale sono già sviluppati. In un ambiente adatto i fermenti del progresso industriale agiscono più facilmente. Ma se ben si guarda, la teoria del List si riduce sostanzialmente a quella del Mill. Non si crea l’ambiente industriale promuovendo industrie incapaci di divenire adulte; l’insuccesso scoraggia invece di promuovere le iniziative ulteriori. L’ambiente listiano si crea scegliendo e proteggendo quelle sole industrie che veramente sono adatte al paese e che devono superare l’ostacolo iniziale della trasformazione dall’agricoltura all’industria.

 

 

L’insuccesso e gli errori ed i danni del protezionismo, contro di cui gli economisti combattono, derivano dall’avere trascurato le limitazioni necessarie, dall’avere fatto intervenire lo stato anche dove il suo intervento è dannoso, dall’avere trasformato una ricerca tecnico – economica in un do ut des politico, in cui trionfano i procaccianti, i furbi, i forti politicamente. Ancor ieri, l’«Economist» di Londra, forse il più antico organo del libero scambio, esclamava: «Il nuovo protezionismo delle industrie chiave e dell’antidumping, così come è stato organizzato in Inghilterra, non ci fa paura. Se prima di attuare un dazio sarà necessario che l’industria la quale reclama un dazio provi, caso per caso, in contraddittorio con le industrie consumatrici dei suoi prodotti, e dinanzi a un tribunale di tecnici e di economisti, che il dazio è legittimato dai motivi voluti dal legislatore, noi possiamo star tranquilli. In Inghilterra saranno ben rari i casi di dazi; e quei dazi saranno concessi in seguito ad una discussione tanto serrata e probante che ci sarà davvero una gran probabilità che qualche interesse pubblico sia tutelato dall’intervento statale». Sono pronti i protezionisti italiani a consentire che i dazi protettivi entrino in vigore, come fu stabilito in Inghilterra, solo dopo un processo pubblico, caso per caso, dazio per dazio, in contraddittorio con i contro – interessati, e dinanzi ad un tribunale di periti, salvo sempre il giudizio del parlamento? Sono pronti a copiare la legge inglese, intorno a cui essi fanno tanto baccano, come se significasse la conversione al protezionismo della liberista Inghilterra? E se non son pronti, la loro repugnanza che cosa significa fuorché il desiderio di ottenere protezione anche quando questa non risponde a nessun interesse pubblico?

Spropositi protezionisti

Spropositi protezionisti

«Corriere della Sera», 9 ottobre 1921

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 419-423[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 391-395

 

Spropositi protezionistici

Spropositi protezionistici

«Corriere della Sera», 9 ottobre 1921[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 419-423

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 391-395[2]

 

 

 

 

Inevitabilmente, nelle polemiche politiche ed economiche, si è esposti a male interpretazioni, ed a capovolgimenti del pensiero proprio, che, trattandosi di un infortunio quotidiano, non giova rilevare mai. Sarebbe poco divertente per i lettori e poco conclusivo, poiché nulla irrita di più l’avversario di essere sorpreso in flagranza di svisamento del pensiero altrui e nulla lo dispone maggiormente ad inasprire la contesa. Ma vi è un argomento nel quale questi peccati veniali di polemica diventano mortalissimi; ed è quando Giretti, Cabiati od io ci attendiamo a parlare male della nuova tariffa doganale. Poiché diciamo che la tesi protezionistica economicamente è errata, subito si afferma che noi non ammettiamo mai nessun dazio protettivo; il che è falso, perché la tesi economica è soltanto questa: che bisogna tenere bene gli occhi aperti quando si mettono i dazi; che bisogna tener ben presente che col dazio ci infliggiamo un danno economico, e che quindi il dazio protettivo è ammissibile solo quando sia ben dimostrato che esso ci procura un altro vantaggio economico o ci salva da qualche sciagura politica o militare o di altra qualunque specie. È questione di discutere e di precisare. Ciò che non è tollerabile è che si confondano volgarmente le carte, tentando di far passare per vantaggio generico ciò che è lampante come la luce del sole essere in genere un danno; è che si giustifichi con frasi fatte o con errori manifesti la generalizzazione di un sistema, il quale può essere ammesso solo quando sia limitato a casi specifici, ben chiari e ben precisati.

 

 

Che sugo ci sia a difendere i dazi spifferando spropositi, non si capisce. È uno sproposito dire che i dazi sono necessari perché altrimenti le merci straniere inonderebbero il paese e noi non potremmo, nonché vendere all’estero, neppure produrre per il proprio paese. Rincresce che lo sproposito l’abbia ripetuto l’on. Crispolti; ma è proprio da pigliare colle molle. Intanto esso suppone la verità di una calunnia oltraggiosa per gli italiani: che cioè essi non siano buoni a produrre nulla a minor costo degli stranieri. Non passa giorno senza che si vanti l’abilità, la genialità, la laboriosità dei nostri contadini, artigiani, industriali; e poi d’un tratto, appena si parla di dazi, diventiamo buoni a nulla! Questa è calunnia sfacciata e contraria al vero. La mancanza o la deficienza di talune materie prime – né è detto che noi si difetti di tutte – non toglie nulla alla nostra capacità di produrre certe cose ed anche molte cose a miglior mercato degli stranieri. Sono industrie “naturali” ad un paese non solo quelle per cui si fanno le materie prime in casa, ma quelle sovrattutto per cui si possiede la tecnica e l’abilità della trasformazione. L’industria del cotone è naturalissima al Lancashire, sebbene in Inghilterra non cresca una pianta sola di cotone: quella della lana fu naturale a Firenze e quella delle armi a Milano, sebbene le materie prime venissero anche da lontano. Nel Biellese l’industria della lana è divenuta naturale da più di un secolo, sebbene la materia prima locale entri per infinitesima parte nella produzione di quelle fabbriche. Ciò che conta è l’abilità, l’operosità, la diligenza, il genio commerciale; e perché denigrarci tanto proclamandoci buoni a nulla? Perché disprezzare tanto gli industriali e gli agricoltori italiani, da invitarli ad ogni piè sospinto a venire a chiedere a noi economisti che cosa essi dovrebbero fare se scomparissero i dazi? La scomparsa di un dazio di 20 lire a quintale vuol dire soltanto che il prezzo di quella merce tende, ad es., a ridursi da 100 ad 80 lire. Infinite volte sono successi ribassi di questa fatta ed anche peggiori; e, la Dio mercé, l’industria non si è rovinata ed ha ritrovato nelle difficoltà lo stimolo a perfezionarsi ed a produrre a minor costo. In Italia sta oggi attuandosi un processo somigliante. Le industrie erano state corrotte dai facili guadagni della guerra; qualunque scimunito che si fosse trovato a possedere un tornio od un altro congegno, guadagnava denari a bizzeffe. Oso dire che persino i professori d’economia politica, se l’avessero voluto, avrebbero potuto senza disonore mettersi a far l’industriale. Ma è tempo che la bazza finisca; che i balordi, gli incompetenti, i professori sgombrino il campo ed in gran fretta. I bravi, i tecnici abili, gli ardimentosi non verranno a chiedere a noi economisti, stia sicuro l’on. Crispolti, quel che essi devono fare. Scopriranno da sé, con la propria intelligenza, col proprio coraggio, la via di produrre con guadagno.

 

 

Ma se anche, per dannata ed ingiuriosa e falsa ipotesi, noi italiani fossimo tanto dappoco da non essere capaci a produrre nessuna merce a più basso costo degli stranieri, se anche tutto, senza eccezione veruna, costasse più caro a produrre tra noi che all’estero, non perciò dovremmo cospargerci il capo di cenere e in massa abbandonare gli inospitali lidi d’Italia. Supponiamo, per ipotesi ridicola che, fulminati dalla nostra inferiorità, noi non potessimo più produrre niente, neppure per vendere all’interno. Quel che a noi costerebbe 10, e non potremmo vendere a meno di 10, gli stranieri lo venderebbero ad 8, a7, a 5, battendoci in pieno. Che significato avrebbe una siffatta disastrosa ipotesi?

 

 

Semplicemente quello che ho già detto: noi non produrremmo più nulla e nulla avendo da dare in cambio, non compreremmo ugualmente nulla dagli stranieri. Avrebbero un bell’aver voglia, gli stranieri, di venderci le loro merci a 5; ma più che la voglia, potrebbe in essi il legittimo istinto di non regalarci addirittura il frutto dei propri sudori. Per darci la merce a 5, pretenderebbero di ricevere da noi altrettanta merce per ugual valore. La si giri e rigiri come si vuole. In qualunque tempo, anche oggi, anche in tempo di guerra e nel dopo guerra, è una stravagante fantasia quella di un popolo che tutto riceve e nulla dà in cambio. I nostri nonni, che l’on. Crispoldi ama raffigurarsi in riso nel leggere la petizione dei francesi del ’48 contro la sleale concorrenza del sole, non scrivevano di queste corbellerie, perché, invece di ridere, avevano letto e meditato le pagine di Bastiat, e quelle di Say e le altre di Ricardo e di Adamo Smith. In Piemonte – l’ha dimostrato Giuseppe Prato in un magnifico libro su l’associazione agraria e l’ambiente scientifico economico in cui sorse e grandeggiò Camillo di Cavour – nel periodo dal 1830 al 1860 l’editore Guillaumin di Parigi aveva tanti associati al suo «Journal des Economistes», dove pure scriveva il Bastiat, quanti in nessun dipartimento francese; a Torino i Pomba fondavano la Biblioteca dell’economista e, affidatala a Francesco Ferrara, trovavano per quei grossi volumi in ottavo grande da 1.000 pagine l’uno più di 2.000 associati. Perciò nei comizi dell’associazione agraria, diffusi anche in piccoli comuni rurali, i verbali delle adunanze fanno fede di una cultura economica diffusa e seria, tanto che uomini ignoti citavano con criterio e con critica i libri dei grandi economisti. Perciò non sarebbe stato possibile, negli anni che preludevano alle riforme liberistiche di Camillo di Cavour, trovar qualcuno tra le classi dirigenti piemontesi che irridesse alla petizione contro il sole di Bastiat e non avesse rispetto verso le dottrine economiche. Sarebbe stato impossibile sentir dire tra noi, salvoché dai meno colti tra gli industriali, a cui il conte di Cavour diede fiere risposte, che era necessario elevar «salde e sicure trincee» di dazi allo scopo di «rafforzare» l’economia nazionale e «ridurre» i costi interni, così da eliminare le differenze di prezzi che oggi la pongono in condizioni di inferiorità verso lo straniero. Sarebbe stato impossibile, perché allora si sapeva che i dazi rialzano i costi di produzione; e posti su un prodotto, si riverberano sulle merci che hanno quei prodotti come materie prime, si trasferiscono sulle merci di ultimo consumo, crescono il costo della vita e provocano rialzi nei salari, che a loro volta producono aumenti nei costi. Non è singolare la posizione logica di quegli industriali italiani, i quali vogliono i dazi, che hanno già ricresciuto dal luglio in poi il costo della vita, e nel tempo stesso vogliono ridurre i salari operai, perché affermano, e giustamente affermano, che l’industria italiana ha bisogno di ridurre i costi per poter concorrere con quella straniera? Ma come si possono ridurre i costi, quando i dazi enormi della nuova tariffa ad uno ad uno rialzano tutti i prezzi? La più grande ricchezza potenziale dell’Italia è la abilità, la operosità, l’intelligenza dei suoi figli. I prodotti in cui possiamo eccellere ed in cui possiamo battere gli stranieri sui mercati esteri sono, accanto a quelli in cui entrano le condizioni favorevoli del nostro clima e del nostro sole, accanto ai prodotti elaborati dell’agricoltura, quegli altri in cui è massima la quota del lavoro e minima la quota delle materie prime. A vincere non basta certo avere le materie prime a buon mercato; occorrono trasporti facili, servizi portuali perfetti, organizzazione bancaria adeguata, concordia tra capitale e lavoro, istruzione professionale, amore al lavoro nelle maestranze, spirito di sacrificio negli imprenditori. Ma importa altresì che i dazi non rincarino artificialmente le materie prime; e per materie prime non si intendono solo quelle grezze, provenienti direttamente dai campi e dalle miniere, ma i prodotti semi – lavorati, che hanno già ricevuto una o parecchie elaborazioni. Passato il tempo dei facili guadagni, oggi bisogna rassegnarsi a lottare nuovamente al centesimo; ed occorre persuadersi che in genere una larga ed estesa tariffa doganale è uno strumento tremendo di rialzo di costi di tutti i coefficienti materiali della produzione ed una causa di disfatta nella lotta per la diminuzione di costi. E, domani, vincerà quel paese il quale potrà lavorare a costi più bassi.



[1] Con il titolo Spropositi protezionisti [ndr].

[2] Con il titolo Spropositi protezionisti [ndr].

La scienza economica ha fatto bancarotta?

La scienza economica ha fatto bancarotta?

«Corriere della Sera», 7 ottobre 1921

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 172-178

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 385-390

 

 

 

 

Dal 1914 in poi, una leggenda ha corso le gazzette ed è divenuta oramai un luogo comune: la scienza economica ha fatto fallimento, le teorie classiche dell’economia politica hanno fatto bancarotta. Bisogna cambiare scienza, teorie, per adeguarle alla realtà della guerra. Taluno arrivò anche a scrivere essere uno scandalo che lo stato lasciasse sulle cattedre uomini mummificati, e per insensibilità alle cose reali capaci di farsi strumento dello straniero nella sua lotta di strangolamento della patria. A noi restò soltanto la consolazione – magra in verità – di pensare e di scrivere che il luogo comune era un’asinità conclamata e che quelli che lo pronunciavano avrebbero meritato di essere bocciati all’esame di economia politica. Venturosamente, gli innocenti da ogni impuro contatto economistico non vengono a subire l’esame di economia e preferiscono scrivere articoli sui giornali o pronunciare discorsi fuori e dentro il parlamento. Ancora ieri ne scriveva uno sui giornali da parte popolare F.C. (Filippo Crispolti?), che pure è uomo coltissimo, di una cultura squisitamente raffinata ed elegantissimo nello scrivere manzonianamente scorrevole. Perché, prima di scrivere su questioni economiche, non rilegge le pagine di quell’autore che son sicuro egli più di ogni altro sente ed ammira? Vi avrebbe forse imparato che è una ben strana definizione di “bancarotta delle dottrine economiche” quella che necessariamente la fa consistere nella verificazione precisa, stupenda di quelle teorie, verificazione operatasi in forme e dimensioni raramente vedute prima d’ora. Perché il singolare di questa faccenda della bancarotta dei principi economici è che tutti i principi scritti nei libri sacri della nostra scienza si trovarono ad uno ad uno verificati, attuati in modo così perfetto, che nei trattati futuri economici saranno abbandonati i vecchi esempi e preferiti i nuovi della guerra e del post guerra presente, come più calzanti, più conclusivi, più eleganti e visibili ad occhio nudo ai meno ammaestrati.

 

 

I principi scientifici ebbero nuove e meravigliose verificazioni nella realtà perché essi sono quanto di meno astratto, nel senso comune della parola, si possa immaginare. Furono scritti, è vero, a tavolino, per la buona ragione che, a scrivere qualcosa, ci vuol carta, penna e calamaio. Ma Adamo Smith è uno degli scrittori più permeati di realtà che si conosca; egli è un grande fondatore di scienza, perché fu un grande storicista, attentissimo ai fatti e minuto esemplificatore. E Davide Ricardo, il grandissimo teorico, l’uomo che attinse alle vette sublimi dei Galileo, dei Copernico, dei Newton, fu, prima di scrivere, agente di cambio e, dicono, uomo espertissimo di affari.

 

 

Aveano detto costoro ed altri classici e parecchi i quali, come Melchior Gioia, dei classici inglesi erano stati avversari diuturni, che le mete, i calmieri, i giusti prezzi, i razionamenti producevano un’infinità di guai, tendevano a fare scomparire la merce, a far mettere sul mercato solo le qualità peggiori, di pregio inferiore ai prezzi di calmiere ed a far nascondere, rendendole accessibili solo ai ricchi ed ai furbi, le qualità migliori? E che cosa altro, di grazia, disse la guerra ultima? Non vedemmo forse le gazzette piene delle stesse lagnanze di che sono testimonianza le grida del tempo antico ed a far cessare le quali gli economisti predicarono e riuscirono a far trionfare il principio che la migliore delle mete, il mezzo più sicuro di tornare al giusto prezzo, era il lavarsene le mani e lasciar fare alla libera concorrenza?

 

 

Il che non voleva dire – e gli economisti mai non lo dissero – che in circostanze eccezionali, come quelle di una città assediata, non fosse necessario, per far durare sino alla fine il poco cibo disponibile, mettere a razione i cittadini. Era necessario però ricordar sempre che questo era un provvedimento di guerra, imposto dalla necessità, disadatto a far rinascere l’abbondanza ma solo atto a rendere meno tremende e più equamente distribuite le privazioni; che trattavasi di norme di attuazione difficoltosissima, di riuscita meno ardua se limitate a pochissimi generi e preparate da organi competenti, devoti, pronti a considerare la propria missione come un sacrificio e decisi a sopprimerla appena cessate le circostanze eccezionali.

 

 

Di grazia e di nuovo, che cosa ha dimostrato di diverso la guerra ultima? La bancarotta dell’economia politica è proclamata soltanto da quegli scervellati cronisti di giornali, i quali, appena una merce rincara, ancor oggi, dopo tante esperienze fatte di interventi non riusciti o riusciti al rovescio, gridano: «Che cosa fa il governo, che cosa fa il comune? Perché non reprime con mano ferrea le immonde speculazioni?», e così fanno montare ancor più su i prezzi e non perdono il tempo a cercare i modi ed i limiti dell’intervento pubblico, che, poveretti, solo gli economisti cosidetti “teorici” si affannano a ricercare, a studiare, a confrontare, per vedere se esistano e quali siano i mezzi “efficaci” a soddisfare l’incomposto vociare dei “pratici”.

 

 

A proposito dei quali “pratici” e “teorici” una osservazione forse non priva di interesse mi venne fatta ripetutamente e la voglio qui scrivere: che non mi accadde mai di discorrere con un “pratico” delle cose della “sua” industria, del “suo” commercio, della “sua” banca senza che dalla sua bocca uscissero sentenze sennate e logiche perfettamente consone ai principi della scienza; che se quel pratico comincio a scantonare ed a dir cose vaghe o spropositate, si fu sempre quando egli presunse di uscire dalla “sua” esperienza, per dire che cosa dovevano fare gli “altri”, quali dovevano essere i provvedimenti di governo, quali le leggi da emanarsi. Lo stesso uomo, che, discorrendo delle cose da lui vissute, delle cose sue, parlava come un libro stampato, scritto da un classico, o neoclassico o settatore delle teorie dell’equilibrio economico, appena uscito di casa sua spropositava. Perciò gli articoli scritti dagli industriali, di solito danno ai nervi a noialtri economisti. Essi credono di far cosa inutile dicendo le proprie esperienze, in che sono maestri e rispetto a cui noi tanto desidereremmo di diventare loro discepoli; ma escono dal proprio campo, teorizzano, progettano e, facendo ciò, cessano di essere uomini pratici, diventando cattivi teorici, cattivi perché privi di quella preparazione logica e filosofica che a teorizzare è necessaria. II bello si è, che, come i genitori amano sovratutto e giustamente i propri figli più disgraziati, questi ottimi pratici e cattivi teorici tengono in poco conto la propria pratica stupenda e, attaccatissimi alla propria spropositata filosofia, odiano a morte gli economisti, i quali non sanno decidersi a farla propria.

 

 

Un’altra legge economica odiata dai pratici è quella detta della “teoria quantitativa della moneta”; la quale in parole semplici dice che quanto più, a parità di altre condizioni (traffico, previsione del futuro ammontare della quantità circolante, velocità di circolazione della moneta propria e dei surrogati), cresce la quantità di moneta circolante in un paese, tanto più l’unità monetaria svilisce ed i prezzi salgono. Intorno a questa legge hanno attaccato tra di loro assai brighe gli economisti, come è giusto, non per negare la legge, ma per esporla in modo sempre più perfetto ed adeguato alla realtà. Ma la negarono solo i pratici, che in questa materia sono gli industriali del torchio dei biglietti. Costoro, ossia i ministri del tesoro così infelici, o deboli, o ignoranti da ricorrere a tal metodo, hanno sempre, accusato la speculazione o l’umor psicologico nero delle plebi od altrettali entità misteriose del rinvilio della moneta. Che cosa ha provato, sia chiesto con sopportazione dei bancarottieri dell’economia politica, la guerra ultima? Forseché il rublo russo, di cui si emisero miriadi di milioni, è andato su ed il dollaro nord americano, rimasto convertibile in oro e quindi non aumentabile a libito dei governi, è andato giù? Forseché la corona austriaca è salita da 1,06 a 2 lire e la sterlina invece di valere 25 lire ne vale solo 5? Ohibò! Le cose sono andate precisamente come avevano predetto gli economisti; e le monete si schierano appunto in serie decrescente rispetto alle parità nominali, a seconda della prudenza od imprudenza passata nelle emissioni, ed alle previsioni che si possono fare introno alla condotta futura del torchio dei biglietti dei rispettivi paesi.

 

 

Che cosa dicevano gli economisti rispetto al commercio internazionale? Che le merci ed i servigi si comprano con merci e con servigi, che normalmente non v’è altro modo di pagarli; che i pagamenti con moneta effettiva hanno una importanza limitatissima; che non è possibile, salvo parzialmente e per tempo limitato, pagare con debiti. Non si sa che la guerra abbia mutato di un ette queste norme venerabili, dedotte non dalla fantasia degli economisti, ma dalla esperienza dei secoli scorsi. La guerra accaduta ha soltanto smentito una superstruttura romanzesca che uno scrittore divenuto celebre prima della guerra, Norman Angell, aveva edificato su quelle norme. Del fatto che prima del 1914 esisteva tra i paesi europei una intensa divisione del lavoro, e che ogni paese viveva solo comprando dagli altri ed a questi vendendo, cosicché ad esempio l’Inghilterra aveva la sua miglior cliente nella Germania e viceversa, l’Angell aveva dedotto frettolosamente che le guerre erano oggi divenute impossibili; perché, a guerra scoppiata, banche, borse, industrie, commerci, tutto sarebbe stato sconvolto, si da rendere la vita impossibile. Previsioni codeste che non riguardano affatto gli economisti; né l’Angell ha mai preteso di essere. La guerra si fece, malgrado i suoi danni economici, perché gli uomini fanno le guerre, precisamente perché preferiscono la rovina economica, la distruzione dei beni materiali all’onta ed alla vergogna di servire lo straniero. Ma, decisa la guerra e presa la deliberazione di sottostare piuttosto all’estrema rovina economica, che piegare il capo al giogo straniero, forseché i superstiti scambi internazionali si svolsero con regole diverse dalle solite? Nessun paese poté vivere di vita autonoma. Mai rifulse con tanto tragico bagliore la interdipendenza tra i popoli. Mai si tremò tanto per il pericolo della sconfitta come quando i sottomarini tedeschi minacciavano di isolare l’Europa dalle sue fonti oltremarine di approvvigionamento. Finché durò la guerra, potemmo comprare a credito le merci di cui abbisognavamo, perché gli Stati Uniti avevano interesse ed obbligo di ricevere non merci ma promesse di pagamento in cambio delle merci. Meglio, avevano interesse di ricevere, in cambio delle loro merci, sotto il “nome” apparente di promesse di pagamento, la “realtà” di servigi bellici, di guerra guerreggiata cogli uomini nostri in nostra ed in loro difesa. Pagammo quelle merci col sangue dei nostri figli, che è una sublime e nel tempo stesso concreta maniera di scambio economico.

 

 

Ed oggi, forseché la tragedia dell’economia mondiale non si riassume tutta nella necessità di ristabilire l’antico equilibrio tra merci e servigi di un paese contro le merci ed i servigi degli altri paesi? Francia, Inghilterra e Italia non rinunciano alle indennità tedesche; ma è impossibile, è assurdo che la Germania paghi altrimenti che mandando merci gratuite od offrendo il lavoro gratuito dei suoi lavoratori. Ma contro tale danno insorgono industriali e lavoratori dei paesi vincitori, timorosi di vedersi ridotti alla rovina ed alla disoccupazione, Questa non è una bancarotta della scienza, la quale constata ciò che oggi la realtà dimostra ineluttabilmente vero, che cioè i pagamenti si fanno solo con merci o servigi. È la bancarotta di quegli uomini politici, i quali vogliono le indennità tedesche e non vogliono, contraddizione stridente, essere pagati in merci o servigi. Hanno torto gli stipulatori di trattati e gli uomini politici, i quali vogliono la luna; o gli scienziati, i quali dicono che quella è luna e non terra? Hanno torto gli economisti, i quali osservano che gli Stati Uniti da sé si sono inflitto il danno milioni di disoccupati e di crisi estesissime di industrie, pretendendo di vendere, unilateralmente, merci all’Europa e negando, con dazi cresciuti, di ricevere in cambio merci dall’Europa? Ed abbiamo torto noi che diciamo che l’Italia non può pretendere di vendere all’estero, quando con una tariffa proibitiva si vieta agli stranieri di pagarci con le merci che essi producono a più buon mercato? Se il mondo è matto e delibera lo squilibrio, mentre la necessità più urgente è di ristabilire un nuovo equilibrio, la bancarotta è degli economisti, i quali cercano di predicare la parola della saviezza, ovvero dei politici e dei pubblicisti, i quali insanamente rinfocolano le ragioni di odio e di sconcerto e di rovina?

Abuso enorme

Abuso enorme

«Corriere della Sera», 23 agosto 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 299-302

 

 

The Transition to free Trade in Wheat -Proposals for Increasing Expenditure -The Resignation of the Giolitti Cabinet and Financial Problems -The Fall in Stock Exchange Quotations

The Transition to free Trade in Wheat -Proposals for Increasing Expenditure -The Resignation of the Giolitti Cabinet and Financial Problems -The Fall in Stock Exchange Quotations

«The Economist», 9 luglio 1921, pp. 54-55

Primo dovere

Primo dovere

«Corriere della Sera», 6 luglio 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 232-235

 

 

I pieni poteri per la riforma burocratica

I pieni poteri per la riforma burocratica

«Corriere della Sera», 29 giugno 1921[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 36-41

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 227-231

 

 

 

 

La crisi del ministero Giolitti dà un rilievo specialissimo al disegno di legge sulla burocrazia. Sebbene l’on. Giolitti si sia dimesso sul voto per la politica estera, è probabilissimo che si sarebbe dovuto dimettere poco dopo, quando si fosse dovuto venire al voto sul progetto della burocrazia. La commissione parlamentare, consenzienti i popolari, chiedeva che i pieni poteri del governo fossero limitati dal voto consultivo di una commissione di senatori e di deputati; ma alla richiesta pare che l’onorevole Giolitti si fosse perentoriamente opposto.

 

 

Questo, in verità, era il punto fondamentale della questione: era bene, era utile allo scopo di ottenere la riforma burocratica, dare al governo quei pieni poteri a cui esso aspirava coll’art. 1 del disegno di legge presentato al parlamento? Da varie parti politiche si è subito osservato che quell’art. 1 dava al governo facoltà di fare tutto quello che voleva in materia di pubblica amministrazione. Con un vincolo solo, di non oltrepassare la spesa in corso al 1° luglio 1921, il governo poteva sopprimere uffici, ministeri, fonderli, fors’anco ampliarli, cambiare ordinamenti, organici. Poteri assoluti, non controllabili dal parlamento; quali forse non ebbe neppure durante la guerra. Per un governo, il quale aveva proclamato sempre il suo ossequio alla volontà delle camere legislative e la sua repugnanza ai decreti legge, la richiesta di pieni poteri aveva uno strano sapore ed è naturale perciò che nella camera molti se ne siano adombrati.

 

 

Tuttavia, bisogna riconoscere che molti deputati hanno preso ombra non per amore alle teorie sulla divisione dei poteri, ma per il timore di non riuscire così ad impedire la riforma burocratica auspicata a fior di labbra. C’è da essere scettici sulla capacità del governo a sopprimere sottoprefetture, preture, tribunali, università, intendenze, uffici inutili; ma si deve essere assai più scettici intorno alla capacità del parlamento di attuare tutte queste belle cose. Anche chi crede che il governo farà poco, è persuaso che il parlamento farebbe men che nulla. Tutti gli interessi offesi troverebbero nella camera un proprio difensore; e la coalizione dei difensori renderebbe frustranea qualsiasi azione efficace.

I pieni poteri sono senza dubbio una cosa non bella; ma purtroppo sono una dura necessità, se si vuol giungere sul serio a qualche concreto risultato.

 

 

Aveva ragione l’on. Giolitti di dire che eventuali commissioni parlamentari deliberative o consultive impedirebbero al governo di agire. Ma non ha torto la commissione della camera a volere qualche guarentigia che il governo non si gioverà dei pieni poteri per accrescere permanentemente le facoltà incontrollabili del governo. Su un pericolo di questo genere ha richiamato giustamente l’attenzione l’on. Luzzatti. Bene farà la camera se impedirà che coi pieni poteri il governo abolisca il controllo preventivo della corte dei conti. Semplificare i modi di esercitare il controllo, sta bene; ma il controllo preventivo, che a gara Inghilterra e Francia cercano ora di rafforzare ed instaurare, deve anche in Italia essere rafforzato, specie per i dicasteri militari e per le spese in conto corrente. Altrimenti la burocrazia diverrà onnipotente e seppellirà il parlamento.

 

 

L’osservazione ora fatta consente di porre in luce il vero compito che costituzionalmente può spettare ad una commissione parlamentare consultiva.

 

 

La riforma per la burocrazia deve invero passare attraverso a due stadi: il primo di fissazione di regole generali in base a cui operare la riforma. Per esempio: «si devono abolire alcuni ministeri, e quali?» «si debbono abolire le intendenze?» «si deve abolire il controllo preventivo della corte dei conti?» – sono domande generali, di principio, che involgono problemi fondamentali di amministrazione e di finanza, intorno a cui sarebbe enorme che il governo potesse far tutto e il parlamento nulla. Qui si tratta di “legiferare” che è la funzione propria del parlamento; e qui sembra abbiano ragione coloro i quali sostengono la necessità di una ingerenza parlamentare.

 

 

Ma vi à un secondo problema, che non à più sul legiferare, ma sull’agire. Dato che un ministero, ad esempio quello dell’interno, su cui non cade dubbio, debba essere conservato, in quante direzioni generali, in quante divisioni deve essere frazionato? – quanti devono essere i funzionari ad esso addetti? quale deve essere la loro gerarchia? Dato che le intendenze debbano essere abolite, che cosa si deve fare dei loro funzionari, affinché essi non abbiano a perdere, per grado e stipendio, nulla e solo corrano gli stessi precisi rischi di epurazione degli altri funzionari dello stato? Questi sono problemi concreti, di azione, in cui sarebbe male che il parlamento entrasse, nemmeno per l’interposta persona di commissioni consultive. Qui si tratta di applicare in concreto i principi posti dal parlamento, si tratta di agire, di amministrare; e questo, salvo il voto di sfiducia, è compito proprio del governo.

 

 

Non aver veduto questa essenziale linea di distinzione nocque ad ambedue le parti.

 

 

Fermiamo dunque il punto che il parlamento deve solo porre i principi da cui il governo non potrà discostarsi. L’applicazione spetta ai ministri. Ma qui sorge un dubbio veramente grave: sapranno i singoli ministri dove dovranno tagliare, quali uffici abolire, quali riforme introdurre negli ordinamenti interni delle loro amministrazioni? Non è recar offesa ai ministri affermare che essi, salvo una o due eccezioni, non hanno l’attitudine a compiere da soli, personalmente, la riforma. Vengono dalla vita politica e conoscono l’amministrazione attraverso la breve, assorbente ed ossessionante esperienza di governo. Per riformare, essi debbono fidarsi di qualche funzionario, competente, non interessato, devoto al paese, il quale dica ad essi che cosa si deve fare. Quel ministro, il quale abbia sotto mano una simile perla, si dica fortunato. L’opera sua potrà essere manchevole; ma sarà ad ogni modo utile.

 

 

Per lo più, non giova nasconderselo, il ministro non avrà la perla nel suo forziere; e dovrà necessariamente rivolgersi ai suoi capi servizio, ai direttori generali del suo ministero. Questi egli li deve conoscere. In media, ogni ministro ha sei direttori generali alle sue dipendenze; ed almeno la metà di essi sono persone capaci, venute su dai gradi inferiori dando prova di intelligenza, di capacità di organizzazione e di laboriosità. Tutto si può rimproverare ai direttori generali; non di essere pigri. Coi ministri, lavorano più intensamente ed a lungo di qualsiasi altro funzionario. Parecchi di essi, probabilmente almeno la metà, sanno come si potrebbe fare una riforma, quali sono gli impiegati fannulloni ed incapaci da mandare a spasso, quali gli uffici inutili. Essi conoscono, alla loro volta, i funzionari inferiori in grado di dare un consiglio. Volendo, potrebbero convocarli a Roma ed in privati colloqui, senza solennità di circolari e di scartoffie, concretare un piano efficace di riforme nelle amministrazioni centrali e in provincia. Volendo, essi potrebbero mettere questi funzionari locali in contatto col ministro, si da illuminarlo nella difficile impresa.

 

 

Il grande pericolo da sormontare è che i capi servizio non vogliano e non abbiano interesse a volere la riforma. Ognuno di essi desidera veder primeggiare il proprio servizio e vede a malincuore ridursi il numero dei funzionari da lui dipendenti. Ognuno dirà tra sé e sé: «Se io confesso che alla mia direzione generale basta un capodivisione invece di tre e bastano 50 impiegati invece di 100, non si dirà che per un servizio così smilzo anche un direttore generale è di troppo?». E poiché è certissimo che, degli attuali 25 direttori generali, un buon quarto e forse un terzo è inutile, derivando da recenti creazioni volte a favorire la carriera di intraprendenti funzionari, subito si vede quale opposizione vivacissima sia da temersi da parte dei capi servizio contro ogni proposta di riduzione degli organici.

 

 

Qui, altra via di uscita non c’è all’infuori di suscitare nell’animo dei capi servizio un timore più grande di quello da cui essi naturalmente sono oggi tormentati. Il ministro deve dire apertamente ai suoi capi servizio: «La riduzione degli organici e la semplificazione delle funzioni sono necessarie. Il paese le vuole, il parlamento le ha votate. Io debbo attuarle. I capi servizio ed i funzionari mi devono aiutare. Coloro i quali non sapranno escogitare i modi di aiutarmi a compiere la volontà del paese, dichiarano perciò stesso di essere immeritevoli del posto che occupano. Non si può essere saliti al posto più alto della gerarchia, senza sapere come e dove semplificare e sfrondare. Chi dichiarerà l’impossibilita di raggiungere lo scopo, ritenga di avere con ciò stesso consegnato in mie mani la sua domanda di collocamento a riposo».

 

 

Un linguaggio simile, risoluto e chiaro, tenuto dai ministri ai capi servizio dovrebbe avere un risultato salutare. Non bisogna tacere però che i capi servizio avranno facile una risposta all’invito ministeriale: «Noi sapremmo bene come semplificare e come ottenere da un numero ridotto d’impiegati un lavoro più proficuo. Ma son le leggi vigenti le quali ci costringono ad impiegare due impiegati dove basterebbe uno o forse mezzo. Sono le leggi di contabilità, le quali impongono visti, controlli, pareri senza fine. È il regime della diffidenza e della irresponsabilità, il quale fa si che si moltiplichi il lavoro e dieci persone mettano bocca in ciò che una sola persona potrebbe fare. Cambiate le leggi fondamentali, le quali regolano l’amministrazione pubblica ed il numero degli impiegati potrà diminuire».

 

 

Nella protesta vi è molto di vero; e qui si parrà il merito dell’opera di quel ministro del tesoro, a cui in questa materia spetta la somma maggiore di responsabilità. Ci sono dei corpi nell’amministrazione italiana: il consiglio di stato, la corte dei conti, la ragioneria generale, le ragionerie centrali dei ministeri e le intendenze, la cui opera a poco a poco ha finito per ritardare oltre misura e talvolta impedire il funzionamento di tutte le altre amministrazioni. Bisogna abolire senz’altro le intendenze e ridurre l’opera degli altri corpi a quella che è indispensabile ed utile. Il denaro dei contribuenti deve essere sacro. Epperciò bisogna mantenere ed estendere il principio che neppure un soldo del denaro pubblico debba essere speso senza il visto di un corpo indipendente, erede delle rigide tradizioni ultrasecolari della piemontese camera dei conti; ma l’esperienza ha insegnato molto sul modo con cui il controllo può essere semplificato e si deve impedire che i controlli in genere giungano al segno di crescere oltre il ragionevole la spesa e quindi l’onere dei contribuenti. Spetta dunque al ministro del tesoro il compito di proporre al parlamento i principi della riforma e quello più rude di attuarli praticamente.



[1] Con il titolo I pieni poteri al governo per la riforma burocratica [ndr].

Le nuove tariffe doganali

Le nuove tariffe doganali

«Corriere della Sera», 9 giugno 1921

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 415-419

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 207-211

 

 

Le nuove tariffe doganali

Le nuove tariffe doganali

«Corriere della Sera», 9 giugno 1921

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 415-419

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 207-211

 

 

 

 

L’annunzio che il consiglio dei ministri ha approvato la nuova tariffa doganale e le dichiarazioni recenti fatte dal ministro Alessio a una cospicua rappresentanza dell’industria fanno ritenere che uno dei primi problemi su cui il parlamento sarà chiamato a legiferare dovrà essere quello doganale. Né v’è dubbio che il problema è urgente, poiché non si possono lasciare nell’incertezza l’industria e l’agricoltura italiane intorno al regime futuro dei dazi. Ogni industriale deve poter fare i suoi conti sul prezzo a cui può vendere i suoi prodotti, tenuto conto della concorrenza straniera e degli ostacoli maggiori o minori di dazi che questa dovrà sopportare nell’introdurre i suoi prodotti in Italia; ed ognuno deve poter sapere quali dazi dovrà pagare all’estero quando tenterà di esportare dall’Italia i prodotti nostrani. Noi non possiamo certamente influire sui legislatori stranieri sì da costringerli a palesare subito le loro intenzioni. Ma l’essere noi pronti con la nostra tariffa doganale definitiva gioverà a consentire al governo di iniziare trattative con i governi esteri per concludere buoni e duraturi trattati di commercio. Quanto più presto riusciremo a concluderli, tanto meglio sarà. Meglio un mediocre trattato per un tempo determinato, che l’incertezza odierna. Come in tanti altri campi della vita economica e sociale, anche nel campo doganale il nemico peggiore contro cui dobbiamo combattere è l’incertezza, è l’arbitrio. L’industria non potrà rivivere, la disoccupazione non potrà attenuarsi, se non si sappia con precisione quali e quante imposte si dovranno pagare, quali saranno i dazi all’entrata nel paese ed all’estero quali i rapporti giuridici regolanti il contratto di lavoro, da quali norme sarà regolato il controllo, entro quali limiti sarà contenuta la smania interventistica dello stato, ecc., ecc. E tutti gli eccetera si riassumono nel comandamento: certezza.

 

 

Io vorrei qui esporre alcuni dei criteri fondamentali i quali dovranno essere osservati dal parlamento quando esaminerà le nuove tariffe doganali allo scopo di attuare il porro unum et necessarium della “certezza”.

 

 

Primo: stipulare veri e propri trattati di commercio, obbligatori per un dato periodo di tempo, per ambe le parti contraenti. Anche per noi. Con che affermo essere condannabile e pestifero il sistema della doppia tariffa; che tanto favore ha incontrato in Italia tra industriali preoccupati solo dal loro interesse immediato ed ha avuto il favore di commissioni reali; ma per fortuna, a quanto pare, non quello del governo. Non posso in poche parole discutere a fondo dei meriti e demeriti del sistema autonomo (doppia tariffa) e di quello vincolativo (trattati di commercio). Dal punto di vista da cui qui la si considera, tutta la differenza tra i due sistemi si riduce a ciò: che col sistema autonomo, lo stato italiano è sempre libero di variare le sue due tariffe, quella minima, da applicarsi alle merci provenienti dai paesi i quali alla loro volta ci trattano bene e quella massima da applicarsi alle altre merci. In lingua povera, ciò significa che i dazi potrebbero essere variati continuamente, per sola iniziativa del nostro governo, ossia dietro pressioni esercitate da questo o quel gruppo industriale, insoddisfatto dei dazi vigenti e desideroso di protezione più alta. È il regime della corruzione politica, dei rapporti continui di dare ed avere fra amministrazione pubblica ed industria, di sopraffazione delle industrie minori e meno influenti e dei consumatori a vantaggio delle industrie più potenti. È il regime dell’arbitrio politico e della instabilità economica. Mille volte preferibile ad esso è il sistema dei trattati di commercio, i quali vincolavano i due stati contraenti per un dato periodo di tempo, ad es. 12 anni. Qualche errore si potrà commettere; ma almeno ognuno potrà fare i suoi conti di costo. Nessuno sarà soggetto a colpi mancini di rialzi o di ribassi di tariffe, atti a rovinare la sua industria od i suoi commerci. I nostri porti potranno attrezzarsi in vista di un dato traffico, senza correre il pericolo di vedersi inutilizzati gli impianti dalla debolezza di un governo pieghevole dinanzi alla prepotenza di qualche gruppo industriale interno, insofferente di una importazione abbondante.

 

 

Secondo: fissare le tariffe in moneta antica, praticamente in oro, con l’aggiunta del cambio oscillante. È il sistema seguito adesso e che, tutto sommato, è il meno instabile fra tutti. Mi spiego. Dicono molti industriali e sovratutto parecchi scrittori protezionisti: le tariffe attuali sono divenute insufficienti, perché fissate quando i prezzi erano molto più bassi di quelli odierni. Un dazio di 10 lire poteva essere sufficiente quando il prezzo era di 40, perché giungeva al 25 per cento. Oggi che il prezzo è divenuto di 200, quel dazio è di fatto ridotto al 5% ed è perciò insufficiente. L’argomento avrebbe un certo valore, se i dazi fossero espressi in lire – carta. Ma è noto invece che essi sono in lire – oro e che quindi per un dazio di 10 lire si pagano in realtà circa 30 -35 lire; e quindi il rapporto antico fra prezzi della merce e dazi doganali è bastevolmente stabile.

 

 

Bisogna conservare il metodo ora usato; ma nel tempo stesso evitare di considerare i prezzi attuali come prezzi permanenti. Se una merce oggi vale 200 lire – carta e, per una qualunque ragione, si ritiene di fissare il dazio nel 25 per cento, non bisogna stabilire quest’ultimo in 50 lire – carta. Se si facesse così, in apparenza si attuerebbe il canone della certezza. In realtà, domani, quando il prezzo della merce sarà ridotto da 200 a 50, il dazio rimarrà fermo a 50 lire – carta e diventerà uguale al 100 per cento del valore della merce. Ciò può far comodo agli industriali desiderosi di protezioni enormi. Non fa comodo invece all’economia nazionale. Bisogna calcolare prezzi e dazi, ambedue in oro; e così, se si suppone che la lira valga 30 centesimi oro, un prezzo di 200 lire – carta equivale a 60 lire – oro ed un dazio del 25 per cento deve essere fissato in 15 lire – oro. Oggi queste 15 lire – oro equivalgono a 50 lire – carta; domani equivarranno a meno od a più, a seconda delle variazioni del cambio. Ma si manterrà all’incirca il rapporto del 25 per cento che oggi si era voluto stabilire.

 

 

Terzo: ai dazi doganali non bisogna aggiungere proibizioni di importazione neppure se attenuate da permessi di importazione concessi dal governo. Se sono bene informato i produttori di colori chiedono appunto qualcosa di simile. Essi affermano di avere impiegato 400 milioni di capitale nella loro industria, di dar lavoro a parecchie migliaia di operai e di non poter resistere alla concorrenza tedesca, la quale è capace di vendere in Italia a prezzi rovinosi per i produttori italiani. Un dazio protettivo anche alto – e pare si chiedano nientemeno 3 lire oro, uguali a circa 10 lire – carta per prodotti i quali valgono ora 6 – 6,50 lire – carta, ossia il 150 per cento – non è da essi considerato sufficiente. Vogliono divieti di importazione, salvo permessi speciali da concedersi dal governo, interessato anch’esso a non darli, perché detentore di forti partite di colori che ci facemmo consegnare a titolo di indennità dai tedeschi, senza che si sapesse se c’era modo di venderli nel nostro paese.

 

 

È bene dire subito che qualunque dazio, anche enorme come quello surriferito di 3 lire – oro per merci che valgono anche solo 6 lire – carta, è di gran lunga preferibile al sistema di divieti e permessi di importazione. Con questi, alcune industrie come quella della seta (la quale fornisce da sola il quarto delle esportazioni totali italiane), del cotone, della lana, le quali hanno investito miliardi di capitali e impiegano 600 mila operai, sarebbero sacrificate ad un’industria, la quale, se ha impiegato 400 milioni, li dovrebbe anche avere ammortizzati durante la guerra ed impiega qualche centinaio ed al più pochissime migliaia di operai. Qualunque dazio è preferibile alle lungaggini necessarie per ottenere un permesso di esportazione, alla incertezza di ottenerlo, alla impossibilità di fare, in quella incertezza, favorevoli contratti di acquisto, al danno di dovere preferire una qualità cattiva o disadatta, prodotta in paese, ad una qualità buona o adatta acquistabile all’estero, alla corruzione ed ai fastidi dei viaggi a Roma e delle mance ai mediatori per ottenere permessi. Perciò bisogna star ben fermi sul concetto che il sistema dei permessi di esportazione è intollerabile e deve essere combattuto energicamente. In questo articolo non mi sono neppure messo dal punto di vista liberistico. Non ho discusso se i dazi debbano essere alti o bassi. Io li vorrei diminuiti e sostengo che un’industria la quale non sa rinunciare ai dazi, dopo quarant’anni di baliatico, non merita di vivere. Ma, alti o bassi che siano, i dazi debbono essere certi. Noi dobbiamo combattere sovratutto il regime dell’arbitrio, perché dalla sua scomparsa dipende la salvezza del paese.

L’anarchia negli stipendi degli impiegati

L’anarchia negli stipendi degli impiegati

«Corriere della Sera», 28 maggio 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 187-192

 

 

 

 

Come era inevitabile, il modo disordinato con cui a spizzico il governo cercò di quietare le agitazioni di singole categorie di impiegati, ha condotto il paese ad una situazione che pare senza uscita. Il disordine e la debolezza non possono non essere causa di indisciplina ed anarchia. A grandi tratti, la questione degli impiegati si può riassumere così:

 

 

  • la deteriorazione della moneta ed il conseguente aumento dei prezzi imposero un aumento degli stipendi in lire-carta. Sarebbe stato molto meglio che gli stipendi non fossero stati affatto variati da quelli che erano nel 1914 e che ad ogni tre mesi si calcolasse l’aggiunta variabile in più o in meno a norma delle variazioni del costo della vita.

 

  • Invece, lo stato preferì dare caro-viveri uniformi per tutti; 100, 200 lire al mese; e vi aggiunse aumenti di stipendio a coloro che gridavano di più. Probabilmente, se a tutti si fosse mantenuto l’antico stipendio, con l’aggiunta del 100%, del 150%, del 200%, del 250%, la spesa sarebbe stata minore e il malcontento meno diffuso. Invece, a taluni, e sono gli impiegati superiori, si diede circa il 100% – gli impiegati superiori, in generale, esagerano quando parlano solo di un 50%, dimenticando caro-viveri ed altre cose -; ad altri si diede il 500 ed il 600% e sono una grande massa di impiegati inferiori e di ferrovieri in genere. Gli uni ottennero meno dell’aumento dovuto per il rialzo nel costo della vita; gli altri più. Dato però l’andazzo degli aumenti uniformi in cifra assoluta, anche coloro i quali hanno avuto troppo gridano come gli altri, e questi ultimi non separano la loro sorte dai primi, perché in tempi demagogici sentono di non essere forti se non appoggiandosi alle masse.

 

  • Non essendosi subito formata l’idea che lo stato non aveva altro da fare che pagare lo stipendio promesso in moneta equivalente a quella antica, accadde che gli aumenti o caro – viveri vennero tardi e continuano a chiedersi oggi, mentre senza dubbio i prezzi ribassano. Da 100 media dei prezzi nel 1920, i prezzi all’ingrosso erano saliti in Italia a 107,33 nel novembre 1920; ma sono discesi a 93,51 nell’aprile 1921; ed anche i prezzi al minuto da due mesi in media si mantengono stazionari. È erroneo oggi dunque chiedere aumenti di stipendio per nuovi inesistenti rincari della vita. Ma il governo ha dato buon motivo alle lagnanze con le sperequazioni di cui si è reso colpevole.

 

  • Oggi non si impone dunque un aumento per caro-viveri crescente. Questo non è il punto in discussione. La sola cosa che gli impiegati hanno ragione di chiedere è la perequazione. Bisogna abolire le stravaganti differenze che oggi esistono tra stipendi di persone addette alle medesime funzioni. Un ingegnere entra nei telefoni con 4.000 lire, nel genio civile, negli uffici di finanza, nelle miniere con 5.600, nelle ferrovie con 11.100. C’è un pestifero decreto del giugno 1920, emanato arbitrariamente, in virtù del quale i segretari dei ministeri delle finanze e del tesoro passarono ad 8.000 lire e più. Ed ora tutti gli altri segretari chiedono altrettanto.

 

 

Perequazione dunque e revisione degli stipendi per riportarli a quello che erano nel 1914, con le varianti suggerite dalla necessità di riparare ad antiche ingiustizie con le aggiunte variabili e provvisorie determinate dalla scemata potenza d’acquisto della lira. Aggiunte queste ultime da eliminarsi a poco a poco automaticamente se e quando la lira rivaluterà e nella misura della sua rivalutazione.

 

 

Dico subito che tutto ciò non si otterrà se il governo chinerà il capo alle richieste attuali degli impiegati. Questi non vogliono «perequazione»; ma innalzamento degli stipendi in genere al livello degli stipendi di una classe privilegiata, quella dei ferrovieri, la quale è riuscita con l’arma dello sciopero ad imporsi ed a mandare in rovina le ferrovie. Essi non vogliono che lo stato mantenga fede alla promessa di pagare in moneta buona. Con le loro richieste di 200 lire al mese per tutti, vogliono che lo stato continui a dar troppo agli uni e troppo poco agli altri. Essi non vogliono che l’aggiunta allo stipendio antico sia, come dovrebbe essere, variabile e provvisoria; vogliono invece conglobare gli aumenti passati e nuovi nello stipendio, per rendere questo irriducibile anche se il costo della vita dovesse diminuire. Essi non intendono di fatto che gli stipendi siano adeguati al merito; ché nelle loro organizzazioni dominano le masse, le quali trovano naturalissimo che ai direttori generali sia assegnato uno stipendio poco differente da quello del segretario e magari dell’usciere capo. È vero che 95 direttori generali a Roma sono straordinariamente troppi e che un buon terzo di essi è stato creato per ragioni personali e di carriera. Ma ognuno spera di arrivare al posto e pochi fiatano per chiedere la riduzione del numero dei posti inutili. Molto se ne scrive sulla carta; ma quando un ministro tenta di passare all’atto, trova un muro chiuso.

 

 

Eppure bisogna trovare ad ogni costo una via d’uscita. Se c’è stato un sottosegretario il quale per debolezza e per preoccupazioni elettorali ha fatto promesse assurde, il ministro del tesoro veda di rimediare nei limiti del possibile. In fondo non c’è gran differenza tra il dare 200 lire di acconto su aumenti futuri e il dare le stesse 200 lire a titolo di sussidio una volta tanto. I sussidi sono come le ciliegie; che una tira l’altra. Ma importa salvare il principio; e una buona volta non ammettere più in principio che gli aumenti debbano proprio essere uniformi per tutti.

 

 

E neppure bisogna ammettere l’altro scandaloso principio che la perequazione debba farsi badando solo alle tabelle dei ferrovieri. I giornali e gli uomini politici, i quali con leggerezza incredibile non contestano questa che è la più pericolosa richiesta di coloro i quali si sono assunto il compito di rappresentare gli interessi degli impiegati, riflettano alle conseguenze dei loro atti. Accogliere tale richiesta, ha dichiarato il ministro del tesoro, vorrebbe dire imporre un carico da 2.500 a 3.000 milioni all’anno al bilancio. Un carico simile non può essere sopportato se non facendo debiti, ossia rovinando stato, impiegati e paese. A crescere ancora le imposte non bisogna neppure pensare. Le imposte sono giunte ad altezze incredibili. Gli impiegati di fatto non pagano imposte sul reddito allo stato e non sanno che sacrifici costino le imposte a coloro che le pagano sul serio. È vero che sugli stipendi gravano ritenute per circa il 15%; ma se non si vuole prendere le apparenze per le realtà, qual mai impiegato ha calcolato il proprio stipendio sul lordo? Quelle ritenute sono una pura formalità contabile. Ma non significano affatto che l’impiegato soffra sul serio il sacrificio di quelle 15 lire per ogni 100, che del resto lo stato restituisce tutte e ad usura nella pensione. Gli aumenti sono calcolati, previsti, contrattati sulle 85 lire, e vengono arrotondati poi sulle 100 lire per farvi entrare dentro le ritenute. Ma vi sono invece milioni di contribuenti che debbono realmente tirar fuori di tasca parte dei loro redditi per pagare le imposte; e lo stato d’animo che serpeggia tra costoro contro gli impiegati è preoccupante. A me arrivano lettere di gente che soffre la fame e che, godendo di poche migliaia di lire all’anno di reddito, devono togliersi il pane di bocca per pagare imposte, di cui lo stato si servirà per versare gli stipendi agli impiegati. Quei contribuenti, che talvolta stanno uscio ad uscio con coloro che ricevono il frutto dei loro sacrifici e ne contemplano non di rado il tenor di vita più alto, vedono rosso.

 

 

Tutto ciò che è scritto sopra non è detto in odio agli impiegati. Ho l’orgoglio di essere anch’io un servitore dello stato; e ritengo che sia interesse sommo dello stato di avere ai suoi ordini servitori devoti, affezionati, in situazione economica decorosa. Ma se non vogliamo andare incontro al disastro nostro e dello stato, se non vogliamo che i nostri stipendi, nominalmente aumentati in lire, si volatilizzino di giorno in giorno per una ripresa nel rincaro della vita, fatalmente conseguente all’indebitamento crescente dello stato, dobbiamo noi per i primi voler mettere un punto fermo al disordine pazzesco da cui la politica degli stipendi fu contrassegnata negli ultimi anni. L’opinione pubblica, che oggi ci è contraria, diventerà a noi favorevole quando avremo detto: basta con gli aumenti egualitari che distruggono la disciplina, che danno ad un bidello più che ad un professore, ad un cantoniere tanto quanto ad un magistrato! Basta con gli aumenti a casaccio che provocano enormi aumenti di spesa improduttiva e costringono lo stato a far debiti! Basta con le commissioni, che non risolvono nulla e vogliono accontentare tutti! Il ministro del tesoro prenda egli in mano la questione, fissi l’onere massimo che l’erario può sopportare; senta privatamente i competenti, gli impiegati alti ed umili; riduca le funzioni dello stato; e sul letto di Procuste dei 5 o dei 6 miliardi di spesa tenti di far entrare la perequazione degli stipendi che oggi è il desiderio massimo degli impiegati. Un uomo solo potrà sbagliare; ma sicuramente assai meno di molti uomini. Ma egli deve essere sicuro che attorno a lui tutti gli impiegati si stringeranno nel momento della decisione; anche se egli dovrà decidere di licenziare un quinto degli impiegati in carica o di ridurre gli stipendi di coloro che oggi sono troppo pagati. Perché, solo a queste condizioni il problema degli impiegati mal pagati è solubile.

 

 

Il sistema della catena

Il sistema della catena

«Corriere della Sera», 25 maggio 1921

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 411-415

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 183-187

 

Il sistema della catena

Il sistema della catena

«Corriere della Sera», 25 maggio 1921

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 411-415

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 183-187

 

 

 

 

La gestione dell’Ilva e la perdita spettacolosa di parecchie centinaia di milioni di capitale e riserve meritano di essere esaminate ancora per chiarire sotto quali rispetti tocchino l’interesse generale della collettività.

 

 

Il sistema della catena. Credo, in mancanza di un miglior vocabolo, di avere io, dieci anni fa, intitolato così il sistema che allora, come oggi, era usato principalmente, per non dire esclusivamente, dalle società siderurgiche.

 

 

Vi sono due società A e B, i cui azionisti hanno versato 10 milioni, per ciascuna, dei loro sacrosanti risparmi? Come è naturale, gli azionisti, che sono i padroni dell’azienda, nominano gli amministratori ed i sindaci; e gli affari vanno avanti, bene o male, a seconda dei casi, ma ad ogni modo vanno, come meritano e vogliono azionisti ed amministratori. Ad un certo punto un gruppo di amministratori o finanzieri o banche ritiene di avere interesse a mettere le mani permanentemente sulle due aziende; ed inventano il gioco della catena. Basta un colpo una volta tanto; e l’affare è fatto per sempre. Di solito, occorre che il gruppo possegga un pacchetto di azioni di ambe le società; ma non è assolutamente necessaria la maggioranza. Basta al gruppo assalitore di avere un po’ comperato ed un po’ preso a prestito (a riporto) metà più una delle azioni per deliberare ed eleggere. È accaduto che i veri azionisti, ignari di quel che si combinava, dessero a prestito ad una banca per un mese le loro azioni, ricevendo in compenso qualche lira di premio. Per un tal piatto di lenticchie, essi rinunciarono per sempre al loro diritto di proprietà.

 

 

Ecco infatti che cosa può accadere. Nell’assemblea della società A, il gruppo magnifica la necessità di espandersi e di raddoppiare il proprio capitale per prendere una degna interessenza nella società B, che si dice destinata al più lieto avvenire. Persuasa, l’assemblea, di cui il gruppo possiede per quel giorno la metà più uno dei voti, approva l’aumento del capitale da 10 a 20 milioni di lire e l’impiego dei nuovi 10 milioni nell’acquisto di altrettante azioni della B.

 

 

Contemporaneamente, nella società B avviene il medesimo gioco. Anch’essa aumenta il capitale da 10 a 20 milioni di lire, ed investe 10 milioni di lire nell’acquisto di altrettante azioni della A. Che cosa è accaduto in realtà? Che il capitale vero delle due società è rimasto quello che era; che neppure un centesimo di capitale nuovo o fresco è entrato nelle casse sociali; che dopo una fuggevole comparsa di qualche milione di lire, prestato dalle banche, per l’obbligatorio deposito dei tre decimi, si vede unicamente uno scambio di azioni tra le due società. La società A ha un capitale di 20 milioni, di cui 10 investiti in edifici, impianti, merci ecc. e 10 in azioni della B; e la società B ha pure un capitale di 20 milioni, investito per 10 in impianti ecc. e 10 in azioni della A. Lo scambio sembra ed è vizioso dal punto di vista della società, della produzione e degli azionisti; ma è importantissimo dal punto di vista degli amministratori. Il gruppo assalitore, invero, ha nominato se stesso al consiglio d’amministrazione; ed una volta insediato, non c’è più forza umana che riesca a sloggiarlo. Basta che esso possegga una azione vera, di quelle vecchie, per essere inamovibile. Infatti, all’assemblea della A, il gruppo interviene in veste di delegato dell’azionista società B, portatrice di 10 milioni sui venti del capitale della A e di una azione vecchia. Ha la maggioranza e vota tutto quel che gli pare. Nell’assemblea della B il gruppo interviene in rappresentanza dell’azionista società A e di nuovo vota tutto quel che vuole. I veri, i becchi azionisti, che hanno versato il denaro sonante dei primi 10 milioni devono stare a vedere e non possono dir niente.

 

 

L’esempio che ho fatto è schematico; e può essere variato all’infinito. Invece di due società se ne possono mettere tre o quattro o più. Non occorre, di solito, andare fino all’estremo di raddoppiare il capitale. Basta anche meno acqua per ridurre all’impotenza i veri azionisti.

 

 

Pericoli e rimedi. – Il sistema della catena è pericoloso; poiché l’interesse degli amministratori non coincide più con quello della società. Quelli possono avere interesse a non dar dividendi, a mandare in malora o fingere di rovinare la società per spaventare i veri azionisti, indurli a vendere a vil prezzo ed impadronirsi così dell’impresa per un boccon di pane.

 

 

Quale il rimedio? Pur avendoci riflettuto molto, da anni, non mi pare possibile un rimedio a colpi di legge. Si potrebbe proibire il metodo della catena, annullare le azioni fittizie che si compensano. Ma probabilmente il male sarebbe maggiore del bene. Bisogna ricordare che il metodo della catena, nella forma descritta ora, è adoperato in Italia in taluni vistosissimi casi – di cui quello dell’Ilva, con l’Elba, la Savona ecc., è il più spettacoloso – che fanno gran colpo nel pubblico, che toccano aziende famigerate; ma, sebben vistosi, i casi sono pochi. Accanto a questi pochi casi, vi sono migliaia di altri casi in cui una società si interessa onestamente e ragionevolmente in altre società. Una società di navigazione può avere interesse a comprare azioni di un cantiere navale, per potere meglio far costruire o riparare le sue navi. Una società di confetti può trovare vantaggio nel possesso di azioni di una fabbrica di cioccolato. Un cotonificio può assai utilmente possedere azioni di una stamperia di tessuti. Se noi proibissimo ad una società di possedere azioni di un’altra, costringeremmo le società di navigazione a costruirsi esse i propri cantieri, quelle di confetti a produrre il cioccolato, il tessitore a fare anche il filatore. È naturale che ogni produttore voglia essere sicuro di buoni rapporti continui con il produttore che gli sta a fianco. L’interessamento con acquisto di azioni è il metodo più economico per ottenere l’effetto, che altrimenti si raggiungerebbe con la creazione di doppioni e calpestando tutte le regole della divisione del lavoro.

 

 

Dal bene nasce però il male del sistema della catena! È vero: ma la legge, ho paura, non può porvi rimedio. Salvo, forse, coll’obbligare ogni società a pubblicare i particolari delle azioni possedute di altre società: numero, prezzo d’acquisto, valore d’inventario alla data del bilancio. Oggi, le società peccatrici nascondono gli interessamenti a catena con grosse cifre in blocco: 10 milioni, 50 milioni di “interessenze diverse”, in cui nessuno capisce niente. Le autorizzazioni ad interessarsi in altre società sono date in massima; e gli amministratori non rendono conto particolareggiato dell’uso fatto dell’autorizzazione ricevuta. Se una estrema precisione fosse imposta, gli azionisti al meno sarebbero mezzo avvertiti. Nelle assemblee potrebbero opporsi in tempo.

 

 

Qui è il vero rimedio alla possibilità di imbrogli degli amministratori; l’educazione degli azionisti. Si curino meglio dei fatti loro. Non credano alle frottole raccontate da chi è interessato a far fuori l’azione. Vadano alle assemblee; cerchino di nominare solo amministratori probi ed onesti.

 

 

Il compito del governo e della magistratura. – Che si possa far molto non si può sperare; ma qualche esempio di repressione potrebbe essere salutare. Dirò subito che la sorte degli azionisti dell’Ilva mi commuove scarsamente. Che essi abbiano comprato le azioni a 200, e le abbiano viste cadere fino ad 80 qualche mese fa e verso il 40 oggi, è spiacevole. Che gli azionisti dell’Ansaldo abbiano sottoscritto a 290 azioni magnificate con annunci all’americana ed oggi se le vedano cadute a 140 – 150, è anche spiacevole. Ma non è commovente. Quegli azionisti sapevano o dovevano sapere di acquistare titoli rischiosi, di industrie note per i loro alti e bassi, bisognose altrettanto notoriamente di aiuti artificiali, di dazi doganali, di ossigenate ordinazioni governative per vivere. Quelle azioni non sono pane per i loro denti. Le lascino alla gente sperimentata, a quelli che possono attendere anni ed anni, che possono compensare le perdite degli investimenti cattivi con i guadagni dei buoni.

 

 

Ci sono però dei casi in cui nessuna previggenza sarebbe bastata. Ecco le azioni delle Meridionali ritornate non solo dai 700-800 di 15 anni fa alle 500 nominali, ma giù giù alle 400 l’anno scorso, alle 350 qualche mese fa ed alle 280 lire adesso, sebbene siano un titolo considerato di tutto riposo e comperato da padri di famiglia, da vedove, da tutori. I tribunali ne approvavano l’acquisto e la conservazione nel patrimonio di pupilli. Ed oggi in molte famiglie si piange per la rovina; e si è spaventati dalla necessità di pagare l’imposta patrimoniale su un valore di 568,67 mentre il prezzo di realizzo è di 280! Frattanto, si sente dire che il titolo è precipitato perché le Meridionali hanno investito una parte del realizzo dei loro crediti verso lo stato in acquisti di azioni Ilva. È vero o non è vero l’investimento? E come ci si arrivò? In qual modo gli amministratori ed i dirigenti dell’Ilva sarebbero riusciti a scaricare un pacchetto dei loro titoli addosso ad una società così antica ed esemplare come la Mediterranea? Questi sono i fatti che veramente interessano il pubblico dei risparmiatori, il quale non si preoccupa né punto né poco del salvataggio della siderurgia, ma vuole sapere quali siano state le cagioni della perdita del suo sudato risparmio. Se c’è qualcuno che ha rotto, paghi e vada a vedere il sole a scacchi. Sulle migliaia di società anonime esistenti in Italia, forse cento sono marce ed in non più di tante i filibustieri si sono annidati. È necessario che qualche buon esempio tolga loro la voglia di muovere all’assalto della grandissima maggioranza delle società buone.

Farla finita con l’Istituto dei cambi

Farla finita con l’Istituto dei cambi

«Corriere della Sera», 22 maggio 1921

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 167-172

 

 

 

 

Un monopolio del quale non è ancora stata annunciata esplicitamente l’abolizione è quello dei cambi. Eppure, da quel che si sente dire, esso esiste ancora; sebbene ad un estraneo sia difficile sapere che cosa precisamente esso faccia e quali siano le norme le quali nel momento presente lo regolano.

 

 

Che in passato esso abbia fatto molto bene, è dubbio. L’unico suo ufficio poteva essere quello di moderare le oscillazioni dei cambi; ché certo non poteva avere la taumaturgica virtù di impedirne l’ascesa. Come era naturale, i cambi aumentarono finché piacque ad essi di diminuire per cause naturali, tutt’affatto indipendenti dall’azione dell’istituto, e poi diminuirono e poi oscillarono ancora, abbastanza violentemente. Tutto ciò era inevitabile e naturale; ma non fu, a quel che sembra, per nulla impedito o modificato dall’istituto.

 

 

Che cosa ci sta dunque a fare l’istituto? Probabilmente, se si facesse questa domanda a qualcuno dei dirigenti od ideatori o difensori del monopolio, si avrebbe per risposta: esso serve a disciplinare, a regolare, a moralizzare il mercato dei cambi esteri. “Disciplinare” sovratutto; parola morbida, rotonda, piacevolissima a pronunciare e ad udire in bocca di coloro i quali credono che sia indispensabile un regolamento ed una norma per tutte le cose che si fanno ed a cui non passa neppure lontanamente in mente che le cose meglio fatte sono quelle compiute senza regola. “Disciplinare”, parola priva di senso comune, che bisogna squalificare, distruggere, additando al vilipendio universale coloro che osano ancora adoperarla a guisa di traslato, fuor del campo suo proprio, dove soltanto essa merita di essere tenuta in onore: che è l’esercito, la scuola, la magistratura, la burocrazia, la fabbrica, dove c’è per istituto chi comanda e chi obbedisce.

 

 

In materia di cambi, quali sono i frutti della disciplina voluta instaurare dall’istituto dei cambi? A quel che si può sapere, si sono venuti creando due mercati dei cambi, simili al parterre ed alla coulisse della borsa francese, ai piedi asciutti ed ai piedi bagnati di Nuova York: da un lato ci sono i banchieri autorizzati a trattare i cambi, i quali sono soggetti alla sorveglianza dell’istituto ed attraverso i quali soltanto tutti coloro che debbono comperare o vendere cambi dovrebbero agire. Il più grosso dei compratori di cambi, lo stato, agisce solo a mezzo degli istituti autorizzati, o meglio, a mezzo delle quattro grandi banche ordinarie. Chi vuole comprar cambi deve dire la ragione dell’acquisto; ed i banchieri autorizzati debbono trasmettere all’istituto ogni quindicina l’elenco dei cambi acquistati o venduti, cosicché a Roma si sappia quanto si compra e si vende in Italia.

 

 

Accanto al mercato ufficiale e controllato c’è un mercato libero dei cambi. Infinita gente compra e vende cambi, anche in borsa, senza esservi autorizzata e senza darne notizia all’istituto. Chi vuole inviare una qualunque somma all’estero, anche per una causale non ammessa dall’istituto, per esempio esportazione di capitali, lo fa tranquillamente, in barba alla legge. Basta pagare il prezzo.

 

 

Ecco quale mi sembra sia il risultato principale del cosiddetto monopolio: aumentare il prezzo delle contrattazioni in cambi. In uno stesso giorno, un tale il quale aveva bisogno di una data divisa estera, si vide fare da un primario istituto di credito una richiesta del 3 per cento superiore al prezzo d’offerta. Era lo stesso cambio, che la banca comperava a 100 e rivendeva a 103. Lo sconto è enorme: ragguagliato ad anno equivale al 1080 per cento; ed è caratteristico dei mercati falsati dai calmieri e dagli interventi governativi. In un mercato libero, dove tutti potessero comprare o vendere senza restrizioni, senza controlli, senza rese di conti a nessuno, sconti di quella fatta non potrebbero durare. In un mercato sorvegliato, chi non vuol far sapere i fatti propri allo stato paga volentieri il 3 od il 5 per cento di multa all’intermediario che gli vende i cambi senza curiosare inutilmente nei fatti suoi: ed è perciò fatale che tutti gli altri, coloro i quali si sottopongono alla “disciplina” governativa paghino la tangente o taglia alle banche autorizzate. Pagano più o meno, ma pagano.

 

 

Ed è vano chiedere: punite le frodi; sopprimete il mercato clandestino. Ciò non si ottenne mai, neppure durante la guerra. Tentarlo ora avrebbe per unico effetto di crescere lo sconto, aumentando il rischio dei liberi negoziatori di cambi; e quindi di fare il danno dell’industria. Non è mille volte meglio dare il fuoco all’intera baracca, sopprimendo l’istituto?

 

 

Tanto, più urge il farlo, poiché questa è l’unica maniera con cui si possono distruggere certe fisime stravaganti che si sono ficcate nella testa dei dirigenti dei cambi, dei fabbricanti dei decreti destinati a “disciplinare”, ossia a disturbare i cambi. Una delle più stravaganti ed ostinate tra queste fisime cambieresche è quella per cui l’istituto si ostina a proibire agli industriali e negozianti italiani di vendere in lire sui mercati a valuta apprezzata; e per contro li obbliga a vendere in lire sui mercati a valuta deprezzata. Invano, da anni, uomini pratici e uomini di scienza si affannano a dimostrare che i fabbricanti di decreti si sono messi in tal modo al livello dell’analfabetismo economico più grossolano ed imperdonabile. Non si può vendere in Inghilterra e nelle colonie se non in sterline, negli Stati Uniti se non in dollari; e per contro bisogna vendere in lire a Francoforte, a Vienna, a Bucarest ed a Varsavia.

 

 

Io ho invano tentato infinite volte, ogni volta che ci penso, di rendermi conto di tale enormità, fatta decreto. Non ci sono mai riuscito; eppure resta lì, infrangibile come il macigno delle nostre Alpi. Pare che quella gente si sia ficcata in testa che sia meglio vendere una nostra merce per 1.000 lire sterline piuttosto che per 70.000 lire italiane; perché… perché in questo modo l’Italia diventa creditrice di 1.000 lire sterline e può comprare merci all’estero per altrettanta somma, senza dovere comperare cambi. Ma non è chiaro come la luce del sole che, se anche noi vendessimo quella partita di merci per 70.000 lire italiane, lo straniero compratore, per consegnare a noi le 70.000 lire, dovrà comperarle e per comperarle dovrà vendere 1.000 lire sterline, ossia dovrà fornire le 1.000 lire sterline precisamente all’importatore italiano di merci estere, il quale abbia disponibili le 70.000 lire necessarie a pagare le merci estere che a noi abbisognano?

 

 

Che si venda in lire o in sterline è la stessa precisa cosa; anche le operazioni fanno, per se stesse, salire la lira italiana. Sale se si vende in lire, perché l’inglese per pagarcele dovrà comperarle; sale se si vende in sterline, perché chi le riceve dovrà venderle per incassare lire, e, facendo domanda di lire, queste salgono. Lire o sterline, trattasi di pura forma; l’importante è di esportare merci. Così pure non fa differenza veruna vendere a Vienna una partita di merci per 400.000 lire o per 10 milioni di corone. Nel primo caso, il compratore viennese per dare a noi 400.000 lire deve vendere 10 milioni di corone; nel secondo, noi venderemo i 10 milioni di corone ricevuti per comprare 400.000 lire. In tutti e due i casi le lire vanno su e le corone vanno giù.

 

 

La sola differenza in tutto questo fantastico contrasto creato dalla nostra burocrazia attorno all’imbroglio delle lire, marchi, corone, sterline e dollari, è che il rischio del ribasso o del rialzo lo ha chi vende o compra in moneta forestiera. L’italiano che compra o vende in lire italiane si mette al coperto dalle oscillazioni dei cambi. La via d’uscita più semplice parrebbe fosse quella di lasciare che ognuno corra i rischi che crede. Chi crede che i marchi siano destinati a salire, venda in marchi; chi crede l’inverso, venda in lire. Ognuno badi ai fatti suoi.

 

 

Mai più, grida inorridita la burocrazia. È illecito che ognuno corra i rischi che egli reputa migliori. Soltanto noi sappiamo quali sono le cose buone da fare; soltanto noi sappiamo quali sono i rischi da correre. Quindi tutti vendano in sterline e in dollari, perché queste sono le monete buone; e nessuno in marchi e in corone, perché queste sono le monete cattive.

 

 

Intanto, ecco cosa accade. «Oggi – mi scriveva un mese fa un esportatore italiano – ricevo offerta di prezzo da una lontanissima colonia inglese per una partita di merce a 5 sterline per cento chili, pagamento contro documenti. Col cambio odierno di 85 lire potrei accettare l’ordine, ma fra due mesi, allorché la merce potrà essere imbarcata, quale sarà il cambio?». Perciò quell’esportatore non accettò l’ordine; la merce italiana rimase in Italia; e l’esperienza dimostrò che colui aveva fatto benissimo. Oggi, col cambio a 70 lire, egli perderebbe una forte somma. Se gli fosse stato consentito di vendere in lire, egli avrebbe fatto l’affare e l’Italia avrebbe veduto crescere la sua capacità di esportazione e quindi di lavoro. Invece di noi, vendettero gli americani del nord, nostri concorrenti nell’articolo in questione, procurando così lavoro ai loro disoccupati. Quando mai si arriverà a capire che non esistono monete cattive e monete buone; ma solo monete che salgono e monete che scendono e che tutte le monete possono subire movimenti nei due sensi e far correre rischi buoni le monete cattive e rischi cattivi le monete buone?

 

 

Mi perdoni l’on. Bonomi, se oso dargli un consiglio: mandi a chiamare il direttore del tesoro, il contabile del portafoglio e il direttore dell’istituto dei cambi e chieda: «Siete disposti a garantire gli esportatori e gli importatori italiani contro le perdite di affari e di denaro che voi fate loro subire con le norme che voi dichiarate sapienti e che gli interessati affermano cervellotiche? Se sì, sta bene. C’è una certa probabilità che i vostri decreti siano ragionevoli. Se no, le vostre rimangono quelle che sono: elucubrazioni che non si possono neppure chiamare dottrinarie, perché gli studiosi non ne riescono ad intuire il significato ascoso. A questo mondo, qualcuno conviene che si assuma i rischi delle variazioni future dei prezzi e dei cambi. Se noi non li lasciamo correre agli interessati, pagherà il paese. E nessun decreto e nessun istituto dei cambi vale la perdita del paese di un giorno solo di lavoro. Specie in tempo di crisi e di disoccupazione».

 

 

Se poi, finito il discorso senza alcuna promessa di garanzia, il ministro del tesoro con un bel decreto, il più bello che egli potrà mai firmare, abolirà l’istituto dei cambi, risparmiando la spesa della burocrazia che vi è addetta, le sue benemerenze verso il paese cresceranno a mille doppi.

Calunnie

Calunnie

«Corriere della Sera», 15 maggio 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 174-176

 

 

Per difenderci

Per difenderci

«Corriere della Sera», 14 maggio 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 171-173

 

 

«Liberali»

«Liberali»

«Corriere della Sera», 17 aprile 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 119-122

 

I realizzatori alla scuola dell’esperienza

I realizzatori alla scuola dell’esperienza

«Corriere della Sera», 16 aprile 1921[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 486-490

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1923-1924), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 114-118[2]

 

 

 

 

L’idea del controllo operaio sta subendo un processo critico assai interessante da parte di coloro che nel settembre scorso la imposero ad un governo che ne sentiva parlare per la prima volta.

 

 

Prima l’on. Umberto Bianchi dichiarava assurdo che i dirigenti di un’impresa cooperativa o capitalistica debbano avere tra i piedi dei seccatori, anche se questi si chiamano controllori, e quasi rimpiangeva gli sbruffi che sotto mentite spoglie bisognerà iscrivere nel bilancio delle cooperative per farli stare zitti. Poco dopo un altro organizzatore, Gino Raldesi, si offendeva che si fosse potuto attribuire ai capi della confederazione quest’altra «castroneria», che cioè il controllo deve essere «l’inizio» alla «abilitazione collettiva» alla dirigenza dell’industria. E chi ha mai detto – esclama il Baldesi – che le imprese industriali debbano essere dirette dalle masse, «mentre tutte le esperienze hanno ormai dimostrato che la dirigenza non può che essere individuale»?

 

 

E che cosa è ancora, si può rispondere, il socialismo cosidetto scientifico quando, dopo avere per tanti anni predicato contro l’individualismo capitalistico e per la educazione delle masse al governo delle cose, ossia dell’industria, improvvisamente si accorge che avevano ragione gli industriali e gli economisti quando sostenevano che l’industria non può essere governata a forma democratica, che l’impresa deve essere retta da una mente unica, non sottoposta a pastoie, o deve andare in rovina? Che cosa sono queste «tutte le esperienze» le quali avrebbero «oramai» dimostrato che la dirigenza non può che essere individuale, se non le esperienze della società attuale, le fortune delle imprese ben dirette e le disgrazie capitate in passato alle imprese le quali pretendevano di foggiarsi su altre basi? Queste «esperienze» a cui voi fate appello oggi, dopo aver osservato e toccato con mano l’insuccesso del controllo in Germania, in Austria, in Russia, non erano forse «esperienze» probanti e conclusive cinque o sei mesi fa, un anno fa quando gli industriali, forti delle tradizioni proprie, vi additarono le conseguenze spaventose del mal passo a cui voi volevate condurre un paese turbato ed un governo inconsapevole?

 

 

A discolpa dei «realizzatori», socialisti o borghesi, popolari o rinnovatori, si può dire soltanto questo: che nelle cose economiche e sociali la scienza e l’esperienza del passato non servono a nulla; che ogni riformatore o realizzatore deve far lui la esperienza, toccar lui con mano le conseguenze dei suoi errori; far lui scuola a se stesso. Dopo di aver fallato, inciampato, toccato con mano l’errore proprio, il realizzatore deve ancora avere la soddisfazione di «insegnare» al mondo attonito che la «esperienza» insegna questo e quest’altro; fa d’uopo ancora consentirgli di ribellarsi contro le ingiuste accuse di industriali, giornalisti borghesi e di economisti. E sia. La riluttanza nel confessare il proprio errore, la improntitudine nel negare di esserne mai stati intinti, sono un prezzo un poco elevato da pagare per l’educazione e l’istruzione dei dirigenti delle masse operaie. Ma sono un prezzo che val la pena di pagare, pur di ottenere lo scopo della pacificazione sociale e della vera ricostruzione che è il ritorno puro e semplice alla organizzazione individualistica dell’impresa industriale.

 

 

Il guaio si è che i ricostruttori imparano faticosamente, gridando assai improperii contro i maestri, la lezione. E si ostinano ad impararla a metà od anche meno. Gino Baldesi, il quale si offende al pensiero che alcuno abbia mai pensato che il controllo possa significare avviamento alla direzione collettiva delle aziende da parte degli operai, il quale non vuole che i controllori «scambino la loro funzione di informatori con quella di giudici di quanto avviene nell’industria sottoposta a controllo», nel tempo stesso afferma che il controllo deve essere «l’inizio della abilitazione collettiva alla gestione dei mezzi di produzione, avvicinando così la collettività alla fonte di ricchezza che fornisce il benessere per tutti». Che cosa è «la gestione dei mezzi di produzione» se non l’amministrazione e la direzione delle imprese? Che cosa sono i “mezzi di produzione” se non le macchine, gli edifici, i motori, le materie prime, i combustibili, i capitali circolanti e tutto quanto giova alla produzione? E chi gerisce tutto questo non è forse il vero dirigente, il vero padrone dell’industria? La vuol dunque «avvicinare», sì o no, la «collettività» alla gestione dei mezzi di produzione; oppure riconosce che la dirigenza delle imprese industriali da parte delle masse è una «castroneria» e che il direttore deve essere un individuo, un uomo? E qual valore conserva la sua affermazione dedotta da «tutte le esperienze» che «la dirigenza non può che essere individuale», quando a due righe di distanza egli nota che la legge di controllo «mortificherebbe quella autorità incontestata che i dirigenti hanno esercitata ed esercitano?» Insomma, i dirigenti debbono essere uno o molti; devono essere liberi od impastoiati? Debbono avere attorno dei giudici o delle spie?

 

 

La verità è che Baldesi ed i suoi colleghi della confederazione del lavoro hanno gittato in pasto alle folle operaie la parola “controllo operaio” senza avere la più lontana idea del suo contenuto. Adesso, a poco a poco, sotto il fuoco di fila delle obbiezioni degli industriali, imparano quale tremenda cosa sarebbe se fosse attuato, quale impaccio alla produzione e quindi quale ostacolo all’elevamento dei salari, ed affermano che essi non hanno mai pensato, non hanno mai voluto che fosse quella brutta cosa che gli industriali descrivono. Certo; non hanno mai voluto quella tal cosa, perché nella loro mente l’idea del controllo era una nebulosa attraente ed inafferrabile; ed ora brancolano nel buio per cercare di dare qualcosa di concreto alle masse, le quali avevano intravveduto nel controllo il paradiso terrestre, il tesoro nascosto che loro permettesse di vivere senza lavorare.

 

 

Non sarebbe giusto rimproverare troppo gli organizzatori per aver fatto una proposta di cui non avevano prima valutato esattamente la portata. Il loro difetto è proprio ai nove decimi degli uomini politici, o, meglio, al novantanove per cento degli uomini in genere. Rarissimi sono coloro i quali, posti dinanzi ad un problema da risolvere, ad un malanno da riparare, non si sentono disposti a proporre il rimedio. Fa d’uopo una gran forza di volontà, una grande esperienza delle cose accadute lungo i secoli della storia umana, una grande resistenza alla tentazione di essere approvato per il bene che si ha intenzione di arrecare altrui, per dire: «No. Questo è un male che non si sana con leggi, che solo l’educazione, l’esperienza, il tempo potranno guarire. Qualunque cosa noi facessimo, anche colle migliori intenzioni, per risolvere legislativamente il problema, aggraverebbe il male». Parlar così, sarebbe eroico; e gli uomini non sono purtroppo eroi o santi. E propongono il rimedio. Se si tratta di individui isolati, il rimedio cade nel vuoto e non fa danno. Quando dietro all’uomo c’è un partito, il rimedio fa la sua strada; e se il partito, per le contingenze del momento, riesce a fare accettare la proposta dal governo, e l’idea entra nel campo delle cose concrete, allora comincia l’opera della «degenerazione» o della «trasformazione» dell’idea; ossia comincia il lavoro, che si sarebbe dovuto far prima, necessario a ricondurre l’idea a quel nulla da cui non sarebbe mai dovuta uscire. Così fu del controllo operaio.

 

 

Faccia a faccia con gli industriali, con i veri organizzatori della produzione, gli organizzatori hanno dovuto riconoscere che bisogna ad essi lasciare la direzione dell’impresa, che non bisogna mettere su di essi controllori «che siano chiacchieroni ignoranti». Sarebbe un «orribile sistema» che condurrebbe gli operai «nel baratro della disoccupazione per la chiusura degli stabilimenti». No. Bisogna rispettare i veri industriali. Bisogna anzi aiutarli. Noi vogliamo arrivare alla «conoscenza esatta dei metodi e dei costi di produzione», vogliamo «avere sott’occhio le speculazioni che nulla hanno a che fare con l’industria sana» per salvare l’industria stessa dai suoi nemici, dagli «ignobili vampiri» i quali arricchiscono «procurando periodi di stasi all’attività industriale», vogliamo diminuire «gli artificiosi ostacoli che gli speculatori frappongono alla produzione».

 

 

Eh! tanto ci voleva per arrivare a questo punto? E cioè a confessare che essi realizzatori hanno capito e son persuasi che gli industriali sono necessari ed utili alla produzione; ma non hanno ancora capito che anche la banca e la borsa e la moneta sono altrettanto utili e necessarie e quindi vogliono aver modo di andare a fondo di queste misteriose cose, usando il solito metodo di svillaneggiare coloro di cui essi non comprendono l’ufficio? I socialisti sono, in verità, in buona compagnia nel non capire la funzione grandissima, crescente e, tutto sommato, pur tenuto conto di momentanee deviazioni, fecondissima della speculazione nell’incanalare la produzione verso le forme più utili alla collettività. Nove decimi della classe politica dirigente sono con loro e per la stessa ragione per cui essi dirigono i loro ultimi strali verso questa forma di attività economica: per ignoranza della esperienza secolare e della mirabile letteratura quella la quale comprende i capolavori più ardui ma più meravigliosi della scienza economica la quale è venuta intessendosi intorno a questi complicati ed affascinanti problemi.



[1] Con il titolo I realizzatori a scuola dell’esperienza. A proposito del controllo operaio [ndr].

[2] Con il titolo I realizzatori a scuola dell’esperienza. A proposito del controllo operaio [ndr].

L’orientamento dei partiti e delle coalizioni per la battaglia elettorale blocco di uomini o blocco di idee?

L’orientamento dei partiti e delle coalizioni per la battaglia elettorale blocco di uomini o blocco di idee?

«Corriere della Sera», 13 aprile 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 110-113

 

Il programma economico e finanziario del governo

Il programma economico e finanziario del governo

«Corriere della Sera», 9 aprile 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 105-109

 

 

 

 

Si può dire, in lode del programma governativo esposto nella relazione al re, che in esso manca l’annuncio di nuove stravaganze demagogiche. In tempi nei quali il cittadino ha sempre ragion di temere, svegliandosi al mattino, di leggere sui giornali l’annuncio di qualche nuova tegola capitatagli tra capo e collo, la quale gli impedisce di lavorare, di muoversi, di prendere nuove iniziative e nel frattempo, lo carica di nuove imposte inspirate a criteri di Odio e di persecuzione, è un gran motivo di soddisfazione poter dire: «stavolta niente di nuovo; i malanni che ci si minacciano sono quelli antichi, che conoscevamo già». C’è, dunque, nelle materie economiche, finanziarie, amministrative, la speranza di un progressivo rinsavimento? Ancora sarebbe prematuro confidare con sicurezza, poiché le luci si alternano con le ombre.

 

 

Afferma la relazione, in primo luogo, che «al regime di monopolio è sostituita la completa libertà commerciale, limitata soltanto, e per poco tempo, in quanto riguarda gli approvvigionamenti del grano». L’affermazione fatta in tono talmente categorico, che vien voglia di credere siano davvero definitivamente scomparsi i monopoli del caffè, dei suoi surrogati, delle lampadine elettriche, i vincoli al commercio dello zucchero, del latte, i consorzi dei colori, i privilegi concessi a non si sa quali istituti cooperativi governati da rossi per il commercio con la Russia; e si immagina per un momento che sia abolito completamente il regime dei permessi di importazione e di esportazione per l’estero. Finché tutto ciò non sia passato dal regno dei sogni nella realtà concreta, discorrere di instaurazione di una «completa» libertà commerciale è dunque una figura retorica che ha un vago sapore di ironia. Nulla dice la relazione dei propositi del governo rispetto al regime doganale; né il silenzio è atto a disperdere i dubbi nutriti circa il probabile accoglimento di domande di protezione cotanto stravaganti che se fossero davvero accolte anche soltanto in parte, la libertà del commercio potrebbe andare a nascondersi.

 

 

Più esplicito è il discorso del capo del governo sul problema finanziario:

 

 

«Poiché il disavanzo oramai ridotto da 14 a 4 miliardi, possiamo nutrire ferma fiducia di potere in tempo non lungo pareggiare le entrate con le pose con la rigida applicazione delle imposte già approvate, con qualche ritocco, che, migliorandone l’ordinamento, ne accresca l’efficacia e con una forte politica di economie».

 

 

Se saranno attuate seriamente, queste sono promesse piene di buon senso. Su queste colonne, il grido «basta con nuove imposte!» fu gettato da tempo; ed era infatti con terrore che si assisteva al diluviare di nuovi balzelli, uno più stravagante dell’altro, i quali si annullavano a vicenda, impedivano all’amministrazione di lavorare con calma e di ottenere risultati duraturi a pro della finanza. Pare che finalmente si sia capita l’elementare verità, che dieci imposte rendono più di venti, se amministrate bene; e che a correre dietro a tutte le idee balzane di progettisti, come si è fatto negli ultimi anni, si fa il danno della finanza. Coordinare, temperare, applicare con fermezza le imposte vigenti e non inventarne alcuna nuova: ecco il piano meglio atto a giungere al pareggio; ecco il piano che parrebbe finalmente essersi imposto al governo. Qualche incertezza di pensiero esiste tuttavia, come quando, poco sotto, la relazione soggiunge che occorre «una eccezionale energia per stabilire la più rigida giustizia nella distribuzione dei pubblici pesi, esigendo da tutte le classi di contribuenti, ed in ispecie dalle più ricche, i necessari sacrifici». No, l’eccezionale energia non deve rivolgersi contro le classi «più ricche», ma contro quei contribuenti «di tutte le classi», i quali si sottraggono alle imposte che alla loro classe legalmente spetterebbe pagare.

 

 

Non sono, oggi, le classi più ricche in generale, le quali siano sottotassate in confronto alle classi medie e proletarie. Affermare ciò è dire cosa lontana dal vero. Soltanto coloro i quali non pagano imposte hanno la faccia tosta di asseverare che gli agiati ed i ricchi sono; poco tassati in Italia. Con la patrimoniale, che per le rate in corso arriva, da sola, al 30% del reddito per i patrimoni di 100.000 lire, al 50% per quelli di 1 milione e al 100% per i patrimoni di 10 milioni di lire, con le imposte complementari, di famiglia, di ricchezza mobile, fondiarie, sui sovraprofitti, avocazione, amministratori, ecc. ecc., sono numerosissimi di questi tempi i contribuenti i quali debbono alienare parte del loro patrimonio per pagare le imposte. I vecchi, i professionisti e commercianti ritirati, che si erano col risparmio formato un piccolo peculio, col frutto del quale vivevano – ed avevano diritto di vivere con almeno altrettanta giustizia di quella per cui si riconosce agli impiegati il diritto ad una pensione – debbono oggi rimpiangere il giorno in cui, invece di fare un vitalizio, esente da patrimoniale, hanno comprato rendita 3,50 o consolidato 5%, nella speranza di lasciar qualcosa ai figli. Adesso, per pagare le imposte, debbono vendere a 72 la rendita acquistata a 106 od a 75 il consolidato sottoscritto ad 87 od a 90,o 95. Dire che le classi ricche non pagano abbastanza è oggi in Italia una perversa menzogna.

 

 

Il governo avrebbe reso ossequio alla verità se avesse, invece della solita affermazione demagogica di persecuzione fiscale contro i ricchi, affermato il proposito di lottare con energia contro le frodi, da chiunque provengano, atte a sottrarre allo stato il dovuto. Nessuna classe è immune da colpe a questo riguardo. Contro a centinaia di migliaia di contribuenti, i quali hanno fatto il loro dovere nella denuncia del patrimonio, vi è una grossa schiera – con ogni probabilità tuttavia meno numerosa di quella dei contribuenti onesti – di gente provveduta di beni di fortuna, la quale ha denunciato poco o nulla. Ma perché dimenticare ad arte che sugli almeno 80 miliardi annui di salari e guadagni di operai e contadini, sono tassati solo quelli che lo stato conosce perché pagati da esso stesso e da enti pubblici e forse neppur quelli?

 

 

A ragione, il capo del governo vuole instaurare le più rigide economie nell’amministrazione dello stato; ma perché riparare la propria responsabilità dietro il paravento di una delle consuete commissioni parlamentari, chiamata a proporre ciò che solo uomini energici e capaci di governo possono compiere? Riformare, decentrare, riordinare è un programma buono per l’anno duemila; ma sciogliere definitivamente gli uffici istituiti durante la guerra, non rendere stabili i servizi che avevano carattere straordinario, ma licenziare gli avventizi incapaci od inutili è cosa che si può fare di giorno in giorno, è cosa che non si fa, sebbene sia la sola praticamente efficace; ed è cosa che solo il governo può fare.

 

 

Le ombre del recente passato offuscano la vista del compilatore del solenne documento anche quando accenna ai compiti ricostruttori e trasformatori della nuova camera. Gran rimproveri egli fa alla disciolta assemblea perché non legiferò abbastanza sulle cooperative, sulle rappresentanze agrarie, sul latifondo, sul controllo. Frusti rimasugli, salvo quest’ultimo, di programmi così detti democratici con cui gli uomini politici immaginano, vere mosche cocchiere, di provvedere al risorgimento della economia nazionale. La cooperazione è il mezzo con cui una minoranza di operai o contadini scelti, laboriosi, risparmiatori riesce ad elevarsi, purché non sia aiutata dallo stato. Generalizzata per legge e messa a balia del tesoro pubblico, la cooperazione diventa strumento di corruzione politica e cagione di infingardaggine economica, alla pari dei premi alle industrie e dei dazi doganali. E lasciamo stare il latifondo, che non scomparve mai per virtù di leggi, ma si dileguò a poco a poco da sé dove nuove classi di contadini operosi e capaci seppero comprare e meritare la terra. Le rappresentanze agrarie sono vive ed operose finché sono libere; quando una legge le creerà dappertutto e darà ad esse diritto di mettere imposte, diverranno uguali alle camere di commercio, le quali sono bensì le rappresentanze legali non certo la emanazione amata ed operosa degli industriali e dei commercianti. Il controllo sulle industrie non è ancora vecchio; ma le speranze che alcuni illusi avevano in esso riposto sono oramai fugate dinanzi all’esperienza di ciò che vogliono i capi dei nostri operai ed a quella che si fece all’estero. Solo il capo del governo può ancora olimpicamente parlare del controllo come di «un grande coefficiente di pacificazione». L’esperienza tedesca, austriaca, russa, universale ha provato inconfutabilmente che il controllo, checché sia scritto nelle leggi, è fonte di lotte inacerbite tra capitale e lavoro, di disturbi e sospensioni irritanti di lavoro, di sospetti reciproci e di diminuzione di produzione.

 

 

Gli uomini politici meritano plauso solo quando parlano di cose che sanno e non schizzano programmi intorno a problemi di cui non dovrebbero occuparsi. Non è affare del governo di impacciarsi di industrie, di agricoltura e di commerci; e le cose che la relazione dice a questo proposito sono miserande. Invece è affare del governo di amministrare bene, fare economie, mettere imposte perequate, far controllare dal parlamento la pubblica spesa. Ed abbiamo veduto che, su questo punto, il governo dice cose sensate. La più sensata di tutte, l’idea veramente ottima del programma, l’on. Giolitti la espone quando ricorda alla nuova camera che

 

 

«essa dovrà riprendere per intero l’esercizio della sua alta missione, richiamando al parlamento la funzione legislativa; dovrà adempiere alla grande funzione di controllo che si esercita con la discussione dei bilanci, la quale da sette anni è completamente abbandonata; dovrà esercitare sul paese quella vera direzione politica e morale che è forse la più alta delle sue missioni, sebbene non scritta nella carta costituzionale».

 

 

Non era possibile dir meglio e più scultoriamente. La futura camera avrà invero soddisfatto interamente al suo compito di cooperare alla ricostruzione del paese se, astenendosi dalle inframmettenze inutili care al politicantismo nostrano e purtroppo anche al capo del governo, ricomincerà a compiere il suo primo dovere: discutere i bilanci. Ognuno faccia il suo dovere; e cominci la camera a dare il buon esempio. Così si ricostruiscono i paesi, così rifioriscono economie private e finanze pubbliche. Invece vanno a fondo quando ognuno pretende di fare il mestiere degli altri; e tutti trovano mal fatto ciò che gli altri fanno.

 

 

I debiti di guerra italiani con l’America. Sollecitudine ingiustificata

I debiti di guerra italiani con l’America. Sollecitudine ingiustificata

«Corriere della Sera», 29 marzo 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 78-82

 

 

 

 

L’ambasciatore italiano a Washington, sen. Rolandi Ricci, ha trovato qualcuno il quale ha voluto assumersi la difesa ufficiale della sua condotta rispetto al problema delle indennità.

 

 

Liberiamoci sovratutto dall’unico argomento economico il quale viene affacciato a favore del consolidamento dell’attuale nostro debito fluttuante verso gli Stati uniti.

 

 

«Chiunque abbia il senso della realtà – scrive la «Stampa» – si rende perfettamente conto del danno crescente che all’economia nazionale deriva dall’attuale situazione dei nostri debiti di guerra, in particolar modo rispetto all’America. Situazione d’incertezza e di equivoco, che genera quel discredito e quella sfiducia, che ognora si avvertono nei corsi del cambio».

 

 

E cita una argomentazione del «Sole», il quale insisteva sui danni che alla capacità di credito dell’Italia arreca la sospensione di «una equa liquidazione» dei nostri debiti di guerra.

 

 

Qui importa essere chiari. Che sia bene addivenire ad una liquidazione rapida dei nostri debiti di guerra, è plausibile ed è logico. Purché la liquidazione avvenga nel senso che noi reputiamo giusto. Un privato, al quale un preteso creditore chieda il riconoscimento di un debito di 100.000 lire, desidera evidentemente che si riconosca subito non essere egli debitore neppure di un centesimo. Ma posto tra una liquidazione pronta in 80.000 lire, coll’obbligo per lui di pagare gli interessi e di rimborsare il debito a rate a partir da una certa data, e il procrastinare la liquidazione nella fiducia che il creditore si arrenda alle sue buone ragioni, egli preferirà senza esitazione questa seconda soluzione. È noiosa e preoccupante; ma almeno non pregiudica l’avvenire, non gli fa riconoscere un debito che egli dichiara di non avere, non cambia il torto nel diritto.

 

 

Neppure si può dire che il tirare le cose in lungo nuoccia al suo credito. Questo dipende dalla sua consistenza patrimoniale netta da debiti. Da questo punto di vista, sta forse meglio colui, il quale ha un patrimonio di 200.000 lire gravate da un debito certo, liquido di 80.000 lire, ovvero colui il quale lo ha gravato unicamente di un sedicente debito di 100.000 lire, preteso da altri ed infirmato da lui sul terreno morale? I diritti morali non contano nulla, si può obiettare, di fronte ad un’obbligazione giuridica che abbiamo contratto. Altro se contano! Tanto contano che la sanzione di quest’obbligazione è soltanto morale. Infatti la coscienza del mondo civile si rivolterebbe se Stati uniti ed Inghilterra pretendessero agire per ottenere il rimborso dei loro crediti. Agire come? Con dimostrazioni navali, con proibizioni di esportazioni di merci o di capitali verso i paesi debitori, con dazi di ritorsione contro le importazioni da questi paesi? Possiamo essere sicuri che l’Inghilterra non ricorrerà mai a questi metodi, e che anche negli Stati uniti l’opinione pubblica reagirebbe fortemente pensando al danno del proprio paese, bisognoso di esportare e quindi di importare, ove si decidesse ad una guerra commerciale per un motivo così antipatico. Se dunque la sanzione è puramente morale, il credito di uno stato non può essere toccato quando esso esiti a riconoscere un debito che moralmente non deve su di esso gravare.

 

 

Aggiungasi, che il credito dei privati è nettamente distinto dal credito degli stati. I privati pensino a se stessi e non disturbino lo stato per ottenere credito all’estero. Quanto meno ambasciatori e ministri degli esteri si impiccieranno di queste cose, tanto meglio sarà. Lo stato non deve intervenire ad avallare, neppure moralmente, il credito dei suoi nazionali. Gli stranieri hanno nelle leggi del nostro paese quante armi vogliono, od almeno le stesse armi che hanno i creditori italiani, per farsi rimborsare i loro crediti; ed essi non possono chiedere di più. Se essi non credono che un industriale italiano sia solvibile, non gli diano nulla e sarà meglio per tutti. Ma è perfettamente misteriosa la ragione per cui un industriale italiano solvibile non dovrebbe riuscire ad ottener credito da un corrispondente americano, solo perché tra i due governi esiste una disparità d’opinione sull’esistenza di un debito di stato. Tanto incomprensibile che non è conforme alla realtà. Moltissimi italiani hanno ottenuto credito od hanno avuto offerte di credito da americani ed inglesi; e le uniche ragioni di crediti rifiutati furono i timori di bolscevismo, i progetti pazzeschi governativi di controllo operaio, la politica tributaria confiscatrice, «l’equo trattamento» delle tranvie e delle ferrovie secondarie, il timore delle difficoltà di ottenere giustizia secondo il Codice civile; non mai il ritardo nel regolamento dei debiti interalleati.

 

 

Forse, la sola influenza negativa che l’attesa potrà produrre sarà una maggiore difficoltà e, mettiamo pure, una quasi impossibilità per lo stato italiano di ottenere nuovi crediti da stati esteri. Tanto meglio, siamo tentati di dire noi. Questi debiti fra stato e stato sono politicamente sconsigliabili. Potevano essere tollerati in tempo di guerra, quando tacitamente ambo le parti dicevano tra sé e sé che il debito era solo un modo contabile di provvedere alle spese comuni; ma non è decoroso per uno stato sovrano indebitarsi verso un altro stato sovrano.

 

 

Sarà difficile altresì per lo stato italiano trovar credito presso privati banchieri esteri? Non sarà un male senza vantaggio. Se è attendibile la notizia fornita dal governo che il disavanzo del bilancio italiano si è ridotto da 14 a 4 miliardi di lire, qual mai bisogno ha lo stato italiano di far debiti all’estero? I buoni del tesoro, annui, triennali, quinquennali e settennali emessi in Italia, gittano più che a sufficienza. Se proprio il tesoro italiano avesse d’uopo di farsi imprestar denari all’estero, perché si rifiuta di vendere titoli suoi agli italiani residenti in Argentina e negli Stati uniti? Questi italiani scrivono lettere scandolezzate protestando contro l’insipienza del governo italiano, il quale avrebbe, pare, vietato l’esportazione dei titoli italiani in Argentina. Sembra incredibile, ma par vero. Sarebbero, scrivono di là, centinaia di milioni di lire che i nostri connazionali sarebbero disposti ad investire in titoli italiani purché potessero avere il titolo in mano. A parte ciò, qual vantaggio c’è a far debiti con stranieri, quando il bisognevole ce lo fornisce il mercato italiano? Sotto un certo punto di vista, è bene che il credito diventi difficile per gli stati. In Inghilterra, molti di coloro i quali prima facevano propaganda per i prestiti pubblici, adesso fanno propaganda in senso contrario. Prima era necessario salvare il paese; oggi i prestiti possono essere di eccitamento a spese inutili. Più al verde sono i tesori pubblici, si ragiona lassù, meno pazzie faranno i governi, e meno cresceranno le spese; anzi i governi saranno costretti alle economie fino all’osso, con vantaggio dell’economia pubblica.

 

 

Dopo ciò, è evidente quale giudizio si debba fare della pretesa influenza sfavorevole che il mancato consolidamento dovrebbe esercitare sui cambi. L’influenza è nulla, assolutamente nulla, per quanto si riferisce al mercato attuale dei cambi. Se, in conseguenza della mancata regolazione, il governo italiano dovesse spedire un solo dollaro negli Stati uniti, il cambio salirebbe. Ma l’Italia spera nella cancellazione del debito, e non paga intanto nulla. Quindi non acquista cambi e non ne fa affatto salire il prezzo. Rimane solo l’influenza indiretta che sui cambi può avere la previsione attuale di una maggiore o minore emissione futura di carta moneta per far fronte ai disavanzi avvenire provocati dal rimborso dei debiti. Ma anche qui si deve osservare: pagheremo di più, riconoscendo il debito fin d’ora, o confidando nella sua remissione per ragioni morali? E se anche, per ipotesi dannata, dovremo pagar sul serio qualcosa e quindi comperar cambi, quale bassa stima dobbiamo fare di noi stessi per ammettere di non poter pagare neppure fra cinque o dieci anni senza ricorrere alla forma peggiore di debiti che è l’emissione di carta moneta? Già ora non accresciamo più le emissioni cartacee; perché proprio dobbiamo prevedere di doverle accrescere, e di dovere svalutare perciò la nostra moneta in avvenire, quando è prevedibile che le nostre condizioni saranno migliorate?

 

 

Eliminato così il fondamento economico dei teorici del consolidamento, resta distrutta la loro cosidetta posizione «realistica». Questi fautori della politica della realtà sono invero i maggiori teorici che si conoscano. Volevano che, nel 1915, il governo italiano stipulasse la fornitura gratuita di tutto l’occorrente alla condotta della guerra, dimostrando con ciò di rimanere avversari non della sua condotta ma della guerra medesima; perché nessun governo inglese o francese o americano avrebbe potuto dichiarare al proprio popolo una durata indefinita della guerra, senza ingrandirne ai suoi occhi i sacrifici per modo da farli sembrare incomportabili e da recidere il nervo spirituale della vittoria. Oggi, che di fatto la guerra fu finanziata, come era doveroso e necessario, per oltre metà dagli alleati – ché il peso dei 21 miliardi di lire oro di debito estero è superiore al peso del debito interno in lire carta – vorrebbero che l’Italia si affrettasse a dar ragione, in nome della realtà, a quei governi inglese ed americano, i quali si ostinano ad affermare, contrariamente al vero ed al reale, che quei 21 miliardi sono un vero debito. No. Questa non è realtà; è pura teoria contro di cui occorre reagire per creare una realtà diversa. La realtà non è una cosa che stia al di fuori di noi e che noi dobbiamo subire. La realtà storica la costruiamo noi, la creiamo noi, di giorno in giorno, con l’opera nostra, con la nostra volontà.

 

 

Un ambasciatore, al quale nulla importi di lasciare in eredità ai suoi successori fra dieci anni un debito enorme, fra capitali ed interessi accumulantisi; il quale voglia impacciarsi dell’affare non suo di procurar crediti ai connazionali, crea una data realtà. Lo stesso uomo, persuaso della necessità di salvare sovratutto il paese da un onere incomportabile, si giova delle correnti d’opinione che negli Stati uniti ed in Inghilterra crescono ogni giorno d’importanza, per porre il problema nelle sue vere linee di stretta giustizia e crea col tempo una realtà diversa. Se non riesce a condurre a compimento l’opera, ne gitta le basi. Delle sue fatiche, dei suoi dolori, del suo insuccesso apparente, gli italiani gli saranno più grati che non di un «realistico» successo presente, ottenuto col sacrificio dell’avvenire. Non è con la mussulmana rassegnazione, di cui hanno dato prova sin qui, per ragioni inesplicabili, i governi francese ed italiano, che si può sperare di indurre i governi alleati a tener conto delle ragioni di giustizia poste innanzi dalla miglior parte e più competente dei loro connazionali. Si faccia qualcosa, si operi, si chiarisca al mondo la vera natura dei rapporti finanziari interalleati. Se, dopo anni di tenace e ingrato lavoro, non si sarà riusciti a nulla, solo allora si potrà dire che la realtà è un’altra da quella da noi ritenuta necessaria. Prima, no.

 

 

I nemici della libertà di commercio

I nemici della libertà di commercio

«Corriere della Sera», 5 marzo 1921[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 407-410

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 48-52[2]

 

 

 

 

In un’intervista recente, l’on. Soleri ha enumerato le varie specie di restrizioni e di controlli statali, i quali sono stati o stanno per essere abbandonati: soppressi i divieti di esportazione tra provincia e provincia per l’olio ed i suini; affrettata la liquidazione delle scorte di burro e di semi oleosi; avviato colla fine dell’aprile il consorzio dei merluzzi alla sua morte naturale; ristabilita la libertà di importazione delle carni congelate; soppresso l’ufficio dei manufatti popolari; fissata al prossimo settembre la completa libertà di commercio del riso, il cui consorzio obbligatorio cesserà allora di esistere.

 

 

Nell’intervista c’è però un punto nero: quello dello zucchero. L’on. Soleri «avrebbe voluto poter consentire prontamente la piena libertà commerciale dello zucchero, con la cessazione di ogni relativa ingerenza statale»; ma ha incontrato «resistenze insuperabili negli interessi delle zone produttrici, le cui rappresentanze di proprietari e di operai, delle associazioni agrarie e delle organizzazioni dei contadini, di conservatori e di socialisti, si sono unite nel chiedere, con la minaccia di cessare la coltivazione, che lo stato assicurasse ancora per questa campagna un prezzo di cessione assai più elevato di quello precedente, respingendo ogni mia proposta di libertà di vendita del prodotto al prezzo economico di mercato. Cosicché la gestione statale dello zucchero dovrà probabilmente ancora protrarsi».

 

 

La dichiarazione contenuta nelle parole citate del commissario agli approvvigionamenti è di una gravità eccezionale. Sembra che, mentre il prezzo delle bietole da zucchero era nella passata campagna stato fissato a 10 lire, gli interessati non solo non volessero saperne di ritorno alla libertà di commercio, ma pretendessero che lo stato acquistasse le bietole a 20 lire. Poi, dopo molte discussioni, si sarebbero contentati di 14 lire. La sola differenza tra il prezzo richiesto e quello convenuto dimostra quanto siano grandi i pericoli dell’intervento dello stato e fa dubitare si trattasse di un vero assalto, senza discrezione né misura, al tesoro pubblico. A parte ciò, questo episodio isolato è il sintomo di una tendenza la quale potrebbe diventare pericolosissima. Si dice che il consorzio dei produttori di riso veda di mal’occhio la cessazione del prezzo di calmiere al prossimo settembre e desideri qualcosa di simile a quello che si è ora fatto per lo zucchero. E chi ci garantisce che lo stesso non accada per il frumento, nel caso che i prezzi esteri ribassassero al disotto dei prezzi nazionali di imperio?

 

 

Occorre mettere il problema nei suoi termini più semplici. Finora lo stato ha perso somme spaventevoli (frumento) ovvero, senza escludere una qualche perdita per l’erario, i consumatori hanno pagato prezzi assai elevati (zucchero, riso ecc.), perché il costo di importare le derrate necessarie a completare il fabbisogno del consumo interno era assai alto. Se ci fosse stata libertà di commercio, noi avremmo avuto quanto frumento, riso, zucchero ecc. desideravamo; ma a prezzi più o meno superiori a quelli d’imperio. Lo stato, col suo intervento, ha diminuito i guadagni che dalla libertà di commercio i produttori interni avrebbero potuto ricavare; e l’ha fatto con sacrificio gravissimo dei contribuenti o accendendo debiti onerosi. Tutto ciò è roba del passato, su cui occorre mettere una grossa pietra. Con l’approvazione della legge sul pane, siamo usciti dal periodo delle perdite erariali. Non si dovrebbe più sentir parlare di simili cose dolorose.

 

 

Invece no. Ecco saltar su gli zuccherieri, industriali ed operai, agricoltori e contadini, i quali dicono: «Mai più. Colla libertà del commercio noi andremmo in malora. Lo zucchero estero (e forse si continua a dire “nemico” per parlare di quello austriaco o boemo) potrebbe essere importato a così vil prezzo che noi non troveremmo più il nostro tornaconto a produrlo, gli operai cadrebbero disoccupati, e gli agricoltori, dovendo vendere le bietole a 10 lire o meno, smetterebbero di coltivare la barbabietola, con minor lavoro per i contadini, i carrettieri ecc. ecc.». E si vedono le organizzazioni rosse contadine ed operaie, i cui rappresentanti hanno sempre al sommo della bocca la lotta contro il caro-vita e contro il protezionismo, premere sul governo perché continui a vietare l’importazione dall’estero dello zucchero e fissi prezzi altissimi per le bietole e quindi per lo zucchero. Domani pare si apprestino a dire la stessa cosa i risaiuoli. E se il prezzo del frumento estero, ribassando eventualmente il cambio, scendesse a 100 lire, i produttori interni, a cui lo stato oggi ha promesso in media 150 lire al quintale, si agiterebbero per ottenere un dazio protettore di 50 lire.

 

 

Finché siamo in tempo, importa enunciare alcune verità elementari.

 

 

In primo luogo, le perdite, se pur ci furono, sofferte in passato per non avere potuto approfittare dei prezzi alti che si sarebbero forse ottenuti colla libertà del commercio, non danno diritto ad alcun indennizzo per l’avvenire. Per lo più si tratta non di vere perdite, ma di minori guadagni. Gli industriali si videro capitare addosso l’imposta sui sopraprofitti e l’avocazione che loro porterà via forse 8 miliardi di lire, che è quanto dire la più grossa fetta degli utili ottenuti. Gli agricoltori ebbero in parte l’imposta ed in parte subirono i prezzi di calmiere. Fa d’uopo che si rassegnino, riflettendo che, dopotutto, se non ci fosse stata la guerra non avrebbero avuto imposte e vincoli; ma non avrebbero certo lucrato di più di quel che abbiano fatto.

 

 

In secondo luogo, bisogna rassegnarsi a ritornare alla grande e libera aria dei prezzi di mercato. Ci saranno anni di perdita ed anni di guadagno; ma finiranno agricoltori ed industriali per trovare la via giusta. Non è possibile, non è onesto conservare la serra calda dei prezzi d’imperio solo perché così fa comodo ai produttori. Pagare le bietole 14 lire al quintale, mentre la libertà del commercio le ridurrebbe a 10 lire, significa né più né meno che far pagare ai consumatori di zucchero un’imposta a favore dei produttori – industriali, agricoltori, operai e contadini – di zucchero. È la stessa precisa imposta che operai ed industriali siderurgici hanno ottenuto di poter mettere sui viaggiatori e speditori di merci sulle ferrovie italiane, grazie alle ordinazioni di rotaie all’industria nazionale a prezzi assai superiori a quelli esteri. Domani pagheremo il riso o il frumento nazionali a prezzo più caro di quelli liberi, perché così piacerà e gioverà alle classi interessate.

 

 

Quale è il significato di siffatta politica? Che ai 18 miliardi circa di imposte, le quali dovremo pagare permanentemente nell’avvenire allo stato, perché questi provveda ai servizi pubblici, ed ai 3 o 4 miliardi da pagarsi per lo stesso motivo ai comuni ed alle provincie, noi andremo aggiungendo a spizzico qualche altro miliarduccio da pagare, qua e là, a quelle tra le organizzazioni industriali ed operaie che sapranno premere di più sul governo e sul parlamento. Con questo di diverso: che almeno le imposte si discutono, o, se non si discutono, si votano pubblicamente; ed i colpiti hanno la soddisfazione di aver potuto gridare in precedenza. Invece, chi ha sentito parlare in precedenza dell’imposta che zuccherieri e agricoltori, operai e contadini, organizzazioni bianche e rosse sono riusciti a far capitare addosso ai consumatori di zucchero? Nessuno. Se ne sa qualcosa appena ora, grazie ad un’intervista del commissario agli approvvigionamenti.

 

 

Non è chiedere troppo, affermando che siderurgici, zuccherieri, risaiuoli e cerealicultori, se intendono mettere imposte sui consumatori dei loro prodotti, se intendono aggiungere qualche altro miliardo, probabilmente non pochi miliardi, all’onere del contribuente italiano, devono almeno usare a questo disgraziato contribuente la finezza di avvertirlo un po’ di tempo prima, pubblicamente, affinché anche egli possa far sentire le sue modeste ragioni. È probabile che gli assalitori dell’erario statale affermino che nulla fu mai tanto lungi dal loro pensiero, come la pretesa di mettere nuove imposte; che essi vogliono semplicemente cooperare all’incremento della produzione, evitare la disoccupazione. L’argomento può far presa su uomini politici, i quali hanno il terrore continuo della gente che scende in piazza a far baccano. Ha un valore assai minore su coloro che sono abituati a ragionare e non capiscono perché ci si debba ostinare a produrre le merci che costano care, invece di quelle che si potrebbero produrre a miglior mercato. Ad ogni modo, è un argomento che merita di essere discusso. Non deve essere lecito di trarne partito, come se fosse una verità di fede invece che un errore evidente, per gravare per centinaia di milioni e per miliardi sui consumatori italiani. Così, alla chetichella, come se fosse la cosa più naturale del mondo.



[1] Con il titolo Chi è oggi il vero nemico della libertà di commercio? [ndr].

[2] Con il titolo Chi è oggi il vero nemico della libertà di commercio? [ndr].

Recensione – Giuseppe Prato, Fatti e dottrine economiche alla vigilia del 1848. L’Associazione Agraria Subalpina e Camillo Cavour (Torino, 1920)

Recensione – Giuseppe Prato, Fatti e dottrine economiche alla vigilia del 1848. L’Associazione Agraria Subalpina e Camillo Cavour (Torino, 1920)

«Minerva», 16 febbraio 1921, pp. 121-122

L’esperimento del controllo operaio

L’esperimento del controllo operaio

«Corriere della Sera», 16 settembre 1920

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 481-486

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1923-1924), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 848-853[1]

 

 

 

 

Si può essere profondamente scettici intorno alla possibilità che il controllo operaio sulle fabbriche venga organizzato in una maniera vitale, utile alla produzione, vantaggiosa all’elevamento materiale e morale delle masse operaie; si può essere dubbiosi sulla possibilità di sostituire l’attuale organizzazione monarchica della industria con una organizzazione a tipo rappresentativo-democratico. Ma chi scrive non ha atteso i giorni torbidi presenti per affermare su queste colonne che uno dei problemi più urgenti del momento era quello di ridare al lavoratore la “gioia del lavoro” che egli ha perso nella grande industria moderna. È un problema, questo, non dell’industria capitalistica, ma di tutta la “grande” industria, capitalistica e collettivistica, privata e di stato, imprenditrice e cooperativa. Nella piccola industria casalinga, quando si adoperavano gli arnesi a mano e si era in pochi a collaborare nello stesso laboratorio, l’artigiano vedeva a poco a poco crearsi il frutto della sua fatica, vi si interessava, metteva nel lavoro un po’ della propria anima. Ancora oggi il contadino, il professionista, lo scrittore, l’insegnante ha questa sensazione, vive per il suo lavoro; epperciò lavora con gioia. Nella grande fabbrica, questa sensazione si perde, il lavoratore diventa una piccola ruota in un meccanismo che pare vada da sé. Il guadagno sembra divenuto il solo scopo del lavoro: troppo poca cosa per l’uomo, il quale non vive di soli godimenti materiali. Perciò accade che nelle imprese private l’operaio ha l’impressione di lavorare a vuoto, a profitto del capitalista; negli stabilimenti di stato, negli uffici pubblici, nelle ferrovie, nelle poste e nei telegrafi, che sono imprese collettivizzate, di tutti, il lavoratore, l’impiegato si sente oppresso da questo “tutti”, entità astratta, che si immagina nemica, e contro cui si elevano rivendicazioni. L’operaio, l’impiegato vuole tornare a sentirsi padrone del suo lavoro, a sapere perché produce e come produce, ad aver voce nella ripartizione del prodotto dell’industria. L’aspirazione è umana, può essere motivo di elevazione morale; è la traduzione nell’industria di un principio ammesso nel governo politico dei popoli moderni. Assoggettarla ad esame critico decisivo è tuttavia difficile, perché trattasi di una aspirazione indistinta, confusa, che non si sa nemmeno come possa essere concretata e se, una volta concretata, sia atta a ridare all’uomo quella gioia nel lavoro che egli sembra aver perduta.

 

 

L’idea è tanto indistinta e confusa che essa assume persino un bersaglio sbagliato: il capitale. La confederazione generale del lavoro, quando chiede il controllo sindacale sulle imprese industriali, immagina di chiedere, con ciò, il controllo sul capitale, di voler attuare una limitazione del dominio esclusivo che il capitale esercita nell’industria ad esclusione del lavoro. La realtà è ben diversa. Se noi assumiamo per un momento, come fattori della produzione, il capitale ed il lavoro, dobbiamo subito riconoscere che oggi la vera padronanza delle imprese, la effettiva direzione dell’industria non spetta né all’uno né all’altro, sibbene ad un terzo fattore: l’imprenditore. Il capitale è oggi un servo, sommesso e tacito, che si dà a coloro che hanno saputo inspirargli fiducia e che hanno acquistato fama di capacità organizzatrice. L’imprenditore – si chiami consigliere delegato o presidente del consiglio d’amministrazione, o gerente o padrone – è il vero capo dell’impresa. Gli obbligazionisti, una volta che gli abbiano mutuato i loro fondi al 5%, non contano più nulla. Gli azionisti intervengono alle assemblee degli azionisti per ratificare le proposte e più spesso gli atti compiuti dall’imprenditore. Corrono rischi e partecipano ad alee favorevoli e sfavorevoli; ma non si può dire che esercitino un vero controllo sull’azienda. I “capitalisti” hanno fatto i loro conti ed hanno trovato che tornava ad essi conveniente di aver fiducia nella persona di colui al quale si sono decisi ad affidare i loro risparmi. Essi credono nel regime monarchico assoluto dell’industria; ritengono che il successo dell’impresa si ottenga solo a questa condizione; e, qualunque sia la forma legale, di fatto hanno rinunciato per lunghi o per brevi periodi di tempo al controllo sull’azienda. Dare “carta bianca” all’imprenditore, ossia ad un tecnico, ad un commerciante, ad un uomo, è, agli occhi del capitale, condizione di successo della intrapresa.

 

 

Quando perciò gli operai chiedono di esercitare essi un controllo, deve essere ben chiaro che essi chiedono cosa alla quale l’altro fattore, il capitale, di fatto non aspira; e chiedono il controllo non sul capitale, ma sull’imprenditore, ossia sul primo, sul capo dei lavoratori. Vogliono sostituire alla monarchia assoluta il regime della democrazia rappresentativa.

 

 

È un esperimento grandioso, gravido di conseguenze malsicure, che si vuol compiere. A priori l’economista non può dire che esso sia necessariamente destinato all’insuccesso. Non siamo nel campo dei principi logicamente necessari; bensì in quello delle verità sperimentali. Se anche economicamente esso dovesse condurre ad una diminuzione della produzione, socialmente potrebbe essere utile se favorisse la pacificazione degli animi e una minor tensione di rapporti sociali. Gli operai vogliono vedere come la macchina è fatta dentro, come funziona e quali rendimenti dà, per persuadersi che davvero essi hanno ragione o torto nel chiedere a quella macchina un dato sforzo a loro vantaggio. Si corre, così facendo, il rischio di rompere la macchina ed è perciò necessario che l’esperimento venga compiuto in modo da riuscire fruttuoso e da evitare la rottura della macchina.

 

 

Le difficoltà sono davvero formidabili. Le condizioni a cui l’esperimento di controllo dovrà soddisfare sono numerose e non tutte facilmente conciliabili tra di loro. Come organizzare il controllo degli operai sull’impresa senza menomare la libertà e l’iniziativa dell’imprenditore? Il fattore “capitale” ha risolto il problema organizzando accanto all’imprenditore, vero capo ed animatore dell’impresa, consigli di amministrazione ed assemblee degli azionisti consigli che vedono molto, se non tutto, e danno pareri degni di ascolto; assemblee che di solito vedono soltanto ciò che all’imprenditore e ai consigli piace di dire. Il controllo degli operai, se deve essere serio, deve essere assai più somigliante a quello dei consigli di amministrazione che non delle assemblee degli azionisti. Ma neanche esso deve essere un impaccio, un legame per l’imprenditore. Altrimenti l’impresa è rovinata e con essa la produzione, la quale pare stia in cima dei pensieri della confederazione del lavoro.

 

 

Come impedire che il controllo operaio non torni di danno ai terzi, ossia alla collettività generica dei consumatori, che non partecipano ad alcuna industria organizzata? È tanto facile ad operai ed imprenditori mettersi – d’accordo, sulla base di un rialzo di prezzi a danno dei consumatori! In Germania, pare che questo sia stato uno dei pericoli massimi del controllo dei consigli di fabbrica, pericolo subito veduto e cagione non ultima della rapida decadenza di quell’istituto e del disfavore con cui è guardato dall’opinione pubblica. Badisi che il controllo sindacale aggiunge forza alla tendenza che hanno gli industriali singoli a rivalersi con un rialzo di prezzi di ogni aumento di salari perché costringe e favorisce la tendenza sindacale nel campo industriale e tende ad uccidere la concorrenza fra impresa ed impresa.

 

 

Ancora: il controllo si eserciterà per ogni singola azienda o per industrie, con consigli di fabbrica indipendenti dai consigli di amministrazione o con l’entrata di membri delegati dai sindacati operai nei consigli di amministrazione? In qual modo si manterrà il principio della uguaglianza dei salari nelle diverse intraprese, di fronte ad imprese disugualmente prospere e che devono rimanere tali, se non si vuole togliere ogni impulso all’intrapresa a perfezionarsi ed a progredire?

 

 

Tutti questi problemi, generali e particolari, non possono con ogni probabilità ricevere, una soluzione uniforme per tutti i casi. Una formula legislativa, suggerita lì per lì da un uomo politico, e tradotta in articoli di legge da funzionari ministeriali, darebbe luogo a difficoltà forse insuperabili e a crisi gravissime. Qui ha ragione la confederazione del lavoro di voler affidare «ad una commissione, a rappresentanza paritetica, il compito di stabilire in maniera particolareggiata i metodi e i modi di applicazione del principio del controllo delle aziende». Gli interessati, mille volte meglio del governo, riusciranno ad organizzare qualcosa di vitale; e sovratutto riusciranno a trasformare a poco a poco l’istituto, dapprima informe ed imperfetto, in guisa che esso riesca davvero, se di ciò sarà capace, a favorire nel tempo stesso l’aumento della produzione, lo spirito di iniziativa dell’imprenditore, l’interessamento del lavoratore alla propria fatica e il vantaggio della collettività.

 

 

Se compiuto ad opera delle due parti e non per obbligo legislativo, l’esperimento potrà essere iniziato nella industria metallurgica e in quelle imprese di essa in cui il controllo, per il numero degli operai interessati, trova il suo fondamento logico. In una piccola impresa il controllo è inutile, perché tutto è risaputo e controllato naturalmente; e il padrone è un compagno di lavoro dei suoi operai. Il buon senso e lo spirito di adattamento gioveranno a risolvere problemi di questo genere meglio di qualsiasi norma legale generale. Di questa ambo le parti debbono diffidare. Uno dei fatti più curiosi della legislazione sociale moderna è la rapida decadenza dell’istituto dell’arbitrato obbligatorio nella Nuova Zelanda e nell’Australia. Sorto dapprima a tutela della classe operaia, dopo qualche tempo cominciò ad essere veduto di mal occhio dagli operai medesimi, che videro in esso un freno ai loro movimenti; sicché spesso oggi è ignorato dalle due parti, le quali preferiscono gli accordi diretti.

 

 

L’esperimento fatto all’estero – in Germania, in Austria, in Russia, dicesi in Scandinavia – del controllo operaio dovrebbe essere fecondo di insegnamenti. Perché una sottocommissione nominata dalla commissione paritetica, mentre questa lavora a concretare le norme particolareggiate del principio ammesso in massima, non potrebbe fare una rapida inchiesta in questi paesi, non sulle leggi, che è facile procurarsi, ma sul funzionamento effettivo, sui modi di attuazione, sugli effetti? Perché i socialisti reduci dalla Russia non si deciderebbero a rendere di pubblica ragione i risultati dei loro studi sul funzionamento dei consigli di operai nelle fabbriche? Anche se l’ambiente sia diverso, anche se le fabbriche siano collettivizzate, il fenomeno è lo stesso; il controllo degli operai sul capo dell’impresa, su colui che la gerisce per conto dell’ente collettivo proprietario.

 

 

In fondo trattasi della ricerca del mezzo più atto a raggiungere un dato fine. Il fine è indubbiamente nobile ed alto; ridare ai lavoratori quella gioia nel lavoro, quell’interessamento a produrre che essi hanno o immaginano di avere perduto a cagione dell’ingrandirsi e del meccanicizzarsi dell’impresa industriale, della concitazione spirituale dovuta alla guerra, del rivolgimento nei rapporti economici tra individuo ed individuo, tra classe e classe verificatosi in seguito allo svilimento della moneta. Gli operai ritengono di aver trovato un mezzo per raggiungere la meta; mezzo provvisorio e preludio a conquiste maggiori. Gli industriali sono scettici intorno alla possibilità di toccare, con quel mezzo, la meta. Ma poiché debbono concordare nel fine, giova che essi tentino l’esperimento con lealtà e con spirito di sacrificio. Se la stessa lealtà ci sarà anche dall’altra parte, l’industria metallurgica si sarà resa benemerita del paese. In materia economica i fatti, i duri fatti soltanto, non le lezioni della scienza, hanno la virtù di persuadere gli uomini.



[1] Con il titolo Il significato del controllo operaio [ndr].

Arbitrato

Arbitrato

«Corriere della Sera», 8 settembre 1920

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 476-481

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 843-848

Neutralità

Neutralità

«Corriere della Sera», 7 settembre 1920

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 471-476

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 838-8[1]

 

 

 

 

Nell’attuale conflitto metallurgico importa seguire le trasformazioni delle idee fondamentali, sulla base delle quali si giudicano gli avvenimenti e si prende posizione pro o contro l’uno o l’altro dei contendenti. Fra queste idee – madri spicca quella della “neutralità”. I terzi ed il governo debbono, era un tempo usato dire, mantenersi “neutrali”. Non parteggiando né per l’una né per l’altra parte, pronti sempre a prestare i propri buoni uffici, era sperabile poter risolvere più sollecitamente la controversia.

 

 

A fior di labbra, si ripetono ancora i medesimi concetti. Il ministro Labriola sembra abbia osservato «che nella controversia il governo ha cercato sempre di mantenere una posizione di perfetta neutralità ed ha fatto e farà tutto il possibile per vedere di ricondurre la lotta sul terreno della legalità, mediante la ripresa delle trattative; ma tutte le volte che vi sieno tentativi, da una parte o dall’altra, di attuare mezzi arbitrari o violenti, si vedrà costretto a fare intervenire la forza pubblica in difesa del diritto privato e dell’ordine giuridico minacciato».

 

 

Le parole del ministro rispecchiano abbastanza bene il concetto della neutralità dello stato giuridico, il quale fa rispettare l’ordine ed il diritto vigenti e procura di creare l’ambiente di accordo fra le parti contendenti. Ma i fatti che cosa ci dicono? Che la forza pubblica assiste impassibile all’invasione degli stabilimenti; all’organizzarsi di una nuova polizia, la quale difende il possesso degli stabilimenti da parte degli invasori con scolte, sentinelle, sequestro di persone; costruisce reticolati percorsi da forti correnti elettriche per impedire l’accesso agli stabilimenti ai vecchi proprietari ed alla pubblica forza. Che più! si collocano mitragliatrici all’entrata e sui tetti degli stabilimenti; e la pubblica forza, mandata in spedizione notturna per cercare di sottrarre agli invasori un numero non piccolo di mitragliatrici ed un certo quantitativo di munizioni, è costretta a retrocedere dinanzi alle forze armate dell’esercito rosso, decise ad usare le armi, mentre evidentemente ai difensori dell’ordine vigente era stato vietato di farne uso.

 

 

Questi sono i fatti. Se l’invasione della roba altrui, il sequestro di persone, la costituzione di una forza armata, l’impiego di mezzi bellici usati nella guerra da trincee e da campo non costituisce «attuazione di mezzi arbitrari e violenti», davvero non si sa più che cosa siano la violenza e l’offesa all’ordine giuridico vigente. È questa la neutralità proclamata dal governo?

 

 

Se il governo compie sostanzialmente, sebbene ancora non li elevi a teoria, atti contrari alla neutralità intesa nel suo senso tradizionale e logico, altri già sta costruendo una nuova teoria della neutralità. Ecco l’associazione generale dei tecnici delle industrie metallurgiche ed affini, la quale denuncia la diffida ricevuta dagli industriali di non entrare negli stabilimenti e di non prestare opera a pro del nuovo regime comunista instauratosi violentemente nelle fabbriche, come «una precisa manovra intesa a far uscire i tecnici dalla loro linea neutrale di condotta, per farsene un’arma contro gli operai» e riafferma il proprio «preciso intento di continuare a prestare la propria opera in officina a garanzia della conservazione dei mezzi di produzione», opera necessaria in un momento in cui «gli industriali mostrano di disinteressarsi completamente delle sorti del prezioso patrimonio collettivo di macchine ed attrezzature costituito dalle officine invase».

 

 

Dunque, secondo i tecnici, quando tra industriali ed operai scoppia un dissenso, i “tecnici” ossia i sovrastanti e capi – reparto, i quali stanno di mezzo tra ingegneri dirigenti ed operai, si credono in diritto di affermare che:

 

 

le macchine ed attrezzature e le officine invase sono un prezioso patrimonio “collettivo”;

 

 

che detto patrimonio essendo di proprietà della collettività e non più degli industriali deve essere conservato;

 

 

che esso ha bisogno di essere conservato non a favore degli industriali cacciati di casa propria, ma della collettività, evidentemente rappresentata dagli invasori;

 

 

che, se essi non continuassero a lavorare d’accordo cogli invasori, dimostrerebbero di non volere tutelare gli interessi collettivi e quindi di abbandonare la loro linea neutrale di condotta, diventando strumento degli industriali invasi contro gli operai invasori.

 

 

Il qual concetto è stato illustrato meglio dall’on. D’Aragona quando al ministro, affermante principi ragionevoli, sebbene contrastanti colla condotta faziosamente assente del governo, replicava che «l’occupazione degli stabilimenti, attuata da parte degli operai in forma tranquilla e senza atti di sabotaggio, né violenze private, non costituisce un atto di violazione del diritto. Il lavoro ripreso regolarmente dimostrerebbe anzi il fermo proposito delle masse di non recare alcun danno all’economia nazionale, mediante una diminuzione della produzione».

 

 

Facendo astrazione dal carattere tranquillo dell’occupazione, il succo del problema pare dunque sia questo: che organizzatori e tecnici ritengono che già siasi operato il trapasso della proprietà degli stabilimenti dagli industriali singoli alla collettività. Siccome però, in questo primo tumultuoso periodo rivoluzionario, la “collettività” non possiede ancora organi propri adatti a regolare la produzione, gli operai, considerando se stessi quali gestori d’affari della collettività stessa, conservano, come dicono i tecnici, macchine ed attrezzature e continuano la produzione, in attesa che…

 

 

In attesa di che cosa? Qui la logica si smarrisce, perché le conseguenze non sono dedotte dirittamente dalle premesse. Se è vero che gli opifici, con le macchine e le attrezzature, sono già diventati un «prezioso patrimonio collettivo», gli industriali non ci hanno nulla più a che vedere. La contesa con essi è già finita. Essi tutt’al più avranno diritto a chiedere al legislatore un’indennità per la cosa espropriata; ma non v’è ragione che essi discutano con gli operai intorno ad una vertenza inesistente. Ovvero, da parte operaia, malgrado l’occupazione “pacifica”, si insiste nel volere trattare con gli industriali ed in tal caso apertamente si riconosce che macchine, attrezzi, opifici non sono ancora patrimonio collettivo, bensì privato; e che, per necessaria illazione, l’occupazione fu atto antigiuridico che il governo avrebbe dovuto reprimere.

 

 

Operai, organizzatori, tecnici si erigono a conservatori delle fabbriche, a vindici e prosecutori della produzione abbandonata dagli industriali. Questo è un trucco, già usato nell’agricoltura e che occorre mettere in chiara luce. Nel Vercellese, nell’Emilia ed in altre plaghe ad agricoltura intensiva, gloria e vanto dell’Italia, testimonianza irrefragabile che il nostro paese in parecchie sue regioni è alla testa dell’agricoltura mondiale, la scervellata politica seguita dai ministri d’agricoltura negli ultimi anni, ha condotto a questa conseguenza: che dovunque un gruppo di facinorosi organizzati in lega aspira a rubare altrui una terra fecondissima e magnificamente coltivata – i rapinatori disprezzano le terre veramente sterili ed incolte – basta instaurare uno sciopero su basi assurde, costringere gli argomenti alla resistenza, per aver ragione di proclamare che quella è terra incolta e chiederne la devoluzione in base ai decreti Visocchi, Falcioni, ecc. Ed il governo attuale, a dimostrare la sua neutralità non trova nulla di meglio da fare che presentare un disegno di legge per la coltivazione obbligatoria dei cereali, il cui unico effetto, a detta di tutti i tecnici, sarà di far produrre meno frumento di prima e nel tempo stesso rendere possibile l’occupazione violenta e senza indennizzo delle terre buone e ben coltivate da parte di false cooperative di poltroni desiderosi di appropriarsi della roba altrui senza fatica e senza spesa. Adesso, questo terribile precedente lo si vuole estendere all’industria. Prima si disorganizza la produzione se ne aumenta il costo, se ne rende malcerto il ciclo, fino a rendere gli industriali disperati e disposti a concedere qualunque aumento di salario, pur di riottenere un po’ di disciplina e d’ordine e di continuità di lavoro. E poi, si occupano gli stabilimenti e si spargono lacrime da coccodrillo sulla continuità della produzione e sulla necessità di tutelare i macchinari contro il disinteresse degli industriali, quasiché il primissimo interesse di questi non fosse la buona conservazione del proprio patrimonio.

 

 

Nell’assistere a tali fatti e nel leggere tali altisonanti sofismi, nell’osservare la debolezza degli organi tutori del diritto dinanzi al disfrenarsi di innumeri e conclamate violazioni del diritto stesso, salgono le fiamme della vergogna al volto e vien fatto di chiedersi se non avesse per avventura ragione quella commissione americana di studiosi che, avendo da poco terminato un proprio viaggio di studi sociali in Europa, prognosticava che l’Italia era il paese più prossimo all’anarchia bolscevica, alla distruzione dei beni della civiltà, alla miseria ed alla disorganizzazione sociale, perché in nessun altro paese pochi uomini imbevuti dell’antico spirito mafioso e camorristico ereditato dai vecchi regimi borbonici e stranieri potevano tanto facilmente imporsi nelle industrie ai dirigenti ed intimidire le masse ed il governo con la violenza dei fatti e delle parole.

 

 

Altri paesi, come l’Inghilterra, traversarono verso il 1840 momenti simiglianti a questo nostro. Ma v’erano alcune differenze fondamentali: le masse operaie erano in realtà al margine della destituzione, della fame e della disoccupazione cronica; e contro di esse campeggiava una borghesia, ossia una classe dirigente aperta a tutti, conscia del proprio valore, decisa a far tutto il possibile per sollevare le sorti delle masse, ma nel tempo stesso a salvare la civiltà. E ci riuscì; sicché oggi, nonostante tanto imperversare, anche in Inghilterra, di idee bolsceviche, ossia confuse e pazze e distruttrici, si assiste in quel paese allo spettacolo di milioni di minatori i quali decidono, a suffragio segreto, se debba o non debba essere proclamato lo sciopero; e, decisolo, danno regolare diffida di venti giorni agli imprenditori, al termine dei quali soltanto si abbandonerà il lavoro. Così si combattono le lotte del lavoro nel paese nel quale sul serio si cerca di tutelare, attraverso alle competizioni di interessi, l’interesse collettivo. Questa nostra non è più una guerra fra eserciti che si rispettano e rispettano le norme fondamentali della vita civile. È guerra di partigiani; e lo scatenamento dell’anarchia, mentre il governo, tutore dell’ordine, si assenta e lascia le bande armate padrone della strada. Che salari! Che produzione! Soffia un vento di follia e si vuol distruggere la macchina sociale, senza aver nulla in pronto per sostituirla e dopo aver toccato con mano, in recente pellegrinaggio, che sforzi cosidetti erculei di intellettuali dottrinari non valgono a creare neppure una particella di quell’organismo produttivo che solo può essere costruito dall’opera lenta dei secoli e dalla collaborazione di milioni di uomini pazienti, previdenti, geniali e lavoratori.



[1] Con l’aggiunta del sottotitolo Vecchie e nuove teorie sulla neutralità nei conflitti sociali [ndr].

Non comperate!

Non comperate!

«Corriere della Sera» 19 giugno 1920

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 173-175

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 803-805

 

 

 

 

Questo grido, che da anni, sin dallo scoppio della guerra italiana, fu ripetuto con monotonia insistente su queste colonne, oggi è divenuto il grido di guerra di milioni di uomini, di leghe di consumatori, di migliaia di giornali. Cominciarono gli Stati uniti a farsene banditori con quel fracasso, in cui sono maestri; e di lì il grido si ripercosse in Inghilterra, in Francia ed ora anche in Italia. Apostoli della prima ora del verbo dell’astinenza, quando il predicarlo provocava derisione e taccia di teorismo, siamo lieti che esso finalmente si sia imposto come una verità incontrastata. Se gli uomini, i quali finora hanno fatto i sordi, ascolteranno il verbo dell’astinenza, un primo notevole passo sarà fatto sulla via del ribasso dei prezzi.

 

 

Tuttavia, ora che il verbo è diventato unanime ed universale, c’è nella sua predicazione qualcosa che turba e preoccupa. «Non consumare» è un imperativo che trae la sua virtù quasi soltanto dall’essere un freno morale, un vincolo che l’uomo mette a se stesso, un limite ai suoi acquisti inutili. Perché esso sia efficace occorre che i consumatori siano persuasi che la cagione del rialzo dei prezzi erano stati precisamente essi, proprio essi consumatori, con la loro sete di compre, con i loro acquisti eccessivi, con la loro smania di possedere subito la cosa il cui consumo poteva essere prorogato. Bisogna che i consumatori, i cui redditi monetari crebbero in confronto all’anteguerra, si persuadano che furono essi ad eccitare, a provocare l’ingordigia degli intermediari e dei negozianti. I prezzi non sarebbero saliti se i consumatori non si fossero l’un l’altro strappata la merce di mano e con le loro domande incomposte non avessero posti i commercianti sull’avviso che essi potevano impunemente rialzare i prezzi. I veri colpevoli delle sofferenze delle classi medie, i cui salari non crebbero, furono gli operai, furono i contadini, furono gli arricchiti di guerra che, offrendo prezzi più vistosi, strapparono di bocca e di dosso ai primi ciò di cui questi avevano bisogno.

 

 

Se i giornali predicassero l’astinenza e il pentimento agli arricchiti, ai contadini ed agli operai, essi farebbero opera moralmente degna e socialmente utile.

 

 

Purtroppo non si vede che questa sia la sostanza intima della predicazione. I giornali socialisti per spirito di distruzione, i giornali borghesi per leggerezza predicano bensì ai consumatori di astenersi dal consumare, ma additano unicamente il responsabile ed il colpevole nell’intermediario e nel bottegaio. Certo, costoro non sono simpatici e qui non se ne vuole prendere le difese. Ma è anche certo che essi non sono la causa del male; che essi hanno soltanto utilizzato a proprio profitto un movimento che aveva la propria radice altrove; nell’arricchimento, reale o monetario, di vaste classi di consumatori e nella frenesia di acquisti da cui costoro erano stati presi.

 

 

Battere soltanto sulla testa di turco degli intermediari e dei bottegai è scambiare la causa vera con lo strumento del rialzo dei prezzi; è eccitare all’odio quando bisogna invece predicare il sacrificio. Il risultato più probabile della presente campagna bandita da giornali contro la classe degli intermediari additata come unica colpevole, per spirito di speculazione, del rialzo dei prezzi, sarà il ripetersi fra poche settimane dei saccheggi e dei tumulti del giugno del 1919. Anche allora, tumulti e saccheggi furono dovuti alla cecità imperdonabile di giornali liberali, i quali ritennero di poter procacciarsi in tal modo popolarità e soppiantare i fogli socialisti nel favore delle folle. Non soppiantarono niente e condussero all’anarchica distruzione di scorte preziose, ad un susseguente rincaro di prezzi ed a più forti guadagni degli intermediari vogliosi di rifarsi delle perdite subite.

 

 

No. La campagna per l’astensione dagli acquisti, se deve essere realmente efficace, non deve essere una campagna di odio, una predicazione fomentatrice di saccheggi e forse di massacri. Su questa via non si risolve nulla. Si fa un fuoco d’artifizio; ed il risultato è negativo. Bisogna che gli uomini facciano invece il proprio esame di coscienza e si chiedano: «possiamo fare a meno di comperare questo o quell’oggetto?» Se sì, si astengano dal comperare. Il fatto dell’astensione costringerà gli intermediari alla resa ed a contentarsi di prezzi minori, durevolmente.

 

 

Ma se invece si dice: «non comperare, perché quel tale negoziante è un ladro» – si eccita ancor più la voglia di possedere quell’oggetto, di possederlo sotto prezzo, di possederlo ad ogni costo. È l’eccitamento al saccheggio a breve respiro, allo spreco, alla distruzione delle merci. Ossia è la preparazione di un nuovo rincaro.

 

 

Verso la città divina

Verso la città divina

«Rivista di Milano», 20 aprile 1920, pp. 285-287

Gli ideali di un economista, Edizioni «La Voce», Firenze, 1921, pp. 341-346

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 32-36

 

Verso la città divina

Verso la città divina

«Rivista di Milano», 20 aprile 1920

Gli ideali di un economista, Firenze, «La Voce», 1921, pp. 341-346

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 32-36

«Nuovi studi politici», XII, 1, 1982, pp. 3-7

 

 

 

 

L’articolo che Giuseppe Rensi intitola alla “belva bionda” è lo sfogo appassionato, ansioso di chi si sente sperduto nel disordine, nell’anarchia, in mezzo all’odierno ammattimento convulsionario di tutto e di tutti. Si vuole un po’ di ordine; si desidera l’uniformità, il comando, l’idea unica a cui tutti obbediscano, il Napoleone. La borghesia sembra incapace a ricreare la disciplina; i borghesi hanno il temperamento critico e corrosivo. Lasciamo dunque il passo al proletariato ignorante, crudele, ma risoluto e deciso a far trionfare il proprio ideale, ad ammazzare quanta gente basta, perchè tutti gli ideali scompaiano e soltanto il suo rimanga e domini e dia agli uomini ciò di cui essi hanno sovratutto bisogno: una autorità, una disciplina, una religione, dia alla società un’unità viva e vera. Giuseppe Rensi ha scritto, in una pagina di prosa irruenta e magnifica, un vero inno alla forza che unifica, che uccide il dubbio e segna la strada. Il suo inno risponde ad un bisogno dell’animo umano il quale rifugge dai contrasti, dalle lotte di uomini, di partiti, di idee, e desidera la tranquillità, la concordia, la unità degli spiriti, anche se ottenuta col ferro e col sangue.

 

 

Se ne fossi capace, vorrei scrivere un inno, irruente ed avvincente come il suo, alla discordia, alla lotta, alla disunione degli spiriti. Perché dovrebbe essere un ideale pensare ed agire nello stesso modo? Perché dobbiamo esaltare il proletariato ignorante e crudele, il quale non critica, ma vuole; vuole ciò che non sa e vuole tanto più fortemente quanto meno conosce la meta verso cui tende? Qual mai ragione sostanziale vi è perché lo stato debba avere un proprio ideale di vita, a cui debba napoleonicamente costringere gli uomini ad uniformarsi? Perché una sola religione e non molte, perché una sola opinione politica o sociale o spirituale e non infinite opinioni?

 

 

Il bello, il perfetto non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà ed il contrasto.

 

 

Coloro i quali si lamentano del disordine odierno degli spiriti ed anelano ad un ordine nuovo, non sanno interpretare se stessi, si lagnano di ciò che amano, soffrono di ciò che li fa vivere. L’aspirazione all’unità, all’impero di uno solo è una vana chimera, è l’aspirazione di chi ha un’idea, di chi persegue un ideale di vita e vorrebbe che gli altri, che tutti avessero la stessa idea ed anelassero verso il medesimo ideale. Egli una sola cosa non vede: che la bellezza del suo ideale deriva dal contrasto in cui esso si trova con altri ideali, che a lui sembrano più brutti, dalla pertinacia con cui gli altri difendono il proprio ideale e dalla noncuranza con cui molti guardano tutti gli ideali. Se tutti lo accettassero, il suo ideale sarebbe morto. Un’idea, un modo di vita, che tutti accolgono, non val più nulla. Noi economisti applichiamo questo concetto ai beni economici, dicendo che un bene, per acquistare il quale non fa d’uopo fare alcuno sforzo, non è più un bene economico, vale zero. Così è anche dei beni morali. Se un Napoleone proletario riuscisse ad imporre il suo impero all’Europa, se distruggendo tutti gli avversari e tagliando la testa a tutti coloro che pensassero diversamente, imprimesse le idee del proletariato a tutti gli europei, in quel giorno vi sarebbe forse l’unità, ma l’unità del nulla. L’idea nasce dal contrasto. Se nessuno vi dice che avete torto, voi non sapete più di possedere la verità. Il giorno della vittoria dell’unico ideale di vita, la lotta ricomincerebbe, perché è assurdo che gli uomini si contentino del nulla.

 

 

No. Gridiamolo alto. La vita disordinata, affannosa, antiunitaria, antidisciplinata che noi conduciamo pare insopportabile a noi che ne soffriamo i duri contraccolpi individuali, economici e morali. Parrà bellissima alle venture generazioni, le quali godranno i frutti delle verità politiche, economiche e morali che i contrasti odierni avranno fatto trionfare.

 

 

O non è forse una concezione dello stato che vuole trionfare contro un’altra? Trionfo non definitivo, precario, ognora combattuto e contrastato da tendenze avverse? Ma la volontà di trionfare esiste; ed il tragico del momento sta in questo che molti, che troppi uomini non vedono che una lotta  grandiosa si combatte tra due opposti principi e in che cosa stia la lotta.

 

 

C’era un tipo di stato, il quale aveva un ideale religioso, e voleva imporlo agli uomini tutti viventi in Europa. La riforma protestante spazzò via quel tipo di stato; e la vita religiosa divenne un problema individuale, intimo, sottratto al controllo altrui. Fu, pensano molti, un raffinamento della religiosità.

 

 

Ci furono, dopo, stati i quali vollero imporre agli uomini un ideale unico di vita politica. A volta a volta Spagna, Francia, Germania credettero di avere la missione di governare il mondo; di plasmare l’umanità secondo un proprio schema ideale politico, economico, spirituale: il mondo divenuto spagnuolo, francese, tedesco. Senza dubbio l’ideale era grandioso. Terribilmente bello. Ho scritto tante volte, prima durante e dopo la guerra, che la vittoria dei tedeschi sarebbe stata una fortuna, economicamente e politicamente, per l’Europa e per l’Italia. E torno a scriverlo. Governo di dotti, poveri ed onesti; economia ben diretta; progressi tecnici meravigliosi; incrementi del sapere e del benessere straordinari, mai più visti ed a breve scadenza; una classe governante consapevole di sé, dura coi rivoltosi, ma benefica alla gente tranquilla: ecco quali sarebbero state le conseguenze di una vittoria dell’idea contenuta nello stato tedesco.

 

 

Non ho altrettanta fede, anzi non ho alcuna fede che risultati consimili si possano mai ottenere in seguito alla vittoria dell’ideale comunista russo. Dall’ignoranza e dalle barbarie, da una classe priva di dirigenti non può nascere l’ordine e la disciplina. Ma dalla Germania vittoriosa questo poteva sperarsi, questo era certo si sarebbe ottenuto: che per un secolo l’Europa e forse l’umanità avrebbero parlato, pensato ed operato in tedesco, secondo modi di pensare e di vivere tedeschi, secondo una disciplina ed una volontà unica. L’umanità per un secolo sarebbe stata contenta. Così come sarebbe accaduto se avesse vinto Napoleone. Epperciò quell’uomo di genio non riuscì mai a comprendere perché mai i popoli d’Europa repugnassero alla felicità che egli voleva ad essi procurare.

 

 

La rifiutarono anche stavolta. Milioni di uomini morirono per allontanare dall’Europa l’amaro calice della felicità e dell’unità spirituale. Morirono per far trionfare un altro ideale. L’ideale dello stato, il quale si astiene dall’imporre agli uomini una foggia di vita. Con le guerre di religione, gli uomini vollero che non ci fosse una unità religiosa imposta dallo stato. Con le guerre di Luigi XIV, di Napoleone, e con quella ora terminata gli uomini combatterono contro l’idea dello stato il quale impone una forma di vita politica, di vita economica, di vita intellettuale. Vinse, e non a caso, quella aggregazione di forze militari, presso cui lo stato è concepito come l’ente il quale assicura agli uomini l’impero della legge, ossia di una norma esteriore, puramente formale, all’ombra della quale gli uomini possono sviluppare le loro qualità più diverse, possono lottare fra di loro, per il trionfo degli ideali più diversi. Lo stato limite; lo stato il quale impone limiti alla violenza fisica, al predominio di un uomo sugli altri, di una classe sulle altre, il quale cerca di dare agli uomini le opportunità più uniformemente distribuite per partire verso mete diversissime o lontanissime le une dalle altre. L’impero della legge come condizione per l’anarchia degli spiriti; la forza limitata alla vita estrinseca; l’unità ristretta alle forme ed alle condizioni di vita. Ma dentro, ma nella sostanza, nello spirito, nel modo di agire, lotta continua, pertinace, ognora risorgente. Questo è ciò che vollero gli uomini, i quali si trovarono da una parte della trincea.

 

 

La creazione del nuovo tipo di stato è, tuttavia, lenta e difficile e dolorosa. È più semplice comandare che ubbidire: è meno doloroso nonostante il taglio delle teste discordi creare una unità spirituale colla forza del braccio. Ma gli uomini sono nati per creare soffrendo. L’unità, auspicata da Rensi, la disciplina nel lavoro, la società vera di uomini noi la raggiungeremo quando gli uomini, lottando e scagliando gli uni contro gli altri i propri ideali, avranno compiuta la propria educazione; quando si saranno persuasi, con l’amara esperienza propria, con il dolore degli insuccessi, quale via debba tenersi per ascendere. L’unità imposta dai comunisti sarebbe la morte spirituale. Noi vogliamo l’unità, ma conquistata vivendo e soffrendo, elevandoci al di sopra della materia, del godimento bruto. Quando avremo compiuto lo sforzo di veder chiaro dentro ai nostri dissensi, quando li avremo superati col pensiero, avremo raggiunto l’unità spirituale, avremo creata la città divina, quella in cui vivono gli spiriti liberi che sanno le passioni ed avendo sacrificato all’idolo falso, hanno trovato la via della verità.

La febbre del vivere e la necessità delle rinunce

La febbre del vivere e la necessità delle rinunce

«Corriere della Sera» 11 aprile 1919

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 143-148

Cronache economiche e politiche di un trentennio[1] (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 200-204

 

 

 

 

A costo di ripetere sempre i medesimi concetti giova tornar sopra ai punti fondamentali della nostra opera di propaganda. Taluno dei lettori avrà forse pensato rivedendo gli stelloncini i quali incitano ad acquistare i buoni del tesoro: siamo in tanta strettezza della pubblica finanza ed in tanta urgenza di bisogno da rendere necessario ai giornali di riprendere quell’opera che essi durante la guerra compievano, quando il governo rivolgeva ai cittadini un solenne appello per sottoscrivere ai prestiti pubblici?

 

 

Poiché questa volta l’appello non viene dal governo, ma è di nostra iniziativa, ci corre l’obbligo di chiarire le ragioni per le quali noi riteniamo che mai come nel momento presente vi sia bisogno, vi sia necessità assoluta di rivolgere a noi stessi, spontaneamente, un pressante invito a recare, ognuno entro i limiti delle proprie forze, denari alle casse dello Stato.

 

 

Viviamo in un momento di agitazione, quasi di sovreccitazione. La fine della guerra guerreggiata ha tolto quella compressione morale la quale costringeva ogni cittadino a frenare se stesso, ad attendere con pazienza, a limitare i propri desideri.

 

 

Rotto il freno, le aspirazioni hanno libero campo, i desideri si sfrenano.

 

 

Ognuno pare senta il bisogno di vivere nuovamente la vita. Non è più la vita antica, che oggi ci pare così serena e lieta; ma una vita nuova la quale deve essere piena, ricca, più di prima. Epperciò tutte le classi si agitano; tutte vogliono qualcosa di più di quel che hanno; non il solo aumento di salario monetario o la sola diminuzione delle ore di lavoro; ma tutto ciò come mezzo per ottenere più godimenti, per vivere una vita più intensa e più alta.

 

 

Gran bene potrà recare al nostro paese questa febbre di vivere meglio, di possedere beni in copia maggiore. Alla radice di ogni miglioramento sociale si trova un desiderio di elevazione. Ma vorremmo che nel tempo stesso non si dimenticasse che ogni godimento presuppone prima un lavoro, che ogni soddisfazione suppone una precedente rinuncia. Non si consuma se non ciò che si è prodotto. Non si godono i frutti se non di ciò che si è prima risparmiato.

 

 

Oggi è una corsa a chiedere sempre nuovi benefici allo Stato. Questo dovrebbe essere il benefattore universale. Dovrebbe aumentare in proporzioni rilevanti gli stipendi di tutti gli impiegati. Anni fa, pareva agli impiegati di toccare il cielo col dito quando ottenevano un aumento del 10 per cento. Oggi chiedono il 50 ed il 100 e par sempre di chiedere poco. Lo Stato dovrebbe dare miliardi per la costruzione delle case, miliardi per la ricostruzione delle terre invase, centinaia di milioni per creare istituti di credito delle più svariate specie. I sussidi alle costruzioni di ferrovie, alle linee automobilistiche, alle bonifiche, ai canali, invece di darsi a pochi milioni all’anno, adesso si vogliono a diecine e centinaia di milioni. In pochi mesi, anzi in pochi giorni dicono si siano assegnati al credito agrario di una sola regione italiana quasi quattro volte tanti milioni di lire quanti in sessant’anni di vita unitaria non si erano assegnati a tutta Italia.

 

 

Tutto ciò potrà anche essere fecondo di bene. Ma purché non ci sia soltanto la febbre nel consumare, nello spendere, nel distruggere. Se ci fosse questa sola, fatalmente produrrebbe effetti disastrosi. Lo Stato sinora ha corrisposto a queste richieste di denaro indebitandosi, nella forma più pericolosa dell’indebitamento, che è la stampa dei biglietti.

 

 

È così facile, è così comodo stampar biglietti e darne a quanti ne domandano! Ma in tal modo andremo a finire come in Russia. Da quattro, da cinque anni viviamo in una atmosfera artificiale, eccitante. Tutti questi biglietti che girano, che passano da una tasca all’altra, hanno dato alla testa agli uomini. Hanno fatto immaginare loro di essere sulla via di arricchire sul serio. Hanno fatto sembrare a portata di mano la felicità, che è sempre poi sfuggita loro dinanzi.

 

 

Bisogna uscire dalla fantasmagoria, dal sogno. Bisogna guardare alle cose vere, non ai loro segni rappresentativi. Il fatto vero è che noi abbiamo minor copia di beni a nostra disposizione; che la guerra ha distrutto, non ha creato ricchezze. Ne ha distrutto meno di quanto fantasticano i disfattisti, i piagnoni sulle sorti dell’Italia ridotta a non possedere più nulla. No, le terre in Italia ci sono ancora e sono ancora coltivate; le case stanno ancora in piedi e sono abitabili; gli stabilimenti continuano a funzionare. V’è solo l’eccezione della zona devastata delle terre invase.

 

 

Ma in generale il reddito delle terre, delle case, delle industrie, dei commerci continua ad essere goduto da italiani, salvo quella relativamente piccola parte, forse un trentesimo, che dovrebbe essere pagata a stranieri per interessi del debito di guerra estero. In complesso la ricchezza materiale nostra non è, salvo che per le terre invase, molto diversa da quella di prima. Il che non vuol dire che spese di guerra enormi non si siano sopportate, che sacrifici di gran lunga superiori a quelli di taluni degli alleati non siano stati durati; e che la ricchezza nostra materiale non sarebbe stata notevolmente diversa da quella che è, se non ci fossimo decisi a sguainare la spada per la difesa della causa giusta.

 

 

Ciò che vogliamo affermare e che le cose materiali i cosidetti capitali, sono alquanto diminuiti, sebbene non in proporzioni terrificanti, in Italia come in Francia e come in Inghilterra da quello che erano prima. Ciò che è sovratutto variato è lo spirito degli uomini, che fanno agire quelle cose morte. Ha ricevuto un gran colpo di frusta; e sotto il suo bruciore ha prodotto cose mirabili durante la guerra. Ma durerà l’effetto utile? Lo spirito di sacrificio, che ci condusse alla vittoria, si trasformerà in un puro spirito di godimento, che annullerebbe i benefici della vittoria?

 

 

Noi speriamo di no. I cittadini savi, previdenti, riflessivi debbono cominciare essi a dare il buon esempio. Ancor dura il bisogno dello spirito di rinuncia, di sacrificio. Bisogna che tutti ci persuadiamo che, per chiedere allo Stato, bisogna prima saper dare. Se non si vuol vivere in un mondo fantastico, di maghi incantatori, fa d’uopo che lo Stato cessi assolutamente di stampar biglietti nuovi. Fecero malissimo gli Stati a ricorrere a questo metodo che, salvo per circostanze eccezionali ed in misura moderatissima, non era neppure necessario durante la guerra. Ma sarebbe criminoso, disastroso se oggi si seguitasse su tal via, dando ai popoli l’illusione di una ricchezza continuamente crescente, mentre crescono solo i nomi delle cose espressi in moneta di carta, e crescono i prezzi, e si esacerbano le contese sociali fra avvantaggiati e danneggiati dalla inondazione della carta.

 

 

Bisogna dunque dare allo Stato. Dare imposte e dare denari a prestito.

 

 

Meglio le prime che i prestiti. Bisogna che con la maggiore urgenza possibile, poiché si trova dinanzi alla camera un progetto organico di riforma dei tributi diretti, esso sia discusso ed applicato. E subito si abbia la sensazione che gl’interessi del debito pubblico saranno pagati con i denari dei contribuenti che possono pagare, appartenenti alle medesime classi sociali le quali detengono i titoli di debito pubblico. Bisogna che subito i bevitori di vino siano chiamati a pagare mezzo miliardo di lire, per far fronte, ad esempio, all’onere delle pensioni di guerra. Per ogni spesa nuova si deve proporre un tributo nuovo. Questa è la sola politica sana e feconda.

 

 

Frattanto urge seguitare a risparmiare ed a portare volontariamente allo Stato biglietti per ritirarne buoni del tesoro. Finché non sia terminata la liquidazione della guerra, il provento delle imposte, comprese le future ed augurabili, non basta a far fronte alle spese. Di qui la necessità della rinuncia, del sacrificio. I Comunisti russi e quelli ungheresi non hanno ancora scoperto un mezzo con cui sopperire alla mancanza del risparmio privato. Gli Stati, gli enti pubblici, i consigli degli operai possono forse produrre un po’ di ricchezza; certamente ne consumano molta. Non è ancora accaduto che essi siano dimostrati capaci a risparmiare. Eppure risparmiare è necessario, se si vuole che la società progredisca, se si vuole che rimanga semplicemente stazionaria. Abbandonati a sé, gli Stati per colmare i loro deficit, non sono buoni ad altro che a fabbricare biglietti. Ossia ad inasprire le condizioni di vita delle maggioranze. Perciò occorre che i buoni cittadini facciano essi ciò che gli Stati non sanno fare; e risparmino molto ed il molto risparmio diano allo Stato: finché lo Stato ne avrà bisogno, diano sempre all’incremento della produzione. Essi dimostreranno col fatto, che, se il lavoro è necessario, se il consumo è lo scopo del lavoro, non meno necessario è quello che si suol chiamare «capitale» o «capitalismo» e che con maggior verità si dovrebbe chiamare «rinuncia» o «capacità ad astenersi dal goder subito ciò che si è prodotto o si possiede» per ottenere poi in avvenire un frutto maggiore.

 

 



[1] Con l’aggiunta del sottotitolo Dare biglietti infruttiferi e ritirare buoni fruttiferi. [ndr]

La realtà in cifre

La realtà in cifre

«Corriere della Sera», 10 novembre 1917

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 109-113

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 582-585

 

 

L’onore e la dignità della nazione, la fedeltà alle alleanze volontariamente conchiuse, la voce dei nostri morti del Carso e dell’Isonzo hanno già stretto tutti gli italiani nel patto solenne di resistenza al nemico. A coloro, i quali non sentono il comando del dovere e vogliono la parola della realtà, fa d’uopo aggiungere che, se, per ipotesi assurda, I’Italia volesse per stanchezza momentanea, abbandonare il campo, essa si gitterebbe in un abisso di miseria e di strettezze economiche senza nome.

 

 

Fa d’uopo guardare in faccia la realtà; e questa ci dice che gli alleati nostri non hanno nessun obbligo, né morale né materiale, di privare se stessi di cose necessarie alla vita, di rinunciare ad un tonnellaggio che ogni giorno per essi medesimi va diventando più scarso per sovvenire ai bisogni di un paese divenuto indifferente alla loro causa, spettatore della lotta a coltello che si combatte tra essi ed i nemici. Non si hanno, per il tonnellaggio, cifre posteriori al 1913, ultimo anno di pace; ma in quell’anno su 16,3 milioni di merci sbarcate in Italia dall’estero, soltanto 4,3 milioni erano state trasportate dalla bandiera italiana. Tutto il resto era venuto su navi battenti bandiera estera. Su 2.324.840 tonnellate di cereali importati in quell’anno nei porti italiani, soltanto 754.700 erano state trasportate dalla bandiera italiana; e della parte residua ben 682.500 tonnellate dalla bandiera inglese e 416.000 dalla bandiera ellenica. Su 10.196.930 tonnellate di carbone solo 1878900 erano venute su navi italiane; 4.016.130 su navi inglesi e 1.520.600 su navi elleniche. Oggi che le flotte mercantili austro-tedesche sono requisite da noi o chiuse nei porti, come potrebbe vivere il popolo italiano, come potrebbero funzionare le sue industrie se noi dessimo alle marine inglese e nordamericana ragione di serbare al proprio paese esclusivamente il tonnellaggio divenuto così scarso?

 

 

Il problema del resto non sorgerebbe neppure; perché mancherebbero derrate e merci da trasportare. Nel 1916 su 291.729 tonnellate di frumento duro importate in Italia ben 285.930 venivano dagli Stati uniti; e nel primo semestre del 1917 su 257.138 tonnellate ben 184.623 tonnellate ci giungevano dagli Stati uniti e 50.076 dalle Indie britanniche. Su 1.538.819 tonnellate di frumento tenero importate nel 1916, gli Stati uniti ce ne fornivano 1.020.140, l’Australia 150.856, il Canada 31.436 e l’Argentina neutrale 316.684. Nel primo semestre del 1917 su 859.758 tonnellate importate dall’estero ben 349.107 ci furono date dall’Australia, 318.979 dagli Stati uniti, 71.215 dall’India e solo 120.447 dall’Argentina. Perché dovrebbero i paesi alleati, i quali riducono i loro consumi e mettono se stessi a razione per combattere il nemico, privarsi di una parte dell’alimento oggi divenuto così prezioso per aiutare chi avesse disertato la loro causa nel momento supremo? Pensino a queste cifre coloro i quali affettano di lasciarsi persuadere soltanto dalla realtà. Questa ci dice che su di noi cadrebbe non solo l’onta e la vergogna, ma la fame, la carestia.

 

 

E come per il pane, per molti altri generi alimentari: per il pesce, ad esempio, noi dipendiamo dagli alleati o dalle loro marine. Su 188.337 quintali di merluzzo e stoccafisso importati nel primo semestre del 1917 l’Inghilterra ce ne mandava 92.842, il Canada 36.183, mentre la neutrale Norvegia poteva darcene 57.158.

 

 

Spaventosa diventerebbe la situazione delle industrie, e milioni di lavoratori dovrebbero essere buttati sul lastrico, se ad esse venisse a mancare quello che fu definito il loro pane: il carbone. Su 8.064.900 tonnellate di carbon fossile importate nel 1916 in Italia, 6.997.100 venivano dall’Inghilterra e 1.056.700 dagli Stati uniti. Su 2.579.500 tonnellate importate nel primo semestre del 1917 l’Inghilterra ce ne fornì 2.297.000 e gli Stati uniti 279.400. Su 97.746 tonnellate di petrolio importate nel 1916 gli Stati uniti ce ne diedero 6; e su 46.469 tonnellate importate nel primo semestre del 1917 ce ne fornirono 46.442. Invano una pace disonorevole potrebbe farci sperare di aver il carbone dalla Germania, dove la produzione da 192 milioni di tonnellate si è ridotta a 120 milioni in ragion d’anno, insufficiente ai bisogni interni ed alle richieste pressanti dei suoi alleati.

 

 

Come calzarci, se nel 1916 su 284.830 quintali di pelli di buoi e vacche crude, secche ne ricevemmo 115.345 dall’India, 25.631 dalla Francia, 13.391 dall’Inghilterra, 2.779 da Aden e se su 81.209 quintali ricevuti nei primi sei mesi del 1917 l’India da sola ce ne mandò per 51.070 quintali? Come tenere in vita l’industria del cotone se su 2.537.000 quintali importati nel 1916 ben 1.852.000 venivano dagli Stati uniti, 545.000 dall’India e 130.000 dall’Egitto; e se su 1.197.000 quintali comperati nel primo semestre del 1917 ne ottenemmo 900.000 dagli Stati uniti, 247.000 dall’India e 48.000 dall’Egitto?

 

 

Poco meglio potrebbe vivere l’industria della lana, poiché circa metà dei suoi approvvigionamenti dipende dai paesi belligeranti. Su 498.000 quintali di lane naturali o sudice importate nel 1916 l’Australia ce ne mandava 203.400, la Gran Bretagna 33.900 e la Francia 5.500; su 75.500 quintali di lane lavate 25.600 venivano dalla Francia e 14.700 dall’Inghilterra.

 

 

Giova conoscere la realtà, non già per sentirci jugulati dagli amici a condurre una guerra non voluta, ma per conoscere bene la sorte che ci attenderebbe ove il coraggio venisse meno, ove fallisse la tenacia nella resistenza. Se Inghilterra e Francia e Stati uniti nuotassero nell’abbondanza di grano, di carbone, di cotone, di ferro, se disponessero di una marina mercantile largamente esuberante ai loro bisogni, e, nonostante ciò, si rifiutassero ad approvvigionarci nel giorno in cui volessimo separare la nostra dalla loro causa, avremmo ragione di parlare, come da taluno stoltamente si fece, di ricatto e di jugulamento. Ma le cose non stanno così. Il tonnellaggio navale va diventando ogni giorno più raro e prezioso; con qual diritto pretenderemmo noi che gli alleati si sottoponessero a privazioni grandi, se noi disertassimo la causa comune? Il grano è dappertutto razionato; e negli Stati uniti il signor Hoover, controllore ai viveri, ha dinanzi a sé un problema singolarmente difficile. Con qual ragione chiederemmo a lui di assegnarci sulle sue scarse disponibilità i 20 od i 30 milioni di quintali, che chiediamo ai soli Stati uniti, senza contare quel che chiediamo all’India ed all’Australia? Si possono costringere i nord-americani a ridurre il consumo del frumento; ma bisogna che essi di ciò sappiano la cagione. Né parrebbe ad essi ragion sufficiente il sovvenire ai bisogni di chi avesse abbandonato la loro causa.

 

 

Stringe il cuore dover ribattere argomenti venuti da parte nemica; e che nessun italiano, il quale abbia senso d’onore ha mai fatti suoi. Ma fa d’uopo chiarire la verità: dovere ed interesse consigliano di non dipartirci dalla via intrapresa, che è la via della resistenza fiduciosa.

 

 

 

Risparmiamo ora per l’avvenire

Risparmiamo ora per l’avvenire

Comitato torinese di preparazione (Commissione per il risparmio operaio), Tip. Artale, Torino, 1916

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 93-107

 

 

I. – Operai e contadini di Russia e Francia

 

Nei paesi alleati con l’Italia per la rivendicazione dei diritti delle nazioni e per la difesa della civiltà, la partecipazione delle classi operaie alla causa comune è grande e incoraggiante. Forse il più alto esempio ci è dato dalla Russia, dove le mogli e i figli degli operai e dei contadini benedicono ogni giorno l’atto coraggioso del governo che, all’indomani della guerra, abolì senz’altro la vendita delle bevande alcooliche, sopportando una perdita di circa due miliardi di lire, ma recando alle masse il beneficio inestimabile della salute, della forza, del rinascimento economico. Da quel giorno le centinaia di milioni al mese, che prima operai e contadini recavano alle rivendite dei veleni alcoolici, sono portate alle casse di risparmio; e così la popolazione cresce in ricchezza e in volontà e capacità di lavoro.

 

 

In Francia buona parte delle decine di miliardi fruttati dalla vendita dei titoli del prestito della vittoria, delle obbligazioni e dei buoni del tesoro proviene dalle calze di lana in cui i contadini depositano i loro risparmi e dai contribuenti delle masse operaie. Non vi è famiglia francese la quale non possedesse prima la sua cartella della città di Parigi e del credito fondiario; e nessuna vi è la quale non abbia contribuito alle spese, della guerra con l’acquisto di qualche obbligazione dei prestiti nazionali, accumulando frattanto un utile fondo di previdenza per l’avvenire.

 

 

II. – Il risparmio delle masse d’Inghilterra

 

In Inghilterra si durò una fatica più lunga a persuadere le masse della necessità del risparmio; anche perché il governo non metteva in vendita titoli adatti alle piccole borse.

 

 

Negli ultimi mesi però si è fatta della buona strada. Costituito un Comitato nazionale per il risparmio in tempo di guerra, questo indisse una settimana per il risparmio in guerra, che durò dal 17 al 22 luglio; durante la quale fu svolta una mirabile campagna di comizi e di propaganda scritta.

 

 

In quella settimana furono venduti 2.906.000 certificati di risparmio di guerra. Nella settimana successiva furono venduti 3.039.363 certificati al 23 settembre i certificati venduti ammontavano alla bella cifra di 27.050.000 lire sterline, corrispondenti a circa 682 milioni di lire italiane.

 

 

I certificati sono di 15 scellini e 6 pence l’uno: corrispondono circa a 20 lire italiane. Fruttano un interesse medio del 5 per cento; sono rimborsabili alla fine della guerra, e hanno questa caratteristica che l’interesse per sogni cento lire cresce quanto più il compratore li tiene a lungo.

 

 

III. – Operai e contadini in Italia

 

E in Italia? Non si può negare che le classi operaie e contadine abbiano dato un contributo alle spese della guerra, facendo depositi sui libretti delle casse postali ed ordinarie di risparmio. Se i depositi sui libretti in complesso si sono mantenuti al livello antico, nonostante il ritiro di parecchie centinaia di milioni da parte delle classi medie, le quali acquistarono obbligazioni dei prestiti nazionali, il merito è indubbiamente dovuto ai risparmi dei contadini e degli operai.

 

 

È qualche cosa. Ma ciò non basta. In confronto ai 7 miliardi circa che le classi dei capitalisti, degli industriali, dei commercianti, degli impiegati, dei professionisti hanno imprestato all’erario italiano dal giorno dello scoppio della guerra europea fino alla fine del settembre 1916, le alcune centinaia di milioni depositate alle casse di risparmio dagli operai e dai contadini sono insufficienti.

 

 

IV. – Il magnifico sforzo della borghesia italiana

 

Bisogna ricordare che, se una parte dei proprietari di terreni, degli industriali e dei commercianti guadagna più di prima in conseguenza della guerra, costoro hanno dovuto, nell’interesse generale medesimo, investire i loro sopraprofitti, decurtati dalle imposte, negli ampliamenti e macchinari, richiesti dalle esigenze dell’esercito; e quindi di altrettanto risultarono minori le disponibilità per le sottoscrizioni dirette ai prestiti pubblici.

 

 

Sicché furono tanto più encomiabili le società anonime e gli industriali, che diedero il buon esempio di larghe sottoscrizioni.

 

 

Non bisogna neppure dimenticare che una parte delle classi alte e medie non vide affatto aumentare, anzi vide diminuire i propri redditi; e si possono citare i proprietari di case, che il legislatore costringe a moratorie di vario genere; gli impiegati pubblici, il cui stipendio fu diminuito per maggiori ritenute di imposta; i capitalisti, i quali non ricevono dai propri titoli di rendita e dai mutui conchiusi prima della guerra alcun reddito in più; moltissimi professionisti, richiamati sotto le armi o danneggiati nella propria clientela. Eppure una notevole parte di costoro vide che era suo interesse restringere al minimo le opere non strettamente necessarie, e mettere da parte qualche somma per l’avvenire incerto del dopo guerra. Tutti insieme contribuirono al successo dei 7 miliardi di somme mutuate allo Stato in appena 26 mesi: successo di cui l’Italia a buon diritto va orgogliosa.

 

 

V. – I mezzi di risparmio dei lavoratori

 

A ben considerare, gli operai e i contadini hanno forse più di una notevole parte delle classi medie, i mezzi di risparmiare. Mentre gli stipendi e i guadagni degli impiegati, di moltissimi professionisti, di molte famiglie di redditieri sono rimasti immutati, e quindi in realtà sono diminuiti a causa del rincaro della vita, è ben noto che i salari degli operai nelle zone industriali e commerciali dell’Italia sono notevolmente aumentati. Infatti è cresciuto il salario ad ora ed a cottimo; è salito il numero dei giorni lavorativi durante, l’anno; sono accresciute le ore straordinarie pagate a tariffe speciali. Da altra parte s’occupano molti più membri della famiglia, giovani, donne e anziani; e così non diminuisce, in grazia all’esonero concesso agli occupati nelle industrie di guerra, il numero dei lavoratori. Per tutto questo, non è esagerato affermare che il guadagno complessivo di molte famiglie operaie è aumentato di gran lunga più di quanto non sia cresciuto il prezzo delle derrate alimentari. Notisi che il costo di talune spese necessarie, come l’affitto di casa, non è aumentato, salvo in quei casi in cui la famiglia abbia volontariamente cercato un appartamento migliore.

 

 

Lo stesso dicasi dei contadini, i quali vendono uve, bestiame, uova, pollame, frutta a prezzi notevolmente più alti; e hanno per conseguenza un margine di risparmio (pur tenendo conto del rincaro dei vestiti; delle scarpe e dei pochi alimenti da essi acquistati al mercato) assai più ampio di prima.

 

 

VI. – Gli operai hanno bisogno di risparmiare

 

Il bisogno di risparmiare è sentito dal contadino, la cui classe è delle più risparmiatrici del nostro paese. Forse non è altrettanto sentito dall’operaio; e ne fanno prova gli aumenti cospicui nei consumi non necessari di bevande alcooliche, di dolci, cioccolata, biscotti, intorno a cui le fabbriche produttrici potrebbero fornire particolari calzanti. Ne è prova l’aumento impressionante del consumo dello zucchero indigeno ed importato che supera già di un terzo, nel periodo di due mesi, quello previsto, che era già superiore di altrettanto a quello dello scorso anno.

 

 

Eppure l’operaio, assai più del contadino, avrebbe ragione di preoccuparsi dell’avvenire. Al contadino non sarà per mancare il piccolo fondo, né i mezzi di sostentarsi coi frutti di esso o col prodotto della mano d’opera sempre ricercatissima nelle campagne. La sorte invece delle industrie e dei commerci, a guerra finita, è incerta. Non è probabile che l’attività industriale nel suo complesso debba notevolmente diminuire; ma dovrà certo essere organizzata diversamente. Alla crisi di passaggio dallo stato di pace allo stato di guerra, verificatasi nell’agosto 1914, farà riscontro una crisi inversa, di passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace. Molte industrie, oggi fiorentissime, dovranno cessare o trasformarsi. Milioni di lavoratori, oggi sotto le bandiere, ritorneranno a prendere i posti abbandonati; e non vi sarà sempre la possibilità di occupare altresì coloro che oggi in via transitoria li hanno surrogati. Gli alti prezzi delle munizioni, degli indumenti, di tutto ciò che può servire per la guerra, non potranno durare e verrà meno perciò negli industriali la possibilità di pagare gli alti salari d’oggi.

 

 

VII. – Premuniamoci contro la crisi del dopo-guerra

 

Alla crisi del dopo guerra bisogna trovarsi preparati. L’operaio, il quale considera come permanenti gli eccezionali guadagni del momento presente e tutti li spende, dà prova di imprevidenza. Costituirsi una riserva per, l’avvenire è per lui una stretta necessità, e non solo un affare di convenienza. Tanto meglio se la crisi di riassestamento, inevitabile dopo la guerra, potrà essere superata senza che egli debba intaccare il piccolo risparmio formato nell’ora dei larghi guadagni. Sarà sempre una riserva preziosa nei casi di malattia, di bisogni straordinari; sarà, un esempio eloquente del modo con cui si formano tanto i risparmi quanto i capitali; sarà un’occasione per apprezzare equamente il modo con cui le grandi conquiste materiali della civiltà si sono potute ottenere in passato.

 

 

VIII. – Utili rimedi al rincaro della vita

 

Né è questo l’unico, sebbene importantissimo, motivo che hanno oggi di risparmiare le classi operaie. Esse, insieme con le altre classi sociali, le quali non godono della compensazione dei maggiori salari, si lamentano, e non a torto, del rincaro della vita. Ma una delle cause essenziali del rincaro non è forse il maggior consumo che oggi si fa di molte derrate e merci? Il consumo del soldato è, necessariamente, più largo di quello stesso suo quand’era a casa. E maggior consumo vuol dire richiesta più intensa ed aumento di prezzi.

 

 

Ragion vorrebbe che il maggior consumo dell’esercito fosse controbilanciato da minor consumo della popolazione civile. Non si vuol dire con ciò che debba diminuire il consumo delle cose realmente utili al sostentamento dell’operaio, alla salute e vigoria delle classi lavoratrici. Un risparmio siffatto sarebbe irrazionale e dannoso a quella stessa produzione di merci e di munizioni, la quale è così necessaria per la fortunata condotta della guerra.

 

 

Ma vi sono parecchi consumi, che possono essere ridotti o addirittura aboliti. I vestiti possono essere fatti durare più a lungo; si possono portare le scarpe rattoppate; e si possono consumare cibi più semplici, meno costosi e altrettanto nutrienti. Il pane bigio all’85% non è forse più saporoso e nutritivo del pane bianco e non meriterebbe di rimanere permanentemente nell’uso di tutti, ricchi e lavoratori? La carne di bue non è altrettanto buona che quella di sanato, prediletta dai torinesi? Non si potrebbe ridurre assai, senza danno alcuno delle vigorie dei lavoratori, il consumo dei dolci?

 

 

IX – Combattiamo l’alcoolismo!

 

E non sarebbe utilissimo che tutti riducessero al minimo di un bicchiere di vino per pasto il consumo delle bevande alcooliche? L’igiene se ne gioverebbe assai, perché il minor consumo potrebbe essere soddisfatto dal vino genuino, mentre oggi alla abbondante richiesta si provvede con falsificazioni. E se ne gioverebbe assai la capacità di lavoro e di guadagno delle masse nel dopoguerra.

 

 

X – Aumentiamo la produzione della ricchezza!

 

Si pensi che, fatta previsione di durata della guerra sino al 31 dicembre 1917, difficilmente l’onere degli interessi sul debito di guerra e delle pensioni ai feriti, mutilati, ed alle famiglie dei morti in guerra supererà i 2000 milioni di lire all’anno. Si rifletta che questa cifra è uguale all’incirca al settimo della produzione annua, di ricchezza di prima della guerra in Italia. E si concluda che basterebbe potere aumentare di un settimo la produzione annua perché si potesse dopo la guerra, avere il medesimo reddito netto di prima.

 

 

Ebbene, aumentare di un settimo la produzione si può, purché si voglia. L’abolizione del consumo delle bevande alcooliche basterebbe a fare percorrere un gran tratto di via sulla strada della maggiore efficacia produttiva dei lavoratori. In quest’anno, nelle campagne, si ottenne, grazie al più intenso lavoro dei rimasti a casa, un prodotto superiore a quello degli anni precedenti. Quanta maggior ricchezza si potrebbe trarre dalla terra ove il lavoro di tutti fosse più intenso, meglio organizzato, più esperto! A tanto si giungerà col tempo: ma molto si potrebbe ottenere subito, abolendo il flagello dell’alcoolismo.

 

 

Le conseguenze economiche della guerra per maggiori imposte, sarebbero controbilanciate da questa sola riforma, che è una riforma dipendente unicamente dalla volontà umana.

 

 

Dunque rinunciare oggi a taluni consumi non necessari vuol dire nel tempo stesso:

 

 

  • frenare l’aumento dei prezzi;
  • procurarsi i mezzi per risparmiare, e provvedere così all’eventualità della crisi del dopoguerra;
  • aumentare la propria capacità di lavoro; e quindi essere in grado di trovare lavoro remunerativo anche dopo la fine della guerra;
  • contribuire all’aumento della produzione nazionale, e perciò alla compensazione dei costi della guerra nazionale.

 

 

XI – Risparmiare è un interesse personale e nazionale

 

Da ciò si vede che «risparmiare» è un interesse personale, diretto delle classi lavoratrici.

 

 

Inoltre «risparmiare» è altresì un dovere verso la patria. Nessuna guerra si conduce con mezzi futuri. I cannoni sparano munizioni oggi prodotte; i soldati si cibano di carne e pane oggi esistenti, si vestono di panni già tessuti. Se si vuole che l’esercito abbia tutte le cose necessarie alla vittoria, fa d’uopo che tutto ciò sia oggi prodotto.

 

 

In parte il fabbisogno per l’esercito viene dall’estero, ma è nostro interesse e dovere ridurre questa parte al minimo: sia perché i paesi alleati devono anch’essi provvedere a spese gigantesche (noi abbiamo speso sino al luglio 1916 circa 10 miliardi per la guerra; l’Inghilterra ne ha spesi 58), e le loro ricchezze, per quanto più ampie della nostra, non sono però illimitate; sia perché noi non vogliamo indebitarci neppure verso gli alleati, se non nella misura strettamente indispensabile; sia perché ogni popolo collaborante nella grande impresa di liberazione del mondo civile deve avere l’orgoglio di sostenere il peso della guerra coi sacrifici suoi e non solo coi denari degli altri; sia perché i mezzi di trasporto marittimo si fanno sempre più scarsi, costosi e difficili fino al punto da rendere probabile il razionamento dei generi importati, fra i quali, notisi bene, è compreso il grano, specie quello duro per le paste alimentari.

 

 

Poiché le spese della guerra le dobbiamo sostenere noi nel momento presente; così non vi sono altre vie fuorché aumentare la produzione totale e restringere i consumi della popolazione civile.

 

 

Prima, a far vivere gli italiani, bastavano quattordici miliardi circa di ricchezza nuova annualmente prodotta. Durante la guerra, la produzione nazionale, per la più intensa energia da tutti recata al lavoro, è aumentata, supponiamo, da 14 a 16 miliardi di lire. Se di questi bisogna destinarne sei all’esercito – anche tenuto conto di due o tre miliardi provenienti dall’estero – rimangono soltanto dieci miliardi disponibili per la popolazione civile.

 

 

XII – Risparmiamo ad ogni costo!

 

Altra via d’uscita non v’è. Non è possibile – salvo trascurabili eccezioni di riserve, di alimenti, di vestiti, di forniture esistenti al principio della guerra presso i fabbricanti e i negozianti – provvedere in altra maniera. Non è possibile, come taluni immaginano, consumare la ricchezza già prima della guerra consolidata e capitalizzata. Non giova e non si possono consumare le terre, le case, le fabbriche, le macchine esistenti, che formano quella che si vuol chiamare la ricchezza del paese. Anzi fa d’uopo conservarla e migliorarla, perché produca sempre di più: il solo prodotto nuovo, annuo, corrente serve ed è consumabile per le necessità della guerra.

 

 

Ma il prodotto annuo, anche aumentato fino a sedici miliardi, è insufficiente se la popolazione civile continua a consumarne per sé come prima quattordici miliardi, oltre i sei di necessario consumo di guerra. Se si vuol durare e vincere, bisogna assolutamente ridurre i quattordici miliardi di consumo ordinario a dieci.

 

 

Allora: dieci miliardi di consumo civile ordinario, più sei di consumo di guerra, si starà dentro i sedici miliardi disponibili.

 

 

Sono cifre gregge, approssimative; ma danno però un’idea delle necessità imprescindibili imposte dalla guerra. Tutti devono contribuire al risultato. Sono in colpa gravissima i ricchi, i quali non sentono l’obbligo di non spendere; tanto più grave, in quanto essi dovrebbero dare l’esempio agli altri della rinuncia. Nessuna condanna dell’opinione pubblica sarà mai abbastanza severa contro questi veri traditori della patria, a cui l’alta posizione sociale impone doveri corrispondentemente elevati. A costringerli al risparmio, alla morigeratezza, il governo dovrebbe imporre in tutti quei casi in cui sia possibile, tasse enormi, proibitive contro tutti i consumi di lusso. Parecchio già si fece; ma assai di più converrebbe fare.

 

 

Detto questo, è necessario però aggiungere che, se i ricchi devono dare il buon esempio, le speranze della nazione sono sopratutto riposte nelle masse. Sono queste che fanno numero, sono queste da cui dipende la quasi totalità dei consumi. La rinuncia e il risparmio del lavoratore, oltreché più meritori, sono di gran lunga più efficaci della rinuncia e del risparmio del ricco.

 

 

Imitiamo in ciò il nostro nemico. Per spirito di sacrificio, per sentimento del dovere e per dure necessità di cose, la popolazione civile tedesca ha compiuto e compie sacrifici quotidiani. Grazie a questi sacrifici, l’esercito in campo è alimentato, equipaggiato, e resiste agli sforzi nostri e dei nostri alleati. Se vogliamo vincere, occorre che anche la popolazione civile nostra compia qualche sacrificio. Non quanti ne devono forzatamente sopportare i tedeschi; ma quanti consigliano nel tempo stesso l’interesse, la previdenza del futuro, il dovere verso la patria.

 

 

XIII – Vari modi per impiegare i risparmi.

 

Si tratta di accantonare per l’avvenire una parte dei propri redditi dell’oggi; e accantonarli ad ottime condizioni. Il risparmiatore non ha che l’imbarazzo della scelta.

 

 

  • Vuole il risparmiatore avere disponibili i propri risparmi? Si rechi alla cassa di risparmio di Torino, la quale ha succursali in ogni quartiere della città e in molti borghi della campagna; paga l’interesse del 3,5% all’anno; accoglie somme anche minime; le restituisce a vista; e presenta le maggiori garanzie di sicurezza e di saggia amministrazione. Le somme affidatele saranno, in grandissima parte, mutuate allo Stato mercé acquisto di titoli del debito pubblico, o comunque rivolte a scopi di interesse pubblico.
  • Desidera il risparmiatore un maggior frutto, ma nel tempo stesso non vuole impegnarsi per troppo lungo tempo?

 

 

Comperi buoni ordinari del tesoro a scadenza da nove a dodici mesi, i quali rendono il 4,50 per cento. Può averli presso qualunque ufficio postale o banca o cassa di risparmio; e può sceglierli nominativo o al portatore. Alla scadenza egli riavrà la somma mutuata, e avrà insieme la bella aggiunta degli interessi.

 

 

  • Il risparmiatore preferisce, in tutto od in parte, un impiego più duraturo?

 

 

Comperi buoni triennali o quinquennali del tesoro.

 

 

Scadono dopo tre o cinque anni: fruttano il 5%; anzi quelli quinquennali fruttano di più, perché sono in vendita a 97 lire, e saranno rimborsabili dopo cinque anni a 100 lire, pure fruttando sempre il 5%

 

 

  • è sicuro il risparmiatore di non avere bisogno per più lungo tempo ancora delle somme disponibili?

 

 

Acquisti obbligazioni del prestito nazionale. Oggi si possono avere a circa 96 lire da qualunque banchiere o cambista; fruttano cinque lire per almeno dieci anni; e possono essere rimborsate dopo dieci anni, non però più tardi di venticinque anni.

 

 

Come si vede, i mezzi sicuri di impiegare fruttuosamente il risparmio non mancano. L’operaio faccia la sua scelta secondo i suoi bisogni particolari.

 

 

Forse egli farà bene a cominciare dal deposito delle piccole somme disponibili presso le casse di risparmio. Così l’operaio è sicuro di avere sempre a sua disposizione il piccolo gruzzolo per le occorrenze imprevedibili sue e della famiglia.

 

 

Ma quando il gruzzolo sia cresciuto ed abbia superato le 100, le 200, le 300 lire, l’operaio agirà ottimamente ad acquistare il buono del tesoro ad un anno di scadenza al portatore. Avrà un frutto maggiore, del 4,50%, trarrà maggior profitto dal risparmio e si affezionerà maggiormente al capitaletto accumulato.

 

 

Se a poco a poco il suo piccolo fondo crescerà raggiungendo o superando le 1000 lire, egli avrà la scelta fra il buono a tre o cinque anni, di un reddito più cospicuo ancora, del 5 e del 5,35% rispettivamente e le obbligazioni del prestito nazionale 5%, le quali ai prezzi attuali fruttano più del 5,20% e danno un frutto garantito per dieci anni almeno.

 

 

XIV. – L’educazione al risparmio è il massimo dovere nel momento presente.

 

Ogni forma è buona; ma poiché l’educazione al risparmio si acquista a poco a poco, forse è bene passare di grado in grado dagli impieghi più brevi, come il libretto di cassa di risparmio, rimborsabile ad ogni momento, agli impieghi via via a più lunga scadenza e di maggior frutto. L’ideale sarebbe di riuscire un po’ per volta ed avere qualche piccola spezzatura di ciascuna specie; così da potere avere, pure ricavando frattanto il massimo frutto possibile, scadenze nei diversi successivi momenti.

 

 

Ma, comunque si faccia, sempre si giova allo Stato ed alla causa comune.

 

 

Anche il risparmio per un giorno solo è utile; poiché ritarda per un giorno il consumo di derrate indispensabili. Urge che tutti sentano questo che è il massimo dovere dell’italiano nel momento presente: ridurre i consumi fino a quando ciò non nuoccia alla capacità di lavoro ed alla salute della famiglia, ed aumentare così al massimo il risparmio.

 

 

Il dovere degli italiani durante la guerra

Il dovere degli italiani durante la guerra

«Corriere della Sera», 26 ottobre 1914[1]; 28 maggio[2], 6 giugno[3], 11 agosto[4], 6 settembre[5] 1915; 21 luglio 1916[6]; 24 aprile[7], 3 novembre[8] 1917

«Minerva» 16 aprile 1916[9]

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 43-92[10]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 31-38; 192-202; 360-364; 579-581

 

 

La moratoria, la quale fu in Italia una necessità dolorosa per mettere una diga al panico, che minacciava di travolgere tutta l’organizzazione economica del paese, ha dato luogo ad alcune manifestazioni strane e quasi direi allarmanti. Nessuno avrebbe supposto mai, prima della moratoria, che in Italia vivesse tanta gente provvista di depositi alle casse di risparmio e di conti correnti alle banche. Nessuno più pagò, perché le banche non rimborsavano i depositi o li rimborsavano solo nella misura fissata dai decreti governativi; e sovratutto non pagarono coloro, i quali in vita loro non erano mai stati titolari di conti correnti attivi alle banche e che non sapevano come fossero fatti i libretti di assegni. Coloro che non avevano mai ottenuto credito e che non avevano mai avuto bisogno di chiederne, subitamente, avendo visto che il governo aveva autorizzato alcune moderate emissioni di biglietti di banca, si immaginarono che i biglietti si potessero fabbricare per regalarli ai richiedenti; e cominciarono a reclamare ad alta voce emissioni di centinaia di milioni, di miliardi di lire di biglietti, per fornire fondi a classi di persone che finora non si erano sognate mai di diventare clienti delle banche di emissione.

 

 

È venuto il momento di dire che una delle migliori maniere con cui gli italiani possono servire il proprio paese, in quest’ora solenne della sua storia, è di compiere fino all’ultimo il proprio dovere. Viviamo in un’epoca in cui tutti debbono fare sacrifici e debbono essere disposti a farne dei maggiori; in cui è strettissimo dovere di tutti di chiedere allo stato, ai comuni, ai consociati di meno e non di più di quanto si era soliti chiedere prima; in cui a priori deve essere biasimato e non lodato quell’uomo politico o capo di rappresentanze sociali od economiche, il quale si fa iniziatore di nuove richieste al governo; in cui possono essere tollerate od ammesse solo quelle domande, le quali sono dettate dall’estrema necessità di salvare il paese da un pericolo grave e non quelle le quali hanno per iscopo di ottenere un vantaggio o di diminuire una perdita degli individui singoli.

 

 

A chiarire la tesi sopra sostenuta, mi proverò anch’io ad enunciare, ad imitazione di quanto fecero taluni autorevoli giornali esteri, un decalogo dell’italiano nel momento presente. Sarà un decalogo esclusivamente economico, la cui osservanza mi pare doverosa per tutti quelli, i quali non si trovino nella impossibilità assoluta di obbedire ai suoi precetti.

 

 

  • 1) Pagate i debiti più puntualmente di quanto non usavate fare prima. Chi si intenerisce della sorte dei debitori è, in tempi normali, il nemico acerrimo di coloro che hanno bisogno di credito; poiché l’inosservanza degli impegni induce i prestatori, e bene a ragione, ad aumentare il saggio dell’interesse per compensare il rischio dei ritardati o mancati pagamenti. Tanto più ciò è vero in tempo di guerra; poiché la mancata osservanza degli impegni da parte dei debitori antichi impaurisce i capitalisti ed i banchieri, già timorosi nelle circostanze odierne, e li spinge a nascondere il capitale che sarebbe disponibile. Di qui il rincaro enorme degli interessi, il mancato afflusso dei capitali alle industrie, la disoccupazione e la rovina dei debitori medesimi.

 

 

  • 2) Pagate i fitti con maggiore puntualità del solito. È risaputo che una delle cause più gravi della maggiore altezza relativa dei fitti piccoli in confronto ai grossi è la minore puntualità nei pagamenti e quindi il maggior costo d’esazione dei fitti piccoli degli operai, impiegati, piccoli commercianti. Il mercato, che adegua tutti i redditi, rialza i fitti piccoli per compensare l’industria edilizia del maggior costo che essa risente per la non puntualità e la insolvenza dei minuti inquilini. Quindi tutta la propaganda la quale si va facendo per ottenere la moratoria nei fitti non può non portare ad una conseguenza dannosissima alla classe più povera: ossia ad un ulteriore rialzo dei fitti piccoli.

 

 

  • 3) Pagate le note scadute ed in corso dei negozianti e procurate per l’avvenire di pagare tutto per contanti. Anche qui l’esperienza normale dei tempi di pace prova che gli acquisti a credito rincarano le merci, arenano il commercio e rendono difficile la vita alle industrie. Nei momenti, nei quali le difficoltà di far muovere il meccanismo economico crescono a mille doppi, ogni ritardo nei pagamenti da parte della clientela è un impedimento al giro della ruota economica. Il negoziante che non incassa non può pagare il grossista; questi a sua volta non paga il fabbricante e cessa di dare ordinazioni nuove. Il fabbricante, esaurite le ordinazioni vecchie e privo di incassi, cessa di lavorare: sicché cresce la disoccupazione.

 

 

  • 4) Depositate i fondi disponibili presso le casse di risparmio e le banche. Si pretende che banche e casse rimborsino i depositi al 100% e poi i risparmiatori trattengono in cassa gelosamente i denari disponibili. Nei tempi normali, le banche fanno fronte ai rimborsi dei vecchi depositi con gli incassi dei nuovi depositi. Se questi non si fanno più, come possono le banche fronteggiare le domande di rimborsi? Debbono vendere i titoli, in cui hanno investito i fondi dei depositanti o riscontare o non rinnovare le cambiali che con gli stessi fondi avevano comprato. Ma, vendendo i titoli, li deprezzerebbero, cagionando panico e disastri; riscontando le cambiali presso gli istituti di emissione, li costringerebbero ad emettere troppa carta-moneta, facendo crescere prezzi ed aggio; mentre la mancata rinnovazione delle cambiali scadute metterebbe spesse volte l’industria ed il commercio sull’orlo del fallimento.

 

 

  • 5) Continuate a fare i soliti vostri affari con le banche. Le considerazioni sovra fatte spiegano come non si possa lodare il contegno di quegli industriali e di quei commercianti, i quali, dopo aver ottenuto il rimborso di tutto o quasi tutto il proprio conto corrente, non portano più le proprie tratte all’incasso presso la banca, ma cercano di fare le esazioni direttamente od a mezzo posta, con metodi forse più costosi, allo scopo di tenere in cassa il ricavo. Il buon funzionamento del meccanismo economico richiede che le banche aiutino il commercio, ma impone anche che il commercio dia aiuto alla banca. Un servizio unilaterale consistente nel dare sempre e non ricevere mai è inconcepibile e non può non portare al disastro.

 

 

  • 6) Non fate provviste oltre il necessario. Oggi questo inconveniente si è assai ridotto: poiché si è visto che la guerra non era la carestia e che si poteva continuare a comprare ed a vendere come prima. Ma, poiché i tempi potrebbero farsi più gravi, non è inutile avvertire che la condizione essenziale per seguitare a comprar a prezzi normali è di non allarmarsi e non fare incette. Le incette dei negozianti non sono temibili; poiché son fatte da gente che, per guadagnare, ha assoluta necessità di rivendere: mentre sono pericolose le incette dei timorosi che si asserragliano in casa, provvisti di cibarie, come se avesse a tornare il tempo degli unni, e come se tornando gli unni costoro non trovassero assai comodo di fare man bassa anche sul ben di Dio ammucchiato dalla gente morta di spavento innanzi tempo.

 

 

  • 7) Non chiedete aiuti agli enti pubblici, quando è possibile trovar lavoro in città od in campagna. Gli enti pubblici e principalmente lo stato hanno compiti gravissimi da soddisfare. Tutte le forze finanziarie dello stato devono intendere ai fini supremi imposti dall’interesse nazionale. Pensano a ciò le comitive di uomini pubblici, di cooperatori, ecc. ecc. che vanno chiedendo lavoro allo stato ed appalti governativi? Pensano essi che, così facendo, indeboliscono finanziariamente lo stato e ne diminuiscono la forza la quale dovrebbe rimanere intatta? Hanno davvero essi cercato ogni via per procacciar lavoro ai disoccupati innanzi di ricorrere all’aiuto governativo? Sono sicuri che molti dei disoccupati non preferiscano di rimanersene in città a godersi la minestra ed i buoni di cibo gratuiti del comune piuttosto che andarsene a cercare lavoro dove il lavoro è offerto? Durante la vendemmia i contadini dovettero in molti luoghi pagare le vendemmiatrici, scarsissime, anche a 3 lire al giorno con l’aggiunta del consumo libero dell’uva. Può darsi che i disoccupati delle città considerino troppo vile il salario delle 3 lire al giorno: ma certamente il fornire minestre e cibi gratuiti nelle città a coloro che potrebbero trovare lavoro remuneratore nelle campagne è atto non conforme al pubblico interesse.

 

 

  • 8) Non chiedete denari a prestito, quando ciò non usavate fare prima e quando la vostra azione può provocare il deprezzamento della carta-moneta. Negli anni scorsi non s’era mai saputo in Piemonte che i compratori d’uva usassero ricorrere per somme enormi alle banche per ottenere i fondi per i loro acquisti. Improvvisamente si scopre quest’anno che sono necessarie diecine e centinaia di milioni e vi è chi chiede che li fabbrichi il governo stampando biglietti e li dia in prestito ai negozianti, affinché questi possano comprare le uve a 15 e 20 lire il quintale. Le centinaia di milioni di biglietti fortunatamente non si stamparono e ciononostante i viticultori poterono vendere le uve a prezzi rimuneratori. Prova evidente che i biglietti conclamati avrebbero servito solo a malsani gonfiamenti di prezzi.

 

 

  • 9) Pagate le imposte esistenti con maggiore zelo del consueto. Tutti abbiamo bisogno dei nostri redditi consueti; ma nessuno ne ha oggi maggiore urgenza dello stato. Il privato oggi può vivere col reddito dimezzato, rinunciando ai consumi non assolutamente necessari alla vita fisica; lo stato deve ottenere redditi crescenti, perché i suoi scopi sono oggi più ardui, più vasti, più costosi. Ognuno deve sentire che il pagamento delle imposte è qualcosa di più di un dovere ordinario: è il dovere più alto e più urgente del momento presente, è il mezzo per la conservazione dello stato e per il raggiungimento dei fini ideali che in questo momento storico hanno il sopravvento sui fini materiali.

 

 

  • 10) Confortate del proprio assenso il governo, quando intenda stabilire imposte nuove. Che siano necessarie imposte nuove per provvedere alle cresciute spese pubbliche era manifesto da un pezzo; e l’esazione di alcune di esse era già stata autorizzata dal parlamento. Ma le spese straordinarie occorse in questi mesi e quelle che occorreranno in avvenire ci costringeranno ad imitare la Germania, che aveva stabilito l’imposta di guerra del miliardo, ed i due paesi neutrali, Stati uniti e Svizzera, che hanno istituito or ora imposte straordinarie per sopperire alle minori entrate ed alle maggiori spese provocate dalla crisi odierna. Tutti debbono essere persuasi che, oggi, il pagare imposte maggiori per fornire allo stato i mezzi necessari alla sua vita è un bisogno più urgente di quello di provvedere a molti bisogni ordinari della vita: che si può e si deve rinunciare al vino, al caffè, al cinematografo, all’automobile, ai teatri, ai divertimenti, si deve far durare più a lungo un abito vecchio, si devono portare le scarpe rappezzate, rinunciando all’acquisto di un paio di scarpe nuove; ma non si deve rifiutare il consenso volonteroso e pronto al pagamento di imposte nuove. I bisogni dell’individuo come singolo diventano secondari di fronte ai bisogni dell’individuo come parte della collettività. Questa subordinazione, che nei tempi normali vorrebbe dire decadenza civile e dominio della burocrazia, nei tempi straordinari è richiesta dalle esigenze più urgenti della conservazione e dell’incremento di quei beni ideali, dai quali in sostanza dipende la possibilità di conseguire poi più larga messe di beni materiali.

 

 

II

Ora che la guerra è cominciata, diventa concreto il problema, che, già presente agli italiani, non ancora doveva essere risoluto senza indugio: come ci dobbiamo comportare nelle faccende ordinarie della nostra vita materiale ed economica?

 

 

Una formula ebbe grande voga in Inghilterra nei primi otto o nove mesi della guerra:

 

 

operate e vivete come se la guerra non fosse; attendete tranquillamente ai lavori vostri e continuate serenamente nel vostro genere ordinario di vita e di spese, senza preoccuparvi della guerra. In tal modo voi servirete il vostro paese; il quale ha d’uopo che il meccanismo della vita economica funzioni regolarmente e senza scosse, che la terra seguiti a fruttificare, che le industrie lavorino in pieno, che il traffico segua le sue vie, e che il popolo non sia malcontento per la disoccupazione.

 

 

Ma l’esperienza dei primi nove mesi di guerra ha dimostrato che la formula, sebbene contenesse una parte di verità, non era compiuta e poteva diventare pericolosa. Nell’Inghilterra stessa, l’opinione pubblica ha dovuto persuadersi che la vita ordinaria della popolazione doveva mutare per adattarsi alle necessità urgenti e pressanti della guerra; e che un non piccolo coefficiente di vittoria stava appunto nella capacità del popolo di adattarsi alle mutate condizioni ed esigenze della vita in tempo di guerra.

 

 

Sì, fa d’uopo che ognuno, il quale non sia chiamato sotto le armi, continui a lavorare nel suo mestiere e nella sua professione; e questo è certo il miglior modo per servire il paese. Gli industriali, i commercianti, i professionisti, gli agricoltori che attenderanno con la consueta cura ai propri lavori e negozi, contribuiranno a far funzionare senza scosse il meccanismo della vita del paese; e daranno opera alla vittoria; meglio che non abbandonando il proprio mestiere ed offrendo la propria collaborazione a servizi bellici, od ausiliari, a cui possono essere disadatti.

 

 

Ma lavorare come prima non basta. Bisogna lavorare meglio e più di prima. In un momento in cui milioni di uomini robusti e giovani sono chiamati a difendere il paese, occorre che il vuoto lasciato dalla loro chiamata sotto le bandiere non sia avvertito. I comitati di preparazione che sono sorti in tante città e si stanno costituendo nelle campagne fanno e faranno opera benemerita se contribuiranno a far penetrare nella mente e nel cuore di tutti gli italiani il convincimento che ognuno deve lavorare meglio e più di prima. Ognuno stia al suo posto; ma dia opera con raddoppiato zelo al lavoro di tutti i giorni. Il contadino sappia che se, coll’aiuto delle donne, dei ragazzi, dei vecchi di casa sua, riuscirà, in assenza del figlio soldato, a portare in salvo il fieno e le messi, a curare le viti, ad allevare il bestiame, egli si sarà reso benemerito della patria. L’impiegato pensi che le pratiche d’ufficio debbono ora essere definite ancor più rapidamente di prima, sebbene parecchi suoi colleghi siano stati richiamati. Volendo, è sempre possibile far in modo che il lavoro sia sbrigato: si viene più presto in ufficio, si va via più tardi e non si pensa ad altro che al lavoro che deve essere fatto. Né si chiedano compensi per ore straordinarie. L’operaio sappia che il successo della nobile e dura impresa nazionale dipende anche dalla diligenza del suo lavoro, dall’essere egli pronto a sacrificare ogni svago, e talvolta a rinunciare alla domenica, pur che il lavoro si faccia.

 

 

Lavorare come prima non sempre però è possibile. Vi sono industrie, di cui lo smercio diminuisce o cessa in tempo di guerra. Sono le industrie di lusso, quelle le quali lavorano per le cose non indispensabili all’esistenza. Sarebbe strano che lo stato, mentre deve rivolgere i suoi sforzi più intensi alla condotta della guerra, disperdesse i suoi mezzi finanziari nella medesima quantità, ad esempio, di lavori pubblici di prima. Gli operai e gli industriali addetti a questi lavori chieggano che sia fatto ogni sforzo affinché sia impedita la loro disoccupazione; ma si rassegnino a mutare genere e località di lavoro. I servizi ausiliari della guerra, le officine di armamento e di riparazione, le fabbriche di forniture militari avranno tali urgenze di lavoro che i disoccupati potranno facilmente trovar lavoro. Occorre che essi si adattino a compiere quei lavori che sono necessari e non si agitino per ottenere la prosecuzione di opere utilissime in tempo di pace, ma prorogabili in tempo di guerra. La guerra ha messo forzatamente in vacanze molti professori e ridurrà molto il lavoro dei professionisti. Già si sono costituiti comitati di questi «intellettuali» per avvisare ai mezzi di scrivere opuscoli, fogli volanti, di tenere letture e fare propaganda per innalzare il tono e lo spirito di sacrificio del paese. Molte cose utili si possono fare in questo campo, purché non si faccia della rettorica: spiegare ai soldati perché essi sono chiamati a combattere, quali sono le regole igieniche che devono osservare per non cadere vittime di malattie evitabili, organizzare invii di giornali e di libri ai soldati nelle trincee. L’esperienza fatta da ambe le parti nelle trincee di Francia e del Belgio ha dimostrato che i soldati sono avidissimi di letture e di quanto possa ricordare loro i parenti, gli amici ed i cittadini della patria per cui combattono.

 

 

Sì, fa d’uopo che ognuno continui a spendere quanto spendeva prima. Ma non come prima. Sarebbe un delitto verso la patria. Non forse la guerra ha dimostrato la necessità di sopprimere o di ridurre al minimo il consumo di bevande alcooliche? A tacer della Russia, che ha dato al mondo il magnifico esempio di un governo il quale rinuncia ad un’entrata netta di forse 1 miliardo e 800 milioni di lire, pur di sopprimere il flagello dell’alcoolismo; dappertutto, in Germania, in Francia, in Inghilterra i governi hanno fatto sforzi perseveranti per ridurre il consumo delle bevande alcooliche. E come delle bevande, così sarebbe necessario ridurre il consumo di tutto ciò che non è necessario per l’esistenza. Ognuno giudichi e valuti per conto suo le necessità della vita. Ma chi spendeva 100, rifletta che egli ha il dovere di ridurre la spesa, quando lo possa fare senza detrimento della sua salute fisica, a 90 ad 80 a 70 per consacrare il risparmio a spese pubbliche. La spesa più urgente che oggi ogni cittadino consapevole deve fare è quella dell’imposta. Pagare puntualmente le imposte dovute vuol dire soddisfare oggi ad una spesa altrettanto urgente come quella del pane o della minestra e certamente più urgente di quella da farsi per un vestito nuovo, od una scampagnata domenicale o per la villeggiatura. Chi può, rinunci quest’anno alla villeggiatura; e si dia dattorno per fare qualche cosa lungo i mesi estivi. Talvolta, il modo migliore di rendersi utile sarà di attendere alla sorveglianza dei lavori di campagna, quando fattori e contadini siano sotto le armi. In tal caso, quando la collaborazione agricola sia una cosa seria, anche la villeggiatura potrà moralmente essere spiegata. Altrimenti sarebbe una spesa deplorevole e dannosa.

 

 

Tutto il margine di risparmio ottenuto sulle spese sia dato allo stato. Le guerre costano; e costerà gravi sacrifici di uomini e di denari anche questa nostra guerra per la liberazione d’Italia. Un prestito sarà necessario per somma grandiosa. Tutti devono sottoscrivere, anche con piccole quote; e tutti devono fare ogni sforzo affinché nella spesa dell’anno entri l’acquisto di qualche cartella del nuovo prestito nazionale. Nel suo ultimo discorso sul bilancio, il signor Lloyd George disse che quest’anno gli inglesi devono risparmiare il doppio degli anni scorsi: 800 milioni di lire sterline invece di 400; 20 miliardi invece di 10 miliardi di lire italiane. Così dovrà avvenire, mutate le cifre, anche in Italia.

 

 

Resecate le altre spese; ma tenetevi pronti a dare allo stato quanto più potrete! è in gioco la ragione più alta della nostra vita, e della vita dei nostri figli e nepoti; ed in confronto a ciò, appaiono ben piccola cosa le rinunce a qualche godimento materiale od intellettuale!

 

 

Né si tema, così operando, di favorire la disoccupazione. Senza volere fare discussioni troppo precise e minute, è chiaro che tutto ciò che noi forniremo allo stato a titolo di imposta o di prestito convertirà immediatamente in domanda di merci e di prodotti utili all’esercito e quindi in domanda di lavoro. Dopo, ritorneremo a impiegare i nostri mezzi, gli uni nello spendere, gli altri nel migliorare terre o fabbricare case. Per ora, tutti gli italiani debbono rinunciare a qualunque altra meta che non sia la difesa della patria comune.

 

 

Così hanno fatto, è d’uopo dirlo anche ora, i tedeschi; e ciò ridonda a loro grande onore. Così dobbiamo fare pure noi, se vogliamo dimostrare al mondo che la nostra causa è giusta. Una meta così alta, come il compimento della unità d’Italia, non si tocca senza dolore e sacrificio. Affrontiamoli con cuore saldo e coi nervi tranquilli; e la meta sarà raggiunta. Se avremo fiducia in noi stessi, la battaglia sarà vinta; e sia fiducia senza jattanza, austera e piena.

 

 

III

 

Tutti noi abbiamo potuto verificare che il telegramma dell’ on. Cavasola ai prefetti è una fotografia esattissima della verità. «Constato con soddisfazione – dice il ministro – che in tutta l’Italia regna la calma degna di un paese cosciente della propria forza. Gli affari si svolgono dovunque come in tempi ordinari e confido che i mezzi posti con larghezza a disposizione degli istituti di credito, delle casse di risparmio, delle casse rurali, delle cooperative per assicurare il loro regolare funzionamento colle rispettive clientele, contribuiranno a rinsaldare quella pubblica fiducia che in questo momento costituisce un giusto vanto del paese. Sono certo che i signori prefetti presidenti delle camere di commercio spenderanno la loro vigile influenza per mantenere tale elevato spirito pubblico».

 

 

Noi sappiamo che la guerra si combatte ai confini, vediamo che i soldati partono per il teatro della battaglia, leggiamo le notizie intorno agli avvenimenti bellici; ma poi si ritorna tutti alle proprie occupazioni od ai propri affari, come se lo stato di guerra non esistesse. La calma e la forza del paese rispondono degnamente alla fiducia ed alla forza dell’esercito e del governo. Se si eccettuano alcuni sporadici episodi, ben presto repressi dall’autorità e dall’opinione pubblica, di caccia allo straniero, l’Italia non dà alcun segno di quelle eccitabilità ed impulsività che si prognosticavano e noi stessi dubitavamo essere proprie dei popoli meridionali. Si desidererebbe, è vero, sapere qualcosa di più intorno agli avvenimenti della guerra che si combatte così vicina a noi; ma subito si aggiunge: «il governo fa benissimo a dirci soltanto quelle cose che lo stato maggiore giudica opportuno di divulgare». Ed il commerciante ritorna ai propri negozi, l’industriale ai suoi lavori ed ai suoi operai, senza nulla chiedere di più, persuaso che la riservatezza ed il silenzio sono condizioni essenziali di successo nella grande impresa in cui si lotta per l’avvenire d’Italia.

 

 

Neanche si vede che la mobilitazione abbia finora disorganizzato imprese, interrotto lavori, aumentato il numero dei disoccupati. Non si è mai sentito parlare tanto poco di disoccupazione come oggi. Tutti si erano, in silenzio, preparati al grande evento, durante i lunghi mesi trascorsi di incertezza e di aspettativa. Le donne hanno sostituito in parte gli uomini; si vedono molti giovanetti compiere lavori e funzioni, prima riservati agli uomini adulti; si sa che le ore di lavoro straordinario negli uffici, nelle banche, nelle fabbriche sono cresciute allo scopo di provvedere, con il personale scemato, a compiere regolarmente il lavoro necessario. Nessuna inquietudine si è manifestata presso i depositanti, ed i correntisti delle banche e delle casse di risparmio; tutti essendo persuasi che, nei dieci mesi decorsi dall’agosto 1914, banche e casse hanno provveduto a migliorare e a rafforzare la liquidità dei loro impieghi, sì da esser pronte a soddisfare qualsiasi domanda. Noi eravamo così preparati alla guerra; poiché in fondo la vera preparazione consiste nella volontà determinata di non lasciarci turbare e di cercare ogni mezzo di adattarci alla mutata e più difficile situazione in cui noi siamo entrati dall’inizio delle ostilità. A me sembra che in questa volontà e non in altro consista lo spirito di organizzazione di cui hanno dato splendida prova i tedeschi. Noi sappiamo, come cosa certa, che l’esercito è magnificamente organizzato, che nulla è stato risparmiato per renderlo uno strumento efficace e potente delle azioni volute dai suoi capi.

 

 

Affinché alla organizzazione bellica risponda l’organizzazione civile basta che ognuno abbia la volontà fermissima di fare il proprio dovere.

 

 

È certo che noi abbiamo questa volontà.

 

 

Negli ultimi giornali tedeschi che giunsero in Italia prima della interruzione postale, una delle note più insistenti era quella dei grandi progressi economici compiuti dall’Italia nell’ultimo trentennio. Alcuni noti giornali pubblicarono su questo tema lunghi articoli, che si sarebbero persino potuti chiamare simpatici, se essi non avessero avuto l’intento, manifesto anche nei discorsi di Bethmann Hollweg e di Tisza, di dimostrare la nostra stoltezza nel rivoltarci contro il mondo tedesco, il quale aveva dato a noi quella organizzazione e quella spinta, grazie alle quali noi avevamo potuto toccare così ragguardevole meta nel campo economico. Non è questo il momento di apprezzare quale sia il nocciolo di verità che può essere nelle affermazioni tedesche. Chi riconosca, come in ossequio alla verità dobbiamo riconoscere, che durante il lungo periodo di pace dal 1871 al 1914 la collaborazione economica tra le nazioni europee era stata grandemente intensificata, non può negare che noi abbiamo ricevuto benefici dalla collaborazione tedesca, mentre la Germania altresì qualche giovamento ha tratto dalla nostra opera. È assai discutibile se la collaborazione tedesca sia in Italia stata davvero e sempre utile e se davvero l’Italia abbia compiuti i maggiori e più sani e duraturi e spontanei progressi precisamente nei rami in cui fu maggiormente palese il concorso dei capitali e delle intelligenze straniere. È certo ad ogni modo che quel concorso, che io non voglio oggi ingiustamente svalutare ma che andrebbe apprezzato non oltre il suo esatto valore, sarebbe stato vano se gli italiani non fossero stati adatti alle grandi trasformazioni economiche dei tempi moderni. Io ho l’impressione che i maggiori progressi nostri si sono compiuti tacitamente, senza collaborazione diretta altrui, nell’agricoltura, nelle industrie agricole, nella organizzazione creditizia delle casse di risparmio, delle banche popolari, delle cooperative, dei consorzi, ecc.; e si siano compiuti per uno sforzo tenace della nostra volontà. Io credo che nessuna impresa commerciale, bancaria od industriale sorta sotto la guida di dirigenti stranieri, anche molto benemeriti, possa reggere al paragone del superbo spettacolo delle «terre nuove» che il genio italiano ha fatto balzar fuori dalle paludi malariche delle province di Ferrara e di Ravenna. Quelle «terre nuove» rimarranno nei secoli come rimase la pianura lombarda, «creata» dal nulla con secoli di lavoro paziente delle nostre popolazioni. Il fattore principale di quei progressi economici – non diciamo neppure, ché non giova mai insuperbire, che i nostri progressi siano stati «grandi» come ora, per darne a se stessi tutto il merito, dicono i tedeschi – è stato dunque un nostro sforzo di volontà.

 

 

Questa «capacità di volere» è oramai entrata nel nostro sangue, si è fatta carne della nostra carne. Durante gli anni di pace, la esuberanza della nostra volontà di agire ci ha portato ad accapigliarci, operai contro padroni, leghe di contadini contro leghe di braccianti, rossi contro gialli e gialli contro rossi. Ora, finché dura la guerra, tutte le contese sono e rimangono sopite. La nostra «capacità di volere» sia rivolta soltanto a mantenere in perfetto stato di efficienza il meccanismo economico, affinché esso dia un rendimento sincrono ed integratore del meccanismo bellico. Come dice il ministro d’agricoltura, «i mezzi posti con larghezza dal governo a disposizione degli istituti di credito, delle casse di risparmio, delle casse rurali, delle cooperative per assicurare il loro regolare funzionamento colla rispettiva clientela devono contribuire a rinsaldare quella pubblica fiducia che in questo momento costituisce un giusto vanto del paese». Conservando quella fiducia in noi stessi, di cui noi oggi diamo una così lieta prova, noi avremo compiuta la migliore e più efficace opera di organizzazione. Fiducia vuol dire attendere alle proprie occupazioni; vuol dire attendervi con raddoppiato zelo; vuol dire compiere quel lavoro che è un anello degli infiniti lavori di cui vive la intiera comunanza sociale; vuol dire quindi collaborare nel miglior modo possibile al raggiungimento del fine, che solo brilla dinanzi ai nostri occhi. Di fronte alla organizzazione tedesca, di cui tante cose si sono lette ed a cui tante e meritate lodi abbiamo tributato, non bisogna però lasciarci cogliere dallo stupore e dall’inerzia disperante, come se quella organizzazione fosse qualcosa di sovrumano e di irraggiungibile. Pensiamo che essa consiste sovratutto nella deliberata volontà di ognuno di fare più del proprio dovere, ciascuno nel proprio, anche limitatissimo, campo. In questi primi tempi della guerra, abbiamo saputo tenere i nervi tranquilli ed abbiamo seguitato a lavorare. Continuiamo così, crescendo via via i nostri sforzi, a mano a mano che cresce lo sforzo militare; ed avremo compiuto il nostro ufficio verso la patria.

 

 

IV

Ho letto in questi giorni l’annuncio che per la sesta volta il prof. Riccardo Bachi pubblica intorno all’Italia economica[11] nell’anno trascorso, con tanta soddisfazione ed utilità dei lettori italiani. È una vera cronistoria dell’anno, la quale ci passa dinanzi; sicché il possessore di questa e delle annate precedenti è messo in grado di conoscere, con rapidità e sicurezza, tutti i fatti che si sono verificati nell’anno intorno al commercio internazionale, al traffico ferroviario e marittimo, al movimento delle banche e delle borse, ai prezzi delle merci e delle derrate, all’andamento delle industrie agricole ed industriali, al mercato del lavoro ed alla finanza dello Stato. Chiunque conosca le difficoltà, spesse volte insormontabili dai privati, di procurarsi notizie attendibili intorno a ciò che è successo in passato e su cui si desidererebbe di essere informati per gli opportuni confronti col presente, saprà grado al Bachi di essersi assunto il compito di riassumere in un compatto volume di 300 pagine tutti i dati ed i fatti ed i progetti che in materia economica e sociale si sono verificati e presentati e discussi di anno in anno. Se il favore del pubblico la sosterrà e se nell’autore durerà la pazienza, fra qualche decennio la raccolta di questi annuari sarà una miniera preziosissima per lo storico dell’Italia economica. Frattanto essa dovrebbe essere un manuale indispensabile per la consultazione di ogni uomo politico, giornalista, banchiere, amministratore di società anonime, industriale, segretario di associazioni operaie, di federazioni e di leghe. All’estero, vi sono taluni annuari consimili che hanno una fortuna grande; e sono divenuti uno strumento di lavoro indispensabile per le persone che appartengono alle classi dirigenti. In Italia quanti presumono dirigere altrui e specialmente amministrare o controllare la cosa pubblica, dirigere l’opinione, guidare associazioni, e tuttavia non si curano di saper nulla intorno ai fatti, su cui quotidianamente discorrono e deliberano!

 

 

Quest’anno l’Annuario del Bachi porta un sottotitolo: Le ripercussioni della guerra europea sull’economia nazionale. Ed in verità l’anno 1914 presenta per gli statistici e per gli storici un carattere imbarazzante: i dati si interrompono, si contorcono, assumono un andamento profondamente diverso e spesso profondamente bizzarro a partire dall’agosto. Ogni serie statistica deve, nel 1914, dividersi in due parti: primi sette mesi, ultimi cinque mesi. E le due parti non hanno nulla di comune fra di loro.

 

 

Tuttavia un nesso si può ritrovare, ed il Bachi lo ha messo bene in luce.

 

 

Fu fortuna somma che i primi sette mesi del 1914 fossero stati nel mondo in generale e particolarmente in Italia mesi fiacchi, di liquidazione di una crisi che si andava trascinando da anni. «Proseguiva in quei mesi il rallentamento nell’attività di varie grandi industrie e specialmente andavano declinando la produzione del ferro, l’estrazione del carbone; la domanda di metalli era discesa; il livello generale dei prezzi diminuiva: si attenuava alquanto il movimento degli scambi internazionali; il grado di occupazione della mano d’opera in varie industrie era piuttosto depresso; il traffico marittimo, dopo vari anni di brillante ascesa, subiva un regresso così che l’offerta di tonnellaggio risultava eccedente la domanda ed il livello dei noli declinava tanto sensibilmente da provocare fra gli armatori schemi di intese internazionali per il parziale disarmo. Le quotazioni dei titoli di credito nelle borse erano orientate al ribasso. La scarsa tendenza del capitale a nuovi investimenti si traduceva in una certa abbondanza di denaro per impieghi a breve scadenza e così nel mite saggio degli sconti; il movimento bancario era generalmente fiacco: il volume dei portafogli tendeva a ridursi».

 

 

Fu fortuna somma che la guerra europea sia caduta in un momento di languore economico. «La improvvisa rovina sarebbe risultata ben più vasta, la scossa ben più sussultoria, se la guerra fosse avvenuta in un punto di forte ascesa per l’economia italiana, in una fase di febbrile intensa attività come era, per esempio, l’anno 1905: in un istante di ardita speculazione, di audaci iniziative, di moltiplicazione d’imprese, di ascese nelle quotazioni di borsa, il sobbalzo sarebbe stato più spaventevole, la ruina più vasta, maggiore la catastrofe».

 

 

Il languore di parecchie industrie fece sì che in alcuni casi l’improvvisa domanda di forniture militari potesse essere soddisfatta con le riserve invendute e pesanti sul mercato e risanasse una situazione divenuta oramai cronicamente malata; in altri casi consentì ed incoraggiò ad una trasformazione tecnica e commerciale, per cui si poterono soddisfare i bisogni di guerra trascurando altri bisogni privati meno urgenti e prorogabili. Il marasma delle borse fece sentire meno gravemente il danno della loro chiusura; e mancando le domande di capitali per altri impieghi, fu possibile al risparmio disponibile ed a quello nuovo accorrere ai prestiti di guerra ed alle industrie intente a provvedere ai bisogni improvvisamente cresciuti dello Stato.

 

 

Insomma, l’adattamento alle nuove condizioni di vita fu reso più agevole dallo stato di liquidazione e di attesa che il mercato mondiale, ed il nostro con esso, attraversava nella prima metà del 1914. Non mancarono gli sforzi intesi ad impedire l’adattamento, ed in specie fu grande, all’estero ed in Italia, il clamore di coloro i quali invocavano una energica ed audace politica di credito allo scopo di consentire alle industrie di continuare nelle usate produzioni, agli enti locali di seguitare negli iniziati lavori pubblici, agli operai di trovare occupazione negli ordinari impieghi.

 

 

Tentativi che, se fossero approdati, sarebbero stati cagione di gravissimo danno; poiché ciò che importava, dopo lo scoppio della guerra, e ciò che massimamente importa ancora adesso, non è già di continuare a produrre come prima, ma di produrre diversamente, sebbene con maggiore intensità, per soddisfare ai nuovi bisogni che la guerra ha fatto sorgere. Produrre per produrre è un insigne errore; il quale conduce ad avere i magazzini ricolmi e prepara le crisi prossime, le perdite di capitale, le disoccupazioni operaie. A costo di qualche momentaneo squilibrio, a costo di qualche crisi passeggera di disoccupazione operaia, era ed è necessario che si interrompa e languisca la produzione delle cose non urgenti e che tutti gli sforzi siano rivolti a quei lavori, i quali appaiono indispensabili per la difesa del paese.

 

 

A più riprese ritornano nel volume del Bachi le lodi ai reggitori della cosa pubblica e delle banche d’emissioni per avere – attraverso a quelle piccole e formali concessioni che in un paese democratico e di scarsa cultura economica sono indispensabili per colmare pericolose querimonie d’indole politica ed elettorale – resistito «agli inconsulti e petulanti richiami che da molte parti si levarono perché una espansione della circolazione cartacea e una dilatazione del credito venissero a stimolare le speculazioni, ad eccitare patologicamente un movimento economico che era provvido lasciar languire».

 

 

Ed è bene che le lodi siano ripetute e si insista negli incoraggiamenti, a proseguire, entro i limiti del politicamente possibile, nella severa via della restrizione del credito alle industrie non utili, direttamente od indirettamente, alla guerra; poiché non mancano gli incitamenti a battere una via diversa, che sarebbe funesta per il paese e per le masse lavoratrici.

 

 

Non, è molto, la lega nazionale delle cooperative diramava un questionario, in cui, fra l’altro, era esposto il pensiero che fosse necessario iniziare «una coraggiosa politica finanziaria che aumenti la circolazione, che faciliti l’esecuzione dei lavori pubblici, che aiuti l’agricoltura, che sproni le rallentate attività dell’industria e del commercio».

 

 

Meraviglia assai, non già che simili propositi sieno manifestati, sibbene che trovino largo consenso tra uomini politici, sindaci, consiglieri comunali, uomini responsabili insomma, i quali hanno il dovere di badare alle conseguenze delle loro parole e dei loro consensi.

 

 

Non già che si debba essere contrari ad ogni costo ad aumenti nella circolazione dei biglietti. L’esperienza di un secolo, culminante nei risultati di celebri inchieste eseguite nel principio del secolo XIX sul regime monetario e bancario inglese, ha dimostrato che non bisogna aver timore di offrire biglietti in quantità illimitata, purché l’offerta sia fatta coll’unico intento di calmare il panico, di inspirare fiducia e di evitare che pubblico, industriali e commercianti accettino sul serio l’offerta. Offrire biglietti in quantità illimitata allo scopo di non doverne emettere di fatto se non quantità minime: ecco la politica monetaria additata dall’esperienza e riconosciuta efficace ed utile.

 

 

Questa politica è in tutto contraria all’altra delle effettive emissioni di carta-moneta, voluta dalla lega delle cooperative per facilitare l’esecuzione dei lavori pubblici, aiutare l’agricoltura, spronare le rallentate attività dell’industria e del commercio. Questa è politica rovinosa, la quale nel momento attuale ha un unico e ben sinistro significato: indebolire le forze di resistenza del paese di fronte al nemico.

 

 

Aiutare l’agricoltura. – E perché di grazia? Gli agricoltori, in quest’anno di guerra, si aiutano già abbastanza da sé vendendo a prezzi folli la maggior parte delle derrate di cui dispongono. Frumento, granoturco, bestiame, persino il vino, tutto è aumentato di prezzo; tutto si vende con facilità grandissima, procacciando a proprietari e fittabili guadagni insperati, di gran lunga superiori al danno subito per l’aumento di prezzo della mano d’opera. Forse i soli danneggiati furono quelli che hanno terreni in cui è prevalente la cultura del gelso. Ma per gli altri il raccolto si annunzia rimuneratore, se non per quantità, per i prezzi. Gli agricoltori si lamentano sempre per una loro inveterata abitudine, ma sta di fatto che una commissione agraria, costituitasi a Torino, sotto l’egida del comitato di preparazione, allo scopo di avvisare ai mezzi di rimediare alla mancanza di mano d’opera nelle campagne, credette opportuno sciogliersi, dopo avere constatato che alla mancanza gli agricoltori avevano provveduto da sé, senza l’aiuto di Comitati e di poteri pubblici. Facciamola finita con la brutta mania di voler aiutare della gente, che sa benissimo il proprio conto ed il cui desiderio più vivo è forse quello di non essere frastornata da pretesi salvatori!

 

 

Spronare le rallentate attività dell’industria e del commercio. – Per molte branche dell’industria e del commercio non v’è affatto bisogno di sproni e di incitamenti. Tutti questi industriali e quei commercianti, i quali fabbricano cose utili all’esercito o necessarie per la popolazione civile hanno più lavoro di quanto non ne possano eseguire. Ad essi non mancano il credito e la clientela. Mancano talvolta gli operai ed i mezzi tecnici per eseguire le ordinazioni ricevute. All’uopo non occorre però affatto stampare biglietti. Occorre invece che continuino a languire ed anzi, se è possibile, si sospendano del tutto le altre industrie, le quali producono merci di lusso, cose inutili ed il cui consumo per il momento è prorogabile. Occorre che gli operai di queste industrie si adattino a compiere il breve tirocinio necessario ad imparare un altro mestiere (ad esempio maneggiare torni); ed è necessario perciò che né i comuni, né lo Stato, né le organizzazioni operaie e cooperative si mettano in capo di trovare un rimedio alla loro disoccupazione, diverso dalla ricerca e dall’apprendimento di altri lavori più utili nel momento attuale. Occorre che gli industriali si rassegnino a non più produrre e si ingegnino a trarre il miglior partito possibile dai propri macchinari per produrre diversamente da prima. A Ciò non servono tuttavia le chiacchiere intorno a nuove emissioni di biglietti; bastando e facendo d’uopo spirito di organizzazione, buona volontà di imparare, spirito di sacrificio per superare gli ostacoli dei necessari spostamenti di lavoro.

 

 

Facilitare l’esecuzione dei lavori pubblici! – Ostacolarla invece fa d’uopo, dico io, con ogni energia e con una viva opera di propaganda. Se v’è una politica, la quale nel presente momento sia deleteria è quella dei lavori pubblici. È utile compiere lavori pubblici nei periodi economici in cui il saggio di interesse è basso, in cui languono le industrie private ed in cui si può pensare ai lavori di lunga lena, i quali saranno produttivi fra qualche decennio o fra qualche generazione. Costruire una ferrovia la quale e` destinata a non rimunerare il capitale e quindi non può essere costruita senza un largo sussidio governativo, può essere utile quando lo Stato crede in tal modo di conseguire un vantaggio generale per la collettività od un rendimento economico lontano, fra 30 o 40 anni. Ma occorre che lo Stato non abbia altri fini più urgenti e più alti da conseguire. Nel momento presente, in cui lo Stato ricorre ai risparmiatori per procacciarsi, pagando circa il 5%, il capitale necessario per compiere l’unità italiana, fare dei debiti – e le sovvenzioni ferroviarie, le emissioni di biglietti per sovvenire le cooperative di lavori pubblici sono veri e propri indebitamenti, ben più onerosi del prestito nazionale – per costruire una ferrovia è un atto economicamente e politicamente assurdo. Seguendo i consiglieri della larga politica di lavori pubblici, lo Stato: 1) rincara il prezzo del risparmio, che gli è necessario per la condotta della guerra, e rende quindi più grave il peso finanziario della guerra stessa; 2) distoglie operai, capitecnici, imprenditori da quelle industrie, a cui oggi è necessario dedicarsi; 3) rende più difficile all’agricoltura, di cui si è tanto teneri a parole, di procacciarsi mano d’opera; 4) aumenta la circolazione dei biglietti ed inasprisce l’aggio, con conseguenze gravissime per la collettività e massimamente per i lavoratori.

 

 

Con le quali osservazioni non si vuol dire che i lavori pubblici debbano essere del tutto abbandonati. No. Devono essere ridotti al minimo possibile: a quelli che: 1) possono essere politicamente necessari per tener tranquilla la parte più facinorosa della classe politica, quella che non è capace, neppure nel momento attuale, di sacrificare i propri piccoli interessi elettorali sull’altare della cosa comune. Sarà d’uopo ricordarsi, a cose calme, di queste insistenze per ottenere lavori pubblici e per sottrarre mezzi al solo scopo, il quale oggi deve essere in cima al pensiero di tutti; 2) sono più vicini al loro compimento e per cui una interruzione od un rallentamento potrebbe essere più costoso del risparmio per tal modo conseguito. Il che vuol dire: non cominciare lavori nuovi, se non per eccezione di urgenza immediata; sospendere quelli per cui si è ancora nei primi stadi della esecuzione e per cui la sospensione non danneggia il valore del lavoro già fatto; e continuare invece, con la massima economia, quei lavori già iniziati per cui la sospensione riuscirebbe di danno grave o distruggerebbe il valore della parte già eseguita. Queste le regole che il buon senso, l’interesse pubblico ed il vantaggio reale delle classi lavoratrici impongono di seguire in materia di lavori pubblici.

 

 

V

Quanto più la guerra procede, tanto più cresce l’importanza della campagna a favore dell’economia iniziata dai più autorevoli giornali inglesi, fatta propria dal governo di quel paese, ed a cui anche in Italia si rivolge oggi il consenso crescente dell’opinione pubblica. Dall’osservanza della più rigida economia ha finora tratto gran giovamento sovratutto la Germania, la quale deve ad essa se ha sentito scarsamente gli effetti del blocco alimentare ordinato ai suoi danni dall’Inghilterra; il pane kappa, il razionamento della popolazione la campagna per utilizzare i rifiuti della cucina e della casa recarono notevole vantaggio alla resistenza economica tedesca contro gli alleati. E poiché le risorse economiche non sono inesauribili in nessun paese, neppure in Inghilterra, è naturale che anche lì si sia ripetuto il grido: fate economia! Dal successo di questa campagna dipende, più che non si creda, la capacità di resistenza bellica delle nazioni alleate. Se l’Inghilterra deve mantenersi in grado di aiutare finanziariamente i suoi alleati, uopo è che essa riduca al minimo i suoi acquisti all’estero a scopo di consumo ed il consumo medesimo delle cose prodotte all’interno; così da diminuire la formidabile e crescente sbilancia commerciale, e da frenare l’ascesa del cambio, che anche là comincia a farsi sentire. Da un calcolo istituito dal signor Hobson nell’ultimo numero dell’«Economic Journal» risulta che nei primi nove mesi di guerra l’Inghilterra dovette vendere circa 125 milioni di lire sterline (3 miliardi e 350 milioni di lire nostre) di titoli stranieri da essa posseduti per provvedere allo sbilancio economico causato dalla guerra. Se non si pone riparo con l’economia agli eccessivi dispendi, arriverà il giorno in cui le vendite dovranno essere aumentate molto al di là di questa cifra ed il mercato nordamericano sarà incapace di assorbire le enormi partite di titoli venduti. Di qui il fervore con cui uomini di governo, giornalisti, propagandisti vanno inculcando agli inglesi la necessità di porre un freno alle loro abitudini spenderecce.

 

 

È un appello, il quale deve, anche fra noi, essere rivolto a tutte le classi sociali. Alle classi alte, ricche ed agiate in primo luogo. Non si lascino esse trarre in inganno dal pregiudizio comunemente diffuso che sia loro dovere di spendere molto per dare lavoro alle masse operaie. Questo dello «spendere per dare lavoro» è un pregiudizio erroneo sempre, e massimamente in tempo di guerra. Gli economisti non affermano che gli uomini siano meritevoli di lode solo quando risparmiamo e siano biasimevoli sempre quando spendono il loro reddito. Ognuno impiega i propri redditi nel modo che ritiene più opportuno; e dal punto di vista economico è fuor di luogo affermare che l’atto del risparmiare sia più virtuoso dell’atto del consumare. Per raggiungere il fine di un progresso economico generale, di un miglioramento costante nella produzione della ricchezza e nel tenor di vita degli uomini, è necessario che sia serbato un certo equilibrio fra il consumo ed il risparmio; fa d’uopo che, per risparmiare denaro, non si riducano gli uomini alla macilenza fisica ed alla sordidezza intellettuale e morale; e d’altro canto non si consumi tutto il reddito in godimenti presenti, occorrendo provvedere all’avvenire. Queste sono verità ovvie; ma non è inutile insistere sul punto che il ricco, il quale spende tutto il suo reddito e forse parte del suo patrimonio, non acquista perciò alcuna maggiore benemerenza, verso i poveri, di colui che risparmia.

 

 

Apparentemente il ricco spendaccione sembra meritevole di maggiore lode dell’avaro parsimonioso; ed invero egli è lodato da servitori, camerieri, cocchieri, negozianti, parassiti, come colui che sa spendere i propri denari a beneficio altrui. Costoro guardano con disprezzo al ricco avaro che tesaurizza e pone in serbo i suoi denari, rifiutando di farne partecipe altrui. In realtà, tutti sanno che questa è solo l’apparenza delle cose. Nel mondo moderno, in cui nessuno tesaurizza in realtà – chi usa ancora riporre sottoterra i denari messi in serbo? – ma tutti risparmiano, risparmiare vuol dire portare i propri denari alla banca o cassa di risparmio o comprare titoli o fare mutui altrui o comprare terre o case. E poiché banche e casse di risparmio non tengono inutilizzati i depositi, ma li danno a mutuo ad industriali, commercianti, comuni bisognosi di compiere opere pubbliche ecc. ecc.; risparmiare vuol dire fare «domanda di lavoro» altrettanto e forse più di quanto non accada consumando. Le 1.000 lire consumate impiegano gli operai che tessono panni o macinano il grano: ma, senza le 1.000 lire risparmiate, industriali tessitori e mugnai non avrebbero potuto fare le provviste di lana o di frumento, o comprare le macchine senza di cui il lavoro sarebbe stato impossibile.

 

 

La quale verità acquista maggior forza in tempo di guerra. Supponiamo vi sia taluno in dubbio se gli convenga acquistare un’automobile ovvero mettere in serbo i denari per la sottoscrizione di cartelle del futuro prestito nazionale. Quali sono le conseguenze delle due diverse maniere di agire? Dannose alla generalità nel primo caso, utili nel secondo. Se egli acquista l’automobile, avrà la scelta fra una marca nazionale od una marca estera. È quasi certo che egli non potrà comperare un ‘automobile nazionale, tutta la produzione interna essendo accaparrata per le necessità militari. Quando vi riuscisse, sarebbe a danno del paese; il quale ha interesse che tutti gli operai ed i capitali dell’industria automobilistica siano impiegati a crescere la resistenza contro il nemico. Egli, aumentando la domanda di maestranze e di materiali così necessari, ne aumenterebbe il prezzo e crescerebbe quindi il costo della guerra per lo stato. Né meno dannoso all’interesse nazionale sarebbe l’acquisto dell’automobile all’estero. Egli dovrebbe pagare all’estero 10 o 20.000 lire e crescerebbe d’altrettanto il debito commerciale dell’Italia verso l’estero. Colla sua azione egli:

 

 

  • impedirebbe all’Italia di acquistare frumento o munizioni da guerra per altrettante somme; ovvero
  • provocando una nuova domanda di divisa estera, farebbe crescere l’aggio dell’oro sulla carta – moneta e contribuirebbe al crescere del prezzo dei cereali, delle carni, delle lane, delle munizioni e di tutte le cose le quali noi dobbiamo comperare all’estero.

 

L’azione di chi compra un’automobile all’estero, come di chi acquista gemme, brillanti, pizzi, vestiti, stoffe di lusso, libri, di cui la lettura è prorogabile, deve dunque essere reputata nociva alla patria. Osservazioni simili si possono fare per i nuovi impianti industriali, edilizi, per i lavori pubblici prorogabili e non ancora iniziati. Crescono, per queste richieste facilmente prorogabili, i prezzi del legname, del ferro, del cemento e di molti altri materiali, di cui il governo ha gran bisogno per le sue occorrenze militari; si distolgono gli operai dall’accorrere a quelle fabbricazioni di panni, di materiali bellici ed a quelle colture dei campi che sono necessarie ed urgenti nel momento attuale. Colui, il quale rinuncia all’acquisto dell’automobile od a qualunque altra spesa, anche di cibo o di vestito, prorogabile od evitabile, compie invece opera utile al paese. Il suo risparmio, consegnato allo stato in cambio di cartelle del prestito nazionale, è dallo stato impiegato forse ugualmente nell’acquisto di automobili o nel riattamento di strade, nell’ampliamento di stazioni ferroviarie o nella costruzione di ponti o di tronchi di ferrovie e quindi è rivolto a richiesta di lavoro nella stessa misura che s’egli consumasse quella somma. Ma le automobili, le stazioni, le opere pubbliche compiute o comprate dal governo servono al fine pubblico della difesa nazionale e non al fine privato di un godimento personale, che nel momento presente è dissolvitore.

 

 

Né è minore il dovere di fare economia per le classi più numerose. Purtroppo, la utilizzazione delle varie sostanze alimentari è imperfettissima nelle masse operaie. Nelle campagne si utilizzano discretamente i rifiuti con l’allevamento di porci, di conigli, di volatili da cortile; ma nelle città si comincia appena adesso a comprendere quali vantaggi si potrebbero ricavare dall’allevamento, anche in piccole proporzioni, di conigli per la produzione della carne e delle pelli. Molta strada potrebbe farsi nelle città altresì con la utilizzazione orticola di tutti gli spazi vacanti, delle aree fabbricabili, che ora non danno alcun frutto a nessuno. Del pari la diffusione di opportune regole di cucina gioverebbe ad insegnare alle madri di famiglia operaie la possibilità di trarre partito da molte sostanze alimentari ora malamente cucinate e di utilizzare gran parte di quelli che sono considerati rifiuti. Si pensi che ogni chilogrammo di farina o di carne consumato in meno o meglio utilizzato è un minor debito del paese, è un prolungamento della nostra capacità di resistenza militare!

 

 

Anche nelle file dell’esercito combattente la campagna per l’economia potrebbe essere feconda di utili risultati. Da lettere ricevute ho ricavato l’impressione che la razione di pane e di carne assegnata ai soldati nella zona di guerra sia in molti casi individuali esuberante. Da un punto di vista generale è bene far così: ma ad evitare sprechi costosi, sarebbe saggio consiglio promuovere tra i soldati l’economia, incoraggiando con opportuni riacquisti l’utilizzazione delle razioni rimaste da consumare.

 

 

Il ritorno della pace sarà accompagnato da uno stato di prosperità economica solo se durante la guerra si sarà diffusa ed accentuata l’abitudine della economia e del risparmio. Ho già altra volta notato come, in tutti i paesi belligeranti, la guerra abbia dato luogo a fenomeni di apparente prosperità economica, dai quali importa non lasciarsi suggestionare. Una parte invero del capitale già risparmiato viene ora mutuata allo stato, il quale la spende di giorno in giorno per la condotta della guerra e la converte così in reddito dei suoi ufficiali, dei suoi soldati, dei suoi fornitori, dei suoi creditori. Ciò che era capitale si trasforma in reddito; e cresce così la quantità delle cose che gli uomini ritengono di potere spendere. Guai a ritenere che sul serio i redditi sieno aumentati permanentemente e sia aumentata la spesa che gli uomini possono fare senza pregiudizio del loro patrimonio! Finita la guerra e finite le spese straordinarie dello stato, i redditi torneranno ad essere quelli di prima. Anzi saranno minori, perché fu consumata una parte del capitale che era stato precedentemente risparmiato e questa parte non può più essere impiegata alla produzione di nuove ricchezze. Fa d’uopo perciò, se non si vuole che il benessere generale scemi al ritorno della pace, che durante la guerra si cerchi di fare la maggiore economia possibile, in guisa da ricostituire i risparmi distrutti per la condotta della guerra. Supponiamo che la guerra costi all’Italia 6 miliardi di lire. Una parte di questi 6 miliardi sarà coperta con i redditi dell’anno, i quali, invece di alimentare operai, contadini, redditieri, alimenteranno soldati, ufficiali, lavoratori nelle fabbriche di munizioni. Una parte sarà prelevata però sul capitale già esistente; ed e questa parte che occorre ricostituire con nuovo risparmio, affinché alla fine della guerra le banche e le casse di risparmio non si trovino nella impossibilità di soddisfare le richieste degli industriali, commercianti, agricoltori bisognosi di capitale circolante.

 

 

Per fortuna, il rialzo nel saggio dell’interesse, cagionato dalle fortissime richieste di somme a mutuo da parte degli stati belligeranti, incoraggia a risparmiare di più. Non forse tutti i risparmiatori, ma certamente parecchi di essi sono maggiormente spinti a risparmiare quando sperano di ottenere un interesse del 5%, piuttostoché solo del 3,50%. È questa una delle principali ragioni per cui i mali cagionati dalle guerre del passato si sono curati più rapidamente di quanto non prevedessero i pessimisti. Nel mondo economico molte malattie provocano il proprio rimedio. Grazie al rialzo del saggio dell’interesse, il risparmio, invece di limitarsi ad un miliardo all’anno, cresce ad uno e mezzo e forse due; sicché in breve volgere di anni le ferite della guerra sono rimarginate. Gli uomini si sono stretti un po’ la cintola, hanno cambiato meno frequentemente vestiti e calzari, si sono divertiti di meno ed hanno risparmiato di più. Il ritorno ad abitudini più frugali di vita non deve però essere considerato soltanto una «dolorosa» necessità. Sotto molti rispetti esso è un beneficio economico e morale. Importa persuaderci che, risparmiando noi non compiamo solo un atto necessario ed economicamente vantaggioso. Così operando, noi adempiamo ad un dovere verso la patria e contribuiamo al perfezionamento morale delle future generazioni.

 

 

VI

Una verità la quale mi sembra non abbastanza penetrata nella pubblica coscienza è questa: che tanto più è probabile la guerra abbia ad avere un esito favorevole per noi, quanto meno noi faremo a fidanza sulle disgrazie dei nemici e quanto più invece attenderemo il successo dai nostri soli sforzi. Formalmente, al sommo della bocca, noi accettiamo questa verità; ma troppo spesso vi contravveniamo coi desideri e coi fatti.

 

 

Pur limitandomi a un solo punto, quello dei consumi, nulla vi è di più illogico del paragone ottimista, che così spesso si legge sui giornali, fra la carestia e la ristrettezza degli alimenti notate nei paesi austro tedeschi e la relativa abbondanza che si osserva con compiacenza nei paesi dell’Intesa. Certamente, governi e stati maggiori debbono scrupolosamente tener conto di tutti gli indici conosciuti e bene assodati intorno alle condizioni economiche dei paesi nemici. Certamente, anche, non si deve negare, perché sarebbe contrario al vero, che la inopia alimentare può essere causa di malcontento in alcuni strati delle popolazioni germaniche è quindi fattore di vantaggio per noi. Ma non bisogna dimenticare che la consapevole rinuncia ai consumi non strettamente necessari, la riduzione delle spese di alimento, di vestito, di divertimento è un fattore inestimabile di resistenza economica e bellica. Il razionamento del pane, della farina, delle carni, del latte, del grasso, le restrizioni nella produzione della birra e nell’impiego delle patate, l’uso di cibi inferiori, come il pane Kappa, non giovarono in Germania soltanto a far bastare alle esigenze della popolazione raccolti che in media pare siano stati nel 1915 scarsi, ma produssero altri risultati purtroppo grandemente utili ai nostri nemici:

 

 

  • 1) resero disponibili per l’esercito masse di alimenti, non solo sufficienti al suo sostentamento, ma di qualità migliore di quella concessa alla popolazione civile;
  • 2) resero disponibili per la fabbricazione di armi e di munizioni gli impianti industriali, prima rivolti a fabbriche merci d’esportazione, con cui si compravano all’estero alimenti ed oggetti, a cui oggi è giocoforza ai tedeschi rinunciare;
  • 3) diminuendo gli acquisti all’estero, grazie alla carestia volontaria o forzata, i paesi centrali scemarono i loro pagamenti verso l’estero, e poterono conservare abbastanza elevato per lungo tempo il valore del loro marco. Non è possibile negare che il blocco inglese, necessario ed utile per tutte le materie belliche, produsse per le altre merci effetti contrari a quelli desiderati dall’Intesa. Meglio sarebbe stato se fosse stata permessa liberamente la importazione nella Germania di tutte le merci non attinenti alla guerra, si da consentire ai tedeschi di spendere come prima.

 

 

Il blocco inglese costrinse le popolazioni tedesche a risparmiare e fu una delle cause per cui il marco tedesco fino al settembre del 1915 perdeva solo l’11 per cento sulla Svizzera. Se la perdita in seguito si accentuò e giunge ora al 25 per cento, una delle cause – che sono parecchie e sarebbe qui fuor di luogo discorrerle tutte – sembra sia stata una più accorta politica del blocco inglese, la quale lasciò infiltrare in Germania merci inutili alla condotta della guerra, ma utili a costituire in debito i consumatori tedeschi. Purtroppo, però, tale causa di scredito agisce stentatamente, e già il governo tedesco corre ai ripari proibendo l’entrata di parecchie merci che riuscivano a passare attraverso le maglie accortamente allargate del blocco inglese;

 

 

  • 4) costrinsero i consumatori tedeschi al risparmio. Anche in Germania e in Austria, a quel che si può sapere da fonti attendibili, la guerra produsse risultati identici a quelli osservati negli altri paesi belligeranti: ossia l’aumento nei redditi di larghissime classi della popolazione. Fornitori, agricoltori, operai, famiglie di richiamati vendettero i loro prodotti a più alto prezzo ed ottennero salari più elevati o cumularono sussidi pubblici con salari nuovi (per le donne, i ragazzi, gli attempati) o cresciuti. E poiché, a causa del razionamento, non poterono spendere in cibi il maggior guadagno, né l’aumento dei prezzi riuscì ad assorbirlo tutto, una parte notevole dei maggiori redditi trovò la via delle casse di risparmio e dei prestiti allo Stato. Citerò questo solo fatto, il quale e da ritenersi sicuro: che mentre in tempo di pace l’aumento normale dei depositi nelle casse di risparmio tedesche era di 1200 milioni di marchi, raggiunse invece i 3185 milioni nei primi 12 mesi dopo lo scoppio della guerra. Senza volere menomamente risolvere il quesito della genuinità dei prestiti – tedeschi intorno a cui nulla di serio può dirsi per il difetto di notizie – certa cosa è che essi sono genuini almeno fino a concorrenza delle sottoscrizioni dei depositanti delle casse di risparmio. Ed a questo risultato contribuirono la carestia, la restrizione volontaria e forzata dei consumi e il razionamento.

 

 

Con le quali osservazioni non si vuole affermare che i popoli dell’Intesa siano in una situazione inferiore a quella dei tedeschi. No. Si vuol dire soltanto che anche noi dobbiamo predicare ed attuare il medesimo vangelo della rinuncia e dell’astinenza. L’impressione mia è che siffatto vangelo sia praticato da una larga maggioranza in Francia ed in Italia, e da una minoranza influente in Inghilterra; ma che purtroppo la maggioranza della popolazione inglese e ragguardevoli minoranze francesi ed italiane non abbiano ancora la consapevolezza dei loro doveri verso il paese. Ecco un quadro delle importazioni ed esportazioni di merci nei tre paesi nel 1915 (in milioni di lire italiane, al pari del cambio: 1 franco = 1 lira, 1 lira sterlina = 25,22):

 

 

  Importazioni al netto delle riesportazioni Esportazioni Sbilancio commerciale
Italia

3.331,5

2.216,4

1.115,1

Francia

8.074,5

3.022,3

5.052,2

Inghilterra

19.040,1

9.700,8

9,339,3

 

 

Notisi che nella cifra delle importazioni inglesi non sono comprese le merci che il governo britannico importò per conto dei suoi eserciti o degli eserciti alleati; sicché lo sbilancio reale risulta forse di qualche miliardo maggiore dei 9 miliardi e ⅓ denunciati dalla statistica. Così pure lo sbilancio italiano probabilmente è maggiore dei 1.115 milioni sopradetti, poiché le statistiche italiane sono ancora basate sui prezzi del 1914; mentre nel 1915 i prezzi aumentarono grandemente e, per la maggior importanza loro, crebbero di più i valori importati che gli esportati.

 

 

Questi sbilanci non avevano nulla di preoccupante in tempo di pace; poiché l’Italia vi faceva fronte con le rimesse degli emigranti e le spese dei forestieri viaggianti a diporto nel regno; la Francia possedeva gran copia di capitali investiti all’estero, da cui ritraeva interessi; e l’Inghilterra, oltreché da questa fonte, ritraeva redditi copiosi dalla sua marina mercantile.

 

 

Scoppiata la guerra, il disavanzo è cresciuto: in Italia da 1.000 milioni circa a forse più di 1300 (reali); in Francia da 1500 a 5.000 indicati sopra; in Inghilterra da 3.500 a 9.500 e forse ad 11.000 milioni di lire italiane. E, mentre il disavanzo commerciale cresceva grandemente, le fonti di compensazione diminuivano: in Italia per la cessazione quasi assoluta delle rimesse degli emigranti e dei forestieri; in Francia per le sospensioni dei pagamenti di interessi e dividendi da parte dei paesi nemici, in cui il capitale francese era interessato, per le proroghe consentite alla Russia e per le moratorie sudamericane; in Inghilterra per le medesime ragioni riguardo ai capitali investiti all’estero. Crebbero i noli a favore della marina mercantile inglese; ma l’aumento dei noli reale fu di gran lunga minore di quello apparente, a cagione: 1) delle fortissime requisizioni da parte del governo inglese; 2) dei contratti a lunga scadenza a noli miti; 3) degli affondamenti per mine e torpedini. Dati sicuri non si hanno; ma si può affermare con minimo rischio di errore che la messe più opima di noli alti fu goduta in passato e sarà ancor più goduta in avvenire dalle bandiere neutrali, e che la parte di guadagno toccata all’Inghilterra, sebbene ragguardevole, è di gran lunga insufficiente a colmare il cresciuto deficit della bilancia commerciale.

 

 

Tutto ciò è rimasto ignoto agli scrittori di argomenti economici sui giornali quotidiani del nostro paese; intorno ai quali tutto è detto quando si osserva che essi hanno inconsapevolmente contribuito a gettare una passeggiera nube nei rapporti tra Italia ed Inghilterra, per il vizio incoercibile di discorrere sovratutto di quella parte dello scibile umano, su cui farebbe ad essi d’uopo apporre la scritta: hic sunt leones. Chi si attenderebbe a discorrere di fisica e di chimica senza conoscerne i primi principi? Eppure di cose economiche discorrono – e non solo in Italia, poiché non senza dolore si veggono divulgatissimi quotidiani inglesi gareggiare in analfabetismo economico con i nostri – specialmente coloro che ne sono affatto digiuni. Eppure, ancora, la principale differenza che vi è tra la fisica e la chimica da un lato e la economia politica dall’altro è questa: che l’economia è scienza più ardua, più complessa, più in via di formazione delle altre scienze; ed i problemi economici, per la loro apparenza semplice e sentimentale, sono a mille doppi più ingannevoli dei problemi fisici e chimici, e richieggono più lungo e ferrato tirocinio logico ed esperienza pratica nell’affrontarli.

 

 

Poiché gli antichi metodi di colmare il disavanzo commerciale non giovano, come possono gli alleati provvedere alla soluzione del problema? In parte coi debiti esteri, grazie ai quali viene prorogato a qualche anno dopo la fine della guerra il pagamento delle merci che ora si acquistano. Ma, ove si faccia astrazione dai prestiti interni tra Italia, Francia, Inghilterra (e Russia), i quali non risolvono il problema, ma solo accollano l’onere della soluzione al più potente (finanziariamente degli alleati, ossia all’Inghilterra, è chiaro che i prestiti si possono unicamente chiedere agli Stati Uniti. I quali sono bensì un paese ricco, ma per molte ragioni sono incapaci a fare nulla più che una quantità limitata di prestiti all’Europa. Sia che si tratti di vendere agli Stati Uniti titoli di debito pubblico europei, sia che si vogliano rivendere loro i titoli nordamericani posseduti da inglesi e francesi, ad un certo momento si incontra un limite alla capacità di assorbimento del mercato nordamericano. I prestiti esteri sono una soluzione, ma una soluzione incompiuta.

 

 

Di qui la necessità e l’urgenza di fare per atto spontaneo di volontà ciò che i tedeschi fecero anche costretti dalla necessità: ossia restringere i consumi.

 

 

Quanto meno la popolazione civile acquisterà di merci e derrate provenienti dall’estero, tanto minore sarà il residuo debito che dovremo pagare. Quanto meno consumeremo altresì dei prodotti nazionali, tanto maggiore sarà la quota parte di questi che rimarrà disponibile per il consumo dell’esercito, e tanto minore l’indebitamento del paese verso l’estero per procacciare gli alimenti e le provviste indispensabili all’esercito. I cittadini italiani pensino che essi hanno il dovere strettissimo di ridurre la razione del pane, di mangiare carne una volta sola al giorno o solo alcuni giorni della settimana, di far rammendare i vestiti, rattoppare le scarpe. I contadini pensino che essi devono, potendo, far mangiare paglia e alimenti di scarto al loro bestiame per avere disponibile foraggio buono da vendere all’intendenza militare. Solo con l’astinenza e col risparmio potremo noi vincere la dura lotta che ci sovrasta.

 

 

Adempiono tutte le classi sociali all’adempimento di questo dovere verso il paese? Gli inglesi, con la ammirabile sincerità di linguaggio e libertà di discussione che è loro caratteristica, hanno cominciato a recitare il mea culpa. Ecco come il radicale Daily Chronicle di Londra dipinge la mania di spendere delle classi e delle masse nel momento presente in Inghilterra: «I teatri sono affollati di spettatori. I cinematografi sono ricolmi. Le strade di campagna sono coperte da una processione di automobili di piacere, spesso guidati da conduttori e da servitori in livrea. Molte botteghe hanno avuto una settimana di Natale quale non ebbero mai, e corrono per la bocca della gente racconti disgustanti di collane di perle di brillanti, pellicce e pianoforti, in cui gli operai si affrettarono ad investire i loro guadagni, la prima volta che a loro capitò la ventura di lucrare qualcosa oltre l’occorrente per le prime necessità della vita. Alcuni pochi risparmiano assai; ma sono quasi tutti gente i cui redditi sono diminuiti o rimasti stazionari». E mentre così spendono i loro redditi, i buoni da una lira sterlina offerti dal tesoro agli operai al 5% rimangono senza acquisitori. Di qui il grido d’allarme lanciato in Inghilterra da coloro che guardano con riflessione alle sorti del proprio paese: spendete di meno, e risparmiate di più!

 

 

Sebbene la popolazione italiana abbia, almeno nelle campagne e nelle classi medie cittadine, tendenze risparmiatrici, pure anche in Italia non è inutile gittare lo stesso grido di allarme, che vuole sovratutto essere un grido di vittoria. Anche in Italia vi è una minoranza che non ha il senso del proprio dovere. Nelle città non ho mai visto le tramvie così affollate di gente, la quale prima usava andare a piedi. Troppi cinematografi e troppi teatri sono rigurgitanti di pubblico; troppo numerosi sono i frequentatori di caffè, dei ristoranti e delle osterie. Troppi negozi di cose inutili fanno buoni affari. Troppe automobili private si vedono in giro; e ancora le signore rinnovano ad ogni stagione i loro vestiti, mentre dovrebbero essere orgogliose di farsi vedere con i vestiti di qualche anno fa, o tutt’al più dovrebbero farli raccomodare, senza impiego di alcun nuovo materiale.

 

 

È necessario ed è doveroso ricordare ancora una volta che coloro, i quali così operano inconsapevolmente tradiscono la patria.

 

 

VII

Il ministro del tesoro ha molto opportunamente nel suo ultimo discorso finanziario ricordato agli italiani il dovere del risparmio. In un momento in cui tutte le forze del paese debbono essere indirizzate alla condotta della guerra, il dovere del risparmio diventa più imperioso del solito e deve essere vivamente sentito da ogni ordine di cittadini.

 

 

Già in tempo di pace tra spesa e risparmio bisogna mantenere un ragionevole equilibrio, che il buon senso, le condizioni familiari, l’età, la natura dell’impiego, il patrimonio posseduto insegnano come debba essere conseguito.

 

 

Fra le ragioni, le quali inducono piuttosto a spendere che a risparmiare, non deve aver luogo il desiderio di «dar lavoro», di «far girare il denaro» e simiglianti spropositi. Chi porta 100 lire alla cassa di risparmio è altrettanto ed anzi più benemerito verso gli operai, il commercio e l’industria, di colui il quale spende le 100 lire in acquisti nei negozi. Questi fa domanda di un vestito e quindi fornisce l’occasione per fabbricarlo; sicché dicesi che egli dia da vivere a sarti, negozianti e fabbricanti di panni, operai tessitori e filatori. Ma, se il primo non avesse recato le 100 lire alla cassa od alla banca e questa non avesse potuto far prestiti ai fabbricanti o scontato le cambiali del negoziante, e se i fabbricanti e negozianti non avessero risparmiato essi medesimi parte del capitale occorrente, come si sarebbero potuti costruire gli stabilimenti, comprare le macchine e le materie prime, anticipare i salari agli operai?

 

 

In tempo di guerra, la necessità del risparmio diventa chiarissima anche ai meno veggenti e la sua importanza per la vittoria ingigantisce. Se Tizio spende 100 lire in un vestito, invece di far durare il vestito vecchio più a lungo, egli reca parecchi danni al paese:

 

 

  • lo stato non ha 100 lire che Tizio avrebbe potuto fornirgli a mutuo, sottoscrivendo ai prestiti nazionali ed ora ai buoni del tesoro; e quindi non può provvedere ad un uguale ammontare di spese di guerra;
  • i fabbricanti di panni, i negozianti ed i sarti sono occupati a fornire vestiti a Tizio od a Tizia, mentre avrebbero potuto rivolgere le loro energie a fabbricare panni e vestiti per l’esercito.

 

 

Tutto ciò è stato detto e ripetuto oramai a sazietà. Sebbene persuasive, queste verità lasciano tuttavia, importa riconoscerlo, adito a dubbi di applicazione. Molti debbono rimanere incerti dinanzi alla domanda: debbo spendere o comperare un buono del tesoro? In generale il dubbio si deve risolvere nel senso del buono del tesoro. Se si sbaglierà, l’errore sarà piccolo; mentre può essere grave, quando ci si decida a spendere.

 

 

I dubbi degni di nota sono quelli posti da coloro che vorrebbero risparmiare; ma, non avendo il coraggio di tagliare radicalmente a fondo e sul vivo, non sanno da che parte cominciare. Su dieci capitoli di spesa, quale il capitolo su cui conviene tagliare prima? Se noi supponiamo che si voglia fare la scelta delle spese da tralasciare avendo l’occhio all’interesse pubblico, ecco alcuni suggerimenti:

 

 

  • a parità di somma, rinunciare al consumo della merce esente da imposta, piuttostoché della merce tassata. Chi rinuncia al consumo di 1 chilogrammo di zucchero, del costo di lire 1,70, e deposita la somma risparmiata sul libretto della cassa postale di risparmio, fa, è vero, allo stato un prestito di 1,70; ma non reca allo stato un vantaggio di 1,70, poiché lo stato avrebbe sullo zucchero riscosso una imposta di 81 centesimi. Il vero nuovo contributo recato dal risparmiatore alla condotta della guerra è perciò solo di 89 centesimi. Lo stesso accade per il tabacco, per cui il risparmio di 1 lira arreca allo stato solo il beneficio di 20 centesimi, essendo tutto il resto imposta; per il sale, di cui forse 45 sui 50 centesimi di prezzo sono imposta. Diminuire di 1 chilogrammo il proprio consumo di sale recherebbe allo stato solo il vantaggio di 5 centesimi. Poiché le merci tassate a beneficio dello stato sono poche (sale, tabacco, spiriti, vino, birra, zucchero, glucosio, caffè e suoi surrogati, petrolio, fiammiferi, gas luce ed energia elettrica illuminante) e per le altre le imposte solo in piccola parte vanno a favore dello stato (per le carni a favore dei comuni nelle città chiuse), il consumatore può vedere quante merci vi sono che egli può con tutta sicurezza evitare di comperare, senza timore di recare allo stato il danno di esigere minori imposte. Citerò il caso degli oggetti di vestiario, di mobilio e d’ornamento, per cui tutto il risparmio si può dire guadagno netto per lo stato.
  • preferire negli acquisti la merce antica alla merce nuova. Se una signora acquista un pizzo antico reca danno allo stato perché le 1.000 lire spese sarebbero certamente state meglio impiegate nell’acquisto di un buono del tesoro. Ma il danno può scomparire se il buono è acquistato, in vece sua, dal venditore del pizzo antico. Forse è bene che le 1.000 lire passino dalla borsa di una testa sventata in quella del venditore, che può essere persona meglio consapevole dell’importanza del risparmio. Alla peggio, le 1.000 lire saranno spese dal venditore del pizzo così come lo sarebbero state altrimenti dalla compratrice. Se questa invece compra un pizzo nuovo, non solo essa reca danno allo stato negandogli il prestito delle 1.000 lire, ma cagiona inoltre forse un danno maggiore, inducendo alcune lavoratrici a perdere tempo nel fabbricarle il pizzo, mentre avrebbero potuto essere utilizzate dallo stato nella confezione di vestiti, camicie, calze per soldati. Salvo i rari casi di ricamatrici assolutamente incapaci a far altro, è sempre possibile spostare il lavoro da un impiego all’altro.

 

 

Per lo stesso motivo, chi abbia assoluta necessità di qualche oggetto, farà bene a comprare oggetti usati d’occasione, evitando di comprare oggetti nuovi. I primi non richieggono mano d’opera; mentre i secondi distolgono maestranze e capitali dagli unici lavori importanti oggi, che sono le industrie di guerra e quelle necessarie a far vivere nella maniera più semplice la popolazione civile;

 

 

  • evitare di servirsi dell’opera di chi può essere utile allo stato. Non v’è nessun male che il ricco seguiti a valersi dell’opera dei domestici, giardinieri, governanti, purché anziani o vecchi ed inabili a compiere altri lavori. Licenziare costoro o non pagare più l’assegno ai servitori a riposo sarebbe una crudeltà inutile, e probabilmente dannosa allo stato ed ai comuni, i quali dovrebbero caricarsi di spese per il mantenimento degli indigenti. Il ricco invece deve licenziare l’autiere giovane, diminuire il numero dei domestici in buona salute, evitare di costruire ville, di comprare automobili, ecc. ecc. Infatti, le persone, ai cui servizi egli così rinuncia, saranno costrette ad occuparsi in qualità di meccanici o manovali in stabilimenti dove si producono cose molto più utili al paese nel momento presente.

 

 

Altri consigli ed altri esempi si potrebbero addurre, se le necessità di guerra non avessero, con vantaggio generale, costretto le amministrazioni dei giornali a ridurre il consumo della carta e quindi lo spazio disponibile per tutto ciò che non è notizia strettamente necessaria.

 

 

Il rialzo del prezzo della carta ha risolto qui spontaneamente i dubbi che in altri campi continuano a manifestarsi. Ricorderò ancora, prima di finire, il caso dei teatri, cinematografi, luoghi di danza e di divertimento.

 

 

A favore di questo genere di spesa si può dire che attori, artisti, cantanti, ballerine, musicanti non sono adatti a fare altri mestieri, sicché, se il pubblico disertasse i luoghi di divertimento e risparmiasse, per ipotesi, 100 milioni di lire di più in un dato periodo di tempo, investendoli in buoni del tesoro, lo stato da un lato incasserebbe 100 milioni, ma dall’altro dovrebbe spendere cospicue somme, o le dovrebbero spendere, il che fa lo stesso, le istituzioni pubbliche di carità, per mantenere tutta una folla di disoccupati.

 

 

Qualcosa di vero v’è in questa tesi. Bandire tutti i divertimenti, anche in tempo di guerra è eccessivo ed è forse dannoso alla condotta della guerra. In quanto i divertimenti offrono una distrazione a soldati ed ufficiali, nessuno vi trova da ridire. Possono anche essere utili ad offrire un sollievo sano alla popolazione civile e renderla più contenta ed atta al lavoro dell’indomani. La domanda ragionevole di divertimenti sarà perciò in grado di assorbire quelli che hanno veramente attitudini specifiche, insostituibili ed inutilizzabili altrimenti. Quanto agli altri, la domanda affannosa di lavoratori nelle industrie necessarie alla prosecuzione vittoriosa della guerra basterà ad assorbirli con vantaggio del paese.

 

 

VIII

In una classe di persone, la terza sottoscrizione milanese per le famiglie dei richiamati e per altre istituzioni di soccorso di guerra deve trovare un’accoglienza singolarmente alta e larga: in quella degli industriali e delle società, le quali sono o saranno elencate nel ruolo della imposta sui sopraprofitti di guerra. Al dovere di tutti gli altri cittadini, di venire in aiuto delle famiglie dei richiamati e di tutti gli altri dolori che sono connessi con lo stato di guerra, si aggiunge per questa particolare categoria di cittadini un dovere specialissimo derivante dalla circostanza che la guerra ha recato ad essi un beneficio economico. Sia il beneficio dovuto ad uno di quei tratti di fortuna che sono inseparabili da ogni grande commovimento storico, o sia dovuto alla abilità all’ardimento ed al lavoro pertinace, una cosa è certa: che essi escono dalla guerra in condizioni economiche migliori di prima.

 

 

Ma noi, possono costoro rispondere, già paghiamo un tributo speciale, il quale va sino al 60% del sopraprofitto realizzato ed anzi a percentuale maggiore se si tiene conto della imposta ordinaria di ricchezza mobile.

 

 

Questa è anzi una ragione, che alle altre si aggiunge per spingerli a trovarsi primissimi nella nobile gara della solidarietà. Ed invero le sottoscrizioni ai comitati di assistenza civile in occasione della guerra sono considerate come una spesa e detratte dal reddito lordo del contribuente. Il che vuol dire che, se il soprareddito di guerra tassabile fu di 100.000 lire ed il contribuente delibera di concorrere alla pubblica sottoscrizione per 10.000 lire, il reddito tassabile si riduce a 90.000 lire. Il che è giusto e corretto, poiché non sarebbe equo colpire come reddito le somme destinate ad opere di solidarietà sociale, che per il contribuente sono perdute. Ma ciò vuol dire altresì che, delle 10.000 lire sottoscritte, il contribuente avrebbe ad ogni modo dovuto pagare al fisco una buona parte, da 2000 a 6700 lire, a seconda della importanza del sovrareddito, a titolo di imposta. Quindi egli in realtà, sottoscrivendo per 10.000 lire, sopporta un sacrificio minore dell’apparente, il quale al massimo è di 8000 lire e può anche essere solo di 3300 lire.

 

 

Di qui nasce il dovere nel cittadino che ha ottenuto un sopraprofitto di guerra di sottoscrivere una somma doppia ed anche tripla dei cittadini, i quali non ebbero tanta fortuna. Se egli non sottoscrive il doppio od il triplo, in realtà offre di meno degli altri; e l’opinione pubblica dovrà severamente giudicare la sua condotta.

 

 

Notisi ancora che l’ultimo decreto sulla tassazione dei sopraprofitti ha ragionevolmente riparato a talune asperità delle prime norme relative a questa materia, sovratutto consentendo di detrarre dal reddito lordo le somme necessarie per ammortizzare in via straordinaria gli impianti compiuti in occasione della guerra. Anche questo è un concetto corretto; ma fa d’uopo che gli industriali e le società non dimentichino che in tal modo i nuovi impianti sono stati incoraggiati dalla esenzione concessa rispetto all’imposta sui sopraprofitti. Or vi sono impianti materiali che si logorano e devono essere ammortizzati, e vi sono impianti od opere morali e spirituali le quali giovano a rinsaldare i vincoli di solidarietà fra le classi sociali. Si costruisca, occorrendo, un po’ meno o con meno larghezza, se ciò sia compatibile con l’efficienza della produzione bellica; ed il risparmio si dia alla sottoscrizione. Si rifletta che forse non tutti gli impianti ammortizzati e calcolati in spesa, e quindi esenti dall’imposta, saranno distrutti alla fine della guerra; e si dia alla sottoscrizione una parte di ciò che, reputato oggi distrutto, si può ragionevolmente sperare sia conservato alla fine della guerra.

 

 

Un’ultima osservazione importa fare: l’imposta sui sopraprofitti colpisce gli industriali, i commercianti e gli intermediari. Non tocca i professionisti ed i proprietari di terreni. Non pochi di costoro sono stati danneggiati dalla guerra; altri non furono avvantaggiati. Ma indubbiamente alcuni hanno tratto giovamento da cause o clientele più ricche e da prezzi migliori, non assorbiti del tutto dalle maggiori spese. Anche su di essi l’occhio della pubblica opinione dovrà vigilare. Molti sono i professionisti, specialmente giovani, che hanno visto troncata la loro promettente carriera dall’appello alle armi. Il dovere di venire in aiuto alle strettezze forse ignorate e timide delle loro famiglie spetta a quei colleghi che la sorte ha favorito. Il legislatore non volle colpirli con l’imposta sui sopraprofitti perché trattavasi di redditi incerti di lavoro.

 

 

Ma dove il fisco non giunge, deve arrivare la spinta della carità.

 

 

IX

Fiducia e resistenza: questa deve essere la parola d’ordine di tutti gli italiani nel momento presente. Di sentirsi sostenuti dalla volontà concorde di tutti hanno bisogno non soltanto gli eserciti in campo per guardare in faccia il nemico: ne hanno bisogno anche le popolazioni le quali si trovano più vicine al teatro della guerra. I forti abitanti delle regioni friulane e venete sappiano che l’Italia intera è con essi solidale e che a nessun sacrificio essa si sottrarrà nell’ora del pericolo. D’altra parte è dovere delle popolazioni, le quali sentono il rombo del cannone a difesa del suolo della patria, di non rendere più difficile il compito di chi deve provvedere a serbare intatto il ritmo della vita civile ed economica del paese. Qualche episodio – rarissimo d’altro canto, ché la fermezza d’animo degli abitanti delle regioni di confine non si smentisce nemmeno nelle ore tragiche – di ritiro di depositi dalle banche e dalle casse di risparmio richiede tuttavia una parola aperta di incitamento e di consiglio.

 

 

È necessario che l’episodio sporadico non si tramuti in una corsa generale ai ritiri dei depositi bancari e che il pubblico serbi inalterata la fiducia. Lo esige l’interesse del paese, lo consiglia l’interesse dei singoli. Se l’episodio si generalizzasse, se si tramutasse in panico i primi ad esserne danneggiati sarebbero i depositanti. Le banche e le casse di risparmio dovrebbero sospendere i rimborsi e il danno sarebbe inenarrabile. Se i depositanti, invece, conservano l’animo freddo e fiducioso, essi danno modo alle banche e alle casse di risparmio di provvedere anche alle eventualità, che tuttavia abbiamo ferma fede non si verificheranno mai, di dolorosi parziali abbandoni di territorio imposti da esigenze strategiche.

 

 

Con quali mezzi infatti una cassa di risparmio può far fronte al rimborso dei depositi col realizzo delle sue attività – cambiali di portafoglio, titoli, crediti – per mezzo di vendite e di risconti. Ma se tutti, sospinti da un panico ingiustificato, si affollano agli sportelli delle banche per chiedere il rimborso dei depositi, come può la banca o la cassa vendere in furia i suoi titoli, riscontare le cambiali e procurarsi le disponibilità? Anche la cassa più solida rischia di subire perdite fortissime e di non poter far fronte ai suoi impegni.

 

 

Se invece i depositanti conservano il loro sangue freddo, essi non corrono alcun pericolo e non lo fanno correre alla cassa in cui finora giustamente hanno riposto la loro fiducia. Se davvero, per ipotesi che fermamente crediamo non debba verificarsi, qualche altro borgo o qualche altra città dovesse essere sgombrata, già prima le banche o casse, che ivi hanno sedi o succursali, avranno provveduto a mettere in salvo portafoglio, titoli, documenti, riserve monetarie, tutto quanto insomma fa d’uopo e basta per provvedere alle domande di rimborso. Tutti i provvedimenti necessari sono indubbiamente stati presi. Fra le banche e le casse delle regioni friulane e venete e le banche e casse delle altre regioni d’Italia esistono già accordi per scambio di reciproci servizi ed assistenza. Gli accordi certamente saranno ora perfezionati in guisa da parare ad ogni eventualità. Il possessore d’un libretto di conto corrente o di risparmio per una qualunque banca o cassa deve trovar modo di ritirare i suoi depositi in altre città italiane, presso i corrispondenti dell’istituto di sua fiducia. Sono certo che lo Stringher, figlio egli stesso del nobile Friuli, ha già provveduto con paterna cura a dare tutto il sussidio della Banca d’Italia affinché il trapasso dei fondi da luogo a luogo si compia con la maggiore facilità.

 

 

Il panico nuocerebbe, dunque, ai depositanti medesimi; mentre la calma assicura che i sudati risparmi non subiscono alcun deprezzamento. La cosa deve essere guardata ancora da un altro punto di vista. Che cosa ricevono i depositanti quando si presentano agli sportelli della cassa a chiedere i rimborsi dei loro crediti? Biglietti di banca o biglietti di stato. Non oro, dunque, ma biglietti, ossia altri titoli di credito verso altre banche o verso le casse dello stato. Lasciandosi prendere da un senso ingiustificato di ansia, essi però in sostanza trasferiscono soltanto la loro fiducia dall’una all’altra banca, dall’una all’altra cassa. Così facendo, essi provocano vendite affrettate di titoli, deprezzamenti, costringono la Banca d’Italia e lo stato a emettere biglietti in più dell’indispensabile; e finiscono per un altro verso per danneggiare se stessi, contribuendo all’ abbondanza, e quindi al deprezzamento della carta-moneta e al rialzo del prezzo di tutte le cose necessarie alla vita. È certo che la Banca d’Italia e il tesoro dello stato, pur di evitare tutti questi danni, hanno già presi e intensificheranno tutti i provvedimenti che valgano a consentire alle banche e casse friulane e venete di rimborsare i propri depositi nelle altre città d’Italia.

 

 

La calma, che sinora è stata superbamente mantenuta di fronte alla invasione nemica, sarà serbata, dunque, anche nelle cose economiche, nei momenti di prova cui andiamo incontro, e sarà una calma la quale dimostrerà che le popolazioni venete e friulane, primissime tra le italiane nella cooperazione di credito, sanno che la salvezza di ognuno e di tutti sta nel tenersi stretti e fiduciosi attorno agli istituti e alle forze per cui l’Italia è divenuta degna di toccare un alto segno di civiltà economica e sociale.

 

 

 



[1] Con il titolo L’ora del dovere. Il decalogo economico degli Italiani. [ndr]

[2] Con il titolo Il dovere degli italiani nel presente momento economico.Tradotto in francese nello stesso anno Con il titolo Le devoir des Italiens dans le moment présent, in: Voix italiennes sur la guerre 1914-1915, Paris, Berger – Nancy, Levrault, 1915, pp. 37-38 («Pages d’histoire 1914-1915», n. 74). [ndr]

[3] Con il titolo Il dovere della fiducia. [ndr]

[4] Con il titolo Guerra, economia nazionale e lavori pubblici. (A proposito di un annuario economico). [ndr]

[5] Con il titolo, Il dovere dell’economia. [ndr]

[6] Con il titolo Le vie del risparmio. [ndr]

[7] Con il titolo Gli extraprofitti e la sottoscrizione milanese.[ndr]

[8] Con il titolo I depositi nelle Banche e nelle Casse di risparmio. [ndr]

[9] Con il titolo Primo: non consumare. [ndr]

[10] Parzialmente ripubblicato in Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 31-38; 192-202; 360-364; 579-581.

[11] L’Italia economica nel 1914. Anno IV. (Casa Editrice S. Lapi, Città di Castello, un vol. di pagg. XVI 314 Presso L. 4). L’Annuario è dato ogni anno in dono a tutti gli abbonati alla Rivista La Riforma Sociale (F.lli Treves, editori, Milano; abbonamento annuo L. 30), sotto il cui patronato la pubblicazione è compiuta.

Guerra ed economia

Guerra ed economia

«La Riforma Sociale», giugno-luglio 1915, pp. 454-482.

Studi di economia e finanza. Seconda serie, Officine grafiche della STEN, 1916, Torino, pp. 129-159

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 1-42

 

 

 

 

Durante la lunga e spesso acerba lotta di idee e di partiti, grazie alla quale l’Italia poté fare un suo serio esame di coscienza, e poté trovarsi pronta e ferma ed unanime nel compiere lo sforzo grave della guerra per la conquista dei suoi confini naturali, questo si notò: che mentre le classi, le quali potremmo chiamare «economiche» per eccellenza, degli industriali, dei commercianti e degli agricoltori sembravano deprecare la guerra e stringersi intorno alla formula della neutralità, da abbandonarsi solo quando il governo riconoscesse assolutamente impossibile ottenere qualcosa per via di trattative, ben scarsa eco avevano queste tendenze nel ceto degli studiosi professionali della scienza economica. Molti economisti non dissero nulla; il che è ragionevolissima cosa quando il fatto da studiare ancora non è compiuto e non si presta a ragionamenti abbastanza rigorosi. Ma quelli che parlarono diedero chiaramente a vedere come essi non si lasciassero soverchiamente impressionare dagli elenchi di perdite materiali ed economiche che sarebbero state le conseguenze, secondo taluno dei pratici, più sicure della guerra.

 

 

Quali le ragioni di un siffatto contrasto e perché tra gli economisti, che parlarono prima della dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria, apparvero subito prevalenti coloro, i quali trovarono calanti di peso le ragioni di ordine economico, che potevano essere consigliere di neutralità?

 

 

È impressione di moltissimi laici, i quali si dilettano nello scrivere di cose economiche, che ufficio degli economisti sia quello soltanto di fare conti di dare ed avere in lire, soldi e denari, giudicando calanti quei beni che non siano tangibili o materiali e spregiando i beni ideali, morali, religiosi e politici. Sicché il Carlyle definì «dismal science» quella economica: ed ogni giorno i suoi tardi ripetitori additano al pubblico disprezzo i sacerdoti di questa scienza, come quelli che hanno gelido l’animo e chiuso il cuore ad ogni sentimento nobile, sensibili solo al suono metallico dei guadagni e delle perdite «presenti» in denaro «contante».

 

 

Chi scrive o pensa in tal modo non ha mai, neppure per un istante, avuto la sensazione della essenza poetica della scienza economica. Dicono che una delle facoltà principi dei grandi matematici, astronomi e fisici sia la fantasia; e certamente noi non riusciamo ad immaginarli privi di quelle qualità di immaginazione, di sentimento, di intuizione che sono caratteristiche dei grandi poeti. Così è dei grandi economisti. Quando Ricardo concepì le sue teoriche degli scambi internazionali o della ripartizione della moneta tra i diversi mercati, egli dovette sentire un rapimento intellettuale ed una commozione intensa dell’animo simile a quello che provò Archimede quando gridò il suo famoso Eureka o Galileo quando scoprì le leggi del pendolo o Dante quando scrisse i più terribili canti dell’Inferno. Era diverso il motivo delle commozione; ma egualmente sublime ed elevato la scoperta di una verità nuova, di nessi impensati e fecondi tra fatti prima non osservati o male osservati, la rappresentazione di passioni profonde umane.

 

 

Chi rifletta che alcune delle verità scoperte dagli economisti e massimamente dal maggiore di essi, Davide Ricardo, non sono meno grandiose ed illuminatrici di quelle, meglio note all’universale, che l’anno reso celeberrimi i nomi di Copernico, Galileo, Keplero, Lagrange Newton, Volta ed altri uomini di genio, non può non sentire vivamente la assurdità, anzi la impossibilità assoluta che quelli fossero uomini chiusi ad ogni alto sentimento umano, abituati a ritenere ogni cosa oggetto di mercato e volgare mercato. Uomini adusati alle astrazioni ed alle sintesi, i quali ad ogni passo avvertono che il loro ragionamento è corretto solo data una certa ipotesi, immaginato un dato ambiente, supposta l’esistenza di un determinato ordinamento sociale o giuridico, ammessa l’esistenza di date abitudini e consuetudini e passioni, scrittori di cui tutto il discorso è un perpetuo se; i quali giungono, in questo mondo irreale e reale nel tempo stesso, a tracciare le leggi «ideali» del movimento degli uomini per il raggiungimento di dati fini, e le leggi, pure ideali, del movimento dei beni e dei servigi che gli uomini tra loro scambiano; costoro sarebbero dei materiali e goffi adoratori del denaro, gente la quale assapora e conosce solo le più basse passioni, i più vili sentimenti dei loro simili! Colui che così parla, non ha sentito la profonda poesia che sta sotto ai ragionamenti ed alle rappresentazioni degli economisti, non ha intuita la sublimità di questo sistema concatenato di leggi, con cui gli economisti hanno cercato di spiegare, in parte, le ragioni e le maniere del comportarsi degli uomini; non ha veduto come tutto il pensiero economico è condizionato alla premessa dal se e del coeteris paribus stantibus ed è quindi incomprensibile se non ci si figura dinanzi agli occhi della mente lo spettacolo del continuo, non mai riposante, concilio scientifico, dove fisici, chimici, economisti, giuristi, moralisti, politici, mistici, filosofi convengono, mossi dal desiderio di comunicare agli altri il frutto delle proprie particolari indagini e desiderosi di apprendere i risultati del pensiero e dell’immaginazione degli altri, sicché dai suggestivi conversari balzi fuori o sembri balzare la figura dell’uomo vero e compiuto.

 

 

Pretendeva, è vero, taluno di fare dei ragionamenti economici discorrendo dell’assurdità di distruggere, andando in guerra, le ricchezze che si erano accumulate in passato, e di interrompere il flusso dei guadagni che la neutralità ci procurava. Un paese, come l’Italia, a ricchezza scarsa, di appena 80 miliardi di lire, contro i 400 della Germania e dell’Inghilterra non poteva correre il rischio di perdere neppure la più piccola parte di questa scarsa ricchezza, acquistata con la fatica di molte passate e necessaria al sostentamento della presente e delle venture generazioni.

 

 

Perché ci dovremmo battere? Povero il Trentino, poverissimi il Carso, l’Istria e la Dalmazia, inferiori a molte delle peggiori terre del Regno. Unica ricchezza il porto di Trieste, il quale perderebbe però gran parte del suo valore nel giorno che fosse separato dal suo entroterra tedesco e slavo ed aggregato all’Italia, la quale stenta a dare alimento al suo vecchio e non ancora risorto porto di Venezia.

 

 

Ma, se apriamo i libri degli economisti, ascoltiamo parole ben diverse. «Noi dobbiamo ricordare» leggesi in uno dei libri che meglio hanno esposto, in linguaggio moderno e coi più raffinati metodi attuali di indagine, il pensiero degli economisti classici, perfezionandolo e portandolo sino alle sue più logiche e larghe conseguenze.[1]

 

 

«Noi dobbiamo ricordare che il desiderio di guadagno non deriva necessariamente da motivi bassi, anche quando il guadagno è speso a proprio beneficio. Il denaro è un mezzo per conseguire dei fini, e se i fini sono nobili, il desiderio di avere i mezzi all’uopo necessari non è ignobile. Il giovane, il quale lavora accanitamente e risparmia la maggior parte possibile dei suoi guadagni, allo scopo di potersi in seguito mantenere agli studi dell’Università, è avido di denaro. Ma la sua avidità non è ignobile. Il denaro è una potenza generale di acquisto ed è desiderato come un mezzo per ogni specie di fini, alti e bassi, spirituali e materiali.

 

 

Sebbene sia vero che il “denaro” od il “potere generale di acquisto” o la “disponibilità di ricchezze materiali” è il centro intorno a cui è costrutta la scienza economica; non è vero però che il denaro o la ricchezza materiale debba essere considerato come il principale scopo dello sforzo umano e neppure come il più importante oggetto di studio per l’economista …».

 

 

Le parole del maggiore tra gli economisti inglesi viventi, di colui il quale ha sovratutto penetrato meglio di ogni altro economista vivente l’intima essenza del pensiero «tradizionale» economico e l’ha saputo rivestire di una eletta forma moderna, dimostrano come, secondo i più antichi ed accettati principii scientifici, l’acquisto e la conservazione della ricchezza non siano il fine della vita dell’uomo. È un errore economico distruggere la ricchezza per raggiungere un fine basso o non importante o senza raggiungere alcun fine; è un errore economico scegliere metodi sbagliati ed inutilmente costosi, non raggiungendo così il fine desiderato; ma non è errore consumare ricchezza per raggiungere un fine non economico che la nazione considera tuttavia importante e degno. La differenza fra il possedere una ricchezza di 80 miliardi od una di 75 o di 85 può essere valutata soltanto in rapporto ai fini ed agli ideali, materiali e morali, che si propongono gli uomini possessori di quelle diverse ricchezze. Un paese può, in seguito ad una guerra fortunata di conquista, vedere crescere la propria fortuna, valutata in moneta, da 80 ad 85 miliardi, senza che possa dirsi che quella guerra sia stata economicamente desiderabile. Poiché se si conquistò un paese abitato da uomini di diversa nazionalità, i quali repugnino al dominio dei conquistatori, è molto dubbio se vi sia stato un vero incremento di ricchezza di 5 miliardi per il paese conquistatore. La scienza economica, la quale deve badare sovratutto a quel che non si vede nei fatti economici, porrà, nel libro del dare e dell’avere, contro al guadagno di 5 miliardi, la perdita derivante dalle cattive tendenze psicologiche che la conquista farà nascere tra i conquistatori (risveglio dello spirito di aggressione, incremento della burocrazia militarista, subordinazione degli individui allo Stato, divenuto organo di conservazione della conquista, indebolimento delle forze, le quali promuovono il perfezionamento intimo, volontario dell’individuo) e dalle reazioni inevitabili tra i conquistati. Molti oggi sono persuasi che la annessione dell’Alsazia Lorena ha nociuto, alla Germania, mentre l’ha avvantaggiata la prudenza dimostrata verso l’Austria dopo il 1866. Può darsi che la fortuna della Germania, misurata in denaro, sia maggiore oggi di quanto non sarebbe, se l’Alsazia Lorena fosse restituita alla Francia; ma è molto dubbio se ogni singolo tedesco non sarebbe oggi più ricco se per 40 anni il governo germanico non fosse in parte stato costretto ed in parte non avesse tratto argomento dal desiderio di rivincita della Francia per aumentare oltremisura le spese militari e per fomentare nel popolo lo spirito di dominazione; o se, pur essendo in denaro più povero, non sarebbe oggi (quella minore ricchezza feconda per lui di godimenti, materiali e morali, maggiori, quando non dovesse spendere una parte dei suoi redditi per la conservazione e l’incremento di conquiste aborrite dai popoli soggetti. Anche supponendo che incremento di ricchezza e conquiste territoriali vadano di pari passo – intorno a che è lecito nutrire molti dubbi – il punto su cui verte la disputa non è se convenga guadagnare ricchezza, ma se convenga diventare oppressore. Un popolo, il quale si proponga come ideale il predominio sui più vicini e l’assoggettamento, diretto od indiretto, politico, economico od intellettuale, degli altri popoli, ragionerà correttamente risolvendosi a fare lo sforzo per aumentare a tal fine la sua ricchezza. Un altro popolo ragionerà pure correttamente, dal punto di vista economico, rinunciando alla maggiore ricchezza, quando giudichi che questa gli servirebbe solo per raggiungere un fine repugnante, come per esso è l’imposizione ad altri popoli del proprio tipo di civiltà.

 

 

Piace a questi altri uomini di collaborare con uomini di altre razze e di altre lingue, conservando ognuno di essi una propria fisonomia particolare ed una propria vivace individualità; e ritengono essi inutile di fare sforzi e consumar fatica e tempo per acquistare una ricchezza, la quale dovrebbe servire ad abbassare gli ideali di vita che a loro sono cari e ad innalzare quelli che essi ritengono inferiori e ripugnanti.

 

 

Le valutazioni della ricchezza sono «nomi» numerici che si danno ai beni desiderati dagli uomini, per opportunità e semplicità di conteggio; ma il significato di quei «nomi» è mutevole e complesso. Può ben darsi perciò che gli uomini di un paese siano persuasi, ed a ragione persuasi di guadagnare, riducendo la loro ricchezza da 80 a 75 miliardi, quando essi in tal modo riescano o sperino di riuscire a raggiungere una meta che per essi è desideratissima. Così hanno ragionato gli italiani nel momento attuale; ed hanno fatto un calcolo economicamente corretto. Il possesso del denaro è un mezzo e non un fine della vita umana; e se gli italiani sono convinti che sia necessario ricongiungere alla patria i paesi italiani finora soggetti al dominio d’Austria, bene fanno essi a spendere 5 dei loro 80 miliardi di ricchezza nazionale. Anche dal punto di vista economico, essi hanno compiuto un calcolo corretto; poiché il fine che essi hanno fiducia di raggiungere vale di più della perdita dei 5 miliardi spesi. Che se anche, per ipotesi malaugurata, il fine non dovesse essere raggiunto, gli italiani avrebbero dimostrato la volontà di non badare a sacrifici di vita e di averi, pur di soddisfare al dettame della coscienza ed all’imperativo del dovere. Il che è un vantaggio morale superiore al sacrificio dei 5 miliardi. Ed aggiungasi che quei popoli, i quali hanno la forza di compiere simili sacrifici rivelano a se stessi ed agli altri tali nascoste energie di volontà da riuscire in breve tempo a rifarsi della perdita economica subita.

 

 

Le quali verità si sono ora ripetute, non perché fossero nuove – ché anzi sono insegnate dal buon senso ed imposte dal ragionamento ordinario – ma per mettere in luce come esse direttamente e logicamente si deducano dai più elementari principii della scienza economica, quale essa in verità è sempre stata in passato ed è ora e non quale immaginano sia i seguaci del materialismo storico.

 

 

Perciò gli economisti non ritengono che il discorso della guerra sia finito coll’elenco delle tristi conseguenze che da essa deriverebbero. Questo è un lato solo del problema; né ha l’importanza che ad esso da taluno si volle dare. In una scrittura, a firma Victor, pubblicata sulla Nuova Antologia del 16 marzo 1915, fra le altre nere previsioni di avvenimenti che si sarebbero dovuti verificare allo scoppio della guerra italiana, vi fu quella che il corso della rendita 3,50% sarebbe disceso, forse, fino a 70 lire. «Chiunque abbia una qualsiasi responsabilità della cosa pubblica è in dovere di meditare e pesare le conseguenze di un atto che farebbe scendere la rendita a lire 70, falcidiando del 30 per cento l’intero valore capitale della ricchezza nazionale, titoli di Stato, valori industriali, case, terre, ecc. Tenendo conto dei deprezzamenti già avvenuti, si può ben dire che non poca parte del valore della ricchezza nazionale sarebbe ridotta alla metà».

 

 

Allo scopo di apprezzare il valore di questa profezia, è opportuno precisare i dati del problema. A leggere il periodo di Victor parrebbe che la sequela degli avvenimenti dovesse essere questa:

 

 

  • I. Prima della guerra, la rendita 3 ½ per cento era valutata 100;
  • II. La guerra farà probabilmente ribassare il valore da 100 a 70, con una falcidia del 30%;
  • III. L’identica falcidia si verificherà su tutti gli altri elementi della ricchezza nazionale, dei titoli di Stato, valori industriali, case, terre, ecc;
  • IV. Poiché già prima della guerra si erano verificati dei deprezzamenti, si può calcolare che, per non poca parte, il valore della ricchezza nazionale sarebbe ridotto della metà;
  • V. Non è detto se a questo deprezzamento antico avesse partecipato la rendita di Stato, e se essa rientri quindi in quella «non poca parte» della ricchezza nazionale, il cui valore all’inizio della guerra si ridurrebbe alla metà.

 

 

Esposto in questa più logica e chiara maniera, il ragionamento lascia vedere subito le sue falle, dovute in parte al linguaggio poco preciso ed in parte ad errori intrinseci.

 

 

È vero che, prima della guerra europea, il corso della rendita era sostenuto: senza toccare il pari, oscillava intorno a 95-97 lire. Ma era questo un prezzo «normale», quale si sarebbe verificato in assenza di una data politica finanziaria governativa, intesa appunto a sostenere i corsi della rendita? È noto, come, a partire dalla conversione, felicemente operata dalla rendita nel 1906 dal tipo 4 al tipo 3 ½ per cento, i dirigenti della politica finanziaria italiana siano stati ossessionati dall’idea fissa che convenisse allo Stato vedere il suo maggior titolo intorno a 100. Specialmente durante la guerra libica e negli anni successivi, il governo cercò con ogni mezzo di non offrire in vendita titoli che potessero muovere concorrenza alla rendita, aumentando, contro ogni buona norma finanziaria, la emissione dei buoni ordinari del tesoro e vendendo buoni quinquennali 4%, pregevoli sotto molti rispetti, ma non sotto quello della sistemazione definitiva del debito occasionato, direttamente od indirettamente, dalla guerra libica.

 

 

Non ha importanza, ai fini del presente ragionamento, il fatto, tante volte allegato dall’on. Tedesco, durante la sua permanenza al ministero del tesoro, che i buoni quinquennali erano emessi per coprire altre spese, principalmente ferroviarie, diverse da quelle di guerra. Questo è un modo contabile e legale di esprimere la verità, simile a quelli con cui si pretendeva, e formalmente con ragione, che i bilanci degli anni 1911-1914 si chiudessero in avanzo.

 

 

È sempre possibile di attribuire un debito a quella qualsivoglia spesa, la quale possa sembrare «politicamente» adatta a sopportare il merito od il demerito del debito. Nella realtà, il bilancio di uno Stato è un tutto organico; in cui il complesso delle entrate provvede al totale delle spese.

 

 

È arbitrario scegliere fra le spese una o parecchie ed affermare che per quelle si dovette ricorrere a talune nuove entrate, per es., al debito od all’imposta cresciuta. L’on. Tedesco si compiaceva di affermare che i debiti li faceva per coprire le spese delle costruzioni ferroviarie e non quelle per la guerra libica; e tale compiacimento l’on. Giolitti ordinava al Parlamento di tradurre in leggi dello Stato. Con altrettanta ragione si sarebbe potuto dire che i debiti si facevano per pagare le spese della magistratura o della pubblica sicurezza.

 

 

In realtà, se un criterio obbiettivo si volesse adottare in questa materia, si dovrebbero fare due elenchi di spese e di entrate. Nel primo elenco si dovrebbero scrivere, in ordine discendente, le spese, cominciando da quelle che normalmente sono incluse in ogni bilancio, che rispondono a funzioni essenziali dello Stato, via via passando quelle che hanno carattere di maggiore straordinarietà o novità, che rispondono ad un bisogno nuovo sentito ed affermato dalla collettività. E, per converso, nell’elenco delle entrate si dovrebbero collocare prima le entrate ordinarie, antiche, e poi in seguito le entrate eventuali, straordinarie, deliberate in tempi più recenti per far fronte ad incrementi di spese, qualunque essi fossero.

 

 

Nessun dubbio che, in un elenco così fatto, le spese di costruzioni ferroviarie debbono logicamente venir prima delle spese di una guerra; perché le prime derivano da necessità ordinarie e permanenti dello Stato, mentre le seconde sono la conseguenza di una impresa straordinaria, non ricorrente dello Stato. Le prime sono spese le quali risalgono cronologicamente all’epoca nella quale lo Stato diventò proprietario delle ferrovie e cioè a 40 o 60 anni fa; mentre le seconde sono la conseguenza di una situazione politica internazionale, maturata fra il 1910 ed il 1911. Alle prime debbono corrispondere entrate più certe ed ordinarie di quelle che possono bastare alle seconde; poiché le prime spese si dovranno ripetere ogni anno e le seconde si dovranno esaurire in un non lungo volgere di anni.

 

 

Nessun dubbio ancora che, nell’elenco delle entrate, quelle derivanti da debiti debbano susseguire quelle provenienti da imposte; poiché la finanza di uno Stato deve normalmente reggersi su queste e solo in via straordinaria ricorrere ai debiti. Ancora è certo che, nell’elenco dei debiti, debbono precedere quelli consolidati perpetui e venire in seguito quelli redimibili in un lungo periodo e poi i buoni del tesoro quinquennali, i buoni ordinari e, finalmente, le emissioni di moneta cartacea; ossia prima i debiti permanenti e poi quelli brevi, provvisori, che sono quasi spedienti consigliati dall’urgenza del momento, in attesa di una sistemazione definitiva.

 

 

Compilati i due elenchi, si confrontino tra di loro: le «prime» entrate corrisponderanno alle «prime» spese; le ulteriori a quelle spese che vengono in seguito; mentre alle «ultime» spese si vede chiaramente essersi provveduto con le «ultime» entrate iscritte nell’elenco. Resta così dimostrato che alle spese della guerra libica, che logicamente dovevano essere iscritte per ultime nell’elenco delle spese, si provvide con le emissioni dei buoni quinquennali, dei buoni ordinari e dei biglietti di Stato e di banca. Né si capisce la ragione per la quale l’on. Tedesco tanto insisteva per capovolgere questo che è l’ordine naturale delle cose, se non forse la consapevolezza sua che le emissioni almeno dei buoni ordinari e dei biglietti di Stato e di banca ed in parte anche dei buoni quinquennali erano evitabili mercé il ricorso ad emissioni di rendite perpetue o di prestiti a lunga scadenza.

 

 

Egli probabilmente, non voleva che il biasimo per i metodi da lui prescelti per l’accensione dei debiti si estendesse alla guerra libica, la quale, essendo guerra coloniale, era, in verità troppo piccola cosa per giustificare l’adozione di sistemi i quali sono invece spiegabili solo in occasione di guerre grandi e vitali, come quella che oggi l’Italia combatte per la sua integrazione e la sua indipendenza.

 

 

Una delle ragioni che allora consigliarono il governo a preferire i buoni del tesoro alle rendite perpetue od ai prestiti a lunga scadenza era la fisima stravagante, ficcatasi in testa ai dirigenti, che fosse un grande interesse nazionale di impedire il ribasso della rendita al disotto della pari. Avrebbero potuto collocare con grandissima facilità un miliardo e forse due di rendita 3 1/2% a prezzi assai convenienti – oggi si vede che tutti i prezzi fra il 90 ed il 100 sarebbero stati convenientissimi per l’erario, e nulla fa ritenere che i prezzi di emissione dovessero essere più vicini al 90 che ai 100 -; e preferirono di inondare il mercato dei capitalisti privati, delle banche e delle casse di risparmio con titoli, i quali costituiscono un tormento quotidiano per i ministri del tesoro quando, come i buoni ordinari, giungono a scadenza o, se si tratta di buoni quinquennali, costituiranno una preoccupazione per i ministri del 1917-19.

 

 

Ma si voleva salvare la formula né debiti né imposte assurdamente esposta dal governo di quel tempo, come se i buoni del tesoro non fossero titoli di debito ed i maggiori accertamenti per le imposte esistenti non equivalessero a nuove imposte; e si volevano sostenere i corsi della rendita alla pari.

 

 

Le quali cose furono esposte per dimostrare come Victor si esprimesse in maniera assai inesatta quando ammoniva coloro, i quali avevano il 16 marzo 1915 la responsabilità della cosa pubblica a riflettere «alle conseguenze di un atto che farebbe scendere la rendita a lire 70: falcidiando del 30% l’intiero valore capitale della ricchezza nazionale». No: gli onorevoli Salandra, Sonnino e Carcano, quest’ultimo nella sua qualità di ministro del tesoro, non potrebbero da soli essere chiamati responsabili di un eventuale ribasso della rendita da 100 a 70 (trenta per cento), qualora esso si verificasse in conseguenza della guerra oggi dichiarata contro l’Austria.

 

 

Poiché una parte di questo ribasso esisteva in potenza prima, ed era dovuto alle spese volute dal ministero Giolitti Tedesco. Se noi ricordiamo che per tutto il 1911, il 1912, il 1913 e la prima metà del 1914, lo Stato italiano doveva pagare più del 4 per cento effettivo sui suoi prestiti, emessi col nome di buoni del tesoro, chiaro apparisce come il tasso di capitalizzazione della rendita non poteva, già prima della guerra europea, essere quello del 3 ½, ma doveva avvicinarsi al 4%; ed è chiarissimo perciò che il prezzo normale della rendita già tendeva ad essere di 87,50 – al qual prezzo un titolo 3,50 per cento frutta all’acquirente il 4% – od al più di 90 lire.

 

 

Epperciò non è corretto attribuire all’atto degli onorevoli Salandra Sonnino Carcano la responsabilità di un eventuale ribasso da 100 a 70, ma tuttalpiù quella d’un ribasso da 90 a 70. La responsabilità della prima parte del ribasso – e finora della più importante, ché, al momento in cui scrivo, il corso della rendita batte sulle 81/85 lire – è tutta degli onorevoli Giolitti e Tedesco e dalla loro politica finanziaria in occasione della guerra libica. Se anche si ammette che la rendita debba ribassare a 70, il ribasso dovuto alla guerra europea italiana non è del 30 per cento, ma all’incirca del 20 per cento. Ed a bella posta ho scritto guerra europea italiana; poiché, se anche non fosse intervenuto l’atto, deprecato da Victor, della dichiarazione di guerra all’Austria, era assurdo pensare che, continuando sino alla fine la neutralità italiana, il tasso di capitalizzazione della nostra rendita potesse mantenersi al 3½ o, più correttamente, al 4%. La guerra europea, anche astrazion fatta dal nostro intervento, distrugge una così grande massa di capitali che per lunghi anni il tasso dell’interesse si troverà spostato all’insù, verso il 5 ed il 6 per cento. Come illudersi, che l’Italia sola, grazie alla sua neutralità, potesse rimanere immune da questa ondata al rialzo del prezzo dei capitali? Finita la guerra, i rapporti fra mercati esteri e mercato interno dei capitali si ristabiliranno; e nessuna forza umana avrebbe potuto impedire un livellamento, forse non compiuto, ma bastevole a provocare sensibili ribassi, dei corsi dei titoli italiani a quelli dei titoli esteri. Sicché, sul 30% di ribasso ipotizzato da Victor, forse neppure del 10% può essere attribuita la responsabilità all’atto degli onorevoli Salandra Sonnino Carcano: il 30% dovendo essere ripartito in tre parti all’incirca uguali, di cui son responsabili la guerra libica, la guerra europea e la guerra italiana. Le colpe di quest’ultima appaiono così in gran lunga minori di quelle che parrebbero derivare dal discorso di Victor.

 

 

È egli vero inoltre che un ribasso del 30 o del 10% nel prezzo della rendita debba accompagnarsi ad un’uguale falcidia per tutti gli altri elementi della ricchezza nazionale, titoli di stato, valori industriali, case, terre, ecc.? In tesi generale, sì; poiché il mutato tasso di capitalizzazione deve necessariamente ripercotersi su tutti gli impieghi di capitale. Ma non senza notevoli riserve. Dei valori industriali e bancari sono ribassati e ribasseranno sopratutto quelli che si reggevano sulle stampelle dei diritti di sconto, dei sindacati di sostegno, degli argini artificiosi al ribasso. Alcuni buoni titoli si sono risentiti molto ed altri sono aumentati in conseguenza della guerra. Per le case e sopratutto per le terre è molto dubbio se le terrificanti profezie di Victor abbiano a verificarsi. In molte regioni rurali, specialmente a piccola proprietà, a guerra finita si verificheranno forse effetti contrari. I risparmi, impauriti e diffidenti, si getteranno, forse ancor più esclusivamente di prima, sulla terra, considerata come l’unico impiego sicuro dai pericoli di fallimenti, di bombardamenti e di danneggiamenti contemporanei e susseguenti alla guerra.

 

 

E, per concludere queste osservazioni formali, in qual modo Victor ha potuto constatare che i deprezzamenti «già avvenuti» giungono al 20%, sicché con quelli conseguenti alla guerra e valutati al 30%, si possa concludere che «non poca parte del valore della ricchezza nazionale sarebbe, in conseguenza dell’atto di dichiarazione della guerra, ridotta alla metà»? Siffatto colossale ribasso non è preveduto da Victor per la rendita, da lui fatta ribassare fino a 70; né egli spiega perché, per gli altri valori, il ribasso debba essere di tanto maggiore.

 

 

Ma, sovratutto, sia il ribasso del 10, o del 30, o del 50 per cento, ha riflettuto Victor al vero significato di questa riduzione del valore della ricchezza nazionale?

 

 

Per la ricchezza oggi esistente la riduzione, a prima vista terrorizzante, ha un valore in parte soltanto nominale. Trattasi pur sempre di una variazione dei «nomi numerici» che si appiccicano dagli uomini alle cose, nel momento in cui le fanno oggetto di transazione (compre vendite, affittanze, ipoteche, ecc.). Tizio capitalista medio, possiede un lotto di rendita 3½% da 100.000 lire nominali. A lui dispiace che il valore del suo lotto sia disceso da 100.00O a 70.000 lire; ma, se riflette bene, egli nulla ha perduto della sua capacità ordinaria di acquisto; poteva spendere prima 3500 lire all’anno e la stessa somma può spendere dopo. Se egli vende il titolo, ha il rammarico di riscuotere soltanto 70.000 lire; ma, rinvestendole in un mutuo od in una casa, egli reinveste al 5% e riceve pur sempre 3500 lire annue di frutti.

 

 

Il contadino può dolersi, nell’ipotesi non sempre probabile che l’avvenimento si verifichi, che il suo poderetto valga solo 7000 invece di 10.000 lire; ma riceve forse messe più scarsa di frumento o di granoturco, vendemmia meno abbondante o è scemato il numero dei capi di bestiame che egli può allevare nella sua stalla? Mai no.

 

 

Quando alla ricchezza «nuova» ancora da formarsi col risparmio futuro, il problema economico si riduce al seguente: è più favorevole allo spirito di risparmio un tasso di interesse del 5 o del 3,50 per cento? Questo è il vero problema. La riduzione dei valori da 100 a 70 è un effetto del mutato tasso di capitalizzazione dal al 3,50%; e di questa mutazione perciò occorre studiare le conseguenze.

 

 

In generale, per quanto ha tratto alla formazione del nuovo risparmio, non pare che gli effetti sieno cattivi. L’accresciuto tasso dell’interesse vuol dire infatti che un premio maggiore, del 5 invece che del 3,50 per cento, è offerto a coloro che rinunciano al godimento immediato dei beni presenti, adattandosi a ricevere in cambio la promessa di beni futuri; ed è quindi una spinta al risparmio. I danni di molte guerre si poterono rimarginare prima di quanto si prevedesse, grazie appunto alla vis medicatrix del cresciuto tasso dell’interesse. Nessuno può negare che esso sia un male, poiché cresce il costo dei capitali per gli industriali, i commercianti, gli agricoltori che hanno bisogno di ottenere a mutuo capitali per le loro imprese; ma non bisogna neppure dimenticare che è un male, il quale guarisce se stesso, poiché eccita gli uomini alla formazione di nuovo risparmio e quindi, in un periodo più o meno lungo di tempo, conduce ad un nuovo ribasso del tasso dell’interesse.

 

 

Se non è bene esagerare le distruzioni di ricchezze provocate dalla guerra, è doveroso non scemarne, oltre verità, il peso, in ossequio ad un ottimismo ingiustificato. Guardare in faccia alla realtà è da uomini forti, ai quali soltanto arride il successo. Ed in realtà la guerra distrugge enormi masse di capitali. Eccone un elenco, certamente incompiuto:

 

 

  • a) distruzione di case private, edifici pubblici, fabbricati industriali, guasti alle culture, perdita dei raccolti agricoli e di prodotti industriali nelle zone di guerra;
  • b) perdita di tempo impiegato dal capitale e dal lavoro nel produrre munizioni ed altre provviste di guerra, limitatamente però al tempo che si sarebbe potuto impiegare nella fabbricazione di macchine o nella esecuzione di impianti, edilizi, agricoli, industriali utili alla produzione futura.

 

 

Il punto merita di essere chiarito. Suppongasi che il capitale ed il lavoro di una nazione fossero indirizzati, prima della guerra, a produrre 9 miliardi annui di beni di consumo immediato dei privati, 1 miliardo di beni risparmiati, sotto forma di macchine, piantagioni, impianti, allo scopo di crescere la produzione futura e 2 miliardi di beni di consumo immediato dei soldati, ufficiali, magistrati ed impiegati dello Stato. Scoppiata la guerra, la distribuzione del capitale e del lavoro del paese viene mutata così:

 

 

  Prima Durante
Produzione di beni di consumo immediato dei privati

9

7

Produzione di beni risparmiato per impiego privato

1

0,2

Produzione di beni pubblici

2

3,5

Totale

12

11

 

 

Il totale della produzione annua è diminuito, dovendosi tener conto della minore quantità di braccia e di intelligenze utilizzabili; ma non di troppo, poiché il lavoro delle donne, ragazzi, vecchi ed oziosi è meglio utilizzato di prima. Crescono i prezzi delle munizioni e delle provviste di guerra e cresce la convenienza di produrli a scapito delle altre due categorie di beni. Quale sarà la perdita effettiva del paese? Molto si potrebbe discutere in proposito; ma a non volersi arrampicare sugli specchi, sembra si possa affermare che nessun sostanziale danno subisce il paese per il fatto che si produssero solo 7 miliardi invece di 9 in beni di consumo immediato dei privati. Si produssero 2 miliardi di meno; ma si consumò altrettanto di meno. Alla fine dell’anno gli uomini e le donne si accorsero di avere consumato forse una quantità minore di cibi, o di essere ritornati ad alimenti più grossolani, di aver fatto durare scarpe e vestiti di più, di non essersi divertiti come prima, di aver consumato minor copia di bevande alcooliche; ecc. ecc. E che perciò? Si trovano forse peggio gli uomini in conseguenza di questi sacrifici materiali? Io dico che essi sono migliori di prima, perché hanno appreso a vivere più parcamente, perché essi hanno compreso che molti beni, a cui essi prima erano attaccatissimi, non hanno importanza, e che invece hanno gran peso i beni ideali, per la cui consecuzione essi si sono mossi in guerra. Essi in sostanza sono più ricchi di prima, ove almeno si ammetta che la ricchezza si accompagni alla sobrietà, allo spirito di sacrificio, al desiderio di risparmiare, alla subordinazione dei godimenti materiali ai fini ideali della vita.

 

 

Certamente non tutte le guerre partoriscono questi benefici risultati: non le guerre coloniali, non le guerre di conquista su popoli riluttanti, non le guerre di difesa combattute malamente da un popolo dall’animo schiavo e desideroso del bastone di un dominatore.

 

 

Ma le guerre di difesa e di integrazione nazionale, le guerre combattute per un alto e nobile ideale non possono produrre danni economici duraturi: bensì privazioni momentanee, sopportate con letizia dagli uomini, privazioni le quali perciò è stravagante descrivere come perdite economiche.

 

 

Forse l’unica perdita reale registrata dallo schema è il ribasso da 1 a 0,2 miliardi della produzione di beni risparmiati per impiego nelle imprese private. Durante la guerra si producono meno macchine, si fanno meno lavori di impianto, si trascurano le nuove piantagioni, si costruiscono meno strade e ferrovie. Tutte le energie sono indirizzate all’opera grande della difesa nazionale. Domani, ritornata la pace, dovremo lavorare con capitali tecnici meno perfetti e meno abbondanti. Questo è un danno reale, innegabile;

 

 

  • c) perdite di risparmi passati, già investiti e che dovettero essere alienati o disinvestiti per provvedere alle spese della guerra.

 

 

Questa è forse, per i paesi il cui territorio non dovette subire direttamente la irruzione nemica, la perdita più grave. Degli 80 miliardi di ricchezza nazionale, 10 erano investiti sotto forma di capitale circolante delle industrie e dei commerci. A causa della restrizione naturalmente verificatasi durante la guerra nella attività delle industrie e dei commerci intesi a provvedere al soddisfacimento di consumi secondari o di lusso, tre miliardi su 10 rimangono inutilizzati. I loro possessori, per non lasciarli inoperosi, li mutuano allo Stato, il quale li consuma per la condotta della guerra. Finita la guerra, gli industriali ed i commercianti hanno dei titoli di Stato, che non servono direttamente come capitale circolante delle imprese economiche. Per riavere questo, essi debbono vendere i titoli, il che non può accadere in sostanza se non si forma un nuovo risparmio, capace di assorbirli.

 

 

Non solo non si sono prodotti, durante la guerra, 800 sui 1000 milioni di nuovo risparmio, che si usava dedicare agli impianti nuovi economici, ma si sono distrutti 3 miliardi di vecchio risparmio, che la guerra rese momentaneamente disponibili e che dovranno in seguito essere reintegrati.

 

 

Né basta. Può darsi che, per condurre a buon termine la guerra, il paese debba trasformare in denaro contante una parte altresì dei risparmi già stabilmente investiti sotto forma di terreni, di case o di impianti industriali. Se la trasformazione, per l’ammontare, ad es., di 2 miliardi, accade vendendo od ipotecando i terreni e le case a risparmiatori «nazionali», non occorre tenerne conto, perché essa fu già calcolata quando si disse che la guerra assorbiva il risparmio nuovo e parte del vecchio disinvestito e reso disponibile; non potendo da nessun’altra fonte nazionale provenire il denaro necessario all’acquisto od ai mutui ora detti.

 

 

Ma può darsi che – non esistendo altro risparmio nazionale disponibile, nuovo o vecchio atto al disinvestimento – la vendita o l’ipoteca dei risparmi già investiti si compiano a favore di risparmiatori «stranieri», il che può avvenire assai semplicemente grazie ad un prestito contratto all’estero dal governo. In tal caso, alla fine della guerra, la ricchezza del paese sarà ridotta di 3 miliardi per risparmi vecchi disinvestiti provvisoriamente e distrutti, 2 miliardi per risparmi pure vecchi, trasformati mercé un debito coll’estero ed 800 milioni per nuovo risparmio mancato; ed in tutto si avrà una perdita di 5,8 miliardi di lire.

 

 

La perdita è certamente grave. Ma si sapeva di doverla sopportare e ci si sottomise volentieri, avendo l’animo deliberato a conseguire un fine di maggiore importanza. Né conviene del resto esagerarne il peso. L’effetto di questa perdita sarà che gli uomini dovranno, per alquanti anni, condurre una vita più dura, produrre di meno per la mancanza di strumenti tecnici bastevoli, lavorare di più e consumare di meno. Vi è una certa probabilità che, se la guerra si fece per un motivo elevato essa risvegli nell’uomo sentimenti atti a fargli sembrare meno doloroso il sacrificio della maggior fatica e dei minori godimenti immediati. Il rialzo del tasso dell’interesse dal canto suo faciliterà l’opera necessaria di rinuncia, agevolando la produzione di maggiore risparmio negli anni seguenti di pace.

 

 

Chi, nell’anno della guerra ha rinunciato a 2 miliardi di consumi immediati, pur di superare la grande prova, seguiterà a rinunciare ad 1 miliardo negli anni seguenti, pur di ricostruire i risparmi vecchi distrutti e di riparare al tempo perduto nella formazione dei risparmi nuovi destinati ad imprese private; sicché al regresso ed alla momentanea sosta in non lungo volger d’anni si sarà posto rimedio;

 

 

  • d) perdite derivanti dagli attriti di transizione dal periodo di basso saggio al periodo di alto saggio d’interesse. È irrilevante che un podere valga 7.000 invece di 10.000 lire, quando, ritornata la pace e durata questa a lungo, il tasso di interesse siasi ridotto nuovamente al 3½ per cento.

 

 

Il mutamento dei nomi numerici del podere sarà passato sulla testa del proprietario e dei suoi eredi, senza lasciare su di essi alcuna traccia sostanziale. Ma se: 1) il proprietario era indebitato per 5.000 lire; 2) il mutuo scadde nel momento in cui i valori capitali erano bassi; 3) il creditore pretese il rimborso della somma mutuata alla scadenza; e 4) il debitore non aveva apparecchiato i mezzi per il rimborso; accadrà che il debitore dovrà vendere il fondo al prezzo di 7.000 lire e, pagato il debito in lire 5.000, rimarrà con assai meno della metà del valore del podere.

 

 

Prima della guerra egli aveva un podere del reddito netto di 350 lire e del valor capitale di 10.000 lire, gravato di un’ipoteca di 5.000 lire. Ove egli avesse venduto il fondo e pagato il debito, gli sarebbe rimasto 5.000 lire di capitale e 175 lire di reddito. Dopo la guerra egli rimase, dicemmo, con 2.000 lire di capitale che, al 5%, gli fruttano 100 lire all’anno. La perdita è effettiva non solo nel «nome» dato al suo capitale, ma nella massa di ricchezza disponibile annualmente a titolo di reddito.

 

 

Se ben si guarda, però, il danno del proprietario deve essere attribuito non alla guerra sibbene ad errori da lui commessi: 1) l’avere stipulato una scadenza certa al mutuo, la quale per accidente cadde nel punto di massimo deprezzamento. Poteva egli contrarre un mutuo ammortizzabile in un lungo periodo di tempo con gli istituti di credito fondiario; ed avrebbe evitato la scadenza in una volta sola ed in un momento per lui sfavorevole; 2) l’aver trascurato di risparmiare, durante la mora la somma occorrente al rimborso di una parte almeno del mutuo. Se egli avesse risparmiato almeno 1.500 lire, il mutuo, col vecchio mutuante o con un altro capitalista, si sarebbe ridotto a L. 3.500, ossia di nuovo alla metà del mutato valore del fondo (L. 7.000); ed il proprietario avrebbe potuto sormontare il periodo difficile, in attesa di un futuro aumento dei valori capitali. La guerra non è responsabile della scarsa previdenza degli uomini; i quali, in avvenire penseranno a premunirsi meglio contro il rischio del suo verificarsi.

 

 

In conclusione, le perdite nella ricchezza nazionale o sono reali e consistono nella effettiva distruzione di beni sul teatro della guerra e nella distruzione di risparmi vecchi o nuovi destinati alla produzione o sono di valutazione ed in gran parte sono prive di effetti reali pel benessere degli uomini e solo fanno diminuire di peso i simboli numerici che gli uomini si compiacciono di attribuire alle cose di loro proprietà.

 

 

Fuori delle distruzioni effettive di beni materiali sul teatro della battaglia e di risparmi passati e presenti, un solo grave e non immaginario danno economico produce la guerra: e sono le perturbazioni economiche derivanti dalle grosse emissioni di biglietti a corso forzoso, a cui i governi possono essere tratti per provvedere alle spese della condotta della guerra. Sono notissimi i danni cagionati dallo svilimento della carta moneta: perturbazione nei rapporti fra debitori e creditori, arricchimento delle classi imprenditrici a danno delle classi di impiegati ed operai salariati, aumento dei rischi del commercio internazionale e quindi maggior costo delle provviste alimentari e difficoltà crescenti nelle esportazioni, rialzo nel tasso dell’interesse. L’aggio e sovratutto l’aggio oscillante è un vero flagello di Dio.

 

 

Quando però si siano fatte queste osservazioni, fa d’uopo, per chiarire la soluzione da adottare e la gravità effettiva del problema nel momento attuale, aggiungere:

 

 

  • 1) che i danni gravissimi dall’aggio oscillante devono essere sovratutto reputati incomportabili, quando piane ed agevoli siano le vie di provvedere altrimenti alla spesa pubblica. Un aggio del 2 o del 3 per cento all’epoca della guerra libica deve essere giudicato più severamente di un aggio del 10 od anche del 20 per cento nel momento odierno di guerra europea. Era facile allora evitare di mettere mano al torchio dei biglietti; ed erano da biasimarsi quei ministri del tesoro che nel 1911-1913 ricorrevano a piccoli espedienti di aumento della circolazione solo per raggiungere il fine «non pubblico» di evitare un prestito, il quale sarebbe riuscito splendidamente.

 

 

Se l’aggio allora aumentò di poco, quel «poco» era assai lacrimevole, essendo dovuto all’opera evitabile di uomini.

 

 

Oggi, invece, è impossibile non stampare biglietti per somme di qualche miliardo; e quindi nessun biasimo può rivolgersi agli uomini che si appigliano ad uno spediente necessario, anche se da questo spediente fosse per derivare un aggio dieci volte maggiore di quello che si vide all’epoca della guerra libica;

 

 

  • 2) affinché l’azione necessaria vada immune da ogni biasimo, occorre in primo luogo che si stampino biglietti esclusivamente per fini pubblici, come sono la condotta della guerra ed il regolare funzionamento del meccanismo economico. È strano che, fra coloro i quali più inorridiscono pensando ai danni dell’aumento dell’aggio che la dichiarazione di guerra all’Austria dovrebbe produrre, vi siano taluni i quali a gran voce richiesero aumenti di circolazione nell’agosto e nel settembre scorsi per fini secondari e trascurabili. Uomini, che in Parlamento godevano fama di perizia nelle cose monetarie, si lasciarono allora trascinare dalla febbre universale sino a chiedere emissioni cospicue «per salvare la vendemmia»; ed ai loro disperati appelli altri fece eco in pubbliche grottesche lettere, divulgate sui giornali a dimostrazione dell’analfabetismo economico di certa classe politica nostrana.

 

 

La vendemmia fu egregiamente salvata dai viticultori, senza l’aiuto dei nuovi biglietti; e l’esperienza fatta persuase alcuno di quegli egregi uomini a contentarsi di quelle sole emissioni che siano imposte dalla necessità di Stato. Aumenti di circolazione per salvare ieri i vendemmiatori, l’altro ieri i siderurgici ed i cotonieri e tempo addietro gli speculatori edilizi di Roma e di Torino, no; ma aumenti per provvedere alle spese di una guerra ritenuta necessaria per la salvezza d’Italia, ma aumenti o, meglio, offerte di aumenti per evitare un panico bancario od industriale demoralizzante nel momento della dichiarazione di guerra, sì. Questa, dopo qualche momento di incertezza, è oramai dottrina pacifica anche in Italia, ed è conforme ai più antichi e tradizionali insegnamenti della scienza economica. Se i viticultori, in conseguenza della guerra, debbono vendere le uve a buon mercato, peggio per loro; non è questa una buona ragione per recare al paese il gravissimo danno di un aumento dell’aggio. Ma se, per fare una guerra necessaria, si devono stampare molti biglietti, si stampino; poiché sarebbe prudenza delittuosa rinunciare alla integrazione nazionale nostra per evitare il danno, anche gravissimo, dell’aggio. Là si paragonano due danni economici, di cui il primo (perdite dei viticultori) è indubbiamente minore del secondo (aumento, sia pur piccolo, dell’aggio); qui si mette a confronto un beneficio morale e nazionale incommensurabile (integrazione nazionale e conquista delle porte d’Italia) con un danno grave (aggio) ed è chiaro come il danno debba essere considerato calante in confronto al beneficio;

 

 

  • 3) ed occorre in secondo luogo che le emissioni di moneta cartacea siano coordinate alle emissioni di prestiti all’interno, così che le prime siano un mezzo preparatorio delle seconde.

 

 

Altrove (Di alcuni aspetti economici della guerra europea, in «Riforma Sociale», novembre-dicembre del 1914) ho spiegato il meccanismo, tipo tedesco, delle emissioni di biglietti coordinate e preparatorie a prestiti futuri; qui basti avvertire come una emissione di biglietti, anche abbondante, ispirata a questi criteri, è probabile non abbia tempo ad esercitare una sensibile influenza al rialzo sull’aggio. L’ondata al rialzo dei prezzi ha cominciato appena appena a propagarsi, che già, prima che si muti in mareggiata impetuosa, essa si spegne, perché i biglietti sono riportati allo Stato in pagamento delle rate del prestito;

 

 

  • 4) del reato l’aggio alto è dannoso, ma non quanto l’aggio oscillante.

 

 

Finché l’equilibrio non si sia compiutamente ristabilito, è dannoso che la moneta di carta sia svilita del 10 o del 20 per cento. Innanzi che i rapporti di dare e di avere tra i cittadini si siano raggiustati sulla base del nuovo tipo monetario svilito, occorre del tempo; e durante l’intervallo, molti dannosi trasferimenti e distruzioni di ricchezza si possono verificare. Ma i danni sono maggiori quando l’aggio oscilla, e capricciosamente va dall’1 al 10 e poi ritorna al 5 e poi ribalza al 20%, per ridiscendere e risalire ancora. Questo è il danno massimo, perché impedisce il raggiustamento dei rapporti, che alla lunga si farebbe in regime di aggio alto. Quando sia passato abbastanza tempi, diventa indifferente contrattare in moneta di carta svilita della metà od in oro.

 

 

I biglietti da 100 lire sono calcolati uguali a 50 lire di oro; e tutto finisce li. Non fa male a nessuno che i nomi numerici delle cose siano stabilmente diversi da quelli di prima. I guai nascono e si perpetuano quando i biglietti da 100 lire un po’ valgano 90 e poi 80 e poi 95 e poi 70 ed ancora 50, 80, 60, ecc. ecc. Nessuno può fare bene i suoi calcoli, i traffici si arrestano, il capitale si arresta impaurito ed i malanni delle crisi industriali e delle disoccupazioni operaie diventano acutissimi.

 

 

Ad evitare le oscillazioni dell’aggio, giovano, in tempo di pace, e nei paesi dove non esiste il cambio illimitato a vista in oro, molti spedienti, di cui forse i più interessanti sono il metodo indiano di vendere sterline in cambio di rupie ad un cambio non superiore ad un determinato punto, e quello greco di accettare presso gli Istituti di emissione depositi in conto corrente in oro e di accettare tratte sull’estero stilate in oro. Forse, però, non sembra opportuno iniziare proprio in tempo di guerra l’applicazione del primo metodo, sul quale dovrà, al ritorno della pace, concentrarsi l’attenzione dei competenti; né è lecito sperare molti risultati dal secondo sistema, sebbene la possibilità di aprire conti correnti in oro presso la Banca d’Italia gioverebbe immediatamente a crescere, in misura forse superiore alle aspettative, le riserve auree degli istituti di emissione ed a stabilizzare i cambi. Ma più gioverà un prestito estero, a cui il momento politico è favorevolissimo; essendo l’Italia entrata in lega con l’Inghilterra, la quale può aprirci un credito uguale all’ammontare delle spese che dovremo fare all’estero per gli approvvigionamenti militari e per quella parte delle importazioni, la quale non possa essere coperta dalle nostre esportazioni.

 

 

Il prestito estero gioverà sia perché per altrettanta cifra si potrà fare a meno di emettere biglietti, sia perché il governo avrà disponibili cospicue somme di divisa estera con le quali potrà impedire le oscillazioni dell’aggio. Suppongasi che il debito dell’Italia per acquisti fatti all’estero salga, durante la guerra, a 500 milioni al mese, e che i crediti, per esportazioni ed altre fonti di rimesse, giungano a 250 milioni di lire mensili. Basterebbe che l’Inghilterra ci aprisse un credito di 250 milioni di lire mensili, perché il governo potesse fare tutti i suoi pagamenti all’estero, spiccando tratte sulle aperture di credito esistenti a suo favore presso le banche di Londra e di New York e la Banca d’Italia potesse vendere tratte sull’estero ai privati bisognosi di fare pagamenti. La bilancia commerciale si salderebbe perfettamente, senza uopo di far passare neppure una lira d’oro dall’Inghilterra all’Italia e viceversa. E gli istituti di emissione avrebbero modo, intensificando o rallentando le vendite di divisa estera, di esercitare una influenza moderatrice sui cambi si da impedire le loro brusche oscillazioni. Siccome è probabile che dai dirigenti appunto si pensi ad una azione di questo genere, noi dobbiamo soltanto augurarci che, grazie ai loro sforzi patriottici, il cambio oscilli moderatamente.

 

 

Provveduto così, con un prestito interno, ad evitare un aumento eccessivo della circolazione, e con un prestito estero a scemare le oscillazioni dell’aggio, il residuo aumento della circolazione, col seguente rinvilio della carta moneta, sarà ancora un flagello di Dio; ma lo tollereremo pensando che esso era inevitabile. E, tornata la pace, io mi auguro che tutti siano unanimi nel proporre e difendere quegli altri prestiti interni ed esteri che bastino a ritirare i biglietti sovvrabbondanti ed a far scomparire definitivamente il corso forzoso. Anche se li contrarremo ad un interesse in apparenza elevatissimo, quei prestiti saranno sempre meno pericolosi e costosi della continuazione dell’aggio!

 

 

Non si creda però che io abbia voluto sminuire l’importanza delle svalutazioni di capitali e giustificare le emissioni abbondanti di carta-moneta allo scopo di dare un’idea ottimista e perciò erronea del costo della guerra, si da far ritenere il costo minore dei benefici che dalla guerra possono derivare. Questo non può essere l’atteggiamento degli studiosi dei fatti economici. Ad essi ripugna ingrossare, senza ragione, le perdite derivanti dalla guerra allo scopo artificioso di dipingerla con colori più lugubri del necessario; e ripugna altresì che si vogliano riprovare quei mezzi finanziarii di condotta della guerra nel solo caso in cui essi sono accettabili, perché necessari, da quelli stessi che erano disposti a consigliarli per raggiungere scopi tutt’affatto secondari, a cui si poteva arrivare per strade assai meno pericolose.

 

 

Ma nulla è più alieno della mentalità economica quanto voler considerare ottimisticamente la guerra come una operazione conveniente e consigliabile dal punto di vista economico. La ripugnanza degli economisti a questo modo di considerare le guerre è antica, radicata ed invincibile.

 

 

Mi si consenta di citare di nuovo un brano classico di Adamo Smith, che ricordai subito dopo iniziata la guerra libica[2] nel quale è scolpita con pochi tratti superbi la concezione bellica da cui gli economisti con tutte le forze dell’animo loro aborrono:

 

 

«Facendo un prestito i governi sono messi in grado, mercé un moderatissimo aumento di imposte [il bastevole per pagare gli interessi del prestito] di ottenere da un momento all’altro i fondi necessari per la condotta della guerra; e col metodo dei debiti perpetui [per cui si paga il solo interesse e non si deve pensare all’ammortamento] sono messi in grado col più piccolo possibile aumento di imposte di ottenere ogni anno la più forte somma possibile di denaro. Nei grandi imperi, la popolazione che vive nella capitale e nelle province remote dalla scena dell’azione, non risente per lo più quasi nessuno degli inconvenienti della guerra; ma gode con tutto suo comodo il divertimento di leggere sui giornali i fasti delle flotte e degli eserciti. Per essi questo divertimento compensa la piccola differenza fra le imposte che pagano per causa della guerra e quelle che sono soliti a pagare in tempo di pace. Essi sono di solito malcontenti al ritorno della pace, la quale mette fine a questi divertimenti ed a migliaia di speranze visionarie di conquiste e di gloria nazionale, derivante da una più lunga continuazione della guerra». (A. Smith, Wealth of Nations, libro V, capo III).

 

 

Questa è la guerra brutta, che gli economisti odiano: la guerra facile, la guerra illusoria. È una guerra, la quale si inizia colla descrizione delle ricchezze che si potranno largamente raccogliere nella terra promessa, dei commerci lucrosi che si potranno attivare, della facilità della impresa, del suo carattere di passeggiata militare, delle poche spese che si dovranno sopportare per il raggiungimento dello scopo. È una guerra che si conduce sotto l’egida della formula finanziaria deleteria né debiti né imposte. I frutti suoi non possono non aver sapore di tosco. Poiché è impossibile che una conquista, anche di terre fecondissime, sia nei tempi moderni d’un tratto remuneratrice per i conquistatori, poiché sempre accade che le spese di conquista siano erogate a fondo perduto e la colonizzazione economica richieda cospicui investimenti di capitali fruttiferi solo a lunga scadenza, alle promesse di subiti arricchimenti seguono fatalmente le disillusioni e lo scoramento. Le conquiste che si erano desiderate per ragioni di lucro economico, quando sono ottenute a gran costo, appaiono non più desiderabili; ed anche i volonterosi, temendo il peggio, si allontanano da quelle terre che tuttavia avrebbero potuto a lunga scadenza essere fecondi di vantaggi economici alla madrepatria.

 

 

Ad evitare questi effetti dannosi, subito scoppiata la guerra libica, mi sforzai, nell’articolo sopra citato, di dimostrare le seguenti proposizioni: 1) essere una illusione credere che la Tripolitania potesse essere feconda di guadagni, se non lontani ed indiretti, alla madrepatria; 2) essere parimenti necessario bandire ogni idea di lucro per lo Stato; 3) essere necessario inoltre di limitare e di abolire i possibili lucri gratuiti e privilegiati di particolari gruppi di cittadini italiani; 4) essere, invece, una realtà da affrontare consapevolmente e serenamente, i sacrifici economici che la colonia avrebbe imposto all’Italia; 5) essere bene auspicanti gli sforzi fino allora fatti per la conquista commerciale della Libia, ma purtroppo piccolissima cosa in confronto col tanto di più che ci rimaneva da fare.

 

 

Questi concetti che nell’ottobre-novembre 1911 contrastavano con l’opinione dominante in Italia, sebbene fossero la logica conseguenza delle esperienze del passato e delle teorie economiche in materia di colonizzazione, mi sembra siano ormai penetrati nella coscienza della parte migliore e pensante degli italiani. E sebbene ancora si notino delle deviazioni da questa maniera di concepire la colonizzazione[3] ritengo che vada crescendo in Italia il numero di coloro i quali sono persuasi della verità di quanto allora scrivevo:

 

 

«L’opera nostra di civiltà nella Libia sarà tanto più alta, nobile e feconda, quanto meno noi ci riprometteremo di trarne vantaggi immediati e diretti e quanto più saremo consapevoli di dovere sopportare dei costi senza compensi materiali. Il compenso nostro deve essere tutto morale; deve consistere nel compiere il nostro dovere di suscitatori di energie nascoste di popoli primitivi e di apparecchiatori della grandezza politica, se non della ricchezza, dei nostri nepoti. I popoli grandi sono quelli che, consapevoli, si sacrificano per le generazioni venture».

 

 

Uno degli aspetti più confortanti della nostra presente guerra nazionale è l’assenza negli scrittori, nei propagandisti, nei giornali, nel governo e nel popolo di qualsiasi illusione di guerra facile, di guerra redditizia, di guerra breve e poco costosa. Durante i dieci mesi di neutralità, gli italiani hanno avuto campo di farsi una convinzione meditata anche intorno all’aspetto economico della guerra. Essi hanno studiato assai seriamente, senza leggerezza di spirito e senza iattanza, il problema ed anno concluso:

 

 

  • 1) che la guerra sarà lunga e costosa. Fra ricchezze materiali distrutte, risparmi non fatti e rinuncie a godimenti presenti, il sacrificio da sopportare sarà grave. Sarebbe arbitrario indicare qualsiasi cifra; ma tutti sappiamo che non a parecchie centinaia di milioni ma a parecchi miliardi giungerà il valore del sacrificio che noi dovremo sopportare. La previsione è nota a tutti; ed in base a quella previsione ci siamo decisi;
  • 2) che, finita la guerra, le imposte dovranno essere notevolmente aumentate per far fronte alle sue conseguenze finanziarie. Anche qui è ignota la cifra; ma è ben certo che l’aumento delle imposte non si limiterà a poche decine, ma salirà a parecchie centinaia di milioni di lire all’anno. Anche questo sappiamo;
  • 3) che il peso delle nuove imposte dovrà massimamente cadere sulle classi medie ed alte. Sarebbe impossibile aumentare le imposte sui consumi necessari, e difficilissimo crescere le aliquote generali delle imposte sui redditi. Dovranno escogitarsi imposte, le quali colpiscano consumi voluttuari o gravino sui redditi superiori al minimo necessario all’esistenza. Anche questa è una conclusione pacifica;
  • 4) che scarso compenso diretto finanziario potremo riprometterci dall’annessione delle terre italiane soggette all’Austria. I partigiani della neutralità ci hanno descritto a troppo vivi colori la povertà del Trentino e la rovina economica incombente su Trieste a causa del distacco dal suo entroterra slavo e tedesco, perché alcun italiano abbia potuto conservare eccessive illusioni intorno alla possibilità di ricavare un provento netto fiscale alla annessione di quelle terre. Anche coloro che non sono così scettici intorno alle ricchezze di quei paesi e credono si possa conservare a Trieste il suo odierno splendore, pensano che l’Italia ingrandita dovrà risolvere tali problemi politici, militari ed economici, dovrà in tal modo intensificare la sua azione interna ed estera, che il contributo finanziario delle terre irredente sarà di gran lunga assorbito di nuovi ed allargati compiti dello Stato, senza che nulla rimanga disponibile per coprire l’onere delle imposte nuove rese necessarie dalla guerra.

 

 

Anche questa è, se non una convinzione ragionata, una impressione diffusissima nel popolo italiano.

 

 

Il quale dunque sa che la guerra nazionale nostra non è una impresa economica redditizia in senso stretto; sa che il costo sarà elevatissimo ed i proventi finanziari diretti poco rilevanti. Malgrado ciò il popolo italiano si è deciso alla guerra.

 

 

A me sembra che questa decisione – maturata dopo 10 mesi di discussioni, durante le quali si videro e si toccarono con mano, grazie all’esperienza dei paesi belligeranti stranieri, sovratutto gli orrori ed i costi della guerra e fu facile persuadersi che i vantaggi economici diretti ed immediati di essa erano da relegarsi nel regno delle favole e delle immaginazioni, – sia stata quella sola che, anche economicamente, deve essere considerata corretta e logica. È noto invero che i calcoli economici si devono fare tenendo conto non solo del dare e dell’avere nel momento presente, ma anche di quelle partite di debito e di credito, le quali sorgono nei momenti futuri e precisamente in quel più lungo periodo di tempo, a cui si possono estendere gli effetti dell’atto oggi compiuto. Ed è noto come gli elementi più importanti del calcolo economico non siano quelli direttamente ed immediatamente visibili, che tutti sanno vedere e toccare con mano: ma quegli altri i quali rimangono nascosti sotto la superficie dei fenomeni apparenti, e che è appunto compito dell’indagatore mettere in luce. Ed è finalmente, per lo strettissimo vincolo di interdipendenza che lega i fatti economici a quelli politici, morali, intellettuali, religiosi, canone principalissimo di logica economica questo: che taluni effetti economici di grande rilevanza non siano la conseguenza immediata sibbene l’ultima e più lontana ripercussione dei risultati politici o morali o religiosi degli atti umani: sicché questi, a primo aspetto contrastanti colla convenienza economica, si chiariscono in seguito convenientissimi, quando si sia lasciato un tempo sufficiente allo svolgersi della catena complessa degli avvenimenti.

 

 

Queste verità non varrebbe la pena di ricordare, essendo esse l’abicì della scienza economica, la quale nelle opere di Marshall, Bohm Bawerk, Fisher, Pareto, Pigou, per citare alla rinfusa solo i nomi di taluni moderni economisti di varii paesi, ha fornito agli studiosi analisi finissime dei concetti di «tempi brevi e tempi lunghi» di «effetti apparenti ed effetti reali», di «interdipendenza dei fatti sociali e morali», ecc. Ma ricordarle non è inutile, se si pensa alla frequenza con la quale i laici, autori di scritture che vorrebbero essere economiche, rimproverano alla nostra scienza di ignorare tutto ciò che oltrepassa il calcolo diretto di convenienza puramente economica nel momento presente. Cotesti laici si creano un fantoccio comico di una scienza economica immaginaria, alla quale attribuiscono connotati grotteschi e fantastici; e poi si pigliano il gusto di esporre il fantoccio al ludibrio delle genti. Divertimento innocuo, che si potrebbe anche tollerare, se esso non servisse ai laici a persuadere le genti a commettere spropositi, decorati col nome di «concezioni vaste e nuove e geniali», di cui il fio sarà da esse medesime pagato e non dai loro consiglieri.

 

 

Quando si tenga conto di queste avvertenze, lunga è la serie dei benefici che si possono contrapporre all’impoverimento economico diretto gravissimo, in vita e in denari, che noi subiremo in conseguenza della guerra:

 

 

  • 1) il principale dei quali è il compimento dell’unità nazionale sino ai suoi confini naturali verso l’Austria. La sicurezza cresciuta del paese da aggressioni straniere non può alla lunga non esercitare un favorevole effetto sulla attività economica nostra. Chi non può sbarrare la porta di casa sua contro gli assalti dei malandrini, e corre il rischio di non godere dei frutti del proprio lavoro, non può attendere con lieto animo alla produzione. Così un paese, mal difeso da confini militarmente difficili, deve spendere energie e danari di gran lunga superiori a quelli che farebbero d’uopo qualora il confine fosse migliore. E quand’anche in avvenire la spesa non scemasse, essa sarebbe più redditizia; e la maggiore sicurezza si verbererebbe in una attività più coordinata e più salda delle altre energie, economiche e sociali, del paese;
  • 2) se, come è cosa certissima, l’esercito italiano darà prova di sapere vincere le asprezze e le difficoltà della guerra, un risultato morale importantissimo sarà ottenuto. La macchia che su di noi a torto incombeva da Adua e, più in là, da Lissa in poi, di gente che non ama battersi, sarà del tutto lavata; ed i risultati della stima che noi in tal modo avremo saputo guadagnare agli occhi del mondo non saranno piccoli. Si pensi a ciò che erano i serbi prima delle guerre balcaniche e della eroica lotta odierna contro l’Austria ed a ciò che sono oggi: da poco meno di briganti essi sono assurti alla grandezza di eroi e sono reputati tra i primi soldati d’Europa. Noi, che abbiamo milioni di nostri connazionali sparsi all’estero e continueremo ad inviare emigranti fuori dei confini della patria, noi abbiamo bisogno di essere stimati e rispettati. La stima vuol dire anche salari più alti, possibilità di farsi strada più facilmente tra i concorrenti e di conquistare posizioni direttive. Ma stima e rispetto si concedono a chi ha dimostrato qualità umane elevate: insofferenza verso l’oppressione, volontà di ottenere giustizia per se stessi (confini naturali) e di farla ottenere ad altri;
  • 3) non è invero un puro sentimentalismo quello che ci ha fatto impugnare le armi anche in difesa dei piccoli Stati, come la Serbia ed il Belgio, incapaci di difendersi da soli contro la strapotenza altrui. Chi irride a questi sentimentalismi, quegli non sa neppure essere un vero egoista.

 

 

Poiché l’egoismo vero non è quello che bada al tornaconto immediato e ritiene compiuta la giornata quando non si è stati direttamente danneggiati e si è ottenuto il massimo lucro presente, ma quello che bada alle conseguenze ultime del fatto odierno apparentemente innocuo. Tutti quelli che rifletterono un solo istante alle conseguenze necessarie della Serbia annessa o resa vassalla dell’Austria e del Belgio incorporato coll’Impero Germanico, videro che la nostra reale indipendenza, le nostre vere libertà erano strettamente collegate colla piena libertà ed indipendenza di quei due piccoli Stati.

 

 

Chi potrebbe ostacolare la formazione di una Unione europea centrale, dominata dalla Germania, nel giorno in cui la Germania da un lato potesse impedire ogni opposizione anglo francese e l’Austria dall’altro potesse dominare i Balcani ed, attraverso ad esse, estendere il dominio germanico sino all’Asia minore ed alla Persia? Potremmo in quel giorno ottenere in dono la Tunisia e magari anche l’Egitto; saremmo pur sempre uno Stato effettivamente vassallo, una stella vivente di luce riflessa nella grande costellazione del redivivo Sacro Romano Impero di nazione germanica. Chi creda sia un sentimentalismo vano preoccuparsi se l’Italia abbia ad essere una nazione libera, vivente di vita sua propria e collaborante con gli altri paesi, anche germanici, all’opera comune di civiltà, quegli riterrà denari spesi invano quelli di una guerra condotta anche per tutelare la libertà del Belgio e della Serbia. Quegli invece che freme di vergogna al solo pensiero di un paese intento unicamente ad aumentare i suoi beni materiali e contento di vivere all’ombra di un qualche grande Stato mondiale, colui riterrà lievi i sacrifici sopportati per la difesa dei piccoli Stati e compensati largamente dalla preservazione della indipendenza effettiva sua propria;

 

 

  • 4) Né è un puro sentimentalismo lottare affinché prevalgano nel mondo gli ideali di nazionalità, a cui dobbiamo la nostra unità italiana. In un’epoca nella quale si parlava quasi soltanto di imperialismi, in cui sembrava che l’avvenire fosse riservato ai popoli conquistatori, in cui era ridivenuto di moda il motto: «il commercio segue la bandiera», noi asseriamo, colla nostra guerra contro l’Austria, voluta malgrado fosse di tanto più comodo e meno rischioso accettare le profferte degli antichi alleati, il valore supremo dell’imperativo categorico di non mancare all’appello dei fratelli trentini e triestini che vogliono venire con noi.

 

 

Le vecchie idealità della lingua, delle tradizioni storiche, della volontà sovratutto di unirsi alla famiglia italiana, le sante idee plebiscitarie del nostro risorgimento risorgono e dimostrano di non essere morte. Malgrado qualche vampata di entusiasmo imperialistico, gli italiani non hanno sentito la ragione per cui eravamo andati ad imbrogliarci in Libia con arabi e simili genti forastiere. Il ragionamento da farsi per persuadere un popolano della necessità storica di sottomettere un popolo straniero anche semicivile, è troppo complicato e difficile. Ma Trento e Trieste sono come Venezia e Milano, come Palermo e Messina. Ogni popolano si persuade subito che è una «ingiustizia» non averle con noi; ogni contadino, ogni montanaro, capisce essere intollerabile che le teste delle valli italiane siano in mano dei tedeschi, ogni marinaio vede che è un’onta che gli stranieri possano venire da porti italiani a bombardare coste italiane. Ognuno a casa sua, dicono il contadino, il popolano e il marinaio; e staremo in pace con tutti. E ragionano benissimo anche dal punto di vista economico; poiché, ripetasi, come si può lavorare col cuore tranquillo quando le porte di casa sono aperte ai nemici?

 

 

  • 5) Né è per ingordigia dei beni altrui che noi vogliamo togliere all’Austria il suo più gran porto, Trieste. Noi vogliamo Trieste, non perché essa sia uno dei maggiori porti del mondo, non perché essa possegga una flotta potente e traffici ricchi. La vogliamo perché i suoi abitanti sono italiani e perché essi vogliono unirsi a noi, prima che la loro nazionalità sia snaturata dalla marea slava, che in parte scende dalle montagne per ragioni naturali di inurbamento ed in parte vi è artificiosamente trapiantata dal governo austriaco per soffocare la nazionalità italiana. Per questo noi vogliamo Trieste, e non perché essa sia ricca. Anzi, noi siamo convinti di non avere alcun diritto ad ipotecare per noi i vantaggi della posizione e della potenza economica di Trieste.

 

 

L’Italia è il solo paese il quale, dominando a Trieste per ragioni etniche, possa offrire alle altre nazionalità il modo di giovarsi senza ostacolo dei vantaggi economici del suo porto. Se l’Italia, dopo averla conquistata, vorrà con servare Trieste, lo potrà fare soltanto a condizione di non volere sfruttare il porto di Trieste a vantaggio esclusivo degli italiani.

 

 

Angariare gli slavi ed i tedeschi, frastornare con dazi doganali e tariffe ferroviarie il traffico da Trieste verso le regioni rimaste all’Austria od assegnate alla nazione serbocroata sarebbe un suicidio per noi. Sarebbe la rovina del porto di Trieste. Per il traffico dell’entroterra veneto lombardo basta il porto di Venezia. Trieste vive come un punto di intermediazione fra i porti d’oltremare e l’entroterra slavo tedesco. Sopprimere questo traffico vorrebbe dire ridurre Trieste ad un porto di pescatori. Slavi e tedeschi non ce lo permetterebbero. Un programma di sfruttamento del porto di Trieste a pro dell’Italia ci apparecchierebbe nuove guerre a breve scadenza coi popoli vicini, che hanno bisogno del porto più settentrionale e più orientale dell’Adriatico.

 

 

Perciò a noi interessa conservare a Trieste la sua situazione di porto dell’entroterra slavo tedesco. Raggiungere tal fine, per quanto dipenda dall’opera nostra non è impossibile: basta considerare Trieste come un porto franco, ammettendo in franchigia tutte le merci destinate all’importazione ed all’esportazione per o dall’entroterra slavo tedesco.

 

 

Basta segnare ai tratti di ferrovia correnti fra Trieste ed il confine politico tariffe minime, di concorrenza e di penetrazione. Mancherà in tal caso agli slavi ed ai tedeschi l’interesse a lottare con noi per strapparci un possesso, di cui noi avremo dimostrato di non volere servirci ai loro danni e da cui anzi avremo loro consentito di trarre tutti quei vantaggi economici, i quali siano compatibili con la conservazione della sovranità e della nazionalità italiana.

 

 

Se noi sapremo fare una buona e sana politica economica, la gelosia degli slavi e dei tedeschi sarà la migliore nostra alleata. I tedeschi preferiranno noi e la nostra politica liberale al pericolo di una conquista slava, la quale sicuramente monopolizzerebbe il porto di Trieste a suo beneficio; ed altrettanto accadrebbe per gli slavi, più paurosi dei tedeschi che di noi. Certamente noi dovremo meritare il successo, usando moderazione e larghezza verso i popoli serbo croati e cercando di ridurre al minimo l’irredentismo serbo croato entro i nostri nuovi confini. Alla lunga la nostra moderazione nel pretendere subiti guadagni dal possesso del porto triestino, la nostra liberalità nell’ammettere slavi e tedeschi, a parità di condizione con gli italiani, a godere dei vantaggi del porto, saranno feconde di utili risultanze economiche anche per l’Italia. Slavi e tedeschi avranno interesse a frequentare il porto; ed i suoi progressi arricchiranno i triestini e cioè genti italiane; che al traffico slavo tedesco aggiungeranno nuovi e più vivaci rapporti con l’Italia, con loro e nostro grandissimo vantaggio. La più grande Italia erediterà tutta quella parte del traffico triestino che non ha origine nella intermediazione con l’entroterra, ma nello spirito di intraprendenza e di speculazione dei triestini: il lavoro di banca, di assicurazioni, di borsa delle merci diventerà un lavoro italiano.

 

 

Trieste continuerà ad arricchirsi e diventerà più ricca quindi anche l’Italia. Perché ciò accada, occorre principalmente che gli italiani di oggi non presumano di arricchirsi a spese d’altri.

 

 

La volontà di sacrificio e la rinuncia ai benefici immediati; ecco le caratteristiche fondamentali della guerra nostra; ed ecco le ragioni per cui essa non ha trovato contrasti ed anzi ha trovato l’assenso degli studiosi italiani di economia.

 

 

Costoro odiano sovratutto i ragionamenti sbagliati; ed una guerra fatta per ottenere vantaggi economici e commerciali diretti è sovratutto un ragionamento sbagliato. Non è possibile che l’Inghilterra abbia fatto una guerra commerciale perché i suoi pensatori sanno tutti ed i suoi uomini di Stato sanno ancora quasi tutti ragionar bene. Se vi furono alcuni in Germania, i quali si illusero di fare una guerra per conquistare il mondo alla espansione economica tedesca, ciò poté accadere solo perché due generazioni di economisti spregiatori delle teorie classiche avevano insegnato alla Germania colta a fare dei ragionamenti falsi. I Wagner e gli Schmoller sono, purtroppo, tra maggiori responsabili della guerra europea, forse più di Treitschke, di cui gli inglesi hanno dimenticato le pagine superbe, degne dei grandi storici della tradizione liberale classica, e certamente non sono meno responsabili del pangermanista generale von Bernhardi. Io sono convinto che nessuno in Italia prenderà invece sul serio le teorie di coloro, i quali reputano che una guerra possa essere intrapresa colla speranza di poter ottenere dei vantaggi economici diretti.

 

 

Una guerra può produrre, in un tempo molto lungo ed in un avvenire lontano, vantaggiosi risultati economici quando essa sia stata intrapresa da un popolo convinto di dover sacrificare sangue e denaro per raggiungere fini puramente ideali. La guerra cioè può diventare una operazione anche economicamente vantaggiosa solo quando si sappia che i suoi vantaggi economici presenti e diretti sono nulli e sono grandissimi invece i costi della sua condotta. Nella verità di questo paradosso sta la bellezza teorica della nostra presente guerra italiana. Noi sappiamo che la guerra renderà la vita della nostra generazione più dura; noi sappiamo che essa crescerà la fatica nostra e scemerà i nostri godimenti. Ma appunto questo volemmo, mossi dall’ideale di apparecchiare ai nostri figli ed ai nostri nepoti una condizione di vita più elevata e sicura.

 

 



[1] Principles of Economics, di Alfredo Marshall. (p. 22 della quinta edizione), di cui si citano le parole, come quelle del trattato principe inglese dell’epoca nostra, il più rappresentativo del pensiero economico in ciò che esso ha di permanente e di nuovo nel tempo stesso.

[2] In A proposito della Tripolitania, «Riforma sociale» dell’ottobre-novembre 1911, p. 637.

[3] Su una di queste deviazioni, e specialmente sul biasimevole sforzo, in parte riuscito, dei zuccherieri, fiammiferai ed industriali tessili di trarre immediatamente partito dalla conquista libica, discorsi nell’articolo Per l’avvenire d’Italia nella Libia, nel fascicolo di febbraio-marzo della «Riforma sociale» del 1915.

Prefazione – Prediche

Prefazione

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. VII-VIII

 

 

 

 

Ripubblico, sotto il titolo di Prediche, alcuni scritti i quali hanno veduto la luce durante la guerra europea e nel periodo dell’armistizio ed i quali sono uniti insieme della loro indole comune di inviti alla rinuncia, al risparmio, al sacrificio.

 

 

Li ripubblico senza alcuna variante, neanche quella, che sarebbe perdonabile, di mutare le cifre addotte ad illustrazione del concetto dimostrato nel testo. Oggi, che il debito pubblico supera i 100 miliardi, può far senso sentir parlare di 5 miliardi, come di una perdita terrificante per l’economia nazionale; né, quando l’aggio giunge quasi al 300% e quello sugli Stati Uniti quasi tocca il 400% (al corso di 24 lire per dollaro) sembra ragionevole spaventarsi di aggi del 10 o del 20%. Parlare di un danno grave derivante dalla perdita di 65 centesimi per ogni chilogrammo di pane, quando si perdono ora quasi 2 lire; discorrere di «alti» salari di vendemmiatrici pagate a 3 lire al giorno, quando oggi si pagano le 10 e le 15 lire, può sembrare un anacronismo. Tuttavia, non ho mutato le cifre, sia perché l’onestà scientifica me lo vietava, sia anche perché i confronti tra epoche e concetti diversi, ad es. fra perdita di ricchezza per una nazione e debito dello Stato, sono sempre difficilissimi; ma sopratutto perché le mie a buon diritto si possono intitolare «prediche» appunto perché, come accade solitamente agli ammonimenti degli economisti, non furono ascoltate; e, non essendolo state, accadde fatalmente che i danni economici e sociali della guerra furono di gran lunga superiori a quelli, pur grandi, che si potevano ragionevolmente prevedere e si dovrebbero oggi constatare ove non i miei ammonimenti, ma quelli, che io altro non feci che ripetere, della esperienza passata fossero stati ascoltati.

 

 

Predicare è ciononostante un dovere. E tornare a ripetere le stesse cose è un imperativo categorico. Se le pagine qui unite hanno un significato, esso e` forse il seguente: che la scienza economica è subordinata alla legge morale e che nessun contrasto vi può essere fra quanto l’interesse lungi veggente consiglia agli uomini e quanto ad essi ordina la coscienza del proprio dovere verso le generazioni venture.

 

 

Luigi Einaudi

Lo schema della tassazione post-bellica

Lo schema della tassazione post-bellica

Il problema della finanza post-bellica, Fratelli Treves, Milano 1920, pp. 144-188

 

 

 

 

Il problema della nostra finanza post-bellica torna dunque a ridursi al punto iniziale. Scarsa la produttività probabile del tributo sugli incrementi di reddito o di patrimonio dovuti alla guerra; grandemente dubbia la convenienza di un’imposta straordinaria sul capitale, risorge la domanda: in qual modo trovare i 3 miliardi di lire che mancano per saldare l’attivo col passivo del bilancio italiano futuro? Credo che nessuno in questo momento sia in grado di dare una risposta precisa, di indicare una soluzione assolutamente sicura del problema. Tutto ciò che si può fare è di vedere i mezzi che si possono tentare, le vie che si possono seguire per poter giungere alla meta, se non subito in un certo periodo di tempo. Mi conforta alla conclusione che, più che indicare soluzioni precise, è opportuno segnalare le vie le quali più probabilmente ci faranno raggiungere la meta, l’insuccesso evidente di quelle proposte che finora sono state messe innanzi.

 

 

La più importante era quella della commissione per il dopo guerra, la quale, essendosi proposta il problema alquanto più modesto di cercare una somma di 2660 milioni circa, confessava anzi tutto l’impossibilità di trovare coll’imposta questo ammontare, lasciava per 500 milioni all’anno il problema insoluto, ricorrendo per qualche anno ancora per altrettanta somma all’accensione di nuovi debiti. La metà dei 2100 milioni rimanenti la commissione li trovava con una proposta che non ha incontrato molto favore nell’opinione pubblica e cioè colla istituzione di un monopolio sul vino. Poiché questa proposta deve essere recisamente scartata – ed anche il ministro delle finanze ha pubblicato in proposito un reciso comunicato governativo – e poiché la commissione palesa gravi dubbi intorno alla produttività ed alla convenienza di un’imposta generale sulle vendite, messa innanzi solo come surrogato del monopolio del vino, in definitiva essa riesce solo a mettere innanzi proposte che sì e no daranno un miliardo di lire. Siamo molto distanti dalla somma che occorre.

 

 

Anch’io non ho uno schema preciso con cui ottenere senz’altro l’enorme somma occorrente; tutto ciò che posso fare è di indicare le vie maestre per la soluzione dell’assillante quesito. Sono le solite. Non è possibile trovare nulla di assolutamente nuovo in fatto di imposte; comunque esse si congegnino e qualunque nome prendano, le imposte vanno a cadere in definitiva sul flusso della ricchezza che via via va formandosi ogni anno e ogni anno va consumandosi. Abbiamo veduto ieri la quasi impossibilità di poter far pagare un’imposta patrimoniale, quando si pretendesse sul serio di prelevarla sul capitale, essendo impossibile dare allo Stato una parte in natura delle cose esistenti, e non essendo conveniente costringere i possessori a vendere e perciò a svalutare le varie entità patrimoniali. Di qui la necessità di convertire, per la massima parte dei contribuenti, il tributo sul capitale in un’imposta da pagarsi a rate, in un periodo più o meno lungo di anni. La sola fonte effettiva della ricchezza è dunque sempre e solo quella che ho sopra indicato: il flusso della ricchezza. Esso può essere colpito in diverse maniere: o all’atto del consumo (imposta sui consumi), ovvero all’atto della percezione del reddito, nel qual caso avremo tutte le imposte variamente chiamate sul reddito o sul patrimonio o sulle successioni. Tanto le imposte sui consumi quanto le imposte sul reddito si prestano a dare un gettito maggiore di quello che danno oggidì.

 

 

PRIMO GRUPPO: imposte sui consumi. Io scarterei, come del resto in fondo scarta anche la commissione per il dopo guerra, l’imposta generale sui pagamenti od imposta generale sulle vendite. Essa è già stata stabilita in Francia, forma oggetto di un progetto di legge in Inghilterra e dicono sia stata applicata in Germania. In Francia di questi giorni poco mancò fosse revocata dal Parlamento, tanto grande è la sua impopolarità e dubbio il suo rendimento. Essa funzionerebbe con due percentuali, una minore sulle vendite in generale ed una maggiore sulla vendita degli oggetti di lusso. L’imposta è di difficilissima applicazione pratica. È sul serio sostenibile l’opinione che si possano organizzare senza spese eccessive il controllo e la sorveglianza indispensabili per accertare tutte le vendite e prelevare sopra di esse una imposta a favore dello Stato? O l’aliquota si mantiene molto bassa, l’1, il 2, il 3 per 100 sull’ammontare delle vendite e allora probabilmente il gettito dell’imposta risulta troppo basso e insufficiente a compensare le spese di esazione; oppure mettiamo aliquote abbastanza elevate, tali da far sperare un reddito sufficiente e diamo un premio enorme alla frode, alle collusioni fra negozianti e consumatori, per non far risultare da nessun documento l’avvenuta vendita e frodare il fisco.

 

 

Tuttavia nel concetto ispiratore dell’imposta generale sui pagamenti c’è qualche cosa di buono e precisamente l’idea che certi speciali pagamenti possono esser oggetto di una tassazione particolare anche ragguardevole. Il nostro governo negli ultimi anni si è messo su questa via e con discreto successo. Le imposte sulla vendita dei gioielli ed oggetti preziosi, delle profumerie e specialità medicinali, sui biglietti di cinematografo e spettacoli di varietà, le accresciute imposte sui motocicli, automobili e motoscafi, l’aumento dell’imposta sui domestici, sui pianoforti, i biliardi, ecc., appartengono a queste categorie di imposte sui pagamenti. Invece di stabilire una imposta unica, colossale su tutti i pagamenti, il nostro legislatore con molta opportunità ha cercato di scegliere per la tassazione quelle vendite che si prestano meglio ad una imposizione e per cui il controllo fiscale può essere reso efficace e via via perfezionato. I risultati sono già discreti e col tempo diverranno migliori. Ragguardevole è stato il provento dato nell’ultimo semestre dalla tassa sulle profumerie e specialità medicinali e sulla tassa sui gioielli. L’imposta sulle entrate dei cinematografi e spettacoli di varietà, che dapprincipio sembrava dover avere un esito meschino, dopo le modificazioni introdotte nel suo assetto ha dato un rendimento discreto.

 

 

Posso qui ricordare alcune particolarità interessanti. La tassa sulle vendite di oggetti preziosi colpisce la vendita al pubblico di gemme, gioielli, perle, vasellami e posaterie d’oro e d’argento, orologi d’oro e in genere di oggetti confezionati con metalli preziosi, eccetto quelli d’argento, che abbiano un prezzo non superiore a lire 25. Fino a 100 lire l’aliquota è del 3 per 100; da 101 a 1000 del 6 per 100, da 1001 a 5000 del 9 per 100, al disopra delle 5000 del 12 per 100. L’imposta è suscettibile di un ulteriore miglioramento potendo le aliquote essere ancora aumentate. Essa ha ottenuto l’approvazione di uno dei più insigni economisti viventi, il professor Marshall, che la proponeva per l’Inghilterra, dando anche un’indicazione non priva di pregio sul metodo per farla funzionare bene. Egli osserva che l’imposta non sarà sostanzialmente sentita dai consumatori di gioielli in quanto ciò che il consumatore di gioielli desidera non è tanto di portare gioielli per  sé stesso ma di aver potuto dare la dimostrazione della sua capacità a spendere quella determinata somma. Ora questa dimostrazione si può dare sia comperando un brillante che valga 10.000 lire in assenza di imposta, sia comperando un brillante che valga 9.000 lire ma su cui si debbano pagare 1.000 lire d’imposta. Anche col brillante più piccolo si dà la dimostrazione della capacità di spendere quella determinata somma ed in fondo è ciò solo che il consumatore desidera. Aggiungeva il Marshall non senza finezza che se l’amministrazione finanziaria comunicasse ogni settimana o ogni mese a tutti i giornali la lista delle imposte percepite sulla vendita di gioielli al di sopra di una certa somma, probabilmente vi sarebbe un certo interesse da parte del cliente a far sapere al pubblico di aver comperato quel certo oggetto e magari di averlo pagato una somma superiore al suo valore. In Inghilterra molti giornali pubblicano settimanalmente la lista delle eredità che si sono aperte, col nome del defunto e l’indicazione degli eredi; è una delle rubriche più lette ed apprezzate ed è un coefficiente non del tutto trascurabile di buon rendimento delle imposte di successione, molti, in virtù  della pubblicità, astenendosi dal frodare la finanza. Lo stesso, dice il Marshall, avverrebbe per la tassa sugli oggetti preziosi.

 

 

Un’altra buona imposta istituita in Italia è quella delle profumerie e specialità farmaceutiche che ha dato un rendimento forse doppio di quello che i proponenti si immaginavano; esito discreto ha pure avuto la tassa di bollo sui conti dei ristoratori e trattorie.

 

 

Altra ottima imposta suscettibile di ulteriore sviluppo è quella sui motocicli, automobili e autoscafi. Il professor Marshall fa, rispetto ad essa, una proposta degna di nota; vorrebbe che, anziché graduata in ragione del numero dei cavalli di forza, l’imposta fosse graduata in ragione della velocità virtuale cosicché pagassero di più le automobili che hanno velocità virtuale maggiore; concetto ragionevole se si considera che gli automobili più veloci consumano di più il suolo stradale e danno luogo a maggiori spese di manutenzione.

 

 

Durante la guerra ha avuto altresì un certo sviluppo da noi un’imposta che prima era quasi trascurata, voglio dire quella sui domestici. Avanti la guerra essa era stabilita quasi dappertutto nella ragione uniforme di 5 lire per domestico, qualunque ne fosse il sesso e le mansioni. Essa venne graduata e inasprita con D.L. 31 ottobre 1915 e poi di nuovo con D.L. del 5 agosto 1917. La tariffa è ora stabilita coi seguenti massimi, che sono divenuti di fatto quelli applicati nei diversi comuni. La prima domestica paga 10 lire, la seconda e le successive 20 lire; il primo domestico ne paga 30, il secondo 50, il terzo e i successivi ne pagano 80. Anche questa imposta, sicura nella sua esazione, essendo difficile e pericoloso occultare il numero dei domestici, potrebbe essere suscettibile di ulteriori aumenti. Altri decreti hanno creato nuove imposte per i pianoforti, i biliardi, ecc.

 

 

Un difetto di siffatti tributi, considerati nel loro insieme, è di non essere abbastanza coordinati fra loro. Sarebbe utile conglobare tutti i tributi suntuari in una imposta unica in guisa da poter tassare quello che è il presuntivo consumo in oggetti di lusso da parte delle famiglie. In proposito potrebbe essere utilizzata una delle migliori imposte che esistono nella nostra finanza locale, l’imposta sul valore locativo. Finora essa ha avuto in Italia poco sviluppo per la maniera con cui è regolata, potendo essere stabilita o soltanto in maniera proporzionale con un’aliquota del 2 per 100 e quindi troppo bassa e poco produttiva, ovvero con un’aliquota progressiva la quale comincia dal 4 e va fino al 10 per 100. L’imposta potrebbe invece essere congegnata con altre aliquote, avendo alla base l’esenzione degli appartamenti di poco valore, in modo da far variare l’ammontare dell’imposta a seconda del numero dei componenti la famiglia. Non di rado, l’imposta com’è attualmente ha un carattere odioso perché è dello stesso ammontare sia che un determinato affitto sia pagato da uno scapolo come dal capo di numerosa famiglia. Oltre ad essere progressiva dovrebbe dunque questa imposta comportare attenuazione ed inasprimenti a seconda del numero dei componenti la famiglia; e dovrebbe inoltre essere soggetta ad ulteriori inasprimenti quando colui che occupasse un appartamento di un dato valore locativo avesse contemporaneamente persone di servizio in numero superiore ad un numero determinato, l’uso di vetture, di cavalli, di automobili, di ville, ecc. Tutti questi indizi messi insieme potrebbero sorreggersi gli uni cogli altri e dar luogo ad un congegno di imposte che fosse tale da perseguire l’effettiva spesa complessiva fatta da contribuenti al di là di un certo limite.

 

 

Nell’ambito dell’imposta sui consumi bisognerà però fare affidamento su altre fonti. La commissione per il dopo guerra prese in considerazione l’imposta sul vino; e sebbene l’abbia scartata, per dare la preferenza ad un immaginoso monopolio del vino, vale la pena di trattenersi brevemente su questo argomento.

 

 

Il vino in Italia è soggetto ad una tassazione sperequatissima, essendovi grande differenza fra l’imposta che paga il cittadino e quella che paga il residente in campagna e nelle minori città e nei borghi; il che porta poi all’inconveniente, che nelle città, per quanta sorveglianza si eserciti, grande è lo stimolo, per sfuggire al dazio, ad artefare i vini. Oggidì il reddito della tassa sul vino non arriva a 200 milioni; è quindi evidente la possibilità di rimaneggiarla e renderla più redditizia. Persone tecniche che si occupano di questa importante industria sono persuase di poter ricavare da un’imposta ben applicata 600 o 700 milioni annui. Il professor Marescalchi vorrebbe l’istituzione di una tassa di 10 lire per ogni quintale di uva e siccome l’uva prodotta in Italia è circa 70 milioni di quintali all’anno, calcola di poter ricavare 700 milioni di lire. Anche dando 200 milioni di lire ai Comuni per indennizzarli del dazio che perderebbero rimarrebbe mezzo miliardo a favore dello Stato. Altri, per esempio il cavaliere Brambilla dell’Unione vinicola toscana, preferisce una imposta che colpisca, anziché l’uva, il vino e calcolandola in 15-20 lire per ettolitro su una produzione di 40 milioni di ettolitri ci sarebbe la possibilità di ottenere 600-800 milioni.

 

 

La questione meriterebbe di essere esaminata nei suoi particolari tecnici per vedere quale è fiscalmente il metodo più adatto di tassazione. Certo però sono infondate alcune preoccupazioni le quali finora hanno indotto i viticultori a dimostrarsi contrari al proposto balzello.

 

 

Nel caso si adottasse l’imposta sull’uva i viticultori temono di dover anticipare l’imposta senza essere sicuri di riprendere l’ammontare dell’imposta anticipata sul vino venduto ai consumatori. L’esperienza del passato però mi porta a ritenere che il timore sia infondato. Se così fosse dovrebbero permanere, anzi farsi più aspre le lagnanze di tutti quei fabbricanti che da molti anni sono soggetti ad imposte di fabbricazione, talvolta elevatissime; ad esempio, i produttori di zucchero, di bevande alcooliche, di cicoria, di gas luce, ecc. Viceversa non si sente da questi produttori nessuna lagnanza al riguardo; il che vuol dire che non essi ma i consumatori pagano l’imposta. Anzi la necessità di pagare l’imposta avvantaggia, in ultima analisi, l’industria rendendola più forte, perché occorre da parte di chi la esercita la disponibilità non solo dei capitali necessari all’esercizio ma anche all’anticipazione dell’imposta: quindi soltanto gli organismi più solidi possono continuare ad esercitare l’industria. Si opera una specie di cernita fra tutti i produttori e l’industria finisce per trovarsi dopo un po’ di tempo in migliori condizioni. I produttori che vivono al margine sfruttando il credito, comperando a credito, le materie prime da pagarsi coi prezzi ricevuti dai clienti, ecc., scompaiono dal mercato e rimangono soltanto i produttori che sono in grado di pagare a contanti le imposte. Vi è sempre stato, naturalmente, un certo periodo di difficoltà, di assestamento; ma dopo di esso i primi ad essere avvantaggiati furono in ogni caso gli stessi produttori. Una previsione sicura può farsi, nel caso fosse adottata la tassazione delle uve, ed è che sarebbero eliminati i produttori di uve a bassa gradazione alcoolica, le quali sono appunto le colpevoli dei grandi ribassi di prezzo negli anni di straordinaria abbondanza dei raccolti. Le uve scadenti o almeno le peggiori di esse non potrebbero probabilmente sopportare l’imposta; e ciò costringerebbe i viticultori ad abbandonarne la coltivazione per altre più redditizie. Si raggiungerebbero così due effetti ambedue utili: il primo, di interesse generale, e cioè che una parte delle terre italiane oggi destinate alla produzione di uva di scarto, ossia di una derrata che non contribuisce all’alimentazione, sarebbe invece destinata alla coltivazione di cereali, di erbe, ecc., utili all’alimentazione umana ed all’allevamento del bestiame; il secondo, interessante i viticultori in modo particolare e cioè che la mancanza delle uve di scarto impedirebbe nelle annate di crisi il disastroso tracollo dei prezzi, cosicché l’industria viticola non passerebbe attraverso ad oscillazioni violente di prosperità eccezionale o di disastro irreparabile.

 

 

Qualche cosa in aggiunta ai 400-500 milioni che si possono sperare dall’imposta sui vini potrà essere dato da alcuni dei monopoli che sono già stati decretati.

 

 

Connessa con la tassazione del vino è la riforma delle cosidette tasse di licenza sugli spacci delle bevande alcooliche. Il legislatore in Italia è già intervenuto, per ragioni morali ed igieniche, a limitare il numero degli spacci; ma, con contraddizione non avvertita, mentre accresceva il valore e la rendita (vera rendita di limitazione avente origine legislativa) degli spacci residui, abbandonò questa maggior rendita a favore degli avvelenatori del pubblico. È necessario che un sistema di tasse di licenza e di esercizio, opportunamente congegnato in base al valor locativo, all’importanza dello spaccio ed al reddito dell’esercizio, assorba pressoché tutta questa rendita di limitazione, non lasciando agli esercenti ed ai proprietari degli spacci nulla più del reddito normale. È questo uno dei casi in cui, essendo il soprareddito ultranormale pernicioso economicamente, fisiologicamente e moralmente, è utile sopprimerlo e, in ogni modo, avocarlo allo Stato. Forse il monopolio sul caffè , tè e surrogati che colpisce merci non di uso assolutamente necessario, potrebbe rendere qualche centinaio di milioni.

 

 

SECONDO GRUPPO: imposte sui redditi e sui patrimoni. Il grosso della somma necessaria al bilancio dello Stato deve essere fornito pur sempre dalle imposte le quali colpiscono il flusso della ricchezza nella forma del reddito o del patrimonio.

 

 

In primo luogo abbiamo l’imposta successoria che rende circa 80 milioni all’anno ed è suscettibile di qualche miglioramento. Non credo sia impossibile poterla spingere fino a dare fra qualche tempo un prodotto doppio dell’attuale. Sarebbe utile, per renderla più produttiva, che nella sua ripartizione si tenesse conto di coefficienti attualmente trascurati.

 

 

L’imposta successoria oggi è graduata in ragione dell’ammontare della quota ereditaria ricevuta dai singoli eredi ed è concetto corretto. Molti studiosi osservano tuttavia che di un altro elemento ancora potrebbe essere tenuto conto, complicandone sì la tariffa, ma aumentandone nel contempo il gettito. Si tratterebbe di lasciar invariata la base esistente per ciò che si riferisce all’ordine della parentela ed alla grandezza della quota ereditata ma di inasprire, al disopra della base, ulteriormente l’aliquota in ragione del patrimonio precedentemente posseduto dall’erede. Se un nullatenente riceve in eredità 100.000 lire, egli godrà una soddisfazione assai grande; sicché il dolore di essere privato dall’imposta di una quota parte, supponiamo del 5 per 100, potrà essere misurato con x; ma se l’erede medesimo è già possessore di un milione è chiaro che la sua soddisfazione e felicità sono minori. Egli è già abituato alla ricchezza e l’aggiunta ricevuta non cambia molto i suoi orizzonti patrimoniali. Per fargli subire l’eguale o proporzionale sacrificio x è necessario colpirlo con una imposta maggiore del 5 per 100. Il primo pagando il 5 per 100 resta con 95.000 lire, il secondo pagando anche il 15 per 100 resta col milione di prima e con 85.000 lire di più. Questo ragionamento plausibile ha indotto non pochi scrittori a proporre che l’imposta successoria subisca un terzo inasprimento: essa sia graduata non solo in funzione del grado di parentela e della quota ereditaria; ma anche della grandezza del patrimonio precedentemente posseduto dall’erede. Altro coefficiente di cui potrebbesi tener conto per accrescere il gettito è quello del numero dei componenti la famiglia dell’erede. Assumendo sempre la stessa somma di 100.000, se chi la riceve è un celibe può pagare ragionevolmente di più di quanto non possa pagare l’erede che colla stessa somma ha una famiglia numerosa da mantenere. Questo secondo vede già alla sua morte l’eredità spartirsi in tante proporzioni quanti sono i componenti della famiglia mentre il primo vede soltanto la possibilità di creare soddisfazioni per sé stesso. Anche questo è dunque un elemento da tenersi in considerazione.

 

 

Alcuni vorrebbero graduare l’imposta successoria tenendo conto del fattore: numero delle generazioni dalle quali proviene la somma ereditata. Supponendo che l’imposta normale di successione gravi sulle somme che sono state risparmiate dal defunto, si stabilirebbe un aggravio per quelle parti della somma ereditata dal defunto stesso, le quali pervennero alla loro volta al defunto dalla generazione precedente. Anche più si farebbe pagare per le somme che provengono da una anteriore generazione. Insomma se noi supponiamo che Tizio abbia costituito personalmente un patrimonio di 100.000 lire, all’atto della sua morte l’imposta successoria cadrà sul patrimonio nella misura del 5 per 100. Se invece Tizio aveva ereditata la stessa somma dal genitore, essa sarebbe gravata non più col 5 per 100, ma col 7,5 per 100. Se quella somma invece fosse stata ricevuta dall’avo di Tizio l’imposta sarebbe del 10 per 100. Crescerebbe insomma percentualmente l’aliquota quanto più lontana è la generazione dalla quale proviene il patrimonio.

 

 

L’idea, la quale fu messa innanzi dall’ingegnere Eugenio Rignano, ed è ricordata con simpatia dal Pigou e dal Fisher, è giustificata con ciò che l’imposta successoria può avere per effetto di limitare il risparmio e quindi di impedire la formazione della ricchezza quando essa la colpisca nel primo gradino della sua successione. Un risparmiatore potrebbe dalla prospettiva di una imposta troppo forte essere scoraggiato dalla formazione del risparmio sapendo che una parte notevole di esso anziché andare ai figli sarebbe assorbita dallo Stato. Ma invece è più difficile che vi sia qualcuno che si preoccupi di una forte imposta successoria che colpirà il risparmio da lui fatto non quando egli morirà ma quando morirà suo figlio. La preoccupazione per le vicende del suo patrimonio è grandemente diminuita; tanto più quando l’imposta debba colpire unicamente nipoti e lontani pronipoti.

 

 

L’idea merita di essere discussa. Dubbi possono sorgere in relazione alla possibilità della sua applicazione. L’inasprimento dell’aliquota non dovrebbe andare al di là di tre generazioni. Come fare a seguire la ricchezza invero attraverso a troppo lunga serie di trapassi? L’eredità può essere stata sperperata durante la prima parte della vita dell’erede e poi ricostruita col nuovo risparmio. Con quale aliquota la tasseremo? Essa può essere stata completamente trasformata, accrescendone o diminuendone il valore. Come conoscere il nucleo primitivo persistente e come valutarlo, tenendo conto delle variazioni di valore della moneta?

 

 

Basterebbero queste difficoltà, praticamente insuperabili, almeno in modo corretto e nello stato attuale delle nostre conoscenze economiche e delle nostre attitudini di accertamento, a far scartare l’idea.

 

 

Una imposta la quale debba applicarsi attraverso complicate indagini storiche ed a presunzioni economiche arbitrarie, non è consigliabile. Coloro, inoltre, i quali amano le cose antiche e danno una grande importanza alla tradizione, alla conservazione delle famiglie e dei patrimoni attraverso le successive generazioni; che pur reputando utile che una generazione incapace venga senz’altro eliminata e sostituita da uomini tratti da altri ceti sociali, ritengono del pari socialmente utile emergano, a guisa di vecchie querce residuo di antichi boschi in una campagna nuda, famiglie capaci di conservare i patrimoni aviti attraverso le successive generazioni, debbono essere riluttanti ad aderire ad una politica tributaria la quale accelererebbe quel processo di dissoluzione famigliare, di annientamento delle tradizioni e di conversione degli uomini in altrettanti nomadi, che vivono in casa d’affitto od all’albergo, tengono in portafoglio titoli mobiliari, hanno gusti internazionali e non si sentono più attaccati alla terra dove nacquero e dove riposano genitori ed avi. Non vedo perché l’imposta debba prendere partito per un ideale di società costituita da individui errabondi, cooperando a distruggere l’altro ideale che è così vivo ancora nel cuore degli uomini ed è atto a temperare gli effetti antinazionali ed antifamigliari delle ferrovie, del telegrafo, della mobilizzazione dell’industria.

 

 

Né ha gran valore agli occhi miei l’argomento tratto dalla scemante influenza della tassazione sull’originario risparmiatore. Difficile è risparmiare; ma ancor più difficile è conservare. Col metodo proposto noi non indeboliamo, è vero, la tendenza a risparmiare dell’originario formatore della sostanza; il quale probabilmente avrebbe risparmiato in uguale misura per ambizione di salire, per la vecchiaia, per i figli. Ma scemiamo la forza di conservazione dei successivi eredi, i quali sanno che quanto più essi conservano, tanto più i loro immediati eredi saranno colpiti. Il metodo innocuo nel primo momento diventa dannoso nei successivi. Anche nella prima generazione, il metodo può essere dannoso. Molti vi sono che, per inesperienza giovanile o poca avvedutezza negli affari o per cattive influenze, perdono o danno fondo o sminuiscono il patrimonio avito nella prima parte della loro vita. Ma, poi, ravveduti e in nuovo ambiente, ed ammaestrati dalle perdite subite, si danno al lavoro od imparano dalle disgrazie prime e rifanno il perduto. Quale prospettiva sarà per essi il sapere che la fortuna che essi hanno fatta sarà, fino a concorrenza dello sprecato o perduto prima, assoggettata ad imposta supplementare, come se l’avessero ereditata dagli avi?

 

 

Tutto sommato, non riterrei conveniente di aggiungere ancora questa alle altre complicazioni dette sopra, le quali mi paiono suscettive di risultati notevoli a beneficio della finanza.

 

 

Comunque si faccia, il grosso del gettito futuro dovrà tuttavia venire dalle imposte sul reddito, le sole che possano dare un rendimento grande. Se vogliamo ottenere molto dobbiamo riordinare le imposte dirette sul reddito: terreni, fabbricati e ricchezza mobile.

 

 

Pochi giorni or sono è stato presentato al Parlamento, dal ministro delle finanze, onorevole Meda, un progetto di legge per il riordinamento delle imposte sul reddito. Poiché si tratta di un progetto ponderato e complesso non è inopportuno accennare quali sono nelle linee fondamentali i suoi criteri informatori.

 

 

Uno dei criteri è quello del riordinamento delle imposte che già esistono e che sono suscettibili di un rendimento notevolmente maggiore. Esse si sono, per ragioni diverse, irrigidite. L’imposta sui terreni è ferma perché in molte provincie italiane è prelevata ancora col metodo del contingente sulla base di vecchi catasti e per la parte prelevata col catasto nuovo, il gettito è diminuito anziché aumentare perché le stime sono fatte su prezzi riferiti ad un dodicennio – il 74-85 – in cui i prezzi stessi tendevano a ribassare. Si è fermato altresì, per la parte riflettente immobili antichi, il gettito dell’imposta sui fabbricati perché l’ultima revisione generale dei redditi risale al 1889-90, ossia ad un’epoca nella quale i redditi erano molto diversi da quelli di oggidì. Persino l’imposta di ricchezza mobile, la più elastica di tutte, si può dire sia irrigidita da quando è cominciata la guerra, in quanto tutto lo sforzo della amministrazione finanziaria, tutta l’attività degli agenti delle imposte si è spostata verso l’imposta dei sopraprofitti e i redditi normali di ricchezza mobile sono stati abbandonati. Il progetto di legge Meda, col prescrivere revisioni continue della base imponibile, avrebbe per iscopo di togliere in parte almeno questo inconveniente; in parte almeno perché riguardo all’imposta sui terreni la questione è molto complicata. Dato il numero stragrande di proprietari italiani di terreni, una revisione fatta subito di tutti i redditi darebbe luogo ad un lavoro colossale che oggi non si può compiere per mancanza di personale e di preparazione; il progetto perciò si limita a prescrivere una revisione dei redditi fondiari, ai soli fini dell’imposta complementare sul reddito, per i proprietari che abbiano più di 1200 lire di rendita. Compiuto questo lavoro preparatorio, e addestrato un personale tecnicamente preparato all’uopo, il lavoro può essere esteso ai proprietari che hanno un reddito inferiore alle 1200 lire e le nuove basi di stima applicate anche alla imposta normale. Quanto ai fabbricati, la revisione dei redditi dovrà essere compiuta intieramente, a sezioni annue, ad ogni cinque anni. I redditi di ricchezza mobile debbono essere completamente riveduti ogni quattro anni come già accadeva.

 

 

Altra caratteristica del progetto Meda è quella dell’abolizione di parecchie esenzioni che non avevano ragione di essere: per esempio, quella a favore dei redditi industriali dei proprietari coltivatori di terreni propri. Attualmente i proprietari, che non danno in affitto i loro terreni, non pagano l’imposta di ricchezza mobile sebbene coltivando in economia si sostituiscano al fittabile; quindi, oltre ricevere il reddito domenicale del fondo come proprietari, ricevano anche il reddito dell’industria agraria, il quale ha il privilegio dell’esenzione da imposta. Il privilegio, privo di fondamento tributario, viene abolito.

 

 

Una semplificazione notevole e da tempo auspicata si ottiene modificando il metodo di tassazione dei fabbricati industriali. Oggi l’amministrazione deve compiere il lavoro inutile di ripartire il reddito di una industria in reddito del fabbricato e reddito dell’industria esercitata nel fabbricato. Tutto ciò per ragioni transeunti di aliquota e di diritto di sovrimposta. Siccome nel nuovo ordinamento tutte e tre le imposte sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile vengono fuse insieme per costituire l’imposta normale sui redditi, sul tipo dell’income-tax inglese, manca ogni ragione di distinguere tra fabbricato e industria, e quindi il reddito dei fabbricati industriali viene ad essere tassato insieme col reddito dell’industria con risparmio di lavoro e cessazione delle controversie continue che su tal materia si agitano tra finanza e contribuenti.

 

 

La procedura degli sgravi attualmente lunghissima e complicatissima è nel progetto Meda alleggerita e semplificata.

 

 

Il progetto innalza notevolmente i minimi redditi esenti da imposta. Oggi i soli redditi esenti sono quelli di 534, 640 e 800 lire per i redditi delle categorie B, C e D dell’imposta di ricchezza mobile. Il progetto aumenta il limite di esenzione fino a 1200 lire, favorendo quindi un numero grandissimo di contribuenti che hanno redditi fissi (pensioni, vitalizi), inferiori a 1200 lire e togliendo di mezzo la finzione che esistano ancora redditi di industria, di commercio e di lavoro, inferiori a 534, 640 ed 800 lire.

 

 

Una innovazione di gran pregio è quella relativa alla tassazione delle riserve delle società: invece di tassare il reddito prodotto dalla società, si vogliono tassare gli utili effettivamente distribuiti od erogati sia a titolo di dividendo sia a titolo di compartecipazione ed in qualunque altra maniera ai soci ed amministratori. Le società non avranno più, come adesso, interesse a nascondere le riserve e non avranno più un pretesto per occultare la verità anche ai proprii azionisti. Mentre l’atmosfera nella quale vivono le società sarà moralizzata, la finanza non è danneggiata, perché invece di tassare il reddito prodotto in categoria C, col 15 per 100, per essere esso reddito di capitale e lavoro, come infatti è , lo tassa come reddito distribuito in categoria A, al 18 per 100, trattando il dividendo agli azionisti come l’interesse agli obbligazionisti. Il criterio pare equo; perché l’azionista ha fatto un impiego di capitale, né il suo lavoro di gestione del proprio patrimonio ha tale importanza da far rientrare il dividendo nella categoria dei redditi misti; e produrrà l’effetto collaterale non spregevole che non si avrà più ragione di preferire l’emissione di azioni a quella di obbligazioni, tutte essendo trattate alla medesima stregua.

 

 

Aumentare i minimi esenti, tassare soltanto i redditi distribuiti anziché quelli prodotti, ecc., sembrano cause favorevoli ad una diminuzione anziché ad un incremento dell’imposta. Non è così perché un sistema tributario per essere buono e redditizio deve essenzialmente essere equo. L’equità è uno dei più grandi fattori di progresso nel rendimento delle imposte. Se l’Inghilterra è stata in grado, durante la presente guerra, di poter aumentare l’aliquota dell’imposta da due scellini a 6 scellini per lire sterline, in gran parte deve ciò al suo sistema fiscale che, per quanto lontano dall’essere perfetto, era relativamente equo e colpiva poco quelli che poco possono pagare e colpiva di più coloro che sono in condizione di pagare di più. Una imposta ben congegnata è più sfruttabile perché il legislatore non è trattenuto dal timore di mettere pesi insopportabili sulle spalle delle categorie di contribuenti che sono incapaci a sopportarli. In Italia, dati i metodi imperfettissimi di accertamento, accadeva che certi redditi fossero valutati a cifre inferiori di molto a quelle vere, altri a cifre anche notevolmente superiori. Ora se le valutazioni sono conformi al vero si può aumentare l’aliquota perché si sa dove si va a finire; si sa quale è sul serio la quota del reddito assorbita dall’imposta; se invece i metodi di accertamento sono antiquati ed imperfetti non è possibile aumentare l’aliquota perché alcuni disgraziati contribuenti, il cui accertamento è superiore al vero, finirebbero coll’essere schiacciati dal peso dei balzelli. La miglior maniera di poter far pagare di più ai contribuenti è di portare da un lato per quanto è possibile gli accertamenti al limite della verità e d’altra parte concedere esenzioni d’imposte a coloro che assolutamente non sono in condizione di pagare; così soltanto è possibile nei momenti di necessità raddoppiare e triplicare le aliquote, come ha fatto l’Inghilterra.

 

 

Allo scopo di valutare con maggior esattezza i redditi, il progetto contiene disposizioni che potranno essere feconde. Merita di essere ricordata quella relativa alle denunzie che i contribuenti dovranno fare. Anche oggi le denunzie sono obbligatorie e sono comminate multe a coloro che non le fanno; ma i condoni sono quasi di regola e ciò toglie efficacia alla disposizione. Invece il disegno di legge Meda stabilisce che coloro che omettono le denunzie sieno colpiti da multe uguali al quarto o al terzo dell’imposta non voluta pagare; che i condoni non possano essere dati se non con legge del Parlamento; infine che le multe stesse vadano a favore di enti pubblici di previdenza; creandosi così una forza efficace di resistenza affinché i condoni non vengano concessi.

 

 

Il nuovo progetto stabilisce che le dichiarazioni, fatte dai contribuenti direttamente iscritti nel ruolo, devono anche essere integrate o corredate da dichiarazioni fatte da altre persone; le società ad esempio che hanno un ragioniere o contabile devono far vistare le loro denunzie da questi oltreché farle firmare dagli amministratori; crescendo così la difficoltà di commettere frodi per le quali occorrono complici non sempre fidi.

 

 

Il progetto Meda generalizza per le imposte sui redditi quella che fino adesso era una disposizione transitoria relativa solo all’imposta sui sopra profitti; e cioè la finanza avrà il diritto di ispezionare i libri ed i registri non solo delle società anonime ed in accomandita per azioni, ma anche delle altre specie di società e dei commercianti ed industriali privati. Nessun ricorso potrà essere accolto dalle commissioni giudicatrici delle controversie tra finanza e contribuente se il ricorso non è accompagnato dalla presentazione dei libri tenuti in ordine in conformità a quanto prescrive il codice di commercio; cosicché il contribuente che dichiara di non possedere i libri o presenta libri che manifestamente non siano tenuti in ordine perde il diritto di ricorrere, qualunque sia la valutazione del suo credito fatta dalla finanza. Ciò costringerà i contribuenti a tenere i libri in ordine e la possibilità di frodare l’imposta sarà grandemente diminuita in confronto di oggi.

 

 

All’imposta normale sui redditi (che corrisponde a una fusione delle tre imposte dirette esistenti) si soprappone una imposta complementare la quale colpisce con ragione progressiva dall’1 al 25 per 100 il reddito complessivo netto dei contribuenti.

 

 

Naturalmente l’imposta colpisce solo le persone fisiche che vivono nello Stato, non gli enti, per evitare di gravare due volte sullo stesso reddito e perché in definitiva tutto il reddito va a fluire presso le persone, le quali debbono essere tassate sulla base della loro agiatezza complessiva.

 

 

L’imposta tende a colpire il vero reddito netto. E per ciò essa concede la detrazione: 1) delle spese e perdite sopportate nell’anno per la produzione dei singoli redditi; 2) delle imposte e tasse d’ogni specie dovute allo Stato, alle provincie, ai comuni, ai consorzi o ad altri enti autorizzati ad imporre contributi, fatta naturalmente esclusione dell’imposta complementare sul reddito, delle relative sovrimposte e dell’imposta patrimoniale; ciò perché ogni imposta deve colpire il reddito al lordo di sé stessa e delle sue addizionali; 3) delle annualità passive di ogni specie che siano a carico del contribuente, purché il relativo importo figuri accertato come reddito in confronto del percipiente. Essa inoltre tende a colpire quella sola parte del reddito netto che è disponibile per il contribuente, ossia che egli può spendere senza preoccupazione per il futuro e per la educazione della famiglia. Epperciò dal reddito si deducono: 1) le ritenute sulle pensioni, i premi per le assicurazioni sulla vita stipulate dal contribuente a favore proprio e di quei componenti la sua famiglia con lui conviventi al mantenimento dei quali egli sia obbligato per legge; 2) i contributi che per legge e per contratto sono corrisposti a casse di assicurazione o di soccorso per malattie, sinistri, vecchiaia, invalidità od a casse di pensioni per vedove ed orfani; 3) una quota fissa di 500 lire per ciascun componente la famiglia, compreso nel novero il capo di essa.

 

 

È questa una applicazione limitata del concetto importantissimo della non tassabilità delle somme che il contribuente accantona per provvedere a bisogni futuri o per investire nel miglioramento dei capitali personali (educazione dei figli). Non si esenta tutto il risparmio; ma certe quote di risparmio effettivo o presunto. È una approssimazione al principio della tassazione del reddito consumato durante il periodo di tempo a cui la tassazione si riferisce.

 

 

Accanto agli sgravi, vi sono gli aggravi: non si concede la detrazione ai contribuenti maschi dal 23esimo anno al 50esimo anno compiuto di età, i quali non abbiano prestato servizio militare, e, dopo i 30 anni, non siano coniugati o vedovi con prole vivente; si accresce di 500 lire l’imponibile per i celibi trentenni, i quali abbiano un reddito imponibile di almeno 3000 lire.

 

 

Una gravissima difficoltà a cui si è trovato di fronte il progetto di legge Meda per la buona applicazione della imposta complementare è quella relativa alla tassazione dei redditi dei titoli al portatore. Questo scoglio non esiste nell’imposta normale sui redditi perché, essendo l’imposta proporzionale, si può, anziché tassare i singoli azionisti, tassare la società sulla somma globale dei dividendi repartiti. La difficoltà nasce coll’imposta sul reddito complessivo, che è sempre un’imposta progressiva. Ora siccome le aliquote devono essere diverse in ragione dell’ammontare del reddito, giocoforza è conoscere il reddito complessivo del contribuente; ciò che era inutile sapere per una imposta proporzionale ossia normale sui redditi diventa necessario a sapersi per l’imposta progressiva sul reddito totale del contribuente; ed importa perciò conoscere il possessore dei titoli al portatore. Un metodo rapido e semplice per abolire la controversia sarebbe quello di abolire i titoli al portatore; ma una misura di questo genere non si può evidentemente adottare da uno Stato solo. Gli altri paesi, che mantenessero i titoli al portatore, costituirebbero una attrattiva fortissima per i nostri capitali, i quali tenderebbero ad investirsi all’estero nei paesi dove continuasse ad esistere il tipo del titolo al portatore, per tanti rispetti desiderato dai risparmiatori. Né, senza ingiustizia somma, si potrebbero convertire al nominativo solo i titoli privati, lasciando la facoltà ai creditori dello Stato di tenere al portatore i loro titoli, tanto più quando i titoli di Stato sono la parte di gran lunga più cospicua del totale. Ma non è quando per molti anni lo Stato avrà bisogno di ricorrere al credito, che lo Stato può rinunciare a vendere la specie di titoli che ha il mercato più largo. L’abolizione dei titoli al portatore dovrebbe essere frutto di una convenzione internazionale, soprattutto fra i principali Stati; ma finché la convenzione non esista non si vede la possibilità di procedere da soli ad un provvedimento che potrebbe essere pericolosissimo. I titoli al portatore sono troppo desiderati perché semplici, facili a trasmettersi e perché non lasciano traccia di loro stessi, sicché un paese possa, da solo, indursi a negare a  sé stesso questi vantaggi. Il progetto Meda cerca di ovviare a questa difficoltà con un avvedimento, che ha precedenti importanti nella legislazione finanziaria, specie inglese. Come in Inghilterra fino alle 700 lire sterline di reddito, il contribuente è tassato coll’aliquota normale, su tutto l’ammontare del reddito ed egli deve, prima o poi, far constatare che il suo reddito è soltanto di quel dato ammontare ed ha diritto ad una detrazione; così da noi l’imposta complementare sarebbe esatta nella sua aliquota massima del 25 per 100 in generale sul reddito dei titoli al portatore all’origine, presso la società o l’ente Emittente. Il contribuente però che non vuol pagare il massimo dell’aliquota ma solo quella minore che si riferisce al suo reddito complessivo deve, prima della riscossione del dividendo, denunziare all’amministrazione della finanza il possesso, da parte sua dei titoli al portatore con la indicazione della loro natura, quantità e caratteristiche; l’amministrazione finanziaria rilascerà ricevuta della fatta dichiarazione e con essa il possessore del titolo si può presentare alla società o ente emittente e avrà diritto, in questo solo caso, di esigere interessi e dividendi al completo, senza la trattenuta del 25 per 100. Se taluno, pur essendo possessore di titoli al portatore, non li dichiarasse, la finanza tasserebbe tutti i suoi titoli coll’aliquota massima; essa quindi non correrebbe nessun rischio nel caso i contribuenti volessero mantenere il segreto sui titoli che posseggono. Non si evita, con il sistema esposto, che il vero possessore, il quale sarebbe tassato col 10 per 100, faccia fare la dichiarazione da un amico, da un parente, da un domestico, il quale sia esente o tassato coll’1 e 2 per 100. Ma il rimprovero può essere mosso a qualunque sistema, persino a quello della nominabilità, sotto di cui nei paesi anglo-sassoni, fiorisce la categoria degli intestatari apparenti. Né la frode è scevra di pericoli per coloro che si prestano a fare la dichiarazione fittizia, perché danno in mano alla finanza il motivo di tassarli in permanenza – a meno che essi dimostrino di avere consumato il proprio patrimonio – su un reddito che non hanno ed i loro eredi su un patrimonio che non hanno mai ricevuto.

 

 

La critica maggiore che si può fare non al sistema ma al suo campo di azione è che esso non si applica ai titoli dello Stato; su di essi non è prescritta la trattenuta del 25 per 100; quindi coloro che avranno in essi investito il loro patrimonio potranno non pagare l’imposta complementare sul reddito in relazione al reddito che ne traggono e discenderanno naturalmente di uno o di molti gradi nella scala delle aliquote.

 

 

Dicesi da taluno che la tassazione contravverrebbe alla promessa fatta solennemente dallo Stato di non tassare né l’interesse né il capitale dei prestiti di Stato con imposte presenti e future; ma a parer mio questa promessa si riferisce strettamente alle imposte relative al titolo non essendo ammissibile che un legislatore possa ragionevolmente promettere di esimere dall’imposta non il titolo da lui emesso ma una persona qualunque in rapporto alla sua agiatezza complessiva. L’imposta sul reddito complessivo non colpisce il reddito del titolo ma il reddito derivante ad una persona del complesso della sua fortuna: lo Stato non si ingerisce nel ricercare la origine del reddito, o meglio si occupa di sapere se quel reddito proviene da terreni, da case, da titoli di Stato, ecc., soltanto per farne la somma; vuol soltanto venir a conoscere quello che è il reddito disponibile del contribuente. È evidente che lo Stato non può chiudere gli occhi di fronte alla realtà; qualunque sia la fonte di un determinato reddito, lo Stato deve constatare che il reddito esiste e poiché vuol tassare con l’imposta i redditi della persona del contribuente non può far astrazione da una parte rilevante o magari totale dei redditi stessi. Non è ammissibile che un Tizio, il quale tiene casa, ha persone di servizio, mantiene la famiglia; Caio il quale ha villa al mare e tiene l’automobile non paghino l’imposta solo perché essi dichiarano di aver investito tutto il loro patrimonio in titoli di Stato. Esiste, è vero, nel progetto Meda la tassazione indiziaria nel caso che elementi precisi di valutazione del reddito non si abbiano; ed è fondata sul valor locativo della casa e della villa, sul valore di assicurazione del mobilio, sul numero dei domestici, sul possesso di vetture od automobili; ma questo metodo, ottimo in se stesso, non può costituire la conoscenza precisa del reddito. Né lo Stato può rinunciare alla detta conoscenza, quando sia possibile, solo per uno scrupolo infondato. Se l’esenzione fosse mantenuta l’imposta non potrebbe sussistere a lungo; sarebbe seppellita sotto l’indignazione dei contribuenti tassati nel vedere che una così gran parte dei redditi sfugge all’imposta.

 

 

Probabilmente l’esenzione di fatto dei titoli di Stato dalla imposta complementare ha origine da una esitazione comprensibile nel momento presente. Forse il legislatore si è impaurito dell’effetto che l’annunzio di un’imposta sul reddito potrà avere sul collocamento dei futuri titoli di Stato. Non mi pare che il timore sia giustificato perché anche coloro i quali hanno in passato partecipato alle sottoscrizioni dei prestiti di guerra non possono immaginare che la compagine sociale possa durare e il loro reddito quindi essere sicuro quando il sistema tributario di un paese continui ad essere macchiato da una ingiustizia così stridente, la quale agirebbe sulla stessa solidità della finanza dello Stato. Gli stessi risparmiatori hanno interesse a chiedere che sia fatta giustizia anche a loro riguardo e che l’imposta che colpisce non il reddito dei loro titoli ma essi medesimi personalmente non venga meno soltanto perché hanno preferito scegliere questo piuttosto che un altro investimento.

 

 

Un’altra lacuna si riscontra nel quadro di tassazione ora schizzato: ed è quella relativa ai redditi degli investimenti fatti all’estero. Ma è una lacuna insopprimibile in qualunque sistema di tassazione nazionale. Gli investimenti esteri non possono evidentemente essere toccati da una imposta la quale abbia valore soltanto entro l’ambito di uno Stato. Fa d’uopo ed è a sperarsi che coll’intensificarsi dei rapporti economici fra Stato e Stato, coi sempre più frequenti investimenti di capitale fatti nel territorio di un altro paese vi si arrivi in un tempo non lontano, che vi sia un’intesa tributaria fra i vari Stati. Forse una delle funzioni e non la meno importante, dell’organismo «società delle nazioni» sarà appunto questo di coordinare l’azione tributaria dei diversi Stati. L’organo internazionale dovrebbe avere per ufficio di impedire certi eccessi che oggi si verificano per cui un medesimo reddito viene ad essere tassato due o tre volte: nel luogo di origine, nel luogo dove è goduto dal contribuente, qualche volta anche negli Stati attraverso cui il reddito deve passare perché la società che produce il reddito si trova domiciliata in un terzo Stato. Ma sopratutto il nuovo organismo potrebbe avere per iscopo di rendere più difficili le frodi fiscali per mezzo di uffici interstatali finanziari che si comunichino tutti i dati relativi ai redditi, ai patrimoni ed alle eredità di cittadini appartenenti o residenti in altri Stati, sicché le evasioni fiscali per fuoriuscita siano ridotte al minimo. Naturalmente ufficio della Società delle Nazioni dovrebbe essere anche quello di rimuovere le cause le quali spingono i capitali alla emigrazione verso paesi meno tassati; ossia influire presso gli Stati, i quali mantengono una legislazione a tipo antiquato o ad aliquote oppressive, affinché essa venga mutata e ridotta a maggiore uniformità con la legislazione tipica, quella tendente a generalizzarsi presso la maggior parte dei paesi industriali.

 

Non mi dilungo sull’imposta patrimoniale, la quale è pure compresa nel disegno di legge che stiamo esaminando. Essa è una specie di complementare alla complementare; ed è stabilita nella misura uniforme dell’1 per 1000 sul valore dei patrimoni superiori a lire 10.000, allo scopo di tassare maggiormente i redditi di capitale in confronto a quelli di lavoro. Ma più che questo, essa ha ufficio di controllo, allo scopo di preparare la materia imponibile alla vera grande imposta patrimoniale, esistente nel nostro sistema tributario, che è quella di successione.

 

 

Ed ancora una volta, alla fine di questo rapido esame del progetto Meda, voi mi potete chiedere: garantisce esso il fabbisogno dello Stato nel momento attuale? Ed ancora una volta confesso l’incapacità mia a formulare un piano il quale in lire, soldi e denari dia i due ed i tre miliardi che vogliamo ottenere. E mi sia consentito di affermare che nessun piano ha questa possibilità nel momento attuale. Incerti i prezzi dell’avvenire ed incertissimi perciò i redditi. Ignota la vera base imponibile; e fantastici i calcoli che si possono istituire sul futuro rendimento delle imposte. L’unica via aperta a noi è quella di procedere per tentativi alla scoperta del metodo migliore. Importa creare un meccanismo di tassazione, che risponda ai criteri della equità e della sopportabilità; che non intacchi la produzione e non deprima la formazione del risparmio. E poi creare organi amministrativi che lo facciano funzionare con giustizia per tutti e con ferma rigidezza. Se dall’imposta sul vino e da altre sui consumi non di prima necessità è possibile riuscire ad ottenere 1000 milioni, così io dico che dall’applicazione rigida di un sistema di tassazione del reddito simile a quello ora delineato si debbono ricavare 2000 milioni in più di quelli ora ottenuti. Ma se ne potranno ricavare anche soltanto 500. Tutto dipende dallo spirito con cui la legge d’imposta sarà applicata. Se con spirito di rilassatezza o di politicantismo o di inframmettenze parlamentari; se da funzionari malcontenti, male pagati e non indipendenti, poco si otterrà. Se lo spirito sarà nuovo, se i politicanti e le loro inframmettenze tenute a segno; se l’applicazione sarà affidata ai funzionari colti, indipendenti, animati da un grande senso di responsabilità verso lo Stato e nel tempo stesso verso l’industria ed il lavoro, il frutto potrà essere insperato. Ma la guerra liberatrice sarebbe stata combattuta invano, se noi dovessimo ricadere nella morta gora del passato.

 

L’imposta straordinaria sul capitale

L’imposta straordinaria sul capitale

Il problema della finanza post-bellica, Fratelli Treves, Milano 1920, pp. 109-143

 

 

 

 

La difficoltà grande di trovare fonti di entrata sufficienti perché lo Stato possa colmare il minaccioso disavanzo del suo bilancio ha fatto nascere l’idea di liquidare una volta per tutte il debito prodotto dalla guerra attuale con una unica operazione tributaria. Il debito determinato dalla guerra ammonterà ad una cifra che in via di approssimazione possiamo stabilire in 60 miliardi, non tenendosi conto del debito infruttifero sotto forma di biglietti eccedenti la circolazione ordinaria, perché, come ho già ripetutamente avvertito, faccio per ragion di brevità e per non complicare il problema astrazione dall’aspetto monetario del problema stesso.

 

 

Invece di trascinare per lunghi anni il peso degli interessi ammontanti a circa tre miliardi, sarebbe più semplice – si dice – liquidare una volta tanto il debito mettendo sul patrimonio privato una equivalente imposta di 60 miliardi. Lo Stato rimborserebbe con il provento dell’imposta tutti i suoi creditori e il problema sarebbe così liquidato, con la coscrizione sul capitale fatta una volta tanto. Subito si vede come questa coscrizione o leva o prelievo sul capitale privato di una cifra così spaventevole sia una operazione imponente e irta di difficoltà ; molti perciò si contenterebbero anche di un prelievo per una cifra inferiore. Il professor Griziotti, fra gli altri, si contenterebbe di un prelievo di circa 15 miliardi di lire; ricaverebbe altri 15 miliardi da una operazione di riscatto delle imposte reali (imposte sui terreni, sui fabbricati e categorie A e B dell’imposta di ricchezza mobile), obbligando cioè i contribuenti di queste imposte a riscattare l’imposta di cui sono debitori. Si avrebbero in tutto 30 miliardi cosicché il debito di guerra sarebbe ridotto alla metà. Certo, anche così limitata, l’operazione è grandiosa in quanto si tratta di obbligare i proprietari delle ricchezze private esistenti in Italia a spossessarsi di una rilevantissima frazione della loro ricchezza.

 

 

La ricchezza privata italiana, secondo alcuni scrittori, era calcolata prima della guerra a 80 miliardi. Altri, come il professor Gini, ha portato la valutazione a circa 100-110 miliardi nel 1914. Attualmente non si sa a quanto ammonti la ricchezza privata, probabilmente, per il deprezzamento della lira, ad una cifra superiore, che alcuni si sono azzardati a congetturare in 160 miliardi di lire. Se questa fosse la cifra esatta della ricchezza privata italiana si tratterebbe di operare un prelievo di 60 miliardi su 160 se si dovesse estinguere tutto il debito fruttifero, o di 30 su 160 se se ne volesse estinguere soltanto una parte. Si tratterebbe però sempre di un prelievo altissimo. È importante perciò vedere in che cosa consista il proposto provvedimento, e quali siano i metodi della sua attuazione ed i suoi effetti.

 

 

L’operazione consisterebbe nel sostituire ad un flusso di imposte da prelevarsi ogni anno sul flusso del reddito una imposta stabilita una volta tanto sulla fonte da cui proviene il reddito; nella sostituzione cioè di una imposta una volta tanto di 60 miliardi da prelevarsi sulla fonte del reddito invece di una imposta annua perpetua di tre miliardi da prelevarsi sul frutto del patrimonio esistente. Ci sono delle somiglianze e delle differenze fra questi due tipi d’imposta. I due tipi potrebbero considerarsi identici in una ipotesi che non è però rispondente alla realtà. Se supponiamo invero che i cittadini di un paese fossero tutti egualmente provveduti di beni di fortuna e di reddito, evidentemente sarebbe indifferente per costoro (come già aveva osservato a suo tempo il Ricardo) pagare l’imposta sotto l’una o l’altra forma; tutti i contribuenti essendo provveduti di eguale reddito pagherebbero sia sotto l’una che sotto l’altra forma due quantità perfettamente eguali. Se noi postuliamo un saggio d’interesse del 5 per 100 è perfettamente uguale pagare 100.000 lire una volta tanto, o 5 mila lire all’anno in perpetuo. Ma differenze esistono fra i due metodi e sono notevoli. Nascono dal fatto che non è vera l’ipotesi fatta prima di cittadini possessori di eguale ricchezza e di reddito uniforme. I redditi sono distribuiti diversamente da persona a persona non solo ma cambiano da un momento all’altro; varia il saggio di interesse, varia sopra tutto la distribuzione dell’imposta nel tempo. Volendo riassumere queste differenze in una sola fondamentale si può dire che se si stabilisse una imposta per una volta tanto di 60 miliardi probabilmente essa graverebbe con maggior peso sulle classi ricche e con minor peso sulle povere in quanto queste ultime non avrebbero assolutamente i mezzi per pagare la fortissima imposta; questa si paga col capitale, col patrimonio e quelle classi che non hanno patrimonio molto difficilmente potrebbero esser costrette a contribuire sostanzialmente all’imposta di 60 miliardi. Questa andrebbe perciò a cadere col suo peso maggiore sulle classi più ricche. C’è invece una certa qual probabilità che se si stabilisce una imposta annua di tre miliardi di lire, la quale debba essere pagata in perpetuità , l’imposta sarà magari ancora prevalentemente distribuita sulle classi ricche ma una non ispregevole parte di essa potrà essere fatta pagare alle classi medie e lavoratrici. Il che può anche essere corretto. Qui si voleva solo far notare la differenza tra i due tipi di imposta.

 

 

Un altro punto importante che può dare origine ad una differenza fra i due tipi è questo: che le imposte annue graverebbero non soltanto sui capitali materiali che costituiscono quella tale fortuna privata, valutata, come abbiano visto, prima della guerra in 100, ed ora ipoteticamente, in 160 miliardi, ma anche su quelli che sono chiamati capitali personali. Le imposte sui redditi, sui consumi, ecc., colpiscono anche i professionisti e coloro che esercitano un’industria o commercio per la parte di reddito che si può chiamare personale.

 

 

Si discute molto tra coloro che si sono occupati di questo argomento se l’imposta straordinaria patrimoniale dei 60 miliardi debba colpire solo i capitali materiali o anche i capitali personali. La denominazione stessa che si dà a questa imposta – «imposta patrimoniale, leva o coscrizione sui capitali» – sembra portare quasi naturalmente a concludere che ciò che deve essere colpito da questa imposta sia unicamente il capitale materiale. Se tal criterio fosse adottato, si avrebbe una differenza imponente fra i due sistemi di imposta.

 

 

Però contro questa tendenza molto diffusa fra scrittori e uomini politici che l’imposta straordinaria debba colpire soltanto i capitali materiali stanno invece le osservazioni di altri scrittori i quali sostengono che essa dovrebbe colpire i patrimoni personali.

 

 

Di questa ultima opinione è fra gli altri il professor Nicholson dell’Università di Edimburgo, il quale sostiene appunto non esservi nessuna ragione perché i capitali personali debbano andar esenti dall’imposta straordinaria. Sono forse soltanto i proprietari di capitali materiali, di terreni, di case, ecc., quelli i quali si giovano di tutto il lavoro delle generazioni passate, mercé cui è stato costituito lo Stato nazionale attuale, che si son giovati della difesa del territorio nazionale, e quindi hanno interesse a mantenere l’edificio statale che è stato creato col tempo? No; anche i possessori di semplici capitali personali in tanto possono estrinsecare la loro attività in quanto c’è una tradizione di civiltà creata dalle generazioni passate: e questa tradizione questo ambiente sono stati difesi contro la distruzione. Anch’essi traggono vantaggio dal non essere divenuti schiavi di un potere autocratico. Anch’essi adunque dovrebbero contribuire alla leva straordinaria sui patrimoni. Non vale ricordare, per escludere dall’imposta i capitali personali, la risposta, attribuita, probabilmente da Swift, ad un ministro inglese, il quale, al progettista che gli magnificava i vantaggi di un balzello sui «cervelli» rispose: «Vi dichiaro esente da quest’imposta». Al ricordo si potrebbe contrapporre il celebre brano di Mill, nel quale si esaltava il valore dell’environnement, dell’«ambiente» nel determinare l’altezza dei redditi di lavoro. E la guerra fu condotta appunto per difendere quest’ambiente, quella civiltà , quelle idee in cui siamo nati e che sono la parte più bella e feconda della nostra vita.

 

 

Fa d’uopo, a questo punto, accennare ad una osservazione di indole contabile di un economista inglese di gran valore, il professore Pigou, il successore del Marshall nella cattedra di Cambridge. Egli osserva: teoricamente anche i capitali personali dovrebbero essere chiamati a contribuire all’imposta patrimoniale ma però il loro contributo può essere considerato così trascurabile che non val la pena di compiere tutto il necessario e ponderoso lavoro di rilievo, stima, accertamento. Egli dice che la massima parte di coloro i quali hanno un’età inferiore ai 45 anni ha combattuto e quindi dovrebbe essere esente dall’imposta. E son costoro, i quali, se posseggono una piccola parte del capitale materiale esistente nella società, posseggono invece una parte notevole dei capitali personali; essi guadagnano col proprio lavoro gran parte dei redditi personali. Anche se non ammettiamo che essi debbono andare esenti, la parte di contributo versata da essi, insieme a quella sui capitali personali dovrebbero versare le persone di età superiore ai 45 anni sarebbe pur sempre bassa. Secondo calcoli da lui fatti, i tre quarti del reddito tassabile complessivo della intiera società provengono dal reddito dei capitali materiali. Il quarto solo dei redditi tassabili proviene dai capitali personali. Questo quarto, egli osserva, si capitalizza non al saggio di interesse comune con cui si capitalizzano i redditi di capitali materiali che sono perpetui, ma ad un saggio di interesse molto più elevato. I redditi di capitali personali si devono moltiplicare cioè con un coefficiente basso, ossia capitalizzare ad un interesse alto perché la vita produttiva dei lavoratori è limitata nel tempo. Quindi se il coefficiente di moltiplicazione del reddito dei capitali materiali è di 20 anni, quello dei capitali personali sarà soltanto di 8- 10-12 anni. Se noi moltiplichiamo una frazione piccola, un quarto, del reddito totale per un coefficiente di moltiplicazione basso, in confronto del coefficiente di moltiplicazione alto del reddito dei capitali materiali, si finisce per ottenere come capitale personale un valore complessivo eguale solo ad un decimo del capitale totale.

 

 

Non vale perciò la pena di tassare costoro, i quali in gran parte appartengono alle classi giovani, che hanno combattuto e che per motivi di giustizia e convenienza è opportuno esentare od almeno non tassare troppo, tanto più che l’esenzione recherebbe alla finanza la perdita di un solo decimo del provento totale possibile. Il rilievo del Pigou ha certo un’importanza; ma è ipotetico e altri lo oppugna. Il Nicholson, per esempio, osserva che egli tempo addietro aveva fatto un calcolo dell’importanza relativa dei capitali personali e dei capitali materiali e gli sarebbe risultato che il valore totale degli uomini viventi in Inghilterra sarebbe cinque volte superiore al valore attuale dei capitali materiali. Secondo questo calcolo la proporzione sarebbe completamente rovesciata; invece di essere un decimo dei capitali totali, i personali ne formerebbero i cinque sesti. I due calcoli non sono in tutto paragonabili, perché il Pigou si riferisce solo al valore capitale dei redditi personali oggi tassati dall’imposta sul reddito, mentre il Nicholson comprende anche il valor capitale dei redditi dei contribuenti il cui reddito è esente dall’imposta sul reddito. Ma è chiaro che vi è un margine di arbitrio rilevante nel compiere questi calcoli; e che è lecito rimanere in dubbio intorno alla asserita scarsa rilevanza dei capitali personali.

 

 

Se si adottasse la norma che l’imposta straordinaria debba colpire non soltanto i capitali materiali ma anche i capitali personali, certo diminuirebbe notevolmente la sua differenza coll’imposta ordinaria annua, perché in sostanza l’imposta straordinaria da prelevarsi una volta tanto sul capitale dovendo prelevarsi sul valore attuale non solo dei redditi capitalistici ma anche dei redditi personali, in fin dei conti non sarebbe altro che una capitalizzazione nel momento attuale di una imposta ordinaria sul reddito.

 

 

Definito così l’oggetto dell’imposta vediamo quale ne è la ragione, quale il principio informatore. Per dimostrare la giustizia e la convenienza di questa imposta più che delle teorie sono state messe innanzi, se mi è lecito esprimermi così, delle frasi nette, incisive, attraenti. Una che ha molta fortuna è stata questa: che l’imposta sui capitali equivalente e controbilanciante la coscrizione della vita che si ebbe durante tutti questi anni di guerra. Come furono costretti gli uomini a dare le loro persone per la difesa del paese, così anche i capitali sarebbero coscritti e costretti a dare una parte di  sé per la difesa dello Stato. È una frase però che implica una serie di dubbi e che richiede di essere brevemente lumeggiata. Da taluno, per esempio dal professor Scott, fu osservato che coloro che erano stati coscritti durante la guerra non è che in realtà avessero dato la vita ma avevano dato il rischio di perderla, il che matematicamente è una quantità diversa. Egli concludeva perciò che il capitale dovesse venire assoggettato ad una imposta la quale controbilanciasse questo rischio di perdere la vita; si dimostrava favorevole a qualche cosa di simile alla nostra imposta sulle esenzioni del servizio militare. Vorrebbe l’autore che i non coscritti pagassero un’imposta uguale al premio che si sarebbe dovuto pagare ad una società di assicurazione sulla vita per assicurare il reddito dei capitali durante il periodo della guerra; ciò per controbilanciare matematicamente, materialmente il sacrificio del rischio di perdere la vita che subirono i combattenti.

 

 

Partendo dal punto di vista della coscrizione, quale trattamento faremo ai capitali di coloro che furono coscritti e combattenti? Quid per i combattenti che ebbero eredità? Quid per i genitori e figli e congiunti strettissimi dei combattenti morti in servizio? La formula sarebbe davvero poco suscettiva di applicazioni precise.

 

 

Una formulazione più scientifica del principio ispiratore dell’imposta straordinaria è quella del «minimo sacrificio». La mise innanzi il professor Edgeworth, il quale disse che questa imposta non si giustifica col principio consueto secondo cui tutti i cittadini sono chiamati a subire un eguale sacrificio. Qui invece non si tratta di far subire a tutti un eguale sacrificio; basterebbero in tal caso le solite imposte che gravano i redditi e hanno appunto per iscopo di far subire all’incirca a tutti i contribuenti l’identico peso, identico non in moneta, ma in pena e sacrifici. Ora invece si tratta della salvezza dello Stato e sembra corretto applicare l’altro grande principio derivato dalla filosofia utilitaria per la ripartizione delle imposte, che è di ripartirle in maniera da cagionare il minimo sacrificio a tutta intiera la collettività. L’Edgeworth con la sua consueta felicità di paragoni cerca di rendere perspicuo il principio del minimo sacrificio giovandosi di esempi storici. Cita, fra l’altro, l’episodio dei grandi di Persia che scortavano il fuggitivo Serse dopo la sconfitta avuta dai Greci. Essendosi sull’Ellesponto scatenata una grande tempesta, la navicella di Serse rischiava di andare a fondo. Ad uno ad uno, dopo essersi inginocchiati dinanzi al Re, i grandi di Persia si buttarono in mare onde salvare la sua vita. Per analogia l’autore sostiene che i ricchi devono salvare lo Stato, la società che minaccia di andare a fondo, e dovrebbero di buona grazia, dopo aver fatto riverenza allo Stato, buttare le loro fortune. In questo modo si salverebbe la società dalla rovina, lo Stato dal fallimento. Trattasi di una analogia, che ha però un valore relativo; piuttosto nel caso nostro sarebbe più vicina l’analogia dell’avaria marittima: sta bene che alcuni per la salvezza comune siano chiamati nel momento del bisogno a dare tutta o parte la loro fortuna. Sta bene che lo Stato possa requisire per i fini della guerra i beni che gli giovano. È pacifico però che i requisiti, i coscritti per il soprappiù che hanno dato, hanno diritto di essere indennizzati dagli altri che si sono salvati; e non è escluso perciò che anche i capitali personali debbano concorrere a dare l’indennizzo.

 

 

Le analogie, del resto, ci portano poco avanti: possono essere interpretate nel senso di far gravare il peso unicamente o quasi sui ricchi o anche essere interpretate nell’altro senso che siano i ricchi ad anticipare ma che il sacrificio subito da essi debba essere ripartito su tutti a seconda delle norme comuni con cui si ripartono le imposte. Per quel che si riferisce al principio informatore si può dunque concludere che si hanno delle idee grezze, non sufficienti ad una conclusione precisa.

 

 

Un punto sul quale molto si è discusso, oltre quello del principio informatore dell’imposta, è quello relativo alle modalità della sua applicazione. Moltissimi hanno detto che è impossibile prelevare da noi 60 miliardi su 160, supponendo che a tanto ammonti la ricchezza privata. Questa ricchezza consiste per molta parte in terreni, in case, in macchine, in scorte. In che maniera si potrebbero dare queste cose allo Stato? Praticamente la cosa si presenta, anche da un esame superficiale, di una difficoltà estrema per la fisica impossibilità di poter dare una frazione di tutte queste ricchezze e per la difficoltà di trovare il denaro corrispondente con cui pagare il tributo. Né più agevole si presenta la tassazione dei capitali personali. Chi possiede solo il proprio capitale personale, ossia  sé stesso, come potrebbe dare una parte del proprio valore, stimato per esempio in 50.000 o in 100.000 lire?

 

 

In alcuni paesi queste difficoltà non sono sembrate insormontabili, specialmente laddove è molto diffusa la proprietà mobiliare e dove una gran parte della fortuna è rappresentata da titoli. In Inghilterra, ad esempio, dove una gran parte delle imprese industriali e commerciali è per azioni, dove la proprietà mobiliare è di gran lunga predominante sulla immobiliare, la risoluzione pratica del problema del pagamento di questa imposta non si presenta impossibile.

 

 

Si propone da quasi tutti che gli obbligati al pagamento dell’imposta abbiano una certa libertà di scelta: i possessori di titoli di Stato possono darne una parte allo Stato; coloro che ne sono sprovvisti o non ne hanno a sufficienza possano pagare l’imposta con titoli di altra specie, azioni, obbligazioni di società private, industriali, bancarie, d’assicurazione, ecc. Però c’è il pericolo, lasciando ai contribuenti la scelta del titolo con cui pagare, che essi diano allo Stato tutti i titoli invendibili, di scarso mercato, i peggiori insomma, trattenendosi quelli buoni. È evidente la necessità per lo Stato di stabilire una lista dei titoli accettabili. La restrizione dei titoli accettabili in pagamento dell’imposta avrebbe per effetto che tutti coloro che non possedessero di questi titoli si troverebbero nella necessità di ricorrere al mercato per vendere i titoli posseduti, il che produrrebbe l’inconveniente di tracolli rapidi di prezzo, accrescendo esageratamente il sacrificio di coloro che non possedessero titoli accettati dallo Stato. Questi ultimi aumenterebbero di prezzo per la grande domanda che tutti i contribuenti ne farebbero per pagare l’imposta; viceversa i titoli non compresi nella lista ribasserebbero notevolmente di valore.

 

 

Lo stesso inconveniente si verificherebbe per quella parte di patrimonio che non consiste in titoli; e sarebbe particolarmente sensibile in Italia dove la proprietà immobiliare ha grande importanza. I capitalisti dovrebbero vendere una parte del loro patrimonio in case, terreni, ecc., per pagare con denaro contante o con titoli accettati dallo Stato; quindi possibilità di un tracollo notevole nei prezzi delle case, dei terreni, dei titoli non accettati. Il sacrificio di questi contribuenti non abbastanza fortunati sarebbe incomparabilmente superiore al vantaggio dello Stato. Basta questa considerazione per far concludere che se si volesse sul serio far pagare l’imposta in una volta sola come porta il suo titolo, il pagamento sarebbe quasi impossibile e sarebbe connesso con una serie di inconvenienti gravissimi sia per i contribuenti, sia per l’economia generale della nazione. Unici ad avvantaggiarsi sarebbero gli speculatori, coloro che in quel determinato momento avessero i mezzi per comprare a prezzi sviliti case, terreni, titoli non accettati; per essi sarebbe una cuccagna quale forse non s’è mai vista nella storia, non essendosi mai verificato in un paese un trapasso sì formidabile ed improvviso di ricchezza.

 

 

Quindi è certo che il pagamento dell’imposta in una volta sola è praticamente cosa che rasenta l’impossibile. Per potere essere applicata, l’imposta dovrebbe essere pagata a rate ossia si dovrebbe dare ai contribuenti un periodo di tempo variabile a seconda delle varie specie di attività patrimoniali, ma sempre lungo, per pagare questa imposta. Il proprietario di una casa valutata 100.000 lire e che fosse tassato per 30.000 lire, non dovrebbe essere costretto a pagare questa somma in una sola volta, ma dovrebbe poterla pagare a rate in 10-20 anni per mezzo dei frutti della casa senza essere costretto a venderla. Lo stesso trattamento evidentemente dovrebbe essere fatto in una eventuale tassazione di capitali personali. Come potrebbe, già osservai, obbligarsi il contribuente che possiede soltanto la sua capacità di lavoro a pagare un’imposta equivalente ad un terzo del suo valore? Anche qui l’imposta si dovrebbe trasformare in un’imposta pagabile a rate in una serie di anni equivalente alla sua vita presunta. Il contribuente dovrebbe anzi in questo caso fare un contratto di assicurazione sulla vita per garantire allo Stato il pagamento di tutto il suo debito d’imposta. Se egli viene a morte prima della fine del periodo di rateazione, lo Stato ha invero incassato soltanto una parte delle rate; perciò occorre che egli si assicuri sulla vita in guisa che, nel caso di premorienza, lo Stato possa rivalersi sul valore della polizza.

 

 

A quale conclusione veniamo dunque noi in definitiva? Se siamo indotti a consentire per la massima parte dei contribuenti il pagamento a rate, salvo cioè per coloro che avessero i mezzi di pagarla subito con titoli di debito pubblico o con altri titoli di debito pubblico o con altri titoli accettati dallo Stato, l’imposta finisce per convertirsi in una specie di imposta sul reddito. In fondo, che differenza c’è fra chiamare un’imposta «imposta sul reddito annuo» ovvero chiamarla «imposta patrimoniale da pagarsi non in una volta tanto ma da frazionarsi in rate successive»? Quelle rate successive sono similissime in tutto alle imposte pagate annualmente dai contribuenti; epperciò in fondo quella tale imposta patrimoniale straordinaria finirebbe per la maggior parte dei contribuenti a convertirsi in una imposta sul reddito. V’è una differenza tuttavia fra le due imposte e la metterò subito in luce. Possiamo frattanto concludere su questo punto che le difficoltà di pagamento, pur non essendo impossibili a sormontarsi, sono però tali da essere tenute in forte considerazione e da farci concludere alla necessità della trasformazione quasi completa dell’imposta straordinaria sul patrimonio in una imposta pagabile a rate e quindi molto simile all’imposta sul reddito.

 

 

Un giudizio su una qualunque imposta si dà non tanto in base ai principii informatori dell’imposta (e qui abbiamo veduto non essere molto perspicui) ma soprattutto in ragione degli effetti che quell’imposta produce. Sono buoni o cattivi questi effetti? Migliori o peggiori di una imposta annua che colpisca il frutto annuo del capitale anziché una volta tanto il capitale? Mi limiterò ad alcune considerazioni.

 

 

Una prima è stata fatta dallo Scott. Egli dice: È poi proprio vero che questa imposta straordinaria permetta di liberare i contribuenti dell’avvenire dall’onere delle imposte che si dovrebbero pagare tutti gli anni? Ciò è molto dubbio. Per l’Inghilterra il problema sarebbe posto così: attualmente l’imposta sul reddito ivi esistente è al saggio di circa 6 scellini per lira sterlina (30 per 100). Se si stabilisse una imposta straordinaria che permettesse di rimborsare il debito di guerra, l’imposta stessa potrebbe, egli nota, essere ridotta ad un saggio di circa 2 scellini per lira sterlina (10 per 100), con un risultato cioè notevolissimo. Ma siamo noi sicuri – egli osserva – che i contribuenti godano il beneficio, che le imposte siano effettivamente ridotte dal 30 al 10 per 100? Vi è molta probabilità , osserva l’autore che le cose non debbano andar così. Appena nel bilancio si verificasse un così gran margine in seguito all’estinzione del debito di guerra, e vi fosse la possibilità di ridurre l’imposta dal 30 al 10 per 100; subito crescerebbero le domande di nuove spese da tutte le parti, tutti allegherebbero necessità o utilità di spendere denaro. Con tutta probabilità l’imposta si ridurrebbe si di qualche cosa ma non certamente all’aliquota del 10 per 100. I contribuenti avrebbero così fatto un pessimo affare, in quanto avrebbero pagato il capitale necessario a ridurre l’imposta dal 30 al 10 per 100, e viceversa l’imposta non sarebbe stata ridotta del medesimo ammontare. Mancando la sicurezza della integrale riduzione è naturale che i contribuenti preferiscano pagare ogni anno il 30 per 100, sicuri o quasi, data l’elevatezza di questa percentuale, di non pagare di più, per altri scopi più o meno apprezzabili, ma secondari in confronto di quello di far fronte a sacri impegni assunti.

 

 

In Italia questo argomento, bisogna dirlo, non ha il peso che ha in Inghilterra. In Inghilterra v’è la possibilità di ridurre le imposte in conseguenza del pagamento del debito pubblico. Da noi le cose stanno diversamente. Le imposte per i tre miliardi necessari a pagare gli interessi su 60 miliardi del debito di guerra sono ancora da stabilire. Se si potesse realmente rimborsare il debito bellico con un prelievo straordinario sul patrimonio, sarebbe più difficile stabilire altre imposte nuove di quanto non sarebbe in Inghilterra facile astenersi dal ridurre le imposte esistenti. È più difficile resistere ad una minor diminuzione delle imposte esistenti in confronto a quella possibile teoricamente di quanto non sia resistere ad imposte nuove, le quali non siano assolutamente urgenti. L’obbiezione in Italia non ha dunque un grandissimo peso e se fosse sola si potrebbe ammettere la convenienza dell’imposta straordinaria sul patrimonio.

 

 

Essa però può assumere da noi un aspetto diverso sebbene non meno preoccupante. Dicemmo dianzi che l’imposta straordinaria sul patrimonio deve essere pagata a rate. Se la rateazione è in 10 anni e l’imposta in totale fosse accertata gittare 20 miliardi – evidentemente l’ipotesi di un gitto totale di 60 miliardi è irreale – il provento annuo sarebbe di 2 miliardi. Quale sicurezza vi sarebbe che i 2 miliardi siano impiegati al rimborso di altrettanta somma di debito pubblico? I solenni affidamenti dati dal legislatore e la istituzione di fondi speciali per l’ammortamento del debito pubblico a poco gioverebbero. In una situazione precaria, come l’odierna, del bilancio, grandi sarebbero le tentazioni di utilizzare i proventi del tributo straordinario per colmare i disavanzi correnti. Le incessanti richieste di nuove spese spingerebbero lo Stato sulla china pericolosa. Grande perciò è la probabilità che alla fine del periodo di rateazione, i contribuenti abbiano pagato l’imposta straordinaria, ed il debito di guerra rimanga intatto in tutta la sua imponenza.

 

 

Altri dubbi di peso ancor maggiore sono stati messi in campo. Uno si può chiamare il dubbio od il quesito retrospettivo. Quale effetto produrrà sulla classe dei risparmiatori in generale vedere che coloro i quali hanno guadagnato in passato ma hanno scialacquato se la svignano e non pagano nulla o pochissimo mentre coloro i quali hanno ascoltato gli inviti pressanti che durante gli anni di guerra si sono fatti in tutti i paesi per incitare a risparmiare saranno colpiti da un’imposta gravissima sul capitale? Con quale coerenza potranno i propagandisti dei prestiti di guerra difendere un prelievo straordinario che colpirà i risparmiatori e non gli scialacquatori? Un effetto sicuramente dannoso. Come si possono decentemente tassare coloro che seguirono i consigli patriottici e sani, di risparmiare e lasciare esenti coloro che si posero sotto i piedi amor di patria, senso civile, amor di famiglia? Bisognerebbe, per equità, insieme a questa imposta, creare una imposta più acerba sugli sprechi, su ciò che non esiste più, sui consumi che durante la guerra sono stati fatti in eccedenza ai consumi necessari. Solo il più acerbo tributo sulla spesa compiuta in disprezzo della patria durante la guerra potrebbe rendere onesto il tributo sul risparmio, fatto con vantaggio del paese e non di rado in ubbidienza agli inviti dei reggitori della cosa pubblica durante la guerra. Ma questa imposta è difficile, per non dire impossibile, a creare, e l’impossibilità di costituire questa imposta-contrappeso rende dubbia la opportunità e la legittimità della leva del capitale ove si ponga mente, come si deve, alla disastrosa impressione sui risparmiatori che essa farebbe.

 

 

Un altro quesito gravissimo è quello del pericolo di creare il precedente. Si ha un bel dire che la leva del capitale è un’imposta stabilita una volta tanto, che non v’è il pericolo della ripetizione perché una guerra come l’attuale non si ripeterà , è a sperarsi, per un lunghissimo spazio di anni. Ma è proprio vero che il pericolo della ripetizione non ci sia? Su questo punto vi sono molti scettici; il professor Nicholson già citato osserva che se la coscrizione del capitale è stata buona o parrà buona adesso per liquidare l’eredità della guerra, dovrà sembrare ancora più buona per salvare dei fanciulli, per aiutare dei vecchi, per stabilire delle condizioni di vita migliori nella popolazione, ecc. Se è parso opportuno stabilire un’imposta straordinaria per tenere a freno la Germania, parrà altrettanto opportuno stabilire un’altra imposta straordinaria sul patrimonio per raggiungere scopi sociali che sembreranno a taluno ancor più elevati, più nobili. Manca affatto la sicurezza che tale imposta non sarà ripetuta per l’avvenire, v’è anzi da prevedere che l’esempio attuale faciliterà le ripetizioni successive. Vi sono, disse uno scrittore, molte donne che non ebbero mai un amante. Non ve ne fu alcuna che ne abbia avuto uno solo.

 

 

Il peso da darsi a questa argomentazione della ripetizione dipende molto dalla psicologia dei risparmiatori. Ci possono essere dei paesi in cui i risparmiatori sono una classe così diffusa della popolazione che i loro sentimenti sono i sentimenti di tutti, cosicché sono sicuri che il loro modo di pensare seguiterà ad essere dominante e rispettato; e allora

possono essere indotti ad eccedere tranquillamente alla leva, senza sentirsi scoraggiati dal risparmiatore, sicuri che in quel paese non si avranno ripetizioni, se non in casi di estrema necessità . Dove invece i risparmiatori non hanno questa persuasione, questa fiducia, dove anzi temono che l’esempio una volta dato possa ripetersi, allora lo spettro della ripetizione dell’imposta straordinaria può agire come un freno potente contro l’accumulazione del risparmio nuovo; ciò che sarebbe molto pregiudichevole per il paese.

 

 

Il problema si riduce in sostanza a questo: dal punto di vista di coloro i quali devono produrre i redditi nuovi, i quali devono risparmiare ossia accrescere il capitale esistente, è preferibile il timore che si ripeta una imposta straordinaria sul capitale, ovvero il timore che continuino e magari vadano crescendo le imposte ordinarie sul flusso del reddito? Si tratta di vedere quale delle due prospettive esercita una azione di freno maggiore sui risparmiatori. L’imposta sul fondo della ricchezza esistente presenterebbe qualche vantaggio in un paese dove non esistesse il timore della ripetizione; nel senso che sarebbe colpita la ricchezza fotografata nel momento attuale e nulla più; tutti i redditi, tutti i patrimoni creati in aggiunta a questa andrebbero esenti dall’imposta straordinaria di guerra, non subirebbero più le conseguenze della guerra. L’esenzione darebbe un impulso grandissimo alla formazione dei capitali nuovi. Ora ciò che importa sovratutto per l’avvenire di un paese non è il capitale che esiste ma quello che deve ancora crearsi, che si va via via formando. Il capitale esistente non è fatto scomparire dall’imposta straordinaria, la quale non distrugge case, terreni o macchine. Soltanto il titolo di proprietà su questi beni che passa da certi privati allo Stato il quale a sua volta li rilascia ad altri privati ritirando suoi titoli di debito pubblico. Il capitale esistente rimane intatto, o quasi, salvo quelle svalutazioni, a cui accennai dianzi, le quali si verificano nel passaggio da una persona ad un’altra. L’imposta colpendo soltanto il capitale prodotto fin qui e non quello nuovo lascia liberi i risparmiatori di produrre altri capitali, altri redditi esenti da quella imposta. Da questa condizione di cose, favorevole alla produzione del nuovo risparmio, verrebbero ad essere avvantaggiati gli accumulatori del futuro, danneggiati gli accumulatori del passato.

 

 

D’altro canto è da osservare che gli accumulatori del futuro sono nelle loro azioni sopratutto mossi dall’esperienza del passato: è la psicologia degli accumulatori del presente che forma la psicologia degli accumulatori del futuro. Ora, se i primi sono stati scoraggiati dal fatto della nuova imposta è ben difficile che gli altri abbiano ad agire in base a criteri differenti; per conseguenza è probabile che la caratteristica favorevole dell’imposta straordinaria, ossia la libertà dei nuovi patrimoni, non agisca con sufficiente intensità sull’animo dei risparmiatori futuri.

 

 

Si può anche osservare che le imposte annue sono di un tipo già conosciuto, a cui tutti i contribuenti già si sono adattati. Tutti invece considerano innaturale che sul patrimonio accumulato abbia a cadere un’imposta che lo diminuisca prima della morte. Non c’è ancora nei contribuenti quella disposizione d’animo che li porta a vedere di buon occhio o almeno a tollerare un’imposta la quale li privi del patrimonio che essi già posseggono. L’imposta sul reddito, a parità di peso, sembra più lieve perché quel reddito non è ancora stato incassato e l’imposta lo diminuisce man mano che si forma; invece per il patrimonio c’è già il possesso, c’è già la immedesimazione del contribuente con quella ricchezza sicché il dolore di esserne privi indubbiamente riesce più vivo; perciò, anche a parità di peso, è probabile che l’imposta patrimoniale straordinaria eserciti una influenza più dannosa sulla formazione del capitale nuovo.

 

 

Si può aggiungere che le imposte sul reddito, cioè sul flusso del reddito che via via si svolge, hanno una caratteristica la quale coll’andar degli anni ne fa diminuire il peso. Supponiamo che oggi si debbano istituire tre miliardi di lire d’imposte nuove. Essi sembrano duri perché devono essere ripartiti su una certa massa di reddito, per esempio su 30 miliardi. Ma coll’andar del tempo, è sperabile che il reddito nazionale abbia a crescere col crescere del numero degli abitanti, della loro capacità di lavoro, col progredire della tecnica produttiva; ecco che per i contribuenti che via via si vanno rinnovando, il peso dell’imposta è meno forte; i tre miliardi invece di gravare su 30 graveranno su 35, su 40 miliardi. Il peso della liquidazione della guerra sembrerà col passar degli anni più lieve perché andrà percentualmente diminuendo.

 

Siamo di fronte ad argomenti contrastanti, ognuno dei quali ha un non indifferente peso. Forse la conclusione più equilibrata è stata quella con cui il professore Edgeworth conchiuse la sua lettura su A Levy on capital for the discharge of debt. E con essa finisco anch’io.

 

 

«La conclusione mia riposa in gran parte su un principio che taluni ignorano: la suprema importanza del “risparmio”, nel senso di investimento profittevole compiuto allo scopo di produzione futura. Io postulo la dottrina di Adamo Smith, quale è stata espressa dal più eloquente dei suoi discepoli. Pitt nel 1912, Pitt nella sua giovinezza prima che la Rivoluzione all’estero avesse posto la economia in fuga all’interno, metteva in alto fra le cause della ricchezza nazionale quella costante accumulazione del capitale, quella continua tendenza ad aumentarlo, la cui influenza è universalmente veduta ogni qualvolta essa non sia ostruita da qualche pubblica calamità , o da qualche politica erronea e dannosa. “Semplice ed ovvio è questo principio; ma tuttavia – disse Pitt – io dubito se esso sia stato compiutamente spiegato salvochè negli scritti di un autore dei nostri tempi, voglio accennare all’autore di un celebre trattato sulla ricchezza delle nazioni. Questa accumulazione di capitali nasce dalla continua applicazione di una parte almeno del profitto ottenuto in ogni anno ad aumentare l’ammontare totale del capitale da impiegarsi nel medesimo modo e con profitto continuando nell’anno seguente. La grande massa della ricchezza della nazione cresce così continuamente ad interesse composto… in modo che il suo progresso in un periodo ragguardevole di tempo è tale da sembrare incredibile. Sebbene siano stati grandi già gli effetti di questa causa, essi debbono essere ancora più grandi in avvenire… Essa agisce con una velocità continuamente accelerata, con una forza continuamente crescente,

 

 

Mobilitate viget, viresque acquirit eundo.

 

 

Colui che è acceso dall’entusiasmo del progresso reputerà un dovere di non ostacolare l’accumulazione del capitale, eccetto in quanto un vantaggio preponderante in tema di distribuzione possa ottenersi con una siffatta limitazione. Il dottor Marshall bene disse rispetto alla tassazione dopo la guerra: “Il dovere di ogni generazione verso le seguenti è altrettanto urgente come il dovere del ricco di sacrificare un contributo più che proporzionato sul suo reddito a favore del tesoro nazionale; considerazioni etiche e di alta politica consigliano ugualmente la preservazione del capitale”, ed, io aggiungerei, il suo incremento. Il nostro dovere verso la generazione ventura non sarebbe adempiuto se senza assoluta necessità noi ammettessimo un provvedimento che, quantunque descritto come unico ed una volta per sempre, servirebbe come un precedente per esazioni distruttive del risparmio. Il pericolo non sarebbe così serio, se tutti gli avvocati della leva sul capitale fossero come l’autore di Wealth and Welfare (il professore Pigou), il quale consiglia invece trasferimenti di ricchezza dal ricco al povero, miglioramenti nella distribuzione, purché essi non siano tali da scoraggiare la produzione, ed in particolare quella condizione dell’attività produttiva la quale è la più agevole ad essere ignorata da coloro che consigliano trasferimenti, voglio dire l’aspettativa, la posposizione dei godimenti presenti. Quest’ultima cautela è la più atta ad essere omessa dai politici in cerca di popolarità . La loro attenzione è confinata alla distribuzione, od al più ovvio fattore della produzione, il lavoro. Nella loro bramosia di abolire il capitalista privato essi non hanno compreso che egli adempie ad una funzione indispensabile, e che in realtà se noi dovessimo fare a meno di lui e fidarci dei ministeri governativi e dei comitati sindacalisti per provvedere al futuro col risparmio – il che finora fu fatto per motivi di interesse individuale o di affetto famigliare – la collettività probabilmente sarebbe ridotta ad una estrema penuria, se non sull’orlo della morte per inedia. Correre il rischio di una simile fine con una frettolosa adozione del provvedimento proposto sarebbe quasi criminale».

 

 

Parole migliori non potevano essere adoperate per esprimere la condizione di incertezza in cui si trova lo studioso dinanzi al problema dell’imposta straordinaria sul capitale. Considerazioni preponderanti relative alla necessità di salvaguardare la formazione del risparmio nel momento presente e nell’avvenire vicino sconsiglierebbero di ricorrere a questo nuovo strumento tributario. È ovvio però che la conclusione è legittima soltanto ove sia possibile di ottenere il medesimo ammontare d’imposta sotto forma di annualità perenne invece che di tributo pagabile una volta tanto e di ottenerlo all’incirca dalle medesime classi di persone. Se l’imposta straordinaria sul capitale – materiale e personale – deve essere abbandonata per non influire sinistramente sulla produzione della ricchezza nuova, fa d’uopo che l’abbandono si compia a vantaggio di un sistema d’imposta sul reddito e sui consumi che incida sulle medesime classi di contribuenti. Il debito pubblico allora solo non farà nascere rimorsi quando il suo servizio non incida sui redditi minimi e sui consumi necessari.

Di alcune possibili prosecuzioni e trasformazioni dell’imposta sui sopraprofitti nel dopo guerra

Di alcune possibili prosecuzioni e trasformazioni dell’imposta sui sopraprofitti nel dopo guerra

Il problema della finanza post-bellica, Fratelli Treves, Milano 1920, pp. 71-106

 

 

 

 

L’imposta sui profitti di guerra ha lasciato strascichi nella teoria e anche presso talune correnti dell’opinione pubblica nel senso che questa imposta è parsa a parecchi uno strumento assai utile per continuare a procacciare entrate alle finanze e anche per colpire certi redditi che si possono considerare come degni di speciale considerazione. Non è irragionevole pensare che i ministri delle finanze che hanno visto una imposta prima inesistente rendere in un solo esercizio 450 milioni, che hanno potuto fare il calcolo che essa renderà nel suo periodo complessivo di vita circa due miliardi, si sentano attratti a continuare questa imposta anche nel periodo post-bellico nella speranza di ottenere proventi che servano a colmare il cospicuo vuoto del nostro bilancio. Queste tendenze a far continuare l’imposta sui sopraprofitti nel dopo guerra prendono due forme: o quella di una imposta per una volta tanto o quella di una imposta permanente. La nostra commissione per il dopo guerra, sezione VI, per i provvedimenti finanziari, propone sia stabilita una speciale imposta destinata a fruttare tre miliardi di lire la quale colpisca gli incrementi patrimoniali verificatisi durante la guerra. Il titolo stesso dice quale è l’oggetto dell’imposta proposta dalla commissione per il dopo guerra: dovrebbe farsi una specie di inventario patrimoniale del contribuente italiano prima e dopo la guerra; la differenza dovrebbe essere colpita dall’imposta e questa dovrebbe essere determinata in un’aliquota tale che dia luogo ad un provento per la finanza di tre miliardi di lire. L’applicazione dovrebbe farsi col metodo del contingente, ossia la massa dei contribuenti, ripartita in classi e gruppi di mestiere e di regione, dovrebbe essere responsabile verso lo Stato di questa cifra di tre miliardi. Se in un primo accertamento tale cifra non fosse raggiunta si dovrebbe fare un successivo accertamento e sovraimposizione fino ad ottenere la somma totale.

 

 

Questa proposta – badisi che, come avvertii iniziando queste mie lezioni, io non intendo dare un giudizio definitivo ma solo porgere gli elementi per un giudizio – dà luogo a difficoltà di varia natura.

 

 

Una prima è quella relativa alla misurazione dell’oggetto dell’imposta. Questa dovrebbe colpire l’incremento del patrimonio; ma innanzi tutto dovrebbe essere risoluto il problema che cosa sia in realtà incremento di patrimonio. Si intende un incremento puramente monetario, ossia la differenza fra due inventari, uno fatto al 31 dicembre 1913 e l’altro al 31 dicembre 1919 od a quell’altra data che il legislatore fisserà? Evidentemente questi due inventari non sono fra loro paragonabili perché espressi in monete le quali apparentemente sono eguali, in realtà sono assai disformi; sarebbero sì espressi in lire italiane, ma è chiaro che le lire di prima sono una cosa assai diversa dalle lire di dopo la guerra. Per poter realmente constatare una differenza patrimoniale sarebbe necessario ridurre tutte e due le specie di lire ad un unico denominatore monetario; che si trattasse in amendue i momenti considerati di lire aventi la medesima potenza d’acquisto. Altrimenti si rischierebbe di tassare incrementi patrimoniali che non son tali se non di nome. Se Tizio ha veduto aumentare il suo patrimonio da 100 a 200 mila lire , ma se le 200 di dopo valgono come le 100 di prima, in realtà la sua situazione patrimoniale, la sua facoltà di disporre dei beni di questo mondo non sarà affatto variata. Non mi dilungo ulteriormente su questo punto essendo mia intenzione di lasciar da parte l’aspetto monetario dei problemi tributari che, data la loro importanza, non si potrebbero discutere di passaggio.

 

 

Un’altra gravissima difficoltà che si presenta a chi vuol applicare l’imposta è di sapere se vi è la possibilità di fare due inventari della fortuna dei contribuenti, anche supponendo vi sia un metodo per ridurli ad un comun denominatore. Per il secondo momento successivo alla guerra si può tentare questo inventario perché si tratta di constatare un fatto presente; non mancherebbero anche qui delle difficoltà gravissime, ma forse non sarebbero addirittura insormontabili. Ma per il passato? Come si ricostruirà l’inventario al 31 dicembre 1913? È possibile far oggi quello che non si è fatto allora?

 

 

Sembra che in Germania una imposta di questo genere sia in corso di preparazione; ma là è possibile perché preesisteva alla guerra l’imposta straordinaria sul patrimonio, creata appunto per scopi militari. Esiste un inventario del patrimonio di tutti i cittadini tedeschi riferito al 31 dicembre 1913 e su questo si applicò già una volta la tassazione. Da noi il punto di partenza non esiste e le difficoltà per ricostruirlo saranno formidabili. Ne ricordo una sola: come sarà possibile poter constatare qual’era il patrimonio dei contribuenti consistenti in valori al portatore? Se tutti i valori fossero stati nominativi, uno spoglio sia pure complicato avrebbe forse permesso di fare questa ricostruzione; ma dato che una parte notevole delle fortune prebelliche consisteva in titoli al portatore come sarà possibile sapere a chi allora appartenevano questi titoli? Questa è una notizia che non potremo mai più avere.

 

 

In effetto la stessa commissione finisce coll’ammettere implicitamente che l’imposta sugli incrementi di patrimonio avvenuti durante la guerra si convertirebbe in una imposta addizionale, la quale in ultima analisi graverebbe quei tali contribuenti i quali già durante la guerra sono stati soggetti all’imposta sui sopraprofitti di guerra. Per alcune categorie di contribuenti esistono infatti accertamenti disposti durante la guerra i quali ci permetterebbero di constatare il profitto complessivo che essi hanno ottenuto durante questo periodo. Praticamente, se si applicasse l’imposta in questione, gli unici contribuenti tassati finirebbero per essere costoro, perché a loro riguardo si avrebbero dati abbastanza plausibili sui redditi che hanno ottenuto durante la guerra e si potrebbe con un semplice conteggio valutare l’incremento patrimoniale. In sostanza si tratterebbe di una ulteriore sovraimposta sui sopraprofitti di guerra. Io dubito però che da una imposta così congegnata e ridotta a questa espressione si possano ricavare quei tre miliardi che la commissione per il dopo guerra suppone. Se l’imposta sui sopraprofitti di guerra, secondo i dati che ci ha forniti il ministro Meda, frutterà probabilmente alla finanza due miliardi di lire, come è concepibile che una aggiunta alla stessa imposta frutti una somma maggiore di quella che l’imposta primitiva ha dato? Mi par ben difficile ricavare tre miliardi di lire da una fonte che ha già dato due miliardi, ricorrendo, come abbiamo visto, a forti aliquote, le quali, per talune zone di reddito, vanno, tenuto conto dell’imposta e della sovrimposta, al di là dei due terzi del sopraprofitto.

 

 

L’idea merita tuttavia di essere studiata non nel senso di una sovraimposta da aggiungersi a quella già pagata, ma nel senso di una liquidazione definitiva della imposta sui sopraprofitti ottenuti durante la guerra.

 

 

Già dissi ieri come uno dei difetti dell’imposta sui sopraprofitti di guerra sia stato quello di concepire la guerra scissa in diversi periodi, uno indipendente dall’altro; unica deviazione a questo criterio la parziale compensazione fra il 1918 e il 1919 determinata con recente decreto. Aggiunsi che questa separazione in periodi è irrazionale poiché è la guerra nel suo complesso che ha determinato spostamenti di fortuna e incrementi di reddito e finché la guerra non sia giunta alla sua definitiva liquidazione è difficile poter sapere con precisione se i redditi o le perdite verificatisi in un periodo abbiano dato luogo ad una perdita o ad un guadagno definitivo. Da ciò l’opportunità di valutare e considerare questi profitti nel loro complesso per tutto il periodo della guerra. La proposta fatta dalla commissione per il dopo guerra potrebbe essere un addentellato per questa liquidazione definitiva delle posizioni dei contribuenti soggetti all’imposta sui sopraprofitti. Si tratterebbe di calcolare il profitto intiero e definitivo ottenuto dai contribuenti commercianti, industriali, affittaiuoli e intermediari (e vi si potrebbero aggiungere altre categorie, per esempio, quella dei professionisti e dei proprietari coltivatori di terreni propri) e di assoggettarli ad una imposta con aliquota da determinarsi a conto della quale sarebbero già conteggiati i pagamenti fatti nei periodi precedenti.

 

 

Se si trattasse di una imposta relativa a redditi futuri, sarei favorevole ad una radicale mutazione nel modo di calcolare l’aliquota. Il metodo scelto di un’aliquota crescente col crescere della percentuale del reddito sul capitale investito è, come dimostrai nella passata lezione sulle tracce dello Seligman, produttivo di pessimi effetti. Ma poiché si tratterebbe in questo modo di un tributo di liquidazione, pur non nascondendomi gli effetti dannosi pel futuro del cattivo esempio dato in passato – cattivo esempio del resto già dato – sembra difficile innovare profondamente sul sistema accolto. Il quale potrebbe essere innovato nel senso di aumentare tutte le aliquote proporzionatamente in guisa che l’ultima zona di reddito, quella più alta, venga ad essere colpita da un complesso di imposta e sovraimposta dell’80 per 100.

 

 

Passo adesso al secondo ordine di idee a cui accennavo e cioè alla opportunità della trasformazione della imposta sui sopraprofitti in un organo permanente di tassazione.

 

 

Il professore Seligman ha scritto parole che concluderebbero a favore di questa opportunità: «L’imposta sui sopraprofitti esistente negli Stati Uniti è suscettibile di una continua applicabilità dopo la guerra e non è del tutto impossibile che possa persino svilupparsi come il ramo più cospicuo del nostro sistema tributario». È una affermazione degna di considerazione per l’autorità di chi la fece, ma per poterla apprezzare al suo giusto valore è necessario ricordare qual è l’indole dell’imposta nord-americana che corrisponde alla nostra dei sopraprofitti. La nostra è un’imposta sui sopraprofitti di guerra, quella è una imposta di guerra sui sopraprofitti; lo spostamento della parola porta ad uno spostamento completo nel concetto informatore dell’imposta. In Italia si sono colpiti con la imposta sui sopraprofitti le eccedenze di reddito ottenute durante la guerra in confronto ai redditi che si ottenevano in tempo di pace, ossia la differenza fra redditi di pace e redditi di guerra; invece nel sistema nord- americano l’oggetto della tassazione è completamente diverso, ed è l’eccedenza nei redditi verificatisi durante la guerra in confronto ad un reddito ipotetico normale. Sembra la stessa cosa ma in realtà è molto diversa. Se in Italia una impresa guadagnava già in pace il 20 per 100, fino al limite del 20 per 100 non è soggetta all’imposta straordinaria di guerra e lo è soltanto per il supero; invece negli Stati Uniti se una impresa guadagnava in tempo di pace il 20 per 100 ed ha continuato durante la guerra a guadagnare lo stesso 20 per 100 è soggetta ad una imposta sull’eccedenza oltre il 7-9 per 100, in media l’8 per 100, che è considerato dal legislatore come guadagno normale. È evidente che questo tipo di imposta potrebbe mantenersi, perché anche negli anni successivi alla guerra vi saranno redditi i quali supereranno il reddito normale e potranno essere soggetti all’imposta.

 

 

Del resto il tipo che dirò «americano» di tassazione ha già trovato in Italia applicazione in due imposte stabilite durante la guerra: la imposta sui proventi dei dirigenti e procuratori delle società commerciali e quella sugli amministratori delle società anonime. Esse sono del tipo dell’imposta americana di guerra sui profitti ultra normali. Concetto informatore della prima è di colpire le partecipazioni, interessenze, provvigioni, ecc., che sono pagate dalle società ai loro amministratori delegati, gerenti, ecc., direttori generali, direttori tecnici ed amministrativi, sia centrali che locali, quando in aggiunta allo stipendio le partecipazioni, ecc., diano luogo ad un reddito ultra-normale, considerandosi come reddito normale la somma complessiva di 10.000 lire.

 

 

Sull’eccedenza tassabile l’imposta cade colle seguenti aliquote:

 

 

Quote di eccedenza   fino a L. 5000 5%
Quote di eccedenza da L. 5.001 10000 10%
Quote di eccedenza da L. 10.001 15000 12%
Quote di eccedenza da L. 15.001 20000 15%
Quote di eccedenza da L. 20.001 in più   20%

 

 

La seconda imposta colpisce i componenti dei consiglieri di amministrazione delle società anonime e dei soci accomandatari delle accomandite per azioni, sotto qualsiasi denominazione siano concessi, di compartecipazione agli utili, assegni, medaglie di presenza, diarie, ecc. L’imposta colpisce qui non un’eccedenza su un reddito normale, ma l’intero ammontare degli assegni, ecc.; ed è congegnata nel seguente modo:

 

 

 

PERIODO FINANZIARIO

 

 

fino al 31 dic. 1917

dall’1 gennaio 1918

quota del compenso fino a

L. 2500

5

5

da L. 2501 a L. 5000

8

10

da L. 5001 a L. 10000

10

12

da L. 10000 a L. 20000

12

15

da L. 20000 a L. 40000

15

20

da 40000 in più

20

25

 

 

La somma tassata è il cumulo di tutti i compensi ottenuti da una persona anche da società diverse.

 

 

Per ambe le imposte il metodo della applicazione dell’aliquota è quello a scaglioni, sulle quote del reddito.

 

 

Le due imposte furono concepite come uno strumento della finanza straordinaria di guerra. Ma è facile vedere come possano le due imposte diventare permanenti,non nella forma originale, ma in una modificata e generalizzata. Il problema è già stato generalizzato non ancora in testi di legge ma specialmente per opera di studiosi. In Italia molto si è occupato, con accuratezza scientifica e con vera passione, di questo argomento il professor Griziotti dell’Università di Catania che, specialmente durante la guerra, è stato indotto a fare applicazioni concrete di un sistema d’imposta che aveva già largamente studiato prima. Egli recentemente ha fatto sul «Giornale degli Economisti» (febbraio 1919) l’esposizione di un sistema di tassazione che avrebbe lo scopo da tassare in modo permanente i redditi in eccedenza ai redditi normali. Alle eccedenze stesse egli dà il nome di rendite nei redditi, distinguendo il reddito dei contribuenti in due parti, quello che è reddito normale e quello che è invece la rendita in questo reddito, una eccedenza oltre questo reddito. Vorrebbe creare un sistema di imposte indirizzato a colpire le rendite nei redditi, eccedenti il reddito normale. Il sistema di tassazione propugnato dal professor Griziotti avrebbe un carattere generalissimo. Io non posso qui se non riassumerlo nelle sue linee somme.

 

 

Il reddito del lavoro sarebbe colpito con un’imposta quando trattandosi di lavoratori pagati a giornata, o a settimana o a quindicina il salario superasse le 10 lire al giorno nel caso di potenza di acquisto normale della moneta (all’incirca ritorno alle condizioni monetarie antebelliche) o superasse le 15 lire, nel caso in cui la moneta rimanesse deprezzata, all’incirca al livello odierno. Per i bottegai e gli artigiani sarebbe tassato il reddito quando superasse le 5 o le 8.000 lire annue (sempre nelle due ipotesi del calcolo in lire apprezzate o in lire deprezzate). I professionisti sarebbero tassati sulla parte del loro reddito eccedente le 10 o le 15.000 lire all’anno.

 

 

Per i redditi misti di capitale e lavoro, il calcolo sarebbe più complicato, in quanto si dovrebbe dedurre dal reddito totale complessivo dell’industriale o commerciante innanzitutto il compenso normale dell’attività personale, determinato probabilmente come sopra per i professionisti; inoltre dovrebbe dedursi anche l’interesse normale sul capitale (5 o 6 per 100). L’eccedenza, fatte queste detrazioni, sarebbe la rendita imponibile.

 

 

Per i capitali puri impiegati in prestiti, si considererebbe come materia imponibile l’eccedenza di reddito oltre il 5 od il 6 per cento sul capitale impiegato. Uguale trattamento si userebbe per i proprietari di immobili tassando tutto il reddito al di là del 5 per 100 o del 6 per 100. Per questi proprietari l’autore vorrebbe inoltre tassare anche l’incremento di valore del loro immobile perché in questo caso oltre la possibilità di avere un reddito maggiore di quello normale c’è anche a favore del reddituario la possibilità di una sopravalutazione del capitale. Un terreno comprato per 100.000 lire perché rendeva 5.000, acquisterà un valore di 130.000 – 140.000 lire se il suo reddito passa a 7-8.000 lire. Ora, secondo il Griziotti, dovrebbe essere tassata sia l’eccedenza del reddito oltre il 5-6 per 100, sia l’eccedenza del valore patrimoniale, oltre il valore antico.

 

 

A questo punto devo fare una obiezione e cioè che seguendo il sistema ora esposto e che del resto ha una larga letteratura in suo favore e qualche applicazione legislativa, si verrebbe evidentemente ad una doppia tassazione. Un fondo perché passa dal valore di 100.000 al valore di 120.000 lire? Perché il reddito è aumentato da 5.000 a 6.000 lire; se questo reddito non fosse aumentato l’aumento del valore patrimoniale non ci sarebbe stato. Orbene, se noi tassiamo già quel dato incremento di valore oltre le 5.000 lire come eccedenza di rendita sulla rendita normale, veniamo già a ridurlo, ove l’aliquota sia del 20 per 100, da 1.000 lire a 800 lire; riducendo l’eccedenza da 1.000 a 800 lire, è evidente che noi riduciamo già l’incremento patrimoniale. Quest’ultimo che sarebbe stato di 20.000 lire se il reddito fosse aumentato di 1.000 lire, sarà soltanto di 16.000 lire se il reddito aumenta solo da 5.000 a 5.800 lire, perché un maggior reddito di 800 lire dà luogo soltanto a un maggior patrimonio di 16.000 lire e non di 20.000. Vediamo perciò che già la sola tassazione della eccedenza di rendita dà luogo ad una diminuzione del valore del capitale e se a questa imposta aggiungiamo un’imposta sull’incremento patrimoniale raddoppiamo in sostanza l’aliquota sulla medesima quota in quanto che noi riduciamo ulteriormente l’aumento di patrimonio da 16.000 a 12.000 lire, e quindi riduciamo di nuovo il reddito del contribuente. Non si esclude con ciò che questa doppia tassazione deve essere fatta, ma bisognerebbe dimostrare a parte la legittimità di questa doppia tassazione, dimostrare cioè che l’incremento di reddito, a cui corrisponde un incremento patrimoniale merita di essere tassato due volte.

 

Accenno alla cosa per mostrare come il problema sia alquanto complicato e come, volendo usare uguaglianza di trattamento, occorra, per i proprietari di immobili, tassare o l’incremento della rendita o l’incremento del valore patrimoniale, ma non tutti e due.

 

 

Da ultimo dobbiamo considerare gli azionisti e gli obbligazionisti che possiedono titoli nominativi o al portatore. In Italia la quantità di titoli nominativi, salvo che per le rendite vecchie dello Stato, è una quantità trascurabile. Non conosciamo dunque i possessori della maggior parte dei titoli esistenti ed è perciò difficile risolvere il quesito: come si possono tassare gli incrementi di valore o gli incrementi delle rendite per azionisti o obbligazionisti? La difficoltà qui è di far corrispondere l’imposta alla capacità contributiva del contribuente in quanto che l’autore vorrebbe che quell’imposta, che ho indicato soltanto in generale, fosse una imposta progressiva sull’ammontare totale delle loro eccedenze di rendita tenuto conto anche di altri coefficienti, come il reddito residuo del contribuente, il tempo di formazione dell’incremento patrimoniale, ecc.

 

 

Come si può conoscere l’ammontare totale di queste eccedenze di rendita per i contribuenti singoli se le azioni od obbligazioni continuano ad essere al portatore? L’autore, non volendo ragionevolmente risolvere questa difficoltà colla trasformazione obbligatoria dei titoli del portatore in titoli nominativi, si induce ad ammettere per questa categoria di contribuenti la tassazione all’origine, ossia la tassazione presso la società od Ente emittente. Si farebbe una media del valore delle azioni per tre anni consecutivi e quando si riscontrasse che questa media triennale fosse maggiore della media del triennio precedente, la società emittente dovrebbe pagare un’imposta sull’incremento di valore.

 

 

Trattasi di un espediente imperfetto, perché l’imposta non può più essere graduata in ragione degli incrementi patrimoniali realmente ottenuti dagli azionisti, ma in ragione di un incremento medio che può o non può essere stato realizzato dagli azionisti. Il tributo colpirebbe egualmente le società nelle quali c’è stato un piccolissimo movimento di azioni e le società nelle quali c’è stato un forte movimento di azioni, quando l’incremento medio di valore delle azioni sia stato uguale.

 

 

In effetto la media triennale ultima potrebbe essere una media composta di tre dati medi annui uguali a 500, 1000 e 500, e cioè eguale a 666 (trascuro per semplicità le variazioni quotidiane). Se nel triennio precedente la media fosse stata di 500, l’incremento imponibile presso la società sarebbe di 166. La società eserciterebbe la rivalsa su tutti indistintamente gli azionisti; e in tal modo gli azionisti che avessero realizzato le loro azioni al massimo di 1000 sarebbero tassati alla medesima stregua di quegli azionisti che, avendo lasciato passare il punto culminante, hanno finito per vendere le loro azioni quando erano tornate all’antico valore di 500 o non le hanno vendute affatto, non ottenendo guadagno patrimoniale. Questo difetto è inseparabile dal metodo della tassazione all’origine presso le società emittenti. Trascuro anche la difficoltà di effettuare la rivalsa direttamente su coloro che hanno realizzato il lucro e che quindi per definizione non sono più azionisti. Si può ammettere che gli acquirenti l’avessero già esercitata oggi in previsione dell’imposta a venire, sebbene di parecchi scostamenti dalla rivalsa corretta si dovrebbe tener conto. Ma non voglio dar troppa importanza a questi difetti di dettaglio e ad altri che si potrebbero elencare, perché l’attenzione nostra deve invece essere rivolta ad una critica ben più grave e fondamentale. Confesso di aver avuto in anni oramai lontani una certa inclinazione per questo tipo di imposta sulle rendite e sugli incrementi. Ma una meditazione più accurata mi convinse della loro fallacia e della loro grande pericolosità. (Cfr. la memoria Intorno al concetto del reddito imponibile e di un sistema d’imposta sul reddito consumato, presentata alla R. Accademia delle Scienze di Torino nella tornata del 23 giugno 1912, serie II, vol. LXIII delle Memorie accademiche.) Ma in questa occasione non voglio tornare a riesporre concetti che ripetutamente ho fatto oggetto di discussione nel corso ordinario. Preferisco ricordare il brano, citato nella lezione precedente, dal professor Seligman in cui egli lucidamente mette in luce la fallacia ed il danno del metodo di tassazione adottato negli Stati Uniti per la imposta sugli extra-profitti. Pur reputando il tributo destinato a diventare permanente, egli lo critica vivamente, appunto perché esso colpisce le rendite nei redditi, perché gradua la tassazione in ragione del crescere della percentuale del reddito sul capitale investito. Egli rimprovera al sistema nord-americano di andar contro alla tendenza di favorire lo spirito inventivo e di intrapresa, giacché, così com’è congegnato, serve a multare coloro che sono in grado di trarre molto partito da un determinato capitale. Se il sistema si generalizzasse, quanto più un imprenditore sarà capace di far fruttare il proprio capitale oltre il 5 o il 6 per 100, tanto più egli sarà colpito d’imposta. Ora un’imposta che ha come risultato di trattare benignamente anzi di esentare coloro che sono capaci di far fruttare al loro capitale soltanto il reddito normale e di colpire coloro che sono in grado di ritrarne un frutto eccedente e di tassarli tanto più quanto più il frutto è alto, è una imposta che contrasta a uno dei requisiti fondamentali di un buon sistema tributario, cioè di non essere di ostacolo all’incremento della produzione.

 

 

Se vi è una possibilità di poter far fronte alle spese di guerra e agli enormi oneri a cui i contribuenti dovranno essere assoggettati in conseguenza di essa, questa possibilità è data solo dallo sperato incremento della produzione; tanto più esiziale quindi nei tempi presenti, sarebbe un siffatto sistema.

 

 

Un altro dannoso risultato implicito a questo sistema di tassazione è quello di provocare la produzione ad alto costo: non applicazione del canone economico della massima produzione col minimo costo, ma della minima produzione col massimo costo. Questo risultato in Italia si sta già verificando nel momento presente in una misura preoccupantissima e che mi inspira, debbo dichiararlo, i più gravi timori sull’avvenire industriale del nostro paese, in conseguenza della duplice legislazione di guerra che da una parte tassa i sopraprofitti e dall’altra limita i dividendi che sono ripartibili dalle società commerciali. Da una parte l’imposta sui sopraprofitti è tanto maggiore quanto più i profitti eccedono il reddito ordinario di pace e sono una percentuale elevata del capitale investito. D’altra parte la legislazione sulla limitazione dei dividendi fa divieto alle società commerciali di ripartire un dividendo superiore a quello che ripartivano prima e nei casi in cui prima il dividendo fosse inferiore all’8 per 100 o non esistesse, fa divieto di ripartire un dividendo superiore all’8 per 100. Queste due norme separate hanno confluito, con altre cagioni, le quali però da sole non avrebbero bastato all’uopo, al risultato di provocare il fatto dominante dell’economia recente, ossia l’incremento spettacoloso, mai più veduto, dei capitali delle società anonime. Tutte le società vanno a gara nell’aumentare più che possono i loro capitali; sicché si sono visti incrementi di capitale che non hanno riscontro in altri Stati d’Europa. Da essi taluno ha tratto argomento di orgoglio e di conforto. A torto. Esso è un indice di finanza cattiva, la quale prepara al paese frutti che sapranno d’amaro tosco. Una delle cause fondamentali (ve ne sono altre, per esempio la svalutazione della moneta) di questo incremento vertiginoso di capitali è il desiderio di ridurre per quanto è possibile, col gonfiamento del capitale, la percentuale del reddito in confronto al capitale, essendo questo il solo modo di salvarsi dall’imposta sui sopraprofitti e di ripartire dividendi maggiori. Tendenza antieconomica e assai pericolosa; equivalente ad aver bisogno di molti capitali, a spendere assai per ottenere un risultato piccolo. Questa tendenza era già antica negli Stati Uniti, perché ivi è antica la tendenza dei grandi organismi economici, i quali si sono costituiti in consorzi (trusts) o che traggono profitto dalla protezione doganale, a non dar nell’occhio al pubblico con ripartizioni di dividendi elevati. Essi perciò gonfiano i capitali, allo scopo di scemare la percentuale apparente del dividendo. L’operazione ha preso il nome tecnico di annacquamento (watering) dei capitali ed ha avuto risultati deplorevoli. Non v’è nessuna ragione di provocare ed accentuare questa tendenza con una legislazione fiscale anti-economica. Eppure l’annacquamento e peggio l’uso di capitali inutilmente vistosi è la conseguenza fatale di una imposta che pretenda colpire i redditi in eccedenza ai redditi normali e di colpirli tanto più fortemente quanto più essi sono una percentuale forte del capitale iniziale.

 

 

È anche da ricordare qui l’osservazione già fatta dallo Seligman, che cioè questa specie di tassazione cadrebbe con maggior violenza sopratutto sulle intraprese piccole e medie in confronto delle intraprese grandi, essendo ben difficile che queste ultime, il cui capitale si conta a decine e a centinaia di milioni, riescano ad avere degli utili molto forti percentualmente; avranno dei redditi molto forti come cifra assoluta ma non come cifra relativa.

 

 

Viceversa le piccole imprese spesso utilizzano meglio il loro capitale e ottengono dei guadagni modesti nella massa globale ma percentualmente molto elevati. L’imposta così congegnata andrebbe a colpire principalmente i piccoli e medi contribuenti.

 

 

Altre osservazioni potrebbero farsi sulla sconvenienza di tassare più fortemente in genere gli ultra-redditi in confronto dei redditi normali. L’imposta, non solo per la parte relativa ai capitali, ma anche per quella relativa al lavoro colpirebbe gli operai intelligenti e bravi in confronto dei tardi e pigri, i professionisti valenti e meritatamente fortunati in confronto ai torpidi e incapaci a procurarsi clientela; i proprietari che intuiscono le direzioni dell’ingrandimento delle città in confronto a quelli che fabbricano case irrazionalmente e in siti poco aggraditi. In sostanza è un tipo d’imposta che favorisce i poltroni, gli inetti a danno degli intraprendenti e dei capaci. La sapienza dei nostri avi aveva costruito l’imposta fondiaria sui terreni in guisa da tassare il reddito ordinario (rivedibile a periodi dati e quindi elastico), così da punire colui che ricavava meno del reddito ordinario e da premiare colui che ricavava di più. La moderna sapienza porterebbe alla condotta opposta. Sia consentito di rimanere fermi all’antica dottrina e di respingere con tutte le forze della convinzione, una legislazione che più pestifera non saprebbe immaginarsi.

 

 

Se queste osservazioni sono esatte, il principio informatore della tassazione delle rendite eccedenti i redditi normali viene ad essere scrollato. E allora – mi si può chiedere – quale è la ragione per la quale lo Seligman riteneva che il tipo americano di imposta sugli extraprofitti potesse diventare permanente? La ragione è nel fatto che lo Seligman giustificava la continuazione del tributo in una forma e con un principio ben diversi; voleva abbandonato il metodo della tassazione progressiva in funzione del capitale impiegato giudicandolo perniciosissimo: riteneva che la tassazione dovesse tutt’al più colpire con una percentuale uniforme le eccedenze di reddito delle intraprese senza preoccuparsi di quello che fosse il capitale investito, ossia soltanto l’eccedenza del reddito effettivo sul reddito normale. Egli giustificava l’imposta nel senso che sarebbe una specie di compenso per i privilegi e i vantaggi speciali di cui le imprese economiche, le aziende industriali e commerciali godono per opera dello Stato; dava insomma al tributo un fondamento dottrinale diverso dal fondamento normale informatore delle imposte. Noi non siamo più nel campo dell’imposta propriamente detta ma in un campo che rassomiglia un po’ all’istituto dei contributi di miglioria. Sappiamo che cosa è un contributo: pagamento fatto dal contribuente allo Stato od al Comune, in compenso di un aumento di valore che l’immobile posseduto dal contribuente ha goduto in virtù di un’opera pubblica compiuta dallo Stato o dal Comune. Se, a mo’ d’esempio, il Comune ha compiuto un’opera di fognatura, ed aumenta per questo fatto il valore degli immobili che da essa sono serviti, è ragionevole che lo Stato od il Comune imponga al proprietario un contributo in relazione al vantaggio conferitogli.

 

 

È sostanzialmente il medesimo concetto che si vorrebbe applicato poi in generale dallo Seligman: lo Stato, per via della sua organizzazione, permette alle intraprese economiche, specialmente alle maggiori, di svolgersi con un successo maggiore dell’ordinario. Allora in rapporto a questo successo dovuto all’opera, al sussidio dello Stato, si impone un contributo, un’imposta speciale. L’imposta non sarebbe quindi stabilita come tutte le altre in ragione della ricchezza o del reddito del contribuente, ma sarebbe un contributo che l’impresa dà allo Stato in compenso di certi vantaggi particolari che lo Stato ha fornito all’impresa stessa. La difficoltà di questo concetto, che forse può essere fecondo, è tutta nell’applicazione. Nel caso del contributo di miglioria noi abbiamo dinanzi dei fatti tangibili esattamente misurabili; sappiamo ad esempio che il municipio ha compiuta quella data opera di fognatura, possiamo misurarne il costo, distribuirlo fra tutti gli immobili che ne sono avvantaggiati, fissare cioè la percentuale di costo da far pagare ad ogni singolo immobile; questi alla lor volta sono conosciuti rispetto al loro valore, alla loro ampiezza; quindi vi è la possibilità di poter con una certa approssimazione misurare il vantaggio e far corrispondere il contributo al vantaggio. La stessa cosa dicasi per tutte le opere compiute dal Comune – apertura di strade o piazze, sventramenti, marciapiedi, ecc.; – è sempre possibile misurare i tre elementi: costo dell’opera, vantaggio recato ai singoli, corrispettivo per questo vantaggio. Altra cosa è quando noi siamo portati nel vago, nell’indeterminato e vogliamo misurare i vantaggi che fatti generici, – quali potrebbero essere la buona organizzazione dello Stato, la sicurezza da lui mantenuta, una savia politica di trasporti, ecc. – procacciano alle imprese economiche. Non si può negare che esista un rapporto di conseguenza fra una buona amministrazione, una buona legislazione, un buon sistema di strade ordinarie o ferrate, fra tutti questi fatti dipendenti dallo Stato e l’incremento delle imprese economiche; ma si tratta sempre di un rapporto vago ed incerto, difficile a potersi misurare e graduare.

 

 

Probabilmente se imposte di questo genere dovranno essere applicate, dovranno esserlo in casi speciali, nei quali quel tal rapporto fra l’azione dello Stato e il successo o il maggior successo delle imprese possa essere meglio misurabile; non escludo che in qualche caso esista la possibilità di misurare l’effetto utile che un certo provvedimento legislativo ha esercitato sulle imprese economiche. Uno dei migliori economisti inglesi, il professore Scott dell’Università di Glasgow, autore di due volumi di saggi intorno ai problemi del dopo guerra (cfr. bibliografia in fondo al corso) ha messo innanzi una idea apparentemente singolare ma che sarebbe una applicazione specifica del concetto generale esposto dallo Seligman e che a me sembra, in generale appunto, di difficilissima applicazione. Lo Scott esclude in linea generale l’imposta sui sopraprofitti nel dopo guerra per quelle considerazioni che ho fatto prima. Però l’ammette in casi particolari, quando anche nel dopo guerra i sopraprofitti siano la conseguenza di una legge speciale la quale sia stata chiesta dai medesimi industriali allo Stato e che si può supporre sia stata la causa dei sopraprofitti. Sappiamo che gli economisti inglesi sono per la massima parte antiprotezionisti; non mancano però nella Gran Bretagna forti correnti dell’opinione pubblica le quali chiedono una certa protezione doganale. Ora, dice lo Scott, se in determinati casi una protezione doganale dovesse essere concessa, sia però accompagnata da un’imposta speciale sugli eventuali profitti eccedenti che derivassero specificatamente da questa protezione doganale.

 

 

È un concetto non del tutto nuovo, ma che lo Scott ha messo in luce in una maniera abbastanza persuasiva. Ci sono certi industriali i quali chiedono allo Stato di essere protetti contro la concorrenza straniera per mezzo di un dazio doganale e di poter quindi vendere a prezzi più elevati? Nove volte su dieci e forse più la loro richiesta non merita ascolto. Ma quando, a ragione od a torto, la si accetti, non par corretto che questi industriali profittino della loro situazione monopolistica e semimonopolistica per estorcere prezzi eccessivi ai consumatori. La protezione doganale è chiesta per permettere a certe industrie di poter resistere in un periodo particolarmente critico quale sarebbe quello dell’infanzia, del passaggio dallo stato di guerra a quello di pace, ecc.; ma non deve la protezione doganale servire a procacciare extra-profitti agli industriali. Se la protezione doganale non serve solo ai fini per cui fu concessa, ossia di permettere la vita dell’industria in quel periodo specialmente critico, e conduce all’altro fine antisociale di consentire profitti eccedenti i normali, è allora legittima un’imposta, la quale assorba in tutto o in parte gli extraprofitti. In tal guisa le industrie, le quali chiedono la protezione, dovrebbero contemporaneamente sapere che i loro bilanci saranno esaminati e che se si riscontreranno profitti superiori ad una data percentuale si applicherà sull’eccedenza una forte tassazione. Verrebbe così a diminuire l’interesse a chiedere la protezione doganale nei casi nei quali la domanda fosse solo in apparenza motivata dalla convenienza di ottenere l’incremento delle industrie e la loro resistenza in momenti critici ma in realtà sovratutto dal desiderio di ottenere profitti eccezionali perché si saprebbe che questi profitti in parte notevoli sarebbero assorbiti dall’erario.

 

 

Il concetto dello Scott potrebbe essere esteso ad altri casi consimili. Esiste da noi una legislazione la quale mette in una posizione di privilegio le imprese nazionali in confronto delle estere quando si tratti di pubblici appalti; e lo scopo vorrebbe essere di impiegare il lavoro nazionale, di trattenere l’oro dall’andare all’estero. I soliti sofismi economici ben noti. Anche qui per garantirsi che questi siano veramente i motivi che inducono gli industriali a chiedere allo Stato una condizione di privilegio, sarebbe molto utile che le imprese fossero soggette ad una imposta speciale nell’eventualità che i loro profitti superassero il profitto normale, essendo probabilissimo che i profitti extra-normali si siano ottenuti a spese dello Stato, il quale dovette rinunziare ad una concorrenza più larga e per conseguenza ad eventuali offerte più vantaggiose da parte di concorrenti di altre nazioni.

 

 

La stessa considerazione si può fare per i servizi cosidetti pubblici in generale. Questi possono essere affidati all’industria privata, ma è possibile che le imprese concessionarie ottengano redditi superiori ai normali. V’è allora una certa probabilità che questi ultraprofitti non siano dovuti soltanto all’iniziativa e allo spirito di intrapresa del concessionario ma anche in grazia al privilegio che il concessionario ha avuto in virtù  della concessione perché egli solo, per esempio, può far passare le sue vetture su certe linee tramviarie, egli solo ha il privilegio di provvedere di acqua potabile e di illuminazione la città, di eseguire trasporti marittimi, ecc. Nel caso che queste imprese ottengano redditi in eccedenza ai redditi normali è ben difficile dire quanta parte di questa eccedenza sia dovuta all’iniziativa e all’abilità del concessionario e quanta invece sia dovuta al privilegio che lo Stato ha dato; sarebbe allora abbastanza ragionevole stabilire un’imposta, la quale colpisse questa eccedenza ripartendola in una certa misura fra concessionario e Stato, in guisa che, pur lasciando al primo lo stimolo di migliorare la sua azienda, di ridurre il costo di produzione, di adottare metodi più moderni, lo Stato od il Comune abbia quella parte che empiricamente potesse essere considerata come frutto del privilegio largito al proprietario privato. Il concetto non è nuovo, perché, ad esempio, in Italia lo Stato gode di una partecipazione agli utili eccedenti il 5 ed il 6 per 100 degli Istituti di emissione. Non siamo nel campo delle imposte propriamente dette, ma in quello della partecipazione dello Stato ai redditi delle imprese pubbliche gerite da concessionari privati.

 

 

Un’imposta di questo genere non mi parrebbe fuor di luogo anche quando lo Stato, senza dare una protezione doganale, costituisce dei consorzi obbligatori fra i produttori in guisa da mettere il produttore in una situazione monopolistica. Caso tipico di questo genere in Italia è il consorzio obbligatorio zolfifero. Ora, le eccedenze di profitto ottenute da un concorso obbligatorio di produttori sono dovute sempre e soltanto allo spirito di intrapresa o non piuttosto in qualche caso al monopolio che fu stabilito legalmente dallo Stato? Ecco il dubbio, e quindi la possibilità, la giustizia di una imposta che facesse partecipare lo Stato agli utili del consorzio obbligatorio. È questo un argomento degno di particolare considerazione nel momento attuale, perché purtroppo vi è una tendenza nella amministrazione pubblica non solo italiana ma di altri paesi, nella speranza forse di favorire il passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace, a costituire consorzi obbligatori. Scopo della costituzione dei consorzi è la liquidazione degli stocks di merci che appartengono allo Stato e che quest’ultimo vorrebbe liquidare senza perdite troppo sensibili. Le amministrazioni pubbliche nel primo periodo della guerra hanno seguito una politica imprevidente mostrandosi parche nell’acquistare quando potevano farlo a prezzi bassi perché ritenevano che la guerra dovesse finir presto o i prezzi dovessero ribassare ulteriormente; ad un certo punto la mentalità delle pubbliche amministrazioni si è, per così dire, completamente rovesciata; hanno avuto il timore di non arrivare mai a tempo e si son date a comperare a qualsiasi prezzo cosicché oggi sono cariche di stocks enormi acquistati a prezzi elevatissimi.

 

 

Se si ristabilisse la libera concorrenza, queste amministrazioni pubbliche dovrebbero liquidare i loro stocks a prezzi di concorrenza, ossia molto ribassati in confronto a quelli di acquisto. Si vedrebbe apertamente da tutti che talvolta i ministeri od i commissariati hanno fatto cattivi o pessimi affari.

 

 

Per sfuggire alle critiche dell’opinione pubblica essi cercano di costituire consorzi obbligatori fra i produttori allo scopo di impedire il ribasso o di posporre il momento nel quale la libera concorrenza tornerà a funzionare, in guisa da conservare prezzi relativamente alti per un più lungo periodo di tempo e esaurire i loro stocks con una perdita minore. Mi sembra questa una politica sbagliata dal punto di vista economico perché ritarda il momento inevitabile del riassestamento dei prezzi, e anche biasimevole politicamente perché tende a nascondere il fatto della perdita conseguente agli acquisti fatti per partite superiori ai bisogni ed a prezzi fantastici quando questa perdita deve, in un modo o nell’altro, essere sopportata dai contribuenti: o la pagheranno apertamente nel caso la perdita fosse confessata; o la pagheranno nascostamente, nel caso opposto, in qualità di consumatori di merci che tarderanno troppo a subire l’immancabile ribasso.

 

 

Ora, per tornare all’argomento principale, se gli industriali facenti parte dei consorzi obbligatori otterranno utili eccedenti i normali, è ragionevole ammettere che questi non siano dovuti soltanto alla loro abilità di produttori ma anche ai privilegi loro largiti dall’Istituto dei cambi, dalla Giunta degli approvvigionamenti, ecc., e quindi sarebbe legittimo continuare ad esigere un’imposta, in guisa da ripartire tali utili fra i consorzi stessi e lo Stato.

 

 

Casi analoghi non temporanei come questi sopra considerati, ma forse anche permanenti sono quelli degli utili speciali che sono conseguenza di esenzione di imposte o di premi concessi dallo Stato. Purtroppo la nostra legislazione è infestata da una moltitudine di tali esenzioni; sicché si può dire che ogni categoria di contribuenti è riuscita a strappare alla finanza alcune esenzioni particolaristiche che diminuiscono la base imponibile e aumentano per conseguenza l’aggravio fiscale che colpisce tutti coloro che non hanno la fortuna di entrar a far parte delle categorie privilegiate. Può darsi che vi siano imprese le quali, grazie a questi privilegi fiscali, riescano a ripartire dei benefici elevati, sarebbe anche qui il caso di vedere se una imposta particolare non debba colpire i redditi in eccedenza ottenuti da queste imprese.

 

 

Abbiamo visto così parecchi casi particolari di applicazione del criterio dello Seligman i quali possono avere una certa portata fiscale. Non bisogna però illudersi siano tali da dare un forte rendimento alla finanza dello Stato; senza voler azzardare nessuna opinione sul possibile rendimento di queste imposte, non credo esse ci conducano molto avanti nel colmare il disavanzo di tre miliardi esistente nel bilancio dello Stato; il formidabile problema resterebbe ancora quasi intatto.

L’imposta sui guadagni derivanti dalla guerra

L’imposta sui guadagni derivanti dalla guerra

Il problema della finanza post-bellica, Fratelli Treves, Milano 1920, pp. 26-70

 

 

 

 

Il più importante tributo creato durante la guerra in Italia è quello che si dice, secondo i nostri testi legislativi, «Imposta e sovrimposta sui redditi realizzati in conseguenza della guerra». È un tributo il quale emerge fra gli altri, i quali vorrebbero essere permanenti, mentre invece si riducono ad imposte occasionali messe insieme per il momento con uno scarso carattere di continuità e spesso anche di costruzione logica. In mezzo a tutte queste improvvisazioni imperfette, che vorrebbero essere permanenti, l’imposta sui sopraprofitti determinati dalla guerra conserva volutamente un carattere provvisorio, pur essendo tuttavia venuta man mano assumendo un aspetto abbastanza logico e coordinato. Il testo attuale regolatore di questa imposta è frutto di perfezionamenti successivi, di guisa che rappresenta uno sforzo legislativo più serio di quello che non siasi compiuto per le altre imposte di cui ho già avuto occasione di parlare.

 

 

L’imposta sui sopraprofitti si può veramente dire sia stata la conseguenza di una irresistibile pressione dell’opinione pubblica. Non sarebbe stato possibile farne a meno. A guisa di un contagio, questa imposta, che aveva avuto la sua origine in Inghilterra, si diffuse nei diversi paesi d’Europa, in Germania, in Francia ed anche in Italia. Dai paesi belligeranti è passata a paesi neutri, dei quali parecchi l’hanno pure applicata; gli Stati Uniti anch’essi l’hanno accolta. Si può dunque dire che non ci sia paese belligerante e pochi neutri, nei quali si siano determinati profitti derivanti dalla guerra, che non abbia accolto questo tributo.

 

 

Il tributo in questione si ispira al concetto fondamentale che poiché la guerra è stata per molti cagione di gravi sacrifici, sarebbe stato sommamente ingiusto e anche impolitico vi fossero invece persone che in conseguenza della guerra godessero di alti profitti; l’imposta era quindi necessaria allo scopo di diminuire alquanto questi profitti eccezionali, di rendere meno stridente il contrasto fra coloro che dalla guerra erano stati avvantaggiati e coloro che economicamente ne erano stati danneggiati. Oltre a questa fondamentale, vi erano altre motivazioni: soprattutto quella di diminuire la massa di ricchezza a disposizione dei nuovi ricchi così da ridurre per essi anche la possibilità di consumare. La riduzione dei consumi era una esigenza necessaria per la condotta della guerra perché soltanto riducendo i consumi privati era possibile determinare nella massa dei beni prodotti in un determinato momento un margine il quale potesse essere dedicato alle spese di guerra; se invece i consumi privati non fossero diminuiti, il problema della condotta della guerra diventava un problema insolubile. La presente guerra, a differenza di quanto si immagina da molti, non è stata condotta distruggendo prevalentemente capitali, consumando cose le quali avevano già una forma determinata, bensì consumando dei beni via via prodotti in successivi momenti. Per poter dare allo Stato per la condotta della guerra la massa di prodotti necessari, era d’uopo che i consumi privati fossero diminuiti; e l’imposta sui sopraprofitti, si disse, portando via agli arricchiti una parte dei loro profitti, faceva sì che essi avessero meno mezzi di consumare e quindi restasse una maggior ricchezza disponibile per la guerra.

 

 

Anche a questo tributo non sono mancate obbiezioni; ma più che esporle in modo particolareggiato, riferirò alcuni commenti sommari che si possono leggere in scritti di economisti italiani su questo argomento (veggasi la bibliografia in fondo al corso). Il professor Cabiati, fra l’altro, osserva che talvolta produce maggior risultato economico la ricchezza in mano di una sola persona che non la medesima ricchezza quando sia disseminata in mano di mille persone. L’osservazione è rilevante, giacché una persona sola che possegga, a mo’ di esempio, un milione, difficilmente lo consumerà e lo conserverà invece a risparmio mentre invece la stessa somma dispersa fra mille persone sarà invece più facilmente consumata.

 

 

L’osservazione giova a limitare il valore di quanto io dissi in precedenza e cioè che l’imposta sui sopraprofitti di guerra dovesse avere per iscopo di diminuire la possibilità per i ricchi di consumare ricchezza. Il che è una di quelle verità che si possono dire di aspirazione; ma è pur vero che qualche volta lo spostamento della ricchezza dai ricchi ai poveri non giova a raggiungere quell’intento, se i poveri non sono disposti a risparmiare, poiché allora il risultato a cui si mira, quello di impedire il consumo della ricchezza, non viene raggiunto.

 

 

Un altro autore, il professor Bachi, osserva che la nuova schiera degli arricchiti determinata dalla guerra ha funzionato e funzionerà nel periodo post-bellico, come un fermento innovatore della società. I periodi che seguirono alle guerre sono stati spesso segnalati da un grande movimento industriale, determinato dal fatto che molti i quali prima vivevano negli strati umili della società e non avevano avuto il mezzo di far spiccare le loro naturali qualità organizzatrici, erano stati dai trambusti, dagli sconvolgimenti inerenti allo stato di guerra portati ai gradi superiori, dove avevan potuto mettere in luce ed utilizzare le loro ottime qualità; considerazione anche questa d’un certa importanza della quale è d’uopo tener conto nel limitare o ridurre entro più giusti confini quelli che possono essere considerati come risultati utili dell’imposta sui profitti di guerra.

 

 

Il professor Pantaleoni osserva: i sopraprofitti in fin dei conti saranno la parte più viva, più interessante del capitale mobile che si avrà nel dopo guerra. Assorbirli per mezzo di un’imposta vuol dire far passare questi sopraprofitti dalle mani dei privati, che li potrebbero utilizzare a pro dell’industria, nelle mani dello Stato, il quale non sarà in grado di utilizzare questi capitali col medesimo vantaggio.

 

 

Queste considerazioni pro e contro ci portano forse alla conclusione che dell’imposta sui sopraprofitti si sarebbe potuto fare a meno in una società ideale, in una società in cui, ad esempio, a capo delle amministrazioni dello Stato incaricate di fare la massima parte delle spese dell’amministrazione militare e degli approvvigionamenti civili, si fossero trovate persone molto esperte, capaci di contrattare vantaggiosamente; allora i sopraprofitti non si sarebbero avuti, almeno nella misura verificatasi, in quanto che i capi della amministrazioni statali grazie alla loro abilità nel contrattare avrebbero saputo stabilire prezzi tali da concedere soltanto il margine di profitto minimo, quello corrente sui mercati. Sarebbe allora venuta meno per l’opinione pubblica la ragione di chiedere imposte sui sopraprofitti. L’opinione pubblica si è mossa appunto perché si era accorta che lo Stato era incapace di contrattare, che, per sua inabilità nelle contrattazioni, aveva concesso prezzi così forti che i profitti ottenuti dai fornitori erano di gran lunga superiori ai profitti ordinari. Essa fu spinta a chiedere l’imposta come mezzo per ricuperare ciò che era stato dato in eccedenza ai privati. Ciò, ripeto, non sarebbe avvenuto in una società ideale. Se anche questa società ideale si fosse limitata ad un paese solo, questo paese avrebbe avuto vantaggio a non ricorrere all’imposta sui sopraprofitti e forse, tutto sommato, la condotta della guerra sarebbe stata per esso meno costosa. I capitali sarebbero stati invero indotti a venire dall’estero, dove erano taglieggiati dall’imposta sui sopraprofitti, nello stato immune dall’imposta stessa e in esso sarebbe sorta una forte concorrenza fra i capitali impiegati nelle industrie belliche, il saggio d’interesse sarebbe rimasto al minimo, le amministrazioni statali sarebbero state in condizioni di fare ottimi contratti spendendo assai meno di quello che in realtà avrebbero speso nel caso opposto, pur tenendo conto degli eventuali ricuperi ottenuti per via dell’imposta sui sopraprofitti.

 

 

Questa è un’ipotesi sulla quale tuttavia è inutile ragionare perché non vi è nessun paese che abbia raggiunto anche un grado modesto di perfezione a questo riguardo. Le lagnanze sulla incapacità della pubbliche amministrazioni a ben contrattare furono universali e dappertutto si verificò quel movimento dell’opinione pubblica che rese, per così dire, inevitabile istituire questa imposta.

 

 

Vediamo adesso come in Italia questa imposta sia stata costituita. Sarebbe assai interessante seguire i suoi passaggi successivi dalla prima formulazione grossolana e approssimativa all’ultima formulazione, quale oggi abbiamo; ma, data la brevità del tempo a mia disposizione, mi limiterò a dar un’idea di quello che è oggi l’imposta sui sopraprofitti, in seguito ad una serie di trasformazioni che si andarono operando nel suo assetto dopo le esperienze fatte dall’amministrazione. L’imposta sui soprafitti è arrivata alla forma attuale, in seguito a successive riforme che in Italia si poterono fare con abbastanza rapidità perché il governo non aveva bisogno di ricorrere al Parlamento. Fu uno dei pochi casi in cui la fucina dei decreti luogotenenziali funzionò con un certo successo. Mentre in altri campi si dovette lamentare un succedersi vertiginoso di decreti luogotenenziali che venivano a sconvolgere interessi privati, a turbare le transazioni ordinarie, a provocare malanni nuovi nell’aspirazione mai soddisfatta di rimediare a mali antichi, in questo campo la possibilità di poter correggere gli errori inevitabili del primo momento fu veramente utile. Negli Stati Uniti dove non fu possibile al potere esecutivo ottenere i pieni poteri e dove quindi anche durante la guerra fu necessario il consenso del congresso per modificare una legge preesistente, i perfezionamenti nella imposta sui sopraprofitti di guerra furono molto più difficili che fra noi, cosicché una Commissione di studio nominata dall’American Economic Association sul funzionamento delle imposte di guerra dovette concludere che se l’imposta sui soprafitti aveva dato risultati discreti, questi non erano dovuti alla maniera con cui la legge era stata congegnata, ma piuttosto all’abilità e al giudizio discreto degli uffici amministrativi nell’applicare la legge e anche alla lealtà dei contribuenti nell’osservare meglio che potevano le grezze, oscure e sotto molto rispetti dure e disuguali disposizioni legislative. Là è stato un ragionevole arbitrio dell’amministrazione che ha reso possibile di poter applicare la legge com’era originariamente, passando sopra a molte disposizioni inapplicabili o che avrebbero prodotto risultati dannosi. In Italia l’amministrazione poté far a meno di esercitare il suo arbitrio, perché il governo aveva facoltà di emettere continuamente nuovi decreti allo scopo di modificare disposizioni congegnate affrettatamente e che la successiva esperienza aveva dimostrato inapplicabili o troppo ingiuste. Mi tratterrò dunque a considerare la legge quale è oggi, dopo una serie di elaborazioni e di perfezionamenti.

 

 

L’oggetto dell’imposta sui sopraprofitti è costituito di redditi che commercianti, industriali e intermediari hanno ottenuto durante la guerra in più dei redditi antichi, sia che si tratti di redditi veramente nuovi o sia che si tratti dell’incremento sui redditi antichi. Questa definizione dà luogo ad un grave dubbio. Che cosa sono questi nuovi redditi o incrementi di redditi vecchi i quali sono stati realizzati in conseguenza della guerra? È possibile poter fare l’analisi dei redditi per determinare quali dei nuovi redditi o incrementi di redditi siano stati ottenuti per causa della guerra e quali per altre cause – incremento di produzione, nuove iniziative industriali, che si sarebbero avute anche in assenza della guerra? La ricerca della causa di un fatto è sempre cosa difficilissima. In questo caso poi, qualora si fosse realmente voluto fare caso per caso la ricerca dell’origine di un reddito, ci saremmo trovati di fronte a discussioni infinite perché mai contribuenti e finanza avrebbero potuto mettersi d’accordo. Il legislatore tagliò il nodo affermando una presunzione generale, essere cioè «redditi realizzati in conseguenza della guerra», fino a prova contraria, tutti quelli comunque verificatisi per aumento di produzione o di commercio o per elevamento dei prezzi. Basta che vi sia uno di questi due estremi perché si presuma che l’aumento dei redditi sia un nuovo reddito derivante dalla guerra. Trattandosi di presunzione, è consentita la dimostrazione contraria; ma questa deve essere data dal contribuente ed è difficilissima, per lo più impossibile, a darsi. È evidente che, partendo da questa presunzione, quasi tutti i redditi nuovi o incrementi di reddito si debbano considerare come derivanti dalla guerra, perché per considerarli come redditi non dipendenti dalla guerra sarebbe d’uopo supporre un incremento di reddito che si fosse ottenuto a produzione costante ed a prezzi costanti. Come è possibile avere un reddito maggiore di prima quando la produzione resta immutata e quando i prezzi non mutano? Evidentemente c’è una sola maniera di ottenere un reddito netto maggiore di prima in questa ipotesi ed è che la spesa di produzione sia diminuita. Se il caso si avvera, si può ammettere non si tratti di sopraprofitto di guerra, poiché effetto della guerra fu di accrescere, non di diminuire le spese di produzione. In questo unico caso si può ammettere non sia necessaria una prova contraria essendoci una presunzione plausibile che l’incremento non sia connesso alla guerra.

 

 

Tuttavia si potrebbe citare qualche caso in cui vi è una certa probabilità che l’incremento del reddito si sia verificato a produzione costante ed a prezzi costanti appunto per causa della guerra, in conseguenza della diminuzione di costo derivante dalla guerra stessa. Il caso, abbastanza sintomatico, dicesi si sia avuto presso certe imprese di assicurazioni contro gli incendi.

 

 

Si è verificato invero che i redditi netti di alcune imprese di assicurazione contro gli incendi sono aumentati durante la guerra sebbene le tariffe fossero rimaste invariate e gli affari non fossero cresciuti. Quale spiegazione di questo fatto abbastanza singolare si può portare questa: il reclutamento e la chiamata di operai nelle città per le lavorazioni belliche assorbirono dalle campagne, insieme colla grandissima maggioranza di onesti lavoratori, anche quei pochissimi che davano occasione ad incendi dolosi, la cui dolosità non è dimostrabile. Minori occasioni vi furono altresì di incendi accidentali o dovuti ad esplosioni d’ira e di odii famigliari. Diminuiscono così per conseguenza della guerra le spese di produzione; verificandosi un aumento di reddito anche a produzione costante ed a prezzo costante. Ma la singolarità stessa del caso che forse è unico e ancora è dubbio dimostra come il legislatore non abbia ecceduto in larghezza quando ha ammesso che in caso di produzione invariata a prezzi costanti non occorresse la prova contraria per dimostrare che non si trattava di sopraprofitto derivante dalla guerra.

 

 

Chiarito così qual è l’oggetto dell’imposta, vediamo come l’imposta cade su di esso. Il metodo anche qui è stato, dal punto di vista tecnico, corretto, a differenza di quanto si fece per l’imposta complementare sui redditi superiori alle 10.000 lire in cui si commise l’errore di applicare l’aliquota crescente su tutto l’intiero reddito, così da produrre dei salti notevoli nelle somme dovute d’imposta nel passaggio da una categoria all’altra di reddito per incrementi lievissimi di reddito. Qui invece la conformazione tecnica dell’aliquota fu corretta.

 

 

QUOTA DEL REDDITO

Per il periodo fiscale dal1 luglio 1914 al 31 dicembre 1915

Per i periodi fiscali successivi 1916-1917-1918 e 1919

Fino all’8% del capitale investito

esente

esente

Superiore all’8 ma non al 10%

12

20

Superiore al 10 ma non al 15%

18

30

Superiore al 15 ma non al 20%

24

40

Superiore al 20 ma non al 20%

35

60

 

 

Per gli affittuari agricoli le quattro aliquote rimasero sempre del 10, 20 e 30 per 100 rispettivamente.

 

 

Come dice la tabellina stessa, le aliquote del 20, del 30, del 40 e del 60 per 100 colpiscono non l’intiero ammontare del reddito, ma successive frazioni dello stesso reddito; cosicché, ad esempio, se un contribuente o una società ha un reddito che in un determinato anno si ragguaglia al 50 per 100 del capitale investito, di questo suo reddito occorre fare diverse quote: la prima, immune dalla sovrimposta sui sopraprofitti, la quale va fino all’8 per 100 del capitale investito; la seconda, dall’8 al 10 per 100, sarà colpita colla imposta del 20 per 100; la terza, che va dal 10 al 15 per 100 è colpita dall’aliquota del 30 per 100 e così via. Ognuna delle zone di reddito è colpita dalla sua propria aliquota del 20, 30, 40 e 60 per 100, ottenendosi il vantaggio tecnico che la progressione della imposta è in ragione dell’ammontare del reddito e cresce col crescere di quest’ultimo, senza ché vi siano mai salti improvvisi quando si passa da uno scalino di reddito a quello successivo.

 

 

Per gli intermediari non era possibile applicare il criterio relativo alla percentuale sul capitale investito perché essi non hanno un capitale o per meglio dire hanno un capitale personale, il cui valore di mercato non è valutabile. E allora si applicò un altro criterio: la percentuale dell’imposta cresce in ragione di decimi sull’ultra reddito.

 

 

QUOTA DEL REDDITO

Per il periodo fiscale dal1 luglio 1914 al 31 dicembre 1915

Per i periodi fiscali successivi 1916-1917-1918 e 1919

Fino a 1 decimo oltre il reddito ordinario…………………………..

esente

esente

Superiore a 1 decimo e fino a 5 decimi oltre il reddito ordinario…

5

10

Superiore a 5 e fino a 10 decimi c. s.

12

15

Superiore a 10 e fino a 20 decimi c. s. ……………………….

18

20

Superiore a 20 e fino a 30 decimi c. s. ……………………….

24

25

Superiore a 30 oltre il reddito ordinario…………………………..

35

40

 

 

Colui il quale ha un reddito maggiore di solo un decimo al reddito ordinario non paga la sovrimposta sui sopraprofitti; colui il quale ha un reddito superiore all’ordinario di più di 1 decimo ma non più di 5 decimi paga il 10 per 100 su questo decimo in più; e così via fino ad arrivare a quegli intermediari che hanno lucrato più di 30 decimi oltre il reddito ordinario e che pagano il 40 per 100 sull’eccedenza di questo reddito oltre i 30 decimi.

 

 

Aggiungasi senza entrare in troppi dettagli tecnici che tutto il sovrareddito oltre quello ordinario già tassato coll’imposta ordinaria di ricchezza mobile, essendo accertato a parte ai fini della sovrimposta sui sopraprofitti, doveva essere tassato altresì coll’imposta ordinaria di ricchezza mobile. Come conoscere un reddito e non tassarlo? Così fu che alla sovrimposta indicata si deve aggiungere sempre la imposta normale di ricchezza mobile, colle sue aliquote proprie.

 

 

La breve esposizione che ho fatto del congegno dell’imposta mostra la necessità di determinare i concetti di «reddito ordinario» e di «capitale investito», poiché l’imposta è tutta imperniata su questi due concetti fondamentali: Cos’è reddito ordinario e cos’è capitale investito? Vi fu nella nostra legislazione una certa oscillazione nel formulare questi due concetti. Originariamente si era detto: reddito «ordinario» è quel tal reddito il quale era stato accertato ai fini dell’imposta di ricchezza mobile per il biennio 1913-’14. «Accertato» ai fini dell’imposta per quel biennio voleva dire reddito «ottenuto» in un periodo antecedente ancora, per lo più verso il 1911 e 1912. Quid per tutti i «nuovi» redditi per cui il reddito «accertato» in quel biennio non esisteva? Per essi il legislatore dovette stabilire la presunzione che il reddito ordinario fosse un reddito determinato con opportuni confronti sulla base di quello che era stato accertato ai contribuenti esercitanti la medesima industria e commercio e posti nelle medesime condizioni: si andava cioè per via di paragone. In ogni caso però il reddito ordinario non poteva per alcun contribuente, anche per quelli già tassati, essere calcolato in una cifra inferiore all’8 per 100 del capitale investito. Si presentò subito il quesito dei redditi i quali non erano nuovi del tutto né semplicemente vecchi; ma corrispondevano ad un incremento di investimento da parte del medesimo contribuente. Tizio aveva prima della guerra un capitale di 100.000 lire e otteneva un reddito, supponiamo, di 8.000 lire all’anno. Questo sarebbe stato il reddito ordinario, se non avesse accresciute le dimensioni della sua intrapresa. Ma se Tizio portò il suo capitale da 100 a 200.000 lire non sarà più corretto considerare come reddito ordinario quello di 8.000 lire perché questo reddito, corrispondente ad un capitale di 100.000 lire, non può più essere il reddito ordinario corrispondente a 200.000 lire. Perciò fu stabilito che per i nuovi capitali investiti da vecchi contribuenti si considerasse come reddito ordinario la medesima percentuale di reddito che era fruttata dai vecchi capitali già investiti; quindi se il vecchio capitale fruttava 8 o meno dell’8 per 100 i nuovi capitali si consideravano come ordinariamente fruttiferi dell’8 per 100. Se poi i vecchi capitali, per esempio, fruttavano già prima della guerra di più dell’8 per 100, ad esempio, il 20 per 100, allora il reddito ordinario per detto capitale era già del 20 per 100 del capitale investito; ed in conformità al concetto informatore della legge, la sovrimposta straordinaria colpiva solo le eccedenze di reddito oltre il 20 per 100. Ciò era logico. Ma la logica fu alquanto spinta quando si ammise che anche i nuovi capitali aggiunti ai primi si considerassero come fruttiferi del medesimo reddito ordinario; se il vecchio capitale otteneva il 20 per 100 si reputò che anche il nuovo fruttasse ordinariamente il 20 per 100. L’ipotesi era un poco azzardosa. Se si ammette che il capitale già investito frutti il 20 per 100, è giusto partire da questa base, perché l’imposta vuol colpire solo gli incrementi di reddito derivanti dalla guerra e lasciare immuni redditi anche alti quando questi si avevano già prima della guerra. Non sembra però corretto ammettere senz’altro che i nuovi capitali siano capaci di fruttare il 20 per 100, solo perché si aggregano a capitali che davano precedentemente questo frutto. In realtà non è sempre possibile ad un industriale aumentare il capitale investito nell’azienda e ottenere che l’incremento di capitale continui a fruttare la medesima percentuale. È probabile invece, che a partire da un certo punto non di rado la produttività netta dei capitali sia decrescente.

 

 

Un’ultima importantissima modificazione nel concetto del reddito ordinario fu quella che prese le mosse da una osservazione fatta da molti industriali e ripetuta anche da studiosi. Sta bene, si disse, che si consideri come reddito di guerra tutto ciò che supera il reddito ordinario di pace; ma come viene calcolato questo reddito ordinario o di pace? Secondo il testo originario legislativo il calcolo si faceva, come vedemmo, sulla base di un accertamento fatto prima della guerra, accertamento registrato sui ruoli della imposta di ricchezza mobile del 1913-14. Quale l’inconveniente pratico e l’ingiustizia che ne derivano? Questo: che prima della guerra i metodi di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile erano rilassati e si procedeva quasi sempre per via di concordati, di medie, di contrattazioni fra agenzia imposte e contribuente. Era raro il caso (limitato quasi soltanto a società anonime) che fossero tassati i redditi effettivi. Era noto e universalmente ammesso che i redditi su cui i contribuenti venivano tassati erano inferiori a quelli reali; ed era quindi frequente il caso che il contribuente il quale aveva in realtà 100.000 lire di reddito era tassato su sole 50.000. L’evasione poteva anche non produrre conseguenze fiscalmente dannose; nel senso che per una imposta ciò che sopratutto conta non è l’altezza dell’aliquota sibbene la perequazione dell’accertamento. Se supponiamo che la medesima regola rilassata fosse stata adottata per tutti i contribuenti, tutti sarebbero stati tassati sulla metà del reddito effettivo; e tutti sarebbero perciò stati tassati perequatamente, pagando tutti un’aliquota forte sulla metà del reddito. Non intendo con ciò lodare la rilassatezza negli accertamenti, che è invece grandemente biasimevole; ma solo segnalare la cagione per cui il fatto era guardato con una certa benignità. Comunque sia di ciò, si ebbe la conseguenza che l’imposta sui sopraprofitti venne necessariamente a cadere su ciò che non era reddito di guerra ma che invece era reddito preesistente di pace. In virtù  dei maggiori poteri inquisitori concessi alle agenzie delle imposte, queste vennero durante gli anni di guerra a conoscere molto più esattamente il reddito dei contribuenti di quanto non fosse mai accaduto prima. Mentre prima, per tornare all’esempio già fatto, non si riusciva ad accertare che 50.000 lire su 100.000, dopo si riuscì ad accertare tutte le 200.000 effettive di reddito ottenuto. Ciò fu un bene; probabilmente il vero risultato netto permanente dell’imposta. Siccome però l’imposta di guerra cade sulla differenza fra reddito ordinario «accertato» e reddito di guerra «accertato», l’imposta nuova considerò come reddito di guerra la differenza fra 200.000 e 50.000 e tassò come reddito derivante dalla guerra tutte le 150.000 lire di eccedenza sull’accertato, mentre invece il reddito vero di guerra era soltanto eguale alla differenza fra il vero reddito antico, 100.000, e il nuovo di 200.000 lire. L’imposta di guerra cadde così anche sulle prime 50.000 lire che non erano affatto connesse colla guerra. L’inconveniente di far pagare l’imposta di guerra su una somma che era viceversa reddito di pace poteva essere e fu da taluno considerato come una penalità non del tutto immeritata per la frode consumata dal contribuente nel periodo antecedente; penalità solo in parte meritata, perché come si può dire meritata una penalità quando l’amministrazione finanziaria medesima era complice della mite tassazione colla sua acquiescenza? E come si può ammettere che si istituiscano penalità senza dirlo chiaramente, come conseguenza imprevista di testi di legge non a sufficienza ponderati, per colpe passate e su alcuni soltanto dei contribuenti colpevoli? E non aveva il sistema scelto per effetto di stimolare fortemente il contribuente a resistere ai nuovi accertamenti, dandogli la convinzione di combattere per la difesa della giustizia ossia per salvare dalla sovrimposta di guerra ciò che invece era in realtà reddito di pace? Ben fece perciò il legislatore ad affermare recentemente il giusto principio che per il 1918 e 1919 i contribuenti hanno la facoltà di dimostrare che il loro reddito vero prima della guerra non era quello accertato ai fini dell’imposta di ricchezza mobile per il 1913 e 1914. Nel caso che essi diano questa dimostrazione, per il 1918-19 l’imposta sui sopraprofitti cadrà soltanto sul di più oltre il reddito vero. Il principio è corretto in quanto che l’imposta sui redditi di guerra viene così a colpire soltanto ciò che è realmente reddito conseguente alla guerra; il contribuente è abbastanza punito della sua frode antica coll’essere indotto dal suo medesimo interesse a confessare il suo reddito permanente di pace, fornendo così al fisco la dimostrazione di essere in grado di pagare permanentemente l’imposta ordinaria di ricchezza mobile su un reddito effettivo maggiore di quello accertato nel 1913-’14. Il principio fu però applicato con esitanza ed in maniera non compiuta: se è corretto che i contribuenti siano tassati per il 1918-’19 soltanto su ciò che supera il reddito vero che essi dimostrano aver guadagnato prima della guerra, perché non dovrebbe ciò essere corretto anche per gli anni 1917, 1916, 1915-’14? Un reddito dimostrato vero non può esser vero soltanto per un anno e lo deve essere per tutti gli anni in cui si applica l’imposta. V’è contraddizione fra il considerare vera una circostanza in riflesso a certi anni e non tenerne conto invece in riflesso a certi altri. Ciò produce anche un’altra conseguenza perniciosa: che quei contribuenti i quali avrebbero potuto essere disposti a confessare i loro veri redditi preesistenti alla guerra per essere tassati giustamente nei riflessi dell’imposta sui sopraprofitti, oggi rimangono impensieriti perché quella loro confessione riferendosi indirettamente anche negli anni 1914-15, ’16 e ’17 dà in mano al fisco un’arma per tassarli ingiustamente. Il legislatore si è così arrestato a metà via, ha dato facoltà di dichiarare il vero ma solo per gli ultimi anni e non per gli anni precedenti e così ha reso quasi impossibile ai contribuenti che vorrebbero dichiarare la verità di farlo perché si esporrebbero al pericolo di dover pagare per i primi esercizi l’imposta di guerra anche su ciò che non è veramente reddito di guerra.

 

 

L’altro concetto da cui dipende l’assetto dell’imposta è quello del «capitale investito». Il nostro legislatore per capitale investito intende quello che da libri o atti regolarmente tenuti e compilati e da altre prove certe anteriori alla pubblicazione del regio decreto 21 novembre 1915 risulta come effettivamente impiegato nella produzione del reddito. La definizione è semplice e sembra sia chiara e tale da non dar luogo a controversie. Ricorderò tuttavia un punto che meritava di essere approfondito: che cosa accade per le società e in genere per gli industriali i quali hanno un capitale preso a prestito? Il capitale preso a prestito è o non è da considerarsi come capitale investito nell’azienda, produttivo di redditi, ossia quel capitale in base a cui si calcolano le percentuali? Questa è una domanda molto importante perché il congegno che ho delineato crea una contraddizione di interesse fra contribuente e fisco rispetto alla cifra del capitale investito. Il contribuente ha interesse diretto, vivissimo a gonfiare la cifra del capitale investito, perché quanto più grande è il capitale investito tanto più piccole diventano le percentuali di reddito e tanto maggiore è la probabilità che il suo reddito non abbia a superare o a superare di poco l’8 per 100; mentre invece se il capitale investito è piccolo allora è facile che il suo reddito superi l’8 per 100 e lo superi di molto e quindi una grossa parte di esso cada nell’ultima categoria dei redditi, superiori al 20 per 100 del capitale investito e debba pagare il 60 per 100 d’imposta sul suo ammontare. Il contribuente è interessato a far figurare quanto più grande è possibile il capitale investito, considerando come tale anche il capitale obbligazionario, o preso a prestito o avuto con ipoteche, cambiali, ecc.; perché crescendo il capitale investito viene a diminuire la percentuale di utile su di esso e quindi la percentuale dell’imposta. E si potrebbe con un certo fondamento sostenere che il contribuente è dalla parte della ragione, perché quando si dice «capitale investito nella produzione del reddito» non si esclude nulla di ciò che in realtà è investito a tale scopo; né si distingue fra capitale proprio del contribuente e capitale preso a prestito. Anzi la distinzione pare illogica, perché la responsabilità del proprietario dell’azienda non si limita al capitale proprio; ed è anche maggiore e più delicata rispetto ai creditori verso i quali è responsabile del rimborso di tutto il capitale preso a prestito con obbligazioni o cambiali o in conto corrente. Né l’imposta ha carattere personale e vuol colpire le diverse persone interessate nell’impresa; ma è reale e vuol colpire la maggiore o minore produttività dell’impresa come tale, astrazion fatta dalle persone che concorsero a fornire i capitali in essa investiti o dalle modalità giuridiche del conferimento. Si potrebbe quindi anche ammettere che tutto il capitale investito sia da considerarsi come tale anche se in parte è preso a prestito; tenendosi naturalmente conto in tal caso degli interessi passivi in detrazione e comprendendo questi nel reddito ordinario. Fa d’uopo riconoscere però come siffatto metodo sarebbe stato disforme da quello accolto nella legge di imposta sulla ricchezza mobile a cui i decreti sui sopraprofitti sempre fanno richiamo; nella quale degli interessi passivi si tiene conto per detrarli dal reddito proprio del contribuente, tassando i primi in categoria A (redditi di capitale puro) ed il reddito residuo in categoria B (redditi misti di capitale e di lavoro). Così si fa, per il calcolo del reddito imponibile, anche per l’imposta sui sopraprofitti; ed è logico che in tal caso non si debba far entrare le somme prese a prestito nella cifra del capitale investito. Scema così quest’ultima cifra, crescono le percentuali del reddito e cresce per conseguenza la percentuale d’imposta da pagarsi dal contribuente.

 

 

Una questione molto importante che è sorta dappertutto rispetto alla tassazione dei sopraprofitti è quella degli ammortamenti. Rispetto agli ammortamenti prima della guerra c’era giurisprudenza, una certa pratica amministrativa variabile da provincia a provincia, ma che si era in certo qual modo assodata; per esempio si ammettevano certe percentuali di ammortamento per le diverse specie di capitali: un tanto per cento per gli edifici, un tanto per cento per il macchinario, per i motori, ecc. È chiaro che le quote di ammortamento debbono essere considerate come una spesa se non si vuole tassare come reddito ciò che invece è spesa. L’imposta sui sopraprofitti pose però dinanzi nuovi problemi a questo riguardo. Erano sufficienti le vecchie percentuali, che di solito erano miti, del 2, 3, 4 per 100 colle quali si intendeva ricostituire il capitale in un periodo di tempo lungo, variabile dai 10 ai 50 anni? Bastavano queste percentuali di ammortamento rispetto ai capitali investiti nelle imprese aventi per iscopo forniture di guerra? Evidentemente no; in quanto che nuovi fatti sorgevano a rendere necessaria una modificazione delle antiche norme.

 

 

Tutti gli industriali furono costretti durante la guerra a comperare affrettatamente, ed a prezzi grandemente accresciuti in confronto agli antichi, macchinari per la produzione di armi e di munizioni, macchinari destinati, a guerra finita, ad essere deprezzati fino a valere poco più del materiale grezzo di cui sono composti. Ecco quindi la necessità di adottare periodi molto più brevi di ammortamento, ecco la necessità che il sopracosto straordinario, eccezionale dovesse essere ammortizzato nel breve periodo di tempo in cui il legislatore supponeva dovesse continuare la guerra. Questa necessità fu riconosciuta ed accolta. Si considerano infatti come passività deducibili tutte le svalutazioni e gli ammortamenti eccezionali di speciali impianti fatti per l’esecuzione di forniture di guerra, distinguendoli in tre parti: la prima è quella del sopraprezzo che a causa dello stato di guerra fu dovuto pagare per i nuovi impianti e per le trasformazioni eseguite negli impianti vecchi per la esecuzione delle forniture di guerra. Questo sopraprezzo si ammise fosse ammortizzato nello stesso anno dell’acquisto. Una seconda parte dell’ammortamento eccezionale è quella dovuta al sopralogorio. Gli impianti furono assoggettati ad una pressione produttiva molto più forte dell’ordinaria, furono affidati a maestranze meno esperte delle antiche, donde logorio più rapido, maggior facilità di guasti. Perciò si ammise che il sopralogorio fosse pure ammortizzato in un periodo di tempo brevissimo, nel periodo in cui il legislatore suppose dovesse continuare la guerra, ossia entro il 1919. Si divide quindi il sopralogorio in tante annualità quante rimangono, dall’anno dal quale si parte fino alla fine della guerra e in ognuno di quegli anni si può ammortizzare una di quelle annualità. Il sopralogorio, per presunzione generale, si intende sia eguale alla differenza fra il valore che il macchinario ha in inventario, detratto s’intende il sovraprezzo già ammortizzato a parte e il valore che si suppone l’impianto possa avere alla fine della guerra, ossia, come si esprime il legislatore, il valore attribuibile agli impianti e trasformazioni a guerra finita. Se non c’è modo di calcolare esattamente questo valore alla fine della guerra, si suppone esso sia eguale al 20 per 100 dell’effettivo costo totale. Il 20 per 100 ora detto costituisce la terza parte del valore degli impianti compiuti durante la guerra; e questa, siccome si suppone esistente ancora a guerra finita, costituisce la parte permanente del valore degli impianti stessi; e si ammortizza con le norme solite dell’ante-guerra. Trattasi di norme empiriche; ma tali che si possono considerare come abbastanza rispondenti allo scopo che il legislatore voleva ottenere, quello di non tassare come reddito ciò che era invece una spesa di ammortamento da farsi durante la guerra.

 

 

Oltre a queste deduzioni per ammortamento il legislatore ne concesse un’altra che già da lunghi anni gli industriali chiedevano ai fini dell’imposta ordinaria di ricchezza mobile, e cioè che fosse calcolata fra le spese di produzione le tasse di registro che l’industriale pagava per i contratti di appalto fatti collo Stato. La finanza partendo dalla dizione letterale della legge si era sempre rifiutata di concedere questa deduzione di spesa. Invece in regime di imposta sui sopraprofitti il legislatore aderì a che queste tasse potessero essere considerate come spese, come in realtà sono; limitando però la sua concessione alle seguenti condizioni:

 

 

  1. che i contratti di appalto fossero inerenti alla produzione del reddito;

 

  1. che della tassa il contribuente provi non essersi tenuto conto nella determinazione del reddito.

 

 

Man mano che la guerra andava avvicinandosi alla fine, un nuovo elemento prendeva sempre maggiore consistenza e doveva essere tenuto in considerazione e lo fu in effetto con un decreto recentissimo del 5 gennaio 1919. Questo elemento era la possibilità delle svalutazioni che la fine della guerra poteva produrre nelle esistenze di magazzino, ed in genere in tutto ciò che formava attività dell’azienda.

 

 

Il saldo utile di una qualsiasi azienda è una differenza fra partite attive e partite passive. Se fra le partite attive vi sono le esistenze di magazzino, che sono valutate ai prezzi gonfiati della guerra, risulta un saldo utile notevole che è tassabile, e fortemente, ai fini dell’imposta. Molte volte questo saldo utile non è realizzato, ma risulta soltanto da scritturazioni, e gli industriali si vedono davanti il pericolo di pagare l’imposta su redditi non ancora realizzati che sono soltanto la differenza fra cifre attive e cifre passive del bilancio.

 

 

Per ovviare in parte a questo danno il decreto luogotenenziale del 5 gennaio 1919 ordinò: «La imposta e sovrimposta accertata agli effetti dell’applicazione per il 1918 sugli utili che, giusta i bilanci costituenti le basi dei singoli accertamenti per l’anno stesso, risultino dalle Società ed Enti di cui all’articolo 25 della legge sull’imposta di R.M., accantonati a speciale riserva per far fronte alle svalutazioni che nell’anno 1919 potranno verificarsi sulle merci, valori e crediti, saranno quando le Società od Enti dimostrino di avere impiegato detta riserva per lo scopo per il quale essa fu costituita». Così per il 1918 gli industriali e le società industriali, i quali temono che le loro attività possano sgonfiarsi e scomparire e dar luogo magari a perdite invece degli utili che si erano immaginati, avranno diritto di mandare quegli utili ad una speciale riserva, anziché distribuirli. Se nel 1919 sarà accertato che quella riserva o parte di essa sarà stata adoperata per far fronte a svalutazioni effettivamente verificatesi nelle merci, valori e crediti, la finanza restituirà l’imposta pagata nel 1918 sugli utili che erano stati accantonati.

 

 

Norma provvida, la quale accoglie il principio da lungo tempo esposto dagli studiosi della legislazione ordinaria sui redditi mobiliari della compensazione fra redditi di un esercizio e perdite di un altro esercizio. Sarebbe però utile che, anziché applicarsi solo al 1918, pur non volendo rinvangare gli accertamenti del 1914-’15 e 1916, tenesse conto anche dell’esercizio 1917, tanto più che praticamente l’amministrazione finanziaria non ha ancora eseguito se non per casi specialissimi gli accertamenti per quell’anno e può benissimo darsi che in parecchi casi gli utili accertati per il 1917 siano destinati poi ad essere ingoiati da perdite che si verificheranno nel 1919 o magari si sono già verificate nel 1918. Sarebbe cioè desiderabile che gli accertamenti del reddito si facessero cumulativamente per tutti e tre gli esercizi. La divisione in esercizi è del resto una divisione artificiale, è una finzione nostra che ci riesce utile per regolare i conti delle amministrazioni private e pubbliche, per definire i rapporti della vita civile ed economica, ecc. In realtà la vita di una azienda industriale è una vita continuativa; il profitto e la perdita sono fatti che si possono più agevolmente constatare in una serie di anni anziché anno per anno. Nel caso nostro di una imposta che ha per iscopo di colpire i redditi ottenuti in conseguenza della guerra si dovrebbe, almeno astrattamente, colpire l’intiero profitto ottenuto in tutto il periodo di guerra cumulativamente preso, tenendo conto anche delle ripercussioni che la guerra potrà avere nel periodo successivo. La separazione in periodi è una finzione che può magari condurre a ingiustizie stridenti. Un contribuente, per fare un esempio, il quale abbia ottenuto nel primo periodo un reddito di 100.000 lire, nel secondo periodo abbia avuto una perdita di 100.000 lire, nel terzo un nuovo utile di 100.000 lire e nel quarto di nuovo una perdita di 100.000 lire in realtà ha ottenuto un reddito zero; eppure, sulla base della legislazione vigente, egli è tassato su 100.000 lire di reddito del primo e su altrettanto del terzo anno; nel secondo e nel quarto in cui ha avuto perdite, la finanza non lo tassa ma nemmeno gli rimborsa l’imposta che ha dovuto pagare negli altri anni. L’esempio ipotetico raffigura un caso estremo. Ma i casi intermedi debbono essere abbastanza frequenti. Sarebbe quindi logico che la tassazione avvenisse per tutto il periodo della guerra. Ammettiamo pure che praticamente ciò possa portare qualche inconveniente; ma indubbiamente per le tassazioni ancora da farsi, che sono quelle del 1917, del 1918 e del 1919, sarebbe opportuno fare una compensazione fra guadagni e perdite in guisa da tassare soltanto ciò che è reddito effettivo netto residuale.

 

 

L’imposta sui sopraprofitti è stata caratterizzata da norme che ai miei occhi hanno un valore superiore allo stesso valore fiscale dell’imposta come fonte diretta di entrata e come strumento di perequazione; essa è stata vantaggiosa perché ha introdotto nella nostra legislazione norme che non potranno più cadere; anzi dovranno essere in avvenire estese alle imposte ordinarie sul reddito. La prima di queste norme è quella relativa alle maggiori facoltà di indagine che l’amministrazione finanziaria ha acquistato. Mentre prima essa poteva prendere visione soltanto dei libri delle società anonime o in accomandita per azioni, adesso questa facoltà è stata estesa a tutte le altre forme di società e anche agli industriali e commercianti privati. È bastata questa maggiore facoltà di indagine data all’amministrazione perché si accertassero i redditi normali già esistenti prima della guerra in cifre notevolmente superiori a quelle che risultavano un tempo dai concordati intervenuti fra finanza e contribuente. Il vantaggio è serio e duraturo.

 

 

La nuova imposta ha pure introdotto una maggiore serietà per quello che si riferisce alle dichiarazioni dei contribuenti. La dichiarazione del reddito da parte dei contribuenti non è cosa nuova nella nostra legislazione; ma l’obbligo, in realtà, era stato scritto sulla carta ma non tradotto in atto. La nuova imposta sui sopraprofitti invece commina forti penalità per le omissioni (penalità eguale alla sovrimposta) e per le dichiarazioni difettose perché inferiori al vero (penalità uguale precisamente alla sovrimposta che avrebbe dovuto essere pagata sulla somma omessa). E queste penalità pare che non di rado siano state realmente inflitte.

 

 

Specialissime cautele furono poi prese nei riguardi dei contribuenti morosi. Invece della semplice pignorazione di beni mobili da eseguirsi in un momento in cui il contribuente aveva già provveduto a farli scomparire, invece della semplice messa all’incanto di beni che magari non esistevano, l’amministrazione fu dotata del potere speciale di far dichiarare in date contingenze il fallimento del contribuente moroso con tutte le conseguenze del fallimento, e di provocare talvolta il sequestro conservativo sulle attività del contribuente. Furono anche stabilite responsabilità molto rigide a carico di tutti coloro che potevano essere indirettamente obbligati al pagamento dell’imposta. Gli industriali, per esempio, furono dichiarati solidariamente responsabili per l’imposta dovuta dagli intermediari, di cui si servivano, sulle provvigioni ad essi dovute; cosicché l’amministrazione sapesse, in caso di insolvenza dell’intermediario, contro chi rivolgersi in linea sussidiaria. Per evitare che i contribuenti con cessioni frodolente delle loro aziende sfuggissero all’imposta fu dichiarata la responsabilità dei cessionari delle aziende commerciali ed industriali per l’imposta e sovrimposta gravante sui redditi di guerra dei precedenti esercizi, presumendo come cessionari coloro che continuavano in qualunque modo l’azienda già esercitata dal cedente ed elevando a criterio presuntivo di avvenuta cessione il semplice fatto dell’esercizio della medesima industria o commercio nei medesimi locali che prima erano occupati dal presunto cedente; così da mettere in grado l’amministrazione di esercitare la propria azione su qualcosa di tangibile nel caso si fosse fatta una cessione frodolenta. Furono anche sancite norme le quali stabiliscono la responsabilità per il pagamento dell’imposta e relative penalità degli amministratori delle società in accomandita per azioni in carica all’atto della messa in liquidazione delle società e nei 12 mesi precedenti e dei liquidatori togliendo così la possibilità di sciogliere frodolentemente le società allo scopo di far diventare inesigibile l’imposta.

 

 

È da credere che queste ottime norme rimarranno nella legislazione anche quando scomparirà l’imposta sui sopraprofitti e assicureranno una maggior giustizia e una maggiore equità nei rapporti fra contribuenti e finanza.

 

 

Dopo l’esposizione, qualche breve critica.

 

 

Rispetto agli ammortamenti si può osservare che il legislatore da un certo punto di vista è stato troppo ristretto, da un altro punto di vista troppo largo nel concederli. Ristretto nel senso che gli ammortamenti eccezionali di guerra furono concessi solo per gli impianti fatti «in contemplazione delle forniture di guerra». Lo Stato però, oltre i redditi connessi colle forniture di guerra, ha tassato anche i sopraredditi di guerra che si ottennero con imprese che non avevano nulla a che fare colle forniture; ora è ingiusto che lo Stato mentre le tassa, neghi a queste imprese il diritto agli ammortamenti straordinari che sarebbero a giusta ragione loro dovuti perché anch’esse possono essere costrette a fare impianti nuovi, a comperare macchine a costo cresciuto, ecc.

 

 

Da un altro verso il legislatore fu un po’ troppo largo nel calcolare gli ammortamenti; ciò che ebbe per effetto che gli industriali largheggiassero nel far impianti perché in molti casi i denari eventualmente risparmiati sugli impianti avrebbero dovuti darli allo Stato sotto forma di imposta. Accadde non di rado così che, coi denari che si sarebbero dovuti pagare allo Stato a titolo di imposta, si facessero impianti anche malfatti, a costo eccessivo, senza badare a risparmi. Inconveniente non piccolo perché provocò un aumento ulteriore nel prezzo dei materiali da costruzione e un impiego inutile di lavoro che avrebbe potuto essere meglio impiegato in lavori più necessari.

 

 

Un’altra imperfezione grave dell’imposta è che essa non tiene calcolo degli incrementi nello sviluppo delle imprese non dipendenti strettamente dalla guerra ma piuttosto dal progresso naturale delle aziende stesse. Suppongasi ad esempio una impresa industriale che si fosse formata nel 1910 e che nel periodo precedente alla guerra si trovasse nel periodo di formazione, di infanzia cosicché i suoi redditi fossero molto bassi. Viene la guerra; l’impresa vede i suoi redditi aumentare; ma aumentando per conseguenza della guerra o del suo naturale sviluppo? Potrebbe darsi che non la guerra, ma l’impulso precedente, la maturità sopravvenuta dell’impresa fossero la causa del crescente reddito. È vero che nella nostra legislazione è consentito al contribuente di dimostrare che, malgrado l’aumento di produzione e di commercio, il maggior reddito non deriva dalla guerra. In realtà la prova è difficilissima a darsi. Nella legislazione inglese si diede il carico ad una commissione speciale di valutare questi casi singolari, sì da valutare quale avrebbe dovuto essere lo svolgimento naturale dei redditi, astrazion fatta dalla guerra, per quelle categorie di industrie o imprese che si trovavano nel loro periodo formativo prima dello scoppio della guerra.

 

 

Ma forse l’inconveniente di maggior rilievo è dato dal congegno adottato per la misurazione dell’imposta per cui si tassa non il più del reddito, ma il di più della percentuale del reddito stesso sul capitale oltre una percentuale base. Questo inconveniente è stato perfettamente lumeggiato dal professor Seligman dell’Università di Columbia, il quale nella Political Science Quarterly del marzo 1918 scriveva: «Si può dire qualcosa a favore di una imposta progressiva sul capitale ma è difficile dire qualche cosa in difesa di una imposta la quale sia graduata progressivamente sulle percentuali variabili del reddito in confronto al capitale. Penalizzare lo spirito di invenzione e di intrapresa in una maniera assurda nel caso dell’imposta sul reddito e sul capitale, ecco la caratteristica unica della imposta sugli extra-profitti. In primo luogo, se è vero che gli extra-profitti sono talvolta il risultato, in parte almeno, dell’ambiente sociale, essi non di rado debbono essere attribuiti all’abilità ed allo spirito d’invenzione individuale. Mentre è perfettamente corretto che una parte dei profitti debba andare a favore della società, non si capisce affatto perché l’imposta debba essere graduata secondo il grado di capacità inventiva dimostrata. Ma v’è una considerazione ancor più importante da fare: quasi tutte le grandi intraprese sono cresciute da umili principii; ed è precisamente in questi umili principii che la percentuale dei profitti al capitale investito è massima. Il criterio scelto, perciò, è quello che meglio poteva proporsi lo scopo di frenare l’industria, di reprimere lo spirito di intrapresa nel suo bel principio e di conferire un vantaggio artificiale alle imprese grandi e fortemente stabilite».

 

 

Quale è il significato della critica dello Seligman? Che il sistema scelto porta a questo risultato: sono puniti o sovratassati quei contribuenti i quali riescono a far fruttare maggiormente il loro capitale. Se un contribuente è così poco abile che non riesce a far fruttare il suo capitale più dell’8 per 100 non paga imposta; un altro contribuente che colla sua abilità riesce dallo stesso capitale ad ottenere un reddito molto maggiore, paga l’imposta.

 

 

Si viene in tal modo a dare un premio a coloro che utilizzano poco i loro capitali, a coloro che con un determinato capitale riescono a far pochi affari, che col massimo sforzo ottengono il minimo risultato. Il principio fondamentale delle scienze fisiche e chimiche, della meccanica applicata, della scienza economica – la legge del minimo sforzo per ottenere il massimo risultato – viene addirittura capovolto. È poi anche probabile che l’imposta congegnata in questa maniera produca l’effetto di tassare di più le piccole in confronto delle grandi intraprese; in quanto che è più facile che una piccola intrapresa diretta da una persona che abbia capacità e spirito speculativo riesca con piccolo capitale ad ottenere un forte rendimento, essendo in essa il valore dell’opera congiunta al capitale; e allora è tassata coll’aliquota massima.

 

 

Sostanzialmente dunque l’imposta, per il modo tecnico come è congegnata, produce questi risultati: di multare coloro i quali sanno far rendere assai il capitale e di essere antidemocratica nel senso di favorire per solito le grandi intraprese e pesare fortemente sulle piccole intraprese. Questa ultima considerazione mi fornirà l’addentellato per venir a discorrere in seguito delle possibili trasformazioni dell’imposta, trasformazioni che sono chieste da varie parti in quanto si vuole che questa imposta, opportunamente modificata, duri e diventi un elemento permanente del nostro sistema tributario.

Esame critico della finanza bellica in Italia

Esame critico della finanza bellica in Italia

Il problema della finanza post-bellica, Fratelli Treves, Milano 1920, pp. 1-25

 

 

 

 

Iniziando questo breve corso di cinque lezioni intorno al problema della finanza post-bellica debbo innanzitutto premettere una dichiarazione sull’indole del corso medesimo. Esso non vuole essere una trattazione approfondita del problema, quale potrebbe formare oggetto di una monografia avente carattere prettamente scientifico o di una relazione avente per iscopo di dimostrare la opportunità e la giustizia di nuove norme che si vorrebbero introdurre nella nostra legislazione. Il corso vuole invece essere una semplice esposizione di alcuni fatti essenziali e di alcune principali correnti dottrinarie e legislative le quali si sono manifestate in Italia e all’estero sul problema attuale e vivo della finanza nel periodo post-bellico.

 

 

Neppure sosterrò una tesi particolare, una soluzione contro le altre; ma pur non nascondendo le mie predilezioni e convinzioni, cercherò di mettere dinanzi a voi come si ponga il problema tributario post-bellico, quali soluzioni furono proposte, quali le argomentazioni, pro e contro di esse. Più che una soluzione del problema, vorrei indicare i mezzi ed i dati con cui ognuno possa riflettere sul problema e trovare da sé le vie della soluzione più confacente alle proprie inclinazioni intellettuali, alle proprie convinzioni economiche, sociali e politiche.

 

 

Diceva l’Edgeworth in una recente occasione parlando dalla cattedra di Oxford, fondata nel 1827 dal signor Drummond, che forse questi errava per entusiasmo supponendo che le conclusioni a cui poteva giungere la scienza economica fossero così sicure come quelle dell’astronomia. A tal punto di certezza non è giunta la scienza economica e neppure quella finanziaria. Più che a conclusioni sicure ed a previsioni attendibili noi possiamo ambire a rimuovere ambiguità ed a definire esattamente i problemi da discutersi. Le soluzioni potranno essere poi determinate da fattori contingenti, politici, sociali, imponderabili che in questa sede non si potrebbero neppure discutere e non si possono prevedere esattamente. Ciò che importa, si è che ad una soluzione si venga con una chiara visione dell’importanza e del contenuto del problema.

 

 

Naturalmente, nel compiere l’opera mia, dovrò valermi di una certa facoltà discrezionale nella scelta dei punti da trattare. Non cinque, ma trenta lezioni sarebbero a mala pena sufficienti per discutere adeguatamente tutti gli intricati e complessi problemi che la finanza post – bellica fa sorgere. Non un limitato spazio di tempo per ogni lezione, ma l’ampiezza illimitata della carta su cui si tracciano i pensieri farebbe d’uopo per non dimenticare nulla che paia essenziale. Una scelta perciò s’impone e sarà necessariamente tale da lasciare insoddisfatti coloro che non vedranno trattato quel punto o quegli aspetti che ad essi sembravano essenziali, più essenziali di quelli che a me sarà parso necessario mettere in luce. Ma è questa una mancanza inevitabile, per la quale voi mi dovrete concedere venia.[1]

 

 

Una esclusione intanto vuole essere qui senz’altro affermata. Per ragioni di tempo mi limiterò esclusivamente alla politica tributaria. Rimane escluso ogni accenno alla politica dei debiti pubblici sia durante che dopo la guerra e quindi non si fa alcun accenno di quel problema dominante in questa materia che è il debito acceso per mezzo di emissioni di carta-moneta. Suppongo cioè, per pure esigenze di esposizione e per non imbrogliare continuamente la trattazione con referenze a questo elemento perturbatore, che la circolazione cartacea rimanga nell’immediato periodo post-bellico al livello comparativo a cui è giunta oggi. Ossia suppongo che la potenza acquisitiva della moneta rimanga, come è oggi, per fatto del tesoro italiano, bassa e che quindi prezzi e redditi, per quanto tocca il governo della circolazione, rimangano elevati. Ciò non impedisce che per altre cause i prezzi possano ribassare. L’ipotesi fatta si limita ad escludere che il tesoro di sua iniziativa, accendendo un debito apposito o profittando di eventuali – improbabilissimi – avanzi di bilancio, riduca la circolazione cartacea. Non voglio, ciò supponendo, menomamente pregiudicare la questione se sia opportuno o meno una riduzione della massa cartacea circolante. Una trattazione speciale sarebbe necessaria all’uopo. Voglio fare solo un’ipotesi a scopo di esemplificazione didattica. Può darsi che l’ipotesi fatta risponda a quella che è la maggiore probabilità rispetto alla politica che di fatto sarà seguita dal tesoro. E non è inopportuno che l’ipotesi semplificativa non contraddica alla situazione di fatto quale si viene delineando.

 

 

La prima, fondamentale domanda che noi ci dobbiamo mettere è la seguente: quale è il fabbisogno a cui occorre provvedere in conseguenza della guerra? Una risposta precisa, alla lira, è impossibile dare. Bisogna contentarsi di approssimazioni per centinaia di milioni. Finora due valutazioni soltanto sono state fatte, ambedue autorevoli; l’una del senatore Wollemborg in uno studio sulla Nuova Antologia, l’altra dalla sezione VI per i provvedimenti finanziari della commissione del dopo-guerra. Ambedue, nelle grandi linee si accordano nel ritenere che il bilancio delle spese il quale nel 1913-14 fu di 2687 milioni di lire e per le entrate effettive si aggirava sui 2500 milioni dovrà recarsi all’incirca al limite dei 7000 milioni.

 

 

Il calcolo pare a me dotato di quella certa esattezza di approssimazione che in questa materia è ragionevole di pretendere. A circa 4500 milioni ammontano al minimo le maggiori spese a cui dovremo far fronte. Il debito fruttifero nuovo alla fine del 1919 sarà poco meno di 55-60 milioni di lire, tra quello interno e quello estero, a cui risponderà una spesa annua di forse 2800 milioni di lire. Più di 300 milioni di lire all’anno ci costeranno, all’aggio medio del 25 per cento, i pagamenti che per 1200 milioni circa dovremo fare all’estero. Né è esagerato calcolare quasi un altro miliardo e mezzo per le varie spese di pensioni di guerra, di aumenti di stipendio agli impiegati, di assicurazioni sociali, di riscossione delle nuove imposte. Probabilmente, in definitivo, il totale supererà i 4500 milioni. Ma, siccome sarà già impresa ardua provvedere subito a questa somma, non pare necessario ingrossarla con ipotesi, le quali non si sa quanto siano attendibili.

 

 

A quale parte del fabbisogno nuovo di 4500 milioni derivante dalla guerra abbiamo sinora provveduto? Anche qui fa d’uopo procedere per approssimazione e per grandi linee. Un calcolo preciso è quasi impossibile. Apparentemente l’aumento ottenuto nelle entrate effettive sarebbe quasi uguale al fabbisogno. Invece di 2523,7 milioni di lire nel 1913-14, le entrate effettive ammontarono a 7680,2 milioni nel 1917-18; ed aumenteranno probabilmente a cifre ancor maggiori nell’esercizio corrente. Ma una notevolissima parte dell’incremento ha carattere transitorio. Sono ingrossate per quasi 2800 milioni le partite delle entrate minori e dei proventi e ricuperi, in cui ha gran parte il lucro che il tesoro ottiene rivendendo in lire ed a corsi accresciuti dal cambio le divise estere ottenute in prestito dai governi esteri. Anche nelle entrate tributarie propriamente dette, il provvisorio ha gran peso. Che cosa sarà del provento dell’imposta sui sopraprofitti di guerra nel periodo post-bellico? Quid degli incassi per tasse di registro e bollo sui contratti conchiusi con le amministrazioni militari? La privativa del tabacco, col congedamento di grandi masse di soldati conserverà l’attuale inopinato livello? Gran tagli occorre fare per avere una valutazione prudente e ragionevole dell’incremento permanente delle entrate effettive. La sezione VI della commissione del dopo guerra avrebbe tracciato il seguente schema di previsioni, confrontato con le entrate effettive ottenute nei due ultimi esercizi di guerra e di pace (in milioni di lire):

 

 

   

 

1913-14

 

1917-18

Previsioni per il dopo guerra

Imposte

sui consumi

537.7

968.7

930

»

su privative

547.1

1129.2

1062

»

sugli affari

293.9

588.6

555

»

dirette sui redditi

540.7

1919.4

1525.8

4212.3

852

3399

         
Entrate ferroviarie (tasse sul movimento ferroviario)

71.5

 

101.7

80

Servizi pubblici (poste, telegrafi e telefoni)

170.4

282.4

274

Entrate minori e varie (comprese nel 1913-14 83.6, milioni di dazio sul grano)

362.3

3083.6

297

   

2523.6

7680.0

4050

 

 

La previsione non tiene conto del presumibile gettito dei monopoli, i quali furono annunciati, in parte poi sospesi, come quello sul carbone, e non ancora attuati. Ed è, a quanto è possibile giudicare in materia così opinabile, prudente. Forse si può dire che il gettito di 4050 milioni di lire è quello minimo che i tributi esistenti gitteranno nel prossimo avvenire. Di guisa ché si può concludere che i provvedimenti finanziari annoverati dal principio della guerra sino ad oggi sono fecondi di circa 1500 milioni di lire al minimo di entrata permanenti per il tesoro. È una somma cospicua; ma ben lontana dal poter far fronte al fabbisogno di 4500 milioni quale si prospetta dinanzi ai nostri occhi.

 

 

Come si ottennero i 1500 milioni? Per la maggior parte con inasprimenti ed integrazioni e ritocchi delle imposte esistenti; per la minor parte con imposte nuove. Se dovessi enunciare in cifre riassuntive la ripartizione del cresciuto reddito tra le due fonti, metterei innanzi le cifre di 1200 e 300 milioni. «Metterei» – dico – perché nulla è più difficile di sapere se una imposta sia nuova o vecchia. Per non diminuire troppo il peso delle imposte nuove, ho messo fra queste anche il centesimo di guerra, che nella sua parte permanente, della quale soltanto qui si tratta, è una semplice addizionale alle tre imposte dirette sui redditi.

 

 

Questa prima constatazione ci autorizza a fare un rilievo: che cioè nella finanza è molto Più facile inventare dei nomi nuovi, che creare veramente cose nuove. È una illusione frequente quella di sperare di trovare qualche nuova materia imponibile. Ma la materia imponibile è una sola: il flusso delle ricchezze nuove annualmente prodotte; ed ogni immaginazione fiscale non può dar corpo all’ombra di una fonte imponibile diversa da questa. Se volessimo classificare da un altro punto di vista le entrate nuove ottenute, si potrebbero enunciare quest’altre cifre:

 

 

   

Milioni di lire

 

Tributi

sui redditi…………..

300

»

sugli affari…………

250

»

sui consumi e monopoli…………..

950

   

1500

 

 

Il peso grava maggiormente sui consumi che non sui redditi. Ma ricordisi che nei 1500 milioni non sono comprese le entrate transitorie – che pure si riscossero durante la guerra – le quali invece si riferiscono massimamente ai sopraprofitti ed agli affari. E ricordisi ancora che il grosso del maggior gettito dei tributi sui consumi è dato dai tabacchi, dai fiammiferi, dalle bevande alcooliche, e da altre imposte sui consumi di carattere voluttuario, sicché il concorso chiesto ai consumi necessari (sale, zucchero, petrolio) appare di scarsa importanza. In complesso il nuovo peso tributario appare orientato prevalentemente a colpire coloro che hanno reddito o che spendono somme superiori al minimo necessario per la esistenza fisica. Epperò il giudizio nelle grandi linee vuole essere favorevole.

 

 

Non così recisamente favorevole è il giudizio se discendiamo all’esame dei particolari. Pur senza assumere imposta per imposta si possono qui elencare alcune caratteristiche della nostra finanza di guerra.

 

 

Essa è stata segnalata da un lodevole zelo nel procacciare al tesoro le somme necessarie per fare il servizio dei prestiti di guerra. Questa è stata la preoccupazione massima dei ministri del tesoro e delle finanze. Preoccupazione sana e lodevole, senza dubbio. Solo così il credito si mantiene e lo Stato poté ottenere a prestito le gigantesche somme di cui aveva bisogno per la condotta della guerra. Ma la preoccupazione condusse ad avere gran fretta e ad affastellare imposte su imposte, pur di far cifra e pur di far vedere che ad ogni 1000 milioni di debito nuovo si avevano 50 milioni di nuove imposte annue sufficienti a fare il servizio del debito. Ma non è ancora firmata la pace e già si vede che il problema non è risolto; perché molte di quelle imposte hanno carattere temporaneo ed altre devono essere abolite o radicalmente trasformate.

 

 

Alcune furono già abolite. Citerò un disgraziato diritto di guerra sulla riscossione degli affitti che durò soltanto per il 1917 ed era un’aggiunta alla vecchia imposta sui fabbricati, con questa differenza in peggio, che lasciava esenti i proprietari abitanti in case proprie, dai quali nessun affitto viene riscosso ed imponeva un lavoro non piccolo di compilazione di ruoli e di avvisi e registrazioni ad uffici esecutivi tributari oberati di altri lavori ben Più importanti.

 

 

Ricorderò ancora quella parte del tributo del centesimo di guerra, la quale colpiva non i redditi, e per questa parte trattasi, come dissi, di una semplice addizionale ai tributi diretti, ma i pagamenti fatti dallo Stato, dalle province e dai comuni. Imposta assurda, perché «pagamento» non è «reddito» e non è nemmeno indizio ragionevole per la misurazione del reddito; potendo Tizio, fornitore dello Stato, ottenere un reddito netto di 10 lire per ogni 100 lire di prezzo pagatogli dalla fornitura; e ritirando Caio, creditore dello Stato, semplicemente le 100 lire mutuate allo Stato in un momento anteriore, senza neppure il lucro di un centesimo. Imposta inutile, perché dopo il primo momento di sorpresa, i fornitori inclusero nel preventivo del costo, anche il tributo dell’1 per 100, accrescendolo per prudenza al 2, al 3, al 5 per 100; ed invano il fisco lo crebbe successivamente al 2 ed al 3 per 100, ché il privato seppe correre Più di lui, annullando praticamente ogni portata benefica del balzello per l’erario.

 

 

Con tributi siffatti non si provvede al servizio del debito di guerra: come pure non ci si provvede con imposte manifestamente scorrette le quali dovranno essere abolite: ad esempio l’assoggettamento all’imposta di ricchezza mobile dei redditi derivanti da condominio o dominio diretto. La legislazione vigente in questo caso faceva eccezione ad una ingiustizia stridente, lamentata da studiosi e da uomini politici, per cui non si concede la detrazione dei debiti per i redditi dei terreni e delle case. Tizio paga intiera l’imposta sui terreni, anche se dal reddito di 1000 lire deve prelevare 500 lire per pagare interessi al creditore; e le 500 lire sono inoltre tassate dall’imposta di ricchezza mobile a mani del creditore. Per eccezione, sfuggiva a questo giusto rimprovero di doppia tassazione il trattamento fatto ai canoni, principalmente enfiteutici, derivanti da condominio o dominio diretto. Perché, in tal caso, si supponeva, come è vero, che il reddito di 1000 lire derivante dal fondo fosse uno solo e non due; ed era colpito da un’unica imposta, quella fondiaria sui terreni, pagata dall’enfiteuta alla finanza. Alle parti veniva lasciata la divisione dell’imposta tra di loro a seconda degli interessi relativi. Che se il colono rinunciava per lo più al diritto di rivalsa sul dominio diretto, della rinuncia s’era naturalmente tenuto conto nel fissare le condizioni del contratto e l’ammontare del canone. Tale giusto trattamento fu turbato dal legislatore di guerra, il quale assoggettò ad imposta di ricchezza mobile i canoni enfiteutici, commettendo lo stesso errore di doppia tassazione che si lamenta per gli interessi dei debiti gravanti su terre e case. Ed il nuovo tributo deve perciò essere prontamente abolito, come invero propone il recente disegno di legge di riforma dei tributi diretti, presentato dall’onorevole Meda.

 

 

Altre imposte nuove dovranno essere profondamente trasformate, per potere essere accolte stabilmente nel nostro sistema tributario. Appartengono a questa categoria il tributo per l’assistenza civile e quello sui locali goduti, l’altro sulle esenzioni dal servizio militare, il contributo personale straordinario di guerra, l’imposta complementare sui redditi superiori a lire 10.000, il contributo sui terreni bonificati e quello sulle riserve di caccia. Tutti questi tributi rispondono ad un concetto sano di tassazione. Lodevole fu l’idea che li inspirò. Deficiente la applicazione, come un rapidissimo esame basterà a chiarire.

 

 

Il contributo straordinario per l’assistenza civile ha per iscopo di venire in soccorso ai comuni oberati da spese ingenti per assistenza alle famiglie ed agli orfani dei richiamati, ai profughi, alla popolazione povera afflitta dal caro viveri. Ma l’applicazione fu pessima, perché l’imposta graduata del 5 al 30 per 100 fu stabilita non sui redditi dei contribuenti, ma su una somma incoerente delle imposte, tasse e sovrimposte pagate o supposte dover essere pagate dal contribuente al comune, alcune delle quali sono un duplo l’una dell’altra e tutte sono tra di loro non paragonabili. Esenti naturalmente i contribuenti che hanno redditi non iscritti a ruolo, e tassati per ritenuta o rivalsa od esenti.

 

 

Un passo indietro è il nuovo tributo sui locali goduti, immaginato dal sindaco di Bologna. Esiste una imposta sul valor locativo, la quale ha il solo difetto di avere fissate le aliquote (proporzionale del 2 per 100 o progressiva dal 4 al 10 per 100) in modo troppo rigido, non equo e poco produttivo. Invece di migliorare questa, come si accennerà poi, si preferì inventare, per la solita mania di dare nomi nuovi ad imposte vecchie, un sedicente nuovo tributo sui locali goduti, il quale sostituisce al fitto – elemento mobile, elastico, esatto del valore della casa goduta – il numero dei locali goduti, che, per quanto si adottino classificazioni minute, è elemento grossolano e sperequato. Mentre l’imposta sul valore locativo può crescere progressivamente col valore del fitto, quello sui locali lo può assai meno. Mentre la prima non produce altro effetto se non quello generico che hanno tutte le imposte della riduzione del consumo della cosa colpita, la seconda ha l’effetto specifico di dare un premio a coloro che stanno in pochi locali; quindi affastellamento di famiglie in una stanza grande, ma non troppo per non passare in una classe superiore, invece che in due o tre Più piccole. Finalmente l’imposta sul valore locativo colpisce solo gli appartamenti destinati ad abitazione, perché il fitto è indice del reddito goduto dalla famiglia. Invece l’imposta sui locali goduti colpirà, oltre questi, anche i locali destinati a bottega, ufficio, magazzino, industrie, ed è quindi un duplicato antiquato e sperequato dell’imposta di esercizio e rivendita e dell’imposta di ricchezza mobile. Un aborto, a cui manca qualsiasi giustificazione dottrinale e pratica; a cui dovrà sostituirsi un perfezionamento della imposta sul valore locativo.

 

 

Ottimo era il concetto informatore dell’imposta sulle esenzioni dal servizio militare. Coloro che non servono la patria colla persona, siano obbligati a pagare uno speciale tributo compensatorio. Ma l’imposta prese la forma di un testatico di 6 lire per contribuente, con l’aggiunta di un tributo graduato da lire 6 a lire 3000, a seconda dell’ammontare del reddito. Saltellante perciò l’aliquota da classe a classe ed entro i limiti della stessa classe, senza criterio né di proporzionalità né di gradualità. Tassati solo i contribuenti alle imposte dirette per ruoli ed esenti coloro che, pur avendo redditi, sono tassati per ritenuta e rivalsa, o sono esenti dalle imposte sul reddito. L’imposta fu dovuta sospendere, perché il succedersi delle chiamate di classe aveva scemato grandemente il numero dei colpiti, costringendo gli uffici ad un defaticante ed improduttivo lavoro di investigazione. Fu sostituita con il contributo straordinario di guerra, vigente per il 1918 ed il 1919, il quale colpisce coloro che non prestarono servizio militare durante la guerra e non ebbero figli o coniuge o genitore sotto le armi. L’aliquota fu fissata al quarto dell’imposta erariale pagata da coloro che sono contribuenti per ruoli allo Stato per più di 300 lire d’imposta sui terreni, per più di 500 d’imposta sui fabbricati, per più di 400 lire delle categorie A, B e C dell’imposta di ricchezza mobile e per più di 275 lire dell’imposta sui proventi degli amministratori e dirigenti di società commerciali. Anche qui il concetto buono è guasto dalla parzialità dell’imposta che colpisce solo alcuni contribuenti, quelli già iscritti a ruolo e lascia immuni gli altri, salvo il correttivo insufficiente della tassazione di coloro che paghino un’imposta di famiglia o sul valor locativo per somma superiore a lire 80 o 150 all’anno a seconda che si tratti di comuni sotto o sopra i 100.000 abitanti.

 

 

Lo stesso difetto travaglia la recentissima imposta complementare sui redditi superiori a lire 10.000, la quale si inspira al principio di colpire coloro i quali hanno un reddito superiore ad una data cifra, con una imposta complementare progressiva dall’1 all’8 per 100. È il medesimo concetto, approvabile, che inspira la proposta di riforma presentata dall’onorevole Meda e che esamineremo nell’ultima lezione. Ma l’anticipazione non fu felice. Esenti al solito i non tassati per ruoli, detratti gli interessi dei debiti in maniera inadeguata e complicata, confusi insieme nella tassazione gli individui e gli enti, cosicché l’imposta non conserva affatto carattere personale e sono sovratassate le società – aggravate inoltre da un balzello speciale del 2 per 100 sugli interessi e dividendi – anche se composte di numerosi soci di modesta condizione di fortuna, male graduata l’aliquota, che ai margini della classe fa gran salti acrobatici non giustificati, non detratte le imposte e le sovrimposte gravanti sul reddito, sicché proprietari indebitati e fortemente tassati vengono spogliati a caso.

 

 

Ottimo altresì il concetto che inspirò il legislatore a introdurre il contributo sui terreni bonificati e l’altro sulle riserve di caccia. Inteso il primo a colpire i terreni di bonifica per cui sia trascorso il ventennio di esenzione concesso dalle leggi vigenti ed in ogni modo il ventennio dal compimento della bonifica e dal verificatosi aumento del reddito fondiario. Avente per iscopo il secondo di colpire un consumo di lusso, di coloro che traggono godimento dalla caccia condotta in terreni riservati a tale scopo esclusivo. In ambi i casi difettosa l’applicazione; perché amendue i tributi vennero fissati nella cifra di 2 lire per ettaro. Somma che non ha rapporto col vero reddito o godimento; e produce l’effetto di impedire nelle regioni di montagna la utilizzazione dei terreni a scopo di caccia, essendo l’imposta di gran lunga superiore al ricavabile frutto. Con danno dei comuni, grandi possessori di siffatti terreni; dei privati che non hanno modo di cavar partito e di curare tali terreni; e della fauna, che nessuno ha più interesse a proteggere contro i cacciatori liberi, i quali ben presto la distruggeranno.

 

 

Non vorrei che il mio discorso sembrasse troppo duro verso i ministri che si sono succeduti al potere durante questi anni di guerra. Il loro compito fu difficilissimo; spesso sovrumano. La colpa maggiore non è di chi adoperò imperfettamente, come l’urgenza richiedeva, lo strumento esistente. Qualcosa di meglio avrebbe potuto farsi; qualche errore, tra quelli ricordati (invenzione di tributi nominalistici, doppie tassazioni, non detrazioni di passività e di imposte, aliquote difettosamente congegnate, amalgama di basi imponibili incoerenti, ecc.), avrebbe potuto essere evitato. Ma non dimentichiamo, per debito di studiosi, che lo strumento era imperfettissimo e non si prestava ad un uso savio e coraggioso.

 

 

La colpa massima, imperdonabile è di chi ha condotto il paese alla vigilia della guerra, senza alcuna preparazione finanziaria e tributaria; di chi governò negli anni che volsero dal 1900 al 1912, quando i bilanci si saldavano in avanzo, quando le imposte davano un gettito crescente e quando ogni Più ardita riforma tributaria si sarebbe potuto osare. Non mancarono allora le voci insistenti di coloro che richiesero la riforma preliminare, quella veramente fondamentale che è la riforma degli accertamenti. Ma furono voci predicanti nel deserto. Nulla si fece; si sciuparono in piccole spese, senza costrutto e aventi carattere elettorale, gli avanzi succedentisi. Fu sciupata irreparabilmente una magnifica situazione di bilancio. Allo scoppio della guerra, mentre la Germania, la quale possedeva già l’inventario dei redditi, assoggettati con uniformità di criteri e con rigidità di accertamenti all’imposta sul reddito, aveva compiuto al 31 dicembre 1913 l’inventario dei patrimoni per assoggettarli all’imposta straordinaria di guerra di un miliardo, noi ci trovammo completamente impreparati, senza inventario né dei redditi né dei patrimoni. Indagini predisposte dall’onorevole Rava al ministero delle finanze avevano condotto alla melanconica conclusione, che noi non sapevamo né quali, né quanti, né come ripartiti fossero i redditi degli italiani. Le schede raccolte davano un totale di redditi noti e tassati in tutta Italia di poco più di un miliardo di lire all’anno: una metà di quanto già allora si incassava come imposta, una piccola parte di quanto occorrerà avere nel dopo guerra a titolo non di reddito ma di imposta.

 

 

Nulla sapendosi della base imponibile, essendo le vecchie imposte sperequate e non paragonabili tra di loro, come era possibile si facesse una buona politica tributaria durante la guerra? Mancava la preparazione; l’amministrazione era abituata a correre sulle vecchie rotaie, tassando sempre gli stessi imponibili, con moderate variazioni nel solo campo della ricchezza mobiliare. Eccezionali le visioni dirette dei libri, generalizzata la evasione e la condiscendenza Più lata nella stima dei redditi. In questo ambiente di marasma, di oscurità, di evasioni cadde la guerra ed aggravò i mali antichi. I vecchi tributi divennero Più sperequati che mai, coll’inasprirsi delle aliquote; i nuovi furono un incoerente tentativo di colpire certi contribuenti o Più ricchi o più degni di imposta. Tentativo non riuscito, perché non poteva riuscire, mancando la esatta conoscenza della base imponibile.

 

 

All’insuccesso fatale, necessariamente determinato dai precedenti, fecero eccezione solo quelle imposte le quali si trovarono in un terreno nuovo, vergine; sgombro dalla eredità del vecchio regime. Voglio accennare al terreno nuovo dei redditi determinati dalla guerra. Qui almeno non v’erano più i vecchi accertamenti ad ingombrare la via, ad impedire il passo innanzi. Prima non v’era nulla, non esistendo neppure la base imponibile. Anche chi è contrario alla permanenza dei nuovi tributi nel dopo guerra, deve affermare che l’amministrazione finanziaria nostra, essendosi trovata su un campo vergine e sgombro dalle macerie del passato, vi si mosse molto più liberamente e risolutamente. Astrazione fatta dal fatto contingente, il solo purtroppo il quale sembri interessante al pubblico, del gettito delle imposte sui nuovi redditi, si cominciarono ad avere accertamenti compiuti sul serio, si cominciò ad usare severità; si cominciò veramente a vedere che cosa volesse dire pagare imposte. L’applicazione, essendo innestata sul vecchio tronco della imposta di ricchezza mobile, si risentì delle imperfezioni di questa, specie per la imperfetta detrazione delle spese; ed accadde perciò in non pochi casi che l’imposta superasse il reddito, con gravissimo pericolo delle imprese ingiustamente sovra-tassate. Ma, nel complesso, il perfezionamento nei metodi di accertare i redditi fu grande. Questo è il vero frutto finanziario della guerra. Importa però che il ringiovanimento dei metodi duri e che non si torni agli antichi metodi politici ed addormentatori della finanza pre-bellica. Altrimenti, sarà vana ogni speranza di ridare l’equilibrio al bilancio italiano.

 



[1] Venia debbono dare ora anche i lettori del corso, che qui si stampa, quale lo stenografo lo raccolse dalla viva parola, senza altre mutazioni se non alcune accidentali di forma. Avrei potuto integrare, ampliare, modificare, corredare di citazioni. Ma tutto ciò avrebbe reso il testo delle lezioni diverso da quello che le lezioni furono. Il che le avrebbe compiutamente snaturate.

Settima lezione

Settima lezione
Il problema delle abitazioni, Ed. F.lli Treves, Milano 1920, pp. 204-264

 

 

 

 

I provvedimenti economico-tributari

 

1) Per agevolare le costruzioni di case nuove

 

Passiamo ora al secondo ordine di provvedimenti che è quello economico tributario. Il problema si imposta in una maniera molto semplice e già il governo del resto lo ha impostato in questa precisa maniera nel testo unico delle leggi per le case popolari ed economiche approvato con regio decreto-legge 30 novembre 1919, n. 2318, e nel susseguente regio decreto-legge 8 gennaio 1920, n. 16, che modifica il predetto testo unico.

 

 

Il costo delle costruzioni dal livello antebellico che, per ipotesi e senza voler affatto generalizzare la cifra, possiamo supporre di 1.000-3.000 lire per locale, siè oggi innalzato ad un livello il quale va dalle 6 alle 12.000 lire e più per locale. Se questo rialzo nei costi dicostruzione fosse permanente nessun provvedimento di carattere economico-tributario sarebbe necessario per favorire le costruzioni ordinarie.

 

 

Si osserva che per le case economiche e popolari esiste già una legislazione vasta e sufficiente

 

Dicesi le costruzioni «ordinarie» e non le case economiche e popolari. Oramai per queste ultime vi è nella legislazione italiana un insieme imponente di disposizioni le quali tendono a favorire le costruzioni per le classi meno agiate ed a consentire di porre sul mercato appartamenti modesti a fitti inferiori a quelli che si possono chiamare correnti e normali. Il legislatore italiano ha cioè ritenuto necessario che per vaste classi della popolazione fosse d’uopo di incoraggiare l’amore alla casa provvedendo questa a sotto costo, e perciò ha concesso lunghe esenzioni dalle imposte e sovraimposte sui fabbricati, incoraggiamenti cospicui sotto forma di mutui a bassi saggi di interessi e di concorso nel pagamento degli interessi ad istituti aventi carattere pubblico o semi-pubblico, i quali si propongono lo scopo delle costruzioni di case a proprietà indivisa e talvolta anche divisa. Non discutiamo se la legislazione per le case popolari sia utile o dannosa, se sia congegnata in maniera soddisfacente o no. Ciò ci porterebbe troppo lontano e ci allontanerebbe dall’argomento specifico di queste lezioni che è il problema delle abitazioni civili in genere e non quello delle case popolari in specie. Naturalmente molte cose dette per le case civili valgono anche per le case popolari. Non in tutto; perché in queste si parte da una premessa antieconomica, che esistano cioè classi di popolazioni incapaci permanentemente, o per un lungo periodo di anni, a pagare il prezzo economico della casa.

 

 

Il problema qui discusso si riferisce alle costruzioni ordinarie

 

Il problema che oggi discutiamo non è quello di favorire la produzione di case da affittarsi a sotto costo, ma di studiare se vi possa essere qualche mezzo con cui si possa favorire la costruzione di case da affittarsi a prezzi tali da compensare normalmente il capitale impiegato, rimborsando le spese ordinarie che sulle case gravano.

 

 

Posto così il problema, è evidente che se il costo attuale straordinariamente elevato della costruzione dovesse diventare permanente, nessun bisogno vi sarebbe di un intervento dello Stato diverso da quelli tecnici economici che furono indicati dinanzi. Il costruttore, costruendo un locale al costo attuale di 10.000 lire, sarebbe sicuro che l’avvenire non potrebbe essere causa per lui di rischi, di perdite di capitale o di reddito, perché, ragionando nei modi consueti, il locale che oggi costa 10.000 lire potrà avere sul mercato un valore corrispondente e seguiterà ad averlo, soggetto soltanto a quelle vicissitudini ordinarie nei prezzi e negli affitti che sono sempre esistite nell’industria edilizia e di cui non occorre preoccuparsi in maniera particolare.

 

 

La incertezza sul costo futuro delle case rende aleatoria la costruzione nel momento presente

 

Ma i costruttori prevedono che forse in avvenire il costo delle costruzioni che oggi si è elevato a 6.000-12.000 lire abbia a ribassare, forse non al livello antico di 1.000-3.000, ma ad un livello intermedio, ad esempio di 3.000-6.000 lire. Le cifre sono citate soltanto come tendenziali, senza fare alcune affermazioni in merito a valutazioni le quali sono tutte in balia dell’incertezza più oscura.

 

 

Supposta la verità dell’ipotesi fatta dai costruttori, è evidente che non conviene la costruzione nel momento attuale. Chi ha interesse oggi a costruire al costo di 6000 lire col pericolo che fra qualche anno il valore della casa abbia a ribassare a 3000 lire per locale, secondo il costo futuro della ricostruzione? Se da qualche parte non vi è garanzia di ricuperare le 3000 lire previste di perdita per la differenza fra il costo attuale ed il costo futuro, le ricostruzioni sono quasi impossibili.

 

 

Casi speciali per i quali le costruzioni sono oggi impossibili

 

Il che è tanto vero che oggi le sole costruzioni private le quali si siano iniziate appartengono a due categorie: vi è il nuovo arricchito, il quale non riesce a trovare casa confacente ai suoi gusti, raffinatisi per l’acquistata ricchezza, e costui si fa fabbricare a sue spese il villino, senza badare a spesa; ovvero vi è l’impresario edilizio, il quale costruisce la casa a parecchi piani ed a molti appartamenti, essendo perfettamente sicuro di trovare a rivenderla ad appartamenti agli inquilini, i quali sono desiderosi di trovar casa e non la trovano in conseguenza dei decreti vincolistici. Se oggi non si costruiscono case a scopo di rivendita a proprietari per impiego di capitale, perché occorrerebbe venderle a prezzi proibitivi, si costruiscono invece case per la vendita ad appartamenti separati.

 

 

Vi sono molti inquilini, specialmente a Roma, i quali acquistano l’alloggio nelle case nuove che si vanno innalzando sulla base della semplice pianta degli appartamenti a prezzi variabili da 10 a 20.000 lire per camera. Questi prezzi sono altissimi, ma paiono tuttavia tollerabili a coloro i quali si sentono chiedere, per l’affitto di modestissimi appartamenti da 7 a 10 camere, prezzi di affitti i quali vanno da 10.000 a 20.000 lire all’anno e che per avere il quartiere a questi prezzi sbalorditivi debbono assoggettarsi all’acquisto oneroso del mobilio messovi dentro da intermediari speculatori. Resta per essi assai più conveniente comprare l’appartamento anche pagando per ogni locale un fitto corrispondente al costo di costruzione attuale. In questo caso il rischio della costruzione non è più del costruttore ma degli inquilini e questi lo ammortizzano risparmiando il soprafitto che sarebbe loro richiesto in questi momenti di scarsità di alloggi liberi, soprafitto che dovrebbe durare alcuni anni, e risparmiando altresì la taglia dell’acquisto del mobilio dagli speculatori.

 

 

Se il rischio della costruzione nel momento attuale debba essere assunto dallo stato

 

All’infuori di questi casi il rischio dovrebbe cadere sul costruttore, né si trova alcuno che sia disposto a correrlo. Nasce a questo punto la domanda: perché lo Stato non si accolla esso il rischio medesimo se ritiene che la costruzione di case sia giovevole all’interesse generale? Supponendo che il costo attuale sia di 6000 lire ed il costo futuro si preveda in 3000, ove lo Stato si accolli l’onere della differenza, è evidente che l’industria privata potrà essere sollecitata a riprendere la costruzione perché l’onere residuo su di essa gravante si ridurrà a 3000 lire per vano, ossia precisamente a quel valore che l’industria stessa privata ritiene abbia ad assumere il locale quando siano trascorse le attuali contingenze straordinarie.

 

 

La ragione per rispondere di sì al quesito è sovratutto politica, non economica o sociale. Economicamente e socialmente non v’è ragione perché lo Stato intervenga esso, ossia faccia intervenire i contribuenti, a sopportare la parte transitoria del costo delle case.

 

 

Perché invece degli inquilini dovrebbero essere i contribuenti a pagare tale costo? Sovratutto quando si tratti di case civili, ossia di case abitate da persone che, per ipotesi, non difettano dei mezzi occorrenti a pagarsi la casa? Se ben si guarda, nessuna ragione seria può immaginarsi per giustificare una simile trasposizione coatta di ricchezza dalle tasche dei contribuenti a quelle degli inquilini. Aggiungasi che l’alto costo delle case è un freno, forse l’ultimo freno rimasto, all’afflusso dei rustici nelle città; ed è strano che mentre si grida contro l’inurbamento si voglia togliere il solo freno contro di esso rimasto: ossia la difficoltà di trovar casa.

 

 

Le ragioni a pro dell’intervento dello Stato sono due:

 

 

  • 1) quella politica, di calmare il malcontento e, con un’offerta anche artificiosa di case, far sì che al momento della definitiva smobilitazione delle case, il prezzo di queste non salga troppo, cosa che potrebbe nuocere all’ordine pubblico;
  • 2) quella di giustizia. Oggi dei favori concessi alle case popolari, si giovano le classi operaie che dalla guerra sono state avvantaggiate. Ne sono esclusi i ceti civili, che spesso conducono vita più grama dei ceti operai. Sarebbe giusto concedere anche alle case civili, favori corrispondenti a quelli delle case popolari, per consentire ai veramente poveri quel sussidio che la ipocrisia politica dominante riserva a coloro che da sé si dicono proletari.

 

 

Il problema di metodo

 

Sarebbe difficile sostenere che la bilancia penda a favore dell’intervento. Se la collettività fosse capace di ragionare, si dovrebbe rispondere di no. Ma siccome può darsi, anzi già si dà secondo il testo unico 30 novembre 1919 e decreto-legge 8 gennaio 1920, che lo Stato si decida nel senso di intervenire, il problema concreto si può formulare così: quale è il metodo più efficace e meno pericoloso perché lo Stato si accolli il rischio della differenza fra il costo attuale e il costo futuro, perché lo Stato, per così dire, lanci un ponte di passaggio tra il passato ed il futuro, superando l’ostacolo costituito al presente dagli alti ed eccezionali costi di costruzione che si presumono transitori?

 

 

I due metodi seguiti nella legislazione vigente: esenzioni tributarie e premi alle costruzioni

 

Due metodi si contrastano a questo riguardo il campo: uno è quello delle esenzioni di carattere tributario, e l’altro è quello dei premi diretti alle costruzioni. Ambedue i sistemi sono stati adottati dal legislatore italiano per quel che si riferisce alle case economiche e popolari.

 

 

Rispetto però alle case che si possono chiamare non popolari, la legislazione vigente è regolata dai già citati testo unico 30 novembre 1919, numero 2317, articoli 44, 45, 46, e regio decreto legge 8 gennaio 1920, n. 16, articoli 2, 3 e 4.

 

 

Le norme vigenti accettabili: riduzione della tassa di registro

 

Il sistema seguito in questi articoli è quello della esenzione temporanea e della riduzione da tasse ed imposte. Alcune di queste disposizioni mi trovano senz’altro consenziente. Così, ad esempio, la norma dell’art. 45 del testo unico, la quale riduce ad¼ della misura normale la tassa di registro sui contratti di appalto di costruzione, completamento, e restauro al fabbricato, è da approvarsi perché rappresenta una tendenza la quale sarebbe utile da seguire in generale ed in modo permanente, allo scopo di non ostacolare la stipulazione perfetta di questi contratti e la eliminazione di ogni causa di controversia intorno ad essi.

 

 

Così pure ci trova consenzienti la riduzione a metà, sancita dall’art. 46 del medesimo testo unico, dell’ordinaria tassa del registro, dovuta sulla compra-vendita di case stipulata entro un triennio dal trasferimento stesso.

 

 

Questa riduzione a metà ha carattere razionale in quanto la tassa di registro non ha per scopo suo di colpire realmente il trasferimento delle case, ma piuttosto è un metodo escogitato per tassare i capitali investiti nelle case stesse, quindi razionalmente la tassa di registro dovrebbe essere tanto più tenue quanto più è breve l’intervallo, fra un trasferimento ed un altro e dovrebbe invece inasprirsi quando il trasferimento avviene a periodo di tempo molto lungo. Soltanto in tal modo l’imposta può essere perequata e non costituire una ingiusta spogliazione degli uni ed un arricchimento degli altri contribuenti. Certamente è difficile seguire questa regola in maniera completa, ma ogni disposizione la quale si avvia a questo risultato deve essere considerata come approvabile.

 

 

L’esenzione dai dazi di importazione dei materiali di costruzione

 

Encomiabile è altresì l’art. 4 del decreto 8 gennaio 1920, il quale accorda l’esenzione dai dazi di importazione ai materiali di costruzione che servono a case di abitazione, escluse quelle di lusso, da iniziarsi entro un anno dal 5 luglio 1919 e da completarsi entro il 30 giugno 1922.

 

 

Questa norma, non ancora abbastanza conosciuta, corrisponde ad un desiderio manifestato da moltissime parti, data la scarsità grandissima dei materiali da costruzione e la difficoltà di poterseli procurare all’interno.

 

 

Importanti consumatori di materiali da costruzione hanno espresso la convinzione che i produttori nazionali, specialmente di materiale da costruzione in ferro, mettano assai poca buona volontà nell’occuparsi delle richieste dell’industria edilizia. L’importazione in franchigia dei materiali da costruzione dell’estero potrebbe servire di sprone e di calmiere, sovratutto di calmiere, notandosi differenze enormi fra i prezzi che sono quotati all’estero ed i prezzi italiani. Gioverebbe che le norme al riguardo fossero divulgate, rese applicabili colla massima semplicità, e gioverebbe altresì che il termine del 30 giugno 1922 fosse almeno prorogato sino all’1 luglio 1923, data alla quale, secondo il decreto del 18 aprile, si dovrebbe rientrare nel regime normale delle contrattazioni.

 

 

La esenzione temporanea dalle imposte e sovraimposte sui fabbricati per le nuove costruzioni

 

Ma più vivo dibattito suscita la norma contenuta adesso nell’articolo 2 del decreto dell’8 gennaio 1920, relativa alla esenzione temporanea dalle imposte e sovraimposte sui fabbricati di nuova costruzione.

 

 

Il regime vigente si riassume così:

 

 

  • 1.Esenzione completa per 10 anni delle case di abitazione, escluse quelle di lusso, la cui costruzione sia iniziata entro un anno dal 5 luglio 1919 e completata entro il 30 giugno 1922;
  • 2. proroga per un secondo decennio, quando si constati alla fine del primo decennio un deprezzamento di almeno un quinto dell’immobile per mutate condizioni di mercato, in confronto al costo di costruzione del fabbricato, calcolato in base ai prezzi correnti, per gli elementi principali della costruzione;
  • 3. ulteriore proroga di altri 5 anni sempreché si accerti una persistenza di un deprezzamento dello stabile di almeno un quinto di confronto del primitivo accertamento compiuto al momento della costruzione.

 

 

Riforme da introdursi nel sistema vigente della esenzione temporanea ove lo si voglia mantenere

 

A questo sistema si possono fare obbiezioni di indole subordinata e di indole generale. Quelle d’indole subordinata si riferiscono a riforme che sarebbe opportuno di introdurre nel sistema ove si ritenesse di mantenerlo.

 

 

In questo caso è probabile che il sistema delle successive proroghe sia per dimostrarsi poco attraente alla maggior parte dei costruttori di case. Un beneficio il quale ha poco valore. Per ottenere la proroga bisogna far fare un primo accertamento dall’intendenza di finanza in contradditorio con il proprietario ed i suoi incaricati e con decisione inappellabile dell’ingegnere capo del genio civile della provincia. Bisogna perciò cominciare a costruire nell’incertezza che poi la valutazione fatta in seguito a perizia corrisponda al costo vero della costruzione. Alla scadenza dei 10 anni nuova perizia per accertare che lo stabile è deprezzato di almeno un quinto in confronto al primitivo accertamento. Possibilità di discussioni, specie sui deprezzamenti dovuti a trascurata manutenzione, a sinistri od a danni e per i miglioramenti arrecati da lavori straordinari dopo la costruzione, dei quali non si dovrebbe tener conto.

 

 

Tutte queste formalità e pratiche e incertezze graveranno sulla valutazione che i costruttori saranno portati a fare dell’esenzione promessa dall’imposta sui fabbricati. Meglio sembra che, ove vogliasi mantenere il sistema, sia definito chiaramente e una volta per sempre il numero degli anni per cui l’esenzione è data. Meglio gioverebbe a stimolare l’iniziativa privata una esenzione franca per un numero minore di 25 anni, ad esempio per 15 o 20 anni, piuttostoché i tre periodi successivi di 10, 10 e 5 anni. Praticamente lo Stato avrà il danno dell’esenzione per tutti i 25 anni, in quanto le perizie finiranno per riscontrare per vari motivi più o meno plausibili, l’esistenza dei deprezzamenti voluti. Sicché è meglio cheove il danno abbia a prodursi, questo sia stabilito per un numero di anni certo e definito fin da ora.

 

 

Il sistema delle esenzioni considerato in sé stesso: i precedenti

 

Ma la critica fondamentale è, se giovi conservare questo metodo di incoraggiamento alle nuove costruzioni o non invece convenga sostituirlo con l’altro del premio alle costruzioni. L’esperienza storica ci fornisce esempi dell’uno e dell’altro sistema. Ricordasi l’esenzione concessa a Torino per 50 anni ai fabbricati dell’antica via Dora Grossa, attuale via Garibaldi e alla piazza San Carlo, esenzione che pare sia stata feconda di utili risultati. Si può citare d’altra parte il premio di 160 Lst. che il governo inglese oggi concede a chiunque voglia costruire una casetta comprendente il numero dei vani, all’incirca cinque, necessari per l’abitazione di una famiglia. Gli argomenti relativi alle due tesi si possono così riassumere.

 

 

I vantaggi.

 

Il sistema dell’esenzione dalle imposte è in primo luogo già introdotto nella nostra legislazione finanziaria. Esso fu giustificato in passato partendo dal concetto che l’erario pubblico nulla perde rinunciando ad una materia imponibile che attualmente non esiste, anzi si prepara per l’avvenire una messe più cospicua, perché i capitali incoraggiati ad accorrere verso l’industria edilizia daranno luogo a costruzioni numerose che passato il periodo di esenzione frutteranno allo Stato ed agli enti locali messe cospicua di imposte e sovraimposte.

 

 

In secondo luogo il sistema dell’esenzione è semplice, non importa una contabilità complicata tra contribuente ed amministratore. In terzo luogo risponde ad un desiderio vivo dei costruttori ed anche degli acquisitori delle case, i quali si sottraggono alle incertezze derivanti dalle variazioni dell’ammontare delle imposte e precipuamente delle sovraimposte, ottenendo l’uso della casa franco di oneri pubblici per un lungo periodo di tempo corrispondente praticamente alla vita probabile di coloro i quali si rendono acquisitori di casa per propria dimora.

 

 

Gli inconvenienti.

 

Ma contro questo vantaggio si oppongono d’altro canto obbiezioni di gran peso, le quali distruggono le argomentazioni dei fautori delle esenzioni e di questa fanno risaltare difetti non piccoli.

 

 

Non vale in primo luogo l’argomento che l’erario dello Stato a nulla rinunci, perché la materia imponibile non esiste ed anzi si prepari, come sopra si è detto, una ricca messe di entrate per l’avvenire. Questo è un errore proveniente dall’aver immaginato che il capitale che si sarebbe impiegato nella costruzione attrattovi dalle esenzioni tributarie non potrebbe altrimenti trovare impiego a dare frutti. Ora questo non è; il capitale esistente in un paese in un determinato momento è una quantità definita, la quale tutta si impiega lasciandosi attirare verso gli impieghi più produttivi. Se l’impiego più produttivo, a causa dell’esenzione tributaria, diventa quello edilizio, questo è un impiego sostituito a quegli altri che sicuramente in caso contrario sarebbero stati preferiti.

 

 

Quindi l’erario pubblico senza alcun dubbio rinuncia positivamente e subito alla massa di imposte che avrebbe potuto ottenere dalle imprese e dai redditi che sarebbero sorti in conseguenza di quegli altri impieghi favoriti. È dunque una pura illusione credere che lo Stato non compia nessun sacrificio con queste esenzioni di imposte.

 

 

Il sacrificio c’è ed è completo.

 

 

In secondo luogo il preteso vantaggio della semplicità ci pare non esista in misura superiore a quello che può ottenersi coll’altro sistema dei premi.

 

 

Se facile è definire quale sia la casa la quale evita di essere esentata dall’imposta è altrettanto facile definire quella la quale merita di essere incoraggiata con un premio.

 

 

Se qualche difficoltà si presenta, come ad esempio quella ricordata dell’articolo 2 del decreto dell’8 gennaio e derivante dalla necessità di valutare se la parte dei fabbricati adibita o affittata per botteghe, magazzini, esercizi industriali, cantieri e simili, dia un reddito non superiore al quarto del reddito dell’intero fabbricato, questa difficoltà esiste medesimamente per il sistema dell’esenzione e per il sistema dei premi. Del resto già sopra si misero in rilievo gli inconvenienti derivanti dalla scissione del periodo dei 25 anni in tre sotto periodi, dei quali il primo soltanto è certo e gli altri due sono incerti.

 

 

Questa difficoltà è più grave col metodo dell’esenzione che con metodo del premio, in quanto che col metodo del premio lo Stato si grava di una somma certa e non aumentabile, mentre può ammettersi che lo Stato esiti a rinunciare per 25 anni ad un ammontare di imposte e sovraimposte ad aumenti, specie per quanto si riferisce alle sovraimposte.

 

 

In terzo luogo la simpatia da cui è circondato il metodo dell’esenzione dall’imposta nel pubblico è un sentimento il quale va combattuto in ogni modo perché contrario all’interesse pubblico e dimostrazione di poco civismo.

 

 

Qui entriamo nel vivo dell’argomento.

 

 

Il sistema delle esenzioni dall’imposta, che si è andato diffondendo nella legislazione italiana allo scopo di incoraggiare il raggiungimento di fini particolari e in ispecie la esenzione dalle imposte per le costruzioni edilizie è uno dei fenomeni più contrari a qualsiasi concetto di equa distribuzione dell’imposta che si possano immaginare.

 

 

Distinzione tra esenzioni e privilegi tributari

 

Bisogna nettamente distinguere tra esenzioni e privilegi. La legislazione tributaria nelle sue tendenze più moderne è favorevole all’allargamento delle esenzioni tributarie, in quanto queste esenzioni si colleghino con le condizioni personali dei contribuenti. È per questi motivi che si ampliano le esenzioni dei redditi minimi; nel decreto del 24 novembre scorso si sancisce il principio che l’esenzione per i redditi minimi sia portata dalle antiche 400 lire imponibili alle nuove 1.200 lire effettive, e si preordina dopo il trascorrere di un quinquennio l’estensione della esenzione anche ai redditi dei terreni.

 

 

È per questi motivi che lo stesso decreto nella parte istitutiva dell’imposta complementare progressiva sul reddito accorda larghe esenzioni per i redditi più bassi, per carichi di famiglia, per pagamenti di quote di assicurazione contro la vita e quote di previdenza. Tutto questo sistema che con nuovo fervore va affermandosi nella legislazione fiscale ha per scopo di graduare l’onere tributario in rapporto alla capacità effettiva del contribuente a pagare imposta.

 

 

Contro questo sistema moderno veramente democratico, ispirato a concetti di giustizia tributaria, si erige il metodo dei privilegi, il quale or qua or là tenta ancora di rinnovare i danni prodotti nel passato. È un privilegio, ad esempio, esentare dall’imposta non chi si trova in condizioni personali tali da fargli giustamente pretendere l’esecuzione, bensì colui che appartiene ad una classe o colui che esercita un’industria. È giusto e democratico che siano esentati dall’imposta sul reddito complessivo coloro che hanno un reddito inferiore a 4000 lire e coloro che, pur avendo un reddito superiore, sono carichi di famiglia, ma non è affatto democratico né comportabile che si esentino coloro che hanno il nome, ad esempio, di operai o di proprietari di terreni esercenti l’industria agraria in economia, solo perché appartengono ad una classe e nonostante che il loro reddito sia di gran lunga superiore al minimo esente. Sotto mutato nome, si ristabiliscono le immunità del clero e della nobiltà.

 

 

L’esenzione dei membri di una classe come tale anche se provveduti di un reddito di 1.000 lire al mese, è antidemocratica ed anticivica, mentre l’esenzione di tutti coloro i quali hanno un reddito minimo è corretta ed ispirata a criteri di giusta ripartizione delle imposte. È corretto accordare l’esenzione dall’imposta per un primissimo periodo iniziale alle intraprese e quindi anche alle case, ad esempio, due anni, per il quale si può presumere che praticamente il reddito non si sia ancora formato, ma è scorretto e dannoso per la cosa pubblica che vi siano categorie speciali di industrie le quali vadano per lungo periodo di tempo esenti dall’imposta. Sono da condannarsi perciò aspramente tutte le esenzioni le quali sono tornate di moda e che hanno per scopo di esentare o dalle imposte ordinarie o da quelle sui sopra profitti certe speciali industrie, come quella della costruzione e dell’armamento delle navi, dello scavo e dell’esercizio di miniere di lignite ed anche, diciamo noisovratutto in questa sede, della costruzione delle case civili.

 

 

Danni dei privilegi tributari

 

I danni che questo sistema di esenzione procura sono parecchi;

 

 

  • 1. in primo luogo si crea una classe particolare di cittadini privilegiati, la quale pur avendo redditi capaci di sopportare l’imposta, rimane sottratta al regime normale dell’imposizione. Questo è un privilegio perfettamente eguale ai privilegi del clero e della nobiltà nell’antico regime ed è condannabile;

 

 

  • 2. si disinteressa tutta una classe di cittadini dalla cosa pubblica per l’immunità tributaria di cui essi godono. Ora ciò potrà essere simpatico, ma è anticivico. È assolutamente necessario che tutti coloro i quali si trovano nelle condizioni soggettive per pagare le imposte le paghino, perché solo a questo prezzo essi saranno indotti ad occuparsi della cosa pubblica e ad esercitare quel controllo su di essa che è dovere di tutti i cittadini.

 

 

  • 3. In terzo luogo la esenzione fa nascere l’illusione che l’erario pubblico nulla perda; pura illusione, come sopra si è dimostrato, e dannosissima per i suoi effetti in quanto in tal maniera non si fa chiaramente risultare nel bilancio della spesa l’onere che i contribuenti sopportano per concedere un sussidio ad una determinata categoria di cittadini. Supponiamo ad esempio che lo Stato italiano ritenga opportuno di spendere un miliardo di lire, per incoraggiare l’industria edilizia. Se questo miliardo di sussidi viene concesso sotto forma di esenzione dall’imposta per 10, 20 o 25 anni, ecco che col metodo dell’imposta esso non compare affatto in nessuno dei bilanci dello Stato; sembra che questa spesa non sia mai esistita, mentre invece essa esiste ed è ingente.

 

 

  • 4. In tal modo si sottrae al Parlamento il controllo su una parte delle pubbliche spese; vien meno la funzione costituzionale degli organi legislativi, i quali non possono esprimere la loro opinione su una spesa di cui la cifra non figura in bilancio; danno politico questo non lieve e che dovrebbe essere evitato a qualunque costo.

 

 

  • 5. Col generalizzarsi dei privilegi tributari l’onere delle imposte non diminuisce ma soltanto va a cadere su una materia imponibile che sempre più si restringe col crescere dei privilegi. Le aliquote dell’imposta forzatamente debbono diventare alte ed incomportabili man mano che qualche classe o qualche industria riesce con speciosi pretesti a strappare la immunità tributaria. Siamo ricondotti senza volerlo alle condizioni tributarie del basso Impero, quando le imposte andavano tutte a cadere sul decurionato e nessuno più voleva accettare le cariche o a quelle che si dice prevalessero prima della rivoluzione francese, quando il terzo Stato doveva sostenere le spese pubbliche per sé e per le classi immuni.

 

 

L’esenzione dall’imposta delle case nuove non fa sì che il municipio cessi proporzionatamente di dover costruire marciapiedi, aprire strade, sostenere la spesa dell’illuminazione e della pubblica sicurezza nei nuovi quartieri, apprestare aule scolastiche ed asili ai figli degli inquilini delle case nuove privilegiate; le spese vanno via via crescendo col crescere della superficie destinata a costruzioni, ma le spese vanno a gravare tutte sulla residua materia imponibile, la quale va restringendosi o tutt’al più rimane stazionaria.

 

 

Il difetto principalissimo delle imposte italiane, che è la enormità delle aliquote, è costretto perciò ad inasprirsi appunto perché alcuni contribuenti debbono sopportare il danno della immunità di cui godono gli altri contribuenti. Nessun sistema perciòdi incoraggiamento alle nuove costruzioni deve essere considerato come più corruttore e condannabile dal punto di vista generale e politico, come questo dell’esenzione dalle imposte.

 

 

Conclusione favorevole ai sistemi dei premi

 

È evidente perciò che al sistema della immunità tributaria deve preferirsi il sistema franco ed aperto dei premi alle nuove costruzioni. Se si ritiene che il fine dell’incoraggiamento alle nuove costruzioni sia degno di essere raggiunto in uno Stato moderno e civile, il Parlamento ogni anno deve sapere e discutere la somma dei sussidi che deve essere pagata per incoraggiare le nuove costruzioni.

 

 

In questo modo si evita anche un pericolo insito nel sistema delle esenzioni. Queste vanno di tempo in tempo inutilmente prolungandosi in quanto sembra sempre che lo Stato a nulla rinunci. Invece è assolutamente necessario che il legislatore possa intervenire quando l’esperienza abbia dimostrato che il periodo della crisi edilizia è ormai trascorso e che le costruzioni nuove sono possibili senza alcun sussidio da parte dello Stato.

 

 

L’intervento dello Stato a dare un sussidio non deve essere circondato da quella luce fatuamente simpatizzante con cui si circondano le esenzioni tributarie; deve essere ritenuto come una cosa seria, un sacrificio notevole fatto sopportare ai contribuenti in generale per il raggiungimento di un fine di interesse comune. Deve essere ben impresso dinanzi all’opinione pubblica il concetto che quel sacrificio è tollerabile soltanto fino a che quel fine non sia ancora raggiunto: ma quando il fine stesso sia ottenuto, la crisi sia passata, le costruzioni siano possibili senza incoraggiamento, sarebbe gravissimo danno, sarebbe anzi ingiustizia stridente continuare nel sistema dei sussidi.

 

 

Premi in contanti. Si esclude che il premio sia dato con nuovi biglietti.

 

Passando ora alla definizione del metodo più opportuno per la concessione dei premi di costruzione, ci troviamo dinanzi a parecchi sistemi; un primo sarebbe la concessione di un premio in denaro contante, quando la costruzione sia giunta ad un certo punto, ovvero a costruzione ultimata. Ma il sistema presenta il vizio di richiedere allo Stato lo sborso di una somma che forse l’erario nel momento presente non ha disponibile e che dovrebbe procurarsi sia emettendo nuova carta moneta, sia ricorrendo a prestiti. La emissione di carta moneta è da escludersi nel modo più energico. Sulla circolazione e quindi sui prezzi premono non soltanto i biglietti che si dicono emessi per conto diretto del commercio. Ove pure si ritenga che i biglietti emessi per dare premi ai costruttori abbiano ad appartenere alla categoria della circolazione per conto del commercio, nessuna differenza sostanziale si può riscontrare tra questa categoria e quella dei biglietti emessi per conto dello Stato, per quanto si riferisce alla spinta all’aumento dei prezzi. I costruttori di case pagherebbero i materiali da costruzione, gli operai, ecc., con biglietti nuovi; sarebbe una domanda nuova di merce, la quale verrebbe ad essere posta sul mercato ed una nuova spinta all’incremento generale dei prezzi.

 

 

Vantaggi e inconvenienti del premio in rendita consolidata o in titoli speciali edilizi.

 

Potrebbe invece lo Stato concedere il sussidio ai costruttori sotto forma di titoli di debito pubblico, sia che i titoli fossero uno speciale titolo edilizio, sia che, più opportunamente e per non moltiplicare a dismisura i tipi dei titoli posti sul mercato, il titolo di debito pubblico fosse consegnato dallo Stato ai costruttori al prezzo corrente di mercato, purché non inferiore ad una cifra la quale di volta in volta fosse fissata dal Ministero del tesoro.

 

 

Questo sistema si presenta come simpatico e semplice, non aumenta la circolazione perché il costruttore dovrà vendere sul mercato il titolo contro biglietti già circolanti, quindi non si introduce sul mercato una domanda nuova di merci, ma si sposta soltanto quella precedente e non si dà una spinta all’aumento del livello generale dei prezzi.

 

 

Fu osservato però che in tal modo la quantità di titoli messa sul mercato non dipenderebbe più dai criteri, qualunque essi siano, del Ministero del tesoro, ma dall’interesse privato dei costruttori, i quali col moltiplicare le costruzioni costringerebbero lo Stato a aumentare anche la sua emissione di titoli di debito pubblico. Argomentazione questa la quale non ha una portata assolutamente decisiva, in quanto che o con un metodo o con un altro, o con prestiti pubblici o con prestiti privati, o con utilizzazione di capitale proprio, la costruzione di case nuove implica un assorbimento del nuovo risparmio. Quindi, a parità di altre condizioni, un rialzo nel saggio dell’interesse ha un’influenza depressiva sul corso di tutti i titoli esistenti nello Stato. Giova però riconoscere che altra cosa è l’influenza diretta dell’emissione di titoli pubblici, altra l’influenza indiretta che sul medesimo titolo si può esercitare per una nuova domanda generica di capitale attraverso ostacoli ed attriti molteplici. Quindi si può comprendere la ripugnanza del tesoro all’emissione di titoli di debito pubblico per concedere premi agli industriali che si ritiene opportuno di incoraggiare.

 

 

Premio per mezzo di contributi al pagamento degli interessi sui mutui edilizi.

 

Non possiamo d’altro canto non tener conto di una circostanza la quale suffraga siffatta ripugnanza ed è che forse nel momento presente il privato costruttore di case riesce ad ottenere un mutuo con ipoteca a condizioni più favorevoli di quelle a cui lo ottiene lo Stato. Non è raro che mentre lo Stato paga il 5,71% per cento e, tenendo conto del premio di rimborso, forse anche il 6 per cento e più di interesse sui suoi mutui, il privato proprietario di case possa ottenere prestiti al 5 per cento. Conviene perciò nell’interesse generale che sia lasciata la cura al privato costruttore di procacciarsi i capitali occorrenti da lui non posseduti nella maniera che a lui sembrerà più opportuna. Si presenta a questo punto alla nostra attenzione il metodo che già è introdotto nella legislazione vigente, secondo il testo unico relativo alle case popolari ed economiche. Per queste, a norma dell’art. 30, lo Stato contribuisce al pagamento di una parte degli interessi dei mutui concessi, contro prima ipoteca e non eccedenti il 75 per cento del valore accertato dagli immobili costituiti in ipoteca. Il testo unico non suggerisce quale sia la misura del contributo dello Stato al pagamento degli interessi, ma da autorevole fonte siano stati informati che quel contributo può giungere sino al 4 per cento del capitale preso a prestito e praticamente si aggira intorno al 2 – 3 per cento. Il sistema è certamente semplice.

 

 

L’onere dello Stato verrebbe chiaramente indicato nel bilancio del Ministero dell’industria; lo Stato potrebbe fermarsi nella concessione di nuovi contributi di interesse quando riscontrasse che il bisogno dell’incoraggiamento più non esiste e così i suoi impegni potrebbero essere chiaramente determinati in una cifra massima, nella stessa agevole maniera che si potrebbe fare per il premio in contanti.

 

 

Preferenza data a questo sistema da tecnici pratici

 

Il sistema del contributo dello Stato del pagamento degli interessi parve raccomandabile, anche a parecchi tecnici pratici che la Commissione delle abitazioni aveva avuto occasione di interrogare.

 

 

Richiesti intorno al loro parere sulla preferenza da darsi all’esenzione dalle imposte ovvero al contributo al pagamento degli interessi, questi tecnici nettamente si manifestarono propensi al secondo sistema, come quello che a loro avviso dà effettivamente un aiuto ai costruttori per sopperire alla eccedenza di costo nella costruzione oltre i valori che la costruzione si presume possa avere a cose riassestate.

 

 

L’esenzione dalle imposte è sicuramente un beneficio, osservano questi tecnici, ma sulla garanzia di questo beneficio non si può ottenere alcuna somma a mutuo; mentre se lo Stato contribuisce al pagamento di una parte degli interessi dei mutui ipotecari accesi sulla casa, resta molto facilitata la ricerca della somma a mutuo e questa può ottenersi a migliori condizioni. Questi stessi tecnici, appartenenti a un grande istituto per le case di impiegati, ritengono però che lo Stato meglio provvederebbe a facilitare la ricerca dei mutui da parte dei privati costruttori, quando il contributo stesso non si riferisse soltanto all’interesse dei mutui da contrarsi, ma si riferisse all’annualità complessiva che gli Istituti mutuanti impongono ai privati mutuatari di pagare per un dato periodo di anni a titolo di interesse, quota di ammortamento, rimborso delle imposte, diritti ed accessori.

 

 

Metodo dell’annualità trentennale proposto dalla commissione.

 

Questa idea, esposta da tecnici competenti di riferire il contributo dello Stato alla annualità complessiva dovuta dai mutuatari agli Istituti mutuanti fu quella la quale condusse a quella proposta la quale si trova contenuta nel secondo dei progetti elaborati dalla Commissione per le abitazioni (Vedi appendice). La proposta si ispira agli esempi da lungo tempo introdotti nella nostra legislazione, con fortuna, a proposito delle concessioni ferroviarie e di altre opere pubbliche. Lo Stato per queste concessioni dà ai concessionari, che si obbligano alla esecuzione di una data opera pubblica, un’annualità costante comprensiva di ammortamento e di interesse e duratura per un certo numero di anni, ad esempio 1.000 lire per chilometro di ferrovie e per 30 anni. Questo sistema presenta vantaggi notevoli, in quanto il concessionario, il quale ha diritto di ricevere dallo Stato l’annualità trentennale, può agevolmente cederla ad una Cassa di risparmio od altro Istituto di credito in cambio di una somma capitale con cui egli provvede alla costruzione della ferrovia.

 

 

Vantaggi già sperimentati del sistema

 

Il sistema, già noto, ha creato un mercato delle annualità abbastanza importante. Parecchi sono gli istituti i quali finanziano le opere pubbliche acquistando le annualità dovute dallo Stato: il concessionario non ha più rapporti finanziari con lo Stato, in quanto la Cassa di risparmio o l’Istituto cessionario quando non voglia cedere l’annualità ad un istituto di credito, può direttamente emettere sul mercato azioni ed obbligazioni e farne il servizio con l’annualità statale: insomma il contributo per mezzo di annualità, si presta ad una varietà di combinazioni la quale giova moltissimo al compimento di un’opera pubblica consigliata dall’interesse generale ed impossibile a compiersi per sola iniziativa privata.

 

 

Sua applicazione alle case civili.

 

Il medesimo sistema può essere applicato anche alle case civili. Lo Stato, secondo questa proposta, contribuirebbe, per le case di abitazione civile di cui si iniziassero le costruzioni entro il 1920 e che risultassero abitabili entro il 31 dicembre 1923, con annualità non superiore al 40 per cento del costo di costruzione della casa, escluso quindi il valore dell’area.

 

 

L’amministrazione potrà far variare il contributo entro il limite massimo del 40 per cento a seconda delle speciali circostanze dei casi, così da dare un contributo maggiore in quei casi nei quali le difficoltà da superare per le costruzioni fossero maggiori. Il contributo sarà corrisposto al privato costruttore sotto forma di annualità costante comprensiva delle rate di ammortamento e degli interessi al saggio del 5 per cento con differimento minimo pari a 30 anni. Ciò vuol dire che se una casa costasse per la sua costruzione 100 mila lire, lo Stato dovrebbe pagare come contributo massimo suo lire 40 mila. Le 40 mila lire non sarebbero pagate in contanti ma verrebbero trasformate in una annualità per la durata minima di 30 anni ed eventualmente anche superiore, annualità calcolata al saggio di interesse del 5 per cento. Si è assunto il saggio del 5 per cento sebbene questo sia inferiore al saggio di interesse pagato dallo Stato per il consolidato al saggio effettivo, perché dovendo l’operazione avere una lunga durata è sembrato opportuno fare i propri calcoli su un saggio di interesse che fosse alquanto minore di quello eccezionale presentemente vigente. Il costruttore della casa, ricevendo l’annualità dallo Stato, ne potrà fare l’uso che riterrà migliore. Se egli, come accadrà in molti casi, non sarà provveduto di tutto il capitale occorrente alla costruzione, cederà l’annualitàad un istituto di credito od anche ad un privato alle condizioni migliori che gli saranno possibili. Ma vi è un vantaggio grandissimo nello scegliere questo sistema ed è che in questo modo si incoraggia altresì l’impiego di capitali nella costruzione di case da parte di coloro i quali sono già essi forniti di capitali ma non li investirebbero mai nelle costruzioni edilizie, perché a giusta ragione temerebbero di ricevere dal capitale loro, dati gli altissimi costi della costruzione, una remunerazione troppo bassa o, cosa che equivale ad esporre il medesimo concetto, temerebbero di vedersi sfumare di tra le mani, dopo qualche anno, una parte del valore della casa quando il costo di costruzione si fosse ridotto ad una cifra inferiore. In questa guisa invece il costruttore spende anche volentieri le 100 mila lire che egli possiede, ben sapendo che fra qualche anno la casa sua non avrà più il valore di 100 mila, ma solo di 60 mila lire, perché lo Stato gli concede il rimborso delle restanti 40 mila lire sotto forma di annualità trentennale o ultra trentennale.

 

 

Ragioni del limite del 40 per cento del costo della costruzione

 

La percentuale massima di concorso dello Stato, entro il limite del 40 per cento, fu adottata come quella che corrisponde all’incirca ad un contributo di metà degli interessi e della rata di ammortamento per mutui equivalenti al 75 per cento del valore della casa costruita. Sono tutte formule le quali conducono al medesimo risultato; ma il sistema proposto pare più semplice e più atto allo scopo di incoraggiare l’investimento di capitali nella industria edilizia nella maniera più larga possibile. Il 40 per cento si riferisce solo al costo delle costruzioni, non al valore dell’area. Questa, nell’attuale scarsità di costruzioni, non ha subito aumenti apprezzabili di prezzo reale in confronto all’ante – guerra, né v’è pericolo di grandi svalutazioni per l’avvenire. Manca perciò la ragione di far contribuire lo Stato al pagamento del suo prezzo di acquisto.

 

 

Suggerimento che lo stesso metodo sia applicato alle case popolari.

 

Se il sistema fosse accolto, esso potrebbe estendersi altresì alle case economiche e popolari contemplate da leggi apposite ed a cui oggi la legislazione vigente assicura benefici molto più importanti, nella loro portata complessiva, di quello che non sia la concessione di una annualità trentennale. Invero questo sarebbe l’unico beneficio diretto concesso dallo Stato alle case civili, beneficio a cui si contrappone l’obbligo di pagare interamente le imposte e le sovraimposte gravanti sui fabbricati medesimi. Insomma il costruttore di case civili, da un lato, per le ragioni già ampiamente svolte dovrà continuare a pagare le imposte e le sovraimposte allo Stato ed agli enti locali, dall’altro riceverà dallo Stato un’annualità la quale può andare fino al 40 per cento del costo della costruzione. È ben noto invece che per le case economiche e popolari i benefici sono notevolmente maggiori, in quanto lo Stato concede l’esenzione per 25 anni da tutte le imposte e sovraimposte ed inoltre un contributo che può andare fino al 4 per cento all’anno nel pagamento degli interessi sui capitali presi a mutuo per la costruzione delle case. Varie altre facilitazioni, che qui non monta di ricordare sono, per il finanziamento e per la costruzione, concesse ancora alle case popolari ed economiche.

 

 

Sarebbe conveniente sostituire a quello fra gli incoraggiamenti dati alle case economiche e popolari che consiste nel contribuire al pagamento degli interessi sui mutui, la concessione di un’annualità simile a quella proposta per le case civili. Gli enti costruttori di case popolari cioè, oltre ad avere tutti gli altri vantaggi sopra annoverati, dovrebbero poter avere la facoltà di scelta fra il contributo nel pagamento degli interessi sui mutui e la concessione di un’annualità. Probabilmente molti enti sceglierebbero questa seconda parte dell’alternativa, come quella che meglio consente a loro di ottenere a prestito le somme opportune alla costruzione delle case.

 

 

Confronto tra gli incoraggiamenti di stato alle varie specie di case.

 

Se questo concetto fosse accolto, questo sarebbe il quadro complessivo degli incoraggiamenti dati dallo Stato alla costruzione delle varie specie di case.

 

 

Case di lusso:

 

 

Nessun incoraggiamento.

 

 

Case civili:

 

 

1. Premio sotto forma di annualità trentennale fino al 40 per cento del costo di costruzione della casa esclusa l’area.

 

 

2. Detrazione degli interessi passivi dei debiti dal reddito imponibile.

 

 

Case popolari:

 

 

1. Contributo al pagamento degli interessi sul mutuo contratto per la costruzione della casa ovvero, come sopra, premio sotto forma di annualità trentennale fino al 40 per cento del costo di costruzione della casa.

 

 

2. Esenzione dall’imposta dei mutui contratti per la costruzione delle case.

 

 

3. Esenzione per 25 anni dall’imposta e dalle sovrimposte sui fabbricati.

 

 

4. Finanziamento ad interessi di favore degli Enti, cooperative ed istituti per la costruzione di case popolari.

 

 

Cautele per il contributo statale alle costruzioni.

 

Allo scopo di cautelare lo Stato sarebbe necessario che il costruttore, il quale intenda usufruire della concessione dell’annualitàdi concorso, presenti un progetto completo del fabbricato da costruire e del suo costo presunto. Ove il consuntivo superi di troppo, ad esempio di oltre il 10 per cento, il preventivo, non si terrebbe conto dell’eccedenza nel determinare il valore della casa costruita.

 

 

Come già nella legislazione vigente per l’esenzione delle case di abitazione in generale dalle imposte e sovraimposte, esenzione che si dovrebbe abolire, il concorso dello Stato si dovrebbe limitare alle case le quali non siano di lusso. È difficile di poter determinare, come sarebbe opportuno, quali siano i connotati precisi delle case di lusso, e perciò noi ci asteniamo dall’indicarli. L’autorità la quale dovrà esaminare il progetto di fabbricato per l’ammissione al concorso dello Stato, dovrebbe pure, caso per caso, riscontrare se esistano quelle caratteristiche che nelle condizioni particolari della località possono indicare l’esistenza del fabbricato di lusso, ed in tal caso il fabbricato non dovrebbe essere ammesso preventivamente al concorso dello Stato, ed il costruttore sapendolo prima sarà libero di continuare o no nel suo divisamento di costruire.

 

 

Pure a guarentigia dello Stato, è opportuno di concedere il beneficio del concorso dello Stato soltanto a quei fabbricati i quali per almeno tre quarti siano destinati ad uso di abitazione, non potendo la parte destinata a botteghe, magazzini, ecc., superare il quarto del valore dello stabile.

 

 

Altre riforme proposte di carattere tributario: detrazione delle annualità per le nuove costruzioni.

 

Accanto a questa proposta generale, che è la più semplice e la più efficace per favorire le costruzioni e la più chiara e meno pericolosa nell’interesse dello Stato, alcune altre disposizioni sarebbe opportuno introdurre nella legislazione finanziaria allo scopo di non ostacolare la costruzione di fabbricati nuovi.

 

 

È una lagnanza antica e giustificata dei proprietari di case quella contro la negata detrazione degli interessi passivi dei debiti gravanti sui fabbricati stessi. Il proprietario di un fabbricato fruttifero di 10.000 lire nette imponibili paga l’imposta su tutte queste 10.000 lire, anche quando esse siano decurtate di 5.000 lire di interessi passivi dovuti ad un creditore ipotecario. È questo un caso flagrante di doppia tassazione. Fin qui erano accumunati nella ingiustizia, insieme coi proprietari di fabbricati, anche i proprietari dei terreni. Per questi ultimi però, a partire dall’1 gennaio 1926, secondo le norme sancite dal regio decreto-legge 24 novembre 1919, n. 2167, essendo il reddito trasportato dalla categoria A-3 in quella B, esso godrà del diritto alla detrazione degli interessi passivi, così come ne godono gli altri redditi di carattere industriale. Il diritto alla detrazione è limitato agli interessi ipotecari, ai canoni, censi e livelli, ma è insomma riconosciuto si può dire quasi totalmente. Gli unici contribuenti, i quali rimarranno anche col nuovo ordinamento tributario soggetti a questa gravissima ingiustizia del pagamento dell’imposta su un reddito che non godono e che debbono passare ai creditori ipotecari, saranno i proprietari dei fabbricati.

 

 

Sarebbe pure giustizia estendere ai redditi dei fabbricati in genere il diritto comune alla detrazione delle annualità passive; se per ragioni di bilancio a ciò non si volesse subito addivenire bisognerebbe almeno che nella determinazione del reddito netto imponibile delle nuove costruzioni, si facesse luogo alla detrazione dal reddito dell’ammontare delle quote annue per interessi, diritti ed accessori dei mutui contratti, i quali restino a carico del costruttore e dell’acquirente dello stabile.

 

 

È politicamente immorale e socialmente anticivico che venga concessa una esenzione ai proprietari dei fabbricati nuovi dalle imposte e sovraimposte per il reddito da essi realmente goduto, ma è altrettanto immorale ed ingiusto che si faccia ad essi pagare l’imposta anche sul reddito che non hanno. Quindi il proprietario della casa nuova, costruita a seguito degli incoraggiamenti ricevuti dal governo, paghi le imposte come qualsiasi altro contribuente, ma abbia il diritto di pagarle soltanto sul reddito vero suo, depurato dalle quote annue che egli effettivamente pagherà per gli interessi, diritti ed accessori dei mutui contratti.

 

 

Egli cioè dovrebbe avere diritto a detrarre dal suo reddito non tutta l’annualità da lui pagata per il servizio del mutuo contratto, ma l’annualità stessa meno la rata di ammortamento, essendo il pagamento della rata non un onere, ma un rimborso di debito, ossia un aumento di patrimonio per il contribuente debitore.

 

 

Carattere permanente della detrazione proposta.

 

Questo è un beneficio di carattere costante e perpetuo, il quale deve essere concesso ai costruttori di case nuove.

 

 

È un beneficio il quale, mentre risponde a giustizia, non crea alcun privilegio, anzi toglie un privilegio a rovescio da cui erano afflitti ingiustamente i proprietari.

 

 

Servirà davvero di incoraggiamento potente alle nuove costruzioni, perché renderà possibile di ottenere somme a mutuo per le costruzioni, senza sottostare all’onere gravissimo di dover pagare due imposte per un solo reddito.

 

 

Voto perché lo stesso beneficio venga concesso anche alle costruzioni antiche; specie se il mutuo sia dato esso pure a costruzioni nuove

 

Giova ritenere che questo principio, il quale dovrebbe essere sancito con carattere di assoluta permanenza per tutte le nuove costruzioni, qualunque esse siano, godano o non del concorso governativo, possa essere a breve scadenza esteso altresì alle costruzioni antiche.

 

 

Converrebbe fin d’ora concedere il medesimo trattamento di giustizia tributaria anche per i fabbricati antichi i cui proprietari volessero accendere un mutuo ipotecario su di essi allo scopo di impiegarne il ricavo nella costruzione di case nuove. È ben noto invece che una delle difficoltà che si incontrano nel procacciarsi mutui su nuove costruzioni è quella che i costruttori per lo più non posseggono una somma in contanti sufficiente per iniziare la costruzione e condurla almeno sino al tetto.

 

 

Esigenza del resto sana e non da scoraggiarsi, in quanto fa sì che la costruzione di case nuove sia intrapresa soltanto da persone pratiche e solvibili e per conto di proprietari forniti di una parte del capitale occorrente alla costruzione. Ma se il costruttore possiede già un altro fabbricato non deve essergli di ostacolo la mancanza di un capitale in contanti per la nuova costruzione, perché egli può dare garanzia sui suoi vari stabili. In tal caso però non deve sussistere l’ostacolo derivante dall’ingiusta legislazione vigente la quale colpisce due volte il reddito unico derivante dalla casa.

 

 

Con disposizione transitoria sarà agevole provvedere alle esigenze dello Stato e degli enti locali i quali potrebbero essere danneggiati dalla scomparsa di una parte della materia imponibile. Il diritto ad imposta e sopraimposta venuto meno a carico del proprietario del fabbricato potrebbe essere trasferito a carico del percettore degli interessi del mutuo ipotecario. Lo Stato nulla perderà e rimarrà salvo il principio di giustizia che il reddito complessivo del fabbricato, comunque ripartito tra proprietari e creditori, venga ad essere colpito da una sola imposta e non da due.

 

 

Proposta non accolta di esenzione dall’imposta sui sopraprofitti di guerra delle somme destinate a nuove costruzioni.

 

Le considerazioni sopra fatte in merito alla esenzione dalle imposte, mi dispensano dallo spendere molte parole riguardo ad una proposta che fu da varie parti messa innanzi e che si sostanzia nella richiesta di estendere alle nuove costruzioni il principio già ammesso per la costruzione di nuove navi e per l’impianto di coltivazioni di lignite ed altri combustili nazionali.

 

 

È risaputo che la legislazione vigente concede di sottrarre all’imposta sui sopraprofitti i redditi di guerra qualora questi siano impiegati in una certa proporzione nell’acquisto di navi e nella utilizzazione dei combustibili nazionali.

 

 

Il privilegio concesso in questi due casi ai contribuenti delle imposte sui sopraprofitti è inammissibile e neppure può reputarsi corretto che il medesimo ingiusto privilegio sia concesso a coloro i quali, avendo goduto dei sopraprofitti di guerra, volessero consacrarli alla costruzione di case nuove.

 

 

2) Per la costruzione di un fondo edilizio popolare

 

Come sempre accade per problemi i quali commovono grandemente l’opinione pubblica, sono state messe innanzi numerose proposte le quali tenderebbero a promuovere la risoluzione del problema delle abitazioni, usando lo strumento delle imposte. Due ordini di provvedimenti sono stati prospettati a volta a volta e qui si enunciano e si discutono separatamente.

 

 

Di un’imposta speciale sui locali esuberanti al fabbisogno delle famiglie

 

Secondo una prima corrente, la costruzione delle case sarebbe favorita se i comuni fossero autorizzati a istituire un’imposta speciale sugli inquilini in ragione dei locali esuberanti al fabbisogno delle famiglie. Discordano notevolmente i proponenti nelle modalità del nuovo tributo e specialmente per quanto riguarda la definizione dei locali esuberanti, in quanto vorrebbero taluni si considerasse esuberante ogni locale in eccedenza al numero di uno per membro della famiglia, con l’aggiunta eventuale della cucina, anticamera ed altri locali di servizio; mentre altri vorrebbero che si differenziasse fra i diversi componenti della famiglia, così da concedere ai membri adulti due camere per capo e un minor numero per i minori di età e per le persone di servizio. Si discute ancora se tra i locali necessari debbano essere sempre annoverati, in aggiunta, la cucina, i locali di servizio, la camera da pranzo, lo studio, ecc. Intorno a queste particolarità del resto è inutile indugiarsi, in quanto il problema da discutersi è quello di principio, se convenga l’istituzione di questa imposta speciale sui locali esuberanti.

 

 

Inconvenienti della imposta speciale pei locali esuberanti

 

Si osservi innanzitutto essere ingiustificabile la proposta di istituire tributi nuovi ogni qual volta paia al legislatore di dover conseguire un determinato scopo. Lo studio dell’istituzione di tributi nuovi non può prescindere dai rapporti che il nuovo tributo deve avere con tutti gli altri tributi già esistenti.

 

 

Numerosi sono gli inconvenienti che un’imposta specifica sui locali esuberanti o in genere sul valore locativo potrebbe provocare. Un’imposta di questo genere appartiene al tipo delle imposte le quali si fondano su un determinato indice della spesa. Conseguenza di tutte le imposte di questo genere è quella di tendere a restringere l’impiego di quell’indice che costituisce base d’imposta. Naturalmente gli inquilini tenderanno a diminuire il numero delle camere abitate, si provocherà una tendenza, non utile nel momento presente, ai locali grandi e si porrà ostacolo a quella che deve essere una delle preoccupazioni dell’edilizia moderna, cioè di utilizzare al massimo la cubatura, rispettando sempre le ragioni dell’igiene. Il locale ampio non è quello che è meglio adatto alle condizioni moderne di alto costo dei materiali da costruzione e degli altri elementi costruttivi; giova meglio all’uopo il locale relativamente piccolo ma congegnato in modo da sfruttare al massimo la costruzione.

 

 

Un’imposta di questo genere è destinata a dare un’entrata decrescente alle finanze comunali, le quali sono invece assetate di entrate progressive e crescenti. Se un’imposta sulla spesa deve crearsi essa dovrebbe avere carattere di progressività ed esenzioni variabili da caso a caso per la spesa necessaria o modesta, ma lasciando ai comuni una certa ragionevole libertà di valutazione degli indici della spesa, così da evitare che taluni contribuenti, evitando quella speciale spesa che fosse per essere scelta come indice, si sottraessero al loro debito di imposta verso l’erario comunale. Fra tutte le forme di spesa, la spesa per l’abitazione è ancora una tra le più morali e più utili alla collettività; e non sembra perciò conveniente di multare in maniera particolare questa spesa in confronto ad altre, molte volte più inutili e più dannose agli interessi collettivi.

 

 

Aggiungasi che l’imposta ora detta ha carattere di imposta di scopo, devoluta a fini particolari; e come tutte le altre imposte congeneri può riuscire esuberante od insufficiente all’uopo, duratura per tempo più o meno lungo di quello per cui esista il fine di raggiungere. Quando i comuni ritengano utile provvedere alla costruzione di case popolari, non è necessaria l’istituzione di un’imposta speciale, ma giova quel qualsiasi strumento tributario che si dimostrerà meglio atto e procacciare larghe entrate alle finanze comunali. Il comune dotato così di entrate crescenti, potrà, quando ne riconosca la necessità, devolvere una parte di queste entrate all’incoraggiamento delle costruzioni popolari ed alla creazione di un forte demanio edilizio.

 

 

Di una imposta sui proprietari in ragione degli aumenti di reddito non guadagnati ad essi concessi.

 

Un secondo ordine di provvedimenti tributari riguarda la istituzione di un’imposta da pagarsi non più dagli inquilini detentori di locali esuberanti come sarebbe quella precedente, ma di una imposta gravante sui proprietari di case in ragione degli aumenti di fitto che fossero loro consentiti da oggi in poi. Si dice cioè da taluni: sia pur concesso ai proprietari di aumentare il fitto, ad ipotesi del 60 per cento, sulla cifra attuale; ma di questo aumento soltanto una parte – ad esempio la metà – rimanga a loro favore e l’altra parte debba essere da essi versata ad una cassa speciale comunale o ad un istituto per le case popolari, e costituisca la base di un grandioso finanziamento per la costituzione di un demanio edilizio pubblico. Si giustifica questa proposta con il fatto che i proprietari di case ottengono un aumento di reddito, una vera rendita non guadagnata, derivante dalle circostanze in cui attualmente si svolge il mercato edilizio e si dice che a questo aumento di reddito debbono i comuni partecipare. La tesi merita di essere esaminata accuratamente, sebbene faccia d’uopo giungere a conclusioni contrarie.

 

 

Esiste già l’imposta sugli aumenti di reddito superiori al 20 per cento

 

1. Già la legislazione vigente provvede a far partecipare gli enti pubblici (Stato, provincia e comune) agli incrementi di reddito percepiti dai proprietari, in quanto, ove il fitto percepito da essi aumenti di oltre un quarto in confronto del reddito imponibile accertato precedentemente, si fa luogo ad una revisione dell’imposta a favore dell’erario, e l’erario colpisce l’incremento di reddito con l’imposta fabbricati, con aliquote le quali giungono oggidì a circa il 24 per cento per lo Stato, oltre a percentuali variabili a favore delle provincie e dei comuni, percentuali che in complesso portano la somma dell’imposta e delle sovraimposte a non meno del 40% ed in moltissimi casi al 50 ed al 60 per cento. La partecipazione dunque del pubblico erario agli aumenti di reddito eventualmente ottenuti dai proprietari oltre un certo limite, è già stabilita nella legislazione vigente. Il problema si ridurrebbe perciò a studiare se questa partecipazione invece di essere attribuita, come è adesso, allo Stato, alle provincie ed ai comuni in generale, debba invece essere attribuita ad un ente speciale per la costituzione di un demanio edilizio. Il che mi pare fondamentalmente errato e pericoloso. Devolvere un’entrata che oggi esiste, ma che è attribuita in parte allo Stato ed in parte alle provincie ed ai comuni, ad un ente con destinazione speciale, è proposta la quale tocca troppo profondamente l’ordinamento tributario, in un momento in cui tutti gli enti pubblici hanno bisogno di forti entrate. L’importante sta nel fornire gli enti pubblici di congrue entrate: essi discuteranno poi, nei loro organi legislativi ed amministrativi, quale uso debbasi fare di queste entrate; giudicheranno quindi se convenga destinare una parte di queste entrate alla creazione del demanio edilizio. Ma affermare tassativamente che certe pubbliche entrate debbano affluire, non più al tesoro dello Stato o agli erari provinciali e comunali, ma ad un ente speciale, è pericoloso e sbagliato.

 

 

Esiste già la tassazione degli incrementi patrimoniali

 

2. La tassazione degli aumenti di reddito o di quelle che si chiamano rendite non guadagnate, è argomento degnissimo di studio. Né si può ignorare come esso sia stato lungamente discusso appunto a proposito degli incrementi di valore delle aree fabbricabili e delle case costruite. Ma devesi qui ricordare come tale materia sia già disciplinata dagli articoli da 74 a 78 del regio decreto-legge 24 novembre 1918, n. 2162, per il riordinamento dei tributi diretti, i quali sanciscono che tutti gli incrementi patrimoniali realizzati dai contribuenti debbano andare soggetti, con modalità che qui non monta di ricordare, all’imposta complementare progressiva sul reddito. Anche qui, siccome l’imposta esiste già, non si può ammettere che sia tolta allo Stato e devoluta ad un fondo speciale.

 

 

Ciò sarebbe un errore gravissimo, in quanto toglierebbe entrate ad un ente che ne ha bisogno, per darle ad un ente, i cui bisogni debbono essere soddisfatti mediante iscrizioni di bilancio dallo Stato e dai Comuni e non mediante imposte proprie.

 

 

Inopportunità di studiare e legiferare in ordine ad aumenti di reddito e di patrimoni. Manca ogni possibilità di confronto fra i redditi antichi e quelli nuovi.

 

Non si può inoltre non riflettere che il momento presente è quanto mai inopportuno per un esame e per una deliberazione in merito alla tassazione, sia degli aumenti di redditi che degli incrementi di valore. Questa tassazione presuppone come sua condizione necessaria la possibilità di fare dei confronti esatti di redditi e di valori fra un’epoca e un’altra. Per poter tassare l’aumento di fitto ottenuto da un proprietario da 10 mila lire nel 1914 a 15 mila nel 1921, sarebbe cioè necessario che i due termini, 10 mila e 15 mila, fossero fra di loro comparabili, che si trattasse di lire uguali nell’una e nell’altra epoca. Allora si potrebbe accertare l’esistenza di un aumento effettivo di reddito a favore del proprietario in lire 5 mila e potrebbe essere fatto oggetto di studio attento e di eventuale deliberazione l’opportunità di tassare questo incremento di reddito di lire 5 mila. Oggi purtroppo non ci troviamo in condizioni le quali consentano la comparabilità dei redditi e consentano quindi lo studio dell’argomento, in quanto le 10 mila lire di reddito del 1914 sono espresse in una unità monetaria la quale non ha nulla a che fare con l’unità monetaria con cui si esprimono le 15 mila lire di oggi o si esprimeranno quelle dell’anno venturo. È osservazione già fatta in antecedenti parti di questa relazione, che la svalutazione della lira, in regime di vincolo dei fitti, ha imposto ai proprietari di case una imposta speciale gravissima su di loro, in quanto essi, continuando a ricevere oggi 10 mila lire di fitto per la loro casa, ricevono in realtà una somma la quale può essere variamente stimata, equivalente forse a 1200, 1500 o al massimo 2000 lire di una volta. I proprietari, in virtù del vincolo degli affitti, sono perciò stati colpiti da una grave imposta speciale e se anche fosse loro consentito di aumentare i fitti da 10 a 15 mila lire, essi in realtà non otterrebbero nessun reale aumento di reddito, in quanto le 15 mila lire di oggi a mala pena equivalgono a 4 o 5 mila lire del 1914. Essi continuerebbero ancora, pur con un aumento del 60 per cento, a subire una vera imposta.

 

 

Rischio di tassare le diminuzioni effettive di reddito mascherate da aumenti monetari.

 

In queste contingenze sembra priva di significato, o almeno difficilissima a definirsi, una tassazione sugli aumenti di reddito, quando questi aumenti di reddito sono tutt’affatto apparenti e corrispondono a perdite di reddito effettive. Le epoche di perturbazione monetaria sono le meno indicate per istituire imposte le quali colpiscono aumenti di reddito o di patrimonio: è gravissimo in ogni caso il rischio di colpire ciò che non è aumento, ma è invece effettiva riduzione. Nei periodi di moneta turbata le imposte devono rassegnarsi a colpire il reddito quale di anno in anno si forma o i patrimoni quali di tempo in tempo si possono accertare, senza correr dietro alle variazioni da un’epoca all’altra, delle quali invano si ricercherebbero il significato e la vera portata. Il momento presente è quanto mai inopportuno al riguardo e deve attendersi un’epoca di stabilizzazione monetaria per discutere ed eventualmente legiferare in materia.

 

 

Utilità di non aggiungerne un’altra alle cause di incertezza che ostacolano oggi l’incremento dell’industria edilizia.

 

Non conviene aggiungere alle altre cause di incertezza che rendono l’industria edilizia tanto ardua, una nuova causa la quale potrebbe allontanare i capitali dall’industria stessa. Quello che monta, in tema di case popolari, non è di cercare una fonte purchessia per ottenere entrate, ma è di costituire un sistema tributario capace di dare il massimo d’entrata che in ogni momento è possibile. Di questa condizione di cose si gioveranno altresì i comuni per finanziare, ove lo credano, le costruzioni di case e per incoraggiare la formazione di un grande demanio pubblico edilizio.

Sesta lezione

Sesta lezione
Il problema delle abitazioni, Ed. F.lli Treves, Milano 1920, pp. 172-203

 

 

 

 

I provvedimenti tecnico-economici per agevolare la costruzione di case nuove.

 

Fabbisogno di case nuove. Insufficienza di dati statistici precisi.

 

Ogni provvedimento il quale si limitasse a ristabilire la libertà delle contrattazioni per le costruzioni vigenti sarebbe inutile quando contemporaneamente non si riuscisse a mettere sul mercato una quantità sufficiente di costruzioni nuove che potesse servire da calmiere al rialzo dei prezzi, e fornire alloggi alle popolazioni esuberanti. Non è facile formarsi un’idea di quello che sia oggi il bisogno di abitazione.

 

 

Il commissario agli alloggi di Milano valuta in 2000 il numero dei locali costituenti il fabbisogno urgente delle persone le quali sono prive assolutamente di abitazione, o l’hanno talmente disagevole da non riuscire sopportabile qualunque indugio.

 

 

Da fonti autorevoli si ha l’impressione che il fabbisogno urgente delle costruzioni in Roma si aggiri intorno ai 20.000 vani all’anno per i prossimi dieci anni, cifra sufficiente per provvedere all’aumento di popolazione verificatasi dopo il 1915. Notisi che in passato il massimo dei locali costruiti in un anno fu di 15.000 nella stessa città.

 

 

A Palermo, in occasione di una agitazione degli inquilini si poté constatare che il numero delle famiglie prive di abitazione ammontava a 76, di cui una parte priva di quella abitazione più comoda o più centrale che essa desiderava.

 

 

Condizioni limitatrici della deficienza di alloggi.

 

Come bene ha fatto rilevare l’on. Mortara nella lettera al Presidente del Consiglio citata in altra lezione, l’agitazione per la mancanza di alloggi ha non di rado un carattere artificiale e deriva sia da associazioni a bella posta create le quali debbono dimostrare l’utilità della loro esistenza, sia dall’intromettersi di elementi politici nel dibattito, sia dalle difficoltà che la legislazione vincolistica appone allo smistamento tra le diverse categorie di inquilini. Giova ritenere che a mano a mano che il regime vincolistico lascierà il posto al regime di libertà, venga meno quel che vi è di artificioso nella mancanza di alloggi. Del resto se anche per avventura si eccedesse nelle nuove costruzioni, sarebbe una eccedenza non priva di vantaggi, in quanto il bisogno di case è uno dei più seri e fondamentali bisogni a cui importa di provvedere a preferenza di moltissimi altri. Una delle cause principalissime per la quale la popolazione italiana non gode spesso di quel conforto nell’abitazione che sarebbe desiderabile, è stata fin qui la scarsa propensione dei cittadini a dedicare alla casa una porzione sufficiente del proprio reddito. La vita sulla strada, la ricerca delle compagnie nei pubblici esercizi, le troppo lunghe ore di lavoro, hanno disamorato moltissimi dalla casa, sì da farli contentare di vivere in troppa gente in una sola stanza o in pochissime, e in condizioni repellenti ed antigieniche. Una grande mutazione notasi fortunatamente dopo la guerra. Il rialzo dei salari nelle città industriali e la diminuzione delle ore di lavoro cominciano a far sentire la necessità della casa più ampia e più bella. La conoscenza che molti cittadini del mezzogiorno hanno avuto delle migliori condizioni di vita nel settentrione, hanno reso ad essi incomportabile la vita negli antichi bassi privi di luce, umidi e soprafollati, sicché anche nel mezzogiorno, aiutato dai rialzi dei salari e dai guadagni ottenuti coll’esercizio della piccola industria agricola, si è iniziato un movimento promettentissimo verso l’acquisto della casetta propria e molti aspirerebbero a costruirsela non trovandola a comprare, ove appena ciò fosse possibile. Questo desiderio della casa più ampia, più igienica e più bella, è forse la causa principale di quel che si chiama la crisi delle abitazioni. Non è una crisi in confronto alle antiche condizioni di vita, ma un moto di assestamento verso nuove migliori condizioni. Ed è perciò una crisi grandemente salutare ed utile dal punto di vista sociale.

 

 

Il fabbisogno non è uniforme in tutta Italia ed è diverso nelle grandi e nelle piccole città.

 

Il problema alla cui soluzione deve collaborare lo Stato con un’acconcia legislazione, non è evidentemente un problema uniforme per tutta Italia. Per quanto invero si riferisce ai piccoli borghi ed alle cittadine meno importanti, la mancanza assoluta dell’industria edilizia fa sì che le case siano sempre state e possano solo essere costruite dal privato il quale intende abitarvi, e tutt’al più desidererà di erigere una casa con qualche piano eccedente ai suoi bisogni allo scopo di ricavare dall’affitto di essi il mezzo di sopperire alle spese ed alle imposte gravanti sulla casa.

 

 

Il fabbisogno a cui devono provvedere enti pubblici e privati costruttori è più ristretto e si limita alle grandi città, e ad un certo numero di città minori in cui per circostanze speciali la crisi delle abitazioni è più intensamente sentita.

 

 

Il fabbisogno prossimo assolutamente urgente ed indispensabile fu calcolato da competentissimi interrogati dalla commissione per le abitazioni in 30.000 vani all’anno per cinque anni per Roma, Milano, Napoli, Venezia, Torino, Bari, Bologna e Genova, senza tener calcolo del fabbisogno per le costruzioni di case signorili, cifra minore di quella di 20.000 vani indicata poco sopra per la sola città di Roma, ma avente un significato intermedio tra quella dei 2000 vani accennati dal commissario degli alloggi come urgentissimi per Milano e quelli di 20.000 vani all’anno per il prossimo decennio, indicato pure per Roma. Il fabbisogno di 30.000 vani all’anno indicherebbe quella cifra, la quale corrisponde alla necessità di dare abitazione a coloro i quali sono oggi privi di casa o lo saranno a mano a mano quando dovranno trasferirsi nelle maggiori città. La cifra lascia fuori di conto quel maggior fabbisogno che corrisponde alle idee nuove di comodo, a cui la popolazione italiana oggi giustamente aspira.

 

 

L’intervento dello stato a favore delle nuove costruzioni.

 

In che modo lo Stato può intervenire per facilitare l’offerta di nuove case sul mercato? I mezzi si possono distinguere in due categorie: tecnico-economici e tributari.

 

 

I provvedimenti tecnico-economici.

 

In primo luogo, dirò dei provvedimenti di indole tecnico-economica, i quali debbono avere la precedenza, come quelli che più efficacemente possono rimuovere gli ostacoli che a detta di tutti i pratici dell’argomento contrastano le costruzioni delle case nuove.

 

 

La difficoltà dei trasporti.

 

1. Il principale e più grave ostacolo alla costruzione di case nuove, è la difficoltà dei trasporti. È una lagnanza universale che viene da tutte le parti d’Italia: dagli ingegneri dirigenti gli enti autonomi edilizi, ai costruttori privati di case, dai collegi degli ingegneri ai rappresentanti di imprese di materiale da costruzione. È praticamente impossibile di poter fare qualsiasi assegnamento sulla consegna dei materiali laterizi, del cemento, del ferro, del legname, di tutto ciò insomma che sarebbe necessario per le costruzioni. Si sa che ingenti quantitativi disponibili di legname, fors’anche di ferro, esistono nelle provincie dell’ex-impero austriaco. Provviste di legname in parte già abbattuto e lavorato per ragioni militari esistono qua e là in Italia. Ma l’esistenza dei materiali è tutt’altra cosa della loro disponibilità sui cantieri di lavoro. A causa del disservizio ferroviario, ed anzi della mancanza assoluta di carri e dell’ingombro delle ferrovie, questo materiale, pur così urgente, è come se non esistesse.

 

 

Il ristabilimento di condizioni normali nei trasporti è la prima condizione della ripresa edilizia, come del resto della ripresa di tutta l’attività nazionale.

 

2. Il primo passo per la risoluzione della crisi delle abitazioni è dunque provvedere a rimettere in assetto il servizio ferroviario. È questo un provvedimento di carattere generale il quale non si riferisce in modo specifico al problema edilizio, ma investe tutto il problema dell’attività nazionale. Certa cosa è, essere perfettamente vano qualsiasi incoraggiamento dato dal governo sotto altre forme alle costruzioni edilizie, che non prenda le mosse dal ristabilimento di un normale servizio ferroviario. Se per tempo si fosse provveduto ad attuare nell’Alta Italia un sistema di navigazione fluviale all’interno, il quale da Venezia giungesse sino a Torino, una parte dell’asprezza odierna del problema dei trasporti dei materiali da costruzione, per lo più poveri e pesanti, sarebbe tolta. Ma è oggi inutile fare recriminazioni sul passato; giova solo affermare, insistendo nella maniera più chiara e magari fastidiosa, che qualunque altra legislazione non servirà a nulla, se innanzi tutto non si porrà in ordine il sistema dei trasporti interni. Da questo fattore dipende la ripresa delle industrie produttrici di materiali da costruzione. Oggi fornaci, segherie, fabbriche di cementi, o rimangono spente od inattive, o non lavorano in pieno perché manca assolutamente qualsiasi sicurezza di poter trasportare sui cantieri di costruzione il materiale predetto; mancando la produzione, manca la possibilità del consumo dei materiali stessi, e l’industria edilizia non può riaversi, non essendovi la certezza di avere in tempo calce, cemento, mattoni, ferro e legname, gli intraprenditori edilizi esitano nell’assumere qualsiasi impegno perché non sanno di poterli mantenere e non vogliono correre il rischio di pagare salari ad operai forzatamente disoccupati e di pagare ai committenti multe per inadempienza; non essendovi la sicurezza della continuità del lavoro, le maestranze sbandate non si ricostituiscono.

 

 

Su ciò unanime è stato il consenso di tutti i competenti, poiché è bene porre il ristabilimento di condizioni normali nei trasporti in capo alla lista delle esigenze a cui imprescindibilmente si deve soddisfare se si vuole sul serio una ripresa nell’attività edilizia.

 

 

Il ritorno alla normalità nei trasporti delle persone.

 

3. Non trascurabile è pure l’importanza del ritorno alla normalità nei trasporti ferroviari per quanto si riferisce alle persone. In parecchie grandi città sarebbe possibile sfollare, in misura forse minore di quanto alcuni entusiasti si ripromettono, ma tuttavia non trascurabile, il centro, qualora tornassero ad esistere i mezzi di trasporto che prima della guerra collegavano il grande centro con i centri minori circostanti. Roma, Napoli, Milano, Genova, Torino e forse altre città, hanno nei borghi e nelle cittadine vicine possibilità di albergare una parte della popolazione esuberante. Ma questa possibilità non può essere utilizzata in quanto mancano i treni e le tramvie suburbane le quali colleghino rapidamente i centri vicini a quello principale. Temono sovratutto coloro i quali pur si adatterebbero o forse desidererebbero di andare a risiedere nei centri vicini, la discontinuità nel servizio dei trasporti. Gli scioperi continui e le interruzioni che per altra via si verificano nel servizio, li trattengono dal cercare altrove quella casa che pure preferirebbero. Anche qui trattasi di un problema non puramente edilizio, ma di un problema di carattere generale. Il ritorno a condizioni normali nei trasporti delle persone favorirà la migliore distribuzione della popolazione ed allevierà la parte più acuta del problema edilizio. Fa d’uopo però che questo ritorno alle condizioni normali sia energicamente promosso dal governo, il quale avendo assunto l’esercizio della parte principale delle ferrovie ed il controllo sulle rimanenti, ha l’obbligo morale di far sì che l’opera sua conduca allo scopo a cui essa è intesa.

 

 

La sicurezza personale nei sobborghi e nelle case sparse nelle campagne circostanti alle città.

 

4. Un altro problema d’indole generale connesso con la crisi delle abitazioni è quello della sicurezza personale di coloro i quali abitano nei sobborghi delle città e nelle case sparse nella campagna circostante. La minor cura con cui provvede nei dintorni delle città ai servizi pubblici, alla illuminazione, e alla pavimentazione delle strade, la scarsa frequenza dei comandi dei carabinieri rendono restii moltissimi a trasportarsi nei sobborghi e vivere nelle case di campagna proprie o affittate, dove pur desidererebbero di rimanere. Il mantenimento della pubblica sicurezza è una delle funzioni fondamentali dello Stato, e l’azione diretta di questo per la risoluzione della crisi edilizia riuscirebbe di gran lunga più efficace quando fosse accompagnata dalla perfetta osservanza di quei suoi doveri fondamentali, senza la quale non è concepibile una ordinata vita sociale.

 

 

La riforma dei regolamenti edilizi.

 

5. Passando ora ai provvedimenti di carattere più specifico, ed a parer mio meno importanti dei provvedimenti sovra elencati di carattere generale, vuolsi dare un posto non trascurabile alla riforma da molte parti invocata dei regolamenti edilizi. Questi risalgono in parecchi casi ad epoche ormai troppo antiche e non rispondono alle necessità nuove dell’edilizia, ovvero accrescono senza motivo il costo delle costruzioni. Spesse volte i regolamenti richieggono per i singoli ambienti condizioni di superficie, di altezza, di luce, le quali praticamente riescono inutili ai fini igienici e costituiscono un elemento di rincaro artificioso della costruzione. Suggestivo a questo riguardo è il caso dell’ente autonomo per le case popolari ed economiche di Milano, il quale pur essendo iniziativa pubblica e pur costruendo talvolta per conto medesimo del municipio, ha ritenuto necessario di violare, salvo susseguente sanatoria, i regolamenti edilizi in materia di superficie della cucina, del bagno e dei locali accessori. Una innovazione interessantissima nelle costruzioni dell’istituto autonomo milanese è ad esempio per l’appunto la riduzione a superficie minima, talvolta appena di 4 metri quadrati, della cucina concepita come locale puramente di preparazione delle vivande. Concezione questa la quale, togliendo la possibilità di dormire e vivere nel locale dove si cucina e si lavano le stoviglie, migliora notevolmente le condizioni igieniche della piccola famiglia popolare, mentre è contraria ai regolamenti edilizi pretesi igienici. Altri casi di incongruenza nei regolamenti edilizi si potrebbero citare: come ad esempio la uniformità delle esigenze per le grandi caserme, per cui occorre cercare aria e luce nell’ampiezza di cortili e delle vie circostanti e per le piccole casette per le quali data l’ampiezza dello spazio occupato, la libertà di circolazione dell’aria, la esistenza di orti e giardini, basterebbero vie di gran lunga meno ampie di quelle che si richieggono nei quartieri e caserme. È naturale che per quest’ultime si debba richiedere una minima superficie od altezza per ogni stanza allo scopo di provvedere alla circolazione dell’aria; mentre stanze assai più piccole e meno alte sono sufficienti per le casette delle città giardino, dove la circolazione dell’aria non è impedita da nessun ostacolo. Spesso le dimensioni richieste dalle finestre sono anche eccessive e richiedono spese inutili per serramenta, anche nei casi in cui le stanze sono piccole e possono essere per altra guisa aerate.

 

 

Sarebbe dunque necessario che i comuni si decidessero ad una attenta revisione dei regolamenti edilizi, la quale salvaguardando le vere esigenze dell’igiene, le contemperi con quelle del costo oltremodo cresciuto delle costruzioni e tenga conto delle singole situazioni in cui le costruzioni sorgono distinguendo tra centro e sobborgo, tra quartiere a caserma e quartiere a casette, provvedendo diversamente per le città le quali si trovano ad essere in pianura piatta e quelle invece per cui luce ed aria sono diffuse a causa delle variazioni di livello tra punto e punto della stessa città. È deprecabile qualsiasi regolamento tipo che dovrebbe essere foggiato da una autorità centrale forzatamente ignara delle condizioni particolari dei singoli comuni italiani. È utile soltanto che le autorità centrali diano qualche consiglio molto generico che possa essere di guida ai comuni nella revisione necessaria dei regolamenti edilizi.

 

 

La revisione dei regolamenti edilizi nelle zone a villini e a casette basse.

 

6. Dovrebbe altresì procedersi a revisione dei regolamenti edilizi nelle zone delle città da costruirsi a villini o in genere a casette di scarsa elevazione, limitate ad esempio a un pianterreno o tutt’al più a un primo piano. I regolamenti edilizi sono spesso improntati a criteri di uniformità i quali non hanno ragione di essere perché estendono alle zone di fabbricazione criteri i quali sono giusti soltanto per le zone delle città nelle quali la fabbricazione possa spingersi a molti piani. Per queste ultime zone è evidentemente necessario fissare limiti minimi abbastanza ampi alle strade e stabilire vincoli notevoli per i cortili, ecc.: invece nelle zone le quali sono destinate alle costruzioni di villini o di casette sparse in giardini, la larghezza delle vie pubbliche può senza alcun nocumento essere ridotta al minimo possibile. Strade per le quali possa passare semplicemente un carro in una sola direzione possono essere largamente sufficienti al servizio di queste zone; l’incrocio dei carri potrà benissimo essere ottenuto con avvedimenti non difficili i quali permettano il giro dei carri stessi attraverso le vie che fra di loro si intersechino. Il vantaggio delle vie strette, di pochi metri, è evidentemente notevole per la città: vi sono minori spese di manutenzione, il passaggio meno frequente dei carri fa sì che le strade siano meno danneggiate o richiedano minori spese di riparazione; non occorrono marciapiedi veri e propri; la strada assume piuttosto l’aspetto di un sentiero di campagna ben tenuto che non quello di una strada propriamente detta. È evidente che il regolamento edilizio, pur consentendo questa minore larghezza per le zone a bassa fabbricazione, deve provvedere però che giunga il momento in cui la fabbricazione diventi intensiva anche in queste zone e convenga consentire l’elevazione dei fabbricati anche al di sopra del primo piano. Ma già in molte città estere, principalmente in quelle nelle quali la fabbricazione della città giardino si è da più tempo estesa, si è trovato un rimedio all’inconveniente che in avvenire potrebbe manifestarsi; il rimedio consiste nel rendere obbligatoria l’assegnazione di quello che sarebbe il suolo stradale di una strada ampia, a giardino frontale anteriore alla casa. Per 10 o 20 anni quella zona di terreno può essere destinata a giardino e giovare così alla migliore vita famigliare degli abitanti della città giardino e nel tempo stesso a diminuire le spese di manutenzione stradale per il comune. Quando, passato qualche decennio, quel quartiere diventi più centrale è sempre possibile l’occupazione della zona destinata a giardino e l’allargamento conseguente della strada.

 

 

In questa zona i servizi pubblici possono essere notevolmente ridotti: si possono applicare provvisoriamente sistemi di fognatura temporanei così da evitare eccessive spese alla città.

 

 

Siccome il grave costo di sistemazione dei quartieri a piccole casette basse è l’argomento più forte addotto per lo più contro le casette e in favore delle grandi caserme, è opportuno insistere sulla possibilità che le città hanno di ridurre le loro spese con qualche avveduta modificazione dei loro regolamenti edilizi.

 

 

Vincoli all’«altius non tollendi».

 

7. In occasione di questa revisione dei regolamenti edilizi si dovrà anche provvedere ad incongruenze antiche le quali impediscono la edificazione e la sopra elevazione in località per le quali esistevano un tempo circostanze oggi venute a mancare. Per Milano, ad esempio, esiste sull’attuale viale Venezia una servitù pubblica di altius non tollendi, per consentire originariamente agli accorrenti alle corse delle carrozze sui bastioni di Porta Orientale, di godere il panorama delle prealpi. Oggi al di là dei bastioni è sorta tutta una nuova grande città i cui edifici non soggetti alla detta servitù tolgono completamente la vista delle prealpi a coloro che passeggiano sui bastioni. Tuttavia per forza d’inerzia, la servitù per le case situate sul corso è rimasta, impedendosi così una sopraelevazione la quale potrebbe essere utile a mitigare la crisi delle abitazioni. Esempi analoghi furono citati in numero per altre città, come ad esempio Napoli. Gioverà che nella revisione dei regolamenti edilizi si ponga riparo a queste incongruenze di carattere storico; abolendo le servitù non utili ai fini pubblici, salvo naturalmente, il compenso al comune quando esso sia dovuto per la legislazione vigente e per eventuale convenzione privata.

 

 

Rispetto alla convenienza che vi potrebbe essere di sopraelevare i fabbricati esistenti molto si è discusso sui giornali intorno agli ostacoli che le sopraelevazioni incontrano non soltanto nei regolamenti edilizi e in altre disposizioni di carattere pubblico di cui già si fece cenno, ma nella situazione giuridica della proprietà delle case che si tratterebbe di sopraelevare. Accade non di rado di osservare, anche in quartieri centrali delle città, casette basse a un primo piano solo o a pochi piani, non rispondenti, per la loro vetustà o per altri particolari costruttivi, alle esigenze moderne ed a quello che sembrerebbe altresì l’interesse evidente dei proprietari delle case di utilizzare il valore dell’area giunto in quei quartieri centrali ad altezza notevole. Il motivo di questa singolare inutilizzazione delle aree centrali spesso è da ricercarsi nel frazionamento eccessivo della proprietà delle case fra molti consorti. È accaduto che per via di successioni e di divisioni successive la proprietà di quelle case spetti ormai a molte persone, alcune minori di età, altre incapaci per altri motivi, alcune forse residenti in luoghi lontani ed all’estero. È difficile e quasi impossibile di poter mettere tutti questi consorti d’accordo per indurli ad una sopraelevazione la quale altrimenti sarebbe utile. Alcuni dei consorti non hanno la capacità finanziaria per sottostare alla spesa, sia pure rimunerativa, della sopraelevazione.

 

 

È difficilissimo tuttavia indicare un rimedio a questa situazione. Trattasi di rapporti giuridici delicatissimi, i quali dovrebbero essere regolati e su cui dovrebbe rivolgersi l’attento esame del legislatore a fine di trovare una soluzione la quale consenta il rispetto al diritto di proprietà dei singoli consorti e al tempo stesso consenta una migliore utilizzazione delle aree. Il concetto che in generale potrebbe affermarsi sarebbe quello che il diritto dei singoli consorti si trasformasse, da diritto sulla cosa, in un diritto sul prezzo ricavato dalla cosa stessa. Occorre però che la materia sia accuratamente disciplinata a fine di non pregiudicare ingiustamente gli uni a vantaggio degli altri.

 

 

La sopraelevazione dei fabbricati esistenti. Opportunità di facilitarla ma non di renderla obbligatoria.

 

8. Su un punto di questi regolamenti occorre intrattenersi a parte, ed è quello della sopraelevazione dei fabbricati esistenti. Naturalmente i regolamenti edilizi dovrebbero essere consegnati in maniera tale da consentire la sopraelevazione dappertutto dove ciò non nuoccia all’estetica della città, non sia contrario alla pubblica igiene ed alla solidità degli edifici sottostanti. Entro i limiti dei riformati regolamenti edilizi vigenti, è augurabile che ogni proprietario, ove ne veda la convenienza, utilizzi meglio con acconcie sopraelevazioni la sua proprietà.

 

 

Taluni però vorrebbero che si facesse obbligo ai proprietari di sopraelevare le loro case secondo criteri che dovrebbero essere stabiliti dall’autorità comunale, ritenendosi che per tal modo sia possibile di poter fornire a un buon mercato relativo nuove abitazioni in misura ragguardevole.

 

 

Naturalmente bisogna augurarsi, come già ho detto or ora, che, ogni qual volta la sopraelevazione sia conveniente ed igienicamente ed esteticamente consigliabile, essa sia consentita dalle autorità comunali; ma non si potrebbe utilmente andare al di là. Sancire un obbligo di sopraelevazione potrebbe andar contro le norme più evidenti della convenienza economica e all’interesse dei medesimi inquilini. Non è possibile affermare in generale che la sopraelevazione sia più economica che non la nuova costruzione. L’esperienza di parecchi costruttori e di taluni istituti autonomi per le case popolari, porterebbe invece a conchiudere che, fatta salva la questione dell’area, e della sistemazione generale del quartiere, la costruzione di piccole casette a un piano terreno sopraelevate sia il tipo di costruzione più economico fra tutti quelli che possono essere oggi intrapresi. Il danno derivante dall’essere le fondamenta ed il tetto distribuiti sopra un piano solo invece che sopra due o tre o quattro e più piani è largamente compensato da altri vantaggi, come la possibilità di tenere le mura più sottili, di risparmiare sulle scale, di utilizzare meglio tutti i locali e di evitare gli impianti costruttivi che assorbono notevole parte del costo di costruzione.

 

 

Il costo della demolizione e della ricostruzione del tetto in questi tempi può essere proibitivo, talora la sopraelevazione può essere sconsigliabile per ragioni tecniche; aggiungasi che per sopraelevare occorre, per tempi più o meno lunghi talvolta, rendere impossibile la permanenza degli inquilini nei piani sottostanti o almeno renderla grandemente malcomoda. In alcune città occorrerebbe mutare i regolamenti edilizi, poiché l’ultimo piano, per cui è consentita un’altezza minore degli altri, diventando il penultimo dopo la sopraelevazione, dovrebbe a sua volta essere sopraelevato, con una spesa ragguardevole.

 

 

Insomma è impossibile decidere a priori se la sopraelevazione sia conveniente oppur no, e perciò è sconsigliabile qualsiasi norma costrittiva al riguardo e sono consigliabili invece tutte quelle modificazioni ai regolamenti edilizi le quali, come dissi dianzi, senza nocumento dell’igiene e dell’estetica delle città, consentano ai proprietari di procedere alla sopraelevazione, quando le ragioni della convenienza superino quelle del danno.

 

 

Interessi contrastanti dei pochi inquilini insistenti in fabbricati sopraelevandi.

 

9. Accade non di rado che proprietari vogliosi di sopraelevare i loro fabbricati o di abbattere vecchie e disadatte costruzioni per sostituirle con costruzioni moderne e capaci di sovvenire assai più largamente di quanto oggi non accada ai bisogni della popolazione, trovino grave impedimento nel diritto di insistenza dei pochi inquilini attuali.

 

 

Segnalai già l’opportunità che le città tolgano i vincoli oggi esistenti per ragioni storiche venute meno di fatto alla sopraelevazione; ma ci sono casi nei quali pur avendo già le autorità municipali consentito di togliere il vincolo dell’altius non tollendi, i proprietari si trovano nell’impossibilità di potersi giovare della facoltà concessa dal municipio, perché uno o pochissimi inquilini si ostinano a rimanere nella casa vecchia e disadatta e impediscono un’opera di trasformazione la quale potrebbe riuscire utilissima alla città. Evidentemente qui contrastano due interessi ugualmente degni di considerazione; da un lato vi è l’interesse degli inquilini i quali fino alle date legali hanno diritto di rimanere nel loro alloggio; dall’altro lato vi è l’interesse della collettività coincidente con quello del proprietario che ad una casa vetusta o antica, la quale per esempio contiene soltanto 50 camere, si sostituisca una nuova moderna costruzione con un numero di camere quattro, cinque o magari dieci volte superiore. Non è possibile a questo riguardo dare nessuna norma di carattere generale la quale stabilisca quando si possa passar sopra al diritto degli inquilini a rimanere ancora per un certo tempo nel loro alloggio. Qualunque norma di carattere generale che volesse darsi potrebbe contrastare con le singolarità dei casi. L’art. 16 del decreto 18 aprile concede ai municipi la facoltà di dichiarare nell’atto medesimo nel quale danno la loro approvazione al piano della sopraelevazione se questa possa essere compiuta anche contro l’opposizione al licenziamento degli inquilini.

 

 

Naturalmente nel dare o negare questo permesso di licenziamento degli inquilini anche prima delle date fissate dal decreto-legge, l’autorità comunale dovrà regolarsi a seconda della maggiore o minore importanza della casa costruenda; del numero maggiore o minore di inquilini che si tratterebbe di spostare, e darà la prevalenza a quello fra i due interessi che dal punto di vista collettivo sia da considerarsi dominante.

 

 

Siccome la sopraelevazione potrebbe riferirsi a costruzioni adibite ad uso di albergo, l’art. 16 del decreto stabilisce che l’autorità municipale nel concedere o negare la facoltà al proprietario desideroso di costruire il suo fabbricato, debba tener conto dell’effettiva importanza dell’albergo.

 

 

Quando trattasi di alberghi di quarto ordine o di osterie di scarso rilievo non utili all’industria del forestiero, è evidente che deve prevalere l’interesse collettivo delle ricostruzioni, ed in tal caso – rispettate sempre le locazioni in corso – il municipio potrà consentire che sia data licenza agli albergatori, quando il proprietario si impegni a costruire un edificio di molta maggior portata ed utilità per abitazione. La medesima facoltà potrà essere data qualora si tratti bensì di alberghi di notevole importanza ma il proprietario si obblighi a ricostruire in altra località una costruzione specialmente adatta ad uso di albergo e che possa sostituire quella la quale verrebbe ad essere abbattuta o trasformata. Questo è anzi un concetto generale che dovrebbe essere adottato a riforma dei decreti vigenti in materia di vincolo agli alberghi esistenti. Ciò che importa non è tanto che sia conservato ad uso di albergo quel preciso edificio che attualmente vi è destinato. Può darsi anzi che l’edificio stesso fosse stato originariamente costruito ad uso di albergo ma vi fosse stato destinato dopo adattamenti più o meno felici. In questo caso giova alla collettività che al posto della vecchia costruzione sottentri una nuova costruzione capace di fornire alloggio al medesimo o a un maggior numero di clienti e più adatta per la sua struttura interna all’uso specifico di albergo.

 

 

In questo caso dovrebbe sempre essere consentito al proprietario dell’albergo di trasferire il vincolo del vecchio al nuovo rendendo così libero il vecchio edificio per la sua destinazione ad altro scopo diverso da quello della industria alberghiera.

 

 

Le costruzioni provvisorie a tipo baraccato.

 

10. Fu prospettato da varie parti il problema delle costruzioni provvisorie a tipo baraccato, di cui molte sono già state sperimentate in Italia, con successo variabile. Non c’è un taglio netto fra la costruzione stabile ordinaria e la costruzione baraccata, procedendosi per via di transizioni insensibili dall’uno all’altro tipo ed essendo in certe regioni, come quelle soggette al pericolo del terremoto, la costruzione baraccata divenuta il tipo normale delle costruzioni.

 

 

In questa materia tutto dipende dalle circostanze locali, dalle condizioni del clima, dall’altitudine e latitudine, le quali ora favoriscono ed ora contrastano le costruzioni baraccate. Ad esempio, le case in legno, le quali hanno dato buona prova al di sopra di una certa altitudine e nei paesi di montagna, non sono riuscite egualmente fortunate nelle città di pianura dove domina l’umidità e vi sono grandi variazioni di temperatura. Quando non si adoperino metodi molto rigorosi di pulizia, le case in legno diventano facilmente fonte di infezione per la sporcizia, e un esempio tipico al riguardo ci è fornito da alcune zone della città nuova di Messina.

 

 

Loro carattere di costruzioni di fortuna.

 

Le costruzioni baraccate, salvo si faccia astrazione dalle zone sismiche, hanno il carattere di espedienti di fortuna, servono per poter con rapidità risolvere alcuni problemi i quali si impongono sovratutto in ragione del tempo. Quando manchino i materiali da costruzione ordinaria, quando sia impossibile di procurarsi laterizi o cemento o calce, ed occorra dare ricovero ad una certa popolazione, può essere necessario ricorrere alle costruzioni baraccate. Ed allora queste adempiono egregiamente al loro ufficio, se bene sia da dubitarsi se il loro costo abbia ad essere notevolmente inferiore a quello delle costruzioni più stabili dello stesso tipo, ad un piano solo terreno o a due piani.

 

 

Limiti entro cui le costruzioni baraccate possono ritenersi consigliabili.

 

In ordine decrescente, le costruzioni baraccate possono riuscire utili quando l’urgenza del tempo lo richieda:

 

 

  • a) Per gli uffici pubblici allo scopo di sfollare case permanenti le quali meglio potrebbero essere utilizzate a scopo di abitazione. Giova insistere sull’opportunità che fu già segnalata nel decreto istitutivo dei commissari degli alloggi che, ogni qualvolta sia possibile, gli uffici pubblici di carattere provvisorio, ed anche, aggiungiamo noi, quelli di carattere permanente, vengano collocati in baracche, sia in quelle esistenti, sia in altre che, opportunamente, avendosi a disposizione il materiale, potrebbero essere costruite. L’ufficio pubblico dovendo essere occupato soltanto nelle ore migliori del giorno, hanno minor importanza le condizioni igieniche le quali sconsigliano la vita permanente delle famiglie nelle baracche. Né ha poca importanza la considerazione che, diminuendosi per tal modo il comodo degli impiegati addetti ai pubblici uffici provvisori, questi si decideranno più rapidamente a mettere in luce le ragioni le quali consigliano la soppressione dell’ufficio, a cui invece per ragioni personali essi tendono a dare perpetuità quando l’ufficio sia comodamente allogato in costruzioni di carattere stabile. L’emigrazione dei pubblici uffici nelle baracche avrà così due benefici effetti: uno di rendere disponibili case permanenti per abitazione e l’altro di favorire la soppressione degli uffici pubblici inutili;

 

  • b) In attesa di costruzioni di carattere stabile, l’esperienza ha dimostrato che gli edifici baraccati possono egregiamente servire altresì per aule scolastiche, per ospedali o locali di cure provvisorie, forse meglio di appartamenti privati frettolosamente occupati, per cui non è possibile un adattamento completo allo scopo specifico a cui quei locali dovrebbero essere destinati;

 

  • c) Gli edifici baraccati possono anche essere utilizzati convenientemente specie sulle aree edificabili centrali, per le quali sarebbe sconsigliabile una costruzione di carattere permanente che non utilizzasse convenientemente il valore potenziale dell’area stessa. In molte città, qua e là nel concentrico dell’abitato, si trovano sparpagliate aree edificabili vuote, le quali sono mantenute tali non per semplice desiderio di lucro del proprietario, ma perché l’attesa giova a raggiungere il momento, il quale potrà arrivare soltanto fra 10 o 20 anni, il cui quartiere sia diventato anche più centrale e sia possibile di costruire sopra quell’area un edificio che utilizzi in pieno le qualità dell’area, ad esempio a scopo di ufficio o di negozio o di albergo o di casa signorile capace di dare alti redditi. Sarebbe antieconomico costruire su quelle aree a buon mercato di carattere popolare, perché quella utilizzazione frettolosa potrebbe nuocere all’utilizzazione più piena e più utile nell’interesse della collettività, la quale potrà farsi dopo un certo periodo di tempo. Le costruzioni baraccate, le quali hanno carattere provvisorio ed il cui costo deve essere ammortizzato in un breve periodo di tempo, possono giovare ad utilizzare queste aree. Venuto il momento dell’utilizzazione piena giova sperare che sarà anche venuta meno la crisi delle abitazioni che oggi ha consigliato la costruzione di fortuna e quindi gli edifici pubblici, le aule scolastiche, gli ambulatori medici o chirurgici, le casette baraccate per abitazioni private, potranno senza danno essere demolite, utilizzando per lo più in misura ragguardevole il materiale impiegato e lasciando l’area ormai cresciuta di valore ad una utilizzazione più perfetta.

 

 

Il ristabilimento nell’industria edilizia della fiducia nel ritorno effettivo ad un regime normale.

 

11. Fra le condizioni le quali favoriranno la ripresa delle costruzioni è da ricordare in specialissimo modo il ristabilimento della fiducia nell’industria edilizia, la quale sarà la conseguenza del ritorno al regime normale della libertà delle contrattazioni.

 

 

Quando all’1 luglio 1921 si vedrà di fatto liberata una parte piccola e limitata degli appartamenti più ricchi o di quelli abitati dagli inquilini soggettivamente posti in condizioni economiche più fortunate, quando i costruttori edilizi toccheranno con mano che una parte almeno della case vecchie comincia ad essere rimessa sul mercato, diminuirà il timore da cui oggi sono presi e che li allontana dalle costruzioni; il timore cioè di costruire agli attuali costi elevati e di vedersi poi costretti, dalle agitazioni popolari e dalla sottomissione delle loro case al regime vincolistico, a fitti non rimuneratori. Come si può sperare che un costruttore privato si decida ad impiegare i propri capitali nella costruzione di locali che a lui costeranno da 6 a 10 e 12 mila lire l’uno e gli importeranno perciò tra interessi sul capitale, imposte e spese un onere annuo variabile da 400 a 1000 lire per locale, quando egli teme che un decreto governativo o una disposizione dei commissari degli alloggi lo costringa poi ad affittare il medesimo locale ad un prezzo di 200 lire all’anno? Il timore di perdere la differenza fra 400 o 1000 e 200 è sufficiente per distruggere ogni fiducia nell’avvenire dell’industria edilizia e per indurre i capitali ad allontanarsi timorosamente da qualsiasi iniziativa. Solo il ritorno effettivo anche se graduale alla libertà delle contrattazioni potrà far cessare questa psicologia dell’incertezza e della sfiducia e mettere al posto di essa un sentimento rinnovato di iniziativa industriale.

Quinta lezione

Quinta lezione
Il problema delle abitazioni, Ed. F.lli Treves, Milano 1920, pp. 124-171

 

 

 

 

Metodo graduale della smobilitazione e degli aumenti di fitto.

 

Passando ora al punto più importante che è quello del metodo da tenersi per la smobilitazione graduale delle classi a seconda delle classi di città e delle categorie, è chiaro che la smobilitazione deve cominciare dalla prima categoria e via via procedere a quelle susseguenti.

 

 

Che la smobilitazione debba essere graduale già fu dimostrato ad esuberanza in altra lezione. Per motivi tecnici e politici, che qui non occorre ripetere, la liberazione delle pigioni deve cominciare dalla prima categoria e procedere a distanza di tempo alla seconda, alla terza ed alla quarta, in modo da raggiungere la completa libertà delle contrattazioni in quel momento nel quale si possa presumere che le condizioni del mercato edilizio siano ridivenute normali. Normali s’intende, in rapporto all’equilibrio nuovo dei prezzi che si sarà stabilito a cose assestate, non in rapporto all’equilibrio antico che oramai non vi è più nessuna speranza di veder ristabilito. Ed appunto per questo era necessario che il decreto concedesse, durante il periodo residuo di vincolo il diritto ai proprietari di ottenere un aumento progressivo di fitto.

 

 

Manca oramai la necessità di guerra di mantenere quella forma speciale di imposta di classe che è il vincolo ai fitti.

 

Questa necessità si può dimostrare in due maniere. In primo luogo se ragioni gravissime di ordine pubblico richiedevano che un’imposta speciale fosse stabilita, sia pure sperequatamente e per solo motivo della fortuna di guerra, su una classe particolare di contribuenti, costringendoli a ricevere un reddito invariato, in moneta via via scadente nella sua potenza di acquisto e quindi un reddito reale sempre decrescente, mentre tutte le altre classi sociali, fatte pochissime eccezioni, ottenevano, anche le meno fortunate, come quella dei pensionati, aumenti di reddito più o meno notevoli, questa necessità più non esiste oggi e quindi sarebbe scorretto mantenere una legislazione, la quale permanentemente imponesse un tributo particolare ad una sola categoria di contribuenti. Continuare invero a ricevere 100 lire quando il valore delle 100 lire si è ridotto a 50 e poi a 30 lire di prima, equivale a subire un’imposta speciale a favore delle altre categorie di cittadini il cui reddito, ossia la cui partecipazione al flusso di ricchezza attualmente prodotta nel paese si accresce proporzionalmente di quanto diminuisce la porzione spettante ai proprietari di case. Il che è, anche dal punto di vista della giusta ripartizione delle imposte, tanto più scorretto in quanto sul medesimo reddito lordo pecuniario sono venute a gravare imposte crescenti e spese di amministrazione, riparazione, pur esse aumentate in misura gravissima.

 

 

Fa d’uopo graduare gli aumenti in modo che, al momento della liberazione completa delle case, non ci sia un distacco troppo forte fra i fitti vincolati ed i fitti liberi.

 

In secondo luogo la necessità di concedere un aumento graduale delle pigioni durante il periodo residuo di vincolo, deriva dalla ragione medesima per la quale il decreto abbandonò la data unica del 31 luglio 1921. Trattasi di evitare dei salti bruschi, di passare dal regime di vincolo a quello della libertà gradatamente, senza che d’un tratto le pigioni abbiano ad aumentare moltissimo con grave scompiglio nelle economie private. Ciò non si può ottenere se non concedendo graduali aumenti di fitto, così ordinati che al momento della liberazione delle successive categorie di pigioni, queste si trovino già elevate ad un livello che su per giù non sia troppo diverso ed inferiore a quello che si determinerebbe in condizioni di libertà.

 

 

Il fatto degli aumenti di pigione realmente avvenuti incoraggerà alla costruzione.

 

Aggiungasi finalmente che il problema del regime delle pigioni per le case vecchie, già costrutte, non può scompagnarsi dal problema delle nuove costruzioni ed è vano sperare che queste ultime si sviluppino per iniziativa privata, nel modo largo che sarebbe desiderabile, se i costruttori di case nuove, dalla esperienza effettiva di una graduale smobilitazione e di un graduale aumento di fitti non siano fatti persuasi che essi potranno ricavare dal loro capitale una rimunerazione sufficiente finché durano i vincoli. Pochissimi costruttori privati si azzardano a costruire, salvo quando siano sicuri di poter rivendere immediatamente in blocco o ad appartamenti le case costruite perché sempre temono e non a torto, che un nuovo decreto venga ad estendere alle case loro i vincoli stabiliti per le case vecchie. Poco giovano le promesse, anche solennemente fatte dal governo, poiché il privato costruttore non ha fiducia nella stabilità dei ministeri e nella continuità della loro opera legislativa. Solo il fatto visto e toccato con mano, solo l’esistenza di un mercato libero delle pigioni, via via formatosi per la smobilitazione graduale delle case può persuadere i costruttori che sul serio l’epoca vincolistica è passata e che essi si possono consacrare con animo sicuro alle costruzioni.

 

 

Le due tendenze possibili sull’azione della liberazione e sull’ammontare degli aumenti.

 

Se è facile stabilire criteri generali, è difficile tradurli in cifre e date precise. Qui si possono distinguere due tendenze: l’una economica e l’altra politico-sociale. Qui sotto si riassumono in una tabella i risultati a cui lungo i lavori della ricordata commissione per le abitazioni, le due tendenze giunsero dopo lunghi, approfonditi e sereni dibattiti.

 

 

Data di inizio dei periodi

Aumenti progressivi per classi di città

  I II III IV
Tendenza economica:
1 luglio 1920

libertà

60%

50%

40%

1 luglio 1921

libertà

60%

50%

1 luglio 1922

libertà

60%

1 luglio 1923

libertà

Tendenza politico sociale:
1 luglio 1920

40%

1 luglio 1920 e 1 gennaio 1921

25%

15%

10%

1 luglio 1921

libertà

1 luglio 1921 e 1 gennaio 1922

35%

25%

20%

1 luglio 1922 e 1 gennaio 1923

libertà

libertà

30%

1 luglio 1923 e 1 gennaio 1924

libertà

 

 

La tendenza economica.

 

A chi guardi il problema dal punto di vista economico è ovvio che per la prima categoria (fitti superiori a 6000, 4000, 2400 e 1800 lire per le diverse classi di città) debba immediatamente restituirsi la libertà di contrattazioni fin dall’1 luglio 1920. Per la seconda categoria di pigioni, economicamente non era fuor di luogo un aumento del 60 per cento a partire dall’1 luglio 1920 e la libertà a partire dall’1 luglio 1921. Per la terza categoria l’aumento economico poteva essere del 50 per cento all’1 luglio 1920 con un successivo 10 per cento a partire dall’1 luglio 1921 e la libertà a partire dall’1 luglio 1922. Per la quarta categoria dei minimi (fino a 1500, 1000, 620 e 450 lire) nelle quattro classi di città si sarebbe potuto considerare come aumento economico quello del 40 per cento a datare dall’1 luglio 1920 ed un successivo 10 per cento all’1 luglio 1921 con altrettanto di aggiunta all’1 luglio 1922 e la libertà all’1 luglio 1923.

 

 

La tendenza economica può essere spiegata in questo modo: non esservi alcun motivo perché agli inquilini i quali si trovano presumibilmente in una condizione sociale ed economica assai elevata debba essere concessa la facoltà di profittare ulteriormente, per un anno e mezzo dopo che di fatto è ritornata la pace, del regime di vincolo imposto per ragioni di guerra. Trattasi in questo caso di rapporti fra classi sociali consimili. Non esservi motivo perché inquilini, talvolta ed anche nell’opinione dei sostenitore di questa tesi, per lo più notevolmente più ricchi dei loro proprietari, abbiano a fruire di reddito a loro non spettante ed a cagionare un ingiusto danno ai proprietari di case, costretti ad un reddito monetariamente eguale o di poco cresciuto o sostanzialmente assai inferiore a quello di prima. Essere finalmente necessario ed opportuno nell’interesse collettivo, che le pigioni della prima categoria abbiano ad aumentare anche moltissimo, duplichino o triplichino o fors’anche crescano in una misura superiore. Essere questa la condizione necessaria affinché gli inquilini della prima categoria si decidano a restringersi ed a far posto a coloro i quali appartengono alle categorie inferiori.

 

 

Certamente gli aumenti delle pigioni in regime di libertà limitata a questa categoria sarebbero fuori di ogni proporzione con l’aumento che si verificherebbe sul mercato se tutte le categorie di case fossero contemporaneamente smobilitate, perché, essendo pochissime le case appartenenti alla prima categoria, di queste vi sarà una grande ricerca, così da spingere molto all’insù il prezzo; ma questo appunto è necessario, sia per indennizzare molto parzialmente i proprietari delle perdite subite in passato e di quelle a cui saranno assoggettati in avvenire per le pigioni di valore inferiore, sia e soprattutto per costringere gli inquilini ad uno spostamento su scala rilevante ed a far vuoti utilissimi a rimediare alla crisi delle case.

 

 

Quando agli aumenti richiesti per le altre categorie e che giungono ad un massimo del 60 per cento all’1 luglio 1920, 1 luglio 1921 e 1 luglio 1922 rispettivamente per la seconda, terza e quarta categoria, pare che economicamente le proposte siano ragionevoli, in quantoché un aumento massimo del 60 per cento ottenuto gradatamente per l’ultima categoria in tre anni è di gran lunga inferiore a quello che dovrebbe essere consentito dalla svalutazione della moneta. Il fitto pagato dagli inquilini, anche aumentato del 60 per cento, avrà un valore sempre inferiore alla metà di quello originario antebellico, contrattato in moneta buona. L’aumento del 60 per cento è tuttavia sufficiente anche dal punto di vista economico sia perché i proprietari debbono riconoscere quali sono i doveri della proprietà nell’agitato momento presente, sia perché la mancanza di case non è così acerba come oggi si crede e per la grandissima maggioranza delle case, che sono quelle modeste o minime, l’aumento delle pigioni in regime di libertà non sarà mai quello che sarebbe proporzionato alla svalutazione della moneta. Questa consentirebbe ed imporrebbe aumenti del 200 e più per cento, così come accadde per la massima parte delle altre merci; nella realtà non potendosi contrarre l’offerta delle case come si contrae la produzione delle altre merci, secondo ogni probabilità l’aumento di fitto che si verificherà in regime di libertà sarà molto inferiore a quello determinatosi per le altre merci. Giova sperare inoltre che, quando la smobilitazione sarà completa, la lira siasi rivalutata con una saggia politica tributaria e monetaria. Sarebbe perciò antieconomico chiedere aumenti superiori a quelli dinanzi indicati, ove essi non potessero poi essere mantenuti in regime di libertà.

 

 

Dal punto di vista economico devesi finalmente pregiare più che l’aumento della pigione il diritto alla libera disposizione della cosa propria. Il regime vincolistico offende e danneggia sovratutto i proprietari perché essi non sono in grado di fare nelle case proprie tutte quelle variazioni le quali sono richieste dalla convenienza di modificare la struttura degli appartamenti per adattarli alle esigenze nuove e dell’opportunità di mutare in qualche parte la composizione dell’inquilinato quando, per ragioni evidenti di moralità o di convivenza, la permanenza di qualcheduno degli inquilini nella casa non sia più consigliabile.

 

 

Ogni riparazione oggi è impossibile nelle case, perché il proprietario non può sostenere le enormi spese di tal genere con proventi fissi; e gli aumenti chiesti sono appena sufficienti a ridare ai proprietari un interessamento nella casa propria tale da incoraggiarli ad impedirne la progressiva dilapidazione. Gli aumenti chiesti sono ugualmente utili agli inquilini ed ai proprietari; e sostanzialmente ed alla lunga più ai primi che ai secondi.

 

 

Infine la data dell’1 luglio 1923 pare ragionevolmente lontana, potendosi prevedere che nei tre anni ancora a decorrere fino a quella data, si possa essere ritornati in condizioni normali nel mercato edilizio, essendo ormai utilizzabile una massa notevole di case nuove, costruite dagli enti pubblici e dall’iniziativa privata ed avendo la liberazione della case di categorie superiori fatto vuoti ragguardevoli e tali da consentire a tutta la popolazione di trovare collocamento.

 

 

La tendenza politico-sociale.

 

Naturalmente il lato economico non è il solo da cui il problema debba riguardarsi. Non meno importante è il punto di vista politico-sociale. Sotto questo aspetto un primo punto sovrattutto pare importante mantenere fermo, ed è questo, che sino al 31 luglio 1921 non si abbia a mutare lo stato di diritto attualmente vigente. Si può mutare la data del 31 luglio, la quale appare a primo tratto non rispondente ad alcuna circostanza di fatto, in quella più ragionevole dall’1 luglio dello stesso anno, ma fuori di questa piccola variante, deve rimanere fermo il diritto dell’inquilino a godere dell’appartamento abitato ed a non subire aumenti superiori a quelli consentiti dai decreti vigenti.

 

 

Non vale il dire, come potrebbero osservare i proprietari, che anch’essi avevano diritto, secondo i decreti vincolistici, ad ottenere la piena disponibilità delle loro case al 31 luglio 1921 e quindi a ottenere un compenso, con una anticipazione sulla data della smobilitazione per la prima categoria e con un aumento di pigione maggiore di quello sancito dai decreti vincolistici per le altre categorie, al danno che essi subiscono dal ritardo frapposto alla smobilitazione delle categorie più numerose; non vale questo argomento, in quanto che il ritardo alla smobilitazione delle categorie seconda, terza e quarta al di là del 31 luglio 1921 è un ritardo imposto da necessità tecnica e dalla convenienza politica. La stessa classe dei proprietari di case si giova di questo ritardo e non può pretendere un compenso per ciò che in definitiva torna a essa di vantaggio. Affermato questo punto iniziale della necessità di mantenere fino all’1 luglio 1921 lo stato di diritto attualmente esistente, logiche ne derivano le conseguenze:

 

 

  • 1.Per la prima categoria di pigioni i decreti vincolatori consentono ed hanno consentito già un aumento del 20 per cento e consentono a partire da due mesi dalla proclamazione della pace un ulteriore aumento del 20 per cento. Diasi per questa prima categoria per semplicità e nettezza di posizione il diritto all’aumento del 40 per cento sulla pigione vigente al 31 dicembre 1919 e diasi la libertà completa all’1 luglio 1921. Il 40 per cento si calcoli sulle pigioni in corso al 31 dicembre 1919. Questa regola empirica ha per scopo di togliere ogni appiglio a contestazioni, pregio massimo di tutte le disposizioni le quali debbono essere stabilite per il passaggio alla libertà delle contrattazioni dovendo essere appunto quello, che sarà più ampiamente discusso in seguito, di togliere di mezzo, per quanto sia possibile, qualsiasi materia di contestazione tra proprietario ed inquilino.

 

 

Bisogna inoltre tener conto per questa prima categoria di case e per tutte le susseguenti che il governo quando sancì il diritto ad un ulteriore aumento del 20 per cento per la prima categoria e ad un primo aumento dal 10 al 20 per cento per le altre categorie a partire dal 61.mo giorno dalla proclamazione della pace, aveva in mente una data di pace assai vicina. Previsione che non ebbe a verificarsi, con danno grave della classe dei proprietari; ma il danno già subito non autorizza ad aggravarlo con un prolungamento al di là dell’1 luglio 1920-1 gennaio 1921 del divieto di aumento. In confronto alle intenzioni del legislatore i proprietari con la fissazione della data dell’1 luglio 1920 o 1 gennaio 1921 come inizio degli aumenti sono certamente danneggiati. Ma essi vorranno sopportare il danno in ragione dello scopo politico-sociale da raggiungere;

 

 

  • 2. Per le altre tre categorie di pigioni deve rimanere fermo il principio che, oltre alla proroga sino all’1 luglio 1921, debba essere concessa almeno una ulteriore proroga di un anno per la seconda e terza categoria e due altre proroghe di un anno ciascuna per la quarta categoria più numerosa;
  • 3. Per la seconda categoria di case, l’inquilino debba avere il diritto di rimanere nell’appartamento locato per due anni ancora in regime di vincolo, a partire dal giorno della pace legale. Se questo giorno sia determinato in una data posteriore al 30 giugno 1920 i due anni cominciano dall’1 gennaio 1921. Per il primo anno di proroga l’aumento sia fissato nel 25 per cento; per il secondo anno si conceda un ulteriore 10 per cento.

 

 

Le case appartenenti a questa seconda categoria diventino libere al più presto all’1 luglio 1922 ed al più tardi all’1 gennaio 1923 a seconda che il giorno della pace legale sia determinato in una data non posteriore o posteriore al 30 giugno 1920. Lo stesso regime sia stabilito per la terza categoria con questa sola differenza, che il primo aumento non potrà essere superiore al 15 per cento, rimanendo fermo il secondo ad un ulteriore 20 per cento.

 

 

La data della liberazione delle case appartenenti alla seconda ed alla terza categoria si stima opportuno che sia lo stesso, in quanto sostanzialmente trattasi di case abitate dalla medesima classe sociale, con qualche leggera variante di reddito e non si ritenne opportuno che troppo in là dovesse andare la smobilizzazione completa.

 

 

Per la quarta categoria l’aumento sia del 10 per cento per il primo anno di proroga, del 20 per il secondo anno e del 30 per il terzo anno di proroga. Le case spettanti a quest’ultima categoria ridiventino libere al più presto l’1 luglio 1923 od al più tardi l’1 luglio 1924 a seconda della data della pace legale. In ogni caso l’indicazione delle date 1 luglio e 1 gennaio non ha mai valore tassativo, non essendo opportuno di sostituire date arbitrarie a quella consuetudinaria vigente nelle diverse città italiane. Come già si fece nei decreti precedenti, alle date dell’1 luglio e 1 gennaio si intendono sostituite per le città dove gli sloggi avvengono ad epoche consuetudinarie quella immediatamente anteriore o posteriore, a seconda, che l’una o l’altra sia la più vicina.

 

 

Le conclusioni della tendenza politico – sociale si differenziano dunque della tendenza economica, in quanto allontanano da sei mesi ad un anno la data della smobilitazione delle diverse categorie di case in quanto invece di arrivare al massimo di aumento del 60 per cento arrivano a massimi variabili ma tutti sensibilmente inferiori. Non sarà possibile invero il ritorno a condizioni normali così velocemente come d’altra parte sarebbe augurabile, e ragioni evidenti di politica sociale consigliano al governo di non concedere inizialmente, ossia per il primo anno dopo la data della pace legale od al massimo dopo l’1 gennaio 1921 aumenti sostanzialmente diversi da quelli stabiliti nei decreti vincolatori. I decreti consentono il 40 per cento per la prima classe e dal 10 al 20 per cento per le altre classi. Questi medesimi aumenti è necessario conservare, sia pure precisando il secondo che ha carattere arbitrario e può dar luogo a dispute del 25, 15 e 10 per cento per la seconda, terza e quarta categoria.

 

 

La media di queste tre cifre, tenuto conto del fatto che la quarta categoria è quella di gran lunga più numerosa ed ha quindi un peso massimo nella formazione della media, può presumersi appunto eguale a quel 15 per cento che sta di mezzo fra il 10 ed il 20 per cento.

 

 

Posto questo punto di partenza, è sembrato, sempre per ragioni di carattere sociale, utile di non eccedere percentuali successive del 10 per cento.

 

 

Ai proprietari di case parve sommamente ingiuriosa la proposta, suffragata da pure ragioni politico – sociali, che limita al 10 per cento, il primo aumento per i fitti minimi della IV categoria. Viola il diritto acquisito dai proprietari di ottenere un aumento che può andare dal 10 al 20 per cento; e lo viola in confronto della classe più disgraziata dei proprietari; spesso i proprietari meno ricchi e sempre quelli che dalla guerra ebbero i maggiori danni. Poco giova a questi che i loro colleghi abbiano subito aumenti del 15 e del 25 per cento; essi debbono contentarsi di un 10 per cento, neppure sufficiente a fronteggiare il solo crescere dei pesi tributari. Ingiustizia più stridente di questa, male potrebbe essere immaginata.

 

 

Ma la ragione politico-sociale è troppo potente per poter accogliere questi argomenti pure di gran peso. Un certo distacco deve essere riconosciuto tra le varie classi sociali nella capacità di sostenere aumenti di fitto; e del resto, come già si disse sopra, i tre aumenti del 10, del 15 e del 25 per cento proposti per le tre categorie di case sono la media ponderata di quell’aumento incerto dal 10 al 20 per cento che il legislatore oggi stabilisce.

 

 

Nel periodo di passaggio prevale la ragione politico-sociale.

 

Certamente dal punto di vista economico, le argomentazioni della tendenza economica sono ineccepibili. La risoluzione della questione dell’abitazione si sarebbe ottenuta più velocemente qualora si fosse immediatamente concessa la liberazione per le pigioni della prima categoria e qualora aumenti non troppo esigui fossero stati fissati per le successive categorie.

 

 

Gli aumenti economici nella misura massima del 60 per cento non sono in realtà aumenti, ma semplici e parziali recuperi delle perdite finora subite. Se 100 era la pigione del 1914, quando 100 lire equivalevano a 100 lire in oro, dell’oro antebellico, le 100 lire del 1920 possono tutt’al più ritenersi uguali a 25-30 centesimi di lire oro, al valore dell’oro post-bellico, il che forse equivarrà a 12-15 centesimi in oro ante-bellico.

 

 

Quindi i proprietari, chiedendo un aumento del 60 per cento in realtà si contenterebbero di riscuotere forse 20 lire vecchie corrispondenti a 100 lire nuove. È meglio di quelle 13 lire vecchie che, sotto colore di riscuotere 100 lire nominali, in realtà percepiscono oggi; ma il loro resta pur sempre fra tutti il reddito più falcidiato sostanzialmente dalle vicende monetarie della guerra. I proprietari si sarebbero messi in una posizione ancora più incrollabile dal punto di vista economico, sebbene ad essi più vantaggiosa, se avessero dichiarato di contentarsi di fitti uguali appena ad una quota parte, al 90 per cento, all’80 per cento, al 70 per cento ed al 60 per cento dei fitti antebellici, purché pagati nella moneta stessa usata prima della guerra. Essi avrebbero messo in luce che in realtà la loro richiesta non è di un aumento, bensì di una diminuzione di perdita, in confronto dei fitti antichi. Il sistema, sebbene forse complicato, avrebbe giovato a mettere a nudo il fenomeno realmente avvenuto.

 

 

Ma questo, sebbene rilevantissimo, non è neppure il fattore più rilevante da prendere in considerazione.

 

 

Nella disputa tra proprietari di case ed inquilini sono sopratutto degni di considerazione gli inquilini nuovi che non trovano casa. Sono questi i veri paria del momento presente dal punto di vista edilizio. Sono funzionari senza casa, quelli i quali sono costretti a lasciare la famiglia con grandissimo dispendio nella città da cui sono stati traslocati, mentre essi vivono una vita raminga e meno comoda da soli nella città in cui prestano la loro opera. Sono i componenti le nuove famiglie quelli che sono degni di massima considerazione e non trovano ad allogarsi da nessuna parte. A nulla gioveranno per risolvere il problema di questi paria gli espedienti di requisizione e di tesseramento da varie parti immaginati; unico mezzo efficace è di promuovere le costruzioni nuove, di cui si discorrerà in seguito, o costringere gli inquilini vecchi a spostarsi verso abitazioni più ristrette così da far posto ai sopra venuti. Ma per costringere gli inquilini vecchi a fare del vuoto occorre affrettare la smobilitazione delle case, almeno per le categorie più elevate e stabilire aumenti che senza raggiungere il livello consentito dalla svalutazione della lira, possano essere di qualche spinta alla redistribuzione degli appartamenti in ragione dei redditi dell’inquilino.

 

 

Ragione della adesione alla tesi politico-sociale.

 

Tuttavia, dopo matura considerazione io credo che si debba in questo momento tener gran conto delle difficoltà politico-sociali in cui si dibattono tutti i governi europei e sovra tutto della opportunità di ripristinare il rispetto alla legge vigente, qualunque essa sia. Il diritto vigente, in base ai decreti vincolisti, porta ad una legittima aspettativa degli inquilini all’alloggio attualmente occupato, fino al 31 luglio 1921, sulla base di aumenti moderati del 10-20 per cento per la seconda, terza e quarta categoria e del 40 per cento per la prima categoria. Poiché questo è il diritto vigente, deve essere osservato. Potranno stabilirsi piccole varianti nelle aliquote di aumento e quella leggera mutazione dal 31 all’1 luglio che fu sopra accennata; ma in massima è necessario che il ritorno alle condizioni normali ed al rispetto del diritto civile ordinario avvenga rispettando altresì quelle norme eccezionali che si credette opportuno di emanare in tempi difficili.

 

 

Il rispetto alle norme vigenti è una condizione necessaria per togliere cagione di dispute, ricorsi a commissioni, ecc. Qualunque sacrificio della classe dei proprietari è poca cosa in confronto al beneficio che alla collettività deriva e si ripercuote poi vantaggiosamente sulla medesima classe proprietaria, della soppressione delle cause di ricorso a magistrature incompetenti, fastidiose e creatrici di molti più inconvenienti di quelli a cui esse possono rimediare.

 

 

La legislazione vincolista fu, a mio parere, anche in tempo di guerra, un errore gravissimo, i cui danni furono previsti e diventarono col tempo sempre più gravi ed insopportabili. Meglio sarebbe stato prendere, in talune circostanze peculiarissime, provvedimenti speciali per i profughi; ma non turbare un regime capace di risolvere, attraverso momentanee crisi, il problema delle abitazioni. Oggi però che il male è stato commesso, si deve riconoscere che, se la tesi economica è ineccepibile, ad essa sovrasta la necessità di ritornare al regime di libertà delle contrattazioni, senza sovvertire un’altra volta ed in senso inverso il diritto vigente, sia pure dannosamente vigente. La tesi politico-sociale è dunque necessariamente da accogliersi perché alla lunga il rispetto al diritto è ancora la soluzione meglio ispirata al vantaggio della collettività.

 

 

Botteghe, negozi, studi ed uffici. Non vi è motivo di prolungare lo stato di vincolo al di là dei termini stabiliti dalle leggi vigenti.

 

Accanto alle case destinate ad abitazioni, i decreti vincolatori hanno emanato norme altresì in materia di locazione per le case ad uso di botteghe, negozi, studi ed uffici. In tutti questi casi non si può scorgere motivo alcuno per prolungare lo stato di vincolo al di là del termine di tempo stabilito dai decreti vincolatori. Mancano le ragioni di tutela delle classi meno agiate della popolazione contro il pericolo di improvvisi aumenti. Trattasi qui non di locali destinati alla vita famigliare, ma di strumenti ordinari dell’esercizio dell’industria, commerci e professioni esercitate a scopo di lucro. Non vi è perciò ragione di prolungare vincoli aventi motivi contingenti, al di là di quanto fu originariamente stabilito. Il prezzo del locale adibito ad uso speculativo od economico giova sia stabilito liberamente fra le due parti contraenti in relazione alle variazioni del guadagno ricavabile dall’uso della casa locata. Gioverà la libertà delle contrattazioni di questi locali a restringere eventualmente l’uso a quelli i quali sono assolutamente necessari per l’esercizio dell’industria, commercio e professione, così da fare qualche vuoto a favore dell’uso di abitazione.

 

 

Si può discutere intorno al cosidetto diritto alla proprietà commerciale, che vorrebbesi riconosciuto a favore dei negozianti, per quella parte dell’avviamento del negozio, che possa reputarsi dovuto all’opera e all’iniziativa del conduttore.

 

 

Siamo però in un periodo straordinario di perturbazioni monetarie, le quali rendono difficilissimo e quasi impossibile separare in un eventuale aumento di fitto di un negozio la parte dovuta all’avviamento da quella dovuta al ritorno al normale equilibrio dei prezzi. Se il fitto di un negozio venisse, in regime ristabilito di libertà delle contrattazioni, aumentato da 10,000 a 30,000 lire, è impossibile affermare che l’aumento sia dovuto all’avviamento, da chiunque creato, o non invece al ristabilimento dell’equilibrio dei prezzi, per cui le 30,000 lire nuove equivalgono, né più né meno, alle 10,000 lire di prima.

 

 

Il problema della proprietà commerciale è uno di quei problemi, frequenti nel momento presente, intorno a cui non pure la legiferazione, ma persino lo studio deve essere rinviato all’epoca futura nella quale da qualche anno si sia ritornati alla libertà delle contrattazioni ed alla normalità monetaria. Altrimenti si rischia di sancire la spogliazione di una classe a vantaggio di un’altra, senza alcun beneficio per la collettività.

 

 

Si fa solo eccezione per gli studi degli smobilitati.

 

Una sola eccezione ritenne opportuno di fare il decreto del 18 aprile al ritorno della libertà delle contrattazioni all’1 luglio 1921 per tutti i locali destinati a studio, ed è quella contenuta all’ultimo comma dell’articolo 1. Fu disposto cioè che venga rinviato all’1 luglio 1922 il termine per l’affitto degli studi dei professionisti smobilitati, i quali abbiano prestato servizio militare per almeno un anno fuori della città di loro abituale residenza.

 

 

Per questi professionisti smobilitati le condizioni invero in cui essi si trovano, risultano notevolmente differenti da quelle della maggior parte degli altri negozianti, industriali e professionisti. Questi hanno quasi sempre ottenuto dalla guerra vantaggi singolarissimi di reddito e sarebbe strano concedere, ad essi che hanno lucrato, un ulteriore beneficio di vincolo a danno dei proprietari di case i quali dalla guerra sono stati danneggiati. I professionisti smobilitati invece, ove dalla guerra siano stati costretti a risiedere in città diversa da quella di loro abituale residenza, hanno spesso perduto tutta o parte della loro clientela. Il periodo di ripresa nell’attività professionale è quindi per essi un periodo di prova e di difficoltà economiche. Giova che il trapasso dal regime di vincolo a quello della libertà di locazione dei loro studi non sia improvviso ed è per questo che la commissione si è trovata unanime nel proporre il prolungamento del vincolo per un altr’anno al di là del limite ora consentito.

 

 

Il residuo arretrato di pigione degli inquilini smobilitati.

 

Una situazione degna di interesse è quella la quale esiste oggi per gli inquilini smobilitati i quali fruiscono dei vantaggi loro conferiti dal Regio decreto del 15 agosto 1919. L’inquilino capo di famiglia il quale abbia prestato servizio militare, aveva invero la facoltà di corrispondere soltanto una metà dei fitti per l’alloggio abitato fino a sei mesi dopo la cessazione del servizio militare. Il debito, per la metà non pagata, doveva poi essere estinto in rate mensili, non superiori ad un ventiquattresimo della somma totale, durante un periodo di due anni dalla scadenza dei sei mesi successivi alla cessazione dal servizio militare. L’inquilino stesso aveva diritto, anche quando si sia giovato della concessione sopra indicata, a non vedersi aumentata la pigione attualmente corrisposta durante il periodo utile alla estinzione del debito di arretrati.

 

 

In seguito a queste disposizioni, una varietà grandissima di casi si è andata verificando nella pratica.

 

 

Alcune volte proprietari ed inquilini richiamati si sono accordati per ridurre senz’altro il fitto ad una quota superiore alla metà ed inferiore al totale, rinunciando il proprietario al diritto di riscuotere in avvenire al parte condonata. In alcuni casi invece in cui gli inquilini si giovarono della facoltà di ritardo, al ritorno di essi alla vita civile si iniziò regolarmente il rimborso degli arretrati. In altri casi ancora questo rimborso stenta ad effettuarsi. Qua e là sono sorte agitazioni di inquilini smobilitati allo scopo di ottenere il condono definitivo della parte di fitto non pagata, agitazioni le quali hanno trovato un’accoglienza svariata nella classe dei proprietari di case.

 

 

Da un lato si osserva che la beneficienza ad una categoria sociale, la quale pur ne sia meritevole, non si fa con denari di un’altra classe sociale all’uopo obbligatoriamente e singolarmente designata. Sovvenire ai bisogni degli inquilini richiamati ed ora smobilitati può essere socialmente utile, ma non ne discende logicamente la conseguenza che quest’opera di beneficienza sociale debba essere fatta dai singoli proprietari in misura diversissima tra essi, cosicché accade frequentemente che i proprietari più ricchi non siano chiamati a prestare nulla ed i proprietari più poveri, e qualche volta bisognosi e gravati d’ipoteche, siano chiamati a gravi sacrifici.

 

 

Il condono degli arretrati, se deve avvenire, dovrebbe aver luogo a carico dell’intera collettività dei contribuenti.

 

 

D’altro canto si osserva che il problema sta avviandosi verso la sua soluzione naturale. Molti inquilini hanno soddisfatto in tutto od in parte il loro debito; non sarebbe opportuno di creare oggi un’amministrazione speciale la quale dovesse provvedere al condono degli arretrati residui ancora da pagarsi a favore degli inquilini ed al rimborso degli stessi arretrati ai proprietari. Quest’amministrazione dovrebbe caso per caso indagare se i singoli inquilini si trovino in tale condizione economica da non poter effettivamente pagare gli arretrati, non concependosi evidentemente una carità fatta a spese dei contribuenti se non nei casi di assoluta necessità. L’indagine però sarebbe difficilissima ed il costo probabilmente superiore ai vantaggi ottenuti.

 

 

Opportunità del condono, del residuo non pagato, agli inquilini.

 

Sembra che in questo caso ci si trovi di fronte ad una di quelle situazioni dalle quali è opportuno di uscire con un taglio netto, anche se il taglio possa nuocere agli interessi della classe dei proprietari. Questa ne sarà avvantaggiata in generale col ristabilimento di normali rapporti tra inquilini e proprietari e con la eliminazione di una causa perturbante di contese e di acri recriminazioni sul passato.

 

 

In tal caso tuttavia gli inquilini debbono rientrare nel regime normale degli altri inquilini. Facoltà di opzione ad essi lasciata.

 

Tuttavia se agli inquilini venga concesso il condono degli arretrati ancora da pagarsi, manca la ragione per la quale essi debbano conservare un’altra situazione di privilegio che è quella del diritto ad una pigione immutata durante il periodo utile all’estinzione del debito degli arretrati. Condonato il debito, essi ritornano alla condizione generale in cui si trovano tutti gli inquilini e non vi è ragione che non debbano correre le sorti comuni di tutti, godendo unicamente dei vantaggi delle proroghe che saranno sancite per le classi di abitazione a cui appartengono. Il decreto del 18 aprile stabilisce per ciò che gli uomini smobilitati, i quali godono dei vantaggi loro conferiti col Regio decreto del 15 agosto 1919, n. 1440, abbiano una facoltà di scelta:

 

 

  • a) fra l’abbuono totale delle quote di fitto non corrisposte durante il servizio militare, rinunciando in questo caso alle misure di favore stabilite dall’articolo 5 del succitato decreto (divieto di aumento della pigione durante il periodo di estinzione del debito di arretrati, ovvero:
  • b) il mantenimento di queste misure di favore con l’obbligo di pagare le quote arretrate di fitto.

 

 

L’inquilino potrà cioè scegliere liberamente quella delle due alternative che gli paia più conveniente. Se egli non vuole pagare più gli arretrati, saprà di rimettersi nella condizione generale di tutti gli inquilini; se egli preferisce di conservare il privilegio dell’inamovibilità del suo alloggio a pigione invariata, dovrà pagare gli arretrati.

 

 

Il condono riguarda solo l’avvenire e gli smobilitati le cui famiglie godettero del sussidio governativo.

 

S’intende che la norma indicata riguarda soltanto gli arretrati ancora da pagarsi. Quelli che in passato furono già versati rimangono acquisiti senz’altro ai proprietari. S’intende ancora che il condono degli arretrati deve andare a favore soltanto degli inquilini smobilitati, i quali abbiano realmente bisogno del beneficio; e per evitare contestazioni complicate, il decreto smobilitatore ha ritenuto di proporre che indice del diritto di avere il condono degli arretrati sia il fatto, facile a constatarsi, che le famiglie dell’inquilino stesso abbiano percepito il sussidio governativo concesso alle famiglie dei richiamati sotto le armi. Data la larghezza con la quale i sussidi furono concessi, è evidente che gli inquilini la cui famiglia non ha potuto fruire del sussidio governativo, non possono vantare diritti ad un condono di arretrati che essi sono in grado di pagare.

 

 

Le case occupate dagli stranieri; e decisione di non variare per esse il diritto comune.

 

Tra le idee discusse a proposito della smobilitazione delle case eravi anche quella che dovessero liberarsi immediatamente – il che avrebbe avuto il significato di collocamento nella prima categoria delle abitazioni da liberarsi all’1 luglio 1921 – le abitazioni occupate da stranieri. Mancano, si osservava, le ragioni di politica interna le quali hanno consigliato di imporre vincoli alle abitazioni; mancano altresì per lo più le condizioni di disagio economico dell’inquilino che avrebbe reso troppo duro un balzo improvviso del fitto. A causa della svalutazione della lira sui mercati internazionali, gli stranieri possono oggi pagare i fitti vincolanti ed espressi in lire, con una quantità di moneta straniera, spesso notevolmente inferiore a quella sulla quale essi avevano fatto i loro calcoli originari.

 

 

La proposta contrasta troppo alla tradizione italiana di parificazione fra cittadini e stranieri, che è vanto di aver introdotto e conservato. Non giova aggiungere nel dopo guerra nuove cause di dissapore fra i popoli che si vorrebbero riuniti insieme da nuovi vincoli di fratellanza. È difficile distinguere tra forestieri di passaggio, i quali potrebbero pagare fitti aumentati e che del resto, li pagano per lo più vivendo in camere d’albergo, e stranieri da lungo tempo residenti nel nostro paese ed ivi aventi l’esercizio di industrie o di commercio, i quali si trovano nelle medesime condizioni economiche di tutti gli altri cittadini italiani.

 

 

Il diritto del proprietario ad abitare nella casa propria.

 

Contrastanti sono altresì le tendenze le quali si erano manifestate in merito alla questione dibattutissima del diritto del proprietario a recarsi ad abitare in casa propria.

 

 

Secondo i decreti vincolatori (art. 3, del decreto luogotenenziale 29 marzo 1919, n. 370), il locatore non può opporsi alla proroga a meno che non possa dimostrare di avere necessità di adibire la casa per abitazione propria o non concorrano altre speciali e gravi circostanze le quali giustifichino il suo diniego.

 

 

Il decreto del 18 aprile non ha ritenuto di poter variare la dizione di questa norma, la quale quindi è riprodotta testualmente nel primo comma dell’articolo 11.

 

 

Intorno a questa norma già si è venuta intessendo una speciale giurisprudenza variabile a seconda delle città e che non sarebbe stato opportuno pregiudicare con una variazione anche soltanto formale della norma.

 

 

La norma speciale per la città di Roma per gli acquisti posteriori all’1 aprile 1919.

 

Ossequente però al suo principio di evitare, per quanto sia possibile, le ragioni di contestazione e di dubbio, la maggioranza della commissione sulle abitazioni aveva creduto essere opportuno trarre partito, non però nello stesso senso, e con le stesse conseguenze, da una norma la quale fu già parzialmente adottata nella città di Roma. Per questa fu fissata la data dell’1 aprile 1919, a partire dalla quale i nuovi proprietari non hanno più diritto di richiedere di adibire la casa per abitazione propria, anche quando siano in grado di dimostrarne la necessità. Il legislatore ritenne che in questo caso non si trattasse più di una contesa fra proprietario ed inquilino, ma tra inquilino residente nell’alloggio e inquilino nuovo desideroso di entrarvi e disposto a pagare, invece di un fitto annuo al proprietario, un prezzo d’acquisto dell’appartamento medesimo. Posta così la questione, il legislatore ritenne che per la città di Roma fosse conveniente garantire i vecchi inquilini contro l’occupazione delle loro case da parte di nuovi inquilini fattisi acquirenti dell’appartamento. La commissione non aveva ritenuto di estendere a tutta l’Italia il principio accolto per Roma, inquanto per le altre città l’acquisto degli appartamenti, fatto prevalentemente allo scopo di cacciar via un inquilino con un altro inquilino non assunse un’intensità degna di nota ed anche in quelle città in cui le case si vendono ad appartamenti, come nella riviera ligure, non pare che vi sia stata una intensificazione particolare di questi acquisti.

 

 

Opportunità di precisare le condizioni di necessità per coloro che erano proprietari innanzi all’1 aprile 1919.

 

La data però dell’1 aprile 1919 era parsa come tale utile a fermarsi allo scopo di meglio chiarire quali sono le condizioni di necessità le quali possono costringere il proprietario di adibire la casa per abitazione propria. Questa condizione di necessità è assai difficile ad essere definita, e molto variabile fu la pratica delle commissioni arbitrali in tale argomento. Talvolta bastò che il proprietario non avesse più a disposizione un alloggio confacente alle mutate condizioni di famiglia per ottenere dalla commissione arbitrale la facoltà di andare nella casa propria; tal altra non fu possibile di ottenere tale consenso neppure quando si dimostrò che il proprietario non aveva alcun appartamento disponibile in cui abitare, sia per essere egli stato cacciato dalla casa in cui risiedeva, sia per essere stato traslocato da altro luogo o ritornato dal servizio militare nella città in cui possedeva la casa. Accadde persino che i proprietari di case i quali avevano affittato il proprio appartamento perché richiamati al servizio militare non poterono, dopo aver onorabilmente servito il paese e qualche volta riportato ferite od aver ottenuto distinzioni militari, rientrare nella casa propria per l’ostinato rifiuto dell’inquilino ad andarsene, pur nei casi nei quali era stato chiaramente stipulato tra i due interessati che l’affitto avrebbe dovuto durare soltanto nelle more del servizio militare, sicché l’ex-combattente, nella città sua, in cui possedeva casa, dovette andarsene ramingo per gli alberghi od in camere mobigliate.

 

 

Voto della maggioranza della commissione.

 

La commissione delle abitazioni ritenne che per i proprietari, i quali possedevano la casa dall’1 gennaio 1919, fosse utile specificare meglio le «speciali e gravi circostanze» indicate già nei decreti vigenti, le quali possono dargli diritto ad adibire la casa per abitazione propria ed è per questo motivo che nel secondo comma dell’articolo 10 del suo progetto, si indicarono fra queste circostanze i mutamenti dello stato civile, nella costituzione della sua famiglia, nell’attività professionale, nel luogo del lavoro e nelle peggiorate condizioni economiche del locatore. Il proprietario potrà anche altrimenti dimostrare il suo stato di necessità ed addurre altre speciali e gravi circostanze, le quali confortano il suo proposito di recarsi ad abitare in casa propria. Parve opportuno però mettere in special rilievo alcune fra queste circostanze le quali necessariamente debbono essere prese in considerazione e ritenute tali da legittimare la richiesta del proprietario, salvo sempre l’apprezzamento dei casi singoli da parte del magistrato.

 

 

Naturalmente il proprietario, che era tale prima dell’1 aprile 1919, può, quando il contratto di affitto sia scaduto, far valere le circostanze indicate, allo scopo di ottenere di potersi recare ad abitare nella casa propria, contro qualunque inquilino, anche quando questi avesse locato la casa da un più antico proprietario, usufruttuario od altro avente diritto da cui però la proprietà fosse passata all’attuale proprietario prima dell’1 aprile 1919.

 

 

Per coloro i quali diventarono acquirenti dalla casa a partire dall’1 aprile 1919, si deve ammettere esistesse già la conoscenza al momento dell’acquisto non solo dei decreti limitatori, ma anche delle gravi difficoltà che la giurisprudenza opponeva ai nuovi acquirenti ad occupare la casa propria. Quindi per essi rimanga invariato il diritto vigente; ad essi incomberà l’obbligo di dimostrare la necessità di adibire la casa per abitazione propria o l’esistenza di speciali e gravi circostanze, le quali dovranno essere dimostrate caso per caso ed apprezzate dal magistrato. Se già questa dimostrazione hanno dato alle commissioni arbitrali e queste hanno accolto la loro istanza, nulla sarà variato in confronto alla situazione vigente.

 

 

Voto della minoranza.

 

La minoranza della commissione non aveva ritenuto di potersi adagiare a questa proposta della maggioranza. Ritenne invero la minoranza che la dizione dei decreti vigenti, riprodotta nel primo comma dell’unito progetto, sia troppo vaga ed imprecisa, così da lasciar luogo agli arbitri più gravi da parte delle commissioni arbitrali, le quali talvolta facilmente concedono e tal altra interpretano così restrittivamente il criterio della necessità da rendere intollerabile la posizione dei proprietari a cui in nessun modo non è reso possibile di recarsi ad abitare nella propria casa.

 

 

La minoranza della commissione ritenne che sia necessario fornire un mezzo semplice per la dimostrazione della necessità e ritenne che questa necessità debba estendersi all’abitazione propria dei genitori o dei figli che debbono contrarre matrimonio. La necessità deve cioè presumersi secondo la minoranza della commissione, ma allo scopo di impedire che il proprietario faccia uso troppo soggettivo della sua facoltà e pretenda di ottenere libero l’appartamento al solo scopo di poterlo poi in avvenire subaffittare a migliori condizioni, vuole che esso debba versare una cauzione pari al doppio della pigione annua pagata dall’inquilino, cauzione la quale, qualora la casa non venga poi occupata di fatto dal locatore o dalle persone per le quali egli l’ha reclamata, dovrà restare devoluta a vantaggio dell’Istituto delle case popolari. Il locatore non solo dovrà assoggettarsi alla perdita della cauzione, ma dovrà risarcire i danni arrecati all’inquilino fatto sloggiare, qualora venga chiarito, che il suo desiderio di ottenere la casa per abitazione propria era un mero pretesto.

 

 

Conclusione su questo punto.

 

Certamente il sistema della cauzione e della perdita pecuniaria si presenta sotto un certo aspetto attraente, come quello che permette di evitare le indagini sullo stato di necessità, e per un momento a me il sistema stesso era sembrato accettabile; ma una meditazione più lunga mi persuase dell’opportunità di non innovare troppo sul sistema vigente. È opportuno togliere occasioni a contese e sopprimere, per quanto sia possibile, ogni disputa dinanzi al magistrato per ragioni di affitto di case. È vero che il sistema della cauzione è più semplice in un momento iniziale, ma fa sorgere la possibilità di contese complicate in un momento successivo, quando l’inquilino, o per esso l’istituto delle case popolari a favore di cui andrebbe devoluta la cauzione, voglia dimostrare che il proprietario non ha effettivamente usato la casa ad uso di abitazione propria, dei genitori o dei figli. Queste dispute sarebbero senza limite di tempo e par meglio che, dovendosi disputare, il magistrato decida subito ed inappellabilmente sullo stato di necessità. D’altro canto l’aggiunta del secondo comma dell’articolo 10 facilita l’opera del magistrato, in quanto che, per quei proprietari i quali siano stati tali prima dell’1 aprile 1919 e per cui si può ragionevolmente presumere che non hanno acquistato la casa al solo intento di sostituire sé stessi all’inquilino occupante, annovera alcune circostanze precise, come il mutamento nello stato civile, nella costituzione della famiglia, nell’attività professionale, nel luogo del lavoro, ecc., le quali possono servire di lume al magistrato per giudicare se il proprietario abbia fondato motivo di recarsi ad abitare nella propria casa.

 

 

Nell’art. 11 del decreto del 18 aprile il riferimento alla data dell’1 aprile 1919 fu tolto. Il che fa vedere che al governo parve che in ogni caso fosse opportuno di chiarire le ragioni di necessità e le speciali e gravi circostanze che danno diritto al proprietario di andare ad abitare in casa propria.

 

 

Evidentemente la distinzione tra acquisti anteriori e posteriori all’1 aprile 1919 è stata considerata troppo artificiosa o limitata a poche località per rispetto alle quali opportunamente si ritenne non si dovesse turbare il diritto del proprietario ad abitare in casa propria, quando esistono le speciali e gravi circostanze indicate nella legge e da apprezzarsi dal magistrato.

 

 

Proposta di scioglimento delle commissioni arbitrali. Ritorno al magistrato ordinario.

 

Come conclusione terminale di tutte le norme le quali fin qui furono commentate, il decreto del 18 aprile stabilisce all’articolo 13 che siano disciolte le commissioni arbitrali istituite allo scopo di decidere le questioni fra proprietari ed inquilini. Tutti gli sforzi fatti precedentemente allo scopo di costruire un sistema preciso di diritti e di obblighi da parte dei proprietari e dagli inquilini spiegano la abolizione.

 

 

L’imparzialità delle commissioni stesse è stata molte volte messa in dubbio; l’esistenza loro fa sorgere le questioni le quali vorrebbero essere abolite, dà modo al legislatore, con decreti facili ad emettersi, di attribuire ad esse sempre nuove competenze, perpetuando lo stato di incertezza che è uno dei più gravi ostacoli alla ripresa dell’attività edilizia ed al ritorno a condizioni normali.

 

 

Sembra perciò necessario che qualunque magistrato speciale venga ad essere abolito e che si ritorni alla situazione normale di diritto, per cui le controversie fra proprietari ed inquilini, qualunque esse siano, debbano essere giudicate dal magistrato ordinario.

 

 

L’abolizione dimostrerebbe coi fatti che il governo è deciso a ristabilire le condizioni normali ed a rendere sicurezza e tranquillità all’industria edilizia, togliendola da quell’ambiente litigioso e vincolistico, in cui attualmente si trova.

 

 

Non tanto l’aumento dei fitti, quanto la sicurezza nella situazione di diritto e la soppressione di qualsiasi giurisdizione speciale, è la premessa necessaria per il ritorno alle condizioni normali.

 

 

Abolizione dei commissari agli alloggi.

 

Inspirandosi ai medesimi concetti, la commissione delle abitazioni aveva ritenuto che la istituzione dei commissari agli alloggi contrasti a quel normale ritorno alla libertà delle contrattazioni a cui si deve pervenire. Anche quando – superato il primo periodo di inesperienza e di errori – l’opera di essi si svolga con somma prudenza e tenga conto delle circostanze di fatto, essa necessariamente tende a sostituire il prezzo d’imperio a quello libero, la ripartizione delle case d’autorità a quella spontanea; coopera a mantenere lo spirito litigioso nella popolazione, radica l’idea che le case siano una merce di cui i proprietari non possono disporre, ma sia a disposizione dell’autorità politica, diminuisce nei costruttori lo stimolo ad impiegare i capitali nelle case, prevedendo costoro che della casa costruita non essi ma i commissari avranno la reale disponibilità. Lo scoraggiamento dei costruttori trae origine dalla previsione che essi fanno, di non potere poi riuscire agevolmente a vendere le case costruite, salvoché ad appartamenti ad inquilini diretti, essendo i risparmiatori trattenuti dall’investire i loro capitali nelle case dalla paura di comprare una merce di cui altri potrà disporre, non certamente i proprietari.

 

 

La commissione non aveva ritenuto di inserire nel suo schema di disegno di decreto una norma espressamente abolitrice dei commissari agli alloggi, perché la loro istituzione trae origine non da un atto legislativo, bensì da un atto del potere esecutivo, il quale si è fondato su una interpretazione estensiva dell’articolo 3 della legge comunale e provinciale; ma avere fatto voti affinché il governo, che li ha istituiti, addivenga nel più breve termine possibile alla soppressione di questi commissari agli alloggi, chiaritisi organo non vantaggioso alla soluzione del problema delle abitazioni.

 

 

Il voto non fu accolto; e con nuove norme si disciplinarono i poteri dei commissari agli alloggi, allo scopo di trarre da essi il massimo vantaggio col minimo danno. Vana fatica, perché l’istituto è per sé stesso tale da produrre, come ripetutamente dimostrai, molti maggiori inconvenienti dei pochi benefici di cui casualmente esso può essere fecondo.

 

 

Risarcimenti fiscali ai proprietari danneggiati.

 

Il decreto del 18 aprile impone ad alcune classi di proprietari nuovi sacrifici oltre quelli stabiliti dai decreti vigenti. A non parlare della proroga della smobilitazione al di là del 31 luglio 1921, vi è il condono degli arretrati di fitto ancora dovuti agli inquilini smobilitati e vi è per la quarta categoria di alloggi la fissazione al 10 per cento di quell’aumento di fitto che oggi può spaziare fra il 10 e il 20 per cento. Se il nuovo danno si impone, doveva però essere cercato un qualche compenso al danno medesimo. Nel progetto della commissione a tali danni si era proposto un qualche rimedio.

 

 

Del primo danno – condono degli arretrati di fitto ancora dovuti – si proponeva di temperare le conseguenze sancendo, come si fa nell’ultimo comma dell’articolo 15 del progetto della commissione, che i proprietari avevano diritto di ripetere dallo Stato, dalle provincie e dai comuni l’ammontare delle imposte e delle sovrimposte pagate sulle quote di affitto non riscosso. La proposta era giustificata del fatto che la perdita di fitto è imposta d’impero. In condizioni normali, è utile non si concedano rimborsi d’imposta per sfitti se non nei casi eccezionalissimi contemplati dalla legislazione vigente. La difficoltà di ottenere il rimborso delle imposte è valida spinta a non tenere le case lontane dal mercato. Nel caso presente lo sfitto non è dovuto a volontà del proprietario, ma a ordine del principe; ed è corretto che il principe, il quale ha imposto il danno, non pretenda poi il tributo sul reddito, di cui ha vietato la riscossione.

 

 

Opportune norme avrebbero dovuto disciplinare la materia, affinché il rimborso avvenisse per quella parte del reddito imponibile del fabbricato che corrispondeva alla quota parte proporzionale dei fitti non riscossi in confronto di quelli riscossi.

 

 

Un altro risarcimento fiscale la commissione aveva ritenuto opportuno di concedere. Essa era contraria a qualunque esonerazione di imposta avente carattere di classe. Ma appunto perciò riteneva che quando una classe di contribuenti si trovi in condizione di disagio che la rendono incapace a sopportare il tributo, questo debba essere tolto. Per tutti i contribuenti alla recentissima imposta straordinaria sul patrimonio dovrebbe essere concessa una detrazione per carichi di famiglia: provvidenza equa e necessaria per ripartire giustamente il carico delle imposte. Frattanto sarebbe stato equo applicare il concetto generale delle detrazioni al caso di quei proprietari, che per avere il proprio patrimonio composto prevalentemente, ossia per più della metà, di alloggi spettanti alla quarta categoria, hanno subito e subiranno al massimo i danni della legislazione vincolistica; e proponeva che per essi e per i membri della loro famiglia fosse concessa la detrazione di lire 5000 per testa dalla cifra del patrimonio imponibile. Né l’una, né l’altra delle proposte fatte dalla commissione fu accolta dal governo e non si vedono perciò inserite nel decreto del 18 aprile.

Quarta lezione

Quarta lezione
Il problema delle abitazioni, Ed. F.lli Treves, Milano 1920, pp. 73-123

 

 

 

 

Il ritorno graduale alla libertà delle contrattazioni.

 

Io ritengo che la via migliore per risolvere il problema sia quella di avviarci gradualmente ad un ritorno alle condizioni di normalità. Sembra che questa, tenuto conto delle inevitabili concessioni alle domande popolari, sia oggi altresì l’opinione del governo.

 

 

Una lettera del ministro guardasigilli.

 

Credo opportuno a questo proposito leggere una lettera indirizzata il 26 dicembre scorso dal Ministro Guardasigilli alla presidenza del Consiglio dei Ministri per spiegare quale doveva essere, secondo il Ministro della giustizia, l’orientamento della nuova legislazione sugli affitti:

 

 

«Penso che la crisi degli alloggi non sia per giungere a soluzione con quella sollecitudine e rapidità che è nei desideri di tutti. Troppi elementi comuni e d’ordine generale la collegano e la fanno dipendere dallo stato di perturbamento conseguente alla guerra, perché possa sperarsene subito una felice definizione, isolatamente dalle altre questioni economico-sociali.

 

 

D’altra parte è mia ferma convinzione che i provvedimenti d’impero, adottati per ragioni politiche nel passato, abbiano influito ad aggravare la situazione allontanando ed ostacolando la possibilità di un facile ritorno allo stato normale e, al tempo stesso, contribuendo insieme con la deficienza e l’alto costo della mano d’opera e dei materiali a dissuadere il capitale privato dall’impiego non remunerativo in costruzioni edilizie.

 

 

Non ho piena fiducia che la deficiente attività dei privati in questo campo possa oggi essere compensata con un eccezionale incremento alla fabbricazione di stabili urbani per parte di enti pubblici e cooperativi, né che le agevolazioni concedute dallo Stato siano sufficienti a superare la non convenienza attuale di un privato impiego di capitali nella industria edilizia.

 

 

Ritengo pure che ogni altro provvedimento, oggidì imposto dal governo per ragioni politiche e diretto a limitare ancor di più la libertà delle contrattazioni, potrebbe forse avere un effimero successo di palliativo, ma sarebbe ben lontano dell’avviare pure soltanto la crisi verso l’auspicata soluzione. Certamente però devierebbe viepiù il fenomeno economico dal suo naturale corso.

 

 

Nell’attuale stato legislativo, d’altronde, credo ben difficile poter procedere ad ulteriori limitazioni, e restrizioni del diritto dei proprietari d’immobili od a modificazione, in favore degli inquilini, dei patti contrattualmente convenuti e prorogati. Dal punto di vista giuridico e nell’ambito dei principi che regolano la proprietà ed il diritto delle obbligazioni, nulla più si potrebbe fare senza vulnerare i principi stessi e senza che s’imponesse la corrispettiva necessità dell’intervento economico riparatore o compensativo dello stato medesimo. Superare il limite imposto dalle fondamentali leggi vigenti o modificare l’ordine sociale esistente, imponendo, come da taluni si chiede, il razionamento degli alloggi, ed il conseguente obbligo del subaffitto pei locali superflui, presuppongono decisioni di politica sociale ed economica di così grande entità e di tanta vasta ripercussione da non poter essere prese a cuor leggero e, quasi incidentalmente per provvedere soltanto a contingenti necessità ed in casi specifici.

 

 

D’altra parte non so, e dubito ancora assai, se l’entità numerica delle famiglie e delle persone che si pretendono “senza tetto” sia tanto elevata come vorrebbe farsi credere. Da qualche notizia che io ho potuto ottenere dai prefetti ho ragione per credere che siasi molto esagerato e che le agitazioni mosse in qualche luogo fossero più rumorose che temibili per la quantità dei veri interessati e danneggiati. E così pure ho motivo di dubitare se le sospensioni degli sfratti, da qualche prefetto decretate, si imponessero inderogabilmente per tutelare l’ordine pubblico minacciato o non siano state piuttosto la conseguenza di preoccupazioni sproporzionate alla realtà del pericolo e di intimidazioni di minoranze audaci e faziose che hanno trovato troppo facile e condiscendente accoglienza in chi avrebbe potuto con maggior energia e con l’uso della propria autorità, contenerle. In ogni modo attualmente in tutte le agitazioni che si vanno inscenando un po’ dappertutto vi è uno scopo ed un movente politico che vuole sfruttare uno dei più sensibili disagi della generale crisi economica che attraversiamo, per provocare, anche con espedienti retorici e sentimentali, un turbamento profondo dell’ordine sociale per giungere magari, in questo campo ad esperimenti comunistici di facile attuazione, se pure gravi di irreparabili conseguenze.

 

 

È per tutte queste ragioni, lungamente considerate e frutto di attenta osservazione che io sono convinto non potersi altrimenti avviare a soluzione durevole la crisi degli alloggi se non riaffermando la volontà del Governo di tornare allo stato normale della libertà delle contrattazioni, sia pure attraverso a doverosi temperamenti ed a disposizioni transitorie che consentano di giungervi senza troppo gravi scosse. Nel libero gioco della domanda e dell’offerta si troverà naturalmente il giusto equilibrio.

 

 

Poiché se l’esperienza di tutti i tempi dimostra che è vano, se non pure esiziale, cercar di contenere e modificare artificiosamente i fenomeni economici con disposizioni di impero, è anche certissimo, nel caso specifico, che nessuno dei provvedimenti legislativi semplicisticamente invocati come sicura panacea, varrà ad aumentare d’un solo vano le case destinate attualmente ad alloggio».

 

 

Ritorno alle condizioni normali.

 

È opportuno ricordare questa lettera dell’onorevole Mortara perché ritengo sia la prima volta che in un atto di governo sono stati ripetuti ragionamenti che gli economisti ebbero già ad esporre fin dai primi momenti, quando si era annunziata e poi si era applicata la nuova legislazione vincolatrice. La via che deve essere tenuta per giungere alla soluzione del problema non può essere altra che quella del ritorno graduale alla libertà delle contrattazioni. Certamente questo ritorno deve essere graduale in quanto vi sono ragioni varie le quali rendono non soltanto sconsigliabile ma impossibile il ritorno alle condizioni ordinarie alla data imposta dai decreti che fino adesso erano in vigore.

 

 

Data la meta da raggiungere logicamente dovevano essere soltanto studiati provvedimenti transitori i quali facilitassero il passaggio dal regime vincolistico al regime di libertà, impedendo che durante questo passaggio, il monopolio di cui godono attualmente le case già costruite possa provocare un rialzo improvviso e fortissimo del prezzo dell’uso delle case.

 

 

Necessità di un aumento nei prezzi d’uso della casa. La vendita sotto costo si fa per il pane con imposte generali pagate da tutti i contribuenti, per le case con un’imposta speciale sui proprietari di case.

 

Non si può non riconoscere che ad un aumento del prezzo medesimo sarà inevitabile di acconciarsi; troppi fattori lo rendono inevitabile. Primo di essi la svalutazione della lira la quale oggi si è ridotta a meno di un terzo della sua potenza di acquisto iniziale antebellica. Il prezzo d’uso delle case, il quale prima della guerra poteva dirsi in equilibrio col prezzo di tutte le cose consumabili, oggi che i decreti vincolatori lo hanno tenuto fermo, si trova con gli altri prezzi in profondo squilibrio. Per ragioni politiche il governo ha ritenuto opportuno di mantenere il prezzo del pane e delle case ad un livello non differente da quello antico; ne è risultato che siccome i costi di produzione sono aumentati, l’erario pubblico, ossia i contribuenti in generale, debbono sopportare una fortissima perdita di parecchi miliardi di lire all’anno per sopperire alla perdita la quale necessariamente deriva dal vendere il pane sotto costo. Per le case la perdita non è stata accollata alla collettività ma ad un gruppo speciale di contribuenti; i proprietari di case, i quali ricevendo oggi il medesimo prezzo in lire di prima, ricevono in realtà una quantità di numerario, la quale acquista a mala pena un terzo delle merci consumabili e dei servigi che con lo stesso numerario si acquistavano prima della guerra. È una vera imposta speciale equivalente ai due terzi del reddito lordo, la quale viene fatta gravare sui proprietari dei fabbricati antichi.

 

 

Permangono le ragioni politico-sociali che sconsigliano un rialzo improvviso nei prezzi d’uso della casa. Difficoltà tecniche che si oppongono alle nuove costruzioni.

 

È innegabile d’altronde che quelle ragioni politico-sociali le quali hanno consigliato il regime dei vincoli, continuano oggi ad opporsi ad un raddoppiamento o triplicamento dei prezzi monetari dell’uso delle case, quale forse in molte città si verificherebbe se improvvisamente fosse ristabilita la libertà delle contrattazioni. Né si può sperare che l’offerta delle case nuove messe sul mercato possa funzionare da efficace calmiere in un breve volger di tempo.

 

 

La commissione per le abitazioni aveva a questo proposito diramato un breve questionario ad associazioni di capi mastri e di ingegneri, ed aveva interrogato direttori e tecnici di istituti autonomi per le case popolari. Dalle indagini fatte esce limpida la conclusione dell’impossibilità di prevedere uno sviluppo notevole e rapido dell’industria edilizia.

 

 

Disorganizzazione delle industrie edilizie, mancanza del materiale da costruzione.

 

Mancano parecchi fra i fattori i quali un tempo permettevano alle imprese edilizie di mettere rapidamente sul mercato un numero cospicuo di vani e di risolvere la crisi per mancanza di abitazione che già altra volta aveva dato luogo a discussioni interessanti intorno al problema della casa. Le imprese sono state disorganizzate dalla guerra. Una parte notevolissima degli operai addetti alla industria edilizia è stata durante la guerra attratta dagli alti salari delle industrie belliche; una parte non meno cospicua, per il caro della vita nelle città ed il rialzo dei salari nelle campagne, è ritornata, specialmente nell’alta Italia, ai lavori pubblici. Si calcola che nella sola città di Milano le maestranze edilizie, le quali nel 1910 ammontavano a 35.000 individui, oggi a mala pena raggiungono i 10.000. Fanno difetto inoltre le attrezzature ed i materiali da costruzione; difficilissimo a trovare il legname per le impalcature necessarie alle costruzioni; rialzati di prezzo, qualche volta al decuplo, i mattoni, la calce, il cemento, il ferro; ma sovratutto incertissima la possibilità di procurarsi i materiali necessari. Anche in quei pochi cantieri nei quali alcune lavorazioni furono iniziate, fu d’uopo non di rado sospendere il lavoro per la mancanza dei materiali da costruzione, i quali debbono essere elemosinati qua e là da molti fornitori senza alcuna garanzia di consegna.

 

 

La disorganizzazione dei trasporti causa fondamentale della mancanza dei materiali da costruzione.

 

Causa dominante delle difficoltà ed incertezze nel procurarsi i materiali da costruzione è la disorganizzazione dei trasporti. Mancano i carri ferroviari; una gran parte è in riparazione, e, sebbene molte siano le promesse delle autorità preposte alle ferrovie, ai materiali da costruzione non viene data quella preferenza che l’urgenza del problema richiederebbe. Gli stabilimenti dell’interno sono nella assoluta impossibilità di procurarsi quel quantitativo di ferro il quale sarebbe necessario per sistemare le costruzioni; calcolando un fabbisogno di una tonnellata di travi di ferro per vano, ovvero di un terzo di tonnellata per vano in tondini per le costruzioni in cemento armato; ovvero anche due metri cubi di legname per le costruzioni in cui invece del ferro si adoperi soltanto il legname, compresi in esso le serramenta, occorrerebbero per la costruzione di 100.000 vani, ove si supponga che per la metà di essi si faccia uso del ferro e per l’altra metà del legno, 50.000 tonnellate di ferro e 100.000 metri cubi di legname. Gli stabilimenti metallurgici nazionali si trovano, secondo le dichiarazioni attendibili di costruttori, nella assoluta impossibilità di consegnare questo quantitativo di ferro; né è agevole di potersi procurare una massa cospicua di legname, cosicché anche nelle città, per le quali si potrebbe ricorrere a materiali da costruzione locali come per Roma e Napoli i blocchi di tufo, per Palermo i conci in pietra, l’inizio delle costruzioni a stento può verificarsi. Gioverà, come fu stabilito, poter far venire in esenzione assoluta di dazio, passando sopra a qualsiasi altro interesse privato, il ferro ed il legname dall’estero.

 

 

Contratti cospicui sarebbe possibile di concludere con i produttori di legname della Czeco-Slovacchia, della Carinzia, e di altri paesi ex austro-ungarici, ma la difficoltà dei trasporti fin adesso è stata insuperabile.

 

 

È necessario dunque provvedere con mano di ferro a quella riorganizzazione dei trasporti ferroviari che è la condizione indispensabile ed iniziale per la ripresa delle industrie in generale e soprattutto per la ripresa dell’attività edilizia. Gioverà più la riorganizzazione dei trasporti a risolvere la crisi di costruzione che qualsiasi altro provvedimento potesse esser preso dal governo. A poco valgono gli incoraggiamenti di ogni specie che il governo ha già dato per le costruzioni, tanto popolari come civili, fino a che sia impossibile di procurarsi il materiale da costruzione.

 

 

La sicurezza nei trasporti gioverebbe moltissimo altresì a rompere quegli accordi tra i fabbricanti locali di laterizi, i quali si sono qua e là formati, approfittando della posizione di monopolio in cui si trovano i produttori locali messi al sicuro contro la concorrenza delle fornaci più lontane dall’impossibilità dei trasporti.

 

 

La impossibilità di previsioni sul costo della mano d’opera

 

Un’altra circostanza la quale rende difficile la ripresa dell’attività edilizia è la impossibilità di poter fare previsioni sul costo della mano d’opera. Nessun costruttore oggi assume impegni tassativi con i committenti per quel che si riferisce al costo sia della muratura come dei finimenti di ogni specie. Variano di mese in mese, qualche volta più rapidamente, gli elementi di costo. Non solo variano i salari, ma le continue interruzioni nel lavoro e la riduzione nelle ore del lavoro non compensata da una intensificazione nel lavoro stesso, fanno sì che siano non solo aumentati ma divenuti incerti.

 

 

Mancanza della spinta iniziale, la quale può mettere in moto il meccanismo industriale.

 

Passiamo attraverso ad un periodo di instabilità nei prezzi di ogni specie, durante il quale a stento e con fatica potranno essere mantenute vive le organizzazioni preesistenti le quali rendevano agevoli le costruzioni. La mancanza dell’antica attrezzatura nell’industria edilizia reagisce a sua volta sulla produzione delle imprese fornitrici dei materiali da costruzione; vi è un circolo vizioso fra i mattoni che i costruttori non riescono a procurarsi perché non ci sono e la ripugnanza delle fornaci spente – a Milano si calcolano oggi soltanto due o tre fornaci attive su 20 fornaci che erano accese prima della guerra – a riprendere la loro attività per l’incertezza in cui si trovano di smerciare i laterizi prodotti ad imprese edilizie che non si sono ancora ricostruite. Da questo circolo vizioso si uscirà e, fatto il primo passo, il meccanismo ritornerà a poco a poco sempre più rapidamente a funzionare in pieno, come accade ad una valanga la quale prende forza e cresce di volume a mano a mano che scende verso la vallata.

 

 

Minimo di tempo occorrente per la ripresa dell’industria edilizia. Previsioni variabili ma tutte escludenti il 31 luglio 1921.

 

Ma occorre un certo minimo di tempo affinché possa verificarsi la ripresa dell’industria ed in questo minimo di tempo l’offerta delle case sul mercato sarà forzatamente assai limitata. Nessuna previsione ragionevole può farsi intorno al tempo occorrente affinché la ripresa edilizia si verifichi in pieno. Previsioni discordanti variabili fra i 3 ed i 10 anni sono state fatte dai tecnici interrogati dalla Commissione. Certamente si può affermare che il 31 luglio 1921, data che per i decreti vigenti sarebbe quella del ritorno completo alla libertà, l’industria edilizia non batterà in pieno.

 

 

Previsione sicura di un aumento permanente del costo delle costruzioni.

 

Non bisogna nascondersi d’altra parte che, anche quando si sarà provveduto alla riorganizzazione dei trasporti e via via l’industria edilizia sarà ritornata in tutti i suoi rami alle condizioni normali, e il valore della lira si sarà finalmente stabilizzato ad un qualsiasi livello, questo livello con tutta probabilità sarà superiore a quello che si aveva prima della guerra. Trattasi di un fatto non peculiare all’Italia ma mondiale. La guerra ha agito come la scoperta di un immenso campo aurifero. La quantità del numerario circolante è cresciuta nel mondo in una misura permanente; se anche in qualche paese la quantità del medio circolante potrà diminuire, ed è augurabile che dappertutto diminuisca in una certa proporzione, è assurdo però ritenere che la quantità relativa di moneta abbia a ridursi alla misura antebellica, non essendo neppure prudenza di Stato ricondurla rapidamente al limite originario. Questa prudenza consiglia ed imporrà per forza a tutti i governi di regolare la circolazione per modo da togliere l’asprezza maggiore dell’attuale alto livello dei prezzi, senza tuttavia provocare una crisi di disoccupazione o di svalutazione dei capitali impiegati nelle imprese economiche, la quale produrrebbe in senso contrario inconvenienti eguali a quelli verificatisi durante la rapidissima ascesa. Il livello dei prezzi dovrà stabilirsi ad un certo punto ma rimarrà permanentemente superiore a quello che si aveva prima. Senza voler fare alcuna previsione, la quale sarebbe presuntuosa e non scientifica, può affermarsi che non si rivedranno più i prezzi da 1000 e 2000 ed a 3000 lire per vano a cui si costruivano prima della guerra i locali abitabili in molte città italiane. Oggi a Milano si sono costruiti i locali dei villaggi di casette, di cui molto lodevolmente ha preso l’iniziativa il comune, con un costo variabile da 4500 a 5000 lire per locale, quando il costo di costruzione poteva prima della guerra aggirarsi sulle 1000 lire. Nella stessa Milano il locale di casa civile della media borghesia che prima costava da 2000 a 2500, oggi è variamente valutato da 6 a 10.000 lire. A Roma, dove le condizioni costruttive sono molto diverse da quelle di Milano, le costruzioni dell’Istituto per le case degli impiegati sono calcolate ad un costo variabile da 7 a 9000 lire, contro alle 2000 antiche e quando trattasi di costruzioni civili si sale su rapidamente alle 10 e 12.000 lire, per giungere alle 15 e 20.000 per vano per case di lusso.

 

 

Riassumendo si può dire che i costi di costruzione in quanto siano prevedibili – e qui sta come sopra si è detto, la difficoltà maggiore – si sono quadruplicati, e talvolta quintuplicati. Non si sa quanta parte di questo enorme aumento nei costi di costruzione persisterà quattro o cinque anni dopo la fine della guerra. Ma nell’ipotesi più favorevole sembra potersi legittimamente concludere che il costo della costruzione sarà per lo meno doppio di quello antebellico.

 

 

Previsioni sui fitti nuovi in condizioni normali.

 

Se al maggior costo noi aggiungiamo l’altro fattore del rialzo del saggio d’interesse per cui il costruttore, il quale prima poteva contentarsi del quattro e mezzo per cento quando il consolidato italiano fruttava solo il tre e mezzo per cento, oggi invece richiede il sei per cento, contentandosi per i suoi rischi e le sue fatiche di uno scarto minore di prima, in confronto del 5,70 per cento fruttato dal nuovo consolidato; se ancora si tien conto delle molto cresciute spese di riparazione, manutenzione, assicurazione ed amministrazione; se si suppone che le case nuove non siano esentate dalle imposte e sovraimposte (queste ultime in special modo formidabilmente cresciute), noi vediamo che mentre prima era possibile mettere sul mercato un locale abitabile ad un fitto annuo di 150 lire, oggi il fitto annuo equivalente dovrebbe essere invece da 700 a 1000 lire. Sembra azzardato supporre in ogni modo che il ritorno alle condizioni normali, senza alcun margine di profitto o di rendita di monopolio per i proprietari, con redditi equivalenti appena al reddito ottenibile in altri impieghi, possa avvenire a fitti inferiori a 400-500 lire all’anno per locale.

 

 

Preoccupazioni politiche per lo sbalzo improvviso dei fitti al 31 luglio 1921.

 

Lo sbalzo dunque che si potrebbe verificare al 31 luglio 1921 al ritorno improvviso della libertà degli affitti sarebbe notevolissimo e chiunque intenda studiare le vie per un ritorno graduale a quella libertà, non può non tener conto delle preoccupazioni in cui a quella data il governo si troverebbe qualora, in molte parti d’Italia, se non dappertutto, i fitti improvvisamente raddoppiassero o triplicassero.

 

 

Ragioni d’indole tecnica, le quali escludono il 31 luglio 1921 come data unica per la smobilitazione delle case.

 

Né contro al ritorno improvviso della libertà nelle contrattazioni al 31 luglio 1921 ostano soltanto preoccupazioni di indole politica. Vi sono ragioni di indole tecnica, le quali fanno sì che una data unica e prossima, qualunque essa sia, debba considerarsi come di possibile attuazione. Già le date consuetudinarie per i traslochi – 29 settembre a Milano, 4 maggio a Napoli, 11 agosto a Palermo – erano cagione di gravi difficoltà tecniche prima della guerra, quando lo smistamento degli alloggi si verificava per piccole porzioni di popolazione, essendo le famiglie in trasloco una parte non rilevante della popolazione totale delle città. Oggi, dopo un lungo periodo di immobilizzazione forzata, se fosse ristabilita improvvisamente la libertà degli affitti, si può affermare che mezza la popolazione delle grandi città dovrebbe traslocare, perché l’equilibrio non potrebbe essere raggiunto se non con uno spostamento di moltissimi inquilini, i cui mezzi non potrebbero sostenere un aumento troppo forte dei fitti, verso appartamenti più piccoli, ed un correlativo spostamento di altri inquilini, i cui redditi sono aumentati ed anelano ad una casa più ampia, verso alloggi a fitti più elevati. Un’unica data sarebbe certamente interessante dal punto di vista sociologico, in quanto che si avrebbe un quadro vivo per le pubbliche strade della trasformazione profonda che si è verificata nella struttura della società, per cui una parte notevole della vecchia borghesia alta e media si è andata impoverendo, ed invece quello che era anticamente il proletariato affollantesi in poche camere anguste, ha acquistato mezzi pecuniari tali che gli consentono di occupare, pagando fitti molto più elevati, gli alloggi della media borghesia e dal seno del proletariato e delle classi medie è uscito un numero ristretto di uomini più audaci ed intraprendenti, i quali oggi costituiscono la nuova borghesia arricchita. Certamente questa sarebbe una interessantissima cinematografia sociologica per l’uomo di studio, ma oltre ad essere una cagione di preoccupazioni gravi sociali, sarebbe un assurdo dal punto di vista tecnico. Mancherebbero assolutamente i carri, i cavalli, i camions e gli uomini necessari per effettuare un trasloco in così grande stile, che prenderebbe l’aspetto di una vera emigrazione di popoli entro i recinti delle grandi città. Un valentissimo tecnico interrogato dalla commissione per i fitti ha calcolato che in quei pochi giorni si dovrebbe a Milano smobilitare con mezzi tecnici inesistenti un traffico eguale almeno ad un trimestre di quello di porto di Genova. Se con un’organizzazione ben lungi dall’esser perfetta, ma ad ogni modo esistente e funzionante da decenni, gli ingorghi sono quotidiani sul porto di Genova per un traffico diluito in un trimestre, l’immaginazione si rifiuta di dipingere il quadro dell’ingorgo spaventevole che si verificherebbe quando il traffico di un trimestre dovesse compiersi in pochissimi giorni in una città priva assolutamente dei mezzi tecnici occorrenti al traffico.

 

 

Necessità che lo smistamento sia graduato nel tempo.

 

Occorre dunque, per imprescindibili necessità tecniche, che lo smistamento, il quale pure deve verificarsi per il ritorno ad un equilibrio normale, sia graduato nel tempo.

 

 

Questa è una prima conclusione che è imposta dall’evidenza medesima dei fatti.

 

 

I due metodi della smobilitazione delle case:

1. La smobilitazione generale preceduta da aumenti graduali uniformi.

 

Più gravi difficoltà si incontrano quando si deve passare dall’affermazione generica del principio della gradualità, alla sua applicazione concreta. Qui possono riscontrarsi due tendenze contrarie ben distinte e ben nette. Una fa capo a quella che può chiamarsi la smobilitazione generale delle case preceduta da aumenti graduali uniformi, l’altra alla smobilitazione per classi di alloggi. Le ragioni le quali militano a favore di ognuna di queste soluzioni, possono essere così esposte. Il sistema della smobilitazione generale e graduale consiste nel fissare una data unica, più lontana di quella del 31 luglio 1921, ad esempio l’1 luglio 1923, per il ritorno contemporaneo alla libertà di contrattazione per tutte indistintamente le case. Allo scopo di evitare che a quell’unica data prorogata si abbiano a verificare gli inconvenienti tecnici che si verificherebbero alla data del 31 luglio 1921, occorre:

 

 

In primo luogo che quella data sia fissata ad un’epoca nella quale già possano essere portate sul mercato nuove case in numero sufficiente ad albergare le famiglie che oggi si trovano senza casa e quelle le quali continueranno ad affluire nelle città più importanti.

 

 

In secondo luogo che tra la data odierna e quella futura il governo consenta aumenti periodici di sei in sei mesi o da un anno all’altro, delle pigioni, così da portare le pigioni stesse gradatamente dal livello fittizio attuale ad un livello superiore meglio corrispondente a quella che potrà essere all’1 luglio 1923 la svalutazione della moneta. Grazie a questi aumenti periodici lo smistamento degli appartamenti dovrebbe verificarsi a grado a grado ad ogni sei mesi o ad ogni anno, imperocché le famiglie le quali non potessero sopportare l’aumento consentito dai decreti, a poco a poco dovrebbero cercare di restringersi, lasciando il proprio posto ad altre famiglie desiderose di allargarsi e disposte a pagare una pigione superiore. Grazie a questi traslochi intermedi, la situazione all’1 luglio 1923, dovrebbe essere divenuta normale. Né a quella data si potrebbe prevedere un nuovo aumento improvviso fortissimo nei fitti, in quanto già i fitti antichi a poco a poco si sarebbero approssimati al livello normale e le nuove costruzioni entrerebbero in campo già svalutate, per la rivalutazione nel frattempo della lira. Il sistema è dai suoi fautori a cui appartiene la maggioranza delle associazioni dei proprietari di case, considerato il più equo sotto parecchi rispetti. La svalutazione della lira è un fenomeno economico generale che riguarda indistintamente tutti gli inquilini e tutti i proprietari di case, senza fare alcuna distinzione tra appartamenti piccoli ed appartamenti grandi, e quindi giustizia vuole che il ritorno alla normalità dei prezzi si effettui contemporaneamente per tutti. Si aggiunga che in moltissimi casi, ed anzi a parere dei fautori di questa tendenza, nella maggioranza dei casi, i proprietari di case divise in piccoli appartamenti sono quelli i quali sono stati maggiormente danneggiati dalla guerra. Essi hanno avuto tra i loro inquilini il massimo di mobilitati ed hanno quindi dovuto subire talora una perdita della metà dei fitti e nei casi più favorevoli, il rinvio del pagamento di questa metà mentre appunto per essere gli appartamenti molto numerosi ed abitati da molte persone, le spese di amministrazione e di manutenzione sono salite in misura ragguardevole. Né per questi piccoli appartamenti fu sempre possibile di ottenere con trattative private aumenti nei canoni di fitto. Questi proprietari di case divise in modesti appartamenti – affermasi anche da autorevoli rappresentanti dei proprietari – sono per lo più appartenenti alle classi meno ricche dei proprietari. Invece nella scala delle fortune i proprietari di case con ampi alloggi signorili sarebbero posti più in alto e sarebbe perciò ingiusto che essi potessero godere prima degli altri della libertà di disporre dei loro appartamenti e quindi di aumentare i fitti a piacimento quando già durante la guerra essi non hanno subito perdite apprezzabili per il condono od il ritorno nel pagamento della metà dell’affitto e fu più agevole ad essi contrattare aumenti spontanei di fitto con i loro inquilini.

 

 

2. La smobilitazione graduale per classi di alloggi.

 

A queste ragioni, le quali sussidiano la tesi della smobilitazione graduale e generale, altre ragioni si oppongono a favore della tesi della smobilitazione graduale per classi, tendenza quest’ultima che finì per prevalere nella commissione per le abitazioni.

 

 

La speranza di poter smobilitare gli appartamenti con aumenti graduali di fitto pare invero alquanto azzardata. Qualunque possano essere gli aumenti graduali consentiti legalmente, questi aumenti, per ragioni di prudenza politica ed anche per la impossibilità di poter prevedere l’avvenire, dovranno contenersi entro limiti assai modesti, mentre per ottenere prezzi eguali sostanzialmente a quelli antibellici, tenuto conto della minor potenza di acquisto della moneta, converrebbe aumentare i fitti da 100 a 300, ossia del 200 per cento. Sarebbe chiaramente impossibile che questi aumenti abbiano ad essere sanciti in una disposizione legislativa. Troppo grave sarebbe, anche se graduale, lo sconcerto che si verificherebbe nelle economie private. È del resto grandemente dubitabile se in regime di libertà, qualora alla libertà si giunga a poco a poco, davvero il prezzo delle case abbia ad aumentare in una misura così notevole. Delle case non si può dire la stessa cosa che degli abiti e delle scarpe. Di cuoio, di lana, di cotone, effettivamente c’è una scarsità notevole in confronto al bisogno; manca la materia prima e quindi mancano anche i prodotti finiti ed il prezzo della poca merce esistente necessariamente deve salire molto. Invece le case esistenti prima della guerra esistono ancor quasi tutte oggi e la popolazione per quanto siasi spostata parzialmente, non supera oggi, come si disse, quella di qualche anno fa. È un raffinamento di gusti che si è verificato, piuttosto che una diminuzione della quantità di merce offerta; e se gli aumenti uniformi e generali non fossero, come non potrebbe essere, se non relativamente miti, assai difficilmente si potrebbero osservare smistamenti su una vasta scala. La casa continuerebbe ad essere per la grandissima maggioranza della popolazione, come il pane, una merce sotto costo. Pochi quindi vorrebbero correre il rischio di uno spostamento che potrebbe portare ad un aumento notevole di spesa. Arriveremmo perciò all’1 luglio 1923 od a quell’altra data che fosse per essere determinata, su per giù nelle stesse condizioni in cui ci troveremmo al 31 luglio 1921 e la data stessa dovrebbe essere nuovamente prorogata per la impossibilità tecnica e politica di attuarla. Meglio giova, per ritornare a condizioni normali, smobilitare gradatamente gli appartamenti per classi di valore, cominciando a smobilitare quelli i quali superano una cifra assai elevata, diversa a seconda delle categorie delle città, abitati presumibilmente da inquilini ricchi, i quali possono sopportare un aumento di fitto. Mentre si rende libero assolutamente il mercato per questa prima e più alta categoria di appartamenti, gli appartamenti di valore inferiore continuerebbero ad essere vincolati, concedendosi per la categoria seconda il diritto al proprietario di ottenere un aumento discreto nelle pigioni; mentre per le ultime categorie, composte di appartamenti abitati dalla piccola borghesia, dai modesti professionisti, dagli impiegati e dalle classi operaie, si concederebbe il diritto ad un aumento molto moderato di fitto. Ad una data successiva si smobiliterebbero la seconda e la terza categoria, mantenendosi il vincolo per la quarta, concedendo per quest’ultima il diritto ad un ulteriore modesto aumento, finché ad un’ultima data sarebbe smobilitata anche l’ultima categoria degli appartamenti di piccolo valore.

 

 

Colla smobilitazione per classi, si può prevedere un aumento fortissimo nelle pigioni più ricche. Il che è appunto desiderabile.

 

In questa maniera si giungerebbe gradatamente alla libertà; lo smistamento comincerebbe ad effettuarsi per gli appartamenti più ricchi. Dato il numero limitato degli appartamenti componenti la prima categoria, è probabile che i prezzi saliranno per questa, appena sia dichiarata la libertà, ad un livello forse anche altissimo. Ma questo è per l’appunto la condizione necessaria affinché gli inquilini, che del resto per loro medesima confessione sono in grado di pagare affitti elevati, si decidano a restringere la loro domanda di case ed a far posto ad altre famiglie appartenenti allo loro categoria e che adesso si costipano in appartamenti di valore inferiore. In questo modo un qualche vuoto potrebbe verificarsi, già fin da quando ancora dura il regime dei vincoli, negli appartamenti della seconda, terza e quarta categoria.

 

 

Lo stesso fenomeno, sebbene in proporzioni più limitate, dato il maggior tempo intercorso e data la crescente offerta di case nuove, si verificherebbe nel momento della smobilitazione degli appartamenti della seconda categoria, cosicché è augurabile si possa arrivare alla smobilitazione completa senza scosse troppo forti ed abituando gradatamente i consumatori di case a pagare un prezzo meglio corrispondente alla realtà dei costi di costruzione e sovratutto alla svalutazione del numerario in cui si pagano le pigioni.

 

 

Difetti insiti anche nel secondo sistema.

 

Certamente non bisogna chiudere gli occhi dinnazi a difetti che sono insiti anche in questo secondo metodo. Il problema più arduo è quello della determinazione delle categorie. Differenze grandissime si riscontrano tra città e città, né vi è alcun criterio il quale da solo possa servire per una classificazione degli appartamenti in tutte le città italiane. Il criterio medesimo della popolazione che già fu adottato dal nostro legislatore nei decreti di vincolo, criterio a cui è giuocoforza attenersi per l’impossibilità di trovarne uno migliore, è certamente imperfetto, in quanto che l’esperienza dimostra che a parità di popolazione i fitti pagati nelle diverse città sono diversi e diversa quindi dovrebbe essere la classificazione degli appartamenti.

 

 

È quasi impossibile inoltre di trovare una definizione soddisfacente delle case di lusso, la quale non si basi sul semplice dato numerico dell’ammontare del fitto mentre tuttavia è certo che l’ammontare del fitto mentre tuttavia è certo che l’ammontare anche elevato del fitto non è sempre indice di ricchezza o di lusso, ben potendo darsi che una famiglia numerosa, la quale paghi più di 4000 lire di fitto nelle grandi città – si cita questa cifra come quella che costituisce il limite dei fitti della prima categoria secondo i decreti precedenti a quello ultimo del 18 aprile 1920 che fu il risultato dei lavori della più volte mentovata commissione delle abitazioni – sia di gran lunga meno ricca di uno scapolo il quale nella medesima città ha un quartierino forse inferiore al valore di 1000 lire annue.

 

 

La perfezione assoluta è impossibile. Bisogna scegliere il minimo di errori.

 

Ma una legislazione vincolista è necessariamente tale da cagionare sperequazioni ed ingiustizie di ogni fatta. È assolutamente impossibile di poter compiere in questo campo opera perfetta la quale si adatti a tutte le contingenze dei casi singoli. Già fu osservato in principio di queste lezioni che con due soli mezzi è possibile ottenere uno stato di perfetto equilibrio: o con quello cioè di un onniveggente ministro delle abitazioni, sapientissimo ed onnipotente, che distribuisca la popolazione secondo categorie di così detta giustizia in una società comunistica; ovvero con quello di una perfetta libertà delle contrattazioni. Invece il regime vincolistico, che perpetua irrigidite le condizioni di un determinato momento, è sinonimo di ingiustizia e di sperequazione.

 

 

La smobilitazione per classi è il minimo errore politico.

 

Per uscirne si può al massimo sperare di commettere un minimo di errori, ed è probabile che la smobilitazione per classi, sia appunto il sistema, il quale è suscettibile di questo minimo di errori; minimo politico in quanto si comincia a dare la libertà delle contrattazioni per gli appartamenti abitati da quelle classi le quali presumibilmente possono meglio sopportare un incremento dei fitti, e si suscita il minimo di opposizione da parte delle masse in quanto si giunge alla libertà per le masse soltanto dopo un congruo numero di anni ed attraverso ad aumenti moderati ed in un momento in cui l’offerta delle case nuove da parte di privati costruttori e sovra tutto di enti pubblici avrà consentito a queste masse una certa libertà di scelta.

 

 

È anche il minimo errore economico.

 

Minimo di errore economico, in quantoché, come sopra fu detto, gli aumenti di fitto che si verificheranno nelle case di maggior pregio indurranno forse di fatto a quelle restrizioni nel consumo degli alloggi che sono necessarie se si vuol creare un qualche, sia pure modesto, vuoto nei locali occupati.

 

 

Le ingiustizie insite nel sistema sono un prolungamento dei danni da cui sono stati colpiti durante la guerra i proprietari di case.

 

Certamente non tutti i proprietari verranno egualmente trattati col metodo della smobilitazione per classi: in quanto vi sarà colui il quale disponendo di alloggi ricchi, potrà senz’altro ritornare al reddito effettivo antico sotto forma di una pigione apparentemente maggiore in lire svalutate; vi saranno invece altri i quali dovranno attendere più a lungo l’abolizione del carico che sulla loro classe è stata rovesciata per ragioni di indole generale. Ma trattasi di fortuna di guerra e non si può pretendere che la guerra sia un’operazione la quale possa essere condotta con perfetta giustizia comparativa per tutte le classi di cittadini. Ciò che più monta del resto per la classe dei proprietari non è tanto di ottenere immediatamente un aumento di affitto, quanto di ottenere a poco a poco la libera, effettiva disponibilità delle loro case.

 

 

Il ritorno graduale alla libertà delle contrattazioni è preferibile socialmente all’aumento immediato dei fitti.

 

Meglio si giova nel tempo stesso all’inquilino ed all’industria edilizia ritardando di qualche po’ gli aumenti nelle pigioni, pur di persuadere coi fatti che a poco a poco si deve ritornare a condizioni normali nelle contrattazioni. Conviene soprattutto cercare di togliere i vincoli esistenti, anche se, per toglierli definitivamente, si debba accollare alla classe dei proprietari un ulteriore aggravio per una parte degli appartamenti.

 

 

Criteri generali per la classificazione delle case.

1. La popolazione delle città.

 

Altro criterio per la classificazione delle case non vi è in primo luogo fuor della popolazione delle città, sia pure correggendo l’elemento puro della popolazione con altri elementi sia oggettivi che soggettivi.

 

 

2. La ricchezza notevole degli inquilini o il loro arricchimento durante la guerra.

 

L’elemento oggettivo della popolazione può essere cioè integrato con elementi di carattere personale, collocando nella prima categoria degli appartamenti i quali andranno ad essere smobilitati del tutto a più prossima data, non solo gli appartamenti aventi un valore locatizio massimo, ma anche quelli che pur avendo un valore locatizio inferiore, e fors’anche minimo, sono però abitati da inquilini le cui condizioni economiche sono manifestamente tali da consentire che per essi sia tolto al più presto un qualsiasi vincolo. Non sarebbe corretto infatti continuare oltre il minimo indispensabile in una situazione di cose per cui oggi inquilini ricchissimi od arricchitisi a dismisura durante la guerra, possono continuare a pagare fitti irrisori a proprietari i quali si trovano per lo più in condizioni economiche di gran lunga inferiori a quelle dei loro inquilini.

 

 

Sono notorie le situazioni individuali che si potrebbero considerare atroci, di proprietari di case, coperte di ipoteche o in ogni modo fruenti di un reddito minimo, inferiore a quello che oggi è richiesto per la vita di una famiglia operaia modesta, i quali debbono continuare ad affittare a canone mitissimo appartamenti abitati da inquilini talvolta ricchi a milioni o provveduti di redditi altissimi e cresciuti durante la guerra. Quando queste condizioni soggettive di ricchezza notevole o di larghi redditi si riscontrano, manca completamente la ragione di tutela del povero o del disagiato che ha ispirato i decreti vincolistici ed è giustificato il concetto di collocare questi appartamenti, qualunque sia il loro valore locatizio, nella prima classe la quale dovrà essere smobilitata al più presto.

 

 

3. Gli alloggi occupati a scopo di lucro da intermediari.

 

In questa medesima categoria è opportuno di collocare altresì, qualunque sia il loro valore locatizio, quegli appartamenti il quali sono abitati in più del primo da inquilini che esercitano l’industria del subaffitto. Il vincolo agli affitti è stato concesso dal governo allo scopo di tutelare l’inquilino contro il pericolo di improvvisi fortissimi aumenti derivanti dalla situazione monopolistica in cui si trovavano durante la guerra i proprietari, non già per concedere agli intermediari il diritto di ricavare lauti profitti disponendo di appartamenti vincolati in confronto ai proprietari e di fatto liberi in confronto agli inquilini. Non esiste nessuna ragione per la quale il proprietario di casa non debba avere il diritto di licenziare immediatamente coloro che esercitano l’industria della intermediazione degli alloggi e di ricuperare la piena disponibilità della casa propria. Togliendo i vincoli per questa categoria di appartamenti, qualunque sia il loro valore, si giova alla collettività in quanto che si elimina una classe parassitaria di intermediari la quale è venuta rapidamente, appunto per causa dei decreti vincolistici, formandosi ed estendendosi durante la guerra. Tutta la nostra legislazione è orientata nel senso di eliminare per quanto è possibile l’intermediario che non compie una funzione socialmente utile e di mettere in rapporto diretto consumatori e produttori, contadini e proprietari, ecc. Così è utile accada altresì tra inquilini e proprietari di case. Anche le classi trarranno giovamento dalla eliminazione degli intermediari; la quale è tanto urgente in quanto essa non fu dovuta a cause naturali; ma fu la conseguenza artificiale della legislazione vincolistica.

 

 

Le norme che in regime di vincolo furono adottate per limitare l’azione degli intermediari e per dare gli alloggi da essi detenuti alla disponibilità dei commissari degli alloggi, per lo più furono inefficaci a raggiungere lo scopo, più valendo la malizia degli intermediari che la diligenza dei commissari, e mancando qualunque stimolo nei proprietari a denunciare gli intermediari quando essi non riabbiano la disponibilità dell’alloggio. Ciò che conta non è sostituire all’intermediario il vincolo nuovo del decreto del commissario agli alloggi; è di ricreare un mercato libero delle case, su cui liberamente ed apertamente si svolgono contrattazioni. Mercato in principio ristretto ad una categoria e poi a mano a mano allargantesi a categorie sempre più vaste. Giova, affinché la prima categoria non riesca troppo smilza, che in essa siano compresi anche gli appartamenti occupati da intermediari per uso di lucro, per cui manca ogni ragione di tutela.

 

 

Il problema della classificazione delle città.

 

Un altro quesito da risolvere per quanto si riferisce alla smobilitazione graduale è quello della classificazione delle città. La via entro certi limiti era già tracciata dai decreti vincolatori, i quali distinguono le città in tre categorie, a seconda che superino i 200.000 abitanti, stanno fra i 100.000 ed i 200.000, o sono inferiori a 100.000. Nel sistema vincolistico questa classificazione aveva valore soltanto per quanto si riferisce alla separazione dagli altri degli appartamenti aventi rispettivamente un valore locativo annuo superiore a 4000, 2400 ed a 1000 lire all’anno. Questi punti di riferimento possono in media essere considerati fissi, tanto per ciò che si riferisce alla distribuzione delle città, quanto per ciò che si riferisce al valore degli appartamenti. Il passaggio invero dal sistema vincolistico al sistema della libertà deve avere come suo punto di partenza lo stato di fatto vigente e deve cercare di variarlo il meno che sia possibile.

 

 

Trattamento speciale per la capitale.

 

È parso tuttavia alla commissione delle abitazioni che qualche variazione potesse ragionevolmente introdursi nella classificazione vigente. La capitale invero presenta, per quel che si riferisce all’altezza dei fitti, caratteristiche sue peculiari, le quali non si riscontrano o non si riscontrano con altrettanta intensità nelle altre anche grandi città. In essa i fitti sono più elevati per tutte le categorie della popolazione, e se per le altre grandi città un fitto di 4000 lire può essere considerato come indice di ricchezza, non così per Roma, dove quel fitto è relativamente frequente anche nei bilanci delle classi semplicemente agiate, mentre i fitti di 2 – 3000 lire, che altrove sono già considerati rilevanti, a Roma paiono comuni. È questa la ragione per la quale è opportuno di togliere da quella che finora è stata considerata la prima categoria la città di Roma, e costituirla in categoria a sé.

 

 

I comuni complementari a grandi centri.

 

Un’altra circostanza doveva essere presa in considerazione, ed è quella per cui le grandi città, specialmente Napoli, Milano, Genova, irradiano la loro popolazione attorno a sé nel territorio di comuni amministrativamente separati. Una tendenza a fitti alti, di solito ignoti in comuni aventi lo stesso numero di abitanti, si riscontra ad esempio a Greco, Milano, a Musocco, attorno a Milano: Turro e Greco Milanese, Musocco, Vigentino, Affori; attorno a Napoli: San Giovanni a Teduccio, Portici, Resina, Torre del Greco, Afragola, Pozzuoli, Antignano; attorno a Genova: Sampierdarena, Quarto, Sestri Ponente, ecc. Questi comuni circostanti a grandi centri e che possono considerarsi quali complemento di essi, e certamente sono da essi influenzati in materia di pigione, debbono essere collocati perciò in una categoria diversa da quella alla quale spetterebbero in ragione di popolazione. Non si possono classificare senz’altro nella stessa categoria della città di cui sono il complemento, in quanto che i fitti, se sono in essi più alti dell’ordinario, non giungono all’altezza della città principale; ma è ragionevole classificarli, qualunque sia la loro popolazione, nella categoria immediatamente inferiore a quella a cui appartengono le città da cui essi dipendono.

 

 

Le città balneari ed i luoghi di cura.

 

Un’altra variante alla classificazione ordinaria è anche consigliabile di introdurre per ciò che si riferisce alle città balneari ed ai luoghi di cura.

 

 

Anche in esse i fitti sono più elevati di quanto sarebbe comportabile nella ragione semplice della popolazione. Non essendovi per queste città però un termine di riferimento, un’altra città cioè di cui esse possano essere considerati una dipendenza, si ritenne, senza commettere errore troppo grave, di poterle classificare tutte nella categoria delle città con più di 100.000 e meno di 200.000 abitanti.

 

 

L’elenco da compilarsi dai prefetti.

 

Le norme ora dette non possono avere altro carattere se non semplicemente indicativo. Al legislatore fanno difetto gli elementi per poter individuare le singole città per le quali le disposizioni ora indicate possono valere. Trattasi di apprezzamenti, di circostanze di fatto, le quali meglio possono essere valutate dalle autorità locali. Il decreto del 18 aprile 1920 ritenne opportuno di stabilire che, entro 15 giorni dalla data di pubblicazione, i prefetti debbano compilare un elenco dei comuni circostanti ai grandi centri e delle città balneari e dei luoghi di cura, compresi nelle rispettive provincie. Nei 15 giorni successivi gli interessati avranno diritto di reclamare presso il ministero dell’interno il quale deciderà inappellabilmente.

 

 

Le piazze forti di Spezia, Taranto e Brindisi e la città mineraria di Caltanissetta.

 

In alcuni casi soltanto, la commissione ritenne opportuno di fare una designazione specifica, in quanto le indagini statistiche preordinate la persuasero che, per circostanze particolarissime, le piazze forti di Spezia, Taranto e Brindisi, e la città mineraria di Caltanissetta sarebbero state erroneamente classificate, qualora si fosse tenuto conto soltanto della loro popolazione. In nessun altro caso, dopo un maturo esame, fu ritenuto di poter fare eccezione alla regola della popolazione, la quale potrà prestare il fianco a qualche critica, ma nel suo complesso addimostrasi sufficientemente adeguata ai fatti.

 

 

Per queste quattro città invece, oltreché per le due categorie genericamente sopra designate, la classificazione ordinaria sarebbe stata indubbiamente erronea e perciò esse furono collocate alla pari delle città balneari e dei luoghi di cura nella classe delle città con più di 100.000 e meno di 200.000 abitanti.

 

 

I comuni con popolazione fino a 5000 abitanti.

 

Il decreto del 18 aprile, come tolse dalle grandi città la capitale, così, ritenne opportuno sceverare dai comuni di popolazione fino a 100.000 abitanti quelli con popolazione minima, non superiore a 5000 abitanti. Per questi comunelli, di carattere per lo più rurale, non esiste un vero problema di affitti e neppure di industria edilizia. Per lo più la popolazione vive in casa propria, ovvero in case rustiche, che sono il complemento necessario di fondi agricoli e sono date in uso gratuito od a fitti nominali ai coloni. Non esiste industria edilizia propriamente detta, per la non convenienza di costruire case a scopo di locazione. Non v’è alcuna probabilità che la costruzione di case in questi comuni abbia a svolgersi in misura diversa da quella usata in passato, per soddisfazione di bisogni individuali.

 

 

È dunque privo di significato distinguere le case dei piccoli comuni in classi a seconda dell’ammontare degli affitti. Non esistono per lo più fitti; e dove esistono appartengono sempre all’ultima categoria. Perciò il decreto del 18 aprile fece dei fitti dei comuni piccoli un’unica categoria assegnandola alla prima categoria dei fitti, per i quali viene concessa la libertà a partire dall’1 luglio 1921. Viene cioè conservato per i comuni piccoli il regime vigente dei vincoli, senza alcuna ulteriore proroga. Nessuna delle due parti può lagnarsi, essendo serbate in vigore le condizioni vigenti; né la proroga avrebbe giovato alla consecuzione di alcun fine economico o sociale.

 

 

La distribuzione di fitti in categorie. La prima categoria.

 

Ordinate così le città in quattro classi, dovevano ordinarsi in categorie i fitti correnti per ognuna delle quattro classi.

 

 

Per non turbare, come si disse, lo stato di diritto vigente in base ai decreti vincolatori, il decreto del 18 aprile dichiara doversi mantenere per la prima e più alta categoria di pigione i minimi già indicati nei decreti stessi e così nella prima categoria sono compresi gli appartamenti con pigioni superiori a L. 1800 per le città della quarta classe (da 5001 a 100.000 abitanti). Per la terza classe (di città da 100.001 a 200.000 abitanti), appartengono alla prima categoria i fitti superiori a 2400 lire. Per le città della seconda classe, con più di 200.000 abitanti, nella prima categoria sono collocate le pigioni oltre le 4000 lire annue.

 

 

Roma che fa classe a sé (prima) ha un trattamento speciale, essendosi per le ragioni dette, calcolate nella prima categoria soltanto le pigioni di un valore annuo superiore a 6000 lire.

 

 

A questa prima categoria il decreto assegna, come fu spiegato sopra, oltre le case con pigioni superiori alle 6000 lire, anche tutto un altro gruppo di case contrassegnate da caratteri non più oggettivi ma soggettivi. Il decreto indica quali sono queste case le quali debbono, per ragione della posizione sociale o di altre caratteristiche degli inquilini, essere collocate nella prima categoria, e correre quindi, presto l’alea del mercato libero.

 

 

Qualunque sia la pigione pagata, anche minima, è evidente che se un inquilino ha ottenuto rilevanti profitti di guerra ed è stato perciò inscritto o dovrà essere inscritto nei ruoli sui sopra – profitti di guerra od in quelli della imposta per aumenti di patrimonio derivanti dalla guerra per una cifra non inferiore a 100.000 lire, costui non ha alcuna ragione di pretendere l’immobilizzazione della cifra di pigione da lui pagata. Tanto meglio se, costretto a pagare una pigione più elevata, devolverà una parte dei guadagni ottenuti alla costruzione di una casa per suo uso. Sarà questo un risultato utile della smobilitazione della casa da lui abitata. Egli devolverà una parte dei suoi guadagni alla costruzione di una casa per sé e lascerà libero l’alloggio da lui occupato attualmente, con vantaggio di altri inquilini privi di casa.

 

 

Per la stessa ragione non sembrano degni di ulteriori riguardi del legislatore, e quindi debbono rientrare nella legge comune a quella data dell’1 luglio 1921 che oggi è stabilita in generale, anche coloro i quali abbiano un patrimonio non inferiore ad un milione accertato agli effetti della imposta straordinaria sul patrimonio o abbiano un reddito non inferiore a lire 50.000. Se persone provvedute di largo censo o di rendite cospicue vogliono dedicare solo una piccola frazione del loro reddito all’uso della casa, siano liberi di farlo, ma non pare lecito che essi godano i fitti basati i quali sono stati voluti dal legislatore soltanto a tutela delle classi più disagiate. Fu osservato, e non a torto, che i decreti legge istitutivi della imposta straordinaria sul patrimonio e di quella complementare sul reddito sanciscono a favore del contribuente il segreto. E questo dovrà essere mantenuto dalla finanza. Nulla vieta però al proprietario il quale dubiti che il suo inquilino superi i limiti ora detti, di convenirlo in giudizio, deferendogli giuramento decisorio intorno alla circostanza di fatto puro e semplice dal superare o no il limite indicato nella legge. Finalmente non pare lecito che un inquilino detenga col privilegio del vincolo più case di abitazione, in numero superiore a quello che dal 31 dicembre 1919 erano stabilmente occupate da esso o dai suoi ascendenti o discendenti e relative famiglie. Se un inquilino occupa parecchi alloggi oltre quelli indicati sopra, segno è che egli su di essi esercita una speculazione a proprio profitto ed è quindi strano che egli nell’esercizio della sua speculazione privata sia aiutato dallo Stato con un vincolo a suo favore. Gli appartamenti da lui detenuti a scopo di speculazione siano nell’interesse della collettività rimessi sul mercato. Come già si disse, ciò ridonderà a favore nel tempo stesso della classe dei proprietari e di quella dei veri inquilini la quale potrà venire direttamente a contatto coi proprietari senza passare attraverso alle forche caudine di speculatori.

 

 

Le ulteriori speculazioni.

 

I valori della seconda, terza e quarta categoria furono, come si vede nella tabella che qui sotto si riproduce, desunti dai valori minimi della prima categoria. Si assunsero cioè come valore minimo della seconda e terza categoria la metà del valore minimo della categoria immediatamente superiore, salvo per quanto si riferisce al valore minimo della seconda categoria della seconda classe di città, per cui parve più rispondente ai fatti osservati nelle statistiche raccolte, assumere come valore minimo la cifra di 2400 lire all’anno.

 

 

Fatti diversi assaggi, la classificazione che qui si presenta sembrò essere quella che meglio si adatta alla generalità dei casi. Forse sarebbe stato opportuno di istituire una speciale classe per le città da 5001 a 20.000 o 30.000 abitanti, ma in tal caso sarebbe stato necessario di abbassare tutti i valori delle pigioni per quest’ultima categoria, ossia anche il valore iniziale di 1800 lire minimo delle pigioni più elevate, già accolto nei decreti vigenti. Se così si fosse fatto, forse si sarebbe compiuta opera meglio rispondente alla realtà, ma si sarebbe violata la regola che il ritorno alle condizioni normali debba operarsi senza cagionare alcuna offesa alle legittime aspettative delle classi interessate. La legislazione vincolistica ha turbato diritti esistenti ed ha provocato squilibri notevoli. Giova che il ritorno alle condizioni normali si effettui senza produrre alcun altro equilibrio in senso inverso. Bene o male che sia, la legislazione vincolistica ha fatto una classe sola di tutte le città fino a 100.000 abitanti ed ha garantito a tutti gli inquilini con pigione di valore non superiore a L. 1800 il diritto di conservare il proprio appartamento fino al 31 luglio 1921 con aumenti non superiori al 10 – 25 per cento. Se si fosse frazionata l’ultima categoria in due sotto categorie e se si fosse assegnato per l’ultima un valore diverso e più basso di 1800 lire, si sarebbe violata questa legittima aspettativa degli inquilini.

 

 

La creazione della quinta classe dei comuni con popolazione rurale fino a 5000 abitanti è necessaria, per non prorogare inutilmente i vincoli anche nei casi nei quali la proroga non giova ad alcun interesse né politico né sociale, ma per tutti gli altri comuni, al legislatore giustamente non parve opportuno che il ritorno alla libertà delle contrattazioni si inaugurasse con una violazione, anche soltanto di una legittima aspettativa, sicché si dovette conservare la classificazione in non più di cinque classi di comuni.

 

 

Quadro della classificazione.

 

Ecco ora il quadro della classificazione per classi adottato nel decreto del

18 aprile:

 

 

Categoria delle pigioni ad anno.

 

Classi di città

1a. Categoria

2a. Categoria

3a. Categoria

4a. Categoria

1a. classe – Roma oltre 6000 lire da 3000.01 a 6000 da 1500.01 a 3000 fino a 1500
2a. classe – Comuni con più di 200.000 abitanti oltre 4000 lire da 2400.01 a 4000 da 1000.01 a 2400 fino a 1000
3a. classe – Comuni da 100.001 a 200.000 abitanti oltre 2400 lire da 1200.01 a 2400 da 600.01 a 1200 fino a 600
4a. classe – Comuni da 5.001 a 100.000 abitanti oltre 1800 lire da 900.01 a 1800 da 450 01 a 900 fino a 450
5a. classe – Comuni fino a 5.000 abitanti qualunque fitto

 

 

Terza lezione

Terza lezione
Il problema delle abitazioni, Ed. F.lli Treves, Milano 1920, pp. 59-72

 

 

 

 

Le proposte di inasprimento della legislazione vincolatrice.

 

Abbiamo veduto precedentemente gli effetti della legislazione vincolatrice degli affitti. Si tratta di cercare adesso quali sono le vie per le quali sia possibile se non subito, almeno gradatamente, eliminare quegli effetti che sono stati gravissimi e tornare ad una condizione di cose che possa essere ritenuta normale.

 

 

Primo metodo per la soluzione del problema delle abitazioni: inasprimento della legislazione vincolatrice.

 

Due sono i metodi che ci si aprono dinanzi tutte le volte che una certa legislazione conduce a dei risultati cattivi. Vi sono sempre alcuni legislatori i quali ritengono che la causa del cattivo esito di quella data legislazione non sia la legislazione stessa ma la maniera imperfetta con la quale essa è stata applicata. In realtà furono i decreti vincolatori che sostanzialmente hanno prodotto una serie notevolissima di inconvenienti, sopratutto in riguardo agli inquilini nuovi che non trovano appartamenti o ne trovano soltanto a prezzi proibitivi. Molti però anziché dedurre da questa circostanza la conclusione logica di eliminare la causa del male dicono che così succede in quanto il legislatore non è andato abbastanza a fondo, non ha saputo prevedere tutti i casi e provvedervi adeguatamente; occorre che la legislazione vigente sia inasprita, che i provvedimenti siano ulteriormente ampliati allo scopo di ottenere da una legislazione migliore e da una applicazione più severa di questa stessa legislazione gli effetti che non si sono potuti ottenere da una legislazione insufficiente. Questo fatto sì è verificato durante la guerra in tutti i casi di intervento statale. Lo Stato per lo più quando ha istituito i calmieri, le requisizioni, i tesseramenti, ha provocato l’inasprimento dello scontento e delle lagnanze degli interessati.

 

 

Moltissimi hanno perciò detto: la causa si deve al fatto che il governo non è intervenuto abbastanza profondamente; bisogna quindi attuare provvedimenti i quali producano i miracolosi effetti che non ha prodotto la legislazione precedente. Purtroppo il male è proprio alla radice ed è inutile andare cercando i rimedi nella legislazione stessa quando è assolutamente impossibile poter aspettarsi che qualsiasi governo, anche il più perfetto di tutti i governi, che qualsiasi amministrazione anche composta delle persone più competenti risolva problemi che è incapace di risolvere. Sarebbe necessario avere una tale perfezione, una tale competenza nei servizi annonari o negli approvvigionamenti che umanamente è impossibile poter sperare che ciò si verifichi. Non si fa che accrescere la burocrazia, il numero degli impiegati che devono soprassedere a questa legislazione e aumentare il disordine e i danni che si lamentavano prima.

 

 

Regolamentazione dei subaffitti.

 

Brevemente – e prima di venire a quelli che sono i rimedi a lunga scadenza ma i soli efficaci – dirò di alcune di queste domande che sono venute fuori allo scopo di perfezionare la legislazione che si diceva imperfetta intorno ai vincoli per gli affitti. Ad esempio si è domandato ripetutamente che, poiché al posto dei proprietari antichi a cui l’aumento degli affitti era vietato, erano sottentrati degli intermediari e gli inquilini si erano trasformati pro tempore in effettivi proprietari di case e esercitavano l’industria del subaffitto, si dovessero stabilire provvedimenti per regolare accuratamente anche i subaffitti in modo che ci fosse un equo rapporto fra il prezzo dell’alloggio e il prezzo del subaffitto. E alcune disposizioni in questo senso furono prese.

 

 

I vincoli ai subaffitti crescono la carestia delle case.

 

Il risultato fu di rendere difficile e onerosa anche l’industria dei subaffitti la quale, bene o male, con un certo prezzo alto per gli inquilini, tuttavia dava luogo ad una offerta di camere sul mercato. Il fatto che ci sono persone che esercitano l’industria del subaffitto vuol dire che quelle famiglie – le quali oggi, in causa dei vincoli, non hanno più convenienza ad abbandonare i loro appartamenti perché se li abbandonassero, anche decidendosi ad assumere appartamenti più piccoli, dovrebbero pagare questi ultimi a un prezzo doppio degli appartamenti vasti – per non lasciare i propri appartamenti e tuttavia non avere un danno, si decidono a subaffittare parte del loro alloggio. Il che provoca l’offerta di qualche camera sul mercato, la quale a lungo andare non può che produrre una diminuzione, sia pur lieve nei prezzi. I decreti coll’estendere i vincoli anche ai subaffittanti producono necessariamente il risultato che certe famiglie le quali sarebbero state disposte a subaffittare una camera o due del proprio appartamento non lo subaffittano più quando hanno il vincolo del prezzo. Quale vantaggio invero può avere una famiglia a subaffittare una camera per la quale la famiglia stessa paga un prezzo di fitto di 200 lire all’anno? Il decreto farebbe obbligo a costoro di subaffittare la camera mobiliata a 400 lire; l’inquilino ha diritto di reclamare presso il commissario degli alloggi se il prezzo è maggiore. Il risultato è che ben poche sono le famiglie le quali vogliano privarsi dell’uso di una camera soltanto per avere un fitto di 400 lire, il quale non compensa la noia ed il fastidio di avere un estraneo in casa e di rendergli ogni sorta di servizi. Il supplemento di 200 lire all’anno equivale a poco più di 50 centesimi al giorno. E chi vorrebbe prestare un servizio di questa specie per 50 centesimi al giorno? Ciò non fa altro che ridurre l’offerta delle case sul mercato.

 

 

L’offerta viene anche ridotta dal fatto che taluni i quali affitterebbero a prezzi rimuneratori non lo fanno per non essere iscritti sulla lista degli affittacamere. Essi sono registrati dal commissario degli alloggi, il quale li obbligherà magari a continuare ad assumere sub inquilini, anche quando essi non ne avranno più voglia, perché saranno considerati come aventi camere in più del loro fabbisogno. Tutto ciò infastidisce ed irrita coloro che sarebbero stati disposti a fare un po’ di largo, sicché non si ottiene altro effetto che ridurre il numero delle camere poste sul mercato. Quelli che continuano ad affittare vedono accresciuti i propri rischi, inquantoché è vero che essi molte volte riescono a stipulare coll’inquilino un contratto a prezzi alti, ma corrono il rischio che l’inquilino ricorra al commissario degli alloggi e si faccia ridurre l’affitto. Per controbilanciare il rischio essi aumentano il prezzo delle camere agli inquilini volenterosi e di buona fede che non ricorrono al commissario degli affitti. Risultato: un ulteriore aumento dei prezzi.

 

 

Abolizione del divieto di subaffitto.

 

Un’altra disposizione invocata spesso e finora non decretata è quella dell’abolizione del divieto di subaffitto, clausola che spesso si incontra nei contratti in vigore. Si dice: Molte persone le quali sarebbero disposte a far largo nel proprio appartamento non lo possono poiché per espresso tenore del contratto di affitto essi non possono subaffittare. Intervenga quindi un decreto il quale tolga vigore senz’altro a tutti questi divieti di subaffitto; si produrrebbe così un vuoto e la possibilità di poter subaffittare camere. È da osservarsi qui che la abolizione del divieto di subaffitto non potrebbe essere una abolizione generale senza qualche cautela, in quantoché la ragione per la quale i proprietari impongono il divieto di subaffitto è di solito un’ottima ragione: necessità di sapere quali sono le persone che vengono ad abitare in una casa, desiderio di ogni proprietario di tenere nei propri appartamenti famiglie rispettabili che non rechino nocumento alla casa locata e sopratutto non nuocciano alla moralità. Se si abolisse il divieto di subaffitto è evidente che si dà modo all’inquilino di convertire la casa in luogo di ballo, di canto, o magari in postribolo senza che il proprietario abbia diritto di opporsi. È impossibile dunque togliere al proprietario un diritto di controllo che o deve essere esercitato dal proprietario di casa o quanto meno dal commissario degli alloggi, il quale dovrebbe da parte sua sincerarsi che le persone entrate contro la volontà del proprietario soddisfino ai requisiti di moralità e di decenza che è desiderabile siano osservati. Ma, così facendo, andiamo incontro ad un pullulare di questioni e di litigi. In effetto come è mai possibile determinare la moralità delle persone che sono introdotte nella famiglia? O si dà al proprietario l’assoluto diritto di negare il proprio benestare ai subinquilini i quali sono introdotti e allora tanto vale mantenere il divieto di subaffitto, o si fa obbligo al proprietario di motivare il suo rifiuto e allora il proprietario dovrebbe correre l’alea di mettere per iscritto le ragioni del suo rifiuto, dichiarando che egli non ritiene certe persone di sufficiente moralità. Evidentemente ciò non è possibile perché seguirebbero querele di diffamazione, querele che novantanove volte su cento andrebbero a finire contro il proprietario. Quindi nessuna arma in mano avrebbe il proprietario per impedire la mescolanza di famiglie rispettabili e non rispettabili nella sua casa, né una responsabilità di questo genere se la può prendere il commissario degli alloggi. Ne deriverebbero eccitamenti alla discordia, liti continue e in sostanza aumento di prezzo; le famiglie invero che vorranno assicurarsi contro tutti questi inconvenienti dovranno prima di andare in una casa sapere quali sono le famiglie che già vi abitano, e assicurarsi che nessuna di esse voglia per l’avvenire esercitare contro la volontà del proprietario il diritto di subaffitto, a favore di persone non degne di essere introdotte nella casa stessa.

 

 

Tesseramento dei locali esuberanti.

 

Un altro rimedio messo innanzi è quello del tesseramento dei locali esuberanti. Si dice spesso che la scarsità delle case dipende non dalla scarsità effettiva degli alloggi, ma dal fatto che vi sono famiglie le quali, pur essendo composte di pochissime persone, tengono occupati alloggi spaziosissimi, esuberanti ai loro bisogni. Si faccia un tesseramento e si stabilisca che ogni famiglia ha diritto di occupare soltanto un certo determinato numero di locali in funzione dal numero delle persone; per esempio un locale ogni persona componente la famiglia e forse in più qualche altro locale, per esempio, cucina, locali di servizio, o locale da pranzo o studio, ecc. Il tesseramento sarebbe un mezzo per poter fare dei vuoti.

 

 

In realtà è assai dubbio che si ottenga questo felice risultato. Solita conseguenza di tutti i tesseramenti fini qui ordinati (olio, burro, zucchero, ecc.), è stata quella di aumentare il consumo delle cose tesserate. Le ragioni del fatto non si possono spiegare con precisione; forse sono di natura psicologica; ma il fatto è inoppugnabile. Tutte le volte che si è stabilito il tesseramento per una qualsiasi derrata alimentare e che fu possibile confrontare il consumo di prima a quello posteriore si è visto che quest’ultimo è aumentato. Caso tipico è quello del frumento; da quando è stato tesserato il consumo è aumentato notevolmente. Prima della guerra su per giù si importavano da 10 a 12 milioni di quintali; durante gli ultimi anni si è arrivati ad importarne più di 30 milioni e l’aumento non è spiegato né dalla diminuzione del raccolto la quale non è stata in questa proporzione e neppure dall’aumento del consumo dell’esercito. C’è un effettivo aumento nel consumo della popolazione. Lo stesso fenomeno si è verificato per lo zucchero. Sembra che il tesseramento di una qualsiasi merce faccia nascere nella mente dei consumatori l’idea che essi devono consumare quella certa quantità minima; anche quelli che consumerebbero di meno si spingono, per spirito di imitazione, sino ad arrivare a quel minimo che era stato determinato in una misura abbastanza larga. Così accadrebbe probabilmente nel tesseramento delle case. Il giorno in cui si stabilisse che tutti dovessero avere una camera per ogni componente la famiglia, il commissario degli alloggi sarebbe tempestato da innumerevoli richieste, sovratutto in relazione alla circostanza che il prezzo delle case è effettivamente diminuito in confronto a quello che era prima, tenuto conto dello scemato valore della moneta. Restando così ridotto il prezzo effettivo delle case, ove ci fosse un diritto a consumare un dato numero di camere per ogni abitante, le domande crescerebbero e il problema diventerebbe ancor più aggrovigliato. Il commissario degli alloggi potrebbe forse riuscire a scovare qua e là qualche camera esuberante, ma il numero delle camere richieste in più per effetto del tesseramento sarebbe di molto maggiore.

 

 

Il problema invece di risolversi si complicherebbe maggiormente. Difficile sarebbe trovare in misura ragguardevole camere esuberanti in quanto in molti casi l’esuberanza è giustificata da circostanze particolari. Non sarebbe possibile, per esempio, tesserare palazzi artistici, appartamenti a famiglie storiche nei quali si tengono quadri, collezioni, mobili antichi; o case in cui ci siano saloni decorati o che abbiano una propria struttura individuale; né per un bisogno momentaneo si potrebbero distruggere particolari architettonici e artistici tramandati da secoli. Ci sono appartamenti che sono costruiti in modo da non poter essere occupati da più di una famiglia perché vi è una scala sola o perché occorrerebbe fare delle trasformazioni tali che il costo sarebbe superiore al vantaggio di allogare due famiglie.

 

 

I pretesti poi che metterebbero innanzi le famiglie per occupare un numero di camere maggiore di quello loro concesso sarebbero tanto svariati che il commissario degli alloggi non potrebbe più raccapezzarsi. È probabile che tutti troverebbero la necessità di destinare una camera del proprio appartamento a studio, ecc. Sarebbe insomma molto difficile cavare qualche cosa di concreto da questa legislazione, almeno in misura apprezzabile, mentre invece la richiesta crescerebbe a dismisura.

 

 

Denuncia di locali vuoti al commissario degli alloggi.

 

Altro rimedio messo innanzi è quello dell’obbligo di denunziare al commissario degli alloggi le abitazioni vuote e l’obbligo per tutti gli inquilini nuovi di ricevere l’alloggio soltanto per mezzo del commissario degli alloggi.

 

 

Anche questo è un sistema che non si sa se possa produrre più male che bene perché l’obbligo di denunziare gli appartamenti vuoti va contro interessi evidenti. Il proprietario di casa appena ha un alloggio vuoto ha interesse ad affittarlo al prezzo maggiore che sia possibile. Se invece viene posto l’obbligo di denunziare l’appartamento al commissario degli alloggi e di affittarlo soltanto attraverso a questo pubblico ufficiale cessa ogni interesse da parte del proprietario di affittarlo in quanto egli sa che lo affitterà soltanto a prezzo di calmiere che è talmente basso che egli può avere convenienza ad aspettare ed a nascondere più che sia possibile il suo appartamento vuoto. In questa maniera provvisoriamente si rende inaccessibile un appartamento il quale sarebbe invece occupato immediatamente. Se poi si stabilisce che nessun nuovo inquilino possa andare ad occupare un appartamento se non per mezzo del commissario degli alloggi l’effetto probabile sarà di far venir meno quella affannosa caccia che oggi vi è e che qualche effetto produce negli appartamenti vuoti.

 

 

Oggi chi cerca casa procura di mettersi d’accordo con l’inquilino uscente, ecc.; ma se l’inquilino che sta nell’appartamento deve denunziare la propria esuberanza al commissario degli alloggi e non ha nessun vantaggio a farlo, evidentemente egli si guarderà bene dal far la denuncia, un numero minore di camere verrà sul mercato e il problema finirà coll’essere ancor più insolubile. In conclusione tutti questi rimedi non hanno altro risultato che di inasprire il male che vorrebbero curare.

Seconda lezione

Seconda lezione
Il problema delle abitazioni, Ed. F.lli Treves, Milano 1920, pp. 23-58

 

 

 

 

Vicende ed effetti della legislazione vincolatrice.

 

Le esperienze del passato – ad onta del dettato che «historia est magistra vitae» non servono a niente. Nessuna generazione ha mai imparato niente dalle generazioni passate e sempre ha dovuto per conto suo ripetere la esperienza degli errori verificatisi prima, affinché dagli errori nascano le medesime conseguenze, sorgano le medesime discussioni e alla fine attraverso a molti dibattiti si vengano a riscoprire quelle stesse verità. In Italia, come del resto anche in altri paesi, noi abbiamo di nuovo dovuto rifare la medesima esperienza allo scoppiare della guerra attuale; la esperienza anzi ha avuto un andamento vario in quanto le vicende del mercato delle case dallo scoppio della guerra italiana in poi sono state contradittorie. Esse hanno traversato si può dire due periodi: un primo periodo di squilibrio a favore degli inquilini e a danno del proprietario e un secondo di squilibrio a danno dell’inquilino e a vantaggio del proprietario.

 

 

Primo periodo di squilibrio post bellico; ribasso di fitti.

 

Nel primo periodo in conseguenza della dichiarazione di guerra del 24 maggio 1915 molte classi sono richiamate sotto le armi. Un numero notevole di abitanti di città si trova ad avere il proprio appartamento sulle spalle senza avere chiaro dinanzi alla mente il modo di poter pagare il fitto della casa. Richieste affannose da parte di inquilini per essere liberati da questo onere invocando la forza maggiore della guerra, la quale toglie ad essi i mezzi di vita e li mette nell’impossibilità di pagare i fitti. Coloro che invocano la liberazione del vincolo precedente di pagare gli affitti sono disposti a far a meno della casa che occupavano perché, essendo chiamati sotto le armi, mandano le mogli e i figli in campagna o presso i propri genitori o presso i genitori della moglie, ecc. Queste famiglie si restringono, trovano modo di vivere più a buon mercato e molti appartamenti si rendono in questo modo vuoti. Il legislatore a questo punto interviene coi decreti 3 giugno e 22 agosto 1915. Il primo dava soltanto l’autorizzazione all’inquilino di pagare il fitto a mese anziché a trimestre così da rendergli più facili i pagamenti. Questa prima maniera di intervento statale non ha avuto conseguenze apprezzabili.

 

 

Il decreto 22 agosto 1915 stabilisce la facoltà all’inquilino di richiedere in certe condizioni la risoluzione del contratto osservando certi termini a seconda dei casi e inoltre dà facoltà ai richiamati di pagare soltanto metà dei fitti, che essi erano obbligati a pagare, per tutto il periodo di richiamo sotto le armi e fino a sei mesi dopo la cessazione del servizio militare, rinviando il pagamento della metà non pagata ad un periodo susseguente di due anni dopo scaduti i sei mesi dalla cessazione del servizio militare. Questo provvedimento chiude il primo atto dell’intervento del legislatore.

 

 

Questo decreto porta ad una crisi edilizia, ad un ribasso nel prezzo degli appartamenti. Noi assistiamo nella seconda metà del 15 e nei primi mesi del 16, ad un ribasso apprezzabile dei fitti delle case e per le vie delle grandi città potevasi osservare un numero notevole di «appigionasi». I proprietari dovevano accondiscendere a risoluzione di contratti, a ribassi di affitti allo scopo di poter trattenere gli inquilini i quali altrimenti minacciavano di andarsene via. Il fenomeno ha acquistato una intensità particolare in alcune zone italiane, per esempio in tutta la zona adriatica, le cui città videro un fuggi fuggi da parte della popolazione che poteva allontanarsi, un vuoto di appartamenti ed un ribasso di affitti che molte volte arriva al 50% degli affitti precedenti. Il periodo si può dire sia durato per la seconda metà del 15 e nei primi mesi del 16. Da allora i fitti cominciarono di nuovo ad aumentare lentamente per il verificarsi di alcune circostanze di cui la principale è il sorgere delle industrie belliche nelle grandi città. Le industrie belliche attraggono dalle campagne un numero notevole di contadini, i quali per non andare sotto le armi cercano di entrare come operai negli stabilimenti cittadini. Essi fanno una nuova domanda di case cosicché a poco a poco i fitti i quali erano abbassati notevolmente nel periodo precedente ricominciano a salire. Arriviamo così alla seconda metà del ’17, periodo contraddistinto da un ritorno all’equilibrio dei prezzi precedenti. Gli affitti alla metà del ’17 sono su per giù simili agli affitti che vigevano verso il 1914 e al principio del 1915.

 

 

Secondo periodo di squilibrio post bellico: rialzo di fitti.

 

L’equilibrio è nuovamente rotto per gli avvenimenti di Caporetto. Il fatto disastroso per le nostre armi produce un vuoto di un numero grandissimo di persone nelle provincie venete, con afflusso di profughi specialmente nelle città dell’Alta Italia ma anche a Firenze, a Roma e persino nella Sicilia. Ne consegue un inasprirsi notevolissimo della domanda, sicché improvvisamente in quei mesi del novembre e dicembre 1917 i fitti cominciano a salire, a salire rapidamente perché questa domanda nuova e imperiosa di case è venuta a cadere in un momento in cui si era ristabilito l’equilibrio e non esistevano case vuote.

 

 

Contemporaneamente all’afflusso di profughi la richiesta di case era acuita dal grande slancio che specialmente nelle città del settentrione presero le industrie belliche per la necessità di combattere e trattenere l’invasore provocando nuova affluenza di contadini. In tal guisa alla fine del 1917 e per tutto il 1918 si ebbe un aumento fortissimo e sempre crescente nella richiesta di case. Cominciano allora le lagnanze degli inquilini e il conseguente intervento del legislatore con una serie di decreti di cui il principale è quello del 30 novembre 1917, modificato notevolmente col decreto 27 marzo 1919.

 

 

La legislazione vincolatrice: diritto di insistenza a divieto di aumenti.

 

Il primo decreto facendo rivivere gli editti dei pontefici, dei Duchi di Savoia, dei Re di Napoli che ho ricordato nella scorsa lezione prescriveva che dovesse stabilirsi un diritto, che il decreto chiamava diritto di «proroga», per il quale fino a due mesi dopo la fine della guerra purché gli inquilini pagassero puntualmente gli affitti, il proprietario non aveva diritto di rientrare nel possesso della casa propria se non nel caso in cui egli dovesse andare adoccuparla personalmente. Il decreto adoperava la frase «volesse andare a stare o intendesse abitare personalmente la casa sua». Questa dizione ebbe come conseguenza naturale che molti proprietari furono immediatamente presi dalla voglia sfrenata di andare a stare a casa propria perché quello era il mezzo più facile per poter avere appartamenti liberi e poterli quindi negoziare con altri a prezzo di mercato. Allora un successivo decreto modificò questa disposizione nel senso che il proprietario potesse bensì andare ad abitare in casa propria ma soltanto quando potesse dimostrare la necessità di andarvi a stare e quando sorgessero altre gravi circostanze lasciate all’apprezzamento del giudice. In questo modo fu reso quasi impossibile al proprietario servirsi della facoltàin quanto era sommamente difficile dimostrare la necessità di abitare in casa propria. La necessità vera e propria esisterebbe solo se il proprietario si trovasse senza tetto. In effetto nella maggior parte dei casi le commissioni arbitrali giudicarono che non vi fossero gli estremi della necessità.

 

 

Oltre al divieto al proprietario, salvo casi eccezionali, di licenziare l’inquilino il decreto stabiliva il divieto di aumento dei fitti. Non solo gli inquilini acquistarono così il diritto di insistenza ma anche di continuare a pagare i fitti che pagavano precedentemente. Tutto ciò fino a due mesi dopo la conclusione della pace. Fu fatto altresì divieto di aumentare il fitto per i nuovi inquilini, i quali prendessero il posto di inquilini vecchi che di loro volontà lasciassero gli appartamenti. Il fitto doveva rimanere fisso per i vecchi come per i nuovi inquilini. Soltanto in casi eccezionali, quando per nuovi lavori fatti nella casa questa fosse stata per tal modo modificata da potersi considerare come una merce nuova, le commissioni arbitrali potevano concedere l’aumento del fitto.

 

 

I vincoli non furono però estesi indistintamente a tutte le case inquantoché parve senz’altro eccessivo vincolare i fitti pagati da inquilini i quali avessero un grado notevole di agiatezza. Il decreto del 30 dicembre limitò gli effetti della legislazione vincolatrice a tutti quei casi nei quali gli affitti non fossero superiori alle 4000 lire nelle città di oltre 200.000 abitanti, alle 2400 nelle città da 100 a 200.000 abitanti ed alle 1800 lire nelle città con meno di 100.000 abitanti. Era la grandissima maggioranza degli affitti che veniva ad essere vincolata, inquanto i fatti superiori a quelli indicati sono l’infima minoranza.

 

 

La situazione però, per i nuovi inquilini, non migliorò affatto in conseguenza dei decreti, anzi si può dire che andò peggiorando. Continuarono vivissime le lagnanze degli inquilini, specie di quelli che si trovavano a dover diventare inquilini. I fitti continuarono ad aumentare per questi ultimi e in conseguenza delle nuove lagnanze intervenne il legislatore col secondo decreto fondamentale del 27 marzo 1919 per il quale il diritto di insistenza, invece di rimanere in aria fino a due mesi dopo la conclusione della pace, fu fissato al 31 luglio 1921: ci fu cioè una proroga di circa due anni.

 

 

Perché sia stata fissata la data del 31 luglio non è abbastanza chiaro, visto che al 31 luglio in nessuna città d’Italia vi sono scadenze consuetudinarie. La scadenza consuetudinaria a Milano è al 29 settembre, a Napoli al 4 maggio, a Torino al 1 aprile e al 1 ottobre; in altre città variano le date, ma nessuna cade al 31 luglio. Fu una data scelta a caso, forse allo scopo di poter far prorogare alla data del 29 settembre i fitti scadenti a Milano e in altre città in cui c’è questa data consuetudinaria. Si concedette ai proprietari il diritto ad un moderato aumento di affitto, ma soltanto a partire da 2 mesi dopo la conclusione della pace. Mentre si fissava un diritto di insistenza dell’inquilino fino ad una data certa, si lasciò incerta la data dell’epoca di inizio degli aumenti. Gli aumenti furono fissati in due percentuali, una minima e l’altra che si potrebbe chiamare massima. La minima fu stabilita nel 10% ma deve opporsi l’inquilino citando il proprietario dinanzi alla commissione arbitrale quando non intenda sottostare all’aumento. Siccome è probabile che non molti inquilini dopo decorsi due mesi dalla conclusione della pace abbiano a prendere l’iniziativa di convenire in giudizio il proprietario, questo del 10% può essere considerato come l’aumento minimo che possa essere fissato dai proprietari. I proprietari possono andare anche più in là, ossia chiedere un aumento fino al 20%, ma in questo caso gli inquilini possono rifiutarsi, ed allora spetta al proprietario di convenire in giudizio gli inquilini dinanzi alla commissione arbitrale per ottenere l’aumento. Le commissioni possono consentire, come nel decreto precedente, aumenti speciali nel caso di lavori importanti con modifiche notevoli alla struttura della casa. L’aumento dal 10 al 20% si riferisce alle pigioni in vigore anteriormente al 30 dicembre 1917, non alle pigioni che fossero in vigore posteriormente e il fitto rimane immutato tanto per i vecchi che per i nuovi inquilini a quella cifra, salvo i possibili aumenti i quali non sono ancora cominciati ad entrare in vigore in quanto nessuna legge ulteriore ha stabilito l’epoca della proclamazione della pace.

 

 

Siamo in pace di fatto ma la pace legale non esiste ancora; dovrebbe esistere soltanto quando fosse firmato l’ultimo dei trattati di pace con gli ex nemici. Siccome alcuni di questi trattati di pace sono ancora in elaborazione e devono essere approvati dai parlamenti e ratificati, è probabile che l’ultimo trattato di pace potrà entrare in vigore soltanto ad un’epoca incerta, ma certamente abbastanza lontana. Si trova dinanzi alla Camera dei deputati un disegno di legge il quale fissa legalmente il giorno della pace appunto per ovviare agli inconvenienti che nascevano dalla indeterminatezza di questa data. La fissazione è importantissima non solo riguardo ai fitti ma riguardo a moltissime altre circostanze della vita civile, perché innumerevoli decreti e disposizioni legislative prendono fine o inizio dal giorno della pace legale. Nel disegno di legge presentato alla Camera il giorno della pace sarebbe fissato al trentesimo giorno dopo la data di promulgazione della legge stessa. La cosa però è sempre incerta in quanto si ignora quando la Camera dei deputati potrà approvare quel disegno di legge.

 

 

Nella loro struttura sostanziale i due decreti stabiliscono dunque il diritto di insistenza fino al 31 luglio 1921, alla quale data tutte le case dovrebbero diventare libere, e l’obbligo del proprietario di non aumentare gli affitti fino a due mesi dopo la pace e allora mantenere gli aumenti fra il 10 e il 20%.

 

 

Estensione dei vincoli alle botteghe e studi.

 

Queste disposizioni si riferivano soltanto alle case di abitazione. Ma quando un decreto è stato stabilito per un certo ordine di fatti è molto facile farne emanare altri per estendere il campo della sua applicazione; non c’è da fare altro che iniziare una piccola agitazione, fare qualche dimostrazione, far inviare qualche telegramma dai prefetti al ministero dell’interno per dimostrare che se non si procede alla emanazione del nuovo decreto la tranquillità pubblica è perturbata. Così si ebbero altri decreti fra cui uno del 24 aprile 1919 (successivo cioè all’ultimo ricordato per le case di abitazione), il quale, dando ragione alle lagnanze di molti negozianti, bottegai, occupanti di locali per uso studio, ecc., stabiliva che i proprietari non avessero diritto di aumentare i fitti per più del 25% quando naturalmente le locazioni in corso fossero venute alla scadenza. Era un decreto stilato con molta fretta e che non aveva nessun contenuto vero e proprio, in quanto non ha importanza il dire che un fitto alla sua scadenza non può essere aumentato di più del 25% quando contemporaneamente non si sancisce per l’inquilino precedente il diritto di insistenza. La semplice proclamazione di non poter aumentare a carico del locatore precedente il fitto di oltre il 25% porta alla conseguenza che il proprietario senz’altro licenzia l’inquilino e ha diritto di licenziarlo perché non è stato sancito il diritto di insistenza. Diritto di insistenza e divieto di aumento sono due istituti inseparabili. In effetto appena uscito il decreto si vide subito che tutti i proprietari, man mano che i contratti giungevano a scadenza, senz’altro licenziavano i negozianti senza dare nessuna ragione. Né potevano dire la ragione perché allora avrebbero violato il decreto del 24 aprile; preferivano licenziare senz’altro. Allora intervenne un nuovo decreto 18 agosto 1919 il quale prorogava anche per i locali destinati a botteghe, negozi, uffici e studi il diritto di rimanere nella casa occupata fino al 31 luglio 1921.

 

 

Questa data del 21 luglio diventava per conseguenza una specie di data fatidica alla quale dovevano essere riportati tutti i contratti salvo quei pochi che avessero scadenza posteriore e che naturalmente erano rispettati.

 

 

Conseguenze della legislazione vincolatrice: il rinvilio della carta moneta.

 

Quali furono le conseguenze dei decreti che stabilivano il diritto di insistenza e vietavano l’aumento degli affitti? Furono quelle che potevano essere prevedute e che erano state conseguenza dei decreti degli antichi regimi.

 

 

Innanzi tutto bisogna ricordare che mentre alcuni decreti si preoccupavano di irrigidire certi determinati valori (affitti, pane e altre derrate), nello stesso tempo negli anni 1917, 1918 e ’19 seguitava ad avere piena efficienza la fabbricazione dei biglietti. Il funzionamento ininterrotto del torchio dei biglietti portava gradualmente la circolazione da 4 a 6 a 10 a 15 a 18 miliardi di lire, cifra alla quale pare si sia fermata nel novembre 1919 e produceva il solito effetto della svalutazione della lira.

 

 

La lira prendeva valori sempre minori che non sappiamo quali sono perché un criterio misuratore esatto del valore della lira è molto difficile poterlo trovare; sappiamo soltanto che misurata questa lira in moneta diversa dalla nostra (in quelle monete che hanno ancora la permutabilità in oro) ha finito per acquistare il valore di 80, 70, 50, 30 centesimi e persino, per qualche tempo, di 24-25 centesimi.

 

 

Il rialzo dei redditi monetari ed il ribasso relativo del valore d’uso delle case.

 

La svalutazione della lira produceva un correlativo aumento di molta parte dei redditi (non dico di tutti) esistenti, nel paese inquantoché svalutazione della lira vuol dire aumento dei prezzi di tutte le cose e quindi aumento dei redditi di coloro che riscuotono direttamente il prezzo delle cose vendute. Comincia ad aumentare il reddito degli industriali che vendono merci all’ingrosso ai negozianti; aumenta il reddito dei negozianti che vendono a prezzi accresciuti per la svalutazione della lira; aumenta il reddito degli agricoltori direttamente esercenti l’industria agraria che vendono a prezzi vincolanti un po’ accresciuti o a prezzi liberi le loro derrate agrarie. L’aumento si riverbera poi sui salari dei dipendenti degli industriali, commercianti e agricoltori. Appena i prezzi aumentano, operai, braccianti, chiedono aumenti di salario e per lo più li ottengono. Aumenta anche il reddito da parte dei professionisti che accrescono i loro onorari; i redditi di coloro che producono capitali, i quali, invece del 3,50 di cui si accontentavano prima, ottengono il 5 e il 5,50 poi quasi il 6%. Sono rimasti in parte stazionari i redditi degli azionisti delle Società anonime; ma dopo che il vincolo di distribuzione dei dividendi è stato tolto questi poterono essere aumentati e già erano stati portati al massimo legale, l’8%, mentre prima si tenevano inferiori a questa cifra. Il movimento di rialzo dei redditi finisce un po’ per volta per propagarsi a quasi tutte le classi sociali e sono pochissime le categorie che non hanno partecipato al rialzo. Sono aumentati i redditi più o meno, in misura differentissima, inquantoché vi saranno stati dei negozianti che avranno visto decuplicati i loro redditi, agricoltori che li avranno visti triplicare; certe categorie di operai avranno veduto i loro salari raddoppiare, triplicare, quadruplicare; vi saranno stati impiegati dello Stato che nei gradi inferiori ottennero aumenti anche del 300% in confronto dei redditi che ricavavano precedentemente fino ad andare ai più disgraziati di tutti, i pensionati, che ottennero aumenti di 30 lire al mese, ciò che costituisce una crudele irrisione. Qualche categoria di persone non ha ottenuto assolutamente nessun aumento di reddito in confronto a quello che aveva prima. Sono coloro che avevano capitali investiti precedentemente, per esempio i portatori della vecchia rendita 3,50%. Questi che avevano investito 100 lire in rendita, ebbero due danni; il primo che la vecchia rendita vale soltanto 80 lire invece di 100, e inoltre il reddito di 3,50 rimase fisso e quindi ebbe una capacità di acquisto di un quarto o un quinto della precedente.

 

 

Furono costretti ad avere redditi limitati i proprietari di case per i decreti di vincolo; i proprietari di terreni affittati i quali non poterono aumentare gli affitti di più del 20% anche quando era risaputo che i redditi degli affitavoli aumentavano notevolmente. Vi furono casi in cui gli affittavoli in un solo anno poterono guadagnare tanto da comperare il fondo che si era svalutato in mano al vecchio proprietario che non aveva potuto aumentare il fitto di più del 20%. In complesso però le categorie di redditieri che dovettero rimanere a reddito inferiore o eguale a quello dell’anteguerra furono molto ristrette. Quale fu la conseguenza di questo movimento grandioso che si è verificato in tutti i redditi? Che, dato il vincolo degli affitti, la casa divenne artificialmente per gli inquilini vecchi una merce a buonissimo mercato, a un buon mercato fantastico in quantoché mentre oggi si trova perfettamente naturale pagare un paio di scarpe 80 lire (e non è fuori proporzione in confronto al prezzo di tutte le altre cose perché in fondo, se la lira vale 25 centesimi, è naturale che le scarpe che prima valevano 20 lire ora ne valgono 80); se si paga correntemente un abito 400 lire, la casa continua a valere il prezzo che valeva precedentemente. Una casa che prima si pagava 3 lire al giorno (1100 lire circa all’anno) – la maggior parte delle pigioni in Italia è inferiore a questa cifra – si paga ora nella stessa misura e può essere una casa di 4, 5, 6 o più locali. Ci sono moltissime persone le quali oggi si lamentano di pagare 3 lire al giorno l’uso della casa mentre tranquillamente spendono giornalmente la stessa somma per fumare. Non è reputata cosa straordinaria e fuor di luogo spendere tre lire al giorno in sigari, una lira il tram, qualche lira al caffè e per giornali, e quella spesa che si fa correntemente per un consumo perfettamente voluttuario e secondario si considera eccessiva per un consumo di prima necessità – anche moralmente e socialmente – come quello della casa. La svalutazione della lira ha voluto anche dire diminuzione di prezzo dell’uso della casa ad un livello irrisorio. In fondo mentre prima colui che aveva un reddito di 10.000 lire spendeva forse 1500 lire in un appartamento, adesso che ha veduto probabilmente aumentare il suo reddito a 25, 30 o 40.000 lire, continua a occupare la sua casa al fitto antico. Mentre prima spendeva per l’appartamento il 15% del suo reddito ora spende soltanto il 5%. Questo fatto ha avuto per conseguenza che una parte molto maggiore del reddito di prima rimane libero per fare altri consumi e quindi il vincolo degli affitti ha portato la conseguenza che i consumatori hanno potuto fare una domanda assai più viva di quanto non avrebbero fatto, di altre cose. Continuamente si lamenta che i consumatori sprecano troppo; e questa possibilità deriva in parte dal fatto che la percentuale di reddito assorbita dal fitto è discesa notevolmente: dal 15 al 20%, talvolta si è abbassata al 10, al 5%. Una parte del reddito è rimasta libera e può essere devoluta ad altri consumi.

 

 

Domanda monetaria cresciuta di casa ed offerta costante o scemata.

 

Il vincolo sugli affitti non si riferiva soltanto agli affitti antichi, ma anche agli inquilini nuovi i quali ebbero sancito il diritto di occupare appartamenti ai prezzi antichi. Ne venne che siccome i redditi aumentarono vi fu la possibilità di poter occupare molte più case di quelle che si occupassero prima. Certi redditieri i quali col reddito di 10.000 lire avrebbero occupato 5 o 6 stanze perché erano costretti a impiegare in queste 5 o 6 stanze il 15% del proprio reddito, adesso invece che il fitto continua ad essere vincolato in 1500 lire, il che equivale al 5% del reddito nuovo, fanno domanda di un numero maggiore di camere; tutti gli operai i quali prima si contentavano di una sola camera o di due, adesso cominciano a far domanda di un numero di camere superiore; costituiscono così nuova sul mercato, mentre l’antica è rimasta stazionaria. A prezzo stazionario con reddito crescente deve corrispondere una domanda crescente di case, quindi un inasprimento della crisi; il vuoto che c’è fra numero delle camere domandate e numero delle camere offerte diventa sempre più profondo ed invarcabile. Se i fitti si fossero potuti muovere, essi sarebbero aumentati e allora l’aumento di prezzo avrebbe provocato l’equilibrio in quantoché la casa invece di essere affittata a 3 lire al giorno si sarebbe dovuta affittare a 6 o a 7, e la domanda delle case si sarebbe ristretta in correlazione ai redditi.

 

 

L’aumento clandestino dei fitti per gli inquilini nuovi.

 

Altro è, tuttavia, comandare una cosa, altro è ottenere che quella cosa si faccia. Era facile che i fitti rimanessero vincolati per gli inquilini che già occupavano l’appartamento. Per gli inquilini nuovi invece l’affitto, astrattamente, per comando del legislatore, era bensì anche esso vincolato e l’inquilino nuovo in cerca di casa, quando avesse scoperto che un certo appartamento era libero perché l’inquilino vecchio aveva per qualsiasi ragione dovuto allontanarsi o spostarsi, aveva diritto di ottenere l’affitto, per esempio, alle stesse 1000 lire; ma nessuno gli dava diritto di essere preferito agli altri nell’uso di quell’appartamento e quindi egli per potersi procurare la casa in confronto agli altri che avrebbero desiderato avere quell’appartamento a 1000 lire, non si peritava a offrire sottomano un aumento di prezzo: se non al proprietario, il quale non osava affittare l’appartamento a prezzo maggiore, egli lo offriva sotto forma di mancia al portinaio o all’inquilino uscente o a altri mediatori i quali avessero avuto modo di potergli procacciare l’appartamento. Ne venne che tutti gli inquilini nuovi furono costretti ad affittare case ai veri prezzi di mercato non ai prezzi artificialmente regolati dal legislatore; furono costretti cioè a pagare il prezzo legale al proprietario di casa e un sopraprezzo versabile in una sola volta a contanti e senza rilascio di ricevuta o al portinaio o in parte a questi e in parte al proprietario o al mediatore, ecc.

 

 

Ora questo prezzo e queste mance insieme non sono altro che il fitto vero per l’appartamento; fitto di mercato che invece di poter essere stabilito in maniera ordinaria per libera contrattazione viene a essere stabilito in maniera clandestina; e come sempre avviene quando i prezzi devono essere stabiliti in maniera clandestina, essi risultano più elevati di quelli che sarebbero in mercato libero, in aperta contrattazione.

 

 

Si è ripetuto, a proposito dei fitti, un fatto notissimo nel Medioevo e ricordato da tutti gli scrittori del tempo che si occuparono di cose economiche. Nel Medio Evo era assoluto il divieto di prestare ad interesse, ritenuto, a norma di un passo della Sacra Scrittura, cosa usuraia ed immorale; né mancavano gravi penalità per i trasgressori. E ogni tanto i legislatori cercavano di far osservare questi divieti incarcerando i Lombardi, i Caorsini o gli israeliti che si attentavano di prestar denaro. Ne conseguiva che gli interessi, in conseguenza appunto dei divieti, erano sempre altissimi; invece di pagare il 5 o il 6%, si considerava come interesse normale, anzi come interesse minimo, l’1% al mese, ma più di frequente si andava al 2 e 3%. In gran parte non era interesse, era compenso al rischio di essere cacciati in carcere o di perdere i propri capitali o di essere torturati nei manieri dei signori.

 

 

Così è accaduto in questi ultimi anni; scomparso il mercato libero delle abitazioni, reso impossibile contrattare liberamente i prezzi fra proprietari e inquilini, divenuti irreperibili i cartelli dell’appigionasi, il commercio delle case diventa un commercio clandestino che si fa esclusivamente mediante i portinai, i quali accolgono soltanto coloro che offrono le mance migliori che intascano completamente o dividono parzialmente col proprietario o con quei mediatori che sono a conoscenza delle case disponibili. Nasce l’industria dell’avviso sulle quarte pagine dei giornali con offerte di mancie che da 100 lire si avviarono a 500, a 1000 e anche oltre, pur di aver diritto di entrare nella casa. Gli inquilini uscenti negoziano la casa di cui sono in possesso e se ne vanno via quando dall’inquilino nuovo, all’insaputa del proprietario, abbiano potuto ottenere una mancia sufficiente. Tutto questo mercato clandestino che si è andato formando ha fatto sì che le case per gli inquilini nuovi salgono a prezzi sempre più inaccessibili.

 

 

Fissità degli inquilini vecchi e mancato smistamento delle case.

 

Vi ha un’altra conseguenza: che gli inquilini vecchi anche se desiderosi di lasciare la propria casa sono nell’impossibilità di farlo. Se uno rimane solo nella sua famiglia non ha interesse a lasciare il grande appartamento perché quell’appartamento ha un fitto vincolato, e se si decidesse anche a ristringersi in numero minore di camere per esse dovrebbe pagare più di quanto paga oggi. Si verifica perciò che l’offerta delle case va continuamente rarefacendosi. Prima dei decreti vincolatori tutti coloro che avevano una camera in più cercavano di limitare la propria spesa uscendo dall’antico appartamento per occuparne uno minore. E così si faceva sempre delle camere nuove disponibili e così quelli che abbisognavano di un appartamento più grande lo trovavano. Ma adesso ciò è impossibile perché coloro che hanno la fortuna di avere un appartamento vi si tengono aggrappati come ostriche allo scoglio e non l’abbandonano in nessuna maniera perché sarebbe una disgrazia troppo grande dover andare alla ricerca di un nuovo appartamento. Anche quando un funzionario è traslocato da una cittàad un’altra non può lasciare il vecchio appartamento. Ci sono professori residenti in città dell’alta Italia i quali, essendo stati trasferiti nell’Italia meridionale, sono costretti a tenere la famiglia nell’appartamento vecchio perché nella città dove furono trasferiti non hanno trovato casa. Gli impiegati che si trovano in questa situazione sono numerosissimi. Molti di essi sono costretti a fare due o tre famiglie perché non hanno trovato nella località ove furono trasferiti l’appartamento e non si attentano ad abbandonare l’alloggio antico. Quando unimpiegato è trasferito ma crede o spera di poter tornare nella primitiva sede fa in modo di non abbandonare l’appartamento vecchio perché non sa se al ritorno potrà ritrovare l’alloggio. Cresce così il numero delle case che sono artificialmente occupate, non per recare danno altrui, ma per evitare un danno proprio; sono occupate artificialmente, in perfetta buona fede, da parte dell’inquilino allo scopo di non trovarsi in impicci gravosi. Tutto ciò riduce ancor più la disponibilità delle case. Nelle città avvengono continuamente spostamenti nella popolazione. Ma se c’è un decreto che vincola gli affitti, la conseguenza è che nessuno più si attenta ad andar via. Intanto l’afflusso, sebbene diminuito, continua a verificarsi, ma non trova più nessun sfogo; non essendoci modo di collocare i nuovi abitanti, il problema va sempre più ingigantendo.

 

 

La espropriazione dei vecchi proprietari e la creazione di un nuovo ceto di proprietari-inquilini.

 

I decreti hanno provocato un vero e proprio problema non tanto dei proprietari (che pure esiste ed è gravoso, ma di minore importanza) quanto degli inquilini.

 

 

Il problema dei proprietari consiste nel fatto che il reddito rimaneva fisso mentre la lira si svalutava, quindi abbiamo assistito ad una vera espropriazione temporanea dei proprietari di case.

 

 

Si tratta in fondo di un fenomeno simile a quello che si verificò su scala grandiosa verso la fine del Medioevo e al principio del’evo moderno per la scoperta delle miniere d’oro e d’argento del Messico e del Perù. I feudatari e la Chiesa avevano affittato le loro terre a coloni mediante corrispettivo di un canone stabilito generalmente in denaro, qualche volta in derrate ma che poi per legge veniva convertito in denaro. Le terre erano affittate a certi determinati canoni in moneta; mettiamo 10 lire all’anno per un determinato fondo. Carlo Cattaneo in un articolo sul «Politecnico»ricorda il fatto che nel circondario di Lodi, verso il 1100, un’estensione di un centinaio di chilometri quadrati era stato dato in concessione per il canone di circa una decina di lire e quello era il canone economico del tempo. Si trattava di lire che avevano una potenza di acquisto incomparabilmente superiore alla odierna, in quanto la quantità di metalli preziosi dalla caduta dell’Impero romano d’occidente in poi era venuta man mano diminuendo per perdite, seppellimenti sotto le macerie, dispersioni, ecc., mentre le miniere di metalli preziosi non erano sensibilmente aumentate. Già il valore della lira era andato lentamente degradando sì per la falsa monetazione esercitata da quasi tutti i principi, grazie a cui i coloni potevano sdebitarsi, quando non vi ostavano i patti contrattuali, dei canoni antichi pagando lire sempre più piccole e false. Venne poi la scoperta dell’America a dare l’ultimo tracollo alla nobiltàed al clero che vivevano di questi canoni in quanto che essa fece affluire sul mercato d’Europa una tale quantità di monete d’oro e d’argento che la potenza d’acquisto della lira diminuì e si verificarono allora le stesse lagnanze e le stesse trasposizioni di fortuna che si verificano oggi. I prezzi si moltiplicano in confronto dei prezzi anteriori e le lire di prima, invariate nominalmente, ebbero una potenza d’acquisto di un decimo, di un ventesimo, ecc. Fu quella una grandiosa espropriazione pacifica delle antiche famiglie nobiliari. Quelle famiglie, dopo qualche secolo, a canone immutato, si trovano ridotte ad un reddito di nessun valore. Al posto delle vecchie famiglie erano subentrati i coloni che erano diventati la nuova classe proprietaria.

 

 

In fondo la stessa cosa si verifica oggi. Per virtù dei decreti vincolatori la proprietà utile delle case sta passando dai vecchi proprietari agli inquilini. Il proprietario è diventato un semplice percettore di un canone fisso. Il valore del canone diminuisce sempre più perché il valore della lira va diminuendo, poiché 1000 lire di canone equivalgono soltanto a 250 lire antiche. Contemporaneamente crescono le spese e se i decreti vincolatori seguitassero ancora, sarebbe facile prevedere il giorno nel quale gli oneri gravanti sui proprietari saranno superiori alle 1000 lire e questi ultimi cercheranno in ogni maniera di liberarsi della proprietà della loro casa; la proprietà utile sarà allora passata completamente all’inquilino e sarebbe definitivo il trapasso di fortuna da una classe ad un’altra.

 

 

Questo trapasso di fortuna si è verificato senza vantaggio finale. Oggi ancora noi vediamo la maggior parte di coloro che godono del diritto di insistenza, abitare nella casa originariamente affittata a prezzo vincolato. Ma se noi pensiamo a quello che accadrebbe fra 20 o 30 anni quando seguitassero a imperare i decreti, vediamo che ad un certo momento i nuovi proprietari utili finiranno di essere i veri proprietari dell’appartamento e finiranno di affittarlo ad altri. Non è ammissibile che una famiglia che ha diritto di insistenza nell’appartamento abiti sempre questo appartamento. Essa finirà per avere convenienza o necessità di uscirne e di affittarlo o di vendere altrui il diritto di insistenza. In tal caso il prezzo della casa non sarebbe percepito dal vecchio proprietario il quale in quell’epoca sarebbe ben felice di essersi sbarazzato della proprietà per non avere l’onere del pagamento delle imposte e delle spese di riparazione. La proprietà utile sarebbe completamente passata all’inquilino attuale con nessun vantaggio di coloro che finiranno per abitare l’appartamento, in quantoché gli inquilini attuali aventi diritto di insistenza venderebbero sotto forma di buona uscita il diritto di insistenza ai nuovi inquilini e i nuovi inquilini dovrebbero per entrare nell’appartamento pagare l’intiero valore della casa.

 

 

Il trapasso dal sistema di fitto al sistema di acquisto degli alloggi.

 

I decreti vincolatori portano a questa conseguenza che man mano che inquilini nuovi entrano devono pagare non più un fitto per la casa ma un prezzo capitale per la casa stessa. Si tende coll’andare del tempo a trasformare il mercato delle case da un mercato di fitti ad un mercato di prezzi di appartamento. Tutti gli inquilini tendono a diventare proprietari di casa propria ma dopo averla pagata al prezzo integrale, se non al vecchio proprietario, all’inquilino, che ha avuto la fortuna di trovarsi in possesso della casa. Questo fenomeno, se non completamente, comincia già a verificarsi parzialmente; buona uscita e mancia non sono altro che prezzo di casa, non sono altro che il prezzo capitalizzato del diritto che ha l’inquilino a rimanere in quella casa per un determinato periodo di tempo. Se si immagina che nella mente degli uomini si sia infiltrata l’idea che i decreti vincolatori non avranno più termine, allora quel prezzo di buona uscita, si trasforma nel prezzo capitale della casa intiera, prezzo che sarà pagato all’inquilino avente diritto di insistenza.

 

 

L’aumento nel costo di costruzione delle case nuove.

 

A lato di questi fenomeni se ne verificava un altro che pure tende ad aggravare viepiù la situazione ed è l’aumento nel costo di produzione delle case nuove. La svalutazione della lira ha portato all’aumento di tutti i costi di fabbricazione. Una casa che prima si fabbricava per 2000 lire per camera, adesso invece non si può fabbricare a Milano che ad un prezzo di 10, 12, talvolta 15.000 lire per case civili; se si tratta di case di lusso si sale a 20.000. Questi dati sono precisi e possono essere forniti da qualunque costruttore. Da questo aumento nel costo delle case nuove nasce un abisso fra fitti legali e fitti nuovi. I decreti vincolatori hanno avuto la prudenza di limitare la loro azione alle case già costruite e di lasciare libero il fitto delle case ancora da costruire perché il legislatore ebbe la visione, del resto intuitiva, dell’utilità di non stabilire vincoli per le case nuove da costruire: se questi vincoli fossero stati stabiliti, senz’altro sarebbe stata vietata la costruzione di qualunque casa nuova, in quanto se un decreto avesse, per esempio, limitato a 200 lire annue il prezzo di uso di una camera, senz’altro si sarebbe vietata la costruzione di case nuove. In effetto quando una camera costa 8000 lire nessuno si deciderebbe a costruirla quando avesse davanti agli occhi la prospettiva di sole 200 lire di affitto. Anche limitando al 6% l’interesse delle 8000 lire (saggio non elevato se si paragona al reddito di un titolo di rendita che non dà nessuna noia), se si aggiungono imposte, spese di manutenzione, ecc., ossia almeno un altro 3% che portano al 9% al minimo, la rimunerazione lorda che il costruttore deve sperare di ottenere per avere interesse a costruire, egli dovrebbe ricavare 720 lire di affitto: questo è il fitto minimo a cui oggi può essere conveniente la costruzione di una camera. Se il legislatore avesse messo un vincolo, nessun costruttore avrebbe fabbricato case. Tale vincolo non fu posto; anzi, il legislatore dichiarò espressamente liberi i fitti delle case nuove.

 

 

Squilibrio fra fitti vincolati e fitti liberi: impedimento a costruire.

 

Se colui che costruisce è libero di pretendere i fitti di mercato, data la necessità di molti inquilini, i quali non trovano casa altrove o non vogliono assoggettarsi al pagamento di mance di buona entrata, fa d’uopo che essi si adattino ad affittare appartamenti anche al prezzo di 700-800 lire per camera. Ma non è questa ancora una ragione sufficiente a indurre a edificare nuove case; anzitutto perché si tratta di una situazione instabile che non dà nessuna garanzia di sicurezza. Non può durare la situazione attuale, perché è troppo stridente lo squilibrio fra la grande massa di appartamenti vecchi a prezzi vincolati e la piccola quantità di appartamenti nuovi perché il costruttore possa ritenersi tranquillo nell’investimento del suo capitale. Egli pensa che l’affitto, che egli dovrebbe necessariamente riscuotere per non perdere, è talmente elevato in confronto degli altri, che non può avere la sicurezza che un nuovo decreto non intervenga a stabilire ulteriori vincoli e a riportare gli affitti nuovi a un livello più uniforme a quello generale. Si aggiunga un’altra considerazione. Osservano i costruttori: Oggi noi possiamo per la fame di case che hanno i nuovi inquilini affittare a un prezzo rimuneratore; ma quando i vincoli saranno tolti, quando sul mercato vi sarà di nuovo l’offerta di case vecchie, quando gli inquilini che occupano oggi grandi appartamenti saranno costretti a restringersi, allora anche i nostri fitti saranno costretti a ribassare. Oggi sono alti perché c’è offerta rarefatta di case: cessato il regime dei decreti, si formerebbe una offerta nuova di case; nascerà un equilibrio nuovo di fitti che si stabilirà a un livello intermedio fra le 200 lire delle case vecchie e le 800 delle nuove, cioè tra le 500 e le 600 lire. Questa prospettiva è molto grave per gli inquilini vecchi, ma è anche tale da impensierire i costruttori, i quali trovano che non hanno convenienza a costruire perché se per due o tre anni possono avere un interesse sufficiente, più tardi i fitti ribasseranno e gli inquilini abbandoneranno i loro appartamenti a 800, trovandone degli altri a 600. Conviene aspettare che gli affitti abbiano preso un livello stabile e giudicare allora della convenienza o meno di costruire. Vi è perciò un arresto completo nelle costruzioni donde un inasprimento anche maggiore della difficoltà di trovare case.

 

 

Probabilità che l’inasprimento dei fitti non abbia ancora toccato il culmine.

 

Non è da credere che tale inasprimento abbia nel momento attuale raggiunto il culmine; si può fondatamente presumere che non siamo ancora arrivati al culmine della dolorosa parabola, perché ancora non sono entrate in valore tutte le cause che concorrono a inasprire gli affitti. Fra queste vi è l’aumento della popolazione; durante la guerra vi fu mortalità alla fronte, mortalità per la spagnuola, cosicché dal ’14 al ’19 la popolazione non è aumentata.

 

 

Un calcolo recente compiuto dal prof. Coletti (Corriere della Sera, 11 febbraio 1920) dimostra che la popolazione italiana al 31 dicembre 1917 era di 36.800.000 individui, mentre al 31 dicembre 1919 era ridotta a 36.211.000 anime.

 

 

È probabile che l’aumento che sempre c’è stato, non ostante la emigrazione, riprenda, creando la necessità di case nuove per gli abitanti, e quindi un’ulteriore ragione di aumento degli affitti. Inoltre, e questo punto è pure molto importante, durante la guerra non si sono costituite famiglie nuove, perché i matrimoni erano stati prorogati. A cominciare da quest’inverno essi hanno ripreso con una intensità crescente, e innumerevoli sono le famiglie che cercano affannosamente appartamenti! Nel momento attuale molti sposi sono andati ad abitare coi suoceri o colle suocere, ma è naturale che cerchino di togliersi da questa dipendenza. La costituzione delle nuove famiglie è dunque un’altra causa potentissima che agisce sul problema degli affitti. È infine da notarsi che i costi delle costruzioni vanno tuttavia aumentando. La lira non si è ancora assestata, cosicché i salarii dei muratori, i prezzi dei mattoni, delle materie prime, ecc., sono ancora oscillanti, e il costruttore non può fare alcuna previsione intorno a quello che sarà il costo della costruzione che incomincia oggi.

 

 

In queste condizioni è evidente che o sotto forma di aumenti legali o sotto forma di aumenti illegali i fitti devono ancora tendere a salire.

Prima lezione

Prima lezione
Il problema delle abitazioni, Ed. F.lli Treves, Milano 1920, pp. 1-22

 

 

 

 

Le soluzioni del problema delle abitazioni ed i precedenti della legislazione vincolatrice.

 

Il problema delle abitazioni è fra quelli che al momento presente interessano maggiormente, perché molto diffusa in tutte le classi della popolazione è la preoccupazione di trovare case o stanze per alloggio. Il problema delle case è anche molto interessante non perché sia molto diverso da altri del genere, ma perché è un esempio tipico del modo con cui l’intervento del governo con i suoi decreti è riuscito a rendere di difficilissima soluzione un problema che se fosse stato lasciato a se stesso forse non si sarebbe presentato così grave.

 

 

Il problema aggravato dall’intervento legislativo.

 

La sua esistenza è dovuta in gran parte al fatto che il governo ha ritenuto necessario di intervenire per risolverlo con decreti limitatori; ed è accaduto in questo campo quanto avviene fatalmente in tutti gli altri casi di intervento governativo per determinare i prezzi delle merci. Appena il prezzo di una determinata merce sale e danneggia una certa categoria di cittadini, subito quest’ultima eleva proteste e chiede provvedimenti; così è accaduto durante la guerra per le case, quando il governo si sentì sollecitato a mettere dei ripari al salire dei prezzi delle abitazioni, imponendo calmieri affinché certe classi non traessero un eccessivo profitto dal danno di altre determinate categorie di cittadini.

 

 

E avviene anche, per forza di cose, che mentre da principio è una sola categoria di cittadini che si lagna, dopo i decreti di calmiere le categorie che elevano lamentele crescono anziché diminuire. La stessa cosa è avvenuta per gli affitti. Mentre il numero delle persone che reclamavano era in origine ristretto, coll’andar del tempo il numero di coloro che si trovano a disagio è andato viepiù crescendo e non è difficile prevedere che essi aumenteranno ulteriormente poiché non siamo ancora arrivati all’apice del fenomeno; dobbiamo ancora aspettarci un periodo di maggior inasprimento delle lagnanze e dei patimenti in conseguenza della legislazione vincolatrice del mercato delle case.

 

 

La soluzione liberistica del problema.

 

La legislazione vincolatrice degli affitti ha un difetto fondamentale, quello cioè di non poter in nessuna guisa dare una soluzione razionale del problema. Le soluzioni razionali non possono essere che due. Ambedue estreme; o la soluzione liberistica o la soluzione collettivistica. Esse solo possono essere pensate logicamente e possono condurre a conseguenze le quali (almeno entro i limiti della teoria astratta) siano convenienti e utili alla generalità. La soluzione liberistica consiste nel fatto che il legislatore non interviene nella determinazione del prezzo degli alloggi più che non intervenga di solito nella determinazione dei prezzi di qualsiasi altra merce. Quindi il prezzo delle case si determina sul mercato nella stessa maniera in cui si determina il prezzo di qualsiasi altra merce; ossia in ogni determinato momento esiste quel tal prezzo delle case il quale rende la quantità domandata eguale alla quantità offerta. Se la quantità esistente offerta è, supponiamo, di 100 abitazioni, e il prezzo di 100 per unità, e se a questo prezzo di 100 la domanda sale per esempio a 200, in regime liberistico avviene che il prezzo oltrepassa 100, diventerà di 150, di 200 lire per ogni abitazione; ma deve arrivare un momento in cui la quantità domandata risulta precisamente eguale alla quantità offerta, in quanto, man mano che il prezzo aumenta, il numero delle camere domandate scende perché ognuno dei richiedenti fa i conti con la sua tasca e cerca di mettere la domanda che egli fa in armonia col prezzo che gli viene richiesto.

 

 

Mentre da un lato la quantità delle camere domandate diminuisce, dall’altro canto la quantità delle camere offerte sul mercato aumenta in quantoché alcuni occupanti di prima, visto che il prezzo di ogni camera aumenta, alla scadenza della locazione si adattano a diminuire il numero delle camere occupate, cosicché certi appartamenti i quali erano occupati diventano vuoti o si fanno in parte liberi perché tutti di restringono. In conseguenza di questo processo arriva un certo momento in cui la quantità domandata è precisamente eguale alla quantità offerta e si ha la soluzione del problema delle case in quanto che tutti entro i limiti della loro borsa finiscono coll’essere in possesso della casa.

 

 

Alla lunga il prezzo viene stabilito in funzione della quantità di moneta che gli inquilini sono disposti a pagare per l’uso della casa ed alla quantità di appartamenti che a quel dato prezzo è possibile di costruire. Se la popolazione cresce e cresce la quantità di case domandate mentre contemporaneamente non è ancora cresciuta la quantità delle nuove case prodotte ed offerte sul mercato, il prezzo dell’appartamento sale fino al punto da rendere la quantità domandata eguale alla quantità offerta.

 

 

Le variazioni dei prezzi provocano un aumento od una diminuzione degli immobili nuovi prodotti, cosicché in ogni singolo momento si può ritenere che il livello dei fitti sia eguale a quello che è necessario per compensare al saggio dell’interesse corrente, e tenuto conto delle quote di rischio di insolvenza, di spese di amministrazione, di riparazione, di assicurazione, ecc., il costruttore di case sorte al margine della città dove la costruzione è ancora possibile.

 

 

Certamente questo sistema non funziona con quella precisa esattezza che io ho detto adesso, né funziona così rapidamente, in quanto la casa non è una merce che possa essere prodotta ad una velocità così grande come è quella per esempio con cui si produce la stoffa o il pane, di cui esiste la materia prima; occorre un certo numero di mesi, qualche volta di anni perché la casa sia finita. Dovranno decorrere per lo meno sei mesi per una casetta popolare ad un solo piano; un anno o più trattandosi di case solide o sontuose; ma entro un certo limite di tempo l’adeguamento fra l’offerta e la domanda di verifica. Il prezzo alto cresce l’interesse del costruttore a produrre quella determinata merce. Se, tornando all’esempio di prima, le case sono a 100 lire per camera, può darsi non vi sia interesse del produttore a mettere case sul mercato, ma se aumentando il numero o la disponibilità di numerario dei richiedenti, aumenta per conseguenza il prezzo da 100 a 120 lire, ciò che prima non era conveniente lo diventa. Se prima non conveniva produrre case perché fruttavano il 4%, più tardi potrebbe esservi convenienza se le case producono il 4,50 o il 5% ecc. Così il vero ministro della produzione, quello che ci dice se si deve o no produrre, quello che fa diminuire o crescere la domanda e l’offerta è il prezzo delle case il quale sale o scende; ed a seconda della sua ascesa o discesa varia l’offerta della casa sul mercato finché la quantità domandata è eguale alla quantità offerta.

 

 

Naturalmente la soluzione liberistica del problema della casa è una soluzione la quale avviene entro i limiti della distribuzione della ricchezza esistente in quel determinato momento. Se si ammette la soluzione liberistica bisogna ammettere che la soluzione avvenga con i concetti propri del liberismo. Ognuno avrà case entro i limiti dei denari di cui egli dispone e coloro che non hanno denaro disponibile possono rischiare di restare senza casa o esser costretti a restringersi in un numero di camere insufficiente ai loro bisogni, con conseguente sopra affollamento. Il fenomeno però avrà anch’esso un carattere di temporaneità, inquantoché il fatto che coloro i quali hanno un reddito basso non possono procurarsi un numero sufficiente di camere per poter vivere secondo il tenor di vita corrente in quel determinato paese, farà nascere una tendenza ad aumentare le rimunerazioni, non essendo possibile che il salario rimanga ad un livello il quale sia al disotto del tenor di vita corrente in quel determinato paese. Se il tenor corrente di vita è tale che il salario deve essere sufficiente a permettere ad una famiglia composta di 5 persone di avere almeno tre camere e se il salario è insufficiente, finiranno col prodursi agitazioni, scioperi, domande di aumenti finché il salario sia cresciuto così da permettere alla famiglia operaia di avere quel tale appartamento che è consono al tenor di vita dominante in quel determinato paese. Le agitazioni dovranno funzionare fino al punto in cui i fitti siano diminuiti e i salari aumentati; cosicché coloro che hanno redditi molto elevati dovranno rinunciare a parte dell’alloggio esuberante e questa parte, rimasta vuota, andrà a profitto di altre categorie a salario aumentato. Anche qui agitazioni e scioperi non potranno produrre il loro effetto se non dopo un determinato periodo di tempo, cosicché si dovrà passare per una serie di posizioni intermedie finché si raggiunga l’equilibrio fra i salari e i prezzi di produzione delle case.

 

 

La soluzione collettivistica del problema.

 

Come la soluzione liberistica è una soluzione logica che raggiunge l’effetto di fornire case a tutti entro i limiti del proprio reddito, parimenti logico, almeno in teoria pura, è il sistema collettivistico. Nel sistema collettivistico puro dobbiamo immaginare un ministro delle case il quale agisca d’accordo con un ministro della produzione e della distribuzione della ricchezza. Non è assurdo o per lo meno non è contrario alla logica che vi possa essere un regime in cui il ministro delle case distribuisca gli alloggi esistenti in un determinato momento fra tutta la popolazione a seconda dei criteri che saranno validi in quel determinato momento. I criteri validi in un regime collettivista sono criteri diversi da quelli che sono validi in un regime liberista. In regime liberistico tutti hanno la casa in funzione del loro reddito; e ognuno deve cercare col proprio lavoro di avere una rimunerazione sufficiente per procacciare anche l’acquisto della casa. Invece in un regime collettivistico noi possiamo immaginare che la collettività stabilisca quale sia il tenor di vita che devono condurre le persone appartenenti alle diverse professioni; poiché è certo che anche in un regime collettivistico vi saranno, se non professioni indipendenti, per lo meno funzioni o direttive, o intellettuali, o materiali, ecc., e ognuno sarà rimunerato in proporzione alle proprie funzioni.

 

 

Allora, ipotizzata quella determinata distribuzione della ricchezza, si può ammettere che vi sia un ministro delle case il quale distribuisca le case secondo quel criterio e dica: le famiglie che sono composte di un dato numero di persone hanno diritto ad avere un certo numero di locali e devono avere quel determinato numero di locali non soltanto in funzione del numero dei componenti la famiglia ma anche in funzione della rimunerazione diversa spettante ai capi di quella famiglia, se tale diversa rimunerazione dovesse esserci. Naturalmente il ministro delle case dovrebbe preoccuparsi anche di provocare una produzione continua di case, dovrebbe esercitare la funzione di portare sul mercato quella quantità precisa di case che sia in rapporto al fabbisogno esistente secondo i criteri stabiliti di autorità. Dovrebbe quel ministro tenere una specie di grandioso inventario di tutte le case esistenti, tener calcolo del numero di stabili che devono essere necessariamente tolti dal mercato perché diventati vetusti o perché in via di trasformazione dall’uso di abitazione all’uso di uffici, ecc., dovrebbe lo stesso ministro far costruire con continuità quel numero di case che possa non solo prendere il posto di quelle che vanno mancando per vetustà o trasformazione, ma anche per soddisfare ai bisogni crescenti della popolazione, sia perché questa aumenta di numero, sia perché variano i gusti della popolazione stessa la quale può preferire dedicare una parte maggiore del suo reddito a procacciarsi case migliori.

 

 

Confronto fra le due soluzioni.

 

Certamente la soluzione collettivistica, sebbene possa essere considerata come una soluzione astrattamente logica, è enormemente più difficile della soluzione liberistica. Quest’ultima ha il grande pregio che si fa da sé. È una soluzione la quale si compie senza che ci sia nessuno che la preordini; si fa per lo stimolo che a crearla dà il movimento dei prezzi. Gli uomini possono sbagliare quando impera il regime liberistico, nel senso che in un certo momento i costruttori possono immaginare siano necessarie molte case e allora ne costruiscano troppe: ma la sanzione è immediata perché se gli imprenditori costruiscono in un determinato momento troppe case i fitti diminuiscono e diminuiscono in maniera tale da rendere l’edilizia poco redditizia comparativamente a tutte le altre industrie esistenti. Il che è accaduto in Italia a parecchie riprese. Il caso più notevole l’abbiamo avuto a Roma nella cosiddetta «crisi edilizia». Subito dopo il 1870, ma specialmente verso l’80 e l’85, si ebbe l’impressione che Roma dovesse crescere molto rapidamente in popolazione e i capitali di tutte le parti d’Italia si investirono con furia in costruzioni in Roma; si istituirono apposite società, le banche fornirono largamente capitali alle società edilizie, gli imprenditori privati si diedero a tutt’uomo alle nuove imprese e il numero delle case crebbe in tal modo da far abbassare rapidamente gli affitti e provocare una crisi. Ma l’equilibrio rotto si ristabilì lentamente, molto lentamente, man mano che la popolazione crebbe, fino al punto di occupare tutti i locali esistenti e pagare fitti sufficienti a compensare il costo di costruzione e gli interessi correnti.

 

 

Si possono in regime liberistico commettere errori anche in senso inverso, ossia costruire troppo poche case perché gli imprenditori non immaginano che la popolazione debba crescere rapidamente, non prevedendo essi l’inizio di nuove industrie e quindi l’afflusso di nuove correnti di abitanti o trascurando l’ipotesi di una guerra, che sposti le genti, inurbi i contadini, rincari le costruzioni, ecc. Anche qui la sanzione è inevitabile; il prezzo sale e, salendo il prezzo, diventa di nuovo interessante quell’industria edilizia, che prima era stata abbandonata o non vista di buon occhio dagli imprenditori in confronto ad altre industrie.

 

 

Invece la soluzione del problema in regime collettivistico, sebbene questo sia astrattamente logico, è una soluzione più difficile perché dipende dall’abilità, dalla onniveggenza di quel tal ministro della produzione. Il ministro della produzione deve essere onniveggente, onnipresente, previdente come lo è il prezzo spontaneo in regime liberistico; deve sapere quanti abitanti nuovi vengono in una data città, deve sapere quali gusti avranno, se preferiranno spendere per la casa o mettersi addosso vestiti o bere vino; deve prevedere quali siano gli spostamenti nella popolazione, quali saranno le variazioni nel costo di costruzione, adattare le nuove costruzioni alle variazioni del costo di produzione, ecc. è molto, incomparabilmente più difficile trovare un uomo previdente e onniveggente di questa specie che non lo sia il trovare molti imprenditori i quali agiscano di loro iniziativa con loro rischio e pericolo, correndo il rischio di perdere e l’alea di guadagnare. La soluzione liberistica non solo è astrattamente possibile ma è anche la soluzione più facile dal punto di vista della pratica. La soluzione collettivistica è una soluzione che richiede tali qualità mentali e di organizzazione in quei ministri che dovrebbero essere preposti a questo ramo della pubblica amministrazione, che io non so quale possibilità vi sia di trovare uomini che abbiano queste qualità eminenti. Difficilissimo è trovare un uomo capace di regolare una produzione così vasta, di tenerla in rapporto col fabbisogno della popolazione, ecc.

 

 

La soluzione intermedia dell’intervento statale.

 

La peggiore di tutte le soluzioni però è quella intermedia che non ha né i caratteri della liberistica né quelli della collettivistica.

 

 

La soluzione intermedia, adottata durante la recente guerra, è quella che lascia la casa in proprietà privata, lascia cha la casa si costruisca per iniziativa del singolo ma varia soltanto alcuni degli elementi del problema economico. Essa dice: lasciamo che i privati costruiscano se hanno voglia o interesse ma aggiunge: voi però non dovete affittare case se non a questo prezzo. Ma il prezzo che è stabilito di autorità può essere tale che l’interesse a costruire del costruttore privato vien meno e allora il problema diventa insolubile e non presenta una via di uscita. Se si fissa il prezzo a 100, ma questo prezzo è tale che dà un reddito netto dell’1% sul capitale impiegato, è evidente che i capitalisti rifugiranno dal costruire per rivolgersi ad altre industrie più rimunerative. Il sistema intermedio vincola inoltre il prezzo ma non vincola il reddito: non vincola il reddito di coloro i quali concorrono a consumare quella determinata merce al prezzo cui è vincolata. Col sistema collettivistico puro, almeno astrattamente, è possibile che il problema si risolva perché non si risolve soltanto il problema del prezzo della casa ma anche il problema del reddito dell’individuo, perché il prezzo delle case dovrà essere in funzione dei salari che il ministro della distribuzione della ricchezza avrà fissato. Egli fisserà un salario per il capo reparto, per il sorvegliante, per l’operaio, ecc., ed il ministro delle case fisserà i fitti in funzione dei dati che gli saranno comunicati dal ministro della distribuzione delle case. Tutto ciò è fantastico, possibile soltanto nel campo dell’immaginazione, non in quello della realtà pratica, giacché è impossibile vi siano ministri che sappiano regolare bene tutte queste cose: ma almeno risponde ad un concetto logico. C’è tutto un insieme di ministri, di rettori di questi diversi rami dell’amministrazione, uno dei quali dirà: si produce tanto – l’altro dirà: questo tanto si riparte in questa proporzione e un terzo: io offro tante case ai cittadini in proporzione alla domanda che essi faranno, in proporzione al reddito che il ministro della distribuzione avrà dichiarato che essi dovranno avere. Ma il sistema intermedio non è logico: fissa la cifra dell’affitto ma lascia liberi molti altri elementi, molti altri fattori dell’equilibrio economico. Lascia liberi moltissimi redditi di spostarsi, di variare notevolmente e obbliga qualcuno solo di essi a rimanere immutato. Se alcuni redditi sono aumentati (come è successo per molte classi della popolazione durante la guerra) vi sarà gran ressa per ottenere quelle cose che sono rimaste a prezzo invariato. Molti sarebbero disposti a pagare la casa anche 200, o 300 o 500 lire la camera; hanno la fortuna che il decreto stabilisce il prezzo a 100 lire e allora fanno grande domanda di case. Come è possibile risolvere il problema se da una parte l’offerta rimane fissa, stazionaria (anzi diminuisce perché, per quanto di poco, il numero delle case disponibili per vetustà o altri motivi va di anno in anno scemando se non si ristora con nuove costruzioni) e dall’altra parte non c’è più interesse a costruire e la domanda cresce notevolmente? se insomma l’offerta da 100 scende a 98, e la domanda sale a 200?

 

 

Precedenti storici delle soluzioni intermedie.

 

Eppure la storia delle soluzioni intermedie è una storia antica. I governi hanno sempre avuto una predilezione curiosa per le soluzioni intermedie inquantoché hanno l’aria di risolvere, almeno temporaneamente il problema, di calmare alcune delle lagnanze più vive. Quando i governi sentono che in un determinato momento per uno squilibrio momentaneo, c’è qualche cosa che non va, ci sono prezzi che tendono a rialzare, ci sono cittadini che rimangono senza casa, allora subito fanno una di quelle che il Manzoni chiamava «gride». Fissano i prezzi ad un certo livello, impongono ai proprietari di non aumentarli e si illudono in quella maniera di risolvere il problema dando luogo invece a complicazioni maggiori.

 

 

L’esperienza che noi abbiamo fatto durante la guerra ha avuto molti precedenti nella storia. Il prof. Prato, in un articolo pubblicato nel fascicolo di maggio-giugno 1918 della «Riforma sociale», ha rievocato l’esperienza dei secoli scorsi in questa materia. In esso dimostra che il legislatore italiano, che nel 1917 si illuse di aver fatto una cosa nuova inventando tutto un sistema di legiferazione sugli affitti, non ha fatto che ricopiare, e qualche volta peggiorare editti vecchi di antichi regimi. Uno dei più interessanti esempi in questa materia è costituito dall’editto di Papa Paolo III, il quale nel 1549 in previsione dell’anno santo del 1550 che avrebbe portato una grandissima affluenza di pellegrini si preoccupò del grave danno che sarebbe derivato agli inquilini se i padroni di casa avessero potuto aumentare ad libitum il prezzo dei fitti e perciò: «affinché la comodità dei cittadini, affinché la santità e letizia del tempo religioso che si avvicina non siano turbate da querele e litigi derivanti da causa di turpe lucro, si decreta che per l’anno precedente e per tutto l’anno del giubileo nessun proprietario di casa possa licenziare inquilini o possa aumentare l’affitto delle case» – precisamente come avvenne nel 1917. Questo editto di Paolo III fu poi ripetuto da molti altri suoi successori tutte le volte che ricorreva la solennità dell’anno santo. L’ultimo di questi editti fu quello del 20 settembre 1824 che ripeteva il divieto di aumenti. Anche allora i divieti di aumentare gli affitti non furono limitati all’anno santo ma furono prorogati per gli anni successivi inquantoché le lagnanze degli inquilini per la possibilità di aumenti anche nel periodo successivo al giubileo furono talmente grandi che i papi si trovarono costretti a mantenere bassi gli affitti finché le lagnanze dell’altra parte o meglio l’arresto delle costruzioni inducesse ad annullare i vincoli stabiliti.

 

 

A Napoli una prammatica del 1772 di Carlo III di Borbone proibisce di scacciare gli inquilini e di crescere le pigioni. Una legge di Filippo III di Spagna istituiva quella che si chiamerebbe adesso una commissione arbitrale con l’incarico di stabilire la cifra giusta delle pigioni che dovevano essere pagate dagli inquilini.

 

 

Editti consimili si riscontrano anche a Firenze, dove però la legislazione aveva un carattere particolare e si riannodava alla legislazione relativa alle corporazioni d’arti e mestieri. È noto che per la legislazione sulle arti e mestieri una data corporazione aveva il privilegio di esercitare un determinato mestiere; i calzolai soltanto potevano fare scarpe, solo gli speziali potevano fabbricare droghe o medicine e venderle, ecc. Ognuna di queste corporazioni aveva un quartiere ed era consuetudine che in quel determinato quartiere nessuno potesse esercitare altro mestiere. Per esempio, oltre il limite di 200 o 300 passi dalla casa ove aveva sede l’arte, nessuno poteva esercitare altre industrie, o per lo meno gli esercenti di quella industria avevano privilegio sulle botteghe, i magazzini, ecc., di quella zona e avevano il diritto di veder fissato dall’autorità il fitto che doveva essere pagato da coloro i quali godevano di quel privilegio.

 

 

Una legislazione simile a quella recente è pure quella piemontese delle regie patenti 10 luglio 1749, le quali stabilivano un sistema di vincolo ai fitti. Per via delle guerre fortunate, dell’ampiamento successivo dello Stato era avvenuto che la capitale crescesse continuamente di popolazione; ma mentre cresceva la popolazione non aumentava la superficie della capitale e non aumentava la possibilità di costruire case nuove. Essendo invero la città di Torino fortificata non si potevano costruire nuovi stabili fuori della cinta perché sarebbero stati troppo soggetti al pericolo di offese nemiche.

 

 

Data questa impossibilità di allargare la superficie occupata dalle case ne nasceva che le case situate entro la cinta venivano a godere di un monopolio del quale si giovavano i proprietari per far salire i prezzi in misura tale da suscitare infinite lamentele da parte degli inquilini. Intervenne il legislatore il quale stabilì un organo con l’incarico di fissare i prezzi equi degli affitti. Anche qui inconvenienti di ogni specie; affittavano persone che poi subito subaffittavano a prezzo maggiore; nessun interesse da parte del proprietario non solo a costruire case nuove ma anche a riparare a migliorare quelle esistenti, perché esso cercava di cavare il maggior frutto senza preoccupazione di fare adattamenti ai bisogni degli inquilini. Ne derivavano conseguenze socialmente deplorevoli delle quali si fanno eco i cronisti del tempo. Un cronista raccontava ad esempio che i proprietari ai reclami degli inquilini, i quali si lamentavano delle condizioni di abbandono in cui erano lasciate le case, rispondevano: «chi vuol stare stia, e chi non vuole vada», perché non abbiamo modo di riparare queste case. Le descrizioni che si facevano erano di questo genere:

 

 

«I cortili ristrettissimi servono spesso da vasche per l’acqua che gettasi dai poggioli o che si versa da quella che estraesi dai pozzi; per il che molti hanno più l’aspetto di pantani che d’altro. Giunte assieme le latrine e ricettacoli, in molte corti poco distanti de’ pozzi d’acqua viva, e l’aria tenuamente ventilata, il continuo limo che regna fra gli interstizi de’ sterniti delle pietre riccie cagionano soventi infermità a tanti individui».

 

 

Conseguenza necessaria dell’intervento del legislatore il quale toglie ogni incitamento nel proprietario a migliorare la sua casa e non risolve il problema di mettere a posto tutti gli inquilini che sono in numero superiore a coloro che possono essere albergati.

Prefazione

Prefazione
Il problema delle abitazioni, Ed. F.lli Treves, Milano 1920

 

 

 

 

Il presente volume riproduce sette lezioni tenute all’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano dal 26 aprile al 2 maggio 1920. Il testo per le prime tre lezioni è quello raccolto stenograficamente; per le altre in gran parte riproduce la relazione che lo scrivente medesimo aveva dettato come presidente e relatore della Commissione istituita dal Ministro Guardasigilli Mortara con decreto del 13 dicembre 1919 per studiare e proporre i provvedimenti necessari per agevolare e sollecitare la risoluzione dell’attuale crisi delle abitazioni e degli alloggi. La Commissione era composta dagli on. Alberto Beneduce e Luigi Gasparotto, rappresentanti degli inquilini e dei combattenti; del comm. Alberto Stucchi e del principe Luigi Pignatelli, rappresentanti delle associazioni dei proprietari, e del sottoscritto che la presiedeva. Mi parve utile incorporare, con qualche variante di forma, la relazione da me scritta, per darle una maggiore diffusione di quello che di solito spetta ai documenti inseriti nei bollettini ufficiali dei ministri. Al testo seguono quattro appendici: le prime tre contengono il testo dei progetti di legge presentati dalla maggioranza (N. 1) e dalla minoranza (N. 2) della commissione per il graduale ritorno allo stato normale di libertà di contrattazione degli alloggi e di quello presentato dalla commissione unanime per agevolare la costruzione di case civili (N. 3). La quarta appendice è il regio decreto legge 18 aprile 1920, N. 477, in cui il governo trasfuse, con modificazioni, i due progetti (N. 1 e 2) presentati dalla commissione. Al terzo progetto presentato dalla commissione non è stato dato sinora, che io sappia, alcun seguito.

LUIGI EINAUDI

Parlamento e rappresentanze di interessi

Parlamento e rappresentanze di interessi

«Corriere della Sera», 29 novembre 1919[1]

«La Rivoluzione liberale», 25 settembre 1923

Le lotte del lavoro, Piero Gobetti, Torino, 1924, pp. 212-217[2]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 28-32

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 527-531[3]

 

 

 

 

La legislazione economica deve essere messa in mano agli interessati? Un provvedimento legislativo deve essere considerato come utile alla generalità, conveniente al paese quando riporti il suffragio degli interessati? V’è in Italia una tendenza diffusa a ritenere di sì. I cattolici si sono fatti paladini della rappresentanza professionale; i socialisti vogliono attribuire ai consigli del lavoro una potestà legislativa e non più soltanto consultiva; gli industriali pretenderebbero che una tariffa doganale sia buona quando tutte le industrie interessate la propugnano o se ne contentano; gli impiegati vorrebbero che i regolamenti del loro lavoro e dei loro stipendi fossero discussi e deliberati dalla loro classe d’accordo con i ministri od i capi dei dicasteri ed uffici. Ognuna delle classi interessate tende a conquistare la prevalenza nel consesso deliberante; e la massima concessione che ogni classe fa è la sopportazione di una eguale rappresentanza alla classe direttamente con essa contendente. La rappresentanza “paritetica” degli interessi sembra il non plus ultra della sapienza legislativa modernissima.

 

 

Fa bisogno di dire che noi, i quali siamo contrari a queste sedicenti modernità legislative, abbiamo il dovere di dire chiaro e preciso che tutte queste rappresentanze degli interessi, che tutti questi consessi paritetici sono un regresso spaventoso verso forme medievali di rappresentanza politica, verso quelle forme, da cui per perfezionamenti successivi si svolsero i parlamenti moderni? Dare alle rappresentanze professionali una funzione deliberativa è voler mettere gli interessi particolari al posto di quelli generali, è compiere opera per lo più sopraffattrice ed egoistica. Gli “interessi” debbono esser ascoltati e consultati. Ma qui finisce la loro sfera di azione. I “competenti” dell’azione politica non sono e non debbono essere i “competenti” nei singoli rami di industrie o di commercio o di lavoro o di professione. Si può affermare, senza pericolo di errare, che la competenza specifica dell’interessato cessa quando comincia la competenza generale del rappresentante la collettività. Il che può essere dimostrato vero per ogni caso; ma oggi basti farne applicazione al caso della tariffa doganale. Le rappresentanze degli interessi

 

 

  • non rappresentano normalmente neppure la generalità degli interessi presenti. Come si può affermare che la confederazione generale dell’industria, che le camere di commercio, che il segretariato agricolo nazionale siano le vere, genuine rappresentanze di tutti gli interessi industriali, commerciali ed agricoli d’Italia? Non lo sono neppure per burla. Questi corpi rappresentano quei gruppi, rispettabilissimi sì, ma pochi, che avevano appunto un forte interesse da far valere e da patrocinare. Chi ci dice che altri non vi sia che abbia un interesse contrario; che coloro i quali hanno interessi diversi si siano accorti di ciò che si sta combinando ai loro danni da parte di coloro che dicono di rappresentarli? O non è accaduto che un grande meccanico italiano, un membro autorevole, se non erro, della confederazione generale dell’industria e della associazione delle società italiane per azioni, il comm. Giovanni Silvestri, in una lettera pubblicata sulla «Tribuna» abbia preso le difese del protezionismo, che è, se non erro ancora, sovratutto oggi in Italia protezionismo siderurgico, accusando noi liberisti di voler far comperare all’Italia manufatti e non materie prime? Il che, sia detto di passata, è un errore solennissimo perché nessun economista passato, presente o futuro mai si è dichiarato e si dichiarerà nemico delle materie prime o dei manufatti, ma sempre e soltanto amico di ciò che in quel momento è più conveniente comperare, siano manufatti o materie prime. Qual mai veste di rappresentante genuino dell’industria meccanica può avere lo stesso Silvestri, quando si accoda a quei siderurgici i quali vogliono dazi dai quali risulterebbe grandemente accresciuto il costo di quei prodotti che sono le materie prime dell’industria meccanica? No. Il governo deve ascoltare anche i voti di questi industriali meccanici i quali si sono, per ragioni che è inutile indagare, messi d’accordo con i siderurgici. Ma deve guardarsi bene dall’immaginare che tutti gli interessi dell’industria meccanica siano da essi rappresentati.

 

 

  • non rappresentano certamente gli interessi futuri, che è compito principalissimo essenziale dello stato difendere contro gli interessi presenti. Il solo argomento economico valido a favore della protezione è quello di dare un aiuto alle industrie, le quali muovono i primi incerti passi ed incontrano ostacoli transitori, che solo l’aiuto dello stato può consentire di superare. Queste industrie già varie e promettenti non hanno, per deficienza, forti interessi costituiti da difendere; non hanno rappresentanti autorevoli nel campo della grande industria. Quasi mai le vere industrie nuove, le sole degne di essere per motivi economici aiutate dallo stato, si fanno sentire nei consessi degli interessati, dove dominano i gruppi forti, antichi,  coalizzati. Precisamente quelli che non bisogna aiutare. È compito dell’uomo di stato, che vede lontano, moderare ed eliminare la protezione ai potenti e concederla provvisoriamente ai deboli, agli appena nati. Or questo non si fa chiamando a deliberare le rappresentanze paritetiche degli interessati.

 

 

  • non difendono l’interesse generale. Non da oggi, non da quando è cominciata la guerra, ma da ben prima gli economisti insegnarono che potevasi dare protezione ad industrie essenziali per la difesa militare dello stato. Anche a ciò sono disadatte le rappresentanze degli interessi. Oggi queste chiedono protezioni per le industrie-chiavi, per le industrie che furono essenziali durante la guerra passata: siderurgiche, chimiche, ecc. Se si ascolta il loro voto, noi difenderemo industrie che hanno guadagnato moltissimo, che, se fossero state bene amministrate, avrebbero dovuto in molti casi ridurre a valore zero i loro impianti e trovarsi ora agguerritissime contro la concorrenza estera. Invece, col pretesto delle industrie essenziali per la guerra, si vogliono mantenere i prezzi ad un livello tale da remunerare gli impianti al valore bellico, come se non fossero stati o non avessero dovuto essere ammortizzati. Vi è una grande probabilità che in tal modo si proteggano industrie diverse da quelle che saranno essenziali nella futura guerra. Io non so quali possano essere queste future industrie chiavi; ma nego nel modo più assoluto la validità della indicazione fatta dai rappresentanti delle industrie che hanno maggior voce nei loro consessi sedicenti rappresentativi.

 

 

Sempre, se si va in fondo ai risultati necessari di una politica doganale determinata dai “competenti interessati”, noi vediamo che essi si assommano nel predominio degli interessi consolidati, antichi, potenti. Il nuovo, il debole, il piccolo ne è escluso. Ne è escluso ciò che sarà la forza e la gloria dell’industria di domani. Ne sono esclusi gli interessi generali, quelli delle industrie che nulla hanno chiesto e che non furono abbastanza forti e previdenti da organizzarsi per difendersi contro i colpi recati da altri. È un miracolo che trovino difesa gli agricoltori; ma chi difende ad esempio l’industria edilizia, una delle massime industrie paesane, la quale vede rincarati dalla protezione molti dei suoi materiali da costruzione?

 

 

Si consultino dunque gli interessati, tutti gli interessati. Ma deliberi il parlamento. Nonostante i suoi difetti, è desso il solo strumento esistente di rappresentanza degli interessi generali. Né si pregiudichi la questione con decreti reali provvisori. In questa materia il provvisorio è irreparabile. Il parlamento può mutare la aliquota di un’imposta, cambiare i metodi di accertamento. È quasi impossibile mutare invece una tariffa doganale provvisoria. All’ombra di essa sono sorte industrie, si sono ampliati impianti, sono cresciuti gli interessi di prima e, divenuti ultra potenti, reclamano attenzione e difesa. Approvare per decreto reale una tariffa provvisoria sarebbe un errore irreparabile. Il governo non deve, non può commettere questo errore. Esso deve comunicare invece al parlamento ed ai giornali i rapporti, che diconsi stampati e che autorevolmente fu affermato essere stati comunicati in via riservatissima a qualche camera di commercio. La richiesta è moderata ed equa. Nulla ci deve essere di riservato in questa materia. Trattasi di interessi pubblici interni importantissimi ed ognuno ha diritto di sapere per quali motivi precisi si chieggano gli enormi dazi che or son messi innanzi. Prima di concedere ad un privato industriale di tassare gli altri industriali ed i consumatori in genere a proprio beneficio sicuro ed a beneficio preteso della collettività, bisogna far conoscere pubblicamente le ragioni del privilegio. Chiedesi soltanto di non brancolare nel buio e di non essere messi dinnanzi al fatto compiuto ed irrevocabile.



[1] Con il titolo Rappresentanze di interessi e Parlamento [ndr].

[2] Con il titolo Rappresentanze di interessi e Parlamento [ndr].

[3] Con il titolo Rappresentanze di interessi e Parlamento [ndr].

Rompere il torchio dei biglietti

Rompere il torchio dei biglietti

«Corriere della Sera», 23 novembre 1919[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 162-167

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 517-522[2]

 

 

 

 

Oggi, come ieri, vittoriosi o sconfitti, il discorso da queste colonne si rivolge al governo, alle classi politiche dirigenti, alla borghesia riflessiva ed amante del paese, non muta. Non può mutare. La verità è una sola. Da quando è cominciata la guerra, qui si disse e si ripeté infinite volte, fino a non sapere più quali parole adoperare per non ripetere nello stesso preciso modo gli identici immutati concetti, che bisognava aumentare le imposte, assiderle con giustizia, esigerle con severità; che bisognava assorbire con prestiti incessanti, continui, a base di consolidato, di buoni del tesoro lunghi e brevi, a base di ogni qualsiasi titolo accetto al pubblico i risparmi effettivi del paese; che urgeva ad armistizio conchiuso, ridurre le spese allo strettamente indispensabile, smobilitare l’esercito, mandare a casa i padreterni, sfollare i ministeri ed i commissariati. Solo così operando si sarebbe potuto frenare l’aumento della circolazione e frenare sul serio l’aumento dei prezzi ed il rincaro della vita.

 

 

Nessuno nega che le difficoltà opposte all’attuazione del programma fossero grandissime; ma nessuno può negare che qualcosa di più si sarebbe potuto fare di quel che effettivamente si fece. Senza imposte sufficienti e senza una resa bastevole di prestiti interni, il vuoto di cassa fu dovuto mano mano colmare con emissioni continue di biglietti. Questi salirono da 4 a 6, ad 8, a10, a12, a 14 miliardi. Da un discorso del sottosegretario di stato alle finanze, on. Perrone, parrebbe che alla fine di ottobre si fosse giunti a 17 miliardi. Prima della fine dell’anno saremo ai 18 miliardi.

 

 

Il male è così grave e si acuisce con tanta rapidità che nessun ulteriore indugio è possibile. La crisi politica e sociale del momento è in notevolissima parte dovuta alla sovrabbondante emissione di biglietti. Questa:

 

 

  • arricchì certi gruppi di industriali e speculatori che seppero comperare ai prezzi bassi della moneta meno abbondante e rivendere ai prezzi alti provocati dalla moneta più abbondante;

 

  • diede alla testa ai nuovi arricchiti e provocò da essi, dalle loro mogli e dalle loro amanti manifestazioni scandalose di lusso e di spreco;

 

  • crebbe i guadagni degli operai delle città, in modo tale che, pur vivendo oggi assai meglio di prima, non ne sono contenti e, per la natura propria dell’uomo, sono tratti a guardare a quel di più che guadagnano i loro principali. Non monta che dei guadagni di guerra la gran massa sia stata ripartita tra operai, agricoltori, piccoli bottegai e alcune categorie di impiegati; e che il resto lasciato in mano alla classe imprenditrice e speculatrice darebbe un ben piccolo dividendo, se ripartito tra le masse. Ciò che monta agli occhi del pubblico sono i milioni guadagnati dai pochi. Anche se, dopo averli tutti sommati insieme e divisi per testa d’italiano, il quoziente sarebbe ridicolo, l’effetto d’ira e di invidia è ugualmente ottenuto;

 

  • arricchì, come non mai nella storia di secoli, i contadini, braccianti, mezzadri, affittuari e proprietari, nelle cui tasche finì -attraverso al vino, alla frutta, agli ortaggi, alle carni, al pollame, cresciuti di prezzo – la maggior parte degli extra guadagni degli operai cittadini e qualche porzione dei lucri degli imprenditori. Questa classe, che la guerra ha arricchito in modo durevole e solido, la quale sta comprando terra a qualunque prezzo, è anch’essa inquieta, e si lagna e si proclama vittima delle più grandi ingiustizie. La causa è sempre la stessa: nell’arraffa arraffa provocato dal rialzo dei prezzi, tutti, anche i più fortunati, immaginano di essere stati peggio trattati degli altri e si accaniscono e si esasperano e gridano che qualunque rischio di novità è preferibile alla situazione odierna. I soli maltrattati sul serio, i soli che subirono danni economici effettivi dalla guerra, e cioè: 1) i proprietari di case, il cui reddito in lire svalutate rimase fermo al lordo e diminuì al netto per le spese cresciute; 2) i piccoli risparmiatori, vedove, pupilli, vecchi ritirati con un modesto capitaletto impiegato in rendita di stato 3,50 per cento o in cartelle fondiarie; 3) i pensionati vecchi, incapaci ad integrare la pensione invariata con il prodotto del loro lavoro; 4) alcune categorie di impiegati, i più elevati di grado, i cui stipendi o salari furono aumentati di meno del 100 per cento, mentre altre categorie, specie le più numerose, ebbero aumenti compresi i caro viveri dal 200 al 300 per cento; – tutti costoro, i veri stritolati dalla guerra, o non si lamentarono o il loro lamento fu un lieve sussurro, che i perdé frammezzo al clamore dei malcontenti non per sofferenze fisiche reali, ma per sofferenze psichiche determinate dal paragone con i maggiori lucri altrui. Anch’essi però sono dei malcontenti; e la loro mala contentezza trova uno sfogo nell’aspirazione alla novità, al meglio, all’indefinito, al millennio, che pare in ogni modo preferibile alla tristezza presente.

 

 

È inutile farsi illusioni: il malcontento non potrà non crescere finché non se ne tolga la causa. Attaccarsi ai sintomi esteriori non giova. Gridare agli accaparratori, agli speculatori, invocare pene, carcere, multe, cooperative, istituti di stato, consigli di operai, ecc., ecc., è tempo perso. Con che cosa si comprano le merci? Con la moneta. Finché di moneta ce n’era poca, i prezzi erano bassi. A mano a mano che la quantità di moneta emessa dallo stato crebbe e tutti per guadagni o stipendi o salari cresciuti ebbero maggior copia di moneta in mano, i prezzi crebbero. Se da 17 miliardi passeremo a 20, a25, a 30; se come in Russia, andremo alle centinaia di miliardi di biglietti circolanti, i prezzi cresceranno ancora; decuplicheranno in confronto ai prezzi attuali già così cresciuti. Lamentarsi dei prezzi crescenti e non volere sopprimere la causa, è comportarsi come i bambini, i quali sgridano la fiamma della candela a cui si sono bruciate le dita.

 

 

Se non si sopprime la causa, aspettiamoci convulsioni sociali più gravi di quelle a cui assistiamo oggi. La gente è stanca di cambiamenti, di incertezze. Anche i più esaltati sarebbero lieti di una tregua; di vivere, almeno dal punto di vista economico, un po’ tranquilli. Tutti desiderano sapere quanto in realtà vale lo stipendio, il salario, il reddito che essi percepiscono. Se si cominciasse a vedere che per qualche tempo i prezzi non crescono più o non crescono più in generale, i nervi comincerebbero a distendersi, a quietarsi. Molti rifletterebbero che, dopo tutto, gli stipendi e salari odierni sono discreti, a prezzi non più aumentanti; e sarebbero presi dalla voglia di goderseli in pace.

 

 

Fino a poco tempo fa, quando i biglietti erano ancora sui 14 miliardi, io pensavo che l’opera più urgente fosse di arrestarne l’incremento ulteriore. A ritornare indietro ci vuole quella prudenza che non si ebbe nell’andare innanzi. Se, per miracolo, si potessero ridurre d’un colpo i biglietti a 5 o 6 miliardi, sarebbe una catastrofe. Gli imprenditori sarebbero rovinati, non avrebbero contanti per far andare avanti le loro imprese, perderebbero somme enormi in confronto ai prezzi d’acquisto delle materie prime, dovrebbero licenziare operai e ridurre alla metà i salari di quelli rimasti. Alla lunga le cose si aggiusterebbero; ma attraverso un cataclisma di rovine e di rivolte, il quale potrebbe essere irreparabile. Dunque, il primo passo doveva essere quello dell’arresto. Oggi però, che ci incamminiamo ai 18 miliardi, io dico che bisogna fare subito macchina indietro. Occorre ridurre la circolazione e rapidamente di nuovo ai 14 miliardi. Altrimenti i 4 miliardi ultimi, che per ora non hanno forse ancora potuto esercitare un’azione innalzante decisiva sui prezzi, finiranno di compiere il loro ufficio naturale; ed il malcontento e l’orgasmo cresceranno. In un solo caso si potrebbe rinunciare al ritiro: quando si fosse sicuri, assolutamente sicuri, che tutti questi miliardi in più sono finiti in mano di capitalisti paurosi dell’imposta sul patrimonio. In tal caso, questa sciocca gente avrebbe fatto danno solo a se stessa: biglietti nascosti, sono biglietti non circolanti. Non si trasformano in domanda di merci e non fanno rialzare i prezzi.

 

 

Si badi che la riduzione dei biglietti circolanti è l’unico mezzo pratico per ridurre l’aggio sull’estero, giunto a limiti che paiono elevatissimi, ma saranno di certo e di molto superati, ove si continui ad emettere altra cartamoneta. Tutto ciò che si dice sulla necessità di intese internazionali, sull’esito che ci dovrebbero dare in tema di moneta gli Alleati sono chiacchiere e chiacchiere pericolose. Gli Alleati ci aiuteranno, saranno obbligati, nel loro interesse economico e morale, ad aiutarci. Dovranno rinunciare ai loro crediti verso di noi, in cambio dei nostri crediti verso la Germania. Su di ciò non vi è dubbio.

 

 

Ma non potranno aiutarci a rivalutare la nostra moneta, se non ad una condizione, la quale dipende unicamente da noi: che noi sappiamo mettere in ordine la nostra casa, in guisa da non dover più emettere nuovi biglietti e da ridurre quelli esistenti. Pretendere che gli americani ci diano un loro dollaro in cambio di 7 o 6 o 5 nostre lire, invece delle 12 attuali, è una pretesa assurda, bambinesca, oltraggiosa al buon senso ed alla morale, oltraggiosa alla nostra dignità, finché noi non avremo dato agli americani un serio affidamento sul valore della nostra lira. È forse onesto pretendere di dare solo 6 lire per 1 dollaro, quando nel tempo stesso raddoppiamo il numero delle nostre lire e ne diminuiamo il valore intrinseco e reale? Cominciamo noi a dare una salda consistenza alle nostre lire e si vedrà che gli americani ci daranno quanti dollari noi vorremo e che il cambio diminuirà a limiti assai più tollerabili, con vantaggio grandissimo della nostra ripresa commerciale e del ribasso della vita.

 

 

Quando dico che il porro unum et necessarium è di rompere il torchio della stampa dei biglietti, non voglio affermare che quella sia la causa unica ed ultima dei mali nostri e neppure che la cifra dei biglietti debba rimanere invariabile nei secoli. L’emissione sovrabbondante dei biglietti è la causa immediata, l’indice più evidente di tutta una serie di circostanze grazie alle quali si usò con larghezza quel mezzo facile di far denari, che a sua volta produsse i mali di cui ci lamentiamo. Se gli italiani fossero stati ben disposti a pagare imposte; se non insorgessero contro imposte sacrosante, come quella sul vino, solo perché indeclinabili necessità tecniche ne imposero l’inizio non ancora il pagamento prima di altre imposte pur giuste; se gli uomini di governo avessero scrutato meglio nelle spese stravaganti di commissariati militari e civili, a cui la guerra parve creatrice miracolosa di ricchezze; se avessero osato imporre tributi prima e più duramente; se avessero continuamente, e non solo a bruschi tratti fatto propaganda per i prestiti, noi avremmo aumentata sì la circolazione a 10 miliardi, non però a 17. E la situazione economica e sociale del paese sarebbe tutta diversa. Non basta dunque rompere il torchio dei biglietti. In Francia, durante la rivoluzione, ruppero una volta il torchio degli assegnati per metterne subito dopo in azione un altro, ugualmente pernicioso, quello dei mandati territoriali. Rompere il torchio vuol dire riconsegnare il biglietto di banca agli istituti di emissione affinché ne facciano uso per sole ragioni commerciali, quell’uso ponderato e prudentissimo per cui il biglietto di banca italiano era giunto a valer più dell’oro. Vuol dire iniziare una politica energica di tributi, di prestiti e di economie, che consenta allo stato di ridurre prima la circolazione e di ricondurre poi il bilancio al pareggio.



[1] Con il titolo Prima di tutto: rompere il torchio dei biglietti [ndr].

[2] Con il sottotitolo Creano malcontento, invidia e discordia [ndr].

Tracotanze protezionistiche

Tracotanze protezionistiche

«Corriere della Sera», 12 novembre 1919

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 399-406

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 482-489[1]

 

 

 

 

La Associazione fra le società italiane per azioni pubblica su «La rassegna italiana» un articolo su Il nuovo regime doganale italiano, il quale merita un commento, certamente non benevolo. Esso è scritto con tono di risolutezza, quasi si direbbe di comando verso il governo che dapprima stupisce e poi finisce di indignare.

 

 

A sentire l’associazione, la vecchia tariffa doganale dell’1 gennaio 1888 non solo era antiquata, piena di «difetti gravi», ma era anche ingiusta essendosi preoccupata «esclusivamente» delle industrie tessili e non avendo «esitato a sacrificare l’industria chimica e l’industria meccanica». Oramai bisogna fare piazza pulita di questo vecchio «arnese» ed applicare la nuova tariffa predisposta dalla commissione reale del 1913, col valido contributo della associazione scrivente.

 

 

L’associazione espone chiaro e tondo quali fossero i desiderati degli industriali italiani alcuni mesi fa e quali siano ora.

 

 

Alcuni mesi fa un gruppo di industriali, radunati sotto la presidenza dei ministri Ciuffelli e Crespi all’Hotel Edouard VII a Parigi, avevano chiesto:

 

 

  • che, con precise riserve del trattato di pace, o per lo meno con provvedimenti di ordine interno, fosse vietata l’importazione dei manufatti prodotti dall’Austria – Ungheria e dalla Germania fino a che non si rendesse possibile l’applicazione di una nuova tariffa doganale;

 

  • che con opportune misure venisse contenuta l’importazione di manufatti stranieri di qualsiasi altra provenienza, nel periodo fino al 20 settembre 1919, data a cui l’Italia riacquistava la libertà doganale anche in confronto dei paesi alleati o neutri;

 

  • che fossero denunciati l’accordo italo – francese ed il trattato italo – svizzero e gli altri trattati a tariffa in tempo utile, perché l’Italia riacquistasse al più presto e cioè almeno dal 20 settembre 1919 – la sua piena libertà doganale;

 

  • che una tariffa doganale provvisoria fosse prontamente predisposta, sentiti i rappresentanti dell’agricoltura e delle industrie, con doppio ordine di dazi e cioè, con dazi generali da applicarsi alle provenienze dai paesi nemici (materie prime escluse) e con dazi minori da applicarsi dopo il 20 settembre 1919 e fino all’approvazione di una tariffa definitiva a tutte le provenienze dai paesi che assicurassero a loro volta il trattamento più favorevole ai prodotti italiani;

 

  • che nessun accordo doganale venisse stipulato con altri paesi, fino a che non fosse approvato ed applicato in Italia in modo definitivo (e cioè con la sanzione del parlamento) un nuovo regime di diritti di confine.

 

 

Se alcuni mesi fa codesti industriali chiedevano «divieti», «limitazioni», «denuncie di trattati di commercio» e «facoltà di aumentare in futuro i dazi senza alcun vincolo», a piacimento del governo, ossia secondo i desideri degli interessati, adesso si lamentano di tutto ciò che si è fatto e si sta facendo ed insistono nel fare richieste che è bene la pubblica opinione conosca precisamente nella loro enormezza.

 

 

Non sono contenti dei provvedimenti interinali. Per soddisfare ai loro desideri imperiosi, il governo ha pubblicato un lungo elenco di divieti di importazione in un r.d. 24 luglio 1919, che qui ho ripetutamente e vivacemente criticato. L’associazione delle società per azioni non è contenta neppure di quello. L’elenco infatti comprende «un numero assai limitato di merci»; non contempla «prodotti di grande importanza industriale, per i quali sarebbe pure nella situazione attuale giustificata questa maniera di difesa contro la concorrenza estera»; non si applica a tutte le provenienze, ad es., non si applica alle provenienze dalla Francia, dall’Algeria, dalla Tunisia, dalla Gran Bretagna, dal Canadà e dalla Svizzera, salvo poche eccezioni; non si applica nemmeno – l’associazione sembra inorridire a questo punto! – agli aghi da maglieria e da cucire, agli uncinetti, alle platine per telai, ai carboni fossili, ai prodotti chimici, ai generi medicinali, alle materie coloranti ed alle vernici provenienti dalla Germania. «Come se ciò non bastasse» è concessa al ministero delle finanze – «che ne usa ben largamente, senza riguardo alle condizioni della industria nazionale» – facoltà di eccezione ai divieti di importazione.

 

 

Peggio. Sui divieti di importazione non si può fare assegnamento a lungo: come si potrà invero, ratificata la pace, conservare questo regime eccezionale di guerra?

 

 

È vero che il governo ha applicato per decreto reale un elenco di «coefficienti di maggiorazione», per cui molti dazi della tariffa vigente sono aumentati dal 20 al 200 per cento ed in taluni casi anche del 400 e persino del 1.000 per cento. Ma l’associazione, che non si degna di ricordare l’aumento del 1.000 per cento – olii essenziali diversi – ed appena accenna come eccezionali agli aumenti del 400 per cento, grida che «purtroppo» gli aumenti non tengono «adeguato» conto della anormalità della attuale situazione, e conclude che il provvedimento appare assolutamente «insufficiente». Insufficiente per la misura dell’aumento – pare che in Francia si sia fatto peggio e naturalmente l’associazione si fa subito forte del «peggio» francese, inneggia a propositi inglesi, finora rimasti campati in aria, e si augura che in Spagna il paese «insorga» contro le tendenze libero – scambiste della giunta delle dogane, la quale, al massimo, vorrebbe conservare i dazi stabiliti nella tariffa vigente -; insufficiente per le merci contemplate che sono quelle sole per cui l’importazione dai paesi nemici era nel 1913 rilevante. È dunque «doveroso» per il governo, conclude l’associazione, provvedere «in concorso dei relatori industriali ed agrari della commissione reale per il regime doganale», ad una rapida integrazione dei coefficienti di maggiorazione da applicare alla tariffa vigente.

 

 

Né l’associazione è meglio contenta del progetto di tariffa generale presentato dal governo alla commissione parlamentare. È vero che quel progetto è stato compilato da alcuni funzionari governativi sulla base della tariffa predisposta dalla commissione reale, la quale a sua volta erasi uniformata ai criteri del comitato privato scelto in seno all’associazione tra le società per azioni oggi scrivente e protestante. Ma l’associazione afferma che i dazi da essa elaborati ed accettati dalla commissione reale avevano «espresso riferimento ai costi ed ai valori prebellici»; e vivamente si lagna che i funzionari governativi li abbiano aumentati in media solo dal 10 al 15%, sicché essi presentano un «troppo piccolo» distacco dai dazi minimi della commissione reale.

 

 

Non monta che l’aumento operato dai funzionari governativi sia in media ben più elevato di quel 10-15%; non monta che un semplice sguardo gittato alla “tabella di confronto”, presentata dal governo alla commissione parlamentare in occasione del decreto portante i sovradetti «coefficienti di aumento», dimostri che l’aumento minimo sia del 20% e che numerosissimi siano gli aumenti del 100, del 200 e non rari quelli del 300 e del 400%. Tutto ciò non basta alla associazione, agli occhi della quale una tariffa generale «non si può considerare come un efficace strumento di tutela della economia nazionale se la sua applicazione non costituisce realmente un regime di disfavore». Posto un dazio “minimo” da applicarsi alle provenienze dei paesi “amici” ossia dei paesi che ci concedono la tariffa più favorevole; posto dunque un dazio minimo, il quale dev’essere sufficiente a permettere alla industria nazionale di svilupparsi al sicuro dalla concorrenza estera; ossia ancora posto un dazio minimo per se stesso proibitivo contro tutti, la tariffa generale, quella valida per i paesi non amici stretti, deve essere uguale al dazio minimo aumentato del 5% per le materie prime e le derrate alimentari «naturali», del 10-15%, per le materie prime semilavorate e per i prodotti alimentari lavorati, del 25-50% per i manufatti.

 

 

Una tariffa «razionale» deve essere «con rigore» fondata su questi principi. Bisogna quindi aumentare dazi minimi e dazi generali in modo che niente possa più entrare in paese, se prima il consumo interno non sia stato soddisfatto dalla produzione interna. Tutto ciò deve essere fatto dal governo subito e senza attendere la convocazione del parlamento, sentiti i rappresentanti dell’agricoltura e dell’industria.

 

 

Bisogna guardarsi inoltre bene dallo stipulare trattati di commercio di qualsiasi genere con qualsiasi paese. Finché durava la guerra, era necessario conservare buoni rapporti con gli alleati, anche perché allora «era conveniente» ottenere da essi le merci «a noi necessarie» ad un «mite prezzo». Adesso, invece, persino la Francia è diventata per noi una «grave Incognita» perché potrebbe venderci a buon mercato ferri, acciai ed altri prodotti, di cui essa è divenuta la maggior produttrice d’Europa, grazie alla riannessione della Lorena. Un qualunque regime convenzionale, anche provvisorio, ci darebbe «dazi assolutamente insufficienti alle più modeste esigenze delle industrie!».

 

 

Dunque niente trattati; ma una doppia tariffa, l’una minima da applicarsi ai paesi amici, e l’altra generale per le provenienze da paesi che non concedano le migliori condizioni alle nostre esportazioni. Anche le tariffe variabili a piacere del governo italiano; nessun vincolo di voci e di dazi verso nessun paese. Né il governo possa trattare con alcuno stato estero senza fare assistere i suoi diplomatici o i suoi negoziatori da diretti rappresentanti dell’agricoltura e dell’industria, e «cautele» contro gli eventuali spropositi liberistici degli uomini politici.

 

 

Io non so se nei lettori l’esposizione fedele delle domande dell’associazione fra le società italiane per azioni abbia destato un senso di raccapriccio uguale a quello che io ho provato. Certo è che ben difficilmente si è sentito un linguaggio così tracotante e così imperioso come questo verso governo e parlamento. Eravamo abituati ad un frasario siffatto solo nella prosa dei manifesti socialisti e delle federazioni di pubblici impiegati ostruzionisti o scioperanti. Il «governo deve fare» questa o quella cosa; nessun provvedimento deve essere preso senza l’assistenza «continua» dei rappresentanti dell’industria «posti a fianco» dei delegati ufficiali. Questa gente che si inquieta al pensiero dei soviet russi, non si accorge dunque che le sue pretese sono una imitazione goffa e peggiorata delle medesime tendenze particolaristiche ed egoistiche di classe?

 

 

Ed, astrazion fatta dalla inammissibilità assoluta di questi principi dal punto di vista di un governo rappresentativo degli interessi generali, a quali scopi vorrebbe l’associazione indirizzata la politica doganale italiana? Sono questi scopi conformi all’interesse generale?

 

 

A sentire l’associazione parrebbe che la esigenza prima e fondamentale dell’agricoltura, dell’industria e del lavoro nel momento attuale fosse:

 

 

  • di vietare l’importazione di tutte le merci che si possono produrre in Italia;

 

  • di impedire che gli italiani possano comprare merci estere a mite prezzo. Poteva in tempo di guerra essere conveniente comprare merci necessarie a buon mercato. Oggi, che siamo in pace, interesse generale è di evitare come la peste le merci a mite prezzo. Bisogna che tutto sia caro in Italia, se si vuole che l’industria viva. Se appena appena spunta alla frontiera l’ombra di una merce atta a ridurre in Italia il costo della vita, il costo delle costruzioni, degli impianti industriali, il costo degli strumenti, degli utensili, delle macchine agrarie, il costo di tutto; bisogna darvi addosso come all’untore, perseguitarla con dazi bastevolmente alti, si da far passare la voglia a chiunque di importare qualunque cosa. I paesi esteri si contentino di vendere a noi materie prime, grezze e prodotti alimentari «naturali». Anatema alle merci ed agli alimenti stranieri appena appena abbiano subito un principio di lavorazione! Subito si oppongano al pericolo dazi, sovradazi, coefficienti di aumento. Ed il governo non si vincoli mai, con nessuno, per nessuna ragione; cosicché appena, nonostante tutto, di una merce qualunque cresca l’importazione, subito possano essere cresciuti i dazi contro di essa.

 

 

Se questa non è pazzia sragionante, io non so più come distinguere tra la follia e la saviezza. Voglio dire anch’io di che cosa gli agricoltori e gli industriali italiani hanno bisogno sovratutto nel momento attuale: di togliersi di dosso il giogo tirannico delle due o tre false rappresentanze che li diffamano agli occhi del pubblico, dipingendoli come gente che non è capace di lavorare se non all’ombra di dazi enormi e proibitivi. Nessuno di noi, che siamo in voce di liberisti, vogliamo l’abbattimento improvviso delle barriere doganali. Tutti diciamo che si deve procedere per gradi. Ma occorre opporsi con fermezza al tentativo di far credere che nessuna vita sia possibile in Italia, se una barriera cinese non si innalzi alla frontiera per impedire la concorrenza delle merci estere. Ciò val quanto dire che gli italiani non sono capaci di compiere il menomo lavoro se non male e peggio degli stranieri. Il che è falso, oltraggioso ed assurdo.

 

 

No. Questo dell’associazione è un tentativo iniquo di prolungare in tempo di pace la condizione forzosa di altissimi prezzi, di mancanza di concorrenza, di guadagni eccezionali del tempo di guerra. E non a favore della massa degli agricoltori e degli industriali. Questi soffrono, al pari dei consumatori non appartenenti alle classi agricole ed industriali, del proibizionismo che si vorrebbe perpetuare. Gli agricoltori italiani hanno bisogno di macchine, di concimi, di arnesi a buon mercato. Vogliono tessuti e scarpe meno cari d’adesso. E la grande massa degli industriali italiani ha l’uguale interesse. Gli industriali italiani in grandissima maggioranza non producono oggetti semi-lavorati, di massa; ma oggetti finiti, in cui il costo delle materie prime ha poca importanza in confronto al costo del lavoro. Per essi non c’è dazio che valga a proteggerli contro la concorrenza estera. Per essi il massimo interesse è di avere il ferro, l’acciaio, i filati e le altre materie semilavorate al minimo prezzo. Il loro ingegno, l’abilità progressiva delle loro maestranze farà il resto. Che se manca l’ingegno, l’abilità, l’industriosità, nessun rimedio artificioso serve.

 

 

Purtroppo, delle associazioni e delle rappresentanze ufficiali delle industrie si sono impadroniti taluni ristretti gruppi, il cui nome corre sulla bocca di tutti, che hanno interessi contrari a quelli della maggior parte degli industriali e degli agricoltori italiani. Il governo non deve lasciarsi intimidire dalle parole grosse di costoro. Deve interrogare tutti. Non basta mandare il prometto di tariffa alla unione delle camere di commercio, alla confederazione generale dell’industria ed alla rappresentanza generale dell’agricoltura. Chi ha scelto questi corpi e chi ha attribuito loro il compito di rappresentanti degli interessi generali? Tutti devono essere interrogati; anche i sodalizi di commercianti, di importatori dall’estero, le cooperative di consumo, i comizi agrari, i consorzi agrari. Sovratutto deve interrogarsi il parlamento. La commissione parlamentare incaricata di esaminare la tariffa generale provvisoria è decaduta. Sarà bene non rinominarla; e mandare la tariffa generale dinnanzi alla camera, affinché l’esamini nelle solite maniere. Non c’è nessuna necessità di fare in fretta. Non è lecito di creare posizioni acquisite da parte dei privati, per andar poi a chiedere al parlamento di convalidarle. Se il parlamento vorrà accogliere il pazzesco programma doganale dell’associazione tra le società italiane per azioni, sarà un gran male per il paese. Almeno però sarà un male voluto, discusso ed accettato alla luce del sole. Con decreti-legge si può e si deve prendere un provvedimento, come quello di un’imposta severa, di cui vi sia urgenza a pro della pubblica finanza e che il parlamento può sempre emendare liberamente e ponderatamente, senza che alcun interesse privato si possa ritenere offeso da un alleviamento o da un inasprimento di tributo.

 

 

Qui, invece, si tratta di decidere se il pubblico italiano consumatore, se la agricoltura nostra, se la grande massa degli industriali debbano essere costretti per anni al regime del proibizionismo a favore di taluni ristretti gruppi e delle loro maestranze. Ora ciò non lo può, non lo deve decidere il governo, neppure con la «assistenza continua» di «esperti» nominati dagli «interessati». Lo deve decidere solo il paese e per esso il parlamento. Se anche stanno zitte le maestranze organizzate, troppo spesso, nonostante la maschera socialista, alleate della plutocrazia, non possiamo star zitti noi, che miriamo solo all’interesse generale.



[1] Con il sottotitolo Non deve più entrare nulla in paese [ndr].

Tracotanze protezionistiche

Tracotanze protezionistiche

«Corriere della Sera», 23 ottobre 1919[1], 12 novembre 1919[2]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 476-489

 

 

 

 

I

 

La tariffa provvisoria e quella contro gli ex nemici

 

Il problema doganale, benché non sia uno di quelli che più sono discussi e a cui più si appassiona l’opinione pubblica, è senza dubbio uno di quelli a cui più dovrebbe il nostro paese rivolgere la sua attenzione.

 

 

Dopo un lungo silenzio, studiosi ed industriali cominciano di nuovo a discutere. Gli studiosi da una parte, fermamente persuasi di fare quanto è possibile per difendere soltanto l’interesse generale, e gli industriali dall’altra, in difesa di quello che anch’essi ritengono sia non solo il loro interesse particolare, ma anche e sovratutto l’interesse del paese. Ma in quale ambiente mutato rinasce la disputa! Non già che sia vero quanto si disse e ripeté le mille volte, che la guerra abbia ucciso e rinnovato la scienza economica cosicché le verità di prima oggi non avrebbero più corso ed una nuova scienza, diversa dall’antica, sarebbe per sorgere dal grande incendio mondiale. Purtroppo le vecchie verità rimangono: le leggi che gli economisti avevano esposto rispetto all’abbondanza della moneta circolante, alla inutilità dei calmieri, ai doveri dell’intervento governativo in materia di approvvigionamenti, ad una ad una si trovarono verificate da una delle più belle esperienze che la storia economica ricordi. Nuovi fatti, nuove verifiche, vennero ad arricchire il già ricco libro della sperimentazione economica. Come era naturale, il rivolgimento avvenuto nei prezzi, nei costi, nei trasporti costrinse a porre ed a risolvere i problemi su una base diversa. La logica usata per risolverli è sempre la stessa, ma deve lavorare su dati differenti per dimensioni, per direzione, per numero.

 

 

Prima della guerra, gli studiosi battagliavano per ottenere diminuzioni dei dazi doganali. Affermavano che il protezionismo, vecchio in Italia di oramai trent’anni, doveva avere prodotto tutti i suoi effetti; che le industrie, giovani e bisognose di aiuto nel 1880, dovevano essere divenute adulte e dovevano rinunciare alle dande che le avevano sorrette per tanto tempo. Se qualche industria non era riuscita a diventare forte e capace di vivere di vita propria, ciò era segno della sua incapacità organica a vivere indipendente. Se qualche eccezione doveva farsi, essa doveva accuratamente limitarsi alle nuove industrie, sorte negli ultimi anni, ed ancora lottanti per farsi strada, od a quei pochi casi in cui una industria economicamente passiva fosse richiesta dalle supreme necessità di difesa del paese.

 

 

Contro gli assalti mossi dagli economisti alla roccaforte del protezionismo doganale, gli industriali ed agricoltori protetti opponevano una strenua difesa. Ma aveva più carattere di difesa di posizioni acquisite, che di offesa per ottenere nuovi e forti aumenti di dazi. Lavorava, è vero, una commissione nominata dalla Associazione tra le società italiane per azioni ed andava preparando pregevoli studi, poi venuti alla luce, i quali conchiudevano alla necessità: 1) di «migliorare», come i protezionisti dicevano, la antiquata tariffa, differenziando e modernizzando le voci; 2) di applicare il sistema della tariffa massima e minima, la quale era poi in realtà un sistema di molteplici tariffe, rispetto alle colonie, rispetto ai paesi a reciprocità, rispetto ai paesi in lotta doganale, ecc. ecc.; 3) di variare i dazi, molti nel senso dell’aumento, ma alcuni altresì nel senso della diminuzione. Indizio tenue, se si vuole, ma indizio non trascurabile di una tendenza a consentire con gli studiosi nel concetto che il protezionismo non era un fenomeno perpetuo, ma doveva un giorno iniziare il suo cammino discendente. Le conclusioni della commissione privata erano fatte sostanzialmente proprie da una commissione reale, istituita con R.D. 23 gennaio 1913, la quale si sciolse dopo circa 5 anni, senza che dei suoi lavori, poderosi a quel che si sente dire, nulla venisse alla luce.

 

 

Stretto dal tempo, il governo ha fatto preparare da una commissione ministeriale due tariffe: 1) una provvisoriissima, la quale si dovrebbe applicare alle merci soggette alla tariffa generale, ossia in sostanza alle merci tedesche ed ex austro-ungariche; 2) una tariffa doganale provvisoria, la quale dovrebbe sostituire la attuale tariffa generale e preparare la via alla stipulazione di nuovi trattati di commercio.

 

 

I giornali hanno pubblicato saggi dell’una e dell’altra tariffa di quella provvisoriissima, applicabile subito alle merci ex nemiche e di quella provvisoria, la quale dovrebbe essere il ponte di passaggio al regime definitivo. Quale rivolgimento! Alcune poche cifre bastano a darne un’idea:

 

 

 

Tariffa

generale

vigente

Tariffa

contro le

merci

ex nemiche

Tariffa

generale

provvisoria

Vino

20,60

30-90

30-200

Colori da catrame in stato secco

esenti

250

125-250

Tessuti di cotone a colori o

o tinti o stampati

95-284

114-340

60-580

Tessuti di lana

150-580

195-754

200-770

Ghisa in pani

1

3

2,75

Ferro ed acciaio laminati

6,50-9

11-15,30

11-52

Rotaie per ferrovie

6

12

11-17

Tubi di ferro ed acciaio

12-17

18-30,60

18-110

Utensili e strumenti comuni

13,50-20

27-40

24-55

Mietitrici e falciatrici

4

12

16-20

Strumenti scientifici

30-125

60-250

150-200

Gomma elastica in tubi

40-60

72-120

55-110

Pianoforti a tavolo e verticali

90

180

180

       

 

 

L’elenco potrebbe seguitare. È tutto un nuovo orientamento verso formidabili rialzi che ci si para innanzi. Rialzi effettivi, non nominali, poiché i dazi del futuro continueranno a pagarsi, come quelli odierni, coll’aggiunta del cambio.

 

 

La spiegazione del rivolgimento è chiara. La guerra ha creato per cinque anni una situazione di protezionismo acuto, anzi di proibizionismo, quale sarebbe stato follia sperare ai più accesi protezionisti. Gli antichi dazi del 20, del 30, del 50% sul valore della merce scomparvero di fronte al rincaro spaventevole nei prezzi di trasporto ed al deprezzamento della lira, che eressero una specie di muraglia cinese attorno all’Italia. L’industriale nazionale – anche astrazion fatta dalla comodità di vendere a qualunque prezzo ad un cliente stretto dall’urgenza del bisogno ed incompetente – poté rialzare i prezzi a carico del consumatore italiano del 100, del 200 o del 300%, sicuro, com’era, che nessuna concorrenza estera sarebbe venuta a disturbarlo. Taluni concorrenti, e fra i più temibili, erano tagliati fuori dalla guerra. Altri erano impediti dal concorrere dall’altissimo costo dei trasporti e dalla necessità di vendere in lire con aumenti del 50 o del 100% per ottenere la stessa quantità di prima di moneta estera. I cinque anni di guerra furono uno sperimento magnifico – per gli osservatori e per chi non vuol persuadersi delle verità economiche prima di toccar col dito e vedere con gli occhi propri, ma non altrettanto consolante per i consumatori e per la maggioranza dei produttori – di proibizionismo e dei suoi effetti. Se il paradiso in terra è un paese chiuso, indipendente, tutelato con ostacoli insormontabili dalla concorrenza estera, se per far prosperare e fiorire un paese occorre impedire alle merci estere di inondarlo, quel paradiso noi, per necessità assoluta di cose, lo avemmo e lo godemmo durante la guerra. Se però il protezionismo in atto nella sua più pura espressione è un paradiso terrestre, noi dobbiamo cessare di vantarci dei sacrifici con animo fermo sostenuti a causa del rincaro dei prezzi, della difficoltà di procacciarci le cose necessarie od utili alla vita. Questi, che tutti considerammo i mali inerenti ad una guerra voluta per fini nazionali altissimi, dovrebbero essere invece aggiunti agli altri benefici che la guerra ci procurò.

 

 

Qualunque sia il nome che si vuol dare al fatto, il fatto sussiste: la difficoltà dei traffici e il deprezzamento della lira furono e sono un vero altissimo dazio doganale contro le importazioni dall’estero. All’ombra della protezione, molte industrie ottennero ingenti guadagni; ed i consumatori, comprese tra questi molte industrie consumatrici e principalmente l’agricoltura, dovettero pagare prezzi esorbitanti.

 

 

Finita la guerra, era da credere che a poco a poco i traffici riprendessero, che i noli ribassassero a limiti più ragionevoli, che alla lunga la lira ritornasse ad essere apprezzata. In parte, per quanto riguarda i noli, già la discesa è cominciata. Si riaprono o si riapriranno le frontiere verso i paesi ex nemici ed antiche concorrenze potranno rinnovarsi. I consumatori e le industrie consumatrici cominciavano perciò a guardare all’avvenire con una certa fiducia, con una qualche speranza di tempi migliori.

 

 

A chiudere il tenue spiraglio di luce, si sono affrettate le industrie protette a chiedere forti inasprimenti daziari. Ridotte alla loro essenza ultima, le nuove tariffe sono un tentativo di cristallizzare in parte la situazione artificiale creata dalla guerra. Le tariffe proposte dal governo non sono tutto ciò che i protezionisti chiedevano – ben altro sarebbe necessario! -; ma sono un buon passo sulla via della conservazione delle posizioni acquisite. Se si deve chiedere al governo la pubblicazione d’urgenza delle nuove tariffe e delle relazioni della commissione reale e di quella ministeriale, non si può neppure muovergli una critica eccessiva per avere, sulla base delle relazioni pervenutegli, proposte tariffe grandemente inasprite in confronto alle antiche. Quando mai ci fu un movimento d’opinione che trattenesse i compilatori delle nuove tariffe dall’accettare per buoni gli argomenti che i gruppi protetti, attraverso le varie commissioni, mettevano innanzi a giustificare le loro esorbitanti richieste? La tariffa vecchia era antiquata ed insufficiente; i costi interni erano cresciuti a dismisura per il rialzo nei prezzi del carbone e delle materie prime, per il rialzo dei noli e delle imposte, per il crescere continuo dei salari e la diminuzione delle ore di lavoro. Minacciosa si annuncia all’orizzonte la concorrenza della giovane repubblica nordamericana, arricchita dalla guerra; non lieve quella della Francia, divenuta il maggior produttore di ferro ed acciaio d’Europa. Spaventosa è la minaccia della rinnovata concorrenza tedesca, favorita dal ribasso del marco, la quale potrà buttare sul mercato a prezzi irrisori, ricavandone tuttavia buon numero di marchi, masse cospicue di merci. Lo spettro del dumping dimenticato durante gli anni di guerra, nuovamente si erge dinanzi agli occhi del terrorizzato produttore italiano.

 

 

Qual meraviglia, che, a sentir quest’elenco di minacciati disastri, il governo, questo d’ora e quello di prima, abbia creduto suo dovere di correre ai ripari proponendo di inacerbire le difese doganali contro le temute concorrenze estere? Se non l’avesse fatto, sarebbe stato tacciato di scarso patriottismo, di servilità verso lo straniero amico e di simpatia verso lo straniero nemico. Il torto suo è di non pubblicare subito tutti i dati su cui si è fondato per giungere alle sue conclusioni, così che anche gli avversari del protezionismo, studiosi ed industriali ed agricoltori danneggiati, possano parlare alto e forte. Interrogare nel chiuso dei ministeri e delle commissioni non basta in questa materia ardente. Tutto deve farsi alla luce del sole.

 

 

Frattanto tocca a noi, nonostante il riserbo e l’oscurità, dire agli industriali che hanno chiesto e stanno ottenendo protezioni mai più viste, che anche in questo campo essi hanno sbagliato strada.

 

 

Sbagliano quando, allarmati da pericoli insussistenti, chiedono al governo di rinunciare ai severi provvedimenti necessari per far pagare sul serio ed equamente le imposte occorrenti a risanare il bilancio pubblico. Sbagliano, quando immaginano di fare l’interesse dell’industria cercando di prolungare una situazione di prezzi alti e di mercato chiuso, che la guerra rese inevitabile, ma che era un malanno destinato a finire con la pace. La prosperità ed i guadagni rendono ciechi. Oggi, vi sono taluni gruppi industriali – e dico taluni, perché convinto nel tempo stesso che la borghesia desidera quasi tutta pagare le imposte volute dalle urgenze dell’erario e che la massima parte degli industriali, se conoscesse il proprio vero interesse, vorrebbe vivere di vita indipendente all’aria aperta della concorrenza – i quali non vogliono pagare imposte e vogliono nel tempo stesso assoggettare le altre industrie, l’agricoltura ed i consumatori, a forti ed illegittimi balzelli a proprio beneficio. Ciechi sono costoro, che in un momento storico solenne scavano la fossa a sé e pretenderebbero di seppellire con essi il paese. Il nuovo compito degli studiosi è di dimostrare che la salvezza sta nella vita libera all’aria aperta e che,

anche nel campo doganale, come in quello dei commerci interni e dei vincoli alla produzione, importa abbattere a colpi di scure la situazione artificiale economica di alti prezzi e di mercato chiuso che la guerra ha dovuto creare.

 

 

II

 

Non deve più entrare nulla in paese[3]

 

La Associazione fra le società italiane per azioni pubblica su «La rassegna italiana» un articolo su Il nuovo regime doganale italiano, il quale merita un commento, certamente non benevolo. Esso è scritto con tono di risolutezza, quasi si direbbe di comando verso il governo che dapprima stupisce e poi finisce di indignare.

 

 

A sentire l’associazione, la vecchia tariffa doganale dell’1 gennaio 1888 non solo era antiquata, piena di «difetti gravi», ma era anche ingiusta essendosi preoccupata «esclusivamente» delle industrie tessili e non avendo «esitato a sacrificare l’industria chimica e l’industria meccanica». Oramai bisogna fare piazza pulita di questo vecchio «arnese» ed applicare la nuova tariffa predisposta dalla commissione reale del 1913, col valido contributo della associazione medesima.

 

 

L’associazione espone chiaro e tondo quali fossero i desiderati degli industriali italiani alcuni mesi fa e quali siano ora.

 

 

Alcuni mesi fa un gruppo di industriali, radunati sotto la presidenza dei ministri Ciuffelli e Crespi all’Hotel Edouard VII a Parigi, avevano chiesto:

 

 

  • che, con precise riserve del trattato di pace, o per lo meno con provvedimenti di ordine interno, fosse vietata l’importazione dei manufatti prodotti dall’Austria-Ungheria e dalla Germania fino a che non si rendesse possibile l’applicazione di una nuova tariffa doganale

 

 

  • che con opportune misure venisse contenuta l’importazione di manufatti stranieri di qualsiasi altra provenienza, nel periodo fino al 20 settembre 1919, data a cui l’Italia riacquistava la libertà doganale anche in confronto dei paesi alleati o neutri;

 

 

  • che fossero denunciati l’accordo italo-francese ed il trattato italo-svizzero e gli altri trattati a tariffa in tempo utile, perché l’Italia riacquistasse al più presto e cioè almeno dal 20 settembre 1919 – la sua piena libertà doganale;

 

 

  • che una tariffa doganale provvisoria fosse prontamente predisposta, sentiti i rappresentanti dell’agricoltura e delle industrie, con doppio ordine di dazi e cioè, con dazi generali da applicarsi alle provenienze dai paesi nemici (materie prime escluse) e con dazi minori da applicarsi dopo il 20 settembre 1919 e fino all’approvazione di una tariffa definitiva a tutte le provenienze dai paesi che assicurassero a loro volta il trattamento più favorevole ai prodotti italiani;

 

 

  • che nessun accordo doganale venisse stipulato con altri paesi, fino a che non fosse approvato ed applicato in Italia in modo definitivo (e cioè con la sanzione del parlamento) un nuovo regime di diritti di confine.

 

 

Se alcuni mesi fa codesti industriali chiedevano «divieti», «limitazioni», «denuncie di trattati di commercio» e «facoltà di aumentare in futuro i dazi senza alcun vincolo», a piacimento del governo, ossia secondo i desideri degli interessati, adesso si lamentano di tutto ciò che si è fatto e si sta facendo ed insistono nel fare richieste che è bene la pubblica opinione conosca precisamente nella loro enormezza.

 

 

Non sono contenti dei provvedimenti interinali. Per soddisfare ai loro desideri imperiosi, il governo ha pubblicato un lungo elenco di divieti di importazione in un r.d. 24 luglio 1919, che qui ho ripetutamente e vivacemente criticato. L’associazione delle società per azioni non è contenta neppure di quello. L’elenco infatti comprende «un numero assai limitato di merci»; non contempla «prodotti di grande importanza industriale, per i quali sarebbe pure nella situazione attuale giustificata questa maniera di difesa contro la concorrenza estera»; non si applica a tutte le provenienze, ad es., non si applica alle provenienze dalla Francia, dall’Algeria, dalla Tunisia, dalla Gran Bretagna, dal Canadà e dalla Svizzera, salvo poche eccezioni; non si applica nemmeno – l’associazione sembra inorridire a questo punto! – agli aghi da maglieria e da cucire, agli uncinetti, alle platine per telai, ai carboni fossili, ai prodotti chimici, ai generi medicinali, alle materie coloranti ed alle vernici provenienti dalla Germania. «Come se ciò non bastasse» è concessa al ministero delle finanze – «che ne usa ben largamente, senza riguardo alle condizioni della industria nazionale» – facoltà di eccezione ai divieti di importazione.

 

 

Peggio. Sui divieti di importazione non si può fare assegnamento a lungo: come si potrà invero, ratificata la pace, conservare questo regime eccezionale di guerra?

 

 

È vero che il governo ha applicato per decreto reale un elenco di «coefficienti di maggiorazione», per cui molti dazi della tariffa vigente sono aumentati dal 20 al 200 per cento ed in taluni casi anche del 400 e persino del 1.000 per cento. Ma l’associazione, che non si degna di ricordare l’aumento del 1.000 per cento – olii essenziali diversi – ed appena accenna come eccezionali agli aumenti del 400 per cento, grida che «purtroppo» gli aumenti non tengono «adeguato» conto della anormalità della attuale situazione, e conclude che il provvedimento appare assolutamente «insufficiente». Insufficiente per la misura dell’aumento – pare che in Francia si sia fatto peggio e naturalmente l’associazione si fa subito forte del «peggio» francese, inneggia a propositi inglesi, finora rimasti campati in aria, e si augura che in Spagna il paese «insorga» contro le tendenze libero – scambiste della giunta delle dogane, la quale, al massimo, vorrebbe conservare i dazi stabiliti nella tariffa vigente -; insufficiente per le merci contemplate che sono quelle sole per cui l’importazione dai paesi nemici era nel 1913 rilevante. È dunque «doveroso» per il governo, conclude l’associazione, provvedere «in concorso dei relatori industriali ed agrari della commissione reale per il regime doganale», ad una rapida integrazione dei coefficienti di maggiorazione da applicare alla tariffa vigente.

 

 

Né l’associazione è meglio contenta del progetto di tariffa generale presentato dal governo alla commissione parlamentare. È vero che quel progetto è stato compilato da alcuni funzionari governativi sulla base della tariffa predisposta dalla commissione reale, la quale a sua volta erasi uniformata ai criteri del comitato privato scelto in seno all’associazione tra le società per azioni oggi scrivente e protestante. Ma l’associazione afferma che i dazi da essa elaborati ed accettati dalla commissione reale avevano «espresso riferimento ai costi ed ai valori prebellici»; e vivamente si lagna che i funzionari governativi li abbiano aumentati in media solo dal 10 al 15%, sicché essi presentano un «troppo piccolo» distacco dai dazi minimi della commissione reale.

 

 

Non monta che l’aumento operato dai funzionari governativi sia in media ben più elevato di quel 10-15%; non monta che un semplice sguardo gittato alla «tabella di confronto», presentata dal governo alla commissione parlamentare in occasione del decreto portante i sovradetti «coefficienti di aumento», dimostri che l’aumento minimo sia del 20% e che numerosissimi siano gli aumenti del 100, del 200 e non rari quelli del 300 e del 400%. Tutto ciò non basta alla associazione, agli occhi della quale una tariffa generale «non si può considerare come un efficace strumento di tutela della economia nazionale se la sua applicazione non costituisce realmente un regime di disfavore». Posto un dazio «minimo» da applicarsi alle provenienze dei paesi «amici» ossia dei paesi che ci concedono la tariffa più favorevole; posto dunque un dazio minimo, il quale dev’essere sufficiente a permettere alla industria nazionale di svilupparsi al sicuro dalla concorrenza estera; ossia ancora posto un dazio minimo per se stesso proibitivo contro tutti, la tariffa generale, quella valida per i paesi non amici stretti, deve essere uguale al dazio minimo aumentato del 5% per le materie prime e le derrate alimentari «naturali», del 10-15%, per le materie prime semilavorate e per i prodotti alimentari lavorati, del 25-50% per i manufatti.

 

 

Una tariffa «razionale» deve essere «con rigore» fondata su questi principi. Bisogna quindi aumentare dazi minimi e dazi generali in modo che niente possa più entrare in paese, se prima il consumo interno non sia stato soddisfatto dalla produzione interna. Tutto ciò deve essere fatto dal governo subito e senza attendere la convocazione del parlamento, sentiti i rappresentanti dell’agricoltura e dell’industria.

 

 

Bisogna guardarsi inoltre bene dallo stipulare trattati di commercio di qualsiasi genere con qualsiasi paese. Finché durava la guerra, era necessario conservare buoni rapporti con gli alleati, anche perché allora «era conveniente» ottenere da essi le merci «a noi necessarie» ad un «mite prezzo». Adesso, invece, persino la Francia è diventata per noi una «grave Incognita» perché potrebbe venderci a buon mercato ferri, acciai ed altri prodotti, di cui essa è divenuta la maggior produttrice d’Europa, grazie alla riannessione della Lorena. Un qualunque regime convenzionale, anche provvisorio, ci darebbe «dazi assolutamente insufficienti alle più modeste esigenze delle industrie!».

 

 

Dunque niente trattati; ma una doppia tariffa, l’una minima da applicarsi ai paesi amici, e l’altra generale per le provenienze da paesi che non concedano le migliori condizioni alle nostre esportazioni. Anche le tariffe variabili a piacere del governo italiano; nessun vincolo di voci e di dazi verso nessun paese. Né il governo possa trattare con alcuno stato estero senza fare assistere i suoi diplomatici o i suoi negoziatori da diretti rappresentanti dell’agricoltura e dell’industria, e «cautele» contro gli eventuali spropositi liberistici degli uomini politici.

 

 

Non so se nei lettori l’esposizione fedele delle domande dell’associazione fra le società italiane per azioni abbia destato un senso di raccapriccio uguale a quello che io ho provato. Certo è che ben difficilmente si è sentito un linguaggio così tracotante e così imperioso come questo verso governo e parlamento. Eravamo abituati ad un frasario siffatto solo nella prosa dei manifesti socialisti e delle federazioni di pubblici impiegati ostruzionisti o scioperanti. Il «governo deve fare» questa o quella cosa; nessun provvedimento deve essere preso senza l’assistenza «continua» dei rappresentanti dell’industria «posti a fianco» dei delegati ufficiali. Questa gente che si inquieta al pensiero dei soviet russi, non si accorge dunque che le sue pretese sono una imitazione goffa e peggiorata delle medesime tendenze particolaristiche ed egoistiche di classe?

 

 

Ed, astrazion fatta dalla inammissibilità assoluta di questi principi dal punto di vista di un governo rappresentativo degli interessi generali, a quali scopi vorrebbe l’associazione indirizzata la politica doganale italiana? Sono questi scopi conformi all’interesse generale?

 

 

A sentire l’associazione parrebbe che la esigenza prima e fondamentale dell’agricoltura, dell’industria e del lavoro nel momento attuale fosse:

 

 

  • di vietare l’importazione di tutte le merci che si possono produrre in Italia;

 

 

  • di impedire che gli italiani possano comprare merci estere a mite prezzo. Poteva in tempo di guerra essere conveniente comprare merci necessarie a buon mercato. Oggi, che siamo in pace, interesse generale è di evitare come la peste le merci a mite prezzo. Bisogna che tutto sia caro in Italia, se si vuole che l’industria viva. Se appena appena spunta alla frontiera l’ombra di una merce atta a ridurre in Italia il costo della vita, il costo delle costruzioni, degli impianti industriali, il costo degli strumenti, degli utensili, delle macchine agrarie, il costo di tutto; bisogna darvi addosso come all’untore, perseguitarla con dazi bastevolmente alti, si da far passare la voglia a chiunque di importare qualunque cosa. I paesi esteri si contentino di vendere a noi materie prime, grezze e prodotti alimentari «naturali». Anatema alle merci ed agli alimenti stranieri appena appena abbiano subito un principio di lavorazione! Subito si oppongano al pericolo dazi, sovradazi, coefficienti di aumento. Ed il governo non si vincoli mai, con nessuno, per nessuna ragione; cosicché appena, nonostante tutto, di una merce qualunque cresca l’importazione, subito possano essere cresciuti i dazi contro di essa.

 

 

Se questa non è pazzia sragionante, io non so più come distinguere tra la follia e la saviezza. Voglio dire anch’io di che cosa gli agricoltori e gli industriali italiani hanno bisogno sovratutto nel momento attuale: di togliersi di dosso il giogo tirannico delle due o tre false rappresentanze che li diffamano agli occhi del pubblico, dipingendoli come gente che non è capace di lavorare se non all’ombra di dazi enormi e proibitivi. Nessuno di noi, che siamo in voce di liberisti, vogliamo l’abbattimento improvviso delle barriere doganali. Tutti diciamo che si deve procedere per gradi. Ma occorre opporsi con fermezza al tentativo di far credere che nessuna vita sia possibile in Italia, se una barriera cinese non si innalzi alla frontiera per impedire la concorrenza delle merci estere. Ciò val quanto dire che gli italiani non sono capaci di compiere il menomo lavoro se non male e peggio degli stranieri. Il che è falso, oltraggioso ed assurdo.

 

 

No. Questo dell’associazione è un tentativo iniquo di prolungare in tempo di pace la condizione forzosa di altissimi prezzi, di mancanza di concorrenza, di guadagni eccezionali del tempo di guerra. E non a favore della massa degli agricoltori e degli industriali. Questi soffrono, al pari dei consumatori non appartenenti alle classi agricole ed industriali, del proibizionismo che si vorrebbe perpetuare. Gli agricoltori italiani hanno bisogno di macchine, di concimi, di arnesi a buon mercato. Vogliono tessuti e scarpe meno cari d’adesso. E la grande massa degli industriali italiani ha l’uguale interesse. Gli industriali italiani in grandissima maggioranza non producono oggetti semi-lavorati, di massa; ma oggetti finiti, in cui il costo delle materie prime ha poca importanza in confronto al costo del lavoro. Per essi non c’è dazio che valga a proteggerli contro la concorrenza estera. Per essi il massimo interesse è di avere il ferro, l’acciaio, i filati e le altre materie semilavorate al minimo prezzo. Il loro ingegno, l’abilità progressiva delle loro maestranze farà il resto. Che se manca l’ingegno, l’abilità, l’industriosità, nessun rimedio artificioso serve.

 

 

Purtroppo, delle associazioni e delle rappresentanze ufficiali delle industrie si sono impadroniti taluni ristretti gruppi, il cui nome corre sulla bocca di tutti, che hanno interessi contrari a quelli della maggior parte degli industriali e degli agricoltori italiani. Il governo non deve lasciarsi intimidire dalle parole grosse di costoro. Deve interrogare tutti. Non basta mandare il prometto di tariffa alla unione delle camere di commercio, alla confederazione generale dell’industria ed alla rappresentanza generale dell’agricoltura. Chi ha scelto questi corpi e chi ha attribuito loro il compito di rappresentanti degli interessi generali? Tutti devono essere interrogati; anche i sodalizi di commercianti, di importatori dall’estero, le cooperative di consumo, i comizi agrari, i consorzi agrari. Sovratutto deve interrogarsi il parlamento. La commissione parlamentare incaricata di esaminare la tariffa generale provvisoria è decaduta. Sarà bene non rinominarla; e mandare la tariffa generale dinnanzi alla camera, affinché l’esamini nelle solite maniere. Non c’è nessuna necessità di fare in fretta. Non è lecito di creare posizioni acquisite da parte dei privati, per andar poi a chiedere al parlamento di convalidarle. Se il parlamento vorrà accogliere il pazzesco programma doganale dell’associazione tra le società italiane per azioni, sarà un gran male per il paese. Almeno però sarà un male voluto, discusso ed accettato alla luce del sole. Con decreti-legge si può e si deve prendere un provvedimento, come quello di un’imposta severa, di cui vi sia urgenza a pro della pubblica finanza e che il parlamento può sempre emendare liberamente e ponderatamente, senza che alcun interesse privato si possa ritenere offeso da un alleviamento o da un inasprimento di tributo.

 

 

Qui, invece, si tratta di decidere se il pubblico italiano consumatore, se la agricoltura nostra, se la grande massa degli industriali debbano essere costretti per anni al regime del proibizionismo a favore di taluni ristretti gruppi e delle loro maestranze. Ora ciò non lo può, non lo deve decidere il governo, neppure con la «assistenza continua» di «esperti» nominati dagli «interessati». Lo deve decidere solo il paese e per esso il parlamento. Se anche stanno zitte le maestranze organizzate, troppo spesso, nonostante la maschera socialista, alleate della plutocrazia, non possiamo star zitti noi, che miriamo solo all’interesse generale.

 

 



[1] Con il titolo Il problema doganale [ndr].

[2] Con il titolo Tracotanze protezionistiche [ndr].

[3] Con il titolo Tracotanze protezionistiche, ne Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 399-406[ndr].

Lettera quattordicesima. Il commento della farmacia del villaggio

Lettera quattordicesima.
Il commento della farmacia del villaggio
«Corriere della Sera», 17 ottobre 1919
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 185-197
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 468-475

 

 

 

 

Signor direttore,

 

 

Il farmacista del mio villaggio, i cui scaffali si adornarono del breve corso di storia d’Italia di Ercole Ricotti e dell’atlante geografico del Marmocchi, vecchi ricordi di antichi studi, è esultante. Ha letto il discorso di Dronero dell’on. Giovanni Giolitti e vi ritrova tutte le idee che egli ha sempre accarezzato, tutte le verità che gli sono sempre parse evidenti. «Il nostro forte carattere» – il farmacista applica a se stesso, sebbene egli non appartenga precisamente al collegio di Dronero, le qualifiche che si convengono agli abitanti del monte in genere, anche se il monte ha una certa tendenza a degradare verso il piano – «sceglierà certamente l’austera via del dovere». Dopo essere stati «senza distinzione di parti e senza riserve unanimi nella devozione al re, nell’appoggio incondizionato al governo, nella illimitata fiducia nell’esercito e nell’armata» oggi ci dobbiamo accingere – sotto la guida di colui il quale ha pronunciato un discorso di una taglia tale che per trovare un uomo capace di «proferirne» uno consimile «bisogna risalire ai grandi del nostro risorgimento» – a ricostruire l’Italia. Tutti i farmacisti dei villaggi italiani ricostruiscono ogni giorno l’Italia e il mondo e sono felici di vedere in istampa il loro pensiero.

 

 

Prima di tutto bisogna – ed anche questa è sempre stata l’opinione nonché del farmacista, anche del parroco e del sindaco – cominciare a rifare la scuola. Il farmacista ha conservato il breve corso della storia d’Italia perché ogni tanto gli piace rinfrescarsi nella mente i ricordi del tempo quando nel suo paese c’erano gli stranieri, per liberarsi dai quali ci vollero secoli di «una serie non interrotta di lotta» ed insieme l’atlante del Marmocchi, per vedere subito, a colpo d’occhio, se uno stato è grosso o piccolo e val la pena o no di averlo per alleato ed amico; ma ha scaraventato lungi da sé la grammatica latina e la regia parnassi, perché gli suscitano il ricordo della licenza liceale non potuta ottenere e del «patentino» strappato, quando la cosa era possibile, con la semplice promozione dalla seconda classe liceale. Il parroco è d’accordo con lui nel dispregio delle scuole classiche, perché gli studi latini del seminario gli sono sempre sembrati più efficaci di quelli del liceo, oramai caduto dappertutto nelle mani dei «framassoni». Ed il sindaco assente, a quanto dicono gli altri due, per la buona ragione che di imparare il latino egli non ha mai avuto bisogno per fare quella onorata carriera nel regio esercito dalla bassa forza fino al grado di capitano, che gli ha permesso di reggere in età matura, finché durerà la «goldita» della sua pensione, le sorti del paese natio. E tutti tre, mentre giuocano ai tarocchi dietro il paravento e ricordano che lassù nella Rocca di Cavour, questo e il biliardo sono i passatempi favoriti anche dal solo «uomo di governo capace di spingere le forze antiche, di incanalare le energie nuove alla ricostruzione della nuova Europa» – che onore avere avuto le stesse idee dell’unico e più che maggiore uomo di stato «europeo»! – confessano il loro ingenuo stupore che ci volesse Giolitti per accorgersi che bisogna abolire quasi tutti i licei ed i ginnasi a rendere l’istruzione non soltanto «veramente pratica» ma anche «diretta a scopi veramente pratici». Chi non vede che invece delle attuali scuole medie bisogna creare «una vasta rete di scuole pratiche e specializzate di agricoltura e di arti e mestieri»? Se per insegnare in queste scuole non si troveranno subito maestri abbastanza esperti e «pratici» e se sarà difficile attirare ai politecnici incaricati di fabbricare quei maestri un numero bastevole di professori «al corrente di ogni passo della scienza» specie sotto la minaccia di veder messa la propria cattedra a concorso ad ogni dieci anni, poco male, commenta il farmacista. Per ora potremo nominar maestro qualche mutilato o qualche invalido di guerra, conseguendo così meglio lo scopo, che l’on. Giolitti giustamente addita, «di manifestare loro in ogni forma la riconoscenza del paese». Forse i mutilati preferirebbero qualche guiderdone diverso da quello di diventare lo zimbello di scolari scaltriti dallo studio esclusivo della «pratica»; ma farmacista e sindaco sono d’accordo nel ritenere che «con un po’ di pratica» si possano in poco tempo imparare tutti i mestieri. Anche i più difficili.

 

 

Quando tutto il popolo, nelle cui «mani saranno d’ora innanzi i destini dei Popoli», non avrà più la testa infarcita di reminiscenze classiche, di belle imprese e di trattati solenni e segreti, ma sarà in possesso di una «scienza tecnica veramente pratica» saranno impossibili le guerre. Tutti, coll’aiuto della fisica, della chimica, dell’elettrotecnica, della meccanica, sapranno fin da prima che in caso di guerra bisognerebbe «mettere in gara i sottomarini, gli aeroplani, i dirigibili, i gas asfissianti, i carri d’assalto, le artiglierie di portata oltre i 100 chilometri» ed altre simili diavolerie. Tutti saprebbero fin da prima, come avevamo preveduto noi, insieme con Giovanni Giolitti, che le guerre, tutte le guerre devono ormai «essere lunghissime» di «almeno tre anni» e quindi le guerre sarebbero impossibili quando il popolo avrà avocato a sé la direzione della politica estera – e qui l’occhio del farmacista va all’atlante del Marmocchi, aiuto inestimabile nelle discussioni invernali sulla preferenza da darsi a questa o quella alleanza in base al territorio, agli abitanti, alle frontiere più o meno «formidabili» -; sarà, come bene osserva l’on. Giolitti, «esclusa la possibilità che minoranze audaci o governi senza scrupoli riescano a portare in guerra un popolo contro la sua volontà». C’è in verità l’inconveniente che, se non in Italia altrove, qualche «governo senza intelligenza e senza coscienza riesca a portare in guerra un popolo contro la sua volontà». In tal caso bisognerà per forza accingersi all’impresa di rintuzzare il nemico, pur riconoscendo che l’impresa succitata «sarà ardua e richiederà gravi sacrifici». Ma, se i lumi della scienza veramente pratica si saranno diffusi in tutta Europa, come ce ne dà affidamento la «taglia» dell’uomo «che ha proferito il discorso di Dronero» non ci saranno più in Europa «conservatori di corta vista» e «Partiti reazionari» che possano scatenare guerre. Le guerre sono il frutto «dello spirito imperialista, di malsane ambizioni e di loschi interessi»; esse hanno per promotori lo spirito ed i partiti «reazionari» i quali hanno ridotto al silenzio ed a battere le mani sotto il tavolo i circa 300 deputati portatori di lettere e biglietti di visita nella portineria dell’on. Giolitti; lo spirito ed i partiti i quali «proseguirono una campagna di diffamazione contro il parlamento, ben comprendendo che essi, avendo contro di sé la maggioranza del popolo, non potevano mai avere la maggioranza del parlamento, che è l’espressione del suffragio universale».

 

 

Se al mondo ci fossero stati solo i 300 deputati «veramente pratici» le «classi privilegiate della società» avrebbero forse condotto il restante dell’«umanità al disastro», ma almeno l’Italia non sarebbe stata condannata «ad un mezzo secolo di esaurimento economico per arricchire una generazione di speculatori» e non sarebbe stata ridotta alla «totale rovina» a cui erano votati «quei paesi ai quali non avesse arriso una completa vittoria». E farmacista, parroco e sindaco, tentennando la testa, sono concordi nel riconoscere, sì, con l’on. Giolitti, che la nostra vittoria fu «completa e definitiva»; ma devono aggiungere melanconicamente, pure insieme all’on. Giolitti, che quella vittoria «completa e definitiva» ha tutta l’aria di una sconfitta e che le speranze di ottenere le città, i mari, i fiumi e le colonie che ci spettano sono, ahimè !, piccolissime.

 

 

Eppure ci voleva così poca «perspicacia» ad avere la «caratteristica della Storicità». Bastava essere uno «storico di razza» come è facilissimo diventare con il breve corso del Ricotti e l’atlante del Marmocchi. Bastava «soffrire e tacere, offerire alla patria il proprio dolore e nella solitudine della propria contemplazione e del proprio essere maturare il rinnovamente del proprio spirito, il ringiovanimento del proprio essere». Dopo queste taumaturgiche operazioni di reincarnazione, chi non era capace di comprendere, fin dal primo giorno, che «la temibile guerra avrebbe segnato l’inizio di un periodo storico assolutamente ed intieramente nuovo»? Bastava prendere in mano l’atlante del Marmocchi e «considerare» i colori diversi con cui dopo ogni grande guerra fu necessario pitturare le carte geografiche per persuadersi che le guerre segnano l’inizio di periodi storici nuovi. Stavolta la guerra «ha creato sulle rovine dei grandi imperi molti piccoli stati in conflitto fra di loro»; ha trasformato «gli ordinamenti politici, riducendo a minoranze i popoli retti a monarchia». Chi ama viver tranquillo e non desidera entrare, senza congruo preavviso, in un periodo storico «assolutamente ed interamente» nuovo, non può essere amico delle guerre, perché più o meno queste hanno sempre trasformato gli imperi in repubbliche e le repubbliche in imperi, fatto diventare duchi i conti e ridotti i regni a semplici ducati, hanno spezzato i grandi in piccoli stati e fatti diventare grandissimi alcuni tra i grandi.

 

 

Le guerre hanno sempre prodotto un gran rimescolio di regni e di teste coronate a partire da quelle di Alessandro Magno sino a quelle di Napoleone ed hanno sempre cagionato qualche novità di imposte e taglie, non gradite alla gente che ama giuocare a tarocchi nei retrobottega della farmacia di villaggio e non desidera essere costretta, nemmeno se lo propone l’on. Giolitti, a mettere al nominativo i titoli al portatore, facendo conoscere i propri affari intimi, anche i più gelosi, a tutto il vicinato.

 

 

Tanto più noiosa è questa faccenda dei regni che diventano repubbliche e degli stati grossi che si spezzettano in quanto adesso sappiamo che i cittadini tedeschi o quelli ex austro-ungarici, rovinati e impiccioliti dalla guerra, non potranno più fare i loro consueti viaggi in Italia e gli italiani non potranno più imparare da essi come si faccia a viaggiare all’estero con economia e senza lasciare mancie ai camerieri d’albergo. Pur tuttavia, quando i tedeschi viaggiavano in Italia, lo sbilancio commerciale era appena di un miliardo all’anno, mentre adesso perdiamo 20 miliardi all’anno, nei nostri affari cogli stranieri: fatto commentatissimo in tutte le farmacie ed i caffè d’Italia e destinato indubbiamente a condurre l’Italia alla rovina.

 

 

Tutta colpa, osserva giustamente il sindaco, di non aver «considerato» subito, come «considera» l’on. Giolitti, «che l’impero austro-ungarico, per le rivalità fra Austria e Ungheria e sovratutto perché minato dalla ribellione delle nazionalità oppresse, slavi del sud e del nord, polacchi, cechi, sloveni, romeni, croati, italiani, che ne formavano la maggioranza, era fatalmente destinato a dissolversi, nel qual caso la parte italiana si sarebbe pacificamente unita all’Italia». Consentono il farmacista ed il parroco, inteneriti dinanzi all’idilliaco spettacolo di tutti questi popoli che se ne vanno pacificamente ciascuno per conto suo a ricongiungersi alle rispettive madrepatrie; dei tedeschi emigranti volontariamente dall’Alto Adige, degli sloveni fuorusciti dal Goriziano e dall’Istria orientale, dei croati abbandonanti i sobborghi di Fiume per lasciare gli italiani liberi di ricongiungersi in pace con l’Italia. Ma, dentro al breve corso della storia d’Italia e all’atlante protestano Ricotti e Marmocchi, non dimentichi di essere stati storici e geografi d’Europa, oltreché d’Italia; e ricordano che nessuno stato si dissolse «fatalmente» permettendo alle sue membra di ricongiungersi pacificamente ad altri popoli. Dieci secoli e più durò l’agonia dell’impero romano, pur composto come l’Austria di popoli di favelle e credenze diverse.

 

 

Durò tre secoli la Francia a persuadersi della vanità dei suoi tentativi di egemonia sul mondo, dalla battaglia di Pavia che fiaccò Francesco I a quella di Waterloo che ruppe il sogno napoleonico. Ci vollero guerre lunghe e sanguinosissime a persuadere la Spagna che l’impero su cui il sole mai non tramonta non aveva diritto di opprimere lombardi e napoletani, siciliani e sardi, fiamminghi e messicani, peruviani ed argentini. Se i pacifici giuocatori delle partite ai tarocchi e ricostruttori serotini delle carte politiche avessero potuto sentire le impressioni scambiate tra i due maestri di storia e geografia alla generazione piemontese che fu contemporanea di Giovanni Giolitti, si sarebbero avveduti che Ricotti e Marmocchi eran d’opinione che senza un gran cataclisma l’Austria-Ungheria non si sarebbe decisa a «dissolversi». Essi che erano storici e geografi alla buona, almeno tanto grandi come Giovanni Giolitti è sommo politico alla buona, non conoscevano esempi di imperi che si dissolvono, senza un grande commovimento dei regni e dei popoli aspiranti alla loro eredità. Sotto i replicati assalti di Napoleone, dell’Italia, e della Russia, l’impero austro-ungarico era rimasto vivo, quasi più forte di prima, fornito di un esercito da molti reputato il primo del mondo. D’un tratto, si scopre che, fin dal 1914, vi è chi crede che quell’impero è destinato a dissolversi, mentre la Germania gli è alleata, mentre l’Italia dovrebbe rimanere neutrale e degli stati nemici, Francia ed Inghilterra sono lontane e ansiose di tirarlo, con bei trattamenti, dalla parte loro, la Serbia è una quantità trascurabile, e la Russia «pareva dubbio potesse resistere ad una guerra di molti anni». Ma, si sa, i miracoli in politica si possono compiere solo dai geni; e solo un genio come colui, a paro con la cui voce «non s’è alzata dalla cessazione delle armi in Europa alcuna voce che possa neppur da lontano reggere al confronto» poteva concepire un fatto storico grandioso come quello di uno stato il quale misteriosamente si dissolve in conspetto di nemici morti o sorridenti. Tanto più corre l’obbligo a farmacisti, parroci e sindaci di villaggi di credere alla parola «austera» che annuncia il verbo del «dovere»: il dovere di prendere tutto senza nulla sacrificare.

 

 

Per non aver sentita la voce del dovere, l’Italia si trova ora ridotta allo stremo di assistere al trionfo dell’imperialismo anglosassone. Sicché maggiore appare la colpa di quei giovani pieni di intelligenza e coscienza, i quali non si accorsero mai, mentre tutti i lettori del giornale devoto allo statista erede delle grandi tradizioni piemontesi lo sapevano a memoria sin da tempo immemorabile, che la grande guerra era una lotta «per la egemonia del mondo» fra Germania ed Inghilterra. Interesse dell’Italia era che nessuna vincesse l’altra, per poter seguitare a ballare sulla corda dell’equilibrio tesa tra i due giganti della terra e del mare. Quanto diverso il compito dell’Italia da quello, che inconsultamente si proposero gli Stati uniti, di rompere l’equilibrio delle forze tra i due e farlo pencolare in modo risoluto e definitivo dalla parte inglese! Qual mai tarantola punse gli Stati uniti ad una risoluzione a cui «nel 1915 nessuno pensava né poteva pensare»? Se non era di quei transmarini disturbatori dell’equilibrio europeo, la guerra poteva durare qualche altro anno e forse finire con la vittoria germanica. Poco male, conchiudono quasi senza avvedersene, tratti dalla logica ferrea e semplice dello statista di Dronero, il farmacista, il parroco e il sindaco. Perché uno solo deve avere tutto? Agli inglesi spettava il mare e ai tedeschi la terra. Il guaio si è, commentano tra le morte pagine i Ricotti e i Marmocchi, che il dominio dei mari giova alla sicurezza delle comunicazioni, mentre il dominio della terra uccide le idee e trasforma l’anima dei popoli, facendoli dimentichi delle tradizioni e delle glorie nazionali. Questo non sentono i farmacisti di villaggio che hanno vissuto, leggendo il discorso di Dronero, un’ora di compiacimento dinanzi alla visione dei balli di corda trasportati dalle aule di Montecitorio alla grande scena della storia. Ma i 500.000 morti del Carso, del Grappa e del Piave gridano di aver sacrificata la loro vita appunto perché l’Italia cessasse di essere l’infima delle pedine nel giuoco degli equilibri europei e diventasse attrice nel grande giuoco mondiale dove si giuoca nei secoli l’avvenire delle nazioni degne di vivere.

 

 

Dare il buon esempio

Dare il buon esempio

«Corriere della Sera» 27 agosto 1919

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 167-172

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 219-223

 

 

 

 

La circolare dell’on. Nitti ai prefetti per inculcare agli italiani le virtù del risparmio e del lavoro ha un’intima virtù persuasiva, la quale non abbisogna di commenti. Tanto meno questi commenti sono necessari in un giornale che, da anni, fin dall’inizio della guerra, ha sempre predicato quel vangelo, forse non senza meraviglia di quelli tra i suoi lettori, i quali non si persuadono che le verità semplici ed elementari non diventano carne della propria carne, forza attiva ed operante, se non sono ripetute ogni giorno per anni fino alla noia, fino alla esasperazione. Anche l’on. Nitti si ripete, perché sa che se i buoni sono facili a persuadere, i fiacchi, gli abitudinari, i renitenti debbono essere scossi, esasperati e costretti a riflettere ed a vergognarsi.

 

 

Voglia però l’on. Nitti consentirmi di aggiungere – non perché egli non lo sappia, ma perché parmi non tutti i frutti del suo insegnamento siano stati colti dai suoi colleghi e, più ancora che da questi, dai funzionari dei ministeri – che, insieme alla figura della ripetizione giova assai a persuadere il pubblico il buon esempio. Predicare eccellentemente, come fa il primo ministro italiano, è buona cosa; dare il buon esempio è tre volte ottima cosa.

 

 

Disse l’on. Nitti che il governo americano non vuole più, come governo, fornire credito all’Europa e che i privati americani lo forniranno solo quando noi dimostreremo di volere risparmiare, produrre, garantire la sicurezza e di non destinare i denari ricevuti a prestito a nuovi armamenti. Questo è un monito grave, il quale dovrebbe essere attentamente ascoltato dai nostri ministri militari. Sembrano più frequenti gli invii di classi in congedo e pare che per la metà del mese sarà compiuto il congedamento della classe del 1893. Col prossimo richiamo della classe del 1900, saranno sette classi mantenute sotto le armi. Sono davvero tutte necessarie? Sovratutto è necessario mantenere in servizio tutti gli ufficiali e sottufficiali di classi già congedate che ancora pesano sul bilancio dello stato? Il sottosegretariato alle armi e munizioni oramai si può considerare sciolto; ma il ministero della guerra ha fatto altrettanto per sfollare gli uffici da lui dipendenti? A sentire le lettere inquiete di ufficiali, i quali sono ansiosi di ritornare al lavoro abbandonato da anni, con loro gravissimo danno economico, parrebbe di no.

 

 

«Pur tenendo conto – mi scrive un ufficiale – di tutte le occupazioni nostre al confine, in Asia ed in altre località e delle vere esigenze del servizio territoriale, il numero degli ufficiali alle armi è enormemente sproporzionato alle necessità reali. Per persuadersene basta informarsi del numero stragrande di ufficiali occupatissimi a non far niente presso i depositi territoriali (a… una sessantina circa di ufficiali stanno facendo la cura intensiva del sonno), presso i comandi di grandi unità territoriali e mobilitati, presso i depositi di mitraglieri, presso i governatorati, le commissioni ed uffici svariatissimi e copiosissimi… Conclusione: non si potrebbero congedare tutti gli ufficiali fino alla classe ’95 o ’96, i quali siano in grado di dimostrare sul serio che, appena mandati a casa, troverebbero subito lavoro?».

 

 

Queste osservazioni mi paiono calzanti. Esse sono suffragate da lettere di sottufficiali, i quali si lagnano di essere dichiarati «insostituibili» e perciò mantenuti in servizio solo perché è comodo a taluni ufficiali superiori e subalterni mantenere in vita un ufficio che potrebbe essere eliminato o grandemente ridotto e quindi hanno bisogno di far comparire quell’ufficio in forza ed operoso per continuo movimento di carte più o meno interessanti.

 

 

I ministri militari debbono por mente alla necessità di dare il buon esempio. Ogni soldato, ogni ufficiale trattenuto sotto le armi oltre il necessario è un consumatore di troppo, un produttore di meno. Quando è in giuoco la salvezza del paese, fa d’uopo sopportare ogni sacrificio; ma quando il fine della difesa nazionale è conseguito, è errore grave, colpa inescusabile togliere uomini produttivi ai campi, alle industrie, ai commerci.

 

 

Risparmiare è necessario oggi quasi altrettanto come il produrre. Sono ben lieto che finalmente il governo si sia deciso a porre fine alla politica del buttare dalla finestra ogni anno 2 miliardi e mezzo, che mi si dice stiano per diventare 3 e mezzo per mantenere artificialmente basso il prezzo del pane, a meno di 80 centesimi il chilogrammo. Noi non sappiamo quanto costi il frumento estero al governo, e solo dalle cifre di perdita annunciate dagli on. Nitti e Murialdi siamo indotti a dubitare che il prezzo oscilli tra 150 e 170 lire il quintale. Se fosse instaurata la libertà del commercio dei grani, il pane costerebbe più di 1,50 il chilogrammo ed i produttori interni di frumento vedrebbero raddoppiare e forse più il prezzo del frumento, che oggi è abbastanza remunerativo a 75 lire. Consentir ciò sarebbe pericoloso; e perciò si può ammettere che il governo mantenga ancora per un anno il monopolio del commercio del grano, allo scopo di fare una media fra le 150 lire pagate all’estero e le 75 lire pagate all’interno. Ma fare una media, vuol dire vendere a 100-120 lire – dico cifre approssimate in difetto di quelle precise non note – non già vendere ad 80 per il gusto di perdere circa 3 miliardi di lire all’anno. Un governo, il quale inculca il dovere di produrre, non deve dare il cattivo esempio di produrre in perdita; ché gli insegnamenti di coloro i quali fanno male i propri affari non sono ascoltati di solito con molta reverenza. La perdita è subita per ragioni politiche, dicesi; ma parmi dicasi a torto, ché gli italiani sono troppo intelligenti per capire che lo stato non può perdere miliardi per dare pane a sotto costo, se non facendo pagare altrettanti miliardi di imposte ai medesimi italiani. Poiché pagare si deve, è meglio pagare apertamente nella sua sede naturale, senza correre il rischio di far sprecare farine buone a buon mercato come alimento agli animali da ingrasso, i quali prima si contentavano di crusca e farinette. Tutt’al più, si faccia una lista rigorosa di coloro che, essendo nullatenenti od avendo un reddito inferiore al minimo soggetto ad imposta diretta (3,50 lire al giorno, secondo il diritto vigente), possono trovarsi nella impossibilità di pagare il pane al prezzo vero di costo; e si conceda a questi soli, non molti oramai in Italia, una tessera per il pane a prezzo ridotto. Quando le esortazioni non servono, lo stato deve ricorrere alla forza. È suo dovere ed è suo compito preciso. Lo stato si distingue da una qualsiasi associazione libera perché può dare ordini e farli eseguire colla forza. Se lo stato crede, ed a ragione, che il lusso sia un delitto ed il risparmio un dovere, imponga l’osservanza della sua credenza con i mezzi coercitivi i quali sono a sua disposizione.

 

 

È dubbio se di essi tragga partito a sufficienza. Dicesi da molti che a centinaia di migliaia entrino in Italia pacchi postali contenenti mercerie fini, pizzi di gran lusso, velluti, cappelli, piume ornamentali ed ogni sorta di cianfrusaglie desiderate dalle signore vanitose e dagli uomini perditempo. Io sono e continuo ad essere fautore della libertà di commercio, e vorrei che i divieti di importazione fossero ridotti ai soli oggetti di lusso, che nelle condizioni attuali della bilancia commerciale noi non possiamo comperare. Non vorrei che fosse frastornato il commercio estero condotto per mezzo dei pacchi postali, divenuti uno degli strumenti più comodi e indispensabili per ovviare alle negligenze ed alle difficoltà dei trasporti ferroviari. Ma non sembrami impossibile compilare una lista precisa di oggetti di lusso, la cui importazione sia affatto proibita, stabilendo premi per i doganieri che confischino le merci vietate, insieme a multe rigorose per ogni caso di ritardo nell’inoltro delle merci ammesse. Non si deve imporre alcun vincolo ed alcun ostacolo in genere ai pacchi postali, ma evitare che merci di lusso vietate entrino col pretesto dei pacchi postali. Le grandi dogane conoscono benissimo speditori e destinatari di questa merce inutile e poche lezioni energiche basterebbero a dimostrare che il governo è deciso ad applicare coi fatti i suoi insegnamenti.

 

 

Se i divieti non bastano, ci sono le tasse. Cinematografi, gioielli, profumerie sono troppo poco tassati, meno del 50 per cento del loro valore. Quando lo zucchero è tassato a più del 200 per cento, il sale al 400 per cento ed altre derrate necessarie con percentuali fortissime, come si può esitare a crescere la tassazione sulle inutilità sovra menzionate ed a tassarne altre ancora? Sta bene tassare i patrimoni ed i redditi; ma sta ancor meglio tassare i consumi non di prima necessità. Chi ha costituito un patrimonio o produce un reddito, osserva certamente il primo precetto dell’on. Nitti: produrre, molto probabilmente osserva anche il secondo: risparmiare. Quindi la tassazione dei patrimoni e dei redditi risponde talvolta a necessità politiche, quasi sempre a ragioni di giustizia tributaria; ma può essere assai pericolosa economicamente, col recidere i nervi di quei motivi di produrre e di risparmiare che sono le più grandi necessità del momento presente. Quelle imposte hanno dunque insieme col diritto, anche il rovescio della medaglia. Le imposte, invece, sui consumi non necessari non hanno rovescio. Esse sono le ottime. È magnifica quella sul tabacco; sarà fecondissima quella sul vino, specie se collegata con una forte tassazione delle licenze per spacci di bevande alcooliche, progressiva in ragione composta dello spaccio lordo, del fitto dei locali e del reddito netto. Ma non bisogna trascurare quelle minori sui singoli consumi di lusso. Chi spende oggi inutilmente per fini che non siano la conservazione delle proprie energie fisiche ed il perfezionamento delle proprie attitudini intellettuali e morali; chi spende per spendere, per sfarzo, per far vedere la propria superiorità sugli altri, colui è nemico della patria e va perseguitato con le imposte, come se fosse un cane rabbioso.

 

 

Lettera tredicesima. I vinti ed i vittoriosi

Lettera tredicesima.
I vinti ed i vittoriosi
«Corriere della Sera», 25 agosto 1919
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 169-184
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925)[1], vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 460-468

 

 

 

Signor direttore,

 

 

Leggendo le pagine nelle quali i commissari inquirenti presumono di avere descritto le cause della rotta di Caporetto, mi ritornavano alla mente quelle altre pagine nelle quali uno dei nostri più grandi scrittori militari, il generale Nicola Marselli, aveva tracciato or son più di quarant’anni le cause della vittoria che egli auspicava riportata dalle armi italiane nell’ultima, allora incerta e lontanissima, guerra d’indipendenza. Le avevo lette, quelle pagine profetiche, piangendo di dolore e di rabbia, all’indomani della rotta di Caporetto; e non mai come allora, dinanzi alla realtà della sciagura che minacciava di distruggere l’opera di tante generazioni, avevo sentito la verità dell’analisi che il direttore della scuola di guerra di Torino e teorizzatore della scienza della guerra aveva fatto delle cause per cui l’Italia doveva vincere. Erano cause tutte morali, educative, politiche, quelle che il Martelli metteva in luce. L’Italia aveva vinto non perché il suo esercito fosse stato provveduto di armi e di munizioni; non perché le sue frontiere fossero difese da inespugnabili fortezze; non perché l’apparato esteriore del suo esercito fosse impeccabile. No. Questi erano i fattori secondari della vittoria. La vittoria era venuta perché da qualche generazione gli italiani erano stati educati alla consapevolezza dei valori morali ed avevano appreso nella scuola e nella vita che cosa era la patria italiana, che cosa era lo stato nazionale; perché in tutte le classi sociali era diffuso il sentimento della comunanza di vita e di interessi e di aspirazioni ideali di fronte allo straniero. Aveva vinto perché uomini di stato compresi del loro dovere verso il paese avevano circondato l’esercito delle loro cure più assidue; avevano saputo attirare nelle sue file giovani saldi di carattere e ricchi di soda cultura per farne le guide del popolo in armi; sicché l’esercito era da anni divenuto tutt’una cosa con il popolo e questo, dall’aristocratico e dal ricco all’umile lavorante, lo amava come si ama un figlio, lo prediligeva come la parte più eletta di se stesso. Aveva vinto perché un’opera continua di educazione morale, proseguita dalle scuole elementari sino alle aule universitarie, a mezzo di un esercito di sacerdoti più che di maestri salariati, aveva insegnato agli italiani come si faceva a diventare doviziosi e forti nelle arti della pace; ma sovratutto come si doveva usare della ricchezza acquistata. Sicché gli italiani avevano moltiplicato i fondaci e le officine, avevano cresciuta la produttività dei campi e reso il lor paese uno dei grandi emporii del mondo; ma sapevano al tempo stesso che la ricchezza non si conquista per crescere i godimenti materiali, che essa è mezzo per una più alta vita spirituale e sdegnosamente respingevano il verbo venuto d’oltralpe il quale pretendeva elevare il ventre a divinità suprema ed erano pronti a sacrificare vita ed averi per difendere i sommi beni posseduti da un popolo, che sono l’unità e l’indipendenza, condizioni prime e necessarie di una vita piena e veramente ricca.

 

 

Perciò, nel momento critico in cui le sorti del paese si dovevano decidere, nell’ora del pericolo, l’Italia aveva posseduto un esercito, in cui i migliori uomini delle classi dirigenti guidavano un popolo disciplinato, sobrio, contento di fare sacrificio di se stesso, delle proprie comodità personali sull’altare della patria. Perciò dietro a questo esercito moralmente invincibile stava un popolo consapevole, che non si lamentava dei mali inflitti dalla guerra e volontieri rinunciava al superfluo pur di fornire il necessario ai suoi figli, i quali sacrificavano la vita per il paese. Perciò non erano sorte discordie fra duci dell’esercito in campo e statisti governatori del popolo difeso da quell’esercito; perciò non s’era saputo di rivalità fra generali; e l’esercito aveva trovato il duce designato dal consenso pieno di tutti a condurlo alla vittoria. E questa era venuta piena, sicura, definitiva, come il frutto maturo si distacca dall’albero, il quale lungamente l’ha nudrito con la sua linfa.

 

 

Ahimè ! come il quadro descritto dalla parola vibrante del generale Marselli ai giovani ufficiali suoi allievi era lontano dal ritrarre l’Italia esteriore del 1915, l’Italia politica del tempo in che fu dovuta dichiarare la guerra, ciononostante fortunatissima e meritamente fortunatissima! Morti i Lamarmora, i Cosenz, i Pianell, i Marselli, morti cioè gli educatori di quella gioventù la quale serbava le tradizioni di devozione, di fede, di sacrificio verso il re e la patria ereditate dall’esercito piemontese e le aveva innestate sui sentimenti di patriottismo e di slancio garibaldino propri delle guerre dell’indipendenza italiana. Morti i Cavour, i Ricasoli, i Sella, i Minghetti e dalla rivoluzione parlamentare del 1876 ridotti all’impotenza gli uomini, i quali avevano costrutto l’Italia nuova, le avevano dato un governo, una amministrazione, una scuola. Morti i Manzoni, i De Sanctis, i Carducci e gli altri pensatori e poeti, i quali avevano data vita e forma italiana all’idealismo ed avevano creato nelle anime, prima che gli statisti ed i guerrieri attuassero nella realtà, l’unità della nazione italiana, come altri grandissimi pensatori e poeti avevano creata l’unità della nazione germanica. All’alba magnifica succedeva una giornata incerta, di lavoro tumultuario e talvolta rimuneratore per i singoli, ma infecondo per la collettività. Nella scienza e nella scuola dominava il materialismo, distruttore dei valori spirituali, oscuratore dei fini per cui è bella la conquista della verità. Si studiò per diventare specialisti, esperti in questo o quel ramo di scienze. Si irrise ai fini ultra-terreni e, ridotto l’uomo a materia, scienza e scuola divennero uno strumento per dare a quella materia pasto succulento di godimenti fisici. Tutto divenne carriera e guadagno. Il sacerdozio, perché troppo poco lucrativo, fu abbandonato ai figli dei contadini. Maestri e professori nei ginnasi e nei licei diventarono coloro i quali, per accidente, avevano potuto a poco prezzo seguire corsi d’istruzione nei seminari o in scuole disseminate con larghezza nelle minori cittadine od eransi potuti recare alle università grazie ad antiche e nuove borse di studio. Le classi industriose disprezzarono con serena imparzialità, perché scarsamente redditizi, il sacerdozio, l’insegnamento, le arti liberali e la milizia; e si dettero ai commerci ed alle industrie senz’altra mira che quella della ricchezza. Forse fu questa la classe più utile al paese, perché pose le fondamenta economiche di un’Italia migliore, atta, dopo aver provveduto alle esigenze materiali della vita, a guardare in alto. Ma, nel frattempo, l’onda di pacifismo che aveva dopo il 1870 pervaso l’Europa occidentale, ancora esangue per le guerre napoleoniche e stanca dei trambusti e delle lotte nazionali seguite al 1848, aveva persuaso gli uomini che la milizia era un inutile peso, una necessità dolorosamente ereditata da epoche storiche dominate dall’assolutismo e dall’ignoranza. L’esercito non era dal popolo e dalle classi dirigenti guardato con orgoglio, come si guarda al difensore della patria, all’educatore della gioventù, al disciplinatore degli animi rozzi e violenti, all’organizzatore degli animi più saldi e dei caratteri più fermi, lieti di consacrare la vita alla missione di difendere lo stato contro i nemici interni e quelli esterni. Esso fu invece guardato con fastidio dal popolo, a cui sottraeva i figli negli anni più belli della giovinezza e con sopportazione dalle classi medie ed elevate a cui offriva un facile mezzo di collocamento per i figli meno atti ad altre più lucrose carriere. Tanto scemato era il senso di devozione allo stato, che quando dopo il 1898 l’esercito fu chiamato a tutelare l’ordine pubblico in occasione di scioperi e di tumulti, alcuni i quali sembravano il fiore dell’intelligenza tra gli ufficiali scrissero articoli per dimostrare che l’esercito non doveva essere chiamato a quell’ufficio, – pure onoratissimo e principalissimo in uno stato ben governato – ma ad esso dovevano bastare poliziotti assoldati all’uopo e perciò meritamente, a parere degli scriventi, oggetto del dispregio universale!

 

 

Il materialismo dominante nella scuola e nella vita trovò un potente alleato nella decadenza degli istituti politici e nella loro soggezione a quanti procaccianti vedevano nella adulazione demagogica la via più agevole a conquistare potere ed onori. La sconfitta, che nel 1876 ebbe a subire la vecchia destra, fu sconfitta altresì della antica sinistra, formata di cospiratori, di uomini che avevano rischiato la vita nelle galere borboniche o nelle fortezze austriache ed avevano, se non forse molta scienza di governo, almeno il sentimento dello stato e delle sue esigenze. Venne al potere l’orda dei trasformisti, dei depretisiani, dei giolittiani, la gente senz’arte né parte che ambì il potere per amore del potere, portata su dalle clientele e serva delle clientele. Arte somma di governo parve il quieta non movere; il gettare ad ogni tratto un’offa in bocca ai capi delle torme più schiamazzanti, l’usare il pubblico denaro per contentare i piccoli gruppi sociali che, con incessante vicenda, si susseguivano a raccogliere le briciole del banchetto statale. Poiché il conte di Cavour, per conseguire il fine sommo della liberazione dell’Italia dallo straniero, non aveva temuto di allearsi con la sinistra capitanata da un mediocre avvocato, parve sapienza di governo, tradizionale nella monarchia sabauda, chiamare a sé i vociferatori più fastidiosi. Depretis chiamò a sé Crispi, Rudinì si alleò con Nicotera, Giolitti ebbe per suo costante ideale l’alleanza effettiva, se non formale, coi socialisti ufficiali. Talvolta l’alleanza riuscì, perché il chiamato era un vero uomo di stato, più grande di colui che gli aveva aperta la via. Il sistema fu tuttavia indizio di incapacità a governare e di mancanza di ideali. Non giovava il ricordo del connubio cavouriano, il quale riuscì soltanto perché Cavour impose al socio idee e programma, lasciandogli solo la soddisfazione di essere chiamato al governo; mentre nelle recenti imitazioni erano prive di idee ambe le parti e solo associate dal desiderio di serbare il governo del paese. Cavour, che sapeva a qual meta indirizzarsi, si servì di Rattazzi come di uno strumento per raggiungere la meta. I suoi tardi imitatori, i Depretis ed i Giolitti, privi di ideali propri, immaginarono stoltamente che fosse grande statista colui il quale soddisfaceva premurosamente alle grida di coloro i quali si proclamavano le vestali del «progresso», i sacerdoti del «sole dell’avvenire». Privi di cultura politica, scambiarono i diversi vangeli massonici, radicali, socialisti, banditi a volta a volta nei settori di estrema sinistra, con le tavole della verità e credettero di aver salvati il paese e la monarchia iscrivendone i postulati nei discorsi del trono od in quelli di apertura del consiglio provinciale di Cuneo e dando un portafoglio ministeriale od un’alta carica curule o senatoria agli uomini che avevano scelta la via del parteggiare per le idee cosidette estreme come la più atta a condurre rapidamente al potere invece di quelle faticose dello studio perseverante e dei servigi onestamente resi ai concittadini. Per tal modo si diffuse la persuasione che il metodo più sicuro per diventare ministro del re fosse quello di vituperare la monarchia, l’esercito, le istituzioni politiche e sociali vigenti; e si propagò nelle classi politiche e burocratiche dirigenti uno scetticismo incurabile, per cui nessuno considera se stesso servitore dello stato, e tutti sono seguaci e pretoriani di questo o quell’uomo politico, legati alla sua fortuna, qualunque sia il verbo che provvisoriamente a lui piaccia far suo, a volta a volta clericale o socialisteggiante, liberale senza tinta e senza contenuto o radicale estremo. La vita politica parve esaurirsi nella lotta fra gruppi di persone, ognuna delle quali faceva professione di fede «più avanzata» dell’altra; e tutti facevano a gara a popolare i banchi di estrema sinistra, foltissimi di abitatori, i quali di nulla avevano più spavento che di essere creduti capaci di sedere a destra. In questo pantano si smarrivano i pochi i quali vedevano che l’Italia non si ristringeva a Montecitorio e che l’Italia era nel mondo. I problemi di politica estera trascurati ed ignorati; e, per l’ignoranza di essi, divenuta incomprensibile la ragion d’essere dell’esercito, tacciato di anacronismo e di improduttività. Nell’esercito stesso pochissimi gli uomini di fede, i quali serbassero la coscienza profonda dell’altissimo compito a cui erano chiamati.

 

 

Se questi soltanto fossero stati i fattori costitutivi dell’Italia nuova, la rotta di Caporetto sarebbe stata la logica ed inevitabile conchiusione del malgoverno di quarant’anni, della incapacità dello stato italiano a vivere di una vera vita statale e ad informare di sè, dei suoi ideali gli uomini viventi nel suo territorio. L’Italia ufficiale, l’Italia governante non meritava, no, di vincere. Chiunque aveva dimestichezza, anche soltanto parziale, con i ceti politici e burocratici e militari dirigenti, dovette nel 1915 pensare con raccapriccio agli errori irreparabili che da questi ceti dovevano fatalmente essere commessi e di cui le conseguenze non potevano non essere disastrose. Di giorno in giorno, nonostante le prove supreme di valore dell’esercito, nonostante le undici battaglie vittoriose, l’angoscioso pensiero pungeva: come è possibile che un governo debole, che una classe dirigente fatua, leggera, incolta, procacciante possa condurre l’Italia alla vittoria? Ed il dubbio atroce, insistente che Giolitti avesse ragione, quando riteneva che l’Italia non dovesse entrare in guerra, perché incapace a farla, quando argomentava che un popolo di gobbi non può alzarsi in piedi e guardare fissamente il nemico in viso e vincerlo, quel dubbio atroce non abbandonò un istante mai coloro che conoscevano anche solo una parte del vuoto spaventoso che aveva nome in Italia di vita politica.

 

 

Caporetto parve dar ragione a quei dubbi e vi fu un momento dell’ottobre indimenticabile del 1917 nel quale per un attimo passò attraverso la mente degli angosciati un pensiero ancor più atroce: «O forse non fu il risorgimento nazionale una parvenza passeggera? Esiste davvero un popolo italiano degno di vivere con tal nome o non è forse meglio che il nome scompaia del tutto e gli uomini viventi sul territorio chiamato Italia trovino con altra guida ed altri maestri la via atta a trarli fuori della bassura materialistica in che oggi paiono piombati?». Ma fu un attimo solo; ché il Grappa ed il Piave dissero al mondo e rivelarono a noi stessi che l’Italia c’era ed era ben viva ed era degna di una vita più alta.

 

 

Assente lo stato, assente il governo, assente la scuola, s’era formata un’Italia assetata di verità e di vita ed era essa che aveva vinto le undici battaglie dell’Isonzo e del Carso sotto la guida di un uomo, il quale poté anche commettere errori tecnici e psicologici, ma aveva una fede profonda nella patria e quella fede impose ad uomini di governo ed infuse in ufficiali ed in soldati; ed era essa che sotto la guida di nuovi duci aveva resistito sul Grappa e vinse poi la battaglia di Vittorio Veneto. No. Lasciamo che gli scribi si affannino oggi, con la glorificazione della rotta di Caporetto, a dar ragione a quello scrittore francese che su una rivista britannica – ben dissimile in ciò da tutte le sue più autorevoli consorelle – brutalmente dice che la grandissima vittoria nostra superò di gran lunga i nostri meriti (far above her deserts). Essi hanno ragione se con ciò affermano che la vittoria grandissima fu moltissimo superiore ai meriti della classe governante italiana dell’ultimo quarantennio; e di gran lunga superiore ai meriti dei partiti organizzati o di governo che oggi si apprestano a correre il pallio elettorale. Viene davvero il vomito a pensare che gli eredi politici di Vittorio Veneto possano essere socialisti ufficiali, clericali organizzati e liberali di stile giolittiano!

 

 

Ma la vittoria che distrusse un impero fu il guiderdone meritato di un’Italia nuova che s’era formata da sé al di fuori ed in contrasto coll’Italia governante e politicante. Come questa nuova Italia siasi formata è arduo indagare e descrivere; e quel capitolo significativo consacrerà la gloria dello storico futuro della battaglia di Vittorio Veneto. Noi, che ci viviamo in mezzo, a mala pena possiamo riconoscere le linee somme del fatto grandioso: istinti profondi di una stirpe civile ed antica, i quali si risvegliano nell’ora del pericolo; attaccamento del popolo delle campagne alla terra nativa e moto iracondo di ribellione a vederla conquistata e devastata da genti diverse e repugnanti; capacità nel popolo di resistenza ai patimenti ed alle fatiche spinta sino ad estremi inenarrabili; rivelazione di una coscienza nazionale formatasi in sessanta anni di unione politica; comparsa di una generazione di giovani dai 18 ai 30 anni, assai migliore, fisicamente, moralmente ed intellettualmente, delle due generazioni che la precedettero. Se qualche merito hanno avuto le generazioni ora vecchie e mature nel preparare Vittorio Veneto, esso consiste soltanto nell’aver reso possibile il sorgere di questa nuova generazione. La quale appartiene al medio ceto, è avida di sapere, impaziente della retorica e delle false formule politiche, sana di corpo e di spirito, capace di sacrifici silenziosi. Fu questa minoranza di ufficiali, la quale tenne in pugno i soldati nella lotta di logoramento dei terribili primi anni di guerra, dal 1915 al 1917. Furono questi giovani ed altri che presero il posto dei morti gloriosi, i quali trasformarono l’anima del fante, e divenuti fratelli e compagni del contadino e dell’artigiano, lo condussero alla resistenza prima ed alla vittoria poi. Una nuova classe dirigente si è formata nel Trentino, sul Carso, sul Grappa e sul Piave. Essa non conosce ancora la sua forza. Forse non la sa ancora usare; e probabilmente è bene non l’usi subito. Perché a vincere bastano cuor saldo, animo ardente e tenace, capacità di persuasione e di comando, e convinzione di difendere una causa giusta. Tutte queste qualità possiede l’eletta di giovani che condusse l’esercito di popolani e di contadini pazienti, tenaci e valorosi alla vittoria. Oggi un solo ostacolo deve essa superare per rendersi degna di governare il paese, succedendo alla accolta di istrioni politici che tanto scredito ha cumulato su di sé: la presunzione di essere capace di governare per il solo diritto della vittoria. Nei giornali e nei comizi dei combattenti v’è una santa aspirazione a fare. Ma v’è altresì una incertezza grande in quel che si deve fare. Essi brancolano nel buio, avidamente ansiosi di trovare la luce. Su tutti gli altri, essi hanno però il vantaggio di sapere come si giunge alla luce; perché sanno che la vita è una cosa seria, e che il pericolo non si supera senza coraggio e fermezza. I giovani appartenenti alla nuova classe dirigente devono passare dall’ideale indistinto del bene che sono chiamati a compiere, della missione che essi hanno di liberare l’Italia dalla classe politica corrotta ed ignorante che la sgoverna da quarant’anni, ad un ideale preciso e concreto di azione. La classe politica che governò l’Italia dal 1848 al 1876 fu grande, perché aveva patito, aveva osservato, aveva studiato, aveva scaldato l’animo a grandi ideali. Altrettanto deve fare la nuova classe dirigente. Essa deve espellere dal proprio seno i retori ed i furbi. Deve guardare in faccia la realtà ; studiare i problemi concreti; diventar capace ad affrontarli prima di aspirare al governo degli uomini. Se essa guarderà al governo del paese come ad una cosa altrettanto seria com’era serio il compito di vincere l’Austria, e vi si appresterà con religiosa reverenza e con fermezza modesta, essa avrà vinta una nuova grande battaglia. Non meno grande e non meno feconda per l’Italia di quella di Vittorio Veneto.

 

 



[1] Con il titolo I vinti e i vincitori. [ndr]

Incubi

Incubi

«Corriere della Sera», 8 e 12 agosto 1919,

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 382-393

 

 

La riforma tributaria

La riforma tributaria

«Corriere della Sera», 2 agosto 1919[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 21-27

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 342-349[2]

 

 

 

 

Ad una ad una le diverse categorie di pubblici impiegati hanno ricevuto un acconto sull’aumento di stipendio promesso dal governo o già godono di un nuovo e migliore organico. Per un po’ le lagnanze sembrano perciò acquetarsi ed il governo può avere l’illusione che il male sia curato e la tranquillità ritorni nelle numerose file dei suoi dipendenti.

 

 

Pura illusione; ché il male è più profondo di una semplice questione di stipendio e tocca alla radice dell’organizzazione del lavoro. Bisogna che il governo, in questi mesi di tranquillità relativa, tra la soddisfazione dell’ottenuto aumento di stipendio e l’inevitabile prima manifestazione di nuovo malcontento, sappia trovare la sua via. Bisogna che la gerarchia sia alleggerita; che le qualifiche troppo numerose e complicate siano abolite; che i capi si riducano a coloro che sanno veramente comandare e distribuire il lavoro; che sia ristabilita la circolazione tra centro e province; che sia tolto il contrasto tra direttivi ed esecutivi; che sia posto freno alle inframmettenze politiche; che sovratutto i migliori abbiano la sensazione di essere preferiti agli infingardi ed ognuno sia valutato, così materialmente come moralmente, sulla base dei suoi meriti.

 

 

Ciò è necessario in tutti i rami della pubblica amministrazione: per i magistrati come per i professori, per i militari come per i funzionari di polizia, per le prefetture come per gli uffici finanziari. Non v’è gerarchia tra i pubblici funzionari, quando l’ufficio è necessario. Frutta altrettanto allo stato il magistrato che rende bene giustizia, come l’agente delle imposte che spinge al massimo il gettito delle imposte ripartendole con equità; il postelegrafico che fa procedere sollecitamente il servizio come il professore che fa lezione con amore e cura lo spirito degli scolari. Vi è solo una gerarchia individuale di valori morali, per cui eccellono quelli che adempiono al proprio compito con coscienza, con passione, con devozione all’interesse pubblico.

 

 

Ci sia lecito tuttavia di ritornare, per la gravità e l’urgenza del problema, su una esemplificazione del problema generale degli impiegati pubblici, di cui abbiamo già parlato e su cui importa insistere affinché l’opinione pubblica ed il governo si persuadano della necessità della riforma. Vogliamo accennare ai funzionari finanziari. Qui il nesso tra la buona organizzazione del servizio e il rendimento per lo stato è evidente anche agli occhi dei ciechi. Date allo stato buoni funzionari, capaci, solerti, animati da spirito di vera giustizia per i contribuenti e da zelo per il pubblico servizio e le imposte esistenti frutteranno 100; date impiegati svogliati, malcontenti, abitudinarî, nemici per principio dei contribuenti e le stesse imposte frutteranno 25.

 

 

Qualunque riforma tributaria è pura ipocrisia, ciarlataneria, polvere negli occhi se non è preceduta da una riforma negli ordinamenti dei funzionari fiscali. Le altre categorie dei funzionari pubblici dovrebbero essere concordi, nel proprio interesse, a reclamare d’urgenza questa che può davvero chiamarsi la più grande riforma tributaria. Il magistrato, l’insegnante, il funzionario di prefettura ha diritto ad avere quel trattamento morale e materiale che compete al suo ufficio; ha il dovere di dare allo stato servigi equivalenti al trattamento ricevuto. Ma, perché un equo trattamento sia possibile, fa d’uopo che lo stato possegga i mezzi, ossia sappia ritrarre dai contribuenti secondo giustizia i miliardi necessari di imposte. Senza un adeguato gettito di imposte nulla si può fare. Nelle ferrovie, nelle poste e telegrafi il servizio può e deve bastare a se stesso: ferrovieri e postelegrafonici devono premere sul governo con tutta la forza della loro esperienza affinché il servizio dia il massimo rendimento col minimo costo. Solo così si salveranno i servizi economicamente e direttamente produttivi dal baratro finanziario che li minaccia e minaccia nel tempo stesso lo stato. Ma per tutti gli altri servizi pubblici, che non fruttano denaro, che costano, ma sono tuttavia fondamentali e necessarissimi- amministrazione civile, esercito, marina, giustizia, sicurezza, insegnamento, ecc., ecc. – i mezzi debbono essere forniti da una buona amministrazione finanziaria.

 

 

Purtroppo è doloroso dovere constatare che le cose vanno di male in peggio. Non bisogna lasciarsi fuorviare dal cresciuto gettito delle imposte. Queste fruttano di più quasi naturalmente, non per merito dell’amministrazione. Con prezzi doppi e tripli di prima, con redditi monetari cresciuti, anche le imposte le quali colpiscono i consumi ed i redditi espressi in moneta debbono per forza dare un rendimento maggiore. Che il gettito delle imposte sia cresciuto da 2.500 a 4.000 o 5.000 milioni di lire non è merito dell’amministrazione; è anzi un indice della sua scarsa e negativa efficienza. I quattro o cinque miliardi di oggi valgono meno dei due e mezzo di prima. Non rispondono ad un vero aumento; e non tengono neppure dietro agli aumenti nei prezzi e nei redditi. La verità è che l’amministrazione tassa oggi meno, scopre minor materia imponibile di quanto accadesse nel 1914.

 

 

Come potrebbe essere altrimenti? Nel campo delle imposte dirette, i migliori funzionari se ne vanno ad uno ad uno. Dovrebbero essere eroi se sapessero resistere alla tentazione di passare da stipendi di 4-10 mila lire a guadagni di 15, 20, 30 mila lire che possono ottenere come ragionieri di società anonime, di ditte private, come consulenti dei contribuenti contro la finanza. Quelli che rimangono fedeli allo stato – e ve ne sono ancora dei valorosi, i quali finiranno per andarsene – sono assolutamente impotenti a far fronte alla valanga di lavoro caduta su di essi. I vantati gettiti dell’imposta sui sopra profitti sono una illusione. Essi sono stati ottenuti a prezzo di abbandonare a se stesse le imposte preesistenti, il cui gettito si è irrigidito. Un presidente di commissione delle imposte mi scrive:

 

 

«Anche in questa regione così intensamente produttiva, l’agente superiore delle imposte ha appena ultimato l’accertamento dei sopraprofitti pel 1916 e si accinge a quelli del 1917! E, nonostante la sua eccezionale diligenza, nulla o quasi nulla fa pei redditi ordinari, tantoché la commissione mandamentale, ch’io presiedo, da molti anni è perfettamente inoperosa per assoluta mancanza di ricorsi. Anche la revisione dei fabbricati, che era stata provvidamente iniziata per l’enorme incremento verificatosi in questi paesi di villeggiatura, è stata completamente sospesa».

 

 

Si attui domani, come dovrà essere attuata, la riforma Meda; ed i funzionari dovranno abbandonare i sopraprofitti e concentrarsi sulla imposta globale sul reddito. Ne caveremo qualche centinaio di milioni; ma, se non provvediamo ad arricchire e ringiovanire le file dei funzionari accertatori, saranno denari rubati alle imposte esistenti, il cui gettito, se curato a dovere, dovrebbe essere doppio e triplo di quello d’oggi.

 

 

La imposta straordinaria sul patrimonio, annunciata dal governo, sarà un inganno elegante, una manipolazione elettorale demagogica, se non sarà preceduta da una riorganizzazione degli uffici. Senza di questa, quel tanto che darà la patrimoniale straordinaria sarà ottenuto a spese della complementare sul reddito o delle imposte normali; né potrà servire ai fini di riscatto del debito pubblico e dei biglietti circolanti in eccedenza.

 

 

Lo stesso si ripeta per gli altri rami della pubblica finanza. L’imposta successoria, pure colle tariffe attuali, già enormi, potrebbe rendere il doppio. Ma come potrebbero riuscire a ciò i ricevitori del registro, oberati da una infinità di attribuzioni, di tasse e tassette, costretti a lavori materiali, la voglia di far bene sul serio e fanno dettare ad essi lettere, in cui si sente l’ansia di chi vede il molto che potrebbe fare a pro dello stato e lo scoraggiamento di chi non può far nulla?

 

 

Invece di creare nuovi monopoli e nuove imposte di produzione, perché non si cura e non si riorganizza il corpo dei verificatori tecnici di finanza, a leggere il cui giornale di classe ed a sentire i cui rappresentati si acquista la convinzione che le imposte esistenti di produzione potrebbero fruttare, invece di 500 milioni, forse 800 e più?

 

 

Nelle dogane, il compito dei finanzieri è reso inutilmente arduo da una tariffa complicatissima, la quale minaccia di diventare ancora più complicata con le specificazioni a scopo protezionistico che commissioni e ministro vanno a gara ad annunciare. Semplificare la tariffa, ridurre il numero delle voci, dare ai dazi carattere prevalentemente fiscale ed elevare la capacità tecnica e la posizione dei finanzieri incaricati di applicare la tariffa: ecco le condizioni più sicure di un elevamento nel gettito di questo ramo di tributi.

 

 

Parecchie sono le condizioni le quali debbono essere osservate affinché questa prima e più grande riforma tributaria raggiunga il suo intento.

 

 

Se in molti rami dell’amministrazione pubblica ed anche di quella finanziaria gli impiegati sono troppi, in altri, ad esempio nelle imposte dirette, occorre aumentare il numero dei funzionari. È assurdo, stravagante che si crei una nuova imposta complementare sul reddito o se ne istituisca una straordinaria sul patrimonio mantenendo invariato il numero dei funzionari esistenti. Più che un lavoro per volta non si può fare; più di sette ore al giorno la massa degli impiegati non rimane in ufficio. Il tempo dedicato all’imposta nuova è sottratto alle vecchie. Creare nuovi tributi senza adeguati organi per applicarli è un pestar l’acqua nel mortaio.

 

 

I nuovi funzionari debbono essere reclutati con severità di criteri. Non basta assumere altri 400 o 500 agenti delle imposte. Se non qualificati, se privi di preparazione giuridica ed economica, costoro apparterranno al vecchio tipo degli aguzzini dei contribuenti e faranno più male che bene. Bisogna attirare a questa, come alle altre amministrazioni pubbliche, i migliori giovani delle classi colte dello stato.

 

 

Perciò bisogna rimunerare adeguatamente i vecchi funzionari come le nuove reclute. Gli stipendi pagati dallo stato possono essere, per la maggiore dignità e sicurezza dell’ufficio, minori degli stipendi privati. Ma non smisuratamente minori. Non si possono dare 3.000 lire a chi fuori guadagna 6.000; né 10.000 a chi agevolmente guadagnerebbe 20.000 lire nelle imprese private. Facendo così, allo stato giungono solo gli scarti, i quali si lamentano sempre e costano moltissimo in proporzione alla scarsa resa.

 

 

Perciò ancora, bisogna adeguare gli stipendi alle funzioni. In nessun ufficio occorre che le teste direttive siano molte. Dove sono troppi a comandare, nasce la confusione. Ma le poche teste veramente dirigenti e produttive debbono essere altrimenti pagate degli amanuensi. Adesso accade che in certi uffici delle imposte, funzionari che per tutta la vita non hanno fatto mai altro e non sarebbero capaci mai di far altro che ricevere e protocollare reclami e denunzie di contribuenti o compilar ruoli, sono pagati alla stessa stregua, e, se più anziani, maggiormente dei funzionari produttivi che scoprono ed accertano milioni di materia imponibile. Se il governo recluterà 500 nuovi agenti delle imposte, ma poi, avendo scoperto chi tra essi deve protocollare reclami e chi deve deciderli, li pagherà alla stessa stregua, farà più male che bene. Gli accertatori saranno assorbiti dalle industrie private e rimarranno i protocollisti. Anche questi sono necessari ed anch’essi debbono essere pagati decorosamente; ma immagino che essi medesimi nell’intimo della loro coscienza giudicano strano di essere pagati alla stessa stregua dei colleghi veramente produttivi per l’erario.

 

 

Bisogna dunque non solo saper pagare meglio, ma anche saper premiare i migliori. Non si può ad essi dare, sempre parlando degli agenti delle imposte, una provvigione in rapporto ai redditi accertati. Ciò sarebbe odioso, provocherebbe ingiustizie contro i contribuenti, toglierebbe ai funzionari il nome e l’abito di veri magistrati tributari. Ma il capo del servizio dovrebbe avere a sua disposizione un fondo cospicuo, proporzionato forse al gettito complessivo dei tributi diretti in tutto lo stato, da distribuire fra i diversi uffici locali delle imposte. Il criterio della ripartizione dovrebbe essere complesso: la produttività delle imposte sia in senso assoluto, sia, e forse più, in proporzione relativa alla difficoltà – ben nota ai pratici – degli accertamenti nelle diverse regioni; la mancanza di reclami fondati daparte dei contribuenti, la quale è indice della correttezza con cui i funzionari hanno saputo applicare la legge; la importanza delle proposte pratiche e concrete di riforma delle leggi vigenti provenienti dai funzionari esecutivi, le quali siano giudicate opportune dall’amministrazione, dietro parere, come propone il progetto Meda, della commissione centrale delle imposte dirette; la importanza delle economie ottenute nella gestione del servizio. Questo è un punto della massima importanza. Molte operazioni materiali, di copia, di compilazione di ruoli, ecc., non occorre siano affidate ad impiegati di ruolo, i quali debbono far carriera e costano un occhio del capo. Non è una assurdità pagare 500 o 600 lire al mese ad un semplice amanuense, solo perché è anziano? Invece di sprecare i denari in così malo modo, si diano le 6000 lire al capo ufficio, coll’obbligo della resa dei conti. Saprà ben egli trovare una signorina, un giovanotto felici di ricevere 100 o 150 lire al mese, supponiamo anche 200, i quali faranno un lavoro ugualmente ben fatto. Il risparmio dovrebbe essere per una parte, un terzo od un quarto, restituito all’erario e per la parte maggiore, due terzi o tre quarti, dato in premio al capo ed ai suoi collaboratori.

 

 

Senza dubbio, ciò contrasta ad una massima fondamentale dell’amministrazione italiana: che è la sfiducia, la quale fa ritenere capaci di concussione e di peculato tutti i pubblici funzionari, dal direttore generale all’ultimo usciere. Massima pestifera, la quale non impedisce le concussioni e produce solo controlli innumerevoli ed ingombranti, attraverso a cui i ladri passano con facilità ed agli onesti vien tolta la capacità di agire. Ad essa bisogna sostituire un’altra massima: se un funzionario è disonesto o sospettato di ladrerie e di corruzione, lo si licenzi; ma si abbia fiducia in coloro i quali sono conservati in ufficio. Più ancora dei compensi pecuniari, giova, a mantenere salda la compagine delle pubbliche amministrazioni, la fiducia, l’elogio opportuno dato ai migliori, la parola incoraggiante del ministro o del capo servizio fatta giungere a chi ha bene meritato del paese. Se un capo non conosce ad uno ad uno i suoi funzionari e non sa stimolarli, incoraggiarli, premiarli, quegli non è degno del suo posto. Creare questo ambiente di fiducia e di emulazione, ecco uno dei mezzi principali per rinnovare la burocrazia e renderla atta al suo gravissimo compito.



[1] Con il titolo La più grande riforma tributaria [ndr].

[2] Con il titolo La riforma tributaria. Il reclutamento dei funzionari delle imposte [ndr].

Il governo democratico del lavoro e la gioia di lavorare

Il governo democratico del lavoro e la gioia di lavorare

«Corriere della Sera», 30 luglio 1919[1]

Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti, 1924, pp. 254-266

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 333-341

Soluzione consensuale dei problemi del lavoro e gioia del lavoro sono i due principii informatori degli sperimenti grandiosi che si vanno facendo in Inghilterra per fare uscire dal turbamento della guerra un mondo più bello di quello antico. Avevano, come sempre, preparato la via i libri degli economisti, tra cui mi piace citare due soli: Wealth and Welfare – Ricchezza e benessere – del prof. Pigou e The Second Thoughts of an Economist del prof. Smart (ambi editi da Macmillan; e del secondo si può anche avere una prima notizia da un largo mio riassunto sotto il titolo Confessioni di un economista ne «La Riforma Sociale» del 1916). Oggi, molti libri di divulgazione si sono impadroniti dell’argomento, e questo viene discusso tra gli interessati con vivacità e con serietà. Ricorderò , tra i documenti più significativi il Memorandum on the Industrial Situation, preparato dalla fondazione Garton, e di cui è uscita recentemente una seconda edizione. Non è questo documento un’arma occasionale di reazione contro la rivoluzione russa, perché esso fu scritto nella primavera del 1916, fatto privatamente circolare in bozze di stampa tra industriali, rappresentanti del lavoro e uomini politici dal maggio al settembre 1916, emendato alla luce delle osservazioni ricevute e pubblicato in diecimila copie nell’ottobre 1916; e di nuovo, nell’attuale forma riveduta, nel gennaio di quest’anno. Nelle linee essenziali ivi è tracciato il programma di ricostruzione che oggi sta attuandosi in Inghilterra e che nettamente si contrappone alla distruzione che noi vediamo compiersi sotto i nostri occhi in Russia e che è stata tentata in Ungheria ed in Baviera. In Inghilterra si costruisce subito il nuovo edificio; usando e non frantumando i materiali esistenti.

Vorrei in pochi tratti spiegare le idee madri originate dai teorici, elaborate ed immedesimate dai pratici, dagli industriali, dagli operai, dai politici, sul fondamento delle quali oggi comincia la ricostruzione sociale dell’Inghilterra. Prima vengono le idee e poi i fatti. Se le idee sono di odio e sono false, da esse vien fuori il caos della notte medievale. Se le idee sono vere e feconde, vien fuori la vita, vien fuori la luce che illumina e guida.

Sono due le idee fondamentali e sono idee semplici e vecchie. Nuova è la loro larga applicazione. La prima è che all’industria si applichi la regola, la quale da secoli anima la vita pubblica inglese, del government by consent, del governo col consenso dei governati. Il succo di questa regola famosa non è che il governo dell’industria, come del paese, debba essere dato in mano ai governati. Questo è dottrinarismo puro, che in politica si traduce teoricamente nel Contratto sociale di Rousseau e praticamente nel terrore giacobino; in economia ha il suo vangelo nella Quintessenza del socialismo di Schäffle ed i suoi frutti nella rovina dell’industria russa. Le masse non governano direttamente; il governo diretto delle masse ha sempre prodotto il disordine ed il dominio dei tiranni di palazzo o di piazza.

Nemmeno vuol dire quella massima che gli operai e gli impiegati debbano partecipare al governo dell’impresa. Questa idea, la quale stava a base del vecchio partecipazionismo agli utili ed ha creato i moderni soviet russi ed i consigli di fabbrica tedeschi riduce la produzione e provoca il disastro economico. La struttura dell’industria – scrisse Bagehot, grande teorico delle forme di governo parlamentari e democratiche – tende sempre più a diventare monarchica. Una, rapida, pronta deve essere la deliberazione. Una la testa pensante e deliberante. Se per vendere, per comprare, per fare un impianto, per scegliere un indirizzo economico, per slanciarsi o trattenersi occorre chiedere il consenso degli operai, degli impiegati, non si fa più nulla. Le masse rifiuteranno, come è accaduto in Germania or ora, al principale il permesso di fare un viaggio di affari, quando una volta vedano che si sono spese migliaia di lire nel viaggio e l’affare non fu conchiuso. Non pensano che un’altra volta si poteva conchiudere. Negheranno di stabilire quote di ammortamento bastevoli; così come si fa già in tante imprese statizzate o municipalizzate, per non diminuire i saldi utili. Negheranno il consenso a tutto ciò che è incerto, aleatorio e che è compito e vanto dell’uno di intuire, di vedere, di afferrare. L’industria deperirà a vantaggio dei paesi concorrenti, in cui non esistano questi impacci disastrosi per governanti e governati.

No: il tipo del governo per consenso che tende ad affermarsi in Inghilterra si riferisce solo al governo dei problemi del lavoro. Il campo in cui è chiesto il consenso limitasi ai rapporti fra imprenditori e lavoratori. La vendita della forza di lavoro è la vera industria esercitata dai lavoratori. Il lavoratore non vende macchine, tessuti, giornali; vende forza di lavoro. Vuole venderla bene ed in modo da essere interessato a crescere il valore della merce venduta che è il lavoro; vuole intervenire nel modo con cui il suo lavoro è utilizzato, così da ricavarne nel tempo stesso vantaggio e piacere.

Il secolo decimonono ha visto un primo grandioso tentativo di attuare l’idea del governo del lavoro per consenso: e fu attraverso le trade-unions o leghe operaie. Prima avversate, poi riconosciute; prima deboli e locali, poi regionali, nazionali, provvedute di fondi e potenti. L’ultima parola nel campo dei rapporti fra capitale e lavoro sembrava questa: che le leghe operaie discutessero liberamente, da pari a pari, con le leghe imprenditrici, le questioni del lavoro; e che dal libero urto sorgesse l’accordo sui punti controversi. Grandi progressi furono compiuti con questa formula. Ma ad un certo punto si vide che essa non dava la soluzione desiderata, perché essa era una formula per risolvere la lotta, per eliminare il dissenso, non per creare il consenso. Le due parti stavano pur sempre armate l’una contro l’altra; non si conoscevano; diffidavano reciprocamente. L’accordo era una tregua provvisoria, una preparazione alla lotta successiva. In politica si uscì dalla contesa fra re, baroni e comuni, chiamando baroni e comuni in assemblea e facendo discutere da essi le cose dello stato, prima che il re procedesse all’esecuzione dei suoi propositi. E così baroni e comuni videro le difficoltà e le esigenze del governo ed essendosi persuasi della bontà degli scopi da raggiungere votarono le leggi ed i mezzi pecuniari all’uopo necessari.

Nell’industria la contesa fra capitale e lavoro deve essere eliminata nel medesimo modo. Perché le due parti contendono? Sovratutto Perché non si conoscono, perché l’una parte non ha potuto o voluto penetrare nella posizione mentale dell’altra. Ognuna di esse ha pensato solo a se stessa, non agli interessi collettivi; ognuna è venuta in contatto coll’altra in momenti e con sentimenti di ostilità, di antagonismo, talvolta di sopraffazione. La loro adunata fu quella di plenipotenziari nemici per negoziare un trattato di armistizio o di pace; non quella di un parlamento che delibera sugli affari comuni. Oggi, gli operai chiedono riduzioni di orario ed aumenti di paga come si chiederebbero ad un nemico; punto preoccupandosi se l’industria possa sopportare i nuovi oneri. Essi hanno ragione di non preoccuparsi delle sorti della particolare impresa che li impiega, perché la sorte di essa dipende dal valore od incapacità di chi ne è a capo. Ma essi dovrebbero conoscere quale influenza abbia in genere, sull’impresa media dell’industria interessata, una variazione nei costi del lavoro. Essi non hanno ragione di rinunciare a nulla per salvare un’impresa pericolante per inabilità dei suoi dirigenti; ma debbono imparare a non creare ostacoli inutili al progresso delle imprese migliori ed all’adozione di metodi tecnici perfezionati. Gli imprenditori dall’altro canto non conoscono le idee dell’operaio intorno al modo di lavorare, al tempo del lavoro, ai rapporti fra lavoratore e sovrastante, sono portati ad interpretare sinistramente la resistenza che il lavoratore oppone all’introduzione di macchine veloci, di metodi di cottimo o di premi o di intensificazione del lavoro.

Epperciò gli animi si inferociscono, ed ognuno crede di essere derubato dall’altro; ed alle adunanze delle leghe operaie e padronali si va coll’animo di fare «conquiste» o di resistere ad «assalti».

Bisogna sostituire al concetto della «conquista» sull’avversario il concetto della risoluzione di un problema di interesse comune. Il problema è: dare ai lavoratori quella quota del prodotto netto ed in quella maniera che valga a spingere al massimo la efficienza del lavoro di ogni lavoratore e la produttività di ogni impresa.

Per ciò non occorre, anzi sarebbe dannoso agli operai interessarsi nelle sorti delle singole imprese a cui sono addetti: essi, restando pari la loro abilità, verrebbero a riscuotere salari, a cagion d’esempio, di 5, 10, 15 lire a seconda che gli affari della ditta vanno male, mediocremente o bene. La diversità provocherebbe malcontento tra gli operai meno bene pagati, sarebbe un premio per gli industriali poltroni ed una multa per quelli abili, i quali traggono guadagno non dallo sfruttamento degli operai ma dal proprio spirito di invenzione o di iniziativa.

Agli operai importa invece fissare per tutti il salario a 10 e tendere a spostarlo gradatamente verso 15, in guisa da mandare in rovina gli imprenditori inabili e da eliminare gradatamente quelli mediocri, costringendoli, con la necessità di pagare il salario tipo a tutti, a diventare buoni e spingendo quelli buoni ad acquistare sempre maggiore eccellenza. A tal fine non occorre che gli operai governino l’impresa: scopo assurdo e dannoso massimamente ad essi medesimi, che interverrebbero a salvare gli imprenditori cattivi. Occorre che essi sappiano governare il proprio lavoro; che sappiano farsi degli alleati degli imprenditori buoni ed eccellenti, che possono pagare salari migliori, contro gli imprenditori inetti, i quali si lamentano sempre del caro di ogni cosa; e per farsi alleati i primi occorre sapere fissare il livello dei salari ad un punto che lasci ad essi ancora un margine di interesse a produrre.

Tutto ciò non si impara e non si fa durante le trattative in cui le due parti si incontrano a guisa di nemici; si deve invece imparare e decidere continuamente, permanentemente in comitati di fabbrica, in comitati di distretto, in parlamenti centrali, in cui ambe le parti siano rappresentate per elezione e siano chiamate ad esaminare e discutere le questioni di interesse comune. Questo è lo spirito del famoso rapporto presentato nel marzo 1917 dalla commissione presieduta dall’on. Whitley, rapporto che andrà nella storia sotto il nome di «Whitley-Report» e che adesso ha trovato la sua integrazione con la istituzione del parlamento del lavoro. Dire a priori che cosa questi comitati debbano decidere non si può. L’esperienza sarà la maestra. Vi sono problemi interni di fabbrica, che andranno esaminati dal comitato di fabbrica. Problemi più ampi, i quali meglio potranno essere portati dinanzi ai comitati locali. Altri di carattere nazionale, che dovranno essere sottoposti al parlamento del lavoro. Si comincierà a sottoporre ai comitati i problemi puramente operai; e via via si chiariranno alle menti delle due parti le interferenze di essi con i problemi generali dell’industria, con i mercati di compra e di vendita, con il problema fiscale. Il punto essenziale è che ogni problema sia discusso preventivamente, prima che la controversia sorga. Voglio citare un solo esempio. Qual è la ragione fondamentale per cui gli operai non sono favorevoli all’introduzione di quei sistemi di organizzazione cosidetta scientifica del lavoro, che sono conosciuti principalmente sotto il nome di sistema Taylor?

Sebbene i salari siano fatti crescere, la fatica diminuita, il prodotto triplicato o quadruplicato, – e di tutte queste verità si legge una esposizione chiarissima in un libretto di propaganda di Lino Celli Taylor e l’ordinamento scientifico del lavoro e i relativi problemi economico – sociali volgarizzati e spiegati agli operai (Ed. Marucelli, Milano), che consiglio vivamente di leggere ad industriali ed organizzatori – gli operai rimangono diffidenti. Dubitano che il nuovo metodo non sia che uno strumento di più intensa utilizzazione del loro lavoro, di rapido esaurimento delle loro energie e sia causa di disoccupazione. Bisogna che il sistema sia spiegato prima della sua introduzione; che i delegati degli operai siano persuasi a lasciar fare l’esperimento: che questo sia eseguito in perfetta buona fede; e che gli operai si persuadano che il sistema non nuoce e giova ad essi.

L’opera è faticosa e lenta. A conoscersi, ad apprezzarsi, a mettersi gli uni nei panni degli altri si arriva adagio. Ma è l’unica via in fondo alla quale risplenda una meta da raggiungere. È una via che non si può percorrere se non da industriali e da operai che si sforzino di capirsi. Or quando si sia giunti a capirsi a vicenda ed a capire il meccanismo dell’industria, il suo funzionamento, la sua vita di sviluppo e di concorrenza con le altre imprese, il dissidio non esiste più, perché più non esistono le classi in lotta. Gli operai avranno acquistato le qualità e le conoscenze necessarie per discutere, in materia di organizzazione del lavoro, le idee dei dirigenti e dare o negare il loro consenso. Gli imprenditori si saranno abituati a considerare se stessi come i capitani di una collettività. Essi conserveranno l’ambizione di riuscire, di primeggiare, di vincere; perché questa è una qualità umana, la stessa che ha il capitano, il politico, lo scienziato. Essi però avranno veduto che non si può salire molto in alto, lasciando dietro di sé a grande distanza le moltitudini. Queste, colla loro giusta richiesta di un salario tipo uniforme, furono fra le cagioni per cui egli vinse i suoi concorrenti ed egli perciò ha interesse a favorire, a provocare una loro progressiva elevazione.

Ma la elevazione non sarebbe possibile, se riguardasse solo problemi di salario valutato in denaro. Solo per denaro, né i capi né le moltitudini si sentono tratte a progredire, a migliorarsi, ad elevarsi. Qui viene in campo la seconda grande e semplice idea, la quale inspira il profondo rinnovamento della vita industriale britannica.

Smart, il compianto professore di economia politica di Glasgow, che prima di essere un teorico della «fredda» scienza nostra, fu un adepto di Ruskin, e fu per anni industriale operoso, scrisse pagine commoventi sulla «gioia del lavoro». Perché i capi di intraprese, perché i professionisti, perché gli studiosi non contano le ore di lavoro? Perché a nessuno di noi che studiamo, che scriviamo, che battagliamo per qualche cosa, per qualche idea non passa neppure per la mente di chiedere le sei o le sette o le otto o le dodici ore; ma seguitiamo a lavorare finché la mano non è stanca, finché la mente si rifiuta a seguire il filo delle idee scritte nel libro? Perché l’industriale milionario, perché il miliardario americano è di solito un lavoratore accanito, che poco gusta i piaceri materiali, mangia rapidamente senza riflettere a quel che inghiotte e dorme poco e si uccide col lavoro anzi tempo? Perché noi, studiosi, pubblicisti, professionisti, industriali abbiamo la febbre del lavoro. Perché per noi il lavoro non è fatica, ma gioia, ma vita. Perché ci parrebbe di morire veramente, qualora ci fosse negata la gioia di lavorare, di vedere l’opera nostra crescere sotto i nostri occhi e compiersi. Non ne siamo malcontenti ed aspiriamo a qualcosa di più perfetto, che mai non si raggiunge. Non è l’amor del lucro che muove coloro che sanno la gioia del lavoro. È il piacere di fare, di perfezionarsi, di ottenere il risultato voluto. La lotta per il miliardo in fondo è della stessa natura della lotta per la scoperta scientifica. Il miliardo non è poi goduto, quando lo si possiede. Ma è desiderato istintivamente dal grande capitano dell’industria, Perché quella è la dimostrazione che egli è davvero un duce, un capitano nel campo suo.

Tolgasi la gioia del lavoro ed il lavoro diventa insipido, quasi repulsivo. Se l’unico movente del lavoro è lo stipendio od il salario, è rotta la molla che spontaneamente spingeva l’uomo a faticare.

Vi erano e vi sono ancora molti lavori umili e manuali in cui esiste la gioia del lavorare. È una gioia per l’artigiano indipendente finire il lavoro per il cliente e veder questi contento della bontà dell’oggetto acquistato o della giustezza della riparazione eseguita. È una gioia per il contadino veder l’albero e la vite potata, mondo il terreno dalle male erbe, difese le fronde ed i frutti dalle malattie. Anche se vien la grandine, rimane l’orgoglio di aver fatto quanto era necessario per ottenere il raccolto.

Bisogna che l’operaio dell’officina, che il lavoratore della grande agricoltura industriale ritornino a sapere che cosa è la gioia del lavoro. Ferrea deve rimanere la disciplina della fabbrica; Perché dal disordine non nasce nulla. Il lavoro non può non essere diviso tra i lavoranti ed aiutato dalla macchina. Ma ognuno deve conoscere la ragione del lavoro compiuto; deve avere compreso Perché il lavoro deve essere fatto in quel certo modo, per raggiungere quella meta. Non basta che le ore di lavoro si riducano, che il salario aumenti, che la fabbrica sia chiara, luminosa, provveduta di bagni e di giardini; non basta che la casa linda e lieta di bimbi festanti e rallegrata dall’orto attenda il lavoratore dopo la fatica quotidiana. Tutto questo è necessario a farsi. Dovrà farsi a poco a poco, a mano a mano che gli enti pubblici, gli industriali, gli operai sentiranno che la prosperità industriale è legata alla educazione, alla salute fisica, alla morigeratezza di una vita familiare attraente. Ma tutto ciò non è ancora un dar l’anima, che manca, al lavoro compiuto. L’uomo bruto, che pensa solo a mangiare e bere, sarà per sempre impenetrabile a questi sentimenti, a qualunque classe egli appartenga. Ma vi sono molti che hanno la sensazione della mancanza di un’anima nel lavoro che fanno. Costoro sono i conduttori di quelli che se ne stanno contenti della vita animale. A costoro bisogna dare, pur nelle officine, pur negli uffici, la gioia del lavoro. Scopriremo un po’ alla volta il modo di darla. Oggi il problema è posto. Sarà risoluto, come ogni altro, per tentativi. La discussione preventiva nei comitati di fabbrica, di distretto, e nei parlamenti nazionali del lavoro, appassionerà gli uomini al loro compito. Quando il compito giornaliero parrà ad ogni uomo cosa propria, voluta da lui, deliberata col suo consenso, in quel giorno a tutti gli uomini volonterosi sarà dato di godere la gioia del lavoro, uno dei beni supremi della vita.


[1] Con il titolo I problemi della ricostruzione sociale. Il governo democratico del lavoro e la gioia di lavorare [ndr].

Il governo democratico del lavoro e la gioia di lavorare

Il governo democratico del lavoro e la gioia di lavorare

«Corriere della Sera», 30 luglio 1919[1]

Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti, 1924, pp. 254-266

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 333-341

Soluzione consensuale dei problemi del lavoro e gioia del lavoro sono i due principii informatori degli sperimenti grandiosi che si vanno facendo in Inghilterra per fare uscire dal turbamento della guerra un mondo più bello di quello antico. Avevano, come sempre, preparato la via i libri degli economisti, tra cui mi piace citare due soli: Wealth and Welfare – Ricchezza e benessere – del prof. Pigou e The Second Thoughts of an Economist del prof. Smart (ambi editi da Macmillan; e del secondo si può anche avere una prima notizia da un largo mio riassunto sotto il titolo Confessioni di un economista ne «La Riforma Sociale» del 1916). Oggi, molti libri di divulgazione si sono impadroniti dell’argomento, e questo viene discusso tra gli interessati con vivacità e con serietà. Ricorderò , tra i documenti più significativi il Memorandum on the Industrial Situation, preparato dalla fondazione Garton, e di cui è uscita recentemente una seconda edizione. Non è questo documento un’arma occasionale di reazione contro la rivoluzione russa, perché esso fu scritto nella primavera del 1916, fatto privatamente circolare in bozze di stampa tra industriali, rappresentanti del lavoro e uomini politici dal maggio al settembre 1916, emendato alla luce delle osservazioni ricevute e pubblicato in diecimila copie nell’ottobre 1916; e di nuovo, nell’attuale forma riveduta, nel gennaio di quest’anno. Nelle linee essenziali ivi è tracciato il programma di ricostruzione che oggi sta attuandosi in Inghilterra e che nettamente si contrappone alla distruzione che noi vediamo compiersi sotto i nostri occhi in Russia e che è stata tentata in Ungheria ed in Baviera. In Inghilterra si costruisce subito il nuovo edificio; usando e non frantumando i materiali esistenti.

Vorrei in pochi tratti spiegare le idee madri originate dai teorici, elaborate ed immedesimate dai pratici, dagli industriali, dagli operai, dai politici, sul fondamento delle quali oggi comincia la ricostruzione sociale dell’Inghilterra. Prima vengono le idee e poi i fatti. Se le idee sono di odio e sono false, da esse vien fuori il caos della notte medievale. Se le idee sono vere e feconde, vien fuori la vita, vien fuori la luce che illumina e guida.

Sono due le idee fondamentali e sono idee semplici e vecchie. Nuova è la loro larga applicazione. La prima è che all’industria si applichi la regola, la quale da secoli anima la vita pubblica inglese, del government by consent, del governo col consenso dei governati. Il succo di questa regola famosa non è che il governo dell’industria, come del paese, debba essere dato in mano ai governati. Questo è dottrinarismo puro, che in politica si traduce teoricamente nel Contratto sociale di Rousseau e praticamente nel terrore giacobino; in economia ha il suo vangelo nella Quintessenza del socialismo di Schäffle ed i suoi frutti nella rovina dell’industria russa. Le masse non governano direttamente; il governo diretto delle masse ha sempre prodotto il disordine ed il dominio dei tiranni di palazzo o di piazza.

Nemmeno vuol dire quella massima che gli operai e gli impiegati debbano partecipare al governo dell’impresa. Questa idea, la quale stava a base del vecchio partecipazionismo agli utili ed ha creato i moderni soviet russi ed i consigli di fabbrica tedeschi riduce la produzione e provoca il disastro economico. La struttura dell’industria – scrisse Bagehot, grande teorico delle forme di governo parlamentari e democratiche – tende sempre più a diventare monarchica. Una, rapida, pronta deve essere la deliberazione. Una la testa pensante e deliberante. Se per vendere, per comprare, per fare un impianto, per scegliere un indirizzo economico, per slanciarsi o trattenersi occorre chiedere il consenso degli operai, degli impiegati, non si fa più nulla. Le masse rifiuteranno, come è accaduto in Germania or ora, al principale il permesso di fare un viaggio di affari, quando una volta vedano che si sono spese migliaia di lire nel viaggio e l’affare non fu conchiuso. Non pensano che un’altra volta si poteva conchiudere. Negheranno di stabilire quote di ammortamento bastevoli; così come si fa già in tante imprese statizzate o municipalizzate, per non diminuire i saldi utili. Negheranno il consenso a tutto ciò che è incerto, aleatorio e che è compito e vanto dell’uno di intuire, di vedere, di afferrare. L’industria deperirà a vantaggio dei paesi concorrenti, in cui non esistano questi impacci disastrosi per governanti e governati.

No: il tipo del governo per consenso che tende ad affermarsi in Inghilterra si riferisce solo al governo dei problemi del lavoro. Il campo in cui è chiesto il consenso limitasi ai rapporti fra imprenditori e lavoratori. La vendita della forza di lavoro è la vera industria esercitata dai lavoratori. Il lavoratore non vende macchine, tessuti, giornali; vende forza di lavoro. Vuole venderla bene ed in modo da essere interessato a crescere il valore della merce venduta che è il lavoro; vuole intervenire nel modo con cui il suo lavoro è utilizzato, così da ricavarne nel tempo stesso vantaggio e piacere.

Il secolo decimonono ha visto un primo grandioso tentativo di attuare l’idea del governo del lavoro per consenso: e fu attraverso le trade-unions o leghe operaie. Prima avversate, poi riconosciute; prima deboli e locali, poi regionali, nazionali, provvedute di fondi e potenti. L’ultima parola nel campo dei rapporti fra capitale e lavoro sembrava questa: che le leghe operaie discutessero liberamente, da pari a pari, con le leghe imprenditrici, le questioni del lavoro; e che dal libero urto sorgesse l’accordo sui punti controversi. Grandi progressi furono compiuti con questa formula. Ma ad un certo punto si vide che essa non dava la soluzione desiderata, perché essa era una formula per risolvere la lotta, per eliminare il dissenso, non per creare il consenso. Le due parti stavano pur sempre armate l’una contro l’altra; non si conoscevano; diffidavano reciprocamente. L’accordo era una tregua provvisoria, una preparazione alla lotta successiva. In politica si uscì dalla contesa fra re, baroni e comuni, chiamando baroni e comuni in assemblea e facendo discutere da essi le cose dello stato, prima che il re procedesse all’esecuzione dei suoi propositi. E così baroni e comuni videro le difficoltà e le esigenze del governo ed essendosi persuasi della bontà degli scopi da raggiungere votarono le leggi ed i mezzi pecuniari all’uopo necessari.

Nell’industria la contesa fra capitale e lavoro deve essere eliminata nel medesimo modo. Perché le due parti contendono? Sovratutto Perché non si conoscono, perché l’una parte non ha potuto o voluto penetrare nella posizione mentale dell’altra. Ognuna di esse ha pensato solo a se stessa, non agli interessi collettivi; ognuna è venuta in contatto coll’altra in momenti e con sentimenti di ostilità, di antagonismo, talvolta di sopraffazione. La loro adunata fu quella di plenipotenziari nemici per negoziare un trattato di armistizio o di pace; non quella di un parlamento che delibera sugli affari comuni. Oggi, gli operai chiedono riduzioni di orario ed aumenti di paga come si chiederebbero ad un nemico; punto preoccupandosi se l’industria possa sopportare i nuovi oneri. Essi hanno ragione di non preoccuparsi delle sorti della particolare impresa che li impiega, perché la sorte di essa dipende dal valore od incapacità di chi ne è a capo. Ma essi dovrebbero conoscere quale influenza abbia in genere, sull’impresa media dell’industria interessata, una variazione nei costi del lavoro. Essi non hanno ragione di rinunciare a nulla per salvare un’impresa pericolante per inabilità dei suoi dirigenti; ma debbono imparare a non creare ostacoli inutili al progresso delle imprese migliori ed all’adozione di metodi tecnici perfezionati. Gli imprenditori dall’altro canto non conoscono le idee dell’operaio intorno al modo di lavorare, al tempo del lavoro, ai rapporti fra lavoratore e sovrastante, sono portati ad interpretare sinistramente la resistenza che il lavoratore oppone all’introduzione di macchine veloci, di metodi di cottimo o di premi o di intensificazione del lavoro.

Epperciò gli animi si inferociscono, ed ognuno crede di essere derubato dall’altro; ed alle adunanze delle leghe operaie e padronali si va coll’animo di fare «conquiste» o di resistere ad «assalti».

Bisogna sostituire al concetto della «conquista» sull’avversario il concetto della risoluzione di un problema di interesse comune. Il problema è: dare ai lavoratori quella quota del prodotto netto ed in quella maniera che valga a spingere al massimo la efficienza del lavoro di ogni lavoratore e la produttività di ogni impresa.

Per ciò non occorre, anzi sarebbe dannoso agli operai interessarsi nelle sorti delle singole imprese a cui sono addetti: essi, restando pari la loro abilità, verrebbero a riscuotere salari, a cagion d’esempio, di 5, 10, 15 lire a seconda che gli affari della ditta vanno male, mediocremente o bene. La diversità provocherebbe malcontento tra gli operai meno bene pagati, sarebbe un premio per gli industriali poltroni ed una multa per quelli abili, i quali traggono guadagno non dallo sfruttamento degli operai ma dal proprio spirito di invenzione o di iniziativa.

Agli operai importa invece fissare per tutti il salario a 10 e tendere a spostarlo gradatamente verso 15, in guisa da mandare in rovina gli imprenditori inabili e da eliminare gradatamente quelli mediocri, costringendoli, con la necessità di pagare il salario tipo a tutti, a diventare buoni e spingendo quelli buoni ad acquistare sempre maggiore eccellenza. A tal fine non occorre che gli operai governino l’impresa: scopo assurdo e dannoso massimamente ad essi medesimi, che interverrebbero a salvare gli imprenditori cattivi. Occorre che essi sappiano governare il proprio lavoro; che sappiano farsi degli alleati degli imprenditori buoni ed eccellenti, che possono pagare salari migliori, contro gli imprenditori inetti, i quali si lamentano sempre del caro di ogni cosa; e per farsi alleati i primi occorre sapere fissare il livello dei salari ad un punto che lasci ad essi ancora un margine di interesse a produrre.

Tutto ciò non si impara e non si fa durante le trattative in cui le due parti si incontrano a guisa di nemici; si deve invece imparare e decidere continuamente, permanentemente in comitati di fabbrica, in comitati di distretto, in parlamenti centrali, in cui ambe le parti siano rappresentate per elezione e siano chiamate ad esaminare e discutere le questioni di interesse comune. Questo è lo spirito del famoso rapporto presentato nel marzo 1917 dalla commissione presieduta dall’on. Whitley, rapporto che andrà nella storia sotto il nome di «Whitley Report» e che adesso ha trovato la sua integrazione con la istituzione del parlamento del lavoro. Dire a priori che cosa questi comitati debbano decidere non si può. L’esperienza sarà la maestra. Vi sono problemi interni di fabbrica, che andranno esaminati dal comitato di fabbrica. Problemi più ampi, i quali meglio potranno essere portati dinanzi ai comitati locali. Altri di carattere nazionale, che dovranno essere sottoposti al parlamento del lavoro. Si comincierà a sottoporre ai comitati i problemi puramente operai; e via via si chiariranno alle menti delle due parti le interferenze di essi con i problemi generali dell’industria, con i mercati di compra e di vendita, con il problema fiscale. Il punto essenziale è che ogni problema sia discusso preventivamente, prima che la controversia sorga. Voglio citare un solo esempio. Qual è la ragione fondamentale per cui gli operai non sono favorevoli all’introduzione di quei sistemi di organizzazione cosidetta scientifica del lavoro, che sono conosciuti principalmente sotto il nome di sistema Taylor?

Sebbene i salari siano fatti crescere, la fatica diminuita, il prodotto triplicato o quadruplicato, – e di tutte queste verità si legge una esposizione chiarissima in un libretto di propaganda di Lino Celli Taylor e l’ordinamento scientifico del lavoro e i relativi problemi economico – sociali volgarizzati e spiegati agli operai (Ed. Marucelli, Milano), che consiglio vivamente di leggere ad industriali ed organizzatori – gli operai rimangono diffidenti. Dubitano che il nuovo metodo non sia che uno strumento di più intensa utilizzazione del loro lavoro, di rapido esaurimento delle loro energie e sia causa di disoccupazione. Bisogna che il sistema sia spiegato prima della sua introduzione; che i delegati degli operai siano persuasi a lasciar fare l’esperimento: che questo sia eseguito in perfetta buona fede; e che gli operai si persuadano che il sistema non nuoce e giova ad essi.

L’opera è faticosa e lenta. A conoscersi, ad apprezzarsi, a mettersi gli uni nei panni degli altri si arriva adagio. Ma è l’unica via in fondo alla quale risplenda una meta da raggiungere. È una via che non si può percorrere se non da industriali e da operai che si sforzino di capirsi. Or quando si sia giunti a capirsi a vicenda ed a capire il meccanismo dell’industria, il suo funzionamento, la sua vita di sviluppo e di concorrenza con le altre imprese, il dissidio non esiste più, perché più non esistono le classi in lotta. Gli operai avranno acquistato le qualità e le conoscenze necessarie per discutere, in materia di organizzazione del lavoro, le idee dei dirigenti e dare o negare il loro consenso. Gli imprenditori si saranno abituati a considerare se stessi come i capitani di una collettività. Essi conserveranno l’ambizione di riuscire, di primeggiare, di vincere; perché questa è una qualità umana, la stessa che ha il capitano, il politico, lo scienziato. Essi però avranno veduto che non si può salire molto in alto, lasciando dietro di sé a grande distanza le moltitudini. Queste, colla loro giusta richiesta di un salario tipo uniforme, furono fra le cagioni per cui egli vinse i suoi concorrenti ed egli perciò ha interesse a favorire, a provocare una loro progressiva elevazione.

Ma la elevazione non sarebbe possibile, se riguardasse solo problemi di salario valutato in denaro. Solo per denaro, né i capi né le moltitudini si sentono tratte a progredire, a migliorarsi, ad elevarsi. Qui viene in campo la seconda grande e semplice idea, la quale inspira il profondo rinnovamento della vita industriale britannica.

Smart, il compianto professore di economia politica di Glasgow, che prima di essere un teorico della «fredda» scienza nostra, fu un adepto di Ruskin, e fu per anni industriale operoso, scrisse pagine commoventi sulla «gioia del lavoro». Perché i capi di intraprese, perché i professionisti, perché gli studiosi non contano le ore di lavoro? Perché a nessuno di noi che studiamo, che scriviamo, che battagliamo per qualche cosa, per qualche idea non passa neppure per la mente di chiedere le sei o le sette o le otto o le dodici ore; ma seguitiamo a lavorare finché la mano non è stanca, finché la mente si rifiuta a seguire il filo delle idee scritte nel libro? Perché l’industriale milionario, perché il miliardario americano è di solito un lavoratore accanito, che poco gusta i piaceri materiali, mangia rapidamente senza riflettere a quel che inghiotte e dorme poco e si uccide col lavoro anzi tempo? Perché noi, studiosi, pubblicisti, professionisti, industriali abbiamo la febbre del lavoro. Perché per noi il lavoro non è fatica, ma gioia, ma vita. Perché ci parrebbe di morire veramente, qualora ci fosse negata la gioia di lavorare, di vedere l’opera nostra crescere sotto i nostri occhi e compiersi. Non ne siamo malcontenti ed aspiriamo a qualcosa di più perfetto, che mai non si raggiunge. Non è l’amor del lucro che muove coloro che sanno la gioia del lavoro. È il piacere di fare, di perfezionarsi, di ottenere il risultato voluto. La lotta per il miliardo in fondo è della stessa natura della lotta per la scoperta scientifica. Il miliardo non è poi goduto, quando lo si possiede. Ma è desiderato istintivamente dal grande capitano dell’industria, Perché quella è la dimostrazione che egli è davvero un duce, un capitano nel campo suo.

Tolgasi la gioia del lavoro ed il lavoro diventa insipido, quasi repulsivo. Se l’unico movente del lavoro è lo stipendio od il salario, è rotta la molla che spontaneamente spingeva l’uomo a faticare.

Vi erano e vi sono ancora molti lavori umili e manuali in cui esiste la gioia del lavorare. È una gioia per l’artigiano indipendente finire il lavoro per il cliente e veder questi contento della bontà dell’oggetto acquistato o della giustezza della riparazione eseguita. È una gioia per il contadino veder l’albero e la vite potata, mondo il terreno dalle male erbe, difese le fronde ed i frutti dalle malattie. Anche se vien la grandine, rimane l’orgoglio di aver fatto quanto era necessario per ottenere il raccolto.

Bisogna che l’operaio dell’officina, che il lavoratore della grande agricoltura industriale ritornino a sapere che cosa è la gioia del lavoro. Ferrea deve rimanere la disciplina della fabbrica; Perché dal disordine non nasce nulla. Il lavoro non può non essere diviso tra i lavoranti ed aiutato dalla macchina. Ma ognuno deve conoscere la ragione del lavoro compiuto; deve avere compreso Perché il lavoro deve essere fatto in quel certo modo, per raggiungere quella meta. Non basta che le ore di lavoro si riducano, che il salario aumenti, che la fabbrica sia chiara, luminosa, provveduta di bagni e di giardini; non basta che la casa linda e lieta di bimbi festanti e rallegrata dall’orto attenda il lavoratore dopo la fatica quotidiana. Tutto questo è necessario a farsi. Dovrà farsi a poco a poco, a mano a mano che gli enti pubblici, gli industriali, gli operai sentiranno che la prosperità industriale è legata alla educazione, alla salute fisica, alla morigeratezza di una vita familiare attraente. Ma tutto ciò non è ancora un dar l’anima, che manca, al lavoro compiuto. L’uomo bruto, che pensa solo a mangiare e bere, sarà per sempre impenetrabile a questi sentimenti, a qualunque classe egli appartenga. Ma vi sono molti che hanno la sensazione della mancanza di un’anima nel lavoro che fanno. Costoro sono i conduttori di quelli che se ne stanno contenti della vita animale. A costoro bisogna dare, pur nelle officine, pur negli uffici, la gioia del lavoro. Scopriremo un po’ alla volta il modo di darla. Oggi il problema è posto. Sarà risoluto, come ogni altro, per tentativi. La discussione preventiva nei comitati di fabbrica, di distretto, e nei parlamenti nazionali del lavoro, appassionerà gli uomini al loro compito. Quando il compito giornaliero parrà ad ogni uomo cosa propria, voluta da lui, deliberata col suo consenso, in quel giorno a tutti gli uomini volonterosi sarà dato di godere la gioia del lavoro, uno dei beni supremi della vita.


[1] Con il titolo I problemi della ricostruzione sociale. Il governo democratico del lavoro e la gioia di lavorare [ndr].

La colpa è del capitalismo

La colpa è del capitalismo

«Corriere della Sera», 28 luglio 1919

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 157-160
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 317-321

 

 

La colpa è del capitalismo

La colpa è del capitalismo

«Corriere della Sera», 28 luglio 1919

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 157-160

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 317-321

 

 

 

 

Il “capitalismo” è un po’ come il “diavolo” nel medio evo, la “aristocrazia” nel 1793, il “liberalismo” nel risorgimento; una parola mistica, con cui si spiegano senz’altro tutti i malanni dell’umanità. Come tutti gli altri miti, ha il vantaggio di essere semplice, incomprensibile, imperioso. Non ammette dubbi, non tollera incertezze snervanti di studiosi. I viveri sono cari? La colpa è della organizzazione capitalistica della società. La guerra è stata scatenata dagli imperi centrali? La colpa è del capitalismo che spinge le nazioni le une contro le altre armate per la conquista dei mercati mondiali. La pace di Versaglia non è pienamente soddisfacente per tutti? La colpa è degli interessi del capitalismo anglosassone, il quale, distrutto il suo grande rivale germanico, gitta la sua rete sul mondo intero. In Russia ed in Ungheria il popolo è affamato ed i viveri sono più cari e rari che nei paesi non comunisti? La colpa è del capitalismo francese, il quale, per salvare i 20 miliardi imprestati alla Russia, impone il blocco e suscita eserciti reazionari contro i tentativi di nuove società comuniste. E siccome la colpa è del capitalismo, ne consegue all’evidenza che i rimedi proposti da studiosi, da uomini politici, sono vani e dannosi; che essi non possono non aggravare il male; e che la vera salute non potrà trovarsi se non nella distruzione del capitalismo e nella instaurazione del suo contrapposto che è il socialismo.

 

 

Colla fede non si ragiona: e siccome l’odio al capitalismo e la credenza nel socialismo sono una vera fede, così ogni ragionamento in materia è inutile, ove sia indirizzato ai credenti. Fortunatamente, i “veri” credenti nella religione socialista sono pochi. Le grandi masse sono composte di gente che non ha idee precise, che non sa che razza di mostro sia il capitalismo e a quale specie di angelo appartenga il socialismo, e che raggruppa in queste due parole misteriose una somma di sentimenti vaghi che la spingono ad odiare e ad amare. A questi sentimenti si collegano forme di ragionamento, che vengono in appoggio ai primi e tendono a dare loro forza.

 

 

Se è difficile scuotere i sentimenti, non è impossibile dimostrare a coloro, che la fede socialista non ha ancora resi al tutto impervi al ragionamento, che le frasi simili a quelle riportate sopra, con cui si vuole far risalire al capitalismo la colpa di tutte le disgrazie che affliggono il mondo, sono prive di significato ed affatto incapaci a dare una spiegazione ragionevole del fatto lamentato.

 

 

Prendasi il problema del caro viveri, che è quello che oggi interessa praticamente di più gli uomini. In qual modo, con quale ragionamento si sostiene che la colpa è del capitalismo e che la salvezza si potrà trovare solo nell’avvento del socialismo?

 

 

Caro-viveri è una parola con cui si vuol dire che per ottenere un chilogrammo di carne, una dozzina d’uova, una testa di insalata bisogna dare più moneta, il doppio o il triplo di moneta di prima. In che modo il “capitalismo” può essere ritenuto responsabile di questo fatto? Se lo fosse, esso dovrebbe sempre accompagnarsi al caro viveri. Una causa – capitalismo – che un po’ produce il suo effetto, caro viveri, ed un po’ produce il duo contrario e cioè il basso viveri, non è, non può logicamente considerarsi la vera causa di quel tale effetto. Orbene, gli scrittori socialisti più celebri, Carlo Marx alla testa, sono abbastanza concordi nel fare risalire la nascita di quel mostro che dicesi capitalismo in alcuni paesi alla seconda metà del secolo XVIII ed in altri al principio del secolo XIX. L’introduzione delle macchine nell’industria, l’espropriazione del lavoratore dei suoi strumenti di lavoro, la separazione del lavoro dalla proprietà dello strumento del lavoro: tutti conosciamo a memoria questa solfa storica, tutti sappiamo perciò all’incirca la data di battesimo del capitalismo. Orbene, da che il capitalismo venne al mondo, c’è stata un’altalena continua tra caro viveri e basso viveri. A buon mercato furono, all’incirca, i viveri prima del 1789 e poi di nuovo dal 1815-20 al 1848 ed ancora dal 1880 al 1898. Cari invece furono i medesimi viveri durante la rivoluzione e l’impero e di nuovo dal 1848 al 1880 e ancora dal 1898 in poi. C’era sempre il “capitalismo”; ma la medesima causa produceva ora il caro ed ora il basso viveri. Come raccapezzarsi in questa singolare vicenda di fatti contraddittori?

 

 

Né meglio della cronologia soccorre la logica. Capitalismo sarebbe quella tale forma di organizzazione economica della società, per cui l’iniziativa ed il rischio della produzione spettano a singoli imprenditori. Costoro comprano sul mercato le materie prime, i combustibili, le macchine, la mano d’opera; combinano tutti questi fattori insieme sopportando un costo e vendono i prodotti finiti ad un prezzo. Se il prezzo di vendita è maggiore del costo, gli imprenditori lucrano; se è minore perdono. Che cosa ha da fare il caro viveri con questo tipo di organizzazione economica? Mistero. L’imprenditore – il “capitalista” – come impropriamente scrivono e parlano i socialisti per lo più lucra maggiormente vendendo molto a basso prezzo che poco ad alto prezzo. Dalla concorrenza reciproca, gli imprenditori sono spinti a moltiplicare la produzione e quindi a fare ribassare il prezzo. Il contrario può accadere solo per eccezione, in circostanze peculiari e transitorie, quando esiste un vero monopolio e nuovi imprenditori, nuovi capitalisti non posson far concorrenza ai monopolisti; ed allora tutti sono d’accordo nel ritenere necessaria una forma o l’altra di intervento della collettività. Ma, in via normale, è assolutamente impossibile scoprire il filo logico che dovrebbe connettere la causa “capitalismo” al suo preteso effetto “caro-viveri”.

 

 

Durante la guerra, si fece anzi l’esperienza della connessione logica esistente fra “socialismo” e “caro-viveri”. Socialismo invero non è altro che quella forma di organizzazione economica della società per cui l’iniziativa ed il rischio della produzione spetta, invece che ad imprenditori singoli, alla “collettività”. Sarà lo stato, od il comune od il sindacato, o il soviet o qualcosa di simile. È un organo della collettività che organizza la produzione, il commercio, i trasporti. La guerra attuò su vastissima scala il socialismo. In certi rami i “capitalisti” furono messi da parte. Carbonieri, importatori di frumento, fabbricanti di panni e stoffe, commercianti in burro, formaggi, uova, ecc., furono licenziati. Al loro posto si mise lo stato, il comune, il consorzio. I risultati, quanto ai prezzi furono lamentevoli. I costi si elevarono, la merce si rarefece, i prezzi tenuti in freno per le partite e le qualità calmierate, si elevarono a dismisura per le partite clandestine. Quanto più socialismo si ebbe, tanto più i prezzi andarono su.

 

 

Gli economisti, i quali, si sa, sono i nemici nati delle spiegazioni mitiche, delle spiegazioni che ricorrono a parole incomprensibili, hanno, fin dal principio della guerra, detto che i prezzi delle merci sono un rapporto tra merci e denaro. Se le merci diminuiscono in quantità e se contemporaneamente il denaro, la moneta, cresce in quantità, non c’è capitalismo o socialismo che tenga: i prezzi devono forzatamente crescere. In Italia, paese, a quanto narrano i fogli socialisti, capitalistico, la massa delle merci – grano, carne, uova, panni, scarpe, ecc. – è rimasta stazionaria, forse è scemata, mentre il denaro, i pezzi di cartamoneta circolanti salivano da 3.500 a 14.000 milioni; ed i prezzi sono divenuti doppi e tripli di prima. Come poteva essere diversamente, se la lira di prima è divenuta sostanzialmente uguale alla metà od al terzo della lira precedente?

 

 

In Russia, paese comunista, la massa delle merci prodotte è probabilmente ridotta alla metà di prima; ma i pezzi di cartamoneta sono aumentati da 5 o 6 miliardi di rubli a 50, a 100, a 150 miliardi – le valutazioni cambiano da statistica a statistica, concordando tutte solo nella spaventosità delle cifre -: ed i prezzi delle merci sono divenuti 10, 20, 100 volte maggiori di prima della guerra.

 

 

Il medesimo effetto del caro viveri si ebbe dunque in società capitalistiche ed in società comunistiche. Indice inconfutabile che esso non è dovuto, astrattamente, ne all’uno né all’altro tipo di organizzazione. Esso è proporzionale all’intensità con cui, nei due tipi, la produzione delle merci diminuì e crebbe la produzione o fabbricazione della cartamoneta. Finora, la palma nella corsa alla riduzione della produzione delle derrate alimentari e delle merci industriali ed all’aumento nella cartamoneta spetta indubbiamente ai governi comunisti sui governi così detti capitalistici; ed è logica e fatale conseguenza di ciò la preminenza della Russia e dell’Ungheria nel caro viveri. Dicono, quei comunisti, che essi fabbricano molta moneta per screditare il denaro, che sarebbe l’espressione più genuina del capitalismo. Singolare maniera di lotta, che se la piglia con un simbolo, la moneta, esistente millenni prima del sorgere del capitalismo e necessario, in una forma o nell’altra, a tutte le specie di società e frattanto rende le condizioni di vita del popolo così miserabili come non sono in nessuna società detta capitalistica.

Il giusto prezzo

Il giusto prezzo

«Corriere della Sera», 16 luglio 1919

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 151-156

 

 

 

 

Un recente decreto ha risuscitato una vecchia idea che nel medio evo era diffusissima, esposta nei libri dei sapienti ecclesiastici, inculcata da papi e bandita da principi; ma poi venne in discredito per merito o colpa degli economisti, i quali la posero in ridicolo in modo che parve non dovesse risuscitare mai più: l’idea del giusto prezzo. Oggi quella idea o quella parola risorge a vita legislativa e la vediamo introdotta nel testo di un decreto.

 

 

Naturalmente, la introduce senza definirla, perché egli ben sa che, se avesse dovuto definire l’idea del giusto prezzo, avrebbe incontrato difficoltà insuperabili. Perciò preferisce lavarsene le mani e lasciare il compito dell’applicazione a prefetti, sindaci, commissioni che, almeno, avranno quasi sempre il beneficio di ignorare le discussioni fattesi in passato sull’argomento e se faranno molte sciocchezze, le faranno nella più perfetta e candidissima buona fede.

 

 

Già i prezzi “giusti” sanciti negli innumerevoli calmieri pullulati improvvisamente di questi giorni in Italia stanno producendo i loro soliti inevitabili effetti. Ogni sindaco ha una sua propria idea di quello che sia il “giusto” prezzo delle uova: qua 2, là 3, altrove 4 lire la dozzina. E di nuovo si verifica il medesimo inevitabile fatto che s’era visto durante la guerra: che le uova tendono ad andare dove il prezzo è a 4 o forse a non andare in nessun posto, se i contadini non ritengono quel prezzo remunerativo. Per non far rimanere le città senza uova, si decretano requisizioni nei depositi esistenti, consumando le riserve per l’inverno; si stabiliscono divieti di esportazione da città a città, da provincia a provincia; si ricrea quella bardatura di guerra, che tanto fastidio aveva dato e tanti inconvenienti aveva prodotto, sicché s’era tirato un gran respiro quando appena avevamo cominciato a liberarcene.

 

 

In verità la storia non è davvero maestra della vita, se gli uomini si scordano dei suoi ammaestramenti a distanza appena di due anni, di tre anni! Chi non rabbrividiva al ricordo delle code che appena ora andavano scomparendo? Ed ora le code torneranno e più lunghe, più irritanti, più fastidiose di prima. Effetto inevitabile dell’idea del giusto prezzo, tanto difficile a definirsi, che nessuno vorrà interpretarla nello stesso modo del vicino.

 

 

Se si cerca di dare a quell’idea un contenuto, si possono avere parecchie soluzioni fondamentalmente diverse. Per molti, il “giusto” prezzo è quello che il consumatore “può” pagare, dati i suoi mezzi, senza essere ridotto a privazioni eccessive. Ma, così interpretata, l’idea è assurda; perché i mezzi dei consumatori sono diversissimi, e quello che l’uno può agevolmente pagare diventa un prezzo insopportabile per un altro. L’impiegato a 300 lire al mese, che deve mandare agli studi i figli, come può pagare il prezzo che agevolmente paga l’operaio con 20 lire al giorno e con il figlio che già lavora e porta denari in casa? Il professionista, con 20.000 lire all’anno come può pagare i prezzi che sono comodissimi all’arricchito di guerra? Considereremo come “giusto” il prezzo che può pagare il più povero dei consumatori, il lavoratore con 5 lire al giorno, supponendo che di queste arabe fenici ce ne siano ancora, od il pensionato o la vedova con piccolo reddito di 100 lire al mese come, purtroppo, ce ne sono moltissime? Vorremo cioè dei prezzi giusti per la piccola borghesia, questa ormai ultima tra le classi sociali, la quale ha dato tanti figli alla patria e non trova neppure la forza di attirare su di sé l’attenzione dei governi, ipnotizzati da quel proletariato industriale che dalla guerra non subì certo alcun danno economico? Andremo incontro, così facendo, a due inconvenienti: il primo, che quei prezzi giusti per la piccola borghesia saranno troppo bassi per gli operai e bassissimi per gli industriali, i commercianti, i professionisti agiati; il secondo, che per lo più quei prezzi saranno inferiori al costo di produzione e faranno sì che i produttori non avranno più convenienza prima a vendere e poi a produrre. Quei prezzi organizzeranno la carestia che è un malanno assai peggiore degli alti prezzi.

 

 

Altri riterrà che “giusto” prezzo sia quello che compensa le oneste fatiche del produttore, abolendo i profitti degli speculatori e dei commercianti; quel prezzo che dà al contadino un compenso equo per l’allevamento delle galline, la raccolta delle uova ed il trasporto al mercato, senza alcuna aggiunta, neppure del fitto della terra al proprietario fondiario. Anche questa interpretazione praticamente è assurda. Non vi sono due costi di produrre la medesima merce i quali sieno uguali l’uno all’altro. In un caso la terra è fertile, nell’altro è sterile; l’una è bene esposta, a mezzogiorno, l’altra, a mezzanotte, non vede quasi mai il sole; l’una è bassa, soggetta ad umidità, alla ruggine, all’allettamento dei cereali, l’altra è asciutta e ventosa; l’una patisce la siccità e l’altra gode di una regolare irrigazione. Peggio, se si guarda agli elementi personali della produzione. Vi è il contadino o la contadina intelligente, laboriosa, atta ad utilizzare tutti i sottoprodotti ed i residui, la quale ha tornaconto, anche oggi, a vendere le uova a 3 lire. La vicina sua tuttodì si lamenta di non riuscire a rifornire la tavola di sale, olio, condimenti – si sa che in campagna la vendita delle uova e dei prodotti della bassa corte deve servire a provvedere alle minori spese della tavola ed alle minute spese della massaia – anche se vende le uova a 5 lire. Le sue galline vengono su male, i pulcini muoiono, le uova sono deposte in luoghi inaccessibili, sono poche, non si trovano, la gallina se le mangia dopo averle fatte ecc. ecc. Quale sarà il prezzo giusto per il produttore? Saranno le 10 lire al metro che bastano a dare un profitto all’industriale abile, che sa organizzare bene la intrapresa, che compra bene la lana e colloca meglio i tessuti, che paga convenientemente gli operai e sa tenerseli affezionati o saranno le 20 lire le quali non sono neppure sufficienti a salvare dalla rovina il suo concorrente, incapace, presuntuoso, litigioso, i cui operai lavorano male perché non bene guidati, che sbaglia comprando la lana quando è al massimo e sbaglia vendendo quando è costretto a far fronte ad una scadenza imminente di cambiale? Se il prezzo giusto è di 10, non sarà ancora eccessivo, posto ché esso lascia un “profitto” all’industriale intelligente? Se glielo toglieremo, che vantaggio avrà ancora costui ad essere intelligente, invece che stupido?

 

 

Sia che il “giusto” prezzo si voglia stabilire sulla base dei bisogni dei consumatori o su quella dei costi del produttore, esso dunque porta al caos, alla confusione delle lingue ed è affatto inapplicabile.

 

 

Per molti l’idea del giusto prezzo si connette con la consuetudine. Gli uomini sono abitudinari; non amano le variazioni improvvise. Erano abituati a pagare le uova in media, tra l’estate ed il verno, 2 lire la dozzina e si inquietano vedendo le uova andare su e giù. Avrebbero anche, probabilmente, i consumatori, considerato ingiusto pagarle solo 50 centesimi; e reputano ingiustissimo pagarle oggi 5 o 6 o 7 lire. Circostanza interessante, gli economisti partecipano a questa aspirazione degli uomini. Anch’essi ritengono desiderabile che i prezzi in generale – non i singoli prezzi, che è cosa impossibile – subiscano poche variazioni. Ma gli economisti aggiungono – ciò che il popolo ed i prefetti ed i sindaci quasi sempre dimenticano – che per ottenere tale desiderabile risultato sarebbe necessario possedere una moneta la quale avesse una potenza d’acquisto costante. E da tempo gli economisti vanno alla cerca di questa moneta; né si può dire che i loro studi siano rimasti infruttuosi, sebbene per ora immaturi all’applicazione.

 

 

Oggi, però, non esiste in Italia, né altrove, una moneta avente una capacità di acquisto costante. Quando gli uomini parlano di 2 lire come di un prezzo “giusto” per la dozzina d’uova, intendono riferirsi alla unità monetaria lira, quale s’usava un tempo e con la quale sempre s’era usato comprare le dozzine d’uova. Ma la lira d’oggi è una cosa ben diversa dalla lira di prima della guerra. Da una interessante relazione dell’on. Alessio alla giunta generale del bilancio ricavasi che le lire, ossia i pezzi di carta circolanti con questo nome, erano 3.593 milioni al 31 dicembre 1914 ed erano salite a 12.274 al 31 dicembre 1918. Probabilmente ora abbiamo superato i 13.000 milioni. Come è possibile che la lira, di cui ci sono ora 13.000 milioni di unità, sia la stessa cosa della lira di cui ce n’erano solo 3.593 milioni di unità? Essa è una cosa tutt’affatto diversa. Essa è deprezzata, precisamente come lo sarebbero tutte le merci di cui si producesse una quantità strabocchevolmente più grande di prima. Non è evidente perciò che l’idea che il prezzo “giusto” delle uova sia di 2 lire la dozzina, è un’idea ragionevole finché le unità di moneta con cui le uova si cambiano rimangono suppergiù di 3.593 milioni – centinaia di milioni più o meno non monta -; ma diventa un’idea priva di senso quando, non essendo cresciute nel frattempo né galline né uova, le unità di moneta quasi si quadruplicano, diventando 13.000 milioni? La lira, sia di carta o d’oro, non ha nessun valore fisso, immutabile. Come tutte le altre merci, vale più o meno a seconda che essa è meno o più abbondante. L’arte di governo sta nel farne variare lentamente e con accortezza la massa circolante. Questo vogliono, questo sempre predicarono – al deserto -gli economisti. Non si fece; le lire sono divenute moltissime; e col loro moltiplicarsi tutte le idee degli uomini intorno al “giusto” prezzo delle cose devono forzatamente cambiare.

 

 

Poiché tuttavia una definizione del “giusto” prezzo delle cose bisognerà pure che prefetti e sindaci e tribunali la diano, non foss’altro per mandare in carcere coloro che avranno violato il decreto che impone l’osservanza di un giusto prezzo, senza dire che cosa esso sia, mi azzarderò a dare anch’io una definizione. “Giusto” prezzo potrebbe dirsi quel prezzo dato il quale la quantità prodotta e portata sul mercato di una merce è uguale alla quantità che a quello stesso prezzo è domandata. Se a 4 lire la dozzina, si portano ogni giorno sul mercato di Milano 25.000 dozzine d’uova e se a 4 lire tutte quelle 25.000 dozzine sono acquistate, 4 lire sono il prezzo “giusto” delle uova. Infatti, a quel prezzo, le uova si comprano e si vendono tutte, senza litigi, senza code, senza lasciare troppi compratori e venditori male soddisfatti. Se il sindaco fissasse il prezzo delle uova a 3 lire, i produttori ne porterebbero sul mercato solo 15.000 dozzine, perché ad una parte di essi non conviene produrre uova a quel prezzo, a cui essi perdono. Viceversa, se a 4 lire si acquistavano 25.000 dozzine, ora che il prezzo è di 3 lire se ne domanderanno 30 o 35.000 dozzine. Essendo tanto minore la offerta (15.000) della domanda (30.000) ed essendo il calmiere a 3 lire, nasceranno baruffe tra i compratori, ognuno volendo arrivare il primo. Di qui le code, il malcontento dei rimasti a mani vuote, gli accaparramenti dei primi fortunati, le tessere, il razionamento, ecc., ecc. Se invece il prezzo fosse fissato a 5 lire, probabilmente i contadini alleverebbero più galline da uova, essendo il prezzo tanto remunerativo e finirebbero alla lunga per portare sul mercato 30.000 dozzine. Ma a 5 lire, la domanda, che era di 25.000 dozzine a 4 lire, diventa solo più di 20.000. Ci sono più uova offerte, di quelle domandate. Ecco che il calmiere non serve più a nulla; ed i magistrati dovrebbero mandare in galera i produttori perché vendono al disotto del giusto prezzo.

 

 

Quello di 4 lire o quel qualsiasi altro prezzo – 2 o 3 o 5 o 6 a seconda dei casi – che renda di fatto la quantità offerta uguale alla quantità domandata è dunque il solo “giusto” prezzo che non sia privo di senso comune.

 

 

Riusciranno i sindaci ed i prefetti ed i commissari ed i tribunali a scoprire e fissare precisamente questo giusto prezzo? Non lo so; ma ne dubito molto, non potendo fare a meno di ricordare le loro recenti prodezze in argomento. Per lo più, essi tenteranno di rimanere al disotto di questo, che è il solo “giusto” prezzo. Essi si illuderanno di fare, con ciò, il vantaggio dei consumatori. Pura illusione; perché il risparmio che i consumatori faranno pagando le uova 1 lira meno del giusto prezzo la dozzina, lo dovranno perdere:

 

 

  • sotto forma di imposte necessarie a mantenere in piedi la macchina degli uffici tessere, razionamento, requisizioni, vigilanza di polizia necessaria per distribuire 15.000 dozzine a 3 lire tra consumatori che, a quel prezzo, avrebbero voglia di comperarne 30.000. Tutto si paga, anche gli uffici di annona;

 

  • sotto forma di attesa nelle code dei consumatori facenti ressa per non rimanere privi d’uova o di altri generi. Il ricco manderà la domestica a far coda, e stipendierà una persona apposita per sbrigare questa faccenda dei pugni e delle male parole, del freddo, del vento e della pioggia dinanzi alle botteghe dei rivenditori di commestibili. Che differenza c’è tra pagare una lira di più le uova ovvero stipendiare una persona che le procuri a una lira di meno? Nelle famiglie di modesta fortuna, sarà la madre di famiglia o la ragazza che dovrà perdere tutta la mattinata, alzarsi di buon’ora, buscarsi malattie per potere ottenere il necessario per il desco familiare. Tutti questi disagi, tutta questa perdita di tempo, tutti questi rischi di malattia non compensano, ed al di là, il risparmio nel prezzo d’acquisto?

 

Sia lecito azzardare la facile profezia che prefetti, sindaci e magistrati non indovineranno quasi mai il vero “giusto” prezzo e che dagli inevitabili spropositi discenderanno guai infiniti, del genere di quelli che si è tentato di descrivere or ora.

Il dovere di risparmiare

Il dovere di risparmiare

«Corriere della Sera» 7 luglio 1919

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 161-165

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 215-219

 

 

 

 

Le agitazioni e gli episodi che si riproducono nelle città d’Italia non sono una novità nella storia delle agitazioni annonarie. È sempre la medesima, la vecchia psicologia delle folle, che immagina di poter ribassare i prezzi devastando, sciupando, facendo baldoria per qualche giorno e gridando: «È tutta colpa del governo se non c’è l’abbondanza e se i prezzi non sono bassi!».

 

 

Noi non diciamo che il governo sia mondo di colpa, sebbene una delle sue colpe principali sia quella di aver ceduto in passato e di cedere ora alle richieste tumultuose, decretando calmieri, requisizioni, sequestri, processi. Noi non diciamo che siano mondi di colpa i negozianti, a cui abbiamo ripetutamente rivolti inviti e ammonimenti. Ma non sappiamo vedere in che maniera lo sfondamento dei negozi e la dispersione della merce immagazzinata possa incoraggiare i commercianti a rinnovare le loro provviste.

 

 

I tumulti odierni e i provvedimenti improvvisati presi dal governo, da prefetti e da sindaci, sono un assai brutto prodromo per i giorni che verranno; essi organizzano la carestia e la fame a breve scadenza. È impossibile che d’un tratto governo e municipi possano sostituirsi all’opera di migliaia e migliaia di privati che attendevano fin qui al rifornimento alimentare delle città. Se noi non sappiamo porre freno ai nostri impulsi, se non sappiamo mettere un limite alle manifestazioni della nostra collera, comunque questa possa essere giustificata, noi arrischiamo di apparecchiare a noi stessi, a brevissima scadenza, giorni di grave privazione, a cui sarà impossibile portare rimedio.

 

 

Sappiamo bene che l’ufficio dell’ammonitore è sgradito e penoso. Ma poiché siamo convinti che occorre innanzi tutto attendere ai propri doveri, crediamo necessario insistere su taluni punti di buon senso nella speranza di contribuire a incanalare l’effervescenza pubblica verso una meta pratica e raggiungibile.

 

 

I prezzi devono diminuire. Su questo punto siamo d’accordo. Ma è bene ricordare che sarebbe assurdo e ingiusto che oggi diminuissero fino al livello di prima della guerra. A noi è capitato di sentire, in una dimostrazione contro un vinaio, il grido: «il vino a una lira al fiasco!» (da 2 litri!) Ora questo è il prezzo a cui il vino si vendeva un tempo. Parecchi ribassi decretati del 50, del 60% condurrebbero a questo risultato. Coloro che li vogliono e li impongono sono abitanti della città che spesso lucrano 15 o 20 lire al giorno, i cui salari sono doppi e tripli, in moneta, in confronto dell’anteguerra. Non sono gli impiegati, i cui salari sono cresciuti solo del 50% e hanno da tempo rinunciato al vino, alla frutta ed a molte altre cose. Orbene, noi vorremmo che i cittadini riflettessero al torto che essi, senza avvedersene, vogliono in tal modo recare ai contadini, a quelli che vivono del ricavo della vendita dei prodotti agrari. Costoro producono uova e pollame e verdura, non per il gusto di produrre, ma per cavarne il denaro necessario a comperare vestiti, scarpe, aratri, concimi chimici, ecc. ecc. Ma se gli operai tessitori, calzolai, metallurgici, chimici, vogliono i salari alti, come sarà possibile che i contadini possano comperare a buon mercato le cose di cui hanno bisogno? Che giustizia sarebbe questa, per cui gli agricoltori dovessero vendere la loro roba al prezzo vecchio basso e comprare le cose di cui hanno bisogno a prezzi alti? Moderazione ci vuole da ambo le parti; trovare una via di mezzo tra gli esorbitanti prezzi di oggi e quelli bassi di un tempo; ma pretendere le paghe alte e volere la roba a buon mercato è una contradizione in termini e sarebbe anche una ingiustizia.

 

 

Un lettore, a proposito di questa contradizione, scrive osservando che è ben difficile impedire l’aumento dei prezzi quando la prima spinta viene dai consumatori stessi, che possono e vogliono spendere di più e insistono per avere la roba, anche a costo di pagarla cara. Osservazione giustissima, molte volte ripetuta durante la guerra, la cui attualità non è venuta meno.

 

 

La prima spinta all’aumento dei prezzi viene dalla domanda di coloro che hanno denaro, molto denaro in mano e lo vogliono spendere. Si spende di più. Le automobili sono salite a prezzi fantastici, di 50.000 lire l’una; le pensioni negli alberghi di montagna sono andate a 40 e 50 lire al giorno, perché c’è gente arricchita a cui non par vero spendere e spandere, comprare, consumare a piacimento ciò che gli altri non possono avere. Costoro non sono quasi mai industriali, gente che realmente dirige e lavora e non ha tempo di fare vano sfoggio delle proprie ricchezze. Sono fortunati, sono mediatori, sono gente grossolana e volgare che vuol far colpo sugli altri. La spinta all’aumento delle derrate alimentari è però data non da questi pochi, ma dai molti che nelle città guadagnano salari alti e vogliono godersi tutto e subito il frutto del proprio lavoro. Da per tutto il centro del consumo del pollame, delle carni, delle frutta e delle verdure fresche si è spostato dai quartieri dove abita la media borghesia ai quartieri popolari. È la volta nostra, pare che si dica, di godere delle buone cose della terra; epperciò le vogliono avere con larghezza, senza risparmio.

 

 

Ora noi diciamo a tutti costoro, nuovi ricchi e masse elevatesi nel benessere; come è possibile, se la domanda cresce e tutti offrono biglietti per avere roba, che la roba diminuisca di prezzo? I prezzi cresceranno ancora e chi ne andrà di mezzo saranno i modesti redditieri, gli impiegati a stipendio fisso, il cui guadagno non è cresciuto in proporzione al crescere del guadagno degli altri. Costoro, che hanno dignità di vita e di modi, non gridano per le strade; ma fanno assai amare riflessioni intorno ai tumulti inscenati da coloro i cui guadagni monetari sono cresciuti durante la guerra.

 

 

No; la pace non ha fatto venir meno il dovere imprescindibile dei nuovi ricchi e di coloro i cui guadagni sono cresciuti, di risparmiare, di non spendere tutto ciò che guadagnano. Ognuno risparmi nel modo che ritiene più conveniente. L’essenziale è che non tutti i biglietti ricevuti come profitto o paga siano spesi ove appena ciò sia possibile. Vi sono molti i quali hanno grosse famiglie da mantenere e i cui mezzi sono ristretti; costoro non hanno obbligo di risparmiare. Ma tutti gli altri l’hanno, e serio e urgente. Chi acquista l’automobile oggi, il vestito o le gioie, senza necessità, colui non fa il proprio dovere. Né fa il proprio dovere colui che beve due bicchieri di vino quando uno solo basterebbe, e non è frugale nel mangiare, o spreca in qualsiasi modo il denaro. Non fa il proprio dovere, perché acquistando cose inutili per sé le porta via e le fa crescere di prezzo a danno di coloro che sono di mezzi più ristretti. L’incettatore non è solo uno che ammassa la roba; è anche colui che ne consuma troppa. Dei due, il solo dannoso è il secondo; perché è il solo che sul serio rarefà la merce. Il primo, se vuol lucrare, dovrà pure un giorno vendere e far ribassare i prezzi.

 

 

È dovere risparmiare, perché solo così i biglietti, che sono troppi, possono tornare alle casse dello stato che li può bruciare e distruggere. Finché ci saranno in giro molti biglietti, ve ne saranno molti per aver merci e i prezzi saranno alti. Se ognuno che può risparmierà, i biglietti torneranno alle banche e di qui allo stato, ed essendocene meno a disposizione dei consumatori, i prezzi dovranno ribassare per forza. Non guardiamo troppo al governo; non diciamo «governo ladro!» ogni volta che piove. Ognuno faccia il proprio esame di coscienza. Ognuno dica: Ho fatto tutto il mio dovere, riducendo i miei consumi al minimo possibile?

 

 

Le difficoltà di quest’ora

Le difficoltà di quest’ora

«Corriere della Sera» 15 giugno 1919

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 155-159

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 212-215[1]

 

 

 

 

L’Italia è di nuovo percorsa da un vasto movimento sociale simile a quello che si ebbe nella primavera scorsa. E non soltanto l’Italia operaia. A Genova protestano e dimostrano negozianti, industriali, uomini d’affari. A Torino ed a Milano le masse operaie, improvvisamente, abbandonano il lavoro, per solidarietà con gli operai tedeschi, per protesta contro l’uccisione della Luxemburg, per motivi inespressi e vaghi. I maestri credono di avvantaggiare la loro causa disertando le aule scolastiche. Gli impiegati si agitano contro il governo che non concede subito i chiesti aumenti di stipendio. I giornali ed i deputati protestano, inquieti, contro il governo che non sa trovare un rimedio alla mania degli scioperi, che non pone un freno all’aumento dei prezzi degli alimenti e delle cose necessarie alla vita. Da più parti si invoca un dittatore; si attende un avvenimento che rischiari la situazione. È una atmosfera singolare che si va creando, l’atmosfera del millennio, in cui si aspetta, si invoca il messia, il miracolo. Alcuni personificano il miracolo nella rivoluzione, altri in un uomo. Ma lo stato di spirito è lo stesso: un senso di inquietudine che fa parere insoffribile il presente, che vuole ricercare in qualcosa al di fuori di noi, nel capitalismo o nel governo, il responsabile dei nostri mali; e che ha fede nel rimedio infallibile atto a cambiare il male in bene. A questo punto è necessario dire una parola franca e netta, che non nasconda le responsabilità di alcuno, ma dica nel tempo stesso tutto il pericolo e tutta la vanità della strana situazione di spirito che si è venuta creando.

 

 

Certo, le responsabilità del governo sono gravi. I ministri che stanno a Parigi non hanno saputo darci ancora la pace che l’Italia meritava; e quelli che son rimasti a Roma non hanno saputo governare. Hanno commesso errori gravissimi nella politica economica, finanziaria, sociale. Non hanno mai saputo dire al paese la parola ferma, che guida, che rassicura, che tiene strette insieme le anime. Non hanno una visione netta di quel che occorre fare nel momento presente. Ma sarebbe ingiusto rimproverare ad essi di non aver saputo compiere il miracolo. Nessun governo, anche l’ottimo, potrebbe creare l’abbondanza dove è la scarsità; nessuno potrebbe d’un tratto moltiplicare le navi, i carri ferroviari, che sono guasti o le scorte che sono ridottissime. Una rivoluzione scompiglierebbe il paese ancor più, farebbe nascondere e scomparire ancor più le merci esistenti ed, interrompendo i traffici con l’estero, darebbe il popolo in balia alla fame, alle stragi intestine ed alle malattie. Un dittatore, il quale dovrebbe essere il genio onnipotente ed onniveggente, che in terra non esiste, aggraverebbe il male, che oggi l’opera indipendente di molti riesce a rendere meno aspro.

 

 

Non esiste alcun rimedio portentoso, alcuna bacchetta magica la quale possa risolvere la situazione aggrovigliata che cinque anni di guerra e di snervante armistizio hanno creato. Coloro i quali fanno credere che un rimedio siffatto esista, che esista una via d’uscita rapida dagli squilibri presenti alla pace sociale od anche semplicemente alla felicità di una classe, della classe più numerosa, si illudono ed illudono. Essi sfruttano la tendenza a credere nel miracolo che esiste nel popolo, che esiste in molti uomini; ed in tal modo lo rendono propenso a sopportare ed a plaudire ai colpi di mano, con cui essi sperano di impadronirsi del potere e di iniziare anche fra noi sperimenti altrove non riusciti di palingenesi sociale.

 

 

Contro i pescatori nel torbido, contro coloro i quali sperano di innalzare la propria fortuna politica ed economica sulla rovina universale, bisogna che reagisca l’opinione pubblica.

 

 

Delle classi alte innanzi tutto. Le agitazioni a cui si abbandonano le classi commerciali della Liguria contro i monopoli hanno preso una forma che noi dobbiamo disapprovare. Noi non siamo favorevoli alla politica dei monopoli, che ci appare improvvisata e condotta con criteri non conformi all’interesse generale. Lamentiamo che il governo non abbia opposto buone ragioni, ma solo comunicati perentori ed assoluti contro le proteste ragionate e le offerte di uguali proventi del commercio. Questo ha ragione di chiedere che la sua collaborazione col governo nella preparazione delle leggi fiscali sia richiesta, gradita, ascoltata. Ma da ciò a chiudere il portofranco, ad interrompere il traffico ci corre. Il commercio non ha solo dei diritti, ma anche dei doveri verso il pubblico. Il porto di Genova è il grande servitore dell’alta Italia; ed esso deve funzionare, ad ogni costo. Ma contro la mania del nuovo, contro l’aspettativa del millennio deve reagire anche l’opinione delle classi popolari. Essa deve riflettere che questo turbinio di agitazioni, queste interruzioni continue del lavoro danneggiano massimamente coloro che non hanno.

 

 

Le masse agricole, le quali nella massima parte d’Italia sono tranquille, che partecipano direttamente, sia come proprietari, sia come cointeressati, ai prodotti della terra, possono fino ad un certo punto assistere tranquillamente ai turbamenti odierni. Esse hanno grano, uova, frutta, verdura, ecc. Le masse cittadine no. Esse vivono sulla continuità del traffico e del lavoro. Continuamente, ogni giorno, bisogna che sbarchino, siano inoltrati, utilizzati o messi in lavorazione carbone, ferro, cotone, lana; ogni giorno bisogna che giunga frumento e sia macinato nei grandi mulini se si vuole che i milioni di abitanti delle città vivano. Le riserve sono state distrutte dalla guerra; e ci vorranno anni per ricostituirle. Ad incrociare le braccia, sospendere il lavoro delle fabbriche, le corse delle tramvie e dei treni, il problema non si risolve. Peggiora. Il governo è incapace a dare l’opera sua, che in ogni caso sarebbe limitatissima, a risolvere il problema del caro-viveri; ma gli scioperi non agevolano la sua azione e solo inaspriscono il problema. È questo un periodo in cui gli industriali si stimerebbero fortunati se potessero far funzionare le loro fabbriche senza perdere; il che vuol dire che per il momento il lavoro assorbe tutto il prodotto netto dell’industria. Per crescere questo prodotto netto, per crescere la parte dell’operaio, per creare a poco a poco quell’abbondanza di prodotti da cui uscirà alla fine il ribasso dei viveri, l’unica soluzione è la tranquillità sociale; è una precisa e serena valutazione dei dati del problema e dei mezzi atti a risolverlo. Ad agitarsi, a muoversi, a protestare per protestare si fa il giuoco solo dei mestatori; si prepara la rovina di quelli che vivono giorno per giorno del proprio lavoro. Il ricco, che ha riserve, può ancora rifugiarsi in campagna od all’estero. Chi vive alla giornata non può . Perciò noi invochiamo sovratutto un rinsavimento delle masse popolari. Il male è in noi; nella nostra aspettativa del nuovo e dell’impossibile. Il giorno in cui invece penseremo che lo stato siamo noi, che il governo lo facciamo noi, che esso ha i nostri vizi e le nostre virtù, che i mali di cui soffriamo li potremo guarire a poco a poco soltanto noi, lavorando a guarirli, con un’opera individuale e coordinata atta a raggiungere lo scopo; il giorno che avremo sostituito alla mentalità dell’inquietudine e dell’agitazione la mentalità della riflessione e del lavoro fecondo, quel giorno saranno superate le difficoltà più grandi del problema. Sovratutto bisogna vedere chiaramente, astenerci dall’imprecare altrui, e deciderci a lavorare noi con passione e con intensità.

 

 



[1] Con il titolo L’aspettazione del millennio. [ndr]

Il filone misterioso e la necessità di lavorare

Il filone misterioso e la necessità di lavorare

«Corriere della Sera» 28 maggio 1919

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 149-154

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 208-211[1]

 

 

 

 

«Senti che cosa ci dicono: lavorare!» queste le parole che un popolano indirizzava ad un altro su una piazza di una grande città italiana, commentando un manifesto del «fascio popolare di educazione sociale» il quale cominciava appunto con le parole «bisogna lavorare…».

 

 

Nella esclamazione del popolano era riflesso lo stato d’animo di molti dei reduci dalle trincee, dei combattenti della grande guerra. È uno stato d’animo di cui più o meno tutti siamo testimoni, nei campi più diversi della vita. Quattro anni di guerra hanno dato all’uomo la consuetudine col pericolo, lo sprezzo della morte, il coraggio, la disciplina, la virtù dell’aspettare e del silenzio prolungato. Ma non potevano dare ciò che essi non possedevano, ossia l’abitudine al lavoro uguale, sistematico e produttivo. È questa una esperienza universale, che non è italiana soltanto, ma francese, britannica, nordamericana. V’è nel reduce una irrequietudine, un senso di impazienza, un eccitamento che deve trovare il suo sfogo. Solo gradualmente sarà possibile di arrivare all’equilibrio precedente ed alle abitudini antiche di lavoro ordinato. Non solo i lavoratori della terra e delle officine si trovano in questa condizione psicologica; ma anche gli ufficiali. I professori universitari hanno constatato questa medesima difficoltà contro cui anche i migliori fra gli studenti, i più volonterosi e diligenti lottano per ripigliare le antiche abitudini dello studio. Lavoro, studio vogliono dire costanza e regolarità. Ed i reduci non hanno ancora riacquistata la costanza e la regolarità.

 

 

Tutto ciò noi non diciamo per muoverne rimprovero ai reduci. Sarebbe come lamentarsi che dopo il giorno viene la notte. È un fenomeno naturale, che bisogna conoscere, valutare; che bisogna utilizzare per sapersene servire o, meglio, per cercare i metodi con cui eliminare gli ostacoli che la situazione psicologica diffusa offre alla ripresa della vita normale. Il grande rimedio è il tempo. Un po’ per volta l’eccitamento si calmerà, le abitudini della vita libera alla grand’aria aperta andranno cedendo il passo a quelle della vita sedentaria ed ordinata. L’esempio dei genitori, degli amici, dei parenti gioverà a famigliarizzare nuovamente col processo della vita normale.

 

 

Qualcosa possono fare gli industriali, i datori di lavoro. In quanto sia possibile, ai reduci converrebbe affidare, a seconda delle attitudini individuali e del grado sociale e gerarchico, mansioni adatte. Conviene evitare in quanto sia possibile di retrocedere il capitano od il maggiore alle umili mansioni a cui era forse addetto prima della guerra. Il lavoro si presenta naturalmente ripugnante a chi non v’è avvezzo. Una lenta educazione di secoli ha avvezzato i popoli alla fatica metodica e produttiva. Ma basta una interruzione violenta, generale per rompere l’abito che in fondo noi avevamo vestito per opera di artificio, di educazione. Occorre a poco a poco riprendere l’artificio della educazione.

 

 

Bisogna anche tornare a spiegare perché si deve lavorare. Il fascio popolare di educazione sociale, che una così nobile opera sta svolgendo, farà bene a fermarsi su questo punto. La guerra ha sconvolto le idee in proposito. Prima era ovvio dire e sentir dire che se non si lavora non si mangia. Oggi il proverbio non pare così ovvio. Milioni di uomini non hanno lavorato a produrre merci e derrate e servizi economici. Hanno gli uni salvato il paese nelle trincee e nei campi di battaglia; hanno gli altri prodotto congegni di distruzione. Ufficio necessario; ma non produttivo di pane, di vestiti, di case. Eppure hanno vissuto. Molti di essi, quanto a cibo, meglio di prima. Altri con privazioni. Ma hanno vissuto, essi e coloro che a casa attendevano alle opere consuete. C’è la sensazione che si sia scoperto un filone misterioso, da cui sono sgorgati milioni e miliardi a compiere il miracolo della vita senza lavoro. E si dice: perché il miracolo non potrebbe continuare? perché lo stato non potrebbe far zampillare, con la sua bacchetta magica, ancora altri miliardi e farci ancora vivere senza lavorare?

 

 

L’avere occasionato e favorito il diffondersi di queste idee: ecco la grande, la sola responsabilità di coloro che in Europa – in tutta l’Europa – governarono le cose del tesoro e della finanza durante la guerra. Forse non se ne poteva fare a meno: e forse il diffondersi del contagio cartaceo era inevitabile. Non vogliamo riaprire di straforo un processo che darà luogo a dibattiti interminabili.

 

 

Ma importa spiegare e rispiegare che quella del filone misterioso, della sorgente miracolosa di ricchezza era una pura illusione. Gli uomini hanno, durante la guerra, vissuto, come facevano prima, unicamente, esclusivamente dei prodotti che ogni giorno erano ottenuti mercé l’applicazione del capitale e del lavoro alla terra, alle miniere, alle industrie. Nient’altro. Non si mangia carta, neppure sotto forma di biglietti di banca, ma si mangia pane, carne, formaggio, si vestono panni, si abita in case di calce e mattoni. Con la massa fantasmagorica di biglietti da lui stampati lo stato non ha fatto altro che questo: ha comperato dai produttori il pane, la carne, i panni e li ha dati ai combattenti, ai lavoratori delle munizioni, ai cresciuti funzionari pubblici. Invece di comperare con biglietti nuovi di torchio avrebbe potuto ripartire grosse imposte, farsi consegnare dei biglietti vecchi e con quelli comperare ciò che gli bisognava. Sarebbe stato assai meglio, se fosse stato possibile e se si fosse osato. Perché sarebbe stato chiaro che non si poteva dare – ed era doveroso, urgente dare – ai combattenti senza portar via ai lavoratori ed ai produttori. Collo strumento miracoloso dei biglietti, lo stato parve non portasse via, ma comperasse; procedimento più gentile e comodo. In realtà fu un portar via lo stesso, perché tutti si trovarono in mano, non più la roba, ma il doppio, il triplo di moneta di quella che avevano prima. E siccome la moneta, divenuta abbondante, svilì, i non combattenti non ebbero alcun frutto della maggior copia di moneta posseduta – parliamo per medie generali, non potendo per brevità distinguere tra quelli che lucrarono e quelli che perdettero, in modo da fare una media zero -; e rimasero con la roba in meno, che giustamente, sacrosantamente era passata a far vivere i combattenti. Ma è chiaro che il processo non può durare all’infinito. Se i produttori seguitassero a ricevere solo carta in cambio delle merci da essi prodotte, dopo un po’ si rifiuterebbero a produrre ed a vendere. Come fanno oggi i contadini in Russia. Durante la guerra la cessione di merci contro carta andava bene, perché si riceveva in cambio la difesa del paese. Ma, finita la guerra, il cambio su questa

base non può continuare, se non si vuole che anche i produttori di beni economici si stanchino di produrre. E in tal caso di che cosa vivremo? Questa è la ragione per cui bisogna che tutti tornino al lavoro. Perché senza di esso, cessata la fantasmagoria dei biglietti, non si vive. Del resto, ciò che è accaduto durante la guerra apre orizzonti di miglioramenti, di innalzamenti indefiniti. Si pensi: milioni di giovani vigorosi e di uomini nel fiore della produttività, allontanati dal lavoro. Eppure, questi milioni hanno continuato a vivere. Vissero, forse meglio di prima, anche i milioni di lavoratori delle officine belliche. Visse anche la popolazione residua, quella che seguitava a produrre cose necessarie, sebbene con qualche maggior stento.

 

 

Che cosa vuol dire ciò? Evidentemente, indiscutibilmente, che prima della guerra il lavoro era poco produttivo; che esso poteva essere organizzato meglio. Se donne, vecchi, ragazzi, riformati poterono durante gli anni lunghi della guerra far vivere se stessi ed i combattenti e gli addetti alla produzione bellica, quanto meglio, quanto più largamente non si potrà vivere il giorno in cui i combattenti ed i lavoratori delle munizioni torneranno a lavorare, con quell’amore e con quella intensità con cui vecchi, donne e ragazzi lavorarono durante la guerra! «L’Italia dovrebbe diventare un giardino!», diceva un contadino riflettendo al miracolo per cui la terra seguitava a produrre, malgrado la mancanza di braccia valide. Ecco il grande compito che sta dinanzi a noi; e che possiamo tranquillamente affrontare, purché si voglia. La volontà in tutti di lavorare; la volontà nei dirigenti di organizzar bene il lavoro, con il consenso e la partecipazione diretta dei lavoratori alla organizzazione. Non mai come ora fu vero il detto che volere è potere.

 

 



[1] Con il titolo La febbre del vivere e la necessità delle rinunce. Bisogna lavorare?. [ndr]

Consiglio superiore del lavoro o parlamento?

Consiglio superiore del lavoro o parlamento?

«Corriere della Sera», 23 maggio 1919

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 250-252

 

 

 

 

La trasformazione del consiglio superiore del lavoro vagheggiata dalla confederazione del lavoro è troppo caratteristica e fondamentale per non meritare un breve commento. Vuole in sostanza la confederazione che il consiglio superiore del lavoro cessi di essere un organo semplicemente consultivo e diventi un organo deliberativo dello stato. Il che val quanto dire che le leggi relative al lavoro dovrebbero essere deliberate non più dal parlamento, ma dal consiglio superiore del lavoro. Si consente ancora che i progetti votati dal consiglio superiore siano inviati al parlamento perché li registri; ma se il parlamento si rifiuta, si tiene al consiglio superiore un letto di giustizia e si ordina la registrazione. Scrivendo fuor dei ricordi storici, un progetto respinto dal parlamento ritornerebbe al consiglio superiore e, se questo nuovamente l’approvasse, diverrebbe legge senz’altro.

 

 

La confederazione propone dunque l’abolizione del parlamento per tutto quanto ha tratto ai problemi del lavoro: il che praticamente vuol dire per tutto quanto riflette l’economia nazionale. Il consiglio superiore del lavoro potrebbe fissare salari, orari di lavoro, ingerenze operaie nella gestione delle fabbriche, in modo da far passare di fatto la proprietà delle terre e delle industrie, senza indennizzo, in mano degli operai e degli impiegati. E da chi sarebbe composto questo consiglio superiore del lavoro munito di poteri così grandi? Alcuni temperatissimi vorrebbero dare una rappresentanza paritetica, uguale a operai ed industriali. Moltissimi vorrebbero aggiungere a questi rappresentanti delle due parti un gruppo di delegati delle cooperative di produzione e lavoro, delle affittanze collettive, delle società di mutuo soccorso, ecc., così da dare la maggioranza pratica alla parte operaia. Altri, infine, darebbe o la esclusività o la maggioranza aperta al voto operaio. In sostanza sarebbero gli operai, o, meglio, la minoranza organizzata degli operai delle industrie la quale farebbe le leggi nel proprio interesse e le imporrebbe alla restante parte della popolazione, passando sopra al parlamento.

 

 

Ora, noi non vogliamo negare che il parlamento soffra, come legislatore, di gravissimi difetti. È lento, incapace a fare leggi buone; le raffazzona tecnicamente in malo modo; né può fare diversamente data la velocità di una legge ogni 10 minuti – forse dopo la guerra sarà una legge al minuto – alla quale esso dovrebbe discutere e deliberare. Il malanno non è italiano soltanto. I parlamenti dei paesi accentrati soffrono di incapacità assoluta a sbrigare il lavoro che è loro affidato. Debbono governare troppi milioni di uomini e troppe faccende. Perciò siano lodevoli tutti gli sforzi che si fanno per discentrare, per creare parlamenti locali (stati federali) i quali scarichino i parlamenti centrali di una gran parte del loro lavoro, quello più minuto ed assorbente. Perciò anche deve guardarsi con interesse e perfezionare l’opera dei consigli consultivi, a cui dovrebbe attribuirsi l’ufficio di preparare le leggi, di elaborarle tecnicamente, di offrire al parlamento il testo su cui esso è chiamato a deliberare.

 

 

Perciò noi avremmo compreso che si fosse proposto di rendere obbligatorio il parere del consiglio superiore del lavoro su tutti i progetti di legge relativi ai problemi del lavoro proposti dal governo; avremmo anche riconosciuto la convenienza di dare al consiglio il diritto di iniziativa in questa materia. Potrebbe anche discutersi se non convenisse affidare al consiglio la discussione e la elaborazione degli articoli singoli dei disegni di legge, riservando al parlamento la sola discussione generale ed il voto. Ne avrebbero guadagnato il tecnicismo e la buona elaborazione delle leggi.

 

 

Ma la proposta della confederazione va al di là di questo segno. Essa, togliendo di fatto ogni potere legislativo al parlamento ed affidandolo al consiglio del lavoro, è un regresso politico e sociale che non esitiamo a dire gravissimo. Oggi è di moda irridere al concetto degli «interessi generali»; ma fa d’uopo non dimenticare, nella furia di distruggere, che in virtù di quel concetto uscimmo dalla notte del medio evo alla civiltà moderna. Perché non dare ad un consiglio superiore del commercio e dell’industria il potere di legiferare sulle questioni di interesse degli industriali e dei commercianti? Ad ogni aumento di salario deliberato dal consiglio del lavoro, il consiglio del commercio risponderà con un aumento dei prezzi o di dazi protettivi. Ed il consiglio superiore dell’agricoltura si metterà in lotta con amendue in difesa delle classi agricole. E tutti e tre saranno in lotta con i consigli del mare, dell’impiego, dei professionisti, ecc. ecc.

 

 

Tutto ciò è puro disordine, è caos, è trionfo del particolarismo. I parlamentari odierni non sono certo perfetti, stentano a rappresentare gli interessi generali, si occupano di troppi problemi particolaristici, sono una congrega di generici e di professionisti. È vero: ma sono anche l’unico campo dove i vari interessi cozzanti vengono in aperto contrasto; e dove dalla discussione possa sorgere una soluzione media, la quale pel momento soddisfi meglio le tendenze della generalità.

 

 

La sovranità in uno stato non può essere divisa. Deve essere una. Altrimenti ritorniamo al regime feudale, allo sminuzzamento, alla lotta quotidiana. La confederazione del lavoro per volere togliere un male innegabile, crea malanni assai peggiori. Bisogna purificare il parlamento, liberarlo da compiti che non gli sono adatti; circondarlo di corpi minori consultivi che gli apprestino il lavoro; dargli campo di discutere solo i problemi generali. Ma in questo campo generale, il solo parlamento deve essere sovrano. Altrimenti corriamo all’anarchia.

Il problema della burocrazia

Il problema della burocrazia

«Corriere della Sera», 20 maggio 1919[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 9-14

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 230-235[2]

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp.685-690[3]

 

 

 

 

Il pubblico avrebbe torto a considerare l’agitazione degli impiegati dello stato alla stregua di una qualunque altra agitazione intesa ad ottenere semplicemente un aumento di stipendi ed una riduzione di ore di lavoro. In uno stabilimento in cui il lavoro è bene organizzato od in cui il danno della cattiva organizzazione ricade tutto sull’industriale, si può all’ingrosso contentarsi di non spingere lo sguardo al di là delle paghe e dell’orario. Nel caso degli impiegati pubblici le cose non possono essere messe in questi termini: il lavoro burocratico è pessimamente organizzato, epperciò, sebbene le paghe sieno modeste, la resa del lavoro è minima ed il costo enorme; ed opprimenti le imposte che i contribuenti debbono pagare per mantenere un ceto burocratico povero, malcontento, invidioso ed improduttivo. Finché si lascia immutata la organizzazione attuale, bisogna dichiarare che il problema è insolubile. Se lo stato desse anche, come propone la commissione governativa presieduta dal sottosegretario al tesoro, 500 o 600 milioni di lire all’anno in più ai suoi impiegati, accollerebbe ai contribuenti un onere d’imposte gravissimo, forse insoffribile se si tenga conto delle nuove imposte che per altre cause si dovranno istituire; né il malcontento degli impiegati sarebbe gran fatto scemato. Non sono 1.000 lire di più all’anno che possono rendere paghe le schiere dei pubblici funzionari, i quali si lamentano del caro viveri e dell’arresto delle loro carriere. Cominciare a risolvere il problema economico, rinviando la risoluzione dell’organizzazione del lavoro, non è risolvere qualcosa. Forse è peggio che nulla.

 

 

Il problema vero si pone così: trovare il metodo con cui sia possibile migliorare le sorti economiche degli impiegati senza sacrificio per i contribuenti. Sembra paradossale porre il problema così, e non è. Ogni industriale tende a risolvere il problema suo, dei salari operai, in questo modo. In generale si può affermare che quei soli rialzi di salari durano, i quali non sono ottenuti a spese né dei profitti necessari a stimolare lo spirito di intrapresa, né dei consumatori. Il maggior salario deve pagare se stesso, con una migliore resa del lavoro. Altrimenti bisognerebbe supporre che esistano in qualche buca misteriosa tesori nascosti, da cui si possano ricavare a volontà gli aumenti delle paghe. Certi teorici socialisti, tipo Marx, immaginano in verità l’esistenza di una simile buca misteriosa e la chiamano «sfruttamento capitalistico del lavoro»; ma trattasi di una favola infantile, buona a spiegare qualche eccezione, non la generalità dei fatti.

 

 

Gli impiegati debbono persuadersi di questa verità semplice: o essi organizzeranno o lasceranno organizzare meglio il loro lavoro e le paghe più alte verranno da sé e non costeranno nulla ai contribuenti; ovvero ad essi continueranno a darsi a stento ed a spizzico dei caro viveri, insufficienti a mettere in sesto i loro bilanci e cagione di aggravio impossibile ai contribuenti.

 

 

Questa verità sembra sia stata finalmente sentita dagli impiegati, alcuni dei quali mettono avanti proposte di riforme da compiersi nel tempo stesso in cui dovrebbero aumentarsi i loro stipendi. La commissione citata ha anch’essa sentita questa necessità. Il proposito è degno di lode; e la tendenza deve essere incoraggiata. E, per non star nel vago, fa d’uopo cominciare subito a scernere le proposte buone dalle cattive.

 

 

Ve n’è una, pessima, sinora non fatta propria da commissioni e governi, che bisogna immediatamente prendere con le molle ed esporre all’indignazione dei contribuenti italiani, ossia di coloro che saranno chiamati a farne le spese. È una vecchia pretesa degli impiegati romani, i quali in genere sono la sezione meno produttiva del ceto burocratico. Da anni costoro hanno inventato il feticcio dell’orario unico e delle sei ore di ufficio. Adesso le ore sono sette, divise in due turni, nominalmente dalle 9 alle 12 e dalle 14 alle 18. Vorrebbero gli impiegati cominciare, a seconda delle stagioni, alle 8 od alle 9 ed andarsene alle 14 od alle 15. È una pretesa inammissibile e giova sperare che il governo saprà puntare i piedi e dir di no, ad ogni costo, anche a costo di lasciar verificarsi quella cosa divertente che potrà essere uno sciopero degli impiegati della capitale. Orario unico e sei ore vorrebbe dire, di fatto, riduzione del lavoro, si e no, a due o tre ore mattutine. L’impiegato, se lavora sul serio, non può con attenzione e frutto prestare servizio per 6 ore continuative. Alla quarta, peggio alla quinta ed alla sesta ora la sua resa è minima. Un riposo intermedio è necessario. L’orario unico non abolirebbe il riposo intermedio. Il proposito, tacito oppur trasparente, dei propugnatori della “grande” riforma dell’orario unico è di far pagare il riposo allo stato. Alle 12, quando non si aggirerà più anima viva nei corridoi ministeriali – chi va in giro dalle 12 alle 15 per le vie di Roma e per le scale dei ministeri? – Ci sarebbe una trasformazione a vista nelle stanze e stanzette e salette dei templi burocratici: gli scrittoi si convertirebbero in tavolini da ristorante ed ogni impiegato tirerebbe fuori il cestino delle provviste. Colazione, lettura del giornale, fumatina. Tanto il pubblico non c’è o può aspettare o la pratica può attendere l’indomani mattina.

 

 

Alle 14 od alle 15, si prende la via di casa o si vanno a tenere i conti o la corrispondenza presso qualche ditta privata od a fare il giro delle botteghe che vendono l’articolo, di cui si ha la rappresentanza. Adesso, uscendo alle 18, è troppo tardi per fare qualche altro mestiere redditizio; e bisogna contentarsi dello “straordinario” che il capo ufficio fa fare fuori orario. Né la piaga del lavoro “straordinario” cesserebbe coll’orario unico. Anzi, colla riduzione del lavoro effettivo a due o tre ore mattutine, le “pratiche” si accumulerebbero per modo da rendere “necessario” ai capi ufficio pregare gli impiegati di trattenersi dopo le 14 o le 15 al ministero, per fare un po’ di “straordinario”. È incredibile quanto forte sia ora la proporzione del lavoro “straordinario” al lavoro “ordinario” nei ministeri. Talvolta sembra che tutto il lavoro si faccia in ore straordinarie e che le ore ordinare si siano volatilizzate senza lasciar traccia. L’impiegato è portato a considerare lo stipendio fisso come un diritto acquisito, una pensione di grazia, in cambio di cui non si ha il dovere di dar nulla. Il dovere di lavorare nasce solo quando cominciano le ore straordinarie, incerte e pagate in ragione del lavoro prestato. Questo malanno, ingigantito col tempo per la tenuità delle paghe e la furbizia degli uomini, sarebbe cresciuto dall’orario unico. Il quale perciò deve essere combattuto a spada tratta, additato all’esecrazione delle persone riflessive e respinto risolutamente dal governo.

 

 

Sarà combattuto, come immorale, dai migliori tra gli impiegati medesimi. Tra di essi non sono pochi oramai coloro i quali vedono le magagne dei loro uffici ed aspirano a trarsene. Un ottimo libro ha scritto intorno al problema della burocrazia un funzionario del tesoro, Ettore Lolini (Burocrazia, editrice «La Voce», Roma 1919); un eccellente riassunto dei punti più importanti del problema burocratico ha pubblicato nel suo n. 19 dell’anno in corso l’«Unità» di Firenze. Alcune proposte buone ha fatto la commissione De Nicolò:

 

 

  • generalizzazione del sistema dei ruoli aperti, per cui il segretario può contentarsi, se non ha le qualità necessarie per diventar capo divisione, di rimanere segretario per tutta la vita, perché ha dinanzi a sé una carriera economica discreta. Sperasi in tal modo di togliere di mezzo una delle cause più potenti di moltiplicazione dei pani e dei pesci, ossia delle divisioni, direzioni generali, ecc.;

 

  • riduzione dei gradi a quelli di segretari, capidivisione e direttori generali; abolendo i primi segretari, i capi sezione, i vice direttori generali, che sono invenzioni provocate dal desiderio di crescere, senza parere, gli stipendi;

 

  • promozioni esclusivamente per esame dal grado di segretario a quello di capo divisione e da questo a quello di direttore generale. Non pare però che gli esami siano resi abbastanza severi, anzi severissimi, come dovrebbero essere, per ridurre al minimo il numero degli aspiranti;

 

  • istituzione di un fondo di cointeressenza uguale al 10% dello stanziamento di spesa per ogni ufficio ed alle economie per vacanze ed assenze non retribuite. Si spera di interessare così gli impiegati a cercare di ridurre il proprio numero e a non fare dello “straordinario” perché la spesa di questo verrebbe dedotta dal fondo di cointeressenza.

 

 

Proposte buone, ma che sono appena l’inizio dell’opera da compiere. Ricordo un po’ alla rinfusa:

 

 

  • abolizione di uffici inutili o dannosi: sottoprefetture, commissariati e dicasteri creati per la guerra;

 

  • attribuzioni di funzioni definite a ciascuno dei tre gradi residui, abolendo la necessità dei segretari di riferire ai capi divisione ecc. per gli affari di propria competenza; e responsabilità diretta dei funzionari per le funzioni ad essi precisamente attribuite;

 

 

  • riduzione al minimo dei funzionari di concetto, direttivi. Il resto del personale d’ordine, di scrittura, di archivio, dattilografe, stenografe reclutato con norme speciali, simili a quelle in uso nella industria privata;

 

  • abolizione assoluta di tutte le barriere tra i funzionari della capitale e delle province. Parità di gradi ed intercomunicabilità perfetta tra le due categorie. Anzi nessuno possa andare al centro, se non ha prima fatto esperienza esecutiva nelle province. A questo riguardo, le tabelle della commissione De Nicolò sono troppo specificate e lasciano sussistere troppe barriere tra amministrazione ed amministrazione, troppe differenze fra centro e province, dannose ed inaccettabili.

 

 

Si potrebbe continuare. Ma bisogna mettersi su questa via. Altrimenti, come sarà mai possibile dare ai segretari da 4.000 a 14.000 lire, ai capi divisione da 12.000 a 18.000 lire ed ai direttori generali 25.000 lire, come dagli Ordini dei funzionari è richiesto? Chi conosce la delicatezza e la importanza degli uffici che dovrebbero essere compiuti dai tre ordini di pubblici funzionari sente che quegli stipendi sarebbero ben meritati ed appena adeguati. Ma oggi sarebbe pura pazzia pensare a quelle cifre. Anche le cifre della commissione De Nicolò fanno pensare, dato il numero strabocchevole degli impiegati attuali, se esse non siano un salto nel buio per il tesoro dello stato. La verità è una sola: oggi gli stipendi chiesti dai funzionari, da 4 a 25 mila lire, ragionevolissimi per se stessi, non sarebbero meritati dalla grande maggioranza dei pubblici funzionari. L’opinione generale li risentirebbe come una ingiustizia; ed i contribuenti se ne lagnerebbero come di una spogliazione.

 

 

Ed avrebbero ragione. Il miglioramento economico dei pubblici funzionari è inscindibilmente collegato con la riforma della burocrazia e con l’elevamento del lavoro prestato nei pubblici uffici.

 

 



[1] Con il titolo Il problema della burocrazia. Pretese assurde e riforme necessarie [ndr].

[2] Con il titolo Orario unico e ruoli aperti [ndr].

[3] Con il titolo Il problema della burocrazia. Pretese assurde e riforme necessarie [ndr].

Lettera dodicesima. Fiume, la società delle nazioni ed il dogma della sovranità

Lettera dodicesima.
Fiume, la società delle nazioni ed il dogma della sovranità
«Corriere della Sera», 6 maggio 1919
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 157-167

 

 

 

 

Signor Direttore,

 

 

Obbedisco oggi ad un sentimento crudele di vanità pregandola di lasciarmi scrivere nel suo giornale della disillusione, la quale rende triste l’animo di quanti sperarono che l’ideale della società delle nazioni bandito dal presidente americano potesse riuscire giovevole all’attuazione degl’ideali nazionali italiani? Non mi pare. Poiché quella disillusione nasce da ciò che essi non meditarono abbastanza sulle due diverse maniere in cui l’ideale della società delle nazioni può essere concepito e che già ebbi a contrapporre in precedenti lettere coi nomi di «lega» e «federazione», di cui la prima è priva di contenuto e solo la seconda è feconda. La lega o società delle nazioni è un ideale dottrinario, scritto nei progetti di pace perpetua di Emanuele Kant e dell’abate di Saint Pierre ed oggi rinnovato dal Wilson; ma repugnante alla ragione storica per cui gli stati si formano, crescono e decadono. Lo studioso nel silenzio della sua camera disegna i confini degli stati associati, li provvede di monti, di fiumi, di porti e poi sentenzia che quello stato, essendo ragionevolmente dotato dei beni che agli uomini è dato godere in terra, può entrare, pari tra pari, nella famiglia delle nazioni e mandare suoi messi al grande areopago di Ginevra, al quale sarà affidato il carico perpetuo di risolvere le controversie che tra i singoli stati insorgessero e di guidare l’umanità intera al conseguimento di una gloriosa meta comune verso ideali sempre più alti di perfezione.

 

 

Ma, per varie ragioni, Francia ed Italia non apprezzano la guarentigia offerta contro future possibili aggressioni germaniche o slave da una lega priva di esercito e sprovvista di mezzi pecuniari atti a far osservare i suoi verdetti contro i soci recalcitranti; né si contentano, esse che vivono vicine ai nemici di ieri, di smantellamento di fortezze e di zone neutralizzate al di là dei confini. Contro Wilson, il quale proclama nel suo manifesto agli italiani la virtù pacificatrice della futura lega delle nazioni, gli italiani ben possono richiamarsi alle parole scritte da Alessandro Hamilton nel quindicesimo saggio di quel Federalist, che fu senza dubbio il testo classico adoperato, ad imitazione di quanto si opera da un secolo negli atenei d’oltre Atlantico, dal professore Wilson nello spiegare, con le parole medesime dei suoi creatori, agli studenti dell’università di Princeton, il significato e le ragioni profonde della costituzione americana:

 

 

«Nulla vi è di assurdo o di impraticabile nell’idea di una lega o di un’alleanza fra nazioni indipendenti per certi scopi definiti precisamente indicati in un trattato, il quale regoli tutti i particolari di tempo luogo circostanza e quantità; nulla lasciando all’arbitrio avvenire e dipendendo per la sua esecuzione della buona fede delle parti contraenti. Accordi di questa specie esistono fra tutte le nazioni civili, soggetti alle consuete vicissitudini di pace e di guerra, di osservanza o di inosservanza, a seconda che è dettato dagli interessi e dalle passioni delle potenze contraenti. Nella prima parte del secolo presente (il XVIII, ché l’Hamilton scriveva nel 1787) si notò un entusiasmo epidemico in Europa per questa specie di accordi, da cui i politici del tempo appassionatamente si ripromettevano vantaggi che non furono mai realizzati.

 

 

Allo scopo di stabilire l’equilibrio delle potenze e la pace europea furono impiegati tutti gli avvedimenti delle negoziazioni e si formarono triplici e quadruplici alleanze; ma esse non erano ancora formate che già erano rotte, dando all’umanità una istruttiva e nel tempo stesso melanconica lezione intorno alla scarsa fiducia, la quale può essere riposta nei trattati, i quali non abbiano altra sanzione che il vincolo della buona fede ed i quali contrappongano soltanto considerazioni di pace e di giustizia all’impulso degli interessi e delle passioni subitanee».

 

 

Queste ed altre parole furono la causa che alla società delle 13 nazioni ribellatesi al dominio inglese si sostituisse la confederazione degli Stati Uniti, giunta oggi a tanta gloria e potenza. Un governo e non una lega, proclamò Hamilton, è necessario per salvare le 13 colonie dalla rovina e dal ritorno alla servitù. Non una lega, che partorisce discordia e malvolere, che avvicenda amicizie ed inimicizie, gelosie e rivalità mutue; ma un governo, dotato di forza, di magistrati e di mezzi, che emani leggi valide per tutti i suoi cittadini.

 

 

Senonché un unico governo federale era possibile nel 1787 per le 13 antiche colonie, unite dai vincoli della lingua, della religione, della nazionalità, della comune lotta contro la recente dominatrice. Esso era allora un prodotto storico necessario ed utile. Perciò sorsero e crebbero gli Stati Uniti. Siamo oggi noi pronti a creare gli Stati Uniti del mondo; ché questo sarebbe l’unico ideale concreto, serio, capace di sostituirsi al vecchio ideale degli stati indipendenti e sovrani quali abbiamo conosciuto finora? Forse nessuno vivente è disposto a dare una risposta affermativa alla domanda, tanto varie e profonde essendo le ragioni che allontanano tuttora le nazioni le une dalle altre e che solo il tempo potrà lentamente obliterare. Nessuno però è disposto a negare che si debba oggi fare un passo decisivo verso un principio di attuazione di quell’ideale. La guerra sarebbe stata combattuta invano; milioni di uomini avrebbero indarno versato il loro sangue se un mondo più bello non dovesse sorgere dalle rovine del passato. Ma perciò fa d’uopo, attraverso Wilson, ritornare ad Hamilton; attraverso la nebulosa indistinta della società delle nazioni, andare dritti alla meta finale che è la creazione di organi di governo supernazionali.

 

 

Qui, sia detto con sopportazione di coloro i quali vogliono far apparire l’Italia come reproba conculcatrice degli ideali di giustizia per cui il mondo fu tratto a resistere alle voglie germaniche di dominio mondiale, l’Italia addita, nella questione di Fiume, le vie dell’avvenire.

 

 

Dice il presidente dell’umanità, dice l’architetto degli stati i quali dovranno comporre la società delle nazioni: «Fiume è lo sbocco dell’entroterra jugoslavo, del vasto territorio croato, ungaro, romeno, czeco che le sta alle spalle. Non può essere avulsa dal continente che le dà vita e di cui è parte costitutiva e necessaria. Perciò si dia la sovranità politica ed economica di Fiume al nuovo stato che le gravita alle spalle, dando nel tempo stesso guarentigie salde ai cittadini italiani per la difesa della loro nazionalità».

 

 

Risponde l’Italia anzitutto che è illogico, anche dal punto di vista economico, dare la sovranità politica di un porto precisamente a quello stato il quale meno se ne giova e potrebbe disporre di altri porti per i suoi traffici marittimi e non all’Ungheria od alla Boemia od all’Austria tedesca od alla Romania che in ordine discendente ne traggono maggior beneficio.

 

 

Ma sovratutto dice: «L’attribuzione della sovranità politica di Fiume allo stato territoriale retrostante è un residuo della vecchia mentalità della sovranità assoluta e compiuta che partorì la guerra presente e che voi avevate in animo di distruggere, quando interveniste dalla parte nostra contro le mire germaniche di dominazione. Non fu forse la Germania mossa dall’idea che uno stato non può dirsi davvero libero e sovrano se non quando disponga politicamente dei porti che sono necessari ai suoi traffici (Anversa), degli stretti attraverso a cui la sua flotta deve passare (Calais sulla Manica), delle miniere di carbone e di petrolio e di ferro indispensabili alla sua industria (trattati imposti all’Ucraina ed alla Romania e vagheggiati rispetto alla Francia per il bacino di Briey) quando si decise a tentare il gioco rischioso della guerra? Soffocavano i tedeschi entro i loro confini e si dicevano privi di porti, di fiumi, di miniere, di materie prime, di mari.

 

 

E noi insorgemmo contro siffatta infernale maniera di pazzia ragionante, di delirio di grandezza che minacciava al mondo l’impero mondiale, perché uno stato potesse considerare se stesso perfetto ed indipendente. Oggi si vorrebbe riconsacrare il dogma della sovranità assoluta, che di tanto male fu padre, riconoscendo ad uno stato straniero la sovranità politica di una città incontestabilmente italiana e che vuol essere italiana, solo perché essa è il porto di un entroterra vasto e profondo? Non è questo un atto di omaggio al dogma che ci parve incomportabile su labbra germaniche?».

 

 

A Wilson che parla, su questo punto, tedescamente, noi opponiamo il principio insopprimibile della nazionalità, che impone sia data la sovranità politica di Fiume alla madre Italia; a Wilson, il quale teme la soffocazione economica dell’entro-terra privo del suo più grande porto sul mare, l’Italia risponde che essa è disposta a creare a Fiume un organo di governo internazionale, vero antesignano dei futuri Stati Uniti del mondo. Contro Wilson ci appelliamo alla fonte di tutta la dottrina politica nord -americana, ad Hamilton, e diciamo: nessuna lega, nessuna società di nazioni potrà mai sanare nel cuore degl’italiani la ferita lacerante aperta nel corpo della patria dal distacco di una sua città; nessuna società di nazioni potrà mai impedire il paziente, lento lavorio di snazionalizzazione che lo stato sovrano straniero opererà in seno alla nostra figlia dilettissima, potrà impedire guerre future per la difesa della città nostra invocante aiuto. Epperciò, noi, che siamo i tutori delle venture generazioni, e non vogliamo preparare ad esse un’eredità di sangue, ci opponiamo ora che, sotto l’egida di una teorizzata società delle nazioni, una città italiana cada sotto il giogo politico straniero. Vogliamo che essa sia spiritualmente serbata a noi; vogliamo conservati quei beni imponderabili preziosissimi che si chiamano lingua, tradizioni, appartenenza politica, bandiera. Ma non chiudiamo gli occhi dinanzi alle esigenze economiche degli stati dell’entro-terra; e non vogliamo erigere a dogma il principio di sovranità. Paghi della sovranità politica e spirituale, siamo pronti a discutere la creazione di zone franche nel porto di Fiume per tutte le nazioni dell’entro-terra; siamo pronti ad affidare ad un corpo misto internazionale, in cui siano rappresentate, insieme a noi, tutte le nazioni interessate, la gestione delle strade ferrate di accesso delle zone franche del porto, sicché ogni nazione abbia la più ampia sicurezza di libero sbocco al mare e di uguaglianza di trattamento. Così operando, noi italiani crediamo di porci sulla via maestra che col tempo condurrà agli Stati Uniti del mondo.

 

 

É lecito essere scettici intorno ai resultati di una società di nazioni libere sovrane uguali, le quali mantengono fede in perpetuo alle promesse di pace e di giustizia fatte all’uscire da una guerra sanguinosissima. Non abbiamo diritto invece di manifestare dubbi intorno al successo di governi internazionali di ferrovie, porti, canali, stretti. Vive oramai da sessant’anni un governo inter-statale del Danubio, a cui partecipa anche l’Italia, il quale ha compiuto opere egregie, con vantaggio grandissimo degli interessati. Vivono e danno frutti le unioni interstatali delle poste, dei marchi e brevetti, della tutela della proprietà letteraria. Gli europei non son disposti a rinunciare agli ideali nazionali sull’altare della società delle nazioni; ma sanno calcolare i vantaggi di un governo sopranazionale dei beni materiali, dei meri strumenti della vita economica.

 

 

Perciò l’Italia non ripugna affatto a garantire a tutti i popoli dell’entroterra, ai jugoslavi ed agli altri il libero uso del porto di Fiume, mercé un’amministrazione interstatale delle ferrovie correnti dalla Boemia, dall’Austria, dall’Ungheria sino alle banchine del porto.

 

 

Perché domani l’esempio insigne non potrebbe essere imitato per il canale di Suez, per quello di Panama e per quello ancora di Kiel? Poiché il medesimo sistema non potrebbe essere applicato al Bosforo ed ai Dardanelli, assicurando così al mare alla Romania, alla Russia, all’Armenia, all’Anatolia? Solo così può crearsi a poco a poco l’organismo che irretirà i popoli del mondo con vincoli infrangibili e spogliandoli via via di una parte della loro sovranità li abituerà all’idea di un potere sovrano superiore a tutti, al quale un giorno forse daremo il nome di Stati Uniti del mondo. Ma quel giorno non verrà se oggi, in nome del dogma della sovranità assoluta, noi ci rassegniamo a vedere conculcati gruppi nazionali isolati bensì, ma vivacissimi, ma antichi, ma nobilitati da una storia nazionale e da tradizioni tenaci di autonomia al solo scopo di dare pienezza di vita economica allo stato straniero che da ogni parte circonda la città decisa a vivere all’ombra della bandiera d’Italia.

 

 

Il primo sperimento della terra ai contadini combattenti

Il primo sperimento della terra ai contadini combattenti

«Corriere della Sera», 20 aprile 1919

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 224-229

 

 

 

 

L’Opera nazionale pro combattenti ideata dall’on. Nitti e che fu inaugurata solennemente ora dall’on. Stringher, ha un programma grandioso: quello di promuovere le condizioni tecniche, economiche e civili che consentano la maggiore produttività delle forze di lavoro della nazione. Analizzare quel programma nella sua interezza è impossibile, in un solo articolo di giornale. Mi limito oggi ad illustrare i metodi con cui l’Opera dovrebbe attuare uno dei suoi fini più alti: la terra ai contadini ex combattenti. Dopo tanti discorsi, vani per lo più, perché basati sulla stravagante credenza, inutilmente dimostrata erronea dagli studi più accurati e da indagini sapienti condotte dal ministero di agricoltura, che in Italia esistano estesissime superfici di terreni incolti, le quali non attenderebbero altro che l’opera fecondatrice del lavoratore – ahi! quanto la realtà è più complessa ed ardua – questo è il primo progetto concreto che ci si presenta meritevole di discussione. Esiste un capitale cospicuo: 300 milioni; esistono mezzi di credito atti a portare quella cifra a somme ben più alte. Se il programma della terra ai contadini ha in sé qualcosa di realmente vitale, questa è la volta in cui dall’idea si può passare all’attuazione.

 

 

Innanzi tutto, l’Opera a quali terreni rivolgerà la sua azione?

 

 

In primo luogo, ai terreni che essa, a trattative private, vorrà acquistare coi mezzi provenienti dal suo capitale, dalle obbligazioni emesse e da tutte le altre fonti consentite dallo statuto. Su questa prima categoria di terreni non cade discussione; ed a parer mio è quella che di fatto si paleserà la più feconda di buoni risultati. La buona gente discorre al caffè di terre incolte e ciarla di espropriazioni; ma poiché terre veramente incolte non esistono, l’espropriazione non può non dar luogo, come vedremo subito, a difficoltà gravi. Meno costoso, più rapido è il metodo di comprare da chi vuol vendere. Di solito sono appunto i terreni, non incolti, ma meno bene coltivati, di cui i proprietari incapaci vogliono sbarazzarsi.

 

 

In secondo luogo l’Opera potrà chiedere che siano trasferiti al suo patrimonio i terreni patrimoniali spettanti allo stato, alle provincie, ai comuni, alle opere pie, agli enti pubblici ed agli enti ecclesiastici conservati. Per ottenere il trasferimento, l’Opera deve dimostrare che quei terreni sono suscettivi di importanti trasformazioni culturali o sono soggetti ad obblighi di bonifica. Nel caso che queste condizioni non esistano, ma tuttavia l’Opera ritenga necessario utilizzare certi terreni per conseguire i suoi propri fini, potrà chiederne l’assunzione in enfiteusi od in affitto a lunga scadenza. In sostanza, siccome è ben noto che chi assume in enfiteusi un fondo rustico ha diritto assoluto, non rinunciabile convenzionalmente, al riscatto del fondo, così l’Opera può diventare proprietaria o subito o, attraverso l’enfiteusi, dopo tempo brevissimo, di qualunque terreno appartenente agli enti suaccennati le piaccia di considerare adatto ai propri fini.

 

 

In terzo luogo l’Opera ha diritto di espropriare anche i terreni appartenenti a privati proprietari, i quali soddisfino ad una di queste due condizioni: siano soggetti ad obbligo di bonifica, ovvero risultino, sulla base di un piano di lavori preparato dall’Opera stessa, atti ad importanti trasformazioni culturali. Il privato proprietario potrà però riscattare il fondo espropriato, entro un anno dal giorno in cui, ultimati i lavori, gli sia stato comunicato il piano di utilizzazione del fondo, purché rimborsi, oltre il prezzo di esproprio, il maggior valore acquistato dal fondo e si obblighi ad utilizzare il fondo stesso secondo il piano comunicatogli.

 

 

Occorreva, naturalmente, stabilire le garanzie affinché agli enti od ai proprietari espropriati fosse pagato il giusto prezzo o canone. Se le due parti si accordano, nulla da dire: vige il patto tra esse stipulato. Se vi è disaccordo, provvedono i collegi di arbitri, che sono di due gradi: provinciale e centrale.

 

 

Il collegio arbitrale provinciale è composto da un rappresentante dell’opera espropriatrice, da un rappresentante dell’ente espropriato, nominato dal prefetto, o dal proprietario interessato; ed è presieduto dal presidente del tribunale o da un suo delegato. Qui la composizione è equa, sebbene si possa osservare che per gli enti pubblici o morali non v’è ragione che il rappresentante non sia nominato dall’ente stesso. Perché deve nominarlo il prefetto? E non c’è pericolo che in tal modo tutto il collegio giudiziale sia intieramente sotto l’influenza del governo?

 

 

Nel collegio arbitrale centrale gli interessati da espropriare non hanno più voce. Presidente è un magistrato superiore nominato dal primo presidente della corte di cassazione di Roma; due membri sono tali ex officio e cioè i direttori generali del lavoro e dell’agricoltura, e due sono nominati dal ministro del tesoro tra consiglieri di cassazione e consiglieri di stato.

 

 

Notisi che contro le decisioni del collegio centrale non vi è alcun rimedio, né in via giudiziaria, né in via amministrativa. In sostanza è il potere esecutivo, il quale, per mezzo dei suoi delegati, quattro su cinque, decide inappellabilmente su ogni controversia intorno alle espropriazioni desiderate dall’Opera. Ciò può essere assai elegante e moderno. Io mi limito a ricordare che un tempo i nostri avi facevano le rivoluzioni per ridurre i poteri arbitrari del potere esecutivo, per abolire i tribunali straordinari creati dai re e per affidare la conoscenza delle controversie ad una magistratura inamovibile, indipendente e insospettabile.

 

 

Collegi provinciali e collegio centrale dovranno determinare prezzi di acquisto o canoni enfiteutici o d’affitto sulla base dei redditi normali netti ritratti dai beni trasferiti all’Opera, tenendo conto, per gli enti pubblici, dei redditi netti accertati in bilancio. E la norma sarebbe ottima, ove i collegi incaricati di attuarla dessero, mentre non danno, affidamento di indipendenza e di imparzialità. Né si dimentichi che bene spesso i collegi dovranno decidere ben altri problemi, specie per i beni ora spettanti ad enti pubblici o morali. Che cosa accadrà invero se un’opera pia, se un ente morale opponga al desiderio di espropriazione dell’Opera pro combattenti il proposito suo di fare meglio e più a favore dei combattenti? Se si dimostrerà che sul fondo espropriando lavorano già combattenti e famiglie di combattenti in condizioni economiche forse migliori di quelle che posson essere offerte da un istituto lontano e poco pratico dei luoghi?

 

 

È invero sommamente incerto se il regolamento legislativo dell’Opera offra ai combattenti condizioni tanto favorevoli da indurli a disertare i fondi degli enti pubblici e dei privati. Due sono i metodi di concessione dei terreni espropriati e migliorati dall’Opera ai contadini combattenti.

 

 

Vi è prima l’utenza o locazione a miglioria rinnovabile. È un affitto, il quale si differenzia dai soliti affitti, perché il contadino è obbligato ad eseguire le migliorie o trasformazioni prescritte nell’atto di concessione. Se le esegue, ha diritto di preferenza quando l’affitto scada. Se non le esegue può essere, anche prima della scadenza, dichiarato decaduto.

 

 

Tutto ciò sta benissimo sulla carta: miglioramenti, trasformazioni, utenze rinnovabili sono assai belle parole e risonanti. Non so se piaceranno altrettanto ai contadini, i quali amano sovratutto la sicurezza di godere tranquillamente, senza incertezze, dei frutti dei loro terreni, per un dato numero di anni; e basta lì. Un affitto che dura 9 anni, ma può ridursi a 3 od a 2, qualora piaccia ad un funzionario dell’Opera affittante giudicare che l’utente non ha «migliorato» o «trasformato» come era convenuto, temo che non sembrerà un vero affitto al contadino ordinario. È vero che c’è il ricorso al collegio arbitrale centrale; ma il collegio sta a Roma e come farà il contadino a piatire innanzi ad esso?

 

 

La seconda maniera di concessione è l’utenza a miglioria con diritto di acquisto. Rimangono gli obblighi di migliorare e trasformare; ma il contadino, oltre il canone di affitto, versa una somma annua sufficiente a pagare in un dato numero d’anni il valore capitale del terreno. Alla fine del periodo o dei periodi di affitto, quando il prezzo capitale sia stato integralmente versato, il fondo viene, senza spese di trascrizione e volture, trasferito in proprietà all’utente.

 

 

Però, quando il nuovo proprietario voglia in seguito vendere altrui il fondo o, venendo egli a morire, il fondo stesso passi ai suoi eredi, l’Opera avrà, in ogni tempo, diritto a prelazione. Ossia l’Opera potrà impadronirsi del fondo, rimborsando agli aventi diritto solo l’originario prezzo d’acquisto accresciuto del valore delle migliorie apportate. In caso di controversia, questa sarà inappellabilmente risoluta dal collegio degli arbitri.

 

 

Posso sbagliarmi; ma parmi che questo diritto di prelazione sarà un fortissimo ostacolo a far passare le terre ai contadini. Non ho mai conosciuto contadini a cui possa proporsi un contratto simile a quello or ora delineato ed in cui in sostanza si dice: «Assumete il fondo, miglioratelo, pagatene a poco a poco il prezzo; e diventatene alla fine proprietario. Ma ricordate che sempre, in perpetuo, quando lo venderete o quando, per donazione o morte, lo trasferirete ai vostri figli, l’Opera ve lo potrà riprendere, rimborsandovi il prezzo d’acquisto e il valore delle migliorie e nulla più. Se le migliorie vi parranno stimate troppo basse ricorrerete a Roma, ad un collegio di arbitri, nella cui nomina voi non avrete nessuna parte; e poi basta».

 

 

Combattenti o no, i contadini preferiranno a questo contratto stravagante l’acquisto, a prezzo magari doppio, di un terreno libero da un qualunque privato proprietario. Purché l’acquisto sia ben certo, ben definitivo, non soggetto a condizioni, a revoche, a beneplaciti di autorità, a sentenze di magistrati. Conoscono poco i contadini coloro che immaginano sia possibile di indurli a dedicare fatica e tempo a migliorare terreni, di cui essi non abbiano la piena disponibilità. Non si compra quel che non si può vendere; non si migliora se non si è sicuri di far godere di quel miglioramento i propri figli. Non monta il prezzo; quel che conta è quel pezzo di terreno, è quell’albero, è quella casa, quella stalla, quel fienile. Se il possesso permanente del fondo non è sicuro, addio miglioramenti, addio trasformazioni! Un’oncia di sicurezza val più che mille tonnellate di benevolenza governativa e di sentenze di arbitri romani. Quando mai si vorranno comprendere queste verità elementari?

Riforma tributaria, progetto Meda e sciabolate tributarie

Riforma tributaria, progetto Meda e sciabolate tributarie

«Corriere della Sera», 13[1], 18[2], 26[3] e 30 marzo[4]; 4[5] e 13 luglio[6]; 3, 27,[7] 28[8] e 30 novembre[9]; 1[10] e 8[11] dicembre 1919

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 116-180

 

 

 

 

I

 

Perché il progetto Meda non poteva essere di pochi articoli

 

Il breve riassunto pubblicato dai giornali del progetto di riforma delle imposte dirette sui redditi e nuovo ordinamento dei tributi locali mi fa supporre che le eventuali modificazioni apportate al testo del disegno di legge elaborato fin da quasi due anni fa da una commissione di studio presieduta e con grande solerzia ed amore guidata dall’on. Meda siano lievi e tocchino punti di secondaria importanza. Sicché, in attesa del testo stampato del disegno di legge, parmi utile fare qualche prima osservazione provvisoria sulla base di quel testo originario.

 

 

Una è relativa alle dimensioni del disegno. A molti, 181 articoli di legge sono parsi troppi e taluno osservò che lo schema di riordinamento si presentava complicato. V’è davvero bisogno di scrivere un intiero codice per definire gli obblighi dei contribuenti in rapporto al loro reddito od al loro patrimonio? O non basta scrivere in pochi semplici articoli che colui il quale meno ha paghi poco o nulla e colui il quale molto possiede o guadagna paghi in misura superiore? Al più si potrebbe aggiungere qualche norma, universalmente ritenuta necessaria, come quella relativa alla deduzione dei debiti o dei pesi o carichi gravanti sul reddito o l’altra relativa ai gravami di famiglia od alle necessità di provvedere alla vecchiaia, alle malattie od alla morte del contribuente.

 

 

Così invero erano stati per lo più concepiti in Italia i disegni di riforma delle imposte dirette e di istituzione della imposta globale sul reddito. Ma fu anche questa una delle ragioni, e non quella di minor peso, per cui quelle proposte di riforma non poterono approdare a nulla di concreto. La complessità è oggi una condizione necessaria di un buon sistema tributario. È passata l’ora delle leggi d’imposta semplici, nel senso di leggi brevi, da potersi contenere in pochi articoli. Le leggi semplici erano possibili un tempo, quando la società era poco specificata, quando suppergiù tutti traevano reddito dalla terra o da occupazioni elementari: il fabbro, il sarto, il medico, l’avvocato, l’impiegato, l’ufficiale. Adesso la società umana è divenuta grandemente complessa; le professioni si contano a migliaia; i rapporti sociali sono intricatissimi, e lo stesso individuo può nel tempo stesso essere lavoratore, azionista di società anonime diverse, proprietario di terreni, creditore dello stato. In una società siffatta, una legge d’imposta breve, apparentemente semplice, in realtà è:

 

 

  • oscura ed arbitraria. I pochi principii enunciati dal legislatore male si adattano agli innumeri casi concreti, e lasciano luogo a dubbi di interpretazione e ad arbitri della finanza e della magistratura;

 

  • aperta alle frodi. Di tra le grandi maglie sfuggono i contribuenti più avveduti, mentre gli inesperti sono taglieggiati. Perciò le grandi riforme sonore e vuote sono preferite dai professionisti della politica, i quali vogliono gettar polvere negli occhi del pubblico; ma sono alieni dal far cosa veramente spiacevole ai loro clienti. Perciò è probabile che i 181 articoli del disegno di legge Meda, sebbene molti di essi siano non poco vistosi, dovranno crescere di numero se si vorrà che la legge d’imposta sia seria, chiara, severa, giusta;

 

  • prolifica di aggiunte, varianti, che la deformano ed a poco a poco la allontanano dalla semplicità primitiva. Così è accaduto al sistema delle imposte dirette in Italia, il quale per l’accavallarsi di leggi e leggine interpretative e modificatrici, dettate dalle circostanze e non coordinate tra di loro, è diventato una foresta vergine, nella quale solo alcuni pochi specialisti osano avventurarsi.

 

 

Il disegno di legge Meda ha per iscopo di chiarire questa foresta, di alleggerire, di sfrondare e di presentare al contribuente un codice intelligibile, in cui anche il profano possa orizzontarsi.

 

 

Quante imposte pagano oggi i contribuenti, sempre a titolo di imposte sul reddito? È divenuto difficile persino farne il conto: imposte sui terreni, sui fabbricati, di ricchezza mobile, di famiglia, sul valor locativo, di esercizio e rivendita, complementare sul reddito, contributo straordinario di guerra, centesimo di guerra, sugli amministratori e sui gerenti delle società, ecc. ecc. Ognuna di queste imposte è retta da regole proprie, l’una disforme dall’altra, con metodi diversi di accertamento, con magistrature giudicanti differenti. E tutte colpiscono lo stesso oggetto, che è il reddito nelle sue varie forme. Era tempo di porre un po’ d’ordine in tutto ciò; diminuire il numero e il nome delle imposte e rendere l’unica imposta residua abbastanza varia da non lasciare nulla sfuggire e nel tempo stesso abbastanza unificata da consentire allo stato ed agli enti locali di avere dinanzi a sé l’immagine compiuta del reddito e del patrimonio del contribuente da assoggettare a tributo in ragione della sua capacità di pagare. I 181 articoli necessari a raggiungere tale fine parranno pochi se si confrontano ai molti più articoli di tante leggi diverse che il nuovo codice renderebbe inutili; ed al vantaggio di sostituire un’unica regola alle molte e contradittorie prima esistenti.

 

 

È probabile – ed è questa la seconda osservazione d’indole preliminare che è opportuno fare sulla scorta del riassunto dato dai giornali – che i due anni decorsi dal giorno in cui l’on. Meda chiuse i lavori di elaborazione del disegno di legge abbiano reso necessarie nuove discipline tributarie che allora potevano essere rinviate a miglior tempo. Il fabbisogno dello stato è cresciuto, d’allora in poi, di qualche miliardo di lire all’anno: forse 2 miliardi. E crescerà ancora. Maggiori mezzi occorrono perciò alla finanza. Non credo che tutti debbano essere chiesti alla imposta sul reddito; ché sarebbe ingiusto non chiedere nulla di più ai consumi non necessari, i quali imperversano più che mai, con danno dei meno provveduti e della produzione della ricchezza. Ma la rete tributaria va resa più fitta attorno ai redditi. Il disegno di legge si contenta, ad esempio, di accertare attraverso indizi – spese per l’appartamento, domestici, ville, ecc. – il reddito di coloro che vivono del frutto dei capitali mutuati allo stato. Il legislatore ha bisogno di una spinta dell’opinione pubblica per mettersi su una via più ardimentosa. Questa spinta è oramai necessaria. Le urgenze della finanza impongono di accertare anche questi redditi con lo stesso sistema che il disegno di legge propone per tutti gli altri titoli al portatore, metodo che spiegherò in altra occasione e che parmi efficace e giustamente severo, senza essere perturbatore delle transazioni commerciali. Non occorre all’uopo nulla mutare all’economia del disegno. Basta resecare qualche inciso d’esclusione, perché 80 miliardi di titoli di debito pubblico vengano assoggettati all’imposta. Badisi, non all’imposta sul titolo; ma a quella generale sul reddito complessivo del contribuente, che lo colpisce personalmente, se il suo reddito sia superiore ad un certo limite, e progressivamente, in funzione dell’ammontare del reddito. Come ho spiegato ripetute volte ed anche in occasione delle ultime emissioni di prestiti nazionali, ad espresso avvertimento dei sottoscrittori, siffatta tassazione personale non violerebbe la parola data dal governo di esimere i titoli da qualunque imposta presente e futura. L’esenzione rimane e sarà osservata. Ma se v’è una imposta che non colpisce il titolo, ma la persona del contribuente in rapporto al totale suo reddito, questa imposta non può lasciar immune Tizio solo perché egli ha investito o pretende di avere investito il suo patrimonio in titoli di stato e tassare Caio, il quale scelse altra fonte di investimento. La imposta sul reddito guarda al contribuente, come tale, alla sua agiatezza. Non conosce le fonti dell’agiatezza; e questa deve colpire intieramente.

 

 

II

 

I lineamenti ed i limiti del progetto Meda

 

Il riassunto che, a parecchie riprese, fu qui fatto dei lineamenti essenziali del progetto di riforma delle imposte dirette sui redditi presentato alla camera dall’on. Meda ha consentito ai lettori di formarsi un’idea abbastanza precisa del suo contenuto e della sua portata e consente a me un primo apprezzamento sintetico.

 

 

Comincio dall’enunciare alcune sue caratteristiche negative.

 

 

Il progetto Meda non risolve da solo il problema finanziario del momento presente, che è di trovare i 3 miliardi circa all’anno i quali mancano all’equilibrio del bilancio dello stato italiano. Il riordinamento proposto delle imposte esistenti ed i nuovi tributi messi innanzi non potranno dare 3 miliardi e neppure 2 e subito saranno anche probabilmente lontani dal rendere un miliardo solo. Questa però è una critica che può essere mossa solo da visionari i quali immaginano possibile inventare il metodo per fare spuntare i miliardi come i funghi. Promettere di risolvere il problema di trovare i 3 miliardi subito e con una sola bella riforma o con un solo mezzo è da visionari o peggio. Il problema si può risolvere solo in qualche anno – non troppi, ma neppure uno solo – e ricorrendo a svariati mezzi. Uno dei quali e principalissimo a parer mio è appunto quello di ridare elasticità al sistema delle imposte dirette sui redditi che, per le sue norme antiquate, per la sua sperequazione, s’era quasi irrigidito. Chi non vuol chiudere gli occhi alla realtà, deve riconoscere che i soli due paesi i quali od hanno risoluto o sono incamminati a risolvere il problema della finanza post-bellica ed i quali v’è probabilità lo possano aver risoluto senza fare affidamento sull’entrata straordinaria dell’imposta sui sovraprofitti di guerra sono gli Stati uniti e l’Inghilterra. E questi due paesi si sono sovratutto poggiati per raggiungere l’intento su imposte sul reddito congegnate suppergiù nel modo proposto nel progetto Meda. Altri paesi quelli, si dirà ; più ricchi e meglio educati al senso del dovere civico. La maggior ricchezza è indubitata: ma coloro che la mettono innanzi dimenticano che l’Inghilterra istituì l’imposta sul reddito quando non era certo più ricca dell’Italia d’oggi ed allo scopo di sostituire imposte male congegnate e male distribuite che ostacolavano appunto l’incremento della ricchezza. L’imposta la quale colpisce il reddito già prodotto, in molti casi già distribuito e vicinissimo al consumo è tra tutte quella che meno ostacola l’incremento della ricchezza. Teniamolo a mente e non ripetiamo un’obiezione insussistente, il cui unico effetto sarebbe quello di farci rassegnare a nuove imposte fastidiosissime sugli affari o sugli scambi o sulla produzione. Quanto alla maggiore educazione degli anglo-sassoni, chi abbia letto inchieste, relazioni e scritti di quei paesi rimane scettico; ché le frodi erano e sono frequenti in quei paesi, sì da rendere, a detta di scrittori insigni, alcune imposte uno scandalo agli occhi del mondo. Chi ha reso i contribuenti anglo-sassoni ossequenti al dovere tributario fu l’amministrazione rigida, fu la equità verso i contribuenti, furono le penalità severe ed applicate, fu la ragionevolezza delle aliquote. Facciamo altrettanto in Italia ed otterremo gli identici risultati.

 

 

La riforma tributaria Meda non è una riforma tributaria compiuta che riguardi tutto l’assetto delle imposte esistenti. Essa non tocca le imposte sui consumi, né quelle che da noi si dicono sugli affari (successioni, registro, bollo, ecc.). Certuni, quando si parla di riforma, vogliono subito tutto o niente. E così non si conclude mai nulla. In realtà la riforma dei tributi diretti sul reddito è una cosa perfettamente distinta dal riordinamento dei tributi sugli affari o di quelli sui consumi. Diverse le basi imponibili, diversi i metodi di accertamento, differenti gli organi fiscali. Il trattarne insieme non gioverebbe a nulla, salvo a crear confusioni e ritardare l’un riordinamento col pretesto che gli altri non sono maturi. Governo e parlamento debbono sapere quanto chiedere all’un gruppo di tributi in confronto agli altri; ma, stabilito questo rapporto generale, ogni gruppo sta a sé e giova trattarli separatamente, per compiere il riordinamento in modo tecnicamente adatto ad ognuno di essi.

 

 

Il progetto Meda non propone novità strepitose, imposte mai più viste o diverse da quelle solite. Anche questa è per me cagione di compiacimento. Giova ricordare ancora una volta ciò che ho detto infinite volte: che cioè nelle sue linee essenziali il nostro sistema di imposte dirette sui redditi fu all’inizio bene congegnato, con un grado di perfezione non raggiunto neppure dai più celebri sistemi d’imposta stranieri. La nostra imposta di ricchezza mobile nei suoi lineamenti primi non ha nulla da invidiare né alla income tax inglese né alla Einkommensteuer prussiana, celeberrime agli occhi di coloro che stanno sempre a bocca aperta dinanzi a ciò che accade all’estero. Ciò che nocque e nuoce alle nostre imposte fu che esse coll’andar del tempo divennero aggrovigliate e complicate, perdettero la nozione dei rapporti reciproci; si irrigidirono e rimasero ferme, mentre all’estero via via andavano perfezionandosi. Il progetto Meda ha per iscopo di mettere l’ordine nel caos e col minimo numero di variazioni – non è forse arte di governo sapere far uso dei materiali esistenti ed ottenere un risultato discreto con lo sforzo minimo? – costruire un sistema di imposte sul reddito che non abbia nulla da invidiare ai più celebrati e modernissimi sistemi esteri. Costruito questo sistema, quando per qualche tempo lo si sia visto in opera, sarà possibile tentare tutte le novità più strepitose che ai riformatori piacerà di saggiare. Oggi tanti discorrono di imposte patrimoniali grosse per pagare le spese di guerra o di imposte sugli incrementi di patrimonio avvenuti dopo la guerra. Non discuto qui per incidenza il problema intricatissimo. Sia lecito però osservare che oggi noi non possediamo alcuno strumento per esigere giustamente tributi cosiffatti. Non conosciamo né il reddito né il patrimonio dei contribuenti; non sappiamo e non potremo quindi mai più sapere quale era il patrimonio dei contribuenti all’1 agosto 1914 e non abbiamo modo quindi di conoscere la differenza in più al 31 dicembre 1918 o 1919. L’applicazione di imposte simili a quelle che sono possibili in Germania, perché da tempo là funzionavano, già prima della guerra, imposte sul reddito e sul patrimonio, condurrebbe in Italia ad improvvisazioni indicibili e ad ingiustizie atroci a pro dei furbi ed a danno della gente onesta. Il progetto Meda permetterebbe di ottenere, finalmente, un inventario della ricchezza e del reddito dei contribuenti italiani. Fatto questo inventario, vistolo funzionare per qualche anno, perfezionatolo coll’esperienza, sulla base dei dati così conosciuti, sarà possibile tentare, se i legislatori lo riterranno a ragion veduta opportuno, altre novità, audaci od avventate a seconda dei punti di vista. Almeno saranno tentate in modo serio e con giustizia. Oggi chi critica il progetto Meda perché non abbastanza innovatore, o è un visionario ovvero vuol gittar polvere negli occhi del pubblico.

 

 

Le qualità negative e per me lodevoli del progetto Meda si riassumono in una affermazione positiva: esso è uno sforzo onesto e serio di creare finalmente un sistema d’imposte sul reddito che sia di grande aiuto alla finanza e nel tempo stesso riduca al minimo la pressione che ogni imposta esercita sulla produzione della ricchezza. Cerca di recare l’ordine e la semplicità nel groviglio tributario inestricabile d’oggi. Siano le leggi d’imposta chiare e comprensibili ai contribuenti, diceva Adamo Smith, il gran padre della scienza economica. Questo canone dimenticato attraverso cinquant’anni di sovrastrutture tributarie viene fatto rivivere nel progetto attuale.

 

 

Il quale perciò , se attuato, avrà l’effetto di rendere consapevoli i contribuenti dell’onere d’imposta dovuto allo stato e quindi di interessare i contribuenti alla buona amministrazione della cosa pubblica. Pur rispettando le convenzioni private relative al passato, il progetto dichiara per l’avvenire nulle le convenzioni stipulate tra le parti dirette ad accollare l’onere dell’imposta a persone diverse da quelle indicate dalla legge oppure ad esonerare dalla rivalsa le persone a carico delle quali la rivalsa stessa è dalla legge stabilita. Perciò i creditori sapranno che essi pagano di imposta normale il 18%, gli impiegati non solo di stato, ma di enti locali o morali o privati, sapranno di pagare il 9 od il 12%; ed in aggiunta tutti sapranno di pagare l’imposta complementare e la patrimoniale a seconda delle proprie condizioni di fortuna e di famiglia. Sul medesimo foglio d’avviso ognuno vedrà elencate tutte le imposte dirette dovute allo stato, alle provincie ed ai comuni; avrà un indizio tangibile della loro buona o cattiva amministrazione. Una sola cifra che in percentuale andrà dal 0,50 circa per i redditi di lavoro poco sopra le 1.200 lire al 10 e più per cento, tutto compreso, per i redditi massimi dirà ad ognuno quale sia il costo dei pubblici servizi. Nulla di più morale, di più necessario in tempi di suffragio universale, di alta pressione tributaria e di utilità di un controllo continuo e rigoroso sulla spesa pubblica. Il progetto è altresì un tentativo serio di conoscere meglio i redditi dei contribuenti. La rinnovazione periodica degli estimi dei fabbricati, la tassazione dei redditi dei terreni ai fini della complementare a norma dei fitti o redditi correnti, l’obbligo delle dichiarazioni generalizzate a tutti i contribuenti e soggetto a controlli, il metodo praticamente ferreo di tassazione dei titoli al portatore, le penalità non condonabili per i contravventori, i nuovi poteri delle giunte di stima e dei funzionari delle imposte, tutto ciò darà modo all’amministrazione di conoscere molto meglio la massa dei redditi e la loro distribuzione di quanto non accada oggidì.

 

 

Oggi, è impossibile rispondere sul serio alla domanda: quanto renderà una nuova imposta sul reddito o sul patrimonio? Il professore Rodolfo Benini, insigne maestro di statistica, dovendo calcolare per la commissione del dopo guerra il probabile gettito di queste due imposte dovette premettere le più ampie riserve sulle basi del calcolo; e le stesse riserve per altra commissione aveva dovuto fare il professore Corrado Gini, altro penetrantissimo statistico nostro. In realtà non sappiamo nulla. E dovremo attendere dall’applicazione dei nuovi tributi la nozione di quanto essi potranno fruttare all’erario. Ma finalmente il tentativo viene fatto con mezzi seri di ripartire il carico tributario ponendo mente se il contribuente è capitalista o lavoratore, o corra rischi di industria o no, se è carico di famiglia ovvero celibe, se ha reddito piccolo ovvero medio ovvero grande, se ha debiti ovvero ha il patrimonio libero da pesi.

 

 

Occorre che l’opinione pubblica appoggi il tentativo. Sarebbe un danno grave se il progetto dell’on. Meda dovesse rimanere allo stadio di documento presentato alla camera. Esso può essere emendato, migliorato. Può sovratutto essere generalizzato ancor più, assoggettando al medesimo metodo di accertamento, usato per i titoli al portatore in genere, anche i titoli di stato ai fini dell’imposta personale complementare sul reddito. Può essere reso più duro, aggravando le penalità per i contravventori; e sovratutto creando un corpo tecnico di esecutori della legge, scelto, consapevole dei suoi doveri, tutore ugualmente dei diritti dello stato e dei contribuenti. Ma bisogna che l’opera non rimanga a mezzo, ad ogni costo.

 

 

A questo fine deve collaborare l’opinione delle classi alte, le quali sono chiamate a sopportare l’onere maggiore del nuovo ordinamento tributario. È in gioco la stabilità dell’assetto sociale. Con un sistema tributario farraginoso, sperequato, in cui i ricchi pagano gli uni troppo poco e gli altri troppo e danno perciò l’impressione d’insieme di non pagare abbastanza, l’equilibrio sociale è instabile. Se si vuole evitare la violenza, bisogna cominciare a far giustizia. Per tutti, in alto e in basso. Tutti debbono essere chiamati a pagare, perché il dovere di contribuire alle spese pubbliche è universale. Ma si deve sapere che gli uni contribuiscono poco e gli altri molto, ognuno in rapporto alla propria possibilità di pagare.

 

 

Per anni, prima della guerra, su queste colonne ho battagliato per inculcare l’idea della vanità di ogni pretesa grande riforma tributaria la quale non fosse basata su una preliminare rinnovazione, nel senso della rigidità, dei metodi di accertamento. Il progetto dell’on. Meda è un primo importante e serio passo su questa via. L’esperienza indicherà come i metodi proposti possano essere perfezionati. Ma frattanto importa, urge che il passo si faccia. L’on. Meda ha risolto il dilemma della precedenza nella riforma degli accertamenti o nella riforma della ripartizione del carico dell’imposta proponendo che anche le riforme si compiano contemporaneamente. È il partito più savio: poiché, a che cosa deve servire la rigidità se non ad instaurare la giustizia?

 

III

 

La tesi demagogica de «La stampa»

 

 

Dopo essersi lagnata che lo stato italiano non abbia, dopo l’armistizio, provveduto se non ad atti di ordinaria amministrazione, «La Stampa» di Torino prosegue nel suo numero del 24 marzo dicendo che «solo, quasi per dare ragione ad una vecchia e sarcastica definizione dello stato italiano (secondo la quale questo è essenzialmente un… torchio fiscale) è venuto il congegno delle nuove tasse, il macchinoso omnibus fiscale del ministro Meda».

 

 

…Il quale, col pretesto di tassare la ricchezza nelle sue sorgenti senza farla sfuggire nei suoi trapassi, attraverso i quali essa si moltiplica, in realtà è un sistema molto complicato e dispendioso di duplice e di triplice balzello sulla stessa entità economica, che avrà da un lato l’effetto di scoraggiare l’investimento del denaro nelle intraprese produttive e determinerà, dall’altro, con più iniqui risultati di prima, il solito scarica barile fiscale dei proprietari dei terreni e dei fabbricati su tutte le categorie degli affittuari e degli inquilini, sulla vasta massa dei consumatori. Onde, anche queste, che l’onorevole Meda pretende siano imposte dirette, in pratica si risolveranno in imposte indirette, ossia in un sistema di balzelli, che descrivono un arco di rimbalzo intorno ai veri detentori della ricchezza, per andare a cadere su ceti meno abbienti e per gravare sovratutto su quelli proletari. Per tutto il resto, c’è… un soldino di più per ciascuno dei francobolli in uso, qualche decimo di aggravio, distribuito a caso su tutte le tasse spicciole dei minuti affari e i prezzi proibitivi per tabacchi sempre più attossicanti e perfidamente confezionati. Questa è la sanguinante ironia, è l’atroce derisione, è la sfida proterva alla terribile realtà e a quelli che la sopportano, in un paese, che, avendo fatto 80 miliardi di debiti e dovendo pagarne 4 per interessi ogni anno, dovendo ricostruire e riorganizzare tutti i servizi civili e quelli pubblici, dovendo provvedere alle pensioni e a tutto il resto, deve trovare mezzi non già nei ruscelletti spillati fuori con i faticosi stratagemmi fiscali, bensì fiumi di denaro… là dove essi stagnano, nei forzieri, o in altri accantonamenti finanziari di tutti gli arricchiti dalla guerra. Il pubblico – al quale la cosa fu tante volte preannunziata e promessa – attende ancora, attende sempre, e già brontola per l’indugio, un congegno fiscale di forte percezione, di prelevamenti quasi espropriatori dei sovraprofitti di guerra, che la coscienza universale si ricusa di considerare come leciti accumuli di legittimi benefici, e considera piuttosto come refurtiva della vasta e permanente razzia allestita sui vari bilanci della difesa nazionale durante la guerra. La relazione della commissione dei quindici sulle esportazioni non è se non una delle documentazioni della criminosa illegittimità di queste congestioni di ricchezza e della necessità morale e politica di dissolverle in soccorso dell’anemia finanziaria del paese!

 

 

Ho voluto citare integralmente il brano in cui è esposta dal giornale torinese una critica alla finanza passata ed a quella auspicata per l’avvenire dal governo italiano, insieme con un programma che vorrebbe contrapporsi a quello ministeriale. Credo di non essere sospetto di indulgenza verso la politica tributaria italiana, che ripetutamente ho, ben prima che la guerra finisse, rimproverata come timida e procrastinatrice. Sento tuttavia il dovere di oppormi, con tutte le mie forze, ad un sistema dissolvente di critica, il quale pervertendo nel modo più aperto la verità dei fatti e dei propositi ed auspicando metodi infecondi tende a provocare l’odio, i rancori fra classe e classe ed a produrre la rovina della finanza italiana.

 

 

Intanto, è falso che si siano, come si dedurrebbe dall’articolo della «Stampa», contratti già 80 miliardi di debiti e su di essi si debbono pagare 4 miliardi di interessi. Risulta dall’ultima esposizione Nitti e dalle situazioni del tesoro e dei debiti pubblici che al 31 dicembre 1918 i debiti totali dello stato italiano erano i seguenti:

 

 

Antichi, anteriori all’1 agosto 1914

13.636

Nuovi, posteriori all’1 agosto 1914

54.342,3

Fruttiferi, interni

29.947,2

Fruttiferi, esteri

15.375,4

45.322,6

Infruttiferi (biglietti di banche per conto del tesoro, biglietti di stato, buoni di cassa e buoni del tesoro):

9.019,7

54.342,3

Totale 67.978,3

 

 

 

Dopo il 31 dicembre 1918 non furono più pubblicati conti del tesoro e situazioni di debiti; ma non è probabile agli 80 miliardi si arrivi, se non a pace firmata ed a liquidazione compiuta della guerra. Anche allora dovremmo rimanere parecchio al di qua degli 80 miliardi, ove si sappiano utilizzare con avvedutezza le attività patrimoniali residuate della guerra. Qualcosa pur ci è dovuto a titolo di indennità per puri danni materiali arrecatici dal nemico. E poiché 13 miliardi e 635 milioni di debito preesistevano alla guerra, bisogna onestamente conchiudere che non 80 ma forse 60 miliardi di debiti saranno dovuti alla guerra e di questi 10 circa infruttiferi. Siamo ben lontani dai 4 miliardi di interessi passivi che «La Stampa» lascerebbe credere dovuti alla guerra. Anche 2 e mezzo 3 miliardi sono molti, moltissimi; ma perciò appunto è doveroso non crescerli alla cifra terrificante di 4 miliardi all’anno.

 

 

Sembrerebbe che gli 80 pretesi miliardi di debiti e le somme grandiose necessarie a ricostruire e riorganizzare tutti i pubblici servizi, a provvedere alle pensioni ed a tutto il resto potessero trovarsi cavando «fiumi di denaro là dove essi stagnano» con imposte sui sovraprofitti di guerra, «dissolvendo le criminose congestioni di ricchezza in soccorso dell’anemia finanziaria del paese».

 

 

Non ho alcuna tenerezza per i sovraprofitti di guerra. Obbedendo ad antiche convinzioni, da anni esposte in memorie di carattere teorico, anteriori alla guerra, io sono e rimango contrario alle imposte le quali colpiscono i redditi nuovi, cresciuti, aggiunti a quelli preesistenti. Una imposta come quella sui sovraprofitti di guerra sarebbe in tempo di pace la pessima fra le imposte. Che cosa vi può essere di più micidiale per l’iniziativa industriale, per la formazione del risparmio di un’imposta la quale colpisca non i redditi antichi e normali che tutti, anche i buoni a poco, ottengono e tassi i redditi tanto più fortemente quanto più essi sono una percentuale elevata del capitale? Un incitamento più funesto a produrre poco, a sprecare malamente capitali ed energie, mai non si vide.

 

 

Ma in tempo di guerra, altro e non economico è il problema. Politicamente può essere necessario tassare vigorosamente i sovraprofitti. Non ho atteso oggi a dirlo. Non ricordo articoli scritti anni fa, durante la guerra, su queste colonne, in cui si diceva: tassate al 60, al 70, all’80% i sovraprofitti, purché si sappia che cosa è tassato e che cosa si deve pagare. Ma l’altra settimana, in un corso speciale all’Università commerciale Bocconi, affermavo che bisogna rimaneggiare l’imposta sui sovraprofitti in guisa che essa abbracci tutto il periodo della guerra e della sua liquidazione e, computando il già versato, assorba una forte percentuale del lucro ottenuto dai commercianti, industriali ed intermediari. Fino all’80, fino al 90 per cento. Forse non si può andare fino al 100%, perché nelle umane cose fa d’uopo lasciare un piccolo margine per le possibilità di errore nelle valutazioni fiscali del reddito. Chiunque conosce le nostre leggi di finanza sa che un’imposta dell’80% sugli utili legali, quelli che gli agenti delle imposte debbono per legge calcolare, equivale al 100% e molte volte a più del 100% degli utili reali, quelli che onestamente si possono ripartire.

 

 

Non è l’imposta sui sovraprofitti che mi spaventa, ma è la affermazione, non so se leggera o sfrontata, che il suo provento possa essere il mezzo per pagare gli 80 miliardi di debito pubblico, e per ricostruire, riorganizzare, pagar pensioni ecc. ecc. Dir questo è voler far nascere illusioni, le quali, una volta radicate nelle masse, potrebbero partorire scoppi di ira e di malcontento quando si vedesse che esse sono irrealizzabili.

 

 

I conti sono presto fatti ed avrebbero dovuto essere fatti prima di lasciar credere che provvedimenti quasi espropriatori della «refurtiva della vasta e permanente razzia allestita sui vari bilanci della difesa nazionale durante la guerra» potessero essere il fiume di denaro che in contrapposto ai «ruscelletti» dell’on. Meda dovrebbe colmare il bilancio inaridito dalle spese di guerra.

 

 

Queste spese (p. XLIV dell’ultima esposizione finanziaria Nitti) ammontavano al 31 ottobre 1918 a 59 miliardi e 73 milioni di lire. Facciamole pur crescere, sebbene vi fossero già compresi 8 miliardi di pagamenti all’estero ancor da rimborsare al 31 ottobre 1918, a 70 miliardi alla fine del 1919. Ma già al 31 ottobre 1918 erano compresi nei 59 miliardi ben 21 miliardi e 651 milioni di spese fatte all’estero (p. XLII). Alla fine del 1919 questi 21 miliardi e 6 milioni saranno proporzionatamente divenuti almeno 25. Ciò vuol dire che su 70 miliardi di spese di guerra almeno 25 e forse assai di più – non ho dati per precisare – furono fatti all’estero. Il fisco italiano di fronte a questi 25 miliardi è perfettamente impotente. Anche se fossero tutto lucro, non potrebbe tassarli neppure di un centesimo.

 

 

Restano 45 miliardi. Se non m’inganno, bisogna dedurre ancora le somme spese per stipendi e soldo agli ufficiali e soldati, agli impiegati delle amministrazioni belliche, le somme erogate in sussidi alle famiglie dei militari, tutte insomma le spese aventi carattere personale. Ciò che fu pagato ai milioni di uomini che servirono per cinque anni il paese non può essere tassato come sovraprofitto di guerra. Sono così molti e molti miliardi che bisogna detrarre dai 45. Non so se «La Stampa» voglia considerare come sovraprofitto di guerra e quindi confiscabili i 3 miliardi e 620 milioni pagati sino al 31 ottobre 1918 come interessi sui debiti di guerra. Non credo, perché ciò sarebbe una troppo sfacciata violazione di solenni promesse dello stato.

 

 

Non oso esporre alcuna cifra; ma riterrei sicuramente esageratissima quella di 30 miliardi per le spese residue, dopo fatte le anzidette detrazioni, destinate a pagare ad industriali e commercianti italiani le forniture fatte dallo stato durante la guerra. Sarebbero una bella cifra se fossero utile netto. Ma sono invece per gli industriali l’incasso lordo, da cui bisogna dedurre l’acquisto delle materie prime e delle derrate alimentari all’origine presso gli agricoltori italiani, le spese di lavorazione (salari, combustibile ecc.), le quote di deperimento, le spese di impianto di stabilimenti per la guerra (un solo stabilimento in Piemonte costò 55 milioni di lire e poiché serve solo ad esplosivi e poiché altre industrie non vi si possono impiantare e poiché in pace quel solo stabilimento basterebbe ad inondare di esplosivi il mondo intiero, il suo valore oggi è zero). Quanto si crede che sui 30 miliardi di incasso lordo sia utile netto? Il 10%, il 15%, il 20%? Sulla media dei 5 anni dal 1915 al 1919 compreso il 1919 che è anno di svalutazione delle scorte e per molte industrie sarà anno duro di gravi perdite, forse la prima cifra è la più prudente. Voglio ammettere l’ultima. Sono 6 miliardi di utili netti che potrebbero essere confiscati. Sarebbe bene sapere se «La Stampa» li vuol confiscar tutti o solo la parte che può essere considerata sovraprofitto, ossia l’utile eccedente il reddito normale che gli stessi capitali avrebbero goduto anche in tempo di pace. Se è così, come pare ragionevole, ho timore che i 6 miliardi si riducano a molto meno. L’on. Meda ha affermato che il provento della esistente imposta sui sovraprofitti giungerà ai 2 miliardi. A questi 2 miliardi, già acquisiti dalla finanza, potremo forse, girando la vite, aggiungerne un altro, aggiungerne due, forse tre, come propone, senza fondamento di cifre, e tassando molta altra roba, oltre i sovraprofitti di guerra propriamente detti, la commissione del dopo guerra. Ma tutto finisce lì. Con 3 miliardi non si hanno i «fiumi» di denaro bastevoli a pagare gli 80 miliardi di debito di guerra ed a fare tante altre innumerevoli cose.

 

 

La verità è che la finanza con cui si pagano con 3 miliardi debiti di 80 miliardi è finanza dissolvitrice, è polvere negli occhi delle masse elettorali, è la finanza di chi reputa solo buone le imposte che colpiscono altrui. È necessario dir chiaro e forte che una siffatta finanza condurrebbe lo stato al fallimento ed il paese alla rovina. Non è lecito, no, bandire un cotal diversivo follaiuolo per screditare un progetto, quello Meda, il quale è suscettivo di miglioramenti, ma non si può onestamente negare sia il primo tentativo serio di riordinamento delle imposte sui redditi dopo quello di 45 anni fa del ministro Scialoja. Non è lecito affermare senza una parvenza di prova, che la imposta normale sui redditi, la complementare progressiva sul reddito e la patrimoniale siano destinate a risolversi in imposte indirette, ossia «in un sistema di balzelli, che descrivono un arco di rimbalzo intorno ai veri detentori della ricchezza, per andare a cadere su ceti meno abbienti e per gravare sovratutto su quelli proletari». Affermazioni così gravi, sobillatrici di tanto malcontento e di tanta ira andavano corroborate da una parvenza di prova. Ho cercato di studiare quanta più parte potevo della migliore letteratura sulla traslazione delle imposte; ma una teoria così stravagante come quella che farebbe rimbalzare sui poveri l’imposta di 17.000 lire allo stato, più 3.000 lire ai comuni, oltre la normale di probabili 20-30.000 lire, dovuta dal percettore di un reddito di 100.000 lire all’anno a titolo di imposta progressiva sul reddito e di patrimoniale, non l’ho veduta scritta in nessun libro. Si esponga il misterioso processo di traslazione e sarà oggetto di attento esame. Ma finché tale novella dimostrazione non sia data sono indotto ad asserire che il milionario pagherà lui, proprio lui, fors’anco sotto forma di improvviso calo di valore del suo patrimonio, l’imposta. Non altri. Il progetto Meda è inviso a molti perché riduce nei limiti del possibile le frodi fiscali al minimo. Non sopprime le frodi che si possono commettere possedendo redditi esteri; ma nessun progetto di nessun singolo stato può toccare una meta che si raggiunge solo con accordi internazionali e dovrebbe diventare uno dei precipui compiti della Società delle nazioni.

 

 

Nei limiti della azione dello stato italiano è una ingiusta e stolta ingiuria accusare l’on. Meda di volere rendere più iniquo il sistema tributario di prima. Forse così pensano i portatori di titoli al portatore, i quali invano riflettono agli avvedimenti per sottrarre quinc’innanzi il loro reddito alla progressiva ed alla patrimoniale e, per conseguenza inevitabile, alla imposta successoria. Per essi non vi sono scappatoie se non casualissime e pericolose. Converrà pagare. Forse dichiarano iniqua la riforma Meda quei proprietari di terreni, i quali abituati a pagare la fondiaria sulla base di stime vecchie ed a nulla pagare per ricchezza mobile, d’or innanzi dovranno dichiarare i loro redditi effettivi correnti ai fini della progressiva e dovranno pagare l’imposta sui redditi d’esercizio in aggiunta ai redditi dominicali. Forse imprecano alle regole innovatrici del progetto Meda quegli industriali e commercianti che oggi dichiarano di non tenere libri o li tengono in modo manifestamente artefatto e pretendono ciononostante di far sentire le proprie ragioni dinanzi ai magistrati. Il progetto dichiara i ricorsi di costoro irricevibili e li pone in balia assoluta della finanza; e ben fa, perché i disonesti non han diritto di piatire in tribunale. Forse v’è chi dichiara iniqua pretesa quella del progetto di non condonare le multe per mancata o deficiente dichiarazione dei redditi; ma è il solo modo per risanare l’ambiente ed abituare i contribuenti alla veracità.

 

 

Non è da stupire che tutti coloro i quali si erano abituati a godere di ingiuste immunità legali o di fatto giudichino iniquo il progetto che li colpisce; ma non è tollerabile che si danni con tono di disprezzo alla geenna delle imposte antidemocratiche un progetto di riforma il quale attua i postulati della scienza finanziaria contemporanea e rivaleggia, sotto molti rispetti in meglio, con le leggi d’imposta che furono il vanto indisputato dell’Inghilterra prima, della Germania poi ed oggi degli Stati uniti. Non è tollerabile che si faccia passare agli occhi del pubblico, il quale non ha i testi di legge dinanzi e non può controllare le recise affermazioni del suo giornale, come gravante sui proletari un disegno che raddoppia gli odierni minimi esenti, che aumenta le detrazioni, che tien conto dei componenti la famiglia, che deduce le quote versate alle casse d’assicurazione contro gli infortuni, le malattie, l’invalidità, la vecchiaia, ecc., che sottrae dal reddito, prima di tassarlo con la progressiva, le imposte ed i debiti; che, in ultimo, tassa mitemente coll’1 o 2% i redditi modesti e va su fino ai redditi altissimi e tenuto conto di tutte le imposte e delle loro addizionali comunali e provinciali, sino al massimo normale – sorpassabile in caso di eccedenze consentite agli enti locali – del 58 per cento. Potrà taluno dire che, per tempi di pace, siffatte aliquote sono troppo alte; non mai che esse siano frutto di condiscendenza verso i ricchi e di desiderio di vessazione verso quelli che un tempo si dicevano poveri ed ora chiamansi proletari. La sola via di salvezza per la finanza è qui, nel tassare tutti, senza eccezione alcuna, in rapporto alle rispettive condizioni di ricchezza e di famiglia. Anche questa via è lunga e penosa a percorrere; forse essa non è tale da poter dar da sola e da dar subito i miliardi che mancano alla saldatura del nostro bilancio. Ma percorrerla è necessario, con risolutezza ed energia. Fa d’uopo essere più risoluti del ministro proponente, cassando senz’altro e subito la esenzione, concessa ai titoli di stato e consigliata dalla timidezza, dall’imposta progressiva sul reddito e da quella patrimoniale. Fa d’uopo resistere con risolutezza agli attacchi diversivi che – additando mezzi di portata irrisoria ma fomentatori di odi sociali e di disillusioni amare per la loro fatale irrisorietà – hanno per iscopo di allontanare la riforma, la quale può riportare la giustizia nel nostro sistema tributario ed avrebbero per risultato necessario il fallimento dello stato.

 

 

IV

 

Le correzioni de «La Stampa»

 

Se i lettori non avessero avuto sott’occhio il testo preciso ed intiero del brano in cui «La stampa» metteva a confronto col progetto Meda il suo progetto di cavare «fiumi di denaro» da un «congegno fiscale di forte percezione, di prelevamenti quasi espropriatori dei sovraprofitti di guerra…, refurtiva della vasta e permanente razzia allestita sui vari bilanci della difesa nazionale durante la guerra», potrebbero credere oggi che io abbia esagerato nelle parole adoperate a proposito del tentativo di diversione compiuto dalla «Stampa» contro il progetto Meda. Ma il brano è lì, chiaro, preciso e dice a quelli che lo vogliono leggere che il progetto Meda di riforma tributaria è una «sanguinante ironia», è «un’atroce derisione», è «una sfida proterva alla terribile realtà» e che per far fronte al debito di 80 miliardi e pagare 4 miliardi di interessi, insieme alle pensioni, alla riorganizzazione ed «a tutto il resto» bisogna andare a stanar fuori i «fiumi di denaro» nei sovraprofitti di guerra. Questa io avevo detto essere finanza perversa ed ingannatrice e tale rimane. Neppure una virgola va tolta dal severo giudizio che l’enunciazione di tale politica merita.

 

 

Ma io non sono così ostinato da continuare a gridar forte quando il peccatore, pur dichiarando di non avere peccato, dichiara di non avere avuto male intenzioni e mette fuori un programma, discutibile bensì come sono tutti i programmi e tutte le riforme, ma ragionevole. Vorrà dire che la sua di prima sarà stata una involontaria dimenticanza – ahi! quanto intonata a tutta una campagna politica fomentatrice di odi e di malcontenti rabbiosi -; e che ora «La stampa» è disposta a discutere di questioni finanziarie con una certa serenità ed oggettività. Sarà bene che lo scrittore procuri di non cadere in errori diversi ma non meno chiari di quelli di prima. Oggi non dice più che l’imposta sugli extraprofitti dovesse servire a pagare gli 80 miliardi di debito e nemmeno ad ammortizzarli «ma solo, come è ovvio e come ha potuto capire, di pagarne gli interessi, di farne l’annuale servizio di bilancio». Non è ovvio e non si capisce affatto. Come può un’imposta sui sovraprofitti di guerra, la quale si incassa una volta tanto per i guadagni forniti dalla guerra e frutterà 3 o 6 miliardi od altra cifra simile, fornire i mezzi di pagare in perpetuo i 4 miliardi di interessi necessari per fare il servizio di un debito di 80 miliardi? Pagare 80 miliardi in una volta o pagare gli interessi in perpetuo in 4 miliardi annui ovvero ancora pagare una annualità di 5 miliardi e mezzo per cinquant’anni sono la stessa precisa quantità, se noi supponiamo un interesse del 5 per cento. E con 3 o 6 miliardi esatti una volta sola non si paga affatto né l’una né l’altra di queste tre quantità uguali.

 

 

Sarà anche bene che il mio contradittore non accusi di superficialità il conto con cui io dimostravo che non su 70 miliardi di spese di guerra si può fare assegnamento ai fini dell’imposta di guerra, ma su 30 miliardi e lordi, da cui deducendo le spese per materie greggie, combustibili, impianti da ammortizzarsi, salari, ecc., si arriva, sì e no, a 6 miliardi di profitti netti. Il conto sarà superficiale, come dicono coloro i quali hanno da esporre qualcosa di talmente profondo da riuscire incomprensibile, ma è esatto. Dire, come dice il mio avversario, che se lo stato ha comprato per 10 miliardi di automobili, i fabbricanti hanno comprato alla loro volta carrozzerie, fanali, magneti, gomme, ecc., e i fabbricanti relativi hanno alla loro volta guadagnato è dire cosa vera; ma non implica che le forniture, il giro di affari vero siano di cifra superiore ai 10 miliardi del valore dei prodotti finiti ossia delle vetture automobili. Il valore vero complessivo, che tutto abbraccia è 10 miliardi e non «di molti miliardi di più»; dieci e non un centesimo di più. È un errore notissimo in statistica calcolare due o tre volte il medesimo prodotto sotto le facce del prodotto grezzo, semi-elaborato e finito. Il valore del prodotto finito comprende tutto; e la percentuale di guadagno calcolato su quest’ultimo valore comprende tutti i guadagni precedenti. Non basta il 20% sul prodotto finito? Mettiamo il 30% e saranno 9 miliardi, da cui bisogna dedurre le imposte pagate. Sarà qualcosa, ma non è il «fiume d’oro» con cui poter fare il servizio dei famigerati 80 miliardi.

 

 

Questi errori contabili sono le ultime resistenze della ritirata. Sono ben lieto che il mio atto d’accusa abbia indotto «La Stampa» ad accettare, punto per punto, tutte le proposte e le tesi concrete da me avanzate. Accettato il principio che l’imposta sui sovraprofitti di guerra deve abbracciare tutto il periodo della guerra e colpire l’intiero ed effettivo sovraprofitto realizzato durante la guerra. Rendendosi, «non meno di me», conto delle «legittime convenienze dell’industria, la quale non deve restare asfissiata sotto una cieca confisca statale», «La Stampa» riconosce che l’industria «deve poter serbare per le ulteriori utilizzazioni produttive una parte dei suoi profitti di guerra, nella misura, per esempio, della media di utili realizzata nell’ultimo triennio prima del conflitto». Non giova che, nell’accettare la mia tesi, «La Stampa» faccia appello all’esempio di Lloyd George, il quale avrebbe imposto in Inghilterra la soluzione del problema dei sovraprofitti. Parrebbe che Lloyd George abbia già risoluto quel che in Italia si tarda a risolvere. Non ne so nulla. Da quanto mi consta nulla è innovato in Inghilterra nella legislazione vigente per l’imposta sui sovraprofitti. Questa esiste, così come esiste in Italia, con difetti e pregi diversi non ancora corretti. Gli industriali inglesi, dopo aver pagato l’imposta vigente sui sovraprofitti, sono rimasti con residui di guadagno forse più vistosi di quelli dei loro colleghi italiani; né finora è intervenuto alcun disegno di legge a portarne via loro una parte ulteriore. Se verrà, vedremo. Dubito che se un disegno di legge venisse in Italia ad applicare i concetti miei e della «Stampa» potrebbe ottenersene un gettito apprezzabile oltre quello dei 2 miliardi già acquisiti dall’imposta vigente.

 

 

Quanto alla riforma Meda essa non e più una «sanguinante ironia», una «atroce derisione», ecc. È semplicemente un disegno di legge che ha del «nuovo» del «riveduto» e del «corretto» di cui il ministro proponente può andar fiero; rappresenta «un sensibile progresso sui soliti rimaneggiamenti fiscali dell’anteguerra». Non è però ancora l’ideale ed è suscettivo di critiche.

 

 

Il che si sapeva. Il curioso è che tutte le critiche che oggi «La stampa» rivolge al progetto o son prive di portata o sono quelle stesse da me dianzi esposte.

 

 

1)    La riforma non è completa. Non dà i 3 miliardi di probabile disavanzo. Verità certissima; ma che non è una critica. Il progetto Meda non riguarda tutto l’ordinamento tributario: non le imposte sui consumi, non quelle sulle successioni e sugli affari, non il trattamento temporaneo dei sovraprofitti di guerra. Né poteva farlo a rischio di riuscire un pasticcio. Un progetto che si occupa delle imposte dirette sui redditi non può occuparsi di altre cose estranee al suo compito. Se il Meda avesse intitolato il suo progetto «Riforma tributaria» senz’altro, la critica sarebbe ragionevole, perché il ministro avrebbe detto una assurdità pratica. Ma il ministro ha detto solo «Riforma generale delle imposte dirette sui redditi», e il suo progetto deve essere giudicato entro i suoi propri limiti. Che cosa ha a che fare una eventuale imposta sul vino – che è l’unica nuova grande imposta sui consumi oggi pensabile in Italia – con le imposte sui redditi? Non sarebbe un imbroglio metterle insieme; ed un volere far cadere l’una per i rischi relativi all’altra? La riforma dei tributi diretti non darà 3 miliardi? È probabile. Ma chi è colui che da un’imposta sola può oggi sperare sul serio di cavare 3 miliardi all’anno? Io, per quanto abbia collaborato alla compilazione di un disegno di legge, da cui il disegno Meda fu, come cortesemente mi ricorda «La Stampa», tratto pressoché invariato, non ho mai osato né oso esporre alcune cifre di presunto rendimento della riforma. Chi può prevedere il corso dei prezzi e quindi dei redditi in avvenire? Chi può prevedere le variazioni della materia imponibile? Chi può prevedere sovratutto se la macchina fiscale procederà secondo le consuetudini dell’anteguerra, quando si andava per approssimazioni, per transazioni e la politica aveva inquinato e paralizzato l’amministrazione? Ovvero se si oserà accertare i redditi con severità, con imparzialità ? Tutto sta lì: nel grado di indipendenza, di cultura, dei funzionari e dei magistrati chiamati ad applicare l’imposta. Questa potrà dare da 500 milioni ad 1, forse a 2, fors’anco a 3 miliardi di più d’ora, a seconda dei coefficienti che ho ricordato. Non sono profeta; e lascio fare ad altri il mestiere delle previsioni. Adoperiamoci tutti a risanar l’ambiente politico ed amministrativo, ad educare i contribuenti, a far avvenire gradatamente il passaggio dalla guerra alla pace; ed il problema si risolverà. Altrimenti nessun progetto anche grandiosissimo varrà ad abbordarlo.

 

 

2)    La riforma non tocca i titoli di stato. È la vera, la grande obiezione che avevo fatto subito al progetto Meda. Qui il governo deve farsi coraggio. La critica vera non è quella astiosa che condanna appena trova un difetto; ma quella che incoraggia a rimediarlo. La ragione del difetto è nota ed è anche plausibile. Gli uomini di governo hanno paura di scontentare i risparmiatori, a cui essi hanno promesso la esenzione da qualunque imposta presente e futura. È uno scrupolo onesto e comprensibile. Tocca a noi persuadere il governo che i suoi scrupoli sono infondati; che i risparmiatori non pretendono di avere una esenzione personale che non fu mai promessa; che essi si sentiranno anzi più sicuri quando lo stato tasserà tutti, ed anch’essi, con l’imposta personale per tutto il reddito goduto, senza badare alle fonti del reddito. Questa è la critica feconda; e nessuno più di me sarebbe lieto se anche il mio contradittore si mettesse su questa via.

 

 

V

 

Non ripetere il progetto Giolitti del 1893

 

Notizie recenti farebbero credere che il consiglio dei ministri abbia affidato all’on. Schanzer l’incarico di concretare le linee di una vasta e larga riforma tributaria, la quale avrebbe per caposaldo l’imposta progressiva.

 

 

La notizia non ha sapore di novità ; ma appunto perciò desta gravi dubbi e non favorevole impressione. Essa è la vecchia frase la quale è sempre stata usata da tutti i ministeri al loro avvento al potere; ed è frase a cui non può rispondere alcun immediato contenuto serio. Una riforma tributaria dalle linee vaste e larghe non è cosa che si improvvisi, specialmente quando coloro i quali sarebbero chiamati a concretarla non sono uomini segnalati in modo particolare e da tempo per la loro perizia tecnica in argomento. In pochi giorni ed in qualche notte si improvvisa un progetto di imposta progressiva simile a quello, rimasto famoso nei corridoi del ministero delle finanze, che fu messo insieme nel 1893 per ordine dell’on. Giolitti, alla vigilia della sua caduta dal potere. Ma son progetti nati-morti, polvere negli occhi del pubblico, destinati a dar lavoro agli uffici esecutivi ed a concludere finanziariamente poco o nulla. Se si vuole fare della finanza demagogica ed improduttiva, il campo è libero ed aperto. Basta pescare qua e là nella legislazione frettolosa della guerra nei diversi paesi, nei provvedimenti imposti dalla sconfitta e dalle rivoluzioni nei paesi russo-austro-ungaro-germanici qualche imposta sul capitale o sugli incrementi di capitale durante la guerra, o sui redditi straordinari; ed il piano «vasto e largo» è bell’e pronto.

 

 

Sia però lecito dire che tutto ciò non è roba seria. Mancando i mezzi di accertamento, difettando ogni elemento sicuro per fare valutazioni rispondenti a verità, quelle riforme correranno la sorte di tutte le riforme effettuate durante la guerra: tassazioni a casaccio, secondo la fortuna o l’abilità individuale degli agenti e dei contribuenti; sperequazioni enormi; rinfocolamento degli odi di classe tra coloro che si presumeranno troppo gravati e quelli che saranno reputati così abili da non pagare il dovuto. Quando si procede a colpi di scena tributari, per far impressione sulle moltitudini, i colpiti sono i piccoli ed i medi e gli inconsapevoli, i quali non seppero correre per tempo ai ripari. Gli avveduti, che seppero od intuirono a tempo il provvedimento, sanno vendere prima le loro attività (titoli, immobili, ecc.), quando il colpo non è ancor venuto e si rifanno dopo a cento doppi dell’onere dell’imposta ricomprando ai prezzi sviliti determinati dal tributo.

 

 

Ma così non si fa della finanza adeguata al grave momento presente. Oggi, come prima, come non mai prima, il problema è un problema di pazienza e di organizzazione. Un comunicato ufficioso recente ha vantato come un grande successo il fatto che nel 1918-19 le imposte dirette sui redditi fruttarono 1 miliardo e 488 milioni di lire, con un aumento di 451 milioni sull’esercizio precedente. Quel comunicato sembra un grido di trionfo. Se lo si analizza, esso desta invece le più gravi preoccupazioni. Del gettito totale, ben 810 milioni sono dovuti alla sola imposta sui profitti di guerra e solo 663 alle imposte ordinarie sui terreni, fabbricati e ricchezza mobile, oltre a 15 milioni alle imposte sugli amministratori e gerenti delle società commerciali. Dell’aumento di 451 milioni, ben 367 sono dovuti ai profitti di guerra ed 11,8 ai proventi degli amministratori, residuando appena 73 milioni di aumento dalle imposte ordinarie. Ciò significa che le imposte ordinarie, quelle veramente permanenti, le sole su cui il tesoro possa fare assegnamento per l’avvenire, hanno fornito un aumento insignificante; che per correre dietro ai profitti di guerra, la finanza, la quale è composta di uomini che non possono lavorare 48 ore al giorno, ha dovuto trascurare i redditi normali.

 

 

Questo è il difetto fondamentale dei nostri ordinamenti tributari. Come! Durante la guerra, prezzi e redditi sono cresciuti moltissimo e la finanza conosce e tassa solo i redditi antichi! Per essere messe d’accordo con la realtà, le cifre del provento delle imposte ordinarie sul reddito andrebbero almeno duplicate, forse triplicate senza aumentare le aliquote, per solo effetto della rivalutazione dei redditi.

 

 

Una riforma tributaria seria, la quale voglia affrontare il problema a fondo, non si può improvvisare. Esige studi accurati e particolareggiati di mesi. Non è esagerato affermare che se i ministri del tesoro e delle finanze vogliono, come sarebbe loro preciso dovere, rendersi conto della portata delle norme elaborate nei loro uffici o da esperti di loro fiducia per raggiungere lo scopo, non basta un anno. Un progetto organico e serio, specie se inspirato a concetti di «vasta e larga» riforma potrebbe essere presentato alla camera solo quando mancherebbe poi ai ministri attuali inevitabilmente il tempo per farlo discutere ed approvare. Dal dilemma non si sfugge: o la annunciata riforma è polvere demagogica negli occhi del pubblico e si apparecchia in un paio di giorni; od è cosa seria e la promessa di riforma non può essere mantenuta.

 

 

Un governo onesto, amante del paese, deve fare ogni sforzo per non incappare nel dilemma. Noi non vediamo altra via di uscita se non facendo appello, al disopra degli uomini e delle parti politiche, al principio della continuità dell’opera governativa. Esiste in questo campo un progetto, che non è stato frutto di improvvisazione, che può essere criticato, ma si presta ad ogni possibile miglioramento. È il progetto di riforma delle imposte sui redditi, dell’on. Meda. Quel progetto è una forma, in cui può essere colato poi qualsiasi metallo. Esso pone le basi indispensabili della riforma. Riorganizza i tributi esistenti, ordina l’opera di revisione e di accertamento; sovrimpone alle esistenti, trasformate e rivedute, due imposte sul reddito e sul patrimonio complessivo.

 

 

Noi crediamo che gli on. Schanzer e Tedesco farebbero opera patriottica se, senza perdere altro tempo, senza condurre a spasso il buon pubblico sui campi fioriti delle immaginose riforme tributarie, applicassero intanto per decreto reale la riforma Meda. Sei mesi di tempo, di indefesso lavoro non saranno troppi per prepararne l’applicazione. Frattanto i ministri del tempo avrebbero agio di studiare quelle aggiunte sensate e feconde, a cui essi avessero in animo di legare il loro nome. Vorranno istituire una imposta patrimoniale straordinaria? Essi potranno valersi del congegno già apparecchiato nel progetto Meda per la patrimoniale ordinaria, congegno il quale in tanto ha valore in quanto basa sulle valutazioni rinnovate ai fini delle vigenti imposte. Vorranno colpire i patrimoni cresciuti durante la guerra? Necessità vuole che prima si sappia quali sono i patrimoni ed i redditi normali. Altrimenti invece di giustizia si fa il caos ed il disordine, in cui pescheranno i furbi, i grandi manipolatori di affari, la gente abile a salvarsi e ad arricchirsi. Gran decisione, di gravissimo momento, è quella che deve prendere il ministero Nitti. Giova sperare che esso non vorrà sacrificare l’interesse del paese, l’avvenire della finanza italiana ad un basso desiderio di popolarità demagogica.

 

 

VI

 

L’imposta straordinaria sul patrimonio

 

L’on. Nitti ha esposto un così bel numero di quelle verità, le quali sono state ripetutamente esposte su questo giornale, che è doveroso innanzi tutto tributargli per questo l’elogio più largo. Il dovere di consumare meno e di produrre più intensamente; la necessità di combattere il lusso ad ogni costo e con ogni mezzo; la necessità di rimettersi al lavoro senza orgasmo e senza scoraggiamento, l’urgenza di compiere il più rapidamente possibile il passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace, abolendo tutto ciò che la guerra rese necessario e che la pace rende superfluo e perciò stesso dannoso; la assurdità dei metodi rivoluzionari e sopraffattori per raggiungere risultati veramente utili alle masse: tutti questi sono insegnamenti profondamente veri, che è bene siano stati ripetuti da una tribuna così alta, dal capo del governo, nel solenne momento presente.

 

 

L’esposizione finanziaria dell’on. Schanzer, sobria ed, a quanto posso giudicare, rispondente a realtà, ha aggiunto alcuni particolari al programma svolto dal capo del governo, i quali mi paiono nelle linee generali anch’essi meritevoli di approvazione. Il debito pubblico salito alla fine di maggio 1919 a 78 miliardi circa, di cui 19 miliardi all’estero, 20,3 miliardi in buoni del tesoro, 10,1 in biglietti di banca e di stato e 27 in varie specie di consolidati e debiti lunghi. Il fabbisogno di bilancio preveduto in 8 miliardi, con un disavanzo previsto per il 1919-20 di 2 miliardi e 750 milioni di lire. A fronteggiarlo si propone: 1) l’applicazione del disegno di riforma tributaria Meda. Proposito, del quale non saprei abbastanza lodare il governo, come quello che dimostra la volontà di posporre la ambizione di far del nuovo al desiderio di fare il vantaggio del paese, continuando, cosa rara in Italia, l’opera dei predecessori. Il «Corriere», il quale aveva consigliato questo procedimento, è ben lieto che il suo consiglio sia stato accolto; 2) l’imposta sul vino, su di che si dovrebbero ripetere le osservazioni ora fatte; 3) l’introduzione di qualche tributo sul lusso e sulle manifestazioni esteriori della ricchezza. A parte i particolari, che si giudicheranno sul testo concreto delle proposte, nessun tributo meglio di questo risponde alla suprema necessità del momento che è di limitare i consumi e di indirizzare la produzione a cose veramente utili ad innalzare il tenor di vita delle moltitudini.

 

 

A molte discussioni darà luogo l’annuncio di una imposta straordinaria sui patrimoni. Finora essa fu applicata solo dai paesi vinti ed ha in essi sostanzialmente lo scopo di pagare le indennità di guerra ai vincitori. Siccome, la dio mercé, non siamo in questa situazione, l’imposta può essere concepita soltanto come un mezzo per liquidare in tutto od in parte i debiti di guerra. In Inghilterra e negli Stati uniti, dove il problema fu profondamente discusso, si riconobbe la impossibilità di rimborsare tutto il debito di guerra: e l’opinione finora prevalente è che i danni della imposta straordinaria sul patrimonio per rimborsare una parte dei debiti di guerra siano superiori ai vantaggi, sicché non si parla di attuarla. In Francia l’accenno fatto alla sua introduzione dal ministro Klotz ha incontrato opposizioni vivissime, temendosi dai più di far scadere la Francia al livello di un paese vinto col ricorrere al rimedio estremo di quello che è una confisca dei patrimoni.

 

 

Sembra che l’on. Nitti voglia evitare questa taccia perché l’imposta straordinaria da lui annunciata, sebbene intesa a colpire tutti i patrimoni, inciderebbe più sensibilmente solo sui patrimoni formati ed accresciuti per effetto della guerra. Se si fa per ora astrazione da rilievi di principio, il giudizio, sfavorevole o favorevole al nuovo tributo, è condizionato principalmente alle modalità di applicazione, le quali perciò si attendono con molto interesse. Il governo dovrà procedere con molta cautela se vorrà raggiungere l’effetto utile, che è di scemare il debito di guerra, senza produrre effetti dannosi. Forse non è inutile indicare alcune di queste cautele, allo scopo di chiarire in parte i dati del problema, uno dei più complessi ed irti di difficoltà della finanza contemporanea.

 

 

Il provento dell’imposta straordinaria deve essere tutto applicato alla riduzione del debito di guerra. È un concetto che con piacere ho veduto accolto dal ministro del tesoro. Neppure un centesimo deve essere distratto per le spese correnti. Sarebbe errore gravissimo, quasi un delitto se si diminuisse il patrimonio privato senza scemare il debito dello stato. Il patrimonio privato, ricordiamolo, è il complesso degli strumenti – terre, case, macchine, scorte, fondi circolanti – che servono per la produzione. Molti immaginano che l’imposta straordinaria possa colpire una ricchezza cosidetta inerte – denaro, depositi bancari, azioni – che non contribuirebbe alla produzione. Bisogna togliersi questa illusione. Il denaro contante, salvo quella parte che è esuberante e converrà ritirare, è necessario per le paghe, per le compre-vendite; i depositi bancari sono impiegati in prestiti al commercio ed all’industria, le azioni sono meri segni rappresentativi di edifici, di macchine, ecc., i titoli di debito pubblico sono una specie di ipoteca sui beni mobili ed immobili esistenti nel paese. Tutte queste ricchezze in tanto esistono in quanto esistono i beni materiali, l’avviamento, l’organizzazione che ne sono il vero contenuto. Il patrimonio privato, in ultima analisi, consiste in cose necessarie ed utilizzate all’abitazione degli uomini (case) od alla produzione (terra, macchine, capitali circolanti). Se lo stato prelevasse una parte di questa ricchezza privata per consumarla nelle spese correnti, farebbe come il prodigo che consuma l’avere suo. In un momento successivo si troverebbe con un capitale circolante minore per fare fruttificare terre ed industrie. La produzione, invece di aumentare, scemerebbe; il che sarebbe un suicidio in un momento in cui invece occorre produrre di più. L’imposta straordinaria sul patrimonio ha invece scopo ragionevole quando lo stato, prelevando, ad esempio, 10 miliardi sui contribuenti, rimborsa 10 miliardi di debito pubblico. In tal modo il capitale del paese resta invariato. I creditori, che ottengono il rimborso, dovranno pure impiegarne l’ammontare a scopi produttivi. La vita del paese potrà continuare a svolgersi, senza un improvviso tracollo. Trattasi di una verità assiomatica, la quale dappertutto, in ogni paese che non voglia correre alla rovina, è posta a fondamento dell’imposta straordinaria sul patrimonio. Il beneficio che in avvenire il paese ricaverà dall’imposta, sarà di pagare meno imposte annue correnti. Per ogni 10 miliardi di imposta straordinaria oggi riscossa, saranno 500 milioni all’anno di meno di imposte ricorrenti.

 

 

Bisogna distinguere tra il patrimonio privato preesistente ed indipendente dalla guerra e quello formatosi o cresciuto per effetto della guerra. La commissione del dopo guerra (relatore Alessio), proponeva di non toccare il primo e di tassare solo il secondo, con una imposta di 3 miliardi, destinata a rimborsare subito il debito in biglietti. Molte sono le ragioni che suffragano il concetto di non toccare il patrimonio antico, tassando solo il nuovo. Ad ogni modo, deve almeno farsi la distinzione suggerita dall’on. Nitti: tassazione tenue del capitale antico e tassazione più forte del capitale dovuto alla guerra. Gli arricchiti dalla guerra debbono essere chiamati, nel concetto del governo, ad un sacrificio speciale per scemare l’onere del debito, che altrimenti graverebbe su tutti i contribuenti. Le difficoltà del distinguere non sono tuttavia lievi:

 

 

  • Noi non conosciamo affatto quale fosse il patrimonio dei privati prima della guerra. Non esiste alcun censimento dei patrimoni privati al 31 dicembre 1913, come quello che si fece in Germania per la imposta straordinaria stabilita allora per la preparazione alla guerra e che oggi permette al governo tedesco di conoscere di quanto i patrimoni siano aumentati durante la guerra. Oramai è impossibile ricostruire i patrimoni privati del 1914, dato che non sapremo mai chi fossero allora i possessori di titoli al portatore, né abbiamo alcuna testimonianza attendibile sul valore dei terreni, delle cose, delle fabbriche in quell’epoca. Impossibile dedurre tale notizia dai catasti dei terreni e dei fabbricati e dai registri della ricchezza mobile, che contengono soltanto dati sbagliati e sbagliati per volontà del legislatore e per pratica amministrativa pacifica. Sarebbe iniquo partire da quelle basi, che non avevano, per volontà di legislatori, nessun rapporto con la realtà. Qui si vede quale errore sia stato, prima del 1914, non aver mai voluto eseguire quella rinnovazione degli accertamenti, su cui tanto avevo su questo giornale insistito, sino alla nausea. Adesso, coloro che mi accusavano di voler ritardare la «grande» riforma tributaria debbono confessare di non avere né gli accertamenti esatti, né la riforma.

 

 

Costretti, come siamo, a brancolar nel buio, credo che praticamente noi dovremo considerare come patrimonio antico, preesistente, il patrimonio che sarà accertato al 31 dicembre 1919 in base al progetto Meda – il quale dà norme severe e pratiche per la tassazione ordinaria annua del patrimonio – dedotto ciò che potrà risultare come nuovo in base all’imposta sui sovraprofitti di guerra e ad altre notizie sicure e non controvertibili. Posto che nulla si sa del passato, noi dobbiamo supporre che il presente sia la fotografia del passato ed assumere come patrimonio dovuto alla guerra quella parte che da prove svariate risulterà avere questa causa. Se Tizio possedeva già nel 1914 una casa, un fondo, una fabbrica, quello è patrimonio antico; se l’ha acquistata dopo, si potrebbe ammettere sia patrimonio nuovo, a meno che altre partite della sua attività siano diminuite. Come fare però a provare che Tizio non ha venduto titoli al portatore o realizzato attività – cambiali, fondi commercio – già possedute nel 1914, col ricavo acquistando il fondo? Si potrebbe presumere che si tratti di acquisti fatti con guadagni di guerra solo se l’acquirente è un tale che già è contribuente all’imposta sui sovraprofitti o in altro modo speculò o lucrò per fatto della guerra.

 

 

Il vero ostacolo però è dato dai titoli al portatore. In Germania sembra che l’ostacolo non sia grave, perché fin da prima della guerra esisteva l’imposta sul reddito globale e – cosa miracolosa, da non credersi se non si vede e si tocca – i contribuenti denunciavano in generale anche il reddito dei titoli al portatore o, meglio, la finanza era così esperta da scoprirlo. In Italia i titoli al portatore erano intieramente tassati, fin troppo, in confronto coi redditi dei privati, ma presso le società e gli enti emittenti. Forse converrà, per l’ultima volta, tassare l’accertamento di patrimonio verificatosi per i titoli al portatore non presso gli individui, ma presso le società e gli enti emittenti. Qui si può conoscere, fino al centesimo, i redditi, netti da ogni peso e tributo, ottenuti dalle società dal 1914 al 1919 e tassare questi, salvo rivalsa sugli azionisti.

 

 

Rimarrà sempre insoluto il problema degli incrementi di patrimonio investiti in titoli di debito pubblico, che sono al portatore ed esenti da qualunque imposta presente e futura. Esentarli sarebbe ingiusto, tassarli difficile. Non basta dire: i vecchi titoli sono la ricchezza antica; i nuovi titoli di guerra sono la nuova. Perché moltissimi vendettero la vecchia rendita 3,50% per comprare il nuovo 5% il quale, per essi, è perciò vecchio patrimonio;

 

 

  • anche se il valore del vecchio patrimonio è cresciuto, non si può dire che vi sia stato un vero incremento patrimoniale. Tizio possedeva nel 1914 un fondo rustico del valore di lire 100.000. Adesso quel fondo vale 200.000 lire. Siamo di fronte ad un vero incremento? Il fondo è rimasto tale e quale: forse è deteriorato per sospese riparazioni ed interrotti lavori. Vale il doppio, solo perché le lire valgono la metà o meno della metà. Se si tassassero questi aumenti fittizi, puramente monetari, come veri incrementi patrimoniali, noi sostanzialmente esproprieremmo la vecchia proprietà fondiaria, la caricheremmo di un debito enorme, da accendersi per pagare il tributo straordinario, rendendola meno capace di concorrere a quell’aumento produttivo, su cui l’on. Nitti a ragione tanto insiste;

 

 

  • bisogna distinguere l’aumento di patrimonio ottenuto per fatto di guerra, da quello ottenuto mercé il risparmio e le rinuncie fatte durante la guerra. Questo è un punto delicatissimo, forse quello, la cui trascuranza potrà pesare più duramente sulle sorti avvenire del paese. «Questo non è il tempo di formare o di accrescere le fortune» ha detto l’on. Nitti; riferendosi, evidentemente, ai guadagni ottenuti, spesso senza merito, da coloro che fecero forniture o comprarono e vendettero merci, beni, ecc., durante la guerra. Ma se ci fu un tempo in cui fosse necessario «risparmiare», «rinunciare al consumo» quello fu il tempo di guerra e quello è il tempo d’oggi. Nessun sacrificio economico è così lodevole come quello di chi risparmia. Ma se noi tasseremo l’incremento di patrimonio dovuto al risparmio, come se fosse dovuto a guadagni di guerra, noi faremo cosa iniqua e deleteria. Coloro che risparmiarono, tutti i modesti borghesi, gli impiegati, i proprietari, che comprarono titoli di stato, quando il sottoscrivere ai prestiti nazionali era detto un dovere, sarebbero puniti. Invece sfuggirebbero all’imposta coloro che gozzovigliarono, che irrisero alle necessità dello stato, che calpestarono ogni sentimento di patria spendendo e spandendo, acquistando vesti sfarzose e monili e gioielli per le mogli e le amanti. Se non si vuole arrecare perciò un colpo mortale allo spirito di risparmio, fa d’uopo considerare come patrimonio antico, da tassarsi più mitemente, quell’aumento di patrimonio che ogni cittadino ottenne mercé i risparmi fatti entro l’ambito dei propri mezzi. Si potrebbe ammettere che ogni contribuente potesse risparmiare metà dei propri redditi e considerare come patrimonio antico l’incremento ottenuto con tal risparmio. Viceversa, bisognerebbe tassare con aliquote alte, le massime di tutte, gli incrementi dilapidati. Se si sa che Tizio guadagnò al netto durante la guerra un milione – e ciò risulta dai ruoli dell’imposta sui sovraprofitti – ed egli non può dimostrare di possedere più di 500.000 lire, ciò vuol dire che egli ha troppo dilapidato, anche tenuto conto delle sue ragionevoli spese di famiglia. Sul troppo dilapidato egli sia colpito magari col 50 per cento. L’insistenza con cui l’on. Nitti ha biasimato il lusso ed ha parlato di imposte sul lusso, mi fa sperare che egli non sia alieno dall’adottare un simile concetto;

 

 

  • bisogna non solo esentare i patrimoni più piccoli, come annunciò l’on. Nitti, ma trattare mitemente i patrimoni medi. Ciò non solo per ragioni di giustizia, ma anche per motivi di pratica applicazione. I proprietari di qualche cosa in Italia sono la maggioranza della popolazione; meglio si dovrebbe dire la grandissima maggioranza. Probabilmente non sono meno di 6-8 milioni i proprietari di terreni, di case, di aziende industriali e commerciali, di titoli. Con le loro famiglie arriveremo ai 25-30 milioni. Fare un censimento di tutti questi patrimoni sarebbe un’impresa colossale a cui, con le nostre abitudini, non basterebbero parecchie generazioni. La spesa consumerebbe il provento dell’imposta.

 

 

Che cosa sono oggi i patrimoni piccoli, medi e grossi? Le idee in proposito debbono oggi essere profondamente diverse da quelle di prima della guerra, per effetto della svalutazione monetaria. Vi sono oggi moltissimi terreni, che valgono dalle 5 alle 10 mila lire l’ettaro. Piccoli proprietari di 2-5 ettari hanno perciò patrimoni di 50 mila lire. Medi proprietari di 20-100 ettari sono valutati 100-500 mila lire. La grande proprietà fondiaria oggi a malapena comincia al disopra del milione. Non oso dare regole fisse; espongo considerazioni meritevoli di studio.

 

 

Una norma che in ogni paese scrittori e statisti ed ora in Italia il ministro del tesoro hanno riconosciuto doversi seguire in materia di imposta straordinaria sul patrimonio è quella del pagamento a rate. Bisogna ricordare che un’imposta apparentemente tenue sul patrimonio è enorme rispetto al reddito. La media prevista dall’on. Schanzer del 15% equivale al 300% del reddito di un anno. Se un patrimonio di 200.000 lire è colpito col 5%, in realtà il contribuente deve versare tutto il reddito di un anno, spesso più dell’intiero reddito di un anno. Se un patrimonio di 5.000.000 di lire verrà colpito col 30%, il contribuente è costretto al pagamento di almeno 6, forse 8 annate di reddito.

 

 

Ora, vi sono contribuenti che possono far subito un prelievo di patrimonio: detentori di denaro contante, di depositi bancari, ecc. Per costoro non è difficile pagare con parte del patrimonio. Anche il possessore di 100.000 lire di titoli di debito pubblico può consegnarne 5 mila allo stato, che senz’altro potrà bruciarli, estinguendo altrettanto suo debito.

 

 

Ma gli altri? Come farà il proprietario di una casa, di un fondo rustico, di una fabbrica, di azioni a consegnarne allo stato il 5, il 10, il 20%? Non può darne una fetta, ché lo stato non saprebbe che farsi di questo bric-a-brac di attività svariate, di cui probabilmente gli toccherebbe la parte meno buona. Vendere una parte del patrimonio per pagare l’imposta, quando tutti vendono, produrrebbe una crisi tremenda, con ripercussioni sinistre per la finanza pubblica, che a ragione l’on. Nitti vuole evitare. Non rimane che il pagamento a rate; in 2, 5 o 10 anni a seconda dell’importanza relativa della somma a pagarsi, salvo addebitare gli interessi scalari al 4% (interesse civile) per le rate a scadere e salvo l’obbligo del pagamento immediato quando il proprietario di un immobile lo venda e realizzi il prezzo in contanti.

 

 

Potrei seguitare nell’esposizione delle modalità dell’imposta. Essa deve colpire, ad esempio, gli individui singoli e non la famiglia, come del resto propone già il disegno Meda, perché se è vero che i redditi sono goduti in comune, è vero altresì che i patrimoni sono di proprietà dei singoli componenti la famiglia, separatamente considerati. Essa non deve colpire gli enti morali di qualunque specie; e neppure le società, salvoché per i titoli al portatore, per la ragione detta sopra. Ciò perché quando si tassino tutti gli individui, si tassa tutto il patrimonio privato. Tassare individui ed enti equivale a tassare due volte la stessa cosa o a tassare patrimoni che sono già pubblici, e servono già a fini pubblici di istruzione, beneficenza, progresso sociale. Ma di queste ed altre modalità ci sarà tempo di discorrere quando si avrà sott’occhio il testo del disegno di legge.

 

 

VII

 

L’imposta patrimoniale per «catenaccio»?

 

Una osservazione spesso ripetuta a proposito della imposta patrimoniale è la seguente: «il governo ha avuto torto di lasciarne discorrere tanto a lungo. Bisognava che, come si fa per aumentare il prezzo dei tabacchi o del pane od i dazi doganali o le tasse di registro e bollo, si applicasse un catenaccio alle fortune. Un bel giorno, improvvisamente, il governo avrebbe dovuto decretare un prelievo di un tanto per cento sulle fortune di tutti. In questo modo i contribuenti sarebbero stati presi alla sprovvista; e nessuno avrebbe potuto sfuggire al tributo. Oramai, invece, se ne discorre da mesi. I ricchi hanno potuto prendere le loro precauzioni, hanno potuto nascondere o mandare all’estero i loro denari sicché, quando l’imposta arriverà colla vettura di Negri, lo stato incasserà poco o niente».

 

 

Parlano così non solo coloro, i quali si preoccupano delle fughe e degli imboscamenti dei capitali; ma anche coloro i quali vorrebbero che nel giorno stesso il governo aumentasse il prezzo del pane e decimasse le fortune di guerra; e quelli i quali, per aver sentito discorrere di leva del capitale, immaginano che si tratti di una operazione simile a quella della leva degli uomini, da compiersi militarmente in pochi giorni. E poiché il discorso del catenaccio si sente un po’ dappertutto, val la pena di mettere in chiaro come si tratti di una metafora senza senso, di una operazione assurda ed impossibile in materia di imposte sul reddito o sul patrimonio.

 

 

Il catenaccio è un provvedimento comprensibile quando l’imposta cade su atti che si compiono di giorno in giorno o su consumi i quali avvengono a frazioni successive. È logico e spiegabile che un bel mattino la «Gazzetta ufficiale» annunci che, a partire da quel giorno i contratti di compra e vendita dovranno registrarsi con la tassa proporzionale del 5,40 invece che del 5,10%, come era prima, o che il prezzo delle sigarette è portato da 8 a 10 centesimi l’una, o che il dazio sul caffè è cresciuto di una sovratassa di 50 lire. Tutto ciò è possibile, perché gli atti ed i consumi già avvenuti sono stati colpiti dalle tasse vecchie e gli atti o consumi futuri saranno colpiti con le tasse nuove. Il catenaccio o l’annuncio improvviso dell’aumento ha per scopo di impedire che i contribuenti compiano atti in anticipazione per pagare una tassa minore o introducano merci o facciano provviste finché il dazio non è ancora cresciuto. La finanza può sull’attimo applicare il catenaccio, tutto riducendosi a far pagare una tariffa invece di un’altra.

 

 

Le cose vanno ben diversamente per una imposta sui patrimoni. Con questa si dice in sostanza che i patrimoni esistenti ad una certa data saranno colpiti da una imposta variabile, a seconda dell’ammontare della fortuna, ad esempio, dal 3 al 25% – assumo aliquote uguali all’incirca ai due terzi di quelle che erano stabilite per il prestito forzoso, quelle stesse che il contribuente pagava a fondo perduto, senza ritirare i titoli del prestito – meno per i modesti e più per i grossi patrimoni.

 

 

Altro è però annunciare l’imposta, altro è accertare i patrimoni che vi sono soggetti ed esigerla effettivamente. Coloro i quali dicono: «Solo il governo non conosce le fortune dei cittadini. Lasciate fare a noi – noi “scrittori di articoli” – noi “non contribuenti” – noi “membri di un partito invocante la decimazione delle fortune” – e sapremo bene far piovere i miliardi nelle casse dello stato» – costoro hanno idee confusissime e grossolane sul modo come lo stato incassa sul serio miliardi. I metodi spicci di decimazione delle fortune furono spesso tentati. Un comitato di salute pubblica od un consiglio di commissari del popolo si installa in una stanza e chiama ad uno ad uno i supposti ricchi alla resa dei conti. Se il ricco non si decide a pagare la somma richiesta, fuori c’è il plotone di esecuzione che l’attende. Piuttostoché finire i suoi giorni sommariamente, il ricco si decide a versare i chiesti milioni.

 

 

Il sistema è forse sbrigativo ma è sicuramente ingiusto e finanziariamente poco produttivo. Con questi sistemi la rivoluzione francese fece bancarotta; e Napoleone poté salvare la Francia, vivendo sul nemico all’estero e ridando tranquillità all’interno con imposte moderate. Poco si sa delle cose finanziarie russe; ma fra quel poco si sa di certo che un’imposta di 10 miliardi di rubli decretata dai bolscevichi sui ricchi fu un assoluto insuccesso. Si incassarono poche migliaia di rubli. La ricchezza è cosa in gran parte d’opinione. Se il sistema della tassazione per pubbliche grida e decisa dai commissari del popolo prevalesse, nessuno si sentirebbe più sicuro: titoli, carta-moneta, valori di stato, tutto scenderebbe a rompicollo e ben presto si ridurrebbe a valore zero. I ricchi non potrebbero più essere tassati, per la buona ragione che la loro ricchezza sarebbe andata in fumo. E chi può dire le ingiustizie odiose che sarebbero perpetrate con tali metodi sommari di tassazione? Gli odi personali, l’invidia, le delazioni anonime sarebbero le principali guide dei tassatori: i deboli, i soli, le persone probe sarebbero malmenate; i furbi, i membri delle cricche e dei partiti, la gente abile a corrompere sfuggirebbe tra le maglie.

 

 

Vogliasi o non vogliasi, lo stato può esigere miliardi solo se la produzione si svolge normalmente, se i valori si sostengono, se i contribuenti hanno fiducia nell’avvenire e possono pagare perché lavorano e guadagnano. E ciò accade unicamente quando le imposte sono esatte con equità, secondo regole severe ma precise, da ufficiali esperti ed imparziali, con diritto di ricorso a magistrature bene costituite ed indipendenti. Se il contribuente deve avere le dovute garanzie, il catenaccio è un assurdo.

 

 

Suppongasi che l’imposta debba colpire dal 3 al 25% i patrimoni esistenti al 31 dicembre 1919. Prima che l’ammontare dell’imposta sia accertato è assolutamente necessario passare attraverso ad alcune principali formalità:

 

 

  • Il contribuente deve presentare la denuncia del suo patrimonio. Né si può pretendere che egli all’1 gennaio 1920 sappia quale era il suo patrimonio al 31 dicembre 1919. Forse, il privato che non fa nulla ed ha tutto il suo avere in titoli di stato, obbligazioni od azioni, potrebbe presentare la denuncia. Moltissimi non potrebbero compilarla senza fare prima un inventario delle attività e passività dell’azienda industriale o commerciale, dei crediti professionali, delle scorte agricole vive e morte, ecc. ecc. Il codice di commercio dà alla società tre mesi di tempo per compilare il bilancio. È il minimo che ragionevolmente può concedersi al contribuente per presentare una denuncia veritiera, ove almeno si voglia avere ragione di colpirlo con una multa in caso di dichiarazione incompleta, reticente od erronea. Arriviamo così al 31 marzo 1920.

 

 

  • Supponiamo che, provvisoriamente, la finanza accetti le denuncie tali quali sono. Siccome i contribuenti si contano a milioni e gli agenti delle imposte sono pochi e completamente assorbiti dai lavori in corso – imposte ordinarie, sovraprofitti di guerra – si fa un’ipotesi molto ottimista, supponendo che, con un personale straordinario, da addestrarsi, e con un lavoro indefesso si riesca a compilare i ruoli provvisori entro altri tre mesi e si possa cominciare ad esigere la prima rata dell’imposta nell’agosto 1920. Più probabilmente, anche se il lavoro sarà indefesso, i ruoli non potranno essere pronti prima di sei mesi e la prima rata andrà in esazione nell’ottobre 1920. Dico la prima rata, poiché è evidente che, a meno di provocare uno sconquasso per la impossibilità materiale di trovare i mezzi di pagamento, l’imposta patrimoniale deve essere fatta pagare a rate: in 4-8 anni, come proponeva il progetto primitivo, in 30 anni, come pare proponga ora il governo, in 30-50 anni, come si è deciso in Germania, la quale pure aveva urgenze maggiori delle nostre.

 

 

  • Fin qui siamo nel campo della esazione sulla base della denuncia fatta dal contribuente. È evidente che la denuncia deve essere controllata dalla finanza. Se si accogliessero ad occhi chiusi le denuncie dei contribuenti, ben poco l’erario incasserebbe. La finanza deve aver diritto di visitare terre, case, fabbriche, esaminare e studiare libri di commercio. Il tempo occorrente ad esaminare sul serio i libri di una sola ditta industriale di una certa importanza è poco calcolarlo ad un mese. Si moltiplichi questo tempo unitario per il numero delle ditte, si divida per il numero dei possibili funzionari capaci, vecchi e nuovi, si riduca anche il risultato ad un decimo e si otterranno anni. Questa è la verità: una imposta patrimoniale da esigersi per una volta tanto richiede anni per la sua applicazione. È insensato pretendere di poterci riuscire in mesi od in settimane.

 

 

  • Finito il controllo della finanza, le nuove cifre da questa accertate debbono essere contestate ai contribuenti. Non si può lasciare alla finanza l’arbitrio di fissare le cifre di patrimonio a suo talento. Il contribuente deve potere ricorrere ad una magistratura. Si potrà creare una magistratura speciale, che non si occupi d’altro, che sia presumibilmente composta di competenti; ma una magistratura è necessaria. Anche supponendo che solo 1 su 10, che 1 su 100 contribuenti ricorra, bisognerà istruire diecine di migliaia di processi finanziari. È certo lamentevole che la finanza non sia onnisciente e non sappia leggere a colpo sicuro nei portafogli dei contribuenti, come vi sanno leggere coloro i quali invocano catenacci sui giornali; ma finché la giustizia non sia diventata un vano nome, uopo è dare diritto ai contribuenti ed alla finanza di far valere le loro ragioni dinanzi alla magistratura competente.

 

 

Il che vuol dire altri anni, i quali devono passare perché l’imposta possa dirsi definitivamente accertata e riscuotibile. Anche andando colla velocità di un treno direttissimo, non riesco ad immaginare una imposta straordinaria sui patrimoni esistenti al 31 dicembre 1919 la quale sia definitivamente assisa prima della fine del 1925. Il ritardo non nuoce alla finanza, la quale comincia ad esigere sulla base delle denuncie, e per i supplementi può tener conto, con opportune aggiunte, del tempo decorso. Né il ritardo si imputi ad imperfezione di uomini o di ordinamenti; né si citi alcun paese dove si sia proceduto più rapidamente. Forse, si fece più in fretta in quei paesi dove esisteva già una imposta ordinaria sui patrimoni; e dove perciò bastò aggiungere la imposta straordinaria a quella ordinaria esistente. Ma, dappertutto, la prima volta l’impianto costò anni di lavoro. Si pensi che, in Inghilterra, la valutazione dei terreni ordinata in conseguenza del celebre bilancio di Lloyd George, il cosidetto bilancio rivoluzionario, il quale in sostanza distrusse solo il potere della Camera dei lords, sebbene cominciata da forse una decina di anni, non soltanto non è ancora giunta a termine, ma fu l’anno scorso sospesa, sia perché la relativa imposta non fruttava nulla all’erario, – novantanove volte su cento i bilanci rivoluzionari sono infruttiferi! – sia perché l’impresa parve gigantesca ed inattuabile. Se non vogliamo andare incontro ad un insuccesso, come quello, che rimarrà famigerato nella storia finanziaria, di Lloyd George, occorre far le cose seriamente. Quanto più sul serio si faranno gli accertamenti, tanto più occorreranno tempo e fatica. Trasformare i titoli al nome è necessario per tassare con giustizia; ma è anch’essa una operazione lunga e complessa. L’interesse dell’erario e quello della giusta ripartizione del tributo consigliano amendue di tenersi lontani dalle frasi fatte, come il catenaccio o la decimazione, e tenersi stretti alle regole che l’arte finanziaria insegna per bene tassare e che tutte si fondano sulla cooperazione preziosa del fattore «tempo».

 

 

VIII

 

Il riordinamento del sistema tributario e un codice tributario

 

Il riordinamento del sistema tributario decretato dal ministero alla vigilia della riapertura della nuova camera merita di essere lodato per il principio che lo informa ed in generale anche per le modalità della sua applicazione. Tante volte su queste colonne ho scritto che il sistema vigente in Italia aveva finito per diventare il disordine organizzato, la sperequazione elevata a canone d’arte finanziaria per non essere lieto che finalmente il gabinetto attuale abbia trovato il coraggio di mettere ordine nel caos, semplicità nel complicato e nel farraginoso, di dire chiaramente ai contribuenti che cosa ad essi si chiede e sulla base di quali principii si chiede.

 

 

Un vero codice tributario, come questo, non potevasi sperare fosse discusso ed approvato dal parlamento in breve tempo; e le necessità finanziarie dello stato urgevano. Non potevasi tardare più a lungo nell’opera di ricostruzione. Se le nuove imposte e quelle riordinate dovranno cominciare a rendere qualcosa nel 1920, urge non tardare ad organizzare il lavoro preparatorio, non breve e non facile. Anche i tredici mesi i quali ci separano dall’attuazione della riforma delle imposte dirette e dall’applicazione dell’imposta sul reddito dovranno, se si vuole giungere in tempo, essere mesi di lavoro febbrile per l’amministrazione finanziaria italiana. Né potevansi pubblicare per decreto reale solo le due imposte patrimoniali, rinviando al parlamento quella sul reddito ed il riordinamento dei tributi diretti poiché le prime non potranno funzionare efficacemente se non sulla base delle valutazioni e in virtù degli organi di accertamento creati per le seconde. L’imposta normale sui redditi e quella complementare sul reddito complessivo sono il tronco dell’albero tributario; quelle patrimoniali sono i rami i quali traggono vita e vigore dal tronco. Le une non possono vivere senza le altre.

 

 

Dinanzi a codici di grande portata il compito del parlamento non può essere quello della elaborazione tecnica, alla quale i parlamenti diventano sempre più disadatti. Suo compito è quello della critica, delle nuove e migliori direttive generali, che il tecnicismo potrà poi tradurre in atto. Oggi, le direttive seguite dal ministero nel suo omnibus finanziario, rispondono al senso di giustizia diffuso nel paese e soddisfano alle esigenze di un buon sistema tributario quale lo si concepisce nelle migliori e più moderne legislazioni. Piace qui dichiarare apertamente che il ministro delle finanze, on. Tedesco, e con lui il ministro del tesoro ed il presidente del consiglio si sono resi con il decreto odierno benemeriti del paese e della finanza italiana.

 

 

Il nuovo sistema tributario non si attua d’un tratto. Non si può passare dal vecchio al nuovo d’un colpo, senza rompere la macchina amministrativa e senza lasciare un gran vuoto nelle entrate dello stato. Bisogna evitare ad ogni costo che il vuoto si faccia ed ordinare il passaggio graduale dal vecchio al nuovo in guisa che ai proventi cessati delle imposte vecchie cessate vengano immediatamente a sostituirsi i proventi freschi delle imposte riformate o nuove.

 

 

Col sistema del decreto ministeriale il passaggio dal vecchio al nuovo si opererà attraverso le seguenti fasi:

 

 

  1. Istituzione ed immediata esazione di un’imposta sulle fortune di guerra. È la prima fra quelle reclamate dalla pubblica opinione e sarà la prima ad essere attuata. A coloro i quali ottennero guadagni di guerra e che già pagarono una imposta sui sovraprofitti la quale si può in media ragguagliare al 50%, la nuova imposta, detta «sugli aumenti dei patrimoni di guerra» porterà via su quel che resta dal 10 al 60%, più o meno a seconda che maggiore o minore è stato l’aumento netto del patrimonio in confronto a quello posseduto prima della guerra. Chi accrebbe quel patrimonio solo del 5% non pagherà nulla; chi lo aumentò solo del 10% pagherà il 10%, e così via finché colui il quale lo crebbe del 60% o più dovrà pagare il 60% dell’incremento. Poiché costui già aveva pagato in media il 50% per sovraprofitti di guerra, pagare il 60% sul residuo, significa pagare l’80% sul totale. Badisi che l’incremento deve derivare da guadagni di guerra; e badisi che non saranno colpiti solo coloro che già furono contribuenti all’imposta sui sovraprofitti di guerra, ma questi e tutti quegli altri per cui si possa provare con qualunque indizio essersi arricchiti durante e per fatto di guerra.

 

 

  1. Compiuta questa prima opera, decurtati i patrimoni di guerra, rimangono in essere i soli patrimoni normali, netti dall’imposta precedente. Questi sono tassati da un’imposta straordinaria sul patrimonio. È quella di cui tanto si discorse sotto il nome di prestito forzoso. Adesso il concetto di dare, a chi paga il tributo, in compenso un titolo di debito dello stato fruttifero all’1% ed ammortizzabile in 70 anni, è abbandonato. Lo stato non dà nulla e fa pagare un’imposta a fondo perduto. Naturalmente, l’aliquota che andava dal 5 al 40% nel caso del prestito forzoso doveva essere ridotta, trattandosi di pagamento a fondo perduto; e perciò si fa pagare dal 5 al 25%, progressivamente a seconda dell’importanza del patrimonio.

 

 

Il prestito forzoso si esigeva in un breve periodo di tempo: da 4 ad 8 anni. Ma la brevità del periodo concesso al pagamento avrebbe costretto molti a vendere terreni, case, titoli per poter pagare; e per non far nascere sconquassi, si era progettato di creare un istituto di credito che anticipasse ai contribuenti le somme necessarie al pagamento del tributo. L’istituto avrebbe dovuto però essere sovvenuto dallo stato. Da dove, salvo che da nuovi biglietti, avrebbe esso potuto trarre i mezzi per le sovvenzioni? E si ricadeva così nell’inconveniente di un’imposta che, progettata per ritirar biglietti esuberanti, cominciava la sua carriera col costringere lo stato a stampar subito nuovi biglietti.

 

 

Così fu che finì di prevalere il concetto razionale di scindere le due operazioni: lo stato si procura direttamente, da chi li possiede, i mezzi immediati per ritirar biglietti e buoni del tesoro con un prestito al 5%; ed accolla l’onere del servizio del prestito stesso ai contribuenti alla imposta patrimoniale, ripartita in 30 anni. Il risultato finanziario è lo stesso per lo stato, ma l’onere dei contribuenti alla patrimoniale viene sopportato più agevolmente mediante la distribuzione in 30 anni. Potevano essere 15 o 20 ovvero 35 o 40 gli anni; ed i pro ed i contro sono parecchi e quasi bilanciantisi. Il frazionamento si imponeva; e fu accolto dappertutto dove fu introdotta la imposta patrimoniale: anche in Germania, dove il periodo va dai 30 ai 50 anni. Si può far pagar subito un’imposta sulle fortune di guerra; e così fu ordinato per quella di cui dissi sopra (sotto I); perché si tratta di un’imposta su guadagni recenti, probabilmente ancora in parte disponibili. Non si può far pagar d’un colpo un’imposta sulle fortune assise, investite, antiche, immobilizzate in terreni, case, titoli, ecc.

 

 

L’imposta patrimoniale a sua volta traversa due fasi essenziali: la prima dura sei anni, ed è provvisoria. In essa le valutazioni dei titoli e delle aziende sono bensì fatte in modo razionale, sulla base dei prezzi correnti per i titoli e della capitalizzazione del reddito effettivo per le aziende commerciali ed industriali. Ma i terreni e le case sono valutati invece empiricamente: moltiplicando per 325 l’imposta principale erariale per i terreni e per 25 il reddito imponibile per i fabbricati.

 

 

Nel frattempo si andranno assestando le altre due imposte; quella normale sui redditi e quella complementare sul reddito. Sulla base di queste, si conosceranno a poco a poco i redditi netti dei terreni e dei fabbricati, sicché alla fine dei sei anni, il valore dei terreni e dei fabbricati potrà più giustamente apprezzarsi capitalizzando al 100 per 5 i rispettivi redditi netti. Entreremo così in regime normale, il quale durerà per gli altri 24 anni del trentennio. Sarebbe certo stato desiderabile fare più in fretta; ma occorre riconoscere che ciò era praticamente impossibile.

 

 

  1. Al I° gennaio 1921 ha inizio la terza fase, la quale però si innesta, come i lettori hanno potuto vedere, sulla precedente. A quella data cadono tutte le imposte esistenti sui redditi: imposta terreni, fabbricati, ricchezza mobile, centesimo di guerra, complementare sui redditi, contributo straordinario di guerra, proventi amministratori, ecc. ecc. Tutto il caleidoscopio delle imposte piccole e grosse vigenti finora viene meno. Cessano anche le imposte comunali di famiglia, sul valor locativo e sui locali abitati. Al posto di tutto ciò si costruisce un sistema semplice di imposta sui redditi:

 

 

  • alla base, una imposta normale sui redditi, la quale colpisce il reddito oggettivamente nelle sue varie manifestazioni;

 

 

  • al disopra, una imposta complementare progressiva sul reddito complessivo, la quale colpisce il reddito totale goduto dal contribuente, tenendo conto delle sue passività, oneri e carichi di famiglia.

 

 

È, nelle linee generali, il progetto Meda, con alcune varianti, che notevolmente lo migliorano e di cui per brevità ricorderò ora solo la principalissima. Anche qui si distingue un periodo provvisorio da un periodo definitivo. Per i terreni, il periodo provvisorio è il primo quinquennio, durante cui la tassazione si fa in base ai vecchi catasti, con le vecchie altissime aliquote sui redditi fantasticamente diversi ed inferiori al vero. Il periodo definitivo comincia dall’1 gennaio 1926 ed in esso il reddito dei terreni sarà valutato secondo la reale consistenza; ma in compenso sarà tassato in categoria B come reddito d’industria, con tutte le conseguenze, almeno per lo stato, di tale collocazione: esenzione dei redditi minimi fino a 1.200 lire, tassazione al 15 invece che al 18%, detrazione dei debiti. La riforma risponde ai voti degli agricoltori e dovrà ad essi riuscire bene accetta.

 

 

Per i fabbricati, il regime provvisorio durerà fino ad un anno dopo la cessazione del regime di vincoli agli affitti; e durante esso non si potranno fare revisioni di redditi. Scaduto l’anno, i redditi saranno periodicamente rivalutati.

 

 

Questo, nella sua ossatura generale, il quadro dei tributi diretti che il cittadino sarà chiamato a pagare. Quando sarà attuato nella sua interezza, l’Italia possederà uno dei congegni fiscali più semplici, più giusti, più elastici fra quelli conosciuti. Speriamo che il parlamento migliori, non peggiori questo congegno. Le aliquote, salvo quelle giustamente elevate per le fortune di guerra, sono tollerabili e non paiono tali da provocare troppe frodi. Probabilmente sono capaci di dare il massimo rendimento possibile allo stato.

 

 

Ad una condizione. Che il parlamento migliori subito il sistema adottato dal decreto per i titoli al portatore. Qui è il tallone d’Achille dell’intiero sistema. Qui è l’unica critica fondamentale che si muove al decreto. Per accertare il valore capitale ed il reddito dei titoli al portatore compresi nel patrimonio e nel reddito del contribuente, il decreto fa a fidanza sulle denuncie dei contribuenti, sul diritto della finanza di deferire ad essi il giuramento e sulla confisca dei titoli non denunciati.

 

 

Su questo giornale furono già spiegate le ragioni per cui il giuramento è un’arma a scarsissima produttività fiscale: terrorizza gli onesti e lascia indifferenti i frodatori. Vero è che il decreto riserva al governo la facoltà di decretare dopo un anno la nominatività dei titoli al portatore, ove si riconosca che le denuncie non siano avvenute in misura bastevole. Ma i frodatori aspetteranno che la minaccia si traduca in atto prima di impressionarsene.

 

 

Assai più efficace sarebbe stato lo spediente dell’imposta speciale sugli interessi e dividendi dei titoli al portatore che con piacere vedo introdotto nel sistema, ma di cui avrebbe dovuto farsi un uso ben più energico e largo. Questo tributo sostituisce l’attuale ritenuta del 2% sugli interessi e dividendi dei titoli non di stato, la quale viene elevata al 5% e limitata ai titoli al portatore. Il principio è ottimo, perché crea una disparità di trattamento tra i titoli al portatore – tassati al 5% – e quelli nominativi esenti. Ma il principio doveva essere affermato più energicamente: un’imposta del 5% non è bastevole per spingere i portatori a trasformare i loro titoli in nominativi. Se li tengono al portatore possono guadagnare assai di più col non denunciarli. L’aliquota dovrebbe essere portata al 30% del reddito od almeno per il 1920 al 15 per cento.

 

 

Il principio doveva essere applicato in modo più largo. Tutti i titoli, anche quelli di stato, dovevano essere soggetti all’imposta del 15%, se al portatore. Nessuna promessa di esenzione sarebbe stata violata; perché il possessore avrebbe potuto sottrarsi senz’altro al tributo speciale mettendo il suo titolo al nome.

 

 

Senza questa necessaria integrazione, il sistema tributario decretato dal governo per ora rimane troppo assiso sulla buona fede dei contribuenti. Manca lo strumento automatico per costringerli, nel proprio interesse, alla denuncia del vero. Rimane negli altri contribuenti, possessori di altre fonti di reddito, l’impressione che i proprietari di titoli al portatore sfuggono al loro debito d’imposta. Il che non deve essere. Il parlamento compierà il suo ufficio degnamente se con energia reclamerà che i postulati della giustizia tributaria siano attuati per tutti: anche per i proprietari di titoli al portatore.

 

 

IX

 

Imposta patrimoniale e prestiti

 

I provvedimenti tributari e il prestito volontario 5% possono essere discussi sotto molteplici aspetti sicché sarà giocoforza ritornarvi sopra a parecchie riprese. Un giudizio ponderato e critiche serene possono soltanto farsi avendo sotto gli occhi il testo dei decreti e tenendo conto delle gravissime difficoltà tecniche economiche e politiche le quali devono essere superate. Perché le critiche siano serie occorre che esse siano accompagnate da proposte concrete di modificazioni che il parlamento potrebbe apportare alla decretata riforma. Questa è buona e merita il consenso di quanti intendono al risanamento della nostra finanza. Ma è suscettiva di perfezionamento; uno dei quali ho indicato ieri additando la necessità di elevare e allargare l’imposta speciale sugli interessi e dividendi dei titoli al portatore, per arrivare così automaticamente alla loro nominatività. Altri ritocchi è probabile siano necessari per quanto riguarda la valutazione dei terreni e le relative gravezze delle aliquote sui patrimoni piccoli e grandi in relazione alle detrazioni per carico di famiglia.

 

 

È opportuno mettere in rilievo una connessione fra la nuova imposta patrimoniale e il prestito 5%, la cui pubblica sottoscrizione si annuncia aperta al 5 gennaio 1920 al prezzo di L. 87,50. Il pubblico sa già che il nuovo prestito, al pari dei vecchi, sarà esente da tutte le imposte presenti e future gravanti sia sugli interessi, che sul capitale del prestito; sa di avere in questa promessa la garanzia migliore contro tutte le imposte, speciali e generali, le quali potrebbero essere immaginate per decurtare il reddito dei titoli vecchi già posseduti e di quelli nuovi che certamente sottoscriverà. Sa che il governo per scrupolo eccessivo di rispetto alla lettera delle date promesse si è astenuto dall’estendere ai titoli di stato l’incrudimento dal 2 al 5% della imposta sui titoli al portatore; ma sa che, anche prevalesse la tesi di coloro i quali, come lo scrivente, sostengono che quella imposta dovrebbe essere portata almeno al 15% ed estesa a tutti i titoli, compresi quelli di stato, essa non sarebbe una violazione della promessa, poiché essa sarebbe un’imposta volontaria pagata per sua particolare ragione di comodo, da chi volesse tenere i titoli nella forma al portatore. Chiunque non volesse pagarla non avrebbe che a fare inscrivere i suoi titoli al nome, come faranno molti dei possessori di azioni, obbligazioni, cartelle fondiarie, ecc., per non pagare l’imposta oggi decretata del 5 per cento. Finora l’imposta sui titoli di stato al portatore non c’è ; ma se anche fosse in avvenire decretata, essa non sarebbe una vera e propria imposta; poiché non è imposta ciò che si può anche, volendo, non pagare.

 

 

Il pubblico sa finalmente che, se il reddito ed il capitale dei vecchi come del nuovo prestito sono esenti da qualunque imposta presente e futura, il contribuente non è tuttavia e non può essere esente dall’obbligo di denunciare il reddito e il capitale di tutti i titoli da lui posseduti per il calcolo del suo reddito complessivo e del suo patrimonio totale da assoggettare alle due nuove imposte sul reddito e sul patrimonio. La ragione è chiara, ripetuta, incontrovertibile. Queste due nuove imposte non colpiscono il titolo di stato, l’azione, il fondo rustico, il fabbricato per sé. Colpiscono l’agiatezza complessiva, la ricchezza totale, la capacità di spendere della persona. Si tratta di tenere conto di tutto ciò che l’individuo possiede o può godere per fare cadere su di lui una duplice imposta, l’una calcolata sul reddito e l’altra sul patrimonio. Nel fare questo calcolo non si può trascurare alcun reddito, alcun cespite patrimoniale. Il reddito del titolo di stato è già stato riscosso al netto da qualsiasi tributo ed è già entrato nel patrimonio del contribuente. A questo punto la fonte del reddito non ha più importanza. Importa solo sapere quale è il totale del reddito, il totale del patrimonio per assidervi sopra le due imposte sul reddito e sul patrimonio. Sarebbe ingiustizia somma prendere la parte per il tutto o chiudere gli occhi innanzi all’esistenza di un reddito o di un patrimonio, solo perché esso è composto in una maniera particolare. Tizio ha un patrimonio di 100.000 lire tutto in rendita di stato; Caio ha lo stesso patrimonio tutto investito in beni rustici. Qual giustizia ci sarebbe a esentare Tizio e a tassare solo Caio? Quale razza di imposta patrimoniale sarebbe questa che procedesse in maniera così sbilenca?

 

 

Ma né l’imposta sul patrimonio, né quella sul reddito sono tali da spaventare i risparmiatori e da trattenerli dal sottoscrivere al prossimo grande prestito della pace sociale. Quasi tutti i piccoli risparmiatori non pagheranno l’imposta sul reddito, se non quando abbiano un reddito ragguardevole; e quella patrimoniale solo quando il loro patrimonio raggiunga le 20.000 lire. I mezzi capitalisti pagheranno tributi moderati ed i maggiori, se pagheranno di più, sanno anche che, qualunque impiego cercassero ai loro fondi disponibili, sempre dovrebbero pagare; poiché non l’impiego speciale è tassato; ma, ripetesi, il complesso del reddito e del patrimonio.

 

 

In secondo luogo, bisogna notare che per un sessennio la valutazione del patrimonio quale era al 31 dicembre 1919 non può essere variata. Quindi chi sottoscriverà dal 5 gennaio al 7 febbraio 1920 al nuovo prestito con redditi maturati dopo il 31 dicembre 1919, non avrà l’obbligo nemmeno di includere i nuovi titoli da lui sottoscritti nella dichiarazione del suo patrimonio esistente al 31 dicembre 1919. Dovrà includerli solo nella dichiarazione che si farà al 31 dicembre 1925. Circostanza questa importantissima, la quale dovrà, se i risparmiatori vi rifletteranno seriamente, incitarli alla sottoscrizione del nuovo prestito. Finalmente vorrei che riflettessero al proprio utile anche coloro i quali, per paura dell’imposta patrimoniale, si sono dedicati all’operazione divertente di tesaurizzare biglietti di stato e di banca. L’operazione aveva non dico una giustificazione ma una spiegazione quando l’imposta patrimoniale era concepita come un tributo da esigersi in poche rate. Allora per non pagare o il 5 o il 10 o il 15 o il 20 o il 26,66% – come si sa, era questa l’aliquota massima del primo progetto, poiché il 40% era puramente facoltativo, ognuno avendo il diritto di non ritirare i titoli del prestito forzoso, pagando solo i due terzi dell’aliquota ossia il 3,33 su 5 e 26,66 su 40 – c’erano alcuni i quali preferivano tenere provvisoriamente i propri averi in biglietti, fino a qualche mese dopo la denuncia, salvo a investirli in seguito. Il calcolo era anche allora sbagliato, perché, avendo la finanza diritto di rivedere le denuncie fino a tutto il 1925, i frodatori avrebbero dovuto tenere i biglietti in serbo e infruttiferi per tanti anni che la perdita degli interessi sarebbe stata notevolmente superiore al risparmio della imposta. Ma il calcolo diventerebbe sbagliatissimo ora che l’imposta patrimoniale non si paga più in una volta sola, ma in trenta anni, ossia è divenuta un’imposta permanente. Ragguagliata ad anno l’imposta va dal 0,167 al 0,833% del capitale. Facciamo una media del 0,50 per cento. Non è poco perché corrisponde a circa il 10% sul reddito che va ad aggiungersi all’aliquota progressiva dall’1 al 25% sul reddito ed a percentuali variabili dal 9 al 40-45% dell’imposta e sovrimposta normale sui redditi. Ma, poco o tanto che sia, il risparmiatore sa di essere esente dall’imposta normale – la più forte di tutte – e sa che paga le sole imposte sul reddito e sul patrimonio in ragione progressiva sulla propria totale agiatezza. Per quanto paghi, mai pagherà quanto potrebbe ricavare impiegando i biglietti che tiene in serbo.

 

 

Chi ha 100 lire in biglietti tesaurizzati, ove non sottoscriva, perde ogni anno il frutto del 5,71 per cento. Per quale scopo si assoggetterebbe a una tale perdita? Per risparmiare un’imposta patrimoniale, la quale, ad anno oscilla da 0,167 a 0,833%, e in media può calcolarsi del 0,50 per cento. Anche sottraendo il 0,50 da 5,71 rimane ancora il 5,21 per cento. Ed in molti casi bisogna sottrarre meno, e anche sottraendo ulteriormente l’imposta globale sul reddito, la quale va dall’1,30 al 32,50% compresa la sovrimposta, ma per i redditi fino a 50.000 lire non supera il 5,90% sul reddito, rimane ancora un ottimo margine disponibile; in moltissimi casi più del 5% netto. Rinunciare a godere il 5,71% solo per non pagare due imposte le quali sì e no assorbiranno i 71 centesimi, e quel che monta, per i piccoli e medi risparmiatori saranno uguali a zero, o saranno assai blande, è una operazione la quale non si raccomanda certo all’interesse e al buon senso.

 

 

Una delle ragioni, assieme a molte altre, la quale rende preferibile un’imposta patrimoniale pagata in una ragguardevole serie di anni ad una pagata in una sola volta, è precisamente questa: che essa rende ridicola la speculazione del tesaurizzare i biglietti. Ci si perde troppo perché una persona la quale sappia fare i suoi conti non veda subito che conviene invece sottoscrivere al nuovo prestito.

 

 

X

 

Difficoltà di calcolare l’onere delle imposte

 

Da molte parti, i provvedimenti finanziari sono stati accusati essere troppo blandi. Che cosa è, disse taluno, un aumento dal 2 al 5% dell’imposta sui dividendi ed interessi dei titoli al portatore? Non è ridicola, aggiunsero altri, un’imposta patrimoniale la quale al massimo raggiunge il 0,83%? Parturiunt montes, nascetur ridiculus mus. A tutto questo si riduce lo spirito di sacrificio delle classi borghesi in Italia?

 

 

Dinanzi alle quali domande, è doveroso mettere in rilievo che questo delle aliquote non è il punto su cui è giusto ed importante battersi per ottenere miglioramenti ai decreti tributari venuti alla luce. Nell’ossatura generale ed anche nelle aliquote il sistema messo in opera dal gabinetto va bene, è armonico, convenientemente congegnato. Il suo difetto essenziale sta nella valutazione e negli accertamenti, non nelle aliquote. Chiedere che le aliquote siano aumentate significa fare il danno dell’erario, perché le aliquote feroci vogliono dire aumento nella resistenza del contribuente, difficoltà di accertamento ed in ultimo scarsa resa per il tesoro. Significa altresì, finché non siano migliorati i metodi di valutazione, sovratassare i disgraziati, il cui reddito o patrimonio è precisamente valutabile e lasciar correre per tutti gli altri per cui la valutazione non può farsi. Il clamore sulle aliquote è un diversivo, buono per il grosso pubblico e sostanzialmente antidemocratico.

 

 

È ingiusto affermare che le aliquote siano basse. Dire ad esempio che l’aumento dell’imposta sui dividendi ed interessi dal 2 al 5% è evanescente, è dire cosa senza senso. Voglio anch’io che questa imposta sia portata al 15% per il 1920 e poi fino al 30% per il 1921. Questa è una imposta, la quale, se raggiunge il suo fine, è destinata a non essere pagata; perché tutti trasformeranno i loro titoli al nome e pagheranno le imposte patrimoniali e sul reddito, che giustamente su di essi debbono incidere.

 

 

Non occupiamoci dunque di questo balzello, la cui funzione è specialissima. Così pure sta a sé l’imposta sugli aumenti di patrimoni derivanti dalla guerra. Questa è una decurtazione preliminare che viene fatta subire ai patrimoni, prima che essi diventino soggetti alle imposte vere e proprie. La decurtazione va dal 10 al 60 per cento. Dire che ciò sia poco o tanto, dipende da impressioni individuali soggettive. Prima di esprimere un’opinione al riguardo, sarebbe bene ricordare:

 

 

  • che il nuovo onere dal 10 al 60% è stato preceduto da una falcidia, che in media si può calcolare al 50%, sotto il nome di imposta sui sovraprofitti di guerra. Ciò che si tassa col 60% è quel che resta dopo pagato il 50 per cento. Nel complesso andiamo fino all’80%;

 

 

  • che l’onere medesimo sarà seguito, su quel che rimarrà in mano al contribuente, dalle imposte ordinarie o straordinarie gravanti sui redditi e sui patrimoni e che vedremo subito a quanto ammontano;

 

 

  • che le aliquote dal 10 al 60% colpiscono i nuovi patrimoni in funzione del dippiù che si possiede ora in confronto a ciò che si aveva all’1 agosto 1914. Se Tizio aveva 100.000 lire ed ha fatto un guadagno di guerra di 10.000 lire, netto da imposte precedenti sui sovraprofitti ed imponibile, su queste 10.000 egli dovrà pagare il 10%; se guadagnò inoltre altre 10.000 lire, su queste pagherà il 20% e così via fino ai guadagni eccedenti le 50.000 lire su cui pagherà il 60 per cento. A me pare questo un sistema ragionevole; perché chi ha lucrato per fatto di guerra in 5 anni il 50% del suo capitale originario all’1 agosto 1914 in fin dei conti ha guadagnato il 10% all’anno. Non mi pare che ciò sia una circostanza tale da doverlo far perseguitare come una belva feroce. Non è probabile che il 10% netto all’anno l’avrebbe costui guadagnato anche se non ci fosse stata la guerra? Si mettano una mano sulla coscienza tanti professionisti, agricoltori, operai che gridano contro i guadagni di guerra, non hanno, molti di essi, ottenuti sovraguadagni ben superiori al 10% all’anno di ciò che possedevano all’1 agosto 1914? Ora, per gli speculatori di guerra, tutto ciò che supera il 50% in totale, ossia il 10% ad anno, sarà colpito col 60%, anche se non lo posseggono più, anche se l’hanno già speso in spese eccedenti quelle ordinarie. Non sarà una cosa allegra per molti dover pagare il 60% anche sullo speso: ma sarà una multa meritata alla loro cattiva condotta civica. Non pochi dovranno pagare il 100% su ciò che resta.

 

 

E passo alle imposte propriamente dette. La gran disgrazia di esse, per quanto riguarda l’impressione che esse fanno sul pubblico, è il loro frazionamento. L’ideale sarebbe stata una imposta sola, con una aliquota sola. Si sarebbe conosciuto il vero gravame dei contribuenti e si sarebbe veduto subito a quali altezze rispettabili giunga. Disgraziatamente, per molte ragioni che non mi è dato esporre in poche parole, ciò è impossibile. Le imposte devono essere parecchie. Col nuovo sistema saranno tre fondamentali.

 

 

  1. L’imposta normale sui redditi, sostitutiva delle attuali imposte sui terreni, fabbricati e ricchezza mobile, centesimo di guerra ecc. ecc. Le sue aliquote sono le seguenti comprese le eccedenze, le quali di fatto per lo più sono eccedute, dei comuni e delle provincie. Per i terreni e per i fabbricati, per non complicare l’esposizione ho assunto una media. In realtà, per i redditi più elevati si va ancora più in su:

 

 

Redditi di

Imposta di stato

Sovrimposte locali

Totali

A1

Titoli, mutui, azioni ecc.

18,36

4,59

22,95

A2

Fabbricati

21,42

24

45,42

A3

Terreni

12,77

32

44,77

B

Industrie e commerci

15,30

4,50

19,80

C

Professioni e lavoro

12,24

3,60

15,84

D

Impieghi pubblici

9,18

9,18

 

 

Dovrei fare qualche riserva sulle aliquote indicate per taluni casi; ma ci passo sopra, per non confondere la testa ai lettori. Le sovrimposte sono più alte per i fabbricati e per i terreni, che non per gli altri redditi; ma bisogna notare che le sovrimposte sugli altri redditi sono una novità, si può dire di quest’anno e si sa che le novità cominciano a poco a poco. Inoltre bisogna notare che le imposte sugli altri cespiti tagliano più sul vivo che non quelle sui terreni e sui fabbricati, le quali in parte sono trasferite sugli inquilini ed in parte ammortizzate sul prezzo d’acquisto, mentre quelle sulle industrie, sul commercio e sul lavoro colpiscono la produzione viva d’ogni giorno. Si aggiunga che i redditi dei terreni sono valutati molto bassi. In media, e senza pretese di esattezza, che sarebbero assurde in questa materia, direi che gli stipendi dei pubblici funzionari pagano il 9%, i guadagni e salari dei professionisti e lavoratori privati il 16%, ed i redditi di capitale, di terreni, di case, di industrie dal 20 al 25 %.

 

 

  1. Su questa prima imposta si innesta l’imposta patrimoniale. Questa è progressiva e va dal 5 al 25% sul capitale in trent’anni, ossia va dal 0,167% all’anno per i patrimoni di 20.000 lire al 0,833% all’anno per i patrimoni di 100 milioni. È probabile che nessuno in realtà speri che dopo i 30 anni l’imposta, detta straordinaria, sul patrimonio sarà abolita. Si troverà allora, quando essa frutterà almeno 1 miliardo all’anno, il modo di farla continuare. In breve essa è una imposta perpetua come tutte le altre. E come tutte le altre, essa, sebbene si chiami sul patrimonio, è pagata col reddito. È un’altra imposta che va a gravare il reddito annuo: ed è facile fare il conto che pagare ogni anno il 0,167% del capitale equivale a pagare il 3,34 del reddito; e pagare il 0,833 del capitale è uguale a pagare il 16,66 del reddito.

 

 

  1. Alle due imposte precedenti si sovrappone finalmente la complementare sul reddito; anch’essa progressiva dall’1% per i redditi imponibili di lire 1.500 o al 25% per i redditi imponibili di 2.500.000 lire: aliquote che diventano rispettivamente dell’1,30% per il minimo e del 32,50% per il massimo, tenendo conto della sovrimposta comunale. Bisogna notare che il reddito imponibile è minore del vero, dovendosi tener calcolo di detrazioni per carichi di famiglia e per natura di reddito.

 

 

Una somma delle tre imposte è difficile a farsi, partendo esse da basi diverse e riferendosi a soggetti differenti. Con grande approssimazione, si può affermare che per i soggetti colpiti noi andiamo progressivamente crescendo da un minimo del 9% ad un massimo pratico del 60 per cento. Ciò ogni anno e sul reddito. Chi si diverte a scrivere sui giornali ed a blaterare per i crocicchi che le imposte pagate dagli altri non sono mai abbastanza forti troverà che queste aliquote del 9% per i mediocri contribuenti (i minimi sono esenti) e del 60% per i grossissimi sono basse. A me pare di non aver perso la testa quando affermo che queste aliquote sono le massime che praticamente si possano applicare. Esse sono anzi così alte che tutta la difficoltà sta nell’applicarle. Se esse divenissero ancor più alte, sarebbero micidiali per la produzione del risparmio, provocherebbero i capitali nuovi alla fuga verso l’estero ed impedirebbero l’immigrazione dei capitali dall’estero. Ossia condurrebbero il paese all’immiserimento e distruggerebbero il proprio fine, che è quello di procacciare entrate al fisco.

 

 

A conti fatti ed all’ingrosso – la precisione assoluta si potrebbe avere solo quando si conoscessero i casi singoli – un capo famiglia con moglie e 3 figli da lui dipendenti pagherà:

 

 

  • se impiegato di stato, provincie, comuni, opere pie ed altri enti pubblici con 10.000 lire di stipendio ed accessori 900 lire di imposta normale (che paga già ) e 75 di complementare sul reddito. Niente di patrimoniale. Totale 975 lire.

 

 

  • se industriale, con 50.000 lire di reddito e 500.000 di capitale investito nell’azienda: 10.000 lire di normale, 1.500 di patrimoniale e 1.500 di complementare sul reddito. Totale 13.500 lire.

 

 

  • se proprietario di azioni o mutui per 1.000.000 di lire, con un reddito di 60.000 lire: 13.800 di normale, 3.500 di patrimoniale e 1.000 di complementare sul reddito. Totale 17.000 lire.

 

 

  • se proprietario di terreni, case, azioni per un capitale di 10 milioni di lire ed un reddito di 600.000 lire all’anno: 150.000 di normale, 54.000 di patrimoniale e 53.000 di complementare sul reddito. Totale 257.000 lire.

 

 

  • se proprietario, ad impieghi misti di un patrimonio massimo di 100 milioni con un reddito di 6 milioni di lire all’anno: circa 1.500.000 di normale, 833.000 di patrimoniale, 1.000.000 di complementare sul reddito. Totale 3.423.000 lire. Sempre, s’intende, ogni anno.

 

 

Si vede che il peso della imposta patrimoniale e della complementare – che sono le due imposte nuove – cresce col crescere del patrimonio e del reddito, in confronto alla normale, che è l’imposta vecchia già esistente. Il peso delle nuove imposte è tutto spostato verso l’alto. Il che è precisamente quanto tutti chiedono. Se le imposte che ho delineato si potessero far pagare sul serio, si otterrebbero notevoli risultati. Il vero punto della discussione è qui. Non sulle aliquote. Per queste è assai disputabile se potrebbero essere costruite meglio. Almeno se ognuno, il quale ha voglia di criticare, cerchi di far astrazione da se stesso ed eviti di far cominciare la giustizia da chi sta immediatamente al disopra di se stesso.

 

 

L’importante, l’essenziale, l’unico punto degno di discussione per coloro che non vogliono procacciarsi popolarità a buon mercato con grida da trivio si riferisce alla serietà degli accertamenti e delle valutazioni. Su questo punto soltanto val la pena di indugiare.

 

 

XI

 

Complicate e sperequate le imposte sui redditi

 

Ho detto altra volta che il tallone d’Achille della nuova imposta patrimoniale era la tenuità e la parzialità dell’imposta del 5% sugli interessi e dividendi, insufficiente a spingere i portatori a far mettere al nome i loro titoli. Non è quello il solo difetto; ed è utile perciò indicare nelle somme linee quali siano le modificazioni più importanti che è necessario apportare all’ordinamento decretato perché esso funzioni efficacemente. Tutto il resto è chiacchiera vana o pretesto per guastare un ordinamento buono, giusto, che mette l’Italia in un posto eminente tra i paesi che modernamente hanno riformato il loro sistema tributario.

 

 

Un’imposta patrimoniale in tanto funziona bene in quanto ci siano i mezzi per accertare la materia imponibile. Si possono aver congegnati i metodi più perfetti di ripartizione dell’imposta; ma tutto è inutile se non si conosce la materia imponibile. Bisogna prima accertare la ricchezza, ossia scoprirla, individuarla al nome del possessore e poi valutarla, ossia darvi un prezzo capitale. Sono due operazioni ugualmente necessarie, ma distinte.

 

 

Orbene, i metodi scelti peccano sotto questo rispetto per due tra i principalissimi cespiti della ricchezza esistente in Italia. I cespiti importanti sono in sostanza quattro: 1) titoli di stato e privati; 2) terreni; 3) fabbricati; 4) aziende commerciali ed industriali, che non siano già rappresentate da titoli azionari od obbligazionari.

 

 

Per i fabbricati e per le aziende il metodo scelto è buono e non saprei praticamente come migliorarlo. Per i fabbricati, finché dura l’attuale regime dei vincoli agli affitti, si moltiplica per 25 il reddito imponibile accertato ai fini dell’imposta fabbricati. Se un fabbricato rende 20.000 lire lorde e dedotto il quarto per le spese, lire 15.000 nette, quel fabbricato è valutato in lire 15.000 x 25 ossia in lire 375.000. Si suppone cioè che il capitale edilizio renda il 4% netto. L’ipotesi può essere più o meno vicina al vero, può dar luogo a qualche ingiustizia. Ma, nelle contingenze attuali, in cui i fitti sono vincolati, francamente credo non vi fosse nulla di meglio da fare. Quando i fitti saranno ridivenuti liberi e passato il primo sessennio – periodo fisso per tutti i contribuenti, dopo di cui si procede ad una rivalutazione del patrimonio – si rivaluteranno i fitti, si calcolerà il vero reddito netto e questo si moltiplicherà per 20, supponendo cioè che i capitali edilizi fruttino il 5 per cento. Il che sarà vicinissimo al vero quando vi sia libertà di contrattazione.

 

 

Per le aziende commerciali ed industriali gerite da individui singoli o da società in accomandita semplice, in nome collettivo o di fatto il sistema seguito mi pare altresì buono. Per calcolare il valore dell’azienda, da ripartirsi poi tra i soci, si ha riguardo: 1) al capitale investito nell’azienda e denunciato dal contribuente medesimo ai fini dell’imposta sui sovraprofitti di guerra. È vero che allora il contribuente aveva interesse a denunciare un grosso capitale investito per pagar di meno di imposta sui sovraprofitti; ma nessun rimprovero si può fare alla finanza se accetta la confessione fatta da chi deve pagare; 2) al reddito ordinario accertato nel triennio anteriore al 1920 ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, capitalizzando questo reddito ad una ragione variante dal 10 al 30%, a seconda

dell’importanza relativa del capitale e del lavoro nella produzione del reddito. Sia un’azienda che rende 300.000 lire all’anno. Se in essa il capitale ha molta importanza – ci sono edifici, macchine, impianti – il capitale potrà anche essere valutato al massimo 3.000.000 di lire. Se invece il capitale ha poca importanza – negozio o simili – e il reddito è prodotto prevalentemente dal lavoro, l’azienda potrà al minimo essere valutata 1.000.000 di lire. Il criterio è empirico; altri potrà immaginarne uno migliore. Ma è difficile immaginarne uno più elastico, il quale meglio si adatti alla infinita varietà dei casi pratici.

 

 

Il metodo tenuto è invece vizioso per i terreni e per i titoli. Ma per motivi diversi, anzi opposti, volendoli schematizzare, si potrebbe dir questo:

 

 

Accertamento

Valutazione

Titoli Certo Bassa
Terreni Incertissimo Esatta

 

 

Per i terreni l’accertamento è sicuro. Il fisco saprà con precisione a chi spettano i terreni, potrà frazionarli al nome di ogni singolo possessore. Da questo punto di vista non vi è nulla da desiderare. È bassa invece la valutazione per i primi sei anni. Entro certi limiti, il difetto è irreparabile e non dipende dalla buona volontà di alcun ministro porvi riparo. Il termine di sei anni è appena appena sufficiente per procedere a quella rivalutazione del reddito dei terreni, che è ordinata contemporaneamente ai fini della imposta patrimoniale sul reddito e di quella normale. Se l’amministrazione ci si mette sul serio, fra sei anni conosceremo il reddito netto dei terreni; e potremo, moltiplicandolo per 20, avere una valutazione, tollerabilmente approssimata, dei valori terrieri. Prima non sarebbe possibile.

 

 

Ma anche prima, anche subito sarebbe stato possibile di usare un qualche metodo empirico che non riducesse la valutazione dei terreni troppo al disotto del vero. L’articolo 10 invero dispone che per i primi 6 anni si moltiplichi l’imposta erariale principale del 1916 per 325. Il risultato dell’operazione è il valore presunto del terreno. La cifra 325 pare grossa; ma, a causa del disordine dei nostri catasti, dà risultati troppo bassi. Nel 1916 il gettito dell’imposta erariale principale in Italia batteva sui 90 milioni all’anno. Moltiplicando per 325 abbiamo qualcosa meno di 30 miliardi per l’intero valore della proprietà terriera italiana. Il che è assurdo. I terreni in Italia valgono parecchio di più. A questa stregua i fabbricati saranno sovratassati, perché moltiplicando circa 1 miliardo di reddito edilizio imponibile per 25 si ottengono 25 miliardi. È ragionevole ammettere che se le case in Italia valgono 25 miliardi, i terreni debbano valere solo 30 miliardi?

 

 

Quindi, la prima e facilissima variante da apportare al decreto-legge è di aumentare il coefficiente fisso di 325 portandolo, io direi, a 500. Col coefficiente 500, i terreni sarebbero valutati dai 45 ai 50 miliardi, il che non stonerebbe troppo in confronto ai 25 miliardi dei fabbricati.

 

 

È vero che gli uni e gli altri valgono di più di 50 e 25 miliardi rispettivamente, come si vedrà alla fine del sessennio; ma, per cominciare, le valutazioni apparirebbero comparabili. Al difetto in meno, si provvederà alla fine del sessennio, perché, assai opportunamente, l’articolo 10 del decreto dispone che se si osserverà uno scarto, tra le valutazioni empiriche e provvisorie del primo sessennio e quelle definitive, di almeno un quarto, si farà luogo a supplementi od a rimborsi d’imposta. Appunto perciò importa che, fin d’ora, le valutazioni non siano troppo basse per non dar luogo a troppi supplementi alla fine del sessennio e per non spingere i proprietari a tenersi con ogni sforzo stretti ad una valutazione definitiva la quale non si allontani dal coefficiente 325.

 

 

Il difetto inverso presenta la tassazione dei titoli. Per questi la valutazione è esatta, esattissima, semplice. Si assumono per i titoli di stato, i prezzi medi di borsa del primo semestre del 1919, per le azioni ed altri titoli privati, la media dei prezzi di compenso del semestre aprile-settembre 1919. Come al solito, e contrariamente all’opinione comune, neppure un centesimo sfuggirà all’imposta, per quanto tocca la valutazione dei titoli. Proprietari di terreni, di fabbricati, di aziende riusciranno ora e poi a far stimare più bassi del vero i loro cespiti. Ai soli proprietari di titoli – compresi nei titoli, anche quelli di mutuo, su cui però occorrerebbe un discorso a parte – non sarà possibile nascondere nulla del valore dei loro titoli. Essi sono contrattati ogni giorno, pubblicamente. Tutti i giornali pubblicano i prezzi giornalieri.

 

 

Il difetto, per i titoli, sta nell’accertamento. Se il fisco riesce a ghermirli, nulla più sfugge. Il difficile è accertarne l’esistenza al nome del contribuente. La cosa è rimessa alla buona fede di chi deve fare la denuncia, al timore di essere chiamato a prestare giuramento dalla finanza; ed alla paura che, come minaccia l’articolo 43, possa il governo dopo un anno decretare la conversione di tutti i titoli al nominativo. Tutte queste paure, l’ho già detto, pesano poco. Purtroppo, si invoca troppo il giuramento da gente d’ogni risma per aver fiducia nella sua efficacia. Val di più certamente il giuramento deferito in casi singoli dalla finanza, con carattere di speciale solennità, che il giuramento universale imposto a tutti, che il pubblico italiano ben presto volgerebbe in burletta e per cui i tribunali non applicherebbero sanzioni. In ogni caso però , come strumento fiscale capace di gittar milioni – e se non serve a questo, ma solo ad imbastir processi, non serve a nulla -, il giuramento parmi di efficacia dubbia. Esso spaventerà i timidi e gli onesti e lascerà indisturbati i renitenti.

 

 

Fra un anno converrà venire per forza alla nominatività. Dato ciò, non sarebbe stato opportuno sperimentare l’efficacia dell’imposta sufficiente sui soli titoli al portatore e su tutti i titoli al portatore? Il 5% non basta, perché molti preferiranno pagare il 5% piuttostoché la più elevata imposta patrimoniale e quella complementare sul reddito. Oggi, hanno convenienza a convertire i loro titoli al nome solo coloro i quali posseggono un patrimonio non superiore a 20.000 lire ed un reddito imponibile non superiore a 5.000 lire; oltre, s’intende, i contribuenti onesti i quali denuncerebbero i loro titoli anche se fossero al portatore. Bisogna portare quest’imposta-multa, questa imposta che sarebbe desiderabile nessuno pagasse, al 15% per il 1920 ed al 30% per gli anni successivi; ed estenderla a tutti i titoli, anche a quelli di stato. Se così si facesse, quasi tutti si affretterebbero a convertire i loro titoli al nome per non pagare il tributo alto e speciale ai titoli al portatore; e lo stato incasserebbe con sicurezza somme cospicue a titolo di imposta patrimoniale e sul reddito, secondo giustizia.

 

 

Le due proposte fatte in questo articolo, di elevare da 325 a 500 il coefficiente di valutazione dei terreni e di crescere al 15% per il 1920 ed al 30% poi l’imposta sugli interessi e dividendi di tutti i titoli al portatore sono proposte semplici. Esse non richiedono alcuna variazione sostanziale nella struttura dei decreti tributari. Questa è razionale e pratica. Non c’è bisogno di mutarvi nulla, salvo due cifre e pochissime parole. Ma le due piccole variazioni basterebbero ad assicurare allo stato qualche centinaio di milioni di lire di più all’anno. Non faccio colpa ai ministri di non essere andati sino in fondo; perché il coraggio che essi hanno avuto nel decretare una riforma tributaria così complessa, grandiosa, urtante tanti interessi è degno di ogni maggiore lode. Sono però sicuro che anche essi saranno lieti che il parlamento, come è dover suo, compia l’opera che essi hanno quasi condotto a termine.

 

 

XII

 

Le sperequazioni e le durezze della patrimoniale straordinaria

 

Gli estensori del testo legislativo per l’istituzione dell’imposta patrimoniale avrebbero meritato di essere lapidati, se non avessero, accanto all’esenzione dei patrimoni non superiori alle 20.000 lire, sancito altresì detrazioni per carichi di famiglia. Tutti i giornali infatti avevano riferito che dal patrimonio netto dovessero, prima di procedere all’applicazione dell’imposta, detrarsi lire 5.000 per i contribuenti maschi di età superiore ai 50 anni, o femmine di età superiore ai 40 anni, lire 5.000 per il coniuge del contribuente non effettivamente e legalmente separato, lire 5.000 per ciascuno dei discendenti ed ascendenti effettivamente a carico del contribuente, lire 10.000 per ogni invalido di guerra ed altrettanto per la vedova e per ciascuno dei genitori e degli orfani di morti in guerra o per fatto di guerra.

 

 

Con mia grande stupefazione, l’articolo concernente queste detrazioni è scomparso intieramente nel testo del decreto quale si legge nella «Gazzetta ufficiale».

 

 

Chi merita di essere lapidato per questa scomparsa, che sarà certamente la fonte delle critiche più vivaci e più giustificate mosse contro l’imposta patrimoniale? Chi sarà ritenuto responsabile dell’abbassamento a 325 del coefficiente di valutazione dei terreni e dell’abbandono dell’imposta del 15% su tutti gli interessi e dividendi dei titoli al portatore creata allo scopo di forzarli alla nominatività ? Ecco un calcolo comparativo della presumibile materia imponibile che si può scoprire con o senza quei due avvedimenti:

 

 

A


Col coefficiente

500 pei terreni e

con l’imposta al

15% su tutti i titoli

al portatore

 

 

B


Col coefficiente

325 pei terreni e

con l’imposta al

5% su tutti i titoli

al portatore

 

Terreni

Miliardi

50

32

Fabbricati

»

25

25

Aziende

»

5

5

Titoli nominativi

»

5

5

Titoli al portatore

»

45

?

Diversi

»

5

135

5

72+ X (?)

A detrarre

Esenzione dei patrimoni di 20 mila lire

20

20

Detrazioni per carichi di famiglia

30

 

Non imponibile

85

52+ X (?)

 

 

Le cifre sono quanto mai incerte ed approssimative. Non raffigurano la vera ricchezza italiana; ma quanto probabilmente si potrà accertare nel primo sessennio, con i metodi consentiti dal decreto-legge. Alla fine del primo sessennio, le cose andranno assai meglio e la materia imponibile aumenterà.

 

 

Pur riconoscendo che era impossibile per ora trovare un diverso terzo sistema, è evidente che il sistema A era di gran lunga preferibile al sistema B. Col sistema A si scoprivano 135 miliardi probabili di materia imponibile, non si commettevano ingiustizie a favore dei titoli al portatore, e per conseguenza non si era costretti ad abbassare troppo la valutazione dei terreni e si potevano concedere le 5 e le 10.000 lire dette innanzi per carichi di famiglia.

 

 

Ai moltissimi, i quali osservavano che il limite delle 20.000 lire era troppo basso, che 5 e 10.000 lire erano troppo poco e che col frutto di esse non si poteva vivere, era doveroso rispondere che, anche così ridotte, quelle esenzioni assorbivano 50 su 135 miliardi di materia imponibile accertabile; che un leggero aumento avrebbe assorbito somme enormi; che l’Italia non è un paese di milionari, ma di ricchezza diffusa; che se i modesti si rifiutano a pagare imposte, l’erario, anche con aliquote alte, non incassa nulla; e che le imposte non si istituiscono per scrivere bei testi di legge, ma per incassare milioni. È sperabile che dinanzi a queste argomentazioni, le modeste fortune si sarebbero acquetate ed avrebbero consentito di buon grado al sacrificio per esse doveroso.

 

 

Ma la soluzione a cui si è giunti (B) non è equa né tollerabile. Il governo, dopo aver ridotto la valutazione dei terreni ad un massimo di 32 miliardi e ad un punto interrogativo quella dei titoli al portatore, si è arretrato dinanzi al totale miserrimo ottenuto: appena 72 miliardi, più un’x incerta per i titoli al portatore. Ed ha creduto di riparare al danno per il fisco determinato da un’ingiustizia, con un’altra ingiustizia, ossia con la soppressione delle detrazioni per carichi di famiglia. Il totale netto imponibile invece di 22 + x, risulta così ancora di 52 + x; a prezzo però di una atrocità senza nome, quale è il diniego delle detrazioni. Famiglie numerose e coniugi egoisti, scapoli che lasciano nell’abbandono i genitori, e figli che rinunciano al matrimonio per poter dare i mezzi di vita alla madre, vecchi e giovani, uomini e donne, vedove ed orfani di guerra, mutilati, tutti sono trattati alla stessa stregua. Tutti pagano appena il patrimonio supera le 20.000 lire.

 

 

L’iniquità non può durare. Deve essere rimediata. Comprendo le dolorose necessità finanziarie alle quali hanno ubbidito i ministri del tesoro e delle finanze nel resecare, contro al loro desiderio, l’articolo delle detrazioni. Le comprendo; ma dico che il rimedio non era lì. Per riparare ad un’ingiustizia non bisogna commetterne un’altra. Bisogna invece riparare alla prima. Urge ripristinare le detrazioni, aumentando contemporaneamente il coefficiente per i terreni da 325 a 500 e dal 5 al 15% l’imposta sugli interessi e dividendi estesa a tutti i titoli al portatore.

 

 

Tanto più urge, in quanto questo è l’unico modo di riparare, per ora, ad uno dei difetti capitali dell’imposta patrimoniale. Essa forzatamente incide con violenza su una delle classi più utili, più produttive, più meritorie della società, che sono i possessori di modesti patrimoni. Che cosa sia un modesto patrimonio, è difficile dirlo. Un tempo giungeva sino alle 100.000 lire; adesso, con la svalutazione della moneta va molto più in su. L’imposta patrimoniale su questa classe di persone incide assai più severamente che su altre classi le quali si trovano in una situazione economica forse migliore.

 

 

Qual differenza vi è tra il professionista, il quale lavorando tutta la vita, logorandosi il cervello, rinunciando ad ogni divertimento, risparmiando tutto il risparmiabile ha messo insieme 100.000 lire per la propria vecchiaia, per la vedova ed i figli, e il funzionario che nulla risparmia ma va in pensione con 8.000 lire all’anno e con un diritto di riversibilità, che oggi è della metà, a favore della vedova? Il primo vive su 5.000 lire di reddito, il secondo con 8.000 lire. Probabilmente il primo ha condotto una vita più agitata, più incerta, più malsicura. Egli paga l’imposta patrimoniale, laddove il funzionario non paga nulla. Ho ricevuto lettere angosciose di vedove con bambini, di commercianti ritirati con un piccolo peculio, di tutori di minorenni, di interdetti, i quali ad una voce dicono: «È stato un delitto che i nostri mariti, che i nostri genitori, che noi stessi abbiamo lavorato e risparmiato e che abbiamo investito il nostro risparmio in titoli, o in mutui o in una casa od un fondo? Se noi od i nostri autori avessero invece impiegato i loro risparmi in una assicurazione sulla vita da scadere, o in un vitalizio in corso, nulla pagheremmo di patrimoniale. Poiché compimmo opera più duratura, più utile alla società – e dicendo questo, dicono una verità sacrosanta – poiché pensammo alle generazioni venture, noi dobbiamo pagare. Altri più egoista, che ha messo il suo in vitalizio, o che non ha voluto aver figli, nulla paga». V’ha chi aggiunge: «Noi che abbiamo redditi modesti di 3, di 4, di 5 mila lire all’anno, redditi che sarebbero rifiutati con disprezzo da qualsiasi operaio di fabbrica, che su quel reddito con stenti inenarrabili viviamo in 3, 4, 5 persone vecchie o in tenera età, incapaci a lavorare, siamo obbligati a pagare, solo perché ci sudammo a frusta a frusta il nostro capitale e rinunciammo in giovinezza a ber vino od a qualsiasi spesa inutile. Chi ha salari o stipendi doppi o tripli dei nostri, nulla paga e per giunta ci minaccia l’espropriazione a breve scadenza di quanto possediamo». Il problema è più ampio e profondo di quanto forse ritengono coloro che si limitano a querele intorno alla ripartizione delle imposte. È il problema delle classi medie, queste api mellifere della società, per cui pare sia ridivenuto vero il sic vos non vobis mellificate apes. Se esse riusciranno ad organizzarsi, ed a persuadere le grandi masse proprietarie e cointeressate contadine della coincidenza degli interessi comuni e se l’alfiere di questa organizzazione sarà il partito liberale, esse salveranno se stesse ed insieme la società attuale; e la giustizia tributaria sarà salva anche in loro confronto. Frattanto però , è dovere del governo non esasperarle con confronti odiosi. Il nuovo ordinamento tributario tutela le ragioni degli operai e degli impiegati; ed è bene che giustizia sia fatta in loro confronto. Non tutela le ragioni della media gente che ha scelta la via del lavoro individuale, del risparmio, del sacrificio a pro delle generazioni venture. Il meno che si possa fare è di ristabilire le detrazioni per carichi di famiglia inopinatamente tolte. Ma, per far ciò, occorre valutare più esattamente i terreni e costruire una migliore imposta sui titoli al portatore.

 

 



[1] Con il titolo Il progetto Meda e la riforma tributaria. Prime osservazioni [ndr].

[2] Con il titolo Il significato della riforma tributaria [ndr].

[3] Con il titolo La riforma tributaria e i suoi critici [ndr].

[4] Con il titolo Le critiche al progetto Meda [ndr].

[5] Con il titolo Polvere negli occhi o riforma seria? [ndr].

[6] Con il titolo Il programma finanziario del governo e l’imposta straordinaria sul patrimonio [ndr].

[7] Con il titolo La riforma tributaria [ndr].

[8] Con il titolo Il danno della tesaurizzazione dei biglietti [ndr].

[9] Con il titolo Il peso delle nuove e delle vecchie imposte [ndr].

[10] Con il titolo I due essenziali difetti dell’imposta patrimoniale [ndr].

[11] Con il titolo Debolezze e durezze nell’imposta patrimoniale [ndr].

Gli insegnamenti del concordato di Milano

Gli insegnamenti del concordato di Milano

«Corriere della Sera», 24 febbraio 1919[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 99-102

 

 

 

 

Gli industriali e gli operai siderurgici e lanieri hanno conchiuso a Milano accordi per regolare le condizioni del lavoro nelle fabbriche. Il concordato andrà ricordato nella storia del movimento operaio italiano come quello che introdusse le otto ore di lavoro; ma dovrà essere ricordato anche per altri principii essenziali da esso affermati: l’aumento delle paghe e dei cottimi cosicché il guadagno giornaliero non sia inferiore a quello che si otteneva coll’orario antico; ma nel tempo stesso concessione di premi a quelle squadre di operai le quali sapranno trarre partito dalla minor durata della fatica giornaliera per lavorare più intensamente e consentire una diminuzione del numero degli operai necessario a compiere un dato lavoro. Aumento di paghe per coloro che fossero costretti a lavorare ad economia; ma abolizione della percentuale di aumento per quegli operai i quali rifiutassero di lavorare a cottimo, nei casi in cui il lavoro a cottimo è possibile. Commissioni interne per regolare l’applicazione dei regolamenti, sicché le maestranze esercitino un controllo diretto e riconosciuto sulle proprie condizioni di lavoro.

 

 

Anche senza scendere ad un esame particolareggiato delle singole norme tecniche ed economiche del nuovo concordato fa piacere rilevare uno sforzo, faticoso come ogni sforzo fecondo, di perfezionare la macchina produttiva e di innalzare il livello del lavoratore. La diminuzione delle ore di lavoro, la giornata delle otto ore, le garanzie automatiche contro lo spesseggiare delle ore straordinarie sono il mezzo con cui la classe operaia potrà partecipare alle gioie della vita, avrà tempo libero per migliorare la propria educazione ed istruzione, per rendersi atta a più alte cose, degna col tempo di partecipare direttamente alla gestione dell’industria. Ma la cointeressenza degli operai nelle economie sul costo del lavoro insegna altresì che quell’opera di elevamento non è possibile se si lavora ad alti costi, se la diminuzione delle ore di lavoro e l’aumento delle paghe si interpretano soltanto come un mezzo per fare impiegare un maggior numero di operai per compiere lo stesso lavoro. In termini di lire, ogni italiano, uomo e donna, bambini, adulti e vecchi, prima della guerra aveva in media un reddito di circa 1 lira, ogni famiglia di 5 persone di 5 lire al giorno.

 

 

Oggi le lire possono essere cresciute; ma poiché sono lire deprezzate, la loro capacità di acquisto è all’incirca quella dell’unica lira di prima. Sarebbe certo desiderabile che il reddito medio crescesse, e giungesse ad uguagliare 1,50 o 2 lire, di quelle vecchie, che avevano una notevole potenza d’acquisto, ossia al corrispondente numero di lire nuove. Ma per ottenere l’intento non v’è che una via: produrre di più e produrre meglio. Ferma rimanendo invece la produzione complessiva, l’aumento delle paghe non sarebbe possibile che riducendo la parte spettante a quelli che sono detti ricchi o capitalisti. Ma questi, specie in Italia, sono tanto pochi che se anche la loro quota fosse ridotta a zero, la quota spettante ai molti crescerebbe di pochi centesimi. Ma d’altro canto la macchina produttiva, che vuol dire risparmio fatto in vista di un compenso, organizzazione dell’industria, assunzione del rischio della vendita, sarebbe rotta. Finché alla macchina esistente non si sappia che cosa sostituire, finché non siano disponibili nuovi uomini capaci di organizzare diversamente la produzione, la rottura della macchina produttiva significa la miseria per tutti, operai e capitalisti, ricchi e poveri, significa la riduzione del reddito medio da 1 lira a 50 centesimi, forse a 20, forse a 10 centesimi al giorno. Il reddito si ha, la produzione si compie non perché esiste il capitale, non perché i lavoratori desiderano di lavorare, ma perché esiste una organizzazione, difficilissima a crearsi, agevole a guastarsi, la quale sa combinare capitale e lavoro e sa renderli produttivi. Ricordiamo il grido d’angoscia di Ebert, nell’atto di essere assunto alla presidenza tedesca: «Bisogna che industriali ed operai lavorino e producano. Di più e meglio di prima. Altrimenti la Germania è perduta». Questa verità fondamentale hanno veduto industriali ed operai italiani nelle loro adunanze di Milano. E di ciò va data loro lode. Crescerà la lode se l’esperienza proverà che le odierne «conquiste» non furono ottenute a spese di altri. Sia lecito augurare che l’elevazione delle masse operaie, prevalentemente settentrionali, non avvenga a spese di altre masse più umili e silenziose, prevalentemente meridionali. Le masse contadine pagherebbero in gran parte le spese delle odierne conquiste se gli operai non cercassero di crescere la loro produttività e se gli industriali siderurgici cercassero scampo nel taglieggiare lo stato con alti prezzi di forniture ferroviarie ed i lanieri chiedessero aumenti di dazi doganali tali da consentire rialzi artificiosi di prezzi a danno dei consumatori. In tal caso sarebbe l’Italia agricola e specie l’Italia meridionale a pagare le spese della conquista. Ciò non accadrà. L’industria non può prosperare sulla base di alti costi e di alti prezzi. L’istinto medesimo della conservazione deve spingere l’industriale lungimirante a cercare la via dei bassi costi e dei bassi prezzi. Né le classi operaie vorranno essere accusate di aver stretto alleanza con gli industriali allo scopo di muovere all’assalto dello stato, contro gli interessi collettivi.

 

 

Un altro insegnamento dà il concordato di Milano. Narrano le cronache che il ministro Ciuffelli, appena avuto notizia dell’accordo, abbia dato ordine che esso fosse studiato dal comitato permanente del lavoro, allo scopo di prendere non si sa quali provvedimenti. Il ministro non ha capito che il concordato di Milano è stato firmato e condurrà a qualche utile fine perché industriali ed operai lo discussero e lo firmarono da sé, senza chiedere il suo consenso ed il suo avviso. Non ha ancora capito che le classi produttrici in Italia valgono assai di più delle classi politiche dirigenti; e che esse sanno da sé fare assai meglio e più presto di quanto non sappiano fare i padreterni di Roma, dal ministro all’ultimo segretario e scribacchino, intenti tutti ad ammonticchiare pratiche a centinaia di migliaia e ad inventar pretesti per continuare a disturbare chi ha voglia di fare. Mentre ministri e commissioni governative studiano e metton fuori decreti spropositati e relazioni accademiche, i privati fanno. Ma farebbero assai di più, se i disturbatori si decidessero una buona volta ad andar fuori dei loro piedi e si rassegnassero a rimettersi a fare i loro soliti mestieri, per cui sono nominati e pagati e che oggi vanno alla gran diavola per la mania da cui a Roma tutti furono e sono presi, di fare il mestiere degli altri.

 



[1] Con il titolo I problemi del lavoro. Gli insegnamenti del concordato di Milano [ndr].

Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta

Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta

«Memorie della R. Accademia delle scienze di Torino», 1919, pp. 633-713

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 167-249[1]

 

 

 

 

I

 

Appunti per la storia della teoria

 

1. – Nel corso di un’elegante partita d’armi scientifica tra i professori T.S. Adams ed Edwin R. Seligman[2] ambi gli schermidori si accordano sostanzialmente nell’affermare che una imposta può essere ammortizzata solo quando essa sia speciale ovvero superiore al livello medio delle imposte. È la antica pacifica[3] dottrina secondo cui l’imposta generale non dà e l’imposta speciale o differenziale dà luogo all’ammortamento.

 

 

Il prof. Seligman aveva da tempo esposto la teoria così:

 

 

«Quando una imposta speciale è stabilita su una qualunque categoria di beni ad esclusione di tutte le altre, l’imposta, in certe condizioni, cadrà interamente sul proprietario originario del bene – e cioè su colui che lo possedeva prima dello stabilimento dell’imposta – e non sul futuro compratore; perché l’imposta sarà scontata mercé il deprezzamento del valore capitale del bene di una somma uguale al valore capitalizzato dell’imposta. Per esempio, se il rendimento normale degli impieghi di capitale è il 5 per cento e se si stabilisce una imposta dell’uno per cento su tutte le obbligazioni ferroviarie, il prezzo di queste cadrà dalla pari ad ottanta. Il nuovo compratore non sopporterà in realtà il peso dell’imposta; perché sebbene il suo reddito netto su ogni obbligazione del valore [nominale] di 100 dollari sia soltanto di 4 dollari, egli godrà tuttavia il frutto del 5 per cento sul suo investimento. Quattro per cento su 100 e lo stesso del cinque per cento su 80. Nello stesso modo, quando imposte disuguali sono prelevate su differenti specie di beni, l’eccesso dell’imposta sui beni sovratassati al disopra del saggio generale dell’imposta sarà capitalizzato, così da esentare virtualmente i futuri possessori da questo carico differenziale. L’imposta cadrà sul primo possessore, la cui proprietà sarà diminuita in valore per un ammontare equivalente alla capitalizzazione dell’eccesso di imposta».

 

 

Subito dopo, elencando le condizioni alle quali è subordinato questo processo di «ammortamento» dell’imposta, lo Seligman novera come prima «l’ineguaglianza dell’imposta».

 

 

«Se non vi è eccesso, non vi è nulla da capitalizzare. La teoria dell’ammortamento si applica soltanto alle imposte le quali sono esclusive [speciali] o le quali eccedono di un definito ammontare le altre imposte. L’ineguaglianza di tassazione è la pietra angolare della capitalizzazione».[4]

 

 

L’Adams in sostanza su questo punto è in pieno accordo con la teoria dominante; poiché egli nota essere

 

 

«il saggio di capitalizzazione una risultante di tutte le condizioni (opportunities) conosciute di investimento e di tutte le imposte conosciute. Esso registra automaticamente il peso medio dei tributi. Se Tizio compra una ricchezza durevole, egli ne capitalizza il frutto netto o reddito ad un saggio che è minore quando il peso generale delle imposte è alto, e maggiore quando il peso generale delle imposte è basso. Egli paga l’esistente saggio medio di imposta in virtù del saggio di capitalizzazione che è costretto ad adottare nei suoi calcoli. Il nuovo compratore perciò non compra il bene libero da imposta, lo compra libero da ogni eccesso di imposta oltre il corso medio» (art. cit. pag. 278).

 

 

La differenza tra i due autori è formale: lo Seligman preferisce dire che viene capitalizzata la imposta speciale o differenziale; l’Adams afferma che lo stesso risultato si ottiene perché il saggio di interesse è modificato solo dall’imposta generale o media e non da quella speciale o differenziale. Lo Seligman si limita a dire che, se un titolo del valore nominale di 100 e del frutto di 5 è esente da tributo, ove il saggio dell’interesse corrente sia del 5% ha il prezzo di 100; ed ove venga colpito da un tributo di 1, il prezzo del titolo non varia se il tributo è generale, ribassa ad 80 se il tributo è speciale al titolo. Nella affermazione è implicita quest’altra: che il prezzo del titolo non varia nel caso di imposta generale, perché, sebbene il reddito sia diminuito da 5 a 4, è scemato nel tempo stesso il saggio del rendimento netto in tutti gli investimenti dal 5 al 4% e quindi le lire nette, capitalizzandosi oramai al 4%, corrispondono sempre al capitale invariato di 100. Invece il prezzo del titolo ribassa nel caso di imposta speciale o differenziale perché essendo il saggio del rendimento netto in generale rimasto del 5%, le residue 4 lire di reddito netto, capitalizzandosi sempre al 5%, corrispondono ad un capitale di 80.

 

 

L’Adams, con una qualche quasi impalpabile diversità di linguaggio, aggiunge alla tesi dello Seligman precisamente la motivazione mancante: affermare che «il compratore compera il bene libero da ogni eccesso di imposta oltre il carico medio» equivale invero ad affermare che il «carico medio» delle imposte produce una corrispondente diminuzione del saggio del rendimento netto dei beni durevoli e quindi lascia invariato il valore capitale dei beni stessi, mentre l’«ultra carico» non influisce sul saggio del rendimento e quindi provoca una diminuzione nel valore capitale del bene il cui reddito è diminuito. Se una differenza v’ha tra le due formule, panni stia in ciò: che a costituire il «carico medio» delle imposte, – il quale determinerebbe quel ribasso nel saggio dei rendimenti netti da cui dipende l’invariabilità nel valor capitale dei beni pur colpiti dal carico medio tributario – entrano le imposte generali e speciali, uniformi e differenziate. Il carico medio o general tax burden sarebbe una specie di media fra imposte alte e basse che gravano sui diversi investimenti, una di quelle medie che gli statistici chiamano ponderate. Questo «carico medio» farebbe diminuire il saggio medio del rendimento degli investimenti, in base a cui si compie il processo di capitalizzazione; epperciò, se il carico medio è di 1 ed il saggio di rendimento scema da 5 a 4, esso non varia i valori capitali; poiché come prima 5 lire annue di reddito al 5% valevano 100, oggi 4 lire annue al 4% continuano a valere 100. Solo l’eccesso di tassazione oltre il carico medio diminuisce i valori capitali, perché esso lascia invariato il saggio di capitalizzazione al 5% se tale esso era prima e perciò 4 lire di reddito valgono 80 e non più 100. In che cosa i termini «uguaglianza di tassazione» o «imposta inclusiva o generale» preferiti dallo Seligman differiscano dai termini «carico medio» o «carico generale» delle imposte preferiti dall’Adams è questione sottile di interpretazione che il lettore prudente farà bene di lasciare districare ai valorosi combattenti. In realtà sembra che l’imposta «generale» la quale non sarebbe capitalizzata, non debba essere solo quella che il legislatore chiama con questo nome e neppure l’imposta gravante su tutti i redditi. Anche molte imposte «speciali» possono costituire un’imposta «generale» quando esse nel loro insieme finiscano di colpire tutti o pressoché tutti i redditi. E, se vi siano dieci imposte digradanti nelle loro aliquote dal 10 all’1% dei redditi, non pare che debba considerarsi «generale» solo la quota di imposta fino all’1% se anche le quote superiori fino al 2 od al 3% e forse più in su sono applicate abbastanza largamente da potersi chiamare «generali». Epperciò il concetto di imposta «generale» tende a convertirsi in quello di «media», il che è altra prova della indeterminatezza sua.

 

 

Forse, la predilezione dello Seligman per la terminologia dell’«imposta inclusiva od esclusiva» dipende dalla virtù dimostrativa che egli sembra attribuire all’argomento del «campo tassato» e del «campo esente dall’imposta» in materia di ammortamento dell’imposta. È noto invero quale sia l’argomento principe addotto per dimostrare che solo l’imposta parziale od esclusiva può produrre l’effetto di una diminuzione del valore capitale dei beni il cui reddito è soggetto all’imposta.

 

 

Se, dice la teoria dominante, il campo tassato è insignificante in confronto al campo esente dall’imposta, il reddito netto 4 (5 lordo meno 1 imposta) continuerà a capitalizzarsi al saggio del 5 ed equivarrà ad un capitale 80. Ma se il campo tassato è relativamente importante

 

 

«il prezzo del titolo tassato non cadrà ad 80, ma forse solo ad 81; poiché l’imposizione del tributo su una così gran parte del capitale esistente del paese probabilmente eserciterà una influenza, sebbene logora, sul saggio generale dell’interesse, e può ridurlo dal 5% a forse 4 e 7/8 o 4 e 5/16. Se un forte ammontare di capitale è trasferito dai titoli tassati ad altri titoli, la crescente richiesta di questi, che prima si vendevano alla pari, ne aumenterà il prezzo a un po’ più della pari. Siccome però il reddito netto di questi ultimi rimane di 5 dollari, ciò equivale a dire che il saggio di interesse sugli investimenti è un po’ inferiore al 5%. Ma se il saggio generale dell’interesse cade alquanto al disotto del 5%, il valore di mercato dei titoli tassati sarà ora un po’ superiore ad 80».[5]

 

 

Conducendo il ragionamento alla sua logica conclusione, si dovrebbe affermare che, a mano a mano che il campo tassato si amplia e si restringe il campo esente, più forte sarà l’influenza che l’emigrazione dei capitali dal primo al secondo campo eserciterà nel senso di diminuire il saggio dell’interesse, sicché alla fine, quando nulla più rimarrà di esente, il saggio di interesse avrà subito la massima riduzione, che la teoria dominante afferma uguale alla falcidia del reddito operata dall’imposta. Su questa base ragionando, la teoria dominante affermerebbe il seguente teorema: un’imposta sui redditi di capitale tende a cagionare una riduzione tanto più forte nel saggio dell’interesse corrente sul mercato ed una corrispondente falcidia tanto meno rilevante nei valori capitali quanto più il campo di sua applicazione si estende; finché la riduzione nel saggio giunge al massimo, percentualmente uguale all’aliquota dell’imposta e la falcidia nei valori capitali si annulla quando l’imposta diventa generale ed uniforme su tutti i redditi.

 

 

Il processo logico il quale conduce alla proposizione ora enunciata è fallace. La teoria suppone invero che colui il quale vede falcidiato dall’imposta da 5 a 4 il reddito netto del suo titolo abbia interesse a vender questo, per reimpiegarne il ricavo in un titolo esente. Ma ciò non è, perché, nessun fatto nuovo essendo finora intervenuto a modificare il saggio dell’interesse corrente sul mercato, questo rimane al 5%; ed a tal saggio tanto vale serbare in portafoglio, al ridotto prezzo di 80, un titolo che rende 4, quanto reinvestirne il ricavo a 100 in un titolo il quale frutta 5. L’equilibrio tra i due titoli è perfetto ai due prezzi di 80 e 100; ne v’è motivo per un qualsiasi spostamento di capitali dall’uno all’altro impiego. Se lo spostamento si operasse, sarebbe antieconomico; poiché il venditore del titolo tassato, colle sue vendite ne farebbe ribassare il prezzo, ad es., a 79, mentre farebbe crescere il prezzo del titolo esente a 101, ossia realizzerebbe un reddito di 4 lire ad un prezzo (79) che gli darebbe un frutto del 5,06%, per fare un investimento ad un prezzo (101) che gli offrirebbe un reddito di appena il 4,95 per cento. Il che è assurdo. I due prezzi noti essendo in equilibrio tra di loro debbono ritornare ad 80 e 100. Né si può ammettere che lo spostamento avvenga per via dei risparmi nuovi, i quali si volgerebbero piuttosto verso gli impieghi esenti che verso quelli tassati; poiché quale mai maggiore convenienza v’è a comprare un reddito perpetuo di 5 lire a 100 che uno di 4 ad 80?[6]

 

 

Che se trattisi di risparmi nuovi rivolti ad impieghi nuovi, prima di poter concludere che l’imposta ha per effetto di ridurre più o meno, a seconda del campo di sua applicazione, il saggio dell’interesse, bisognerebbe poter dimostrare: 1) che il capitale occorrente a produrre un dato reddito netto è maggiore nei campi tassati che nei campi esenti; 2) che l’imposta non viene trasferita sui consumatori dei capitali; 3) che i produttori di capitale debbono accollarsi l’onere dell’imposta attraverso una riduzione nel saggio dell’interesse, il che val quanto dire del saggio di frutto degli impieghi nuovi. Il punto in discussione è dunque veramente questo: se l’imposta diminuisca la fecondità netta dei risparmi nuovi. Sul qual punto qui non occorre intrattenerci essendo appunto l’oggetto principale della presente memoria. Non mai però la soluzione del problema dovrà trovarsi in una pretesa capacità di spostamento dei risparmi nuovi dai campi di impiego nuovi tassati a quelli esenti; poiché se l’imposta viene trasferita in avanti sui consumatori essa non è capitalizzata; se incide in tutto od in parte sui risparmiatori, ciò non può essere accaduto se non per una contrazione del margine di impiego del risparmio, quindi per una causa generale – minor fecondità degli impieghi nuovi – che riduce la domanda generale dei capitali stessi e ne fa scemare il prezzo netto o saggio dell’interesse. Lo «spostamento» non può essere la causa di un fatto il quale, se esistente, avrebbe le sue radici in una causa più profonda, che è l’isterilimento relativo degli impieghi nuovi dovuto alla imposta.

 

 

Un momento veramente notabile del dibattito è questo: che lo Seligman, mosso dalla sua predilezione per i termini «imposta generale» ed «imposta speciale» e per i correlativi «generalità del campo di applicazione delle imposte», «specialità del campo tassato» e «campo immune da tassazione (taxless fiel)» vivacemente si oppone a tener conto dei vari effetti oscuri, insignificanti, indiretti e del tutto trascurabili delle imposte sul saggio dell’interesse (it is far simpler to ignore the various obscure, insignificant, indirect and wholly negligible effects of taxation upon interest rates,in art. cit. pag. 802). Tanto più notabile appare questo atteggiamento in quanto nella pagina precedente aveva ricordato con vigore che la teoria dell’ammortamento della imposta è nulla più di un’estensione dell’ordinaria teoria del valore e della ricchezza. «Quando un tale compra una certa ricchezza durevole paga per essa una somma uguale alla capitalizzazione del reddito presunto annualmente ricorrente». E ciò, se ha da significar qualcosa vuol dire che egli capitalizza un reddito annuo di 4 o 5 lire in base ad un dato saggio di interesse. Del pari, quando egli assevera che un’imposta generale la quale diminuisce il reddito annuo da 5 a 4 lire lascia il valor capitale invariato a 100, che cos’altro afferma implicitamente fuorché avere l’imposta generale la virtù di ribassare il saggio di interesse dal 5 al 4 per cento, cosicché il risultato del processo di capitalizzazione sia sempre 100? E quando sostiene che l’imposta speciale la quale diminuisce il reddito annuo ugualmente da 5 a 4 lire ha invece per effetto di ridurre il capitale da 100 ad 80, che cosa mette in luce se non che l’imposta speciale lascia invariato il saggio di interesse al 5%, cosicché il nuovo reddito di 4 lire, capitalizzato al vecchio saggio di interesse del 5%, corrisponde ad un capitale di 80? Come si possa «capitalizzare» senza l’uso di un dato saggio di interesse è affatto incomprensibile; ed è ancor più incomprensibile come si possa sostenere che gli effetti della tassazione sul saggio di interesse sono affatto trascurabili (wholly negligible) quando nientemeno a quella causa «imposta generale» di 1 su 100 di capitale o 5 di reddito si è attribuito implicitamente l’effetto di ridurre di 1, dal 5 al 4% il saggio di capitalizzazione dei redditi.

 

 

Lo Seligman è tuttavia così ostile ad accettare le illazioni più ovvie del suo stesso ragionamento che ad un certo punto scrive:

 

 

«[La proposizione dell’Adams, secondo cui il saggio di capitalizzazione registra automaticamente il carico medio tributario] evidentemente significa che le imposte sul capitale sono diffuse fra tutti i possessori di capitale in virtù di una diminuzione nel saggio generale dell’interesse. Questa è in verità una teoria nuova (a new proposition) e sarebbe importante se vera. Ma è dessa vera? La tassazione influisce davvero sul saggio dell’interesse? La tassazione generale di tutte le industrie o la tassazione speciale di una qualsiasi industria riduce i saggi di interesse così da costringere tutti i possessori di capitale a sopportate l’onere delle imposte? La mera affermazione positiva del professore Adams non basta. Trattasi certamente di qualche cosa che non si legge in nessun libro; e il professore Adams aveva verso i suoi lettori l’obbligo di darne la dimostrazione» (art. cit. pag. 799).

 

 

2. – Non ritornerò sulla dimostrazione già data che la «nuova teoria», che «il qualcosa che non si legge in nessun libro» trovavasi implicitamente ammesso nella teoria stessa accettata dallo Seligman: negare l’attitudine dell’imposta generale ad ammortizzarsi equivalendo invero ad affermare che il reddito scemato dall’imposta stessa si capitalizza ad un saggio di interesse diminuito nella medesima proporzione.

 

 

In una lunga nota della memoria Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema d’imposte sul reddito consumato presentata a questa Accademia nella sua tornata del 23 giugno 1912 lo scrivente aveva appunto discusso esplicitamente il problema della influenza dell’imposta sul saggio dell’interesse. Contrariamente alla dottrina corrente, espressa in modo lapidario dallo Seligman nella frase già ricordata: «l’ineguaglianza di tassazione è la pietra angolare della capitalizzazione», io avevo cercato dimostrare invece vera la tesi che anche l’imposta generale ed uniforme sui redditi delle cose può produrre una corrispondente riduzione del valor capitale delle cose. E, com’era naturale, per dimostrare la tesi partivo dalla ricerca dell’influenza che una siffatta imposta generale ed uniforme sui redditi può avere sul saggio dell’interesse. Riproduco, testualmente, la dimostrazione data sette anni fa, con le stesse parole d’allora: «Perché l’imposta generale ed uniforme del 10% sui redditi netti non si risolvesse in una decapitazione dei valori capitali corrispondenti, bisognerebbe supporre che, dato un saggio dell’interesse corrente, prima dell’imposta, del 5%, questo saggio corrente abbia, in conseguenza di un’imposta generale ed uniforme del 10% sui redditi netti delle cose feconde di frutti, a ridursi al 4,50 per cento. Se questo effetto si verificasse, allora, chiaramente, un’annualità perpetua di reddito di 5 lire, la quale prima dell’imposta aveva un valore attuale capitale di 100 lire, per essere il saggio dell’interesse del 5%, conserverebbe, dopo l’imposta del 10%, la quale la trasforma in una annualità perpetua di lire 4,50, l’antico valore attuale capitale di 100 lire, capitalizzandosi ora al nuovo saggio di interesse del 4,50 per cento. Ma, e qui sta tutto il nodo della questione, nessuno ha mai spiegato con argomenti plausibili, perché una imposta generale ed uniforme del 10% debba avere questo mirabile effetto di ridurre il saggio dell’interesse precisamente dal 5 al 4,50 per cento. Certamente quell’imposta riduce, od almeno si può ritenere riduca in un primissimo momento, i redditi netti del 10%; ma questa è una verità differentissima dall’altra che essa riduca il saggio di interesse; ben potendo i redditi essere decurtati dall’imposta, e tuttavia capitalizzarsi a norma dell’antico saggio di interesse, che i fautori della teoria dell’ammortamento limitato alle imposte speciali o differenziate non hanno affatto dimostrato perché dovesse variare in conseguenza dell’imposta generale ed uniforme».

 

 

La risoluzione del problema dipendeva perciò dalla soluzione data a quest’altro: quali sono gli effetti di un’imposta generale ed uniforme sul saggio di interesse? «È evidente – continuavo – che il problema, ben lungi dall’essere così semplice come immagina la dottrina corrente, deve essere impostato nel quadro complesso degli effetti che l’introduzione di un’imposta nuova produce sull’equilibrio precedente dell’intiero aggregato economico, di cui il saggio d’interesse è uno dei molteplici dati variabili». E qui, dopo aver notato come sarebbe ozioso ed assurdo discorrere dell’introduzione ex-novo di un’imposta generale ed uniforme sui redditi netti in un paese dove prima non esistessero imposte e quindi non esistesse lo stato, ozioso per noi che viviamo in una società a lavoro diviso, ed assurdo, essendochè in siffatta ipotesi non esisterebbero nemmeno contribuenti forniti di reddito capace di sopportare l’imposta, osservavo che il vero problema il quale di fatto deve ognora essere risoluto è quello «degli effetti dei successivi aumenti, che si possono concepire per infinitesime quantità, di una esistente imposta per sopperire agli incrementi successivi dei veri o supposti bisogni pubblici». Gli effetti erano studiati nella nota badando all’uso che gli uomini di governo possono fare dei mezzi finanziari messi a loro disposizione dall’incremento d’imposta:

 

 

a)    l’uso può essere così vantaggioso ai consociati come quello a cui i consociati medesimi avrebbero destinato il numerario loro tolto dall’imposta. «Il che vuol dire che la destinazione ad usi pubblici è parsa migliore della destinazione ad usi privati solo di una infinitesima quantità che si può praticamente trascurare come irrilevante, sebbene decisiva nella bilancia degli usi a cui la ricchezza può essere destinata. In queste condizioni l’incremento dell’imposta non produce alcuna variazione sensibile nella quantità di produzione, in confronto a quella che si sarebbe avuta se l’imposta non fosse esistita; la quantità dei redditi non sarebbe nei due casi diversa; gli uomini non sarebbero propensi a risparmiare più o meno nell’uno o nell’altro caso; sul mercato dei capitali la quantità offerta di nuovo risparmio non sarebbe, per fatto dell’imposta, variata; e quindi non v’è ragione alcuna perché l’incremento dell’imposta possa esercitare un rilevabile effetto sul saggio dell’interesse, il quale rimane perciò al livello a cui si sarebbe provato senza l’imposta».

 

 

b)    L’uso può essere più vantaggioso di quello che si sarebbe fatto dai contribuenti per fini privati. «L’imposta in questo caso agisce come un campo nuovo offerto all’impiego del risparmio. Suppongasi l’occupazione di una colonia fertilissima, alle cui moderate spese debba servire l’incremento d’imposta. In un primo momento la possibilità di potere, mediante l’imposta, ottenere quel fine fecondissimo, rompe l’antica proporzione tra consumi e risparmi. Il saggio di interesse per poco aumenta, per la domanda nuova del governo e per il desiderio di partecipare agli impieghi promettitori di larghi utili futuri; ma poi, a mano a mano che si colgono i frutti sempre più opimi della colonia o di un altro qualsiasi impiego pubblico dell’imposta, i redditi degli uomini crescono, aumentano le quantità di beni presenti e ne diminuisce la valutazione in confronto ai beni futuri. In conseguenza non dell’imposta per sé medesima, ma dell’uso fecondo dell’imposta, gli uomini si fanno più ricchi, e, per l’incapacità a tutto consumare subito, risparmiano maggiormente in un campo d’investimento oramai mietuto. Onde il saggio d’interesse in fine diminuisce. La qual verità già la sapienza antica aveva nettamente veduto, quando diceva che una delle condizioni della riduzione del saggio proprio dell’interesse e non solo della quota di rischio era l’esistenza di un governo buono, quieto, forte; intendendosi con ciò che un governo non dedito ad estorsioni ed a spese inutili giova a promuovere, alla pari della laboriosità, della perizia nelle arti, della previdenza e delle altre virtù umane, l’incremento della ricchezza e quindi, a parità di altre circostanze, a diminuire il saggio dell’interesse».

 

 

c)    L’uso a cui dai governanti è applicato l’incremento d’imposta è meno fecondo di quello che sarebbe preferito dai contribuenti per scopi privati. «L’imposta quindi distrugge ricchezza; e tende a far crescere il saggio d’interesse, sia subito, per la diminuzione del nuovo risparmio, sia permanentemente perché il reddito annuo del paese risulta minore di quello che sarebbe se l’incremento d’imposta avesse potuto rivolgersi a fecondare utili campi d’investimento agricoli ed industriali. Gli uomini sono fatti dall’imposta più poveri, quindi pregiano grandissimamente i beni presenti, di cui vi è così tanta scarsità; ed il saggio d’interesse appare cresciuto».

 

 

Chiudevo dicendo essere compito dell’indagine storica dimostrare quale di queste tre ipotesi fosse più frequentemente realizzata. Era mia impressione allora che il caso tipico fosse il terzo, per la incapacità dei governanti di amministrar bene le funzioni essenziali e fecondissime dello stato, come la giustizia e la pubblica sicurezza e persino, talvolta, la difesa e l’incremento della propria nazionalità e per la loro propensione alle spese stravaganti e popolaresche. Non potendosi però escludere la possibilità anche del secondo caso, proprio dei periodi in che compaiono nel mondo i geni politici i quali hanno la visione delle vie nuove della nazione, per essere imparziali si è supposto normale il caso neutro o primo. «L’accoglimento – dicevasi – dell’ipotesi neutra di immobilità del saggio dell’interesse appare legittimo, essendo questo il caso dell’equilibrio quando si suppongono governanti che siano anche perfetti uomini economici medi e nulla più, i quali curino la distribuzione della ricchezza tra i diversi usi, pubblici o privati, presenti o futuri, in guisa che la fecondità marginale di essa sia la medesima in tutti gli impieghi. Cosicché, rimanendo invariato, in conseguenza dell’imposta, il saggio dell’interesse, si deve concludere che anche l’imposta generale ed uniforme sui redditi netti si traduce in una corrispondente diminuzione del valor capitale attuale della cosa feconda di reddito».

 

 

3. – La teoria svolta nella nota sovra riprodotta avrebbe potuto essere innanzi tutto utilmente integrata tenendo conto dell’influenza diretta che una imposta generale ed uniforme sui redditi può esercitare sul saggio dell’interesse. Qui la teoria classica non manca di rilievi importanti per quanto si riferisce al saggio dei «profitti», che spesso gli autori, quando pensano ai profitti «netti», in sostanza identificano col saggio dell’interesse. Lo stesso Seligman[7] non manca di accennare all’ostacolo che l’imposta porrebbe all’accumulazione se essa (quando sia uniforme su tutto il capitale o su tutti gli interessi) fosse così alta da diminuire il rendimento del capitale al disotto di quello che Mill chiama il «minimo pratico (the practical minimum)». È noto come il Mill[8] ritenesse non trasferibile l’imposta generale ed uguale sui profitti, non potendo il capitalista liberarsene col trasferire il capitale dal campo tassato al campo immune.

 

 

È questo, come si vide sopra, il fondamento tacito anche della teoria della non ammortabilità dell’imposta generale sui redditi: come può ammortizzarsi una imposta che riduce ugualmente tutti i redditi netti nella stessa ragione, sicché tutti debbono continuare a scambiarsi nella stessa ragione? Uguali i redditi, uguali i capitali: prima i redditi perpetui di 5 all’anno si scambiavano tra loro in ragione di 100 all’anno; dopo l’imposta, i redditi, essendo tutti ugualmente ridotti a 4,50, continueranno a scambiarsi in ragione di 100. Nessuno aveva osservato che se è vero che l’imposta riduca tutti i redditi netti da 5 a 4,50 questa – scrivevo nel 1912 – «è una verità differentissima dall’altra che essa riduca il saggio di interesse; ben potendo i redditi essere decurtati dall’imposta e tuttavia capitalizzarsi a norma dell’antico saggio di interesse». Questa osservazione fondamentale non fece lo Stuart Mill; ma egli qualificò largamente la tesi generale della non traslazione e della incidenza dell’imposta generale ed uguale sui percettori dei profitti netti, notando che in realtà essa si applica in circostanze assai difficili a verificarsi; quando cioè, in una società stazionaria, i capitalisti mantengono invariato, senza mai crescerlo con nuovo risparmio, il capitale esistente, sia che a mantenerlo siano indotti dall’abito o dal desiderio di non scemare la propria fortuna. In tali circostanze il saggio netto dei profitti si ridurrebbe, ad es., dal 5 al 4,50%, e l’imposta inciderebbe permanentemente sui percettori dei profitti annui. Ma il Mill reputava maggiormente probabile uno dei due casi seguenti:

 

 

  1. che l’imposta «crescendo la difficoltà di farsi una fortuna o di ottenere un reddito bastevole a vivere coll’impiego del capitale «agisca» come uno stimolo alle invenzioni ed alla loro utilizzazione». In tal caso, i profitti possono rialzare in modo da far ricuperare in tutto od in parte al capitalista la perdita subita per causa dell’imposta;

 

  1. che essendo il saggio del profitto ridotto al minimo pratico, l’imposta possa frenare lo spirito di accumulazione o spingere il capitale all’estero od in speculazioni improduttive, sicché il saggio dei profitti dopo un periodo abbastanza lungo (dieci o venti anni, secondo il Mill) tornerebbe, per la minor abbondanza del capitale, ad essere quello stesso che sarebbe stato senza l’imposta; e questa sarebbe trasferita su altre categorie di persone.

 

 

Già Adamo Smith (Libro V, cap. III, art. II) aveva qualificato la sua affermazione generale che un’imposta sull’interesse del capitale non potrebbe crescere il saggio dell’interesse, nell’ipotesi che la massa del capitale esistente nel paese rimanga invariata dopo l’imposta si, osservando che in realtà la massa medesima varia, potendo il capitale abbandonare il paese in cui esso fosse soggetto ad inquisizioni vessatorie. Da queste ed altre ammissioni di economisti classici e moderni aveva potuto l’Edgeworth trarre la conclusione che, nella misura nella quale l’imposta generale scoraggi lo spirito di accumulazione, «il saggio di interesse tenderebbe corrispondentemente a crescere in un lungo periodo di tempo».[9]

 

 

In grado maggiore o minore, la tesi che l’imposta generale eserciti un’influenza sul saggio dell’interesse ha il consenso di tutti gli studiosi. Citerò tra gli ultimi lo Jarach, il quale in una nota da me presentata a questa Accademia nella tornata del 12 febbraio 1911[10] aveva distinto due casi:

 

 

  1. quello in cui, precedentemente all’imposta, la produttività dei capitali fosse prima molto elevata, «sì da concedere al risparmiatore non solo la nota rendita del risparmiatore, rendita differenziale, ma anche una rendita marginale». Il caso si avvererebbe nei paesi nuovi o nei tempi di grandi rivolgimenti tecnici, quando il capitale è scarso rispetto agli investimenti o tra popoli dotati di scarso spirito di previdenza, presso cui l’aumento di rimunerazione del risparmio non riesce a crescerne la produzione, riducendo l’elevato tenor di vita. In questo caso l’imposta ridurrebbe in un primo momento il saggio del profitto netto, prima assai elevato, ad es., dal 10%, al 9%; né vi sarebbe traslazione successiva, sicché l’imposta inciderebbe definitivamente sui capitalisti;

 

  1. quello più frequente in cui l’imposta, riducendo la produttività del capitale, diminuisce la convenienza del risparmio in rapporto al costo suo di produzione (sacrificio dell’aspettativa) e scema di conseguenza la quantità del risparmio prodotto. E quindi «il saggio netto del profitto» – espressione che dal contesto della nota si rileva essere equivalente all’altra «saggio dell’interesse» – il quale s’era ridotto in un primo momento per virtù dell’imposta dal 5 al 4,50%, tende a risalire verso il 5%, mercé trasferimento dell’imposta in avanti, su consumatori, operai, percettori di rendite.

 

 

Accogliendo la tesi particolare sostenuta nella mia nota alla memoria citata, il prof. Gino Borgatta collocò la trattazione dell’influenza che l’imposta generale ha sul saggio dell’interesse in un ampio quadro dei rapporti dinamici di interdipendenza osservabili fra pressione tributaria, forme e variazioni di organizzazione statale, stadi storici di economia stazionaria o progressiva, vicende politiche, movimenti d’idee.[11] Le conclusioni dell’A., caratterizzate dalla tendenza sua a considerare l’imposta come un punto di un vasto sistema di forze in equilibrio, il quale continuamente si sposta e trasforma, si possono così riassumere con le sue stesse parole:

 

 

«La dinamica parte dunque da un movimento iniziale in cui l’imposta rialza i saggi correnti di interesse attraverso riduzioni delle quantità di redditi attuali scambiati con futuri e quindi della massa degli scambi nel tempo] e si svolge collo svolgersi delle trasformazioni dei suoi proventi, in modo da ridurre in misura non indicabile “in generale” l’iniziale rialzo, non escluso sotto il livello che il saggio d’interesse avrebbe avuto se non fosse intervenuta l’imposta cogli assorbimenti e trasformazioni di redditi privati attuali che determina» (pag. 411.

 

 

E cioè il Borgatta accoglie esplicitamente il punto di vista da me sovra esposto, che gli effetti dell’imposta generale sul saggio d’interesse e quindi sulla capitalizzazione sua siano differenti a seconda che il provento dell’imposta sia impiegato «in modo più, ugualmente o meno utile (economicamente) di quello che avrebbe scelto il mercato economico privato»; e propende a ritenere che non si esclusa la possibilità che per tal guisa il saggio d’interesse si riduca persino al di sotto di quello che senza imposta si sarebbe avuto.

 

 

Una trattazione ampia e feconda di importanti applicazioni della teoria dell’ammortamento delle imposte ha compiuto il prof. Benvenuto Griziotti.[12] Nella memoria dell’A. la teoria dell’ammortamento è riguardata sotto tutti i suoi aspetti, sicché essa merita attenzione anche da punti di vista differenti da quello che qui ci interessa, dei suoi rapporti con la generalità o specialità dell’imposta. Intorno al punto qui discusso, l’A. fa le osservazioni seguenti:

 

 

  1.       I.        «Anche le imposte personali, in quanto si ripercuotono e finiscono per incidere durevolmente ogni e qualunque persona, che gode il reddito di un capitale, danno luogo ad ammortamento». Laddove parrebbe che l’ammortamento accada anche nelle imposte generali a tipo personale, solo quando esse incidono una persona in quanto essa ha il godimento del reddito di un capitale.

 

  1.     II.        Ma la riserva non pare abbia grandissima importanza, se l’A., dopo una fine analisi degli effetti di un’imposta progressiva sul reddito, conclude che l’imposta medesima, per indole sua a tipo generale e non speciale, può provocare un rialzo nel saggio dell’interesse e attraverso a questo rialzo, una riduzione generale ed uniforme di valore di tutti quanti i capitali vincolati, anche se appartenenti a contribuenti esenti dall’imposta.

 

 

Alla proposizione (I) il Griziotti giunge considerando il caso di un’imposta sui salari, con esenzioni di minimi e progressività di aliquota la quale si ripercota, come è possibile, sugli imprenditori e scemi quindi il valor capitale dell’impresa. Alla (II) riflettendo all’influenza che l’imposta progressiva può avere a scemare la quantità dei risparmi prodotti o conservati in paese da parte dei maggiori capitalisti, quantità non compensata dalla produzione, costante, di risparmio da parte dei capitalisti esenti dal tributo; sicché il saggio dell’interesse aumenta sul mercato in funzione dell’elasticità della domanda e dell’offerta dei capitali o della composizione della classe dei possessori di capitali disponibili (pag. 7-10 dell’estratto).

 

 

Ma esplicitamente il Griziotti nel paragrafo 11 (pag. 15-19) espone e combatte

 

 

«la teoria dominante la quale ritiene che il deprezzamento dei beni e l’ammortamento delle imposte avvengano soltanto in misura dell’eccedenza di un’imposta sulla pressione media esercitata dalle altre».

 

 

E la combatte partendo dalla considerazione che

 

 

«se un’imposta generale e uniforme riduce in uguale misura i redditi di tutti i capitali vincolati, mentre rimane la stessa la ragione dell’interesse, si avrà un deprezzamento uniforme rispetto a tutti questi capitali. Se ciò non fosse e un’imposta generale lasciasse inalterato il prezzo dei beni, mentre ne diminuisce il reddito, bisognerebbe credere che un’imposta generale avrebbe costantemente la virtù di diminuire il tasso dell’interesse. Soltanto, infatti, quando scema il lasso di capitalizzazione un bene, di cui è diminuito il reddito, può avere lo stesso valore di prima. Purtroppo il fisco non ha mai avuto la fortuna di potere accrescere le imposte a suo piacere e fare nello stesso tempo mitigare il tasso dell’interesse! Di questa potestà, se l’avesse, certo si varrebbe durante questi anni di guerra, in cui crescono i bisogni dell’erario e sale il tasso dell’interesse!».

 

 

Sebbene qui il Griziotti si limiti ad affermate che l’imposta generale ed uniforme non ha la virtù di diminuire il saggio dell’interesse né affermi esplicitamente che lo lascia costante, si può dal contesto del suo discorso e dagli esempi arrecati dedurre che egli considera normale il caso della costanza del saggio dell’interesse, nonostante l’incidenza dell’imposta generale ed uniforme. Su qual fondamento egli poggi siffatta sua implicita opinione, non è detto in questo paragrafo 12, nel quale il problema è trattato di proposito; sebbene l’A. accenni nel brano or ora citato all’«assurdità» di supporre senz’altro che un fatto come l’imposta abbia, per vie non designate, il miracoloso effetto di produrre un altro fatto, tutto diverso, come il ribasso del saggio dell’interesse. Dalla frase ora citata parrebbe anche potersi dedurre che, nell’opinione dello scrittore, le imposte hanno normalmente e specie «in questi anni di guerra» il risultato contrario, ossia quello di un aumento nel saggio dell’interesse. Ma, non rientrando probabilmente nei propositi dell’A. dilungarsi su tal punto, il problema non è approfondito.

 

 

Tuttavia, benché non abbia posto e risoluto esplicitamente il problema fondamentale: quale è l’influenza che un’imposta generale ed uniforme esercita sul saggio dell’interesse e quindi sull’ammortamento dell’imposta? La memoria del Griziotti colla sua insistente affermazione, quasi si trattasse di un assioma evidente per sé stesso, del canone logico del «fermo restando il saggio dell’interesse» è un altro anello della catena di scritti italiani, anteriori e posteriori alla polemica Adams Seligman, il cui consenso conforta a riprendere in esame la teoria corrente della impossibilità dell’ammortamento di una imposta generale ed uniforme.

 

 

 

 

II

Contributo alla teoria in generale

4. – Il problema non si imposta in maniera univoca, essendo incerto persino in che veramente consista la differenza tra imposta generale e speciale. Occorre considerare la differenza rispetto all’oggetto colpito? – Imposte le quali colpiscono il reddito dei soli terreni o dei fabbricati o di tutti i capitali, dei soli capitali vincolati od anche di quelli disponibili -; ovvero rispetto alle persone fisiche contribuenti? – Tutte colpite con uguale percentuale, ovvero le une esenti e le altre assoggettate ad imposte più o meno gravi a seconda dell’altezza del loro reddito -; ovvero rispetto al territorio d’imposizione? – Imposta mondiale, statale, provinciale o comunale? Né qui han termine i quesiti: considereremo noi generale ed uniforme una imposta la quale colpisca con aliquota uniforme redditi diversamente rischiosi? O quella la quale gravi soltanto sui redditi di capitale, lasciando esenti i capitali senza reddito ed i redditi di capitali personali?

 

 

Domande sottili, a cui le risposte possono essere molte e divergenti e determinate in parte dalla soluzione che sia data al problema medesimo che qui si vuole discutere. Giova perciò, in un primo momento, seguendo un procedimento logico usato in molte scienze per non rimanere immobili al limitare della ricerca o dubitosi intorno al modo migliore di risolvere quesiti che solo la ricerca stessa consentirà di risolvere, fare la convenzione che esista una imposta la quale incida – sia subito sia in seguito ad un processo di traslazione – con uguale peso tutti i redditi uguali. Suppongasi cioè:

 

 

  1. che si abbia un’idea chiara di ciò che si intende per «redditi uguali»;

 

  1. che l’imposta lasci perfettamente liberi gli uomini di produrre questo o quel reddito, di destinarlo a questo o quell’uso di consumo necessario o di comodità o di lusso, di investirlo in questo o quell’impiego, duraturo o temporaneo;

 

  1. che l’imposta non spinga gli uomini a trasportare i loro capitali da uno stato all’altro, da una città o regione all’altra del medesimo stato.

 

  1. che essa non induca gli uomini ad affrettare o posticipare l’epoca di utilizzazione dei loro capitali investiti speculativamente: foreste, aree fabbricabili, azioni di imprese a lunga scadenza, in confronto a quanto accade con i capitali impegnati a breve scadenza;

 

  1. che essa non renda relativamente conveniente produrre uomini istruiti piuttostochè macchine atte ad aiutare gli uomini istruiti;

 

  1. che essa non muti le tendenze comparative delle diverse categorie di contribuenti all’uso del proprio reddito a scopo di consumo o di risparmio.

 

 

Il concetto dell’imposta «generale ed uniforme» si identifica così col concetto dell’imposta «neutra»; la quale incide con ugual peso su redditi aventi valore uguale nell’unità di tempo considerata, sì da lasciare invariato il giudizio di ogni uomo riguardo ad ogni unità di reddito. Se l’imposta non è neutra, non pare possa essere detta generale ed uniforme; non essendo tale quella imposta che pesa più su un’unità che sull’altra del reddito e spinge l’uomo a desiderare di possedere più la seconda della prima o ad usarla in un modo piuttosto che in un altro.

 

 

Perciò il concetto dell’imposta generale ed uniforme intesa nel senso di imposta neutra non coincide col concetto dell’imposta ad aliquota costante – ad es., imposta proporzionale del 10% su tutti i redditi. Questa può essere invece parziale o disuguale se tassa ugualmente redditi diversi per quantità, vistosi o piccoli, o per indole, di lavoro, misti o di capitale, prima della loro riduzione ad un comune denominatore. Invece chiameremo imposta neutra o «generale ed uniforme» l’imposta ad aliquota variabile secondo l’ammontare (progressiva) o secondo la natura del reddito (differenziata) quando la progressività ed il differenziamento siano operazioni necessarie per ridurre i redditi a comune denominazione. La variabilità dell’aliquota può non avere per risultato e per iscopo di far variare il peso dell’imposta gravante su due individui che si trovano in condizioni uguali, ma anzi di renderlo uguale. Far pagare il 10% d’imposta ai redditi di capitale ed il 5% ai redditi di lavoro non è un diversificare l’imposta; ma un’uguagliarla sostanzialmente attraverso una diversificazione formale: e così il far pagare l’1% a chi ha 1.000 lire di reddito ed il 10% a chi ne ha 100.000.

 

 

L’imposta apparentemente «speciale» può essere «generale» anche per un’altra ragione: essa invero può essere parte di un complesso di tributi, il quale, sotto varie denominazioni, tende ad attuare il canone dell’uguaglianza. Così l’imposta successoria può essere necessaria per incidere convenientemente sui redditi in misura proporzionata all’incidenza sui redditi provenienti da capitali in misura proporzionata all’incidenza sui redditi di lavoro; e le imposte di manomorta e di negoziazione per parificare la situazione dei patrimoni degli enti morali e delle società commerciali a quote trasmissibili in confronto ai patrimoni spettanti a persone fisiche od a società con carature non trasmissibili senza il consenso dei soci. Le imposte sui consumi possono essere necessarie per colpire adeguatamente i redditi di coloro che di fatto di diritto sono esenti dalle imposte sui redditi e sui patrimoni ogni sistema tributario concreto un sistema di contrappesi; sicché per lo più soltanto il «sistema» e non ciascuna delle sue parti distinte merita il nome di imposta «neutra» o «generale».

 

 

Nell’attuare così il canone dell’uguaglianza, il legislatore può commettere errori, i quali tolgono in parte all’imposta differenziata il suo carattere neutro ed allora essa cade nel novero delle imposte «speciali» o «parziali», le quali sono quelle che non posseggono i connotati sovra elencati dell’imposta «neutra». Una imposta apparentemente «generale ed uniforme» può in realtà essere «speciale o parziale»; come accade, a cagioni d’esempio, per le imposte le quali colpiscono uniformemente i redditi guadagnati, e quindi tassano la parte destinata a risparmio più di quella destinata a consumo.[13]

 

 

5. – Solitamente, quando si vogliono studiare gli effetti di una imposta, sia di quella neutra o imparziale o generale, sia di quella speciale o parziale, si pone la premessa, frequente nel ragionamento economico, del rebus sic stantibus, ossia si suppongono invariati tutti gli altri dati dell’equilibrio economico, di cui si vogliono studiare le variazioni, in seguito ad una variazione dell’imposta. Già le moderne teorie dell’equilibrio hanno svalutata la premessa, mettendo in luce la interdipendenza di tutti i dati dell’equilibrio non solo economico, ma politico e sociale, sicché variando l’uno variano gli altri e tutti vengono ad assumere una nuova posizione, diversa dall’antica. Nel caso nostro, la premessa potrebbe ancora giovare come schema logico atto a raffigurare che cosa accadrebbe se l’imposta fosse simile alla grandine, la quale, senza costo e senza compenso per gli uomini, porta via i frutti della terra. Se in qualche misteriosa maniera intervenisse una forza estranea agli uomini per impossessarsi, senza lasciar tracce, del 10% dei loro redditi, il risultato sarebbe un aumento degli sforzi necessari ad ottenere una data rimunerazione, un’aggiunta agli ostacoli opposti dalla natura alla utilizzazione dei suoi beni.

 

 

La decurtazione di tutti i redditi nella misura del 10% scema la massa dei beni disponibili nel momento presente e ne accresce il valore in confronto ai beni futuri. Se beni presenti e beni futuri (a un anno data) si scambiarono nella ragione di 100 a 105, ora si cambieranno nella ragione 100 a 105,50. Il saggio dell’interesse aumenta.

 

 

La quale verità si dimostra altresì osservando che dapprima si produceva una quantità M di risparmio, perché la dose marginale del risparmio prodotto godeva sul mercato di una rimunerazione r; e questa, pur dando ai risparmiatori intramarginali una rendita uguale alla differenza fra r ed il costo c del risparmio (sacrificio dell’aspettativa), era precisamente uguale a c per il risparmiatore marginale. Ma, essendo ora la remunerazione del

risparmio ridotta ad r–x, essa è altresì r il risparmiatore marginale minore di c. Quindi il risparmio si contrae ed il suo prezzo r deve mutare. Quale sia per essere il nuovo prezzo r, dipende dalla elasticità delle due curve di offerta e di richiesta di risparmio; ed è chiaro che esso si fisserà ad un punto imprecisato, ma più elevato di r. Il che vuol dire che il saggio dell’interesse i, fatta la premessa del rebus sic stantibus, tende ad aumentare. Perciò l’imposta generale ed uniforme sui redditi, facendo salire il saggio dell’interesse, ad es., dal 5 al 5,50%, opera in duplice maniera a ridurre i valori capitali corrispondenti a quei redditi, prima facendo l’ammontare dei redditi e poi crescendone il saggio di capitalizzazione. Il reddito di 5 si capitalizzava prima, al 5%, in 100 lire; lo scemato reddito di 4,50, capitalizzato al 5,50% vale solo più 81,81 lire.

 

 

6. – Ma l’imposta non è simile alla grandine. Essa è dovuta alla volontà degli uomini ed ha quindi effetti ben diversi in peggio od in meglio di un fatto, imprevedibile ed indeprecabile della natura. Essa può essere simile alla «taglia estorta da lui brigante»,[14] perché esatta da un governo straniero o tirannico e sperperata in malo modo senza vantaggio della collettività. È il caso segnalato nella nota alla memoria del 1912, dato il quale si ha l’effetto di un rialzo nel saggio dell’interesse, maggiore, a parer mio, di quello che si sarebbe avuto nel caso dell’imposta grandine. Infatti, quest’ultima produce l’unico risultato di rendere meno fecondo il lavoro dell’uomo, di una quantità che l’esperienza può misurare in modo esatto. Ma chi può misurare e prevedere le estorsioni di un governo tirannico? Un paese può prosperare nonostante le grandinate; non può sollevarsi dalla miseria più nera quando sia posto sotto l’incubo delle estorsioni imprevedibili di un governo oppressore.

 

 

Appartengono alla categoria delle imposte estorsioni quelle, assai frequenti  in verità, le quali siano congegnate in maniera da tornare vantaggiose alla classe governante più che alla collettività governata, sia per il modo della loro ripartizione sia per l’uso al quale esse sono destinate. Una scuola di finanzieri valorosi tende a considerare quello finanziario come un fatto sovratutto politico ed a dare sommo rilievo alla circostanza che la quantità e la ripartizione delle imposte sono determinate non in seguito ad un calcolo economico da privati individui consapevoli dei fini da raggiungere, sibbene in seguito ad un calcolo politico da corpi politici, i quali vogliono, raggiungere scopi, i quali solo in apparenza si identificano con il vantaggio effettivo della collettività. Citano questi studiosi moltissimi fatti, per cui la teoria di quegli altri scrittori, i quali applicano le norme del calcolo economico di convenienza alla pubblica finanza, sarebbe lontana dal raffigurare la realtà effettuale.

 

 

Secondo questa, che può dirsi la scuola economica od edonistica della pubblica finanza, in un regime di governo democratico, o rappresentativo o cooperativo, i cittadini delegano a proprii deputati il calcolo dei vantaggi dei servizi pubblici e dei modi del loro sopperimento; ed i deputati si decidono ad istituire un servizio nuovo ed al relativo prelievo di imposta se reputino in tal caso maggiore il vantaggio della collettività di quello che s’avrebbe conservando la ricchezza a fini privati. Trattasi di una applicazione del teorema generale della destinazione della ricchezza all’uso più fecondo: se giovi di più prelevare 100 con l’imposta per l’erezione di scuole o per la costruzione di una fortezza, ovvero lasciare le stesse 100 al contribuente per soddisfare ai bisogni privati di cibo o di vestito o di divertimento. Ed il teorema dice che la ricchezza deve essere ripartita in maniera da soddisfare ai bisogni più urgenti e via via a quelli meno sentiti in modo che la soddisfazione marginale ricavata dalle ultime dosi della ricchezza sia per ogni cittadino uguale.

 

 

Ove la ricchezza sia così ripartita, è chiaro che il prelievo dell’imposta deve essere considerato utile per il contribuente, anzi atto a procurargli il massimo di utilità. L’imposta diventa una delle condizioni, l’esistenza delle quali consente ad una collettività di produrre il massimo di ricchezza, di toccare l’ottimo nella ripartizione di essa fra i singoli e la più conveniente distribuzione fra consumo e risparmio. Quindi l’imposta non che provocare un aumento nello sforzo che l’uomo deve fare per procacciarsi il reddito, è la condizione necessaria per ridurre al minimo quello sforzo e per rendere massimo il reddito. Dire, in tali condizioni, che l’imposta del 10% decurta il reddito è enunciare una proposizione formalmente esatta, ma in sostanza lontanissimo dalla verità. Tanto irreale e tanto fantastica, come quella che farebbe un imprenditore, il quale si lagnasse di dover pagare salari agli operai o materie prime ai fornitori e considerasse questi pagamenti come una decurtazione del suo reddito. Ognun sa invece che per l’imprenditore non è un danno sopportare i costi necessari ed utili della sua impresa; ma anzi una condizione per rendere massimo il suo reddito. È un danno pagare salari ad operai fannulloni o comperare una materia prima disadatta; ma è un vantaggio poter remunerare convenientemente operai capaci o acquistare materie prime atte ad ottenere prodotti finiti che egli venderà con profitto. Così è dell’imposta: dannosa se male impiegata, utilissima se usata secondo la regola della più conveniente distribuzione della ricchezza.

 

 

Tra i due casi estremi, dell’imposta taglia e dell’imposta economica, chi scrive era nel 1912 rimasto incerto; e pur propendendo a reputare più frequente di fatto una approssimazione all’imposta taglia per la incapacità dei governanti a provvedere persino ai compiti fondamentali della giustizia e della sicurezza e per la rarità dell’apparizione di «geni politici» capaci ad applicare le norme del calcolo economico al prelievo della imposta ed al suo impiego, aveva scelto una via di mezzo, quella per cui l’imposta sarebbe stata impiegata ad un uso precisamente così vantaggioso come quello a cui i consociati medesimi avrebbero destinato il numerario loro tolto.

 

 

A siffatta conclusione ero stato condotto dal pensare che in siffatta maniera – oltre a restare imparziale tra le estreme opinioni di coloro che ritengono l’imposta generalmente impiegata dai politici in modo meno ovvero più fecondo dei modi privati di impiegare la medesima ricchezza – io seguivo altresì il criterio puro economico, secondo cui gli uomini di governo dovrebbero curare la distribuzione della ricchezza tra i diversi usi pubblici e privati, presenti e futuri, in guisa che la fecondità marginale di essa sia la medesima in tutti gli impieghi.

 

 

Il che è esatto, ma non dà una immagine compiuta della realtà.

 

 

VII

 

4

VI

 

5

4

V

 

6

5

4

IV

 

7

6

5

4

III

 

8

7

6

5

4

II

 

9

8

7

6

5

4

I

 

10

9

8

7

6

5

4


A

 

B

C

D

E

F

G

 

 

Nella nota tabella mengeriana, l’uomo il quale possiede una sola dose di ricchezza, la destina al soddisfacimento della dose prima del bisogno A, perché questa gli dà il massimo di utilità 10; se ne possiede 3 dosi, ne destina due al soddisfacimento della dose prima e seconda di A ed una al soddisfacimento della dose prima del bisogno B. E così via, finché ove possegga 28 unità di ricchezza, le destina a far acquisto di 7 dosi del bisogno A, 6 di B, 5 di C, 4 di D, 3 di E, 2 di F ed 1 di G, in guisa che la utilità marginale delle ultime dosi soddisfatte dei diversi bisogni sia uguale in ogni caso a 4. È elementare che così avvenga la ripartizione della ricchezza e che ogni altra ripartizione sia antieconomica. Ed è del pari evidente che alcuni di questi bisogni possono essere di godimenti immediati privati (cibo, vestito), altri di godimenti immediati pubblici (sicurezza, giustizia, difesa nazionale), altri ancora di godimenti futuri privati (risparmio per vecchiaia o famiglia, o arricchimento) o pubblici (rimboschimento a lunga scadenza). Il bisogno può essere di godimento fisico ed intellettuale o di pregustazione di future ricchezze; e sempre il soddisfacimento dei singoli bisogni deve avvenire secondo la regola della uguaglianza della utilità delle soddisfazioni marginali.

 

 

Ma ciò non vuol dire affatto che per l’uomo sia indifferente la destinazione di una data dose di ricchezza al pagamento dell’imposta (soddisfacimento di un bisogno pubblico) piuttostochè al soddisfacimento di un bisogno privato. La tabella dimostra che se A è un bisogno privato immediato e B un bisogno immediato pubblico, lo spostare anche solo l’ultima dose di ricchezza dall’uno all’altro uso sarebbe dannoso. Dannoso non destinare al cibo (A) la settima dose di ricchezza che recava all’uomo l’utilità 4 per destinarla al pagamento di una settima dose di imposta (B) che darebbe l’utilità 3; ma ugualmente dannoso non pagare la sesta dose di imposta con utilità 4, per avere una ottava dose di cibo, che darebbe una utilità di 3.

 

 

Ecco dunque dimostrato che il destinare ai margini una dose di ricchezza piuttosto al pagamento dell’imposta che alla soddisfazione di bisogni privati è cagione della più conveniente distribuzione della ricchezza e dà luogo al massimo della sua fecondità. Se ciò è vero al margine per le ultime dosi disponibili di ricchezza, è tanto più vero per le dosi precedenti. Al margine può talvolta dubitarsi, trattandosi di differenze infinitesime, quando le unità di misura della ricchezza siano assai piccole, se più convenga l’un impiego che l’altro. Talvolta l’uomo può essere indotto a decidersi più per impulso d’istinto che di ragionamento. Ma al disotto dei margini la scelta non è dubbia. Non pagare l’imposta nella misura di sei dosi equivarrebbe a rinunciare alle utilità 9, 8, 7, 6, 5 e 4 per avere in cambio, ove pure la cosa fosse pensabile e possibile, utilità di 3, 2 ed 1, ossia utilità di gran lunga inferiori.

 

 

Il ragionamento puro economico non porta dunque, come avevo supposto nel 1912, a considerare la destinazione ad imposta ugualmente feconda come la destinazione a qualunque altro uso privato, presente o futuro, ma a collocare la destinazione ad imposta nel suo proprio luogo nel quadro generale della ripartizione della ricchezza ed a concludere che la destinazione di una certa quota di ricchezza ad imposta e di quella quota precisamente la quale risulta dalla osservanza della legge della ripartizione più conveniente della ricchezza è condizione necessaria per tendere massima la fecondità della ricchezza posseduta dall’uomo. Non destinare sei dosi di ricchezza ad imposta destinata ad usi pubblici presenti (B) e tre dosi di ricchezza ad imposta destinata ad usi pubblici futuri (E) vorrebbe dire non solo una diminuzione gravissima nella fecondità di quelle 6+3=9 dosi di ricchezza, ma un isterilimento delle residue 19 dosi destinate ad usi privati immediati (A, C e G) e futuri (D ed F). Nello stesso modo come non è pensabile e possibile, salvochè forse per una prima dose, il soddisfacimento del bisogno del cibo senza quello del bisogno di bere, vestir panni, aver casa, così non è né pensabile né possibile vivere, allevar figli, risparmiare, così come si conviene ad uomo, se lo stato non garantisce le condizioni del vivere civile e non apparecchia migliori condizioni per l’avvenire. Dello schema teorico, la destinazione di una certa dose complessiva di ricchezza ad imposta e la sua conversione in beni pubblici non è, salvo per le quantità infinitesimamente piccole poste ai margini, più o meno feconda della destinazione di quella medesima dose ad impieghi privati. Essa, se il calcolo fu condotto correttamente, è la destinazione la quale dà il massimo risultato pensabile. Destinare ad imposta una quantità maggiore o minore, sarebbe un errore economico.

 

 

7. – La esposizione che si è ora fatta della teoria della imposta come fattore della massima produttività complessiva della ricchezza non è, badisi, la ripetizione del sofisma per cui si usa l’artificio di supporre per un istante scomparso o soppresso o distrutto uno dei fattori della produzione e si conclude: ecco distrutta la produzione intiera ed ecco dimostrato che tutto il prodotto spetta al fattore scomparso, perché senza di esso la produzione si riduce da 100 a zero e, con esso, ritorna a 100. Usò quel sofisma il Marx per il fattore lavoro; e si potrebbe a volta a volta usare per il capitale, per la terra, per lo spirito di organizzazione, per lo stato. Poiché, per tutti, la scomparsa del fattore considerato importa la distruzione della ricchezza totale, ognuno di essi con egual diritto può arrogarsi la paternità dell’intera produzione. Il che, se è vero per ognuno di essi separatamente considerato, è erroneo per tutti insieme presi. Il massimo di produttività è uno solo e questo si raggiunge con una data combinazione dei varii fattori, quella che l’esperienza dimostra la più conveniente. La teoria economica finanziaria afferma che in quella data combinazione entra anche lo stato e che quindi il pagamento di una data imposta, quella dimostrata più conveniente dall’esperienza, è condizione necessaria poiché lo stato intervenga nella misura più opportuna, come fattore di quella combinazione complessa, la quale appunto dà luogo al massimo di produttività. Lo stato non e l’unico, né il primo in grado tra i fattori produttivi; ma alla pari degli altri è un fattore che, dove più dove meno, a seconda dei risultati ambiti, deve intervenire perché si abbia la combinazione più economica.

 

 

Né il discorrere di stato come «fattore produttivo» deve lasciar credere che qui si voglia risuscitare la teoria dell’imposta beneficio, dell’imposta riproduttiva. È verità oramai pacifica che l’imposta non si misura alla stregua del vantaggio o beneficio ricevuto dal singolo contribuente che la paga. L’imposta si paga appunto perché non è assolutamente conoscibile il vantaggio speciale o divisibile che il singolo ricava da certi servizi pubblici, come la giustizia o la difesa, detti perciò indivisibili. Se quel vantaggio particolare fosse conosciuto sarebbe inutile ricorrere all’imposta, bastando lo strumento consueto del prezzo, privato o pubblico. Ma questa verità non contraddice in nulla all’altra che l’imposta, come massa complessiva di mezzi forniti allo stato, dia modo allo stato di agire come fattore della produzione nel modo economico che sopra si è detto. Naturalmente lo stato agisce come fattore produttivo in conformità all’esser suo: non cioè come industriale od organizzatore della produzione, ma come ente politico: soldato, magistrato, educatore, difensore degli interessi generali, esercente quelle imprese che non sarebbero affatto o sarebbero male esercite dai privati imprenditori. In tal guisa esso collabora al raggiungimento della meta che è la massima produzione di beni materiali e spirituali, alla massima elevazione degli uomini. Non sempre l’azione dello stato è intesa all’arricchimento dei singoli; ché anzi può darsi il contrario: che a certuni singoli lo stato tolga assai e poco dia. Non l’eguaglianza fra il dare e l’avere dei singoli è il fine dell’imposta; sibbene l’elevazione massima della collettività.

 

 

8. – La teoria economica dell’imposta, pur così chiarita, resta male accetta ai teorici della finanza come fatto politico. Obbiettano costoro che la destinazione di una certa dose di ricchezza ad imposta non è il risultato di un calcolo economico ma di un calcolo politico. La decisione di pagare 100 o 1000 o altra somma a titolo d’imposta non è una decisione libera, consaputa dell’uomo, il quale paragoni costi e vantaggi, soddisfazioni private e pubbliche presenti e future; è invece una decisione imposta forzosamente all’uomo dai suoi reggitori è vero che i cittadini sono chiamati a pagare sei dosi di ricchezza per l’imposta B e tre dosi per l’imposta E; ma è assolutamente impossibile affermare che ciò accada in quanto essi ritengono che il soddisfacimento di B e di E in quella misura procuri le utilità indicate nella tabella mengeriana, perché:

 

 

  • i cittadini sono incapaci di dare un giudizio intorno alla utilità dei pubblici servizi, sia singolarmente considerati, sia nel loro complesso.[15]

 

  • il giudizio sull’utilità è dato non dagli interessati, ma dai loro delegati;

 

  • il giudizio può essere sbagliato, anche quando i delegati col massimo zelo e con studi penetranti cercano di interpretare la volontà manifesta od inconsapevole dei cittadini;

 

  • il giudizio dei cittadini è non di rado in aperto contrasto con quello dei delegati; reputando i primi inutili e forse anco dannose certe spese pubbliche a cui è destinato il provento delle imposte, e preferendo tener per sé ed usare a fini privati, da essi considerati più urgenti, le somme che pure sono costretti a pagare a titolo d’imposta;

 

  • il giudizio intorno alle pubbliche spese è spesso dato dai delegati senza aver ricevuto alcun mandato dai cittadini, poiché questi si trovano, sovratutto per le spese più importanti, come le guerre, dinanzi al fatto compiuto, al quale non giova ribellarsi;

 

  • anche quando sembra che i cittadini abbiano dato il proprio assenso preventivo alle pubbliche spese, esso è stato carpito con svariatissime e sottili arti, fra cui assai frequente quella di far credere assai minore la spesa di quello che in realtà sia, o pagabile il conto da altre classi, da altre nazioni (indennità di guerra), dalle generazioni venture (debito pubblico);

 

  • sicché è giocoforza concludere che il giudizio intorno alle imposte non è un giudizio economico dato dai cittadini intorno alla più conveniente ripartizione della ricchezza propria; ma un giudizio politico dato dai delegati intorno alla convenienza di servirsi del potere per prelevare imposte a carico dei cittadini a vantaggio proprio e delle classi e dei gruppi sociali che essi più particolarmente rappresentano. Questo è il calcolo vero, fondamentale, compiuto da coloro i quali in realtà votano, le imposte; e farebbe d’uopo supporre che i delegati (sovrani e ministri, autocrati od eletti) non sapessero o non volessero giovarsi della forza che essi posseggono, per immaginare che essi non facessero il calcolo politico della convenienza del prelievo delle imposte in modo confacente ai proprii interessi, curandosi di quelli dei consociati solo entro i limiti della necessità di non eccitarne troppo il malcontento e di non spingerli a cambiamenti di governo, a rivolte ed a rivoluzioni. La teoria dell’imposta prelevata e ripartita a norma della legge della più conveniente distribuzione della ricchezza è una formula politica, come la direbbe il Mosca, un mito come vorrebbe il Sorel, od una derivazione, come la chiamerebbe il Pareto, atta a velare la realtà, che è l’imposta prelevata e ripartita a norma delle convenienze della classe governante. L’ammontare dell’imposta e la sua ripartizione sono la resultante del gioco delle forze politiche; la teoria economica è lo strumento elegante di cui si serve la classe politica dominante per tener contenti i contribuenti; e fa parte di quel ricettario di cui con tanta dottrina il compianto Puviani tessé la storia nella sua Teoria delle illusioni finanziarie.

 

 

Supponiamo che i fatti addotti dai teorici della tesi politica della finanza siano indiscutibili, calzanti e rilevanti. È una concessione provvisoria fatta per chiarire il problema. Io dico che da ciò non sarebbe dimostrata illogica la applicazione dello schema mengeriano alla ripartizione del reddito fra scopi pubblici e scopi privati. Dall’ipotesi che gli uomini non sono individualmente capaci a dare un giudizio ragionato dell’utilità dei pubblici servizi e che il giudizio è dato dai dirigenti per scopi proprii e differenti dal vantaggio dei singoli cittadini non discende affatto la illazione che lo schema mengeriano sia inapplicabile ai fatti finanziari.

 

 

Se così fosse, esso sarebbe inapplicabile anche ai fatti economici privati. Non è vero infatti:

 

 

1)    che gli uomini siano sempre capaci di dare un giudizio intorno alla utilità effettiva dei beni e servigi privati che essi «volontariamente» acquistano. Per lo più, quella utilità è un mito, un frutto di credenze, di immaginazione, di costumi, non un fatto di ragionamento consaputo. Non occorre citare l’esempio dell’alcoolista il quale immagina di trovare un’utilità nel veleno che lo trarrà alla delinquenza, alla miseria ed alla morte anticipata. Ma qual è mai la merce della cui utilità l’uomo medio sia capace a fare una valutazione esatta? Basta riflettere al divario enorme esistente fra le tabelle correnti nei libri di igiene e di medicina pratica intorno al valor nutritivo comparativo degli alimenti e le predilezioni, spesso inverse, dei consumatori per rimanere persuasi quanto poco consapevoli e ragionate siano quasi tutte le azioni degli uomini rivolte al soddisfacimento dei loro bisogni privati, tanto, poco logiche che la scienza medesima in moltissimi casi non è riuscita a scoprirne il fondamento ed a tracciarne le leggi;

 

2)    che il giudizio intorno alla convenienza di soddisfare questi o quei bisogni privati, in questa o quella misura relativa sia dato dagli interessati. È dato per lo più dalla moda, dal costume, dall’esempio altrui. Perché le classi borghesi usano avere in casa una stanza chiamata «salotto»? Perché le donne usano certe foggie di vestito, o si adornano di gioielli? Perché gli uomini fumano? Perché gli operai poco apprezzano la casa ed i contadini vanno spesso scalzi?

 

  • che il giudizio sia frutto di una volontà chiara e mirante ad un fine. L’uomo «politico» plaude ad una guerra, ad una pace, ad un progetto di spesa perché il suo giornale gli fa credere che il fine si otterrà con piccolo sacrificio o con sacrificio altrui e con grandi risultati. L’uomo «privato» compra lo specifico che gli viene segnalato dal giornale, il libro che gli raccomanda il libraio, i numeri del lotto raccomandati dall’infallibile frate della quarta pagina; la donna vana acquista i brillanti od il cappellino perché il mercante non le discorre del prezzo, e la nota è mandata in seguito al marito od all’amante. Quale differenza sostanziale vi è tra i due generi di azione? Non è probabile che le azioni «illogiche» siano di gran lunga più numerose e più imponenti nel campo della vita privata, e le spese da esse determinate assorbano una porzione di gran lunga maggiore del reddito di quanto facciano le conclamate azioni illogiche di carattere pubblico?

 

  • vorrebbesi forse insistere sul carattere «volontario» delle azioni private e su quello «forzoso» delle azioni pubbliche per legittimare una differenza così profonda tra di esse come la possibilità di creare o non creare una scienza «economica» o «finanziaria» fondata sul calcolo utilitario? Ma trattasi di una differenza puramente formale, la quale non ha alcun valore dinanzi al tribunale della scienza. Qui non si vuole affrontare la questione filosofica intorno alla libertà o necessità delle azioni umane; ma è certissimo che il criterio di decisione del problema secolare non sta nell’essere l’una azione «comandata» e l’altra lasciata «libera» dal legislatore. Ambe le specie di azioni, sia quelle legalmente volontarie sia quelle legalmente libere, possono essere considerate frutto di necessità o di libera volontà, a seconda che filosoficamente si imposti il problema. Tra i fattori determinanti le azioni degli uomini, moltissimi pensatori – e la loro opinione parmi la più fondata – noverano la volontà consapevole e chiara dell’uomo il quale vuole raggiungere un fine e conosce ed attua volontariamente i mezzi atti a raggiungerlo. Tra i fini ve ne possono essere di quelli pubblici e il mezzo volontariamente scelto per raggiungerli è il «comando» dello stato. Non si nega l’importanza dell’intervento del legislatore nel far diventare, a titolo di imposta, obbligatorio il pagamento da libero che era, legalmente, quando si trattava di prezzo; ma si deve negare perentoriamente che quell’intervento possa far giudicare libero l’atto del pagare il prezzo per chi sia portato a reputarlo la conseguenza «necessaria» di fattori preesistenti o costrittivo l’atto del pagamento dell’imposta per chi ritenga che anche l’uomo «politico» sia capace di determinarsi ad agire, direttamente o per mezzo di delegati, per un atto libero di volontà.

 

 

Anche il giudizio intorno ai bisogni privati individuali non è dunque un giudizio economico puro; ma è giudizio sociologico complesso, il quale dovrebbe tener conto di numerosissime forze economiche, psicologiche, sociali, famigliari, di costumanze, di imperativi del dovere che tutti confluiscono al risultato verificatosi.

 

 

Ciò non ha impedito agli economisti di tracciare in una prima approssimazione lo schema mengeriano e di trovarlo utile per orizzontarsi in mezzo alla selva selvaggia dei fatti umani. Ciò non deve impedire ai finanzieri di adottare il medesimo schema allo stesso intento di primo orientamento.

 

 

9. – Dico di più, rinunciando a quella provvisoria ammissione dianzi fatta della rilevanza dei fatti addotti dai sociologisti della finanza: quel primo orientamento risponde, forse meglio di quanto non accada nel campo dei bisogni privati, alla necessità di tener conto dei fatti veramente tipici e fondamentali della pubblica finanza.

 

 

Ed invero la teoria sociologica o politica della finanza troppo ha trascurato il nucleo essenziale per attardarsi attorno alle frange eleganti ed interessanti, ma poco rilevanti, del fatto finanziario. Non bisogna dimenticare che gli errori di giudizio, le spese pubbliche inutili, non desiderate dai cittadini e vantaggiose solo ai ceti dirigenti sono la frangia; ma il nucleo sostanzioso sono le spese pubbliche fondamentali, utili alle collettività, necessarie per permettere il funzionamento del meccanismo economico e sociale. Pur nella ipotesi estrema di governo incapace, tirannico, di imposte esorbitanti, sperperate da un piccolo gruppo di dirigenti a proprio beneficio, è tanto grande la necessità di un governo qualsiasi, di un ordine politico qualunque, che la destinazione di una parte del proprio reddito ad imposta è di solito una delle operazioni più convenienti che l’uomo possa compiere. Un governo efficiente, capace è fuor di dubbio migliore di un governo corrotto e inetto, un governo libero in confronto ad un governo tirannico; ma un governo corrotto, inetto e tirannico, un qualsiasi capo banda o comitato terroristico di salute pubblica, è di gran lunga preferibile alla mancanza di governo, all’anarchia.

 

 

Gli uomini possono dimenticare esperienze antiche e recenti, possono abituarsi siffattamente all’idea che un governo esiste da non percepire più la sua necessità ed utilità. La domanda nei pubblici servizi può passare per i singoli nella regione dell’inconscio ed essere compiuta dai dirigenti in modo diverso e lontano dai desideri effettivi e presenti dei cittadini. Tutto ciò non è molto diverso da quanto accade nel campo del soddisfacimento dei bisogni privati, dove molti atti si compiono in modo riflesso senza paragone consapevole fra numerario speso ed utilità del bisogno soddisfatto, per consuetudine, per rispetto umano, per orrore del cambiamento. Tutto ciò è anche pura crosta sottilissima. Rompasi questa per qualche imprevisto accidente, frantumisi per un istante la macchina dello stato e si vedranno gli uomini disperatamente invocare lo stato, uno stato, un governo, un despota pur di essere salvati dalla fame, dalla miseria, dalla rovina, dall’anarchia! Tutti gli uomini sono disposti a dare tutta la propria ricchezza eccedente l’indispensabile per vivere, pur di avere uno stato; perché essi vedono che solo l’esistenza di uno stato consente ad essi di vivere.

 

 

Vedasi perciò come sia fondamentalmente nel vero H. Stanley Jevons, quando nel corso di un suo luminoso scritto sui principii della finanza definisce la capacità contributiva della collettività come il sovrappiù della produzione del paese oltre ciò che è necessario a serbare in vita gli uomini secondo il tenor di vita prevalente nel tempo e nel paese considerato.[16]

 

 

Tutto il prodotto umano sociale, salvo l’indispensabile per la vita degli individui: ecco ciò che lo stato potrebbe prelevare senza danno e col consenso volonteroso degli individui, se questi volessero paragonare il costo dell’imposta col danno della inesistenza dello stato. E poiché nessun governo, come osserva lo stesso autore, spinge le imposte sino ad esaurire tutta la capacità contributiva e per lo più un grande margine è lasciato libero fra le imposte di fatto e quelle che teoricamente si potrebbero stabilire e consentire, giuocoforza è concludere che di fatto e probabilmente nel maggior numero dei casi le valutazioni dei governi sono contenute entro i limiti della prudenza; e che se errori e scarti vi sono, se non si possono negare gli sprechi, questi non eccedono le dimensioni consuete negli atti umani e sono spesso, probabilmente nella massima parte dei casi, sorpassati dagli errori, dagli scarti e dagli sprechi che frequentissimi si osservano nella vita privata.

 

 

Aggiungasi non essere frequente che l’impiego della ricchezza a scopi privati sia capace di dare rendimenti così elevati come quelli che sono talvolta possibili nel caso di giudiziosi impieghi pubblici. Rilievi importanti ha compiuto a questo proposito il citato autore per il gruppo di pubbliche spese indirizzate a migliorare l’ambiente in cui l’uomo vive (pag. 259 e segg.). Vi sono spese, come quelle per l’illuminazione, il piano regolatore, i giardini e gli edifici pubblici che non aumentano direttamente il reddito dei consociati, ma danno luogo ad imposte pagate volentieri, perché i contribuenti sentono essere il vantaggio della spesa pubblica maggiore dei godimenti superflui privati a cui si è dovuto rinunciare. Se la spesa fu fatta per scopi di pubblica igiene e per la costruzione di città giardino, essa produce ben presto un incremento così grande nella capacità fisica e mentale di lavoro, da aumentare nel corso di pochi anni la capacità contributiva del due o trecento per cento di più di quel che sarebbe accaduto se le imposte non si fossero pagate e nulla si fosse fatto. Le spese economicamente riproduttive a distanza di tempo, come la costruzione di ferrovie, magazzini generali, ponti, canali irrigatorii, e quelle socialmente produttive, compiute per l’educazione popolare, per il miglioramento del regime della proprietà o per l’istruzione agricola hanno un effetto caratteristico sul reddito sociale e sulla capacità contributiva.

 

 

«Per i primi anni la spesa, rendendo necessaria una tassazione cresciuta sia per pagare gli interessi e le rate di ammortamento sul suo costo capitale, come nel caso di un’opera pubblica, o per fronteggiare le iniziali ordinarie impostazioni di bilancio, come nel caso dell’educazione, non è controbilanciata da alcun aumento nella capacità contributiva. Questo incremento si produce solo grazie al crescere dei frutti indiretti dell’opera pubblica, od al miglioramento della capacità generale produttiva della popolazione in virtù dell’opera di educazione. Ma l’incremento della capacità contributiva dovuto a questa causa, sebbene cominci lentamente, procede con una velocità continuamente accelerata – ad interesse composto, per così dire – durante un mezzo secolo o più. L’incremento della capacità contributiva ha luogo per via di azioni e reazioni economiche ad un saggio crescente quando numerosi provvedimenti somiglianti sono stati adottati e giungono contemporaneamente a maturazione. Se fosse possibile di accertare separatamente l’incremento di capacità contributiva dovuto ad una qualunque opera pubblica o ad un piano di educazione concepito ed attuato con sapienza e successo normali si vedrebbe quasi certamente che siffatto incremento dopo quaranta o cinquanta anni è uguale ad un’altissima percentuale sul costo capitale iniziale – da 50 a 100 o 200 per cento all’anno. Una ferrovia, un canale d’irrigazione può facilmente, dopo trent’anni, ripagare il suo costo ogni anno sotto forma di incremento nella capacità contributiva [ossia nella eccedenza del reddito sociale oltre il necessario a condurre la vita secondo il tenore usuale di vita]. Naturalmente l’imposta assorbe di solito soltanto una piccola frazione di siffatto incremento della capacità contributiva. Gli uomini possono godere maggior copia degli agi e lussi della vita, i quali a loro volta diventano consumi convenzionalmente necessari; e sono altresì in grado di risparmiare e di investire di più, il che di nuovo accresce il reddito sociale ed ulteriormente aumenta la capacità contributiva. Se noi dovessimo calcolare il futuro rendimento ricavabile, sotto forma di capacità contributiva, dalle spese per l’educazione, assumendo come spesa iniziale il totale della spesa occorsa in un periodo di tre anni – anche senza supporre una educazione del tipo più efficace – noi constateremmo probabilmente che trent’anni più tardi l’incremento della capacità contributiva imputabile – ove fosse possibile di calcolarla a sé – alla spesa per l’educazione sarebbe uguale all’intiera spesa iniziale triennale. Ciò equivale ad un rendimento, dopo lunga attesa, del 300 per cento all’anno, ove si consideri la spesa per l’educazione come fatta in conto capitale» (loco cit., pag. 261-3).

 

 

Questa non è una raffigurazione idealmente rosea della realtà; è lo schema di tendenze le quali sempre più vivacemente influenzano la vita pubblica di tutti i paesi civili. La cresciuta educazione civica, l’interessamento universale alla cosa pubblica rendono oggi più sensibili gli uomini all’utile impiego della ricchezza prelevata con l’imposta. Si avverte dappertutto, anche nei paesi a forme di governo rozze, inerti e non rappresentative, uno sforzo di innalzare il tenore della vita pubblica, di agire favorevolmente sulla produzione economica, di migliorare l’educazione mediante l’accorto impiego, del pubblico denaro. Vi sono ancora e vi saranno sempre deviazioni, errori, anche gravissimi; ma non si può non avvertire al disotto degli errori di giudizio e delle sopraffazioni di classe questa vasta corrente di crescente interessamento alla cosa pubblica, di raffinamento sensibile nella scelta dei fini pubblici da raggiungere e nel loro paragone coi fini privati a cui si deve perciò rinunciare. Il fatto dominante è questo: che la destinazione di una parte della ricchezza a fini pubblici è un’operazione economicamente feconda, pur facendo l’ipotesi di determinazioni individualmente inconsapevoli e di governi corrotti, inetti e tirannici; e che il campo dell’inconscio tende a ristringersi vieppiù a vantaggio delle azioni consapevolmente compiute dagli individui, a mezzo dei loro rappresentanti, per raggiungere il massimo di utilità con un giudizioso impiego delle somme deliberatamente pagate a titolo d’imposta. Quanto più questa tendenza si afferma nella realtà, quanto più gli uomini – non fa d’uopo ricorrere, come supponevo nel 1912, ai geni politici – di ordinaria abilità ed onestà si addestrano al governo della cosa pubblica ed applicano a questo governo le norme ordinarie di amministrazione, tanto più cresce, con velocità accelerata nel tempo, la fecondità degli impieghi pubblici della ricchezza; e tanto più probabile diventa di scoprire, con tentativi numerosi e ripetuti, attraverso insuccessi svariati ed educativi, la ripartizione, variabile di volta in volta e da luogo a luogo, della ricchezza tra fini pubblici e fini privati, la quale è capace di rendere feconda di un risultato massimo la ricchezza totale posseduta dagli individui componenti la collettività.

 

 

La tesi storica della ripartizione della ricchezza non contraddice dunque, anzi conferma, lo schema teorico; e ad una diversa conclusione può venire solo chi si attardi ad ingigantire i nei, a far svolazzare le frange della costituzione politico finanziaria degli stati dei varii tempi e paesi e trascuri di guardare al disotto del fatto transeunte, dell’accidente superficiale il nucleo fondamentale, l’idea dominante che crea gli stati, li fa vivere e li fa prosperare.

 

 

Può sembrare strano che dalla penna di uno studioso, appartenente alla schiera degli economisti detti volgarmente «liberisti» sia uscita una raffigurazione così ottimista dello stato e delle sue funzioni; e chi ripensi alle critiche acerbe che lo scrivente rivolse prima e durante la guerra e continuerà dopo a rivolgere alla burocrazia, all’allargamento delle funzioni dello stato, allo sperpero del denaro pubblico, non mancherà di tacciarlo di contraddizione. A torto, essendo ovvio che l’epiteto di «liberista» applicato agli economisti è privo di significato, ed essendo caratteristica degli economisti dichiarare preferibili certe azioni non perché compiute dagli individui, ma perché più economiche, più feconde, a parità di costo di altre, sia che esse siano compiute dagli individui o dallo stato. Questa è la sola ed aurea norma di condotta economica. Affermare che gli economisti sono contrari allo stato è dir cosa altrettanto insensata come chi dicesse che certi astronomi sono nemici del sole, della luna o delle nuvole.

 

 

Può sembrare anche strano che uno studioso di economia manifesti una così aperta ripugnanza per quelle spiegazioni dei fatti finanziari che hanno un apparente chiarissimo carattere economico, come quella che fa dipendere l’ammontare e la distribuzione delle imposte dall’interesse delle classi dominanti. Ma anche qui sembra a me che tutta la tradizione classica economica repugni a menar per buone quelle spiegazioni dell’economismo storico che erano divenute di moda vent’anni addietro e che oggi risorgono sotto le spoglie del sociologismo integrale. Forse ciò accade perché gli economisti, essendo abituati a veder le linee essenziali dei fatti, difficilmente si persuadono a considerare rilevanti e decisivi gli svariati fatti, fatterelli ed aneddoti che i sociologisti vanno raccattando, su per le gazzette odierne o per le cronache rese venerande dal tempo, a provare che gli uomini non sanno quel che si fanno quando delegano ad altri il governo della cosa pubblica o che i delegati pensano soltanto a far prosperar sé stessi od i loro affiliati. I fatti addotti dai sociologi non sono falsi. Sono però unilaterali e non riescono a dare la teoria compiuta. Accanto all’uomo privato ed all’uomo di governo egoista, curante solo dei proprii interessi e di quelli della propria classe, desideroso di godere dei pubblici servigi e di farne pagare altrui il costo, vi è l’uomo «politico», il quale vede la necessità di far parte dello stato, di «ricrearsi» in esso, di raggiungere fini che senza lo stato sarebbero inconcepibili. L’uomo «politico» sa od intuisce che egli è un «altro» appunto per la sua appartenenza al corpo collettivo; sa od intuisce che la sua fortuna, i suoi redditi, le sue maniere di vita sono condizionate dall’esistenza degli altri uomini e dello stato; sa che, pagando l’imposta, egli non dà cosa creata da lui, ma cosa creata dallo stato o da lui quale parte dello stato.

 

 

Entro certi limiti è arbitrario partire dall’ipotesi dell’uomo «egoista» o da quella dell’uomo «politico» nel costruire la teoria dell’imposta, considerando l’altra ipotesi come un coefficiente di correzione di quella scelta. Sembra tuttavia più corretto preferire in prima approssimazione l’ipotesi dell’uomo «politico» come quella che: primo è propria del concetto di stato; mentre quella dell’uomo «egoista» gli è contrastante; secondo si conforma all’esperienza storica di una sempre maggiore consapevolezza nell’uomo della sua natura politica, dei suoi obblighi verso i consociati e dell’assurdità di concepire se stesso come un’entità a sé stante, mentre il suo essere medesimo è concepibile solo come parte di un tutto, che è il corpo politico.

 

 

Vero è che l’uomo «politico» non cessa di essere egoista; e pur apprezzando i vantaggi della vita collettiva e dell’esistenza prospera dello stato, tenta di goderne accollando altrui l’onere delle imposte occorrenti ai compiti pubblici. Ed è grande perciò l’utilità delle ricerche rivolte a chiarire i calcoli e le azioni con cui gli uomini effettivamente ripartono tra loro i carichi tributari ed i risultati dei tentativi compiuti da ognuno per godere il massimo dei benefici e sopportare il minimo degli oneri statali. Ma queste ricerche utilissime non debbono partire dalla negazione della verità di prima approssimazione, secondo cui l’applicazione della ricchezza al pagamento dell’imposta è un caso particolare della legge generale della ripartizione più conveniente della ricchezza; bensì devono essere rivolte a correggerla e ad integrarla. Se così si opera, si vede che quella legge non soltanto è una verità di prima approssimazione, non è soltanto una verità astratta, la quale concretamente non sembra neppure verificarsi, tanto è deformata dagli egoismi individuali, dalle lotte fra gruppi politici e di classe, ma è una meta verso cui faticosamente gli uomini camminano. Le esperienze successive persuadono sempre più gli uomini della necessità di sottomettersi ad una legge comune; più ancora li persuadono della necessità di dar opera consapevole e volontaria alla creazione di questa legge comune, alla sua esecuzione, al sopperimento dei mezzi atti a renderla attiva e fruttuosa. Se anche questa coscienza politica sia poco diffusa nella generalità, avvertita dai più solo in momenti eccezionali, essa innegabilmente si diffonde, si radica nell’animo umano ed inspira in misura crescente le azioni della eletta dirigente e quelle anche delle moltitudini governate. Da schema astratto, utile per orizzontare gli studiosi ed atta a classificare le azioni umane essa diventa a poco a poco meta da raggiungere, norma consapevolmente voluta ed ubbidita. Essa è la norma permanente storicamente sempre esistita, sebbene solo gradatamente divenuta capace di indirizzare in modo consapevole le azioni umane. Le altre regole di condotta appaiono, in suo confronto, transeunti, variabili da tempo a tempo. Scopo della ricerca scientifica è di tener conto sia della legge permanente, che da astratta ed impalpabile, diventa sempre più concreta e consapevolmente osservata, sia delle leggi particolari di ogni tempo e luogo. Sarebbe certamente erroneo negare queste; ma non è meno grave l’errore di coloro che, per amore del concreto e del vero evidente, negano quelle realtà più vere che sono le idee astratte, le forze fondamentali e semplici le quali son quelle che veramente muovono gli uomini. Per orrore dell’astrattezza cadono essi in astrattezze più grandi, mai neppure immaginate da coloro che alle loro leggi diedero sempre il valore di prime approssimazioni soggette a successive correzioni ed integrazioni.

 

 

10. – Se questa è la verità fondamentale e permanente alla quale necessariamente si è condotti quando si saggi lo schema teorico della ottima ripartizione della ricchezza fra scopi pubblici e privati alla prova della esperienza storica, fa d’uopo logicamente concludere che il pagamento dell’imposta non diminuisce anzi cresce la quantità di reddito posta a disposizione degli uomini. L’imposta aumenta il flusso del reddito presente, perché essa rende massima la fecondità dei risparmi impiegati nella produzione, massima la produttività del lavoro, massimi lo spirito di intrapresa e la capacità inventiva degli uomini.

 

 

Quindi le tre ipotesi della imposta più o meno od ugualmente feconda degli impieghi privati della ricchezza, che io avevo messe innanzi nel 1912 come atte a spiegare le diverse situazioni effettive debbono in prima approssimazione essere sostituite da una sola e diversa ipotesi: che l’attribuzione di una parte del reddito ad imposta dia luogo ad un massimo di fecondità che non sarebbe possibile ottenere con un’altra ripartizione della ricchezza tra beni pubblici e privati. Vi è una ripartizione, vi è una massa d’imposta che è capace di ottenere il massimo risultato. Entro i limiti in cui lo schema si attua nella realtà – e tutto fa credere che esso si attui per il nucleo più rilevante delle spese pubbliche ed in proporzioni assai maggiori di quanto non si creda di più – l’imposta fa sì che il flusso della ricchezza nuovamente creata sia un massimo. Potrà l’imposta in qualche momento contrarre il flusso dei beni presenti, perché essa indirizza il lavoro degli uomini a produrre beni futuri – strade, ponti, ferrovie, scuole -; ma la contrazione è momentanea, e dà luogo ben presto ad una nuova espansione che porta il reddito collettivo ad una altezza maggiore. Alla lunga l’imposta fa aumentare il reddito o dividendo nazionale presente; ed è costretta perciò a svalutare i beni presenti in confronto ai beni futuri. Il saggio di interesse scema a causa dell’imposta. Questa è la conclusione ultima a cui tutta l’indagine compiuta fin qui necessariamente reca.

 

 

Se è vera la conclusione, non può negarsi del pari che l’imposta cresce il valor capitale dei beni fecondi di reddito. Il reddito, che sarebbe stato di 3 se un’ipotesi così irreale come l’«assenza dell’imposta» potesse per un istante concepirsi, diventa di 6, ossia giunge al suo massimo, a causa dell’imposta. Nel tempo stesso il saggio dell’interesse che sarebbe stato del 6% – le cifre e le percentuali sono tutte ipotetiche e meramente esemplificative – diventa, sempre a causa dell’imposta – del 3%. Quindi i valori capitali crescono per doppia guisa: per l’aumento del reddito, da 3 a 6, e per la diminuzione del saggio dell’interesse, dal 6 al 3% e passano, nelle ipotesi fatte, da 50 a 200.[17] Precisamente l’opposto di quanto si suppone normalmente accadere fatta la premessa del rebus sic stantibus (cfr. sopra paragrafo 5). Quale significato hanno, in questa ipotesi che raffigura la condizione normale, i discorsi intorno all’ammortamento dell’imposta? Questi suppongono che l’imposta abbia cagionato una diminuzione di redditi e sono rivolti a sapere, se questa diminuzione a sua volta dia o non dia luogo ad una diminuzione del saggio dell’interesse e ad una proporzionata o più che proporzionata riduzione dei valori capitali corrispondenti al reddito scemato. Caduta la premessa della diminuzione, cadono le illazioni relative.

 

 

11. – È necessario invece ragionare intorno alle illazioni che si possono ricavare delle vere conseguenze dell’imposta. Le quali sono, se ben si guarda, due, diversissime per indole: l’incremento nel flusso dei redditi, ad ipotesi da 3 a 6, e la caduta nel saggio dell’interesse, ad ipotesi dal 6 al 3 per cento. Dico che questi due fatti son diversi per indole; ed invero il saggio dell’interesse cade ugualmente per tutti gli impieghi, mentre il flusso dei redditi, pur crescendo come volume, a così dire, di acque scorrenti, si riparte poi per rivoli variamente modulati a favore dei singoli cittadini. Il saggio dell’interesse è fissato sul mercato, in modo uguale per tutti. Se in uno stato ordinato, tranquillo, progressivo, la massa del risparmio cresce, il saggio dell’interesse tende a scemare a favore di tutti coloro che hanno bisogno di capitali. Il suo calare è una forza la quale spinge all’insù, uniformemente, i valori capitali. Ma il flusso del reddito cresce come volume complessivo di acqua corrente solo fino al momento della sua suddivisione; né v’è ragione di affermare che la medesima rata di incremento si verifichi in tutti i rivoli in cui il fiume si spezza per giungere ai singoli. L’imposta, già fu osservato dianzi, è una delle condizioni del massimo incremento della produzione in generale; ma il suo pagamento da parte del singolo non è bilanciato da un proporzionato incremento del reddito del singolo medesimo. La media del reddito aumenta, per ipotesi, da 3 a 6; ma ben può darsi che il 6 sia la media dei redditi differenti, più o meno cresciuti, talvolta stazionari e persino diminuiti in confronto al loro livello nell’ipotesi irreale dell’assenza di imposta. Con esemplificazione empirica, si potrebbe rappresentare il fatto con le seguenti ipotesi numeriche:

 

 

Redditi

Ammontare

del

reddito

Saggio dell’ interesse %

Valori capitali


Prima dell’imposta:

 

I…………………………….

2

6

33,33

II……………………………

2,5

6

41,66

III ……………………………….

3

6

50

IV ……………………………….

3,5

6

58,33

V ………………………………..

9

6

150

MEDIA ………………………..

4

6

66,66

 

 

Ammontare

del

reddito

Saggio dell’ interesse %
Prima dell’imposta:

Valori capitali


Dopo l’imposta:

 

I…………………………….

5

3

166,66

II……………………………

8

3

266,66

III ……………………………….

6

3

200

IV ……………………………….

8

3

266,66

V ………………………………..

6

3

200

MEDIA ………………………..

6,60

3

220

 

 

                Variazioni in conseguenza dell’imposta:

 

Ammontare
del reddito

Saggio
dell’interesse

Valori
capitali

assolute

relative %

assolute

relative %

assolute

relative %

I ………….

+ 3

+ 150

– 3

– 50

+ 133,33

+ 400

II …………

+ 5,5

+ 220

– 3

– 50

+ 225

+ 540

III …………

+ 3

+ 100

– 3

– 50

+ 150

+ 300

IV ………..

+ 4,5

+ 128

– 3

– 50

+ 208,33

+ 357

V …………

– 3

– 33,33

– 3

– 50

+ 50

+ 33,33

MEDIA .….

+ 2,60

+ 65

– 3

– 50

+ 153,33

+ 230

 

 

Badando al flusso del reddito nel caso mediano (terzo) ed alle sue variazioni di valor capitale, il raddoppiamento nel reddito congiunto al dimezzamento nel saggio dell’interesse doveva produrre l’effetto di un aumento a quattro volte tanto nei valori capitali (+300%). Nella media, essendo il reddito aumentato del 65% ed il saggio dell’interesse diminuito del 50%, i valori capitali aumentarono del 230%. Ma nei casi singoli gli effetti possono essere differentissimi. Vi sono redditi che crescono moltissimo come il secondo, aumentato del 220% perché l’azione dello stato riuscì per lui, più debole fisicamente o più avvantaggiato dalla sicurezza, dalla educazione e dalla viabilità, giovevole in sommo grado.

 

 

Vi sono altri redditi come il quinto, i quali dovettero subire un positivo decremento, a causa, ad es., di una accentuata politica sociale livellatrice dello stato, del 33,33%.[18] Essendo questi redditi variamente cresciuti o scemati, capitalizzati a norma di un dimezzato saggio di interesse, la capitalizzazione da aumenti variabili dal 33,33 al 540%. Non vi è diminuzione di valori capitali; ma questi si sarebbero avuti se, ad ipotesi, nel caso quinto il reddito fosse scemato da 9 a 3; ché, al 6 ed al 3% d’interesse rispettivamente, i valori capitali sarebbero stati di 150 e 100. La diminuzione nel reddito sarebbe stata del 66,66% e nel valore capitale del 33,33%.

 

 

Il risultato descritto nella tabellina esemplificativa è un risultato terminale. Quando l’azione dell’imposta come fattore produttivo si è esaurita, quelli sono i risultati. Ma innanzi che si esaurisca si debbono traversare molte posizioni intermedie. Il fattore «stato» agisce con la regola degli interessi composti; lentissimi dapprima, i suoi effetti si vanno adagio adagio cumulando, sicché alla fine, dopo un certo tempo, di solito lungo, divengono grandiosi. La generazione che venne dopo l’unità d’Italia dal 1860 sin verso il 1898, subì i costi della unificazione, e scarsamente ne godette i frutti, i quali cominciarono a cogliersi dopo il 1900.[19] Nel periodo intermedio della maturazione molto si parla della pressione delle imposte e del loro ammortamento, quale si rileva anche empiricamente dalla diminuzione dei valori capitali (inchiesta agraria, indagini sui prezzi dei terreni, studi preliminari alla nuova catastazione deliberata nel 1886). E questa diminuzione può essere in parte dovuta alla incapacità degli uomini di apprezzare e valutare gli effetti lontani della politica tributaria presente, che pare oppressiva (bilanci di Quintino Sella) ed è invece lungiveggente. Poi, nel periodo di maturazione, è facile scordarsi che tra i fattori dell’incremento dei valori capitali vi sono anche le imposte pazientemente pagate per decenni e concorrenti a creare quella macchina statale, la quale, sebbene imperfetta, è di gran lunga più adatta dei meschini e frazionati meccanismi esistenti prima del 1860 a cooperare al rinnovamento economico del paese.

 

 

12. – Da un altro punto di vista occorre ancora qualificare il risultato sovra descritto. Esso, per necessità di esposizione, si fonda su un confronto assurdo fra ciò che accade in realtà, in regime di imposta assisa secondo il principio economico e ciò che sarebbe accaduto in assenza di imposta. Il confronto è assurdo perché, ripetasi, l’assenza dall’imposta è una ipotesi impossibile a verificarsi. Di fatto, il confronto non si può fare tra l’assenza e l’esistenza dell’imposta, ma tra un più ed un meno di imposta. Esiste una scala di equilibri, i quali sono caratterizzati, dal nostro punto di vista, da una dose maggiore o minore del fattore «imposta» in confronto agli altri fattori «lavoro», «capitale», «organizzazione», ecc. Trattasi, per tentativi successivi, di scoprire quell’equilibrio, in cui la dose di imposta sia la più appropriata. Il tipo di ragionamento adatto a risolvere i problemi degli effetti delle imposte, non è quello che bada al grosso delle imposte esistenti per far fronte ai servizi pubblici pacificamente ammessi; è invece quello che ha riguardo ai margini, alle aggiunte d’imposta che si debbono fare per ottenere un servizio nuovo o una aggiunta ai servizi antichi. Qui nasce la vera discussione; e si disputa se sia più opportuno lasciare ai privati quella data somma di reddito affinché essi possano soddisfare a dati consumi privati, attuali o prospettivi, ovvero assorbirla con l’imposta per soddisfare bisogni pubblici, anch’essi presenti o futuri.

 

 

Qui, ai margini, può innestarsi la teoria, da me svolta nel 1912 e sopra riprodotta nel paragrafo 2, la quale poneva le tre ipotesi dell’uso più, ugualmente o meno fecondo dell’imposta in confronto all’uso che della stessa ricchezza sarebbe stato fatto dai privati. Le soluzioni per i casi di maggiore (a) o di minore (c) fecondità sono quelle già esposte (rispettivamente nei paragrafi 10 e 5). Quella (b) di uguale fecondità è la stessa che nel 1912 erasi assunta come normale (cfr. paragrafo 2). Le cifre numeriche sono arbitrariamente scelte e giovano a risparmiare l’uso di molte parole.

 

 

Sia l’imposta del 20%.
Prima dell’imposta:

α

 

β

γ

1. Ammontare dei redditi

5

5

5

2. Saggio dell’interesse %

5

5

5

3. Valori capitali

100

100

100

Immediatamente dopo l’imposta:

4. Ammontare dell’imposta

1

1

1

5. Ammontare dei redditi ridotti

4

4

4

6. Saggio dell’interesse %

5

5

5

7. Valori capitali

80

80

80

Ad effetti esauriti dell’imposta:

 

8. Ammontare dei redditi nuovi (cifra da confrontare con 1)

8

5

3

9. Ammontare dell’imposta

1.60

1

0.60

10. Ammontare dei redditi netti nuovi

6.40

4

2.40

11. Saggio dell’interesse %

4

5

6

12. Valori capitali

160

80

40

13. Valore capitale ideale dei servigi pubblici ottenuti mercé l’imposta

[40]

[20]

[10]

14. Somma di 12 e 13, da confrontarsi con 3

[200]

[100]

[50]

 

 

 

S’intende che le variazioni nel saggio dell’interesse, sono, come osservai dianzi, uniformi per tutti gli impieghi; mentre le variazioni nei valori capitali indicate nello schema segnano solo una tendenza media, la quale nel caso singolo, applicandosi il saggio d’interesse scemato invariato o cresciuto a redditi diversamente influenzati dall’imposta, può dar luogo a casi concreti variabilissimi. Avendo già fornito una rappresentazione del modo con cui nella realtà il fenomeno variamente si atteggia, rinvio ad essa (sopra paragrafo 11) chi voglia ulteriori sviluppi, che qui sarebbero una superflua esercitazione scolastica.

 

 

Le tre fasi cronologiche del processo indicate nello schema sono la prima puramente ipotetica; la seconda transitoria e la terza stabile. Quella ipotetica raffigura lo stato di fatto che si sarebbe avuto in assenza dell’aggiunta di imposta. Quella provvisoria corrisponde ad una prima fase di adattamento quando la risposta è stata appena prelevata e non ha ancora potuto esercitare alcun effetto, salvo quello della falcidia, sui redditi, rimanendo ancora invariato il saggio dell’interesse. Durante questa fase transitoria si verifica l’ammortamento dell’imposta con riduzione dei valori capitali. La seconda fase dura più o meno a lungo, talvolta decenni, se gli effetti dell’imposta sono lenti e cumulativi nel tempo (cfr. sopra paragrafo 9). La terza fase definitiva, è quella in cui si veggono i vari effetti dell’imposta, che è di fare aumentare notevolmente i redditi netti ed i valori capitali nel caso a, di farli scemare amendue nella stessa proporzione in cui l’imposta subito falcidia i redditi nel caso b e di farli scemare assai di più nel caso c. La capacità più o meno grande degli uomini di prevedere la fase ultima reagisce sulla durata della fase intermedia e sulla importanza delle variazioni dei valori capitali essendo manifesto che, nonostante la temporanea riduzione dei redditi a 4, ove gli uomini prevedessero, nel caso a, il loro successivo aumento a 6,40 ed il rialzo dei valori capitali a 160, mai più i valori capitali cadrebbero ad 80, ma da 100 tenderebbero a spostarsi più o meno rapidamente verso 160. Parimenti nel caso c non si attarderebbero sull’80, ma per la previsione del ribasso dei redditi a 2,40 tenderebbero verso 40. Non fa d’uopo che il mercato sia consapevole del legame fra l’imposta e gli effetti che esso apprezza; basta che veda e preveda gli effetti, affinché il movimento si delinei subito.

 

 

È superfluo avvertire che i casi a, b, c sono casi tipici e che nella realtà si possono dare, come fu già osservato ripetutamente, infinite situazioni intermedie con effetti correlativi. Non è inutile invece avvertire che nel caso b la scelta fra l’uso pubblico e l’uso privato della dose marginale di ricchezza dicesi dubbia perché chi la deve fare è l’uomo «politico» il quale confronta il vantaggio di avere un reddito 5 ed un valore capitale 100 tutto destinato a fini privati con l’altro vantaggio di possedere un reddito 4 ed un capitale 80 destinati a fini privati ed insieme servizi pubblici pel valore annuo 1, privi questi ultimi di valore capitale solo perché non è usanza del mercato capitalizzare i servizi pubblici. Queste due quantità sono equivalenti. A rendere possibile un confronto esatto tra le due situazioni prima e dopo l’imposta (ad effetti esauriti) si sono indicate alcune cifre tra parentesi quadre.

 

 

13. – Pur astenendosi dall’affermare la prevalenza effettuale del caso a su quello b o c e limitando il compito dell’indagine teorica a determinare gli effetti del verificarsi di una qualunque delle tre ipotesi, che lo studioso di finanza assume come dati di fatto ugualmente possibili, è chiaro che la posizione marginale di quei tre casi consente un’ulteriore interessante illazione. Se invero al margine la scelta fra spesa pubblica e spesa privata è dubbia, essendo ambedue ugualmente feconde, non dubbia, per logica necessità, dovette essere la scelta per somme precedentemente devolute ad imposta. L’applicazione del reddito ad imposta è un caso del tipo universale delle applicazioni di ricchezza, le quali sono feconde di rendita sino al margine di convenienza. Se la dose marginale d’imposta dà (caso b) un vantaggio differenziale zero in confronto alla produttività che quella medesima dose avrebbe avuto se altrimenti impiegata – ossia ha una produttività pubblica uguale alla produttività privata – è evidente che la precedente dose d’imposta dava un vantaggio differenziale positivo e quelle ancor precedenti nell’ordine di applicazione un vantaggio differenziale sempre maggiore. Quindi è certo che nel caso b, se la applicazione marginale dell’imposta dovette lasciare invariato il saggio di interesse, le applicazioni precedenti od intramarginali lo dovettero scemare, dando luogo nel complesso con ogni probabilità non solo ad una diminuzione nei valori capitali meno che proporzionale al saggio dell’imposta, ma benanco ad un aumento. A maggior ragione ciò accadde nel caso a, dove già al margine si avvertiva una diminuzione nel saggio dell’interesse; né è escluso che, pur nel caso c, si possa avere una attenuazione fortissima nella tendenza dei valori capitali a ribassare in proporzione maggiore della falcidia fatta subire dall’imposta al reddito, potendosi persino giungere ad un aumento nei valori capitali medesimi.

 

 

Se quest’ultima forse non irrilevante conclusione viene combinata con quella tratta sopra dalla variabilità estrema dei redditi da caso a caso in conseguenza dell’imposta, grandemente si afforza la conclusione finale alla quale ci conducono le precedenti ricerche: esservi una indefinita gamma di effetti prodotti dall’imposta, i quali vanno da abbassamenti notevoli dei valori capitali sino a rialzi probabilmente assai più numerosi e rilevanti. Nelle grandi linee e supponendo un governo anche mediocremente organizzato ed efficace, l’imposta è un fermento che consente la combinazione più produttiva dei fattori economici, gonfia il volume del flusso dei redditi, deprezza i beni presenti in confronto ai beni futuri e fa ribassare il saggio dell’interesse. Essa contribuisce perciò a sollevare il livello generale dei valori capitali, ma questo livello generale è la media di livelli diversi, alcuni dei quali dall’imposta sono spinti assai in su, per il contemporaneo, ribasso generale del saggio dell’interesse e rialzo individuale del reddito al di là del nuovo livello medio dei redditi, mentre altri possono essere spinti in giù, perché il reddito scemò di più, per fatto dell’imposta, di quanto non sia scemato il saggio dell’interesse.

 

 

Su questo mare di valori capitali, continuamente ondulato ed in subbuglio, altre forze agiscono a crescere il tumulto apparente delle onde che portano su e giù i redditi e valori capitali. La mala educazione politica, l’ignoranza, i torbidi sociali rendono imperfetta la macchina di governo; sicché funzionando male e con forti attriti e rilevanti sprechi, alcuni redditi scemano, temporaneamente si contrae il medesimo flusso dei redditi, il saggio dell’interesse aumenta ed i valori capitali si riducono, non in confronto a tempi di assoluta anarchia, ma a quelli di governo ordinato, consapevole, procacciante il vantaggio della collettività. Diventano, in queste epoche di torbidi, più numerosi i casi di deprezzamento di valori capitali e più vasta la distanza tra apprezzamenti e deprezzamenti estremi. Mentre in tempi normali, di reggimento di popolo inteso questo nel senso di ossequio alla legge deliberata dalla maggioranza formatasi in seguito a libera e pubblica discussione sembra debbano diventare rari i casi di deprezzamento dei valori capitali e spesseggiare quelli di apprezzamento dovuti all’imposta. Quale parentela gli apprezzamenti ed i deprezzamenti tributari nei valori capitali ora descritti abbiano colla capitalizzazione della libertà e coll’ammortamento dell’imposta può essere interessante indagare dopoché si sia ben precisato il valore logico delle consuete indagini compiute intorno agli effetti dell’imposta partendo dall’ipotesi del rebus sic stantibus. Sia lecito sperare che lo studio ora condotto intorno gli apprezzamenti e deprezzamenti effettivi non sia parso meno rilevante e meno suscettivo di feconde integrazioni od applicazione di quello corrente intorno ad apprezzamenti o deprezzamenti immaginari.

 

 

 

 

III

 

Problemi particolari

 

14. – Tra i molti problemi particolari, i quali meriterebbero tutti di essere partitamente discussi, alcuni vogliono essere qui rilevati e fra di essi questo appunto del significato del concetto corrente della capitalizzazione della libertà e dell’ammortamento dell’imposta. Il problema è in gran parte di convenzioni che noi possiamo ad arbitrio fare intorno al significato da darsi a certe parole. Se noi, per non cadere in arbitri nuovi, ci teniamo stretti al significato tradizionale, vediamo che le parole «capitalizzazione della libertà dell’imposta» ed «ammortamento dell’imposta» male sì applicano ai fenomeni di variazione nei valori capitali, che abbiamo veduto essere la conseguenza di una imposta «neutra» ovverosia «uniforme e generale sui redditi». Non si può parlare di «capitalizzazione della libertà dell’imposta» poiché il contribuente non fu liberato dall’imposta, ma la pagò; e ciononostante il reddito suo crebbe e, per il scemare del saggio dell’interesse, ancor più crebbero i valori capitali relativi. Né pare conveniente discorrere di «ammortamento dell’imposta» in un campo in cui sono tanto rare le riduzioni di reddito ed ancor più rare le diminuzioni di valori capitali; ed in cui le prime e sovratutto le seconde non sono proporzionate all’ammontare dell’imposta. L’ammortamento dell’imposta parrebbe essere un fatto transitorio del periodo intermedio in cui l’imposta non ha ancora agito sui redditi e sui valori capitali; ma è dubbia la convenienza di adoperare quell’espressione come feci tuttavia, in mancanza di altre parole accettate, nel paragrafo precedente poiché l’ammortamento del periodo intermedio è un fatto destinato a non durare, anzi a non cominciare neppure ad esistere, quando gli uomini chiaramente prevedono la fase terza ed ultima.

 

 

Per non crescere perciò la confusione delle lingue e delle idee in una materia così intricata, io sarei portato a distinguere nettamente, anche nella terminologia usata, fra il caso dell’imposta «neutra» della quale fin qui si parlò ed il caso dell’imposta «particolare» o «speciale» o «parziale» (cfr. sopra paragrafo 4).

 

 

Per chiarezza sarei propenso ad attribuire ai soli effetti della imposta «neutra» la terminologia fin qui usata di «variazioni nei redditi» e di «variazioni nei valori capitali». È una terminologia atta a far risaltare l’idea che gli effetti prodotti dall’imposta neutra sono dello stesso genere di quelli cagionati da un mutamento qualsiasi nell’equilibrio economico precedente e ad escludere l’introdursi in maniera inavvertita dell’idea differentissima che l’aumento dei valori capitali sia dovuto ad una capitalizzazione dell’immunità dell’imposta ed il decremento ad un ammortamento di quel dato ammontare di imposta da cui il contribuente fu colpito.

 

 

Riserverei invece la terminologia tradizionale di «capitalizzazione della Libertà» e di «ammortamento dell’imposta» al caso dell’imposta non neutra o speciale o parziale. E ciò perché di fatto gli effetti dei due tipi d’imposta mi paiono in parte differenti. Dico «in parte» perché non v’è ragione di affermare che l’imposta speciale non produca anche gli effetti medesimi dell’imposta neutra. Anch’essa dà un provento all’erario; e questo provento è impiegato a soddisfare bisogni pubblici alla pari di quello dell’imposta neutra. Perciò tutti gli effetti di «variazioni» nei redditi, nel saggio d’interesse e nei valori capitali derivanti dall’imposta neutra, derivano anche dall’imposta speciale. Con qualche differenza: 1) di misura, essendo probabile che il provento dell’imposta speciale sia meno vistoso di quello dell’imposta generale e quindi meno capace di produrre variazioni sia in un senso sia in un altro; la variazione potendo essere così piccola da riuscire trascurabile; 2) di direzione, essendo probabile che una imposta speciale, neppure rientrante in un sistema di imposte equilibrate tra di loro, abbia carattere di persecuzione contro una classe od un gruppo di contribuenti e si avvicini al tipo dell’imposta – taglia (cfr. sopra paragrafo 6). Quindi è probabile che essa produca effetti del tipo c (diminuzioni di redditi, rialzo nel saggio dell’interesse e diminuzione più che proporzionata dei valori capitali) piuttostochè effetti del tipo a e b (cfr. paragrafo 12).

 

 

Ma oltre questi effetti comuni all’imposta generale o neutra, l’imposta speciale o parziale ne produce di suoi propri. Se noi supponiamo per non complicare la discussione, che gli effetti «generali» dell’imposta speciale – quelli detti sopra – siano nulli, per la trascurabile rilevanza di essa, si può affermare che nulla sia la variazione del valore capitale del reddito colpito dall’imposta in rapporto alla moneta od alle merci in generale. Non si è verificato nessun sollevamento od abbassamento generale dei valori capitali, come sarebbe stato il caso per un’imposta generale. Ma si è verificato uno spostamento del valore capitale del reddito colpito in confronto ai redditi esenti. Se il saggio di interessi era ed è del 5%, se i redditi in generale rimangono fermi a 5 – qui si può fare l’ipotesi del rebus sic stantibus, perché l’imposta di cui si discorre è troppo piccola cosa per esercitare un effetto qualsiasi sul complesso equilibrio economico – ma un solo reddito viene dall’imposta 1 ridotto a 4, questo si capitalizza sempre al 5% e corrisponde ad un valore capitale di 80. Ecco il caso classico dell’ammortamento dell’imposta. Per converso, se tutti i redditi, salvo uno, sono colpiti dall’imposta – sarebbe erroneo aggiungere: se tutti i redditi sono ridotti dall’imposta, potendo invece essere, come vedemmo, rialzati – e se in conseguenza dell’imposta il nuovo saggio di interesse risulta del 4%; e se v’è un solo reddito, di peso irrilevante, il quale sia esente dall’imposta – non giova aggiungere: rimanga invariato, ben potendo darsi ed essendo probabilissimo che anche quel reddito sia, con gli altri, rialzato in conseguenza dell’imposta generalmente pagata questo reddito, che era di 5 prima dell’imposta gravante su altri, e si catalizzava al 5% ossia a 100 ed ora è diventato, grazie all’imposta altrui, di 6 e si capitalizza al 4 per cento, vale attualmente 150. Gli altri redditi che erano di 5, dopo aver pagato 1, sono tornati a 5, per il beneficio diffuso dei servizi pubblici e si capitalizzano al 4 invece che al 5 per cento. Valgono 125 invece di 100. Quest’unico vale 150 invece di 100. La differenza in più di 25 può dirsi raffigurare il caso classico della capitalizzazione della libertà dell’imposta.

 

 

La teoria ora svolta non deve essere interpretata nel senso di un ritorno alla teoria corrente, la quale afferma che solo le imposte speciali e non le generali danno luogo a capitalizzazioni ed ammortamenti. Tutto il discorso fin qui fatto protesterebbe contro siffatta frettolosa interpretazione. L’unica ragione per cui ritengo conveniente di riservare i nomi di «ammortamento dell’imposta» e di «capitalizzazione della libertà dell’imposta» al caso dell’imposta speciale è di chiarificazione terminologica. Amendue i tipi d’imposta, generale e speciale, producono variazioni nei valori capitali. Ma il primo tipo, di imposta generale, produce quegli effetti perché la sua introduzione non lascia invariato l’equilibrio economico generale; e le variazioni nei valori capitali sono conseguenza della premesse del rebus sic non stantibus. Mentre il secondo tipo, dell’imposta speciale, tende a produrre, in grado tanto più rilevante quanto più è accentuata la sua parzialità e quindi irrilevante il suo peso, variazioni nei valori capitali determinate dalla premessa del rebus sic stantibus. Le prime variazioni sono sovratutto nei valori capitali in genere con la moneta o con le merci. Le seconde sono sovratutto variazioni in alcuni valori capitali in confronto ad altri valori capitali di beni fecondi di reddito. I due generi di variazioni sono sufficientemente distinti perché sia giustificato l’uso di due terminologie differenti, quella di «variazioni nei valori capitali» per indicare il primo genere, e quelle classiche di «capitalizzazione della libertà» e di «ammortamento» per indicare il secondo genere. Nulla vieta, a cui non piaccia la terminologia proposta, di invertirla o di proporne addirittura una nuova e tutta diversa. Importa soltanto che siano mantenute distinte le idee, a cui le terminologie proposte si riferiscono.

 

 

15. – Tra i casi estremi di imposta generale e di imposta speciale, vi sono casi numerosi intermedi, in cui la specialità dell’imposta è così poco rilevante da produrre effetti simili a quelli della imposta generale e tali da controbilanciare e perfino da annullare gli effetti che sarebbero dovuti alla sua specialità. Un esempio significante è quello dell’aumento nel saggio dell’imposta di ricchezza mobile dal 13,20 al 20% decretato in Italia nel 1894. Quell’aumento in apparenza fu generale; in realtà, per il congegno della discriminazione sui redditi, colpì in particolarissimo modo i redditi dei portatori di titoli di debito pubblico, a carico di cui soltanto – l’aggiunta dei titoli di debito comunale e provinciale e delle società sussidiate dagli enti pubblici praticamente aveva scarso peso – l’aliquota fu aumentata dal 13,20 al 20%, mentre gli altri redditi di capitale la videro crescere solo dal 13,20 al 15%. Per la differenziale del 5% l’imposta fu dunque «parziale», anzi creata «in odio» dei portatori dei titoli di debito pubblico. Secondo la teoria corrente, interpretata alla lettera ed assunta come forza unica operante sui valori capitali, il corso del consolidato 5% lordo avrebbero dovuto ridursi di una somma capitale corrispondente alla diminuzione nel reddito di L. 0,25 dovuto alla parte speciale dell’aumento d’imposta, capitalizzato al saggio corrente d’interesse che allora in cifra tonda poteva valutarsi al 5%. Poteva dunque pronosticarsi un ribasso nei corsi del consolidato di circa 5 lire. Invece i corsi verificatisi prima e dopo il 1894 furono i seguenti:[20]

 

 


Anno


Corso annuo


Rendita netta

Saggio di frutto e d’interesse

 

1891 ……………..

93,41

4,34

4,65

1892 ……………..

94,42

4,34

4,60

1893 ……………..

94,94

4,34

4,57

1894 ……………..

88,28

4,34

4,92

1895 ……………..

93,18

4

4,29

1896 ……………..

93,20

4

4,29

1897 ……………..

97,37

4

4,11

1898 ……………..

99,49

4

4,02

1899 …………….

100,81

4

3,97

1900 …………….

100,01

4

4

 

 

È chiaro che l’imposta «speciale» non era qui tanto speciale o tanto odiosa quanto sarebbe stato necessario per produrre l’effetto dell’ammortamento. Essa, sebbene ristretta ai soli portatori di titoli di debito pubblico, era però abbastanza feconda di entrata cospicua per il tesoro, da poter esercitate una influenza rilevante sui servizi pubblici e sull’equilibrio finanziario generale dello stato. Essa poteva inoltre essere considerata come un contrappeso ad altre imposte le quali gravavano su altre classi di contribuenti; sicché non senza ragione si potrebbe affermare essere i caratteri di generalità soverchianti su quelli di specialità. Cadde, per di più, in un momento in cui l’opera sua fu singolarmente feconda. Contribuì a ristaurare il pareggio del bilancio. Ristabilì il credito dello stato che era singolarmente scosso. Permise che lo stato non sospendesse alcuni servizi pubblici essenziali alla vita del paese. Fu un fermento eccitatore di sentimenti favorevoli alla solidità politica e finanziaria dello stato. Perciò il saggio d’interesse che prima cresceva e tendeva al 5%, dopo, per quella sorta di impieghi pubblici, cominciò a scemare e gradatamente si ridusse al 4 per cento. Non fu l’imposta la sola cagione del ribasso; ma, per quanto empiricamente se ne possa giudicare, ne fu reputata la principale cagione da molti osservatori sennati. Epperciò, come dice la teoria esposta in questa memoria, l’imposta, avendo provocato un ribasso nel saggio dell’interesse, cagionò non un ribasso di 5 lire, ma un rialzo immediato di altrettanto nel valore capitale del consolidato colpito, rialzo che col tempo e con l’intervenire di altre circostanze, vieppiù crebbe.

 

 

16. – Degno di rilievo è altresì il comportarsi dei valori capitali, a seconda che l’imposta è ad aliquota costante o variabile. Una osservazione rimarchevole fece in questo proposito il Griziotti, quando osservò che l’imposta progressiva sul reddito lascia invariata la spinta al risparmio e alle precedenti condizioni di interesse solo presso i capitalisti, che hanno un reddito inferiore al minimo imponibile. Gli altri possono essere indotti a far emigrare o trattenere i loro capitali all’estero ed i risparmiatori marginali preferiranno di destinare i loro redditi alla soddisfazione di bisogni immediati. Se l’accumulazione dei capitalisti esenti non bilancia la minor produzione od introduzione di risparmio da parte dei colpiti, il saggio dell’interesse renderà a salire. Salirà tanto più, quanto più nel paese il capitale è concentrato nelle mani dei ricchi gravemente colpiti. Sicché, essendo generale l’influenza del nuovo saggio d’interesse, scemano di valore tutti i capitali vincolati, compresi quelli appartenenti ai capitalisti esenti. Scemano nella stessa misura i capitali colpiti e quelli esenti, sebbene soltanto il reddito dei primi sia diminuito.[21] Il qual fatto, si può osservare, deriva da una circostanza degna di nota e finora non messa abbastanza in luce: ed è che i redditi (cresciuti, non toccati o scemati dall’imposta) si capitalizzano al nuovo saggio di interesse (variato dall’imposta, come sopra) ora al netto ed ora al lordo dell’imposta, che formalmente li percuote. L’imposta è ad aliquota costante e colpisce i redditi nella stessa misura aritmetica da chiunque siano goduti? Il mercato non capitalizza 5, ma 5–1 ossia 4. Questo è il succo di verità che si contiene nella teoria dell’universale ammortamento dell’imposta generale; ma è verità formale, perché tanto il reddito lordo di 5 quanto il saggio di interesse possono essere uguali, maggiori o minori di quelli che sarebbero stati senza l’imposta. A parte i veri effetti dell’imposta, che di questa considerazione non sono toccati, sta di fatto che il mercato capitalizza i redditi, qualunque ne sia l’ammontare e comunque questo sia influenzato dall’imposta, al netto nel caso di imposte ad aliquota costante (per lo più imposte reali).

 

 

Se l’imposta è ad aliquota variabile, come sono per lo più le imposte personali, il mercato si comporta in confronto ai beni fecondi di reddito nella stessa maniera come di fronte ad una casa o fondo rustico gravato da ipoteca o canone fondiario passivo. Capitalizza i redditi al lordo. Siano tre fondi:

 

 

Reddito

netto

prima della

imposta

o gravame

Ammontare della imposta o gravame

Reddito netto da ogni peso

Saggio di interesse

Valore capitale di mercato

A, gravato di imposta sui terreni

5.000

1.000

4.000

5%

80.000

B, gravato di interesse ipotecario o canone fondiario

5.000

1.000

4.000

5%

100.000

C, a causa di cui il contribuente è oggetto ad imposta personale

5.000

1.000

4.000

5%

100.000

 

 

Nel caso A, il mercato valuta in 80.000 il valor capitale del fondo, perché il suo reddito oggettivamente, per tutti i possibili venditori ed acquirenti, è ridotto a 4.000 lire. Nel caso B, il mercato applica il saggio di interesse non a 4.000, ma a 5.000 lire di reddito, perché l’onere di 1.000 lire è un accidente, che può esser fatto scomparire dal proprietario, ove il voglia o possa, con il rimborso della somma mutuata od il riscatto del canone. Finché il gravame dura, l’acquirente che ha stipulato il prezzo in L. 100.000, versa però al venditore solo L. 80.000 ove si accolli il gravame. Questa è la consuetudine voluta dal buon senso.

 

 

Nel caso C, il mercato applica il saggio di interesse al reddito di 5.000 lire, perché l’imposta di 1.000 lire non è inerente al bene, né lo segue presso tutti i possessori, ma varia da caso a caso ed è nulla, piccola o rilevante a seconda delle condizioni personali del contribuente. Perciò il mercato capitalizza i redditi lordi.

 

 

Questa, come dissi, è la forma tecnica, con cui si compie sul mercato il processo di capitalizzazione. Naturalmente il mercato assume gli ammontari di reddito, netti o lordi, e i saggi di interesse quali effettivamente esistono. Ed essi hanno già subito le influenze dell’imposta.

 

 

Questa, anche quando è ad aliquota variabile, può essere, già fu osservato, neutra ovvero parziale. È neutra quando la scala delle progressività è congegnata in maniera tale che il peso dell’imposta viene effettivamente ad essere eguagliato tra contribuenti diversamente provveduti; quando, per la esenzione del risparmio, la graduazione non muta la bilancia tra il consumo presente ed il risparmio (cfr. paragrafo 4). Un’imposta di questo genere ha grande probabilità (veggansi le osservazioni svolte nei paragrafi da 6 a 13 che qui si richiamano) di essere feconda di un aumento nel flusso dei redditi e di una diminuzione nel saggio dell’interesse e quindi di provocare, con tutte le riserve già fatte per i casi singoli, un rialzo generale nei valori capitali, sia dei beni colpiti che di quelli esenti. Il contrario effetto si verifica quando la scala della progressività è congegnata in modo da dare all’imposta fisonomia «parziale» od «odiosa»: riduzione dei redditi colpiti, forse anche dei redditi esenti, rialzo del saggio dell’interesse e riduzione di valori capitali. Empiricamente, la teoria ora svolta è un’altra maniera di esprimere il vecchio canone tramandato dalla esperienza dei secoli che le imposte vogliono essere temperate; temperate anche nell’applicazione del criterio della progressività. L’economista non può che dare il suo consenso alla norma di condotta pratica che recentemente l’Edgevorth riassumeva così, approvando i metodi seguiti in Inghilterra:

 

 

«Noi non abbiamo, in verità, coll’astenerci compiutamente dalla progressività, schivata la difficoltà di determinare il giusto mezzo; ma noi siamo stati sensibili ai pericoli che minacciano l’opposto estremo. Noi ci siamo avanzati con cautela e con successivi tentativi sul piano inclinato su cui sarebbe stato fatale precipitarsi».[22]

 

 

Norma generalissima in verità, ma sufficiente per orientare lo statista giudizioso.

 

 

17. – Lo statista sarebbe vieppiù indotto ad osservare la norma della temperanza ove analizzasse gli effetti diversi che una imposta ad aliquote variabili produce allorquando essa è più o meno feconda di risultati utili dell’uso privato della medesima ricchezza; essendo probabile che un’imposta a tipo neutro venga impiegata ad usi pubblici fecondi, ovvero un’imposta a tipo parziale sia dannosamente usata.

 

 

Nel quadro seguente si osservano gli effetti dei due tipi d’imposta facendo l’ipotesi di tre redditi, minimo, medio, e grande, di redditi lordi i quali aumentano o diminuiscono e di saggi di interesse i quali scemano o crescono a seconda si applichi la imposta a tipo neutro dell’1,5 e 10% ovvero quella parziale del 0,10 e 30 per cento. Si parla di «imposta», ma la parola si intende equivalente a «sistema d’imposte» gravanti le tre specie di redditi:

 

 

Redditi e valori capitali prima dell’imposta

 

A B C
Redditi …………………………………. 500 5.000 50.000
Saggio d’interesse % …………… 5 5 5
Valori capitali ……………………. 10.000 100.000 1.000.000

 

 

Redditi e valori capitali dopo l’imposta

 

Imposta neutra miglioratrice

Imposta parziale peggioratrice

A

B

C

A

B

C

Saggio dell’imposta %

1

5

10

0

10

30

Capitali vincolati:

Redditi lordi

600

6.000

60.000

450

4.500

45.000

Saggio d’int. %

4

4

4

6

6

6

Valori capitali

 

(migliaia lire)

15

150

1500

7.5

75

750

Ammontare dell’imposta

6

300

6.000

450

13.500

Redditi netti

594

5.700

54.000

450

4.050

31.500

Saggio di frutto sui valori capitali nuovi effettivi %

3,96

3,80

3,60

6

5,40

4,20

Id. id. sui capitali vecchi potenziali %

5,94

5,70

5,40

4,50

4,05

3,15

Capitali disponibili:

 

 

Valori capitali

(migliaia lire)

10

100

1.000

10

100

1.000

Saggio d’int. %

4

4

4

6

6

6

Redditi lordi

400

4.000

40.000

600

6.000

60.000

Ammontare dell’imposta

4

200

4.000

600

18.000

Redditi netti

396

3.800

36.000

600

5.400

42.000

Saggio di frutto %

3,96

3,80

3,60

6

5,40

4,20

 

 

 

Gli effetti si considerano separatamente per i capitali «vincolati», ossia già impiegati al momento dell’introduzione dell’imposta in terreni, in case, in imprese industriali, in mutui a lunga scadenza, e per i capitali «disponibili», esistenti in moneta contante, in depositi o mutui a vista od a breve scadenza od in riporti di borsa. La distinzione non è sempre nettissima, potendo darsi impieghi a scadenze varie, non brevissime e non lunghe. Soltanto i depositi a vista od i tesori in contanti si sottraggono teoricamente alla capitalizzazione dell’imposta; per gli altri la capitalizzazione avviene entro i limiti di tempo per cui dura il vincolo. Né v’è alcun impiego, il quale possa dirsi davvero vincolato in perpetuo; poiché il trascorrere del tempo consente alla lunga l’ammortamento di ogni capitale, anche il più legato alla gleba e ridà libertà di movimento al suo possessore. Ma i due casi del vincolo perpetuo e della disponibilità assoluta giovano a fissare le idee; ed agevolmente possono essere calcolate le opportune soluzioni per le situazioni intermedie.

 

 

Interessano specialmente i seguenti rilievi allo schema:

 

 

a)    L’imposta neutra cresce la materia imponibile: redditi e valori capitali; L’imposta parziale la scema.

 

b)    L’imposta neutra scema bensì i saggi di frutto sui valori capitali quali sono cresciuti dopo l’imposta, più per i ricchi che per i poveri, ma migliora il saggio di frutto (5,94, 5,70 e 5,60) per tutti i contribuenti in confronto al saggio di frutto (5%) che si sarebbe avuto senza l’imposta, sui valori capitali preesistenti. Il contribuente più ricco ricavò solo il 3,60% di frutto sul capitale di L. 1.500.000 ora da lui posseduto; ma che monta quando quel 3,60% equivale ad un 5,40% sul capitale di 1.000.000 che in assenza dell’imposta avrebbe percepito? La qual verità non è forse da lui nettamente saputa; ma è sentita per conseguenza della sicurezza, della facilità e larghezza degli investimenti e della abbondanza dei redditi netti di cui gode. Il contrario accade nel caso dell’imposta parziale. Il ricco vede dal 5% scemare il suo saggio di frutto al 4,20% in rapporto allo scemato capitale di L. 750.000 da lui ora posseduto ed al 3,15% in rapporto al capitale maggiore di 1 milione di lire che sarebbe da lui stato posseduto senza l’imposta. Sicché egli si scoraggia. Ma non ne trae giovamento il povero; il quale, se in apparenza gode un frutto del 6% netto da imposte sul suo capitale, vede questo ridursi da 10.000 a 7.500 lire ed il saggio di frutto sul capitale potenziale suo al 4,50 per cento. Anche se egli non sa rimontare dagli effetti alla causa, sente la pressione del suo reddito scemato da 500 a 450 lire; e le falcidie gravanti il reddito del ricco gli paiono insufficienti in confronto alla sua miseria. La forza distruttrice dell’imposta parziale cresce col tempo: l’invidia e l’odio essendo passioni le quali via via alimentano se stesse fino alla esasperazione.

 

c)    Ambi i tipi d’imposta tendono a spezzare i patrimoni ed a divulgare le fortune; poiché giova di più avere 100 patrimoni da 15.000 fruttiferi del 3,96% che uno fruttifero del 3,60 percento. Ma, come si osservò dianzi, là dove l’imposta è neutra tutte le classi continuano ad avere interesse crescente a produrre redditi ed a formare capitali; sebbene, una volta formatili, abbiano interesse a spezzarli. Sicché la democratizzazione delle fortune avviene in un ambiente di prosperità crescente. Mentre invece il livellamento operato dall’imposta parziale procede in una società a miseria crescente. Fanno il deserto della miseria e proclamano questa essere democrazia. Le fortune si spezzano nel primo caso; ma, poiché cresce la materia imponibile, bastano e forse avanzano le aliquote antiche dell’1,5 e 10% a fronteggiare il pubblico fabbisogno. Si spezzano altresì col tipo dell’imposta parziale, ma poiché la materia imponibile scema, le aliquote iniziali del 0,10 e 30% più non sono sufficienti ed occorre sovratutto crescere quelle che colpiscono le fortune medie od istituire imposte sulle fortune minori, le sole le quali, per il frazionamento delle grandi fortune, sono fiscalmente produttive. Sicché è vana la speranza dei poveri di sfuggire al tributo, rigettandolo interamente sul ricco.

 

d)    Ma forse gli effetti più rilevanti si riscontrano nel capitolo dei capitali disponibili. Qui, appunto perché si tratta di depositi a vista o di tesori, l’imposta non produce variazioni nei valori capitali in nessun caso. Ma poiché il saggio d’interesse varia dal 5 al 4 od al 6 per cento nei due tipi d’imposta, i redditi lordi e netti scemano sempre e notevolmente nel caso dell’imposta neri tra, e rialzano – salvo per i redditi netti dei maggiori contribuenti – nel caso dell’imposta parziale. Precisamente l’opposto di quel che accade per i capitali vincolati.

 

e)    Il che dimostra che al contribuente conviene vincolare i capitali quando si trova dinnanzi all’imposta neutra e tenerli disponibili se è sotto la minaccia dell’imposta parziale. La prima imposta incoraggia gli investimenti in industrie, in costruzioni, in miglioramenti fecondi; la seconda spinge alla tesaurizzazione ed agli impieghi provvisori, facilmente liquidabili, puramente speculativi. I risparmiatori nel primo caso non hanno paure, si fissano al suolo, si rendono visibili al fisco ed offrono a questo ottima ed ampia materia imponibile. Nel secondo caso rabbrividiscono ad ogni stormir di foglie, si tengono sempre pronti alla fuga, prediligono le forme cambiarie di investimento, si fanno piccoli e prendono il colore, non la sostanza dell’ambiente per nascondersi agli occhi del fisco.[23]

 

 

18. – Ma l’analisi degli effetti dei due tipi d’imposta sul capitale esistente (vincolato o disponibile) è per se stesso di ben scarsa importanza. Il capitale esistente può, fuggire all’estero, può lasciarsi consumare dal tempo senza ricostituirsi; ma deve per lo più soggiacere alla percussione dell’imposta. Il contribuente non ha interesse a distruggere il proprio reddito, solo per non pagarne una parte al fisco. Può invece astenersi dal formare nuovi risparmi, dal crescere il proprio reddito. A questa stregua dell’influenza sul nuovo risparmio, si saggia sovratutto e direi esclusivamente la bontà di un qualunque sistema tributario. Il legislatore può escogitare tormenti e catene per i contribuenti che occultano od esportano i capitali esistenti ed i suoi sforzi possono anche essere fortunati. Ma egli è impotente contro chi rifiuta di diventare o di continuare ad essere risparmiatore. Qui è lo scoglio su cui si infrangono i tentativi dei governi comunistici ed espropriatori. Questa è la rupe contro cui inutilmente cozzano i legislatori che vogliono istituire imposte parziali ed odiose.

 

 

Nello schema seguente si cercò di delineare le conseguenze che avrebbero sul nuovo risparmio i due tipi descritti d’imposta. La ipotesi da cui si partì pare ragionevole: ed è che l’ammontare del risparmio sia una funzione crescente dell’ammontare del reddito. Poiché, senza l’imposta, i redditi sarebbero di 500, 5.000 e 50.000 lire, si suppose che i percipienti avrebbero risparmiato rispettivamente il 5, il 10 ed il 30% del rispettivo ammontare. Crescendo, coll’imposta neutra, i redditi netti a 594, 5.700 e 54.000 lire, si suppone che le quote rispettivamente risparmiate crescano del pari alquanto, al 6, 12 e 35%. Scemando, coll’imposta parziale, i redditi netti a 450, 4.050 e 31.500 lire, fu supposto che le quote risparmiate diminuiscano rispettivamente, con depressione più marcata, per la notevole diminuzione del margine disponibile, al 4, 8 e 20%. Le ipotesi sono empiriche, fatte a scopo esemplificativo; ma si può fondatamente asserire che esse rappresentino, se non la realtà, la tendenza alla realtà e possano servire di fondamento accettabile per le conclusioni di indole generale che se ne ricaveranno.

 

 

Veggansi ora i risparmi fatti annualmente, su questa base, dai tre contribuenti A, B e C, nei due casi tipici d’imposta già esemplificati nella precedente tabella. Nei calcoli, per evitare frazioni troppo piccole, si operò qualche leggero arrotondamento:

 

 

Risparmi annui nuovi, prima dell’imposta:

 

 

A

B

C

Redditi netti

500

5.000

50.000

Proporzione del risparmio %

5

10

30

Ammontare del risparmio

25

500

15.000

 

Risparmi annui nuovi, dopo l’imposta:

 

 

Imposta

neutra miglioratrice

Imposta parziale peggioratrice

 

A

B

C

A

B

C

 

 

Redditi netti

594

5.700

54.000

450

4.050

31.500

Proporzione del risparmio %

6

12

35

4

8

20

Ammontare del risparmio

36

700

19.000

18

325

6.300

Saggio d’int. %

4

4

4

6

6

6

Reddito lordo del risparmio

1,44

28

760

1,08

19,50

378

Saggio della imposta %

1

5

10

10

30

Ammontare della imposta

0,01

1,40

76

1,95

113,40

Reddito netto

1,43

26,60

674

1,08

17,55

264,60

Saggio di frutto sul risparmio effettivo

3,96

3,80

3,60

6

5,40

4,20

Saggio del risparmio potenziale che si sarebbe avuto in assenza d’imposta %

5,70

5,32

4,49

4,32

3,51

1,76

 

 

 

L’imposta neutra, crescendo i redditi netti e il nuovo risparmio: primo fa sì che l’erario alla lunga incassi di più di quanto non ottiene con l’imposta parziale; secondo lascia a tutti i contribuenti redditi netti, dopo, pagata l’imposta, notevolmente maggiori; terzo consente che il saggio di frutto dei risparmi effettivamente fatti sia notevolmente minore che non nel caso della imposta parziale. Il che vuol dire che i contribuenti sono spinti ad una maggiore produzione di risparmio e possono quindi contentarsi, pur godendo redditi molto maggiori, di un saggio di interesse minore – 4 invece che 6% – con vantaggio degli imprenditori costretti a cercare capitali a prestito; quarto e contemporaneamente fa godere ai contribuenti minimi e medi un saggio di frutto superiore a quello che avrebbero avuto senza l’imposta, falcidiando solo il saggio di frutto dei contribuenti massimi, non tuttavia in misura perniciosa. Invece l’imposta parziale riduce il saggio di frutto sul risparmio potenziale per tutti i contribuenti e per tutti riduce lo stimolo alla capitalizzazione. Scarso reddito, scemato risparmio, scarso frutto del risparmio, sono tre anelli di una stessa catena, che spinge la società economica verso l’immiserimento progressivo.

 

 

19. – Una applicazione interessante del principio posto sopra (paragrafo 16) che nelle imposte ad aliquota costante il reddito si capitalizza al netto, mentre nelle imposte ad aliquota variabile il reddito si capitalizza al lordo, si ha nel passaggio dall’un sistema all’altro di aliquota. Giova a questo proposito analizzare gli effetti di uno spediente che fu altra volta adoperato e nuovamente si propone per facilitare il passaggio dal metodo dell’aliquota costante a quello dell’aliquota variabile. Voglio accennare al riscatto obbligatorio o facoltativo delle vecchie imposte reali, riscatto voluto sia per fornire un’entrata straordinaria allo stato, sia per facilitare la istituzione di nuove imposte sul reddito o sul patrimonio a tipo personale.[24]

 

 

Per sfrondare il problema da tutti gli elementi non pertinenti strettamente al punto qui discusso suppongo viva ed operante la clausola del rebus sic stantibus; e facendo astrazione dagli effetti che in vario senso può avere l’uso pubblico del provento dell’imposta, suppongo che questo non vari né l’ammontare dei redditi colpiti né il saggio dell’interesse. L’unica circostanza differenziale da prendere in considerazione sia questa: che nell’un caso l’imposta incide sul contribuente colpito (A) e nell’altro intieramente si trasferisce da questo su altra persona (B).

 

 

L’imposta A può essere quella sui terreni agricoli marginali, ovvero l’altra sui fabbricati in una città non progressiva o nei quartieri edilizi privilegiati di una città progressiva, ovvero ancora quella sugli interessi di mutui o sui redditi di imprese commerciali ed industriali in situazioni in cui il trasferimento non sia possibile.

 

 

L’imposta B può essere la fondiaria sui terreni agricoli marginali, ovvero l’altra sui fabbricati nei quartieri non privilegiati (periferici) di una città progressiva, ovvero anche in diverse situazioni l’imposta mobiliare. Numerose situazioni intermedie si possono dare tra A e B, con soluzioni pure intermedie. L’imposta sia del 20% del reddito, il saggio dell’interesse sia del 5% e questo rimanga invariato, per la clausola del rebus sic stantibus, dopo l’imposta. Lo schema seguente mi pare atto a rappresentare la successione degli avvenimenti.

 

 

A

 

B

1. Redditi prima dell’imposta……………………………………………..

5.000

5.000

2. Saggio dell’interesse %………………………………………………………….

5

5

3. Valori capitali prima dell’imposta………………………………………

100.000

100.000

4. Imposta………………………………………………………………….

1.000

1.000

5. Ammontare di cui diminuisce il reddito in conseguenza dell’imposta…………………………………………………………………

1.000

6. Redditi netti dopo l’imposta……………………………………………

4.000

5.000

7. Valori capitali dopo l’imposta………………………………………….

80.000

100.000

8. Prezzo di riscatto dell’imposta di 1.000 lire pagato dai contribuenti al 5 %……………………………………………………………………………………..

20.000

20.000

9. Redditi netti subito dopo il riscatto……………………………………

5.000

6.000

10. Valori capitali id. id……………………………………………………

100.000

120.000

11. Costo capitale dei fabbricati o delle imprese o dei risparmi nuovi atti a fare concorrenza ai capitali già vincolati al momento del riscatto ………………………………………………………………………. 100.000
12. Reddito di cui si possono contentare i capitali nuovi …………………………………………………………………………………….. 5.000
13. Redditi netti definitivi dopo il riscatto e dopo divenuta attiva la concorrenza dei nuovi risparmi…………………………………………..

5.000

5.000

14. Valori capitali definitivi id. id………………………………………….

100.000

100.000

15. Perdita subita dai contribuenti in conseguenza del riscatto………

20.000

 

 

Se per parafrasare l’argomentazione, noi supponiamo che A sia una casa centrale, in cui il fitto di lire 5.000 sia il massimo che il proprietario può ottenere, con e senza l’imposta, data la sua situazione privilegiata e B sia una casa periferica in cui il fitto è adeguato al costo di produzione di nuove case nelle vicinanze, noi vediamo che l’imposta 1.000 non è trasferita nel caso A, il cui proprietario già otteneva il massimo, sicché il reddito netto scema a 4.000; mentre è intieramente trasferita nel caso B, sicché il fitto cresce da 5.000 a 6.000 e, sotto detrazione di 1.000 lire d’imposta, torna a dar luogo al reddito netto di 5.000. Le due case, dopo l’imposta, si capitalizzano in 80.000 e 100.000 rispettivamente. Il proprietario di A perde 20.000, quello di B non perde nulla. Se ora si fa l’operazione di riscatto, apparentemente lo stato si comporta in modo equo, condonando ad amendue il pagamento dell’imposta annua perpetua di lire 1.000 e chiedendo il prezzo di riscatto di L. 20.000. In un primo momento il reddito netto cresce di 1.000 per amendue, a 5.000 per A ed a 6.000 per B; ed i rispettivi valori capitali a 100.000 e 120.000. Né l’uno né l’altro ha perso alcunché ed amendue si trovano in una situazione rispettivamente invariata.

 

 

Ma il processo non si ferma a questo punto; ché le case nuove, alla periferia, continuano a fabbricarsi all’antico costo di lire 100.000; e poiché il saggio dell’interesse è rimasto al 5 per cento, i costruttori si possono contentare di un reddito netto di lire 5.000. Le nuove imposte, di cui lo stato avrà bisogno per far fronte all’incremento delle spese pubbliche sono a tipo personale, ad aliquota variabile; e la capitalizzazione di esse non si fa sul netto ma sul lordo; e quindi d’or innanzi L. 5.000 di reddito annuo valgono in capitale lire 100.000, anche se il loro percettore dovrà pagare un’imposta parziale variabile a seconda delle sue particolari condizioni. Quindi le case nuove del costo di lire 100.000 che si possono affittare al prezzo annuo di lire 5.000 fanno concorrenza alle analoghe case periferiche (B). Il fitto di queste non può sostenersi a lire 6.000, ma deve cadere a 5.000; ed il valore capitale deve discendere nuovamente a 100.000 lire. Ecco che il proprietario di B, il quale aveva sborsato il prezzo di riscatto di lire 20.000 nella speranza di avere, per il cessato pagamento dell’imposta, un aumento di reddito di lire 1.000, si vede sfumare tra mano l’incremento di reddito e perde il capitale sborsato. Da tal sciagura rimane esente il proprietario di A, il quale non era stato prima in grado di crescere il suo reddito oltre 1.000 quando era stato colpito dall’imposta 1.000, perché già aveva toccato il massimo consentito dalla sua situazione monopolistica; ne v’è ragione che dopo rinunci al fitto di 5.000 lire, il quale continua per lui ad essere il massimo reddito ottenibile e perciò quello effettivamente ottenuto. La perdita in valor capitale per B e l’alterazione nei rapporti tra A e B non si sarebbero verificate se il riscatto non fosse avvenuto e se lo stato avesse seguitato a prelevare sulle case nuove costruende l’imposta reale di 1.000 lire.

 

 

Pare perciò di poter concludere validamente che, fatta l’ipotesi del rebus sic stantibus, l’operazione del riscatto non rende ossequio al canone dell’uguaglianza. Il riscatto produce conseguenze scorrette se applicato a B; e pare applicabile solo ad A. Se noi supponiamo invero abolite le imposte reali per tutti i contribuenti e reso obbligatorio il riscatto solo per i casi del tipo A, noi otteniamo i risultati seguenti (dove si rinvia, per le linee da 1 a 7, allo schema precedente):

 

 

A

 

B

8. Prezzo di riscatto dell’imposta di 1.000 lire pagata dai contribuenti al 5% ……………………………………………………………………….

20.000

9. Redditi subito dopo il riscatto …………………………………………

5.000

6.000

10. Valori capitali ………………………………………………………….

100.000

120.000

11. Costo capitale dei fabbricati nuovi atti a far concorrenza ai fabbricati già costrutti al momento del riscatto ………………….100.000

12. Reddito di cui si possono contentare i fabbricati nuovi…….5.000

13. Redditi netti definitivi dopo il riscatto e dopo divenuta attiva la concorrenza dei nuovi fabbricati ………………………………………..

5.000

5.000

14. Valore capitali definitivi c.s. …………………………………………

100.000

100.000

15. Perdita subita o guadagno ottenuto dai contribuenti in conseguenza del riscatto ………………………………………………..

 

 

Ragione vorrebbe perciò che l’abolizione delle imposte reali vigenti fosse generale e l’obbligo del riscatto fosse limitato ai casi A. Non è compito di questa nota indagare se, entro questi limiti, l’operazione del riscatto sia conveniente per lo stato e possibile praticamente, a causa dell’arbitrio insito nel giudizio di separazione tra i casi A ed i B. Sembra dubbia la possibilità di trovare periti atti a giudicare con sicura coscienza un problema così arduo teoricamente e così intricato in concreto. Ma è interessante rilevare come questa difficoltà, fin qui non avvertita in modo preciso, sia stata forse lo scoglio inconsapevole contro cui si sono infranti i tentativi di riscatto non strettamente limitato ai casi del tipo A o ad essi vicinissimi.

 

 

Quale sia il processo che si verificherebbe quando non si supponesse valida la clausola del rebus sic stantibus, non è agevole dire. Tutte le numerose circostanze che nel decorso della presente nota furono esaminate e si vede essere feconde di risultanze svariate in sensi diversi dovrebbero infatti ad una ad una essere riprese in esame per esaminarne le interferenze con le due ipotesi, A e B, dell’incidenza e traslazione dell’imposta. Campo che si annuncia fecondo di illazioni forse impensate e che gioverebbe perciò esplorare a fondo. Per ora mi basti averlo additato, e mi sia consentito di affermare la necessità di distinguere, anche fatta la premessa del rebus sic non stantibus, attentamente i casi A dai casi B nel giudicare degli effetti dell’operazione di riscatto.

 

 

20. – L’imposta sul reddito può prendere la forma di una imposta repartita in ragione del valore capitale da cui il reddito deriva o che al reddito corrisponde. Non si vuole qui studiare compiutamente il problema dell’ammortamento delle imposte così repartite; ma solo di considerare, in tal proposito, il diverso comportamento dell’imposta a seconda che si assuma, a base di ripartizione, il valore nominale ovvero il valore corrente del capitale tassato.

 

 

Allo scopo di non complicare l’argomentazione, supponiamo: – valida la premessa del rebus sic stantibus – generale l’imposta – percossi i capitali di qualunque specie, fruttiferi ed infruttiferi, vincolati e disponibili, antichi e nuovi. Per brevità si tacciono le correzioni – del resto agevoli a calcolarsi – derivanti dai diversi possibili scostamenti dall’ipotesi fatta.

 

 

Facciasi prima il caso dei redditi fissi. Sia un reddito annuo perpetuo di 5 e sia del 5 per cento il saggio corrente di interesse. Quest’annualità di reddito, ove non fosse decurtata dall’imposta avrebbe un valore capitale di 100.

 

 

Se il valor capitale percosso è quello nominale, la capitalizzazione del reddito avviene in base alla formula:

 

 

[1] C = (r – t) x 100

 

 

dove C è il valor capitale corrente del titolo

 

r è il reddito annuo perpetuo del titolo

 

t è l’imposta annua perpetua gravante sul titolo

 

i è il saggio corrente dell’interesse per ogni 100 lire.

 

 

Se facciamo r = i = 5 (per ogni cento lire), e diamo successivamente a t i valori 0, 1, 2, 3, 4 e 5, abbiamo, applicando, che C assume successivamente i valori 100, 80, 60, 40, 20 e zero. A questo punto, ossia quando il saggio dell’imposta annua perpetua, 5 per ogni 100 lire di valor capitale nominale, è uguale al saggio di frutto, ossia al rapporto fra il reddito 5 ed il valor capitale nominale, il reddito netto viene tutto assorbito dall’imposta, e si riduce a zero. Un reddito zero non ha alcun valor capitale. Converrebbe perciò al proprietario abbandonare il titolo, che gli dà diritto di percepire il reddito di 5, non essendo per lui conveniente aver la noia, pur minima, di amministrarlo, per avere un reddito zero. A fortiori, nessuno amando i redditi negativi, l’abbandono si imporrebbe, ove il saggio dell’imposta fosse maggiore del saggio di frutto.

 

 

Solo se il reddito fosse duraturo, e l’imposta temporanea, converrebbe al possessore del titolo conservare questo anche quando il saggio dell’imposta fosse superiore al saggio di frutto.

 

 

Un’imposta straordinaria, per una volta tanto, sul valor capitale nominale, costringerebbe invece il proprietario all’abbandono del titolo solo quando il suo ammontare superasse il valore attuale risultante dallo sconto, al saggio di interesse corrente, del prezzo di rimborso del titolo e delle intercorrenti annualità di reddito. In pratica, siccome il mercato in qualunque momento apprezza questi valori attuali, l’imposta sul capitale nominale costringe all’abbandono del titolo solo quando il suo ammontare, ridotto a valore attuale, sia uguale al prezzo corrente del titolo, comprensivo dei dietimi trascorsi di interessi. Vi è, dunque, sempre un punto che l’imposta sui valori capitali nominali non può superare, ed è quello che rende il valore attuale dell’imposta uguale al valore attuale o prezzo corrente del titolo. Se quel punto è superato, il contribuente ha interesse all’abbandono del titolo; il che vuol dire appunto che lo stato non può assorbire coll’imposta, in una volta sola od a rate, un valore superiore al valore attuale del titolo.

 

 

Se, invece, il valor capitale percosso dall’imposta è quello corrente, il reddito netto residuo per il proprietario del titolo non può mai ridursi a zero e non è quindi mai conveniente l’abbandono del titolo. Invero, se noi facciamo:

 

 

C = valore capitale corrente del titolo

 

r = reddito annuo perpetuo del titolo

 

i = saggio dell’interesse per ogni 100 lire

 

s = saggio dell’imposta per ogni 100 lire

 

si ha:

 

[2]  C = (r x 100) / (i + s)

 

 

dove s non è più un ammontare fisso, calcolabile direttamente in base al valor capitale nominale e deducibile da r per avere il reddito netto residuo da capitalizzare, come t era in [1], ma è una quantità variabile, il cui saggio è fissato dal legislatore ed il cui ammontare è in funzione del valore di C. L’imposta diventa un’aggiunta al saggio dell’interesse i ed in base alla somma di i e di s bisogna capitalizzare il reddito r del titolo.

 

 

Se facciamo r sempre uguale a 5,  per cento e diamo, successivamente, ad s i valori 0, 1, 2, 3, 4, 5, 10, 100 e 1.000&, C assumerà i seguenti valori:

 

 

 

 

 

 

 

C diventa piccolissimo, ma non si annulla mai. Anche quando il saggio dell’imposta annua diventa del 1.000% del valor capitale corrente e sembra a primo aspetto assurdo che il contribuente la possa sopportare, si ha che la capitalizzazione del reddito di 5 lire annue avviene in base alla somma del saggio corrente dell’interesse 5 per cento e del saggio corrente dell’imposta 1.000 per cento. Il contribuente deve ogni anno, per aver convenienza a tenere il titolo tassato a quella stravagante stregua del 1.000 per cento, lucrare un reddito lordo del 1.005 per cento sul valor capitale corrente, di cui 1.000 trasferisce allo stato e 5 tiene per sé. Ma se 1.005 per cento è il saggio di capitalizzazione del reddito 5, il valor capitale corrente in base alla formula C = (r x 100) / (i + s), risulta di 0,49751. Ed infatti un’imposta del 1.000% su un valore capitale di 0,49751 – questa invero è la base imponibile di un tributo gravante sul valor capitale corrente – è di 4.9751. Poiché il reddito del titolo è di 5, rimane al proprietario, dopo aver pagata l’imposta di 4,9751, un reddito residuo netto di 0,0249 che è precisamente il 5% del capitale di 0,49751. Il titolo, del nominale di 100 lire, vale correntemente solo 49 centesimi circa ed a tal prezzo continua a negoziarsi, perché frutta l’interesse corrente del 5% e cioè di 2 centesimi e mezzo circa. Il nuovo acquirente non è danneggiato dal pagamento di un’imposta del 1.000% più di quanto lo sarebbe da un’imposta dell’1 o dello 0,10%.

 

 

L’imposta può colpire redditi variabili: dividendi di azioni, frutti di terre, case, industrie. Qui è più difficile ragionarne l’aliquota in base al valor capitale nominale, che esiste solo per le azioni; ma non impossibile. Il legislatore può invero fissare arbitrariamente un valor capitale nominale dei beni e far variare l’imposta in base a quel valore arbitrario. È il caso di molte imposte antiche, a carattere catastale, per cui non si fecero da tempo revisioni dei valori imponibili. Di solito però riconoscendosi ben presto che il valore capitale nominale non ha alcun rapporto con la realtà, si preferisce ragionar l’imposta in base al valor capitale corrente, più agevole a determinarsi e spesso il solo conosciuto, contrariamente a quanto accade per i redditi fissi (obbligazioni, cartelle fondiarie, capitali dati a mutuo) per cui il capitale nominale è un valore sempre noto, mentre spesso il capitale corrente è un valore ignoto, specie per i capitali dati a mutuo, le rendite fondiarie perpetue e valori simili, per cui non esiste un mercato con negoziazioni frequenti.

 

 

A parte questa avvertenza, sembra che gli effetti dell’imposta siano, in principio, gli stessi per i redditi variabili che per i redditi fissi. Le divergenze si riducono alle seguenti:

 

 

Se l’imposta è ragionata in base ad un valore capitale nominale qualunque, il calcolo della convenienza dell’abbandono del titolo comporta qualche rischio ignoto per i redditi fissi. Per questi, l’abbandono conviene quando il saggio dell’imposta diventa uguale al saggio di frutto. Se il reddito è 5 e l’imposta è anche 5, il valor capitale del titolo diventa zero. Per i redditi variabili non basta che, essendo 5 il reddito presente, l’imposta sia 5, per consigliare l’abbandono del titolo. Può darsi che il contribuente preveda un rialzo futuro del reddito al disopra di 5; nel qual caso a lui converrà tenere il titolo, sebbene il reddito attuale netto sia zero. Anche un’imposta maggiore del reddito non è sufficiente a consigliare l’abbandono del titolo, quando si prevede un aumento futuro, più che compensatore, del reddito. Conversamente non è consigliabile l’abbandono del titolo ancor prima che l’imposta uguagli il reddito, solo perché si prevede che, rimanendo ferma l’imposta, il reddito si ridurrà al disotto dell’imposta. Conviene infatti al contribuente godere il residuo attivo finché può essere percepito, salvo a fare l’abbandono del titolo, quando le due quantità, r e t siano divenute uguali.

 

 

Se l’imposta è stabilita in base al valore capitale corrente, la complicazione sta tutta nel ridurre i valori futuri annui di r, variabili di anno in anno, ad un valore r costante nel tempo. Di solito, i contraenti fanno questa riduzione in modo empirico, nelle borse e nei mercati dei valori fondiarii. In ogni dato momento, gli uomini, a torto od a ragione, stimano che quell’azione, quella casa, quella terra siano feconde di un reddito avvenire dato e per la sua capitalizzazione applicano un dato tasso d’interesse. La formula usata, in caso di imposta s stabilita sul valore capitale corrente, è sempre la [2]. I valori C sono probabilmente più oscillanti di quanto non accade nel caso di redditi fissi; ma la variabilità è maggiore anche quando non esiste l’imposta.

 

 

Le osservazioni fatte fin qui dimostrano come bene a ragione i legislatori preferiscano le imposte sul valor capitale corrente a quelle sul nominale. A parità di aliquota, la tendenza delle prime a scemare i valori capitali è assai meno accentuata di quella delle seconde. Valga il confronto:

 

 

Il valore capitale corrente per ogni 100 lire di valor nominale (fatto )

 

Se l’imposta è del:

 

nel caso di imposta sul valor capitale nominale è di:

nel caso di imposta sul valor capitale corrente è di:

0%

100

100

1%

80

83,33

2%

60

71,42

3%

40

62,50

4%

20

55,55

5%

0

50

 

 

 

Il momento della convenienza dell’abbandono non giunge mai nel tipo di imposta sui valori correnti ed i contribuenti conservano sempre un certo interesse a mantenere l’impiego. Ciò per i capitali esistenti. Per i capitali nuovi, che si vanno via via formando dopo l’introduzione dell’imposta, anche senza entrare nel vivo del problema, basti osservare genericamente che lo stimolo a risparmiare è più vivo e dura più a lungo col tipo dell’imposta sui valori correnti che con quella sui valori nominali.

 

 

Ragionando della convenienza da parte del contribuente di abbandonare il bene fecondo di reddito, sempre si è supposto che l’abbandono fosse giuridicamente possibile. L’ipotesi è la deduzione logica delle norme contenute in tutte le legislazioni per l’espropriazione dei beni appartenenti ai contribuenti morosi. Se l’imposta ha carattere reale, l’abbandono può farsi per ogni bene singolo. Se personale, deve riferirsi a tutto il patrimonio del contribuente, tutto essendo soggetto all’obbligo tributario.

 


[1] Ristampato parzialmente con il titolo La teoria sociologica della finanza in Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 15-21 [ndr.]

[2] T.S. Adams, Tax Exemption through Tax Capitalization (in «The American Economic Review», June 1916, pagg. 271-287) ed Edwin R.A. Seligman, Tax Exemption through Tax Capitalization: A Reply (id., december 1916, pagg. 790-807).

[3] Salvo le eccezioni che verranno dette in seguito. Sul carattere pacifico della dottrina, cfr. B. Griziotti, Teoria dell’ammortamento delle imposte e sue applicazioni (in «Giornale degli economisti», gennaio, febbraio ed aprile 1918, paragrafo 11).

[4] Cfr. The shifting and incidence of taxation, terza ed., New York, 1910, 221-222 e 223.

[5] Ho voluto riprodurre le parole con cui lo Seligman elegantemente espone questo punto della teoria dominante dell’ammortamento, in The Income Tax, New York, 1911, pagg. 605.

[6] Uno spostamento può verificarsi solo nel periodo di tempo corrente fra la prima previsione dell’imposta futura e la sua deliberazione definitiva. Ma da esso si può qui fare astrazione, perché è un mezzo per non pagare l’imposta. Argomento degno di studio, ma diverso da quello che qui ci occupa degli effetti di una imposta oramai assisa e pagata di fatto in misura uguale a quella voluta dal legislatore.

[7] In Shifting, pag. 328; e nella trad. it. in «Biblioteca dell’Economista», serie V, vol. XVI, pag. 211.

[8] John Stuart Mill, Principles of Political Economy, lib. V, cap. III, paragrafo 3.

[9] F.Y. Edgeworth, The pure theory of taxation, in «Economic Journal», VII (1897), pag. 49; tradotto in «Biblioteca dell’Economista», serie V, vol. XVI, pag. 287.

[10] Cesare Jarach, Gli effetti di una imposta generale ed uniforme sui profitti (in «Atti della R. Accademia delle scienze di Torino», vol. XLVI, pag. 13 e segg. dell’estratto).

[11] Gino Borgatta, L’Economia dinamica. Studio critico su i problemi dinamici nell’economia pura, Torino, U.T.E.T., pag. 374-411, passim. Il volume del Borgatta non è ancora reso di pubblica ragione; ma le pagine da 1 a 358 furono date in visione a me ed a parecchi altri studiosi e presentate a concorsi fin dal dic. 1914; quelle da pag. 359 a 457 dall’estate del 1915.

[12] Benvenuto Griziotti, Teoria dell’ammortamento delle imposte e sue applicazioni. Estratto dal «Giornale degli economisti e rivista di statistica» gennaio, febbraio, aprile 1918, «Athenaeum», Roma, 1918.

[13] Per tutte le questioni relative al canone dell’«uguaglianza» in tema di tributi ed alla doppia tassazione del risparmio mi riferisco, per brevità, alla citata mia memoria, qui sopra ristampata, Intorno al concetto ecc., passim.

[14] L’espressione è di M. Pantaleoni in Scritti varii di economia, Palermo, 1904, pag. 155. Si veggano però sotto (paragrafo 9) osservazioni dimostranti che anche l’imposta taglia produce effetti assai vantaggiosi in confronto all’assenza dell’imposta. Gli effetti considerati nel testo dell’imposta taglia sono quelli che si avrebbero ai margini (cfr. sotto paragrafo 12).

[15] Gino Borgatta, L’Economia dinamica cit., pag. 370 e segg.; passim: «Negli individui cui sono assorbite porzioni di reddito per le spese pubbliche o che godono scientemente e, più spesso inconsapevolmente i servizi resi dagli enti pubblici, non esiste una nozione ed un calcolo complessivo, per quanto poco approssimativo, della utilità, nel rapporto al loro sistema di bisogni, dei servizi rendibili dall’ente pubblico, dei procedimenti da compiere per farli produrre nel modo più economico, né lo svolgimento d’un’attività logica diretta a questa massima soddisfazione attraverso la personale partecipazione al meccanismo politico scelta dei rappresentanti governanti, reazioni, giudizi, influenze sulla loro azione. I servizi e beni pubblici non fanno che per gruppi limitatissimi parte dei sistemi di utilità soggettivamente rappresentate e valutate. Come è impossibile alla stessa scienza, cioè ad uno studio metodico e generale del fenomeno, un calcolo, per quanto grossolano, dell’utilità economica dei servizi ed organizzazione pubblica mantenuta e resa possibile dai proventi fiscali, a tanto maggior ragione è inconcepibile una valutazione individuale dell’utilità nei processi indivisi non valutabili nel loro effetto complessivo… L’immensa maggioranza degli individui ha una nozione affatto vaga, limitata, unilaterale, imprecisa, se non inesistente, dell’organismo politico e della sua azione come organo economico produttore diretto o complementare di servizi utili… I rapporti attivi della maggioranza nella formazione dei pretesi gruppi delegati a capo dell’organizzazione politica non si svolgono che rarissimamente e per zone limitate di rapporti, sulla base di ragionamenti di calcolo dell’utilità economica e dei costi finanziari dei servizi che i gruppi dirigenti produrranno. La partecipazione al fenomeno politico avviene attraverso moventi sentimentali – politici, giuridici, sociali, religiosi – nei quali il problema finanziario entra bensì spesso, ma non come oggetto di un calcolo rigoroso da parte di maggioranze amministrate e gruppi dirigenti, di elettori ed eletti, piuttosto come un elemento atto ad usufruire e partecipare ai moventi sentimentali che dominano l’equilibrio, i rapporti, i movimenti di gruppi politici».

[16] «The taxable capacity of any community may be briefly defined as the surplus produce of the people above what is necessary to maintain existence according to the standard of life prevailing at the time in the country concerned». Principles of Finance, pag. 241. È il saggio quinto di una serie su The Art of Economic Development pubblicata da H. Stanley Jevons nel suo «Indian Journal of Economics», numeri 5 e 6.

[17] Il teorema ora dimostrato può spiegare la ragione per la quale non di rado le previsioni di diminuzione dei redditi e dei valori capitali in seguito a forti inasprimenti di imposta non si sono verificate. In mezzo all’intrecciarsi dei fatti sociali, i quali non permettono per lo più di individuare la causa determinante di un dato movimento economico, non è azzardato notare che forse la mancata verifica derivò dall’essere stata l’imposta destinata all’uso di massima fecondità od almeno ad un uso di rilevante fecondità relativa; sicché sarebbe stato assurdo che i redditi ed i valori capitali scemassero. Dovevano logicamente aumentare. Era sbagliata la previsione, perché derivata da erronee premesse teoriche.

[18] Per la dimostrazione che questo tipo di imposta non contraddice all’ipotesi dell’imposta neutra, vedi paragrafo 5, in fine.

[19] Questa è una delle spiegazioni che possono darsi del lento sviluppo economico italiano fin verso il 1898 e di quello più rapido avvenuto in seguito. Non fa d’uopo ricordare che altre spiegazioni sono anche vere e, insieme con quella, concorrono a spiegare il fatto concreto. Riterrei però scorretto non tener conto del lento accumularsi ed improvviso esplodere degli effetti del fattore «unificazione nazionale» quando si voglia dare un giudizio compiuto della recente storia politica ed economica del nostro paese.

[20] Cito da pag. 55 dello studio di Achille Necco, Il corso dei titoli di borsa in Italia dal 1861 al 1912, Torino, 1915.

[21] Fin qui il Griziotti nella citata Teoria dell’ammortamento, ecc., pag. 9 dell’estratto.

[22] F.Y. EDGEWORTH, A Levy on Capital for the discharge of debt, Oxford, 1919, pag. 24.

[23] Così si ribadiscono le osservazioni che altrove (Memoria citata Intorno al concetto, ecc.; cfr. sopra, a p. 157 e segg. della presente ristampa) avevo fatto per dimostrare la convenienza degli stati a seguire le regole dell’uguaglianza tributaria e a tenersi lontani dalle imposte parziali ed odiose. La fuga dei capitali all’estero presso gli stati cuscinetto fa invero avvertiti dell’errore commesso gli stati trasgressori delle buone norme tributarie e li invita a ripararlo con loro vantaggio definitivo. A torto il Griziotti (in L’imposta sulla ricchezza dopo la guerra in «Giornale degli economisti», febbr. 1919, p. 135) accusa questa teoria quasi d’immoralità. Poiché immorale è ciò che produce il danno del proprio paese, non la norma che ne vuole il vantaggio. È immorale il sistema che, di fronte ad un fabbisogno pubblico di 3 o di 7 o di 10 miliardi all’anno, provoca, per la sua parzialità e disuguaglianza, la materia imponibile alla fuga e quindi immiserisce il paese e lo rende sempre meno capace di far fronte ai suoi impieghi. Ed è morale soltanto il sistema opposto, che per la sua neutralità ed ossequio all’eguaglianza, cresce la materia imponibile e facilita il compito dello statista. Così va impostato il problema e non altrimenti. Ove fosse ufficio della scienza applicata di lodare o biasimar qualcuno, dovrebbero essere biasimati i governanti che deliberano le imposte odiose e confiscatrici. Chi reputi antiscientifiche le parole «lode» o «biasimo» adoperi le altre: «constatare l’esistenza di azioni utili o dannose al paese i cui legislatori stabiliscono imposte neutre o parziali». Ad ogni modo è certo che la teoria degli stati cuscinetto è essenziale per la pubblica finanza; e che nessuna taccia di immoralismo si può attaccare a coloro i quali constatano fatti reali, non controvertibili. Sembra inoltre che possa essere chiamata «idealistica» solo quella teoria la quale dichiara le norme, con cui osservando la giustizia comparativa sia possibile di impedire l’immiserimento del proprio paese. Il che è tanto più necessario oggi, quando l’aumento della produzione e del risparmio è l’unico mezzo con cui si possa far fronte al peso gravissimo di tributi determinato dalla guerra.

[24] Su questo argomento, rinvio alla ottima monografia già citata di Benvenuto Griziotti, Teoria dell’ammortamento delle imposte e sue applicazioni, nella quale l’A. studia largamente gli esempi storici di riscatti effettuati (Pitt, in Inghilterra, 1798), tentati (Gianni, in Toscana, 1788), proposti (Scialoja, in Italia, 1866) e fa proposte sue per il riscatto delle vigenti imposte e sovrimposte italiane sui terreni, sui fabbricati e cat. A1, A2 e B della imposta sui redditi di ricchezza mobile. Sembra a me che le considerazioni esposte in questo paragrafo del testo della presente memoria consiglino a riprendere in esame la proposta di riscatto, così da distinguere gli effetti che essa avrebbe per i tributi o le parti di tributo incidenti sui contribuenti legali da quelli che essa avrebbe per i tributi o le parti di tributo probabilmente trasferiti in tutto od in parte sugli inquilini, o sui consumatori di capitali o di merci vendute dai contribuenti legali. Il Griziotti a pag. 7-8 della sua monografia ha chiaramente ricordato che non sempre le imposte reali hanno per effetto di ridurre il valore del capitale il cui reddito è oggetto di imposizione citando appunto l’esempio dell’imposta sui fabbricati, la quale entro certi limiti ed in certi casi viene trasferita sugli inquilini. A pag. 11 ha ricordato il caso dell’imposta sugli interessi dei mutui. Ma a queste riaffermazioni dei principi correnti della teoria della traslazione tributaria non pare abbia più posto mente nella elaborazione delle sue proposte concrete di riscatto delle imposte italiane; poiché esse si estendono a tutto l’ammontare delle citate imposte, senza alcuna eccezione (cfr. paragrafi 52-53, pag. 91-94). Ripetutamente l’A. ha affermato che l’operazione di riscatto non ha per iscopo di stabilire una nuova imposta, ma solo di commutare un onere annuo ripetuto nel corrispondente pagamento di una somma capitale per una volta tanto: «Poiché i proprietari acquistano e vendono la loro proprietà a prezzo inferiore di quanto varrebbe, se non fosse gravata di imposta, essi possono senza sacrificio pagare il capitale corrispondente al tributo, pur di liberarsi dall’onere annuo relativo» (paragrafo 28, pag. 57)… «Posto che per il proprietario di un terreno la consolidazione della fondiaria è un fatto già avvenuto e che perciò il riscatto, obbligatorio o facoltativo, del tributo non crea un nuovo onere né produce sperequazioni tra contribuenti…» (paragrafo 29, pag. 62) …«Innanzi tutto è da escludersi il carattere di confisca nel riscatto della fondiaria, perché esso non fa che trasformare in una operazione finanziaria uno stato di fatto, che si era prodotto coll’imposta fondiaria (paragrafo 29, pag. 63). Dalle quali dichiarazioni si deduce, come del resto è pacifico, che il riscatto non deve imporre al contribuente un onere nuovo, un sacrificio diverso e maggiore da quello prima subito, ma solo trasformare un onere ripartito in un certo numero di annualità in un onere unico immediato; né esso deve mutare la situazione rispettiva preesistente dei contribuenti, ma conservare invariata la situazione di prima, che, se in origine era sperequata, col tempo ha cessato di esserlo. Il Griziotti, che pure aveva nella prima parte dello studio premesso che l’ammortamento non sempre si verifica, nell’applicare le sue premesse ha senz’altro supposto possibile il riscatto dell’imposta anche nei casi in cui l’ammortamento non può verificarsi. Perciò le sue proposte, contrariamente alle sue espresse intenzioni, creano nuovi oneri e, creandoli solo per taluni contribuenti, producono nuove sperequazioni. Risultato non voluto e tale da doversi evitare.

La società delle nazioni

La società delle nazioni

«Corriere della Sera», 28 dicembre 1918[1]

Lettere politiche di Junius, Laterza, Bari, 1920, pp. 143-156[2]

La guerra e l’unità europea, Edizioni di Comunità, Milano, 1948, pp. 23-33[3]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 603-610

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 964-971[4]

«Nord e Sud», XLVI, n. 5, Torino, 1999, pp. 134-140[5]

 

 

 

 

Anche in Italia, associazioni e congressi cercano di chiarire e diffondere l’idea, bandita dal presidente americano, della società delle nazioni. Affinché tuttavia quell’idea possa attuarsi e, attuata, dar frutti quali si propongono i suoi apostoli, uopo è che ne sia ben chiara la significazione e nitidamente siano esposti i risultati effettivi ai quali essa ci può recare. Vi è un metodo sicuro per saggiare la veracità delle adesioni che oggi si moltiplicano d’ogni parte all’idea della società delle nazioni, anche e forse sovratutto per opera di chi fino a ieri credeva alla invincibilità ed alla missione divina tedesca, ed oggi crede o finge di credere che la social democrazia tedesca, giunta a sostituire il suo stato imperiale, abbia il compito di rinnovare il tessuto sociale e politico dell’Europa: ed è di chiedere fino a qual segno i novissimi neofiti siano disposti a rinunciare al dogma della sovranità assoluta dello stato imperiale, democratico o proletario.

 

 

Fa d’uopo chiedere se essi credano che lo stato goda di una sovranità perfetta ovvero solo di una sovranità relativa, condizionata all’esistenza ed alla cooperazione di altri stati sovrani. Nelle pagine della sua Politica, Trietschke scrisse sarcasmi feroci contro le teorie di coloro i quali pretendevano che dopo il 1871 Baviera e Sassonia, Baden e Wurttemberg fossero ancora veri stati: vero stato essendo ai suoi occhi soltanto quello a cui spetta il diritto della pace e della guerra. L’appellativo “signore della guerra”, che davasi all’imperatore tedesco, significava appunto l’attributo sovrano che egli solo possedeva, a differenza di tutti gli altri principi confederati tedeschi, ed a somiglianza degli altri sovrani o presidenti di stati indipendenti, di dichiarare la guerra e di firmare la pace. Dal quale attributo discendono tutte le altre qualità dello stato sovrano e perfetto: di potere, esso solo, esigere ubbidienza assoluta dai suoi cittadini, far leve e riscuotere tributi, impartire giustizia, senza essere soggetto ad alcuna corte giudiziaria posta al disopra di sé; far leggi obbligatorie per tutti gli enti morali e le persone fisiche viventi entro la cerchia del territorio nazionale; negare la sovranità indipendente di qualsiasi corpo, come la chiesa, vivente entro il territorio suo; stipular trattati con altri stati sovrani e denunciarli.

 

 

Questo, in brevi parole, il dogma della sovranità dello stato, indipendente dagli altri stati, unità perfetta in se stesso, che si ammira nei trattati scolastici e si custodisce gelosamente, come la gemma più preziosa del patrimonio nazionale. Forse appunto perché esso è riuscito a penetrare, quasi inconsapevolmente, nel patrimonio spirituale degli uomini d’Europa, urge dimostrare che esso è in contrasto insanabile con l’idea della società delle nazioni. Poiché, se fu necessario sconfiggere il nemico, se assai ha giovato che l’augurio fatto in altra mia lettera affinché venisse cacciata la dinastia tedesca siasi così rapidamente avverato, sovra ogni altra cosa è necessario distruggere le idee da cui la guerra è stata originata. Tra le quali idee feconde di male, se condotte alle loro estreme conseguenze, quella del dogma della sovranità assoluta e perfetta in se stessa è massimamente malefica.

 

 

In un popolo equilibrato e non fantasioso, come l’italiano, quel dogma può restringere forse la sua malefica virtù nel persuadere qualche cultore di diritto pubblico a compiere una costruzione elegante, che sarà imparata con stupefazione dagli studenti e battuta in breccia dallo estensore di una ancor più ardita ed elegante memoria accademica; potrà dare lo spunto, in occasioni solenni, a formarli rivendicazioni della dignità nazionale alla tribuna parlamentare. Ma qui non si ferma la virtù venefica del dogma della sovranità presso i popoli, che sovrani filosofi politici ed economisti hanno fatto persuasi della loro missione divina e rigeneratrice.

 

 

Le razze elette, come quella germanica era stata persuasa di essere dalla letteratura pangermanistica, adoperano quel dogma come uno strumento affilatissimo di conquista e di supremazia, la quale non può aver piena soddisfazione se non quando diventi mondiale. «Poiché – giova spesso seguire il filo del ragionamento che ancor non sappiamo se sia ben morto nello spirito dei nemici – se lo stato germanico doveva essere veramente, e non soltanto per forma, sovrano, doveva avere non la sola potestà, ma anche la capacità a far la guerra. Quindi fu necessità strappare alla Danimarca anche le province danesi dei ducati dello Schleswig – Holstein, affinché con sicurezza potesse costruirsi il canale dell’imperatore che permette alla flotta di passare dal mar Baltico al mare del nord. Fu necessario che Bismarck cedesse a Moltke, il quale nel 1871 volle, oltreché Strasburgo, pure Metz, vitale per la difesa della frontiera. Se fu perdonabile allora, per l’ignoranza tecnica del pregio dei giacimenti di minerali di ferro fosforoso, non impadronirsi del bacino di Briey, sarebbe stata oggi inescusabile la ripetizione del medesimo errore, il quale avrebbe lasciato la Germania fra qualche decennio o secolo priva dei mezzi di condurre la guerra. Chiusa nel mar Baltico, con la breve riva sul mare del nord soggetta a facili sbarramenti, la Germania non ha respiro; e la sua flotta non può uscire in alto mare. Anche la dominazione della costa belga e francese sino a Calais, e l’assorbimento dell’Olanda nell’impero, sono necessità assolute, ove si voglia che questo sia davvero sovrano e libero dalle sopraffazioni britanniche. Troppo è vicino il confine polacco al cuore della Germania, alla capitale, che è sede degli organi sovrani del paese. Nonché quindi restituire la Posnania, urge sottomettere al protettorato tedesco la Polonia russa e rivendicare le province baltiche, le cui classi dirigenti son tedesche e ben atte a trasformare, come già accadde dopo il 1000 nella Prussia occidentale, in germaniche le razze inferiori dei lettoni, estoni e lituani». Ma a questo punto il dogma della piena sovranità politica impone che tratti così estesi di territori non rimangano interclusi da territori di potenze straniere e separati dal mare caldo, navigabile in ogni stagione, che è condizione di vita libera in tempo di pace e di guerra. Quindi si conducano i protettorati tedeschi sovra la Finlandia e la Carelia sino alla costa murmana libera dai ghiacci e sovra la Ucraina sino al mar Nero.

 

 

Né qui si ferma la potenza diabolica dell’idea fissa della sovranità. La quale non può essere politicamente e militarmente se non è altresì economicamente. Lo stato commerciale chiuso non è soltanto una astrazione ideologica del filosofo Fichte. Deve diventare una realtà, se lo stato germanico deve essere veramente sovrano ed indipendente; se non deve rassegnarsi a vivere grazie alla tolleranza degli stati stranieri e principalmente dell’impero britannico. Non solo ferro, ma cotone e grano e rame e gomma elastica e le altre innumeri cose necessarie a condurre la guerra ed a vivere in pace, deve l’impero possedere entro i suoi confini. Come altrimenti potrebbe desso vivere di una vita piena e sicura come si addice ad uno stato sovrano?

 

 

Così, per via di deduzioni impeccabili, il dogma della sovranità aveva condotto i teorici tedeschi, i grandi politici ed economisti del secolo XIX, ad allargare via via il sogno della più grande Germania di Federico List del 1841 fino al disegno dell’Europa centrale del Naumann, sino alla supremazia sull’Austria, sui Balcani, sulla Turchia, infino allo sbocco sul golfo persico, senza che a questo punto potessero fermarsi le aspirazioni di predominio. La pazzia ragionante non ha confini alle sue logiche deduzioni. Sicurezza esige sicurezza. La Mesopotamia non è sicura senza il dominio della Persia e dell’Egitto. Né la Persia e l’Egitto si difendono efficacemente senza la dominazione dell’India e dell’Africa mediterranea e centrale. Sempre fa difetto, pur nel territorio ampliato, qualche materia prima, che si rintraccia soltanto in paesi più lontani: il riso o la seta, il nickel o il cobalto, il manganese o la juta. La sovranità piena ed assoluta si raggiunge solo col dominio del mondo: ed a questo sogno furono spinti, dalla logica ferrea della piena sovranità ed indipendenza, i popoli conquistatori di cui la storia racconta le gesta.

 

 

Il sogno di dominazione dei tedeschi è caduto; ma potrebbe risorgere sott’altra forma, inaspettata e mascherata, ove noi non distruggessimo nei cuori degli uomini le idee ed i sentimenti da cui esso trasse origine. Che altro è lo spirito di propaganda dei comunisti frenetici russi e dei socialisti tedeschi, se non la novella forma dell’idea che nessuno stato possa vivere se la sua potenza – ieri potenza di armi, domani dittatura del proletariato – non sia perfetta e non si estenda perciò a tutto l’orbe terracqueo? Bisogna distruggere e bandire per sempre il dogma della sovranità perfetta, se si vuole che la società delle nazioni nasca vitale. Lo si può e lo si deve, perché esso è falso, irreale, parto della ragion ragionante. La verità è il vincolo, non la sovranità degli stati. La verità è l’indipendenza dei popoli liberi, non la loro indipendenza assoluta.

 

 

Per mille segni manifestasi la verità che i popoli sono gli uni dagli altri dipendenti, che essi non sono sovrani assoluti ed arbitri, senza limite, delle proprie sorti, che essi non possono far prevalere la loro volontà senza riguardo alla volontà degli altri. Alla verità dell’idea nazionale «noi apparteniamo a noi stessi» bisogna accompagnare la verità della comunanza delle nazioni: «noi apparteniamo anche agli altri». Il motto «Deutschland uber alles», divenuto mortifero per l’interpretazione che ne diedero non i poeti che lo crearono, ma i filosofi che lo teorizzarono, conduce all’autocrazia universale; ma il motto «Sinn fein» – noi soli – che gli irlandesi hanno innalzato come grido di guerra contro la comunità britannica delle nazioni è l’antesignano dell’anarchia; ed i suoi frutti si vedono nello sminuzzamento della sovranità dei soviets russi, preda immancabile al cesarismo dell’avvenire. Lo stato isolato e sovrano, perché bastevole a se stesso, è una finzione dell’immaginazione; non può essere una realtà.

 

 

Come l’individuo isolato non visse mai, salvoché nei quadri idillici di una poetica età dell’oro, come l’uomo primitivo buono e pervertito dalla società fu un parto della fantasia di Rousseau; mentre invece vivono soltanto uomini uniti in società con altri uomini e soltanto l’uomo legato con vincoli strettissimi agli uomini può aspirare ad una vita veramente umana solo l’uomo – servo può diventare l’uomo – Dio; così non esistono stati perfettamente sovrani, ma, unicamente, stati servi gli uni degli altri; eguali ed indipendenti perché consapevoli che la loro vita medesima, che il loro perfezionamento sarebbe impossibile se essi non fossero pronti a prestarsi l’un l’altro servigio.

 

 

Come potrebbero gli uomini, come potrebbero gli stati vivere, senza retrocedere di millenni, senza ritornare a condizioni di miserabile barbarie, se ognuno di essi non chiedesse agli altri derrate alimentari, materie prime, servigi postali, telegrafici, telefonici, pronto a dare in cambio merci e servigi equivalenti? Come, in tanto fervore di progressi scientifici, si può immaginare per un istante una nazione concentrata unicamente nel perfezionare un suo esclusivo “genio nazionale”, senza che ben presto quella nazione vegga le altre, le quali serbarono i mutui rapporti di scambi intellettuali, precederla di gran tratto sulla via delle conoscenze?

 

 

In pace, tutti gli stati avevano diggià dovuto riconoscere limiti e vincoli numerosi alla loro sovranità assoluta; e che cosa sono le convenzioni postali, sanitarie, ferroviarie, sulla proprietà industriale ed intellettuale, sui marchi di fabbrica, se non rinunce alla sovranità piena ed assoluta dei singoli stati, se non abdicazioni sostanziali, seppure mascherate, dei parlamenti al diritto di legiferare a proprio piacimento entro i limiti del territorio statale? A brandelli era già stata fatta quella veste sontuosa di cui gli stati amavano adornarsi; ma la guerra ne ha strappato loro di dosso fin gli ultimi cenci.

 

 

Sappiamo tutti che cosa fossero divenute, per necessità ferrea di vita, le sovranità dell’Austria, della Bulgaria e della Turchia. Ma non riflettiamo abbastanza che anche la sovranità assoluta degli stati dell’intesa è divenuta, persino nell’apparenza, un ricordo di tempi trascorsi, per desiderio nostro, per comando dei popoli, persuasi che la vittoria stava nell’unità delle fronti economica, politica, militare. Se di qualcosa ci lamentiamo, si è di non essere proceduti abbastanza innanzi sulla via dell’abdicazione alla sovranità. Se i parlamenti si sono rapidamente trasformati in camere di registrazione, quella trasformazione, già iniziatasi del resto prima della guerra, fu imposta dalla necessità. Quando le materie soggette a discussione ed a deliberazione hanno carattere internazionale, non possono essere discusse e decise da parlamenti municipali. Sopra agli stati, divenuti piccoli, quasi grandi municipi, ed ai loro organi deliberanti, debbono formarsi, si sono già costituiti idealmente stati più ampi, organi di governo diversi da quelli normali. In Inghilterra accanto al consiglio di guerra britannico sorge il consiglio imperiale di guerra; nell’intesa si crea un comandante supremo degli eserciti; e si convocano conferenze dei primi ministri e dei segretari di stato agli esteri. Oggi Wilson parla da continente a continente, in nome del mondo intero sorto in arme contro un tentativo di sopraffazione mondiale, sgorgato dritto dal dogma della sovranità.

 

 

Già nel 1913 ben 135 congressi internazionali avevano discusso e taluno di essi, avendo carattere ufficiale, aveva regolato, con la riserva puramente formale della sanzione dei poteri deliberanti dei singoli stati cosidetti sovrani, materie internazionali. Ma quanto son cresciute quelle materie durante la guerra! Coloro che, invasati della mania ragionante della sovranità nazionale, avevano nei primi istanti della guerra farneticato di un inabissamento di tutti gli ideali rapporti fra nazioni, di un ritorno allo stato chiuso, ben dovettero ricredersi, poiché subito si vide che la nostra vita medesima, la nostra resistenza alla schiavitù straniera, le nostre vittorie dipendevano esclusivamente dalla nostra capacità a mantenere quei vincoli e quei rapporti con i paesi di là dal mare. Se un tempo ci fu in cui parve si dovesse disperare dell’avvenire, quello non fu dopo la disfatta russa, dopo l’invasione del Friuli, dopo l’offensiva del marzo scorso. Fu nel primo semestre del 1917, quando i sottomarini minacciavano di rompere i vincoli fra il continente e le isole inglesi, fra l’Europa e l’America. A nulla avrebbe valso lo sforzo magnifico degli Stati Uniti, a nulla avrebbe giovato il martirio eroico dei soldati di Francia e d’Italia, se i vincoli fra le diverse parti del mondo fossero stati rotti. «In lotta con le imperiose necessità della guerra disse Lord Robert Cecil le nazioni dell’intesa crearono un organismo economico complesso che permise loro di avere la padronanza del tonnellaggio, delle finanze, degli acquisti, della distribuzione delle materie prime per il bene comune di tutta l’alleanza. Un’organizzazione di questo genere, sovratutto se altre nazioni che non ne fanno parte venissero a riunirvisi, potrebbe servire per costringere tutte le nazioni a far parte della progettata società ed a facilitare la coercizione economica di qualsiasi paese meditasse aggressioni».

 

 

Né, a guerra finita, questo sarà il solo ufficio degli accordi, i quali dovranno moltiplicarsi fra stato e stato. Trattati di lavoro per la tutela dei milioni di lavoratori che le necessità della ricostruzione metteranno in moto, da una contrada all’altra; trattati di commercio per la ripartizione delle materie prime e degli alimenti; trattati coloniali, affinché più non si contempli l’onta di popoli civili intesi allo sfruttamento delle popolazioni nere accorse a difendere in Europa la causa della civiltà; trattati di navigazione sui grandi fiumi, come il Danubio, od attraverso gli stretti; trattati portuali per garantire ai popoli dell’entroterra l’uso dei servigi di quei porti che per ragioni di nazionalità sono collocati entro il territorio del popolo abitante sulla costa; trattati tributari per impedire ai cittadini di uno stato di fuoruscire allo scopo di sottrarsi al pagamento dei tributi imposti dalla guerra.

 

 

Nessuno di questi trattati sarà una vera menomazione dello spirito di nazionalità. Perché solo le nazioni integrate, consapevoli di se stesse, potranno fare rinunce volontarie che siano innalzamenti e non atti costretti di servitù. Soltanto le nazioni libere potranno vincolarsi mutuamente per garantire a se stesse, come parti di un superiore organo statale, la vera sicurezza contro i tentativi di egemonia a cui, nella presente anarchia internazionale, lo stato più forte è invincibilmente tratto dal dogma funesto della sovranità assoluta.

 

 

Junius



[1] Con il titolo Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni [ndr].

[2] Con il titolo Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni [ndr].

[3] Con il titolo Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni [ndr].

[4] Con il titolo Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni [ndr].

[5] Con il titolo Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni [ndr].

Lettera undicesima. Il dogma della sovranità e l’idea della società delle nazioni

Lettera undicesima.
Il dogma della sovranità e l’idea della società delle nazioni
«Corriere della Sera», 28 dicembre 1918
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 143-156
La guerra e l’unità europea, Ed. di Comunità, Milano, 1948, pp. 23-33
Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 603-610[1]
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 964-971

 

 

 

 

Signor direttore,

 

 

Anche in Italia, associazioni e congressi cercano di chiarire e diffondere l’idea, bandita dal presidente americano, della società delle nazioni. Affinché tuttavia quell’idea possa attuarsi e, attuata, dar frutti quali si propongono i suoi apostoli, uopo è che ne sia ben chiara la significazione e nitidamente siano esposti i risultati effettivi ai quali essa ci può recare. Vi è un metodo sicuro per saggiare le veracità delle adesioni che oggi si moltiplicano d’ogni parte all’idea della società delle nazioni, anche e forse sovratutto per opera di chi fino a ieri credeva alla invincibilità ed alla missione divina tedesca, ed oggi crede o finge di credere che la social democrazia tedesca, giunta a sostituire il suo stato allo stato imperiale, abbia il compito di rinnovare il tessuto sociale e politico dell’Europa: ed è di chiedere fino a qual segno i novissimi neofiti siano disposti a rinunciare al dogma della sovranità assoluta dello stato imperiale, democratico o proletario. Fa d’uopo chiedere se essi credano che lo stato goda di una sovranità perfetta ovvero solo di una sovranità relativa, condizionata all’esistenza ed alla cooperazione di altri stati sovrani. Nelle pagine della sua Politica Treitschke scrisse sarcasmi feroci contro le teorie di coloro i quali pretendevano che dopo il 1871 Baviera e Sassonia, Baden e Wurttemberg fossero ancora veri stati: vero stato essendo ai suoi occhi soltanto quello a cui spetta il diritto della pace e della guerra. L’appellativo «signore della guerra», che davasi all’imperatore tedesco, significava appunto l’attributo sovrano che egli solo possedeva, a differenza di tutti gli altri principi confederati tedeschi, ed a somiglianza degli altri sovrani o presidenti di stati indipendenti, di dichiarare la guerra e di firmare la pace. Dal quale attributo discendono tutte le altre qualità dello stato sovrano e perfetto: di potere, esso solo, esigere ubbidienza assoluta dai suoi cittadini, far leve e riscuotere tributi, impartire giustizia, senza essere soggetto ad alcuna corte giudiziaria posta al disopra di sé; far leggi obbligatorie per tutti gli enti morali e le persone fisiche viventi entro la cerchia del territorio nazionale; negare la sovranità indipendente di qualsiasi corpo, come la chiesa, esistente entro il territorio suo; stipular trattati con altri stati sovrani e denunciarli.

 

 

Questo, in brevi parole, il dogma della sovranità dello Stato, indipendente dagli altri stati, unità perfetta in se stesso, che si ammira nei trattati scolastici e si custodisce gelosamente, come la gemma più preziosa del patrimonio nazionale. Forse appunto perché esso è riuscito a penetrare, quasi inconsapevolmente, nel patrimonio spirituale degli uomini d’Europa, urge dimostrare che esso è in contrasto insanabile con l’idea della società delle nazioni. Poiché, se fu necessario sconfiggere il nemico, se assai ha giovato che l’augurio fatto in altra mia lettera affinché venisse cacciata la dinastia tedesca siasi così rapidamente avverato, sovra ogni altra cosa è necessario distruggere le idee da cui la guerra è stata originata. Tra le quali idee feconde di male, se condotte alle loro estreme conseguenze, quella del dogma della sovranità assoluta e perfetta in se stessa è massimamente malefica.

 

 

In un popolo equilibrato e non fantasioso, come l’italiano, quel dogma può restringere forse la sua malefica virtù nel persuadere qualche cultore di diritto pubblico a compiere una costruzione elegante che sarà imparata con stupefazione dagli studenti e battuta in breccia dallo estensore di una ancor più ardita ed elegante memoria accademica; potrà dare lo spunto, in occasioni solenni, a formali rivendicazioni della dignità nazionale alla tribuna parlamentare. Ma qui non si ferma la virtù venefica del dogma della sovranità presso i popoli, che sovrani filosofi politici ed economisti hanno fatto persuasi della loro missione divina e rigeneratrice. Le razze elette, come quella germanica era stata persuasa di essere dalla letteratura pangermanistica, adoperano quel dogma come uno strumento affilatissimo di conquista e di supremazia, la quale non può aver piena soddisfazione, se non quando diventi mondiale.

 

 

«Poiché, – giova spesso seguire il filo del ragionamento che ancor non sappiamo se sia ben morto nello spirito dei nemici, – se lo stato germanico doveva essere veracemente, e non soltanto per forma, sovrano, doveva avere non la sola potestà , ma anche la capacità a far la guerra. Quindi fu necessità strappare alla Danimarca anche le provincie danesi dei ducati dello Schleswig-Holstein, affinché con sicurezza potesse costruirsi il canale dell’imperatore che permette alla flotta di passare dal mar Baltico al mare del Nord. Fu necessario che Bismarck cedesse a Moltke, il quale nel 1871 volle, oltreché Strasburgo, pure Metz, vitale per la difesa della frontiera. Se fu perdonabile allora, per l’ignoranza tecnica del pregio dei giacimenti di minerali di ferro fosforoso, non impadronirsi del bacino di Briey, sarebbe stata oggi inescusabile la ripetizione del medesimo errore, il quale avrebbe lasciato la Germania fra qualche decennio o secolo priva dei mezzi di condurre la guerra. Chiusa nel mar Baltico, con la breve riva sul mare del Nord soggetta a facili sbarramenti, la Germania non ha respiro; e la sua flotta non può uscire in alto mare. Anche la dominazione della costa belga e francese sino a Calais e l’assorbimento dell’Olanda nell’impero sono necessità assolute, ove si voglia che questo sia davvero sovrano e libero dalle sopraffazioni britanniche. Troppo è vicino il confine polacco al cuore della Germania, alla capitale, che è sede degli organi sovrani del paese. Nonché quindi restituire la Posnania, urge sottomettere al protettorato tedesco la Polonia russa e rivendicare le provincie baltiche, le cui classi dirigenti son tedesche e ben atte a trasformare, come già accadde dopo il 1000 nella Prussia occidentale, in germaniche le razze inferiori dei lettoni e lituani».

 

 

Ma a questo punto il dogma della piena sovranità politica impone che tratti così estesi di territori non rimangano interclusi da territori di potenze straniere e separati dal mare caldo, navigabile in ogni stagione, che è condizione di vita libera in tempo di pace e di guerra. Quindi si conducano i protettorati tedeschi sovra la Finlandia e la Carelia sino alla costa murmana libera dai ghiacci e sovra la Ucraina sino al mar Nero.

 

 

Né qui si ferma la potenza diabolica dell’idea fissa della sovranità. La quale non può essere politicamente e militarmente, se non è altresì economicamente. Lo stato commerciale chiuso non è soltanto una astrazione ideologica del filosofo Fichte. Deve diventare una realtà, se lo stato germanico deve essere veramente sovrano ed indipendente; se non deve rassegnarsi a vivere grazie alla tolleranza degli stati stranieri e principalmente dell’impero britannico. Non solo ferro, ma cotone e grano e rame e gomma elastica e le altre innumeri cose necessarie a condurre la guerra ed a vivere in pace, deve l’impero possedere entro i suoi confini. Come altrimenti potrebbe adesso vivere di una vita piena e sicura come si addice ad uno stato sovrano?

 

 

Così, per via di deduzioni impeccabili, il dogma della sovranità aveva condotto i teorici tedeschi, i grandi politici ed economisti del secolo diciannovesimo ad allargare via via il sogno della più grande Germania di Federico List del 1841 fino al disegno dell’Europa centrale del Naumann, sino alla supremazia sull’Austria, sui Balcani, sulla Turchia, infino allo sbocco sul golfo persico, senza che a questo punto potessero fermarsi le aspirazioni di predominio. La pazzia ragionante non ha confini alle sue logiche deduzioni. Sicurezza esige sicurezza. La Mesopotamia non è sicura senza il dominio della Persia e dell’Egitto. Né la Persia e l’Egitto si difendono efficacemente senza la dominazione dell’India e dell’Africa mediterranea e centrale. Sempre fa difetto, pur nel territorio ampliato, qualche materia prima, che si rintraccia soltanto in paesi più lontani: il riso o la seta, il nickel o il cobalto, il manganese o la juta. La sovranità piena ed assoluta si raggiunge solo col dominio del mondo: ed a questo sogno furono spinti, dalla logica ferrea della piena sovranità ed indipendenza, i popoli conquistatori di cui la storia racconta le gesta.

 

 

Il sogno di dominazione dei tedeschi è caduto; ma potrebbe risorgere sott’altra forma, inaspettata e mascherata, ove noi non distruggessimo nei cuori degli uomini le idee ed i sentimenti da cui esso trasse origine. Che altro è lo spirito di propaganda dei comunisti frenetici russi e dei socialisti tedeschi se non la novella forma dell’idea che nessuno stato possa vivere se la sua potenza – ieri potenza di armi, domani dittatura del proletariato – non sia perfetta e non si estenda perciò a tutto l’orbe terraqueo? Bisogna distruggere e bandire per sempre il dogma della sovranità perfetta, se si vuole che la società delle nazioni nasca vitale. Lo si può e lo si deve, perché esso è falso, irreale, parto della ragion ragionante. La verità è il vincolo, non la sovranità degli stati. La verità è la interdipendenza dei popoli liberi, non la loro indipendenza assoluta. Per mille segni manifestasi la verità che i popoli sono gli uni dagli altri dipendenti, che essi non sono sovrani assoluti ed arbitri, senza limite, delle proprie sorti, che essi non possono far prevalere la loro volontà senza riguardo alla volontà degli altri. Alla verità dell’idea nazionale: «noi apparteniamo a noi stessi» bisogna accompagnare la verità della comunanza delle nazioni: «noi apparteniamo anche agli altri». Il motto «Deutschland über alles», divenuto mortifero per l’interpretazione che ne diedero non i poeti che lo crearono, ma i filosofi che lo teorizzarono, conduce all’autocrazia universale; ma il motto «Sinn fein» – noi soli – che gli irlandesi hanno innalzato come grido di guerra contro la comunità britannica delle nazioni è l’antesignano dell’anarchia; ed i suoi frutti si vedono nello sminuzzamento della sovranità dei soviet russi, preda immancabile al cesarismo dell’avvenire. Lo stato isolato e sovrano perché bastevole a se stesso è una finzione dell’immaginazione; non può essere una realtà. Come l’individuo isolato non visse mai, salvoché nei quadri idillici di una poetica età dell’oro, come l’uomo primitivo buono e pervertito dalla società fu un parto della fantasia di Rousseau; mentre invece vivono soltanto uomini uniti in società con altri uomini; e soltanto l’uomo legato con vincoli strettissimi agli uomini può aspirare ad una vita veramente umana, solo l’uomo-servo può diventare l’uomo-Dio; così non esistono stati perfettamente sovrani, ma unicamente stati servi gli uni degli altri; uguali ed indipendenti perché consapevoli che la loro vita medesima, che il loro perfezionamento sarebbe impossibile se essi non fossero pronti a prestarsi l’un l’altro servigio. Come potrebbero gli uomini, come potrebbero gli stati vivere, senza retrocedere di millenni, senza ritornare a condizioni di miserabile barbarie, se ognuno di essi non chiedesse agli altri derrate alimentari, materie prime, servigi postali, telegrafici, telefonici, pronto a dare in cambio merci e servigi equivalenti? Come, in tanto fervore di progressi scientifici, si può immaginare per un istante una nazione concentrata unicamente nel perfezionare un suo esclusivo «genio nazionale» senza che ben presto quella nazione vegga le altre, le quali serbarono i mutui rapporti di scambi intellettuali, precederla di gran tratto sulla via delle conoscenze?

 

 

In pace, tutti gli stati avevano diggià dovuto riconoscere limiti e vincoli numerosi alla loro sovranità assoluta; e che cosa sono le convenzioni postali, sanitarie, ferroviarie, sulla proprietà industriale ed intellettuale, sui marchi di fabbrica, se non rinuncie alla sovranità piena ed assoluta dei singoli stati, se non abdicazioni sostanziali, seppure mascherate, dei parlamenti al diritto di legiferare a proprio piacimento entro i limiti del territorio statale? A brandelli era già stata fatta quella veste sontuosa di cui gli stati amavano adornarsi; ma la guerra ne ha strappato loro di dosso fin gli ultimi cenci. Sappiamo tutti che cosa fossero divenute, per necessità ferrea di vita, le sovranità dell’Austria, della Bulgaria e della Turchia. Ma non riflettiamo abbastanza che anche la sovranità assoluta degli stati dell’intesa è divenuta, persino nell’apparenza, un ricordo di tempi trascorsi, per desiderio nostro, per comando dei popoli persuasi che la vittoria stava nell’unità delle fronti economica, politica, militare. Se di qualcosa ci lamentiamo si è di non essere proceduti abbastanza innanzi sulla via della abdicazione alla sovranità. Se i parlamenti si sono rapidamente trasformati in camere di registrazione, quella trasformazione, già iniziatasi del resto prima della guerra, fu imposta dalla necessità. Quando le materie soggette a discussione ed a deliberazione hanno carattere internazionale non possono essere discusse e decise da parlamenti municipali. Sopra agli stati, divenuti piccoli, quasi grandi municipi, ed ai loro organi deliberanti, debbono formarsi, si sono già costituiti idealmente stati più ampi, organi di governo diversi da quelli normali. In Inghilterra accanto al consiglio di guerra britannico sorge il consiglio imperiale di guerra: nell’intesa si crea un comandante supremo degli eserciti; e si convocano conferenze dei primi ministri e dei segretari di stato agli esteri. Oggi Wilson parla da continente a continente, in nome del mondo intiero sorto in arme contro un tentativo di sopraffazione mondiale sgorgato dritto dal dogma della sovranità.

 

 

Già nel 1913 ben 135 convegni internazionali avevano discusso e taluno di essi, avendo carattere ufficiale, aveva regolato, con la riserva puramente formale della sanzione dei poteri deliberanti dei singoli stati cosidetti sovrani, materie internazionali. Ma quanto son cresciute quelle materie durante la guerra! Coloro che, invasati della mania ragionante della sovranità nazionale, avevano nei primi istanti della guerra farneticato di un inabissamento di tutti gli ideali rapporti fra nazioni, di un ritorno allo stato chiuso, ben dovettero ricredersi, poiché subito si vide che la nostra vita medesima, la nostra resistenza alla schiavitù straniera, le nostre vittorie dipendevano esclusivamente dalla nostra capacità a mantenere quei vincoli e quei rapporti con i paesi di là dal mare. Se un tempo ci fu, in cui parve si dovesse disperare dell’avvenire, quello non fu dopo la disfatta russa, dopo l’invasione del Friuli, dopo l’offensiva del marzo scorso. Fu nel primo semestre del 1917, quando i sottomarini minacciavano di rompere i vincoli fra il continente e le isole inglesi, fra l’Europa e l’America. A nulla avrebbe valso lo sforzo magnifico degli Stati uniti; a nulla avrebbe giovato il martirio eroico dei soldati di Francia e d’Italia se i vincoli fra le diverse parti del mondo fossero stati rotti.

 

 

«In lotta con le imperiose necessità della guerra, – disse Lord Robert Cecil, – le nazioni dell’intesa crearono un organismo economico complesso che permise loro di avere la padronanza del tonnellaggio, delle finanze, degli acquisti, della distribuzione delle materie prime per il bene comune di tutta l’alleanza. Un’organizzazione di questo genere, sovratutto se altre nazioni che non ne fanno parte venissero a riunirvisi, potrebbe servire per costringere tutte le nazioni a far parte della progettata società ed a facilitare la coercizione economica di qualsiasi paese meditasse aggressioni».

 

 

Né, a guerra finita, questo sarà il solo ufficio degli accordi, i quali dovranno moltiplicarsi fra stato e stato. Trattati di lavoro per la tutela dei milioni di lavoratori che le necessità della ricostruzione metteranno in moto, da una contrada all’altra; trattati di commercio per la ripartizione delle materie prime e degli alimenti;trattati coloniali, affinché più non si contempli l’onta di popoli civili intesi allo sfruttamento delle popolazioni nere accorse a difendere in Europa la causa della civiltà; trattati di navigazione sui grandi fiumi, come il Danubio, od attraverso gli stretti; trattati portuali per garantire ai popoli dell’entroterra l’uso dei servigi di quei porti che per ragioni di nazionalità sono collocati entro il territorio del popolo abitante sulla costa; trattati tributari per impedire ai cittadini di uno stato di fuoruscire allo scopo di sottrarsi al pagamento dei tributi imposti dalla guerra. Nessuno di questi trattati sarà una vera menomazione dello spirito di nazionalità. Perché solo le nazioni integrate, consapevoli di se stesse, potranno fare rinuncie volontarie che siano innalzamenti e non atti costretti di servitù. Soltanto le nazioni libere potranno vincolarsi mutuamente per garantire a se stesse, come parti di un superiore organo statale, la vera sicurezza contro i tentativi di egemonia a cui, nella presente anarchia internazionale, lo stato più forte è invincibilmente tratto dal dogma funesto della sovranità assoluta.

 

 



[1] Con il titolo La società delle nazioni. [ndr]

Il discorso di Nitti

Il discorso di Nitti

«Corriere della Sera», 27 novembre 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1959, pp. 745-747

 

 

Il ministro del tesoro non ha voluto esporre un programma definito di finanza e di tesoro, ma ha voluto fare un atto di fiducia nelle forze del paese e nella capacità dello stato ad osservare i suoi impegni. In ciò ha avuto ragione. «Noi non verremo mai meno ai nostri impegni, – egli ha dichiarato dinanzi al parlamento, affermando la grande solidità dei nostri titoli di stato. – Troveremo ora la forza di vincere le difficoltà nuove», ha soggiunto. Non vi è dubbio che questa era una parola di fede che meritava di essere pronunciata, e va data lode all’on. Nitti di averla detta in questa sua prima esposizione finanziaria di pace.

 

 

Quanto ai particolari tecnici del discorso, forse è bene rinviarne l’esame preciso al momento in cui si potranno avere sottomano gli allegati statistici, i quali da tempo sono l’ornamento più bello delle esposizioni finanziarie italiane. I dati presentati in iscorcio nel discorso detto alla camera, non hanno un pieno valore illuminante. Le previsioni per il 1919-20 recano 4 miliardi e 855 milioni per le entrate effettive e 5 miliardi e 515 milioni per le spese effettive; e poiché l’on. Nitti assicura che al disavanzo così previsto si provvederà con il prodotto delle recenti imposte sulle entrate e dei nuovi proposti monopoli, parrebbe potersene dedurre che il prodotto stesso è valutato in 660 milioni circa di lire. Ma troppe sono le domande, le quali si presentano intorno al significato di queste cifre, perché non sia prudente rinviare ogni commento a dopo la lettura degli allegati illustrativi.

 

 

Sebbene il ministro sia stato parco di programmi, non ha evitato di fare talune affermazioni di importanza capitale, le quali vanno messe in rilievo. Una si riferisce alla circolazione dei biglietti a corso forzoso: al 31 ottobre essa era giunta in totale, fra biglietti degli istituti di emissione e quelli di stato a 12 miliardi e mezzo. Cifra, afferma l’on. Nitti, contenuta entro i limiti di necessità. Non contesto ora l’affermazione, la quale può rispondere al vero, ove per «necessità» si intenda l’ambiente complesso in cui l’uomo di governo esercita la sua azione e che non sempre egli tenta di modificare. Ma tutti saranno d’accordo con lui quando egli afferma che “bisogna evitare nuove emissioni ed è d’uopo che il pubblico si convinca che il metodo migliore è di acquistare buoni del tesoro e rendita pubblica” . Mai queste parole furono più vere di oggi. Quando si aggiunga che il pubblico deve convincersi altresì del suo dovere di pagare imposte più estese e dure di quelle attuali, purché equamente repartite, avremo i caposaldi di una buona finanza: 1) imposte nuove ben congegnate; 2) sottoscrizioni a buoni del tesoro e a prestiti; 3) nessuna nuova emissione di biglietti. Il ministro non ha soggiunto: ritiro «dei biglietti emessi» ed in ciò ha usato prudenza. La riduzione della sovrabbondante circolazione non è un problema attuale.

 

 

Un’altra dichiarazione di molta rilevanza è quella di non poter acconsentire ad assumere alcun nuovo onere per la finanza. Così fecero gli on. Sella e Sonnino quando risanarono e salvarono la finanza italiana. Ma occorrerà che sia chiarito bene il significato dell’impegno assunto dal ministro con queste parole. Come si concilia desso con la promessa di «un vasto sistema di assicurazioni operaie e di provvidenze a favore dei contadini e dei marinai?»; e con il grande programma di opere pubbliche da lui annunciate? Provvidenze queste che, se bene attuate, devono incontrare il plauso, anche se imporranno all’erario nuovo dispendio.

 

 

Forse l’on. Nitti ha voluto dire che debbono escludersi tutte le spese, le quali non giovino all’incremento della produzione. Sul quale punto egli insiste a lungo e con efficacia. Forse non con sufficiente chiarezza; poiché non sembra che sia indiscusso il canone da lui esposto per conseguire la massima produzione: «Bisogna comprare all’estero solo le materie prime necessarie all’industria e ciò che è necessario alla vita alimentare. Il resto dobbiamo produrre noi stessi». È evidente che l’attuazione di questo canone è impossibile. Molte cose che non sono materie prime e neppure derrate alimentari non si possono o non conviene produrre in Italia; anzi, se comprandole all’estero noi riusciamo a dare in cambio cose da noi prodotte dov’è il danno? Noi possiamo comperare con vantaggio orologi all’estero e libri, se li comperiamo vendendo arancie o vino. L’essenziale non è di ostinarsi a comprare poco, o solo certe cose, sebbene di produrre molto e a buon mercato e di cose desiderate da altri. Quando ciò accada, potremo comprare quelle cose che a noi sembreranno più convenienti. Il vero problema della produzione è: migliorare i valori spirituali e morali del contadino e perfezionare l’abilità tecnica dei dirigenti e dei lavoratori, lo spirito di intrapresa, la sicurezza degli investimenti, sicché la produttività sia spinta al massimo. Il popolo italiano ha dimostrato coi sacrifici sostenuti e col valore suo in campo, di essere capace di innalzarsi: e questa sua capacità è la vera arra dei suoi progressi futuri.

 

 

I nuovi monopoli fiscali

I nuovi monopoli fiscali

«Corriere della Sera», 25 novembre e 19 dicembre[1] 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1959, pp. 738-744

 

 

I

I nuovi monopoli decretati dal governo si riferiscono a derrate o merci che, quasi tutte già formavano oggetto di esclusività governativa per fatto di guerra. Il decreto non fa altro che perpetuare per l’avvenire lo stato di fatto esistente: il che, se sotto un certo rispetto facilita l’assunzione dei nuovi monopoli da parte dello stato, non ne attenua menomamente l’importanza. Notisi ancora che trattasi di monopoli di vendita – esclusività dell’approvvigionamento e della vendita, dice il decreto – e non di produzione, salvoché per il mercurio e per la chinina, per cui lo stato si attribuisce altresì il monopolio «della estrazione”».

 

 

Il giudizio intorno ai nuovi congegni tributari può essere duplice dal punto di vista finanziario e da quello industriale. Io non sono ammiratore della finanza fondata sui monopoli e non posso quindi non restare dubbioso intorno alla saggezza di estendere tanto e d’un tratto il numero delle merci vendute in privativa dallo stato a scopo fiscale. In fondo, se noi facciamo astrazione dal «nome» di «monopolio» dato a questi nuovi tributi, e da quella certa vaga coloritura di socialismo con la quale si cerca di renderli simpatici, trattasi di nuove imposte sui consumi. Qui sorgono dubbi ed osservazioni critiche:

 

 

  • Non è simpatico dar inizio alla finanza post-bellica tassando i consumi invece che i redditi, sia pure, come io vorrei e come esige la giustizia vera, i redditi consumabili ossia diminuiti delle quote di risparmio per la vecchiaia, gli infortuni, l’assicurazione della vedova e dei figli, ecc. ecc.

 

 

È vero che l’on. Meda ha fatto precedere a questo decreto legge un altro che istituiva un’imposta complementare progressiva sul reddito. Ma questo nuovo balzello non colpisce il reddito, tassa solo alcune categorie di redditi, scelti esclusivamente fra quelli che sono già sovraccarichi di imposte di ogni fatta, ed esenta quei redditi che imposte non pagano.

 

 

  • Volendo tassare i consumi, il che si può e si deve fare, bisogna fare una scelta. Sotto questo rispetto parmi che pecchino contro l’elementare canone, il quale condanna come sperequate e tali da colpire maggiormente i poveri i nuovi monopoli del petrolio e del carbon fossile, in quanto questi due prodotti servano a scopo di illuminazione e di riscaldamento. Buono il monopolio sul tè, consumato in Italia solo da gente agiata. Discreti sono quelli sulla benzina e sulle lampadine elettriche che colpiscono, come oggetti di consumo diretto, i proprietari di vetture automobili e gli utenti di luce elettrica, già tassati sotto altra forma. A mala pena tollerabili, per ora, sono invece i monopoli del caffè e dello zucchero e diventeranno sempre più cattivi, a mano a mano che l’uso di queste derrate andrà generalizzandosi. Già fin d’ora, trattasi di tributi i quali colpiscono le persone i cui redditi sono rimasti fissi e non paiono suscettibili di aumento; zucchero e caffè essendo, col latte, diventati, durante la guerra, ancor più di prima il cibo preferito delle donne di mezzi modesti, dei vecchi, dei pensionati, dei piccoli impiegati, di tutta la minuta borghesia e dei suoi figli, la quale è la classe fra tutte più danneggiata dagli alti prezzi, per la difficoltà di rivalersene con l’aumento dei salari.

 

  • Anche per i prodotti suscettibili di imposta, rimane il quesito: è il monopolio il miglior mezzo tecnico per raggiungere il fine? Perché tutto si riduce lì: se volendo ricavare da un prodotto 10 milioni di lire, sia più conveniente tassarlo addirittura con un’imposta sui produttori, lasciandone libere la produzione e la vendita, ovvero assumerne il monopolio, lucrando sulla differenza fra il costo per l’erario ed il prezzo di vendita al pubblico. In generale, pare preferibile la prima soluzione, come quella che dà un provento più sicuro, evita il crescere della burocrazia statale, risparmia allo stato rischi ed avventure di ogni genere. Ne vale opporre i milioni che lo stato può aver guadagnato con questi medesimi prodotti durante la guerra; poiché non fa d’uopo gran merito per guadagnare quando tutti i prezzi salgono e tutti pagano prezzi alti sui redditi cresciuti. Il successo sarà più problematico quando i prezzi caleranno e scemeranno perciò anche i redditi ed ai consumatori parrà assai più rincrescevole d’oggi pagare prezzi alti di cui lo stato avrà d’uopo per far fruttare i suoi nuovi monopoli. Su questo punto, vedremo i chiarimenti tecnici che il governo darà per dimostrare con ragionamenti plausibili e con dati sicuri – auguro che la relazione non sia una delle solite a frasario generico, che non dicono nulla, ma invece sostanziosa – che il metodo tecnico da esso adottato per tassare è più perfetto dei metodi soliti delle imposte sulla fabbricazione e dei dazi doganali che l’esperienza aveva chiarito efficaci e produttivi.

 

 

Il problema può essere considerato anche dal punto di vista industriale. Qui sorgono le maggiori preoccupazioni. Lavorare a costi bassi sarà il canone fondamentale della nuova vita economica nel dopo guerra. L’uomo consumatore diretto può adattarsi a pagar caro il caffè, il tè, lo zucchero, la benzina, le lampadine elettriche, ecc. ecc. Ma l’industria non potrà adattarsi a pagar care le sue materie prime ed i suoi combustibili. Ne va della sua vita e della sua capacità di concorrenza sui mercati internazionali. Il monopolio di stato darà all’industria il petrolio, la benzina, la paraffina, gli oli minerali pesanti e leggeri, l’alcool denaturato e sovratutto il carbon fossile a prezzi più bassi di quelli a cui gli industriali stranieri potranno acquistarli? Se il prezzo non sarà più basso od almeno non superiore, vedo giorni brutti per l’industria italiana. Quando i tessitori, i filatori, i meccanici, gli industriali in genere dovranno lavorare di nuovo, come fatalmente dovrà avvenire, su margini di centesimi, il maggior costo dei combustibili potrà sonare le campane a morto per la nostra industria. Per questi prodotti l’esperimento iniziato dal governo mi sembra pericolosissimo.

 

 

Pochissimi credono che sul serio lo stato abbia la capacità di vendere a prezzi più bassi del commercio privato. Perché, del resto, correre un’alea così grande, di cui la posta è l’esistenza e la prosperità dell’economia nazionale? Per questi prodotti, non si può parlare di scopi fiscali, perché lo stato, se non vuole diventare il nemico più crudele del proprio paese, dovrà lavorare al costo, senza utile. A che pro il monopolio? Voglio escludere che si tratti solo di fare del collettivismo per scopo artistico. Inoltre, lo stato, se non vuole cagionare danni privati inescusabili, dovrà pur provvedere alle migliaia di intermediari che onestamente guadagnano la vita, commerciando i prodotti ora monopolizzati. Era un’occupazione lecita; e non sarebbe corretto che lo stato lasciasse sul lastrico gente forse attempata, che dedicò la sua vita a questo lavoro di preferenza che ad altri. La ragion pubblica, se esiste, non deve essere motivo di arrecare ingiusto danno agli uni per beneficare gli altri.

 

 

In conclusione, se alcuni pochi di questi monopoli paiono accettabili, gli altri sono circondati da una così fitta nebbia di dubbi e di timori, che per il carbon fossile diventano, per chi pensi all’avvenire del paese, quasi angosciosi, da costringere a far voti che il parlamento sappia discutere a fondo il decreto legge presentato alla sua approvazione. Discutere bisogna, perché si tratta di problemi gravi. Certa cosa è che, con questo decreto, la finanza del dopo guerra non ha ancora trovato la sua via regia.

 

 

II

La proposta di creare nuovi monopoli fiscali mi ha procurato lettere, del cui contenuto mi sembra doveroso fare pubblico cenno. «Dall’età di vent’anni – leggo in una di queste lettere – il sottoscritto trasse nel ramo dei carboni il necessario per vivere e per crearsi una famiglia e così sino a che, chiamato alle armi, dovette troncare ogni suo lavoro. Difese la patria sul Piave nel tragico novembre del 1917 e contribuì a salvarla nel giugno di quest’anno. Ora che la fine gloriosa della nostra guerra gli lasciava prevedere colla smobilitazione la ripresa del suo lavoro e con questo la sistemazione della sua futura vita privata, giunge la notizia del monopolio sui fossili per troncargli ogni speranza e per aggravargli le non già lievi preoccupazioni per l’avvenire. Non è a trentacinque anni che così facilmente si possa passare da una professione all’altra!»

 

 

Questo caso è tipico di molti altri; e dinanzi a queste invocazioni angosciose non si può, non si deve rimanere impassibili. Il decreto del 18 novembre non si preoccupa, quasi non esistesse, di questo problema. Appena gli articoli 5 e 6 autorizzano il governo al solito allargamento di «organici» nel limite, per ora, della spesa complessiva di 350.000 lire; stabilendo che «tutto il personale potrà essere scelto, in deroga di qualunque disposizione contraria vigente, anche tra i funzionari di amministrazioni dello stato diverse da quella delle finanze, e per un terzo anche tra estranei all’amministrazione». Pare che il governo si sia preoccupato sovratutto di far posto a funzionari delle gestioni e dei commissariati governativi che dovrebbero scomparire colla fine della guerra, lasciando il minimo spiraglio possibile aperto agli estranei all’amministrazione. Né è detto che il minimo del terzo sia riservato a coloro che finora vissero del commercio dei generi ora monopolizzati e che sarebbero messi sul lastrico.

 

 

Nella calorosa difesa dei monopoli che l’on. Meda ha pronunciato al senato, egli, pur non disconoscendo il valore degli appunti mossi alla burocrazia, ha asserito soltanto che essa poteva trasformarsi e diventar migliore. Trattasi di una speranza, che potrà avverarsi a lunga distanza di tempo; ma non risolve il problema odierno, il quale è di vedere come ad un personale sperimentato, pratico per interesse e per lunga consuetudine del mestiere, si possa conservare l’ufficio suo invece di consegnarlo ad una burocrazia, che dovrebbe ancora imparare il mestiere. Il ministro afferma che gli interessati sono pochi, presumibilmente non bisognosi e capaci di trovare cento altre vie per far fruttare il proprio lavoro. Può essere. Il ministro afferma e non dimostra. E in ogni caso quale ragione v’ha per togliere il pane di bocca a coloro che hanno dimostrato di saperselo guadagnare e desiderano di continuare a guadagnarselo nel modo antico, sia pure servendo lo stato e col vantaggio per questo, che essi si contenterebbero, invece che di stipendi fissi, di provvigioni aleatorie proporzionali al lavoro fatto?

 

 

In un punto di così grande rilevanza non si può, pur serbando la maggiore moderazione di critica e di proposte, rimanere silenziosi. Per fortuna, il problema non tocca l’industria privata; né, invocando provvidenze riparatrici, si incorre nella taccia, che del resto sarebbe doveroso sopportare ed altra volta sopportai con animo sereno, di difendere gli interessi del capitale. Ancora una volta è in causa la sola giustizia; ma questa oggi tocca soltanto lavoratori, per lo più modesti lavoratori, rappresentanti, agenti di case forestiere, commessi viaggiatori, gente che si era formata, colla solerzia e coll’abilità, una clientela affezionata e viveva di questa. Orbene, io dico che bisogna almeno capovolgere le proporzioni e riservare due terzi – e sono pochi – dei posti direttivi ed ispettivi dei nuovi monopoli commerciali a chi si è fatto una posizione nei commerci che ora si monopolizzano. La avocazione allo stato di alcuni rami di commercio non deve essere un’occasione per trarre a rovina i «competenti» , coloro che conoscono la clientela, i suoi bisogni e saprebbero rendere allo stato preziosi servizi. I posti lasciati ai funzionari centrali sia delle finanze, sia di altri ministeri o commissariati dovrebbero essere limitati ad un terzo, anzi meglio, assai meglio, ad un decimo; e preferibilmente per i soli compiti di controllo e di contabilità. E non due terzi o nove decimi, ma tutto il personale esecutivo e «produttore» , quello che è a contatto colla clientela, bisognerebbe assumere dal commercio. Per evitare favoritismi e scelte di pretesi «competenti» improvvisatisi tali solo per essere assunti dallo stato, per la prima volta il ministro dovrebbe scegliere i nuovi funzionari sulla presentazione delle rispettive associazioni commerciali ed industriali. L’abilità commerciale non si dimostra in concorsi ed in disbrigo di pratiche; ma nel fatto dei successi ottenuti e di questi nessun migliore giudice degli antichi principali che hanno saggiato alla prova i loro dipendenti.

 

 

Per molte ragioni – esercizio anche di altri commerci o rappresentanze rimaste libere – lo stato non dovrà soggiacere a troppa ressa di domande; ed in ogni caso titolo di preferenza dovrebbe essere l’aver dovuto abbandonare il lavoro per accorrere sotto le bandiere e l’avere combattuto in difesa della patria. Un atroce disinganno attenderebbe costoro se, dopo avere avuto la promessa del ritorno ai posti antichi, se li vedessero, alla pace, portati via dallo stato e concessi a chi col carbone e col caffè, collo zucchero e col petrolio, coll’alcool denaturato e colle lampadine elettriche non aveva mai, negli uffici ministeriali romani, avuta alcuna familiarità, salvo come consumatore!

 

 

Se il governo, volendo istituire monopoli, non avesse soltanto pensato alla forma più «antiquata» , ossia alla amministrazione diretta di essi, con i relativi malanni degli organici, della burocrazia, degli alti costi, i quali renderanno illusoria la speranza di ottenerne proventi assai superiori a quelli sperabili con le solite imposte sui consumi; ma avesse studiato le nuove forme moderne di gestione semipubblica – proposte anche da socialisti riflessivi, come Sigismondo Balducci, su «La critica sociale» del Turati, sebbene con modalità discutibili e con estensione inaccettabile ad un’infinità di intraprese – che da tempo sono studiate ed hanno già trovato fortunate applicazioni, questo spinoso e doloroso problema del personale non sarebbe sorto. La Banca d’Italia, a dirla in breve e con un esempio nostrano, è il modello dei monopoli moderni: amministrazione privata, con direttore nominato dallo stato e controllori governativi; gestione libera, senza impacci contabili e burocratici, con profitti, tra tasse e partecipazione, per la parte più cospicua devoluti allo stato. Nessun impiego gravante sul bilancio pubblico; e tutti serbanti contatti bastevoli colla vita degli affari per non perdere il senso della economicità pur non dimenticando l’ossequio all’interesse pubblico. Certo, la costituzione di un’impresa semipubblica è compito più complesso che non lo scrivere un decreto di monopoli foggiati nell’arcaica maniera, tramandataci dai secoli XVII e XVIII. Ma non bisogna mai dimenticare che l’arte di ben governare va diventando sempre più ardua e complessa. Vera gloria si acquista nell’affrontare e non nello schivare le difficoltà.

 

 


[1] Con il titolo I nuovi monopoli e la questione del personale [ndr]

Di alcune riforme nell’imposta sui profitti di guerra

Di alcune riforme nell’imposta sui profitti di guerra

«Corriere della Sera», 10 novembre 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1959, pp. 731-737

 

 

L’on. Meda ha conservato della sua antica consuetudine di pubblicista il lodevole bisogno di mettersi direttamente in rapporto col pubblico, per dare ad esso ragione degli atti suoi di ministro. In un recente studio su «Vita e pensiero» egli ha esposto le vicende della legislazione su l’imposta sui profitti di guerra, che ha dato luogo nel breve periodo di sua vita a moltissimi decreti ed a tre testi unici, del 19 novembre 1916, del 14 giugno 1917 e del 9 giugno 1918. L’on. Meda ha ragione di dire che i decreti, se paiono molti, non furono troppi; ché, trattandosi di materia nuova, non poteva immaginarsi che la nuova imposta venisse fuori perfetta nel primo getto, come Minerva dalla testa di Giove. Ed in verità, le riforme da lui elencate o rispondono a criteri di giustizia, come quelli relativi agli ammortamenti straordinari, o di necessità, come le severissime sanzioni contro i contravventori alla legge di imposta.

 

 

Poiché, come riconosce lo stesso ministro, l’era delle correzioni non può ritenersi chiusa, sia lecito discorrere di alcuna di esse nell’interesse dei contribuenti e nel tempo stesso dell’erario, il quale, fatta ragione alla necessità di pagare, si identifica sempre con quello dei primi. Per ragione di brevità , non mi è possibile dilungarmi su punti specifici, come quello della deduzione degli ammortamenti straordinari, che a ragione l’on. Meda ristrinse ai nuovi impianti ed alle trasformazioni fatte nel periodo bellico per la esecuzione – prima dicevasi in contemplazione ed era dicitura troppo lata – di forniture di guerra. Ma perché solo per le forniture di guerra? Forseché si dovettero fare impianti nuovi solo per le forniture belliche? E forseché gli industriali, che non lavorano per lo stato, ma ottennero profitti di guerra, non sono chiamati a pagare la relativa sovrimposta? E non è forse strettissima giustizia concedere anche ad essi, che son tassati, il diritto ad ammortizzare rapidamente i sovraprezzi pagati per i nuovi impianti, sovraprezzi che a fine guerra si ridurranno a valore zero?

 

 

Un problema degno invece di particolare commento è quello importantissimo di cui si occupa nel suo articolo l’on. Meda: quello relativo alle discrepanze fra il reddito presente ed il reddito vero ordinario in confronto di cui si deve stabilire il reddito di guerra. È noto che il profitto di guerra, per le imprese che già esistevano prima della guerra, si stabilisce confrontando il profitto totale del 1914-15, del 1915, del 1916, ecc., con quello ordinario del 1913-14; e per reddito ordinario si intende la media di quello definitivamente accertato in quei due anni agli effetti dell’imposta di ricchezza mobile. Tizio nel 1913-14 pagava l’imposta di ricchezza mobile per un reddito di 100.000 lire; nel 1918 lucra 300.000 lire. Reddito di guerra, tassabile con la sovrimposta, è la differenza di 200.000 lire.

 

 

La presunzione starebbe se prima della guerra gli accertamenti fossero stati conformi al vero; se cioè Tizio in realtà avesse lucrato solo 100.000 lire su cui pagava imposta. Le cose invece, come è ben noto, stanno ben diversamente. Come ho già avuto occasione di spiegare assai volte, gli accertamenti erano molto inferiori al vero. Non solo per colpa del contribuente; ma anche per rilassatezza della finanza. Anzi direi che erano inferiori al vero per principio. Siccome da lunghi anni la condiscendenza era la regola, gli stessi agenti delle imposte e le commissioni avrebbero giudicato scorretto – ed in verità guardando alla giustizia sostanziale lo sarebbe stato – tassare i contribuenti sul vero. Quando tutti erano tassati su 5 invece che su 10, come potevasi, volendo usare giustizia distributiva, tassare un commerciante su tutti i suoi 10, anche se questi erano dimostrati e conosciuti dalla finanza?

 

 

Viene la guerra: e con essa vengono i relativi profitti e conseguente tributo. Tizio che lucrava già 200.000 lire all’anno e quindi in realtà, giungendo a 300.000 lire, ebbe un profitto vero di guerra di 100.000 lire, si vide tassato sulla differenza fra 300.000 lire e le 100.000 lire accertate nel 1913-14 ossia per 200.000. L’imposta cadde sul doppio del vero suo sovraprofitto di guerra, essendosi, come osserva l’on. Meda «dichiarato reddito straordinario e quindi colpito anche dalla sovrimposta un reddito che in realtà non era straordinario e dovuto alla guerra, ma ordinario e preesistente» . Il ministro non può quindi disconoscere «l’equità dell’istanza diretta ad ottenere che i contribuenti fossero ammessi a dimostrare come il loro reddito ordinario fosse non quello su cui avevano pagato, ma superiore, tanto più che meritava qualche considerazione anche il beneficio futuro della finanza». E così fu che a partire dal 1 gennaio 1918, e cioè per i periodi 1918 e 1919, i contribuenti furono ammessi a provare che il reddito ordinario, calcolato secondo le norme sovra indicate, non corrisponde alla media dei redditi effettivamente prodotti nell’anno 1913.

 

 

La soluzione escogitata dall’on. Meda a primo tratto appare, e parve un momento anche a me, sufficiente. Ma riflettendovi più a lungo, si vede che essa è profondamente viziata e merita di essere corretta.

 

 

È viziata moralmente per i contribuenti che già sono tassati. Essa viene a dire: «io, finanza, riconosco che per il passato ho tassato ingiustamente 200.000 lire mentre avrei dovuto tassare solo 100.000 lire; tant’è vero che per l’avvenire (1918-19) rimedio all’ingiusta presunzione di un reddito ordinario inferiore e di un sovrareddito bellico superiore al vero e riduco la tassazione alle corrette 100.000 lire. Ma per il passato, quel che è stato è stato» . Può lo stato parlare così, anche in tempo di guerra e riconoscere esplicitamente, in un testo di legge, di aver usato ingiustizia, senza sentirsi tratto immediatamente a rimediare all’ingiustizia commessa? Tanto più che della erroneità degli accertamenti passati è colpevole lo stato almeno altrettanto, ed a parer mio assai di più, dei contribuenti; lo stato «reo confesso di aver messo le mani su roba non sua e candidamente ostinato a non disfarsi del maI riscosso», ecco una situazione morale insostenibile.

 

 

Per i contribuenti non ancora tassati, oltre il danno morale, vi è il pregiudizio economico: per il contribuente e per l’erario. Che esistano contribuenti soggetti all’imposta sui profitti di guerra e non ancora scoperti è una verità di fatto, la quale è dimostrata dalla circostanza che la finanza, con decreti successivi, si è fatta autorizzare a protrarre la data, al di là della quale cade in prescrizione il suo diritto di investigare sui redditi formatisi nel 1914-15-16 e seguenti. Un recentissimo decreto ha prorogato quella data fino a tutto il terzo anno successivo a quello in cui le dichiarazioni mancate o tardive dei redditi di guerra da parte del contribuente avrebbero dovuto essere fatte. Non oserei criticare questo diritto insolito che in tempi normali si direbbe sovvertitore della vita economica – a far pendere per lunghi anni una vera spada di Damocle sul capo dei contribuenti anche per redditi formatisi, come quelli del 1914-15, in un passato quasi remoto ed andati soggetti a chissà quali vicende di consumo e di investimento, se la finanza si comportasse con equità. La prima esigenza dell’equità è di tassare come profitto di guerra solo ciò che è tale e non ciò che era già in realtà reddito ordinario di pace. Dinanzi a pretese inique, è naturale, è – ho detto qui tante volte e ripeto – giusto e lecito che i contribuenti si difendano. La lotta non è più fra la maestà della legge ed il cittadino ribelle: è fra l’errore ammantato della veste del diritto e la giustizia. Come si può sperare che Tizio, se finora non fu scoperto, si affretti oggi a denunciare il suo reddito totale di 300.000 lire? Egli da un lato desidererebbe mettersi in regola colla finanza e colla sua coscienza tributaria che la guerra ha affinato. Sarebbe disposto a dire al fisco: «Voi mi avete accertato un reddito di sole 100.000 lire. In realtà io ne guadagnavo già prima 200.000 lire e ne guadagno ora 300.000 lire». Ma se egli così parla:

 

 

  • Dal 1 gennaio 1918 in poi, egli sarà colpito dall’imposta ordinaria di ricchezza mobile su tutto il dippiù, 200.000 lire che lucra oltre le 100.000 accertate e dalla sovrimposta di guerra per le 100.000 lire di vero sovraprofitto. E qui, poiché la tassazione è giusta, egli non ha nulla a ridire.

 

  • Ma per i tre esercizi decorsi, 1914-15, 1916 e 1917, continua a vigere la presunzione erronea, corretta solo per l’avvenire, che il sovraprofitto di guerra sia uguale al sovrappiù sul reddito ordinario accertato di 100.000 lire e non sul reddito ordinario vero di 200.000; e quindi egli sarebbe chiamato a pagare l’alta imposta sui sovraprofitti anche sulle 100.000 che erano reddito di pace. Dinanzi a tale scorrettezza di tassazione ed a tale ingiustizia egli arretra. E sta zitto. Se scoperto, cerca ogni modo per salvarsi. In definitiva, chi perde è la finanza che, per voler stringere troppo, perde anche il dovuto.

 

 

È manifesto che il legislatore non può rimanere a mezza via; non può togliere l’errore per I’avvenire e mantenerlo per il passato. È dovere morale dello stato ed è suo interesse finanziario, non quello gretto del momento, ma quello, unicamente apprezzabile, a lunga portata, di ammettere tutti i contribuenti, già tassati o tassabili in avvenire, a dar la prova che il loro reddito ordinario vero nel 1913 era già superiore a quello accertato ai fini dei ruoli del 1913-14. Unico inconveniente, e dico inconveniente e non danno, sarebbe che lo stato dovrebbe eventualmente rimborsare la sovrimposta di guerra esatta su ciò che non era reddito di guerra. Ma quale persona perbene arretra dinanzi agli inconvenienti di compiere un suo categorico dovere?

 

 

Di contro a questo inconveniente, stanno parecchi notevolissimi vantaggi:

 

 

  • ristabilire l’uguaglianza di trattamento fra contribuenti privati e società anonime. Il trattamento giusto che invoco per i privati industriali e commercianti già è goduto dalle società anonime. Queste sono tassate sui risultati del bilancio; e se oggi si scopre che un bilancio del 1913 o del 1914 era stato impostato in guisa da nascondere la verità, questa viene ristabilita con effetto retroattivo. Perché non dare il medesimo diritto ai privati?

 

  • si darebbe un premio ai contribuenti che possono dare la prova dell’esistenza per il 1913 di un reddito ordinario vero maggiore di quello accertato. Non saranno in molti a poter dare questa prova; poiché occorrerà avere una contabilità perfettamente in ordine e squadernare dinanzi alla finanza i fatti della propria vita dal 1 gennaio 1913 in poi;

 

  • l’erario rinuncerebbe, è vero, alle ingiuste tassazioni, già avvenute e future, in tema di sovrimposta sui profitti di guerra, ma in parte otterrebbe il ricupero di ciò a cui rinuncia in tema di imposta di ricchezza mobile. Oggi, esso può risalire, quando scopre un reddito maggiore di quello accertato in pace, sino al 1 luglio 1914. Domani, di fronte ad un contribuente, il quale dimostrasse di sua iniziativa che già nel 1913 il suo reddito ordinario era maggiore di quello accertato, lo stato giustamente potrebbe dire: «La tua confessione è onesta e vera. Sta che il tuo reddito ordinario era già di 200.000 lire invece delle 100.000 accertate; e perciò sta che io debbo tassare con la sovrimposta di guerra solo l’eccedenza oltre 200.000 lire, qualunque essa sia. Ma sta anche, per tua stessa confessione, che tu lucravi già fin dal 1913 il doppio di quanto appariva dai ruoli; quindi pagami gli arretrati dell’imposta di ricchezza mobile sul non denunciato fin dal 1 gennaio 1913 invece che solo dal 1 luglio 1914» . Né i contribuenti onesti potrebbero nulla eccepire;

 

  • finalmente si darebbe un altro tocco a quell’edificio di veracità e di rigidità negli accertamenti che, fin dal primo comparire della imposta sui profitti di guerra, ho prognosticato dover essere il vero e probabilmente il solo benefico risultato del nuovo balzello. Sono sempre rimasto molto scettico, sia per Il suo concetto informatore sia per il carattere insolito delle sue altissime aliquote, di fronte all’imposta sui sovraprofitti; né troppo mi commuovono le centinaia di milioni ed i miliardi che in Italia ed all’estero essa frutta. Troppo mi han l’aria di una fantasticheria e di un andirivieni fra l’una e l’altra cassa pubblica; fra la cassa che paga le forniture e la cassa che riscuote i tributi. Ma non sono una fantasmagoria in Italia la nuova severità negli accertamenti; le norme intese a permettere di scrutare nei libri dei contribuenti; i poteri nuovi dati ai funzionari delle imposte e la maggiore dignità, in che questi sono tenuti. E tutto ciò è destinato a restare ed a produrre frutti in avvenire. Su questa via soltanto è possibile rinnovare le strutture delle nostre imposte sui redditi e renderle fruttifere di veri miliardi, quando la guerra e l’imposta sui profitti di guerra saranno un fatto trascorso da tempo. Ma, per rinnovarsi, la finanza deve abbandonare il vecchio sistema dei tiri mancini, il vecchio gioco del lasciar correre e poi giovarsi delle confessioni fornite dal contribuente per altri scopi, che sono screditati arnesi dei legislatori e degli agenti delle imposte vecchio stile. Fair play, gioco equo da ambe le parti: tale deve essere, sempre, in ogni caso, la divisa della finanza nuova.

Il decreto Villa sulla marina mercantile ed un equivoco tributario

Il decreto Villa sulla marina mercantile ed un equivoco tributario

«Corriere della Sera», 29 ottobre 1918[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1959, pp. 725-730

 

 

Si è accesa sui giornali quotidiani, a proposito di un decreto cosidetto Villa del 18 agosto 1918, una vivace polemica intorno ai pericoli che quel decreto fa nascere per l’avvenire della marina mercantile. La polemica è irta di questioni minori ed ingarbugliate, su cui non intendo trattenermi. Né il punto principale è chiarissimo. Trattasi di uno di quei molti problemi che la cattiva politica monetaria di tutti i paesi belligeranti, ed anche del nostro, ha inacerbito oltre il suo segno naturale. Quella politica ha fatto sorgere ricchezze nuove, in gran parte immaginarie ed ha dato luogo a contese violente fra classi sociali, fra contribuenti e stato, contese le quali spesso conducono a soluzioni ingiuste e confiscatrici.

 

 

Tento di chiarire quella che si può chiamare la parte tributaria del problema cominciandone ad illustrare un altro: quello della soccida dei buoi nei contratti di mezzadria. Praticamente, il contratto di soccida è quello per cui il proprietario del fondo dà al mezzadro un paio di buoi, da mantenere coi prodotti del fondo e da usare per i lavori inerenti al fondo stesso. Al momento della vendita, se c’è lucro in confronto al prezzo d’acquisto, si divide fra proprietario e mezzadro. Anche le perdite spesso dovrebbero dividersi, ma per lo più si mettono a debito del mezzadro, il quale rimborserà in una futura occasione di lucro. Il contratto appare equo, ed effettivamente è, se si bada al vantaggio di stimolare il contadino ad aver cura del bestiame, sicché questo non deperisca, anzi si ingrassi. Esso si riduce in sostanza ad una divisione del maggior prezzo dovuto all’ingrasso. Ad ogni cambiamento di bovini nella stalla, proprietario e contadino dividono il lucro dell’ingrassamento e, tornando a ricomprare buoi giovani e magri, sperano di ripetere la buona operazione.

 

 

Che cosa è successo durante la guerra, in seguito al fenomenale rialzo dei prezzi dei buoi? La parziale espropriazione dei proprietari a vantaggio dei mezzadri; sicché i primi stanno inferocendosi ed i secondi cercano di svignarsela coll’inopinato gruzzolo. Suppongasi infatti che in illo tempore, nel 1914, un paio di buoi giovani e magri fosse stato acquistato per 1.000 lire. I buoi ingrassano e crescono d’età e sarebbero stati venduti per 1.400 lire; ma il rialzo di prezzi fa realizzare 2.000 lire. Padrone e contadino, lieti, si spartiscono l’utile: 500 lire a testa. Ma il padrone rimane con 1.500 lire (compreso l’utile); ed è molto se con queste può comprare tredici quindicesimi di un paio di buoi giovani e magri. Il resto, 200 lire, li deve rimettere di tasca sua, per comprare il paio completo a 1.700 lire. La volta successiva, l’affare è ancora migliore, per il mezzadro. Il paio di buoi si vende a 3.000 lire, con un lucro di 1.300 lire sul prezzo d’acquisto. Il mezzadro incassa 650 lire ed il proprietario rimane con 2.350 lire, compreso l’utile. Se vuole acquistare il solito paio, ora che i buoi giovani e magri sono saliti di prezzo più dei grassi, deve spendere 2.600 lire. Altre 250 lire investite. La volta successiva il prezzo di vendita è di 5.000 lire. Il lucro, di 2.400, fa guadagnare al mezzadro 1.200 lire, mentre il proprietario rimane con 3.800 lire. Se vuole acquistare il solito paio giovane, il proprietario deve rimettere 700 lire. Fermiamoci qui; ché se si andasse avanti si arriverebbe a cifre sbalorditive. Il sugo della faccenda è che il mezzadro, a diverse riprese, ha intascato 2.350 lire di lucro effettivo, ed il proprietario ha speso 1.150 lire e si trova col paio di buoi di prima. Valgono, è vero, in inventario 4.500 lire; ma v’è ogni probabilità che dopo qualche anno ribassino. Da chi si farà rimborsare la perdita? Il mezzadro se la sarà svignata, col gruzzolo in tasca cambiando podere e rendendosi nullatenente. Nel migliore e quasi impossibile dei casi, si tratterà di un rimborso parziale. Buon per lui che all’agente delle imposte non può venir in mente di tassarlo sui sovraprofitti di guerra, ché i proprietari sono esenti. Altrimenti, gli toccherebbe danno doppio: perdere capitali e pagare imposta su fantasticati guadagni.

 

 

Alla marina mercantile sta succedendo qualcosa di simile a quanto capita per i buoi nei contratti di soccida. Al posto del proprietario di terreni mettiamo l’armatore di navi ed al posto del mezzadro lo stato. In uno dei punti più controversi – ve ne sono molti; ma è impossibile occuparsi di tutti in un articolo – il sistema del decreto Villa pare sia questo: lo stato, che noleggia una nave, deve pagare il premio di assicurazione contro i rischi di guerra. E fin qui va bene. Chi usa una nave a proprio vantaggio, deve pagare le spese di esercizio; e fra queste v’ha il premio di assicurazione. Ma quando la nave va a fondo, l’indennità è divisa in due parti: il rimborso del prezzo di costo ed il maggior valore della nave al momento della perdita. La nave costava all’armatore 1 milione di lire ed era invece stata assicurata per 2 milioni di lire, perché tale era il suo valore corrente, in seguito all’aumento del prezzo delle navi? Della indennità di 2 milioni pagata dall’istituto di assicurazione, una metà, 1 milione di lire, è pagata all’armatore, come rimborso della sua spesa; l’altra metà, considerata come lucro, 1 milione di lire, va allo stato, il quale, bontà sua, le anticiperà a condizioni di favore, all’armatore affinché possa acquistare o far costruire una nuova nave intiera.

 

 

La cosa pare equa, ma in effetto conduce dritto dritto all’espropriazione, senza indennità, degli armatori di navi. Già ora l’armatore possiede solo la proprietà di mezza nave. Se messa in mare, questa, del costo di 2 milioni di lire, gravata di un’ipoteca navale a favore dello stato di 1 milione di lire, torna a perdersi, per fatto di guerra, quando il suo valore corrente è divenuto di 3 milioni di lire – faccio un esempio teorico, ma in passato gli aumenti furono ancor più fenomenali – lo stato rimborsa al proprietario 2 milioni di lire di costo e si tiene per sé 1 milione di lire, anticipandole nuovamente all’armatore. Questi fa costruire la terza nave, spendendo 3 milioni di lire. Supponiamo che a questo punto la guerra finisca e si sia alla fine del periodo di intensi trasporti immediatamente successivi. L’armatore ha una nave, che gli costò 3 milioni e su cui egli deve allo stato 2 milioni di lire. In apparenza, egli ha sempre il vecchio milione che aveva investito. In realtà, egli ha una nave, che, quando entreranno in servizio civile i milioni di tonnellate ora adibiti a servizio militare ed i milioni che i cantieri del nord America e dell’Inghilterra si stanno costruendo, andrà giù di prezzo a rotta di collo. Basterà che la nave ribassi da 3 a 2 milioni, cosa facilissima, perché l’armatore sia ridotto al verde: 2 milioni all’attivo e 2 milioni di debito verso lo stato al passivo. Se la nave andrà più giù, l’armatore deve fallire e lo stato potrà portargli via, oltreché la nave, anche il resto del suo patrimonio.

 

 

Oggi, nelle campagne a mezzadria, i contadini non vorrebbero far altro che comprare e vendere buoi, e fanno ogni sorta di angheria ai buoi stessi, per persuadere i proprietari del pericolo di tenerli. I proprietari, dal canto loro, vedono con terrore avvicinarsi l’epoca della vendita. In mare, in regime di decreto Villa, ogni siluramento sarà una manna provvidenziale per lo stato ed una confisca per gli armatori.

 

 

È evidente che lì sotto c’è un equivoco fondamentale. L’equivoco sta nel fare un fascio di due cose ben diverse: il sovraprezzo della nave vecchia o perduta in confronto al prezzo d’acquisto ed il guadagno derivante dall’esercizio dell’industria dell’armamento. In un primo momento si era esagerato a danno dello stato, esentando, in date condizioni, dall’imposta sui sovraprofitti, il sovraprezzo e il lucro d’esercizio. Questo era un errore, a cui il decreto Villa solo parzialmente ripara, perché il lucro d’esercizio era un vero lucro e non si vede la ragione di esentarlo solo perché gli armatori lo reimpiegavano nell’acquisto di navi. A tale stregua, perché non esentare il lucro di qualsiasi altra industria, se reinvestito in nuovi impianti di quella industria? Non dico che queste esenzioni siano sbagliate, ché anzi corrispondono a concetti da me difesi ripetutamente. Sono in contraddizione con lo spirito delle leggi vigenti in Italia e sono ingiuste, perché limitate ad una classe di persone.

 

 

Da questo errore, dannosissimo all’erario, oggi si passa, in un dato caso, quella delle perdite per fatto di guerra, all’altro opposto: si considera come lucro il sovraprezzo di vendita sul prezzo d’acquisto. Lucro vi sarebbe, se l’armatore o l’industriale, in genere, venduta la nave, che gli costava 1 milione, per 2 milioni, tenesse il ricavo in serbo o lo investisse in buoni del tesoro ed aspettasse a ricomprare la nave quando essa sarà nuovamente ribassata ad 1 milione. Ma se egli reinveste i 2 milioni in una nuova nave, lucro non c’è od almeno è un lucro potenziale che potrebbe trasformarsi in una perdita effettiva, se attendesse a rivendere la nave quando valesse solo, ad esempio, 300.000 lire.

 

 

Purtroppo, errori fondamentali e distruttivi cosifatti minano lo spirito d’intrapresa e vanno moltiplicandosi. Le nostre leggi d’imposta soffrono del vizio di considerare ogni anno a sé stante, senza alcuna concatenazione con quelli precedenti e successivi; sicché i contribuenti pagano imposta anche quando in realtà, in una media d’anni, perdono capitale. Ma i recenti aumenti di prezzi han dato alla testa a contribuenti ed a stato. I contribuenti, quando vedono crescere di valore il terreno che posseggono da 1.000 a 2.000 lire l’ettaro, o l’azione da 100 a 200 lire, immaginano d’essere diventati sul serio più ricchi, mentre hanno lo stesso terreno o la stessa azione di prima, espressi in un numero maggiore di unità di moneta di prima, ognuna delle quali ha una potenza d’acquisto assai diminuita. Lo stato, d’altro canto, eccitato da chi farnetica di vedere dappertutto arricchimenti, oggi tende ad espropriare gli armatori di navi, domani esproprierà i possessori di azioni o di terreni, spogliandoli di parte del capitale che possedevano anteriormente.

 

 

La conclusione è: bisogna farla finita con decreti luogotenenziali male studiati, rivolti solo a procacciare popolarità, obbedienti al grido impulsivo della piazza. Il ministero delle finanze deve impedire in modo assoluto che qualsiasi altro ministero improvvisi imposte senza capo né coda, contradittorie ai principii di ogni sano ordinamento tributario. E deve finirla, anch’esso, una volta per sempre, di creare nuove imposte persecutorie. Vedo oggi i giornali parlare di due nuove imposte sui foglietti bollati dei contratti di borsa e sugli speculatori. Spropositi e divagazioni. Gli speculatori non sono forse contribuenti mobiliari e non possono essere forse colpiti dalle imposte esistenti sulla ricchezza mobile e sui sovraprofitti di guerra? Che bisogno v’è di creare un nuovo tributo «di fama pubblica» che vada a fare il paio con quelli speciali ed ingiustificabili sugli amministratori e gerenti di società, sui canoni enfiteutici, ecc. ecc. ? E non fu forse una riforma sana, utile all’erario ed alla fede pubblica, la riduzione di prezzo dei foglietti bollati, che li popolarizzò e li impose, sinché oggi tutti se ne servono? Altre sono le vie per procacciare redditi allo stato. Bisogna cercare imposte che siano generali, che obbediscano a criteri di giustizia per tutti, che non perseguitino a casaccio ma distribuiscano con equità il peso tributario su quelli che possono pagare. Nei paesi dove si ragiona sensatamente, le persone di buon senso, gli specialisti ed i governi concentrano la loro attenzione su tre strumenti fiscali: 1) imposta progressiva sul reddito; 2) imposta sul patrimonio, per lo più concepita in modo straordinario, una volta tanto; 3) imposta sui consumi cosidetti di lusso. Bisognerebbe anche da noi finirla una buona volta di farneticare utili giganteschi da colossali monopoli e di andare alla caccia di arricchimenti, incrementi di valore, speculazioni e simili bazzecole. Troppo si è tardato a tessere la rete che possa colpire tutti, in proporzione al reddito ed a ricchezza. Il ritardo ci trova impreparati a risolvere i formidabili problemi del domani.

 

 



[1] Con il titolo Il decreto Villa sulla marina mercantile. Un equivoco fondamentale tributario. [ndr]

Perché è necessario che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca

Perché è necessario che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca

«Corriere della Sera», 16 ottobre 1918

Lettere politiche di Junius, Laterza, Bari, 1920, lettera X

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1959, pp. 782-790

 

 

Signor Direttore,

 

 

Quando si legge che bisogna combattere la Germania sino alla distruzione del suo spirito militaristico, delle sue caste feudali, della sua dinastia autocratica, fa d’uopo confessare che non tutti rimangono persuasi. La pace offerta dall’uno o dall’altro cancelliere, da un principe di casa regnante o da un democratico-sociale, sembra sempre ugualmente benedetta ed auspicata; e, purché dia a noi ed ai nostri alleati il riconoscimento dei nostri diritti nazionali, essa sembra un beneficio siffatto da rendere superfluo l’interessamento intorno al regime politico sotto cui i tedeschi, a guerra finita, preferiranno di vivere. Questioni interne, si osserva, di cui è consigliabile non occuparci, poiché il frutto degli interventi forestieri fu mai sempre l’irrigidimento dei sentimenti di patriottismo e di solidarietà fra le classi contro le inframmettenze altrui.

 

 

Molto di vero c’è in questa ripugnanza che le persone moderate e tranquille hanno ad assumersi la missione di rigenerare politicamente e spiritualmente il nemico. Ed è specialmente ragionevole la ripugnanza nata dell’istinto, il quale ci avverte che forse noi siamo invitati a distruggere ciò che non esiste. Se invero la Germania ha molti peccati e se soffre di malanni da cui noi, come si dirà dopo, abbiamo urgente interesse di vederla guarita, non è men vero che essa non patisce di altre malattie, da cui noi ci compiacciamo di dichiararla afflitta. Essa non è, ad esempio, né uno stato feudale, né uno stato illiberale; né si può affermare che essa sia tenuta sotto il giogo di un prussianesimo contrastante agli interessi nel mondo tedesco. Che la Germania sia uno stato feudale, caratterizzato cioè dal dominio politico esercitato dalla nobiltà terriera sul contadiname dei suoi latifondi, noi siamo tanto più scusati nel crederlo, quando si pensi che fino all’età di 56 anni lo credette anche il fondatore dell’unità tedesca, l’allora principe ereditario Guglielmo di Prussia, il quale grandemente stupì, quando avendo manifestato al Bismarck il suo proposito di non «lasciar maltrattare il contadino dal gentiluomo», si sentì rispondere che, quand’anche l’avesse voluto, il nobiluomo non ne aveva il potere; e se nondimeno l’avesse, «il tentativo finirebbe col suo maltrattamento o per opera dei contadini o per opera della legge». Così narra Bismarck nelle sue memorie: ed è verità indubbia che dai tempi di Stein e di Hardenberg, ogni traccia di regime feudale è scomparsa in Prussia ed in Germania la quale è un paese governato nelle forme usate in ogni altro paese civile d’Europa. Meno accentratore del governo francese e dell’italiano, il governo tedesco è liberale all’europea, sebbene non all’anglo-sassone. Ha ridotto la nobiltà ad un ceto di servitori a buon mercato dello stato, orgogliosi dei servigi resi e dell’attaccamento alla dinastia ed all’idea dello stato. In maggioranza poveri, salvo un certo numero di latifondisti, gli Junker tedeschi cercano sostentamento e potere negli uffici militari e civili dello stato; simili in ciò alla nobiltà piemontese, pur essa in gran maggioranza priva di beni rilevanti di fortuna, la quale diede tanti servitori devoti alla dinastia sabauda e tanto sangue sparse per l’indipendenza patria. Sebbene il partito cattolico sia potente, la forza politica del clero luterano e cattolico è stata annullata, così come accadde negli altri paesi “liberali” dell’Europa, sicché se il “liberalismo” si fa consistere, come si fece per tanti anni tra noi, nella lotta contro il “clericalismo”, si può senz’altro affermare che esso ebbe causa vinta in Germania. La quale possiede, nei suoi organi di governo centrale e locale, nei rapporti fra stato e municipi, nei suoi istituti di previdenza sociale, nella sua magistratura, nelle sue università e scuole d’ogni ordine, istituti congegnati con sagacia grandissima e capaci di risultati ottimi. Cosicché non a torto i tedeschi, a noi che li eccitavamo a mutar forma di governo, trasformando il cancelliere responsabile solo verso Dio e l’imperatore in un gabinetto responsabile dinanzi al parlamento, replicavano: E perché dobbiamo mutare? Forseché i governi non si saggiano alla prova dei risultati? E qual governo europeo, anzi qual governo civile moderno può dimostrare di aver prodotto risultati migliori, più vantaggiosi alla collettività di questo nostro governo a tipo costituzionale, in cui il cancelliere è nominato dall’imperatore e verso di lui solo è responsabile, ed al parlamento spetta solo l’ufficio del controllo delle spese e della critica? Forseché, per citare due soli esempi, il sistema di legislazione sociale saputo creare dal nostro governo non era universalmente riconosciuto da tutti gli studiosi come il più compiuto e vantaggioso? Forseché il nostro metodo di governo locale, coi borgomastri ed assessori nominati dai consigli municipali elettivi, per un numero fisso d’anni, quasi per concorso tra persone, anche forestiere alla città, venute in grido per la loro capacità tecnica amministrativa, non ha dato risultati mirabili, invidiati dai paesi, dove le elezioni mandano spesso incompetenti discorritori ai seggi sindacali ed imitati già da non pochi municipi nord-americani, dopo ripetuti sperimenti di altre forme di governo?

 

 

Ed è anche vero che questa Germania non feudale, non clericale, liberale all’europea, sapientemente amministrata all’interno, fu creata dalla dinastia degli Hohenzollern. Se noi, nemici della Germania e della sua dinastia, vogliamo vedere nettamente perché la dinastia e l’impero vanno oggi incontro al disastro, e vogliamo regolare la nostra azione in rapporto a questa conoscenza netta, dobbiamo prima riconoscere che la Germania moderna è la creazione di una famiglia. Precisamente come la Francia moderna è stata creata attraverso i secoli dai Valois e dai Borboni, come l’Inghilterra si è costituita in unità per opera dei Plantageneti e dei Tudors, come il Piemonte fu creato dalla dinastia sabauda. In epoche di disordine, di spezzettamento della sovranità, di oblio dei sentimenti nazionali, furono queste famiglie ostinate valorose econome abili, che attrassero a sé gli elementi migliori del paese e crearono una corte, un’amministrazione, una giustizia, un esercito. E con queste forze mossero alla distruzione delle meno forti e meno capaci dinastie concorrenti; assoggettarono il paese altrui, crebbero di potenza, diventarono un centro di attrazione. Quante piccole dinastie, quanti liberi ed irrequieti municipii dovettero domare i conti, poi duchi di Savoia, prima di giungere a costituire quello stato che solo due secoli fa poté assumere il titolo di regno e cominciare ad aspirare alla unificazione dell’Italia! Da umili origini nacque pure la dinastia degli Hohenzollern. Ricordisi il celebre brano, con cui il grande storico inglese Lord Macaulay inizia il suo saggio su Federico II:

 

 

«Circa verso il principio del secolo XI, il marchesato del Brandeburgo fu concesso dall’imperatore Sigismondo alla nobile famiglia degli Hohenzollern. Nel sedicesimo secolo questa famiglia abbracciò le dottrine luterane. Ottenne, nel primo seicento, dal re di Polonia l’investitura del ducato di Prussia. Anche dopo quest’aumento di territorio, a mala pena i capi della casa Hohenzollern potevano uguagliarsi agli elettori di Sassonia e di Baviera. Il suolo del Brandeburgo era in gran parte sterile. Persino intorno a Berlino, capitale della provincia, la quale si estende intorno a Potsdam, residenza favorita dei margravi, il paese era un deserto. In alcuni luoghi, la sabbia profonda a stento poteva essere costretta da lavori assidui a fornire scarse messi di avena e di segala. In altri luoghi, le antiche foreste, da cui i conquistatori dell’impero romano erano discesi sul Danubio, rimanevano inviolate dalla mano dell’uomo. Dove il suolo era ricco era generalmente paludoso e la sua insalubrità allontanava i coltivatori che sarebbero stati attratti dalla sua fertilità».

 

 

Combattendo e destreggiandosi contro e fra i principi e re sassoni annoveresi bavaresi polacchi svedesi russi, la dinastia giunse a fondare un gran regno e finalmente ad espellere dalla Germania i discendenti di quegli orgogliosi Asburgo, che quattro secoli prima le avevano concesso il margraviato di Brandeburgo. Nella concorrenza con dinastie più fiacche, con organizzazioni statali meno resistenti, dinastia e stato prussiano provarono la loro capacità a compiere la grande opera della unificazione tedesca. Comunque le cose volgano in avvenire, la Germania non potrà mai dimenticare che essa è stata foggiata dal Grande Elettore, da Federico II, da Guglielmo I, come l’Italia non potrà non annoverare tra i fattori massimi della sua esistenza unitaria Emanuele Filiberto, Vittorio Amedeo II, Vittorio Emanuele II. Né alcuna forza straniera od interna sarebbe stata da tanto da scrollare la dinastia degli Hohenzollern se essa stessa non avesse voluto divenire l’artefice della sua rovina, se essa non avesse commesso modernamente errori irreparabili. Noi assistiamo oggi in Germania agli inizi del dramma storico che in Inghilterra si compié nel 1642 e nel 1689 ed in Francia nel 1789. Se gli Stuardi inglesi non fossero stati leggeri incostanti prepotenti, durerebbero ancora oggi sul trono; né forse l’Inghilterra vanterebbe una tradizione bicentenaria di governo parlamentare. Se gli ultimi Borboni non fossero stati incapaci dilapidatori ed inconsapevoli, la rivoluzione francese non sarebbe probabilmente avvenuta e la storia moderna avrebbe preso un altro cammino. Se Bismarck fosse vissuto per qualche decennio ancora e fosse stato il consigliere di un principe come Guglielmo I, limitato d’intelletto, ma retto e compreso dei suoi doveri verso il paese, probabilmente al mondo sarebbe stata risparmiata la sciagura della guerra presente.

 

 

L’errore, da cui la dinastia tedesca è tratta alla rovina od alla trasformazione sua profonda, nel senso inglese ed italiano, fu di aver voluto prolungare nel mondo moderno una situazione tramontata per sempre. Finché gli Hohenzollern dovevano lottare con i Wittelsbach, con gli Absburgo, con principi gelosi e città particolaristiche per unificare la nazione tedesca, era naturale considerassero cosa propria l’arma della diplomazia e dell’esercito che essi avevano foggiato per tale rude bisogna. Era naturale, per chi guardava alla grandezza del compito passato, che l’imperatore riservasse al suo gabinetto la nomina alle cariche diplomatiche e militari e negasse agli eletti del popolo ogni diritto di mescolarsi nelle cose sue. Frattanto però anche il popolo tedesco aveva dato prova di essere atto al governo di se stesso. Nelle cose minori: nell’amministrazione della provincia e dei comuni, nella gestione degli istituti di assicurazione sociale, nella sovrintendenza delle scuole, i delegati del popolo avevano dato prova di notevole grado di maturità politica. Attorno a questi corpi locali e funzionali, i quali godono in Germania maggiore libertà di movimento che non in Italia ed in Francia, sorse tutto un ceto di amministratori-eletti, i quali provarono che non farebbe difetto una classe politica venuta su dalla scelta dei concittadini ed atta a governare l’impero. Era giunto per la dinastia degli Hohenzollern, dopo il 1866 e dopo il 1871, il momento fatale in cui essa doveva rassegnarsi a far uscire il popolo di minorità, aprendogli l’accesso al governo del paese e specialmente alla direzione della sua politica estera. Il sacrificio, duro ma necessario, sarebbe stato forse fatto se essa si fosse ricordata dell’ammonimento di Bismarck:

 

 

«Il mio ideale, dopo conseguita la nostra unità nei limiti entro i quali era conseguibile, fu sempre quello di acquistare la fiducia non solo dei minori stati europei, ma anche delle grandi potenze e di farle persuase che la politica germanica, dopo riparata l’injuria temporum e ricomposta ad unità la nazione, vuole essere pacifica e giusta».

 

 

Invece di cercare le occasioni «di mostrare che noi siamo soddisfatti e pacifici», l’attuale imperatore cercò le occasioni per intromettersi nelle questioni che meno toccavano la Germania, moltiplicò i motivi per dimostrare ai tedeschi che essi non avevano scampo se non tenevano ognora in alto la spada forbita e lucente. La Germania di Guglielmo II è uno dei casi tipici dell’organo, il quale, creato dapprima allo scopo di compiere una funzione, compiuta questa, altre ne cerca, artificiosamente, allo scopo di mantenere se stesso in vita. Il governo personale, il cancelliere creato dall’imperatore, l’esercito che deve ubbidienza all’imperatore e non al paese, che è quindi sottratto al controllo ed al comando della nazione, sono necessità di tempi in cui bisogna “creare la nazione”. Ma quando questa oramai esiste, essa deve diventare padrona delle proprie sorti. Potevano gli statisti germanici immaginare forme di responsabilità verso il popolo diverse da quelle in uso nei governi parlamentari. Negli Stati Uniti il presidente ed il suo gabinetto non sono responsabili verso le due camere; né cadono in conseguenza di un voto di sfiducia, come accade in Inghilterra e nei paesi latini. Ma il presidente è l’eletto del popolo è la guida e nel tempo stesso l’esecutore della volontà della nazione. Non era impossibile forse conciliare l’efficacia tradizionale di governo con il riconoscimento della sovranità della nazione.

 

 

Invece Guglielmo II, testa bislaccamente romantica, immaginò, per serbare un potere che il Grande Elettore e Federico II avevano dovuto al proprio genio, di dare nuova vita a sogni romantici di una missione divina dei re, che sarebbero a mala pena apparsi tollerabili nelle teste mistiche dei romantici tedeschi del principio del secolo decimonono, a storte immagini di uno stato medioevale cavalleresco, non esistito mai e che invano De Maistre aveva tentato, nell’Europa stanca dalle guerre napoleoniche, di idealizzare e di propagandare, coll’unico visibile frutto di artificiose incoronazioni in San Dionigi di Carlo X. Trovò egli cortigiani, come il principe di Bulow, i quali lo incoraggiarono nelle sue manie divinizzanti, dimostrando, nel libro La Germania imperiale, che i tedeschi sono incapaci di governarsi da se stessi, idealisti battaglianti per fisime irrealizzabili o senza importanza nella vita politica e bisognosi quindi di un governo forte, proveniente dall’alto, che li indirizzi e li sorregga. Poté citare, purtroppo, l’esperienza fantastica del parlamento di Francoforte del 1848, in cui un nugolo di dottrinari per lunghi mesi discusse, chiacchierò e si sciolse senza nulla conchiudere, lasciando i popoli persuasi che soltanto la forza della spada potesse sciogliere i nodi gordiani del destino.

 

 

Così fu che il popolo tedesco consentì a rimanere minore d’età, anche dopo essere risorto; che il parlamento tedesco, non chiamato ad agire, privo di ogni responsabilità di governo, cessò di attrarre uomini d’azione e divenne persino incapace alla critica. Ed il sovrano ed i suoi consiglieri dovettero seguitare ad agitarsi ed a fare gli occhi corruschi e ad accattar brighe ed a minacciar di dar fuoco alla gigantesca polveriera, che era divenuta l’Europa, perché, altrimenti, a che avrebbe servito la missione divina dei re? Con qual ragione si sarebbe potuto negare ai delegati del popolo il diritto di aver voce nelle cose dell’esercito e della politica estera? Come si sarebbe potuto impedire che a grado a grado il parlamento prendesse coraggio e volesse partecipare, insieme col sovrano, al governo della cosa pubblica? Non avendo voluto consentire a questa partecipazione, volendo mantenere intatta la finzione del popolo incapace a governare se stesso, si fu costretti a gridare ogni giorno la patria in pericolo. Poiché soltanto dinanzi al pericolo diuturno della patria era possibile tenere quiete le forze sociali e politiche che pure in Germania erano sorte ed erano ingigantite, come dappertutto altrove in Europa, nella seconda metà del secolo XIX: gli industriali, i commercianti, le classi professionali, gli operai. Il miracolo storico di un popolo, certamente fra i più istruiti, tra i più ricchi ed industriosi di quelli civili, il quale abbandona il governo del paese nelle mani di una dinastia e di un ceto di funzionari e di soldati scelti dalla dinastia, è stato possibile solo grazie alla coltivazione intensa di questo senso del pericolo nazionale. La Germania circondata “da un mondo di nemici e di invidiosi”: ecco l’incubo affannoso che turbava le veglie ed i sonni del popolo tedesco, e che un imperatore persuaso della sua missione divina e circondato da un ceto di alti funzionari, anch’essi convinti della propria superiorità intellettuale e morale ed avidi nel tempo stesso di ricchezze e di onori, cercarono per un trentennio di tenere ognora vivo.

 

 

Se oggi la guerra si chiudesse con una pace bianca, la dinastia sarebbe salva. Essa potrebbe seguitare ad alimentare l’incubo del “pericolo nazionale”; ed a chiedere per sé l’autorità necessaria a tenere l’esercito in armi per difendere contro il nemico il sacro suolo della patria. Anche se qualche provincia ci fosse abbandonata, non per ciò sarebbe spento il vulcano che coperse di sue fiamme e di sue lave roventi tutta la dolente Europa. Quel vulcano trarrebbe sempre nuovo alimento dal senso del pericolo in cui i tedeschi crederebbero di trovarsi, premuti da ogni parte da popoli avidi di spartirsi le spoglie dell’impero tedesco. Nulla sarebbe mutato al quadro dell’Europa dinanzi al 1914, quadro spaventoso per occhi che oggi possono contemplarne il fatale seguito.

 

 

Perché l’Europa e la Germania trovino finalmente quiete, perché le generazioni venture non abbiano a patire nuove sanguinose guerre, fa d’uopo che il disastro della dinastia tedesca sia compiuto. Fa d’uopo che essa dimostri la sua incapacità a salvare l’esercito dalla sconfitta. Siamo sulla buona via; ché l’esperimento di governo semi-parlamentare del principe Massimiliano del Baden è un tentativo disperato di salvataggio ed insieme un’affermazione di volontà di ceti tenuti sempre lontani dalla responsabilità del potere. Ma non basta; ché se l’esperimento riuscisse, la dinastia salva metterebbe ben presto da un canto l’arnese di cui si giovò nell’ora del dubbio; ed il vecchio gioco della creazione del pericolo tornerebbe a dare suoi frutti. Solo quando la Germania vedrà che a nulla valse la sua abdicazione al governo di sé medesima e si persuaderà che la dinastia di missione divina condusse esercito e paese alla rovina; solo quando scorgerà che la pace ordinata dagli alleati fu pace giusta e non violatrice della sua unità nazionale, solo allora le cadrà la benda dagli occhi. Vedrà allora che non è necessario rassegnare i poteri suoi ad un gruppo di funzionari responsabili solo a Dio e non al popolo, per avere un esercito capace di difendere il territorio nazionale; ché l’esercito del suo imperatore non lo avrà saputo difendere, mentre gli eserciti della spregiata democrazia latina ed anglo-sassone, gli eserciti radunati a furia di popolo, avranno avuto la virtù di cacciare l’invasore, riducendolo entro i suoi onesti confini. Ed allora avverrà la riconciliazione fra il popolo tedesco e i popoli civili del mondo; e per lunghi anni l’Europa avrà pace.

 

 

Lettera decima. Perché è necessario che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca

Lettera decima.
Perché è necessario che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca
«Corriere della Sera», 16 ottobre 1918
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 127-141
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 782-790

 

 

 

 

Signor Direttore,

 

 

Quando si legge che bisogna combattere la Germania sino alla distruzione del suo spirito militaristico, delle sue caste feudali, della sua dinastia autocratica, fa d’uopo confessare che non tutti rimangono persuasi. La pace offerta dall’uno o dall’altro cancelliere, da un principe di casa regnante o da un democratico-sociale, sembra sempre ugualmente benedetta ed auspicata; e, purché dia a noi ed ai nostri alleati il riconoscimento dei nostri diritti nazionali, essa sembra un beneficio siffatto da rendere superfluo l’interessamento intorno al regime politico sotto cui i tedeschi, a guerra finita, preferiranno di vivere. Questioni interne, si osserva, di cui è consigliabile non occuparci, poiché il frutto degli interventi forestieri fu mai sempre l’irrigidimento dei sentimenti di patriottismo e di solidarietà fra le classi contro le inframmettenze altrui.

 

 

Molto di vero c’è in questa ripugnanza che le persone moderate e tranquille hanno ad assumersi la missione di rigenerare politicamente e spiritualmente il nemico. Ed è specialmente ragionevole la ripugnanza nata dell’istinto, il quale ci avverte che forse noi siamo invitati a distruggere ciò che non esiste. Se invero la Germania ha molti peccati e se soffre di malanni da cui noi, come si dirà dopo, abbiamo urgente interesse di vederla guarita, non è men vero che essa non patisce di altre malattie, da cui noi ci compiacciamo di dichiararla afflitta. Essa non è, ad esempio, né uno stato feudale, né uno stato illiberale; né si può affermare che essa sia tenuta sotto il giogo di un prussianesimo contrastante agli interessi nel mondo tedesco. Che la Germania sia uno stato feudale, caratterizzato cioè dal dominio politico esercitato dalla nobiltà terriera sul contadiname dei suoi latifondi, noi siamo tanto più scusati nel crederlo, quando si pensi che fino all’età di 56 anni lo credette anche il fondatore dell’unità tedesca, l’allora principe ereditario Guglielmo di Prussia, il quale grandemente stupì, quando avendo manifestato al Bismarck il suo proposito di non «lasciar maltrattare il contadino dal gentiluomo», si sentì rispondere che, quand’anche l’avesse voluto, il nobiluomo non ne aveva il potere; e se nondimeno l’avesse, «il tentativo finirebbe col suo maltrattamento o per opera dei contadini o per opera della legge». Così narra Bismarck nelle sue memorie: ed è verità indubbia che dai tempi di Stein e di Hardenberg, ogni traccia di regime feudale è scomparsa in Prussia ed in Germania la quale è un paese governato nelle forme usate in ogni altro paese civile d’Europa. Meno accentratore del governo francese e dell’italiano, il governo tedesco è liberale all’europea, sebbene non all’anglo-sassone. Ha ridotto la nobiltà ad un ceto di servitori a buon mercato dello stato, orgogliosi dei servigi resi e dell’attaccamento alla dinastia ed all’idea dello stato. In maggioranza poveri, salvo un certo numero di latifondisti, gli Junker tedeschi cercano sostentamento e potere negli uffici militari e civili dello stato; simili in ciò alla nobiltà piemontese, pur essa in gran maggioranza priva di beni rilevanti di fortuna, la quale diede tanti servitori devoti alla dinastia sabauda e tanto sangue sparse per l’indipendenza patria. Sebbene il partito cattolico sia potente, la forza politica del clero luterano e cattolico è stata annullata, così come accadde negli altri paesi “liberali” dell’Europa, sicché se il “liberalismo” si fa consistere, come si fece per tanti anni tra noi, nella lotta contro il “clericalismo”, si può senz’altro affermare che esso ebbe causa vinta in Germania. La quale possiede, nei suoi organi di governo centrale e locale, nei rapporti fra stato e municipi, nei suoi istituti di previdenza sociale, nella sua magistratura, nelle sue università e scuole d’ogni ordine, istituti congegnati con sagacia grandissima e capaci di risultati ottimi. Cosicché non a torto i tedeschi, a noi che li eccitavamo a mutar forma di governo, trasformando il cancelliere responsabile solo verso Dio e l’imperatore in un gabinetto responsabile dinanzi al parlamento, replicavano: E perché dobbiamo mutare? Forseché i governi non si saggiano alla prova dei risultati?

 

 

E qual governo europeo, anzi qual governo civile moderno può dimostrare di aver prodotto risultati migliori, più vantaggiosi alla collettività di questo nostro governo a tipo costituzionale, in cui il cancelliere è nominato dall’imperatore e verso di lui solo è responsabile, ed al parlamento spetta solo l’ufficio del controllo delle spese e della critica? Forseché, per citare due soli esempi, il sistema di legislazione sociale saputo creare dal nostro governo non era universalmente riconosciuto da tutti gli studiosi come il più compiuto e vantaggioso? Forseché il nostro metodo di governo locale, coi borgomastri ed assessori nominati dai consigli municipali elettivi, per un numero fisso d’anni, quasi per concorso tra persone, anche forestiere alla città, venute in grido per la loro capacità tecnica amministrativa, non ha dato risultati mirabili, invidiati dai paesi, dove le elezioni mandano spesso incompetenti discorritori ai seggi sindacali ed imitati già da non pochi municipi nord-americani, dopo ripetuti sperimenti di altre forme di governo?

 

 

Ed è anche vero che questa Germania non feudale, non clericale, liberale all’europea, sapientemente amministrata all’interno, fu creata dalla dinastia degli Hohenzollern. Se noi, nemici della Germania e della sua dinastia, vogliamo vedere nettamente perché la dinastia e l’impero vanno oggi incontro al disastro, e vogliamo regolare la nostra azione in rapporto a questa conoscenza netta, dobbiamo prima riconoscere che la Germania moderna è la creazione di una famiglia. Precisamente come la Francia moderna è stata creata attraverso i secoli dai Valois e dai Borboni, come l’Inghilterra si è costituita in unità per opera dei Plantageneti e dei Tudors, come il Piemonte fu creato dalla dinastia sabauda. In epoche di disordine, di spezzettamento della sovranità, di oblio dei sentimenti nazionali, furono queste famiglie ostinate valorose econome abili, che attrassero a sé gli elementi migliori del paese e crearono una corte, un’amministrazione, una giustizia, un esercito. E con queste forze mossero alla distruzione delle meno forti e meno capaci dinastie concorrenti; assoggettarono il paese altrui, crebbero di potenza, diventarono un centro di attrazione. Quante piccole dinastie, quanti liberi ed irrequieti municipii dovettero domare i conti, poi duchi di Savoia, prima di giungere a costituire quello stato che solo due secoli fa poté assumere il titolo di regno e cominciare ad aspirare alla unificazione dell’Italia! Da umili origini nacque pure la dinastia degli Hohenzollern. Ricordisi il celebre brano, con cui il grande storico inglese Lord Macaulay inizia il suo saggio su Federico II:

 

 

«Circa verso il principio del secolo XI, il marchesato del Brandeburgo fu concesso dall’imperatore Sigismondo alla nobile famiglia degli Hohenzollern. Nel sedicesimo secolo questa famiglia abbracciò le dottrine luterane. Ottenne, nel primo seicento, dal re di Polonia l’investitura del ducato di Prussia. Anche dopo quest’aumento di territorio, a mala pena i capi della casa Hohenzollern potevano uguagliarsi agli elettori di Sassonia e di Baviera. Il suolo del Brandeburgo era in gran parte sterile. Persino intorno a Berlino, capitale della provincia, la quale si estende intorno a Potsdam, residenza favorita dei margravi, il paese era un deserto. In alcuni luoghi, la sabbia profonda a stento poteva essere costretta da lavori assidui a fornire scarse messi di avena e di segala. In altri luoghi, le antiche foreste, da cui i conquistatori dell’impero romano erano discesi sul Danubio, rimanevano inviolate dalla mano dell’uomo. Dove il suolo era ricco era generalmente paludoso e la sua insalubrità allontanava i coltivatori che sarebbero stati attratti dalla sua fertilità».

 

 

Combattendo e destreggiandosi contro e fra i principi e re sassoni annoveresi bavaresi polacchi svedesi russi, la dinastia giunse a fondare un gran regno e finalmente ad espellere dalla Germania i discendenti di quegli orgogliosi Asburgo, che quattro secoli prima le avevano concesso il margraviato di Brandeburgo. Nella concorrenza con dinastie più fiacche, con organizzazioni statali meno resistenti, dinastia e stato prussiano provarono la loro capacità a compiere la grande opera della unificazione tedesca. Comunque le cose volgano in avvenire, la Germania non potrà mai dimenticare che essa è stata foggiata dal Grande Elettore, da Federico II, da Guglielmo I, come l’Italia non potrà non annoverare tra i fattori massimi della sua esistenza unitaria Emanuele Filiberto, Vittorio Amedeo II, Vittorio Emanuele II. Né alcuna forza straniera od interna sarebbe stata da tanto da scrollare la dinastia degli Hohenzollern se essa stessa non avesse voluto divenire l’artefice della sua rovina, se essa non avesse commesso modernamente errori irreparabili. Noi assistiamo oggi in Germania agli inizi del dramma storico che in Inghilterra si compié nel 1642 e nel 1689 ed in Francia nel 1789. Se gli Stuardi inglesi non fossero stati leggeri incostanti prepotenti, durerebbero ancora oggi sul trono; né forse l’Inghilterra vanterebbe una tradizione bicentenaria di governo parlamentare. Se gli ultimi Borboni non fossero stati incapaci dilapidatori ed inconsapevoli, la rivoluzione francese non sarebbe probabilmente avvenuta e la storia moderna avrebbe preso un altro cammino. Se Bismarck fosse vissuto per qualche decennio ancora e fosse stato il consigliere di un principe come Guglielmo I, limitato d’intelletto, ma retto e compreso dei suoi doveri verso il paese, probabilmente al mondo sarebbe stata risparmiata la sciagura della guerra presente.

 

 

L’errore, da cui la dinastia tedesca è tratta alla rovina od alla trasformazione sua profonda, nel senso inglese ed italiano, fu di aver voluto prolungare nel mondo moderno una situazione tramontata per sempre. Finché gli Hohenzollern dovevano lottare con i Wittelsbach, con gli Absburgo, con principi gelosi e città particolaristiche per unificare la nazione tedesca, era naturale considerassero cosa propria l’arma della diplomazia e dell’esercito che essi avevano foggiato per tale rude bisogna. Era naturale, per chi guardava alla grandezza del compito passato, che l’imperatore riservasse al suo gabinetto la nomina alle cariche diplomatiche e militari e negasse agli eletti del popolo ogni diritto di mescolarsi nelle cose sue. Frattanto però anche il popolo tedesco aveva dato prova di essere atto al governo di se stesso. Nelle cose minori: nell’amministrazione della provincia e dei comuni, nella gestione degli istituti di assicurazione sociale, nella sovrintendenza delle scuole, i delegati del popolo avevano dato prova di notevole grado di maturità politica. Attorno a questi corpi locali e funzionali, i quali godono in Germania maggiore libertà di movimento che non in Italia ed in Francia, sorse tutto un ceto di amministratori-eletti, i quali provarono che non farebbe difetto una classe politica venuta su dalla scelta dei concittadini ed atta a governare l’impero. Era giunto per la dinastia degli Hohenzollern, dopo il 1866 e dopo il 1871, il momento fatale in cui essa doveva rassegnarsi a far uscire il popolo di minorità, aprendogli l’accesso al governo del paese e specialmente alla direzione della sua politica estera. Il sacrificio, duro ma necessario, sarebbe stato forse fatto se essa si fosse ricordata dell’ammonimento di Bismarck:

 

 

«Il mio ideale, dopo conseguita la nostra unità nei limiti entro i quali era conseguibile, fu sempre quello di acquistare la fiducia non solo dei minori stati europei, ma anche delle grandi potenze e di farle persuase che la politica germanica, dopo riparata l’injuria temporum e ricomposta ad unità la nazione, vuole essere pacifica e giusta».

 

 

Invece di cercare le occasioni «di mostrare che noi siamo soddisfatti e pacifici», l’attuale imperatore cercò le occasioni per intromettersi nelle questioni che meno toccavano la Germania, moltiplicò i motivi per dimostrare ai tedeschi che essi non avevano scampo se non tenevano ognora in alto la spada forbita e lucente. La Germania di Guglielmo II è uno dei casi tipici dell’organo, il quale, creato dapprima allo scopo di compiere una funzione, compiuta questa, altre ne cerca, artificiosamente, allo scopo di mantenere se stesso in vita. Il governo personale, il cancelliere creato dall’imperatore, l’esercito che deve ubbidienza all’imperatore e non al paese, che è quindi sottratto al controllo ed al comando della nazione, sono necessità di tempi in cui bisogna “creare la nazione”. Ma quando questa oramai esiste, essa deve diventare padrona delle proprie sorti. Potevano gli statisti germanici immaginare forme di responsabilità verso il popolo diverse da quelle in uso nei governi parlamentari. Negli Stati Uniti il presidente ed il suo gabinetto non sono responsabili verso le due camere; né cadono in conseguenza di un voto di sfiducia, come accade in Inghilterra e nei paesi latini. Ma il presidente è l’eletto del popolo è la guida e nel tempo stesso l’esecutore della volontà della nazione. Non era impossibile forse conciliare l’efficacia tradizionale di governo con il riconoscimento della sovranità della nazione.

 

 

Invece Guglielmo II, testa bislaccamente romantica, immaginò, per serbare un potere che il Grande Elettore e Federico II avevano dovuto al proprio genio, di dare nuova vita a sogni romantici di una missione divina dei re, che sarebbero a mala pena apparsi tollerabili nelle teste mistiche dei romantici tedeschi del principio del secolo decimonono, a storte immagini di uno stato medioevale cavalleresco, non esistito mai e che invano De Maistre aveva tentato, nell’Europa stanca dalle guerre napoleoniche, di idealizzare e di propagandare, coll’unico visibile frutto di artificiose incoronazioni in San Dionigi di Carlo X. Trovò egli cortigiani, come il principe di Bulow, i quali lo incoraggiarono nelle sue manie divinizzanti, dimostrando, nel libro La Germania imperiale, che i tedeschi sono incapaci di governarsi da se stessi, idealisti battaglianti per fisime irrealizzabili o senza importanza nella vita politica e bisognosi quindi di un governo forte, proveniente dall’alto, che li indirizzi e li sorregga. Poté citare, purtroppo, l’esperienza fantastica del parlamento di Francoforte del 1848, in cui un nugolo di dottrinari per lunghi mesi discusse, chiacchierò e si sciolse senza nulla conchiudere, lasciando i popoli persuasi che soltanto la forza della spada potesse sciogliere i nodi gordiani del destino.

 

 

Così fu che il popolo tedesco consentì a rimanere minore d’età, anche dopo essere risorto; che il parlamento tedesco, non chiamato ad agire, privo di ogni responsabilità di governo, cessò di attrarre uomini d’azione e divenne persino incapace alla critica. Ed il sovrano ed i suoi consiglieri dovettero seguitare ad agitarsi ed a fare gli occhi corruschi e ad accattar brighe ed a minacciar di dar fuoco alla gigantesca polveriera, che era divenuta l’Europa, perché, altrimenti, a che avrebbe servito la missione divina dei re? Con qual ragione si sarebbe potuto negare ai delegati del popolo il diritto di aver voce nelle cose dell’esercito e della politica estera? Come si sarebbe potuto impedire che a grado a grado il parlamento prendesse coraggio e volesse partecipare, insieme col sovrano, al governo della cosa pubblica? Non avendo voluto consentire a questa partecipazione, volendo mantenere intatta la finzione del popolo incapace a governare se stesso, si fu costretti a gridare ogni giorno la patria in pericolo. Poiché soltanto dinanzi al pericolo diuturno della patria era possibile tenere quiete le forze sociali e politiche che pure in Germania erano sorte ed erano ingigantite, come dappertutto altrove in Europa, nella seconda metà del secolo XIX: gli industriali, i commercianti, le classi professionali, gli operai. Il miracolo storico di un popolo, certamente fra i più istruiti, tra i più ricchi ed industriosi di quelli civili, il quale abbandona il governo del paese nelle mani di una dinastia e di un ceto di funzionari e di soldati scelti dalla dinastia, è stato possibile solo grazie alla coltivazione intensa di questo senso del pericolo nazionale. La Germania circondata “da un mondo di nemici e di invidiosi”: ecco l’incubo affannoso che turbava le veglie ed i sonni del popolo tedesco, e che un imperatore persuaso della sua missione divina e circondato da un ceto di alti funzionari, anch’essi convinti della propria superiorità intellettuale e morale ed avidi nel tempo stesso di ricchezze e di onori, cercarono per un trentennio di tenere ognora vivo.

 

 

Se oggi la guerra si chiudesse con una pace bianca, la dinastia sarebbe salva. Essa potrebbe seguitare ad alimentare l’incubo del “pericolo nazionale”; ed a chiedere per sé l’autorità necessaria a tenere l’esercito in armi per difendere contro il nemico il sacro suolo della patria. Anche se qualche provincia ci fosse abbandonata, non per ciò sarebbe spento il vulcano che coperse di sue fiamme e di sue lave roventi tutta la dolente Europa. Quel vulcano trarrebbe sempre nuovo alimento dal senso del pericolo in cui i tedeschi crederebbero di trovarsi, premuti da ogni parte da popoli avidi di spartirsi le spoglie dell’impero tedesco. Nulla sarebbe mutato al quadro dell’Europa dinanzi al 1914, quadro spaventoso per occhi che oggi possono contemplarne il fatale seguito.

 

 

Perché l’Europa e la Germania trovino finalmente quiete, perché le generazioni venture non abbiano a patire nuove sanguinose guerre, fa d’uopo che il disastro della dinastia tedesca sia compiuto. Fa d’uopo che essa dimostri la sua incapacità a salvare l’esercito dalla sconfitta. Siamo sulla buona via; ché l’esperimento di governo semi-parlamentare del principe Massimiliano del Baden è un tentativo disperato di salvataggio ed insieme un’affermazione di volontà di ceti tenuti sempre lontani dalla responsabilità del potere. Ma non basta; ché se l’esperimento riuscisse, la dinastia salva metterebbe ben presto da un canto l’arnese di cui si giovò nell’ora del dubbio; ed il vecchio gioco della creazione del pericolo tornerebbe a dare suoi frutti. Solo quando la Germania vedrà che a nulla valse la sua abdicazione al governo di sé medesima e si persuaderà che la dinastia di missione divina condusse esercito e paese alla rovina; solo quando scorgerà che la pace ordinata dagli alleati fu pace giusta e non violatrice della sua unità nazionale, solo allora le cadrà la benda dagli occhi. Vedrà allora che non è necessario rassegnare i poteri suoi ad un gruppo di funzionari responsabili solo a Dio e non al popolo, per avere un esercito capace di difendere il territorio nazionale; ché l’esercito del suo imperatore non lo avrà saputo difendere, mentre gli eserciti della spregiata democrazia latina ed anglo-sassone, gli eserciti radunati a furia di popolo, avranno avuto la virtù di cacciare l’invasore, riducendolo entro i suoi onesti confini. Ed allora avverrà la riconciliazione fra il popolo tedesco e i popoli civili del mondo; e per lunghi anni l’Europa avrà pace.

 

 

La parola di Wilson ed il problema della pace e della guerra economica

«La Libertà economica», 10 ottobre 1918

Due passi di documenti solenni della guerra meritano di essere ricordati.

Poco più di un anno fa, rispondendo alla nota del Papa, il signor Wilson scriveva: «Il popolo americano crede che la pace dovrebbe fondarsi non sui diritti dei governi, ma sui diritti dei popoli, grandi o piccoli, deboli o potenti, sul loro uguale diritto alla libertà, alla sicurezza ed alla autonomia e ad una partecipazione a condizioni eque alla concorrenza economica del mondo, compreso naturalmente il popolo tedesco se accetterà l’uguaglianza e non cercherà il predominio… Creazioni di leghe economiche egoistiche ed esclusive sono considerate da noi inopportune ed in ultima analisi peggio che inutili, non essendo base adatta per una pace di qualsiasi specie e meno di tutto per una pace duratura».

 

 

A distanza di un anno, inaugurando il 18 settembre scorso il quarto prestito della libertà, il signor Wilson così esponeva alcuni caposaldi della futura pace:

 

 

«Non vi possono essere leghe o alleanze o accordi o intese speciali in seno alla grande famiglia costituita dalla Lega delle Nazioni. Più specificamente, non vi possono essere speciali egoistiche combinazioni economiche dentro questa Lega, e neppur uso di qualsiasi forma di boicottaggio o di esclusività economica, eccetto che come facoltà di penalità di cui sia esclusivamente investita la Lega delle Nazioni stesse come mezzo di disciplina e di controllo».

 

 

Quest’ultima volta, il Wilson non rispondeva al Papa e neppure ai nemici. Parlava sovratutto agli amici, a noi. Le masse, ha detto Wilson, sono malcontente del modo finora tenuto dai capi di Stato nell’esposizione dei fini della guerra. Esse non pensano tanto agli assetti territoriali ed alle divisioni di potenza fra i diversi Stati; ma vorrebbero che i capi si inspirassero sovratutto a larghe vedute di giustizia, di clemenza, di pace, di soddisfazione alle profonde aspirazioni, per cui solo sembra valga la pena di combattere una guerra in cui il mondo intiero è coinvolto. Esponendo i suoi caposaldi di pace, il Wilson ha cercato unicamente di dare soddisfazione a coloro che combattono nelle file; e spera che i capi degli Stati alleati parleranno così chiaramente come egli ha fatto e liberamente diranno se egli erri in qualche modo nella sua interpretazione dei fini impliciti della guerra. «L’unità di propositi e di consiglio sono altrettanto imperativamente necessari in questa guerra, quanto lo era l’unità di comando sui campi di battaglia; e con la perfetta unità dei propositi e del consiglio si otterrà la sicurezza della completa vittoria».

 

 

L’invito a parlare rivolto ai governi inglese, francese ed italiano è chiaro. Esso era imperativamente richiesto, per quanto ha tratto al problema economico della pace, perché sussisteva e sussiste un equivoco fondamentale. L’unico documento ufficiale finora pubblicato dall’Intesa, è il verbale delle decisioni della conferenza economica di Parigi del 1916. Il succo di quelle decisioni era la creazione di un sistema di dazi doganali di favore per gli alleati, protettivi contro i neutri e di selezione contro gli attuali nemici. Applicando quei concetti fondamentali, la Commissione reale per i trattati di commercio, istituita in Italia con decreto del 23 gennaio 1913, proponeva nel 1917 l’abbandono dei trattati di commercio bilaterali, con la clausola della nazione più favorita; e l’adozione di un sistema di tariffe autonome, con dazi di favore per i paesi che fossero a noi più strettamente legati, con dazi massimi per gli altri paesi, oltreché con dazi di ritorsione e di lotta contro una terza serie di paesi, accusati di esercitare contro di noi il «dumping» e simiglianti maniere di commercio cosidetto sleale.

 

 

Il contrasto non potrebbe essere più stridente. Da un lato le nazioni dell’Intesa si avviano ad una politica doganale accesamente protezionistica, e sovratutto imperniata sulla differenza di trattamento fra amici, neutri e nemici, con la formazione di campi chiusi e lottanti fra di loro. La guerra economica contro la Germania, dopo la guerra cruenta propriamente detta: ecco il programma economico dell’Intesa nel dopo guerra, almeno quale risultava dai documenti finora resi pubblici e dalle manifestazioni oratorie di alcuni dei più eminenti uomini di Stato dell’Intesa.

 

 

Dall’altro Wilson dice: Dopo la pace, nessuna esclusione, nessun boicottaggio contro gli attuali nemici; ma parità di trattamento, ed ammissione alla libera competizione mondiale; nessuna legge esclusiva a favore di alcune nazioni; ma una sola famiglia, un solo mercato, aperto a tutte le nazioni appartenenti alla lega mondiale.

 

 

Quale delle due politiche dovremo seguire? Poiché la politica dovrà essere una sola. «Solo con la perfetta unità dei propositi e del consiglio si otterrà la sicurezza della completa vittoria».

 

 

Le parole del Wilson non vogliono ancora dire che la pace debba segnare l’inizio dell’era del libero scambio universale. Una rivoluzione siffatta non si può compiere di un tratto; né forse sarebbe conveniente distruggere repentinamente soluzioni acquisite e ledere interessi potenti di ampie classi sociali. Ma quelle parole bastano però per persuaderci che si deve compiere una revisione profonda dei propositi di isolamento e di boicottaggio, che dominarono nell’Intesa durante i primi due o tre anni della guerra. Il proposito di recingersi di alte barriere daziarie e di iniziare, a pace fatta, una guerra economica contro la Germania, erano una reazione, psicologicamente spiegabile, contro la brutale aggressione del nemico e contro i metodi non leali da esso adottati nel campo economico. Ma l’ira, anche giusta, non è buona consigliera. Nate dalla guerra, partoriscono a loro volta inimicizie e guerre. «Le alleanze speciali – ammonisce il Wilson – e le rivalità e le ostilità economiche sono state appunto nel mondo moderno la sorgente inesauribile di progetti e di passioni che provocarono la guerra. Sarebbe una pace non sincera quella che non escludesse definitivamente questo pericolo». Le verità insegnate da un secolo e mezzo dagli economisti, sono bandite così con solennità e con forza non mai prima veduta dalla cattedra più alta che oggi parli ai popoli del mondo civile. I governanti dell’Europa non possono chiudere gli occhi dinnanzi alla luce che vien da questa cattedra. È un saggio, un veggente che parla; ma un saggio ed un veggente dietro a cui stanno milioni di bajonette.

 

 

Senza l’intervento di questi milioni di combattenti freschi, vigorosi ed entusiasti, forse la causa della civiltà occidentale era perduta. Perciò i governanti della vecchia Europa non possono non dare ascolto a quella parola. Al suono di quella voce, i programmi di ritorsione, di guerra economica banditi dalla Conferenza di Parigi del 1916 si dileguano come ombre mai vissute. Dinnanzi ad essa, le conclusioni della italiana commissione pei trattati di commercio appaiono caduche prima di aver cominciato a vivere. Sentiranno e comprenderanno i nostri uomini di governo che anche nel mondo economico va instaurata la giustizia, la parità di trattamento fra i popoli tutti? Giova augurarselo. Ché se questo non accadesse, essi sarebbero spazzati via, perché, come ancora ha detto il grande Presidente, «gli uomini di Stato debbono seguire l’illuminato pensiero comune o scomparire». I popoli vogliono soltanto una specie di pace: quella pace che darà sicurezza e tranquillità a tutti i popoli e renderà per sempre impossibile il caso di un’altra simile lotta di forza spietata.

 

 

Una pace piena, fondata sulla giustizia e sulla rettitudine, che sia vera pace e non la preparazione, sotto colore di guerra economica, di un’altra guerra la quale, non ancora rimarginate le ferite sanguinanti della guerra presente, nuovamente distrugga le venture generazioni.

I nuovi principii politici dell’intesa ed i futuri rapporti economici internazionali

I nuovi principii politici dell’intesa ed i futuri rapporti economici internazionali

«Corriere della Sera», 2 ottobre 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1959, pp. 720-724

 

 

Forse non é ancora abbastanza avvertito in Italia che i nuovi principii – società delle nazioni e politica delle nazionalità a cui, dal giorno dell’entrata in guerra degli Stati uniti, si inspira sempre più l’azione dell’intesa non sono destinati a rimanere soltanto nel campo politico. Sarebbe assurdo che la concezione diversa dei rapporti futuri tra le diverse nazioni alleate o riscattate dalla oppressione straniera non dovesse esercitare anche una influenza marcatissima sui loro rapporti economici. Se, dopo la pace, dovessero per ipotesi elevarsi alte barriere daziarie fra gli stati che oggi sono alleati e che domani dovrebbero costituire la nuova società delle nazioni, quali probabilità di durata, quale consistenza reale avrebbe quella cosidetta società ? Non sarebbero le inimicizie e le esclusioni economiche più potenti dei principii di colleganza politica professati a fior di labbra? e da queste rivalità non potrebbero agevolmente trarre partito la Germania ed i suoi satelliti per rompere l’unione nostra e distruggere in parte il lavoro faticosamente compiuto?

 

 

Queste considerazioni erano presenti nell’estate del 1917 alla mente del signor Wilson, quando, rispondendo alla nota del papa, dichiarava:

 

 

Il popolo americano crede che la pace dovrebbe fondarsi non sui diritti dei governi, ma sui diritti dei popoli, grandi o piccoli, deboli o potenti, sul loro uguale diritto alla libertà, alla sicurezza ed alla autonomia e ad una partecipazione a condizioni eque alla concorrenza economica del mondo, compreso naturalmente il popolo tedesco se accetterà l’uguaglianza e non cercherà il predominio … Creazioni di leghe economiche egoistiche ed esclusive sono considerate da noi inopportune ed in ultima analisi peggio che inutili, non essendo base adatta per una pace di qualsiasi specie e meno di tutto per una pace duratura.

 

 

Ed alcuni giorni fa, il presidente Wilson ribadiva siffatti suoi concetti, riaffermando, nell’occasione dell’apertura del quarto prestito della libertà, il principio che non vi possano essere leghe o alleanze o accordi o intese speciali in seno alla grande famiglia costituita dalla lega delle nazioni, e più specificatamente, che non vi possano essere speciali egoistiche combinazioni economiche dentro questa lega, e nessun uso di qualsiasi forma di boicottaggio o di esclusività economica, eccetto che come facoltà di penalità di cui sia esclusivamente investita la lega delle nazioni stesse come mezzo di disciplina e di controllo.

 

 

Ed a ragione il presidente americano fondava il principio da lui enunciato sulla circostanza di fatto che

 

 

le alleanze speciali e le rivalità e le ostilità economiche sono state appunto nel mondo moderno la sorgente inesauribile di progetti e di passioni che provocarono la guerra. Sarebbe una pace non sincera quella che non escludesse definitivamente questo pericolo.

 

 

Il Wilson ha il dono rarissimo di vedere in fondo ai grandiosi problemi che sono posti dalla guerra. Anche gli uomini di stato europei finiscono a poco a poco di essere attratti dalla semplicità e dalla forza che si sprigiona dalle sue parole. Anche quelli che, nell’orgasmo della lotta, avevano fatto talvolta concessioni verbali ad idee opposte.

 

 

È di ieri la dichiarazione, fatta dal signor Bonar Law alla Camera dei comuni, che il gabinetto inglese aveva deciso di applicare nel dopo guerra il principio della preferenza doganale a favore dei domini e delle colonie; ma è di ieri altresì un’altra dichiarazione fatta dal primo ministro Lloyd George ad una deputazione di industriali, nel senso che l’applicazione del principio della preferenza entro l’impero britannico non è oggi faccenda così semplice come sarebbe stato alcuni anni fa:

 

 

Fino ad oggi, – il signor Lloyd George disse testualmente, – l’America non ha manifestato la sua opinione intorno alle risoluzioni di Parigi (quelle del 1916, che ponevano alcune regole restrittive del commercio con le potenze nemiche nel dopo guerra), ed è assolutamente necessario che la politica degli Stati uniti e la politica del nostro paese siano in compiuto accordo intorno ai problemi economici… Prima di dichiarare quale sarà la nostra politica noi dobbiamo metterci in stretto contatto coi nostri alleati e guardarci dall’accogliere qualsiasi principio che possa in minima parte scemare la concordia e la buona volontà fra noi e gli alleati.

 

 

Se si medita un istante su questa dichiarazione, espressa senza dubbio con la maggiore ponderatezza e riflessione, si vede chiaramente che nel pensiero del primo ministro inglese la politica doganale, e non solo questa, che forse non è, fra tutte, la più importante, ma la politica dei trasporti, quella degli investimenti dei capitali all’estero, quella dell’emigrazione ed, in genere, i rapporti economici debbono formare oggetto di trattative comuni fra gli alleati. Ed è espressamente riconosciuta la somma difficoltà di adottare in questo argomento criteri differenti da quelli che sono accolti dagli Stati uniti e che si inspirano, almeno nel pensiero dell’attuale presidente, all’idea della società delle nazioni.

 

 

Nessun indizio, neppure lontanissimo, vi è che gli uomini attuali di governo in Italia abbiano veduto l’importanza straordinaria di queste nuove tendenze e di queste significative dimostrazioni dei capi di governo alleati. Quanto alla politica doganale – che è la sola di cui si discorre, sebbene, ripetasi, non abbiano importanza minore la politica dei trasporti, degli investimenti di capitali esteri e dell’emigrazione – si ha l’impressione che i nostri uomini di governo se ne lavino le mani, rimettendosi al responso della commissione reale per i trattati di commercio, la quale deve avere prese le sue conclusioni. Quali esse siano, è ignoto, essendo quelle conclusioni, salvo alcune vaghe dichiarazioni generiche, rimaste segrete. Si sa soltanto, poiché fu dichiarato da autorevoli membri di quella commissione, che essa propone un sistema di doppia tariffa, con dazi massimi e minimi e che in genere la misura di quei dazi non eccede quella della vigente tariffa francese. Bastano queste notizie per permettere di concludere che i lavori di quella commissione sono stati compiuti in un clima storico che non è quello odierno e che le sue conclusioni debbono essere assoggettate ad una revisione molto accurata e probabilmente radicale. Basti ricordare, per chi non lo sapesse, che la tariffa francese è forse la più elevata che si conosca, dopo quella russa, addirittura proibitiva, assai più elevata persino di quelle tedesche ed austro – ungariche, accusate di aver favorito le tendenze aggressive di quei paesi contro la nostra indipendenza economica. L’adozione, nel dopo guerra, di una tariffa simile a quella francese, vorrebbe dire il trionfo della tendenza verso l’isolamento economico, la guerra doganale non solo contro i nemici, che sarebbe poco, ma anche contro gli attuali alleati.

 

 

Che gli uomini di governo italiani non abbiano veduto la gravità estrema di questa tendenza dimostra come stentino le idee nuove e più le nuove situazioni storiche ad imporsi e ad esercitare una influenza decisiva sulle azioni degli uomini. È possibile che tutti gli omaggi resi in solenni discorsi alla solidarietà attuale tra gli alleati, ed alla futura società delle nazioni concludano praticamente ad accogliere, appena firmata la pace, il dogma dell’isolamento economico e della guerra doganale contro i medesimi nostri alleati. È possibile che coloro, i quali hanno accolto la politica delle nazionalità ed hanno al congresso di Roma dichiarato che la costituzione delle libere nazioni dei czechi e dei jugoslavi è un interesse fondamentale italiano, si rassegnino a vedere frustrati in gran parte gli effetti della nuova politica con un sistema di dazi, che escluda boemi e slavi meridionali dai nostri mercati e li gitti perciò, mani legate, nuovamente in braccio dei tedeschi? Se noi vogliamo sostituire alla penetrazione verticale odierna, dal nord al sud, con cui Germania ed Austria cercano di impadronirsi del mercato slavo meridionale, una penetrazione orizzontale, occorre che l’Italia e la futura Jugoslavia si accordino non solo politicamente, ma anche economicamente. Occorrono ferrovie trasversali, tariffe portuali e ferroviarie bene congegnate; ed occorrono merci e viaggiatori attraverso quei porti e quelle ferrovie. Ma tutto ciò non si potrà avere se non si rivedono i principii della nostra politica doganale nel senso di facilitare e non di ostacolare i traffici internazionali.

 

 

Non dico che senz’altro si debbano abolire i dazi e adottare una politica di piena libertà di scambi da un momento all’altro. In tutti i mutamenti, occorre un periodo di transizione. Occorre formulare però un programma graduale, guardando all’avvenire; e non inspirandosi a criteri dell’epoca della pietra, come nel segreto dei suoi lavori pare abbia fatto la commissione reale sui trattati di commercio.

 

 

Importa che il governo assuma le sue responsabilità e indichi quale sia la via da percorrere. Se non crede il momento maturo, deve far in modo che la pubblica opinione sia illuminata e messa in grado di discutere a fondo la grave questione, dalla cui buona o cattiva soluzione può dipendere per decenni l’avvenire d’Italia. Il segreto che gelosamente si mantiene intorno ai lavori ed alle conclusioni specifiche della commissione reale è davvero intollerabile in un paese libero. Esso fomenta sospetti di sopraffazione di certi interessi particolari a danno di altri interessi e di quelli generali. Nel mezzogiorno d’Italia è nata fra gli agricoltori una agitazione viva, di cui si è fatta eco la Camera di commercio di Bari, per protestare contro le conclusioni della commissione reale. Se non ci si pone riparo, quella agitazione, che oggi è puramente economica, potrebbe assumere un aspetto politico e fomentare antagonismi, in realtà inesistenti, fra nord e sud. Contro questi sospetti e pericoli c’è un rimedio: la pubblicazione immediata ed integrale delle relazioni e dei voti della commissione reale. Il paese deve poter sapere e discutere, poiché esso solo è l’arbitro dei suoi destini. Illuminato dalle discussioni pubbliche e forte del consenso di tutti gli interessati il gabinetto potrà assai meglio scegliere la sua via e far trionfare le sue idee, qualunque esse siano, nel consesso degli alleati e nel congresso della pace, assai più forte di quanto non sarebbe, poggiato soltanto sulle conclusioni segrete di una commissione scelta a suo talento da un solo ministro, anni or sono, quando il problema doganale presentavasi sotto aspetti assai di differenti da quelli odierni.

 

 

Per intensificare l’emissione dei buoni del tesoro

Per intensificare l’emissione dei buoni del tesoro

«Corriere della Sera», 1° settembre 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1959, pp. 714-719

 

 

Il tesoro italiano provvede in diverse maniere ad accaparrare i risparmi privati, i quali si vanno continuamente formando: 1) con i prestiti consolidati in rendita 5% , emessi a distanza di un anno circa l’uno dall’altro; 2) con i buoni quinquennali e triennali 5% , emessi a gitto continuo, su domanda dei risparmiatori, ad un prezzo fisso di 97,50 e di 98,50, calcolato in modo che il reddito del titolo risulti superiore al 5,5% ; 3) con i buoni ordinari, a scadenze da tre a dodici mesi, fruttanti un interesse dal 4 al 5 % ; 4) con i buoni quinquennali da lire 25, scadenti al 1 aprile 1923, fruttanti il 5% , in cedole pagabili in lire 1,25 al 1 aprile d’ogni anno.

 

 

I quattro metodi ora indicati rispondono ad esigenze differenti ed ottimamente si fa a ricorrere ad ognuno di essi, in guisa da ottenere il massimo effetto possibile. Ma è evidente che dei prestiti in rendita 5% non si può far uso troppo frequente, non essendo il pubblico in grado di assorbire troppo spesso somme cospicue di un titolo il quale implica un impiego permanente del risparmio. È probabile anzi che il mercato non abbia finito neppure ora di digerire i sei miliardi dell’ultimo prestito del febbraio scorso, come parrebbe indicare la fiacchezza delle quotazioni di esso, circa 86,50 lire, in confronto con la sostenutezza straordinaria della rendita 3,50, quotata 83 lire. Tra le molte cause, che ho cercato altre volte di spiegare, bisogna noverare pure il fatto che molti sottoscrittori, specie industriali, fecero il passo più lungo della gamba e vendettero poscia parte dei titoli, sottoscritti in grosse somme per fare bella figura. È possibile che il tesoro voglia perciò dar tempo al mercato di assorbire a poco a poco le partite flottanti, sicché di un nuovo prestito non si abbia a riparlare tanto presto.

 

 

Frattanto la guerra richiede 1 miliardo e 800 milioni al mese, a cui bisogna provvedere, massimamente con prestiti interni. Poiché sarebbe funesto ingrossare ancora notevolmente la circolazione, è necessario che il pubblico – fornitori, industriali, risparmiatori in genere – sottoscriva almeno 1 miliardo al mese nelle diverse forme di buoni del tesoro.

 

 

Le ultime due situazioni del tesoro al 31 maggio ed al 30 giugno 1918 – pubblicate con un ritardo nuovo e lamentevole, a cui l’on. Nitti dovrebbe porre riparo – indicano così i quantitativi richiesti ai diversi mezzi di credito (in milioni di lire):

 

 

Circolazione

833,5

Buoni da 1 a 2 lire

17,5

Biglietti da 5 a 10 lire

66

Biglietti di banca

750

Totale

833,5

Vaglia del tesoro

382

Buoni del tesoro

898,5

Ordinari

640

Poliennali

258,5

Totale

898,5

Prestiti esteri

1345

Inglesi

568

Americani

777

Totale

1345

Totale debiti

3459

 

 

La cifra dei prestiti esteri è di giuste proporzioni; ma dei debiti interni è eccessiva la quantità dei vaglia del tesoro, che sono debiti a vista e pericolosa quella degli 833,5 milioni di biglietti nuovamente emessi in due soli mesi. Se si seguita di questo passo, anche se i cambi ribassano grazie agli accordi con gli alleati, i prezzi debbono continuare a salire crescendo il malcontento delle masse e lo spostamento delle fortune.

 

 

È necessario, è urgente aumentare le emissioni dei buoni del tesoro.

 

 

Fortunatamente il buono è un titolo meraviglioso, che si presta ad ogni sorta di esigenze. V’ha chi vuole un impiego duraturo, con la sicurezza del rimborso in cifra fissa a cose finite, a pace fatta, quando egli potrà scegliere l’impiego allora più sicuro e conveniente? E costui compri il buono a 5 od a 3 anni, a seconda delle sue opinioni sulla probabile durata della guerra. V’ha chi ha somme disponibili per pochi mesi, perché è interessato in imprese industriali od in commerci, e ritiene di averne bisogno presto? Egli può acquistare buoni ordinari, i quali vengono presto a scadenza e gli danno un frutto, quale non si può sperare da nessun deposito in banca. Il buono ordinario conviene anche al privato, il quale non ha ancora ben fermo in mente l’impiego da dare ai suoi risparmi. Mentre attende, il buono gli dà un ragguardevole frutto. Se vorrà sottoscrivere al futuro prestito, il buono gli verrà conteggiato al prezzo d’acquisto, più interessi decorsi.

 

 

Dal canto suo, il governo dovrebbe fare il possibile per popolarizzare i buoni. La propaganda, parmi, è fatta un po’ fiaccamente, sicché sono ancora moltissimi coloro i quali non sanno di potere acquistare in qualunque momento, per qualsiasi somma buoni a 3, 6, 9, 12 mesi, 3 e 5 anni a prezzo fisso. Sovratutto si dovrebbe rendere i buoni più attraenti, aumentando il saggio dell’interesse. Se i buoni a 5 e 3 anni fossero venduti a 100 lire, anche senza sconto sul prezzo, ma al 6% d’interesse, la loro popolarità crescerebbe assai. Il pubblico, a torto od a ragione, apprezza di più il reddito rotondo, pagato a titolo di interesse, che non quello che si gode, pagando il titolo 1,50 o 2,50 meno in confronto alla pari. Una innovazione, che non ha incontrato il favore del pubblico medio, è quella di pagare gli interessi del primo semestre anticipatamente. Arrivato alla scadenza, il portatore ha l’impressione di non ricevere il dovuto; né si decide a considerare come reddito ciò che si è pagato in meno all’atto della sottoscrizione. Moltissimi si ostinano a considerare come reddito solo ciò che si riceve, non ciò che non si paga. Sembra una futilità, ma occorre tenerne conto. È probabilissimo perciò che se lo stato vendesse buoni a 100 lire al 6% avrebbe un successo assai maggiore che non vendendo buoni a 97,50 a 5 anni al 5%; sebbene in fondo il maggior gravame per l’erario sarebbe solo del 0,40% circa all’anno.

 

 

Dal punto di vista psicologico, parmi degno di essere meditato il metodo inglese, che consiste nel pagare il premio in un dippiù oltre la pari alla scadenza del buono. I National War Bonds inglesi a scadenza del 1 aprile 1923, ossia a 5 anni circa sono venduti a 100 lire, fruttano il 5% e sono rimborsabili alla scadenza a 102 lire; quelli a 7 anni, scadenti il 1 aprile 1925, costano ora 100 lire, fruttano il 5% e sono rimborsabili in 103 lire; e finalmente quelli a 10 anni, scadenti il 1 aprile 1928 fruttano sempre il 5% e sono rimborsabili in 105 lire. Il fondamento psicologico del metodo inglese è questo: che il risparmiatore considera il 100 come capitale; e quindi è meglio fargli pagare 100 e rimborsargli 102, 103 e 105 che non fargli pagare 95, 97 e 98 e rimborsargli 100. Nel secondo caso egli riceve bensì un premio di 5, 3 e 2 lire, ma ha l’impressione di ricevere solo il suo capitale di 100 lire e non qualcosa che egli possa godere. Invece nel primo caso, egli ha la sensazione diretta di ricevere, oltre il rimborso del capitale in 100 lire rotonde, ancora 2, 3 e 5 lire in più di cui può fare l’uso che crede, senza pregiudicare il capitale.

 

 

Sembrano piccole sfumature; ma, poiché le azioni economiche degli uomini sono determinate, più che non si creda, da abitudini ed impressioni, non si può negare che esse non abbiano avuto gran parte nel magnifico successo dei buoni del tesoro inglesi che dal 2 ottobre 1917 al 15 agosto 1918 gittarono 25 miliardi di lire nostre. Il successo è stato così grande che oramai in Inghilterra si ritiene di poter fare a meno di ricorrere a grandi prestiti, che disturbano il mercato, richiedono sforzi improvvisi e colossali e non fruttano di più dei buoni. Perché in Italia non si concentra l’attenzione sui buoni, aggiungendo a quelle gia’ in corso un’altra serie a 10 anni, la quale sarebbe gradita a coloro che desiderano investimenti duraturi? Per tutte le specie di buoni del tesoro fa mestieri studiare attentamente se non convenga aumentare, in diversa misura a seconda della specie del buono, il saggio dell’interesse. Vi sono almeno due ragioni le quali favoriscono tale soluzione:

 

 

  • meglio è fare un sacrificio su un titolo che ha breve durata che sulla rendita 5% . Troppo si è condisceso a ribassare il prezzo d’emissione della rendita 5% , gravando lo stato di un interesse elevato per lunghi anni, fino a che non sia possibile effettuare una libera conversione. Meglio pagare il 6% sui buoni a 1 anno od a 3-5 anni. Il carico è temporaneo ed è probabile che, a guerra finita, si possano fare prestiti in rendita 5% ad assai migliori condizioni per lo stato di quelle ultime e col provento rimborsare i buoni;
  • un buon interesse è necessario per vincere la concorrenza dei titoli privati – azioni ed obbligazioni – che tuttodì vengono posti sul mercato. Specialmente le azioni, insieme con le terre e le case, fanno oggi concorrenza viva ai titoli di stato. Il pubblico compra titoli privati perché li vede aumentare di prezzo di mese in mese e calcola sul doppio utile, del dividendo e dell’apprezzamento del valor capitale. Per parecchie ragioni, qualunque provvedimento si volesse prendere, con divieti, imposte, minacce contro gli speculatori di borsa, per impedire gli aumenti di valore dei titoli e delle terre farebbe più male che bene. Quel movimento al rialzo, entro certi limiti e in media, astrazion fatta da stravaganze singole le quali si puniscono da se stesse, è necessario e naturale. Vociferare contro gli aumenti di valore dei titoli, come delle terre è un errore, come è un errore gridare contro l’aumento dei prezzi delle merci. Sono amendue effetti fatali della medesima causa: che è il deprezzamento della moneta. Se i prezzi dei terreni, delle macchine, dei titoli, delle merci non aumentassero, si produrrebbe uno squilibrio, il quale non potrebbe durare. Lasciamo quindi che i valori aumentino, il che al postutto è solo un non perdere, in confronto alla moneta deprezzata, e procuriamo piuttosto di evitare che per l’avvenire non si inaspriscano le cause le quali produrrebbero, se fossero lasciate continuare, ulteriori aumenti.

 

 

Altro metodo io non vedo, che sia efficace e che non rientri nel novero dei soliti cerotti legislativi dei soliti progettisti, all’infuori di non crescere la già eccessiva massa dei biglietti circolanti. Il dilemma è: farsi imprestar denaro emettendo biglietti e provocando il gonfiamento artificiale dei prezzi delle merci e dei valori capitali; ovvero farseli imprestare emettendo buoni e cioè ritirando biglietti e per ciò contraendo i prezzi. Per rendere i buoni graditi ai capitalisti occorre che essi rendano in interesse di più del guadagno che si può sperare da altri impieghi. Oramai le terre ed i titoli azionari sono capitalizzati a prezzi tali che il frutto bene spesso si aggira dal 2 al 4%. Se i buoni rendessero il 6% , molti rifletterebbero che forse non val la pena di rinunciare al maggior interesse sicuro – differenza fra il 6% fruttato dai buoni del tesoro ed il 3% fruttato dalle azioni e dalle case sul prezzo odierno di acquisto -, per correre dietro alla speranza di un ipotetico aumento ulteriore di valore dei titoli privati, terreni e case.

 

 

Lettera nona. Perché gli americani combattono in Europa?

Lettera nona.
Perché gli americani combattono in Europa?
«Corriere della Sera», 29 agosto 1918
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 111-125
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 956-964

 

 

 

 

Signor direttore,

 

 

L’intervento degli americani deve avere cagionato ai tedeschi una stupefazione più grande assai di quella da cui erano stati colpiti a causa dell’inopinato intervento inglese nell’agosto 1914. Per questo era pronta da mezzo secolo la spiegazione. Da Marx e da Treitschke in poi, il «borsellino» non era stato l’unico movente delle azioni dei cugini britannici? E perciò l’invidia inglese nel vedere riempirsi rapidamente anche il borsellino germanico era la vera ed unica ragione per cui l’Inghilterra era scesa in campo. Ma gli americani? Per qual matta frenesia si eran decisi a buttar dalla finestra i miliardi che la neutralità aveva loro fruttato per due anni e mezzo?

 

 

Dopo lunghe incertezze pare che ora la teoria si sia fissata nella patria della critica storica; e, se son vere le relazioni stampate per le gazzette, l’imperatore Guglielmo ne avrebbe comunicato ai popoli i risultati ultimi: causa dell’intervento sarebbe l’errore commesso dagli americani nell’eleggere a lor presidente un «professore», invece di un vero uomo politico. Un «uomo di stato» non si sarebbe così scioccamente lasciata sfuggire l’occasione magnifica di mettersi d’accordo con la Germania, per saltare addosso all’Inghilterra e, distruggendone la potenza navale, appropriarsi una buona metà dell’opimo bottino coloniale divenuto così disponibile. E, se vogliamo essere giusti, tutti coloro tra noi che in fondo al cuore conservano non poco disprezzo verso il «professore» italiano – o non era questo il saluto che all’on. Salandra indirizzava un antico presidente del consiglio? – il quale aveva rinunziato per vaghe idealità a far bottino di Nizza, Corsica e Tunisi, non sono ancora riusciti a capacitarsi della misteriosa ragione per cui gli americani del nord non abbiano seguito i consigli della Germania.

 

 

Bei matti e simpatici, pensano gli uni, da sfruttare, facendoci imprestare più quattrini che ci sarà possibile ed aiutare nel distribuire la carta d’Europa a nostra soddisfazione. Accorti mercanti, ribattono i furbi, i quali pensano che, dopo tutto, gli americani sono corsi in aiuto dei loro debitori, per salvarli dalla sconfitta e dal fallimento e metterli in grado di far fronte ai loro impegni.

 

 

Che l’invidia del rapido arricchimento tedesco sia stata la causa dell’entrata in guerra dell’Inghilterra è oramai una teoria coltivata soltanto dai tedeschi ed in Italia dai socialisti ufficiali e dai neutralisti costituzionali, soli superstiti zelatori della un tempo acclamatissima teoria del materialismo storico. Un calcolo spinse, è vero, gli inglesi nel paese di Fiandra; ma fu l’istesso calcolo che aveva spinto Elisabetta contro Filippo II, Guglielmo d’Orange contro Luigi XIV, Pitt contro Napoleone: il calcolo di chi preferiva di immolare subito vita e ricchezze pur di non correre in avvenire il pericolo di cadere vittima della potenza egemonica europea. Finché gli inglesi saranno capaci di sacrificare il quattrino presente alla ricchezza futura le nazioni non egemoniche conserveranno libertà ed indipendenza in Europa. Il giorno in cui, simili ai cartaginesi del tempo d’Annibale, essi pregieranno i loro traffici e lucri immediati più del bene sacro della libertà patria, sarà libero il campo al popolo sopraffattore per soggiogare prima l’Europa e poi schiacciare l’Inghilterra. Gli inglesi, dunque, combattono nelle Fiandre e sulla Somme e sull’altipiano d’Asiago per salvare se stessi, il loro impero e la libertà delle venture loro generazioni; e così combattendo, giovano ora, come giovarono nel ‘600, nel ‘700 e nell’800, alla causa della libertà europea.

 

 

Ma se questa è oramai verità incontroversa, quale è la ragione dell’intervento americano? Perché, contrariamente ai buoni consigli germanici, gli Stati uniti non hanno seguitato a lucrare miliardi, rimanendo neutrali, e non hanno colto l’occasione per stendere le mani – e si sa quanto lunghe sieno le braccia e le gambe dello zio Sam – sul Canada e sull’Australia, lasciando l’Africa e l’India alla Germania? L’enigma è tanto più misterioso quando si pensi che, per venire in Europa, gli americani hanno dovuto far gitto di tutta una loro tradizione secolare di politica estera. Rimonta questa tradizione al famosissimo discorso di addio pronunciato nel 1796 da Washington.

 

 

«La regola aurea della nostra condotta riguardo alle nazioni forestiere sia, pur estendendo con esse relazioni commerciali, di avere secoloro i minimi rapporti politici che sarà possibile. L’Europa coltiva interessi, i quali non hanno alcuna o tenuissima importanza per noi. Perciò essa è frequentemente impigliata in contese, le ragioni delle quali ci sono sostanzialmente estranee. Sarebbe perciò poco saggio imbrogliarci, con legami artificiali, nelle vicissitudini ordinarie della sua politica o nelle consuete combinazioni e collusioni delle sue amistà o inimicizie. La nostra situazione staccata e lontana ci invita e ci dà il mezzo di seguire una via differente. La nostra vera politica sta nel tenerci lontani da alleanze permanenti con qualsiasi parte del mondo straniero».

 

 

Fu, per citare solo l’applicazione più importante del messaggio d’addio di Washington, in ossequio ad esso che il presidente Monroe declinò nel 1823 l’invito del segretario britannico agli affari esteri, Roberto Channing, di cooperare con l’Inghilterra per opporsi ai tentativi della Santa alleanza di ristabilire il dominio spagnuolo sulle rivoltose colonie dell’America del sud. L’invito cadeva in terreno simpatico, poiché già allora l’ideale panamericano brillava dinanzi alle menti degli uomini di stato d’oltre oceano. Ma nonostante che i maggiori politici di quel tempo, e basti citare Jefferson, il grande presidente democratico, e Madison, il formulatore, con Hamilton e Jay, della costituzione, opinassero che l’Inghilterra fosse l’unica nazione al mondo con cui gli Stati uniti avessero comunanza d’ideali e nutrissero cordiale amicizia, fu più forte l’ossequio alla ammonizione washingtoniana, che Jefferson stesso nel 1801 aveva formulato taglientemente così: «Pace, commercio ed amicizia onesta con tutte le nazioni, alleanza con nessuna». E così fu che Monroe nel celebre messaggio del 2 dicembre 1823, respingendo l’offerta d’alleanza dell’Inghilterra, dichiarava che l’America non intendeva intervenire in Europa nella contesa tra la reazionaria Santa alleanza e le potenze liberali e nel tempo stesso affermava che il nuovo mondo era oramai chiuso a nuove colonizzazioni da parte del vecchio. Gli Stati uniti riconoscevano così che l’invito dell’Inghilterra ad opporsi ai tentativi della Santa alleanza di opprimere le rivoltose popolazioni del Sud America era giusto e nobile; ma vollero apertamente significare al mondo che essi si facevano paladini della libertà delle antiche colonie spagnuole, perché né essi volevano aver voce negli affari europei, né soffrivano che l’Europa la serbasse negli affari americani.

 

 

Se perciò il Wilson durò , traverso a molte incertezze, una fatica di quasi tre anni per persuadere gli americani a romper guerra con la Germania, fa d’uopo riconoscere che non era possibile offendere a cuor leggero una tradizione fondata su così solenni documenti e serbata inviolata per centoventi anni. E se finalmente la tradizione fu rotta e gli Stati uniti per la prima volta uscirono dal loro splendido secolare isolamento, ciò accadde perché il «teorico» presidente di oggi vide ergersi di nuovo sull’orizzonte un pericolo che da lungo tempo più non esisteva quando Washington formulava e Jefferson e Monroe ribadivano la teoria del «non Intervento». Nel 1790 erano passati 33 anni da quando la pace tra Inghilterra e Francia aveva ridotto il Canada francese allo stato di colonia inglese; e da 33 anni era cessata ogni ragione perché i coloni americani sentissero minacciata la loro libertà civile e la loro indipendenza nazionale da una potenza militare straniera. Finché quel pericolo durava, finché gli arditi ed intraprendenti capi militari francesi minacciarono di fondare un impero coloniale che dal San Lorenzo attraverso i grandi laghi ed al Mississipi poteva congiungersi colla colonia pur francese della Luisiana sul golfo del Messico, finché gli indiani trovarono aiuto e consiglio negli avventurosi guerrieri della francese Quebec, i coloni anglosassoni avevano guardato alla madrepatria come a guida ed a schermo. Fino allora nessuno pensava che l’America potesse fare a meno dell’Europa o straniarsi dalle contese europee. Quelle contese erano anche contese americane, perché l’istesso nemico minacciava la madrepatria in Europa ed i coloni in America. La cessione del Canada francese all’Inghilterra ruppe la solidarietà fra America ed Europa. Rimasti per un secolo e mezzo senza nemici immediati, liberi di espandersi liberamente sulle immense pianure del far-west, che sempre più si dilungava verso l’occidente, gli Stati uniti poterono illudersi di non avere nulla da spartire nelle contese della vecchia Europa. I vicini erano americani anch’essi, privi di ambizioni territoriali: canadesi viventi liberi nel seno della grande federazione dei popoli britannici: messicani, occupati nelle loro intestine discordie od intesi ai progressi materiali sotto la guida di un geniale «tiranno», il generale Porfirio Diaz.

 

 

Dal sogno dell’isolamento li scosse rudemente la diana di guerra del 1914. Forse, se a capo degli Stati uniti si fosse trovato un uomo politico ordinario, uno dei veterani delle battaglie elettorali tra repubblicani e democratici, gli americani non avrebbero visto nulla e si sarebbero contentati di trarre profitto dalla neutralità , vendendo ad amendue i belligeranti, al più alto prezzo possibile, i frutti del lavoro americano. Era la politica che oggi tanti ancora invidiano alla Spagna, la quale senza rischi arricchisce e vede la sua peseta salire al primo posto tra le monete del mondo.

 

 

Ma, per ventura somma di noi e sovratutto delle venture generazioni degli americani, a capo della repubblica c’era un veggente, uno scrittore di storie della sua patria, un erede non della lettera, ma dello spirito dell’azione dei suoi grandi predecessori, dei Washington, dei Jefferson, dei Lincoln. Egli vide che di nuovo gli Stati uniti erano minacciati a tergo da un nemico più formidabile di quello che da Quebec nella prima metà del secolo diciottesimo insidiava la vita delle tredici giovani colonie. Più formidabile, dico; perché il nemico d’un tempo era semplicemente ambizioso guerriero ardito cavalleresco: combatteva per la voglia di menar le mani e di acquistar gloria alla Francia, piantando su nuove città e su nuovi forti la bandiera dei fiordalisi. Ma non era mosso da un’idea, non era animato dallo spirito della propaganda, della evangelizzazione, della cattolicità. Il nemico d’oggi è più pericoloso, perché è un’idea incarnata in un popolo convinto della propria superiorità spirituale su tutti gli altri popoli, l’idea che il popolo «eletto» abbia il diritto di vivere libero, di avere il suo posto al sole senza dipendere dalla volontà di nessun altro popolo e senza venire con questi ad accordi ed a transazioni. Poiché nel mondo moderno dell’economia divisa, degli scambi rapidi e frequenti, la vita «libera», «autonoma» è una fallacia assurda, poiché ad ogni popolo, che non voglia sopraffare gli altri, è giuocoforza venire con gli altri a transazione e ad accordi, dare per ottenere, lavorare per gli altri per ottenere che gli altri lavorino per lui, poiché l’«indipendenza» assoluta è un mito irrealizzabile, dovendosi dipendere dagli altri per avere ciò che in casa non si possiede, per dare altrui ciò che in casa si ha di troppo, così per deduzioni logiche ferree il popolo che vuole essere «libero», che non vuol riconoscere di dover dipendere dagli altri per avere il proprio posto al sole, quel popolo deve aspirare al dominio universale. L’irrequietudine tedesca degli ultimi vent’anni, quel loro continuo lamentarsi, in mezzo ad inauditi trionfi economici, di non potere trarre liberamente il fiato, di non avere abbastanza posto al sole, di non potere vivere «da sé», senza dipendere da altrui, quelli erano i contrassegni caratteristici dell’idea peculiare che della «libertà» si fanno i popoli eletti da Dio. Questa libertà non si acquista se non quando un popolo solo acquista a mano a mano il dominio del mondo e diventa bastevole a sé, libero assolutamente di muoversi, perché, essendo il suo territorio esteso a tutto l’orbe, fuori di esso non esiste più nulla di cui si abbia bisogno e da cui perciò si sia dipendenti, di cui si sia schiavi, che tolga, anche in minima parte, il fiato e limiti il posto al sole.

 

 

È una terribile creatrice di guerre, l’idea della libertà illimitata e senza freni: e da essa trassero origini le realtà e le immagini di impero universale che si chiamano impero d’Alessandro, impero romano, di Carlo quinto, di Luigi quattordicesimo, di Napoleone primo; tutti combattenti per la libertà dei popoli, che essi volevano raggiungere e che talvolta, come al tempo di Roma, effettivamente ottennero, trasformando il mondo conosciuto in un mondo di unica civiltà greco-latina. Wilson vide che bisognava soffocare l’idra rinascente in sul nascere. All’idea della libertà del popolo eletto egli e noi opponiamo l’idea della libertà che è vincolo, che è servitù, che prima di essere e per essere godimento, è sacrificio. Noi vogliamo essere liberi, ma vogliamo che anche gli altri siano liberi, e perciò noi riconosciamo che è sorte comune degli uomini di essere servi gli uni degli altri. Nessun popolo eletto e tutti i popoli fratelli nella servitù degli umili riti della vita materiale e nelle gioie delle conquiste ideali.

 

 

Venendo in Francia ed in Italia, gli americani sanno di combattere per se stessi ed insieme per noi ed anche per il nemico. Combattono per sé, poiché l’esperienza insegna come ai sogni di dominio universale non vi sia fatalmente alcun limite. I romani conquistarono la Spagna e l’Africa e poi la Macedonia e poi l’Oriente e poi l’Egitto e la Gallia nolenti, perché non era possibile ad essi far a meno di conquistare. E Napoleone non diceva di essere «costretto» a far guerra? e non era forse egli in gran parte sincero nel dir ciò, quando si pensi che sicurezza assoluta di vita non v’è per alcun stato, che per un popolo non v’è libertà assoluta se non quando tutti gli altri stati siano debellati e tutti i popoli costretti a servire? Gli Stati uniti combattono oggi la guerra per la libertà dell’Europa per non essere «costretti» a combattere fra cinquant’anni una guerra assai più dura e fiera contro la potenza che in Europa, senza il loro intervento, avrebbe forse ora conquistato l’egemonia. Mentre salvano noi dall’aggressione e dalla scomparsa del nostro tipo di civiltà, salvano se medesimi da una lotta più cruenta e forse perduta. Ma combattono anche per i nemici. Contro uno di essi, il più forte ed il solo degno, essi e noi combattiamo una lotta d’idee, la quale finirà il giorno in cui anche i tedeschi si saranno persuasi che la libertà non è dominazione, ma è servizio. Servizio reciproco, ma servizio. La guerra sarà vinta da noi quando i tedeschi si saranno persuasi che è un folle, un criminoso sogno il pretendere di essere sovranamente liberi; che fa d’uopo cercare quella libertà che è compatibile con la libertà degli altri, quel posto al sole che non ruba il posto che altri si è conquistato e vuole tenere per sé e dimostra, lottando, di meritare di tenere per sé.

 

 

Contro l’altro nemico, la guerra che si combatte è necessariamente una guerra di annientamento. Le voci di milioni di antichi sudditi austro-ungarici rifuggitisi nell’ospitale contrada nordamericana hanno persuaso il presidente Wilson e il suo popolo che l’impero austro-ungarico è una sopravvivenza arcaica degli stati di famiglia dei secoli scorsi. Utile baluardo contro il turco ed il moscovita, quel tipo di stato ha chiuso il suo ciclo. Non ha la forza di aspirare alla monarchia universale e di attuare in terra il verbo della libertà assoluta per il popolo eletto; e non può vivere se non comprimendo la libertà dei popoli a forza tenuti riuniti dagli odi e dalle discordie reciproche.

 

 

Noi italiani che, sovratutto, per ragioni di vicinanza e per la liberazione dei fratelli soggetti, combattiamo questa maschera di stato, siamo perciò gli alleati naturali degli Stati uniti. Ma importa non dimenticare mai la verità fondamentale: che gli Stati uniti sono nostri alleati perché e finché noi combattiamo per la libertà nostra ed insieme per la libertà altrui. Il pericolo per gli Stati uniti è lo spettro della monarchia universale. Lo spettro non svanirebbe se l’Austria, pur restituendoci Trento e Trieste, continuasse a vivere vassalla della Germania imperiale di oggi. Perciò gli Stati uniti non hanno interesse a combattere per noi per aiutarci soltanto a liberare i fratelli nostri o ad attuare le altre esigenze del patto di Londra; sì, hanno interesse ad aiutarci ad attuare i nostri ideali, in quanto essi siano compatibili con la superiore necessità della liberazione dei popoli oppressi dalla monarchia austro-ungarica, senza di cui questa, rimanendo fida vassalla della Germania, continuerebbe a consentirle nel futuro quell’egemonia medieuropea, che è un primo e gran passo verso l’egemonia europea. La ferrea logica vuole che, ove si voglia efficacemente tagliar la strada all’attuarsi dell’ideale della libertà assoluta dei dominatori del mondo, bisogna serrarsi uniti sotto la bandiera della libertà che è reciproco servizio. Noi non possiamo diventare veramente liberi se non guarentendo la uguale libertà degli altri. In difesa di questo principio sono scese sulla Marna e sul Piave le schiere americane ed in difesa di questo principio dobbiamo combattere pur noi, se vogliamo che i nostri fini di guerra non siano quelli stessi di dominazione e di sopraffazione per cui combattono tedeschi ed austriaci.

 

 

Biglietti di banca ed assegni bancari

Biglietti di banca ed assegni bancari

«Corriere della Sera», 3 agosto 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1959, pp. 709-713

 

 

Il deprezzamento della carta-moneta ha ridato attualità alla propaganda che già prima della guerra erasi iniziata nei paesi del continente per popolarizzare l’uso degli assegni bancari, ad imitazione di quanto si fa in Inghilterra e negli Stati uniti. Si sa che cosa è un assegno bancario o chèque: un ordine dato da chi ha somme depositate in conto corrente alla banca depositaria di pagare tutto o parte delle dette somme ad una terza persona. Tizio che ha presso la banca 4.000 lire in conto corrente deve pagare 500 lire di fitto al padron di casa? Invece di recarsi alla banca a far coda, prima allo sportello del controllo e poi alla cassa, ritirare il biglietto da 500 lire, portarlo a casa, metterlo in una busta ed inviarlo o consegnarlo, contro ricevuta, al padron di casa, il quale a sua volta dovrà recarsi a far coda alla sua banca a due sportelli per versare le stesse 500 lire nel suo conto corrente; basta staccare un foglio dal libretto degli assegni, scrivervi su l’ordine alla propria banca di pagare le 500 lire al padron di casa, metterlo in una busta e consegnarglielo, senza nemmeno disturbarsi a farsi rilasciare una ricevuta. Il padron di casa a sua volta consegna l’assegno alla sua banca, la quale provvederà ad accreditare di 500 lire il suo conto corrente e lo presenterà nella stanza di compensazione alla banca di Tizio, affinché questa la accrediti di 500 lire, addebitando Tizio di ugual somma. In tal modo il pagamento si effettua senza tirar fuori un centesimo in moneta, senza perdite di tempo, mercé semplici scritturazioni sui libri delle banche.

 

 

In Inghilterra e negli Stati uniti il sistema è diffuso per modo che, salvo i salari giornalieri ed i minimi acquisti di pochi soldi, nulla si paga in moneta e tutto per mezzo di assegni: anche il fornaio, il macellaio, il droghiere, il farmacista è lieto di essere pagato in assegni. Nessuno si preoccupa del pericolo di ricevere assegni da chi non possiede nulla alla banca; l’applicazione di pene severissime avendo fatto andar via siffattamente la voglia ai lestofanti di truffare il prossimo, che il rischio di ricevere un assegno a vuoto è assai minore di quello di ricevere un biglietto falso.

 

 

Con questa differenza a favore dell’assegno, che è difficile dimostrare di aver ricevuto un biglietto falso precisamente da Tizio mentre l’assegno tirato a vuoto porta la traccia indelebile del mittente, il quale non è liberato dal suo debito, se l’assegno non ha avuto buon fine.

 

 

I vantaggi dell’assegno sono del resto svariatissimi a spiegare largamente la progressiva scomparsa dell’uso della moneta presso i popoli più progrediti:

 

 

  • Eliminazione di rischi. L’uso degli assegni per i pagamenti rende superfluo il trasportare, portar seco o tenere in casa o in ufficio somme rilevanti, esposte al pericolo di rapine, sottrazioni, smarrimenti, incendi; sopprime altresì il rischio di ricevere biglietti di banca falsificati.

 

 

Anche l’assegno può, in verità, essere smarrito o rubato; ed il ladro potrebbe incassarlo alla banca, prima che il possessore abbia potuto dare avviso del furto o della perdita. Già la cosa è più difficile che se si trattasse di biglietti al portatore, occorrendo presentarsi, firmare l’assegno, ecc. Ma gli inglesi hanno inventato una variante dell’assegno, che dicesi crossed bill od assegno barrato, dal fatto che porta una sbarra trasversale, semplice tratto di linea a penna con l’indicazione di una banca. L’assegno barrato non è pagabile in contanti al creditore, ma unicamente accreditabile presso una banca, nel conto corrente del medesimo. In tal modo il ladro non saprebbe cosa farsi dell’assegno rubato, potendo unicamente essere questo accreditato nel conto corrente non suo ma del legittimo creditore. E’ il massimo di sicurezza immaginabile.

 

 

  • Rapidità delle operazioni. Evita di dover contare e ricontare biglietti e spezzati nei diversi esborsi ed incassi, redigere distinte, ecc. Le aziende possono ridurre ai minimi termini (quasi eliminare) i propri servizi di cassa ed i relativi controlli. In certi giorni le banche sono affollate al mattino di commessi e di clienti i quali vanno a ritirar biglietti per fare i pagamenti della giornata. Nel pomeriggio dalle due alla chiusura, i medesimi commessi e clienti ritornano a versare agli stessi sportelli i biglietti prelevati al mattino e passati soltanto da una ditta all’altra. Non è questa una perdita inutile di tempo e di lavoro?
  • Semplicità dei pagamenti. Chiunque possegga un conto presso una banca può incaricare questa di effettuare, senza alcuna spesa, i propri pagamenti, anche quelli connessi a notevole perdita di tempo; per esempio i pagamenti delle imposte e simili. Può altresì domiciliare le proprie accettazioni cambiare presso la banca, la quale provvederà a suo tempo ad estinguerle, addebitandone l’importo al conto del cliente; e questi avrà così eliminato la presentazione delle cambiali al suo domicilio, come pure il disturbo e la spesa di provvedere al ritiro dagli sportelli delle diverse banche.

 

 

In una lettera assennata ai giornali di Roma (vedi «Corriere economico» del 28 giugno) il signor James Aguet propone che il governo italiano dia, ad imitazione di quanto fece assai opportunamente il governo francese durante la guerra, il buon esempio pagando con assegni i prezzi delle forniture, gli interessi dei titoli di debito pubblico, gli stipendi agli impiegati. Così faceva da tempo il governo inglese; così fa la Banca d’Italia per il dividendo dovuto agli azionisti. Le perdite di tempo, le code interminabili, le formalità di riconoscimento sono in Italia snervanti e costose. Coll’invio in busta raccomandata di assegni barrati per i più grossi pagamenti e di assegni della Banca d’Italia per i minuti tutto ciò sarebbe eliminato. Forse bisognerebbe modificare qualche feticcio della legge di contabilità dello stato. Ma non si dica che ciò non si può fare perché vi osta la legge o perché i contabili dello stato debbono avere la dimostrazione documentata dei pagamenti fatti; ché queste sono bazzecole, a cui, volendo, si può provvedere facilmente.

 

 

  • Dimostrazione dei pagamenti. I pagamenti e gli incassi eseguiti per mezzo di assegni restano perennemente documentati presso la banca, ciò che ha un grande valore per qualsiasi contestazione che potesse sorgere. Un direttore di banca, fra i più eminenti d’Italia, ha persino fatto stampare sulle lettere con cui egli accompagna gli assegni: non occorre inviarmi la ricevuta del pagamento eseguito mediante l’unito assegno. Ed in verità quella ricevuta è superflua, poiché serve come ricevuta la firma del creditore apposta sull’assegno incassato ed esistente presso la banca.
  • Guadagno d’interessi. L’adozione dei pagamenti mediante assegni riduce al minimo le perdite d’interesse; non occorrendo ritirare in anticipo dalle banche i fondi, che continuano invece a fruttare l’interesse fino al giorno di emissione degli assegni. D’altro canto chi riceve l’assegno in pagamento lo rende immediatamente fruttifero mandandolo alla propria banca per l’accreditamento in conto.

 

 

Agli sforzi fatti sul continente per diffondere l’uso degli assegni ha contribuito il desiderio di limitare l’aumento della circolazione di carta-moneta a corso forzoso, e la speranza di frenare così il deprezzamento della carta-moneta e l’ascesa dei cambi. Aveva cominciato l’Havenstein, presidente della Reichsbank germanica a raccomandare a tale scopo vivamente, fin da prima del 1914, l’uso degli assegni; e la Banca di Francia nella sua propaganda insiste assai su tale punto.

 

 

La semplice sostituzione dell’assegno al biglietto di banca ha in verità la virtù di impedire il deprezzamento della moneta e quindi l’ascesa del cambio? La lira è deprezzata perché la quantità di essa offerta in cambio di altre merci è cresciuta. Ora, che un impiegato offra ogni mese sul mercato le sue 500 lire di stipendio sotto forma di biglietti di banca ovvero sotto forma di assegni tratti sulla banca, non monta. Egli offre sempre 500 lire in cambio di merci. Per ridurre i prezzi delle merci, ossia per apprezzare le lire, farebbe d’uopo che egli potesse offrire solo 300 invece di 500 lire. Il quale effetto non si ottiene con la semplice sostituzione degli assegni ai biglietti; ma sibbene con il risparmio fino all’osso da parte delle persone che possono risparmiare. Questo è il solo mezzo efficace, perché sostanziale, per diminuire i prezzi, diminuendo la offerta di lire e la richiesta di merci, per fornire allo stato denari a prestito e permettergli di porre tregua alle incessanti emissioni di biglietti che deprezzano ognor più la lira.

 

 

Se la diffusione dell’uso degli assegni bancari non scema la necessità del risparmio – che rimane sempre il più urgente dovere del cittadino nel momento presente – essa è però un progresso indiscutibile e grandissimo nei metodi di pagamenti. L’oro e l’argento sono come i carri su vie ordinarie; i biglietti corrispondono ai treni omnibus su vie secondarie; gli assegni o chèques ai diretti sulle grandi arterie ferroviarie del paese. Senza dubbio tutto ciò che fa viaggiare più rapidamente giova; e così giova tutto ciò che con minor spesa più rapidamente fa compiere le transazioni ed i passaggi di denaro. Specialmente in tempo di guerra è necessario economizzare tempo, lavoro, evitare rischi e perdite. Perché l’amministrazione pubblica, la quale ogni giorno si sovraccarica di tante cure inutili e cresce sempre più il numero dei suoi impiegati occupatissimi a disturbare il pubblico, non provvede a scemare, con la riforma dei suoi antidiluviani metodi di pagamento, il numero dei suoi contabili cassieri e tesorieri?

 

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Lettera ottava. La dea «Potenza» e la dea «Giustizia» (a proposito della prammatica sanzione medioeuropea)

Lettera ottava.
La dea «Potenza» e la dea «Giustizia» (a proposito della prammatica sanzione medioeuropea)
«Corriere della Sera», 10 luglio 1918
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 95-109
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 948-956

 

 

 

 

Signor direttore,

 

 

Non mi era, a suo tempo, sembrato che i titoli i quali riassumevano i commenti dei giornali all’accordo conchiuso il 12 maggio al gran quartiere generale tedesco fra Germania ed Austria rispondessero alla grandezza dell’ora ed al trionfo della causa per cui noi combattiamo. «L’Austria vassalla», la «dedizione dell’Austria alla Germania», la «abdicazione degli Absburgo alla sovranità», la «bavierizzazione dell’Austria»: così suonavano quei titoli; ed ancor oggi che la sconfitta dell’Austria sul Piave la rende sempre più vassalla della Germania, quelle parole mi paiono dare un suono falso. Anche Navarra e Borgogna si diedero a Francia; anche la Lombardia e i Ducati e Toscana e le Due Sicilie furono accusate d’essersi piemontesizzate; anche la Scozia rinunciò, unendosi all’Inghilterra, alla sua indipendenza; e gli stati sudisti furono «costretti» a rientrare nell’unione nordamericana, così come l’Austria oggi dovrebbe rientrare a capo chino nella confederazione germanica, di cui non molti decenni or sono pensava essere padrona. Eppure Francia, Italia, Gran Bretagna e Stati uniti diventarono e rimangono salde compagini nazionali, cementate indissolubilmente dalla volontà dei popoli che le compongono.

 

 

Poco importerebbe la ragione per cui l’Austria è costretta a rinunciare alla sua sovranità, se il fine della unione potesse essere raggiunto; se davvero la bavierizzazione dell’Austria potesse diventare un fatto compiuto. In verità le potenze centrali hanno tentato di risolvere il 12 maggio il vero, il grande problema posto dalla guerra presente: sostituire alla imprecisione, alla scioltezza dei rapporti internazionali, alla anarchia dei molti stati indipendenti, la quale conduceva a guerre frequenti ed a condizioni di vita ristrette e meschine, una maggiore coordinazione, una più salda unità politica, per cui gli stati cooperino tra di loro, agiscano in comune e si promuova un fervore di vita spirituale e materiale assai più grande di prima. La guerra d’oggi è uno sforzo verso l’unità del mondo, verso la creazione di una società delle nazioni. Ed ecco che, mentre noi si è ancora nello stadio delle aspirazioni verbali, Germania ed Austria-Ungheria si accingono alla creazione del super-stato dell’Europa centrale. Il problema è gigantesco; ma se noi li lasceremo fare, se non sapremo opporre idea ad idea, se non sapremo iniziare l’attuazione di organismi politici più saldi e perfetti, i nostri nemici, spinti dalla mala sorte di uno di essi, sempre più tenteranno di venire a capo dell’impresa gigantesca bensì, ma non insolubile. Per vincere il nuovo super-stato non basta la forza delle armi, fa d’uopo altresì la forza di una idea più alta, più perfetta di quella dei nostri avversari.

 

 

Le vicende della guerra presente provano invero quanto sia falsa la contradizione che i «politici realistici» hanno preteso di ritrovare tra i principii della forza e quelli della giustizia. Ancor recentemente Benedetto Croce in una sua prefazione alla terza edizione dei suoi saggi sul materialismo storico e sull’economia marxistica si è divertito a dileggiare «le insipidezze giusnaturalistiche, antistoriche e democratiche, i cosidetti ideali dell’89, i sermoni moralistici, e le ideologie e ciarle illuministiche» ed ha confermato la sua gratitudine a Carlo Marx «per aver conferito a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni della Dea Giustizia e della Dea Umanità, e per avere fermamente asserito il principio della forza della lotta e della potenza». Ed io sono con lui, e con Treitschke, poiché amendue vogliono che la forza e la potenza, di cui dobbiamo essere armati, siano forza e potenza mentale culturale etica ed economica. Sono con lui perché son convinto che se fossimo stati imbelli e non avessimo voluto brandire le armi di ferro e di fuoco e non avessimo voluto sacrificare le nostre vite, avremmo meritato di diventare servi. Perché oggi rimaniamo muti di ammirazione dinanzi allo spettacolo della Francia che indomita respinge l’avversario potentissimo? Sì, noi ammiriamo i grandi capi ed i meravigliosi soldati del suo esercito. Ma fummo altresì colpiti dalla rivelazione di una Francia ritenuta decrepita corrotta affetta da incurabile tabe parlamentaristica, la quale invece grida al mondo: meglio morire, meglio scomparire dal novero delle nazioni libere colle armi in pugno immolando fin l’ultimo uomo che diventare una grassa provincia di un impero mondiale. È questa rivelazione di una Francia fiera, risoluta a morire lottando, risoluta a vivere, dopo la vittoria, in povertà, che ci rende superbi. Sono le undici battaglie dell’Isonzo e la resistenza sul Grappa e la vittoria sul Piave che ci confortano e ci fanno persuasi che anche noi sappiamo difendere con le armi in pugno i nostri ideali di vita. È l’esercito di quattro milioni di volontari inglesi, è la risposta entusiastica e libera dei canadesi, dei sudafricani, degli australiani, è la rinuncia americana ai vantaggi materiali della neutralità , che ci fanno lieti e persuasi di essere degni di difendere il nostro comune patrimonio spirituale. Se noi avessimo preteso che i tedeschi si inchinassero innanzi a ciarle di «immortali principii» saremmo stati risibili. Invece noi vogliamo essere, pur noi, forti potenti lottatori e vogliamo che il nemico ci rispetti, perché e finché noi stiamo con le armi in pugno.

 

 

Ma perché noi abbiamo impugnato quelle armi ed immoliamo sui campi insanguinati di mille battaglie il fiore vermiglio delle nostre verdi giovinezze? Non si è forti, non si è potenti se non si è mossi da qualche ideale, se non ci scalda il cuore la fiamma di qualche meta da raggiungere. La dea «giustizia» e la dea «nazionalità» a cui irridono i filosofi della potenza, gli scrittori «realistici» ed i politici, che hanno le scarpe grosse da montanaro e credono di avere il cervello fino di un Machiavelli, hanno dimostrato di essere due vere, due grandi forze il giorno in cui i popoli dell’Intesa hanno sul loro altare immolato sacrifici non di discorsi ma di sangue. La potenza non è fine a se stessa, neppure quando sia potenza morale od economica; è un mezzo per raggiungere l’ideale che i popoli nei successivi momenti storici si propongono. Oggi quell’ideale è la instaurazione della giustizia nei rapporti internazionali. E quell’ideale non è una vana frase, non è una ciarla, non è una pura ideologia; è una forza, che è entrata nel nostro sangue, che di sé informa la nostra mente, che ci spinge ad agire. Noi con orgoglio possiamo opporre alla concezione del super-stato medieuropeo, in cui la razza o meglio il ceto dominante vuol guidare alla felicità le torme dei sudditi, la concezione di un organismo statale, in cui le nazioni associate sono veramente uguali, perché in ognuna di esse già è profondamente radicato il principio della libertà del cittadino e della uguaglianza del cittadino allo straniero. «Lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti ai cittadini» – ecco il principio immortale sancito dal codice civile italiano fin dal 1865; e sarà gloria in eterno dell’Italia averlo alto proclamato. Ma una lunga vicenda aveva condotto a quella affermazione in seno ai popoli anglo-latini. Mi sia lecito ricordare una delle prime tappe di quel cammino ed una delle ultime stupende deduzioni che noi soli ne ricavammo durante la guerra presente. Chi non si esalta nel rammentarli e non rimane dal loro ricordo persuaso che noi possiamo, ove si voglia, dar vita ad un aggregato politico in cui la personalità umana, veramente libera ed uguale, saprà assurgere ad un grado mai più visto di potenza e di forza materiale e spirituale?

 

 

Siamo nel 1773; e l’isola di Minorca nelle Baleari è una colonia inglese. Fra tutti gli abitanti spagnuoli dell’isola, il «suddito più sedizioso, più turbolento, più malcontento» è per fermo Antonio Fabrigas. Egli è chiamato per antonomasia il «patriota dell’isola di Minorca». Il governatore inglese, gen. Mostyn, arresta Fabrigas, lo mette su una nave e lo deporta, senza giudizio, a Cartagena in Spagna. Fabrigas chiede giustizia ai magistrati di Londra e cita il governatore dinanzi alla corte dei giudizi ordinari come colpevole di violazione personale e di arbitrario incarceramento. Il difensore del governatore Mostyn non mancò di ricordare al giurì le supreme necessità militari e politiche e commerciali del dominio inglese nell’isola di Minorca:

 

 

«Voi sapete come gli abitanti di Minorca siano mal disposti verso gli inglesi e verso il governo inglese. Non è da far di ciò meraviglie. Essi discendono dagli spagnuoli: e considerano la Spagna come la patria a cui dovrebbero naturalmente appartenere; né possiamo meravigliarci che non siano ben disposti verso gli inglesi, che essi riguardano come conquistatori… Ora il patriottismo è una bellissima cosa per noi inglesi, e noi dobbiamo ad esso le nostre libertà… Né il governo ha il potere di privarci delle libertà che noi abbiamo conquistato. Ma noi, – continuava il difensore, – dobbiamo preoccuparci di conservare le nostre conquiste straniere. Se lo spirito di patriottismo prevalesse in Minorca, noi perderemmo quell’isola, e con essa perderemmo il nostro commercio nel Mediterraneo».

 

 

Non torna alla mente, leggendo le parole del difensore del generale Mostyn, la frase del cancelliere tedesco: necessità non ha legge?

 

 

Ma già nel 1773 i giurati inglesi erano chiamati ad applicare le leggi del paese e non a tutelare gli interessi dello stato e dei suoi ceti dominanti, e condannarono il governatore Mostyn, riconosciuto colpevole di un atto non consentito dalle leggi britanniche, assegnando 3.000 lire-sterline al Fabrigas, a titolo di danni. In appello, dinanzi al banco del re, la sentenza è confermata, ed in quella occasione Lord Mansfield pronuncia le seguenti parole, le quali rimarranno mai sempre memorabili, fin che sarà in onore la giustizia, a tutela dei sudditi contro i dominatori:

 

 

«Affermare dinanzi ad una corte inglese di giustizia una proposizione così mostruosa come quella che un governatore, solo perché agisce in virtù di lettere patenti emanate sotto il gran sigillo, può fare ciò che a lui piace; dire che egli è responsabile solo verso Dio e verso la propria coscienza; sostenere qui che ogni governatore in ogni luogo può agire da autocrate, che egli può spogliare, saccheggiare, impadronirsi dei corpi dei sudditi e diminuire la loro libertà, senz’essere delle sue azioni responsabile verso nessuno – no, non è questa una dottrina sostenibile. Se egli non potesse essere costretto a rendere ragione del suo operato dinanzi a questa corte, non sarebbe responsabile in nessun luogo… Come si può pretendere che, in un impero così esteso come il nostro, il governatore di qualsiasi colonia o provincia appartenente alla corona britannica sia assolutamente dispotico e non possa essere chiamato alla sbarra, quasiché egli fosse un re di Francia?».

 

 

In questa solenne sentenza fu consacrato per sempre il diritto di qualsiasi abitante di qualsiasi terra dell’impero di far giudicare dai magistrati «ordinari» ogni disputa insorta fra di lui ed il governo britannico ed i suoi rappresentanti. Era questa nel 1773 ed è ancor oggi novità così grande da parere quasi sovrannaturale. Raccontasi che il governo (inglese) dell’India contrastasse ad un villaggio indigeno il diritto alle terre che i suoi abitanti coltivavano ed avesse ottenuto sentenza favorevole alla sua tesi dalla suprema corte dell’India. Trattavasi di una tribù primitiva, ed i suoi membri già erano persuasi che il «governo» avesse da sé deciso la causa in proprio favore, quando il loro avvocato li persuase ad appellare dalla corte indiana al comitato giudiziario del consiglio privato in Londra, che ha suprema autorità in questa materia. La sentenza fu revocata ed i poveri indiani videro subitamente riconosciuti tutti i loro diritti da una autorità invisibile, di cui essi non erano in grado di intuire la natura e dinanzi a cui persino il viceré si inchinava senza fiatare. Essi, ragionando con le loro idee primitive, conclusero che questo potere, misterioso e benefico, era un potere divino, e d’allora in poi il comitato giudiziario del consiglio privato divenne in quella tribù oggetto di cerimonie religiose. Questa può essere leggenda che idealizza le idee che paiono più sublimi e benefiche ai popoli. Ma non sono una leggenda le sentenze da cui essa è nata.

 

 

Il 15 maggio 1917 il giudice Coleridge emetteva un’altra di queste storiche sentenze, nelle quali si riassume tutta l’idea imperiale inglese. Trattavasi di un certo Gruban, di nascita tedesco, e naturalizzato inglese dopo la dichiarazione della guerra europea. Si lagnava egli che un suo socio l’avesse costretto a cedergli, senza compenso, la sua parte nell’importante azienda industriale da lui diretta in Inghilterra, minacciandolo altrimenti di farlo internare e di fargli confiscare la sua proprietà; e promettendogli, se l’avesse ceduta, di serbargliene a suo favore gli utili. Il Gruban si sottomise al ricatto e cedette la sua proprietà. Dopo una settimana fu ugualmente internato e si vide rinnegate dal socio tutte le fatte promesse. Il socio era di nascita inglese e per di più uomo politico autorevole: membro della Camera dei comuni, di parte radicale.

 

 

Reclamò il tedesco Gruban ed ottenne dal governo la revoca dell’internamento. Liberato, chiamò in giudizio l’ex socio e deputato, con azione di danni. Il giudice Coleridge, chiudendo la esposizione del caso durata due ore e mezza, così diceva ai giurati:

 

 

«L’attore è un tedesco naturalizzato di recente. Noi siamo in guerra col suo paese nativo e noi combattiamo un nemico non ordinario. Noi combattiamo un nemico senza cuore, senza pietà, barbaro, spoglio degli istinti comuni dell’umanità. L’attore è dunque grandemente pregiudicato dinanzi ai nostri occhi. Ma voi vi mostrerete superiori, dandogli il vantaggio del vostro giudizio imparziale. Il convenuto è un uomo pubblico, eminente nella vita politica, ed è naturale perciò che egli abbia molti amici e molti nemici. Ma le preferenze le predilezioni le antipatie le animosità gli affetti debbono tutti essere banditi quando un giurì è chiamato a decidere sulla base di prove e su queste soltanto. Nel centro di questa nostra città di Londra ha sede la più alta corte criminale del paese. Sulla sua cupola, alta sopra le dimore affaccendate degli uomini, è posta la statua dominatrice della giustizia. Da una parte essa tiene la spada, con cui abbatte i malfattori; dall’altra mano essa regge le bilancie della giustizia. Nel decidere sul caso presente voi non permetterete, signori giurati, che nessun pregiudizio turbi la giusta uguaglianza di queste bilancie».

 

 

Il giurì condannò il deputato inglese a pagare 4.750 lire-sterline di danni al suo ex socio, di nazionalità tedesca, da poco naturalizzato.

 

 

Sui campi di Francia e d’Italia, inglesi, francesi, italiani e belgi e czechi combattono per preservare intatto e per far trionfare nel mondo un ordinamento politico di cui le citate sentenze sono una manifestazione esteriore che tocca le cime del sublime e del divino. Sarebbe una sventura inenarrabile se i capi politici di nazioni, le quali hanno codificato nelle sentenze dei loro magistrati i principii immortali dell’uguaglianza del suddito al governante, del cittadino allo straniero, delle razze inferiori alle razze superiori, non fossero capaci di concepire ed attuare forme di super-stato atte a rivaleggiare con quelle che i nemici hanno tentato di creare il 12 maggio al gran quartiere generale tedesco. Sarebbe una sventura ed una vergogna. Poiché mentre i nemici sinora hanno dato prova di incapacità a creare stati che siano cementati non solo dalla forza ma anche dalla volontà dei popoli, mentre la Germania teneva a freno l’Alsazia solo collo sbattere delle sciabole e la Polonia colla espropriazione delle terre polacche e l’Austria stringeva colla forca i vincoli tra i suoi popoli discordanti, noi abbiamo dalla parte nostra esempi meravigliosi di creazioni politiche: due stati unitari, Francia ed Italia, creati e serbati dalla volontà di popolazioni appartenenti alla medesima schiatta; una confederazione, quella nordamericana, in cui si fondono armonicamente, come in un crogiuolo, uomini bianchi e di colore, discendenti di inglesi, irlandesi, italiani e slavi, in cui alle parti è lasciata massima libertà ed al tutto è concesso, coi poteri di un presidente eletto, il massimo di forza accentrata; abbiamo finalmente, in quello che si è convenuto di chiamare l’impero inglese, l’immagine vivente della futura società di nazioni, una vera commonwealth of nations, per razze per lingue per cultura per sviluppo economico diversissime, le quali vivono indipendenti le une dalle altre, non vincolate da tributi obbligatorii da pagarsi alla madrepatria, o da questa alle colonie; ma collaboranti, attraverso a tentativi faticosi ed istruttivi, per via di discussione e di consenso, ad un’opera comune. Noi che possediamo, già in parte attuata, la forma politica dell’avvenire, lasceremo che la medieuropa compia tranquilla l’opera sua di cementazione e di ricostruzione? Ci contenteremo di far dell’ironia sul vassallaggio dell’Austria o non vorremo dimostrare ai czechi, agli slavi meridionali, ai romeni, ai polacchi, ai finlandesi ed agli altri popoli che la medieuropa vuole attirare a sé, che il tentativo medieuropeo è pericoloso per le nazionalità non dominatrici, è tutto imperniato sul predominio non della Germania o dell’Austria, ma di una ristretta classe politica ungaro-tedesca, la quale afferma e crede di essere la sola atta a riorganizzare il mondo? Se noi non sapremo agitare ideali, se noi, che siamo stati capaci di creare forme politiche così alte, non sapremo fare un passo innanzi e non tenteremo di attuare l’idea di uno o di parecchi organismi statali di ordine superiore, in cui le piccole nazionalità possano trovare difesa, da uguali ad uguali, grave è il pericolo che quelle piccole e disperse nazionalità si acquietino, per amore o per disperazione, alla protezione, larvata di autonomia, che sarà per concedere loro contro l’anarchia e le guerre intestine, il nuovo super-stato medieuropeo. Per abbatterlo, per impedirgli di nascere forte e vitale, non basta la forza delle armi. Questa è forza esteriore. Occorre la forza interna, che è quella delle idee.

 

 

La commissione per i problemi del dopo guerra

La commissione per i problemi del dopo guerra

«Corriere della Sera», 16 luglio[1], 25 settembre[2], 16 novembre[3] 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1959, pp. 691-708

 

 

I

Spero che il fatto che mi hanno noverato fra quei 600 i quali compongono la commissione «per lo studio dei provvedimenti occorrenti al passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace» non mi impedisca di esporre liberamente il mio pensiero su di essa. Di essere stato inserito in essa non ho nessuna responsabilità; ed in ogni caso ritengo sbagliatissima la consuetudine italiana per cui appena taluno fa parte di qualche cosa si sente costretto al silenzio, al mistero. Pare si debba cessare di avere delle idee e di poterle esprimere, non appena, in base all’opinione altrui, la quale può essere sbagliata, che un tale abbia qualcosa a dire, lo si sia invitato ad esprimerle in qualche pubblico consesso. Dirò dunque, parlando liberamente, che questa monumentale commissione ha così grandi difetti che solo per miracolo ne potrà uscir fuori qualcosa di meglio di una serie di relazioni, alcune delle quali ottime, altre mediocri e non poche pessime, di valore inferiore alla carta, costosissima, su cui dovranno essere stampate. Ma le mediocri e le pessime saranno costate milioni al pubblico erario e le ottime sarebbero state scritte ugualmente se le fonti ufficiali di informazioni, oggi chiuse con sette sigilli, se i giornali e le riviste ed i libri dei paesi nemici, oggi, per motivi misteriosi, proibiti, fossero accessibili agli studiosi, se i pratici fossero invitati ad esporre le loro idee e queste fossero rese di pubblica ragione. Quando esiste un bel materiale di studio, questo finisce di essere utilizzato; e scritti degni di essere letti vengono pubblicati.

 

 

Tutto ciò, nell’ipotesi più favorevole, servirà o servirebbe allo storico del futuro. Ma pare che la commissione debba giovare per proporre i provvedimenti occorrenti al passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace. È un obiettivo reale, pratico. È ragionevole sperare di raggiungerlo per mezzo di una commissione di 600 membri? Bisognerebbe supporre che la commissione finisse i suoi lavori prima della fine della guerra. Altrimenti il suo rapporto giungerà quando il famigerato «passaggio» si sarà già compiuto e probabilmente in modi tutt’affatto diversi da quelli immaginati dai membri della commissione. I provvedimenti avranno, venendo alla luce, odor di muffa ed aspetto di roba passata di moda. Ora io non so quando la guerra finirà; ma pare probabilissimo, se almeno si deve giudicare dall’ esperienza dei lavori di commissioni anche meno numerose e quindi più snelle e rapide di quella odierna, che né nel 1919, né nel 1920, né nel 1921 i lavori saranno finiti. Mille e mille motivi cospirano a questo ineluttabile risultato. Se anche, per ipotesi, qualcuna delle 27 sezioni presentasse prima qualche sua relazione o conclusione provvisoria, come potrà essere fatta propria dalla commissione plenaria o dal comitato centrale senza coordinarla con le conclusioni delle più tardigrade consorelle? Ed anche se il governo volesse agire per conto suo su quelle conclusioni provvisorie, probabilmente esso si dovrebbe avvedere che esse sono già superate dall’ ora che volgerà. La commissione inglese di lord Balfour of Burleigh è stata un miracolo di celerità; ed ha già presentato da qualche mese il suo rapporto finale. Una delle osservazioni più fondate fatte intorno ad esso è che se ne sprigiona odor di cosa morta. Il rapporto è stato pensato e discusso, se non scritto e stampato prima che gli Stati uniti entrassero in guerra, e perciò prima che la volontà di Wilson diventasse un fattore importantissimo delle condizioni di pace; e questo bastò perché parecchie delle conclusioni della commissione acquistassero un sapore anacronistico. Quanti infortuni simili non capiteranno alla commissione italiana?

 

 

Pur supponendo una irrealizzabile rapidità di concezione e di realizzazione, dubito fortemente che la commissione, così come fu e fatalmente doveva essere composta, possa essere strumento fecondo d azione. Per agire, od anche per proporre di agire, occorre una volontà unica, ferma, che sappia dove vuole andare. Invece la commissione è un mosaico di opinioni, di fedi, di credenze opposte. Pare che lo studio maggiore di chi combinò il mosaico sia stato quello di mettere insieme in ogni sezione i rappresentanti delle opinioni più contrarie. Imparzialità, si disse, e desiderio di veder trionfare dal contrasto delle idee la scintilla della verità o della linea media. Inutilizzazione, io dico, di tutte le opinioni e loro confluenza in una soluzione intermedia, piatta, scialba e priva di ogni contenuto spirituale, di ogni forza persuasiva. Quando mai si sono lette in Italia, appunto per questo malanno del rispetto alle opinioni ed ai partiti contrari, conclusioni suggestive ai lavori di commissioni? Si sono letti talvolta rapporti bellissimi come raccolta di dati; il che è anche utile, ma non è lo scopo a cui oggi si tende.

 

 

Data l’inevitabile tendenza al mosaico, fu fatale che tutti coloro i quali avrebbero tra di loro una certa affinità di spirito e che, riuniti, avrebbero potuto proporre qualcosa di organico e di preciso, sia pure antipatico al governo del giorno e simpatico ad un partito di minoranza, dovettero studiosamente essere separati, in guisa che ognuno di essi si trovi solo nella propria sezione, insieme ad altri, i quali alla loro volta sono nella medesima spiacevole posizione. Provvederanno, si può pensare, i presidenti a coordinare, a riassumere, a creare l’uno dal molteplice. Illusione vana, perché da conclusioni speciali di compromesso non potrà non derivare una conclusione generale ancor più scialba ed incolore, ovvero, quel che sarebbe peggio ed è più probabile, confusionaria. E qui fa d’uopo dire una verità incontroversa, sebbene forse spiacevole: assai più che per metà, i presidenti delle sezioni sono stati scelti per le loro qualità «parlamentari» e non per la precisione del loro indirizzo politico e scientifico. Saranno assai più abili a smussare, a conciliare che non a far prevalere un’idea su un’altra.

 

 

Importa infine anche dire candidamente che all’ordinamento ed alla distribuzione dei lavori non ha presieduto un’idea precisa del contenuto delle indagini da farsi. Il che forse è dovuto alle qualità delle persone poste a capo delle due sottocommissioni. Se invero il sen. Scialoja è reputato da tutti i giuristi uomo eminente nella sua disciplina e finissimo interprete del diritto, forse non si troveranno molti economisti i quali siano disposti a riconoscere nell’on. Pantano un’adeguata competenza economica. Da ciò è provenuta la conseguenza che l’indice dei titoli delle sezioni ha l’aria di una di quelle rubriche in cui i direttori delle riviste classificano i libri ed opuscoli che loro giungono in dono per bibliografia. Siccome essi portano titoli diversi relativi agli argomenti cosidetti del giorno, così i direttori li mettono ognuno nella casella di quegli argomenti che sono più frequentemente ricordati negli articoli dei giornali quotidiani nella qualità di cosidetti problemi «urgenti». Ricorda quell’elenco anche certi discorsi parlamentari sul bilancio, dove si parla de omnibus rebus et de quibusdam aliis. Non c’è nessuna ragione, perché in questo modo non si possano fare assai più di 27 finche ed altrettante commissioni. Perché non c’è un’altra commissione per la questione del cambio e il deprezzamento della lira? Non è questo un problema ben più importante della maggior parte di quelli compresi nell’elenco? Come mai nessuno è chiamato ad occuparsi del problema doganale, come se riguardasse il mondo della luna e non l’Italia? E perché mai l’assistenza civile è un problema economico e la previdenza è un problema giuridico? Secondo l’elenco, i problemi di cultura toccano il diritto e l’insegnamento artistico l’economia; i problemi delle provincie irredente dovrebbero essere risolti da economisti, e quelli della ricostituzione della ricchezza nelle provincie invase, da giuristi. Tutta una serie di incongruenze inesplicabili.

 

 

La verità è che non esistono problemi speciali, principalmente economici. Esistono problemi generali di indirizzo e soluzione tecniche particolari delle direttive poste in generale. Come è possibile, ad esempio, dare «incremento al commercio», come è il comico titolo della XVII sezione, se coloro che sono incaricati di determinare i mezzi all’uopo opportuni si mettono su una via diametralmente opposta a coloro che sono incaricati di promuovere la produzione agraria ed industriale (sezioni XIII e XIV)? Da questa considerazione particolaristica dell’ unico problema economico non può non nascere la torre di Babele con la connessa confusione delle lingue. Il problema vero fondamentale che si trattava di risolvere era questo: vogliamo che prosegua nel dopo guerra l’ attuale tendenza bellica, forse inevitabile per necessità assolute di guerra, verso la gestione di stato degli affari economici, verso il dominio della amministrazione, o vogliamo il ritorno, sia pure graduale, verso libere maniere di attività privata, con interventi statali limitati ai soliti casi ammessi nei tempi ordinari? Risolto il punto fondamentale, le particolarità possono lasciarsi ai tecnici, i quali elaboreranno le soluzioni più adatte. Nella commissione nessuno e incaricato di risolvere il problema generale; sicché si avrà una collezione di precetti, così cari al dilettantismo fantasioso dell’on. Pantano, celeberrimo per avere in tasca, come del resto parecchi suoi colleghi di sottopresidenza, piani «completi» ed «organici» e «geniali» per rimediare in quattro e quattr’otto ad ogni malanno dell’ Italia e dell’umanità.

 

 

Se non fossi sicuro di non vederla neppure presa sul serio, vorrei fare una proposta: poiché la commissione dei 600 non si può ormai più disfare, poiché molti ci tengono ad essere commissari, ad andare a Roma e ad illudersi di creare l’ Italia del dopo guerra, poiché è più probabile che i 600 diventino 1.000 che non si riducano a 300, si aboliscano le sottocommissioni le sezioni e le presidenze; e si lasci ai 600 facoltà di raggrupparsi come credono e di trattare i problemi che ritengono più opportuni. Avremo molte soluzioni dello stesso problema, ma almeno saranno in se stesse logiche e coerenti; e pubblico e governo potranno scegliere la migliore; invece di adattarsi ad una raffinata assurda combinazione di idee contradittorie. Parecchi problemi riportati nell’elenco delle 27 commissioni rimarrebbero probabilmente ignorati; e che cosa potrebbe volere una relazione intorno ad argomenti di cui nessuno si interessa? Gli affini si attrupperebbero e scriverebbero qualcosa di sensato, od almeno di divertente contro i propugnatori di opinioni contrarie. Ogni persona desiderosa di diventar presidente riunirebbe i suoi amici attorno a sé; ed alla peggio si creerebbe presidente di un gruppo composto di un unico membro. Sarebbe sempre meglio dei presidenti aventi per ufficio di smussare e di conciliare e di coordinare l’ inconciliabile. Mi fermo qui nell’elenco dei vantaggi della mia proposta, poiché ben so che essa contrasta con tutte le abitudini delle commissioni italiane, a cui fanno difetto le caratteristiche le quali soltanto rendono interessanti ed importanti i rapporti delle commissioni inglesi ed americane: gli interrogatori dei testimoni ed i rapporti di minoranze e le riserve dei singoli commissari. E tal sia anche della commissione del dopo guerra e sui suoi lavori si inizi il periodo del religioso silenzio al quale seguirà fra cinque o dieci o vent’anni la valanga dei 100 o 200 volumi di relazioni, delizia (forse) degli storici fra 100 o 200 anni.

 

 

II

Quando si sente discorrere dei problemi del dopo guerra e si contempla il diluvio di carta stampata, la quale è cominciata a venir fuori e minaccia di crescere per gli studi diligenti delle innumerevoli commissioni all’uopo create, dei memorialisti ansiosi di far giungere ad esse i loro voti e dei progettisti inquieti per non aver veduto accolti i loro disegni, non ci si può liberare dal sospetto che, in fondo, si tratti in gran parte di una agitazione a vuoto e che il dopo guerra troverà da sé soluzioni opportune e diverse da quelle oggi immaginate dagli inquirenti, così come in guise per lo più inopinate si svolse fin qui la guerra. Il sospetto si afforza vedendo che i cosidetti problemi del dopo guerra sono posti, discussi e risoluti sovratutto da quelli che bene si potrebbero chiamare i «professionisti dei problemi». Vi è tutta una categoria di persone che vivono inventando problemi e mezzi di risolverli: e sono uomini politici ed aspiranti al parlamento, i quali vogliono segnalarsi come presidenti o relatori di qualche cosa, segretari di associazioni od organizzazioni rivolte allo studio ed alla soluzione dei problemi posti, funzionari od aspiranti-funzionari degli uffici creati o che si dovranno creare per quella tale soluzione, pubblicisti che traggono alimento ai loro scritti dall’esistenza di qualche cosa da discutere e sono perciò infervoratissimi nel magnificare l’importanza del rimedio che essi hanno inventato. Se si potesse fare un’analisi minuta dei problemi del dopo guerra si vedrebbe che per nove decimi sono creazioni artificiose, prive di consistenza e semplice pretesto per il conseguimento di fini pratici personali per coloro che li pongono. Vi fu un tempo, nei primi anni della guerra, in cui tutti si restava a bocca aperta, stupefatti, dinanzi ai miracoli dell’«organizzazione» tedesca; ed appena taluno si lamentava di pagare le uova o le patate troppo care, v’era subito chi proponeva un ufficio centrale delle uova o delle patate, con 69 uffici provinciali ed 8.800 uffici comunali. Adesso non solo i tedeschi, ma anche noi, abbiamo fatto bastevole esperienza di uffici e consorzi annonari e li tolleriamo come un malanno inevitabile, in attesa che la fine della guerra ci permetta di nuovo di fare senza di simili calamità e delle relative tessere e prezzi di calmiere, sicché non si senta più parlare dell’olio, del burro, della carne che non ci sono se si vogliono pagare al prezzo d’autorità e saltano fuori, a detta di tutti, in maniere inimmaginabili, con relativi bolli e visti di prefetti e commissari, quando ci si decide a pagare il necessario sovraprezzo.

 

 

Da qualche altro pò di tempo, è venuto di moda immaginare soluzioni ai conflitti, che si pretendono inevitabili il ritorno della pace, tra capitale e lavoro; ed è nato un baccano indiavolato intorno ad una cosa vecchissima, provata e riprovata, per lo più con insuccesso o mediocrissimo successo, come è la partecipazione ai profitti; e ci fu persino chi, senza aspettare che l’idea fosse nuovamente sperimentata, la voleva rendere obbligatoria per legge. Altri proporre «la terra ai contadini»; né si cura di indagare in che modi reali la terra sia già diventata proprietà dei contadini in tanta parte d’Italia, quasicché tale indagine non fosse la premessa necessaria di una legislazione che non voglia produrre il disordine e distruggere, alla russa, la produttività del suolo. Sicché, a furia di vedersi passare innanzi il cinematografo dei problemi del dopo guerra inventati dai «problemisti» vien fatto di esclamare: ma quando si decideranno a parlare industriali ed operai, impiegati e commercianti, latifondisti, medi e piccoli proprietari e contadini, per la salute di cui tanta brava gente si agita e scrive e discute in solenni adunanze! Purtroppo, gli «interessati» in grande maggioranza sono scarsamente adatti a vedere il problema e ad additarne la soluzione. La cultura generale e quella speciale economica sono ancora troppo poco diffuse, perché gli interessati siano in grado di elevarsi al disopra della «sensazione» di qualche cosa «che non va», sino alla vera impostazione del problema da risolvere. Tutta via queste «sensazioni» sarebbero preziosissima materia di studio, ed ancor più preziose sarebbero le critiche dei pratici alle soluzioni inventate dai problemisti; sicché il compito vero delle commissioni di studio create dai governi dovrebbe essere, invece che di elaborare progetti più o meno meravigliosi e «geniali», sovratutto di interrogare gli interessati, farli parlare, cavarne fuori racconti di vita vissuta e critiche dettate dal buon senso e dall’esperienza ai progetti di moda. Tutto ciò in pubblico, con interrogatori in contradittorio, diretti da commissari periti non nel far prevalere le proprie idee, ma nel mettere in luce le idee altrui. Così si faceva in Inghilterra nel buon tempo antico; e se ne ebbero frutti mirabili di inchieste feconde di risultati pratici e destinate a rimanere classiche nei secoli.

 

 

Lasciati a sé, gli interessati poco parlano; e scarso lume offrono a chi voglia saper quali sono i problemi che veramente sono sentiti da coloro che dovranno far le spese od ottenere i vantaggi delle proposte soluzioni. Persino le relazioni degli amministratori alle assemblee degli azionisti delle società anonime sono scarsamente informative. Chi ne legge i riassunti sul «Sole», prova l’impressione che l’unico problema vero oggi esistente per l’industria italiana sia quello di procacciarsi i capitali per far fronte al gran lavoro che si deve compiere oggi ed a quello maggiore si dovrà compiere in avvenire. Se non fossero note le cause – errori legislativi e tributari – che spiegano in gran parte la corsa odierna all’aumento dei capitali delle società, si sarebbe tentati di concludere che non fa d’uopo nutrire preoccupazioni per l’avvenire, tanto vasto è il campo di lavoro e di guadagni che si offre dinanzi a noi, a portata di mano.

 

 

In Francia ed in Inghilterra il tono è diverso: gli amministratori delle società discutono i provvedimenti governativi, pongono problemi, propongono soluzioni. Pochi mesi addietro, una lunghissima relazione del consigliere delegato della Banca jonia discuteva il problema monetario, proponendo che si adottasse in Inghilterra il sistema del cambio aureo che in Grecia funziona egregiamente. Quel banchiere si attirò le critiche vivaci di insigni economisti; ma di lui non si può dire certo che non avesse visto uno dei problemi essenziali del momento presente.

 

 

Oggi è il presidente di una delle maggiori compagnie di navigazione del mondo, la Cunard Company, proprietaria di una flotta valutata, ai prezzi antichi ante-bellici, 215 milioni di lire italiane-oro, il quale pone un problema che forse non è solo quello della sua società, ma di moltissimi che oggi esercitano industrie e commerci. Perché, si chiede sir Alfred Booth, noi seguitiamo a lavorare? Non certo perché vi abbiamo interesse. Se i sottomarini tedeschi mandassero a fondo tutta la nostra flotta, e ci costringessero così ad una liquidazione totale, la somma pagataci, sulla base dei prezzi attuali, dalle società di assicurazione, sarebbe parecchie e parecchie volte superiore ai 215 milioni scritti in inventario. Noi azionisti potremmo investire il ricavo in titoli di stato e godercene tranquillamente il reddito in cifra alta e fissa. Perché non vendiamo le nostre navi e non agiamo così come l’interesse ci consiglierebbe? Perché noi seguitiamo a navigare, ossia a far ciò che la logica ed il buon senso condannano? «Perché, – risponde sir Alfred, – nelle faccende veramente importanti della vita gli uomini non si fanno guidare mai dalla pura ragione. Altri fattori, chiamateli sentimento, patriottismo o come volete, entrano in gioco e non serve criticarli. Ognuno di noi, quando diventò azionista della Cunard, assunse l’impegno di mantenerla in vita come impresa di navigazione, come la chiave di volta della marina mercantile britannica. Sarà orgoglioso questo nostro convincimento, ma noi l’abbiamo».

 

 

Questo sir Alfred Booth parla come uno di quei navigatori dei tempi elisabettiani che fecero grande l’Inghilterra. Noi navighiamo perché abbiamo l’orgoglio di essere i primi tra i primi, ben sapendo che faremmo un ottimo affare a liquidare e chiudere bottega. Ci piace correre rischi e fare il nostro mestiere anche se i tempi corrono procellosi. Sir Alfred vede infatti grossi temporali all’orizzonte.

 

 

Io credo che i prezzi ed i costi andranno giù a guerra finita molto più rapidamente di quanto ora molti credono. L’edificio di valori artificiali che noi abbiamo eretto è così pericoloso che io son persuaso dovrà crollare al primo spirare del vento della concorrenza internazionale. I principali pericoli in vista, a parer mio, sono i seguenti:

 

 

  • le difficoltà di «sgonfiare» la circolazione monetaria ed il credito senza distruggere la fiducia;
  • la tendenza a mantenere il controllo governativo sull’industria, con tutti i suoi mortiferi effetti sullo spirito d’intrapresa;
  • il tentativo di affidare a qualche autorità internazionale il compito di repartire le materie gregge del mondo fra le industrie concorrenti. Ciò vuol dire che quelle materie non saranno fornite a chi offrirà i prezzi più alti, ma a norma di criteri politici. Le gelosie internazionali alimentate da un siffatto sistema saranno sufficienti ad uccidere qualsiasi germe di società delle nazioni;
  • il malcontento operaio dovuto alle speranze erronee di un nuovo paradiso terrestre dopo la guerra. La disillusione sarà amarissima.

 

 

Questi sono pericoli che tutte le industrie dovranno fronteggiare, e noi non possiamo sperare di non esserne tocchi. Ma la nostra nave è solida, noi possiamo fare affidamento sulla nostra ciurma e, ad ogni modo, i nostri capi faranno del loro meglio. Saremmo codardi se non tentassimo nemmeno il viaggio.

 

 

Così parla un uomo che ha una responsabilità : di milioni, di navi e di uomini. Subito si sente che i problemi da lui veduti sono problemi veri e non elucubrazioni oratorie o articolistiche di chi vuole intromettersi per disturbare gli altri.

 

 

Forse se si interrogassero gli industriali, gli operai, gli agricoltori, i contadini d’Italia, si vedrebbe che le loro preoccupazioni sono all’incirca le medesime da cui è angustiato sir Alfred Booth. Che cosa succederà negli anni prossimi dei valori che ora possediamo e di quelli di cui siamo debitori? Oggi possiamo guardare con tranquillità ad un debito di 100, perché possediamo 200. Ma che cosa accadrà, se fermo rimanendo il debito di 100, le attività si ridurranno al valore di 100 o di 80? Oggi paghiamo imposte cresciute e più siamo disposti a pagarne, perché i prezzi ed i redditi sono alti. Come le pagheremo, quando i valori sgonfieranno? Come potremmo, pensano operai e contadini, conservare, anche solo in parte, l’alto livello delle paghe, se tutti i valori si ridurranno? Fino a quando, riflettono tutti, avremo sul dosso l’odierna invasione di cavallette amministrative a disturbarci, ad insegnarci ciò che non sanno, a divorare tanta parte del frutto del nostro lavoro? La fine della guerra non dovrà portarci anche la liberazione dalle pestifere inframmettenze ministeriali, commissariali, consorziali? Avremo lottato e combattuto e sofferto contro il tentativo di egemonia germanica, solo per vederci tiranneggiati dai meno capaci di noi, insediatisi nei ministeri e nei commissariati?

 

 

Perciò bisogna insistere sul concetto semplice, che il paese non sa che farsene dei responsi delle commissioni e dei funzionari a cui il governo ha delegato la responsabilità del decidere sulle questioni più gelose del momento. L’avvenire d’Italia non può, non deve essere affidato a corpi irresponsabili, che agiscono in segreto, che deliberano su proposte e su idee artificiosamente messe innanzi da progettisti agitati e da problemisti di professione. Prima, e direi soltanto, il paese deve essere interrogato. Si deve sapere che cosa in realtà pensano e desiderano industriali, agricoltori, operai e contadini. Noi potremmo assai volentieri fare a meno di dotte relazioni, quando potessimo ascoltare la voce viva di quelli che lavorano e producono. Forse, non pochi di costoro conchiuderebbero, come sir Alred Booth: lasciateci arrischiare colla nostra nave in alto mare. L’orizzonte è scuro; ma la nave e solida, le ciurme sono fedeli e saremmo codardi se non ci avventurassimo nel viaggio verso l’ignoto. Chi vuol vivere vita sicura e tranquilla, senza fastidio di problemi da risolvere, stia a casa a far l’impiegato altrui, e non si lagni della paga scarsa. Viver tranquilli e lucrare assai furono sempre termini contradittori; ed ancor più lo saranno dopo la guerra, quando per vivere occorrerà lavorare e rischiare, come mai per il passato; e produr cose utili altrui. E fra le cose utili agli altri non trovano posto le «pratiche» dei ministeri, le chiacchiere ed i progetti di redenzione del mondo.

 

 

III

La vittoria che la patria nostra ha ottenuto sovra il nemico ereditario, la grandiosità storica dell’opera compiuta distruggendo uno stato non rispondente più alle nuove esigenze dell’Europa, ci fanno guardare con altro animo ai problemi che fino a ieri a molti apparivano paurosi, più paurosi della stessa guerra: a quei problemi che si riassumono nella denominazione del dopo guerra. L’Italia che ha distrutto, per virtù dei suoi figli e per virtù delle idee da essa disseminate nel mondo, uno stato privo della ragione del vivere, non può venir meno, non può piegare su se stessa nel passaggio dallo stato di pace allo stato di guerra. Quel passaggio deve compiersi ordinatamente, senza scosse violente, preparando nuove forme di vita più alte, più sane, più sicure ai cittadini della nuova Italia. Di ciò oramai siamo sicuri. La fede che abbiamo nelle nostre forze deve inspirare a tutti, allo stato ed ai privati, la consapevolezza dei propri doveri.

 

 

Dovremo combattere contro non pochi nemici. Sono gli stessi che hanno resa tanto aspra e lunga la fatica di vincere il nemico. Coloro che non sono riusciti a condurre sino in fondo l’oscuro disastro di Caporetto, coloro che non sono riusciti a bolscevizzare l’Italia, stanno già adottando oggi una nuova tattica: predicano che la vittoria sarebbe stata vana se non avesse la virtù di generare l’abbondanza, la felicità, il paradiso terrestre. Si odono grida: bisogna essere audaci, bisogna non contentarsi di piccole cose ma mirare alle ricostruzioni a fondo, alla palingenesi sociale. Chi aveva osato segnalare pochi mesi fa all’Italia l’esempio della Spagna che in non so quante decine d’anni pare si sia proposto di rigenerare se stessa, in tutti i campi, economici, educativi, ferroviari, ecc. ecc., spendendo somme che, ridotte ad anno, non superano quel che già noi spendiamo per la sola istruzione pubblica, grida oggi: bisogna andar avanti, «a sinistra» ; guai ai conservatori che osassero opporsi all’ascesa popolare!

 

 

Anche noi, non so se conservatori, o liberali o, poiché queste etichette suonano false, semplicemente italiani, vogliamo andare avanti. Ma vogliamo differenziarci dai disfattisti di ieri per ciò solo che il nostro procedere innanzi deve essere un cammino sicuro, verso una meta nota, verso l’elevamento sostanziale delle masse, non il precipitarsi verso mete ignote, dietro programmi privi di contenuto, dietro parole vuote, sotto di cui sta soltanto il disinganno ed il malcontento. Per non cadere nel disfacimento che è la conseguenza fatale dei tentativi di attuare programmi millenari e che è il terreno fecondo su cui soltanto i Lenin d’Italia possono sperare di mietere, bisogna anche per il dopo guerra ritornare alle nostre vecchie e grandi tradizioni del risorgimento. Il ritorno a Mazzini ha contribuito, oramai tutti lo vedono, a far vincere a noi la guerra, poiché ha distrutto la compagine statale del nostro nemico. Per vincere il dopo guerra, per emergere più saldi, più forti, più ricchi moralmente e materialmente dalla grande prova civile che ci attende, bisogna ritornare alle audacie del conte di Cavour: alle audacie di chi odia i programmi vuoti, le parole retoriche, le promesse aventi un puro e basso scopo elettorale, alle audacie fredde, ragionate di chi sa la meta a cui vuol giungere, scarta i mezzi inadeguati e sceglie la via che può essere percorsa senza pericolo di cadere nell’anarchia e nella reazione.

 

 

Nessun mezzo deve essere scartato a priori affinché il passaggio dalla guerra alla pace si compia nel modo migliore, con il minor numero possibile di attriti. Ma devono essere scartati senza pietà tutti quei mezzi, tutti quei propositi che scienza ed esperienza dimostrino atti soltanto a riempir la bocca agli oratori da comizio e disadatti a raggiungere alcunché di bene a vantaggio degli uomini. Cavour, che la lettura dei suoi scritti rivela essere stato uno dei maggiori economisti d’Italia, non fu l’uomo di un’idea unica. Fece costruire allo stato ferrovie e porti, sussidiare linee di navigazione, impose tasse durissime; ma mentre faceva far molto allo stato dove giudicava l’azione sua vantaggiosa, gli toglieva compiti, come quelli di regolare e proteggere l’industria, di fissare i calmieri del pane, laddove credeva che l’aria libera fosse meglio atta a promuovere lo sviluppo della ricchezza ed il buon mercato della vita. Finiva di abolire le corporazioni d’arti e mestieri; ma fondava una cassa di assicurazione per la vecchiaia degli operai e voleva renderla universale. Così, egli condusse il Piemonte dal 1850 al 1860 ad un alto grado di forza economica. Così oggi dobbiamo far noi, se vogliamo che il dopo guerra sia fecondo di bene. La regola deve essere questa: lo stato deve far moltissimo: tutto ciò che soltanto esso può fare e tutto ciò che esso può fare meglio dei privati. Ma deve astenersi dal fare ciò che è meglio sia lasciato ai privati, perché questi da una data spesa son capaci di trarre maggior frutto. Non si deve dire: bisogna spendere uno, due, dieci miliardi perché questi sono poca cosa in confronto ai cinquanta che la guerra ha costato. No, perché l`essere stati costretti a spendere per la difesa della patria somme enormi, non è una buona ragione per sprecare anche un solo miliardo, che dico! anche un solo milione per scopi inutili od usando mezzi inadatti a raggiungere sia pure utilissimi fini. Invece bisogna spendere, astrazion fatta da ciò che si è speso per la guerra, tutto ciò che fa d’uopo per il bene del paese nei limiti, s’intende, dei mezzi totali disponibili e della convenienza di spendere piuttosto in una maniera che in un’altra. Non bisogna dire: fa d’uopo che lo stato spenda un miliardo per dar lavoro durante la crisi della smobilitazione. Questa è tesi assoluta, aprioristica, per se medesima erronea. Quando il miliardo c’è, dà sempre lavoro, sia che venga usato a scopo di consumare merci – le quali dovranno prima essere prodotte e perciò richiederanno lavoro – sia che lo si risparmi e quindi lo si investa in costruzioni, in macchine, in migliorie, richiedenti anch’esso lavoro. È vero che se il miliardo di risparmi non c’è, lo stato può crearlo con emissione di biglietti: ma sarebbe ben doloroso dover aumentare la circolazione anche a guerra finita quando si può presumere che il risparmio nazionale basti a far fronte ai bisogni dei privati e dello stato. Bisogna invece chiedere: in quale modo è meglio impiegare il miliardo, affinché esso giunga più rapidamente in soccorso di quei disoccupati che la pace sorprenderà senza lavoro in quella tale località ed in quel tal momento? L’uomo di stato ha la responsabilità gravissima di scoprire il metodo più adatto, in quel dato momento e non in un altro, per quel genere di disoccupazione e non per un altro. Le soluzioni concrete, migliori possono non essere

sempre le stesse e fa d’uopo stare all’erta per scoprire la soluzione corretta per ogni data occasione.

 

 

Talvolta sarebbe persino assurdo che altri fuor dello stato pensasse a risolvere il problema. Prendasi uno dei problemi più gravi, forse il sommo problema economico del dopo guerra: la rivalutazione della moneta, il che significa il passaggio dal sistema di prezzi altissimi attuali ad un sistema di prezzi relativamente meno alti. Questo è problema di stato, atto a far tremare le vene ed i polsi ai ministri del tesoro e delle finanze; non è problema che i privati possano risolvere. Questi potranno veder fiorire o spegnersi l’attività propria, a seconda che gli uomini di stato diano al problema una soluzione buona o cattiva; ma non possono intervenire oggi in un senso o in un altro. Tanto più urgente è il dovere degli uomini di governo di veder ben chiaro ed annunciare apertamente ciò che oggi intendono di fare in questo che è davvero il problema economico sovrano del dopo guerra.

 

 

Altra volta lo stato deve contentarsi di lasciare aperta la via all’iniziativa privata. Leggo in questo momento un memoriale al governo degli industriali cotonieri. Denunciano essi che, astrazion fatta dalle richieste militari, la loro industria si trova di fronte ad una crisi gravissima di domanda: cessata la richiesta dall’interno, ridotta al 10 od al 20% quella dei mercati alleati o neutri, l’unico sbocco possibile nel momento attuale sarebbe quello della Grecia, di Salonicco, della Macedonia, della Serbia, della Siria, della Palestina, che i cotonieri italiani avevano lungo un ventennio di fatiche, conquistato alla nostra esportazione. Oggi i mercanti inglesi, francesi, nordamericani ed indiani vi si precipitano, ma l’esportazione dall’Italia rimane vietata. Ancora alcuni giorni di indugio, ed il mercato sarà perduto, forse per anni; e decine di migliaia di operai dovranno in Italia essere licenziati. Qui è chiaro il dovere urgente del governo: indagare con rapidità sulla verità dei fatti che si allegano. Se questi sono veri, riaprire le porte all’esportazione. Lo stato non ha qui nulla da fare fuorché togliere un divieto, che le nuove circostanze più non legittimano ed avrà contribuito a impedire che la disoccupazione si inacerbisca.

 

 

Ancora: la funzione dello stato può essere in altri casi mista: parte azione diretta e parte integrazione dell’opera privata. Se il problema della rivalutazione della lira ossia dei prezzi in genere è il sommo problema del dopo guerra, quello della smobilitazione è il più urgente. Che cosa faranno i milioni di soldati e di operai che saranno licenziati dall’esercito e dalle industrie di guerra? Come si farà ad impedire una terribile disoccupazione, minacciosa di torbidi e di miseria? Qui il governo deve già sapere che cosa farà. Molteplici sono i suoi compiti: 1) valutare la massa totale dei probabili disoccupati in mezzo all’esercito dei licenziati. È evidente che se i licenziati sono parecchi milioni, i disoccupati saranno assai meno, perché molti dei primi troveranno subito nelle campagne, nelle antiche aziende, nelle nuove industrie di pace, occupazione remuneratrice. Non occorrono questionari complicati, come quelli che da due o tre anni furono la croce prima e lo zimbello poi degli ufficiali di disciplina degli stabilimenti ausiliari incaricati di rispondervi. Inchiesta rapida, quasi telegrafica per conoscere i grandi numeri ed individuare i centri della possibile disoccupazione; 2) promuovere la costituzione di uffici di collocamento i quali, come opportunamente è proposto dal prof. Attilio Cabiati alla presidenza dell’ufficio studi per la ricostituzione economica del dopo guerra in Roma, dovrebbero essere composti in parti uguali di operai e di industriali. È la tendenza più recente, che si è affermata con successo, nei Labour Exchanges inglesi. Questi uffici, governati dagli interessati, dovrebbero spostare la mano d’opera dai luoghi in cui è abbondante a quelli in cui è richiesta. Il governo interverrebbe con sussidi per permettere indennità di viaggio e di disoccupazione. Meglio pagare un’indennità di disoccupazione all’operaio privo di lavoro che continuare a fargli sprecare materie prime e combustibili per fabbricare armi non richieste; 3) far fabbricare invece ciò di cui vi ha urgenza somma, se si vuole che la vita economica riprenda il suo cammino normale. Molte cose urgono; ma nulla più della ripresa dei trasporti ferroviari. Quattro anni di guerra, con riparazioni insufficienti e rinnovamenti inadeguati, hanno divorato il materiale fisso e mobile. Locomotive, carri, carrozze ansano, cigolano e mandano suon di ferraccio. Occorre che si inizi pronto ed intenso il lavoro di costruzione di materiale rotabile, di rotaie, di tettoie. Occorre che il lavoro, che era stato sospeso, di elettrificazione di alcune linee a grandissimo traffico e di altre di montagna a forti pendenze, sia ripreso a norma di un piano razionale. Qui v’è lavoro per anni per fabbriche e per maestranze; 4) avere pronto un piano di lavori pubblici, scelti fra quelli che è compito naturale e permanente dello stato di menare a buon fine: rimboschimenti, ricostruzione di strade, di argini, di ponti (provincie invase ed irredente), lavori di bonifica.

 

 

Una lista di simili lavori dovrebbe anzi essere sempre tenuta a giorno, accelerandoli quando volgono tempi di crisi nell’industria e di disoccupazione operaia e rallentandoli quando l’attività industriale è grande ed assorbe tutta la maestranza disponibile. I lavori debbono essere utili in se stessi, tali che lo stato meglio li possa compiere dei privati; e debbono potere allargarsi o restringersi a guisa di riempitivo. L’arte dell’uomo di stato non è quella di disturbare, con le sue richieste di lavoro, il mercato quando questo è congestionato, sibbene quella di giungere pronta nei momenti in cui sul mercato c’è un vuoto, che non si sa come riempire. Bisogna evitare di ostinarsi, come purtroppo si pretenderà dai ministri, a continuare a fare cose che solo la guerra imponeva e volgersi immediatamente ad apprestare il ponte di passaggio dalla guerra alla pace. Un anno o due dopo la fine delle ostilità non si dovrà più parlare di disoccupazione bellica; occorre quindi far fare cose che possano essere almeno sgrossate in un anno e dopo possano essere condotte innanzi con metro più lento senza danno. Ha il governo pronto un programma di lavori necessari, utili, possibili a compiersi a periodi saltuari?

 

 


[1] Con il titolo La commissione del dopoguerra. [ndr]

[2] Con il titolo I veri problemi del dopoguerra. [ndr]

[3] Con il titolo  I problemi urgenti del dopoguerra. [ndr]

La scalata alle banche

La scalata alle banche

«Corriere della Sera», 4 giugno[1], 2 luglio[2] 1918

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 394-399

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 683-691

La difficile arte del banchiere, UTET, Torino, 1993, pp. 49-52

«Libro aperto», XVII, n. s., n. 11, ottobre-dicembre 1997, pp. 60-63

 

 

I

Come le cronache dei giornali narrano, si è accesa sui giornali italiani una polemica viva intorno ad un fenomeno interessante a cui si è dato il nome di «scalata alle banche». Prima della guerra ci lamentavamo che le banche fossero padrone dell’industria; oggi si depreca la tendenza contraria, per cui taluni grandi gruppi industriali vorrebbero o sarebbero riusciti a rendersi padroni delle banche.

 

 

Che esista una tendenza di taluni grandi gruppi industriali, di quella che in Germania direbbesi l’industria «pesante» del ferro, di ottenere una posizione di padronanza sulle banche italiane parmi indubitato.

 

 

Che questa tendenza sia pericolosa parmi altrettanto indubitato. Ho sempre guardato con pochissima simpatia al tentativo di affidare alle banche ordinarie il compito del credito «industriale», ossia delle sovvenzioni di denaro alle imprese industriali, non per il giro corrente dei loro affari, ma per impianti ed immobilizzazioni. Con molta prudenza, per una parte del loro capitale proprio, sia; con larghezza e coi denari dei depositanti, no. L’esperienza italiana in tal materia è scottante. Perché dimenticarla così presto? Con ancor minore simpatia bisogna guardare ai tentativi di specializzazione delle banche, ossia di trasformazione di esse, da strumenti di credito per le industrie in generale, in banche di credito per talune speciali industrie: le banche elettriche, le banche ferroviarie, le banche siderurgiche, le banche per l’esportazione sono difficilissime a crearsi ed a farsi bene funzionare. Se una crisi colpisce quella industria, lo scredito si estende anche alla banca sovventrice. In un paese come il nostro, la compensazione dei rischi si impone ancor più che in Svizzera ed in Germania e nel Belgio, dove esiste qualche esempio fortunato di banche specializzate.

 

 

E finalmente, con ancor minor simpatia devono guardarsi i tentativi di dominazione delle banche da parte dei clienti delle banche stesse. Industriali e commercianti sono i dirigenti meno adatti delle banche. In Inghilterra, la quale, vogliasi o non, è ancora maestra al mondo in materia di banche, esiste, è vero, una eccezione grandiosa alla regola: come si sa, la corte dei direttori della Banca d’Inghilterra è composta di mercanti e non di banchieri, i quali anzi ne sono rigidamente esclusi. Ma la eccezione conferma la regola; poiché la corte dei direttori di fatto si recluta per cooptazione, ossia per chiamata nel proprio seno da parte dei direttori in carica, come fanno i professori di università e quindi non servirebbe a niente comprare molte azioni per entrare nel consiglio; ed in secondo luogo la banca d’Inghilterra ha per clienti gli altri banchieri e non i mercanti. La regola aurea è: che i clienti industriali, i quali debbono comprare il credito non debbono fissarne essi medesimi il prezzo e le modalità. Quando mai si è visto il compratore di scarpe fissare esso il prezzo, mentre il calzolaio sta a vedere? Purtroppo, di questi tempi si va persino all’eccesso opposto ed il cliente non può aprir bocca in faccia al calzolaio. Ma se questo è un eccesso, l’altro di vedere spadroneggiare nelle banche i clienti industriali è assai più pericoloso: poiché significa che i clienti possono adoprare a lor posta e magari sprecare i denari dei depositanti. Se il pubblico se ne accorge e prende paura, addio credito ordinario! I depositi si rifugerebbero esclusivamente nelle casse di risparmio e nelle banche popolari, che sono mirabili istituzioni, che in fondo compiono in Italia gran parte degli uffici che in Inghilterra spettano a quelle che là sono chiamate «banche»; ma che non possono supplire a tutte le funzioni per cui il credito ordinario è utile, anzi indispensabile.

 

 

Il pubblico non ha, a ragione, molta fiducia nei senatori, nei deputati e negli industriali come governatori di banche; e se l’andazzo presente continua, rischiamo di vedere nei consigli delle banche assai pochi banchieri ed invece molti uomini figurativi da un lato e parecchi grossi clienti dall’altro.

 

 

Dopo ciò, il lettore chiederà: quale rimedio proponete al malanno denunciato? Confesso che, per quanto ci abbia pensato, non sono riuscito a scoprire alcun rimedio legislativo, il quale sia efficace.

 

 

Ispezioni? Decreti che proibiscano di dar credito eccessivo agli uni e non agli altri? Provvedimenti per concedere un credito speciale ai siderurgici? Divieto, a chi possiede i denari, di comprare azioni di banche, ed a chi crede, ai prezzi correnti, opportuno disfarsene, di venderle? Obbligo della nominatività delle azioni per sapere chi sono i loro possessori? Empiastri illusori, che non risolverebbero nulla ed aggraverebbero il male. Lo spediente, il quale più probabilmente sarà adottato, pare debba essere quello della nominatività obbligatoria delle azioni di banche. L’on. Nitti, che lo mise innanzi, non diede alcun motivo della sua opinione; sicché io debbo continuare a credere che non sia possibile rispondere alle obiezioni che da me e da altri ripetutamente furono mosse contro siffatto spediente. Oggi, con la facilità di abusare dei decreti luogotenenziali per scopi che non hanno nulla a che vedere colla guerra, si renderanno nominative le azioni delle banche. Ma nessun decreto riuscirà a rendere ragionevole ciò che è cervellotico, fecondo ciò che è sterile, savio ciò che nessuna esperienza di nessun paese giustifica. Quante volte, ad esempio, dovrò ripetere che la nominatività delle azioni, non necessaria fiscalmente – ché qualunque imposta sul reddito, sul patrimonio e di successione può ripartirsi equamente anche colle azioni al portatore, mentre la nominatività non garantisce affatto la equa ripartizione – non ha impedito altrove, Stati Uniti, cose ben peggiori di quelle denunciate tra noi?

 

 

Anche se lo conoscessi, sarei peritante ad esporre un rimedio specifico, perché quasi certamente sarebbe male applicato. Forse due sole volte in vita mia ho invocato su questo giornale un intervento dello stato in materie economiche. La prima volta fu quando dissi che a certe condizioni un monopolio dei cambi sarebbe stato utile. Me ne pento amaramente e faccio pubblica ammenda di quel trascorso momentaneo. Tutti parlano male dell’istituto dei cambi; il quale, al solito, fa il padreterno, inasprisce i cambi, crea una macchina burocratica spaventosa per il dopo-guerra e ci lascerà alla firma della pace senza un bioccolo di cotone, senza un filo di lana, senza una pelle, ecc. ecc. Almeno questo è quanto si sente dire dappertutto ed ho paura non siano esagerazioni. L’altra volta che proposi un intervento dello stato, fu per invocare la proibizione delle nuove emissioni di azioni senza il consenso personale del ministro del tesoro. Volevo che in Italia, come nei paesi nostri alleati, il ministro del tesoro giudicasse rapidamente, sotto la sua personale responsabilità, se una data emissione fosse compatibile con le necessità di denaro del tesoro. Unica ragione del proposto divieto era la necessità di incanalare tutto il denaro disponibile verso il tesoro. Non avessi mai scritto una ingenuità simile! A Roma afferrarono l’idea, per costruirci su un’altra di quelle commissioni che si diranno in avvenire non più piaghe d’Egitto, ma piaghe della guerra e del dopo-guerra. Una serqua di funzionari, a priori incompetenti e senza la possibilità di acquistar competenza, giudica quali siano le azioni degne di essere emesse, tenendo anche conto della necessità di impedire concorrenze eccessive ecc. ecc. Queste enormità un tempo sarebbero state giudicate assai severamente, come quelle che assoggettano lo sviluppo dell’economia italiana al beneplacito ed al sospetto di favoritismo dei soliti padreterni irresponsabili del ministero dell’industria.

 

 

Perciò se io avessi un rimedio specifico contro la scalata alle banche, forse non oserei metterlo fuori, per paura di aiutare ancor più i gruppi industriali più procaccianti e più vicini al potere ad entrare nella piazza forte del credito. Per fortuna non sono riuscito ad indovinare il nome di nessuno dei rimedi specifici che pare esistano abbondanti a nostra portata; e non debbo perciò superare nessuno scrupolo di coscienza: tacere per paura di peggio o tirar fuori il farmaco? I soli rimedi efficaci non sono legislativi, ma di costume e di controllo vigile dei depositanti, degli azionisti e della opinione pubblica seria: tutte cose che, se non ci sono, non si creano a colpi di decreti luogotenenziali. Tutt’al più posso aggiungere di conoscere un solo rimedio generico, molto generico, molto vecchio e perciò guardato di malocchio, contro gli abusi del credito e della speculazione: ed è il rincaro del denaro. Il denaro è spaventosamente a buon mercato oggi in Italia. Vi è una filza di titoli oggi tra noi che fanno deporto; oggi che si possono vendere a 100 a contanti e ricomperare a 99,50 o meno a fine mese, godendo per niente ed anzi con un abbuono, il denaro per un mese intiero. E su molti altri titoli i riporti sono al 3, al 4 o al 4 1/2%. Lo stato paga il 6% sui suoi prestiti; ed i privati speculatori che vogliono comprare azioni e tenerle per la speranza del rialzo trovano denaro al 4%! Ed il denaro è così abbondante che altri trova comodo e non troppo costoso dare il denaro gratuitamente e per giunta un premio per ottenere la disponibilità delle azioni necessarie a dare la scalata alle banche ed ai consigli di amministrazione di questa o quella società!

 

 

Io non dico che il denaro caro farebbe scomparire tutto ciò. Non ho, ripeto, alcun cerotto da offrire al pubblico. Ma dico che il denaro a vil prezzo crea un ambiente speculativo, di allegria, di ottimismo in cui tutte le imprese sono possibili.

 

 

Rendere il denaro caro è oggi compito e dovere dell’on. Nitti. Compito non facile, lo ammetto. Ma tale che bisogna affrontare. Perché seguitare a pagare in biglietti i fornitori ed i clienti dello stato? Paghi in buoni del tesoro non una quarta od una terza parte ma i due terzi o la totalità. Paghi per i contratti vecchi, se occorre, un sovraprezzo del 6 o del 7% per indennizzarli della perdita che dovranno subire scontando i buoni alle banche. Ma freni l’aumento della circolazione in tutti i modi possibili. Ogni biglietto emesso in più ingrossa i depositi delle banche, è uno stimolo alla speculazione, ai progetti pazzeschi, ai tentativi di dominazione. Ogni buono, invece, emesso al posto dei biglietti, obbliga chi lo riceve a ricorrere per sconto alle banche, e costringe queste a limitare i fondi disponibili per speculazioni borsistiche. Il dilemma è chiaro e preciso.

 

 

II

Un comunicato del ministero del tesoro ha annunciato che tra la Banca commerciale, il Credito italiano, la Banca italiana di sconto ed il Banco di Roma, fu, per invito del ministro Nitti, conchiuso un accordo col quale, pur rimanendo integra l’assoluta indipendenza di opere e di direttive di ciascun istituto, si coordina e si disciplina la esplicazione delle loro singole attività durante la guerra e nei due anni susseguenti alla cessazione delle ostilità. I quattro istituti dovranno esaminare insieme le condizioni praticate per le principali categorie di operazioni bancarie, le fissazioni di limiti comuni più favorevoli alla clientela per le aperture di credito, per le anticipazioni, per le provvigioni di conti correnti, per i mutui di rilevante importanza e di interesse generale del paese, per i prestiti ad enti pubblici, e quelli industriali di notevole importanza per l’economia nazionale. Il comunicato conclude annunciando la costituzione di un’associazione fra banche e banchieri italiani, la quale dia opera ad estendere l’accordo ad altri istituti, banche minori e ditte bancarie private.

 

 

L’avvenimento, che così si comunica al pubblico, può diventare il fatto più importante da lunghi anni accaduto nel campo bancario ed industriale italiano; e merita perciò un breve commento.

 

 

Che la costituzione di un’associazione fra i banchieri italiani – grandi e piccoli – fosse utile, non v’è dubbio. Associazioni consimili esistono in Inghilterra, in Francia, in Germania, negli Stati uniti, ed hanno per iscopo lo studio dei problemi interessanti l’industria bancaria, la proposta e la critica di provvedimenti legislativi, l’incoraggiamento agli studi bancari da parte dei giovani e la preparazione, con conferenze, con corsi di lezioni, con premi, di un personale bancario scelto ed istruito. Si può anche affermare che una associazione siffatta farebbe cosa utile facilitando le informazioni sulla clientela, promuovendo – entro certi limiti di riservatezza – scambio di notizie sulla esposizione cambiaria e creditizia di taluni clienti. Epperciò, se l’intesa promossa dal ministro del tesoro risponde a queste esigenze, deve essere lodata.

 

 

Ossequio alla verità ed al bene pubblico comandano però di mettere chiaramente in luce come l’accordo promosso dal ministro del tesoro vada ben al di là di questi che sono i compiti delle più salde associazioni di banchieri esistenti all’estero. Nel comunicato ministeriale si parla di «accordi», di «coordinamento», di «disciplina» della attività delle banche federate; si parla persino di «cartello» delle quattro grandi banche che «per la prima volta concordi in un armonico programma» dovrebbero imprimere durante la guerra e per due anni di poi un indirizzo unitario all’industria bancaria italiana. Si dice che quest’azione concorde dovrà «avviare la produzione italiana a non essere tributaria dell’ estero, a creare enti per la conquista di nuovi mercati ed a compiere azione solidale perché i fini nazionali dello stato siano assecondati dal comune accordo delle banche».

 

 

Delle intenzioni non giova occuparsi, ché si deve sottintendere siano ottime. Ma il mezzo adottato è idoneo a raggiungere davvero fini di utilità nazionale?

 

 

Prima della guerra, se si interrogavano industriali e commercianti, una delle ragioni più sentite, sebbene per ragionevoli motivi meno apertamente manifestate, di malcontento era precisamente l’opinione, in cui essi vivevano, che esistesse un tacito accordo tra le banche, il quale limitava le agevolezze di credito e dava alle banche eccessive potestà di controllo sulle industrie. Oggi invece di «banche padrone delle industrie» si parla di «scalata alle banche». Ma per quanto la posizione sembri rovesciata, il primo atto di governo compiuto in seguito alla polemica per la scalata alle banche – ed è precisamente il «cartello» promosso dall’on. Nitti – non sembra tale da assicurare il mondo dell’ industria e del commercio.

 

 

Si pensi: «Le maggiori imprese italiane, quelle che vantano capitali di 50, di 100 ed ora di 500 milioni di lire, sono oramai più o meno tutte interessate nelle grandi banche e rappresentate nei loro consigli. Alla loro volta le grandi banche sono oramai riunite in un cartello – voce tedesca, corrispondente all’americana trust, alla francese sindacato ed all’italiana consorzio -, a cui si vuole siano affiliate anche le banche minori ed i banchieri privati. Il cartello pare debba fissare norme comuni per gli sconti, per le anticipazioni, per le aperture di credito. Da esso dipenderà grazie alla eliminazione delle maniere inutili e dannose di concorrenza – il giudizio intorno al credito che il tale e tale altro industriale meriterà, da esso l’insieme del credito da farsi alle industrie di notevole importanza nazionale, da esso l’incoraggiamento alle esportazioni all’estero».

 

 

È tutta una visione di una industria italiana che nel dopo guerra muoverà alla conquista del mondo sotto la guida di un «cartello» bancario, nei cui consigli noi sappiamo già essere dominanti le maggiori imprese industriali del paese. Una campagna giornalistica partita dalla preoccupazione di garantire i miliardi di depositi bancari contro il pericolo della padronanza di pochi industriali avrebbe concluso col mettere sotto il patronato di un solo gruppo, o cartello, o trust bancario anche i depositi delle piccole e medie banche e, per giunta, tutta la clientela industriale e commerciale!

 

 

Tutto ciò sa molto di «disciplina», di «coordinamento», di «armonie» e di «nazionalizzazione» tipo germanico; ma dubito assai che la piccola, la media ed anche la grande, se non forse la grandissima, industria italiana, lo abbia a trovare di suo gradimento. Sovratutto non so comprendere perché l’on. Nitti spenda tanta parte delle sue attività in cose, le quali non sono precisamente quelle di cui si interessa oggi l’opinione pubblica e che veramente importano all’interesse nazionale. Oggi, in tema di tesoro, le questioni che interessano sono quelle dei cambi, dei prestiti a gitto continuo per mezzo di buoni del tesoro, delle imposte nuove da creare e delle vecchie da riformare. Gli italiani attendono dal ministro del tesoro un’azione continua in questo campo; nessuno pensava alla preparazione di un forte trust bancario che nel dopo guerra tenga in mano, ammettasi pure coi migliori propositi di questo mondo, tutta l’industria e tutto il commercio del paese.

 

 

Non sono soltanto gli italiani a vedere un pericolo in questi tentativi di monopolio bancario. In Inghilterra l’opinione pubblica si è vivamente commossa nel vedere il moltiplicarsi delle fusioni di banche, che facevano sorgere all’orizzonte lo spettro di un Money Trust, di un cartello bancario, come alla tedesca si ama dire da noi. Dal 1891 al 1917 le banche private in Inghilterra erano diminuite in numero da 37 a 6 e le banche per azioni da 106 a 34. Se finissero per diventare tanto poche che un accordo tra loro fosse possibile, quale sarebbe la sorte dell’industria e del commercio; dove se ne andrebbe la libertà e la scioltezza del mercato monetario londinese, che fecero dell’Inghilterra il centro finanziario del mondo?

 

 

Le preoccupazioni parvero tanto fondate, che il governo nominò un comitato di inchiesta; il quale già riferì e già propose provvedimenti atti a frenare la tendenza alle fusioni bancarie ed a fomentare la concorrenza tra le banche a vantaggio dell’industria.

 

 

In Italia sembra che sia invece diventato un canone che occorre reprimere «le forme inutili e dannose di concorrenza» e promuovere accordi e cartelli bancari. E quel che è più singolare la tendenza alla trustificazione dell’industria bancaria è promossa da quel ministro il quale dovrebbe tutelare gli interessi generali del paese.

 

 


[1] Con il titolo La scalata alle banche. Malanni e rimedî. [ndr]

[2] Con il titolo L’accordo fra le banche. [ndr]

La scalata alle banche

La scalata alle banche

«Corriere della Sera», 4 giugno 1918[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 394-399

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 683-687

La difficile arte del banchiere, UTET, Torino, 1993, pp. 49-52[2]

 

 

 

 

Come le cronache dei giornali narrano, si è accesa sui giornali italiani una polemica viva intorno ad un fenomeno interessante a cui si è dato il nome di “scalata alle banche”. Prima della guerra ci lamentavamo che le banche fossero padrone dell’industria; oggi si depreca la tendenza contraria, per cui taluni grandi gruppi industriali vorrebbero o sarebbero riusciti a rendersi padroni delle banche.

 

 

Che esista una tendenza di taluni grandi gruppi industriali, di quella che in Germania direbbesi l’industria “pesante” del ferro, di ottenere una posizione di padronanza sulle banche italiane parmi indubitato.

 

 

Che questa tendenza sia pericolosa parmi altrettanto indubitato. Ho sempre guardato con pochissima simpatia al tentativo di affidare alle banche ordinarie il compito del credito “industriale”, ossia delle sovvenzioni di denaro alle imprese industriali, non per il giro corrente dei loro affari, ma per impianti ed immobilizzazioni. Con molta prudenza, per una parte del loro capitale proprio, sia; con larghezza e coi denari dei depositanti, no. L’esperienza italiana in tal materia è scottante. Perché dimenticarla così presto? Con ancor minore simpatia bisogna guardare ai tentativi di specializzazione delle banche, ossia di trasformazione di esse, da strumenti di credito per le industrie in generale, in banche di credito per talune speciali industrie: le banche elettriche, le banche ferroviarie, le banche siderurgiche, le banche per l’esportazione sono difficilissime a crearsi ed a farsi bene funzionare. Se una crisi colpisce quella industria, lo scredito si estende anche alla banca sovventrice. In un paese come il nostro, la compensazione dei rischi si impone ancor più che in Svizzera ed in Germania e nel Belgio, dove esiste qualche esempio fortunato di banche specializzate.

 

 

E finalmente, con ancor minor simpatia devono guardarsi i tentativi di dominazione delle banche da parte dei clienti delle banche stesse. Industriali e commercianti sono i dirigenti meno adatti delle banche. In Inghilterra, la quale, vogliasi o non, è ancora maestra al mondo in materia di banche, esiste, è vero, una eccezione grandiosa alla regola: come si sa, la corte dei direttori della Banca d’Inghilterra è composta di mercanti e non di banchieri, i quali anzi ne sono rigidamente esclusi. Ma la eccezione conferma la regola; poiché la corte dei direttori di fatto si recluta per cooptazione, ossia per chiamata nel proprio seno da parte dei direttori in carica, come fanno i professori di università e quindi non servirebbe a niente comprare molte azioni per entrare nel consiglio; ed in secondo luogo la banca d’Inghilterra ha per clienti gli altri banchieri e non i mercanti. La regola aurea è: che i clienti industriali, i quali debbono comprare il credito non debbono fissarne essi medesimi il prezzo e le modalità. Quando mai si è visto il compratore di scarpe fissare esso il prezzo, mentre il calzolaio sta a vedere? Purtroppo, di questi tempi si va persino all’eccesso opposto ed il cliente non può aprir bocca in faccia al calzolaio. Ma se questo è un eccesso, l’altro di vedere spadroneggiare nelle banche i clienti industriali è assai più pericoloso: poiché significa che i clienti possono adoprare a lor posta e magari sprecare i denari dei depositanti. Se il pubblico se ne accorge e prende paura, addio credito ordinario! I depositi si rifugerebbero esclusivamente nelle casse di risparmio e nelle banche popolari, che sono mirabili istituzioni, che in fondo compiono in Italia gran parte degli uffici che in Inghilterra spettano a quelle che là sono chiamate “banche”; ma che non possono supplire a tutte le funzioni per cui il credito ordinario è utile, anzi indispensabile.

 

 

Il pubblico non ha, a ragione, molta fiducia nei senatori, nei deputati e negli industriali come governatori di banche; e se l’andazzo presente continua, rischiamo di vedere nei consigli delle banche assai pochi banchieri ed invece molti uomini figurativi da un lato e parecchi grossi clienti dall’altro.

 

 

Dopo ciò, il lettore chiederà: quale rimedio proponete al malanno denunciato? Confesso che, per quanto ci abbia pensato, non sono riuscito a scoprire alcun rimedio legislativo, il quale sia efficace.

 

 

Ispezioni? Decreti che proibiscano di dar credito eccessivo agli uni e non agli altri? Provvedimenti per concedere un credito speciale ai siderurgici? Divieto, a chi possiede i denari, di comprare azioni di banche, ed a chi crede, ai prezzi correnti, opportuno disfarsene, di venderle? Obbligo della nominatività delle azioni per sapere chi sono i loro possessori? Empiastri illusori, che non risolverebbero nulla ed aggraverebbero il male. Lo spediente, il quale più probabilmente sarà adottato, pare debba essere quello della nominatività obbligatoria delle azioni di banche. L’on. Nitti, che lo mise innanzi, non diede alcun motivo della sua opinione; sicché io debbo continuare a credere che non sia possibile rispondere alle obiezioni che da me e da altri ripetutamente furono mosse contro siffatto spediente. Oggi, con la facilità di abusare dei decreti luogotenenziali per scopi che non hanno nulla a che vedere colla guerra, si renderanno nominative le azioni delle banche. Ma nessun decreto riuscirà a rendere ragionevole ciò che è cervellotico, fecondo ciò che è sterile, savio ciò che nessuna esperienza di nessun paese giustifica. Quante volte, ad esempio, dovrò ripetere che la nominatività delle azioni, non necessaria fiscalmente – ché qualunque imposta sul reddito, sul patrimonio e di successione può ripartirsi equamente anche colle azioni al portatore, mentre la nominatività non garantisce affatto la equa ripartizione – non ha impedito altrove, Stati Uniti, cose ben peggiori di quelle denunciate tra noi?

 

 

Anche se lo conoscessi, sarei peritante ad esporre un rimedio specifico, perché quasi certamente sarebbe male applicato. Forse due sole volte in vita mia ho invocato su questo giornale un intervento dello stato in materie economiche. La prima volta fu quando dissi che a certe condizioni un monopolio dei cambi sarebbe stato utile. Me ne pento amaramente e faccio pubblica ammenda di quel trascorso momentaneo. Tutti parlano male dell’istituto dei cambi; il quale, al solito, fa il padreterno, inasprisce i cambi, crea una macchina burocratica spaventosa per il dopo-guerra e ci lascerà alla firma della pace senza un bioccolo di cotone, senza un filo di lana, senza una pelle, ecc. ecc. Almeno questo è quanto si sente dire dappertutto ed ho paura non siano esagerazioni. L’altra volta che proposi un intervento dello stato, fu per invocare la proibizione delle nuove emissioni di azioni senza il consenso personale del ministro del tesoro. Volevo che in Italia, come nei paesi nostri alleati, il ministro del tesoro giudicasse rapidamente, sotto la sua personale responsabilità, se una data emissione fosse compatibile con le necessità di denaro del tesoro. Unica ragione del proposto divieto era la necessità di incanalare tutto il denaro disponibile verso il tesoro. Non avessi mai scritto una ingenuità simile! A Roma afferrarono l’idea, per costruirci su un’altra di quelle commissioni che si diranno in avvenire non più piaghe d’Egitto, ma piaghe della guerra e del dopo – guerra. Una serqua di funzionari, a priori incompetenti e senza la possibilità di acquistar competenza, giudica quali siano le azioni degne di essere emesse, tenendo anche conto della necessità di impedire concorrenze eccessive ecc. ecc. Queste enormità un tempo sarebbero state giudicate assai severamente, come quelle che assoggettano lo sviluppo dell’economia italiana al beneplacito ed al sospetto di favoritismo dei soliti padreterni irresponsabili del ministero dell’industria.

 

 

Perciò se io avessi un rimedio specifico contro la scalata alle banche, forse non oserei metterlo fuori, per paura di aiutare ancor più i gruppi industriali più procaccianti e più vicini al potere ad entrare nella piazza forte del credito. Per fortuna non sono riuscito ad indovinare il nome di nessuno dei rimedi specifici che pare esistano abbondanti a nostra portata; e non debbo perciò superare nessuno scrupolo di coscienza: tacere per paura di peggio o tirar fuori il farmaco? I soli rimedi efficaci non sono legislativi, ma di costume e di controllo vigile dei depositanti, degli azionisti e della opinione pubblica seria: tutte cose che, se non ci sono, non si creano a colpi di decreti luogotenenziali. Tutt’al più posso aggiungere di conoscere un solo rimedio generico, molto generico, molto vecchio e perciò guardato di malocchio, contro gli abusi del credito e della speculazione: ed è il rincaro del denaro. Il denaro è spaventosamente a buon mercato oggi in Italia. Vi è una filza di titoli oggi tra noi che fanno deporto; oggi che si possono vendere a 100 a contanti e ricomperare a 99,50 o meno a fine mese, godendo per niente ed anzi con un abbuono, il denaro per un mese intiero. E su molti altri titoli i riporti sono al 3, al 4 o al 4 1/2%. Lo stato paga il 6% sui suoi prestiti; ed i privati speculatori che vogliono comprare azioni e tenerle per la speranza del rialzo trovano denaro al 4%! Ed il denaro è così abbondante che altri trova comodo e non troppo costoso dare il denaro gratuitamente e per giunta un premio per ottenere la disponibilità delle azioni necessarie a dare la scalata alle banche ed ai consigli di amministrazione di questa o quella società!

 

 

Io non dico che il denaro caro farebbe scomparire tutto ciò. Non ho, ripeto, alcun cerotto da offrire al pubblico. Ma dico che il denaro a vil prezzo crea un ambiente speculativo, di allegria, di ottimismo in cui tutte le imprese sono possibili.

 

 

Rendere il denaro caro è oggi compito e dovere dell’on. Nitti. Compito non facile, lo ammetto. Ma tale che bisogna affrontare. Perché seguitare a pagare in biglietti i fornitori ed i clienti dello stato? Paghi in buoni del tesoro non una quarta od una terza parte ma i due terzi o la totalità. Paghi per i contratti vecchi, se occorre, un sovraprezzo del 6 o del 7% per indennizzarli della perdita che dovranno subire scontando i buoni alle banche. Ma freni l’aumento della circolazione in tutti i modi possibili. Ogni biglietto emesso in più ingrossa i depositi delle banche, è uno stimolo alla speculazione, ai progetti pazzeschi, ai tentativi di dominazione. Ogni buono, invece, emesso al posto dei biglietti, obbliga chi lo riceve a ricorrere per sconto alle banche, e costringe queste a limitare i fondi disponibili per speculazioni borsistiche. Il dilemma è chiaro e preciso.



[1] Con il titolo La scalata alle banche. Malanni e rimedî [ndr].

[2] Con il titolo La scalata alle banche [ndr].

Il decreto sulle acque pubbliche. Prepara esso il futuro demanio idraulico?

Il decreto sulle acque pubbliche. Prepara esso il futuro demanio idraulico?

«Corriere della Sera», 31 maggio 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 675-682

 

 

La legislazione per decreti legislativi, la quale ha avuto così grande svolgimento durante la guerra è stata una rivendicazione della capacità legiferatrice del parlamento; poiché se la legislazione normale era troppo spesso affrettata, imprecisa, contradditoria ed impulsiva, è assai più afflitta da quei medesimi vizi la legislazione emanata dal potere esecutivo. La ragione dei vizi cresciuti sta nella mancanza di una discussione preventiva. Ancora una volta la guerra ha dimostrato che la virtù dei parlamenti non sta nel governare con maggiore democrazia, con maggior rispetto alla volontà popolare, con maggior sapienza. Sta nel regime di pubblica discussione. L’errore ha tanta maggiore probabilità di essere denunciato quanto più il provvedimento che lo contiene viene assoggettato alla pubblica critica innanzi alla definitiva sua sanzione da parte del potere legislativo.

 

 

Un esempio tipico della virtù parlamentare della pubblica discussione si ha nel decreto legislativo del 20 novembre 1916, concernente le derivazioni di acque pubbliche, il quale era senza forse uno dei più pensati atti del legislatore di guerra, ma, avendo dovuto essere presentato al parlamento per la sua conversione in legge, è stato senza alcun dubbio assai migliorato dall’ufficio centrale del senato, che primo ne ebbe cognizione. Fu un incredibile abuso di potere commesso col legiferare, col pretesto della guerra, su una materia la quale con la guerra non aveva né punto né poco a vedere; e se a questo eccesso di potere si può perdonare, ciò accade non perché esso abbia giovato alla condotta della guerra ma perché ha costretto il legislatore ad occuparsi di un problema di cui da troppo tempo si invocava indarno una soluzione.

 

 

Alcuni concetti essenziali dominavano nel decreto legislativo, entrato in vigore subito, senza attendere la conversione in legge; e l’ufficio centrale del senato, relatore Rolando-Ricci, così li riassume:

 

 

  • unificazione delle funzioni amministrative per le concessioni e la sorveglianza sulle acque pubbliche, prima sparpagliate in molteplici dicasteri, nell’unico ministero dei lavori pubblici, la cui azione sarà sussidiata da quella di un Consiglio superiore delle acque, composto di tecnici, in parte estranei all’amministrazione, e dal cui parere in molti casi il ministro non potrà scostarsi;

 

  • distinzione fra le piccole derivazioni, durevoli per trent’anni, con diritto di rinnovazione e per cui si seguirà l’antica procedura, e le grandi derivazioni, per cui sia la concessione come la esecuzione delle opere debbono essere dominate dal concetto della pubblica utilità e del più intimo e diretto controllo dello stato, in proprietà del quale dovranno cadere al termine della concessione gli impianti idraulici, così da apparecchiare nell’avvenire allo stato un ricco e gratuito demanio idraulico. È questo anzi il concetto fondamentale della riforma: sostituire alla proprietà privata od alla concessione, di fatto perpetua, delle acque pubbliche la concessione temporanea ai privati, col ritorno delle acque e degli impianti relativi senza alcun compenso allo stato alla fine della concessione;

 

  • allo scopo di far sì che in avvenire lo stato possegga tutti gli impianti idraulici del paese e possa esercirli direttamente o farli esercire da concessionari secondo criteri di interesse pubblico, si parificano alle acque ottenute per concessione anche quelle godute finora in piena proprietà per titolo legittimo o per possesso trentennale. Tutte le grandi derivazioni sono d’or innanzi soggette al medesimo regime e tutte diventano caduche allo spirare di un certo termine;

 

  • nelle concessioni, al criterio della preferenza data alla domanda prima nel tempo si sostituisca il criterio della preferenza data alla domanda di colui il quale garantisca, nell’interesse pubblico, una più vasta e migliore utilizzazione; ed al medesimo intento si autorizza, con opportune guarentigie, l’assorbimento delle piccole – che utilizzano male le forze idrauliche – nelle grandi derivazioni atte ad un più sapiente, vasto e coordinato sfruttamento di questa grande ricchezza italiana;

 

  • la istituzione di una speciale magistratura delle acque, mediante un tribunale delle acque sedente in Roma, il quale dovrà risolvere tutte le controversie relative alla utilizzazione delle acque pubbliche. Contro i concetti informatori del decreto legislativo Bonomi l’ufficio centrale del senato non elevò obiezioni; ma gli spetta sicuramente il merito di averne notevolmente perfezionato l’applicazione. Le necessità dello spazio mi obbligano a passar sopra a punti importantissimi, come la definizione delle acque pubbliche, di cui il decreto legislativo discorreva, senza mai distinguerle dalle private, lo sveltimento della istruttoria delle domande di concessione ottenute mercé l’abolizione del duplicato prima richiesto per sancire la semplice ammissibilità ad istruttoria; gli opportuni freni posti a quella specie di manomorta idraulica che erano le riserve ferroviarie, mercé cui le ferrovie dello stato impedivano l’utilizzazione delle acque, in vista di un ipotetico futuro fabbisogno ferroviario; la miglior disciplina dei sovracanoni attribuiti ai comuni ed alle provincie di origine, così da impedire che i consumatori della energia elettrica potessero essere sfruttati dagli abitanti della montagna in misura eccedente ogni legittima aspettativa di questi ecc. ecc.

 

 

Importa però notare come su taluni punti essenziali i miglioramenti proposti dall’ ufficio centrale del senato siano decisivi. Ne ricorderò tre:

 

 

  • la legge abrogata del 1884 era viziosa perché, tra più domande concorrenti preferiva sempre la prima presentata. Ma forse non meno vizioso è il decreto legislativo vigente perché, largheggiando nell’ammissione di nuove domande, favorisce il plagio di chi vien dopo e, sfruttando le fatiche di chi, in lungo tempo e con grave spesa, ha allestito un piano di derivazione, con poche varianti dà al suo progetto una più vasta portata e furbescamente riporta la vittoria nella gara. Quale ditta o società seria vorrebbe mettersi allo sbaraglio di continui ricatti di concorrenti senza scrupoli? L’ufficio centrale propone che al progetto prima pubblicato non si dia pubblicità, ma solo se ne fornisca sommaria notizia sulla «Gazzetta ufficiale»; e si accettino come concorrenti solo le domande presentate entro i trenta giorni dalla avvenuta notizia sulla «Gazzetta ufficiale», salvo ad ammettere quelle ulteriori domande tardive che il ministro, su parere conforme del Consiglio superiore delle acque, giudicasse di speciale e prevalente vantaggio pubblico. Inoltre, a maggiore garanzia dei primi richiedenti, la domanda di questi e preferita quando essi si obblighino ad attuare la più vasta utilizzazione portata da domande successive;

 

  • la legge abrogata del 1884 concedeva le acque per periodi successivi di 30 anni, in realtà in perpetuo. Era troppo. Il decreto legislativo del 1916 fissò la durata massima della concessione in 50 anni per tutte le derivazioni ad uso di forza motrice, ed in 70 per quelle ad uso di acqua potabile, per irrigazione o bonifica. L’ufficio centrale del senato distingue le piccole dalle grandi derivazioni e per queste lasciando invariata la durata a 70 per le opere di acqua potabile, irrigazione e bonifica, l’allunga a 60 anni quando si tratti di derivazioni ad uso di forza motrice, ma, come già si disse sopra, lascia sussistere il regime antico delle rinnovazioni ad ogni 30 anni per le piccole derivazioni. Per queste, trattandosi di cosa di poco momento per l’interesse collettivo, opportunamente lascia in facoltà l’amministrazione di rinnovare la concessione all’antico concessionario. Per le grandi derivazioni invece, l’impianto, con tutte le opere di raccolta, di regolazione e di derivazione cade, dopo 60 o 70 anni, senza alcun compenso, in possesso dello stato. Lo stato avrà altresì il diritto di immettersi in possesso di ogni altro edificio, macchinario, impianto di utilizzazione, di trasformazione e di distribuzione inerente alla concessione. Questo è un punto, che aveva sollevato forti e fondate critiche, quando comparve il decreto legislativo del 1916. Come è possibile distinguere gli edifici ed i macchinari inerenti alla concessione venuta a scadenza da quelli relativi ad altre concessioni, ancora in vigore e spettanti allo stesso concessionario? Questi non verrà ad essere ingiustamente privo del mezzo di mantenere in esercizio gli altri impianti? L’ufficio centrale del senato opportunamente volle perciò che lo stato debba dare un preavviso di tre anni qualora intenda entrare in possesso di edifici e macchinari non facenti parte della derivazione, ma solo utili al suo sfruttamento.

 

 

Per le utenze vigenti in base alla legge del 1884 il concessionario ha diritto sei mesi prima della scadenza normale della concessione di chiedere la rinnovazione. In tal caso la concessione sarà prorogata sino al 31 gennaio 1977 ovvero sino al 31 gennaio 1987 ossia fino ad un limite massimo di 60 o 70 anni dal primo febbraio 1917 (giorno dell’ entrata in vigore del decreto legislativo) a seconda che trattisi dell’una o dell’altra specie di grandi derivazioni. Lo stesso criterio è adottato per le grandi derivazioni godute per titolo legittimo o per possesso trentennale;

 

 

  • all’unico tribunale delle acque istituito in Roma ed a cui avrebbero dovuto far capo in prima ed ultima istanza le controversie relative alle acque pubbliche, l’ufficio centrale del senato, dando ascolto alle fondate querele di chi temeva un eccessivo accentramento nella trattazione di cause anche di lieve momento, sostituì un doppio ordine di magistrati: otto tribunali delle acque funzionanti presso le corti d’appello di Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Cagliari per le decisioni di primo grado, ed un tribunale superiore delle acque pubbliche in Roma giudicante in grado d’appello per tutte le cause decise dai tribunali di primo grado ed in primo ed ultimo grado in casi particolari determinati dalla legge. Ambi i tribunali decidono con l’intervento di una maggioranza di magistrati ordinari d’appello o di cassazione e di una minoranza di tecnici.

 

 

L’indole di un articolo di giornale vieta di fare un esame critico particolareggiato del decreto oggi in esame dinanzi al senato. Ma una osservazione fondamentale non si può tralasciare: sarebbe una illusione grandissima l’immaginare che il sistema escogitato dal legislatore di guerra e perfezionato dall’ufficio centrale del senato possa raggiungere tutti gli scopi che lodevolmente esso si propone. Dubbia mi pare sovratutto la possibilità di costituire sul serio gratuitamente per il 1977 e per il 1987 quel grande demanio idraulico che è l’aspirazione massima del decreto.

 

 

Non che astrattamente, sulla carta, i conti non tornino. Il concessionario di un’acqua pubblica che ha speso 10 milioni negli impianti per la produzione di forza motrice, deve consegnarli nel 1977, se la concessione era anteriore al primo febbraio 1917 o dopo 60 anni, se la data della concessione è posteriore, allo stato in condizione di regolare funzionamento (articolo 12). Lo stato entrerà dunque in possesso degli impianti valutati in 10 milioni e dell’acqua che probabilmente varrà allora assai per l’aumento della popolazione e le svariate e ricche possibilità di utilizzazione. Supponiamo che l’acqua valga allora altri 10 milioni, in tutto 20. Moltiplichiamo 20 per il gran numero di utenze che giungeranno alla scadenza ed avremo la visione di un demanio idraulico del valore di miliardi di lire che arricchirà lo stato e gli permetterà di conseguire grandiosi fini pubblici.

 

 

Si attuerà la visione grandiosa? Nulla ci autorizza a dare una risposta affermativa. Od almeno nel decreto quasi nulla è contenuto che renda probabile l’avverarsi della ipotesi favorevole. Il legislatore, il quale ha pure dettato 89 articoli di legge, quasi non ha ritenuto che il successo dell’ operazione di indemaniamento delle acque pubbliche dipenderà tutto dallo stato in cui si troveranno gli impianti alla fine della concessione. È facile dire: 10 milioni valore dell’acqua più 10 milioni valore degli impianti, totale so milioni entranti alla fine dei 60 o 70 anni gratuitamente nel patrimonio dello stato. Ma nulla nella legge garantisce che a quella data il conto torni. Chi avrà interesse a far sì che gli impianti alla fine dei 60 o 70 anni valgano precisamente 10 milioni? Non certo il concessionario, il quale a mano a mano che si avvicinerà il termine fatale della scadenza della non rinnovabile concessione si asterrà da qualsiasi nuova non urgentissima ed improrogabile spesa, da qualsiasi miglioramento, da qualsiasi rinnovazione, che pur sarebbe imposta dalla tecnica perfezionata di quei tempi. A che pro incorrere in tutte queste spese senza compenso? A soddisfare il quaderno di oneri, basterà che egli mantenga gli impianti in stato di regolare funzionamento. Sono le uniche parole in proposito contenute nel decreto, e sono parole che non dicono quasi nulla. Si può nel 1977 consegnare un impianto funzionante regolarmente secondo i metodi del 1917; che saranno probabilmente allora metodi antiquati e costosissimi. Quell’impianto non varrà 10 milioni, ma forsanco persino avrà un valore negativo di 10 milioni e coll’inciampo della sua esistenza neutralizzerà il valore dell’acqua, supposto di altrettanti milioni. Lo stato entrerà gratuitamente in possesso di zero.

 

 

Non dico che questo debba essere il caso più frequente. Dico che sarebbe una stoltezza immaginare che il sistema del decreto basti da solo a garantirci un grande, effettivo demanio idraulico. Quel sistema, delle concessioni a termine fisso, appartiene ad un genere oramai antiquato. È singolare che oggi in Italia si sia ricorso, come ad una grande novità, ad un metodo che in Inghilterra e negli Stati uniti si considera oramai superato, perché incapace a risolvere il quesito essenziale: cosa avranno interesse a fare i concessionari negli ultimi 10 o 20 anni della concessione? Il metodo adottato risolve il quesito così: i concessionari avranno interesse a lasciare deteriorare gli impianti, ed a consegnarli ad un valore tendente a zero.

 

 

Negli Stati uniti il quesito è stato oggetto di discussioni larghissime (vedile riassunte da Renzo Norso: Il contratto nei pubblici servizi e le «Public Service Commissions» americane, in «La riforma sociale» del 1913; né si può dire che una soluzione sicura sia stata raggiunta. Ma tra il metodo americano del porsi il problema, sperimentare le varie soluzioni ed andar cercando quella migliore, la quale tuteli l’interesse pubblico, incitando i concessionari alla efficienza anche nell’ultimo periodo ed il metodo del legislatore italiano, di ignorare persino l’esistenza del problema e di illudersi che basti fissare un termine qualunque, corto o lungo, per procacciare ricchezze strepitose allo stato, c’è un abisso. Il decreto del 1916, migliorato dal senato, è un passo innanzi; ma un primo passo soltanto. Il problema di preparare sul serio allo stato un demanio idraulico realmente esistente è stato a mala pena posto con quel decreto. Né si può sperare che il legislatore, privo di esperienza, lo possa oggi risolvere con un altro decreto legislativo o con qualche improvvisato articolo inserito nel progetto in discussione dinanzi al senato. Per ottenere soluzioni adeguate all’importanza del problema bisognerà che il nuovo consiglio superiore delle acque studi a lungo. Tra le sue funzioni questa, taciuta nella legge, di riparare al difetto essenziale del nuovo sistema, è senza dubbio la primissima. Giova sperare che esso sappia trasformare in un successo vero quello che oggi nulla impedisce possa diventare un grande e dolorosissimo insuccesso, persino in confronto al sistema sino ad oggi vigente.

 

 

Per la imminente mietitura

Per la imminente mietitura

«Corriere della Sera», 20 maggio 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 671-674

 

 

Vi è un problema urgentissimo di cui forse la gravità non è compiutamente sentita dall’opinione pubblica. Occorre insistere sul problema, che è quello della mietitura. Fra poco nel mezzogiorno d’Italia, prima nella Sicilia e poi nelle Puglie, comincerà il raccolto dell’orzo; ed a breve distanza seguiranno la mietitura dell’avena e quella del grano. A S. Pietro, il 29 giugno, la mietitura del grano dovrà essere terminata nel mezzogiorno e si inizierà nell’alta Italia. I raccolti si annunciano buoni e talora ottimi; nelle regioni meridionali ha piovuto ed i grani sono venuti su rigogliosi. Una stretta di caldo, alcune giornate di vento favonio possono ancora impedire la granitura ed il raccolto può ancora andar perduto. Ma v’è speranza che la fortuna ci protegga e che gli sforzi dell’ uomo, che mai furono così fervidi come in quest’anno agrario, siano coronati dal successo.

 

 

Potremo mietere tutto, potremo portare nei granai le messi, che ci auguriamo feconde di granella? Ottenere un buon raccolto, mieterlo a tempo, ricoverare nei granai l’orzo, l’avena, il frumento: ecco i problemi più urgenti del momento presente. Subito dopo converrà pensare alle nuove semine, fissare una politica di prezzi che incoraggi il coltivatore, provvedere ad una politica di imposte che spinga agli investimenti agricoli. Ma ora urge provvedere prima d’ ogni altra cosa: mietere. Di lì dipende la resistenza del paese in guerra nell’anno cerealicolo entrante; dal mietere bene e portare nei granai frumento asciutto dipende la saldatura pronta del nuovo raccolto coi vecchi approvvigionamenti, dipende la possibilità di sospendere alcuni giorni prima i trasporti del grano da oltre Atlantico e di dedicare alcuni giorni prima le navi lasciate libere ai pure urgentissimi trasporti del carbone. Sono problemi imponenti, alla cui buona soluzione sono connesse la vita del paese e la resistenza al nemico; e tutti si concentrano, come in un unico foco, in quello della mietitura.

 

 

Ora la mietitura può essere compromessa e ritardata per la mancanza di taluno degli anelli intermedi nella catena delle necessarie operazioni tecniche. Voglio accennare a tre soli punti: lo spago, i meccanici, i mietitori.

 

 

Senza spago non si legano i covoni dei cereali mietuti a macchina. Un recentissimo comunicato del ministero d’agricoltura assicura che lo spago esiste. È in viaggio. Sbarcherà in tempo. Il governo ha già provveduto a monopolizzarlo ed a ripartirlo a prezzo equo ai cerealicultori. Speriamo che i fatti si svolgano conformemente alle previsioni. Frattanto persone autorevolissime mi hanno assicurato che tra gli agricoltori vi è gran malcontento, specie tra quelli che erano stati previdenti ed avevano fatto in tempo opportuni ammassi di spago. Per fare una ripartizione equa fra tutti, il governo in talune plaghe agricole ha cominciato a requisire lo spago acquistato dai previdenti. Dopo si compirà la ripartizione equa. Ma sarà fatta in tempo? Perché non incoraggiare, aspettando che lo spago manilla giunga d’oltre Atlantico, le fabbriche paesane, di cui parecchie sono inoperose, a produrre spago con la massima intensità? Industriali, che dicono di essere in grado di far spago con un po’ di juta e con molta paglia di riso, affermano di non poter lavorare perché la paglia di riso è requisita dal governo, il quale per ora però non la utilizza tutta. Manca anche qualche altro ingrediente, necessario alla trasformazione della paglia in filati. Perché non si tolgono, con rapidità telegrafica, queste difficoltà?

 

 

Dove si miete a macchina, la mietitura è in gran parte connessa con la presenza sul posto di meccanici pronti a riparare immediatamente le macchine mietitrici e legatrici, soggette a svariatissime cagioni di guasti e di arresti. Meccanici sono anche necessari per riparare i guasti delle locomobili e delle trebbiatrici. Occorrono all’uopo in tutta Italia forse una dozzina di migliaia di meccanici e non sempre si trovano sul posto. Specialmente nelle plaghe specializzate nella grande cultura cerealicola, la Sicilia, le Puglie, il Ferrarese, importa organizzare squadre di meccanici e metterle al servizio delle macchine, le quali altrimenti sarebbe stato inutile aver fornito. Il gerente della società agricola Cella, un giovane ardimentoso, di quelli che hanno l’argento vivo addosso ed oggi intende con tutte le sue forze e col plauso dei pugliesi a rimettere in valore ed in cultura la grande tenuta dei duchi di La Rochefaucault di Cerignola, famosissima un tempo negli annali della viticultura italiana e poi per disgraziate vicende lasciata in abbandono, come tant’altre tenute meridionali, e da lui acquistata e così fatta ritornare in mani italiane, mi diceva: «Perché non inviare nelle maggiori plaghe cerealicole d’Italia e d’urgenza squadre di quei meccanici esonerati che oggi hanno scarso lavoro nelle fabbriche del nord d’ Italia? Per ragioni diverse fra le quali i deficienti arrivi di carbon fossile, non tutti gli esonerati hanno nelle fabbriche lavoro in tutti i giorni della settimana. Perché non prelevare di lì squadre di meccanici ed inviarle per tutto il periodo della mietitura dove l’opera loro sarebbe utilissima? In fondo, essi continuerebbero a produrre munizioni, poiché quanto più presto e bene sarà compiuto il raccolto, tanto più presto sarà possibile liberare tonnellaggio per il trasporto del carbone ed intensificare quindi nuovamente la produzione delle munizioni». A me parve che il Cella ragionasse benissimo, e registro il suo consiglio, che dovrebbe però essere attuato senza ritardo, se si vuole che la attuazione sia tempestiva.

 

 

Insieme coi meccanici, i mietitori. L’on. Maury, un pugliese appartenente ad una famiglia che vanta benemerenze grandi verso l’agricoltura italiana, esponendomi le risultanze di sue indagini statistiche intorno ai seminativi della Capitanata mi diceva: «Anche nella regione pugliese, pur così adatta alla mietitura meccanica, bisogna essere pronti a dover mietere estese plaghe a mano. L’allettamento del frumento, possibili guasti alle macchine ed altre circostanze possono far sì che la mano d’opera locale non sia in qualche regione d’Italia sufficiente. Le licenze agricole ai soldati hanno fatto dappertutto cattiva prova. Non vale indagarne le ragioni varie e complesse. Basti accertare l’esperienza degli agricoltori pratici, di tutte le parti d’Italia, la quale conclude che le licenze individuali a nulla servono. Fa d’uopo invece organizzare squadre volanti di territoriali anziani, che ora stanno nei presidi a compiere lavori o servizi di secondaria importanza, che si possono sospendere provvisoriamente, ora che si deve pensare a provvedere il pane ai soldati ed ai cittadini. I soldati sarebbero felici di cooperare a mettere in salvo il raccolto. Muniti di falci, di tende, di cucine da campo, essi potrebbero trasferirsi dovunque se ne senta il bisogno, attendarsi sui luoghi stessi del lavoro e via via risalire dalla Sicilia e dalle Puglie verso le regioni più settentrionali ed ascendere nella stessa regione dalla pianura al colle ed alla montagna. È questione di organizzazione e di rapide e efficaci intese tra i ministri di agricoltura e della guerra».

 

 

Ho voluto riferire su questi soli tre punti: spago, meccanici e mietitori, il parere di tecnici, di pratici dell’agricoltura. Altri punti meriterebbero di essere illustrati. A ragione il Lanzillo chiede sul «Popolo d’Italia» se non sarebbe meglio rimandare alle loro case i soldati contadini convalescenti che ora languono e si annoiano a migliaia negli ospedali militari. La convalescenza trascorsa in casa, in aperta campagna sarebbe assai più rapida per il malato e meno costosa per l’erario. Costoro non mieterebbero; ma libererebbero lavoro di congiunti sani, che ora è sottratto ai lavori dei campi dalle indispensabili cure della casa e della stalla, a cui anche un convalescente può attendere. Sembrano piccole cose; ma meritano attenta considerazione. Importa sovratutto che i capi veggano l’importanza del problema; concretino le modalità di soluzione e sappiano far agire con prontezza la macchina statale, con accordi volonterosi con gli agricoltori.

 

 

Le spese della guerra sino al 31 marzo 1918

Le spese della guerra sino al 31 marzo 1918

«Corriere della Sera», 11 maggio 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 667-670

 

 

Il conto del tesoro al 31 marzo 1918 dà agio di riassumere i dati principali relativi al costo della guerra fino a quest’ultima data. Per avere un’idea del costo finanziario per la stato fa d’uopo non fermarsi ai bilanci militari, ma aver riguardo all’insieme delle spese pubbliche, le quali in tutti i ministeri rimasero sconvolte dal fatto grandioso della guerra. Ed anche così precisato il problema, è quasi impossibile rispondere alla domanda: che cosa si è speso di più per causa della guerra? Poiché non è possibile sceverare nelle maggiori spese quelle che si sarebbero dovute fare ugualmente, anche se la guerra europea non fosse scoppiata, o se, pur accesasi questa, l’Italia fosse rimasta neutrale. Bisogna contentarsi di rispondere alla domanda: che cosa si è spesa di più di quanto si spese nell’ esercizio anteriore alla guerra? Non tutta questo dippiù è spesa bellica; poiché probabilmente i bilanci della spesa sarebbero cresciuti dopo il primo agosto 1914, così come avevano l’abitudine di crescere prima; ma è l’approssimazione migliore che si abbia alla conoscenza della spesa bellica.

 

 

Fatta questa avvertenza, ecco uno specchietto il quale indica, per ognuno dei ministeri e in milioni di lire, quanto si spese, nei singoli periodi indicati, di più della spesa verificatasi nell’ultimo esercizio di pace 1913-14:

 

 

Ministeri Esercizio 1914-15 Esercizio 1915-16 Esercizio 1916-17 9 mesi dal 1° luglio1917 al 31 marzo 1918 Totale maggiori spese
Tesoro

96,2

266,9

878,3

3207,8

4449,2

Assistenza e pensioni di guerra

0,8

0,8

Finanze

23,5

14,5

99,5

148,6

286,1

Grazia e giustizia

2,0

0,8

-1,2

-8,6

-7

Affari esteri

– 2,2

9,1

54,1

102,4

163,4

Colonie

169,7

237,2

149,5

143,5

699,9

Istruzione pubblica

13,0

12,3

28,4

70,2

123,9

Interno

17,1

– 0,6

– 16,0

13

13,5

Lavori pubblici

68,6

34,5

– 21,5

– 52,3

29,3

Poste e telegrafi

18,1

24,8

26,5

18,9

88,3

Guerra armi e munizioni

1993,6

6978,6

12636,1

11013,9

32622,2

Marina

313,8

365,2

455,9

423,2

1558,1

Agricoltura, industria, commercio e lavoro

– 5,7

– 5,8

– 7,7

– 0,6

– 19,8

Trasporti

625,7

192,9

818,6

Totale

2707,7

7937,6

14907,6

15273,7

40826,6

 

 

Vi sono alcuni ministeri, albo signandi lapillo, i quali si distinguono per avere in uno o in un altro esercizio speso di meno che negli anni di pace; ma due soli hanno avuto una costanza degna di nota in questa buona abitudine: il ministero di grazia e giustizia ed il doppio ministero dell’economia nazionale (agricoltura ed industria, commercio e lavoro). Per quest’ultimo è da temere tuttavia che l’economia sia solo apparente, ove alcune grosse spese per approvvigionamenti, coltivazioni agricole, ecc. siano state iscritte in qualche conto corrente separato col tesoro.

 

 

Tutti gli altri ministeri hanno dato luogo ad una spesa maggiore di guerra. Tra i ministeri non militari viene in testa il ministero del tesoro, a cagione dell’onere crescente del servizio del debito pubblico. Vuolsi però notare che dei 4 miliardi e 449,2 milioni di maggiori spese, almeno 1 miliardo e mezzo sono apparenti, essendo dovuti al rimborso di titoli pubblici incassati in conto sottoscrizione Il quarto prestito nazionale del 1917. E di altrettanto riducesi la cifra totale della maggior spesa bellica. i maggiori divoratori civili di denaro furono le colonie ed i trasporti; ma trattasi di spesa avente carattere militare a cagione delle operazioni di guerra nella Libia e di perdite nei trasporti di approvvigionamenti e materiali bellici. Come è naturale, lo sforzo massimo si fece dai due ministeri militari; ma la guerra terrestre costò più di venti volte la guerra navale.

 

 

Il totale della spesa eccedente quella di pace fu di 40,8 miliardi, o meglio di 39,3, ove si tenga conto dell’avvertenza fatta sopra del carattere figurativo di 1 miliardo e mezzo di maggior spesa del ministero del tesoro. Quanti di questi 39,3 miliardi sono in realtà dovuti alla guerra italiana? Non lo sappiamo, perché non si sa di quanto sarebbero aumentate le spese ove fosse durata la pace od ove, scoppiata la guerra, l’Italia avesse durato nella neutralità. In questa seconda ipotesi, è difficile credere che il nostro paese avrebbe potuto far a meno di spendere forse un 200-300 milioni di lire al mese per difendere la neutralità, provvedere agli approvvigionamenti, ecc. La Svizzera spende proporzionatamente di più. Se facciamo questa ipotesi, almeno 9,3 miliardi dei 40 sarebbero stati spesi ugualmente; e la guerra italiana per se medesima sarebbe costata nei 34 mesi dalla fine maggio 1915 alla fine marzo 1918 circa 30 miliardi di lire. Il che non significa che l’Italia abbia perso 30 o 39,3 miliardi di lire, la perdita dell’economia nazionale non coincidendo affatto con la spesa dello stato. Ma basti aver rilevato la differenza, ché il discuterla porterebbe troppo per le lunghe.

 

 

Se noi facciamo le medie mensili della maggior spesa nei successivi periodi, detraendo il già detto miliardo e mezzo dall’ultimo periodo, otteniamo le seguenti cifre:

 

 

1914-15 Spesa media mensile 225,6 milioni
1915-16 661,4
1916-17 1242,3
1917-18 1530,4

 

 

È un crescendo continuo, determinato dal rialzo vertiginoso dei prezzi, dall’aumento del numero dei combattenti e dal maggior consumo di mezzi bellici.

 

 

Negli ultimi due mesi, per i soli ministeri militari la maggior spesa, in confronto ai corrispondenti mesi del 1914 fu:

 

 

Febbraio, milioni di lire 1166,7
Marzo 1563,0

 

 

Ove si tenga conto delle maggiori spese degli altri ministeri, è mia impressione che noi andiamo verso una spesa bellica di 1 miliardo e 800 milioni di lire al mese. Alla fine del 1918 la maggior spesa bellica, direttamente od indirettamente determinata dalla guerra, è probabile batta sui 55 miliardi di lire. Questi indici finanziari – negli altri paesi seguono lo stesso andamento – sembrano dire che si va verso la stretta finale. Lo sforzo tende a diventare intensissimo. Più urgente che mai diventa perciò il dovere di tutti di risparmiare, ridurre i consumi al minimo possibile per dare allo stato i mezzi con cui condurre la guerra ad una fine che sia onorevole per il nostro paese.

 

 

Il problema della carne

Il problema della carne

«Corriere della Sera», 5 maggio 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 660-666

 

 

Il recente decreto – il quale attribuisce allo stato l’approvvigionamento carneo della popolazione civile, affidando l’incetta degli animali bovini alle commissioni d’incetta già esistenti per l’esercito e la ripartizione al commissario generale per i consumi, ai prefetti ed ai sindaci, proibisce la vendita delle carni dalle ore 13 del martedì al mattino del sabato, vieta la macellazione di animali non forniti ai macellai dal sindaco ed incarica le giunte comunali di fissare il prezzo massimo per la vendita al pubblico – è l’indice di una situazione oramai divenuta grave e richiedente provvedimenti immediati riparatori.

 

 

Il provvedimento, il quale era già meditato da tempo, secondo le dichiarazioni dell’on. Crespi alla camera e fu emanato, sembra, dopo pressanti richieste di qualche sindaco di grandi città di frenare la corsa vertiginosa all’aumento nel prezzo delle carni al minuto, è frutto di un pensiero contradittorio: ed è assai dubbio possa risolvere un problema il quale si presenta, a chiunque lo mediti serenamente, irto di formidabili difficoltà. Prezzi moderati e diminuzione di consumo sono due fatti i quali si escludono a vicenda, ove non si proceda ad un tesseramento rigoroso, con assegni minimi di consumo a persona, tesseramento che per parecchi motivi, i quali saranno accennati sotto, si deve praticamente escludere per le carni. Ho cominciato a parlare della necessità di ridurre i consumi e di aumentare il prezzo quando a quasi tutti pareva naturale di seguitare a consumare come prima. Oggi che, almeno a parole, la necessità della riduzione dei consumi è entrata nella coscienza di tutti, temo si debba riconoscere che si è, per taluni generi, cominciato troppo tardi a fare economia e che, essendo oramai il male irreparabile, l’economia debba essere spinta a limiti durissimi, che forse sarebbero stati evitabili, ove si fosse usata previggenza fin da principio.

 

 

Certamente i prezzi delle carni sono divenuti fantastici: da 8 a 14 lire il chilogrammo al minuto; da 400 a 700 lire al quintale i buoi a peso vivo. Un paio di buoi da lavoro costa da 5.000 ad 8.000 lire, a seconda del peso; una vaccina fresca di latte si paga da 2.000 a 3.000 lire. Che cosa significhino questi prezzi, è agevole immaginare quando si ricordino i tempi in cui un paio di buoi si poteva acquistare con 1.200 lire ed una vacca valeva 400 lire. Per il piccolo ed il medio proprietario – ed in Italia la grande proprietà è un’eccezione – l’acquisto dei buoi da lavoro diventa una preoccupazione finanziaria non piccola; il prezzo altissimo spinge a farne uso assai discreto, per paura di malattie e di depauperamento di un capitale così prezioso. Come si concilia l’altissimo prezzo dei buoi da lavoro con i consigli e gli ordini di aumentare la superficie seminata? I trattori possono giovare in talune piaghe pianeggianti, a superficie unita, senza alberatura; ma sarebbe un’illusione sperarne molto nei terreni a proprietà divisa, alberati, con siepi e fossi e canali e capezzagne, che sono la gran maggioranza. Con le vacche da latte e da allevamento salite a 2-3.000 lire, quanto verranno a costare il latte, il burro, il formaggio, la carne?

 

 

Sovratutto, i latticini e le carni in quale misura saranno disponibili nel prossimo avvenire? L’aumento dei prezzi non è, come immaginano molti, il puro frutto della speculazione. Contro di questa si può fare la voce grossa sui giornali ed in parlamento; ma la verità si è che gli speculatori operano nel senso indicato di cause da essi non determinate. Vendono al ribasso, quando la merce deve ribassare, accaparrano, come si dice comunemente, quando la merce deve aumentare per cause indipendenti da essi. Gli speculatori possono accelerare un movimento di rialzo, far sì che si giunga da 5 a 10 in un minor numero di giorni o di mesi, ma non possono spingere in definitiva, salvo qualche punta occasionale, i prezzi al disopra di quel livello a cui sarebbero naturalmente giunti. Se lo facessero, vi sarebbero altri speculatori, in senso inverso, i quali nel proprio interesse farebbero pagare loro il fio dell’errore commesso. Se non vi sono cause effettive l’aumento dei prezzi non può durare.

 

 

Ci sono e quali sono cause effettive di aumento nel prezzo delle carni? Ricordiamo che il prezzo di una qualunque cosa, e quindi anche delle carni, è un rapporto fra una certa quantità di una merce ed una certa quantità di moneta. Se vi sono sul mercato molti chilogrammi di carne e poca moneta, la carne varrà 4 lire al chilogrammo (1 chilogrammo di carne = 4 dischetti di argento, a cui si dà il nome di 1 lira l’uno). Se invece sul mercato vi sono pochi chilogrammi di carne e molta moneta, la carne varrà 10 lire al chilogrammo (1 chilogrammo di carne = 10 buoni di cassa da 1 lira, ognuno dei quali sostituisce nel nome e nell’ufficio gli antichi dischetti d’argento). Non ci sono speculatori, né decreti, né calmieri che valgano ad impedire che il rapporto finisca di essere di 1 chilogrammo a 10 lire, se la carne è scarsa e la carta-moneta è abbondante.

 

 

Ora, precisamente questo è accaduto durante la guerra. Non mi diffonderò sulle note cifre dell’aumento della carta-moneta in circolazione in Italia: da 4 miliardi e 200 milioni nel luglio 1915 eravamo giunti ad 8 miliardi e 200 milioni nell’ottobre 1917. Probabilmente oggi abbiamo superato, e non di poco, i 10 miliardi. Si può discutere sulle cifre, ponderare l’efficacia della carta-moneta cresciuta sui prezzi. Ma un fatto è, all’ingrosso, indisputabile: che la carta-moneta che la gente ha in tasca è in media notevolmente cresciuta; persino gli impiegati ricevono dal 30 al 10% di più di stipendio, e fanno domanda di merce con una massa maggiore di moneta. Anche se la carne esistente fosse rimasta invariata in quantità, i prezzi avrebbero avuto la tendenza a salire, per la domanda maggiore di carne da parte dei consumatori. Estraggo alcune cifre da assai documentati articoli pubblicati sul «Sole» del 16, 20 e 21 aprile.

 

 

Prima della guerra il consumo totale in Italia si ragguagliava a 2 milioni di capi all’anno. Nel suo discorso del 4 marzo al senato, l’on. Crespi valutò il consumo dell’esercito a 540.000 capi nel 1916 ed a 780.000 nel 1917. Quanto al consumo attuale, il ministro della guerra lo valutò recentemente in senato a 78.000 capì in dicembre, 98.000 in gennaio, 88.000 in febbraio e 116.000 in marzo. Si spera di ridurre il consumo a 70.000-100.000 capi al mese, a seconda del quantitativo di carne congelata, che si potrà fare arrivare dall’estero. Il consumo è però sempre altissimo: circa milione di quintali in ragione d’anno. Nel frattempo, la popolazione civile non ha cessato di consumare carne.

 

 

Taluni dati ufficiali calcolerebbero il consumo medio annuo a 900.000 capi; ed i nuovi provvedimenti farebbero sperare di ridurre il consumo al 30% della quantità ante-bellica. Ma è lecito dubitare della attendibilità delle cifre ufficiali di consumo. A Milano, i capi macellati scemarono dal 1915 al 1917 soltanto da 90.836 a 62.139, e, quel che è più significativo, il peso scemò appena da 269.603 a 248.781 quintali, perché si ammazzarono meno vitelli giovani e più buoi grossi. La mattazione clandestina dovette prendere gran voga nel 1917 e nel 1918; e non mai come in questi ultimi tempi furono frequenti i traumi violenti, i quali condussero a morte improvvisa, e quindi al consumo forzato, gli animali bovini.

 

 

Contro ad una cresciuta offerta di carta-moneta, e ad un consumo non diminuito e forse cresciuto di carne, come si comportano le esistenze di bestiame? In attesa dei risultati del censimento in corso – ed è opinione diffusa tra i competenti che le cifre così ottenute non saranno attendibili – fa d’uopo ricorrere al censimento del 1908, il quale aveva dato un’esistenza di 6.200.000 capi di bestiame grosso (1.276.346 buoi e manzi, 128.583 tori da monta, 3.403.377 vacche e giovenche, 1.390.555 vitelli e vitelle sotto l’anno). Suppongono i tecnici di questo ramo che al momento dell’entrata in guerra dell’Italia (fine maggio 1915) il patrimonio totale nostro in bovini fosse cresciuto a 7.200.000 capi.

 

 

Per mantenere intatto questo patrimonio zootecnico sarebbe stato necessario ridurre subito violentemente il consumo della popolazione civile al 30% di quello ordinario e cioè a 600.000 capi all’anno, sì da lasciare un margine per il consumo dell’esercito e per una capitalizzazione maggiore del solito. Oggi, che il consumo dell’esercito è notevolmente cresciuto, si potrebbe seguitare a dare 50.000 capi alla popolazione civile, consumando in tutto circa 2 milioni di capi all’anno. Sarebbe, ora, qualcosa di più dell’incremento naturale del bestiame bovino, che si calcolava in 1.200.000 capi, ed oggi deve essere notevolmente minore per lo sfollamento delle stalle; ma forse si consumerebbe solo il maggior risparmio del 1915 e del 1916.

 

 

Invece nel 1915, nel 1916 e nel 1917 nulla si risparmiò sull’incremento naturale; anzi si intaccò per cifre notevoli il capitale bestiame iniziale. Ogni diminuzione del bestiame riproduttore implica una diminuzione negli allevamenti, sicché l’incremento naturale scema, ed il capitale si intacca sempre più. A dirla in breve, evitando troppi conteggi, le stime del capitale bestiame esistente probabilmente alla fine del 1918 variano, secondo i periti, da 1 a 5 milioni di capi e parecchi reputano esagerata anche la cifra dei 4 milioni di capi. Come si può pretendere che con una esistenza di bestiame bovino che si avvia alla metà di quella ante-bellica e con mezzi di acquisto (carta-moneta) quasi triplicati, quel tale rapporto fra chilogrammi di carne e lire di carta-moneta non sia variato?

 

 

Ma il danno più grosso non sta nell’aumento de! prezzi. Oramai bisogna riflettere a ben altro:

 

 

  • che, se il consumo continua nella presente misura, ben presto giungerà il giorno che il latte delle poche vacche residue dovrà essere tutto impiegato per gli indispensabili allevamenti. In quel giorno mancherà in modo assoluto il latte per il consumo umano; burro e formaggio scompariranno. Pare a me che questi danni siano assai più gravi di una ulteriore riduzione del consumo della carne;
  • il patrimonio zootecnico del paese sarà gravemente intaccato. Come compiere i lavori agricoli necessari per produrre il grano, il granoturco e gli altri cereali indispensabili alla vita con un numero troppo ridotto di buoi da lavoro?
  • come ristabilire nel dopo guerra il patrimonio zootecnico, in quella corsa inevitabile all’accaparramento delle materie prime e degli strumenti da lavoro, tra cui importantissimi gli animali da lavoro, che si sferrerà fra tutti i paesi belligeranti?

 

 

Urge dunque provvedere. I calmieri ed i tesseramenti a poco servono. La tessera del pane e dello zucchero è possibile, perché si tratta di merci abbastanza uniformi. Ma la carne è di tante qualità diverse! Peggio, la tessera della carne farebbe aumentare il consumo. Già si verificò l’inconveniente per lo zucchero, che oggi viene acquistato da molti che prima non vi pensavano affatto. Una tessera di 100 grammi di carne alla settimana a persona darebbe porzioni invisibili per coloro che oggi mangiano carne e sembrerebbe scarsa anche a quelli che non la consumano ora e subito acquisterebbero tutta la quantità assegnata, non fosse altro che per rivenderla. Eppure, 100 grammi alla settimana equivalgono a 5,2 chilogrammi all’anno, il che, moltiplicato per 32 milioni di civili, è uguale a chilogrammi 166.400.000 di carne all’anno. Supponendo che il peso medio degli animali incettandi sia di 300 chilogrammi e che la resa sia del 50%, per ottenere quella massa di carne macellata, occorrono 1.200.000 capi di bestiame all’ anno. Aumentiamo pure il peso medio, diminuiamo il numero delle persone aventi diritto alla tessera, è chiaro che una tessera di 100 grammi alla settimana difficilmente darebbe luogo ad un consumo minore di 600.000 capi. Il consumo sarebbe oggi troppo superiore al possibile e le lagnanze salirebbero ai sette cieli.

 

 

Perciò non vedo altri provvedimenti efficaci fuor dei seguenti:

 

 

  • Ridurre ancora di più il consumo della carne per la popolazione civile. Vi devono essere due soli giorni con carne alla settimana. Invece che dalle 13 del martedì la vendita delle carni deve essere proibita dalle ore 13 della domenica alle prime ore del sabato, così che si possa comprare carne solo il sabato e la domenica od in altri due giorni consecutivi per settimana. Eccezioni si facciano soltanto per gli ospedali ed i malati e siano rigidamente fatte osservare. Meglio rinunciare per cinque giorni su sette alla carne che al latte, al burro ed al formaggio. Meglio rinunciare tutti, che i soli poveri, e gli impiegati salariati e redditieri con poco reddito. Meglio i soli sani oggi, che dopo, coi sani, anche i malati.
  • Intensificare le importazioni di carni congelate dall’estero per uso dell’esercito. Il ministro della guerra spera di riuscire ad importare 12.000 tonnellate di carni congelate al mese. Auguriamolo, affinché si possa ovviare al pericolo di vedere depauperarsi troppo il patrimonio zootecnico italiano.
  • Sorvegliare attentamente, specie nei piccoli borghi e nelle campagne, la macellazione clandestina e le ingegnose maniere di condurre a morte il bestiame bovino.

 

 

Ed i sindaci la smettano di far gite a Roma per chiedere aumenti e conservazioni del contingente carneo e moderazioni di prezzi, ossia alimenti del consumo.

 

 

Per i danneggiati delle provincie invase

Per i danneggiati delle provincie invase

«Corriere della Sera», 24 aprile 1918[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 655-659

 

 

Dopo l’invasione nemica nelle provincie friulane e venete si è cominciata ad agitare sulle riviste e sui giornali italiani una questione che in Francia è pervenuta già alla fase legislativa: quella dell’indennizzo ai danneggiati dalle operazioni belliche nelle provincie invase. Studi del Carnelutti, del Funaioli, dello Zani, del Marchetti, del Carrara, del Cessi ecc. si sono aggiunti in Italia a quelli dello Jacquelin, dello Jeze, del Bellet, del Larnaude che in Francia furono dedicati all’argomento. A nome di una commissione nominata dall `on. Luzzatti, in qualità di alto commissario per i profughi di guerra ha dettato una relazione assai ben ragionata il senatore Vittorio Polacco, la quale può considerarsi come la trama su cui potrà essere tessuto quel disegno di legge sui risarcimenti dei danni di guerra che l’attuale presidente del consiglio dei ministri ha con commossa parola promesso alla camera e che non dovrebbe tardare ad essere presentato.

 

 

Assai si discute nella dottrina intorno alla ragione del risarcimento ai danneggiati dalla guerra; e mentre gli uni vorrebbero dare al risarcimento un carattere politico, di solidarietà collettiva, altri ritengono non trattarsi di un soccorso, bensì di un vero diritto al risarcimento. Non entrerò in siffatta spinosa questione di principio; soltanto accennerò come, sia per un crescente consenso dell’opinione collettiva sia per le conseguenze le quali se ne ricavano, paia preferibile partire dalla premessa del diritto anziché del soccorso. Non si saprebbe invero vedere nessuna sostanziale differenza fra il danno ai beni ed alle persone subito da un cittadino appartenente alle provincie invase ed il danno o peso delle imposte stabilite in occasione della presente guerra per condurre la lotta contro il nemico. Per raggiungere il fine comune il governo sancì 1 miliardo e mezzo di nuovi tributi all’anno. Essi gravano su tutti i cittadini, i quali si trovino in determinate circostanze di reddito, o di consumi, o di affari. Sarebbe stato assurdo – e se si fosse commesso l’errore, questo avrebbe provocato la rivolta unanime della coscienza giuridica dei cittadini – che quel miliardo e mezzo si fosse imposto solo sugli abitanti del Veneto o della Sicilia o della Sardegna. Potrà darsi che, se in una provincia non v’è nessuno che di fatto abbia lucrato sovraprofitti di guerra, quella provincia di fatto non sia tocca dalla relativa imposta. Ma, in principio, anche quella imposta; come tutte le imposte, è universale. Una imposta regionale o di classe sarebbe odiosa e condannabile.

 

 

Ora che altro è, economicamente e finanziariamente, il danno subito dalle regioni invase per fatto delle operazioni belliche se non una imposta forzata che un dato gruppo di cittadini ha dovuto sopportare nell’interesse della collettività? Come Tizio vede decurtato di 20 lire il suo reddito di 100 per sopperire alle spese della guerra, così Caio vede distrutta la sua casa, guaste le piantagioni, lesa la integrità della persona durante ed a causa delle operazioni belliche le quali sono la conseguenza della guerra ed il mezzo con cui si vuole raggiungere il fine della redenzione dei confini naturali dell’Italia. Perché Caio, oltre all’aver pagato come Tizio la sua quota delle imposte di guerra, deve subire il danno particolare della distruzione della sua casa, che vale 20000 lire, ovvero della perdita, in seguito a ferita, della metà della sua capacità di lavoro o di guadagno? Questi danni, alle persone ed ai beni, sono stati la conseguenza, o l’accompagnamento fatale della condotta della guerra. E poiché questa non era intesa a procacciare un vantaggio od un beneficio che fosse particolare a Caio ma un beneficio ideale, politico e morale, per tutta la collettività, così sulla intiera collettività devono ripartirsi i danni subiti dai privati. Non le provincie venete in modo particolare, ma tutte le provincie italiane debbono ripartirsi tra di loro il carico delle conseguenze della condotta della guerra. Non v’è ragione che taluno debba perdere il 100% del proprio patrimonio o del proprio reddito di lavoro, mentre i più pagano solo un tributo equivalente al 20% del patrimonio o del reddito. Ragione di uguaglianza vuole che tutti siano trattati alla stessa stregua e tutti sopportino un gravame del 22 o del 25%.

 

 

Non so in quale degli istituti giuridici esistenti si possa far entrare il principio del risarcimento dei danni di guerra, ma so per certo che l’ingegnosità dei giuristi è siffatta che essi riusciranno a dare una collocazione ed una figura adeguata al nuovo istituto. Ciò che conta è che il legislatore riconosca il diritto al risarcimento e non sancisca soltanto la speranza di una elemosina.

 

 

Numerose e sottili e gravi questioni sorgono naturalmente quando si voglia tradurre il principio in un testo legislativo preciso. Non tutti i danni di guerra, ad esempio, sono risarcibili. Il mancato raccolto, il guadagno non potuto realizzare, in generale il lucro cessante non è oggetto passibile di risarcimento, non già perché il danno relativo non sia vero e reale; ma perché è di quasi impossibile accertamento. Quanti abusi e quante pretese ingorde si avrebbero, se lo stato promettesse di indennizzare anche la speranza di un reddito o guadagno futuro! Occorre che il danno sia materiale, e recato alle cose od alle persone. Quanto alle cose, in Francia lungamente si discusse se al proprietario della casetta bombardata, dell’edificio o magazzino distrutto si dovesse imporre oppur no l’obbligo della ricostruzione nell’identica località. Parve bene limitarsi ad incoraggiare, con una maggiore larghezza nel calcolo dell’indennizzo, colui il quale riedifica nello stesso luogo, in confronto di colui il quale non riedifica affatto o ricostruisce in una località lontana dall’ originaria. Il Polacco cita l’esempio di una differenza fra 34000 lire concesse a chi riedificò in luogo e 10000 lire a chi non riedifica affatto, differenza giustificata dalla circostanza che per il primo si fanno detrazioni minori a titolo di vetustà e si tiene maggior conto del costo cresciuto della ricostruzione in confronto al costo ante-bellico. Il metodo francese appare abbastanza ragionevole: non si può da un lato imporre l’obbligo assoluto della ricostruzione, anche nei casi in cui questa sarebbe anti-economica ed evidente è la convenienza di non ricostruire o di ricostruire altrove o il danneggiato non ha la qualità per condurre l’opificio distrutto, mentre può meglio utilizzare l’indennizzo ricevuto in altra maniera; e d’altro lato voglionsi incoraggiare tutti gli sforzi per ridonare l’antico rigoglio economico alle regioni devastate dall’ invasione.

 

 

Quale indennizzo si dovrà dare per le conseguenze di morte o di invalidità derivante da fatto di guerra? Due sistemi si contendono il campo: o l’indennizzo proporzionato al danno effettivo che la morte o l’invalidità arrecò alla famiglia colpita, ovvero l’indennizzo uguale per tutti. Il primo metodo è più conforme al principio dell’uguaglianza fra danno sofferto ed indennizzo; ma è più incerto e forse arbitrario per la necessità di fare indagini sulla capacità di guadagno del danneggiato, diversa da persona a persona, da professione a professione. Il secondo è più sicuro, più simile a quello inaugurato dal ministro Nitti per le assicurazioni combattenti (tra cui si distinguono tuttavia i soldati dai sottufficiali e dagli ufficiali); sebbene tale da far assegnare un indennizzo persino per la perdita di chi economicamente era un peso e non un sostegno per i familiari superstiti.

 

 

Su tutti questi e su altri molti punti – a cagion d’esempio del problema dei titoli al portatore e di quelli del momento a cui fare risalire la valutazione del danno, dell’organo incaricato della valutazione, degli enti aventi diritto all’indennizzo, ecc. ecc. – che qui per brevità non discuto, si diffondono gli autori citati, e per una trattazione sobria e chiara rinvio alla già mentovata relazione Polacco. Il legislatore ha dinanzi a sé già compiuto in notevole parte il lavoro preparatorio. Importa ora si faccia presto ed il disegno di legge sia sollecitamente presentato al parlamento. L’Austria tenta di esercitare un’azione deprimente sull’animo dei soldati appartenenti alle regioni venete, facendo credere ad un trattamento largo ed umano verso i loro parenti rimasti in terre invase. Frattanto il soldato, l’ufficiale, il profugo è torturato dal pensiero dei beni forse irreparabilmente distrutti e non ode venire dal governo e dal parlamento una voce che lo affidi sicuramente di un risarcimento per il danno subito. Importa che l’impressione di dimenticanza ed il timore di disuguale trattamento non fruttifichino nel cuore dei profughi. Essi sono pronti a subire, con gli altri italiani ed alla pari di essi, tutti i sacrifici richiesti dalla causa comune. Primi, gli italiani delle altre provincie devono avere l’orgoglio di sostenere anch’ essi la dovuta parte nel danno particolare sopportato dai concittadini delle provincie invase. È un dovere ed è un onore.

 

 



[1] Con il titolo Per i danneggiati delle provincie invase. La questione dell’indennizzo. [ndr]

I primi risultati dell’imposta sui sovraprofitti e la soluzione del problema finanziario della guerra

I primi risultati dell’imposta sui sovraprofitti e la soluzione del problema finanziario della guerra

«Corriere della Sera», 5 aprile 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 648-654

 

 

Quella cifra dei 338,5 milioni di provento dell’imposta di sovraprofitti, invece dei 50 preventivati, che ho già avuto occasione di commentare, merita di essere ulteriormente meditata, non tanto in sé, quanto per le conseguenze che se ne possono ricavare rispetto all’esatto accertamento dei redditi. Come arnese di vero rendimento fiscale, non sono mai stato entusiasta dell’imposta sui sovraprofitti di guerra. Se i prezzi furono aumentati dai fornitori dello stato in ragione appunto di questa imposta, quale valore effettivo ha essa per il tesoro? Il suo vero valore sta altrove: nella possibilità che si è data, per la prima volta, ai funzionari delle imposte di frugare nei registri delle società e dei privati e di far saltare fuori il vero. La facoltà di vedere i libri esisteva già prima, per le società anonime; ma non dappertutto se ne faceva uso, per mancanza di tempo e di personale. L’intensificazione odierna permise di ottenere risultati notevolissimi. Ecco un quadro significativo che ho compilato sui dati ufficiali contenuti nelle relazioni della direzione generale delle imposte dirette ed in comunicati del ministero delle finanze:

 

 

1. Regioni 2. Redditi netti accertati nel 1913 a carico dell’ industria e del commercio (milioni di lire) 3. Proventi dell’imposta e sovrimposta di guerra sui sovraprofitti per il periodo dal 1° agosto 1914 al 31 dicembre 1915 (milioni di lire ) 4. Proporzione percentuale del tributo di guerra (col. 3) al reddito accertato nel 1913  (col. 4)  
Liguria

80,5

70,8

97

Piemonte

159,6

86,1

63

Campania e Molise

47,9

17,9

50

Lombardia

819,2

28,6

29

Veneto

87,4

22,6

25

Sicilia

28,0

7,2

25

Emilia

54,1

7,9

23

Puglie

23,6

3,4

22

Romagna

53,8

5,8

16

Toscana

72,5

12,1

16

Abruzzi

6,2

1,0

16

Marche

12,5

1,7

13

Umbria

19,0

1,3

13

Sardegna

8,0

0,5

6

Lazio

93,0

5,3

6

Basilicata

3,0

0,1

4

Calabria

6,5

0,2

4

Totale

1007,0

338,5

34

 

 

Affinché le cifre sovra riportate non siano soggette ad erronee interpretazioni, come accade frequentemente per le statistiche tributarie, fa d’ uopo tenere presenti parecchie circostanze:

 

 

  • Le cifre della colonna 2 sono quelle dei redditi netti (non imponibili) accertati nel 1913, ossia dai redditi quali erano conosciuti dal fisco prima della guerra; e si riferiscono ai soli industriali e commercianti, sia privati, come società anonime od altri enti collettivi (categoria B dell’imposta di ricchezza mobile).
  • Le cifre della colonna 3 si riferiscono invece all’imposta di guerra pagata da quei soli commercianti ed industriali che nel primo periodo di guerra, 1914-15, ebbero un sovraprofitto, ossia un aumento di reddito in confronto agli ultimi anni di pace. Le cifre non sono esattamente comparabili, perché si riferiscono a gruppi di persone parzialmente diverse. Si aggiunga, a scemare la comparabilità, che tra i contribuenti all’imposta di guerra (colonna 3) sono compresi anche gli intermediari; che invece non compaiono tra gli industriali e commercianti della colonna 2, appartenendo essi ad un’altra categoria (C) dell’imposta di ricchezza mobile.
  • I proventi dell’imposta sui sovraprofitti (colonna 3) si riferiscono ai ruoli delle prime tre serie e dovranno perciò essere ancora integrati con gli ultimi ruoli relativi alle partite tuttora in contestazione. L’integrazione potrà dar luogo a risultati differenti da regione a regione e compensare in parte le variazioni che tra l’una e

l’altra oggi si riscontrano.

 

 

  • 4) Malgrado queste imperfezioni, il paragone istituito mi sembra il solo praticamente possibile. Ogni altro paragone avrebbe cagionato errori ancora maggiori; né quelli contenuti nel paragone da me fatto sembrano tali da infirmare le conclusioni che cercherò di trarne con la maggiore prudenza possibile.

 

 

Che cosa ci dice il rapporto percentuale tra l’imposta di guerra pagata per il 1914-15 ed il reddito netto accertato per il 1913 (colonna 4)? Esso è un semplice indice. Se gli accertamenti dei redditi ordinari (1913) e dei sovraprofitti di guerra (1914-15) fossero stati fatti in tutte le regioni italiane con uguale esattezza, quel rapporto sarebbe l’indice approssimativo della misura rispettiva in cui l’industria ed il commercio delle varie regioni hanno ricevuto vantaggio dalla guerra. Poiché il Lazio e la Sardegna pagarono amendue a titolo di imposta sui sovraprofitti il 6% del reddito che avevano nel 1913, ciò vorrebbe dire, se gli accertamenti fossero stati in amendue le regioni compiuti ugualmente bene od ugualmente male, che i profitti di guerra ammontarono all’identica proporzione dei redditi che esistevano in pace. Naturalmente il Lazio, essendo più ricco fin da prima, ottenne una massa totale di profitti di guerra maggiore della Sardegna; ma la proporzione dei profitti di guerra ai redditi preesistenti sarebbe stata suppergiù la stessa.

 

 

La conclusione non sarebbe però giustificata per parecchi motivi:

 

 

  • È probabile che nelle regioni in cui più forte è la percentuale del tributo di guerra al reddito di pace, il tributo di guerra abbia colpito anche riserve accumulate nel tempo di pace e non mai state prima scoperte. Sono contrario, per ragioni altra volta qui spiegate e nell’interesse della finanza, alla tassazione delle riserve; ma, finché la legge vigente le tassa, conviene farla applicare per tutti i contribuenti.
  • È probabile che, almeno nelle regioni dell’alta Italia, la diversità di rendimento percentuale si spieghi col fatto che non dappertutto i redditi ordinari erano in pace accertati con uguale precisione. Se due contribuenti avevano ugual reddito nel 1913 di 10.000 lire, ma l’uno era stato accertato per 6.000 lire e l’altro per 4.000; e poi si scopre che nel 1914-15 il reddito fu di 15.000 lire, il profitto di guerra, pur essendo uguale per amendue a 5.000 lire, apparirà per il primo in 9.000 lire e per il secondo in 11.000 lire, e l’imposta di guerra, supponiamo del 50%, sarà di 4.500 lire per il primo (75% del reddito di pace) e di 5.500 lire per il secondo (137,50%, del reddito di pace). E cioè la pressione dell’imposta di guerra, in confronto coi redditi di pace, sembrerà maggiore per il secondo contribuente solo perché costui era stato più dolcemente, ossia ingiustamente, trattato in pace e non già perché abbia lucrato di più.
  • È tuttavia probabile che, in parte almeno, il diverso rendimento proporzionale derivi dalla circostanza che l’applicazione dell’imposta sui sovraprofitti fu in talune regioni più rigida che in altre. La minore percentuale della Lombardia in confronto al Piemonte ed alla Liguria si spiega probabilmente in notevole parte con la circostanza che, già in tempo di pace, il contribuente lombardo, per impressione diffusa nei funzionari delle imposte, era il meno litigioso ed il più corrivo fra i contribuenti nostrani. Essendo quindi in pace i redditi suoi già più approssimati al vero è ragionevole che l’imposta di guerra non costituisca una percentuale sul reddito di pace così alta come quella che si vede in Liguria e Piemonte. Con la quale osservazione non si vuole escludere che in Liguria e in Piemonte gli espertissimi funzionari incaricati di scoprire i sovraprofitti di guerra abbiano ficcato il viso più in fondo ed abbiano scoperto profitti bellici e riserve antiche in quantità maggiori che altrove. Una certa minore severità pare non si possa escludere per qualche regione. È possibile invero che nel Lazio, ossia nella regione dove sta la capitale del regno, dove su 93 milioni di redditi accertati nel 1913, ben 61 milioni spettavano ad enti collettivi, ossia a società anonime, dove vive e prospera una folla di intermediari di forniture e di contratti con lo stato, si siano davvero prodotti appena tanti sovraprofitti di guerra quanti in proporzione si ebbero nella povera Sardegna, poco più della Basilicata e della Calabria, meno della metà dell’Umbria e delle Marche, quasi un terzo solo degli Abruzzi, ossia assai meno di regioni prevalentemente agricole? Vien voglia di chiedere: si e guardato dentro ai bilanci delle società anonime, si sono rovistati, come altrove si fece nei libri inventari, nei mastri, nei copialettere delle società e dei privati? Pongo le domande e non mi attento a rispondere.

 

 

Dopo tutto, le sperequazioni, che forse si possono riscontrare nell’applicazione dell’imposta sui sovraprofitti, danno bene a sperare. Quel che si fece in talune regioni da un piccolo numero di esperti funzionari per accertare i redditi veri, sia in tempo di pace, sia nella presente circostanza straordinaria, prova che, volendo, si può dappertutto giungere a risultati stupendi. Le discrepanze che lo specchio mette in luce provano che:

 

 

  • quando i redditi normali saranno dappertutto tassati con la medesima severità;
  • quando gli uffici avranno i mezzi, l’autorità ed il personale per snidare redditi, scoprire falsi ammortamenti, dividendi ripartiti e non denunciati, riserve occulte;
  • quando i contribuenti non saranno più organizzati, attraverso alle inframmettenze e compiacenze elettorali, per frodare la finanza; quando i meridionali non vivranno più sotto l’impressione – in complesso erronea, come lo specchietto dimostra all’evidenza – che i settentrionali sfuggano alle imposte sui lucri di guerra e d’altro canto i settentrionali non sentiranno più raccontare giocondamente dai funzionari delle imposte le astuzie a cui taluni proprietari di case nel mezzogiorno ricorrono per frodare la finanza, conniventi talvolta persino gli inquilini pubblici funzionari fiscali; quando la parità di trattamento esisterà fra tutti, in quel giorno il tesoro, senza inasprire le aliquote, incasserà centinaia di milioni. E gran parte del problema finanziario della guerra sarà risoluto.

 

 

Frattanto, ad accelerare l’avvento di quel giorno, l’on. Meda, il quale si è dimostrato parecchie volte capace di ritornare sulla legislazione sua o dei suoi predecessori con notevoli miglioramenti – e di ciò fa testimonianza, fra l’altro, l’abolizione opportunissima del diritto del 5% sugli affitti e la sua sostituzione con un inasprimento dell’imposta sui fabbricati – potrebbe decidersi ad una innovazione feconda: dar facoltà ai contribuenti di dimostrare che il loro reddito ordinario era nel 1913-14 superiore a quello concordato ed accertato nei ruoli di quegli anni. Naturalmente la dimostrazione dovrebbe essere seria e controllata dalle agenzie delle imposte. I vantaggi sarebbero due:

 

 

  • I contribuenti non risentirebbero più l’ingiustizia di pagare l’imposta sui sovraprofitti su un reddito che ottenevano già in pace e che oggi figura come profitto di guerra solo per la tenuità antica degli accertamenti, dovuta, come osservai, a colpa comune dei contribuenti, della finanza e delle commissioni amministrative. Per evitare una perdita di proventi già acquisiti per la finanza, si potrebbe stabilire che il nuovo reddito ordinario dovrebbe servire di base agli accertamenti dei sovraredditi di guerra solo a partire dal primo gennaio 1918. Per gli esercizi dal primo agosto 1914 al 31 dicembre 1917 quel che è stato è stato. I contribuenti avranno pagato su un sovraprofitto di guerra maggiore del vero; ma sia questa considerata come una non immeritata multa per la parte che essi ebbero in passato nel determinare cifre di reddito inferiori al vero. Il principio dominante in questa materia deve essere: amnistia per il passato e rigidità per l’avvenire.
  • La finanza potrebbe fare assegnamento per l’avvenire e per la tassazione con l’imposta normale di ricchezza mobile su un reddito ordinario maggiore di quello finora accertato. L’imposta sui sovraprofitti passa e dà un provento in gran parte illusorio. Quella che veramente conta è l’imposta di ricchezza mobile che resterà e continuerà a dare redditi cospicui in avvenire. Importa facilitare ai contribuenti il passaggio dai vecchi sistemi ante-bellici, in cui si tassava per concordati, senza esame dei libri, su cifre medie ed inferiori al vero, al nuovo sistema post-bellico, in cui si dovrà tassare su cifre vere, con esame dei libri, senza concordati. Poiché il punto critico di ogni riforma tributaria è sempre stato – in Italia ed all’estero – il passaggio dal vecchio al nuovo, l’on Meda si renderebbe veramente benemerito del paese se pigliasse questa occasione, che non ritornerà forse più, per interessare i contribuenti a cooperare volontieri colla finanza all’accertamento del vero.

 

 

Leggi tributarie giuste e funzionari scelti

Leggi tributarie giuste e funzionari scelti

«Corriere della Sera», 3 aprile 1918

Il buongoverno. Saggi di economia e politica, Laterza, Bari, 1954, pp. 3-9

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 641-647

 

 

La applicazione della imposta sui sovraprofitti di guerra ha messo in nuova luce i rapporti fra contribuenti e finanza. Erano preventivati 50 milioni di lire di provento dall’imposta per il periodo dal primo agosto 1914 al 31 dicembre 1915; ed invece se ne ricavarono 338,5 per i ruoli delle tre prime serie. Il che vuol dire che qualche altra decina di milioni si potrà ricavare, quando siano chiuse le contestazioni in corso per partite rilevanti. Dell’insperato risultato parecchie furono le cagioni:

 

 

  • l’ammontare dei profitti di guerra maggiore di quello previsto
  • le istruzioni ministeriali più recise di quanto non si usasse per la ordinaria imposta di ricchezza mobile
  • e sovratutto i poteri investigativi concessi dai decreti ai funzionari delle imposte e lo zelo veramente encomiabile con cui i funzionari procedettero alla scoperta della verità attraverso ad ostacoli spesse volte grandissimi.

 

 

Non può escludersi che talvolta qualche eccesso di zelo siasi verificato; e che i redditi presunti, nei casi dubbi, dalle agenzie delle imposte non siano stati in qualche caso valutati in cifra superiore al vero. Ma è questo un fatale retaggio del sistema finora invalso, per l’imposta di ricchezza mobile, di non investigare il reddito effettivo del contribuente, ma un reddito approssimativo medio, presunto a seconda di criteri arbitrari e variabili e sempre più o meno lontano dal vero. Una volta messi sulla china del reddito medio (media di quattro anni) e presunto (per paragone con altri contribuenti) non si sa dove si va a finire. Si oscura il criterio dell’equa ripartizione dell’imposta. Nessun contribuente crede di dover pagare sul suo vero reddito, che egli conosce. Egli, ed i funzionari e le commissioni delle imposte dirette ritengono naturalissimo e giusto il reclamo di colui che non si lagna di essere tassato su 10.000 lire perché questa cifra sia superiore al reddito vero – che può essere notoriamente, persino per confessione del contribuente, di 15.000 lire – ma perché il collega, il concorrente, che guadagna la stessa somma, è tassato per 5.000 lire. E così si produce il caos, in cui, a furia di paragoni, si smarrisce il senso della realtà e neppure i paragoni risultano tollerabilmente equi. Dal caos non si è usciti, in Inghilterra, in Germania, in Svizzera, dappertutto, se non in una sola maniera: abbandonando il metodo delle presunzioni, delle medie, dei paragoni, ed attenendosi alla realtà od a dati oggettivi e certi. Come bene osserva un memoriale del Simoncini, vice-presidente della Associazione nazionale dei funzionari delle imposte dirette, vi sono due sole maniere per accertare tollerabilmente i redditi:

 

 

  • la dichiarazione particolareggiata dei proventi lordi e delle spese fatte dal contribuente, con gravi sanzioni, applicate sul serio e non condonabili per nessuna ragione dall’autorità governativa, per le omesse od infedeli denunzie: dichiarazione riferita a dati periodi, trascorsi, di tempo e controllabili con la visione dei libri, documenti, copialettere, ecc. ecc.;
  • la presunzione in base a dati fissi, stabiliti con studi accurati, da commissioni tecniche, tenendo conto degli affitti pagati, degli operai occupati, della potenzialità delle macchine, del giro degli affari, per gli industriali ed i commercianti; e delle spese di famiglia (appartamenti, persone di servizio, villeggiatura, mobilio, ecc.) per i professionisti. Altrimenti si cade nell’arbitrio, per cui vanno famosi i ruoli dell’ imposta di ricchezza mobile, i cui dati, per ammissione concorde della finanza e dei contribuenti, tutto significano, fuorché la verità.

 

 

La prima condizione, però, affinché la verità si conosca è che le leggi di imposta rispondano al senso universale di giustizia. Le leggi italiane sono spesso ottime; e fra tutte, quelle di imposta sui redditi di ricchezza mobile, contiene disposizioni lodevoli. Chiede, ad esempio, dichiarazioni di reddito ai contribuenti e commina sanzioni ai negligenti o frodatori. Ma chi applica le norme scritte? Per quieto vivere, per non aver noie dai partiti politici, si lascia correre da decenni. Epperciò in Italia, appena qualcuno tenta di fare sul serio, tutti si stupiscono di dovere pagare l’imposta.

 

 

Ancor adesso, dopo un anno e più dai primi accertamenti vi è chi, avendo denunciato e concordato un reddito di 10.000 lire per il 1913-14, ed avendo accettato per il 1915 e 1916 un reddito di 30.000 lire, si stupisce d’essere tassato sulla differenza di 20.000 lire, considerata reddito di guerra. E dice: Ma io guadagnavo già 30.000 lire nel 1913-14! In verità la finanza ha fatto al contribuente un brutto scherzo, prendendo per oro colato l’accertamento vecchio del 1913-14, che era inferiore al vero, per acquiescenza generale e quindi per colpa anche della finanza.

 

 

La sorpresa è alquanto diminuita dal fatto che l’accertamento del reddito ordinario per il biennio 1913-14 viene portato, ove sia inferiore, almeno all’8% del capitale investito. Tutto sommato, però, considerare come guadagno di guerra tutta la differenza fra 30.000 e 10.000 lire, solo perché nel 1913-14 si accertò un reddito di 10.000 lire, anche quando si può dimostrare, in modo irrefragabile, che esso era già in pace di 30.000 lire, è un brutto scherzo. I funzionari, che lo giocano, non ne hanno colpa, perché applicano la legge, chiarissima su tal punto. È la legge la quale non è conforme ad equità. Se gli accertamenti inferiori al vero fossero stati dovuti esclusivamente a frode dei contribuenti, costoro sarebbero ripagati soltanto di buona moneta. Invece essi erano bassi altresì per acquiescenza della finanza, per consuetudine invalsa, per universale tacito accordo dei contribuenti, della finanza, delle commissioni giudicatrici. Giovarsi di tale stato di fatto per giocare ai contribuenti il tiro mancino di considerare come profitto di guerra e tassare con le altissime aliquote relative, spiegabili solo per i profitti bellici, quello che invece è in realtà un reddito di pace, è un volere esasperare i contribuenti ed indurli ad opporre la frode all’ingiustizia. Sarebbe lo stesso errore se, ad un tratto, gli operai, i quali in Italia non pagano, salvo trascurabili minoranze, l’imposta di ricchezza mobile, a cui pure sono dalla legge vigente assoggettati, fossero chiamati a pagarla non solo per l’anno in corso, ma anche per i due anni antecedenti, come la legge dà diritto di fare al fisco. Equità vorrebbe che si avvertissero prima gli operai che si vuole, d’or innanzi, applicare la legge ancora ignorata, ed ignorata per colpa massimamente della finanza.

 

 

Poche settimane fa mi accadde di leggere su un giornale socialista la protesta di un operaio, il quale grandemente si stupiva di essere stato chiamato dal comune a pagare l’imposta di famiglia; né lo stupore era provocato dal fatto che egli non possedesse un reddito (salario suo e degli altri membri della famiglia) superiore al minimo esente, ma dall’essere un operaio stato invitato a pagare imposte; come se le imposte fossero in Italia dovute solo dai borghesi!

 

 

L’operaio ragionava male, ma era stato incoraggiato al falso ragionamento dalla tacita condiscendenza della finanza, la quale, riconoscendo l’enormità di far pagare l’imposta ai redditi di lavoro appena superino le 640 lire all’anno – mentre il minimo esente dovrebbe essere innalzato almeno a 1.200 lire – se la cava ignorando la legge anche per coloro i quali guadagnano 10 lire al giorno e 3.000 lire all’anno, mentre rigidamente la applica a poveri diavoli di bidelli e di pensionati, provvisti di reddito ben minore. Contrariamente a quanto opinano distinti funzionari delle imposte, io sono convinto che l’evasione delle imposte sia grande non solo in alto, ma anche in basso e per cifre assolutamente e relativamente non minori. È un brutto segno sentire gli esecutori della legge parlare di evasione fiscale solo per i redditi «pingui» dei milionari. La evasione va combattuta per tutti con uguale energia; partendo, s’intende, dalla base corretta di esentare i piccoli, di tassare poco i mediocri e di più i grossi contribuenti.

 

 

In ogni modo, e verso tutti, se una buona volta ci decideremo ad intraprendere la lotta contro l’evasione, converrà non giocare di astuzia contro i contribuenti, non pigliarli di sorpresa, come troppo sovente si è fatto sin qui. Piena amnistia per il passato, per le omissioni di cui ambe le parti sono responsabili e forse è sovratutto responsabile la finanza, a cui era ed è affidato il compito di far osservare la legge; e rigidità per l’avvenire. I tiri mancini fruttano una volta sola e poi diventano sterili; mentre l’amnistia per il passato e la rigidità per l’avvenire danno frutti permanenti. Né si citino precedenti. Il legislatore italiano, ossia i funzionari i quali scrivono le relazioni ai disegni di legge, per pigrizia intellettuale credono di avere risoluto ogni problema quando hanno citato due o tre precedenti dello sproposito che vogliono commettere. Così ieri per difendere il decreto di tassazione dei canoni enfiteutici, invece di giustificarlo con motivi razionali impresa per verità assurda – sono andati a rivangare la legge giugno 1874, la quale si era resa colpevole del medesimo reato di doppia tassazione per i censi, le decime, i livelli ed i redditi simili. Come se l’aver commesso, sotto l’assillo del bisogno, una ingiustizia tant’anni fa sia un buon motivo per ripeterla oggi! Così, in tema di sorprese ai contribuenti, è rimasto famoso il tiro giocato tanti anni fa agli investiti di benefici ecclesiastici quando il loro patrimonio immobiliare fu convertito sulla base delle denuncie anteriormente fatte ai fini dell’ imposta di manomorta. Bruttissimo e non imitabile precedente. Tollerare il male, consentirvi, trasformarlo in usanza universale e pacifica e poi saltare addosso inopinatamente a chi segue l’uso comune è doppiamente brutto: per la tolleranza del male in primo luogo e per l’inonesto profitto che in seguito se ne vuol ricavare.

 

 

Le leggi d’imposta debbono essere, sostanzialmente e non solo formalmente, diritte ed oneste. Solo a questa condizione possono riscuotere l’ubbidienza volonterosa dei cittadini.

 

 

Sovratutto quando si chiede molto per una causa santa, importa essere scrupolosamente onesti nel chiedere. Nuoce chiedere il 10% in modo sperequato; ma nuoce a mille doppi chieder il 60 o il 70%, come si fa coi profitti di guerra, anche ai redditi che con la guerra non hanno nulla a che fare. Aliquote così forti debbono chiedersi a tutti e soli i profitti di guerra; poiché l’impressione dell’ingiustizia, nociva sempre, è vieppiù dannosa in tempo di guerra.

 

 

Occorrono dunque leggi semplici, perequate, senza trabocchetti ed inflessibili. Ma qualunque legge, anche ottima, a nulla gioverà se ad applicarla non sia chiamato un corpo di funzionari colto, indipendente, ben pagato, sussidiato da una giusta magistratura tributaria. L’on. Meda ha già operato bene accogliendo alcuni dei più ragionevoli desideri dei suoi funzionari. Ma occorre andare più in là. Quei funzionari i quali accertarono per il 1914-15 una imposta di guerra di ben 338,5 milioni, invece dei 50 previsti, hanno stipendi miserabili, da 2.000 a 6.000 lire lorde, insufficienti a mantenere il decoro necessario in confronto di contribuenti a cui applicano talvolta i milioni di lire di imposte in un solo accertamento. Pochissimi hanno la speranza di giungere alle 8.000 o 9.000 lire lorde. Ciò che è peggio, nessuno può aspirare ad elevarsi nella carriera: le intendenze di finanza, i ministeri sono ad essi preclusi. Rimarranno per tutta la vita funzionari esecutivi, ossia secondari, dell’amministrazione. Ognuno di loro, pur essendo capace a far guadagnare allo stato centinaia di migliaia di lire in un accertamento ben fatto, non ha l’autorità di rimborsare 5 lire, male riscosse, ad un contribuente che si lamenta a ragione del torto fattogli. Occorrono, per ciò, pareri interminabili e passaggi di cartacce senza fine tra agenzie, intendenze e ministero. Talvolta essi devono perdere un tempo prezioso a copiare materialmente ruoli, che una signorina dattilografa copierebbe meglio e con spesa assai minore.

 

 

Perciò, non di rado, i meno forti se ne vanno; e con stipendi tripli o quadrupli passano alle dipendenze del contribuente, il quale si gioverà dell’opera loro per impiantare la sua contabilità in modo che la finanza non ci possa scoprire dentro il vero.

 

 

Tutto ciò non può durare. Dopo una scelta accurata per concorso, tra i provveduti di studi legali, commerciali, contabili, se occorre anche tecnici, ai funzionari delle imposte, come del resto agli altri funzionari dello stato deve essere affidato un compito ben determinato, con netta divisione del lavoro, con responsabilità personali precise. Non ci devono essere gerarchie intermedie ingombranti. Alle intendenze di finanza debbono essere riservati quei compiti in cui esse abbiano realmente qualcosa di proprio da fare; ma siano aboliti tutti gli uffici passacarte che servono solo a far perdere tempo agli interessati e ad umiliare i funzionari che hanno realmente compiuto il lavoro e si veggono qualificati di «esecutivi», quasiché ci fossero dei superimpiegati che possono «ordinare» senza avere mai «eseguito». Tutti i funzionari debbono essere sicuri di percorrere, quando facciano il proprio dovere, una carriera remuneratrice. Tutti debbono essere garantiti contro le inframmettenze del potere politico, dei deputati e delle autorità locali. Nei casi di contestazione fra contribuente e funzionario, deve istruirsi una vera procedura da un funzionario superiore e la contesa deve essere risoluta da un magistrato speciale, indipendente così dalle clientele elettorali come dalla finanza. I funzionari di concetto devono essere liberi da qualsiasi ufficio materiale di copiatura, di scritturazione, di addizioni e controlli di cifre, per dedicarsi all’unico intento di accertare i redditi nello speciale gruppo di industrie o di commerci o di professioni che loro è stato affidato. Chi si distingue in questa che è la vera grande arte tributaria, deve avere la speranza di dirigere il lavoro altrui nelle regioni più ricche e redditizie, di fissare i criteri comuni di apprezzamento dei redditi tra regione e regione, deve poter giungere ad impugnare il bastone di maresciallo di direttore generale delle imposte dirette. Dinanzi a funzionari colti ed indipendenti, anche i contribuenti, tutelati da magistrature imparziali, si troveranno più a loro agio. E la psicologia odierna, per cui tutti si stupiscono di dover pagare, si muterà nell’altra per cui tutti sentiranno il dovere di pagare.

 

 

L’offensiva dei cambi

L’offensiva dei cambi

«Corriere della Sera», 14 marzo 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 637-640

 

 

Oggi, che l’istituto nazionale dei cambi è entrato in funzione, uno dei fatti più degni di meditazione da parte sua dovrebbe essere il contrasto risultante dal seguente specchietto:

 

 

Perdita percentuale dei cambi sulla Svizzera

settembre 1917

febbraio 1918

Germania

– 47,5

– 28,4

Austria-Ungheria

– 60,5

– 44,2

Italia

-30,0

– 49,0

 

 

C’è di mezzo Caporetto contro l’Italia e le paci orientali a favore degli imperi centrali. Ma tutto ciò non basta a spiegare perché la perdita delle monete tedesca ed austriaca sia tanto diminuita, mentre quella della moneta italiana è tanto cresciuta. Non voglio ridiscutere la questione delle cause del rialzo del cambio. Una osservazione si può fare ed è che, lasciando da parte il fatto fondamentale dell’incremento della circolazione, il quale spiega il grosso del deprezzamento in generale, le variazioni nei rapporti reciproci tra i cambi austro-tedeschi e quelli italiani sono in parte dovute al fatto che le valute nemiche furono sapientemente manovrate, mentre i cambi italiani furono lasciati andare alla deriva. In uno degli ultimi numeri dell’«Economist» si leggeva una interessante descrizione della offensiva dei cambi intrapresa dalla Germania in Svizzera e culminata quasi nel tempo stesso in cui infuriava l’offensiva militare contro di noi. Vendite di titoli provinciali e comunali tedeschi in Svizzera, allo scopo di procurare cambi alla Germania; abile opera di persuasione esercitata sui creditori della Germania affine di far loro cambiare i crediti a breve scadenza con buoni a tre o cinque anni. Imposizioni fatte al governo svizzero affinché concedesse accreditamenti alla Germania per somme superiori ai bisogni di acquisto di merci della Germania in Svizzera, ecc. ecc.

 

 

Noi che cosa abbiamo fatto per migliorare la nostra posizione in confronto coi paesi nemici? Forse pochissimo si può fare in modo diretto: ma non v’è ragione perché nemmeno quel pochissimo non si voglia fare; e perché l’opinione pubblica dalle notizie dei giornali e dai comunicati ufficiali sia spinta a condannare atti che invece dovrebbero essere incoraggiati, se non lodati, come vantaggiosi al nostro paese.

 

 

Vi sono in Italia, e questo e il punto su cui importa insistere ancora una volta, nonostante che tutte le passate insistenze siano rimaste inutili, non pochi possessori di titoli nemici, specialmente di titoli di rendita e di buoni del tesoro austriaci ed ungheresi, acquistati prima dello scoppio della guerra. Certamente, i capitalisti i quali hanno comperato questi titoli hanno commesso un errore. Essi hanno due attenuanti al loro errore:

 

 

  • hanno acquistato il titolo quando l’Austria era nostra alleata e quando l’acquisto era lecito;
  • l’hanno acquistato quando i ministri italiani del tesoro si ostinavano ad emettere buoni del tesoro a saggi inferiori a quelli correnti in tutta Europa ed a mantenere la rendita 3,50% a prezzi esagerati, superiori a quelli vigenti in tutti i paesi finanziariamente più solidi del mondo; e, così facendo, spingevano i capitalisti nostrani a far emigrare i loro risparmi all’estero ed a fornire capitali a prestito anche a quegli stati che dovevano diventare poi nostri nemici.

 

 

Di chiunque sia la colpa del lamentevole fatto, è ora inutile lagnarsene: cosa fatta capo ha. L’Austria nel 1911, nel 1912, nel 1913 ha incassato le 1.000 lire ed i capitalisti italiani hanno ritirato il titolo di debito austriaco. Su ciò e impossibile tornar sopra.

 

 

Quale è ora, a norma del più elementare buon senso, l’interesse dell’Italia? Cercare in tutti i modi di farsi pagare dall’Austria gli interessi dei titoli di rendita che disgraziatamente noi possediamo, cercare di riscuotere l’importo dei buoni del tesoro che fossero giunti a scadenza. Se alcuni cittadini italiani riuscissero a farsi pagare 50 o 20 o 10 milioni dall’Austria incassando gli interessi ed il capitale dei titoli di essi posseduti, sarebbero 50 o 20 o 10 milioni che l’Austria dovrebbe pagare e l’Italia riscuotere. Per tanto, sia pure di poco, i cambi dovrebbero peggiorare a danno dell’Austria e migliorare a vantaggio dell’Italia.

 

 

Tanto è vero che da ciò l’Austria sarebbe danneggiata, che il governo austriaco non paga né interessi né capitali se non a coloro i quali possono provare di non essere italiani, e di possedere i titoli presentati fin da prima dello scoppio della guerra con l’Italia. Ed è evidentissimo perciò che il governo italiano ha un preciso, indubbio interesse contrario non solo a permettere, ma ad incoraggiare i cittadini suoi a sbarazzarsi dei titoli, ad incassare le cedole dei valori austriaci. Il mezzo a cui i cittadini italiani ricorreranno per raggiungere lo scopo non riguarda il nostro governo. Se vi sono dei neutrali, disposti, mediante provvigione, a comprare cedole e titoli austriaci dai nostri connazionali e ad incaricarsi della riscossione, la cosa non ci riguarda né punto né poco. Ciò che importa, dal punto di vista italiano, è di infliggere il massimo danno all’Austria; e riuscire a farsi pagare capitale ed interessi dei suoi titoli di debito è fuor di dubbio infliggerle un danno.

 

 

Invece …

 

 

Invece ciò che accade in Italia rasenta l’incredibile. Un giorno si legge sui giornali che alla frontiera si arresta un Tizio il quale tentava di esportare in Svizzera cedole di titoli nemici. Un altro giorno si legge un comunicato di colore ufficioso, il quale annuncia gravi pene contro coloro i quali negoziano titoli stranieri nemici. Ed è notorio che la censura militare impedisce l’invio all’estero di titoli nemici.

 

 

L’on. Nitti dovrebbe porre un termine a questo che è davvero il regno dell’incredibile. Come? Vi è un Tizio che, sia pure a scopo di lucro o per evitare una perdita maggiore, cerca di esigere 100.000 corone dall’Austria, di trasformarle in franchi svizzeri e questi poi in lire italiane; vi è un tale il quale cerca di far entrare denaro in Italia, il quale, nell’ambito delle sue forze, compie un atto che tende a migliorare i cambi a nostro favore ed a peggiorare quelli del nemico; e, invece di fare a costui ponti d’oro, deve proprio essere il governo italiano a mettergli bastoni fra le ruote? Dove proprio il governo italiano usare la finezza al governo austriaco di impedire che un creditore riesca a farsi pagare, coll’intermediario di compiacenti neutrali, i suoi crediti verso di esso? Se l’opinione pubblica scambia l’esportazione vantaggiosa dei titoli di stati nemici con l’esportazione dannosa dei cascami di seta utili a scopi bellici, la si deve illuminare, non mai seguire.

 

 

Non giungo fino a chiedere che l’istituto nazionale dei cambi si faccia esso promotore dell’ esportazione. Non già perché sarebbe mal fatto; ma unicamente perché ciò darebbe nell’occhio ai compiacenti neutrali, i quali sono pronti a rendere questo piccolo servigio ai privati italiani non forse ad un istituto di stato. Ma chiudere un occhio dinanzi ad una esportazione così utile, di carta nemica contro importazione di oro sonante, sì. Ma chiudere tutti e due gli occhi dinanzi alla mancanza del bollo su un titolo che fugge, sì. Mettasi per condizione agli agenti ed ai banchieri, che dovrebbero essere tacitamente autorizzati dall’ istituto ad incaricarsi della bisogna, di far rientrare in Italia altrettanta valuta svizzera. Aggiungasi – e sarebbe lo scherzo più elegante che all’ Austria si potesse fare – che la valuta introdotta in cambio in Italia debba essere reimpiegata in titoli del prestito nazionale. Si piglino, insomma, le necessarie guarentigie affinché il danno all’Austria sia inflitto sul serio. Ma curare poi, proprio noi, che all’Austria sia tolto il disturbo di dover pagare i suoi debiti ai cittadini italiani, è davvero uno sproposito troppo grosso.

 

 

Il programma per la pace di Wilson e la revisione dei nostri programmi doganali[1]

Il programma per la pace di Wilson e la revisione dei nostri programmi doganali[1]

«Corriere della Sera», 10 marzo 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 632-636

 

 

Il terzo dei capisaldi del programma del signor Wilson per la pace mondiale, nuovamente confermato nel messaggio del 12 febbraio, dice: «Soppressione per quanto sarà possibile di tutte le barriere economiche e creazione di condizioni commerciali eguali fra tutte le nazioni che consentiranno alla pace e si associeranno per mantenerla».

 

 

I commenti della stampa economica e finanziaria italiana su questo terzo punto del programma di Wilson si possono distinguere in due categorie. Gli uni hanno creduto opportuno di non darvi importanza, notando che si trattava di affermazioni dottrinarie, le quali non avevano nessuna probabilità di essere tradotte in atto e su cui ci sarebbe stato tempo, ad ogni modo, a discutere pacatamente, prima e dopo la pace. Gli altri hanno esplicitamente dichiarato che i propositi del Wilson non solo erano visionari, ma anche condannabili perché contrari ai più evidenti interessi di una nazione giovane, come l’Italia, la quale avrà d’uopo di chiudere nel dopo guerra le sue porte all’invasione delle merci straniere e principalmente tedesche.

 

 

Tra le due correnti di opinione, la seconda ha il privilegio della franchezza. Trattare da teorico o da visionario il Wilson, solo perché parla e scrive nello stile evangelico caro ai grandi scrittori e politici americani, vuol dire non conoscere la storia americana e l’energia inflessibile dei suoi uomini. Uno dei pochissimi articoli miei di cui io sono, a distanza di tempo, orgoglioso, cosa che, suppongo, qualche rara volta e lecito, fu pubblicato col titolo Apologia di Wilson nella «Voce» del Prezzolini del 13 novembre 1914, quando del Wilson e delle sue note si occupavano in Italia prevalentemente i giornali umoristici. Dimostravo in quell’«apologia» che sulla scena politica nordamericana «non era comparso, dopo Lincoln, nessun presidente così sincero, fedele ai propri programmi, coraggioso e fervido nell’operare come Wilson». In quattro capitalissime questioni: la riforma della tariffa doganale, la riforma della circolazione e delle banche, il trattamento differenziale alla bandiera americana sul canale di Panama e il problema del Messico, il Wilson aveva assunto un atteggiamento nettamente conforme al proprio programma e nettamente contrario agli interessi dei gruppi di minoranza protezionista ed imperialista del proprio paese. Ed aveva fatto trionfare nei fatti il proprio idealismo. In seguito, anche i ciechi hanno veduto che le note del Wilson alle potenze belligeranti erano redatte secondo un programma e finivano in fatti tangibili. Non vi è perciò nessuna ragione per credere che il terzo punto del programma di pace del Wilson sia stato scritto, come purtroppo si usava in Italia dagli uomini politici in voce di furberia, solo per fare bella figura. No. Quel punto condensa un proposito chiaro, preciso del presidente, che questi si sforzerà con ogni sua possa di tradurre in realtà. Sarebbe un vivere nelle nuvole immaginare che l’Europa possa non tener conto di quel proposito.

 

 

Quel punto, giova riconoscerlo, è in netto contrasto con alcuni dei deliberati della conferenza economica degli stati dell’intesa tenuta a Parigi dal al 17 giugno 1916, e con le conclusioni di commissioni governative e private italiane a proposito dei futuri trattati di commercio.

 

 

Dicevano le conclusioni della conferenza di Parigi per il periodo del dopo guerra che i paesi alleati dovevano cercare di rendersi indipendenti in modo permanente dai paesi ora nemici sia per ciò che concerne le sorgenti di rifornimento delle materie prime e dei manufatti essenziali sia per ciò che riguarda la loro organizzazione commerciale, finanziaria e marittima; ed aggiungevano che per un certo periodo di tempo il commercio con le potenze ora nemiche dovrà essere sottoposto ad un trattamento speciale, assoggettando le merci originarie da quei paesi a divieti o ad un regime efficace di protezione.

 

 

Sulle orme della conferenza di Parigi, in Italia la commissione reale per lo studio del regime doganale e dei trattati di commercio faceva voti, il 22 maggio 1917, a favore di una tariffa a due colonne: l’una con dazi più elevati, da applicare su tutti gli stati, i quali non ci accordino il trattamento più favorevole, l’altra con dazi minori da applicarsi, in tutto od in parte, agli stati dai quali si sia ottenuto un trattamento di favore. E complicava la sua proposta in modo che, come dimostrò benissimo l’on. Giretti alla camera, le tariffe doganali sarebbero state cinque o sei, se non più, a seconda del grado di amicizia dei vari paesi esteri col nostro. I voti della commissione reale erano stati preceduti da voti analoghi del comitato nazionale per le tariffe doganali, che in Milano il 24 aprile 1917 si pronunciava in favore di una tariffa doganale doppia ed eventualmente multipla.

 

 

Il contrasto fra il programma del Wilson e quello della conferenza economica di Parigi, accolto dalla nostra commissione reale, non potrebbe essere più stridente. È il vecchio contrasto fra libertà degli scambi ed uguaglianza di trattamento da un lato e protezionismo ed esclusione dall’altro.

 

 

Dice il programma che chiamerà, per brevità e per andare al concreto, della nostra commissione reale: dopo la pace politica, farà d’uopo continuare nella guerra economica; escludendo con tariffe alte i prodotti degli attuali nemici ed applicando tariffe degradanti ai neutrali, agli attuali alleati ed alle nostre colonie.

 

 

Dice, invece, Wilson: se pace politica non vi sarà e se dopo la pace vi saranno nazioni le quali non aderiranno ai mezzi escogitati ed alla lega la quale si dovrà istituire per mantenerla, contro le nazioni nemiche o proterve vi sarà anche la esclusiva economica. Ma se la pace politica verrà e se sarà pace giusta, tale che le nazioni possano associarsi per mantenerla, non vi dovrà essere strascico di guerra economica. Le barriere economiche, per quanto sarà possibile, dovranno essere soppresse e si dovrà concedere in tutti i paesi uguaglianza di trattamento commerciale a favore di tutte le nazioni associate.

 

 

Sto senz’altro per la formula Wilson e considero l’altra formula dannosa al nostro paese. La discussione potrebbe essere lunga, dovendo fermarsi su molti punti complicati, i quali non possono essere neppure sfiorati in breve spazio. Basti il dire per ora che questa sanguinosa guerra sarebbe stata inutile se lasciasse le nazioni d’Europa chiuse in se stesse, nemiche le une alle altre, in guerra economica non solo tra ex nemici, ma anche tra ex alleati. Molto acconciamente in uno degli ultimi numeri l’«Economist» di Londra dichiara: «È assolutamente impossibile immaginare una tariffa doganale la quale sia compatibile con una pace durevole e con le buone relazioni fra le nazioni. Attriti e contrasti, anche tra paesi i quali hanno combattuto con noi nella guerra presente per la medesima causa, sarebbero il risultato fatale dell’applicazione, in qualsiasi forma, delle screditate risoluzioni di Parigi». Se la guerra presente dovesse finire in una guerra economica, preparatrice di nuove e più sanguinose guerre, forse tra gli stessi paesi alleati d’oggi, in un avvenire non lontano, si dovrebbe davvero, a parer mio, concludere al fallimento della civiltà moderna.

 

 

Noi non possiamo rinunciare, in nessun modo e sotto nessun pretesto, all’arma più formidabile che abbiamo contro gli imperi centrali: che è l’arma della carta economica di guerra. Ma per poter maneggiare efficacemente quell’arma, fa d’uopo dire, come fa il Wilson, al nemico: o voi persistete nel negare la pace giusta e voi avrete la guerra economica o voi consentite alle esigenze del programma della pace giusta e sarete trattati a parità d’ogni altro paese nei futuri trattati di commercio. Questo è un parlare fiero, aperto, veramente minaccioso e perciò sensato, che può essere schernito come ideologico soltanto da coloro che immaginano contrasti inesistenti fra teoria e pratica allo scopo di conseguire scopi particolari contrastanti con l’interesse generale.

 

 

Ma volere, come fa la nostra commissione reale per i trattati di commercio, continuare in pace la guerra economica è un volere allontanare la pace per ragioni che non hanno niente di comune con il conseguimento dei fini ideali nazionali che noi ci proponemmo entrando in guerra. Hanno pensato gli uomini di governo alla gravissima responsabilità che essi si assumerebbero se accettassero le risoluzioni della commissione reale, ché a me parvero sempre frettolose ed irriflessive, ma oggi tanto più debbono essere giudicate tali alla luce dei nuovi fatti e passate attraverso il crogiuolo del programma, in materia economica cristallino, del signor Wilson?

 

 



[1] Ristampato parzialmente nella premessa redazionale de I programmi doganali e gli interessi delle Puglie, in «L’Avvenire delle Puglie», Bari, a. 2, n. 96, 7 aprile 1918.

Borse, aumenti di capitali e controllo sulle emissioni

Borse, aumenti di capitali e controllo sulle emissioni

«Corriere della Sera», 8 marzo[1], 25 luglio[2] 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 619-631

 

 

I

Da qualche tempo le borse italiane danno prova di molta attività, quasi si direbbe di effervescenza. Siccome le borse ufficialmente sono chiuse, e innanzi tutto evidente non esservi bisogno che le borse siano aperte in modo ufficiale perché si abbiano numerose transazioni. Dal punto di vista, anzi, dell’esatto adempimento agli impegni assunti, del «buon fine» delle operazioni compiute non si sono mai verificati così pochi disguidi come da quando le borse funzionano privatamente senza la sorveglianza dello stato. Ciò ho voluto osservare fin dal principio, per scartare senz’altro i soliti rimedi empirici i quali vengono addotti quando in borsa o in genere sui mercati dei titoli, delle merci e dei prodotti si verifica qualche inconveniente: borse ufficiali o borse libere e tutt’uno, quanto ai pericoli delle speculazioni e delle crisi. Queste si verificano in Francia ed in Italia, dove corre il pregiudizio che gli agenti di cambio debbono essere pochi, dotati di cauzioni vistosissime o ragguardevoli; e si hanno in Inghilterra e negli Stati uniti, dove le borse sono istituzioni private, e gli agenti di cambio sommano a parecchie migliaia.

 

 

Il seguente specchietto chiarisce, per alcuni titoli scelti come rappresentativi dei principali gruppi d’industrie, i movimenti verificatisi recentemente, in confronto a talune date anteriori:

 

 

31 dicembre 1913

31 luglio 1914

31 dicembre 1915

31 dicembre 1916

Primi marzo 1918

Istituti di credito
Banca d’Italia

1426

1267

1305

1274

1318

Banca commerciale

826

670

620

661

950

Credito italiano

548

500

519

568

632

Banca italiana sconto

89

460

520

590

Banco di Roma

104

98

35

41

41

Trasporti ferroviari
Ferrovie mediterranee

264

212

175

188

240

Ferrovie meridionali

537

479

411

429

471

Venete secondarie

114

98

107

174

137

Tramvie elettr. genovesi

776

617

575

575

Società di navigazione
Navigazione generale

400

380

418

493

706

Navigazione alta Italia

130

355

425

590

Tessili
Cotonificio Cantoni

357

399

407

467

498

Stamperia italiana

108

98

124

210

281

Lanificio Rossi

1440

1380

1385

1290

1190

Manifattura Borgosesia

370

355

390

415

Linificio e canap. naz.

80

134

88

130

301

Siderurgia, Meccaniche, Automobili
Terni

1515

1096

1173

1208

1670

Piombino

90

75

124

174

Elba

188

201

250

295

384

Savona

160

137

213

271

397

Ferriere italiane

108

86

151

203

266

Metallurgica italiana

112

99

132

134

155

Miani e Silvestri

92

78

91

112

125

Ansaldo

272

210

230

286

307

Fiat

108

99

342

395

472

Elettricità e Gas
Edison

602

536

473

537

611

Alta Italia

270

240

285

314

Vizzola

1000

776

750

792

900

Gas di Roma

1150

575

431

581

Zuccheri
Eridania

570

450

492

500

640

Raffineria ligure lomb.

312

288

315

310

358

Immobiliari
Immobiliare

284

215

234

311

Beni stabili

248

248

245

960

Fondi rustici

138

127

145

220

Bonifiche ferraresi

345

360

395

615

 

 

Io non voglio fare, come sarebbe necessario se si volesse spiegare veramente la ragione delle singole variazioni di prezzo, un esame particolareggiato dei vari titoli. A ciò mancherebbe lo spazio; né quell’esame è necessario quando si vogliano fare soltanto alcune osservazioni d’indole generale. Sembra invero che una ispezione generica del listino consenta di affermare:

 

 

  • che i prezzi odierni segnano in generale un aumento notevole rispetto a quelli del dicembre 1915, quando si subiva ancora l’impressione dello scoppio della guerra europea prima e di quella italiana poi. Maggiore è l’aumento in confronto a quelli che si ebbero il 31 luglio 1914, sotto l’immediata impressione dello scoppio della guerra;
  • i prezzi odierni però non sono più tanto alti ove si paragonino, come pare equo, a quelli della fine 1913, ossia ai prezzi ultimi di pace. Siccome il 1913 non fu n anno molto favorevole all’economia italiana, è probabile che, se il confronto venisse fatto con l’ultimo periodo di prosperità dei tempi di pace, si vedrebbe che il livello generale odierno non è superiore a quello che si aveva allora. Vi sono spostamenti di prezzo; ma il livello generale non pare giunto a quello che erasi toccato nel 1905-1906;
  • i miglioramenti veramente apprezzabili in confronto ai prezzi dei tempi di pace sono localizzati nei gruppi della navigazione, della siderurgia, della meccanica, dell’automobilismo e di alcuni tessili, ossia nelle industrie che hanno lavorato molto per la guerra. Qui v’è, in confronto ai prezzi del 1913, un aumento il quale supera il deprezzamento della moneta. Non bisogna invero dimenticare che se un titolo è aumentato da 100 a 160 in verità è rimasto stazionario, essendoché le 160 lire di adesso non valgono più delle 100 lire del 1913; ed è probabile che, ove la moneta abbia a riguadagnare di pregio, i titoli torneranno ad andar giù.

 

 

I fenomeni preoccupanti nel mercato dei valori di borsa non sono le variazioni di prezzo, le quali non superano i limiti delle oscillazioni solite a verificarsi nei tempi di grandi movimenti economici. Sarebbe certo desiderabile che talune punte eccessive non si fossero avute. Siamo in guerra; ed occorre la massima prudenza, per superare tranquillamente i momenti di prova che possono essere dinanzi a noi. Le speculazioni al rialzo e le posizioni allo scoperto possono dar luogo ad improvvisi tracolli quando temporaneamente si oscuri l’orizzonte politico; e ciò deve evitarsi perché nocivo al credito pubblico. Ma, ripeto, è impossibile impedire le variazioni dei prezzi, poiché tanto varrebbe ordinare al sole di star fermo, alle teste di non pensare, di non riflettere, di non prevedere.

 

 

Non le variazioni dunque dei prezzi, ma i loro rapporti con altri fatti sono degni di riflessione. In primo luogo la connessione delle variazioni dei prezzi con gli aumenti di capitali, che recentemente si moltiplicarono in Italia in maniera mai più vista. È compito del ministro del tesoro quello di assumersi la responsabilità personale di stabilire un fermo su tutte le nuove emissioni di capitali, le quali non sembrassero conformi all’interesse pubblico. L’unico motivo di dubbio è il timore che il ministro deleghi questa sua facoltà ad una delle solite commissioni o dei soliti uffici od istituti più o meno nazionali; che sarebbe un guaio grosso. Il ministro dovrebbe lui, personalmente, esaminare le domande di aumento di capitale delle società e dare o rifiutare il suo consenso. In Inghilterra, da quando è cominciata la guerra non avvengono quasi più emissioni di titoli sul mercato; e sono, come è naturale, ammesse quelle sole emissioni le quali non richiedono un effettivo sborso di denaro da parte del pubblico; ad esempio, le trasformazioni di riserve in capitale azionario, le costituzioni di società con apporti in natura, le fusioni e simili. Se non si vuole l’intervento del ministro del tesoro, per la paura, in Italia non infondata, che la procedura amministrativa guasti tutto, usino almeno somma prudenza le banche le quali si incaricano delle nuove emissioni. Solo per eccezione rarissima dovrebbero le banche assumersi queste operazioni:

 

 

  • perché tutto il risparmio disponibile del paese deve essere convogliato verso i prestiti pubblici;
  • perché nessuno oggi può dire quale sarà la sorte dei capitali impiegati nelle industrie ai prezzi di costruzione e di impianto aumentati che oggi corrono. Salvo eccezioni, come può ragionevolmente sperarsi che un capitale di 100 lire impiegato nell’acquisto di una macchina o frazione di macchina che domani, a prezzi di pace, varrà 25 lire possa dare un reddito sufficiente a compensare l’azionista?

 

 

Non ho, per fortuna, l’impressione che le grosse, strabilianti emissioni verificatesi negli ultimi mesi in Italia abbiano fatto appello al risparmiatore medio e minuto: questi ha seguitato a comprare rendita nuova 5%, rendita vecchia 3,50 e cartelle fondiarie ed ha girato al largo dai titoli che di sé menavano gran rumore nelle borse. Il collocamento si fece sovratutto, a quanto immagino, presso i grossi portafogli e presso le banche, sia direttamente, sia per mezzo di riporti.

 

 

Qui sta il secondo lato preoccupante del problema. Le recenti speculazioni di borsa sembrano invero caratterizzate da tentativi di gruppi bancari od industriali di impadronirsi di questo o quel pacchetto di azioni. Ogni tanto si sente dire di lotte feroci tra due o più gruppi i quali vogliono conquistare la maggioranza delle azioni di questa o quella società. Certe azioni, nell’imminenza dell’assemblea generale, salgono di prezzo per centinaia di lire. Ovvero fanno un deporto di 5, 10, 15 lire, il che vuol dire che v’ha chi ha interesse ad affittare le azioni per un mese pagando quei deporti, pur di acquistare il diritto di assistere alle assemblee generali e nominare il consiglio di amministrazione. Talvolta una società fa catena con altre, ossia la società A mette in portafoglio metà più una delle azioni della B, e questa fa altrettanto con le azioni della A; ed i rispettivi consigli, divenuti padroni delle rispettive assemblee generali, si nominano a vicenda in perpetuo.

 

 

Dico subito che questi fatti riguardano una infima minoranza delle società anonime. La maggior parte di esse lavora e produce onestamente e tranquillamente; non è in balia delle banche, non fa catena con altre società, non tende a monopoli, non vuole esercitare alcuna influenza sui giornali, sull’opinione pubblica, sul governo.

 

 

Ma poiché sembra delinearsi una tendenza a costituire taluni pochi gruppi pericolosi industriale – bancari del tipo di quello detto dell’industria pesante in Germania o del trust dell’acciaio o del petrolio negli Stati uniti uopo è che l’opinione pubblica si metta sull’avviso. Non ho alcuna fiducia negli empiastri legislativi, come la nominatività delle azioni; poiché i malanni ora indicati si verificano tanto negli Stati uniti, dove vige il tipo delle azioni nominative, come in Germania, dove le azioni sono al portatore. Soltanto il controllo vigile, continuo dell’opinione pubblica; la pubblicità dei bilanci delle banche e delle società industriali nei loro più minuti particolari possono avere qualche efficacia. Non è escluso che qualche rimedio legale si possa trovare, sebbene negli Stati uniti si discuta in proposito da decenni con scarso costrutto. Frattanto giova insistere sull’obbligo della pubblicità. Qui lo stato potrebbe far molto e non fa assolutamente nulla.

 

 

II

Il seguente confronto mi sembra suggestivo:

 

 

Emissioni di azioni ed obbligazioni sul mercato di Londra

Aumenti netti del capitale delle società per azioni in Italia

1914

2539,0

141,3

1915

370,2

70,3

1916

216,3

476,1

1917

172,6

1314,0

1918 (primo semestre)

141,5

 

 

Dico subito che le due colonne non sono del tutto comparabili. La prima colonna, quella relativa all’Inghilterra, è tratta dall’«Economist» e corrisponde all’ammontare, in milioni di lire italiane oro, delle azioni ed obbligazioni emesse da società d’ogni fatta sul mercato di Londra per investimenti in Inghilterra, nell’impero ed anche fuori dell’impero. Quelle cifre comprendono dunque anche gli investimenti di capitale mediante obbligazioni e non tengono Invece conto delle emissioni di titoli avvenute nelle borse provinciali, che sono del resto assai poca cosa, e delle perdite di capitale delle società morte o tuttora esistenti. Invece le cifre italiane in milioni di lire italiane-carta che ho scelto alla meglio tra le parecchie fonti contradittorie esistenti comprendono solo gli aumenti di capitale mediante azioni, escluse le obbligazioni, e sono al netto dalle diminuzioni di capitali per scioglimento di società o legale riduzione del capitale sociale. Nel complesso, pare a me che, astrazion fatta dall’influenza del cambio, le cifre italiane abbiano un contenuto più ristretto delle cifre britanniche.

 

 

Nonostante queste avvertenze, date le quali le cifre inglesi avrebbero astrattamente dovuto essere invece assai maggiori di quelle italiane, quale sorprendente aspetto ed andamento presentano le due colonne! In Inghilterra le cifre si assottigliano e tendono a zero; in Italia ingrossino di anno in anno e se fosse possibile avere le cifre del primo semestre 1918 probabilmente vedremmo un altro balzo in avanti.

 

 

La diversità non si spiega ricorrendo ad un immaginario ristagno industriale inglese; in Inghilterra, come da noi, gli ultimi anni di guerra furono caratterizzati da un intenso e febbrile lavoro, non minore e senza forse in cifre assolute maggiore del nostro.

 

 

Neppure si spiega immaginando che in Inghilterra non si siano dovute compiere trasformazioni e nuovi impianti industriali. Questa che i paesi vecchi possono senza impianti nuovi far fronte alle improvvise variazioni nella domanda dei prodotti industriali è una fandonia senza senso. Nessun impianto destinato a fabbricare orologi può, senza profonde trasformazioni, mutarsi senz’altro in una fabbrica di proiettili. Nuovo o vecchio che sia il paese, fa d’uopo spendere, investire. Dato lo straordinario consumo di munizioni, di artiglierie, di provviste di guerra, impianti nuovi mai più visti sorsero in Inghilterra come in Italia e richiesero denaro nuovo.

 

 

La differenza non si spiega neppure ricorrendo ad un’altra vecchia fandonia; la quale si legge ripetuta fino alla nausea in giornali e riviste: quella per cui le industrie dei paesi vecchi non hanno bisogno di ricorrere a capitali nuovi perché hanno ammortizzato i loro vecchi impianti coi guadagni del passato. Sia pure l’ammortamento proceduto in modo siffattamente meraviglioso da ridurre all’attivo il valore di bilancio dei singoli capitoli – stabilimento, macchinario, avviamento, brevetti ecc. – ad una lira, i guadagni fatti o saranno stati distribuiti agli azionisti ed in tal caso la società dovrebbe far appello a nuovi versamenti per nuovi investimenti, ovvero saranno stati mandati a riserva. Ma le riserve non si tengono da nessuna società ragionevole investite in denaro contante, conti correnti bancari o titoli pubblici. S’investono nell’impresa; il che vuol dire che esse sono rappresentate da impianti, edifici, macchine, che lavoravano già prima della guerra e che non bastano se si vuole aumentare o variare la produzione. La leggenda degli ammortamenti che in Inghilterra, in Francia, in Germania, negli Stati uniti, dappertutto fuorché da noi, avrebbero ridotto i costi degli impianti a zero è una fandonia non solo logica, ma di fatto. Chi abbia l’abitudine di leggere bilanci di società sa che dappertutto ci sono, precisamente come in Italia, società fortunate e prudenti, specialmente prudenti, che hanno ammortizzato largamente; altre le quali si contentano degli ammortamenti legali ed altre che portano all’attivo cifre pericolose di avviamenti, di brevetti, d’impianti ad alto costo.

 

 

Come si spiega dunque la differenza? Per l’Inghilterra, la brusca caduta da 2 miliardi e 53 milioni nel 1914 a 370 nel 1915 ha una spiegazione assai semplice: il tesoro proibì senz’altro l’emissione di nuovi titoli sul mercato senza suo permesso ed il permesso non lo dà quasi mai. Vuole riservare a sé tutto il risparmio del paese, per i bisogni di guerra.

 

 

Come si facciano i nuovi impianti industriali non so. Probabilmente:

 

 

  • il governo, come dappertutto, concede anticipazioni sui prezzi delle forniture, e gli industriali calcolano, come si fa altresì in ogni paese in guerra, il piano delle forniture in guisa da ammortizzare durante gli anni di guerra il costo dell’impianto;
  • gli industriali spontaneamente, senza esservi costretti, mandano a riserva buona parte degli utili conseguiti e se ne servono per gli impianti. Il 27,4% degli utili conseguiti nei bilanci chiusi nel 1917 ed il 32,5% di quelli del primo trimestre del 1918 andarono a riserva;
  • soci ed azionisti forse lasciano gli utili ed i loro fondi disponibili in conto corrente presso le imprese industriali.

 

 

In Italia recentemente il governo proibì l’emissione di azioni nuove da parte delle società più importanti senza il suo consenso. L’unico effetto della proibizione parve essere stata un’ascesa vertiginosa nelle nuove emissioni. Non ultima causa della strabiliante diversità di effetti prodotti dalla medesima causa pare sia che in Inghilterra il governo non si mise in capo, almeno sinora, di controllare le emissioni. Vuole solo proibirle perché gli fanno concorrenza; ed il tesoro ha bisogno di tutto il risparmio del paese e proibisce perché così gli piace. Non dà giudizi di merito sulle emissioni. Fa solo pochissime eccezioni in quei casi in cui l’emissione gli giova direttamente. Il consenso lo dà il tesoro e non il Board of trade (corrispondente al nostro ministero dell’industria). In questo modo gli industriali vivono sicuri che, quando il tesoro non avrà più bisogno di prestiti, finita la guerra, le emissioni ritorneranno libere ed essi potranno procacciarsi capitali a piacimento sul mercato.

 

 

In Italia disgraziatamente, per una di quelle comiche ragioni di competenza che rendono i ministeri altrettanti compartimenti stagni o altrettante potenze ostili, il consenso lo dà il ministro dell’industria, assistito da apposita commissione. Peggio: il consenso deve essere dato tenendo conto dell’importanza degli scopi per cui l’aumento di capitale è stato deliberato. Una organizzazione più pestifera non si sarebbe potuto immaginare:

 

 

  • Lo stato viene così a dare un giudizio sulla solidità dell’impresa e sulla bontà degli scopi per cui le società chiedono denari al pubblico. Cosa pazzesca e pericolosa. Pazzesca, perché è assurdo credere che una commissione possa sostituire la propria insanabile ignoranza alla competenza degli amministratori delle singole imprese. Pericolosa, perché lo stato viene a dare una specie di affidamento al pubblico che le azioni le quali si offrono in sottoscrizione sono solide e serie azioni, perché lo scopo dell’aumento è buono, l’impresa è sana e di importanza nazionale. Solo l’inesprimibile leggerezza di uomini politici e di funzionari può non tremare dinanzi alla responsabilità morale che con autorizzazioni fondate su una base così insipiente lo stato si assume dinanzi ai risparmiatori italiani.
  • Le società si impauriscono all’idea di non potere più procedere all’aumento se non dopo un previo esame economico-morale da parte del ministero dell’industria. Ministero vuol poi dire pochi commissari e funzionari, la cui presunzione va crescendo di giorno in giorno. Nei ministeri gonfiatissimi di oggi gli italiani si sono scaldati una serpe in seno che darà molto filo da torcere all’industria italiana nel dopo guerra. Sono venuti su alcuni tiranni i quali vogliono spadroneggiare, disciplinare, sorvegliare, indirizzare; e contro di cui sarà assoluta necessità lottare animosamente, se si vuole che l’industria non sia rovinata. Ma dovrà essere una lotta a coltello, ben più costosa e dura di quella che dovrà essere combattuta contro la risorta concorrenza germanica, contro il dumping e contro tutti i più famosi spauracchi dell’ante guerra. Frattanto, more solito, le società hanno ricorso alla furberia ed alle blandizie e con rapporti altisonanti sull’importanza degli scopi nazionali che esse si propongono strappano il consenso alle commissioni le quali oggi sono persuase che certi scopi debbono essere raggiunti. E così le emissioni vanno crescendo di volume in modo spaventoso. Tutti si affrettano a far l’aumento prima che avvenga la serrata.

 

 

Conduce al medesimo risultato il provvedimento legislativo che limitò i dividendi all’8%. Se il legislatore ritenne di impedire in tal modo lo spreco degli utili di guerra, sono portato a concludere – trattasi di una prima impressione – che forse la sua sia stata una illusione. Sta di fatto che nel 1916 le somme mandate a riserva in ubbidienza al decreto sommano a circa un terzo degli utili conseguiti, suppergiù quanto si mandò a riserva in Inghilterra senza uopo di nessun decreto. Ma altro e un risparmio fatto volontariamente, altro e un accantonamento obbligatorio, deciso a contraggenio. Quello è guardato con amore e con orgoglio; questo con dispetto e con ansia. Che cosa vorrà farne lo stato? Il rafforzamento delle società e il vero scopo del decreto o non bisogna vedervi invece un pretesto per preparare una futura confisca?

 

 

Di qui alcune tendenze nelle società, in cui il pubblico vede, a torto, un tentativo efficace per sottrarre i denari al fisco; e il cui vero effetto è ben altro e ben più dannoso.

 

 

Se le società ritengono di sottrarre sul serio ad imposte presenti o future gli utili mandati obbligatoriamente a riserva:

 

  • col trasformare le riserve stesse in capitali nominali;
  • coll’investirle in nuovi impianti, esse si ingannano e con esse si inganna il pubblico. Il fisco tassa oggi e tasserà domani, astrazion fatta da qualsiasi forma legale sia data all’utile. Ciò è pacifico e non può dar luogo a nessun dubbio. Perciò non può produrre nessun danno pubblico il fatto di una società che destina i suoi utili di guerra di 2 milioni, già ridotti ad 1 milione da imposte diverse, ad aumento di capitale. Essa non chiede un centesimo al risparmio ed è la sala cosa importante -, dispone solo di ciò che già possiede, e si limita a scrivere quel milione in bilancio con un nome, «capitale sociale», invece che con un altro nome, «riserva luogotenenziale». Su quel «capitale» non può ripartire dividendi.

 

 

I malanni veri, gravissimi, prodotti non dalla limitazione dei dividendi, che è cosa opportuna e si faceva anche prima, ma dalla limitazione imposta colla forza della legge, sono i seguenti:

 

 

  • Tutte le società, le quali si sarebbero contentate di ripartire il 5% od il 6%, oggi fanno ogni sforzo per arrivare almeno all’8%. Non è ancora stato fatto il conto delle maggiori distribuzioni provocate dalla paura di non potere più disporre degli utili conseguiti.
  • Società ed industriali sono portati a considerare come roba di nessuno, farina del diavolo, gli utili che non possono ripartire. Quindi largheggiano in stipendi, gratificazioni, aumenti di salari. Sovratutto largheggiano in nuovi impianti inutili. Di questo malanno ne ha colpa, insieme col decreto sulla limitazione dei dividendi, la imposta sui sovraprofitti. Per lasciarci portar via gli utili dal fisco ora o poi, pensano istintivamente gli amministratori, possiamo spenderli! La spesa in impianti provoca domanda di lavoro, di mattoni, di calce, di ferro, di macchine in momenti in cui di tutto si dovrebbe fare grande economia. Il guaio si è che non vi è rimedio. Finché durerà la causa ed anzi quanto più si inaspriranno i provvedimenti repressivi, peggio sarà. Per impedire lo spreco da parte degli azionisti, il decreto ha organizzato lo spreco da parte delle società. Gli azionisti, talvolta modesti, devono contentarsi dell’8% – che spesso, dato il prezzo d’acquisto delle azioni ai corsi ante-bellici, le riserve ed i sovraprezzi versati, è un od un 4 od un 3% effettivo – e devono assistere alla volatizzazione degli utili di loro proprietà in largizioni interne o in fantastiche costruzioni nuove.
  • Le società sono portate ad aumentare il capitale, non trasformando le riserve in capitale nominale, il che è cosa innocente e non reca un centesimo di denaro nuovo nelle casse sociali, ma facendo appello vero e proprio al denaro nuovo sul mercato. Una società lucra 2 milioni di lire nette su un capitale di 10 milioni. Può ripartire solo 800.000 lire di utili in virtù del decreto. Essa aumenta il capitale da 10 a 20 milioni; ed ecco che assicura ai suoi azionisti l’8%, anche sul nuovo capitale dei 10 milioni. A far ciò bastano gli utili già conseguiti. Anche se il nuovo capitale fosse male impiegato o restasse improduttivo, l’8% è assicurato dall’utile vecchio. Nel dopo guerra, quando gli utili sgonfieranno, la sorte dei 20 milioni sarà più dura di quella che sarebbe stata quella dei 10; ma nel frattempo gli utili possono repartirsi.

 

 

La conclusione non è lieta; ma occorre sia detta e ripetuta per tempo. I decreti sulla limitazione delle nuove emissioni e sulla limitazione dei dividendi stanno producendo effetti diametralmente contrari a quelli che si proponeva il legislatore. Così è di quasi tutti i decreti luogotenenziali; ma di questi in modo segnalatissimo. Essi producono gonfiamento di capitali, spreco di utili, rincaro della vita; scemano le sottoscrizioni ai prestiti pubblici da parte degli azionisti e preparano assai tristi giorni all’economia nazionale nel dopo guerra. Saggio pensiero sarebbe di abolirli senz’altro; come sarà saggissima cosa decretare senz’altro che tutti i malaugurati decreti economici del tempo di guerra abbiano automaticamente a cadere sei mesi dopo la pace. Tutt’al più, finché dura la guerra, le nuove emissioni dovrebbero essere soggette al consenso personale – senza pareri di commissioni – del ministro del tesoro, il quale dando il consenso dovrebbe dichiarare, sotto la sua responsabilità, che l’emissione e consentita, senza alcuna garanzia del governo, unicamente perché non la si reputa nociva al collocamento dei prestiti pubblici e dei buoni del tesoro.

 

 


[1] Con il titolo Il mercato dei valori di Borsa. Il problema delle nuove emissioni. [ndr]

[2] Con il titolo Aumenti di capitali ed interventi di governo. Confronti internazionali. [ndr]

La immunità dei titoli di stato dall’imposta e le imposte possibili future sul reddito e sul patrimonio

La immunità dei titoli di stato dall’imposta e le imposte possibili future sul reddito e sul patrimonio

«Corriere della Sera», 19 gennaio 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 614-618

 

 

È noto che lo stato ha promesso ai portatori dei titoli dei cinque prestiti nazionali l’immunità assoluta da qualunque imposta presente e futura. Promessa sacra che deve essere mantenuta.

 

 

Non sarebbe però né corretto né opportuno tacere che un problema nuovo sorge in relazione alla futura imposta sul reddito o sul patrimonio o sul reddito-patrimonio, la quale dovrà necessariamente essere più o meno presto istituita in Italia. Quale sarà la sorte dei titoli di debito pubblico, del vecchio 3% o del nuovo 5% di fronte a questi nuovi congegni tributari?

 

 

Pagheremo anche noi, mi sento dire dai portatori di titoli di stato e dagli eventuali sottoscrittori al nuovo prestito, l’imposta sul reddito-patrimonio? S’intende che sì, rispondo subito, ed aggiungo che i primi ad avere interesse di pagarla sono i possessori di titoli di stato.

 

 

Vi è forse taluno che si stupisca di pagare l’imposta di successione anche sui titoli di stato i quali si trovino compresi in un asse ereditario? No; tutti pagano e ritengono naturalissimo di pagare l’imposta successoria sui titoli di stato, ricevuti in eredità sebbene i titoli stessi siano dichiarati esenti da qualsiasi imposta presente e futura. Tutti comprendono a prima vista che l’esenzione si riferisce alle imposte le quali colpiscono il titolo nel suo interesse e nel suo capitale, decurtandolo prima che il portatore percepisca il 5% di interesse ed il rimborso di 100 del capitale. Questa immunità deve essere e sarà rispettata dallo stato. Ma lo stato non poteva promettere a chi in avvenire ricevesse una eredità di 10.000 o di 100.000 lire, composta in tutto od in parte di titoli di stato, di non fargli pagare l’imposta successoria. L’imposta successoria non colpisce il titolo, sibbene il fatto dell’avvenuta successione e cresce se si tratta di parenti lontani o di patrimoni vistosi. È il trasferimento gratuito del patrimonio che viene colpito, comunque sia composto il patrimonio. Tutto ciò è talmente intuitivo che, ripeto, nessuno sogna e neppure immagina di lamentarsi se vede l’imposta colpire l’eredità ricevuta, anche questa fosse in tutto composta di titoli di stato.

 

 

La stessa cosa accade per l’imposta sul reddito – patrimonio complessivo del contribuente. Lo stato si è obbligato di non colpire con nessuna imposta né presente né futura il reddito od il capitale dei titoli dei prestiti nazionali ed adempirà alla sua promessa. Pagherà cioè al portatore le 5 lire integrali e se dovesse rimborsare il capitale, come ne ha diritto dopo il 1931, pagherà lire 100 senza alcuna detrazione. Questo è il significato chiaro, aperto, preciso della promessa immunità dalle imposte.

 

 

Ma se lo stato crederà opportuno o necessario istituire una imposta, la quale, alla pari dell’imposta di famiglia esistente in tanti comuni italiani, colpisca l’agiatezza, la ricchezza, il reddito, il patrimonio – sono tutte formulazioni in parte identiche in parte diverse del medesimo concetto – questa imposta generale e personale non potrà esentare taluno solo perché costui ha preferito di investire il suo patrimonio in vecchia rendita 3,50% o in nuova 5%, invece che in terreni o case. L’imposta di famiglia non le esenta già oggi e nessuno pensa a chiedere l’esenzione; né lo potrà per la futura imposta sul reddito complessivo. Tizio potrà dire io non devo essere colpito da imposta perché il mio reddito è piccolo, di sole 1.200 lire all’anno. Caio potrà aggiungere: io non devo neppure essere colpito perché, sebbene il mio reddito sia di 5.000 lire, devo con esso mantenere la moglie e quattro figli. Sempronio dice: io devo essere esente perché sebbene scapolo e sebbene provvisto di un reddito di 4.000 lire, sono gravato di oneri ipotecari per 2.800 lire l’anno. E tutte queste sono ottime ragioni per ottenere oggi l’immunità dall’imposta di famiglia a Milano od a Torino e per ottenerla domani dall’imposta sul reddito, quando lo stato si deciderà ad istituirla. Ma né Tizio, né Caio, né Sempronio, qualora fossero provvisti di un reddito netto da debiti e netto da detrazioni per i carichi di famiglia superiore al minimo, fissato, ad esempio, in 1.200 lire, ad esempio, di un reddito di 3.000, 4.000, 10.000, 50.000, o 100.000 lire potrà chiedere l’esenzione perché il suo reddito deriva da titoli di stato immuni da tributo. Oramai lo stato ha pagato i pattuiti interessi; li ha pagati senza fare alcuna domanda al creditore; questi, integralmente riscossi dal contribuente, si sono confusi nella massa dei suoi redditi di lavoro, di professione, di terreni, di casa, di capitali. La finanza viene a conoscere la massa complessiva del reddito; né può fare a meno di tassarla. Chi ha solo 2.000 lire pagherà, ad esempio, solo il 0,50% ; chi ha 3.000 pagherà l’1% ; chi ha 10.000 il 2% ; chi ha 50.000 il 5% ; chi ha 100.000 il 10% . Tutti però devono pagare, in ragione dei propri redditi, già depurati da carichi di ogni specie. Quale giustizia vi sarebbe se due contribuenti, provveduti ciascuno di egual reddito netto di lire 10.000, che la finanza conosce, non foss’altro perché amendue fruiscono dello stesso appartamento, hanno lo stesso personale di servizio, ecc., non fossero trattati alla stessa stregua? Che c’è bisogno di andar ricercando le origini del reddito per effettuare la tassazione, quando si sa che è tutto reddito di lavoro o di capitale? Un diverso trattamento urterebbe il senso generale di giustizia e non sarebbe tollerato.

 

 

Non sarebbe neppure nell’interesse dei capitalisti-risparmiatori. Dappertutto, in Francia, in Inghilterra ed in Germania, anche nei casi in cui si è promessa l’esenzione dall’imposta, si tiene conto del reddito dei titoli di stato per calcolare il reddito complessivo del contribuente nei rispetti dell’imposta sul reddito; e nessuno ci trova a ridire e nessuno immagina che ciò costituisca una violazione della promessa fatta, la quale, ripeto, riguarda il titolo e non la persona.

 

 

La sicurezza di essere colpiti da tributo nel solo caso in cui il proprio reddito, netto da debiti e da carichi di famiglia, superi un certo minimo, deve anzi costituire il più sicuro allettamento a sottoscrivere ai prestiti di guerra. Perché in tal modo il modesto risparmiatore è sicuro di non essere tassato né sul titolo – e di ciò è arra la promessa solenne dello stato – né sul suo reddito complessivo, purché questo, depurato da pesi, non superi il minimo esente. Il medio risparmiatore sa che, esente sul titolo, sarà tassato poco sul suo reddito complessivo, perché il reddito dei suoi titoli di stato unito a quello dell’impiego e della professione o del commercio, e depurato anch’esso da pesi, non supera le 10.000 o le 20.000 lire l’anno. Il capitalista meglio provveduto non si duole perché sa che, se avesse altrimenti impiegato i suoi capitali, egli avrebbe dovuto in primo luogo pagare l’imposta sul reddito (sui mutui, sui terreni, sulle case, ecc.), ed in secondo luogo ed ugualmente l’imposta personale sul reddito complessivo.

 

 

Questo è il punto essenziale che deve essere sempre ricordato. Come lo stato, si può chiedere, riuscirà a conoscere che Tizio possiede titoli di stato, azioni ed obbligazioni di società?

 

 

I metodi sono principalmente due. Il primo è di guardare agli indizi del reddito: appartamento, domestici, vetture, automobili, ville, ecc. Nessuno, in questo caso, penserà che, se Tizio ha un appartamento da 3.000 lire all’anno, tre domestici, e villa in montagna, egli possa rifiutarsi a pagare l’imposta sul reddito (o di famiglia) solo perché afferma di ricavare tutto il suo reddito da titoli di stato. La finanza non si occupa di ciò, bastandole constatare che il reddito c’è sicuramente, poiché esso è speso.

 

 

Il secondo metodo è di adottare una forma di nominatività dei titoli. Ve ne sono parecchie e non occorre spiegarle per ora. Ma se anche si giungesse alla vera e propria nominatività obbligatoria di tutti i titoli, forseché questa è una buona ragione per non sottoscrivere ai titoli di stato? Anzi no. Si può essere invero sicuri che prima saranno rese nominative le azioni e le obbligazioni di società, le cartelle fondiarie, gli altri titoli di borsa e, dopo, i titoli di stato. Anche nella ipotesi estrema, che lo stato si decida ad abolire i titoli al portatore ed a renderli tutti nominativi, per potere applicare meglio le imposte di successione e di famiglia o sul reddito, gli ultimi ad essere toccati saranno i titoli di stato. Chi comprasse altri titoli nella speranza di sfuggire all’imposta farebbe dunque un pessimo affare.

 

 

Da qualunque punto si guardi il problema, una conclusione si impone: che i portatori dei titoli di debito pubblico non potranno mai per qualsiasi ragione essere tassati né sull’interesse né sul capitale del titolo; e che lo stato dovrà ad essi pagare integralmente l’interesse pattuito o rimborsare il capitale dovuto. Nessuno però, sia proprietario di terreni, o di case o di industrie o di azioni industriali o di titoli di stato dovrà potersi sottrarre all’imposta che, ad imitazione dell’imposta di famiglia nei comuni, lo stato volesse in avvenire istituire sul reddito o sul patrimonio complessivo del contribuente. Ognuno dovrà pagare o non pagare a seconda del reddito della sua famiglia o del suo patrimonio senza riguardo all’indole dei capitali posseduti. Non pagheranno i modesti gravati di numerosa prole; pagheranno gli agiati e più i ricchi. Ma sempre in relazione al reddito ed al patrimonio complessivo, detratti i carichi di famiglia, senza preoccuparsi se il reddito derivi in tutto od in parte da titoli di stato.

 

 

Potrà lo stato pagare gli interessi dei prestiti?

Potrà lo stato pagare gli interessi dei prestiti?

«Corriere della Sera», 18 gennaio 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 610-613

 

 

È generalmente riconosciuto e sono irragionevoli le preoccupazioni di quei timidi risparmiatori i quali, conservando i propri capitali liquidi od altrimenti investendoli, credono di mettersi in salvo dai pericoli di rivoluzioni o semplicemente di dissesti finanziari dello stato. Rimane da rispondere alla domanda: e probabile che lo stato possa far fronte ai suoi impegni?

 

 

Per rispondere occorre fare una ipotesi intorno alla durata ed al costo della guerra; ed io supporrò che essa duri sino al 31 dicembre 1918, che essa finisca di costare 60 miliardi e che questi siano coperti con 40 miliardi di prestiti interni e 20 di prestiti esteri, e che i 40 miliardi per almeno gli 8 decimi siano costituiti da prestiti propriamente detti e meno di 2 decimi da prestiti in biglietti circolanti. In questa ipotesi il tesoro italiano dovrà far fronte subito a 1 miliardo e 6oo milioni – 1 miliardo e 800 milioni di lire di interessi sui prestiti interni, a cui si deve aggiungere il necessario per il pagamento delle pensioni di guerra; in tutto supponiamo 2 miliardi e mezzo. A quest’onere immediato, seguirà poscia, a seconda dei patti intervenuti con gli alleati, l’onere degli interessi sui prestiti esteri. È dominante nelle più autorevoli riviste finanziarie inglesi ed americane il concetto che debba essere lasciato ai paesi debitori un largo margine di tempo per iniziare il servizio dei prestiti contratti in Inghilterra e negli Stati uniti. Contemporaneamente dovrà procedere l’opera di liquidazione e ritiro dei biglietti esuberanti, opera non immediata, non essendo né possibile né conveniente provocare un ribasso subitaneo e violento, ma piuttosto un lento aggiustamento dei prezzi, in rapporto alla decrescente massa dei biglietti. Il ritiro dei biglietti si potrà compiere coi nuovi prestiti, presumibilmente pero contratti ad un tasso d’interesse minore dell’attuale. Occorrerà, a partire da un momento imprecisato, un altro miliardo di lire annue, bastevole, ove si tenga conto del più basso interesse dei prestiti esteri in confronto ai prestiti interni e della apparente gratuità dei prestiti in biglietti. Dunque, in complesso occorrono ancora 2 miliardi e mezzo all’anno subito, ed un altro miliardo in seguito, pure all’anno, di maggiori entrate.

 

 

Di questi 3 miliardi e mezzo circa 1 miliardo e mezzo esistono già. In verità il conto consuntivo 1916-17 si chiuse, in confronto col 1913-14, con un supero di 2 miliardi e 821 milioni di entrate effettive, ma poiché di questi ben 1 miliardo e 600 milioni circa hanno carattere transitorio, il supero effettivo si residuò a circa 1 miliardo e 200 milioni. Nel 1918-19 produrranno effetto alcuni provvedimenti finanziari già deliberati, che nel 1916-17 non potevano ancora agire o non agirono compiutamente. Il progetto di bilancio prevede, in confronto al 1913-14, un maggior reddito di 1 miliardo e 895,4 milioni, che, tenendo conto da un canto delle entrate di carattere transitorio e dall’altro della prudenza nelle fatte previsioni, si possono ridurre appunto a 1 miliardo e mezzo.

 

 

Il problema si riduce a trovare un altro miliardo di entrate nuove subito e un miliardo in seguito. Non è questa una impresa da pigliarsi alla leggera; ma non è lecito dire che essa sia impossibile. Le sole imposte sul reddito – sui terreni, sui fabbricati, sulla ricchezza mobile e relativi amminicoli – hanno reso al tesoro nel 1916-17 ben 949,7 milioni di lire. Credesi forse non sia possibile aumentarne notevolmente il gettito, senza aumentarne l’aliquota o percentuale? Non è questa la persuasione di quanti hanno riflettuto sull’argomento, dei funzionari delle imposte principalmente, i quali sono tuttodì chiamati ad applicare le leggi. Bastano alcune non difficili riforme alle leggi fiscali e sovratutto si richiede una amministrazione rigida, esperta, indipendente, che, rispettando le ragioni dei contribuenti, abbia i mezzi ed il diritto di conoscere la verità. Dicasi lo stesso per quanto ha tratto alle imposte di successione ed alle tasse di registro. Non occorre inferocire con aliquote alte, bastando applicare severamente quelle vigenti.

 

 

Se questo si farà, si sarà camminato un buon tratto sulla via della provvista dei 2 miliardi di necessarie entrate nuove. Non azzardo cifre che sarebbero cervellotiche; ma sembra certo che il contributo di questa fonte non debba essere spregevole. Occorre fermezza di governanti, civismo di cittadini, buona scelta di funzionari; senza di che ogni miglior proposito va a rotoli e sarebbe stato inutile subire i sacrifici della guerra.

 

 

Senza di quelle qualità sarebbe anche inutile discorrere di imposte nuove, le quali in tanto frutteranno in quanto siano seriamente applicate. Non v’è una gran scelta oramai, in fatto di imposte nuove; si riducono, a parer mio, all’imbottato nel ramo dei consumi ed alla imposta complementare sul reddito, combinata con un’imposta patrimoniale, nel ramo dei redditi e dei capitali. Amendue possono rendere assai, le parecchie centinaia di milioni; ma per entrambe occorrono onestà nei contribuenti, sapienza e fermezza ed equità nell’amministrazione. Non si può studiare, in una parentesi di articolo, in che modo debba essere congegnato l’imbottato, che i viticultori avversano nella falsa credenza che essi lo debbano pagare. Mentre, come per tutte le altre imposte di produzione, sugli zuccheri, sugli spiriti, sui gas luce esso deve essere correttamente pagato dai consumatori del vino. È il consumatore del vino, derrata non necessaria, quello che dovrà essere chiamato a pagare 400-500 milioni; e per farle pagare i viticultori devono essere chiamati a consulta e diventare gli alleati del tesoro, il che vuol dire gli alleati del paese.

 

 

Quanto all’imposta sul reddito e sul patrimonio complessivo del contribuente, la miglior garanzia di successo sarà la equità e la moderazione. Paghino tutti, ma paghino in rapporto al proprio reddito o patrimonio, tenendosi conto dei debiti, dei carichi di famiglia, dei gravami di assicurazione sulla vita, contro gli infortuni, le malattie, le disgrazie.

 

 

Concludo se in Italia si sapranno seriamente, severamente applicare le imposte esistenti, se si sapranno scegliere alcune imposte di gran reddito ed a larga base, come l’imbottato e la personale sul reddito-patrimonio, non v’è dubbio che i 2 miliardi tuttora mancanti si troveranno e gli interessi sul debito pubblico potranno essere pagati fino all’ultimo centesimo. Questa è l’unica e ottima garanzia che possa essere fornita ai creditori pubblici. Nessuno stato, nessun debitore privato, nessun investimento mai offrì e mai potrà offrire garanzia migliore.

 

 

Lettera settima. La società delle nazioni è un ideale possibile?[

Lettera settima.
La società delle nazioni è un ideale possibile?[1]
«Corriere della Sera», 5 gennaio 1918
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 79-94
La guerra e l’unità europea, Ed. di Comunità, Milano, 1948, pp. 11-22
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 940-948

 

 

 

 

Signor direttore,

 

 

Messaggi di presidenti, discorsi di cancellieri e di ministri degli esteri, articoli di giornali farebbero supporre che uno degli scopi o dei risultati della guerra odierna possa essere la nascita di una «società delle nazioni» destinata a far regnare la giustizia e la concordia laddove oggi imperano la forza e la lotta fratricida. Agli Stati uniti d’America si dovrebbero contrapporre od associare gli Stati uniti d’Europa, in attesa di veder nascere in un momento ulteriore dell’incivilimento umano gli Stati uniti del mondo. Perché non dovrebbe essere possibile di rifare in Europa ciò che fu fatto dalle 13 colonie americane ribellatesi all’Inghilterra? Taluno, più restio ad ammettere i tedeschi nella nuova società delle nazioni, ha affermato che questa esiste già: le 27 nazioni grandi e piccole rappresentate alla recente conferenza di Parigi offrirebbero appunto il quadro di una esistente e viva e combattente società delle nazioni.

 

 

Ahimè! Come l’esempio prova la difficoltà dell’impresa e la difficoltà estrema di definire persino che cosa vogliano dire le parole «società delle nazioni»! Che cosa è una società nella quale alcuni associati sacrificano vite ed averi, altri averi soltanto, altri soltanto vite, mentre alcuni stanno a vedere e taluno persino realizza guadagni non piccoli, limitandosi a vendere provviste di guerra ed a far voti di vittoria? Dovrebbe essere chiaro a tutti che, prima di discorrere della «società delle nazioni» come di uno degli ideali scopi della guerra presente, farebbe d’uopo sapere quale in verità sia lo scopo per raggiungere il quale siamo decisi a spargere sangue ed a profondere tesori. Troppe volte è accaduto, durante la guerra presente ed in amendue i campi belligeranti, che fossero malcerti ed instabili gli scopi per cui si combatteva, perché oggi, avvicinandosi il giorno della stretta finale, non giovi precisare chiaramente ciascuno di quegli scopi.

 

 

Può sembrare ingenuo dire, a proposito della auspicata «società delle nazioni», che si deve lottare soltanto per costruire qualche cosa che sia vitale e vantaggiosa. Ma non è. I più, quando discorrono di «società delle nazioni», pensano ad una specie di perpetua alleanza o confederazione di stati, la quale abbia per iscopo di mantenere la concordia fra gli stati associati, difenderli contro le aggressioni straniere e raggiungere alcuni scopi comuni di incivilimento materiale e morale. Tutti implicitamente ammettono che gli stati alleati o confederati debbono rimanere pienamente sovrani ed indipendenti; che non si debba costituire un vero super-stato fornito di una sovranità diretta sui cittadini dei vari stati, con diritto di stabilire imposte proprie, mantenere un esercito super-nazionale, distinto dagli eserciti nazionali, padrone di una amministrazione sua diversa dalle amministrazioni nazionali. I più non pensano a questa seconda specie di «società delle nazioni», perché non a torto ritengono che questa non sarebbe una «società» di nazioni ugualmente sovrane, ma un unico stato sovrano di cui le nazioni attuali diventerebbero semplici provincie. Si vogliono, sì, gli Stati uniti d’Europa, ma ogni stato deve essere indipendente, sicché la Francia non sopraffaccia l’Italia, od amendue, insieme con l’Austria e la Russia, non diventino provincie dell’Inghilterra o della Germania, o, anche, degli Stati uniti d’America, se il nuovo ente politico dovesse comprendere il continente americano.

 

 

Ora, se l’esperienza storica dovesse essere davvero la maestra della vita, tutti i discorsi sulla «società delle nazioni» fatti in questi ultimi mesi di guerra sarebbero senz’altro apparsi vani, quando si fosse ricordata la fine miseranda dei tentativi sinora compiuti e durati talvolta per pochi anni e tal’altra per secoli di «società delle nazioni» intesa nel senso, che oggi appare unicamente possibile e desiderabile, di confederazione di stati sovrani, ed il successo magnifico di quell’altro tipo di società delle nazioni, il quale culmina nella trasformazione dei preesistenti stati sovrani in provincie di un unico più ampio stato sovrano. L’esperienza storica prova, cioè, che ciò che oggi si considera come ideale non è possibile, non è duraturo e può essere funesto; e che soltanto è possibile, duraturo e benefico ciò che dai più oggi si considera repugnante.

 

 

Una prova nettissima della verità delle mie affermazioni è data da quei medesimi Stati uniti, a cui si volgono gli sguardi di quanti sperano giorni migliori per l’umanità dilaniata. Leggesi in tutte le storie delle costituzioni come gli Stati uniti siano vissuti sotto due costituzioni: la prima disposta dal congresso nel 1776 ed approvata dagli stati nel febbraio 1781; la seconda approvata dalla convenzione nazionale il 17 settembre 1787 ed entrata in vigore nel 1788. Sotto la prima, la unione nuovissima minacciò ben presto di dissolversi; sotto la seconda gli Stati uniti divennero giganti. Ma la prima parlava appunto di «confederazione e di unione» dei 13 stati, come oggi si parla di «società delle nazioni», e dichiarava che ogni stato «conservava la sua sovranità , la sua libertà ed indipendenza ed ogni potere, giurisdizione e diritto non espressamente delegati al governo federale». La seconda invece non parlava più di «unione fra stati sovrani», non era più un accordo fra governi indipendenti; ma derivava da un atto di volontà dell’intiero popolo, il quale creava un nuovo stato diverso e superiore agli antichi stati.

 

 

«Noi, – così dice lapidariamente il preambolo della vigente costituzione federale, – noi, popolo degli Stati uniti, allo scopo di fondare una unione più perfetta, stabilire la giustizia, assicurare la tranquillità interna, provvedere per la comune difesa, promuovere il benessere generale e garantire le benedizioni della libertà per noi e per i posteri nostri, decretiamo e fondiamo la presente costituzione per gli Stati uniti d’America».

 

 

Ecco sostituito al «contratto», all’«accordo» fra stati sovrani per regolare «alcune» materie di interesse comune, l’«atto di sovranità del popolo americano tutto intiero», il quale crea un nuovo stato, gli dà una costituzione e lo sovrappone, in una sfera più ampia, agli stati antichi, serbati in vita in una sfera più ristretta.

 

 

Ve n’era urgente bisogno. Quei sette anni di vita, dal 1781 al 1787, della «società» delle 13 nazioni americane erano stati anni di disordine, di anarchia, di egoismo tali da far rimpiangere a molti patrioti il dominio inglese e da far desiderare a non pochi l’avvento di una monarchia forte, che fu invero offerta a Washington e da questi respinta con parole dolorose, le quali tradivano il timore che l’opera faticosa sua di tanti anni non dovesse andare perduta. La radice del male stava appunto nella sovranità e nell’indipendenza dei 13 stati. La confederazione, appunto perché era una semplice «società» di nazioni, non aveva una propria indipendente sovranità, non poteva prelevare direttamente imposte sui cittadini. Dipendeva quindi, per il soldo dell’esercito e per il pagamento dei debiti contratti durante la guerra della indipendenza, dal beneplacito dei 13 stati sovrani. Il congresso nazionale votava spese, impegnava la parola della confederazione e per avere i mezzi necessari indirizzava richieste di denaro ai singoli stati. Ma questi o negligevano di rispondere o non volevano, nessuno tra essi, essere i primi a versare le contribuzioni nella cassa comune.

 

 

Dopo brevi sforzi, – così scrive il giudice Marshall nella sua classica Vitadi Washington, riassumendo le disperate ripetute invocazioni e lagnanze che a centinaia sono sparse nelle lettere del grande generale e uomo di stato, – dopo brevi sforzi compiuti per rendere il sistema federale atto a raggiungere i grandi scopi per cui era stato istituito, ogni tentativo apparve disperato e gli affari americani si avviarono rapidamente ad una crisi, da cui dipendeva la esistenza degli Stati uniti come nazione… Un governo autorizzato a dichiarare guerra, ma dipendente da stati sovrani quanto ai mezzi di condurla, capace di contrarre debiti e di impegnare la fede pubblica al loro pagamento, ma dipendente da tredici separate legislature sovrane per la preservazione di questa fede, poteva soltanto salvarsi dall’ignominia e dal disprezzo qualora tutti questi governi sovrani fossero stati amministrati da persone assolutamente libere e superiori alle umane passioni.

 

 

Era un pretendere l’impossibile. Gli uomini forniti di potere non amano delegare questo potere ad altri; ed è perciò quasi impossibile, conchiude il biografo, «compiere qualsiasi cosa, sebbene importantissima, la quale dipenda dal consenso di molti distinti governi sovrani». Ed un altro grande scrittore e uomo di stato, uno degli autori della costituzione del 1787, Alessandro Hamilton, così riassumeva in una frase scultoria la ragione dell’insuccesso della prima società delle nazioni americane: «Il potere, senza il diritto di stabilire imposte, nelle società politiche è un puro nome».

 

 

Vogliamo noi combattere per un nome o per una realtà? Ammettasi che la realtà di uno stato europeo o anche solo di uno stato composto di tutti o parecchi degli attuali alleati sia difficilissima a raggiungersi. Tuttavia gli sforzi fatti per costruire uno stato vivo di vita propria, con indipendente diritto di ripartire imposte sui suoi cittadini senza dipendere dal beneplacito di altri stati sovrani, fornito di un esercito proprio, atto a mantenere la pace interna ed a difendere il territorio contro le oppressioni straniere, dotato di una amministrazione sua doganale, postale, ferroviaria, sarebbero almeno sforzi compiuti per raggiungere uno scopo concreto, pensabile, se pure oggi irraggiungibile. Mentre invece gli sforzi fatti per creare una società di nazioni, rimaste sovrane, servirebbero solo a creare il nulla, l’impensabile, ad aumentare ed invelenire le ragioni di discordia e di guerra. Alle cause esistenti di lotta cruenta si aggiungerebbero le gelosie per la ripartizione delle spese comuni, le ire contro gli stati morosi e recalcitranti. Una delle ragioni di decadenza dell’Olanda nel secolo diciottesimo non fu forse la repugnanza della maggior parte delle «Provincie Unite» a pagare la propria quota nel tesoro comune, sicché il peso maggiore delle guerre ricadeva quasi solo sulla provincia più ricca, l’Olanda, sì da impoverirla e consigliarla ad una politica estera di rassegnazione e di silenzio?

 

 

A che andare, del resto, cercando esempi forastieri del danno di creare entità politiche esistenti solo di nome e prive di potere effettivo, quando pur ieri, con ineffabile tracotanza, il segretario tedesco agli esteri von Kühlmann invocava le tradizioni imperiali degli Hohenstaufen e le loro bramosie di terre italiane? Quell’invocazione avrebbe dovuto suscitare in lui il ricordo del sogno più infausto e più vano di dominazione universale che abbia visto il mondo: il sogno irreale del Sacro romano impero. Dopo un breve periodo di splendore e di potenza reale, dall’800, data dell’incoronazione a Roma di Carlo Magno come imperatore, quel sogno fu per centinaia d’anni un incubo gravante sulla Germania e sull’Italia. Inghilterra e Francia e Spagna, rimaste fuori dell’unità nominale dell’impero, diventarono, fin dall’ultimo medio evo, stati forti sovrani rispettati. La Germania e l’Italia, amendue vissute sotto l’ombra del sogno imperiale, rimasero disunite dilaniate serve, sinché in ognuna di esse uno stato sovrano, sotto le due case di Brandeburgo e di Savoia, non poté a poco a poco assorbire estensioni sempre più vaste del territorio nazionale e finalmente confondersi con la nazione stessa, divenuta una. Ma, nel frattempo, quanto male produsse la vana chimera di una monarchia universale, vagheggiata anche dalla mente sovrana di Dante Alighieri! Quel Sacro romano impero, morto solo nel 1806, dinanzi alla realtà imperiosa degli eserciti napoleonici, fu per 1.000 anni un tentativo sterile di costituire, sotto l’egida di un unico imperatore, una vera società delle nazioni. L’imperatore, erede degli antichi imperatori romani, doveva mantenere la pace e la tranquillità interna in tutto il mondo conosciuto, impedire le sopraffazioni dei principi, sollevare i poveri ed i deboli, far trionfare il regno di Dio in terra. Ma come poteva far tutto ciò, quando i veri sovrani erano i principi, i vescovi, le libere città? Con quale esercito poteva egli impedire le lotte intestine? Con quali denari mantenere l’esercito, egli il cui reddito principale erasi ridotto al ricavo del prezzo di vendita di vani diplomi di nobiltà e di privilegi privi di contenuto; egli, le cui entrate imperiali nel 1764 giungevano appena a 13.884 fiorini e 32 grossi? L’esistenza di un’autorità formale, destinata a far regnare la pace e la giustizia nel mondo, fu una delle cause le quali per secoli impedirono che si costituisse in Germania ed in Italia una autorità reale, fornita di mezzi finanziari e di armi, la quale potesse davvero dar pace ai popoli tribolati.

 

 

Non abbiamo forse noi italiani il ricordo più vicino di un altro tentativo di società delle nazioni, fortunatamente durato meno a lungo del Sacro romano impero? Il preambolo del trattato della Santa alleanza, conchiuso il 26 settembre 1815 a Parigi fra gli imperatori d’Austria e di Russia ed il re di Prussia, rammentava come i tre monarchi si fossero impegnati «in ossequio ai precetti del vangelo, i quali ordinano a tutti gli uomini di amarsi come fratelli, a rimanere legati con l’indissolubile nodo di una amicizia fraterna, a prestarsi vicendevole assistenza, a governare i loro sudditi come padri, a mantenere sinceramente la religione, la pace e la giustizia. Essi si considerano membri di una unica nazione cristiana ed incaricati, ognuno, dalla provvidenza divina di reggere un ramo della stessa famiglia. Essi incitano tutte le potenze a riconoscere questi principii e ad entrare nella Santa alleanza». Ben presto il tentativo apparve non solo ipocrita – non per tutti, ché l’imperatore Alessandro di Russia aveva accarezzato davvero in un impeto generoso il sogno della pace universale ed i popoli per un istante avevano plaudito, – ma anche vano. Tornata la discordia tra i membri della affermata società delle nazioni, ché questo e non altro era nella sua essenza la Santa alleanza, dove si trovò la forza per reprimere le lotte intestine e per serbare pace ai popoli europei?

 

 

Dopo 2.300 anni si ripeteva in America ed in Europa l’insuccesso che aveva travolto il tentativo delle città greche di costituire una confederazione, capace di mantenere la pace nel mondo greco e di difendere questo contro i persiani. Le città greche avevano deliberato anzi qualcosa di più di quel che era contenuto nella costituzione americana del 1781 e nel trattato della Santa alleanza del 1815; poiché, nel 470 avanti Cristo, Aristide era riuscito a fissare le quote di contribuzione delle singole città nel tesoro comune raccolto nel tempio di Delo. Mancò però un governo comune, scelto dai delegati delle città, per amministrare il tesoro comune; mancò un esercito federale; ed i contributi dipendevano dal buon volere dei confederati. Il sinodo di Delo non aveva un potere effettivo, come non l’avevano il congresso americano del 1781 e la dieta del Sacro romano impero. Fu un’ombra di stato; né poté impedire le lotte fra Atene e Sparta, fra Sparta e Tebe e la comune caduta, invano deprecata da Demostene, sotto l’impero macedone.

 

 

Di fronte a questi «nomi vuoti» di società di nazioni, quali unioni vere e salde ci presenta la storia? L’impero romano fondato colla spada di Cesare e di Augusto, ma di cui disse Bacone che «non fu Roma a coprire il mondo, ma il mondo a coprire Roma» per significare il fatto principe della storia romana: la volontà dei popoli di mettersi sotto le ali protettrici di un popolo capace di far leggi e di farle rispettare. Lo stato francese, fondato non su trattati tra i grandi signori feudali, ma sul potere affermato contro ad essi da successive forti dinastie di re. L’impero germanico, di cui gli odierni piani protervi di conquista non ci devono far dimenticare che esso coronò gli sforzi meritori di ricostruzione dell’unità germanica durati secoli da parte di una dinastia energica e perseverante. L’Italia, anch’essa frutto di aspirazioni ideali da parte di un’eletta di pensatori e di sforzi secolari di una famiglia dimostratasi capace di creare un vero stato ai piè delle Alpi.

 

 

Forse questi non sono gli esempi, a cui oggi si può ispirare chi, pur sognando, voglia mirare ad un ideale dimostrato dalla esperienza storica possibile. Bisogna riandare colla mente ad esempi di stati sovrani, i quali abbiano volontariamente rinunciato alla loro sovranità per scomparire nel seno di un nuovo stato sovrano di ordine più elevato. Nel 1707 l’unione della Scozia con l’Inghilterra, due paesi abitati da razze in gran parte differenti, parlanti in parte lingue diverse, animati da sentimenti di rivalità commerciali, divisi da ricordi di lotte e di odi fierissimi, salvò l’Inghilterra dal pericolo di essere assalita alle spalle da uno stato, il quale aveva tradizioni antiche di alleanza con la Francia, diede alla Scozia parità di diritti nel più grande stato, la Gran Bretagna, risultato dalla fusione, diede agli scozzesi la possibilità di guidare le sorti del maggiore impero del mondo, preservò le tradizioni, il patrimonio ideale, le istituzioni giuridiche proprie della Scozia; e rimane ancor oggi l’esempio europeo più bello di creazione di uno stato nuovo e più ampio in seguito a discussioni ed a trattative complicate ed ardue fra uomini di stato consapevoli della grandezza dell’impresa a cui si accingevano e delle sue difficoltà. L’altro esempio è la già citata costituzione data nel 1787 agli Stati uniti d’America, trasformando quella che era un’ombra, una irreale società di nazioni pronte a dividersi ed a combattersi in un unico stato d’ordine superiore ai 13 stati confederati. Vuole la tradizione che, apponendo il 17 settembre 1787 la sua firma al progetto approvato dalla convenzione nazionale, il quale doveva ancora ottenere il consenso dei singoli stati, Washington esclamasse: «Se gli stati respingeranno questa eccellente costituzione, mai più un’altra potrà essere formata in pace. La nuova costituzione sarà redatta nel sangue».

 

 

Il vaticinio di Washington è destinato ad avverarsi per la futura costituzione degli Stati uniti d’Europa? Io lo ignoro e non so se non converrebbe per ora limitarci ad immaginare creazioni di stati latini, germanici, slavi d’ordine più elevato dei piccoli stati europei, che tutto fa presumere destinati a divenire stelle di seconda o terza grandezza, se la società delle nazioni britannica saprà trasformarsi – problema grandioso, da cui dipende la vita o la morte del mondo anglo-sassone – in un vero stato, se gli Stati uniti sostituiranno alla dottrina di Monroe la estensione dell’unità federale alle altre parti dell’America e se i giapponesi diventeranno il fermento organizzatore del mondo cinese. La guerra presente è la condanna dell’unità europea imposta colla forza da un impero ambizioso; ma è anche lo sforzo cruento per elaborare una forma politica di ordine superiore. Questa deve essere il frutto degli sforzi di uomini convinti che soltanto le cose impossibili riescono ed hanno fortuna; ma devono essere sforzi indirizzati non ad affermare maschere false di verità, ma ideali concreti, saldi, storicamente possibili.

 

 



[1] Tradotto in tedesco nel 1945 con ampio rimaneggiamento e il titolo Die Föderationsidee vor einem Vierteljahrhundert und heute. Eine italienische Stellungnahmein«Neue Schweizer Rundschau» (Zürich), a. 12, n. 11, marzo 1945, pp. 655-664. Traduzione dall’italiano di Doris Hasenfratz. [ndr]

Contributo alla storia della teoria del rapporto tra M (moneta) ed MI (surrogati della moneta) nella equazione dello scambio

Contributo alla storia della teoria del rapporto tra M (moneta) ed MI (surrogati della moneta) nella equazione dello scambio

«Atti della R. Accademia delle scienze di Torino», vol. 53, 1917-1918, pp. 1305-1319 (tomo II, pp. 669-683)[i]

 

 

La carta economica della guerra

La carta economica della guerra

«Corriere della Sera», 19 dicembre 1917

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 605-609

 

 

I messaggi del signor Wilson rimarranno certo i più memorabili documenti della guerra presente, pur tanto feconda di scritture e di discorsi. Scritti in stile solenne e commosso, pervasi da alti ideali, ferreamente logici di una logica seguitata da anni, essi serbano le grandi tradizioni di una letteratura politica, che fu onorata dai nomi di Washington e di Lincoln. Le professioni di fede economica di Wilson – e ad una di esse voglio limitare i miei rilievi – sono lapidarie. Non c’è in esse nulla che tradisca neppure lontanamente l’ossequio alle passioni del momento, l’accettazione di quei tanti nuovissimi verbi i quali nei due campi nemici si sono succeduti a dimostrare l’irrequietudine e la nervosità degli spettatori del grandioso conflitto. Nella risposta memoranda al pontefice, il signor Wilson distruggeva in poche parole tutta l’impalcatura artificiosa della guerra economica dopo la guerra, di cui tanti frettolosi pubblicisti s’erano compiaciuti per anni ed a cui aveva reso omaggio verbale persino la conferenza economica di Parigi del 1915. In quell’occasione di Wilson diceva quel che il buon senso avrebbe già dovuto insegnare a tutti: se pace vi sarà, sia pace vera e non tregua di guerra; sia una pace ai cui benefici tutti possano partecipare, senza ricordo di nemici od amici, senza esclusioni commerciali, senza gelosie postume, le quali sarebbero feconde di nuove e più disastrose guerre.

 

 

Oggi, egli ripete alla Germania ed ai suoi alleati lo stesso discorso. Se pace vi sarà, questa dovrà essere vera pace. «Saremo contenti di pagare il prezzo che occorrerà per essa, senza mercanteggiare. Sappiamo ciò che sarà questo prezzo: sarà la giustizia intera ed imparziale, la giustizia in ogni luogo, per ogni nazione; sappiamo che la soluzione finale riguarderà i nostri nemici al pari dei nostri amici».

 

 

Ma non si illuda la Germania di potere sottrarsi, mercé la carta di guerra, al fato della giustizia uguale per tutti, della porta aperta a tutti sui mercati mondiali. Se essa vorrà correre dietro a piani di dominazione politica od economica, troverà schierati contro di sé, insieme con le nazioni dell’intesa, anche gli Stati uniti. «Sarebbe impossibile – dice il Wilson – ammetterla nella società delle nazioni che dovrà oramai garantire la pace del mondo. Potrebbe anche essere impossibile, in tale sgraziato concorso di circostanze, di ammettere la Germania ai liberi rapporti economici che debbono inevitabilmente accompagnare le associazioni di vera pace».

 

 

Questa è forse la nostra più formidabile carta di guerra. Finora solo il Wilson, fra tutti gli uomini di stato di parte nostra, ha posto nettamente, serenamente il dilemma: o sarà possibile concludere con la Germania una pace fondata sul rispetto della giustizia e delle nazionalità ed in tal caso la Germania sarà ammessa, pari tra uguali, a godere di tutti i vantaggi del commercio internazionale, senza esclusioni dirette contro la sua industria, contro i suoi uomini, contro i suoi capitali. Ovvero questa pace non sarà possibile, e non sarà colpa nostra se non la potremo ammettere ai liberi rapporti economici della futura comunità delle nazioni. Sapremo, pronunciando l’esclusiva, di dover continuare a fare la guerra e per ciò di danneggiare noi stessi economicamente; ma quale altra via ci è aperta verso chi non vuole la pace? I liberi rapporti economici a cui il Wilson invita la Germania a partecipare, come prezzo della pace vera, non sono un bene spregevole. Il prof. Bresciani-Turroni, testé chiamato dalla cattedra di statistica dell’università di Palermo a quella di Genova, ha pubblicato negli annali del seminario giuridico palermitano uno studio superbamente condotto su «Mitteleuropa», in cui la concezione di uno stato economico chiuso medio-europeo è stritolata e dispersa qual polvere al vento. Da questo studio traggo alcune cifre relative al 1913, ultimo anno normale di pace, le quali dimostrano quanto la Germania fosse dipendente dall’economia mondiale per la sua vita ricca e progressiva, e come fosse assurdo il sogno di ridursi a commerciare soltanto con alleati e neutrali (in milioni di marchi):

 

 

Importazioni

Esportazioni

Cifre assolute

Cifre percentuali

Cifre assolute

Cifre percentuali
Stati nemici

7.039,8

65,3

5.839,7

57,7

Stati alleati

910,0

8,3

1.233,5

12,2

Stati neutrali

2.682,8

24,8

2.892,9

28,6

Totale

10.632,6

98,4

9.966,1

98,5

Partite varie

137,7

1,6

130,4

1,5

Totale

10.770,3

100 –

10.096,5

100 –

 

 

Le percentuali, dopo che il Bresciani scrisse la sua monografia, mutarono ancora per l’aggiungersi di nuovi stati alla lista dei nostri alleati; sicché anche lasciando fuor del calcolo la Russia e la Finlandia, non si va lontano dal vero asserendo che la parte nostra potrebbe tagliare fuori la Germania da più del 60% del suo commercio di importazione e da circa il 55% del commercio di esportazione. Con danno nostro, s’intende; poiché il commercio, salvo casi eccezionalissimi, giova ad amendue i contraenti. Ma non si bada a sacrifici quando si tratta di difendere la sicurezza e la vita indipendente del paese!

 

 

Essere tagliata fuori da questa rilevante parte del commercio internazionale significa per la Germania continuare a vivere in pace in mezzo agli stenti della guerra: su 10 miliardi e 770,3 milioni di marchi di merci importate ben 3 miliardi e 49,2 milioni erano generi alimentari e di consumo. Significa costringere l’industria a vivere in pace una vita miserabile di surrogati e di ripieghi, non più compensati dai lucri delle forniture di guerra: nel 1913 ben 5 miliardi e 3,5 milioni di marchi erano invero materie gregge, poco meno della metà delle importazioni totali; e 1 miliardo e 238,8 milioni erano merci semi-lavorate. Senza queste importazioni l’industria tedesca non potrebbe esportare. Come potrebbe, priva di materie gregge e semi-lavorate, priva degli alimenti necessari a mantenere la popolazione lavoratrice ad un alto grado di efficienza, come potrebbe la Germania esportare 6 miliardi e 395,8 milioni di prodotti finiti all’estero? Né l’Austria-Ungheria, né la Turchia, né la Russia, né i paesi neutrali possono dare alla Germania il cotone, la lana, i metalli, la gomma elastica, ed infinite altre materie prime che essa elabora nei suoi opifici. Sarebbe per essa la tisi economica.

 

 

La Germania sa che la carta di guerra economica che l’intesa può giocare ha un valore non inferiore certo a quello della carta dei paesi occupati dagli eserciti austro-tedeschi. Sa che, astrazion fatta dalle perdute colonie, le flotte alleate, nonostante la guerra sottomarina, hanno escluso e continueranno ad escludere dai mari le marine austro-tedesche. Il capitano Persius, in un articolo pubblicato sul «Berliner Tageblatt» del 18 ottobre, ricordava ai suoi compatrioti: «Dopo la pace, quelle di derrate alimentari saranno le nostre importazioni più necessarie, perché senza di esse le nostre industrie non potranno riprendere con successo la concorrenza con l’estero. Il nostro nutrimento deve prima essere posto su una base sana. Noi non dimentichiamo che prima della guerra la maggior parte del nostro commercio marittimo aveva luogo con l’Inghilterra. I nostri migliori clienti erano l’Inghilterra, la Francia e la Russia, i quali, nel 1913, ci pagarono più di 3 miliardi di marchi per merci acquistate da noi, mentre l’Italia ed il Belgio ci pagarono un altro miliardo circa … Più a lungo la guerra durerà, maggiormente difficile diventerà la ripresa delle relazioni commerciali. Una abbondante messe di odio e di amarezza è immagazzinata, anche tra i neutrali, contro di noi; ed i nostri mercanti all’estero dovranno pagare il fio di colpe non loro».

 

 

I tedeschi hanno anche finito per scoprire quella che era una verità evidente per tutti salvoché per alcuni loro professori e mangiatori di fuoco: che cioè, prima che la guerra scoppiasse, nessuno sognava di togliere alla Germania il suo posto al sole, accerchiandola economicamente ed impedendole l’accesso ai mercati stranieri.

 

 

È necessario – afferma finalmente ora il capitano Persius combattere l’erronea opinione che l’Inghilterra prima della guerra frastornasse la nostra attività mondiale. Le statistiche bastano a provare il contrario. Si guardino le cifre seguenti delle esportazioni tedesche (in milioni di marchi):

 

 

nel 1900

nel 1913

Nell’India britannica

56,8

150

Nell’Africa britannica

23

229

Nell’Egitto

15,7

118,4

 

 

Queste cifre dimostrano che gli inglesi non frapponevano alcun ostacolo contro il sempre crescente sviluppo del nostro commercio con i paesi sottoposti al loro controllo.

 

 

Queste parole del capitano Persius provano quanto grande sia l’ansia del mondo tedesco di riconquistare il terreno prezioso che la guerra gli ha fatto perdere sui mercati mondiali. Il mondo tedesco sa che questa arma formidabile è in mano nostra e sa oramai a qual prezzo esso può ottenere che le nazioni dell’ intesa non se ne servano. Potevano finora i governanti tedeschi dubitare o far credere ai loro sudditi che solo colla forza si potesse costringere l’intesa ad ammettere nuovamente l’industria tedesca al godimento leale ed aperto dei mercati mondiali.

 

 

Alcuni atteggiamenti verbali di alcuni uomini dell’intesa potevano far dubitare che alla guerra guerreggiata dovesse in ogni caso seguire la guerra economica.

 

 

Oggi la franca parola di Wilson ha chiarito ogni dubbio e reso ai governanti nemici impossibile di pervertire l’opinione pubblica tedesca. Oggi i nemici sanno che noi non vogliamo farci pagare un prezzo ingiusto della ripresa delle relazioni economiche. L’unico prezzo è una pace giusta. Sia lode all’uomo saggio e semplice e franco, all’uomo che ha sempre mantenuto la parola data, in pace ed in guerra, per avere finalmente detta una parola di verità e di chiarezza su questa che è oggi e sarà domani, al congresso della pace, forse la nostra più formidabile arma di guerra!

 

 

Il problema degli impiegati

Il problema degli impiegati

«Corriere della Sera», 4 e 29[1] dicembre 1917, 23 gennaio 1918[2], 31 gennaio 1918[3]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 586-604

 

 

I

Uno stelloncino pubblicato alcuni giorni fa sul «Corriere» intorno al rialzo del costo della vita per gli impiegati ed alla necessità di ridurre le spese per altri ha dato luogo, da parte di molti lettori, ad equivoci di interpretazione, che è bene chiarire.

 

 

Diceva lo stelloncino, dopo avere affermato che gli impiegati avevano in gran parte ragione nel chiedere un aumento di stipendio a cagione del rinvilio di valore della moneta, che vi era un rovescio della medaglia. «Una delle cause principali per cui i generi alimentari e tutti gli altri oggetti sono cari è che la gente nella sua grande maggioranza ha più moneta da spendere e la spende. È un fatto di esperienza comune che oggi circola molto più denaro che non prima della guerra. Purtroppo i più lo spendono. Se invece lo tesoreggiassero, lo portassero alle casse di risparmio, come potrebbero tutti i prezzi crescere tanto? Crescerebbero alcuni prezzi, quelli delle merci comperate dallo stato o dagli industriali fabbricanti di munizioni; ma se il denaro, appena emesso dallo stato, fosse riportato alle casse di risparmio od investito in buoni del tesoro, come potrebbero gli altri generi crescere tanto? La rinunzia alle cose inutili e la riduzione del consumo delle cose necessarie è dunque un dovere per non fare rialzare i prezzi e per non rendere la vita difficile a coloro il cui reddito non è aumentato».

 

 

Parecchi impiegati scrissero al giornale protestando contro il consiglio di risparmiare che sarebbe stato, con queste parole, dato agli impiegati. Atroce ironia, dicono essi, questo consiglio dato a capi di famiglia il cui reddito è rimasto invariato o di poco cresciuto con la indennità di caro – viveri, mentre il costo della vita è cresciuto a dismisura!

 

 

L’equivoco è evidente. Il «Corriere» non aveva rivolto il consiglio di risparmiare a coloro il cui reddito è rimasto invariato, come sono gli impiegati a stipendio fisso, ma a tutti coloro, e sono maggioranza nel paese, i quali hanno più moneta da spendere e la spendono. Ed è anche evidentissimo che gli impiegati non possono in alcun modo sperare di vedere resa meno disagevole la loro condizione se gli altri, coloro il cui reddito è cresciuto, non sono indotti, per amore o per forza, a ridurre la loro domanda di merci.

 

 

Se, per fare un esempio schematico, in un paese ed in un dato momento vi sono 100 chilogrammi di carne in vendita e se i possibili clienti hanno 300 lire di reddito da spendere in carne, noi possiamo supporre che ogni chilogrammo di carne varrà 3 lire. Ma se i 100 chilogrammi di carne si riducono a 71 circa e se il reddito dei consumatori in carta-moneta disponibile per il consumo della carne aumenta nel complesso a 500 lire, ecco che il prezzo di ogni chilogrammo sale a 7 lire circa. Mentre però prima le 300 lire si dividevano in 150 lire spettanti ad impiegati ed altri possessori di redditi fissi e 150 lire spettanti a commercianti, industriali, operai a reddito variabile, e quindi ognuna delle due classi poteva acquistare 50 chilogrammi di carne; dopo, gli impiegati ed i redditieri fissi sono rimasti con le stesse 150 lire disponibili, mentre gli industriali, i commercianti e gli operai sono saliti a 350 lire. Ecco che a 7 lire al chilogrammo, agli impiegati toccano solo 21 chilogrammi di carne invece di 50, mentre le altre classi, il cui reddito è aumentato, possono continuare a consumare i soliti 50 chilogrammi. L’esempio, come tutti gli esempi che si possono immaginare, rappresenta la realtà solo all’ingrosso; ma serve a dare un’idea abbastanza fedele di quanto è avvenuto. Gli impiegati hanno ragione di lamentarsi di essere rimasti con 150 lire e di dover ridurre il consumo della carne da 50 a 21 chilogrammi; ma è chiaro che l’aumento degli stipendi del loro gruppo non sarebbe un rimedio bastevole. Occorre anche, oltre all’aumento di stipendio, il quale per necessità fatale del bilancio dello stato dovrà essere inadeguato e provocherà un nuovo aumento di prezzi, che le altre classi sociali non consumino tutto il loro reddito cresciuto. Se gli industriali, gli agricoltori, i commercianti, gli operai i quali hanno disponibili, nel loro gruppo, 350 lire, seguitassero a dedicare al consumo della carne solo 150 lire e risparmiassero il resto, probabilmente il prezzo della carne non salirebbe da 3 a 7 lire. La quantità di moneta da dare in cambio della carne (o, s’intende, delle altre derrate e merci) essendo minore, forse i prezzi rimarrebbero sulle 4-5 lire al chilogrammo. Amendue i gruppi dovrebbero ridurre il consumo da 50 a 35 chilogrammi, essendo la carne disponibile scemata da 100 a 70, ma la riduzione sarebbe distribuita equamente sulle varie classi sociali.

 

 

Perciò le classi, il cui reddito è rimasto stazionario od è poco cresciuto, non debbono rimanere indifferenti di fronte al lusso ed allo spreco degli arricchiti e delle classi che guadagnano di più di prima. Ogni maggior consumo, ogni consumo inutile, ogni spreco da parte di costoro è una spinta al rialzo dei prezzi, è una privazione nuova inflitta a coloro il cui reddito non è variato. Il risparmio non è solo un dovere verso lo stato, verso la collettività; ma anche un obbligo verso coloro a cui la sorte è stata meno benigna. È un errore dire che i salari, i guadagni, gli stipendi crescono perché il costo della vita è cresciuto; od almeno è una mezza verità la quale si potrebbe anche rivoltare, dicendo: i prezzi crescono ed il costo della vita aumenta, perché il reddito, perché i salari, i guadagni e in minori proporzioni gli stipendi cresciuti permettono ai consumatori di spendere di più. È il vecchio litigio dell’uovo e della gallina: tempo perso andar ricercando chi sia venuto al mondo prima.

 

 

Le osservazioni ora fatte non tolgono tuttavia forza alla giustificata richiesta degli impiegati di ricevere un sollievo alle loro sofferenze mercé un aumento di stipendio sensibile ed immediato. Diceva lo stelloncino incriminato: poiché il costo della vita è aumentato del 50%, è giusto che si dia agli impiegati un indennizzo, almeno parziale, per il rinvilimento della moneta in cui essi sono pagati. Le proteste giunsero numerose, sovratutto contro la percentuale del 50% che sarebbe stata, secondo lo stelloncino, la misura dell’aumento. No, si dice: non si tratta del 50%, bensì del 100, del 150, persino, a detta di taluni, del 250%. E quindi un aumento degli stipendi del 50% sarebbe di gran lunga insufficiente.

 

 

Anche qui bisogna eliminare gli equivoci. Certamente, se noi supponiamo che l’impiegato continui oggi a vivere con lo stesso tenore di vita del 1914, consumi la stessa quantità di vivande, di vestiti, di luce, di legna, ecc. ecc., non basta un aumento di spesa del 50%. Il signor Guido Del Monaco ha pubblicato sul giornale di classe «Il miglioramento» un bilancio-tipo dell’impiegato, con moglie e due figli al disotto dei 10 anni. Nel 1914 occorrevano lire 3,70 per il vitto, calcolato ai prezzi medi, ed oggi 8 lire, calcolando i prezzi minimi. Per le spese diverse (affitto, vestiario, riscaldamento, ecc.) da 3,60 si sarebbe passati a 6,60: in tutto da 7,30 a 14,60, esattamente il doppio.

 

 

In massima le cifre del Del Monaco, per un bilancio di 3.000 lire lorde e di 2.700 circa nette da imposte e trattenute, possono essere ritenute accettabili. Tuttavia, se noi vogliamo passare dal bilancio-tipo al bilancio reale, delle spese che si dovrebbero fare a quelle realmente verificatesi in famiglie di impiegati, le quali hanno tenuto i loro conti in maniera esatta, fa anche d’uopo dire che un aumento di spesa del 100% è un’eccezione. Ho esaminato parecchi di questi bilanci, i quali vanno, od andavano, nel 1914, precisamente da una spesa di 3.000 lire-reddito modesto, corrispondente a quello di moltissimi impiegati con famiglie piccole e non molto innanzi nella carriera, compresi nello stipendio gli accessori, le gratificazioni ad una spesa di 12.000 lire, corrispondenti allo stipendio, accessori compresi, dei direttori generali, dei consiglieri di stato, degli alti magistrati, ecc. Orbene, l’aumento complessivo, di fatto verificatosi, oscilla dal 10-20 al 30-40%. È più alto nei bilanci più ristretti, più basso nei bilanci più elevati; il che è intuitivo, essendo più agevole ridurre le spese laddove c’era un margine oltre l’indispensabile, che non dove già prima ci si doveva limitare al necessario. Come si sia potuto limitare l’aumento di spesa ad una percentuale inferiore a quella del 100% (la quale risulterebbe dal bilancio-tipo), è noto a tutti coloro che hanno dovuto fare i conti di famiglia in questi anni di guerra. Il primo capitolo eliminato fu quello dei pochi divertimenti, che gli impiegati potevano permettersi. In molti casi, finora nella maggioranza dei casi, un grosso capitolo delle spese, quello del fitto di casa, in virtù di contratti in corso, di decreti luogotenenziali, di consuetudini, non aumentò. Gli abiti si fecero durare più a lungo; talvolta per un anno intiero si rinunciò a rinnovarli. Vecchi soprabiti e vecchie giacche furono rivoltati e tornarono a fare una decente figura. Coloro i quali sul loro stipendio mettevano da parte qualche risparmio, costretti dalla dura necessità vi rinunciarono. La qualità delle vivande divenne meno buona; al burro si surrogarono margarina ed altri grassi. Su molte tavole il vino cessò di fare la sua comparsa.

 

 

Non contro queste rinuncie elevano gli impiegati la loro protesta. Essi hanno dato prova di sapere pazientare e restringersi fin dove era possibile. Ma vi è un punto al di là del quale non si può andare; e non è interesse dello stato si vada. questo punto giunge quando bisogna ridurre il vitto al disotto di quel limite che è fisiologicamente necessario per la buona salute; quando le scarpe, non rinnovate a tempo, sono cagione di malanni; quando in casa non vi è legna abbastanza per riscaldarsi tollerabilmente; quando fa d’uopo rinunciare a cure mediche che sarebbero necessarie. Lo stato ha interesse a che i suoi impiegati possano prestare un lavoro efficace ed ha un interesse ancor più grande a che le nuove generazioni vengano su sane e robuste. Lo stato non può chiudere gli occhi dinanzi a questi che sono suoi doveri strettissimi. O non ha forse, d’altra parte, ufficialmente riconosciuto che la lira non è più quella di prima, decretando che invece di 100 lire si debbano pagare, per dazi doganali, 150 lire in carta-moneta? La regola la quale è buona per ricevere, perché, sia pure con diverse percentuali, non dovrebbe essere buona per pagare?

 

 

L’azione degli impiegati dello stato, degli altri enti pubblici, delle società ed imprese private dovrebbe svolgersi dunque secondo queste direttive:

 

 

  • Ottenere un aumento nell’indennità per caro-viveri, la quale oggi si aggira sulle trenta lire al mese e si ferma alle 4.500 lire lorde. O che forse gli impiegati con stipendio maggiore non hanno dovuto far fronte a spese cresciute? Non accade che essi abbiano spesso famiglie più numerose da mantenere, con figli in età in cui vitto, vestiti, libri scolastici costano maggiormente? La guerra ha reso la posizione dei capi delle amministrazioni pubbliche ancor più intollerabile di quanto prima non fosse. I direttori generali, ai quali sono affidati interessi gelosissimi, che talvolta amministrano centinaia di milioni di lire sono pagati con 10.000 lire lorde, uguali a circa 8.500 lire nette. Con tutti gli arrotondamenti di diarie, commissioni ecc. potranno giungere ad 11.000; e con queste l’alto funzionario deve tenere una posizione, un decoro, dar prova di intelligenza, di capacità organizzatrice, di rettitudine quali l’industria privata pagherebbe con stipendi almeno cinque volte superiori. Se non si pone rimedio a questa disparità di trattamento, ben presto le pubbliche amministrazioni saranno disertate da quei probi uomini di valore che ancora vi restano. Già ora, a cagion d’esempio, le dimissioni spesseggiano nel corpo degli agenti delle imposte, corpo a cui sono affidate funzioni gelosissime, e dalla cui intelligenza ed onestà dipende l’incasso per lo stato di centinaia di milioni di lire in più od in meno. Il rinvilio della moneta minaccia di ridurre le pubbliche amministrazioni ad un’accozzaglia di gente inetta o scoraggiata; improduttiva sempre e costosissima all’erario. Le indennità oggi imperiosamente richieste per tutti gli impiegati, dai più umili ai più elevati, sono per ora urgenti per salvare lo stato dalla bancarotta amministrativa. A pace fatta, bisognerà riformare a fondo. Adesso urge impedire semplicemente lo sfacelo.
  • Chiedere che le indennità siano meglio graduate in ragione del numero dei componenti la famiglia. Si tenga pur conto, per impedire abusi, della sola moglie e dei figli in minore età. Ma si pensi a porre la mente dell’impiegato in condizioni di tranquillità rispetto alla famiglia. Del resto, anche dopo la guerra, lo stato dovrà tener conto della figliuolanza nel determinare la remunerazione dei suoi funzionari e le imposte gravanti sui cittadini. Per molti anni lo stato non potrà dimenticare di avere un interesse diretto a favorire le famiglie numerose.
  • Segnalare tutte le occasioni ed i modi con cui gli impiegati potrebbero ottenere guadagni supplementari. In ciò l’industria privata riesce assai meglio dello stato, sicché gli obblighi d’aumento di stipendi possono per essa essere meno accentuati che per lo stato. Ma anche questo, oggi che le chiamate hanno diradate le file della burocrazia, dovrebbe interessare i pochi rimasti a fare il lavoro degli assenti.
  • Spingere lo stato ad attuare una forte politica di imposte, correttamente e severamente repartite. Gli impiegati non si debbono solo preoccupare di ottenere un aumento di stipendio. Poiché è impossibile che l’aumento basti a riportarli alle condizioni antiche, essi devono cercare di diminuire la capacità di acquisto degli arricchiti e di tutti coloro che guadagnano più di prima. Praticamente ciò vuol dire che gli impiegati hanno interesse a far propaganda e ad agitare l’opinione pubblica in favore di una severa applicazione delle leggi d’imposta esistenti e della istituzione dell’imposta complementare sul reddito. Tutti vi dovranno sottostare, anche gli impiegati, ma il lieve sacrificio sarà di gran lunga compensato dalla decurtazione dei redditi di coloro che oggi spingono all’aumento dei prezzi.
  • Far propaganda a favore del risparmio volontario. Presso le masse operaie la voce degli studiosi non è ascoltata. Le nostre parole sono accolte con diffidenza, come quelle che verrebbero da «economisti difensori prezzolati dalla borghesia». Ma quando le organizzazioni degli impiegati, studiando a fondo il problema, si persuadessero dell’interesse grande che hanno le classi a reddito fisso nel veder risparmiare le classi a reddito variabile, un gran passo sarebbe fatto. Bisogna battere e ribattere sul chiodo: non basta aumentare il reddito degli impiegati; fa d’uopo anche che gli altri, il cui reddito in causa della guerra aumentò, si astengano dal consumare tutto il sovrappiù.

 

 

II

Le molte lettere ricevute in seguito all’articolo pubblicato su queste colonne sul problema degli impiegati dimostrano che l’argomento è vivo e la necessità di provvedere è sentita in grado acutissimo. Naturalmente le osservazioni, le critiche e le proposte si incrociano e non di rado sono contradditorie le une alle altre, sebbene un certo consenso generale si manifesti sui punti essenziali. Si riconosce da tutti la necessità di spingere le altre classi, quelle le quali godono di redditi variabili ed aumentati in conseguenza della guerra, a risparmiare nella misura massima possibile. I più ritengono tuttavia che questo sia un rimedio «teorico». Mi sia permesso di osservare che sempre l’opinione pubblica ha considerato «teorici» i soli rimedi veramente efficaci ai malanni sociali. Crescono i prezzi delle sussistenze in modo disordinato? E la gente grida all’accaparramento, alla speculazione, alle ladrerie, all’ingordigia dei produttori e dei commercianti ed invoca fulmini e saette, requisizioni, calmieri, gestione governativa delle industrie, non pensando che l’accaparramento e la speculazione sono conseguenze del rialzo dei prezzi e che agli speculatori è indifferente speculare al rialzo od al ribasso – dal 1880 al 1900 quante lagnanze inutili non muovevano gli agricoltori e gli industriali contro gli speculatori al ribasso sulle derrate agricole e sulle merci! – quando rialzo o ribasso tendono già a verificarsi per altre cause. Non riflettono costoro sovratutto che una organizzazione qualsiasi, dello stato ovvero del privato commercio, è necessaria per produrre e per distribuire le derrate; che si può distruggere il commercio privato solo a condizione di aver qualche organismo migliore da sostituirvi. Ma se stato e comuni sono a gran fatica e molto imperfettamente capaci di assolvere una piccola parte dell’immane compito di far vivere un paese, se l’esperienza di secoli e quella della guerra presente dimostrano essere chimerico sperare che stato e comuni possano risolvere il problema della vita a buon mercato, giuocoforza è lasciar vivere agricoltori, industriali e commercianti affinché dal proprio interesse siano spinti a soddisfare ai bisogni della collettività.

 

 

Del resto, qui non è la causa del male; ed è infantile prendersela con le conseguenze e con i fenomeni accompagnatori del rialzo dei prezzi, quando abbiamo tutti dinanzi agli occhi la verità: ed è che i prezzi salgono perché fortissimi gruppi sociali, oserei dire la maggioranza della popolazione, ha maggior quantità di moneta da spendere e la spende facendo domanda di merci e derrate di consumo. Bisogna ridurre la quantità di moneta in possesso del pubblico:

 

 

  • colla forza, il che vuol dire con imposte straordinarie di guerra, giustamente ripartite;
  • colla persuasione, spingendo coloro il cui reddito è cresciuto ed in genere tutti quelli il cui reddito è superiore al minimo, indispensabile per vivere sanamente, a risparmiare, destinando i risparmi a depositi, in casse o banche, ad acquisti di titoli di stato e ad investimenti per impianti necessari nel presente momento.

 

 

Taluni impiegati affermano che essi pagano già troppe imposte e che la loro voce è inutile a persuadere i ricchi, gli arricchiti, gli operai, i contadini a risparmiare, e perciò se ne lavano le mani, e solo reclamano una indennità per caro-viveri. È un atteggiamento egoistico, chiuso, contrario agli interessi della classe degli impiegati. Chi può negare l’efficacia dell’opinione pubblica sul comportarsi degli uomini? Quante cose non si fanno per «rispetto umano» ? Quando le signore, le quali osano comprare in questi tempi gioielli, vestiti, cappellini, scarpette ed altri fronzoli di lusso si vedessero fatte oggetto del pubblico disprezzo, sia pure manifestato in forme urbane, non oserebbero più farsi vedere se non in abito modesto e mancherebbe la ragione dello spendere. Quando nei ristoranti le richieste di cibi fini e soverchi e di vini costosi sollevassero negli astanti osservazioni giustamente severe, vi sarebbe meno spreco. Chi può negare l’efficacia dell’opera di persuasione delle associazioni di impiegati sulle consorelle associazioni operaie e di queste sulle masse organizzate? Le imposte nuove e specialmente quelle sul reddito complessivo, sono necessarie per ridurre la capacità di spendere di coloro che spendono troppo; ma chi non vede come la miglior maniera di persuadere la pubblica opinione e gli uomini di governo della necessità di tassare sia non già di dichiarare a priori che l’imposta la devono pagare solo gli altri, bensì di profferirsi pronti a pagarla altresì noi medesimi. S’intende che, dovendo l’imposta globale tener conto dei carichi di famiglia (numero dei figli, genitori vecchi a carico, ritenute pensioni, assicurazioni per malattia, infortuni, vecchiaia, in caso di morte, ecc. ecc.) e degli altri redditi eventuali dell’impiegato, essa lascerà immune l’impiegato con scarso stipendio, con molta famiglia e tasserà lo scapolo ed il ben provveduto. Che cosa si può trovare, salvo che ragionando egoisticamente, contro tutto ciò?

 

 

Soltanto dimostrando di essere consapevoli della solidarietà la quale avvince la classe degli impiegati alle altre classi sociali, soltanto subordinando il loro interesse a quello della collettività e perciò dando opera a proporre riforme e riduzioni di organici, semplificazioni di servizi, economie nella gestione, possono gli impiegati sperare di rendere la loro causa simpatica ed ottenere il soddisfacimento immediato del loro desiderio più urgente, che è un aumento ad una migliore distribuzione dell’indennità per caro-viveri.

 

 

Che lo stato faccia qualcosa subito è davvero imperioso. Le lettere ricevute mi hanno fornito una messe di casi pietosi e talvolta atroci. Impiegati che soffrono la fame, che devono far lavorare moglie e figlie in umili mestieri per sfamarle; famiglie le quali resistono a privazioni inaudite solo perché hanno alto il sentimento dell’onore; altre, in cui i freni morali sono meno solidi ed il marito chiude un occhio sulle fonti non pure con cui la moglie riesce a tirar su la figliuolanza; uomini con 30 anni di servizio, da anni posti a capo di importanti e delicatissimi uffici, i quali godono dell’ annuo stipendio di 4000 lire, meno di 10 lire nette al giorno. Con che animo si può servire lo stato in simili condizioni? Leggasi ciò che mi scrive un sostituto procuratore del re, il quale firma, con nome, cognome e domicilio la sua lettera:

 

 

Non ho un millesimo all’infuori dello stipendio di lire 5.000 annue lorde, pari a 360 lire e dispari mensili. Ho tre figli nel ginnasio in fila indiana: prima, seconda e terza, fra i 10 ed i 14 anni. Pago cento lire mensili un modesto alloggio. Mi dica lei se, tolte le tasse scolastiche, quelle comunali e così via, resti tanto da poter nutrire, calzare e vestire i poveri figli. I volgari fagioli costano lire 2,60 al chilo, il carbone lire 5,20, un uovo mezza lira, un paio di scarpe è un disastro, un abito peggio. Io ho abolito la carne, ho abolito il vino: finora l’alimento era limitato ai farinacei. Dico «finora» perché viene a mancare anche quello. Vedere un bimbo che studia nella impossibilità (determinata dalla ripugnanza) di mandar giù della pastaccia acida e non potergli somministrare altro sapendolo ghiotto di carne e vederlo l’ indomani levarsi pallido e con gli occhi cerchiati di livido! E lo stato che fa? Vi dice: voi avete più di 4.500 lire lorde ed io non vi do un sol centesimo.

 

 

Chi scrive queste sconsolate parole è un magistrato. Appartiene cioè alla classe di pubblici funzionari che deve essere collocata più in alto di tutte, al disopra dei funzionari politici ed amministrativi, al disopra degli insegnanti, al disopra degli stessi rappresentanti elettivi, perché dalla sua coscienza, dalla sua indipendenza, dalla sua scienza dipendono la vita, l’onore, la libertà, gli averi di tutti i cittadini. Come può studiare libri di scienza ed incarti di processo, come può ascoltare serenamente imputati, testimoni, difensori, chi ha dinanzi alla mente continuo il pensiero della famiglia vivente negli stenti? Come non inorridire al pensiero che lo stato fa tali miserabili condizioni di vita ai membri di quella magistratura a cui pure affida il carico di dispensare la giustizia, che sempre fu detta fondamento dei regni?

 

 

Chiedasi dunque agli impiegati pubblici che essi facciano tutto il loro dovere, più del loro dovere; si dimostrino costoro degni dell’appoggio della pubblica opinione dimostrando di essere in grado di servire, in minor numero, meglio, più rapidamente, più cortesemente i cittadini, i quali ricorrono ai loro uffici; impongano essi, contro la ripugnanza di una frazione, misoneista od interessata dei loro capi, e coll’appoggio del pubblico da essi medesimi illuminato, ogni pratica semplificazione nei servizi. Ma lo stato cominci a rendere loro giustizia, quando essi la chieggono sul fondamento di ragioni irrefutabili. L’aumento generale delle indennità per caro-viveri, che oggi sono stabilite in misura insufficiente; la loro estensione a tutti gli stipendi, nessuno eccettuato, anche superiori alle 4.500 lire lorde; la loro commisurazione degressiva, in guisa che la percentuale d’aumento sia massima per gli stipendi minimi ed a mano a mano si riduca a misura che gli stipendi aumentano, senza mai divenire irrisoria; la loro commisurazione altresì ai carichi di famiglia, in guisa che poco o nulla riceva l’impiegato scapolo e più coloro che hanno figli in minore età od altrimenti incapaci a procacciarsi da vivere, più o meno a seconda del numero dei figli.

 

 

Taluno vorrebbe che si tenesse conto anche degli altri redditi che l’impiegato può possedere, falcidiando l’indennità a mano a mano che aumentano gli altri redditi, professionali o patrimoniali, che l’impiegato eventualmente possegga. Per ora la proposta è inattuabile, perché in Italia non esiste nessun mezzo serio di conoscere il reddito complessivo dei contribuenti. Ogni norma si volesse escogitare al riguardo darebbe luogo ad errori gravissimi. Ed è dubbio, del resto, se la proposta giovi all’interesse pubblico, perché gli impiegati sarebbero spinti a non risparmiare, per il timore di vedersi negata l’indennità di caro-viveri o l’aumento di stipendio qualora si accertasse l’esistenza di un reddito proveniente da risparmi precedenti. In questo momento, è difficile che gli impiegati possano risparmiare, salvo coloro i quali con redditi patrimoniali, con lavori straordinari o con l’esercizio, se consentito, di professioni integrino il nudo stipendio. Ma in tempi normali sono per fortuna abbastanza numerosi gli impiegati tenaci e parsimoniosi, i quali riescono a mettere da parte un peculio per far fronte ad eventi sfortunati o per aiuto alla famiglia. Costoro dovrebbero essere incoraggiati con premi o riduzioni d’imposta, non certo scoraggiati col togliere loro parte dell’indennità per caro-viveri. Hanno dimostrato di possedere qualità virili di rinuncia più dei loro colleghi; e dovrebbero, se possibile, godere di vantaggi nella carriera, poiché con tutta probabilità posseggono altresì qualità elevate di lavoro, di zelo, di capacità.

 

 

III

Attorno al problema degli impiegati sono sorti altri problemi minori, i quali interessano vivamente l’opinione pubblica, se debbo giudicare dalle numerose lettere che ricevo.

 

 

Gli impiegati privati desiderano che si pensi alla loro sorte, talvolta peggiore di quella degli impiegati pubblici, per la mancanza di sicurezza di pensione, di congedi ed aspettative pagate. Non sempre, in verità, la sorte degli impiegati privati è peggiore di quella degli impiegati pubblici. Una inchiesta eseguita alcuni anni fa dal prof. Pantaleoni dimostrò che in generale gli impiegati privati sono peggio pagati degli impiegati pubblici nei gradi inferiori degli impieghi d’ordine e stentano altresì di più ad ottenere aumenti dopo trascorsi gli anni della massima produttività. Invece gli impiegati di concetto ed i dirigenti sono subito meglio pagati dall’industria privata che dallo stato. Una minoranza di impiegati privati arriva alle 400-1000 lire al mese prima dei 30 anni; mentre gli impiegati pubblici debbono attendere, in identiche condizioni, assai più a lungo.

 

 

In queste constatazioni vi è sempre l’antico concetto: lo stato non sa servirsi dei giovani, degli avventizi, delle donne, dei cottimi e quindi è costretto ad affidare ogni lavoro, anche il più umile, che potrebbe essere sbrigato da ragazzi o giovani o donne in attesa di meglio, ad impiegati maturi, con famiglia. Perciò deve spendere molto, pur rendendo tutti malcontenti e pur pagando poco gli impiegati che rendono molto. Ciò dimostra anche che il problema degli impiegati privati presenta aspetti assai differenti da quello degli impiegati pubblici, sicché ad essi non si applicano le medesime provvidenze. Tuttavia, il problema fondamentale è per tutti lo stesso: la moneta rinvilita fa sì che le 100, le 200, le 500 lire d’un tempo equivalgono oggi a 60, a 120, a 300 lire. Occorre un riaggiustamento degli stipendi ai mutati prezzi. Ma si persuadano gli impiegati privati come i pubblici: se non vogliamo cadere in un circolo vizioso, se cioè non si vuole che l’aumento di stipendi non provochi un nuovo aumento di prezzi, per la maggiore richiesta di derrate e merci da parte degli impiegati, ed i prezzi cresciuti non facciano desiderare un nuovo aumento di stipendi e così via all’infinito, senza via d’uscita, fa d’uopo che:

 

 

  • tutti risparmino il più possibile;
  • ed investano direttamente od indirettamente i loro risparmi in prestiti di stato; affinché lo stato possa esimersi dall’emettere biglietti.

 

 

Se non si sospendono le nuove emissioni di biglietti, i prezzi continueranno ad andare sempre più su. È questa forse l’unica profezia sicura che gli economisti possano fare nel momento attuale. I prezzi d’oggi, già così alti, sembreranno fra qualche tempo mitissimi e sopportabilissimi, se coloro, il reddito della cui famiglia è aumentato dal 1914 in poi di più del 50 e 60%, non si decidono a risparmiare tutta l’eccedenza oltre la spesa del 1914, aumentata altresì del 50-60%. Chi aveva nel 1914 un reddito di 5.000 lire e risparmiava 1.000 ed oggi ha un reddito di 8.000 lire deve spendere solo 4.000 più il 60% ossia 6.400 lire e deve risparmiare 1.600 lire. La famiglia la quale aveva, coi salari di tutti i suoi componenti, un reddito di 2.000 lire nel 1914, e le spendeva tutte, se oggi ha un reddito di 4.000 lire, deve spendere solo 2.000 lire più il 60%, ossia 3.200 lire e risparmiare 800 lire. Questi sono esempi approssimativi, che ognuno può adottare ai casi suoi. Ma se non sì fa così, è facile prevedere che la vita diventerà ognora più dura per coloro il cui reddito è rimasto stazionario ed è cresciuto meno del 60%. Questi ultimi si facciano perciò propagandisti del prestito presso gli amici ed i conoscenti, che essi sanno avere qualche maggior larghezza di mezzi o salari o stipendi o guadagni familiari cresciuti oltre il 50-60% in confronto al 1914. Gioveranno allo stato; ma anche a se stessi.

 

 

Secondo le notizie che corrono sui giornali, il disegno di decreto che si sta elaborando a favore degli stipendi degli impiegati contempla anche gli ufficiali ed i maestri elementari. Non ci sarebbe invero alcuna ragione perché queste due categorie di persone fossero trascurate. I secondi hanno per lo più stipendi bassi, su cui duramente preme il rincaro della vita. I primi, anche quando godono di indennità di guerra, se le vedono assorbite ed al di là dalla doppia spesa del mantenimento proprio e della famiglia, che deve vivere separata. Che dire poi degli ufficiali, i quali hanno dovuto abbandonare la professione di avvocato, ragioniere, ingegnere, medico, o il commercio o l’ufficio di rappresentanze? Per costoro il richiamo è non di rado la rovina economica, la dispersione della clientela. Consumati i risparmi, non potendosi o non osandosi ricorrere ai sussidi governativi, la vita per la famiglia dell’ufficiale richiamato diventa dolorosa. Come può l’ufficiale incoraggiare i soldati, animarli alla resistenza se ha sempre dinanzi alla mente l’immagine della moglie, dei figli, della madre che egli non è in grado di mantenere decorosamente? Questo è un punto del problema dell’aumento dei prezzi che tocca davvicino la compagine dell’esercito e non può essere dimenticato.

 

 

Alcuni impiegati scapoli si sono allarmati per la differenza che vorrei fosse fatta tra essi e gli impiegati con prole e dicono:

 

 

  • la vita è rincarata per essi forse più che per gli impiegati ammogliati. Che cosa resta ad un impiegato a 100-150 lire al mese dopo pagata la stanza e due pasti al giorno, a 2 lire per pasto, in una modestissima trattoria? In famiglia, si possono fare economie che, per chi vive da solo e deve affidarsi a servizi mercenari, sono impossibili;
  • spesso si è scapoli perché si debbono mantenere madre e sorelle, vecchie o non capaci di lavoro produttivo. Perché punire costoro, che hanno sacrificato se stessi a beneficio altrui?

 

 

Poiché si tratta di ragioni giuste, fa d’uopo riconoscere che lo stato non può dimenticare gli impiegati scapoli nel concedere un aumento per il rincaro della vita. Tuttavia continuo a ritenere opportuno che ai padri di numerosa prole sia fatto, per ognuno dei figli minorenni superiori al numero di due o tre, un trattamento speciale. La sede più opportuna di questo trattamento sarebbe un condono od una minorazione d’imposta per tutti i padri di famiglia e non solo per gli impiegati pubblici. Nuovo argomento per istituire l’imposta di famiglia o sul reddito per conto dello stato.

 

 

Di tutte le situazioni economiche sovvertite dal rincaro dei prezzi la più dolorosa è sotto certi rispetti quella dei pensionati. Le pensioni, commisurate spesso a stipendi antichi, inferiori a quelli attuali, uguali al massimo agli otto decimi dello stipendio, decurtate dall’imposta di ricchezza mobile – e su di ciò non vi è nulla da osservare, finché per tutti non se ne muti l’assetto – e da una irragionevole e male costruita ritenuta del tesoro, sono in moltissimi casi insufficienti anche a condurre quella vita vegetativa che lo stato suppone debba essere la sorte dei suoi vecchi servitori e delle loro mogli. Per le vedove la pensione è uguale al terzo di quella del marito e talvolta si riduce a pochi soldi al giorno.

 

 

Dicono i pensionati: la pensione è una continuazione dello stipendio, è un compenso prorogato dei servizi che noi abbiamo prestato quando eravamo capaci di lavorare. Invece di uno stipendio di 120, senza diritto a pensione, lo stato ci pagò 100 col diritto a pensione. Se ora si aumentano gli stipendi, perché la moneta è rinvilita, bisogna aumentare anche le pensioni. O che la moneta non è rinvilita anche per noi?

 

 

Il problema delle pensioni è uno dei più grossi ed urgenti che nel dopo guerra dovranno essere affrontati. Impiegati mal pagati, carichi di debiti per la cessione del quinto, incapaci a risparmiare; e, divenuti vecchi, viventi esclusivamente della pensione: ecco il quadro miserevole della maggioranza degli impiegati pubblici. Vi sono le eccezioni, di coloro che hanno avuto maggior forza di volontà ed hanno una riserva di risparmio; ma sono eccezioni. È necessario che gli impiegati cessino di fare affidamento esclusivo su la pensione. Poiché esiste, l’istituto nazionale delle assicurazioni dovrebbe sovratutto proporsi, coll’aiuto del tesoro, di educare gli impiegati al risparmio. Essi dovrebbero potere, con le dovute garanzie, rinunciare in tutto od in parte alla pensione per formarsi un capitale. D’altro canto, mentre vi sono taluni impiegati troppo vecchi mantenuti in servizio, vi sono moltissimi impiegati ancor giovani od ancora robusti e vegeti che sono mandati a spasso a godersi la pensione, mentre potrebbero lavorare ancora. La mania dei limiti d’età sta danneggiando gravemente l’amministrazione italiana, per l’ammissione di troppi giovani nelle carriere burocratiche, i quali poi non troveranno sfogo in una carriera soddisfacente.

 

 

Frattanto però i pensionati ci sono e non è decoroso, non è umano che lo stato li costringa alla miseria. Il problema del rincaro della vita è stato creato dallo stato, con le sue emissioni di biglietti, ed è quindi suo dovere alleviare in parte gli squilibri più dolorosi che per quella causa si verificano tra coloro i quali prestano od hanno prestato servizi a suo favore.

 

 

IV

Le notizie pubblicate sui giornali dicono che i ministri stanno ancora studiando la questione dell’aumento dello stipendio agli impiegati. Ed è bene che il problema sia attentamente ponderato, per evitare errori, recriminazioni, malcontenti che toglierebbero efficacia morale al provvedimento e scemerebbero il valore del sacrificio ragguardevole sebbene non spaventevole, che i contribuenti sono chiamati ad addossarsi. Seguito a ricevere numerose lettere, le quali si intrattengono su casi particolari, che qui non possono essere esaminati per non dar luogo ad una casistica interminabile. Sembra a me che sovratutto importi adottare un criterio generale corretto, e quello applicare a tutti: impiegati e pensionati. Trascurare questi ultimi sarebbe ingiustizia, postoché la moneta per tutti è rinvilita. Potrà darsi che il criterio generale, buono in massima, dia luogo a qualche errore nei casi singoli, ad esempio, dando troppo agli scapoli senza parenti da mantenere od ai pensionati in buona età, provveduti di altro stipendio in impieghi privati. Trattasi però di mende inevitabili, a cui si potrà riparare in un secondo tempo.

 

 

Il punto essenziale è, ora, che non si commettano errori nella determinazione dell’aumento. Un errore facile, in cui comunemente si e incorso ed in cui non è escluso si possa incorrere anche stavolta, a quanto almeno si deduce dai comunicati dei giornali, sarebbe quello di calcolare l’aumento con percentuali decrescenti bensì, ma su tutto lo stipendio. Suppongasi, ad esempio, che si dica: L’aumento è del 30% per gli stipendi fino a 200 lire mensili, del 20% per gli stipendi da 201 a 500 lire e del 10% per quelli superiori a 500 lire. Una dicitura siffatta sarebbe uno sproposito tecnico e darebbe luogo a sperequazioni stridenti. Bisogna invece dire, conservando le medesime percentuali: L’aumento è, per tutti gli stipendi, del 30% per la parte dello stipendio che va sino a 200 lire mensili, del 20% per la parte che va da 201 a 500 lire e del 10% per la parte che supera le 500 lire.

 

 

Ecco come funzionerebbero i due sistemi, per alcuni stipendi tipici:

 

 

Aumento secondo il

Stipendio primo sistema erroneo secondo sistema corretto
100 30 30 – – = 30
200 60 60 – – = 60
220 44 60 + 4 – = 64
300 60 60 + 20 – = 80
400 80 60 + 40 – = 100
500 100 60 + 60 – = 120
550 55 60 + 60 + 5 = 125
600 60 60 + 60 + 10 = 130
700 70 60 + 60 + 20 = 140
800 80 60 + 60 + 30 = 150
900 90 60 + 60 + 40 = 160
1.000 100 60 + 60 + 50 = 170

 

 

Si vede subito perché il primo sistema sia sbagliato. Quando l’impiegato passa, per compiuto sessennio, da 200 a 220 lire al mese di stipendio, cade altresì da un aumento del 30%, ossia di 60 lire, ad un aumento del 20%, ossia di sole 44 lire. Prima aveva in tutto 260 lire, dopo ne ha 264, appena 4 di più, dopo sei anni di anzianità. Così pure, quando passa da 500 a 550 perde l’aumento del 20% per avere solo più quello del 10%, ossia il suo stipendio complessivo passa da 600 a 605 lire. Gli aumenti procedono a balzelloni, andando in su e poi calando e poi crescendo ancora per tornare a scendere e risalire, senza alcuna regola fissa. C’è qualche motivo ragionevole per dare 100 lire a colui che ha 500 lire di stipendio e sole 60 a chi ne ha 600 e di nuovo 100 a chi ne ha 1.000?

 

 

Tale errore, conosciutissimo in tema di imposta progressiva e da tempo confutato e messo nel dimenticatoio dai legislatori che appena appena ricordano i primi elementi della tecnica tributaria, viene corretto applicando il secondo sistema, che dicesi degli scaglioni. Con esso, tutti gli stipendi, grossi e piccoli, vengono divisi in porzioni. Alla prima, fino a 200 lire si dà il massimo aumento, del 30%. Alla seconda, fra 201 e 500, l’aumento medio del 20%, alla terza, sopra 500 lire, il minimo del 10%. Il sistema è un po’ complicato, ma solo in apparenza; poiché il tesoro può su un foglietto di carta far stampare un prontuario, con gli aumenti già bell’e calcolati per tutti gli stipendi immaginabili. Vedesi come l’aumento col secondo sistema procede regolare, senza contorsioni bizzarre ed inesplicabili. L’aumento, come è naturale, cresce ognor più lentamente quanto più ci avviciniamo ai gradi massimi. Dai a tutti, come è ragionevole, perché per tutti è cresciuto il costo della vita, sebbene in proporzione percentuale progressivamente e regolarmente decrescente col crescere dello stipendio. L’aumento è proporzionatamente massimo per gli stipendi fra 200 e 500 che sono il grosso degli stipendi pubblici. Anche le percentuali del 30, 20 e 10 mi paiono ragionevoli sia in rapporto ai bisogni degli impiegati, sia in relazione al carico dello stato, che fa d’uopo non crescere oltremisura.

 

 


[1] Con il titolo L’urgente problema degli impiegati. [ndr]

[2] Con il titolo Aumenti di stipendio, risparmio e prestito. (A proposito degli impiegati privati, ufficiali, maestri e pensionati). [ndr]

[3] Con il titolo Per evitare un possibile errore tecnico nell’aumento degli stipendi agli impiegati. [ndr]

La scuola ha adempiuto al suo dovere?

La scuola ha adempiuto al suo dovere?

«Corriere della Sera», 18 novembre 1917

Lettere politiche di Junius, Laterza, Bari, 1920, pp. 67-78

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 540-546

 

 

 

 

Signor Direttore,

 

 

oramai, quasi tutte le scuole italiane, da quelle elementari alle universitarie, si sono riaperte; e l’ora tragica, che l’Italia attraversa, ha fatto pronunciare a scolari e ad insegnanti, umili ed illustri, parole fiammeggianti di resistenza e di fede. Giungono queste parole di fede consolatrice dall’esule corpo magistrale di Udine occupata; e vanno a gara gli educatori nell’incitare i giovani ad azioni generose, a rinuncie commoventi. Ma in quest’ora, nella quale l’impulso della critica è tenuto a freno dal sentimento della concordia, io vorrei che gli italiani e sovratutto gli educatori della gioventù non rinunciassero alla più alta e feconda maniera di critica: quella che cerca in noi medesimi le cagioni del male, da cui noi siamo afflitti. Troppe volte nella storia gli italiani cercarono di gittare sui duci o sugli alleati o sui nemici la colpa delle proprie sventure, e troppo acerbi furono i frutti delle recriminazioni di cui ci compiacemmo nelle ore dolorose, poiché oggi non appaia a tutti la necessità di seguire altro cammino. Noi dobbiamo fare, ognuno di noi, il proprio esame di coscienza e chiederci: non abbiamo davvero noi nessuna parte di colpa nella sciagura che ha colpito – per breve ora – il paese?

 

 

Se gli educatori della gioventù italiana vorranno porre a se stessi questa domanda, forse dovranno riconoscere che essi, che noi, che quanti colla parola e colla penna – poiché anche il giornale è una scuola ed il pubblicista è un sacerdote – ci siamo arrogati l’ufficio augusto di formare le nuove generazioni d’Italia, abbiamo forse mancato al nostro dovere.

 

 

Fu detto che il maestro di scuola era stato il vero autore della vittoria germanica del 1870; e fu aggiunto che la colpa della guerra odierna risale al professore universitario tedesco. Ambe le affermazioni sono vere entro i limiti nei quali si può dare, nel gioco complesso di luci e di ombre dei grandi avvenimenti storici, risalto ad un fatto singolare, significativo. Ahimè! nulla di somigliante si può dire della scuola italiana rispetto alla guerra nostra. Forse il giudizio più benigno che della scuola italiana si può dare è questo: che essa fu assente nel periodo in cui si formava la generazione, la quale oggi combatte. Non parlo della scuola che ebbe a duci spirituali il De Sanctis, il Carducci, il Villari. Parlo della scuola italiana presente e limito il mio discorso ad un solo insegnamento, forse il più significativo di tutti, per l’impressione seguitata che esso potrebbe produrre sull’animo, sulla mente, sul carattere dei giovani appartenenti a tutte le classi sociali; di quelli che presto vanno ai lavori del campo e dell’officina, di quelli che formano lo stato maggiore dei commerci e dell’industria, e di quelli i quali diventano i capi politici, le guide spirituali, gli uomini rappresentativi del popolo: voglio dire l’insegnamento della storia.

 

 

Metodo, critica delle fonti, monografie erudite in alto, nelle aule universitarie; date e fatti e periodi e guerre nelle scuole medie, dall’Assiria e dall’Egitto alla Grecia, ai sette re di Roma, alla repubblica, all’impero, al medio evo ed all’evo moderno; schemi mnemonici nelle scuole elementari; sicché alla fine il giovane ha in testa alcuni pochi luoghi comuni su Garibaldi, Cavour, Mazzini, Vittorio Emanuele, infinite volte riecheggianti nei discorsi politici e commemorativi quando l’oratore vuol farsi plaudire per il dotto “saluto” alla memoria dei martiri del risorgimento. Come questo risorgimento sia accaduto; perché gli italiani abbiano trovato la forza e siano riusciti nel gioco rischioso di cacciare l’austriaco ed i piccoli imbelli sovrani nazionali, la grande massa – contadina, operaia e borghese – non sa. Al di là del mitico risorgimento, v’è il vuoto, il nulla. Perché gli austriaci dominassero in Italia e non i francesi o gli spagnoli o noi stessi; per quali accidenti sfortunati e meritati l’Italia non sia diventata uno stato nazionale sul finire del quattrocento, tutto ciò è terra incognita per coloro i quali abbandonano per la vita dei campi, delle officine, dei commerci, della politica medesima le scuole elementari e medie e, purtroppo, anche le aule universitarie. Quale sia, poi, la posizione dell’Italia nel concerto degli stati europei e mondiali, quali siano state le cagioni che hanno dato origine alla Francia, alla Germania, all’Austria, all’Inghilterra ed agli Stati Uniti; questa non è soltanto più terra incognita, è il deserto in cui abitano i leoni, pericoloso per chi tenta di traversarlo. Parlar di ciò all’italiano, anche a quegli che si crede istruito, anche a tanti giornalisti, che scrivono di politica internazionale, è come discorrere di Attila, di Tamerlano, o di Gengiskan. Nomi di re e di battaglie, date di avvenimenti storici, genealogie secche e schemi regolari, eroismi lampeggianti e decadenze fiacche ed inesplicate: ecco la storia che si insegna alle generazioni avide di sapere. Una cosa noiosa, fastidiosa, che si apprende per superar l’esame e si dimentica subito al par del greco e degli elementi di geometria di Euclide.

 

 

A sfogliare alcuni tra i testi di storia, i quali corrono per le scuole d’Italia, ci si sente presi da indignazione: chi sono costoro i quali scrivono così sciattamente, che si copiano in malo modo l’un l’altro, che non sanno dar rilievo ai fatti fondamentali, cui l’unica preoccupazione è di riempire in tante pagine, per un dato prezzo, i buchi del “programma” governativo?

 

 

Parve a taluno gran novità meritoria il tentativo di levarsi al disopra della pura cronologia e, per reazione ai racconti di re e di guerre, far luogo a descrizioni di usi e di costumi, a capitoli sulla “evoluzione” degli istituti politici e sociali. Ma la storia “nuova” fu nuovo argomento di riso o di martirio ai giovani, i quali si divertirono a contemplare sui libri di testo pitture stravaganti di cose misteriose ed invano cercarono di comprendere che cosa fossero il feudalismo, la borghesia, il capitalismo, il proletariato e simiglianti astrazioni. La storia “sociale”, insegnata da maestri che non sono penetrati fino addentro nello spirito delle scienze giuridiche ed economiche, si ridusse ad un altro elenco tormentoso di “parole”, da mandare a mente invece delle vecchie “date” di battaglie e delle superate “genealogie” di re.

 

 

Non così la storia può diventare una scienza formativa del carattere e della mente del cittadino. Non così i maestri d’Italia possono avere la coscienza sicura di avere adempiuto al loro dovere verso il paese. Se i soldati, se i civili francesi tengono duro, in mezzo a sofferenze indicibili, alla stanchezza lacerante di più di un milione di morti, non ultima ragione del mirabile esempio è la coscienza della cosa sacra che essi difendono; è la consapevolezza radicata nell’animo di tutti che un esercito, il quale è il frutto di sforzi e di sacrifici meravigliosi, la creazione e la ricostruzione pertinace, durata tre secoli, compiuta da uomini di prim’ordine, dal maresciallo di Turenna, traverso a Napoleone, dal maresciallo Joffre, non può, non deve a nessun costo cedere, perché esso ha un’altra creazione di secoli da difendere: la Francia, che un giorno di debolezza potrebbe ricondurre ai tristi tempi della Lega e della Fronda; quando, prima che Luigi XIV freddamente e salutarmente ne facesse cadere la testa sul patibolo per mano del carnefice, tanti capi di grandi famiglie guardavano, senza onta, alla Spagna od all’Impero per aiuto contro il proprio re e, traverso il re, contro la patria che volevano smembrata.

 

 

Che se l’Inghilterra è riuscita, fin da prima di decretare la coscrizione obbligatoria, ad arruolare milioni di volontari sotto le bandiere, e se costoro sanno farsi tagliare a pezzi piuttosto che arrendersi, si può credere che ciò accada senza che le generazioni giovani abbiano la consapevolezza della missione dell’Inghilterra nel mondo? Poeti famosi, come Rudyard Kipling, non hanno sdegnato di collaborare con storici di professione per comporre una mirabile piccola storia d’Inghilterra «per i ragazzi e le fanciulle che si interessano alla storia della Gran Bretagna e del suo impero». Su quelle pagine calde e semplici i fanciulli d’Inghilterra hanno imparato come da un deserto paese semiselvaggio la loro patria sia diventata un grande impero, una società di nazioni, che sarà degna di vivere se i suoi figli sapranno usare le ricchezze accumulate, i progressi tecnici conseguiti per diventare «migliori, più bravi, più capaci di sacrificio, più maschi, più amanti della loro casa e del loro paese». È in Inghilterra, dove per le scuole corrono, invece di assurdi testi di geografia fisica, politica e storica, ripieni fino alla nausea di nomi di città, di seni, di porti, di montagne, di fiumi, di catene, di valli dai nomi non ricordabili, i volumetti succinti, eleganti, parlanti del Mac Kinder, dove si dimostra pianamente e si fa vedere agli occhi con cartine parlanti che cosa siano le isole su cui gli inglesi vivono (Our own Islands), quali siano le terre che subito si incontrano passata la Manica (Lands beyond the Channel), quali le terre più lontane (Distant Lands) e di quali stati e nazioni sia composto il mondo moderno (The Nations of the modern World). Il ragazzo vive la vita del suo paese sulle carte, che egli studia percorrendo pagine dilettevoli, vede come esso si sia nei secoli formato; quali ne siano stati i rapporti con gli altri paesi del mondo; e quale il retaggio storico prezioso che è dovere della presente generazione di difendere e spiritualmente accrescere.

 

 

Né la Germania e l’Austria son da meno in questa preparazione spirituale del cittadino; e chi ricordi quanta parte, nella resistenza tedesca alle privazioni materiali, abbia la persuasione che questa è una guerra combattuta per impedire che la Germania ritorni ad essere il campo di battaglia dei francesi e degli austriaci, degli inglesi e degli svedesi, – ed è combattuta da un esercito nazionale, erede di quello prussiano che primo ruppe la tradizione ingloriosa degli eserciti mercenari, venduti dai principi tedeschi al più alto offerente, a Spagna, a Francia, ad Inghilterra, per combattere su terre straniere per interessi stranieri – non riterrà davvero che sia stata spesa invano la fatica durata nell’insegnare ai giovani, del popolo e della borghesia, le ragioni di vita della Germania moderna.

 

 

Persino l’Austria ha saputo dare un’anima alla sua storia. E poiché vi fu un tempo, gloriosissimo tempo per il nostro nemico, in cui l’Austria adempì ad una grande missione storica, da un lato facendosi paladina, insieme con la Spagna retta dalla medesima dinastia, della controriforma contro il protestantesimo e quindi di taluni beni ideali cattolici e latini, degni di essere serbati in vita contro l’ideale protestante, e d’altro lato gagliardamente lottando, scudo d’Europa, contro l’invasione turca: poiché in questo tempo l’Austria seppe giovarsi dei servigi dei migliori soldati d’Europa, come il Montecuccoli ed il principe Eugenio di Savoia; poiché un’altra volta l’Austria cooperò all’ufficio europeo di tener testa a Napoleone e di rintuzzare le sue mire di dominio universale, così nelle scuole austriache ed ungheresi queste benemerenze storiche sono fatte servire allo scopo di perpetuare, nei popoli soggetti e degni di una propria indipendente vita nazionale) la credenza di una oramai scomparsa missione della monarchia danubiana nel mondo. I ricordi del passato diventano così il cemento ideale di un presente contrassegnato dalla oppressione dei due popoli dominanti, il tedesco ed il magiaro, sulle repugnanti razze soggette.

 

 

Che cosa ha fatto la scuola italiana per dare ai giovani, attraverso ad un caldo, logico, ben costrutto insegnamento della storia, la consapevolezza delle ragioni di vita del nostro paese? Anche noi abbiamo una storia gloriosa e questa non si chiude tutta nei cinquant’anni del risorgimento. Al di là dell’epopea garibaldina, dei fasti di San Martino e Solferino, noi abbiamo secoli di sforzi perseveranti, sebbene disgiunti, per creare dal disordine susseguente alla dissoluzione dell’impero romano, uno stato unitario. Ribollono in mezzo le passioni e le discordie delle repubbliche e delle signorie toscane e lombarde e dettano a Nicolò Machiavelli gli immortali consigli al principe, chiamato a difendere l’Italia con la creazione delle milizie nazionali. Ai tre estremi della penisola si compie, più rapidamente nel Mezzogiorno, più lentamente in Venezia ed in Piemonte, un moto di aggregazione di piccole signorie e di comuni discordi in un aggregato politico più vasto e capace di resistere alle forti monarchie straniere. Perché Venezia e Napoli abbiano mancato allo scopo, perché Venezia abbia, insieme con la scomparsa gloria marittima, tramandato all’Italia nuova la triste eredità dei mal segnati confini, quali sacrifici di vite e di tesori costi oggi la repugnanza a combattere dei veneziani dei secoli dal XVII al XVIII; perché invece il Piemonte abbia saputo e voluto formarsi un esercito nazionale, in quali battaglie e traverso a quali dolori i capi di questo esercito siano riusciti ad abolire le iniquità del confine occidentale, più stridenti e pericolose di quelle rimaste infisse nella carne viva della patria, del confine orientale; tutta questa storia, dolorosa e gloriosa come quella delle maggiori nazioni del mondo, dovrebbe essere narrata e fatta sentire alle nuove generazioni; finché in Italia non vi sia nessuno, che non sia protervo od assorto nel puro culto del ventre, il quale ad ogni momento non sappia e non senta che questa nostra terra l’hanno costrutta i nostri avi, che essa non è un dono della natura, ma un edificio cementato dal sangue di trenta generazioni, il quale deve essere, finalmente, inviolabile, trasmesso intatto alle venture generazioni.

 

 

Junius

Lettera sesta. La scuola ha adempiuto al suo dovere?

Lettera sesta.
La scuola ha adempiuto al suo dovere?
«Corriere della Sera», 18 novembre 1917
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 67-78
Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 540-546

 

 

 

 

Signor Direttore,

 

 

Oramai, quasi tutte le scuole italiane, da quelle elementari alle universitarie, si sono riaperte; e l’ora tragica, che l’Italia attraversa, ha fatto pronunciare a scolari e ad insegnanti, umili ed illustri, parole fiammeggianti di resistenza e di fede. Giungono queste parole di fede consolatrice dall’esule corpo magistrale di Udine occupata; e vanno a gara gli educatori nell’incitare i giovani ad azioni generose, a rinuncie commoventi. Ma in quest’ora nella quale l’impulso della critica è tenuto a freno dal sentimento della concordia, io vorrei che gli italiani e sovratutto gli educatori della gioventù non rinunciassero alla più alta e feconda maniera di critica: quella che cerca in noi medesimi le cagioni del male, da cui noi siamo afflitti. Troppe volte nella storia gli italiani cercarono di gittare sui duci o sugli alleati o sui nemici la colpa delle proprie sventure, e troppo acerbi furono i frutti delle recriminazioni di cui ci compiacemmo nelle ore dolorose, poiché oggi non appaia a tutti la necessità di seguire altro cammino. Noi dobbiamo fare, ognuno di noi, il proprio esame di coscienza e chiederci: non abbiamo davvero noi nessuna parte di colpa nella sciagura che ha colpito – per breve ora – il paese?

 

 

Se gli educatori della gioventù italiana vorranno porre a se stessi questa domanda, forse dovranno riconoscere che essi, che noi, che quanti colla parola e colla penna – poiché anche il giornale è una scuola ed il pubblicista è un sacerdote – ci siamo arrogati l’ufficio augusto di formare le nuove generazioni d’Italia, abbiamo forse mancato al nostro dovere.

 

 

Fu detto che il maestro di scuola era stato il vero autore della vittoria germanica del 1870; e fu aggiunto che la colpa della guerra odierna risale al professore universitario tedesco. Ambe le affermazioni sono vere entro i limiti nei quali si può dare, nel gioco complesso di luci e di ombre dei grandi avvenimenti storici, risalto ad un fatto singolare, significativo.

 

 

Ahimè! nulla di somigliante si può dire della scuola italiana rispetto alla guerra nostra. Forse il giudizio più benigno che della scuola italiana si può dare è questo: che essa fu assente nel periodo in cui si formava la generazione, la quale oggi combatte. Non parlo della scuola che ebbe a duci spirituali il De Sanctis, il Carducci, il Villari. Parlo della scuola italiana presente e limito il mio discorso ad un solo insegnamento, forse il più significativo di tutti, per l’impressione seguitata che esso potrebbe produrre sull’animo, sulla mente, sul carattere dei giovani appartenenti a tutte le classi sociali, di quelli che presto vanno ai lavori del campo e dell’officina, di quelli che formano lo stato maggiore dei commerci e dell’industria, e di quelli i quali diventano i capi politici, le guide spirituali, gli uomini rappresentativi del popolo: voglio dire l’insegnamento della storia.

 

 

Metodo, critica delle fonti, monografie erudite in alto, nelle aule universitarie, date e fatti e periodi e guerre nelle scuole medie, dall’Assiria e dall’Egitto alla Grecia, ai sette re di Roma, alla repubblica, all’impero, al medio evo ed all’evo moderno; schemi mnemonici nelle scuole elementari, – sicché alla fine il giovane ha in testa alcuni pochi luoghi comuni su Garibaldi, Cavour, Mazzini, Vittorio Emanuele, infinite volte riecheggianti nei discorsi politici e commemorativi quando l’oratore vuol farsi plaudire per il dotto «saluto» alla memoria dei martiri del risorgimento. Come questo risorgimento sia accaduto; perché gli italiani abbiano trovato la forza e siano riusciti nel gioco rischioso di cacciare l’austriaco ed i piccoli imbelli sovrani nazionali, la grande massa – contadina, operaia e borghese – non sa. Al di là del mitico risorgimento, v’è il vuoto, il nulla. Perché gli austriaci dominassero in Italia e non i francesi o gli spagnuoli o noi stessi, per quali accidenti sfortunati e meritati l’Italia non sia diventata uno Stato nazionale sul finire del quattrocento, tutto ciò è terra incognita per coloro i quali abbandonano per la vita dei campi, delle officine, dei commerci, della politica medesima le scuole elementari e medie e, purtroppo, anche le aule universitarie.

 

 

Quale sia, poi, la posizione dell’Italia nel concerto degli Stati europei e mondiali, quali siano state le cagioni che hanno dato origine alla Francia, alla Germania, all’Austria, all’Inghilterra ed agli Stati Uniti: questa non è soltanto più terra incognita, è il deserto in cui abitano i leoni, pericoloso per chi tenta di traversarlo. Parlar di ciò all’italiano, anche a quegli che si crede istruito, anche a tanti giornalisti, che scrivono di politica internazionale, è come discorrere di Attila, di Tamerlano, o di Gengiskan. Nomi di re e di battaglie, date di avvenimenti storici, genealogie secche e schemi regolari, eroismi lampeggianti e decadenze fiacche ed inesplicate: ecco la storia che si insegna alle generazioni avide di sapere. Una cosa noiosa, fastidiosa, che si apprende per superar l’esame e si dimentica subito al par del greco e degli elementi di geometria di Euclide.

 

 

A sfogliare alcuni tra i testi di storia, i quali corrono per le scuole d’Italia, ci si sente presi da indignazione: chi sono costoro i quali scrivono così sciattamente, che si copiano in malo modo l’un l’altro, che non sanno dar rilievo ai fatti fondamentali, cui l’unica preoccupazione è di riempire in tante pagine, per un dato prezzo, i buchi del «programma» governativo?

 

 

Parve a taluno gran novità meritoria il tentativo di levarsi al disopra della pura cronologia e, per reazione ai racconti di re e di guerre, far luogo a descrizioni di usi e di costumi, a capitoli sulla «evoluzione» degli istituti politici e sociali. Ma la storia «nuova» fu nuovo argomento di riso o di martirio ai giovani, i quali si divertirono a contemplare sui libri di testo pitture stravaganti di cose misteriose ed invano cercarono di comprendere che cosa fossero il feudalismo, la borghesia, il capitalismo, il proletariato e simiglianti astrazioni. La storia «sociale» insegnata da maestri che non sono penetrati fino addentro nello spirito delle scienze giuridiche ed economiche si ridusse ad un altro elenco tormentoso di «parole» da mandare a mente invece delle vecchie «date» di battaglie e delle superate «genealogie» di re.

 

 

Non così la storia può diventare una scienza formativa del carattere e della mente del cittadino. Non così i maestri d’Italia possono avere la coscienza sicura di avere adempiuto al loro dovere verso il paese. Se i soldati, se i civili francesi tengono duro, in mezzo a sofferenze indicibili, alla stanchezza lacerante di più di un milione di morti, non ultima ragione del mirabile esempio è la coscienza della cosa sacra che essi difendono; è la consapevolezza radicata nell’animo di tutti che un esercito, il quale è il frutto di sforzi e di sacrifici meravigliosi, la creazione e la ricostruzione pertinace, durata tre secoli, compiuta da uomini di prim’ordine, dal maresciallo di Turenna, traverso a Napoleone, al maresciallo Joffre, non può, non deve a nessun costo cedere, perché esso ha un’altra creazione di secoli da difendere: la Francia, che un giorno di debolezza potrebbe ricondurre ai tristi tempi della Lega e della Fronda; quando, prima che Luigi XIV freddamente e salutarmente ne facesse cadere la testa sul patibolo per mano del carnefice, tanti capi di grandi famiglie guardavano, senza onta, alla Spagna od all’Impero per aiuto contro il proprio re e, traverso il re, contro la patria che volevano smembrata.

 

 

Che se l’Inghilterra è riuscita, fin da prima di decretare la coscrizione obbligatoria, ad arruolare milioni di volontari sotto le bandiere, e se costoro sanno farsi tagliare a pezzi piuttosto che arrendersi, si può credere che ciò accada senza che le generazioni giovani abbiano la consapevolezza della missione dell’Inghilterra nel mondo? Poeti famosi, come Rudyard Kipling, non hanno sdegnato di collaborare con storici di professione per comporre una mirabile piccola storia d’Inghilterra «per i ragazzi e le fanciulle che si interessano alla storia della Gran Bretagna e del suo impero». Su quelle pagine calde e semplici i fanciulli d’Inghilterra hanno imparato come da un deserto paese semi – selvaggio la loro patria sia diventata un grande impero, una società di nazioni, che sarà degna di vivere se i suoi figli sapranno usare le ricchezze accumulate, i progressi tecnici conseguiti per diventare «migliori, più bravi, più capaci di sacrificio, più maschi, più amanti della loro casa e del loro paese».

 

 

É in Inghilterra, dove per le scuole corrono, invece di assurdi testi di geografia fisica, politica e storica, ripieni fino alla nausea di nomi di città, di seni, di porti, di montagne, di fiumi, di catene, di valli dai nomi non ricordabili, i volumetti succinti, eleganti, parlanti del Mac Kinder, dove si dimostra pianamente e si fa vedere agli occhi con cartine parlanti che cosa siano le isole su cui gli inglesi vivono (Our own Islands), quali siano le terre che subito si incontrano passata la Manica (Lands beyond the Channel), quali le terre più lontane (Distant Lands) e di quali stati e nazioni sia composto il mondo moderno (The Nations of the modern World), Il ragazzo vive la vita del suo paese; sulle carte che egli studia percorrendo le pagine dilettevoli vede come esso si sia nei secoli formato; quali ne siano stati i rapporti con gli altri paesi del mondo; e quale il retaggio storico prezioso che è dovere della presente generazione di difendere e spiritualmente accrescere.

 

 

Né la Germania e l’Austria son da meno in questa preparazione spirituale del cittadino; e chi ricordi quanta parte nella resistenza tedesca alle privazioni materiali abbia la persuasione che questa è una guerra combattuta per impedire che la Germania ritorni ad essere il campo di battaglia dei francesi e degli austriaci, degli inglesi e degli svedesi, ed é combattuta da un esercito nazionale, erede di quello prussiano che primo ruppe la tradizione ingloriosa degli eserciti mercenari, venduti dai principi tedeschi al più alto offerente, a Spagna, a Francia, ad Inghilterra, per combattere su terre straniere per interessi stranieri – non riterrà davvero che sia stata spesa invano la fatica durata nell’insegnare ai giovani, del popolo e della borghesia, le ragioni di vita della Germania moderna.

 

 

Persino l’Austria ha saputo dare un’anima alla sua storia. E poiché vi fu un tempo, gloriosissimo tempo per il nostro nemico, in cui l’Austria adempì ad una grande missione storica, da un lato facendosi paladina, insieme con la Spagna retta dalla medesima dinastia, della controriforma contro il protestantesimo e quindi di taluni beni ideali cattolici e latini, degni di essere serbati in vita contro l’ideale protestante, e dall’altro lato gagliardamente lottando, scudo d’Europa, contro l’invasione turca; poiché in questo tempo l’Austria seppe giovarsi dei servigi dei migliori soldati d’Europa, come il Montecuccoli ed il Principe Eugenio di Savoia; poiché un’altra volta l’Austria cooperò all’ufficio europeo di tener testa a Napoleone e di rintuzzare le sue mire di dominio universale, così nelle scuole austriache ed ungheresi queste benemerenze storiche sono fatte servire allo scopo di perpetuare nei popoli soggetti e degni di una propria indipendente vita nazionale la credenza in una oramai scomparsa missione della monarchia danubiana nel mondo. I ricordi del passato diventano così il cemento ideale di un presente contrassegnato dalla oppressione dei due popoli dominanti, il tedesco ed il magiaro, sulle repugnanti razze soggette.

 

 

Che cosa ha fatto la scuola italiana per dare ai giovani, attraverso ad un caldo, logico, ben costrutto insegnamento della storia, la consapevolezza delle ragioni di vita del nostro paese? Anche noi abbiamo una storia gloriosa e questa non si chiude tutta nei cinquant’anni del risorgimento.

 

 

Al di là dell’epopea garibaldina, dei fasti di San Martino e Solferino, noi abbiamo secoli di sforzi perseveranti, sebbene disgiunti, per creare dal disordine susseguente alla dissoluzione dell’impero romano, uno stato unitario. Ribollono in mezzo le passioni e le discordie delle repubbliche e delle signorie toscane e lombarde e dettano a Nicolò Machiavelli gli immortali consigli al principe chiamato a difendere l’Italia con la creazione delle milizie nazionali. Ai tre estremi della penisola si compie, più rapidamente nel Mezzogiorno, più lentamente in Venezia ed in Piemonte, un moto di aggregazione di piccole signorie e di comuni discordi in un aggregato politico più vasto e capace di resistere alle forti monarchie straniere. Perché Venezia e Napoli abbiano mancato allo scopo, perché Venezia abbia, insieme con la scomparsa gloria marittima, tramandato all’Italia nuova la triste eredità dei mal segnati confini, quali sacrifici di vite e di tesori costi oggi la repugnanza a combattere dei veneziani dei secoli dal XVII al XVIII; perché invece il Piemonte abbia saputo e voluto formarsi un esercito nazionale, in quali battaglie e traverso a quali dolori i capi di questo esercito siano riusciti ad abolire le iniquità del confine occidentale, più stridenti e pericolose di quelle rimaste infisse nella carne viva della patria, del confine orientale; tutta questa storia, dolorosa e gloriosa come quella delle maggiori nazioni del mondo, dovrebbe essere narrata e fatta sentire alle nuove generazioni; finché in Italia non vi sia nessuno, che non sia protervo od assorto nel puro culto del ventre, il quale ad ogni momento non sappia e non senta che questa nostra terra l’hanno costrutta i nostri avi, che essa non è un dono della natura, ma un edificio cementato dal sangue di trenta generazioni, il quale deve essere, finalmente, inviolabile, trasmesso intatto alle venture generazioni.

 

La realtà in cifre

La realtà in cifre

«Corriere della Sera», 10 novembre 1917[1]

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 109-113

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 582-585

 

 

L’onore e la dignità della nazione, la fedeltà alle alleanze volontariamente conchiuse, la voce dei nostri morti del Carso e dell’Isonzo hanno già stretto tutti gli italiani nel patto solenne di resistenza al nemico. A coloro, i quali non sentono il comando del dovere e vogliono la parola della realtà, fa d’uopo aggiungere che, se, per ipotesi assurda, I’Italia volesse per stanchezza momentanea, abbandonare il campo, essa si gitterebbe in un abisso di miseria e di strettezze economiche senza nome.

 

 

Fa d’uopo guardare in faccia la realtà; e questa ci dice che gli alleati nostri non hanno nessun obbligo, né morale né materiale, di privare se stessi di cose necessarie alla vita, di rinunciare ad un tonnellaggio che ogni giorno per essi medesimi va diventando più scarso per sovvenire ai bisogni di un paese divenuto indifferente alla loro causa, spettatore della lotta a coltello che si combatte tra essi ed i nemici. Non si hanno, per il tonnellaggio, cifre posteriori al 1913, ultimo anno di pace; ma in quell’anno su 16,3 milioni di merci sbarcate in Italia dall’estero, soltanto 4,3 milioni erano state trasportate dalla bandiera italiana. Tutto il resto era venuto su navi battenti bandiera estera. Su 2.324.840 tonnellate di cereali importati in quell’anno nei porti italiani, soltanto 754.700 erano state trasportate dalla bandiera italiana; e della parte residua ben 682.500 tonnellate dalla bandiera inglese e 416.000 dalla bandiera ellenica. Su 10.196.930 tonnellate di carbone solo 1878900 erano venute su navi italiane; 4.016.130 su navi inglesi e 1.520.600 su navi elleniche. Oggi che le flotte mercantili austro-tedesche sono requisite da noi o chiuse nei porti, come potrebbe vivere il popolo italiano, come potrebbero funzionare le sue industrie se noi dessimo alle marine inglese e nordamericana ragione di serbare al proprio paese esclusivamente il tonnellaggio divenuto così scarso?

 

 

Il problema del resto non sorgerebbe neppure; perché mancherebbero derrate e merci da trasportare. Nel 1916 su 291.729 tonnellate di frumento duro importate in Italia ben 285.930 venivano dagli Stati uniti; e nel primo semestre del 1917 su 257.138 tonnellate ben 184.623 tonnellate ci giungevano dagli Stati uniti e 50.076 dalle Indie britanniche. Su 1.538.819 tonnellate di frumento tenero importate nel 1916, gli Stati uniti ce ne fornivano 1.020.140, l’Australia 150.856, il Canada 31.436 e l’Argentina neutrale 316.684. Nel primo semestre del 1917 su 859.758 tonnellate importate dall’estero ben 349.107 ci furono date dall’Australia, 318.979 dagli Stati uniti, 71.215 dall’India e solo 120.447 dall’Argentina. Perché dovrebbero i paesi alleati, i quali riducono i loro consumi e mettono se stessi a razione per combattere il nemico, privarsi di una parte dell’alimento oggi divenuto così prezioso per aiutare chi avesse disertato la loro causa nel momento supremo? Pensino a queste cifre coloro i quali affettano di lasciarsi persuadere soltanto dalla realtà. Questa ci dice che su di noi cadrebbe non solo l’onta e la vergogna, ma la fame, la carestia.

 

 

E come per il pane, per molti altri generi alimentari: per il pesce, ad esempio, noi dipendiamo dagli alleati o dalle loro marine. Su 188.337 quintali di merluzzo e stoccafisso importati nel primo semestre del 1917 l’Inghilterra ce ne mandava 92.842, il Canada 36.183, mentre la neutrale Norvegia poteva darcene 57.158.

 

 

Spaventosa diventerebbe la situazione delle industrie, e milioni di lavoratori dovrebbero essere buttati sul lastrico, se ad esse venisse a mancare quello che fu definito il loro pane: il carbone. Su 8.064.900 tonnellate di carbon fossile importate nel 1916 in Italia, 6.997.100 venivano dall’Inghilterra e 1.056.700 dagli Stati uniti. Su 2.579.500 tonnellate importate nel primo semestre del 1917 l’Inghilterra ce ne fornì 2.297.000 e gli Stati uniti 279.400. Su 97.746 tonnellate di petrolio importate nel 1916 gli Stati uniti ce ne diedero 6; e su 46.469 tonnellate importate nel primo semestre del 1917 ce ne fornirono 46.442. Invano una pace disonorevole potrebbe farci sperare di aver il carbone dalla Germania, dove la produzione da 192 milioni di tonnellate si è ridotta a 120 milioni in ragion d’anno, insufficiente ai bisogni interni ed alle richieste pressanti dei suoi alleati.

 

 

Come calzarci, se nel 1916 su 284.830 quintali di pelli di buoi e vacche crude, secche ne ricevemmo 115.345 dall’India, 25.631 dalla Francia, 13.391 dall’Inghilterra, 2.779 da Aden e se su 81.209 quintali ricevuti nei primi sei mesi del 1917 l’India da sola ce ne mandò per 51.070 quintali? Come tenere in vita l’industria del cotone se su 2.537.000 quintali importati nel 1916 ben 1.852.000 venivano dagli Stati uniti, 545.000 dall’India e 130.000 dall’Egitto; e se su 1.197.000 quintali comperati nel primo semestre del 1917 ne ottenemmo 900.000 dagli Stati uniti, 247.000 dall’India e 48.000 dall’Egitto?

 

 

Poco meglio potrebbe vivere l’industria della lana, poiché circa metà dei suoi approvvigionamenti dipende dai paesi belligeranti. Su 498.000 quintali di lane naturali o sudice importate nel 1916 l’Australia ce ne mandava 203.400, la Gran Bretagna 33.900 e la Francia 5.500; su 75.500 quintali di lane lavate 25.600 venivano dalla Francia e 14.700 dall’Inghilterra.

 

 

Giova conoscere la realtà, non già per sentirci jugulati dagli amici a condurre una guerra non voluta, ma per conoscere bene la sorte che ci attenderebbe ove il coraggio venisse meno, ove fallisse la tenacia nella resistenza. Se Inghilterra e Francia e Stati uniti nuotassero nell’abbondanza di grano, di carbone, di cotone, di ferro, se disponessero di una marina mercantile largamente esuberante ai loro bisogni, e, nonostante ciò, si rifiutassero ad approvvigionarci nel giorno in cui volessimo separare la nostra dalla loro causa, avremmo ragione di parlare, come da taluno stoltamente si fece, di ricatto e di jugulamento. Ma le cose non stanno così. Il tonnellaggio navale va diventando ogni giorno più raro e prezioso; con qual diritto pretenderemmo noi che gli alleati si sottoponessero a privazioni grandi, se noi disertassimo la causa comune? Il grano è dappertutto razionato; e negli Stati uniti il signor Hoover, controllore ai viveri, ha dinanzi a sé un problema singolarmente difficile. Con qual ragione chiederemmo a lui di assegnarci sulle sue scarse disponibilità i 20 od i 30 milioni di quintali, che chiediamo ai soli Stati uniti, senza contare quel che chiediamo all’India ed all’Australia? Si possono costringere i nord-americani a ridurre il consumo del frumento; ma bisogna che essi di ciò sappiano la cagione. Né parrebbe ad essi ragion sufficiente il sovvenire ai bisogni di chi avesse abbandonato la loro causa.

 

 

Stringe il cuore dover ribattere argomenti venuti da parte nemica; e che nessun italiano, il quale abbia senso d’onore ha mai fatti suoi. Ma fa d’uopo chiarire la verità: dovere ed interesse consigliano di non dipartirci dalla via intrapresa, che e’ la via della resistenza fiduciosa.

 

 



[1] Ristampato nello stesso anno, Roma, Tip. Failli, s. d. 1917, pp. 4. [ndr]

Depositi nelle Banche e nelle Casse di risparmio

Depositi nelle Banche e nelle Casse di risparmio

«Corriere della Sera», 3 novembre 1917

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 90-92[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 579-581

 

 

Fiducia e resistenza: questa deve essere la parola d’ordine di tutti gli italiani nel momento presente. Di sentirsi sostenuti dalla volontà concorde di tutti hanno bisogno non soltanto gli eserciti in campo per guardare in faccia il nemico: ne hanno bisogno anche le popolazioni le quali si trovano più vicine al teatro della guerra. I forti abitanti delle regioni friulane e venete sappiano che l’Italia intera è con essi solidale e che a nessun sacrificio essa si sottrarrà nell’ora del pericolo. D’altra parte è dovere delle popolazioni, le quali sentono il rombo del cannone a difesa del suolo della patria, di non rendere più difficile il compito di chi deve provvedere a serbare intatto il ritmo della vita civile ed economica del paese. Qualche episodio – rarissimo d’altro canto, ché la fermezza d’animo degli abitanti delle regioni di confine non si smentisce nemmeno nelle ore tragiche – di ritiro di depositi dalle banche e dalle casse di risparmio richiede tuttavia una parola aperta di incitamento e di consiglio.

 

 

È necessario che l’episodio sporadico non si tramuti in una corsa generale ai ritiri dei depositi bancari e che il pubblico serbi inalterata la fiducia. Lo esige l’interesse del paese, lo consiglia l’interesse dei singoli. Se l’episodio si generalizzasse, se si tramutasse in panico i primi ad esserne danneggiati sarebbero i depositanti. Le banche e le casse di risparmio dovrebbero sospendere i rimborsi e il danno sarebbe inenarrabile. Se i depositanti, invece, conservano l’animo freddo e fiducioso, essi danno modo alle banche e alle casse di risparmio di provvedere anche alle eventualità, che tuttavia abbiamo ferma fede non si verificheranno mai, di dolorosi parziali abbandoni di territorio imposti da esigenze strategiche.

 

 

Con quali mezzi infatti una cassa di risparmio può far fronte al rimborso dei depositi col realizzo delle sue attività – cambiali di portafoglio, titoli, crediti – per mezzo di vendite e di risconti. Ma se tutti, sospinti da un panico ingiustificato, si affollano agli sportelli delle banche per chiedere il rimborso dei depositi, come può la banca o la cassa vendere in furia i suoi titoli, riscontare le cambiali e procurarsi le disponibilità? Anche la cassa più solida rischia di subire perdite fortissime e di non poter far fronte ai suoi impegni.

 

 

Se invece i depositanti conservano il loro sangue freddo, essi non corrono alcun pericolo e non lo fanno correre alla cassa in cui finora giustamente hanno riposto la loro fiducia. Se davvero, per ipotesi che fermamente crediamo non debba verificarsi, qualche altro borgo o qualche altra città dovesse essere sgombrata, già prima le banche o casse, che ivi hanno sedi o succursali, avranno provveduto a mettere in salvo portafoglio, titoli, documenti, riserve monetarie, tutto quanto insomma fa d’uopo e basta per provvedere alle domande di rimborso. Tutti i provvedimenti necessari sono indubbiamente stati presi. Fra le banche e le casse delle regioni friulane e venete e le banche e casse delle altre regioni d’Italia esistono già accordi per scambio di reciproci servizi ed assistenza. Gli accordi certamente saranno ora perfezionati in guisa da parare ad ogni eventualità. Il possessore d’un libretto di conto corrente o di risparmio per una qualunque banca o cassa deve trovar modo di ritirare i suoi depositi in altre città italiane, presso i corrispondenti dell’istituto di sua fiducia. Sono certo che lo Stringher, figlio egli stesso del nobile Friuli, ha già provveduto con paterna cura a dare tutto il sussidio della Banca d’Italia affinché il trapasso dei fondi da luogo a luogo si compia con la maggiore facilità.

 

 

Il panico nuocerebbe, dunque, ai depositanti medesimi; mentre la calma assicura che i sudati risparmi non subiscono alcun deprezzamento. La cosa deve essere guardata ancora da un altro punto di vista. Che cosa ricevono i depositanti quando si presentano agli sportelli della cassa a chiedere i rimborsi dei loro crediti? Biglietti di banca o biglietti di stato. Non oro, dunque, ma biglietti, ossia altri titoli di credito verso altre banche o verso le casse dello stato. Lasciandosi prendere da un senso ingiustificato di ansia, essi però in sostanza trasferiscono soltanto la loro fiducia dall’una all’altra banca, dall’una all’altra cassa. Così facendo, essi provocano vendite affrettate di titoli, deprezzamenti, costringono la Banca d’Italia e lo stato a emettere biglietti in più dell’indispensabile; e finiscono per un altro verso per danneggiare se stessi, contribuendo all’ abbondanza, e quindi al deprezzamento della carta-moneta e al rialzo del prezzo di tutte le cose necessarie alla vita. È certo che la Banca d’Italia e il tesoro dello stato, pur di evitare tutti questi danni, hanno già presi e intensificheranno tutti i provvedimenti che valgano a consentire alle banche e casse friulane e venete di rimborsare i propri depositi nelle altre città d’Italia.

 

 

La calma, che sinora è stata superbamente mantenuta di fronte alla invasione nemica, sarà serbata, dunque, anche nelle cose economiche, nei momenti di prova cui andiamo incontro, e sarà una calma la quale dimostrerà che le popolazioni venete e friulane, primissime tra le italiane nella cooperazione di credito, sanno che la salvezza di ognuno e di tutti sta nel tenersi stretti e fiduciosi attorno agli istituti e alle forze per cui l’Italia è divenuta degna di toccare un alto segno di civiltà economica e sociale.

 

 



[1] Con il titolo, Il dovere degli Italiani durante la guerra. [ndr]

Lettera quinta. «Lasciar fare alla storia»

Lettera quinta.
«Lasciar fare alla storia»
«Corriere della Sera», 20 ottobre 1917
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 55-66
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 454-459

 

 

 

 

Signor direttore,

 

 

Il giornale giolittiano torinese insiste nella idealizzazione del suo patrono, raffigurato come il tipo dello statista Piemontese. Questa volta siamo però già alla costruzione di quello che La Bruyère avrebbe detto un «carattere». L’eroe della leggenda è così scolpito: «Empirismo, pazienza, prudenza, tolleranza, tatto, senso della realtà, repugnanza dalla rettorica, amore dell’ordine»… «Istinti e tradizioni ereditarie di piemontesi furbi e cortesi, diplomatici, burocratici, soldati di padre in figlio», gente che «lascia fare alla storia, come il buon medico sovente lascia fare alla natura».

 

 

Da quali fonti manoscritte o stampate o da quali tradizioni orali lo scrittore di tali frasi abbia tratto queste caratteristiche del perfetto uomo di stato di marca piemontese, non so. Ma i ricordi della storia che un tempo si insegnava nelle scuole di rettorica e di filosofia del vecchio Piemonte, quando ai ragazzi si usavano raccontare le vicende della Casa di Savoia e non «esperienze mistiche e professioni di verità soprasensibili», come l’unità d’Italia e simili «sublimità», quei ricordi non mi sembrano molto favorevoli alla teoria del «lasciar fare alla storia».

 

 

Non già che questa teoria in date circostanze non sia buona ed utile. Una delle maggiori personalità di stato dell’evo moderno, la regina Elisabetta d’Inghilterra, trasse il suo paese a salvamento appunto con la teoria del non fare essa e del lasciar fare alla storia: col non maritarsi risolse i nodi gordiani della prevalenza di Francia e di Spagna e dell’unione delle corone inglese e scozzese; col non inviperire in paese né contro i cattolici, né contro i protestanti, diede al popolo l’unità religiosa. Ma anche la regina Elisabetta dovette decidersi, insistendo il clamore popolare, a troncare la testa di Maria di Scozia ed a dichiarare legalmente la guerra alla Spagna, dopo averla lasciata fare per tant’anni a corsari che diventarono ammiragli di gran nome e vinsero l’invincibile armata di Filippo II.

 

 

I grandi uomini di stato, quelli che impressero un’orma profonda nella storia, lasciarono fare bensì agli avvenimenti, ma ad un certo punto presero per le corna la signora storia e l’obbligarono a viva forza a lavorare a vantaggio del proprio paese. Aveva «lasciato fare» a francesi ed a spagnuoli il duca di Savoia Carlo il Buono, e s’era ridotto a morire miserabile e sbeffeggiato, privo persino dei gioielli della corona e col paese invaso; ed il figlio Emanuele Filiberto aveva lasciato credere che la storia avesse bene operato a pro dei sopraffattori, mettendosi al soldo di uno di questi. Ma egli attendeva il momento; e ben lo seppe afferrare a San Quintino, nella memorabile giornata che per un secolo stabilì l’assetto d’Europa e ridiede a lui la corona ed al Piemonte l’indipendenza.

 

 

Passo sopra a quell’irrequieto, fantastico, immaginoso precursore di idealità destinate ad avverarsi dopo più di due secoli, che fu Carlo Emanuele I; ma chi oserebbe dire che i due gran re che tornarono a fondare per la seconda volta la monarchia di Savoia e con essa l’unità d’Italia, Vittorio Amedeo Il e Carlo Emanuele III, abbiano lasciato fare alla storia? Soldati, sì, e diplomatici anche; ma avventurosi e coraggiosi ed iracondi e capaci di sacrificare il tutto per il tutto, pur di non lasciarsi mettere il piede sul collo. Se avessero avuta soltanto qualità di «furberia» e di «cortesia», se fossero stati solo dei «diplomatici» e dei «burocratici», se avessero avuto appena della pazienza, della prudenza, della tolleranza e del tatto, quei due sovrani, che la storia corrente non dice grandissimi solo perché furono a capo di un piccolo stato, non avrebbero cacciato il Piemonte in quattro guerre lunghe, dure ed economicamente disastrose: dal 1690 al 1696, dal 1701 al 1713, dal 1730 al 1738, e dal 1740 al 1748; guerre che diedero al Piemonte Pinerolo e Casale, Acqui e la Lomellina e Val di Sesia e Novara e l’oltre Po pavese ed i feudi imperiali, che fecero mangiare, traverso a molti stringimenti di ventre, al piccolo stato sabauda, alcune tra le foglie più preziose del carciofo lombardo. Ma quelle foglie non si mangiarono «lasciando fare»; ma «facendo», ma pagando di persona, ma precorrendo, contro le prepotenze dei Borboni, i quali avevano imposto il disarmo di quasi tutti i reggimenti, le astuzie che giovarono alla Prussia nella lotta contro Napoleone; ma conducendo ripetute volte lo stato all’orlo della rovina, da cui, grazie a miracoli di energia e di fiducia nella «sublimità», si sollevò ad un’altezza che lo rese ammirato ed ascoltato ben al di là delle sue forze durante tutto il secolo XVIII. «Furbi» sì, ma all’occasione anche violenti ed iracondi e precipitosi.

 

 

Così come più d’un secolo dopo era «furbo e cortese» ma anche violento ed acceso e pronto quel conte di Cavour, al cui «temperamento», se non più al «genio», aspira oggi il possessore della rocca che da Cavour si intitola. Quale buffa contraffazione di biografia cavouriana è in uso nei cenacoli giolittiani, per osare di asserire che il gran conte era un empirico, un paziente, un prudente, un tollerante? Empirico il Cavour, che andava a lezione all’università di Torino da Francesco Ferrara, il più grande teorico della scienza economica italiana e ne pubblicava i riassunti della prolusione nel suo giornale? Empirico chi in gioventù si era dilettato a scrivere anch’egli un compendio della scienza economica, chi era dotto in problemi religiosi, chi aveva una preparazione scientifica formidabile? Favola assurda, come è assurda la favola che i piemontesi in genere siano stati capaci di fare le grandi cose del 1859 e del 1860 solo perché erano furbi e cortesi, pazienti e tolleranti, odiatori della rettorica ed aventi il senso della realtà.

 

 

Purtroppo anche i piemontesi avevano in casa dei rettorici bolsi e vuoti come il Brofferio, quotidiano svillaneggiatore di Cavour, assillante calunniatore della sua politica e del suo giornale, che già a quei tempi giudicava come oggi fanno certuni in cerca di diversioni, mosso da cupidigie speculative, da spirito di accaparramento monopolistico e simili «scempiaggini». Ma fecero grandi cose, perché seppero anteporre alla diplomazia ed alla furberia del Dalla Margherita la franchezza dei propri convincimenti, la sbalordente franchezza cavouriana nel dire la verità, sì da far credere ai diplomatici fosse menzogna; preferirono alla piccola realtà ed al buon senso del coltivare il proprio giardinetto la credenza ferma nelle idealità che fecero l’Italia. Cavour non fu un isolato; era tutta la miglior parte della classe dirigente piemontese di prima del 1848, la quale pensava e parlava ed agiva in base a principii, che oggi il giornale ufficiale del giolittismo chiamerebbe «professioni di verità sovrasensibili». Perciò a noi che siamo appena usciti dal gran decennio giolittiano, dalla «fioritura» di prima del maggio 1915; i discorsi di Cavour paiono idealistici. Non così ai suoi contemporanei, perché erano vissuti e cresciuti in un ambiente di idealità vive e fervide.

 

 

La sola verità che c’è in fondo a quel «lasciar fare alla storia», che sarebbe il gran merito dello statista erede delle tradizioni piemontesi, è nel detto memorabile che oggi ci rivela il suo organo: «lo sviluppo dell’Italia stava nell’ordine delle cose». Il detto non è in tutto vero, neanche applicato alle «fioriture» del gran decennio giolittiano; perché l’Italia economica nuova non si poté fare senza una nuova scienza, senza banditori di essa, senza agricoltori coraggiosi pronti ad accogliere il verbo dei primi cattedratici ambulanti, senza industriali e negozianti di fegato. Le fabbriche non sorgono, ed i campi non migliorano perché la storia lo vuole.

 

 

Certa cosa è che la storia, quella scritta, deve ancora dare il suo giudizio intorno al grado di collaborazione che ai risultati ottenuti nel gran decennio diede l’opera dell’erede del «temperamento» di Cavour. I maestri di logica insegnano che, perché un dato avvenimento possa considerarsi la conseguenza di un altro, nel caso nostro perché il miliardo di maggiori salari degli operai, perché l’entrata nel popolo delle «plebi di città che le signorie straniere ci avevano lasciato come peso morto e corrotto» – e chi mai aveva visto queste corrotte plebi cittadine prima che la grande industria richiamasse in Torino, in Milano, in Genova gli abitanti del contado? – possano considerarsi come la conseguenza del temperamento neo-cavouriano e dei concepimenti giolittiani, sarebbe necessario che quell’avvenimento non potesse essere ascritto a nessuna altra causa.

 

 

Forse lo scrittore del giornale torinese ha scoverto nuovissimi metodi di analisi storica, per cui nel groviglio delle cause ed effetti delle vicende italiane è riuscito a rintracciare il filo della causa unica sufficiente della prosperità italiana nel gran decennio, che sarebbe quel «temperamento» o quei «concepimenti».

 

 

La conoscenza di quei metodi sarebbe per fermo suggestiva e per fermo ancor più interessante sarebbe sapere in qual modo si spieghi come dappertutto, in tutti i paesi del mondo, d’Europa e d’America, d’Asia e d’Oceania, il gran decennio sia stato caratterizzato da alti salari, miliardi di incremento della ricchezza nazionale e prosperità inaudita. Che dappertutto il governo si inspirasse, nelle repubbliche democratiche, come negli imperi imperialisti, nei paesi dove non si scioperava perché c’era l’arbitrato obbligatorio ed in quelli dove non si scioperava perché c’era lo knut, alle regole che la tradizione piemontese ha trasmesso, incorrotte e misteriose, ai privilegiati del «temperamento» neo-cavouriano ed ai toccati dalla grazia dei «concepimenti generali ritrovati da Giolitti?» Che se questi nuovi metodi di critica storica non verranno rivelati, rimarrà il dubbio: come attribuire in Italia ad una causa risultati che altrove ugualmente si ottennero in assenza di quella causa?

 

 

E, poiché sono sul tema dei confronti di logica storica internazionale, sarebbe interessantissimo sapere perché solo in Italia e non altrove si ponga il dilemma: o il parlamento o il giornalismo. Parrebbe, a sentire i cultori delle tradizioni piemontesi, che sia una cosa nuova, mai più vista ed intollerabile, che ci siano giornali e giornalisti intenti a svillaneggiare ministri, governi, deputati e parlamenti. Parrebbe che, se le ingiurie non vengono fatte cessare, se non si riesce a dimostrare che tutti gli ingiuriatori sono pagati o dominati dai pescicani della guerra, il parlamento debba senz’altro «oggi o domani, scomparire»; ovvero, se le ingiurie non sono vere, il giornalismo «riceva un colpo che può essere mortale».

 

 

Se questo dilemma fosse vero, da lunghi anni parlamenti e giornali sarebbero amendue scomparsi. La Camera dei comuni, la venerabile madre di tutti i parlamenti oggi vivi e vivaci, sarebbe morta da due secoli. Perché quali ingiurie e quali villanie non furono dette ai membri della Camera bassa inglese ed alla Camera stessa come ente? Da Swift, l’immortale autore del libro di Gulliver, in poi, le più atroci ingiurie furono lanciate contro di essa; e la più infrequente non era per fermo quella di essere composta tutta di persone vendute o corrotte; vendute a Luigi XIV per l’abiezione del proprio paese, corrotte da Walpole per ottenere il voto del bilancio a pro della politica dei Re Elettori annoveresi. Se fossero stati necessari i pubblici abbruciamenti di giornali e le condanne dei giornalisti a baciare il pavimento della camera bassa – «come è sporco questo pavimento!», esclamava uno di questi giornalisti svillaneggiatori dopo essere stato costretto a fare onorevole ammenda dei suoi insulti – a tergere la camera del fango che su di essa si gittava a piene mani, a quest’ora il grande giornalismo inglese non esisterebbe.

 

 

In verità, né il fondamento indubbio di molte tra le accuse di mercimonio e di tradimento allo straniero lanciate dai giornalisti ai membri della Camera dei comuni ebbero la virtù di uccidere questa; né i fulmini del legislatore contro le insolenze degli «scribi», come si chiamavano un tempo, distrussero il giornalismo. L’uno non può vivere senza l’altro. Il giornale è il pungolo del parlamento; e questo è la tribuna dove i problemi posti dall’opinione pubblica devono venire discussi e trovare una soluzione. I vilipendi degli «scribi» contro parlamentari e governanti sempre mai si ebbero e sempre giovarono a purificare governi e parlamenti, sempre contribuirono a far tacere coloro che non meritavano di parlare. Né mai coloro che difendevano, contro il clamore degli «scribi», una causa giusta, ebbero bisogno di difendersi gridando che le mani le quali lanciavano l’accusa non erano pure.

 

 

La causa giusta si difende con i suoi meriti; mentre la causa cattiva va a fondo anche se i suoi patroni sono purissimi e gli avversari nefandi. Tra giornalismo e parlamento, il che vuol dire tra una forma ed un’altra di pubblica discussione – e chi mai, salvo coloro i quali infantilmente credono alla virtù delle carte costituzionali scritte, può attribuire ai parlamenti altro e più nobile ufficio di quello di tribuna pubblica di tutte le voci del paese? – non è giudice né l’una né l’altra parte. Giudice è solo la pubblica opinione degli uomini riflessivi ed amanti del paese, la quale col tempo via via si trasforma in storia e lascia cadere da ultimo nell’oblio gli uomini politici ed i giornalisti, i quali furono corrotti o ciechi, ed erige un monumento di riconoscenza a coloro che, traverso a decisioni e scoramenti, ad impeti e rilassatezze, a sacrifizi e trionfi, a calunnie ed esaltazioni, benemeritarono della patria.

Profitti di guerra, imposte e prezzi delle forniture

Profitti di guerra, imposte e prezzi delle forniture

«Corriere della Sera», 2 ottobre 1917

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 574-578

 

 

Se debbo giudicare dalla frequenza delle lettere che giungono a me ed alla direzione del «Corriere», continua ad essere grande e sfavorevole l’impressione che sull’opinione pubblica esercitano i molti casi di rapido arricchimento dovuto alla guerra: imprese in crisi profonde tratte a salvamento; altre mediocri tratte ad insperata fortuna; quelle grandi divenute strapotenti; molti dal nulla riusciti a grandi ricchezze. Questo spettacolo dei subiti guadagni e del lusso sfrenato di non pochi nuovi arricchiti irrita e nuoce alla resistenza morale del paese.

 

 

Non mi intrattengo, per ora, dei mezzi atti ad impedire lo spreco sfrontato ed insultante dei nuovi arricchiti. È questo il lato forse più importante del problema; poiché lo spreco in tempo di guerra è di gran lunga più dannoso al paese dei guadagni ottenuti e messi a frutto. Ma è un problema di cui altre volte mi sono già occupato e che oggi mi trarrebbe troppo per le lunghe.

 

 

Quanto ai guadagni, il problema sta tutto nel metodo migliore da scegliere per raggiungere il fine. Per lo più le lettere ricevute invocano l’inasprimento delle imposte a tal segno da lasciare agli industriali solo un ragionevole profitto. Non pochi aggiungono a quello degli industriali il voto della tassazione anche degli agricoltori e degli speculatori in genere; e le lettere le quali provengono dal ceto degli impiegati, contengono non di rado, in aggiunta all’idea della tassazione dei profitti industriali, la proposta di colpire altresì i salari cresciuti delle maestranze operaie, i quali oggi sfuggono alle imposte sui redditi.

 

 

Ho già avuto ripetutamente occasione di manifestare il convincimento che in Italia non occorre nessuna nuova imposta destinata a colpire i salari degli operai. Tanto la tassazione come l’esenzione dei salari, come tali, è odiosa perché inspirata a criteri di persecuzione o di privilegio di classe. La giustizia tributaria richiede soltanto che i salari operai siano tassati alla stessa stregua di tutti gli altri redditi del medesimo ammontare e della medesima natura. È contrario ad ogni criterio di equità e di tecnica tributaria che l’inserviente od il custode od il bidello con 641 lire di reddito sia colpito dall’ imposta di ricchezza mobile; e sarebbe necessario, anche nell’ interesse della possibilità degli accertamenti, che il minimo esente fosse aumentato sino a 1.200 lire. Ma i redditi superiori a questa cifra dovrebbero essere colpiti tutti, sia che appartengano al bidello della scuola come all’operaio dell’industria. L’odierna esenzione di fatto degli operai, i quali guadagnano salari che per tutti gli altri contribuenti andrebbero soggetti ad imposta, è un vero odioso privilegio di classe e va fatto cessare. S’intende che, per essere tollerabile ed esigibile, l’imposta dovrebbe tener conto per tutti, e quindi anche per gli operai, delle condizioni di famiglia, di figliuolanza, delle necessità di assicurazioni contro le malattie, la vecchiaia, ecc.; dovrebbe essere mite dapprima e crescere col crescere del reddito familiare.

 

 

Credo che in questi principii concordino anche i capi più consapevoli delle classi operaie; i quali sanno che l’attuale sistema tributario è sperequato, appunto perché ferocissimo verso taluni contribuenti e dimentico di altri. Per renderlo perequato, altra via non c’è fuorché renderlo severissimo verso tutti negli accertamenti, largo nelle esenzioni verso tutti i redditi minimi (ad esempio fino a 1.200 lire), mite nella tassazione di tutti i redditi mediocri (ad esempio da 1.200 a 5.000 lire), normale per i redditi che ora si possono chiamare medi (ad esempio da 5.000 a 50.000 lire) e più grave per i redditi che in Italia si possono considerare alti (ad esempio superiori a 50.000 lire), non oltrepassando mai quel segno oltre di cui sarebbe ostacolata la produzione del reddito stesso.

 

 

Ho detto che la prima condizione di un buon sistema tributario è quella di essere severissimo negli accertamenti del reddito verso tutti i contribuenti. I partiti demagogici si distinguono dagli altri perché a grandi grida vociferano a favore di un’alta e rapidamente progressiva imposta sul reddito; ma poiché non si curano dei mezzi di accertamento del reddito, quell’imposta, dopo aver servito a procacciar voti nelle elezioni politiche, rimane lettera morta, con grande giubilo dei grossi redditieri, per lo più assai amici dei demagoghi radicalissimi in fatto di tributi. I grossi redditieri, specie speculativi, sanno che le imposte ferocissime nell’apparenza sono ad essi benigne, perché non si esigono sul serio e lasciano sfuggire i furbi di tra le loro larghe maglie. Se v’è canone sicuro nella finanza, questo è: che per poter essere severi negli accertamenti, per poter conoscere, e così colpire con esattezza i redditi, fa d’uopo che il saggio od aliquota percentuale dell’imposta non sia esorbitante. Si esigevano quasi alla perfezione le imposte inglesi e prussiane sul reddito, perché l’aliquota era modesta, non salendo oltre il 5-10 % anche per redditi da 100.000 lire e più all’anno. Si esigeva malamente l’italiana imposta sui redditi di ricchezza mobile, perché esorbitava dal 7,50 al 20%. L’aliquota alta mette in fuga i contribuenti, li spinge a nascondere il reddito, a lottare con ogni mezzo pur di non vederselo dimezzato.

 

 

In tempo di guerra si possono e si sono con successo oltrepassate le aliquote ordinarie, perché i contribuenti meglio riflettono al dovere di pagare e perché in tempi di prezzi crescenti gli aggravi tributari non paiono duri. Ma, anche in tempo di guerra, vi sono limiti che la tecnica tributaria consiglia di non oltrepassare. Si pigli il caso dei sovraprofitti di guerra. Non so se la maggior parte di coloro, i quali nelle loro lettere invocano la tassazione dei profitti di guerra, abbia riflettuto che in Italia, oggi i veri sovraprofitti, quelli che contano, pagano già, tra imposta di ricchezza mobile, imposta sui sovraprofitti e doppio centesimo di guerra, il 66,50% del loro ammontare. Non so che impressione faccia al medio contribuente una imposta del 66,50% del reddito. Ammetto che si possa chiedere un aumento al 75, all’80, anche al 90%, partendo dal concetto che agli industriali occorre lasciare solo quel tanto che basta per indurli a produrre. Ma, ancora una volta, fa d’uopo mettere in rilievo che il problema va posto diversamente. Non bisogna chiedere: è più giusta un’aliquota del 66,50% o dell’80%? Sono aliquote enormi tutte due; ed è assai difficile trovare il punto a cui sia giusto fermarsi. Il vero problema è un altro: rende di più al fisco un’imposta del 66,50 od una dell’ 80 o del 90%? Il problema non può essere risoluto se non da chi ha l’esperienza del mestiere di tassatore. Sono i funzionari delle imposte quelli i quali ci devono dire se sia più facile far rendere un’imposta al 66,50 od un’altra all’80%. Ho discorso con parecchi di essi; e la mia impressione è che, se l’imposta sui sovraprofitti renderà probabilmente 500 milioni per il periodo 1 agosto 1914-31 dicembre 1915 ed altrettanto per il 1916, la stessa imposta avrebbe reso probabilmente di più di queste cifre, le quali sono già decuple delle previsioni fatte in origine, se l’aliquota fosse stata più bassa. Bisogna persuadersi che il corpo dei funzionari delle imposte, sebbene vanti nel proprio seno uomini tutti integerrimi ed alcuni di gran valore, non è e non sarà mai composto di divinità onniveggenti, le quali conoscano a perfezione gli affari altrui. Essi debbono per forza contare sulla collaborazione dei contribuenti, collaborazione la quale è tanto più restia quanto più sono alte le pretese del fisco.

 

 

Credo piuttosto che non sia stato ancora abbastanza utilizzato un altro mezzo per ridurre i guadagni di quelli che lavorano per la guerra. Sta bene tassare i profitti dopo che si sono prodotti; ma non sarebbe ancor meglio non lasciare guadagnare tanto ai fornitori dello stato? Se ci sono fabbricanti, i quali guadagnano troppo, ciò vuol dire che il prezzo delle spolette, delle granate, delle mitragliatrici, degli aeroplani è stato fissato troppo alto in rapporto al costo di produzione. Vuol dire che si è pagato 10 l’oggetto che costava 5, lasciando lucrare 5 al fabbricante. Invece di aspettare a tassare i 5 di profitto quando già il fabbricante li ha incassati, quando già si è abituato a considerarli roba sua ed è disposto a difenderli con le unghie e coi denti contro il funzionario delle imposte, non sarebbe meglio che i ministeri delle munizioni, della guerra, della marina, che il comando supremo, che le varie autorità governative pagassero soltanto 6? Il fabbricante guadagnerebbe 1; e su questo 1 il fisco preleverebbe ancora la sua parte, riducendo i profitti al loro livello normale.

 

 

Il calcolo dei costi di produzione non è facilissimo; ma non è nemmeno tale che nulla possa farsi ad ammaestramento dei ministeri ordinatori. Leggo in un riassunto del rapporto del comitato dei conti consuntivi della Camera dei comuni inglese, relativo al 1915-16, recentemente pubblicato, il seguente brano:

 

 

L’anno scorso riferimmo intorno al metodo tenuto dal ministero delle munizioni per calcolare il costo di produzione degli oggetti acquistati. Durante l’anno in corso il sistema fu energicamente continuato ed ampliato, ottenendosi risultati soddisfacentissimi sotto due rispetti; ossia in primo luogo riducendo i prezzi ed in secondo luogo persuadendo i fabbricanti dell’importanza di fare minute ricerche nei propri libri per accertare il vero costo di produzione degli oggetti prodotti. Queste ricerche produrranno probabilmente grandi ed importanti effetti a pro del perfezionamento avvenire dei metodi di produzione. Le indagini del governo, che in principio erano poco ben vedute, sono adesso accolte con gran favore, perché i fabbricanti si sono persuasi di aver avuto la spinta a fare economie dagli studi esatti compiuti su tutti i loro contratti. Il comitato venne a conoscenza di casi in cui si ottennero economie per milioni di sterline, riducendosi i costi persino del 40 e del 50%. Quanto all’erario, per le sole granate e la cordite, i prezzi del 1916 ribassarono di 1.734.000 lire sterline (43.735.480 lire italiane). il risparmio totale nel costo delle munizioni nel 1917, calcolato sulla produzione dell’anno precedente è stimato a 43 milioni di lire sterline (1.084.460.000 lire italiane); e ciò nonostante l’aumento nei salari.

 

 

Senza alcun dubbio i ministeri italiani fanno i maggiori sforzi possibili per ridurre i prezzi delle forniture; ma ogni ulteriore sforzo e l’attenzione più diligente e seguitata al riguardo saranno sempre utilissime e doverose. Vi dovrebbe essere anzi una stretta collaborazione fra autorità militari e funzionari delle imposte. Le prime dovrebbero comunicare ai secondi i risultati dei loro calcoli di costi e di prezzi, evitando di comprendere tra i costi le imposte che i fabbricanti dovranno poi pagare – le imposte non sono invero parte del costo ma dell’eventuale profitto da tassarsi -; i secondi dovrebbero partire dai dati di costo e prezzo per tal modo ottenuto per calcolare i profitti a tassarsi. Così, colla collaborazione di entrambi gli organi pubblici, di chi paga e di chi tassa, sarebbe impossibile alle industrie di guerra ottenere profitti veramente eccezionali.

 

 

Lettera quarta. I parlamenti espressione della volontà nazionale

Lettera quarta.
I parlamenti espressione della volontà nazionale
«Corriere della Sera», 25 settembre 1917
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 43-53

 

 

 

 

Signor Direttore,

 

 

È stata una vera disgrazia che il signor Wilson non abbia fatto seguire alla sua nota di risposta al Papa ed agli altri documenti in cui egli invocava maggior democrazia nel governo della Germania e faceva l’avvento di questa democrazia condizione di feconde e serie trattative di pace; è stata, dico, una gran disgrazia che non vi abbia fatto seguire uno di quei glossari per cui vanno famosi i testi legislativi anglo-sassoni. La mancanza di un siffatto glossario o dizionario dei vocaboli usati nelle note wilsoniane è stata occasione di equivoci grandissimi e di una curiosa difesa del parlamentarismo tentata dall’organo ufficiale del giolittismo italiano.

 

 

«Curiosa» perché proveniente dalla penna di chi, or non sono ancora passati quattro lustri, dimostrava, con la pubblicazione di articoli intorno al «presidente» americano, di ben conoscere come sia impossibile a una mente americana di concepire il governo «democratico» come sinonimo di quel governo «parlamentare» l’ossequio al quale sembra oggi a lui l’unico mezzo di procedere sulla «retta via». Se il glossario ci fosse stato, forse sarebbe apparso evidente che un presidente americano non può credere che l’assenza della vera democrazia sia l’ubbidienza del governo alla maggioranza della camera elettiva negli Stati Uniti, – i ministri sono responsabili solo verso il presidente e non se ne vanno in seguito a voti contrari della camera bassa – nella stessa guisa come in Italia, dove la lettera e lo spirito dello Statuto imporrebbero un governo responsabile verso il re e non verso le camere – ricordisi un articolo, Torniamo allo Statuto! dell’on. Sonnino, ammiratissimo un tempo da taluni seguaci delle «grandi tradizioni piemontesi» e dei più recenti progressi germanici, – sembra difficile menar per buono il vanto di chi immagina di essere stato «per due anni solo nel partito costituzionale a difendere lo Statuto», solo perché per due anni ha desiderato e ancora desidera che la maggioranza giolittiana e neutralista della camera trovasse e trovi il coraggio di «riprendere il grande problema» e «discuterlo a fondo» per manifestare con «passione e con sincerità» il proprio avviso contrario alla guerra.

 

 

La verità si è che oggi lo Statuto si interpreta e si applica in un modo compiutamente diverso da quello che si aspettavano i suoi formulatori; e la verità ancora più grande si è che i parlamenti potranno avere ed hanno molte virtù, non mai quella di essere l’espressione di quella mitica astrazione che è la «volontà della maggioranza» degli abitanti di un paese. Credere in questa vecchia ubbia della «volontà della maggioranza» dimostra una compiuta assenza da tutto il movimento contemporaneo di studi intorno alle forme di governo.

 

 

Immaginare, dopo Ippolito Taine, Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, Ostrogorski, Lord Bryce ed altri insigni scrittori, che sul serio possa esistere un parlamento espressione della volontà della maggioranza, e possa quindi darsi un governo che, essendo un comitato designato dalla maggioranza della camera, sia la emanazione della maggioranza del paese, è dar prova di molta contentatura nella formazione del proprio bagaglio di idee. No. Ogni governo è l’espressione di una minoranza, di una classe politica, come la chiama il Mosca, di una eletta, come preferisce dirla il Pareto, la quale sola ha la forza e la capacità di guidare il paese. Il problema politico vero non sta nel trovare i mezzi di dare espressione a quella astrazione inesistente che è la «volontà del paese», ma di scegliere e formare una classe politica siffatta che sappia trascinare dietro di sé la cosidetta «maggioranza» od «universalità» del paese od «opinione pubblica», per il raggiungimento di scopi degni, alti e vantaggiosi alle generazioni venture.

 

 

Se si fosse ascoltata «la schietta, la genuina espressione dell’anima nazionale» nessuna grande mutazione sociale e politica mai si sarebbe potuta fare; non certamente si sarebbe fatta l’unità d’Italia. Vi erano contrari, in gran maggioranza, i bougianen piemontesi, i quali, tuttavia, si lasciarono incorporare in un esercito dalle gloriose tradizioni, e furono così trascinati a compiere prodigi da una dinastia forte e da uno statista di genio. Vi erano contrari i contadini del Lombardo-Veneto e del Napoletano, per avversione contro la borghesia liberale, la quale sola era nemica dell’Austria e del Borbone. Ma quando la minoranza politica italiana vinse, non vi fu nessun dubbio che lo scopo che essa si era proposto, se non rispondeva alla volontà della maggioranza non pensante, quale si sarebbe contata in una schietta e genuina elezione generale, rispondeva invece, nel modo più sicuro, alla volontà del paese, ossia alla volontà delle successive generazioni, remote, presenti e future, degli italiani capaci a pensare ed a riflettere al vantaggio duraturo, materiale ed ideale, della nazione. Il parlamento può essere uno strumento utilissimo per dare espressione agli ideali politici visti oggi da una minoranza e riconosciuti domani da tutti. L’anima italiana sente gli ideali per cui oggi si combatte e dalla propaganda di una minoranza consapevole è stata trascinata a combattere per il compimento dell’indipendenza nazionale, a subire sacrifici di sangue ed a soffrire ansie e dolori. L’esempio consapevole delle sofferenze sopportate per l’ideale nazionale è stato dato da alcune decine di migliaia di giovani della borghesia, educati nelle università italiane, trasformati da una piccola eletta di ufficiali superiori – che è miracolo siasi potuta formare nella Scuola di guerra di Torino, durante gli anni lunghi della indifferenza verso le cose dell’esercito – in guide spirituali dei milioni di contadini, di artigiani, di esercenti, di operai, che, così inquadrati ed inspirati, seppero dimostrare per la terza volta in poco più di un secolo – la prima volta fu nelle guerre pro e contro Napoleone, la seconda nel ’48 e nel ’59 – quanto valga l’italiano in guerra. Ma conviene riconoscere che, fatte poche eccezioni, il parlamento italiano è stato assente da quest’opera di preparazione, di inquadramento e di inspirazione per cui i milioni furono condotti a sacrificarsi per la vita più alta delle generazioni venture. E se oggi il parlamento italiano suscita diffidenze e fa nascere timori, ciò accade per l’ansia in cui le guide spirituali dell’esercito in campo vivono di vederlo diventare strumento di un’altra minoranza: di quella la quale dà espressione alle passioni egoistiche ed agli interessi e ai dolori transitori della collettività nazionale. Vi sono alcuni che hanno sofferto un danno economico dalla guerra; ed a questi che sono i meno – poiché si compongono quasi soltanto degli impiegati che non poterono ottenere un’indennità bastevole per caro viveri, dei capitalisti a reddito fisso e dei proprietari di terre e di case a cui non fu possibile aumentare i fitti – si aggiungono tutti coloro i quali guardano soltanto al danno del rincaro delle sussistenze e non al beneficio, per lo più maggiore, dell’aumento dei redditi e dei salari. Di questo malessere, per ora in gran parte immaginario, e del dolore, rispettabile e solenne, delle famiglie che ebbero figli morti, mutilati o prigionieri in guerra, vuol profittare un’altra minoranza, la quale, se prevalesse in piazza ed in parlamento, condurrebbe il paese al suo disfacimento ed a dolori e miserie ben maggiori di quelle più atroci che una immaginazione sfrenata possa paventare dalla guerra.

 

 

E di chi è composta quest’altra minoranza? Qui farebbe d’uopo riprendere il motivo del classico Dizionario dei vocaboli politici di Sir G. Cornewall Lewis per definire i significati diversissimi che si possono attribuire alla medesima parola. Il «governo democratico», di cui parla Wilson nelle sue note, può essere invero assunto come segnacolo in vessillo delle minoranze più diverse e per il conseguimento degli scopi più contrastanti. Era un governo democratico quel governo di clientele che dominò in Italia dal 1876 sino al 1914, in cui sempre più il governo tendeva ad essere in mano a grandi capi feudali, ai «boss» nazionali – contro cui Wilson combatté e vinse memorande battaglie nel suo paese – che meglio sapevano soddisfare i desideri dei minori capi, disseminati nei vari feudi o collegi elettorali, e reggentisi coi favori distribuiti alle proprie clientele politiche? Che questa – dei minuti favori concessi alle clientele, del predominio garantito nelle amministrazioni locali – sia stata l’origine delle maggioranze parlamentari dal 1876 ad oggi, è oramai fatto storico da nessuno messo in dubbio. E poiché le clientele vivono di vantaggi presenti, è chiaro che, durando i medesimi sistemi di captazione dei voti, sempre accadrà che le maggioranze parlamentari siano propense ad ascoltare piuttosto il grido di chi si lagna di qualche disturbo presente, riparabile e sopportabile, anche quando non immaginario e di qualche grande dolore, che non la voce dei non nati, i quali chiedono sicurezza e dignità di vita per le venture generazioni entro la nuova Italia.

 

 

Oppure «governo democratico» vuol dire «governo di critica e di discussione», un governo cioè di cui tutti gli atti sono soggettati ad una critica vivace ed anche non serena da parte di chi vuol prendere il posto dei governanti? L’organo giolittiano immaginò di far la difesa del parlamentarismo italiano facendosi inviare da Parigi una corrispondenza, nella quale si mettevano in rilievo gli utilissimi risultati ottenuti dalle critiche a cui gli atti dei successivi governi francesi furono, durante la guerra presente, sottoposti non nella grande aula pubblica, ma nelle minori aule delle commissioni parlamentari. Lontano dagli occhi del gran pubblico, lungi dalla tribuna sonora e retorica, nel raccolto ambiente delle commissioni, dove si discute e non si declama e non si vocifera od inveisce, si rivelarono competenze di prim’ordine, uomini modesti e gravi e formidabili. Così è infatti: il vantaggio maggiore, forse unico, dei parlamenti non è invero quello di essere l’espressione di una mitica volontà nazionale, ma il luogo in cui, su mezzo migliaio o seicento tribuni popolari e capi clientele, in mezzo ad una folla non di rado immemore dei grandi e permanenti interessi del paese, accade si possano trovare poche decine di uomini indipendenti, dotati della stoffa dell’uomo di Stato o del critico implacabile. Spesso, nei tempi normali, questi cinquanta, non più, uomini indipendenti, sono sopraffatti e ridotti al silenzio dalle clientele onnipotenti, ed i grandi capi feudali hanno l’interesse a renderne l’opera nulla ed impossibile. Ma talvolta, nei tempi di eccitazione patriottica e di pericolo, le clientele sono ridotte al silenzio: i Caillaux sono costretti a tacere e, alla fine, i Malvy debbono andarsene. Allora è la volta degli organizzatori e dei critici implacabili, che non parlano in pubblico, ma lavorano nelle commissioni, come lavorava il grande Carnot, l’organizzatore della vittoria. Perché, sinora, questi organizzatori e questi critici non sono sorti nel parlamento italiano? Perché tutta l’organizzazione della vittoria in Italia si è lasciata allo stato maggiore in campo ed a pochi generali a Roma, i quali soltanto seppero improvvisare e stimolare un rigoglio mai più visto di industrie belliche? Perché il solo servizio pubblico che davvero abbia cooperato in grande stile alla guerra fu il servizio ferroviario, che il suo organizzatore Riccardo Bianchi per un decennio volle indipendente dalle influenze delle clientele politiche? Perché nelle commissioni, che pur esistono nel parlamento italiano, e che avrebbero mille mezzi di farsi sentire dai ministri italiani, fin troppo tremebondi dinanzi ai deputati, non si fanno le utili discussioni, che sono oggi la gloria del parlamento francese? Questa sarebbe la ricerca veramente utile a farsi; non l’altra, ineffabilmente anacronistica, di un parlamento, presente o futuro, il quale sia l’espressione della volontà nazionale. Come accade che i più degli elettori chieggano oggi ai propri rappresentanti non il loro giudizio sulla condotta, militare od economica, della guerra; ma ancora e sempre raccomandazioni ed appoggi, non di rado per ottenere esoneri, dispense e vantaggiose destinazioni? La stima pubblica non si acquista dai parlamenti, né si acquista perciò la forza di imporsi e di compiere cose grandi col far richiamo allo Statuto od alle leggi, e neppure con le elezioni anche plebiscitarie; ma con le opere buone a prò del popolo, ma con l’esprimere dal proprio seno le poche decine di persone capaci di guidare con mano ferma i destini del paese. Se a tanto non riescono, come possono i parlamenti lagnarsi della pubblica noncuranza che li circonda e li avvilisce?

 

Le aperture di credito svizzero alla Germania

Le aperture di credito svizzero alla Germania

«Corriere della Sera», 20 agosto 1917

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 569-573

 

 

Se l’Italia si preoccupa assai della perdita che subisce la sua lira trasformandosi in franchi svizzeri altri paesi non si preoccupano meno del ribasso che rispettivamente li affligge. In verità l’Inghilterra e gli Stati uniti sembrano decisi a lasciar andare per loro conto le cose alla deriva, senza prendere alcun provvedimento. Mentre l’Inghilterra si cura assai del corso dei cambi sugli Stati uniti e cerca di tenerlo su per giù al nuovo punto inferiore dell’ oro, né trascura i cambi olandesi; poco sembra interessarla il cambio sulla Svizzera. Neppure si sente parlare di provvedimenti francesi, e sarebbe fuori di luogo che facesse qualcosa la Russia.

 

 

Molto invece si discorre in Svizzera dell’azione della Germania per rialzare il livello dei suoi cambi, oramai peggiorato a segno che alla fine di luglio il marco tedesco perdeva il 48,55% sul franco svizzero.

 

 

Due forme ha assunto recentemente l’azione tedesca per il rialzo dei suoi cambi sulla Svizzera. Il primo consiste in una tentata mobilizzazione dei titoli svizzeri a favore della Germania. Alla fine di luglio numerosi ricchi svizzeri del Cantone di Zurigo si videro recapitare la seguente circolare di una banca privata zurighese:

 

 

Ci onoriamo di sottoporle la seguente interessante combinazione finanziaria. Se ella possedesse buone obbligazioni svizzere, federali, cantonali, di città, di società ferroviarie, bancarie od industriali di prim’ordine, potremmo fornirle il modo di darle in prestito per tre anni all’amministrazione di una delle maggiori città tedesche. Oltre alla responsabilità della città debitrice, risponderebbe della obbligazione altresì la Deutsche Bank (capitale e riserve 400 milioni di marchi). I titoli rimarrebbero depositati in Svizzera. Come compenso ella riceverebbe, oltre il reddito ordinario dell’obbligazione, un bonifico annuo del 3,75-4% di franchi svizzeri per partite di almeno mezzo milione e del 3,50% per partite di almeno 50.000 franchi; cosicché ella potrebbe fare assegnamento su un frutto complessivo non minore del 6,50-8%.

 

 

La stampa finanziaria svizzera notò che la Germania veniva in tal modo a pagare, comprese le mediazioni alle banche intermediarie, non meno del 12% annuo per tre anni sul denaro ottenuto a prestito col deposito di titoli svizzeri di prim’ordine che essa cercava di procurarsi dai capitalisti detentori. È probabile che il tentativo della Germania non abbia seguito, data la disapprovazione generale che esso incontrò in Svizzera, dove si osserva che i titoli nazionali debbono essere la riserva della Svizzera stessa per bisogni eventuali futuri e non debbono essere adoperati a base di operazioni di credito di paesi esteri.

 

 

Invece incontra favorevoli accoglienze un’altra proposta germanica; che è di far accordare direttamente dalla Confederazione alla Germania un credito proporzionale agli acquisti che la Germania fa in Svizzera. La proposta fu favorevolmente accolta dal Consiglio federale; e la stampa svizzera ne discute le modalità. In sostanza si tratta di questo: la Germania compra ogni mese 60 milioni di franchi di merci in Svizzera. Non tutti questi 60 milioni sono controbilanciati da vendite di merci tedesche, e poiché la Germania non può consegnare alla Svizzera lettere di cambio per merci vendute in Olanda o nei paesi scandinavi fino a fare il pareggio, essa deve fare una ricerca affannosa di moneta svizzera, onde effettuare il saldo, col risultato che il franco svizzero apprezza ed il marco deprezza. Si propone che di 60 milioni mensili di merci comperate, solo 40 milioni vengano pagati in contanti, presumibilmente con compensazioni di merci tedesche, ad esempio carbone, vendute in Svizzera. Per i restanti 20 milioni la Svizzera dovrebbe concedere un respiro, aprendo un equivalente credito sino alla fine della guerra. Gli industriali e gli agricoltori venditori dovrebbero cioè vendere a credito alla Germania un terzo delle merci fornite; e se essi non si trovano in condizione di poter concedere questo credito, dovrebbe la Confederazione scontare le cambiali rilasciate dai compratori tedeschi, permettendo così ai venditori svizzeri di ottenere subito la disponibilità del prezzo delle merci vendute ed ai compratori tedeschi di dilazionare il pagamento sino ad epoca più opportuna.

 

 

Anche l’Italia potrebbe, per le merci acquistate in Svizzera, seguire lo stesso metodo, se non si dovesse per noi osservare trattarsi di una goccia in un mare. Nel 1916 invero i nostri acquisti di merci svizzere giunsero ad appena 134,6 milioni di lire su un totale di 5 miliardi e 458,3 milioni di merci acquistate all’estero. Non è così piccola somma che può avere influito sui cambi italiani; tanto più se si pensa che nell’anno medesimo noi vendemmo alla Svizzera ben 395,7 milioni di lire di merci su un totale di merci vendute all’estero di 2 miliardi e 292,7 milioni. Se si dovesse badare, per spiegare lo stato dei cambi tra due paesi, alla bilancia commerciale tra quei due paesi, l’Italia, creditrice di un cospicuo saldo verso la Svizzera, dovrebbe vedere la sua lira altamente apprezzata in confronto al franco svizzero. Ho già ripetutamente spiegato che la bilancia commerciale particolare tra due paesi non ha nessuna importanza; poco giovando che l’Italia sia creditrice verso la Svizzera, quando il saldo delle sue lettere di cambio creditrici sulla Svizzera (nel 1916 circa 260 milioni di differenza fra 395,7 milioni di merci vendute e 134,6 milioni di merci acquistate in Svizzera), ci fa fare assai poca strada per far fronte alla ben maggiore differenza complessiva tra le merci vendute e quelle acquistate in genere all’estero (saldo passivo complessivo di 3 miliardi e 160 milioni di lire circa). Se le lire italiane fossero care in confronto ai franchi svizzeri, mentre fossero deprezzate in confronto alle sterline ed ai dollari, ossia alle monete dei paesi verso cui siamo debitori, noi avremmo interesse a fare una grande domanda di franchi svizzeri per potere con questi comprare a più buon mercato lire sterline e dollari. E la grande domanda di franchi svizzeri li farebbe aumentare di prezzo, sino a far dare solo franchi 0,62 in cambio di 1 lira italiana, precisamente come accade ora.

 

 

Non è dunque possibile agire solo sui cambi di un paese, poiché agendo sugli uni si agisce indirettamente anche sugli altri. Perciò avrebbe Poca importanza ottenere dalla vicina confederazione una apertura di credito di un terzo del valore dei nostri acquisti in Svizzera: circa 50 milioni all’anno. Gioverebbe, ma entro i limiti dei 50 milioni su un saldo complessivo debitore verso tutto l’estero probabilmente non minore di 4 miliardi di lire. Giova, invece, ottenere credito dai nostri più cospicui fornitori che sono gli Stati uniti (nel 1916 2 miliardi e 202 milioni di merci acquistate contro 235 vendute) e l’Inghilterra (nel 1916 1 miliardo e 79 milioni di merci acquistate contro 374 vendute).

 

 

Anzi è logicamente inconcepibile che il credito non sia stato ottenuto nella precisa misura della differenza fra gli acquisti e le vendite. In che altro modo avremmo potuto acquistare e pagare? Le merci estere non si acquistano che con altre merci ovvero con oro (di cui dall’Italia non andarono all’estero se non pochissime centinaia di milioni) ovvero con promesse di pagare in avvenire rilasciate dallo stato o dai privati compratori ed accettate dagli stranieri venditori. Se le cose stanno così – e nessuno finora ha spiegato come potessero stare diversamente, sebbene da molto tempo sia stato chiesto un eventuale chiarimento in proposito – non è forse vero che il preteso sbilancio nei pagamenti non esiste? Non è forse vero che i 5 miliardi e mezzo di merci acquistate nel 1916 li pagammo con 2 miliardi e 300 milioni di merci vendute, con alquanto oro spedito all’estero con rimesse di emigranti non venute meno, con altre fonti minori e con aperture di credito in Inghilterra? E se questo è, e non può non essere, non è forse vero che il disaggio della nostra carta – moneta non può essere dovuto ad un fatto non esistente – come è il cosidetto sbilancio dei pagamenti internazionali – ma a qualche fatto reale ed esistente? Quale sia questo fatto reale non si può indagare sullo scorcio di un articolo. O si tratti dell’ammontare della circolazione e di impegni di pagamento assunti da chi non sapeva come pagare o dei modi tenuti nell’utilizzare i crediti esteri o della non coincidenza, anche procurata, nei successivi momenti o nei diversi gruppi di interessati tra la offerta e la domanda di divisa estera, pure equilibrantesi nel complesso; certo sarebbe utile che la causa o le cause del disaggio fossero chiarite. Ma a chiarirle non giova mettere in campo soltanto una circostanza – lo sbilancio dei pagamenti – che porta su di sé impresso il marchio della impossibilità logica.

 

 

Lettera terza. Intorno ai detti memorabili dello statista erede della tradizione piemontese

Lettera terza.
Intorno ai detti memorabili dello statista erede della tradizione piemontese
«Corriere della Sera», 18 agosto 1917
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 33-41
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 449-453

 

 

 

 

Signor direttore,

 

 

Lo statista «che in tutta l’opera sua ha continuato la tradizione piemontese di una politica larga ad ampie vedute democratiche» – così il suo organo ufficiale commenta il discorso dell’on. Giovanni Giolitti – «non poteva non essere il primo del partito costituzionale ad affermare i diritti dell’ora nuova». L’ora nuova dice: «a sinistra, sempre più verso sinistra», in ricordanza della tradizione piemontese cavouriana del connubio con la sinistra di Rattazzi. Nei caffè «costituzionali» piemontesi, dove si ragiona di politica e si paragona Giolitti a Briand od a Lloyd George od a Wilson, quell’affare del «verso Sinistra» deve essere rimasta l’idea politica più chiara tramandata ai posteri dalla storia del risorgimento. Come mai, si ragiona nei piccoli caffè, nessuno statista, fuor del nostro grande erede delle tradizioni cavouriane, s’è ancora accorto che il mondo va verso sinistra? E che la guerra ha insegnato doversi «accelerare decisamente il ritmo» del passo verso quella parte della strada, lungo la quale si cammina, la quale sta a sinistra del viandante?

 

 

Par certo che la «tradizione piemontese» si sostanzi in quell’«unico» ricordo «topografico», se si riflette che sarebbe difficile fuori dallo storico connubio ricordare qualche altro fatto piemontese in cui le «ampie vedute democratiche» avessero avuto tale importanza da dar luogo ad una «tradizione». A meno di considerare bastevoli a costituire una tradizione «democratica» a larga visibilità le promesse elettorali non mantenute dello stesso on. Giovanni Giolitti e dei suoi predecessori Depretis e Rattazzi. Cavour, ai suoi tempi, era considerato un aristocratico, «milord Camillo», un latifondista, un monopolista, un accaparratore, un nemico delle osterie dove alcuni degli avoli degli attuali «lavoratori delle città e delle campagne» – che, secondo lo statista – erede, parrebbero i soli componenti l’esercito di terra e di mare d’Italia – cercavano un rifugio contro la visione dei dolori che li attendevano, anche allora, al ritorno «alle povere loro case».

 

 

Cavour, sovratutto, viaggiava, leggeva libri di politica, di economia e di storia e non avrebbe preso alla lettera l’immaginosa uscita del primo ministro inglese, educato in un ambiente religioso e biblico, figlio ed eletto di quegli uomini del Galles, in cui sono così numerosi i revivalisti emuli degli asceti medievali. Sentendo dire che la guerra odierna “è la più grande catastrofe dopo il diluvio universale”, il conte di Cavour avrebbe riflettuto che queste sono cose buone a dire per accendere l’entusiasmo di popoli immaginosi, ma che probabilmente uguale è stata sempre e sempre sarà l’impressione di tutti coloro i quali vissero in mezzo agli sconvolgimenti prodotti dalle grandi guerre. Aprasi Tucidide, che forse anche l’on. Giolitti, amante degli aforismi storici semplici e pago della lettura del suo giornale ufficiale, conosce come l’autore di una storia di qualche grido; e si legga come egli parli di quella del Peloponneso come di guerra «assai più di ogni altra che la precedette memorabile e grande», perché «non solo i greci, ma molti tra i barbari e, per così dire, la più gran parte degli uomini fosse sossopra». E poiché è certo che le guerre del Peloponneso esercitarono un’influenza grandissima sulle vicende posteriori dei popoli civili, dirà la storia, la «grande Vergine», fra qualche centinaio di anni, se maggiore sarà stata la portata della guerra attuale. Per ora sarebbe azzardato dare un giudizio in proposito, se non forse nel calore di un discorso detto da un uomo di passione, come sicuramente è il signor Lloyd George.

 

 

Ma forse il detentore della rocca, da cui il conte di Cavour trasse il nome gentilizio, interpretò la «catastrofe» del bell’impeto oratorio lloyd-georgiano nel senso extrastorico di avvenimento disastroso e fecondo di miserie. Nella quale opinione si rimane confermati vedendo come l’uomo «che unico affida» ritenga che «il paese continua con immutata costanza a sopportare sacrifici di sangue e di denaro e disagi superiori a quelli di ogni altra guerra e ad ogni comune previsione». Non parlisi di sacrifici di sangue, ché questi non possono a tutti non essere dolorosissimi; ma dei quali, per la loro incommensurabilità, è disperata impresa fare un paragone tra guerre successe a distanza di secoli. Quanto a sacrifici di denaro ed ai disagi, l’opinamento dell’erede delle «tradizioni» e una nuova prova della sua scarsa propensione alla lettura, anche di giornali ed anche di libri dilettevoli e famosissimi. O non s’è letto su tutti i giornali che la guerra odierna ha sfatato tutte le predizioni fatte da statisti, da economisti, da uomini di spada? Ritenevansi ormai le guerre assurde o di brevissima durata, perché produttrici di tale scompiglio nei traffici, nella industria, nella banca da rendere impossibile ai popoli di lavorare e di vivere. Questa la «comune previsione» prima della guerra; che i fatti dimostrarono lontanissima dal vero, essendosi invece i popoli adattati, oltre davvero ogni comune previsione, alla nuova vita imposta dalla guerra, sì da rendere disperati coloro i quali dallo scompiglio generale speravano la loro rapida ed incontrastata vittoria.

 

 

Se non alle previsioni si bada, ma ai fatti, sarebbe fuor di luogo sperare che lo statista-erede della tradizione piemontese conosca la storia del suo Piemonte e, peggio, «i sacrifici di denaro ed i disagi» che i piemontesi subirono per salvare l’indipendenza del proprio paese dalla prepotenza di Luigi XIV o dagli eserciti della rivoluzione francese e di Napoleone; quando in comuni non lontanissimi da quello di Cavour gli uomini erano ridotti a mangiar ghiande ed il principe spezzava tra i contadini affamati la collana dell’Annunziata, perché potessero procurarsi un pane così nero, in confronto al quale l’odierno pane di guerra parrebbe candidissimo. Ma senza andare sino a questa non peregrina erudizione, fu scritto in Italia un romanzo famosissimo, in cui si narra di guerre e di carestie e di peste; ed ognuno che abbia letto i Promessi sposi sa che le guerre di altri tempi producevano, anche in paesi lontani da quelli di guerra guerreggiata, «disagi» di gran lunga superiori a quelli che finora la guerra presente ha prodotto nel «paese», che vuol dire in Italia. Di fronte alle descrizioni del Manzoni, impallidiscono le querele odierne sulle tessere dello zucchero, sui 300 o 400 grammi di pane al giorno ed a testa, sul digiuno periodico della carne; e se l’on. Giolitti non ha voluto far previsioni ed affermazioni per l’avvenire, forza è concludere, rovesciando il suo detto, che tutte le grandi guerre del passato hanno costretto le popolazioni a sopportare disagi assai superiori a quelli che oggi valorosamente il popolo italiano sopporta.

 

 

No, finché le cose non peggiorino, questo dei «disagi» superiori a quelli mai visti in passato non è un buon argomento per eccitare il popolo a rinnovare le tragiche gesta della rivoluzione francese, allo scopo di chiudere «definitivamente» il periodo antebellico di politica estera segreta e di politica sociale ed economica, così come «il periodo dell’antico regime fu chiuso dalla rivoluzione francese».

 

 

Probabilmente l’on. Giovanni Giolitti non conosce il libro che ha inaugurato l’analisi delle sostanziali differenze fra l’antico regime e il regime inaugurato dalla rivoluzione. Quell’Ancien régime di Alessio di Tocqueville è ancora adesso, se si bada ai discorsi di apertura del consiglio provinciale di Cuneo, il racconto inedito di un viaggio alla scoperta di terre nuove. Dimostrò quel libro, or sono più di tre quarti di secolo, e dimostrò in maniera la quale da nessuno fu in seguito recata in dubbio, che la rivoluzione francese non chiuse ma continuò un periodo. Fu la prosecuzione accelerata di un’opera gigantesca, alla quale i re di Francia avevano consacrato secoli di sforzi non inutili. Abolì una feudalità che di fatto s’era già consunta. Unificò , con la divisione in dipartimenti e con la nomina napoleonica dei prefetti, quella Francia che i re avevano già riunito attorno a sé e che in gran parte facevano amministrare da propri «intendenti» non elettivi. Diede le proprietà della chiesa e della nobiltà a quei contadini che già stavano comprando le terre dai signori, un gran numero dei quali era già andato in rovina. Nessun grande avvenimento storico «chiude», come farebbe credere l’immagine da consiglio provinciale dell’on. Giovanni Giolitti, il periodo precedente di storia. Nessuna rivoluzione, nessuna guerra è un bolide caduto dal cielo a turare i buchi delle malefatte del passato. Ma tutte escono dalla terra medesima che fu feconda del passato, e continuano e superano il passato. Perciò son grandi.

 

 

Giova sperare che la storia d’Italia dopo la guerra continui ed innovi la storia passata. La continui nelle aspirazioni all’indipendenza non solo territoriale ma spirituale, alla giustizia tra le classi, che sono il patrimonio ideale del nostro risorgimento, di Mazzini, di Cavour, di Garibaldi. La innovi nella ripugnanza alla politica delle clientele personali, che fu impersonata, in un periodo oscuro della nostra storia recente, da Agostino Depretis e da Giovanni Giolitti.

Lettera seconda. Dobbiamo augurare alla Germania un governo a tipo parlamentare?

Lettera seconda.
Dobbiamo augurare alla Germania un governo a tipo parlamentare?
«Corriere della Sera», 3 agosto 1917
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 23-31

 

 

 

 

Signor Direttore,

 

 

Nei giorni italiani, ed anche in quelli inglesi e francesi, va da qualche tempo manifestandosi la tendenza di augurare e desiderare che in Germania, ai metodi di governo finora usati, si sostituiscano metodi simili a quelli che sono accolti nei paesi dell’intesa; e la tendenza è stata, come è ben naturale, favorita da recenti avvenimenti successi nel parlamento e nel cancellierato tedesco. Se le opinioni per tal modo affermatesi tra noi si limitassero a constatare il fatto che le nazioni dell’intesa potrebbero più facilmente venire a trattative ed accordi con una Germania in cui fosse più vivo il controllo delle correnti popolari, in cui il governo fosse l’emanazione diretta dei diversi ceti politici esistenti nel paese, si direbbe cosa assai sensata ed a cui niuna obbiezione potrebbe muoversi. Non così quando l’augurio che in Germania si sostituisca al governo di casta un governo di popolo e per il popolo prende la forma particolarissima dell’augurio che il governo a tipo costituzionale si trasformi in un governo a tipo «parlamentare». Parmi che i due desideri non abbiano nulla a che fare coll’altro; e che mentre, manifestando il primo, noi facciamo cosa utile ad una soluzione vantaggiosa e buona del conflitto mondiale presente, dando sfogo invece al secondo noi ci interessiamo in primo luogo di cose le quali non ci riguardano affatto e corriamo in secondo luogo rischio di recare stupore e dispiacere al più recente e grande nostro alleato: agli Stati Uniti.

 

 

Che «governo di controllo» o «governo di popolo» non siano affatto sinonimi con «governo a tipo parlamentare» è cosa troppo ovvia per richiedere una dimostrazione qualsiasi. Atene nei giorni del suo massimo splendore, Roma repubblicana, Firenze, Venezia e Genova, nei loro tempi di democrazia, furono governi di popolo; eppure in nessuna di quelle città esisteva un governo a tipo parlamentare. Il quale nacque, per circostanze storiche particolarissime, nell’Inghilterra del principio del settecento, si affermò con Walpole – un Giolitti in grande e con ben altra levatura mentale – ed ebbe il suo periodo di massimo splendore dalla riforma elettorale del 1832 sino alla morte di lord Salisbury. Oggi vi sono scrittori ed osservatori acutissimi inglesi, i quali ritengono che il governo di gabinetto, ossia il governo di un comitato esecutivo eletto in seno alla maggioranza della Camera dei Comuni – nel che sta la essenza del governo parlamentare – abbia già subito talune profonde trasformazioni ed attraversi un periodo di oscuramento per non dire di decadenza. Né – a tacere della Spagna, della Grecia e dei paesi dell’America latina, dove il governo parlamentare è una farsa – si può dire che quel sistema abbia dato così buone prove in Francia ed in Italia da auspicare l’estensione ad ogni altra nazione. Se la Francia e l’Italia sono realmente paesi democratici, dove domina l’opinione, è probabilissimo che ciò non derivi dall’esistenza di un così detto governo parlamentare, ma da altre forze più potenti, come la pubblica discussione sui giornali, l’equilibrio fra classi e ceti politici, la mancanza di un gruppo governante militare.

 

 

A queste altre circostanze e non alla mancanza del governo a tipo parlamentare è dovuta la scarsa influenza delle correnti d’opinione popolari sulla cosa pubblica in Germania. Se ivi non esistesse una classe fondiaria ricca, potente per influenze territoriali, sicura di sé, convinta di avere la missione di governare il paese; se non esistesse una burocrazia seminobiliare forte, rispettata; se i ceti industriali e commerciali avessero acquistata veramente coscienza della propria forza e non si lasciassero dominare dal ristretto gruppo della industria «pesante», molto affine per sentimenti ed interessi alla junkertum prussiana, il sistema di governo «costituzionale» vigente in Germania, ossia il sistema di un governo non responsabile verso le camere elettive e non emanazione della maggioranza delle camere stesse, potrebbe continuare ad esistere; e ciononostante si avrebbe un governo democratico, di popolo, con cui a noi sarebbe assai più agevole metterci d’accordo, con cui forse non sarebbe neppure necessario metterci d’accordo, perché la guerra avrebbe avuto assai minore probabilità di scoppiare.

 

 

Non scambiamo cioè la forma con la sostanza: la forma, che è il governo parlamentare o costituzionale, con la sostanza, che è il governo democratico controllato dall’opinione pubblica. Quanto alla forma, è assai dubbio quale dei due sistemi, il parlamentare all’inglese od il costituzionale alla tedesca, sia tecnicamente il più efficace. La «non designazione» dei ministri da parte del parlamento e l’elezione a borgomastri o sindaci e ad assessori delle città tedesche non tra i consiglieri eletti dalla cittadinanza ma tra specialisti di carriera, scelti per un numero fisso di anni per le loro attitudini di mestiere, dimostrate in altre città, come accade tra noi per i segretari comunali, hanno dato risultati eccellenti dal punto di vista amministrativo. È probabile che gli stessi risultati non si otterrebbero tra noi, e che quindi il sistema inglese sia più adatto alle nostre condizioni; ma in tutto ciò la democrazia non ha affatto luogo. Chiedere l’introduzione del sistema parlamentare in Germania è dunque chiedere cosa la quale non ci interessa affatto ed è una ingerenza negli affari altrui, la quale a buona ragione sarebbe da noi risentita se altri volesse esercitarla nelle cose nostre.

 

 

Tanto meno conveniente appare un tale atteggiamento da parte nostra, in quanto esso è capace di eccitare stupore grande e malcontento nel nostro grande alleato nord-americano. Se il governo parlamentare fosse invero condizione di democrazia e di dominio dell’opinione pubblica in Germania, dovrebbe esserlo anche negli Stati Uniti; e noi augurando l’introduzione del governo di gabinetto o parlamentare al nemico, lo augureremmo anche all’amico. Poiché è ben noto o dovrebbe essere ben noto che gli Stati Uniti non posseggono un governo parlamentare né nella federazione, né negli stati singoli. Il presidente non sceglie i suoi ministri nella maggioranza del congresso, i ministri non si dimettono quando anche ricevano in pieno petto un voto contrario della camera e del senato. Non di rado i ministri, che sono esclusivamente gli uomini di fiducia del presidente, appartengono ad un partito politico diverso da quello che ha la maggioranza nel congresso. Ed è interessante notare che questo sistema, il quale formalmente è identico a quello in uso in Germania, non che essere considerato una reliquia del passato, raccoglie le simpatie dell’opinione pubblica; talché non è piccolo il numero dei comuni, dove invece per lo più predomina il governo a tipo parlamentare, i quali hanno abbandonato il governo di maggioranza per accentrare il potere nelle mani di sindaci e di assessori e di comitati diversi, talvolta indipendenti gli uni dagli altri, ma non eletti dai consigli comunali, né responsabili verso di questi.

 

 

Tuttavia, tutti sono d’accordo nel ritenere che gli Stati Uniti, malgrado l’assenza di ogni governo di gabinetto o parlamentare, sono un paese democratico, in cui l’influenza dell’opinione pubblica è sovrana. Il presidente Wilson non poté bandire la guerra contro la Germania se non il giorno in cui l’opinione pubblica fu davvero persuasa; e gli indugi suoi, così male interpretati in Europa, erano la conseguenza necessaria del dominio assoluto dell’opinione e della impossibilità di decidere il paese ad un atto così grande innanzi di averlo convinto della sua necessità. È prudente, è ragionevole trascendere sino a porre, come fanno taluni giornali più accesi tra noi, come condizione delle trattative l’instaurazione in Germania di un governo parlamentare, quando precisamente tal forma di governo è esclusa e volutamente esclusa dalla democrazia americana? Ed è ragionevole affacciare tale pretesa quando ogni giorno noi abbiamo dinanzi agli occhi l’esempio vicinissimo della Svizzera, nella quale non esiste, nella federazione e ritengo nella maggior parte dei cantoni, il governo parlamentare? La Svizzera è, ancor più degli Stati Uniti, un paese democratico, in cui il popolo ha mille modi di far sentire la sua voce ed in cui effettivamente il governo è in mano di tutti. Eppure, nella Svizzera, l’assemblea federale non fa crisi di gabinetto; i ministri che sono i consiglieri federali, sono praticamente nominati a vita, ed appartengono a partiti diversi. Che cosa vi è di più antiparlamentare, di più contrario allo spirito del governo di gabinetto, ossia del governo delegazione della maggioranza dei deputati, di un governo, come quello svizzero, in cui i ministri sono quasi vitalizi ed appartengono permanentemente a tutti i grandi partiti, di maggioranza e di minoranza, rappresentati nelle camere federali? Eppure gli svizzeri se ne trovano benissimo; e l’esperienza fatta dà loro ragione. Tutto ciò non vuol dire che il governo costituzionale alla tedesca sia migliore del governo parlamentare all’inglese. Vuol dire soltanto che le vie della misericordia del Signore sono infinite; e che, con qualunque forma di governo, si può giungere alla meta, che è di assoggettare la cosa pubblica ai voleri del popolo e non a quelli di una casta.

 

Il nuovo ente centrale dei consumi

Il nuovo ente centrale dei consumi

«Corriere della Sera», 19 luglio 1917

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 562-568

 

 

Da quel che si può rilevare da una specie di comunicato ufficioso comparso sul «Bollettino dei consumi», organo del commissariato per gli approvvigionamenti ed i consumi alimentari, il nuovo ente autonomo generale dei consumi vorrebbe essere «un vasto e potente organismo composto di forze locali, di energie cooperative ed anche del libero commercio disciplinato in consorzi, al quale sarebbe demandata la funzione di approvvigionare il paese comprando le merci all’atto di produzione e distribuendole poi fra i centri di consumo».

 

 

Vi sarebbe una specie di divisione di lavoro tra il commissariato dei consumi, governato dall’on. Canepa ed il nuovo ente o federazione degli enti autonomi dei consumi a capo di cui «sarà chiamata un’altissima competenza commerciale». Il commissariato si riserverebbe per la propria azione diretta i cereali di cui lo stato ha il monopolio. La federazione sarebbe l’organo di acquisto e di distribuzione di tutto il resto e ad essa sarebbe conferita la facoltà di requisizione e su di essa il commissariato eserciterebbe il controllo lasciandole l’amministrazione commerciale.

 

 

Quale lo scopo della creazione? «Prevenire gli eccessi della speculazione senza i danni inerenti alla farragine di una pesante macchina burocratica, ma anzi con i vantaggi di un ordinamento autonomo, espresso dalle forze vive del paese e reggentesi con forze commerciali».

 

 

A questi chiarimenti ufficiosi l’on. Canepa nel suo discorso pronunciato il primo luglio dinanzi all’assemblea degli enti dei consumi locali e delle cooperative di consumo italiane aggiunse:

 

 

  • essere necessario anzi obbligatorio che tutti i cittadini capaci concorrano all’amministrazione degli enti dei consumi;
  • doversi obbligare lo stato, gli enti pubblici dei consumi, le grandi cooperative, gli istituti di emissione, gli altri istituti di credito, fra cui specialmente le casse di risparmio, a fornir i mezzi pecuniari d’azione al nuovo ente centrale dei consumi;
  • essere necessario dare all’ente il diritto di requisizione sia per impedire la speculazione, sia per disciplinare, a quanto pare, il commercio, «afflitto adesso da una molteplicità superflua di ingranaggi e di ruote intermedie, che è la causa principale per cui il prezzo delle merci pagato dal compratore è di troppo più alto di quello pagato al produttore».

 

 

Rispondendo il 7 luglio alle interpellanze degli on. De Capitani, Dugoni e Federzoni, il commissario ai consumi dichiarò che lo scopo essenziale dell’ente è di costituire una federazione degli enti autonomi dei consumi, i quali esistono già e talvolta avrebbero convenienza a fare i loro acquisti all’ingrosso per mezzo d’un ufficio comune. Non avere egli mai voluto creare un monopolio che paralizzasse il libero commercio, proposito, che sarebbe follia pur l’enunciare; ma essere necessario disciplinare il commercio stesso, quando intenda sottrarsi alla disciplina nazionale che in questi momenti è il supremo dovere di ogni italiano.

 

 

Allo scopo di evitare una diretta concorrenza sia alle cooperative che ai privati commercianti, sembra che l’ente non debba fondare spacci suoi ma soltanto acquistare per conto degli enti locali autonomi quelle merci che sia opportuno acquistare all’ingrosso, conservarle e distribuirle. L’ente farà la distribuzione delle merci anche ai consorzi di commercianti, alle stesse condizioni che alle cooperative, come si fa già dal commissariato ai consumi per l’olio d’oliva. Per evitare favoritismi, la maggioranza del consiglio d’amministrazione spetterà allo stato, agli enti autonomi dei consumi, ad altri istituti pubblici del genere, emananti dalle provincie, dai comuni, dalle casse di risparmio, dagli istituti di beneficenza e simili. Le cooperative ed i consorzi di piccoli commercianti potranno avere parte nell’amministrazione dell’ente, in proporzione alla loro importanza; ma sempre a titolo di minoranza.

Dopo le quali spiegazioni, vien fatto di esclamare: much ado about nothing – molto fracasso per nulla! Che bisogno v’era di convocare un’adunanza in Campidoglio per annunciare all’Italia una cosa così semplice come una federazione di enti già esistenti, i quali si mettono d’accordo per comprare all’ingrosso ciò che non sempre si trova da comprare al minuto o si paga troppo caro? Federazioni di cooperative, commerciali ed agrarie, ve ne sono parecchie, in Italia ed all’estero; funzionano eccellentemente; né si sono costituite con discorsi in Campidoglio e con l’apparenza di portare una rivoluzione nel mondo del commercio. Bastava che gli enti interessati od i principali di essi si fossero affiatati, sia pure nel salotto del commissario ai consumi, ed avessero cominciato ad agire, incaricando una persona esperta ed anche «un’altissima competenza commerciale», come preferisce dire l’on. Canepa, di fare i primi acquisti. A questi ne sarebbero seguiti altri; gli enti autonomi minori od ancora appartati avrebbero veduto la convenienza di far capo alla federazione per talune delle loro compre. Non si sarebbe avuta alcuna difficoltà per trovare il credito necessario per le operazioni di acquisto. Non v’è negoziante sì sparuto, il quale, quando sia una persona dabbene, non trovi il banchiere disposto a fargli credito. V’è dubbio che la federazione avrebbe potuto trovarsi a corto di mezzi per pagare le ordinazioni, ogni volta che essa si fosse regolata nel comprare e nel vendere, secondo le comuni e sane norme commerciali?

 

 

Contro ad una federazione di questo genere, privatamente sorta, non so quali obiezioni avrebbero potuto sorgere. La concorrenza e l’anima del commercio; e se in circostanze eccezionali, come le presenti di guerra, gli enti pubblici, dallo stato ai comuni, credono di potere, istituendo enti autonomi dei consumi e federandoli fra di loro, procacciare derrate alimentari ai consumatori ad un prezzo più basso di quello preteso dal commercio al minuto, niente di meglio. Un’azione di questo genere è preferibile a quella dei calmieri, che fanno scomparire la merce e ne deteriorano progressivamente la qualità, allo scopo di stare entro i limiti di costo prescritti dai limiti dei prezzi del calmiere.

 

 

Mettere sul mercato merce sana ad un prezzo noto, di costo per l’ente, è assai meglio che vietare di vendere all’infuori dei prezzi dettati dalla fantasia dei sindaci, dei prefetti ed anche dei commissari ai consumi.

 

 

Affinché però gli enti autonomi dei consumi e la loro federazione possano esercitare un `azione innocua ed utile debbono essere osservate talune condizioni, le quali si possono enunciare ricordando gli scopi che l’on. Canepa avrebbe prefisso al nuovo ente.

 

 

Questo dovrebbe disciplinare l’azione del libero commercio, frenare gli eccessi della speculazione e tenere a segno quegli interessi, che tentino di sottrarsi alla disciplina nazionale. Ora vi sono due maniere di disciplinare, di regolare e di frenare. L’una è quella che fin da prima della guerra era di moda tra la burocrazia dirigente italiana; l’altra che a me pare la sola feconda. La prima maniera è quella di chi considera l’azione dei privati individui, solo perché mossi dall’interesse proprio, come disordinata ed anarchica. Troppi commercianti, esclama l’on. Canepa: troppi fornai, troppi spacciatori di commestibili. In pace diceva taluno: troppi fabbricanti di cotone, di ferro, di acciaio, di zolfo; e si vollero promuovere, con aiuti pubblici o semi-pubblici, i consorzi di fabbricanti e si creò il consorzio obbligatorio dello zolfo di Sicilia, il cui risultato più cospicuo pare sia stata una riduzione grandiosa della produzione e della vendita dello zolfo. Non è questo il momento di attuare siffatte teorie, più o meno fondate. Lo stato non deve proporsi nessun intento di lotta diretta contro nessuna classe di cittadini. Epperciò va guardato con sospetto il diritto di requisizione che l’on. Canepa vorrebbe attribuito alla nuova federazione. Requisizione contro chi? Contro i produttori che non vogliono vendere? Ma è ammissibile che la facoltà di requisizione venga attribuita non allo stato, per ragioni di pubblico interesse, ma ad enti concorrenti nella vendita? Qual ragione vi è di dare all’ente nazionale un margine di profitto che il produttore intendeva tenere per sé vendendo direttamente agli enti locali, o alle cooperative od al privato commercio? Il prezzo per il consumatore definitivo è forse variato? Né è più agevole dimostrare la giustizia del diritto di requisizione concesso all’ente contro il commercio all’ingrosso od al minuto. Chi si azzarderebbe ancora a comperare, quando un ente concorrente avesse il diritto di portargli via la roba acquistata ad un prezzo forse inferiore a quello d’acquisto e non improbabilmente ad un prezzo tale da togliergli ogni margine di profitto?

 

 

Il diritto di requisizione dato all’ente parmi insomma tale da disorganizzare il privato commercio, da impedire la speculazione, che non è quella cosa detestabile che molti immaginano, consistendo invece nel comprare dove vi sono i produttori desiderosi di vendere e nel vendere là dove vi sono i consumatori desiderosi di comprare. La disciplina del commercio si può ottenere in un’altra maniera, che è la sola feconda con la concorrenza. Se gli iniziatori degli enti autonomi dei consumi e della loro federazione sono davvero persuasi che il privato commercio paga prezzi troppo bassi ai produttori ed estorce prezzi troppo alti ai consumatori, facciano essi meglio. Troveranno tutti i produttori disposti a vendere loro a qualche centesimo di più tutto il disponibile; e tutti i consumatori disposti a comprare nei loro spacci a qualche centesimo od a qualche lira di meno. Il numero dei commercianti privati diminuirà; e sarà un bene la loro diminuzione, perché dovuta alla attitudine altrui di procacciare al pubblico servizi migliori ed a prezzi più convenienti.

 

 

Nel compiere quest’opera benefica di disciplina del commercio, occorre però che gli enti pubblici adoperino armi leali. Non mi sembra arma leale la requisizione; né mi sembrerebbero leali altri mezzi, come l’obbligatorietà imposta alle casse di risparmio ed agli istituti di emissione di fornire il denaro necessario al funzionamento del nuovo ente centrale dei consumi o l’esenzione dalle imposte generali, che debbono gravare su tutti i contribuenti.

 

 

Questo secondo punto non richiede chiarimenti. Le esenzioni speciali di imposta sono purtroppo uno dei flagelli del nostro sistema tributario. Concesse con leggerezza sovratutto ad istanza del ministero di agricoltura, di industria e commercio, esse sono uno degli ostacoli maggiori ad una sana riforma tributaria, che faccia pagare a tutti il dovuto tributo in proporzione dei propri mezzi; sono una causa di frodi numerosissime, arricchiscono gli immeritevoli e danneggiano tutti coloro i quali non riescono a far parte di gruppi privilegiati. La immunità dalle imposte non vuol dire che le merci vendute dall’ente privilegiato costino meno; vuol dire soltanto che possono essere fatte pagare un prezzo minore al consumatore; accollandosi la differenza di imposta non riscossa dallo stato agli altri contribuenti non privilegiati.

 

 

Se lo stato deve riscuotere 10; e se uno dei dieci contribuenti ottiene il privilegio di sottrarsi all’imposta di uno che gli spetterebbe, ciò vuol dire che gli altri nove contribuenti dovranno pagare, oltre la parte propria, anche un nono dell’imposta non pagata dal contribuente privilegiato.

 

 

Ma è altrettanto dubbio il primo vantaggio che pare si voglia attribuire all’ente nazionale dei consumi: l’obbligatorietà delle casse di risparmio e degli istituti di emissione di fornirgli i capitali necessari al suo funzionamento. A che scopo sancire questo pericoloso principio del credito obbligatorio? Chi può dubitare che l’ente, se bene amministrato, troverà tutto il credito necessario? Dovrà pagare l’interesse commerciale corrente che, dopo tutto, in questi tempi di straordinaria abbondanza di denaro, non è eccessivo, anzi è troppo basso per tutti. Si vuole forse che gli istituti di emissione e le casse di risparmio possano far credito ad un saggio ancora più basso di quello già pericolosamente insufficiente a cui fanno mutui e scontano cambiali in via ordinaria? E perché? Perché questi enti pubblici devono vedere diminuito il guadagno che essi possono fare raccogliendo ed impiegando risparmi, guadagno che per nove decimi va a favore dello stato, a rafforzamento delle loro riserve, ed a scopi di pubblica utilità, come sussidi ad ospedali, ad opere pie, a scuole? Non si vede alcuna ragione perché si debba mettere in grado l’ente nazionale di esercitare una concorrenza sleale al privato commercio a spese di altri scopi pubblici e caritativi, in questi tempi meritevoli di aiuto più largo e non certo minore di prima.

 

 

Ma forse queste sono preoccupazioni derivanti da mancanza di chiarimenti bastevoli. Forse l’ente nuovo non vuole armi di favore nella sua opera di concorrenza feconda, non vuole privilegi tributari, non vuole credito per forza. Se così è, non rimane da augurare che esso possa vivere, senza creare una nuova burocrazia e possa diventare uno dei tanti organismi commerciali, governato da uomini aventi reale competenza commerciale, non aspiranti a creare una nuova gerarchia di impiegati a stipendio fisso – i quali cooperano, facendosi reciproca concorrenza, a soddisfare i bisogni dei consumatori italiani.

 

 

Emissioni di titoli e controllo governativo

Emissioni di titoli e controllo governativo

«Corriere della Sera», 7 luglio 1917

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 557-561

 

 

Da qualche tempo si leggono sui giornali annunci di cospicue, e facilmente assorbite, emissioni di titoli (azioni, obbligazioni, cartelle) da parte di grandi società e di enti locali. Il fatto, se è indice di abbondanza di denaro sul mercato italiano e di fiducia salda nell’avvenire industriale del paese, merita tuttavia qualche ponderata riflessione.

 

 

Non so se intorno alla opportunità di fare emissioni di titoli sul mercato nel momento presente, sia stato interpellato il ministro del tesoro; ma vi è ogni probabilità che egli non sia intervenuto. In tempi ordinari è utilissimo che egli non intervenga e che non intervenga neppure il ministro del commercio. Un recente avvenimento di cronaca giudiziaria – il cosidetto affare Cortese – ha fatto risollevare sulla pubblica stampa il quesito della necessità di una sorveglianza governativa sui depositi bancari e della opportunità di obbligare, come disponeva un progetto Nitti non giunto in porto, le banche ad investire in titoli pubblici una parte dei loro depositi e a serbare una data proporzione tra i depositi ed il capitale proprio. Sono d’avviso contrario a tutti questi rimedi empirici inefficaci; né ritengo che piccoli incidenti debbano essere l’occasione per imporre vincoli, utili solo allo spuntare di una fungaia di parassiti burocratici nel ministero del commercio e dell’industria. Il quale nel dopo guerra dovrebbe essere grandemente diminuito nelle sue funzioni e possibilmente abolito, invece che accresciuto, come desiderano i carrieristi ministeriali.

 

 

Ma, finché dura e soltanto finché dura la guerra, sembra necessario che le emissioni di valori pubblici sul mercato debbono avvenire soltanto col consenso del tesoro, il che in Italia vuoi dire col consenso dei due ministri del tesoro e delle finanze. Non è questa una novità; ma una pratica invalsa nei paesi belligeranti. In Francia, già prima della guerra, nessun titolo poteva essere ammesso alla quotazione di borsa senza il consenso del ministro delle finanze. Il che, in pace, è dannoso, implicando quasi un giudizio di merito ed una responsabilità del governo in materia di emissioni. Ma in Inghilterra dove il governo, e ben a ragione, si astiene in pace dal lasciare anche lontanamente supporre di voler dare un qualsiasi giudizio sui titoli emessi a Londra, esso ha però sentito che era suo dovere, scoppiata la guerra, di interessarsi delle emissioni ed è intervenuto proibendo, in modo assoluto, qualsiasi anche minima emissione di titoli senza il consenso della tesoreria. È accaduto persino che fosse proibita la emissione di azioni nuove in cambio di vecchie azioni di una società che si era trasformata, emissione la quale non richiedeva alcun versamento di denaro. Nell’applicare tale divieto, la tesoreria britannica è rigidissima; e le emissioni permesse furono sinora pochissime, di poca importanza e giustificate da circostanze speciali.

 

 

Il consenso del ministro del tesoro fu imposto, in Inghilterra, perché, durando la guerra, tutte le disponibilità di risparmio del paese debbano essere rivolte a sostentare lo stato. Non deve essere lecito, si ragionò, chiedere pubblicamente il concorso dei risparmiatori per la costituzione o l’ampliamento di una impresa, la quale non ha uno scopo, il quale si identifichi o concorra al raggiungimento dell’unico scopo a cui deve tendere il paese, che è la condotta della guerra. Non deve essere lecito che, mentre il legislatore limita l’economia privata, e tutti i materiali esistenti debbono essere rivolti a scopi di guerra, si faccia appello al privato risparmio, per proseguire od iniziare, ad esempio, costruzioni edilizie, o fabbriche di oggetti di lusso, o lavori prorogabili e non urgenti. Le emissioni di titoli nuocerebbero allo stato in doppio modo: in primo luogo facendo concorrenza all’erario e rincarando il denaro per i suoi prestiti, ed in secondo luogo consentendo il sorgere di una nuova domanda di lavoro e di materiali, con danno dell’amministrazione militare e della popolazione civile, le quali debbono poter disporre delle quantità esistenti di lavoro e di materiali, appena appena bastevoli ai bisogni cresciuti.

 

 

Non so che cosa si possa obiettare al ragionamento ora riferito; e mi sembra perciò ragionevole che il ministro del tesoro debba dare preventivamente il suo consenso alle emissioni di valori pubblici non allo scopo di dare un qualsiasi giudizio di merito sulla bontà dei titoli offerti al pubblico, giudizio che deve essere assolutamente escluso, ma allo scopo di giudicare se l’emissione non contrasti nel presente momento di guerra con l’intervento dello stato e della collettività.

 

 

Si deve richiedere altresì il parere del ministero delle finanze. Nelle vigenti disposizioni relative all’imposta sui sovraprofitti di guerra è contenuta una spinta, che vivamente mi auguro non abbia ancora prodotto effetto alcuno, a compiere impianti industriali al solo scopo di sfuggire all’applicazione dell’imposta.

 

 

Sia una società la quale nel 1917 prevede di guadagnare 1 milione di lire a titolo di sovraprofitti di guerra. Su questo milione, supposto tutto superiore al 20% sul capitale versato, graverebbe una imposta di 600.000 lire. Ma esiste una norma la quale consente di ammortizzare interamente nello stesso anno 1917, ossia di considerare come una spesa o perdita non imponibile, le somme spese a titolo di maggior costo degli impianti in confronto del costo che si sarebbe dovuto sopportare in tempo di pace.

 

 

Anche questa è norma corretta, sana e deve essere mantenuta. Però entro i limiti suoi che sono di maggiori costi di impianti necessari alla guerra.

 

 

Vi è purtroppo il pericolo che il concetto dell’impianto necessario alla guerra si allarghi oltremisura, dando luogo al grave inconveniente di impieghi di capitali in impianti che con la guerra non hanno nulla a che fare. Allo scopo di non pagare le 600.000 lire d’imposta, la società può avere interesse ad emettere nuovi titoli, in parte sul mercato contro versamento in contanti ed in parte con prelievo su antecedenti utili, per un ammontare di 1 milione e mezzo di lire. Si costruiscono impianti, anche non urgenti, di cui una parte resterà dopo la guerra. Dati gli altissimi prezzi della mano d’opera e delle costruzioni non è difficile dimostrare che sul milione e mezzo speso, ben un milione fu dovuto ai costi eccezionali di guerra e deve essere ammortizzato nell’anno. Ecco risparmiate le 600.000 lire d’imposta. Alla società conviene anche sprecar denaro, fare in fretta ed in furia pur di potere spendere le 600.000 lire. Spende roba non sua, che dovrebbe dare allo stato. Tutto ciò che le rimarrà, a guerra finita, in valore degli impianti sarà guadagno netto.

 

 

Ripeto, l’esempio è ipotetico e non ritengo siasi verificato, ma il pericolo e’ insito nella legge. Né lo si può togliere, abolendo la norma relativa agli ammortamenti, poiché se il sovraprezzo fu pagato sul serio e se gli impianti furono fatti per scopi bellici, negare l’ammortamento sarebbe una iniquità flagrante. Importa tuttavia che il ministro delle finanze si accerti che l’impianto da eseguirsi è destinato sul serio alla guerra presente e non a scopi di pace o ad ipotetiche guerre future. E se ne può accertare in due momenti. Attraverso le agenzie delle imposte in primo luogo, nei modi soliti di legge, quando si tratterà di ammettere gli ammortamenti in sede di imposta sui sovraprofitti. Occorrono all’uopo istruzioni perspicue, particolareggiate e rese di pubblica ragione a guida degli interessati, le quali chiariscano quando l’ammortamento deve essere concesso.

 

 

In secondo luogo, al momento della emissione delle azioni od obbligazioni. A che cosa servono i denari così incassati od i profitti così assegnati a capitale? Se ad impianti veramente bellici, sta bene; se a pagamento di debiti, ancor meglio; se a costituire un fondo liquido in cassa, benissimo. Invece dovrebbe porsi il divieto, quando le somme debbono servire ad impianti nuovi non richiesti in modo specifico da scopi di guerra.

 

 

In fondo l’ufficio del ministro delle finanze è solo di ausilio a quello principale del ministro del tesoro; sicché potrebbe ragionarsi di un semplice parere che il primo dovrebbe fornire al ministro del tesoro, a cui spetterebbe di porre il divieto o dare il consenso alla emissione.

 

 

Siccome le emissioni sono poche e siccome non credo di far torto a nessuna delle branche dell’amministrazione finanziaria negando che esse siano apparecchiate ad esercitare la nuova funzione – e del resto esse sono sovraccariche di lavoro – così tutto si ridurrebbe a far esercitare, da parte dei due ministri, un controllo per mezzo di un tecnico, praticamente perito di impianti industriali, il quale dovrebbe riferire sulle proposte emissioni e sui loro scopi. Seguendo questo metodo, si avrebbe il vantaggio di non costituire alcun ufficio e di non far sorgere la tentazione, a guerra finita, di prolungare la funzione, divenuta dannosa, solo per far vivere l’organo. Oggi sarebbe agevole chiedere i servigi di qualche eminente professionista, disposto a sacrificare i suoi interessi privati per uno scopo pubblico. A pace fatta, egli sarebbe lieto di tornare alle cose sue venendo così contemporaneamente meno l’organo e la funzione.

Lettere di un piemontese

Lettere di un piemontese

«Corriere della Sera», 3 luglio 1917, 18 agosto 1917, 20 ottobre 1917, 25 agosto 1919, 17 ottobre 1919

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 445-475

 

 

 

 

I

 

I verdetti della «grande Vergine»[1]

 

Signor direttore,

 

 

Il giornale ufficiale del giolittismo non vuole sostituirsi alla «storia» ed attende dalla «grande Vergine» il suo «terribile verdetto, senza appello». Pare che attenda un verdetto «di giudizio per la purezza delle intenzioni, di rispetto, perché ha dimostrato un alto e puro patriottismo». E sembra anche che il verdetto «senza appello» della «storia» debba esprimersi «limpido come la luce del sole» nell’ottobre del 1918, quando l’attuale legislatura avrà compiuto il ciclo della sua vita politica ed il paese nei comizi mostrerà il suo pensiero.

 

 

Questo appello alla «grande Vergine» non poteva essere più in carattere. Nessuno meglio di un discepolo di quel primo ministro che, forse unico tra i presidenti italiani del Consiglio dal 1848 in poi, ha saputo mantenere immacolata la verginità del suo spirito da ogni contatto con la scienza scritta sui libri, poteva tracciare dei compiti della «grande Vergine» un quadro così nuovo e singolare. Che si sappia, la «storia» da cui si attendono verdetti non è quella scritta dagli storici di professione. Questi verranno fra cent’anni, od al più presto fra ottant’anni, quando saranno aperti agli studiosi gli archivi dello stato – ancor oggi non si possono in Italia leggere i documenti posteriori al 1830! – ed ho l’impressione che del verdetto dei futuri storici dell’anno 2000 importi poco ai giolittiani frenetici di vedere riconosciuto «in modo solenne il puro patriottismo di uno dei nostri più rappresentativi uomini politici» dagli elettori italiani dell’autunno del 1918. Tanto più che v’è il pericolo che gli storici del 2000 abbiano a dare un giudizio assai duro del periodo di storia politica che corse fra l’80 ed il 1910 e di cui gli uomini rappresentativi furono Agostino Depretis e Giovanni Giolitti. Tra i documenti noti, ve ne sono due che gli storici del 2000 consulteranno sicuramente e sono: Governo e governati in Italia di Pasquale Turiello e l’Inchiesta sulle banche di emissione, e son due documenti che non deve far molto piacere di vedere compulsati ai figli spirituali di Agostino Depretis e di Giovanni Giolitti.

 

 

No. L’appello alla «storia» non è rivolto alla storia che sarà scritta quando gli avvenimenti d’oggi potranno essere studiati sul serio. La storia sono «gli avvenimenti immediatamente successivi a quelli che si sono compiuti dall’agosto 1914 ad oggi». Sono i fatti del domani che, essendo diversi da quelli d’oggi, se ne costituirebbero giudici. Il generale Monk, il quale, riportando gli Stuardi a Londra, si erge giudice di Cromwell; Napoleone, che condanna la rivoluzione francese; le elezioni del 1918, le quali daranno – spera l’organo ufficiale del giolittismo – la maggioranza ai giolittiani ed ai socialisti e condanneranno così la dichiarazione di guerra all’Austria e le giornate di maggio. Ho riflettuto a lungo sul significato logico del verdetto della «grande Vergine» e mi sono dovuto convincere che le cose stanno proprio così come le ho dovute porre. Fa bisogno di dire che questa è una concezione da farmacia di villaggio o da caffè di provincia, appena appena degna di essere apprezzata in quel caffè di villaggio piemontese dove certi nostri «rappresentativi uomini politici» trascorrono tra una partita ai tarocchi e l’altra al bigliardo alcune delle ore tristi del loro «martirio»? V’ha bisogno di dire che il ritorno degli Stuardi non ha sminuito affatto la grande figura di Cromwell; e che l’epopea napoleonica non ha mutato in nulla l’importanza storica della rivoluzione francese? L’avvenimento del domani può essere una conseguenza ed uno svolgimento del fatto di oggi; ed è esperienza comune che gli avvenimenti storici si svolgono ad ondate, a corsi e ricorsi, come diceva Giambattista Vico. I fatti del dopo guerra saranno certamente diversi da quelli della guerra; e saranno diversi i giudizi ed i pensieri degli uomini. Come i fatti ed i pensieri d’oggi, anche quelli di domani dovranno essere spiegati, non lodati o condannati, dagli storici dell’avvenire; ma immaginare che, perché diversi, essi possano costituire un «verdetto» sui fatti e pensieri di prima, può cadere in mente soltanto a chi non abbia colla storia altra dimestichezza che quella che si acquistava un tempo nelle scuole elementari quando si studiava la storia del popolo d’Israello e si vedeva Iehova affaccendato a punire le colpe dei re sacrileghi e del popolo eletto.

 

 

I «compendi di storia sacra» devono essere davvero l’ultima Thule della sapienza storica dell’annunciatore di verdetti, se si bada al quadro «idillico» che in un numero precedente lo stesso scrittore ha tracciato della storia del popolo degli Stati uniti. Sorto in mezzo ad un «Eden», vissuto in un’«Arcadia», ottimista per temperamento, conduttore di guerre «umanitarie» per l’abolizione di un «errore» (lo schiavismo), plagiario nei messaggi bellici di Wilson dei testi pacifisti di Emanuele Kant, entrato in guerra per essere stato disturbato nei suoi piani di fare armonicamente denaro vendendo merci a tedeschi e ad inglesi, il popolo americano crede che bastino i messaggi i discorsi le dimostrazioni e le bandiere per vincere la guerra.

 

 

Il quadro deve avere riscosso molte lodi nel caffè di provincia, dove gli uomini di stato, i quali furono prima «professori», devono godere assai scarse simpatie. Che le dichiarazioni di guerra dell’Italia e degli Stati uniti siano state fatte da due professori, da due intellettuali, è una circostanza che non sarà mai dimenticata dalle «scarpe grosse» ma «pratiche», a cui la parte giolittiana è fermamente convinta spettare il governo del mondo. Disgraziatamente, la prima dichiarazione di guerra, di cui le altre furono le conseguenze, non fu forse fatta da un intellettuale, da un filosofo, il Bethmann-Hollweg, ed i professori tedeschi firmatari del celebre «manifesto» non certificarono forse che essa aveva per sé il verdetto della storia?

 

 

Ignoro quel che dirà la storia dell’atto di Wilson; ma immagino che difficilmente potrà negare che i messaggi del presidente americano discendano in linea retta dai grandi documenti della storia nordamericana: Washington, Jefferson, Lincoln non avrebbero parlato diversamente. Quei documenti non possono essere scambiati per manifestazioni idilliache di un popolo vissuto sempre in un Eden, salvo da chi abbia appreso la storia nordamericana sui romanzi di Maine-Reid. Essi sono documenti dello spirito di sacrificio di un popolo che ha sempre lottato per il raggiungimento di scopi ideali. Chi immagina che le guerre si possano fare solo per rubare i territori altrui, o per impadronirsi di miniere o di colonie o di tesori, non può capire il perché Wilson sia disceso in guerra. Cotesta gente «furba» pensa che gli americani avessero guadagnato abbastanza alle spalle nostre e si siano decisi a venirci in aiuto per salvare i loro crediti, e soggiunge, con spirito caritatevole: «questo è ottimismo di un popolo a cui la vita fu sempre facile ed è sicuro della propria stella. Noi che non siamo ottimisti, la pensiamo diversamente e staremo a vedere come la andrà a finire coi crediti nordamericani». Così si ragiona dai filosofi giolittiani della storia moderna.

 

 

Gli italiani che ricordano, rammentano una ben diversa storia: la emigrazione dei puritani dall’Inghilterra per sfuggire alle persecuzioni religiose, le lotte diuturne e secolari con gli indiani e coi francesi del Canada, la lunga, incerta, angosciosa guerra dell’indipendenza, la salvezza miracolosa da ripetuti pericoli di annientamento della neonata confederazione, le movimentate guerre marittime, in cui la marina francese, acquistando per un momento la preponderanza sulla flotta britannica, salvò dal disastro Washington, la terribile guerra di secessione, di cui nessuna forse rassomiglia di più alla guerra presente, per numero di uomini combattenti – fa bisogno di ricordare agli esumatori di idilli nordamericani che 4 milioni di uomini combatterono nella guerra del 1861-65 e che 500.000 uomini vi trovarono la morte? – e per le cifre per quei tempi colossali della spesa sostenuta.

 

 

E rammentano che ben lungi dal credere di possedere la «costituzione Perfetta», i nordamericani sono forse il popolo che abbia durato più fatica per emendare la propria costituzione. Per un emendamento si fece la guerra di secessione; e tutti gli altri costarono lotte acerbissime degli uomini migliori del paese contro le forze del privilegio e dell’interesse particolare. Wilson, dopo Lincoln, è il rappresentante più alto delle qualità migliori del popolo nordamericano. Professore e rettore della sua università ne trasformò il governo, vi infuse uno spirito nuovo e la rese uno dei centri migliori di ricerca e di influenza intellettuale sul nuovo continente. Governatore di New Jersey si rese temibile ai capi partito e sgominò le vecchie e tenacissime consorterie che si erano impadronite della cosa pubblica. Presidente della confederazione, mantenne la promessa di riforma delle tariffe doganali e della legge bancaria. L’atto bancario di Wilson fu definito più grande nelle sue conseguenze mondiali che non l’apertura del canale di Panama; e chi conosce il valore delle forze che si opponevano all’atto doganale e all’atto bancario sa che per trionfare su quegli ostacoli faceva d’uopo possedere una volontà dura e ferma come quella dei due o tre grandi presidenti che gli Stati uniti vantano, uomini non inferiori in nulla ai maggiori statisti dell’Europa del secolo XIX. Dire, dopo ciò, che i messaggi di Wilson sono roba da Eden e da Arcadia è dire cosa che, se è lontana dal vero, si confà però egregiamente alla levatura intellettuale di coloro che per consolarsi del martirio sofferto passano il tempo nei piccoli caffè a giocare a tarocchi od al bigliardo.

 

JUNIUS

 

 

II

 

Intorno ai detti memorabili dello statista-erede della tradizione piemontese

 

Signor direttore,

 

 

Lo statista «che in tutta l’opera sua ha continuato la tradizione piemontese di una politica larga ad ampie vedute democratiche» – così il suo organo ufficiale commenta il discorso dell’on. Giovanni Giolitti – «non poteva non essere il primo del partito costituzionale ad affermare i diritti dell’ora nuova». L’ora nuova dice: «a sinistra, sempre più verso sinistra», in ricordanza della tradizione piemontese cavouriana del connubio con la sinistra di Rattazzi. Nei caffè «costituzionali» piemontesi, dove si ragiona di politica e si paragona Giolitti a Briand od a Lloyd George od a Wilson, quell’affare del «verso Sinistra» deve essere rimasta l’idea politica più chiara tramandata ai posteri dalla storia del risorgimento. Come mai, si ragiona nei piccoli caffè, nessuno statista, fuor del nostro grande erede delle tradizioni cavouriane, s’è ancora accorto che il mondo va verso sinistra? E che la guerra ha insegnato doversi «accelerare decisamente il ritmo» del passo verso quella parte della strada, lungo la quale si cammina, la quale sta a sinistra del viandante?

 

 

Par certo che la «tradizione piemontese» si sostanzi in quell’«unico» ricordo «topografico», se si riflette che sarebbe difficile fuori dallo storico connubio ricordare qualche altro fatto piemontese in cui le «ampie vedute democratiche» avessero avuto tale importanza da dar luogo ad una «tradizione». A meno di considerare bastevoli a costituire una tradizione «democratica» a larga visibilità le promesse elettorali non mantenute dello stesso on. Giovanni Giolitti e dei suoi predecessori Depretis e Rattazzi. Cavour, ai suoi tempi, era considerato un aristocratico, «milord Camillo», un latifondista, un monopolista, un accaparratore, un nemico delle osterie dove alcuni degli avoli degli attuali «lavoratori delle città e delle campagne» – che, secondo lo statista – erede, parrebbero i soli componenti l’esercito di terra e di mare d’Italia – cercavano un rifugio contro la visione dei dolori che li attendevano, anche allora, al ritorno «alle povere loro case».

 

 

Cavour, sovratutto, viaggiava, leggeva libri di politica, di economia e di storia e non avrebbe preso alla lettera l’immaginosa uscita del primo ministro inglese, educato in un ambiente religioso e biblico, figlio ed eletto di quegli uomini del Galles, in cui sono così numerosi i revivalisti emuli degli asceti medievali. Sentendo dire che la guerra odierna “è la più grande catastrofe dopo il diluvio universale”, il conte di Cavour avrebbe riflettuto che queste sono cose buone a dire per accendere l’entusiasmo di popoli immaginosi, ma che probabilmente uguale è stata sempre e sempre sarà l’impressione di tutti coloro i quali vissero in mezzo agli sconvolgimenti prodotti dalle grandi guerre. Aprasi Tucidide, che forse anche l’on. Giolitti, amante degli aforismi storici semplici e pago della lettura del suo giornale ufficiale, conosce come l’autore di una storia di qualche grido; e si legga come egli parli di quella del Peloponneso come di guerra «assai più di ogni altra che la precedette memorabile e grande», perché «non solo i greci, ma molti tra i barbari e, per così dire, la più gran parte degli uomini fosse sossopra». E poiché è certo che le guerre del Peloponneso esercitarono un’influenza grandissima sulle vicende posteriori dei popoli civili, dirà la storia, la «grande Vergine», fra qualche centinaio di anni, se maggiore sarà stata la portata della guerra attuale. Per ora sarebbe azzardato dare un giudizio in proposito, se non forse nel calore di un discorso detto da un uomo di passione, come sicuramente è il signor Lloyd George.

 

 

Ma forse il detentore della rocca, da cui il conte di Cavour trasse il nome gentilizio, interpretò la «catastrofe» del bell’impeto oratorio lloyd-georgiano nel senso extrastorico di avvenimento disastroso e fecondo di miserie. Nella quale opinione si rimane confermati vedendo come l’uomo «che unico affida» ritenga che «il paese continua con immutata costanza a sopportare sacrifici di sangue e di denaro e disagi superiori a quelli di ogni altra guerra e ad ogni comune previsione». Non parlisi di sacrifici di sangue, ché questi non possono a tutti non essere dolorosissimi; ma dei quali, per la loro incommensurabilità, è disperata impresa fare un paragone tra guerre successe a distanza di secoli. Quanto a sacrifici di denaro ed ai disagi, l’opinamento dell’erede delle «tradizioni» e una nuova prova della sua scarsa propensione alla lettura, anche di giornali ed anche di libri dilettevoli e famosissimi. O non s’è letto su tutti i giornali che la guerra odierna ha sfatato tutte le predizioni fatte da statisti, da economisti, da uomini di spada? Ritenevansi ormai le guerre assurde o di brevissima durata, perché produttrici di tale scompiglio nei traffici, nella industria, nella banca da rendere impossibile ai popoli di lavorare e di vivere. Questa la «comune previsione» prima della guerra; che i fatti dimostrarono lontanissima dal vero, essendosi invece i popoli adattati, oltre davvero ogni comune previsione, alla nuova vita imposta dalla guerra, sì da rendere disperati coloro i quali dallo scompiglio generale speravano la loro rapida ed incontrastata vittoria.

 

 

Se non alle previsioni si bada, ma ai fatti, sarebbe fuor di luogo sperare che lo statista-erede della tradizione piemontese conosca la storia del suo Piemonte e, peggio, «i sacrifici di denaro ed i disagi» che i piemontesi subirono per salvare l’indipendenza del proprio paese dalla prepotenza di Luigi XIV o dagli eserciti della rivoluzione francese e di Napoleone; quando in comuni non lontanissimi da quello di Cavour gli uomini erano ridotti a mangiar ghiande ed il principe spezzava tra i contadini affamati la collana dell’Annunziata, perché potessero procurarsi un pane così nero, in confronto al quale l’odierno pane di guerra parrebbe candidissimo. Ma senza andare sino a questa non peregrina erudizione, fu scritto in Italia un romanzo famosissimo, in cui si narra di guerre e di carestie e di peste; ed ognuno che abbia letto i Promessi sposi sa che le guerre di altri tempi producevano, anche in paesi lontani da quelli di guerra guerreggiata, «disagi» di gran lunga superiori a quelli che finora la guerra presente ha prodotto nel «paese», che vuol dire in Italia. Di fronte alle descrizioni del Manzoni, impallidiscono le querele odierne sulle tessere dello zucchero, sui 300 o 400 grammi di pane al giorno ed a testa, sul digiuno periodico della carne; e se l’on. Giolitti non ha voluto far previsioni ed affermazioni per l’avvenire, forza è concludere, rovesciando il suo detto, che tutte le grandi guerre del passato hanno costretto le popolazioni a sopportare disagi assai superiori a quelli che oggi valorosamente il popolo italiano sopporta.

 

 

No, finché le cose non peggiorino, questo dei «disagi» superiori a quelli mai visti in passato non è un buon argomento per eccitare il popolo a rinnovare le tragiche gesta della rivoluzione francese, allo scopo di chiudere «definitivamente» il periodo antebellico di politica estera segreta e di politica sociale ed economica, così come «il periodo dell’antico regime fu chiuso dalla rivoluzione francese».

 

 

Probabilmente l’on. Giovanni Giolitti non conosce il libro che ha inaugurato l’analisi delle sostanziali differenze fra l’antico regime e il regime inaugurato dalla rivoluzione. Quell’Ancien régime di Alessio di Tocqueville è ancora adesso, se si bada ai discorsi di apertura del consiglio provinciale di Cuneo, il racconto inedito di un viaggio alla scoperta di terre nuove. Dimostrò quel libro, or sono più di tre quarti di secolo, e dimostrò in maniera la quale da nessuno fu in seguito recata in dubbio, che la rivoluzione francese non chiuse ma continuò un periodo. Fu la prosecuzione accelerata di un’opera gigantesca, alla quale i re di Francia avevano consacrato secoli di sforzi non inutili. Abolì una feudalità che di fatto s’era già consunta. Unificò , con la divisione in dipartimenti e con la nomina napoleonica dei prefetti, quella Francia che i re avevano già riunito attorno a sé e che in gran parte facevano amministrare da propri «intendenti» non elettivi. Diede le proprietà della chiesa e della nobiltà a quei contadini che già stavano comprando le terre dai signori, un gran numero dei quali era già andato in rovina. Nessun grande avvenimento storico «chiude», come farebbe credere l’immagine da consiglio provinciale dell’on. Giovanni Giolitti, il periodo precedente di storia. Nessuna rivoluzione, nessuna guerra è un bolide caduto dal cielo a turare i buchi delle malefatte del passato. Ma tutte escono dalla terra medesima che fu feconda del passato, e continuano e superano il passato. Perciò son grandi.

 

 

Giova sperare che la storia d’Italia dopo la guerra continui ed innovi la storia passata. La continui nelle aspirazioni all’indipendenza non solo territoriale ma spirituale, alla giustizia tra le classi, che sono il patrimonio ideale del nostro risorgimento, di Mazzini, di Cavour, di Garibaldi. La innovi nella ripugnanza alla politica delle clientele personali, che fu impersonata, in un periodo oscuro della nostra storia recente, da Agostino Depretis e da Giovanni Giolitti.

 

JUNIUS

 

 

III

 

«Lasciar fare alla storia»[2]

 

Signor direttore,

 

 

Il giornale giolittiano torinese insiste nella idealizzazione del suo patrono, raffigurato come il tipo dello statista Piemontese. Questa volta siamo però già alla costruzione di quello che La Bruyère avrebbe detto un «carattere». L’eroe della leggenda è così scolpito: «Empirismo, pazienza, prudenza, tolleranza, tatto, senso della realtà, repugnanza dalla rettorica, amore dell’ordine»… «Istinti e tradizioni ereditarie di piemontesi furbi e cortesi, diplomatici, burocratici, soldati di padre in figlio», gente che «lascia fare alla storia, come il buon medico sovente lascia fare alla natura».

 

 

Da quali fonti manoscritte o stampate o da quali tradizioni orali lo scrittore di tali frasi abbia tratto queste caratteristiche del perfetto uomo di stato di marca piemontese, non so. Ma i ricordi della storia che un tempo si insegnava nelle scuole di rettorica e di filosofia del vecchio Piemonte, quando ai ragazzi si usavano raccontare le vicende della Casa di Savoia e non «esperienze mistiche e professioni di verità soprasensibili», come l’unità d’Italia e simili «sublimità», quei ricordi non mi sembrano molto favorevoli alla teoria del «lasciar fare alla storia».

 

 

Non già che questa teoria in date circostanze non sia buona ed utile. Una delle maggiori personalità di stato dell’evo moderno, la regina Elisabetta d’Inghilterra, trasse il suo paese a salvamento appunto con la teoria del non fare essa e del lasciar fare alla storia: col non maritarsi risolse i nodi gordiani della prevalenza di Francia e di Spagna e dell’unione delle corone inglese e scozzese; col non inviperire in paese né contro i cattolici, né contro i protestanti, diede al popolo l’unità religiosa. Ma anche la regina Elisabetta dovette decidersi, insistendo il clamore popolare, a troncare la testa di Maria di Scozia ed a dichiarare legalmente la guerra alla Spagna, dopo averla lasciata fare per tant’anni a corsari che diventarono ammiragli di gran nome e vinsero l’invincibile armata di Filippo II.

 

 

I grandi uomini di stato, quelli che impressero un’orma profonda nella storia, lasciarono fare bensì agli avvenimenti, ma ad un certo punto presero per le corna la signora storia e l’obbligarono a viva forza a lavorare a vantaggio del proprio paese. Aveva «lasciato fare» a francesi ed a spagnuoli il duca di Savoia Carlo il Buono, e s’era ridotto a morire miserabile e sbeffeggiato, privo persino dei gioielli della corona e col paese invaso; ed il figlio Emanuele Filiberto aveva lasciato credere che la storia avesse bene operato a pro dei sopraffattori, mettendosi al soldo di uno di questi. Ma egli attendeva il momento; e ben lo seppe afferrare a San Quintino, nella memorabile giornata che per un secolo stabilì l’assetto d’Europa e ridiede a lui la corona ed al Piemonte l’indipendenza.

 

 

Passo sopra a quell’irrequieto, fantastico, immaginoso precursore di idealità destinate ad avverarsi dopo più di due secoli, che fu Carlo Emanuele I; ma chi oserebbe dire che i due gran re che tornarono a fondare per la seconda volta la monarchia di Savoia e con essa l’unità d’Italia, Vittorio Amedeo Il e Carlo Emanuele III, abbiano lasciato fare alla storia? Soldati, sì, e diplomatici anche; ma avventurosi e coraggiosi ed iracondi e capaci di sacrificare il tutto per il tutto, pur di non lasciarsi mettere il piede sul collo. Se avessero avuta soltanto qualità di «furberia» e di «cortesia», se fossero stati solo dei «diplomatici» e dei «burocratici», se avessero avuto appena della pazienza, della prudenza, della tolleranza e del tatto, quei due sovrani, che la storia corrente non dice grandissimi solo perché furono a capo di un piccolo stato, non avrebbero cacciato il Piemonte in quattro guerre lunghe, dure ed economicamente disastrose: dal 1690 al 1696, dal 1701 al 1713, dal 1730 al 1738, e dal 1740 al 1748; guerre che diedero al Piemonte Pinerolo e Casale, Acqui e la Lomellina e Val di Sesia e Novara e l’oltre Po pavese ed i feudi imperiali, che fecero mangiare, traverso a molti stringimenti di ventre, al piccolo stato sabauda, alcune tra le foglie più preziose del carciofo lombardo. Ma quelle foglie non si mangiarono «lasciando fare»; ma «facendo», ma pagando di persona, ma precorrendo, contro le prepotenze dei Borboni, i quali avevano imposto il disarmo di quasi tutti i reggimenti, le astuzie che giovarono alla Prussia nella lotta contro Napoleone; ma conducendo ripetute volte lo stato all’orlo della rovina, da cui, grazie a miracoli di energia e di fiducia nella «sublimità», si sollevò ad un’altezza che lo rese ammirato ed ascoltato ben al di là delle sue forze durante tutto il secolo XVIII. «Furbi» sì, ma all’occasione anche violenti ed iracondi e precipitosi.

 

 

Così come più d’un secolo dopo era «furbo e cortese» ma anche violento ed acceso e pronto quel conte di Cavour, al cui «temperamento», se non più al «genio», aspira oggi il possessore della rocca che da Cavour si intitola. Quale buffa contraffazione di biografia cavouriana è in uso nei cenacoli giolittiani, per osare di asserire che il gran conte era un empirico, un paziente, un prudente, un tollerante? Empirico il Cavour, che andava a lezione all’università di Torino da Francesco Ferrara, il più grande teorico della scienza economica italiana e ne pubblicava i riassunti della prolusione nel suo giornale? Empirico chi in gioventù si era dilettato a scrivere anch’egli un compendio della scienza economica, chi era dotto in problemi religiosi, chi aveva una preparazione scientifica formidabile? Favola assurda, come è assurda la favola che i piemontesi in genere siano stati capaci di fare le grandi cose del 1859 e del 1860 solo perché erano furbi e cortesi, pazienti e tolleranti, odiatori della rettorica ed aventi il senso della realtà.

 

 

Purtroppo anche i piemontesi avevano in casa dei rettorici bolsi e vuoti come il Brofferio, quotidiano svillaneggiatore di Cavour, assillante calunniatore della sua politica e del suo giornale, che già a quei tempi giudicava come oggi fanno certuni in cerca di diversioni, mosso da cupidigie speculative, da spirito di accaparramento monopolistico e simili «scempiaggini». Ma fecero grandi cose, perché seppero anteporre alla diplomazia ed alla furberia del Dalla Margherita la franchezza dei propri convincimenti, la sbalordente franchezza cavouriana nel dire la verità, sì da far credere ai diplomatici fosse menzogna; preferirono alla piccola realtà ed al buon senso del coltivare il proprio giardinetto la credenza ferma nelle idealità che fecero l’Italia. Cavour non fu un isolato; era tutta la miglior parte della classe dirigente piemontese di prima del 1848, la quale pensava e parlava ed agiva in base a principii, che oggi il giornale ufficiale del giolittismo chiamerebbe «professioni di verità sovrasensibili». Perciò a noi che siamo appena usciti dal gran decennio giolittiano, dalla «fioritura» di prima del maggio 1915; i discorsi di Cavour paiono idealistici. Non così ai suoi contemporanei, perché erano vissuti e cresciuti in un ambiente di idealità vive e fervide.

 

 

La sola verità che c’è in fondo a quel «lasciar fare alla storia», che sarebbe il gran merito dello statista erede delle tradizioni piemontesi, è nel detto memorabile che oggi ci rivela il suo organo: «lo sviluppo dell’Italia stava nell’ordine delle cose». Il detto non è in tutto vero, neanche applicato alle «fioriture» del gran decennio giolittiano; perché l’Italia economica nuova non si poté fare senza una nuova scienza, senza banditori di essa, senza agricoltori coraggiosi pronti ad accogliere il verbo dei primi cattedratici ambulanti, senza industriali e negozianti di fegato. Le fabbriche non sorgono, ed i campi non migliorano perché la storia lo vuole.

 

 

Certa cosa è che la storia, quella scritta, deve ancora dare il suo giudizio intorno al grado di collaborazione che ai risultati ottenuti nel gran decennio diede l’opera dell’erede del «temperamento» di Cavour. I maestri di logica insegnano che, perché un dato avvenimento possa considerarsi la conseguenza di un altro, nel caso nostro perché il miliardo di maggiori salari degli operai, perché l’entrata nel popolo delle «plebi di città che le signorie straniere ci avevano lasciato come peso morto e corrotto» – e chi mai aveva visto queste corrotte plebi cittadine prima che la grande industria richiamasse in Torino, in Milano, in Genova gli abitanti del contado? – possano considerarsi come la conseguenza del temperamento neo-cavouriano e dei concepimenti giolittiani, sarebbe necessario che quell’avvenimento non potesse essere ascritto a nessuna altra causa.

 

 

Forse lo scrittore del giornale torinese ha scoverto nuovissimi metodi di analisi storica, per cui nel groviglio delle cause ed effetti delle vicende italiane è riuscito a rintracciare il filo della causa unica sufficiente della prosperità italiana nel gran decennio, che sarebbe quel «temperamento» o quei «concepimenti».

 

 

La conoscenza di quei metodi sarebbe per fermo suggestiva e per fermo ancor più interessante sarebbe sapere in qual modo si spieghi come dappertutto, in tutti i paesi del mondo, d’Europa e d’America, d’Asia e d’Oceania, il gran decennio sia stato caratterizzato da alti salari, miliardi di incremento della ricchezza nazionale e prosperità inaudita. Che dappertutto il governo si inspirasse, nelle repubbliche democratiche, come negli imperi imperialisti, nei paesi dove non si scioperava perché c’era l’arbitrato obbligatorio ed in quelli dove non si scioperava perché c’era lo knut, alle regole che la tradizione piemontese ha trasmesso, incorrotte e misteriose, ai privilegiati del «temperamento» neo-cavouriano ed ai toccati dalla grazia dei «concepimenti generali ritrovati da Giolitti?» Che se questi nuovi metodi di critica storica non verranno rivelati, rimarrà il dubbio: come attribuire in Italia ad una causa risultati che altrove ugualmente si ottennero in assenza di quella causa?

 

 

E, poiché sono sul tema dei confronti di logica storica internazionale, sarebbe interessantissimo sapere perché solo in Italia e non altrove si ponga il dilemma: o il parlamento o il giornalismo. Parrebbe, a sentire i cultori delle tradizioni piemontesi, che sia una cosa nuova, mai più vista ed intollerabile, che ci siano giornali e giornalisti intenti a svillaneggiare ministri, governi, deputati e parlamenti. Parrebbe che, se le ingiurie non vengono fatte cessare, se non si riesce a dimostrare che tutti gli ingiuriatori sono pagati o dominati dai pescicani della guerra, il parlamento debba senz’altro «oggi o domani, scomparire»; ovvero, se le ingiurie non sono vere, il giornalismo «riceva un colpo che può essere mortale».

 

 

Se questo dilemma fosse vero, da lunghi anni parlamenti e giornali sarebbero amendue scomparsi. La Camera dei comuni, la venerabile madre di tutti i parlamenti oggi vivi e vivaci, sarebbe morta da due secoli. Perché quali ingiurie e quali villanie non furono dette ai membri della Camera bassa inglese ed alla Camera stessa come ente? Da Swift, l’immortale autore del libro di Gulliver, in poi, le più atroci ingiurie furono lanciate contro di essa; e la più infrequente non era per fermo quella di essere composta tutta di persone vendute o corrotte; vendute a Luigi XIV per l’abiezione del proprio paese, corrotte da Walpole per ottenere il voto del bilancio a pro della politica dei Re Elettori annoveresi. Se fossero stati necessari i pubblici abbruciamenti di giornali e le condanne dei giornalisti a baciare il pavimento della camera bassa – «come è sporco questo pavimento!», esclamava uno di questi giornalisti svillaneggiatori dopo essere stato costretto a fare onorevole ammenda dei suoi insulti – a tergere la camera del fango che su di essa si gittava a piene mani, a quest’ora il grande giornalismo inglese non esisterebbe.

 

 

In verità, né il fondamento indubbio di molte tra le accuse di mercimonio e di tradimento allo straniero lanciate dai giornalisti ai membri della Camera dei comuni ebbero la virtù di uccidere questa; né i fulmini del legislatore contro le insolenze degli «scribi», come si chiamavano un tempo, distrussero il giornalismo. L’uno non può vivere senza l’altro. Il giornale è il pungolo del parlamento; e questo è la tribuna dove i problemi posti dall’opinione pubblica devono venire discussi e trovare una soluzione. I vilipendi degli «scribi» contro parlamentari e governanti sempre mai si ebbero e sempre giovarono a purificare governi e parlamenti, sempre contribuirono a far tacere coloro che non meritavano di parlare. Né mai coloro che difendevano, contro il clamore degli «scribi», una causa giusta, ebbero bisogno di difendersi gridando che le mani le quali lanciavano l’accusa non erano pure.

 

 

La causa giusta si difende con i suoi meriti; mentre la causa cattiva va a fondo anche se i suoi patroni sono purissimi e gli avversari nefandi. Tra giornalismo e parlamento, il che vuol dire tra una forma ed un’altra di pubblica discussione – e chi mai, salvo coloro i quali infantilmente credono alla virtù delle carte costituzionali scritte, può attribuire ai parlamenti altro e più nobile ufficio di quello di tribuna pubblica di tutte le voci del paese? – non è giudice né l’una né l’altra parte. Giudice è solo la pubblica opinione degli uomini riflessivi ed amanti del paese, la quale col tempo via via si trasforma in storia e lascia cadere da ultimo nell’oblio gli uomini politici ed i giornalisti, i quali furono corrotti o ciechi, ed erige un monumento di riconoscenza a coloro che, traverso a decisioni e scoramenti, ad impeti e rilassatezze, a sacrifizi e trionfi, a calunnie ed esaltazioni, benemeritarono della patria.

 

JUNIUS

 

 

IV

 

I vinti ed i vittoriosi[3]

 

Signor direttore,

 

 

Leggendo le pagine nelle quali i commissari inquirenti presumono di avere descritto le cause della rotta di Caporetto, mi ritornavano alla mente quelle altre pagine nelle quali uno dei nostri più grandi scrittori militari, il generale Nicola Marselli, aveva tracciato or son più di quarant’anni le cause della vittoria che egli auspicava riportata dalle armi italiane nell’ultima, allora incerta e lontanissima, guerra d’indipendenza. Le avevo lette, quelle pagine profetiche, piangendo di dolore e di rabbia, all’indomani della rotta di Caporetto; e non mai come allora, dinanzi alla realtà della sciagura che minacciava di distruggere l’opera di tante generazioni, avevo sentito la verità dell’analisi che il direttore della scuola di guerra di Torino e teorizzatore della scienza della guerra aveva fatto delle cause per cui l’Italia doveva vincere. Erano cause tutte morali, educative, politiche, quelle che il Martelli metteva in luce. L’Italia aveva vinto non perché il suo esercito fosse stato provveduto di armi e di munizioni; non perché le sue frontiere fossero difese da inespugnabili fortezze; non perché l’apparato esteriore del suo esercito fosse impeccabile. No. Questi erano i fattori secondari della vittoria. La vittoria era venuta perché da qualche generazione gli italiani erano stati educati alla consapevolezza dei valori morali ed avevano appreso nella scuola e nella vita che cosa era la patria italiana, che cosa era lo stato nazionale; perché in tutte le classi sociali era diffuso il sentimento della comunanza di vita e di interessi e di aspirazioni ideali di fronte allo straniero. Aveva vinto perché uomini di stato compresi del loro dovere verso il paese avevano circondato l’esercito delle loro cure più assidue; avevano saputo attirare nelle sue file giovani saldi di carattere e ricchi di soda cultura per farne le guide del popolo in armi; sicché l’esercito era da anni divenuto tutt’una cosa con il popolo e questo, dall’aristocratico e dal ricco all’umile lavorante, lo amava come si ama un figlio, lo prediligeva come la parte più eletta di se stesso. Aveva vinto perché un’opera continua di educazione morale, proseguita dalle scuole elementari sino alle aule universitarie, a mezzo di un esercito di sacerdoti più che di maestri salariati, aveva insegnato agli italiani come si faceva a diventare doviziosi e forti nelle arti della pace; ma sovratutto come si doveva usare della ricchezza acquistata. Sicché gli italiani avevano moltiplicato i fondaci e le officine, avevano cresciuta la produttività dei campi e reso il lor paese uno dei grandi emporii del mondo; ma sapevano al tempo stesso che la ricchezza non si conquista per crescere i godimenti materiali, che essa è mezzo per una più alta vita spirituale e sdegnosamente respingevano il verbo venuto d’oltralpe il quale pretendeva elevare il ventre a divinità suprema ed erano pronti a sacrificare vita ed averi per difendere i sommi beni posseduti da un popolo, che sono l’unità e l’indipendenza, condizioni prime e necessarie di una vita piena e veramente ricca.

 

 

Perciò, nel momento critico in cui le sorti del paese si dovevano decidere, nell’ora del pericolo, l’Italia aveva posseduto un esercito, in cui i migliori uomini delle classi dirigenti guidavano un popolo disciplinato, sobrio, contento di fare sacrificio di se stesso, delle proprie comodità personali sull’altare della patria. Perciò dietro a questo esercito moralmente invincibile stava un popolo consapevole, che non si lamentava dei mali inflitti dalla guerra e volontieri rinunciava al superfluo pur di fornire il necessario ai suoi figli, i quali sacrificavano la vita per il paese. Perciò non erano sorte discordie fra duci dell’esercito in campo e statisti governatori del popolo difeso da quell’esercito; perciò non s’era saputo di rivalità fra generali; e l’esercito aveva trovato il duce designato dal consenso pieno di tutti a condurlo alla vittoria. E questa era venuta piena, sicura, definitiva, come il frutto maturo si distacca dall’albero, il quale lungamente l’ha nudrito con la sua linfa.

 

 

Ahimè ! come il quadro descritto dalla parola vibrante del generale Marselli ai giovani ufficiali suoi allievi era lontano dal ritrarre l’Italia esteriore del 1915, l’Italia politica del tempo in che fu dovuta dichiarare la guerra, ciononostante fortunatissima e meritamente fortunatissima! Morti i Lamarmora, i Cosenz, i Pianell, i Marselli, morti cioè gli educatori di quella gioventù la quale serbava le tradizioni di devozione, di fede, di sacrificio verso il re e la patria ereditate dall’esercito piemontese e le aveva innestate sui sentimenti di patriottismo e di slancio garibaldino propri delle guerre dell’indipendenza italiana. Morti i Cavour, i Ricasoli, i Sella, i Minghetti e dalla rivoluzione parlamentare del 1876 ridotti all’impotenza gli uomini, i quali avevano costrutto l’Italia nuova, le avevano dato un governo, una amministrazione, una scuola. Morti i Manzoni, i De Sanctis, i Carducci e gli altri pensatori e poeti, i quali avevano data vita e forma italiana all’idealismo ed avevano creato nelle anime, prima che gli statisti ed i guerrieri attuassero nella realtà, l’unità della nazione italiana, come altri grandissimi pensatori e poeti avevano creata l’unità della nazione germanica. All’alba magnifica succedeva una giornata incerta, di lavoro tumultuario e talvolta rimuneratore per i singoli, ma infecondo per la collettività. Nella scienza e nella scuola dominava il materialismo, distruttore dei valori spirituali, oscuratore dei fini per cui è bella la conquista della verità. Si studiò per diventare specialisti, esperti in questo o quel ramo di scienze. Si irrise ai fini ultra-terreni e, ridotto l’uomo a materia, scienza e scuola divennero uno strumento per dare a quella materia pasto succulento di godimenti fisici. Tutto divenne carriera e guadagno. Il sacerdozio, perché troppo poco lucrativo, fu abbandonato ai figli dei contadini. Maestri e professori nei ginnasi e nei licei diventarono coloro i quali, per accidente, avevano potuto a poco prezzo seguire corsi d’istruzione nei seminari o in scuole disseminate con larghezza nelle minori cittadine od eransi potuti recare alle università grazie ad antiche e nuove borse di studio. Le classi industriose disprezzarono con serena imparzialità, perché scarsamente redditizi, il sacerdozio, l’insegnamento, le arti liberali e la milizia; e si dettero ai commerci ed alle industrie senz’altra mira che quella della ricchezza. Forse fu questa la classe più utile al paese, perché pose le fondamenta economiche di un’Italia migliore, atta, dopo aver provveduto alle esigenze materiali della vita, a guardare in alto. Ma, nel frattempo, l’onda di pacifismo che aveva dopo il 1870 pervaso l’Europa occidentale, ancora esangue per le guerre napoleoniche e stanca dei trambusti e delle lotte nazionali seguite al 1848, aveva persuaso gli uomini che la milizia era un inutile peso, una necessità dolorosamente ereditata da epoche storiche dominate dall’assolutismo e dall’ignoranza. L’esercito non era dal popolo e dalle classi dirigenti guardato con orgoglio, come si guarda al difensore della patria, all’educatore della gioventù, al disciplinatore degli animi rozzi e violenti, all’organizzatore degli animi più saldi e dei caratteri più fermi, lieti di consacrare la vita alla missione di difendere lo stato contro i nemici interni e quelli esterni. Esso fu invece guardato con fastidio dal popolo, a cui sottraeva i figli negli anni più belli della giovinezza e con sopportazione dalle classi medie ed elevate a cui offriva un facile mezzo di collocamento per i figli meno atti ad altre più lucrose carriere. Tanto scemato era il senso di devozione allo stato, che quando dopo il 1898 l’esercito fu chiamato a tutelare l’ordine pubblico in occasione di scioperi e di tumulti, alcuni i quali sembravano il fiore dell’intelligenza tra gli ufficiali scrissero articoli per dimostrare che l’esercito non doveva essere chiamato a quell’ufficio, – pure onoratissimo e principalissimo in uno stato ben governato – ma ad esso dovevano bastare poliziotti assoldati all’uopo e perciò meritamente, a parere degli scriventi, oggetto del dispregio universale!

 

 

Il materialismo dominante nella scuola e nella vita trovò un potente alleato nella decadenza degli istituti politici e nella loro soggezione a quanti procaccianti vedevano nella adulazione demagogica la via più agevole a conquistare potere ed onori. La sconfitta, che nel 1876 ebbe a subire la vecchia destra, fu sconfitta altresì della antica sinistra, formata di cospiratori, di uomini che avevano rischiato la vita nelle galere borboniche o nelle fortezze austriache ed avevano, se non forse molta scienza di governo, almeno il sentimento dello stato e delle sue esigenze. Venne al potere l’orda dei trasformisti, dei depretisiani, dei giolittiani, la gente senz’arte né parte che ambì il potere per amore del potere, portata su dalle clientele e serva delle clientele. Arte somma di governo parve il quieta non movere; il gettare ad ogni tratto un’offa in bocca ai capi delle torme più schiamazzanti, l’usare il pubblico denaro per contentare i piccoli gruppi sociali che, con incessante vicenda, si susseguivano a raccogliere le briciole del banchetto statale. Poiché il conte di Cavour, per conseguire il fine sommo della liberazione dell’Italia dallo straniero, non aveva temuto di allearsi con la sinistra capitanata da un mediocre avvocato, parve sapienza di governo, tradizionale nella monarchia sabauda, chiamare a sé i vociferatori più fastidiosi. Depretis chiamò a sé Crispi, Rudinì si alleò con Nicotera, Giolitti ebbe per suo costante ideale l’alleanza effettiva, se non formale, coi socialisti ufficiali. Talvolta l’alleanza riuscì, perché il chiamato era un vero uomo di stato, più grande di colui che gli aveva aperta la via. Il sistema fu tuttavia indizio di incapacità a governare e di mancanza di ideali. Non giovava il ricordo del connubio cavouriano, il quale riuscì soltanto perché Cavour impose al socio idee e programma, lasciandogli solo la soddisfazione di essere chiamato al governo; mentre nelle recenti imitazioni erano prive di idee ambe le parti e solo associate dal desiderio di serbare il governo del paese. Cavour, che sapeva a qual meta indirizzarsi, si servì di Rattazzi come di uno strumento per raggiungere la meta. I suoi tardi imitatori, i Depretis ed i Giolitti, privi di ideali propri, immaginarono stoltamente che fosse grande statista colui il quale soddisfaceva premurosamente alle grida di coloro i quali si proclamavano le vestali del «progresso», i sacerdoti del «sole dell’avvenire». Privi di cultura politica, scambiarono i diversi vangeli massonici, radicali, socialisti, banditi a volta a volta nei settori di estrema sinistra, con le tavole della verità e credettero di aver salvati il paese e la monarchia iscrivendone i postulati nei discorsi del trono od in quelli di apertura del consiglio provinciale di Cuneo e dando un portafoglio ministeriale od un’alta carica curule o senatoria agli uomini che avevano scelta la via del parteggiare per le idee cosidette estreme come la più atta a condurre rapidamente al potere invece di quelle faticose dello studio perseverante e dei servigi onestamente resi ai concittadini. Per tal modo si diffuse la persuasione che il metodo più sicuro per diventare ministro del re fosse quello di vituperare la monarchia, l’esercito, le istituzioni politiche e sociali vigenti; e si propagò nelle classi politiche e burocratiche dirigenti uno scetticismo incurabile, per cui nessuno considera se stesso servitore dello stato, e tutti sono seguaci e pretoriani di questo o quell’uomo politico, legati alla sua fortuna, qualunque sia il verbo che provvisoriamente a lui piaccia far suo, a volta a volta clericale o socialisteggiante, liberale senza tinta e senza contenuto o radicale estremo. La vita politica parve esaurirsi nella lotta fra gruppi di persone, ognuna delle quali faceva professione di fede «più avanzata» dell’altra; e tutti facevano a gara a popolare i banchi di estrema sinistra, foltissimi di abitatori, i quali di nulla avevano più spavento che di essere creduti capaci di sedere a destra. In questo pantano si smarrivano i pochi i quali vedevano che l’Italia non si ristringeva a Montecitorio e che l’Italia era nel mondo. I problemi di politica estera trascurati ed ignorati; e, per l’ignoranza di essi, divenuta incomprensibile la ragion d’essere dell’esercito, tacciato di anacronismo e di improduttività. Nell’esercito stesso pochissimi gli uomini di fede, i quali serbassero la coscienza profonda dell’altissimo compito a cui erano chiamati.

 

 

Se questi soltanto fossero stati i fattori costitutivi dell’Italia nuova, la rotta di Caporetto sarebbe stata la logica ed inevitabile conchiusione del malgoverno di quarant’anni, della incapacità dello stato italiano a vivere di una vera vita statale e ad informare di sè, dei suoi ideali gli uomini viventi nel suo territorio. L’Italia ufficiale, l’Italia governante non meritava, no, di vincere. Chiunque aveva dimestichezza, anche soltanto parziale, con i ceti politici e burocratici e militari dirigenti, dovette nel 1915 pensare con raccapriccio agli errori irreparabili che da questi ceti dovevano fatalmente essere commessi e di cui le conseguenze non potevano non essere disastrose. Di giorno in giorno, nonostante le prove supreme di valore dell’esercito, nonostante le undici battaglie vittoriose, l’angoscioso pensiero pungeva: come è possibile che un governo debole, che una classe dirigente fatua, leggera, incolta, procacciante possa condurre l’Italia alla vittoria? Ed il dubbio atroce, insistente che Giolitti avesse ragione, quando riteneva che l’Italia non dovesse entrare in guerra, perché incapace a farla, quando argomentava che un popolo di gobbi non può alzarsi in piedi e guardare fissamente il nemico in viso e vincerlo, quel dubbio atroce non abbandonò un istante mai coloro che conoscevano anche solo una parte del vuoto spaventoso che aveva nome in Italia di vita politica.

 

 

Caporetto parve dar ragione a quei dubbi e vi fu un momento dell’ottobre indimenticabile del 1917 nel quale per un attimo passò attraverso la mente degli angosciati un pensiero ancor più atroce: «O forse non fu il risorgimento nazionale una parvenza passeggera? Esiste davvero un popolo italiano degno di vivere con tal nome o non è forse meglio che il nome scompaia del tutto e gli uomini viventi sul territorio chiamato Italia trovino con altra guida ed altri maestri la via atta a trarli fuori della bassura materialistica in che oggi paiono piombati?». Ma fu un attimo solo; ché il Grappa ed il Piave dissero al mondo e rivelarono a noi stessi che l’Italia c’era ed era ben viva ed era degna di una vita più alta.

 

 

Assente lo stato, assente il governo, assente la scuola, s’era formata un’Italia assetata di verità e di vita ed era essa che aveva vinto le undici battaglie dell’Isonzo e del Carso sotto la guida di un uomo, il quale poté anche commettere errori tecnici e psicologici, ma aveva una fede profonda nella patria e quella fede impose ad uomini di governo ed infuse in ufficiali ed in soldati; ed era essa che sotto la guida di nuovi duci aveva resistito sul Grappa e vinse poi la battaglia di Vittorio Veneto. No. Lasciamo che gli scribi si affannino oggi, con la glorificazione della rotta di Caporetto, a dar ragione a quello scrittore francese che su una rivista britannica – ben dissimile in ciò da tutte le sue più autorevoli consorelle – brutalmente dice che la grandissima vittoria nostra superò di gran lunga i nostri meriti (far above her deserts). Essi hanno ragione se con ciò affermano che la vittoria grandissima fu moltissimo superiore ai meriti della classe governante italiana dell’ultimo quarantennio; e di gran lunga superiore ai meriti dei partiti organizzati o di governo che oggi si apprestano a correre il pallio elettorale. Viene davvero il vomito a pensare che gli eredi politici di Vittorio Veneto possano essere socialisti ufficiali, clericali organizzati e liberali di stile giolittiano!

 

 

Ma la vittoria che distrusse un impero fu il guiderdone meritato di un’Italia nuova che s’era formata da sé al di fuori ed in contrasto coll’Italia governante e politicante. Come questa nuova Italia siasi formata è arduo indagare e descrivere; e quel capitolo significativo consacrerà la gloria dello storico futuro della battaglia di Vittorio Veneto. Noi, che ci viviamo in mezzo, a mala pena possiamo riconoscere le linee somme del fatto grandioso: istinti profondi di una stirpe civile ed antica, i quali si risvegliano nell’ora del pericolo; attaccamento del popolo delle campagne alla terra nativa e moto iracondo di ribellione a vederla conquistata e devastata da genti diverse e repugnanti; capacità nel popolo di resistenza ai patimenti ed alle fatiche spinta sino ad estremi inenarrabili; rivelazione di una coscienza nazionale formatasi in sessanta anni di unione politica; comparsa di una generazione di giovani dai 18 ai 30 anni, assai migliore, fisicamente, moralmente ed intellettualmente, delle due generazioni che la precedettero. Se qualche merito hanno avuto le generazioni ora vecchie e mature nel preparare Vittorio Veneto, esso consiste soltanto nell’aver reso possibile il sorgere di questa nuova generazione. La quale appartiene al medio ceto, è avida di sapere, impaziente della retorica e delle false formule politiche, sana di corpo e di spirito, capace di sacrifici silenziosi. Fu questa minoranza di ufficiali, la quale tenne in pugno i soldati nella lotta di logoramento dei terribili primi anni di guerra, dal 1915 al 1917. Furono questi giovani ed altri che presero il posto dei morti gloriosi, i quali trasformarono l’anima del fante, e divenuti fratelli e compagni del contadino e dell’artigiano, lo condussero alla resistenza prima ed alla vittoria poi. Una nuova classe dirigente si è formata nel Trentino, sul Carso, sul Grappa e sul Piave. Essa non conosce ancora la sua forza. Forse non la sa ancora usare; e probabilmente è bene non l’usi subito. Perché a vincere bastano cuor saldo, animo ardente e tenace, capacità di persuasione e di comando, e convinzione di difendere una causa giusta. Tutte queste qualità possiede l’eletta di giovani che condusse l’esercito di popolani e di contadini pazienti, tenaci e valorosi alla vittoria. Oggi un solo ostacolo deve essa superare per rendersi degna di governare il paese, succedendo alla accolta di istrioni politici che tanto scredito ha cumulato su di sé: la presunzione di essere capace di governare per il solo diritto della vittoria. Nei giornali e nei comizi dei combattenti v’è una santa aspirazione a fare. Ma v’è altresì una incertezza grande in quel che si deve fare. Essi brancolano nel buio, avidamente ansiosi di trovare la luce. Su tutti gli altri, essi hanno però il vantaggio di sapere come si giunge alla luce; perché sanno che la vita è una cosa seria, e che il pericolo non si supera senza coraggio e fermezza. I giovani appartenenti alla nuova classe dirigente devono passare dall’ideale indistinto del bene che sono chiamati a compiere, della missione che essi hanno di liberare l’Italia dalla classe politica corrotta ed ignorante che la sgoverna da quarant’anni, ad un ideale preciso e concreto di azione. La classe politica che governò l’Italia dal 1848 al 1876 fu grande, perché aveva patito, aveva osservato, aveva studiato, aveva scaldato l’animo a grandi ideali. Altrettanto deve fare la nuova classe dirigente. Essa deve espellere dal proprio seno i retori ed i furbi. Deve guardare in faccia la realtà ; studiare i problemi concreti; diventar capace ad affrontarli prima di aspirare al governo degli uomini. Se essa guarderà al governo del paese come ad una cosa altrettanto seria com’era serio il compito di vincere l’Austria, e vi si appresterà con religiosa reverenza e con fermezza modesta, essa avrà vinta una nuova grande battaglia. Non meno grande e non meno feconda per l’Italia di quella di Vittorio Veneto.

 

JUNIUS

 

 

V

 

Il commento della farmacia del villaggio[4]

 

Signor direttore,

 

 

Il farmacista del mio villaggio, i cui scaffali si adornarono del breve corso di storia d’Italia di Ercole Ricotti e dell’atlante geografico del Marmocchi, vecchi ricordi di antichi studi, è esultante. Ha letto il discorso di Dronero dell’on. Giovanni Giolitti e vi ritrova tutte le idee che egli ha sempre accarezzato, tutte le verità che gli sono sempre parse evidenti. «Il nostro forte carattere» – il farmacista applica a se stesso, sebbene egli non appartenga precisamente al collegio di Dronero, le qualifiche che si convengono agli abitanti del monte in genere, anche se il monte ha una certa tendenza a degradare verso il piano – «sceglierà certamente l’austera via del dovere». Dopo essere stati «senza distinzione di parti e senza riserve unanimi nella devozione al re, nell’appoggio incondizionato al governo, nella illimitata fiducia nell’esercito e nell’armata» oggi ci dobbiamo accingere – sotto la guida di colui il quale ha pronunciato un discorso di una taglia tale che per trovare un uomo capace di «proferirne» uno consimile «bisogna risalire ai grandi del nostro risorgimento» – a ricostruire l’Italia. Tutti i farmacisti dei villaggi italiani ricostruiscono ogni giorno l’Italia e il mondo e sono felici di vedere in istampa il loro pensiero.

 

 

Prima di tutto bisogna – ed anche questa è sempre stata l’opinione nonché del farmacista, anche del parroco e del sindaco – cominciare a rifare la scuola. Il farmacista ha conservato il breve corso della storia d’Italia perché ogni tanto gli piace rinfrescarsi nella mente i ricordi del tempo quando nel suo paese c’erano gli stranieri, per liberarsi dai quali ci vollero secoli di «una serie non interrotta di lotta» ed insieme l’atlante del Marmocchi, per vedere subito, a colpo d’occhio, se uno stato è grosso o piccolo e val la pena o no di averlo per alleato ed amico; ma ha scaraventato lungi da sé la grammatica latina e la regia parnassi, perché gli suscitano il ricordo della licenza liceale non potuta ottenere e del «patentino» strappato, quando la cosa era possibile, con la semplice promozione dalla seconda classe liceale. Il parroco è d’accordo con lui nel dispregio delle scuole classiche, perché gli studi latini del seminario gli sono sempre sembrati più efficaci di quelli del liceo, oramai caduto dappertutto nelle mani dei «framassoni». Ed il sindaco assente, a quanto dicono gli altri due, per la buona ragione che di imparare il latino egli non ha mai avuto bisogno per fare quella onorata carriera nel regio esercito dalla bassa forza fino al grado di capitano, che gli ha permesso di reggere in età matura, finché durerà la «goldita» della sua pensione, le sorti del paese natio. E tutti tre, mentre giuocano ai tarocchi dietro il paravento e ricordano che lassù nella Rocca di Cavour, questo e il biliardo sono i passatempi favoriti anche dal solo «uomo di governo capace di spingere le forze antiche, di incanalare le energie nuove alla ricostruzione della nuova Europa» – che onore avere avuto le stesse idee dell’unico e più che maggiore uomo di stato «europeo»! – confessano il loro ingenuo stupore che ci volesse Giolitti per accorgersi che bisogna abolire quasi tutti i licei ed i ginnasi a rendere l’istruzione non soltanto «veramente pratica» ma anche «diretta a scopi veramente pratici». Chi non vede che invece delle attuali scuole medie bisogna creare «una vasta rete di scuole pratiche e specializzate di agricoltura e di arti e mestieri»? Se per insegnare in queste scuole non si troveranno subito maestri abbastanza esperti e «pratici» e se sarà difficile attirare ai politecnici incaricati di fabbricare quei maestri un numero bastevole di professori «al corrente di ogni passo della scienza» specie sotto la minaccia di veder messa la propria cattedra a concorso ad ogni dieci anni, poco male, commenta il farmacista. Per ora potremo nominar maestro qualche mutilato o qualche invalido di guerra, conseguendo così meglio lo scopo, che l’on. Giolitti giustamente addita, «di manifestare loro in ogni forma la riconoscenza del paese». Forse i mutilati preferirebbero qualche guiderdone diverso da quello di diventare lo zimbello di scolari scaltriti dallo studio esclusivo della «pratica»; ma farmacista e sindaco sono d’accordo nel ritenere che «con un po’ di pratica» si possano in poco tempo imparare tutti i mestieri. Anche i più difficili.

 

 

Quando tutto il popolo, nelle cui «mani saranno d’ora innanzi i destini dei Popoli», non avrà più la testa infarcita di reminiscenze classiche, di belle imprese e di trattati solenni e segreti, ma sarà in possesso di una «scienza tecnica veramente pratica» saranno impossibili le guerre. Tutti, coll’aiuto della fisica, della chimica, dell’elettrotecnica, della meccanica, sapranno fin da prima che in caso di guerra bisognerebbe «mettere in gara i sottomarini, gli aeroplani, i dirigibili, i gas asfissianti, i carri d’assalto, le artiglierie di portata oltre i 100 chilometri» ed altre simili diavolerie. Tutti saprebbero fin da prima, come avevamo preveduto noi, insieme con Giovanni Giolitti, che le guerre, tutte le guerre devono ormai «essere lunghissime» di «almeno tre anni» e quindi le guerre sarebbero impossibili quando il popolo avrà avocato a sé la direzione della politica estera – e qui l’occhio del farmacista va all’atlante del Marmocchi, aiuto inestimabile nelle discussioni invernali sulla preferenza da darsi a questa o quella alleanza in base al territorio, agli abitanti, alle frontiere più o meno «formidabili» -; sarà, come bene osserva l’on. Giolitti, «esclusa la possibilità che minoranze audaci o governi senza scrupoli riescano a portare in guerra un popolo contro la sua volontà». C’è in verità l’inconveniente che, se non in Italia altrove, qualche «governo senza intelligenza e senza coscienza riesca a portare in guerra un popolo contro la sua volontà». In tal caso bisognerà per forza accingersi all’impresa di rintuzzare il nemico, pur riconoscendo che l’impresa succitata «sarà ardua e richiederà gravi sacrifici». Ma, se i lumi della scienza veramente pratica si saranno diffusi in tutta Europa, come ce ne dà affidamento la «taglia» dell’uomo «che ha proferito il discorso di Dronero» non ci saranno più in Europa «conservatori di corta vista» e «Partiti reazionari» che possano scatenare guerre. Le guerre sono il frutto «dello spirito imperialista, di malsane ambizioni e di loschi interessi»; esse hanno per promotori lo spirito ed i partiti «reazionari» i quali hanno ridotto al silenzio ed a battere le mani sotto il tavolo i circa 300 deputati portatori di lettere e biglietti di visita nella portineria dell’on. Giolitti; lo spirito ed i partiti i quali «proseguirono una campagna di diffamazione contro il parlamento, ben comprendendo che essi, avendo contro di sé la maggioranza del popolo, non potevano mai avere la maggioranza del parlamento, che è l’espressione del suffragio universale».

 

 

Se al mondo ci fossero stati solo i 300 deputati «veramente pratici» le «classi privilegiate della società» avrebbero forse condotto il restante dell’«umanità al disastro», ma almeno l’Italia non sarebbe stata condannata «ad un mezzo secolo di esaurimento economico per arricchire una generazione di speculatori» e non sarebbe stata ridotta alla «totale rovina» a cui erano votati «quei paesi ai quali non avesse arriso una completa vittoria». E farmacista, parroco e sindaco, tentennando la testa, sono concordi nel riconoscere, sì, con l’on. Giolitti, che la nostra vittoria fu «completa e definitiva»; ma devono aggiungere melanconicamente, pure insieme all’on. Giolitti, che quella vittoria «completa e definitiva» ha tutta l’aria di una sconfitta e che le speranze di ottenere le città, i mari, i fiumi e le colonie che ci spettano sono, ahimè !, piccolissime.

 

 

Eppure ci voleva così poca «perspicacia» ad avere la «caratteristica della Storicità». Bastava essere uno «storico di razza» come è facilissimo diventare con il breve corso del Ricotti e l’atlante del Marmocchi. Bastava «soffrire e tacere, offerire alla patria il proprio dolore e nella solitudine della propria contemplazione e del proprio essere maturare il rinnovamente del proprio spirito, il ringiovanimento del proprio essere».Dopo queste taumaturgiche operazioni di reincarnazione, chi non era capace di comprendere, fin dal primo giorno, che «la temibile guerra avrebbe segnato l’inizio di un periodo storico assolutamente ed intieramente nuovo»? Bastava prendere in mano l’atlante del Marmocchi e «considerare» i colori diversi con cui dopo ogni grande guerra fu necessario pitturare le carte geografiche per persuadersi che le guerre segnano l’inizio di periodi storici nuovi. Stavolta la guerra «ha creato sulle rovine dei grandi imperi molti piccoli stati in conflitto fra di loro»; ha trasformato «gli ordinamenti politici, riducendo a minoranze i popoli retti a monarchia». Chi ama viver tranquillo e non desidera entrare, senza congruo preavviso, in un periodo storico «assolutamente ed interamente» nuovo, non può essere amico delle guerre, perché più o meno queste hanno sempre trasformato gli imperi in repubbliche e le repubbliche in imperi, fatto diventare duchi i conti e ridotti i regni a semplici ducati, hanno spezzato i grandi in piccoli stati e fatti diventare grandissimi alcuni tra i grandi.

 

 

Le guerre hanno sempre prodotto un gran rimescolio di regni e di teste coronate a partire da quelle di Alessandro Magno sino a quelle di Napoleone ed hanno sempre cagionato qualche novità di imposte e taglie, non gradite alla gente che ama giuocare a tarocchi nei retrobottega della farmacia di villaggio e non desidera essere costretta, nemmeno se lo propone l’on. Giolitti, a mettere al nominativo i titoli al portatore, facendo conoscere i propri affari intimi, anche i più gelosi, a tutto il vicinato.

 

 

Tanto più noiosa è questa faccenda dei regni che diventano repubbliche e degli stati grossi che si spezzettano in quanto adesso sappiamo che i cittadini tedeschi o quelli ex austro-ungarici, rovinati e impiccioliti dalla guerra, non potranno più fare i loro consueti viaggi in Italia e gli italiani non potranno più imparare da essi come si faccia a viaggiare all’estero con economia e senza lasciare mancie ai camerieri d’albergo. Pur tuttavia, quando i tedeschi viaggiavano in Italia, lo sbilancio commerciale era appena di un miliardo all’anno, mentre adesso perdiamo 20 miliardi all’anno, nei nostri affari cogli stranieri: fatto commentatissimo in tutte le farmacie ed i caffè d’Italia e destinato indubbiamente a condurre l’Italia alla rovina.

 

 

Tutta colpa, osserva giustamente il sindaco, di non aver «considerato» subito, come «considera» l’on. Giolitti, «che l’impero austro-ungarico, per le rivalità fra Austria e Ungheria e sovratutto perché minato dalla ribellione delle nazionalità oppresse, slavi del sud e del nord, polacchi, cechi, sloveni, romeni, croati, italiani, che ne formavano la maggioranza, era fatalmente destinato a dissolversi, nel qual caso la parte italiana si sarebbe pacificamente unita all’Italia». Consentono il farmacista ed il parroco, inteneriti dinanzi all’idilliaco spettacolo di tutti questi popoli che se ne vanno pacificamente ciascuno per conto suo a ricongiungersi alle rispettive madrepatrie; dei tedeschi emigranti volontariamente dall’Alto Adige, degli sloveni fuorusciti dal Goriziano e dall’Istria orientale, dei croati abbandonanti i sobborghi di Fiume per lasciare gli italiani liberi di ricongiungersi in pace con l’Italia. Ma, dentro al breve corso della storia d’Italia e all’atlante protestano Ricotti e Marmocchi, non dimentichi di essere stati storici e geografi d’Europa, oltreché d’Italia; e ricordano che nessuno stato si dissolse «fatalmente» permettendo alle sue membra di ricongiungersi pacificamente ad altri popoli. Dieci secoli e più durò l’agonia dell’impero romano, pur composto come l’Austria di popoli di favelle e credenze diverse.

 

 

Durò tre secoli la Francia a persuadersi della vanità dei suoi tentativi di egemonia sul mondo, dalla battaglia di Pavia che fiaccò Francesco I a quella di Waterloo che ruppe il sogno napoleonico. Ci vollero guerre lunghe e sanguinosissime a persuadere la Spagna che l’impero su cui il sole mai non tramonta non aveva diritto di opprimere lombardi e napoletani, siciliani e sardi, fiamminghi e messicani, peruviani ed argentini. Se i pacifici giuocatori delle partite ai tarocchi e ricostruttori serotini delle carte politiche avessero potuto sentire le impressioni scambiate tra i due maestri di storia e geografia alla generazione piemontese che fu contemporanea di Giovanni Giolitti, si sarebbero avveduti che Ricotti e Marmocchi eran d’opinione che senza un gran cataclisma l’Austria-Ungheria non si sarebbe decisa a «dissolversi». Essi che erano storici e geografi alla buona, almeno tanto grandi come Giovanni Giolitti è sommo politico alla buona, non conoscevano esempi di imperi che si dissolvono, senza un grande commovimento dei regni e dei popoli aspiranti alla loro eredità. Sotto i replicati assalti di Napoleone, dell’Italia, e della Russia, l’impero austro-ungarico era rimasto vivo, quasi più forte di prima, fornito di un esercito da molti reputato il primo del mondo. D’un tratto, si scopre che, fin dal 1914, vi è chi crede che quell’impero è destinato a dissolversi, mentre la Germania gli è alleata, mentre l’Italia dovrebbe rimanere neutrale e degli stati nemici, Francia ed Inghilterra sono lontane e ansiose di tirarlo, con bei trattamenti, dalla parte loro, la Serbia è una quantità trascurabile, e la Russia «pareva dubbio potesse resistere ad una guerra di molti anni». Ma, si sa, i miracoli in politica si possono compiere solo dai geni; e solo un genio come colui, a paro con la cui voce «non s’è alzata dalla cessazione delle armi in Europa alcuna voce che possa neppur da lontano reggere al confronto» poteva concepire un fatto storico grandioso come quello di uno stato il quale misteriosamente si dissolve in conspetto di nemici morti o sorridenti. Tanto più corre l’obbligo a farmacisti, parroci e sindaci di villaggi di credere alla parola «austera» che annuncia il verbo del «dovere»: il dovere di prendere tutto senza nulla sacrificare.

 

 

Per non aver sentita la voce del dovere, l’Italia si trova ora ridotta allo stremo di assistere al trionfo dell’imperialismo anglosassone. Sicché maggiore appare la colpa di quei giovani pieni di intelligenza e coscienza, i quali non si accorsero mai, mentre tutti i lettori del giornale devoto allo statista erede delle grandi tradizioni piemontesi lo sapevano a memoria sin da tempo immemorabile, che la grande guerra era una lotta «per la egemonia del mondo» fra Germania ed Inghilterra. Interesse dell’Italia era che nessuna vincesse l’altra, per poter seguitare a ballare sulla corda dell’equilibrio tesa tra i due giganti della terra e del mare. Quanto diverso il compito dell’Italia da quello, che inconsultamente si proposero gli Stati uniti, di rompere l’equilibrio delle forze tra i due e farlo pencolare in modo risoluto e definitivo dalla parte inglese! Qual mai tarantola punse gli Stati uniti ad una risoluzione a cui «nel 1915 nessuno pensava né poteva pensare»? Se non era di quei transmarini disturbatori dell’equilibrio europeo, la guerra poteva durare qualche altro anno e forse finire con la vittoria germanica. Poco male, conchiudono quasi senza avvedersene, tratti dalla logica ferrea e semplice dello statista di Dronero, il farmacista, il parroco e il sindaco. Perché uno solo deve avere tutto? Agli inglesi spettava il mare e ai tedeschi la terra. Il guaio si è, commentano tra le morte pagine i Ricotti e i Marmocchi, che il dominio dei mari giova alla sicurezza delle comunicazioni, mentre il dominio della terra uccide le idee e trasforma l’anima dei popoli, facendoli dimentichi delle tradizioni e delle glorie nazionali. Questo non sentono i farmacisti di villaggio che hanno vissuto, leggendo il discorso di Dronero, un’ora di compiacimento dinanzi alla visione dei balli di corda trasportati dalle aule di Montecitorio alla grande scena della storia. Ma i 500.000 morti del Carso, del Grappa e del Piave gridano di aver sacrificata la loro vita appunto perché l’Italia cessasse di essere l’infima delle pedine nel giuoco degli equilibri europei e diventasse attrice nel grande giuoco mondiale dove si giuoca nei secoli l’avvenire delle nazioni degne di vivere.

 

JUNIUS

 



[1] Lettere politiche di Junius, Laterza, Bari, 1920, pp. 13-21 [ndr].

[2] Lettere politiche di Junius, Laterza, Bari, 1920, pp. 55-56 [ndr].

[3] Lettere politiche di Junius, Laterza, Bari, 1920, pp. 169-184 [ndr].

[4] Lettere politiche di Junius, Laterza, Bari, 1920, pp. 185-197 [ndr].

Lettera prima. I verdetti della «Grande Vergine»

Lettera prima.
I verdetti della «Grande Vergine»
«Corriere della Sera», 3 luglio 1917
Lettere politiche di Junius, G. Laterza, Bari 1920, pp. 13-21
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 445-449

 

 

 

 

Signor direttore,

 

 

Il giornale ufficiale del giolittismo non vuole sostituirsi alla «storia» ed attende dalla «grande Vergine» il suo «terribile verdetto, senza appello». Pare che attenda un verdetto «di giudizio per la purezza delle intenzioni, di rispetto, perché ha dimostrato un alto e puro patriottismo». E sembra anche che il verdetto «senza appello» della «storia» debba esprimersi «limpido come la luce del sole» nell’ottobre del 1918, quando l’attuale legislatura avrà compiuto il ciclo della sua vita politica ed il paese nei comizi mostrerà il suo pensiero.

 

 

Questo appello alla «grande Vergine» non poteva essere più in carattere. Nessuno meglio di un discepolo di quel primo ministro che, forse unico tra i presidenti italiani del Consiglio dal 1848 in poi, ha saputo mantenere immacolata la verginità del suo spirito da ogni contatto con la scienza scritta sui libri, poteva tracciare dei compiti della «grande Vergine» un quadro così nuovo e singolare. Che si sappia, la «storia» da cui si attendono verdetti non è quella scritta dagli storici di professione. Questi verranno fra cent’anni, od al più presto fra ottant’anni, quando saranno aperti agli studiosi gli archivi dello stato – ancor oggi non si possono in Italia leggere i documenti posteriori al 1830! – ed ho l’impressione che del verdetto dei futuri storici dell’anno 2000 importi poco ai giolittiani frenetici di vedere riconosciuto «in modo solenne il puro patriottismo di uno dei nostri più rappresentativi uomini politici» dagli elettori italiani dell’autunno del 1918. Tanto più che v’è il pericolo che gli storici del 2000 abbiano a dare un giudizio assai duro del periodo di storia politica che corse fra l’80 ed il 1910 e di cui gli uomini rappresentativi furono Agostino Depretis e Giovanni Giolitti. Tra i documenti noti, ve ne sono due che gli storici del 2000 consulteranno sicuramente e sono: Governo e governati in Italia di Pasquale Turiello e l’Inchiesta sulle banche di emissione, e son due documenti che non deve far molto piacere di vedere compulsati ai figli spirituali di Agostino Depretis e di Giovanni Giolitti.

 

 

No. L’appello alla «storia» non è rivolto alla storia che sarà scritta quando gli avvenimenti d’oggi potranno essere studiati sul serio. La storia sono «gli avvenimenti immediatamente successivi a quelli che si sono compiuti dall’agosto 1914 ad oggi». Sono i fatti del domani che, essendo diversi da quelli d’oggi, se ne costituirebbero giudici. Il generale Monk, il quale, riportando gli Stuardi a Londra, si erge giudice di Cromwell; Napoleone, che condanna la rivoluzione francese; le elezioni del 1918, le quali daranno – spera l’organo ufficiale del giolittismo – la maggioranza ai giolittiani ed ai socialisti e condanneranno così la dichiarazione di guerra all’Austria e le giornate di maggio. Ho riflettuto a lungo sul significato logico del verdetto della «grande Vergine» e mi sono dovuto convincere che le cose stanno proprio così come le ho dovute porre. Fa bisogno di dire che questa è una concezione da farmacia di villaggio o da caffè di provincia, appena appena degna di essere apprezzata in quel caffè di villaggio piemontese dove certi nostri «rappresentativi uomini politici» trascorrono tra una partita ai tarocchi e l’altra al bigliardo alcune delle ore tristi del loro «martirio»? V’ha bisogno di dire che il ritorno degli Stuardi non ha sminuito affatto la grande figura di Cromwell; e che l’epopea napoleonica non ha mutato in nulla l’importanza storica della rivoluzione francese? L’avvenimento del domani può essere una conseguenza ed uno svolgimento del fatto di oggi; ed è esperienza comune che gli avvenimenti storici si svolgono ad ondate, a corsi e ricorsi, come diceva Giambattista Vico. I fatti del dopo guerra saranno certamente diversi da quelli della guerra; e saranno diversi i giudizi ed i pensieri degli uomini. Come i fatti ed i pensieri d’oggi, anche quelli di domani dovranno essere spiegati, non lodati o condannati, dagli storici dell’avvenire; ma immaginare che, perché diversi, essi possano costituire un «verdetto» sui fatti e pensieri di prima, può cadere in mente soltanto a chi non abbia colla storia altra dimestichezza che quella che si acquistava un tempo nelle scuole elementari quando si studiava la storia del popolo d’Israello e si vedeva Iehova affaccendato a punire le colpe dei re sacrileghi e del popolo eletto.

 

 

I «compendi di storia sacra» devono essere davvero l’ultima Thule della sapienza storica dell’annunciatore di verdetti, se si bada al quadro «idillico» che in un numero precedente lo stesso scrittore ha tracciato della storia del popolo degli Stati uniti. Sorto in mezzo ad un «Eden», vissuto in un’«Arcadia», ottimista per temperamento, conduttore di guerre «umanitarie» per l’abolizione di un «errore» (lo schiavismo), plagiario nei messaggi bellici di Wilson dei testi pacifisti di Emanuele Kant, entrato in guerra per essere stato disturbato nei suoi piani di fare armonicamente denaro vendendo merci a tedeschi e ad inglesi, il popolo americano crede che bastino i messaggi i discorsi le dimostrazioni e le bandiere per vincere la guerra.

 

 

Il quadro deve avere riscosso molte lodi nel caffè di provincia, dove gli uomini di stato, i quali furono prima «professori», devono godere assai scarse simpatie. Che le dichiarazioni di guerra dell’Italia e degli Stati uniti siano state fatte da due professori, da due intellettuali, è una circostanza che non sarà mai dimenticata dalle «scarpe grosse» ma «pratiche», a cui la parte giolittiana è fermamente convinta spettare il governo del mondo. Disgraziatamente, la prima dichiarazione di guerra, di cui le altre furono le conseguenze, non fu forse fatta da un intellettuale, da un filosofo, il Bethmann-Hollweg, ed i professori tedeschi firmatari del celebre «manifesto» non certificarono forse che essa aveva per sé il verdetto della storia?

 

 

Ignoro quel che dirà la storia dell’atto di Wilson; ma immagino che difficilmente potrà negare che i messaggi del presidente americano discendano in linea retta dai grandi documenti della storia nordamericana: Washington, Jefferson, Lincoln non avrebbero parlato diversamente. Quei documenti non possono essere scambiati per manifestazioni idilliache di un popolo vissuto sempre in un Eden, salvo da chi abbia appreso la storia nordamericana sui romanzi di Maine-Reid. Essi sono documenti dello spirito di sacrificio di un popolo che ha sempre lottato per il raggiungimento di scopi ideali. Chi immagina che le guerre si possano fare solo per rubare i territori altrui, o per impadronirsi di miniere o di colonie o di tesori, non può capire il perché Wilson sia disceso in guerra. Cotesta gente «furba» pensa che gli americani avessero guadagnato abbastanza alle spalle nostre e si siano decisi a venirci in aiuto per salvare i loro crediti, e soggiunge, con spirito caritatevole: «questo è ottimismo di un popolo a cui la vita fu sempre facile ed è sicuro della propria stella. Noi che non siamo ottimisti, la pensiamo diversamente e staremo a vedere come la andrà a finire coi crediti nordamericani». Così si ragiona dai filosofi giolittiani della storia moderna.

 

 

Gli italiani che ricordano, rammentano una ben diversa storia: la emigrazione dei puritani dall’Inghilterra per sfuggire alle persecuzioni religiose, le lotte diuturne e secolari con gli indiani e coi francesi del Canada, la lunga, incerta, angosciosa guerra dell’indipendenza, la salvezza miracolosa da ripetuti pericoli di annientamento della neonata confederazione, le movimentate guerre marittime, in cui la marina francese, acquistando per un momento la preponderanza sulla flotta britannica, salvò dal disastro Washington, la terribile guerra di secessione, di cui nessuna forse rassomiglia di più alla guerra presente, per numero di uomini combattenti – fa bisogno di ricordare agli esumatori di idilli nordamericani che 4 milioni di uomini combatterono nella guerra del 1861-65 e che 500.000 uomini vi trovarono la morte? – e per le cifre per quei tempi colossali della spesa sostenuta.

 

 

E rammentano che ben lungi dal credere di possedere la «costituzione Perfetta», i nordamericani sono forse il popolo che abbia durato più fatica per emendare la propria costituzione. Per un emendamento si fece la guerra di secessione; e tutti gli altri costarono lotte acerbissime degli uomini migliori del paese contro le forze del privilegio e dell’interesse particolare. Wilson, dopo Lincoln, è il rappresentante più alto delle qualità migliori del popolo nordamericano. Professore e rettore della sua università ne trasformò il governo, vi infuse uno spirito nuovo e la rese uno dei centri migliori di ricerca e di influenza intellettuale sul nuovo continente. Governatore di New Jersey si rese temibile ai capi partito e sgominò le vecchie e tenacissime consorterie che si erano impadronite della cosa pubblica. Presidente della confederazione, mantenne la promessa di riforma delle tariffe doganali e della legge bancaria. L’atto bancario di Wilson fu definito più grande nelle sue conseguenze mondiali che non l’apertura del canale di Panama; e chi conosce il valore delle forze che si opponevano all’atto doganale e all’atto bancario sa che per trionfare su quegli ostacoli faceva d’uopo possedere una volontà dura e ferma come quella dei due o tre grandi presidenti che gli Stati uniti vantano, uomini non inferiori in nulla ai maggiori statisti dell’Europa del secolo XIX. Dire, dopo ciò, che i messaggi di Wilson sono roba da Eden e da Arcadia è dire cosa che, se è lontana dal vero, si confà però egregiamente alla levatura intellettuale di coloro che per consolarsi del martirio sofferto passano il tempo nei piccoli caffè a giocare a tarocchi od al bigliardo.

Errori economici tedeschi

Errori economici tedeschi

«Corriere della Sera», 11 maggio 1917

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 553-556

 

 

L’atteggiamento dell’opinione pubblica nei paesi dell’intesa rispetto ai modi tenuti dalla Germania nel risolvere i problemi economici della guerra è degno di attento esame. Da uno stato di idolatria, di quasi sconfinata ammirazione, di corsa verso l’imitazione di tutto quinto si faceva dal nemico, di credenza in una capacità superiore dei tedeschi nell’organizzare ogni cosa e nel risolvere ogni problema «scientificamente» , si è gradatamente passati ad un leggero scetticismo, in cui l’ammirazione era temperata dal pensiero che, dopo tutto, i problemi della guerra erano troppo complessi e difficili per potere essere compiutamente risoluti anche da esseri soprannaturali come i nostri nemici, per concludere ora alla più aperta negazione di ogni attitudine dei tedeschi ad affrontare quegli stessi problemi che prima si credeva fossero una loro specialità.

 

 

Del nuovo atteggiamento spirituale dell’opinione pubblica alleata rende testimonianza un recente articolo dei «Times» intitolato German blunders, «spropositi tedeschi» , in cui si muove un urgente appello agli inglesi affinché essi non ripetano gli spropositi che hanno condotto i tedeschi alle attuali gravi disfatte.

 

 

Sproposito l’avere preveduto una durata breve della guerra; e non avere quindi accolto quei provvedimenti, i quali sarebbero stati razionali, se la durata lunga di essa fosse stata immaginata nella sua realtà.

 

 

Sproposito essersi decisi ai calmieri, alle requisizioni ed al razionamento a spizzico, derrata per derrata, aumentando ad ogni volta il prezzo e la scarsità delle derrate lasciate libere, e correndo ai ripari quando era oramai troppo tardi.

 

 

Sproposito non essersi preoccupati della possibilità di usare surrogati delle derrate principali o di spingere gli agricoltori ad usare i cereali e gli altri alimenti per il bestiame, quando l’uso per l’alimentazione umana appariva meno conveniente grazie ai prezzi di calmiere.

 

 

Sproposito l’avere ucciso a milioni i porci, col risultato di far rincarare poi carni e lardo; sproposito aver fatto uccidere, col calmiere sui prezzi di mercato, le galline, provocando l’aumento nelle uova; sproposito avere calmierato in modo incoerente le patate, che marcirono nei magazzini dei produttori. E si potrebbe seguitare nella dolorosa litania.

 

 

Siccome non ho mai avuta molta ammirazione per la scienza economica tedesca, così l’odierna scoperta degli «spropositi» commessi in Germania non mi fa molta impressione. I «Times» anzi dimenticano il più solenne e grave sproposito commesso dalla Germania, quello che ad essa potrà forse riuscire più nocivo di tutti: e che fu di avere deliberatamente convertito una situazione alimentaria seria, ma non grave, nella attuale situazione la quale reca certo gravissime preoccupazioni ai dirigenti tedeschi. Non possedendo dati sicuri al riguardo, non voglio affatto affermare che i tedeschi non possano giungere sino al prossimo raccolto; ed anzi, in mancanza appunto di notizie sicure, è prudente concludere che la crisi alimentare della primavera 1917 sarà da essi superata. Ma è innegabile che il pericolo esiste per la Germania. Se esso, per nostra fortuna, si verificasse – giova, ripeto ancora, agire invece come se esso fosse da escludersi – farà d’uopo ricordare che esso fu deliberatamente e consapevolmente provocato dall’azione del governo tedesco.

 

 

Se si pensa che, in tempi normali, la produzione tedesca del frumento era in disavanzo di 16.778.000 quintali, ma quella della segale era in avanzo di 7.843.000 quintali; che mancava orzo per 28.567.000 quintali, granoturco per 7.623.000, ma la produzione delle patate in 440 milioni di quintali bastava al fabbisogno del paese, si deve concludere che il problema alimentare tedesco era serio, era tale da dovere preoccupare i governanti; ma non era al disopra delle forze umane. Faceva d’uopo ridurre subito notevolmente i consumi inutili, per la fabbricazione della birra e delle bevande alcooliche; e razionare o limitare i consumi per l’alimentazione umana. Se lo stimolo alla produzione agraria fosse rimasto qual era, oggi non vi dovrebbero essere preoccupazioni in Germania.

 

 

Se queste esistono e se esse costringono lo stato ad imporre ai cittadini durissimi sacrifici, ciò deriva da un falso ragionamento politico-economico compiuto dal governo tedesco e che si può riassumere così:

 

 

  • la guerra sarà breve e vittoriosa;
  • giova, per ottenere la vittoria, evitare ogni cagione di malcontento nelle masse;
  • importa all’uopo che i prezzi dei viveri siano bassi e che le provviste non sembrino far difetto;
  • quindi è utile che il dott. Hellferich possa vantarsi, come fece anche recentemente alla tribuna del Reichstag, che i prezzi del pane sono in Germania i più bassi fra i paesi belligeranti.

 

 

Ma la conseguenza del ragionamento fu che i consumatori non furono messi a razione subito; che quando lo furono per il pane e le farine, non lo furono per le patate; che, razionate le patate, si consumarono troppi grassi e troppa carne; e che ben presto si ebbero bensì i prezzi bassi, ma insieme la scarsità di ogni sorta di cose necessarie alla vita.

 

 

La conseguenza fu anche che gli agricoltori, visti i prezzi bassi e non convenienti a cui erano costretti a cedere i loro prodotti, diedero le farine e le patate a mangiare ai cavalli ed al bestiame bovino; ridussero le semine e provocarono la scarsità dei raccolti.

 

 

Già von Batocki proclamò che la politica dei prezzi massimi era stata un colossale insuccesso; e pronosticò le requisizioni forzate ed il razionamento. Oggi si annuncia per l’agosto la trebbiatura militare dei cereali, per impedire che gli agricoltori nascondano il prodotto. E nell’autunno si dovrà arrivare alle semine forzate d’autorità.

 

 

A quando un rapporto al Reichstag simile a quello che fu letto il 24 dicembre 1794 dinanzi alla convenzione francese, in cui si proclamava il fallimento del famoso decreto del massimo del 19 agosto 1793?

 

 

A nulla gioverebbe conoscere gli errori altrui se noi ne commettessimo di uguali o peggiori. Purtroppo i principii della scienza economica tedesca ufficiale infestano anche i paesi dell’intesa; e sono divenuti, o meglio rimasti, trattandosi di cose vecchissime, carne della carne degli economisti da caffè, da gazzette e da camere legislative in tutti i paesi del mondo. Quindi anche noi abbiamo commesso e commettiamo tuttodì errori, derivanti dal volere i salari alti ed i prezzi bassi; i prezzi bassi e la produzione abbondante; i calmieri, rafforzati da requisizioni e tessere ed il commercio alacre e ben provveduto; l’approvvigionamento di stato e l’importazione privata; i noli tenui ed il naviglio neutrale brulicante nei porti. Tutte cose che ognun vede come stiano bene insieme. Anche da noi abbiamo fissato il prezzo del frumento ad un prezzo inferiore al prezzo a cui si vendette e talora si vende il fieno; e qual meraviglia che vi siano stati contadini i quali abbiano dato il frumento da mangiare alle bestie ed il pane ai cavalli?

 

 

Dagli spropositi stranieri e nostrani una principale conseguenza logica dovrebbero trarre i dirigenti: che, se purtroppo è necessario l’intervento dello stato per ragioni sovratutto politiche, è vana la speranza di potere d’autorità fare le cose in modo neppure lontanamente paragonabile per perfezione ed economicità al modo in cui le cose si facevano da sé sotto il pungolo del guadagno e della concorrenza. Che perciò fa d’uopo essere assai modesti; persuasi sempre che è di gran lunga maggiore la probabilità di avere sbagliato che di aver colpito nel segno. Ed essere sempre pronti a mutare, ad adattarsi alle nuove contingenze, a sentire il parere degli esperti; essere convinti che vale più un formaggiaio di cento professori di caseificio; un contadino ignorante, il quale non vuole comprare i concimi chimici, perché sono troppo cari, dei cattedratici ambulanti, i quali hanno consigliato il ministro d’agricoltura a dare premi alla cultura di cereali, della convenienza dei quali i contadini non sono persuasi. Fare, poiché fare bisogna e tutti chiedono di fare; ma non ostinarsi nel mal fatto ed essere sempre disposti a mutare rotta, quando l’esperienza dimostri che sono mutate le condizioni, in base a cui si era agito.

 

 

Palazzi ministeriali ed altri lavori pubblici

Palazzi ministeriali ed altri lavori pubblici

«Corriere della Sera», 29 aprile 1917

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 549-552

 

 

Sui giornali si leggono notizie le quali meriterebbero di essere autorevolmente confermate o smentite. Si tratta della costruzione degli edifici governativi in Roma, per cui pare esistano «preoccupazioni» circa la velocità con cui essi sono condotti a termine. Ed ecco – a quanto sembra, poiché la cosa è talmente incredibile da dover essere riferita con ogni cautela – i ministeri interessati affrettarsi a dare spiegazioni ed assicurazioni.

 

 

Per il palazzo del ministero dell’interno già molto si è fatto: l’area espropriata, sgombrato il suolo delle costruzioni esistenti e delle macerie, compiute opere murarie per 3 milioni di lire, assicurata la fornitura di travi di ferro per i solai del nuovo edificio, ecc. ecc. Rimangono da fare i progetti esecutivi per i pavimenti e per gli infissi, i vetri, le decorazioni artistiche, gli impianti sanitari, igienici, di riscaldamento, per cui però, si noti bene, sono già in corso le forniture.

 

 

Per il palazzo del ministero dell’istruzione si eseguono in economia i lavori di costruzione del piano terreno. Nel mese di marzo ultimo si provvide a sistemare il cantiere e ad approvvigionarsi dei materiali occorrenti.

 

 

L’edificio del nuovo ministero di grazia e giustizia è stato progettato, modellato ed alla fine di aprile, essendo già demoliti i fabbricati espropriati, saranno ultimati i lavori di parte delle fondazioni.

 

 

Oramai le fondazioni del nuovo ministero dei lavori pubblici sono ultimate; e non potendosi procedere ai lavori di sopraelevazione, si eseguono le opere in pietra da taglio per la zona basamentale e le murature occorrenti per collocare in opera le pietre stesse.

 

 

E potrei continuare con l’elenco: nuovi edifici universitari, nuovo convitto nazionale Vittorio Emanuele III, ministero della marina, palazzo delle casse di risparmio postali «la cui ultimazione presenterà qualche ritardo per la difficoltà di procurarsi materiali», palazzo della nuova dogana, platea in bronzo e ferro della quadriga trionfale sul palazzo di giustizia.

 

 

È tutto un fervore di opere e di iniziative edilizie da cui è pervaso il mondo ministeriale ed ufficiale romano. Si vuol dimostrare che la guerra non ha sospeso in nulla il progresso non so se economico o amministrativo del paese. Solo la Corte dei conti sembra sia stata presa da qualche scrupolo. Ultimate le espropriazioni e le fondamenta del suo nuovo palazzo, si sono eseguiti il bozzetto ed il modello al vero; ma poi i lavori sono stati sospesi sino a nuova disposizione.

 

 

Né il fervore di opere si limita alla capitale. Non sono molti giorni si è potuto leggere sui giornali torinesi il testo di una risposta che il sottosegretario ai trasporti on. Ancona aveva dato all’on. Vinai, deputato di Mondovì, il quale deve essersi dimostrato assai inquieto perché «lentissimamente procedessero i lavori del tronco della ferrovia Torino-Fossano-Ceva, nonostante lo stanziamento del fondo da tempo regolarmente avvenuto e che si riconosca da enti di Torino e della provincia interessati la grande necessità nazionale dell’attuazione della linea stessa, nella parte essenziale già costruita, anche per non lasciare improduttivi i capitali già impiegativi dallo stato» .

 

 

L’on. Ancona così risponde:

 

 

Con decreto ministeriale in data 24 maggio 1916 veniva autorizzata l’amministrazione ferroviaria ad eseguire in economia il quarto lotto del tronco della ferrovia Mondovì-Ceva. Furono subito iniziate le espropriazioni dei terreni occorrenti ed eseguiti impianti provvisionali, ma la pessima stagione invernale non ha poi permesso un regolare sviluppo dei lavori, i quali furono ostacolati anche dalla scarsità della mano d’opera. Per tale riguardo si è chiesto l’impiego dei prigionieri di guerra, nella quantità compatibile con le condizioni locali di lavoro e di alloggiamento, impiego che sarà sollecitamente effettuato, ma ciò nonostante l’avanzamento dei lavori, finché durerà lo stato di guerra, non potrà essere sollecito, sia per la scarsità di mano d’opera, sia per le ben note difficoltà delle provviste dei materiali da costruzione e del loro trasporto per ferrovia o per via ordinaria. Riguardo agli altri lotti della ferrovia in parola, si fa presente che i materiali necessari per eseguire l’armamento si potranno avere solo dopo la pace, quando cioè sarà riattivata la regolare loro produzione da parte delle industrie.

 

 

Che l’on. Vinai, deputato per Mondovì, cerchi di far passare per una «grande necessità nazionale» la costruzione di una linea la quale è invece un perspicuo esempio di ferrovia elettorale e politica – e mi piace accennare a cose del Piemonte, anzi della provincia dove son nato, per non incorrere nella taccia di regionalismo, come accadrebbe se parlassi di ferrovie ugualmente di lusso di altre regioni d’Italia – è comprensibile, se non perdonabile. Ma che l’on. Ancona vada mendicando scuse per giustificare una lentezza di lavori imposta dalla necessità e dalla utilità nazionale; che egli tragga quasi motivo di lode dal fatto di aver chiesto l’impiego di prigionieri di guerra per lavori ferroviari perfettamente prorogabili, mentre da tante parti agricoltori ed industriali chieggono mano d’opera, anche di prigionieri, per essere in grado di dare pane e munizioni al paese in guerra, non è né comprensibile né perdonabile. Anche alle forme di cortesia nel rispondere alle interrogazioni dei deputati vi ha un limite, quando i deputati chieggono cose dannose al paese e su cui i cittadini monregalesi, buoni patriotti e persone di buon senso, non insistono certamente.

 

 

Mi son soffermato sull’incidente della ferrovia Torino-Fossano-Ceva, perché esso risulta da un documento ufficiale. Ma sarebbe bene che i ministeri si decidessero a manifestare i loro criteri rispetto a quelle cose stupefacenti che sono le imperturbate costruzioni edilizie pubbliche in Roma.

 

 

Nessuno chiede che si debbano piantare in asso tutte le costruzioni pubbliche, a qualunque punto esse siano giunte e senza tener conto delle particolari condizioni tecniche, economiche e legali del loro completamento. Ma che si proseguano in economia lavori probabilmente abbandonati dagli appaltatori per la difficoltà ed il costo di eseguirli; che si cerchino materiali da ogni parte per tirar su edifici, che nessuna urgenza richiede, che si procaccino legnami per pavimenti, infissi, vetri, impianti sanitari ed igienici, quando è noto che tutto ciò costa oggi somme folli e sovratutto richiede lavoro e carbone, che potrebbero, anzi dovrebbero essere destinati ad altri scopi, che tutto ciò si faccia e si dica dalle competenti direzioni; che i capi degli uffici non abbiano finora sentito il dovere di proporre ai rispettivi ministri i provvedimenti opportuni di sospensione; che serenamente, come se la guerra si combattesse nel mondo della luna, si lascino andare innanzi le costruzioni, perché il lasciar fare rappresenta la linea della minore resistenza, è veramente incredibile.

 

 

Occorre che gli uffici edilizi dei ministeri romani si persuadano che oggi occorre scusarsi non per il ritardo nel fare, ma per il ritardo nel decidersi a non fare. Ogni mattone, ogni quintale di cemento, ogni tonnellata di ferro o di carbone, ogni giornata di lavoro impiegata in costruzioni è un mattone, è cemento o ferro o carbone o lavoro sottratto alle trincee, alle linee ferroviarie della zona di guerra, agli stabilimenti militari. Epperciò bisogna dimostrare che davvero non si può fare a meno di continuare nei lavori intrapresi e che la sospensione recherebbe maggior danno del vantaggio; s’intende danno pubblico.

 

 

Se i capi degli uffici edilizi o di costruzioni non sono ancora persuasi di ciò, importa che i ministri li richiamino all’ordine. E come un recente lodevole provvedimento del gabinetto cerca di porre un freno allo sciupio della carta nelle amministrazioni pubbliche, così si provveda a ridurre le costruzioni a quelle che davvero è impossibile o troppo dannoso sospendere.

 

 

Il razionamento del carbone

Il razionamento del carbone

«Corriere della Sera», 29 marzo[1], 1 aprile[2] 1917

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 540-548

 

 

I

La questione del carbone è divenuta nel presente momento assai grave. Risulta dai dati resi di pubblica ragione che, mentre in gennaio e febbraio 1916 erano stati importati nel porto di Genova 242.100 e 226.900 tonnellate di carbone, nei corrispondenti mesi del 1917 furono importati soltanto 143.300 e 102.800 tonnellate. La situazione degli altri porti italiani è suppergiù la stessa.

 

 

È inutile ora recriminare sul passato, e cercare ancora una volta quali siano le responsabilità del fatto per cui, mentre nel febbraio 1916 il 70% dell’importazione del carbone si fece per iniziativa privata, nel febbraio 1917 appena il 7% fu importato dai privati e tutto il resto fu dovuto importare dallo stato. È, per ora, inutile cercare le ragioni per cui lo stato, dopo aver distrutta ogni convenienza di importare per i privati, dopo avere con lusinghe di bassi prezzi ridotto le importazioni in settembre ed ottobre 1916 ed avere così ridotto oggi le riserve ad un limite eccessivamente basso, non abbia nei mesi successivi importato carbone a sufficienza.

 

 

Tutto ciò è storia passata. È da augurare che il commissario ai carboni, sen. Bianchi, possa riparare al mal fatto ed all’insuccesso di prima; e vi sono anzi fondate probabilità che un miglioramento possa ottenersi in avvenire.

 

 

Ma – e qui sta il problema odierno – l’intensificazione negli arrivi del carbone non potrà avere effetto che in maggio od in giugno ed anche allora gradatamente. Tutte le operazioni economiche richiedono tempo; e più di tutto le operazioni di trasporti, per cui occorrono adatte organizzazioni di carichi all’origine, di flotte di piroscafi scortate contro le minacce dei sottomarini, di scarico nei porti di arrivo, di inoltro su carri ferroviari.

 

 

La conclusione è che, se anche noi possedessimo forti riserve, il che ignoro fino a qual punto o momento risponda a realtà, noi dobbiamo agire come se delle riserve si dovesse fare uso parsimoniosissimo. Qualunque altra condotta, fondata sull’ipotesi di una pronta fine della guerra, di una cessazione della campagna sottomarina o di una maggiore disponibilità di carri, sarebbe una condotta imprevidente e perciò suicida. Noi dobbiamo, per il carbone come per il grano, sempre supporre il peggio; lieti poi se si verificherà il meglio. Rispetto al carbone, stato e privati debbono agire come se in marzo, aprile ed ancora maggio, il carbone disponibile debba esistere in Italia in quantità notevolmente inferiore a quella già ridotta dei mesi scorsi.

 

 

Fatta questa ipotesi, che la prudenza più elementare ordina di porre a base dell’azione pubblica e privata, che cosa si deve fare?

 

 

Non basterebbe innalzare i prezzi; perché il rialzo dovrebbe essere troppo diverso a seconda delle industrie. Vi sono industrie, a cui il carbone non deve essere dato, anche se lo pagassero 1000 lire la tonnellata, perché esse sono meno necessarie in confronto ad altre, le quali pure non possono pagare prezzi cresciuti.

 

 

Non basta il razionamento proporzionale, e per la stessa ragione: dare la metà del fabbisogno ad una fabbrica di munizioni sarebbe un suicidio; mentre la metà sarebbe assai troppo per un’industria, la quale produce merci per ora superflue.

 

 

Altro deve essere il metodo che lo stato deve immediatamente adottare ed a cui l’industria deve rassegnarsi: il razionamento progressivo. Supponiamo che si possano classificare le industrie consumatrici di carbone in alcune categorie, a seconda delle loro necessità ai fini della guerra e della alimentazione della popolazione civile. All’incirca così:

 

 

 

Indice di importanza nel momento attuale

 

Natura dell’industria

Proporzione di carbone assegnato in confronto al consumo precedente

100 Fabbriche di armi e munizioni

100%

80 Ferrovie

80%

50 Stabilimenti industriali necessari

50%

0 Stabilimenti non necessari per la vita «spartana» della popolazione civile

0%

 

 

Allo schema non occorrono molte spiegazioni. È chiaro che prima di togliere una sola tonnellata di carbone alle fabbriche di armi e munizioni, fa d’uopo magari sospendere nove decimi dei treni – viaggiatori e rifiutare il carbone per qualsiasi altro uso. Non siamo, tutt’altro, a questi estremi; ma dobbiamo previggentemente incoraggiare il governo a ridurre il numero e le comodità dei treni – viaggiatori; né ci dovremmo impermalire se si sospendesse addirittura per lungo tempo l’accettazione sulle ferrovie di merci e derrate di consumo non necessario. Al disotto stanno gli stabilimenti produttori di merci necessarie. Ridurre del 50% la fornitura del carbone equivale a costringere la popolazione civile a ridurre alla metà il consumo di quelle merci. Meglio la metà assicurata, che la rinuncia assoluta fra qualche tempo. Finalmente, nell’ultima categoria entrano le industrie a cui converrebbe sopprimere assolutamente la provvista di combustibile.

 

 

È naturale che ai singoli interessati poco piaccia di entrare nel terzo gruppo ed ancor meno nel quarto. Ma poiché necessità non vuol legge, cercherò di spiegare il mio pensiero con alcuni esempi.

 

 

Fortunatamente, le fabbriche di liquori consumano poco carbone e scarso combustibile di altra specie. Per lo più trattasi di miscele fatte a freddo. Ma anche quel poco bisognerebbe toglierlo loro assolutamente. Anche la legna. Questa potrà servire nel venturo inverno a riscaldare gli uomini e potrà servire di surrogato al carbone per altre industrie più interessanti. La fabbricazione di liquori dovrebbe essere senz’altro proibita – a che si tarda ancora? – sovratutto perché è uno scandalo lasciar divorare dai liquori lo zucchero spettante ai bambini e alle donne. Anche se essa consumasse in tutta Italia poche tonnellate di combustibile, quelle poche sono rubate alle industrie necessarie.

 

 

Ho citato lo zucchero; e la citazione mi fa porre una domanda: è davvero necessario sprecare carbone per raffinare lo zucchero? Non ho nulla in contrario al consumo dello zucchero raffinato; ma in tempo di guerra anche lo zucchero cristallino non raffinato è ottimo, perfettamente solubile e digeribile. Possiamo e dobbiamo fare a meno delle raffinatezze e risparmiare quelle parecchie decine di migliaia, forse cinquantamila tonnellate, che ci costa la raffinazione. Dunque si chiudano le raffinerie.

 

 

La carta: ecco un’altra merce su cui si possono e si debbono fare economie. La carta è una terribile divoratrice di carbone. Perché non si riducono a dimensioni microscopiche gli affissi murali e non si vieta la diffusione di avvisi e circolari d’ogni fatta? Perché importiamo carboni, occupando stive preziose, per fabbricare carte fini e di lusso destinate all’esportazione? Non ho nessuna obiezione di principio a tutte queste cose che vorrei proibire o limitare, ed in tempo di pace credo che ognuno abbia diritto di spendere i propri denari come crede. Ma siamo in guerra; e la grafomania va repressa severamente, quando costa carbone.

 

 

La grafomania ed il lusso: quale necessità vi è che si continuino a fabbricare vetrerie e ceramiche, anch’esse consumatrici cospicue di carbone? Si può benissimo dar fondo alle quantità esistenti di piatti, bicchieri, ordinari e di lusso, e si può, finché si è in guerra, fare a meno di adornare le nostre case e le nostre tavole con ceramiche e vetrerie di pregio. Niente di male se si mangi in scodelle ed in piatti slabbrati. Piccolissimi sacrifici, in paragone agli altri che la guerra richiede.

 

 

Né sarà grande il sacrificio imposto ai ricchi se sarà vietato alle fabbriche d’automobili di vendere vetture a privati. Ignoro se le fabbriche d’automobili abbiano ancora mezzo di fabbricarne per usi non militari. Se sì, sprecano carbone che dovrebbe essere riservato a cose più necessarie. Le vetture già pronte o quasi finite siano riservate all’esportazione all’estero, nei paesi neutrali, per creare cambi.

 

 

C’è davvero bisogno fino a che dura la guerra di consumare stoffe di lana, di seta o di cotone, oltre un dato minimo? Salvo che producano per esportazione, ed anche in questo caso solo quando sia certa la convenienza relativa di continuare a produrre; e salvo che si tratti di forniture militari, il carbone dovrebbe essere rifiutato a tutti i cotonifici, lanifici, setifici, stamperie che producono manufatti non ordinari e semplicissimi. E se di questi constasse esservene provviste sufficienti, non vedo il vantaggio di seguitare a produrne. In Germania occorre una licenza per potersi far fare un abito nuovo. L’idea, in tempo di guerra, è ottima; e non so perché non si possa giungere allo stesso risultato, almeno attraverso il rifiuto del carbone.

 

 

Perché continuare a dar carbone alle fabbriche di calce, cementi e laterizi, salvo che sia dimostrato che servono per le trincee o per costruzioni urgenti di stabilimenti militari od ausiliari? Pare che sia intervenuto o debba intervenire un decreto per sospendere lo scandalo della continuata fabbricazione del palazzone di piazza Colonna a Roma: ma vi sono ancora a Roma ed altrove ministeri, municipi ed enti che fanno costruire; vi sono in Piemonte costruzioni di linee ferroviarie più o meno utili che seguitano ad assorbire ferro, ed indirettamente attraverso alla calce ed ai cementi e mattoni, carbone. Di che cosa si occupano i ministri del ramo, se non fanno sospendere questi incredibili sprechi di materiali e di lavoro? Di mattoni non v’è alcuna necessità di fabbricarne, salvo casi eccezionalissimi, dei nuovi, poiché le esistenze sono sufficienti a provvedere il consumo per ben oltre l’anno in corso.

 

 

Si comprende che non si possono chiudere i gazometri delle grandi città, dove la popolazione non saprebbe a che altro mezzo ricorrere per illuminarsi e far cucina. Ma i gazometri delle piccole città potrebbero essere chiusi. Servono assai mediocremente alla fabbricazione del toluolo e del gazolo; fanno perdere denari ai municipi ed alle società che li esercitano. Ed i consumatori possono ricorrere alla legna, che nei piccoli centri non è difficile procurarsi.

 

 

II

Se intorno alla necessità di limitare il consumo del carbone non vi possono essere dubbi, si possono fare obiezioni al concetto di negare addirittura il carbone ad alcune industrie. Due sono le obiezioni principali: il danno alle esportazioni ed il pericolo di creare disoccupati.

 

 

Risparmiare carbone è necessario, si dice; ma se voi chiudete le fabbriche, le quali esportavano all’estero, voi risparmiate bensì rimesse all’estero, in pagamento del carbone risparmiato, ma non riscuotete più le rimesse per le vendite di carta, di ceramiche, di seterie e di altre merci che non potrete più fare all’estero. Il risparmio nel carbone è di 10; ma la perdita per le minori vendite all’estero è maggiore, poiché presumibilmente i fabbricanti italiani non comprano ora il carbone per lavorare in perdita. Le industrie esportatrici guadagnavano per sé ed il paese fior di quattrini; ed a questi guadagni si deve rinunciare, con una perdita netta per il paese, quando si rifiutino le somministrazioni di carbone.

 

 

L’obiezione è seria; ma non esauriente, il problema è più complesso di quello che risulterebbe dal semplice confronto fra una spesa di 10 per l’acquisto del carbone ed il guadagno di 20 per la vendita all’estero dello stesso carbone trasformato in carta, vetrerie, ceramiche, ecc. ecc. Il calcolo, corretto per quella particolare industria, può non esserlo più se si bada al complesso delle industrie ed alla intiera collettività. Antagonismi di questa specie non sono ignoti neppure in tempo di pace; quantunque vi sia una grandissima probabilità, la quale di solito arriva alla certezza, che il meccanismo dei prezzi abbia ad aggiustare le correnti commerciali in guisa da ottenere il massimo utile collettivo. Ma in tempo di guerra le cose vanno diversamente. Vi è un dato fisso, che non si può mutare: le tonnellate di carbone importabili sono tante e non più. Ora può essere vero che l’industria della carta e della ceramica guadagna pagando il carbone caro perché lo rivende a prezzo doppio. Ma frattanto quel carbone, essendo sottratto da una quantità fissa non aumentabile, è portato via ad un’altra industria. E se questa non produce più abbastanza e se i suoi prodotti sono necessari alla condotta della guerra ed alla vita civile, quei prodotti dovranno essere importati dall’estero ad un costo di 25 o di 30. L’industria della carta ha lucrato, per l’esportazione, ed ha fatto lucrare al paese la differenza fra 20 e 10; ma il paese ha dovuto perdere la differenza fra 30, prezzo a cui ha dovuto comperare munizioni o tessuti all’estero e 15 o 18, prezzo a cui quelle munizioni o quei tessuti, se ci fosse stato il carbone, avrebbero potuto essere prodotti all’interno.

 

 

Insomma, lo stato deve vietare la produzione della carta, oltre un minimo, delle ceramiche o dei mattoni per il consumo interno. Tutto il risparmio fatto all’interno è tanto di guadagnato. Rifiutando il carbone, si impediscono le esportazioni all’estero da parte di industrie consumatrici di carbone; ma ciò è vantaggioso se il carbone sia necessario per industrie di guerra, per le ferrovie o per industrie produttrici di merci che dovremmo altrimenti acquistare all’estero con discapito ancora maggiore. Non basta constatare il lucro assoluto derivante dall’esportazione: fa d’uopo che vi sia altresì un lucro relativo. In tempo di pace, il calcolo del lucro relativo è fatto spontaneamente dagli interessati, in modo assai migliore di quanto potrebbe fare lo stato. Oggi, questo è il solo importatore di carbone; è il solo consumatore di gran parte dei prodotti dell’industria privata. Epperciò ad esso incombe l’obbligo di fare il conto del lucro relativo; e constatato che il maggior vantaggio si ottiene impiegando il carbone in certi dati modi, deve sopprimerne spietatamente la somministrazione per quegli usi in cui il vantaggio è minore.

 

 

La seconda obiezione è quella relativa alla disoccupazione. A Torino, a Milano, dovunque si parla della necessità di ridurre o sopprimere certi consumi e della conseguente necessità di ridurre o sopprimere talune produzioni per far posto ad altre più urgenti, si ode ribattere: ma voi volete creare disoccupati, voi volete togliere il pane di bocca a 5.000, a 1.000, a 500 operai, a centinaia di piccoli commercianti e bottegai. Ciò è inumano, impolitico e dannoso.

 

 

Inumane e dannose sono per fermo le sofferenze inflitte capricciosamente, le disoccupazioni evitabili. Ma qui il problema è diverso. È meglio che 1.000 operai appartenenti a due industrie diverse, l’una necessaria e l’altra temporaneamente superflua, siano tutti messi sul lastrico fra uno o due mesi quando il carbone venisse per amendue a mancare; ovvero che si riduca subito il lavoro e poi lo si faccia cessare nella seconda industria, risparmiando così il carbone bastevole a far andare innanzi la prima indefinitamente?

 

 

La scelta non può essere dubbia. Chiudendo gli occhi ed ascoltando le proteste dei sindaci e dei rappresentanti delle industrie minacciate, si prepara una più grave disoccupazione per l’indomani. Sopprimendo invece subito le somministrazioni alle industrie le quali vengono ultime nella scala della necessità, si ottengono i seguenti risultati:

 

 

  • si assicura il carbone alle industrie più necessarie e si garantisce agli operai relativi una più lunga occupazione;
  • si inducono gli operai delle industrie ridotte o soppresse a cercar lavoro altrove. Se si pensa alla «fame» di mano d’opera che ha la terra, la quale non ha, se non eccezionalmente, bisogno di carbone per produrre; se si pensa al grande interesse nazionale di intensificare la produzione delle derrate alimentari, si deve conchiudere che ogni paio di braccia tolte a certe industrie sarebbe la provvidenza per l `agricoltura. Sarebbe mano d’opera non specializzata, è vero; ma vi sono lavori agricoli, che è facile imparare. Trattasi dunque non di creare sul serio disoccupati; ma di spostare uomini da un impiego all’altro. Fa d’uopo di un po’ di tatto; e di una certa organizzazione per facilitare il passaggio. Se anche si dovessero dare sussidi di viaggio e consigli ed aiuti di varia specie ai disoccupati, il guadagno della collettività sarebbe sempre sicuro. In Germania ed in Inghilterra tutto ciò lo si è chiamato «servizio civile»; e si è ritenuto necessario favorirlo e persino imporlo. Perché solo in Italia vi dovrebbero essere pubbliche autorità pronte ad elevarsi, per malsano spirito di popolarità, contro provvedimenti così necessari e fecondi?
  • creare una disoccupazione, che non è tale in sostanza, oggi può essere una valvola di sicurezza al ritorno della pace. Se non si saranno costrutti palazzi di piazza Colonna, palazzi di ministeri e di enti pubblici, se qualche ponte ferroviario in Piemonte sarà rimasto in asso, se ci saranno linee ferroviarie iniziate e poi sospese da ultimare, tanto meglio. Il ritorno alla pace sarà un momento di crisi e di nuovi adattamenti, in cui non si troverà subito lavoro per tutti coloro che avranno braccia disponibili. Quello, non l’attuale, sarà il momento dei lavori pubblici; quello sarà il momento di fabbricar mattoni, o vetrerie, o ceramiche; di tornare a far uscire i giornali di sei ed otto e dodici pagine; di consumare nuovamente zucchero raffinato; di vestire di nuovo panni fini, ed abiti eleganti. Non oggi.

 

 

Gli uomini di governo sentono certamente la solenne responsabilità del momento. Passiamo pure la spugna sugli errori passati; e mandiamoli agli archivi, in cui gli economisti dell’avvenire cercheranno la dimostrazione delle antiche verità sulla scarsa attitudine dello stato ad occuparsi di affari industriali. Ma oggi non si debbono più commettere errori di ritardo. Oggi non si deve più agire come se la guerra dovesse finire presto. Pensare ed agire così, sarebbe oggi imperdonabile. Le lezioni del passato non debbono essere state vane.

 

 


[1] Con il titolo Il razionamento progressivo del carbone. [ndr]

[2] Con il titolo Esportazioni e disoccupazione in rapporto alle provviste di carbone. [ndr]

Riforme od omnibus o sciabolate in materia tributaria?

Riforme od omnibus o sciabolate in materia tributaria?

«Corriere della Sera», 14 marzo[1], 16 maggio[2], 31 luglio[3], 5 settembre[4], 9 ottobre[5] 1917, 26 febbraio[6], 31 marzo[7] 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 510-539

 

 

I

Il discorso pronunciato alla camera dal ministro Meda in risposta alle interpellanze degli on. Soleri e Gasparotto mi consente di intrattenermi brevemente sulla riforma tributaria elaborata dal ministro con la cooperazione di una commissione presieduta dal ministro stesso e dal sottosegretario di stato, on. Danieli. Il fatto di essere membro di quella commissione non mi vieta di esprimere un giudizio intorno allo spirito ed al contenuto politico e sociale della riforma voluta dall’on. Meda. I commissari hanno il compito di elaborazione tecnica delle modalità di applicazione del concetto fondamentale. Questo invece parte dal ministro; e suo è quindi il merito di averlo concepito e di volerlo, con tenace proposito, tradurre in atto.

 

 

Tenendomi entro i limiti del discorso tenuto dall’on. Meda e delle comunicazioni da lui fatte alla camera, appare evidente che il concetto fondamentale della riforma tributaria ideata dal ministro è questo: le spese della guerra devono andare a carico di quelli i quali hanno un reddito superiore ad un certo minimo e devono gravare con peso crescente sul reddito a mano a mano che questo aumenta.

 

 

Concetto politico semplice e fecondo, che già il gabinetto passato e poi di nuovo quello presente hanno cercato di attuare nei provvedimenti finanziari di guerra. Ad una attuazione veramente equa e perequata si opponeva tuttavia la struttura medesima del sistema tributario vigente, quale è venuto foggiandosi in un cinquantennio di vita dello stato italiano. Poiché le imposte vigenti sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile sono frammentarie, sperequate, non coordinate, tutti i decimi e centesimi aggiunti al principale delle imposte stesse non potevano non essere, nonostante ogni cautela, sperequati e risentiti in misura variabilissima dai contribuenti. La sperequazione della base pone un limite infrangibile alla produttività delle imposte. Se tutti pagassero, per fare un esempio semplice, il 10% d’imposta, sarebbe possibile raddoppiare l’aliquota e portarla al 20%. Ma quando gli uni pagano – per tenersi solo all’imposta erariale – il 20% e gli altri il 10% e taluni nulla, il raddoppiamento dell’imposta sarebbe iniquo, poiché aggraverebbe la sperequazione esistente, facendo pagare – e, badisi, a parità di reddito -, il 40% ai primi, il 20% ai secondi e seguitando a non far pagar nulla ai terzi. La posizione dei primi diventerebbe intollerabile; e gli ultimi seguiterebbero a farsi beffe del fisco, pur negli attuali momenti in cui tutti devono concorrere alle spese pubbliche. Sicché lo stato ha le mani legate e non può trarre dalle imposte dirette sui redditi tutti quei frutti di cui esse sarebbero suscettibili.

 

 

Dico subito che è impossibile giungere all’ideale di conoscere esattamente il reddito di tutti i contribuenti. Nessuno stato passato, presente e futuro vi riuscì, vi riesce e probabilmente vi riuscirà mai. Va data però lode amplissima al ministro attuale di aver tentato, mercé il coordinamento delle tre attuali imposte sui terreni, sui fabbricati e di ricchezza mobile in una sola imposta-base od imposta normale e mercé molteplici avvedimenti tecnici, che qui sarebbe troppo lungo esaminare, di avvicinarsi all’ideale, nei limiti del possibile. L’Inghilterra poté ottenere miliardi di lire di nuovo gettito tributario col solo raddoppiare prima l’aliquota dell’income tax (corrispondente a quella che sarà domani l’imposta normale sui redditi dell’on. Meda), e coll’aumentare poi dell’88% l’imposta raddoppiata, perché questa benedetta imposta normale sui redditi esisteva in una forma tale da permettere tassazioni tollerabilmente – nulla di perfetto vi è a questo mondo, neppure in Inghilterra – eque e perequate. L’Italia di domani si contenterà di ricavare le centinaia di milioni in più; ma per ciò occorre che esista una base coordinata e perequata di tassazione.

 

 

Su questa base e tenendo conto di tutto il lavorio legislativo e giurisprudenziale svoltosi in Italia in cinquant’anni di vita unitaria, sarà possibile assidere l’imposta complementare e progressiva sul reddito complessivo del contribuente. I disegni di imposta progressiva venuti in passato dinanzi al parlamento avevano un peccato d’origine: erano come un bolide che si introduceva nell’organismo finanziario vigente, lasciando questo tale e quale; e dimenticando che lo stato già esigeva le sue brave imposte sui redditi. Le vecchie imposte sui redditi seguitavano ad andare innanzi per conto loro, sgangheratamente e con gran cigolio di ruote e fracasso di ordegni non incastrati gli uni negli altri; ed accanto a loro avrebbe dovuto funzionare, per conto proprio e con accertamenti particolari, una imposta progressiva, la quale ben presto sarebbe divenuta più sgangherata di quelle già esistenti. Innestata invece sull’imposta-base o normale, la nuova complementare potrà giovarsi degli accertamenti dei redditi della prima, integrarli dove essi sono necessariamente parziali, e giovarsi della medesima procedura e delle stesse magistrature giudicanti.

 

 

La istituzione, che l’on. Meda ha annunciato, di una imposta patrimoniale accanto alla complementare progressiva sul reddito si imponeva altresì per ragioni di perequazione tributaria.

 

 

È gloria del nostro sistema tributario di avere accolto fino dal 1865 il principio della differenziazione dei redditi, per cui i redditi di capitale sono tassati di più dei redditi di lavoro ed i redditi misti, ossia industriali e commerciali, sono tassati in misura intermedia. Tale principio continuerà ad essere applicato nell’imposta – base o normale, con le opportune semplificazioni.

 

 

Nella imposta complementare progressiva è evidente che lo stesso principio doveva essere accolto. Non solo i redditi devono essere tassati con aliquota crescente col crescere del reddito: ma, a parità di somma, il reddito di capitale deve essere tassato di più del reddito di lavoro. Altro è il reddito di 3000 o 10000 del capitalista, il quale rimane fisso anche se il capitalista ammala o invecchia o muore; ed altro il reddito del lavoratore, manuale od intellettuale, il quale vien meno se il lavoratore è colpito da malattia, vecchiaia, infortunio o morte. Il primo reddito può essere tassato maggiormente del secondo.

 

 

Nell’imposta normale, dove si tassano i redditi separati, l’intento si consegue, come dissi sopra, facendo variare l’aliquota. Ciò sarebbe difficile nell’imposta complementare, la quale colpisce in globo la somma dei redditi del contribuente. Di qui la opportunità, anzi la necessità strettamente perequativa di istituire, accanto alla complementare sul reddito, la quale e progressiva in ragione del crescere del reddito, ma e uniforme su tutte le parti del reddito, una imposta patrimoniale, la quale ha lo scopo di tassare ulteriormente quella parte del reddito la quale proviene da capitali.

 

 

Così l’edificio tributario sarà compiuto; e così sarà possibile far incidere il peso delle spese di guerra su quelli che veramente hanno e posseggono. Ferma, s’intende, come bene osservò l’on. Meda, l’osservanza delle solenni promesse di esenzione da ogni imposta presente e futura fatte ai portatori di titoli del debito pubblico e esclusa quindi in modo assoluto ogni inquisizione sui titoli stessi posseduti dai contribuenti.

 

 

Non mi tratterrò sulla possibilità che il sistema offre di accogliere talune richieste imperiose della pubblica opinione, in parte già codificato dal legislatore in provvedimenti straordinari, i quali rientrerebbero così nel quadro generale tributario, come l’imposta sugli esenti dal servizio militare e l’imposta sui celibi. Ma sembrami degno sovratutto di rilievo l’annuncio fatto dall’on. Meda che il minimo esente verrà elevato fino a lire 1200. Oggi l’imposta di ricchezza mobile esenta i redditi dei piccoli industriali e commercianti solo fino a 534 lire, i redditi dei professionisti ed impiegati privati fino a 640 lire ed i redditi degli impiegati delle provincie e dei comuni e degli agenti delle ferrovie di stato solo fino ad 800 lire all’anno. Sono minimi grottescamente bassi; che sono di imbarazzo alla finanza, fomite di evasioni infinite e di tassazioni talvolta crudeli. La guerra deve avere per risultato che un simile sconcio scompaia. Tutti coloro che hanno redditi di industria, di commerci, di impieghi, di salari, redditi nella produzione dei quali entri in parte maggiore o minore il lavoro, non superiori a 1200 lire devono essere esenti da tributo. L’Italia deve aver l’orgoglio di dire: la guerra liberatrice ha annunciato agli umili, già abbastanza tassati dalle imposte sui consumi, la liberazione dell’imposta diretta. In Prussia i redditi sono esenti fino a 900 marchi, ossia a 1100 lire. Noi porteremo il minimo esente a 1200 lire. Ma al disopra tutti dovranno pagare.

È ferma convinzione di coloro i quali conoscono a fondo il nostro meccanismo tributario nelle sue modalità pratiche che la liberazione annunciata dall’on. Meda potrà compiersi – ove sia accompagnata da severità di accertamento per tutti gli altri – , senza danno, anzi con vantaggio grande della pubblica finanza.

 

 

II

I provvedimenti finanziari che sono stati annunciati per il caffè, lo zucchero, i saponi, gli spettacoli ed i trattenimenti non cinematografici hanno un comune carattere di guerra, che fa passar sopra a taluni difetti che in tempo di pace avrebbero reso non consigliabile l’inasprimento, ad esempio, dell’imposta sullo zucchero e la istituzione della tassa sul sapone. Lo zucchero è un alimento se non di prima necessità, diffusissimo e dai fisiologi ritenuto utile all’organismo specie dei vecchi e dei bambini. Il sapone è prodotto così indispensabile alla pulizia umana, che la sua larga diffusione è ritenuta indice di civiltà. Per la abolizione del dazio sul sapone si combatterono memorande battaglie nella prima metà del secolo passato in Inghilterra; e su di esso caddero e vinsero parecchi cancellieri dello scacchiere. Fa d’uopo perciò augurare che negli anni venturi di pace l’imposta sullo zucchero possa nuovamente essere scemata e quella sul sapone, od almeno sul sapone comune, abolita. Mentre l’imposta sugli spettacoli di qualunque specie meriterà, insieme con quella sui gioielli, di essere conservata a titolo di imposta suntuaria permanente.

 

 

Troppo furono in passato obliate le imposte suntuarie, alle quali credo sia riservato in avvenire un compito non spregevole nella pubblica finanza degli stati moderni. Farebbe d’uopo escludere soltanto dalla tassa sugli spettacoli, i luoghi destinati ad esercizi fisici e sportivi, come quelli che cooperano alla educazione fisica e talvolta anche morale delle nuove generazioni. Nessuna industria meriterà di più in avvenire di essere favorita e promossa al pari di quella della istruzione ed educazione dell’uomo. Promossa questa, possono essere soggette ad imposta spettacoli e consumi di lusso.

 

 

Siamo tuttavia in tempi di guerra grossa; e questa fa sorgere circostanze nuove, le quali spiegano inasprimenti di tributi, che in tempo di pace non sarebbero consigliabili. Crescono tutti i prezzi delle merci; e crescono perciò proporzionatamente le spese dello stato. Lo stato, esigendo i dazi doganali in oro, aumenta bensì le sue entrate; ma il ricupero è parziale. L’aumento dei prezzi è stato maggiore dell’aumento dell’aggio; ed inoltre le imposte interne sulla fabbricazione e sui consumi si esigono in carta. Se si vuole che lo stato abbia i mezzi, con cui fronteggiare le spese cresciute per il rialzo dei prezzi, è necessario aumentare le tariffe delle imposte vecchie od istituirne delle nuove.

 

 

Bene si fece a seguire la via antica e sperimentata delle imposte di fabbricazione o di consumo, evitando i nuovi monopoli. chi voglia vedere il nocciolo del problema, è condotto a chiedersi: frutta di più all’erario esigere un’imposta sui prodotti fabbricati dai privati industriali, ovvero proibire ai privati di produrre e vendere in monopolio ad un prezzo il quale lasci un forte margine di profitto? Il problema non è sociale o politico, ma tecnico-economico. Guardato attraverso la realtà e non secondo le aspirazioni di taluni partiti, si deve concludere nove volte su dieci che all’erario giova di più non impacciarsi di fabbricare e vendere, e limitarsi a tassare i prodotti ottenuti dai privati. Lessi, alcuni mesi or sono, uno schema di statizzazione della produzione e del commercio del vino per procurare entrate di miliardi all’erario. Fantasie di dilettanti; abbozzi vaghi destinati a frantumarsi dinanzi alle difficoltà di organizzare una così colossale macchina produttrice. Un’imposta di 10 lire all’ettolitro sul vino messo nelle botti frutterebbe 400 milioni; non senza difficoltà iniziali; non però insuperabili alla tecnica moderna tributaria.

 

 

Collo zucchero, oramai siamo, con l’aumento odierno, a più di 210 lire per quintale di imposta sulla produzione interna. Duro aumento; ma necessario per impedire che lo stato perda sullo zucchero somme consimili a quelle che perde sul frumento. Anche per lo zucchero, l’importazione dall’estero è costosissima, mancando, per ragioni che qui è inutile rivangare, 200.000 quintali a compiere il consumo interno. Occorreva che il sovraprezzo pagato sullo zucchero estero fosse repartito, a mezzo dell’imposta, sullo zucchero nazionale per evitare all’erario perdite eccessive. È spiegabile che lo stato perda centinaia di milioni per provvedere di pane la popolazione; ma, quando tante spese urgono, non pare che sia legittima una simile perdita per lo zucchero.

 

 

Il frequente succedersi, ad ogni pochi mesi, di nuovi balzelli sugli affari, sui consumi ed anche sui tributi diretti pone il problema: se la guerra dura, sarà utile e possibile allo stato continuare a venir fuori con periodici annunci di nuovi omnibus tributari? Il proposito del ministro del tesoro di volere istituire, appena si contrae un debito, anzi in anticipazione di esso, le imposte bastevoli a pagarne gli interessi è assai lodevole. Ma ogni sforzo ha un limite. Oramai, con le tasse e le tassette, si è percorsa l’intiera gamma tributaria; e poco campo è lasciato alla immaginazione tributaria del ministro delle finanze e degli inventivi funzionari suoi consiglieri.

 

 

Sforzi nuovi su questa via non sembra possibile né conveniente compierne ancora. Bisogna venire al sodo; e cioè ai grandi mezzi, semplici e chiari, che possono rendere molto. Di ciò ritengo sia persuaso lo stesso on. Meda, da quanto almeno si può arguire da pubblici suoi discorsi.

 

 

I grandi mezzi oramai non si possono trovare – se si faccia astrazione dall’imposta sul vino, combinata con la riforma dei dazi di consumo – altrove che nella riforma dei tributi diretti sul reddito.

 

 

Per questi, non occorrono rimaneggiamenti ed inasprimenti periodici, quando il congegno funzioni equamente e severamente fin dal principio. Le imposte sui consumi e sugli affari sono in perpetuo ribollimento, perché se cambiano i prezzi delle merci, bisogna cambiare le tariffe delle imposte. Ma le imposte sul reddito sono percentuali del reddito. Se i prezzi salgono, crescono i redditi in media; e crescono le imposte che sono una parte del reddito.

 

 

Perché le imposte sul reddito possano funzionare bene, importa tuttavia che esse siano perequate ed equamente ripartite. Il che non si può dire oggi delle imposte italiane. L’on. Meda attende da tempo con amore allo studio del problema. Ma siamo oramai giunti ad una svolta della finanza italiana, in cui l’indugiare non giova. È giunto il momento in cui urge lanciare, sostenere e far trionfare la riforma, che deve dare elasticità e vigoria al bilancio in modo permanente e sicuro.

 

 

III

Quale è stato regolato dai decreti luogotenenziali 31 agosto 1916, 14 dicembre 1916 e 26 aprile 1917, il contributo per l’assistenza civile ha per iscopo di «costituire un fondo da erogarsi in opere di assistenza civile durante la guerra o nel tempo ad essa immediatamente successivo».

 

 

Esso può essere deliberato dai comuni, ma la giunta provinciale amministrativa lo può rendere obbligatorio quando ne sia accertata la necessità per l’assistenza civile nel comune ed il consiglio comunale, invitato a provvedere, non abbia aderito. Nei comuni ove esistono e funzionano regolarmente comitati od associazioni per l’assistenza civile il provento del contributo è ad essi esclusivamente devoluto; negli altri comuni esso è versato nella cassa comunale per scopi di assistenza civile.

 

 

Sembra fermo il principio che il contributo possa applicarsi una volta tanto; ma successivi decreti hanno prorogato il termine per la sua applicazione al 30 giugno 1917.

 

 

Sono esenti dal contributo:

 

 

  • i contribuenti che risultino ammessi al sussidio governativo in dipendenza del richiamo sotto le armi di un membro della propria famiglia;
  • le istituzioni pubbliche di beneficenza;
  • gli enti morali aventi per fine l’assistenza agli invalidi ed agli orfani di guerra.

 

 

Hanno diritto di ottenere la compensazione o diminuzione del contributo i contribuenti, i quali provino in qualunque modo di avere versato qualche somma a favore di uno dei comitati o delle associazioni per l’assistenza civile esistenti od esistiti, ovvero alla cassa comunale per iscopi di assistenza civile. Quindi le somme versate ad altri comitati diversi da quelli per l’assistenza civile non sono ammesse in compensazione; e questa si fa sino a concorrenza, in guisa che il contribuente debitore di un contributo di lire 100, non deve nulla se ha versato volontariamente 100 lire o più, e deve 30, 50, 80 ecc. lire se ha versato rispettivamente 70, 50, 20 o più lire. L’inclusione di ditte collettive nel ruolo del contributo non esonera le singole persone che le compongono dall’imposizione del contributo stesso, in relazione ai redditi personali, che essi possedessero indipendentemente da quelli della ditta.

 

 

Come si determina l’ammontare del contributo? Questo, che è il punto più delicato del problema, è stato risoluto dal legislatore nel seguente modo.

 

 

Non si bada al reddito od al patrimonio del contribuente, ma al tributo complessivo dovuto al comune, per il quale il contribuente è iscritto nei ruoli messi in riscossione nell’anno in cui il contributo è deliberato. Si potranno pero formare ruoli suppletivi sia per tener conto degli aumenti verificatisi nel tributo complessivo in seguito ad ulteriori accertamenti od a definizione di reclami, sia per tener conto della sovrimposta ideale di ricchezza mobile, di cui dirò subito.

 

 

Il «tributo complessivo» è una somma di parecchi tributi particolari, e cioè :

 

 

  • le imposte cosidette comunali, come la tassa di famiglia, o focatico, la tassa sul valor locativo, la tassa di esercizio e rivendita, le tasse domestici, cavalli e vetture, cani, la tassa bestiame;
  • le sovrimposte comunali sui terreni e sui fabbricati;
  • la tassa automobili per la parte spettante ai comuni;
  • una sovrimposta “ideale” sui redditi di ricchezza mobile per cui ciascun contribuente trovasi iscritto nei ruoli per l’imposta di ricchezza mobile messi in riscossione nel comune. Questa sovrimposta la dico «ideale» perché non esiste, non essendo, come è ben noto, dalla legislazione vigente concesso ai comuni il diritto di sovrimposta sui redditi di ricchezza mobile. Allo scopo di chiamare a contribuire all’assistenza civile anche la ricchezza mobiliare, insufficientemente tassata colla tassa di esercizio e rivendita, il legislatore ha creduto opportuno di fingere l’esistenza di una sovrimposta in realtà inesistente. E l’ha immaginata uguale a quella che il contribuente dovrebbe pagare se sull’imposta principale di ricchezza mobile, riscossa a suo carico per ruoli nel comune, gravasse un’aliquota o peso di sovrimposta uguale a quello che grava sull’imposta dei terreni e dei fabbricati.

 

 

Può chiedersi: nell’imposta di ricchezza mobile su cui va a cadere la sovrimposta ideale è compresa anche l’imposta sui profitti dipendenti dalla guerra? A parer mio ed in base alla legge vigente, ritengo di no, perché la sovrimposta «ideale» da tenersi in conto è detto esplicitamente essere quella che graverebbe la «imposta di ricchezza mobile» e non può quindi essere quell’altra che graverebbe un diverso tributo detto «imposta sui profitti derivanti dalla guerra». Il che non vuol dire che i profitti di guerra sfuggano alla possibilità del contributo per l’assistenza civile; perché essi sono colpiti, oltreché dall’imposta sui sovraprofitti, anche dall’imposta generale di ricchezza mobile accertata in via straordinaria. Se questa imposta cade in riscossione nell’anno in cui il contributo per l’assistenza civile è deliberato, ecco che su di essa può calcolarsi la sovrimposta «ideale», la quale entra a far parte del tributo complessivo del contribuente. E poiché la sovrimposta non può essere calcolata due volte, ma una volta sola sullo stesso reddito, si deve concludere che il metodo seguito in questo caso è equo.

 

 

Fatta la somma di tutte le imposte e sovrimposte sovra ricordate, ed ottenuto il tributo complessivo su di questo si applica il contributo per l’assistenza civile, secondo la seguente scala progressiva:

 

 

Ammontare del tributo complessivo pagato dal contribuente nel comune

Aliquota percentuale del contributo per l’assistenza civile

Da L. 15 a L. 25,99

non oltre il 5%

Da L. 26 a L. 50,99

7%

Da L. 51 a L. 200,99

10%

Da L. 201 a L. 500,99

15%

Da L. 501 a L. 1000,99

20%

Da L. 1001 a L. 2000,99

25%

Da L. 2000 in più

30%

 

 

Le aliquote indicate sono dei massimi; tuttavia l’aliquota fissata per ogni categoria non potrà mai essere inferiore a quella stabilita come massima per la categoria precedente. Così il contribuente posto nella categoria seconda, di coloro che pagano un tributo complessivo da lire 26 a lire 50,99, non può pagare su tal massa di tributo un contributo per l’assistenza civile maggiore del 7%, ma nemmeno minore del 5%. Entro questi limiti estremi spetta al comune fissare l’aliquota da applicarsi.

 

 

Nessuna obiezione può muoversi contro lo scopo che il legislatore si è proposto di raggiungere istituendo il contributo per l’assistenza civile. A spronare viemmeglio l’opera spontanea dei cittadini sarebbe stato desiderabile che fossero ammesse in compensazione anche le somme versate ai comitati, s’intende legalmente riconosciuti, per i soldati mutilati, ciechi, per gli orfani dei militari morti in guerra e simili. L’assistenza civile dovrebbe essere interpretata in un senso largo ed umano e non nel senso ristretto dei sussidi alle famiglie dei militari, come in talune città accade. Se a ciò ostava la lettera del primo decreto, poteva provvedersi nei successivi decreti.

 

 

Anche sarebbe stato equo esentare, insieme alle istituzioni pubbliche di beneficenza, altri enti morali, ai quali è duro ed ingiusto chiedere un contributo per l’assistenza civile. Voglio accennare in special modo ai corpi scientifici e stabilimenti di istruzione autonomi, i quali vivono del reddito di patrimoni mobiliari ed immobiliari. La guerra, per il venir meno delle tasse di iscrizione di moltissimi studenti, li ha messi in una situazione finanziaria difficile, per cui essi avrebbero d’uopo dell’assistenza pubblica, sicché il chiedere ad essi un contributo sembra una ironia.

 

 

Questi sono piccoli nei facilmente emendabili in un nuovo decreto. La vera critica che si deve muovere al contributo è tecnico – tributaria e si riferisce alla base imponibile. Da questo punto di vista, il contributo è un vero orrore ed a studiarlo vien fatto di mettersi le mani nei capelli. Sarebbe necessario di occupare troppo spazio per mettere in luce tutte le disuguaglianze e le deformità che deturpano il congegno escogitato, non si sa come, per l’esazione del contributo.

 

 

Il peccato originale suo è di essere un tributo gravante non sul reddito del contribuente, ma sulle imposte da lui pagate al comune. Da questo peccato originale sono derivati svariati errori, l’uno più grottesco dell’altro. Io non dico che fosse facile assumere a criterio di tassazione il reddito dei contribuenti. Fino a che in Italia non esista una imposta complementare sul reddito complessivo dei contribuenti, non sarà possibile chiedere ai cittadini tributi straordinari ripartiti con tollerabile equità. Ma non era impossibile adottare un concetto simile a quello che fu accolto per l’imposta sugli esenti dal servizio militare fare la somma dei redditi di varia specie, posseduti dal contribuente, e già tassati dalle tre imposte dirette, integrare eventualmente la somma fino alla cifra superiore, già accertata ai fini dell’imposta di famiglia, e su tal somma di reddito applicare il contributo. Sarebbe stata una base tutt’altro che perfetta; ma sufficientemente chiara, comprensibile a tutti e rispondente approssimativamente al criterio comune di equità.

 

 

Si volle invece applicare il contributo sulla massa di imposte pagate dal contribuente al comune. Che cosa ne è venuto fuori? Ecco alcuni soltanto degli inestricabili nodi della matassa:

 

 

  • Le imposte sommate sono quantità eterogenee. Che cosa ha a che fare una cifra d’imposta pagata per i terreni con la tassa domestici od automobili o cani? Sempre ho sentito dire che la somma di cavalli ed asini, tavoli e calamai, querce e fili d’erba è una operazione aritmetica senza senso.
  • Le imposte sommate sono doppioni e triploni della stessa cosa. Lo stesso reddito prima è colpito dall’imposta fabbricati, poi dall’imposta di famiglia, nei comuni dove c’è, poi dalla tassa domestici, se chi ha il reddito tiene domestici e contemporaneamente dall’imposta sulle vetture automobili. Per effetto del puro caso, uno stesso reddito viene conteggiato in taluni comuni una volta sola, in altri due ed in altri tre, in proporzioni variabilissime.
  • Tenendosi conto non del reddito del contribuente, ma della sovrimposta pagata, accade che i cittadini abitanti nei comuni dove i centesimi addizionali sono molti pagheranno molto e quelli viventi nei comuni, in cui i centesimi sono pochi, pagheranno poco, e ciò a parità di reddito.
  • Siccome la stessa sovrimposta ha in realtà uno scarso peso, laddove ci sono estimi antichi dei terreni e lo ha altissimo, per i fabbricati o la ricchezza mobile valutati recentemente nello stesso comune, accadrà che i proprietari di fabbricati ed i contribuenti di ricchezza mobile paghino in realtà il doppio, il triplo e non di rado il decuplo dei proprietari di terreni; e ciò sempre a parità di reddito. Se si assumeva a base imponibile il reddito, l’inconveniente poteva essere notevolmente ridotto.
  • Poiché la sovrimposta «ideale» sulla ricchezza mobile si applica sull’imposta pagata da ciascun contribuente iscritto nei ruoli, non pagheranno nulla coloro che hanno redditi, ma non sono iscritti nei ruoli e cioè tutti gli impiegati e tutti i creditori dello stato, su cui l’imposta viene esatta colla ritenuta diretta.
  • Siccome si parla di contribuenti iscritti nei ruoli, rimane in aria il trattamento di quelli che pagano per interposta persona, la quale è, essa, iscritta nei ruoli. L’impiegato del comune, o di una società anonima, o di un industriale o di un ente morale che ha uno stipendio di 3000 lire, dovrebbe pagare, ad esempio, una sovrimposta «ideale» di ricchezza mobile di 100 lire, e quindi dovrebbe assolvere un contributo per l’assistenza di lire 10. Egli non pagherà nulla, perché nel ruolo non è iscritto; e c’è la possibilità che sia invece tassato il comune o l’ente o la società, con l’aliquota massima del 30%, perché il tributo complessivo dell’ente superera certamente le 2.000 lire. Avrà l’ente il diritto di rivalsa sull’impiegato? Se sì, perché fargli pagare 30 lire, invece delle 10 che gli sarebbero toccate secondo giustizia?Se no, con qual ragione si tassa l’ente su quello che per esso non è reddito, ma spesa?
  • Il contributo è dovuto sul complesso dei tributi pagati nel comune. Se ciò è ragionevole per i terreni e per i fabbricati, è il colmo dell’assurdo per la ricchezza mobile. Perché il comune di Milano o di Torino o di Roma deve prelevare contributo sui redditi di società, di enti, di casse di risparmio che hanno sede bensì nelle grandi città, ma i cui redditi sono stati prodotti nei comuni dove hanno sede gli stabilimenti o dove dimorano i depositanti, creditori ed impiegati? Perché questi secondi comuni non debbono ricevere nulla o poco, mentre pure le loro spese d’assistenza civile possono essere elevate?
  • Che cosa vuol dire «ruolo messo in riscossione nell’anno in cui il contributo è deliberato?» Tizio aveva redditi in contestazione per tre o cinque o dieci anni, su cui l’imposta viene iscritta a ruolo nel 1917. Egli in quell’anno paga un’imposta alta, la quale si riferisce a redditi di parecchi anni, venuti in tassazione accidentalmente nel 1917. Tassarlo sull’imposta da lui pagata nel 1917 equivale a tassarlo due o tre o dieci volte più di Caio che pure ha lo stesso reddito annuo. Evidentemente il legislatore non poteva voler dire una enormità simile; ma perché non ha scritto «ruoli relativi all’anno in cui il contributo è deliberato»?

 

 

Potrei seguitare a dipanare la matassa e mettere in luce gli inverosimili spropositi di cui è intessuto il congegno del contributo per l’assistenza civile. Dopo essersi messo le mani nei capelli, il lettore è tratto involontariamente a concludere che il compilatore dei decreti abbia cercato di fare ogni sforzo per rendere un tributo, dagli scopi sacri e patriottici, odioso ai contribuenti per le sue stridenti sperequazioni, fecondo di dissidi tra comune e comune, malviso alle autorità che lo debbono applicare. Poiché non può parlarsi di volontà deliberata di mal fare e di screditare la guerra, deve riconoscersi che si tratta di un caso tipico di quella furia di legiferare in modo improvvisato ed incoerente da cui è stata assalita dopo l’agosto 1914 la amministrazione italiana.

 

 

Per fortuna, i cittadini italiani hanno in questo solo caso un mezzo efficace per riparare alle male fatte della loro burocrazia: versare con oblazioni spontanee una somma proporzionata ai propri mezzi e superiore a quella richiesta dal legislatore. Il libro d’oro degli oblatori spontanei deve rendere inutile la lista nera dei contribuenti forzati!

 

 

A sua volta il dovere del ministro dell’interno e molto semplice. Modificare la base imponibile del contributo e nel frattempo prorogare al 31 dicembre 1917 il termine per i comuni per deliberare l’applicazione del contributo. Qualunque siano i suoi difetti tecnici, i comuni debbono applicarlo perché esso è l’unico mezzo per ridurre alla ragione quei pochi ostinati, i quali non hanno sentito il dovere di contribuire all’opera.

 

 

IV

Dal conto del tesoro si possono trarre altre notizie interessanti, oltre quelle relative alle spese di guerra ed alle maniere con cui vi si fece fronte. Tra le più importanti son quelle sul gitto delle imposte, tasse ed altre entrate effettive ordinarie dello stato. Ridotte in categorie ed in milioni di lire, gittarono nell’ultimo esercizio di pace (1913-14) ed in quello testé trascorso 1916-17:

 

 

1913-14

1916-17

Aumento o diminuzione

Entrate patrimoniali

46,6

26,5

– 20,1

Imposte dirette

540,8

1046,4

+ 505,6

Imposte sugli affari

292,5

444,9

+ 152,4

Imposte sui consumi

667,4

885,7

+ 218,3

Privative fiscali

551,9

846,4

+ 294,5

Servizi pubblici

213,4

308,9

+ 95,5

Entrate principali

2312,6

558,8

+ 1246,2

Entrate diverse e rimborsi e concorsi

178,9

861,2

+ 682,3

Totale

2491,5

4420,0

+ 1928,5

 

 

L’aumento più significativo lo si ebbe nelle imposte dirette: 505,6 milioni di maggiori entrate, per quattro quinti dovuti ad imposte di carattere permanente e per soli 99,5 milioni al tributo sui sovraprofitti di guerra, destinato a scomparire per la naturale cessazione, alla pace, dei profitti di guerra. Fortissimo è anche l’incremento del gettito delle privative fiscali: 294 milioni e mezzo, di cui 252,8 milioni dovuti al maggior provento dei tabacchi. Sono dunque 1 miliardo e 246,2 milioni di maggiori entrate che l’esercizio 1916-17 fruttò in confronto dell’ultimo anno di pace: e mi fermo a questi, perché l’aumento nelle entrate diverse e nei rimborsi e concorsi non ha carattere permanente, salvoché in parte. All’ingrosso si può supporre che quel che vi ha di permanente nell’aumento delle entrate diverse possa controbilanciare quel che di temporaneo vi è nelle entrate principali (sovraprofitti di guerra, tasse sull’esportazione, ecc. ); cosicché si possa far calcolo su circa 1 miliardo e 200 milioni di maggiori proventi già verificatisi. A questi bisogna aggiungere il gettito previsto in più per l’esercizio 1917-18 in conseguenza di provvedimenti già adottati, in confronto al gettito previsto per il 1916-17. Da uno specchietto annesso all’ultima esposizione dell’on. Carcano, si rileva che, non tenendo calcolo dell’imposta sui sovraprofitti di guerra, l’aumento ulteriore previsto, per decreti e leggi già vigenti, ammonta a 143 milioni di lire. Aggiungendoli a 1 miliardo e 200 milioni già verificatisi ed arrotondando le cifre, si può concludere che le entrate effettive ordinarie, sulle quali soltanto si può fare assegnamento, fruttano oggi 1 miliardo e 400 milioni di lire di più all’anno che nell’ultimo esercizio di pace.

 

 

Giova notare che al 30 giugno 1917 lo stato aveva, per causa della guerra, acceso debiti propriamente detti per 18 miliardi e 307 milioni di lire, oltre ai 3 miliardi e 107 milioni di biglietti ed a 1 miliardo e 300 milioni di vaglia del tesoro emessi in più. Poiché 18 miliardi e 307 milioni di lire si può calcolare costino 1 miliardo di lire all’anno di interessi, rimangono ancora disponibili 400 milioni circa, su 1 miliardo e 400 milioni di maggior gettito, per provvedere al servizio degli interessi degli 8 miliardi circa di debito, interno ed estero, che dovremo contrarre, ad interessi variabili dal 3,50% al 6%, nel secondo semestre del 1917. Gli aumenti di imposte già decretati ed aventi carattere permanente bastano a far fronte agli interessi dei debiti di guerra contratti e da contrarsi fino al 31 dicembre 1917. Questa è una conclusione confortante. Finora solo l’Inghilterra e gli Stati uniti possono dire altrettanto.

 

 

Aggiungo però subito, per non far nascere speranze chimeriche da una constatazione confortante, che l’era delle imposte nuove non è chiusa. Occorrerà invero ottenere nuovi proventi, per far fronte alle seguenti cagioni di maggiori spese:

 

 

  • interessi sui debiti i quali dovranno essere contratti per la prosecuzione della guerra dopo il 31 dicembre 1917;
  • interessi sui debiti di liquidazione della guerra;
  • interessi sul debito di liquidazione dei 3 miliardi e 107 milioni di biglietti e dei 3 miliardi e 300 milioni di vaglia del tesoro, i quali dovranno essere inesorabilmente ritirati;
  • onere delle pensioni alle famiglie dei morti in guerra, ai mutilati e invalidi della guerra;
  • incremento cosidetto naturale delle spese ordinarie civili e militari in confronto all’ultimo bilancio di pace.

 

 

Anche supponendo una fine relativamente sollecita della guerra – e nessuno può dire se l’ipotesi sia verosimile o non – è chiaro che non poche centinaia di milioni di imposte nuove dovranno essere stabilite. Ed è chiaro altresì che il problema del come e del quando stabilire le nuove imposte è un problema aperto fin d’ora, poiché quasi tutte le cagioni di spese non coperte esistono già, astrazion fatta della prosecuzione della guerra oltre il 31 dicembre 1917.

 

 

Il problema, gravissimo, non va discusso e neppure affrontato sullo scorcio di un articolo. Siano però consentite alcune riflessioni preliminari. Scopo delle imposte nuove è uno solo: mantenere intatto il credito dello stato, persuadere nazionali, amici e nemici che il bilancio dello stato è in grado di far fronte in qualunque momento agli oneri che lo gravano. La lode principale che bisogna dare all’on. Carcano ed ai colleghi suoi delle finanze durante la guerra, onorevoli Daneo e Meda, è appunto questa: di avere stabilito nuove imposte a mano a mano che l’onere del bilancio cresceva a cagione dei debiti contratti. Non dubito che il paese saprà rispondere all’appello ancora per parecchie e parecchie centinaia di milioni di più, così come ha fatto per il miliardo e i 400 milioni passati. Aggiungo che il tempo di guerra è quello più propizio all’istituzione di nuove imposte, sia perché le popolazioni più agevolmente si convincono della necessità di esse, sia perché in anni di prezzi crescenti l’onere reale delle imposte è minore di prima ed il loro inasprimento è spesso solo apparente. Se fosse possibile far incidere le imposte nuove solo su coloro che godono dei prezzi e dei redditi cresciuti, è evidente che, se in conseguenza della guerra i redditi industriali, agricoli, i salari ed i guadagni sono saliti da 1.000 a 1.500, i contribuenti possono pagare 150 invece di 100 ed in realtà non subire nessun aggravio. Di fatto, la complicazione è grande, perché v’ha chi ha visto aumentare e chi ha visto diminuire i propri redditi. Ma ciò non distrugge la verità dell’affermazione generale, che il tempo di guerra è il più adatto all’introduzione di imposte nuove.

 

 

È doveroso però, a questo punto, insistere fortemente su un’avvertenza, che è facile dimenticare, che fino ad ora si poteva dimenticare con una relativa impunità, ma che adesso sarebbe imperdonabile trascurare: esservi cioè imposte le quali giovano ed imposte le quali nuocciono al credito dello stato.

 

 

Purtroppo, è più facile adottare le prime delle seconde. Quando il ministro del tesoro chiede al suo collega delle finanze un omnibus finanziario, ad esempio, di 300 milioni di lire, e lo chiede subito, che cosa può fare quel disgraziato ministro delle finanze? Inventare lui o far inventare dai suoi direttori generali balzelli d’ogni specie, che in sostanza sono poi decimi, sopradecimi, centesimi ed aggiunte diverse, sotto mentite spoglie, ai tributi esistenti. Se i tributi esistenti fossero perequati, nessun male. Ma poiché non lo sono, ogni aggiunta cresce le iniquità esistenti e nuoce al credito dello stato. Alcun tempo venne perciò fatto oggetto di critica il congegno del tributo per l’assistenza civile. È il capolavoro nel genere dei tributi iniqui e sperequati. Andare al di là nel perfezionare le sperequazioni credo fosse umanamente impossibile. Ma ci sono parecchi altri tributi i quali, in grado minore, soffrono già di tali difetti.

 

 

Non noi soli ci troviamo dinanzi a questa difficoltà. In Francia recentemente fu presentato un omnibus finanziario, non però ancora tradotto in legge, in cui abbondano errori gravissimi. Vi è un tributo sugli oggetti comprati che sarà inapplicabile e fonte di vessazioni infinite. Vi è un balzello su coloro che in passato ricevettero eredità e donazioni che colpirà non solo quelli che oggi hanno un patrimonio, ma anche quelli che non l’hanno più e sono in miseria. Una cosa atroce ed inimmaginabile.

 

 

Tutto ciò perché in Francia ed in Italia soffriamo dello stesso vizio: facciamo un fascio solo delle imposte buone e cattive e non vogliamo persuaderci che le imposte cattive nuocciono al credito dello stato, più del disavanzo. Non serve dire: per ogni miliardo di debito nuovo mettiamo 50 o 60 milioni di imposte nuove. Non serve, neppure di fronte agli stranieri amici, i quali ci debbono far credito. Finora le sperequazioni furono meno dannose, perché relativamente tollerabili. D’or innanzi, un loro aumento sarebbe intollerabile.

 

 

Bisogna persuaderci che i soli strumenti tributari a cui si può ancora ricorrere sono quelli a cui ha fatto appello con tanto successo l’Inghilterra ed a cui stanno ricorrendo con successo ancor più meraviglioso, gli Stati uniti: l’imposta sul reddito (di cui l’imposta patrimoniale è una semplice variante) e l’imposta sui consumi non necessari. E notisi che il successo non è dovuto alla ricchezza di quei paesi. È dovuto all’equità, alla corretta distribuzione.

 

 

I discorsi e gli scritti dell’on. Meda dimostrano che egli è convinto di queste verità elementari. Occorre ed urge che se ne persuadano i suoi colleghi; importa che si cessi di infliggere al paese ad ogni piè sospinto un fastidioso omnibus tributario, fonte di nuove sperequazioni. Importa che l’opinione pubblica veda la gravità del problema ed insista, a costo di un ritardo di alcuni mesi, per l’adozione di una sana politica tributaria. Sperando altrimenti, nuoceremo al paese ed al credito dello stato, all’interno ed all’esterno.

 

 

V

L’imposta sugli esenti dal servizio militare era indubbiamente difettosa. La chiamata successiva di molte classi, la revisione di tutti i riformati aveva fatto scemare enormemente il numero dei contribuenti. La grandissima maggioranza delle quote da 6 lire rimanevano inesigibili e cagionavano alla finanza spese talvolta superiori, in certi distretti d’agenzie, al ricavo dell’imposta. Le ricerche del reddito dei parenti, obbligati in solido al pagamento del tributo, risultavano faticose e spesso infruttuose. Insomma l’imposta era, ed i più tra gli agenti lo confessavano, un insuccesso; sicché veniva praticamente trascurata.

 

 

Il ministro Meda ha voluto ridurla ad una struttura più snella, riducendo sovratutto il numero dei contribuenti e trasformandola da tributo autonomo in una addizionale alle imposte esistenti. Ambo i concetti sono approvabili. Qualunque giudizio si voglia dare sulla progressività e sulle esenzioni tributarie dal punto di vista economico e politico, una cosa è certa dal punto di vista tecnico-finanziario: che le quote minime, salvoché per i terreni ed i fabbricati, sono ingombranti, fastidiose, costose ed inesigibili. Costano e non rendono alla finanza. Meglio lasciar correre. L’esperienza ha anche provato che è inutile moltiplicare i nomi ed i tipi delle imposte. Poiché la base del tributo è solo il reddito del contribuente, è inutile sbizzarrirsi a chiamare con cento nomi diversi la stessa cosa. L’on. Meda ha avuto il merito di divorare, novello Saturno, un suo parto medesimo: il diritto del 5% sugli affitti, appena si è accorto che si trattava di un ingombrante duplicato della imposta sui fabbricati; e l’ha fuso con questa.

 

 

Come è concepita la trasformazione del tributo autonomo sugli esenti dal servizio militare in un’addizionale alle imposte esistenti?

 

 

  • Sono contribuenti in primo luogo coloro i quali sono iscritti direttamente sui ruoli delle imposte dirette sui terreni, sui fabbricati, di ricchezza mobile e sui proventi degli amministratori delle società per azioni. Occorre però pagare più di 30 lire di imposta erariale sui terreni, più di 500 lire sui fabbricati, più di 400 sulla ricchezza mobile e più di 275 lire di tributo sui proventi degli amministratori. Tutti quelli che pagano meno, e sono la grandissima maggioranza, sono esenti dalla nuova addizionale. Il calcolo si fa per ogni distretto d’agenzia; il che non ha alcuna importanza per l’imposta di ricchezza mobile, essendo noto che tutti i redditi mobiliari dei contribuenti vengono tassati in un solo comune, quello del domicilio; ma ha grande importanza per i terreni ed i fabbricati, in cui la tassazione avviene nei luoghi in cui gli immobili sono situati. Sicché i contribuenti dovranno, anche per l’addizionale, essere tassati in due o tre luoghi diversi, se essi posseggono immobili in due o tre distretti diversi d’agenzie.
  • L’addizionale è uguale al quarto del tributo erariale pagato. Chi paga 100 lire di imposte sui terreni ed è esente dal servizio militare pagherà 25 lire di addizionale; chi 1000 lire di imposta sui fabbricati o di ricchezza mobile, pagherà 250 lire di addizionale. Il calcolo è semplicissimo, per il contribuente e per la finanza. Badisi che si tratta di un quarto del tributo erariale e non del totale complessivo dell’imposta pagata. Bisogna cioè escludere le sovrimposte comunali e provinciali, su cui non cade, e giustamente, l’addizionale.
  • Coloro, che non figurano sui ruoli delle imposte dirette o vi figurano per quote inferiori a 30, 500, 400 e 275 lire rispettivamente per le tre imposte, possono tuttavia essere agiati. Epperciò, in via sussidiaria, ove costoro paghino più di lire 150 di imposta di famiglia o di quella sul valore locativo in un comune di almeno 100.000 o più di lire 80 in un comune di meno di 100.000 abitanti, saranno assoggettati ad un contributo uguale al quarto dell’ammontare di una delle due imposte, evidentemente la maggiore.
  • La definizione del contribuente esente dal servizio militare ed assoggettato all’addizionale è innovata profondamente. Mentre il vecchio contributo chiamava a concorso solo chi era compreso nell’età del servizio militare, il nuovo decreto assoggetta all’addizionale tutti i cittadini d’ambo i sessi e di qualsiasi età, i quali, essendo dotati di beni di fortuna, non si trovino sotto le armi, oppure non abbiano sotto le armi i figli o il coniuge, o il padre, ovvero non abbiano già dato alla patria, durante la guerra, il contributo personale proprio, o dei figli, o del coniuge o del padre per almeno un anno.

 

 

Anche questa innovazione è da approvarsi. Non vi è un nesso diretto fra l’età del contribuente e l’imposta militare. Questa è un tributo pagato in sostituzione del sacrificio di persona e di sangue che altri contribuenti sopportano. Quindi tutti quelli che non pagano personalmente o per mezzo dei figli o del coniuge o del padre il contributo personale, è corretto paghino il contributo di denaro. L’innovazione farà sì che il tributo renderà sul serio una somma notevole e trattandosi di addizionale, con poco disturbo della finanza.

 

 

Ma l’innovazione, che estende tanto il novero dei contribuenti, mette in luce più aspra i difetti dell’addizionale. Sono i soliti difetti che da anni vado predicando essere connaturati al nostro sistema delle imposte dirette; sono, in misura minore, ma pur sensibilissima, gli stessi difetti che deturpano il contributo per l’assistenza civile. La nuova addizionale infatti:

 

 

  • esenta, salvo la insufficiente correzione che dirò subito, tutti coloro che non sono tassati direttamente a mezzo dei ruoli. Sono legione: a) gli impiegati dello stato che pagano per ritenuta, gli impiegati delle provincie, dei comuni, delle opere pie, delle società per azioni, dei privati industriali che sono tassati al nome di chi li impiega, salvo rivalsa; b) gli obbligazionisti di società per azioni, i detentori di cartelle di credito fondiario, i possessori di azioni, i correntisti di banche e di casse di risparmio, che pagano tutti le imposte dirette, ma al nome degli enti, salvo rivalsa;
  • esenta, salvo la seguente correzione, tutti coloro che godono di redditi esenti od irraggiungibili dalle imposte dirette. Sono anch’essi legione: i detentori di titoli di debito pubblico, i possessori di titoli esteri, i percettori di redditi stranieri, i creditori chirografari o cambiari che frodano l’imposta di ricchezza mobile.

 

 

La correzione c’è; ma è di gran lunga insufficiente. L’on. Meda, evitando un errore grossolano commesso dal ministero degli interni con il tributo per l’assistenza civile, ha fatto entrare in scena le imposte di famiglia e sul valor locativo solo in via sostitutiva, per colpire coloro i quali non fossero iscritti direttamente sui ruoli.

 

 

Se le imposte di famiglia e sul valor locativo fossero in Italia bene congegnate, esse sarebbero lo strumento migliore per stabilire l’imposta militare. Ma così non è. Le due imposte non esistono in primo luogo in tutti i comuni. I contribuenti ricchi di redditi non direttamente tassati e residenti, per loro fortuna, in un comune dove l’imposta di famiglia o sul valor locativo non è stabilita, non pagheranno un soldo.

 

 

In secondo luogo, le due imposte sono per lo più accertate alla carlona. Si va da Milano, dove l’assetto è relativamente buono, a comuni dove l’imposta di famiglia, invece di essere proporzionale al reddito, è una specie di testatico grossolano. Quindi anche la nuova addizionale, poggiando su basi così sperequate, sarà un tessuto di iniquità!

 

 

Dico subito che il ministro delle finanze, in questa sede, non poteva far meglio. Per istabilire una imposta corretta sarebbe stato necessario dare alle finanze i mezzi per valutare ex novo tutti i redditi dei contribuenti, tassati direttamente od indirettamente, esenti o colpiti. Ma questa è un’impresa gigantesca, a cui gli uffici delle imposte, depauperati di personale, sono assolutamente impreparati nel momento presente. Oggi la loro attività, feconda, è compiutamente assorbita dall’imposta sui sovraprofitti di guerra. Affidare ad essi il compito di valutare ex novo il reddito degli esenti avrebbe creato negli uffici il guazzabuglio. Sarebbe stato il caos.

 

 

E così si torna sempre a battere sullo stesso chiodo. Tutte queste tasse e tassette a poco giovano, se prima non si è rinnovato l’assetto delle imposte esistenti e non si è creato la nuova imposta complementare sul reddito. Si aggiunge ingiustizia ad ingiustizia e si aumenta il disordine. Bisogna dare all’amministrazione delle finanze i mezzi necessari, il personale tecnico necessario; bisogna avere il coraggio di stabilire subito l’imposta sul reddito. Non varrebbe la pena di creare un lavoro enorme negli uffici finanziari per i pochi milioni, od anche per quella decina di milioni di lire che la nuova addizionale sugli esenti dal servizio militare può gittare. Sarebbe insensato far ciò. Ma è intollerabile che si seguiti a rigirarsi sempre nello stesso circolo vizioso delle fruste e sperequate imposte esistenti, caricandole di decimi e di addizionali d’ogni sorta, aumentandone le aliquote.

 

 

L’on. Meda ha pronto nel cassetto il progetto di riforma dei tributi vigenti sul reddito e di istituzione dell’imposta complementare sul reddito e sul patrimonio. In quel progetto l’imposta militare figura come una variante del tributo complessivo da pagarsi dagli esenti dal servizio militare. È noto, per dichiarazioni pubbliche, che l’on. Meda è animato dalla migliore buona volontà di presentare e far trionfare il progetto. Perché, a questo punto, non lo si applica per decreto reale, salvo presentazione al parlamento? Perché i pieni poteri finanziari servono a fare applicare imposte iniquamente distribuite e non possono servire a fare applicare un’imposta giusta? Tutta Italia plaudirebbe al ministro che avesse questo coraggio.

 

 

Chi, dei ministri, si oppone a ciò? Bisogna, dopo aver fatto ogni sorta di esortazioni platoniche, mettere il problema in questi termini concreti e precisi. Perché l’on. Boselli non vince, se ci sono, le ostilità di qualcuno dei suoi colleghi? Ha compiuto, il ministero nazionale, tali novità nel campo della legislazione, punto legittimate dallo stato di guerra, che ben potrebbe servirsi dei suoi pieni poteri per procacciare qualche centinaio di milioni all’anno all’erario.

 

 

VI

Un decreto luogotenenziale del 3 febbraio, di apparenze minuscole, dà luogo a melanconiche riflessioni sulla persistenza di cattive abitudini mentali nella burocrazia legiferante, che si sperava fossero venute meno. Quel decreto assoggetta alla imposta di ricchezza mobile in categoria A i redditi derivanti da condominio e da dominio diretto, tanto nel caso in cui il canone sia pattuito in denaro quanto nel caso in cui sia pattuito in derrate.

 

 

Per far comprendere ai lettori di che cosa si occupi il decretino, debbo ricordare una delle iniquità più stridenti del nostro sistema tributario: iniquità conclamata da tutti, universalmente riconosciuta, di cui si è invocata mille volte l’abolizione, non mai concessa per false preoccupazioni finanziarie. Si sa che, se un proprietario di terreni o fabbricati, provveduto di un reddito netto di 4.000 lire, ad esempio, ha contratto un mutuo, il quale gli costa 2.000 lire all’anno per interessi passivi, l’imposta sui terreni o sui fabbricati continua a colpirlo su tutte le 4.000 lire di reddito, mentre l’imposta di ricchezza mobile colpisce il creditore sulle 2.000 lire di interessi. Sulla quale ultima tassazione non vi è nulla da ridire, perché dove c’è il reddito, ivi deve cadere l’imposta. Ma qual mai giustizia vi è di continuare a tassare il proprietario indebitato, come se avesse ancora 4.000 lire di reddito, mentre egli di fatto ne riscuote certissimamente solo 2.000? La iniquità tributaria danneggia il credito, impedisce i mutui, scoraggia i miglioramenti agricoli e le costruzioni. In definitiva danneggia la finanza, la quale, per avida brama di immediato ed apparente lucro, distrugge le fonti produttive di reddito.

 

 

Di ciò parve che per un momento si persuadesse il ministero delle finanze quando dagli ultimi provvedimenti tributari esentò in parte i debiti ipotecari. Oggi, per una inesplicabile contraddizione, compie opera di vero regresso col decreto luogotenenziale 3 febbraio 1918. Conviene invero ricordare che dalla iniquità della doppia tassazione erano rimasti salvi certi canoni dipendenti da dominio o condominio diretto, di cui forse il più noto è il canone enfiteutico. Quando un proprietario di terreni concede in enfiteusi il fondo ad un colono, ed il colono si obbliga a pagare un canone di 1.000 lire, ad esempio, finora l’imposta rimaneva, come doveva essere, una sola: l’imposta sui terreni, la quale colpiva tutto il reddito netto fondiario del terreno, senza preoccuparsi se il reddito fosse goduto dal proprietario (cosidetto domino diretto) o dal colono (cosidetto utilista). Il reddito netto del fondo è uno solo, percepito dal colono e da questi in tutto od in parte trasmesso al domino diretto. L’imposta era, sinora, una sola, pagata dal colono e ripartita tra i due, a seconda delle private convenzioni.

 

 

Ciò era corretto, e poteva servire di modello per riparare la iniquità gravante sui proprietari indebitati. Ma la burocrazia legiferante ha una concezione tutta sua della «giustizia tributaria». Non pensa mai a togliere le tassazioni sperequate inique; ma trae esclusivamente pretesto dalla esistenza di una iniquità per gridare essere uno scandalo che da essa siano immuni taluni contribuenti che essa perciò qualifica «privilegiati». Nel caso nostro, non è, per la burocrazia, uno scandalo la doppia tassazione del proprietario indebitato; ma lo è il fatto che dalla doppia iniqua tassazione taluno, per dimenticanza, abbia potuto scampare. Ed eccoti un bel decreto che lascia soggetto il colono enfiteuta a tutta l’imposta fondiaria, come se egli godesse tutto il reddito e non dovesse pagare il canone, e colpisce il domino diretto con l’imposta di ricchezza mobile.

 

 

In tal guisa si sovverte il diritto privato, il quale a ragione reputa il domino diretto essere vero proprietario del fondo ed artatamente lo si trasforma in un semplice creditore ipotecario. Si dà il colpo definitivo di mazza sull’istituto dell’enfiteusi, a favore di cui si sono fatti tanti discorsi in parlamento e scritte tante relazioni ministeriali, e che davvero meritava tutt’altra sorte in un momento in cui tanto si parla di «terra ai contadini», di «spezzamento del latifondo» a favore dei soldati reduci, ecc. ecc. Si ribadisce l’errore della doppia tassazione e si rende il tesoro vieppiù restio, per grette ragioni di apparente profitto, a qualunque riforma tributaria.

 

 

Ma, si può osservare, trattarsi di legislazione di guerra, duratura solo per il 1918 e il 1919, e che domani potrà essere abolita. In argomento di imposte di guerra, non occorre guardar tanto per il sottile. Si danno sciabolate a destra ed a sinistra e tocca a chi tocca.

 

 

Falsissimo concetto, il più falso e deleterio di quanti mai se ne espressero in questa guerra, durante la quale purtroppo tanti vecchi pregiudizi e spropositi economici vennero a galla! Non io solo, ma tutti coloro che in Europa hanno meditato sulla finanza della guerra attuale, attribuiscono la condotta sua timida ed, importa dirlo, sinché si è in tempo, assai meno coraggiosa ed assai più preoccupante della condotta tenuta durante le ultime grandi guerre europee, che furono quelle rivoluzionarie e napoleoniche, precisamente alla politica delle «sciabolate». Sono le iniquità e le sperequazioni esistenti, sono le sperequazioni inconsultamente cresciute durante la guerra, quelle le quali rendono perplessi gli uomini di governo dinanzi al dovere imperioso, urgentissimo di aumentare le imposte. In Italia ho ricevuto lettere strazianti di gente indebitata, impossibilitata a pagare, su cui si abbatte una gragnuola spaventevole di imposte nuove o di imposte vecchie cresciute. Una iniquità è tollerabile se l’imposta è mite, diventa insopportabile quanto più le imposte si aggravano e giungono alle fantastiche aliquote italiane – tra imposta di stato ed imposte locali – del 30, 40, 100, 200 e talora più per ogni 100 lire di reddito. Se ne ridono coloro il cui reddito è sottovalutato; ma gli altri si vedono scarnificati sino all’osso. Andare in là nel tassare su questa via non si può. Perciò si esita a stabilire imposte quante si dovrebbe; e si emettono biglietti. Ma l’emissione crescente dei biglietti, esclusivamente dovuta alla paura od alla difficoltà di mettere imposte bastevoli, conduce ad un rialzo fantastico del costo della vita. È una corsa sfrenata verso una meta ignota.

 

 

Si capisce ora perché il conte di Cavour dicesse che il tempo delle riforme tributarie è il tempo di guerra e non il tempo di pace. Ora e non dopo è il tempo di abolire le iniquità e di perequare per poter tassare sul serio e frenare la macchina tributaria, la quale va alla deriva. La piccola tassetta, ricordata in questo articolo è l’indice di un andazzo che urge far cessare. La burocrazia finanziaria immagina che la guerra serva soltanto per compiere impunemente qualche colpo di mano, per racimolare a destra ed a sinistra qualche centinaio di migliaio di lire o qualche milione alla meglio, senza alcun motivo, pur di mettere insieme i milioni.

 

 

Duole assai dover dire che i milioni in tal modo non si fanno, ma si disfano. Crescono le cifre apparenti delle entrate di bilancio, si gitta polvere negli occhi al pubblico; ma non crescono le entrate effettive, veramente ristoratrici. Quanta polvere negli occhi non v’è nelle centinaia di milioni del centesimo di guerra, del bollo sui contratti di forniture, del tributo sui sovraprofitti!

 

 

Macchina indietro dunque ed a tutta velocità nelle imposte inique, sperequate, a sciabolate; e macchina avanti nelle riforme veramente produttive. Perché si osa applicare soltanto le prime per decreti luogotenenziali e non anche le seconde? Se si giudica che debbono essere recati dinanzi al parlamento i progetti di imposta sul reddito, perché non debbono essere fatti discutere pubblicamente decreti, come quello odierno, che riportano di cent’anni indietro la legislazione italiana, che turbano il diritto privato ed uccidono un istituto a cui molti attribuiscono efficacia grande – ove non sia martoriato dal legislatore – nella soluzione di taluno dei più gravi problemi terrieri del dopo guerra?

 

 

VII

Essendomi occupato nell’articolo precedente di un disgraziato decreto del 3 febbraio 1918 il quale assoggettava all’imposta di ricchezza mobile per gli anni 1918 e 1919 i canoni provenienti da condominio o da dominio diretto, mi corre obbligo di far cenno di un nuovo decreto del 18 marzo, il quale vuole correggere alcuni degli errori commessi la prima volta. Le novità introdotte sono le seguenti:

 

 

  • Un proprietario il quale ha dato in enfiteusi il suo fondo per un canone annuo di lire 1.000 può essersi obbligato verso il colono (o può essere obbligato per vecchie leggi o consuetudini) a rimborsargli metà dell’imposta fondiaria sui terreni pagata dal colono, ad esempio, 200 su 400 lire. Col decreto del 3 febbraio egli sarebbe, anche visibilmente, stato colpito da due imposte le 200 lire di imposta terreni, anticipate all’erario dal colono e da questi trattenutegli all’atto del pagamento del canone e le 200 lire di nuova imposta di ricchezza mobile. Col nuovo decreto il colono non avrà più il diritto di eseguire la ritenuta delle 200 lire di imposta terreni sul canone ed il domino diretto pagherà solo la nuova imposta di ricchezza mobile.

 

 

La nuova disposizione prova quanto sia difficile rimediare bene ad un malanno commesso. Rimane l’ingiustizia di far pagare al domino diretto l’imposta di ricchezza mobile su un canone di natura fondiaria e che dovrebbe pagare ed essere inciso perciò dalla imposta terreni. Inoltre, perché il colono, al quale spettava il rimborso in tutta o in parte dell’imposta fondiaria, deve sopportarla intieramente? Forseché egli ha tutto il reddito fondiario? No; ché egli ne deve trasmettere lire 1.000 al proprietario. Il legislatore può sempre aumentare le imposte, quando lo ritenga necessario; ma non può, senza commettere una solennissima ingiustizia, accollare a Tizio un’imposta, quasiché egli avesse un reddito, che invece non ha. Né dicasi che in molti casi il colono non ha il diritto di ritenuta dell’imposta terreni contro il proprietario; perché in tal caso il canone sarà stato fissato in 800 invece che in 1.000 lire.

 

 

  • La nuova imposta di ricchezza mobile sarà dovuta, in virtù del nuovo decreto, sempre dal percipiente il canone, malgrado ogni patto in contrario stipulato nelle convenzioni originarie o in atti successivi.

 

 

Il principio è ottimo ed io lo vorrei applicato a tutti i redditi di qualunque specie. Se non dovessi andare troppo per le lunghe, potrei dimostrare che la nullità assoluta, insanabile di ogni convenzione relativa ai rimborsi privati di imposta, di ogni rinuncia al diritto di esercitare la rivalsa e la obbligatorietà, anzi, della rivalsa sui percettori del reddito possa essere feconda di sana educazione politica per i contribuenti e di decine di milioni per il fisco. Ma trattasi di nullità da comminarsi per l’avvenire. La retroattività delle leggi d’imposta, come delle altre leggi, può cagionare effetti impensati. Nel caso nostro, quando proprietario e colono si accordarono nel fissare, ad esempio, un canone di lire 800 netto da ogni imposta, ciò accadde perché il canone fu diminuito in proporzione all’imposta terreni e perché si riflette che se l’imposta poteva aumentare a tutto danno del colono, anche il reddito del fondo sarebbe aumentato a tutto beneficio del colono, il canone dovendo rimanere invariato in perpetuo. Il che sta accadendo durante la guerra presente. I canoni enfiteutici, stabiliti in cifra fissa ed invariabile, subiscono un deprezzamento fatale, come tutti i redditi espressi in lire, salvo i meno numerosi casi in cui non siano ancora stati convertiti in moneta. Invece i coloni hanno avuto il beneficio dei maggiori prezzi e dei cresciuti redditi. Manco a farlo apposta, la nuova imposta colpisce colui il cui reddito rimase invariato in lire e diminuì in potenza d’acquisto e lascia illesi gli utilisti che godettero l’aumento di reddito!

 

 

  • Finalmente dall’imposta nuova saranno esenti i canoni dipendenti da enfiteusi costituite posteriormente al 31 dicembre 1907 e quelli inferiori al valore di lire cinque italiane. Buona norma, se considerata in se stessa e che deve avere per iscopo di non inferocire da un lato contro canoni minimi e quasi sempre inesigibili e dall’altro di non scoraggiare per l’avvenire i contratti di enfiteusi che potrebbero, specie nel mezzogiorno d’Italia, giovare all’attuazione del programma della terra ai contadini. Ma se l’esenzione è giusta per le nuove enfiteusi, perché deve essere sbagliata per le vecchie? Non è forse vero che anche per queste si viene a colpire due volte con due imposte diverse, sui terreni e sulla ricchezza mobile, il medesimo reddito? E non è probabile che appunto i canoni vecchi, stipulati in somme di solito più tenui a parità di reddito del fondo, siano i maggiormente gravati dell’imposta ingiusta?

 

 

In conclusione: per correggere sul serio il decreto del 3 febbraio, occorre abolirlo. E persuadersi che le sole imposte tollerabili sono quelle perequate.

 

 


[1] Con il titolo La riforma tributaria dell’on. Meda. [ndr]

[2] Con il titolo Il nuovo omnibus tributario. [ndr]

[3] Con il titolo Il contributo per assistenza civile. [ndr]

[4] Con il titolo Il gettito dei vecchi omnibus tributari e la scelta delle imposte nuove. [ndr]

[5] Con il titolo La nuova imposta addizionale.[ndr]

[6] Con il titolo La politica delle «sciabolate» tributarie. [ndr]

[7] Con il titolo Le correzioni al decreto delle sciabole tributarie. [ndr]

Riforme od omnibus o sciabolate in materia tributaria?

Riforme od omnibus o sciabolate in materia tributaria?

«Corriere della Sera», 14 marzo[1], 16 maggio[2], 31 luglio[3], 5 settembre[4], 9 ottobre[5] 1917, 26 febbraio[6], 31 marzo[7] 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 510-539

 

 

I

Il discorso pronunciato alla camera dal ministro Meda in risposta alle interpellanze degli on. Soleri e Gasparotto mi consente di intrattenermi brevemente sulla riforma tributaria elaborata dal ministro con la cooperazione di una commissione presieduta dal ministro stesso e dal sottosegretario di stato, on. Danieli. Il fatto di essere membro di quella commissione non mi vieta di esprimere un giudizio intorno allo spirito ed al contenuto politico e sociale della riforma voluta dall’on. Meda. I commissari hanno il compito di elaborazione tecnica delle modalità di applicazione del concetto fondamentale. Questo invece parte dal ministro; e suo è quindi il merito di averlo concepito e di volerlo, con tenace proposito, tradurre in atto.

 

 

Tenendomi entro i limiti del discorso tenuto dall’on. Meda e delle comunicazioni da lui fatte alla camera, appare evidente che il concetto fondamentale della riforma tributaria ideata dal ministro è questo: le spese della guerra devono andare a carico di quelli i quali hanno un reddito superiore ad un certo minimo e devono gravare con peso crescente sul reddito a mano a mano che questo aumenta.

 

 

Concetto politico semplice e fecondo, che già il gabinetto passato e poi di nuovo quello presente hanno cercato di attuare nei provvedimenti finanziari di guerra. Ad una attuazione veramente equa e perequata si opponeva tuttavia la struttura medesima del sistema tributario vigente, quale è venuto foggiandosi in un cinquantennio di vita dello stato italiano. Poiché le imposte vigenti sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile sono frammentarie, sperequate, non coordinate, tutti i decimi e centesimi aggiunti al principale delle imposte stesse non potevano non essere, nonostante ogni cautela, sperequati e risentiti in misura variabilissima dai contribuenti. La sperequazione della base pone un limite infrangibile alla produttività delle imposte. Se tutti pagassero, per fare un esempio semplice, il 10% d’imposta, sarebbe possibile raddoppiare l’aliquota e portarla al 20%. Ma quando gli uni pagano – per tenersi solo all’imposta erariale – il 20% e gli altri il 10% e taluni nulla, il raddoppiamento dell’imposta sarebbe iniquo, poiché aggraverebbe la sperequazione esistente, facendo pagare – e, badisi, a parità di reddito -, il 40% ai primi, il 20% ai secondi e seguitando a non far pagar nulla ai terzi. La posizione dei primi diventerebbe intollerabile; e gli ultimi seguiterebbero a farsi beffe del fisco, pur negli attuali momenti in cui tutti devono concorrere alle spese pubbliche. Sicché lo stato ha le mani legate e non può trarre dalle imposte dirette sui redditi tutti quei frutti di cui esse sarebbero suscettibili.

 

 

Dico subito che è impossibile giungere all’ideale di conoscere esattamente il reddito di tutti i contribuenti. Nessuno stato passato, presente e futuro vi riuscì, vi riesce e probabilmente vi riuscirà mai. Va data però lode amplissima al ministro attuale di aver tentato, mercé il coordinamento delle tre attuali imposte sui terreni, sui fabbricati e di ricchezza mobile in una sola imposta-base od imposta normale e mercé molteplici avvedimenti tecnici, che qui sarebbe troppo lungo esaminare, di avvicinarsi all’ideale, nei limiti del possibile. L’Inghilterra poté ottenere miliardi di lire di nuovo gettito tributario col solo raddoppiare prima l’aliquota dell’income tax (corrispondente a quella che sarà domani l’imposta normale sui redditi dell’on. Meda), e coll’aumentare poi dell’88% l’imposta raddoppiata, perché questa benedetta imposta normale sui redditi esisteva in una forma tale da permettere tassazioni tollerabilmente – nulla di perfetto vi è a questo mondo, neppure in Inghilterra – eque e perequate. L’Italia di domani si contenterà di ricavare le centinaia di milioni in più; ma per ciò occorre che esista una base coordinata e perequata di tassazione.

 

 

Su questa base e tenendo conto di tutto il lavorio legislativo e giurisprudenziale svoltosi in Italia in cinquant’anni di vita unitaria, sarà possibile assidere l’imposta complementare e progressiva sul reddito complessivo del contribuente. I disegni di imposta progressiva venuti in passato dinanzi al parlamento avevano un peccato d’origine: erano come un bolide che si introduceva nell’organismo finanziario vigente, lasciando questo tale e quale; e dimenticando che lo stato già esigeva le sue brave imposte sui redditi. Le vecchie imposte sui redditi seguitavano ad andare innanzi per conto loro, sgangheratamente e con gran cigolio di ruote e fracasso di ordegni non incastrati gli uni negli altri; ed accanto a loro avrebbe dovuto funzionare, per conto proprio e con accertamenti particolari, una imposta progressiva, la quale ben presto sarebbe divenuta più sgangherata di quelle già esistenti. Innestata invece sull’imposta-base o normale, la nuova complementare potrà giovarsi degli accertamenti dei redditi della prima, integrarli dove essi sono necessariamente parziali, e giovarsi della medesima procedura e delle stesse magistrature giudicanti.

 

 

La istituzione, che l’on. Meda ha annunciato, di una imposta patrimoniale accanto alla complementare progressiva sul reddito si imponeva altresì per ragioni di perequazione tributaria.

 

 

È gloria del nostro sistema tributario di avere accolto fino dal 1865 il principio della differenziazione dei redditi, per cui i redditi di capitale sono tassati di più dei redditi di lavoro ed i redditi misti, ossia industriali e commerciali, sono tassati in misura intermedia. Tale principio continuerà ad essere applicato nell’imposta – base o normale, con le opportune semplificazioni.

 

 

Nella imposta complementare progressiva è evidente che lo stesso principio doveva essere accolto. Non solo i redditi devono essere tassati con aliquota crescente col crescere del reddito: ma, a parità di somma, il reddito di capitale deve essere tassato di più del reddito di lavoro. Altro è il reddito di 3000 o 10000 del capitalista, il quale rimane fisso anche se il capitalista ammala o invecchia o muore; ed altro il reddito del lavoratore, manuale od intellettuale, il quale vien meno se il lavoratore è colpito da malattia, vecchiaia, infortunio o morte. Il primo reddito può essere tassato maggiormente del secondo.

 

 

Nell’imposta normale, dove si tassano i redditi separati, l’intento si consegue, come dissi sopra, facendo variare l’aliquota. Ciò sarebbe difficile nell’imposta complementare, la quale colpisce in globo la somma dei redditi del contribuente. Di qui la opportunità, anzi la necessità strettamente perequativa di istituire, accanto alla complementare sul reddito, la quale e progressiva in ragione del crescere del reddito, ma e uniforme su tutte le parti del reddito, una imposta patrimoniale, la quale ha lo scopo di tassare ulteriormente quella parte del reddito la quale proviene da capitali.

 

 

Così l’edificio tributario sarà compiuto; e così sarà possibile far incidere il peso delle spese di guerra su quelli che veramente hanno e posseggono. Ferma, s’intende, come bene osservò l’on. Meda, l’osservanza delle solenni promesse di esenzione da ogni imposta presente e futura fatte ai portatori di titoli del debito pubblico e esclusa quindi in modo assoluto ogni inquisizione sui titoli stessi posseduti dai contribuenti.

 

 

Non mi tratterrò sulla possibilità che il sistema offre di accogliere talune richieste imperiose della pubblica opinione, in parte già codificato dal legislatore in provvedimenti straordinari, i quali rientrerebbero così nel quadro generale tributario, come l’imposta sugli esenti dal servizio militare e l’imposta sui celibi. Ma sembrami degno sovratutto di rilievo l’annuncio fatto dall’on. Meda che il minimo esente verrà elevato fino a lire 1200. Oggi l’imposta di ricchezza mobile esenta i redditi dei piccoli industriali e commercianti solo fino a 534 lire, i redditi dei professionisti ed impiegati privati fino a 640 lire ed i redditi degli impiegati delle provincie e dei comuni e degli agenti delle ferrovie di stato solo fino ad 800 lire all’anno. Sono minimi grottescamente bassi; che sono di imbarazzo alla finanza, fomite di evasioni infinite e di tassazioni talvolta crudeli. La guerra deve avere per risultato che un simile sconcio scompaia. Tutti coloro che hanno redditi di industria, di commerci, di impieghi, di salari, redditi nella produzione dei quali entri in parte maggiore o minore il lavoro, non superiori a 1200 lire devono essere esenti da tributo. L’Italia deve aver l’orgoglio di dire: la guerra liberatrice ha annunciato agli umili, già abbastanza tassati dalle imposte sui consumi, la liberazione dell’imposta diretta. In Prussia i redditi sono esenti fino a 900 marchi, ossia a 1100 lire. Noi porteremo il minimo esente a 1200 lire. Ma al disopra tutti dovranno pagare.

È ferma convinzione di coloro i quali conoscono a fondo il nostro meccanismo tributario nelle sue modalità pratiche che la liberazione annunciata dall’on. Meda potrà compiersi – ove sia accompagnata da severità di accertamento per tutti gli altri – , senza danno, anzi con vantaggio grande della pubblica finanza.

 

 

II

I provvedimenti finanziari che sono stati annunciati per il caffè, lo zucchero, i saponi, gli spettacoli ed i trattenimenti non cinematografici hanno un comune carattere di guerra, che fa passar sopra a taluni difetti che in tempo di pace avrebbero reso non consigliabile l’inasprimento, ad esempio, dell’imposta sullo zucchero e la istituzione della tassa sul sapone. Lo zucchero è un alimento se non di prima necessità, diffusissimo e dai fisiologi ritenuto utile all’organismo specie dei vecchi e dei bambini. Il sapone è prodotto così indispensabile alla pulizia umana, che la sua larga diffusione è ritenuta indice di civiltà. Per la abolizione del dazio sul sapone si combatterono memorande battaglie nella prima metà del secolo passato in Inghilterra; e su di esso caddero e vinsero parecchi cancellieri dello scacchiere. Fa d’uopo perciò augurare che negli anni venturi di pace l’imposta sullo zucchero possa nuovamente essere scemata e quella sul sapone, od almeno sul sapone comune, abolita. Mentre l’imposta sugli spettacoli di qualunque specie meriterà, insieme con quella sui gioielli, di essere conservata a titolo di imposta suntuaria permanente.

 

 

Troppo furono in passato obliate le imposte suntuarie, alle quali credo sia riservato in avvenire un compito non spregevole nella pubblica finanza degli stati moderni. Farebbe d’uopo escludere soltanto dalla tassa sugli spettacoli, i luoghi destinati ad esercizi fisici e sportivi, come quelli che cooperano alla educazione fisica e talvolta anche morale delle nuove generazioni. Nessuna industria meriterà di più in avvenire di essere favorita e promossa al pari di quella della istruzione ed educazione dell’uomo. Promossa questa, possono essere soggette ad imposta spettacoli e consumi di lusso.

 

 

Siamo tuttavia in tempi di guerra grossa; e questa fa sorgere circostanze nuove, le quali spiegano inasprimenti di tributi, che in tempo di pace non sarebbero consigliabili. Crescono tutti i prezzi delle merci; e crescono perciò proporzionatamente le spese dello stato. Lo stato, esigendo i dazi doganali in oro, aumenta bensì le sue entrate; ma il ricupero è parziale. L’aumento dei prezzi è stato maggiore dell’aumento dell’aggio; ed inoltre le imposte interne sulla fabbricazione e sui consumi si esigono in carta. Se si vuole che lo stato abbia i mezzi, con cui fronteggiare le spese cresciute per il rialzo dei prezzi, è necessario aumentare le tariffe delle imposte vecchie od istituirne delle nuove.

 

 

Bene si fece a seguire la via antica e sperimentata delle imposte di fabbricazione o di consumo, evitando i nuovi monopoli. chi voglia vedere il nocciolo del problema, è condotto a chiedersi: frutta di più all’erario esigere un’imposta sui prodotti fabbricati dai privati industriali, ovvero proibire ai privati di produrre e vendere in monopolio ad un prezzo il quale lasci un forte margine di profitto? Il problema non è sociale o politico, ma tecnico-economico. Guardato attraverso la realtà e non secondo le aspirazioni di taluni partiti, si deve concludere nove volte su dieci che all’erario giova di più non impacciarsi di fabbricare e vendere, e limitarsi a tassare i prodotti ottenuti dai privati. Lessi, alcuni mesi or sono, uno schema di statizzazione della produzione e del commercio del vino per procurare entrate di miliardi all’erario. Fantasie di dilettanti; abbozzi vaghi destinati a frantumarsi dinanzi alle difficoltà di organizzare una così colossale macchina produttrice. Un’imposta di 10 lire all’ettolitro sul vino messo nelle botti frutterebbe 400 milioni; non senza difficoltà iniziali; non però insuperabili alla tecnica moderna tributaria.

 

 

Collo zucchero, oramai siamo, con l’aumento odierno, a più di 210 lire per quintale di imposta sulla produzione interna. Duro aumento; ma necessario per impedire che lo stato perda sullo zucchero somme consimili a quelle che perde sul frumento. Anche per lo zucchero, l’importazione dall’estero è costosissima, mancando, per ragioni che qui è inutile rivangare, 200.000 quintali a compiere il consumo interno. Occorreva che il sovraprezzo pagato sullo zucchero estero fosse repartito, a mezzo dell’imposta, sullo zucchero nazionale per evitare all’erario perdite eccessive. È spiegabile che lo stato perda centinaia di milioni per provvedere di pane la popolazione; ma, quando tante spese urgono, non pare che sia legittima una simile perdita per lo zucchero.

 

 

Il frequente succedersi, ad ogni pochi mesi, di nuovi balzelli sugli affari, sui consumi ed anche sui tributi diretti pone il problema: se la guerra dura, sarà utile e possibile allo stato continuare a venir fuori con periodici annunci di nuovi omnibus tributari? Il proposito del ministro del tesoro di volere istituire, appena si contrae un debito, anzi in anticipazione di esso, le imposte bastevoli a pagarne gli interessi è assai lodevole. Ma ogni sforzo ha un limite. Oramai, con le tasse e le tassette, si è percorsa l’intiera gamma tributaria; e poco campo è lasciato alla immaginazione tributaria del ministro delle finanze e degli inventivi funzionari suoi consiglieri.

 

 

Sforzi nuovi su questa via non sembra possibile né conveniente compierne ancora. Bisogna venire al sodo; e cioè ai grandi mezzi, semplici e chiari, che possono rendere molto. Di ciò ritengo sia persuaso lo stesso on. Meda, da quanto almeno si può arguire da pubblici suoi discorsi.

 

 

I grandi mezzi oramai non si possono trovare – se si faccia astrazione dall’imposta sul vino, combinata con la riforma dei dazi di consumo – altrove che nella riforma dei tributi diretti sul reddito.

 

 

Per questi, non occorrono rimaneggiamenti ed inasprimenti periodici, quando il congegno funzioni equamente e severamente fin dal principio. Le imposte sui consumi e sugli affari sono in perpetuo ribollimento, perché se cambiano i prezzi delle merci, bisogna cambiare le tariffe delle imposte. Ma le imposte sul reddito sono percentuali del reddito. Se i prezzi salgono, crescono i redditi in media; e crescono le imposte che sono una parte del reddito.

 

 

Perché le imposte sul reddito possano funzionare bene, importa tuttavia che esse siano perequate ed equamente ripartite. Il che non si può dire oggi delle imposte italiane. L’on. Meda attende da tempo con amore allo studio del problema. Ma siamo oramai giunti ad una svolta della finanza italiana, in cui l’indugiare non giova. È giunto il momento in cui urge lanciare, sostenere e far trionfare la riforma, che deve dare elasticità e vigoria al bilancio in modo permanente e sicuro.

 

 

III

Quale è stato regolato dai decreti luogotenenziali 31 agosto 1916, 14 dicembre 1916 e 26 aprile 1917, il contributo per l’assistenza civile ha per iscopo di «costituire un fondo da erogarsi in opere di assistenza civile durante la guerra o nel tempo ad essa immediatamente successivo».

 

 

Esso può essere deliberato dai comuni, ma la giunta provinciale amministrativa lo può rendere obbligatorio quando ne sia accertata la necessità per l’assistenza civile nel comune ed il consiglio comunale, invitato a provvedere, non abbia aderito. Nei comuni ove esistono e funzionano regolarmente comitati od associazioni per l’assistenza civile il provento del contributo è ad essi esclusivamente devoluto; negli altri comuni esso è versato nella cassa comunale per scopi di assistenza civile.

 

 

Sembra fermo il principio che il contributo possa applicarsi una volta tanto; ma successivi decreti hanno prorogato il termine per la sua applicazione al 30 giugno 1917.

 

 

Sono esenti dal contributo:

 

 

  • i contribuenti che risultino ammessi al sussidio governativo in dipendenza del richiamo sotto le armi di un membro della propria famiglia;
  • le istituzioni pubbliche di beneficenza;
  • gli enti morali aventi per fine l’assistenza agli invalidi ed agli orfani di guerra.

 

 

Hanno diritto di ottenere la compensazione o diminuzione del contributo i contribuenti, i quali provino in qualunque modo di avere versato qualche somma a favore di uno dei comitati o delle associazioni per l’assistenza civile esistenti od esistiti, ovvero alla cassa comunale per iscopi di assistenza civile. Quindi le somme versate ad altri comitati diversi da quelli per l’assistenza civile non sono ammesse in compensazione; e questa si fa sino a concorrenza, in guisa che il contribuente debitore di un contributo di lire 100, non deve nulla se ha versato volontariamente 100 lire o più, e deve 30, 50, 80 ecc. lire se ha versato rispettivamente 70, 50, 20 o più lire. L’inclusione di ditte collettive nel ruolo del contributo non esonera le singole persone che le compongono dall’imposizione del contributo stesso, in relazione ai redditi personali, che essi possedessero indipendentemente da quelli della ditta.

 

 

Come si determina l’ammontare del contributo? Questo, che è il punto più delicato del problema, è stato risoluto dal legislatore nel seguente modo.

 

 

Non si bada al reddito od al patrimonio del contribuente, ma al tributo complessivo dovuto al comune, per il quale il contribuente è iscritto nei ruoli messi in riscossione nell’anno in cui il contributo è deliberato. Si potranno pero formare ruoli suppletivi sia per tener conto degli aumenti verificatisi nel tributo complessivo in seguito ad ulteriori accertamenti od a definizione di reclami, sia per tener conto della sovrimposta ideale di ricchezza mobile, di cui dirò subito.

 

 

Il «tributo complessivo» è una somma di parecchi tributi particolari, e cioè :

 

 

  • le imposte cosidette comunali, come la tassa di famiglia, o focatico, la tassa sul valor locativo, la tassa di esercizio e rivendita, le tasse domestici, cavalli e vetture, cani, la tassa bestiame;
  • le sovrimposte comunali sui terreni e sui fabbricati;
  • la tassa automobili per la parte spettante ai comuni;
  • una sovrimposta “ideale” sui redditi di ricchezza mobile per cui ciascun contribuente trovasi iscritto nei ruoli per l’imposta di ricchezza mobile messi in riscossione nel comune. Questa sovrimposta la dico «ideale» perché non esiste, non essendo, come è ben noto, dalla legislazione vigente concesso ai comuni il diritto di sovrimposta sui redditi di ricchezza mobile. Allo scopo di chiamare a contribuire all’assistenza civile anche la ricchezza mobiliare, insufficientemente tassata colla tassa di esercizio e rivendita, il legislatore ha creduto opportuno di fingere l’esistenza di una sovrimposta in realtà inesistente. E l’ha immaginata uguale a quella che il contribuente dovrebbe pagare se sull’imposta principale di ricchezza mobile, riscossa a suo carico per ruoli nel comune, gravasse un’aliquota o peso di sovrimposta uguale a quello che grava sull’imposta dei terreni e dei fabbricati.

 

 

Può chiedersi: nell’imposta di ricchezza mobile su cui va a cadere la sovrimposta ideale è compresa anche l’imposta sui profitti dipendenti dalla guerra? A parer mio ed in base alla legge vigente, ritengo di no, perché la sovrimposta «ideale» da tenersi in conto è detto esplicitamente essere quella che graverebbe la «imposta di ricchezza mobile» e non può quindi essere quell’altra che graverebbe un diverso tributo detto «imposta sui profitti derivanti dalla guerra». Il che non vuol dire che i profitti di guerra sfuggano alla possibilità del contributo per l’assistenza civile; perché essi sono colpiti, oltreché dall’imposta sui sovraprofitti, anche dall’imposta generale di ricchezza mobile accertata in via straordinaria. Se questa imposta cade in riscossione nell’anno in cui il contributo per l’assistenza civile è deliberato, ecco che su di essa può calcolarsi la sovrimposta «ideale», la quale entra a far parte del tributo complessivo del contribuente. E poiché la sovrimposta non può essere calcolata due volte, ma una volta sola sullo stesso reddito, si deve concludere che il metodo seguito in questo caso è equo.

 

 

Fatta la somma di tutte le imposte e sovrimposte sovra ricordate, ed ottenuto il tributo complessivo su di questo si applica il contributo per l’assistenza civile, secondo la seguente scala progressiva:

 

 

Ammontare del tributo complessivo pagato dal contribuente nel comune

Aliquota percentuale del contributo per l’assistenza civile

Da L. 15 a L. 25,99

non oltre il 5%

Da L. 26 a L. 50,99

7%

Da L. 51 a L. 200,99

10%

Da L. 201 a L. 500,99

15%

Da L. 501 a L. 1000,99

20%

Da L. 1001 a L. 2000,99

25%

Da L. 2000 in più

30%

 

 

Le aliquote indicate sono dei massimi; tuttavia l’aliquota fissata per ogni categoria non potrà mai essere inferiore a quella stabilita come massima per la categoria precedente. Così il contribuente posto nella categoria seconda, di coloro che pagano un tributo complessivo da lire 26 a lire 50,99, non può pagare su tal massa di tributo un contributo per l’assistenza civile maggiore del 7%, ma nemmeno minore del 5%. Entro questi limiti estremi spetta al comune fissare l’aliquota da applicarsi.

 

 

Nessuna obiezione può muoversi contro lo scopo che il legislatore si è proposto di raggiungere istituendo il contributo per l’assistenza civile. A spronare viemmeglio l’opera spontanea dei cittadini sarebbe stato desiderabile che fossero ammesse in compensazione anche le somme versate ai comitati, s’intende legalmente riconosciuti, per i soldati mutilati, ciechi, per gli orfani dei militari morti in guerra e simili. L’assistenza civile dovrebbe essere interpretata in un senso largo ed umano e non nel senso ristretto dei sussidi alle famiglie dei militari, come in talune città accade. Se a ciò ostava la lettera del primo decreto, poteva provvedersi nei successivi decreti.

 

 

Anche sarebbe stato equo esentare, insieme alle istituzioni pubbliche di beneficenza, altri enti morali, ai quali è duro ed ingiusto chiedere un contributo per l’assistenza civile. Voglio accennare in special modo ai corpi scientifici e stabilimenti di istruzione autonomi, i quali vivono del reddito di patrimoni mobiliari ed immobiliari. La guerra, per il venir meno delle tasse di iscrizione di moltissimi studenti, li ha messi in una situazione finanziaria difficile, per cui essi avrebbero d’uopo dell’assistenza pubblica, sicché il chiedere ad essi un contributo sembra una ironia.

 

 

Questi sono piccoli nei facilmente emendabili in un nuovo decreto. La vera critica che si deve muovere al contributo è tecnico – tributaria e si riferisce alla base imponibile. Da questo punto di vista, il contributo è un vero orrore ed a studiarlo vien fatto di mettersi le mani nei capelli. Sarebbe necessario di occupare troppo spazio per mettere in luce tutte le disuguaglianze e le deformità che deturpano il congegno escogitato, non si sa come, per l’esazione del contributo.

 

 

Il peccato originale suo è di essere un tributo gravante non sul reddito del contribuente, ma sulle imposte da lui pagate al comune. Da questo peccato originale sono derivati svariati errori, l’uno più grottesco dell’altro. Io non dico che fosse facile assumere a criterio di tassazione il reddito dei contribuenti. Fino a che in Italia non esista una imposta complementare sul reddito complessivo dei contribuenti, non sarà possibile chiedere ai cittadini tributi straordinari ripartiti con tollerabile equità. Ma non era impossibile adottare un concetto simile a quello che fu accolto per l’imposta sugli esenti dal servizio militare fare la somma dei redditi di varia specie, posseduti dal contribuente, e già tassati dalle tre imposte dirette, integrare eventualmente la somma fino alla cifra superiore, già accertata ai fini dell’imposta di famiglia, e su tal somma di reddito applicare il contributo. Sarebbe stata una base tutt’altro che perfetta; ma sufficientemente chiara, comprensibile a tutti e rispondente approssimativamente al criterio comune di equità.

 

 

Si volle invece applicare il contributo sulla massa di imposte pagate dal contribuente al comune. Che cosa ne è venuto fuori? Ecco alcuni soltanto degli inestricabili nodi della matassa:

 

 

  • Le imposte sommate sono quantità eterogenee. Che cosa ha a che fare una cifra d’imposta pagata per i terreni con la tassa domestici od automobili o cani? Sempre ho sentito dire che la somma di cavalli ed asini, tavoli e calamai, querce e fili d’erba è una operazione aritmetica senza senso.
  • Le imposte sommate sono doppioni e triploni della stessa cosa. Lo stesso reddito prima è colpito dall’imposta fabbricati, poi dall’imposta di famiglia, nei comuni dove c’è, poi dalla tassa domestici, se chi ha il reddito tiene domestici e contemporaneamente dall’imposta sulle vetture automobili. Per effetto del puro caso, uno stesso reddito viene conteggiato in taluni comuni una volta sola, in altri due ed in altri tre, in proporzioni variabilissime.
  • Tenendosi conto non del reddito del contribuente, ma della sovrimposta pagata, accade che i cittadini abitanti nei comuni dove i centesimi addizionali sono molti pagheranno molto e quelli viventi nei comuni, in cui i centesimi sono pochi, pagheranno poco, e ciò a parità di reddito.
  • Siccome la stessa sovrimposta ha in realtà uno scarso peso, laddove ci sono estimi antichi dei terreni e lo ha altissimo, per i fabbricati o la ricchezza mobile valutati recentemente nello stesso comune, accadrà che i proprietari di fabbricati ed i contribuenti di ricchezza mobile paghino in realtà il doppio, il triplo e non di rado il decuplo dei proprietari di terreni; e ciò sempre a parità di reddito. Se si assumeva a base imponibile il reddito, l’inconveniente poteva essere notevolmente ridotto.
  • Poiché la sovrimposta «ideale» sulla ricchezza mobile si applica sull’imposta pagata da ciascun contribuente iscritto nei ruoli, non pagheranno nulla coloro che hanno redditi, ma non sono iscritti nei ruoli e cioè tutti gli impiegati e tutti i creditori dello stato, su cui l’imposta viene esatta colla ritenuta diretta.
  • Siccome si parla di contribuenti iscritti nei ruoli, rimane in aria il trattamento di quelli che pagano per interposta persona, la quale è, essa, iscritta nei ruoli. L’impiegato del comune, o di una società anonima, o di un industriale o di un ente morale che ha uno stipendio di 3000 lire, dovrebbe pagare, ad esempio, una sovrimposta «ideale» di ricchezza mobile di 100 lire, e quindi dovrebbe assolvere un contributo per l’assistenza di lire 10. Egli non pagherà nulla, perché nel ruolo non è iscritto; e c’è la possibilità che sia invece tassato il comune o l’ente o la società, con l’aliquota massima del 30%, perché il tributo complessivo dell’ente superera certamente le 2.000 lire. Avrà l’ente il diritto di rivalsa sull’impiegato? Se sì, perché fargli pagare 30 lire, invece delle 10 che gli sarebbero toccate secondo giustizia?Se no, con qual ragione si tassa l’ente su quello che per esso non è reddito, ma spesa?
  • Il contributo è dovuto sul complesso dei tributi pagati nel comune. Se ciò è ragionevole per i terreni e per i fabbricati, è il colmo dell’assurdo per la ricchezza mobile. Perché il comune di Milano o di Torino o di Roma deve prelevare contributo sui redditi di società, di enti, di casse di risparmio che hanno sede bensì nelle grandi città, ma i cui redditi sono stati prodotti nei comuni dove hanno sede gli stabilimenti o dove dimorano i depositanti, creditori ed impiegati? Perché questi secondi comuni non debbono ricevere nulla o poco, mentre pure le loro spese d’assistenza civile possono essere elevate?
  • Che cosa vuol dire «ruolo messo in riscossione nell’anno in cui il contributo è deliberato?» Tizio aveva redditi in contestazione per tre o cinque o dieci anni, su cui l’imposta viene iscritta a ruolo nel 1917. Egli in quell’anno paga un’imposta alta, la quale si riferisce a redditi di parecchi anni, venuti in tassazione accidentalmente nel 1917. Tassarlo sull’imposta da lui pagata nel 1917 equivale a tassarlo due o tre o dieci volte più di Caio che pure ha lo stesso reddito annuo. Evidentemente il legislatore non poteva voler dire una enormità simile; ma perché non ha scritto «ruoli relativi all’anno in cui il contributo è deliberato»?

 

 

Potrei seguitare a dipanare la matassa e mettere in luce gli inverosimili spropositi di cui è intessuto il congegno del contributo per l’assistenza civile. Dopo essersi messo le mani nei capelli, il lettore è tratto involontariamente a concludere che il compilatore dei decreti abbia cercato di fare ogni sforzo per rendere un tributo, dagli scopi sacri e patriottici, odioso ai contribuenti per le sue stridenti sperequazioni, fecondo di dissidi tra comune e comune, malviso alle autorità che lo debbono applicare. Poiché non può parlarsi di volontà deliberata di mal fare e di screditare la guerra, deve riconoscersi che si tratta di un caso tipico di quella furia di legiferare in modo improvvisato ed incoerente da cui è stata assalita dopo l’agosto 1914 la amministrazione italiana.

 

 

Per fortuna, i cittadini italiani hanno in questo solo caso un mezzo efficace per riparare alle male fatte della loro burocrazia: versare con oblazioni spontanee una somma proporzionata ai propri mezzi e superiore a quella richiesta dal legislatore. Il libro d’oro degli oblatori spontanei deve rendere inutile la lista nera dei contribuenti forzati!

 

 

A sua volta il dovere del ministro dell’interno e molto semplice. Modificare la base imponibile del contributo e nel frattempo prorogare al 31 dicembre 1917 il termine per i comuni per deliberare l’applicazione del contributo. Qualunque siano i suoi difetti tecnici, i comuni debbono applicarlo perché esso è l’unico mezzo per ridurre alla ragione quei pochi ostinati, i quali non hanno sentito il dovere di contribuire all’opera.

 

 

IV

Dal conto del tesoro si possono trarre altre notizie interessanti, oltre quelle relative alle spese di guerra ed alle maniere con cui vi si fece fronte. Tra le più importanti son quelle sul gitto delle imposte, tasse ed altre entrate effettive ordinarie dello stato. Ridotte in categorie ed in milioni di lire, gittarono nell’ultimo esercizio di pace (1913-14) ed in quello testé trascorso 1916-17:

 

 

 

1913-14

1916-17

Aumento o diminuzione

Entrate patrimoniali

46,6

26,5

– 20,1

Imposte dirette

540,8

1046,4

+ 505,6

Imposte sugli affari

292,5

444,9

+ 152,4

Imposte sui consumi

667,4

885,7

+ 218,3

Privative fiscali

551,9

846,4

+ 294,5

Servizi pubblici

213,4

308,9

+ 95,5

Entrate principali

2312,6

558,8

+ 1246,2

Entrate diverse e rimborsi e concorsi

178,9

861,2

+ 682,3

Totale

2491,5

4420,0

+ 1928,5

 

 

L’aumento più significativo lo si ebbe nelle imposte dirette: 505,6 milioni di maggiori entrate, per quattro quinti dovuti ad imposte di carattere permanente e per soli 99,5 milioni al tributo sui sovraprofitti di guerra, destinato a scomparire per la naturale cessazione, alla pace, dei profitti di guerra. Fortissimo è anche l’incremento del gettito delle privative fiscali: 294 milioni e mezzo, di cui 252,8 milioni dovuti al maggior provento dei tabacchi. Sono dunque 1 miliardo e 246,2 milioni di maggiori entrate che l’esercizio 1916-17 fruttò in confronto dell’ultimo anno di pace: e mi fermo a questi, perché l’aumento nelle entrate diverse e nei rimborsi e concorsi non ha carattere permanente, salvoché in parte. All’ingrosso si può supporre che quel che vi ha di permanente nell’aumento delle entrate diverse possa controbilanciare quel che di temporaneo vi è nelle entrate principali (sovraprofitti di guerra, tasse sull’esportazione, ecc. ); cosicché si possa far calcolo su circa 1 miliardo e 200 milioni di maggiori proventi già verificatisi. A questi bisogna aggiungere il gettito previsto in più per l’esercizio 1917-18 in conseguenza di provvedimenti già adottati, in confronto al gettito previsto per il 1916-17. Da uno specchietto annesso all’ultima esposizione dell’on. Carcano, si rileva che, non tenendo calcolo dell’imposta sui sovraprofitti di guerra, l’aumento ulteriore previsto, per decreti e leggi già vigenti, ammonta a 143 milioni di lire. Aggiungendoli a 1 miliardo e 200 milioni già verificatisi ed arrotondando le cifre, si può concludere che le entrate effettive ordinarie, sulle quali soltanto si può fare assegnamento, fruttano oggi 1 miliardo e 400 milioni di lire di più all’anno che nell’ultimo esercizio di pace.

 

 

Giova notare che al 30 giugno 1917 lo stato aveva, per causa della guerra, acceso debiti propriamente detti per 18 miliardi e 307 milioni di lire, oltre ai 3 miliardi e 107 milioni di biglietti ed a 1 miliardo e 300 milioni di vaglia del tesoro emessi in più. Poiché 18 miliardi e 307 milioni di lire si può calcolare costino 1 miliardo di lire all’anno di interessi, rimangono ancora disponibili 400 milioni circa, su 1 miliardo e 400 milioni di maggior gettito, per provvedere al servizio degli interessi degli 8 miliardi circa di debito, interno ed estero, che dovremo contrarre, ad interessi variabili dal 3,50% al 6%, nel secondo semestre del 1917. Gli aumenti di imposte già decretati ed aventi carattere permanente bastano a far fronte agli interessi dei debiti di guerra contratti e da contrarsi fino al 31 dicembre 1917. Questa è una conclusione confortante. Finora solo l’Inghilterra e gli Stati uniti possono dire altrettanto.

 

 

Aggiungo però subito, per non far nascere speranze chimeriche da una constatazione confortante, che l’era delle imposte nuove non è chiusa. Occorrerà invero ottenere nuovi proventi, per far fronte alle seguenti cagioni di maggiori spese:

 

 

  • interessi sui debiti i quali dovranno essere contratti per la prosecuzione della guerra dopo il 31 dicembre 1917;
  • interessi sui debiti di liquidazione della guerra;
  • interessi sul debito di liquidazione dei 3 miliardi e 107 milioni di biglietti e dei 3 miliardi e 300 milioni di vaglia del tesoro, i quali dovranno essere inesorabilmente ritirati;
  • onere delle pensioni alle famiglie dei morti in guerra, ai mutilati e invalidi della guerra;
  • incremento cosidetto naturale delle spese ordinarie civili e militari in confronto all’ultimo bilancio di pace.

 

 

Anche supponendo una fine relativamente sollecita della guerra – e nessuno può dire se l’ipotesi sia verosimile o non – è chiaro che non poche centinaia di milioni di imposte nuove dovranno essere stabilite. Ed è chiaro altresì che il problema del come e del quando stabilire le nuove imposte è un problema aperto fin d’ora, poiché quasi tutte le cagioni di spese non coperte esistono già, astrazion fatta della prosecuzione della guerra oltre il 31 dicembre 1917.

 

 

Il problema, gravissimo, non va discusso e neppure affrontato sullo scorcio di un articolo. Siano però consentite alcune riflessioni preliminari. Scopo delle imposte nuove è uno solo: mantenere intatto il credito dello stato, persuadere nazionali, amici e nemici che il bilancio dello stato è in grado di far fronte in qualunque momento agli oneri che lo gravano. La lode principale che bisogna dare all’on. Carcano ed ai colleghi suoi delle finanze durante la guerra, onorevoli Daneo e Meda, è appunto questa: di avere stabilito nuove imposte a mano a mano che l’onere del bilancio cresceva a cagione dei debiti contratti. Non dubito che il paese saprà rispondere all’appello ancora per parecchie e parecchie centinaia di milioni di più, così come ha fatto per il miliardo e i 400 milioni passati. Aggiungo che il tempo di guerra è quello più propizio all’istituzione di nuove imposte, sia perché le popolazioni più agevolmente si convincono della necessità di esse, sia perché in anni di prezzi crescenti l’onere reale delle imposte è minore di prima ed il loro inasprimento è spesso solo apparente. Se fosse possibile far incidere le imposte nuove solo su coloro che godono dei prezzi e dei redditi cresciuti, è evidente che, se in conseguenza della guerra i redditi industriali, agricoli, i salari ed i guadagni sono saliti da 1.000 a 1.500, i contribuenti possono pagare 150 invece di 100 ed in realtà non subire nessun aggravio. Di fatto, la complicazione è grande, perché v’ha chi ha visto aumentare e chi ha visto diminuire i propri redditi. Ma ciò non distrugge la verità dell’affermazione generale, che il tempo di guerra è il più adatto all’introduzione di imposte nuove.

 

 

È doveroso però, a questo punto, insistere fortemente su un’avvertenza, che è facile dimenticare, che fino ad ora si poteva dimenticare con una relativa impunità, ma che adesso sarebbe imperdonabile trascurare: esservi cioè imposte le quali giovano ed imposte le quali nuocciono al credito dello stato.

 

 

Purtroppo, è più facile adottare le prime delle seconde. Quando il ministro del tesoro chiede al suo collega delle finanze un omnibus finanziario, ad esempio, di 300 milioni di lire, e lo chiede subito, che cosa può fare quel disgraziato ministro delle finanze? Inventare lui o far inventare dai suoi direttori generali balzelli d’ogni specie, che in sostanza sono poi decimi, sopradecimi, centesimi ed aggiunte diverse, sotto mentite spoglie, ai tributi esistenti. Se i tributi esistenti fossero perequati, nessun male. Ma poiché non lo sono, ogni aggiunta cresce le iniquità esistenti e nuoce al credito dello stato. Alcun tempo venne perciò fatto oggetto di critica il congegno del tributo per l’assistenza civile. È il capolavoro nel genere dei tributi iniqui e sperequati. Andare al di là nel perfezionare le sperequazioni credo fosse umanamente impossibile. Ma ci sono parecchi altri tributi i quali, in grado minore, soffrono già di tali difetti.

 

 

Non noi soli ci troviamo dinanzi a questa difficoltà. In Francia recentemente fu presentato un omnibus finanziario, non però ancora tradotto in legge, in cui abbondano errori gravissimi. Vi è un tributo sugli oggetti comprati che sarà inapplicabile e fonte di vessazioni infinite. Vi è un balzello su coloro che in passato ricevettero eredità e donazioni che colpirà non solo quelli che oggi hanno un patrimonio, ma anche quelli che non l’hanno più e sono in miseria. Una cosa atroce ed inimmaginabile.

 

 

Tutto ciò perché in Francia ed in Italia soffriamo dello stesso vizio: facciamo un fascio solo delle imposte buone e cattive e non vogliamo persuaderci che le imposte cattive nuocciono al credito dello stato, più del disavanzo. Non serve dire: per ogni miliardo di debito nuovo mettiamo 50 o 60 milioni di imposte nuove. Non serve, neppure di fronte agli stranieri amici, i quali ci debbono far credito. Finora le sperequazioni furono meno dannose, perché relativamente tollerabili. D’or innanzi, un loro aumento sarebbe intollerabile.

 

 

Bisogna persuaderci che i soli strumenti tributari a cui si può ancora ricorrere sono quelli a cui ha fatto appello con tanto successo l’Inghilterra ed a cui stanno ricorrendo con successo ancor più meraviglioso, gli Stati uniti: l’imposta sul reddito (di cui l’imposta patrimoniale è una semplice variante) e l’imposta sui consumi non necessari. E notisi che il successo non è dovuto alla ricchezza di quei paesi. È dovuto all’equità, alla corretta distribuzione.

 

 

I discorsi e gli scritti dell’on. Meda dimostrano che egli è convinto di queste verità elementari. Occorre ed urge che se ne persuadano i suoi colleghi; importa che si cessi di infliggere al paese ad ogni piè sospinto un fastidioso omnibus tributario, fonte di nuove sperequazioni. Importa che l’opinione pubblica veda la gravità del problema ed insista, a costo di un ritardo di alcuni mesi, per l’adozione di una sana politica tributaria. Sperando altrimenti, nuoceremo al paese ed al credito dello stato, all’interno ed all’esterno.

 

 

V

L’imposta sugli esenti dal servizio militare era indubbiamente difettosa. La chiamata successiva di molte classi, la revisione di tutti i riformati aveva fatto scemare enormemente il numero dei contribuenti. La grandissima maggioranza delle quote da 6 lire rimanevano inesigibili e cagionavano alla finanza spese talvolta superiori, in certi distretti d’agenzie, al ricavo dell’imposta. Le ricerche del reddito dei parenti, obbligati in solido al pagamento del tributo, risultavano faticose e spesso infruttuose. Insomma l’imposta era, ed i più tra gli agenti lo confessavano, un insuccesso; sicché veniva praticamente trascurata.

 

 

Il ministro Meda ha voluto ridurla ad una struttura più snella, riducendo sovratutto il numero dei contribuenti e trasformandola da tributo autonomo in una addizionale alle imposte esistenti. Ambo i concetti sono approvabili. Qualunque giudizio si voglia dare sulla progressività e sulle esenzioni tributarie dal punto di vista economico e politico, una cosa è certa dal punto di vista tecnico-finanziario: che le quote minime, salvoché per i terreni ed i fabbricati, sono ingombranti, fastidiose, costose ed inesigibili. Costano e non rendono alla finanza. Meglio lasciar correre. L’esperienza ha anche provato che è inutile moltiplicare i nomi ed i tipi delle imposte. Poiché la base del tributo è solo il reddito del contribuente, è inutile sbizzarrirsi a chiamare con cento nomi diversi la stessa cosa. L’on. Meda ha avuto il merito di divorare, novello Saturno, un suo parto medesimo: il diritto del 5% sugli affitti, appena si è accorto che si trattava di un ingombrante duplicato della imposta sui fabbricati; e l’ha fuso con questa.

 

 

Come è concepita la trasformazione del tributo autonomo sugli esenti dal servizio militare in un’addizionale alle imposte esistenti?

 

 

  • Sono contribuenti in primo luogo coloro i quali sono iscritti direttamente sui ruoli delle imposte dirette sui terreni, sui fabbricati, di ricchezza mobile e sui proventi degli amministratori delle società per azioni. Occorre però pagare più di 30 lire di imposta erariale sui terreni, più di 500 lire sui fabbricati, più di 400 sulla ricchezza mobile e più di 275 lire di tributo sui proventi degli amministratori. Tutti quelli che pagano meno, e sono la grandissima maggioranza, sono esenti dalla nuova addizionale. Il calcolo si fa per ogni distretto d’agenzia; il che non ha alcuna importanza per l’imposta di ricchezza mobile, essendo noto che tutti i redditi mobiliari dei contribuenti vengono tassati in un solo comune, quello del domicilio; ma ha grande importanza per i terreni ed i fabbricati, in cui la tassazione avviene nei luoghi in cui gli immobili sono situati. Sicché i contribuenti dovranno, anche per l’addizionale, essere tassati in due o tre luoghi diversi, se essi posseggono immobili in due o tre distretti diversi d’agenzie.
  • L’addizionale è uguale al quarto del tributo erariale pagato. Chi paga 100 lire di imposte sui terreni ed è esente dal servizio militare pagherà 25 lire di addizionale; chi 1000 lire di imposta sui fabbricati o di ricchezza mobile, pagherà 250 lire di addizionale. Il calcolo è semplicissimo, per il contribuente e per la finanza. Badisi che si tratta di un quarto del tributo erariale e non del totale complessivo dell’imposta pagata. Bisogna cioè escludere le sovrimposte comunali e provinciali, su cui non cade, e giustamente, l’addizionale.
  • Coloro, che non figurano sui ruoli delle imposte dirette o vi figurano per quote inferiori a 30, 500, 400 e 275 lire rispettivamente per le tre imposte, possono tuttavia essere agiati. Epperciò, in via sussidiaria, ove costoro paghino più di lire 150 di imposta di famiglia o di quella sul valore locativo in un comune di almeno 100.000 o più di lire 80 in un comune di meno di 100.000 abitanti, saranno assoggettati ad un contributo uguale al quarto dell’ammontare di una delle due imposte, evidentemente la maggiore.
  • La definizione del contribuente esente dal servizio militare ed assoggettato all’addizionale è innovata profondamente. Mentre il vecchio contributo chiamava a concorso solo chi era compreso nell’età del servizio militare, il nuovo decreto assoggetta all’addizionale tutti i cittadini d’ambo i sessi e di qualsiasi età, i quali, essendo dotati di beni di fortuna, non si trovino sotto le armi, oppure non abbiano sotto le armi i figli o il coniuge, o il padre, ovvero non abbiano già dato alla patria, durante la guerra, il contributo personale proprio, o dei figli, o del coniuge o del padre per almeno un anno.

 

 

Anche questa innovazione è da approvarsi. Non vi è un nesso diretto fra l’età del contribuente e l’imposta militare. Questa è un tributo pagato in sostituzione del sacrificio di persona e di sangue che altri contribuenti sopportano. Quindi tutti quelli che non pagano personalmente o per mezzo dei figli o del coniuge o del padre il contributo personale, è corretto paghino il contributo di denaro. L’innovazione farà sì che il tributo renderà sul serio una somma notevole e trattandosi di addizionale, con poco disturbo della finanza.

 

 

Ma l’innovazione, che estende tanto il novero dei contribuenti, mette in luce più aspra i difetti dell’addizionale. Sono i soliti difetti che da anni vado predicando essere connaturati al nostro sistema delle imposte dirette; sono, in misura minore, ma pur sensibilissima, gli stessi difetti che deturpano il contributo per l’assistenza civile. La nuova addizionale infatti:

 

 

  • esenta, salvo la insufficiente correzione che dirò subito, tutti coloro che non sono tassati direttamente a mezzo dei ruoli. Sono legione: a) gli impiegati dello stato che pagano per ritenuta, gli impiegati delle provincie, dei comuni, delle opere pie, delle società per azioni, dei privati industriali che sono tassati al nome di chi li impiega, salvo rivalsa; b) gli obbligazionisti di società per azioni, i detentori di cartelle di credito fondiario, i possessori di azioni, i correntisti di banche e di casse di risparmio, che pagano tutti le imposte dirette, ma al nome degli enti, salvo rivalsa;
  • esenta, salvo la seguente correzione, tutti coloro che godono di redditi esenti od irraggiungibili dalle imposte dirette. Sono anch’essi legione: i detentori di titoli di debito pubblico, i possessori di titoli esteri, i percettori di redditi stranieri, i creditori chirografari o cambiari che frodano l’imposta di ricchezza mobile.

 

 

La correzione c’è; ma è di gran lunga insufficiente. L’on. Meda, evitando un errore grossolano commesso dal ministero degli interni con il tributo per l’assistenza civile, ha fatto entrare in scena le imposte di famiglia e sul valor locativo solo in via sostitutiva, per colpire coloro i quali non fossero iscritti direttamente sui ruoli.

 

 

Se le imposte di famiglia e sul valor locativo fossero in Italia bene congegnate, esse sarebbero lo strumento migliore per stabilire l’imposta militare. Ma così non è. Le due imposte non esistono in primo luogo in tutti i comuni. I contribuenti ricchi di redditi non direttamente tassati e residenti, per loro fortuna, in un comune dove l’imposta di famiglia o sul valor locativo non è stabilita, non pagheranno un soldo.

 

 

In secondo luogo, le due imposte sono per lo più accertate alla carlona. Si va da Milano, dove l’assetto è relativamente buono, a comuni dove l’imposta di famiglia, invece di essere proporzionale al reddito, è una specie di testatico grossolano. Quindi anche la nuova addizionale, poggiando su basi così sperequate, sarà un tessuto di iniquità!

 

 

Dico subito che il ministro delle finanze, in questa sede, non poteva far meglio. Per istabilire una imposta corretta sarebbe stato necessario dare alle finanze i mezzi per valutare ex novo tutti i redditi dei contribuenti, tassati direttamente od indirettamente, esenti o colpiti. Ma questa è un’impresa gigantesca, a cui gli uffici delle imposte, depauperati di personale, sono assolutamente impreparati nel momento presente. Oggi la loro attività, feconda, è compiutamente assorbita dall’imposta sui sovraprofitti di guerra. Affidare ad essi il compito di valutare ex novo il reddito degli esenti avrebbe creato negli uffici il guazzabuglio. Sarebbe stato il caos.

 

 

E così si torna sempre a battere sullo stesso chiodo. Tutte queste tasse e tassette a poco giovano, se prima non si è rinnovato l’assetto delle imposte esistenti e non si è creato la nuova imposta complementare sul reddito. Si aggiunge ingiustizia ad ingiustizia e si aumenta il disordine. Bisogna dare all’amministrazione delle finanze i mezzi necessari, il personale tecnico necessario; bisogna avere il coraggio di stabilire subito l’imposta sul reddito. Non varrebbe la pena di creare un lavoro enorme negli uffici finanziari per i pochi milioni, od anche per quella decina di milioni di lire che la nuova addizionale sugli esenti dal servizio militare può gittare. Sarebbe insensato far ciò. Ma è intollerabile che si seguiti a rigirarsi sempre nello stesso circolo vizioso delle fruste e sperequate imposte esistenti, caricandole di decimi e di addizionali d’ogni sorta, aumentandone le aliquote.

 

 

L’on. Meda ha pronto nel cassetto il progetto di riforma dei tributi vigenti sul reddito e di istituzione dell’imposta complementare sul reddito e sul patrimonio. In quel progetto l’imposta militare figura come una variante del tributo complessivo da pagarsi dagli esenti dal servizio militare. È noto, per dichiarazioni pubbliche, che l’on. Meda è animato dalla migliore buona volontà di presentare e far trionfare il progetto. Perché, a questo punto, non lo si applica per decreto reale, salvo presentazione al parlamento? Perché i pieni poteri finanziari servono a fare applicare imposte iniquamente distribuite e non possono servire a fare applicare un’imposta giusta? Tutta Italia plaudirebbe al ministro che avesse questo coraggio.

 

 

Chi, dei ministri, si oppone a ciò? Bisogna, dopo aver fatto ogni sorta di esortazioni platoniche, mettere il problema in questi termini concreti e precisi. Perché l’on. Boselli non vince, se ci sono, le ostilità di qualcuno dei suoi colleghi? Ha compiuto, il ministero nazionale, tali novità nel campo della legislazione, punto legittimate dallo stato di guerra, che ben potrebbe servirsi dei suoi pieni poteri per procacciare qualche centinaio di milioni all’anno all’erario.

 

 

VI

Un decreto luogotenenziale del 3 febbraio, di apparenze minuscole, dà luogo a melanconiche riflessioni sulla persistenza di cattive abitudini mentali nella burocrazia legiferante, che si sperava fossero venute meno. Quel decreto assoggetta alla imposta di ricchezza mobile in categoria A i redditi derivanti da condominio e da dominio diretto, tanto nel caso in cui il canone sia pattuito in denaro quanto nel caso in cui sia pattuito in derrate.

 

 

Per far comprendere ai lettori di che cosa si occupi il decretino, debbo ricordare una delle iniquità più stridenti del nostro sistema tributario: iniquità conclamata da tutti, universalmente riconosciuta, di cui si è invocata mille volte l’abolizione, non mai concessa per false preoccupazioni finanziarie. Si sa che, se un proprietario di terreni o fabbricati, provveduto di un reddito netto di 4.000 lire, ad esempio, ha contratto un mutuo, il quale gli costa 2.000 lire all’anno per interessi passivi, l’imposta sui terreni o sui fabbricati continua a colpirlo su tutte le 4.000 lire di reddito, mentre l’imposta di ricchezza mobile colpisce il creditore sulle 2.000 lire di interessi. Sulla quale ultima tassazione non vi è nulla da ridire, perché dove c’è il reddito, ivi deve cadere l’imposta. Ma qual mai giustizia vi è di continuare a tassare il proprietario indebitato, come se avesse ancora 4.000 lire di reddito, mentre egli di fatto ne riscuote certissimamente solo 2.000? La iniquità tributaria danneggia il credito, impedisce i mutui, scoraggia i miglioramenti agricoli e le costruzioni. In definitiva danneggia la finanza, la quale, per avida brama di immediato ed apparente lucro, distrugge le fonti produttive di reddito.

 

 

Di ciò parve che per un momento si persuadesse il ministero delle finanze quando dagli ultimi provvedimenti tributari esentò in parte i debiti ipotecari. Oggi, per una inesplicabile contraddizione, compie opera di vero regresso col decreto luogotenenziale 3 febbraio 1918. Conviene invero ricordare che dalla iniquità della doppia tassazione erano rimasti salvi certi canoni dipendenti da dominio o condominio diretto, di cui forse il più noto è il canone enfiteutico. Quando un proprietario di terreni concede in enfiteusi il fondo ad un colono, ed il colono si obbliga a pagare un canone di 1.000 lire, ad esempio, finora l’imposta rimaneva, come doveva essere, una sola: l’imposta sui terreni, la quale colpiva tutto il reddito netto fondiario del terreno, senza preoccuparsi se il reddito fosse goduto dal proprietario (cosidetto domino diretto) o dal colono (cosidetto utilista). Il reddito netto del fondo è uno solo, percepito dal colono e da questi in tutto od in parte trasmesso al domino diretto. L’imposta era, sinora, una sola, pagata dal colono e ripartita tra i due, a seconda delle private convenzioni.

 

 

Ciò era corretto, e poteva servire di modello per riparare la iniquità gravante sui proprietari indebitati. Ma la burocrazia legiferante ha una concezione tutta sua della «giustizia tributaria». Non pensa mai a togliere le tassazioni sperequate inique; ma trae esclusivamente pretesto dalla esistenza di una iniquità per gridare essere uno scandalo che da essa siano immuni taluni contribuenti che essa perciò qualifica «privilegiati». Nel caso nostro, non è, per la burocrazia, uno scandalo la doppia tassazione del proprietario indebitato; ma lo è il fatto che dalla doppia iniqua tassazione taluno, per dimenticanza, abbia potuto scampare. Ed eccoti un bel decreto che lascia soggetto il colono enfiteuta a tutta l’imposta fondiaria, come se egli godesse tutto il reddito e non dovesse pagare il canone, e colpisce il domino diretto con l’imposta di ricchezza mobile.

 

 

In tal guisa si sovverte il diritto privato, il quale a ragione reputa il domino diretto essere vero proprietario del fondo ed artatamente lo si trasforma in un semplice creditore ipotecario. Si dà il colpo definitivo di mazza sull’istituto dell’enfiteusi, a favore di cui si sono fatti tanti discorsi in parlamento e scritte tante relazioni ministeriali, e che davvero meritava tutt’altra sorte in un momento in cui tanto si parla di «terra ai contadini», di «spezzamento del latifondo» a favore dei soldati reduci, ecc. ecc. Si ribadisce l’errore della doppia tassazione e si rende il tesoro vieppiù restio, per grette ragioni di apparente profitto, a qualunque riforma tributaria.

 

 

Ma, si può osservare, trattarsi di legislazione di guerra, duratura solo per il 1918 e il 1919, e che domani potrà essere abolita. In argomento di imposte di guerra, non occorre guardar tanto per il sottile. Si danno sciabolate a destra ed a sinistra e tocca a chi tocca.

 

 

Falsissimo concetto, il più falso e deleterio di quanti mai se ne espressero in questa guerra, durante la quale purtroppo tanti vecchi pregiudizi e spropositi economici vennero a galla! Non io solo, ma tutti coloro che in Europa hanno meditato sulla finanza della guerra attuale, attribuiscono la condotta sua timida ed, importa dirlo, sinché si è in tempo, assai meno coraggiosa ed assai più preoccupante della condotta tenuta durante le ultime grandi guerre europee, che furono quelle rivoluzionarie e napoleoniche, precisamente alla politica delle «sciabolate». Sono le iniquità e le sperequazioni esistenti, sono le sperequazioni inconsultamente cresciute durante la guerra, quelle le quali rendono perplessi gli uomini di governo dinanzi al dovere imperioso, urgentissimo di aumentare le imposte. In Italia ho ricevuto lettere strazianti di gente indebitata, impossibilitata a pagare, su cui si abbatte una gragnuola spaventevole di imposte nuove o di imposte vecchie cresciute. Una iniquità è tollerabile se l’imposta è mite, diventa insopportabile quanto più le imposte si aggravano e giungono alle fantastiche aliquote italiane – tra imposta di stato ed imposte locali – del 30, 40, 100, 200 e talora più per ogni 100 lire di reddito. Se ne ridono coloro il cui reddito è sottovalutato; ma gli altri si vedono scarnificati sino all’osso. Andare in là nel tassare su questa via non si può. Perciò si esita a stabilire imposte quante si dovrebbe; e si emettono biglietti. Ma l’emissione crescente dei biglietti, esclusivamente dovuta alla paura od alla difficoltà di mettere imposte bastevoli, conduce ad un rialzo fantastico del costo della vita. È una corsa sfrenata verso una meta ignota.

 

 

Si capisce ora perché il conte di Cavour dicesse che il tempo delle riforme tributarie è il tempo di guerra e non il tempo di pace. Ora e non dopo è il tempo di abolire le iniquità e di perequare per poter tassare sul serio e frenare la macchina tributaria, la quale va alla deriva. La piccola tassetta, ricordata in questo articolo è l’indice di un andazzo che urge far cessare. La burocrazia finanziaria immagina che la guerra serva soltanto per compiere impunemente qualche colpo di mano, per racimolare a destra ed a sinistra qualche centinaio di migliaio di lire o qualche milione alla meglio, senza alcun motivo, pur di mettere insieme i milioni.

 

 

Duole assai dover dire che i milioni in tal modo non si fanno, ma si disfano. Crescono le cifre apparenti delle entrate di bilancio, si gitta polvere negli occhi al pubblico; ma non crescono le entrate effettive, veramente ristoratrici. Quanta polvere negli occhi non v’è nelle centinaia di milioni del centesimo di guerra, del bollo sui contratti di forniture, del tributo sui sovraprofitti!

 

 

Macchina indietro dunque ed a tutta velocità nelle imposte inique, sperequate, a sciabolate; e macchina avanti nelle riforme veramente produttive. Perché si osa applicare soltanto le prime per decreti luogotenenziali e non anche le seconde? Se si giudica che debbono essere recati dinanzi al parlamento i progetti di imposta sul reddito, perché non debbono essere fatti discutere pubblicamente decreti, come quello odierno, che riportano di cent’anni indietro la legislazione italiana, che turbano il diritto privato ed uccidono un istituto a cui molti attribuiscono efficacia grande – ove non sia martoriato dal legislatore – nella soluzione di taluno dei più gravi problemi terrieri del dopo guerra?

 

 

VII

Essendomi occupato nell’articolo precedente di un disgraziato decreto del 3 febbraio 1918 il quale assoggettava all’imposta di ricchezza mobile per gli anni 1918 e 1919 i canoni provenienti da condominio o da dominio diretto, mi corre obbligo di far cenno di un nuovo decreto del 18 marzo, il quale vuole correggere alcuni degli errori commessi la prima volta. Le novità introdotte sono le seguenti:

 

 

  • Un proprietario il quale ha dato in enfiteusi il suo fondo per un canone annuo di lire 1.000 può essersi obbligato verso il colono (o può essere obbligato per vecchie leggi o consuetudini) a rimborsargli metà dell’imposta fondiaria sui terreni pagata dal colono, ad esempio, 200 su 400 lire. Col decreto del 3 febbraio egli sarebbe, anche visibilmente, stato colpito da due imposte le 200 lire di imposta terreni, anticipate all’erario dal colono e da questi trattenutegli all’atto del pagamento del canone e le 200 lire di nuova imposta di ricchezza mobile. Col nuovo decreto il colono non avrà più il diritto di eseguire la ritenuta delle 200 lire di imposta terreni sul canone ed il domino diretto pagherà solo la nuova imposta di ricchezza mobile.

 

 

La nuova disposizione prova quanto sia difficile rimediare bene ad un malanno commesso. Rimane l’ingiustizia di far pagare al domino diretto l’imposta di ricchezza mobile su un canone di natura fondiaria e che dovrebbe pagare ed essere inciso perciò dalla imposta terreni. Inoltre, perché il colono, al quale spettava il rimborso in tutta o in parte dell’imposta fondiaria, deve sopportarla intieramente? Forseché egli ha tutto il reddito fondiario? No; ché egli ne deve trasmettere lire 1.000 al proprietario. Il legislatore può sempre aumentare le imposte, quando lo ritenga necessario; ma non può, senza commettere una solennissima ingiustizia, accollare a Tizio un’imposta, quasiché egli avesse un reddito, che invece non ha. Né dicasi che in molti casi il colono non ha il diritto di ritenuta dell’imposta terreni contro il proprietario; perché in tal caso il canone sarà stato fissato in 800 invece che in 1.000 lire.

 

 

  • La nuova imposta di ricchezza mobile sarà dovuta, in virtù del nuovo decreto, sempre dal percipiente il canone, malgrado ogni patto in contrario stipulato nelle convenzioni originarie o in atti successivi.

 

 

Il principio è ottimo ed io lo vorrei applicato a tutti i redditi di qualunque specie. Se non dovessi andare troppo per le lunghe, potrei dimostrare che la nullità assoluta, insanabile di ogni convenzione relativa ai rimborsi privati di imposta, di ogni rinuncia al diritto di esercitare la rivalsa e la obbligatorietà, anzi, della rivalsa sui percettori del reddito possa essere feconda di sana educazione politica per i contribuenti e di decine di milioni per il fisco. Ma trattasi di nullità da comminarsi per l’avvenire. La retroattività delle leggi d’imposta, come delle altre leggi, può cagionare effetti impensati. Nel caso nostro, quando proprietario e colono si accordarono nel fissare, ad esempio, un canone di lire 800 netto da ogni imposta, ciò accadde perché il canone fu diminuito in proporzione all’imposta terreni e perché si riflette che se l’imposta poteva aumentare a tutto danno del colono, anche il reddito del fondo sarebbe aumentato a tutto beneficio del colono, il canone dovendo rimanere invariato in perpetuo. Il che sta accadendo durante la guerra presente. I canoni enfiteutici, stabiliti in cifra fissa ed invariabile, subiscono un deprezzamento fatale, come tutti i redditi espressi in lire, salvo i meno numerosi casi in cui non siano ancora stati convertiti in moneta. Invece i coloni hanno avuto il beneficio dei maggiori prezzi e dei cresciuti redditi. Manco a farlo apposta, la nuova imposta colpisce colui il cui reddito rimase invariato in lire e diminuì in potenza d’acquisto e lascia illesi gli utilisti che godettero l’aumento di reddito!

 

 

  • Finalmente dall’imposta nuova saranno esenti i canoni dipendenti da enfiteusi costituite posteriormente al 31 dicembre 1907 e quelli inferiori al valore di lire cinque italiane. Buona norma, se considerata in se stessa e che deve avere per iscopo di non inferocire da un lato contro canoni minimi e quasi sempre inesigibili e dall’altro di non scoraggiare per l’avvenire i contratti di enfiteusi che potrebbero, specie nel mezzogiorno d’Italia, giovare all’attuazione del programma della terra ai contadini. Ma se l’esenzione è giusta per le nuove enfiteusi, perché deve essere sbagliata per le vecchie? Non è forse vero che anche per queste si viene a colpire due volte con due imposte diverse, sui terreni e sulla ricchezza mobile, il medesimo reddito? E non è probabile che appunto i canoni vecchi, stipulati in somme di solito più tenui a parità di reddito del fondo, siano i maggiormente gravati dell’imposta ingiusta?

 

 

In conclusione: per correggere sul serio il decreto del 3 febbraio, occorre abolirlo. E persuadersi che le sole imposte tollerabili sono quelle perequate.

 

 



[1] Con il titolo La riforma tributaria dell’on. Meda. [ndr]

[2] Con il titolo Il nuovo omnibus tributario. [ndr]

[3] Con il titolo Il contributo per assistenza civile. [ndr]

[4] Con il titolo Il gettito dei vecchi omnibus tributari e la scelta delle imposte nuove. [ndr]

[5] Con il titolo La nuova imposta addizionale.[ndr]

[6] Con il titolo La politica delle «sciabolate» tributarie. [ndr]

[7] Con il titolo Le correzioni al decreto delle sciabole tributarie. [ndr]

I divieti inglesi di importazione. Imitiamo l’alleata!

I divieti inglesi di importazione. Imitiamo l’alleata!

«Corriere della Sera», 28 febbraio 1917

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 506-509

 

 

Un giudizio approssimato delle cause dei gravi provvedimenti restrittivi all’importazione in Inghilterra annunciati dal signor Lloyd George non può darsi senza riportare alcune cifre intorno al commercio internazionale dell’Inghilterra. Dalle statistiche pubblicate dall’«Economist» traggo i seguenti dati (in milioni di lire italiane):

 

 

1915

1916

Importazioni

21.300

23.750

Esportazioni e riesportazioni

12.100

15.100

Sbilancio commerciale

9.200

8.650

 

 

A questo sbilancio occorre aggiungere le importazioni belliche, direttamente compiute per conto dello stato, le quali non figurano nelle statistiche; ed intorno a cui nessun dato ufficiale si conosce. Da alcune cifre, l’«Economist» crede di poter dedurre fondatamente che le importazioni non comprese nelle statistiche siano salite nel 1916 a 15 miliardi e 600 milioni, portando lo sbilancio commerciale a 2 miliardi e 250 milioni di lire italiane.

 

 

I divieti di importazione di merci non necessarie ed anche di una parte di quelle necessarie hanno dunque per l’Inghilterra due ragioni:

 

 

  • Diminuire lo sbilancio commerciale e scemare così alquanto la necessità di esportare oro e di vendere titoli esteri negli Stati uniti. Le riserve d’ oro sono sempre state scarse in Inghilterra e oggi devono compiere un lavoro ben più arduo di prima, nell’interesse di tutti gli alleati. Le disponibilità di titoli esteri non sono indefinite; e ciò che rimane e necessario duri sino alla fine della guerra se si vuole che gli Stati uniti continuino a venderci munizioni, grano e cotone.
  • Diminuire l’ingombro nel tonnellaggio di entrata nell’Inghilterra e far sì che la marina mercantile possa bastare, anche in faccia alla minaccia dei sottomarini, al suo gigantesco compito di approvvigionamento degli alimenti necessari, del carbone, dei minerali, dei metalli e delle altre cose necessarie alla vita.

 

 

Poiché non vi è nessun dubbio sulla necessità del provvedimento inglese, poiché l’unica critica possibile è quella sul ritardo con cui si addivenne alla decisione necessaria, sarebbe stolto perdere il tempo in recriminazioni egoistiche. La salvezza comune richiede che gli alleati concordi escogitino i provvedimenti migliori nell’interesse di tutti e di ognuno.

 

 

Praticamente, perciò, le sole domande a cui importi rispondere nel momento presente sono le seguenti: quali effetti può avere per l’Italia il provvedimento inglese e quale azione dobbiamo noi svolgere in conseguenza di esso?

 

 

Ecco quale fu, secondo le statistiche inglesi, il commercio fra l’Italia e l’Inghilterra (in milioni di lire italiane):

 

 

1914

1915

1916

Esportazioni dall’Italia in Inghilterra

217,6

281,9

281,9

Importazioni dall’Inghilterra in Italia

322,6

351,3

511,5

 

 

Naturalmente le statistiche italiane danno cifre alquanto differenti: sia perché i dati nostri sono espressi in lire-carta invece che in lire-oro, sia perché le nostre statistiche usano prezzi antiquati e calcolati da una commissione governativa, mentre in Inghilterra si usano prezzi correnti per calcolare il valore delle merci importate ed esportate; sia perché noi calcoliamo le merci esportate al prezzo sulla banchina del porto di Genova, mentre gli inglesi calcolano le stesse merci, che per loro sono «importate» al maggior prezzo che hanno acquistato sulle banchine del porto di Londra, mentre il fatto contrario si verifica per le merci che per gli inglesi sono esportate, mentre per noi sono importate, ecc.

 

 

1913

1914

1915

1916

Esportazioni dall’Italia in Inghilterra

260,5

305,7

337,7

324,2

Importazioni dall’Inghilterra in Italia

591,8

504,9

487,9

906,1

 

 

È enormemente aumentata l’importazione dall’Inghilterra in Italia; e basti ricordare che il carbone, valutato nel 1913 a 324,2 milioni di lire, era salito a 482,9 nei soli primi dieci mesi del 1916. Ma anche le nostre esportazioni in Inghilterra, valutate sia alla stregua dei dati inglesi, sia a quella dei dati italiani, erano notevolmente cresciute.

 

 

Oggi noi siamo chiamati a fare un sacrificio nelle esportazioni per la nostra grande alleata.

 

 

Il danno e lo squilibrio esistono indubbiamente. Quali i rimedi?

 

 

Accenno soltanto ad un primo rimedio, il quale ha tratto all’azione diretta dello stato per sorreggere i nostri cambi. Supponiamo che, per conseguenza del bando inglese, le nostre esportazioni si riducano da poco meno di 400 milioni di lire quante si avviavano ad essere, in ragione d’anno, a 200 milioni. Affinché il nostro cambio non peggiori per questa causa bisognerebbe che il governo italiano ottenesse, coll’intermediazione del governo inglese, una apertura di credito, maggiore di quelle già ottenute, per l’identica cifra di 200 milioni di lire. Non dico che ciò sia facile: ma ritengo certo che l’Inghilterra sarà tanto meglio in grado di concedere prestiti agli alleati quanto più gli inglesi ridurranno allo strettissimo indispensabile i loro acquisti all’interno ed all’estero. Dall’agosto 1914 il giornale che ho citato dianzi, l’«Economist», insiste su questo concetto; ed a poco a poco anche i grandi giornali quotidiani, i quali prima predicavano: vivete come al solito, vivete come se la guerra non esistesse, hanno finito per persuadersi. Ora, anche il governo inglese si è persuaso ad agire energicamente nel senso della economia più rigida.

 

 

È un male che siano stati necessari i sommergibili tedeschi a persuadere governo e governati della verità che gli economisti hanno cominciato a predicare subito, appena scoppiata la guerra. Meglio tardi che mai. Se i sommergibili tedeschi insegneranno agli alleati la necessità dell’economia fino all’osso, essi finiranno forse di essere benemeriti per la nostra condotta della guerra.

 

 

In primo luogo, dunque, l’Inghilterra sarà meglio in grado di far credito agli alleati.

 

 

In secondo luogo Francia ed Italia devono imitare l’alleata e decretare contro le provenienze degli alleati e dei neutri le medesime proibizioni draconiane di cui l’Inghilterra ha preso l’iniziativa. Che cosa ci stanno a fare, ad esempio, i 1331 chilogrammi di lavori d’oro e d’argento che l’Inghilterra ha importato, per 760.000 lire in Italia, nei primi 10 mesi del 1916? Ed i 6,6 milioni di strumenti scientifici che noi comperammo pure dall’Inghilterra, sono davvero tutti necessari? Perché il governo non proibisce sino alla fine della guerra l’importazione dei libri (salvo le riviste ed i periodici, di cui rimarrebbero, dopo, rovinate le raccolte), degli orologi, dei gioielli, ecc.? Che ragione ha l’importazione dall’Inghilterra di 1,9 milioni di lire di mobili ed altri lavori di legno? Non si potrebbe risparmiare la maggior parte dei 3,4 milioni di lire di mercerie inglesi?

 

 

Tutti gli alleati hanno l’interesse più evidente di interrompere il commercio sia di importazione che di esportazione delle cose meno urgenti: quello di importazione per non crescere per ragioni private l’indebitamento verso l’estero, già colossale per ragioni pubbliche; quello di esportazione per costringere, entro i limiti del possibile, gli addetti a tali industrie a fare altri mestieri (coltivare la terra e fabbricare munizioni), importanti amendue per risparmiare tonnellaggio. L’intesa più cordiale deve esistere in tal senso tra i diversi popoli alleati. Solo così sarà possibile che il forte sorregga il debole, e che tutti conseguano l’intento comune.

 

 

Prezzi del frumento, premi, tessere e produzione agraria

Prezzi del frumento, premi, tessere e produzione agraria

«Corriere della Sera», 18 febbraio[1], 6 marzo[2], 1 giugno[3], 27 luglio[4], 13[5] e 16[6] settembre, 14 ottobre[7] 1917, 28 agosto 1918[8]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 466-505

 

 

I

Batti e ribatti, il ministro di agricoltura si è finalmente deciso a far comunicare dalla Stefani il gran segreto che, a sentir dire, andava confidando a quanti gli discorrevano della necessità di non ritardare oltre la pubblicazione dei risultati della revisione, promessa al parlamento, dei costi di produzione dei cereali. L’annuncio giunge in gran ritardo per la più gran parte delle semine del frumento e degli altri cereali invernenghi. Purtroppo, specie nell’alta Italia, il prolungarsi della stagione rigida ed il permanere delle nevi sul terreno impedirà di preparare convenientemente il terreno per le semine del grano marzuolo; e nel mezzogiorno questa cultura è sempre stata troppo aleatoria e soggetta alle strette di caldo per potersene ripromettere grandi risultati. Il male irreparabile fu compiuto quando l’anno scorso si ridusse, per motivi politici di popolarità, il prezzo del frumento tenero da 41 a 36 lire, inducendo così gli agricoltori a ridurre la superficie seminata a frumento.

 

 

Dobbiamo aver fiducia che stavolta i calcoli siano stati fatti giustamente, in modo da spingere gli agricoltori a fare il massimo sforzo nella entrante primavera. Il problema non è di seminare ad ogni costo e dappertutto frumento marzuolo. Questo cestisce assai limitatamente; e quindi gli agricoltori lo semineranno solo in quei casi, forse per il volgere avverso della stagione non molto numerosi, in cui si possa avere un provento remunerativo. Ma può darsi che i terreni non adatti al frumento, lo siano alle patate, al granoturco, alla segale, all’orzo, ai fagiuoli, alle fave. I prezzi delle patate, dei fagiuoli e delle fave fortunatamente non sono soggetti a calmiere; quindi possono andare abbastanza in su da rimunerare i coltivatori. Giova credere che l’esperienza abbia ammaestrato anche le teste più dure; e che sindaci e prefetti si asterranno dall’imporre massimi locali di prezzo alle derrate libere. Perché il ministro di agricoltura non farebbe una circolare per impartire un po’ di catechismo economico alle autorità locali, vietando di mettere calmieri nei casi in cui lo stato non crede di intervenire?

 

 

Occorre persuadersi che il problema capitale non è l’alimentazione fino al nuovo raccolto; sibbene quella dell’anno agrario 1917-18. Alla alimentazione dell’anno corrente con qualche sforzo si sta provvedendo; e non ritengo vi siano da avere al riguardo eccessive preoccupazioni. Un paese vasto non rimane sprovvisto d’un colpo di tutte le sue riserve alimentari palesi e nascoste. Occorre un paio d’anni prima che si giunga a questo punto; prima che i contadini abbiano dato fondo alle riserve di grano che, anche nei tempi normali, si trasmettono da un anno all’altro. È questa l’opinione altresì dell’ufficio statistico dell’istituto internazionale di statistica, il quale sino dall’ottobre 1916 prevedeva che si sarebbe entrati nella nuova campagna 1917-18 «con uno stock di cereali praticamente nullo». A questa serissima situazione di cose non si può rimediare se non col dare il maggiore impulso possibile alle semine per i raccolti autunnali. Incoraggiare la cultura delle patate primaticce non giova a nulla: poiché, ripeto, il nostro problema non riguarda la primavera, sibbene il futuro anno agrario. Occorrono patate, granoturco, fave, fagiuoli da raccogliersi in autunno. L’aumento dei prezzi ora decretato potrà contribuire all’uopo; ma gioverebbe anche la conoscenza diffusa tra gli agricoltori che, se essi coltiveranno nel settentrione granoturco e fagiuoli e nel mezzogiorno fave, a nessun ministro o prefetto o sindaco salterà in mente di impedire loro, con un calmiere cervellotico, di godere dei frutti della propria fatica.

 

 

Gioverà altresì che, mentre gli agricoltori si preparano alle semine, una qualsiasi autorità non ponga loro bastoni fra le ruote. A me è stato raccontato da persona autorevole che una federazione agraria aveva fatto un grande ammasso di patate per distribuirle prossimamente fra gli agricoltori a scopo di semina. Viene l’autorità militare e, senza sentir ragioni, requisisce tutto. È la ripetizione delle magnifiche mucche svizzere, comprate ad alto prezzo per la produzione del latte, le quali furono requisite e macellate per ricavarne un valore di carne inferiore al valore del latte che in un anno le mucche avrebbero potuto produrre.

 

 

Uno scandalo che deve essere fatto assolutamente cessare è quello dei divieti interprovinciali di esportazione per i cereali. L’anno scorso scrissi un articolo contro questi divieti, mantenuti per i cereali nonostante che il ministro Raineri avesse in una bella circolare dimostrato il danno e l’ingiustizia di cotesti medioevali vincoli al commercio interno. Il ministero d’agricoltura in uno sconclusionato comunicato cercò di giustificare l’eccezione mantenuta per i cereali; ma oggi si vedono i frutti di quella spropositata politica economica. Una lettera inviata da persona pratica alla direzione del «Corriere» mette in vivida luce la baraonda derivante dai divieti di esportazione. Provincie prive di mulini, le quali supplicano prefetti, ministri, commissari generali ai consumi affinché sia data licenza di importare farine da provincie, dove le farine ridondano ed i mulini sarebbero pronti ad inviarne carri a decine. Ministri e commissari che fanno l’indiano o consigliano di rivolgersi ai consorzi granari locali, i quali hanno provviste irrisorie ed affatto insufficienti ai bisogni locali.

 

 

La farina – aggiunge lo scrittore della lettera – non e più un prodotto che offra un margine di speculazione. Tra i calmieri di stato e quelli comunali i prezzi sono fissati in modo tale che chi trasgredisce paga di tasca. Non si può quindi supporre che chi chiede un carro di farina non lo chieda per il pane delle masse; ed impedire il travaso normale dalle zone di abbondanza relativa a quelle dove non vi è ne farina né grano significa impedire l’automatico assestamento delle quantità disponibili e provocare situazioni gravi e pericolose.

 

 

L’abbondanza delle farine in una provincia fa sì che il consumo avvenga ivi in modo normale, senza alcuna restrizione: mentre la scarsità in altre regioni, invece di essere sopportata con la rassegnazione connaturata agli avvenimenti generali, è vista con ira, per il confronto evidente con la vicina abbondanza.

 

 

In fondo a tutti questi errori vi è il pregiudizio che sia necessario ed opportuno mantenere il frumento, le farine ed il pane al massimo buon mercato possibile. Questo pregiudizio spiega le preoccupazioni evidenti del ministro di giungere troppo presto coll’annuncio del prezzo del frumento, per la paura che i detentori preferissero di attendere il nuovo raccolto per vendere il frumento vecchio al prezzo di 45 lire invece che al prezzo odierno di 36 lire. Ho spiegato altra volta che, se si doveva avere questa paura, non giovava ritardare l’annuncio ufficiale del rialzo del prezzo; poiché detentori e speculatori già si astenevano dal vendere in previsione dell’aumento sussurrato dal ministro nell’orecchio degli amici e dei giornalisti; e l’annuncio ufficiale odierno non aggiunge nulla alla tendenza eventuale all’accaparramento già esistente.

 

 

Ma – e qui sta il nocciolo della questione – si deve sul serio aver paura dell’accaparramento, o meglio dell’aumento immediato del prezzo del frumento, delle farine e del pane in relazione all’aumento futuro oggi annunciato? La scelta è far conservare al pane per qualche mese il livello attuale di circa 50 centesimi al chilogrammo invece di quello di 60 centesimi, che si renderà necessario al nuovo raccolto, dato l’accresciuto prezzo del frumento.

 

 

Notisi che il prezzo del pane è oggi sostanzialmente e notevolmente ribassato in confronto al prezzo anteriore alla guerra. A Torino, l’Alleanza cooperativa vendeva nel semestre del 1914 il pane di frumento a 38 centesimi il chilogrammo; oggi lo vende a 48 centesimi. Ma 38 centesimi antebellici erano 38 centesimi veri e propri; mentre i 48 centesimi d’oggi, per lo svilimento del 30% della carta-moneta, equivalgono a 33 centesimi d’allora. Sicché si può affermare che il prezzo del pane in realtà è diminuito di 5 centesimi, ossia del 14% in confronto ai prezzi anteriori alla guerra. Portare il prezzo del pane, come si dovrà al nuovo raccolto, da 48 a 60 centesimi equivarrà, in confronto al prezzo antico di 38 centesimi, ad un aumento apparente del 57%, ma reale di appena il 10%.

 

 

Giova mantenere ad un prezzo artificialmente basso la derrata alimentare di cui vi è maggiore scarsezza, di cui si predica e si vorrebbe imporre il risparmio? Sempre si è saputo che i prezzi bassi favoriscono il consumo; e che dove non è possibile il razionamento – e questo è difficilissimo per non dire praticamente impossibile in un paese semi-agricolo, con situazioni sociali differentissime come l’Italia – l’unico rimedio efficace contro il consumo eccessivo è il rialzo del prezzo. Oramai il pane è l’alimento più a buon mercato che esista in Italia: più a buon mercato delle patate. Quale meraviglia che il consumo cresca invece di diminuire?

 

 

Sovratutto giova mantenere un regime provvisorio di prezzi bassi per alcuni mesi colla prospettiva di un rialzo inevitabile futuro? Il risultato immancabile saranno i tanto deprecati accaparramenti, o meglio la detenzione nascosta delle piccole riserve da parte dei contadini, le requisizioni odiose contro costoro, l’inacerbimento, alla foggia tedesca, dei rapporti fra città e campagna. Non sarebbe meglio adattarsi senz’altro e subito alla nuova situazione delle cose, che fra qualche tempo si imporrà con la forza dell’evidenza? Risparmierebbe l’erario, il consumo sarebbe automaticamente frenato, e gli accaparramenti non avrebbero ragione d’essere. L’aumento non ferirebbe tutte le modeste borse; ma quelle soltanto che non hanno ottenuto dalla guerra il beneficio di un aumento di salario. Per costoro, a me pare raccomandabile la proposta che l’amico on. prof. G. Mosca fa sull’ultimo fascicolo della «Nuova antologia» (1 febbraio 1917): di vendere a prezzo ridotto il pane per mezzo dei comuni o delle congregazioni di carità alle famiglie realmente povere. Potrebbe giovare, forsanco, l’aumento dei sussidi alle famiglie dei richiamati, quando però si potesse avere qualche ragionevole prova che il sussidio non va sperperato, come oggi purtroppo accade su vasta scala, in dolci od altri consumi inutili e d’ornamento.

 

 

II

Non conosco le condizioni dell’approvvigionamento frumentario dell’Italia nel momento presente; sebbene mi sembri probabile che sia assicurato il fabbisogno sino al nuovo raccolto. Ma, pur partendo da questa ipotesi, è doveroso agire come se fosse vera l’ipotesi contraria. In tempo di guerra, il comandante deve sempre fare le ipotesi più sfavorevoli per se stesso e più favorevoli al nemico; e così pure il commissario ai consumi deve agire come se gli approvvigionamenti sicuri fossero insufficienti a condurci sino al nuovo raccolto. Tanto meglio se poi risulteranno tali da permetterci di non intaccare il nuovo raccolto sino alla fine d’agosto. Sarà tanto di risparmiato nel tonnellaggio navale necessario a colmare le deficienze dell’anno prossimo. Fa d’uopo insomma agire e non più soltanto predicare per inculcare ai consumatori l’obbligo della economia più stretta nei consumi.

 

 

Quali sono le maniere efficaci di azione in tal campo?

 

 

Suppongo innanzi tutto che sia tolta ai consumatori la possibilità di distrarre farine dagli usi fondamentali: pane e paste alimentari. Ove la prudenza consigli ad agire come se il frumento non potesse durare sino al nuovo raccolto salvo limitandone il consumo, sarebbe delittuoso consentirne l’uso sotto forma di panettoni, pasticcerie, dolci. Ciò equivarrebbe a togliere il pane di bocca alle famiglie con mezzi ristretti per darlo a chi può e vuole spendere in cose non indispensabili. Si fabbrichino i dolci con qualche altra materia prima, si inventino surrogati, ma non si adoperi farina né di frumento, né di granoturco, né di riso, né di legumi.

 

 

Posto ciò come un assioma, fa d’uopo dir subito che, da che mondo è mondo due soli mezzi sono risultati efficaci per produrre l’economia nei consumi: il razionamento ed il rincaro. Amendue danno luogo a difficoltà, che è opportuno mettere in luce.

 

 

Il razionamento è in uso nelle piazze e nei paesi assediati; ed in date contingenze è l’unico sistema possibile. È meglio consumare solo 300 grammi di pane al giorno per tutto il periodo critico di 150 giorni, piuttostoché consumare 400 grammi per 112 giorni e non possedere più nulla per i restanti 38 giorni. Da quest’idea semplice è germinata la razione assegnata ad ogni abitante in misura tale da permettere la vita sino al momento in cui l’assedio sarà tolto o giungeranno i nuovi approvvigionamenti. Così si comportano tutti i capitani di bastimento, che per una qualsiasi circostanza abbiano i viveri misurati; così operano da tempo la Germania e l’Austria-Ungheria e così ha dichiarato senza ambagi Lloyd George si sarebbe dovuto fare in Inghilterra.

 

 

Tuttavia, il razionamento è un’arma molto difficile a maneggiare. Non è questa l’opinione di tutti. Quel bel tipo di Ambrogio Fusella, quando voleva trarre il nome di bocca a Renzo Tramaglino, trovava la cosa facilissima:

 

 

E poi, distribuire il pane in ragione delle bocche: perché c’è degl’ingordi indiscreti, che vorrebbero tutto per loro, e fanno a riffa-raffa, pigliano a buon conto, e poi manca il pane alla povera gente. Dunque dividere il pane. E come si fa? Ecco: dare un bel biglietto a ogni famiglia, in proporzione delle bocche, per andare a prendere il pane dal fornaio. A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figli, tutti in età da mangiar pane (notate bene) gli si dia pane tanto, e paghi soldi tanti. Ma far le cose giuste, sempre in ragion delle bocche.

 

 

È appunto la necessità di tener conto delle sole bocche, per far le cose giuste, che rende difficile l’applicazione del razionamento. Passiamo sopra alla grossa macchina governativa che occorrerebbe mettere in opera per ripartire le carte del pane. Con quelle belle qualità di improvvisazione e di alacrità, di cui ha fornite così egregie prove la nostra amministrazione, ho gran paura che lo scompiglio durerebbe tanto tempo, da giungere prima al nuovo raccolto che a far funzionare con ordine il nuovo sistema.

 

 

Il guaio è che le bocche non sono tutte uguali di fronte al pane. Vi è differenza tra ricchi e mediocri e semplici lavoratori. Questi ultimi, senza mangiare solo pane, ne fanno la base della loro alimentazione; e talvolta un chilogrammo a testa al giorno non basta. Mentre i ricchi possono averne d’avanzo di 200 grammi, perché hanno i mezzi di consumare in copia altre vivande. I mediocri ed agiati terranno una condotta di mezzo; e ad essi soli il razionamento potrà riuscire adatto.

 

 

Vi è differenza tra città e campagna. Come si fa a razionare il pane nelle campagne, dove i contadini aggiungono al pane la polenta e le minestre di pasta; e dove tutti i cibi sono confezionati in casa ed il pane impastato nella madia familiare è cotto nel forno rustico Razioneremo le provviste di frumento che ogni famiglia contadina può tenere presso di sé? Se si volesse fare sul serio, non basterebbe un nugolo di carabinieri, le frodi sarebbero infinite ed il sospetto ed il malcontento si diffonderebbero nelle campagne.

 

 

Inoltre, c’è campagna e campagna. Vi è il contadino del nord e della media Italia, il quale vive in campagna, conosce altri alimenti oltre il pane (polenta, riso), ha l’orto vicino a casa, ha conigli, galline ed uova e s’ingegna a cavare dalla terra, da maggio in poi, una varietà notevole di alimenti. E v’è il contadino del mezzogiorno, il quale vive nei grossi borghi, non ha spesso comodità di orto e di animali da cortile, non conosce né la polenta né il riso. Ecco come Gaetano Salvemini descrive l’alimentazione del contadino pugliese nell’ultimo numero del suo settimanale «L’Unità»:

 

 

Il contadino pugliese e la sua famiglia non mangiano altro che pane e legumi, pane e verdura, pane e frutta in estate: pane, pane, pane. Un contadino pugliese non ha bisogno di nessuna circolare prefettizia per limitare i suoi consumi: i suoi consumi sono limitati normalmente da una frugalità proverbiale ed eroica. Ma con meno di un chilo e mezzo di pane al giorno un contadino pugliese non può mangiare; con meno di un chilo di pane al giorno un adolescente pugliese, che deve crescere, muore di fame. Un chilo di pane al giorno il minimo che si possa concedere a testa giornalmente ad una famiglia di contadini pugliesi.

 

 

Supponiamo pure, che con sacrifici ancora più eroici e con la propaganda orale degli uomini più stimati del luogo, si riesca a persuadere il contadino pugliese a vivere con 900 od 800 grammi al giorno. Il problema rimane quasi insolubile. Se il disponibile, per ipotesi, è di 400 grammi, con quale criterio daremo all’uno solo 100-200 grammi ed all’altro 800 grammi? Ci vuol giustizia, diceva Ambrogio Fusella; sempre in ragione delle bocche.

 

 

Tutto sommato, il rimedio del razionamento appare arduo e difficile a maneggiare. Ho già manifestate le mie preferenze per l’altro rimedio: il rincaro. Si consuma ancora troppo pane in parte perché è il cibo più a buon mercato il quale sia accessibile ai molti consumatori. Più a buon mercato delle patate, per cui un decreto recente fissava il calmiere di 22 lire al quintale. Alla stregua, il frumento dovrebbe valere 66 lire almeno.

 

 

L’aumento immediato del prezzo del frumento e correlativamente del pane avrebbe due vantaggi:

 

 

  • di limitare il consumo del pane, per chi ha ancora un certo margine di eccedenza, e di indurre le massaie a tenere gran conto della mollica e di tutti i pezzi di un alimento divenuto più prezioso;
  • e di scovare parte delle piccole riserve esuberanti dei contadini. Questi le tengono gelosamente nascoste, perché sperano di venderle più care fra qualche mese. Se il prezzo fosse cresciuto subito, verrebbe meno la ragione dell’aspettare e le disponibilità del mercato crescerebbero.

 

 

L’aumento immediato del prezzo del pane suscita una obiezione: che esso graverebbe ugualmente sul ricco e sul povero. In verità, l’obiezione sarà vera anche fra cinque mesi, quando converrà per forza aumentare il prezzo del pane in relazione all’aumento, già decretato, del prezzo del frumento; e non si vede la ragione per cui, se ci si passerà sopra fra cinque mesi, non si possa fin d’ora superare l’obiezione.

 

 

Perché, del resto, non si cerca di ovviare in parte all’inconveniente del prezzo uguale per borse diverse? Se si crede che in tempo di guerra ciò sia incomportabile, si adotti il sistema dei prezzi multipli. Già ora a Torino coloro i quali hanno la pazienza di attendere nella calca che si affolla ai magazzini dell’Alleanza cooperativa pagano il pane 48 centesimi; mentre gli altri lo acquistano con comodo dai panettieri a 60 centesimi. Il metodo del prezzo molteplice è il più adatto a proporzionare il costo alle borse. Si possono supporre stabiliti tre prezzi:

 

 

  • Il più basso, di 60 centesimi, per coloro che siano muniti di una tessera. La tessera dovrebbe essere rilasciata solo ai sussidiati dalle congregazioni di carità, ai parenti sussidiati di militari combattenti ed alle persone che si trovassero in condizioni di strettezze. Abusi ed inconvenienti nascerebbero nella distribuzione di queste tessere; ma sarebbero meno gravi che non quelli nascenti dalle tessere universali. La tessera dovrebbe dar diritto solo ad un minimo di pane al giorno, il quale potrebbe essere fissato dai commissari compartimentali ai consumi a seconda delle consuetudini regionali. Chi, avendo la tessera, volesse acquistare una quantità superiore al minimo, dovrebbe pagare il sovrappiù al prezzo normale.
  • Il prezzo normale, di 80 centesimi al chilogrammo, per tutte le persone sfornite di tessera.

 

 

Anche queste qualità di pane potrebbero essere della comune forma grossa, raffermo, al 90%.

 

 

  • Il prezzo massimo, di 1,20 od anche più al chilogrammo, per il pane di forme diverse dalla normale. Se il commissario ai consumi è davvero persuaso, per delle buone ragioni, rimaste ignote finora al pubblico, che il pane di forma grossa al 90% è il più economico di tutti, sta bene. Ma perché impedire l’esperimento, a spese del consumatore, anche di un’altra forma, una sola per regione? A Torino la forma potrà essere quella del grissino, altrove quella del pan biscotto od a forma piccola. Se si vuole, sia obbligatorio, anche per queste forme, l’uso della farina al 90%. Ma perché si vuole impedire a chi può pagare, e si lamenta della forma grossa e butta via la mollica nelle spazzature, di usare una forma, che a lui è più gradita e risparmia farina alla collettività?

 

 

Tutto ciò potranno essere solennissimi spropositi ma farebbe piacere a sentirsi dimostrare dove sta l’errore; e quali sono le buone e convincenti ragioni per cui la amministrazione romana ed il commissario ai consumi credono utile di agire diversamente. Voglio sperare che la ragione non sia la paura di far cosa in apparenza antidemocratica. Se non si fosse avuta questa stolta paura, il prezzo del frumento non sarebbe stato ribassato da 41 a 36 lire; e non si sarebbe tardato tanto ad aumentarlo di nuovo a 45 lire. Ci si sarebbe pensato prima delle semine autunnali, e del coraggio d’allora si raccoglierebbero i frutti nel prossimo raccolto. Se si deve limitare il consumo sul serio, si deve avere il coraggio di far cosa, che sembri antidemocratica, ma sia utile alla collettività.

 

 

III.

Il decreto del 20 maggio per lo sviluppo delle culture alimentari contiene indubbiamente alcune norme le quali, se ne verrà fatta opportuna propaganda, potranno contribuire a risolvere il problema alimentare italiano a partire dai raccolti del luglio 1918.

 

 

Nel decreto vi sono parti le quali hanno un valore puramente morale ed a cui è da augurare non si pensi sul serio a far ricorso, data la minima e forse negativa loro efficacia; tale l’obbligo, che il prefetto può imporre a chiunque eserciti una azienda agraria, di estendere la superficie destinata a culture alimentari (grano, altri cereali, legumi e tuberi commestibili) sotto pena di ammenda da lire 50 a lire 1000: tali le rotture dei contratti agrari, sia per qualità delle culture, sia per l’ammontare del fitto, sia per i patti angarici. Tutta questa roba, messa innanzi per la platea, non ha importanza sostanziale. Se gli agricoltori avranno interesse a coltivare derrate alimentari, non vi sarà bisogno di comminatorie, penalità, intervento di prefetti e di pretori. Se essi non vi avranno interesse, la costrizione a nulla gioverà; poiché gli agricoltori opporranno agli ordini governativi l’arma ad essi familiare della resistenza passiva. L’autorità ordina di rompere un terreno a pascolo per coltivare un qualunque cereale! Ed essi diranno di non avere la semenza, ed avutala, di non disporre della mano d’opera; ed ottenuta questa, non si cureranno che il lavoro sia ben fatto, a regola d’arte. Vorremmo imporre non solo la coltivazione, ma la buona coltivazione? Che cosa è buona coltivazione? E come dimostreremo che l’agricoltore aveva i mezzi occorrenti per estendere le culture? Questo è un ginepraio da cui non si esce.

 

 

L’on. Raineri, che di agricoltura praticamente si intende, non sarà propenso del pari a dare molto peso al titolo del suo decreto che si occupa di contratti agrari. È un semenzaio di liti fra proprietari, affittavoli e mezzaioli. Se ne gioveranno, nel proprio interesse e non in quello della collettività, solo quegli affittavoli o mezzadri, i quali vorranno sottrarsi a patti onerosi per essi, accettati però liberamente in corrispettivo di altre clausole ad essi vantaggiose del contratto agrario. Col suo intervento, lo stato darà mano a qualche minuta rappresaglia privata: potrà talvolta, per interesse di affittavoli, far trasformare prati stabili asciutti da 10.000 lire l’ettaro in seminativi del valore di 4.000 lire, e solo per caso gioverà ad un interesse pubblico.

 

 

Dà luogo a gravi dubbi giuridici ed economici, ma nel suo complesso e limitatamente all’attuale periodo di guerra può essere suscettibile di qualche moderato utile effetto, il titolo del decreto relativo al credito agrario. Concedendo agli istituti di credito agrario, ordinario e cooperativo, alle casse di risparmio ordinario, ai monti di pietà e frumentari ed alle casse di prestanze agrarie un privilegio sui frutti pendenti e su quelli raccolti nell’anno e sopra le derrate che si trovano nelle abitazioni e fabbriche annesse ai fondi rustici e provenienti dai medesimi, indubbiamente si incoraggiano i prestiti agli agricoltori.

 

 

Il privilegio è concesso per i prestiti assunti per la coltivazione di grano, altri cereali, legumi e tuberi commestibili: segue immediatamente il privilegio per le spese di giustizia e compete di diritto all’istituto mutuante per il solo fatto della concessione del prestito in denaro o in natura, in confronto di chiunque possegga, coltivi o conduca il fondo entro l’anno in cui scade la convenzione.

È vero che è comminata la reclusione da tre mesi ad un anno e la multa da lire 50 a 1.000 se il debitore impieghi in tutto od in parte la somma ricevuta a prestito, per scopi diversi da quelli per i quali fu concessa; ma, data l’estrema difficoltà di provare che un agricoltore non ha impiegato una data somma nella cultura dei suoi fondi, è chiaro che sostanzialmente non vi ha alcuna sicurezza che gli agricoltori non possano giovarsi dei prestiti per scopi diversi da quelli voluti dal legislatore. Quindi non si può escludere che il privilegio serva a raggiungere fini puramente privati, ad esempio quello di non pagare altre somme dovute e garantite con privilegi posposti ora a questo; e gioverà perciò che, a pace fatta, si ritorni sopra assai ponderatamente sull’attuale decreto. Giova sperare, durante la guerra, che gli istituti mutuanti sappiano, essi, astenersi dal far mutui per scopi diversi da quelli della coltivazione dei terreni e non siano indotti a far mutui dalla sicurezza di godere del privilegio per il solo fatto della concessione del mutuo. Se le casse e le banche si lasciassero attirare su tal piano inclinato, gli effetti ultimi per l’agricoltura non sarebbero favorevoli: indebitamento dei contadini, insicurezza negli altri contratti, specie d’affitto, e quindi brevità negli affitti, con tutti i malanni che dalla brevità degli affitti discendono.

 

 

Senza sostanziale danno, il decreto del 20 maggio avrebbe potuto limitarsi ai due primi articoli, i quali sono i soli che potranno essere realmente efficaci.

 

 

Col primo di essi si promette, per il raccolto 1918 e fino a che duri l’attuale regime straordinario di importazione del grano da parte dello stato ed il regime di prezzi d’impero dei cereali, che i prezzi d’impero non saranno inferiori a quelli fissati con la notificazione in data 15 febbraio 1917, e cioè:

 

 

Frumento tenero o semiduro

L. 45 a quintale

Frumento duro

50

Segala

40

Orzo

40

Avena

33

Granoturco

33

Qualità ordinaria di riso grezzo

37

 

 

In Italia si preferì dunque seguire un sistema diverso da quello usato in Inghilterra, dove si garantì ai produttori il seguente prezzo per quintale e in lire italiane, alla pari, per i prossimi sei anni:

 

 

Frumento Avena
1917 L. 33,10 31,85
1918 e 1919 30,34 26,48
1920, 1921 e 1922 24,82 19,86

 

 

Tenendo conto di ciò che i prezzi inglesi dovrebbero essere aumentati di circa il 30%, per tener conto del disaggio della lira italiana, il prezzo per il 1918 appare superiore in Italia per il frumento ed in Inghilterra per l’avena. Dopo il 1918, la promessa in Italia è a tempo indefinito, ossia fino a quando durerà l’attuale straordinario regime di importazione da parte dello stato e di prezzi d’impero. È probabile che l’attuale regime durerà fino a quando il costo del frumento estero non discenderà al disotto di lire 45 e 50; e tale ribasso non appare vicino, neanche se la guerra finisse nel 1917, data la scarsità del tonnellaggio, la diminuzione dei raccolti mondiali e la scomparsa delle riserve.

 

 

Un’altra differenza vi è fra il sistema inglese e quello italiano. In Inghilterra lo stato garantisce il prezzo, ossia si obbliga a pagare un premio uguale alla differenza, qualora il prezzo di mercato scenda al disotto di quello fissato per legge. In Italia lo stato semplicemente promette di non ribassare il prezzo d’impero; il che non vieterà che il prezzo di mercato possa ribassare al disotto del prezzo d’impero.

 

 

Né lo stato si obbliga a comperare i cereali ai prezzi d’impero, qualora il prezzo di mercato scendesse al disotto; salvo quando la coltivazione venga effettuata in una delle circostanze seguenti:

 

 

  • in eccedenza alla ordinaria coltivazione dell’azienda;
  • in condizioni di eccezionali difficoltà.

 

 

Quando si verifichi una di queste due circostanze, e queste siano accertate da una speciale sezione del Comitato tecnico dell’agricoltura, sedente in Roma, l’agricoltore potrà offrire di cedere il suo raccolto allo stato, e questo potrà accettarlo obbligandosi, in tal caso, a pagare il prezzo d’impero, aumentato da un premio uguale al massimo al 10% del prezzo stesso. Il governo potrà inoltre concedere prigionieri di guerra, mano d’opera agricola militare, uso di macchine agrarie, ecc. ecc.

 

 

In conclusione, e salvo i casi eccezionali ora indicati, l’agricoltore sa che egli per il 1918 può fare assegnamento che i prezzi di impero non verranno ribassati, come sventuratamente si fece nel 1916. È molto, e forse è quanto basta per spingere gli agricoltori a fare ogni maggiore sforzo per le semine del prossimo autunno. Oramai per il 1917 non vi sono grandi possibilità di nuove semine. In provincia di Cuneo si usa seminare talvolta il grano saraceno subito dopo il taglio del frumento. È un cereale che richiede poche cure, lavori superficiali e dà un raccolto non spregevole, che si fa in ottobre. Non so entro quali limiti sia coltivabile; ma è noto come un tempo la cultura del saraceno fosse assai più diffusa d’oggi.

 

 

Un punto su cui il decreto tace è quello dei concimi chimici. Invece nelle lettere che ricevo, da agricoltori pratici, da sacerdoti che attendono con zelo alla missione della propaganda delle buone pratiche agricole, questo è forse il tasto più battuto. L’uso dei concimi chimici, si scrive e si dice da tutti, va diminuendo in modo preoccupante. Certe fabbriche nazionali hanno visto diminuire della metà la loro vendita. L’importazione dall’estero, in migliaia di quintali, diminuì come segue:

 

 

1913

1914

1915

1916

Nitrato sodico

674,2

598,5

717,3

856,5

Fosfati minerali

5.297,3

5.139,9

4.569,0

4.314,2

Scorie Thomas

1.192,6

232,2

11,8

27,2

Concimi chimici in generale

722,3

382,5

137,6

20,4

 

 

Anche il consumo del nitrato sodico non fa eccezione agli altri concimi chimici, perché al consumo per l’agricoltura si sono sovrapposti consumi bellici del nitrato sodico, i quali è probabile lo abbiano lasciato nell’ombra.

 

 

Non è possibile dissimularsi i dannosi effetti per la produzione agricola dello scemato consumo dei concimi chimici; e non è possibile negare che la causa di gran lunga preponderante del fatto è l’altissimo prezzo a cui i concimi sono saliti. Il contadino non ragiona come l’industriale, il quale non teme di spendere molto nelle materie prime quando trova adeguato compenso nel prezzo del prodotto finito. Egli vorrebbe vendere il frumento a 45 e 50 lire, ma non si decide a pagare i concimi ad un prezzo doppio di prima. Così la terra isterilisce.

 

 

Da questi fatti osservabili dappertutto, alcuni han tratto conseguenze estreme: lo stato, essi dicono, importi dalla Tunisia fosfati a sufficienza, li trasformi in perfosfati e li dia agli agricoltori a prezzo moderato, imponendone l’uso. Altri, senza giungere sino all’impiego obbligatorio, che richiederebbe una macchina burocratica vistosa, si contenterebbero della vendita a prezzi moderati, di perdita. Sarebbero denari impiegati ad ottimo frutto; ed importerebbero allo stato una perdita minore delle somme spese in premi più o meno inefficaci e nei sovraprezzi dei milioni di frumento importati dall’estero. Il viaggio dalla Tunisia all’Italia è breve e relativamente assicurabile contro i sottomarini.

 

 

Certamente, un largo uso di concimi chimici e sovratutto di perfosfati, potrebbe risparmiare all’Italia milioni di quintali d’importazione estera. E poiché conviene che lo stato di ciò si interessi, il buon senso consiglia ad importare piuttosto fosfati che frumento. Ma bisogna agire per tempo. Dalle semine del grano saraceno ci separa circa un mese, e dalle semine autunnali circa quattro mesi. Un’azione tempestiva rispetto ai concimi potrebbe togliere la gravità maggiore all’arduo problema che lo stato dovrà risolvere tra il 1918 ed il 1919.

 

 

IV

Bene ha fatto il ministro di agricoltura a fissare sin d’ora i prezzi d’autorità per i cereali del raccolto 1918. Un ulteriore ritardo avrebbe nociuto grandemente, come nocque l’aver tardato fino al 15 febbraio scorso ad aumentare i prezzi per il raccolto del 1917. Ecco le variazioni di prezzo verificatesi durante la guerra nei prezzi di requisizione divenuti poi prezzi d’impero.

 

 

Prezzi di requisizione per il raccolto1915

(11 gennaio 1916)

Prezzi di requisizione per il raccolto1916

(a partire dall’1° luglio 1916)

Prezzi d’impero per il raccolto1917 (fissati il 15 febbraio 1917)

Prezzi d’impero per il raccolto1918 (fissati il 12 luglio 1917)

Frumento tenero

40 36 45 52

Frumento duro

42 41 50 60

Segale

40 43

Orzo

40 43

Avena

33 38

Granoturco

29 29 33 38

Risone

27-28 37

 

 

 

Parecchie autorevoli rappresentanze agricole avevano dimostrato come il prezzo di 45 e 50 lire per il frumento non potesse più essere considerato remunerativo, a causa dell’aumento notevolissimo del costo della mano d’opera, delle lavorazioni e dei concimi. Ed in verità, anche senza far troppi conti culturali, quando la mano d’opera militare, mediocremente produttiva e gravata di spese generali, costa 60 centesimi all’ora, oltre il vitto, per la mietitura e quella civile sale ad 1, 1,50 ed anche 2 lire l’ora – in talune plaghe del Piemonte si superarono le 2 lire l’ora -, sempre oltre il vitto, la convenienza della seminagione del frumento ai prezzi d’impero attuali appariva in non pochi casi incerta. Vi era il pericolo che una notevole superficie di terreni meno bene situati o più costosi a lavorare fosse lasciata incolta o destinata ad altre culture più produttive e meno esigenti per la mano d’opera, come quelle foraggere. Ai prezzi ora cresciuti, i grandi ed i medi agricoltori, i quali producono per la vendita e non per il consumo diretto, devono sentirsi incoraggiati ad aumentare al massimo la superficie e sovratutto l’intensità delle seminagioni. Anche se i prezzi di 52 e 60 lire non sembrassero convenienti per taluni appezzamenti, poiché essi lasciano sicuramente un margine per i terreni migliori, devono essere accolti con plauso; ed all’invito del ministro devono gli agricoltori rispondere con alacrità e con il fervore che deriva dalla consapevolezza di concorrere, con proprio vantaggio, al conseguimento di un grande interesse nazionale.

 

 

Poiché l’Italia è però un paese di piccoli proprietari, e poiché la produzione per la vendita è, per essi, un fine secondario, giova insistere su un concetto altra volta già manifestato: sulla necessità cioè di incoraggiare gli agricoltori non solo col prezzo remuneratore, ma anche, occorrendo, con la offerta di mezzi di produzione a prezzi artificialmente moderati. Voglio accennare ai concimi chimici, che i contadini oggi sono restii a comperare, sia perché troppo cari, sia perché si possono avere solo con infinite sollecitazioni, a cui essi non sono adatti. Solo i grandi ed i medi agricoltori riescono a superare queste difficoltà, rispetto a cui la massa dei piccoli proprietari e coltivatori rimane disorientata.

 

 

Il problema dei concimi chimici è complesso: di costo d’origine, di trasporti, di lavorazione e di distribuzione dalle fabbriche agli agricoltori. Tuttavia il confronto tra il nolo altissimo di un quintale di frumento dagli Stati uniti in Italia (da 20 a 30 lire per quintale) ed il nolo di gran lunga minore di un quintale di fosfati dalla Tunisia, la grande probabilità che ogni quintale di perfosfati sia capace di produrre parecchi quintali di frumento in più, e la conseguente prospettiva di spendere 20 per ottenere 100 fanno sì che si debba fare ogni sforzo per diffondere l’uso dei concimi chimici. La distribuzione tempestiva, a prezzi moderati, di concimi chimici in quantità sufficiente: ecco, insieme all’aumento dei prezzi, il fattore precipuo della soluzione del problema cerealicolo nel 1918.

 

 

A spingere alla seminagione dei cereali concorreranno potentemente opportune modalità di attuazione dell’esperimento ora iniziato di monopolio statale dei cereali. La mancanza di tatto, l’esagerazione nelle requisizioni possono essere feconde di risultati disastrosi; e contro i possibili errori fa d’uopo stare attentamente in guardia.

 

Il pericolo è questo: che il contadino, insospettito dalle requisizioni, semini soltanto quella superficie che è bastevole a soddisfare al consumo della sua famiglia e dedichi la sua attività disponibile ad altri lavori, di cui vi è dovizia nelle campagne e nelle città, a salari più che soddisfacenti. Per indurlo a seminar di più e a non dare ascolto a coloro i quali vanno nelle campagne diffondendo l’idea che la guerra finirà il giorno in cui non vi sia più da mangiare per i cittadini e per coloro che fabbricano le munizioni, occorre osservare parecchie condizioni:

 

 

  • Radicare il concetto del guadagno possibile nella vendita del sovrappiù; e qui entrano in giuoco i prezzi aumentati e la possibilità di acquistare concimi a prezzi moderati.
  • Essere larghi nel quantitativo di frumento lasciato alle famiglie dei produttori. I 600 grammi al giorno – equivalenti a 220 chilogrammi all’anno per persona – annunciati alla camera dall’on. Canepa sono insufficienti nelle regioni dove il frumento costituisce il fondo della alimentazione. Non giova tenersi stretti; poiché i contadini tutto faranno fuorché consegnare il grano che essi ritengono necessario per la famiglia. Sovratutto occorre essere larghi nel calcolo del numero delle persone componenti la famiglia. In parecchie provincie, i bandi dei prefetti, i quali ordinarono in principio di luglio la consegna di tutto il frumento del raccolto 1916 posseduto dagli agricoltori oltre i 20 o 25 chilogrammi a testa, produssero un pessimo effetto di allarme tra gli agricoltori. Poiché i bandi sembravano parlare solo della famiglia e degli addetti o giornalieri stabili, tutti chiesero: come faremo a mantenere i giornalieri avventizi necessari per la mietitura? Dovremo lasciarci portar via il frumento nostro, per dover poi andare a comperare il pane e la pasta? Tale non era il pensiero dei prefetti; ma bisogna avere somma cura di evitare ogni preoccupazione, la quale potrebbe riuscire dannosissima alle future semine.
  • Usare urla ragionevole discrezione nel definire che cosa s’intende per «grano» e per «prodotti secondari» della cerealicultura. Se insieme col frumento, quale risulta dalla prima grossolana ventilazione, solita a farsi sulle aie, si pretendesse requisire anche lo scarto del granotto, misto a corpi estranei, si avrebbe il risultato di inferocire in sommo grado tutte le massaie e di convertirle in propagandiste accanite contro le semine. In sostanza, non si farebbe nemmeno, con una rigidezza eccessiva, l’interesse nazionale; poiché lo scarto dei cereali viene convertito in modo economicissimo in uova,in pollame ed in carni di ogni specie, le quali sono assai più utili all’alimentazione umana della piccola percentuale di scarti su cui prudentemente conviene chiudere gli occhi. Conviene provvedere per tempo a dare istruzioni in tal senso, se non si vuole compromettere l’approvvigionamento delle uova nell’inverno prossimo.
  • Chiarire subito la portata precisa del diritto che hanno i produttori di consegnare il frumento al governo, immediatamente dopo il raccolto. Ben si fece a dare siffatto diritto ai produttori, i quali spesso sono bisognosi di denaro e non possono aspettare che piaccia allo stato di provvedere alle requisizioni. Ma vi è un grosso dubbio: la consegna deve essere fatta nei magazzini e negli scali ferroviari indicati dalle commissioni provinciali di requisizione. Perché non in quelli più vicini al luogo di produzione? Per trasportare il prodotto sul mercato o sullo scalo ferroviario più vicino il produttore spesso ha i mezzi di trasporto; i quali invece quasi sempre gli fanno difetto ove la destinazione sia diversa. La cosa è indifferente per lo stato, il quale può spostare in seguito il frumento da un magazzino o da uno scalo all’altro; mentre è capitalissima per il produttore. Urge dunque riparare a questo, che ritengo sia stato un puro errore di dizione.
  • Dopo tutto, però, è nell’interesse dello stato che i singoli produttori conservino essi il più a lungo che sia possibile il grano nei loro granai. La conservazione del frumento non è facile cosa; né giudico prudente che troppo frumento venga ad immagazzinarsi nei locali governativi. I quali, per essere improvvisati e male attrezzati non offrono nessuno dei vantaggi dei grandi elevatori americani e daranno luogo a delusioni senza fine, se si vorrà risparmiare nella mano d’opera, ed a costi cospicui se si vorrà sul serio aerare e rivoltare il frumento e difenderlo contro i suoi innumerevoli nemici. Perché non interessare gli agricoltori a prendere su di sé tutte queste non piccole faccende?

 

 

È vero che per il raccolto 1916 si concedeva un premio mensile di 15 centesimi per quintale e che il premio fu aumentato a 20 centesimi per il raccolto 1917. Ma se si riflette che 20 centesimi al mese, ossia lire 2,40 all’anno sono appena il 5,33% sul prezzo di 45 lire, di cui si ritarda l’incasso, si vede che il premio equivale meramente alla perdita dell’interesse sul denaro non incassato. Nulla viene dato per il calo nel peso, nulla per il rischio di consumo o sfrido dovuto ai nemici del grano, nulla per il pericolo di guasti e per le spese della conservazione. Se si persiste in questa grettezza, il governo si farà altrettanti nemici nei contadini privi dei mezzi di trasporto allo scalo ferroviario e privi perciò della possibilità di esercitare il diritto di consegnare subito il grano. Essi diventeranno i custodi gratuiti, a spese ed a rischio proprio, del frumento già precettato; né sembra che questa sia una condizione di spirito tale da indurli ad abbondare nelle venture seminagioni. È da augurare vivamente perciò che si provveda per tempo a togliere di mezzo queste cagioni di possibile malcontento nelle campagne, in guisa che nessun ostacolo inutile si opponga al migliore approvvigionamento granario dell’Italia nell’anno venturo.

 

 

V

Se si discorre con gente del popolo intorno alla questione che più di tutte nel momento presente l’interessa dal punto di vista economico, voglio dire la questione del pane e della sua distribuzione, ci si trova quasi sempre dinanzi a questo convincimento: «Almeno il pane non dovrebbero farcelo mancare. Non trovare il pane pronto al mattino od al mezzogiorno, vuol dire per noi, operai ed operaie, che dobbiamo andare alla fabbrica, una perdita di tempo dannosissima. Non solo dovrebbero darcelo regolarmente, ma anche in quantità sufficiente: 250-300 grammi di pane al giorno sono insufficienti a chi lavora, ed 1,50-1,80 quintali di frumento all’anno per ogni componente una famiglia di contadini sono inferiori di gran lunga al consumo normale e necessario nostro».

 

 

Se la gente del popolo, poco letterata e poco colta, è in tal modo persuasa che qualcuno – nelle città questo «qualcuno» prende il nome di «capitalisti» e nella campagna di «signori» o di «governo» – non vuol dare abbastanza pane a chi lavora, la stessa gente del popolo, eccettuati i casi di persone evidentemente prive di intelligenza e pervicacemente egoiste od accecate dalla propaganda antiguerresca, è ben disposta a persuadersi della difficoltà di provvedere al giusto ed umano desiderio di «avere almeno il pane» con quella larghezza che si è usata fin qui e che sarebbe desiderabile potesse continuare ancora adesso. Anche gente iraconda e malcontenta per qualche disturbo sofferto e per la prospettiva di dover restringere il proprio consumo, non appena sente esporre talune cifre di produzione, di prezzi, di importazione dall’estero, di noli e di perdite dell’erario, cambia tono e finisce di concludere: «Già, anche il governo ha le sue difficoltà; è vero, bisogna che tutti facciamo qualche sacrificio. Bisognerebbe però che i sacrifici fossero uguali per tutti e che la quantità disponibile fosse regolarmente distribuita».

 

 

Ecco perché l’errore più grave commesso sinora dai ministri competenti e che sembra rispondere ad un inesplicabile criterio politico consapevole, è a parer mio il silenzio mantenuto sulle condizioni reali degli approvvigionamenti del paese. Perché la gente del popolo e le classi dirigenti dovrebbero persuadersi tutte della necessità di fare economie e le classi dirigenti dovrebbero far propaganda in tal senso, quando non furono mai spiegate le ragioni della necessaria riduzione dei consumi, del contingentamento, quando, a differenza della franchezza usata in Inghilterra, dove il gabinetto in piena pubblica seduta del parlamento, dichiarò che nell’anno corrente perdeva un miliardo di lire italiane-oro nel provvedere di pane il paese, non si volle mai chiarire quali fossero gli analoghi sacrifici sopportati in Italia? Voglio credere che dell’inesplicabile silenzio non si adduca il grottesco motivo di non far conoscere ai nemici le nostre condizioni alimentari. Queste, invero, dipendono da circostanze mondiali, arcinotissime a tutti; e le nostre condizioni particolari sono dopo tutto tali che la resistenza morale del paese ha tutto da guadagnare e nulla da perdere da una esposizione franca della realtà. Se in Germania avessero adottato la politica dello struzzo e non avessero subito persuaso la popolazione della necessità di distribuire i consumi nel tempo, a quest’ora il nostro nemico avrebbe dovuto abbassare le armi. Perché il sistema che giovò ad essi, dovrebbe nuocere a noi?

 

 

Ad ogni modo, per quanto pochi ed ,insufficienti, alcuni noti dati illuminano il problema. Mi servirò di essi, limitando le notizie fornite esclusivamente a quelle di fonte ufficiale, poiché altre non se ne possono fornire; pur augurando che il governo senta il dovere, che gli incombe in modo preciso ed assoluto, di illuminare largamente e compiutamente il paese, affinché questo sappia attraverso a quali difficoltà ed a quali costi possa oggi essergli provveduto il suo alimento fondamentale.

 

 

Ecco quale è stata, negli ultimi anni agrari, dal primo agosto al 31 luglio dell’anno successivo, la produzione interna e l’importazione netta del frumento e della farina di frumento, ridotta in frumento, in Italia (in milioni di quintali):

 

 

Media dal 1911-12 al 1915-16

1915-16

1916-17

1917-18

Produzione interna esistente al principio dell’anno

49,7

46,4

48,0

38,0

Importazione netta

16,5

21,0

20,1

[30,6]

Consumo medio

66,2

67,4

68,1

[68,6]

di cui per le semine

6,0

6,0

6,0

6,0

Consumo netto

60,2

61,4

62,1

[62,6]

Consumo medio netto per abitante

kg 170,0

Kg 170,0

kg 170,0

kg 170,0

 

 

Il quadro spiega chiaramente perché sia necessario che gli italiani si rassegnino ad una riduzione nel consumo del frumento. Le classi dirigenti devono dare il buon esempio e sobbarcarsi ad una riduzione più sentita; ma, per necessità di cose, la riduzione deve toccare tutte le classi. Invero, con una produzione interna variabile da 46 a 50 milioni di quintali, faceva d’uopo importare da 16 a 20 milioni netti di quintali dall’estero, per potere dare 6 milioni alle semine e 60-62 milioni al consumo interno. Se quest’anno si volesse mantenere fermo il consumo medio in 170 chilogrammi per abitante, poiché la produzione interna giunge appena a 38 milioni di quintali, e poiché fa d’uopo riservare i soliti 6 milioni alle semine, sarebbe necessario importare dall’estero 30,6 milioni di quintali. Ho messo fra parentesi quadre le cifre ipotetiche che sarebbe necessario raggiungere, se si volesse mantenere invariato il consumo normale; ma mi affretto ad aggiungere che è impossibile raggiungerle e che è giuocoforza ridurre il consumo medio.

 

 

L’impossibilità deriva da molte circostanze. Gli Stati uniti che nella media dal 1910-11 al 1914-15 avevano prodotto, tra grano d’inverno e grano di primavera, 218 milioni di quintali, ne produssero nel 1915-16 solo 174 milioni e nel 1916-17 solo 178 milioni. L’India ha prodotto, è vero, 103 milioni nel 1916-17 contro 86,5 nel 1915-16 e 98 nel quinquennio precedente; ma non colma il vuoto. D’altro canto la Francia produsse nel 1916-17 solo 44 milioni di quintali contro 58,4 nel 1915-16 ed 80,6 nel quinquennio precedente. Bastano queste cifre per far vedere come la commissione di ripartizione di Londra avrà un problema difficile da risolvere posta, come è, tra disponibilità minori e fabbisogno cresciuto. Auguriamoci che i nostri rappresentanti possano ottenere per l’Italia un contingente superiore od almeno non inferiore ai 20 milioni di quintali dell’anno scorso. Ad ogni modo, anche nell’ipotesi più favorevole, una riduzione del consumo si impone. Se il contingente, per ipotesi, importato dall’estero fosse fissato nei 20 milioni dell’anno scorso, il consumo dovrebbe ridursi da 170 a 141 chilogrammi per abitante. Fa d’uopo cioè che gli italiani sappiano, finché dura la guerra, ridurre il loro consumo di frumento per abitante a quello che era una trentina di anni addietro. Rimarrà sempre notevolmente superiore a quello delle generazioni che fecero l’Italia unità e di gran lunga superiore a quello delle generazioni che fecero salvo e forte il Piemonte durante guerre non meno dure ed assai più lunghe di quella odierna.

 

 

Tutti sanno però che non basta ottenere, dagli Stati uniti in special modo, il contingente necessario di importazione. Occorre poi trasportare i 20 od i 22 od i 24 milioni di quintali attraverso l’Atlantico ed il Mediterraneo. E tutti sanno che per i mari corrono i sottomarini; che questi hanno affondato 600.000 tonnellate al mese dal giorno della guerra inasprita dei sottomarini; e che quindi il costo dei trasporti è cresciuto. Di quanto non si sa in modo preciso. Ma si sa, per dati ufficialmente pubblicati in Italia, che il quintale di frumento americano costava nell’agosto scorso 50 franchi in oro a New York e 70 franchi in oro nei porti francesi dell’Atlantico. Aggiungendovi il cambio, il maggior nolo e le altre spese, il frumento estero non può costar meno di 120 lire italiane a Genova. Il che vuol dire che il pane fabbricato con quel grano non costa allo stato meno di 1,20-1,30 al chilogrammo, precisamente il doppio del prezzo di vendita.

 

 

È utilissimo, necessario, patriottico che questi dati, conosciuti da tutti coloro che leggono i documenti ufficiali e riflettono sui listini pubblici dei prezzi e dei noli, siano anche conosciuti dal gran pubblico.

 

 

I ministri credono che sia utile, per ragioni di carattere pubblico, che il pane sia venduto ad un prezzo in carta di 65 centesimi, uguale a 43 centesimi in oro, ossia inferiore al prezzo effettivo del pane prima della guerra? Ho già altra volta manifestato il mio dissenso da questa politica, la quale incoraggia un consumo, che invece deve necessariamente essere limitato; ed ho manifestato le mie preferenze per un prezzo generale uguale al costo del pane prodotto con grano estero, oggi di lire 1,30 al chilogrammo, ed un razionamento, per tutti coloro che hanno un reddito inferiore ad una cifra da fissarsi, ad un prezzo di favore, che potrebbe essere l’odierno di lire 0,65 al chilogrammo. Se anche si voglia però seguire la politica del prezzo uniforme, è utile che tutti sappiano che essi acquistano il pane ad un prezzo inferiore e notevolmente inferiore al costo. All’incirca, e trascurando alcune particolarità, come il consumo diretto dei contadini, le quali però non hanno influenza sui risultati del conteggio, si può dire che lo stato, compratore e venditore in monopolio di frumento, perde il premio di lire 3,50 pagato, oltre il prezzo di 45 lire, ai produttori di grano interno per quella parte dei 38 milioni di quintali di prodotto interno che gli verrà consegnata, e la quale probabilmente andrà dagli 8 ai 10 milioni di quintali; ossia in tutto perderà sul grano interno 30 milioni di lire. Sui 20 milioni di grano estero invece, la perdita essendo di almeno 75 lire al quintale – differenza fra 120 lire prezzo d’acquisto e 45 lire prezzo di vendita ai consorzi agrari – la perdita risulta di 1 miliardo e mezzo di lire. È una cifra formidabile che va ad aggiungersi al totale degli altri debiti di guerra. In due anni agrari 1916-17 e 1917-18 sono così circa 3 miliardi di debito fatto per raggiungere lo scopo di mantenere il pane ad un prezzo reale inferiore a quello vigente prima della guerra.

 

 

È per fermo utilissimo e patriottico sia noto l’enorme sacrificio a cui si sobbarca lo stato e cioè il contribuente italiano per dare il pane a buon mercato al consumatore italiano. Per due motivi principali e utile che ciò sia largamente saputo e commentato.

 

 

In primo luogo per dare una potente arma di convincimento a quanti – deputati, sindaci, rappresentanze locali – oggi insistono presso il commissariato dei consumi per ottenere un aumento del contingente locale di frumento. Essi potrebbero assai più facilmente persuadere le loro popolazioni che la coscienza ad essi non permette di chieder un aumento del sacrificio che già lo stato sopporta; ed anche potrebbero convincerle a fare ogni sforzo per limitare il consumo alla quota assegnata, ripartita, s’intende, secondo giustizia distributiva, ossia tenendo conto anche degli altri alimenti, succedanei e complementari del frumento, i quali nella regione si producono in maggior copia. Poco si sente parlare della propaganda per il risparmio dei consumi, la quale dovrebbe essere nel momento presente il dovere più stretto dei pubblici rappresentanti; e molto invece di una loro contraria azione per un allargamento delle quantità assegnate al consumo. Fa d’uopo confessare che il governo nulla fa per fornire loro dati ed elementi per una propaganda efficace ed altamente patriottica.

 

 

In secondo luogo la notizia dei fatti veri gioverebbe altresì a far sorgere la domanda perché i contribuenti debbono sopportare ogni anno il sacrificio di 1 miliardo e mezzo di lire per dare pane e farina a sottocosto a tutti i consumatori, anche a quelli tra essi che avrebbero i mezzi per pagare un prezzo giusto, ossia uguale al costo? Se la domanda fosse fatta, lo stato sarebbe rafforzato grandemente nell’impresa, la quale è oggi la più urgente e doverosa, di trasformare i tributi esistenti sul reddito in una imposta sul reddito capace di distinguere coloro che hanno più e coloro che hanno meno di un dato reddito minimo. Poiché a coloro i quali fossero iscritti sulle liste della imposta sul reddito, ragion vorrebbe si facesse pagare il pane al suo prezzo naturale di costo; mentre ai più, che, essendo il loro reddito troppo piccolo, non vi fossero iscritti, si potrebbe assegnare una tessera speciale per avere il pane e la farina ad un prezzo di favore. Sarebbero così risolute infinite questioni, che oggi si tenta di risolvere brancicando nel buio e commettendo ingiustizie. L’operaio che ha grossa famiglia da mantenere, la vedova dell’impiegato con modesta pensione, il pensionato di stato con 92,50 al mese, il commesso di negozio avrebbero il pane a 6 centesimi, perché non iscritti sulle liste dell’imposta sul reddito. L’industriale, il redditiere, l’impiegato con discreto stipendio e con uno o due figli soli, l’operaio scapolo e provveduto di buona paga sarebbero iscritti sulle liste dell’imposta sul reddito e dovrebbero pagare il pane 1,20 o 1,30 al chilogrammo. Sarebbe, in tempo di guerra, una politica accetta a tutti; diminuirebbe il consumo del frumento e toglierebbe di mezzo la necessità di fare 1 miliardo e mezzo all’anno di debiti. Questi mi paiono risultati abbastanza grandi per rendere utile una discussione approfondita intorno al costo ed alle difficoltà degli approvvigionamenti alimentari, condotta su quei più precisi elementi che oramai parmi di avere dimostrato all’evidenza dovere essere, nell’interesse pubblico, fatti palesi e larghissimamente diffusi.

 

 

VI

Il razionamento generale del grano, della farina di grano e del pane decretato con ordinanza del commissario generale dei consumi è uno di quei provvedimenti che l’impazienza pubblica ha imposto, per eliminare guai ed inconvenienti, i quali è probabile non possano in alcuna maniera essere interamente tolti via; e che giova augurarci sia applicato con discrezione e con quei temperamenti pratici, che soli varranno a renderlo tollerabile ed efficace.

 

 

Per fortuna, l’obbligo generale del razionamento non vuol dire che dappertutto, in tutti i comuni d’Italia e per tutti i consumatori sia imposta la tessera individuale, o di famiglia, in base a cui soltanto sia possibile ottenere dai fornai il pane e le paste alimentari. Sarebbe stato questo un grosso sproposito; ed il governo ha evitato di caderci delegando all’autorità comunale il compito «di stabilire le modalità del razionamento, adottando secondo le esigenze locali, la tessera o il buono o il libretto di famiglia o qualsiasi altro sistema che valga ad assicurare l’equa distribuzione dei generi razionati, in rapporto all’età ed alle condizioni di lavoro di ogni consumatore nei limiti della quantità assegnata a ciascun comune». Cosicché il comune potrà adottare la tessera o buono individuale o di famiglia, che sono tutte parole aventi il medesimo significato; ma potrà anche contentarsi di distribuire dei libretti di riconoscimento, muniti dei quali i consumatori potranno acquistare pane a volontà; o potranno persino fare a meno di istituire tessere o libretto, quando si persuadano che il contingente comunale di pane e farina è, ciononostante, ben ripartito. La quale libertà in sostanza, ove lo consenta il nervosismo ingiustificato della parte impaziente del pubblico e sovratutto dei pubblici rappresentanti, parmi la più adatta a raggiungere il fine di distribuire con equità il pane e di ridurne il consumo.

 

 

E valga il vero. La tessera è in primo luogo assolutamente inapplicabile ad una gran parte della popolazione, quella rustica detentrice di frumento e di altri cereali. I contadini fanno il pane in casa con farina propria, ed a meno di portar via loro tutto il grano – cosa la quale diventerà forse necessaria l’anno venturo, se si verificherà un inconveniente a cui accennerò or ora, ma per adesso sarebbe un guaio grosso e nuocerebbe grandemente alle semine -, io non immagino che altro sistema si possa seguire fuor di quello usato: e cioè lasciar loro il quantitativo in grano necessario alla alimentazione. Né il quantitativo può essere uguale: poiché sarebbe scorretto lasciare ugualmente 1,80 quintali a testa a chi si fonda massimamente sul frumento ed a chi può completarlo con granoturco, patate o castagne. Per questo motivo ai contadini e detentori della provincia di Cuneo, che paiono più forniti di patate e castagne, furono lasciati solo quintali 1,56 a testa, mentre ai contadini della provincia di Torino furono lasciati quintali 1,80. Né vi possono essere obiezioni a ciò da parte delle persone ragionevoli: sebbene in realtà sia impossibile che, comunque si faccia, si ottenga giustizia per tutti. Perché, ad esempio, gli abitanti della regione del colle in quel di Cuneo, i quali vedono crescere nei loro campi poco granoturco, poche patate e quasi niente castagne, debbono contentarsi dei quintali 1,56 al pari di coloro che possano ottenere il completamento con altre derrate? Tuttavia, la disuguaglianza, sebbene necessariamente approssimativa, è più equa di quello che sarebbe una misura unica fissata per tutte le provincie del regno. Questa sarebbe il massimo dell’ingiustizia: quella rappresenta un compromesso inevitabile fra l’ingiustizia massima della uguaglianza assoluta e la perequazione che la libertà dei consumi spontaneamente cagionava. Noi, invero, settentrionali dobbiamo essere i primi nel chiedere e nel ritenere equo che i contadini ed i cittadini meridionali ottengano una quota maggiore dei contadini o dei cittadini settentrionali. Quassù, infatti, accanto al pane ed alle paste di frumento, si consumano granoturco, patate, riso, castagne; laggiù la base quasi unica dell’alimentazione popolare sono il pane e le paste di frumento. L’uguaglianza di assegnazione vorrebbe dire ingiustizia somma.

 

 

L’impossibilità di applicare ai contadini la tessera produrrà forse, però, un inconveniente al quale fa d’uopo essere preparati. Dicono invero i contadini od almeno parecchi tra essi: «Noi continueremo a consumare pane e paste come prima, e daremo fondo ai quintali 1,56 od 1,80 che ci sono assegnati in marzo prossimo. Quando non avremo più grano, dovrà pure il governo, se non vorrà lasciarci morire di fame, darcene dell’altro». Questo ragionamento è diffusissimo nelle campagne; e farebbe d’uopo preoccuparsene grandemente. Il rimedio migliore sarebbe l’opera di persuasione e di propaganda compiuta dai rappresentanti politici, dai sindaci e dai parroci. Come possono tuttavia costoro sentirsi a ciò incoraggiati se nulla si fa per rendere pubbliche le ragioni impellenti, inesorabili della riduzione del consumo del pane: se tiene nascosti dati e cifre ed in tal modo incoraggia i pubblici rappresentanti a farsi eco invece dell’impazienza e del malcontento del pubblico non informato ed a chiedere inconsultamente aumenti di contingenti e di quote individuali di assegnazione? Se nulla si farà, nel marzo venturo mancherà in parte il grano nelle campagne, perché consumato anzi tempo da contadini intestarditi nel mantenere invariato il proprio consumo o forsanco nel dare farina ai vitelli per ingrassarli.

 

 

Il discorso dei contadini mi conduce ad accennare al caso dei comuni in cui l’applicazione della tessera-buono di razionamento o forse, e talora meglio, di solo riconoscimento è assolutamente indispensabile. Sono i comuni piccoli e medi, quelli che non hanno così gran numero di abitanti cittadini che l’afflusso dei contadini al mercato del concentrico possa essere considerato indifferente. Accadde invero fin dal principio d’agosto, appena si seppe della assegnazione alle campagne dei quintali 1,50 od 1,80 a testa, che i contadini, come se si fossero data la parola d’ordine, cessarono di consumare il frumento proprio e cominciarono a comprare pane in città o nel concentrico. A sacchi, si legge nei giornali di provincia, il pane era portato via dai forni cittadini di gran mattino; sicché gli abitanti del concentrico, svegliandosi, non trovavano più pane nei forni ed imprecavano all’imprevidenza dello stato, che lasciava mancare la farina, mentre in realtà avrebbero dovuto lagnarsi della furberia dei loro fratelli consumatori delle campagne. In tutti questi comuni – e sono la grandissima maggioranza – è necessaria una tessera di riconoscimento, la quale sia distribuita ai soli cittadini non detentori diretti di frumento e garantisca ad essi soli la distribuzione del pane. Ed è probabile che nei comuni piccoli la tessera debba altresì essere di razionamento, perché è difficile che ivi si riesca, per via di compensazioni spontanee, a ridurre abbastanza il consumo.

 

 

Nei comuni grossi, Roma, Milano, Torino, Genova e simili, la opportunità della tessera di razionamento continua a parermi dubbia. Pare dubbia anche al sindaco di Milano, se sono esatte le sue impressioni riferite in una intervista recente: e per buone ragioni. A Milano infatti nell’agosto passato – traggo i dati da una intervista pubblicata sul «Corriere della sera» dell’11 agosto coll’assessore dell’annona Enrico Giani – il contingente giornaliero di farina assegnato al comune era di 1.333 quintali di farina corrispondenti a 1.500 quintali di pane, il che, per ognuno dei calcolati 666.000 abitanti, dava luogo ad un consumo medio di 240 grammi di pane al giorno. Bene a ragione osservava il Giani: a che pro stabilire la tessera, quando oggi, a consumo libero, quando ognuno può consumare pane a volontà, si consumano 240 grammi a testa? Se si stabilisse la tessera, 240 od anche 250 grammi sarebbero considerati una cifra irrisoria e farebbero grande impressione.

 

 

L’assessore milanese dell’annona aveva mille ragioni da vendere. La prova più calzante è stata fornita dalle critiche vivacissime di insufficienza e di ingiustizia che si sono udite in, una recente adunanza del consiglio comunale di Torino, quando si seppe che il contingente di 1.250 quintali di farina al giorno avrebbe consentito, in regime di tessera, a far ripartire solo 300 grammi di pane in media per ognuno dei 500.000 abitanti calcolati dal sindaco (250 grammi a 400.000 cittadini generici e 500 grammi a 100.000 lavoratori manuali). Così è: la tessera è un pericoloso strumento per ridurre il consumo. A Milano, in regime di libertà, il consumo si adatta ai veri bisogni. Nessuno compra pane per il sugo di ingozzarsi; e tutti possono variarne l’ammontare in ragione del companatico, dell’età, dei bisogni fisici. In regime di tessera, l’uguaglianza produce l’ingiustizia, le querimonie e lo spreco. Tutti hanno la tendenza a comprare almeno il minimo assegnato. Si mangia per la paura di non averne abbastanza. Si compra perché si teme di rimanere senza. Frattanto nessuno è contento, perché quelli che trovano sufficiente la razione non fiatano; e l’aria risuona delle lagnanze di coloro per i quali i 250 ed i 500 grammi sono appena il principio dell’indispensabile.

 

 

Come fare a distinguere tra i diversi bisogni? Problema insolubile, a un dipresso come quello della quadratura del circolo. La tessera deve procedere per via di distinzioni grossolane di classe: 250 grammi ai cittadini in genere e 500 grammi ai lavoratori. E all’ingrosso, la distinzione sta bene. Chi fa molta fatica manuale ha bisogno di cibarsi di più. Ma potrà darsi vi siano non poche famiglie operaie a cui il cresciuto salario consente abbondante companatico – ne sono indizio le cresciute introduzioni di carni e di pollami nella cinta daziaria e lo spostamento della vendita della polleria dal centro alla periferia in alcune grandi città italiane -; mentre non poche famiglie di impiegati, di commessi, di piccoli redditieri e proprietari dovranno ridurre ancora le magre zuppe di caffè e latte con pane, a cui i tenui redditi avevano ridotte in due su tre pasti quotidiani l’alimentazione dei vecchi, delle donne e dei bambini.

 

 

La tessera potrà riuscire a risolvere tollerabilmente il problema massimo della riduzione impellente ed improrogabile del consumo del pane solo con la cooperazione volonterosa di tutti. Il governo soltanto può dare le direttive generali, curare la spartizione tempestiva dei contingenti comunali, prendere quei provvedimenti che a poco a poco la esperienza dimostrerà necessari per riparare agli spropositi più grossi ed alle ingiustizie più stridenti. Ma tutto il resto dobbiamo farlo noi.

 

 

Deve farlo la pubblica stampa, con assidua propaganda per la riduzione del consumo, spiegando e volgarizzando la necessità dell’economia e della solidarietà collettiva. Per molti numeri di seguito, l’«Economist» di Londra portava scritto sulla prima pagina in grossi caratteri: Eat less bread: mangiate meno pane! E lo diceva ai finanzieri della City, a gente colta e consapevole delle terribili difficoltà in cui tutta l’Europa oggi si dibatte per la sua alimentazione. Quanto più necessario dire le stesse cose agli italiani, i quali finora non hanno risentito le privazioni, a cui francesi ed inglesi si sono abituati ed i quali non hanno l’idea chiara che noi viviamo come in una piazza assediata dai sottomarini, e dobbiamo perciò ripartire parsimoniosamente il cibo disponibile per arrivare sino alla fine. Ci arriveremo e senza privazioni grosse; ma non bisogna credere che ci arriveremo senza fatica, senza spirito di sacrificio, senza consapevole adattamento alle nuove circostanze.

 

 

Se la stampa ha un compito chiaro e nobile dinanzi a sé, non meno chiaro e nobile è il compito di tutti coloro i quali sono investiti di un pubblico mandato od ufficio. Qui si porrà la nobiltà di carattere dei deputati, dei sindaci, dei consiglieri, dei parroci, degli insegnanti. Qui si vedrà se essi hanno sollecitato il mandato o l’ufficio solo per ambizione egoistica, ovvero per l’alta ambizione di servire il pubblico. Qui si vedrà se essi sceglieranno la facile via di attizzare il malcontento dei loro elettori, facendosi strumento di richieste impossibili ad esaudirsi, ovvero sapranno affrontare l’impopolarità di far propaganda per l’economia dei consumi, per la forte pazienza nel sormontare le inevitabili difficoltà del momento.

 

 

E, finalmente, non meno chiaro è il dovere del pubblico, dei consumatori. Invece di lamentarsi dell’insufficienza della razione, della mancanza del pane fresco, ognuno, per quanto possa, cerchi di stare al disotto della razione assegnatagli: fossero anche solo 10 grammi di meno, alla fine del mese saranno nel comune quintali, forse decine e centinaia di quintali. Perché i comuni non darebbero anzi un premio a coloro i quali riportassero intatti alla fine del mese alcuni tagliandi? Solo così, con la abnegazione delle persone ragionevoli e prudenti, sarà possibile di risolvere il problema dei veramente bisognosi. Fisso il contingente, ogni risparmio fatto in un mese, giova ad aumentare la razione nel mese successivo, a favore di quelli i quali si troveranno in circostanze tali da aver bisogno realmente di una quantità maggiore di pane. L’esempio dato dai morigerati e dai consapevoli gioverà a far star zitti gli irragionevoli, i quali non si possono persuadere che la guerra implica qualche sacrificio per tutti o che imprecano alla guerra perché ad essi non consente di vivere con le comodità della pace.

 

 

VII

Il decreto ottobre 1917 aggiunge al prezzo d’impero, per le provincie della Sicilia, della Sardegna, della Calabria, della Basilicata, della Puglia, della Campania, del Molise e degli Abruzzi, ossia per le isole e per il mezzogiorno, un premio notevole per il raccolto del 1918. In conseguenza di questo premio, i prezzi totali percepiti dai coltivatori risultano, nelle provincie ora ricordate, i seguenti:

 

 

Prezzo d’impero in generale per il regno

Premio per le isole ed il mezzogiorno

Totale prezzi per le isole ed il mezzogiorno

Grano duro

60

9-

69-

Grano tenero e semiduro

52

7,50

59,50

Granoturco

38

5,50

43,50

Avena

38

5,50

43,50

Orzo

43

6-

49-

Segale

43

6-

49-

 

 

Il premio pagato dallo stato, insieme al prezzo, al possessore del prodotto ceduto allo stato medesimo o da esso requisito. Esso però è dovuto solo a chi abbia la qualità di produttore o coltivatore; e quindi va a beneficio dell’affittuario, il quale continua a pagare al proprietario il convenuto affitto in denaro, senza alcuna variazione. Ove invece l’affitto sia corrisposto in natura, il percipiente del canone in granaglie deve rimborsare al coltivatore il valsente del premio od altrimenti ridurre la corrisposta in natura. Nei contratti in compartecipazione, siccome amendue i compartecipanti partecipano ai rischi della coltivazione, il premio spetta ad amendue in ragione della quota di prodotto da ciascuno ceduta allo stato o requisita.

 

 

Il premio innalza notevolmente, per le isole ed il mezzogiorno, il prezzo che i coltivatori si possono ripromettere dalla cultura dei cereali. Ed è ragionevole, in tesi generale, che una preferenza sia data alle provincie meridionali. Mentre nell’Italia settentrionale la produzione media nel quinquennio 1909-13 del frumento era di quintali 18,68 per ettaro e nell’Italia centrale era di quintali 11,69, la produzione scendeva a quintali 10,90 nel mezzogiorno ed a quintali 10,95 nelle isole. Ricordo d’aver sentito riportare un detto dal marchese Di Rudinì intorno alla cultura del frumento nel mezzogiorno: essere quella cultura come un giuocare a primiera. La siccità prolungatissima, le strette di caldo nell’epoca della granitura concorrono a rendere quella cultura aleatoria e costosa.

 

 

D’altro canto sarebbe eccessivo voler generalizzare troppo. Anche nella media e nell’alta Italia vi sono regioni nelle quali la cultura del frumento è aleatoria e meschinamente remunerativa; e sono le regioni del colle e del monte. Le condizioni di meschino rendimento, che nel mezzogiorno e nelle isole sono generali a tutto il territorio, altrove si restringono ai territori più elevati sul livello del mare. Valga a dimostrazione questo quadro:

 

 

Pianura

Collina

Montagna

Lazio

12,4

8,4

5,6

Umbria

8,5

8,1

Marche

9,8

9,9

Toscana

11,6

9,9

8,7

Emilia

17,3

13,4

10,0

Veneto

15,4

12,8

10,3

Lombardia

16,5

13,3

9,9

Liguria

8,9

9,4

Piemonte

14,2

11,5

15,2

 

 

È evidente che, se si vuole spingere al massimo la produzione granaria e se si ritiene che i prezzi d’impero siano insufficienti, occorre estendere i premi ad almeno una parte del territorio settentrionale e centrale. Dare il premio a tutti, e specialmente a quelli che producono già 12 quintali per ettaro, sarebbe uno sprecar denaro. Ma darlo agli altri, che dallo scarso raccolto potrebbero non essere indennizzati delle forti spese di cultura, può essere necessario.

 

 

L’ufficio di statistica agraria del ministero, egregiamente diretto dall’ing. Zattini, può delimitare le zone agrarie meritevoli di premio, in modo oggettivo e sicuro. Occorre però che il premio venga annunciato subito e dato a tutti, come ben si fece per il mezzogiorno e le isole, senza scopo di domande, di ricorsi e di fastidi.

 

 

D’altro canto, lo stato, quando restringa la concessione del premio alle zone del colle e del monte, non corre rischio di spendere somme. La cultura, in quelle zone, è frazionatissima, per il predominio delle piccole e medie culture. La parte requisita dallo stato è una frazione assai meno rilevante della produzione totale, di quel che non accada in pianura; la maggior quota, invero, delle granaglie prodotte essendo trattenuta dai proprietari e dai coltivatori per il proprio consumo familiare. E su questa quota lo stato non paga premio.

 

 

Importa invece sommamente:

 

 

  • indurre i coltivatori di queste regioni a creare la quantità prodotta oltre quella necessaria al proprio bisogno;
  • indurli altresì a non esagerare il bisogno medesimo ed a consegnare allo stato tutto l’eccedente, distruggendo l’incitamento, tuttora altissimo, ad impiegare cereali nella alimentazione del bestiame.

 

 

E questi fini non si raggiungono che dando un forte premio alla produzione in più e alla consegna integrale del maggior prodotto.

 

 

Un altro metodo potrebbe, in aggiunta a questo, essere adoperato per incoraggiare la cultura dei cereali; e sarebbe di scoraggiare le altre culture le quali assorbono tempo, fatica e terra. Non pochi lettori del «Corriere» scrivono esprimendo l’idea che converrebbe restringere la cultura dei pomidoro, della canapa e di altre piante, le quali in talune provincie d’Italia occupano estensioni non piccole, richiedono una cultura minuziosissima e costosa; ma sono preferite oggi dagli agricoltori, poiché di gran lunga più remunerative del frumento e del granoturco. Nell’Emilia il reddito lordo dell’ettaro coltivato a canapa ed a pomidoro, dati gli enormi aumenti di prezzo dei prodotti ricavati, sale ad alcune migliaia di lire all’anno; sicché, anche tenendo conto delle spese, il reddito netto è incomparabilmente superiore a quello dei cereali, il cui prodotto è solo di centinaia di lire all’ettaro. Anche l’allevamento del bestiame è assai più conveniente della cultura del frumento; e qualche storno di cereali verso le stalle non si può per tal motivo escludere neppur oggi.

 

 

Sarebbe certo desiderabile ottenere qualcosa in tal senso; ma non bisogna nascondersi che si tratta di impresa difficilissima. In Inghilterra, il controllore dei viveri lord Ronddha ha tentato un grandioso esperimento: mentre da un lato garantiva ai produttori di grano un prezzo di 72 scellini per quarter per il raccolto del 1918 (lire it. 30,34 per quintale, da valere anche per il 1919), fissava per il bestiame bovino un prezzo decrescente o massimo di 72 scellini per hundredweight (peso vivo) fino al 29 settembre, di 70 scellini durante l’ultimo trimestre del 1917 e di 60 scellini a partire dal gennaio 1918. In questo modo cresceva la convenienza di dedicare terra, fatica e tempo al frumento e diminuiva quella di fare altrettanto per l’allevamento del bestiame; collo scopo di volgere molte terre a prato alla cultura cerealicola.

 

 

Riescirà l’esperimento? Sarebbe utile imitarlo in Italia? Quali risultati se ne otterrebbero? La cosa dovrebbe essere studiata con molta cura, per non commettere spropositi simili a quello per cui alcuni mesi fa venne in mente al ministero di agricoltura di autorizzare i fittaioli a rompere i prati stabili asciutti e non quelli irrigui per trasformarli in seminativi. Quasiché non fosse risaputo da qualsiasi mediocre intenditore di cose agricole che non v’è gran danno a trasformare i prati irrigui in seminativi, perché al ritorno della pace si potranno senza gravi difficoltà ritrasformare in prati; mentre i prati asciutti, almeno nell’alta pianura e nelle regioni di collina del settentrione d’Italia, sono il risultato di decenni di lavoro, valgono il doppio dei seminativi e la loro rottura rappresenta una perdita netta per l’economia nazionale non più recuperabile se non dopo lunghissimo tempo. La trasformazione dei campi a pomidoro ed a canapa in campi a grano si complica anche col problema delle esportazioni. Conviene di più esportare a caro prezzo pomidoro e canapa e col ricavo, importar frumento, ovvero produrre direttamente il frumento?

 

 

Ecco altrettanto gravi domande, a cui forse non è possibile rispondere, senza errori, prima delle semine autunnali imminenti. Ma si può ancora, prima di queste, annunciare un premio a tutte le regioni del colle e del monte per la produzione dei cereali. Penseranno da sé gli agricoltori a trasformar culture, a vendere capi di bestiame, dovunque sia conveniente. Ma sia annuncio pronto e vi sia data larghissima diffusione. Non v’è tempo da perdere.

 

 

VIII

 

Un recente provvedimento ha aumentato i prezzi dei cereali per il raccolto 1919 in confronto a quelli del raccolto corrente 1918 nella misura seguente:

 

 

Raccolto 1918

Raccolto 1919

Aumento del 15% per il mezzogiorno e le isole

Frumento tenero e semiduro

60

75

11,25

Frumento duro

68

85

12,75

Granoturco

45

56

8,40

Avena

45

56

8,40

Segale

50

62

9,30

Orzo

50

62

9,30

 

 

L’aumento risponde alle richieste degli agricoltori, i quali avevano visto crescere notevolmente il costo di produzione e potevano talvolta, specie nei terreni meno fertili, essere in dubbio intorno alla convenienza di dedicare cure e fatiche alla coltivazione dei cereali. Ed il ministro di agricoltura merita lode altresì per essersi deciso a rendere pubblico il provvedimento ora, che esso è in grado di esercitare influenza sulle semine e non a più riprese, come l’anno scorso, quasi per acconti, di cui l’ultimo sopravvenuto nel dicembre, quando le semine autunnali erano oramai dappertutto finite, né si poteva fare grande affidamento su quelle primaverili, le quali in Italia hanno scarsa possibilità di applicazione.

 

 

Giova sperare che l’aumento dei prezzi abbia efficacia ad intensificare la produzione. L’intensificazione delle culture, come ben notava poco addietro sul «Corriere» con la usata sua competenza il Marchese, è l’esigenza massima del momento presente. Troppo si è chiacchierato l’anno in corso della estensione della cultura dei cereali e troppe speranze si sono riposte nella rottura dei prati e dei pascoli, perché non faccia d’uopo di dire che la estensione della cultura, oltre un certo limite, può diventare ragione di minore invece che di maggior produzione. Qualcosa si è fatto e fu utile fare, laddove pascoli e prati poco produttivi porgevano alla cultura frumentaria una fertilità immagazzinata da secoli. Ma non bisogna farsi illusioni. Oltre un certo segno, la rottura dei prati è cagione di diminuita produzione perché rompe l’equilibrio delle culture, scema la produzione del letame e delle carni, frastorna gli avvicendamenti, aumenta il fabbisogno di mano d’opera. Frutta di più in frumento un fondo di cui due parti sole siano coltivate a frumento, due a sarchiate e una a leguminose di quello in cui su cinque parti tre o quattro siano destinate a frumento. Ed, economicamente, è più utile intensificare la produzione per ricavare 18 quintali di frumento dall’ettaro da cui prima se ne ricavavano 12, che aggiungere al primo un altro mezzo ettaro male coltivato. Col primo sistema, colla stessa mano d’opera e collo stesso macchinario e bestiame da lavoro si ottiene il 50 % di più di prodotto. Col secondo sistema, per ottenere lo stesso 50 % in più, bisogna sottrarre mezzo ettaro ad altra cultura, impiegare più mano d’opera, maggior tempo, semenza in più gran copia.

 

 

Intensificare la cultura però non è possibile se non si hanno concimi chimici. Non è la sola condizione, ma è tuttavia una delle principalissime. Ed a questo proposito mi sia consentito ricavare da una conferenza, tenuta dal prof. Alessandro Garelli ad un convegno promosso dal comizio agrario di Mondovì e pubblicata nell’ultimo bollettino del comizio, alcuni dati significanti, fin troppo ammaestratori. È un confronto tra ciò che seppe fare la Germania per sottrarsi alle conseguenze del blocco marittimo e ciò che non sapemmo fare noi per parare alle conseguenze della guerra sottomarina.

 

 

Mentre nel 1914 la Germania produceva appena 36.000 tonnellate di cianamide – uno dei principali concimi chimici azotati ed, entro certi limiti, efficace sostituto del nitrato di sodio proveniente dal Cile – nel 1915 e nel 1916 la produzione era spinta a 500.000 tonnellate all’anno. Se a ciò si aggiunge che la Germania produsse nel 1916 ben 700.000 tonnellate di solfato di ammoniaca, e ricavò altre 500.000 tonnellate di ammoniaca dall’azoto dell’aria, si vede come essa abbia saputo efficacemente provvedere alla concimazione azotata dei suoi terreni, rendendosi indipendente per il dopo guerra dalle importazioni di nitrato di soda dal Cile.

 

 

Nel tempo stesso l’Italia scemava la sua produzione interna di cianamide da 25.292 tonnellate nel 1915 a sole 20.000 nel 1916. L’importazione del solfato di ammoniaca scemò da 13.110 tonnellate nel 1914 ad appena 2.824 nel 1917, mentre diminuiva altresì la produzione interna, la quale nel 1915 era appena di 15.000 tonnellate data la diminuita fabbricazione del gas illuminante. Che se l’importazione del nitrato di soda si è accresciuta di alquanto, ciò è sovratutto dovuto agli usi di guerra, mentre la quantità impiegata per l’agricoltura è venuta riducendosi a proporzioni evanescenti. Rispetto ai concimi fosfatici, questo solo ci riferisce il prof. Garelli, che la produzione delle scorie Thomas da 136.000 tonnellate mensili nel 1915 è giunta in Germania a 159.000 tonnellate nel 1916. Invece per l’Italia l’importazione dei fosfati naturali scese da 514.000 tonnellate nel 1914 a 430.425 nel 1916; e la produzione interna dei perfosfati riducevasi da 972.500 tonnellate nel 1913 a 489.433 nel 1916.

 

 

La differenza è sovratutto gravissima per i sali potassici: in Germania si passa da 483.627 tonnellate di potassa pura consumata per usi agricoli a 520.210 nel 1915 ed a 681.060 nel 1916; mentre in Italia si scende da 6.354 nel 1913 a 473 quintali nel 1915 ed a zero nel 1916.

 

 

Questo dei concimi chimici è davvero il grande problema della intensificazione della cultura in Italia. Bisogna che i concimi chimici si producano e si trasportino dalle fabbriche ai coltivatori. Ed occorre che il prezzo non sia proibitivo. Invece di obbligare gli agricoltori ad estendere le culture, con il che si può anche far del male, sarebbe preferibile obbligarli a spargere sul terreno una certa quantità di concimi chimici, i quali faranno sicuramente del bene. Né del resto sarà d’uopo obbligarli, quando i concimi si possano avere a prezzi ragionevoli. Invece di trasportare a costi enormi il frumento dagli Stati uniti, dall’Argentina, dall’India, si trasportino le fosforiti dalla Tunisia in Sicilia o nei porti del Tirreno. Si risparmieranno navi e lavoro e tempo. In aggiunta ai perfosfati ricavabili dalle fosforiti tunisine, si tentino altri mezzi, per dare il fosforo ai terreni. Sui giornali agricoli vedo polemiche pro e contro un nuovo prodotto, il tetrafosfato, il quale, da quel che ho capito, si raccomanderebbe per il relativo buon mercato dovuto alla possibilità di far a meno dell’acido solforico nella sua preparazione. Io non voglio entrare in merito non avendo dati bastevoli. Ma è compito del ministero di agricoltura verificare, controllare e promuovere ogni mezzo per crescere la nostra dotazione in concimi. Quanto ai sali potassici, dice il Garelli che nelle quattro principali saline di Trapani, Cagliari, Margherita di Savoia e Siracusa, si lasciano inutilizzate 700.000 tonnellate di acque madri, da cui si potrebbe ricavare largamente la quantità di concime potassico occorrente al paese. Se la cosa è vera, occorre provvedere, non per mezzo di commissioni di studio per il dopo guerra, ma cercando di riparare prontamente alla trascuranza del passato. Nessuno spediente va trascurato per risparmiare tempo e fatica, e ricavare dallo stesso terreno una produzione più abbondante.

 

 


[1] Con il titolo I nuovi prezzi massimi dei cereali per il venturo raccolto. [ndr]

[2] Con il titolo  Le tessere del pane e i prezzi multipli [ndr].

[3] Con il titolo Gli incoraggiamenti alla produzione agricola e l’ultimo decreto. [ndr]

[4] Con il titolo L’aumento dei prezzi d’imperio dei cereali per il 1918. [ndr]

[5] Con il titolo Bisogna consumare meno pane [ndr].

[6] Con il titolo La tessera del pane. [ndr]

[7] Con il titolo Il premio ai produttori di cereali nel Mezzogiorno e nelle isole e la trasformazione delle culture.[ndr]

[8] Con il titolo Intensificazione od estensione delle culture? Il problema dei prodotti chimici. [ndr]

Il problema del cambio

Il problema del cambio

«Corriere della Sera», 9 febbraio[1], 5[2], 12[3] e 20 marzo, 8[4] e 14[5] aprile, 8 settembre[6], 15 dicembre[7] 1917, 8 gennaio[8] 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 424-465

 

 

I

Dell’aumento del cambio e delle sue cause ripetutamente fu discorso su queste colonne, specie esaminando le variazioni dei cambi dei paesi belligeranti sulla Svizzera.

 

 

Principalissima tra le cause mi parve sempre l’aumento della quantità relativa e prevista della carta-moneta circolante. È fatale che l’aumento, dovuto alla necessità di guerra, della carta-moneta circolante l’abbia fatta rinvilire, come accade per ogni merce; ed è naturale che il rinvilio della carta-moneta non sia in rapporto alla sua quantità assoluta, bensì alla sua abbondanza relativamente agli scambi più o meno accentuati, alla tesaurizzazione dei biglietti da parte dei più timidi risparmiatori, ecc. ecc.; ed alla sua abbondanza prevista. Un biglietto da 100 lire vale più o meno in oro, quanto più presto o tardi si spera di vederlo di nuovo cambiato in oro alla pari dagli stati emittenti, ossia a seconda della maggiore o minore probabilità che gli stati possano ritirare in avvenire una parte dei biglietti emessi e riprendere il cambio a vista della parte restante.

 

 

Accanto a siffatto fattore fondamentale, giova por mente altresì agli scambi internazionali per spiegare le oscillazioni del cambio. Se in un dato mese l’Italia ha acquistato all’estero 500 milioni di lire-oro di merci e le deve pagare e ne ha vendute solo 300, di cui deve riscuotere il prezzo, pure in lire-oro, la compensazione fra il dare e l’avere, fra le cambiali (o divise) pagabili dall’Italia e le cambiali o divise pagabili all’Italia, si può effettuare solo in parte. I restanti 200 milioni rimangono in aria. Se lo stato contrae un debito all’estero, per esempio a Londra, di 150 milioni, acquistando così il diritto di tirare per 150 milioni di tratte pagabili su Londra, ecco che la compensazione si fa per altri 150 milioni. Si hanno 500 milioni da pagare e 300, Più 150 milioni da riscuotere. Rimangono pur sempre in aria 50 milioni. Poiché bisogna pagarli, e poiché non si possono pagare con biglietti italiani, è chiaro che coloro i quali devono pagare 500 milioni si fanno concorrenza per accaparrarsi, ciascuno a preferenza degli altri, i 450 milioni di divisa disponibile. Il prezzo in carta-moneta della divisa pagabile in valuta aurea all’estero cresce: ossia il cambio va al 20, al 30, al 40%. In tempo di pace ed in condizioni normali il cambio non può salire molto, perché si ha subito interesse a spedire all’estero oro, ovvero ad esportare merci. Queste, vendendosi a 100 lire-oro, fruttano 101, 102 e più lire-carta, dando un beneficio al produttore. D’altro canto si ha meno interesse ad importare merci dall’estero, perché, pur pagandole 100 lire-oro, ci costano 101, 102 e più lire-carta.

 

 

In tempo di guerra spesso è proibita l’esportazione dell’oro; è difficile crescere l’esportazione delle merci e sono frequenti i divieti di esportazione. Né è possibile per lo più diminuire l’importazione di merci, trattandosi di munizioni belliche, di cereali ed altre cose necessarie. Sicché il crescere del cambio non ha limite; ed il panico dei detentori di divisa estera e la speculazione potentemente contribuiscono ad esacerbare il cambio, anche al di là di quello che naturalmente sarebbe il rinvilio della carta-moneta esuberante.

 

 

Quali i rimedi contro il rialzo o, meglio, contro le esacerbazioni e le oscillazioni più violente di esso? I rimedi principi sono sempre i due ben noti: restrizione dei consumi ed aumento della produzione.

 

 

La riduzione dei consumi consente un maggiore risparmio e l’acquisto dei titoli di debito pubblico grazie al risparmio fatto. Scema così la necessità per lo stato di emettere nuova carta-moneta, e vien meno la causa più potente di un rialzo ulteriore del cambio. Se si consuma di meno, maggior copia di merci e derrate rimane disponibile per l’esercito; scema la necessità di indebitarsi verso l’estero per coprire lo sbilancio commerciale, poiché, se le compre si sono ridotte da 500 a 450 milioni di lire, cessa l’affannoso correre della domanda dietro alla offerta dei cambi.

 

 

Giova altresì lavorar più e meglio: in guisa da potere evitare alcune compre di derrate alimentari all’estero o, il che fa lo stesso, da potere accrescere le nostre esportazioni.

 

 

Oltre a questi che sono i rimedi principi, qualcosa può farsi per ottenere una minore asprezza dei cambi. Sui giornali di Torino, il prof. Sterpone ha caldeggiato con entusiasmo la raccolta dell’oro sotto la triplice forma:

 

 

  • di dono allo stato di orecchini, anelli, catene, oggetti d’oro;
  • di vendita degli stessi oggetti al valore nominale in carta, senza aumento d’aggio;
  • di vendita al valore corrente in carta, compreso l’aggio.

 

 

Tutti i tre metodi possono essere utilmente adottati e lo furono in Germania ed in Francia. In occasione del prestito odierno, anche il governo italiano accetta pagamenti in oro al corso del 130%, ed ha autorizzato gli istituti di emissione ad istituire conti correnti in oro. A parte questi ultimi, che meritano di essere illustrati appositamente, forse non converrà illudersi oltremisura sui benefici risultati della raccolta dell’oro. Non azzardo alcuna ipotesi che sarebbe avventata; ma ritengo improbabile poter raccogliere grossissime somme. In un paese, come l’Italia, dove si tratta di provvedere a coprire uno sbilancio commerciale probabilmente non inferiore ai 200-300 milioni di lire al mese, la raccolta in un anno di qualche decina di milioni di lire di oro, ammettiamo anche di qualche centinaio, potrà giovare; ma una sensibile influenza sull’aggio parmi difficile possa essere esercitata. Aggiungasi che, affinché l’effetto utile, anche piccolo, non sia neutralizzato, sarebbe necessario che lo stato non desse biglietti di carta ai portatori dell’oro ma titoli non spendibili per la durata della guerra. Altrimenti si cade dalla padella nella brace: scema l’aggio dell’1% perché lo stato ottiene l’oro per fare qualche pagamento all’estero, ma cresce dell’1% perché lo stato ha emesso all’interno altrettanta nuova carta-moneta e perché con questa i privati fanno domanda di merci all’estero o, consumando merci interne in più, creano un vuoto negli approvvigionamenti, che deve essere colmato con nuove importazioni.

 

 

Provvide la Germania a centralizzare il commercio delle divise estere presso la Banca imperiale allo scopo di moderare le oscillazioni dell’aggio; ed in parte riuscì nel suo scopo.

 

 

Purché non si creasse un nuovo ufficio governativo, purché della bisogna fosse incaricato un consorzio di banchieri sperimentati, presieduto dalla Banca d’Italia e coll’intervento del tesoro, potrebbe giovare l’accentrare tutto il commercio delle divise estere in un unico ente.

 

 

La cosa è difficile, ma non di impossibile attuazione. Se tutti i commercianti e gli industriali i quali hanno, in cambio delle merci da essi vendute all’estero, ricevuto cambiali pagabili all’estero fossero obbligati a venderle unicamente al consorzio; e se tutti coloro che hanno bisogno di fare pagamenti all’estero dovessero ricorrere al consorzio, questo potrebbe dominare il mercato dei cambi. Non dico che perciò il cambio ribasserebbe; ma potrebbero moderarsi le oscillazioni dovute al panico, alla accumulazione di divise presso i detentori paurosi di non poterle più riacquistare in seguito. Gioverebbe certamente all’uopo che il consorzio si obbligasse a dare uguale quantità di divise estere a chi avesse fatto prima analoghi depositi presso di esso. Proposi questo sistema in tempo di pace, ad imitazione di quanto si fa con successo altrove; ma l’adozione di esso in tempi di guerra sarebbe ancor più utile.

 

 

Forse il concentramento potrebbe giovare anche a ribassare alquanto i cambi. Suppongasi il consorzio detentore dei 300 milioni di divise pagabili all’estero, ricevute in cambio delle merci da noi vendute all’estero e dei 150 milioni di tratte che lo stato può tirare sulla banca di Londra, presso cui ha analogo credito. Il consorzio, il quale si trova di fronte ad una domanda di 500 milioni di lire da parte di coloro che debbono fare pagamenti all’estero per merci acquistate, farà una scelta. Comincierà a soddisfare tutta la domanda dei ministeri militari, degli industriali che lavorano per l’esercito, dei consorzi per l’approvvigionamento del grano, del carbone e delle altre merci o derrate necessarie alla vita dei soldati e dei civili. Soddisferà così ad una domanda di 450 milioni. I restanti 50 milioni si dovrebbero pagare all’estero per soddisfare acquisti di spezierie, di libri, di pellicce e di altre cose meno necessarie in tempo di guerra.

 

 

Questi saranno intieramente lasciati in asso dal consorzio. I commercianti, i quali hanno fatto acquisti per soddisfare alle fantasie di una clientela spendereccia, non otterranno in alcun modo legalmente i mezzi di effettuare i pagamenti dovuti. Faranno una pessima figura presso i loro fornitori stranieri. Tanto meglio. Dovranno affannosamente comprare di nascosto, in frode alla legge, divise estere da quei detentori che, in frode alla legge, non le avranno vendute al consorzio. Dovranno rassegnarsi a pagare prezzi di frode, ossia a subire cambi del 50, del 100, del 200, forse, in certi casi di assoluta necessità, del 1.000%. Ancor meglio. Una pelliccia che all’aggio del 30% sarebbe costata 1.300 lire, costerà 5.000, 10.000 lire e più. Strilleranno consumatori e consumatrici di cose inutili; e delle loro strida il Paese tutto si rallegrerà. In conclusione, potrà darsi che, invece di aversi un cambio, come oggi, del 35% per tutti, si avrà un cambio del 30% per i consumatori di cose necessarie e del 1.000% per i consumatori di cose inutili. Forse è difficilissimo raggiungere il fine; ma non si vede perché non si debba studiare la possibilità di impugnare un’arma che il nemico usa con non spregevoli risultati.

 

 

II

Il cambio italiano sull’estero ha raggiunto altezze impressionanti. Abbiamo superato sulla Svizzera il 59%, su Parigi il 34%, mentre la sterlina oltrepassa le 37 lire ed il dollaro raggiunge le lire 7,90.

 

 

Ad avere un concetto esatto comparativo del fatto giova tuttavia rifare il solito studio dei cambi, riferendoli ad un unico paese, ad esempio, la Svizzera. Ricordo ancora che la base fissa essendo il franco svizzero, le cifre del quadretto seguente si presentano, per così dire, capovolte in confronto a quelle che sono quotate in Italia. Se, infatti, il cambio italiano sulla Svizzera è a 150, ciò vuol dire che fa d’uopo dare 150 lire italiane per avere 100 franchi svizzeri. Ma se noi ci mettiamo dal punto di vista svizzero, diremo che per avere 100 lire italiane basterà dare 66,66 franchi svizzeri; il che ancora si esprime dicendo che la moneta italiana perde il 33,33% sulla Svizzera. Un aggio 50% in Italia è uguale ad una perdita del 33,33% della moneta italiana in Svizzera. Per conseguenza, siccome la moneta austriaca perde il 51,20% sulla moneta svizzera, ciò vuol dire che l’aggio in Austria è del 105%. Il che ci può consolare alquanto, in mezzo alle preoccupazioni che il rialzo del cambio fa nascere in Italia. Quelle preoccupazioni debbono essere nella monarchia nemica doppie delle nostre, poiché l’aggio in Austria è all’incirca il doppio che in Italia.

 

 

Fatta questa premessa, ecco il solito specchietto:

 

 

 

Massimi guadagni e massime perdite raggiunte

Fine del mese di

ALLEATI

prima dell'ottobre 1916

ottobre 1916

dicembre 1916

febbraio 1917

Inghilterra

(genn. '16) – 1,60

– 1 –

– 4,75

– 3,45

Francia

(mar. '16) – 12,80

– 10,05

– 13,35

– 14,15

Italia

(genn. '16) – 22,80

– 21,25

– 26,20

– 38,15

Russia

(genn. '16) – 42,10

– 40 –

– 43,75

– 46,90

POTENZE CENTRALI

       
Germania

(sett. '16) – 25,20

– 26,35

– 31,55

– 33,50

Austria-Ungheria

(sett. '16) – 40,35

– 43,60

– 49,55

– 51,20

NEUTRI

       
Olanda

(dic. '15) + 10,20

+ 3,10

– 1,35

– 3,30

Svezia

(apr. '16) + 13,20

+ 7,25

+ 6,20

+ 6,95

Norvegia

(apr. '16) + 13,20

+ 7,25

+ 6,20

+ 2,30

Danimarca

(apr. '16) + 13,20

+ 2,55

– 1 –

+ 0,15

Stati Uniti

(giu. '15) + 3 –

+ 0,90

– 2,35

– 3,55

Spagna

(giu. '16) + 7,15

+ 6,75

+ 7,50

+ 8,10

 

 

 

L’Italia sta ancora notevolmente meglio della Russia e dell’Austria-Ungheria e si trova a pari condizioni con la Germania. Tuttavia, è peculiare, ora, all’Italia la rapidità del peggioramento avvenuto negli ultimi quattro mesi, aggravatosi in febbraio ed accentuatosi nei primi giorni di marzo. Vi è l’impressione che il mercato sia lasciato andare un po’ alla deriva, senza che l’azione di una mano regolatrice ferma al timone si faccia sentire.

 

 

Pur nelle terribili condizioni in cui si trovano, le potenze centrali arginano i cambi con un successo che deve essere considerato come discreto, se si pensa alla quantità di carta emessa dall’Austria ed alla delusione dei tentativi di pace della Germania. Inghilterra e Francia agiscono energicamente sui cambi, sia con le vendite dei loro titoli, sia con i continui prestiti nel nord America.

 

 

Abbiamo noi fatto tutto quanto era possibile per regolare i cambi? Anche qui sarebbe desiderabile che venissero offerti al pubblico maggiori dati, perché in realtà si è costretti a brancicare alquanto nel buio. Non sembra che la causa del deprezzamento della carta-moneta italiana sia la sfiducia dei neutrali sulla nostra possibilità di far fronte agli impegni assunti. Non voglio ricordare testimonianze italiane; ma è di ieri la circolare di febbraio del Bankverein Suisse, in cui si ricordava che per le prime, fin dal 1914, la Gran Bretagna e l’Italia hanno pensato a risolvere il problema così importante della copertura definitiva degli interessi dei debiti di guerra.

 

 

È da lodare la propaganda che il governo, la Banca d’Italia e le altre banche fanno all’estero a pro del prestito; e ritengo che le somme sottoscritte in tal moda saranno superiori a quelle dei prestiti precedenti. Se anche però si riuscisse a giungere ai 100 milioni, ciò basterebbe a colmare per poco più di una settimana lo sbilancio commerciale.

 

 

Sono da lodare grandemente le iniziative di accettare i titoli esteri e l’oro in pagamento del nuovo prestito 5%. Ma per i titoli esteri perché si insiste a non voler concedere l’amnistia piena per tutta la durata della guerra; e perché si fissano all’oro prezzi inferiori a quelli del giorno? Ciò equivale a dire ai possessori dell’oro: tenetevelo, perché noi non ve lo vogliamo pagare al prezzo corrente.

 

 

Sovratutto, vi sono due mezzi che non mi sembra siano stati adoperati abbastanza fin qui: l’istituzione di un consorzio od ufficio centrale dei cambi ed i prestiti in America.

 

 

Della opportunità di istituire un consorzio centrale dei cambi ho già discorso a lungo qui sopra; e non giova ripetere le cose allora scritte. Contemporaneamente, un uomo pratico, l’on. Paratore, esprimeva gli stessi concetti; il che dimostra non trattarsi di pura escogitazione dottrinale. Ciò che è accaduto dappoi, prova la necessità di una regolamentazione. Non voglio riferire i discorsi che corrono, e di cui sarebbe difficile conoscere il fondamento. Ma è grandemente probabile che a spingere i cambi all’altezza odierna abbiano influito il panico e la tesaurizzazione delle divise estere. Chi ha divise estere non le vende per la paura di rimanere senza quando giungeranno le scadenze; e gli industriali che devono far pagamenti sono esagitati dalla paura di non trovare cambi e spingono i prezzi all’insù. Presto scadranno le tratte per le provviste di cotoni e vi sarà una nuova cagione di malessere.

 

 

Non dico che l’istituzione di un ufficio centrale dei cambi sia un tocca e sana. Vi sono cause profonde del rialzo che nessun ufficio può togliere; ma non vedo perché non si potrebbero moderare le punte speculative. Certamente l’ufficio non dovrebbe stare a Roma e non dovrebbe comporsi di funzionari del ministero del tesoro. Comprare e vendere cambi per l’industria non è loro mestiere; e prima che essi lo imparassero, i cambi potrebbero andare al 200%. Ma è davvero impossibile:

 

 

  • far divieto, a chi ha divisa da vendere, di venderla ad altri che al consorzio od ufficio centrale;
  • obbligar così tutti i bisognosi di cambi a rivolgersi soltanto all’ufficio;
  • far la scelta tra le richieste, soddisfacendo solo quelle per acquisti necessari all’alimentazione ed alla guerra, lasciando tutti gli altri richiedenti assolutamente al verde?

 

 

Non sembra impossibile costituire un consorzio fra le principali banche; e porre a gerire praticamente l’ufficio, con sede a Milano e con succursali a Torino e Genova, una mezza dozzina di banchieri ritirati dagli affari, di ex agenti di cambio, che sarebbero felici di prestare gratuitamente l’opera propria allo stato, pur di aver l’onore di servire il paese in un momento così difficile. A Roma si ha l’abitudine di considerare gli industriali, i commercianti ed i finanzieri come filibustieri o quasi; e si ignora l’arte di trarne partito a profitto della cosa pubblica. In ogni classe vi sono invece legittime ambizioni; ed una delle ambizioni maggiori nel momento presente è quella di essere creduti degni, col miraggio di una commenda o senza, di servire il paese. V’è gente competente e pratica che si farebbe in quattro, pur che il ministro del tesoro desse loro un mandato di fiducia. Perché non utilizzarli?

 

 

L’altro strumento non abbastanza adoperato è quello dei prestiti negli Stati uniti. Dopo un piccolo prestito di 25 milioni di dollari, non si è più sentito parlar d’altro. L’Inghilterra non è la sola fornitrice di denaro a mutuo. Oggi essa è sopravvanzata dagli Stati uniti, al cui mercato Inghilterra e Francia ricorrono di frequente con successo. Perché su 2.150.200.000 dollari imprestati dagli Stati uniti all’estero dall’agosto 1914 al 31 dicembre 1916 l’Italia figura con soli 25 milioni di dollari? È ragionevole ritenere che gli Stati uniti non ci ritengano meritevoli di credito? Alcune banche importanti nordamericane cercano la clientela nostra; e sono venute a impiantare filiali da noi. La colonia italiana è stimata per il suo numero e la sua operosità. Noi diamo all’America importanti ordinazioni, che formano una eccellente base per operazioni di credito.

 

 

Senonché gli Stati uniti non concedono prestiti se non ad alto interesse e ad alte provvigioni. Noi non possiamo dal nord America ottenere prestiti a saggi di favore, come li otteniamo dall’Inghilterra. Bisogna pagarli cari. Sia lecito dire però che, per quanto noi pagassimo il denaro caro in America, faremmo sempre un eccellente affare, ove si tenga conto della benefica influenza sui cambi. Se anche su 200 milioni di dollari a due anni si dovesse pagare, per ipotesi, il 10% all’anno, noi ci saremmo in definitiva obbligati solo a pagare dopo i due anni 240 milioni di dollari.

 

 

Ma se quei 200 milioni, trasformati in lire italiane, riuscissero a tener giù il cambio del 10%, ribassandolo dal 50 al 40%, l’industria italiana ed il ministero della guerra risparmierebbero subito 100 milioni di lire, pagando 1 miliardo e 400 milioni di lire quei 200 milioni di dollari che oggi si pagano 1 miliardo e mezzo. E potrebbe darsi che alla fine del biennio, a pace fatta, il cambio fosse ribassato e che per pagare 240 milioni di dollari bastasse meno del miliardo e 400 milioni di lire che oggi si sarebbero incassati.

 

 

Quando il cambio è al 50%, formalizzarsi di un 5% più o meno di interesse per un debito estero provvisorio, non ha senso. Trattasi di una piccola differenza, che può essere compensata da una oscillazione favorevole nel cambio. Qualunque banchiere riterrebbe ottima e lucrosa operazione prendere all’estero denaro a prestito anche al 20%, quando ciò fosse compensato da un risparmio del 25% nei cambi. Pagare il meno possibile è doveroso per tutti i privati banchieri e ministri del tesoro; ma il giudizio sul «meno possibile» si può dare solo in relazione al risparmio fatto sulla operazione complessa di prestito e di azione sui cambi. E nel momento presente questa deve essere il fine e quello il mezzo.

 

 

III

La questione del cambio interessa moltissimo, se almeno si deve giudicare dall’interessamento con cui giornali, uomini parlamentari e pubblico la discutono, indagando cause e proponendo rimedi.

 

 

Affinché però i rimedi proposti ed attuati siano efficaci fa d’uopo che l’opinione pubblica non sia fuorviata da erronei concetti intorno al significato ed alla portata del malanno di cui ci lamentiamo. Quanto più noi avremo idee chiare intorno al cambio, quanto minori errori usciranno dalla bocca dei nostri oratori politici o si leggeranno sui giornali, tanto più sarà probabile riuscire ad attenuare, sia da soli, sia d’accordo coi nostri alleati, la pericolosa ascesa del cambio. Credo sia possibile e doveroso richiedere la collaborazione degli alleati e principalmente del maggiore tra essi, l’Inghilterra, nella lotta contro il rialzo del cambio; ma credo parimenti che non giovi che uomini parlamentari e giornali chiedano quella collaborazione partendo da premesse che sono spropositi grossolani. Ciò non può non danneggiare la nostra causa, la quale poggia su fondamenti troppo saldi, per avere d’uopo di puntelli malfermi.

 

 

Uno dei più diffusi errori che si sentono comunemente ripetere è il seguente: è uno scandalo che gli svizzeri vogliano lucrare 50 o 55 lire per ogni 100 dei loro franchi; che i francesi guadagnino il 30% e che gli inglesi ci vendano le loro sterline per 36-37 lire nostre invece che per 25 lire. Passi per i neutri, i quali non hanno nessun vincolo verso di noi; ma gli alleati dovrebbero moralmente essere obbligati ad accettare la nostra moneta alla pari e dovrebbero resistere alla tentazione di lucrare il 30 od il 40% a nostre spese.

 

 

Se le cose stessero realmente così, il problema dei cambi sarebbe facilmente solubile; sarebbe bastato che gli on. Salandra e Sonnino avessero incluso nel patto di alleanza una clausola con cui francesi ed inglesi si fossero obbligati ad accettare alla pari la nostra lira; o basterebbe che ciò si ottenesse ora con opportune trattative, se per imprevidenza non si ottenne allora.

 

 

La verità si è che quella non è una cosa che si potesse richiedere nel maggio 1915 o che si possa richiedere oggi: perché il corso dei cambi è, salvo l’avvertenza che farò poi, un affar nostro interno; e né gli svizzeri, né i francesi, né gli inglesi, né gli spagnuoli guadagnano un centesimo sulla nostra lira.

 

 

Supponiamo per un momento che tutto il nostro commercio internazionale si svolga con l’Inghilterra e che si sia da noi acquistato per 200 milioni di sterline di merci di questo paese e si siano ad esso vendute merci per 100 milioni. Siccome con 100 milioni non se ne pagano 200, e siccome sono cessati gli incassi per rimesse di emigranti e di viaggiatori e le altre entrate sono trascurabili, né abbiamo titoli od oro da esportare in quantità apprezzabili, così è giuocoforza che il governo od i privati provvedano a pagare la differenza ottenendo in Inghilterra una apertura di credito di 100 milioni di lire sterline. In quale altra maniera si possa provvedere all’acquisto dei 200 milioni di lire sterline io non riesco a concepire. Tanto si acquista quanto si può pagare e nulla più. Se, chi vende, non pretende il pagamento e ci fa egli stesso credito, la questione è risoluta nello stesso modo: noi paghiamo col credito che il venditore ci fa.

 

 

Dal punto di vista inglese, il bilancio economico complessivo si presenta nel modo seguente:

 

 

AVERE DARE
Per merci vendute all’Italia

L.st. 200

Per merci acquistate dall’Italia

L.st. 100

  Per credito aperto all’Italia ossia per buoni del tesoro od altri titoli acquistati dall’Italia

100

Totale

L.st. 200

 

 

Le partite sono pareggiate perfettamente. Certi inglesi che hanno venduto a noi per 200 milioni di sterline ricevono il pagamento dei 200 milioni:

 

 

  • in parte da altri inglesi i quali dovevano dare a noi italiani 100 milioni di lire sterline per merci acquistate e che, pregati da noi, ne versarono invece il valsente ai nostri creditori;
  • in parte dal governo inglese, il quale, invece di mandarci materialmente 100 milioni in oro, per cui ci aveva fatto un’apertura di credito, versò quei milioni, su nostra richiesta, ai nostri creditori.

 

 

Gli inglesi, che ci vendettero carbone, metalli, cotonate, ecc., riscossero nulla più dei 200 milioni di lire sterline che erano loro dovuti; e noi non rinunciammo, per ottenere il carbone e le altre cose, a nulla più dei 100 milioni di lire sterline del prezzo dovutoci per le sete, gli agrumi, i marmi venduti all’Inghilterra e degli altri 100 milioni di prestiti fattici da quel governo.

 

 

Non si vede affatto spuntare neppure la più lontana ombra di lucro che sul cambio abbiano potuto fare gl’inglesi a nostro carico. In lire sterline vendettero merci, in lire sterline ne comprarono e ci concessero crediti; e le une si compensarono colle altre in perfetta parità.

 

 

E veniamo all’Italia.

 

 

Qui vi erano industriali, commercianti, amministrazioni di stato, che avevano comperato 200 milioni di sterline di carboni, metalli, ecc. e dovevano pagarli. Essi però possedevano lire italiane e non sterline. Per fare i pagamenti dovettero comprare lire sterline. A quali porte dovettero andare a bussare? Alle porte evidentemente di quegli italiani che avevano venduto agli inglesi 100 milioni di lire sterline di merci e che avevano in mano cambiali e pagherò – le cosidette divise estere – riscotibili a Londra in valuta inglese. Gli italiani che avevano i 100 milioni di lire sterline, vedendo che a chiederle erano in tanti e che la somma richiesta era di 200 milioni, pure di sterline, cominciarono a fare gli schizzinosi ed a chiedere di più della parità. Il contrario sarebbe successo se il rapporto si fosse rovesciato e le sterline sarebbero ribassate a 24, a 23 lire e forse meno, come successe in Spagna, in Svizzera, in Scandinavia ed altrove. Da noi successe che la sterlina andò su a 30, a 33, a 35 ed a 37 lire.

 

 

Ma chi ottenne le 33, le 35 e le 37 lire? Non gli inglesi, ma gli italiani venditori delle merci esportate, i quali si fecero pagar care le loro sterline. Le lagnanze di chi deve comprar le sterline perché deve pagare merci acquistate non vanno rivolte contro gli inglesi, i quali vendettero e comprarono nella loro moneta, ma eventualmente contro i connazionali i quali pretesero e pretendono prezzi alti per le sterline di cui sono possessori.

 

 

Forse più che contro i connazionali che hanno venduto merci all’estero e ne hanno ricevuto in cambio divise, le lagnanze andrebbero rivolte contro coloro che quelle divise comprarono a loro volta e ne fanno commercio. S’intende bene che adopero la parola «lagnanze» per conformarmi all’uso universale mentre non di lagnarsi è mestieri, ma di aumentare l’offerta delle divise per farne scemare il prezzo.

 

 

Dalle cose esposte risulta che è assurdo chiedere agli inglesi che essi ci facciano pagare la loro sterlina a 25 lire italiane; e quindi ai francesi ed agli svizzeri che essi ci facciano pagare 100 lire i loro 100 franchi. Chiedere una cosa simile è infantile. La questione del cambio, come tale, è un affare nostro interno, in cui gli stranieri non hanno nulla a che vedere.

 

 

Se non vogliamo commettere un errore inescusabile, noi dobbiamo agire sulle cause per le quali i possessori italiani (esportatori) dei 100 milioni di lire sterline sono stati per un momento in grado di farsi pagare 37 lire italiane le loro sterline. Ed i metodi possono essere diversi:

 

 

  • Esportare di più. Se invece di esportare per 100 milioni di lire sterline, riuscissimo ad esportarne 110 o 120, la concorrenza fra i venditori italiani di sterline sarebbe maggiore ed il prezzo in lire italiane della loro merce sarebbe più basso. Esportare di più non è facile in tempo di guerra; ma sarebbe desiderabile che almeno il governo non si mettesse della partita per farci esportare di meno. Sono di ieri le notizie del fermo posto ai carri di agrumi diretti in Svizzera ed ivi venduti ad alto prezzo. Furono fermati, per obbedire al clamore della stampa nevrastenica; aranci e limoni andarono in malora, furono rivenduti a vil prezzo in Italia, favorendo lo spreco in un momento in cui tutti predicano la restrizione nei consumi; si ha la consolazione di sapere che tedeschi ed austriaci non possono comperare ad alto prezzo l’acqua contenuta negli agrumi; ma frattanto il cambio sale e coloro che devono comperare il carbone lo pagano caro. È di oggi, a quanto leggo su lettere ricevute e su giornali, il diniego di esportazione dei pettini di unghia in Svizzera. Anche qui, può darsi che qualche alto funzionario tutto si rallegri pensando che i tedeschi più non potranno ravviarsi le irsute chiome coi nostri pettini, mentre la pulizia della capigliatura farà progressi in Italia, grazie al buon mercato dei pettini. Intanto il cambio sale. I bimbi nostri avranno i capelli bene ravviati: ma bisognerà loro misurare un po’ più il latte ed il pane.
  • Importare di meno. Se si riuscisse a diminuire, col divieto assoluto di importazione di tutte le cose non necessarie ed urgenti, i nostri acquisti all’estero da 200 a 195 milioni (mi contento del fattibile e non pretendo l’impossibile) sarebbe tanto di guadagnato. Perché i funzionari, i quali fanno perdere il tempo e la pazienza ai nostri esportatori di agrumi e di pettini, non rivolgono la loro attenzione alle merci importate? Sono minutaglie; ma di ogni piccola cosa occorre preoccuparsi in tempi di strettezze.
  • E così il disavanzo sarebbe ridotto alla differenza fra 195 e 110 invece che a quella fra 200 e 100, ad 85 invece che a 100 milioni di lire sterline. Qui entra in campo la funzione del tesoro. Oramai solo il tesoro può procurare, ottenendo un’apertura di credito in Inghilterra o, coll’intermediario inglese, negli Stati uniti per 85 milioni di sterline (nell’esempio ipotetico fatto). Ottenutolo, è in suo potere di dominare i cambi. Quando il nostro debito per merci comprate sia di 195 ed il nostro credito per merci vendute e per accreditamenti del tesoro sia di 110+85= 195 milioni di lire sterline, è questione di abilità tener testa a chi vuoi spingere all’insù il prezzo delle lire sterline. Per altre ragioni, che qui sarebbe troppo lungo spiegare, non è probabile si possa riportare la sterlina a 25 lire, ed i 100 franchi francesi e svizzeri a 100 lire; ma non deve essere impresa impossibile ad un ufficio centrale, situato a Milano, e composto di persone perite e rotte al mestiere, stabilizzare i cambi intorno ad una misura tollerabile e sovratutto relativamente costante.

 

 

Aggiungo che tanto più forte sarà il nostro governo nelle trattative occorrenti per ottenere sui mercati stranieri, ossia direttamente in Inghilterra o col suo intermediario negli Stati uniti, i necessari crediti per ristabilire la bilancia economica quanto più vigoroso sarà stato, prima e durante le trattative, il nostro sforzo per ridurre al minimo i nostri acquisti di merci inutili e per spingere al massimo le vendite di cose sovrabbondanti verso tutti i paesi esteri e di cose inutili alla guerra anche verso i paesi nemici.

 

 

IV

Il discorso dell’on. ministro del tesoro è stato assai notevole, sia per i dati che egli ha fornito intorno alle cause dell’altezza attuale del cambio, sia per i rimedi che egli ha annunciato essere allo studio o di imminente attuazione.

 

 

Quanto alle cause, è manifesto che nel momento presente tutta l’attenzione va rivolta allo scopo di restringere quanto più è possibile le importazioni di merci inutili e di mettere un freno alla mania di vietare a dritta ed a manca le esportazioni anche di merci, di cui sarebbe utile scemare il consumo fra noi o che a noi sono superflue. L’on. Carcano promise di fare un «prudente» uso della facoltà di deroga ai divieti di esportazione contenuti nel decreto del maggio 1916. Giova sperare che l’uso sia prudentissimo dove si tratti di merci e derrate necessarie alla condotta della guerra ed alla alimentazione «spartana» degli italiani; ma che della «prudenza» si faccia gitto in tutti gli altri casi.

 

 

Sempre in rapporto alle «cause» del cambio alto, l’on. Carcano ha insistito, come è oramai costume antichissimo di tutti i ministri italiani del tesoro, nel negare efficacia alla abbondanza della circolazione cartacea. Come sempre in passato, egli ha sciupato, con una dottrina sicuramente erronea, una pratica buona, anzi ottima. La dottrina erronea è quella che io chiamerei «aulica» perché radicata, non si sa perché, in tutti gli ambienti ministeriali ed ufficiali italiani. Appena uno studioso afferma che il biglietto italiano è deprezzato, in primo luogo perché esso non è convertibile in oro ed in secondo luogo perché di biglietti ve ne sono più di prima, saltano su ministri del tesoro – non alludo in modo speciale all’on. Carcano, il quale ha anzi esposta la teoria «aulica» in tono misurato – e scrittori ufficiosi ad affermare che l’abbondanza della circolazione non ha niente a che fare coll’aggio. Come se fosse possibile di negare che se il biglietto si cambiasse a vista in oro e se di biglietti perciò non vi potesse essere ridondanza, i biglietti circolerebbero a parità coll’oro. Come se fosse possibile negare che l’unico paese belligerante, l’Inghilterra, la quale gelosamente conserva il cambio a vista dei biglietti in oro, ha un cambio, il quale non supera i punti metallici, cresciuti per le maggiori spese di trasporto e di assicurazione, o li supera solo verso quei paesi, come la Svizzera, l’Olanda e la Scandinavia, verso cui è vietata l’esportazione dell’oro e rispetto a cui il cambio in oro perciò non funziona. Il corso forzoso e l’abbondanza della circolazione sono incontrovertibilmente l’ambiente in cui prospera il cambio alto, quello che si suole chiamare aggio. Fuori di questo ambiente l’aggio è una assurdità impensabile. I ministri del tesoro che, durante la guerra presente, in Italia, in Francia ed in Germania, hanno affermato che l’abbondanza della circolazione non influisce sull’aggio, hanno detto sicuramente un errore.

 

 

Se il male si limitasse ad una cattiva teoria, il guaio sarebbe piccolo. Il male si è che l’on. Carcano ha perduto l’occasione di giustificare bene la sua condotta che, in questa materia, è stata buona, sana, patriottica. Egli avrebbe potuto rispondere ai deputati che lo accusavano di avere aumentato la circolazione: «Sì, è vero, io ho aumentato la circolazione, e in tal modo è stato possibile il sorgere dell’aggio. Ma qual paese ha potuto sottrarsi a questa necessità? La guerra richiede tali spese, dà luogo a tali perturbazioni nel credito e nel commercio, che l’aumento nella circolazione è una necessità assoluta. Dura necessità, contro cui è inutile tentare di ribellarsi. Ciò che unicamente il paese poteva pretendere da me, era di contrastare questa necessità con tutte le mie forze, era di emettere biglietti per la minore quantità possibile. Ed io ciò ho fatto. Sono di ieri le seguenti cifre pubblicate dalla sede di Londra del Bankverein Suisse e riprodotte nell’ultimo numero del più reputato giornale della City, l’«Economist»:

 

 

Aumento della circolazione cartacea dopo il giugno 1914

(in milioni di lire)

%

Gran Bretagna

4.001

544,0

Russia

17.395

426,0

Germania

10.810

359,3

Austria-Ungheria

4.577

189,0

Francia

10.622

175,6

Italia

2.252

144,6

 

 

«E dalla tabella risulta che l’Italia è il paese dove l’aumento della circolazione è stato il minimo, sia in cifre assolute che in cifre proporzionali. Senza giurare sulla esattezza delle cifre, difficilissima ad ottenersi in argomenti siffatti, la situazione comparativa è quella che risulta da esse. Che cosa si poteva pretendere di più dal tesoro italiano? Che, nonostante l’aumento necessario della circolazione, ristabilisse il cambio a vista dell’oro? In pochi mesi i nostri istituti di emissione sarebbero rimasti privi di riserve. Poté conservare, nonostante l’incremento della circolazione, il cambio a vista l’Inghilterra; epperciò i suoi biglietti non sono sviliti. Ma trattavasi per essi di una questione essenziale; e giovò a tutti gli alleati che Londra continuasse ad essere il centro monetario mondiale. Non noi potevamo ristabilire ciò che tutti gli altri belligeranti si affrettarono ad abolire».

 

 

Se il ministro del tesoro avesse detto queste o consimili parole, avrebbe dimostrato che al tesoro dominano teorie giuste, il che è sempre qualcosa; ma sovratutto avrebbe dimostrato viemmeglio che, in tema di circolazione, la condotta del tesoro italiano fu sana. Aveva fatto tutto ciò che era possibile per diminuire al minimo gli inevitabili danni del corso forzoso e delle emissioni di carta – moneta; quale migliore elogio si può fare oggi di un ministro del tesoro?

 

 

L’opera del tesoro non fu altrettanto efficace o fortunata rispetto all’altro punto del problema: le oscillazioni del cambio. Se è inutile sperare che il cambio sulla Francia o sulla Svizzera, finché la circolazione rimane quella che è, torni al 100 o la sterlina a 25 lire, è possibile e ragionevole ritenere che possa il cambio essere stabilizzato attorno ad una certa cifra, che io non mi azzardo ad indicare ma pare debba essere inferiore al livello odierno. I commerci e le industrie sono danneggiati non tanto dall’altezza del cambio, quanto dalla sua instabilità. La sterlina a 36 lire è un guaio; ma il guaio più grosso è di non poter prevedere se domani la si dovrà pagare ancora 36 od invece 38 o 34 o 30 lire. Ciò perturba i calcoli, disorganizza i commerci, mette l’industria in balia dell’impreveduto e dell’assurdo.

 

 

Qui ed altrove fu invocata la costituzione di un ufficio centrale dei cambi. Il ministro del tesoro ha annunciato come imminente la costituzione di un consorzio di banche, destinato a funzionare come organo regolatore dei cambi.

 

 

Benissimo. Tutto starà nel modo come il consorzio sarà organizzato. Se predomineranno i funzionari e se per comprare un cambio sull’estero occorrerà attendere per un mese il disbrigo della pratica, la cosa finirà male. Finirà male anche se al consorzio parteciperanno solo alcune banche ad esclusione di altre. L’ufficio direttivo dovrebbe essere composto di banchieri od agenti di cambio, non aventi oggi interessi in nessun istituto esercente l’industria del credito, insieme con un rappresentante della Banca d’Italia ed uno del tesoro. Le banche dovrebbero essere solo le consulenti e le clienti dell’ufficio dirigente. Come al solito tutto sta nel trovare le persone perite sul serio od attualmente non interessate. Per trovarle bisogna cercarle. Hanno ben trovato il sen. Bianchi; e non è assurdo trovare gente rotta al mestiere e disposta a lavorare per lo stato. Il consorzio dovrebbe avere la sua sede o le sedi dove si tratta la maggiore quantità di cambi: ossia a Milano, Torino e Genova. Altrimenti le perdite di tempo saranno grosse.

 

 

Bene ha fatto l’on. Carcano a respingere le critiche infondate che sono state mosse alla camera all’azione della nostra alleata inglese. Poteva aggiungere alcune cifre, pubblicate ogni settimana sui giornali britannici, le quali indicano lo sforzo finanziario compiuto dalla nostra alleata per conto proprio e per conto degli alleati e delle colonie. Dal primo agosto 1914 al 3 marzo 1917 ecco i dati delle spese e dei mezzi per sopperirvi (in milioni di lire italiane):

 

 

Provento dei tributi

25.293

Provento dei Prestiti per proprio conto

54.020

Provento dei prestiti fatti per conta degli alleati e delle colonie

22.445

Totale delle spese

101.758

 

 

È uno sforzo gigantesco, che nella storia non ha uguali. Bene l’on. Carcano aggiunge che la nostra alleata non arretra dinanzi a nuovi e più grandi sacrifici. Il successo del recente prestito e arra di ciò che essa può fare per sé e per la causa comune. È patriottico augurare che l’Inghilterra possa venirci in aiuto con più larghi prestiti e con piacere fa d’uopo prendere nota delle assicurazioni date dall’on. Carcano che le trattative a tal uopo sono a buon punto. Tutto ciò fa parte del principio della fronte unica; e dell’appoggio che il forte deve dare al più debole per la causa comune. Ben fece perciò il ministro del tesoro a rintuzzare le grossolane ingiurie e falsità che oratori neutralisti da strapazzo pronunciarono contro l’Inghilterra allo scopo di seminare zizzania fra alleati. Dinanzi alle cifre citate sopra resta solo il diritto dell’Italia a che il suo sforzo sia adeguatamente apprezzato a Londra; e che si trovi il modo di ottenere il massimo risultato comune utilizzando le risorse che il mirabile organismo economico inglese sa creare.

 

 

L’on. Carcano accennò altresì al recentissimo deliberato del Federal Reserve Board di revocare la sua circolare precedente, con cui raccomandava alle banche nordamericane di astenersi dal far impiego dei loro fondi in buoni del tesoro di stati esteri ed in altri mutui ai belligeranti. A ragione disse che questa era una circostanza altamente favorevole e significativa per noi. Ma non aggiunse altro.

 

 

Se la riserva è spiegabile in bocca sua, è doveroso insistere sulla necessità di fare ogni sforzo per procurarci crediti negli Stati uniti, astrazion fatta dai maggiori crediti inglesi, che furono chiaramente annunciati. Torno a ripetere che l’altezza maggiore o minore del saggio dell’interesse è un elemento di secondaria importanza, di fronte alla necessità di moderare o stabilizzare i cambi. In tema di noli e di carboni, di noli e grano, di noli e metalli, il nolo apparentemente caro può essere a buon mercato se riesce a farci avere quei carboni, quei metalli, quel frumento di cui abbiamo bisogno. Così in tema di prestiti, fa d’uopo guardare all’operazione nel suo complesso. La perdita nel saggio dell’interesse può essere ad usura controbilanciata dal guadagno sul cambio. Le persone inviate negli Stati uniti a contrattare prestiti – ed Inghilterra e Francia inviarono uomini noti e largamente affiatati nel mondo bancario – debbono non solo contrattare il prestito per se stesso, ma contrattarlo in vista del fine che si vuol raggiungere: che è di permettere a noi di acquistare e pagare merci, le quali ci sono necessarie.

 

 

V

Come sempre, la relazione del comm. Stringher ai suoi azionisti è frutto di esperienza e di meditazione e va accuratamente studiata da quanti vogliono conoscere le condizioni dell’economia italiana nel momento presente.

 

 

Limitandomi per ora alle pagine in cui lo Stringher studia il problema del cambio, giova dar rilievo ad alcune osservazioni preziose da lui fatte e che finora non si erano ancora lette, almeno con tanta precisione, in nessun documento ufficiale:

 

 

  • Dalla fine del maggio 1915 alla fine del febbraio 1917 il tesoro e gli istituti di emissione italiani restrinsero le loro giacenze metalliche di circa 450 milioni di lire; il che vuol dire che in gran parte questi 450 milioni di lire sono stati depositati presso la Banca d’Inghilterra. È questa la operazione che fu detta dei pegni d’oro dati all’Inghilterra; e di cui a gran ragione lo Stringher assume, insieme col governo, la responsabilità e merita la lode. «Abbiamo contribuito noi pure – egli dice – in giusta misura alla raccolta dell’oro nelle mani possenti del colosso inglese, nell’interesse comune degli alleati». Auree parole, che andrebbero meditate da coloro i quali biasimarono l’invio d’oro in Inghilterra.

 

 

Non sono d’accordo con lo Stringher, quando in un altro punto della sua relazione nota che non fu possibile «attingere in paese nuove notevoli scorte auree, capaci di fronteggiare proporzionatamente la crescente circolazione cartacea». Giusto il lamento; ed opportuni gli sforzi fatti per invitare l’oro a depositarsi nelle casse del tesoro e degli istituti di emissione. Erroneo invece il concetto, del resto manifestato con commovente unanimità dai direttori delle principali banche d’emissione dei paesi belligeranti, salvoché dagli inglesi, che l’oro debba servire a fronteggiare proporzionatamente la crescente circolazione cartacea. È questo un residuo della vecchia e sbagliatissima teoria della «garanzia» per cui si dovrebbe possedere e conservare molto oro per garantire i biglietti, teoria erronea, perché i biglietti si garantiscono e si mantengono apprezzati con l’oro che si dà via in cambio di essi e non con l’oro che si serba in cassa, mentre i biglietti sono a corso forzoso. Tanto varrebbe, fu detto, calcolare nelle riserve bancarie l’oro che si trova depositato nelle viscere della terra; e fu detto giustamente.

 

 

Del resto tesoro e banche in Italia agirono in base alla teoria giusta e non a quella sbagliata: perché inviarono parecchie centinaia di milioni in Inghilterra, dove l’oro ha potuto adempiere al suo vero scopo: che è quello di essere dato via e non conservato. Che cosa sarebbe successo dei paesi dell’intesa se neppure la Banca d’Inghilterra avesse potuto mantenere il cambio a vista dei suoi biglietti? Se anche la sterlina fosse deprezzata del 20 o del 30%? A qual punto sarebbe giunto lo scredito dell’Inghilterra e con essa dei suoi alleati? Non sarebbero divenuti ancor più difficili d’oggi gli approvvigionamenti d’ogni fatta? La mente rifiuta di perdersi in un tale abisso di immagini paurose; ed è perciò indotta a proclamare ben altro che l’invio di oro in Inghilterra da parte nostra, da parte della Francia (1 miliardo e 600 milioni depositati a Londra; e 1 miliardo e 57 milioni inviati negli Stati uniti) e da parte della Russia fu provvedimento altamente benefico e patriottico, sovratutto nell’interesse nostro.

 

 

  • Nello stesso periodo di tempo il tesoro italiano ottenne, quasi soltanto a Londra, aperture di credito per 4 miliardi in oro. È un risultato grandemente apprezzabile in confronto al sacrificio minimo, anzi nullo, di aver dovuto inviare poche centinaia di milioni di lire di oro all’estero. Qui si vede la funzione degli invii di oro a Londra. L’Inghilterra, per ottenere essa a mutuo 4 miliardi di lire, che essa ridà poi a mutuo all’Italia, ha pur d’uopo di avere un fondo d’oro di scorta per poter far fronte a tutte le domande di rimborso in oro che le fossero presentate dai suoi creditori. E poiché essa, con la politica tradizionale del dar via l’oro delle sue riserve, ha sempre avuto scorte auree debolissime, fu necessario che Francia, Russia ed Italia, ciascuna nei limiti delle sue disponibilità, le fornissero la base aurea necessaria per potersi procacciare quei crediti che essa poi trasmetteva a noi. Nelle casse delle banche francesi, russe ed italiane quell’oro non serviva a nulla; perché nei paesi a corso forzoso non v’ha bisogno di tenere oro per cambiar biglietti. Trasportato a Londra, quell’oro servì per creare le più vaste aperture di credito che il mondo abbia mai viste. E di esse si giovarono gli alleati.

 

 

Per questo rispetto non fa mestieri d’altro che d’incoraggiare tesoro e banche sulla via intrapresa. Ora che le più aspre difficoltà a nuovi prestiti negli Stati uniti sono tolte, tesoro e banche sapranno spingere al massimo possibile i prestiti esteri, sia in Inghilterra che direttamente negli Stati uniti. Gioverà, imitando quanto assai opportunamente lo Stringher ricorda aver fatto la Francia, che non ci si limiti ad un prestito di stato nel nord America; ma che il tesoro e gli istituti di emissione «cooperino, agevolino e garantiscano operazioni finanziarie limitate o di mediana grandezza a favore di gruppi bancari, di enti industriali o di grandi e ricche città italiane». Pronte ed assolute esenzioni tributarie per i titoli emessi da enti italiani all’estero durante la guerra gioverebbero a facilitare non spregevoli operazioni di prestito da parte di enti diversi dallo stato.

 

 

Lo Stringher annuncia che i titoli di stati alleati e neutrali, già accettati in pagamento delle sottoscrizioni all’ultimo prestito nazionale, verranno accettati, in via continuativa, nel pagamento dei buoni del tesoro a cinque e tre anni, di cui si è ripresa l’emissione col primo aprile. Ottimo annuncio; che il comm. Stringher, confidiamo, otterrà venga completato:

 

 

  • con l’allungamento dello ancora smilzo elenco dei titoli esteri accettati. Perché non si accettano le rendite svizzere 3,50% e gli svariati tipi di obbligazioni cantonali e ferroviarie svizzere, di cui nelle provincie di confine esistono somme non indifferenti?
  • con l’amnistia completa per tutta la durata della guerra ai titoli esteri e con l’abolizione di ogni inciampo alla esportazione all’estero di qualunque titolo, amico, neutrale e nemico. È incomprensibile il motivo per cui il governo non si è ancora deciso a due provvedimenti così semplici e così urgenti.

 

 

Nella sua relazione lo Stringher si dichiara fiducioso che la corresponsione dell’aggio corrente attrarrà ai forzieri pubblici valute d’oro. Se queste parole vogliono significare l’abbandono dell’attuale sbagliato sistema di accettare l’oro a prezzi fissati con decreto ad un livello inferiore ai prezzi correnti, sia data lode allo Stringher di aver fatto prevalere la tesi del buon senso. Se si vuole che l’oro esistente in paese, poco o molto che sia, affluisca alle casse pubbliche, uopo è pagarlo al prezzo corrente.

 

 

L’eminente direttore della Banca d’Italia si dimostra scettico rispetto alla proposta di istituire un ufficio o consorzio centrale dei cambi. Le ragioni di dubbio sono essenzialmente due:

 

 

  • Si dubitò assai intorno alla convenienza dell’ufficio centrale in Germania ed in Austria-Ungheria; che pure sono mercati chiusi. Tanto più si deve dubitare in un paese a mercato aperto e con regime bancario discentrato come il nostro.

 

 

È difficile vedere bene la portata della obiezione. In Germania si dubitò, come far si deve per ogni cosa nuova; ma pur si fece con risultati non spregevoli. Il mercato italiano è aperto? Non parrebbe. Od almeno si deve fare una grande fatica mentale per considerare aperto un mercato dove vige il corso forzoso, dove è proibita l’esportazione dei metalli preziosi, dove l’importazione è in gran parte fatta dallo stato o per conto suo e dove l’esportazione è colpita da ogni sorta di vincoli. Se questo si chiama un mercato aperto, quali saranno mai i mercati chiusi?

 

 

È vero che il mercato bancario italiano è discentrato ma è ciò appunto che diede vita a movimenti speculativi di oscillazione. Non l’aggio alto e dannoso, ma l’aggio oscillante, e se l’altezza dell’aggio è, come osserva bene lo Stringher, determinata da cause non eliminabili, le sue oscillazioni possono essere entro certi limiti frenate.

 

 

  • Il monopolio di un ufficio centrale torrebbe stimolo agli sforzi delle banche e dei privati di acquistare cambi all’estero. Oggi la speculazione cerca aperture di credito all’estero; ad esempio di milione di franchi svizzeri, allo scopo di poter rivendere i cambi relativi in Italia al prezzo di 1.550.000 lire italiane. Verrebbe meno tale interesse se tutti i cambi fossero monopolizzati da un ufficio centrale. E quindi sarebbe diminuita la produzione e la vendita dei cambi.

 

 

Anche questa obiezione non è facile a capire. Allo speculatore non importa sapere a chi vende il suo milione di cambi, se a privati o ad un ufficio centrale; ma di venderli con profitto. È probabile che l’interesse a procacciarsi aperture di credito all’estero ed a vendere i cambi relativi in Italia cresca e non diminuisca quando si vede che i cambi sono stabilizzati, non hanno più una tendenza all’aumento – nel qual caso lo speculatore può temere di dover al momento della restituzione del milione di franchi ricomprare a 1.600.000 od 1.700.000 lire i cambi da lui acquistati a 1.550.000 lire -; ma rimangono stazionari o tendono alla diminuzione. Ho sempre letto e visto che nei paesi a corso forzoso ed a cambio alto la stabilizzazione dei corsi era un incitamento all’importazione di capitali dall’estero e quindi una causa di discesa dei cambi. Può darsi che ora il mondo vada alla rovescia; ma nessun fatto avvenuto sinora autorizza a crederlo.

 

 

VI

La relazione dello Stringher agli azionisti della Banca d’Italia e come una miniera dalla quale si possono ricavare a iosa notizie preziose e dati interessanti. Uno dei punti che richiamano maggiormente l’attenzione del lettore è la dimostrazione del buon mercato di quello che si suole chiamare in linguaggio di banca e di borsa «il denaro» e che sarebbe poi il saggio di interesse per i prestiti a breve scadenza (sconto di cambiali commerciali,

riporti ed anticipazioni su titoli).

 

 

Le operazioni di sconto cambiario, nel 1916, furono notabilmente meno elevate degli anni precedenti presso gli istituti di emissione e, in genere, presso tutti gli istituti di credito, i quali ridussero a 4,50 e a 4% la misura dell’interesse per siffatte operazioni, allo scopo di attrarre, per i loro portafogli, ottime cambiali, divenute sempre meno abbondanti e meno offerte al risconto.

 

 

Le cambiali, gli assegni bancari e gli altri titoli, scontati nel 1916 dalla Banca d’Italia furono 737.561 in numero per un importo di 1 miliardo e 816,7 milioni di lire, contro 1.880 307 in numero e 3 miliardi e 296,4 milioni di lire in importo nel 1915. L’ammontare massimo di queste operazioni si riscontrò, alla fine di dicembre, in 540 milioni, rimpetto a 364 milioni nel maggio del 1915; e devesi avvertire che la cifra del 1916 è ingrossata di circa 204 milioni per sconto di buoni del tesoro. La banca, per ottenere questa massa diminuita di materia scontabile, ritenne di dovere ridurre lo sconto in molti casi al disotto del tasso ufficiale che prima era del 5,50%, ma fu poi diminuito al 5%. Invero il 35,95% delle operazioni di sconto fu fatto al tasso del 5,25%, il 32,50% a quello del 5%, il 0,02 al 4,75%, ma il 24,00% al tasso del 4,50% ed il 5,29% a quello del 4%, oltre all’1,55% a tassi diversi. Come spiega lo Stringher il fatto? «Con la riduzione degli affari privati e con lo straordinario aumento delle pubbliche spese, alle quali si provvede in porzione, davvero non trascurabile, con l’emissione crescente, sebbene non dilagante, di carta-moneta. La massa dei biglietti nuovamente emessi alleggerisce, pro tempore, la situazione del mercato monetario, e, mentre rincara i prezzi delle merci, deprime il prezzo al quale viene offerto il denaro disponibile per le operazioni correnti di credito».

 

 

Senza entrare nel pelago delle discussioni condotte dagli economisti intorno alla influenza dell’abbondanza della moneta circolante sul saggio dei prestiti a breve ed a lunga scadenza e pur rammentando che una delle influenze fondamentali è verso il rialzo del saggio dell’interesse, è probabilissimo che temporaneamente, come ben dice lo Stringher, l’afflusso di nuova carta-moneta – come, in altri paesi ed in altri tempi, di oro – provochi abbondanza di disponibilità bancarie e quindi offerta di prestiti a breve scadenza a basso interesse.

 

 

Il quale effetto è opposto a quello che la stessa abbondanza della carta-moneta esercita sul prezzo delle merci, rincarandole. Teoria impeccabile, la quale dimostra che, se talvolta lo Stringher, come tutti gli aderenti alla teoria aulica dell’aggio in Italia, è portato a magnificare le altre cause del rialzo dell’aggio, ad un certo punto è tratto dalle abitudini mentali invincibili dell’economista ad affermare l’importanza preminente su tal fenomeno dell’abbondanza della carta-moneta. Quando invero si dice che l’abbondanza della carta-moneta ha fatto aumentare, ad esempio, il prezzo, espresso in carta, delle merci del 40%, che altro si dice se non che la stessa abbondanza ha fatto aumentare anche il prezzo dell’oro – il quale è una di quelle merci – espresso in carta all’incirca nelle stesse proporzioni? All’incirca, perché se il rialzo generale medio delle merci è del 40%, il rialzo specifico di ognuna delle merci, e quindi dell’oro, può oscillare più o meno, per cause particolari ad ogni merce, attorno a quel livello generale. Interessantissimo è per fermo lo studio delle cause particolari che provocano rialzi maggiori o minori; ma esse non ci devono far chiudere gli occhi dinanzi al fatto principe, che è l’abbondanza della carta-moneta.

 

 

Importa quindi evitare con ogni sforzo che si producano i due effetti gemelli: ribasso del saggio dell’interesse e rialzo dei prezzi delle merci, restringendo la circolazione al minimo compatibile con la necessità della condotta della guerra.

 

 

Nella relazione dello Stringher è riportata una tabellina dei saggi dello sconto ufficiali e liberi in Europa, che io riproduco aggiungendovi alcune cifre per il 31 marzo 1917:

 

 

31 dicembre 1914

31 dicembre 1915

30 giugno 1916

31 dicembre 1916

31 marzo 1917

SAGGIO UFFICIALE
Londra 5 5 5 6 5,50
Parigi 5 5 5 5 5
Berlino 5 5 5 5 5
Roma 5,50 5,50 5 5 5
SAGGIO LIBERO
Londra 5 5 1/8 5 3/32 5 27/32 4 3/16
Berlino 3 4 1/8 4 5/8 4 5/8

 

 

Una tendenza recente al ribasso si nota generalmente; ma si può osservare che mentre la massima piazza nemica, Berlino, non fa sforzi per tenere elevato il saggio dello sconto, anzi quasi fa sfoggio del buon mercato del denaro, la massima piazza nostra regolatrice, Londra, cerca, per quanto può di tenere su il saggio dello sconto. Rarefare il denaro sul mercato, è questa la divisa londinese; e si cerca di raggiungere lo scopo offrendo buoni del tesoro a condizioni vantaggiose.

 

 

Poiché la buona carta commerciale da scontare è scarsa, importa invero sostituirla con la carta di stato, ossia coi buoni del tesoro, la quale è altrettanto buona e fa rientrare nelle casse i biglietti che erano stati emessi. in tal modo si raggiunge il duplice benefico effetto, di non spingere i prezzi delle merci all’insù e di frenare la tendenza del tasso dello sconto breve a ribassare.

 

 

Il freno è sommamente utile, non già perché il saggio dello sconto basso sia per se stesso un male; quanto perché, nel momento presente il saggio basso dello sconto, la facilità del denaro spinge a movimenti speculativi di rialzo dei titoli in borsa che non mi paiono affatto opportuni. Non partecipo per nulla alla fobia di molti verso la «speculazione» e gli «speculatori»; e ritengo anzi che costoro siano una molla potente di progresso economico. Ma vi sono momenti in cui è compito dei dirigenti ostacolare il movimento al rialzo, perché se ne prevedono facili danni. Oggi, a quanto si sente dire, il denaro in borsa è estremamente a buon mercato; ossia coloro che hanno acquistato titoli, nella speranza di vederli rialzare, trovano denaro a prestito al 4% e talora a meno, per potere riportare le loro operazioni di mese in mese. Se il denaro costasse agli speculatori il 5 od il 6%, molte compre speculative non avverrebbero.

 

 

Una intesa fra istituti di emissione e banche ordinarie per rialzare il saggio dello sconto sarebbe utile, non solo per devolvere tutte le disponibilità allo sconto di buoni del tesoro, ma anche per evitare i movimenti di rialzo di cui discorsi sopra.

 

 

Se la guerra fosse finita, se l’orizzonte economico del dopo guerra fosse chiarito, se si conoscesse l’avvenire probabile delle varie industrie, un movimento al rialzo non sarebbe né lodevole né biasimevole. Potrebbe essere un fatto naturale. Nel momento presente, si impone invece una estrema prudenza. Non è affatto utile che la crisi inevitabile di riassestamento del dopo guerra sia complicata da un’eventuale crisi di borsa per il precipitare di titoli, i quali si fossero spinti troppo innanzi, in previsione di avvenimenti che potrebbero in seguito non essersi verificati.

 

 

Seguito a spigolare nella relazione Stringher.

 

 

A proposito dell’industria siderurgica lo Stringher scrive:

 

 

Si assicura che, nell’anno decorso, siano stati montati più di venti nuovi forni Martin Siemens di media e grande portata: così che molti, non senza fondamento di ragione, si chiedono se vi saranno poi il minerale sufficiente ad alimentarli e il combustibile occorrente a tenerli accesi.

 

 

Parlando dell’industria della produzione e distribuzione di energia elettrica, e dei risultati finanziari notevolmente superiori al normale, aggiunge:

 

 

Dicesi peraltro, che una situazione somigliante a quella che si ebbe nel 1916, benché accenni a ripetersi in quest’anno, vada considerata come eccezionale, e che non sarebbe consigliabile di riferirsi ad essa per fare apprezzamenti intorno all’avvenire.

 

 

Nell’anno di che si discorre, le industrie chimiche hanno avuto un andamento ottimo e un grande risveglio. Febbrile è stata la produzione degli esplosivi. Alcune fabbriche, le quali erano poco fiorenti o pericolanti, si sono consolidate definitivamente. Ne sono sorte parecchie di nuove, l’avvenire delle quali dipenderà dalle condizioni generali e daziarie che si avranno dopo la guerra.

 

 

Parole caute e prudenti; e niente affatto scoraggianti. Poiché nel dopo guerra si potrà trar profitto dei grandi progressi industriali che la guerra ha provocato, solo «se si penserà e si agirà a tempo, se si sarà previdenti, e se la volontà, nel governo e fuori, sarà ferma e ben diretta». Affinché si possa liberamente scegliere la via, la quale meglio ci converrà in seguito, occorre dunque essere prudentissimi oggi. Rarefare i capitali disponibili disoccupati: ecco il porro unum et necessarium nel momento presente, nell’interesse della tranquillità futura delle industrie e dei consumatori presenti di merci. Ed il mezzo è uno solo: far assorbire al mercato buoni del tesoro, e poi ancora buoni del tesoro.

 

 

VII

Il ministro del tesoro, di fronte all’inasprirsi dei cambi, si e deciso a provocare due decreti, l’uno luogotenenziale e l’altro ministeriale, intorno al commercio delle divise ed ai pagamenti all’estero. Parrebbe che lo scopo dei due decreti fosse l’istituzione di un controllo centrale simile a quello che da molte parti ed anche su queste colonne fu invocato non per impedire l’ascesa, in certe condizioni inevitabile, dei cambi, ma per evitarne le repentine e dannose oscillazioni.

 

 

È dubbio però se il metodo prescelto sia atto a condurre allo scopo. Dice invero il primo decreto che, a partire dal primo ottobre 1917, e per la durata della guerra le banche, le ditte bancarie ed in generale tutti coloro che esercitano il commercio delle divise ed operano in cambi su l’estero sono obbligati, sotto pena di un’ammenda da lire 200 a lire 2.000, a tenere un apposito registro, in cui siano indicate tutte le operazioni sia di acquisto, sia di vendita, insieme al nome, la nazionalità e la residenza del compratore e del venditore, le qualità delle valute, la natura e le condizioni delle operazioni. Il ministero del tesoro può inviare ispettori allo scopo di accertare l’esattezza del registro, la regolarità delle scritture, e di prendere conoscenza delle operazioni compiute.

 

 

Il secondo decreto istituisce, presso il ministero del tesoro, una commissione per regolare e coordinare i pagamenti ed i modi di pagamento che l’Italia deve fare all’estero, sia nell’interesse dello stato, sia in quello delle industrie nazionali. La commissione è presieduta dal ministro o dal sottosegretario al tesoro, ha per segretari due primi segretari dell’amministrazione del tesoro, ed è composta del direttore generale del tesoro, del direttore generale per la vigilanza sugli istituti di emissione, del rappresentante del ministero dell’industria, commercio e lavoro, del direttore generale delle gabelle, del contabile del portafoglio dello stato, dei direttori generali della Banca d’Italia, e dei Banchi di Napoli e Sicilia, del presidente dell’Associazione laniera e di altri tre rappresentanti, da designarsi dalla Unione delle camere di commercio, per le altre categorie d’industria.

 

 

È facile vedere come l’idea, la quale aveva mosso taluni pratici e studiosi ad invocare un ufficio centrale dei cambi, sia stata sfigurata nei due decreti ora riassunti. Sembra che la guerra abbia affinata la tendenza della burocrazia ad impadronirsi di qualunque idea, buona o cattiva, agitata dall’opinione pubblica, per deformarla, renderla dannosa all’interesse pubblico ed utile soltanto a fini particolari di incremento della burocrazia.

 

 

Chiedevasi un ufficio, provveduto di qualche decina di milioni di lire di fondi – persone peritissime asserivano che 10 milioni bastavano – composto di persone esperte nei cambi, temporaneamente non dedite all’esercizio dell’industria bancaria per proprio conto, il quale, con rappresentanti in qualche piazza estera, ed in Italia, a Milano, a Torino ed a Genova, e se vuolsi anche a Roma, comprasse e vendesse cambi, moderando le oscillazioni dannose agli industriali ed ai commercianti? Doveva essere un ufficio non statale, rapido; altrimenti da tutti se ne riconosceva l’inutilità ed il danno.

 

 

Che cosa è venuto fuori dalle non pronte meditazioni ministeriali?

 

 

In primo luogo un ufficio di ispezione. È fatto obbligo ai banchieri di tenere un nuovo registro ed è data la possibilità alla direzione generale del tesoro di mandare alcuni suoi impiegati a fare studi retrospettivi su quei registri. In che modo questi registri e questi ispettori possano evitare le oscillazioni dei cambi lo saprà forse il compilatore del decreto; ché io non riesco ad immaginarlo.

 

 

In secondo luogo l’istituzione di un’altra delle innumerevoli commissioni, che la guerra ha fatto sbocciare nei ministeri romani, composta in prevalenza di funzionari, la quale terrà seduta, consumerà diarie (articolo del decreto), diarie irrisorie, come in genere le remunerazioni di stato per i lavori di carattere pubblico, ma sempre inutilmente costose per i contribuenti, accetterà pareri, di cui i segretari compileranno verbali. E tutto finirà lì. Si può immaginare un corpo più macchinoso e più lento a muoversi di una commissione, presieduta da ministri e sottosegretari, in tant’altre faccende occupati, da direttori generali ed alti funzionari dei ministeri, dai direttori generali degli istituti di emissione, e da tre o quattro rappresentanti di industrie, residenti non si sa dove, i quali dovranno essere avvertiti almeno una settimana prima per ogni seduta? Quali lumi possono apportare costoro nella faccenda dei cambi, se si eccettuano i tre direttori di banca, e quale prontezza di azione si può sperare dall’opera di questa commissione, per risolvere problemi che cambiano d’aspetto di giorno in giorno e quasi di ora in ora?

 

 

I due decreti hanno un solo, evidente significato: che il ministro del tesoro ed il direttore generale della Banca d’Italia – faccio i nomi delle sole due persone le quali contano nella commissione, essendo ben noto che tutti gli altri sono semplici comparse, messe lì per far numero sono persuasi che non c’è nulla da fare in questa materia dei cambi di diverso da quanto si è fatto sin qui. Essi sono persuasi che l’azione del ministro del tesoro e della Banca d’Italia è, tenuto conto delle circostanze di fatto, la migliore la quale poteva e potrà essere esercitata. Non è questa l’opinione di tutti; ma è un’opinione chiara, semplice, rispettabilissima. Almeno si sapeva che, finora, la responsabilità dell’azione di governo nel controllo dei cambi era degli on. Carcano e Stringher, ossia di due persone a cui tutti riconoscono altissime qualità nell’esercizio delle loro funzioni. Che bisogno v’era di rendere in apparenza ossequio ad una richiesta dell’opinione pubblica, ed in sostanza creare istituti ed organi destinati a non far nulla? Perché disturbare banchieri ed agenti di cambio con nuovi registri, perché dare incremento ad una nuova burocrazia di ispettori dei cambi, perché creare una commissione, priva di scopo pratico e pronto, quando il risultato finale di tutto ciò è lasciare le cose come stanno, ossia affidate, come fin qui, alla chiaroveggenza ed alla abilità degli on. Carcano e Stringher? Almeno finora si avevano due uomini, in carne ed ossa, a cui dirigere lodi e biasimi. A che pro creare fra essi ed il pubblico, il paravento di una commissione?

 

 

VIII

La questione del cambio è ridivenuta, dopo la fine di ottobre, viva ed urgente: un aggio oscillante dal 40 al 55% su Francia, dal 90 al 105% su Svizzera, dal 60 al 70% su Londra, dal 55 al 65% su New York, grava, sia per la sua altezza che per le sue oscillazioni, in modo durissimo sul prezzo a cui possono essere importati i generi ed i prodotti necessari alla sussistenza ed alla difesa, accresce il costo dei noli marittimi, rende costoso il pagamento di qualsiasi debito all’estero.

 

 

Il recentissimo decreto Nitti mette il problema sulla via di una soluzione tollerabile. Perché la soluzione non possa essere perfetta e le nostre aspirazioni più alte si debbano limitare ad uno stato di cose tollerabile si vede chiaro pensando alla causa del lamentato fenomeno.

 

 

In verità, la diagnosi più ovvia e più diffusa della malattia dell’aggio alto, quella che banchieri, industriali e commercianti accettano senz’altro come dimostrata dalla pratica, farebbe credere alla possibilità di rimedi radicali. La spiegazione è questa: le importazioni di merci dall’estero superano di gran lunga le esportazioni; quindi la moneta estera – sotto forma di divise o cambiali pagabili all’estero – è molto richiesta dagli italiani, i quali devono fare forti pagamenti all’estero per la merce importata, mentre la moneta italiana è poco richiesta dagli stranieri i quali debbono pagare poca roba comperata in Italia. Quindi accade ciò che è consueto in questi casi; la moneta straniera diventa cara e la moneta italiana rinvilisce. Si aggiunga a ciò la speculazione, la quale fa incetta di divisa estera ed esagera le difficoltà di trovare i mezzi di pagare all’estero ed approfitta delle notizie politiche e belliche; ed ecco spiegato l’alto corso dei cambi esteri.

 

 

Ripetutamente ho manifestato il mio reciso dissenso da questa spiegazione, la quale si raccomanda soltanto per essere ovvia e semplice. Ma vera non è. Gli squilibri fra importazioni ed esportazioni possono forse e tutt’al più spiegare le oscillazioni dei cambi da un giorno ad un altro. Non possono spiegare il fatto permanente del rialzo e la sua tendenza ad accentuarsi. Potrei fare qualche lungo ragionamento per spiegare la mia affermazione. Mi limiterò a ripetere ancora una volta un solo argomento, che già invano misi innanzi: prima di affermare che l’altezza dei cambi è dovuta alla grande eccedenza delle importazioni sulle esportazioni, bisognerebbe aver dimostrato che questa eccedenza esiste. Ora pare a me sicurissima cosa che questa eccedenza esiste solo nella immaginazione di chi non vuole soffermarsi a meditare un istante sull’argomento.

 

 

È vero: dallo scoppio della guerra europea alla fine di luglio 1917 – cito le cifre delle ultime statistiche doganali venute alla luce -, le importazioni di merci eccedettero le esportazioni di merci per circa 8 miliardi e mezzo di lire. Forseché però queste di merci furono le sole esportazioni da noi fatte all’estero? Mai no. Senza parlare dei guadagni della marina mercantile, delle rimesse di emigranti, le quali pur seguitano a venire, sebbene in somme minori di prima, non è forse vero che lo stato italiano ha esportato all’estero per miliardi di lire di titoli di debito? Far debiti all’estero è lo stesso che vendere od esportare all’estero nostri titoli di debito. Cifre precise sui debiti fatti all’estero non se ne possono dare perché il modo con cui questi dati sono riportati nel conto del tesoro non è perspicuo. Ma io ritengo che i debiti fatti dall’Italia in Inghilterra e negli Stati uniti sieno stati sufficienti per coprire lo sbilancio tra importazioni ed esportazioni. Sì; noi comprammo 8 miliardi e mezzo di lire-carta di più di merci di quante non ne vendemmo all’estero; ma questi 8 miliardi e mezzo li pagammo con i crediti che ci furono aperti all’estero. Bastarono 6 miliardi e mezzo circa di lire – oro di crediti esteri per pagare tutti gli 8 miliardi e mezzo di lire – carta dell’eccedenza delle merci importate sulle esportate.

 

 

Se questo è vero, come è possibile affermare che l’alto cambio derivi da una eccedenza che non esiste? Il bilancio dei pagamenti internazionali non si compone solo di merci contro merci, ma di merci importate contro merci e titoli esportati.

 

 

Se anche i titoli esportati non giunsero precisamente ad 8 miliardi e mezzo il conto tornò lo stesso perché bisogna, come dissi sopra, tra le nostre esportazioni, ossia tra le nostre ragioni di credito, tener calcolo delle rimesse degli emigranti, dei guadagni della marina mercantile, ecc. ecc.

 

 

Il preteso sbilancio è dunque un equivoco od una fantasia. Se il cambio alto potesse concepirsi derivante da questa causa, noi avremmo il cambio alla pari. Un oculato e forte governo del tesoro e degli istituti di emissione basterebbe non solo a fare scomparire le oscillazioni del cambio, ma l’aggio medesimo al disopra della pari.

 

 

Se il cambio alto invece esiste, bisogna concludere che esso è dovuto ad altra o ad altre cause. Anche qui, per non fare lunghi discorsi, mi limiterò a dire che cambio alto è sinonimo di deprezzamento della moneta cartacea, della lira-carta in confronto all’oro.

 

 

Sono due espressioni che vogliono dire la stessa cosa. Ed a sua volta «deprezzamento della moneta cartacea» in confronto all’oro vuol dire che la carta italiana compra meno merci di quante ne compri l’oro. Infatti è accaduto che dal luglio 1914 al giugno 1917 i prezzi in lire sterline siano aumentati in media da 100 a 221 (numero indice dell’«Economist»), mentre i prezzi in lire italiane sono cresciuti da 100 a 305 (numero indice Bachi, illustrato nell’annuario «L’Italia economica»). Ciò vuol dire anche che oggi per comprare quella stessa quantità di merci per cui in Inghilterra bastano 100 lire-oro, occorrono in Italia 138 lire-carta. E di ciò nessuna altra spiegazione ragionevole si può dare se non questa: che in Italia le lire-carta sono relativamente più abbondanti rispetto alle merci esistenti in Italia di quanto non siano in Inghilterra le lire-oro rispetto alle merci colà esistenti; sicché occorre dare più lire-carta per avere l’identica quantità di merci. È una vecchia storia che si ripete: quando una merce, nel caso nostro le lire-carta, diventa più abbondante, essa deprezza rispetto alle altre merci. Se fosse possibile ridurre la produzione delle lire-carta, ossia la circolazione di biglietti di qualche miliardo, subito si vedrebbero le lire-carta aumentare di pregio rispetto alle merci, ossia i prezzi delle merci diminuire. Purtroppo non è possibile oggi ridurre la circolazione. Contentiamoci di sapere che il governo italiano fu uno dei più prudenti tra i belligeranti nell’aumento delle emissioni di biglietti e non pretendiamo l’impossibile. Ma non pretendiamo neppure di far scomparire l’aggio, che è la conseguenza inevitabile delle cresciute emissioni.

 

 

Senonché si dice acqua e non tempesta. Gli italiani si rassegnerebbero per ora ad un cambio medio del 35-40%, ossia a dare 135-140 lire-carta per avere 100 lire-oro. Ma gli aggi attuali del 50, del 65, del 90% sembrano esorbitanti. Il livello a cui dovrebbero adeguarsi i cambi sembra a me dover essere uguale all’incirca al relativo maggiore deprezzamento della carta-moneta italiana in confronto alle merci. Se occorrono 135-140 lire-carta italiane per comprare tante merci quante in Inghilterra si comprano con 100 lire-oro, ossia 4 lire sterline, per qual ragione bisogna pagare 160 lire-carta italiane per avere 100 lire – oro inglesi, ossia 4 lire sterline? Se due quantità sono uguali ad una terza, sono anche uguali tra di loro. Se 135-140 lire-carta italiane e 4 lire sterline comprano amendue un quintale della stessa merce, si dovrebbe potere con 135-140 lire italiane comprare 4 lire sterline, ossia la lira sterlina dovrebbe costare 33-35 lire italiane. Invece ne vale circa 40 e giunse anche a 42, come dai listini ufficiali.

 

 

Questa è una incongruenza, dovuta ad attriti ed imperfetto funzionamento del meccanismo monetario e bancario.

 

 

Toglierle di mezzo è appunto lo scopo che si propone l’on. Nitti col recente decreto per un istituto nazionale dei cambi. Non parlo dell’altro decreto, col quale si proibisce il collocamento nel regno di titoli esteri di stato, nonché di obbligazioni ed azioni di qualunque specie senza l’autorizzazione del ministro del tesoro. Il decreto eserciterà una influenza trascurabile sui cambi, perché ritengo sia esigua la corrente di acquisti di valori esteri da parte di italiani nel presente momento. L’aggio alto che occorre pagare rende l’acquisto proibitivo; ed informazioni di pratici mi fanno ritenere che sia di gran lunga più rilevante la corrente inversa di acquisti esteri di valori italiani o, più spesso e con lo stesso risultato, la rinuncia da parte di stranieri ad incassare per ora l’ammontare di crediti e di fatture stilate in lire italiane.

 

 

Il decreto veramente importante è quello che istituisce il monopolio del commercio della divisa estera da parte dello stato. L’esperimento ha per iscopo, ricordiamolo bene per non far nascere speranze eccessive, non di far tornare il cambio alla pari, ma soltanto di moderarne l’altezza e le oscillazioni. Lo stato deve provvedere a gran parte dei pagamenti esteri facendo debiti in Inghilterra e Stati uniti. È ragionevole che, mentre si fanno debiti cospicui per imperiose ragioni pubbliche, non si consenta ai privati di far debiti per ragioni di vanità, di comodità o di lusso. È logico che se l’Italia possiede per tre miliardi all’anno di crediti per merci esportate, neppure una lira sia dedicata a pagare cose inutili. Non far debiti se non per cose necessarie è un dovere. Tanto peggio per la gente vanesia che si lamenterà di non poter comprare e pagare pellicce, brillanti ed altre inutilità consimili. Siccome i debiti che si possono contrarre all’estero non sono una quantità indefinita, la limitazione dei pagamenti inutili gioverà all’equilibrio della bilancia dei pagamenti internazionali.

 

 

Il monopolio da parte dello stato del commercio delle divise estere permetterà anche, in condizioni di equilibrio permanente raggiunto, di evitare le oscillazioni dei cambi. Gli alti e bassi non sono fatali, ma derivano da cattivi aggiustamenti tra domanda ed offerta di giorno in giorno. Il monopolio di stato potrà giovare all’uopo, purché si osservino talune condizioni:

 

 

  • che la gestione sua sia rapida, commerciale, fatta da uomini veramente del mestiere. Il nome di «istituto nazionale», oramai divenuto sinonimo di enti ingombranti e lenti, mi fa pronosticare male. Meglio sarebbe stato fare la cosa, con uomini di fiducia, anche senza alcun nome solenne;
  • che il commercio e la banca abbiano l’assoluta sicurezza che si tratta di una istituzione assolutamente provvisoria, destinata a cessare col finire della guerra. Guai se l’istituto dovesse avere direttori, impiegati, stipendi, ecc. ecc.! Diventerebbe l’ottava peste d’Italia. Negli Stati uniti il signor Hoover, dittatore degli approvvigionamenti, sta facendo miracoli, perché affidò la gestione delle singole branche del suo colossale dicastero a privati uomini di affari, i quali, chiamati, risposero all’appello; e lavorano accanitamente senza stipendio e coll’unico proposito di farsi onore durante la guerra, ben decisi di tornare dopo alle proprie aziende. Bisogna assolutamente che il nuovo istituto sia in mano di persone, le quali per ambizione lo servano ora ed abbiano interesse ad abbandonarlo dopo. In Italia queste persone si devono trovare;
  • che il monopolio non sia esclusivo, nel senso che non abbiano preponderanza in esso taluni piccoli gruppi bancari a scapito di altri. L’accenno, troppo solito in simili decreti del tesoro, alla costituzione del consorzio bancario, in cui entrerebbero solo i maggiori istituti di credito ordinario italiano che le banche di emissione, previo assenso di due ministri, crederanno conveniente di aggregarsi, è un accenno fastidioso. Ha tutta l’aria di creare o perpetuare una specie di oligarchia bancaria, quella stessa i cui nomi si vedono sempre in calce ai manifesti per i prestiti pubblici. L’ufficio dei cambi deve essere indipendente, costituito da persone di fiducia degli on. Nitti e Stringher e deve operare per mezzo di tutti i banchieri i quali meritino fiducia.

 

 

Se queste condizioni saranno osservate, il nuovo monopolio potrà essere fecondo di bene al paese. Altrimenti creerà noie ed imbarazzi senza fine.

 

 

IX

Altri problemi e la mancanza di spazio mi hanno impedito di seguire, come per lo passato, mese per mese il corso dei cambi internazionali sulla Svizzera. Oggi, però, al chiudersi d’un anno ed all’annuncio del nuovo prestito italiano, un rapido sguardo è utile, o meglio, è necessario. Il quadro, che segue, è compilato nel solito modo. Tutti i cambi sono tradotti in guadagni o perdite percentuali sul franco svizzero. Le cifre rispondono alla domanda: dando cento lire italiane, o cento franchi francesi, o cento unità di lire sterline ridotte in franchi alla pari dei cambi, quanti franchi svizzeri di meno o di più di cento si ottengono in cambio?

 

 

Intesa

Fine luglio 1914

Fine luglio 1915

Fine luglio 1916

Fine luglio 1917

Fine dicembre 1917

Inghilterra

– 0,20

+ 1,50

+ 0,03

– 14,15

– 17,35

Francia

+ 0,03

– 5,40

– 10,25

– 21 –

– 23,40

Italia

– 0,55

– 15,75

– 18,25

– 37,10

– 47,40

Stati uniti

– 0,80

+ 3,50

+ 2,20

– 11,60

– 15,85

IMPERI CENTRALI

         

Germania

0,65

– 11,85

– 23,40

– 48,55

– 30,35

Austria-Ungheria

– 1,05

– 23,35

– 37,50

– 61,20

– 50 –

NEUTRI

         

Olanda

– 0,35

+ 3,70

+ 5,30

– 9,25

– 9,35

Svezia

– 0,60

– 0,65

+ 9,05

+ 8 –

+ 5,65

Norvegia

»

»

»

– 1,35

+ 3,85

Danimarca

»

»

»

– 4,60

– 2,50

Spagna

– 3,51

+ 1,50

+ 6,75

+ 5,50

+ 6- 

Russia

– 6,0

– 30,60

– 39,25

– 62,85

– 73-

 

 

 

Nessuno oserebbe certamente meditare senza serie riflessioni le cifre ora esposte. La catastrofe russa si riflette nel tracollo dei suoi cambi; il successo militare degli imperi centrali contro di noi e l’approssimarsi della pace separata con la Russia sono rivelati dal notevolissimo miglioramento nel pregio del marco e della corona; mentre per contrapposto tutte le valute alleate peggiorano in misura maggiore o minore.

 

 

Questo l’aspetto politico del problema, il quale domani potrà mutare, continuando la resistenza militare e morale dell’intesa e dileguandosi le probabilità di una pronta pace tedesca, che è stato il coefficiente massimo della sostenutezza recente degli indici economici degli imperi centrali. Non muta tuttavia il sostrato ultimo della cattiva valutazione delle monete dei paesi belligeranti. In fondo, anche la condotta militare e morale della guerra si rispecchia nella sua condotta finanziaria ed economica. Un paese forte, in cui alta sia la coscienza politica dei cittadini, non solo dà prova della massima resistenza militare e morale, ma sa sottoporsi per tempo ai massimi sacrifici di denaro con imposte e con prestiti propriamente detti, né ricorre alle emissioni dei biglietti se non nella misura strettamente necessaria. Emettere biglietti, ossia stampare carta-moneta per provvedere alle spese di guerra è metodo facile, ovvio ma dannosissimo. Il rialzo dell’aggio, che ne è la conseguenza fatale, ed il rialzo dei prezzi di tutte le merci, derrate e servigi infliggono il peso di una imposta grave, mal ripartita, sulle classi che sono meno capaci di sopportarlo. Il problema acutissimo degli impiegati a stipendio fisso in Italia è la conseguenza del disaggio della nostra carta-moneta.

 

 

Tutti gli stati hanno peccato gravemente in questa materia. A tacere della Russia, dove da 4 miliardi e 358 milioni di lire (calcolato il rublo alla pari) di biglietti emessi il 21 luglio 1914 si era già saliti il 29 ottobre 1917 alla cifra spaventevole di 48 miliardi e 965 milioni di lire e dove rapidamente ci si avvia verso un tracollo simile a quello che colpì, durante la rivoluzione, l’assegnato francese; persino in Inghilterra la circolazione è alimentata da 733 milioni di lire italiane il 23 luglio 1914 a 6 miliardi e 525 milioni, compresi i biglietti di stato, il 26 dicembre 1917, sicché l’«Economist» di Londra, diretto oggi dal Withers, una delle teste più chiare e uomo veramente rappresentativo della tenacia e prudenza inglese, non sa trattenersi dal condurre con linguaggio moderato una acerrima campagna critica contro il gabinetto ed il cancelliere dello scacchiere, che egli accusa di mancanza di coraggio e di finanza facile.

 

 

Sebbene l’imposta sul reddito sia stata una prima volta raddoppiata e il totale sia ora stato cresciuto del 40%, ciò sembra poco all’«Economist», il quale a ragione vorrebbe aumenti ancor più rilevanti, sia per evitare emissioni di biglietti, sia per costringere la gente balorda ed egoista a risparmiare ed a non consumare.

 

 

In Francia la circolazione di biglietti è salita da 6 miliardi e 912 milioni di franchi il 23 luglio 1914 a 22 miliardi e 354 milioni il 20 dicembre 1917; in Germania da 2 miliardi e 364 milioni di lire italiane (assumendo il marco alla pari) il 23 luglio 1914 a 21 miliardi e 381 milioni, comprese le note delle casse di prestito circolante del pubblico, il 7 dicembre 1917. In Austria – per cui si ebbero, finalmente e per la prima volta, notizie in occasione d’una recente assemblea straordinaria della Banca austro-ungarica – mentre l’oro in cassa diminuiva da 1 miliardo e 150 milioni di lire italiane prima della guerra a 278 milioni il 7 dicembre 1917, la carta-moneta in circolazione cresceva nello stesso periodo di tempo da 6 miliardi e 305 milioni a 37 miliardi e 200 milioni di lire italiane. Cifra, quest’ultima, poco meno spaventevole di quella russa. Ed in Italia? La circolazione totale dei biglietti di banca, la quale era di 2 miliardi e 138 milioni al 30 giugno 1914 ed era salita il 31 maggio 1915 a 3 miliardi e 772,3 milioni, giungeva il 31 ottobre 1917 a ben 6 miliardi e 575 milioni; a cui bisogna aggiungere i biglietti di stato, i quali aumentarono da 485,8 milioni al 30 giugno 1914 a 1 miliardo e 681 milioni al 28 novembre 1917. In totale e in cifre tonde, siamo passati da 2 miliardi e 700 milioni a 8 miliardi e 250 milioni di lire di biglietti circolanti.

 

 

Si vorrebbe forse, di fronte a queste cifre, che la carta-moneta dei paesi belligeranti non svilisse? L’on. Nitti ha operato molto bene a pubblicare nell’allegato 17 alla sua esposizione finanziaria una tabella la quale mette definitivamente nel nulla la teoria assurda, secondo cui l’aggio dipende dallo sbilancio del commercio internazionale. Non speravo di avere tanto presto un appoggio così autorevole alle osservazioni ovvie che, in contrasto con l’opinione dominante, avevo fatto per dimostrare che il preteso sbilancio commerciale non esisteva. Ora, per merito del Nitti, si conoscono le seguenti cifre:

 

 

Sbilancio commerciale

Incassi del governo italiano per crediti ottenuti all’estero

Luglio-dicembre1915

1.245,0

1.269,6

Anno 1916

5.296,6

2.900,1

Gennaio-ottobre 1917

5.031,9

5.622,2

Totale

11.573,5

9.791,9

 

 

È evidente che in complesso non vi fu sbilancio, perché il debito per il sovrappiù di merci importate su quelle esportate si poté pagare con gli incassi fatti dallo stato italiano per crediti apertigli in Inghilterra e Stati uniti appunto per regolare quegli acquisti. Soltanto nel 1916 gli incassi furono inferiori allo sbilancio; ma è probabilissimo che abbiano provveduto alla differenza incassi fatti per rimesse di emigranti tornati in paese e crediti procacciatisi privatamente da industriali e banchieri italiani; tant’è vero che nel 1916 l’aggio rimase su Londra e New York sul 27-30% e persino diminuì, quando i deficit erano massimi e gli incassi minimi, al 20-21%. Invece l’aggio prese la rincorsa negli ultimi mesi del 1917, sebbene oramai di sbilancio non possa assolutamente più parlarsi essendo gli incassi del tesoro per debiti contratti all’estero notevolmente superiori al sovrappiù delle importazioni sulle esportazioni.

 

 

Quale conseguenza fa d’uopo dedurre da tutto ciò? Che l’unico modo efficace, pratico, serio, per ridurre i prezzi, per mitigare il rincaro della vita è di risparmiare fino al limite del possibile. Se gli italiani, i quali hanno un reddito superiore al minimo necessario per mantenere se stessi e la famiglia in condizioni di salute e di capacità al lavoro, non rinunciano ad ogni consumo inutile, è vano, è stolto che essi si lamentino del rincaro della vita ed invochino rimedi i quali non possono non essere illusori empiastri da cerretani di piazza. Se non si risparmia abbastanza, se lo stato non riceve sufficienti somme a prestito, giuocoforza è stampare biglietti per fronteggiare le spese della guerra e giuocoforza è che i prezzi salgano, senza veruna possibilità di rimedio. A che giova lagnarsi del male quando si vogliono o si lasciano tranquillamente persistere le cause del male? A che lagnarsi del governo, quando non si fa quanto è necessario per rendere l’opera sua efficace? Si ascoltino piuttosto le parole sacrosante del ministro del tesoro:

 

 

Il pubblico deve convincersi che il modo migliore di evitare ulteriore aumento di prezzi è fornire più largo credito allo stato. Chi nega il credito determina aumenti di circolazione, cioè una svalutazione nuova della ricchezza posseduta. In occasione di nuovi Prestiti tutti devono concorrere nella maggiore misura possibile, se vogliono fare l’interesse della patria, ed anche l’interesse personale.

 

 

Oggi l’occasione, preannunciata il 19 dicembre dall’on. Nitti, è venuta. Il bando del nuovo prestito è uscito. Veggano gli italiani di fare insieme il loro dovere ed il loro interesse.

 

 


[1] Con il titolo La lotta contro il rialzo del cambio. [ndr]

[2] Con il titolo Il rialzo dei cambi. Non c’è davvero nulla da fare?[ndr]

[3] Con il titolo A chi profittano i cambi alti. Ancora sui rimedi e sull’azione del governo. [ndr]

[4] Con il titolo Il problema del cambio nella Relazione del direttore generale della Banca d’Italia. [ndr]

[5] Con il titolo Il buon mercato del denaro ed il momento economico in Italia. [ndr]

[6] Con il titolo Due recenti decreti sui cambi. Come è stata attuata la proposta di un controllo centrale dei cambi. [ndr]

[7] Con il titolo Il monopolio dei cambi e le condizioni del suo successo.[ndr]

[8] Con il titolo Cambio alto, rincaro della vita e prestito. [ndr]

La teoria inglese dell’equilibrio europeo

La teoria inglese dell’equilibrio europeo

«Corriere della Sera», 1°febbraio 1917

Gli ideali di un economista, Edizioni «La Voce», Firenze, 1921, pp. 155-162

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 764-769

 

 

È tornata di moda in questi ultimi tempi e in Italia una scoperta scientifica intorno alla quale avevano menato gran rumore i giornali tedeschi nei mesi di agosto e settembre 1914: essere la teoria dell’«equilibrio delle potenze sul continente europeo un idolo a cui ora si immolano i popoli». Questa teoria sarebbe nata non in Germania ma in Inghilterra, e sarebbe un congegno conservatore dell’imperialismo inglese, ora contro la Germania, ora contro la Russia, ora contro la Francia. L’Inghilterra avrebbe consolidato sempre la sua posizione egemonica sugli altri popoli europei scagliandoli in guerra l’uno contro l’altro.

 

 

Questa concezione della guerra si può chiamare «volgare» come quella che non richiede alcuno sforzo di pensiero e risulta dall’applicazione ai grandi avvenimenti storici dei metodi di ragionamento propri di coloro i quali non badano ad altro che al vantaggio pecuniario immediato. Il contadino ignorante, il quale vuole spiegarsi la ragione per cui certi «signori» richiedono il suo voto per riuscire deputati o fanno pubblica propaganda per il prestito nazionale, non sa trovarne altra fuor della speranza che coloro abbiano di fare, con quel metodo, denari. Egli invero non concepisce vi possa essere altro movente all’azione degli uomini fuorché il desiderio del denaro. Così gli uomini digiuni di ogni cultura storica ed economica, i quali costituiscono troppa parte della classe politica italiana, non sapendo comprendere perché l’Inghilterra si sia voluta impacciare in faccende che non la riguardano, come l’annessione del Belgio e della Serbia o la cessione delle colonie francesi a vantaggio della Germania, dicono che l’Inghilterra si decise alla guerra per lucrare alle spalle dell’Europa divisa, mutuando denari a forte interesse, impadronendosi delle colonie tedesche e facendosi pagare cari noli e carbone. Poiché queste spiegazioni da montanaro dalle scarpe grosse possono non sembrare ai lettori raffinati abbastanza eleganti, i giornali tedeschi prima ed ora alcuni italiani hanno pensato di sostituirle con «l’idolo atroce e funesto» dell’equilibrio europeo, grazie al quale l’Inghilterra diventerebbe gigante fomentando la discordia tra i popoli europei.

 

 

Non farò appello alla ricca letteratura, la quale prova il magnifico svolgimento che in Inghilterra hanno avuto le idee di libertà politica e di indipendenza delle nazioni, e quale profonda influenza quelle idee hanno avuto sull’azione degli uomini politici inglesi. Non ricorderò che l’impero inglese è divenuto grande perché è il maggiore conglomerato, conosciuto nella storia, di nazioni libere ed indipendenti le une dalle altre e dalla madrepatria. Non ricorderò neppure come l’esperienza della guerra attuale abbia provato quanto fervore di patriottismo siasi manifestato, senza alcuna costrizione dalla madrepatria, nel Canadà, nell’Australia, nel Sud America, nell’India stessa. Non ricorderò come siano state crudelmente deluse le speranze di coloro i quali speravano vedere sollevarsi l’India o per lo meno rompersi i vincoli di unione fra l’Inghilterra e la boera Africa del Sud. Tutto ciò – agli occhi dei mercanti di buoi, dei montanari dalle scarpe grosse e dei giornalisti sopraffini, i quali avrebbero preteso che l’on. Salandra contrattasse con l’Inghilterra prima della nostra dichiarazione di guerra la fornitura gratuita, o il che fa lo stesso, a 50 lire per tonnellata, di tanti milioni di tonnellate di carbone reso a Genova – appartiene al mondo delle idee e delle sentimentalità e non conta nulla.

 

 

E sia. Atteniamoci al puro interesse. La teoria vera dell’equilibrio, spoglia di ogni elemento ideale di simpatia verso le nazionalità oppresse, dal punto di vista inglese è la seguente: «è necessario per la salvezza dell’Inghilterra e del suo impero che nessuno Stato europeo diventi talmente forte da potere dominare su tutta l’Europa. Perché, se ciò accadesse, l’Inghilterra in un momento successivo diventerebbe preda dello Stato egemonico e sarebbe finita la sua esistenza come nazione indipendente».

 

 

Non vi è dubbio che la teoria dell’equilibrio, così concepita:

 

 

  • risponde ad una necessità assoluta per l’Inghilterra, fino a quando almeno si creda che uno Stato agisca in modo da potere continuare a vivere;
  • risponde all’interesse più evidente di tutti gli Stati europei, salvo di quell’uno, il quale vuole acquistare dominio sugli altri;
  • non è in contrasto con l’idea della nazionalità; poiché in un continente così vario per razze, lingue, tradizioni come l’Europa, il rispetto delle nazionalità non può non lasciare sussistere una varietà grande di Stati sovrani, incompatibile con il predominio di uno solo;
  • non è in contrasto con l’ideale di una futura federazione europea; poiché siffatta federazione, se non imposta da uno Stato egemonico, non potrà non essere rispettosa degli ideali, della civiltà, della lingua e degli interessi di ogni nazione federata. Contro una federazione di simile genere la teoria inglese dell’equilibrio – quella vera, non quella inventata dai pseudo storici tedeschi recenti – non ha più obbiezioni da fare. L’impero inglese è anzi il tipo, oggi vivente e dalla guerra rafforzato, di queste libere federazioni di Stato; né si vede la ragione per cui tra l’impero inglese e la eventuale federazione europea non possano stabilirsi vincoli politici in forme che oggi non è possibile immaginare, ma che i politici dell’avvenire saprebbero escogitare.

 

 

Queste sono vecchie verità, note a quanti hanno letto qualche libro di storia. Io ho tra mani un interessante opuscolo politico di Paul de Thoyras Rapin, storico francese, ugonotto, cacciato di Francia dopo la revoca dell’editto di Nantes (1686), emigrato in Inghilterra e morto nel 1723 in Olanda. L’insigne autore di una delle prime storie scientifiche dell’Inghilterra in questa sua Dissertation sur les whigs et les torys (A la Haye, 1717) ha alcune pagine che spiegano benissimo la ragion d’essere della politica d’equilibrio seguita già allora da secoli dall’Inghilterra.

 

 

«Dopo l’ingrandimento della Casa d’Austria – scriveva lo storico francese nel 1717, ossia subito dopo la fine della guerra di successione d’Austria durata dal 1701 al 1713 – ossia da circa duecent’anni in qua, l’Inghilterra ha sempre potuto far pendere la bilancia o dal lato di Casa d’Austria o dal lato della Francia, secondo il partito che essa riteneva migliore. Ma il suo interesse costante e perpetuo è stato di conservare l’uguaglianza fra questi due poteri. È questo il perno, su cui da due secoli ha girato tutta la politica dei Re d’Inghilterra». Se Luigi XIV ha fatto tanti tentativi per impedire agli inglesi di prendere partito contro di lui, ciò fu dovuto «soltanto ai vasti disegni che egli aveva formato contro la libertà dell’Europa. Senza di ciò, egli non avrebbe avuto bisogno di preoccuparsi degli inglesi. Tutti sanno che Luigi XIV aveva concepito il progetto di stabilire una monarchia universale in Europa. Siccome egli non ignorava che l’interesse dell’Inghilterra era di mantenere la bilancia dell’Europa in equilibrio e che gli inglesi consideravano questa massima come il fondamento principale della loro sicurezza, era da temersi che essi si sarebbero opposti alla esecuzione dei suoi disegni». Di qui gli intrighi francesi rivolti a profittare del desiderio di Carlo II di ristabilire il potere assoluto in Inghilterra per farlo annuire alla sua campagna contro l’Olanda; di qui la protezione concessa dappoi ai pretendenti Stuardi affine di tener occupatigli inglesi a casa loro ed impedire ad essi di intervenire negli affari europei mentre egli cercava di stabilire sul continente la sua egemonia. Di qui le diversioni in Irlanda, dopo la cacciata di Giacomo II. Il Re di Francia, conclude il Thoyras Rapin, ha ragione di temere l’Inghilterra «quando egli nutre qualche progetto contro il resto dell’Europa. Ma se egli ha per iscopo soltanto di vivere in pace e di difendersi semplicemente, nel caso egli fosse attaccato, nulla può essergli tanto vantaggioso come di coltivare l’amicizia dei Re d’Inghilterra».

 

 

Sostituiamo Filippo II di Spagna, Napoleone ovvero la Germania odierna a Luigi XIV e noi abbiamo nelle parole del Thoyras Rapin la spiegazione logica della condotta dell’Inghilterra da Elisabetta ai giorni nostri, Essa non ha alcun interesse a mescolarsi delle cose europee, se non quando alcuno degli Stati continentali «nutra qualche progetto contro la libertà del resto dell’Europa» e minacci di «stabilire una monarchia universale sul continente». Per impedire la monarchia universale europea l’Inghilterra ha profuso miliardi ed ha versato il miglior sangue dei suoi figli. Né è possibile negare che, grazie all’ostinazione inglese contro Luigi XIV ed ai sussidi britannici, il Piemonte poté conservare la sua indipendenza ed il suo valoroso principe, Vittorio Amedeo II, poté continuare a far la guerra di bande contadine contro gli eserciti di Catinat, fino alla pace del 1696 e poi nella nuova guerra contro la Francia, fino alla liberazione di Torino nel 1706. Chi, senza l’ostinazione disperata del Piemonte e la pertinacia inglese avrebbe potuto impedire alla Francia di Luigi XIV di estendere praticamente il suo dominio su tutta l’Italia? Alla teoria inglese dell’equilibrio non dobbiamo perciò forse la indipendenza e la forza del Piemonte prima e l’indipendenza italiana poi?

 

 

Un secolo dopo la medesima esperienza si ripete. Senza l’ostinazione inglese, la Germania ben difficilmente avrebbe potuto scuotere il giogo napoleonico. Nessuno vuol sminuire l’abnegazione e le virtù civiche della piccola Prussia, dove sotto le ceneri covava il fuoco della rivolta e dove insigni statisti, nei momenti del servaggio più duro, apparecchiavano i mezzi per la riscossa. Ma è certo che, senza il blocco inglese, senza l’annientamento della potenza marittima francese a Trafalgar, senza gli aiuti forniti dall’Inghilterra alla Russia, alla Spagna, all’Austria, il sogno di dominio universale sull’Europa era prossimo ad avverarsi con Napoleone. L’Inghilterra salvò se stessa, lottando contro Napoleone; ma nel tempo stesso salvò la causa della nazionalità tedesca e di quella italiana. Appunto perché grandi erano gli impulsi al rinnovamento venuti di Francia, grandissimo era il pericolo che l’Italia divenisse francese, rinunciando alla sua autonomia nazionale. Fu d’uopo il duro servaggio austriaco per far rifulgere quella coscienza nazionale, che prima era obliterata e le cui lievi traccie facilmente andavano cancellandosi nel fulgore dell’impero napoleonico.

 

 

Due volte l’Inghilterra, durante il secolo XIX, rinunciò a far valere la teoria dell’equilibrio. Mal ne incolse a lei ed all’Europa. La prima volta fu quando essa assistette inerte allo smembramento delle contrade danesi dello Schleswing Holstein dalla Danimarca. Non avere impedito che Austria e Prussia, unite per allora nella brutta impresa, togliessero alla Danimarca anche le province prettamente danesi del disputato territorio, diminuì grandemente il prestigio inglese nella Scandinavia. La seconda volta fu quando non osò intervenire a disputare alla Prussia la appropriazione dell’Alsazia Lorena.

 

 

In ambedue questi casi di assenteismo dell’Inghilterra si ebbero ferite profonde all’ideale di nazionalità ed agli interessi della pace europea duratura.

 

 

No; la teoria inglese dell’equilibrio non è un idolo atroce e funesto; ma è una forza benefica contro la prepotenza egemonica di uno Stato prepotente sugli altri Stati europei. Fino a quando il sorgere di una federazione europea, avente comunanza di ideali e di interessi con la federazione britannica non la renda inutile, la teoria dell’equilibrio, concepita nel modo vero inglese, ossia sotto la forma negativa di lotta contro l’egemonia di una sola potenza continentale, rimane la garanzia più salda della libertà delle nazioni di cui l’Europa si compone. Hanno «l’ansia penosa di rimanere soffocati» da questa teoria soltanto i popoli e gli Stati i quali meditano di dominar gli altri; non quelli i quali aspirano soltanto a vivere liberi e composti in unità nazionale.

 

Grano, carbone, acciaio e piroscafi

Grano, carbone, acciaio e piroscafi

«Corriere della Sera», 22[1] e 27[2] gennaio 1917

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 414-423

 

 

I

Con la nomina del commissario alla disciplina dei consumi, è augurabile si sia compiuto un passo sulla via del coordinamento dell’azione governativa per quanto si riferisce alle derrate alimentari. Il meccanismo ideato non è ancora un modella di semplicità e di agilità, poiché si sovrappongono e coesistono ancora un comitato di quattro ministri, un commissario generale, una commissione centrale degli approvvigionamenti, un servizio temporaneo degli approvvigionamenti, senza tener calcolo dei servizi di approvvigionamento dell’esercito. Accanto alle requisizioni di derrate e carri ordinate dalle autorità militari per il servizio dell’esercito si profilano requisizioni di derrate e carri da parte del commissariato ai consumi, per il servizio delle pubbliche amministrazioni e della popolazione civile.

 

 

Malgrado tutto ciò, speriamo che l’on. Canepa abbia l’energia di rendere vana la minaccia che in una recente intervista egli ha fatto balenare per l’approvvigionamento del grano. In verità egli ha solo i poteri occorrenti a distribuirlo – per mezzo di quegli organi ben nati per la loro agilità commerciale che si chiamano: enti autonomi dei consumi, consigli comunali, consigli provinciali, congregazioni di carità, camere di commercio, organizzazioni operaie, grandi cooperative – quando il Giuffrida lo abbia fatto arrivare dall’estero o quando sia stato requisito all’interno.

 

 

Il problema perciò è: farne giungere dall’estero la maggior quantità possibile e spingere al massimo la produzione interna. Per fortuna, sembra che l’Italia si sia assicurata all’estero una quantità di grano sufficiente fino al nuovo raccolto, sebbene nell’emisfero settentrionale il raccolto del 1916 sia stato appena il 77,3% del raccolto del 1915 ed il 94,2 della media 1909-13, e sebbene il raccolto dell’Argentina sia pessimo, appena il 44% di quello normale. Le preoccupazioni sono più gravi per l’anno di consumo 1917-18. A questo riguardo l’opera del commissario ai consumi a nulla gioverà, se con la massima urgenza il ministro dell’agricoltura non si decide ad accogliere i voti che dai campi gli giungono rispetto al prezzo del grano. Fu un errore grave ribassare nel 1916 il prezzo del frumento tenero da 40 a 36 lire. Con l’aggio al 35%, 36 lire di carta oggi sono uguali a 25 lire di prima della guerra: somma sufficiente a compensare i costi su una buona parte dei terreni coltivati a grano, ma non su tutti. In tempo di pace, niente di male se il prezzo fosse anche stato inferiore a 25 lire: si sarebbero coltivati a grano solo i terreni migliori, ed i restanti sarebbero stati trasformati in pascoli e prati. Oggi quei pascoli si potrebbero rompere e la fertilità in essi accumulata potrebbe essere sfruttata per la produzione del frumento. Per ora, tuttavia, occorre che il prezzo sia tale da rendere conveniente la produzione e la intensificazione della cultura del grano sino all’estremo limite possibile. Meglio produrre il frumento, meglio milioni addizionali di quintali di frumento al costo di 45 lire che doverlo importare oggi a 70 lire e forse domani a 100 e più lire al quintale. Il fatto certissimo è questo: che in molte parti d’Italia il frumento d’autunno non è stato seminato su una parte della superficie destinata di solito a questa cultura, in parte perché le semine furono frastornate dalle vicende atmosferiche, ed in parte perché il prezzo di 36 lire in carta svilita è un prezzo di perdita per taluni agricoltori.

 

 

Molti, altresì, nel presente momento esitano, appunto a causa del prezzo, dinanzi alla semina del grano marzuolo, per se stesso meno produttivo. Se il prezzo non muta, col diradarsi progressivo, per le nuove chiamate dei lavoratori della terra, e col crescere dei salari dei rimasti, le zone di terreno su cui la semina del frumento diventerà passiva cresceranno di molto nell’autunno del 1917. A meno di vicende atmosferiche straordinariamente favorevoli, su cui non si può fare assegnamento, è facile prevedere che il raccolto del 1917 sarà inferiore a quello del 1916 e quello del 1918 più basso di quello del 1917. Ritorna la domanda: a che pro provocare la riduzione del frumento interno, per non volere rendere il prezzo remunerativo, quando si sa che la deficienza deve essere acquistata all’estero con un costo doppio e forse presto con un costo triplo?

 

 

Le stesse cose si devono ripetere per il carbone e per l’acciaio. L’on. Ancona ha ripetuto che la mancanza degli arrivi di carbone non è dovuta alla convenzione di Pallanza, la quale fissando un nolo di 60 scellini fece scomparire dai nostri porti le bandiere neutrali, ma alla scomparsa della bandiera greca per timore di sequestri, e della bandiera norvegese, per timore di siluramenti. Che gli arrivi di carbone siano diminuiti è un fatto certo: le giacenze di carbone in Italia, le quali erano al primo ottobre di 850.000 tonnellate, ed erano salite per viaggi precedenti, a 1.208.000 tonnellate al primo novembre ed a 1.019.000 tonnellate al primo dicembre, al primo gennaio si riducevano ad 856.000 ed al primo febbraio si riducevano a 750.000 tonnellate, che è il fabbisogno italiano di circa un mese. Che il fatto sia stato prodotto soltanto dalle cause accennate dall’on. Ancona, è grandemente dubitabile: bastò che si telegrafasse da persona autorevole a Londra per avere offerte di tonnellaggio a nolo libero, perché da Londra venissero offerte navi greche per 10.000 tonnellate al nolo di 82,50 scellini: ed è risaputo che il traffico tra Inghilterra e porti non regolati è abbondantemente servito dalla bandiera neutrale. Quale industriale, in tempi nei quali il carbone si pagò 360 lire, si rifiuterebbe a pagare 82 scellini di nolo invece dei 60 di Pallanza, quando il pagare 82 scellini fosse la condizione necessaria per avere il carbone tanto desiderato?

 

 

Il danno maggiore – non bisogna mai stancarsi di ripeterlo – non è di dover pagare cara una merce; ma di non riuscire ad averla. Ciò è vero per il grano, per cui non ha senso litigare sulle 36 o sulle 40 o 45 lire di prezzo interno, quando occorre dare agli agricoltori dei terreni mediocri una spinta a seminare; ed è vero massimamente per il carbone e l’acciaio, necessari per il munizionamento. L’Italia deve comprare all’estero quasi tutto il carbone ed un terzo dell’acciaio che oggi le occorrono; ed anche i due terzi dell’acciaio prodotto in paese richieggono da 1,6 a 2 tonnellate di carbone e rottami di ferro importati dall’estero per ogni tonnellata di acciaio prodotto in paese. Quindi occorre fare tutto cio che è possibile perché carbone ed acciaio vengano. Oggi esistono scorte: ma noi dobbiamo fare in modo che il fabbisogno sia assicurato fra tre, sei, nove mesi, un anno. Tutti questi problemi si devono impostare e risolvere a distanza di tempo. Bisogna provvedere d’urgenza oggi, perché la roba non manchi fra mesi.

 

 

Non ci si può sottrarre all’impressione che in materia di approvvigionamento di carbone e ferro vi sia accavallamento di poteri, groviglio di competenze, ritardi e bastoni fra le ruote. Confesso di non essermi riuscito a formare un’idea precisa del meccanismo complesso che la guerra è venuta creando in proposito. Ma inconvenienti e complicazioni inutili devono esistere:

 

 

  • I piroscafi perdono troppo tempo nei porti. Mi si dice che un viaggio per carbone tra l’Inghilterra e l’Italia duri da 40 a 45 giorni: 30 consumati in mare, nel porto inglese di carico, 10 nel porto italiano di scarico. È ragionevole che lo scarico duri tanto a lungo, oggi che i porti non sono davvero ingombri?
  • I carri ferroviari non sono perfettamente utilizzati. In Francia fu nominato il Claveille, in Germania il Ballin per mettere ordine nella baraonda dei carri disputati fra ferrovie e comando, male utilizzati, non adeguatamente riparati e guasti per usura precoce. In Italia esiste in ogni compartimento ferroviario un funzionario ripartitore dei carri; ma la sua azione, anche energica, si allenta e si sperde perché soggetta al controllo ed al parere dei comitati regionali di mobilitazione industriale, delle commissioni militari di linea, delle commissioni provinciali dei carboni, a tacere del comitato portuale e del consorzio del porto di Genova.
  • Per avere il carbone, l’industriale privato deve chiedere il permesso ad un comitato regionale dei carboni – che pare sia una cosa diversa dalle commissioni provinciali dei carboni di cui sopra -, il quale la trasmette al comitato centrale carboni di Roma, che a sua volta lo manda alla commissione di Londra del Mayor des Planches; e questi provvede a mezzo del Comitè central de ravitaillement.

 

 

Se il carbone è desiderato da stabilimenti lavoranti per la mobilitazione di guerra, la domanda va invece rivolta ai comitati regionali di mobilitazione industriale, i quali, attraverso al sottosegretariato di armi e munizioni, si dirigono ad una commissione militare di Londra. Le ferrovie finalmente hanno un proprio ufficio noli e carboni a Cardiff.

 

 

Accanto a tutti questi comitati, eccezion fatta per le ferrovie, funziona il comitato del traffico marittimo ferroviario il quale attende presso il ministero dei trasporti a procurare il tonnellaggio necessario al trasporto del carbone.

 

 

Quando poi il carbone è arrivato a Genova, l’odissea dei comitati non è finita. L’industriale deve dimostrare, per ottenere i carri, alla commissione provinciale dei carboni, già citata, che egli ha davvero bisogno di quel dato quantitativo di carboni, e se ha ottenuto da questa i carri ed è riuscito a caricarli entro il numero prefisso di giorni ed a contemplare il carbone nel suo cantiere, deve dimostrare alla commissione per il censimento dei carboni che egli ne ha maggiore urgenza degli altri industriali lavoranti nella stessa località. Ambe queste commissioni dipendono dal ministro o dai ministri competenti, ed hanno diritto di requisire a prezzo di calmiere che può essere inferiore a quello di acquisto.

 

 

Tutti questi comitati e commissioni, di cui probabilmente non ho sempre scritto il titolo corretto, fanno perdere il latino a chi vuol conoscerne numeri e funzioni e creano attriti, perdite di tempo, falsi costi. Almeno per il carbone e l’acciaio necessari al munizionamento ed ai servizi bellici, sarebbe necessaria una unità assoluta di direzione. Un commissario tecnico, non politico, con poteri larghissimi farebbe assai meglio di questo groviglio di comitati, i quali dovrebbero essere soppressi o lasciati vivere soltanto in quei casi nei quali è utile ridurre o prorogare il consumo.

 

 

Dove, come per le industrie di guerra, occorrono prontezza e responsabilità di decisioni, bisogna dare all’azione governativa unità di indirizzo, in modo da vedere e risolvere il problema nella sua interezza e a distanza di tempo.

 

 

PS. Avevo già scritto l’articolo che precede, quando ho letto l’intervista col ministro dell’agricoltura, pubblicata sull’«Idea nazionale» di ieri. Pur rendendo omaggio alla competenza e alla buona volontà del ministro debbo fare alcuni rilievi:

 

 

  • poco vi è da sperare, salvo per quanto riguarda l’utilizzazione dei prigionieri di guerra e gli eventuali lunghi esoneri di talune categorie indispensabili di agricoltori, dalla «mobilitazione agraria». Grossa parola, questa, dietro cui si nasconde il nulla. Creare una nuova macchina burocratica, sia pur diretta dai professori ambulanti d’agricoltura, dai consorzi e dalle associazioni agrarie, non può essere che pernicioso;
  • qualche buon effetto si ricaverà dai premi di 50 lire per ettaro, concessi in date condizioni in Sicilia e nel mezzogiorno. Trattasi di un diritto legato a condizioni semplici ed oggettive. Sia lecito però manifestare il più aperto scetticismo sui concorsi banditi nelle altre regioni dalle cattedre agricole per premi più o meno vistosi ai coltivatori di grano primaverile, condizionati anche ai metodi culturali adoperati, ecc.! Bisogna essere molto ottimisti per immaginare che tutto ciò serva a spingere gli agricoltori a coltivare sulla più vasta scala che sarebbe necessaria;
  • occorre davvero che il ministro si persuada che l’unico mezzo efficace per ottenere l’intento è l’aumento, dichiarato fin d’ora e d’urgenza, del prezzo del grano. Il ministro obietta: se fin d’ora si dice che al nuovo raccolto il prezzo del grano sarà portato da 36 a 40 lire, il grano del vecchio raccolto si nasconderà in attesa del prezzo più alto. È facile rispondere: tenere il prezzo per ora a 36 lire, ma lasciar capire, come fa il ministro, che sarà aumentato a luglio o all’agosto, produce ugualmente l’effetto di far nascondere il grano e non stimola l’agricoltore a seminare. Bisogna decidersi subito per il sì o per il no; l’incertezza produce tutti gli effetti cattivi della speculazione e nessuno degli effetti di un’eventuale decisione.

 

 

II

Occorre ritornare brevemente sul problema: comprare navi all’estero o costruirle all’interno? A chi acquista navi all’estero, con un recente lodevole decreto fu concessa l’esenzione della sovrimposta di guerra per i profitti ottenuti dalla vendita o dall’esercizio di navi nazionali. Ma già un decreto del 10 agosto 1916 aveva concesso per 5 anni l’esenzione dalla imposta di ricchezza mobile e dalla sovrimposta sui profitti di guerra ai redditi ricavati da piroscafi nuovamente costruiti in cantieri italiani e cominciati ad esercitare entro il 31 dicembre 1918; ed aveva inoltre aumentato i compensi di costruzione ed i rimborsi daziari in guisa da elevare il compenso totale a circa 110 lire per tonnellata di

stazza lorda.

 

 

Dal punto di vista dell’interesse nazionale può sembrare che convenga più la costruzione nei cantieri nazionali. Da un calcolo pubblicato in un interessante libretto del sig. Antonio Madia (La marina mercantile in Italia, Pierro, Napoli 1916), e che l’A. dichiara dovuto ad un competente in materia, risulterebbe che verso l’ottobre del 1916 un piroscafo di tipo standard, di 8.000 tonnellate di portata di peso morto, della velocità oraria di 10 miglia, di 2.500 HP, alle prove, sarebbe costato in Italia 4 milioni di lire, di cui 3 milioni e mezzo di lire costo per i costruttori e 500.000 costo per lo stato sotto forma di premi per lo scafo, macchine e premi. Il medesimo piroscafo, acquistato all’estero, costerebbe oggi il doppio. Ma, e qui sta tutta la differenza, il piroscafo acquistato all’estero sarebbe disponibile subito; quello costruito in Italia solo verso la fine del 1918.

 

 

Ecco le considerazioni che si possono fare in proposito:

 

 

Si possono acquistare piroscafi all’estero? Pare di sì. Alcuni mesi fa erano in vendita due piccole flotte spagnuole, a 700 lire per tonnellata, un po’ vecchie, ma tuttavia servibili. Si lasciò trascorrere l’occasione ed oggi il prezzo è salito alle 800-1.200 lire per tonnellata. A questo prezzo, ogni giorno vi sono a Londra navi in vendita, giapponesi, americane, spagnuole.

 

 

Certamente si corre un grave rischio ad acquistare piroscafi a prezzi varianti da 800 a 1.200 lire italiane per tonnellata, quando si ricordi che i prezzi (per piroscafi standard da 7.500 tonnellate) oscillavano intorno a 120 lire nel 1908, a 195 nel novembre 1912, a 145 alla metà del 1914, a 200 alla fine del 1914, per salire a 275 alla metà del 1915, a 415 alla fine 1915 ed a 600 in ottobre 1916. Al ritorno della pace, quando le navi tedesche ed austriache e quelle imbottigliate nel Baltico e nel Mar nero saranno ridonate al traffico, quando saranno cessate le requisizioni per scopi militari ed avranno termine i siluramenti e giungeranno sul mercato i piroscafi che Giappone, America e pare anche Amburgo stanno costruendo, i noli dovranno precipitare e con esso i prezzi delle navi dovranno scendere a livelli più ragionevoli. Prudenza vorrebbe che un piroscafo acquistato oggi a 1.000 lire o costruito al costo di 500 e forse 600 lire e più per tonnellata – i dati di costo riferiti sopra per l’Italia risalgono all’ottobre 1916 ed oggi vi è sicuramente un rialzo – dovesse essere ammortizzato in due anni.

 

 

Il problema, a questo punto, si trasforma così: è più facile ammortizzare, col provento dei noli, un piroscafo acquistato od uno costruito? Salvo dati migliori e più precisi di quelli che io posseggo, la risposta non pare dubbia: siccome occorrono, a quanto sentii dire da persone competenti, da 6 ad 8 viaggi per ammortizzare un piroscafo acquistato ai prezzi attuali, è probabile che un piroscafo pronto oggi possa essere ammortizzato prima del tracollo dei prezzi che seguirà, più o meno presto, alla conclusione della pace. Invece è improbabile, a meno di supporre una durata della guerra sino al 1919 ed oltre, che un piroscafo, cominciato a costruire ora per entrare in esercizio a fine 1918, possa essere ammortizzato in tempo. I costruttori sono destinati a fare un affare cattivo; ed è grande la probabilità che essi chieggano in tal caso e per equità, forti indennizzi allo stato per le perdite derivanti da costruzioni iniziate per i vivi incitamenti pubblici.

 

 

Il problema non è però tutto di speculazione sulla durata della guerra. È anche un problema di lotta fra condotta della guerra presente e preparazione al dopo guerra. In parte una buona condotta della guerra giova anche ad agguerrirci per il dopo guerra; ma in gran parte non bisogna nasconderci che i discorsi intorno al dopo guerra, i quali imperversano su così gran parte della stampa quotidiana, sono fastidiosi, puerili e, peggio, perniciosi. Tutti parlano di cosa si dovrà fare o non fare nel dopo guerra; e dimenticano che le nostre convenienze e possibilità nell’avvenire saranno in gran parte determinate dalle condizioni della pace; e che queste potranno essere tali da far cadere nel nulla tutte le preparazioni fatte oggi in vista di uno scopo, il quale, nell’interesse del paese, potrà divenire inutile od irraggiungibile al ritorno della pace. Sovratutto si dimentica che le chiacchiere sul dopo guerra possono riuscire perniciose al conseguimento dell’unico fine che oggi ci dobbiamo proporre: la vittoria.

 

 

Noi abbiamo disponibile una quantità limitata di capitale, di lavoro, di mezzi tecnici, di mezzi di trasporto; una quantità la quale per quanto riflette sovratutto il lavoro ed i mezzi di trasporto, diventerà sempre più limitata a mano a mano spesseggeranno i richiami alle armi ed a mano a mano l’intensificazione della guerra, tendente allo sforzo supremo, assorbirà sempre più officine belliche, ferrovie e piroscafi.

 

 

In tali condizioni, bisogna andare estremamente cauti nel destinare anche solo una piccola parte del capitale e del lavoro disponibile a costruzioni e ad impianti, i quali potranno essere utili solo a guerra finita. Meglio, cento volte meglio trovarci alquanto sprovveduti alla pace che mancare oggi di materie indispensabili alla condotta della guerra. Lessi commenti lieti alla notizia che il governo italiano aveva ottenuto 40.000 tonnellate di acciaio per la costruzione di piroscafi nei cantieri italiani; ma non sarebbe meglio che quelle 40.000 tonnellate, se ci sono, si destinassero al munizionamento? Se le mie informazioni sono esatte, gli arrivi nordamericani di acciaio per le fabbriche di munizioni sono appunto in arretrato di quella cifra.

 

 

Con le osservazioni ora fatte, non presumo di avere indicata una soluzione affermativa. Può darsi che la costruzione delle navi, nonostante tutto, sia conveniente e necessaria. Non vorrei tuttavia che, mentre il sottosegretariato armi e munizioni s’affanna a cercare navi per provvedere per tempo all’esercito le materie occorrenti per vincere, il ministero dei trasporti ingombrasse le navi di acciaio destinato a costruir navi per il dopo guerra e ad imbrogliare lo stato in liti con i costruttori. I ministeri in Italia non hanno cessato, nemmeno durante la guerra, di digrignare i denti l’un contro l’altro. Potenze in guerra, furono definiti i ministeri italiani al tempo della pace; e tali continuano ad essere durante la guerra. Occorre perciò che tutta la materia del carbone e dell’acciaio, essenzialissima per la condotta della guerra, sia sottoposta alla volontà di una sola persona, in grado di prevedere, per quanto è umanamente possibile, il fabbisogno della guerra per la sua durata probabile e di adattare al fabbisogno previsto i mezzi unitari di azione.

 

 


[1] Con il titolo Grano, carbone e acciaio. [ndr]

[2] Con il titolo Acciaio e piroscafi. Per la guerra o per il dopoguerra?[ndr]

Carni, dolci, liquori, salumi e pane

Carni, dolci, liquori, salumi e pane

«Corriere della Sera», 13[1] e 16[2] dicembre 1916, 14 gennaio[3], 16 febbraio[4], 3 marzo[5] 1917

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 396-413

 

 

I

Non vi è nessun dubbio che i provvedimenti per la limitazione nel consumo della carne, se possono essere giunti un po’ in ritardo, erano necessari.

 

 

In tempo di pace l’Italia bastava a se stessa per l’alimentazione carnea; il che vuoi dire che le sue esportazioni avevano una tendenza a pareggiare le importazioni. Riducendo a valori in lire le quantità eterogenee di capi di bestiame grosso e piccolo importati ed esportati il dott. V. Vezzani in uno studio pubblicato su «La riforma sociale» (1915), ha ottenuto i seguenti risultati (in migliaia di lire):

 

 

Importazione Anno Esportazione
31.192,1 1907 46.586,7
104.537,2 1908 72.138,9
104.090,3 1909 27.675,1
109.189,1 1910 23.327,9
114.493,7 1911 37.625,2
77.017,6 1912 59.842,3
46.788,8 1913 26.067,6
43.312,7 1914 41.651,5

 

 

Dopo gli anni critici dal 1908 al 1911, l’industria zootecnica italiana, incitata dagli alti prezzi, era riuscita a provvedere il consumo di tutto il suo fabbisogno carneo.

 

 

Quale sia il patrimonio zootecnico italiano è malamente noto; poiché l’ultimo censimento generale del bestiame risale al 19 marzo 1908 ed una valutazione fatta per il 1914 dai commissari della statistica agraria ha carattere soltanto approssimativo. Secondo quest’ultima, la ricchezza zootecnica italiana sarebbe stata nel 1914 la seguente:

 

 

Numero

Media per kmq

Proporzione per 100 abitanti

Equini

2.235.000

7,8

6,3

Bovini

6.646.000

23,2

18,7

Suini

2.722.000

9,5

7,6

Ovini e caprini

13.824.000

48,2

38,8

 

 

Questo patrimonio zootecnico dà luogo ad un consumo che il Roseri calcolò per il 1903, escludendo il consumo delle carni suine, in una media annua per abitante di chilogrammi 12,1. Una posteriore indagine, fatta eseguire dal ministero dell’interno nel 1908 per i 346 comuni aventi una popolazione agglomerata superiore ai 10.000 abitanti dà un consumo medio per abitante di chilogrammi 15,38 di carne; cifra però che da un lato pecca per difetto, non tenendo conto del consumo di tutte le qualità di carne e dall’altro pecca per eccesso, essendo il consumo nelle campagne notevolmente inferiore a quello della città.

 

 

Lo stato di guerra perturbò gravemente l’equilibrio che si era andato costituendo fra il patrimonio zootecnico nazionale consistente nel numero dei capi di bestiame sovrindicato ed il consumo calcolabile in una cifra oscillante fra i 4 ed i 5 milioni di quintali all’anno. L’enorme maggiore consumo dei soldati, passato da una media non superiore ai 25 chilogrammi ad una media oscillante fra i 75 ed i 135 chilogrammi annui, probabilmente ha fatto aumentare del 50% il consumo totale italiano.

 

 

Qualche aiuto si è cercato nella importazione dall’estero: la carne fresca, che nei primi 9 mesi del 1914 fu importata nella misura di 32.864 quintali, crebbe a 56.794 quintali nei primi 9 mesi del 1915 ed a 613.587 quintali nello stesso periodo del 1916. Ma è rimedio insufficiente e pericoloso; poiché per tal motivo soltanto il nostro indebitamento verso l’estero crebbe da 4,3 a 122,7 milioni di lire.

 

 

Se non si vuole adunque diminuire troppo il patrimonio nazionale zootecnico, se non si vogliono macellare le vacche pregne o in età feconda, è giuocoforza ridurre il consumo privato per lasciare posto al consumo dell’esercito, contenuto anche questo in più moderati, sebbene sufficienti, limiti di quelli originariamente adottati.

 

 

Il metodo adottato per la limitazione dei consumi si impernia:

 

 

  • sulla limitazione della macellazione;
  • sulla riduzione dei giorni in cui è lecita la vendita delle carni. Il secondo rimedio non sarebbe stato sufficiente, se si fosse lasciata libera la macellazione; poiché sarebbe cresciuta la vendita nel giorno di mercoledì per il desiderio delle famiglie di fare provviste.

 

 

Non si è creduto necessario ed opportuno da noi ordinare le tessere per la carne, probabilmente perché, dovendosi ottenere un risultato apprezzabile, sarebbe stato necessario fissare il massimo del consumo individuale ad una quantità inferiore a quei 12-15 chilogrammi all’anno, che sono gli estremi delle valutazioni sinora fatte. Per prudenza sarebbe stato necessario non andare oltre ai 12 chilogrammi convenientemente ridotti allo scopo di creare un margine di consumo per l’esercito, il che avrebbe impedito di assegnare più di 100-200 grammi a testa e per settimana. Troppo poco per chi consuma carne e troppo per chi non ne ha l’abitudine; talché sarebbe sorto un traffico clandestino e perturbatore delle tessere. Col metodo prescelto sarà possibile tener conto degli effettivi consumi delle varie località ed imporre economie proporzionate a tutti, maggiori per i più forti consumatori e minori per coloro che già consumavano quantità minime.

 

 

Il successo del sistema sta nell’operare con severità e con costanza, senza eccezioni e favori per nessuno. Una eccezione parmi sia contenuta nel decreto stesso, laddove non sottomette ad alcun vincolo di macellazione gli animali suini e non si considerano come rientranti nella definizione di «carni soggette al divieto della vendita nei giorni di giovedì e venerdì» le carni «suine salate». Pare in queste eccezioni di vedere una tendenza ad incoraggiare la macellazione dei suini ed il consumo relativo. È vero che l’urgenza di restrizioni e, per i suini, meno viva che per gli altri animali, data la loro grande fecondità. Ma parmi pericolosa l’eccezione fatta a loro favore, perché il consumo, vincolato per le altre carni, può essere spinto ad indirizzarsi verso il consumo libero o meno vincolato delle carni suine.

 

 

Non si dica, in difesa di questo incoraggiamento al consumo delle carni suine, che:

 

 

  • nel 1915 in Germania fu ordinata l’uccisione di qualche milione di capi di bestiame suino; poiché quel provvedimento fu un colossale insuccesso, provocò lo sperpero di carni male insaccate e male salate, fece rialzare il prezzo delle carni suine e non fu ripetuto nel 1916. Con grandi sforzi in Germania si fece cammino indietro ed il numero dei suini, che al 15 aprile 1916 era stato ridotto a 13.337.202 (da 21.923.107 capi esistenti al 2 dicembre 1912) all’1 settembre 1916 era risalito a 17.261.108. Guardiamoci dall’imitare la Germania nei suoi errori; e cerchiamo piuttosto di rivaleggiare con essa nella ricostituzione del suo patrimonio zootecnico (anche i bovini, che dal 2 dicembre 1912 al 15 aprile 1916 erano scemati da 20.182.021 a 19.921 183 capi, sono risaliti lassù all’1 settembre 1916 a 20.338.950 capi)!
  • i suini consumano farina di grano e granoturco che meglio sarebbe destinata al consumo dell’uomo. Il che può essere vero in certi casi: ma è vero principalmente che i suini consumano crusche e farinette, disadatte all’alimentazione umana. Sovratutto essi vivono di rifiuti, che andrebbero sprecati. Noi possiamo essere sicuri che il contadino, in questi anni di cereali cari, non dà un grammo di roba costosa al suino, se non quando abbia la certezza di ricavarne un valore superiore, ossia un incremento di valore alimentare. I suini non sono soltanto un eccellente salvadanaio: sono anche convertitori impareggiabili di alimenti guasti, secondari o di rifiuto in alimenti utili per l’uomo. Provocarne, anche indirettamente, l’uccisione anticipata, sembrami pericoloso: ed inoltre contrario al fine che si vuol raggiungere di restringere il consumo delle farine. Il crescere relativo dei prezzi dei suini, a consumo relativamente meno vincolato, porterà a rendere proficuo in modo particolare l’allevamento dei suini e quindi ad un consumo maggiore di farine per l’alimentazione suina.

 

 

II

I decreti per la limitazione dei consumi si susseguono: ieri si limitava il consumo della carne, oggi quello del pane e dei pasti nei ristoranti. Avendo condotto dall’inizio della guerra europea, Innanzi alla entrata in guerra dell’Italia, una campagna di articoli in favore del risparmio e della parsimonia nei consumi, debbo riconoscere che quasi sempre le mie parole e quelle di altri predicatori furono gettate al vento. La guerra, provocando spostamenti di fortune a favore di vere moltitudini, probabilmente della maggioranza della popolazione, ha anche provocato un aumento nei consumi. L’aumento nei redditi e nei salari per se stesso non sarebbe, ai fini della condotta della guerra, nocivo. Diventa nocivo e pericoloso, quando si accompagna e produce un aumento nei consumi. Quando ciò si verifica, si ha il brutto spettacolo della popolazione civile, la quale porta via pane, carni, munizioni ai soldati, che difendono il paese; la quale provoca importazioni, e quindi rincari nei noli e nelle materie prime e nei prodotti necessari alla guerra.

 

 

Poiché i privati non ascoltano le prediche degli economisti, ben vengano i decreti limitativi e proibitivi, i quali impediscano ai civili di perpetrare quotidianamente quelli che sono veri e propri delitti continuati a danno della patria.

 

 

Il problema da discutersi è esclusivamente tecnico: quale è il metodo più efficace di impedire ai civili di consumare troppa roba? Rispetto all’ultimo decreto per la panificazione, fa d’uopo approvare senza restrizioni l’obbligo di non vendere il pane se non nel giorno successivo alla cottura. Il consumo del pane fresco è senza dubbio più abbondante di quello del pane raffermo; sicché dalla nuova norma si conseguirà un utile non spregevole. Sarebbe così da studiare se non convenisse imporre la decorrenza di un numero maggiore di ore fra la cottura e la vendita, vietando, ad esempio, la vendita prima delle 9 del mattino. Fin troppo larghe sono ancora le prescrizioni riguardo ai consumi negli alberghi, trattorie e ristoranti. Due vivande in ogni caso, sia nei pranzi a prezzo fisso, sia nei pasti liberi, dovrebbero essere sufficienti per ogni consumatore morigerato in tempo di guerra; tanto più che il formaggio e le verdure crude o cotte, consumate separatamente, si considerano come mezze vivande.

 

 

Tutto ciò però non basta. Troppo ancora si consuma in Italia. Sfogliando a caso l’ultimo bollettino delle importazioni vedo le seguenti cifre per i primi nove mesi del 1915 e 1916:

 

 

Quantità (in migliaia di lire)

Valori

1915

1916

1915

1916

Vini in botti

l 2.417

10.100

132,9

555,5

Vini in bottiglia

cento 1.867

1.730

612,1

570,3

Essenze rose

kg 142

83

127,8

74,7

Essenze menta

2.710

6.521

157,3

378,0

Pepe e pimento

q 16.737

12.257

2.845,3

2.088,9

Vainiglia

kg 4.097

6.642

192,9

323,2

Zafferano

3.377

2.796

249,8

327,4

Pizzi di cotone

18.741

12.046

1.874,1

1.204,4

Pizzi e tulli di seta

18.552

22.248

2.334,9

2.813,3

Madreperla greggia e lavorata

q 4.845

5.072

1.734,8

1.277,4

Zucchero 1a classe

t 2.770

47.940

1.052,6

18.211,4

Zucchero 2a classe

3

24.214

1,0

8.234,9

Cacao in grani

4.302

4.258

9.465,1

9.367,6

Cacao macinato

269

168

815,8

512,4

 

 

Salvoché per lo zucchero ed il cacao, non si vede l’urgenza per cui tanti italiani hanno creduto di dover fare importare con una spesa non piccola le merci sopra elencate dall’estero. La proibizione assoluta di importazione, senza facoltà di eccezione alcuna, sarebbe la maniera più spiccia per far intendere ragione a tutta la gente che fa il sordo alla voce del dovere. Naturalmente bisognerebbe altresì proibire, quando non si oppongano ostacoli insormontabili, la fabbricazione anche in Italia di tutto ciò che non è assolutamente indispensabile alla vita semplice, che in tempo di guerra ognuno deve condurre.

 

 

Il discorso dello zucchero e del cacao è un po’ più complicato. In parte il maggior consumo di queste sostanze è provocato dal cresciuto consumo dei soldati in campo. In quanto la produzione effettivamente serve a questi fini, non vorrei mettere vincoli, bastando assoggettare a controllo le fabbriche produttrici così come accade per tutte le forniture di guerra.

 

 

Ma l’imperversare del consumo «civile» dei dolci, confetture, cioccolatti non può essere lasciato durare. Qui non si può ricorrere alla tassazione, perché il modo tecnico di esigere imposte di questo genere non si vede. Bisogna trovare qualche mezzo coercitivo più efficace di quanto non siano le imposte ed i rincari, pure utilissimi di prezzo. Per le carni di qualità scelte, il pollame, la selvaggina, trattandosi di alimenti che non si possono trasformare in alimenti più grossolani, basterà inasprire i dazi comunali fino al massimo possibile. Per le altre merci o derrate, come i dolci e le confetture, i quali sottraggono materie prime e forza di lavoro ad altre industrie più utili, bisognerà pensare ad altre maniere di limitare il consumo.

 

 

Lo stesso si ripeta per tutte le inutilità relative al vestiario ed all’ornamentazione. Mentre sui giornali si predica l’economia, in realtà si sentono ogni giorno confessioni di industriali e negozianti di non avere mai venduto ai civili tante cose, il cui consumo è prorogabile, come nel momento presente. Persino nei villaggi lontani dalle industrie di guerra, il giorno della distribuzione dei sussidi ed i giorni di mercato in genere, quando i contadini spendono il ricavo dei loro prodotti cresciuti di prezzo, è un’abbondanza mai vista di acquisti di confetture, di pizzi, di seterie. Tuttociò deve essere fatto cessare. La guerra non è tempo per i consumi voluttuari: questa è l’idea semplice che, per amore o per forza, bisogna far penetrare nella coscienza di tutti.

 

 

III

Il provvedimento relativo ai dolciumi è opportuno e necessario, al pari di quello della restrizione del consumo della carne. Per questa si trattava di impedire il depauperamento della ricchezza zootecnica italiana; per i dolciumi si tratta di restringere un consumo voluttuario, il quale sottrae farine all’alimentazione generale e zucchero alle donne, ai vecchi ed ai bambini. Ho già avuto occasione di notare che l’incremento enorme nel numero, nel lusso e nello spaccio delle botteghe dei dolciumi era uno dei maggiori scandali della vita economica italiana nel momento presente. Poiché le prediche non servono, ben venga l’ordine del legislatore a porre fine allo scandalo protrattosi già fin troppo a lungo. I dolcieri non possono lagnarsi del provvedimento imposto dalla pubblica necessità; poiché essi hanno ancora lo spaccio libero negli altri giorni della settimana. Purtroppo i consumatori consumeranno di più in quei giorni e faranno provviste; ma è da augurare vivamente che i venditori aumentino notevolmente il prezzo dei dolci, allo scopo di potersi rifare delle spese generali rimaste le stesse in un numero minore di giorni; cosicché il rialzo dei prezzi freni automaticamente il consumo. A nessuno verrà in mente per fermo di chiedere e di istituire un calmiere su generi di cui occorre restringere la vendita.

 

 

Bene ispirata fu la devoluzione del 20% delle ammende agli agenti scopritori. Bisogna in questi tempi passare sopra a scrupoli ed adottare mezzi conducenti allo scopo che si vuole ottenere. Ora nessun mezzo più sicuro di assicurare l’osservanza della legge di quello di interessarvi pecuniariamente gli agenti incaricati della sorveglianza.

 

 

Perché lo stesso sistema non si adotta per tutti i casi di restrizione dei consumi, come per le panetterie e le macellerie? Si può essere sicuri che lo zelo degli agenti raddoppierebbe. di molto zelo vi ha bisogno: ed anche di persone le quali siano interessate ad impedire le largizioni facili di condoni delle ammende. Più difficile sarà condonare ammende, quando parte di esse spetti a singoli funzionari dello stato.

 

 

Sento da varie parti lagnanze contro talune formalità inutili rispetto alla vendita del pane. Vi è chi afferma che la forma grossa unica spinge allo spreco più delle forme piccole; altri dice che il divieto dei tagli sui pani è non solo inutile ma dannoso alla cottura. In certi casi, dove i richiami hanno ridotto ad una sola persona il personale delle panetterie, risulta impossibile confezionare il pane necessario ai comuni rurali nel ristretto orario prescritto. Talvolta ai consumatori riesce impossibile o grandemente scomodo recarsi al mattino nel concentrico per l’acquisto del pane.

 

 

Tutte queste sono questioni tecniche, le quali vanno risolute cercando di evitare vessazioni inutili e mantenendo fermo il principio della limitazione del consumo.

 

 

A questo proposito giova insistere su un argomento che già rilevai al momento della pubblicazione del decreto sulle carni. Era facile prevedere che, essendosi lasciata libera la macellazione dei suini, il consumo si sarebbe rivolto ai salumi e carni salate. Così infatti sta dappertutto accadendo. Scema il consumo delle carni bovine ed ovine; ma cresce quello delle carni suine. Il risultato, che si voleva ottenere, si allontana; né il risparmio nel consumo si raggiunge. Importerebbe o chiudere le salumerie negli stessi giorni in cui sono chiuse le macellerie o meglio, limitare la macellazione dei suini. Spingere allo sterminio dei suini è un errore economico, di cui la Germania si pentì, facendone larga ammenda, e che noi non dobbiamo imitare. Il suino è un economo consumatore di crusca e cruschello, un magnifico utilizzatore dei rifiuti della cucina e delle aziende agricole; e non c’è ragione di provocarne la diminuzione ora, con scapito dell’avvenire. Si rifletta ancora che ogni quintale di carni suine consumate di troppo dai civili, vuol dire necessità di acquisto dall’estero di altrettanta quantità di carni per l’esercito.

 

 

IV

Sottoscrizione al prestito e riduzione dei consumi sono come due sorelle siamesi, inseparabili, se si vuole dare i mezzi allo stato di condurre innanzi la guerra. Se il problema consistesse soltanto nel dar denaro all’erario, sarebbe facilmente risoluto. Basterebbe fabbricare biglietti, il che è operazione tipografica facile e poco dispendiosa. In tal modo però lo stato dovrebbe aumentare a cifre folli il suo debito in carta-moneta, che un giorno o l’altro si dovrà pure regolare.

 

 

Il vero problema è un altro: sottoscrivere per rinunciare alla disponibilità del denaro e trasferire questa disponibilità allo stato. Se si sceglie il metodo della emissione della carta-moneta, il privato conserva le 100 lire che aveva in tasca e lo stato ne fabbrica altre 100 per potere fare i suoi acquisti; sicché sul mercato vi sono 200 lire che si fanno concorrenza per comprare merci e queste salgono di prezzo; ed il privato vede raggrinzirsi, per così dire, le sue 100 lire, le quali comprano solo più tante merci quante prima ne comprava con 50. Se egli perciò non vuole che i suoi denari gli sfumino in mano, automaticamente, fa d’uopo che egli faccia i più grandi sforzi per ridurre i consumi e dare il denaro risparmiato allo stato. Se egli risparmia 100 lire e le dà allo stato, sottoscrivendo al prestito, sul mercato rimangono sempre soltanto le vecchie 100 lire, possedute dallo stato invece che dal privato. Costui non può più comprare nulla con le 100 lire, che non ha più; ed in vece sua compra lo stato; ma ai prezzi antichi, non essendovi due, sibbene uno solo, il quale fa acquisti. Il privato, grazie al suo risparmio, ha la soddisfazione di non spendere di più per le cose indispensabili, che pure deve comprare col resto del suo reddito.

 

 

Né vale il dire: i prezzi sono già cresciuti abbastanza, Perché si possa sperare di ottenere qualcosa colle piccole rinunce individuali, che ognuno dei consumatori è in grado di fare. Scetticismo fuor di posto; poiché molte piccole rinunce fanno i risparmi di miliardi e poiché, se sul serio non si riducono i consumi nei paesi belligeranti, si può prevedere che noi siamo appena all’inizio del possibile rialzo dei prezzi.

 

 

Siano benvenute perciò tutte le provvidenze intese a ridurre i consumi ed a salvarci da prezzi doppi e tripli di quelli attuali. Qualcosa comincia a farsi dallo stato e dai privati: ma non basta e l’opera loro incontra resistenze infinite.

 

 

Per aver chiuso i negozi di dolci il sabato, la domenica ed il lunedì, grande fu ed è il clamore dei dolcieri. I quali tengono ugualmente i negozi aperti per vendere liquori, fichi secchi, uva secca e simili surrogati delle solite ghiottonerie e vorrebbero essere autorizzati a tenere chiusi o semi-aperti i negozi a giorni alternati, col pretesto che la domenica era il giorno del loro maggiore spaccio e che le famiglie potrebbero così fare provviste per il giorno successivo.

 

 

Ma la chiusura dei negozi fu appunto voluta per ridurre i consumi! Se la chiusura avvenisse a giorni alternati, verrebbe a mancare lo scopo della legge, che è di indurre la popolazione a mangiar meno, perché lo stato possa mantenere l’esercito, senza uopo di importare troppe derrate dall’estero e far crescere troppo i prezzi. Piuttosto converrebbe inasprire la legge:

 

 

  • per evitare che ai dolci, nei giorni proibiti, si surroghino altre derrate, come la frutta secca, di cui si può fare a meno;
  • per evitare che si ritorni all’abuso dei liquori, che in parte era scemato;
  • per aggiungere ai tre giorni di chiusura un quarto, sì da rendere gli approvvigionamenti privati sempre più difficili;
  • per vietare in modo assoluto il consumo dei dolci nella bottega stessa. Molti, che avevano l’abitudine di fare il giro delle liquorerie per offrirsi a vicenda l’aperitivo, ora vi hanno sostituito il consumo dei dolci in compagnia nella bottega del dolciere. In tempo di pace ciò era un miglioramento in confronto al consumo dei liquori. Ma siamo in guerra; e lo spettacolo di giovanotti, di donnine e di persone anche di altre classi sociali, che fanno a gara a chi ingozza più dolci e pasticcini, non è confortante ed è dannoso al paese. Compri ognuno nei giorni leciti quanti dolci crede; ma per portarli a casa.

 

 

Dicono i dolcieri: voi rovinate una industria la quale dà pane a tanta gente e colpite in sostanza una classe sola con una imposta speciale di guerra, la quale dovrebbe gravare sulla generalità. Il primo argomento, che purtroppo fu autorevolmente addotto in pieno consiglio comunale di Torino, non val nulla. È anzi interesse del paese che gli operai non siano impiegati in questa industria ed in quella dei liquori e simili. Chi impiega operai in cose non necessarie all’esercito ed alla alimentazione del paese è, senza saperlo, un nemico pubblico. Sottrae operai alle fabbriche di munizioni e contadini all’agricoltura. Dove si è rifugiato il buon senso, perché siffatti argomenti siano presi sul serio?

 

 

Invece è valida teoricamente la seconda obiezione. Non è giusto che, per raggiungere un fine di interesse generale, una classe speciale di persone sia soggetta ad un danno particolare. Chi è sempre stato contrario alle scandalose espropriazioni senza indennità che nell’ultimo decennio hanno imperversato in Italia, non può volere l’espropriazione senza indennità dell’industria dei dolcieri. Finora però l’obiezione ha carattere puramente teorico. Malgrado la chiusura dei negozi per tre giorni, in generale i dolcieri guadagnano ancora più che nel 1913 e 1914. Probabilmente accadrebbe la stessa cosa anche se i giorni di chiusura fossero aumentati a quattro.

 

 

Se, col tempo, lo stato ritenesse di dovere, nell’interesse pubblico, ordinare la chiusura assoluta per tutta la durata della guerra, si dovrebbe per la stessa durata concedere ai dolcieri una indennità uguale al reddito denunciato ed accertato ai fini dell’imposta di ricchezza mobile negli anni immediatamente precedenti alla guerra. Per coloro che avessero aperto negozio in seguito, l’indennità dovrebbe essere calcolata su basi analoghe. E sarebbe giusto calcolo, perché fondato sulla dichiarazione dell’interessato medesimo.

 

 

Le stesse cose si dovrebbero dire per i macellai ed i salumai. Per questi non si può pensare ad una chiusura totale, ed a eventuali conseguenti indennità; ma si può e si deve pensare ad estendere la chiusura al sabato per i macellai ed a vietare la vendita dei salumi negli stessi giorni in cui è vietata la vendita delle carni. Altrimenti, dove va a finire la riduzione nei consumi; se al vuoto della carne fresca si provvede non col mangiare effettivamente di meno, ma con la sostituzione dei salumi? O se al mercoledì sera la gente si affolla nelle macellerie per fare provviste per i giorni susseguenti?

 

 

Il governo pare si sia deciso ad avere alquanto pietà dei porci; e mentre tempo fa pareva che i supremi moderatori dei consumi fossero decisi alla strage di quegli innocenti, oggi si riconosce che l’esperimento tedesco in materia fu un insuccesso.

 

 

È da augurarsi che l’annunciato aumento dall’85 al 90% della percentuale di farina da estrarsi dal grano sia stato studiato attentamente anche dal punto di vista della alimentazione dei porci, dei vitelli e dei buoi da ingrasso. Qui non si vuol fare nessuna argomentazione perentoria in argomento; ma solo chiedere se il problema sia stato studiato attentamente prima di prendere una decisione la quale potrebbe essere dannosa al paese. In una recente adunanza alla Accademia delle scienze di Torino, il problema fu posto così: quale incremento si darebbe all’alimentazione umana aumentando le farine disponibili di un 5% di farinette? Il valore di questo incremento è maggiore o minore del danno che ne verrebbero a risentire gli agricoltori, i quali non disporrebbero più delle farinette per l’alimentazione del bestiame? Giova di più al paese che gli uomini consumino direttamente le farinette, ovvero le consumino sotto forma di carni dopo averle fatte consumare ed assimilare a porci, vitelli e buoi?

 

 

Al consiglio comunale di Torino fu posta anche la questione della forma grossa del pane. Da dati accuratamente vagliati dei principali istituti educativi e dei ricoveri di Torino risultò che il consumo del pane aumentò dall’11,15 al 25% dopo la introduzione del pane raffermo a forma grossa. In parte il pane è consumato in maggior copia perché è più gustoso; ma in parte va anche sprecato, perché la mollica abbondante delle forme grosse si sbriciola ed è buttata via. Sembra che si sia verificato un aumento di residui di pane nelle spazzature delle case. A Torino, l’esperienza di secoli aveva insegnato ai direttori dei convitti ad usare il celebre grissino, forma di pane biscotto sottile, rotondo ed allungatissimo, allo scopo di economia. I ragazzi facevano gran movimento di mascelle; ma consumavano poco peso di pane. Il problema avrebbe dovuto essere ristudiato. Il grissino ed in generale le forme di pane duro, senza mollica, consumano più carbone e più lavoro; ma riducono il consumo del grano. Dove sta in sostanza la vera economia?

 

 

Ho espresso l’augurio che si siano studiati o studino sul serio tutti questi argomenti prima di decidersi. Ma debbo confessare che l’augurio è fatto più per scrupolo di coscienza che per fiducia di vederlo avverato. Oramai i ministeri economici, specie quelli nuovi, di agricoltura e dei trasporti, ci hanno abituati talmente all’improvvisazione da un lato ed all’inerzia dall’altro, che la fiducia sarebbe una ingenuità. Chi può essere sicuro che il passaggio dall’85 al 90% nel coefficiente di resa del grano sia stato preceduto da studi adeguati? Io ho invece l’impressione che esso sia il frutto della smania di fare qualcosa e dello spirito d’imitazione delle cose, belle e brutte, che ci vengono dall’estero.

 

 

V

Alle richieste di associazioni e di autorità torinesi le quali chiedevano fosse consentita la fabbricazione del pane nelle forme da noi ritenute universalmente economiche del grissino o del pane allungato cosidetto «biscotto», sembra che il commissario ai consumi abbia risposto negativamente, affermando che la forma grossa è stata adottata dopo severi studi e facendo appello al patriottismo dei fornai e dei consumatori per utilizzare colla maggiore economicità le provviste esistenti di frumento.

 

 

Sarebbe bene che il governo si persuadesse che le critiche ed i dubbi manifestati intorno alla forma grossa ed alla resa al 90% non sono mosse da amore ingiustificato ad abitudini antiche o da ossequio ad interessi particolari. Tutti noi, che dubitiamo e che ci facciamo l’eco dei dubbi largamente diffusi nella popolazione, non desideriamo di meglio che di essere persuasi che le restrizioni attuali sono ragionevoli. Ma la persuasione non può essere inculcata con i decreti e con i comunicati, nei quali si dice che il governo, prima di adottare la forma grossa e la resa al 90%, ha compiuto esperimenti tali da convincerlo della loro convenienza. Affermare non è persuadere. Quando scienziati insigni, come il prof. Guareschi dell’università di Torino, notano che la resa al 90% permetterà di far consumare all’uomo preziosi elementi nutritizi che oggi sono consumati dal bestiame, con minore rendimento per il consumatore definitivo, che è pur sempre l’uomo; e quando egli avverte che il ritorno alla forma grossa rotonda, che è la forma classica del pane, è utile, noi assentiamo. Assentiamo altresì quando il comm. Sebastiano Lissone, sulla «Gazzetta del popolo», avverte che il maggior consumo del pane scuro e grosso è largamente compensato dall’aumento di peso in crusca e dalla maggior quantità di acqua, sicché risulta ancora una economia del 10%. Ma d’altro canto udiamo a Torino i direttori dei convitti, delle congregazioni, degli ospizi affermare che la forma grossa dà luogo ad un consumo maggiore, anzi ad uno spreco dall’11,5 al 25%; noi sentiamo la più parte delle massaie confermare la stessa osservazione; e ci perviene l’eco delle esperienze compiute in Austria, dove sembra si sia alla fine tornati ad una forma di pane lungo e duro. E vien fatto di chiedere: perché il commissario ai consumi sul «Bollettino dei consumi» non ci narra le sue esperienze e non dice in base a quali dati di fatto, precisi e circostanziati, egli si è persuaso dell’utilità delle norme promulgate coll’ultimo decreto?

 

 

Avevo appena augurato su queste colonne che, almeno per le patate, i fagiuoli, le fave e le altre derrate alimentari consimili non fosse stabilito alcun calmiere e che il ministro di agricoltura inviasse un breve catechismo economico a prefetti e sindaci per persuaderli del danno dei calmieri in tal materia; ed ecco, un breve decreto del commissario ai consumi fissare in 22 lire per quintale il prezzo massimo delle patate. Non è un prezzo basso, questo di 22 lire; ma quale bisogno v’era di aggiungere alle altre una nuova inutile grida? Il prezzo di calmiere può essere, per una derrata assai variabile per qualità e per costo di produzione, qua troppo alto e là troppo basso. Dove è troppo alto, il mercato starà al disotto, ed il calmiere sarà stato per lo meno inutile. Dove è troppo basso, frastornerà le semine.

 

 

Anche in regime di calmiere, è utile vi siano derrate a prezzo libero. Se furono commessi errori nella fissazione degli altri prezzi, si opererà così una correzione automatica; ed il maggior prezzo eventuale spingerà a seminare e produrre. Patate, fagiuoli, fave, insieme col granoturco, possono essere nel 1917 delle grandi risorse. Le patate possono dare anche 100 quintali per ettaro; ed i coltivatori delle patate di gran reddito affermano che la produzione può spingersi sino a 200-300 quintali per ettaro. Anche se si calcola la capacità nutritiva a solo un terzo di quella del frumento, si vede subito come la patata possa, per uguale superficie, dare un rendimento maggiore del frumento e del granoturco. I fagiuoli e le fave sono un alimento di primissimo ordine, superiore per certi rispetti al frumento. Qui il ministero di agricoltura, i professori ambulanti, i comizi agrari potrebbero spiegare un’azione utilissima, diffondendo sementi, dando istruzioni e facendo propaganda pratica tra i contadini.

 

 

Una lagnanza che sento fare e che mi sembra ragionevole è quella relativa al divieto imposto dalle autorità militari ai soldati di prestare la loro opera a pro dell’agricoltura nelle ore di libera uscita. I provvedimenti relativi ai 160.000 contadini, mandati in licenza per i lavori primaverili, sono stati salutati con lode. Perché vietare ai contadini soldati di impiegare il loro tempo libera nei lavori agricoli? Moltissimi piccoli comuni agricoli hanno guarnigioni e distaccamenti di soldati, in istruzione o già mobilitati, che non possono essere occupati tutto il giorno in faccende militari. Per forza rimane libera ai soldati molto tempo. Che male v’era se alcuni di essi occupavano il tempo libero in lavori agricoli? Guadagnavano qualche complemento di paga essi: e rimanevano sollevati, i proprietari dei dintorni, dal prezioso concorso in lavori urgenti. Si temeva forse danno alla disciplina? In tempi grossi, come i presenti, fa d’uopo badare alla disciplina sostanziale più che a quella formale. Ed alla disciplina vera giova, parmi, più il lavoro fecondo e remunerato, che non l’ozio.

 

 

Il discorso di Lloyd George ha dato una gran scossa anche a quelli tra gli inglesi che si lusingavano di potere vivere come al solito. Occorrerebbe che anche da noi il commissario ai consumi ai provvedimenti già annunciati altri ne facesse seguire, anche apparentemente piccoli, purché efficaci ad aumentare di qualcosa le disponibilità di derrate necessarie. Da noi, il consumo della birra è poca cosa; ed il taglio sulla sua produzione non può dare quei grandi risultati che dà in Inghilterra ed in Germania. Tuttavia, i 525.605 ettolitri di birra prodotti nel 1914-15 richiesero 111.040 quintali di materie prime; ed una riduzione proporzionale a quella inglese darebbe una disponibilità non spregevole di orzo, di malto che potrebbero essere altrimenti usati.

 

 

Nessun male vi sarebbe se fosse limitata od addirittura proibita la produzione degli spiriti e dei liquori, eccettoché con materie prime assolutamente inutilizzabili per altra via. Le fabbriche di spiriti assorbono melasse, cereali di scarto ed altre materie preziose per l’alimentazione del bestiame; e le fabbriche di liquori assorbono zucchero, che viene poi negato alle donne ed ai bambini. Quando ci ricorderemo che siamo in guerra dura; e che lasciar consumare un solo chilogrammo di zucchero alle fabbriche di liquori è contrario al buon senso?

 

 

Specialmente le industrie che consumano carbone dovrebbero andare soggette a stretto controllo, per limitare la produzione di ciò che non è strettamente indispensabile. Per tenermi ad un esempio notissimo, si è proceduto abbastanza innanzi nella limitazione del consumo della carta? Non parlo delle circolari commerciali, cataloghi, manifesti; i quali non saranno mai abbastanza repressi durante la guerra. Poiché si deve consumare soltanto l’indispensabile, non vi è ragione che si abbondi in circolari. Ognuno sa dove procacciarsi le cose necessarie alla vita. Se la posta accettasse solo stampati aperti, non chiusi in busta, di dimensione determinata, il consumo della carta diminuirebbe.

 

 

Il costo cresciuto della carta ha diminuito assai la produzione dei libri ed ha costretto le riviste periodiche a diminuire il numero delle pagine; ma non ancora abbastanza fu ridotto il consumo della carta per giornali. Ancora questi escono talvolta in 6 pagine. Perché non proibire i giornali quotidiani di 6 pagine ed imporre una o due volte per settimana il giornale di due pagine sole? Il pubblico si è abituato a poco a poco alla sobrietà delle notizie; e non si dorrebbe di vedere applicato in Italia il sistema che in Francia è largamente diffuso.

 

 

Le fabbriche di mattoni, calce, cementi, ecc. assorbono quantità notevoli di carbone; e certo nessun capomastro inizia per speculazione nuove case in questi momenti a costi tripli del normale. Tuttavia, qua e là si veggono iniziare e proseguire costruzioni per conto di privati arricchiti o di amministrazioni pubbliche, le quali non si sono ancora accorte della esistenza della guerra. Perché non assoggettare l’inizio od il compimento delle costruzioni edilizie ad una autorizzazione, la quale dovrebbe essere concessa solo nei casi di costruzioni interessanti le industrie di guerra o di opere di finimento di costruzioni già condotte quasi al loro termine?

 

 

In generale, il carbone dovrebbe essere concesso soltanto a chi compie lavori utili alla condotta della guerra. Non dubito che il sen. Bianchi già avrà provveduto a ripartire il carbone solo tra le industrie le quali producono cose necessarie; ma è utile che egli si senta confortato ad agire in tal senso dall’opinione pubblica. Altra volta ho detto che dovrebbe costituirsi un consorzio bancario, con l’intervento di un delegato del tesoro, ma all’infuori di una diretta ingerenza governativa, allo scopo di concentrare il commercio dei cambi e vendere le divise solo a chi avesse acquistato all’estero cose necessarie, negandole assolutamente a chi avesse, ad esempio, comperato pellicce, orologi, libri non periodici, sciampagne e simili. Così vorrei che il sen. Bianchi negasse assolutamente carbone a chi volesse consumarlo per produrre cose non indispensabili alla vita più semplice od alla condotta della guerra.

 

 

Per le industrie esportatrici, il carbone dovrebbe essere concesso solo quando rappresentasse una piccola quota del costo di produzione; ed il costo diretto ed indiretto dell’ingombro delle navi sia davvero compensato dai guadagni dell’esportazione. E non vedo la ragione per cui il carbone non debba essere venduto dallo stato a prezzi differenti e più alti per le industrie meno direttamente necessarie alla guerra.

 

 

Fra i casi in cui il carbone dovrebbe essere negato, citerà solo quello delle fabbriche di liquori; ed anzi dovrebbe essere imposto alle società elettriche di sospendere a loro favore ogni somministrazione di forza elettrica. Si boicotti chi produce cose di cui si può fare a meno. Senza costringerlo a chiudere, gli si renda la vita impossibile, per mancanza di combustibili e di materie prime. Se vi saranno disoccupati, vi sono le fabbriche di munizioni pronte ad assorbirli: mentre la terra reclama lavoratori per produrre frumento, granoturco, patate, fagiuoli e fave.

 

 


[1] Con il titolo Il decreto per la limitazione del consumo delle carni. [ndr]

[2] Con il titolo Per l’obbligo della vita semplice. (A proposito dei decreti sul pane e sui ristoranti). [ndr]

[3] Con il titolo Il decreto sui dolciumi. Bisogna insistere sulla limitazione dei consumi.[ndr]

[4] Con il titolo Prestito e restrizione di consumi. (A proposito di dolci, liquori, carni, salumi e pane). [ndr]

[5] Con il titolo Consumi e produzione.[ndr]

Il nuovo regime dell’imposta sui sovraprofitti di guerra

Il nuovo regime dell’imposta sui sovraprofitti di guerra

«Corriere della Sera», 21 novembre 1916

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 390-395

 

 

L’aumento, recentemente avvenuto con gli ultimi provvedimenti finanziari, nella imposta sui sovraprofitti di guerra, ha consigliato al governo di riunire in un testo unico le disposizioni emanate a parecchie riprese in proposito. Non è inutile accennare alle principali caratteristiche del sistema oggi codificato e sovratutto a quelle le quali costituiscono una innovazione.

 

 

Le principali novità, come è noto, riguardano l’aliquota. Ecco quale è ora il regime vigente per gli industriali, i commercianti e gli affittuari di fondi rustici:

 

 

Commercianti ed industriali

 

Sovraprofitti di guerra realizzati dall’1 agosto 1914 al 31 dicembre 1915 Sovraprofitti di guerra realizzati dall’1 gennaio 1916 al 30 giugno 1918 Affittuari di fondi rustici, per l’intiero periodo dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1918
Quota, del profitto superiore all’8% e fino il 10% del capitale investito

12%

20%

10%

Quota dal 10 al 15%

18%

30%

15%

Quota dal 15 al 20%

24%

40%

20%

Quota del profitto superiore al 20%

35%

60%

30%

 

 

Per gli affittuari di fondi rustici fu mantenuta l’aliquota originaria, fissata nel decreto 21 novembre 1915, mentre per gli industriali ed i commercianti si elevò notevolmente l’aliquota, che era già stata accresciuta col decreto primo ottobre 1916.

 

 

Tutte le aliquote sovraindicate devono essere aumentate dell’aliquota generale dell’imposta di ricchezza mobile, la quale continua ad essere accertata a parte. Oggidì si può dire che l’aliquota stessa, per questa categoria di contribuenti, pochissimi dei quali avranno un reddito inferiore a 3.000 lire, e del 15,93%, senza gli aggi ricevitoriali ed esattoriali; cosicché tenuto conto di questi aggi, occorre al minimo aggiungere un 16% alle aliquote indicate sopra.

 

 

Per gli «intermediari» la tassazione non poteva seguire il criterio della percentuale del reddito al capitale investito, poiché questo mancava. Continua perciò ad essere applicato il concetto dell’eccedenza sul reddito ordinario. Ecco le aliquote:

 

 

Nuovi e maggiori redditi realizzati dagli intermediari per il periodo

dall’1 agosto 1914 al 31 dicembre 1915

dall’1 gennaio 1916 al 30 giugno 1918

Sulla eccedenza di oltre 1 decimo fino a 5 decimi sul reddito ordinario

5%

10%

Sulla eccedenza di oltre 5 decimi fino a 10 decimi

12%

15%

Sulla eccedenza di oltre 10 decimi fino a 20 decimi

18%

20%

Sulla eccedenza di oltre 20 decimi fino a 30 decimi

24%

25%

Sulla eccedenza di oltre 30 decimi

35%

40%

 

 

Per questi la progressione dell’aliquota, sebbene molto forte, è meno accentuata che per gli industriali ed i commercianti, trattandosi di redditi di lavoro; e per essi continua il beneficio del primo decimo libero da tributo. Il quale beneficio avrebbe dovuto estendersi a tutti i contribuenti, poiché una variazione in più od in meno di 1 decimo, ed io dicevo di 2 decimi, non può essere considerata come un beneficio reale di guerra, ma un vantaggio nominale dovuto al deprezzamento della carta-moneta.

 

 

Anche per gli intermediari si deve tener conto dell’imposta di ricchezza mobile accertata a parte, la quale, ove si tratti di redditi di lavoro e di redditi, come è probabile, superiori a lire 3.000, oggidì è del 14,65% e con l’aggiunta degli aggi poco si discosterà dal 15%.

 

 

Già osservai in altra occasione che il legislatore ha limitato ai redditi del 1916 in corso di produzione e non ancora finiti di produrre l’aumento dell’aliquota. Si evita così la retroattività dell’imposta, tanto invocata dagli energumeni d’ogni partito, i quali vorrebbero che l’Italia prendesse argomento dalla guerra per cancellarsi dal novero dei paesi civili e liberi. Poiché soltanto nei paesi barbari e nelle tirannie più assolute, il principio della retroattività dei tributi è applicato allo scopo di battere moneta per il tiranno e di immiserire i popoli.

 

 

Sulla base delle aliquote ora chiarite, è possibile fare un confronto, il quale non sia erroneo, tra il peso dell’imposta sui sovraprofitti di guerra in Italia ed all’estero. Assumendo come termine di paragone l’Inghilterra, dove è massima l’aliquota della imposta di guerra, si ottiene il seguente risultato per gli industriali ed i commercianti:

 

 

Italia

Inghilterra

Imposta normale sul reddito o di ricchezza mobile 16 dal 0 al 42,50%
Imposta sui sovraprofitti di guerra
Primo periodo dal 13 al 35% 50%
Secondo periodo dal 20 al 50% 60%
Totale
Primo periodo dal 29 al 51% dal 50 al 71,25%
Secondo periodo dal 36 al 76% dal 60 al 78%

 

 

Notisi, a chiarimento dei totali, che in Inghilterra 50+42,50 non faceva 92,50 ma solo 71,25%, ed ora 60+42,50 non fa 102,50%, ma 78%; perché l’imposta sul reddito non colpisce tutte le 100 lire, ma solo le 50 o 40 residue dopo l’applicazione dell’imposta del 50 e del 60% sui sovraprofitti. In Italia invece si deve fare la somma semplice; poiché tanto l’imposta normale quanto quella sui sovraprofitti colpiscono le 100 lire integrali.

 

 

I due paesi non sono comparabili in senso assoluto, poiché sono diversi i sistemi legislativi; ed aliquote, numericamente uguali, hanno spesso un significato differente. Tuttavia noi possiamo ritenere che il confronto non sminuisca l’impressione delle gravezze tributarie italiane, poiché mentre alle aliquote inglesi ben poco si deve aggiungere a titolo di imposta di bollo e di registro, in Italia è probabile, sebbene nessuna cifra possa essere addotta la quale sia assolutamente precisa, che le aliquote debbano essere aumentate in media di un 10% sul reddito, per tener conto delle imposte di bollo, registro, negoziazione, centesimi di guerra sui pagamenti, ecc. ecc. È probabile cioè che in Italia, nel periodo attuale, i sovraprofitti di guerra subiscano una falcidia legale la quale varia dal 36+10= 46 al 76+10= 86%. I redditi minori, in confronto al capitale investito, pagano cioè un po’ meno ed i redditi maggiori pagano un po’ più che in Inghilterra. Un’altra differenza, la quale però non riguarda l’imposta sui sovraprofitti, sta in ciò che l’imposta normale sul reddito in Italia si può ritenere uniforme nella misura del 16%, mentre in Inghilterra varia a seconda del reddito complessivo del contribuente; cosicché in Italia il massimo del 76% è pagato sulle frazioni percentuali elevate del reddito di guerra anche dagli azionisti con poche azioni e poco reddito, mentre in Inghilterra il massimo del 78% è raggiunto solo da coloro che hanno un reddito complessivo personale di 100.000 lire e più. Anche sotto questo rispetto la gravezza italiana in media risulta più elevata di quella inglese.

 

 

Fra le caratteristiche mantenute o nuove dell’imposta sui sovraprofitti meritano di essere ricordate le seguenti:

 

 

  • Sono tassabili solo i redditi «realizzati in conseguenza della guerra»; e si presumono come tali, fino a prova contraria, quelli comunque verificatisi per aumenti di produzione o di commercio, oppure per elevamento di prezzi posteriormente al agosto 1914. Il che vuol dire che dove non si ebbero aumenti di produzione o di commercio od elevazione di prezzi non si deve presumere l’esistenza di un sovraprofitto di guerra. Chi produsse la stessa quantità di merce di prima e la vendette ai prezzi antichi non è soggetto, neppure per presunzione, ad imposta sul maggior guadagno eventualmente ottenuto.

 

 

Il legislatore non ha voluto cioè, neppure per presunzione, colpire i maggiori guadagni non dovuti alla guerra, bensì ad economie ed a migliore organizzazione della produzione. Inoltre, al contribuente è lecito dare la prova che l’aumento di produzione o l’elevazione dei prezzi, da cui conseguirono per lui maggiori profitti, non si deve attribuire alla guerra; ed in tal caso non dovrà pagare l’imposta. Ma siffatta prova è difficilissima, quasi impossibile a fornirsi, essendo quasi impossibile escludere in modo sicuro la guerra come fattore economico nel momento presente.

 

 

  • Finita la guerra ed esaurite le sue ultime ripercussioni, l’imposta sui sovraprofitti cesserà automaticamente di funzionare, poiché saranno cessati i «profitti di guerra». Questo è il maggior pregio di una imposta cosiffatta; poiché sarebbe deleterio che in pace e in tempi normali esistesse una imposta la quale colpisse con aliquote fantastiche, come sono quelle odierne, i «nuovi» o «maggiori» redditi. Il più urgente bisogno dell’Italia nel dopo guerra sarà appunto la produzione di nuovi e maggiori redditi. Dalla possibilità di soddisfare a questo bisogno dipenderà la salvezza dei paesi belligeranti e sovratutto di un paese non ricco e neppure agiato come l’Italia. Solo producendo di più, noi potremo fornire allo stato i mezzi di pagare gli interessi dei prestiti e delle pensioni di guerra. Tutta la politica economica e tributaria dovrà essere orientata verso la produzione di maggiori redditi. Epperciò, a parità di altre circostanze, una imposta la quale sovratassasse i nuovi redditi sarebbe nel dopo guerra suicida e criminosa. La parità di trattamento tributario è una gran molla di progresso economico; ma, volendo differenziare, sarebbe preferibile aggravare il peso tributario sui redditi vecchi ed esistenti, per spingere alla formazione di redditi nuovi meno aggravati dall’imposta. Il contribuente si sforza di lavorare quando sa di non essere taglieggiato sulla maggiore produzione: ma si arretra e si scoraggia quando dinanzi a lui, che vorrebbe produrre di più, si profila l’ombra di maggiori gravezze.
  • Il termine per le dichiarazioni dei maggiori redditi è stabilito entro il 5 marzo 1916 per i redditi realizzati dall’1 agosto 1914 al 31 dicembre 1915; entro il 15 febbraio 1917 per quelli realizzati nel 1916; entro il 15 febbraio 1918 per quelli del 1917 ed entro il 16 agosto 1918 per quelli realizzati nel primo semestre del 1918. Le società e gli enti tassati in base a bilancio dovranno fare le dichiarazioni entro 10 giorni dall’approvazione dei singoli bilanci. Le agenzie però avranno il diritto di rettificare le dichiarazioni fino al 30 giugno dell’anno successivo a quello nel quale si dovevano fare le dichiarazioni, anche quando già il reddito dichiarato fosse stato iscritto a ruolo. Il che vuol dire che se l’agenzia si persuade che la dichiarazione fatta entro il 5 marzo scorso per i sovraredditi di guerra del periodo 1 agosto 1914 a 31 dicembre 1915 è erronea, ha tempo fino al 30 giugno 1917, a fare la opportuna rettifica.
  • Risolvendo un dubbio insorto, il testo unico stabilisce che il ricorso del contribuente debba presentarsi alla commissione provinciale non solo per il sovraprofitto di guerra ma anche per il reddito ordinario dei nuovi contribuenti o di quelli i cui redditi fossero in contestazione. Si evita così l’inconveniente che il contribuente non ancora tassato od in contestazione debba o possa per il reddito ordinario ricorrere alla commissione comunale e poi alla provinciale e poi alla centrale per soli motivi di diritto, mentre per il reddito di guerra deve ricorrere subito alla provinciale e poi, per qualsiasi motivo, alla centrale. Sembrando illogico prescrivere due ordini differenti di giurisdizione amministrativa per due parti di un medesimo reddito, il testo unico ha unificato la procedura.

 

 

Il nuovo regime fiscale dello zucchero

Il nuovo regime fiscale dello zucchero

«Corriere della Sera», 20 ottobre 1916

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 381-382

 

 

Il decreto sul regime dello zucchero ritengo possa essere chiarito, per quanto riguarda la sovratassa di fabbricazione, nella seguente maniera (in lire per quintale di zucchero raffinato):

 

 

Imposta di fabbricazione:
Normale

76,15

Sovratassa Daneo

5

Prima sovratassa Meda

12

Seconda

45

Totale

62

62

 

Totale imposta

138,15

Margine per le spese di produzione e per il profitto dei fabbricanti e raffinatori di zucchero

86,85

Prezzo massimo di vendita all’ingrosso

225 –

 

 

Naturalmente il prezzo di vendita al minuto dovrà essere cresciuto delle spese di trasporto dalla fabbrica al luogo di consumo, dei dazi di consumo locali, e della provvigione al commercio intermediario. Probabilmente il prezzo di vendita al minuto si aggirerà sulle lire 2,50 al chilogrammo.

 

 

Le ragioni del provvedimento preso dal governo possono essere tre:

 

 

  • 1) aumentare il gettito dell’imposta di fabbricazione sullo zucchero prodotto all’interno, a sollievo temporaneo delle pubbliche finanze;
  • 2) diminuire la perdita o forse aumentare anche il provento del dazio sullo zucchero che il governo importa dall’estero. Genova quota lo zucchero estero nazionalizzato a 180 lire-carta al quintale. Poiché non pare che importazioni dall’estero per conto dei privati avvengano più, è difficile sapere quale sia il costo per lo stato, in lire italiane, dello zucchero importato dall’estero. Nell’ipotesi estrema che tutte le 180 lire rappresentino costo per lo stato importatore, questo si è messo in grado col nuovo decreto di incassare almeno la differenza fra le lire 225 di prezzo di vendita e le lire 180 di costo. Ma l’incasso dello stato deve essere superiore;
  • 3) diminuire il consumo. È questo uno dei primi atti coraggiosi di limitazione del consumo delle derrate di non primissima necessità. Grazie alle tasse di licenza, le quali in media aggiungeranno altre lire 15 per quintale al prezzo dello zucchero destinato alla fabbricazione di dolci, cioccolato, bevande, ecc. ecc., si pone un ulteriore salutare freno al rincaro. Senza giungere alla tessera dello zucchero, la ripartizione d’autorità delle quantità disponibili di zucchero fra i diversi centri, limiterà necessariamente il consumo generale.

 

 

Certo l’aggravio per i consumatori è notevole; ma è sopportabile in un momento in cui l’erario deve subire il sacrificio di parecchie centinaia di milioni per dare allo stesso consumatore il frumento estero a 36 lire, ossia ad un prezzo certamente e notevolmente inferiore al costo complessivo di acquisto, noleggio, assicurazione e cambi per l’erario provveditore. I consumatori di zucchero sono parzialmente tassati per fornire, ai consumatori di pane e farine, il frumento, che è derrata di ben maggiore urgenza, ad un prezzo di perdita per l’erario. Ecco il succo sociale del nuovo provvedimento governativo.

 

 

I divieti interregionali di esportazione

I divieti interregionali di esportazione

«Corriere della Sera», 29 settembre 1916[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 377-380

 

 

Una questione la quale merita di essere discussa è quella dei divieti di esportazione di derrate alimentari da comune a comune e da provincia a provincia, i quali vanno moltiplicandosi da parte di sindaci e di prefetti, per soddisfare alle richieste dei consumatori locali. Assai opportunamente il ministro d’agricoltura on. Raineri, in apposita circolare raccomandò ai prefetti di «astenersi dall’emanare provvedimenti restrittivi in materia di esportazione di derrate alimentari». Ma poiché dal divieto sembra siano stati esclusi il grano, il granoturco e le farine, e poiché sindaci e commissioni d’approvvigionamento pare non si diano per inteso dell’opportuno consiglio od ordine del ministro, così credo opportuno esporre le ragioni per le quali riterrei necessario che il governo proibisse in modo assoluto alle autorità provinciali e locali di emanare provvedimenti restrittivi in materia di commercio interno di merci di qualunque genere e principalmente di derrate alimentari.

 

 

È materia questa la quale deve essere riservata al governo centrale. Infatti:

 

 

  • Il divieto di esportare grano o granoturco da una provincia all’altra avvantaggia ingiustamente i consumatori delle provincie dove la produzione dei cereali, delle uova, della frutta è sovrabbondante ai bisogni normali del consumo; provocando ivi un ribasso di prezzo, controbilanciato però da un aumento di prezzo nelle altre provincie italiane, le quali dipendono normalmente dalla esportazione dalle provincie a produzione esuberante. Così, per fare qualche esempio, il divieto che le provincie di Rovigo e Ferrara ponessero all’esportazione dei propri grani o quella di Brescia del granoturco sarebbe ingiustificabile e dannoso all’interesse generale del paese.
  • Mentre il divieto avvantaggia solo alcuni consumatori locali a danno dei molti consumatori italiani di altre provincie, esso danneggia ingiustamente i produttori della località. Non so se si sia fatto bene o male a stabilire il calmiere del grano in 36 lire e quello del granoturco in 29 lire; ma è cosa certa che non si può senza pericolo fare ribassare artificialmente al disotto del limite di calmiere il prezzo del grano nelle provincie produttrici. Può darsi che sia conveniente in modo assoluto produrre in talune provincie grano o granoturco anche a meno di 36 e 29 lire rispettivamente; sebbene nei terreni meno fertili tale convenienza sia assai discutibile ai prezzi attuali della mano d’opera, del bestiame da lavoro e dei concimi. La convenienza assoluta però non conta nulla in economia, dove si fanno sempre dei calcoli comparativi. Se i ribassi di prezzo dei cereali renderanno più convenienti altre culture, noi rischieremo l’anno venturo di avere parecchio allevamento di bestiame di più, o più avena, o barbabietole da zucchero, o canapa e meno grano e granoturco. Il che può essere dannoso.
  • Il divieto di esportazione da provincia a provincia spesso impedisce l’utilizzazione migliore delle derrate alimentari. I grani fini del ferrarese usavano servire a tagliare le qualità più scadenti per glutine, resa e bontà prodotte in altre plaghe. Il granoturco bresciano non usava essere macinato nelle località, ma era esportato ad alimentare i mulini di Bergamo, Lecco e Sondrio, dove il grano turco è insufficiente o viene macinato assai tardi. È noto invero che il celebre granoturco bergamasco viene lasciato essicare al sole sino a gennaio o febbraio; e la farina di qualità sopraffina prodotta con esso viene inviata in altre provincie, e persino nel mezzogiorno ed in Sardegna. Non v’è neppure ragione che i prefetti delle località di produzione vengano a perturbare una distribuzione dei prodotti nel paese, intorno a cui essi non hanno alcuna competenza tecnica a dare un giudizio, e la quale rispondeva al migliore interesse generale.
  • Finalmente, fa d’uopo notare che i divieti interregionali, se possono fare abbondare talune regioni e quivi, col ribasso dei prezzi, stimolare il consumo, rarefanno, come sopra si osservò, le derrate nelle regioni povere. Queste perciò devono ricorrere alla importazione dall’estero, aumentando il debito del paese verso l’estero già gravissimo per molte ragioni. Non v’è motivo che alle ragioni giustificate di aumento nella importazione dall’estero delle derrate alimentari per il fabbisogno dell’esercito, si aggiungano ragioni dovute alla incompetenza di Prefetti e di sindaci. L’opera di costoro, apparentemente determinata dal desiderio di fare cosa utile, in realtà ridonda, come quasi sempre accade in simili casi, a danno dell’universale. Crescendo artificialmente le importazioni dall’estero per provvedere alle deficienze delle provincie povere, si inaspriscono i cambi, si provoca il rincaro delle derrate alimentari, le quali si volevano far ribassare e si costringe lo stato a contrarre una somma di prestiti all’estero maggiore di quella che sarebbe consigliabile per pure ragioni militari. Danni tutti, cotesti, gravi che mi sembrano giustificare la tesi esposta: essere necessario, direi urgente, che il governo vieti, in guisa assoluta, alle autorità locali di legiferare in materia di commercio interno.

 

 

Avrei finito, se non accadesse di dovere menzionare una circostanza in questi tempi di guerra degna di molta riflessione. Per lo più invero sindaci, prefetti, commissioni di approvvigionamento non sanciscono divieti, non ordinano sequestri, non impongono calmieri disordinati ed affrettati se non per rispondere a lagnanze di cittadini, a voti di comitati, ad eccitamenti di articoli di giornale. Io vorrei che cittadini, comitati e giornalisti riflettessero alquanto più alla loro responsabilità nel chiedere e nello scrivere.

 

 

È facile scrivere che l’autorità deve provvedere contro i rialzi esorbitanti nei prezzi, contro gli accaparratori e speculatori; è facile chiedere provvedimenti energici a sindaci, a prefetti ed a governo; è facile mettere in moto rappresentanze e deputati e fare inviare telegrammi ammonitori al disgraziato ministro di agricoltura. Ma i reclamanti e gli scrittori dovrebbero riflettere che trovare un rimedio efficace è cosa difficilissima e che per lo più i rimedi suggeriti raggiungono l’effetto contrario a quello desiderato. Sopra ho dato di ciò la dimostrazione per i divieti di commercio interregionale; ma la stessa dimostrazione si potrebbe dare per i divieti e calmieri delle uova, rispetto a cui ho visto con stupore uomini e giornali reputati farsi paladini di proposte grottesche, e per altri provvedimenti, che l’immaginazione popolare invoca come rimedio a malanni ingigantiti dallo stesso baccano che si fa loro d’intorno. I problemi annonari sono purtroppo problemi vecchi, da secoli discussi, per cui tutte le soluzioni oggi proposte furono in passato sperimentate e per lo più riconosciute inefficaci. Non sembra pretesa eccessiva quella di chiedere che, prima di parlare, scrivere o deliberare, cittadini, comitati, giornalisti, autorità e ministri si informassero dell’esperienza passata e leggessero alcuni dei molti libri istruttivi che in proposito furono scritti. Non sembra pretesa eccessiva chiedere che almeno almeno leggessero e meditassero il rimedio del conte Attilio contro gli accaparratori di grano nel capitolo V, ed i capitoli XII e XXVIII dell’immortale romanzo di Alessandro Manzoni. Il bisogno di leggere e meditare questi insegnamenti tratti da secoli di esperienza sembra a me non sia minore nelle classi dirigenti d’oggi di quanto fosse negli anni in cui il Manzoni scriveva.

 

 



[1] Con il titolo I divieti di esportazione interregionali. [ndr]

Finanza di guerra e finanza postbellica

Finanza di guerra e finanza postbellica

«Corriere della Sera», 17 settembre 1916

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 374-376

 

 

Molti dei provvedimenti tributari applicati durante la guerra presente dovrebbero essere destinati – sarebbe imprudente adoperare l’affermativo sono destinati, poiché spesso gli istituti più eccezionali diventano permanenti – a scomparire od a trasformarsi profondamente alla pace; e si possono citare il centesimo di guerra, l’imposta sui sovraprofitti, i dazi di esportazione, il contributo per l’assistenza civile, ecc. ecc. Ma in taluni casi l’urgenza della guerra ha indotto il legislatore a risolvere con un taglio netto e sotto colore provvisorio problemi che da anni attendevano una soluzione. E, quel che è meglio, ha indotto il legislatore a scegliere una soluzione buona e meritevole di divenire permanente.

 

 

L’esempio più caratteristico è in Italia quello dell’imposta sullo zucchero. La nuova situazione fiscale dello zucchero raffinato risultante dall’ultimo decreto può essere sintetizzata così (in lire per quintale):

 

 

Dazio di introduzione sullo zucchero estero

Imposta di fabbricazione sullo zucchero interno

Margine protettivo

Normale

99

76,15

22,85

Sovratassa di guerra

+17

-17

Totale

99

93,15

5,85

 

 

Il che vuol dire che, prima della guerra, il fabbricante interno pagava lire 22,85 di imposta in meno in confronto del dazio sullo zucchero importato dall’estero; sicché egli godeva di altrettanta protezione, e poteva tenere di altrettanto i prezzi più elevati, senza pericolo di concorrenza estera.

 

 

Oggi, essendo il dazio rimasto immutato ed essendo lo zucchero interno colpito da una sovratassa di guerra di 17 lire, il margine protettivo è stato ridotto a lire 5,85 per quintale. È quanto da molti ed anche dallo scrivente si chiedeva da anni, allo scopo di uniformarsi alle prescrizioni della convenzione di Bruxelles, la quale vietava un margine protettivo maggiore di lire 6. In tempi normali, il provvedimento adottato dall’on. Daneo ed accettato dall’on. Meda, avrebbe avuto il benefico effetto di fare entrare 17 lire di più per quintale (su forse 1.800.000 quintali prodotti in media all’interno) nelle casse dello stato, senza danno del consumatore. Questi non avrebbe pagato lo zucchero un centesimo di più di prima, poiché avrebbe avuto la possibilità di introdurlo dall’estero pagando lo stesso dazio di 99 lire di prima. La maggiore imposta di 17 lire sarebbe, in tempi normali, andata tutta a carico dei fabbricanti, ritenuti dai più bene in grado di sopportare il nuovo gravame.

 

 

Oggi, in tempo di guerra, l’effetto dell’aumento di imposta non è quello sovra descritto. L’importazione dall’estero non funge più da calmiere. Lo zucchero estero costa a Genova da 145 a 150 lire al quintale, a cui aggiungendo il dazio di lire 99 si giungerebbe ad un prezzo di circa 247 lire al quintale, il che val quanto dire che l’importazione sarebbe impossibile. Ed è invece indispensabile. Il raccolto interno nella campagna corrente si prevede di appena 1 milione e mezzo di quintali perché la cultura, per i bassi prezzi delle barbabietole offerti dagli zuccherieri e per gli alti prezzi delle altre derrate agricole, sembra si sia ristretta da 62 a 40.000 ettari circa. Il consumo, d’altro canto, è cresciuto da 1.800.000 a 2 milioni e mezzo di quintali, a causa del maggior consumo dell’esercito, del rialzo dei salari delle masse operaie, dall’accresciuto consumo del cioccolato, dei biscotti e dei dolci, della minore importazione di saccarina e di zucchero di contrabbando attraverso l’Adriatico.

 

 

Essendo quindi giuocoforza importare dall’estero, il governo concedeva da tempo licenze di importazione con abbuono di parte del dazio, in guisa che il costo complessivo tra prezzo e dazio dello zucchero importato non superasse le 148 lire, fissate come prezzo massimo all’interno. Essendo però i prezzi all’estero aumentati notevolmente – si pensi che nulla giunge dalla Russia e dall’Austria, e che i migliori distretti bietoliferi della Francia e del Belgio sono occupati dal nemico – l’abbuono del dazio avrebbe oggi dovuto essere totale, se si voleva che lo zucchero continuasse ad entrare in Italia.

 

 

Per necessità quindi il governo fu costretto a portare il prezzo di calmiere da 148 a 180 lire al quintale all’ingrosso, il che vuol dire a circa lire 1,90 al minuto nei luoghi dove lo zucchero non è colpito da dazio consumo comunale. L’importazione dall’estero, che è indispensabile, sarà resa possibile. Il governo, specialmente se, come sembra, ha conchiuso accordi con l’Inghilterra per acquistare zucchero a prezzi inferiori a quelli di mercato, potrà continuare ad esigere parte del dazio di importazione, tanto necessario all’erario in questi tempi; sarà posto un tenue freno al consumo dello zucchero sotto forme di dolciumi; ed i fabbricanti, sembra, non riceveranno nessun utile dall’aumento di prezzo essendo la differenza fra le lire 180 di prezzo e le lire 93,15 di imposta stata calcolata, affermasi, in guisa da far fronte solo ai maggiori costi di produzione.

 

 

Tutto il male dell’aumento odierno dei prezzi non sarà risultato nocivo, se:

 

 

  • il governo eviterà di affidare l’importazione del milione di quintali di zucchero dall’estero all’«Unione Zuccheri»; ma importerà direttamente o si gioverà di un consorzio di negozianti e cooperative di vendita. Trattandosi di importazione a condizioni di favore, ossia con rilevante abbuono di dazio, fa d’uopo non affidarla a quel sindacato di zuccherieri che in tempo di pace aveva saputo giovarsi della protezione larghissima, concessa per dare incremento all’industria, solo per creare un monopolio privato di vendita a danno dei consumatori;
  • al ritorno della pace sarà conservato l’attuale regime fiscale fortunatamente consigliato dalle esigenze di guerra. Il dazio di lire 99 sullo zucchero estero, accompagnato da un’imposta di fabbricazione di lire 93,15 sullo zucchero interno, lascia ancora un margine protettivo di lire 5,85 largamente sufficiente ad una industria, già ricca prima e rafforzatasi vieppiù durante la guerra. Nessuna riforma fiscale, imposta dalla guerra, risponde meglio di questa alle esigenze dell’interesse pubblico.

 

 

Risparmio, risparmio operaio, risparmio obbligatorio

Risparmio, risparmio operaio, risparmio obbligatorio

«Corriere della Sera», 21 luglio[1], 5[2] e 8[3] novembre 1916

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 360-373

 

 

I

Il ministro del tesoro ha molto opportunamente nel suo ultimo discorso finanziario ricordato agli italiani il dovere del risparmio. In un momento in cui tutte le forze del paese debbono essere indirizzate alla condotta della guerra, il dovere del risparmio diventa più imperioso del solito e deve essere vivamente sentito da ogni ordine di cittadini.

 

 

Già in tempo di pace tra spesa e risparmio bisogna mantenere un ragionevole equilibrio, che il buon senso, le condizioni familiari, l’età, la natura dell’impiego, il patrimonio posseduto insegnano come debba essere conseguito.

 

 

Fra le ragioni, le quali inducono piuttosto a spendere che a risparmiare, non deve aver luogo il desiderio di «dar lavoro», di «far girare il denaro» e simiglianti spropositi. Chi porta 100 lire alla cassa di risparmio è altrettanto ed anzi più benemerito verso gli operai, il commercio e l’industria, di colui il quale spende le 100 lire in acquisti nei negozi. Questi fa domanda di un vestito e quindi fornisce l’occasione per fabbricarlo; sicché dicesi che egli dia da vivere a sarti, negozianti e fabbricanti di panni, operai tessitori e filatori. Ma, se il primo non avesse recato le 100 lire alla cassa od alla banca e questa non avesse potuto far prestiti ai fabbricanti o scontato le cambiali del negoziante, e se i fabbricanti e negozianti non avessero risparmiato essi medesimi parte del capitale occorrente, come si sarebbero potuti costruire gli stabilimenti, comprare le macchine e le materie prime, anticipare i salari agli operai?

 

 

In tempo di guerra, la necessità del risparmio diventa chiarissima anche ai meno veggenti e la sua importanza per la vittoria ingigantisce. Se Tizio spende 100 lire in un vestito, invece di far durare il vestito vecchio più a lungo, egli reca parecchi danni al paese:

 

 

  • lo stato non ha 100 lire che Tizio avrebbe potuto fornirgli a mutuo, sottoscrivendo ai prestiti nazionali ed ora ai buoni del tesoro; e quindi non può provvedere ad un uguale ammontare di spese di guerra;
  • i fabbricanti di panni, i negozianti ed i sarti sono occupati a fornire vestiti a Tizio od a Tizia, mentre avrebbero potuto rivolgere le loro energie a fabbricare panni e vestiti per l’esercito.

 

 

Tutto ciò è stato detto e ripetuto oramai a sazietà. Sebbene persuasive, queste verità lasciano tuttavia, importa riconoscerlo, adito a dubbi di applicazione. Molti debbono rimanere incerti dinanzi alla domanda: debbo spendere o comperare un buono del tesoro? In generale il dubbio si deve risolvere nel senso del buono del tesoro. Se si sbaglierà, l’errore sarà piccolo; mentre può essere grave, quando ci si decida a spendere.

 

 

I dubbi degni di nota sono quelli posti da coloro che vorrebbero risparmiare; ma, non avendo il coraggio di tagliare radicalmente a fondo e sul vivo, non sanno da che parte cominciare. Su dieci capitoli di spesa, quale il capitolo su cui conviene tagliare prima? Se noi supponiamo che si voglia fare la scelta delle spese da tralasciare avendo l’occhio all’interesse pubblico, ecco alcuni suggerimenti:

 

 

  • a parità di somma, rinunciare al consumo della merce esente da imposta, piuttostoché della merce tassata. Chi rinuncia al consumo di 1 chilogrammo di zucchero, del costo di lire 1,70, e deposita la somma risparmiata sul libretto della cassa postale di risparmio, fa, è vero, allo stato un prestito di 1,70; ma non reca allo stato un vantaggio di 1,70, poiché lo stato avrebbe sullo zucchero riscosso una imposta di 81 centesimi. Il vero nuovo contributo recato dal risparmiatore alla condotta della guerra è perciò solo di 89 centesimi. Lo stesso accade per il tabacco, per cui il risparmio di 1 lira arreca allo stato solo il beneficio di 20 centesimi, essendo tutto il resto imposta; per il sale, di cui forse 45 sui 50 centesimi di prezzo sono imposta. Diminuire di 1 chilogrammo il proprio consumo di sale recherebbe allo stato solo il vantaggio di 5 centesimi. Poiché le merci tassate a beneficio dello stato sono poche (sale, tabacco, spiriti, vino, birra, zucchero, glucosio, caffè e suoi surrogati, petrolio, fiammiferi, gas luce ed energia elettrica illuminante) e per le altre le imposte solo in piccola parte vanno a favore dello stato (per le carni a favore dei comuni nelle città chiuse), il consumatore può vedere quante merci vi sono che egli può con tutta sicurezza evitare di comperare, senza timore di recare allo stato il danno di esigere minori imposte. Citerò il caso degli oggetti di vestiario, di mobilio e d’ornamento, per cui tutto il risparmio si può dire guadagno netto per lo stato.
  • preferire negli acquisti la merce antica alla merce nuova. Se una signora acquista un pizzo antico reca danno allo stato perché le 1.000 lire spese sarebbero certamente state meglio impiegate nell’acquisto di un buono del tesoro. Ma il danno può scomparire se il buono è acquistato, in vece sua, dal venditore del pizzo antico. Forse è bene che le 1.000 lire passino dalla borsa di una testa sventata in quella del venditore, che può essere persona meglio consapevole dell’importanza del risparmio. Alla peggio, le 1.000 lire saranno spese dal venditore del pizzo così come lo sarebbero state altrimenti dalla compratrice. Se questa invece compra un pizzo nuovo, non solo essa reca danno allo stato negandogli il prestito delle 1.000 lire, ma cagiona inoltre forse un danno maggiore, inducendo alcune lavoratrici a perdere tempo nel fabbricarle il pizzo, mentre avrebbero potuto essere utilizzate dallo stato nella confezione di vestiti, camicie, calze per soldati. Salvo i rari casi di ricamatrici assolutamente incapaci a far altro, è sempre possibile spostare il lavoro da un impiego all’altro.

 

 

Per lo stesso motivo, chi abbia assoluta necessità di qualche oggetto, farà bene a comprare oggetti usati d’occasione, evitando di comprare oggetti nuovi. I primi non richieggono mano d’opera; mentre i secondi distolgono maestranze e capitali dagli unici lavori importanti oggi, che sono le industrie di guerra e quelle necessarie a far vivere nella maniera più semplice la popolazione civile.

 

 

  • evitare di servirsi dell’opera di chi può essere utile allo stato. Non v’è nessun male che il ricco seguiti a valersi dell’opera dei domestici, giardinieri, governanti, purché anziani o vecchi ed inabili a compiere altri lavori. Licenziare costoro o non pagare più l’assegno ai servitori a riposo sarebbe una crudeltà inutile, e probabilmente dannosa allo stato ed ai comuni, i quali dovrebbero caricarsi di spese per il mantenimento degli indigenti. Il ricco invece deve licenziare l’autiere giovane, diminuire il numero dei domestici in buona salute, evitare di costruire ville, di comprare automobili, ecc. ecc. Infatti, le persone, ai cui servizi egli così rinuncia, saranno costrette ad occuparsi in qualità di meccanici o manovali in stabilimenti dove si producono cose molto più utili al paese nel momento presente.

 

 

Altri consigli ed altri esempi si potrebbero addurre, se le necessità di guerra non avessero, con vantaggio generale, costretto le amministrazioni dei giornali a ridurre il consumo della carta e quindi lo spazio disponibile per tutto ciò che non è notizia strettamente necessaria.

 

 

Il rialzo del prezzo della carta ha risolto qui spontaneamente i dubbi che in altri campi continuano a manifestarsi. Ricorderò ancora, prima di finire, il caso dei teatri, cinematografi, luoghi di danza e di divertimento.

 

 

A favore di questo genere di spesa si può dire che attori, artisti, cantanti, ballerine, musicanti non sono adatti a fare altri mestieri, sicché, se il pubblico disertasse i luoghi di divertimento e risparmiasse, per ipotesi, 100 milioni di lire di più in un dato periodo di tempo, investendoli in buoni del tesoro, lo stato da un lato incasserebbe 100 milioni, ma dall’altro dovrebbe spendere cospicue somme, o le dovrebbero spendere, il che fa lo stesso, le istituzioni pubbliche di carità, per mantenere tutta una folla di disoccupati.

 

 

Qualcosa di vero v’è in questa tesi. Bandire tutti i divertimenti, anche in tempo di guerra è eccessivo ed è forse dannoso alla condotta della guerra. In quanto i divertimenti offrono una distrazione a soldati ed ufficiali, nessuno vi trova da ridire. Possono anche essere utili ad offrire un sollievo sano alla popolazione civile e renderla più contenta ed atta al lavoro dell’indomani. La domanda ragionevole di divertimenti sarà perciò in grado di assorbire quelli che hanno veramente attitudini specifiche, insostituibili ed inutilizzabili altrimenti. Quanto agli altri, la domanda affannosa di lavoratori nelle industrie necessarie alla prosecuzione vittoriosa della guerra basterà ad assorbirli con vantaggio del paese.

 

 

II

La questione del «risparmio di guerra» delle classi operaie è oramai posta. A Torino il comitato di preparazione ha iniziato una attiva propaganda ed ha pubblicato un opuscolo, nel quale sono esposti i vantaggi ed i doveri del risparmio nel momento presente. Discorsi di insigni parlamentari hanno messo in luce la necessità di impedire lo spreco; e recenti provvidenze governative hanno risposto al convincimento generale che importi fare ogni sforzo per utilizzare con la massima parsimonia le riserve alimentari e gli altri fondi di consumo alfine di scemare i sacrifici della guerra.

 

 

Da tanto tempo, appena scoppiata la guerra europea, ho predicato su queste colonne la necessità ed il dovere del risparmio per le classi medie e dirigenti, che spero di non essere accusato di parzialità esponendo ora alcune considerazioni specialmente riguardanti le classi operaie. Dal principio della guerra europea le classi medie e superiori hanno dato allo stato italiano da 6 a 7 miliardi di lire a prestito sotto varie forme; e non hanno ancora fatto tutto il loro dovere. Troppo è ancora lo spreco ed il consumo non necessario in teatri, vestiti, automobili, divertimenti perché ci si debba stancare di chiedere sempre nuovi sforzi e nuove rinunce a chi deve o può. Ma, osservato ciò, sembra sia lecito affermare che le classi operaie possono nell’interesse della nazione e nell’interesse proprio collaborare con intensità crescente all’opera comune. Anch’esse hanno già fatto parecchio; e l’incremento nei depositi a risparmio, il quale entra a formare l’ultimo dei 7 miliardi di cui sopra, è merito di piccolissimi risparmiatori. Ma il compito non è esaurito e chi rifletta all’alto tenor di salari prevalente negli addetti alle industrie di guerra e per riflesso in molte altre occupazioni, chi abbia riguardo all’occupazione estesa a donne, a ragazzi, i quali non di rado ricevono anche sussidi svariati, non può non rimanere convinto, anche tenendo conto dell’accresciuto costo della vita, che una larga messe di risparmi operai rimane ancora da mietere.

 

 

Giova, per non battere falsa strada, aver riguardo all’opera dei paesi dove il successo arrise allo sforzo compiuto. Non parlerò dei metodi seguiti in Germania ed in Austria, perché mi fanno difetto documenti sufficienti; accennerò appena alla Russia, dove l’abolizione del consumo delle bevande alcooliche ha dato un impulso notevole al risparmio ed all’elevazione delle masse contadine. Tra i paesi alleati, eccelle l’Inghilterra per il fervore con cui governo e privati si diedero alla propaganda del risparmio operaio. Il governo costituì un «Comitato nazionale per i risparmi di guerra» (The National War Savings Committee), in cui entrarono rappresentanti operai, e questo cosparse l’Inghilterra di una rete di comitati locali e di «associazioni per il risparmio di guerra».

 

 

La propaganda compiuta si è imperniata tutta sul concetto della persuasione, escludendo ogni idea di obbligatorietà del risparmio per gli operai. Poiché in Italia da varie parti è messa innanzi l’idea di una ritenuta obbligatoria sui salari degli operai è bene dire le ragioni per le quali quell’idea fu, dopo lunghi dibattiti, respinta in Inghilterra e sembra da respingersi in Italia:

 

 

  • giustizia vorrebbe che l’obbligo di risparmiare non fosse sancito per una sola classe, ma fosse esteso a tutti. Troppi altri italiani, non operai, non hanno sentito il dovere di risparmiare; e poiché il dovere e la possibilità crescono col crescere dei redditi e della ricchezza, sarebbe giocoforza sancire un obbligo progressivo di risparmiare per tutti;
  • ciò equivarrebbe al prestito forzato. Il quale potrà essere l’ultima arma da brandire nel caso di estrema e dura necessità; ma è un’arma che troppe volte nella storia si è dimostrata di gran lunga meno efficace dei prestiti volontari per potere farsi questa volta qualsiasi illusione al riguardo. Coi prestiti volontari l’erario incassò finora 7 miliardi ed altri miliardi incasserà. Col prestito forzato io mi sono formato la convinzione, fondata sull’esame dei soli dati noti al fisco intorno alla capacità contributiva dei cittadini italiani, che anche spingendo le aliquote del prestito al 100% del reddito sui redditi maggiori, sarebbe stato impossibile ottenere più di 500 milioni di lire all’anno. Sarebbe stato un vero disastro per la condotta finanziaria della guerra. Non v’è nessun motivo di applicare un metodo inefficace anche ai soli operai;
  • in particolar modo, farebbe d’uopo che la trattenuta sui salari operai tenesse conto delle condizioni di famiglia, di età, di malattia delle persone viventi a carico dell’operaio, del costo della vita variabile da luogo a luogo. Compito che non credo esagerare affermando essere al disopra della capacità di qualsiasi organizzazione pubblica esistente in Italia. I ministeri e le autorità locali sono ora così sovraccariche di lavoro che l’affidarne loro un altro difficilissimo sarebbe di pregiudizio grande ai loro compiti più urgenti;
  • né si dimentichi che, come dicono gli opuscoli di propaganda dell’inglese National War Savings Committee, il primissimo dovere degli operai nel momento presente non è neppure il risparmio: e la produttività del lavoro. Efficiency the first need: la efficienza del lavoro è la prima necessità. Il risparmio viene subito dopo; ma vien dopo. Il risparmio forzato fa correre il rischio al paese di assorbire in taluni casi anche ciò che occorre all’operaio per aumentare al massimo la propria capacità di lavoro. Nello stesso modo in cui sarebbe criminoso ridurre la razione od il vestito del soldato al disotto dell’occorrente a mantenerlo in piena efficacia combattente, così sarebbe dannoso ridurre il salario al disotto del necessario a mantenere la salute e la forza fisica dell’operaio e della sua famiglia. Il risparmio forzato, dovendo basarsi su regole uniformi, non di rado dovrebbe passar sopra alle necessità dei casi individuali;
  • perciò esso diffonderebbe germi di malcontento e di animosità sociale laddove è indispensabile che in ogni caso si faccia opera di solidarietà e di pace sociale.

 

 

Se il risparmio obbligatorio è sconsigliabile, il risparmio volontario è sommamente utile agli operai ed al paese. Esso è elastico, si adatta alle esigenze individuali e di famiglia, non intacca le forze vitali e produttive della attuale e delle venture generazioni; è garanzia e stimolo di elevazione di vita. Il Comitato inglese ha esposto in un manifesto diffuso a milioni di copie, distribuito in piccoli foglietti volanti, affisso in grandi quadri sulle cantonate, le sei ragioni perché si deve risparmiare. Eccole:

 

 

  • 1) Perché, quando voi risparmiate, aiutate i nostri soldati e marinai a vincere la guerra.
  • 2) Perché, quando comprate cose non necessarie, voi aiutate i tedeschi.
  • 3) Perché, spendendo, voi obbligate altri a lavorare per voi; ed il lavoro di tutti è ora necessario per aiutare i combattenti o per produrre derrate e merci necessarie alla vita o per produrre merci da esportare.
  • 4) Perché, facendo a meno di qualche acquisto e limitando la spesa alle cose indispensabili, voi diminuite il lavoro che devono compiere le navi, i porti e le ferrovie e rendete i trasporti più rapidi e meno costosi.
  • 5) Perché, spendendo, voi rincarate ogni cosa per tutti, e specialmente per coloro i quali sono più poveri di voi.
  • 6) Perché ogni lira risparmiata fa del bene due volte, prima quando voi non la spendete e di nuovo quando voi la imprestate alla nazione.

 

 

La sesta ragione di risparmiare merita un commento, già fatto altra volta, ma non mai abbastanza ripetuto. Il passaggio dallo stato di pace allo stato di guerra cagionò una crisi momentanea di disoccupazione, la quale è nei ricordi di tutti e fu di breve durata per la maggior parte dei lavoratori, solo perché la guerra indicò subito la nuova direzione che le industrie dovevano prendere. Non ci furono dubbi: capitale e lavoro si indirizzarono immediatamente alla produzione di forniture e di munizioni, che era nel tempo stesso urgente e remunerativa. Conchiusa la pace, la crisi di passaggio dalle industrie delle forniture e delle munizioni non sarà probabilmente di così sicura soluzione. In molti casi non si saprà che cosa fare senza pericolo di perdere. La «conquista dei mercati esteri», la «espansione del dopo guerra» sono belle frasi, ma il loro contenuto è incerto. Quando tutti i paesi possederanno fabbriche di esplosivi pronte a trasformarsi in fabbriche di colori, l’avvenire della fabbricazione dei colori non sarà ugualmente roseo in tutti i paesi. Prudenza vuole che imprenditori ed operai si tengano preparati a sormontare una crisi di mercati e di disoccupazione; ed il metodo più sicuro di sormontarla sarà senza dubbio per gli operai il possesso di un gruzzolo, il quale renda l’operaio capace di attendere lavoro sul luogo o di spostarsi verso i luoghi di maggior domanda del suo lavoro, con la sicurezza che la famiglia nel frattempo non soffrirà privazioni.

 

 

Lo stato può promuovere la formazione del risparmio volontario, limitando e rincarando taluni consumi non necessari. La chiusura anticipata dei caffè, ristoranti ed osterie andrebbe fatta eseguire con severità esemplare e non si dovrebbero consentire, come vedo annunciarsi, eccezioni di sorta alla regola generale. Alla chiusura dei caffè e delle osterie dovrebbero accompagnarsi la limitazione dell’orario dei cinematografi e la chiusura dei teatri alle 23,30 al più tardi. Non sarà male, se le rappresentazioni saranno più brevi, e se perciò potranno ridursi le spese di illuminazione, riscaldamento, e se il servizio tranviario potrà dappertutto finire prima di mezzanotte, come si usava qualche anno fa.

 

 

Non ho mai compreso le ragioni per le quali si vuole vietare l’uso di bevande non fabbricate coll’uva, quando sia chiaramente detto che trattasi di imitazione di vino: perché tal pretesa equivale a porre un divieto alla invenzione umana, la quale potrebbe benissimo riuscire a produrre una bevanda chimica non nociva alla salute ed avente le medesime qualità del vino. Ma, nelle presenti contingenze, in cui il vino è caro, in cui è necessario tassarlo fortemente per farne diminuire il consumo e procacciare entrate al fisco, il divieto temporaneo dei surrogati assume un aspetto utile alla collettività, perché garantisce il fisco e limita un consumo non necessario, in cui si inabissano in non trascurabile proporzione i redditi delle masse. Si potrebbe seguitare noverando i consumi i quali, alla pari delle bevande alcooliche, del tabacco, del caffè, del lotto e di tutte le altre maniere di giocare, dei cani di lusso, dei domestici, dei cocchieri e delle automobili e vetture private meritano le cure più attente del fisco. In questo campo, non si farà oggi mai abbastanza per tassare e poi tassare e poi ancora tassare.

 

 

III

Quando si sia persuaso l’operaio che egli deve risparmiare, nel suo interesse ed in quello del paese, e quando si sia cercato di limitare il consumo, e rincarare il prezzo dei generi non necessari alla vita produttiva, rimane però ancora da risolvere il quesito: in qual maniera l’operaio deve essere consigliato a risparmiare?

 

 

Ritengo, a questo proposito, che non debba aversi alcuna idea preconcetta. Non deve nemmeno consigliarsi il risparmio allo scopo esclusivo di imprestito allo stato. Vi possono essere operai e sovratutto contadini, i quali non sono ancora abituati al titolo di stato. A volerli abituare per forza, si corre il rischio di metterli in diffidenza o di far comprare loro un titolo che non è adatto alle loro esigenze, che non è rimborsabile quando essi ne abbiano necessità e che perciò raggiunge un effetto opposto a quello desiderato.

 

 

Ciò che sovratutto importa è il fatto del risparmio; ossia la rinuncia a godere e quindi a far fabbricare cose non necessarie. Si raggiungono così senz’altro i due scopi capitalissimi: rendere disponibile la somma risparmiata e libero altresì, per le produzioni belliche, il lavoro di chi avrebbe perso il proprio tempo a fabbricare cose di consumo privato inutile alla guerra. Le modalità del risparmio sono meno rilevanti.

 

 

Il contadino, se non si fida d’altri impieghi, seguiti a comprare terre. Un fine sociale, la diffusione della proprietà, garanzia di stabilità e di ordine, si otterrà ad ogni modo. il venditore del terreno potrà impiegare, egli, in titoli di stato, quel prezzo di vendita, che il contadino ha risparmiato.

 

 

L’operaio, che non compra terre, né oggi può utilmente cominciare a costruirsi la casetta propria, iscrivendosi ad una cooperativa edilizia, a causa del rincaro, provvidenziale sotto tanti rispetti, dei materiali da costruzione, non vuole comprare titoli del prestito nazionale, perché essi scadono solo fra 25 anni, mentre egli può avere necessità dei denari suoi subito dopo la fine della guerra? Compri buoni del tesoro 5% a 5, o 3 anni od anche buoni ordinari, 3,50 o 4,50, a tre, sei, nove mesi od un anno. Si limiti anche, se crede, a versare i propri risparmi su un libretto postale o di cassa di risparmio o di banca popolare. Attraverso a questi enti, che egli apprezza a giusta ragione, i denari suoi troveranno la via delle casse pubbliche ed andranno a sostenere le spese della guerra.

 

 

Tuttavia, non so sottrarmi all’impressione che qualcosa potrebbe ancora farsi da noi per offrire al lavoratore un impiego attraente, facilmente accessibile, adatto ai suoi bisogni.

 

 

In Inghilterra hanno inventato i War Savings Certificates: i «certificati del risparmio di guerra». Si è riflettuto cioè:

 

 

  • che gli operai non possono risparmiare grosse somme ogni settimana; e che sarebbe imprudente attendere che essi abbiano accumulato il gruzzolo necessario per l’acquisto del titolo di prestito del taglio più piccolo, che da noi sarebbe quello da 100 lire. Il gruzzolo correrebbe rischio di dileguarsi nel frattempo. Perciò i certificati di risparmio costano soltanto 15 scellini e 6 pence, che vogliono dire, alla pari dei cambi, lire italiane 19,55. È una somma che l’operaio inglese può oggi non di rado risparmiare ogni settimana;
  • che gli operai non vogliono impegnarsi per lungo tempo, perché non sanno se presto, per malattia, mancanza di lavoro od altra eventualità, come la fine della guerra, non avranno d’uopo della somma risparmiata. Perciò della somma versata in lire 19,55 l’operaio può chiedere il rimborso in qualsiasi momento, anche il giorno dopo il versamento. Questa è la caratteristica essenziale su cui posa il successo del metodo;
  • che, ciononostante, è utile che l’operaio, pur avendo il diritto di chiedere ad ogni momento il rimborso del certificato, abbia interesse a conservarlo. Perciò l’interesse è progressivo nel tempo. Se il certificato è rimborsato entro il primo anno non rende nulla; se è rimborsato dopo 15 mesi l’1,61% all’anno, se entro 18 mesi il 3,20%, se entro 2 anni il 3,96%, se entro 3 anni il 4,62%, se entro 4 anni il 4,87%, se entro 5 anni il 5,23%. Alla fine dei 5 anni il certificato è rimborsato in 1 lira sterlina rotonda equivalente a lire italiane 25,22, il che corrisponde appunto ad un interesse del 5,23% all’anno. L’operaio sa che, se ne ha bisogno, può riavere subito il suo denaro; ma sa anche che più tiene il certificato, più cresce il guadagno. Ed è spinto naturalmente a tenere ed a far così l’interesse proprio e dello stato. Questo, dal canto suo, non ha il diritto di rimborsare prima della scadenza dei 5 anni;
  • poiché, ad ogni settimana, l’operaio può non avere disponibili 15 scellini e 6 pence, ogni ufficio postale gli fornisce una cartolina di risparmio di guerra, divisa in 31 spazi. Su ognuno degli spazi l’operaio può appiccicare un francobollo da 6 pence (63 centesimi di lira) e quando l’abbia riempita tutta, può cambiare la cartolina in un certificato intiero. Il metodo si presta benissimo altresì al risparmio di guerra nelle scuole;
  • a facilitare gli acquisti graduali, gli operai possono istituire fra loro «associazioni per il risparmio di guerra» per cui il comitato nazionale fornisce gratuitamente moduli, istruzioni, libri contabili, ecc. ecc. Se 31 operai si riuniscono in una associazione e contribuiscono anche solo 6 pence l’uno alla settimana, hanno il vantaggio di potere acquistare, colla massa dei contributi individuali, un certificato intiero per settimana. Invece di ricevere tutti 31 separatamente il proprio certificato alla fine della 31ma settimana, essi ricevono 1 certificato alla settimana così da averne 31 alla fine della 31ma settimana. Il vantaggio sta in ciò che facendo l’acquisto separatamente, tutti i 31 certificati hanno la data della scadenza della 31° settimana e cominciano a lucrare interessi solo da quella data; invece, facendo l’acquisto insieme, il primo certificato data dalla fine della prima settimana, il secondo dalla fine della seconda e così via. Si è calcolato che in media vi sia una anticipazione di 15 settimane e che l’interesse guadagnato aumenti in proporzione. Questo è un metodo il quale si presta ad essere adottato, oltreché da associazioni di operai, dai principali, i quali possono eseguire trattenute sul salario dei loro dipendenti ed acquistare subito certificati intieri, facendo fruire gli operai del maggior interesse.

 

 

Gli inglesi, con questo metodo, hanno raccolto in meno di sei mesi, dall’aprile di quest’anno, 28 milioni di lire sterline, pari a 700 milioni di lire italiane. Perché lo stesso metodo non dovrebbe essere adottato in Italia?

 

 

Forse, da noi, converrebbe adottare un altro taglio, più piccolo, per renderlo accessibile a molti piccoli risparmiatori. Il taglio migliore sarebbe, a parer mio, quello di 8 lire, rimborsabili in 10 lire dopo 5 anni. Su questa base si potrebbe svolgere una utilissima propaganda:

 

 

  • il buono di risparmio da 8 lire è accessibile a molti operai. Numerosi sarebbero coloro che ogni settimana ne potrebbero acquistare uno;
  • acquistare per 8 lire un buono rimborsabile in 10 lire è una idea semplice, chiara, attraente: Comprate per 8 lire un buono di 10 sarebbe una formula ottima per un’efficace propaganda;
  • senza andare sino al risparmio obbligatorio, che è idea sconsigliabile, agli industriali potrebbe essere fatto obbligo di dare in pagamento dei salari settimanali di almeno 40 lire uno di questi buoni da 8 lire. L’operaio non subirebbe alcuna costrizione, poiché, se non volesse saperne, avrebbe solo il disturbo di andare al più vicino ufficio postale e farselo cambiare in moneta contante;
  • sul retro del buono, dovrebbe essere indicato chiaramente il valore del buono per chi lo tiene 1 anno, 2, 3, 4 e 5 anni. Per esempio:

 

 

Dopo

Valore del buono

Aumento avvenuto nel frattempo

1 anno

8,20

+ 0,20

2 anni

8,50

+ 0,30

3 anni

8,90

+ 0,40

4 anni

9,40

+ 0,50

5 anni

10,00

+ 0,60

 

 

L’operaio saprebbe senz’altro quale sarebbe il suo guadagno tenendo il buono per un anno, due, tre, invece di correre a farselo pagare in moneta. Forse basterebbe lasciar trascorrere alcuni giorni per essere indotti a conservare il buono, per lucrare gli aumenti annui progressivi. Più il tempo passa, più cresce il vantaggio di tenere. Dalla fine del terzo alla fine del quarto anno, un aumento di 50 centesimi su lire 8,90, valore del buono alla fine del terzo anno, equivale ad un interesse del 5,61%; dalla fine del quarto alla fine del quinto anno, l’aumento di 60 centesimi su 9,40 equivale ad un interesse del 6,39%. Lo stato, pur pagando non più ed anzi meno di quanto paga sui buoni quinquennali 5%, incoraggerebbe il risparmio operaio a lunga scadenza;

 

 

  • a crescere le attrattive del buono, ogni serie di essi di 100 milioni di lire dovrebbe partecipare ad un premio di 100.000 lire, uno da 50.000, 2 da 10.000, da 5.000 e 10 da 1.000 lire da estrarsi alla fine dei 5 anni. in tal modo, lo stato, pagando 2 lire su 8 di interesse alla fine dei 5 anni, più 18 premi del valore complessivo di 200.000 lire, non pagherebbe nulla più di quanto dovrebbe spendere pagando il 5% su 8 lire, ossia 40 centesimi, alla fine di ogni anno. E sarebbe dato un incentivo lecito, morale, ben lontano dalle comuni lotterie, a conservare i buoni sino alla fine del quinquennio.

 

 

Su queste linee o su altre somiglianti dovrebbe tentarsi la istituzione di quello che dovrebbe intitolarsi «risparmio operaio di previdenza per la crisi del dopo guerra».

 

 


[1] Con il titolo Le vie del risparmio. nuovi buoni al portatore da sei a dodici mesi. La necessaria propaganda. Ristampato col titolo Il dovere degli Italiani durante la guerra, VII, in Prediche, Laterza, Bari 1920, pp. 82-87. [ndr]

[2] Con il titoloIl risparmio operaio. Risparmio obbligatorio o volontario?. [ndr]

[3] Con il titolo I metodi del risparmio operaio. [ndr]

I nuovi buoni al portatore da sei a dodici mesi

I nuovi buoni al portatore da sei a dodici mesi

«Corriere della Sera», 26 giugno 1916[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 356-359

 

 

Al decreto per l’emissione dei buoni del tesoro triennali e quinquennali ha fatto seguito a brevissima distanza un nuovo decreto, il quale regola l’emissione di buoni ordinari al portatore, con scadenza da sei a dodici mesi. Anche a questa nuova emissione fa d’uopo far plauso.

 

 

Per ora la possibilità di emettere titoli al portatore non è stata estesa anche ai buoni a tre mesi, i quali continueranno ad essere emessi soltanto nelle forme ordinarie; cosicché, riassumendo, i buoni che oggi il risparmiatore italiano può acquistare sono i seguenti:

 

 

  • buoni ordinari, con scadenza inferiore a sei mesi. Sono soltanto nominativi, trasferibili però con girata. Si acquistano presso le regie tesorerie. L’interesse è stato fissato con decreto del ministro del tesoro al 3% all’anno; ed è anticipato; ossia detratto dal prezzo che si versa all’atto dell’acquisto del buono;
  • buoni ordinari, con scadenza da sei a dodici mesi, che il capitalista può adesso chiedere al portatore od al nome, a suo piacere. Sono anch’essi in vendita presso tutte le tesorerie; ed anch’essi recano l’interesse anticipato. L’interesse è fissato al 4,25% per i buoni da sei ad otto mesi; ed al 4,50% per i buoni con scadenza da nove a dodici mesi.

 

 

Questi titoli godono del diritto di essere versati alla pari, anche quando non siano ancora giunti a scadenza, salvo il necessario conguaglio degli interessi, come denaro contante nell’acquisto dei buoni triennali e quinquennali o delle obbligazioni od altri titoli che fossero emessi dallo stato sino al 31 dicembre 1917. Essi forniscono perciò un mezzo opportunissimo di investimento per chi voglia subito impiegare fruttuosamente i suoi capitali, in attesa di un posteriore investimento in prestiti pubblici a più lunga scadenza. Il ministro del tesoro non tarderà certamente ad emanare il decreto per la fissazione degli interessi sui nuovi buoni ordinari da sei a dodici mesi;

 

 

  • 3) buoni triennali e quinquennali 5%, ad interessi semestrali posticipati, al portatore ovvero al nome, a scelta del risparmiatore, acquistabili presso le tesorerie dello stato, le banche di emissione (Banca d’Italia, Banco di Napoli e Banco di Sicilia), le banche ordinarie, le casse di risparmio, gli esattori delle imposte e gli uffici postali.

 

 

Auguro che, dopo un primo saggio, si trovi il modo di estendere ai nuovi buoni ordinari da sei a dodici mesi, al portatore, il vantaggio di poter essere venduti, oltreché presso le tesorerie dello stato, presso banche, casse di risparmio, esattori delle imposte ed uffici postali. Essi hanno qualità che li rendono adatti, al pari dei buoni poliennali, a soddisfare qualcuna delle svariate esigenze economiche dei risparmiatori.

 

 

I buoni triennali e quinquennali sono invero un ottimo, magnifico investimento per quelli che desiderano fare un investimento a breve scadenza. Se dovessi esprimere un convincimento meditato, direi che essi, nel momento presente, sono il titolo principe per tutti i capitalisti, i quali tengono a sottrarre i loro risparmi alle oscillazioni possibili nella valutazione capitale. Chi oggi compra un buono da 100 lire a tre o cinque anni, è sicuro di ottenere il rimborso di cento lire, né più né meno, alla scadenza. Vantaggio notabile, sebbene non abbastanza apprezzato.

 

 

I buoni ordinari da 6 a 12 mesi sono invece adatti a coloro che hanno capitali disponibili per un limitato periodo di tempo o che sono ancora incerti intorno alla destinazione da dare ai loro fondi. Tra i primi si possono noverare industriali, commercianti, agricoltori, i quali posseggono fondi, superiori al giro odierno dei loro affari, ma prevedono di poterli impiegare fra qualche tempo, ad esempio, al ritorno della pace. Nel frattempo, il buono del tesoro a scadenze da 6 a 12 mesi offre un impiego assai rimunerativo. Tra i secondi, sono i risparmiatori ordinari, i quali sono ancora dubbiosi quale impiego dare ai propri risparmi. A costoro giova acquistare buoni ordinari da 6 a 12 mesi: poiché essi acquistano una specie di denaro contante fruttifero. Questi buoni infatti sono accettati alla pari in pagamento dei titoli dei futuri prestiti sino al 31 dicembre 1917. Il significato della frase qui usata è evidente: i buoni da 6 a 12 mesi saranno accettati come denaro contante in pagamento dei futuri prestiti. Quindi se il futuro 5% fosse emesso a 97 lire, basteranno 9.700 lire nominali di buoni da sei a dodici mesi per acquistare 10.000 lire nominali (sottoscritte a 97) del futuro prestito. Qui vi è la sicurezza assoluta di non perdere un centesimo del capitale, di godere nel frattempo un buon frutto e di concorrere alle future sottoscrizioni ai migliori prezzi che allora potranno essere stabiliti.

 

 

Aggiungasi che i buoni da 6 a 12 mesi possono essere impiegati, sempre come denaro contante, nell’acquisto dei buoni a 3 e 5 anni al 5%. Chi per circostanze sue particolari non intende più attendere l’emissione di nuovi prestiti, ha così in ogni momento aperta la via a fare un ottimo impiego a scadenza di pochi anni. Comprare buoni è dunque come avere denaro in tasca, fruttifero dal 3 al 4,50% o forse più, versabile come denaro contante per l’acquisto dei buoni triennali e quinquennali e delle obbligazioni dei futuri prestiti nazionali.

 

 

Poiché ora sono stati messi a disposizione del pubblico due bellissimi strumenti di impiego dei risparmi, atti a raggiungere fini diversi, occorre che al pubblico venga fatta giungere la notizia della loro esistenza e vengano spiegati i vantaggi di essi. Senza dubbio al successo dei prestiti nazionali passati contribuì la cooperazione della stampa, dei conferenzieri e delle organizzazioni che condussero una così viva campagna di propaganda. La campagna per i buoni poliennali ed ordinari dovrebbe avere un carattere forse diverso: non di spinta ad uno sforzo massimo in un breve periodo di tempo, ma ad uno sforzo continuo in un tempo illimitato, prima e dopo i grandi prestiti di guerra. I numerosi comitati di preparazione civile esistenti in Italia dovrebbero assumere a principalissima loro missione la propaganda a favore di un duplice vangelo. Primo: ridurre i consumi al minimo indispensabile, essendoché ogni consumo non necessario e una sottrazione ai consumi utili alla condotta della guerra. Dovrebbero confutarsi gli errori popolari e seducenti, secondo cui occorre spendere per dar lavoro, chi spende è un benefattore del prossimo, chi spende fa girare il denaro ed avvantaggia il commercio. Si dovrebbe dimostrare che questi errori, sovratutto nel momento presente, sono dannosissimi al paese. Di qui discende il secondo caposaldo della propaganda: investire tutto il risparmio in buoni a 3-5 anni od a 6-12 mesi, a seconda delle variabili convenienze del risparmiatore.

 

 

Gioverà assai, affinché la propaganda sia efficace, che essa sia sussidiata da brevi, chiari opuscoli illustrativi, da diffondere largamente e da servire di guida ai conferenzieri. E gioverà altresì che il governo italiano, a somiglianza del governo inglese, con frequenti rapidi comunicati ricordi ai risparmiatori l’esistenza dei buoni.

 

 

La propaganda tuttavia non basta. Essa si urterebbe contro la resistenza passiva degli istituti raccoglitori del risparmio, se questi non fossero stimolati a concorrere, con le loro potenti organizzazioni, alla buona riuscita delle emissioni. Il capitalista medio e grosso crede di più al suo banchiere ed al suo agente di cambio che non a tutti i giornali e conferenzieri presi insieme. Occorre perciò che l’emissione di tutte le specie di buoni avvenga anche per mezzo delle casse di risparmio, banche, banchieri, agenti di cambio, esattori, ufficiali postali. Tutti costoro dovrebbero essere spinti a collaborare vivamente al successo della meritoria iniziativa del ministro del tesoro. Come, in occasione dell’ultimo prestito, dovrebbe accendersi una gara tra gli istituti raccoglitori del pubblico risparmio a chi saprà fornire allo stato più larga messe di buoni sottoscritti.

 

 



[1] Con il titolo I nuovi buoni al portatore da sei a dodici mesi. La necessaria propaganda. [ndr]

La tragicomica storia delle patate tedesche

La tragicomica storia delle patate tedesche

«Corriere della Sera», 15 maggio 1916[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 351-355

 

 

Le dimissioni del ministro dell’interno tedesco Delbruck sono state interpretate logicamente come la conferma del fallimento di una delle tante «organizzazioni» germaniche, l’organizzazione dell’alimentazione. Val la pena di esporre, con l’analisi delle statistiche e con la cronologia della tragicomica vicenda delle patate, l’insuccesso di quella organizzazione. È stato scritto, l’articolo, prima che il ritiro di Delbruck fosse noto e il valore dell’argomentazione è accresciuto singolarmente dal fatto: non si tratta infatti di una dimostrazione costruita sul presupposto di una conseguenza nota di certi fenomeni, ma della interpretazione originale dei fenomeni stessi.

 

 

Alcune notizie, le quali sembrano avere le caratteristiche della attendibilità, dimostrerebbero che anche in Germania lo spirito di «organizzazione» non è riuscito ad ottenere quei miracoli, che molti da noi si attendevano e grazie a cui si continuava ad «ammirare» il nemico. Poiché non ho mai partecipato al culto dell’«organizzazione» in materia economica, mi sia lecito porre in rilievo alcuni pochi fatti, i quali mi sembrano incoraggianti non perché ci facciano sperare una resa dei nemici per esaurimento economico – finora i dati certi sono insufficienti a legittimare una conclusione in tal senso, né noi dobbiamo sperare la salute dalla debolezza altrui, sibbene dalla forza nostra ma perché provano che i miracoli non sono di questo mondo e che, attraverso ad eventuali errori, non vi è ragione di ritenerci meno atti a raggiungere fini analoghi a quelli che la fama pretende essere stati conseguiti dai tedeschi.

 

 

Se la preparazione in pace e l’organizzazione in guerra fossero stati economicamente così efficaci in Germania come si va dicendo; se quel paese avesse davvero saputo creare un mercato chiuso bastevole a se stesso, l’effetto avrebbe dovuto essere l’esistenza di prezzi più moderati ivi che nei paesi privi di organizzazione. Consumi razionati sì perché organizzazione vuol dire assegnare ad ognuno il suo e non lasciar mangiar troppo a nessuno; ma a prezzi moderatamente cresciuti. Pare che il vero sia l’opposto.

 

 

Le statistiche dell’organo ufficiale prussiano «Statistishe Korrespondenz» danno un aumento medio dei prezzi nel febbraio 1916 in confronto al luglio 1914 dell’85,6% per una serie di 19 derrate alimentari entranti nel bilancio di una famiglia operaia. Ricorderò il pane di segale aumentato del 42,9%, quello di frumento della farina di segale cresciuta del 46,7% e quella di grano del 14,3%; il burro del 106,2%; il latte del 38,4%. E trattasi di derrate il cui consumo è strettamente limitato a quantità fissate dall’autorità. I fagioli e le lenticchie, aumentati del 187,5 e del 132% rispettivamente, sembra non si trovino più affatto nelle botteghe, se a Berlino da alcuni mesi non si fanno più quotazioni e fu d’uopo ricorrere ai prezzi di minori città. Lo zucchero è aumentato del 21%, il caffè del 48, le uova del 185,7, la carne di bue del 117,1, di montone del 106,4, di maiale del 72,8, il lardo del 153%.

 

 

I prezzi dell’Inghilterra segnano, secondo la fonte ufficiale della «Labour Gazette», un aumento generale per alcuni generi di consumo popolare del 49% al primo aprile 1916 in confronto al luglio 1914. Gli aumenti più notevoli, in confronto alla Germania, si ebbero nel pane di frumento aumentato del 52%, nella farina cresciuta del 60% e nello zucchero salito del 128%. Ma è aumento sostanzialmente sopportabile, se si pensa ai bassissimi prezzi normalmente vigenti per queste derrate in Inghilterra nei tempi normali, grazie alla mancanza dei dazi doganali. Il manzo inglese crebbe dal 40 al 52% a seconda delle qualità, il manzo congelato dal 55 al 74%, il montone inglese dal 37 al 54, il montone congelato dal 58 all’89, il lardo crebbe del 34%, il latte del 31%, il burro fresco del 35, le uova del 36 e il formaggio del 45%.

 

 

In Italia una analoga tabella, costruita dall’ufficio del lavoro di Roma, sulla base dei prezzi medi praticati al minuto in 17 città italiane, dà un aumento del 23% per il pane nel febbraio 1916 in confronto al primo semestre 1914, del 54% per la farina di grano, del 33% per la pasta per minestra, del 13% per il latte, del 50% per la carne bovina, del 15% per il lardo e del 20% per l’olio da cucina. Malgrado l’aggio, i noli, il carbone e gli altri malanni l’aumento medio delle derrate considerate risulta per l’Italia solo del 29,78%.

 

 

Non voglio dire che le tre percentuali di aumento: dell’85,6% per la Germania, del 49 per l’Inghilterra e del 29,78 per l’Italia siano in tutto comparabili. Sembra legittimo dedurne però la conclusione: che il razionamento, l’organizzazione ed il genio amministrativo germanico non siano riusciti ad ottenere risultati più brillanti di quelli che furono la conseguenza del tanto vilipeso spirito di disordine, di individualismo e di anarchia degli inglesi e degli italiani.

 

 

Che l’organizzazione tedesca si sia urtata contro stragrandi difficoltà apparirà subito anche a chi scorra il solo elenco dei provvedimenti presi e modificati, dei tentativi fatti e rifatti ed abbandonati da quei governi. Se ne vegga un elenco lunghissimo in un istruttivo ed oggettivo libro del Sayous su il Blocco economico ed i suoi effeti sulla Germania (editore Payot, Parigi); si pensi che in Germania non solo si sono messi da un canto generali e marescialli ma anche organizzatori economici – nessuno in Italia ha rilevato che il signor Rathenau è stato esonerato dalla carica di organizzatore di provviste belliche -; e si rimarrà persuasi che non c’è davvero ragione perché italiani, francesi ed inglesi, volendo, non possano, con i metodi loro propri fare altrettanto e meglio dei tedeschi.

 

 

Un caso specifico dei manchevoli risultati della organizzazione germanica merita di essere rilevato: ed è quello delle patate. Questa è l’unica derrata il cui prezzo, secondo le statistiche ufficiali, non sia aumentata dal principio della guerra. Orbene, la storia delle patate germaniche è una vera tragicommedia. La esporrò, per non andare per le lunghe, in ordine cronologico.

 

 

23 novembre 1914. Sorgono lagnanze di scarsità e di alti prezzi. Il governo fissa i prezzi massimi delle patate per tutto l’impero per i produttori. Molti comuni fissano anche i prezzi massimi al minuto.

 

 

Inverno 1914-15. Le patate scompaiono dal mercato. I socialisti si lagnano degli speculatori: e gli agrari danno la colpa alle intemperie ed alle difficoltà di trasporto. Il popolo sospetta che le patate siano divorate dai porci.

 

 

Gennaio-febbraio 1915. Si ordina quindi l’uccisione di milioni di porci. La carne di porco aumenta, ed ora si paga il 70% Più cara di prima della guerra. Nonostante ciò nelle grandi città industriali dell’ovest ed a Berlino riesce spesso impossibile procurarsi patate. I municipi aprono spacci, dove le patate si vendono a piccole dosi. Dimostrazioni di massaie nei pubblici mercati. Il «Vorwärts» del 16 marzo 1915 suscita allarme, citando una statistica del Ballod, secondo cui il raccolto del 1914 sarebbe stato appena di 42-43 milioni di tonnellate contro una media di 52 milioni per il 1912 ed il 1913.

 

 

Marzo ed aprile 1915. Il governo, il quale, a snidare le patate dai loro nascondigli, aveva già concesso un piccolo aumento nei prezzi massimi per i produttori, decreta il 15 marzo ed il 12 aprile il censimento e la distribuzione obbligatoria delle patate.

 

 

Maggio-giugno. Cambiamento sensazionale. Gli agrari non sperano più di vederne aumentare i prezzi e, temendo di vederle andare a male, scaricano le patate sul mercato. Sulla stampa quotidiana appaiono incitamenti al pubblico perché mangi patate. Il «Berliner Tageblatt» pubblica una nuova stima del raccolto del 1914: sono 55 milioni invece dei 42-43 del Ballod. I prezzi precipitano.

 

 

Luglio 1915. Gli inquilini di Berlino vicini ai magazzini delle ferrovie della Slesia si lamentano all’ufficio d’igiene per il fetore nauseabondo di montagne di patate che vanno a male. Il «Vorwärts» si lagna dell’anarchia per cui si hanno speculazione e carestia e poi ingorgo e spreco.

 

 

Agosto 1915. Si pubblicano i conti della gestione governativa delle patate. Appare che il governo, per provvedere alla carestia minacciante nelle città e per indurre gli agrari a vendere, aveva comperato 23,6 milioni di quintali di patate. Di fatto risultò poi che le provviste sul mercato erano assai più abbondanti di quelle calcolate dal governo e che i comuni di consumo avevano esagerato il loro fabbisogno. I consorzi comunali avevano comperato non i 15,4 milioni di quintali chiesti, bensì solo 3,8 lasciando al governo ben 20 milioni, che furono dovuti vendere in perdita alle fabbriche di fecola ed alle distillerie.

 

 

Settembre 1915. Ricominciano le lagnanze di scarsità. A Marburg, nonostante un raccolto record, gli agrari si rifiutano a vendere ed intendono aspettare la primavera.

 

 

Ottobre 1915. Il governo pubblica il 9 e modifica il 22 ordinanze che comandano agli agricoltori, che coltivano più di 10 ettari, di tenere il 20% del loro prodotto a disposizione del governo.

 

 

Inverno 1915-16 e primavera 1916. Dimostrazioni di massaie per l’impossibilità di aver patate ai prezzi massimi fissati dalla legge. L’organizzazione burocratica sembra incapace di costringere anche stavolta il contadino a vendere.

 

 

La quale vicenda cronologica è suppergiù la stessa che in analoghe circostanze si verificò in ogni tempo ed in ogni luogo. Neppure la sapientissima ed onnipotente amministrazione tedesca è riuscita a mutare l’indole degli uomini e ad evitare gli errori che ogni burocrazia ha mai sempre avuto l’abitudine inveterata di commettere.

 

 



[1] Con il titolo L’organizzazione germanica e l’aumento dei prezzi. La tragicomica storia delle patate tedesche. [ndr]

Il «record» nella storia dei prezzi del vino

Il «record» nella storia dei prezzi del vino

«Corriere della Sera», 26 aprile 1916[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 339-341

 

 

Un prodotto il quale in Italia ha subito un movimento impressionante di prezzi è il vino. In un suo recente articolo sull’Italia vinicola ed agraria di Casalmonferrato, il prof. Marescalchi ha messo in luce come l’anno 1916 segni il punto più elevato dei prezzi dal 1791 ad oggi. Le indagini eseguite dal Marescalchi nell’archivio comunale di Casale, che è uno dei maggiori centri vinicoli dell’Alta Italia, si fermano al 1791; ma, per quanto so, il periodo immediatamente posteriore alle guerre della rivoluzione francese fu caratterizzato dai prezzi massimi in confronto a tutto il secolo XVIII; sicché è possibile affermare, con bastevole fondamento, che i prezzi odierni del vino sono i prezzi massimi conosciuti nella storia vinicola negli ultimi due secoli.

 

 

Il lucro che i viticultori hanno potuto ricavare dal rialzo straordinario dei prezzi non e però tutto lucro netto. L’esperienza storica invero dimostra che i prezzi massimi sono quasi sempre le conseguenze di raccolti pessimi. Ecco un quadro interessantissimo dei prezzi massimi e minimi avutisi dal 1791 al 1916 (in lire italiane per ettolitro):

 

 

Minimi

Massimi

1791

16

1792

15

1800

82

1805

13

1815

72

1817

73

1834

18

1842

17

1849

16

1855

73

1856

70

1872

18

1874

55

1877

50

1908

18

1916

92

 

 

Il movimento dei prezzi messo in luce da queste cifre in parte obbedisce a leggi generali comuni con i prezzi delle altre derrate: ed in parte deriva da circostanze particolari al vino. Comune con altre derrate sarebbe il passaggio dal regime di prezzi relativamente bassi dal periodo anteriore alla Rivoluzione francese al periodo di prezzi crescenti negli anni di guerra dal 1793 al 1799-800, a causa della inflazione di biglietti svalutati a corso forzoso; il deprezzamento, anch’esso derivante da cause monetarie, del periodo volto tra la fine delle guerre napoleoniche e le rivoluzioni del 1848: il rialzo generico dovuto all’abbondanza dell’oro e dell’argento tra il 1848 ed il 1873-74; e finalmente il periodo di prezzi bassi durato, sempre per cause monetarie, quasi fino alla soglia del nuovo secolo. Ma, oltre ed accanto a queste cause generali, il prezzo del vino subì il contraccolpo di cause speciali, che produssero rialzi e ribassi acutissimi, non ugualmente osservabili in molte altre derrate.

 

 

Cattivi o pessimi i raccolti del 1797, 1798 e 1799; e di qui il rialzo del 1800, acuito dalle requisizioni delle truppe russe ed austriache. Cattivi nuovamente i raccolti del 1814 e del 1816; in rialzo vivo i prezzi nel 1855 e nel 1856 per il diffondersi della malattia dell’oidio, non ancora combattuta dalle solforazioni. Tutti finalmente ricordiamo la vendemmia eccezionale del 1907, seguita da altri due abbondanti raccolti di uva; di qui il prezzo minimo di lire 18 per ettolitro nel 1908. Terribile invece fu l’invasione peronosporica nel 1915; sicché si giunge ora (1916) a veri prezzi di sete, accentuati dalle cresciute richieste per l’esercito, e dal deprezzamento della moneta cartacea; prezzi di cui la storia non vide ancora gli uguali.

 

 

Il prof. Marescalchi dalla storia fortunosa della vite e del vino ricava un solo insegnamento economico e tecnico: bene avrebbero operato i viticultori che nelle annate di abbondante raccolto avessero immagazzinato il vino per venderlo negli anni di scarsità e di alti prezzi, i quali immancabilmente seguono, a breve distanza, colle annate di fallanza.

 

 

Il vero rimedio contro le ricorrenti crisi vinicole è tutto lì: cultura tecnica, abilità nel confezionare vino serbevole, ed attitudine finanziaria ad aspettare la ripresa immancabile dei prezzi. La viticultura diventerà una industria seria, non soggetta ad alee e largamente remuneratrice quando essa sarà condotta da uomini tecnicamente esperti e finanziariamente resistenti. Leggi e regolamenti a poco servono. La salute è nei viticultori stessi.

 

 



[1] Con il titolo Una legge benefica per la Sardegna. La sua confortante applicazione in un rapporto delVon. Cavasola. [ndr]

Una relazione dell’on. Cavasola sulla Sardegna

Una relazione dell’on. Cavasola sulla Sardegna

«Corriere della Sera», 22 aprile 1916[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 335-338

 

 

La lettura della relazione dell’on. Cavasola sulla applicazione della legge 16 luglio 1914 per provvedimenti straordinari a favore della Sardegna, lascia una impressione veramente confortante nel lettore. Ecco un ministro, vien fatto di dire spontaneamente, il quale vede chiaramente quale sia il vero compito del dicastero dell’agricoltura in tempo di pace ed in tempo di guerra. Dopo aver letto tanti articoli e sunti di discorsi, in cui si faceva rimprovero all’on. Cavasola di non aver fatto ciò che non era in poter suo di fare, di non aver costretto a ribassare, non solo entro i limiti del possibile, ma anche al di là i prezzi ed i noli ed i cambi, che in ogni guerra combattuta dal principio del mondo si sono ostinati a salire, di non avere rivoluzionato, per rispondere ad esigenze immaginarie del momento, la legislazione vigente, frutto di secolari o decennali esperienze, pacifiche o belliche; dopo essere stati infastiditi dai progetti di chi vuole attuare ogni sorta di piani «geniali» e sceglie, per l’attuazione, il momento più difficile immaginabile, che è il tempo di guerra – fa piacere, dopo tutto ciò, leggere una relazione semplice e piana in cui un ministro tranquillamente espone quanto un suo ufficio speciale ha compiuto nell’intento di integrare» l’azione privata insufficiente o di far ciò che i privati sono assolutamente impotenti a compiere. I lettori di questo giornale sanno come io sia tiepidissimo ammiratore del ministero di agricoltura, industria e commercio; vero nido di «padreterni», i quali vorrebbero strafare in ogni cosa ed immaginano di essere in grado di insegnare ciò che e’ lecito ed illecito, utile ed inutile ad agricoltori, industriali e commercianti. L’ufficio speciale della Sardegna non merita, come si vede dall’opera sua, questa diffidenza; e di ciò va data lode a chi lo dirige ed al ministro che lo indirizza. Integrare l’azione privata dove è insufficiente, sostituirvisi dove essa non può far nulla: ecco i canoni a cui quell’ufficio si è attenuto, anche mentre la guerra dura. I risultati raggiunti dall’agosto 1914 al febbraio 1916 – che è il periodo contemplato dall’odierna relazione dell’on. Cavasola – sono incoraggianti e luminosi.

 

 

Cinque cattedre di agricoltura ad Oristano, Ozieri, Nuoro, Lanusei ed lglesias, due sezioni ad Alghero e Cagliari, un podere dimostrativo ad Isili hanno compiuto una larga propaganda di insegnamento coadiuvata da un buon corredo di attrezzi rurali, sementi e concimi chimici. La divulgazione sperimentale e pratica di tutte queste risorse, ch’erano pressoché ignote in Sardegna, venne completata da una diffusa applicazione della meccanica agraria, cosicché si trovò modo di rendere accessibile la trebbiatura meccanica perfino nella regione montuosa del Nuorese e dell’Ogliastra. E perché il costo del macchinario non fosse di ostacolo alla sua utilizzazione più estesa, il ministero provvide all’acquisto di talune di esse allo scopo di promuovere poi la formazione di consorzi di utenti.

 

 

Le casse ademprivili di Cagliari e di Sassari, le casse agrarie ed i monti frumentari sono una antica gloria della Sardegna. La legge del 1914 vi ha dato nuovo incremento.

 

 

Mercé il completamento dell’anticipazione di lire 2.200.000 alle casse ademprivili di Cagliari e di Sassari, fatta dalla Cassa depositi e prestiti, e mercé l’autorizzazione alle casse ademprivili stesse di eccedere i limiti normali delle anticipazioni ai monti frumentari, il credito agrario nell’isola ebbe tale incremento che le 2.618 operazioni per circa 1.300.000 lire dell’esercizio 1913 alla Cassa di Sassari, salirono nel 1915 a 5.257 operazioni per circa 2.200.000 lire; mentre per la Cassa di Cagliari le 7.078 operazioni del 1913 per poco più di 2 milioni, nel 1915 si raddoppiavano quasi a 13.891 per oltre 3 milioni e mezzo.

 

 

Così si è provveduto, in un paese dove il credito ordinario è poco sviluppato, a permettere agli agricoltori l’acquisto di sementi, concimi, attrezzi e macchine agrarie. Né meno efficace fu l’opera integratrice dello stato per quanto si riferisce alla bonifica agraria ed alla divulgazione dei migliori metodi culturali coll’esempio vivo e diretto delle tenute sperimentali; ed all’uopo il ministero deliberò ed ha già attuata la istituzione di un podere dimostrativo assumendo in affitto una vasta tenuta di circa 2.400 ettari fertilissima, ricca d’acqua e traversata da due linee ferroviarie, sita a breve distanza da Cagliari e che – bonificata per iniziativa di Carlo Alberto – era poi stata assoggettata ad uno sfruttamento del tutto irrazionale.

 

 

Per l’incremento della razza cavallina dei sardi, così preziosa per i servizi della nostra cavalleria, quindici erano già le stazioni di monta funzionanti nella passata primavera con un severo selezionamento e con premi per le fattrici migliori. Altri premi, in rapporto alla razza bovina, furono banditi per il miglioramento dei pascoli, insieme a una larga distribuzione di tori il cui numero sale già a 120. L’incrocio dei bovini sardi con la razza bruna Schwyz diede risultati eccellenti.

 

 

Ma dove l’interesse destato dalla relazione Cavasola diventa più vivo è nel campo della ricerca di acque sotterranee, per usi agricoli ed igienici. Sino al novembre ultimo erano già stati eseguiti nell’isola 2.000 metri di trivellazione distribuiti in 27 pozzi, dei quali uno solo ebbe esito negativo mentre per taluno si sono trovati veli acquiferi a grande profondità (perfino 96 metri) atti a gittare sopra suolo da cinquanta a centocinquanta litri d’acqua saluberrima al minuto primo. Da pozzi ordinari a pochi metri dal suolo si sono potuti ottenere inoltre 720 e persino 1.200 litri d’acqua al secondo come a San Sperato e a Bau Arena, cosicché si poté provvedere, oltre all’irrigazione agraria, anche all’alimentazione idrica di parecchi centri. Finora sui 363 comuni dell’isola, 112 sono già provveduti d’acqua potabile e per circa due quinti dei rimanenti i progetti sono già o compiuti o in via di studio. Apposite ricerche, cui furono interessati anche i direttori delle cattedre ambulanti, condussero inoltre alla scoperta di copiose sorgenti finora inutilizzate, una sola delle quali, che scaturisce dai monti di Oliena, ha una portata media di ben 500 litri al secondo.

 

 

La ricerca e l’utilizzazione delle acque del sottosuolo ebbe quest’altro vantaggio: d’eliminare la necessità di acquedotti costosissimi già progettati. Basti dire che, mentre per uno di questi s’eran già preventivate 860.000 lire di spesa, si poté dotare largamente d’acqua tutto l’abitato d’un comune spendendo solo 20.000 lire per la trivellatura di un pozzo.

 

 

Qui davvero si vede la grandezza dell’opera compiuta. Scoprire l’acqua nascosta nel sottosuolo non è opera a cui possono giungere le forze degli individui isolati, privi della necessaria cultura tecnica e privi di capitale; ed è un ricreare la terra che gli uomini abbandonavano per l’arsura e la malaria.

 

 

Accanto all’acqua, il chinino salvatore delle febbri. Durante la campagna contro la malaria, condotta dall’estate 1914 all’inverno 1915 furono ben 375 gli ambulatori che si poterono far funzionare nell’isola, così da profilassare 76.947 persone e curarne 46.835 con un consumo complessivo di 1.522 chilogrammi di chinino. I casi di malattia, che nel 1912 passavano i 6.000 con 809 morti, nel 1914 si ridussero così a men di 47.000 con soli 543 morti. Ciò malgrado molto resta ancora a fare: ma l’attività antimalarica è condotta con molto fervore. Né minore e quello per la campagna contro il tracoma. Basti dire che nel 1914 i casi curati nell’isola furono 6.051 nel Cagliaritano e 1.061 in provincia di Sassari.

 

 

Bene a ragione il ministro conchiude la sua sobria e parlante relazione affermando che l’«intrapresa gloriosa alla quale si è accinto il paese non ha interrotto lo svolgimento del programma prestabilito né lo modificherà per l’avvenire». Concepito non sotto l’impulso transitorio di un sentimento improvviso, ma in seguito a studi e ad esperienze ponderate, il programma di redenzione della Sardegna avrà così veramente giovato a rendere questa e l’Italia meglio capaci di nuovi e duraturi progressi economici ed umani.

 

 



[1] Con il titolo Una legge benefica per la Sardegna. La sua confortante applicazione in un rapporto delVon. Cavasola. [ndr]

La limitazione dei dividendi

La limitazione dei dividendi

«Corriere della Sera», 15[1] e 24[2] febbraio, 6[3], 7[4] e 8[5] ottobre, 11 novembre[6] 1916; 25 gennaio 1917[7]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 298-334

 

 

I

 

Il decreto luogotenenziale per la limitazione dei dividendi delle società commerciali merita di essere esaminato dal punto di vista tecnico; essendo chiaro che altre norme dovranno essere sancite per rendere applicabili i principii che furono per ora solo affermati nelle grandi linee.

 

 

Comincierò dalle osservazioni che si possono fare per le più importanti tra le società contemplate nel decreto, che sono le società anonime per azioni. Per queste, come per le altre, il decreto vieta agli amministratori di distribuire un dividendo superiore all’8 od al 10% del capitale sociale versato, a seconda che si tratta di società costituite prima o dopo il 23 maggio 1915, data di dichiarazione della nostra guerra all’Austria; a meno che, trattandosi di società antiche, esse avessero distribuito nell’ultimo triennio un dividendo maggiore in media all’8%. In questo caso le società potranno distribuire un dividendo uguale alla anzidetta media.

 

 

Sembra necessario spiegare che nel capitale sociale versato sono comprese altresì le riserve, comunque cumulate in passato, perché le riserve fruttano redditi ed hanno diritto ad una remunerazione alla pari del capitale versato dagli azionisti. Altrimenti si toglierebbe ogni interesse nelle società a cumulare riserve, quando queste dovessero rimanere senza compenso; e si multerebbero quelle società le quali in passato si sono comportate con quella prudenza che il legislatore vuole adesso consigliare ed imporre a tutte col presente decreto.

 

 

Quid delle società, le quali hanno in passato ridotto il capitale; per facilitare nuovi apporti ed aumenti di capitale con nuove emissioni di azioni? Se il capitale, sebbene nominalmente ridotto ad un milione, in realtà esiste ancora e produce nella cifra di due milioni, equità vorrebbe che fosse possibile remunerare i due milioni e non un milione di lire soltanto.

 

 

Il concetto della media dei dividendi ripartiti nell’ultimo triennio può lasciar luogo a qualche dubbiezza, quando trattasi di società che nell’ultimo triennio hanno traversato momenti di crisi economica; da cui sarebbero uscite, anche indipendentemente dalla guerra. Forse parrebbe opportuno di consentire alle società di scartare gli anni a dividendo zero: o considerare come uguale al 5 od al 6% il dividendo minimo distribuito in ciascuno dei tre anni del triennio.

 

 

Qui trattasi tuttavia di opportunità; mentre per le riserve e le svalutazioni del capitale una interpretazione nel senso sovradetto è di stretta giustizia.

 

 

Difficoltà maggiori di interpretazione debbono essere eliminate per le altre specie di società commerciali. Qui occorrerà integrare la norma relativa all’8 o 10% del capitale sociale versato, per renderla di possibile applicazione pratica.

 

 

Nelle società in accomandita, semplice o per azioni, è facile limitare il dividendo all’8 od al 10% del capitale delle azioni e delle carature dei soci accomandanti o di capitale. Come dovranno invece comportarsi le società per gli utili spettanti ai soci gerenti, i quali forniscono, come tali, soltanto la loro opera? Gli utili delle società in accomandita vanno ripartiti tra i soci di capitale ed i soci di lavoro. Anche questi possono aver conferito un capitale; ed in tal caso, in tal qualità, vanno trattati alla stessa stregua dei soci capitalisti. Come risolvere il quesito per gli utili che a loro spettano in qualità di soci di lavoro, o gerenti od amministratori? Una soluzione equa parrebbe questa: che potesse essere repartita, a norma dello statuto d’ogni società, quella massa d’utile che bastasse a dare al capitale un dividendo dell’8 o 10%, dando ai soci gerenti la corrispondente quota statutaria di utili. Così, se il capitale di una accomandita fosse di un milione di lire, e se al socio gerente spettasse, oltre il suo onorario fisso, il 50% degli utili al di là del 5% sul capitale, la società dovrebbe potere repartire 50.000 lire al capitale, a titolo di interesse 5%, ed inoltre altre 30.000 lire pure al capitale, fino al massimo complessivo dell’8% ed insieme 30.000 lire al gerente; in conformità dello statuto, il quale vuole siano gli utili, oltre l’interesse, divisi in parti uguali fra soci accomandanti e gerenza.

 

 

Più difficile appare trovare il criterio per le società in nome collettivo; per le quali il capitale spesso è minimo, mentre ragionevolmente gli utili sono vistosi, in ragione del lavoro dei soci. Sia una società nuova, costituitasi con un capitale di 20.000 lire. Essa guadagna 10.000 lire; il che in apparenza corrisponde al 50% del capitale, mentre in realtà non è molto, se si riflette che le 10.000 lire sono il compenso dell’opera personale dei due soci. Consentiremo solo il riparto del 10% sul capitale, ossia 2.000 lire? è un compenso equo, 1.000 lire a testa, del lavoro di un anno? Adottare rigidamente questa regola, non è uno stimolare i soci ad assegnarsi forti stipendi fissi, allo scopo di diminuire gli utili, danneggiando, con la fissità dello stipendio, quell’assetto solido che il legislatore si proponeva di ottenere?

 

 

I chiarimenti sono finalmente indispensabili per le associazioni in partecipazione e per le società di mutua assicurazione. Possono invero darsi associazioni in partecipazione senza capitale versato; e non ritengo che questi siano i casi minori in numero. Industriali, commercianti, speculatori possono avere convenienza a dare una partecipazione negli utili o nelle perdite di una o più operazioni ad un terzo senza che questi versi alcun capitale, bastando la prestazione di opere o di consigli. In ragione di quel capitale stabiliremo noi il limite dell’8 o 10%? Come, ancora, mettere un limite agli utili di una associazione di mutua assicurazione, per le quali si tratta di repartire tra gli associati i danni che sono oggetto dell’associazione? Parrebbe equo che, se nel 1915 o 1916 i danni risultano fortunatamente inferiori agli anticipi pagati dagli associati, l’avanzo possa, senza la materiale restituzione, essere imputato a credito degli associati per i rischi dell’esercizio successivo.

 

 

Le difficoltà inducono a qualche riflessione su ciò che si intende per accantonamento degli utili eccedenti la misura fissata nel decreto. Che cosa significa la norma per cui l’eccedenza degli utili deve essere accantonata e costituita in riserva speciale di ammortamento o di rispetto?

 

 

Fa d’uopo innanzitutto scartare, come erronea ed inammissibile, l’opinione di chi intendesse che quelle eccedenze degli utili debbono materialmente essere costituite in un fondo a parte, versato presso una cassa di risparmio o banca od investito in titoli di tutto riposo; così che le riserve stesse conservassero una individualità propria e fossero realizzabili ed impiegabili a parte nel giorno in cui il legislatore deliberasse di togliere il vincolo.

 

 

Questa opinione è inammissibile:

 

 

  • perché contraria alla pratica universale ed alle necessità dell’industria. Salvo rari casi, i quali si spiegano con particolari ragioni e non possono essere additati ad esempio degno di imitazione agli altri industriali, la individualità delle riserve è e deve essere puramente contabile. Una società può possedere un capitale di un milione ed una riserva di 500.000 lire; ma tutto il milione e mezzo è impiegato promiscuamente in macchine, edifici, scorte, fondo circolante ecc. ecc. Far diversamente è assurdo ed impossibile, come ogni industriale ben sa. Le riserve si accumulano dagli industriali prudenti appunto per allargare gli impianti, non mai per accantonarle oziosamente in qualche fondo speciale depositato in banca od investito in titoli;

 

  • perché in passato non fu lodevole l’opera di quelle società, le quali prevalentemente investirono le proprie riserve in titoli. Spesso ciò diede motivo a costituzioni di consorzi o sindacati, perché alcune società, acquistando titoli di altre, vennero a dominare su di esse ed a tiranneggiare il consumo. Non dico che si debba andare fino al punto da proibire, come fanno taluni legislatori, codesti investimenti. Sembrami certo però che neppure debbano essere incoraggiati;

 

  • perché nel momento presente può darsi che l’interesse generale esiga l’investimento di parte degli utili appunto per allargare gli impianti sociali. Il miglior impiego delle riserve può oggi essere l’estensione degli impianti per la produzione, ad esempio, delle forniture di guerra.

 

 

Il vincolo perciò si deve intendere rispetto alla distribuzione degli utili, non già rispetto al loro impiego. Questo deve essere lasciato libero ed insindacato agli amministratori delle società. Potrebbero costoro, per buonissime ragioni, essere anche contrari ad investire le riserve nella propria industria. Nessuna regola generale può essere dettata all’uopo. Dove l’interesse dell’impresa lo consigli si allargheranno, come si disse sopra, gli impianti; dove invece si preveda una crisi o restrizione di domanda o difficoltà avvenire, si terranno i denari disponibili. Giudici della convenienza di seguire l’una o l’altra via devono essere esclusivamente gli amministratori. Bisogna evitare di cadere, per volontà di conseguire il bene, nel male della manomorta e di una manomorta peggiorata, come sarebbe questa delle società commerciali.

 

 

Sarebbe, a tal fine, necessario che alla frase: fino a nuova disposizione, fosse sostituita l’altra: fino a tre o sei mesi dopo la conchiusione della pace. Io non voglio qui discutere, a proposito di un caso particolare, il problema generale della legislazione di guerra. Anche supponendo, cosa ben lontana dal vero, che la farraginosa legislazione europea attuale sia adatta al tempo di guerra; certa cosa è che la sua conservazione sarebbe perniciosissima in tempo di pace. Conservare il vincolo sugli utili in pace significherebbe affidare al ministero di agricoltura, industria e commercio il compito di decidere sul miglior impiego degli utili conseguiti dalle società commerciali. Chi conosca lo spirito dei funzionari del nostro e di tutti gli analoghi ministeri d’ogni paese, sa che ciò sarebbe un assurdo ed un danno gravissimo.

 

 

A crescere il grado di certezza che il vincolo sarà tolto al ritorno della pace, avrebbe giovato assai prorogare sino alla abolizione del vincolo stesso il pagamento dell’imposta sugli extraprofitti. Il che sarebbe logico; poiché il vincolo ha per iscopo di non depauperare le società di capitali di cui oggi potrebbero aver bisogno; motivo che vale anche per la quota del profitto assorbita dalla sovrimposta. In Germania, anzi, – e l’esempio può essere citato trattandosi di cosa assai ragionevole -, sottoposero a vincolo, lasciandola tuttavia a disposizione delle società, quella sola parte degli utili, che si prevede sarà assorbita dall’imposta sugli extraprofitti di guerra. Sarebbe questo un logico complemento di una norma contenuta nel decreto, che fu e doveva essere lodata da tutti: la esenzione dall’imposta di ricchezza mobile per le riserve speciali di guerra fino al giorno della loro distribuzione.

 

 

II

Il decreto sulla limitazione dei dividendi delle società continua a dar luogo a vivissime discussioni: il che non deve fare meraviglia se si riflette alla infinita varietà dei casi che è impossibile prevedere in un testo di legge. Alcune di queste discussioni parmi, però, potrebbero essere eliminate facilmente con una esplicita e rassicurante dichiarazione del governo; e sono quelle relative agli scopi del decreto. Il testo di questo ne adduceva uno solo: «La necessità di tutelare l’avvenire delle società commerciali, rafforzandone durante le eccezionali contingenze la condizione patrimoniale». Sarebbe bene che i funzionari del ministero di agricoltura, industria e commercio evitassero di accreditare altre spiegazioni, inammissibili ed assurde. Al corrispondente romano della «Perseveranza» un funzionario di quel ministero avrebbe invero addotto, oltre quella esplicitamente dichiarata nel decreto, due altre giustificazioni: il desiderio in primo luogo di garantire al fisco la esazione della imposta sui profitti di guerra; e la volontà di evitare in secondo luogo la vendita dei titoli del prestito nazionale che le società avessero sottoscritto.

 

 

Ho invocato, non molto tempo fa, la coscrizione dei competenti. Ecco qui un caso pratico, in cui sarebbe stato grandemente necessario che al ministero della economia nazionale vi fosse stato, invece di un funzionario evidentemente ignaro del mondo economico, un uomo pratico di società anonime e di borse. Un uomo pratico non avrebbe mai detto che, a garantire al fisco il pagamento della imposta sui sovraprofitti di guerra, occorra impedire la distribuzione degli utili ai soci. Fin da prima, per i principii generali del codice di commercio, nessun consiglio poteva proporre di ripartire come utili quelle che sono spese, e la imposta sui sovraprofitti è una vera e propria spesa nei rispetti dei soci. Ed il fisco non è forse in ogni caso largamente garantito da tutte le attività sociali e non gode di mezzi procedurali che gli danno una posizione di vero privilegio in confronto a tutti gli altri creditori?

 

 

Un uomo di borsa dal canto suo non avrebbe sicuramente detto l’altra eresia, che convenisse imporre l’accantonamento degli utili per impedire la vendita dei titoli del prestito nazionale eventualmente sottoscritti dalle società. Poiché dir questo, significa inavvertitamente togliere ai titoli di debito pubblico uno dei più bei pregi di cui essi si vantino: quello di potere essere ad ogni momento venduti a volontà del possessore. Se gli stati moderni riescono a collocare miliardi dai loro prestiti nazionali, pure in tempo di guerra, una delle cause più potenti è appunto la sicurezza dei sottoscrittori di potere liberamente vendere ciò che liberamente hanno comprato. Lasciate infiltrare nella mente dei risparmiatori l’idea che essi saranno costretti a tenere ciò che hanno comprato; e nessuno vorrà più comprare. Certamente l’on. Cavasola non è responsabile di ciò che forse ha detto qualcuno dei meno autorizzati emarginatori del suo ministero; ma non sarebbe male che in cose di così grave momento parlassero solo i responsabili ed i competenti. Non v’è nessuna ragione di divagare cercando motivazioni che sono assurde e, se fossero vere, sarebbero deleterie; quando il decreto chiaramente ed apertamente afferma che l’unico scopo suo è di tutelare l’avvenire delle società. L’accantonamento degli utili è voluto esclusivamente a beneficio delle società medesime. Si potrà discutere se il fine possa raggiungersi; o sia utile raggiungerlo. Ma quello, e non altro, è il fine. Il quale perciò esclude, come ho dimostrato nell’articolo precedente, ogni intervento dello stato nell’impiego delle riserve accantonate. Un intervento simile sarebbe impossibile praticamente, dannoso economicamente, di niun vantaggio allo stato e contradittorio perciò al fine unico che il decreto si propone.

 

 

Nei limiti in cui il decreto vuole operare, la sua applicazione non è certo facile. Converrà, se si vuole farlo funzionare, sciogliere le difficoltà per via di tentativi approssimati. Avevo insistito sulla necessità assoluta di aggiungere al capitale versato anche le riserve, per ragguagliare od emendare il dividendo ripartibile. Il prof. Antonio Scialoia vorrebbe invece, se possibile, dare l’8 per cento sul valore reale delle azioni. E ciò è anche più corretto di quanto proposi io, poiché il valore reale, che praticamente si vorrebbe dire valore medio (del 1915) di borsa o di stima delle azioni, comprende il capitale versato e tuttora esistente, le riserve parziali ed inoltre le riserve latenti e il valore d’avviamento, dovuto alla prudenza ed abilità degli amministratori e dei soci. Tutto ciò è vero e reale capitale produttivo ed operante; e tutto ciò è perfettamente corretto riceva un utile. Pensare diversamente vuol dire premiare le società imprevidenti e punire le sagge e bene amministrate. Il problema è assai discusso nei paesi nei quali lo stato credette opportuno intervenire non a limitare i dividendi – del che finora non si conosce alcun esempio di rilievo – ma a limitare le tariffe di vendita in relazione ai dividendi. Citerò il caso, forse il più istruttivo ed intorno a cui v’è una intera letteratura, che sarebbe bene non fosse ignorata dai funzionari del ministero di agricoltura, industria e commercio: quello delle ferrovie americane. La giurisprudenza della Interstate Commerce Commission è tutta imperniata sul concetto di concedere aumenti di tariffe ferroviarie o richiedere diminuzioni in funzione al rapporto esistente fra i redditi od i dividendi netti – e non mai il capitale versato, concetto privo di significato sostanziale – bensì il valore reale o di ricostruzione o di stima dell’impresa. Anche questa linea di condotta è tutt’altro che scevra di spinosità: ma ogni altra conduce necessariamente a risultati stridentemente contrari a giustizia.

 

 

Pur dopo avervi riflettuto, non mi sembra possibile che le società in cui è parte integrante o prevalente il lavoro – società in accomandita semplice e per azioni, società in nome collettivo, associazioni in partecipazione ecc. ecc. – possano applicare il decreto, secondo la sua generica attuale formulazione. È necessario e direi quasi urgente che intervenga un decreto esplicativo, il quale dica a che cosa si deve ragguagliare l’utile ripartibile, quando si tratta di remunerare non il capitale, ma il lavoro, come è il più grande e più importante numero dei casi di questa specie. Qui non si può procedere a base di percentuali, poiché il lavoro dell’uomo non ha sul mercato un valore capitale. Non sarebbe neppure equo dire: ripartasi l’utile uguale alla media dei tre anni precedenti. E se gli anni precedenti furono anni di magra? Dovrà chi lavorò dar fondo al resto del suo capitale privato od indebitarsi, quando sperava di mettere le cose sue in sesto coi redditi dell’azienda sua progrediente? Come – sia detto inoltre di passata – valutare legalmente gli utili per le società le quali sinora non avevano – e sono, immagino, la maggior parte – alcun obbligo legale di compilar bilanci?

 

 

Ma su un punto mi pare non sia consentito alcun dubbio. In quasi tutti gli statuti delle società per azioni ed in parecchi delle altre specie di società, è tassativamente prescritto che il cosidetto avanzo d’esercizio, ossia la somma risultante dalla detrazione di tutte le spese dagli incassi lordi, sia ripartito in una certa maniera, ad esempio:

 

 

%

Alla riserva ordinaria

5

Partecipazioni al consiglio, alla gerenza, agli impiegati, ai fondi Pensione, ecc. ecc.

15

Agli azionisti od ai soci

80

Totale

100

 

 

Lasciando impregiudicato il trattamento da farsi alla quota degli azionisti o dei soci, quando possa essere reputata quota di lavoro, una verità sembra sicura: che il decreto non riguarda le assegnazioni alle riserve ordinarie e le partecipazioni. Le società debbono, nella compilazione dei loro bilanci, seguire le consuete norme statutarie e, dopo avere dedotte tutte le spese, fra cui le imposte sui sovraprofitti di guerra, assegnare il 5% alla riserva ordinaria ed il 15 alle partecipazioni statutarie. Il decreto non impone alcuna deroga agli statuti sociali in tal materia: né avrebbe ragione di imporla. Le assegnazioni statutarie non sono toccate dal limite posto agli utili, perché o non si tratta di utili o non si tratta di utili spettanti alla società. Il 5% assegnato alla riserva statutaria è un accantonamento per provvedere a perdite future. Potrà darsi che, se in avvenire e per lunghi anni non si verificheranno perdite, le odierne assegnazioni diventino sul serio utili. Per ora sono una «spesa prevista».

 

 

Le «partecipazioni» ai consigli, ai gerenti, ai direttori, agli impiegati, ai fondi pensioni o soccorso sono un vero e proprio salario, convenuto, invece che in una somma fissa, in una percentuale dell’avanzo d’esercizio. È utile alle società, agli interessati, al paese intero che questa maniera di «salario» si diffonda per incitare i lavoratori, specialmente intellettuali e dirigenti, a prestare la loro opera con zelo, con amore, con iniziativa produttrice. Così si potesse applicare lo stesso metodo di «salario» agli impiegati pubblici! Quanto non aumenterebbe il loro rendimento! Qualunque sia però la forma data al «salario», quelle partecipazioni sono e rimangono vero e proprio «salario» o «compenso» di lavoro. Non sono roba della società, sibbene degli interessati; i quali vi hanno diritto per statuto o per contratto; ed hanno rinunciato a tutto o parte dello stipendio fisso che loro sarebbe spettato, per ricevere una remunerazione oscillante a seconda dei risultati dell’azienda. Nessuna società può esimersi dall’attribuire il 15 od il 10 od il 20 o 25% promesso alle interessenze, sia pure per versarne parte ad una «riserva speciale di ammortamento o di rispetto». Sarebbe un volersi appropriare la roba d’altri. E quelle partecipazioni debbono essere pagate agli aventi diritto senza alcun fermo.

 

 

È vero che in tal modo, se il 15 o 20 o 25% di partecipazioni resulta nel 1915 vistoso più che l’ordinario, gli interessati otterranno un «salario» maggiore del solito. Ed è vero che si potrebbe anche per costoro invocare la ragione della prudenza e della necessità del risparmio, così come si fece per le società. Ma trattasi di problemi distinti. Non sembra un metodo corretto per costringere i salariati dirigenti al risparmio, l’attribuire la roba loro ingiustamente ad un fondo di spettanza delle società. E se la società in seguito fallisse o consumasse, per una crisi, i suoi fondi di riserva, dove finirebbero i risparmi obbligatori dei dirigenti ed altri salariati?

 

 

Se a costoro si vorrà inculcare obbligatoriamente la necessità del risparmio, altra dovrà essere la via. Io non so quale questa via possa essere; ma, in stretta giustizia, occorrerebbe una legislazione diversa, la quale dovrebbe comprendere non il solo caso dei salariati in somma variabile, ma anche i salariati fissi, come i sovrastanti, gli operai, i quali abbiano veduto aumentare, come accadde alla maggior parte dei lavoratori nelle industrie favorite dalla guerra, di percentuali cospicue i loro salari ed anche i professionisti, i commercianti e gli industriali privati di cui fossero aumentati i redditi incerti.

 

 

Non credo che siffatto risparmio obbligatorio sia possibile od utile: ed il magnifico risultato del prestito nazionale in corso dimostra quanto più sia fecondo il metodo del risparmio libero. È chiaro tuttavia che, se si vuole rendere obbligatorio il risparmio, importa applicare ad ogni gruppo di percettori di sovraredditi metodi adeguati alla natura del reddito e perequati fra di loro.

 

 

III

Il decreto 7 febbraio 1916 sulla limitazione dei dividendi ha dato luogo recentemente ad appassionati dibattiti; ha provocato un nuovo decreto del 3 settembre e forse ne provocherà altri, che da varie parti, in senso diverso, già si invocano. Poiché si tratta di un problema, la cui soluzione buona o cattiva può avere conseguenze di incalcolabile portata per il nostro paese, è doveroso esprimere in proposito un’opinione, la quale sia inspirata unicamente all’interesse generale.

 

 

Risolvere in modo soddisfacente il problema dei lucri cagionati dalla guerra è certo grandemente difficile. I più credono di avere reso ossequio al sentimento di dolore e di repugnanza che ognuno prova contrastando il sacrificio di vita dei nostri combattenti con l’arricchimento, il lusso e lo spreco talvolta sfarzoso di altri, affermando che lo stato dovrebbe impedire assolutamente che alcuno ricavasse un prolitto pecuniario dalla guerra. In pratica però questo desiderio ha trovato esclusivamente attuazione in leggi speciali rivolte a tassare i sovraprofitti industriali e commerciali ed a costituire un vincolo ai sovraprofitti, residui dopo la tassazione, delle società commerciali (o meglio delle sole società per azioni). Sembra a me che il problema sia così stato posto su un terreno troppo ristretto e che la legislazione, la quale ne conseguì, si sia perciò chiarita sotto parecchi rispetti affrettata e sperequata.

 

 

Innanzitutto affrettata. Non si è posto mente dai più che la guerra aveva elevato siffattamente il livello dei prezzi che molti redditi e guadagni, i quali paiono aumentati del 20 o 25%, in realtà sono le medesime quantità di prima. L’operaio, il quale guadagnava prima 5 lire e guadagna ora 6 lire, il capitalista, il quale prima imprestava denaro allo stato od a privati al 4% ed ora lo impresta al 5%, l’industriale, il quale guadagnava 100.000 lire ed ora guadagna 120.000 lire, godono di un effettivo, reale sovrareddito di guerra? No, perché le 6 lire di salario, le 5 lire di interesse, le 120.000 lire di profitto industriale valgono ora precisamente quanto prima valevano le 5, le 4 e le 100.000 lire. Essi hanno un reddito nominalmente maggiore, sostanzialmente uguale, e con esso si procurano le medesime quantità di merci e di soddisfazioni che prima ottenevano con una minor massa di moneta. Per potere identificare un reddito di guerra vero e proprio, farebbe d’uopo ridurre il reddito attuale di una percentuale uguale al disaggio della carta monetata. Non è la sola correzione necessaria, ma la più importante, alla quale spesso non si riflette.

 

 

L’azione governativa fu anche affrettata in un altro senso: che non fu e dapprincipio non poteva forse non essere un’azione coordinata dei vari dicasteri che in Italia si occuparono dell’argomento. Il ministero delle finanze disse: colpiamo con un’imposta straordinaria i sovraprofitti di guerra.

 

 

Il ministero dell’agricoltura, industria e commercio aggiunse: vincoliamo, con un accantonamento speciale, i sovraprofitti rimasti alle società commerciali, dopo il prelievo dell’imposta, in guisa che non vadano dispersi.

 

 

Il ministero della guerra, quello della marina, il servizio degli approvvigionamenti dello stesso dicastero di agricoltura e gli innumeri altri uffici che acquistano roba per lo stato, rifletterono: poiché, se anche noi paghiamo troppo care le merci acquistate in Italia per conto dello stato, vi sarà il ministero delle finanze, il quale provvederà a tassare il guadagno eccezionale del produttore e del fornitore e vi sarà il ministero d’agricoltura pronto a mettere il divieto alla distribuzione dei residui utili, in guisa che il governo potrà, al ritorno della pace, impadronirsene nuovamente, non val la pena di litigare sul centesimo nelle forniture. Paghiamo; e poi altri penserà a ripigliare ciò che noi avremo dato di troppo.

 

 

Ragionamento che io non mi meraviglierei di sapere sia stato fatto da qualcuno; ma che a me pare di un estremo pericolo. Il primo, più serio, più onesto ed efficace modo di impedire la formazione di eccezionali sovraprofitti di guerra è di non lasciarli formare per incompetenza, leggerezza e lasciar correre dei funzionari nel fare acquisti e contratti per conto dello stato. Taluno ha negato l’efficacia di questo metodo. A torto. Bastò che al War Office (ministero della guerra) inglese cambiassero metodi di acquisto, e vi preponessero uomini tecnici del mestiere, perché si realizzassero economie stupende; ed una recente relazione parlamentare inglese constata che il War Office pagò, ancor non è molto, prezzi assai minori di quelli che contemporaneamente pagava l’ammiragliato.

 

 

Io non so se in Italia sia accaduta la stessa cosa; ma sembrami certo che con il metodo, con la competenza, con la organizzazione si possono risparmiare allo stato molti più milioni di quanti si possa sperare di riguadagnare poi con la tassazione. Credo che in Italia parecchio sia fatto su tal via; ma ogni sforzo ulteriore sarà meritorio e fecondo. Più meritorio e fecondo di qualunque sforzo tassatore; poiché il primo dovere dell’amministratore è di spendere bene, con rigore il denaro affidatogli dal pubblico. Nessun bilancio pubblico, come nessun bilancio privato, può resistere alla larghezza nello spendere. Chi guadagna o tassa molto, ma spende malamente, va in rovina. Chi spende con giudizio, prospera ed arricchisce, anche se i guadagni sono scarsi.

 

 

I metodi adottati furono sperequati. L’imposta italiana sui sovraprofitti di guerra fu, a parer mio, un perfezionamento dell’analoga inglese, la sola applicata nel momento in cui l’imposta italiana veniva alla luce. L’imposta inglese colpiva col 50%, ora col 60%, tutti i sovraprofitti. Era un errore, poiché altro è un sovraprofitto di guerra, il quale aggiunge appena un 2 od un 3% al profitto ordinario, altro è quello che vi aggiunge il 5, il 10 od il 20% e più. Una piccola aggiunta non deve essere presa in considerazione, perché può essere una di quelle ordinarie e frequenti oscillazioni in più od in meno che si verificano ad ogni momento nelle imprese industriali, anche senza intervento della guerra. Perciò ben fece il legislatore italiano ad esentare le piccole percentuali di sovraprofitto ed a tassare progressivamente le percentuali maggiori. E l’opera sua fu imitata in Francia, in Spagna ed in parecchi altri paesi, che istituirono in seguito l’imposta sui sovraprofitti di guerra.

 

 

Mentre tale carattere dell’imposta italiana deve essere mantenuto, sembra a me che ora si possa riflettere se non convenga tener conto di un altro elemento. Sarebbe una complicazione dell’assetto dell’imposta; ma, dato l’intrico moderno del meccanismo economico, è fatale che le imposte moderne, rimanendo sempre chiare e corrette, debbano diventare più complesse di quelle antiche.

 

 

L’elemento di cui si dovrebbe tener conto è il rapporto del sovraprofitto di guerra all’importanza degli affari fatti. Tizio guadagna un milione, e Caio 10.000 lire in più di prima per causa della guerra. Se il capitale di Tizio è di un milione e quello di Caio di 100.000 lire, il primo avrà guadagnato il 100% ed il secondo solo il 10% in più di prima. Per la ragione detta sopra, Tizio deve essere tassato più di Caio. Ma può darsi che per un’altra ragione Caio debba essere tassato maggiormente. Supponiamo che Tizio abbia guadagnato un milione in più vendendo allo stato 20 milioni di munizioni o di panni. Egli ha ottenuto un guadagno del 5% sull’importo della fattura. Caio invece, pur guadagnando solo 10.000 lire più del solito, ha ottenuto il guadagno con una fornitura di appena 20.000 lire. il suo guadagno giunge al 50% della fornitura fatta.

 

 

Chi dei due dovrebbe, sotto questo rispetto, pagare di più? Non ho dubbio che la maggioranza dei lettori avrà la sensazione che Caio debba essere tassato maggiormente sebbene il suo guadagno sia di sole 10.000 lire, in confronto al milione di Tizio, perché egli lucrò il 50% sul prezzo della merce venduta, mentre Tizio si limitò a guadagnare il 5%. L’idea è grezza, poiché si dovrebbe tener conto di altri elementi: costo di produzione, capitale e intelligenza impiegati, ecc. ecc.; ma quanto ho detto basta a far concludere che non sempre i guadagni di guerra meritevoli di maggiore tassazione siano quelli grossi. Talvolta i guadagni piccoli sono ancora più urtanti e, perciò, meritevoli di tassazione secondo il sentimento di giustizia più diffuso nella collettività.

 

 

Né questa è la sola sperequazione esistente. Citerò la sperequazione di fatto esistente tra società per azioni da una parte, e società in accomandita semplice, in nome collettivo, industriali e commercianti privati dall’altra. Amendue pagano nominalmente le medesime aliquote di imposta sui sovraprofitti. In realtà le società per azioni, che debbono compilar bilanci e non possono fare a meno di tenere altri libri, pagano assai più di industriali, commercianti ed intermediari privati, i quali non hanno l’obbligo di compilar bilanci e talvolta si sono scordati di tenere i libri prescritti dal codice di commercio. Chi può obbligare un commerciante, il quale non ha timore di fallire, a tenere i libri od a ricordarsi che i suoi contabili li tengono? Sembra a me perciò che il baccano da taluni sollevato contro le grandi società per azioni, le quali pagano, sia scorretto e sia in taluni deputati la conseguenza di deplorevoli condiscendenze elettorali, le quali fanno chiudere gli occhi dinanzi alle frodi fiscali dei loro elettori, mentre li inducono a gridare contro coloro che, sia pure senza merito e per forza, sono ossequenti alla legge.

 

 

Né rimango meno turbato quando sento dire che una più forte imposta sui profitti di guerra è necessaria per togliere il contrasto fra l’industria che si arricchisce e l’agricoltura che si impoverisce. Taluno, inconsultamente, parla anche di contrasto fra il nord industriale ed il sud agricolo. Rimango, sovratutto, turbato nella mia coscienza di piccolo agricoltore-viticoltore. Noi agricoltori non abbiamo bisogno, anzi respingiamo vivamente il patronato di chi vuol dimostrarci che noi siamo gli sfruttati della guerra e dobbiamo essere indennizzati con enormi imposte sui sovraprofitti industriali. L’agricoltura non ha d’uopo di alcun privilegio. Posto il problema su questo terreno, io ritengo sia dovere strettissimo degli agricoltori di chiedere che l’imposta sui sovraprofitti di guerra sia estesa anche a quelli che ne sono finora esenti: ai proprietari che dirigono in economia o con contratti di mezzeria o colonia parziaria i loro terreni. Si applichino pure esenzioni larghe, e non si faccia rimontare l’imposta al passato remoto. Si tolga anche ogni retroattività. Ma non v’è ragione alcuna per cui Tizio, industriale, paghi su 10.000 lire di sovraprofitto di guerra e Caio, agricoltore, il quale ha venduto o venderà il grano a 35 lire invece che a 20-25, il vino a 60-100 lire l’ettolitro invece che a 20-40, ed il bestiame a 150-200 lire il quintale invece che ad 80-100, ed ha perciò ottenuto un maggior reddito straordinario di 20.000 lire, non paghi nulla. Qui non v’è nessun sofisma di auto-rappresentante degli interessi agricoli che tenga. L’unico criterio per decidere è il criterio di fatto: esiste o non esiste in quel caso singolo il sovraprofitto di guerra?

 

 

Epperciò l’imposta sui sovraprofitti di guerra dovrebbe essere estesa a tutte le categorie di contribuenti; ai proprietari di terreni, ai professionisti, agli impiegati e salariati oltre il limite di esenzione. In questo campo la esenzione è un privilegio; epperciò è scorretta ed intollerabile.

 

 

IV

I decreti del 7 febbraio e del 3 settembre 1916, da cui avevo preso le mosse nel precedente articolo per esporre alcune considerazioni generali sulla necessità di limitare, innanzi al loro nascere, i sovraprofitti di guerra e sulla loro susseguente tassazione, non riguardano però la tassazione. Essi invece, come è noto, hanno per iscopo di obbligare le società commerciali di qualunque specie ad accantonare – con divieto assoluto di ripartizione agli azionisti – gli utili superiori all’8% del capitale versato od alla media dei tre ultimi dividendi di pace.

 

 

Non intendo ridiscutere qui tutti i problemi sollevati da questi decreti, che in parte ho già esaminato («Corriere della sera» del 15 e del 24 febbraio); ma solo di esporre i termini di alcuni di essi, che recentemente formarono oggetto di dibattito. Non mi tratterrò intorno alla interpretazione letterale del testo del decreto 7 febbraio. Come è loro costume, i giuristi si sono divertiti ad affermare che l’autore del decreto, on. Cavasola, giurista egli stesso, aveva avuto torto nell’interpretare il decreto da lui elaborato nel senso che le società potessero devolvere gli utili eccedenti l’8% o la media triennale più recente ad aumento di capitale piuttostoché a riserva speciale di ammortamento e di rispetto. È presumibile che l’on. Cavasola conoscesse meglio dei commentatori il significato delle parole da lui scritte: ma i commentatori non hanno forse torto nel dire che le spiegazioni postume degli autori delle leggi non hanno valore e che ciò che unicamente conta è il testo della legge. Ed il testo parla letteralmente di mandare a riserva e non ad aumento di capitale.

 

 

A me sembra che l’opinione dell’on. Cavasola sia la più ragionevole; ma la disputa, ridotta a questo punto, non ha alcuna importanza sostanziale. Oramai i decreti luogotenenziali si fabbricano con tanta facilità, che si può bene invocare un nuovo decreto, il quale chiaramente ed esplicitamente riaffermi e spieghi, sulla base delle intervenute discussioni, il pensiero reale del legislatore. Ho già avuto occasione di notare su queste colonne le manchevolezze e le oscurità del decreto del 7 febbraio; ed altri ha già largamente ancora dimostrato la necessita di una revisione. Importa soltanto che la revisione avvenga in meglio e non in peggio.

 

 

Quali sono dunque i problemi non formali ma sostanziali che nuovamente sono stati posti? Sono parecchi; ma il fondamentale è quello dello scopo voluto dal legislatore.

 

 

In realtà non parrebbe che a questo riguardo potesse sorgere alcun dubbio. Decretando che le società non potessero ripartire dividendi superiori all’8% od alla media dei tre ultimi dividendi di pace, il legislatore fu mosso dalla «necessità di tutelare l’avvenire delle società commerciali, rafforzandone, durante le eccezionali contingenze, la condizione patrimoniale». Queste sono le testuali parole del decreto 7 febbraio: e queste parole testuali l’on. Cavasola confermava in un telegramma del 26 febbraio al «Corriere della sera» in risposta ad un articolo, in cui io esponevo la necessità di dissipare preoccupazioni sorte nell’animo di molti, dichiarando «nel modo più esplicito ed assoluto che il decreto del 7 febbraio non ha avuto e non ha alcuna finalità diversa né più estesa di quella apertamente affermata nel testo del decreto stesso».

 

 

Su questo punto dunque ogni dubbio parrebbe impossibile. La lettera del decreto e la dichiarazione successiva del ministro concordi affermano che si volle vietare la ripartizione di dividendi giudicati troppo alti allo scopo di rafforzare la consistenza patrimoniale delle società. Siamo nel caso di un giudizio pubblico intorno a ciò che è la convenienza dei privati. Il legislatore ha ritenuto che fosse interesse pubblico di impedire che gli utili eccezionali conseguiti durante gli anni di guerra fossero frazionati tra gli azionisti e fosse invece necessario serbarli nel patrimonio sociale. Questo e non altro fu l’intento del legislatore.

 

 

Oggi però è sorta una nuova tendenza, la quale vorrebbe che l’accantonamento degli utili eccezionali non avesse questo unico scopo. Lo stato dovrebbe avere la facoltà, a guerra finita, di devolvere le somme accantonate a quello scopo che ad esso sembrerà più opportuno. Se le imprese industriali saranno in crisi, le somme accantonate potranno essere loro lasciate; ovvero potranno essere prelevate in tutto od in parte a favore di altre imprese dibattentisi in distrette economiche, ovvero ancora avocate a favore del tesoro dello stato, a titolo di imposta, ovvero finalmente destinate all’acquisto di titoli di debito pubblico. Altri usi degli accantonamenti potrebbero inoltre essere immaginati.

 

 

Non mi sembra dubbio che questa nuova tendenza sia in contrasto con l’intenzione netta, recisa ed esplicita del legislatore del 7 febbraio, il cui unico scopo fu: rafforzare la compagine economica delle società. Ma debbo riconoscere subito che se la nuova tendenza fosse ragionevole e conveniente all’interesse pubblico, bene farebbe il legislatore ad accoglierla. Essa è in contrasto reciso con la legge vigente; ma nulla vieta che, se un’idea è buona, venga accolta da un nuovo decreto legislativo.

 

 

Purtroppo l’idea non solo è cattiva ma è pessima. Anzi la parola «pessima» è inadatta ad esprimere il giudizio severo di condanna che merita l’idea dell’accantonamento degli utili a scopi incerti da determinarsi in un tempo futuro.

 

 

Badisi che, così dicendo, non dico che le società non debbano contribuire con gli utili eccezionali di guerra al raggiungimento di fini pubblici. Le due questioni sono nettamente distinte.

 

 

Una società ha lucrato un milione di utili di guerra, i quali, in virtù del decreto 7 febbraio, non possono essere ripartiti? Io non affermo che tutto il milione debba rimanere alla società. Oggi la società già deve pagare una imposta sui sovraprofitti di guerra, la quale può giungere al 35%; ed inoltre resta in debito dell’imposta di ricchezza mobile che ammonta ad un altro ed ancora può eventualmente essere costretta a pagare centesimi di guerra sulle fatture governative, tasse di registro e tasse di negoziazioni, ed altre imposte, le quali insieme possono giungere a percentuali ragguardevoli.

 

 

Già oggi, secondo la legislazione vigente, su quel milione la società deve pagare, senza oramai alcuna possibilità di frode, né con liquidazioni anticipate, né con aumenti di capitali, né con qualsivoglia altro immaginabile accorgimento, da 300.000 lire al minimo ad un massimo di forse 700.000 lire; cosicché gli utili residui netti per la società si riducono bene al disotto del milione iniziale. Se questo non basta, si aumentino le aliquote. Economicamente, aumentare aliquote già altissime, è un errore. Ma se ciò è necessario a scopi di pacificazione sociale, si aumentino. Si faccia pure in modo che, tenendo conto di tutte le imposte vigenti, i sovraprofitti di guerra siano tassati al minimo, quando essi sono una bassa percentuale del capitale impiegato o degli affari fatti, col 50% ed al massimo col 75 o coll’80%, quando essi sono una percentuale alta del capitale impiegato o degli affari fatti. Avremo così le aliquote più elevate del mondo in questo campo; e non sarà un primato utile agli interessi veri del paese per il dopo guerra, quando le imprese dei paesi belligeranti dovranno lottare con le imprese arricchite ed agguerrite dei paesi neutrali. Sempre meglio però il 50, il 75 o l’80% della incertezza intorno alla sorte degli accantonamenti, che sarebbe la conseguenza del prevalere della nuova tendenza.

 

 

La tesi mia è chiara nell’interesse generale conviene piuttosto tassare molto e lasciare le società padrone sicure del poco residuo; piuttosto che tassarle più lievemente ma farle rimanere nell’incertezza intorno a quel di più che provvisoriamente è loro lasciato. Provo una vera stretta al cuore ad essere obbligato a difendere, anzi a semplicemente affermare una tesi, la quale dovrebbe essere pacifica e riconosciuta da tutti. L’altro giorno ho dovuto citare Alessandro Manzoni, per invocare un po’ di tregua all’inondazione malsana di divieti, calmieri, comminatorie di prefetti e sindaci intorno alle derrate alimentari. Oggi mi sia concesso di citare il padre della scienza economica, Adamo Smith, il quale nel 1776 esponeva quattro celebri regole della finanza, che noi insegnanti ogni anno a scuola esponiamo come quelle che, osservate, distinguono la finanza dei paesi civili dalla finanza dei paesi barbari. Dice una di queste regole che le imposte devono essere sicure e certe; che i contribuenti debbono cioè conoscere preventivamente quali e quante imposte pagheranno. L’incertezza nell’imposta: ecco la caratteristica dei paesi barbari, decadenti, della Turchia di Abdul Hamid, della Cina dei mandarini, della Francia degli appaltatori generali di prima del 1789, dell’impero romano della decadenza. La certezza dell’imposta: ecco l’indice dei paesi civili e risorgenti. Mirabeau padre ha una descrizione, classica, raccapricciante della miseria atroce del contadino francese nel secolo XVIII. Impossibile leggerlo senza fremere. Quale la causa di quella miseria. Principalissima, forse unica: l’incertezza nelle imposte a lui estorte. Nessuno ara il campo, su cui non sa se potrà mietere almeno una piccola parte del raccolto.

 

 

Non so se i fautori della tendenza la quale vuole lasciare pendere, come una spada di Damocle, sulle società industriali di qualunque specie la prospettiva di dover pagare, oltre al 30-70% che già sanno di dover pagare, un’altra quantità indefinita, alla fine della guerra, abbiano riflettuto alle conseguenze della loro proposta. Sono fermamente sicuro di no, poiché è troppo viva in tutti gli italiani la preoccupazione della lotta per la difesa e per la vittoria che stiamo combattendo.

 

 

Questa preoccupazione mi fa ritenere che sarebbe meglio persino prelevare subito il 100% dei sovraprofitti di guerra piuttostoché lasciare gli imprenditori nell’incertezza intorno alla loro sorte finale. Se invero lo stato preleva tutto, se ne potrà servire per fare esso quegli impianti industriali, quelle compere di macchine e di materie prime che sono necessarie per la condotta della guerra. Una imposta del 100% produrrebbe il danno gravissimo di togliere l’incitamento a lavorare meglio e più, che è necessario per spingere la maggior parte degli industriali, dei commercianti e degli operai a prestare la loro collaborazione con fervore ai ministeri militari. finché gli uomini non saranno mossi soltanto da ragioni ideali, ma sono spinti anche dal desiderio del guadagno, fa d’uopo lasciar ad essi un margine di lucro. Epperciò una imposta del 100% non è pensabile. Ma sarebbe pur sempre migliore dell’incertezza; poiché, almeno, ripeto, i sovraprofitti prodotti in passato potrebbero essere impiegati dallo stato nella produzione diretta delle munizioni, delle armi, dei vestiti. Mentre, in regime di incertezza, quale società e quale imprenditore potrà osare di destinare i suoi utili accantonati ad impianti nuovi, a compere di macchine e di materie prime? Un imprenditore, a cui su un milione lo stato provvisoriamente lascia 500.000 lire da accantonarsi – il resto è assorbito dalle imposte vigenti – sarebbe pazzo se le impiegasse in impianti. Come potrebbe egli pagare le 500.000 lire di nuove imposte retroattive che al legislatore dell’avvenire potrà piacere di fargli pagare? Venderà l’impianto? Ma con quale deprezzamento? Venderà le macchine? Con prezzi di ferro rotto non si pagano le imposte. Quindi impossibilità di utilizzare gli utili accantonati; ritorno a sistemi di tesoreggiamento e di manomorta, che si ritenevano tramontati per sempre.

 

 

Né a caso ho parlato sopra di «imprenditori». La questione non riguarda invero le sole società per azioni. Secondo il decreto del 7 febbraio tutte le società commerciali, anche in semplice nome collettivo, le cooperative, devono eseguire gli accantonamenti. Secondo giustizia, la stessa cosa dovrebbero fare gli industriali privati, i proprietari di terreni, gli affittavoli che hanno venduto il grano ed il vino a prezzi di guerra, con relativi sovraprofitti di guerra, i professionisti che hanno patrocinato liti lucrose collo stato, gli operai che guadagnano salari, i quali sarebbe stato follia sperare alcuni anni fa, tutti dovrebbero essere costretti agli accantonamenti. Se l’accantonamento deve farsi non per rafforzare le società, come vuole il decreto del 7 febbraio, ma in vista di una futura imposizione, diventa uno scandalo senza nome che esso sia imposto alle sole società. L’imposta deve essere uguale per tutti coloro che si trovano nelle medesime condizioni. Siano società od individui privati, tutti devono pagare l’imposta oltre l’8% e tutti debbono tenersi pronti, con l’accantonamento, a pagare l’imposta incerta che sarà forse voluta dal legislatore dell’avvenire. Ma questo universale obbligo, che pure sarebbe di strettissima giustizia, chi non vede come renderebbe in ogni tempo impossibile lo svolgersi della vita economica e come oggi riuscirebbe fatale per la continua, persistente, crescente intensificazione della produzione bellica?

 

 

V

Ho dimostrato nel precedente articolo come l’imposta sui profitti di guerra possa essere alta, ma debba essere certa e definita; e come sul resto, non assorbito oggi dall’imposta, non sia nell’interesse generale collettivo utile far gravare un vincolo a scopo incerto, da determinarsi in futuro. Si prelevi il 50, il 60, il 70%, sul profitto di guerra; ma il resto sia riconosciuto in modo esplicito e tassativo essere di spettanza delle società e degli imprenditori che lo hanno guadagnato.

 

 

Questa sicurezza è, giova notarlo di passata, nello stesso immediato interesse del fisco. Tutto il gran vociferare che si è fatto intorno alle imposte future, le quali dovranno colpire gli attuali accantonamenti di utili, sta producendo un effetto disastroso: impoverisce i bilanci delle società. Gli amministratori, impauriti, svalutano le attività, i macchinari, le scorte, crescono le insolvenze e riducono l’utile in guisa da farlo figurare appena appena sufficiente a pagare l’8% di cui è consentita la ripartizione agli azionisti. La finanza perde così talvolta la possibilità di applicare quella imposta sui sovraprofitti, che in condizioni di animo diverse sarebbe stato facile riscuotere. Anche questa è storia vecchia. I tuguri orrendi dei contadini francesi del 700 descritti da Mirabeau padre contenevano talvolta qualche gruzzolo e qualche comodità; ma tutto era nascosto sotto terra o sotto botole invisibili, affinché il gabelliere comparso improvvisamente vedesse solo lo spettacolo della inopia più nuda.

 

 

Di passata noterò ancora che le vociferazioni intorno alla necessità di lasciare in sospeso la sorte degli utili accantonati, oltre a fare scomparire d’ora innanzi nelle pieghe dei bilanci questi utili, ha prodotto e produrrà meglio in avvenire l’accentuarsi della speculazione di borsa. Coloro, i quali affermano che il lasciare gli utili, dopo il prelievo dell’imposta, in libera spettanza di chi li ha guadagnati favorisce la speculazione di borsa sulle azioni, non sanno quel che si dicono. È noto ed è ovvio che non si specula sul certo, ma sull’incerto. Quando si sa che gli utili accantonati sono, dopo il prelievo di 50 lire di imposta, di residue 50 lire per azione, l’azione aumenta di 50 lire e poi resta ferma.

 

 

Manca la materia della speculazione. Se invece si dubita se, dopo l’imposta attuale, la quale ha già ridotto gli utili da 100 a 50 lire, una futura imposta ridurrà, sì o no ancora gli utili a 40, 30, 20, 10 o zero, si offre il destro alla speculazione per intervenire. Ad ogni stormir di foglie, ad ogni cambiamento di ministero, ad ogni campagna di giornali i titoli vanno su e giù. Gli azionisti piglian paura e vendono la roba buona; gli speculatori affibbiano la merce cattiva ai gonzi. La incertezza è il terriccio fecondo dove prospera rigogliosa la speculazione.

 

 

Fermato questo punto, e dimostrato che, ad esempio, il 50% residuo dopo il prelievo dell’imposta deve essere, nell’interesse pubblico, riconosciuto, come avevano esplicitamente dichiarato il decreto del 7 febbraio ed il suo autore, on. Cavasola, di esclusiva spettanza delle società, rimane il quesito: come deve essere espresso il vincolo temporaneo su di essi, allo scopo di vietarne la ripartizione tra azionisti e soci?

 

 

Il vincolo deve essere espresso nel modo più semplice, senza aggiunte inutili, sicché il decreto si limiti a dire che per un dato tempo, da fissarsi nel decreto stesso, sino, ad esempio, ad un anno dopo la pace, le società non possano ripartire l’eccedenza oltre l’8 od il 10% od oltre la media triennale.

 

 

E basta lì. Ogni aggiunta è inutile e perniciosa.

 

 

Siamo d’accordo tutti nel ritenere che sarebbe perniciosa l’aggiunta, la quale ordinasse di impiegare gli utili colpiti da serrata piuttosto in un modo che in un altro, in titoli di stato piuttosto che in macchine, in macchine piuttosto che in edifici. Tutti sono d’accordo nel ritenere che l’impiego più conveniente degli utili serrati non possa essere ordinato con una regola generale; ma dipende da circostanze particolari, le quali debbono essere apprezzate caso per caso dagli amministratori e non possono essere immaginate preventivamente dal compilatore di un decreto. Notisi però, che, accettando concordi questa tesi, si è implicitamente accettata la dimostrazione delle necessità di non lasciare incertezze intorno alle proprietà degli utili residuali dopo il pagamento dell’imposta. Ho già detto infatti che l’incertezza impedisce l’impiego degli utili in macchine, in impianti, in acquisti di scorte, ed equivale all’ordine assoluto di depositare gli utili stessi all’1,50% in conto corrente alla Banca d’Italia, ed alla necessità di ottenere a prestito d’altra parte al 6, al 7 od all’8% e più le somme necessarie per gli ampliamenti urgentemente richiesti dallo stato di guerra.

 

 

Si disputa invece se convenga consentire che gli utili serrati debbano essere mandati ad aumento di capitale piuttostoché alla cosidetta «riserva speciale di accantonamento e di rispetto». Confesso di non essere riuscito a comprendere il fondamento dei lunghi dibattiti sorti su questo punto. Immaginiamo un bilancio tipico di una società, ridotto alla sua più semplice espressione. In un primo momento, al 31 dicembre, si ha:

 

 

Attivo

Passivo

Impianti, macchine, scorte, crediti, ecc.

L. 10.000.000

Capitale

L. 10.000.000

Denaro contante accantonato per il pagamento delle imposte

3.000.000

Imposte normali e di guerra

800.000

Denaro contante liquido

2.800.000

Utile normale ripartibile

3.000.000

 

Utile di guerra da accantonare

2.000.000

Totale

15.800.000

Totale

15.800.000

 

 

Durante l’anno successivo, dopo che furono pagate le imposte,e furono ripartite tra gli azionisti le 800.000 lire di utile normale, e dopo che i 2 milioni di utili serrati furono investiti in nuovi impianti, macchine, ecc., sorge il dubbio intorno al modo con cui si debbano scrivere le cifre nella parte passiva. Gli interessati, e cioè gli azionisti e gli amministratori, deliberano di portare, come consentiva una risposta scritta dell’on. Cavasola, i 2 milioni ad aumento di capitale. Il bilancio si presenta così:

 

 

Attivo

Passivo

Impianti, macchine, scorte, crediti

L. 12.000.000

Capitale

L. 12.000.000

 

 

La maggior parte dei tribunali omologa la deliberazione. Ma deputati e giornali insorgono e vogliono che il bilancio sia scritto così:

 

 

Attivo

Passivo

Impianti, macchine, scorte, crediti, ecc.

L. 12.000.000

Capitale

L. 10.000.000

  Riserva speciale di ammortamento e di rispetto

2.000.000

Totale

12.000.000

Totale

12.000.000

 

 

Gli obiettanti affermano di non essere mossi dal desiderio di intervenire, non richiesti, nelle scritturazioni altrui; ma da gravi motivi. Se li ho ben capiti, sarebbero i seguenti:

 

 

  • Mandar le somme a capitale non è consentito dal decreto 7 febbraio. Ho già detto che, sebbene l’autore della legge fosse d’altro parere, la questione non ha sostanziale importanza. Un nuovo decreto può spiegarsi meglio.
  • Mandar le somme ad aumento di capitale mette lo stato nella impossibilità legale o morale di prelevare per suo conto, finita la guerra, in tutto od in parte i 2 milioni di utili oggi serrati.

 

 

La obiezione cade, quando si sia persuasi, come io sono, e come parmi di aver dimostrato che nulla di più deleterio si può immaginare di una imposta incerta e futura. Io comprendo che nel primo momento, al 31 dicembre, fosse risaputo che la società doveva pagare, invece di 3 milioni, 4 od anche 5 milioni di imposte così da rimanere con le sole 800.000 lire di utili normali; ma ritengo dannoso all’interesse generale che la sorte di 2 milioni sia lasciata in sospeso.

 

 

Se si vuole il danno, se si vuole l’incertezza, se si vuole l’ostacolo alla preparazione bellica, l’imputazione dei 2 milioni a capitale non sarà un impedimento. Lo stato potrà sempre pretendere i 2 milioni. Nessun ostacolo sorgerà per il fatto che i 2 milioni siano scritti in un modo piuttostoché in un altro. Una deliberazione di più degli azionisti, che riduce il capitale da 12 a 10 milioni, una omologazione di più del tribunale; ed ecco tolto ogni ostacolo legale. Moralmente, nessun legislatore fiscale mai si è interessato del modo con cui piaceva agli amministratori di una società di scrivere il proprio bilancio. Conosco bilanci di società in cui i redditi netti sono chiamati «sbilanci» ed hanno l’aria di essere perdite; e ciò non ha mai impedito e non impedirà fino alla consumazione dei secoli agli agenti delle imposte di accertare ed agli esattori di esigere le dovute imposte. Parlare di ostacoli legali o morali alla esazione delle imposte, traendo argomento dal modo di scritturazione di bilanci, è un perdere tempo oziosamente. Può darsi che vi siano stati amministratori ingenui, che, impauriti dal timore delle imposte incerte future, hanno creduto di salvarsi mandando gli utili serrati ad aumento di capitale; ma se così fu, quegli amministratori vanno messi in un fascio con i giornalisti ed i deputati succitati. La finanza italiana non si lascia impressionare da così poco. Dato che essa voglia il fine – che io ritengo dannoso – delle imposte future ed incerte, non saranno gli untorelli aumenti di capitale che la potranno fare arretrare un minuto solo.

 

 

Il vero ostacolo sarà dato dal fatto, pacifico, che le società saranno rovinate dal prelievo dell’imposta. Dovranno vendere, a prezzi rotti, macchinari, scorte, ecc., in cui avevano investito gli utili serrati. Ciò accadrà in ambi i casi, sia che la somma sia mandata a riserva, sia che sia portata ad aumento di capitale. Il fatto giuridico-contabile, che si legge a destra del secondo e del terzo specchietto, non influisce per nulla sul fatto economico-tecnico, il solo sostanzialmente importante, che si legge a sinistra. Dicasi che si vuole far tenere gli utili serrati in conto corrente all’1,50% alla Banca d’Italia e si dirà cosa comprensibile, sebbene insensata; ma non perdiamo il tempo a discutere sulle parole.

 

 

  • Aumentare il capitale da 10 a 12 milioni permetterà l’anno successivo di distribuire l’8% su 12 invece che su 10 milioni, contrastando così allo spirito della legge: taluni giuristi affermano che ciò non potrà accadere; ma se si ritiene che ciò si possa fare e che ciò sia un pericolo, lo si proibisca con il decreto legislativo che per tanti motivi appare indispensabile. Per brevità non espongo le ragioni pro e contro.
  • Mandare gli utili serrati ad aumento di capitale significa aumentare il valore nominale delle azioni da 100 a 120, significa dare un affidamento agli azionisti che il valore dell’azione è di 120 lire, garantirlo contro una imposta futura, dar luogo a disinganni e a speculazioni malsane.

 

 

Quisquilie. Se ci sono azionisti, i quali si pascono di cosiffatte allegre illusioni, che credono al valore magico dell’importo nominale delle loro azioni, costoro meritano di essere segnati a ludibrio dell’universale. Creduli sì, sono gli azionisti; ma a questo punto no. I valori di borsa si formano quando cento occhi di Argo scrutano i bilanci, la consistenza delle perdite passive ed attive, ecc. ecc. Se i negoziatori di borsa sono sicuri che i 12 milioni di capitale, ovvero i 10 di capitale ed i 2 di riserva esistono realmente e sono sicuri da pericoli futuri, l’azione varrà in amendue i casi ugualmente, 120 lire. Se invece essi ritengono che i 12 ovvero i 10 più 2 milioni sono minacciati da un’imposta futura, l’azione varrà 100 od anche meno. Forse molto meno.

 

 

Ma su questa valutazione non può influire menomamente il fatto giuridico-economico della scritturazione a capitale o a riserva.

 

 

È tempo di concludere: in forma di poche massime.

 

 

  • L’imposta sui profitti di guerra può essere ancora modificata, aumentata, generalizzata; ma essa deve essere certa, sicura, con quella sola retroattività che è concessa dalle norme generali tributarie.
  • è dannoso all’interesse collettivo ed alla condotta della guerra lasciar pendere sul capo dell’industria la minaccia di una confisca futura degli accantonamenti attuali degli utili eccezionali.
  • Questi accantonamenti devono conservare lo scopo dichiarato nel decreto del 7 febbraio di rafforzare la compagine economica delle società.
  • Dato ciò il vincolo deve essere limitato al divieto di ripartizione degli utili serrati sotto qualsiasi forma, con gravi sanzioni per gli amministratori in frode.
  • Il vincolo deve essere preventivamente limitato nel tempo: a sei mesi, ad 1 anno dopo la guerra. Il vincolo illimitato nel tempo è la manomorta. Come potrà l’Italia, nel dopo guerra, combattere, armata di istituti di manomorta, con la Germania, fornita di decine di migliaia di società commerciali agili e libere nei movimenti?
  • Nessun vincolo deve essere posto all’impiego tecnico-economico (impianti, macchine ecc.), ed alla destinazione giuridico-contabile (capitale o riserve) degli utili serrati. La destinazione di parte degli utili, in pace ed in guerra, ad aumento di capitale, a distribuzione di azioni gratuite agli azionisti è un fatto frequentissimo in Inghilterra. Solo la inesprimibile leggerezza di politicanti e di funzionari italiani ha potuto farneticare di pericoli immaginari in quella che è la pratica più corrente del paese più progredito del mondo nel campo delle società per azioni.

 

 

VI

Sono note le controversie insorte fra noi per l’interpretazione dei noti decreti per la limitazione dei dividendi. Quale la destinazione, si disputava, della parte degli utili di guerra rimasti a mano degli industriali dopo il pagamento dell’imposta sui sovraprofitti? Deve essere accantonata a riserva di accantonamento o di rispetto, dicevano i decreti del 7 febbraio e del 3 settembre. Ma lo dicevano in modo così impreciso, che subito si cominciò a disputare: l’accantonamento è fatto a beneficio delle società o dello stato Le società, pagate le attuali imposte, possono impiegare il resto tranquillamente, come sembra affermare il preambolo del decreto 7 febbraio, oppure potrà in avvenire lo stato assorbire tutto o parte? Accantonare a riserva esclude la destinazione ad aumento di capitale? Nel caso di aumento, all’aumento stesso potranno in avvenire esser ripartiti utili?

 

 

Queste e altre questioni erano risolute diversamente da pubblicisti, magistrati, uomini politici. E poiché si lamentava che perfino i magistrati si lasciassero guidare nei loro ragionamenti da vaghe sentimentalità rettoriche – cito a titolo di eccezione onorevole il tribunale di Milano – una interpretazione legislativa si imponeva. Il nuovo decreto, se non risolve tutte le questioni e se in un luogo la sua dizione poco felice farà sorgere nuovi dubbi, stabilisce però un punto fermo, dopo il quale non occorreranno nuovi decreti interpretativi, e alla bisogna potrà bastare la parola del magistrato.

 

 

  • Nulla è innovato per quel che si riferisce all’accantonamento. Le società commerciali continuano a non poter ripartire gli utili oltre l’8% del capitale versato, ovvero oltre la media degli utili ripartiti negli esercizi precedenti alla chiusura dell’esercizio del 1915. Le società nuove costituitesi dopo lo scoppio della guerra continueranno a poter ripartire il 10% sul versato. Il decreto non definisce che cosa si intenda per «capitale versato» e quindi continuerà ad essere controverso in quali casi possano essere comprese nel capitale versato le somme depennate in occasione di riduzioni di capitale, pur continuando in sostanza a esistere.
  • Su tutta la massa dei sovraprofitti di guerra, ripartiti o non, continuerà a gravare l’imposta speciale sui sovraprofitti, che un altro decreto contemporaneo aumenta, nei suoi massimi, dal 35 al 60%.
  • Il decreto implicitamente riafferma la tesi originaria che la limitazione dei dividendi sia stata voluta nell’interesse esclusivo del rafforzamento economico delle società, e non per preordinare o rendere possibile in avvenire l’assorbimento totale o parziale degli utili stessi da parte dello stato. A questa seconda tesi sostenuta da taluni pochi energumeni e dannosissima alla condotta della guerra, non aderisce il legislatore, il quale richiama, e quindi riafferma, il decreto 7 febbraio secondo cui l’accantonamento era preordinato a vantaggio delle società. Alla stessa conclusione si giunge riflettendo che un contemporaneo decreto finanziario eleva dal 35 al 60% i massimi della imposta sui sovraprofitti di guerra, ma solo per quella parte che si formò dopo il primo gennaio 1916, ferme restando le antiche aliquote, già del resto cresciute una volta, per i sovraprofitti formatisi dal primo agosto 1914 al 31 dicembre 1915. Ciò significa che il legislatore non intende molestare con aggravi nuovi i redditi del passato; ma, come è usanza universale e come è consigliato dall’onestà e dal ragionevole interesse pubblico di non far sorgere nuovi rischi retroattivi per i contribuenti, si vogliono gravare con imposte nuove soltanto i redditi presenti e futuri.
  • In secondo luogo gli utili soggetti ad accantonamento già decurtati dalla imposta di guerra si distinguono in due parti, di cui l’una riceve una destinazione obbligatoria, mentre l’altra può essere impiegata – non distribuita – liberamente dalle società.

 

 

Questa distinzione si deve fare solo per gli utili verificatisi dalla chiusura dell’esercizio 1915. Praticamente ciò vuol dire che la distinzione riguarda tutti gli utili per cui vi è l’obbligo dell’accantonamento. Un primo terzo degli utili accantonati deve investirsi in titoli di stato. Poiché le imprese possono scegliere qualunque titolo di stato, ciò equivale a dire che un terzo del residuo deve essere conservato sotto forma liquida, immediatamente realizzabile dopo la guerra.

 

 

  • I restanti due terzi devono essere genericamente mandati a riserva, ovvero possono essere destinati ad aumenti di capitale. Se l’impresa li manda a riserva nulla è ordinato rispetto al loro impiego. Possono essere investiti in titoli di stato, in titoli diversi, in depositi bancari, in scorte di magazzino, in impianti. Qualunque impiego della riserva è lecito purché gli utili accantonati non si ripartiscano.
  • Possono, però, le imprese destinare i due terzi – si intende i due terzi del residuo non ripartibile – ad aumento di capitale.

 

 

Il governo ha riconosciuto che il baccano fatto contro questa operazione era privo di fondamento e che anzi la destinazione degli utili ad aumento di capitale è una delle più serie e normali – nei paesi dove non tengono cattedra gli analfabeti economici – operazioni finanziarie le quali possano essere compiute dalle società industriali.

 

 

Il governo tuttavia ha messo una condizione: l’aumento del capitale potrà farsi solo per quelle somme le quali «siano investite in nuovi impianti, oppure in ampliamento, o trasformazione degli esistenti». Questa è una disposizione inutile, non chiara, la quale costringerà le società a dimostrare al magistrato, incaricato di omologare le deliberazioni di aumento, molte cose vaghe o contestabili; ad esempio: che una data somma sia impiegata in un dato impianto industriale. Il legislatore sembra essere partito dall’idea erronea che il capitale sociale debba essere impiegato in «impianti» per essere veramente capitale mentre l’osservazione più ovvia insegna che il capitale può utilmente e spesso deve impiegarsi in denaro libero, in scorte, in merci in corso di fabbricazione, ecc. ecc. È augurabile che il magistrato si accontenti di una corrispondenza generica nelle appostazioni di bilancio, senza richiedere con perizie costose ed assurde la dimostrazione che la somma accantonata serva ad impianti, oppure ampliamenti o trasformazioni «specifiche».

 

 

  • Conformemente a quanto era già stato disposto, se la società destina i due terzi del residuo ad aumento di capitale deve su di essi pagare subito l’imposta di ricchezza mobile, la quale rimane invece sospesa nel caso in cui siano destinati a riserva di rispetto.
  • Se una società aumenta il suo capitale ad esempio da 10 a 12 milioni, mercé prelievo dai due terzi degli utili residui non ripartibili, il dividendo agli azionisti dovrà tuttavia essere commisurato all’antico capitale dei 10 milioni. I nuovi 2 milioni non possono ricevere dividendo.
  • Finalmente i vincoli di ogni fatta portati dai decreti sui dividendi non sono più indefiniti nel tempo, ma cesseranno di aver vigore con la fine dell’esercizio sociale successivo a quello in cui sarà pubblicata la pace.

 

 

È questa la novità migliore del decreto perché evita il danno della «manomorta» industriale. A sentire taluni, per combattere le future guerre economiche sarebbe stato necessario immobilizzare indefinitamente gli utili di guerra. Era una concezione bellica infantile la quale avrebbe messo l’Italia in condizioni di inferiorità in confronto a tutti gli altri paesi del mondo, in cui le imprese industriali conservano le loro caratteristiche di mobilità e di trasformabilità.

 

 

Giova sperare che di questo stravagante feticcio medioevale della manomorta a tempo indefinito non s’abbia a sentir parlare mai più.

 

 

VII

Il decreto sulle modalità di applicazione dell’imposta sui sovraprofitti di guerra è un buon decreto, per cui va data lode al ministro delle finanze. Nella sua seconda parte esso ha per iscopo di rendere possibile l’acquisto di nuove navi. Sarebbe troppo lungo esporre particolareggiatamente le norme, in gran parte tecniche, del decreto a questo riguardo; basti dire che la norma più importante è quella, la quale concede l’esenzione dalla sovrimposta di guerra (non dunque dalla imposta di ricchezza mobile) per il sovraprezzo, conseguito a causa della guerra, dai proprietari di navi mercantili in occasione di vendita avvenuta dopo il 10 agosto 1914 ovvero in occasione di indennità riscosse per le perdite, che d’ora in poi potranno verificarsi, delle navi stesse. La esenzione è altresì concessa ai guadagni di guerra derivanti dall’esercizio di navi mercantili. Condizione essenziale per ottenere l’esenzione è però questa: che tutta la somma ricavata dalla vendita ovvero dall’indennità, ovvero il doppio del guadagno di guerra ottenuto dall’esercizio sia investito nell’acquisto di navi mercantili estere da passarsi alla bandiera italiana.

 

 

Il legislatore ha detto cioè: se un armatore vende per milioni di lire un piroscafo, realizzando un sovraprezzo di guerra di 4 milioni in confronto al prezzo originario di 1 milione; o se incassa, essendo stato silurato il piroscafo, una indennità di 5 milioni, di cui 1 milione soltanto è rimborso del prezzo pagato, i 4 milioni possono considerarsi lucro unicamente se l’armatore incassa i denari e si ritira dall’industria. Ma se egli reinveste tutti i 5 milioni nell’acquisto di una nuova nave, in realtà l’utile è potenziale, non effettivo. Egli ha trasformato una nave in un’altra; non realizzato un utile. Se, finita la guerra, la nave tornerà a valere 1 milione, l’utile in realtà non sarà esistito mai. Questo concetto fondamentale fu applicato però limitatamente all’acquisto di navi estere nazionalizzate. Chi vende navi nazionali – e le deve vendere a nazionali, essendo vietata la vendita a stranieri – e ricompra navi nazionali non gode di esenzione; la quale è concessa invece, allo scopo di incoraggiare l’incremento della marina mercantile, a chi fa acquisto di navi estere. Per lo stesso motivo l’esenzione è concessa a chi investe in navi estere il doppio dei guadagni ottenuti dall’esercizio della navigazione. Anche in questo caso si pensò che il guadagno non può ritenersi veramente realizzato, quando è impiegato in acquisti di navi, che al ritorno della pace potrebbero deprezzare in misura notevolissima.

 

 

Sono poco persuaso della convenienza di spingere oggi i cantieri italiani a costruire navi; sembrando a me che costruzioni destinate a terminare fra qualche anno poco o nulla possono giovare a superare l’odierna crisi dei noli marittimi; e sembrandomi nocivo di spingere capitale e lavoro a costruire navi, le quali saranno con tutta probabilità deprezzate quando, a pace conchiusa, entreranno in esercizio. Sembra sovratutto pericoloso fare perdere tempo alle navi esistenti per trasportare acciaio, carboni ed altri materiali necessari alla costruzione di navi future, quando i servigi delle navi esistenti sono così preziosi per il trasporto dell’acciaio, del carbone e del grano occorrenti per il munizionamento e l’alimentazione del paese. I discorsi sulla necessità di costruire navi mi sembrano oggi una montatura, da fare il paio con la mobilitazione agraria ed altre frasi di questo genere; montatura innocua finché i discorsi rimangono scritti sulla carta, perniciosa se accennassero a tradursi in realtà.

 

 

La stessa obiezione non vale contro gli acquisti di navi estere già costruite. Qui si raggiunge subito il fine, che è l’incremento del tonnellaggio durante la guerra: qui non si ingombrano le preziosissime navi esistenti con carichi destinati a costruzioni per la pace; qui si lavora davvero per la guerra. Epperciò mi paiono buone le esenzioni concesse dal nuovo decreto sui sovraprofitti.

 

 

Il decreto, nella sua prima parte, la quale si riferisce alle industrie di terraferma, chiarisce tre punti : ammortamenti, detrazione dell’imposta e determinazione del capitale dell’azienda.

 

 

Supponiamo, per parlar prima degli ammortamenti, che un industriale abbia, durante uno dei periodi primo agosto 1914-31 dicembre 1915, anno 1916, anno 1917 e primo semestre 1918, speso 1 milione di lire per nuovi impianti e per trasformazioni compiute in contemplazione di forniture di guerra; ovvero per creare un nuovo stabilimento industriale destinato a prodotti non fabbricati nel territorio dello stato o dovuti a nuove applicazioni industriali. Supponiamo ancora che, sul costo totale di un milione, 600.000 lire siano dovute al sovraprezzo pagato a causa dello stato di guerra, 200.000 lire siano la parte che sarà logorata alla fine della guerra per il deperimento ordinario e per l’usura straordinaria della lavorazione specialmente intensa; e 200.000 lire sia il valore attribuibile agli impianti e trasformazioni a guerra finita. Nei casi singoli le tre parti potranno variare in più od in meno; ed il legislatore affida alle agenzie ed alle commissioni la relativa valutazione; con questa sola avvertenza che, in difetto di prova contraria, il valore residuo a guerra finita si presume uguale al 20% dell’effettivo costo totale.

 

 

Come sono trattate le tre parti? Le prime 600.000 lire, ossia il sovraprezzo pagato per causa della guerra possono essere interamente ammortizzate e quindi sono considerate senz’altro spesa deducibile dal reddito lordo nello stesso periodo finanziario in cui l’impianto fu fatto. Se l’impianto si fece nel 1916 o nel 1917 tutte le 600.000 lire vanno dedotte, rispettivamente, dal reddito del 1916 o del 1917. Il che è ragionevole, perché il sovraprezzo è perdita netta, che sfumerebbe subito, se non si ricuperasse sul reddito.

 

 

Le seconde 200.000 lire dovute al logorio ordinario o straordinario degli impianti sono ammesse invece in detrazione repartitamente nel periodo in cui l’impianto fu fatto ed in quelli successivi sino a guerra finita. La spesa si fece nel 1916? Mentre le prime 600.000 lire si ammettano subito interamente in deduzione nello stesso 1916, le seconde 200.000 lire si ammettano in parte nel 1916, in parte nel 1917 ed in parte nel primo bimestre 1918. Il che altresì è ragionevole, poiché il logorio si verifica a mano a mano e diminuisce il reddito che di mano in mano si produce. Vi saranno forse incertezze e difficoltà nell’applicazione del concetto; ed è augurabile che l’amministrazione e le agenzie le sappiano superare.

 

 

Le ultime 200.000 lire non danno diritto, durante il periodo di guerra, ad alcuna deduzione: ed infatti esse, esistendo ancora a fine guerra, sono una attività patrimoniale, ed in nessun modo potrebbero essere considerate come una spesa.

 

 

È probabile, specie per quanto riguarda il primo periodo dal primo agosto 1914 al 31 dicembre 1915, che le deduzioni sancite dal nuovo decreto non possano essere più eseguite praticamente, perché gli accertamenti sono già divenuti definitivi e già si fece l’iscrizione a ruolo. A ciò fu provvisto stabilendo che agli eventuali sgravi di imposta e sovrimposta si provvederà mediante compensazione colla imposta e sovrimposta dovute sui profitti di guerra relativi al periodo immediatamente successivo ed in mancanza od insufficienza di queste, mediante apposita liquidazione di rimborso.

 

 

Il secondo punto regolato è quello della detrazione dell’imposta di ricchezza mobile. Finora, se il reddito straordinario di guerra fu, ad esempio, determinato in lire 100.000, tutte soggette, per semplicità di calcolo, al massimo della sovrimposta, su queste 100.000 lire si applicava prima l’imposta di ricchezza mobile – la quale, compresi i centesimi di guerra, era nel 1916 del 13% circa e nel 1917 è del 16% circa – e successivamente, sempre sulle stesse 100.000 lire, la sovrimposta di guerra, ora del 60% nella sua aliquota massima: e così 13.000 (nel 1916) ovvero 16.000 (nel 1917) più 60.000 lire ed in tutto 73.000 ovvero 76.000 lire; rimanendo al contribuente nette 27 ovvero 24.000 lire.

 

 

Ora il metodo sarà variato. Sulle 100.000 lire prima si applicherà l’ordinaria imposta di ricchezza mobile ed il contribuente pagherà 13.000 ovvero 16.000 lire. Queste, venendo a diminuire il reddito di guerra, saranno detratte dalle 100.000 lire, risultando così il sovraprofitto netto di 87.000 od 84.000 lire. Su queste 87.000 od 84.000 lire verrà a cadere la sovrimposta di guerra del 60%, la quale assorbirà perciò nel 1916 lire 52.200 e nel 1917 lire 50.400; restando al contribuente 34.800 lire per il 1916 e 33.600 per il 1917.

 

 

Difficoltà varie erano sorte per il calcolo del capitale investito nelle aziende. Se si erano fatti ampliamenti, il capitale era aumentato. Come doveva calcolarsi sul nuovo capitale investito il nuovo reddito ordinario, in confronto al quale si deve valutare il sovraprofitto di guerra?

 

 

Supponiamo che un industriale avesse nel 1913-14 un capitale investito di 1 milione di lire ed avesse in quegli anni un reddito accertato di 200.000 lire. Dopo il primo agosto 1914 l’industriale aumenta il suo capitale investito da 1 a 2 milioni. Il nuovo milione quale reddito ordinario produrrà? Il quesito è importante; poiché sovraprofitto tassabile è solo il sovrappiù sul reddito ordinario. Non sarebbe corretto dire che il reddito ordinario è quello di 200.000 lire, poiché queste erano prodotte da un capitale di 1 milione; mentre ora il capitale fu aumentato a 2 milioni. Il nuovo capitale, se fosse stato impiegato prima, avrebbe, anche prima della guerra, prodotto un reddito ordinario, che non deve essere considerato tassabile ai fini della imposta di guerra.

 

 

Per risolvere il quesito, il decreto odierno statuisce che il nuovo capitale si presume produttivo di un reddito ordinario percentualmente uguale a quello che derivava dal vecchio capitale. Nel caso nostro, poiché il vecchio capitale produceva 200.000 lire di reddito ordinario, ossia il 20%, anche il nuovo capitale si presumerà produttivo dello stesso reddito ordinario del 20%. Ad ogni modo, però, il tasso percentuale non può essere reputato inferiore all’8 %, per il capitale antico e per quello nuovo.

 

 

Queste le norme nuove le quali integrano il sistema vigente della tassazione sui sovraprofitti. Esse debbono venire accolte con favore; poiché, come tante volte fu osservato su queste colonne, più dell’aliquota della imposta, importano la sicurezza e la giustizia nella tassazione. Fa d’uopo che sia tassato solo il vero reddito e non la spesa: e che sia ben chiaro ciò che si intende per sovraprofitto di guerra in confronto al reddito ordinario.

 

 


[1] Con il titolo Chiarimenti necessari al decreto per la limitazione dei dividendi. [ndr]

[2] Con il titolo Ancora sulla limitazione dei dividendi delle società.[ndr]

[3] Con il titolo La limitazione dei profitti di guerra. [ndr]

[4] Con il titolo La limitazione dei profitti di guerra. Lo scopo del vincolo sugli utili. [ndr]

[5] Con il titolo La limitazione dei profitti di guerra. Ciò che è inutile e ciò che è necessario nel vincolo degli utili. [ndr]

[6] Con il titolo Il nuovo decreto sulla limitazione dei dividendi. [ndr]

[7] Con il titolo Il nuovo decreto sui sopraprofitti. Esenzioni all’industria marittima e norme per gli ammortamenti, il capitale investito e le deduzioni d’imposta. [ndr]

La requisizione del naviglio mercantile

La requisizione del naviglio mercantile

«Corriere della Sera», 29 gennaio, 1 febbraio[1] 1916; 5 febbraio 1917[2]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 278-297

 

 

I

Requisire, anche e sovratutto, uomini

 

Il fattore più importante del rialzo del prezzo del carbone, come di tutte le altre merci importate dall’estero, è indubbiamente l’ascesa dei noli marittimi. Ho chiarito come, in principio di gennaio, su 160 lire di aumento totale, ben 75 lire fossero da attribuirsi al rialzo dei noli, astrazion fatta dal cambio sul nolo stesso. Ora pare che il malanno sia cresciuto, poiché da 66-67 scellini per tonnellata di carbone da Cardiff a Genova siamo passati agli 80 e persino a 90 scellini; né si sa se l’aumento debba finir lì. Sicché, astrazion fatta dal cambio sul nolo, l’aumento in moneta italiana non può considerarsi inferiore oramai alle 100-110 lire per tonnellata di carbone.

 

 

Sembra, per fortuna, che gli sforzi del governo italiano per persuadere il governo inglese a concedergli un certo numero di piroscafi da carico, per il trasporto del carbone e forse anche di altre merci necessarie al nostro consumo, possano essere coronati almeno da un parziale successo. Sarebbe bene che il governo italiano potesse noleggiare per un certo periodo di tempo piroscafi inglesi (con contratto di time-charter), a condizioni ragionevoli.

 

 

Ciò sta benissimo: ed andrà resa dovuta lode per tutto ciò che il governo riuscirà ad ottenere, con mezzi diplomatici, dal governo inglese. Ma non vorrei che il pubblico italiano si facesse soverchie illusioni sugli effetti che la requisizione di piroscafi inglesi avrà. Vi è una certa probabilità che l’effetto sia: diminuzione dei noli per il quantitativo di carbone e di frumento trasportabili coi piroscafi requisiti e noleggiati; ed aumento dei noli per tutte le altre merci che dovranno ancora ricorrere alla bandiera libera.

 

 

Ricorderò a questo proposito che l’Inghilterra ripetutamente requisì navi per i suoi crescenti trasporti militari, allo scopo di assicurarsi tonnellaggio sufficiente, e di pagare nel tempo stesso noli «miti» inferiori a quelli di mercato. L’effetto fu questo che ad ogni successiva requisizione, i noli sul mercato libero residuo rincararono maggiormente. L’ultimo atto del governo inglese fu una serie di «Orders in Council» del novembre scorso, con cui si proibiva ai piroscafi inglesi di viaggiare, dopo il primo dicembre, tra porto e porto straniero, senza apposita licenza; e si autorizzava il governo a requisire piroscafi per il trasporto delle derrate alimentari e di altre merci o derrate di prima necessità. Anche questa volta l’effetto fu un clamoroso rialzo dei noli; che per il carbone (Cardiff-Genova) salirono da 49 a 67 scellini e per il frumento (Plata-Londra) da 7 a 130 scellini. E trattasi, a quanto pare, di un vero «effetto» di provvedimenti, i quali avevano per iscopo di rendere più abbondante il tonnellaggio navale nei porti intesi e quindi più miti i noli e di dar modo al governo di trasportare cereali al costo. In Italia pare siasi verificato lo stesso fenomeno. Sui 180 piroscafi da carico (cargo-boats), i quali sostanzialmente compongono la marina mercantile italiana libera, esclusi cioè i piroscafi per passeggeri ed il naviglio per cabottaggio, pare che la maggior parte sia oramai requisita; dai due terzi ai tre quarti a seconda di quanto mi affermarono persone pratiche. Orbene, anche in Italia, l’aumento nella percentuale delle navi requisite era ogni volta susseguito da un aumento nei noli delle navi rimaste libere.

 

 

Il risultato può spiegarsi soltanto in un modo: che cioè le navi requisite e viaggianti per conto del governo compiano un lavoro meno efficace delle navi libere. Se esse infatti compiessero lo stesso lavoro, ossia trasportassero nello stesso tempo la medesima quantità di merci, la domanda di navi non sarebbe cresciuta od almeno sarebbe cresciuta solo in rapporto ai maggiori trasporti militari. I trasporti effettuati dalle navi requisite non avrebbero più dovuto essere fatti dalle navi libere; e non vi sarebbe stata nessuna buona ragione perché la domanda di tonnellaggio libero crescesse così da provocare aumenti spasmodici di noli.

 

 

Le cose pare siano appunto così: requisizione di navi vuol dire lavoro meno efficace da parte delle navi requisite.

 

 

I giornali inglesi sono pieni di lagnanze circa l’uso non economico che si fa delle navi requisite. E tutto il mondo è paese. Potrei riempire colonne se volessi riferire gli aneddoti, tutt’altro che allegri, intorno agli errori commessi da funzionari, anche degnissimi, preposti all’amministrazione del naviglio requisito. Navi che fanno carbone dove il carbone è carissimo; navi che sono dimenticate in porto per giorni e giorni e frattanto pagano controstallie favolose; altre che sono mandate in buon numero in un porto a caricare una merce qualsiasi, che qui non mette conto citare, ed arrivano contemporaneamente in modo che lo scarico non può farsi, e le ultime devono aspettare il loro turno per tanto tempo da consentire di fare, durante le more, un altro viaggio. Sarebbe strano che le cose non andassero così, in regime di requisizione. L’industria dell’armatore richiede, come tutte le altre, una competenza, la quale si acquista solo colla pratica. Chi non conosce una folla di piccole cose, che sui libri non si leggono, commette errori, che danno luogo a perdite di tempo e di denaro; funzionari anche di prim’ordine debbono compiere il loro tirocinio; ma il guaio si è che la guerra sarà finita prima che essi siano diventati dei mediocri armatori.

 

 

Questa – l’essere cioè il naviglio requisito amministrato non economicamente – è una esperienza universale del momento presente; e produce dappertutto l’identico effetto: che il naviglio amministrato con criteri pubblici e burocratici è un naviglio che perde tempo. E poiché non importa nulla possedere molte navi, bensì importa molto avere navi viaggianti, si può conchiudere che finora «requisizione di navi» ha avuto il significato preciso di «distruzione di tonnellaggio navale»; od, ancora, di «siluramento di navi mercantili da parte di sommergibili nemici». Il che ancora vuol dire diminuzione dell’offerta totale di tonnellaggio sul mercato; ed ancora significa, necessariamente, fermo rimanendo o crescendo il bisogno di trasporti, aumento dei noli per le navi rimaste libere e per le merci che non trovano posto sulle navi requisite.

 

 

Non vuol con ciò dire che siano state biasimevoli le requisizioni operate. Di fronte alle necessità della guerra cessa, ripeto ancora una volta, il diritto alla critica. Chi di noi oserebbe lamentarsi di fronte anche alla scomparsa totale del naviglio marittimo dal mercato dei trasporti non bellici, quando, per ipotesi, ciò fosse necessario per la vittoria? L’operato delle autorità militari non è criticabile; è invece illogico il contegno di chi vuole la requisizione e non ne vorrebbe i necessari effetti; è dannoso il clamore di chi, vedendo i noli salire, vorrebbe estendere a tutti i trasporti un provvedimento, il quale ha contribuito, da parte sua, ad inasprire quel rialzo dei noli, a cui si vorrebbe porre rimedio.

 

 

La requisizione totale è possibile in Italia, la quale non possiede neppure una marina da carico sufficiente ad effettuare i trasporti più urgenti degli approvvigionamenti militari, delle materie prime per industrie di guerra, del carbone e del frumento; e deve ricorrere al noleggio di piroscafi inglesi, anche a questo fine.

 

 

Ma pare grandemente controversa la convenienza di requisire tutta la marina mercantile inglese, anche quella parte di essa che eccede i bisogni urgenti e fondamentali degli alleati. Dicono i «Times» che «tutta la marina mercantile britannica dovrebbe venire centralizzata sotto una direzione ed una organizzazione unica, intesa a ridurre le spese di concorrenza e lo sciupio, distribuendo i vapori disponibili secondo norme più razionali». Per quanto grande sia il rispetto dovuto al ricordo della tradizione di autorità politica dei «Times», i suoi ragionamenti o meglio i suoi desideri economici non paiono atti a scrollare la verità del fatto già ricordato che «requisizione» vuol dire noli più bassi per il naviglio acquisito o regolato, ma vuol dire certamente minore efficacia produttiva delle navi. Se, a poco a poco, tutta la marina mercantile inglese venisse assorbita o regolata dal governo inglese, noi ci troveremmo dinanzi a questa fatale conseguenza: che la potenzialità di trasporto di quella bandiera verrebbe a diminuire di qualche milione di tonnellate di portata. Il che ancora significa che, quelle derrate o merci, le quali riuscissero a farsi trasportare dalle bandiere belligeranti requisite o regolate, pagherebbero un nolo diminuito, supponiamo, da 80-90 a 50 scellini per tonnellata. Farebbero forse viaggi più lenti, si perderebbe più tempo nei porti, per la minore esperienza degli amministratori, ma pagherebbero di meno.

 

 

E le altre merci? Quelle che non riuscissero a trovare posto sulle navi belligeranti, requisite e regolate, diminuite di efficacia e perciò, in realtà, diminuite di numero? Dovrebbero cercare carico sulle navi neutre: greche, danesi, norvegesi, svedesi, olandesi, nordamericane; le sole, le quali rimarrebbero libere e che potrebbero andare alla cerca dei noli massimi. Lascio immaginare ai lettori l’altezza a cui giungerebbero i noli, i quali dovrebbero essere pagati da coloro che avessero veramente urgenza di effettuare un trasporto. Se si pensa che le navi neutre sono una piccola parte del tonnellaggio navale mondiale, che esse sono disputatissime nei paesi neutri, si rimane allibiti al solo pensiero dei noli che quelle navi potrebbero richiedere. È inutile sforzare la realtà; non è possibile ridurre i noli del carbone da 80-90 a 50 scellini colla requisizione, senza spingere da 80-90 a 100, a 200 e forse a 300 scellini il nolo di qualche partita di carbone urgentissima o di qualche altra merce, in guisa che la media torni ad essere di 80-90 scellini. Il danno non viene tolto; viene soltanto spostato dalla generalità ad alcuni disgraziati pochi. Ed il profitto verrebbe anche esso non abolito, ma semplicemente spostato dalla bandiera italiana ed inglese alla bandiera neutra. È questo lo scopo che si vuole raggiungere? Ed è un risultato il quale ci avvicini alla vittoria? L’ineluttabilità del risultato ora descritto è talmente chiara, che un mio interlocutore finì per dichiarare che, a questo punto, sarebbe stato necessario fare un altro passo innanzi: decretare una specie di blocco dei porti dell’intesa, vietando alla bandiera neutrale di approdarvi se non si assoggettasse ai medesimi massimi noli stabiliti per le navi dell’intesa. Ma qui la mia mente si perde in un mare di difficoltà politiche, economiche e tecniche, che dovrebbero essere affrontate quando l’intesa si decidesse ad una azione così lesiva degli interessi delle potenze neutrali e dei trattati di commercio; ad un’azione la quale potrebbe trasformare i neutri in nemici; e li trasformerebbe in nemici senza alcuna sicurezza di vantaggio per noi. Si possono, infatti, escludere dagli approdi le navi neutre contravventrici ai massimi di nolo, non si possono costringere ad approdare. Si può vietare alle navi di bandiera neutra lo scarico ed il carico nei porti belligeranti quando esse non si adattino ai noli massimi fissati dall’intesa; ma si corre il pericolo di rappresaglie dei paesi neutri, come l’Argentina, Stati uniti, paesi scandinavi, e forse anche di un belligerante, il Giappone, i quali potrebbero proibire il carico delle munizioni, delle granaglie e del carbone su navi belligeranti.

 

 

Sulla via della requisizione totale non mi pare si possano raccogliere altro che frutti di tosco. I modi di azione efficaci sono necessariamente più modesti. Poiché il rincaro del nolo è dovuto per le merci residue, non servite dalla bandiera requisita – e si vide sopra che quanto più si requisisce, tanto più cresce la quantità di merce in cerca di navi libere -, uopo sarebbe trovare un qualche mezzo artificiale per scemare siffatta quantità di merce residua. In parte, il rimedio è dato dalla diminuzione del consumo conseguente agli alti noli. Ma ho il dubbio che in Inghilterra, in Francia ed in Italia ci sia ancor troppa gente la quale seguita a consumare cose inutili, anche se rincarate di prezzo. Il signor Booth, presidente della Cunard Line, ha rilevato il fatto strano ed ha invocato la proibizione assoluta del trasporto da e per i porti britannici di tutte le merci inutili, o che almeno paiono inutili a popoli, i quali dovrebbero abituarsi a vivere spartanamente. Se fosse possibile compilare una lista di merci non trasportabili, il suggerimento del signor Rooth mi parrebbe utile anche per l’Italia. Gioverebbe a far spazio sulle navi ed a scemare il nostro debito verso l’estero. Il consiglio è utile per l’Inghilterra, la quale deve risolvere, – contrariamente a quanto pensano coloro che in Italia, ingiustamente e senza notizia dei fatti veri, si lamentano di un immaginario sfruttamento finanziario inglese a danno degli alleati, – forse i più delicati e difficili problemi economici della guerra presente; ed è altrettanto utile per noi che dobbiamo affrontare problemi meno complessi, ma disponiamo all’uopo anche di minore ricchezza.

 

 

Fuori di questo rimedio, io non vedo per l’Italia altra via se non questa: amministrare bene i 180 piroscafi italiani da carico; i 30 o 40 piroscafi austro-tedeschi requisiti e quelli da prendersi in fitto dagli armatori inglesi. Il problema è delicatissimo, non suscettivo di una soluzione perfetta, poiché si tratterà di amministrare un 250-300 piroscafi circa in guisa da soddisfare a parecchie condizioni parzialmente tra di loro contradittorie:

 

 

  • trarre da essi il massimo risultato di viaggi e di carico; il che potrebbe ottenersi solo lasciandoli nella piena disponibilità degli armatori;
  • compiere i trasporti militari; il che implica un certo grado di segretezza e di gestione pubblica, incompatibile con la assoluta indipendenza degli armatori;
  • pagare noli inferiori a quelli di mercato; il che nuovamente richiede un certo grado di ingerenza governativa.

 

 

Armonizzare le varie condizioni, in guisa da ottenere la soluzione più tollerabile, richiede molta abilità e competenza ed è l’effetto di decisioni variabili di caso in caso, di viaggio in viaggio, di persona in persona.

 

 

Ho visto con piacere che un recente decreto del 10 gennaio autorizza le pubbliche amministrazioni a valersi di piroscafi requisiti, «lasciando interamente all’armatore il governo della nave ed il conseguente onere di tutte le spese occorrenti al suo esercizio (comprese le spese portuali, di assicurazione del corpo equipaggi tanto per i rischi normali che per quelli di guerra e per la Cassa invalidi e quelli per acquisto di carbone, acqua e materie grasse), e corrispondendo un compenso al termine di ogni viaggio». Il governo è così autorizzato a sostituire, quando sia opportuno, il contratto ordinario di noleggio a viaggio al contratto di noleggio a tempo (time-charter), per effetto di requisizione per il naviglio nazionale e di contrattazione per il naviglio estero. Può essere opportuno il noleggio a viaggio perché l’opposto sistema del noleggio a tempo, ossia fitto della nave, accollava allo stato noleggiatore tutte le spese di esercizio, salvo le paghe e panatiche dell’equipaggio, facendogli correre il rischio di spender troppo per consumo di carbone, grassi, zavorra, spese di porto, spese di carico, ecc. ecc. Talvolta il noleggio a tempo è indispensabile per dare allo stato l’assoluta disponibilità della nave, la quale può inviarsi in missioni segrete, ignorate dall’armatore e per ottenere più facilmente dal governo inglese, quando si tratti di navi inglesi, per un anno intero, invece che per ogni viaggio, la licenza di navigare tra porti esteri, per cui gli «Orders in Council» del novembre prescrivono la licenza governativa. In generale, però, è opportuno che il governo si scarichi di ogni rischio dell’esercizio sugli armatori, che sono competenti. Gioverà sempre pagare piuttosto agli armatori nazionali requisiti 40 scellini ed agli armatori inglesi quel nolo che sarà concordato per tonnellata di carbone da Cardiff a Genova, piuttostoché avere l’illusione di spendere soltanto 35 scellini coll’esercizio in economia della nave. Se si perde tempo, se si consuma troppo carbone, e si trasporta lo stesso carico nel tempo doppio, il nolo finisce per essere in realtà di 70 e più scellini. Meglio lasciar lucrare l’armatore che spendere di più in falsi costi.

 

 

Sono così giunto alla conclusione dell’articolo: oltre a requisire le navi strettamente indispensabili per i trasporti militari, oltre a requisire le navi di bandiera nemica, sequestrate nei nostri porti, oltre ad affittare o noleggiare piroscafi inglesi per il trasporto del grano e del carbone ed invece di requisire navi per compiere ordinari trasporti privati, si requisiscano gli uomini competenti. In tutti i grandi porti italiani esistono uomini competentissimi, rotti a tutte le difficoltà della complessa arte dei trasporti: i quali sarebbero disposti o potrebbero essere indotti a mettere i loro servizi a disposizione dello stato. Ciò vale per le navi e per le merci, per il carbone, per il frumento, per il ferro e per tutte le altre cose necessarie al paese. Tanto più sarebbero disposti a servire lo stato, quanto più questi, col suo intervento, impedisce il libero sviluppo della iniziativa privata e cresce i rischi di questa. Se gli uffici direttivi e deliberativi si vogliono riserbati ai funzionari di carriera, accanto a questi si mettano, come consulenti, uomini pratici: individui e non consigli consultivi. Così pare si sia fatto in Inghilterra in taluni casi e con buoni frutti; e così la stampa seria inglese chiede si faccia in tutti i casi. Ho ragione di credere che qualche dicastero italiano abbia ottenuto buoni risultati ricorrendo appunto al consiglio di armatori, negozianti, industriali, requisiti a pro della cosa pubblica. Perché non generalizzare il sistema?

 

 

II

 

La Camera di commercio di Milano, nella seduta del 28 gennaio, ha votato un ordine del giorno nel quale, fra l’altro, si facevano voti per la istituzione di uno speciale dicastero per il rifornimento delle materie prime provenienti dall’estero. Illustrando la proposta nella relazione, la commissione permanente per la guerra faceva notare come il nuovo dicastero dovrebbe provvedere «agli approvvigionamenti dall’estero richiesti dall’esercito e dall’armata per la difesa nazionale; all’integrazione dei bisogni delle nostre industrie nei riguardi delle materie prime provenienti dall’estero; all’integrazione della privata attività per i vettovagliamenti di grano e di carne sempre dall’estero per il consumo del paese; allo studio ed alla soluzione di tutti i problemi relativi alla politica dei noli e dei trasporti per via di mare e per via di terra; ed eventualmente anche alla razionale distribuzione dei vettovagliamenti di grano e di carni nell’interesse dei privati consumatori. Nella creazione di questo dicastero si dovrebbe prescindere da ogni criterio politico – parlamentare e le funzioni ad esso demandate dovrebbero venire attuate con il mezzo di una commissione, presieduta naturalmente dallo stesso ministro e composta di elementi tecnici per l’industria dei trasporti marittimi e per via di terra, delle industrie maggiormente interessate ed eventualmente di rappresentanti della cooperazione di consumo…». Nella discussione seguita alla camera fu chiarito che il nuovo ente non doveva avere nulla di uguale nel suo funzionamento ai comuni ministeri. «Trattasi di un organismo, nel quale dovrebbero prevalere criteri eminentemente pratici, immuni da infiltrazioni burocratiche; ma che in pari tempo dovrebbe raccogliere in sé quel tanto di potere esecutivo che gli consenta di esplicare un’azione efficace ed immediata».

 

 

«Requisire uomini» dicevo dianzi; e «requisire uomini» afferma autorevolmente la Camera di commercio di Milano. Le merci, le derrate, le navi, i carri servono solo in quanto possono essere usati a pro degli uomini. Requisire merci e mezzi di trasporto è perfettamente inutile, anzi può essere pernicioso, quando non siano pronti gli uomini atti a far muovere merci, navi, carri, carbone e portarli là dove il consumo per uso bellico o per uso della popolazione civile richieda. Non si può pretendere che tutto questo sia fatto dai militari e dai funzionari. I militari compiono un lavoro magnifico ed hanno tutta la riconoscenza della nazione per l’opera loro gloriosa. Ma la nazione non deve volere che essi facciano tutto, anche quando il loro intervento non è opportuno: i mugnai, i fabbricanti di vestiti, i provveditori di carbone e di frumento per la popolazione civile, i regolatori del porto di Genova. Pretendendo e facendo fare l’assurdo, noi togliamo uomini preziosi dal compimento del lavoro a cui sono adatti, che è la difesa del paese, e li costringiamo a fare cose, a cui essi per i primi si reputano non adatti. Peggio forse i funzionari. Questi hanno una mentalità che fa a pugni con quella dell’uomo di affari. Immaginano di andare in direttissimo, mentre tutt’al più usano i mezzi di locomozione dei nostri nonni. Nulla è più estraneo alla mentalità gerarchica della deliberazione pronta, individuale e responsabile. Vogliono il paracadute, la firma del superiore che corrobori la loro propria. Hanno in sospetto la speculazione, in un momento in cui tutto è speculazione, che vuol dire previsione dell’avvenire, calcolo e decisione sulla base non dell’esperienza passata, ma dell’incerta esperienza dell’indomani. Essi non possono, come sarebbe oggi sempre urgente e necessario, speculare sull’avvenire. Rifiutano di comprare frumento a 35, perché il prezzo sembra caro; e non si decidono a credere che è meglio accaparrare a 35 per non cadere nel 40-45, che è cifra maggiore. Vedono ribassare i noli da 25 a 20 e disdicono preziosi contratti lunghi a 25, perché l’interesse pubblico immediato insegna che è meglio noleggiare a 20. Frattanto i noli ricominciano a salire a 25, a 30, a 40; e conviene rinoleggiare le stesse navi ad un prezzo più alto di quello a cui si erano impegnati dianzi. Il funzionario, anche alto, non può speculare, perché egli guarda ai «precedenti»; mentre l’industriale ed il commerciante guardano all’avvenire ed hanno in pregio i precedenti in quella modesta misura in cui possono servire di indizio per l’avvenire. Ma per possedere la facoltà dello «speculare» ossia «prevedere» bisogna avere una competenza tecnica seria, essere vissuti a lungo nell’industria e nei commerci, essere dotati dell’intuito spontaneo degli affari. Né gli uomini politici, né i professori, né i militari, né i funzionari possono, e senza loro colpa, avere questo intuito e questa competenza tecnica.

 

 

Altrove, quando vollero fare qualcosa di serio, misero a capo dei dicasteri industriali uomini che erano vissuti nella industria. Non ricorderò più il signor Rathenau, perché tutti i giornali italiani hanno pubblicato lo schizzo brillante che dell’opera energica di questo uomo d’affari fecero, con ammirazione ed invidia, i «Times». Pare vero che, se non tutto, almeno buona parte del merito dei successi della Germania nella produzione delle munizioni da guerra e nell’approvvigionamento delle industrie e della popolazione civile sia dovuta all’avere posto the right man in the right place. Sono un assai scarso ammiratore di quella «organizzazione» germanica che è di moda oggi ammirare; fra l’altro perché ho l’impressione – trattasi di una semplice impressione, che la mancanza di giornali, di riviste, di notizie tedesche non permette per ora di controllare – che l’organizzazione a ben poco sarebbe valsa se a costruirla ex novo, appena scoppiata la guerra, non fossero stati posti uomini pratici sperimentati come il Rathenau, il Ballin, per ora disoccupato e già direttore della Amburgo-America, l’Hellferich, ex direttore della Deutsche Bank, ecc. ecc. Nessuno avrebbe impedito a noi di fare altrettanto; ma quale non sarebbe stato lo scandalo politico – parlamentare in Italia se si fosse preso un banchiere, un industriale, un commerciante e si fosse messo a capo di un dicastero qualunque? Eppure il dott. Hellferich non era politicamente nulla: né membro del Reichstag, né di una camera prussiana; non era mai stato neppure insignito di una cattedra ufficiale. Era un banchiere, in una banca privata e non in un istituto di emissione. E bene a ragione gli affidarono la condotta finanziaria della guerra.

 

 

In Inghilterra, se in occasione della guerra il signor Lloyd George fece qualcosa di buono, ciò fu perché ebbe talvolta il merito di sentire e seguire il parere di uomini competenti di banca e di affari. È noto invero come il signor Lloyd George, per la sua vita tribunizia, non abbia avuto occasione di conoscere il meccanismo della vita economica; come egli inoltre aborra dalle letture e sia un precipitoso improvvisatore ed almanaccatore di piani grandiosi, privi di fondamento. Erano pessimi precedenti in un cancelliere dello scacchiere, che improvvisamente, invece di combattere i lordi, cosa facile, si trova a dover combattere impresa assai più difficile e dura – la crisi di borsa e di banca scoppiata nell’agosto 1914. Se, tutto sommato, il governo inglese commise in quella occasione un numero tollerabilmente piccolo di errori, il merito è dovuto alla consapevolezza per fortuna avuta dal cancelliere della propria incompetenza in materia ed all’avere, con la cavalleria caratteristica dei lottatori inglesi, richiesto e seguito il consiglio dei suoi acerrimi nemici di ieri: degli uomini della City di Londra. Fu il signor Lloyd George a scegliere a proprio consigliere finanziario il signor Hartley Withers, il quale aveva fatto la propria educazione economica in qualità di rappresentante dei «Times» nella City e da anni viveva la vita quotidiana di borsa e di banca, sì da divenire il più ascoltato scrittore inglese di cose di banca.

 

 

Usare bene gli uomini competenti: ecco il modo di utilizzare, di valorizzare, di «organizzare» – adoperiamo pure la brutta parola – le cose. Ma occorre siano uomini venuti su dalle industrie e dai commerci e dalla banca. Non professori, con sopportazione di tutti noialtri accademici; e neppure uomini politici di professione. Dottrinari e uomini politici hanno una irrefrenabile tendenza a fare i padreterni; a credersi capaci di fare, di guidare, di organizzare tutto e tutti. Ognuno ha in tasca un piano – e quanti ne sono venuti fuori sui giornali in questi giorni! – per risolvere tutti i più complicati problemi: dei noli, dei cambi, del grano, del carbone, ecc. ecc. Il pericolo maggiore oltreché nel non far nulla, sta nel fare troppo e far male. L’uomo che ha il piano è pericolosissimo. Dice di essere un pratico, di odiare la dottrina e di voler cercare le vie nuove, ora che la guerra, secondo lui, ha distrutto tutta la scienza di prima. Bisogna diffidarne, poiché costui è il vero dottrinario, che vuol sostituire le sue immaginazioni ai fatti; mentre il teorico si limita ad osservare i fatti e ad estrarne il succo. I fatti bisogna lasciarli fare ai veri pratici, che li facevano prima e seguiteranno a farli dopo la guerra. Tra i pratici molti sono disposti a servire lo stato, con fervore e con abnegazione. Parecchi fra essi sono anche uomini colti; ed io ho pensato spesso ai magnifici libri di scienza che potrebbero scrivere certi negozianti, industriali, banchieri ed agenti di cambio, se sapessero o volessero maneggiare la penna a descrivere le cose da essi vissute. Altro che i piani di organizzazione di coloro che vogliono insegnare altrui le cose che non hanno mai vissuto!

 

 

Non sarei d’accordo con la Camera di commercio di Milano quando essa chiede, allato al capo del nuovo dicastero degli approvvigionamenti una «commissione» di uomini pratici. In Italia le commissioni non servono al lavoro vero di deliberazione e di esecuzione. Danno dei consigli e tirano in lungo le faccende. Servono a scaricare i ministri delle loro responsabilità ed a crescere il confusionismo.

 

 

Altri ha proposto che, invece di un nuovo dicastero, si nomini un nuovo sottosegretario agli approvvigionamenti presso il ministero esistente di agricoltura, industria e commercio. Purché il sottosegretario non sia un uomo politico, ma un grande industriale o negoziante, l’idea mi sembra ottima. Anche perché, a guerra finita, sarà più facile abolire un sottosegretariato, non coperto da un uomo politico e quindi non appetibile, che un nuovo ministero degli approvvigionamenti. Il quale, se durasse a pace fatta, sarebbe una pestilenza per il paese.

 

 

Il sottosegretario dovrebbe avere ampi poteri propri esecutivi, salvo l’accordo nelle grandi linee col gabinetto. Dovrebbe accentrare le funzioni che ora sono sparpagliate fra i ministeri della guerra, della marina, dell’agricoltura e delle finanze. Oggi tutti i ministeri fanno un po’ la stessa cosa; e perciò si sovrappongono e si contrastano a vicenda. Quanti sono i ministeri che comprano grano e carbone? e requisiscono navi? ed agiscono in modo contradittorio sui cambi Il ministero del tesoro e la Banca d’Italia è probabile cerchino di moderare l’ascesa dei cambi, coi mezzi legittimi ed utili che sono a loro disposizione. Ma siamo sicuri che il vicino ed affine ministero delle finanze non li spinga, spinto a sua volta dal ministero della guerra, all’insù con i divieti di esportazione? Non sarebbe tempo di rivedere la lista dei divieti, mettendo nel novero delle merci libere tutte quelle la cui esportazione non giova alla condotta della guerra da parte dei nemici e non nuoce a noi? Perché continuare ad imporre la licenza di esportazione a merci che l’Italia avrebbe interesse ad esportare ad amici, a nemici, a neutri ed a quant’altri volessero acquistarle? Forse per dare la soddisfazione ad un comitato esistente presso il ministero delle finanze di ritenersi indispensabile alla salvezza del paese e per far vivere qualche centinaio di avvocati, procuratori, sollecitatori a spese dell’industria italiana?

 

 

Se tutti questi problemi dovessero essere risoluti da un sottosegretario agli approvvigionamenti, che fosse egli stesso un uomo d’affari, la soluzione sarebbe resa più agevole. Egli non istituirebbe commissioni, sovratutto miste di delegati di ministeri diversi: che è un modo di far perder tempo a uomini molto affaccendati per non decidere nulla. Ma deciderebbe senz’altro, dopo aver sentito il parere di altri industriali, negozianti, delegati di leghe operaie, cooperatori anche costoro, se sono i veri dirigenti delle leghe e delle cooperative e non i soliti professionisti buoni a far tutto, che seggono negli innumerevoli consigli e rappresentanze e nel parlamento, hanno certamente saggi consigli da dare – di cui egli dovrebbe e saprebbe circondarsi.

 

 

Probabilmente il sottosegretario eviterebbe di far tutto e di attuare un piano «completo». Le vie della salvezza sono molte. Qui occorrerà semplicemente consigliare ed incitare, perché le cose si fanno già da sé ed occorre solo la spinta di chi sa far vibrare la corda dell’amor patrio e dell’ambizione di servire il paese. Là occorrerà integrare con sussidi pecuniari o con altri aiuti l’iniziativa privata. Altrove occorrerà sostituirsi addirittura all’iniziativa privata che non esiste od è scomparsa. Chi può formulare un piano prestabilito in quest’opera che è tutta di intuito, di tatto, di adattabilità delle decisioni ai casi vivi mutabili di giorno in giorno? Uomini competenti e non piani sapienti: ecco ciò che occorre nel momento attuale. Non è rivelare un segreto ricordare che allo scoppio della guerra italiana l’amministrazione della guerra aveva predisposto un piano per assumere direttamente in sue mani la gestione ferroviaria; le ferrovie avrebbero dovuto essere gerite direttamente dalla gerarchia militare. Se v’era desiderio legittimo era questo poiché in tempo di guerra tutto deve essere subordinato al comando militare.

 

 

Fu osservato tuttavia che la sostituzione di orari nuovi, segnalazioni nuove, dirigenti nuovi avrebbe disorganizzato il servizio; e le ferrovie furono lasciate ai ferrovieri. Il plico misterioso, contenente le norme per il servizio di guerra, dorme ancora sotto sette suggelli, nelle casseforti delle stazioni italiane. E si adottò il principio: il comando militare ordini ed i ferrovieri eseguano. Fu un principio provvidenziale. La ferrovia, lasciata in mano ai competenti, fece miracoli, che coloro i quali sanno dicono superiori alle meraviglie tedesche. L’esercito fu servito; ed i treni continuarono a correre per l’industria e per la popolazione civile. Così si dovrebbe fare dappertutto: requisire i competenti.

 

 

III

Il decreto, il quale nomina l’ing. Riccardo Bianchi a commissario per i carboni è un buon provvedimento, il quale pecca soltanto per eccesso e per difetto.

 

 

È fuor di dubbio essere stata cosa provvida l’aver affidato il servizio dei carboni ad una sola persona apprezzata da coloro che la conoscono per la sua perizia, la sua energia organizzatrice e la sua capacità di veder lontano.

 

 

Importa certamente non avere illusioni, immaginando che un uomo possa colla sua forza di volontà far spuntare dal nulla il carbone ed eliminare gli effetti della guerra sottomarina, della scarsità del tonnellaggio e della crescente enorme domanda di prodotti bellici. Ma importa del pari non seguire vie le quali, per lunga esperienza, rendono più difficile l’opera di quell’uomo a cui la fiducia del governo ha affidato la soluzione del problema. A questo riguardo sembra davvero che il decreto contenga un eccesso di precauzione.

 

 

L’ing. Bianchi è soggetto ad un comitato di ministri, composto in parte di ministri, aventi una competenza determinata e di essa gelosi custodi, ed in parte di un ministro senza occupazione fissa, perché senza portafoglio. Un organo dunque per se stesso poco adatto a risoluzioni rapide. Né basta: il Bianchi deve sentire le proposte di un comitato centrale per la ripartizione dei carboni; può presentare i suoi voti alla commissione per il traffico marittimo ed alle sue sottocommissioni per tutto quanto si riferisce ai noli; e sulla proposta del comitato centrale carboni può fissare i prezzi massimi per i carboni stessi.

 

 

Se si pecca per eccesso di comitati e di commissioni, fanno invece difetto al commissario i poteri per risolvere in modo unitario il problema. Egli non può occuparsi dei carboni nazionali, come se l’utilizzazione e la ripartizione delle ligniti non fossero in rapporto con quella dei carboni esteri. Nulla è detto dei metalli; nulla dei noli. Occorre sempre e occorre sovratutto in questi tempi febbrili di guerra, risolvere problemi di questo genere: per produrre una tonnellata di acciaio è preferibile importare due tonnellate di carbone per utilizzare il minerale di ferro esistente in paese; ovvero meno carbone ed una tonnellata di rottami? Per lo più le due soluzioni non si escludono; variando all’infinito e di momento in momento le combinazioni più utili ad adottarsi. Il problema deve essere risoluto al tempo stesso, essendo carbone e metalli i due fattori principali della resistenza bellica. E già fu osservato: chi dice carboni e metalli non li pensa in Inghilterra od a New York od in India – anche dall’India e dall’Egitto vennero rottami di ferro – ma li pensa trasportati in Italia. Come è possibile che il problema del trasporto possa essere risoluto da un commissario, il quale debba dipendere dal beneplacito di innumeri e benemerite commissioni?

 

 

L’unità è anche necessaria nel tempo. Il commissario ai carboni ed ai metalli deve badare non solo all’oggi, ma anche e sovratutto al domani. Deve avere la vista lunga e preparare subito ciò che occorrerà fra due, tre, sei mesi, un anno. Ma egli deve potere scartare senza compassione tutto ciò che gli può fare concorrenza oggi e domani; e che, utile a raggiungere i fini di pace, può essere dannoso ai fini della guerra. Il commissario o dittatore degli approvvigionamenti bellici deve poter dire: io non voglio che si mettano sul cantiere nuove navi, perché ciò mi obbliga ad importare carboni e metalli, i quali mi sono e mi saranno necessari durante la guerra per altri fini più urgenti. Egli deve poter dire: io non voglio che si inizino impianti industriali, i quali potranno essere magnifici per il dopo guerra, ma frattanto rubano operai, metalli, cemento, ecc. ecc. alla produzione bellica. Ed egli deve avere l’autorità di farsi ubbidire.

 

 

Perché il problema possa essere risoluto, occorre abbia fine la tragicomica guerra di competenze fra ministeri. Il pubblico avrà torto; ma è persuaso che i comitati di ministri, le commissioni composte di funzionari delegati dai vari dicasteri abbiano per compito essenziale di perdere il tempo nell’usurpare le competenze altrui e nel non lasciarsi rubare le proprie. Gli on. Arlotta ed Ancona probabilmente non vogliono si tocchi nulla alla competenza del nuovo ministero dei trasporti; gli on. Bonomi e De Vito tengono ben stretto ciò che spetta al ministero dei lavori pubblici; gli on. De Nava, Raineri, Canepa ecc. difendono le attribuzioni degli sdoppiati dicasteri di agricoltura, industria e commercio.

 

 

Tutto ciò è irritante sempre in tempo di pace; essendo indice di scarsa coordinazione e di uso dei mezzi diplomatici di azione (protocolli, lettere, passacarte) ai metodi industriali (telefono ed intese verbali). Ma è inquietante in tempo di guerra. I ministri, pieni di ottime intenzioni, in breve respirano l’aria dei ministeri; e nei ministeri la burocrazia non si è ancora accorta che l’Italia è in guerra. Crede di essersene accorta solo perché legifera ed arricchisce a decine ogni giorno la raccolta dei decreti luogotenenziali. Legiferare però non è un fare la guerra; forse è soltanto un frastornarla. I ministri devono avere l’abnegazione di passar sopra alle suscettibilità della burocrazia di governo. Gioverà loro assai di più essere responsabili dinanzi al parlamento dell’azione di pochi uomini tecnici, scelti per le loro attitudini ed in cui abbiano fiducia, che non di quella della macchina amministrativa solita. Del resto, anche dopo aver abdicato ai loro poteri in due o tre campi, nei quali i metodi consueti di azione non servono, rimarrà ai ministri ancora tanto da fare! Vi sono forse in Italia uomini più oppressi dal lavoro dei ministri? Gli uomini politici devono adattarsi all’idea che bisogna lasciar fare i tecnici e dar loro mani libere. In Inghilterra ed in Francia hanno finalmente compreso tale necessità, dopoché la Germania aveva chiamato al tesoro un banchiere ed agli approvvigionamenti di guerra il capo di una azienda elettrica. Nel ministero Lloyd George due dei membri più cospicui sono lord Devonport e sir A. H. Stanley. Lord Devonport, controllore dell’alimentazione, nacque col nome di Hudson E. Kearley da un fittavolo rurale e cominciò la sua carriera come fattorino in un magazzino da tè. Divenne ben presto il maggiore negoziante di coloniali dell’Inghilterra. Creato baronetto, col nome di sir Hudson Kearley organizzò ex-novo il porto di Londra; e sei anni fa fu creato lord Devonport. Il suo collega sir Albert Stanley cominciò la sua carriera, come Albert Stanley, in qualità di controllore delle tranvie in Detroit, nel nord-centro degli Stati uniti. Nove anni fa, già famoso come organizzatore ferroviario, venne a Londra per unificare ed elettrificare le ferrovie sotterranee di Londra. Tre anni fa fu naturalizzato inglese e subito dopo gli fu dato il titolo di sir. Oggi è ministro. In Francia, due sottosegretari agli ordini del Thomas, sono due tecnici: il signor Claveille, amministratore di ferrovie, e Loucheur, industriale dell’acciaio.

 

 

Da noi, si ha paura di dare a chi fu già a capo della principale nostra amministrazione di stato, i poteri necessari per fare sul serio e senza pastoie. Si ha paura di lasciar mano libera ai tecnici; si ha timore che qualcuno dica essersi il governo inchinato dinanzi agli «interessati».

 

 

Aver dato ascolto agli «interessati»: questa è una delle più gravi colpe che si possano muovere agli uomini politici italiani. Fa d’uopo però anzitutto vincere la guerra, e perciò fa d’uopo vincere la paura degli «interessati» che è una paura «romana», una paura «burocratica». È naturale che gli industriali ed i commercianti veggano prima degli uomini politici la convenienza di operare in un dato modo per assicurarsi la maggiore quantità possibile, ad esempio, di acciaio. I primi sono rotti al mestiere e quindi sarebbero degli inetti se non sapessero vedere subito dove sta la radice del male e quali sono i rimedi possibili ed efficaci; mentre sarebbe strano rimproverare ai secondi di non sapere ciò che non è dover loro conoscere e ciò a cui la loro educazione politica non li ha preparati. È dovere dei politici, che sono necessariamente dei generici, di sentire i competenti e di seguirne l’avviso, quando si siano persuasi che esso è conforme all’interesse generale. Così fece il signor Lloyd George nell’agosto 1914. Ben sapendo di essere interamente digiuno di cose monetarie e bancarie si mise nelle mani di sperimentati e reputati uomini di finanza e ne seguì l’avviso con prontezza ed energia. Così fece anche in seguito per far sorgere le fabbriche di munizioni. Furono probabilmente le due sole cose buone che egli fece sinora nel campo economico e finanziario; ed è doveroso, anche da chi non lo ha mai avuto in gran concetto, dichiarare che, così operando, egli dimostrò di avere alcune vere qualità di uomo di stato.

 

 

In Italia, purtroppo, domina a questo riguardo una detestabile timidità. Se gli interessati sono molti, se costituiscono classi numerose di operai, di contadini, di agricoltori, non vi è ministro che non si affretti a far suoi i loro voti. Allora gli «interessi» diventano «legittime e sante rivendicazioni» anche se si tratta di interessi nettamente contrari al pubblico vantaggio.

 

 

Ma se, Dio guardi! coloro i quali esprimono un’opinione ragionevole sono pochi e grossi industriali e commercianti, allora bisogna fare tutto il contrario, ossia commettere spropositi solo per non essere sospettati di fare gli interessi dei pochi.

 

 

Nell’agosto 1914, il signor Lloyd George non poteva andare a chiedere l’avviso delle moltitudini per sapere come frenare la imminente crisi di borsa e la rovina finanziaria di Londra. Doveva chiederlo a pochi, anzi a pochissimi, ed agli interessati, perché soltanto costoro potevano esprimere un parere degno di essere meditato e seguito. Lo stesso dicasi oggi in Italia delle munizioni. Pochissime persone sono in grado di dire qualcosa di serio intorno al carbone ed all’acciaio; ed è giuocoforza ed è ragionevole sentire solo l’avviso di costoro, nulla curando le vociferazioni degli incompetenti.

 

 

L’uomo di governo ha il solo dovere di persuadersi che la via consigliata è la buona. Ma se egli di ciò è persuaso, non gli deve venir meno il coraggio di seguire il parere migliore solo per la paura di essere sospettato di connivenza con interessi privati. Operando altrimenti, egli farebbe il danno del paese.

 

 


[1] Con il titolo Requisire i competenti. [ndr]

[2] Con il titolo La ridda dei comitati e delle commissioni e la fobia dei competenti. [ndr]

I cinque prestiti di guerra

I cinque prestiti di guerra

«Corriere della Sera», 13 gennaio[1], 18[2] e 28[3] giugno, 16 luglio[4], 26 dicembre[5] 1915, 6 febbraio[6], 10 marzo[7] 1916, 4 febbraio[8], 27 marzo[9] 1917, 15[10] e 30[11] gennaio 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 83-132

 

 

I

Il primo prestito

 

I risultati della sottoscrizione per il prestito nazionale dimostrano come l’appello del governo sia stato largamente ascoltato dai risparmiatori italiani. Le notizie comunicate ufficialmente, e tuttora incomplete, dicono invero che i privati sottoscrittori hanno offerto più di 80 milioni di lire, aggiungendo ai quali i 500 milioni del consorzio bancario di garanzia, si superano il miliardo e 300 milioni. Così lo stato potrà, pur soddisfacendo completamente alle domande dei privati sottoscrittori, limitarsi, per il completamento del miliardo, a richiedere meno di 200 milioni di lire al consorzio bancario.

 

 

Caratteristica confortante di questo prestito è che le sottoscrizioni sono venute dalle grandi e insieme dalle piccole città, e ancora dai borghi rurali; dal mezzogiorno d’Italia e dalle isole, come dal settentrione; e sovratutto che ad esse hanno partecipato relativamente più i piccoli risparmiatori, le borse minute, che i maggiori capitalisti. È stata la fiducia dei molti, della gente che ha fede nella parola dello stato, e che non teme di affidargli la propria piccola fortuna sudata a frusto a frusto, quella che ha creato il successo del prestito.

 

 

Il successo è reale, senza esagerazioni morbose, e ciò era desiderabile nell’interesse generale. Le sottoscrizioni vistose, di due, tre, dieci, quaranta volte il prestito, che si usavano in qualche paese straniero, sono un indice patologico e fanno mal presagire del risultato reale del prestito. L’ultimo esempio clamoroso si ebbe, prima della guerra, in Francia, per il prestito di 900 milioni nominali, e 805 milioni effettivi, emesso il 7 luglio al corso di 91, e al saggio lordo d’interesse del 3,50%. Il successo fu apparentemente colossale: i 900 milioni furono sottoscritti 40 volte. In realtà, l’enormità delle sottoscrizioni dimostrò che i veri risparmiatori si erano tenuti in disparte, disperati di poter ottenere la somma che essi desideravano; e i sottoscrittori furono sovratutto banche e intermediari, i quali corsero ad accaparrarsi il prestito, nella speranza di poter rivendere con profitto i titoli ai veri risparmiatori. Venne la guerra; e sarebbe potuta avvenire una crisi finanziaria, che già si addensava sull’orizzonte francese; gli speculatori si trovarono nell’impossibilità di ritirare i titoli che avevano ad esuberanza sottoscritto, e i corsi caddero sin verso l’80, e adesso di poco superano l’87, sebbene il governo abbia promesso di accettare al corso di 91 i titoli 3,50% nelle future sottoscrizioni di prestiti che si dovranno emettere a più alto saggio d’interesse per liquidare le spese della guerra. Un prestito troppe volte sottoscritto è un prestito fluttuante sul mercato, in balia ad ogni stormir di fronda di cui la speculazione possa prender paura. L’ideale di ogni prestito sarebbe che venisse sottoscritta esattamente la quantità offerta, né più né meno. A questo ideale ci avviciniamo o lo superiamo, a seconda che non si tenga o si tenga conto dei 500 milioni del consorzio di garanzia, che sono pure sottoscrizioni reali, che le singole banche hanno a priori assunto nella fiducia di poter collocare la quantità sottoscritta fra la propria clientela.

 

 

Da informazioni che ho ragione di ritenere fondate, non si è verificato in Italia il fenomeno, spesso accaduto in passato in Germania e in Francia, di sottoscrizioni superiori alla cifra che realmente i sottoscrittori intendevano ritirare. Per fortuna i risparmiatori italiani non sono ancora abituati a simile espediente per far fare grande figura alle cose piccole, e spettacolosa alle cose grandi. I sottoscrittori, in prevalenza appartenenti alle medie e piccole borse, hanno sottoscritto per le somme che erano sicuri di avere a propria disposizione, e nulla più. Alcuni non hanno osato nemmeno disporre di tutto il proprio deposito bancario, malgrado le esplicite dichiarazioni dei decreti reali, per timore che la moratoria in realtà dovesse ancora frapporre qualche ostacolo al ritiro delle somme. Le banche le quali non volevano esporsi a critiche da parte della propria clientela non hanno spinto a sottoscrivere più delle somme realmente disponibili, e hanno fatto bene.

 

 

Se un fenomeno può essere constatato sicuramente, questo è l’astensione di molti risparmiatori, specialmente di quelli che appartengono ai ceti più danarosi. Il prestito emesso al tasso del 4,64%, nelle presenti condizioni del mercato monetario era sovratutto un buon affare per lo stato il quale si obbligava a pagare un mite saggio d’interesse, e per i risparmiatori delle classi medie e modeste, i quali dovevano contentarsi dei modesti frutti del 3 e del 3,50% offerti dalle casse di risparmio e dagli impieghi assolutamente sicuri, quali sono quelli che soltanto convengono alle modeste fortune; e questi risparmiatori hanno trovato una fortunata occasione per fare un ottimo investimento dei loro risparmi.

 

 

Ho però l’impressione che, salvo eccezioni sempre numerose, le borse più grosse non abbiano concorso molto al successo del prestito. Mi limito a constatare il fatto, il quale dimostra due cose. La prima si è che la raccolta di 800 milioni fra le grandi masse risparmiatrici è un trionfo quale nessuno avrebbe creduto possibile un tempo: mentre la seconda è che nel paese esistono ancora forti masse di risparmio disponibile, costituenti una riserva, la quale dovrà venir fuori in caso di bisogno, quando lo stato dovesse una seconda volta far appello al credito pubblico. In quel giorno si potrà fare a meno di porre ai ricchi italiani l’alternativa che fu posta or ora in Olanda: o accorrere a sottoscrivere il prestito volontario, ovvero rassegnarsi a obbedire a un prestito forzato. Se il governo saprà eventualmente attenersi, come ha fatto questa volta, alle condizioni del mercato, un altro miliardo dovrebbe essere sottoscritto da quello strato di risparmiatori che oggi ha preferito tenersi in disparte.

 

 

Ho detto che l’essere stati sottoscritti 1 miliardo e 300 milioni in tutto, di cui 800 dai privati sottoscrittori, è un trionfo del piccolo e medio risparmio in Italia. Non dimentichiamo invero che, se l’Italia ha pagato il 4,64%, ha pagato più del 4% inglese, ma assai meno della Francia, che a stento è riuscita finora ad emettere 700 milioni di buoni della difesa nazionale (al 5%) e se ha voluto ottenere altri 250 milioni ha dovuto rivolgersi al mercato di Londra e pagare di nuovo il 5%; assai meno della Germania, la quale, tenuto conto dei premi al rimborso, ha pagato per il suo prestito di 5 miliardi e mezzo di lire poco meno del 5,50%; e meno persino della Svizzera, la quale è tornata al tipo 5%. Né occorre parlare dell’Austria, dell’Ungheria e della Russia, dove i saggi di interesse superano il 6 e 7%.

 

 

Tenendo conto anche soltanto degli 800 milioni, questa è una cifra la quale eguaglia l’1% della fortuna nazionale, largamente valutata in 80 miliardi di lire. In confronto alle loro rispettive fortune, le sottoscrizioni estere non appaiono di tanto più riuscite: in Germania il prestito di 5 miliardi e mezzo di lire, rappresenta l’1,50% della fortuna nazionale; e nei 5 miliardi e mezzo sono comprese le sottoscrizioni di banche, che sono state escluse dagli 800 milioni italiani. Né in Germania l’odierna sottoscrizione era stata preceduta, negli ultimi anni, dalle emissioni a getto continuo di buoni del tesoro, che dal 1912 in poi hanno in Italia assorbito così gran parte delle disponibilità monetarie del paese.

 

 

Qui si tocca il punto più delicato, e forse dolente della situazione monetaria italiana nel momento presente. Quando si stavano emettendo, a blocchi di 300 milioni per volta, i buoni del tesoro quinquennali 4%, io ebbi ripetutamente a manifestare il mio dissenso rispetto alla via seguita. L’emissione di buoni del tesoro a breve e brevissima scadenza – fra buoni quinquennali e buoni ordinari si era giunti alla vigilia della guerra a circa 1 miliardo e mezzo – era parsa a me allora, e pare ancor adesso, imprudente; poiché apparecchiava giorni affannosi agli uomini di governo che avessero poi dovuto reggere in momenti gravi il timone dello stato. Dicevo allora, e la guerra non era scoppiata né era preveduta, che il ministro del tesoro deve sempre cercare di conservare o di ristabilire una situazione del tesoro assai liquida in guisa da poter ricorrere, quando l’orizzonte si oscuri, ai buoni del tesoro come al mezzo più facile, più pronto di far denaro. Non si volle, e si preferì lasciare all’avvenire il compito di sbrogliare la matassa. Si poteva in tempi tranquilli – dopo la pace di Losanna e anche durante la guerra di Libia, la quale non aveva esercitato nessuna influenza sui mercati europei e poca influenza aveva avuto in Italia, di gran lunga minore della semplice ripercussione della guerra europea – si poteva emettere un prestito di 2 miliardi, e sarebbe stato largamente sottoscritto. Non si volle, perché si aveva l’ubbia di non voler emettere prestiti propriamente detti, come se i buoni del tesoro quinquennali non fossero una maniera di prestito, diversa dalle ordinarie soltanto perché essa è adatta ai tempi di grande commozione e non conveniente nei tempi tranquilli. Non si volle, perché si aveva timore di far ribassare la rendita 3,50%, come se i corsi alti di una rendita, il cui saggio non corrisponde più a quello del mercato, non fossero un indice erroneo della ricchezza e della forza di un paese. Oggi gli on. Salandra e Carcano hanno avuto il coraggio di un prestito a lunga scadenza, e non hanno avuto timore di emetterlo al 4,50%. Il paese ha risposto al loro appello, ed essi hanno ben meritato del paese, come accade sempre a quelli i quali fanno una finanza sincera e chiamano prestiti i prestiti e imposte le imposte. Se si fosse sempre operato a questo modo, le condizioni del tesoro italiano sarebbero granitiche. Siamo almeno lieti che gli uomini, i cui nomi ho sopra ricordato a titolo d’onore, abbiano contribuito ad irrobustirlo, osando in tempo di guerra di lanciare quel prestito che non si era voluto emettere in tempo di pace!

 

 

Grazie al concorso delle masse risparmiatrici, la cui virtù mai non rifulse così vivida come nei momenti gravi, il tesoro italiano oggi è in grado di affrontare i cimenti a cui la fortuna d’Italia volesse chiamarlo. Sia lode e plauso alla gente modesta e fidente!

 

 

II

Il secondo prestito

Questo prestito di guerra italiano è la prosecuzione del prestito nazionale del miliardo emesso nel gennaio scorso per la preparazione alla guerra. Essendo ormai conosciute le modalità particolari, ben nota e familiare ai risparmiatori ed entrata nelle consuetudini delle contrattazioni la cartella del prestito, fa saggio consiglio offrirne una nuova identica serie nell’occasione della presente guerra. Le troppo numerose specie di titoli intralciano le contrattazioni; conquistano diverso favore presso il pubblico; sicché i prezzi giornalieri sono spesso instabili e nominali. Le obbligazioni del «nuovo» prestito nazionale, confondendosi con quelle del «primo» prestito, con cui hanno comuni le caratteristiche del reddito percentuale, della scadenza al 1° gennaio 1940 e del diritto di riscatto da parte dello stato dopo il 1° gennaio 1925, comporranno con esse una massa imponente, la quale avrà un grande mercato e possederà quindi le migliori attrattive per i sottoscrittori. Costoro sapranno di potere, in qualunque momento, comprare o vendere il titolo, ed a prezzo effettivo e normale, perché, su così gran massa, ogni giorno vi sarà chi vorrà vendere e chi vorrà comprare, e dalle molte contrattazioni uscirà fuori un prezzo normale e non oscillante accidentalmente. Il quale ottimo risultato non si sarebbe ottenuto se il tipo del prestito fosse stato diverso da quello precedente; e si fossero dovuti formare due separati mercati, più piccoli e perciò più incerti ed instabili.

 

 

Questa la ragione tecnica fondamentale del metodo prescelto nella emissione del nuovo prestito nazionale.

 

 

La sua caratteristica più spiccata, quella che lo deve raccomandare ad ogni italiano il quale possegga od abbia fiducia di possedere entro l’anno un risparmio, piccolo o vistoso che esso sia, è tuttavia una caratteristica «morale». Il governo italiano ha saputo, in questa occasione solenne, dimostrare che i metodi finanziari migliori, più sicuri del successo, sono quelli che rendono ossequio alla equità ed al senso di parità di trattamento fra tutti quelli che hanno concorso e concorreranno a fornire all’erario i mezzi per la condotta della grande impresa nazionale della conquista dei confini d’Italia.

 

 

Quale motivo aveva trattenuto alcuni risparmiatori dal sottoscrivere al primo prestito nazionale del gennaio scorso? La speranza o la persuasione che, entrando l’Italia in guerra, altri prestiti si sarebbero dovuti emettere, a condizioni più favorevoli per i sottoscrittori. Dissero costoro: a che pro sottoscrivere oggi un 4,50 a 97, quando fra alcuni mesi potremo avere lo stesso 4,50 a 95 o 94 o 93 lire o forse un 5% a 100 lire? Questa psicologia dell’aspettativa sarebbe stata ragionevole, se i reggitori della finanza italiana fossero stati uomini indifferenti alle ragioni della parità di trattamento verso coloro che, prima o dopo, concorsero ad apprestare i mezzi necessari alla fortuna della patria. Il calcolo dei ritardatari si chiarì un calcolo sbagliato perché gli on. Salandra e Carcano hanno visto chiaramente che il credito di uno stato tanto più si eleva quanto più il suo governo tien fede non solo alle promesse formalmente fatte, ma persino alle aspettative di quelli che in passato ebbero fiducia nello stato. L’on. Carcano non aveva dichiarato che altri prestiti non vi sarebbero stati, e neppure che, insorgendo il bisogno di emetterli, essi sarebbero stati fatti a condizioni uguali a quelle offerte nel gennaio. Nessun diritto a risarcimenti od a favori avevano dunque i sottoscrittori del primo prestito; ma l’equità consigliava che ad essi i quali, primi, erano venuti in soccorso dell’erario, mentre altri, più calcolatori, si traevano in disparte, non venisse fatta una sorte peggiore di quella che si offriva ai nuovi sottoscrittori.

 

 

Questa l’idea madre, l’idea feconda, la quale sta a fondamento del nuovo prestito nazionale. Il prestito deve fare appello ad una più vasta schiera di risparmiatori, deve penetrare in tutti i più piccoli centri della penisola, deve avere la virtù di trarre fuori dai forzieri, dalle cassette di sicurezza, dai cassetti più riposti, dai ripostigli sicuri tutti i risparmi disponibili degli italiani. Epperciò è naturale che, per avere questa maggior virtù attrattiva, il prestito odierno sia offerto ad un prezzo più basso: a 95 lire invece che a 97 lire.

 

 

Ma è equo, è altamente significativo che ai vecchi sottoscrittori, i quali hanno versato 97 lire, sottoscrivendo 1 miliardo di lire, venga fatta la condizione, di favore, di poter sottoscrivere, fino a concorrenza delle obbligazioni vecchie possedute, altrettante nuove obbligazioni al prezzo di 93 lire per cento nominali. Così la condizione del sottoscrittore al primo prestito viene parificata a quella del nuovo sottoscrittore; poiché egli, avendo versato 97 lire sulla vecchia obbligazione e 93 sulla nuova, «in media» avrà versato 95 lire, ossia precisamente la stessa somma pagata dai nuovi sottoscrittori.

 

 

Né basta. Il governo non ha voluto solo dimostrare, «col fatto», quanto fosse geloso tutore della equità verso tutti i risparmiatori, vecchi e nuovi; ma ha voluto vincolarsi a serbare la stessa equità in avvenire. Leggasi l’articolo 4 del decreto legislativo: «Se in avvenire, fino a tutto il 1916, si rendessero necessarie nuove emissioni di obbligazioni, e le relative condizioni fossero più favorevoli, per i sottoscrittori, di quelle stabilite nel presente decreto, le condizioni medesime saranno estese ed applicate ai titoli emessi per virtù di questo stesso decreto».

 

 

Nessuno può prevedere quanto durerà la guerra; né quale sarà il suo costo. Nessuno oggi può sapere se, conchiusa la pace, non saranno necessari nuovi prestiti per assestare e consolidare le pubbliche finanze. Non è parimenti dato di sapere oggi se, mutando le condizioni del mercato, non debba in avvenire essere opportuno consiglio emettere un terzo prestito nazionale a condizioni ancora più favorevoli per i sottoscrittori: a 90 lire ad esempio, se di tipo 4,50, o fors’anco di un nuovo tipo, con un maggior saggio di interesse. Orbene, quelle migliori condizioni saranno senz’altro estese ai sottoscrittori del presente secondo prestito. Il presente titolo sarà parificato in tutto, sia per il saggio dell’interesse, sia per il prezzo di emissione, con modalità facili a determinarsi, al nuovo titolo che eventualmente potesse essere emesso, a migliori condizioni, fino a tutto il 1916. Ecco una solenne promessa dello stato di trattare gli attuali sottoscrittori alla stessa stregua dei futuri sottoscrittori, ove a costoro credesse di dover offrire condizioni migliori. La promessa trae vigore specialissimo dal fatto che, «senza esserci obbligato», oggi il governo ha creduto suo dovere di parificare ai nuovi sottoscrittori anche quelli del gennaio scorso.

 

 

La convenienza dei risparmiatori italiani a sottoscrivere si presenta dunque chiara. Il «nuovo» sottoscrittore, pagando 95 lire l’obbligazione del valore nominale di 100 lire, ottiene un reddito del 4,73%, ove «non» si tenga conto del vantaggio del premio di 5 lire che si otterrà al momento del rimborso; ed un reddito del 4,843% netto, ove di questo premio, come è logico, si tenga calcolo. Il «vecchio» sottoscrittore, colui cioè che eserciterà l’opzione spettante ai portatori delle obbligazioni del primo prestito nazionale, pagando 93 lire, per ogni 100 nominali, farà dal canto suo un impiego di capitale al 4,84 «non» tenendo conto ed al 4,988%, qualora tenga conto del premio di 7 lire al rimborso. Chiara è quindi la convenienza dell’impiego. In sostanza, il vecchio sottoscrittore ha dinanzi a sé un impiego al 5% netto in cifra tonda; di cui il 4,84% sotto forma di un interesse di 4,50 lire per 93 lire versate, ed il resto sotto forma di un premio di 7 lire al rimborso. Il nuovo sottoscrittore, il quale pagherà 95 lire, otterrà un reddito alquanto minore, ma sempre soddisfacentissimo. Nessun titolo italiano di uguale sicurezza, di così facile commerciabilità, di taglio così comodo oggi offre un rendimento così alto. Nessun altro titolo, a reddito fisso, porta con sé la speranza, anzi la certezza di «un aumento di reddito», nella eventualità di nuove emissioni, fino a tutto il 1916, di prestiti a migliori condizioni da parte dello stato. Nessuno ha quindi ragione di attendere; neanche dal punto di vista più ristretto dell’interesse pecuniario. Se nel 1915 o nel 1916 si emetteranno nuovi prestiti più favorevoli, l’attuale sottoscrittore godrà senz’altro del maggior reddito. Frattanto comincierà subito a fruire di un interesse elevato, del 4,988 per i vecchi e del 4,84% per i nuovi sottoscrittori, che alcun tempo fa sarebbe stato follia sperare.

 

 

Le ragioni d’interesse non sono le sole che devono spingere i risparmiatori italiani a rispondere con slancio e con entusiasmo all’appello del governo. Su queste ragioni mi sono dilungato, per spiegare come esse rispondano ad un elevato rispetto dell’equità da parte dello stato. Nel momento presente però il risparmiatore italiano sente che la spinta dell’interesse si sposa all’imperativo del dovere verso la patria. Questo è il tempo dei fatti operosi e concordi: il soldato, il quale combatte e versa il sangue per la patria, deve sapere che, dietro di sé, non vi è nessuna incertezza; che i capitalisti, i quali hanno disponibili le centinaia di migliaia di lire, che i risparmiatori minuti, i quali posseggono le centinaia e le poche migliaia di lire, che i proprietari, i quali attendono i raccolti od i fitti, che gli impiegati in attesa dello stipendio, tutti accorrono volonterosi a dare allo stato «tutto» quanto essi hanno, anzi di più di quanto essi hanno oggi, elevando le sottoscrizioni fino a comprendere i redditi del prossimo avvenire. Il secondo prestito nazionale dovrebbe avere un successo non inferiore al primo, ove anche si tenesse soltanto conto delle sue felici caratteristiche finanziarie; ma ne avrà uno di gran lunga maggiore, ove gli italiani pensino che oggi il dovere primo di tutti è di provvedere, è di contribuire alla vittoria; è di rinunciare a qualche cosa, di prorogare una spesa non urgente, è di compiere un sacrificio possibile pur di raggiungere la meta. Questa è alta: gli uomini che ad essa ci guidano hanno il polso fermo e la volontà sicura. Provvedano gli italiani a fornire loro con larghezza pronta i mezzi materiali necessari alla maggior grandezza della nostra patria!

 

 

III

 

Su alcune modalità del nuovo prestito nazionale è opportuno di ritornare, affinché la nozione di esso risulti chiara ai molti, i quali vorranno accorrere ad affidare i propri risparmi allo stato, con sicurezza e buon frutto da parte loro e con vantaggio grande, d’altra parte, della cosa pubblica. Una guerra, giusta e necessaria, come la nostra, non si conduce senza mezzi finanziari adeguati; e questi non si possono tutti chiedere alle emissioni di biglietti a corso forzoso. La massa di questi può crescere senza pericolo grave a due condizioni:

 

 

  • che si provveda ai pagamenti che lo stato ed i privati debbono fare all’estero, con prestiti e con aperture di credito nelle piazze straniere dove si devono eseguire i pagamenti. A questo punto si è provveduto nel convegno che ebbe luogo a Nizza fra il cancelliere inglese dello scacchiere, signor McKenna, il governatore della Banca d’Inghilterra ed il ministro italiano del tesoro, on. Carcano, il quale era accompagnato dal comm. Stringher, direttore generale della Banca d’Italia. Grazie a questa collaborazione italo-inglese, i nostri dirigenti avranno in mano un potente strumento per eseguire i pagamenti di forniture all’estero e per regolare i cambi in genere coll’estero;
  • che un prestito interno, il cui versamento sia graduato nel tempo, permetta di riassorbire quei biglietti che fossero stati emessi nella circolazione del paese in quantità forse eccedente. Il governo, per far fronte ai suoi pagamenti, emette, via via, 300 milioni e poi altri 300 e poi ancora altre somme di biglietti? Occorre che sia emesso un prestito, affinché i sottoscrittori, pagando nelle diverse rate 300 e poi 300 milioni di lire e poi altre somme ancora, restituiscano nelle casse dello stato quei biglietti che erano esuberanti.

 

 

Il problema che si tratta di risolvere è dunque delicato: lo stato comincia a spendere quanto occorre per la condotta della guerra, facendosi fornire biglietti dagli istituti di emissione; ed emette poscia un prestito, il quale dovrebbe restituire nelle sue casse i biglietti che prima ne erano usciti, così da impedire che i biglietti circolanti crescano troppo. Crescere dovranno, poiché le spese sono molte; ma è bene che l’aumento sia assorbito dal provento di prestiti.

 

 

Poiché non è possibile prevedere quali saranno le spese della guerra, dipendendo esse dalla sua durata, dal consumo di munizioni e di materiale da guerra, dal suo teatro, ecc. ecc., era difficile concretare in una cifra precisa il fabbisogno dell’erario, sicché parve prudente consiglio non fissare un massimo al prestito di guerra. Lo stato accetterà tutte le somme che gli saranno offerte. Così si fece in Germania, in occasione del primo prestito di 4 miliardi e mezzo di marchi e del secondo di 9 miliardi; così si fece in Austria-Ungheria per amendue i prestiti colà emessi; così si fa in Francia colla emissione a gitto continuo delle obbligazioni e dei buoni della difesa nazionale, per cui si sono raccolti già più di 6 miliardi. In Inghilterra invece il grande prestito di guerra fu enunciato nelle somme fisse di 350 milioni di lire sterline; ma in seguito si adottò del pari il metodo delle emissioni illimitate, a gitto continuo, di buoni del tesoro, venduti dalla Banca a prezzo fisso a chiunque di giorno in giorno ne faccia domanda.

 

 

I prestiti per cifre illimitate sono in parte novità, ma novità ragionevoli consigliate dappertutto dalla esperienza di questa guerra divoratrice di capitali enormi. Altrove i capitalisti ed i risparmiatori hanno risposto con entusiasmo all’appello dello stato. Non è tempo questo di consigli pavidi e di incertezze. Pensino coloro che hanno o potranno avere nel secondo semestre del 1915 capitali disponibili che è non solo loro dovere, ma loro urgente interesse versarli tutti allo stato. Ben più forti versamenti, ed a fondo perduto, dovettero fare gli sventurati belgi, a cui fece difetto sin dall’inizio l’apparecchio militare atto a tener lontano il nemico dal territorio della loro patria! Ora, l’apparecchio finanziario è parte integrante dell’apparecchio bellico; e come i soldati spargono il loro sangue, così quelli rimasti a casa devono versare il loro denaro, e tutto il loro denaro, allo stato. Tanto più che, come già dimostrai, il versamento è fatto con assoluta sicurezza di rimborso, con un premio, alla restituzione, di 5 o 7 lire e con ottimo frutto annuo nel frattempo.

 

 

La mancanza di un limite fisso al prestito non è senza vantaggi di semplicità per il sottoscrittore. Tutte le sottoscrizioni diventano, per questo carattere del prestito, irriducibili. Non vi è più la incertezza intorno alla accettazione o meno da parte dello stato di tutta la somma offerta dal sottoscrittore. Ogniqualvolta lo stato emette un prestito per una somma fissa, ad esempio 1 miliardo, i sottoscrittori pensano: che cosa accadrà se le sottoscrizioni supereranno il miliardo? Di quanto lo supereranno? Quanto mi sarà assegnato sulle 1.000 o 10.000 lire che ho sottoscritto? Forse 800 od 8.000 lire e forse solo 500 o 5.000 lire? Se io voglio ottenere 10.000 lire precise di titoli, non sarebbe forse opportuno sottoscrivere per una somma superiore a quella desiderata, forse 12.000 o 15.000 lire? Non vi è il pericolo che la sottoscrizione non superi il miliardo e che io debba ricevere e pagare tutte le 12 o le 15.000 lire sottoscritte, anche per la parte eccedente la somma di denaro effettivamente da me posseduta?

 

 

Questi i dubbi che si presentano ai sottoscrittori dei prestiti a cifra fissa. Nei prestiti a cifra illimitata, il dubbio non ha ragione d’essere. Ognuno è certo di ricevere l’intiera quantità di titoli domandata. Chi versa 9.300 o 9.500 lire riceverà un titolo di 10.000 lire nominali; chi versa 930 o 950 lire, ne riceverà uno da 1.000 lire.

 

 

Anche le modalità del pagamento sono semplificate. Con un prestito a somma fissa, il primo versamento non si può chiamare precisamente una prima rata, non conoscendosi ancora la somma esatta che sarà assegnata, dopo chiusa la sottoscrizione, ad ogni singolo sottoscrittore, sibbene è una caparra, la quale andrà poi in parziale o totale pagamento della prima rata. Tuttociò reca qualche imbarazzo, poiché sulla «caparra» non possono decorrere interessi a favore del sottoscrittore, non avendone lo stato la disponibilità; mentre il sottoscrittore ha di fatto versata la somma. Col prestito illimitato, questa difficoltà scompare. Il primo versamento di 20 lire per ogni 100, da farsi dal 1 all’11 luglio, è una vera prima rata, definitiva, su cui non si ritorna e su cui lo stato può subito pagare gli interessi, ricevendola subito.

 

 

Un’altra difficoltà eliminata è quella dei versamenti a saldo. Quando il prestito è a cifra fissa, non si possono ricevere subito versamenti a saldo, perché è ignota, ripeto, la quantità di titoli assegnata ad ogni sottoscrittore.

 

 

Come si faceva ad accettare, nel gennaio scorso, 970 lire a saldo di 1.000 nominali da Tizio, quando poteva darsi che a lui fossero assegnate solo 800 o 700 nominali? Perciò si poterono solo accettare allora degli acconti a caparra, obbligando coloro, che avevano i denari pronti, a ritornare una seconda volta per versare il saldo, restituire la ricevuta provvisoria e ritirare il certificato provvisorio, da cambiare poi col titolo definitivo.

 

 

Stavolta l’inconveniente è tolto. Chi vuole, versa subito tutta la somma di 93 o 930 o 9300 od altra qualsiasi multipla di 93 o 95 e riceve subito il certificato provvisorio liberato. Egli non avrà da ritornare che una volta sola, probabilmente già a partire dal settembre, per cambiare il certificato provvisorio col titolo definitivo.

 

 

Anzi, per coloro che fanno il versamento a saldo subito, si è ordinata un’altra agevolezza importantissima. A molti, per svariatissimi motivi, non piace far sapere a nessuno e neppure alla Banca d’Italia ed al ministero del tesoro i fatti propri; non piace far sapere che si è sottoscritta una somma di 1.000 o di 100.000 lire. Costoro, presentandosi dal 1° all’11 luglio allo sportello dei versamenti della Banca d’Italia con le 93.000 lire contanti (ed in questo caso altresì con le 100.000 lire nominali di obbligazioni del primo prestito da fare stampigliare, per ottenere la agevolezza delle 93 invece delle 95 lire) potranno chiedere un certificato provvisorio al portatore. Questi certificati si stanno già preparando e saranno di cifre fisse di 1.000 e 10.000 lire, ovvero colla cifra da riempirsi dal cassiere in inchiostro al momento della consegna. Porteranno la firma del direttore della sede e del cassiere della Banca d’Italia e daranno diritto a ricevere, a suo tempo, i titoli definitivi. Chi non vorrà andare personalmente, potrà mandare il commesso, l’agente di cambio, il banchiere. Chi abita in un piccolo paese potrà incaricare una persona od una banca o cassa di fiducia di acquistare per conto suo un determinato numero di questi certificati provvisori al portatore. Contro presentazione di essi, saranno senza formalità rilasciati i titoli definitivi. Maggiore rapidità e maggiore assenza di formalità sarebbe stato difficile desiderare.

 

 

Chi, per sue diverse ragioni, pur pagando subito tutto, non desideri invece il certificato provvisorio al portatore, non avrà che da astenersi dall’esprimere questo desiderio e riceverà il certificato provvisorio nominativo.

 

 

Nel suo congegno pratico, il presente secondo prestito nazionale si presenta dunque più agile e snello del primo; e, anche sotto questo aspetto, merita ancor più largo favore presso il pubblico dei risparmiatori.

 

 

IV

La lettera che la Manifattura Festi-Rasini ha indirizzato alla presidenza dell’Istituto cotoniero italiano a proposito del prestito nazionale è un vero modello di logica e di buon senso. Che una larga sottoscrizione al prestito fosse un interesse diretto e vivo degli italiani, si era cercato di dimostrare qui, sotto i più vari aspetti; che sovratutto il prestito fosse il mezzo più sicuro di tener lontano quel vero flagello di Dio che è l’emissione sovrabbondante della carta-moneta era un punto su cui si era insistito moltissimo. Ma è utilissimo che di questa verità siano persuasi gli industriali medesimi e questi veggano come essi siano direttamente e personalmente interessati al buon successo del prestito. Né sono interessati soltanto gli industriali, ché anzi i danni più gravi di una insufficiente copertura del prestito sarebbero risentiti dalle masse lavoratrici, dagli impiegati a stipendio fisso, dai redditieri, i quali hanno investito i loro capitali in rendite di stato, in cartelle fondiarie, in obbligazioni a reddito fisso, dai professionisti, ecc. ecc. Tutti costoro, se non vogliono vedere sostanzialmente diminuiti i loro redditi, devono fare ogni sforzo perché il successo arrida al prestito.

 

 

La dimostrazione che fu data infinite volte, è notissima ai principianti della scienza economica; ma non è inutile ripeterla ancora una volta.

 

 

Che, invece dell’oro, si usi carta-moneta per provvedere ai negozi ordinari della vita, ai pagamenti interni, è indifferente e può essere utile. L’oro è ingombrante, è pesante, è soggetto a logorio coll’uso, costa a trasportare e ad assicurare; mentre la carta-moneta è comoda, maneggevole, pochissimo costosa, facile a trasportare e ad assicurare. Si aggiunga che, se in un paese occorrono 2 miliardi di moneta d’oro per far fronte ai bisogni della circolazione, basta forse 1 miliardo come riserva metallica, chiuso nei forzieri della banca, per garantire una circolazione di 2 miliardi di carta-moneta; sicché, usando questa, si ottiene il vantaggio importantissimo di risparmiare la metà dell’oro che prima era necessario. Il paese, il quale prima aveva impiegato 2 miliardi del suo capitale per procurarsi altrettanto oro e fabbricarne monete, adesso potrà contentarsi di impiegare in oro 1 miliardo, depositare questo nelle cantine della banca ed emettere, sulla sua garanzia, 2 miliardi di carta-moneta. Il restante miliardo risparmiato potrà essere impiegato in case, macchine, scorte di magazzino, ecc., ossia in cose utili agli uomini.

 

 

Quella della carta-moneta fu quindi una delle maggiori invenzioni tecniche che mai si siano compiute; precisamente equivalente a quella di una macchina, la quale riesca con metà sforzo (costo di 1 miliardo di oro) ad ottenere lo stesso risultato che prima si otteneva con sforzo doppio (costo di 2 miliardi d’oro).

 

 

Ma si dice acqua e non tempesta. Finché lo stato – o la banca o le banche di emissione, che si possono considerare come un tutt’uno con lo stato – si contentano di emettere 2 miliardi di carta al posto dei 2 miliardi di oro che prima erano in circolazione, dal cambio il paese non può ricavare altro che benefici. Ma se lo stato è costretto nient’altro che la dura necessità può indurre uno stato a seguire tal via – ad aumentare la quantità della carta-moneta circolante a 3 od a 4 miliardi di lire, le cose cambiano.

 

 

Ancor oggi si incontrano persone, le quali reputano un beneficio le emissioni abbondanti di carta-moneta e non sanno capacitarsi del perché gli stati si affannino tanto a contrarre prestiti onerosi al 4,50 o 5%, quando potrebbero farsi imprestare gratuitamente dai cittadini quante somme volessero, semplicemente stampando biglietti e pagando con essi tutti i propri creditori.

 

 

Se tuttavia i governanti dei paesi moderni fanno ogni sforzo per emettere prestiti e per limitare le emissioni della carta-moneta, ciò accade perché l’esperienza delle guerre passate ha dimostrato come i prestiti onerosi siano di gran lunga meno costosi delle emissioni gratuite di carta-moneta.

 

 

Il peso dei prestiti pubblici a che cosa si limita? Agli interessi annui. Se uno stato emette un prestito di 1 miliardo al 4,50%, sono 45 milioni all’anno di maggiori interessi che lo stato deve pagare e di maggiori imposte che quindi i contribuenti debbono versare allo stato. È un onere; ma che finisce e si limita a 45 milioni all’anno. Pagati questi, tutto è finito.

 

 

Se invece lo stato ricorre al metodo apparentemente gratuito della carta-moneta, i danni per la nazione sono assai più gravi. Lo stato in un primo momento risparmia 45 milioni di lire all’anno di interessi; ma a qual prezzo per la collettività?

 

 

L’esperienza si è incaricata di dircelo. La carta-moneta è una merce come tutte le altre. Nessun ordine governativo, nessuna legge, nessuna minaccia può impedire che essa segua la sorte di tutte le merci, che è di deprezzare quando esse diventano abbondanti. Il governo del terrore ci si provò durante la rivoluzione francese; ma né le multe enormi, né il carcere e neppure la ghigliottina poterono frenare il fatale ribasso di pregio degli assegnati, che il governo ogni notte faceva stampare in quantità crescenti per provvedere alle spese dell’indomani. Se ne stamparono per 46 miliardi di franchi, fino ad ottenere il bel risultato che nessuno si degnava nemmeno di fare lo sforzo di raccattare i biglietti da mille perduti per la via dai viandanti. Tanto essi erano deprezzati!

 

 

Naturalmente, il deprezzamento è in proporzione alla sovrabbondanza; ma è certo che quanto più abbondano, tanto meno i biglietti valgono. Altre cause contribuiscono, in un paese dove i biglietti sono sovrabbondanti, ad esacerbare il ribasso ed a fare oscillare l’aggio. Ma se il marco-carta tedesco perde su Nuova York il 15%; se il franco-carta francese perde l’8%; mentre la lira sterlina perde solo il 2%, la causa fondamentale sta nelle emissioni larghe di carta-moneta in Germania ed in Francia e nella modestia delle emissioni in Inghilterra; sicché la perdita inglese nel cambio si può dire esclusivamente dovuta a ragioni di sbilancio commerciale e di maggiori spese di spedizione ed assicurazione attraverso l’Atlantico; mentre le ben maggiori perdite tedesche e francesi si spiegano in massima parte con il rinvilio della carta-moneta divenuta abbondante.

 

 

Si comprende che il rinvilio della carta-moneta deve assumere una forma diversa da quella del rinvilio delle altre merci. Si dice che il frumento ribassa quando da 40 lire discende a 30 od a 25 lire; ma si dice che la moneta ribassa quando il prezzo del frumento sale da 25 a 30 od a 40 lire o quando il prezzo dell’oro sale dalla parità di 100 lire oro per ogni 100 lire carta al rapporto di 100 lire – oro per ogni 102, 105 o 110 lire-carta. Siccome il nome «lira» non varia, ciò che varia è il numero delle lire-carta che si devono dare per avere oro, o frumento, o cotone greggio, o panni od altre merci qualunque.

 

 

Se tutti i prezzi variassero contemporaneamente, il rinvilio della carta-moneta produrrebbe piccoli inconvenienti. L’industriale, il quale deve pagare il cotone greggio aumentato del 10% d’aggio sulla carta contro il dollaro americano, venderebbe i filati od i tessuti aumentati del 10% ai consumatori nazionali; l’operaio, il quale deve pagare le cose necessarie all’esistenza rincarate del 10%, otterrebbe l’aumento dei salari da 5 a 5,50 al giorno; l’impiegato passerebbe da 100 a 110 lire di stipendio. Tutti i prezzi sarebbero spinti all’insù; tutti ragionerebbero di redditi e di ricchezze in cifre più grosse; ma, come accade in una folla quando tutti si alzano in punta di piedi, o come in Brasile, dove per acquistare gli oggetti più minuti fa d’uopo spendere migliaia di reis, tutti si troverebbero allo stesso punto di prima.

 

 

Disgraziatamente, gli affari di questo mondo non vanno così lisci. Vi sono Prezzi, i quali aumentano subito, al di là persino del necessario, in conseguenza del rinvilio della moneta; altri aumentano più lentamente ed altri infine non aumentano affatto. Di qui una serie di scompigli e di danni gravissimi.

 

 

L’industriale cotoniero deve pagare subito il cotone greggio più caro, perché gli americani vogliono essere pagati in bei dollari e non si impacciano delle lire italiane. Ma è egli sicuro di vendere i filati ed i tessuti ad un prezzo corrispondentemente maggiore? Oggi forse sì; ma per cause indipendenti dall’aggio, essendo cresciuta la richiesta per le forniture governative; sicché avrebbe probabilmente ottenuto gli stessi prezzi anche se non avesse dovuto subire il danno dell’aggio. Ma, tornata la pace, cessate le eccezionali domande del governo e fermo l’aggio, a causa della stazionaria abbondanza di carta – moneta, come farà il cotoniero a sostenere i prezzi dei filati e dei tessuti? Sarà forse cresciuta la domanda del mercato interno; o non vi è pericolo che sia diminuita?

 

 

L’esperienza insegna che, dopo nato l’aggio, crescono subito i prezzi di tutte le merci che noi dobbiamo acquistare dall’estero – cotone, lana, frumento, ferri e prodotti siderurgici ecc. ecc. – e delle merci similari nazionali; ed i prezzi delle altre crescono più lentamente. Ogni industriale può da sé fare i conti e vedere come nella grande maggioranza dei casi egli corre rischio di essere danneggiato dall’aggio.

 

 

Peggio stanno altre categorie di persone. Il risparmiatore, il redditiere che ha investito il suo patrimonio in rendita di stato, in cartelle fondiarie, in obbligazioni che gli fruttano 3,50 lire per ogni 100 nominali, acquistava prima, con quelle 3,50 od un multiplo di esse, una certa quantità di pane, di carne, di vino, di vestiti. Svilita la carta-moneta, egli riscuoterà bensì le sue solite 3,50 lire; ma ben presto si accorge che le sue 3,50 lo portano meno lontano: le porzioni di cose che egli può acquistare sono divenute più piccole.

 

 

L’impiegato, che ha 100 o 500 lire di stipendio mensile, vede rincarare anch’egli il prezzo delle cose necessarie; più o meno, a seconda dei casi, ma in media abbastanza. Rimarrà fisso il fitto di casa, se egli ha in corso un contratto, ma gli alimenti saranno assai più cari. Andrà egli dal principale o dal comune o dallo stato a chiedere un aumento di stipendio a 110 o 550 lire? Non è questo in moltissimi casi il momento più opportuno: comuni, stato, opere pie, industriali hanno da pensare ad altro che ad aumentare stipendi.

 

 

La stessa cosa si dica del professionista, avvocato, medico, ingegnere, ragioniere, perito. Aumentare le parcelle, proprio nel momento in cui i clienti si diradano non è buon consiglio. Conviene rassegnarsi e subire le conseguenze del rinvilio della carta-moneta.

 

 

Infine gli operai. Possono, momentaneamente e finché dura la guerra, crescere i salari nelle industrie occupate a soddisfare i nuovi bisogni pubblici. Ma sarebbero cresciuti lo stesso, anche senza il rinvilio della moneta ed il conseguente aggio; e gli operai avrebbero avuto il vantaggio di essere pagati in moneta buona. Invece, quando la moneta rinvilisce, l’operaio talvolta guadagna di più; ma l’aumento non gli reca alcun beneficio, ché esso è assorbito dal maggior costo della vita. Spesso, inoltre, l’operaio non riesce ad ottenere alcun aumento di salario; e le 5 lire di carta-moneta che egli continua a ricevere comprano solo tanta roba, quanta prima si poteva acquistare con 4,50 lire.

 

 

Finita la guerra, si potrà dire che il risultato generale non muterà; per una ragione che dirò per ultima e che rischiara forse il danno più rilevante dell’aggio. Ritornati invero i tempi normali, si dovrebbero ristabilire i rapporti internazionali commerciali. Sarebbe anzi utile che si intensificassero con i paesi alleati, Inghilterra e Francia e con quelli neutrali, Stati uniti ed America meridionale. Ma, come raggiungere lo scopo, con questa malaugurata trincea dell’aggio che rende costosi i passaggi di merci e di capitali? Potrebbe essere che all’Italia convenisse assumere a mutuo qualche centinaio di milioni all’estero, beninteso senza obbligarci a nulla fuorché pagare i pattuiti interessi, per dare impulso a qualche promettente industria. Come potremo far ciò, se i capitalisti temeranno di vedersi svalutato il loro capitale, all’atto del rimborso, a causa dell’aggio oscillante? Lo stesso si dica per le più rapide transazioni commerciali: l’esistenza dell’aggio e più la sua variabilità sono un ostacolo o, meglio, una cagione di maggior costo per le più proficue transazioni commerciali.

 

 

Quindi è evidente che l’aggio riduce la massa degli affari, le occasioni di guadagno e di impiego di capitali; quindi diminuisce la richiesta di mano d’opera da parte degli industriali; quindi ancora tende a ridurre i salari degli operai. Con una moneta svilita, gli operai, gli impiegati, i professionisti, gli industriali lucrano minor quantità di moneta e con quella minor quantità si acquista una ancor minore quantità di roba.

 

 

Eppure, in tempo di guerra, i governi sono dalla necessità, che non vuol legge, costretti a stampare ed emettere quantità enormi di biglietti e quindi sono costretti, contro voglia, a recare ai cittadini tutti i gravi danni che ho sopra elencati.

 

 

L’unico mezzo che i governi hanno di astenersi dall’emettere troppa carta-moneta è di emettere prestiti. Ma ai governi è solo dato di offrire le cartelle dei prestiti ai cittadini, additando loro così la via della salvezza. Spetta ai cittadini accogliere la via e salvarsi sottoscrivendo largamente al prestito.

 

 

Gli industriali, i quali non vogliono perdere ora sull’aggio e vogliono, finita la guerra, evitare il rischio di una crisi di domanda dei loro prodotti, i commercianti interessati al fiorire dei traffici internazionali, gli armatori, che amano la marina mercantile italiana gli impiegati, i professionisti, gli operai, i creditori dello stato, possessori di cartelle e di obbligazioni, che non vogliono vedersi volatilizzare tra le mani le loro lire di reddito, di salario e di onorario; tutti costoro, se vogliono tenere lontano da sé e dall’Italia quel flagello di Dio che è l’aggio alto e l’aggio oscillante, ad un solo mezzo possono ricorrere: sottoscrivere fino al massimo possibile al prestito nazionale. Il dilemma è chiaro: o lo stato ottiene i mezzi della condotta della guerra dal libero consenso dei cittadini sottoscriventi al prestito, o dovrà procurarseli stampando biglietti a corso forzoso. Potrà anche ricorrere a prestiti forzosi o ad imposte di guerra. Ma né i prestiti forzosi, né le imposte di guerra, né i biglietti sovrabbondanti possono essere attraenti per nessuno. Sicché parmi essere oramai dimostrato che non solo l’amor del paese, ma l’interesse diretto positivo di fare un buon impiego e negativo di evitare danni gravi e personali debbono spingere tutte le classi sociali a collaborare alla riuscita della grande impresa del prestito nazionale.

 

 

V

Il terzo prestito

Il nuovo prestito nazionale, che il governo annuncia, avrà sicuramente una lieta accoglienza dai risparmiatori italiani. I quali per ben due volte hanno compreso l’appello patriottico ad essi rivolto da chi regge le sorti d’Italia nello storico momento attuale e non lasceranno certo inascoltata la terza chiamata a raccolta delle armi finanziarie che il paese può mettere in campo per la difesa dell’italianità e per la conquista dei nostri confini naturali. Non è ancora spenta l’eco solenne del successo di quello che in Francia fu chiamato il prestito della vittoria. Entro i limiti della nostra minore potenzialità finanziaria, il prestito italiano deve avere un successo egualmente alto e solenne. Esso deve significare che gli italiani sono ben decisi a condurre la lotta per la liberazione della italianità e per la difesa contro l’egemonia tedesca, sottoponendosi a tutti i sacrifici necessari. Già hanno dimostrato di essere pronti al sacrificio, quando senza mormorare hanno accolto l’annuncio dell’obbligo di pagare più di 300 milioni di lire di imposte aventi carattere permanente, oltre a poco meno di altri 100 milioni di imposte con carattere eccezionale.

 

 

Il coraggio del governo nell’imporre e la tranquillità degli italiani nell’accogliere, con alto sentimento del dovere, l’annuncio dei nuovi tributi costituiscono un saldo piedestallo al nuovo prestito, quale soltanto forse l’Inghilterra può orgogliosamente affermare di avere costruito più saldo. Nessun altro tra i paesi belligeranti può vantarsi di avere apparecchiato prima i mezzi tributari opportuni per fare il servizio degli interessi del prestito; neppure la Russia, alla quale non si può disconoscere il merito grande di avere dovuto applicare nuove imposte per riparare al disavanzo cagionato dalla abolizione della vendita delle bevande alcooliche.

 

 

Questo merito grande italiano non è rimasto ignoto all’estero. Ancora di recente l’«Economist», il grande giornale della City di Londra, scriveva che

 

 

quando l’appello per un nuovo prestito nazionale sarà lanciato in Italia, i sottoscrittori verranno in numero ancor più grande che nel luglio scorso; perché essi sanno: 1) che il governo è deciso ad attenersi alla più rigida economia nell’amministrazione del pubblico denaro (decreto del 18 novembre scorso); e 2) che esso destina il ricavo delle nuove imposte al servizio dei nuovi prestiti. Questo è un programma sincero e retto, veramente rassicurante per i creditori dello stato.

 

 

Nessuna migliore prefazione, fa d’uopo rilevare con insistenza, poteva invero il governo italiano fare al nuovo prestito. I risparmiatori ed i capitalisti italiani, i quali accorreranno a sottoscrivere, sono sicuri che già esistono i fondi annui con cui provvedere al pagamento degli interessi promessi dall’erario. Se anche il successo del nuovo prestito fosse, come è augurabile, di gran lunga superiore a quello dei due prestiti precedenti, già sarebbero pronte le imposte necessarie a pagare gli interessi pattuiti. Se lo scopo è santo, se la sicurezza è salda, le condizioni del prestito sono veramente attraenti. Non mi tratterrò sulle modalità che l’emissione presente ha comuni colle due precedenti. Cercherò di mettere in luce i punti per cui il terzo prestito si differenzia dal primo e dal secondo.

 

 

Innanzi tutto è diverso il saggio dell’interesse: il 5% invece del 4,50%. Il saggio antico, tradizionale, rotondo dei vecchi prestiti, con cui si fece l’Italia unita, ritorna in onore. In avvenire si potrà dire che, come la rendita 5% diede i mezzi necessari alla formazione dell’Italia, il prestito nazionale 5% avrà fornito i denari necessari alla guerra per la definitiva liberazione del territorio patrio. Il risparmiatore accoglierà certo con favore un saggio di interesse che senz’essere usuraio, risponde alle nuove esigenze del mercato. È vero che anche il prestito 4% del luglio scorso fruttava, tenendo conto del premio al rimborso, poco meno del 5%; ma è anche vero che il pubblico dei risparmiatori non ama fare conti, non sempre accessibili a tutti, e preferisce che l’interesse promesso gli sia pagato senz’altro sotto forma ed a titolo di interesse puro e semplice. Il sotto scrittore sa che egli, acquistando il titolo nuovo, avrà diritto di ricevere ogni anno cinque lire di interesse, da lui intieramente consumabili, senza intaccare menomamente il capitale.

 

 

Egli d’altro canto non può trascurare un’altra circostanza: che egli lucra l’interesse di 5 lire nette mediante il versamento di sole lire 97,50; cosicché il reddito vero sul versato è di circa il 5,13%. Né qui si ferma il vero reddito: poiché al momento del rimborso, il quale non può venir prima del primo gennaio 1926, né dopo il primo gennaio 1941, lo stato gli dovrà rimborsare 100 lire invece delle 97,50 da lui versate, con un premio di lire 2,50. Tenendo conto del premio di lire 2,50 e distribuendolo sui 10-25 anni di durata del prestito, il reddito aumenta di circa altri 6 centesimi, giungendo in tutto al 5,19% netto. Un frutto cosiffatto, in Italia, da un titolo di stato di prim’ordine, eguale in tutto alla rendita e sotto parecchi rispetti intrinseci migliore della rendita, da lunghissimo tempo era impossibile ad aversi.

 

 

Passo sopra alle modalità della durata, dell’ammortamento, della rateazione dei pagamenti, dell’esenzione da qualunque imposta presente e futura, ecc. ecc., che si riscontravano già nei prestiti precedenti e mi trattengo su due novità: la facilità delle sottoscrizioni e la consegna dei titoli. Fu lamentato, nelle passate sottoscrizioni, da molti, anche fra i lettori del «Corriere», che non si accettassero sottoscrizioni presso gli uffici postali, diffusissimi in tutto il regno, accessibilissimi a tutti, comodi per i pagamenti nei piccoli comuni e nelle campagne. A questo quasi universale desiderio ha data soddisfazione il decreto odierno: gli uffici postali sono ammessi a ricevere sottoscrizioni. È da augurarsi che le istruzioni e gli incoraggiamenti pecuniari agli ufficiali postali siano tali da facilitare in ogni modo la grande impresa della sottoscrizione. Nelle campagne vi è un terreno vergine da sfruttare. In molte contrade rurali d’Italia le disponibilità si sono accumulate in un’annata contraddistinta bensì da cattivi raccolti, ma altresì da prezzi alti. E non dovrebbe essere impossibile accaparrare per il prestito una parte di queste disponibilità.

 

 

Era desiderio di molti risparmiatori di vedere diminuite al minimo la formalità della sottoscrizione; e già la volta precedente il governo aveva cercato di andare incontro a questi desideri dando ricevute provvisorie al portatore. Ma il mezzo escogitato non impediva che il sottoscrittore dovesse parecchie volte ritornare agli sportelli del prestito: una prima volta per sottoscrivere, una seconda per cambiare la ricevuta del versamento col certificato provvisorio; ed una terza per cambiare il certificato provvisorio con il titolo definitivo.

 

 

Oggi, con intuizione felice dei gusti del pubblico, tutto ciò, per chi lo voglia, non ha più ragion d’essere. Colui il quale farà il versamento immediato dell’importo totale della sottoscrizione riceverà senz’altro il titolo definitivo, al portatore. Nessuna noia, nessun obbligo di ritornare. Si presentano i denari e si ritira il titolo definitivo al portatore. Non fa d’uopo farsi conoscere: e, versato il denaro, il sottoscrittore se ne va col suo titolo definitivo nel portafoglio; senza alcun fastidio di ritornare, cambiare, attendere, farsi conoscere.

 

 

Naturalmente il titolo definitivo al portatore può solo essere dato a coloro che faranno il versamento immediato e totale dell’importo sottoscritto. Agli altri, che verseranno a rate, sarà fornito il certificato provvisorio, il quale potrà essere cambiato in qualunque momento nel titolo definitivo al portatore, quando essi completino il dovuto pagamento.

 

 

Qualche osservazione può ancora farsi rispetto a due punti nuovi, l’uno che si potrebbe dire di novità necessaria e l’altro di novità volontaria da parte dello stato.

 

 

La novità «necessaria» è l’opzione riconosciuta ai portatori del secondo prestito nazionale del luglio scorso, in conformità dell’articolo 4 del regio decreto 15 giugno 1915. Diceva quell’articolo 4 che, se entro il 1916 il governo avesse emesso un nuovo prestito a condizioni più favorevoli del 4,50%, queste medesime condizioni sarebbero senz’altro estese al prestito allora emesso.

 

 

Ed ora il governo mantiene la parola data. Il portatore del titolo 4,50% del luglio ha il diritto di cambiare, senza obbligo di sottoscrivere la benché minima somma al nuovo prestito, il suo 4,50 nel nuovo 5%. Nessuno, io immagino, dei vecchi sottoscrittori vorrà perdere la propizia occasione per aumentare del 0,50% il proprio reddito. Naturalmente, occorrerà pagare un piccolo conguaglio. Il vecchio titolo 4,50% era stato pagato 95 lire – anzi 93 lire sole da coloro che avevano esercitata l’opzione riservata ai portatori di titoli del primo 4,50% del gennaio: ma da ciò si deve fare astrazione, perché anche essi avevano ottenuto il loro titolo ad una media di 95 lire, fra il 97 di prima ed il 93 di dopo – ; mentre oggi il 5% costa 97,50 lire. Giustizia vuole, affinché i sottoscrittori del prestito del luglio scorso non ricevano a 95 lire ciò che i nuovi d’adesso pagherebbero 97,50, che ai primi sia chiesto un conguaglio di 2,50 lire. Ciò è pura giustizia, perché ad essi erano state promesse le stesse condizioni dei prestiti futuri: non condizioni più favorevoli. Ma chi non vorrà pagare per una volta tanto lire 2,50 pur di assicurarsi un maggior reddito annuo di lire 0,50?

 

 

La seconda novità, «volontaria» quest’ultima da parte del governo, è l’annuncio che saranno accettati come denaro contante:

 

 

  • in pagamento delle obbligazioni sottoscritte e fino a concorrenza del relativo importo, i buoni del tesoro ordinari all’intiero loro valore nominale, ossia al 100%, salvo lo sconto degli interessi al 4,50%. Ottimo proposito, il quale potrà trasformare una parte dei 518 milioni di buoni del tesoro ordinari a scadenza di 3, 6, 9 e 12 mesi, in circolazione al 30 novembre 1915, in un prestito permanente. Ottimo, perché libera il governo dall’impegno e dalla preoccupazione di rimborsare vistose somme a breve scadenza; ed ottimo anche perché, diminuendo la massa dei buoni del tesoro già emessi, metterà in grado il governo di servirsi in seguito nuovamente di questo mezzo di far denaro, senza il timore di crescere troppo i debiti a brevissima scadenza. Si intende che i portatori di buoni ordinari del tesoro hanno la facoltà, non l’obbligo, di versarli come denaro contante nella prossima sottoscrizione;
  • in pagamento delle somme versate all’atto della sottoscrizione e fino a concorrenza della metà della somma sottoscritta, i buoni quinquennali del tesoro 4%, con scadenza negli anni 1917 e 1918. I buoni scadenti nel 1917 ammontano a 330.990.000 lire, quelli con scadenza nel 1918 a 400 milioni; in tutto 731 milioni in cifra tonda. Per ora rimangono esclusi dal beneficio della conversione i buoni emessi nel 1914 con scadenza nel 1919, per l’ammontare di 502 milioni di lire.

 

 

I buoni 1917 saranno accettati al prezzo di 99 lire; ed i buoni 1918 al prezzo di lire 97,80, prezzi amendue superiori a quelli correnti. È indubitato il vantaggio che hanno i portatori dei buoni nel giovarsi della opzione liberalmente largita loro dallo stato. Guadagnano in capitale, perché i loro titoli sono conteggiati a lire 99 e 97,80, mentre pagano il nuovo solo 97,50. Guadagnano in interessi, perché sostituiscono un reddito del 5% al vecchio reddito del 4%. È naturale però che, per concedere siffatto vistoso beneficio, il governo richiegga loro un versamento in denaro contante corrispondente alla metà della loro sottoscrizione. Anche di questa offerta è augurabile e probabile abbiano a giovarsi molti portatori che avevano comprato buoni quinquennali a titolo di investimento permanente e che fin d’ora si preoccupavano per sapere in qual modo avrebbero investiti, alla scadenza, i loro risparmi. Oggi viene offerto, a buonissime condizioni, un investimento al 5% con guadagno sul valore capitale. Accogliendo l’invito, essi non solo faranno un buon affare a proprio vantaggio, ma rinsangueranno altresì il tesoro con nuovo denaro, con denaro fresco, come dicono i nostri alleati di oltr’Alpe.

 

 

Ancora una volta fa d’uopo ripetere l’incitamento che fu già dato da queste colonne in occasione dei prestiti precedenti: un’ottima operazione economica, ed un’opera patriottica. Chi, tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che i suoi figli gli muoveranno di non avere compiuto ogni sforzo possibile, nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria?

 

 

Non minore sarà lo sforzo che dovrà essere compiuto da ognuno che in Italia abbia autorità morale, goda di influenza politica, o goda di virtù persuasiva sui suoi concittadini. Questa è l’ora in cui ogni dubbiezza deve essere sormontata, in cui coloro che hanno studiato in modo particolare i problemi finanziari e gli altri che in altri modi partecipano alla vita pubblica devono collaborare attivamente al successo della terza prova del credito nazionale. Consigliare ad elettori, ad amici, a dipendenti, a lettori l’acquisto di obbligazioni del prestito nazionale è opera patriottica, perché è consiglio:

  • di fare economie e risparmi, in un momento in cui ogni spesa superflua è dannosa ed è quasi un delitto contro la patria;
  • di formarsi un reddito per gli anni venturi, quando gli uomini d’oggi e le generazioni venture avranno appunto bisogno di risparmi formati per sormontare il costo della liquidazione della guerra;
  • di fornire fondi allo stato, affinché questo possa evitare di emettere biglietti e possa quindi contrastare efficacemente l’ascesa del cambio, che tanto rincara il costo della vita;
  • di dare all’erario ciò di cui lo stato ha bisogno per la condotta della guerra.

 

 

L’unica maniera di non pagare quella indennità di guerra su cui il dott. Hellferich ancora ieri insisteva superbamente e quei maggiori tributi che ne sarebbero la conseguenza è, per gli alleati della quadruplice, la resistenza vittoriosa al nemico. Per resistere, insieme coi saldi cuori dei nostri soldati, fan d’uopo i mezzi materiali. Questi li dobbiamo dar noi, accorrendo, con entusiasmo, a recare il maggior contributo possibile al prestito nazionale.

 

 

VI

Una domanda la quale viene spesso fatta a proposito di questo, come dei precedenti due prestiti nazionali, è la seguente: perché il governo non ha emesso rendita perpetua, tipo 3,50% ovvero tipo 5%? Il pubblico, si osserva, è siffattamente abituato alla rendita perpetua, che ne avrebbe assorbito ingenti quantità senza che il mercato quasi se ne risentisse. La carta azzurra della rendita anche questi piccoli fatti esteriori hanno la loro importanza – è così gradita e consueta all’occhio del risparmiatore che questi quasi considera come un titolo di second’ordine, un titolo cadetto quello che non porta lo stesso colore. Lo stato avrebbe fatto inoltre un buon affare, perché avrebbe potuto emettere rendita 3,50% se non proprio ai prezzi di 85 di qualche settimana fa, forse a circa 80 lire. Ossia, pagando 3,50 su 80 si sarebbe caricato di un interesse del 4,40% circa, in confronto del 5,13% che paga sul nuovo prestito.

 

 

Queste le considerazioni che taluni fanno a favore di una emissione 3,50%; e ad esse non si può non riconoscere un peso non lieve. Ma d’altro canto non occorre dimenticare le ragioni non meno gravi le quali militavano contro l’emissione di una rendita 3,50% e favorivano l’adozione di un tipo 5%. L’intrattenerci su queste obiezioni non è inopportuno neppure oggi che è chiuso il primo periodo della sottoscrizione. Ancora per tutto il mese di febbraio i volonterosi possono accorrere a fornire i loro capitali allo stato; e specialmente nelle campagne e nei piccoli borghi, più tradizionali ed attaccati alle vecchie abitudini, fa d’uopo dimostrare la superiorità del nuovo titolo sulla vecchia rendita.

 

 

In primo luogo, è vero che lo stato si sarebbe caricato solo di un interesse di 3,50 lire su 80 ossia del 4,40%. Ma si sarebbe riconosciuto pur sempre debitore di un capitale di 100 lire. E quindi, oltre all’interesse del 4,40% sul capitale ricevuto, lo stato, nell’eventualità della restituzione, avrebbe dovuto rimborsare 20 lire in più delle ricevute; il che avrebbe aumentato notevolmente l’effettivo saggio dell’interesse. È vero che lo stato non avrebbe dovuto preoccuparsi della restituzione del capitale, trattandosi di una rendita perpetua. Ma il danno per lui avrebbe preso la forma di una molto maggiore difficoltà di conversione in avvenire della rendita oggi emessa ad un saggio più basso di interesse.

 

 

Se oggi si emette rendita a 3,50%, bisogna attendere che il saggio dell’interesse sul mercato sia ribassato almeno al 3% prima di porre, ad imitazione di quel che si fece nel 1906, ai portatori il dilemma: o voi vi contentate del 3%, ovvero io, stato, vi rimborso le 100 lire mutuatemi. Ora, nulla fa prevedere oggi quando il saggio dell’interesse dalle attuali altezze del 5% e più sarà disceso al 3%. Forse dovranno passare parecchie generazioni prima che cotal fatto bene augurante abbia a verificarsi. La tendenza al rialzo esisteva già prima della guerra e questa l’ha inacerbita grandemente.

 

 

Invece ben potrà darsi – sebbene non sia cosa certa – che fra 10 anni il saggio dell’interesse sul mercato siasi ridotto al 4,50%. Ed allora – dopo il 1° gennaio 1926, ché prima il governo non può, a termini del decreto di emissione, rimborsare nulla – il governo avrebbe il diritto di fare ai portatori dell’attuale prestito la proposta: o voi consentite a ricevere solo il 4,50%, ovvero io vi rimborso le 100 lire che mi avete mutuato. Badisi che il governo non potrà costringere i portatori alla riduzione; ma potrà solo rimborsare loro il capitale, ove essi volontariamente non consentano alla riduzione. È possibile così che, passati 10 anni, lo stato, grazie alla conversione, venga a pagare solo il 4,50%, ossia all’incirca quanto pagherebbe emettendo rendita 3,50%. Con questo vantaggio in più, che se dopo il 1926 le condizioni del mercato miglioreranno ancor più, lo stato potrà – sempre col consenso volontario dei portatori, i quali, non consentendo, potranno chiedere il rimborso delle intiere 100 lire mutuate allo stato – convertire successivamente il prestito al 4 e forse al 3,50%. Passeranno molti anni prima che ciò accada; ed i portatori possono perciò dormire i loro sonni tranquilli. Ma certamente lo stato potrà in avvenire giovarsi più facilmente dell’arma delle conversioni libere con un tipo 5% che con un tipo 3,50%.

 

 

Non v’è dunque nessun dubbio che lo stato non aveva convenienza ad emettere un 3,50% nel presente momento. Assai meglio un 5%. Sta bene – mi sento dire. Ammettiamo pure che sia più opportuno emettere un tipo 5%. In tal caso perché non si è emessa una rendita 5%, invece di un prestito 5% rimborsabile fra 10-25 anni?

 

 

La ragione è chiara. A parità di interesse 5%, l’unico argomento in favore della rendita è l’abitudine. Tutti gli altri argomenti sono in favore del prestito.

 

 

Notisi innanzi tutto che rendita e prestito sono la stessissima e precisa cosa. Sono amendue un titolo di riconoscimento di un debito dello stato. In materia di debiti pubblici, non vi sono debiti primogeniti e debiti cadetti, della mano destra e della mano sinistra. Sono tutti debiti dello stato e corrono tutti le medesime sorti, hanno cioè tutti la medesima sicurezza e le medesime garanzie. A proposito dell’attuale prestito, il decreto istitutivo ha esplicitamente riconosciuto ai suoi portatori i medesimi privilegi, quanto ad esenzione da imposte e tasse presenti e future, a diritto di deposito per cauzioni, ecc., di cui gode la rendita.

 

 

Che cosa rimane dunque a favore della rendita? Due abitudini: del colore azzurro, la quale non ha manifestamente alcuna importanza; e del nome di rendita perpetua. Questa seconda è l’unica differenza sostanziale: ma è a favore del prestito.

 

 

Che cosa vuol dire invero rendita perpetua? Molti portatori hanno l’illusione che il nome «rendita perpetua» voglia significare sul serio che lo stato si sia obbligato a pagare in perpetuo 3,50 ovvero 5 lire di interesse ed a non restituire mai il capitale. Niente di tutto ciò. La sola persona a cui il vocabolo perpetuo si attagli bene è il portatore del titolo. Egli non può mai chiedere il rimborso del capitale mutuato e non ha mai il diritto di chiedere un aumento dell’interesse primitivamente pattuito. Perciò la rendita dicesi «perpetua». Quanto allo stato, nessun vincolo di questo genere esiste. Ad esempio, per la rendita perpetua 3,50%, lo stato ha il diritto, a partire dal 1920, di rimborsare in qualunque momento, a suo arbitrio, il capitale ed ha sempre quindi il diritto di porre il dilemma: o voi vi contentate di un interesse minore, ovvero io vi rimborso il capitale. La perpetuità dunque non esiste affatto, nel caso della rendita così detta perpetua; e se esiste, è una perpetuità zoppa, la quale vincola il portatore non mai lo stato.

 

 

Come un titolo così stravagantemente contrario ad ogni interesse dei capitalisti e dei risparmiatori sia potuto entrare nelle loro buone grazie non si capisce. È la pura forza dell’abitudine quella che può spiegare il fatto curioso.

 

 

Se si fa astrazione dall’abitudine, è evidente quanto sia più conveniente il nuovo prestito.

 

 

Invero questo non è perpetuo; ma abbiamo veduto or ora come sia tutta apparente e parziale la perpetuità della rendita. Dal canto suo, il fatto che il nuovo titolo 5% dovrà essere rimborsato fra il 1° gennaio 1926 ed il 1° gennaio 1941 è tutto a favore del portatore. Mentre questi, colla rendita, è sicuro che lo stato sceglierà il momento più opportuno per sé per minacciare il rimborso, col prestito potrà darsi che il saggio dell’interesse non sia troppo ribassato; e quindi egli potrà, se gli piaccia, chiedere il rimborso delle 100 lire, ovvero consentire ad una rinnovazione del prestito ad un saggio di interesse discreto ed abbastanza remunerativo. Colla rendita insomma, il portatore corre solo l’alea del ribasso dell’interesse; col prestito, il portatore corre amendue le alee: del ribasso e del rialzo. Supponiamo, invero, che lo stato non si decida a rimborsare il capitale fino all’ultimo momento; e non si decida perché, per nuovi avvenimenti, il saggio dell’interesse sul mercato non ribassò al disotto del 5%. Venuta la scadenza del 1° gennaio 1941, se il saggio dell’interesse è rialzato al 6%, il portatore potrà profittare della circostanza e rinnovare il prestito al 6%. È poco probabile; ma l’esempio è addotto per spiegare come il diritto ad ottenere il rimborso del capitale entro un dato termine, sia pregevole per il sottoscrittore. Il diritto è pregevole anche per un altro rispetto: perché assicura che il titolo alla lunga non potrà ribassare notevolmente di prezzo. Abbiamo visto la rendita a 105 e poi a 78. Queste variazioni si comprendono in un titolo che non ha mai il diritto al rimborso. Non sarebbero possibili, specie a mano a mano che ci avvicineremo al 1941, per il nuovo titolo. Chi vorrebbe vendere per 80 lire un titolo che fra 10,5,3 o 2 anni deve essere rimborsato in 100 lire? Il diritto al rimborso in una cifra fissa ed entro un dato termine è un validissimo sostegno al prezzo corrente di un titolo.

 

 

Molti risparmiatori hanno una preoccupazione esagerata intorno a ciò che essi potranno fare quando il governo, passati i 10 anni, volesse rimborsare le 100 o le 1.000 o le 100.000 lire oggi prese a prestito. Almeno, essi dicono, colla rendita dormiamo sonni tranquilli; e non ci pensiamo più. Già si vide che questa è una illusione. Essi dormono i loro sonni tranquilli perché, ad ogni volta che lo state offre loro il rimborso, rispondono: tenetevi il capitale e pagateci pure gli interessi in una somma minore. Così fecero nel 1906 e così faranno in avvenire, quando il saggio diminuisse sul mercato al di sotto del 3,50%. Se essi vogliono solo questo genere singolare di tranquillità l’hanno perfettamente uguale col prestito.

 

 

Perché, trascorso il primo gennaio 1926, il governo sarà felicissimo di tenersi i denari, ottenendo il consenso dei suoi creditori ad una riduzione di interessi. Quale ragionevole probabilità vi è mai chi dal 1926 in poi i governi si trovino in grado di rimborsare i miliardi che oggi vanno prendendo a mutuo? Nessuna. Sicché i portatori tranquilli possono stare ugualmente sicuri della lunghissima durata dei loro investimenti; ed in più, corrono l’alea favorevole di potere essi, esercitare il diritto a chiedere il rimborso del capitale in un momento più favorevole ad essi che allo stato. Municipi, provincie colonie dell’Inghilterra hanno sempre avuto l’abitudine di emetter prestiti del tipo di quelli che furono in Italia ora messi in uso da l’on. Carcano. Orbene, parecchi di questi mutui, al 3 ed al 3,50%, vengono a scadenza oggi; ed i capitalisti chiedono ed i municipi e le colonie consentono alla rinnovazione al 4,50% ed al 5%. Se fosse trattato di rendite perpetue, i portatori si sarebbero dovuti contentare del 3 e del 3,50%: né godrebbero del beneficio dell’aumento odierno del saggio dell’interesse.

 

 

L’esempio dimostra i vantaggi e l’inesistenza degli immaginari inconvenienti supposti dal pubblico nel prestito in confronto alla rendita. Poiché il nuovo titolo può essere ovunque sottoscritto poiché gli ufficiali postali anche dei più piccoli paesi hanno l’obbligo di pagarne le cedolette di interesse semestrale, come si fa per rendita, io non dubito che i risparmiatori finiranno per prende anche con esso la affettuosa consuetudine che hanno colla rendita. Ed a maggior ragione, poiché trattasi di un titolo intrinsecamente più pregevole della rendita.

 

 

VII

Basta porre a confronto i risultati dei tre prestiti nazionali italiani per avere l’impressione viva dello sforzo crescente con cui il paese intende alla condotta della guerra:

 

 

Primo prestito

4,50% del

gennaio 1915

milioni 1.000

Secondo

4,50%del

luglio1915

milioni 1.146

Terzo

5% del

gennaio1916

milioni 2.281

 

 

La cifra del terzo prestito è al netto dei versamenti in titoli del primo prestito 4,50% del gennaio 1915 ed in buoni del tesoro 4% 1917-18, che si eliminarono sia perché non sono denaro contante, sia perché farebbero doppio con le cifre del primo prestito nazionale e dei buoni quinquennali. I 2 miliardi e 281 milioni comprendono invece i versamenti effettuati in buoni ordinari del tesoro i quali, essendo a breve scadenza (da 3 a 12 mesi) equivalgono a denaro contante; tanto più che il tesoro acquista la facoltà di emettere altri buoni in sostituzione di quelli per tal modo ritirati.

 

 

Né il totale di 2 miliardi e 281 milioni dà la misura esatta dello sforzo; poiché ad esso converrà aggiungere il prodotto della sottoscrizione nelle colonie italiane e fra gli italiani all’estero, la quale annunciasi sotto auspici più promettenti che nel luglio scorso.

 

 

L’Italia può dunque a giusta ragione essere orgogliosa del risultato raggiunto, che fu superiore a quello che si era toccato nell’intiero anno scorso, con due successivi appelli al credito pubblico. Il governo che scelse un tipo attraente, il consorzio che efficacemente contribuì alla riuscita, la stampa, gli uomini politici, i propagandisti che diedero opera efficace alla volgarizzazione del prestito hanno tutti bene meritato del paese.

 

 

Ma poiché la guerra dura pertinace, dura e lunga, il risultato raggiunto deve sovratutto indurci a provvedere subito ai mezzi opportuni per continuare ed intensificare l’opera ora compiuta. È certo che al successo del prestito contribuì massimamente la felice scelta di un saggio di interesse, il 5%, rispondente alle condizioni del mercato, bene accetto ai risparmiatori, tradizionalmente uguale al frutto che dal capitale i detentori credono aver ragione di ottenere. È molto dubbio se, ove fosse stato conservato il tipo del 4,50% dei due primi prestiti, le sottoscrizioni nette avrebbero toccato i 2 miliardi e 300 milioni di lire. Anche un titolo 4,50% emesso a 90 lire sebbene sostanzialmente più oneroso per lo stato di un 5% a 97,50, non avrebbe avuta una uguale potenza di attrattiva. Andare contro ai fatti, alle esigenze del mercato, ai criteri radicati nella testa dei detentori del capitale, non giova. Un primo punto possiamo perciò fermare in modo sicuro: che nei futuri prestiti, quando verranno, lo stato si dovrà tenere stretto alla regola aurea, le mille volte provata vera dall’esperienza storica e splendidamente oggi riaffermata in Italia, la quale consiglia di preferire il saggio di interesse, qualunque sia, il 4, il 5 ed occorrendo il 6%, il quale risponda alle condizioni del mercato. Con un 4,50% venduto in luglio, per i più dei sottoscrittori, a 93, si raccolsero 1 miliardo e 146 milioni; con un 5% venduto a 97,50, ossia con un piccolo sostanziale aumento di interesse per lo stato, si raccolse più del doppio.

 

 

Questo vuol dire che in Italia i denari ci sono. Basta saper scegliere la via giusta per farli uscir fuori. Oggi non si conoscono ancora i dati sulla situazione dei depositi a risparmio ed in conto corrente presso gli istituti di emissione, le banche e le casse di risparmio a fine febbraio. Quando si conosceranno, è probabile si possa constatare che i depositi diminuirono di gran lunga meno dei 2 miliardi e 300 milioni netti sottoscritti al prestito nazionale.

 

 

Il che vuol dire che oggi, durante la guerra, la capacità di risparmio del paese è assai superiore alla normale. Fatto naturale se si pensa che la guerra trasforma parte di ciò che era capitale in redditi di fornitori, industriali, agricoltori, militari, loro famiglie, intermediari, impiegati ed operai di imprese belliche. La guerra non produce, finché dura, una diminuzione, bensì un aumento dei redditi della massima parte della popolazione. Per fortuna, gli italiani sono un popolo ancora frugale e parsimonioso; sicché, salvo alcuni strati sociali cittadini, quei maggiori redditi non si trasformano per lo più in consumi, ma in risparmi. Ed i risparmi fluiscono, per vie diverse, direttamente od indirettamente ai prestiti pubblici.

 

 

Perciò a me sembra potersi fondatamente presumere che i futuri appelli al risparmio non segneranno un successo minore del presente. L’esperienza odierna gioverà, oltreché a seguire la norma aurea già detta delle emissioni al saggio corrente, qualunque sia, dell’interesse, anche per altri rispetti:

 

 

  • Oramai la massa del prestito tipo 5% è diventata imponente: 2 miliardi e 285 milioni di denaro nuovo, 504 milioni e mezzo provenienti dal primo prestito 4,50, 148 milioni da conversioni di buoni quinquennali del tesoro; in tutto 2 miliardi e 933 milioni, a cui aggiungendo le sottoscrizioni delle colonie e dell’estero e il tramutamento della massima parte del miliardo e 146 milioni del secondo prestito nazionale, giungiamo facilmente ai 4 miliardi di lire. Un titolo, il quale esiste in una massa di 4 miliardi, è un magnifico titolo. Facilmente negoziabile ed attivamente negoziato, a prezzi pieni di mercato. Di fronte a questo titolo, che ha tutte le qualità per divenire il titolo principe italiano, superiore anche alla rendita 3,50%, che cosa stanno a fare i 495 milioni del 4,50% del gennaio 1915 che i loro detentori non vollero convertire in 5%? Poiché moltissimi detentori invocavano la parificazione, il governo accolse in parte il desiderio, a condizione che fosse sottoscritto altrettanto prestito nuovo e fosse versata una quota di conguaglio di 5 lire. L’equità avrebbe voluto si chiedesse il versamento di sole lire 2,50 e si concedesse, come per il secondo prestito, la facoltà di mutamento, senza obbligo di veruna nuova sottoscrizione. Oggi, se l’equità verso coloro che pagarono le 5 lire vieta di mutare il prezzo del conguaglio, urge sempre togliere di mezzo i 495 milioni che vollero rimanere al tipo 4,50%. Non giova ai detentori e neppure avvantaggia lo stato la esistenza di un piccolo blocco di titoli, a mercato ristretto e detenuto da malcontenti. È da presumere che molti di costoro non effettuarono la mutazione non perché non volessero pagare le 5 lire, sì perché non avevano i denari per effettuare il versamento di altrettante somme del nuovo prestito. Tolgasi questa restrizione, oramai superflua: e lo stato, con suo utile, incasserà lire 5; mentre i portatori potranno ottenere un titolo meglio negoziabile.
  • Occorre, per il successo dei futuri prestiti, radicare l’idea che gli ultimi non saranno meglio trattati dei primi. Altrimenti vi è sempre chi, facendo benanco un cattivo calcolo, si riserva di arrivare per ultimo. Per evitare il pericolo, l’Inghilterra esplicitamente promise l’equiparazione a tutte le migliori condizioni che saranno offerte durante la guerra; la Francia, senza promettere nulla, emise il suo primo prestito 5% ad un prezzo, al disotto di cui nessun francese calcolò si potesse scendere in avvenire; e la Germania si industria ad emettere i successivi prestiti a condizioni sempre meno favorevoli, sia pure in apparenza, dei precedenti per i sottoscrittori. Di questa regola converrà far tesoro in avvenire, poiché se i portatori di una massa di 4 miliardi del prestito 5% vedranno che essi non saranno meno bene trattati dei futuri sottoscrittori, un ulteriore, potentissimo impulso si avrà per raggiungere una meta anco più alta di quella ora toccata.
  • Finalmente, la relativa tenuità dei 148 milioni di conversioni dei buoni quinquennali 4% e la probabile piccolezza dei buoni ordinari convertiti provano che i buoni del tesoro sono nel tempo stesso poco noti nel grande pubblico e rispondenti a bisogni particolari dei risparmiatori. Poco noti, perché se il pubblico ordinario ne avesse posseduti, non avrebbe mancato di convertirli in maggior copia; ma rispondenti ad esigenze speciali di impieghi di denaro a breve o a brevissima scadenza. Perché lo stato non va incontro a queste particolari esigenze e non popolarizza maggiormente i suoi buoni del tesoro?

 

 

L’ora è scoccata per questa specie di titoli, che hanno carattere di provvisorietà, di impiego temporaneo e di preparazione a prestiti futuri. Ma bisogna cominciare subito. Se il governo si decidesse a vendere, a sportello aperto, presso tutti i suoi uffici, anche postali, senza limite fisso di tempo, buoni al portatore, per qualunque somma rotonda, anche di 5 e di 20 lire, come si fa in Francia, per qualunque scadenza, a tre e sei mesi, 1 anno, 2,5 anni a volontà del richiedente, a saggi di interessi allettanti, oggi a 4% per i buoni brevissimi ed a 5% per i più lunghi, un flusso continuo di acquisti si formerebbe; e centinaia di milioni affluirebbero a poco a poco alle casse dello stato. E quando verrà l’ora, in buona parte questi buoni sarebbero pronti per la conversione, a cui dovrebbero aver diritto fin dall’origine, nei titoli del futuro prestito.

 

 

VIII

Il quarto prestito

Domani si apre la sottoscrizione al quarto grande prestito nazionale per le spese della guerra italiana. Importa che i risparmiatori ricordino che essi sono chiamati a compiere un grande dovere verso il loro paese, rinunciando a tutti i consumi, i quali non siano assolutamente indispensabili. Siamo giunti ad una svolta nel corso della guerra, in cui le astinenze moderate e facili più non bastano. Occorre la rinuncia sentita, vorrei dire dura; affinché viveri e munizioni non abbiano a mancare alla popolazione civile ed all’esercito nel momento supremo. Riflettasi alla sorte del Belgio, della Serbia e delle provincie francesi invase, dove la miseria è atroce, dove la rinuncia è imposta dalla forza e dove le taglie obbligatorie sostituiscono i prestiti volontari.

 

 

Oggi invece il governo italiano chiede rinuncie e sacrifici presenti ai cittadini suoi; ma offre in cambio il mezzo di aumentare i propri redditi in avvenire.

 

 

Il nuovo titolo, il quale rende 5 lire per ogni 100 nominali, ma viene pagato dal sottoscrittore soltanto 90 lire, offre un reddito, che da oltre quarant’anni in Italia più non si otteneva dai titoli di stato. Il 5,55% netto è tale un frutto che sarebbe parso un sogno ai risparmiatori della generazione che volse dal 1880 al 1910, quando lo stato italiano faceva le conversioni libere al 3,50% e quando, ad imitazione di ciò che era accaduto all’estero, si pronosticavano conversioni al 3 ed al 2,50%. Oggi invece viviamo lungo un’ondata di interessi alti; e sarebbe imperdonabile l’errore di quei risparmiatori, i quali non facessero ogni sforzo per profittarne.

 

 

Ed è ben lungo il periodo per cui lo stato assicura il reddito del 5,55%! Importa ritornarvi sopra, perché da lettere ricevute veggo che non da tutti la cosa è stata compresa.

 

 

Dichiarando al primo articolo del decreto reale 2 gennaio 1917 che il nuovo consolidato 5% non è soggetto a conversione a tutto l’anno 1931, il governo volle dire con tutta chiarezza:

 

 

  • che lo stato ha l’obbligo di pagare 5 lire per ogni 100 nominali, ossia per ogni 90 lire versate, per i 15 anni dal primo gennaio 1957 al 31 dicembre 1931. Durante il quindicennio lo stato non ha il diritto né di rimborsare il capitale né di ridurre l’interesse;
  • dopo il 31 dicembre 1931 lo stato godrà del diritto di conversione. Ma ciò non vuol dire che lo stato possa a suo piacere ridurre capitale od interessi. Mai no. Lo stato avrà esclusivamente il diritto di dire ai portatori dei titoli: o voi vi contentate di un interesse minore, per esempio del 4,50% o del 4%, invece che del 5%; ovvero io vi rimborso il capitale di 100 lire che voi mi avete mutuato. Il diritto di conversione ha cioè puramente e semplicemente il significato di un diritto riservatosi dallo stato di rimborsare il capitale preso a prestito, quando i creditori non vogliano contentarsi di un interesse minore. Sarebbe iniquo obbligare lo stato a non rimborsare mai il capitale. Un obbligo siffatto non è ammesso dal codice civile per i privati; e non vi è ragione che se lo assuma Io stato. Fra 15 anni vedranno i capitalisti che cosa convenga loro di fare: se accettare il rimborso delle 100 lire ovvero contentarsi di un 4,50% o di un 4%. Essi stipuleranno un nuovo contratto di mutuo con lo stato; e penseranno allora, tenuto conto del frutto possibile a ricavarsi da altri impieghi, quale alternativa giovi meglio di accettare.

 

 

E, badisi, dopo il 31 dicembre 1931 lo stato dovrà ad essi rimborsare non le 90 lire versate, ma le 100 lire nominali. Ciò è pacifico. Lo stato non è debitore di 90 lire, sibbene di 100, e tutte queste 100 deve rimborsare.

 

 

Nel quale obbligo si scorge un altro vantaggio del prestito. Poiché è possibile ed anzi probabile che, finita la guerra e trascorso il primo periodo di assestamento, nel quale forse il saggio dell’interesse continuerà ad essere alto, i risparmi tornino ad essere prodotti in misura più abbondante d’ora in confronto alla richiesta, e l’interesse abbia una tendenza a diminuire. Basterebbe che dal 5,55% il frutto corrente dei capitali calasse al 5%, perché un titolo il quale frutta 5 lire nette dovesse da 90 salire al prezzo di 100 lire. Ecco un guadagno di 10 lire, il quale si aggiunge al frutto del 5,55% garantito per 15 anni. Talché si dovrebbe dire che il consolidato nuovo frutta al minimo il 5,55%; ma può dare anche il 6%, tenendo conto del possibile aumento di prezzo capitale.

 

 

Tutti questi sono vantaggi e garanzie indiscutibili e cari ai risparmiatori. Ma altri ve ne sono, di non minor peso.

 

 

Il nuovo titolo, al pari della rendita 3,50% e dei primi prestiti nazionali 4,50% e 5%, gode dell’esenzione da qualunque imposta presente e futura. Nessuna falcidia potrà essere operata, a titolo di imposta, sull’interesse; il quale dovrà essere pagato nella somma netta di 5 lire al semplice esibitore del titolo.

 

 

Come la rendita 3,50%, il nuovo consolidato, che è una vera rendita 5%, sarà iscritto nel gran libro del debito pubblico, ossia prenderà posto fra quei debiti dello stato che hanno un carattere specialmente intangibile. Tutti i debiti dello stato sono ugualmente sacri; ma ve ne sono alcuni a cui si è voluto rendere lo speciale onore della iscrizione nel gran libro, quasi a ricordare in perpetuo alle venture generazioni che grazie ad essi esiste lo stato italiano uno ed indipendente. La iscrizione ha forza sovratutto morale: ma importava metterla in luce.

 

 

Perciò anche il nuovo consolidato gode di tutti i privilegi ed i benefici e di tutte le disposizioni di legge che regolano il gran libro ed il servizio del debito pubblico dello stato. Ultimo ed importantissimo privilegio: il nuovo consolidato godrà «degli stessi diritti e benefici che venissero accordati ad occasione di nuovi prestiti di stato che si emettessero, durante la guerra, a condizioni più favorevoli per i sottoscrittori di quelle fissate con il decreto del 2 gennaio».

 

 

Questa è la clausola del decreto, la quale dovrebbe spingere i dubitanti e sospettosi a passare sopra ad ogni dubbio e sospetto. Un ritardo a sottoscrivere, mosso dalla speranza di ottenere domani condizioni migliori, sarebbe priva di scopo. Nocque al terzo prestito nazionale del gennaio 1916, che pure ebbe un così grande successo, la mancanza di siffatta clausola. Ben fece perciò il governo ad inserirli nel presente bando per il quarto prestito. Se anche, perdurando la guerra, lo stato emettesse un nuovo prestito al 6%, senz’altro l’attuale rendita del 5 verrebbe portata al 6%; se, per ipotesi, venisse emesso un ad 80, lo stato sarebbe obbligato a versare un premio di 10 lire, differenza fra 90 e 80, agli esibitori dei titoli emessi oggi.

 

 

Bando dunque agli indugi che sarebbero contrari all’interesse più evidente dei risparmiatori! La nuova sottoscrizione deve essere una grandiosa prova della volontà di tutti gli italiani di contribuire alla grande impresa nazionale.

 

 

IX

Il successo del quarto prestito di guerra è dunque stato grande, superiore a quello, che pure aveva superato le speranze di tutti, del terzo prestito del gennaio 1916. Non fa d’uopo aggiungere altre parole per esaltare lo sforzo dei risparmiatori italiani. Piuttosto conviene accennare agli insegnamenti che dal successo derivano ed alla linea di condotta da seguire nell’interesse collettivo per continuare a procacciare denaro allo stato.

 

 

Una constatazione fa d’uopo fare: sebbene la cifra delle sottoscrizioni con versamenti in cedole, buoni del tesoro e titoli esteri abbia raggiunto la rilevante cifra di 1 miliardo e 160 milioni nominali di lire, la maggioranza dei portatori dei buoni del tesoro si astenne dal darli in pagamento dei titoli del prestito.

 

 

Concorrevano infatti al diritto di versamento forse 800 milioni in capitale nominale di buoni del tesoro quinquennali 4%, che si possono dire «antichi» perché emessi in virtù delle leggi del 1912, 1913 e 1914 (guerra di Libia); 1 miliardo e 722 milioni di buoni triennali e quinquennali nuovi 5% e 3 miliardi e 616 milioni di buoni ordinari e per forniture militari: in tutto più di 6 miliardi di buoni. Poiché con 1 miliardo e 100 milioni nominali e 990 milioni effettivi presentati al pagamento di nuova rendita entrano anche cedole e titoli esteri, bisogna concludere che la quota dei buoni versata in pagamento del prestito fu inferiore al sesto dei buoni esistenti. È probabile che la proporzione massima di buoni presentati si sia avuta fra i vecchi buoni 4%, prossimi a scadenza; la minore fra i buoni ordinari.

 

 

Quale la conclusione? Che i buoni rispondono ad un bisogno del pubblico. Vi sono categorie di capitalisti, i quali non vogliono o non possono imprestar denaro allo stato a lunga scadenza, mentre sono dispostissimi a mutuar denaro a breve scadenza. Tra quelli che non vogliono, ricorderò i timidi, i quali hanno paura del diluvio universale, amano i buoni interessi offerti dallo stato; ma vogliono avere la sicurezza del rimborso dei loro capitali a breve scadenza, per metterli in salvo o per impiegarli più fruttuosamente nell’ipotesi del verificarsi di qualche sconquasso. La specie comica di questi timidi è quella di coloro che tengono serrati nel forziere i biglietti, illudendosi di non far così prestiti a nessuno; mentre in realtà mutuano denaro allo stato senza interesse. Se questi timidi recano i loro capitali in deposito alla cassa di risparmio od acquistano buoni del tesoro, non lamentiamocene troppo. In un modo od in un altro quei capitali finiscono nelle casse dello stato; e l’unica conseguenza è che i possessori si contentano oggi di un frutto minore e sottoscriveranno domani, a pace fatta, al prestito di consolidamento 5% a 100 lire.

 

 

Vi sono, accanto ai timidi che non vogliono o non osano, coloro i quali non possono sottoscrivere ai prestiti pubblici consolidati. Vi sono industriali, commercianti, agricoltori, i quali hanno capitali disponibili, ma sanno di averne bisogno prossimamente od a pace fatta, per ricostituire le loro scorte, per impianti e costruzioni sospese, per migliorie agrarie prorogate. A questi non si può chiedere di investire i risparmi a tempo indefinito. Vi sono altri che hanno bisogno, per l’indole della loro azienda o per necessità legali, di far bilanci, calcolando su rimborsi dovuti in cifre fisse. Per costoro, desiderosi di mutuar denaro allo stato, il titolo ideale è il buono.

 

 

In conclusione: bisogna riaprire al più presto possibile il rubinetto dei buoni. Sembra che l’interesse dei buoni ordinari, il quale era stato ridotto, per diminuire la concorrenza dei buoni al prestito, al 3% per i buoni da 3 a 5 mesi, al 4% per i buoni da 6 ad 8 mesi ed al 4,25% per i buoni da 9 a 12 mesi, stia per essere rialzato rispettivamente al 3,50, al 4,50 ed al 4,75%. Ottimamente.

 

 

Una delle lezioni della guerra è stato lo sforzo del tesoro e degli istituti di emissione dei paesi belligeranti di rendere caro quello che comunemente si chiama il prezzo del denaro e che è poi il saggio di interesse per i prestiti a breve scadenza. Nell’attuazione di questo programma di incarimento del denaro si è specialmente distinta, per conto del tesoro inglese, la Banca d’Inghilterra; la quale con successivi tentativi cercò di spingere il saggio di interesse sui buoni del tesoro ordinari al massimo necessario per ottenere i seguenti risultati:

 

 

  • indurre giorno per giorno il pubblico a risparmiare per godere il buon interesse offerto dal buono.
  • accaparrare tutto il risparmio disponibile nel paese. È noto come, prima del recente prestito, i buoni del tesoro in circolazione giungessero alla cifra fantastica di 25 miliardi di lire italiane;
  • togliere denaro a coloro che avrebbero potuto impiegarlo altrimenti che per scopo di guerra.

 

 

Quando il denaro è abbondante ed è a buon mercato, esso cerca impiego in riporti di titoli in borsa, in speculazioni commerciali. Spinge i titoli all’aumento e favorisce il movimento di rincaro delle merci. È ciò che accade oggi in Italia. Il denaro in Italia per impieghi brevi è troppo abbondante: si impiega al 5, al 4,50, più spesso al 4% e persino al 3,75%. In tempo di pace, sarebbe assurdo che il governo pigliasse denari a prestito solo per impedire eventuali crisi di borsa. Ma i movimenti di rialzo, in tempo di guerra, possono essere pericolosi; potendo dar luogo a reazioni di ribassi ed a panico, ove si verificasse qualche avvenimento che temporaneamente eccitasse i nervi della speculazione. A Parigi ed a Londra il governo interviene per impedire la formazione di un mercato finanziario eccitato dall’abbondanza del denaro; ed interviene, senza inutili vessazioni ed empiastri, nel solo modo veramente efficace: rincarando il denaro, coll’offerta di assorbirlo intieramente a saggi non convenienti per i privati speculatori.

 

 

È bene segnalare all’opinione pubblica questo programma del rincaro del prezzo del risparmio in cerca di impiego a breve scadenza, il quale è adottato con così buon successo dai nostri alleati. Vegga il tesoro fino a qual punto convenga spingere il saggio d’interesse sui buoni ordinari; vegga se non convenga riprendere subito la vendita a sportello aperto dei buoni triennali e quinquennali 5%. Anche in questo campo, come in quello dei prestiti esteri, fa d’uopo non litigare sul mezzo punto o sul punto in più od in meno d’interesse. L’importante è di non lasciare, se fosse possibile, neppure un centesimo in mano dei privati; ma di fare assorbire tutti i capitali disponibili dal tesoro. Ogni 100 milioni di più assorbiti dai buoni del tesoro, sono 100 milioni di meno di biglietti nuovi che il tesoro deve emettere per fronteggiare le spese di guerra ovvero sono 100 milioni di biglietti vecchi che rientrano nelle casse dello stato. Ecco il modo di lottare contro il rialzo e di ottenere la diminuzione dell’aggio. Il ribasso dell’1% sull’aggio è ben più vantaggioso alla collettività della perdita per il tesoro dell’1% in più pagato sui buoni del tesoro.

 

 

X

IL QUINTO PRESTITO

Oggi s’inizia la sottoscrizione al quinto prestito nazionale per la prosecuzione della guerra. Bisogna che tutti gli italiani concorrano al suo successo, tutti entro i limiti dei propri mezzi; per sole 100 lire, se non si può sottoscrivere una somma maggiore, associandosi con altri per comperare una cartella da 100 lire, se non si hanno disponibili neppure le 86,50 lire per una sottoscrizione unitaria.

 

 

A sottoscrivere consigliano imperiosamente:

 

 

  • il sentimento del dovere verso il proprio paese. Resistere bisogna, ha detto il capo del governo. E non si resiste soltanto sulla Piave, si resiste anche fornendo ai soldati i mezzi di sussistenza e di armamento. La quantità di derrate, di vestiti, di prodotti in generale che in un anno si possono ottenere in paese non è cresciuta certamente durante la guerra. Fino ad un certo punto, si possono importare derrate alimentari, materie prime, armi e munizioni dall’estero e si possono pagare con prestiti fatti all’estero. Ma la maggior copia di mezzi di resistenza si deve ottenere all’interno. È necessario perciò che i civili risparmino sul loro reddito e tutto il proprio risparmio forniscano allo stato, affinché questo possa acquistare i prodotti che i civili non consumano;
  • la persuasione della necessità in cui lo stato si trova di farsi consegnare ad ogni costo una parte dei prodotti ottenuti in paese. Se i risparmiatori non sottoscrivono al prestito, lo stato stamperà biglietti e comprerà ugualmente i prodotti necessari all’esercito; la certezza che il successo del prestito è necessario per impedire rialzi di prezzi e rincaro ulteriore della vita. Se i cittadini italiani producono in un anno per 20 miliardi di lire di merci e di servizi ed hanno quindi un reddito complessivo di 20 miliardi, equivalenti in media a 555 lire a testa; e se lo stato ha bisogno in quest’anno di prelevare per i bisogni dell’esercito 10 miliardi di lire, l’unica scelta possibile è fra queste due alternative: o volontariamente i cittadini si decidono a risparmiare 10 su 20 miliardi, consumando solo 10 miliardi di prodotti ed imprestando allo stato gli altri 10 ed in questo caso lo stato con i 10 miliardi ricavati dai prestiti in consolidati 5% o in buoni del tesoro compererà i 10 miliardi di prodotti lasciati liberi dai civili. Tutto finirà lì; e non vi sarà rialzo di prezzi e rincaro della vita, perché tra amendue, privati e stato, avranno fatto domanda di soli 20 miliardi di lire di prodotti. Ovvero, i cittadini non, risparmiano e pretendono di godersi tutti i 20 miliardi di prodotti. In tal caso lo stato stampa biglietti per 20 miliardi di lire, e sul mercato interno si ha lo spettacolo che, ferma rimanendo la quantità dei prodotti, e più probabilmente diminuendo dessa per le chiamate sotto le armi, i privati fanno una domanda per 20 miliardi e lo stato per altrettanto. I prezzi rialzano; la roba, quella che c’è, si divide per esatta metà fra privati e stato, ma amendue la pagano il doppio di quanto l’avrebbero pagata. Ciò produce lagnanze, querele, disagi acutissimi per coloro i cui redditi non crebbero. O non è meglio, nell’interesse generale, postoché ad ogni modo si finisce per consumare per forza la metà roba di prima, di ottenere il medesimo effetto senza il danno del rincaro dei prezzi?
  • la convenienza, anzi la necessità di costituirsi una riserva per il dopo guerra. Risparmiare ed imprestare denaro allo stato non solo vuol dire risparmiare per amore invece che per forza, comprare ai prezzi antichi metà roba di prima, invece che comprarne metà a prezzi doppi, significa altresì costituirsi una riserva preziosa. Noi non sappiamo come si svolgerà il periodo del dopo guerra. Sarà inevitabilmente un periodo di assestamento e di crisi. Occorre essere preparati contro il pericolo di disoccupazione e di interrotti guadagni. Anche l’industriale, anche il proprietario correranno rischi di crisi. Fa d’uopo premunirsi col risparmio;
  • la convenienza di ottenere un buon frutto dal proprio risparmio. Un frutto sicuro del 5,78%, quale mai nessuno aveva sperato in pace. Un frutto garantito immutabile sino al 31 dicembre 1931. Non è meglio spendere la metà del reddito e godere del 5,78% sul resto; piuttostoché spender tutto, a prezzi doppi, acquistando la medesima quantità di roba?

 

 

XI

L’on. Nitti sta facendo, come ministro del tesoro, un’ottima serie di discorsi agli industriali, ai commercianti, agli operai di Genova, Torino, Milano per persuaderli a sottoscrivere al prestito. Egli, che è uomo d’ingegno pronto, ha veduto che era meglio finirla con i soliti discorsi degli uomini politici, che sappiamo tutti a memoria, che cominciano e finiscono invariabilmente con le solite invocazioni patriottiche, sono infarciti di luoghi comuni e sono principalmente occupati a non dir nulla che possa dispiacere agli uditori e possa compromettere l’oratore. Come ministro del tesoro, Nitti parla francamente, brutalmente ai suoi ascoltatori, li piglia per il petto e con il suo tono sorridente e pacato dice loro: o voi vuotate il vostro portafoglio, largamente, abbondantemente, come non lo avete mai vuotato sinora, o gli austriaci vi piglieranno vita e portafoglio e onore e libertà. lo non vi ringrazio, se voi mi date il vostro denaro, tutto il vostro denaro; perché in questo momento, in cui i padri danno i loro figli alla patria, i possessori di ricchezze, piccole, medie, grandi ricchezze devono dare tutto ciò che possono per la difesa della patria. Dare non è un merito, non è un atto per cui i sottoscrittori meritino ringraziamenti; perché in un momento in cui si giuocano le fortune d’Italia, in un momento in cui si deve risolvere il problema della libertà e della schiavitù, tutta la ricchezza appartiene allo stato. Nessuno potrebbe trovare nulla a ridire se lo stato prendesse tutto, senza alcun compenso. Invece lo stato, se non ringrazia, dà il 5,78% all’anno di interesse, che è un frutto magnifico, al quale alcuni anni fa nessun risparmiatore avrebbe mai sognato di potere aspirare.

 

 

Ho assistito a quello, tra i discorsi dell’on. Nitti, che egli ha tenuto nel salone della Camera di commercio di Torino. Pubblico ufficiale, le solite autorità le quali vanno a sentire i discorsi dei ministri, ma anche pubblico di autentici industriali e commercianti, molti dei quali hanno ottenuto benefici dalla guerra e non pochi dei quali sono oggi di malumore perché l’ufficio locale delle imposte, diretto da un funzionario di primo ordine, li costringe a pagare a titolo di imposta sui sopraprofitti troppo più di quanto essi si immaginassero; disposti per conseguenza a fare il viso dell’armi a quel ministro che li invita a sborsare altri denari, sia pure a prestito. Si aggiunga il carattere della borghesia piemontese, fredda e brontolona, la quale fece le campagne dell’indipendenza, magnificamente, con soldati di antica razza guerriera, educata alla guerra da una dinastia di ferro, ma sempre brontolando contro Vittorio Emanuele; contro Cavour, contro Napoleone III, contro gli zuavi francesi contro i milordi inglesi.

 

 

Nitti non abbondò verso questi suoi ascoltatori in complimenti inutili. O voi mi date a prestito al 5,78% i miliardi che mi occorrono od io ve li prenderò per forza. Ve li prenderò, emettendo miliardi di biglietti di stato e di banca, che sono poi anch’essi di stato e svalutando nelle vostre mani il vostro reddito, che per il rincaro generale dei prezzi, acquisterà la metà, il terzo di roba di quanto acquistate oggi. Ovvero ve li prenderò con nuove imposte. In Germania hanno già stabilito l’imposta patrimoniale: perché non ci si potrebbe pensare anche in Italia?

 

 

Ecco finalmente un ministro che parla chiaro! Dopo tanti anni, di pace e di guerra, in cui la maggiore preoccupazione degli uomini di governo era di negare che i biglietti sovrabbondanti fossero la cagione principale, originaria del rialzo del costo della vita, come si potesse negare o sottovalutare una verità chiara come la luce del sole, Nitti dice: io so di fare una assai brutta, assai dannosa cosa emettendo biglietti. Ma io la devo fare perché non voglio negare i mezzi all’esercito; perché se li negassi tradirei il paese. Pensate voi a darmi i denari a prestito perché io cessi dal dovere fare quella brutta cosa che si chiama emettere biglietti. Il ministro disse anche altre cose interessanti: io ho fiducia che il consolidato 5%, oggi emesso ad 86,50, tra pochi anni sarà a 100. Se non toccherà la pari, sarà a zero. Non c’è via di mezzo tra il 100 e lo zero. Sarà a 100 se la guerra finirà con onore dell’Italia, sarà a zero se la vittoria sarà del nemico. Ma in questo caso non illudetevi di salvare alcunché dalla rovina: non gli altri titoli, non i biglietti, non i depositi bancari, non le terre, non le case. Tutto sarà confiscato o sovratassato, in guisa da non lasciar nulla agli attuali detentori. Dunque voi avete non solo il dovere, ma anche l’interesse di dare i vostri denari allo stato. È un premio, fruttifero per giunta, di assicurazione per il resto della vostra fortuna.

 

 

Il ministro ricordò ancora alcuni dati, che già si erano letti nella esposizione finanziaria sua e in quelle del Carcano; ma su cui giova insistere.

 

 

Oggi è di buon tono sparlare e lamentarsi dell’Inghilterra. Chi è amico della Germania, disse Nitti, si riconosce subito: è uno che parla male dell’Inghilterra. Ora questa è una ingiustizia ed un errore. Gli alleati avevano imprestato al governo italiano fino al 31 ottobre 1917 ben 7.531.621.000 lire-oro, equivalenti a 9 miliardi e 800 milioni di lire-carta (pp. LXX-LXXI dell’esposizione Nitti). Gli italiani avevano dato a quella medesima epoca, sotto forma di prestiti nazionali redimibili e consolidati, soltanto 8.616.615.700 lire-carta. Gli alleati hanno quindi avuto maggior fiducia nell’Italia, di quanta noi abbiamo avuto in noi stessi. «Io pago – continuò Nitti inesorabilmente, ripetendo del resto cose che già risultarono dalle esposizioni finanziarie – il 5,78% agli italiani che compiono il dovere di darmi denaro a prestito; ma ancora recentemente gli alleati mi diedero denaro al 3,50%». Vorranno gli italiani mostrarsi meno fiduciosi e meno larghi verso se stessi di quanto verso di loro siano gli inglesi e gli americani?

 

 

Queste sono le semplici, oneste e dure verità che l’on. Nitti va predicando per la propaganda del prestito. È una propaganda fatta all’anglosassone, senza fiori di rettorica e senza parole roboanti, ma che io ritengo otterrà buoni risultati. Gli industriali e commercianti torinesi, a cui il ministro ricordò le tradizioni militari del Piemonte, la povertà antica, nonostante la quale i loro antenati avevano resistito a Francia ed a Spagna non si offesero per il non velato rimprovero alle manifestazioni assai tiepide partite talvolta da Torino e lo applaudirono energicamente.

 

 

Così va fatto. Gli italiani non sono ragazzi, a cui non convenga dire il linguaggio della verità. Altre verità occorre loro dire e subito e per tempo. Ne ricorderò due soltanto e spero che anche queste troveranno luogo in qualche prossimo discorso del ministro del tesoro. La prima si è che il tesoro, pagando il 5,78% ai sottoscrittori del prestito, paga troppo. Dando ad 86,50 un titolo che, se non cadremo in servaggio, ciò che nessuno vuole, andrà fra non molti anni a 100, il tesoro fa ai suoi sottoscrittori un partito troppo largo.

 

 

Bisogna imprimere ben bene nella mente dei capitalisti che condizioni così larghe non saranno più offerte. Inghilterra, Francia, Italia, tutti abbiamo peccato sotto questo rispetto. Ma, al di là della Manica, cominciano a sorgere voci autorevoli ed insistenti per consigliare di fare macchina indietro. Ogni settimana l’«Economist» di Londra ripete che il tesoro inglese non deve più dare il 5% ai sottoscrittori. In un bello, classico volume intitolato Finanza di guerra (War Finance, King ed., Londra) il professore Nicholson, dell’università di Edimburgo, espone il medesimo concetto.

 

 

Da quanto si promise ai sottoscrittori che essi avrebbero goduto delle migliori condizioni che sarebbero state concesse in avvenire, i sottoscrittori si persuasero che un aumento di interesse sarebbe stato dato, naturalmente. Si lamentarono quando si tardò a dirlo. E quando il nuovo prestito, con il più alto interesse, fu annunciato, essi pensarono che si rendeva soltanto omaggio alle loro legittime aspettative.

 

 

Era necessario, dar di più per attrarre i sottoscrittori più restii? No, risponde il Nicholson. Nello stesso modo che, quando l’arruolamento era volontario (in Inghilterra prima della coscrizione obbligatoria), gli egoisti si rallegravano, vedendo gli altri arruolarsi, perché maggiore sarebbe stata la richiesta e più alti i salari di quelli rimasti a casa, così i capitalisti egoisti si rallegrano nel vedere crescere le sottoscrizioni altrui, perché pensano che così gli altri titoli, privi di assorbimento, potranno essere da loro acquistati a buon mercato. A persuadere i capitalisti restii non giovano le larghe offerte. Occorrono le minaccie, eseguite, di prestiti forzosi, a più basso saggio di interesse.

 

 

L’on. Nitti annunciò che i denari li avrebbe ottenuti, se non per amore, per forza; e parlò di possibili nuove imposte. Non sarebbe meglio dire francamente che, se anche la guerra finisse d’un colpo, oggi, senza lasciare strascichi di liquidazioni, sarebbe pur sempre necessario stabilire imposte nuove? E non piccole, variegate imposte; ma grossi tributi, a largo rendimento? L’annuncio, oltreché per i motivi altra volta già esposti, sarebbe utile per spingere tutti a risparmiare il più possibile, per possedere un maggior reddito e così meglio fronteggiare il cresciuto onere delle imposte. Supponiamo che il possessore di 10.000 lire all’anno di reddito, netto dalle imposte vecchie esistenti, debba pagare 1.000 lire all’anno di nuove imposte. O non sarebbe per lui un vantaggio, oggi che i redditi di moltissimi sono cresciuti, risparmiare tanto da comprare 20.000 lire di consolidato? Avrebbe 11.000 lire di reddito invece di 10.000; e, dedotte le 1.000 lire di imposte nuove, rimarrebbe con le solite antiche 10.000 lire di reddito netto, invece che con 9000.

 

 

Ecco dunque due verità necessarie a dirsi: che il tesoro è stato ed è troppo largo con i sottoscrittori e che il fisco dovrà inesorabilmente chiedere nuovi tributi, qualunque cosa accada ed in qualunque momento finisca la guerra. I risparmiatori hanno perciò interesse a sottoscrivere subito, perché altrimenti in avvenire otterranno patti peggiori o potranno anche, quelli che oggi non sottoscrissero, essere costretti ad imprestare i loro capitali liquidi allo stato al 4%. Hanno interesse altresì a risparmiare quanto più possono per mettersi in grado di pagare le nuove imposte senza falcidiare il reddito antico.

 

 


[1] Con il titolo Il successo del prestito. [ndr]

[2] Con il titolo Un dovere patriottico e un buon affare. [ndr]

[3] Con il titolo Il congegno pratico del nuovo prestito nazionale. [ndr]

[4] Con il titolo I danni dell’aggio ed il prestito nazionale. [ndr]

[5] Con il titolo La felice organizzazione del nuovo prestito nazionale. [ndr]

[6] Con il titolo Rendita e nuovo prestito. [ndr]

[7] Con il titolo Gli ammaestramenti del terzo prestito nazionale. [ndr]

[8] Con il titolo Che cosa offre il governo ai risparmiatori italiani. [ndr]

[9] Con il titolo Dopo la chiusura del prestito. [ndr]

[10] Con il titolo Oggi si apre la sottoscrizione al 5°prestito nazionale. Perché si deve sottoscrivere. [ndr]

[11] Con il titolo La propaganda dell’on. Nitti per il prestito. (Le verità che egli dice e alcune altre che si potrebbero aggiunge. [ndr]

Conversazioni del giorno. Il contributo finanziario dell’Inghilterra alla Quadruplice Intesa. (Commenti di Luigi Einaudi al primo discorso del senatore Marconi)

Conversazioni del giorno. Il contributo finanziario dell’Inghilterra alla Quadruplice Intesa. (Commenti di Luigi Einaudi al primo discorso del senatore Marconi)

«Sentinella delle Alpi» 31 dicembre 1915

Realtà e illusioni nel campo tributario

Realtà e illusioni nel campo tributario

«Corriere della Sera», 27 novembre 1915

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 273-277

 

 

Gli ultimi, come i precedenti, provvedimenti finanziari hanno avuto in generale una buona stampa e soltanto qua e là si sono elevate alcune voci contro l’errore che avrebbe commesso il governo, tassando con eccessiva mitezza gli extraprofitti degli industriali e con grande durezza il sale del povero.

 

 

A questo punto conviene che si metta ben chiaro il problema. Premetto che faccio astrazione dalle imposte che si dovrebbero mettere per motivi «morali», per ossequio alle «nuove» idee «sociali» e via dicendo. Tutte queste, finanziariamente, sono pure «parole» gettate al vento. Da esse non si cava fuori una lira e neppure un soldo. Il problema finanziario che si deve risolvere dai paesi belligeranti è il seguente: come ottenere nuove entrate per somme variabili, nell’ipotesi che la guerra finisca entro il 1916, da forse 700 milioni di lire (ed è probabilmente il caso dell’Italia, compresi i maggiori tributi già stabiliti, il cui reddito complessivamente si può valutare in 260 milioni) a 3-4 miliardi di lire all’anno, come è il caso dei maggiori tra i paesi in lotta? E, badisi, devono essere centinaia di milioni e miliardi di lire effettive, non di «parole». Non deve trattarsi di imposte del genere di quelle «morali», «democratiche», «sociali», che il signor Lloyd George fece approvare col famoso bilancio del 1909, che fu l’origine della rovina della Camera dei lordi, ed il cui unico costrutto sino al 31 marzo 1914 fu di aver costato circa 55 milioni di lire italiane e di aver reso poco più di 15 milioni di lire. No; da questo genere di imposte nessun aiuto sostanziale può venire ai tesori affamati.

 

 

Né si può sperare somme sostanzialmente apprezzabili dalle imposte sui profitti di guerra che a gara vanno sorgendo in Inghilterra, Francia, Italia, Germania. Ho già spiegato come il frutto più sostanziale che si può sperare da questa imposta in Italia non sia un suo provento reale vero e proprio, ma la possibilità di benefici duraturi derivanti da alcune apparentemente piccole riforme, che accortamente l’on. Daneo colse l’occasione presente di introdurre nell’organismo della ordinaria imposta di ricchezza mobile. L’imposta sui profitti di guerra la possiamo concepire costrutta in tre sole maniere:

 

 

  • Quella proposta dal comm. Bocca, presidente della Camera di commercio di Torino, di una percentuale ad esempio del 5%, sull’ammontare lordo delle forniture fatte allo stato. Ignoro se il metodo possa andar bene per l’industria del cuoio, di cui il Bocca è cospicuo rappresentante. Ma è cosa certissima che il metodo da lui proposto è: sperequato perché vi sono forniture su cui si guadagna il 10, il 15 od il 20% e su cui l’imposta del 5% potrebbe essere pagata, e vi sono forniture in cui il margine di guadagno è inferiore al 5%, e può ridursi – pur con molto lucro del fornitore – al 0,50%. Come pagare in tal caso un balzello del 5%? Ed è metodo altresì di impossibile applicazione ai guadagni non derivanti da forniture fatte allo stato; e quindi è metodo che imbroglierebbe stranamente i conti, perché imporrebbe, per ogni azienda, la tenuta di due contabilità, una per le forniture e l’altra per gli altri guadagni. Cosa impossibile e che metterebbe la finanza di fronte a problemi inesplicabili ed insormontabili. Finalmente, fa d’uopo notare che una imposta di questo genere esisteva già, sotto il nome di diritto di registro dell’1,35% sul valore dei contratti conchiusi dallo stato. Fu abolita, in seguito alle lagnanze dei fornitori, con la legge primo aprile 1915; ma è stata ripristinata con l’allegato 5 agli ultimissimi provvedimenti finanziari. Questa tassa era e rimane dell’1,35% del valore della fornitura. Che non è piccola cosa e va in aggiunta all’imposta sugli extraprofitti di guerra. Mi sia lecito però osservare che il solo effetto suo era prima di indurre gli industriali ad aumentare, arrotondando la cifra, del 2% i preventivi delle forniture. Auguriamoci, pur con molto scetticismo, – come farebbero a pagare quelli che guadagnano meno dell’1,35%? – che ciò non abbia più ad accadere in avvenire, e che non si tratti di una pura partita di giro.

 

  • Quella Proposta da taluni i quali vorrebbero che l’imposta assorbisse il 100% dei profitti di guerra, in guisa che, dopo la guerra, nessun italiano dovesse essere più ricco di prima. Io non giudico il concetto dal punto di vista politico-sociale. Ed ammetto volentieri che questa imposta del 100% sarebbe efficace e reale. I contribuenti, salvo la frode, non avrebbero alcun mezzo per sfuggirvi. Ma a che prezzo? Finché gli uomini sono fatti nel modo che tutti conosciamo, e che non è in potere di alcuno di mutare, un’imposta siffatta avrebbe un unico effetto: di togliere ogni stimolo agli industriali di produrre un paio di scarpe, un metro di stoffa, un pacco di munizioni di più di quello che producevano prima della guerra. Ottenuto il guadagno di prima, nessuno avrebbe interesse ad andare più in là. Nessuna imposta sarebbe, più di questa, utile al nemico. Chi avanzò una tesi simile certamente non pose mente a questa logica conseguenza della sua proposta. Ma sarebbe conseguenza certa, ineluttabile.

 

  • Quella attuata dal ministro Daneo; forse con qualche maggiore gravezza di aliquote. Di essa questo si può dire di probabilmente sicuro: che quanto più cresce la gravezza delle aliquote, tanto minore è il provento netto ottenuto dal tesoro. Una imposta tenue può darsi cada solo sulla porzione dei profitti aventi carattere di monopolio e quindi può darsi rimanga sui colpiti e da essi non possa essere trasferita sul cliente, che nel caso nostro è il ministero della guerra. Quanto più invece cresce l’aliquota, tanto più è probabile che essa cada anche sulla quota normale dei profitti (di guerra bensì, ma normali, dato l’aumentato saggio di interesse e di rischio) e che li colpisca in modo speciale di fronte agli altri profitti. Qui non è il luogo di ripetere i lunghi discorsi che in proposito si possono leggere nei libri degli economisti; basti dire che i due caratteri, della gravezza su profitti non di monopolio, e delle specialità sono, tra tutti, i caratteri che maggiormente facilitano la traslazione dell’imposta sul cliente, ossia sullo stato. Se il ministro Daneo non voleva creare una imposta – comparsa, se voleva evitare di istituire una partita di giro, doveva necessariamente tenersi moderato nelle aliquote. Le quali del resto, giungendo al 41,50% paiono alte; ed in quanto sono alte poco renderanno sul serio al fisco. Il reddito vero, netto, sostanziale si avrà sovratutto dalla revisione straordinaria dell’imposta di ricchezza mobile e dall’applicazione dell’aliquota ordinaria dell’11,50%.

 

 

Affermano ancora i critici che il governo ha fatto male ad aumentare di 10 centesimi al chilogrammo il prezzo del sale. Io è anti-democratico. Io non so che cosa significhi questa parola in materia di imposte; ma posso andare d’accordo con i critici nel ritenere che trattasi di imposta condannabile, perché grava in modo sperequato sui contribuenti, a parità di reddito.

 

 

Dopo aver fatto questa dichiarazione, debbo subito aggiungere che la colpa dell’aumento del prezzo del sale non è del governo; ma di quei numerosissimi – quasi tutti – industriali, commercianti, proprietari agricoli, fittavoli che trascurano di denunciare nome e cognome e salario di quei loro dipendenti impiegati, operai, lavoratori in genere – che guadagnano almeno lire 3,50 al giorno; è di quei lavoratori che, avendone essi direttamente in altri casi per legge l’obbligo, non fanno la dichiarazione dovuta. È di quei contribuenti in genere che, trovandosi più in su della scala sociale, imitano col silenzio o col parziale occultamento l’esempio di coloro che si trovano più in giù. Non giova declamare contro i ricchi ed invocare il 30, il 40, il 50% e più contro i loro redditi. Nessuno stato è mai vissuto contro le sole imposte sui ricchi. È utile che i ricchi paghino di persona e di denaro: e paghino più degli altri. Ma non bisogna farsi illusioni. Le imposte sui ricchi possono rendere, anche se seriamente e correttamente accertate e pagate, le unità e le decine di milioni. Ora occorrono invece le centinaia di milioni. E, come dice il signor T. Gibson Bowles, forse il migliore conoscitore e critico del bilancio inglese, nell’ultimo numero della «Candid Quarterly Review»: «Ogni cancelliere dello scacchiere, il quale abbia saputo qualche cosa del suo mestiere, seppe bene che, se egli doveva riempire la rete della sua imposta sul reddito, doveva fare la maglia abbastanza piccola da poter pescare i molto piccoli, al pari dei pochi grossi pesci».

 

 

Finché in Italia i pesci grossi cercheranno, quando vi riescono, di sottrarre agli accertamenti parte dei loro redditi; fino a quando i pesci medi imiteranno, con discreto successo, il loro esempio; e fino a quando i pesci piccoli rimarranno quasi completamente fuori delle maglie della rete dell’imposta di ricchezza mobile; fino a che tutto ciò non sarà cambiato, il ministro del tesoro, che ha bisogno di denari contanti e non di parole, dovrà raccomandarsi al ministro delle finanze affinché questi applichi o cresca imposte produttive. Abbiamo avuto ora l’imposta sul sale: ma, se i contribuenti non si emendano necessariamente vedremo imposte anche peggiori.

 

 

La salute sta in noi, non nei governi.

 

 

Se i contribuenti chiedessero:

 

 

  • l’obbligatorietà della dichiarazione giurata di tutto il complesso e delle singole partite del proprio reddito: con penalità di multe e reclusione comminate ed eseguite a carico degli spergiuri; e con la maggiore pena del disprezzo dell’opinione pubblica verso i frodatori;
  • l’obbligatorietà per tutti i contribuenti non analfabeti della tenuta dei libri di entrata ed uscita; ed inoltre dei libri-giornale per tutti i commercianti, industriali e professionisti; con severe penalità per i contravventori, e con opportune garanzie di segreto per coloro a cui recasse danno far conoscere al pubblico i fatti ed i redditi propri;
  • la abolizione delle attuali commissioni delle imposte dirette, presiedute e composte di delegati dei prefetti, dei consigli provinciali e comunali, ossia composte di persone soggette ad ogni influenza politica e controllate da poverelli agenti delle imposte, mobili quali frasche al vento, trasferibili da luogo a luogo, promovibili senza regole fisse;
  • la sostituzione ad esse di nuove commissioni, di cui la figura centrale e dominante fosse il presidente, funzionario finanziario, arrivato al più alto grado della sua carriera, nominato per un periodo fisso di tempo, inamovibile ed impromovibile, salvoché per cooptazione in una suprema magistratura finanziaria centrale; ed incaricato, con alto stipendio, della unica e stabile mansione di controllare gli accertamenti e decidere sulle controversie relative.

 

 

Se i contribuenti comprendessero tutto questo ed altro, che per brevità per ora tralascio, non farebbe d’uopo, per pigliare nella rete i piccoli, alzare il prezzo del sale e per colpire gli agiati ed i ricchi, istituire i centesimi di guerra e le imposte sugli extraprofitti? Basterebbero le tre «vecchie» – come in Francia chiamano le imposte affini alle tre nostre sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile – a procurare all’erario somme cospicue e crescenti. E si potrebbero istituire quelle due imposte, complementari alle già esistenti imposte sul reddito, la progressiva sul reddito globale e la patrimoniale, che oggi, allo stato attuale degli accertamenti, sarebbero ben poco interessanti dal punto di vista finanziario; ma domani potrebbero diventare il perno di una feconda trasformazione dei nostri ordini tributari.

 

 

Il congegno dell’imposta sui profitti di guerra

Il congegno dell’imposta sui profitti di guerra

«Corriere della Sera», 27 novembre 1915

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 267-272

 

 

La imposta sui profitti dipendenti dalla guerra, la quale entra in virtù del decreto 21 novembre 1915 nella nostra legislazione, può essere variamente giudicata dal punto di vista economico, sociale e politico. Non entrerò in questa discussione, la quale non potrebbe essere proficua se non fosse fatta in modo ampio e compiuto. Mi limiterò invece a studiare in che modo l’on. Daneo abbia cercato di sormontare le quasi insormontabili difficoltà che si frappongono ad una esatta valutazione dei cosidetti extraprofitti di guerra; che è, dal punto di vista finanziario, il problema cardinale di questa imposta. Creare organi appositi e del tutto nuovi e regole speciali per l’imposta sui profitti di guerra non era consigliabile, sia, perché il lavoro nuovo imposto all’amministrazione finanziaria sarebbe stato gravosissimo, in un momento in cui, per il richiamo sotto le armi di più di 500 agenti del personale delle imposte, già riesce difficile l’esecuzione dei lavori ordinari, sia perché non avrebbe francato la spesa di creare organi nuovi per amministrare un tributo, per indole sua provvisorio e di cui e incerto quale potrà essere il rendimento definitivo per l’erario e benanco è incerto se il provento reale non finirà di essere di gran lunga inferiore al provento apparente, per la tendenza quasi ineluttabile che avrà in parte l’imposta a diventare una partita di giro fra ministero della guerra e tesoro, con una forse scarsa reale incidenza sugli apparenti contribuenti (industriali ed intermediari).

 

 

A me sembra che l’on. Daneo sia riuscito a ritrarre in salvo abbastanza bene le mani del fisco da questo nido di vespe: certo assai meglio di quanto non abbiano fatto i signori Lloyd George e MacKenna in Inghilterra. Cercherò di spiegare alla meglio le ragioni di questo mio modo di pensare:

 

 

  • L’imposta è una addizionale all’imposta ordinaria di ricchezza mobile. Qui importa avvertire che, in virtù della revisione quadriennale dei redditi di ricchezza mobile, la massima parte dei contribuenti – ad eccezione delle sole società anonime ed in accomandita per azioni – sarebbe sfuggita del tutto alla imposta ordinaria di ricchezza mobile per i loro sovraguadagni di guerra. Ciò sarebbe stata una sperequazione di fronte alle società anonime ed agli altri contribuenti; e se può, finanziariamente, dubitarsi della convenienza e del rendimento di una imposta speciale sui profitti di guerra, non poteva sorgere alcun dubbio sulla necessità di trovare un modo di assoggettarli all’imposta generale di ricchezza mobile. L’on. Daneo bene fece ad ordinare una revisione straordinaria dei nuovi e maggiori redditi di guerra, allo scopo di assoggettarli prima all’imposta generale di ricchezza mobile e poi ad una sovrimposta speciale di guerra. Forse il migliore e più duraturo frutto del decreto odierno sarà appunto l’istituto della revisione straordinaria; che mi auguro rimanga, allargato e reso permanente, nella nostra legislazione e continui a dar frutti di milioni, anche quando la sovrimposta sui profitti di guerra si sarà dileguata per il venir meno della sua causa occasionale.

 

  • Se si riflette che, rimanendo immutata la legislazione vigente, le sole società per azioni avrebbero pagato l’imposta ordinaria di ricchezza mobile, si può constatare che la vera nuova imposta determinata dal presente decreto è data dalla somma della vecchia imposta di ricchezza mobile, che essi non avrebbero di fatto pagata, e dalla sovrimposta speciale sui profitti di guerra. Così per gli industriali ed i commercianti.

 

 

Proporzione degli extraprofitti di guerra al capitale investito

Aliquota per 100 lire

Imposta R.M.

Sovrimposta

Totale

Quota dell’extraprofitto fino all’8% sul capitale

11,50

11,50

Quota dall’8 al 10%

11,50

10

21,50

Quota dal 10 al 15%

11,50

15

26,50

Quota dal 15 al 20%

11,50

20

31,50

Quota superiore al 20%

11,50

30

41,50

 

 

Per gli intermediari, non essendovi alcun apprezzabile capitale investito, si dovette ricorrere al criterio puro e semplice dell’eccedenza sul reddito ordinario.

 

 

E l’aliquota risultò così:

 

 

Numero dei decimi di cui gli extraprofitti di guerra superano il reddito ordinario

Aliquota per 100 lire

Imposta di R. M.

Sovrimposta

Totale

Quota dell’extraprofitto fino ad un decimo oltre il reddito ordinario

10,35

10,35

Quota da 1 a 5 decimi

10,35

5

16,35

Quota da 5 a 10 decimi

10,35

10

20,35

Quota da 10 a 20 decimi

10,35

15

25,35

Quota da 20 a 30 decimi

10,35

20

30,35

Oltre 30 decimi

10,35

30

40,35

 

 

Notisi che le varie aliquote, progressivamente indicate, colpiscono non l’intero extraprofitto, bensì le successive quote di esso, come era ragionevole e come tecnicamente si deve fare, se non si vuole cadere in gravi errori. Notisi anche che i totali delle aliquote devono ancora essere aumentati del 2% circa dei totali stessi per le spese di distribuzione e degli aggi esattoriali e ricevitoriali.

 

 

E notisi finalmente che sono tassati a parte, con questa revisione straordinaria, i soli extraprofitti derivanti dalla guerra e non quindi i redditi ordinari già prima tassati, anche se essi superavano l’8% del capitale investito.

 

 

Tuttavia, al solo scopo di sapere se la percentuale del reddito supera l’8% o più del capitale, si tiene conto della somma del reddito ordinario di pace e di quello straordinario di guerra. E cioè, se Tizio prima della guerra guadagnava già il 20% sul capitale e dopo guadagna il 40, egli non subirà variazioni, in ciò che paga, per il primo 20%, ma l’ulteriore extraprofitto del 20% sarà tassato tutto coll’aliquota sua propria del 41,50%, cadendo tutto al di là del limite del 20% sul capitale investito.

 

 

  • Alcune variazioni importanti vengono apportate alla procedura ordinaria di accertamento dei redditi di ricchezza mobile. La principale è il diritto che hanno le commissioni competenti delle imposte dirette (che in questo caso credo siano la provinciale e la centrale) a chiedere l’esibizione e l’ispezione dei libri di commercio. Finora questo diritto il fisco lo aveva solo rispetto alle società per azioni. Domani lo avrà anche rispetto ai contribuenti privati. Come passo di transizione, fu stabilito che il diritto non competa agli agenti delle imposte, sibbene solo alle commissioni e solo quando l’importo delle differenze contestate sia superiore alle 10.000 lire. Se le commissioni sapranno fare uso prudente e riservato di siffatta facoltà loro concessa, essa rimarrà anche dopo scomparsa l’imposta sugli extraprofitti; e potrà essere feconda di molti milioni reali a pro del tesoro.

 

  • Altre novità sono l’introduzione dell’intendente di finanza nelle commissioni provinciali e l’abolizione del diritto di ricorso alla magistratura ordinaria. Su di ciò occorrerebbe fare lungo discorso. Certo le cose, così come ora stanno rispetto al contenzioso tributario, non possono durare. La riforma, però, a parer mio, dovrà essere più profonda ed aver luogo con le dovute garanzie per la finanza e per i contribuenti.

 

  • Sovratasse e multe forti sono comminate ai contravventori. Le dichiarazioni tardive od erronee sono punite con una sovratassa uguale alla sovrimposta dovuta sulla differenza nascosta. Auguriamoci che sovratasse e multe siano applicate sul serio e non cadano in desuetudine, a somiglianza di quelle già vigenti per l’imposta di ricchezza mobile.

 

  • Che cosa è il sovraprofitto oggetto della revisione straordinaria e conseguenti imposte o sovrimposte? La risposta è semplice per gli intermediari; per i quali è uguale a tutta l’eccedenza del guadagno sul reddito per cui essi erano tassati prima, nella media del biennio 1913-14. Fu tassato un intermediario per 2.000 lire di reddito? Sarà extraprofitto tutto ciò che egli guadagnò dal 10 gennaio 1914 al 31 dicembre 1915 di più di 2.000 lire all’anno. Se nel 1913-14 egli non era ancora tassato, il suo reddito ordinario sarà reputato uguale a quello che avrebbe guadagnato secondo opportuni confronti con i redditi analoghi. L’eccedenza sola sarà soggetta all’imposizione straordinaria.

 

 

Per gli industriali e i commercianti la cosa è alquanto più complessa. Dopo aver determinato il reddito ordinario e l’extraprofitto di guerra nel modo che si è ora detto, occorre ancora determinare il capitale «investito ed effettivamente impiegato alla produzione del reddito». La determinazione si farà con la prova di atti, libri di commercio regolarmente tenuti ed altri mezzi preesistenti al 21 novembre 1915. In difetto di prove il capitale si presumerà nella somma occorrente per la produzione del reddito; e naturalmente si terrà conto sia del capitale investito prima sia di quello investito dopo il primo agosto 1914, purché occorrente a produrre gli extraprofitti tassati. Dal confronto fra il capitale dell’investito ed il reddito totale (reddito ordinario + extraprofitto) risulterà la percentuale del reddito in confronto al capitale. Se la percentuale non supera l’8% del capitale, si applicherà solo l’imposta ordinaria di ricchezza mobile; se è superiore all’8%, si applicherà inoltre sul sovraprofitto la sovrimposta nella proporzione progressiva sopra spiegata.

 

 

  • Il sovraprofitto di guerra è una somma che risulta deducendo dagli incassi lordi le spese di produzione. Si sa a quanti dubbi e dibattiti dia luogo in pratica la determinazione delle spese deducibili e specialmente delle quote di ammortamento. Se non si fosse detto nulla al riguardo, è probabile che le agenzie delle imposte sarebbero state ferme nel concedere solo la deduzione delle quote ordinarie di ammortamento; il che sarebbe stato ingiusto, essendo frequenti i casi in cui impianti fatti od allargati durante la guerra presente per la produzione di munizioni, armi e forniture militari varranno zero alla fine della guerra e debbono quindi essere totalmente ammortizzati sui profitti. Bene dispone perciò il decreto ad imporre esplicitamente la deduzione dagli incassi lordi delle «svalutazioni ed ammortamenti eccezionali di speciali impianti fatti in contemplazione di forniture di guerra». Malgrado la quale provvida disposizione non credo di andare errato predicendo che sovratutto il calcolo degli ammortamenti e delle svalutazioni, insieme a quello del capitale investito, sarà cagione di contestazioni spinose fra contribuenti ed amministrazione fiscale. Né voglio accennare a pericoli di frodi; bensì alla quasi impossibilità di trovare criteri soddisfacenti ed abbastanza generali, i quali possano illuminare questa contestabilissima e tormentata materia degli ammortamenti e degli investimenti in conto capitale.

 

 

L’imposta militare

L’imposta militare

«Corriere della Sera», 25 ottobre 1915[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 261-266

 

 

Sebbene l’imposta sulle esenzioni dal servizio militare entri nel nostro ordinamento tributario a titolo di provvedimento «straordinario», io credo e, debbo aggiungere, mi auguro che essa rimanga stabilmente a farne parte. Essa invero risponde a concetti evidenti di perequazione tributaria, i quali sono messi ancor più in risalto dal momento presente di guerra. La guerra talvolta spiega soltanto la opportunità momentanea e la convenienza finanziaria immediata di alcuni espedienti finanziari – e cito, alla rinfusa, tra gli ultimi ed i possibili venturi, i diritti sulle licenze di esportazione, l’aumento delle tariffe postali, telegrafiche e telefoniche, l’aumento della tassa sugli assegni bancari, l’imposta sui proventi degli amministratori delle società anonime e di quelle in accomandita per azioni, l’imposta sugli extraprofitti di guerra – i quali sarebbero, in tempi normali, sconsigliabili perché non rispondenti a nessun criterio di perequazione tributaria, o produttivi di inconvenienti economici non lievi, o turbatori di quell’armonica struttura del sistema tributario nel suo complesso, che è una condizione essenziale del suo proficuo funzionamento pratico; in altri casi, invece, la guerra è stata l’occasione propizia per rimediare ad incongruenze e deficienze dell’ordinamento vigente: ricordo, tra quelli del gruppo precedente, i provvedimenti relativi agli spiriti ed agli zuccheri; e, tra quelli dell’odierno gruppo, le innovazioni, tecnicamente opportune, nella tassa sui cinematografi; e, sovratutto, l’imposta militare. Il nome degli on. Salandra, Daneo e Carcano rimarrà collegato a questa, che è certo una buona e corretta imposta.

 

 

Il suo fondamento riposa tutto nella necessità e nella giustizia di perequare la posizione di chi offre il braccio e la vita per la difesa del paese e di coloro che, senza alcuna ragione «pubblica» sono esenti dal sacrificio del servizio militare. Poiché questa è una imposta, grave sempre e gravissima in tempo di guerra, è corretto che gli esenti dall’imposta «personale» paghino una imposta compensatrice «pecuniaria». Le obiezioni elevate in passato contro questo tributo e che si trovano tutte diligentemente esposte e confutate nello scritto del senatore Carlo F. Ferraris, il migliore pubblicato in Italia su questo argomento (L’imposta militare nel sistema delle imposte speciali, Società editrice libraria, Milano), hanno scarsissimo peso. L’imposta gravando solo su coloro che per legge sono esentati dal servizio militare, è chiaro che non vale l’antica obiezione elevata contro i pagamenti fatti da chi un tempo voleva essere esentato dal servizio militare. Oggi non si può più dire che chi paga non serve; poiché il pagamento del tributo è imposto a coloro a cui la legge ha tolto l’onore ed insieme l’onere del servizio. Né giova obiettare che il riformato o l’esonerato non è tale per un atto di volontà propria; poiché la riforma e l’esonero non tolgono che il contribuente sia personalmente avvantaggiato e messo in grado di pagare un tenue compenso pecuniario per il beneficio, sia pure involontario, di non essere soggetto al servizio militare. La guerra ha messo in vivissimo risalto la sperequazione tra i combattenti e gli esonerati e la giustizia di un provvedimento riparatore.

 

 

Senza entrare nei particolari minuti, per cui basta un’attenta lettura del decreto legislativo, pare opportuno riassumere i criteri tecnici fondamentali del nuovo tributo.

 

 

In primo luogo l’imposta è universale. Essa colpisce tutti coloro che per riforma, dispensa od esonero, renitenza, diserzione, ecc., non siano soggetti o si sottraggano al servizio militare; ed in aggiunta quelli che, durante la presente guerra, non si trovino sotto le armi per non avvenuto richiamo della loro classe. Poiché l’imposta ha indole surrogatoria, essa colpisce tutti coloro che «abbiano un’età compresa nei limiti di obbligo del servizio militare di terra e di mare», e cioè, attualmente, coloro i quali hanno un’età tra i 20 ed i 39 anni. Ove in avvenire il limite di obbligo venisse anticipato o protratto, automaticamente verrebbero ad essere assoggettati all’imposta gli esonerati appartenenti alle corrispondenti classi di età, prima dei 20 e dopo i 39 anni.

 

 

Le esenzioni sono quelle sole dettate da esigenze pubbliche o da impossibilità fisica od economica: gli appartenenti ad un servizio di stato militarizzato; i ciechi, i sordomuti e gli idioti; i riformati assolutamente incapaci al lavoro, quando però non godano di un reddito patrimoniale superiore a lire 2.000; i militari riformati per cause dipendenti dal servizio; gli indigenti; i condannati, durante l’espiazione della condanna penale.

 

 

Posta l’universalità dell’imposta, ne discendeva come logica conseguenza il suo frazionamento in due parti: una quota fissa di 6 lire, fatta pagare a tutti indistintamente gli assoggettati; ed un contributo addizionale variabile in ragione della fortuna. La quota fissa è una vera e propria capitazione: e come tale potrebbe da taluno essere soggetta alle critiche mosse contro le imposte le quali colpiscono i contribuenti senza riguardo alle loro condizioni di fortuna. Ma è una capitazione altresì e ben più grave, il servizio militare; sicché appare ragionevole che l’imposta, messa in surrogazione di quello, ne segua le sorti. Del resto il carattere di capitazione è grandemente attenuato, anzi si può dire scompaia del tutto, grazie al contributo addizionale, il quale eleva l’ammontare totale pagato appunto per i contribuenti forniti di redditi più elevati. Grazie ad esso, l’imposta nuova ha, con qualche irregolarità, un carattere progressivo, come si può rilevare dalla seguente tabellina.

 

 

Classi di reddito

Imposta pagata (quota fissa e contributo complementare)

Percentuale per ogni classe dell’imposta sul reddito

più basso

più alto

Fino a L. 1.000

6

0,60

Da L. 1 000 a 2.000

12

1,20

0,60

  2.001 a 3.000

18

0,90

0,60

  3.001 a 6.000

31

1,08

0,51

  6.001 a 10.000

56

0,93

0,56

  10.001 a 15.000

88

0,86

0,57

  15.001 a 20.000

128

0,84

0,63

  20.001 a 30.000

206

1,03

0,68

  30.001 a 40.000

306

1,02

0,76

  40.001 a 50.000

426

1,6

0,85

  50.001 a 75.000

706

1,41

0,94

  75.001 a 100.000

106

1,40

1,05

  100.001 a 125.000

1.456

1,45

1,16

  125.001 a 150.000

1.908

1,52

1,27

  150.001 a 200.000

2.406

1,60

1,20

Oltre L. 200.000

3.006

1,50

 

 

La progressione dell’imposta è evidente nelle linee generali. L’irregolarità nella progressione è la conseguenza del metodo tecnico adottato che è quello conosciuto sotto il nome di imposta classificata. Con questa, invece di stabilire un’aliquota percentuale sul reddito, si preferisce frazionare i redditi in classi e fissare l’ammontare complessivo dell’imposta da pagarsi dai contribuenti delle varie classi. Siccome questi ammontari devono essere fissati in cifre tonde e siccome ad ognuno di essi conviene aggiungere la quota fissa di lire 6, accade che si verifichi un certo saltellamento della proporzione percentuale dell’imposta al reddito. L’inconveniente maggiore del sistema consiste nel fatto che, se l’aliquota è progressiva in generale, è regressiva entro le singole classi. Ad esempio, poiché pagano ugualmente 12 lire tanto coloro che hanno un reddito di 1.000 lire quanto coloro che l’hanno di 2.000 lire, accade che i primi paghino l’1,20% ed i secondi solo il 0,60% del loro reddito. L’inconveniente però è ridotto nel caso nostro d’assai dal fatto che trattasi di una imposta tenue, la quale non supera l’1,60% del reddito, anche nei casi in cui è massima: ed è compensata dalla maggiore semplicità che essa può per tal modo raggiungere. Né bisogna dimenticare, come fu detto sopra, che, dato il suo carattere di compensazione ad un sacrificio strettamente personale, l’imposta deve contenere un elemento fisso.

 

 

Devono pagare l’imposta militare coloro che hanno il beneficio della immunità dal servizio militare, ogni anno finché dura il loro obbligo. Ma poiché moltissimi degli obbligati non hanno o farebbero ogni sforzo per dimostrare di non avere un reddito proprio, è acconciamente stabilito che si tenga conto, in aggiunta ai proventi propri dell’obbligato diretto, altresì della metà dei redditi dei genitori legittimi, naturali od adottivi e, se nessuno di questi più vive, degli avi, divisa per il numero di figli e figlie o dei nipoti. Così, suppongasi che un riformato di 20 anni abbia un reddito proprio di 1.000 lire e che i suoi genitori abbiano un reddito di 10.000 lire ed egli abbia 3 tra fratelli e sorelle: il reddito su cui sarà calcolata l’imposta sarà il suo proprio da 1.000 lire più una quarta parte della metà di 10.000 lire, ossia 1.250 lire ed in totale 2.250 lire. L’imposta dovuta sarebbe di 18 lire all’anno. Naturalmente il cumulo col reddito dei genitori non si farà quando i riformati od esonerati non convivano coi genitori od avi, abbiano una famiglia propria legittima e siano contribuenti in nome proprio alle imposte dirette per un reddito di almeno 3.000 lire. Del pagamento dell’imposta, salvo quest’ultimo caso, sono responsabili solidariamente i genitori o gli avi dell’obbligato; e ciò allo scopo di evitare troppo numerosi casi di inesigibilità per nullatenenza. Gli esattori avranno l’obbligo tuttavia di escutere prima gli obbligati diretti, e solo in caso di inesigibilità ricorrere contro i responsabili solidariamente.

 

 

Un problema grave si presentava in questo momento riguardo all’applicazione pratica dell’imposta militare: ed era la valutazione del reddito tassabile dei riformati od esonerati e delle loro famiglie. È risaputo che in Italia non è noto legalmente allo stato il reddito complessivo dei contribuenti; perché non esiste una imposta su di esso, ma solo tre imposte separate sulle varie specie di reddito. Non era consigliabile creare organi speciali e strumenti adatti di accertamento per l’esazione di una imposta che, sebbene ragionata, rimane pur sempre una piccola imposta. Le spese di accertamento avrebbero assorbito buona parte del gettito tributario. Bene quindi operò praticamente l’on. Daneo, ordinando di fare la somma dei redditi soggetti alle tre imposte sui terreni, sui fabbricati e di ricchezza mobile; integrando questo accertamento automatico con i rilievi ricavati in occasione dell’applicazione delle imposte comunali di famiglia, sul valore locativo e di esercizio e rivendita. Gli accertamenti dei redditi così ottenuti non saranno forse perfetti; ma saranno i soli possibili nelle attuali condizioni dei nostri ordinamenti tributari. Nuovo argomento, se ce ne fosse ancora bisogno, a favore della istituzione di una imposta complementare sul reddito complessivo; la cui utilità principalissima e, torno a ripeterlo, forse la sola dovrebbe essere quella di consentire una migliore rilevazione dei redditi. I vantaggi fiscali di una simile imposta dovrebbero essere sovratutto indiretti e consisterebbero nella possibilità di esigere meglio i tributi esistenti. Quanto non sarebbe resa più agevole l’applicazione della nuova imposta militare se, a mezzo di una mite imposta complementare sul reddito, si conoscessero i redditi degli obbligati e dei loro genitori ed avi!

 

 



[1] Con il titolo Il fondamento ed il congegno tecnico dell’imposta militare. [ndr]

Cavalleria antica e barbarie moderna

Cavalleria antica e barbarie moderna

«Corriere della Sera», 17 ottobre 1915

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1959, pp. 777-781

 

 

Quando nei paesi alleati si vogliono stigmatizzare le atrocità, di cui i tedeschi si resero colpevoli durante la presente guerra, o quando in Germania si vuole eccitare l’indignazione popolare contro i russi, si suol dire che la guerra ha risuscitato i metodi barbari di sterminio, che la civiltà e la gentilezza del secolo XIX sembravano avere reso impossibile. È un ritorno all’antico, si dice; l’umanità sta retrocedendo di secoli a quella che era sotto i regimi assoluti, quando Luigi XIV ordinava a Catinat, reduce dagli incendi e dalle stragi del Palatinato, di bruciare tutto e di bruciare bene in Piemonte. La mente ritorna al sacco di Roma ed alla distruzione di Cartagine per avere un riscontro storico alla distruzione di Louvain od ai bombardamenti di Reims e di Ypres.

 

 

In realtà, così facendo, noi calunniamo i secoli passati; od almeno quella che fu la normale condotta della guerra negli ultimi secoli avanti la rivoluzione francese, che ancora sono considerati dai più tempi di barbarie, di crudeltà e di aggressione in pace ed in guerra. Non si vuol negare che quei tempi fossero in pace meno civili e liberi del nostro; né che in tempo di guerra gli eserciti si macchiassero occasionalmente di colpe orrende. Ma è certo che la immagine comune di quella antica condotta della guerra è assai difforme dalla verità; e che quei nostri antenati erano assai più cavallereschi di quanto non siano apparsi agli occhi stupefatti dell’umanità taluni guerrieri moderni.

 

 

È la tesi dimostrata nell’ultimo numero della rivista «La riforma sociale» (agosto-ottobre) da Giuseppe Prato in un articolo su L’occupazione militare nel passato e nel presente. Scritto su documenti da lui medesimo ed in parte anche da me studiati in passato, in tutt’altra occasione, nell’Archivio di stato di Torino; e sui geniali volumi da anni pubblicati da un dotto francese, il prof. lreneo Lameire, dell’universita di Lione, intorno alle consuetudini realmente seguite dagli eserciti d’occupazione in territorio nemico durante le ultime guerre del secolo XVII e le prime del XVIII, l’articolo del Prato non è fondato su fatti affannosamente ora ricercati per dimostrare una tesi preconcepita; è invece la conclusione oggettiva di ricerche condotte in passato prima che alla guerra europea odierna lontanamente si pensasse.

 

 

Le conclusioni non si fondano su notissimi episodi di cavalleria antica: come il famoso: «Tirez les premiers, messieurs les anglais» delle guardie francesi a Fontenoy, o la preghiera rivolta a Vittorio Amedeo II dal generale assediante Torino nel 1706 di volergli indicare il suo domicilio per risparmiarlo nel bombardamento. Episodi consimili pullulano nelle storie. Anche nei momenti terribili in cui Luigi XIV ordinava la devastazione spietata del Piemonte e la presa della capitale, continuavano ad arrivare indisturbate e probabilmente con tutti i debiti onori per parte dei funzionari di confine, le forniture consuete della corte ducale, né cessavano le cortesie fra i sovrani nemici, espresse in regali ed invii reciproci di prodotti caratteristici dei due regni. Cavallereschi verso i sovrani nemici, i nostri antenati non lo erano meno verso i condottieri avversari. Nel 1705 il duca della Feuillade, comandante le truppe francesi, veniva indennizzato dal tesoro ducale di Savoia con lire 4.568 per bagagli personali e cavalli presigli dai nostri partigiani, mentre i suoi equipaggi attraversavano il Piemonte, muniti di salvacondotto del duca di Savoia. E il medesimo duca della Feuillade, accampatosi nell’agosto del 1705 alla Venaria con l’intento di porre l’assedio a Torino, si vedeva presentato, a nome del sovrano aggredito, il curioso dono di cui fa testimonianza una annotazione nel registro della spesa di corte di quel mese: «Al confitturiere di Madama reale Sigismundo Vilver, per prezzo d’agro di bergamotto, con otto vasi per riporlo dentro, e mandato, d’ordine di S. A. R. con altre robbe di rigallo al sig. duca della Feuillade, comandante dell’armata di S. M. cristianissima: lire 71,16».

 

 

Questi sono aneddoti. Le consuetudini osservate rispetto al diritto vigente nei paesi occupati, alle imposte e contribuzioni di guerra prelevate non sono spesso meno cavalleresche e direbbesi, se la parola non suonasse oggi amara, moderne. Prevaleva, invece, la tendenza a mantenere integro, nelle terre occupate, il sistema legislativo interno preesistente. I francesi specialmente non derogarono che di rado a tale principio durante l’invasione del Piemonte nelle guerre della Lega d’Absburgo e di successione spagnuola, e lo osservarono anche più rigorosamente in Spagna, per quanto ha tratto al diritto comune. Le leggi stesse aventi per scopo esclusivo la prosperità economica del paese, come i regolamenti industriali di taluni luoghi (Biella, nel 1706), furono frequentemente applicate con esattezza scrupolosa, e strettamente rispettati gli ordini propri dei comuni e delle opere pie.

 

 

Anche in affari più gelosi si nota il medesimo rispetto al diritto vigente. Sotto i generali di Luigi XIV i giudici feudali e ducali piemontesi continuano ad amministrare la giustizia in prima istanza. I senati di Savoia e di Nizza, supreme magistrature giudicanti, rimangono in funzione, coi magistrati nominati dal duca di Savoia. Non è raro che il senato di Nizza serva perfino come consiglio di guerra per reprimere gli abusi dei soldati saccheggiatori. Circostanza questa la quale dimostra come spesso, in tempi cosidetti oscuri, fossero minori d’adesso i poteri dell’autorità militare, minori persino che in tempo di pace nei luoghi dove è proclamato lo stato d’assedio.

 

 

Quando i franco-sardi, durante la guerra della prammatica sanzione, si impadronirono del Milanese, preventivamente riservato al re di Sardegna, questi si affretta ad informarsi esattamente dei limiti della propria competenza circa la nomina alle diverse cariche, con rigoroso riguardo ai precedenti storici e locali; né sembra che i funzionari d’ogni grado in carica nutrano preoccupazioni molto gravi circa la loro stabilità nell’ufficio, se non san fare di meglio che sottoporre al re le loro contese circa le più ridicole questioni protocollari, particolarmente sui posti a teatro! La verità è che Carlo Emanuele III, mentre spazzò dalle curie la turba di intriganti spagnuoli ivi intrusi per favoritismo da Carlo VI, seppe sostituire loro i più eletti personaggi lombardi. Il conte Petitti, intendente di guerra, fu l’unico piemontese destinato a Milano presso quella giunta, quale semplice intermediario per le occorrenze militari.

 

 

Caratteristico sovratutto è il contegno degli eserciti invasori di un tempo rispetto alle taglie ed alle contribuzioni imposte nei paesi occupati. Base normale delle contribuzioni pretese dalle comunità occupate sembra debba considerarsi il semplice pagamento all’invasore, anziché al legittimo governo, delle imposte esistenti; ciò che non di rado avviene con l’espresso consenso del sovrano interpellato e talvolta perfino col suo indiretto concorso: come quando il comune di Bricherasio, dovendo pagare il tributo ai francesi, vuole vendere certo suo vino che trovasi a Luserna, tuttora in potere dei sabaudi; onde supplica ed ottiene il permesso di farnelo venire dal duca, il quale per di più concede una scorta di valdesi. A liberare le comunità dall’obbligo di pagare le consuete imposte al nemico, usava talvolta il sovrano legittimo rilasciare quitanze false di eseguito pagamento dei tributi dell’annata, perché servissero di scarico verso il nemico sopravveniente. Nel 1704-706 il ministro piemontese Groppello escogitò pure l’espediente di tenere segreti i ruoli delle imposte dei paesi invasi, affinché all’occupante mancasse il documento per esigerli. Avvedimenti e pretesti che probabilmente oggi non sarebbero sembrati efficaci alle città ed ai villaggi del Belgio occupato dal nemico. Forse la più importante contribuzione straordinaria di guerra imposta dai vincitori dei secoli scorsi era il cosidetto «diritto di riscatto delle campane», che per consuetudine antichissima si ritenevano legittimo oggetto di confisca a pro delle artiglierie dell’esercito di occupazione. Ma se si pon mente che tale diritto caratteristico di presa avrebbe compreso, se esercitato in natura, tutti gli stagni, bronzi, rami, ottoni e piombi esistenti nel paese, nei pubblici edifici o presso i privati, non possono reputarsi esorbitanti le somme richieste ad ottenerne il riscatto: 800 luigi a Chivasso, città di 3.500 abitanti nel 1705; 2.500 a Vercelli, città di 6.000 abitanti nel 1704; 220 doppie a Puycerdz nel 1678; 133 a Urgel nel 1691; 5 scudi per campana in certi villaggi baschi, nel 1719; 7.420 lire a Tortona (7.000 abitanti) nel 1743; 5.000 lire a Valenza (3.700 abitanti) nel 1745. Né della pretesa si trova traccia ogni volta che la occupazione avviene con intenti di conquista stabile: come nell’occupazione piemontese della Lombardia, durante la guerra della prammatica sanzione. Spesso i comuni, con abili negoziati, riescono a ridurre al minimo od a procrastinare il pagamento: a Barcellona, gli amministratori cittadini tengono a bada per anni intorno alla spinosa questione del riscatto delle campane il comandante francese, fino che la pace di Ryswick obblighi il presidio straniero a sgombrare il paese. Pochi anni dopo il Consiglio dei commessi del ducato d’Aosta non cede alla domanda del nemico, richiedente entro breve termine un versamento di 10.000 lire, se non a titolo di Prestito ed a condizione che il commissario si obblighi in proprio alla integrale restituzione.

 

 

Gravi erano soltanto le requisizioni militari vere e proprie, ordinate per il mantenimento e l’alloggio delle soldatesche in campagna. Ma di esse, come delle requisizioni, spesso più rigorose, dell’esercito del legittimo sovrano, tenevasi conto accurato, rilasciavansi quietanze ed era riconosciuto il diritto delle comunità requisite a dedurne, alla pace, l’importo dalle ordinarie contribuzioni dovute al governo. Quale differenza dalle requisizioni arbitrarie, dalle multe fantastiche comminate per i più leggeri pretesti e dal saccheggio «scientifico» delle fabbriche, delle miniere, delle ferrovie che sembrano essere oggi la esperienza quotidiana nell’infelice Belgio!

 

 

La politica delle importazioni ed i nuovi dazi doganali inglesi

La politica delle importazioni ed i nuovi dazi doganali inglesi

«Corriere della Sera», 10 ottobre 1915

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 254-260

 

 

Ho cercato altra volta di delineare i tratti essenziali di quella che dovrebbe essere la nostra politica delle esportazioni in tempo di guerra. Non meno importante ai fini della nostra resistenza bellica e della buona soluzione del problema del cambio è però la politica delle importazioni. A mettere in chiaro quale sia la via che dobbiamo seguire, gioverà additare l’esempio dei risultati contraddittori che l’Inghilterra finora ottenne colla sua politica del blocco contro la Germania. Vollero invero i governanti inglesi danneggiare la Germania vietando e frastornando le importazioni di merci neutrali nel territorio tedesco. Ed in parte raggiunsero il risultato di perturbare l’industria ed il commercio, di limitare l’approvvigionamento alimentare e di impedire l’entrata dei materiali da guerra.

 

 

Questi sono risultati positivi grandissimi, benefici per l’Inghilterra. Ma, come ogni medaglia ha il suo rovescio, la Germania, chiusa in se stessa, cercò di trarre il miglior partito dalla mala ventura toccatale. Non potendo fare acquisti all’estero, non dovette provvedere al pagamento dei debiti relativi; la bilancia commerciale non subì uno squilibrio troppo grande; il marco perdette di meno di quanto si poteva immaginare; le economie forzate furono impiegate nelle sottoscrizioni ai prestiti di guerra.

 

 

Se il paradosso del vendere senza comprare avesse potuto attuarsi, i paesi alleati avrebbero avuto interesse a vendere, salvo le derrate alimentari ed i materiali da guerra, tutto il vendibile alla Germania. L’avrebbero impoverita, avrebbero diminuito la sua capacità di risparmio, l’avrebbero resa debitrice verso l’estero, avrebbero scemato la sua capacità economica di resistenza.

 

 

Da queste considerazioni deriva che in tempo di guerra, quando l’unico scopo della vita è la vittoria e tutti gli altri scopi perdono di importanza, un paese ha interesse a limitare le importazioni dall’estero al minimo assolutamente necessario: munizioni da guerra, derrate alimentari necessarie alla vita fisica, lana, cotone ed indumenti per l’esercito, macchine per impianti urgenti, materiali per industrie necessarie all’alimentazione interna ed all’esportazione e cose simiglianti. Ma nulla più.

 

 

Anche così limitate, le importazioni saranno sempre largamente sufficienti a compensare e provocare abbondanti esportazioni. Anzi, poiché, in tempo di guerra, le importazioni di derrate alimentari e di materiali da guerra crescono naturalmente, e d’altra parte si interrompono le rimesse degli emigranti e dei forestieri, fa d’uopo raddrizzare la bilancia commerciale appunto col cessare le importazioni delle cose meno necessarie. Altrimenti la bilancia si raddrizza in altra maniera: coll’aumento del prezzo in carta di tutte le importazioni in genere, e col crescere del costo della vita, ovvero con la creazione di debiti verso l’estero.

 

 

Perciò sarebbe stato e sarebbe ancora opportuno che spesseggiassero, forse più che quelli di esportazione, i divieti di importazione. La materia è delicata, poiché fa d’uopo non creare condizioni artificiali di protezione alle industrie interne, che si correrebbe rischio di vedere mantenute dopo la pace, con un rincaro permanente per la vita della popolazione italiana. Tuttavia a me sembra che due criteri massimamente potrebbero guidarci:

 

 

  • In primo luogo vi dovrebbe essere un divieto assoluto di importazione, diretta od indiretta, di tutte le merci dai paesi nemici. Non si corre il pericolo di fare il nostro danno, poiché i nemici sicuramente già provvedono a non inviarci cose le quali possano tornare utili alla nostra resistenza bellica. Essi ci invieranno giocattoli e non munizioni: e quindi a priori noi possiamo essere sicuri di fare il nostro vantaggio respingendo qualsiasi merce proveniente da paese nemico.

 

 

È ciò che già accade: sebbene io non sia sicuro che, attraverso la Svizzera e l’Olanda, la Germania e l’Austria non riescano a venderci merci inutili alla nostra resistenza bellica. Molti studiosi italiani, ad esempio, hanno ricevuto lettere e cartoline di librai tedeschi, i quali offrivano di continuare l’invio di libri e riviste per mezzo di case appositamente create o di corrispondenti domiciliati in Svizzera ed in Olanda. Simiglianti rivoli di importazione di cose, per il momento superflue, continuano a scorrere dai paesi tedeschi. Il signor Ferruccio Cinotti di Genova mi comunica lettere di una ditta tedesca di trasporti internazionali, la quale si offre a fare spedizioni di articoli esteri, specialmente germanici, per mezzo di spedizionieri svizzeri. Rimessa anticipata del prezzo al Bankverein Suisse di Zurigo in lire italiane. Trattavasi, nel caso particolare, di giocattoli, di cui i bambini italiani per quest’anno possono benissimo fare a meno. Una vigile tutela per impedire tutte queste importazioni indirette si impone. Non gioverebbe il semplice divieto di pagare i debiti, poiché non è affatto necessario pagare in oro, bastando comperare divisa estera o spedire lire italiane, in amendue i modi contribuendo a rialzare l’aggio, ossia a deprezzare le lire italiane. E sopra si vide come gli esportatori germanici si cautelino esigendo il pagamento anticipato; come del resto facciamo, nel più dei casi, noi stessi per le nostre esportazioni all’estero.

 

 

  • Ad evitare le irritanti controversie coi paesi neutrali intorno alla provenienza indiretta di singole partite di merci dai paesi nemici, è necessario che al divieto di importazione di qualunque merce dai paesi nemici si accompagni il divieto di importazione di talune merci da qualunque paese, nemico od amico. Se a questo divieto assoluto si opponessero convenzioni internazionali commerciali, si potrebbe ricorrere a qualche espediente, come l’istituzione di licenze di importazione, simili a quelle che già esistono per l’esportazione, da rilasciarsi mercé il pagamento di un fortissimo, proibitivo diritto di concessione. Le tasse di concessione sono un affare interno, non regolato dai trattati di commercio. Né sarebbe impossibile escogitare altri avvedimenti, ove essi sembrassero necessari per girare difficoltà d’ordine giuridico. Il divieto dovrebbe riguardare però, come si è detto, sempre solo le merci non necessarie alla difesa, all’alimentazione od al funzionamento delle industrie interne od esportatrici. In tal modo sarebbe ridotto al minimo il rischio di creare una artificiale protezione di guerra alle industrie interne. Invero le industrie, le quali provvedono ai bisogni di lusso, traversano anche in Italia un momento di crisi, il che dimostra che spontaneamente gli italiani si sono decisi a fare economie. Anche se fossero liberate dalla concorrenza estera, esse non saranno certamente spinte ad allargare i propri impianti, poiché prezzi e domanda non cresceranno in modo da rendere conveniente impiegare in una direzione non allettante i capitali che trovano larga rimunerazione in altri campi. Quindi nessun allevamento artificioso e nessun ostacolo all’abolizione dei divieti al ritorno della pace.

 

 

Tra le merci di cui potrebbe essere vietata l’importazione si potrebbero ricordare tutti i lavori in oro ed in argento, oggetti di gioielleria, di ornamento, giocattoli, mobili, carrozze, finimenti, automobili per uso privato, derrate alimentari di lusso o altrimenti sostituibili con derrate più semplici, bevande alcooliche, vini di lusso, vetrerie, frutta, fiori, spezierie, piume, orologi, stoffe di seta, velluti, nastri, trine. Anche potrebbe essere opportunamente frastornata la importazione di materiali per impianti e costruzioni non urgenti. Più che a costruire case nuove bisogna pensare a fabbricare la grande casa nella quale dobbiamo vivere uniti ed indipendenti. Forse non sarebbe fuor di luogo qualche sovratassa temporanea sulla importazione delle spezierie, del tè, del tabacco e di simiglianti derrate, quando ciò potesse farsi senza danno o, meglio, con qualche vantaggio per il fisco. Si può vivere ugualmente anche senza tè o con tè allungatissimo.

 

 

Credo opportuno notare espressamente che, se parmi necessario limitare l’importazione delle merci estere non necessarie alla nostra resistenza bellica, ciò non accade perché mi sembri utile sostituire al consumo di quelle il consumo delle analoghe derrate italiane. Gli italiani faranno benissimo a non comprare giocattoli di Norimberga; ma faranno anche bene a non comprare neppure giocattoli di marca italiana. Non vini di lusso esteri; ma anche minor consumo di vini italiani. Non trine né pizzi forestieri; e neppure italiani. Perciò vedrei con piacere l’istituzione di imposte interne suntuarie, sui generi superflui o di lusso colpiti da divieti di importazione o da diritti proibitivi di concessione. Queste imposte che in tempo di pace sono biasimevoli solo per il loro scarso rendimento o la loro vessatorietà, in tempo di guerra sono lodevoli per il medesimo motivo: irritano il consumatore e scemano il consumo; che è precisamente lo scopo che si vuole ottenere. Avrebbero il vantaggio di controbilanciare i cresciuti dazi di importazione e di evitare che le industrie interne casualmente ritraessero da questi ultimi un beneficio straordinario. La necessità urgente del momento attuale è di consumare il meno possibile e di risparmiare il massimo. Rinunciando al consumo delle merci estere inutili per la condotta della guerra e la nostra resistenza fisica ed economica noi diminuiamo il nostro debito verso l’estero, raddrizziamo la bilancia commerciale, freniamo l’ascesa dell’aggio e valorizziamo la nostra moneta. Rinunciando all’acquisto di merci nazionali inutili ai fini detti sopra, noi aumentiamo la nostra capacità di risparmio, ci mettiamo in grado di sottoscrivere più largamente al venturo prestito nazionale, evitiamo la necessità di stampare biglietti e per un altro verso scemiamo il rischio del deprezzamento della carta-moneta, che è il massimo dei flagelli economici portati dalla guerra.

 

 

Si aggiunga che rinunciando al consumo delle merci nazionali non necessarie, noi ne rendiamo possibile la esportazione all’estero e quindi facciamo nascere la possibilità di un nostro maggiore accreditamento all’estero. Non affermo con ciò che sia sempre facile esportare all’estero vini, seterie, ninnoli, giocattoli, marmi, frutta, fiori, ecc., specialmente in un momento in cui dappertutto si cerca di fare economia. Tuttavia parecchia gente matta o stravagante vive ancora nel mondo; e tutto si può vendere ad un certo prezzo. Né bisogna dimenticare che la diminuzione del consumo di merci inutili libera lavoro e capitale che in parte può essere adoperato per la produzione di altre cose più utili nel momento attuale. Occorre persuaderci che vivere come prima è una regola erronea, della cui stravaganza oggi vanno persuadendosi gli inglesi medesimi, che nei primi mesi della guerra se ne erano fatti banditori. Importa vivere meglio di prima, ossia con maggiore sobrietà e austerità, persuasi che il presente è un momento di sacrificio e di abnegazione e che la vittoria arriderà a coloro i quali saranno capaci di un più alto sforzo morale.

 

 

Le osservazioni precedenti erano già state scritte e consegnate in tipografia quando il discorso del signor MacKenna è venuto a dar loro nuova rilevanza. Propose invero egli che fosse stabilito un dazio doganale del 33,33% sul valore delle vetture automobili, delle motociclette, dei filmi cinematografici, delle pendole, degli orologi, degli strumenti musicali, dei vetri da specchiera e dei cappelli. Avvertì il cancelliere dello scacchiere che questa tassazione non ha un deliberato scopo di favorire l’industria interna e neppure di procacciare principalmente entrate al tesoro.

 

 

Noi dobbiamo ora tassare con intenti diversi dal procacciare entrate al fisco, per raggiungere scopi affatto temporanei e senza preoccuparsi degli effetti permanenti dei dazi nuovi sull’industria. Noi dobbiamo aver riguardo allo stato dei cambi esteri. Noi dobbiamo scoraggiare le importazioni. Alcuni di noi pensano che in circostanze normali le importazioni eccessive necessariamente da sé restano scoraggiate, mentre necessariamente crescono le esportazioni. Tuttavia oggi le cose non stanno così: noi non possiamo aumentare le nostre esportazioni perché capitale e lavoro sono altrimenti impegnati. Noi dobbiamo diminuire direttamente le importazioni. Se con qualche mezzo noi possiamo con acconcie imposte nel tempo stesso restringere le importazioni, ridurre il consumo ed arrecare un provento al fisco, noi avremo, almeno per il momento, trovato un sistema ideale.

 

 

Il che è ottimamente ragionato. Le merci scelte per la tassazione sono tutte merci inutili alle più urgenti necessità della vita, di cui si può fare benissimo a meno. L’unica obiezione, fatta subito nel dibattito sorto alla Camera dei comuni, riguarda la protezione con questi dazi concessa alle industrie interne.

 

 

Il signor MacKenna affermò bensì che suo intento non era di proteggere l’industria interna: e che il criterio da lui adoperato nella scelta era unicamente quello di restringere, con beneficio dei cambi esteri, consumi inutili ed insieme di far gravare sulla amministrazione doganale un lavoro facile e tollerabile. Ma sta di fatto che involontariamente i produttori interni di vetture automobili, di motociclette, di filmi cinematografici, ecc., verranno ad essere avvantaggiati da un dazio del 33,33% sul valore dei similari prodotti importati dall’estero. E notasi, per giunta, trattarsi di industrie prospere, le quali trarranno in alcuni casi, come le vetture automobili, partito dalla nuova tassazione per far pagare prezzi più elevati allo stato medesimo. Al quale grave inconveniente si sarebbe potuto porre rimedio con un’imposta sulla fabbricazione dei corrispondenti prodotti interni. Non è escluso che, premendo anche i bisogni dello stato, al rimedio si debba venire; frattanto, a diminuire i vantaggi dei fabbricanti interni, provvederà l’altro provvisorio espediente immaginato dal MacKenna: la nuova imposta del 50% sui maggiori profitti durante il tempo di guerra.

 

 

I problemi tecnici dei nuovi provvedimenti tributari

I problemi tecnici dei nuovi provvedimenti tributari

«Corriere della Sera», 22 settembre 1915[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 248-253

 

 

I provvedimenti finanziari sanciti col decreto del 15 settembre sono inspirati, come osservò già su queste colonne Luigi Luzzatti, al lodevole concetto che occorra, mentre dura la guerra, aumentare le imposte almeno per quella somma annua, la quale equivalga all’interesse sui debiti pubblici nuovamente creati per la condotta della guerra. Compensare il cresciuto onere degli interessi per i debiti di guerra: ecco il minimo sacrificio che si deve oggi chiedere ai contribuenti. In Inghilterra ed in Russia, due paesi i quali, sotto certi rispetti, danno il più bell’esempio di condotta finanziaria della guerra, si chiede all’imposta assai di più: anche una parte delle spese correnti. In Germania, in Austria ed in Francia non si chiede nulla. Contentiamoci, noi italiani, di stare in mezzo a questi due estremi: chiedere all’imposta almeno il necessario per coprire l’onere degli interessi cresciuti è atto onesto, coraggioso, patriottico.

 

 

I mezzi a cui, per ora, il governo ricorre si possono dividere in temporanei, permanenti e riparatori.

 

 

È un mezzo «temporaneo» la istituzione di una tassa sulle concessioni di esportazione. In tempi normali, una simile tassa non avrebbe ragione di esistere, perché l’esportazione è libera, ed un dazio sulla esportazione non è ammissibile, perché dannoso alle industrie del paese e fiscalmente improduttivo; e come tale fu abbandonato in tutti i paesi moderni.

 

 

Finché dura la guerra però, le esportazioni sono spesso proibite per ragione di stato; e le licenze di esportare sono una eccezione al divieto generale stabilito per talune merci. Si deve perciò presumere che coloro, a cui viene data una licenza particolare di esportazione, conseguano un guadagno eccezionale, ottenuto grazie al favore governativo; e si può ammettere che, con una tassa speciale, lo stato partecipi al lucro del privato esportatore. Spero che, praticamente, dalla istituzione di questa tassa consegua un effetto contrario a quello derivante dai dazi di esportazione in tempi di pace. Questi, limitando le quantità esportate, danneggiano le industrie paesane ed il paese. Le tasse di licenza è presumibile incoraggeranno il governo a concedere più facili licenze di esportare, allo scopo di non privare l’erario del relativo introito. E poiché la tassa di licenza è lieve e per se stessa incapace di frenare, in un momento di lucri superiori al normale per gli esportatori, le esportazioni, così è augurabile che essa abbia la virtù di togliere spesso l’ostacolo dei divieti alle esportazioni. Ho già dimostrato come l’Italia abbia interesse, ogni qualvolta non vi ostino ragioni di difesa e di offesa nazionale, a crescere le esportazioni verso paesi amici e persino verso paesi nemici. È chiaro però che l’istituto della tassa di licenza è temporaneo. Finita la guerra, saranno aboliti i divieti di esportazione e cadranno le licenze e le relative tasse.

 

 

«Permanenti» sono invece parecchi altri inasprimenti tributari:

 

 

  • l’aumento del prezzo di vendita di parecchie qualità di tabacchi, sigari e sigarette. L’imposta sui tabacchi è la meravigliosa, l’ottima fra le imposte italiane. Fa pagare a quelli che vogliono spendere; colpisce chi volentieri manda in fumo la propria ricchezza; si connette con uno stato di mente soddisfatto e vaporoso del contribuente. I legislatori non si sono stancati mai di chiedere al balzello sui tabacchi; e questo non si è mai stancato di dare. Ancor dopo gli ultimi inasprimenti, l’esercizio 1914-15 dava 376,3 milioni di gettito contro 348,7 nel 1913-14 e 331,9 nel 1912-13. Il mese di luglio 1915 dava 37,4 milioni contro 29 nel luglio 1914; e l’agosto 1915 ben 74,8 milioni contro 62,2 nell’agosto 1914. Questa sui tabacchi è davvero una mirabile imposta! Più si aumenta il prezzo dei tabacchi e più il consumo sale. Sia lode perciò al ministro delle finanze, on. Daneo, di averla prediletta ancora in questa occasione. Egli forse ha seminato più per gli anni venturi che per il presente, in cui l’aumento di prezzo provocherà una diminuzione temporanea di consumo. Ma gli interessi dei debiti è necessario siano coperti anche negli anni venturi; ed in questo primo anno l’aumento di prezzo può giovare alla campagna per l’economia, che è una necessità privata e pubblica nel tempo stesso;

 

  • poiché l’imposta di lire 8 sugli oli minerali esteri e nazionali non colpisce il petrolio per uso di illuminazione, non si può elevare contro di essa l’obiezione di colpire un consumo di prima necessità. Essa ha invece per oggetto un combustibile industriale e sovratutto le benzine usate dai proprietari di automobili. Non è davvero il caso di impietosirsi oltre misura sul rincaro di uno degli elementi del costo di un consumo di lusso, che in tempi di guerra è utile frenare;

 

  • al medesimo concetto di reprimere consumi ritenuti superflui o persino dannosi si inspira l’inasprimento delle imposte sulla birra e sugli spiriti. Rispetto ai quali ultimi, il decreto vuole altresì raggiungere un fine utilissimo: limitare e gradualmente far scomparire quei premi di esportazione e di denaturazione, e quegli abbuoni per calo che furono sempre il flagello del tributo e ne scemarono in passato grandemente il reddito. L’ideale a cui si dovrebbe tendere sarebbe l’imposta uniforme nella misura di 350 lire per tutte le qualità di spirito, comunque e con qualsiasi materia prima prodotte, senza alcun abbuono e premio di alcuna specie. Solo allora il tributo sugli spiriti, che gareggia in bontà con quello sui tabacchi, potrà dare un soddisfacente gettito al fisco. Il presente decreto è un avviamento all’ideale; e perciò merita di rimanere. Specialmente è lodevole la soppressione del diritto speciale di favore concesso agli spiriti della Sardegna. In origine i favori avevano per effetto di incoraggiare la viticoltura sarda; col tempo essi trasformarono, purtroppo, la Sardegna in un laboratorio di ricettazione di vini siciliani, meridionali e persino forestieri, i quali, reimportati sul continente, frodavano il fisco, con grave danno dell’erario. La Sardegna in sostanza non sarà danneggiata dall’estensione del regime normale al suo territorio e trarrà vantaggio notevole dalla concessione di un milione di lire alle sue casse ademprivili ed al suo miglioramento agrario.

 

 

«Riparatore» si può infine chiamare l’aumento di 5 lire alla tassa interna sulla fabbricazione dello zucchero. L’attuale regime fiscale dello zucchero è il seguente (in lire per quintale):

 

 

Dazio doganale sullo zucchero estero

Imposta di fabbricazione sullo zucchero interno

Dal primo luglio 1915

Dal primo luglio 1916

Zucchero di prima classe

99

75,15

76,15

Zucchero di seconda classe

88

72,20

73,20

 

 

Con la modificazione ora apportata, si avranno le seguenti variazioni:

 

 

Dazio doganale sullo zucchero estero

Imposta e sovratassa di fabbricazione sullo zucchero interno

Dal primo luglio 1915

Dal primo luglio 1916

Zucchero di prima classe

99

80,15

81,15

Zucchero di seconda classe

88

77,20

78,20

 

 

È chiaro che la protezione concessa ai fabbricanti interni – uguale alla differenza fra il dazio doganale sullo zucchero estero e l’imposta sullo zucchero interno – viene dal decreto diminuita di 5 lire e precisamente (in lire per quintale):

 

 

Esercizio 1915-16 In seguito
Per lo zucchero di prima classe da 23,85 a 18,85 da 22,85 a 17,85
Per lo zucchero di seconda classe da 15,80 a 10,80 da 14,80 a 9,80

 

 

Per chi ha desiderato da anni il provvedimento riparatore di una diminuzione nella eccessiva ed ingiusta protezione doganale concessa all’industria dello zucchero, deve essere argomento di soddisfazione che si sia colto il momento della guerra per ridurre di 5 lire quella protezione. Sarebbe stato desiderabile che la riduzione avesse avuto luogo all’ingiù, ossia grazie ad un ribasso del dazio doganale, invece che all’insù, con un aumento dell’imposta interna di fabbricazione. Ma, anche così congegnato, il provvedimento è giustamente riparatore perché fa fluire nelle casse dell’erario ciò che costituiva un ingiusto profitto dei fabbricanti.

 

 

Appunto perciò, la sovratassa di 5 lire non deve essere un pretesto per aumentare il prezzo dello zucchero. Questo deve rimanere invariato, poiché l’imposta nuova non ha per iscopo di colpire i consumatori, bensì di ridurre la protezione concessa ai fabbricanti. Se il prezzo dello zucchero aumentasse, il governo avrebbe ragione e dovere di usare dei legittimi mezzi di difesa che gli appartengono, come il rifiuto assoluto della licenza di esportare o la riduzione ulteriore della protezione sino a quel massimo di lire 6 e 5,50 che un tempo era stato fissato dalla convenzione di Bruxelles. Lo zucchero è una delle poche merci che dopo lo scoppio della guerra europea non siano cresciute di prezzo. Il merito di ciò spetta al governo, il quale fece, del mantenimento del prezzo antico, la condizione per concedere licenza di esportare. Altrettanto dovrebbe farsi di nuovo oggi. Ove non basti si può ricorrere ad un ribasso del dazio doganale; e dovrebbe il ribasso avere carattere permanente. Le protezioni doganali, da coloro che le chiedono, sono giustificate colla necessità di provvedere al fabbisogno interno appunto in tempi di guerra, di crisi di rincaro all’estero. Se, quando giungono i tempi cattivi, i prezzi all’interno rialzano, a che cosa ha giovato la protezione? Se il governo userà di questa duplice minaccia – diniego delle licenze di esportare e ribasso, con carattere permanente, del dazio di frontiera – il prezzo dello zucchero, che già è rialzato al semplice annuncio del decreto, dovrà ritornare al suo livello primitivo.

 

 

E con ciò l’esame dei provvedimenti finanziari è concluso. Ma è chiaro che ai provvedimenti medesimi è desiderato, anzi necessario un seguito. Con questi e coi precedenti inasprimenti, il governo ha percorso tutta la gamma delle imposte vigenti: decimi sulle imposte dirette e sulle tasse sugli affari; aumenti e correzioni delle migliori imposte sui consumi meno necessari. Ciò che si è fatto è molto; ma non si è fatto tutto. Altre imposte e non lievi saranno necessarie in un prossimo avvenire per equilibrare il bilancio. Non è escluso che qualcosa possa ancora essere richiesto a ritocchi dei tributi vigenti. Ma questi sono oramai così rappezzati che ben poco più di qualche cinquantina di milioni potranno dare.

 

 

Oramai s’impone il coronamento dell’opera di cinquant’anni di elaborazione tributaria. Noi abbiamo un sistema tributario che, tutto sommato, non è peggiore di parecchi stranieri ed è migliore, ad esempio, di quello francese. Ma è incoerente, lontano dalle sue chiare e belle origini, ridotto in frantumi dalle incrostazioni di 50 anni di ritocchi. Occorre ricondurlo alle origini sue: e, con i tempi mutati, la riforma non può essere operata se non sotto la pressione di una imposta complementare sul reddito. Dico «complementare» perché i redditi, a differenza di quanto tuttora accade in Francia, sono da noi direttamente accertati e tassati con le tre imposte sui redditi dei terreni, dei fabbricati e della ricchezza mobiliare. L’istituzione di una imposta complementare sul reddito complessivo – finora tassato nelle sue parti separate – del contribuente è augurabile non tanto per se stessa quanto sovratutto per raggiungere un accertamento migliore dei redditi soggetti alle tre imposte dirette. Se fosse fine a se stessa, l’imposta sul reddito equivarrebbe suppergiù all’istituzione di qualche decimo nuovo. Essa deve invece essere il lievito che rinnoverà l’assetto delle imposte esistenti. Attraverso ad essa, si esprimerà la rinnovata coscienza italiana, che è anche una coscienza più alta del dovere tributario. Perciò io saluto l’avvento prossimo della imposta complementare sul reddito.

 

 



[1] Con il titolo I problemi tecnici dei nuovi provvedimenti tributari. La necessità dei nuovi tributi. [ndr]

Il problema del riso e l’esportazione all’estero

Il problema del riso e l’esportazione all’estero

«Corriere della Sera», 18 settembre 1915

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 243-247

 

 

I problemi del commercio internazionale diventano, quanto più procede la guerra, maggiormente complessi ed importanti. Ebbi già a far osservare, rispetto al commercio di esportazione, come si imponesse una revisione dei criteri soverchiamente restrittivi adottati in principio della guerra. Partendo dal concetto che importa moltissimo, a frenare l’ascesa dei cambi ed il rialzo dei prezzi di tutte le cose necessarie alla vita della popolazione ed alla condotta della guerra, aumentare i nostri crediti all’estero, si concluse:

 

 

  • essere necessario togliere tutti i divieti di esportazione, od accordare con facilità somma le licenze di esportare, quando riflettessero merci o derrate non necessarie all’esercito, all’alimentazione nazionale od all’esercizio di industrie indispensabili;
  • essere conveniente non preoccuparsi affatto se talune derrate o merci possono giungere, attraverso alla Svizzera od all’Olanda, ai paesi austro-tedeschi, quando si tratti di prodotti, come gli aranci, i limoni, le frutta, gli oggetti di lusso, ecc., i quali non giovano ad accrescere sensibilmente la loro capacità di resistenza militare e gioverebbero invece a crescere il loro debito verso di noi ed a rendere maggiori i nostri crediti verso l’estero.

 

 

Oggi, il quesito si presenta in una forma peculiare rispetto ad una derrata indubbiamente utile all’alimentazione interna, ma rispetto a cui i produttori affermano esistere circostanze particolari che renderebbero conveniente una eccezione al divieto generale di esportazione: il riso. L’agitazione tra le classi agricole del Vercellese, del Novarese, della Lomellina, del Pavese, del basso Milanese, del Mantovano, del basso Veronese, del Polesine, del Bolognese, del Ravennate va diventando intensa. Il prof. Novelli, direttore della Stazione sperimentale di risicultura di Vercelli, segnala, in un suo recente articolo sul «Giornale di Novara», come più di un milione e mezzo di quintali di risone rimangano invenduti ed in via di deteriorarsi, mentre il nuovo raccolto si annuncia abbondante. Che cosa farne del riso invenduto? è opportuno danneggiare i produttori con ribassi fortissimi di prezzo, quando i consumatori nazionali dimostrano a chiare note di non volere consumare tutto il quantitativo di riso prodotto in paese? Non rischiamo noi forse di danneggiare gli uni senza avvantaggiare gli altri?

 

 

Questo il problema: a chiarire il quale gioverà riassumere i dati essenziali intorno alla produzione ed al commercio del riso nel mondo. Quanto alla produzione essa fu nell’anno agrario scorso 1913-14 la seguente:

 

 

Spagna

q. 2.475.820

Italia

5.447.000

Stati uniti

4.827.234

Messico

249.262

Egitto

598.991

India

437.553.041

Giappone

125 102.317

 

 

I dati sono ricavati dall’ottimo bollettino statistico dell’Istituto internazionale di agricoltura. La produzione in Italia era stata nel 1913-14 suppergiù uguale a quella del 1912-13, in cui era giunta a 5.432.000 quintali. Per l’anno in corso in Italia la superficie seminata è uguale a quella dell’anno passato e le previsioni dell’Istituto sono per un raccolto buono, mentre al primo agosto 1914 erano solo per un raccolto medio. Si può quindi presumere fondatamente che il raccolto del 1915 riuscirà superiore a quello del 1914. Per gli Stati uniti la superficie seminata supera del 21,7% quella del 1914 e nel Giappone la supera dell’1,8%.

 

 

Quanto al commercio internazionale, i confronti fra i diversi paesi sono dal bollettino dell’Istituto basati sul primo semestre dell’anno. Notisi che l’Italia aveva esportato nel 1912 ben 612.000 quintali di riso lavorato e nel 1913 ne aveva mandato all’estero 447.000. I principali paesi di destinazione erano nel 1912 l’Austria-Ungheria per 149.000 quintali e l’Argentina per 278.000; nel 1913 gli stessi paesi per 101 e 183.000 quintali rispettivamente.

 

 

Ed ora diamo i confronti tra l’esportazione avvenuta nel primo semestre del 1915 e quella compiutasi nel primo semestre del 1914:

 

 

Primi sei mesi del

1914

1915

Francia (riso intero, farina e semolino di riso)

166.725

199.990

Gran Bretagna ed Irlanda (riso mondato o macinato nel regno)

143.747

297.931

Riesportazione di riso

425.490

901.896

Italia: riso con lolla e semigreggio

158.980

60

Italia: riso lavorato

290.900

8.680

Paesi Bassi

1.370.850

30.010

Stati uniti

55.924

168.082

India: riso con lolla riso senza lolla e farina di riso

210.738

213.565

15.013.337

9.106.669

Giappone: riso non mondomondo

160.517

474.040

7.200

171.820

Egitto

93.600

21.219

 

 

È facile osservare come, salvo l’India e l’Italia, si noti una tendenza all’aumento nelle esportazioni. Anche l’India, nel mese di giugno, ha partecipato al movimento generale, esportando i 362.933 quintali di riso senza lolla e farina di riso contro i 166.934 quintali nel giugno 1914. Si osservano paesi belligeranti, come la Francia e la Gran Bretagna, esportare o riesportare quantità notevolmente superiori di riso nel 1915 in confronto al 1914. E si nota, fatto assai interessante, che i Paesi Bassi, principalissimo tramite attraverso a cui il riso potrebbe giungere nella Germania, diminuiscono la loro esportazione da 1.370.850 a 30.010 quintali. Si può aggiungere che la loro importazione è scemata nello stesso periodo di tempo da 3.182.170 a 266.230 quintali. Indice questo che gli alleati sanno prendere le loro precauzioni per impedire che l’Olanda rifornisca di riso gli austro-tedeschi. Alla tendenza dei paesi produttori o riesportatori ad approfittare delle favorevoli condizioni del mercato – nei limiti della loro capacità di esportazione – fa eccezione l’Italia, non ultimo tra i paesi produttori, il cui commercio di esportazione si è quasi compiutamente arrestato.

 

 

Quali le logiche conseguenze che si possono dedurre dai dati sovra riferiti? A me pare che si possano così riassumere:

 

 

  • Fa d’uopo innanzi tutto che il ministero della guerra determini il quantitativo di riso che è necessario per l’esercito e per la marina. Probabilmente ciò è stato già fatto; ed è verosimile che già i commissariati militari si siano accaparrate le riserve sufficienti per il presunto loro fabbisogno.
  • è necessario, nell’accordare le licenze di esportazione, assicurarsi che nulla giunga, per via indiretta, ai paesi austro-tedeschi. Trattasi di una derrata d’alimentazione; e noi non possiamo consentire a rafforzare militarmente il nemico. Ritengo che sia possibile evitare in modo assoluto che l’esportazione vada a beneficio della Germania e dell’Austria-Ungheria.
  • Eliminato così il fattore militare, sembra conveniente concedere licenze di esportazione almeno sino al quantitativo medio che si esportava prima della guerra.

 

 

Quale argomento si può addurre contro siffatta conclusione? Questo solo: che la esportazione farebbe aumentare i prezzi del riso all’interno, e danneggerebbe quindi i consumatori nazionali. L’argomento merita di essere chiarito. Certamente il divieto di esportazione deprime i prezzi all’interno, perché costringe i produttori a vendere su un mercato ristretto: ed è perciò che i prezzi dei risoni, i quali prima della guerra oscillavano da 25 a 26 lire per quintale, ora quotano a Vercelli da 20 a 22 lire. Non credo però che il ribasso dei prezzi sia lo scopo dei divieti di esportazione, bensì di assicurare l’alimentazione paesana. Quando questo intento sia raggiunto, volere ottenere inoltre un ribasso di prezzi significa volere l’ingiusto danno dei produttori. Naturalmente, affinché la bilancia sia equa, occorre che i consumatori italiani possano procacciarsi eventualmente riso estero, senza pagare alcun dazio doganale. I produttori di riso non possono pretendere di conservare il mercato estero ed insieme quello interno, profittando dei migliori prezzi dell’interno, senza consentire ai consumatori nazionali di approvvigionarsi, in questi tempi calamitosi, all’estero, dovunque possano acquistare riso ai più bassi prezzi possibili.

 

 

Quando questa condizione essenziale sia osservata, non vedo quale pericolo possa correre la concessione in Italia dai permessi di – esportare riso all’estero in quantità normali. Invero i prezzi del riso potranno forse aumentare sul mercato interno di quattro o cinque lire al quintale; ma noi diventeremo creditori verso l’estero di somme non indifferenti: per 500.000 quintali circa 15 milioni di lire. Sarebbe un fattore non spregevole di raddrizzamento della bilancia commerciale, quindi di attenuazione dell’aggio e quindi ancora di diminuzione nel prezzo del frumento. I problemi economici sono gli uni collegati agli altri: né si possono considerare ognuno per se stesso. Noi non possiamo far diminuire il prezzo del riso coi divieti di esportazione senza contribuire necessariamente all’aumento nel prezzo del frumento; e viceversa per ottenere un ribasso nel prezzo del frumento uno dei mezzi utilmente adoperabili è la concessione di esportare la quantità normale di riso.

 

 

Il problema si riduce perciò al seguente i consumatori italiani preferiscono mangiare riso o frumento? S’intende che il quesito non riguarda le quantità di riso che si usava consumare già prima, bensì le quantità supplementari di riso che si potrebbero consumare in sostituzione di frumento. L’esperienza di un anno sembra aver provato che i consumatori italiani non vogliono assuefarsi a questa sostituzione: preferiscono, anche ad un prezzo maggiore, il pane di frumento al pane di riso, o al pane misto; e le paste alla minestra di riso. Non si cambiano di un tratto le abitudini alimentari di un popolo. E poiché, esportando riso, si compera frumento, non si vede quale danno l’alimentazione paesana debba soffrire da una esportazione regolata e limitata nel modo che sopra si è detto. Provveduto al fabbisogno dell’esercito, tutelati i legittimi interessi dei consumatori con l’abolizione del dazio sul riso, l’esportazione delle quantità normali all’estero gioverebbe a vendere all’Inghilterra i risi di lusso per alimentazione ed all’Argentina questi ed i risi da semenza. La bilancia commerciale se ne gioverebbe: e con essa la nostra capacità di resistenza finanziaria durante la guerra.

 

 

Il problema della carne

Il problema della carne

«Corriere della Sera», 10 settembre 1915

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 237-242

 

 

La questione della carne continua ad interessare vivamente l’opinione pubblica, nelle città per l’alto prezzo a cui la carne è giunta, nelle campagne per le requisizioni ordinate a causa del disordinato aumentare dei prezzi. Sembra che le commissioni militari procedano con molta prudenza, allo scopo di non allarmare i contadini, i quali non di rado sono, alla pari dei consumatori, gravemente colpiti dall’aumento di prezzo verificatosi nel bestiame. Il che accade per il bestiame da lavoro, che agli agricoltori è giuocoforza possedere e di cui potrebbero essere privati dalle requisizioni ad un prezzo inferiore a quello da essi sborsato, se le commissioni non facessero ogni sforzo per evitare casi individuali di danneggiamento, che inasprirebbero inutilmente gli animi delle popolazioni campagnuole.

 

 

Il problema assillante rimane pur sempre quello, che sulle colonne del «Corriere» fu già sollevato egregiamente dal collega prof. Eteocle Lorini, della limitazione del consumo. Non tutti sono rimasti persuasi delle cose da lui esposte; ed in alcune lettere che abbiamo ricevuto si vuole dimostrare che l’allarme è ingiustificato e che in Italia possediamo abbastanza carne da macello da provvedere ai bisogni della popolazione civile e dell’esercito.

 

 

Attualmente – leggesi in una di queste lettere – vi sono in Italia 7 milioni di capi bovini, i quali, se non sono per il momento tutti maturi per la macellazione, lo addiverranno a mano a mano quando il governo sappia giustamente regolarne l’incetta e fissarne il giusto limite del prezzo.

 

 

Il decreto che ha limitato la macellazione dei vitelli sotto il peso dei 200 chili, ha fatto sì, malgrado le eccezioni concesse a talune zone, che gli allevamenti in Italia siano stati enormi, tanto più che la convenienza di essi è intensificata dall’abbondante raccolto di fieno che quest’anno si è fatto. Lo scrivente, per ragioni del suo commercio, da mesi gira in lungo ed in largo l’Italia e, contrattando bestiame, non trova che stalle piene ad esuberanza di bestiame già pronto per la macellazione, come per allevamento. Di questo si calcola siano allevati nella sola regione emiliana più di 2 milioni di capi. È vero che gli allevamenti non saranno pronti per la macellazione che tra un paio di anni, ma si risponde che i 7 milioni adatti alla macellazione con giusta parsimonia bastano per i bisogni del consumo presenti e futuri, dato anche il contributo assai modesto, ma certo non disprezzabile, che il governo può portare fornendosi all’estero di carne congelata.

 

 

Che negli ultimi anni gli allevamenti siano notevolmente cresciuti in Italia – continua lo scrittore della lettera -, è dimostrato dal fatto che, se nel 1911 e 1912 la importazione del bestiame dall’estero si era intensificata ed erasi accentuato altresì l’arrivo di carne congelata dall’Australia e dall’Argentina, tutto ciò ebbe a cessare nel 1913, quando le stalle italiane cominciarono a mandare sul mercato quantità crescenti di bestiame da macello. L’importazione, dal 1913 in avanti, fu limitata a capi di riproduzione ed allevamento dalla Svizzera ed a pochi capi di tori ingrassati francesi, che si vendettero a Torino ed a Milano.

 

 

L’aumento dei prezzi cominciò solo colla dichiarazione di guerra all’Austria; e fu dovuto non alla effettiva mancanza di capi di bestiame, ma ad alcuni errori commessi nei primi tempi di incetta per l’esercito, principale l’istituzione dei parchi buoi, tra cui si sviluppò largamente l’afta. Di qui la necessità di nuovi frettolosi acquisti, che fecero salire i prezzi. Ma a questi inconvenienti si pone ora riparo, con le requisizioni a prezzo fisso equamente ripartite in tutti i comuni italiani.

 

 

Sarebbe certo augurabile che non si dovesse nudrire alcuna preoccupazione rispetto all’alimentazione carnea italiana. Ma non fa d’uopo di essere o di dimostrarsi preoccupati, quando occorre sovratutto e soltanto essere saggiamente previdenti e parsimoniosi.

 

 

Che siano necessarie previdenza e parsimonia, è chiarito dalle stesse poche cifre le quali sono accolte senza controversia dagli scrittori delle lettere da noi ricevute. Il censimento del 1908 dava un totale di 6.198.861 bovini in tutta Italia; ma nel numero dei bovini erano compresi tori, buoi, vacche, vitelli; e così pure si deve dire per la maggiore cifra di 7 milioni di capi, a cui pare ammonti l’attuale consistenza della nostra popolazione bovina. Si afferma invero che nella sola Emilia i capi d’allevamento giungano ad oltre 2 milioni, mentre il censimento del 1908 dava per quella regione appena una esistenza totale di 961.217 capi. Le statistiche tentate così all’ingrosso, solo per sentito dire e per esperienza personale visuale, sono soggette per lo più ad errori gravissimi in più od in meno; cosicché prudenza vuole si ritenga improbabile che i capi bovini esistenti nell’Emilia e nell’Italia siano aumentati nella proporzione strabocchevole che l’esperienza personale anche di persone peritissime farebbe ritenere.

 

 

Quale proporzione si può consumare dei 7 milioni di capi bovini che costituiscono la dotazione italiana? Se si adotta la proporzione del 25%, sono 1.800.000 capi; spingendo l’utilizzazione sino al 35% all’anno e facendo a fidanza sul rimpiazzo accelerato negli anni venturi mercé il maggior numero di giovani allievi attuali, giungiamo a 2.450.000 capi. La media mensile risulta da 150 a 200.000 capi, a seconda delle ipotesi fatte; assai bene al disotto di quei 270.000 capi mensili, che il Lorini calcolava necessario macellare per provvedere 10.000 quintali di carne all’esercito e 10.000 quintali alla popolazione civile.

 

 

La popolazione civile, si obietta, non consuma più 10.000 quintali al giorno. Gli alti prezzi della carne ne hanno fatto diminuire moltissimo il consumo; il 25% dei macellai ha chiuso o sta per chiudere i negozi.

 

 

A questo punto mi pare che il problema si stia avviando alla sua logica conclusione. La riduzione del consumo della carne è appunto lo scopo necessario, utile a cui si vuole giungere. Noi, che scriviamo facendo ogni sforzo per giungere a conclusioni che siano consone all’interesse nazionale, cerchiamo di dimostrare la necessità assoluta per ogni italiano di fare economie all’osso, in questo tempo di guerra: nel mangiare, nel bere, nel vestire, nel divertirsi. Dal punto di vista nazionale fa d’uopo fare economia, affine:

 

 

  • di dare a mutuo allo stato tutto il nostro risparmio; e
  • di non pagare all’estero a prezzi eccessivi tutto il nostro fabbisogno.

 

 

Se fosse possibile di ridurre da 10 a 5.000 quintali al giorno il consumo carneo della popolazione civile, sarebbero almeno 100.000 lire al giorno risparmiate, ossia 35-40 milioni di lire all’anno. È una somma non indifferente da fornire allo stato per la condotta della guerra; ed è inoltre, se noi potremo fare a meno di importare tutto questo quantitativo di carne dall’estero, una corrispondente minore pressione sui cambi esteri ed un corrispondente minore inasprimento dei prezzi in carta del frumento, della lana, delle munizioni.

 

 

Tutto ciò è oramai stato detto tante volte, che deve essere penetrato nelle menti di tutti la persuasione della convenienza e della moralità di ridurre i consumi e di fare economia. Ma spesse volte la persuasione di dovere agire in un certo modo rimane puramente intellettuale e non spinge all’azione effettiva, se non è suffragata da argomenti più persuasivi. Chi non è persuaso che l’ultimo quarantennio di relativa pace europea e di grande, straordinario incremento della ricchezza aveva spinto tutti a vivere molto meglio di prima? Chi non è convinto che, ove soltanto si avesse la forza morale di tornare a vivere come vivevano le generazioni intorno al 1870, noi potremmo risparmiare la metà del nostro reddito? E, dicendo noi, intendo accennare non solo a certe classi, ma anche alle masse: ricchi, agiati, impiegati, professionisti, contadini, operai oggi consumano quantità maggiore e qualità più raffinate di cibi, bevande, vestito, casa, ecc. di quanto consumassero mezzo secolo addietro. Tutto ciò è un bene; poiché è indice di un più diffuso benessere e di un migliorato tenor di vita. Ma tutto ciò in tanto può essere reputato un bene, in quanto noi siamo sicuri di conservarlo senza vergogna. Per potere negli anni venturi, al ritorno della pace, ritornare a vivere così come si viveva finora, per potere continuare liberamente e indipendentemente nello sviluppo spirituale e morale, senza di cui il semplice miglioramento nel tenore materiale di vita sarebbe un orribile regresso di gente schiava e contenta di vivere bene pasciuta sotto la ferula altrui, uopo è che, finché la guerra dura, si sopportino alcuni sacrifici materiali. Vi sono i nostri fratelli che rischiano la vita al campo; possiamo ben noi deciderci a mangiar carne una sola volta al giorno od un giorno su due.

 

 

Ma, ripeto, tutto ciò rimarrebbe spesso un mero ozioso convincimento intellettuale, se in suo aiuto non venissero altri fattori. Due principali si possono additare; uno spontaneo ed è l’aumento del prezzo, l’altro costrittiva ed è il razionamento legale. Come ben disse il Lorini, l’aumento del prezzo della carne è benefico ed è patriottico. Come persuadere i consumatori della necessità nazionale di ridurre il consumo della carne, quando i prezzi rimanessero quelli di prima? Tutti direbbero che gli articoli degli ammonitori sono prediche di gente spaurita e nessuno vi darebbe retta. Cresca invece il prezzo della carne; e tutti cominciano a fare i conti nella propria tasca. A Torino, dove i gusti dei consumatori, anche e forse sovratutto operai, vanno verso la carne tenerissima e costosa del sanato, si comincia a trovare ragionevole il bue. Altrove al bue si sostituirà la vacca; qua e là non si esclude che la carne di cavallo cominci ad essere trovata sopportabile; il coniglio ritrova una clientela che il raffinarsi dei gusti aveva singolarmente rarefatta.

 

 

Tutto ciò risponde ad una vera necessità; ed è un bene, spesso per la salute, sempre per la borsa e certamente per il paese. Se l’aumento dei prezzi non fosse bastevole, occorrerebbe ricorrere al razionamento, ossia alla fissazione legale per decreto del quantitativo massimo di carne che ogni settimana ogni italiano può consumare. Fa d’uopo riconoscere che il razionamento della carne presenterebbe maggiori difficoltà di quello, pur difficile, del pane. Rilevo una sola fra le differenze. Tutti consumano pane; e quindi il consumo massimo legale non si discosterebbe molto dal consumo medio effettivo. Ma la carne è consumata dagli uomini in misura variabilissima da caso a caso. Per ridurre il consumo della popolazione civile a 5.000 quintali al giorno, farebbe d’uopo che il consumo medio non superasse i 16 grammi al giorno. A quale punto si dovrebbe fissare il consumo massimo per ottenere una media di soli 16 grammi a testa? Coloro che desiderassero consumare carne in quantità superiore al massimo non potrebbero acquistare buoni di carne da coloro che abitualmente non usano consumarne? E in tal modo lo scopo del razionamento non sarebbe frustrato? Ciò che non accadrebbe od accadrebbe in ben minori proporzioni per il pane, nessuno volendo rinunciare ai propri buoni a vantaggio altrui.

 

 

Il razionamento, dunque, potrebbe avere praticamente solo un valore morale. Sarebbe l’espressione del convincimento dei reggitori dello stato intorno alla necessità di limitare il consumo della carne. Il valore morale di questa dichiarazione sarebbe grande. Efficacia reale tuttavia l’ha sovratutto l’aumento del prezzo. Riconoscere che l’aumento fu provvido e necessario non è gettare l’allarme nella popolazione, non è un lasciar credere che all’Italia stia per venir meno il bestiame da macello. Tutti sanno, in Italia ed all’estero, che noi possediamo 7 milioni di capi bovini: né questi si possono essere d’un tratto volatilizzati. Importa, però, che tutti in Italia si persuadano che, per ottenere la vittoria sul nemico e per rimanere poscia economicamente pronti a riprendere il nostro cammino ascendente, fa d’uopo ora usare con molta parsimonia delle nostre ricchezze. E la notizia sicura che in Italia così si opera, prudentemente e previdentemente, non può non giovarci all’estero, presso amici e presso nemici.

 

 

Il discorso del ministro tedesco del Tesoro

Il discorso del ministro tedesco del Tesoro

«Corriere della Sera», 26 agosto 1915

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 229-236

 

 

Il dott. Hellferich, ministro delle finanze germanico, è un uomo le cui parole meritano di essere tenute in attenta considerazione, come quelle di chi ha saputo in passato conquistare, nel mondo degli studiosi, una alta reputazione di economista e di tecnico della banca. Entrato giovanissimo nell’arringo universitario con alcuni apprezzati scritti bancari, egli abbandonò poscia la carriera accademica per quella pratica di dirigente di forti istituti bancari in Levante e in Germania. Era direttore della Deutsche Bank, quando, subito dopo lo scoppio della guerra, fu chiamato a reggere le sorti del tesoro germanico.

 

 

Fa d’uopo riconoscere, poiché ai nemici va resa giustizia, che egli ha retto finora il suo ufficio con grande abilità. I due primi prestiti germanici, i quali raggiunsero 4,4 e 9 miliardi di marchi furono un trionfo genuino. Erano ingiustificate le critiche rivolte a quei successi nei paesi della quadruplice, come se essi fossero poggiati soltanto sul congegno delle casse di credito. Non è vero che la Germania abbia creato le casse di credito solo per potere mutuare biglietti a coloro i quali dovevano diventare i sottoscrittori dei suoi colossali prestiti; e non è quindi vero che i suoi trionfi sieno solo scritti sulla carta. Il dott. Hellferich ha ragione di affermare che questa è una accusa ingiusta. Certamente, il successo di un prestito è più apprezzabile quando i sottoscrittori pagano tutto l’ammontare con denaro contante, pronto, senza ricorrere a prestiti, come accadde in Italia, in Francia e nel secondo prestito inglese dei 15 miliardi. Ma fa d’uopo riconoscere che è anche legittimo e può essere conveniente sottoscrivere con risparmi futuri, non ancora realizzati, ottenendo da una cassa di credito anticipazioni su titoli, merci, ipoteche, ecc. Quando queste sottoscrizioni sono una parte non rilevante del totale e quando i sottoscrittori, coi risparmi nuovi, a mano a mano restituiscono le somme prese a prestito, nessuna obiezione si può fare al metodo seguito.

 

 

Parimenti mi sembra che ben s’apponga l’Hellferich nel prevedere un nuovo successo al prossimo terzo prestito di 10 miliardi di marchi. Il momento militare è favorevole alla Germania, copiose riserve di risparmio debbono essersi formate durante i passati mesi e saranno aumentate fino alla fine dell’anno e si riverseranno sul prestito nuovo. L’abbondanza del denaro liquido disponibile è un fatto tanto più credibile, in quanto esso non è un fenomeno peculiare alla Germania. Esso è invece un fatto caratteristico di quasi tutti i paesi belligeranti. Nelle linee generali esso può essere spiegato, ricordando che, prima, il paese viveva sul flusso del reddito annuo, il quale periodicamente si distaccava dalle fonti produttive; per esempio sul flusso di 50 miliardi di lire distaccantisi annualmente in Inghilterra od in Germania da un capitale di 300-400 miliardi e dal lavoro della parte produttiva dei 45-67 milioni di abitanti. Scoppiata la guerra, al flusso annuo di 50 miliardi di reddito, ridotti forse a 45 per la sottrazione di notevoli forze produttive, compensata in parte dalla maggiore produttività dei vecchi, donne, ragazzi, disoccupati, oziosi, si aggiunge un nuovo flusso di 10 miliardi prelevati sul capitale e mobilizzati mercé biglietti di banca, buoni di casse di prestito, creazione di crediti bancari. Alla lunga il consumo di 10 miliardi di capitale tornerà dannoso al paese, ma per il momento esso cresce il reddito o flusso annuo dei fornitori dello stato, delle famiglie sussidiate, dei commercianti, industriali ed agricoltori, i quali vendono i loro prodotti a prezzi più elevati. Così si spiega come il periodo bellico sia, in generale, caratterizzato da aumento di redditi, abbondanza di denaro liquido, prosperità. Il fenomeno non è peculiare alla Germania; ché lo osserviamo noi stessi in Italia; e pare si riscontri anche in Austria. In Inghilterra si è anzi talmente preoccupati – ed a giusta ragione – della abbondanza del denaro, la quale, come l’Hellferich osservò per la Germania, potrebbe provocare crisi di speculazione, che tesoro e Banca d’Inghilterra fanno ogni sforzo per tenere alto il saggio dell’interesse. Vi fu un momento in cui il denaro per prestiti brevi non valeva a Londra neppure l’1%; ora rapidamente è risalito al 5%, e di ciò il merito spetta al prestito nuovo emesso al buon saggio del 4,50% Una delle ragioni per cui il signor MacKenna preferì il 4,50% al 4% fu appunto il desiderio di assorbire il troppo capitale disponibile ed impedire che, ribassando troppo di prezzo, fomentasse impieghi cattivi ed influisse sinistramente sul cambio.

 

 

In altri punti del suo discorso mi sembra tuttavia che l’Hellferich dimentichi quella serenità ed oggettività che dovrebbe essere connaturata nell’uomo di scienza, anche se a lui capiti di coprire l’ufficio di ministro del tesoro. Non mi soffermo sulla fiducia che egli nutre di far coprire gran parte delle spese germaniche di guerra con le indennità dei paesi nemici vinti. Questa non è una tesi economica, bensì una tesi politica. I popoli della quadruplice sono fermamente persuasi che non essi furono gli istigatori della guerra, bensì il blocco austro – tedesco; e quindi non sono affatto disposti a consentire non che nella possibilità, neppure nella giustificazione addotta dal ministro tedesco delle indennità che essi dovrebbero pagare. Bensì si può ammettere con l’Hellferich che, quanto più si prolunga la guerra, tanto meno facile riuscirà a qualunque dei due gruppi riesca vincitore di far pagare una indennità al vinto. Come il pagamento possa farsi, è difficilissimo immaginare.

 

 

Sovratutto non sono giuste le critiche sprezzanti che il ministro tedesco rivolge ai paesi stranieri nemici. Egli si attacca a piccole cose senza importanza od il cui valore è grandemente controvertibile. Nota che il nuovo titolo inglese 4,50% perdette un punto, mentre il 5% tedesco apprezzò. Il paragone non è valido. Occorrerebbe conoscere i prezzi correnti, per molte e quotidiane transazioni, dei due titoli sullo stesso mercato. Invece noi abbiamo da pochi giorni i prezzi del 4,50% inglese a Londra, in un mercato relativamente libero, ed in una moneta, la sterlina, convertibile tuttora in oro; e per contro ascoltiamo le affermazioni governative tedesche, che io ritengo esatte, di un aumento di prezzo del 5% germanico, le quali si riferiscono ad ogni modo ad un mercato, in cui le borse sono aperte, ma sono proibite le quotazioni, è proibita la pubblicazione di prezzi privati ed il marco è moneta a corso forzoso, perdente dal 10 al 17% in confronto alle monete estere d’oro.

 

 

Né vale rimproverare alla Inghilterra di aver fatto una pubblicità da circo al suo prestito; mentre la Germania ha ottenuto grandi successi con metodi più austeri. Queste sono bazzecole. La realtà invece è che l’Inghilterra ha dovuto vincere, per assicurare il successo del suo secondo prestito, difficoltà maggiori di quelle che si presentarono in Germania ed oserei dire, sotto un certo rispetto, persino di quelle che si incontrano in Italia. Sul continente d’Europa, i titoli di debito pubblico sono da anni un titolo democratico, diffuso in tagli piccoli tra la media e la piccola borghesia ed in Francia anche tra i contadini e gli operai. È noto come in Inghilterra invece il consolidato sia sempre stato un titolo aristocratico posseduto da poche decine di migliaia di persone, laddove in Francia ed in Germania si arrivava ai milioni ed in Italia alle centinaia di migliaia di portatori. Per il medio inglese i celebri Consols erano e sono un mito, di cui aveva vagamente sentito parlare, senza averli mai visti. Il signor Lloyd George continuò nel vecchio sistema: il primo prestito dei 350 milioni di lire sterline rimase un prestito per le banche ed i grossi investitori e fu caratteristica la esclusione delle sottoscrizioni inferiori a 100 lire sterline. Per il primo, il signor MacKenna vide che bisognava mutare strada; ed, accogliendo idee propugnate da decenni dall’«Economist» ammise i tagli piccoli, favorì le sottoscrizioni operaie, offrì il titolo al portatore. Il merito maggiore del MacKenna non fu di avere ottenuto 15 miliardi di lire, bensì di averli raccolti fra 550.000 sottoscrittori grossi e 547.000 sottoscrittori piccoli, a cui si aggiungeranno certamente numerosissimi altri sottoscrittori operai, grazie alle ricevute di 5 scellini. Riuscire a siffatti risultati non si poteva, senza energici metodi di richiamo a strati nuovi di risparmiatori. Non metodi da circo, dunque, bensì metodi altamente educativi, che auguro di vedere applicati dappertutto.

 

 

È impossibile valutare la preminenza che l’Hellferich assegna agli imperi centrali in confronto alla quadruplice, per quanto riguarda le economie nelle spese. È possibile che la quadruplice spenda di più: per il territorio più disseminato, per le maggiori forze navali, per l’alto costo del soldato inglese, per la impossibilità di taglieggiare territori nemici occupati. Ma non è di buon gusto affermare che l’Inghilterra ci tenga al record delle alte spese, nel momento in cui in quel paese si istituiscono comitati per curare l’economia nei pubblici uffici e nelle amministrazioni militari. Per quanto riguarda l’Italia, le spese specifiche del primo mese di guerra sono state di 316 milioni di lire. Portiamo pure la cifra a 500 od a 600 milioni; ed otteniamo una somma la quale immagino sostenga bene il paragone con quelle austro-tedesche. Dico il paragone all’ingiù, poiché ha ragione il dott. Hellferich a preferire quei paesi i quali cercano di fare la guerra col minimo dispendio possibile.

 

 

Perché poi egli dica che la valuta francese sta peggio di quella germanica e che la valuta inglese perde il 5% su New York, non si capisce. Secondo le ultime quotazioni pubblicate sul «Sole» del 20-21 agosto, la Germania perdeva il 17,15%, la Francia il 12,30 e l’Inghilterra il 2,07% sull’America. Non è una situazione brillante per nessuno dei tre paesi; ma non v’è ragione per nessuno dei tre di rallegrarsi guardando alle miserie altrui. Non può ridere la Germania poiché, dopo tutto, il marco perde più del franco o della sterlina; non la Francia, poiché una perdita del 12,30% è grave per una moneta, come il franco, dalle grandi tradizioni. Ed un 2% è certo preoccupante per la posizione internazionale della sterlina. Dal punto di vista monetario la guerra non ha fatto del bene a nessuna delle tre monete dominanti europee: ed è superfluo ricercare quale delle tre stia peggio.

 

 

Guardando il problema più in generale e cercando di mantenere la maggiore oggettività, l’Hellferich ha torto quando esalta oltre misura il metodo tedesco di risolvere il problema finanziario della guerra in confronto al metodo seguito dai paesi della quadruplice. I confronti sono difficilissimi, poiché in ogni paese il problema si presentava sotto aspetti particolari, non paragonabili con quelli degli altri paesi, amici o nemici, e doveva necessariamente dar luogo a soluzioni differenti, di cui riesce malagevole dosare il relativo grado di eccellenza.

 

 

Tuttavia, se dovessi graduare i paesi belligeranti rispetto ai metodi finanziari adottati per la condotta della guerra, io sarei tentato a classificarli, in ordine decrescente di eccellenza, così:

 

 

Primo gruppo Russia-Inghilterra-Italia-Germania;
Secondo gruppo Francia;
Terzo gruppo Austria-Ungheria.

 

 

I paesi che ho collocato in prima linea rivaleggiano tra di loro sotto vari rispetti. Forse non v’è nessuno stato il quale possa star sopra alla Russia, per la grandezza del sacrificio compiuto coll’abolizione della vendita delle bevande alcooliche, le quali gittavano netti più di 700 milioni di rubli (1 miliardo e 850 milioni di lire). È un atto, il quale resterà nella storia e trasformerà, moralmente ed economicamente, il popolo russo. Lo sprezzo con cui l’Hellferich ha parlato della Russia stona grandemente nella bocca di uno studioso, il quale aveva fama di non appartenere a quella schiera di «economisti dell’imperatore» che tanto e da tanti anni avevano fatto scadere una buona parte della scienza economica tedesca nell’estimazione degli stranieri. Le imposte che la Russia sostituì, nella fretta dell’ora, al monopolio dell’alcool non stanno certo alla pari con le imposte tedesche; ma non bisogna dimenticare che in tempo di guerra non si può correre dietro alla perfezione e che la Russia è un paese agricolo, dove i complessi metodi scientifici germanici non potrebbero avere fortuna.

 

 

Un grande esempio ha pure dato l’Inghilterra affrettandosi ad aumentare le imposte sulla birra, sul tè, ecc., ed a raddoppiare la income tax e la super tax. Far debiti è relativamente facile; ma l’indice più perfetto della sensibilità patriottica di un paese è di apprestarsi a pagare subito imposte più elevate per fronteggiare le spese della guerra e gli interessi dei debiti. E se son vere le notizie corse, il signor MacKenna ha intenzione, rimediando ad un momento di debolezza degli ultimi mesi del ministero liberale, di proporre nuovi inasprimenti dell’income tax e sovratutto di estendere all’ingiù il suo campo d’applicazione, chiamando a contribuire alle spese comuni anche buona parte di coloro – sovratutto operai e piccoli borghesi – che, avendo un reddito inferiore alle 160 lire sterline (4.000 lire) erano finora stati esenti dall’imposta. Sarà un grande esempio di probità e di educazione finanziaria.

 

 

L’Italia, coi suoi due prestiti dell’ammontare complessivo di 2 miliardi e 250 milioni di lire, di risparmio passato effettivamente versato o da pagarsi a scadenze fisse, ha fornito allo stato mezzi non inferiori, in rapporto alla sua ricchezza, a quelli dei grandi paesi belligeranti ora menzionati. Poiché, dall’inizio della guerra europea, furono inasprite talune imposte sui consumi, venne istituito un decimo e mezzo sulle imposte dirette e sulla maggior parte delle imposte sugli affari, governo e paese hanno dato prova di quella volontà di sacrificio che è la migliore dimostrazione della propria ferma credenza nella bontà della causa che si propugna. È da augurare che le imposte ora ricordate non siano le ultime; e che non tardino molto ad essere stabilite nuove imposte e deliberati aumenti delle imposte vecchie, atti a coprire il carico degli interessi del secondo prestito nazionale e di quelle altre maggiori spese che saranno la conseguenza inevitabile della guerra.

 

 

La Germania, se ha dato esempio mirabile di forza con i suoi due grandi prestiti e se si appresta a darne un altro coll’annunciato prestito dei 10 miliardi di marchi, non ha però ancora istituito nuove imposte. Il dott. Hellferich ha annunciato che il governo non intende, durante la guerra, aumentare l’enorme carico tributario del popolo. Mi limito a constatare il fatto, senza perciò muovere critica alla politica finanziaria tedesca. I tedeschi hanno pagato nel 1915 la seconda e pagheranno nel 1916 la terza rata dell’imposta di guerra del miliardo di marchi deliberata alla fine del 1913; e si può sostenere perciò che essi compiano già il loro dovere tributario in relazione alla guerra. Sia lecito però osservare che meglio soddisfano alle esigenze delle buone norme finanziarie quei paesi, i quali, fin da quando la guerra dura, provvedono con nuove imposte alla copertura delle spese belliche, che non quegli altri, i quali rimandano le nuove imposte alla fine della guerra, lasciando sussistere nei popoli la speranza che le nuove imposte non saranno necessarie, perché alle spese belliche avranno provveduto le indennità pagate dai nemici. Il primo sistema, che è quello della Russia, dell’Inghilterra e dell’Italia, è il solo sano, virile, altamente morale, proprio dei popoli i quali contano sulle sole loro forze per raggiungere gli ideali nazionali; e questi ideali non sono di oppressione altrui.

 

 

Giova confessare che, dal punto di vista delle buone e corrette norme finanziarie, la Francia si trova ad un livello alquanto inferiore ai paesi sovra nominati. La Francia è un grande paese di risparmiatori, ha fornito, con obbligazioni a lunga scadenza e con buoni a breve scadenza circa 8 miliardi di lire allo stato. È il suo metodo tradizionale, ereditato dal primo Napoleone: rinviare i prestiti consolidati e le imposte alla fine della guerra; e provvedere frattanto con prestiti brevi e con emissioni di biglietti. Il culto della verità impone tuttavia di dire apertamente che, sebbene consacrato da una tradizione secolare, il metodo dovrebbe essere mutato. I francesi, che hanno dato così belle prove di rinnovamento militare e morale, bene opererebbero se, innovando sui loro metodi, si decidessero a crescere subito le imposte ed a ridurre il ricorso eccessivo alla carta-moneta, giunta oramai ai 12,8 miliardi di franchi. Ne trarrebbe grande giovamento il prestigio del loro franco, che è prestigio della nazione intera.

 

 

Ultima, tra le grandi nazioni belligeranti, viene l’Austria-Ungheria. La metto per ultima, sebbene, anche per essa, verità vuole si dica che i due prestiti finora emessi dalla monarchia, ed il cui gettito pare si aggiri complessivamente sui 5 miliardi, sono stati una prova di forza insospettata per molti. L’Austria-Ungheria si è, tuttavia, messa da se medesima in coda alle nazioni belligeranti, quando ha deciso di sospendere la pubblicazione delle situazioni della Banca austro-ungarica. Essa ha dato così fomite a molti sospetti, fra cui quello denunciato e confutato dall’Hellferich, secondo cui la Banca austro-ungarica avrebbe consegnato parte delle sue riserve auree alla Banca dell’impero germanico, affine di far apparire in aumento costante le riserve di quest’ultima. Ritengo anch’io, per parecchie ragioni, il sospetto infondato; ma il dott. Hellferich vorrà riconoscere che il segreto sulla situazione monetaria della sua alleata non è il mezzo migliore per far cessare sospetti e chiacchiere. Perché non esercita la sua influenza per ottenere che l’Austria esca dal mistero, in cui ama di avvolgere le sue finanze?

 

 

La politica delle esportazioni in tempo di guerra

La politica delle esportazioni in tempo di guerra

«Corriere della Sera», 18 agosto 1915

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 222-228

 

 

Vi è un punto della politica doganale in tempo di guerra, il quale merita nel momento presente di essere preso nella più attenta considerazione. Nel mese di agosto del 1914 tutti i paesi andarono a gara nell’imporre divieti di esportazione su quasi ogni merce o derrata prodotta nel paese, sia per motivi militari sia per assicurare l’approvvigionamento alimentare della popolazione civile. Quei divieti gradatamente crebbero, sicché oggi è ben difficile che vi sia una merce importante la quale non sia colpita da divieto di esportazione verso tutti i paesi esteri od almeno verso i paesi nemici.

 

 

È naturale che di questa situazione di cose cominciassero subito a lamentarsi le industrie esportatrici; e dappertutto, per il ragionevole desiderio di limitare la disoccupazione operaia e di evitare gravi crisi industriali, fu d’uopo fare qualche strappo ai divieti generali con la concessione di licenze particolari di esportazione. Da noi, chi giudica sulla opportunità di concedere le licenze è una commissione sedente presso il ministero delle finanze, la quale deve esaminare quotidianamente numerose domande presentate da agricoltori, industriali, commercianti ed appoggiate con insistenza da deputati, intermediari, legali ecc. Un viaggio a Roma è divenuto oramai una necessità per coloro i quali vogliono ottenere il permesso di esportazione; attraverso noie, attese, sollecitazioni infinite, stancheggianti e costose. Tutto un ceto particolare di sollecitatori deve essersi formato, il quale vive sui permessi di esportazione e la cui esistenza è giustificata dall’utilità di risparmiare fatica e tempo agli industriali occupati nella produzione.

 

 

Non è su questi inevitabili effetti della guerra che mi pare opportuno richiamare l’attenzione dei lettori. Importa invece esaminare i principii generali, a cui è informata la concessione dei permessi; poiché dall’adozione di criteri corretti dipende molta parte della prosperità del paese. Disgraziatamente non è possibile conoscere con esattezza i criteri accolti, perché la commissione non li ha resi noti; né possediamo dati sufficienti per poterli desumere con sicurezza dall’esame delle licenze concesse. Sembra però che le licenze vengano innanzi tutto negate:

 

 

  • nei casi nei quali l’esportazione potrebbe riuscire, a giudizio del ministero della guerra o della marina, pregiudizievole all’alimentazione delle truppe di terra e di mare, al loro approvvigionamento ed al loro armamento;
  • nei casi nei quali l’esportazione, avvenendo, per via indiretta, verso la Germania o l’Austria, potrebbe rafforzare la capacità di resistenza di questi due paesi;
  • nei casi nei quali trattisi di derrate e merci indispensabili alla vita della popolazione civile.

 

 

Su questi tre capi non vi è alcuna discussione da fare. La guerra ha per iscopo di rafforzare noi e di indebolire l’avversario; e quindi devono essere adottate tutte quelle norme le quali valgano a raggiungere il fine.

 

 

I dubbi sorgono quando altra è la ragione dei divieti di esportare:

 

 

  • il semplice fatto che la merce o derrata sia o si dubita sia destinata ad un paese nemico. Poiché l’esportazione diretta non è possibile, sembra che si conceda in via di massima l’esportazione di merci o derrate, in genere, verso la Svizzera, l’Olanda ed altri paesi neutri, sospettati di agire come intermediari degli imperi centrali, solo fino a concorrenza del fabbisogno interno loro o della loro importazione media negli ultimi anni;
  • il timore che la esportazione possa far crescere i prezzi all’interno. Alcuni anzi affermano che la commissione agisce sotto tal rispetto con troppo scarsa considerazione degli interessi dei consumatori nazionali. In un recente articolo del comm. Sebastiano Lissone sulla «Gazzetta del popolo» si leggono, ad esempio, lagnanze perché il ministero delle finanze ha concesso testé con arrendevolezza di esportare la frutta fresca in tutti gli stati, eccetto la Germania e l’Austria. Si nota che il mercato interno, sovreccitato dalla speculazione, si è posto in allarme ed il prezzo delle frutta è salito assai.

 

 

Una parte dell’opinione pubblica italiana vorrebbe dunque che la politica dei permessi di esportazione fosse informata ai seguenti due criteri:

 

 

  • proibire ogni esportazione, diretta od indiretta, verso gli imperi centrali, anche di merci o derrate che non hanno nulla a che fare con la resistenza bellica dei nostri nemici;
  • proibire ogni esportazione la quale riesca ad un aumento di prezzi a danno dei consumatori nazionali.

 

 

Poiché a me sembra che questi due criteri, ove sieno applicati sul serio, possano essere di grave nocumento al nostro paese, non è inopportuno mettere in chiaro il punto del dissenso.

 

 

È vero in primo luogo che l’Italia ha interesse a proibire l’esportazione indiretta, attraverso la Svizzera e l’Olanda, di qualunque prodotto nostro verso gli imperi centrali? dico esportazione indiretta, poiché non è il caso di parlare di esportazione diretta verso paesi nemici, con cui ogni rapporto economico legalmente deve essere interrotto.

 

 

La risposta non è dubbia – e già lo avvertii dianzi espressamente – per quei prodotti i quali possono rafforzare la capacità di resistenza di quei paesi contro di noi. Nessuna licenza deve essere concessa per il rame, la lana, il cotone, il frumento, il riso ed ogni altra derrata o merce la quale possa giovare ad alimentare, equipaggiare od armare soldati e civili dei paesi nemici; e la maggiore oculatezza deve essere osservata affinché neppure la più piccola quantità si infiltri, attraverso i paesi neutrali, in Germania ed in Austria.

 

 

Il dubbio invece è lecito per le frutta fresche, di cui si è fatto paladino l’egregio comm. Lissone; e non esiste per gli aranci e limoni, di cui pare si fosse andata formando una grossa corrente di esportazione verso l’Olanda, destinata evidentemente alla Germania: corrente che sembra la commissione cerchi di frenare e di ridurre ai più stretti limiti possibili. Né sarebbe possibile per il vino, se di questa bevanda gli imperi centrali volessero approvvigionarsi indirettamente presso di noi.

 

 

Qui davvero ci troviamo di fronte al vero punto del problema. Frutta fresca, aranci, limoni e consimili derrate alimentari; oggetti di lusso, seterie, ninnoli, ecc. contribuiscono forse a rafforzare la capacità di resistenza del nemico? In molti casi, come quando trattasi di oggetti di lusso, no certamente; in altri casi, come nella frutta fresca, negli aranci e nei limoni in misura scarsamente rilevante.

 

 

Contro questo danno nullo o trascurabile, l’esportazione delle derrate non necessarie alla vita del nemico produce per l’Italia tre grandissimi ed inapprezzabili vantaggi:

 

 

  • impoverisce il nemico. Ogni milione di lire che i tedeschi stravagantemente – dal loro punto di vista – impiegano nel comperare seterie, vino, aranci e limoni, è un milione sottratto alla loro ricchezza, è una diminuzione della loro capacità finanziaria di resistenza. Così volessero essi comperarci, a caro prezzo, tutte le merci e le derrate di questa specie che noi abbiamo disponibili!
  • arricchisce noi stessi. Il che è una logica conseguenza di quanto si è ora detto. Cambiare aranci, limoni o seterie con denaro contante o con un credito in oro apertoci in Svizzera od in Olanda significa sostituire ad una massa di cose inutili per noi un’altra massa di cose, come frumento, armi, lane, utilissime a noi per la vittoriosa condotta della guerra. Se i nostri nemici vogliono graziosamente aiutarci a fare questo così vantaggioso scambio, non si vede perché noi dobbiamo loro mettere bastoni fra le ruote;
  • diminuisce l’aggio sulla divisa estera e scema per noi il prezzo delle derrate di prima necessità. Una delle cause per cui la carta italiana è deprezzata del 10% sulla Francia e del 20% circa sulla lira sterlina e sul dollaro è la disuguaglianza tra i nostri debiti verso l’estero (importazioni grossissime di derrate alimentari e di munizioni, ecc.) ed i nostri crediti (esportazioni ridotte a causa dei numerosi divieti).

 

 

Se noi riusciamo ad esportare qualche centinaio di milioni di lire di cose non necessarie all’esistenza nostra, noi riusciamo issofatto a raddrizzare la bilancia del commercio internazionale, la quale oggi pende a nostro danno e a ridurre o ad impedire un ulteriore rialzo dell’aggio. Ho altra volta dimostrato come l’altezza dell’aggio sia la causa principale del maggior rincaro del frumento in Italia in confronto della Francia e dell’Inghilterra. Dunque, quando il Lissone invoca l’assoluto divieto dell’esportazione delle frutta fresche, a nemici od a neutri, egli in sostanza riesce ad impedire all’Italia di aprirsi un credito all’estero, vuole provocare l’aumento dell’aggio e per logica ed indeprecabile conseguenza vuole far crescere il prezzo del pane.

 

 

Le masse consumatrici italiane preferiscono per fermo il pane a buon mercato all’abbondanza delle frutta fresche. Il pane è un alimento sano e nutriente; mentre, senza volerle disprezzare soverchiamente, fa d’uopo non dimenticare che le frutta per otto o nove decimi sono composte di acqua. Cambiare acqua con pane, sovratutto in questi tempi di guerra, sembra a me un ottimo affare, tanto più se fatto a spese dei nemici, fortunatamente smemorati ed incapaci di ragionare nel proprio interesse.

 

 

Con ciò si risolve l’altro lato del problema: non doversi concedere l’esportazione quando questa fa aumentare i prezzi a danno dei consumatori nazionali.

 

 

Il problema in tal modo è male impostato. È certo che l’esportazione delle frutta fresche, del vino, degli aranci, dei limoni, delle seterie, ecc. ecc., ne fa aumentare il prezzo a danno dei consumatori nazionali. Ma poiché essa ci fornisce altresì di rilevanti crediti all’estero, e quindi scema l’aggio e quindi ancora scema il prezzo del frumento, del granoturco, delle lane, delle munizioni, ecc., ossia scema il prezzo di cose ben più necessarie per noi, benvenuto sia quell’aumento! Esso è una condizione della vittoria, è un elemento di forza per il nostro paese.

 

 

L’aumento dei prezzi delle cose non assolutamente necessarie all’esistenza è inoltre sommamente benefico, perché avverte tutti i consumatori della necessità di non spendere, di risparmiare quanto più è possibile, allo scopo di procacciarsi i mezzi di comprare le cose necessarie e di fare prestiti allo stato. Non dimentichiamo mai che ogni lira non impiegata in aranci, limoni, vino, seterie e frutta fresca è una lira la quale può essere data a mutuo allo stato; è una lira di meno di biglietti a corso forzoso che lo stato si troverà obbligato ad emettere; è un minor deprezzamento dei biglietti stessi ed è quindi, per un altro verso, un rincaro meno sensibile del frumento, della lana e delle munizioni.

 

 

Può darsi che vi sia qualche caso particolare in cui l’aumento di prezzo a danno dei consumatori nazionali debba essere un sufficiente motivo per negare la licenza di esportazione. Un caso, fra gli altri, degno di nota, è quello in cui l’aumento di prezzo sia dovuto ad un fattore legislativo o doganale. Ben fece, ad esempio, il governo a concedere la facoltà di esportare zucchero all’estero solo quando i fabbricanti si obbligarono a vendere lo zucchero all’interno ad un prezzo non superiore a quello antecedente alla guerra. Senza questa provvida norma, gli zuccherieri protetti da un forte dazio doganale, avrebbero potuto vendere a caro prezzo lo zucchero all’interno e sfogare il sovrappiù all’estero a prezzi grandemente remuneratori. Perciò io direi che, nel caso in cui una industria sia protetta dalla concorrenza estera in virtù di un dazio doganale ed il dazio agisca realmente, la licenza di esportazione debba essere concessa solo a condizione che l’industria rinunci al dazio doganale ovvero si obblighi a conservare all’interno i prezzi di prima della guerra. Non si può pretendere in tempo di guerra, di servirsi della protezione per aumentare i prezzi a danno dei consumatori nazionali e contemporaneamente esportare all’estero, rarefacendo la merce all’interno ed aumentando per un altro verso i prezzi. Più di un beneficio non è lecito pretendere, o quello artificiale del dazio o quello naturale della esportazione all’estero. Scelgano tra i due gli industriali.

 

 

Ho esposto così le ragioni, a parer mio dettate dal buon senso e dall’interesse nazionale, le quali dovrebbero consigliare, salvo le eccezioni sopra indicate, la massima larghezza nel concedere i permessi di esportazione per tutte quelle merci o derrate, le quali non siano necessarie all’esercito, alla flotta od al necessario approvvigionamento del paese; e che non crescano la capacità di resistenza del nemico. Quando cotali estremi non si verificano, la esportazione sia la benvenuta: e non si stia a sottilizzare troppo sulla destinazione. Proibire l’esportazione degli agrumi o del vino verso l’Olanda per il motivo che di lì passeranno in Germania è contrario al nostro interesse. Noi abbiamo interesse che i tedeschi bevano molto vino italiano, mangino se così loro piace, molti nostri agrumi e ci diano in cambio di bei denari contanti e buone aperture di credito in Olanda. Proibire ciò vuol dire volere il nostro danno e spingere i nostri esportatori a cercare vie traverse, come quelle dell’Inghilterra e della Francia; con deprezzamento della derrata per i produttori italiani ed aumento dei profitti degli intermediari inglesi, francesi od olandesi. Non mai come in questo momento, in cui ci è giuocoforza importare molte merci straniere, noi abbiamo avuto tanto bisogno di procurarci crediti all’estero. A raggiungere l’intento, giova persuaderci essere necessario che gli italiani consumino minor copia di tutto ciò che non è assolutamente necessario per vivere e possano esportare all’estero tutta l’eccedenza.

 

 

La mobilitazione industriale

La mobilitazione industriale

«Corriere della Sera», 11[1] e 14[2] giugno, 1[3] e 5[4] luglio 1915

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 203-221

 

 

I

Le notizie le quali giungono da molte ed autorevoli fonti intorno alle cause della ritirata dell’esercito russo sono concordi nell’attribuire la massima responsabilità al difetto di munizioni e di materiale da guerra. La insufficiente potenzialità, a cui si sta ora energicamente ponendo rimedio, delle officine russe, la eccezionale prolungata chiusura del porto di Arcangelo, lo scarso rendimento della Transiberiana hanno posto il valoroso esercito russo in una condizione temporanea di inferiorità, la quale deve fare meditare tutti intorno ad uno dei caratteri essenziali della guerra odierna. In Francia ed in Inghilterra già si afferma che noi facciamo una guerra di materiale e di industria e si è decisi a fare ogni sforzo alfine di sormontare l’ostacolo.

 

 

In Inghilterra oramai il problema più difficile non è quello degli uomini, ma del munizionamento. La nomina del signor Lloyd George a titolare di un nuovo dicastero delle munizioni ed il silenzio sulla coscrizione obbligatoria, insieme con l’allontanamento del signor Churchill dall’ammiragliato, dove la sua attività esuberante era divenuta pericolosa, sono, dal punto di vista militare, i fatti essenziali dell’ultima crisi di gabinetto. Lasciando a lord Kitchener di provvedere alla organizzazione dell’esercito, si è voluto affidare ad un uomo, di cui anche coloro che non lo ammirano sono costretti a riconoscere l’attività entusiasta e l’energia di persuasione, l’ufficio di accelerare la produzione del materiale e delle munizioni da guerra. Qui il problema non è più militare, ma industriale e tecnico; epperciò se ne volle affidare la soluzione ad un uomo il cui ascendente sugli industriali e sugli operai è grande e che sembrava in grado di risolvere l’inquietante dilemma sorto fra la necessità di molti combattenti e l’uguale necessità di molte munizioni. Il contrasto, è inutile negarlo, esiste. Se si spingono gli arruolamenti, si diminuisce la potenzialità delle fabbriche; e nel momento presente questa importa anzitutto di accrescere, se si vuole la vittoria. Il Board of Trade (ministero dell’industria e del commercio) ha compiuto delle indagini speciali in proposito, da cui è risultato che nei mesi scorsi gli arruolamenti avevano gravemente diminuito la capacità di produzione di materiale e munizioni da guerra. Ogni settimana, i rapporti provenienti dai centri siderurgici inglesi mettono in chiaro come i ritardi negli approvvigionamenti dipendano da mancanza di operai pratici ed abili. I ministri unionisti andati ora al governo non insistono nelle loro idee favorevoli alla coscrizione obbligatoria perché si sono persuasi che il problema delle munizioni debba avere la precedenza su ogni altro. In questo momento la coscrizione obbligatoria disorganizzerebbe le industrie di guerra.

 

 

Anche in Francia, il problema è stato posto in occasione di varie proposte parlamentari intese a promuovere revisioni delle liste dei riformati, esentati o classificati nei servizi ausiliari, affine di crescere l’esercito mobilitato. Le ampie discussioni avvenute sui giornali francesi hanno dimostrato come le revisioni siano state utili in generale ed abbiano consentito di aumentare di più di 600.000 uomini l’esercito combattente. Ma hanno altresì chiarito come la utilità di questi provvedimenti incontri un limite, nel punto in cui comincierebbe la disorganizzazione dell’industria, dell’agricoltura e dei trasporti. Gli eserciti moderni, vere leve in massa, non possono sussistere senza che dietro ad essi vi sia una nazione che lavora e produce. Bisogna che gli eserciti siano mantenuti, vestiti, forniti di armi e di munizioni; e, mentre gli eserciti consumano quantità strabilianti di ogni cosa loro occorrente, fa d’uopo che, sia pure in proporzioni minori, gli alimenti non manchino alla popolazione civile. Ora, se per la agricoltura e per molti lavori sedentari, anche un personale di vecchi, di deboli, di donne può bastare, non così per talune industrie essenziali, come i trasporti e gli stabilimenti industriali. Qui sono necessari uomini nel fiore della vigoria e sovratutto esperti nel genere di lavoro che a loro si domanda. Nei primi mesi della guerra, non essendosi posto mente a sufficienza a questo punto, molte industrie francesi rimasero disorganizzate; e ben presto gli effetti si fecero sentire sugli approvvigionamenti dell’esercito e sui munizionamenti. Sicché oggi si sta facendo un po’ di cammino all’indietro, essendosi persuasi che questa è una guerra, come fu detto sopra, di materiale e di industria. Se si vuole che gli uomini al fronte vincano, occorre che tutta l’industria sia mobilitata e che ai lavori delle officine attendano uomini alacri, esperti e vigorosi.

 

 

In Italia, il ministero della guerra si è lodevolmente preoccupato di queste impellenti esigenze industriali della guerra moderna, esentando dall’obbligo militare gli uomini necessari alle forniture necessarie per l’esercito e la marina da guerra.

 

 

Importa che questa esenzione non venga considerata come un privilegio, bensì come un modo di servire efficacemente l’esercito combattente. Di ciò occorre siano specialmente persuasi gli industriali. Ciò che ora sta facendo il signor Lloyd George in Inghilterra dovrebbe farsi in Italia. Bisogna pensare che il consumo delle munizioni è spaventevolmente rapido e che quindi è urgente il concorso di tutte le forze disponibili. Siamo noi sicuri che tutti gli stabilimenti siderurgici, meccanici, che tutti gli opifici i quali, con mutamenti più o meno grandi, possono essere adattati alla fabbricazione di forniture militari, abbiano rivolta la loro attività a questo intento?

 

 

È probabile che i ministeri militari siano pronti a dare nuove ordinazioni di munizioni, di materiale e di forniture e siano costretti a tenerle in sospeso, perché gli stabilimenti attrezzati all’uopo lavorano già tutti in pieno e non si ricevono dall’industria privata nuove offerte di assunzioni di lavoro. In questi frangenti, ogni industriale dovrebbe fare un esame di coscienza: il lavoro in corso, remunerativo fin che si voglia, non può essere sospeso, per far luogo a qualche altro lavoro per lo stato? Non sarebbe possibile, con qualche nuova macchina o qualche modificazione agli impianti mettersi in grado di soddisfare alle richieste del governo? Se si sono assunti obblighi di consegna verso privati, parmi che sia sempre possibile prorogarne l’esecuzione, grazie al decreto del 28 maggio, di cui, ove occorra, potrebbe estendersi la portata, il quale considerava la guerra come un caso di forza maggiore. Le ordinazioni militari dovrebbero avere la precedenza assoluta su tutte le ordinazioni private. Nessuno sforzo dovrebbe dagli industriali essere risparmiato. Tanto meglio se il risultato potrà essere ottenuto volontariamente e per iniziativa degli stessi industriali. Ogni produttore dovrebbe fare presenti al ministero della guerra le sue offerte, indicare che cosa si sarebbe disposti a fabbricare, con quali termini di resa ed eventualmente con quali modificazioni negli impianti. Trattandosi di lavori urgenti, non vi potrebbero essere obiezioni neanche ad eventuali anticipi governativi, concessi con le dovute garanzie a quegli industriali i quali non si trovassero in grado di eseguire con capitali propri le necessarie modificazioni agli impianti esistenti.

 

 

Tutto questo lavoro, che deve essere di esecuzione rapida, è certo nella mente del governo. Occorre che gli industriali lo secondino e lo prevengano. Non attendano che la mobilitazione dell’industria sia decretata per obbligo. In Inghilterra a questo si è già arrivati, decretando che lo stato possa impadronirsi di ogni stabilimento od ordinare ai proprietari di produrre secondo le direttive ministeriali. In Italia il governo ha già all’uopo i poteri occorrenti. Ma sarebbe desiderabile non fosse costretto a servirsene. Gli accordi volontari fra industriali e ministeri militari promettono di riuscire più efficaci. Se ognuno penserà ai lavori privati, i quali possono essere sospesi senza danno ed alle forniture militari che si potrebbero assumere; se gli industriali collaboreranno tutti col governo, per agevolare a questo la continuata e febbrile produzione di munizioni e di materiali richiesta dalla guerra, il problema sarà risoluto. E si sarà vinta una grande battaglia.

 

 

II

Importa ritornare sopra al problema della mobilitazione industriale, la cui importanza non è certo minore in Italia di quanto non sia in Francia ed in Inghilterra, dove uomini di governo e giornali sono oramai persuasi che la guerra sarà vinta nelle officine non meno che sui campi di battaglia. Il problema è poliedrico; molteplici essendo i punti di vista da cui lo si può riguardare. Non bisogna soltanto apprestare la massima quantità di munizioni e di strumenti bellici per il nostro esercito; ma impedire eziandio che gli eserciti avversari possano crescere la loro forza grazie ad aiuti che la nostra industria inconsapevolmente può essere tratta a fornire ad essi. Né gli strumenti della vittoria sono sempre soltanto bellici od almeno non sono sempre direttamente tali. Un arricchimento degli avversari procurato per mezzo nostro può equivalere ad un rafforzamento militare e può fornire ad essi i mezzi per resistere più a lungo contro i nostri eserciti. D’altro canto non bisogna dimenticare mai che confische e rappresaglie sono armi a doppio taglio e che può darsi sia maggiore il danno nostro di quello recato al nemico quando il provvedimento scelto sia inefficace o parziale. È difficile operare in questa materia secondo una linea retta; ed i provvedimenti più ovvi non sono sempre quelli più efficaci. Qui, senza porre regole generali, si faranno alcune osservazioni particolari a guisa d’esempio.

 

 

Il nemico può avvantaggiarsi militarmente ai nostri danni non solo se noi non apprestiamo tutti gli strumenti atti a combatterlo in copia bastevole e con la necessaria rapidità; ma anche se noi consentiamo l’approvvigionamento suo attraverso al nostro territorio e fors’anche per mezzo di ordinazioni commesse alla nostra industria. Sono troppo insistenti le voci, secondo le quali Germania ed Austria continuerebbero a far notevoli acquisti in Italia ed a far lavorare ad alta pressione talune nostre fabbriche, grazie al transito attraverso la Svizzera, perché si debba essere sicuri che quelle voci siano del tutto fantastiche. Naturalmente non tutte le consegne che noi facessimo, attraverso la Svizzera, al nemico, sarebbero in ugual modo pericolose per noi. Se gli austro-tedeschi continuassero ad acquistare da noi aranci e limoni, libri scientifici, tessuti di seta, mobili di lusso e simiglianti cose innocue, ben potremmo consentire tale traffico, il quale ridonderebbe a nostro beneficio, crescendo la domanda di lavoro di persone poco atte ad altre occupazioni e creando una ragione di credito all’estero a favore dell’Italia. Ma è molto dubbio se gli austriaci abbiano molta voglia di approvvigionarsi ora di siffatti gingilli in Italia: mentre si dice facciano sforzi energici per acquistare derrate alimentari, filati di cotone ed altre merci che possono giovare a prolungare la loro resistenza bellica.

 

 

Impedire l’attuazione di questo piano non dovrebbe essere impossibile. Noi siamo in eccellenti relazioni di amicizia con la Confederazione svizzera; ed abbiamo già concluso accordi con essa intorno al quantitativo mensile di parecchie derrate che la Svizzera può introdurre dall’Italia sul suo territorio. Si estendano e si perfezionino questi accordi sulla base del vero fabbisogno della vicina nazione, il quale può dedursi dalle statistiche delle importazioni degli anni scorsi dall’Italia, dalla Francia e dagli altri paesi esteri e dalle statistiche dei raccolti interni. La Svizzera ha ragione di acquistare all’estero tutto ciò che le è necessario per vivere; e noi abbiamo dovere e convenienza di aiutarla a sorpassare, senza sacrifici non necessari, la terribile tormenta, da cui è stata avviluppata. I suoi uomini di stato sono certamente concordi nel volere che la neutralità svizzera non serva di pretesto all’esercizio di un contrabbando utile ad uno solo dei gruppi politici combattenti. Il traffico di merci e derrate non può rimanere nascosto; e, volendo, si può impedire che i paesi nemici si approvvigionino ai nostri danni. Più difficile a scoprirsi e più complesso nei suo effetti è il traffico del denaro. A cominciare dall’Inghilterra, dove si sono risuscitate vecchie leggi contro i nemici del re allo scopo di impedire ogni pagamento di denaro fatto da inglesi o stranieri abitanti in Inghilterra a tedeschi od austriaci, è stata tutta una fioritura di provvedimenti, i quali intendono ad impedire l’arricchimento del nemico. Il metodo a cui si ricorse più spesso fu il sequestro delle aziende, dei beni, dei titoli, dei crediti e del denaro spettante a stranieri. Sequestro, si noti; il che è una cosa assai diversa dalla «confisca» ripudiata da tutti gli stati moderni e che sinora nessuno stato ha osato far rivivere. Il sequestro ha effetti puramente conservativi, ed ha per iscopo di impedire che, durante la guerra, il nemico possa disporre degli averi suoi ai nostri danni. Contro il quale suo unico vantaggio, si possono notare parecchi inconvenienti: le spese enormi di amministrazione degli uomini di legge o ragionieri nominati sequestratari, l’arresto dell’attività di aziende, le quali potevano forse essere utili al paese, talvolta la loro rovina con danno dei proprietari stranieri ed insieme delle maestranze e dei clienti nazionali, spesse volte preoccupazioni e spese per quei nazionali, i quali si trovavano in rapporti di affari con le ditte sequestrate e che non possono continuarli, perché i sequestratari si incaricano solo di liquidare e di incassare denari. Lagnanze infinite contro l’opera dei sequestratari si lessero sui giornali francesi.

 

 

Ove non si voglia venire ad una confisca, il punto essenziale non è di rovinare le imprese nemiche esistenti sul territorio nazionale, ma di impedire che il nemico possa arricchirsi, per loro mezzo, durante la guerra. Il problema pare si riduca a questo: impedire al nemico di procacciarsi munizioni economiche di guerra e cioè denaro contante e mezzi per far denaro contante, grazie a rimesse dei suoi connazionali od anche di italiani. Fra lo straniero, residente in Italia, il quale realizza 100.000 lire di sue merci e ne invia l’importo in Austria e l’italiano, il quale paga all’Austria un suo debito di 100.000 lire non c’è sostanzialmente differenza; amendue crescendo di 100.000 lire la capacità d’acquisto dell’Austria. Perché ne sia aumentata anche la forza di resistenza militare, occorrerà, è vero, che l’Austria riesca a trasformare le 100.000 lire di denaro in derrate o merci, attraverso la Scandinavia o la Romania o la Svizzera; ma certamente la rimessa di denaro fatta dall’Italia le giova per raggiungere lo scopo.

 

 

Impedire quindi, oltre alle esportazioni di merci o derrate, anche i pagamenti al nemico; ecco un postulato della nostra difesa economico-militare. Forse il mezzo migliore di attuarlo, oltre le proibizioni legali, può essere l’opera di persuasione sulle banche, attraverso a cui passa tutto il traffico della divisa estera; e senza la cui cooperazione male possono farsi pagamenti di qualche entità. Il recente inasprirsi del cambio sulla Svizzera in confronto del cambio su Francia tenderebbe a provare che l’Italia sta facendo pagamenti in Germania ed Austria, coll’intermediazione degli istituti di credito del vicino paese. Il governo e gli istituti di emissione possiedono troppi mezzi di persuasione, specie nel momento attuale, in confronto a quanti esercitano l’industria bancaria, per ritenere che sia impossibile impedire i pagamenti all’estero. Gioverà all’uopo molto il tatto e la cognizione di ogni singola concreta operazione; poiché un pagamento fatto al nemico può essere giovevole a noi, quando esso sia fatto a condizione che il nemico paghi a noi una equivalente somma in saldo di un suo debito. Nel qual caso nessuno dei due si arricchisce nel momento attuale, cancellandosi unicamente i debiti rispettivi. Nessuno meglio dei dirigenti del mercato monetario può risolvere, con vantaggio del paese, siffatti delicati problemi di economia bellica. La Banca d’Italia ed il ministero del tesoro sono gli organi naturali di attuazione di questo punto del programma di difesa economica; e, quando ne avessero la facoltà, non dubito che saprebbero egregiamente assolvere il loro compito.

 

 

III

Vi sono alcuni punti del problema delle munizioni, i quali meritano di essere discussi pubblicamente, poiché la formazione di una sana opinione pubblica è di grande aiuto al governo nella sua opera di organizzazione delle forze produttive del paese. E poiché il problema, prima che in Italia, si è presentato in Inghilterra ed in Francia, è opportuno mettere in luce alcuni dei punti più caratteristici che in quel paese si stanno agitando. Il signor Lloyd George nel suo discorso alla Camera dei comuni e gli oratori, che dopo di lui parlarono, ebbero il merito di insistere assai francamente su questo punto.

 

 

Come ed a chi dare le ordinazioni? In un grande paese industriale, esistono, in tempo di guerra, numerosi stabilimenti siderurgici e meccanici, i quali non hanno ordinazioni per il consumo ordinario e sarebbero felici di lavorare per conto del ministero della guerra. Ecco i due fattori che potrebbero rendere possibile e facile la produzione: il bisogno da parte dello stato ed il desiderio di produrre da parte degli stabilimenti industriali. Né occorre che questi siano senza lavoro, perché si dedichino alla produzione di armi e munizioni. Gli industriali sono sempre pronti a fabbricare le cose che fruttano maggior profitto ed a sospendere o ritardare la fabbricazione di ciò che rende meno.

 

 

Tuttavia, non sempre «bisogno» e «capacità di soddisfarlo» riescono a mettersi d’accordo. In quella stessa seduta alla Camera dei comuni sir Arthur Markham narrò di alcuni stabilimenti bene attrezzati, con una maestranza abbondante, che erano ben noti all’ammiragliato ed al ministero della guerra, i quali non avevano ricevuto una sola richiesta di fabbricare munizioni da guerra. Il fatto era vero; poiché il signor Lloyd George non oppose alcuna smentita.

 

 

Compito del nuovo ministero inglese delle munizioni, presieduto appunto dal signor Lloyd George, è di porre rimedio a questi ed altri difetti nell’organizzazione industriale della guerra. I capi dei ministeri militari, che distribuiscono le ordinazioni, e gli industriali non si conoscono abbastanza direttamente. I direttori degli uffici ministeriali pare che in Inghilterra fossero abituati a stipulare i contratti sempre sul medesimo stampo, nei modi più confacenti a certe abitudini tradizionali. Essi perciò erano portati a contrattare con intermediari, i quali a loro toglievano ogni fastidio e redistribuivano poi le ordinazioni tra i vari fabbricanti.

 

 

Dei danni prodotti da questo sistema dei sub-appalti il signor Lloyd George diede un esempio calzante, che in parte i giornali italiani già riprodussero, ma che è bene mettere in rilievo: in un certo distretto, in una città, il ministero della guerra era riuscito ad ottenere soltanto una produzione di 10.000 proiettili al mese; e ciò perché il ministero dava le ordinazioni ad alcune grandi ditte di armamenti, e queste, che erano sovraccariche di lavoro, subappaltavano le ordinazioni ricevute. Non sempre la collaborazione dei fabbricanti che potevano produrre veniva richiesta; forse le grandi ditte non avevano interesse a crearsi dei concorrenti. Quando il signor Lloyd George vide che occorreva andare sul posto e trattare direttamente, in pochi giorni stipulò contratti con ditte finanziariamente e tecnicamente capaci per 150.000 proiettili al mese. Ed il ministro ha fiducia di poter giungere in pochissimo tempo a 250.000-350.000 proiettili.

 

 

Un altro punto che il discorso di Lloyd George ha messo in luce è la necessità di decentrare e di affidare in ogni località, con piena libertà di movimenti e responsabilità, il compito di organizzare il lavoro a persone pratiche di industria. Sebbene, come era naturale, trattandosi di un suo collega, il ministro delle munizioni non abbia detto verbo in proposito, parecchi oratori apertamente rilevarono che lord Kitchener, insieme con i grandi suoi meriti di organizzatore militare, aveva avuto un grave difetto: di voler vedere tutto, di voler far tutto e di essersi circondato di puri soldati. Così si perdettero i mesi di inverno e di primavera senza pensare abbastanza al grande problema delle munizioni. Nessuno pensava fosse un problema di tanta gravità; ma anche i tentativi per risolverlo furono insufficienti.

 

 

Il signor Lloyd George ha visto che sarebbe stata una pretesa assurda di regolare tutto dal centro; ed ha diviso il paese in 10 distretti per la produzione delle munizioni. A capo di ogni distretto ha messo un comitato composto di industriali e commercianti locali (local business men), dotati di conoscenze locali, ed accanto ad esso ufficiali del ministero delle munizioni, incaricati di fornire tutte le indicazioni necessarie sul fabbisogno dello stato. Poiché la maggior parte dei fabbricanti inglesi non sa nulla intorno al modo con cui si fabbricano fucili, cartucce, granate, bossoli, mitragliatrici, ecc., si è provveduto a fornire agli industriali desiderosi di fabbricare munizioni per lo stato il mezzo di impratichirsi negli arsenali governativi e privati. Il governo cioè provvederà campioni, disegni, consigli ed insegnamenti di persone tecniche e di ufficiali specialisti. Spetta poi agli industriali stessi utilizzare tutto ciò nel modo che essi crederanno migliore. Il lavoro dovrà essere diviso fra di loro: gli uni dovranno fabbricare esplosivi, gli altri fucili, gli altri occuparsi dei metalli, altri ancora delle mitragliatrici ecc. ecc. Ma, quando si dà ad essi l’assistenza voluta, si lascino liberi di lavorare a modo loro.

 

 

Quando il governo – sono parole del Lloyd George – si è assicurato i servizi di alcuni dei migliori uomini d’affari del paese, fa d’uopo dare la maggiore ampiezza di iniziative alle loro energie. Voi dovete avere fiducia in essi. Non li dovete far lavorare colle catene ai piedi.

 

 

In Italia probabilmente il problema si deve presentare con qualche carattere suo peculiare. Da noi la burocrazia, anche quella militare, soffre di due malattie: una è la legge di contabilità di stato e l’altra è il timore del sospetto. La legge di contabilità dice che tutti i contratti devono essere fatti secondo certi dati stampi, anche se questi non si adattano alle urgenze del momento; ed il timore di essere sospettati persuade a seguire la via legale, quella meglio capace a scaricare il funzionario da ogni responsabilità. C’è una fabbrica capace di fabbricare un dato oggetto – che oggi è una munizione in guerra e domani potrà essere l’arredamento di un palazzo scolastico – bene, con la desiderata rapidità e con le necessarie garanzie? è quella fabbrica attrezzata all’uopo e dispone della maestranza necessaria? Il contratto non si può conchiudere senz’altro, perché la legge di contabilità oppone non si sa quali ostacoli e sovratutto perché il funzionario teme di essere sospettato di favoritismo verso quella fabbrica. Bisogna fare l’appalto o la licitazione; si perde tempo e la ordinazione va magari a finire nelle mani di chi non ha mai fabbricato quell’oggetto; di chi deve ancora comprare parte del macchinario, procurarsi gli operai, ecc. Intanto la prima fabbrica rimane senza lavoro; e le ordinazioni vengono consegnate con ritardo. Si è però guadagnato qualche centesimo e si sono fatte le cose in maniera legalmente ineccepibile.

 

 

Tutto ciò può andar bene in tempo di pace, perché, in un regime di controlli e di sospetto, non è possibile agire diversamente. In tempo di guerra occorre che i funzionari si persuadano che nessuno sospetta di loro, che l’opinione pubblica li loderà assai di più per avere provveduto a tempo che non per avere risparmiato qualche centesimo sul prezzo delle forniture; che sono stati messi al loro posto appunto perché il paese ha fiducia in essi.

 

 

Poiché il nostro esercito è oggi agguerrito e bene munito, esso deve essere persuaso che i suoi capi fin d’ora alacremente provvedono alla eventualità che la guerra abbia a prolungarsi oltre ogni previsione ed accumulano armi e munizioni come se la durata di essa fosse indefinita. Il paese ha dato ai suoi capi carta bianca. Se ne servano per organizzare la produzione nel modo più rapido ed efficace; con accordi diretti, affidando ad ognuno il lavoro che ognuno è meglio capace di compiere; non temendo di scendere ai piccoli produttori e di saltare gli intermediari. Ritornata la pace, rimetteremo sugli altari la legge di contabilità di stato ed il timore del sospetto. Ritorneremo a far girare le carte per gli uffici ed a perdere tempo. Per ora, i capi pensino soltanto che essi godono tutta la nostra fiducia e se ne servano per giungere sempre prima del tempo, prima del momento del bisogno.

 

 

Il signor Lloyd George sta compiendo una delle sette fatiche d’Ercole catechizzando gli operai inglesi e tentando di persuadere le trade-unions a rinunciare, almeno provvisoriamente, alle discipline con cui avevano irretito la produzione industriale e l’avevano resa incapace di quella libertà di movimento che è fattore importantissimo di vittoria nella lotta di concorrenza. Ben gli sta. Dopo aver tenuto tanti discorsi privi di contenuto serio contro i monopolisti della terra, dopo di avere rivoluzionato la secolare costituzione inglese per prendersi lo sterile gusto di istituire alcune imposte quasi improduttive dal lato fiscale ed utili solo ad irritare i proprietari fondiari, gli odiati percettori della rendita «non guadagnata» della terra; oggi è costretto a partire in guerra contro altre «rendite» non guadagnate; la rendita della domenica inglese, del sabato inglese, del lunedì inglese, la rendita delle leghe, le quali avevano monopolizzato un certo lavoro e vietavano che altri, altrettanto capace ma non appartenente alla lega, lo compiesse a minor costo. Egli ha citato, nel suo discorso, una lettera, che a ragione dice «angosciosa», di un operaio non specializzato il quale desiderando di fare qualcosa per lo stato, chiese lavoro in una fabbrica, dove si fabbricavano proiettili. Fu accettato ed un operaio acconsentì ad impratichirlo nel lavoro. Fabbricare proiettili non è un lavoro molto difficile. Può essere imparato in assai breve tempo. Ma non poté riuscirvi. La lega operaia gli ordinò di andarsene, poiché egli non era un operaio specializzato, iscritto nella lega. Dovette ubbidire.

 

 

Questi non sono aneddoti, ma ammonimenti di profonda significazione. In questa crisi suprema della loro vita nazionale, gli inglesi si accorgono che importa lavorar di nuovo, sul serio e assiduamente, come si faceva prima della grande ondata di prosperità iniziatasi un ventennio fa all’incirca. Il metodo più efficace per giungere alla meta, in un paese d’opinione, come l’Inghilterra, non è la forza, non è la obbligatorietà del lavoro: è la persuasione che è sorto un nuovo dovere; e che è moralmente necessario ubbidire al suo imperativo. E gli operai tanto più volontieri, a quanto pare, ubbidiscono all’appello del ministro evangelizzatore, quando più si persuadono che governo ed industriali tengono conto degli aggravi che la guerra ha cagionato e riaggiustano i salari, adattandoli al mutato livello dei prezzi.

 

 

Questo è uno dei più delicati punti del problema delle industrie di guerra. Occorre che gli operai ottengano quegli aumenti di salario, i quali sono giustificati in rapporto all’aumento delle sussistenze ed alla rarefazione delle maestranze: occorre che essi si persuadano di dovere lavorare di più per soddisfare ad una necessità pubblica e non per arricchire gli assuntori di forniture governative; ed occorre dall’altro canto che non sia tolto l’incentivo agli industriali di concorrere con tutte le loro forze al rapido compimento dei lavori che allo stato sono necessari.

 

 

Un’idea grezza si è presentata per la prima ai giornalisti ed ai dottrinari inglesi: tassiamo i profitti straordinari dei fornitori militari con un’imposta straordinaria di guerra. È un’idea grossolana che fa sorgere obiezioni fortissime. Perché certi industriali ottengono profitti colossali? perché le loro forniture erano particolarmente necessarie allo stato nel momento presente e convenne allo stato offrire prezzi largamente rimuneratori per indurre gli industriali a fare ogni sforzo per aumentare ed accelerare la produzione? Se questo è vero, un’imposta straordinaria di guerra, speciale su questi profitti, non spaventerà e scoraggerà precisamente quegli industriali, di cui lo stato ha bisogno di stimolare l’attività? Per fare a meno dello stimolo del lucro, converrebbe che lo stato irreggimentasse industriali e maestranze, li mobilitasse, per così dire, trasformandoli in suoi dipendenti, lavoranti a profitto ed a salario fissati per ordine dell’autorità. Tutto ciò funziona sulla carta, non nella realtà della vita. Poiché ciò che importa è produrre presto e bene, l’intento non si ottiene convertendo industriali ed operai in impiegati pubblici, lavoranti a guadagno moderato ma sicuro.

 

 

L’arma della requisizione degli stabilimenti deve essere più uno spauracchio che una realtà. Deve servire ai capi degli uffici ministeriali delle munizioni e delle forniture per ridurre alla ragione gli industriali troppo avidi: deve essere, come mi pare che in sostanza si proponga il Lloyd George, un’arma in mano agli uomini d’affari da lui preposti ai vari distretti di munizionamento per ottenere prezzi, i quali garantiscano un salario normale agli operai ed un profitto corrente agli industriali, senza tornare di insopportabile aggravio per il tesoro; ma si deve fare a meno, fin quando è possibile, di servirsene sul serio. Che ci siano talvolta industriali, ai quali una lezione possa far bene, non si può escludere. In Inghilterra, ci dice sempre il ministro delle munizioni, uno dei motivi più potenti della ripugnanza degli operai a lavorare molto è il timore, anzi l’esperienza già fatta, che gli imprenditori abbiano a ridurre la base del loro salario. «Che importa – dicono essi – lavorare molto, quando, se noi giungiamo alla fine della settimana a mettere insieme un beI salario, il principale ci dice: – Voi avete guadagnato 10 lire sterline! Ciò è troppo. Bisogna rivedere la base del cottimo». Agli operai non conviene lavorare molto finché gli industriali ne traggono argomento per ridurre la base del salario.

 

 

A quanto pare, tutto il mondo è paese.

 

 

Di questi giorni ho ricevuto parecchie lettere, riguardo al problema delle munizioni. Una, fra le altre, scritta da un centro di 900 operai, mi segnala la loro disoccupazione ed il contegno di alcuni fabbricanti i quali se ne giovarono per imporre agli operai condizioni peggiorate di salario. Ed aggiunge la lettera:

 

 

L’operaio di questi luoghi è svelto, assiduo al lavoro, capace di lavorare 14 ore al giorno per tutta la settimana, ma vorrebbe non essere sfruttato. La incertezza sul prezzo si ripercuote sul lavoro, perché l’operaio, sapendo per esperienza che se lavora e guadagna troppo, l’industriale diminuisce le mercedi, lavora appena da guadagnare 3 lire al giorno, sicché le commesse non vengono consegnate in tempo. Vi fu anche chi, dopo aver fatto domande per il rilascio dell’operaio richiamato, pretese che questi accettasse nuove tariffe, altrimenti scriveva al Comando che l’operaio non faceva più parte dell’officina.

 

 

La lettera è firmata e lo scrivente si dichiara pronto a fornire nomi, date, fatti e testimoni. Contro questi casi eccezionali, il governo usi dei suoi poteri larghissimi ed avrà il plauso della grande maggioranza degli industriali, i quali comprendono la necessità della collaborazione con la classe operaia e del miglioramento dei salari, quando esso sia necessario a raggiungere l’intento di una più abbondante e più rapida produzione delle cose utili alla condotta della guerra.

 

 

IV

L’egregio comm. Ferdinando Bocca, presidente della Camera di commercio di Torino, mi scrive:

 

 

Ho letto sul «Corriere della sera» il suo articolo sui problemi delle industrie di guerra nel quale ella riferisce e commenta alcuni provvedimenti adottati recentemente dal governo inglese.

 

 

Mi permetta ch’io le faccia notare:

 

 

  • che fin dall’inizio delle ostilità in Europa, e cioè con decreto 4 agosto 1914, i ministeri della guerra e della marina vennero esonerati dall’obbligo di attenersi alla legge sulla contabilità generale dello stato per le provviste e le lavorazioni di generi e materiali, per l’acquisto e noleggio dei mezzi di trasporto e per l’imbarco e sbarco di materiali. Né mi consta che dallo scorso autunno ad oggi cotesti ministeri abbiano fatto ricorso per le loro più urgenti provviste ad aste od a licitazioni. Se per avventura questo avvenne in qualche circostanza, fu per eccezione e non per regola. Ai capi dei servizi logistici e degli armamenti nostri venne dal governo data carta bianca nel più ampio senso della parola ed essi se ne dimostrarono, è bene riconoscerlo, altamente meritevoli;
  • una delle prime cure dei preposti agli approvvigionamenti di stato fu appunto quella di mettersi in diretto rapporto coi produttori, superando la cerchia amorfa dei soliti intermediari.

 

 

Si fece anzi di più, nell’intento di trarre dalle industrie paesane il massimo rendimento e di eccitarle a produrre: vennero chiamate le presidenze delle maggiori associazioni, rappresentanti alcuni grandi rami della produzione italiana, la lana, il cotone, la metallurgia, il cuoio, ecc., e con esse si stabilirono i prezzi unitari delle principali forniture.

 

 

Ed è grazie a questo felice spediente se da parecchi mesi centinaia di stabilimenti che mai avevano avuto rapporti con lo stato, né mai forse li avevano cercati, lavorano intensamente per provvedere all’equipaggiamento delle nostre truppe ed al loro munizionamento bellico;

 

 

  • anche nella formazione di speciali commissioni di uomini d’affari possiamo vantare di essere in anticipo di qualche mese sull’Inghilterra. Ne fanno fede i consorzi metallurgici e siderurgici che si sono assunti di fronte allo stato il compito di organizzare e disciplinare la produzione delle artiglierie e delle munizioni fra tutti gli stabilimenti di qualche importanza che lavorano il ferro e l’acciaio, utilizzando ciascuno di essi per quelle lavorazioni a cui è più adatto. Ne fa fede la commissione mista di industriali e funzionari dello stato creata con decreto reale del 27 aprile u. s., per l’approvvigionamento delle calzature che appunto ha per mandato di raccogliere le sparse unità produttrici di questo essenzialissimo oggetto di equipaggiamento del soldato e di alimentarne costantemente l’enorme consumo;
  • fortunatamente, ed è lealtà riconoscerlo, le nostre maestranze non si sono a tutt’oggi abbandonate a quegli esperimenti ricattatori dei quali pare si compiacciano singolarmente le maestranze inglesi. E d’altra parte mi consta in modo certissimo che molto ragionevolmente i conduttori d’industrie sogliono accedere a quelle eque domande di miglioramento che vengono loro avanzate, giustificate dalla eccezionalità del momento.

 

 

Non mi immagino dove e come abbia potuto verificarsi il caso che le venne riferito e che ella cita, di industriali che in queste contingenze abbiano tentato di ridurre la mercede dei loro operai in modo ch’essa non possa superare le 3 lire giornaliere! Questo solo posso assicurarle, ed è che in Torino non riesce facile trovare manovali al disotto di una mercede di lire 4 giornaliere, e che tentativi del genere da lei citato troverebbero la più viva disapprovazione in tutta la classe industriale.

 

 

Dall’insieme di quello che avviene nel campo dell’industria servente ai bisogni della guerra, e tenendo conto delle condizioni speciali in cui essa versava allo scoppio della conflagrazione europea, ricevo costantemente la impressione ch’essa non sia stata sinora inferiore a quella inglese e francese dinanzi all’arduo compito che gli avvenimenti le assegnarono e che molto efficacemente sia stata mobilitata dagli alti funzionari che il ministero prepose all’ardua bisogna.

 

 

Forse ancora una volta ed in un momento veramente epico per la nostra vita nazionale avrà campo di esplicarsi e di rifulgere quello spirito di adattabilità che è tanta parte del patrimonio spirituale di questa nostra italica gens.

 

 

E la conoscenza di quanto si fa o si tenta di fare all’estero nello stesso ordine di iniziative non può che giovare al nostro perfezionamento o almeno rassicurarci, come nel caso presente, di esserci incamminati per tempo sulla via migliore.

 

 

Se non erro, nel mio articolo sui problemi delle industrie di guerra, io non avevo, rispetto all’Italia, affermato che in Italia non esistessero consorzi di fornitori dello stato; né che non si fosse fatto nulla per accelerare la produzione delle forniture e degli armamenti. Sapevo anzi che in molti campi si lavora febbrilmente; sono certo che nel momento attuale e per lungo tempo ancora le nostre provviste, accresciute dalla produzione giornaliera, bastano ampiamente a tutte le più larghe esigenze. Ma una preoccupazione avevo ed ho: che faccia d’uopo accelerare, intensificare ancor di più la produzione per provvedere anche all’imprevedibile. Perché la coscienza di tutti noi sia tranquilla, bisogna porre il problema così: provvedere all’imprevedibile. Dato ciò, non sembreranno forse fuor di posto gli incitamenti dati anche a coloro i quali, nei ministeri della guerra e della marina e nelle industrie adatte agli approvvigionamenti militari hanno compiuto e stanno compiendo miracoli. Opera assai bene il Rocca segnalando alcuni dei risultati raggiunti all’opinione pubblica; e dal canto loro gli industriali ed i funzionari dei ministeri militari devono essere orgogliosi di sapere che noi attendiamo e siamo sicuri di ottenere da loro risultati anche più notevoli: forse non urgenti oggi, ma che domani possono improvvisamente diventare urgentissimi. La costituzione, avvenuta or ora a Milano, di un comitato lombardo di preparazione per le munizioni, dimostra del resto che parecchio rimane ancora da fare e che gli incitamenti della stampa non sono stati vani.

 

 

Ragioni evidenti di delicatezza vietano di esporre le ragioni di fatto, per cui ho ritenuto opportuno di insistere sulla necessità di liberarsi dell’ossequio alle forme contabili e di usare della carta bianca che il governo e l’opinione pubblica hanno dato ai capi delle amministrazioni pubbliche. Lieto che ciò accada già quasi sempre, mi auguro che in avvenire ciò diventi la regola senza eccezioni.

 

 

Anch’io avevo qualificato di eccezionale il caso citato di industriali, i quali nelle attuali contingenze cercano di decurtare i salari operai al disotto del normale corrente: e sono certo che la vigilanza della «grandissima maggioranza» degli industriali riesca a far scomparire le poche e non belle eccezioni.

 

 

Poiché ho la penna in mano, mi sia consentito di notare che in questi giorni ai consorzi ed alle associazioni degli industriali fornitori dello stato spetta un altro compito: stimolare e provocare le sottoscrizioni al prestito nazionale. L’opinione pubblica non comprenderebbe una fiacca partecipazione di questa speciale categoria di industriali al prestito. Mentre parecchie altre industrie hanno languito, queste delle forniture di guerra hanno largamente guadagnato. A parere mio, hanno giustamente guadagnato; ed io non sono favorevole alle imposte di guerra su questi lucri straordinari che da tante parti sono messe innanzi in molti paesi. Ma ciò che non si deve fare per forza, gli industriali favoriti dalla guerra devono fare per dovere civico. Essi dovrebbero sottoscrivere al prestito di guerra per l’intiera somma dei loro guadagni superiori al normale, realizzati o presunti sino alla fine del 1915. Le sottoscrizioni potrebbero essere un po’ minori per quelle industrie che uscissero da gravi crisi od avessero urgenza di liberarsi da debiti cambiari gravosi. Il governo del resto ha pensato a non privarli del capitale circolante, con le anticipazioni degli istituti di emissione. Praticamente, se essi non possono privarsi del contante, o devono ancora attendere il pagamento delle forniture, essi sanno che le anticipazioni permetteranno loro di non sborsare alcuna somma in contanti. Ma è necessario che essi si assumano l’obbligo di ritirare a poco a poco la maggior quantità possibile di titoli del prestito. Specialmente questo obbligo morale si impone alle grandi società anonime, per tutti i guadagni che superano la misura del dividendo dell’anno scorso. In Inghilterra, quando si pubblicò il primo bilancio di una società anonima, la quale aveva – e giustamente, dico io, perché aveva fornito cose utili allo stato – tratto profitto dalla guerra e si seppe che essa tranquillamente proponeva di aumentare il dividendo agli azionisti, fu un grido di indignazione. È inutile andare ricercando se questi sentimenti siano utili e giustificati ovvero no. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte al fatto che, nei nostri paesi «d’opinione» quei sentimenti esistono. Se gli amministratori delle società anonime hanno caro l’ avvenire delle loro imprese, diano ai loro utili straordinari una destinazione «pubblica». Questo atto patriottico li salverà in futuro da persecuzioni e da fastidi. Dopo la pace, quando il mercato finanziario sarà riassestato, sarà agevole ad essi rivendere le obbligazioni ora acquistate e reimpiegarne il ricavo nella loro impresa. Frattanto essi avranno compiuto il loro dovere di riconoscenza verso la patria.

 

 


[1] Con il titolo, Le munizioni nella guerra moderna. La mobilitazione industriale. [ndr]

[2] Con il titolo, Problemi di economia bellica. [ndr]

[3] Con il titolo, Cannoni e munizioni. I problemi delle industrie di guerra e gli insegnamenti della esperienza inglese. [ndr]

[4] Con il titolo, Cannoni e munizioni. I problemi delle industrie di guerra. [ndr]

Guerra ed economia

Guerra ed economia

«La Riforma sociale», giugno-luglio 1915, pp. 454-482.

Studi di economia e finanza. Seconda serie, Officine grafiche della STEN, 1916, Torino, pp. 129-159

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 1-42

 

 

 

 

Durante la lunga e spesso acerba lotta di idee e di partiti, grazie alla quale l’Italia poté fare un suo serio esame di coscienza, e poté trovarsi pronta e ferma ed unanime nel compiere lo sforzo grave della guerra per la conquista dei suoi confini naturali, questo si notò: che mentre le classi, le quali potremmo chiamare «economiche» per eccellenza, degli industriali, dei commercianti e degli agricoltori sembravano deprecare la guerra e stringersi intorno alla formula della neutralità, da abbandonarsi solo quando il governo riconoscesse assolutamente impossibile ottenere qualcosa per via di trattative, ben scarsa eco avevano queste tendenze nel ceto degli studiosi professionali della scienza economica. Molti economisti non dissero nulla; il che è ragionevolissima cosa quando il fatto da studiare ancora non è compiuto e non si presta a ragionamenti abbastanza rigorosi. Ma quelli che parlarono diedero chiaramente a vedere come essi non si lasciassero soverchiamente impressionare dagli elenchi di perdite materiali ed economiche che sarebbero state le conseguenze, secondo taluno dei pratici, più sicure della guerra.

 

 

Quali le ragioni di un siffatto contrasto e perché tra gli economisti, che parlarono prima della dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria, apparvero subito prevalenti coloro, i quali trovarono calanti di peso le ragioni di ordine economico, che potevano essere consigliere di neutralità?

 

 

È impressione di moltissimi laici, i quali si dilettano nello scrivere di cose economiche, che ufficio degli economisti sia quello soltanto di fare conti di dare ed avere in lire, soldi e denari, giudicando calanti quei beni che non siano tangibili o materiali e spregiando i beni ideali, morali, religiosi e politici. Sicché il Carlyle definì «dismal science» quella economica: ed ogni giorno i suoi tardi ripetitori additano al pubblico disprezzo i sacerdoti di questa scienza, come quelli che hanno gelido l’animo e chiuso il cuore ad ogni sentimento nobile, sensibili solo al suono metallico dei guadagni e delle perdite «presenti» in denaro «contante».

 

 

Chi scrive o pensa in tal modo non ha mai, neppure per un istante, avuto la sensazione della essenza poetica della scienza economica. Dicono che una delle facoltà principi dei grandi matematici, astronomi e fisici sia la fantasia; e certamente noi non riusciamo ad immaginarli privi di quelle qualità di immaginazione, di sentimento, di intuizione che sono caratteristiche dei grandi poeti. Così è dei grandi economisti. Quando Ricardo concepì le sue teoriche degli scambi internazionali o della ripartizione della moneta tra i diversi mercati, egli dovette sentire un rapimento intellettuale ed una commozione intensa dell’animo simile a quello che provò Archimede quando gridò il suo famoso Eureka o Galileo quando scoprì le leggi del pendolo o Dante quando scrisse i più terribili canti dell’Inferno. Era diverso il motivo delle commozione; ma egualmente sublime ed elevato la scoperta di una verità nuova, di nessi impensati e fecondi tra fatti prima non osservati o male osservati, la rappresentazione di passioni profonde umane.

 

 

Chi rifletta che alcune delle verità scoperte dagli economisti e massimamente dal maggiore di essi, Davide Ricardo, non sono meno grandiose ed illuminatrici di quelle, meglio note all’universale, che l’anno reso celeberrimi i nomi di Copernico, Galileo, Keplero, Lagrange Newton, Volta ed altri uomini di genio, non può non sentire vivamente la assurdità, anzi la impossibilità assoluta che quelli fossero uomini chiusi ad ogni alto sentimento umano, abituati a ritenere ogni cosa oggetto di mercato e volgare mercato. Uomini adusati alle astrazioni ed alle sintesi, i quali ad ogni passo avvertono che il loro ragionamento è corretto solo data una certa ipotesi, immaginato un dato ambiente, supposta l’esistenza di un determinato ordinamento sociale o giuridico, ammessa l’esistenza di date abitudini e consuetudini e passioni, scrittori di cui tutto il discorso è un perpetuo se; i quali giungono, in questo mondo irreale e reale nel tempo stesso, a tracciare le leggi «ideali» del movimento degli uomini per il raggiungimento di dati fini, e le leggi, pure ideali, del movimento dei beni e dei servigi che gli uomini tra loro scambiano; costoro sarebbero dei materiali e goffi adoratori del denaro, gente la quale assapora e conosce solo le più basse passioni, i più vili sentimenti dei loro simili! Colui che così parla, non ha sentito la profonda poesia che sta sotto ai ragionamenti ed alle rappresentazioni degli economisti, non ha intuita la sublimità di questo sistema concatenato di leggi, con cui gli economisti hanno cercato di spiegare, in parte, le ragioni e le maniere del comportarsi degli uomini; non ha veduto come tutto il pensiero economico è condizionato alla premessa dal se e del coeteris paribus stantibus ed è quindi incomprensibile se non ci si figura dinanzi agli occhi della mente lo spettacolo del continuo, non mai riposante, concilio scientifico, dove fisici, chimici, economisti, giuristi, moralisti, politici, mistici, filosofi convengono, mossi dal desiderio di comunicare agli altri il frutto delle proprie particolari indagini e desiderosi di apprendere i risultati del pensiero e dell’immaginazione degli altri, sicché dai suggestivi conversari balzi fuori o sembri balzare la figura dell’uomo vero e compiuto.

 

 

Pretendeva, è vero, taluno di fare dei ragionamenti economici discorrendo dell’assurdità di distruggere, andando in guerra, le ricchezze che si erano accumulate in passato, e di interrompere il flusso dei guadagni che la neutralità ci procurava. Un paese, come l’Italia, a ricchezza scarsa, di appena 80 miliardi di lire, contro i 400 della Germania e dell’Inghilterra non poteva correre il rischio di perdere neppure la più piccola parte di questa scarsa ricchezza, acquistata con la fatica di molte passate e necessaria al sostentamento della presente e delle venture generazioni.

 

 

Perché ci dovremmo battere? Povero il Trentino, poverissimi il Carso, l’Istria e la Dalmazia, inferiori a molte delle peggiori terre del Regno. Unica ricchezza il porto di Trieste, il quale perderebbe però gran parte del suo valore nel giorno che fosse separato dal suo entroterra tedesco e slavo ed aggregato all’Italia, la quale stenta a dare alimento al suo vecchio e non ancora risorto porto di Venezia.

 

 

Ma, se apriamo i libri degli economisti, ascoltiamo parole ben diverse. «Noi dobbiamo ricordare» leggesi in uno dei libri che meglio hanno esposto, in linguaggio moderno e coi più raffinati metodi attuali di indagine, il pensiero degli economisti classici, perfezionandolo e portandolo sino alle sue più logiche e larghe conseguenze.[1]

 

 

«Noi dobbiamo ricordare che il desiderio di guadagno non deriva necessariamente da motivi bassi, anche quando il guadagno è speso a proprio beneficio. Il denaro è un mezzo per conseguire dei fini, e se i fini sono nobili, il desiderio di avere i mezzi all’uopo necessari non è ignobile. Il giovane, il quale lavora accanitamente e risparmia la maggior parte possibile dei suoi guadagni, allo scopo di potersi in seguito mantenere agli studi dell’Università, è avido di denaro. Ma la sua avidità non è ignobile. Il denaro è una potenza generale di acquisto ed è desiderato come un mezzo per ogni specie di fini, alti e bassi, spirituali e materiali.

 

 

Sebbene sia vero che il “denaro” od il “potere generale di acquisto” o la “disponibilità di ricchezze materiali” è il centro intorno a cui è costrutta la scienza economica; non è vero però che il denaro o la ricchezza materiale debba essere considerato come il principale scopo dello sforzo umano e neppure come il più importante oggetto di studio per l’economista …».

 

 

Le parole del maggiore tra gli economisti inglesi viventi, di colui il quale ha sovratutto penetrato meglio di ogni altro economista vivente l’intima essenza del pensiero «tradizionale» economico e l’ha saputo rivestire di una eletta forma moderna, dimostrano come, secondo i più antichi ed accettati principii scientifici, l’acquisto e la conservazione della ricchezza non siano il fine della vita dell’uomo. È un errore economico distruggere la ricchezza per raggiungere un fine basso o non importante o senza raggiungere alcun fine; è un errore economico scegliere metodi sbagliati ed inutilmente costosi, non raggiungendo così il fine desiderato; ma non è errore consumare ricchezza per raggiungere un fine non economico che la nazione considera tuttavia importante e degno. La differenza fra il possedere una ricchezza di 80 miliardi od una di 75 o di 85 può essere valutata soltanto in rapporto ai fini ed agli ideali, materiali e morali, che si propongono gli uomini possessori di quelle diverse ricchezze. Un paese può, in seguito ad una guerra fortunata di conquista, vedere crescere la propria fortuna, valutata in moneta, da 80 ad 85 miliardi, senza che possa dirsi che quella guerra sia stata economicamente desiderabile. Poiché se si conquistò un paese abitato da uomini di diversa nazionalità, i quali repugnino al dominio dei conquistatori, è molto dubbio se vi sia stato un vero incremento di ricchezza di 5 miliardi per il paese conquistatore. La scienza economica, la quale deve badare sovratutto a quel che non si vede nei fatti economici, porrà, nel libro del dare e dell’avere, contro al guadagno di 5 miliardi, la perdita derivante dalle cattive tendenze psicologiche che la conquista farà nascere tra i conquistatori (risveglio dello spirito di aggressione, incremento della burocrazia militarista, subordinazione degli individui allo Stato, divenuto organo di conservazione della conquista, indebolimento delle forze, le quali promuovono il perfezionamento intimo, volontario dell’individuo) e dalle reazioni inevitabili tra i conquistati. Molti oggi sono persuasi che la annessione dell’Alsazia Lorena ha nociuto, alla Germania, mentre l’ha avvantaggiata la prudenza dimostrata verso l’Austria dopo il 1866. Può darsi che la fortuna della Germania, misurata in denaro, sia maggiore oggi di quanto non sarebbe, se l’Alsazia Lorena fosse restituita alla Francia; ma è molto dubbio se ogni singolo tedesco non sarebbe oggi più ricco se per 40 anni il governo germanico non fosse in parte stato costretto ed in parte non avesse tratto argomento dal desiderio di rivincita della Francia per aumentare oltremisura le spese militari e per fomentare nel popolo lo spirito di dominazione; o se, pur essendo in denaro più povero, non sarebbe oggi (quella minore ricchezza feconda per lui di godimenti, materiali e morali, maggiori, quando non dovesse spendere una parte dei suoi redditi per la conservazione e l’incremento di conquiste aborrite dai popoli soggetti. Anche supponendo che incremento di ricchezza e conquiste territoriali vadano di pari passo – intorno a che è lecito nutrire molti dubbi – il punto su cui verte la disputa non è se convenga guadagnare ricchezza, ma se convenga diventare oppressore. Un popolo, il quale si proponga come ideale il predominio sui più vicini e l’assoggettamento, diretto od indiretto, politico, economico od intellettuale, degli altri popoli, ragionerà correttamente risolvendosi a fare lo sforzo per aumentare a tal fine la sua ricchezza. Un altro popolo ragionerà pure correttamente, dal punto di vista economico, rinunciando alla maggiore ricchezza, quando giudichi che questa gli servirebbe solo per raggiungere un fine repugnante, come per esso è l’imposizione ad altri popoli del proprio tipo di civiltà.

 

 

Piace a questi altri uomini di collaborare con uomini di altre razze e di altre lingue, conservando ognuno di essi una propria fisonomia particolare ed una propria vivace individualità; e ritengono essi inutile di fare sforzi e consumar fatica e tempo per acquistare una ricchezza, la quale dovrebbe servire ad abbassare gli ideali di vita che a loro sono cari e ad innalzare quelli che essi ritengono inferiori e ripugnanti.

 

 

Le valutazioni della ricchezza sono «nomi» numerici che si danno ai beni desiderati dagli uomini, per opportunità e semplicità di conteggio; ma il significato di quei «nomi» è mutevole e complesso. Può ben darsi perciò che gli uomini di un paese siano persuasi, ed a ragione persuasi di guadagnare, riducendo la loro ricchezza da 80 a 75 miliardi, quando essi in tal modo riescano o sperino di riuscire a raggiungere una meta che per essi è desideratissima. Così hanno ragionato gli italiani nel momento attuale; ed hanno fatto un calcolo economicamente corretto. Il possesso del denaro è un mezzo e non un fine della vita umana; e se gli italiani sono convinti che sia necessario ricongiungere alla patria i paesi italiani finora soggetti al dominio d’Austria, bene fanno essi a spendere 5 dei loro 80 miliardi di ricchezza nazionale. Anche dal punto di vista economico, essi hanno compiuto un calcolo corretto; poiché il fine che essi hanno fiducia di raggiungere vale di più della perdita dei 5 miliardi spesi. Che se anche, per ipotesi malaugurata, il fine non dovesse essere raggiunto, gli italiani avrebbero dimostrato la volontà di non badare a sacrifici di vita e di averi, pur di soddisfare al dettame della coscienza ed all’imperativo del dovere. Il che è un vantaggio morale superiore al sacrificio dei 5 miliardi. Ed aggiungasi che quei popoli, i quali hanno la forza di compiere simili sacrifici rivelano a se stessi ed agli altri tali nascoste energie di volontà da riuscire in breve tempo a rifarsi della perdita economica subita.

 

 

Le quali verità si sono ora ripetute, non perché fossero nuove – ché anzi sono insegnate dal buon senso ed imposte dal ragionamento ordinario – ma per mettere in luce come esse direttamente e logicamente si deducano dai più elementari principii della scienza economica, quale essa in verità è sempre stata in passato ed è ora e non quale immaginano sia i seguaci del materialismo storico.

 

 

Perciò gli economisti non ritengono che il discorso della guerra sia finito coll’elenco delle tristi conseguenze che da essa deriverebbero. Questo è un lato solo del problema; né ha l’importanza che ad esso da taluno si volle dare. In una scrittura, a firma Victor, pubblicata sulla Nuova Antologia del 16 marzo 1915, fra le altre nere previsioni di avvenimenti che si sarebbero dovuti verificare allo scoppio della guerra italiana, vi fu quella che il corso della rendita 3,50% sarebbe disceso, forse, fino a 70 lire. «Chiunque abbia una qualsiasi responsabilità della cosa pubblica è in dovere di meditare e pesare le conseguenze di un atto che farebbe scendere la rendita a lire 70, falcidiando del 30 per cento l’intero valore capitale della ricchezza nazionale, titoli di Stato, valori industriali, case, terre, ecc. Tenendo conto dei deprezzamenti già avvenuti, si può ben dire che non poca parte del valore della ricchezza nazionale sarebbe ridotta alla metà».

 

 

Allo scopo di apprezzare il valore di questa profezia, è opportuno precisare i dati del problema. A leggere il periodo di Victor parrebbe che la sequela degli avvenimenti dovesse essere questa:

 

 

  • I. Prima della guerra, la rendita 3 ½ per cento era valutata 100;
  • II. La guerra farà probabilmente ribassare il valore da 100 a 70, con una falcidia del 30%;
  • III. L’identica falcidia si verificherà su tutti gli altri elementi della ricchezza nazionale, dei titoli di Stato, valori industriali, case, terre, ecc;
  • IV. Poiché già prima della guerra si erano verificati dei deprezzamenti, si può calcolare che, per non poca parte, il valore della ricchezza nazionale sarebbe ridotto della metà;
  • V. Non è detto se a questo deprezzamento antico avesse partecipato la rendita di Stato, e se essa rientri quindi in quella «non poca parte» della ricchezza nazionale, il cui valore all’inizio della guerra si ridurrebbe alla metà.

 

 

Esposto in questa più logica e chiara maniera, il ragionamento lascia vedere subito le sue falle, dovute in parte al linguaggio poco preciso ed in parte ad errori intrinseci.

 

 

È vero che, prima della guerra europea, il corso della rendita era sostenuto: senza toccare il pari, oscillava intorno a 95-97 lire. Ma era questo un prezzo «normale», quale si sarebbe verificato in assenza di una data politica finanziaria governativa, intesa appunto a sostenere i corsi della rendita? È noto, come, a partire dalla conversione, felicemente operata dalla rendita nel 1906 dal tipo 4 al tipo 3 ½ per cento, i dirigenti della politica finanziaria italiana siano stati ossessionati dall’idea fissa che convenisse allo Stato vedere il suo maggior titolo intorno a 100. Specialmente durante la guerra libica e negli anni successivi, il governo cercò con ogni mezzo di non offrire in vendita titoli che potessero muovere concorrenza alla rendita, aumentando, contro ogni buona norma finanziaria, la emissione dei buoni ordinari del tesoro e vendendo buoni quinquennali 4%, pregevoli sotto molti rispetti, ma non sotto quello della sistemazione definitiva del debito occasionato, direttamente od indirettamente, dalla guerra libica.

 

 

Non ha importanza, ai fini del presente ragionamento, il fatto, tante volte allegato dall’on. Tedesco, durante la sua permanenza al ministero del tesoro, che i buoni quinquennali erano emessi per coprire altre spese, principalmente ferroviarie, diverse da quelle di guerra. Questo è un modo contabile e legale di esprimere la verità, simile a quelli con cui si pretendeva, e formalmente con ragione, che i bilanci degli anni 1911-1914 si chiudessero in avanzo.

 

 

È sempre possibile di attribuire un debito a quella qualsivoglia spesa, la quale possa sembrare «politicamente» adatta a sopportare il merito od il demerito del debito. Nella realtà, il bilancio di uno Stato è un tutto organico; in cui il complesso delle entrate provvede al totale delle spese.

 

 

È arbitrario scegliere fra le spese una o parecchie ed affermare che per quelle si dovette ricorrere a talune nuove entrate, per es., al debito od all’imposta cresciuta. L’on. Tedesco si compiaceva di affermare che i debiti li faceva per coprire le spese delle costruzioni ferroviarie e non quelle per la guerra libica; e tale compiacimento l’on. Giolitti ordinava al Parlamento di tradurre in leggi dello Stato. Con altrettanta ragione si sarebbe potuto dire che i debiti si facevano per pagare le spese della magistratura o della pubblica sicurezza.

 

 

In realtà, se un criterio obbiettivo si volesse adottare in questa materia, si dovrebbero fare due elenchi di spese e di entrate. Nel primo elenco si dovrebbero scrivere, in ordine discendente, le spese, cominciando da quelle che normalmente sono incluse in ogni bilancio, che rispondono a funzioni essenziali dello Stato, via via passando quelle che hanno carattere di maggiore straordinarietà o novità, che rispondono ad un bisogno nuovo sentito ed affermato dalla collettività. E, per converso, nell’elenco delle entrate si dovrebbero collocare prima le entrate ordinarie, antiche, e poi in seguito le entrate eventuali, straordinarie, deliberate in tempi più recenti per far fronte ad incrementi di spese, qualunque essi fossero.

 

 

Nessun dubbio che, in un elenco così fatto, le spese di costruzioni ferroviarie debbono logicamente venir prima delle spese di una guerra; perché le prime derivano da necessità ordinarie e permanenti dello Stato, mentre le seconde sono la conseguenza di una impresa straordinaria, non ricorrente dello Stato. Le prime sono spese le quali risalgono cronologicamente all’epoca nella quale lo Stato diventò proprietario delle ferrovie e cioè a 40 o 60 anni fa; mentre le seconde sono la conseguenza di una situazione politica internazionale, maturata fra il 1910 ed il 1911. Alle prime debbono corrispondere entrate più certe ed ordinarie di quelle che possono bastare alle seconde; poiché le prime spese si dovranno ripetere ogni anno e le seconde si dovranno esaurire in un non lungo volgere di anni.

 

 

Nessun dubbio ancora che, nell’elenco delle entrate, quelle derivanti da debiti debbano susseguire quelle provenienti da imposte; poiché la finanza di uno Stato deve normalmente reggersi su queste e solo in via straordinaria ricorrere ai debiti. Ancora è certo che, nell’elenco dei debiti, debbono precedere quelli consolidati perpetui e venire in seguito quelli redimibili in un lungo periodo e poi i buoni del tesoro quinquennali, i buoni ordinari e, finalmente, le emissioni di moneta cartacea; ossia prima i debiti permanenti e poi quelli brevi, provvisori, che sono quasi spedienti consigliati dall’urgenza del momento, in attesa di una sistemazione definitiva.

 

 

Compilati i due elenchi, si confrontino tra di loro: le «prime» entrate corrisponderanno alle «prime» spese; le ulteriori a quelle spese che vengono in seguito; mentre alle «ultime» spese si vede chiaramente essersi provveduto con le «ultime» entrate iscritte nell’elenco. Resta così dimostrato che alle spese della guerra libica, che logicamente dovevano essere iscritte per ultime nell’elenco delle spese, si provvide con le emissioni dei buoni quinquennali, dei buoni ordinari e dei biglietti di Stato e di banca. Né si capisce la ragione per la quale l’on. Tedesco tanto insisteva per capovolgere questo che è l’ordine naturale delle cose, se non forse la consapevolezza sua che le emissioni almeno dei buoni ordinari e dei biglietti di Stato e di banca ed in parte anche dei buoni quinquennali erano evitabili mercé il ricorso ad emissioni di rendite perpetue o di prestiti a lunga scadenza.

 

 

Egli probabilmente, non voleva che il biasimo per i metodi da lui prescelti per l’accensione dei debiti si estendesse alla guerra libica, la quale, essendo guerra coloniale, era, in verità troppo piccola cosa per giustificare l’adozione di sistemi i quali sono invece spiegabili solo in occasione di guerre grandi e vitali, come quella che oggi l’Italia combatte per la sua integrazione e la sua indipendenza.

 

 

Una delle ragioni che allora consigliarono il governo a preferire i buoni del tesoro alle rendite perpetue od ai prestiti a lunga scadenza era la fisima stravagante, ficcatasi in testa ai dirigenti, che fosse un grande interesse nazionale di impedire il ribasso della rendita al disotto della pari. Avrebbero potuto collocare con grandissima facilità un miliardo e forse due di rendita 3 1/2% a prezzi assai convenienti – oggi si vede che tutti i prezzi fra il 90 ed il 100 sarebbero stati convenientissimi per l’erario, e nulla fa ritenere che i prezzi di emissione dovessero essere più vicini al 90 che ai 100 -; e preferirono di inondare il mercato dei capitalisti privati, delle banche e delle casse di risparmio con titoli, i quali costituiscono un tormento quotidiano per i ministri del tesoro quando, come i buoni ordinari, giungono a scadenza o, se si tratta di buoni quinquennali, costituiranno una preoccupazione per i ministri del 1917-19.

 

 

Ma si voleva salvare la formula né debiti né imposte assurdamente esposta dal governo di quel tempo, come se i buoni del tesoro non fossero titoli di debito ed i maggiori accertamenti per le imposte esistenti non equivalessero a nuove imposte; e si volevano sostenere i corsi della rendita alla pari.

 

 

Le quali cose furono esposte per dimostrare come Victor si esprimesse in maniera assai inesatta quando ammoniva coloro, i quali avevano il 16 marzo 1915 la responsabilità della cosa pubblica a riflettere «alle conseguenze di un atto che farebbe scendere la rendita a lire 70: falcidiando del 30% l’intiero valore capitale della ricchezza nazionale». No: gli onorevoli Salandra, Sonnino e Carcano, quest’ultimo nella sua qualità di ministro del tesoro, non potrebbero da soli essere chiamati responsabili di un eventuale ribasso della rendita da 100 a 70 (trenta per cento), qualora esso si verificasse in conseguenza della guerra oggi dichiarata contro l’Austria.

 

 

Poiché una parte di questo ribasso esisteva in potenza prima, ed era dovuto alle spese volute dal ministero Giolitti Tedesco. Se noi ricordiamo che per tutto il 1911, il 1912, il 1913 e la prima metà del 1914, lo Stato italiano doveva pagare più del 4 per cento effettivo sui suoi prestiti, emessi col nome di buoni del tesoro, chiaro apparisce come il tasso di capitalizzazione della rendita non poteva, già prima della guerra europea, essere quello del 3 ½, ma doveva avvicinarsi al 4%; ed è chiarissimo perciò che il prezzo normale della rendita già tendeva ad essere di 87,50 – al qual prezzo un titolo 3,50 per cento frutta all’acquirente il 4% – od al più di 90 lire.

 

 

Epperciò non è corretto attribuire all’atto degli onorevoli Salandra Sonnino Carcano la responsabilità di un eventuale ribasso da 100 a 70, ma tuttalpiù quella d’un ribasso da 90 a 70. La responsabilità della prima parte del ribasso – e finora della più importante, ché, al momento in cui scrivo, il corso della rendita batte sulle 81/85 lire – è tutta degli onorevoli Giolitti e Tedesco e dalla loro politica finanziaria in occasione della guerra libica. Se anche si ammette che la rendita debba ribassare a 70, il ribasso dovuto alla guerra europea italiana non è del 30 per cento, ma all’incirca del 20 per cento. Ed a bella posta ho scritto guerra europea italiana; poiché, se anche non fosse intervenuto l’atto, deprecato da Victor, della dichiarazione di guerra all’Austria, era assurdo pensare che, continuando sino alla fine la neutralità italiana, il tasso di capitalizzazione della nostra rendita potesse mantenersi al 3½ o, più correttamente, al 4%. La guerra europea, anche astrazion fatta dal nostro intervento, distrugge una così grande massa di capitali che per lunghi anni il tasso dell’interesse si troverà spostato all’insù, verso il 5 ed il 6 per cento. Come illudersi, che l’Italia sola, grazie alla sua neutralità, potesse rimanere immune da questa ondata al rialzo del prezzo dei capitali? Finita la guerra, i rapporti fra mercati esteri e mercato interno dei capitali si ristabiliranno; e nessuna forza umana avrebbe potuto impedire un livellamento, forse non compiuto, ma bastevole a provocare sensibili ribassi, dei corsi dei titoli italiani a quelli dei titoli esteri. Sicché, sul 30% di ribasso ipotizzato da Victor, forse neppure del 10% può essere attribuita la responsabilità all’atto degli onorevoli Salandra Sonnino Carcano: il 30% dovendo essere ripartito in tre parti all’incirca uguali, di cui son responsabili la guerra libica, la guerra europea e la guerra italiana. Le colpe di quest’ultima appaiono così in gran lunga minori di quelle che parrebbero derivare dal discorso di Victor.

 

 

È egli vero inoltre che un ribasso del 30 o del 10% nel prezzo della rendita debba accompagnarsi ad un’uguale falcidia per tutti gli altri elementi della ricchezza nazionale, titoli di stato, valori industriali, case, terre, ecc.? In tesi generale, sì; poiché il mutato tasso di capitalizzazione deve necessariamente ripercotersi su tutti gli impieghi di capitale. Ma non senza notevoli riserve. Dei valori industriali e bancari sono ribassati e ribasseranno sopratutto quelli che si reggevano sulle stampelle dei diritti di sconto, dei sindacati di sostegno, degli argini artificiosi al ribasso. Alcuni buoni titoli si sono risentiti molto ed altri sono aumentati in conseguenza della guerra. Per le case e sopratutto per le terre è molto dubbio se le terrificanti profezie di Victor abbiano a verificarsi. In molte regioni rurali, specialmente a piccola proprietà, a guerra finita si verificheranno forse effetti contrari. I risparmi, impauriti e diffidenti, si getteranno, forse ancor più esclusivamente di prima, sulla terra, considerata come l’unico impiego sicuro dai pericoli di fallimenti, di bombardamenti e di danneggiamenti contemporanei e susseguenti alla guerra.

 

 

E, per concludere queste osservazioni formali, in qual modo Victor ha potuto constatare che i deprezzamenti «già avvenuti» giungono al 20%, sicché con quelli conseguenti alla guerra e valutati al 30%, si possa concludere che «non poca parte del valore della ricchezza nazionale sarebbe, in conseguenza dell’atto di dichiarazione della guerra, ridotta alla metà»? Siffatto colossale ribasso non è preveduto da Victor per la rendita, da lui fatta ribassare fino a 70; né egli spiega perché, per gli altri valori, il ribasso debba essere di tanto maggiore.

 

 

Ma, sovratutto, sia il ribasso del 10, o del 30, o del 50 per cento, ha riflettuto Victor al vero significato di questa riduzione del valore della ricchezza nazionale?

 

 

Per la ricchezza oggi esistente la riduzione, a prima vista terrorizzante, ha un valore in parte soltanto nominale. Trattasi pur sempre di una variazione dei «nomi numerici» che si appiccicano dagli uomini alle cose, nel momento in cui le fanno oggetto di transazione (compre vendite, affittanze, ipoteche, ecc.). Tizio capitalista medio, possiede un lotto di rendita 3½% da 100.000 lire nominali. A lui dispiace che il valore del suo lotto sia disceso da 100.00O a 70.000 lire; ma, se riflette bene, egli nulla ha perduto della sua capacità ordinaria di acquisto; poteva spendere prima 3500 lire all’anno e la stessa somma può spendere dopo. Se egli vende il titolo, ha il rammarico di riscuotere soltanto 70.000 lire; ma, rinvestendole in un mutuo od in una casa, egli reinveste al 5% e riceve pur sempre 3500 lire annue di frutti.

 

 

Il contadino può dolersi, nell’ipotesi non sempre probabile che l’avvenimento si verifichi, che il suo poderetto valga solo 7000 invece di 10.000 lire; ma riceve forse messe più scarsa di frumento o di granoturco, vendemmia meno abbondante o è scemato il numero dei capi di bestiame che egli può allevare nella sua stalla? Mai no.

 

 

Quando alla ricchezza «nuova» ancora da formarsi col risparmio futuro, il problema economico si riduce al seguente: è più favorevole allo spirito di risparmio un tasso di interesse del 5 o del 3,50 per cento? Questo è il vero problema. La riduzione dei valori da 100 a 70 è un effetto del mutato tasso di capitalizzazione dal al 3,50%; e di questa mutazione perciò occorre studiare le conseguenze.

 

 

In generale, per quanto ha tratto alla formazione del nuovo risparmio, non pare che gli effetti sieno cattivi. L’accresciuto tasso dell’interesse vuol dire infatti che un premio maggiore, del 5 invece che del 3,50 per cento, è offerto a coloro che rinunciano al godimento immediato dei beni presenti, adattandosi a ricevere in cambio la promessa di beni futuri; ed è quindi una spinta al risparmio. I danni di molte guerre si poterono rimarginare prima di quanto si prevedesse, grazie appunto alla vis medicatrix del cresciuto tasso dell’interesse. Nessuno può negare che esso sia un male, poiché cresce il costo dei capitali per gli industriali, i commercianti, gli agricoltori che hanno bisogno di ottenere a mutuo capitali per le loro imprese; ma non bisogna neppure dimenticare che è un male, il quale guarisce se stesso, poiché eccita gli uomini alla formazione di nuovo risparmio e quindi, in un periodo più o meno lungo di tempo, conduce ad un nuovo ribasso del tasso dell’interesse.

 

 

Se non è bene esagerare le distruzioni di ricchezze provocate dalla guerra, è doveroso non scemarne, oltre verità, il peso, in ossequio ad un ottimismo ingiustificato. Guardare in faccia alla realtà è da uomini forti, ai quali soltanto arride il successo. Ed in realtà la guerra distrugge enormi masse di capitali. Eccone un elenco, certamente incompiuto:

 

 

  • a) distruzione di case private, edifici pubblici, fabbricati industriali, guasti alle culture, perdita dei raccolti agricoli e di prodotti industriali nelle zone di guerra;
  • b) perdita di tempo impiegato dal capitale e dal lavoro nel produrre munizioni ed altre provviste di guerra, limitatamente però al tempo che si sarebbe potuto impiegare nella fabbricazione di macchine o nella esecuzione di impianti, edilizi, agricoli, industriali utili alla produzione futura.

 

 

Il punto merita di essere chiarito. Suppongasi che il capitale ed il lavoro di una nazione fossero indirizzati, prima della guerra, a produrre 9 miliardi annui di beni di consumo immediato dei privati, 1 miliardo di beni risparmiati, sotto forma di macchine, piantagioni, impianti, allo scopo di crescere la produzione futura e 2 miliardi di beni di consumo immediato dei soldati, ufficiali, magistrati ed impiegati dello Stato. Scoppiata la guerra, la distribuzione del capitale e del lavoro del paese viene mutata così:

 

 

  Prima Durante
Produzione di beni di consumo immediato dei privati 9 7
Produzione di beni risparmiato per impiego privato 1 0,2
Produzione di beni pubblici 2 3,5

Totale

12 11

 

 

Il totale della produzione annua è diminuito, dovendosi tener conto della minore quantità di braccia e di intelligenze utilizzabili; ma non di troppo, poiché il lavoro delle donne, ragazzi, vecchi ed oziosi è meglio utilizzato di prima. Crescono i prezzi delle munizioni e delle provviste di guerra e cresce la convenienza di produrli a scapito delle altre due categorie di beni. Quale sarà la perdita effettiva del paese? Molto si potrebbe discutere in proposito; ma a non volersi arrampicare sugli specchi, sembra si possa affermare che nessun sostanziale danno subisce il paese per il fatto che si produssero solo 7 miliardi invece di 9 in beni di consumo immediato dei privati. Si produssero 2 miliardi di meno; ma si consumò altrettanto di meno. Alla fine dell’anno gli uomini e le donne si accorsero di avere consumato forse una quantità minore di cibi, o di essere ritornati ad alimenti più grossolani, di aver fatto durare scarpe e vestiti di più, di non essersi divertiti come prima, di aver consumato minor copia di bevande alcooliche; ecc. ecc. E che perciò? Si trovano forse peggio gli uomini in conseguenza di questi sacrifici materiali? Io dico che essi sono migliori di prima, perché hanno appreso a vivere più parcamente, perché essi hanno compreso che molti beni, a cui essi prima erano attaccatissimi, non hanno importanza, e che invece hanno gran peso i beni ideali, per la cui consecuzione essi si sono mossi in guerra. Essi in sostanza sono più ricchi di prima, ove almeno si ammetta che la ricchezza si accompagni alla sobrietà, allo spirito di sacrificio, al desiderio di risparmiare, alla subordinazione dei godimenti materiali ai fini ideali della vita.

 

 

Certamente non tutte le guerre partoriscono questi benefici risultati: non le guerre coloniali, non le guerre di conquista su popoli riluttanti, non le guerre di difesa combattute malamente da un popolo dall’animo schiavo e desideroso del bastone di un dominatore.

 

 

Ma le guerre di difesa e di integrazione nazionale, le guerre combattute per un alto e nobile ideale non possono produrre danni economici duraturi: bensì privazioni momentanee, sopportate con letizia dagli uomini, privazioni le quali perciò è stravagante descrivere come perdite economiche.

 

 

Forse l’unica perdita reale registrata dallo schema è il ribasso da 1 a 0,2 miliardi della produzione di beni risparmiati per impiego nelle imprese private. Durante la guerra si producono meno macchine, si fanno meno lavori di impianto, si trascurano le nuove piantagioni, si costruiscono meno strade e ferrovie. Tutte le energie sono indirizzate all’opera grande della difesa nazionale. Domani, ritornata la pace, dovremo lavorare con capitali tecnici meno perfetti e meno abbondanti. Questo è un danno reale, innegabile;

 

 

  • c) perdite di risparmi passati, già investiti e che dovettero essere alienati o disinvestiti per provvedere alle spese della guerra.

 

 

Questa è forse, per i paesi il cui territorio non dovette subire direttamente la irruzione nemica, la perdita più grave. Degli 80 miliardi di ricchezza nazionale, 10 erano investiti sotto forma di capitale circolante delle industrie e dei commerci. A causa della restrizione naturalmente verificatasi durante la guerra nella attività delle industrie e dei commerci intesi a provvedere al soddisfacimento di consumi secondari o di lusso, tre miliardi su 10 rimangono inutilizzati. I loro possessori, per non lasciarli inoperosi, li mutuano allo Stato, il quale li consuma per la condotta della guerra. Finita la guerra, gli industriali ed i commercianti hanno dei titoli di Stato, che non servono direttamente come capitale circolante delle imprese economiche. Per riavere questo, essi debbono vendere i titoli, il che non può accadere in sostanza se non si forma un nuovo risparmio, capace di assorbirli.

 

 

Non solo non si sono prodotti, durante la guerra, 800 sui 1000 milioni di nuovo risparmio, che si usava dedicare agli impianti nuovi economici, ma si sono distrutti 3 miliardi di vecchio risparmio, che la guerra rese momentaneamente disponibili e che dovranno in seguito essere reintegrati.

 

 

Né basta. Può darsi che, per condurre a buon termine la guerra, il paese debba trasformare in denaro contante una parte altresì dei risparmi già stabilmente investiti sotto forma di terreni, di case o di impianti industriali. Se la trasformazione, per l’ammontare, ad es., di 2 miliardi, accade vendendo od ipotecando i terreni e le case a risparmiatori «nazionali», non occorre tenerne conto, perché essa fu già calcolata quando si disse che la guerra assorbiva il risparmio nuovo e parte del vecchio disinvestito e reso disponibile; non potendo da nessun’altra fonte nazionale provenire il denaro necessario all’acquisto od ai mutui ora detti.

 

 

Ma può darsi che – non esistendo altro risparmio nazionale disponibile, nuovo o vecchio atto al disinvestimento – la vendita o l’ipoteca dei risparmi già investiti si compiano a favore di risparmiatori «stranieri», il che può avvenire assai semplicemente grazie ad un prestito contratto all’estero dal governo. In tal caso, alla fine della guerra, la ricchezza del paese sarà ridotta di 3 miliardi per risparmi vecchi disinvestiti provvisoriamente e distrutti, 2 miliardi per risparmi pure vecchi, trasformati mercé un debito coll’estero ed 800 milioni per nuovo risparmio mancato; ed in tutto si avrà una perdita di 5,8 miliardi di lire.

 

 

La perdita è certamente grave. Ma si sapeva di doverla sopportare e ci si sottomise volentieri, avendo l’animo deliberato a conseguire un fine di maggiore importanza. Né conviene del resto esagerarne il peso. L’effetto di questa perdita sarà che gli uomini dovranno, per alquanti anni, condurre una vita più dura, produrre di meno per la mancanza di strumenti tecnici bastevoli, lavorare di più e consumare di meno. Vi è una certa probabilità che, se la guerra si fece per un motivo elevato essa risvegli nell’uomo sentimenti atti a fargli sembrare meno doloroso il sacrificio della maggior fatica e dei minori godimenti immediati. Il rialzo del tasso dell’interesse dal canto suo faciliterà l’opera necessaria di rinuncia, agevolando la produzione di maggiore risparmio negli anni seguenti di pace.

 

 

Chi, nell’anno della guerra ha rinunciato a 2 miliardi di consumi immediati, pur di superare la grande prova, seguiterà a rinunciare ad 1 miliardo negli anni seguenti, pur di ricostruire i risparmi vecchi distrutti e di riparare al tempo perduto nella formazione dei risparmi nuovi destinati ad imprese private; sicché al regresso ed alla momentanea sosta in non lungo volger d’anni si sarà posto rimedio;

 

 

  • d) perdite derivanti dagli attriti di transizione dal periodo di basso saggio al periodo di alto saggio d’interesse. È irrilevante che un podere valga 7.000 invece di 10.000 lire, quando, ritornata la pace e durata questa a lungo, il tasso di interesse siasi ridotto nuovamente al 3½ per cento.

 

 

Il mutamento dei nomi numerici del podere sarà passato sulla testa del proprietario e dei suoi eredi, senza lasciare su di essi alcuna traccia sostanziale. Ma se: 1) il proprietario era indebitato per 5.000 lire; 2) il mutuo scadde nel momento in cui i valori capitali erano bassi; 3) il creditore pretese il rimborso della somma mutuata alla scadenza; e 4) il debitore non aveva apparecchiato i mezzi per il rimborso; accadrà che il debitore dovrà vendere il fondo al prezzo di 7.000 lire e, pagato il debito in lire 5.000, rimarrà con assai meno della metà del valore del podere.

 

 

Prima della guerra egli aveva un podere del reddito netto di 350 lire e del valor capitale di 10.000 lire, gravato di un’ipoteca di 5.000 lire. Ove egli avesse venduto il fondo e pagato il debito, gli sarebbe rimasto 5.000 lire di capitale e 175 lire di reddito. Dopo la guerra egli rimase, dicemmo, con 2.000 lire di capitale che, al 5%, gli fruttano 100 lire all’anno. La perdita è effettiva non solo nel «nome» dato al suo capitale, ma nella massa di ricchezza disponibile annualmente a titolo di reddito.

 

 

Se ben si guarda, però, il danno del proprietario deve essere attribuito non alla guerra sibbene ad errori da lui commessi: 1) l’avere stipulato una scadenza certa al mutuo, la quale per accidente cadde nel punto di massimo deprezzamento. Poteva egli contrarre un mutuo ammortizzabile in un lungo periodo di tempo con gli istituti di credito fondiario; ed avrebbe evitato la scadenza in una volta sola ed in un momento per lui sfavorevole; 2) l’aver trascurato di risparmiare, durante la mora la somma occorrente al rimborso di una parte almeno del mutuo. Se egli avesse risparmiato almeno 1.500 lire, il mutuo, col vecchio mutuante o con un altro capitalista, si sarebbe ridotto a L. 3.500, ossia di nuovo alla metà del mutato valore del fondo (L. 7.000); ed il proprietario avrebbe potuto sormontare il periodo difficile, in attesa di un futuro aumento dei valori capitali. La guerra non è responsabile della scarsa previdenza degli uomini; i quali, in avvenire penseranno a premunirsi meglio contro il rischio del suo verificarsi.

 

 

In conclusione, le perdite nella ricchezza nazionale o sono reali e consistono nella effettiva distruzione di beni sul teatro della guerra e nella distruzione di risparmi vecchi o nuovi destinati alla produzione o sono di valutazione ed in gran parte sono prive di effetti reali pel benessere degli uomini e solo fanno diminuire di peso i simboli numerici che gli uomini si compiacciono di attribuire alle cose di loro proprietà.

 

 

Fuori delle distruzioni effettive di beni materiali sul teatro della battaglia e di risparmi passati e presenti, un solo grave e non immaginario danno economico produce la guerra: e sono le perturbazioni economiche derivanti dalle grosse emissioni di biglietti a corso forzoso, a cui i governi possono essere tratti per provvedere alle spese della condotta della guerra. Sono notissimi i danni cagionati dallo svilimento della carta moneta: perturbazione nei rapporti fra debitori e creditori, arricchimento delle classi imprenditrici a danno delle classi di impiegati ed operai salariati, aumento dei rischi del commercio internazionale e quindi maggior costo delle provviste alimentari e difficoltà crescenti nelle esportazioni, rialzo nel tasso dell’interesse. L’aggio e sovratutto l’aggio oscillante è un vero flagello di Dio.

 

 

Quando però si siano fatte queste osservazioni, fa d’uopo, per chiarire la soluzione da adottare e la gravità effettiva del problema nel momento attuale, aggiungere:

 

 

  • 1) che i danni gravissimi dall’aggio oscillante devono essere sovratutto reputati incomportabili, quando piane ed agevoli siano le vie di provvedere altrimenti alla spesa pubblica. Un aggio del 2 o del 3 per cento all’epoca della guerra libica deve essere giudicato più severamente di un aggio del 10 od anche del 20 per cento nel momento odierno di guerra europea. Era facile allora evitare di mettere mano al torchio dei biglietti; ed erano da biasimarsi quei ministri del tesoro che nel 1911-1913 ricorrevano a piccoli espedienti di aumento della circolazione solo per raggiungere il fine «non pubblico» di evitare un prestito, il quale sarebbe riuscito splendidamente.

 

 

Se l’aggio allora aumentò di poco, quel «poco» era assai lacrimevole, essendo dovuto all’opera evitabile di uomini.

 

 

Oggi, invece, è impossibile non stampare biglietti per somme di qualche miliardo; e quindi nessun biasimo può rivolgersi agli uomini che si appigliano ad uno spediente necessario, anche se da questo spediente fosse per derivare un aggio dieci volte maggiore di quello che si vide all’epoca della guerra libica;

 

 

  • 2) affinché l’azione necessaria vada immune da ogni biasimo, occorre in primo luogo che si stampino biglietti esclusivamente per fini pubblici, come sono la condotta della guerra ed il regolare funzionamento del meccanismo economico. È strano che, fra coloro i quali più inorridiscono pensando ai danni dell’aumento dell’aggio che la dichiarazione di guerra all’Austria dovrebbe produrre, vi siano taluni i quali a gran voce richiesero aumenti di circolazione nell’agosto e nel settembre scorsi per fini secondari e trascurabili. Uomini, che in Parlamento godevano fama di perizia nelle cose monetarie, si lasciarono allora trascinare dalla febbre universale sino a chiedere emissioni cospicue «per salvare la vendemmia»; ed ai loro disperati appelli altri fece eco in pubbliche grottesche lettere, divulgate sui giornali a dimostrazione dell’analfabetismo economico di certa classe politica nostrana.

 

 

La vendemmia fu egregiamente salvata dai viticultori, senza l’aiuto dei nuovi biglietti; e l’esperienza fatta persuase alcuno di quegli egregi uomini a contentarsi di quelle sole emissioni che siano imposte dalla necessità di Stato. Aumenti di circolazione per salvare ieri i vendemmiatori, l’altro ieri i siderurgici ed i cotonieri e tempo addietro gli speculatori edilizi di Roma e di Torino, no; ma aumenti per provvedere alle spese di una guerra ritenuta necessaria per la salvezza d’Italia, ma aumenti o, meglio, offerte di aumenti per evitare un panico bancario od industriale demoralizzante nel momento della dichiarazione di guerra, sì. Questa, dopo qualche momento di incertezza, è oramai dottrina pacifica anche in Italia, ed è conforme ai più antichi e tradizionali insegnamenti della scienza economica. Se i viticultori, in conseguenza della guerra, debbono vendere le uve a buon mercato, peggio per loro; non è questa una buona ragione per recare al paese il gravissimo danno di un aumento dell’aggio. Ma se, per fare una guerra necessaria, si devono stampare molti biglietti, si stampino; poiché sarebbe prudenza delittuosa rinunciare alla integrazione nazionale nostra per evitare il danno, anche gravissimo, dell’aggio. Là si paragonano due danni economici, di cui il primo (perdite dei viticultori) è indubbiamente minore del secondo (aumento, sia pur piccolo, dell’aggio); qui si mette a confronto un beneficio morale e nazionale incommensurabile (integrazione nazionale e conquista delle porte d’Italia) con un danno grave (aggio) ed è chiaro come il danno debba essere considerato calante in confronto al beneficio;

 

 

  • 3) ed occorre in secondo luogo che le emissioni di moneta cartacea siano coordinate alle emissioni di prestiti all’interno, così che le prime siano un mezzo preparatorio delle seconde.

 

 

Altrove (Di alcuni aspetti economici della guerra europea, in «Riforma Sociale», novembre-dicembre del 1914) ho spiegato il meccanismo, tipo tedesco, delle emissioni di biglietti coordinate e preparatorie a prestiti futuri; qui basti avvertire come una emissione di biglietti, anche abbondante, ispirata a questi criteri, è probabile non abbia tempo ad esercitare una sensibile influenza al rialzo sull’aggio. L’ondata al rialzo dei prezzi ha cominciato appena appena a propagarsi, che già, prima che si muti in mareggiata impetuosa, essa si spegne, perché i biglietti sono riportati allo Stato in pagamento delle rate del prestito;

 

 

  • 4) del reato l’aggio alto è dannoso, ma non quanto l’aggio oscillante.

 

 

Finché l’equilibrio non si sia compiutamente ristabilito, è dannoso che la moneta di carta sia svilita del 10 o del 20 per cento. Innanzi che i rapporti di dare e di avere tra i cittadini si siano raggiustati sulla base del nuovo tipo monetario svilito, occorre del tempo; e durante l’intervallo, molti dannosi trasferimenti e distruzioni di ricchezza si possono verificare. Ma i danni sono maggiori quando l’aggio oscilla, e capricciosamente va dall’1 al 10 e poi ritorna al 5 e poi ribalza al 20%, per ridiscendere e risalire ancora. Questo è il danno massimo, perché impedisce il raggiustamento dei rapporti, che alla lunga si farebbe in regime di aggio alto. Quando sia passato abbastanza tempi, diventa indifferente contrattare in moneta di carta svilita della metà od in oro.

 

 

I biglietti da 100 lire sono calcolati uguali a 50 lire di oro; e tutto finisce li. Non fa male a nessuno che i nomi numerici delle cose siano stabilmente diversi da quelli di prima. I guai nascono e si perpetuano quando i biglietti da 100 lire un po’ valgano 90 e poi 80 e poi 95 e poi 70 ed ancora 50, 80, 60, ecc. ecc. Nessuno può fare bene i suoi calcoli, i traffici si arrestano, il capitale si arresta impaurito ed i malanni delle crisi industriali e delle disoccupazioni operaie diventano acutissimi.

 

 

Ad evitare le oscillazioni dell’aggio, giovano, in tempo di pace, e nei paesi dove non esiste il cambio illimitato a vista in oro, molti spedienti, di cui forse i più interessanti sono il metodo indiano di vendere sterline in cambio di rupie ad un cambio non superiore ad un determinato punto, e quello greco di accettare presso gli Istituti di emissione depositi in conto corrente in oro e di accettare tratte sull’estero stilate in oro. Forse, però, non sembra opportuno iniziare proprio in tempo di guerra l’applicazione del primo metodo, sul quale dovrà, al ritorno della pace, concentrarsi l’attenzione dei competenti; né è lecito sperare molti risultati dal secondo sistema, sebbene la possibilità di aprire conti correnti in oro presso la Banca d’Italia gioverebbe immediatamente a crescere, in misura forse superiore alle aspettative, le riserve auree degli istituti di emissione ed a stabilizzare i cambi. Ma più gioverà un prestito estero, a cui il momento politico è favorevolissimo; essendo l’Italia entrata in lega con l’Inghilterra, la quale può aprirci un credito uguale all’ammontare delle spese che dovremo fare all’estero per gli approvvigionamenti militari e per quella parte delle importazioni, la quale non possa essere coperta dalle nostre esportazioni.

 

 

Il prestito estero gioverà sia perché per altrettanta cifra si potrà fare a meno di emettere biglietti, sia perché il governo avrà disponibili cospicue somme di divisa estera con le quali potrà impedire le oscillazioni dell’aggio. Suppongasi che il debito dell’Italia per acquisti fatti all’estero salga, durante la guerra, a 500 milioni al mese, e che i crediti, per esportazioni ed altre fonti di rimesse, giungano a 250 milioni di lire mensili. Basterebbe che l’Inghilterra ci aprisse un credito di 250 milioni di lire mensili, perché il governo potesse fare tutti i suoi pagamenti all’estero, spiccando tratte sulle aperture di credito esistenti a suo favore presso le banche di Londra e di New York e la Banca d’Italia potesse vendere tratte sull’estero ai privati bisognosi di fare pagamenti. La bilancia commerciale si salderebbe perfettamente, senza uopo di far passare neppure una lira d’oro dall’Inghilterra all’Italia e viceversa. E gli istituti di emissione avrebbero modo, intensificando o rallentando le vendite di divisa estera, di esercitare una influenza moderatrice sui cambi si da impedire le loro brusche oscillazioni. Siccome è probabile che dai dirigenti appunto si pensi ad una azione di questo genere, noi dobbiamo soltanto augurarci che, grazie ai loro sforzi patriottici, il cambio oscilli moderatamente.

 

 

Provveduto così, con un prestito interno, ad evitare un aumento eccessivo della circolazione, e con un prestito estero a scemare le oscillazioni dell’aggio, il residuo aumento della circolazione, col seguente rinvilio della carta moneta, sarà ancora un flagello di Dio; ma lo tollereremo pensando che esso era inevitabile. E, tornata la pace, io mi auguro che tutti siano unanimi nel proporre e difendere quegli altri prestiti interni ed esteri che bastino a ritirare i biglietti sovvrabbondanti ed a far scomparire definitivamente il corso forzoso. Anche se li contrarremo ad un interesse in apparenza elevatissimo, quei prestiti saranno sempre meno pericolosi e costosi della continuazione dell’aggio!

 

 

Non si creda però che io abbia voluto sminuire l’importanza delle svalutazioni di capitali e giustificare le emissioni abbondanti di carta-moneta allo scopo di dare un’idea ottimista e perciò erronea del costo della guerra, si da far ritenere il costo minore dei benefici che dalla guerra possono derivare. Questo non può essere l’atteggiamento degli studiosi dei fatti economici. Ad essi ripugna ingrossare, senza ragione, le perdite derivanti dalla guerra allo scopo artificioso di dipingerla con colori più lugubri del necessario; e ripugna altresì che si vogliano riprovare quei mezzi finanziarii di condotta della guerra nel solo caso in cui essi sono accettabili, perché necessari, da quelli stessi che erano disposti a consigliarli per raggiungere scopi tutt’affatto secondari, a cui si poteva arrivare per strade assai meno pericolose.

 

 

Ma nulla è più alieno della mentalità economica quanto voler considerare ottimisticamente la guerra come una operazione conveniente e consigliabile dal punto di vista economico. La ripugnanza degli economisti a questo modo di considerare le guerre è antica, radicata ed invincibile.

 

 

Mi si consenta di citare di nuovo un brano classico di Adamo Smith, che ricordai subito dopo iniziata la guerra libica[2] nel quale è scolpita con pochi tratti superbi la concezione bellica da cui gli economisti con tutte le forze dell’animo loro aborrono:

 

 

«Facendo un prestito i governi sono messi in grado, mercé un moderatissimo aumento di imposte [il bastevole per pagare gli interessi del prestito] di ottenere da un momento all’altro i fondi necessari per la condotta della guerra; e col metodo dei debiti perpetui [per cui si paga il solo interesse e non si deve pensare all’ammortamento] sono messi in grado col più piccolo possibile aumento di imposte di ottenere ogni anno la più forte somma possibile di denaro. Nei grandi imperi, la popolazione che vive nella capitale e nelle province remote dalla scena dell’azione, non risente per lo più quasi nessuno degli inconvenienti della guerra; ma gode con tutto suo comodo il divertimento di leggere sui giornali i fasti delle flotte e degli eserciti. Per essi questo divertimento compensa la piccola differenza fra le imposte che pagano per causa della guerra e quelle che sono soliti a pagare in tempo di pace. Essi sono di solito malcontenti al ritorno della pace, la quale mette fine a questi divertimenti ed a migliaia di speranze visionarie di conquiste e di gloria nazionale, derivante da una più lunga continuazione della guerra». (A. Smith, Wealth of Nations, libro V, capo III).

 

 

Questa è la guerra brutta, che gli economisti odiano: la guerra facile, la guerra illusoria. È una guerra, la quale si inizia colla descrizione delle ricchezze che si potranno largamente raccogliere nella terra promessa, dei commerci lucrosi che si potranno attivare, della facilità della impresa, del suo carattere di passeggiata militare, delle poche spese che si dovranno sopportare per il raggiungimento dello scopo. È una guerra che si conduce sotto l’egida della formula finanziaria deleteria né debiti né imposte. I frutti suoi non possono non aver sapore di tosco. Poiché è impossibile che una conquista, anche di terre fecondissime, sia nei tempi moderni d’un tratto remuneratrice per i conquistatori, poiché sempre accade che le spese di conquista siano erogate a fondo perduto e la colonizzazione economica richieda cospicui investimenti di capitali fruttiferi solo a lunga scadenza, alle promesse di subiti arricchimenti seguono fatalmente le disillusioni e lo scoramento. Le conquiste che si erano desiderate per ragioni di lucro economico, quando sono ottenute a gran costo, appaiono non più desiderabili; ed anche i volonterosi, temendo il peggio, si allontanano da quelle terre che tuttavia avrebbero potuto a lunga scadenza essere fecondi di vantaggi economici alla madrepatria.

 

 

Ad evitare questi effetti dannosi, subito scoppiata la guerra libica, mi sforzai, nell’articolo sopra citato, di dimostrare le seguenti proposizioni: 1) essere una illusione credere che la Tripolitania potesse essere feconda di guadagni, se non lontani ed indiretti, alla madrepatria; 2) essere parimenti necessario bandire ogni idea di lucro per lo Stato; 3) essere necessario inoltre di limitare e di abolire i possibili lucri gratuiti e privilegiati di particolari gruppi di cittadini italiani; 4) essere, invece, una realtà da affrontare consapevolmente e serenamente, i sacrifici economici che la colonia avrebbe imposto all’Italia; 5) essere bene auspicanti gli sforzi fino allora fatti per la conquista commerciale della Libia, ma purtroppo piccolissima cosa in confronto col tanto di più che ci rimaneva da fare.

 

 

Questi concetti che nell’ottobre-novembre 1911 contrastavano con l’opinione dominante in Italia, sebbene fossero la logica conseguenza delle esperienze del passato e delle teorie economiche in materia di colonizzazione, mi sembra siano ormai penetrati nella coscienza della parte migliore e pensante degli italiani. E sebbene ancora si notino delle deviazioni da questa maniera di concepire la colonizzazione[3] ritengo che vada crescendo in Italia il numero di coloro i quali sono persuasi della verità di quanto allora scrivevo:

 

 

«L’opera nostra di civiltà nella Libia sarà tanto più alta, nobile e feconda, quanto meno noi ci riprometteremo di trarne vantaggi immediati e diretti e quanto più saremo consapevoli di dovere sopportare dei costi senza compensi materiali. Il compenso nostro deve essere tutto morale; deve consistere nel compiere il nostro dovere di suscitatori di energie nascoste di popoli primitivi e di apparecchiatori della grandezza politica, se non della ricchezza, dei nostri nepoti. I popoli grandi sono quelli che, consapevoli, si sacrificano per le generazioni venture».

 

 

Uno degli aspetti più confortanti della nostra presente guerra nazionale è l’assenza negli scrittori, nei propagandisti, nei giornali, nel governo e nel popolo di qualsiasi illusione di guerra facile, di guerra redditizia, di guerra breve e poco costosa. Durante i dieci mesi di neutralità, gli italiani hanno avuto campo di farsi una convinzione meditata anche intorno all’aspetto economico della guerra. Essi hanno studiato assai seriamente, senza leggerezza di spirito e senza iattanza, il problema ed anno concluso:

 

 

  • 1) che la guerra sarà lunga e costosa. Fra ricchezze materiali distrutte, risparmi non fatti e rinuncie a godimenti presenti, il sacrificio da sopportare sarà grave. Sarebbe arbitrario indicare qualsiasi cifra; ma tutti sappiamo che non a parecchie centinaia di milioni ma a parecchi miliardi giungerà il valore del sacrificio che noi dovremo sopportare. La previsione è nota a tutti; ed in base a quella previsione ci siamo decisi;
  • 2) che, finita la guerra, le imposte dovranno essere notevolmente aumentate per far fronte alle sue conseguenze finanziarie. Anche qui è ignota la cifra; ma è ben certo che l’aumento delle imposte non si limiterà a poche decine, ma salirà a parecchie centinaia di milioni di lire all’anno. Anche questo sappiamo;
  • 3) che il peso delle nuove imposte dovrà massimamente cadere sulle classi medie ed alte. Sarebbe impossibile aumentare le imposte sui consumi necessari, e difficilissimo crescere le aliquote generali delle imposte sui redditi. Dovranno escogitarsi imposte, le quali colpiscano consumi voluttuari o gravino sui redditi superiori al minimo necessario all’esistenza. Anche questa è una conclusione pacifica;
  • 4) che scarso compenso diretto finanziario potremo riprometterci dall’annessione delle terre italiane soggette all’Austria. I partigiani della neutralità ci hanno descritto a troppo vivi colori la povertà del Trentino e la rovina economica incombente su Trieste a causa del distacco dal suo entroterra slavo e tedesco, perché alcun italiano abbia potuto conservare eccessive illusioni intorno alla possibilità di ricavare un provento netto fiscale alla annessione di quelle terre. Anche coloro che non sono così scettici intorno alle ricchezze di quei paesi e credono si possa conservare a Trieste il suo odierno splendore, pensano che l’Italia ingrandita dovrà risolvere tali problemi politici, militari ed economici, dovrà in tal modo intensificare la sua azione interna ed estera, che il contributo finanziario delle terre irredente sarà di gran lunga assorbito di nuovi ed allargati compiti dello Stato, senza che nulla rimanga disponibile per coprire l’onere delle imposte nuove rese necessarie dalla guerra.

 

 

Anche questa è, se non una convinzione ragionata, una impressione diffusissima nel popolo italiano.

 

 

Il quale dunque sa che la guerra nazionale nostra non è una impresa economica redditizia in senso stretto; sa che il costo sarà elevatissimo ed i proventi finanziari diretti poco rilevanti. Malgrado ciò il popolo italiano si è deciso alla guerra.

 

 

A me sembra che questa decisione – maturata dopo 10 mesi di discussioni, durante le quali si videro e si toccarono con mano, grazie all’esperienza dei paesi belligeranti stranieri, sovratutto gli orrori ed i costi della guerra e fu facile persuadersi che i vantaggi economici diretti ed immediati di essa erano da relegarsi nel regno delle favole e delle immaginazioni, – sia stata quella sola che, anche economicamente, deve essere considerata corretta e logica. È noto invero che i calcoli economici si devono fare tenendo conto non solo del dare e dell’avere nel momento presente, ma anche di quelle partite di debito e di credito, le quali sorgono nei momenti futuri e precisamente in quel più lungo periodo di tempo, a cui si possono estendere gli effetti dell’atto oggi compiuto. Ed è noto come gli elementi più importanti del calcolo economico non siano quelli direttamente ed immediatamente visibili, che tutti sanno vedere e toccare con mano: ma quegli altri i quali rimangono nascosti sotto la superficie dei fenomeni apparenti, e che è appunto compito dell’indagatore mettere in luce. Ed è finalmente, per lo strettissimo vincolo di interdipendenza che lega i fatti economici a quelli politici, morali, intellettuali, religiosi, canone principalissimo di logica economica questo: che taluni effetti economici di grande rilevanza non siano la conseguenza immediata sibbene l’ultima e più lontana ripercussione dei risultati politici o morali o religiosi degli atti umani: sicché questi, a primo aspetto contrastanti colla convenienza economica, si chiariscono in seguito convenientissimi, quando si sia lasciato un tempo sufficiente allo svolgersi della catena complessa degli avvenimenti.

 

 

Queste verità non varrebbe la pena di ricordare, essendo esse l’abicì della scienza economica, la quale nelle opere di Marshall, Bohm Bawerk, Fisher, Pareto, Pigou, per citare alla rinfusa solo i nomi di taluni moderni economisti di varii paesi, ha fornito agli studiosi analisi finissime dei concetti di «tempi brevi e tempi lunghi» di «effetti apparenti ed effetti reali», di «interdipendenza dei fatti sociali e morali», ecc. Ma ricordarle non è inutile, se si pensa alla frequenza con la quale i laici, autori di scritture che vorrebbero essere economiche, rimproverano alla nostra scienza di ignorare tutto ciò che oltrepassa il calcolo diretto di convenienza puramente economica nel momento presente. Cotesti laici si creano un fantoccio comico di una scienza economica immaginaria, alla quale attribuiscono connotati grotteschi e fantastici; e poi si pigliano il gusto di esporre il fantoccio al ludibrio delle genti. Divertimento innocuo, che si potrebbe anche tollerare, se esso non servisse ai laici a persuadere le genti a commettere spropositi, decorati col nome di «concezioni vaste e nuove e geniali», di cui il fio sarà da esse medesime pagato e non dai loro consiglieri.

 

 

Quando si tenga conto di queste avvertenze, lunga è la serie dei benefici che si possono contrapporre all’impoverimento economico diretto gravissimo, in vita e in denari, che noi subiremo in conseguenza della guerra:

 

 

  • 1) il principale dei quali è il compimento dell’unità nazionale sino ai suoi confini naturali verso l’Austria. La sicurezza cresciuta del paese da aggressioni straniere non può alla lunga non esercitare un favorevole effetto sulla attività economica nostra. Chi non può sbarrare la porta di casa sua contro gli assalti dei malandrini, e corre il rischio di non godere dei frutti del proprio lavoro, non può attendere con lieto animo alla produzione. Così un paese, mal difeso da confini militarmente difficili, deve spendere energie e danari di gran lunga superiori a quelli che farebbero d’uopo qualora il confine fosse migliore. E quand’anche in avvenire la spesa non scemasse, essa sarebbe più redditizia; e la maggiore sicurezza si verbererebbe in una attività più coordinata e più salda delle altre energie, economiche e sociali, del paese;
  • 2) se, come è cosa certissima, l’esercito italiano darà prova di sapere vincere le asprezze e le difficoltà della guerra, un risultato morale importantissimo sarà ottenuto. La macchia che su di noi a torto incombeva da Adua e, più in là, da Lissa in poi, di gente che non ama battersi, sarà del tutto lavata; ed i risultati della stima che noi in tal modo avremo saputo guadagnare agli occhi del mondo non saranno piccoli. Si pensi a ciò che erano i serbi prima delle guerre balcaniche e della eroica lotta odierna contro l’Austria ed a ciò che sono oggi: da poco meno di briganti essi sono assurti alla grandezza di eroi e sono reputati tra i primi soldati d’Europa. Noi, che abbiamo milioni di nostri connazionali sparsi all’estero e continueremo ad inviare emigranti fuori dei confini della patria, noi abbiamo bisogno di essere stimati e rispettati. La stima vuol dire anche salari più alti, possibilità di farsi strada più facilmente tra i concorrenti e di conquistare posizioni direttive. Ma stima e rispetto si concedono a chi ha dimostrato qualità umane elevate: insofferenza verso l’oppressione, volontà di ottenere giustizia per se stessi (confini naturali) e di farla ottenere ad altri;
  • 3) non è invero un puro sentimentalismo quello che ci ha fatto impugnare le armi anche in difesa dei piccoli Stati, come la Serbia ed il Belgio, incapaci di difendersi da soli contro la strapotenza altrui. Chi irride a questi sentimentalismi, quegli non sa neppure essere un vero egoista.

 

 

Poiché l’egoismo vero non è quello che bada al tornaconto immediato e ritiene compiuta la giornata quando non si è stati direttamente danneggiati e si è ottenuto il massimo lucro presente, ma quello che bada alle conseguenze ultime del fatto odierno apparentemente innocuo. Tutti quelli che rifletterono un solo istante alle conseguenze necessarie della Serbia annessa o resa vassalla dell’Austria e del Belgio incorporato coll’Impero Germanico, videro che la nostra reale indipendenza, le nostre vere libertà erano strettamente collegate colla piena libertà ed indipendenza di quei due piccoli Stati.

 

 

Chi potrebbe ostacolare la formazione di una Unione europea centrale, dominata dalla Germania, nel giorno in cui la Germania da un lato potesse impedire ogni opposizione anglo francese e l’Austria dall’altro potesse dominare i Balcani ed, attraverso ad esse, estendere il dominio germanico sino all’Asia minore ed alla Persia? Potremmo in quel giorno ottenere in dono la Tunisia e magari anche l’Egitto; saremmo pur sempre uno Stato effettivamente vassallo, una stella vivente di luce riflessa nella grande costellazione del redivivo Sacro Romano Impero di nazione germanica. Chi creda sia un sentimentalismo vano preoccuparsi se l’Italia abbia ad essere una nazione libera, vivente di vita sua propria e collaborante con gli altri paesi, anche germanici, all’opera comune di civiltà, quegli riterrà denari spesi invano quelli di una guerra condotta anche per tutelare la libertà del Belgio e della Serbia. Quegli invece che freme di vergogna al solo pensiero di un paese intento unicamente ad aumentare i suoi beni materiali e contento di vivere all’ombra di un qualche grande Stato mondiale, colui riterrà lievi i sacrifici sopportati per la difesa dei piccoli Stati e compensati largamente dalla preservazione della indipendenza effettiva sua propria;

 

 

  • 4) Né è un puro sentimentalismo lottare affinché prevalgano nel mondo gli ideali di nazionalità, a cui dobbiamo la nostra unità italiana. In un’epoca nella quale si parlava quasi soltanto di imperialismi, in cui sembrava che l’avvenire fosse riservato ai popoli conquistatori, in cui era ridivenuto di moda il motto: «il commercio segue la bandiera», noi asseriamo, colla nostra guerra contro l’Austria, voluta malgrado fosse di tanto più comodo e meno rischioso accettare le profferte degli antichi alleati, il valore supremo dell’imperativo categorico di non mancare all’appello dei fratelli trentini e triestini che vogliono venire con noi.

 

 

Le vecchie idealità della lingua, delle tradizioni storiche, della volontà sovratutto di unirsi alla famiglia italiana, le sante idee plebiscitarie del nostro risorgimento risorgono e dimostrano di non essere morte. Malgrado qualche vampata di entusiasmo imperialistico, gli italiani non hanno sentito la ragione per cui eravamo andati ad imbrogliarci in Libia con arabi e simili genti forastiere. Il ragionamento da farsi per persuadere un popolano della necessità storica di sottomettere un popolo straniero anche semicivile, è troppo complicato e difficile. Ma Trento e Trieste sono come Venezia e Milano, come Palermo e Messina. Ogni popolano si persuade subito che è una «ingiustizia» non averle con noi; ogni contadino, ogni montanaro, capisce essere intollerabile che le teste delle valli italiane siano in mano dei tedeschi, ogni marinaio vede che è un’onta che gli stranieri possano venire da porti italiani a bombardare coste italiane. Ognuno a casa sua, dicono il contadino, il popolano e il marinaio; e staremo in pace con tutti. E ragionano benissimo anche dal punto di vista economico; poiché, ripetasi, come si può lavorare col cuore tranquillo quando le porte di casa sono aperte ai nemici?

 

 

  • 5) Né è per ingordigia dei beni altrui che noi vogliamo togliere all’Austria il suo più gran porto, Trieste. Noi vogliamo Trieste, non perché essa sia uno dei maggiori porti del mondo, non perché essa possegga una flotta potente e traffici ricchi. La vogliamo perché i suoi abitanti sono italiani e perché essi vogliono unirsi a noi, prima che la loro nazionalità sia snaturata dalla marea slava, che in parte scende dalle montagne per ragioni naturali di inurbamento ed in parte vi è artificiosamente trapiantata dal governo austriaco per soffocare la nazionalità italiana. Per questo noi vogliamo Trieste, e non perché essa sia ricca. Anzi, noi siamo convinti di non avere alcun diritto ad ipotecare per noi i vantaggi della posizione e della potenza economica di Trieste.

 

 

L’Italia è il solo paese il quale, dominando a Trieste per ragioni etniche, possa offrire alle altre nazionalità il modo di giovarsi senza ostacolo dei vantaggi economici del suo porto. Se l’Italia, dopo averla conquistata, vorrà con servare Trieste, lo potrà fare soltanto a condizione di non volere sfruttare il porto di Trieste a vantaggio esclusivo degli italiani.

 

 

Angariare gli slavi ed i tedeschi, frastornare con dazi doganali e tariffe ferroviarie il traffico da Trieste verso le regioni rimaste all’Austria od assegnate alla nazione serbocroata sarebbe un suicidio per noi. Sarebbe la rovina del porto di Trieste. Per il traffico dell’entroterra veneto lombardo basta il porto di Venezia. Trieste vive come un punto di intermediazione fra i porti d’oltremare e l’entroterra slavo tedesco. Sopprimere questo traffico vorrebbe dire ridurre Trieste ad un porto di pescatori. Slavi e tedeschi non ce lo permetterebbero. Un programma di sfruttamento del porto di Trieste a pro dell’Italia ci apparecchierebbe nuove guerre a breve scadenza coi popoli vicini, che hanno bisogno del porto più settentrionale e più orientale dell’Adriatico.

 

 

Perciò a noi interessa conservare a Trieste la sua situazione di porto dell’entroterra slavo tedesco. Raggiungere tal fine, per quanto dipenda dall’opera nostra non è impossibile: basta considerare Trieste come un porto franco, ammettendo in franchigia tutte le merci destinate all’importazione ed all’esportazione per o dall’entroterra slavo tedesco.

 

 

Basta segnare ai tratti di ferrovia correnti fra Trieste ed il confine politico tariffe minime, di concorrenza e di penetrazione. Mancherà in tal caso agli slavi ed ai tedeschi l’interesse a lottare con noi per strapparci un possesso, di cui noi avremo dimostrato di non volere servirci ai loro danni e da cui anzi avremo loro consentito di trarre tutti quei vantaggi economici, i quali siano compatibili con la conservazione della sovranità e della nazionalità italiana.

 

 

Se noi sapremo fare una buona e sana politica economica, la gelosia degli slavi e dei tedeschi sarà la migliore nostra alleata. I tedeschi preferiranno noi e la nostra politica liberale al pericolo di una conquista slava, la quale sicuramente monopolizzerebbe il porto di Trieste a suo beneficio; ed altrettanto accadrebbe per gli slavi, più paurosi dei tedeschi che di noi. Certamente noi dovremo meritare il successo, usando moderazione e larghezza verso i popoli serbo croati e cercando di ridurre al minimo l’irredentismo serbo croato entro i nostri nuovi confini. Alla lunga la nostra moderazione nel pretendere subiti guadagni dal possesso del porto triestino, la nostra liberalità nell’ammettere slavi e tedeschi, a parità di condizione con gli italiani, a godere dei vantaggi del porto, saranno feconde di utili risultanze economiche anche per l’Italia. Slavi e tedeschi avranno interesse a frequentare il porto; ed i suoi progressi arricchiranno i triestini e cioè genti italiane; che al traffico slavo tedesco aggiungeranno nuovi e più vivaci rapporti con l’Italia, con loro e nostro grandissimo vantaggio. La più grande Italia erediterà tutta quella parte del traffico triestino che non ha origine nella intermediazione con l’entroterra, ma nello spirito di intraprendenza e di speculazione dei triestini: il lavoro di banca, di assicurazioni, di borsa delle merci diventerà un lavoro italiano.

 

 

Trieste continuerà ad arricchirsi e diventerà più ricca quindi anche l’Italia. Perché ciò accada, occorre principalmente che gli italiani di oggi non presumano di arricchirsi a spese d’altri.

 

 

La volontà di sacrificio e la rinuncia ai benefici immediati; ecco le caratteristiche fondamentali della guerra nostra; ed ecco le ragioni per cui essa non ha trovato contrasti ed anzi ha trovato l’assenso degli studiosi italiani di economia.

 

 

Costoro odiano sovratutto i ragionamenti sbagliati; ed una guerra fatta per ottenere vantaggi economici e commerciali diretti è sovratutto un ragionamento sbagliato. Non è possibile che l’Inghilterra abbia fatto una guerra commerciale perché i suoi pensatori sanno tutti ed i suoi uomini di Stato sanno ancora quasi tutti ragionar bene. Se vi furono alcuni in Germania, i quali si illusero di fare una guerra per conquistare il mondo alla espansione economica tedesca, ciò poté accadere solo perché due generazioni di economisti spregiatori delle teorie classiche avevano insegnato alla Germania colta a fare dei ragionamenti falsi. I Wagner e gli Schmoller sono, purtroppo, tra maggiori responsabili della guerra europea, forse più di Treitschke, di cui gli inglesi hanno dimenticato le pagine superbe, degne dei grandi storici della tradizione liberale classica, e certamente non sono meno responsabili del pangermanista generale von Bernhardi. Io sono convinto che nessuno in Italia prenderà invece sul serio le teorie di coloro, i quali reputano che una guerra possa essere intrapresa colla speranza di poter ottenere dei vantaggi economici diretti.

 

 

Una guerra può produrre, in un tempo molto lungo ed in un avvenire lontano, vantaggiosi risultati economici quando essa sia stata intrapresa da un popolo convinto di dover sacrificare sangue e denaro per raggiungere fini puramente ideali. La guerra cioè può diventare una operazione anche economicamente vantaggiosa solo quando si sappia che i suoi vantaggi economici presenti e diretti sono nulli e sono grandissimi invece i costi della sua condotta. Nella verità di questo paradosso sta la bellezza teorica della nostra presente guerra italiana. Noi sappiamo che la guerra renderà la vita della nostra generazione più dura; noi sappiamo che essa crescerà la fatica nostra e scemerà i nostri godimenti. Ma appunto questo volemmo, mossi dall’ideale di apparecchiare ai nostri figli ed ai nostri nepoti una condizione di vita più elevata e sicura.

 

 



[1] Principles of Economics, di Alfredo Marshall. (p. 22 della quinta edizione), di cui si citano le parole, come quelle del trattato principe inglese dell’epoca nostra, il più rappresentativo del pensiero economico in ciò che esso ha di permanente e di nuovo nel tempo stesso.

[2] In A proposito della Tripolitania, «Riforma sociale» dell’ottobre-novembre 1911, p. 637.

[3] Su una di queste deviazioni, e specialmente sul biasimevole sforzo, in parte riuscito, dei zuccherieri, fiammiferai ed industriali tessili di trarre immediatamente partito dalla conquista libica, discorsi nell’articolo Per l’avvenire d’Italia nella Libia, nel fascicolo di febbraio-marzo della «Riforma sociale» del 1915.

La conquista dei confini naturali dalla parte d’occidente ed i suoi insegnamenti

La conquista dei confini naturali dalla parte d’occidente ed i suoi insegnamenti

«Corriere della Sera», 31 maggio 1915

Gli ideali di un economista, Edizioni «La Voce», Firenze, 1921, pp. 265-273

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 770-776

 

 

Perché la repubblica di Venezia siasi per così lunghi anni rassegnata agli infelici suoi confini di terra con gli Stati eriditari d’Austria è problema storico, il quale meriterebbe di essere studiato. Forse, se la Serenissima avesse colto ogni propizia occasione per rettificare la sua frontiera; se essa fosse stata deliberata a lottare in terraferma con quella tenacia che l’aveva resa forte e potente sui mari, la unità d’Italia sarebbe stata compiuta da tempo. Confini giusti e saldi non si conseguono senza lotte aspre, combattute con animo virile e col proposito di rendere la vita più bella e sicura alle generazioni venture.

 

 

In questo momento, in cui l’Italia si accinge all’impresa di conquistare a se stessa i suoi confini naturali d’oriente, non è inutile ricordare come i padri nostri piemontesi abbiano conquistato, con guerre asprissime, alla nuova Italia un confine occidentale adatto ad assicurarci le spalle ed a far venir meno antiche, potentissime ragioni di dissidio con la vicina Francia, simiglianti a quelle che oggi ci traggono a guerra con l’Austria. Per lo più, al Piemonte viene data gloria, e meritata gloria, per l’opera sua di iniziatore delle guerre di indipendenza; dimenticando così che quest’opera non avrebbe neppure potuto essere concepita se con un lavoro tenace, durato un secolo e mezzo, i Principi di Casa Savoia ed i popoli piemontesi non avessero combattuto e sofferto ed armeggiato per assicurare a se stessi il confine naturale delle Alpi.

 

 

Oggi, a noi Piemontesi sembra naturale che il confine debba andare sino al culmine della catena alpina. Dimentichiamo che sino al 1601 il Re Cristianissimo di Francia protendeva i suoi domini bene al di qua delle Alpi col marchesato di Saluzzo, acquistato, non senza frode, nel 1548, il quale, con Carmagnola, giungeva a poche marce da Torino, minacciando la capitale medesima degli Stati piemontesi. Ciò che oggi è il saliente Tridentino per la pianura Padana e per Verona, era allora il marchesato di Saluzzo per l’alto Piemonte e per Trino. Carlo Emanuele I, assertore della libertà d’Italia contro Francia e Spagna, non ristò sinché questa spina, confitta nel cuore del Piemonte non fosse tolta; e vi riuscì, dopo guerre e negoziati lunghi, dopo avere, in campagne variabilmente fortunose, portato le sue armi nel Delfinato e nella Provenza, col trattato di Lione del 1601.

Cedette, è vero, due ampie provincie in Savoia, la Bressa e il Bugey, dando l’esempio ad altri cambi fortunati più vicini a noi; ma chiuse, o quasi, le porte d’Italia a quello per secoli fu il nemico ereditario del Piemonte.

 

 

Per poco; ché, alla fine della guerra di successione di Mantova e del Monferrato (1627/1631), il figlio suo Vittorio Amedeo I, di tanto a lui minore, dovette acconciarsi, pel trattato di Cherasco del 31 marzo 1631, ad aprire, anzi a spalancare un’altra porta agli eserciti di Francia, colla cessione di Pinerolo e della valle di Perosa. Acquistava, è vero, il Duca di Savoia Alba, Trino, Nizza della Paglia ed altre 74 terre del Monferrato, tolte ai due pretendenti alla successione mantovana, i Gonzaga ed il Duca di Nevers, vassallo quest’ultimo di Francia. Ma era un acquisto ottenuto a ben caro prezzo. Il lettore gitti uno sguardo su una carta del Piemonte e vegga quale specie di indipendenza rimanesse al nostro Stato di fronte ai prepotenti Re Cristianissimi. Pinerolo, subito fortificato da Francia, dominava Torino e teneva in soggezione i suoi reggitori. Per 65 anni dovettero i Savoia mordere il freno; ed era duro freno. Anticipando i metodi di Napoleone, il quale a Tilsit doveva imporre invano alla Prussia di non tenere in arme più di 40.000 uomini, Luigi XIV ordinava nel 1688 al Duca Vittorio Amedeo II di non tenere più di 2.000 uomini sotto le armi. Come poi i prussiani, Vittorio Amedeo II finge di obbedire; ma ricorre allo spediente di rinnovare ogni quattro mesi nell’anno i duemila uomini, sicché ne ha effettivamente seimila, di cui quattromila sempre, ma alternatamente, in congedo. Domenico Guerrini, lo storico della brigata dei Granatieri di Sardegna, nota a questo con punto con ragione come tutti conoscano e lodino l’esempio prussiano, mentre il nostro, più antico di 120 anni, è noto a pochissimi.

 

 

Così, il più grande dei sovrani della prima dinastia dei Savoia si preparava a riconquistare il dominio delle parte di casa sua; e le riconquistò cogliendo l’occasione della guerra del 1690/96, combattuta contro la strapotenza egemonica di Luigi XIV dalla maggior parte dei sovrani europei stretti nella Lega cosidetta d’Augusta dalla abilità di Guglielmo di Orange. Fu guerra terribile pel Piemonte; ma gli animi dei subalpini non potevano più a lungo sopportare l’insolenza del nemico accampato con 15.000 uomini, grosso esercito per quei tempi, a Pinerolo agli ordini di Catinat. Vittorio Amedeo II fa scrivere sulla bandiera di un reggimento valdese il motto: Patientia laesa fit furor; Louvois, inferocito, ordina al Catinat: Brûlez, brûlez bien leur pays. Sconfitto a Staffarda nel 1690, e poi di nuovo alla Marsiglia nel 1693, malgrado prodigi di valore, il Duca non si disamina e per sei anni continua a combattere con alterne vicende. I contadini piemontesi lo seguono fidenti; e quand’egli se li vede dintorno, laceri e smunti per la molta miseria cagionata dalla guerra, distribuisce tra di loro quanto denaro si trova indosso ed infine fa a pezzi e dona il ricco collare dell’Annunziata che gli pende dal collo.

 

 

Contro un sovrano ed un popolo siffatti, ostinati, rudi e parchi, non v’è forza umana che possa prevalere; e persino il Re Sole deve venire a patti e cedere, col trattato di Torino del 29 agosto 1696, confermato a Ryswick il 10 settembre 1967, Pinerolo e la Valle di Perosa.

 

 

Ma la liberazione dei confini occidentali d’Italia del dominio straniero non era ancora compiuta. Rimanevano in potere di Francia tre teste di valle, non unite storicamente ed amministrativamente al marchesato di Saluzzo ed al Pinerolese; ma da secoli, alcune da 360 anni, aggregate al Delfinato francese. Come oggi i tedeschi parlano di “Tirolo italiano”, così allora i francesi discorrevano del Delfinato italiano, il «Dauphiné aux eaux pendantes vers l’Italie» dei documenti francesi dei secoli XIV-XVII. Nella storia della formazione del confine occidentale d’Italia, il Delfinato italiano ha una importanza comparabile a quella odierna della Valle delle Giudicarie e di Cortina d’Ampezzo lungo l’attuale confine politico fra l’Italia e l’Austria. Malgrado la perdita successiva dei due grandi salienti di Saluzzo e di Pinerolo, il Re Cristianissimo conservava tre passaggi attraverso le Alpi, grazie ai quali le sue truppe potevano fare irruzione in Piemonte. Anche qui uno sguardo ad una carta dei confini d’Italia basta ad indicare il pericolo a cui erano esposti gli Stati sabaudi. A venti chilometri sopra Pinerolo, nella Valle del Chisone, al punto in cui la valle si chiude in una selvaggia gola, dominata dal Bec Dauphin, cominciavano le terre di Francia: Meana, Mentoulles, Fénestrelles, Pragelato, sino al colle di Sestrières. Subito dopo la perdita di Pinerolo, i francesi fortificarono Fénestrelles e di lì minacciavano uno degli sbocchi principali delle Alpi sulla pianura torinese.

 

 

Al di là del colle di Sestrières si apre un’altra vallata, quella della Dora Riparia. Tutta la sua testata, con Cesana, Bardonecchia, Oulx, Exilles, Salbertrand e Chaumont era parte del Delfinato italiano in potere di Francia. A pochi chilometri di distanza la fortezza di Exilles minacciava Susa e consentiva di muovere tranquillamente un altro esercito all’assalto della pianura piemontese.

 

 

Finalmente, di minor importanza ma neppure trascurabile, era in mano di Francia, la testa della Val Varaita, la quale sbocca nella pianura tra Cuneo e Saluzzo. Erano ivi in mano dei francesi i quattro comuni detti di Casteldelfino: Sant’Eusebio, Ponte Chianale, Chianale e Bellino.

 

 

Con un’altra guerra lunga e fortunosa, quella detta di successione spagnuola, durata dal 1701 al 1713 e gloriosa per l’assedio di Torino e l’eroismo di Pietro Micca, Vittorio Amedeo II conquista finalmente all’Italia i suoi confini naturali dalla parte d’occidente: il Delfinato aux eaux pendantes vers l’Italie diventa veramente italiano e la catena delle Alpi segna alfine i confini dello Stato piemontese.

 

 

Si può dire che, d’allora in poi – sono oramai passati due secoli – l’Italia non abbia più avuto contese per ragioni di confini con la sua vicina d’occidente. Le guerre rivoluzionarie e la conquista napoleonica ebbero altra origine; e la cessione di Savoia e Nizza fu volontaria, voluta per conseguire un più alto fine nazionale. Ma la tranquillità della quale ora si gode dalla parte del confine occidentale non è forse il frutto della tenacia veramente ferrigna con cui sei generazioni di Principi colsero ogni occasione e corsero i più gravi rischi, riducendosi talvolta alla più disperata guerra di partigiani, pur di riuscire nell’intento di cacciare lo straniero di là dalle Alpi? Se nel 1906, a distanza di due secoli, italiani e francesi concordi si affratellavano, a Torino, nel ricordo comune del valore dei loro antenati, non forse ciò era dovuto alla giusta causa combattuta dai Principi di Savoia, a cui i discendenti degli antichi nemici rendevano commovente omaggio?

 

 

Notisi che la conquista dei confini naturali d’Italia dalla parte occidentale non poté avvenire senza una qualche offesa al principio di nazionalità. Se il dialetto piemontese nel popolo e la lingua italiana nelle classi colte erano dominanti nella parte più ricca e bassa dei due salienti saluzzese e pinerolese, non così avveniva nella montagna e specialmente nel cosidetto Delfinato italiano. Ivi la parlata era indubbiamente francese; in francese si redigevano tutti gli atti pubblici; in francese avvenivano le discussioni e si scrivevano i verbali dei consigli delle comunità. Linguisticamente quelli erano territori francesi, come sarebbero francesi la Valle d’Aosta e le Valli Valdesi.

 

 

Anche qui il Piemonte e poi l’Italia videro giusto rispetto al metodo da tenere per la trasformazione nazionale di quelle popolazioni: e fu l’ossequio più largo al loro diritto di parlare, di scrivere e di insegnare in lingua francese. Il problema fu risoluto colla libertà. Come in Valle d’Aosta la parlata francese lentamente, ma naturalmente si va ritirando dallo sbocco della vallata, quasi presso Ivrea, ove due secoli or sono i verbali dei consigli comunali si redigevano ancora in francese, verso Aosta, per l’infiltrazione crescente di genti della pianura e per l’influenza della cultura italiana, così accadde nei comuni del Delfinato italiano. I monarchi sabaudi riconoscono e confermano i vecchi privilegi ed usi, a cui quei comuni erano attaccatissimi. Fra gli altri, l’uso ed il diritto di scrivere in lingua francese i verbali del consiglio comunale durano a Fénestrelles sino al 1871. Ed in quest’anno l’usanza muore, non per un ordine brutale del governo italiano, ma per spontaneo volere di popolo. Ciò che i prussiani non riuscirono ad ottenere colla forza nella Posnania dai polacchi, noi italiani avemmo colla libertà. Nella seduta del 21 marzo 1871 il consiglio comunale di Fénestrelles, divenuta oramai italianamente Fénestrelle, si pone il quesito se convenga continuare ad adottare, come lingua ufficiale, il francese, secondo la tradizione. E si delibera di sostituirla con l’italiano «qui est la langue de notre patrie».

 

 

Questo semplice e commovente trapasso dal francese all’italiano, come lingua ufficiale degli atti verbali di un comune di montagna è un trionfo dell’incivilimento concepito alla maniera nostrana; è un trionfo della persuasione spontanea e della nostra virtù di espansione. Io sono certo che se l’Italia racchiuderà nei suoi nuovi confini orientali qualche minoranza di lingua tedesca o slava, l’unico mezzo di assimilazione che noi porremo in opera sarà quello del rispetto alla lingua, alle tradizioni, agli usi ed agli interessi delle minoranze incluse nei confini del regno. È il metodo che a noi diede magnifici frutti verso il confine occidentale; ed è il solo il quale sia degno di una nazione, come l’italiana, nemica di ogni oppressione e di ogni persecuzione.

Il dovere del vivere sobrio

Il dovere del vivere sobrio

«Corriere della Sera», 28 maggio[1] e 6 settembre[2] 1915

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 192-202

 

 

I

Ora che la guerra è cominciata, diventa concreto il problema, che, già presente agli italiani, non ancora doveva essere risoluto senza indugio: come ci dobbiamo comportare nelle faccende ordinarie della nostra vita materiale ed economica?

 

 

Una formula ebbe grande voga in Inghilterra nei primi otto o nove mesi della guerra:

 

 

operate e vivete come se la guerra non fosse; attendete tranquillamente ai lavori vostri e continuate serenamente nel vostro genere ordinario di vita e di spese, senza preoccuparvi della guerra. In tal modo voi servirete il vostro paese; il quale ha d’uopo che il meccanismo della vita economica funzioni regolarmente e senza scosse, che la terra seguiti a fruttificare, che le industrie lavorino in pieno, che il traffico segua le sue vie, e che il popolo non sia malcontento per la disoccupazione.

 

 

L’esperienza dei primi nove mesi di guerra ha dimostrato che la formula, sebbene contenesse una parte di verità, non era compiuta e poteva diventare pericolosa. Nell’Inghilterra stessa, l’opinione pubblica ha dovuto persuadersi che la vita ordinaria della popolazione doveva mutare per adattarsi alle necessità urgenti e pressanti della guerra; e che un non piccolo coefficiente di vittoria stava appunto nella capacità del popolo di adattarsi alle mutate condizioni ed esigenze della vita in tempo di guerra.

 

 

Sì, fa d’uopo che ognuno, il quale non sia chiamato sotto le armi, continui a lavorare nel suo mestiere e nella sua professione; e questo è certo il miglior modo per servire il paese. Gli industriali, i commercianti, i professionisti, gli agricoltori che attenderanno con la consueta cura ai propri lavori e negozi, contribuiranno a far funzionare senza scosse il meccanismo della vita del paese; e daranno opera alla vittoria; meglio che non abbandonando il proprio mestiere ed offrendo la propria collaborazione a servizi bellici, od ausiliari, a cui possono essere disadatti.

 

 

Lavorare come prima tanto meglio si può, in quanto il governo, fin dal primo momento, ha veduto che importava dare opera a promuovere il proseguimento regolare della vita economica. Niente moratoria, la quale avrebbe perturbato grandemente gli affari e gettato il seme del dubbio e dell’incertezza; bensì larghe anticipazioni a banche ed a consorzi per consentire loro di effettuare rimborsi e di concedere prestiti su titoli e su merci. Rassicurati e fiduciosi, gli industriali, i commercianti e gli agricoltori, non debbono sostare neppure un giorno dalle consuete faccende e dai lavori ordinari.

 

 

Ma lavorare come prima non basta. Bisogna lavorare meglio e più di prima. In un momento in cui milioni di uomini robusti e giovani sono chiamati a difendere il paese, occorre che il vuoto lasciato dalla loro chiamata sotto le bandiere non sia avvertito. I comitati di preparazione che sono sorti in tante città e si stanno costituendo nelle campagne fanno e faranno opera benemerita se contribuiranno a far penetrare nella mente e nel cuore di tutti gli italiani il convincimento che ognuno deve lavorare meglio e più di prima. Ognuno stia al suo posto; ma dia opera con raddoppiato zelo al lavoro di tutti i giorni. Il contadino sappia che se, coll’aiuto delle donne, dei ragazzi, dei vecchi di casa sua, riuscirà, in assenza del figlio soldato, a portare in salvo il fieno e le messi, a curare le viti, ad allevare il bestiame, egli si sarà reso benemerito della patria. L’impiegato pensi che le pratiche d’ufficio debbono ora essere definite ancor più rapidamente di prima, sebbene parecchi suoi colleghi siano stati richiamati. Volendo, è sempre possibile far in modo che il lavoro sia sbrigato: si viene più presto in ufficio, si va via più tardi e non si pensa ad altro che al lavoro che deve essere fatto. Né si chiedano compensi per ore straordinarie. L’operaio sappia che il successo della nobile e dura impresa nazionale dipende anche dalla diligenza del suo lavoro, dall’essere egli pronto a sacrificare ogni svago, e talvolta a rinuncIare alla domenica, pur che il lavoro si faccia.

 

 

Lavorare come prima non sempre però è possibile. Vi sono industrie, di cui lo smercio diminuisce o cessa in tempo di guerra. Sono le industrie di lusso, quelle le quali lavorano per le cose non indispensabili all’esistenza. Sarebbe strano che lo stato, mentre deve rivolgere i suoi sforzi più intensi alla condotta della guerra, disperdesse i suoi mezzi finanziari nella medesima quantità, ad esempio, di lavori pubblici di prima. Gli operai e gli industriali addetti a questi lavori chieggano che sia fatto ogni sforzo affinché sia impedita la loro disoccupazione; ma si rassegnino a mutare genere e località di lavoro. I servizi ausiliari della guerra, le officine di armamento e di riparazione, le fabbriche di forniture militari avranno tali urgenze di lavoro che i disoccupati potranno facilmente trovar lavoro. Occorre che essi si adattino a compiere quei lavori che sono necessari e non si agitino per ottenere la prosecuzione di opere utilissime in tempo di pace, ma prorogabili in tempo di guerra. La guerra ha messo forzatamente in vacanze molti professori e ridurrà molto il lavoro dei professionisti. Già si sono costituiti comitati di questi «intellettuali» per avvisare ai mezzi di scrivere opuscoli, fogli volanti, di tenere letture e fare propaganda per innalzare il tono e lo spirito di sacrificio del paese. Molte cose utili si possono fare in questo campo, purché non si faccia della rettorica: spiegare ai soldati perché essi sono chiamati a combattere, quali sono le regole igieniche che devono osservare per non cadere vittime di malattie evitabili, organizzare invii di giornali e di libri ai soldati nelle trincee. L’esperienza fatta da ambe le parti nelle trincee di Francia e del Belgio ha dimostrato che i soldati sono avidissimi di letture e di quanto possa ricordare loro i parenti, gli amici ed i cittadini della patria per cui combattono.

 

 

Sì, fa d’uopo che ognuno continui a spendere quanto spendeva prima. Ma non come prima. Sarebbe un delitto verso la patria. Non forse la guerra ha dimostrato la necessità di sopprimere o di ridurre al minimo il consumo di bevande alcooliche? A tacer della Russia, che ha dato al mondo il magnifico esempio di un governo il quale rinuncia ad un’entrata netta di forse 1 miliardo e 800 milioni di lire, pur di sopprimere il flagello dell’alcoolismo; dappertutto, in Germania, in Francia, in Inghilterra i governi hanno fatto sforzi perseveranti per ridurre il consumo delle bevande alcooliche. E come delle bevande, così sarebbe necessario ridurre il consumo di tutto ciò che non è necessario per l’esistenza. Ognuno giudichi e valuti per conto suo le necessità della vita. Ma chi spendeva 100, rifletta che egli ha il dovere di ridurre la spesa, quando lo possa fare senza detrimento della sua salute fisica, a 90 ad 80 a 70 per consacrare il risparmio a spese pubbliche. La spesa più urgente che oggi ogni cittadino consapevole deve fare è quella dell’imposta. Pagare puntualmente le imposte dovute vuol dire soddisfare oggi ad una spesa altrettanto urgente come quella del pane o della minestra e certamente più urgente di quella da farsi per un vestito nuovo, od una scampagnata domenicale o per la villeggiatura. Chi può, rinunci quest’anno alla villeggiatura; e si dia dattorno per fare qualche cosa lungo i mesi estivi. Talvolta, il modo migliore di rendersi utile sarà di attendere alla sorveglianza dei lavori di campagna, quando fattori e contadini siano sotto le armi. In tal caso, quando la collaborazione agricola sia una cosa seria, anche la villeggiatura potrà moralmente essere spiegata. Altrimenti sarebbe una spesa deplorevole e dannosa.

 

 

Tutto il margine di risparmio ottenuto sulle spese sia dato allo stato. Le guerre costano; e costerà gravi sacrifici di uomini e di denari anche questa nostra guerra per la liberazione d’Italia. Un prestito sarà necessario per somma grandiosa. Tutti devono sottoscrivere, anche con piccole quote; e tutti devono fare ogni sforzo affinché nella spesa dell’anno entri l’acquisto di qualche cartella del nuovo prestito nazionale. Nel suo ultimo discorso sul bilancio, il signor Lloyd George disse che quest’anno gli inglesi devono risparmiare il doppio degli anni scorsi: 800 milioni di lire sterline invece di 400; 20 miliardi invece di 10 miliardi di lire italiane. Così dovrà avvenire, mutate le cifre, anche in Italia.

 

 

Resecate le altre spese; ma tenetevi pronti a dare allo stato quanto più potrete! è in gioco la ragione più alta della nostra vita, e della vita dei nostri figli e nepoti; ed in confronto a ciò, appaiono ben piccola cosa le rinunce a qualche godimento materiale od intellettuale!

 

 

Né si tema, così operando, di favorire la disoccupazione. Senza volere fare discussioni troppo precise e minute, è chiaro che tutto ciò che noi forniremo allo stato a titolo di imposta o di prestito convertirà immediatamente in domanda di merci e di prodotti utili all’esercito e quindi in domanda di lavoro. Dopo, ritorneremo a impiegare i nostri mezzi, gli uni nello spendere, gli altri nel migliorare terre o fabbricare case. Per ora, tutti gli italiani debbono rinunciare a qualunque altra meta che non sia la difesa della patria comune.

 

 

Così hanno fatto, è d’uopo dirlo anche ora, i tedeschi; e ciò ridonda a loro grande onore. Così dobbiamo fare pure noi, se vogliamo dimostrare al mondo che la nostra causa è giusta. Una meta così alta, come il compimento della unità d’Italia, non si tocca senza dolore e sacrificio. Affrontiamoli con cuore saldo e coi nervi tranquilli; e la meta sarà raggiunta. Se avremo fiducia in noi stessi, la battaglia sarà vinta; e sia fiducia senza jattanza, austera e piena.

 

 

II

 

Quanto più la guerra procede, tanto più cresce l’importanza della campagna a favore dell’economia iniziata dai più autorevoli giornali inglesi, fatta propria dal governo di quel paese, ed a cui anche in Italia si rivolge oggi il consenso crescente dell’opinione pubblica. Dall’osservanza della più rigida economia ha finora tratto gran giovamento sovratutto la Germania, la quale deve ad essa se ha sentito scarsamente gli effetti del blocco alimentare ordinato ai suoi danni dall’Inghilterra; il pane kappa, il razionamento della popolazione la campagna per utilizzare i rifiuti della cucina e della casa recarono notevole vantaggio alla resistenza economica tedesca contro gli alleati. E poiché le risorse economiche non sono inesauribili in nessun paese, neppure in Inghilterra, è naturale che anche lì si sia ripetuto il grido: fate economia! Dal successo di questa campagna dipende, più che non si creda, la capacità di resistenza bellica delle nazioni alleate. Se l’Inghilterra deve mantenersi in grado di aiutare finanziariamente i suoi alleati, uopo è che essa riduca al minimo i suoi acquisti all’estero a scopo di consumo ed il consumo medesimo delle cose prodotte all’interno; così da diminuire la formidabile e crescente sbilancia commerciale, e da frenare l’ascesa del cambio, che anche là comincia a farsi sentire. Da un calcolo istituito dal signor Hobson nell’ultimo numero dell’«Economic Journal» risulta che nei primi nove mesi di guerra l’Inghilterra dovette vendere circa 125 milioni di lire sterline (3 miliardi e 350 milioni di lire nostre) di titoli stranieri da essa posseduti per provvedere allo sbilancio economico causato dalla guerra. Se non si pone riparo con l’economia agli eccessivi dispendi, arriverà il giorno in cui le vendite dovranno essere aumentate molto al di là di questa cifra ed il mercato nordamericano sarà incapace di assorbire le enormi partite di titoli venduti. Di qui il fervore con cui uomini di governo, giornalisti, propagandisti vanno inculcando agli inglesi la necessità di porre un freno alle loro abitudini spenderecce.

 

 

È un appello, il quale deve, anche fra noi, essere rivolto a tutte le classi sociali. Alle classi alte, ricche ed agiate in primo luogo. Non si lascino esse trarre in inganno dal pregiudizio comunemente diffuso che sia loro dovere di spendere molto per dare lavoro alle masse operaie. Questo dello «spendere per dare lavoro» è un pregiudizio erroneo sempre, e massimamente in tempo di guerra. Gli economisti non affermano che gli uomini siano meritevoli di lode solo quando risparmiamo e siano biasimevoli sempre quando spendono il loro reddito. Ognuno impiega i propri redditi nel modo che ritiene più opportuno; e dal punto di vista economico è fuor di luogo affermare che l’atto del risparmiare sia più virtuoso dell’atto del consumare. Per raggiungere il fine di un progresso economico generale, di un miglioramento costante nella produzione della ricchezza e nel tenor di vita degli uomini, è necessario che sia serbato un certo equilibrio fra il consumo ed il risparmio; fa d’uopo che, per risparmiare denaro, non si riducano gli uomini alla macilenza fisica ed alla sordidezza intellettuale e morale; e d’altro canto non si consumi tutto il reddito in godimenti presenti, occorrendo provvedere all’avvenire. Queste sono verità ovvie; ma non è inutile insistere sul punto che il ricco, il quale spende tutto il suo reddito e forse parte del suo patrimonio, non acquista perciò alcuna maggiore benemerenza, verso i poveri, di colui che risparmia.

 

 

Apparentemente il ricco spendaccione sembra meritevole di maggiore lode dell’avaro parsimonioso; ed invero egli è lodato da servitori, camerieri, cocchieri, negozianti, parassiti, come colui che sa spendere i propri denari a beneficio altrui. Costoro guardano con disprezzo al ricco avaro che tesaurizza e pone in serbo i suoi denari, rifiutando di farne partecipe altrui. In realtà, tutti sanno che questa è solo l’apparenza delle cose. Nel mondo moderno, in cui nessuno tesaurizza in realtà – chi usa ancora riporre sottoterra i denari messi in serbo? – ma tutti risparmiano, risparmiare vuol dire portare i propri denari alla banca o cassa di risparmio o comprare titoli o fare mutui altrui o comprare terre o case. E poiché banche e casse di risparmio non tengono inutilizzati i depositi, ma li danno a mutuo ad industriali, commercianti, comuni bisognosi di compiere opere pubbliche ecc. ecc.; risparmiare vuol dire fare «domanda di lavoro» altrettanto e forse più di quanto non accada consumando. Le 1.000 lire consumate impiegano gli operai che tessono panni o macinano il grano: ma, senza le 1.000 lire risparmiate, industriali tessitori e mugnai non avrebbero potuto fare le provviste di lana o di frumento, o comprare le macchine senza di cui il lavoro sarebbe stato impossibile.

 

 

La quale verità acquista maggior forza in tempo di guerra. Supponiamo vi sia taluno in dubbio se gli convenga acquistare un’automobile ovvero mettere in serbo i denari per la sottoscrizione di cartelle del futuro prestito nazionale. Quali sono le conseguenze delle due diverse maniere di agire? Dannose alla generalità nel primo caso, utili nel secondo. Se egli acquista l’automobile, avrà la scelta fra una marca nazionale od una marca estera. È quasi certo che egli non potrà comperare un ‘automobile nazionale, tutta la produzione interna essendo accaparrata per le necessità militari. Quando vi riuscisse, sarebbe a danno del paese; il quale ha interesse che tutti gli operai ed i capitali dell’industria automobilistica siano impiegati a crescere la resistenza contro il nemico. Egli, aumentando la domanda di maestranze e di materiali così necessari, ne aumenterebbe il prezzo e crescerebbe quindi il costo della guerra per lo stato. Né meno dannoso all’interesse nazionale sarebbe l’acquisto dell’automobile all’estero. Egli dovrebbe pagare all’estero 10 o 20.000 lire e crescerebbe d’altrettanto il debito commerciale dell’Italia verso l’estero. Colla sua azione egli:

 

 

  • impedirebbe all’Italia di acquistare frumento o munizioni da guerra per altrettante somme; ovvero
  • provocando una nuova domanda di divisa estera, farebbe crescere l’aggio dell’oro sulla carta – moneta e contribuirebbe al crescere del prezzo dei cereali, delle carni, delle lane, delle munizioni e di tutte le cose le quali noi dobbiamo comperare all’estero.

 

L’azione di chi compra un’automobile all’estero, come di chi acquista gemme, brillanti, pizzi, vestiti, stoffe di lusso, libri, di cui la lettura è prorogabile, deve dunque essere reputata nociva alla patria. Osservazioni simili si possono fare per i nuovi impianti industriali, edilizi, per i lavori pubblici prorogabili e non ancora iniziati. Crescono, per queste richieste facilmente prorogabili, i prezzi del legname, del ferro, del cemento e di molti altri materiali, di cui il governo ha gran bisogno per le sue occorrenze militari; si distolgono gli operai dall’accorrere a quelle fabbricazioni di panni, di materiali bellici ed a quelle colture dei campi che sono necessarie ed urgenti nel momento attuale. Colui, il quale rinuncia all’acquisto dell’automobile od a qualunque altra spesa, anche di cibo o di vestito, prorogabile od evitabile, compie invece opera utile al paese. Il suo risparmio, consegnato allo stato in cambio di cartelle del prestito nazionale, è dallo stato impiegato forse ugualmente nell’acquisto di automobili o nel riattamento di strade, nell’ampliamento di stazioni ferroviarie o nella costruzione di ponti o di tronchi di ferrovie e quindi è rivolto a richiesta di lavoro nella stessa misura che s’egli consumasse quella somma. Ma le automobili, le stazioni, le opere pubbliche compiute o comprate dal governo servono al fine pubblico della difesa nazionale e non al fine privato di un godimento personale, che nel momento presente è dissolvitore.

 

 

Né è minore il dovere di fare economia per le classi più numerose. Purtroppo, la utilizzazione delle varie sostanze alimentari è imperfettissima nelle masse operaie. Nelle campagne si utilizzano discretamente i rifiuti con l’allevamento di porci, di conigli, di volatili da cortile; ma nelle città si comincia appena adesso a comprendere quali vantaggi si potrebbero ricavare dall’allevamento, anche in piccole proporzioni, di conigli per la produzione della carne e delle pelli. Molta strada potrebbe farsi nelle città altresì con la utilizzazione orticola di tutti gli spazi vacanti, delle aree fabbricabili, che ora non danno alcun frutto a nessuno. Del pari la diffusione di opportune regole di cucina gioverebbe ad insegnare alle madri di famiglia operaie la possibilità di trarre partito da molte sostanze alimentari ora malamente cucinate e di utilizzare gran parte di quelli che sono considerati rifiuti. Si pensi che ogni chilogrammo di farina o di carne consumato in meno o meglio utilizzato è un minor debito del paese, è un prolungamento della nostra capacità di resistenza militare!

 

 

Anche nelle file dell’esercito combattente la campagna per l’economia potrebbe essere feconda di utili risultati. Da lettere ricevute ho ricavato l’impressione che la razione di pane e di carne assegnata ai soldati nella zona di guerra sia in molti casi individuali esuberante. Da un punto di vista generale è bene far così: ma ad evitare sprechi costosi, sarebbe saggio consiglio promuovere tra i soldati l’economia, incoraggiando con opportuni riacquisti l’utilizzazione delle razioni rimaste da consumare.

 

 

Il ritorno della pace sarà accompagnato da uno stato di prosperità economica solo se durante la guerra si sarà diffusa ed accentuata l’abitudine della economia e del risparmio. Ho già altra volta notato come, in tutti i paesi belligeranti, la guerra abbia dato luogo a fenomeni di apparente prosperità economica, dai quali importa non lasciarsi suggestionare. Una parte invero del capitale già risparmiato viene ora mutuata allo stato, il quale la spende di giorno in giorno per la condotta della guerra e la converte così in reddito dei suoi ufficiali, dei suoi soldati, dei suoi fornitori, dei suoi creditori. Ciò che era capitale si trasforma in reddito; e cresce così la quantità delle cose che gli uomini ritengono di potere spendere. Guai a ritenere che sul serio i redditi sieno aumentati permanentemente e sia aumentata la spesa che gli uomini possono fare senza pregiudizio del loro patrimonio! Finita la guerra e finite le spese straordinarie dello stato, i redditi torneranno ad essere quelli di prima. Anzi saranno minori, perché fu consumata una parte del capitale che era stato precedentemente risparmiato e questa parte non può più essere impiegata alla produzione di nuove ricchezze. Fa d’uopo perciò, se non si vuole che il benessere generale scemi al ritorno della pace, che durante la guerra si cerchi di fare la maggiore economia possibile, in guisa da ricostituire i risparmi distrutti per la condotta della guerra. Supponiamo che la guerra costi all’Italia 6 miliardi di lire. Una parte di questi 6 miliardi sarà coperta con i redditi dell’anno, i quali, invece di alimentare operai, contadini, redditieri, alimenteranno soldati, ufficiali, lavoratori nelle fabbriche di munizioni. Una parte sarà prelevata però sul capitale già esistente; ed e questa parte che occorre ricostituire con nuovo risparmio, affinché alla fine della guerra le banche e le casse di risparmio non si trovino nella impossibilità di soddisfare le richieste degli industriali, commercianti, agricoltori bisognosi di capitale circolante.

 

 

Per fortuna, il rialzo nel saggio dell’interesse, cagionato dalle fortissime richieste di somme a mutuo da parte degli stati belligeranti, incoraggia a risparmiare di più. Non forse tutti i risparmiatori, ma certamente parecchi di essi sono maggiormente spinti a risparmiare quando sperano di ottenere un interesse del 5%, piuttostoché solo del 3,50%. È questa una delle principali ragioni per cui i mali cagionati dalle guerre del passato si sono curati più rapidamente di quanto non prevedessero i pessimisti. Nel mondo economico molte malattie provocano il proprio rimedio. Grazie al rialzo del saggio dell’interesse, il risparmio, invece di limitarsi ad un miliardo all’anno, cresce ad uno e mezzo e forse due; sicché in breve volgere di anni le ferite della guerra sono rimarginate. Gli uomini si sono stretti un po’ la cintola, hanno cambiato meno frequentemente vestiti e calzari, si sono divertiti di meno ed hanno risparmiato di più. Il ritorno ad abitudini più frugali di vita non deve però essere considerato soltanto una «dolorosa» necessità. Sotto molti rispetti esso è un beneficio economico e morale. Importa persuaderci che, risparmiando noi non compiamo solo un atto necessario ed economicamente vantaggioso. Così operando, noi adempiamo ad un dovere verso la patria e contribuiamo al perfezionamento morale delle future generazioni.

 

 


[1] Con il titoloIl dovere degli Italiani nel presente momento economico. Tradotto in francese con il titolo Le devoir des Italiens dans le moment présent, in: Voix italiennes sur la guerre 1914-1915, Paris, Berger-Nancy, Levrault, 1915, pp. 37-38 («Pages d’histoire 1914-1915»). Ristampato in Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 49-54. [ndr]

[2] Con il titolo, Il dovere della fiducia.Ristampato col titolo II dovere degli Italiani durante la guerra, III, in Prediche,Laterza, Bari, 1920, pp. 54-59. [ndr]

L’aumento della sovrimposta e la politica finanziaria dei comuni

L’aumento della sovrimposta e la politica finanziaria dei comuni

«Corriere della Sera», 25 marzo 1915[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 185-191

 

 

È noto come l’amministrazione socialista milanese abbia chiuso il bilancio preventivo del 1915 con un disavanzo di 6.228.600 lire; e furono già l’altro ieri presentate al consiglio le proposte con cui la giunta intende rimediare al disavanzo, sovratutto con l’aumento di 10 centesimi nella sovrimposta comunale dei terreni e dei fabbricati. Non è forse inopportuno di discutere nuovamente, in guisa tutt’affatto generale, quali siano nel momento presente le conseguenze e l’opportunità di un aumento della sovrimposta. La discussione di un problema siffatto non può invero limitarsi ad una sola città, come se questa vivesse isolata nello spazio e nel tempo; ma deve farsi in rapporto alle condizioni concrete del momento storico ed economico e del paese nel quale quella città si trova. E poiché molti comuni in Italia sono vogliosi di aumentare le spese e quindi di crescere le imposte, non è fuor di luogo studiare quali possano essere le conseguenze, forse non immediate, ma neppure remotissime della odierna politica finanziaria dei comuni.

 

 

Comincio dallo sbarazzare il terreno da un problema particolare, rispetto a cui deve essere elogiata, senza riserve, l’opera dell’amministrazione socialista milanese. Entro i limiti in cui essa intende aumentare la sovrimposta allo scopo preciso di abolire il dazio sui materiali da costruzione, il cui gettito è previsto in lire 1.300.000 nel bilancio 1915, essa merita lode. L’imposta sui fabbricati è una cattiva imposta, sovratutto per la sua altezza e per il suo odierno assetto; ma poiché il dazio sui materiali da costruzione è un’imposta pessima, così è certo che bene operano gli attuali amministratori a sostituire l’imposta cattiva a quella pessima. L’imposta sui materiali da costruzione è pessima, perché essa costituisce un aggravio esclusivo del costo di costruzione delle case nuove; per esempio, di 1.300.000 lire del costo delle case costruite nel 1915. Il che vuol dire che i costruttori aumenteranno di altrettanta somma il costo capitale delle case costruende; e si decideranno a costruire solo quando i fitti sperati saranno maggiori – in confronto a quanto basterebbe fossero – di almeno l’8%, fra interessi, spese e imposte annue, sul maggior costo della casa. I fitti delle case costruite nel 1915 devono crescere perciò di almeno 100.000 lire all’anno, in confronto a quanto altrimenti sarebbe necessario, perché ai costruttori convenga costruire case nuove. E poiché, se crescono i fitti delle case nuove, crescono in corrispondenza i fitti delle case antiche, l’aumento dei fitti si propaga anche alle case antiche, nonostante che queste forse non abbiano pagato od abbiano pagato in misura minore il dazio sui materiali da costruzione.

 

 

È più conveniente perciò aumentare di lire 1.300.000 la sovrimposta annua sui fabbricati, poiché è certo che i fabbricati nuovi costruendi nel 1915 non costituiscono la tredicesima parte dei fabbricati già costrutti, ma una frazione assai minore; ed è certo quindi che la parte della cresciuta sovrimposta, gravante sui fabbricati nuovi, sarà di gran lunga inferiore a 100.000 lire all’anno; e quindi i fitti delle case nuove cresceranno di una somma minore di quanto sarebbero cresciuti in conseguenza del dazio sui materiali da costruzione; sicché gli inquilini saranno di gran lunga meno danneggiati dalla sovrimposta che dal dazio.

 

 

Se le conclusioni mie sono nettamente favorevoli alla abolizione del dazio sui materiali ed alla sua sostituzione con una equivalente sovrimposta, non mi pare si possa concludere con altrettanto favore quando l’aumento della sovrimposta non abbia per iscopo di sostituire il dazio sui materiali, ma sia un aumento netto di tributo.

 

 

Che effetto può avere un aumento netto della sovrimposta comunale dal 13,47 al 23,47% del reddito imponibile? Sgombrando il terreno da molte e varie complicazioni di casi, noi possiamo immaginare due situazioni edilizie perfettamente opposte. In una di esse, il mercato delle case, in relazione alla richiesta esistente nel momento ed ai prezzi che gli inquilini possono pagare, è talmente saturo di case costrutte, che non si costruiscono affatto nuove case e le case esistenti sono largamente bastevoli a far fronte ai bisogni della popolazione presente ed a quei prossimi eventuali maggiori bisogni che anche in una città stazionaria si possono verificare. In questa ipotesi, l’aumento della sovrimposta cadrà intieramente sui proprietari; e neppure un centesimo potrà essere trasferito sugli inquilini. Come potrebbero invero i proprietari aumentare i fitti in conseguenza della maggiore imposta quando gli inquilini non fanno una domanda nuova di case e quando il numero delle case esistenti rimane quello che era prima?

 

 

Accanto a questa, si può avere una situazione del mercato edilizio perfettamente opposta, in cui la popolazione cresca di numero e di esigenze ed in cui, per soddisfare alla crescente richiesta di appartamenti, si costruiscano ogni anno case nuove. In questa situazione i costruttori tengono il coltello per il manico. Essi non hanno alcun bisogno di costruire per perdere; ché anzi costruiscono solo quando i fitti correnti nella città siano siffattamente alti da consentire loro di ottenere dall’impiego edilizio di un dato capitale almeno l’interesse corrente in impieghi di tal natura, più il rimborso delle spese, fra cui vanno annoverate le imposte. Perciò se le imposte crescono, devono necessariamente crescere i fitti. Se non crescono, i costruttori perderebbero in confronto ad altri impieghi, lucrando solo il 4%, mentre da altri impieghi si ripromettono il 5 od il 6%, e non costruirebbero più case nuove. Laonde la popolazione, la quale nel frattempo continua a crescere, dovrebbe far ressa intorno alle case vecchie e farne aumentare i fitti finché essi appaiano convenienti ai costruttori di case nuove.

 

 

Non vi è scampo: in una città progressiva, l’aumento della sovrimposta fa aumentare i fitti ed è necessario li faccia crescere, se non si vuol cadere nel malanno peggiore di una scarsità artificiale di case. Fanno eccezione a questa regola solo le case centrali, dove i fitti, già prima dell’imposta, erano spinti al massimo, perché si trattava di case privilegiate, godenti una situazione eccezionale di monopolio. Per queste case, i proprietari in generale non possono, in conseguenza di una imposta nuova, aumentare i fitti, perché già prima questi erano stati spinti al massimo, ed al di là del massimo non si può andare.

 

 

Solo per queste case vale il ragionamento della giunta, per cui l’aumento della sovrimposta non può far crescere i fitti che sono giunti fin da prima al massimo, poiché per le case nuove e per la gran maggioranza delle case esistenti, che subiscono la concorrenza delle case nuove, il massimo è dato dal costo, di cui uno degli elementi principali è l’altezza della imposta. Concludiamo dunque che l’aumento della sovrimposta:

 

 

  • sarà sopportato dai proprietari in quelle città ed in quei tempi in cui la popolazione non aumenti e non si costruiscano case nuove;
  • graverà sugli inquilini nelle città progressive, dove si devono costruire case nuove, salvo che per le case centrali, in cui vigevano già fitti massimi – e perciò non aumentabili – di quasi monopolio.

 

 

In quale delle due situazioni si trova oggi Milano? Tende, a quanto si può giudicare dai dati noti, verso una situazione edilizia della prima specie, in cui vi è stasi nelle costruzioni ed in cui quindi l’imposta tende a gravare sui proprietari ed a non trasferirsi sugli inquilini. Infatti il gettito del dazio sui materiali da costruzione, il quale può considerarsi come un indice dell’importanza delle nuove costruzioni ha variato nel seguente modo:

 

 

1906 (consuntivo)

L. 2.120.711

1907 »

2.306.236

1908 »

2.628.868

1909 »

3.021.817

1910 »

2.885.871

1911 »

2.985.418

1912 »

2.482.953

1913 »

1.925.246

1914 (preventivo)

1.950.000

1915 »

1.300.000

 

 

I dati si riferiscono insieme alla parte chiusa ed a quella aperta del territorio comunale e non sono perfettamente comparabili per intervenute modificazioni di tariffe. Ma nel loro complesso indicano che l’attività edilizia è all’incirca la metà di quella che era nel 1909 e tende ancora a diminuire. Siamo in un periodo di stasi edilizia e di difficoltà relativa di affittare: alla fine del 1914 i locali disponibili denunciati all’ufficio municipale delle abitazioni salivano a 14.179 contro 11.049 alla fine del 1913, 13.604 alla fine del 1912 e 10.368 alla fine del 1911.

 

 

È probabile dunque che, per il momento e finché si accentuerà la stasi edilizia, l’aumento della sovrimposta tenda a rimanere a carico dei proprietari di case, senza possibilità sicura di trasferimento sugli inquilini.

 

 

Se le cose potessero durare così, l’amministrazione socialista avrebbe raggiunto il suo fine: che è quello di procacciarsi parecchi milioni di nuove entrate e di cavarli di tasca ai proprietari di case.

 

 

Ma il discorso delle conseguenze dell’aumento della sovrimposta non finisce qui. Come in tutti i fenomeni economici, le conseguenze più importanti non sono quelle immediate ed apparenti, bensì quelle successive e nascoste.

 

 

L’aumento della sovrimposta, appunto perché non potrà subito tradursi in un aumento di fitti, od almeno in un aumento sufficiente di fitti, provocherà un arresto, ancor più sensibile di quello odierno, della fabbricazione. Chi vorrà costruire case per perdere, ossia per lucrare un reddito netto minore di quello che si può ottenere da altri impieghi?

 

 

Il male derivante dall’arresto della fabbricazione sarà poco sentito fino a quando perdurerà l’attuale crisi economica, e la popolazione cittadina crescerà lentamente e, per gli scemati redditi, si stiperà in locali vieppiù angusti. Ma appena, in avvenire, le condizioni economiche cittadine migliorassero e la popolazione tornasse ad aumentare od a volere una casa più ampia, subito si manifesterebbero le conseguenze reali dell’odierno inasprimento di tributi. Di nuovo si vedrebbe sorgere ed inacerbirsi una grave sproporzione fra case nuove poste sul mercato e domanda affannosa di abitazioni; e con rapidi, successivi aumenti di fitto i proprietari ripiglierebbero i denari perduti a causa della cresciuta sovrimposta. In allora, i socialisti al potere od all’opposizione si divertiranno a gridare contro l ‘esosità dei proprietari, invocheranno i soliti calmieri e voteranno decine di milioni per costruire nuove case popolari, tardivo e debole rimedio al malanno del caro dei fitti. Ma l’osservatore memore giudicherà allora che l’aumento dei fitti fu provocato non dalla ingordigia dei proprietari, ma dalla imprevidente politica dell’amministrazione socialista che, aumentando le spese pubbliche e crescendo le sovrimposte, ha distrutto l’incitamento a costruire case nuove.

 

 

Tutt’altra dovrebbe essere la politica tributaria delle amministrazioni comunali nel momento attuale. Esse non possono prescindere da due fatti capitalissimi, che non è in potere dei comuni di mutare e di cui è loro dovere di tener conto.

 

 

In primo luogo fa d’uopo tenere conto dell’aumento delle imposte che fu deliberato dallo stato e che corrisponde a indeclinabili necessità del momento presente. Le amministrazioni socialiste possono reputare biasimevole l’attuale guerra europea, ma esse non possono fare che guerra non vi sia e non possono distruggere la necessità in cui il governo si è trovato di aumentare dal 16,50 al 18,12 % la imposta erariale sui fabbricati. È da augurare che governo e parlamento veggano presto la necessità di provvedere ad una revisione generale del reddito dei fabbricati, così da chiedere ad una migliore ripartizione dell’imposta, senza possibilità di trasferimento sui fitti l’aumento di gettito che, nel tumulto dell’ora, fu chiesto ad un aumento nel tasso dell’imposta; ma i comuni non debbono dal ritardo frapposto a consentire ad una loro giusta domanda – messa innanzi così dal sen. Greppi come dall’avv. Caldara – trarre argomento per aggiungere all’inasprimento erariale, che fu dell’1,62% sul reddito, un inasprimento municipale del 10%, che sarebbe sei volte più grave e peserebbe tanto più duramente sui fitti.

 

 

Non debbono, in secondo luogo, i comuni dimenticare che già ora si nota, e probabilmente negli anni prossimi si accentuerà, una tendenza ad un forte aumento nel saggio dell’interesse.

 

 

Con la rendita 3,50% ad 80, ossia redditizia di un 4,40% circa, e con le nuove obbligazioni di stato fruttanti il 4,70% circa, le case nuove si dovranno capitalizzare per parecchi e forse per molti anni dal 5 al 6%. Il che vuol dire che nessuno investirà denari in case nuove se non sarà sicuro di ricavarne almeno un reddito netto dal al 6%. Il che vuol dire ancora che i fitti dovranno crescere in avvenire dal 15 al 35% circa, affinché torni conveniente impiegare capitali nelle nuove case.

 

 

Vorrei che gli amministratori della cosa pubblica meditassero seriamente sulle vicende poco liete, che si prospettano nel prossimo avvenire, della provvista delle abitazioni sul mercato a causa del rialzo dell’interesse. Se non si mettono in opera per tempo rimedi efficaci, corriamo grandissimo pericolo che diventi per lunga pezza quasi impossibile trovare capitali disposti ad investirsi nell’industria edilizia: la quale inutilmente lotterà contro la concorrenza dei grandiosi prestiti pubblici, nazionali e stranieri, e delle industrie capaci di offrire cospicui interessi al risparmio. Poiché le chiacchiere a nulla valgono, poiché gli enti autonomi non fanno crescere di un soldo i capitali disponibili, non veggo in che altro modo i municipi possano ostacolare la tendenza al crescere dei fitti, fuor di un solo: astenersi dall ‘aumentare le sovrimposte e svolgere una viva incessante azione a favore di una revisione generale dei redditi edilizi, cosicché le aliquote vigenti possano essere ridotte, pure crescendo il gettito dell’imposta, con sollievo degli inquilini.

 

 



[1] Con il titolo L’aumento della sovrimposta e la politica finanziaria dei comuni nel momento presente crisi odierna del porto di Genova. [ndr]

Carbone, cotone e l’ingombro del porto di Genova

Carbone, cotone e l’ingombro del porto di Genova

«Corriere della Sera», 15[1] e 18[2] marzo, 3 aprile[3] 1915, 12[4] e 16[5] gennaio, 18 febbraio[6], 5 dicembre[7] 1916

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 138-184

 

 

I

L’impressione che si prova ogni qualvolta si ritorna a studiare il problema del porto di Genova è quella di un confuso vociare, d’un altercare oscuro tra Consorzio del porto e ferrovia, tra speditori, spedizionieri e ricevitori, tra importatori ed esportatori, tra chiattaiuoli, padroni di velieri, armatori, impresari d’imbarco, imprese di stivaggi, compagnie di navigazione, raccomandatari, ecc. ecc. Tutti gridano che c’è qualche cosa che non va e ne danno la colpa a lentezze, abusi, mancanze di iniziativa, di arredamenti, di mezzi di trasporto di enti e persone diverse dal gruppo a cui l’interrogato appartiene. Spesso i rimedi indicati da un gruppo sono dichiarati dall’altro di impossibile attuazione od addirittura nocivi. Cosicché lo studioso finisce di giungere ad una sola convinzione sicura: ed è che il problema è di una complessità grandissima, costante nei suoi caratteri fondamentali, cangiante nelle sue manifestazioni giornaliere. Chi avesse tempo e voglia, non so quale problema economico potrebbe trovare così degno di studio, così affascinante, così vario come il problema del porto di Genova. Un porto è come un cuore a cui affluisce il sangue di mille e mille vene del gran corpo di un paese e da cui il sangue parte per numerose arterie per andare a dar nuova vita alle industrie ed al commercio nazionali. Li si incontrano e si urtano gli interessi dell’industria interna che vuole approvvigionarsi di materie prime o spedire all’estero i prodotti finiti, delle compagnie di navigazione e degli armatori che effettuano il trasporto, di variopinte classi di intermediari che vogliono lucrare sull’obbligatorio passaggio della merce attraverso a quel punto, di ceti organizzati di operai i quali prelevano la loro tangente sulle manipolazioni a cui la merce va soggetta; e sopra a tutti questi interessi privati si elevano il Consorzio del porto, le ferrovie di stato, la dogana, la Camera di commercio, enti che rappresentano tutti un pubblico interesse, visto però da ognuno di essi secondo una visuale che non sempre si identifica con la visuale degli altri. Un economista-letterato potrebbe ricavare da questo groviglio di interessi, da questi atteggiamenti contrastanti un libro denso di fatti e di passioni che si leggerebbe come un romanzo e sarebbe istruttivo come un trattato. Mi contenterò di mettere in luce alcuni lati del fenomeno nel momento presente.

 

 

Forse il punto di vista più attuale del problema del porto di Genova è che la sua insufficienza ordinaria, alla quale soltanto il tempo e la collaborazione di molti enti e persone potranno recar sollievo, si è trovata d’un tratto ingigantita dalla guerra europea. Il porto di Genova, che era un porto quasi esclusivamente nazionale, ha dovuto subitamente adattarsi a diventare un porto internazionale. La guerra che ha chiuso l’accesso ai porti di Amburgo, di Brema, di Anversa, ha richiamato al sud una parte del traffico che prima si svolgeva attraverso ai porti del nord; e poiché Venezia è schivata per paura delle mine, Trieste e Marsiglia appartengono a nazioni belligeranti, e gli altri porti sono troppo lontani o troppo male attrezzati, le correnti del traffico si sono incanalate per Genova: correnti da mare per l’entroterra; e dall’entroterra – alta Italia, Svizzera, Germania, Austria – verso mare. Sotto la straordinaria pressione, le parti del complesso meccanismo portuale stridono; gli attriti crescono, gli arresti si moltiplicano. Ed attriti ed arresti vogliono dire aumenti enormi di spese per speditori e destinatari, angustie gravissime per le industrie ed i consumatori dell’alta Italia, i quali devono subire le conseguenze del lavoro congestionato ed affannoso che il porto deve compiere.

 

 

Forse il dato che meglio permette di valutare l’importanza che la guerra europea ebbe per il traffico del porto di Genova è dato dalle giacenze delle principali merci nel porto (in tonnellate):

 

 

Carboni Cotoni Cereali
24 agosto 1914 98.000 3.522 23.544
24 ottobre 229.491 1.281 16.536
28 novembre 159.077 5.689 35.517
2 gennaio 1915 272.090 11.179 110.931
30 gennaio 215.870 10.246 157.134
20 febbraio 139.820 15.637 180.671
27 febbraio 98.470 15.711 165.232

 

 

Vi è un primo periodo, durante l’agosto, in cui gli arrivi da mare vengono grandemente limitati dalle difficoltà monetarie, dalla crisi improvvisa nel meccanismo degli scambi internazionali, dalla impossibilità di assicurare navi contro il rischio di guerra. Durante l’agosto, mancando i nuovi arrivi, la ferrovia riesce a smaltire gran parte delle merci arrivate prima e le giacenze rimaste in porto scendono a cifre assai basse.

 

 

In settembre comincia la ripresa. Ma non avviene simultaneamente in tutti i rami del traffico. Questo rimane ancora paralizzato in parecchi campi e si risveglia affannosamente solo in certe direzioni per cui sembra più insopportabile la mancanza negli approvvigionamenti e più pericolosa l’attesa. Il primo a risvegliarsi è il traffico del carbone. Tutti ricordano i prezzi di panico dell’agosto, fino a 100 lire la tonnellata. Attratte dagli alti prezzi, l’una dopo l’altra le navi carboniere si rovesciano sul porto di Genova, riempiono le calate, si riversano sulle chiatte, ingombrano di sé le linee ferroviarie: al 2 gennaio le giacenze giungono al massimo di 272.090 tonnellate. Dopo d’allora la importazione del carbone comincia a rallentare. Il rialzo dei noli dall’Inghilterra, avvenuto a partire dal dicembre, la diminuita escavazione nelle miniere che approvvigionavano l’Italia e che hanno visto diminuire la maestranza per i copiosi arruolamenti, la possibilità di far venire il carbone dalla Germania – per la Svizzera transita ogni giorno una trentina di treni carichi di carbone westfaliano diretto in Italia e carbone tedesco arriva persino a Sampierdarena, a due passi dal porto di Genova, fatto miracoloso che in tempo di pace nessuno avrebbe creduto possibile! – fanno sì che gli arrivi di carbone da mare scarseggino e le rimanenze in porto si riducano a 98.470 tonnellate. Le chiatte si vuotano e sulle banchine destinate al carbone si formano larghi vuoti; sicché girando nel porto si veggono appilati i sacchi di grano e le balle di cotone dove a ricordo d’uomo mai non s’era visto altro che carbone.

 

 

Oggi la situazione del porto per quanto riguarda il traffico del carbone è notevolmente alleggerita. La ferrovia assorbe ed inoltra con facilità il carbone destinato all’interno. Ma è una facilità che impensierisce. Si presagisce la prossima bufera. Se noi supponiamo che per una circostanza qualsiasi i valichi alpini si chiudano al carbone della Westfalia, da quali riserve trarrà l’Italia il carbone necessario alle sue industrie ed alla sua vita cittadina? Genova e Savona hanno scarse riserve, bastevoli per alcuni giorni od alcune settimane, a seconda dell’importanza delle riserve esistenti nell’entroterra. Vi sono grandi città dell’alta Italia dove si prevede che, se il carbone non ricomincia ad affluire, i gasometri fra tre mesi non potranno più fornire gas alla popolazione. E se il carbone tornerà ad arrivare in quantità sufficienti, a prezzi altissimi, esso tornerà ad ingombrare le calate e vi sarà di nuovo una congestione nera e polverulenta nel porto di Genova.

 

 

Oggi parlano di congestione i fiocchi bianchi, che dagli strappi e dalle scuciture delle balle di cotone il vento trasporta sulle banchine e l’odore gradito delle enormi pile di sacchi di frumento e di granoturco che aspettano di essere trasportate ai mulini.

 

 

Fino alla fine di ottobre pochi nel porto pensavano ad un possibile ingorgo di cotone; sicché, quando le giacenze in porto si erano ridotte a circa 1.300 tonnellate, si pensò di ridurre il numero degli accosti dei vapori cotonieri al molo nuovo e di destinare una parte dei magazzini generali eserciti dalla ferrovia ad altre merci diverse, destinate anche all’esportazione e che si affollavano sulle banchine, in attesa di un imbarco che non potevano subito avere. Ma a partire dal novembre e più dal dicembre accadde ciò che era fatale: i cotonifici dell’interno esaurirono le loro rimanenze e si rimisero a lavorare in pieno ed a far arrivare cotone greggio dall’America; i cotonifici tedeschi, svizzeri ed austriaci, non potendo più ricevere merci dai porti del nord, indirizzarono i loro piroscafi a Genova. Le giacenze in porto crebbero a poco a poco sino a 15.711 tonnellate il 27 febbraio. La cifra paragonata a quelle del carbone e dei cereali può sembrare piccola; ma se la si traduce in balle appare grandissima. Secondo il bollettino della Docks cotoni, al 5 marzo erano ben 483.100 balle giacenti nel porto, nei magazzini consortili dei cotoni, in un capannone in legno costruito dal Consorzio in fretta e in furia dietro ai docks, nei magazzini generali, sulle calate al vento ed alla pioggia, nella galleria del Passo nuovo che dal porto conduce a Sampierdarena.

 

 

Contemporaneamente al cotone, si sviluppavano gli arrivi di cereali; prima sovrattutto per l’estero e poi sovratutto per l’interno. I sili sono pieni di grano; enormi mucchi di grano giacciono sulle banchine: sulle chiatte si vede il granoturco alla rinfusa; e grosse quantità furono dal Consorzio condotte in grandi magazzini presi in affitto a Sampierdarena. L’avamporto, le rade di Vado e di Santa Margherita sono piene di piroscafi che attendono il loro turno di scarico; mentre altri piroscafi, più impazienti, hanno scaricato su velieri, i quali, invece di navigare, hanno trovato convenienza di trasformarsi in magazzini galleggianti.

 

 

Mentre così si trasformava il traffico delle merci principali all’arrivo, crescevano altresì le importazioni di molte altre merci varie, delle quali sarebbe troppo lungo tenere discorso. Mi fu detto che negozianti greci e turchi, per salvare le loro ricchezze dagli orrori della guerra, abbiano pensato ad importare e a depositare a Genova ben 150.000 balle di tabacco di Macedonia, che ora ingombrano il deposito franco e rendono più difficili le operazioni commerciali.

 

 

Ma è cresciuto anche il commercio di esportazione delle merci varie. In verità i carri scaricati, ossia provenienti dall’estero e dall’alta Italia e condotti sul posto per destinazione d’oltremare, sono diminuiti:

 

 

1913-14

1914-15

Dicembre

9.564

8.148

Gennaio

8.185

6.240

Febbraio

7.606

6.146

 

 

Ma il guaio si fu che, per i divieti di esportazione, molta merce dovette rimanere sul posto in attesa di ottenere il permesso di imbarco; ed il porto è ora ingorgato di merce in sofferenza. Non è possibile perciò sfogare con la dovuta sollecitudine i carri destinati all’esportazione, i quali attendono sulle linee. Erano 1.217 al 22 gennaio ed al 25 febbraio erano saliti a 1.714, i quali aspettavano sulle linee e nelle stazioni che la merce giacente in porto avesse potuto trovare imbarco. Di qui un ostacolo frapposto dai carri in discesa verso il porto e giacenti lungo le linee alla corrente contraria dei carri in ascesa dal porto verso l’interno; di qui rigurgiti ferroviari, sospensioni di accettazione di merci verso l’interno, ritardi nel carico di carri sul posto. Di qui lagnanze vivissime, d’ogni parte insorte, contro le deficienze del servizio portuario e ferroviario e contro gli abusi d’ogni specie che si moltiplicano nei momenti di difficoltà e di crisi.

 

 

II

Quasi tutte le industrie ed i commerci che si servono del porto di Genova si lamentano dell’insufficienza dei servizi portuari e ferroviari, dell’ingorgo del porto, dell’ingombro delle calate, degli abusi delle chiatte e dei velieri. V’è, naturalmente, un certo contrasto di interessi fra le varie schiere di coloro che si lagnano, Poiché l’insufficienza dei mezzi atti a scemare rapidamente l’ingombro è in relazione coll’importanza straordinaria del traffico che vorrebbe sfogarsi attraverso il porto; e quindi la soddisfazione compiuta delle domande degli uni non può d’un tratto avvenire se non con parziale detrimento degli interessi di altri. A dare un’idea del problema, sceglierò una industria particolare: quella del cotone, la quale nel momento presente può essere considerata tipica. Intendo unicamente fotografare la situazione, senza esporre un giudizio mio proprio su tutti i punti controversi, richiedendosi, per esso, conoscenze tecniche precise, senza le quali è impossibile valutare acconciamente le affermazioni degli uni e le denegazioni degli altri.

 

 

La situazione dei cotonieri non è sicuramente lieta. Dopo un periodo di stasi, in cui per la difficoltà dei noli, i rischi di guerra e preoccupazioni finanziarie riguardo ai mezzi di pagamento la importazione dei cotoni greggi era grandemente scemata e le giacenza dei cotoni sul porto erano giunte al minimo di 1.281 tonnellate (24 ottobre), in novembre si ebbe una ripresa (5.682 tonnellate di giacenza al 28 novembre) e questa si accentuò nei mesi successivi. La filatura, la quale in Italia aveva traversato momenti difficili negli ultimi anni e doveva lottare con la sovraproduzione e la impossibilità di smerciare senza perdita le rimanenze di magazzino, d’un tratto vide iniziarsi giorni migliori. Le abbondanti richieste per forniture militari, sia del governo nazionale, come di governi stranieri, appartenenti imparzialmente ad amendue i gruppi belligeranti, e sovratutto le richieste dei tessitori germanici ed austriaci, quali non potevano procacciarsi cotone greggio dall’America, sfollarono in un batter d’occhio i magazzeni. L’industria, la quale prima lottava contro la insufficienza del consumo, dovette combattere contro la mancanza della materia prima. Per soddisfare alle pressanti richieste dei cotonieri italiani, numerosi carichi di cotone si indirizzarono dagli Stati uniti verso Genova; e tutti si affollarono nel medesimo periodo per trovare sfogo, attraverso il porto, verso l’alta Italia.

 

 

Contemporaneamente si verificava il medesimo fenomeno in Isvizzera, in Germania ed in Austria; e poiché i porti del nord erano chiusi ed i piroscafi non si attentavano a sfidare l’ostacolo delle mine vaganti per l’Adriatico e del blocco anglo-francese i carichi di cotone furono indirizzati anch’essi per Genova. La speculazione, la quale vide la convenienza di acquistare a buon mercato in America e di vendere a caro prezzo al più alto offerente in Europa, si aggiunse alla partita; sicché questi tre movimenti, iniziatisi separatamente l’uno dall’altro e senza che l’uno potesse prevedere le conseguenze dell’azione contemporanea di tutti insieme, condussero ai seguenti risultati (balle di cotone arrivate a Genova):

 

 

1913-14

1914-15
Dicembre

94.730

196.348

Gennaio

87.712

248.518

Febbraio

63.498

228.230

Totale

245.942

673.088

 

 

Gli arrivi poco mancò triplicassero, come si vede, ed il porto fu incapace a sfogarli con la dovuta sollecitudine. Malgrado che il traffico del carbone fosse contemporaneamente diminuito, numerose cause cospirarono a far sì che questi arrivi colossali non trovassero rapidamente sfogo oltre l’Appennino e condusse all’ingombro che tutto si riassume nella cifra terrificante di 483.100 balle giacenti il 5 marzo sul porto di Genova in attesa di inoltro.

 

 

Accennerò ad alcune delle cause che produssero l’ingombro lamentato:

 

 

  • la simultaneità degli arrivi per l’interno e per l’estero. Il corto di Genova che era quasi esclusivamente attrezzato per il servizio dei cotonieri dell’alta Italia, dovette adattarsi a diventare d’un tratto un corto di transito. Pareva che il decreto del 13 novembre, il quale consentiva il transito soltanto alle merci indirizzate all’estero con polizza nominativa, escluse le polizze all’ordine, dovesse porre un rimedio all’esorbitante afflusso; ma il decreto fu dovuto revocare, in seguito alla impossibilità di applicarlo; cosicché i piroscafi continuarono ad arrivare, crescendo la confusione e l’ingombro e le difficoltà di inoltro a destino. Per la scarsezza degli accosti disponibili, vapori contenenti dalle 10 alle 15.000 balle, che in tempi normali avrebbero potuto sbarcare 1.500 balle al giorno, furono costretti a ridurre lo scarico a 6oo – 8oo balle al giorno, di cui una parte andava a finire nelle chiatte. Talvolta vapori già accostati dovettero cedere l’accosto, quando arrivava un vapore di linee regolari, specialmente delle linee sovvenzionate, che portano cotoni dall’Egitto, quasi tutti destinati all’estero;
  • la speculazione. Sulle 483.000 balle giacenti nel porto di Genova, pare che soltanto un terzo sia destinato ai cotonifici italiani. Se si dovesse provvedere soltanto a questo terzo, l’industria italiana potrebbe essere servita con grande sollecitudine. Né l’ingombro maggiore si può affermare sia derivato dall’altro terzo che si può presumere, per sufficiente indizio, essere destinato all’estero. I cotonieri esteri hanno somma urgenza di ricevere il cotone greggio ed e ragionevole che essi usino di ogni mezzo per affrettarne l’inoltro. Ma v’è un ultimo terzo, che forse non è destinato a priori né all’interno né all’estero ma attende l’occasione propizia di essere venduto al massimo prezzo. Sono giacenze speculative, in mano di persone forse in prevalenza del luogo ed influentissime, le quali possono avere interesse ad attendere il momento propizio per la spedizione. Frattanto ingombrano le calate, i capannoni, ostacolano le complesse operazioni commerciali (campionature, miscele) delle altre partite, operazioni richiedenti spazio e comodità di mezzi di carico;
  • la mancanza di carri chiusi e di copertoni. Sia per la emigrazione di un certo numero di carri chiusi in Germania ed in Austria, le quali li restituiscono aperti, sia per altre cause, è certo che in dati momenti le ferrovie non poterono far sì che i 120 carri destinati al carico dei cotoni sul porto di Genova fossero tutti chiusi, come è desiderabile specialmente nei mesi in cui domina il cattivo tempo. Vi si sarebbe potuto provvedere con copertoni; ma, di fronte ad un fabbisogno giornaliero di 400-500 copertoni, la ferrovia pare sia stata in grado di fornirne solo circa 200. Il terremoto degli Abruzzi ha contribuito alla scarsità dei copertoni: poiché parecchie migliaia di essi furono dovuti adoperare per fornire un passeggero ricovero alle sventurate popolazioni colpite dal terremoto. Accadde intanto parecchie volte che per difetto di copertoni fosse impossibile caricare 120 carri destinati al cotone, sebbene la merce fosse pronta ed i carri esistessero sul posto in copia;
  • il mal tempo; il quale fece sì che diminuissero notevolmente i giorni lavorativi nel porto: 25 giorni di pioggia nel trimestre dicembre-febbraio del 1914-15 contro 8 giorni nel 1913-14;
  • gli ingorghi alle stazioni di transito verso l’estero: Chiasso, Luino, Ala, ecc. È accaduto che le verifiche doganali richiedessero, in seguito ai moltiplicati divieti di esportazione ed ai timori di frode, un tempo assai più lungo del solito ai transiti dei confini di terra. Di qui un rigurgito che si ripercosse su tutta la linea fino al punto di partenza. Colonne di carri dovettero rimanere fermi sui binari del porto, finché le stazioni di confine non fossero in grado di accogliere nuovi treni; e da ciò nacquero ritardi nei nuovi carichi, ingombro dei magazzini, attesa sui piroscafi, trasbordi su chiatte e su velieri, con tutta la sequela di malefizi oramai ben noti;
  • i divieti e controdivieti di esportazione. Parecchia merce, indirizzata all’estero, dovette essere trattenuta sul porto perché nel frattempo erano stati decretati od allargati divieti di esportazione. Non pochi industriali o negozianti, nonostante i divieti, seguitarono a dirigere merce su Genova, mossi dalla speranza, fondata o non, di riuscire a strappare al governo una eccezione ai divieti generali o nell’attesa di trarre partito da eventuali scambi in natura di merci nazionali contro merci straniere necessarie all’Italia. Frattanto il porto si ingombrava di partite in sofferenza, specialmente ai magazzini generali del molo vecchio, ostacolando il sollecito carico e scarico del restante traffico;
  • la adozione e la successiva sospensione della trazione elettrica sulla succursale dei Giovi. Durante l’estate scorsa quando il traffico del porto era caduto assai in basso, l’amministrazione ferroviaria pensò di applicare anche alla succursale il sistema di trazione elettrica che aveva dato buoni risultati sulla linea vecchia dei Giovi, permettendo di istradare quivi giornalmente 22-23 treni merci per un peso utile di 380 tonnellate l’uno. Ma la trasformazione era appena compiuta che il traffico cominciò a crescere spaventosamente. Gli impianti ed i locomotori si chiarirono insufficienti a portare l’attuale intenso traffico; cosicché si dovette ritornare alla trazione a vapore, con la quale si smaltiscono sulla succursale giornalmente 32 treni di 670 tonnellate l’uno. Non è escluso che le mutazioni abbiano recato qualche impedimento al normale sviluppo dei trasporti; sebbene l’amministrazione ferroviaria contesti il fondamento del rimprovero ed attenda ad aumentare il numero dei locomotori ed a crescere la potenzialità degli impianti allo scopo di ristabilire nel momento opportuno la trazione elettrica, dalla quale spera risultati altrettanto buoni per la succursale come per la linea vecchia dei Giovi;
  • le difficoltà pratiche di caricare, malgrado l’ingombro della merce e la disponibilità dei 120 carri giornalieri. Il carico del cotone sui carri non sembra essere una faccenda molto semplice. I cotoni sono caricati alla rinfusa nel Golfo del Messico o ad Alessandria d’Egitto o nell’India in partite di 50 o 100 balle. Lo scarico si effettua sul porto di nuovo alla rinfusa, con tutte le marche di provenienza dalle singole ditte le une alle altre mescolate. Invece di portarle dalla stiva sul carro ferroviario, fa d’uopo disporle a terra o sotto i capannoni in uno spazio sufficientemente grande per unire le balle della medesima partita, distinguendole per le lettere che le segnano. Ogni balIa deve essere pesata, se ne deve estrarre un campione per l’eventuale arbitraggio; poi devono essere ricucite e caricate sul carro. Se manca lo spazio, se le balle destinate all’interno sono mescolate con quelle destinate all’estero, se i magazzini ed i capannoni sono colmi di merce, la efficienza di lavoro del metro lineare di calata scema grandemente: ed i carri devono inutilmente attendere un carico che a grande stento e con ritardo può compiersi;
  • le condizioni generali di attrezzatura del porto. Sebbene notevolmente migliorate in confronto a quelle che erano alcuni anni or sono, esse non sono sufficienti ad un lavoro normale intenso. Si vede ancora troppo lavoro fatto a mano; e si veggono, quando c’è furia, rimessi in onore certi macchinari di pesatura che parevano abbandonati da tempo. Con l’esecuzione della trazione elettrica e della nuova galleria dal molo nuovo alla stazione di Brignole, con l’aumento rapido nel numero degli elevatori elettrici, con lo sfollamento, con congrue indennità, dei ruoli degli operai e con una più efficace organizzazione del lavoro si dovrebbe giungere presto a caricare 2.000 carri e scaricare 500 carri al giorno, aspettando il momento in cui la direttissima ed il bacino Vittorio Emanuele consentano di aumentare assai più la produttività del porto. Per ora, bastando il porto al traffico normale, si attendeva dal tempo la soluzione ai problemi prossimi e lontani. Lo scoppio della guerra ha dimostrato che forse si è tergiversato troppo: e che ad un grande porto nazionale, come quello di Genova, converrebbe di essere attrezzato ed organizzato per sfogare un traffico di un terzo superiore al traffico normale. Attrezzato ed organizzato però non solo per quanto riguarda il porto, ma anche per le linee che ad esso fanno capo. Altrimenti l’insufficienza delle linee renderebbe inutili i capitali spesi nella attrezzatura del porto.

 

 

Tutte queste difficoltà, permanenti o temporanee, vecchie o nuove, hanno agito or l’una or l’altra successivamente e talora, in parte, in guisa cumulativa; ed hanno, ad ogni modo, condotto a conseguenze assai poco liete per l’industria italiana.

 

 

III

L’effetto più visibile dell’ingombro del porto è l’aumento delle spese di sbarco, imbarco, sosta e spedizione a carico del destinatario della merce. Ad ascoltare le lagnanze degli industriali e dei loro rappresentanti si sentono cose che paiono incredibili. Le lagnanze più gravi non sono contro la mano d’opera e contro l’organizzazione del lavoro da tempo attuata dal Consorzio. Anzi si ha l’impressione che questa del lavoro non sia una questione attuale. Anche coloro che non sono favorevoli alla regolamentazione del lavoro, ai turni ed ai vincoli del Consorzio, quasi riconoscono che la tariffa del lavoro, nella presente baraonda di prezzi e di abusi, è un qualche cosa di stabile su cui si può fare assegnamento. I salari pagati agli operai possono essere elevati; ma sono certi. Se le maestranze chiedessero salari maggiori di quelli fissati nelle tariffe, l’interessato può depositare la somma e ricorrere agli arbitri. Taluno potrà giudicare troppo breve la giornata di lavoro ed eccessivo l’obbligo di pagare aggiunte quando gli operai scarichino da un boccaporto più di 500 tonnellate al giorno; ma nelle attuali condizioni del porto e delle ferrovie sarebbe inutile e spesso impossibile scaricare di più.

 

 

La spesa normale del carico e scarico di una balla di cotone è calcolata a lire 1,20, corrispondente suppergiù alla tariffa generale di lire 3,40 per tonnellata stabilita dal Consorzio per il prezzo a cottimo del trasporto della merce da sotto paranco a terra. A me da persona competente è stato fatto il seguente conto delle reali spese che l’impresa di sbarco sostiene per effettuare il trasporto:

 

 

Sbarco diretto da piroscafo a terra

Sbarco per chiatte

Facchinaggio

L. 0,65

Nolo chiatta

L. 1,00

Confidente

L. 0,10

Custodia

L. 0,40

Divisione marche ecc.

L. 0,10

Consegna

L. 0,25

Consegna ecc.

L. 0,25

Divisione marche

L. 0,10

Totale spese

L. 1,10

Facchinaggio

L. 0,80

Lucro

L. 2,30

Confidente

L. 0,10

Tariffa

L. 3,40

Rimorchio

L. 0,40

Totale spese

L. 3,05

Lucro

L. 0,35

Tariffa

L. 3,40

 

 

Poiché in tempi normali lo sbarco su chiatta è l ‘eccezione, vedesi come già in tempi normali la spesa di facchinaggio in lire 0,65 rappresenti una porzione non principale della tariffa complessiva, la quale è assorbita sovratutto dai lucri e dai ristorni a favore delle diverse categorie di intermediari: imprese sbarco, spedizionieri, raccomandatari, capitani ecc. ecc.

 

 

In tempi straordinari, quando per ogni balIa si pagano, invece di lire 1,20, ben lire 10 e 15 e persino 20 e 30, il che equivale per tonnellata a 30 e 45 e forse 60 e 90 lire, la spesa del facchinaggio, anche se si suppone alimentata di una metà al disopra dei 65 ed 8o centesimi per balIa, diventa ancora meno rilevante. Si comprende come di questo fattore di spesa io non abbia sentito parlare da nessuno come di un qualche cosa che fosse interessante nel momento presente. È un fattore importantissimo, perché in tempi normali ad una variazione in meno del costo del facchinaggio dovrebbe corrispondere un perfezionamento tecnico generale del porto, con una riduzione generale di costi. Ma nell’urgenza dell’ora majora premunt, a ben altri carichi occorre por mente.

 

 

Ciò che veramente affligge gli utenti del porto è l’incertezza delle spese varie e straordinarie, sono gli abusi che spuntano e si moltiplicano come funghi nei momenti di ressa.

 

 

La merce deve essere scaricata su chiatte? Il chiattaiolo carica 100 tonnellate di merce su una chiatta e pone un uomo, qualche volta un uomo ed un cane, a guardia di 5 o 6 chiatte. Ma poiché su quelle 5 o 6 chiatte vi possono essere 100 partite di merci diverse, il chiattaiolo fattura ai singoli destinatari 5 lire di guardianaggio, ricuperando così centuplicata la spesa realmente fatta. Nei tempi tranquilli nessuno discorre delle chiatte; le quali spuntano fuori quando c’è ressa e raccolgono messi superbe di diritti d’ogni specie.

 

 

Non bastano le chiatte? Ed allora accorrono da ogni porto d’Italia velieri che lucravano modesti noli col cabotaggio; ed accorrono a ragione poiché, senza correre nessun rischio di navigazione, senza quasi alcuna spesa, questi velieri, trasformati in magazzini galleggianti, raccolgono, rimanendo quieti nel porto di Genova, messi d’oro. Si racconta di velieri, i quali possono valere da 10 a 12.000 lire, i cui proprietari in poco tempo ricuperano il capitale speso. Leggo in un memoriale dei cotonieri:

 

 

Se riflettete che ognuno di questi galleggianti non contiene che 800 o 1.000 balle e che all’inizio si pretendeva un nolo di 300 lire al giorno, cifra che ora è salita a 600, a 800 e forse a 1.000 lire al giorno, comprenderete di leggeri come si arrivi alle cifre iperboliche di 15, 20 ed anche 30 lire per balIa. Quando pensate che vi sono oltre 100.000 balle in velieri, è evidente che i proprietari di questi galleggianti possano a loro agio eccedere nelle loro pretese esagerate, perché se non si vuol cedere non si ha d’altra parte il mezzo di sottrarsi alle loro pretese scaricando la merce.

 

 

Se si riflette che i chiattaioli ed i padroni di velieri sono gente assai influente, che moltissime persone sono a Genova interessate nelle chiatte e che in certi periodi della storia recente genovese costoro erano ascoltati dalle autorità politiche locali, si comprende la ragione per cui gli industriali del nord lamentino l’esistenza a Genova di tutta una fitta organizzazione la quale ha interesse a prolungare ed intensificare l’ingombro del porto. Il consorzio ha cercato, tutti lo riconoscono, di reagire contro queste organizzazioni; e molti augurano che esso riesca a distruggere tutta questa vegetazione parassitaria ed a regolare con tariffe chiare, semplici e costanti il costo dei servizi portuari, normalmente accessori e straordinariamente importantissimi.

 

 

Insieme con l’aumento dei costi portuari, che dalle lire 1,20 normali sono giunti a 10, 15 e, come vedemmo sopra, persino, in casi che voglio credere veramente eccezionali, a lire 30 per balla di cotone, gli industriali hanno dovuto subire inconvenienti svariati per i ritardi e non di rado per l’impossibilità di ottenere la merce necessaria per dar lavoro ai loro stabilimenti. L’Istituto cotoniero italiano ha fatto eseguire alcuni rilievi statistici assai interessanti sullo stato degli approvvigionamenti di cotone dei soci al 5 e 25 gennaio e 13 febbraio, ed è in corso la statistica relativa alla fine di febbraio. Darò alcune delle risultanze principali di questi rilievi:

 

 

5 gennaio

25 gennaio

13 febbraio

Numero dei fusi di filatura dei soci

2.568.000

2.569.000

2.546.900

Balle di proprietà dei soci giacenti nel porto

55.754

108.984

114.508

Balle in stabilimento

24.688

27.763

26.243

Balle acquistate nei successivi periodi da colleghi e mercanti per sopperire al mancato inoltro da Genova

14.685

5.684

5.068

Importo del sovraprezzo pagato

83.050

430.786

380.000

Mancata produzione nei successivi periodi espressa in chilogrammi

1.667.505

669.600

675.500

Perdita subita dalla maestranza per mancate mercedi in lire

343.250

150.050

114.400

 

 

È notevole come le giacenze in porto dei soci dell’Istituto cotoniero crescano di volta in volta, mentre rimangono stazionari gli approvvigionamenti nella fabbrica. In via normale ogni stabilimento dovrebbe avere la materia prima per almeno un mese, onde poter disporre la lavorazione con tranquillità e poter fare le miscele più opportune per avere un tipo di filato costante. Invece spesso gli stabilimenti sono costretti ad andare innanzi di giorno in giorno, con riserve miserrime. Al 13 febbraio vi erano 9 stabilimenti che non avevano affatto riserve, 1 che aveva tanta materia prima da poter lavorare per tre quarti di giorno, 4 per 1 giorno, 4 per 2 giorni, 1 per 2,5, 5 per 3, 5 per 4 giorni, 2 per 5 giorni, 4 per 6 giorni, in tutto 35 stabilimenti su un totale di 62, che avevano al massimo la vita assicurata per una settimana lavorativa. La maggior parte degli altri non giungeva ad un mese di riserve di cotone greggio; talché molti erano quelli che avevano dovuto acquistare cotone da colleghi più fortunati negli arrivi, e da mercanti, pagando rilevanti sovraprezzi; e numerosi erano i casi di sospensioni forzate di lavoro, tanto più dolorose in quanto si sarebbe potuto lavorare in pieno e con profitto.

 

 

Numerosi sono i rimedi che furono proposti per ovviare alle conseguenze dell’ingorgo portuario e delle difficoltà industriali che ne sono la inevitabile conseguenza; e sarebbe ingiusto non riconoscere che il Consorzio del porto, le ferrovie, la Camera di commercio, le autorità centrali hanno cercato di contribuire nella misura del possibile all’auspicato sfollamento del porto. Le difficoltà sono molte: né furono tutte sormontate.

 

 

Un concetto fecondo, che potrà continuare ad essere applicato anche dopo scongiurata la crisi odierna, è quello di prolungare, per così dire, idealmente le calate ed i binari del porto fino ad un punto centrale della pianura padana, dove possono aver luogo molte operazioni che la angustia dello spazio rende costose e complicate a Genova. Disgraziatamente, a differenza dei grandi porti del nord d’Europa, Genova non possiede ora e non possiederà forse mai ampiezza di calate, sviluppi di binari, comodità larghissime di approdi. Il porto è uno specchio d’acqua creato artificialmente a ridosso della montagna e non, come per lo più accade nei porti settentrionali, una serie di bacini, succedentisi a vista d’occhio lungo un fiume navigabile. Per giunta, le comunicazioni fra il porto e l’entroterra si devono compiere attraverso a due e in avvenire tre gallerie ferroviarie e ad una strozzatura ferroviaria, quella di Sampierdarena, che in avvenire diventeranno due. Se i punti estremi della rete ferroviaria (Chiasso, Luino, Ala ecc.) si congestionano o se qualcuna delle stazioni di transito è ingombra, bisogna sospendere le spedizioni anche da Genova, e le merci si accumulano sulle banchine, rendendo difficili accosti, sbarchi, imbarchi e mettendo in onore la chiatta, questo flagello del porto. Pare che per i cotoni il consorzio, la ferrovia e la dogana si siano messi d’accordo per creare ai magazzini raccordati di Milano una specie di succursale del porto, dove il cotone verrà spedito da Genova alla rinfusa, come vien viene, salvo ad eseguire ivi, su più ampio spazio, con maggiori comodi, le operazioni di smistamento, di campionatura, di assortimento, di sdoganamento e di inoltro ai destinatari. Qualche difficoltà deve ancora essere superata, specie per quanto riguarda la responsabilità delle compagnie di assicurazione, la quale oggi si arresta al porto di Genova e dovrebbe prolungarsi sino alla succursale interna del porto.

 

 

L’idea è feconda, e gioverebbe se fosse estesa ad altre merci e perfezionata. Si tratterebbe di creare una corrente continua e costante di carri dal porto dove lo spazio è carissimo ad un punto centrale della pianura dove Io spazio è di gran lunga più abbondante. Da questo punto centrale si dovrebbero poi avviare molte correnti minori, variabili, intermittenti alle stazioni destinatarie dell’interno ed alle stazioni di transito internazionale, correnti che dovrebbero essere acconciamente regolate a seconda della potenzialità della linea e delle esigenze del traffico. Alcuni pensano anzi che lo stesso concetto potrebbe essere applicato altresì per la corrente che discende dall’estero o dall’alta Italia per prendere imbarco a Genova. La costituzione di un centro su cui fossero concentrate tutte le spedizioni su Genova, permetterebbe di formare in quel centro su un unico treno i carichi completi delle merci destinate ad ognuno dei piroscafi la cui partenza fosse avvisata da Genova. I treni partirebbero da quel centro appena in tempo per giungere sul porto e scaricare immediatamente. Così le calate sarebbero di gran lunga meno ingombre, la potenzialità del porto sarebbe assai accresciuta, le due correnti contrarie del traffico non congestionerebbero periodicamente la linea ferroviaria che unisce Genova al centro; ed il porto finirebbe per ricuperare sulla maggiore massa dei transiti le somme perdute per le minori manipolazioni e le minori soste fatte subire alla merce tra chiatta e banchina.

 

 

Un’altra idea feconda è quella di far servire i porti vicini di Savona e Livorno per sfogare il traffico che tenta invano di incanalarsi attraverso Genova. Tanto l’uno che l’altro porto hanno il vantaggio di disporre di linee ferroviarie indipendenti: anzi Savona possiede un impianto di funivia capace di trasportare a San Giuseppe, ad esempio, da 700 ad 800 balle di cotone al giorno. Le maggiori difficoltà, oltre quelle relative alle operazioni doganali, che non sono insormontabili, dipendono da male abitudini locali. Per Savona si sono dette e scritte cose incredibili intorno ai diritti che le corporazioni operaie – bisogna proprio dire «corporazioni» poiché pare di essere ricaduti in pieno corporativismo monopolistico! – vantano per impedire agli elevatori elettrici di funzionare. Per un altro porto sentii raccontare di dinieghi perentori opposti dalle compagnie ad assicurare contro l’incendio il cotone ivi destinato, dopoché, in occasione di un principio di incendio a poche decine di balle, sorsero pretese stravaganti ad indennità di decine di migliaia di lire da parte di coloro che avevano cooperato al salvataggio delle balle gettandole in acqua.

 

 

Questo è forse il nodo del problema; ed è un nodo essenzialmente morale. Finché coloro che vivono in un porto non si persuaderanno che la merce non passa attraverso alla loro città per procurare guadagni e lucri ad essi, sibbene ha bisogno di transitare il più rapidamente e il meno costosamente possibile; è vano sperare di rendere i nostri porti uno strumento permanente e grandioso di traffici internazionali. Oggi la merce è costretta a passare attraverso i porti italiani, per la chiusura dei porti del nord; ed opimi sono i lucri che si ottengono negli improvvisati punti di transito, a spese degli stranieri e dei connazionali, che dall’improvvisa irruzione dei primi si trovano premuti e danneggiati. Passata la guerra, domani tutto ritornerà allo stato di prima; ed invano da taluni preveggenti si sarà accarezzata la speranza di conquistare all’Italia una parte di questo traffico internazionale. Chi vorrà venire da noi a pagare tariffe di chiatta, di veliero, di salvataggio?

 

IV

Il problema «italiano» del carbone ha cause complesse; né è possibile pensare a soluzioni facili e pronte. Cercherò di delineare, con la maggiore sobrietà possibile, cause e rimedi; avvertendo, però, che né il quadro dei rimedi potrà essere compiuto, né la indicazione dei rimedi «efficaci»potrà sembrare soddisfacente a chi immagina che una soluzione pronta sia in potere di privati o di governanti. Dopo avere a Genova discorso con parecchi competentissimi, appartenenti a ceti aventi gli interessi più svariati, l’unica convinzione veramente salda che mi sono formato è quella della complessità e difficoltà del problema. Una opinione diversa, mi sia consentito di dirlo, può far parte solo del bagaglio intellettuale di scrittori e uomini politici desiderosi – anche in perfetta buona fede – di illudere con parole grosse la opinione pubblica. Né io spero che la esposizione che farò possa essere compiuta, in tutto precisa, e scevra di errori. Occorrerebbe, per ciò, essere vissuto per anni ed anni nel porto, conoscere, per esperienza vissuta, il meccanismo mirabile dei noli, del traffico, del mercato del carbone all’origine ed all’arrivo. Ma, forse, chi tutto questo sul serio conoscesse, non avrebbe nessuna voglia di scrivere; sicché il pubblico conviene si adatti ad avere quella rappresentazione imperfettissima dei fatti che un «laico» può offrire.

 

 

Il fatto essenziale può essere esposto in una tabellina brevissima, che riassume i prezzi ed i noli di una qualità primaria di carbone da gas inglese (il newpelton) a tre date differenti: alla vigilia dello scoppio della guerra europea, appena dichiarata la guerra italiana contro l’Austria ed in un giorno dei primi del gennaio corrente.

 

 

Metà luglio 1914 Fine maggio 1915 4 gennaio1916
1. Prezzo f.o.b. sul mercato inglese d’origine in scellini per tonnellata 

13,25

23

23

2. Prezzo c.i.f. a Cenova in scellini per tonnellata

21

54

102

3. Differenza fra 1) e 2) in scellini per tonnellata

7,75

31

79

4. Di cui nolo in scellini per tonnellata

7,50

30,25

66,50

5. Cambio percentuale su Londra delle lire italiane sulle lire sterline

100,55

111,75

124,08

6. Prezzo dello scellino da nominali lire italiane1,261

1,268

1,409

1,565

7. Aumento del prezzo dovuto al cambio, in lire italiane

0,15

8 31

8. Prezzo c.i.f. (cfr. sopra n. 2) tradotto in lire italiane al cambio del giorno

26,63

76,10

159,60

9. Prezzo a Genova per consegna su carro ferroviario, in lire italiane per tonnellata

30

86

190

10. Differenza fra 8) e 9), in lire italiane per tonnellata

3,37

9,90

30,40

 

 

Ho cercato di costruire la tabellina in modo da mettere in risalto le varie responsabilità, per così dire, dell’aumento verificatosi nel prezzo del carbone.

 

 

All’origine, abbiamo un prezzo f.o.b., ossia free on board, consegnato franco sul piroscafo in partenza dal porto inglese (Cardiff, Newcastle ecc. a seconda delle qualità del carbone). Il prezzo all’origine è aumentato di circa 10 scellini per tonnellata, per cause relative all’organizzazione del lavoro, della produzione e del traffico in Inghilterra: centinaia di migliaia di minatori arruolatisi nell’esercito di Lord Kitchener, aumento dei salari degli operai rimasti, in relazione al crescere del costo della vita, minore efficienza media dei minatori rimasti dopoché i più vigorosi si erano arruolati e di quelli nuovi racimolati qua e là in furia dai coltivatori delle miniere; insufficienza, in parte, del lavoro ferroviario e saltuario ingorgo dei porti per le esigenze militari e dell’ammiragliato. Su questa causa di aumento del prezzo complessivo del carbone non ritornerò più, sia perché essa è assolutamente fuori del campo d’azione di ogni rimedio che potesse essere immaginato in Italia, sia perché, a parer mio, essa non è suscettibile di un qualsiasi rimedio nemmeno da parte dell’Inghilterra; e noi ci possiamo soltanto augurare che il male non si aggravi col proseguire della guerra.

 

 

Il secondo elemento del rincaro del carbone è dato dalla cresciuta differenza (n. 3) fra il prezzo f.o.b. all’origine ed il prezzo c.i.f. all’arrivo a Genova. Il prezzo c.i.f. (iniziali delle parole inglesi cost, insurance, freight, ossia prezzo di costo per l’armatore all’origine, assicurazione e nolo) è il prezzo negoziato sul mercato di Genova per il carbone reso sul vapore in arrivo, nel momento in cui cominciano a decorrere i giorni stipulati nel contratto di noleggio per lo scarico della nave (le cosidette stallie e controstallie). Questa differenza fra il prezzo all’origine ed il prezzo all’arrivo è grandemente cresciuta. Era di 7,75 scellini nel luglio 1914, divenne di 31 scellini all’inizio della guerra italiana e balzò a 79 negli ultimi giorni. In massima parte (come si vede dalla linea 4) questa differenza è data dal nolo marittimo, che fu di 7,50, 30,25 e 66,5o alle tre date. Mentre però nel luglio 1914 e nel maggio 1915 la differenza fra i due prezzi, all’origine ed all’arrivo, era quasi tutta assorbita dal nolo, con un piccolissimo margine per l’assicurazione, oggi rimangono 12,50 scellini di differenza, oltre il nolo. Questi 12,50 non sono assorbiti certamente dall’assicurazione marittima normale e dal rischio di guerra, sia pure accresciuto dai siluramenti operati nel mediterraneo dai sottomarini tedeschi. Ho ragion di credere che l’assicurazione marittima, compreso il rischio di guerra, non superi ora I’1,50% del prezzo c.i.f. Genova, dedotta la metà del nolo, ossia non superi 1 scellino per tonnellata, tenendosi piuttosto al di sotto di questa cifra addotta come un massimo. Gli altri 11,50 scellini di differenza devono essere un fatto prevalentemente d’indole locale, inerente al porto ed al mercato dei carboni di Genova; e quindi le sue cause possono assimilarsi a quelle di cui si discorrerà in ultimo (sotto linea 10).

 

 

Il prezzo c.i.f. a Genova viene sempre calcolato, anche sul mercato genovese, in scellini per tonnellata. Dovendolo trasformare in lire italiane, occorre tener conto del cambio. Ecco il terzo grande elemento di rialzo: il rialzo del cambio dal 100,55 al 111,75 ed al 124,08 alle tre date assunte sopra: grazie al quale lo scellino, che alla parità varrebbe lire italiane 1,261, costò invece rispettivamente lire italiane 1,268 alla metà luglio 1914, lire italiane 1,409 a fine maggio 1915 ed 1,565 al 4 gennaio 1916. Il carbone, che se il cambio fosse stato alla pari, avrebbe avuto il prezzo di lire italiane 26,48 – 68,10 – 128,60 alle tre date, costò invece, per il rincaro del cambio, lire italiane 26,63 – 76,10 e 159,60 come si legge nella tabellina; con un sovrappiù di lire italiane 0,15 – 8 e 31. Anche su questa causa importantissima di aumento del prezzo del carbone, a cui sono da attribuirsi da 30 a 35 lire del maggior prezzo pagato all’interno, a seconda delle qualità, non ritornerò per ora: non essendo una causa specifica al carbone e meritando perciò un discorso apposito.

 

 

In calce alla tabellina, si legge ancora il prezzo in lire italiane del carbone posto sul carro ferroviario sulla banchina del porto e pronto alla partenza per l’interno. È il prezzo che maggiormente interessa il consumatore. Il rialzo è enorme: da 30 a 190 lire. Il sovrappiù di questo prezzo sul carro in confronto al prezzo c. i. f. su vapore Genova tradotto in lire italiane è trascritto nell’ultima linea (n. 10) della tabellina ed è uguale alle cosidette «spese di porto». Prima della guerra europea il trasporto di una tonnellata di carbone da vapore a carro ferroviario costava lire italiane 3,37 per tonnellata; allo scoppio della guerra italiana costava già 9,90 ed ora costa 30,40. Se a queste lire 30,40 aggiungiamo gli 11 scellini circa, di cui ho detto sopra e che un tempo si riducevano a mezzo scellino, potremo dire che le spese relative, direttamente od indirettamente, al porto di Genova sono, in cifra tonda, aumentate da circa 4 a circa 45 lire. Ecco la quarta grande causa di aumento del prezzo del carbone.

 

 

Riassumendo, si può dire che, se il prezzo del carbone – prezzi all`ingrosso, a Genova, su carro ferroviario è aumentato da 30 a 190 lire, ossia di 160 lire, l’aumento è dovuto:

 

 

1. al rialzo del prezzo all’origine per L. 12,50
2. al rialzo del nolo ed assicurazione L. 75
3. al rialzo del cambio L. 31
4. al rialzo delle spese attinenti direttamente od indirettamente al porto L. 41,50

Aumento totale

L. 160,00

 

 

Naturalmente queste cifre vanno considerate con quella ragionevole larghezza, la quale è inerente al problema, variabile di giorno in giorno, di qualità in qualità di carbone, di porto in porto d’origine. Tutto sommato, però, ritengo che le cifre ora addotte siano una rappresentazione tollerabilmente accettabile della realtà.

 

 

Avendo già osservato che sul rialzo del prezzo all’origine non v’è alcuna azione possibile e che dal rialzo del cambio converrebbe fare un discorso a parte, rimangono i due fattori più importanti del rialzo: 75 lire di più per nolo ed assicurazioni e 41 – 42 lire circa per spese relative, anche indirettamente, al porto. Sono due fattori, fra di loro strettamente e si potrebbe dire inestricabilmente riuniti, inquantoché il rialzo dei noli ha influito al rialzo delle spese di porto, e viceversa l’ingorgo del porto ha contribuito per riverbero sul rialzo dei noli.

 

 

Intorno alle cause di questi due fatti farebbe d’uopo avere molto spazio a disposizione; troppo di più di quanto non possa offrirne nelle presenti contingenze un giornale quotidiano. Perciò, e per brevità, accennerò di passata a quelle che sono le cause ben note del rialzo generale dei noli nel mondo: la scomparsa dai mari delle bandiere germanica ed austro-ungarica; la parziale utilizzazione di una parte sola delle navi nemiche sequestrate nei porti dall’intesa; lo storno di una frazione cospicua delle bandiere belligeranti ai trasporti militari, intensificati negli ultimi mesi dalla spedizione di Salonicco; la parziale inutilizzazione della bandiera greca in seguito a timore di fermo nei porti dell’intesa. Tutto ciò non poteva non produrre una rarefazione delle navi disponibili per il commercio e quindi non poteva non avere per effetto un forte rialzo dei noli. Siccome io qui ricerco le cause dei fatti e per ora non accenno ai rimedi, né dò un giudizio morale sui fatti stessi, così è inevitabile la conclusione che il rialzo dei noli fu quale, date le cause, doveva essere. Né mi meraviglierei che il rialzo continuasse ancora; e che, dopo aver pagato un nolo decuplo di quello che si pagava prima della guerra europea, si finisse di pagare anche quindici volte o più il nolo originario. Ogni sottrazione, per siluramenti, mine e sovratutto per destinazione militare, al naviglio mercantile ha ed avrà per effetto un rialzo dei noli. Trattasi inoltre, si rifletta, di una merce il cui prezzo non cresce solo in ragione direttamente proporzionale alla diminuzione della quantità offerta ed all’aumento della quantità domandata; ma in ragione più che proporzionale. Come per il grano la deficienza nel raccolto di un decimo può produrre un aumento nel prezzo di una metà, così per il tonnellaggio navale, una relativamente piccola deficienza può produrre un fortissimo aumento nei noli. Grano e tonnellaggio navale sono due merci di prima necessità, per il consumo e per l’industria o per tutti e due insieme; e pur di ottenerle, i consumatori rinunciano ad altri consumi secondari e fanno a gara per procurarsele. Rincarano il frumento, il carbone, il cotone? Consumatori ed industrie sono presi dall’affanno e fanno urgenti richieste; cresce il margine di profitto; conviene perciò noleggiare navi a prezzo sempre più alto; i noli aumentano ed il loro aumento reagisce a sua volta sui prezzi del frumento, del cotone e del carbone.

 

 

V

Ho cercato sopra di mettere in luce come, sulle 160 lire di aumento (da 30 a 190) del prezzo del carbon fossile reso su carro ferroviario a Genova, 12,50 fossero dovute all’aumento del prezzo all’origine, 75 al rialzo dei noli e dell’assicurazione marittima, 31 all’inasprirsi del cambio, e 40-42 circa a cause direttamente od indirettamente connesse col porto. È quest’ultima cifra la quale subito attrae la nostra attenzione; inquantoché sembra a primo aspetto che sia maggiormente facile agire su di essa che sugli altri elementi del rialzo.

 

 

La parola «cause connesse col porto» non deve essere però interpretata nel senso che i servizi portuari siano essi direttamene la sola causa dell’aumento da 4 a 45 lire circa per tonnellata di carbone. A bella posta ho sempre aggiunta la parola indirettamente, per indicare che si trattava di fatti i quali hanno un certo rapporto col porto, più che con la miniera od il noleggio, od il cambio e che perciò meglio possono riassumersi con quella che con qualsiasi altra indicazione. In realtà il fatto è estremamente complesso. Sicché può dirsi che a produrlo abbiano contribuito tutte le circostanze le quali riescono a determinare il prezzo di una merce su un mercato.

 

 

Poiché importa non dimenticare un fatto principe: che Genova non è solo il maggior «porto» carbonifero ma è anche il solo grande «mercato» di carbone dell’Italia ed uno dei maggiori mercati carboniferi del mondo. Se Genova fosse solo un porto attraverso a cui il carbone passa, questa cifra sarebbe di gran lunga minore di 45 lire: perché sarebbe uguale solo alle pure spese di scarico da nave e carico su carro ferroviario; le quali, per quanto siano cresciute, costituiscono la minor parte del totale. Io decomporrei così,senza garanzie di esattezza assoluta, quelle cifre di 4 e di 45 lire

 

 

Prima della guerra europea

Adesso

Spese di porto propriamente dette L. it.

3

6-7

Altri fattori del mercato dei carboni

1

38-39

 

 

Le maggiori spese di porto propriamente dette sono tutt’altro che trascurabili; ma non assurgono all’importanza degli altri fattori e agiscono sul mercato dei carboni. Il quale non è, come dissi, un mercato puramente genovese, ma un mercato mondiale. Qui hanno sede i rappresentanti delle maggiori miniere inglesi ed ora anche americane; qui vi sono cospicui depositi di carbone in attesa di vendita; qui si fanno giornalmente contratti per migliaia di tonnellate contanti ed a termine. In un mercato attivo, come quello di Genova, si incontrano continuamente domande ed offerte di carbone; prezzi oscillano giornalmente in funzione di avvenimenti attuali di avvenimenti futuri previsti: e si negoziano quantità esistenti quantità future. Come è possibile in un mercato simile pretendere che il prezzo collimi esattamente con la somma dei soli elementi di costo conosciuti: prezzo all’origine, nolo, assicurazione e spese di porto? Il prezzo alla lunga tende ad adeguarsi a questi fattori ma oscilla spesso al disopra ed al disotto, in rapporto ai prezzi futuri previsti all’origine, ai noli anch’essi probabili, alla domanda prevista del consumo. Ciò accade in ogni merce ed accade quindi anche per il carbone. Aggiungo essere una grande fortuna per l’Italia che il porto di Genova sia non solo un grande porto, ma grande mercato, poiché, se così non fosse, l’Italia non potrebbe influire sui prezzi del carbone, ma dovrebbe accettare senz’altro quelli inglesi od americani: non esisterebbero depositi cospicui a Genova ed a Savona, i quali funzionano da volante regolatore nel meccanismo dei prezzi: ed oggi assisteremmo a volate di prezzi ben più stupefacenti di quelle già verificatesi. Quella buona gente, che avendo visto rialzare il carbone a Genova, si è immaginata di fare un’economia andando a comprare a Cardiff o ad Hampton Road ha dimenticato che un grande ed attivo mercato locale è il meccanismo più perfetto che, finora almeno, sia stato inventato per ridurre i prezzi al minimo. Dove si incontrano centinaia di produttori, rappresentanti, negozianti, armatori, consumatori, tutti alla cerca di un profitto, dove c’è una borsa di merci, vi è ogni probabilità che, per la reciproca concorrenza, i prezzi in media tendano ad essere minori di quelli che, fatti bene i conti, può spuntare un incompetente consumatore, partito nella illusione di saltare i profitti degli intermediari, alla scoperta del carbone al costo in una miniera del Galles inglese o della Pennsylvania. Il costo dell’incompetenza è certo maggiore del profitto dell’intermediario.

 

 

Come mai, se questa è la verità, è accaduto che il margine delle spese di «mercato» non dirò più delle spese di «porto» si sia decuplicato dopo l’inizio della guerra europea? I fattori sono molti: e, senza avere affatto la pretesa di elencarli tutti, accennerò ad alcuni di essi.

 

 

  • In primo luogo metterò la insufficienza del servizio ferroviario. Ma debbo avvertire subito che trattasi di insufficienza relativa, non assoluta. Ho l’impressione che i funzionari ferroviari, i quali hanno bene meritato dal paese sia durante il periodo della mobilitazione sia in quello della guerra guerreggiata, abbiano con molto fervore cercato di assolvere il loro compito. Nonostante l’assorbimento di carri avvenuto nella zona delle retrovie assorbimento inevitabile e contro il quale non si possono muovere critiche se non da gente disposta a criticare, come colpa imperdonabile, una eventuale trascuranza da parte dell’intendenza militare di ogni più lontana possibilità di movimenti di truppe da ordinarsi dallo stato maggiore nonostante che più di un terzo dei carri disponibili sia, ed assai giustamente, accaparrato dall’autorità militare, il porto di Genova ha avuto un movimento di carri caricati superiore agli anni trascorsi. Ricorderò solo i mesi da giugno in poi:

 

 

1912

1913

1914

1915

Giugno

29.115

29.155

27.181

33.406

Luglio

31.993

32.914

30.436

35.365

Agosto

31.723

28.049

20.643

32.431

Settembre

28.594

25.515

18.853

31.574

Ottobre

33.708

28.742

23.474

33.987

Novembre

32.878

30.582

30.080

36.137

Dicembre

32.190

33.312

29.457

35.436

Totale anno

361.054

366.637

326.937

394.255

 

 

Nel mese di dicembre 1915 si giunse a caricare in un giorno 1.705 carri, mentre nel dicembre 1914 la punta massima era stata di 1.447 carri e nel dicembre 1913 di 1.442 carri. Se si pensa che la massima potenzialità teorica di carico al porto di Genova è di 2.000 carri; e che questo massimo carico si potrebbe raggiungere solo in condizioni ideali, impossibili a verificarsi in pratica (calate perfettamente libere, bel tempo al porto, ai Giovi, all’interno, carico da elevatori, senza uso di chiatte, vie perfettamente libere, nessun ingombro in nessuna stazione ricevitrice, ecc. ecc.), si vede che praticamente era quasi impossibile fare di più. Forse si sarebbe potuto aumentare il carlco se si fosse soppressa la metà dei residui treni passeggeri, se i lavori in corso per la direttissima fossero più avanzati, se il nuovo grande bacino Vittorio Emanuele fosse ultimato. Ma è inutile, parmi, occuparsi ora dei se, il cui verificarsi farebbe alzare al cielo gli strilli dei passeggeri o che si sarebbero verificati con maggiore prontezza di deliberazione e di attuazione in passato da parte di parlamenti, governi, corpi locali, corpi consultivi, ecc. L’insufficienza ferroviaria di Genova non cesserà se non quando le ferrovie ed il porto siano attrezzati in modo da sopperire di anno in anno ad un traffico notevolmente maggiore delle massime punte a cui si sia arrivati in passato. Attuare un simile programma è di una difficoltà grande, specie se non si vuole turbare il traffico esistente; ma, finché non sia stato attuato, sempre si lamenteranno di tratto in tratto ingorghi di merce ed insufficienze ferroviarie.

 

 

Il carico di carri ferroviari fu nei mesi scorsi insufficiente non, come parmi di avere dimostrato, in via assoluta, ma in relazione al traffico crescente. La guerra italiana interruppe bensì i traffici con gli imperi centrali: ma riversò sul Tirreno e sovratutto su Genova il traffico dell’Adriatico, costrinse i carri a più lunghe percorrenze, crebbe l’urgenza del traffico militare e d’ordine pubblico. Il commercio «ordinario» è probabile sia stato peggio servito di prima: poiché i più numerosi carri dovettero servire ad un traffico assai maggiore ed ogni servizio, specialmente tra quelli che non avevano carattere d’urgenza militare o politica, dovette essere sacrificato. Invece di 1.200 carri in media per ogni giorno, lavorativo o non, avrebbe fatto d’uopo disporre di 1.500 o più carri; ma da persone competenti mi venne assicurato che ciò era per ragioni tecniche assolutamente impossibile;

 

 

  • in secondo luogo le assegnazioni privilegiate di carri a taluni consumatori. Entro un certo limite, la guerra ha reso inevitabili le assegnazioni privilegiate di carri e quindi di banchine, e di elevatori elettrici e di accosti a talune categorie di piroscafi. Quando il comando del corpo d’armata richiede un dato numero di carri, non vi è discussione possibile. La difesa del paese passa avanti a tutto. Nemmeno si può discutere se l’autorità militare richiede 100 e poi di fatto utilizza solo 80 o 70 carri. Che direbbero i critici quando, per non essere stata ultra-prudente, l’autorità militare non avesse potuto provvedere per tempo ad una esigenza dello stato maggiore? Neppure si può discutere intorno al privilegio di carri ed accosti a favore dello stato, dei suoi stabilimenti militari e di quelli assimilati che fabbricano munizioni da guerra. Salus respublicae suprema lex esto.

 

 

Il commercio genovese dei carboni si lagna non di questi, ma di altri privilegi. Senza voler discutere il problema particolare, intorno a cui si sono sparsi fiumi d’inchiostro, noto che le assegnazioni privilegiate di carri e di accosti, quando non siano ridotte al minimo possibile per ragioni strettamente militari e di utilità pubblica, sono dannose e producono aumenti di spese di porto e di nolo. Prima di chiedere un accosto privilegiato, fa d’uopo che comuni, ferrovie, autorità politiche facciano ogni sforzo: lascino la città in condizione di semibuio, dimezzino le corse, riducano al minimo il consumo pubblico del carbone. Che cosa vuol dire invero un accosto privilegiato? Che su 10 piroscafi, ad esempio, in attesa di accosto alla banchina per scaricare, il decimo salta sopra al turno degli altri e scarica anzitempo. Gli altri nove debbono aspettare, due tre e più giorni a scaricare; e frattanto pagano le controstallie. Queste, che normalmente erano di 20-25 centesimi al giorno e per tonnellata di carbone, sono salite ora ad 1 lira e persino 1,50 al giorno e per tonnellata.

 

 

L’armatore, che, navigando, guadagnava un nolo di 7 scellini per viaggio, perdeva in passato poco a star fermo in avamporto e si contentava di un indennizzo piccolo: oggi che, navigando, guadagna noli di 60-70 scellini, pretende indennità maggiori. Prima, sapendo di potere scaricare subito, si adattava ad aspettare senza pretendere di far decorrere subito i giorni assegnati per il carico. Oggi, premuto dal desiderio di guadagnare e spaventato dal pericolo di attendere, stipula che i giorni delle stallie e controstallie decorrono non, come accadeva prima, dal momento della ammissione in porto, ma dal momento della presentazione in avamporto o magari nelle rade di Vado e S. Margherita. Se gli accosti privilegiati fanno perdere inoltre tempo ai non privilegiati, si può immaginare a che altezze possano salire le indennità dovute agli armatori. Si parla di carbone, per cui furono dovute pagare 20 e fino a 30 lire per tonnellata di pure controstallie per ritardi in avamporto di 20 e 30 giorni. Chi ha l’accosto privilegiato scarica con una spesa di 2 lire; ma cioè produce un aumento nel costo dei meno fortunati; un rialzo dei rischi dei piroscafi che fanno rotta per Genova ed un rialzo correlativo dei noli. Tutti i prezzi si influenzano a vicenda; e non si può negare che in parte il rialzo dei noli dell’Inghilterra è dovuto a cause nostre. Oggi alla distribuzione dei piroscafi e alla assegnazione degli accosti provvede una commissione presieduta dal presidente del Consorzio e composta di un rappresentante del ministero della guerra e di uno di quello degli interni. La commissione decide inappellabilmente;

 

 

  • l’arrivo irregolare della merce. Riferendomi al solo carbone, noterò che, forse sperando inesplicabilmente in un ribasso, molti industriali dell’entroterra attesero luglio, attesero agosto e settembre, decidendosi tardi ad ordinare. Così accadde che nelle quattro settimane dal 24 settembre al 21 ottobre, arrivarono d’un colpo 324.369 tonnellate di carbon fossile. Era impossibile sfogare tutta questa massa di piroscafi e di carbone arrivata in un sol colpo, e fu allora che si produsse l’ingorgo, si innalzarono mucchi enormi sulle banchine, si occuparono le chiatte; si cominciarono a pagare controstallie crescenti; i chiattaioli diventarono sempre più esigenti; si intensificarono, per la non facile sorveglianza, i furti; si rese difficile il carico, perché i carri ferroviari si muovono male a banchine ingombre. Le giacenze di carbone sul porto che il 13 marzo 1915 erano di 133.710 tonnellate ed ancora il 7 agosto erano di 133.310 tonnellate, giunsero il 23 ottobre alla cifra di 287.210 tonnellate, mantenendosi alte fino al 20 novembre, con 271.370 tonnellate. Il 20 novembre le navi in avamporto e nelle rade di Vado e S. Margherita in attesa di accosto giunsero al numero di 52: una vera flotta che perdeva tempo, faceva pagare indennità fortissime, persino di 5.000-6.000 lire al giorno, ai ricevitori e diffamava all’estero il buon nome del porto di Genova.

 

 

A sfollare il traffico si presero vari provvedimenti; di cui il principale fu di dirigere alcune navi a scaricare a Livorno, Savona, Porto Vecchio, Noli, Oneglia, Vado, Spezia, S. Margherita. Non è un’allegria per il consumo, sebbene questo abbia avuto il condono del 75% delle maggiori eventuali spese ferroviarie; essendo le spese di scarico, in porti talvolta non sufficientemente attrezzati, maggiori e più alte le provvigioni e le spese per rischi di ogni genere per gli spedizionieri. Ma un certo effetto si ottenne. Le navi in attesa di scarico erano, tra carbone, granaglie, merci varie, solo più 30 al 3 gennaio e verso il 10 gennaio si dovevano essere ridotte a circa 10. Contribuì al buon risultato la diminuzione degli arrivi. Contro a 324.369 tonnellate di carbone giunte nelle quattro settimane dal 24 settembre al 21 ottobre stanno 175.658 tonnellate giunte dal 21 ottobre al 18 novembre, 142.504 tonnellate dal 19 novembre al 16 dicembre e 67.077 tonnellate nelle due settimane dal 17 al 31 dicembre (corrispondenti a 134.154 tonnellate per l’ugual periodo di quattro settimane). Le giacenze di carbone in porto si sono ridotte; scendendosi dal massimo di 287.210 tonnellate il 23 ottobre e da 271.370 tonnellate il 20 novembre a 253.505 tonnellate il 27 novembre ed a 176.015 tonnellate il 31 dicembre;

 

 

  • il rischio di fare arrivare carbone. Se per molti rispetti la diminuzione delle giacenze del carbone in porto è utile, per altri la diminuzione degli arrivi può fare impensierire. Per il momento il fatto non mi sembra preoccupante; ma non bisogna trascurare il pericolo, potenziale e lontano, che può nascondersi nel dato statistico dei minori arrivi.

 

 

Non dimentichiamo invero che Genova è un grande mercato di carboni, su cui si formano i prezzi, in relazione ai prezzi d’origine, ma tenendo conto di elementi aggiuntivi sorti in seguito. Il carbone in arrivo a Genova non è, per lo più, carbone già venduto, con destinatario conosciuto. È carbone invenduto, a disposizione degli armatori, dei negozianti o spedizionieri. Se a Genova arrivasse solo il carbone già venduto alla clientela dell’entroterra, non esisterebbero depositi ed, al primo accenno di domanda nuova, i prezzi del carbone, anche in piena pace e tanto più in tempo di guerra, salirebbero a salti non di decine ma di centinaia di lire per volta. Fortunatamente, il commercio provvede in via normale a far venire carbone invenduto; e, costretto dalla concorrenza, lo vende a prezzi i quali lasciano il margine ordinario di profitto. In tempi straordinari, come i presenti, il margine di profitto rialza, perché si adegua ai rischi massimi che si corrono all’origine, in navigazione ed in porto. Teme il commercio di pagare 20 lire per controstallie per tonnellata di carbone? Ed il prezzo sul mercato rialza di 20 lire per tutto il quantitativo disponibile, anche se questo in passato non ha pagato controstallie od ha pagato molto meno. Rialzano i noli da Cardiff a Genova, perché una parte del tonnellaggio navale viene sottratta da urgenti richieste dell’Estremo Oriente, timoroso di non potere più passare, se ritarda ancora un po’, attraverso il canale di Suez e di dovere allungare il viaggio di 20 giorni, passando a largo del Capo di Buona Speranza? Ed il prezzo del carbone disponibile a Genova rialza in rapporto al nolo cresciuto, sebbene in passato i noli pagati da questo stesso carbone fossero minori. Corre voce di una possibile pace a non lunga scadenza? Il carbone rialza ancora, perché, in previsione del tracollo nei noli che si verificherebbe al semplice annuncio di un armistizio, i negozianti temono di caricarsi di troppo carbone, acquistato a prezzo alto, e non hanno desiderio di perdere i milioni guadagnati durante il rialzo e tanto meno desiderano fallire. Cosa la quale accadrebbe sicuramente se essi dovessero comprare a 190 e vendere a 100 e ad 80. E così le giacenze si riducono ed in un mercato ristretto i prezzi salgono.

 

 

Al rialzo finora non ha contribuito la circostanza che il governo vende all’industria ed agli enti pubblici carbone a prezzi inferiori a quelli di mercato ed uguali, a quanto pare, ai prezzi passati di costo. Non ha influito perché sinora pare che il governo abbia venduto solo da 50 a 60 mila tonnellate di carbone, che è una quantità irrilevante di fronte ai 10 milioni di tonnellate di consumo italiano ed ai 2 milioni che il commercio privato importa da solo attraverso il porto di Genova.

 

 

Se l’azione del governo si estendesse, bisognerebbe pensare a renderla completa, ossia tale da provvedere tutto il fabbisogno del paese. Perché provviste governative e provviste del commercio possono coesistere solo se si sa a priori che il governo si adatterà in tutto ai prezzi correnti di mercato. Se il commercio è persuaso di ciò, l’intervento di un venditore di più sul mercato (il governo) non disturba l’azione degli altri. Ma appena si sa che il governo invece interviene per quantità apprezzabili e vende ad un prezzo di costo, differente da quello corrente di mercato, il commercio si ritira. Si corre un rischio troppo grande a comperare, quando si sa che vi è un concorrente che può vendere al suo costo, forse anche al disotto del suo costo e probabilmente al disotto del prezzo corrente di mercato.

 

 

Sono in contrasto due metodi di fissare i prezzi: l’uno tenuto dal commercio, secondo cui i prezzi sono uguali al costo di sostituzione del carbone, ossia al costo che si avrebbe oggi se si dovesse comprare in Inghilterra o negli Stati uniti il carbone, trasportarlo, assicurarlo, scaricarlo e ricaricarlo; l’altro, invocato dal pubblico, e seguito spesso dagli stati, secondo cui il prezzo è uguale al costo effettivamente sopportato in passato per porre il carbone sul carro. Il primo consiste nel vendere al prezzo corrente di 190, uguale al costo attuale, anche se in passato costò 100 o 300; e consente al commercio guadagni e perdite. L’altro vorrebbe impedire i lucri degli intermediari, vendendo a 100 ciò che si acquistò a 100 ed a 300 ciò che costò 300. Sarebbe facile, ma un po’ lungo, dimostrare che il primo sistema è il solo pratico, ed efficace ed il meno costoso per le collettività. Ma, anche senza dare tale dimostrazione, è chiaro che i due sistemi non possono coesistere. Il commercio si eclissa da se stesso, spontaneamente, appena sorge un concorrente che, per quantità rilevanti, vende a prezzi che possono essere diversi da quelli del mercato e possono convertire in perdita il suo guadagno. I timori del commercio vogliono dire scarsità di depositi e prezzi in rialzo, fino a che il governo non si accinga da solo a provvedere a tutto il consumo del paese.

 

 

Ho voluto fare una descrizione; non dare dei giudizi. Pure, la sola descrizione è imperfettissima.

 

 

Sarebbero necessarie la competenza vissuta di un negoziante e la penna di un Balzac per compiere il quadro. In un mercato in cui si accentuano gli elementi di incertezze e di rischio, in cui le valutazioni del futuro diventano sempre più difficili, in cui alle forze normali economiche agenti su di esso si aggiungono fattori politici, concioni ed articoli contro la speculazione, clamori di consumatori, pressioni di città e di regioni, insistenze di industrie per richiamare su di sé l’attenzione dei poteri pubblici e scavalcare, con privilegi, gli altri consumatori, il terreno è propizio al sorgere di quella che il pubblico chiama «speculazione» e che non ha nulla a che fare con quella a cui noi economisti diamo unicamente il nome di speculazione e che è previsione del futuro, facoltà rarissima, ignorata dal volgo, calunniata dai politicanti, molla potentissima e superba di progresso e di civiltà. Sorge la piccola speculazione, il volgare trucco del piccolo negoziante che ha venduto la partita di carbone a 100 e cerca pretesti nella pioggia, nel vento, nei funerali di Pietro Chiesa, nella serrata per non consegnare e per vendere a 200 a chi più offre. In questo ambiente il chiattaiolo impone la sua esorbitante taglia sul carbone che deve essere scaricato sul barcone ed attendere, alla Dio mercé e degli incendi e dei furti, il turno del carico su carro. Si acuisce la voglia di guadagnare nella gente accorta che vive del porto; e vien meno la voglia di lavorare nell’operaio, il quale, essendo privo di grandi desideri, preferisce riposare il quinto ed il sesto ed il settimo giorno, quando per il rialzo dei salari può guadagnare in quattro giorni la somma che prima faticava ad ottenere in sei.

 

 

Tutti questi non sono fatti-cause dell’aumento complessivo del prezzo del carbone. Possono bensì entrare per 10, 15, 20 lire a comporre quelle 40-45 lire di «spese relative al porto di Genova»; ma sono essi stessi la conseguenza della situazione anormale del mercato. I profitti degli intermediari crescono in occasione dell’aumento degli altri elementi di costo. Essi però non potrebbero crescere, se gli intermediari non potessero cogliere il pretesto dell’esistenza di vere cause dell’aumento. Tuttavia, i consumatori dell’interno si esasperano sovratutto contro questi che sono i piccoli fatti, i fatti occasionali dall’aumento e chiedono calmieri, requisizioni, multe e carcere contro gli speculatori e gli affamatori. Il che altresì è sempre accaduto, nonostante ogni sforzo posto dagli economisti nel fare le descrizioni più oggettive possibili dei fatti e delle loro cause.

 

 

VI

Ho osservato altra volta, ed è osservazione non mia, bensì di tutti gli studiosi delle condizioni del porto di Genova, che il limite alle operazioni portuali è dato dal numero dei carri ferroviari i quali possono essere caricati sul porto ed inoltrati verso l’entroterra. Senza ritornare sopra i vari aspetti del problema della insufficienza relativa dei carri in confronto del cresciuto traffico portuale, è evidente che una via d’uscita dalle difficoltà attuali del porto di Genova potrebbe essere parzialmente trovata nella soppressione artificiale di una parte dell’entroterra servito dal porto. Se noi supponiamo che il numero dei carri ferroviari richiesti per sfogare regolarmente il traffico di importazione del porto di Genova sia di 1.500 carri; e che invece il numero dei carri disponibili e caricabili sia soltanto, in media per ogni giorno, compresi i non lavorativi, di 1.200, la deficienza risulta in 300 carri al giorno. Se esistesse un mezzo, grazie al quale l’entroterra gravitante sul porto fosse ridotto di estensione, sicché il numero dei carri necessari fosse ridotto a 1.200, ecco risolto il problema dell’equilibrio tra ferrovia e porto.

 

 

Ho addotto questa proporzione di un quinto come quella «teorica» che oggi risolverebbe compiutamente il problema, pure essendo ben consapevole delle grandi difficoltà le quali si dovrebbero superare per giungere ad una soppressione anche minore e dei buoni risultati che si otterrebbero anche da una soluzione incompiuta.

 

 

È possibile sopprimere un quinto circa dell’entroterra che fa capo a Genova? A primo aspetto, sembra non solo impossibile, ma neppure conveniente; poiché la soppressione pare voler dire diniego ad intiere industrie o città di valersi del porto di Genova per l’importazione di carbone, frumento, materie prime ed altre derrate necessarie od utili. Il che è assurdo e sarebbe dannoso.

 

 

«Soppressione di un quinto dell’entroterra» non ha però questo significato catastrofico. Vuole semplicemente dire: servire un quinto dell’entroterra con mezzi diversi da quelli ferroviari. Io non mi attenterei certamente a mettere innanzi questa idea se non sapessi che, in forma consimile, essa fu già patrocinata da autorità competentissime, quali il senatore Ronco, presidente del Consorzio del porto e la Camera di commercio di Genova. Il presidente del Consorzio deve avere ripetutamente fatte presenti al ministero dei lavori pubblici alcune proposte da lui ricevute allo scopo di fare assumere da imprese di carattere semi-pubblico il servizio del trasporto con carri ordinari od autocarri dalle banchine del porto alla zona industriale di Genova. La Camera di commercio di Genova, presieduta dall’attivissimo Oberti e su relazione Bagnara, deve avere approvata una proposta di assunzione da parte delle ferrovie di stato dei trasporti di merci con mezzi diversi da quelli ferroviari, per le destinazioni a breve distanza alle quali si possa accedere con veicoli a trazione meccanica senza guida di rotaie, con aleggi a rimorchio o con scarico diretto. Il relatore alla Camera di commercio calcola a 250-300 carri al giorno il traffico che dal porto va all’entroterra immediato, quella che potrebbe essere chiamata «la zona industriale di Genova». Se fosse possibile servire questa zona senza ricorrere alla ferrovia utilizzando le strade rotabili ordinarie o, mediante scarico diretto da barconi su appositi pontili, rimarrebbero disponibili 250-300 carri per l’entroterra più lontano, il quale non può essere altrimenti servito fuorché colla ferrovia.

 

 

Né si tema di compiere con ciò opera contraria al progresso. Il problema che oggi si presenta per il porto di Genova, si è presentato in passato per tutte le grandi agglomerazioni urbane, come Parigi, Londra, Berlino, New York. Arriva un momento, sia per i passeggeri che per le merci, in cui il traffico ferroviario a breve distanza impaccia e rende costosissimo il traffico a lunga distanza. In una grande agglomerazione urbana, la ferrovia, quando desideri accaparrare i viaggiatori, i quali al mattino ed alla sera fanno la spoletta fra la città e la casa situata nelle zone vicine, deve fare partire un gran numero di carrozze e di treni, i quali al X, XX o XXX chilometro devono interrompersi o viaggiare quasi interamente vuoti. Può darsi che, ad un certo punto, l’incaglio prodotto da questi treni brevi al traffico a lunga distanza sia così grande che alla ferrovia convenga abbandonare addirittura il traffico a breve distanza, dedicandosi al perfezionamento degli impianti e dei servizi per il traffico oltre, ad esempio, il XX chilometro. È vantaggioso venire ad una simile divisione del lavoro tra la ferrovia e gli altri mezzi di trasporto (tramvie economiche, carri ordinari, autocarri, ecc.) perché il costo complessivo dei trasporti viene per tal modo a diminuire.

 

 

Vari sono i modi con cui le amministrazioni ferroviarie possono raggiungere l’intento di liberarsi del traffico a breve distanza:

 

 

  • rialzo delle tariffe di trasporto per ferrovia ad altezze proibitive. È rimedio semplice ed efficace;
  • dichiarazione che le merci destinate, ad esempio, all’entroterra immediato del porto di Genova, non otterranno il carico su carro se non quando non rimanga neppure una tonnellata di merce in attesa di carico a destinazione più lontana. Gli industriali ed i consumatori temono talvolta più la perdita di tempo che di denaro; e si affretteranno a cercare altri mezzi di trasporto;
  • soppressione assoluta dell’accettazione di merci per l’entroterra immediato. Forse è il mezzo più sicuro e risolutivo.

 

 

Certamente però non bisogna lasciare a se stesse le merci destinate allo entroterra immediato; poiché questo ha diritto di essere servito altrettanto bene come le regioni più lontane. Taluni proposero la formazione di imprese private assuntrici dei trasporti a breve distanza. Ma la proposta urterebbe forse contro l’ostilità delle ferrovie di stato, timorose di perdere il traffico locale; né si può negare un certo peso alla preoccupazione di perdere, con danno dell’erario, i proventi del traffico locale. Poiché, tuttavia, una soluzione si impone, siano le stesse ferrovie dello stato le assuntrici del servizio o provvedano, con concessioni particolari, a stipulare contratti di concessione ad imprese da esse dipendenti. Il concetto fondamentale potrebbe essere quello di considerare, sotto il rispetto del suo sfollamento, il porto come una grande stazione ferroviaria, da cui le consegue a domicilio, entro limiti di distanza, variabili secondo le varie direzioni ed accuratamente fissati dai competenti, sarebbero effettuate dalla ferrovia, mediante mezzi di trasporto non ferroviari, sia direttamente, sia per mezzo di imprese sub-concessionarie.

 

 

Le modalità del sistema dovranno essere accuratamente studiate: né forse esso potrà essere attuato d’un colpo. Importa però che qualcosa si faccia e che gradualmente si tenti di arrivare, mediante la soppressione «ideale» di una parte dell’entroterra, a stabilire un equilibrio normale fra le navi in scarico ed i carri disponibili per il carico.

 

 

Naturalmente, il mezzo ora descritto non è il solo il quale possa rimediare alle periodiche congestioni ferroviarie. Molti altri mezzi furono suggeriti, d’indole tecnica, i quali possono avere per effetto una migliore utilizzazione dei carri, minori soste di essi nelle stazioni, maggiore potenzialità delle linee a sopportare un crescente traffico. Vedo ricordato il raddoppiamento del binario che lambisce la via Carlo Alberto, la comunicazione più diretta fra gli impianti ferroviari prossimi al deposito franco e quelli del nolo vecchio e della calata Boccardo, la elettrificazione della linea Sampierdarena-Ovada; la più rapida rinnovazione delle fronti di scarico e carico nei porti con simultaneo smistamento di carri in partenza (intorno a cui ha scritto nel «Giornale del collegio toscano degli ingegneri ed architetti» una interessante monografia l’ing. Flavio Dessy) ecc. ecc. Le ferrovie hanno già dato opera ad intensificare l’utilizzazione dei carri; e fu certamente savio consiglio aver quintuplicato le tasse di sosta nelle stazioni dopo il secondo giorno dall’arrivo, col risultato di spingere il commercio a scaricare i carri nel minimo tempo possibile, togliendo il vantaggio che prima talvolta vi era a lasciare ingombre le linee in arrivo di carri carichi, perché la tassa di sosta era inferiore alla spesa di magazzinaggio e di scarico a magazzino e ricarico per il trasporto a domicilio del consumatore. Anche fu bene aver dato un premio di cointeressenza al personale di stazione quando dalla stazione parte un numero di carri non inferiore a quelli in arrivo; o per ogni carro, il quale riparte entro le 24 ore dall’arrivo, premio maggiore se il carro riparte carico, minore se deve ripartire vuoto per recarsi alle stazioni di concentramento.

 

 

Ad aiutare l’azione della ferrovia gioverà l’opera del Consorzio del porto. E qui non è inopportuno accennare ad un’idea, la quale può forse avere un ‘importanza non piccola nel momento attuale, in cui è tanto sentito il bisogno di tonnellaggio navale. Ho già avuto occasione di notare come si possa distruggere navi, senza affondarle materialmente, col solo farle viaggiare adagio e far loro perder tempo nei porti. Per converso, si possono creare navi, senza d’uopo di costruirle nei cantieri, col fare viaggiare più rapidamente le navi esistenti. Uno dei mezzi di far fare alle navi un numero maggiore di viaggi è quello di far perdere loro meno tempo in porto. Il problema che si tratta di risolvere è il seguente: dato che il porto di Genova non può caricare più di 1.500 carri per ogni giorno lavorativo, è meglio che vi siano due navi in scarico, ognuna delle quali scarichi in media 500 tonnellate al giorno, ovvero una nave sola la quale scarichi 1.000 tonnellate?

 

 

Badisi che il problema non è di fare scaricare più merce. Il risultato di scaricare maggior quantità di merce si potrà a mano a mano ottenere quando la ferrovia, coi mezzi sopra descritti o con altri, si sarà posta in grado di assorbire quotidianamente un maggior quantitativo. Il porto è oggi attrezzato in modo da non potere provvedere ad un carico di più di 1.500 carri; e non dovrebbe essere impossibile aumentare in futuro la sua potenzialità in funzione dei miglioramenti ferroviari. Il problema è un altro: ferma rimanendo la quantità di merce da scaricare da nave a carro in 1.000 tonnellate, è meglio scaricare 1.000 tonnellate da una nave sola ovvero 500 tonnellate per una da due navi?

 

 

Oggi la soluzione data al problema è a favore delle due navi. Di qui la meraviglia di coloro i quali notano che da una nave oggi si potrebbero scaricare ben più delle 500 tonnellate che sono la media di scarico. La meraviglia è giustificata in se stessa; ma non porta alla conseguenza, immaginata da molti, che ci possano essere due navi, ognuna delle quali scarichi 1.000 tonnellate, ossia 2.000 in tutto. No; perché la ferrovia può assorbirne solo 1.000; e le restanti 1.000 meglio restino nelle stive della nave, se non si vogliono ingombrare in pochi giorni le scalate e non si vuole rendere assolutamente impossibile il traffico ferroviario.

 

 

Ma se è irragionevole pretendere che due navi scarichino ognuna 1.000 tonnellate al giorno, è possibile che le 1.000 tonnellate si scarichino da una nave sola invece che da due?

 

 

Io non mi attento di rispondere alla domanda, perché la soluzione del problema non è così semplice come potrebbe sembrare molti; ben potendo darsi che, per alcune merci ed alcuni tipi di navi come pure per talune calate servite dalla ferrovia in modo particolare, sia tecnicamente più opportuno scaricare 500 tonnellate per ognuna, da due navi. Ma, nei casi in cui è tecnicamente possibile parmi si dovrebbe fare ogni sforzo per giungere a scaricare 1.000 tonnellate da una nave sola piuttostoché le stesse 1.000 da due navi. La ragione è evidente. Se una sola nave è all’accosto, l’altra rimane disponibile e può viaggiare e guadagnare noli. Per ora non importa indagare fra quali porti essa viaggerà, se servirà al traffico di Genova o dell’ltalia o di altri paesi. L’importante è che invece di due navi all’accosto in porto ve ne sia una sola, ferma rimanendo quantità di merce da scaricare. L’altra nave cercherà il suo traffico; il suo tonnellaggio sarà posto per alcuni giorni di più sul mercato: invece di 10 viaggi all’anno potrà farne 11 o 12. Diminuire il numero dei giorni per cui una nave sta in porto equivale a creare nuovo tonnellaggio; ed equivale perciò a far diminuire i noli. Se anche si potesse contribuire in minima parte a siffatto risultato questo sarebbe pur sempre così benefico da giustificare ogni più grande sforzo.

 

 

 

VII

In seguito alle pubblicazioni fatte in questi giorni da alcuni giornali sulla minacciata mancanza di carbone per defezione del naviglio neutrale dopo l’accordo di Londra, abbiamo creduto opportuno attingere dirette, precise informazioni a persona che, per il suo ufficio, è in grado di conoscere a fondo la questione e ne abbiamo avuto le seguenti dichiarazioni:

 

 

L’accordo anglo-italiano sussiste sempre, checché se ne dica, in tutta la sua efficienza. Esso consta, come è noto, di diverse parti: una prima riguardava la provvista all’Italia del carbone che le occorre da parte delle miniere inglesi, a prezzo ragionevole, dati i tempi che corrono e il complesso di circostanze che accrescono la richiesta di questa merce di prima necessità. Questa prima parte, che aveva lo scopo di evitare l’aumento dei prezzi che diventava minaccioso in forza degli accaparramenti, ha avuto pieno successo, perché i prezzi sono discesi notevolmente dagli alti limiti raggiunti in passato e la quantità disponibile è sufficiente ed anzi forse eccedente rispetto alla richiesta. Viene poi la seconda parte che non è meno importante, vale a dire quella riguardante i trasporti mediante requisizione o noleggio di vapori sia esteri che nazionali. Per i vapori di bandiera italiana, si è proceduto, con energia e senza riguardi alle molte influenze che si andavano spiegando, alla requisizione di tutta la parte possibile della non larga nostra disponibilità. Per il noleggio di naviglio inglese che, come è noto, rappresenta da solo una quantità maggiore di tutto il resto del naviglio mondiale preso insieme, gli inglesi si sono, impegnati solennemente verso di noi a fornircene una parte proporzionata ai nostri bisogni.

 

 

Resta il naviglio neutrale, per il quale si sono verificati alcuni incidenti che sono quelli cui accennavano le pubblicazioni di questi giorni, incidenti che si cerca di eliminare con ogni sforzo. Ad esempio, le compagnie di assicurazioni della Norvegia, che da sola rappresenta la massima parte del naviglio neutrale, hanno visto esaurire il proprio fondo di riserva ascendente a circa 50 milioni di lire, e allora la Norvegia si è fatta avanti a chiedere agli alleati la ricostituzione di questo fondo mediante contributi proporzionali. Si sta ora lavorando ad esaminare la importante questione, che è quella appunto, la quale ha arrestato per ora il noleggio del forte contingente di navi norvegesi.

 

 

Vi è fondata speranza che, mercé il buon volere di tutte le parti interessate, si verrà presto ad un accomodamento in grazia del quale le navi norvegesi, momentaneamente scomparse dal traffico marittimo, ritorneranno al noleggio con i premi più che rimunerativi che il traffico stesso offre nelle condizioni presenti.

 

 

Come si vede dunque, questa, e non altra, è la ragione fondamentale degli inconvenienti lamentati. Circa poi l’osservazione che si è fatta che una certa parte di navi neutrali possa avere trovato convenienza di dirigere il suo traffico verso porti come Barcellona, o altri, per dove i noli sono più convenienti che non quelli stabiliti dall’accordo di Londra, si deve osservare che il fatto è indubbiamente, sebbene entro certi limiti, vero; ma occorre aggiungere subito che il governo inglese, il quale se ne è preoccupato, mostra già di voler adottare provvedimenti opportuni, uno dei quali sarebbe, a mo d’esempio, quello di negare il permesso d’esportazione a quegli armatori che per qualsiasi porto fruiscono di noli eccessivi.

 

 

Ma un’altra circostanza che sfugge completamente agli attuali critici, conclamanti per la temporanea deficienza di tonnellaggio, è quella dell’impellente necessità nella quale si sono trovati i governi alleati di distrarre una grandissima parte del tonnellaggio che era destinato al carbone per poter far fronte ad un altro bisogno non meno urgente per le rispettive popolazioni. Ed ecco quale: la chiusura definitiva dei raccolti del grano e, in genere, di tutti gli altri cereali nell’Europa occidentale, ha rivelato una deficienza che urgeva colmare. Questa deficienza imponeva di andare a cercare d’urgenza il grano in America o in altre regioni anche più lontane, per portarlo a tempo debito sui nostri mercati: quindi la necessità di uno sforzo immediato per approfittare del momento non ancora sfavorevole e trasportare l’ingente quantità di granaglie che occorreva per il rifornimento dei nostri depositi. Questo sforzo è stato compiuto con grandissima attività e con preveggenza, nei limiti del possibile.

 

 

Infine non v’è bisogno di aggiungere che il tonnellaggio mondiale è in notevole diminuzione per gli eventi stessi di una guerra che ormai è al suo terzo anno. Inutile dunque parlare di teorici e di pratici. In condizioni come le attuali non può sussistere altra regola fuori che la vigilanza assidua e continua nell’adozione di temperamenti che dalla teoria e dalla pratica prendano il buono e lo compenetrino.

 

 

Questi provvedimenti hanno fatto sì che il prezzo del carbone, dalle lire 230 alla tonnellata a cui era salito nei primi mesi dell’anno, sia sceso a lire 170 nei migliori momenti. Poi, per gli incidenti e le ragioni alle quali abbiamo accennato, vi è stata una certa ripresa fino a lire 200 circa; ma è da sperare fondatamente e da augurarsi che questa ripresa sia temporanea e che i prezzi possano nuovamente scendere al livello di prima. Il governo non ha monopolizzato il commercio dei privati. Essi sono liberi di esercitarlo come prima. Soltanto, il governo si è riservata la facoltà di vigilanza sui prezzi di vendita, affinché non trasmodino, e ciò facendo il governo ha esercitato un diritto di tutela del quale non sono i consumatori che potranno dolersi.

 

 

È bene però che tutti si convincano che attraversiamo un momento di sacrifici necessari e che tutti gli altri paesi impegnati nella lotta gigantesca ne stanno affrontando ancora di assai più considerevoli che non noi. Ripetere, dunque, occorre senza posa che è necessario, anzi è urgentissimo, ridurre tutti i consumi e, non solo quelli che possono apparire di lusso, ma anche molti di quelli che sono ordinariamente giudicati di prima necessità. A questo proposito è bene si sappia che presto nuove ed ingenti riduzioni saranno fatte sulle ferrovie dello stato, sulla navigazione, sulle ferrovie secondarie, e forse anche su qualche industria non necessaria alla guerra.

 

 

Articoli di giornale, voti di rappresentanze comunali, proteste di industrie consumatrici hanno risollevata la questione del carbone, la quale pareva risoluta dalla convenzione italo-inglese sui prezzi del carbone all’origine e sui noli massimi tra i porti britannici e quelli italiani. Sembrava che i prezzi a Genova del carbone dovessero ribassare a 160 lire la tonnellata per il Cardiff ed invece le ultime quotazioni superano per la medesima qualità le 220 lire; e presto non si potranno più fare quotazioni, per la mancanza della merce da contrattare. Le rimanenze del commercio, che ancora negli ultimi due anni di guerra, usavano oscillare a Genova fra le 100 e le 150.000 tonnellate, ora sono discese al disotto di 70.000 tonnellate, cifra minima mai toccata in passato. Manca il tonnellaggio; e mentre nel mese di novembre si sarebbero dovuti noleggiare 50 piroscafi carbonieri dall’inghilterra a Genova, se ne noleggiarono soltanto 5.

 

 

La mancanza dei noleggi e degli arrivi in parte è dovuta al maltempo che imperversò durante il mese scorso; ed in parte ancora al riacutizzarsi della campagna dei sottomarini. Questa sembra abbia preso di mira principalmente il naviglio francese, italiano e neutrale, su cui in così notevoli proporzioni è fondata la possibilità del trasporto del carbone. Le perdite totali (ordinarie e belliche) di tonnellaggio marittimo furono negli ultimi quattro mesi le seguenti, secondo le statistiche mensili degli assicuratori di Liverpool (in migliaia di tonnellate lorde):

 

 

Navi inglesi

Altre

1914

1915

1916

1914

1915

1916

Luglio

8,1

13,3

5,1

16,1

17,1

29,7

Agosto

48,1

142,7

61,2

40,4

43,0

96,3

Settembre

96,7

74,7

76,7

44,2

73,0

73,1

Ottobre

105,4

60,9

115,0

24,6

81,2

138,7

Totale

258,3

291,6

258,0

125,3

214,3

337,8

 

 

È chiaro il programma germanico di terrorizzare la bandiera neutrale, per indurla ad abbandonare il proficuo commercio di approvvigionamento dell’intesa. Il naviglio norvegese si è rinchiuso nei suoi porti o naviga in mari lontani; e per navigare tra l’inghilterra ed il mediterraneo gli armatori norvegesi chiedono un premio di assicurazione fino del 9% del valore della nave e del carico per viaggio completo di andata e ritorno. Il nolo dovrebbe aumentare di ben 20 scellini per tonnellata di carbone tra Cardiff e Genova per poter far fronte all’aumentato rischio marittimo.

 

 

Se gli affondamenti dovessero continuare nella misura raggiunta nel mese di ottobre, sarebbero circa 600.000 tonnellate al mese da sottrarre da un tonnellaggio, il quale ha potuto mantenersi nel mondo fino al 30 giugno 1916 stazionario intorno alla cifra di 45 milioni di tonnellate lorde, di cui però una rilevantissima parte appartenente alle bandiere nemiche chiuse nei porti od assorbita per trasporti militari. Le difficoltà di ottenere tonnellaggio sufficiente non potranno non crescere, perché se le costruzioni nuove poterono bastare nei primi tempi a compensare le perdite, oggi, che queste sono cresciute e le costruzioni diventano ogni dì più costose ed aleatorie, la compensazione sembra divenuta impossibile. È da augurare che possano intensificarsi l’armamento delle navi mercantili ed i mezzi di lotta contro i sottomarini; poiché dal successo di questa lotta dipende la possibilità di impedire un ulteriore rialzo dei noli.

 

 

Ma gli affondamenti di navi da trasporto non sarebbero stati sufficienti a provocare l’odierna crisi dei trasporti del carbone, se ad acuirla non fossero intervenuti i provvedimenti presi dai governi e principalmente la fissazione dei noli massimi dall’Inghilterra ai porti italiani. Scrivendo, su queste colonne, il 29 gennaio scorso intorno alla requisizione della marina mercantile, io chiedevo che cosa sarebbe successo delle merci le quali non avessero potuto trovar posto sulle navi dei paesi belligeranti. E la risposta era ovvia:

 

 

Dovrebbero cercare carico sulle navi neutre greche, danesi, norvegesi, svedesi, olandesi, nordamericane: le sole le quali rimarrebbero libere e che potrebbero andare alla cerca dei noli massimi. Io lascio immaginare ai lettori l’altezza a cui giungerebbero i noli, i quali dovrebbero essere pagati da coloro che avessero veramente urgenza di effettuare un trasporto. È inutile sforzare la punta; non è possibile ridurre i noli del carbone da 80-90 a 50 scellini colla requisizione, senza spingere da 80-90 a 500, 200 e forse a 300 scellini il nolo di qualche partita di carbone urgentissima o di qualche altra merce… L’ineluttabilità di questo risultato è talmente chiara che taluno assevera la necessità. di fare un altro passo innanzi: decretare una specie di blocco dei porti dell’intesa, vietando alla bandiera neutrale di approdarvi se non si assoggetti ai medesimi massimi di noli stabiliti per le navi dell’intesa. Ma qui la mia mente si perde in un mare di difficoltà politiche, economiche e tecniche, che dovrebbero essere affrontate quando l’intesa si decidesse ad una azione la quale potrebbe trasformare i neutri in nemici; e li trasformerebbe in nemici senza alcuna sicurezza di vantaggio per noi. Si possono, infatti, escludere dagli approdi le navi neutre contravventrici ai massimi di nolo: non si possono costringere ad approdare.

 

 

Dopo che queste parole erano state scritte, la tendenza, la quale spingeva alle requisizioni ed alla fissazione dei noli massimi, si affermò sempre più, sino a condurre in Italia alla totale requisizione del naviglio mercantile ed in Inghilterra alla requisizione di una rilevantissima parte di esso; e sino a provocare gli accordi inglesi con la Francia e con I’Italia per la fissazione dei massimi di nolo. Solo coloro, i quali hanno fede nella potenza taumaturgica dei decreti governativi potevano credere che in tal modo il problema fosse stato risoluto. I fatti vengono invece ora a dar ragione agli economisti, i quali avevano sempre sostenuto che i calmieri dei noli non potevano non provocare difficoltà maggiori di quelle a cui si voleva porre riparo. Gli effetti ottenuti furono quali dovevano necessariamente essere; e cioè:

 

 

  • la bandiera neutrale è scomparsa dai viaggi, per cui è fissato il nolo massimo. Vi è qualche buona ragione per cui una nave greca o svedese o nordamericana si adatti a lucrare 59 scellini e 6 pence a trasportare carbone dal canale di Bristol a Genova, quando può lucrare 65 scellini andando soltanto sino a Barcellona, il che corrisponde a 75 scellini per un viaggio a Genova? Vi è abbondanza di lavoro per il naviglio neutrale in mari non regolati; e non vi è motivo perché gli armatori neutrali rinuncino ai più larghi guadagni che essi possono ottenere altrove;
  • la bandiera norvegese, pur simpatizzante con noi, non può accettare i noli massimi fissati nell’accordo italo-inglese, perché da essi dovrebbe dedurre circa 20 scellini per maggiori costi dell’assicurazione contro i sottomarini; sicché la perdita sarebbe troppo forte in confronto ai noli che si possono guadagnare altrove. Come scrivevo nel gennaio, i noli massimi possono respingere la bandiera neutrale, non mai costringerla ad approdare;
  • il commercio, il quale non trova tonnellaggio ed è soggetto a rischi di assicurazione, di aggio crescenti, mentre teme che il carbone gli possa venire requisito in Italia a prezzi inferiori al costo, si astiene dall’importazione. Federico Ricci ha in parecchie istruttive corrispondenze al «Corriere economico» di Roma descritto assai bene il risultato unico delle continue promesse da parte del governo di fare, di intervenire, di provvedere: ed è che il commercio non fa più nulla ed il governo non può fare abbastanza. Come in tutte le altre faccende economiche, il problema non può essere risoIuto con espedienti intermedi; o si assicura il commercio che il governo non interverrà con calmieri, vendite in concorrenza, ecc., ed il commercio potrà, a costi più o meno alti, funzionare; ovvero il governo deve provvedere a tutto il fabbisogno del paese;
  • i prezzi all’origine, nei porti inglesi, diminuiscono, per talune qualità, persino di 10 scellini alla tonnellata, in confronto ai prezzi di settembre; mentre crescono a Genova. Il che è fatto naturale, perché in Inghilterra il carbone ristagna per mancanza di tonnellaggio da carico: ed in Italia difetta per mancanza di arrivi.

 

 

Dicesi che i due governi avrebbero dovuto provvedere, prima della stipulazione dell’accordo, ad accaparrare le necessarie quantità di tonnellaggio. Coloro, che oggi così opinano, e sembra siano uomini politici ed amministratori della cosa pubblica ascoltati ed industriali sperimentati, avrebbero dovuto per tempo dimostrare che i massimi dei noli non giovano e che giova invece porre uomini competenti a capo dei servizi e delle commissioni di requisizione e di navigazione. Invece preferirono lasciare soli noialtri scrittori teorici a pestar l’acqua nel mortaio; ed ora si svegliano e gridano: bisognava noleggiare per tempo navi per un tonnellaggio sufficiente!

 

 

Intanto notisi che tutto il naviglio italiano è già requisito; e che per questo rispetto nulla vi è da fare. Ignoro quale sia la proporzione del naviglio inglese requisito; ma non credo di errare affermando che le difficoltà di far bastare a tutto la relativamente piccola quota del naviglio inglese disponibile sono grandissime. Quanto al naviglio neutro, che è il vero padrone della situazione, sappiamo noi a quali condizioni gli armatori neutri fossero e siano disposti a dare a nolo le loro navi? Ad occhio e croce sembra difficile che, quando i noli erano ad 80, 90, 100 scellini, gli armatori neutrali si decidessero a noleggiare navi da carico a 60 o meno, solo perché questi erano i noli massimi dell’accordo italo-inglese.

 

 

Oggi, come ieri, come per secoli in passato e come probabilmente per molto tempo avvenire, due sole sono le vie per cui si può ottenere che il carbone venga in Italia:

 

 

  • lasciare i noli ed il commercio liberi. Il prezzo salirà a 250, a 300, discenderà a 200 ed a 150 lire alla tonnellata, a seconda delle circostanze, adottandosi il livello necessario per attivare un sufficiente tonnellaggio neutrale da carico, per compensare i cresciuti rischi di affondamento da parte dei sottomarini, per coprire le variazioni dell’aggio, ecc. ecc.;
  • fissare il prezzo del carbone di una data qualità tipo, ad esempio Cardiff, a 200 lire, a 180 o 150 franco vagone Genova; ed accollare al governo tutte le spese ed i rischi inerenti. Il governo farà contratti di noleggio migliori possibili con gli armatori neutrali, requisirà le navi italiane, otterrà, a condizioni speciali fissate d’accordo col governo inglese, navi britanniche; comprerà il carbone e lo rivenderà. Comprerà a 250 e venderà a 200, perdendo 50, che andranno a carico dei contribuenti. È il metodo seguito per il frumento, che oggi il governo deve comprare a 37 lire negli Stati uniti, il che equivale probabilmente ad almeno 65 lire in Italia e rivende a 36 lire al consumatore italiano, accollando la differenza di 30 lire (per le partite che si acquistassero oggi) al contribuente pure italiano.

 

 

Preferisco il primo metodo, che ritengo più economico, meno ingombrante, più rapido. Ma anche il secondo è un metodo logico. Il frumento, sembrando a buon mercato ai consumatori, viene consumato in quantità non minore che in tempo di pace, e perciò costa assai caro ai contribuenti; ma arriva. Se si vuole seguire anche per il carbone il metodo seguito per il frumento, si segua. Ma si lasci stare ogni metodo intermedio, da cui nessun bene, per quanto si faccia; può uscire.

 

 


[1] Con il titolo La crisi odierna del porto di Genova. [ndr]

[2] Con il titolo Le cause dell’ingombro del porto di Genova. [ndr]

[3] Con il titolo L’ingombro del porto di Genova. Le conseguenze e i rimedi. [ndr]

[4] Con il titolo La questione del carbone ed il porto di Genova. [ndr]

[5] Con il titolo Il prezzo del carbone e le spese connesse col porto. [ndr]

[6] Con il titolo L’equilibrio fra mezzi ferroviari e servizi portuari. [ndr]

[7] Con il titolo La crisi dei carboni: sue cause e suoi effetti. I massimi di noli e prezzi. [ndr]

Le cronache economiche della guerra. Lagnanze e proposte di minimi ufficiali per il ribasso del riso nel Giappone – i prezzi del grano e del pane a Milano durante le guerre dal 1700 in poi – Prezzi del grano e prezzi del pane a Milano dopo la guerra.

Le cronache economiche della guerra. Lagnanze e proposte di minimi ufficiali per il ribasso del riso nel Giappone – i prezzi del grano e del pane a Milano durante le guerre dal 1700 in poi – Prezzi del grano e prezzi del pane a Milano dopo la guerra.

«Corriere della sera», 1 marzo 1915

Per l’avvenire d’Italia nella Libia (Nuove polemiche doganali)

Per l’avvenire d’Italia nella Libia (Nuove polemiche doganali)

«La Riforma Sociale», febbraio-marzo 1915, pp. 170-196

Studi di economia e finanza. Seconda serie, Officine grafiche della STEN, Torino,1916, pp. 100-127

 

 

 

 

Un recente decreto (1 novembre 1914) ha ridato attualità al problema del regime doganale della Libia. Prima della nostra occupazione si applicavano nella Tripolitania e nella Cirenaica le regole generali del sistema tributario turco: ossia un dazio dell’11 per cento sul valore delle merci importate e dell’1 per cento sulle merci esportate ed in transito. Siccome le due provincie africane erano parte integrante dell’impero ottomano, così, dopo l’abolizione delle dogane interne, le merci provenienti dalla Turchia europea ed asiatica non assolvevano alcun dazio d’importazione entrando nelle provincie libiche; e così pure le merci libiche non erano soggette ad alcun dazio di esportazione quando venivano spedite nelle altre provincie turche.

 

 

Nel primo momento dell’occupazione, l’ammiraglio Faravelli, con decreto datato 7 ottobre 1911 a Tripoli, sospendeva, sino a nuovo ordine, la esazione di qualunque diritto, sia doganale che di porto. Ma ben presto, con decreto 10 dicembre 1911, esteso alla Cirenaica il 7 gennaio 1912, il comandante in capo del corpo di spedizione, generale Caneva, ristabiliva l’esazione delle dogane secondo un sistema che non si discostava troppo da quello prima vigente.

 

 

Ristabiliti i dazi d’introduzione, fu conservata la misura dell’11 per cento sul valore della merce, eccetto che per l’orzo, il grano, la farina, la pasta, il riso, il pesce secco, lo zucchero, il caffè, il thè ed il petrolio, per le quali la misura era ridotta al 4 per cento sul valore di esse. A differenza di quanto accadeva prima, i dazi vennero esatti anche sulle merci provenienti dalla Turchia europea ed asiatica; e ciò si comprende, essendo quei paesi oramai diventati terra straniera; ma poiché la Libia non è una provincia italiana, sibbene un possedimento coloniale, l’Italia non era senz’altro sostituibile alla Turchia, ma veniva considerata, agli effetti doganali, come un territorio straniero ed alle provenienze italiane erano applicati i dazi dell’11 e del 4 per cento come per ogni altra merce importata dall’estero.

 

 

Successivamente venivano apportate importanti modificazioni a questo regime dei dazi d’introduzione. Con decreto reale del 31 dicembre 1912, in aggiunta al dazio ad valorem del 4 per cento veniva stabilito per lo zucchero un dazio specifico di L. 15 per quintale, peso lordo, sugli zuccheri d’ogni qualità introdotti nel territorio della Libia. A primo tratto era sembrato, leggendone la notizia sui giornali, che il dazio aggiuntivo specifico di L. 15 si applicasse soltanto agli zuccheri stranieri e costituisse perciò una protezione per gli zuccherieri italiani; ma, fortunatamente[1], per allora parve prematuro agli zuccherieri di poter tentare il colpo di asservire doganalmente la Libia ai loro interessi; onde il dazio di L. 15 colpiva tutte le provenienze italiane ed estere. Non si comprende la ragione per cui si credette opportuno rincarare lo zucchero per gli indigeni e pei soldati italiani, salvo che l’aumento del dazio fosse il primo passo verso un trattamento differenziale in pro degli zuccheri nazionali.

 

 

Con altro decreto del generale Caneva, del 22 aprile 1912, «considerato che straordinarie quantità di spirito e bevande spiritose tossiche affluiscono ogni giorno più nella Libia; ritenuta la necessità e l’urgenza d’infrenarne l’abuso nell’interesse della salute pubblica» al dazio ad valorem dell’11 per cento furono aggiunti i seguenti dazi specifici:

 

 

Spirito
puro, in botti, damigiane e simili:
a) derivato dal vino o da sostanze vinose

Ett. L. 30

b) derivato da altre sostanze

50

dolcificato o aromatizzato in botti, damigiane e simili

60

di qualsiasi specie, in bottiglie

ciascuna  0. 60

Birra
in botti

Ett. L. 7

in bottiglie

ciascuna  0. 10

Essenze spiritose
di qualunque specie (compreso il recipiente immediato)

Kg. L. 2

 

 

Motivazione e tariffa appaiono opportune e ragionevoli, se si eccettui il mal vezzo, importato nella Libia, di distinguere fra lo spirito di vino e quello derivato da altre sostanze; distinzione che ha per iscopo – irraggiungibile – di proteggere la viticultura, e che ha tanto minor ragione d’essere nella colonia, inquantoché non si vede la ragione per cui gli abitanti libici siano costretti a pagare lo spirito più caro, non per sovvenire alle spese del governo coloniale, il che sarebbe ragionevolissimo, ma per permettere ai viticultori italiani, greci, spagnuoli, algerini di vendere il loro vino alquanto più caro.

 

 

Con decreti successivi:

 

 

  • del 22 aprile 1912 del generale Caneva si esentavano da dazi d’importazione le pietre e terre per costruzioni allo stato greggio, la calce comune, viva o cotta, la grafite allo stato greggio, il carbon fossile naturale, la legna da fuoco ed il carbone di legna, la paglia di grano per foraggi e lettiere; e ciò allo scopo «di sollevare da ogni gravame le materie prime occorrenti alle costruzioni ed al rinnovamento edilizio della colonia, come pure i combustibili di più assoluta necessità per le masse popolari e gli elementi indispensabili per la nutrizione foraggera degli animali»;
  • del 21 marzo 1912 del generale Caneva si esentavano da qualsiasi dazio d’importazione l’oro e l’argento in verghe, in pane ed in rottami «allo scopo di non ostacolare il libero svolgimento di sane attività locali»;
  • del 10 marzo 1912, sempre del generale Caneva, «per non sviare da Tripoli il commercio delle penne di struzzo e delle pelli di capra» si concedeva, in via provvisoria, l’importazione a dazio sospeso delle penne di struzzo greggie per essere lavate, classificate e rispedite; e delle pelli di capra conciate, anche tinte con materie ferrose, ma non rifinite, per essere classificate e rispedite;
  • del 14 giugno 1914, regio, a firma Martini, il regime della importazione a dazio sospeso veniva per le penne di struzzo greggie e le pelli di capra conciate mutato nell’altro della esenzione definitiva.

 

 

Per ragioni igieniche e fiscali è proibita nella Libia l’importazione di hascisc, di cocaina e prodotti opiacei, e così pure della saccarina e dei prodotti saccarinati eccetto che per uso medicinale.

 

 

Con decreto 1 novembre 1914 la esenzione dai dazi d’importazione veniva estesa alle seguenti merci:

 

 

  • 1. Macchine agricole, utensili per l’agricoltura, pompe per irrigazione e materiali per perforazione di pozzi artesiani.
  • 2. Cereali per la semina e semi da prato e da foraggio.
  • 3. Piante vive (escluse le talee e le barbatelle) e tuberi.
  • 4. Concimi chimici.

 

 

Nessuna regola generale fu dettata per i dazi d’esportazione. Ma poiché con vari decreti si provvide a stabilire un dazio ad valorem del 3 per cento sullo sparto e sulla henna dell’1 per cento sul bestiame esportato, si deve ritenere che nessun altro dazio d’esportazione e di transito vige nella Libia.

 

 

Alle provenienze libiche l’Italia applica la tariffa convenzionale della nazione più favorita.

 

 

Fin qui nulla che meritasse censura, salvo, forse, l’eccessività del dazio di L. 15 sullo zucchero e la differenziazione a pro dello spirito di vino.

 

 

Anzi mitezza lodevole del sistema daziario e tendenza ad inasprire i dazi sulle bevande alcooliche ed a concedere esenzioni provvidenziali, foriere di ulteriori mitigazioni, a pro delle materie prime dell’industria, dei materiali da costruzione o delle cose più necessarie all’esistenza.

 

 

Le dolenti note hanno principio con un regio decreto del 13 agosto 1914, a firma Martini, con cui, in aggiunta al dazio dell’11 per cento sul valore, si impongono sui vini introdotti nelle colonie, ad esclusione dei vini italiani, i seguenti dazi specifici

 

 

  • a) in fusti, caratelli, damigiane e simili, lire (in oro) 7 all’ettolitro. Nota. Sul vino genuino d’origine estera, la cui ricchezza alcoolica supera i 12 gradi, oltre al dazio proprio del vino, si riscuote, il dazio sull’alcool in ragione d’un litro di spirito per ogni grado e frazione di grado eccedente i 5 decimi e per ettolitro.
  • b) in bottiglie, lire 0,15 ciascuna.

 

 

Peggio un regio decreto 1 novembre, 1914, n. 1194, oltre ad alcune ragionevoli esenzioni per macchine agricole, semenze, concimi chimici, ecc.:

 

 

  • ridusse dall’11 all’8 per cento il dazio ad valorem sulle merci indicate nella tabella qui sotto riprodotta, ordinando che il dazio stesso ridotto avesse ad essere uniformemente riscosso, sulle merci nazionali, ed essere, come fin qui accadeva per il dazio dell’11 per cento;
  • 2) aggiunse al dazio ad valorem sopradetto e per le stesse merci, un dazio specifico, che per la Libia è una novità, da riscuotersi in misura differente sulle merci italiane ed estere, in guisa da dare alle prime una preferenza in confronto alle seconde. Il dazio specifico sarebbe, in aggiunta al dazio ad valorem, riscosso secondo la seguente tabella:

 

 

Dazio in lire per quintale per le merci di origine

ITALIANA

ESTERA

Filati di cotone
a) greggi

Esenti

10

b) bianchi

Esenti

15

c) tinti o mercerizzati

Esenti

20

d) cucirini

Esenti

35

Tessuti di cotone
a) greggi

Esenti

15

b) bianchi

Esenti

20

c) tinti e mercerizzati

Esenti

35

d) stampati

Esenti

40

e) tinti o stampati per barracani

15

35

Oggetti di cotone cuciti o confezionati
a) barracani

25

50

b) altri

Esenti

40

Filati di lana
a) greggi

Esenti

35

b) biondi o tinti

5

45

Tessuti di lana cardati o pettinati
a) per baraccani

20

60

b) altri

Esenti

45

Coperte, tappeti, oggetti cuciti di lana

20

60

Zucchero greggio o raffinato

8

23

Fiammiferi
a) di legno

25

60

b) di cera, paraffina e simili

30

65

 

 

Il regime della porta aperta, il che vuol dire dell’uguale trattamento delle merci italiane ed estere all’atto della introduzione nella colonia libica, veniva con questi due decreti sostituito, per alcune importantissime voci, il regime dei dazi preferenziali verso la madrepatria, ossia della esenzione o mite tassazione delle provenienze italiane e della tassazione o più grave tassazione per le provenienze straniere.

 

 

Come fu giustificato dinnanzi all’opinione pubblica ed al Parlamento questo così grave mutamento di rotta? Quanto al Parlamento non pare che si sia pensato di dare alcuna giustificazione. Forse il governo medesimo non diede molta importanza al problema; e può anche darsi che questo non fosse esplicitamente discusso in consiglio dei ministri, se è vero quanto, in occasione di un rilievo dell’on. Giretti alla Camera, fu affermato e cioè che il presidente del Consiglio, on. Salandra, non conoscesse o non avesse rilevato, innanzi alla sua pubblicazione, il decreto dell’1 novembre.

 

 

Quale dunque l’origine ideologica del nuovo indirizzo impresso alla politica coloniale italiana? Un rapporto, steso dal comm. Pompeo Bodrero, direttore generale degli affari economici e del personale al ministero delle colonie sul regime doganale per la Tripolitania e per la Cirenaica; indirizzato il 25 ottobre al ministro Ferdinando Martini, ma distribuito dopo che il decreto dell’1 dicembre era già stato sanzionato. Può ammettersi che l’on. Martini, letterato fine ed arguto, espertissimo conoscitore di colonie e maneggiatore di uomini, ma non sicuramente noto per la sua perizia in cose doganali, si sia lasciato persuadere della logica del comm. Bodrero a mettere la sua firma sotto ai decreti che gli venivano presentati dal medesimo, in qualità di direttore generale degli affari economici. Ma dubito assai che ne sarebbe rimasto persuaso l’on. Salandra, se questi avesse potuto dedicare alcuni momenti allo studio del rapporto. Volle fortuna – fortuna per l’ideatore del nuovo regime – che il presidente del Consiglio fosse occupato in affari di ben più grave momento e che la critica potesse esercitarsi sul suo rapporto solo a cose fatte quando essa non può giovare a riparare al mal fatto e per la smemorataggine degli uomini non può nemmeno sperare di impedire simiglianti errori per l’avvenire.

 

 

Né io voglio muovere alcun appunto al Bodrero per la maniera con cui egli ragiona nel suo rapporto e per le conclusioni alle quali giunge. Il Bodrero era, se non erro, prima di passare al ministero delle colonie, funzionario peritissimo dell’ufficio di legislazione e statistica coloniale ed aveva dato opera assai lodata al fiorire di quell’ufficio, uno dei migliori dell’amministrazione pubblica italiana. I funzionari pubblici sono degni di essere ascoltati con rispetto ed i loro scritti debbono essere studiati con modestia finché essi traggono partito dalla propria esperienza personale ed espongono i risultati di ciò che essi hanno fatto od è passato sotto i loro occhi. S’impara di più leggendo i rapporti dei direttori generali del ministero delle finanze, del tesoro, le relazioni dell’avvocato generale erariale o dei consiglieri relatori della Corte dei Conti che non leggendo molti e molti trattati di scienza della finanza o di contabilità di Stato.

 

 

Ma, quando vogliono scrivere di problemi teorici, come necessariamente sono quelli di politica doganale, i funzionari pubblici si trovano in una situazione falsa. Portano, nello scrivere, abitudini e mentalità caratteristiche che rendono loro impossibile di vedere il problema. Essi sono inconsciamente dei cameralisti. Non immaginano neppure che il mondo possa camminare coi suoi piedi e che possa far a meno del loro aiuto. Per abito professionale essi considerano naturalissimo che il paese attenda da loro una direzione, una guida, un indirizzo. Non passa loro neppure in testa che l’industria ed il commercio possano andare innanzi benissimo anche senza le loro «provvidenze», i loro «regolamenti», le loro «sapienti e scientifiche» tariffe doganali, rivolte a promuovere di qua, ad incoraggiare di là, a temperare da una parte, ad equilibrare da un’altra.

 

 

Ecco qui il comm. Bodrero, il quale ritiene senz’altro che «è necessario, almeno in parte, uscire da una situazione che non è più sostenibile né di fronte agli interessi dell’industria nazionale e di quella locale, né rispetto a quelli dei consumatori ed a quelli fiscali».

 

 

Tutta questa necessità urgente, questa insostenibilità assoluta è frutto d’immaginazione burocratica. In realtà, leggendo attentamente il rapporto, non si trova neppure la più lontana, la più evanescente prova di questa necessità e di questa insostenibilità. Il regime esistente, se non forse il migliore possibile, era tollerabilissimo ai consumatori, consono agli interessi del fisco; non aveva danneggiato affatto l’industria locale libica (chi ha mai sentito lagnanze dell’industria libica, quando furono emesse, che valore hanno, dove si possono leggere?) e, salvo sporadiche e non commendevoli eccezioni di gente troppo avida, era apparso accettabile all’industria nazionale. Ma era un sistema semplice, che funzionava da sé, che non richiedeva studi «sapienti» ai funzionari del ministero delle colonie, che mettendo tutti su un piede di assoluta eguaglianza, non esigeva l’intervento «equilibratore» della nostra onniveggente burocrazia. Era, insomma, colpevole di tanti peccati d’insubordinazione quanti bastavano per renderlo intollerabile al perfetto burocrata.

 

 

Non importa che il regime della porta aperta che era stato adottato da principio quasi spontaneamente dal governo italiano dovesse essere, appunto per tale spontaneità, considerato ottimo, almeno sino a prova contraria.

 

 

Le cose che la gente fa senza quasi accorgersi d’aver scelto la via buona non sono, come parrebbe alla comune dei mortali, la dimostrazione che per una volta tanto si erano seguiti i consigli del buon senso e dell’interesse generale. No. Siccome la via scelta era tale che poteva essere seguita sino in fondo, col solo impulso dell’iniziativa privata, senza d’uopo di nessuna direzione generale romana, di nessuna opera di equilibrio e di contemperamento compiuta negli uffici ministeriali romani, quella era una via la quale non poteva non condurre alla perdizione.

 

 

Non importa che il sistema della porta aperta, seguito in Libia, fosse noto nei suoi fondamenti dottrinali al funzionario relatore (ed io sono grato al Bodrero per la esattezza con cui ha riassunto le mie argomentazioni in proposito, le quali, del resto, riproducevano ciò che è dottrina pacifica e confermata fermata dall’esperienza di tempi e luoghi diversissimi). Egli trova che «fortunatamente prevale oramai, nella grande maggioranza di coloro che si sono occupati del problema, il concetto di una giusta protezione per i prodotti italiani; il concetto teorico ed aprioristico d’un liberismo che non trova esempio nei regimi doganali delle diverse nazioni, non ha oramai che un seguito assai ristretto».

 

 

Quel fortunatamente e impagabile. C’è una dottrina – la quale poi viceversa è la pratica dei paesi più esperti e fortunati nell’opera della colonizzazione e solo per essere questa tal pratica fortunata ha potuto diventare una dottrina – la quale porterebbe alla soppressione quasi completa d’ogni ingerenza governativa in materia di politica doganale coloniale. Invece di essere lieto che una tal dottrina esista, abbia fatto le sue prove nei soli paesi meritevoli di essere presi in considerazione, e sia stata fortunatamente, si direbbe per un colpo di fortuna, applicata dall’Italia alla Libia, il perfetto funzionario è desolato. Che cosa diventerebbe di lui, dei suoi consigli se quell’irriverente dottrina continuasse ad essere applicata? La sua direzione generale non perderebbe d’importanza? Fortunatamente egli si mette a contare, come il giudice di Rabelais, constata con gioia che il numero di quelli i qual vorrebbero dei dazi coloniali di preferenza per le industrie, italiane è superiore al numero di coloro i quali invocano la porta aperta. E come si sarebbe potuto dare il fatto contrario? Come immaginare mai che in qualunque paese del mondo ed in qualunque epoca storica il numero di coloro i quali hanno del tempo da perdere per difendere l’interesse generale sia superiore al numero di coloro che difendono interessi particolari? Se si aspettasse a far le buone leggi, ad iniziare riforme ottime, a creare istituti utili all’universale sino al momento in cui il numero di coloro che vogliono la cosa buona fosse superiore a quelli che non la vogliono, il mondo sarebbe ancora nella condizione in cui era quando Adamo ed Eva furono cacciati dal Paradiso terrestre. Non ne è persuaso il comm. Bodrero? Quel fortunatamente è il grido dell’animo del funzionario, il quale, disperato di poter legittimare la sua brava macchina burocratica, ha, finalmente, scoperto un argomento validissimo a propugnar il cambiamento del regime doganale per lui divenuto intollerabile: il numero di quelli che adducevano ragioni cattive per combattere era superiore al numero di quelli che mettevano innanzi ragioni buone per conservare il regime vigente della porta aperta!

 

 

Perché le ragioni dei nemici del sistema della porta aperta, se ne persuada il Bodrero, sono davvero pessime. Enumeriamole nell’ordine in cui il relatore le elenca, mettendole prima (pag. 26 e segg.) in bocca ai fautori del principio dell’assimilazione e aggiungendovene poi (pag. 54) una di suo.

 

 

  • 1)«La Libia non può essere considerata, nei riguardi commerciali, se non come parte, integrante del territorio nazionale. Questo e non altro è il principio razionale e fondamentale che deve guidare l’azione dello Stato verso di essa; e in conseguenza le importazioni della metropoli non possono essere considerate alla pari di quelle estere».

 

 

È meraviglioso come i protezionisti, i quali ad ogni piè sospinto rimproverano ai liberisti di essere dei teorici e degli aprioristi (pag. 60), inventino continuamente essi delle nuove teorie, le quali hanno tutti i difetti che essi, falsamente, imputano ai liberisti. Chi sa dire la ragione razionale e fondamentale per cui la Libia deve considerarsi parte integrante del territorio nazionale? Un paese, appena ieri conquistato, ancora popolato di rivoltosi, dove gli abitanti sono, per il momento, in grandissima maggioranza diversi per razza, lingua, religione, abitudini, cultura dagli italiani? Assimilare la Libia all’Italia non può essere un principio razionale, semplicemente perché sarebbe uno sproposito grossolano. Lo stesso Bodrero ne è convinto quando poco dopo (a pag. 54) critica il sistema dell’assimilazione e giustamente nota che «imporre una tariffa, poggiata sull’organismo di un popolo europeo evoluto a colonie in condizioni di, civiltà, di ricchezza, di posizione geografica differentissime, sembra opera non troppo liberale». Ed allora, perché invocare un argomento, falso contro la politica della porta aperta? Gli argomenti falsi non giovano a raffermare la politica dell’assimilazione; ma neppure possono essere, invocati a combattere nessun’altra dottrina opposta a quella. Giù dunque nel limbo delle cose che mai non furono questo primo stravagante cosidetto principio.

 

 

  • 2) «Il regime doganale italiano appena appena compensatore nei riguardi delle industrie; ed è certo che, se esso non esistesse, la produzione straniera dovrebbe sparire e lasciare il mercato completamente in balia di quella straniera. Ciò posto, non si riesce a comprendere come i prodotti italiani potrebbero, col regime della porta aperta, trovare uno sbocco in Tripolitania e in Cirenaica, in concorrenza coi prodotti stranieri, coi quali non riescono a competere che solo in parte sul mercato della metropoli, sotto il regime dei dazi».

 

 

Tanti spropositi, quante parole. La teoria protezionista – mi sia lecito continuare a chiamarla così, in contrapposto alla pratica liberista, capovolgendo la terminologia volgare dei protezionisti – può addurre a suo favore parecchi argomenti logici, chiari, eleganti, talvolta finissimi (vedine alcuni elencati nel mio scritto: La logica protezionista, in «Riforma Sociale» del dicembre 1913, pag. 830 e segg.); ma sarebbe oramai tempo che i protezionisti si degnassero di mandare a riposo talune vecchie barbe lunghe che è vergognoso tirar fuori ed umiliante dover confutare. Di tutte una delle più ostinate è questa dei dazi compensatori. Si può discutere intorno al principio della protezione alle industrie giovani o passanti attraverso ad una momentanea crisi, o soggette al dumping estero; ed in questi casi, che sono plausibili, in determinate ipotesi, teoricamente, ma contestabilissimi praticamente, si può ammettere che si parli d’un dazio uguale alla differenza fra certi costi interni provvisoriamente più alti e certi costi esteri che si affermano più bassi sia permanentemente che provvisoriamente. Tutto ciò non ha a che fare con i dazi di compensazione generici che si dovrebbero dare all’industria di un paese per difenderla dalla concorrenza estera. In tesi generale, i protezionisti dovrebbero ammettere con buona grazia che, se un’industria in Italia lavora a costi più alti che in Germania, il fatto dei costi più alti non legittima per se stesso alcuna protezione; anzi, è un argomento validissimo per conchiudere che quell’industria dev’essere in Italia abbandonata in favore di altre i cui costi siano relativamente più bassi che in Germania. I protezionisti possono cioè logicamente sostenere che una certa industria, malgrado i suoi costi più elevati, è degna di ottenere un dazio protettivo, perché v’è fondata speranza che fra alcuni anni essa ridurrà i suoi costi al livello estero; o perché i prezzi esteri, temporaneamente ribassati al disotto del costo interno, torneranno a rialzare, e quindi sarebbe antieconomico lasciar morire un’industria oggi per farla risuscitare domani; o perché si vogliono, anche a costo di sopportare costi maggiori, raggiungere certi fini politici, militari, ecc. chiaramente definiti. Tutto ciò può essere discusso e se ne può contestare la possibilità d’applicazione; ma per lo meno è comprensibile e pensabile. Ma affermare che i dazi si devono dare solo perché l’industria nazionale lavora a costi più alti, è assurdo, irragionevole, al disotto di qualunque discussione. Tanto varrebbe affermare che gli uomini debbono preferire certe industrie a certe altre perché rendono meno; che lo scopo delle azioni umane è di fare la maggior fatica possibile per raggiungere il minimo risultato; e simiglianti stranezze.

 

 

I teorici o meglio gli spropositatori della compensazione sono, senza volerlo i denigratori più acerrimi dei loro connazionali. Vi è un po’, di buon senso ad affermare che, quando non esistessero i dazi «la produzione italiana dovrebbe sparire e lasciare il mercato completamente in balia di quella straniera?». Ciò equivale a dire che gli italiani, non sono buoni a nulla in nessun mestiere, e che in qualunque cosa si provassero troverebbero sempre uno straniero capace di farla meglio di loro. Tutti sappiamo che questa non è la verità; che gli italiani sono capacissimi di fare molte cose altrettanto bene e meglio degli stranieri; tutti sappiamo che questo spavento di dover incrociare le braccia, non far più nulla e lasciar fare tutto agli stranieri è un sogno d’immaginazione inferma. E sappiamo che, per giunta, quand’anche lo sciocco sogno fosse vero, e che noi non si fosse buoni a nulla, avrebbero gli stessi stranieri interesse a lasciarci fare qualcosa per poterci vendere la loro roba. Come invero potremmo comprare noi dagli stranieri se questi non volessero comperare da noi? è la domanda che gli economisti hanno ripetuto da tempo immemorabile fino alla noia, fino alla nausea; ma a cui i protezionisti non si sono degnati di rispondere mai.

 

 

A meno d’immaginare che gli stranieri si decidano a regalarci i loro prodotti gratuitamente, finché essi pretenderanno di essere poco o molto pagati dovranno pure rassegnarsi ad essere pagati da noi con merci fabbricate da noi, non esistendo nessun altro modo permanente di pagamento, e quindi dovranno rassegnarsi a lasciarci fabbricare almeno altrettanta merce in valore quant’è quella che essi vorranno venderci; oltre, s’intende, quella che noi vorremmo produrre per consumarcela noi stessi.

 

 

Che se gli stranieri saranno ostinati per modo da non permetterci di produrre neppure una minima parte delle merci che noi vogliamo consumare, dovranno consentirci di fabbricare ancora più merce da consegnare loro, in cambio di quelle a buon mercato che essi ci vorranno vendere. Il semplice buon senso basta a dimostrare che, quanto più gli stranieri «inondano» di merci a buon mercato il nostro paese, di tanto maggiore è la quantità di merci che essi sono costretti a comperare, tanto meglio se a caro prezzo, da noi. Quando i protezionisti avranno dimostrato in che altro modo gli stranieri possono riuscire ad effettuare le loro vendite sul nostro mercato, potremo cominciare a comprendere il significato dei dazi di compensazione.

 

 

Ma siccome in tanti anni di polemiche, quella dimostrazione non fu data mai, così possiamo tranquillamente concludere che il pericolo che l’Italia non riesca a vendere nulla è un’ubbia ridicola.

 

 

Ed i fatti dimostrano che i prodotti italiani non solo si vendono sul mercato interno – e qui i protezionisti, pur sapendo di dire cosa falsa per la massima parte dei prodotti, ci potrebbero obbiettare che si vendono solo perché protetti contro la concorrenza straniera -; ma si vendono anche all’estero, dove essi lottano talvolta a parità di condizioni e più spesso col disfavore di dazi protettivi per i prodotti che là sono nazionali. Se la produzione nazionale fosse condannata a sparire senza l’ausilio dei dazi, come potrebbe vendere per due miliardi e mezzo di merci all’anno all’estero, senza essere protetta sul mercato estero da nessun dazio? E come avrebbe potuto l’Italia, quando la Libia era un mercato aperto senza dazio alle importazioni turche e chiuso con un dazio dell’11 per cento ad valorem contro le importazioni estere, fra cui le italiane, come avrebbe potuto l’Italia acquistare il primo posto, distanziando di gran lunga la medesima Turchia?

 

 

  • 3) «Ove le industrie estere riuscissero a scacciare col basso prezzo le merci italiane dal mercato libico, esse, tosto che se ne fossero assicurato dominio, non mancherebbero di sfruttarlo, elevando i prezzi fors’anco di più di quanto li avrebbe rincarati per l’incidenza del dazio». Queste sono profezie che il Bodrero non si sa se faccia sue o se lasci ai protezionisti, i quali vogliono cingere la Libia di quella stessa muraglia protettiva che delizia l’Italia. Parrebbe che egli non sia alieno dall’imprimere su di essa il marchio ufficiale; poiché, parlando per conto proprio, rinvia alle critiche degli assimilatori per la confutazione del principio della porta aperta. Certo è che, presa in se stessa, questa è una profezia di cui è intieramente ignoto il valore, fino a che l’evento presagito non si sia verificato. Facciano la grazia, i profeti, di indicare i casi precisi, bene assodati, certi in cui quel tale evento in passato, in circostanze analoghe, si sia verificato. Credo che essi dureranno fatica a trovarne; s’intende, di fatti certi e bene assodati, e non di chiacchiere da caffè. È una storia buffa quella che da un pezzo ci vanno raccontando, di un’Italia la quale dovrebbe oggi aumentare, con dazi protettori, i prezzi delle merci in paese per paura di dover domani pagare prezzi ancor più alti, quando i dazi fossero aboliti e quindi l’Italia diventasse un mercato accessibile alle merci di tutto il mondo, dove gli industriali di tutto il mondo potrebbero farsi concorrenza. Questo spettacolo di un rialzo di prezzi provocato su un mercato dalla possibilità di vendere ivi ai minimi prezzi possibili io non l’ho mai visto e non ne conosco alcun esempio.

 

 

Quando me ne avranno squadernati sotto gli occhi qualche esempio ben dimostrato e non sporadico e non dovuto a circostanze passeggere crederò ai profeti, i quali vanno raccontando che in Italia e in Libia si dovrà verificare una siffatta stravaganza. Per il momento io constato che l’Inghilterra è un paese aperto al dumping di tutto il mondo; e che ivi i prezzi sono minimi; e che finora la mancanza dei dazi ha avuto per effetto che essa gode del privilegio di avere in media prezzi più bassi di quelli che si hanno altrove, anche dopo la detrazione dei dazi. E cioè la differenza tra il prezzo inglese ed il prezzo d’un paese protetto è spessissime volte maggiore del dazio di questo paese. Il che è ragionevole, perché tutti i produttori preferiscono di vendere su un mercato dove sono sicuri di non incontrare l’ostacolo dei dazi e di simili imbrogli. E ciò dura da tre quarti di secolo; ed ancora non si è attuata la congiura profetizzata dai nostri protezionisti, per cui, tolto il dazio e distrutta l’industria nazionale, subito i prezzi sarebbero stati rialzati. Invece in Inghilterra i prezzi sono tra i più bassi anche per le merci, la cui produzione interna fu annientata, sopraffatta, annichilita e via dicendo!

 

 

Non mi meraviglio delle profezie stravaganti dei protezionisti. Ma è tollerabile che in un pubblico documento quelle profezie siano prese sul serio e siano addotte come una prova che non si può continuare ad applicare il metodo della porta aperta?

 

 

  • 4) «Riscuotendo i dazi sulle merci che continuerebbero a provenire dall’estero, malgrado la preferenza data ai prodotti italiani, la colonia troverebbe quel cespite d’entrata, la cui disparizione preoccupa i sostenitori della porta aperta». Con questo bel ragionamento i protezionisti pretendono di confutare la dimostrazione che io ho data[2], sulla scorta di competenti e pratici studiosi di cose coloniali, come il Leroy Beaulieu, della necessità di fare affidamento sul provento delle dogane per far fronte ad una parte delle spese delle colonie. L’esperienza dimostra che nelle colonie è difficile stabilire imposte produttive all’infuori dei dazi doganali. Od almeno i dazi sono il tributo più semplice, più facile ad essere esatto, meno vessatorio, più produttivo che in una contrada poco progredita si possa immaginare. A questo dato fornitoci dall’esperienza, la dottrinetta elementare – fa pena dover ripetere per l’ennesima volta queste verità semplicissime, le quali sono risapute persino dagli studenti che si contentano del diciotto – aggiunge che il dazio per essere produttivo dev’essere fiscale, ossia dev’essere di ammontare uguale su tutte le provenienze e dev’essere imposto su una merce che nell’interno del paese non possa essere prodotta, né direttamente né per surrogato, ovvero, trattandosi di una merce riproducibile, dev’essere accompagnato nell’interno da una imposta di fabbricazione uguale al dazio doganale. Quando queste condizioni siano soddisfatte noi possiamo essere sicuri che il dazio doganale non sospinge il consumatore dell’interno a preferire la merce non tassata o tassata di meno a quella tassata di più.

 

 

Nelle colonie noi ci dobbiamo contentare di una applicazione approssimativa di questa regola, perché data l’estensione grande del territorio, la imperfetta organizzazione amministrativa e fiscale, la mancanza di industrie, non è possibile né conveniente istituire delle imposte interne di fabbricazione. Ma se i dazi doganali colpiscono merci che nella colonia non si producono e non v’è convenienza a produrre o si producono su modesta scala, il danno è piccolo ed il dazio continua a fruttare. Si può ammettere anche che un dazio generale ad valorem, ad es., dell’11% su tutte le merci, conservi in gran parte il suo carattere fiscale, perché tende a non turbare troppo le ragioni della convenienza di produrre all’interno merci tassate ugualmente; epperciò si continueranno ad introdurre dall’estero quelle merci che è meno conveniente produrre nell’interno. Se però si pongono dazi dell’11 per cento sulle provenienze estere e del 5 per cento sulle provenienze della madrepatria, è certo che la differenza tenderà a far preferire l’importazione dalla madrepatria in tutti quei casi in cui il maggior prezzo delle merci della madrepatria in confronto delle merci estere, non supera, sulle banchine dei porti coloniali, quel 6 per cento di differenza esistente fra i due saggi daziari. Ed è perciò certissimo che, nei limiti in cui il passaggio dal consumo delle merci estere al consumo delle merci metropolitane si verifica, l’erario coloniale subisce una perdita più o meno grande, a seconda che tra i due saggi daziari il divario è grande o piccolo, ma sempre una perdita positiva, la quale non può mai essere indifferente per il bilancio di una colonia, di cui le dogane costituiscono la spina dorsale. Avere un rendimento sufficiente dalle dogane e stabilire un regime di dazi differenziali è una contraddizione in termini, come avere la botte piena e la moglie ubriaca.

 

 

Se la differenza è evanescente, se il dazio sulla merce estera è dell’11 per cento e quello sulla merce metropolitana è del 10,95 per cento, è chiaro che il danno sarà piccolo; e crescerà a misura che la differenza diventerà più ampia. Ma noi ci opponiamo anche alle differenze piccole; perché, come sempre accade, il principio falso e pestifero, anche se dapprima si introduce con moderazione e con apparente innocuità, non può tardare a rivelare le sue tendenze dannose. Subito i produttori metropolitani comincieranno a dire, ad affermare, a gridare che il regime adottato, buono in principio, non produce nessun effetto per la timidità eccessiva della sua applicazione, e sotto la spinta di questi clamori, il divario si allargherà vieppiù e con il suo crescere, sempre peggiori diverranno le condizioni dell’erario coloniale ed i sacrifici che l’erario metropolitano sarà chiamato a sopportare, in apparenza a beneficio della colonia ed in realtà a favore dei preferiti della madrepatria.

 

 

  • 5) Già del resto l’associazione fra gli industriali metallurgici italiani, nel ben noto memoriale che fu criticato in queste pagine, e che il Bodrero nuovamente riassume (pagg. 29/30) ha, con insigne faccia tosta, svelato all’intimo pensiero dei protezionisti affermando che «solo quando, anche nella Tripolitania e la Cirenaica sia aperto l’adito all’importazione dei prodotti italiani in franchigia e i prodotti stranieri siano sottoposti agli stessi dazi che furono adottati nel Regno, solo allora l’industria nazionale si troverà veramente su una base di legittima concorrenza di fronte all’industria straniera». Se queste querele fossero ascoltate, l’incasso dell’erario libico tenderebbe a ridursi a scarsissima cifra: poiché chi vorrebbe comprare la merce estera colpita di dazio quando potesse avere, franca di ogni gabella, la merce nazionale? E trattasi di querele senza senso; poiché poggiano tutte sulla premessa che l’Italia non sia in grado di esportare alcun manufatto all’estero (e fino al 1911 la Libia era territorio estero), se su questo mercato estero i suoi prodotti non sono ammessi in franchigia, in concorrenza con i prodotti esteri colpiti da dazio. Se fossero vere le frottole che i protezionisti vanno contando sulla incapacità della produzione nazionale a competere con la produzione straniera a causa del solito carbone, delle ben note imposte e di tutta la consueta filastrocca delle nostre vergogne[3], come sarebbe possibile il fatto che ogni anno i produttori italiani esportano all’estero per 2500 milioni di roba; peggio progredirono da 1085 milioni nel 1871 a 1391 nel 1901 ed a 2503 nel 1913? E questi bei salti li fecero in un’epoca nella quale gli stranieri vieppiù si inferocivano, al par di noi, nel loro protezionismo e cercavano di tenerci lontani dai loro mercati. La facciano finita i signori metallurgici con la leggenda della capacità «tecnica» degli industriali italiani a competere in molti rami della attività manifatturiera con gli industriali dell’estero e della loro incapacità “economica”. La verità si è che, come in tutti i paesi del mondo, nessuno eccettuato, i produttori italiani agricoli e manifatturieri, sono capacissimi a concorrere con gli industriali esteri in certi rami, ed incapaci in altri, e che non v’è nessuna ragione di ostinarsi a farli competere nelle cose che son buoni a fare, danneggiando anche la loro capacità di far bene il resto. Sarebbe gran tempo che nelle relazioni ufficiali si smettesse il mal vezzo di copiare pedestremente le lamentanze di coloro che affermano la propria incapacità e fanno fare la figura del piagnone a tutti gli italiani. Dovere, e strettissimo dovere, del comm. Bodrero e di tutti i pubblici funzionari, sarebbe stato non di ascoltare quelli che gridano fin troppo, ma di far parlare quelli che stanno zitti e lavorano e faticano e sui mercati esteri fanno onore all’Italia e non chiedono un soldo a nessuno. Quello è il vostro dovere; non l’altro di raccattare sofismi tra le spazzature dei protezionisti!
  • 6) «Un regime con dazi differenziali a favore delle nostre merci, senza modificare la struttura delle tariffe ottomane, assopirà quel senso di malcontento che ha invaso tutti per la parità di trattamento fatto all’industria italiana ed estera”. Da quali indizi lo scrittore citato dal Bodrero (a pag. 33) abbia desunto la notizia che tutti gli italiani sono stati pervasi da un senso di malcontento al sentire che l’Italia trattava egualmente le merci italiane e quelle estere nella Libia, non è detto e sarebbe molto difficile dirlo. Probabilmente, siccome la maggior parte degli italiani non hanno mai sentito parlare di questa faccenda, altri non ne hanno capito nulla ed alcuni hanno espresso il loro parere favorevole al mantenimento del regime vigente, così quei «tutti» si residuano a pochissimi, i quali facendo gran baccano si elessero da sé rappresentanti dell’opinione universale italiana. Ancora una volta, non è inutile rammentare che nelle relazioni ufficiali su argomenti di gran momento si devono esporre fatti ed argomenti e non vane e manifestamente erronee valutazioni numeriche di opinioni, le quali hanno valore solo in quanto corrispondono a verità e non all’opinione di gente che da sé afferma di rappresentare la collettività intiera.
  • 7) «Il regime preferenziale darà modo allo Stato, con la conoscenza più sicura che avrà dovuto acquistare nel frattempo sulla capacità produttiva delle regioni, sull’importanza dei suoi traffici, sull’utilità o meno di svilupparvi alcuni rami di industria, di preparare l’ordinamento doganale definitivo per la nuova colonia mediterranea ed eventualmente di collegarlo con quello delle altre del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano che ancora aspettano il proprio (pag. 33)». Anche qui, nonché la logica, manca il buon senso. Pare di assistere a quelle commedie, nelle quali il protagonista, che ha nascosto l’amante sotto il letto, infilza una serie di parole e discorsi vuoti di senso per intronare la testa a chi è capitato sulla scena in mal punto e non capisce niente dell’insolito chiacchierio del suo interlocutore. I dazi preferenziali, ecc. ecc., che permettono di preparare, ecc., ecc., con la conoscenza più sicura, ecc., ecc., l’ordinamento definitivo, ecc., ecc. Ma un provvedimento prepara un ordinamento quando il primo dà modo di conoscere i fatti reali, quali si manifestano in modo indisturbato e non preordinato al raggiungimento di un fine già noto. Lo Stato potrebbe studiare tutte le belle cose che sono dette di sopra, qualora per una serie di anni, in assenza di qualunque elemento perturbatore si vedesse che cosa la Libia è capace di produrre, che cosa l’Italia di vendere, quali sono le naturali correnti commerciali che si stabilirebbero tra la Libia e gli altri paesi. Ma come si può pretendere di conoscere, di sapere, di studiare capacità produttive e traffici se fin dal bel principio il legislatore dice alla Libia: Tu non comprerai queste e quelle merci salvo che in Italia, e le comprerai in Italia anche quando le potresti avere a miglior mercato da altri paesi! Non importa se in tal modo le correnti dei traffici risulteranno diverse da quelle che sarebbero state; non importa che la capacità produttiva dei coloni rimanga jugulata per aver dovuto pagare troppo care quelle merci. Noi riusciremo egualmente a conoscere ed apprezzare traffici e capacità produttive; perché si sa che queste valutazioni tanto meglio riescono quanto meno i traffici esistono o prendono quelle vie che naturalmente avrebbero seguite e quanto meno le capacità produttive riescono a svilupparsi in un ambiente favorevole.

 

 

E questo incoerente ciangottamento di cose incomprensibili è preso sul serio dal Bodrero e costituisce, non si sa come, un argomento contro la conservazione del sistema della porta aperta!

 

 

Per quanto abbia letto e riletto le pagine della relazione Bodrero, altri argomenti già esposti contro il metodo della porta aperta non ho trovato, i quali non si riducessero a quelli già sovra esposti. Nessun altro punto rimane perciò da esaminare, fuor di uno che il Bodrero aggiunge a quelli addotti dai suoi predecessori e che in sostanza riproduce una argomentazione già messa innanzi della benemerita Associazione fra industriali metallurgici. «L’Italia ha sottostato a sacrificio di uomini e denaro per la conquista della Libia e dovrà sottostare ad altri non lievi sacrifici pecuniari per poter trarre i suoi nuovi possedimenti da quello stato di abbandono in cui furono lasciati – 118 – cadere dal governo turco sarebbe ora strano che essa nulla facesse per assicurare all’industria nazionale la preminenza in quel mercato e lasciasse cogliere i frutti dei propri sforzi agli stranieri».

 

 

Questa proposizione consta di una premessa indiscutibile e di una illazione illogica. È premessa indiscutibile che l’Italia abbia dovuto sopportare gravi sacrifici per conquistare la Libia ed altri gravissimi dovrà sopportare per metterla in valore. Ciò accadde, in misura più o meno rilevante, a tutte le potenze coloniali. Forse ciò che caratterizzò la conquista libica fu l’ostinazione posta dal governo italiano del tempo nell’accrescere le difficoltà della conquista e nello scegliere le maniere più costose di condotta della guerra. Speriamo che nell’opera della colonizzazione economica si segua il metodo opposto e che ragionevolmente si cerchi di spendere il minimo possibile per ottener il massimo risultato.

 

 

Ma il massimo risultato per chi? Il Bodrero sembra ritenere che le colonie si conquistino e colonizzino perché compensino la madrepatria delle spese fatte ed anzi la avvantaggino economicamente, cosicché la colonia possa dirsi produttiva di un reddito, di un lucro finanziario per la madrepatria.

 

 

Questo è l’errore massimo, l’errore comunissimo e volgare del modo di concepire la colonizzazione. Due sono le concezioni dei rapporti fra madrepatria e colonie: l’una predatoria, instabile, suicida ed è quella che è fatta sua dal relatore; e l’altra apparentemente altruista, ma la sola sana e feconda e duratura, la quale dice che la madrepatria non deve proporsi alcun scopo di lucro, ma non deve neppure pretendere un compenso per le spese fatte per la conquista e l’impianto della colonia, ma tutte le deve considerare fatte a fondo perduto.

 

 

La prima concezione forse è quella che si adatta meglio a persuadere la gente avida, sciocca ed egoista che forma il grosso della popolazione di tutte madrepatrie d tutti i tempi. Per convincere questa gente volgare che essa deve sottoporsi al sacrificio di pagare maggiori imposte per la conquista di una colonia, si raccontano o si fanno raccontare ai giornalisti cose mirabili intorno alle ricchezze straordinarie che si potranno lucrare nella colonia; sicché la gente avida si decide e mette mano alla borsa. Ma l’uomo di Stato sa o deve sapere che queste cose sono puramente arti di governo, che forse è legittimo usare quando si rivolge ad una materia prima refrattaria ma di cui si farebbe volontieri a meno se gli uomini fossero capaci di comprendere i loro doveri verso la collettività e verso le generazioni venture. L’uomo di stato sa che è impossibile far che le colonie rendano direttamente alcunché alla madrepatria; e che, se reddito pare vi sia, trattasi di una pura illusione.

 

 

Si illusero gli spagnuoli di ricavare rendite sfondolate dalle colonie americane, sfruttando ed ammazzando indiani per farli lavorare nelle miniere d’oro e d’argento. Ed in verità i galeoni d’oro venivano ogni anno dalle Indie in Spagna. Ma fu quella la maggior disgrazia che sia capitata alla Spagna, i cui abitanti si straviarono dall’industria e dall’agricoltura, facendosi soldati e uomini di ventura, incapaci a lavorare ed a produrre; sicché, quando le colonie si rivoltarono, gli spagnuoli rimasero senz’oro, tutto fuggito in Europa per comprare le merci che essi disdegnavano di produrre, senza industrie e senza commercio.

 

 

Si illusero gli inglesi di poter obbligare le colonie ad acquistare in patria i manufatti di cui esse avevano bisogno; e provocarono la rivolta delle colonie, fonte di una guerra lunga e costosa, nella quale si inabissarono tesori reali ben maggiori di quelli immaginari che si erano illusi di avere ricavato dalle colonie.

 

 

Una colonia è una impresa altruistica; dura e prospera solo a questa espressa condizione.

 

 

Essa può essere:

 

 

  • a) un’opera di polizia internazionale, la quale ha per iscopo di sostituire ad un governo inetto, turbolento, barbaro, corrotto, un governo savio, ordinato, civile. La sostituzione è feconda di benefici per tutti: per gli abitanti della colonia e per quelli della madrepatria e per i cittadini degli altri paesi ancora. Sono benefici inestimabili, anche economici; ma sono benefici indiretti. Quando mai si concepì un governo capace di ripartir dividendi invece che di far pagare imposte? Ciò che sarebbe assurdo in paese, rimane assurdo in colonia. Un governo buono è una passività diretta, sebbene produca benefici indiretti. Bisogna avere il buon senso di contentarsene, senza pretendere di farsi pagare dalle colonie un tributo sotto nessuna forma, neanche di maggiori prezzi e di esclusività all’industria nazionale. Chi farnetica di tributi, anche se li nasconde sotto menzognere spoglie e parole altisonanti, colui è un nemico della colonia e del paese. Vuole la colonia, non per compiervi opera di civiltà, ma per sfruttarla e provocarvi la rivolta;
  • b) un’impresa rivolta ad apprestare nuovo territorio alla esuberante popolazione metropolitana. Fu uno dei motivi per cui andammo in Libia. Fin dal novembre 1911, sulle pagine di questa stessa rivista, manifestai il mio scetticismo intorno alla possibilità di ottenere in un tempo non lungo lo scopo; e non pare che i fatti mi abbiano dato torto. Forse, il fine potrà essere raggiunto in un lunghissimo tempo, di decenni e di secoli; e, ad ogni modo, potrà essere ottenuto solo se noi favoriremo l’armonica convivenza degli arabi e dei coloni italiani ed appresteremo a costoro il miglior possibile ambiente di vita. Ma, per far ciò, le generazioni presenti si debbono sacrificare. Pretendere che gli industriali italiani debbano mettere subito a partito, come tracotantemente domandarono i metallurgici nostrani, i sacrifici compiuti dalla madrepatria, è un volere sterilizzare senz’altro tutti i sacrifici compiuti, accrescendo il costo della vita alle popolazioni indigene ed ai coloni italiani. Se un vantaggio l’Italia riceverà dalla Libia, quel vantaggio non sarà ottenuto dagli italiani viventi ora in Italia; ma dagli italiani che fra 50 o 100 anni saranno andati a stare in Libia, e tanto più volontieri saranno andati laggiù, quanto meno si sarà preteso di gravarli di tributi a favore degli italiani rimasti nella madrepatria. Perché il Bodrero, il quale si diffonde tanto sui sistemi doganali francesi, che sono soltanto il documento dell’insipienza di una classe dirigente sfiaccolata, sfruttatrice, incapace a far figli ed a mandarli fuori, passa sopra velocemente all’esperienza inglese, tedesca ed olandese, che sono le sole che ci dicano che cosa fanno i popoli vogliosi di conservare e di far progredire le colonie? Quei tre popoli videro che, se volevano veramente fare il vantaggio delle colonie e quindi di riflesso della madrepatria, dovevano lasciarle libere, se colonie autonome, di scegliere il sistema doganale che a loro e non alla madrepatria fosse piaciuto di più e, se colonie dipendenti, non dare alla madrepatria nessun privilegio in confronto ai paesi esteri. Questo è l’insegnamento delle colonie, che sono veramente redditizie, sebbene solo indirettamente, alla madrepatria per la loro maggiore antichità, come le colonie inglesi ed olandesi, o che danno affidamento di diventarlo, come quelle germaniche.

 

 

Ma al Bodrero, quell’esperienza, che è la prova provata della vittoria e del successo del sistema della porta aperta nella massima parte delle colonie del mondo, non garba molto; e perciò se ne sbriga in una paginetta. Mentre discorre a lungo delle colonie francesi, per il bel pretesto, di cui non è data la più lontana e vaga dimostrazione, che esse sono «più interessanti» per noi. Forse lo sono per chi voglia trovare nel fatto che i francesi stanno ripetendo gli stessi molti spropositi che loro valsero in passato la perdita di un impero coloniale vastissimo, un pretesto per imitarli a vantaggio di taluni pochi industriali della madrepatria. Ma perché il Bodrero non insiste, quanto sarebbe necessario, sulla circostanza notissima e certissima, «che le importazioni francesi nelle colonie sono cresciute di meno dove le merci francesi sono più protette contro la concorrenza e sono invece cresciute enormemente di più dove esse sono in concorrenza con quelle degli altri paesi esportatori?». Sono parole del Bodrero stesso (pag. 60), e sono sacrosantamente vere. Ma egli se ne serve solo per combattere «il protezionismo ad oltranza» e per lodare il protezionismo modesto, moderato, mite, tranquillo, insensibile, innocente che egli protegge e propugna. Mentre invece quella verità, che gli è sfuggita inavvertitamente di bocca, è la prova che il sistema più utile alle colonie ed alla madrepatria è il sistema della porta aperta che trionfa nelle colonie inglesi, tedesche ed olandesi e riesce a dimostrare la sua bontà persino nelle colonie francesi, i cui padroni sono pure accecati dallo sciovinismo e da un protezionismo gretto e suicida.

 

 

Fa d’uopo, dopo aver dimostrato quale sia il vero significato della premessa esatta: essere le colonie una sorgente di sacrifici per la madrepatria, ancora intrattenersi sulla invereconda illazione che i metallurgici, col Bodrero a rincalzo, ne trassero: ma quei sacrifici devono essere fecondi di vantaggi e di preferenze all’industria nazionale? Appunto perché noi vogliamo che quei sacrifici siano fecondi di vantaggi alle colonie e di riflesso alle generazioni le quali vivranno in Italia in avvenire, noi ci opponiamo tenacemente allo sfruttamento che di quei sacrifici vogliono fare taluni spiriti gretti ed ingordi tra gli industriali italiani. Mi sanno dire costoro perché i sacrifici fatti dalla collettività degli italiani nel momento presente a pro dalla Libia debbano profittare all’industria italiana? Ossia debbano permettere all’industria italiana, o meglio a taluni industriali italiani, di vendere a caro prezzo – più o meno a seconda dell’altezza della preferenza – le loro merci agli arabi ed ai coloni italiani, di quanto essi le potrebbero acquistare sul mercato libero?

 

 

Un sacrificio fatto dall’Italia che deve avere per suo effetto un ulteriore sacrificio degli arabi, che è compito nostro di beneficare, di elevare, di affezionare alla madrepatria, e dei coloni italiani è un assurdo logico.

 

 

È un qualche cosa che rende malcontenti arabi e coloni, li allontana dalla colonia o li spinge, in un tempo più o meno lontano, a sciogliere i vincoli colla madrepatria, ossia è un qualche cosa che rende impossibile gli unici vantaggi, remoti ed indiretti, che un paese si può ripromettere dalle colonie.

 

 

E questa deviazione dell’unica politica la quale permette il massimo sviluppo delle colonie e dei coloni quale scopo dovrebbe avere?

 

 

«La quadratura del circolo»: ha risposto con ragione lo Zagari nell’Unità del 18 dicembre 1914. La stessa precisa risposta mi era venuta in mente leggendo il periodo, in cui il Bodrero sintetizza i caratteri che deve avere la nuova tariffa doganale libica, creata appositamente per la colonia[4] ed equamente preferenziale per le merci di origine italiana. La nuova tariffa dovrà essere «inspirata al concetto che i dazi doganali costituiscono la forma di peso fiscale meglio accetta e più accessibile nelle colonie specie se musulmane, e comprendente un doppio ordine di dazi: l’uno di dazi ad valorem e in misura fissa dell’8 per cento per le merci di qualsiasi provenienza, l’altro di dazi specifici commisurati in modo che, tenuto il debito conto delle esigenze fiscali, le merci di produzione nazionale, se commercialmente bene trattate, possano sicuramente entrare in Libia, senza però minimamente ostacolare il libero e completo sviluppo economico delle due colonie, anche sotto l’aspetto industriale, senza impedire la concorrenza e quindi senza danneggiare il consumatore e diminuirne la capacità di consumo, la quale invece dobbiamo accrescere per volgerla a nostro vantaggio e a quello stesso delle colonie».

 

 

Pare di camminare sui carboni ardenti. Questi dazi che:

 

 

  • debbono tenere il debito conto delle esigenze fiscali, e quindi incoraggiare l’importazione delle merci straniere che pagano di più;
  • debbono trattare bene commercialmente le merci nazionali; e quindi colpirle in misura bassissima, in modo che il fisco poco da esse incassi;
  • debbono lasciare entrare sicuramente le merci nazionali nella colonia; e quindi allontanare le merci estere, le quali potrebbero mettere in forse questa sicurezza dei produttori nazionali;
  • debbono però essere congegnati in modo da non ostacolare minimamente il libero e completo sviluppo economico delle colonie, anche sotto l’aspetto industriale; il che, se le parole vanno intese secondo il loro significato normale, vorrebbe dire «dazi bassi ed eguali per tutte le provenienze estere» perché solo in tal modo i costi della vita e della produzione potranno ridursi al minimo e quindi si potrà ottenere un libero e compiuto sviluppo dell’agricoltura e delle industrie coloniali;
  • non debbono impedire la concorrenza, non debbono danneggiare il consumatore, né diminuirne la capacità di consumo; la quale anzi deve essere accresciuta; e dovrebbero quindi di nuovo essere dazi miti ed eguali per tutte le provenienze;
  • questi dazi sono un mito, una impossibilità, una derivazione assurda di una idea; diffusissima fra gli uomini politici ed i burocrati italiani, che è il padreternalismo. Dei padreterni italiani ho già discorso nell’articolo sulla «Logica protezionista» e in principio di questo: sono gente presuntuosa, la quale immagina di essere indispensabile all’universale; e qua vuol mettere d’accordo, là vuole conciliare, altrove vuole armonizzare gli interessi discordanti; e trovano i turiferari i quali levano gli osanna al «pensiero» vasto e largo dell’uomo insigne che concilia il diavolo coll’acqua santa, i derubati coi ladri, i consumatori coi protezionisti, e via dicendo. Il comm. Bodrero, che è un uomo d’ingegno, in verità non può credere sul serio che i dazi possano essere bassi e dar sicurezza sul mercato coloniale ai produttori italiani, alti e garantire gli interessi del fisco, differenziati e consentire la concorrenza, protettivi e promuovere il consumo ed il progresso economico della colonia. Pretendere che un elenco di dazi soddisfi contemporaneamente a tutte queste condizioni contraddittorie è un non senso; e il comm. Bodrero lo sa benissimo. Ma egli sa anche che nulla giova tanto a far credere che i non sensi hanno un significato profondo quanto il dire che essi sono verità intuitive ed evidenti.

 

 

Poiché i lettori, invece di rivoltarsi contro chi scrive, hanno vergogna di far vedere che essi non hanno capito nulla e, simili ai cortigiani della novella di Andersen, vanno magnificando la bellezza e la maestria del manto, di cui i due tessitori furbacchioni asseverano di aver vestito il re che, tremando di freddo, se ne va nudo in pubblica processione. Ma come come l’incanto sparisce appena il ragazzo innocente grida di meraviglia e batte le mani al vedere il re nudo, così l’incanto dei sistemi solenni e dei periodi imbrogliati svanisce appena si leggono con attenzione e si vede che essi nascondono il nulla.

 

 

Ma peggio che nulla è un’altra dimostrazione che il Bodrero vuole dare: della necessità di uscire da una situazione insostenibile, come sarebbe la continuazione del metodo della porta aperta. Se fosse possibile darla, questa dimostrazione avrebbe un certo valore; poiché è umano abbandonare un metodo, che ha dimostrato di essere pessimo ed incomportabile, anche se non si sa dove si va ed anche se l’altro metodo che si vuol sostituire al metodo vigente è quel guazzabuglio di parole incoerenti, che sopra abbiamo veduto.

 

 

Purtroppo, la logica fa grandemente difetto in questa parte statistica della relazione. Comincia il Bodrero dall’osservare che, sotto il governo ottomano, l’Italia ha saputo, nel corso di ventisei anni, diventare dal sesto paese importatore in Tripolitania ed in Cirenaica il primo, facendo salire la sua quota di partecipazione al commercio di importazione in quelle regioni dal 5,8 al 28,6 per cento ed anzi, se si escludono le cifre relative alla Turchia, al 33,5 per cento. Invece di rallegrarsene e di trarre da ciò un argomento per conservare il regime che aveva prodotto così felici risultati, il Bodrero tutto si conturba riflettendo che dal 1909/10, ultimo anno finanziario turco, al 1913 la quota di partecipazione, dopo essere momentaneamente progredita al 39,4 nel 1912, era rimasta stazionaria al 28,7 per cento.

 

 

Come, grida il Bodrero, si può sopportare che l’Italia assorba l’identica proporzione di un commercio d’importazione cresciuto da 15.231.000 a 26.299.486 lire? La proporzione doveva essere crescente, cosicché assorbisse una maggiore quota di un traffico più alto. In che senso il non essere riusciti a migliorare la propria posizione relativa sia uno stato di cose insostenibile, nessuno può ragionevolmente intendere: mentre si sarebbe compreso che l’essere riusciti a conservare la propria posizione relativa in un periodo tumultuario di guerra, in cui era venuta meno in parte la domanda indigena e il governo italiano per i bisogni delle sue truppe doveva ricorrere agli approvvigionamenti più rapidi, che non sempre poterono essere forniti dall’Italia, era una vittoria segnalata, e doveva essere incitamento a nuovi e maggiori sforzi in avvenire.

 

 

Ma vi è di più. Lo stesso relatore ci avverte che gli anni 1912 e 1913 sono anni di importazione prima esuberante e frenetica e poi di crisi, i cui dati non sono affatto paragonabili con quelli tranquilli del periodo turco.

 

 

E dopo un’analisi accurata intesa a rendere paragonabili i dati del 1912 con quelli del 1910, giunge alle seguenti conclusioni che testualmente trascrivo:

 

 

  • 1) «per le merci che l’Italia esportava in Tripolitania e in Cirenaica già prima dell’occupazione, essendo rimasta quasi invariata, negli anni 1912 e 1913, la quota di partecipazione del nostro paese al commercio d’importazione di questa categoria ed essendosi, all’incontro, per i prodotti che formano il nucleo principale di essa, aumentata la quota di partecipazione dell’Italia nell’anno 1912 rispetto all’anno 1910, il nostro paese si è avvantaggiato rispetto agli altri Stati concorrenti»;
  • 2) «per le merci che prima dell’occupazione non formavano oggetto di esportazione dall’Italia in Libia, essendo aumentato il valore complessivo della loro esportazione relativamente all’importazione totale di quel paese nel 1912 rispetto al 1910, l’Italia, pur essendosi presentata come una nuova concorrente sui mercati libici, rimane pur sempre molto al disotto dei paesi concorrenti; anzi, se si confrontino i dati del 1913 con quelli del 1912, si nota come il nostro paese partecipi in misura regressiva a questo commercio, che dimostra tendenza all’aumento». E ciò perché, come spiega poco prima il relatore «cessate le condizioni eccezionali che obbligarono nel 1912 i mercati libici a rifornirsi anche a più alti prezzi in Italia per quasi ogni specie di merce ancorché quivi non prodotta, essi riannodarono le precedenti relazioni di affari e si rivolsero direttamente ai paesi esteri, produttori a minor costo dell’Italia, delle merci di cui abbisognavano».

 

 

E queste sono le belle ragioni le quali renderebbero insopportabile la continuazione del regime vigente della porta aperta!

 

 

Traducendo in parole volgari le conclusioni del Bodrero, pare che il commercio di importazione si sia sviluppato così:

 

 

  • a) Anno 1910 di commercio normale;
    • anno 1912 d’importazione enormemente accresciuta, frenetica, urgente;
    • anno 1913 di crisi e ritorno verso le condizioni di normalità.
  • b) Nel passaggio dal 1910, periodo turco, al 1912/913, periodo italiano, l’Italia aumentò notevolmente l’importazione delle merci che prima esportava già in Libia, dal 44 per cento nel 1910, sull’importazione totale di questa categoria di merci, al 55 per cento nel 1912 e rimanendo suppergiù stazionaria su questa proporzione nel 1913. È un risultato di cui dobbiamo essere contenti; il quale dimostra che in tutti quei casi in cui l’Italia ha una vera ragione di esportare in Libia, perché essa può vendere le merci esportate ad un prezzo più basso dei suoi concorrenti, l’Italia nulla ha da temere dal regime della porta aperta e dall’eguaglianza di trattamento tra le merci italiane e le straniere. Essa si impone, in questa categoria di merci colla bontà dei suoi prodotti; e vieppiù si imporrà in avvenire per la preferenza spontanea che, a parità di prezzo od anche a prezzi leggermente superiori, i coloni daranno spontaneamente ai prodotti della madrepatria.
  • c) Invece per un’altra categoria di merci, quelle che l’Italia non produce o produce ad un costo più alto che all’estero, la Libia dovette ricorrere nel 1912 eziandio all’Italia, anche pagando prezzi più elevati, pur di avere la merce ad ogni costo; mentre nel 1913, passata la furia, tornò a provvedersi all’estero, conservando però all’Italia ancora la metà di un commercio prima inesistente e guadagnato nel 1912.

 

 

Quale conseguenza logica si doveva ricavare da questa vicenda di cose? Quella che io avevo già affermato prima: che i vincoli di affetto, di lingua, di costumanze, di dipendenza fra la madrepatria e le colonie sono tali e tanti che è un assurdo temere di vederci sfuggire di mano tutto il commercio coloniale. Noi vediamo qui una colonia, dove, fin dai primissimi anni di occupazione, noi non solo guadagniamo terreno per le merci che già prima esportavamo e che possiamo fornire a buon mercato; ma persino, nei momenti di urgenza, accaparriamo una parte del traffico delle merci che non avevamo esportata mai, sia perché non le produciamo sia perché le produciamo a troppo caro prezzo. Un risultato più brillante difficilmente era augurabile. Ed invece il comm. Bodrero lo dichiara insostenibile e vuole stabilire dazi preferenziali per obbligare le colonie a comprare da noi una quantità ed una proporzione maggiore di questa seconda specie di merci. V’è ancora bisogno, dopo ciò, di spiegare il significato vero di quel guazzabuglio di parole incoerenti con cui si voleva definire la tariffa ottima e massima per la Libia? Essa è quella tariffa – dirò con parole tratte dalla relazione del Bodrero – con cui si vogliono obbligare «i mercati libici a rifornirsi anche a più alti prezzi in Italia per quasi ogni specie di merce ancorché ivi non prodotta». Per questo sconcio fine dunque i soldati d’Italia sparsero il loro sangue in Libia?

 

 



[1] Scrivo in corsivo la parola fortunatamente, sia perché essa corrisponde a verità, sia per mettere in luce che la fortuna durò poco, essendosi nella burocrazia coloniale infiltrata l’idea che i concetti liberisti fortunatamente non facevano presa in Italia e si poteva perciò impunemente vendere i consumatori libici agli zuccherieri nazionali.

[2] In A proposito della Tripolitania, in «Riforma Sociale» dal 1911, pag. 597 e 740; I fasti italiani degli aspiranti trivellatori della Tripolitania, in «Riforma Sociale» del 1912, pag. 161; Ancora sul regime doganale della Tripolitania e Sul regime doganale della Libia, in «Rivista delle Società commerciali» del 1912, pag. 85 a 242.

[3] E questa gente, che ogni altro giorno sciorina dinnanzi al mondo le incapacità, le miserie, le inferiorità italiane, e trema continuamente di spavento dinnanzi all’invasione straniera, pretende, come accadde in certo congresso milanese, che noi altri liberisti si sia venduti allo straniero, solo perché gridiamo ben alto che della concorrenza straniera l’Italia non deve aver paura, che essa non ha bisogno di serre calde per vivere e prosperare e che, una volta concessale libertà di scuotersi, l’Italia si muoverà e conquisterà mercati esteri, più di quanto non abbia fatto in passato.

[4] Adesso il metodo di creare una tariffa speciale per la colonia che sia preferenziale per la madrepatria si chiama «sistema della personalità doganale». È un assai curioso modo di esprimersi, in fondo a cui stanno due idee:

  • 1) che sia opportuno chiamare «sistema» o «teoria» o «pensiero» ogni opinione più o meno interessante che venga fatto di mettere fuori ad una qualunque persona che non sa neppure dove stiano di casa i sistemi e le teorie ed il cui cervello non si è mai affaticato in pensieri troppo logoranti. O non accade ogni giorno di vedere i giornalisti andare a caccia del «pensiero» dell’onorevole X o del senatore Y o del ministro Z sul problema del giorno? mentre è cosa certissima che quei cosidetti «pensieri» sono per lo più rifritture degli ultimi articoli di giornale o dei discorsi di caffè, senza nessunissima luce di pensiero. Il «pensiero» degli uomini politici corrisponde alle «teorie» ed ai «sistemi» dei professori od aspiranti professori universitari italiani. Ognuno di questa brava gente ha la «sua» o meglio «nostra» teoria, opposta alle «teorie» di infinita altra brava gente, che erano state prima schierate e confutate nelle dotte pagine dello scrittore. Tutte queste «nostre teorie» in sostanza sono quasi sempre delle assai piccole argomentazioni ed illazioni intorno a qualche problema controverso, che rare volte è fecondo e fondamentale e più spesso è esiguo e del tutto irrilevante. Questo brutto vizio di fabbricare teorie, allo scopo di gettare polvere negli occhi alla gente, pare stia ora passando anche nei funzionari dello Stato, finora immuni da cotal lebbra;
  • 2) cha sia opportuno dare al «sistema» il nome di metodo «della personalità doganale», essendoché i nomi belli sono mai sempre stati opportunissimi a far dimenticare i difetti della cose brutte. In parole volgari questo cosidetto «sistema» non è altro che un «elenco» di merci alle quali viene applicato un dazio più elevato quando provengano dall’estero che dalla madrepatria, allo scopo di obbligare i coloni a comperare quelle merci a più caro prezzo dai produttori metropolitani piuttostoché da quelli stranieri. Se la cosa venisse spiegata così come è con le sue parole proprie, sembrerebbe a tutti una cosa bruttissima e ben difficilmente potrebbe essere fatta ingollare ad un Parlamento qualsiasi. Invece, la si comincia a decorare col nome di «sistema» ottenendo lo scopo di far sorgere intorno a quella cosa brutta un vago e solenne nimbo scientifico, dietro a cui gli ignoranti sospettano chissà quali profonde e misteriose verità, che potrebbe essere pericoloso per la propria reputazione voler scrutare. Inoltre dicendo «della personalità doganale» par quasi si voglia riconoscere alle colonie non si sa quale indipendenza, autonomia, fierezza di atteggiamento che solletica la vanità della madrepatria, la quale vuol tenere soggetta la colonia, ma nel tempo stesso vuol darsi delle arie di magnanimità e di larghezza di idee. In realtà il solo metodo il quale consenta vera indipendenza ai coloni è quello della porta aperta, perché dà loro diritto di comperare dove vogliono, come se fossero uomini liberi; mentre il metodo dei dazi preferenziali (cosidetta personalità doganale) li rende schiavi verso i produttori metropolitani. Perciò i protezionisti, abilissimi nell’imbrogliare le carte, inventano la nuova terminologia, e, fidando non a torto nella insipienza delle folle, fanno loro credere che il metodo della porta aperta voglia dire asservimento allo straniero e quello della personalità emancipazione dalla servitù. Il che possiamo ammettere sia linguaggio scientifico, simigliante a quello di coloro che parlano di «socialismo scientifico»; ma ormai sappiamo essere linguaggio contrario a verità.

La crisi nella direzione delle ferrovie

La crisi nella direzione delle ferrovie

«Corriere della Sera», 27 gennaio 1915

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 133-137

 

 

Dieci anni non sono ancora intieramente trascorsi dal giorno in cui l’ing. Riccardo Bianchi assunse la direzione delle ferrovie che lo stato aveva tumultuariamente assunto, con molta leggerezza e nessuna preparazione. Un contratto non bene concepito e più le avverse vicende attraversate dal 1885 al 1905 dalla economia nazionale avevano reso malcontenti dell’esercizio privato gli utenti, lo stato e le società esercenti. I primi si lamentavano del disservizio; le società si persuadevano d’aver fatto un mediocre e forse un cattivo affare; lo stato querulosamente stringeva la borsa quando si dimostrava la necessità urgente di provvedere ad improrogabili spese d’impianto. E così si venne al 1905, quando il traffico finalmente crescente per le migliorate condizioni dell’economia italiana urtava contro la deficienza dei binari, dei carri, delle stazioni, la vetustà delle locomotive, la indisciplina del personale, il caos dell’improvvisato passaggio dall’esercizio privato all’esercizio di stato. E l’Italia si rivolse in quel momento a Riccardo Bianchi, ingegnere di grande e meritata fama, il quale aveva guadagnato il bastone di maresciallo col rendere la società delle ferrovie sicule la più fortunata delle tre società esercenti le reti italiane.

 

 

Io non conosco il Bianchi altrimenti che attraverso le sue relazioni annue sull’amministrazione delle ferrovie esercitate dallo stato. E, raffigurandomelo attraverso quelle pagine, non so vedere in lui soltanto il tecnico valentissimo, quale lo proclamano tutti i periti della materia, ma anche un amministratore che ha perseguito un suo ideale di ricostituzione delle ferrovie italiane, di adattamento degli impianti al traffico crescente e si è sforzato di utilizzare gli impianti esistenti ed il personale a sua disposizione nel modo che egli riteneva migliore.

 

 

Nell’ultima relazione, da lui data in luce, il Bianchi ha inserito un diagramma significativo. Vi si vedono dal 1905 al 1912-13 i chilometri esercitati crescere da 13.055 a 13.653; ma più crescere i km-treno da 79.610.000 a 115.211.000, le entrate da 370.800.000 lire a 589.937.000, le spese ordinarie da 244.129.000 a 456.306.000 ed il residuo disponibile per spese complementari e per pagare gli interessi e l’ammortamento del capitale rimanere quasi stazionario da 126.761.000 a 133.631.000 lire; malgrado che il Bianchi, dopo un primo momento in cui il numero degli agenti aveva dovuto progredire da 1.394 per ogni milione di km-treno nel 1905 a 1.439 nel 1906-907 e da 299,3 per ogni milione di lire di entrate a 307,6, avesse cercato di frenare l’ascesa riducendo il numero degli agenti a 1.255 per ogni milione di km-treno ed a 245 per ogni milione di entrate nel 1912-13. Qui si vedeva non più soltanto il tecnico; bensì l’amministratore, il quale cercava di far rendere quanto più poteva il meccanismo imperfetto che era stato posto a sua disposizione e che egli aveva cercato tecnicamente di perfezionare.

 

 

In questo sforzo il Bianchi aveva dovuto incontrare grandissime difficoltà: dalla disciplina del personale, il quale dava uno scarso rendimento e voleva introdurre norme parlamentari nella gestione dell’azienda ferroviaria, alle pretese del pubblico, il quale voleva, e con pressioni politiche otteneva, la moltiplicazione dei treni, anche laddove il traffico non richiedeva aumenti; dalle esigenze del tesoro, il quale pretendeva il versamento di un cosidetto reddito netto, alle pressioni dei fornitori che, mercé la concessione di privilegi negli appalti e la esclusione di moderatrici concorrenze estere, riuscivano a far pagare care le rotaie, le locomotive, i carri più di quanto non fosse consentito dalle condizioni del mercato; dalle imposizioni degli statizzatori ad oltranza che rendevano responsabile l’azienda ferroviaria delle perdite cagionate da una navigazione statale costosissima con le isole, da sussidi al Consorzio zolfifero siciliano, da partecipazioni a spese del terremoto di Messina e di Calabria, ecc. ecc.

 

 

Contro tutte queste inframmettenze il Bianchi aveva reagito, è d’uopo dirlo, fermamente. Aveva gelosamente cercato di mantenere intatta l’unica cosa buona dell’esercizio di stato ed era la sua autonomia; ed era stato intollerante di qualunque ingerenza ministeriale nella gestione a lui affidata. Aveva resistito alle intemperanze del personale; e, pur concedendo aumenti, che oggi debbono essere considerati come larghi, negli stipendi ed assegni, aveva punito con severità e, per quanto stava in lui, aveva, nell’interesse della disciplina, mantenuto le punizioni.

 

 

Tutto ciò ed altre cose ancora si debbono ripetere ad onore del Bianchi, in questo momento in cui egli lascia la direzione che fu sua per un decennio. Tuttavia non si può dire che l’amministrazione statale delle ferrovie sia stata un successo economico e forse nemmeno un successo sociale. È inutile ripetere, in questa occasione, ancora una volta la dimostrazione della perdita che le ferrovie cagionano allo stato italiano, perdita oscillante, a seconda dei calcoli, da 150 a 200 milioni di lire. Su questo punto il Bianchi era sempre stato intrattabile. I suoi calcoli sul rendimento delle ferrovie erano forse mossi dall’amor paterno verso l’amministrazione da lui creata, ma erano dannosi alla sincerità dei bilanci ed alla sorte stessa delle ferrovie di stato. Egli non era mai riuscito a comprendere – almeno a quanto risulta dalla tranquilla ripetizione dei medesimi errori in una lunga serie di successive relazioni – che il collocare le imposte di ricchezza mobile ed altre pagate dalle ferrovie e dai loro agenti all’erario, tra i redditi delle ferrovie per lo stato era un errore evidentissimo; e che tutti i calcoli fondati su tal base erano viziati dalle fondamenta; ne si era mai potuto persuadere che egli in tal modo confondeva lo stato proprietario di ferrovie e percettore dei redditi ferroviari con lo stato ente pubblico, percettore di imposte per la difesa nazionale, la giustizia, la pubblica sicurezza. Mancava al Bianchi – ripeto per quanto può dedursi dalle sue manifestazioni scritte, che sono l’unica fonte di notizie a me accessibile – la nozione della necessità che le ferrovie di stato debbono essere un’azienda non solo autonoma amministrativamente, ma anche economicamente. Egli partecipava all’illusione comune di moltissimi, di troppi italiani, per cui le ferrovie non si costruiscono per trasportare merci e viaggiatori e non debbono trovare nei prodotti del traffico il compenso alle proprie spese di esercizio e di impianto. Secondo l’opinione comune in Italia, le ferrovie sono sovratutto costruite nell’interesse pubblico e solo accidentalmente debbono produrre un reddito atto a coprire in tutto od in parte le spese. È una teoria specificamente italiana, della quale non si trova traccia in nessun altro paese del mondo. Il Bianchi partecipava a questa strana illusione e si sforzava di far vedere che, se anche le ferrovie erano, a stretto rigore, passive, producevano ogni specie di vantaggi indiretti atti a compensare il danno economico che l’erario sentiva.

 

 

Di ciò non fo colpa al Bianchi. I suoi meriti erano grandi ed erano suoi personali. Era un tecnico valente ed era un amministratore che aveva saputo migliorare il rendimento della pianta-uomo nella sua azienda. Dinanzi a questi risultati scopriamoci il capo. Quale dei direttori generali ha saputo ottenere altrettanto in Italia? Forse qualcuno che tenne il comando nelle privative dei tabacchi e dei sali. Nessuno certo, che abbia dovuto superare tante difficoltà quante quelle contro cui il Bianchi dovette combattere. Tuttavia sia lecito fare un augurio: che il successore dell’on. Bianchi sappia vedere che qualcosa rimane da fare per rendere un vero successo l’azienda ferroviaria statale. Non abbia paura costui di cercare il successo dove lo cercano tutti i grandi capitani dell’industria: nel diminuire il disavanzo finanziario dell’azienda affidata alle sue cure. Un’impresa la quale perde ogni anno 100 o 150 o 200 milioni di lire deve vivere di elemosine e deve soggiacere forzatamente ad ogni genere di cattive influenze. L’autonomia di un’impresa in perdita e la cui perdita è colmata dallo stato, ossia dai contribuenti, è una parvenza di autonomia. Chi sta a capo di un’azienda cosiffatta deve persuadersi che il controllo della pubblica opinione e per essa del parlamento e del governo è necessario e può essere utile. Non giova, per evitare commenti malevoli ed inchieste atte a ferire l’amor proprio, sforzarsi di dimostrare che le ferrovie danno un rendimento discreto, quando i fatti chiariscono che invece del reddito vi è una perdita grossissima. Non giova far questo per le ferrovie, come non giovava negli anni decorsi al ministro del tesoro italiano dimostrare che il bilancio si chiudeva con avanzi vistosi, quando la cosa era manifestamente assurda. Non giova, perché tutti desiderano spadroneggiare in una casa dove i mezzi sono larghi e dove v’è ospitalità per tutti. Se si avrà invece il coraggio di spiegare chiaramente la situazione reale delle cose, di dire che le ferrovie costano ogni anno tante e tante decine di milioni agli azionisti loro proprietari, che sono i contribuenti italiani, si otterranno probabilmente taluni effetti utilissimi:

 

 

  • sarà maggiore la capacità di resistenza del direttore generale delle ferrovie contro tutte le pressioni politiche intese ad aumentare inutilmente i treni, a migliorare i salari in modo non compatibile colle condizioni del mercato del lavoro, a far pagar care le forniture, ecc.;
  • minore sarà il desiderio dei poteri politici di occuparsi fuor di luogo di una azienda, la quale naviga già in cattive acque;
  • gli italiani avranno maggior coscienza dei sacrifici che essi impongono alle collettività quando chiedono ferrovie nuove; sicché forse le chiederanno solo quando siano produttive o quando ne siano manifesti i vantaggi militari o politici.

 

 

Chiedendo che il nuovo direttore generale delle ferrovie di stato sia ancor più di quanto non fosse il Bianchi un capitano d’industria, desiderando che esso si preoccupi di non crescere il gravame che per colpa delle ferrovie incombe sui contribuenti italiani, forse chiedo troppo. Ma parmi che soltanto a questa condizione valga la pena di succedere ad un uomo, la cui opera è stata discussa; ma a cui nessuno ha negato qualità rarissime, che fu fortuna grande trovare adunate nel primo reggitore delle ferrovie italiane di stato.

 

 

L’impero britannico e la teoria tedesca della sua decadenza

L’impero britannico e la teoria tedesca della sua decadenza

«Corriere della Sera», 18[1] e 19 gennaio 1915

Gli ideali di un economista, La Voce, Firenze, 1921, pp. 91-111[2]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 748-763

 

 

 

 

I

Che la guerra europea, benché sia combattuta sul continente e benché richieda alle nazioni continentali il sacrificio maggiore di vite, sia in realtà una lotta per il primato fra Germania ed Inghilterra, è verità di cui sono ugualmente convinti inglesi e tedeschi. I quali ultimi, mentre non nascondono le intime simpatie del cuore per i francesi e non repugnano ad accordi con la Russia, considerano l’Inghilterra come la loro vera irreducibile nemica.

 

 

È un odio che nelle classi meno colte della Germania trae forse principalmente origine dalla credenza di una supposta necessità di lotta a morte con l’Inghilterra per la rovina economica dell’avversario e la conseguente grandezza propria; mentre nell’Inghilterra e presso le medesime classi sociali si diffondono credenze altrettanto erronee e funeste intorno alla necessità di schiacciare la Germania per salvare l’economia britannica dalla rovina.

 

 

Pur non negando che queste false immagini dei pericoli, che discenderebbero dal vigoreggiare della contrada rivale, abbiano grandemente contribuito alla seminagione dell’odio da cui scaturì la guerra, io non intendo qui occuparmene. Certamente anche chi, al par di me, sia persuaso che la rivalità tedesca fu invece non ultima causa del rifiorire grandioso della economia britannica dopo il 1900 e ritenga d’altro canto che il contributo del mercato monetario londinese alla risurrezione dei paesi nuovi dell’America, dell’Africa e dell’Asia fu cagione non trascurabile dello sviluppo meraviglioso della ricchezza tedesca negli ultimi 25 anni, deve riconoscere che le credenze erronee degli uomini partoriscono talvolta effetti più grandiosi delle verità più certe e profondamente meditate. E quindi può darsi che i tedeschi si sentano animati alla lotta contro l’Inghilterra dalla speranza di diventare più ricchi e potenti nel giorno in che siano riusciti ad annientare la loro rivale ricca e potente d’oggi.

 

 

È doveroso riconoscere che non tutti i tedeschi ragionano in cotal maniera materialistica e predatoria. Anzi gli uomini veramente rappresentativi della Germania, quelli che dai connazionali sono reputati i veggenti ed i profeti della missione storica germanica aborrono da questa maniera di ragionare. Udiamo il vangelo di Treitschke, alla cui fonte si sono abbeverate tutte le classi intellettuali e dirigenti della Germania d’oggi. Egli non predica la crociata contro l’Inghilterra, perché essa sia una temibile e forte e sana concorrente della Germania. Egli invece la odia perché la reputa una maschera, una entità non esistente, una vergogna che non ha diritto di esistere. «In questo nostro mondo – egli afferma – la cosa che è intieramente una maschera, una falsità, una falsità corrotta, può trascinare la sua vita per qualche tempo, ma non può durare per sempre». Ed altrove: «Non fu la grandezza della sua condotta politica che, come già creò Venezia, ha creato ora l’Impero inglese: bensì l’azzardo della sua situazione geografica, la remissività supina delle altre nazioni e la naturale ed innata ipocrisia della nazione inglese. Vecchia Inghilterra! decrepita e corrotta fino al midollo!».

 

 

Se fosse vero che l’impero inglese è una cosa falsa, ipocrita e corrotta, se esso fosse davvero una maschera priva di contenuto, un colosso dai piedi di creta, senz’alcun dubbio il suo fato sarebbe indeprecabile e la storia dovrebbe registrarne ben presto la rovina. Nessuno Stato ha, non dirò il diritto ma la possibilità di vivere quando esso è fondato sull’inganno e sull’astuzia, fortificato dall’ipocrisia e raccomandato ad un’idea falsa di una forza inesistente. I tedeschi – e dico i tedeschi per indicare quel qualunque popolo che si sentisse la forza di rovesciare l’idolo – non avrebbero, se fosse esatta la rappresentazione che essi si fanno dell’impero inglese, ragione di odiare l’Inghilterra perché essa è la loro rivale economica. Essi avrebbero ragione di odiarla e di rovesciarla perché in realtà essa non sarebbe veramente una rivale degna di misurarsi con loro nel campo aperto e libero delle competizioni commerciali; ma una tiranna che colla forza dell’astuzia e dell’inganno cercherebbe di ottenere lucri, a cui sarebbe incapace di giungere onestamente, col lavoro emulatore e fecondo.

 

 

La guerra contro l’Inghilterra sarebbe una cosa turpe e dannosa, se essa mirasse a distruggere una nazione che ha il solo peccato di rivaleggiare con la Germania colle oneste arti dell’industria e del commercio in campo aperto. La guerra, come la predicò per tanti anni il Treitschke, sarebbe invece una santa impresa perché mirerebbe a togliere di mezzo un mostruoso colosso, chiamato impero inglese, sorto coll’inganno e vivente di frodi diuturnamente commesse a danno dell’umanità . Siccome la vittoria delle idee vere, profondamente rispondenti a realtà , è irresistibile, la caduta della Inghilterra sarebbe inevitabile. Più o meno presto, attraverso la varia fortuna delle armi, l’impero inglese dovrebbe andar distrutto e sulle sue rovine si instaurerebbero altri imperi mondiali. Di fronte a questo problema: della vittoria della cosa viva e reale, dell’idea vera e sana contro la cosa vuota ed ipocrita, contro l’idea falsa; scompare l’altro problema: chi debba vincere tra il business-man inglese ed il commesso viaggiatore tedesco. Costoro sono soltanto le fronde esteriori di un albero che ha le sue profonde radici nella terra; e cadranno prime le fronde di quell’albero le cui radici sono marcie e decrepite.

 

 

Il problema è dunque: l’impero inglese è una cosa falsa, una apparenza vana, sorta colla frode e mantenuta coll’ipocrisia? Rispondere chiaramente a questa domanda è nell’interesse così degli inglesi come degli altri popoli; degli inglesi, perché un popolo consapevole dei propri difetti, è sulla via della redenzione; degli altri poiché non giova a nessuno farsi un’idea falsa delle virtù e dei vizi degli amici e degli avversari.

 

 

Ora, mentre gli inglesi hanno contribuito moltissimo alla conoscenza di se stessi; mentre tutta la loro letteratura politica è una analisi per lo più straordinariamente oggettiva e critica della loro storia e della formazione del loro impero; non mi sembra che fuori dell’Inghilterra si sia seguito con abbastanza attenzione il movimento di idee e di fatti che tendono alla rinnovazione dell’impero inglese. L’ultimo dei grandi italiani che conobbe a fondo, nello spirito e nelle linee essenziali, l’Inghilterra fu una mente politica sovrana; Camillo di Cavour. Dopo di lui e presso le nuove generazioni, l’Inghilterra non è ancora quella cosa irreale e grottesca che ha immaginato il Treitschke, ma è di nuovo la nazione di mercanti astuti, che sfrutta le fatiche degli altri, che esce arricchita dalle guerre combattute fuori dall’isola superba e padrona delle terre irrorate dal sangue dei popoli ingenui, l’ipocrita che predica in casa d’altri l’ideale della nazionalità ed intanto freddamente commette gli eccidi indiani, annette l’Egitto, distrugge l’indipendenza boera; la nazione missionaria che tuona contro i delitti dei belgi nel Congo e si macchia, senza batter ciglio, degli orrori dei campi di concentrazione del Transvaal. Ed è innegabile che presso gli inglesi si trova suppergiù quella medesima percentuale di gente falsa, ipocrita e crudele che, in identiche circostanze, è esistita ed esisterebbe presso ogni altro popolo della terra. Ma non è di questi incidenti che si compone la gran trama della storia; né da questi fatti possiamo trarre argomento a giudicare della posizione che ebbe ed ha nella storia e nella vita del mondo l’impero inglese; così come nessuno di noi vorrebbe giudicare l’opera grandiosa dell’impero romano sull’unico fondamento delle crudelissime azioni che non di rado i romani commisero contro i popoli nemici e soggetti.

 

 

No. L’impero inglese si deve giudicare ricordando che esso è l’unico sopravvivente di quattro anzi di cinque grandi imperi che dal secolo decimosesto al decimottavo si succedettero nel mondo: l’impero portoghese, l’impero spagnuolo, l’impero olandese, l’impero francese ed il vecchio impero inglese. Piuttosto si deve dire, poiché la parola «impero» non è del tutto appropriata, come, prima che sorgesse la odierna «più grande Inghilterra» erano sorte e si erano dileguate cinque altre «più grandi» formazioni storiche, che avevano preso il nome dalla contrada europea relativamente piccola che aveva allargato il suo dominio nei paesi nuovi d’America e d’Asia; il Portogallo, la Spagna, l’Olanda, la Francia e l’Inghilterra medesima. Tutte queste cinque «più grandi» nazioni avevano contribuito alla formazione del mondo moderno; ma tutte scomparvero; e solo qua e là si veggono galleggiare ancora i resti di quelli che parevano un giorno dominii mondiali destinati a sfidare i secoli. Scomparve il «più grande Portogallo»; perché all’opera ambiziosa di popolare e civilizzare il Brasile, le Indie e gran parte delle coste africane male rispondevano la piccolezza della popolazione della madrepatria e sovratutto la ripugnanza ai lavori dell’industria, l’intolleranza religiosa, la corruzione amministrativa degli avversari posti a capo delle fattorie commerciali nelle colonie, la libidine del lucro rapido, che li indusse a voler escludere a forza gli arabi dal commercio indiano e ad instaurare dappertutto un monopolio geloso e sterilizzatore a pro dei negozianti della madrepatria.

 

 

Cadde la «più grande Spagna» e nella sua caduta trascinò con sé la madrepatria; perché gli spagnuoli considerarono le Americhe come un terreno da sfruttare, come una riserva di caccia, dove gli indiani fossero stati da Dio creati per scavare l’oro a pro dei dominatori. La superstizione dell’oro non produsse forse mai nella storia una decadenza altrettanto tragica come quella dell’impero su cui il sole non tramontava mai. Lasciate in abbandono le terre e le industrie, gli spagnuoli considerarono come la loro vera industria nazionale quella del guadagnare oro nelle Americhe; e l’oro accumulato sperperarono in guerre incessanti combattute per conservare un dominio odioso in Italia e nei Paesi Bassi ed il predominio nell’Europa. Epperciò, malgrado i galeoni d’oro che formavano l’invidia d’Europa, il tesoro spagnuolo era poverissimo, gli abitanti della madrepatria disusati al lavoro fecondo, i coloniali malcontenti e desiderosi di libertà.

 

 

Lo stesso sogno di supremazia europea perdette l’impero francese: a cui tuttavia non avevan fatto difetto le concezioni geniali dei Sully e dei Colbert ed il valore di generali meravigliosi. Anche la Francia volle che le colonie servissero alla madrepatria; pretese che esse dovessero fornirle materie prime e prodotti coloniali, in cambio dei manufatti, di cui in patria si promuoveva l’incremento con privilegi gelosi. I francesi, come è loro costume antico, mandarono nelle colonie funzionari numerosi e brillanti ufficiali di corte: e per correre dietro alle apparenze dimenticarono quella colonia del Canadà che ancora oggi è la dimostrazione vivente dei miracoli che avrebbe potuto compiere nel mondo la Francia religiosa, prolifica, patriarcale, rurale dell’antico regime, se la classe politica dirigente del secolo XVIII non fosse stata così inferiore alla sua missione; e se non avesse ritenuto di potere conservare con guerre incessanti e depauperanti in Europa il dominio del mondo.

 

 

Né poté essere salvata dalla decadenza «la più grande Olanda», a cui il possesso di Giava, Sumatra e delle isole della Sonda non basta a conservare lo scettro di impero mondiale, che per un istante pareva avesse conquistato. Abitanti di un paese troppo piccolo per aspirare permanentemente ad una grande situazione europea, privi dei caratteri di una nazione veramente autonoma territorialmente ed idealmente, gli olandesi sovrattutto non vollero l’impero, con tutte le responsabilità e gli oneri gravissimi che esso comportava. Essi si preoccuparono soltanto di conservare quelle colonie da cui potevano ricavare un reddito pecuniario diretto. Ottimi mercanti; esperti e benemeriti amministratori delle isole che sono loro rimaste, mancarono dello spirito imperialistico, avventuroso, idealistico che spiega il fiorire delle colonie di popolamento. L’Africa del Sud avrebbe potuto essere una loro grande creazione; ma gli olandesi l’abbandonarono a se stessa e se ne ricordarono solo, meravigliando, nei giorni dell’eroica resistenza boera.

 

 

E cadde finalmente la «più grande Inghilterra» del secolo XVIII; quella che si era silenziosamente e quasi inavvertitamente formata sulle coste dell’Atlantico dopo il 1600. Gli Stati Uniti si separarono perché l’Inghilterra del secolo XVIII, l’Inghilterra di Giorgio II e di Giorgio III, di Walpole, di Lord North e della Cabala non aveva nulla da dire agli uomini religiosi, puritani, che da sé avevano assunto la missione di conquistare la foresta e la prateria al regno di Dio. Nessun vincolo ideale riuniva i fondatori delle 13 colonie nord americane alla madrepatria; ed essi erano intimamente scandalizzati nel vedere con quanta leggerezza il Parlamento inglese, tutto occupato intorno a piccoli intrighi di corte e di piazza, attentava senza accorgersene alle loro franchigie. Le casse di tè, che i coloni buttarono nel porto di Boston indicarono non solo che essi non intendevano di pagare imposte senza avervi prima dato il loro consenso; bensì anche che essi non avevano alcun ideale comune con gli uomini che allora rappresentavano l’Inghilterra.

 

 

Era un conflitto di coscienze, dal quale pareva che l’idea di un impero inglese non potesse più risollevarsi. Per anni e per decenni si credette in Inghilterra che non fosse né possibile né utile la conservazione di un ampio dominio coloniale. Le colonie si consideravano come il frutto che, giunto a maturanza, si stacca da sé dall’albero che gli ha dato vita. Fatte adulte e robuste le colonie erano destinate a diventare indipendenti, conservando con la madrepatria vincoli puramente ideali e morali; ed il compito della vecchia Inghilterra doveva essere quello di una madre e nutrice amorosa, paga di sacrificare se stessa ai figli e lieta di vederli sciamare pel mondo in cerca di avventure, dimentichi quasi di chi aveva loro dato e conservato la vita.

 

 

Questa la teoria dominante dal giorno in cui l’Inghilterra si adattò a riconoscere l’indipendenza delle colonie nord americane fino a ben oltre la metà del secolo XIX. Malgrado essa, noi vediamo oggi l’impero inglese più compatto, più unito, più conscio della necessità di conservare e di intensificare i legami che uniscono le varie sue parti quanto non sia stato mai. La “più grande Inghilterra” del secolo XVIII è scomparsa; ed al posto di essa sono sorti due grandi imperi, tra i maggiori che mai si siano visti nella storia: gli Stati Uniti e l’impero inglese. Come accadde il miracolo della risurrezione di questa che parve 140 anni fa una cosa morta; e quali sono le ragioni per cui gli uomini, che vivono nell’impero, sono concordi nel volerlo rendere, per quanto è possibile in loro, più solido e più forte? Gli imperi portoghese, spagnuolo, olandese, francese ed inglese dei secoli XVI, XVII e XVIII caddero tutti per cause interne. L’urto che venne dal di fuori affrettò soltanto un processo di dissoluzione che si era iniziato ed aveva fatto grandi progressi all’interno. Potrà darsi che stavolta l’impero inglese cada soltanto per l’urto esteriore di una infelice battaglia navale, la quale tolga agli inglesi il dominio del mare. Ma è certo che un disastro navale inglese sembrerebbe corrispondere a una necessità storica, parrebbe lo strumento fatale dell’attuazione di un nuovo ideale umano solo quando, come dicono i teorici tedeschi, l’impero inglese fosse una maschera vuota; una cosa vana e falsa, senza eco nel cuore degli uomini. Perché gli uomini oggi non sono disposti a salutare il giorno del disastro navale inglese, come quello della liberazione dal dominio della falsità e dell’irrealità?

 

 

II

 

Perché risorse “la più grande Inghilterra” che pareva morta dopo la rivolta delle colonie nordamericane; e perché gli uomini appartenenti all’impero britannico odierno sembrano concordi nel vederlo forte, saldo, compatto? Non è esso forse una maschera vuota di contenuto spirituale, come affermano i dottrinari tedeschi? Procurerò di esporre, ordinatamente, i principali tra i perché di questo problema storico, che tanto appassiona inglesi e tedeschi e, di riverbero, non può essere indifferente a noi.

 

 

Una prima caratteristica dell’Impero inglese è che esso non si estende al continente europeo. Dopo l’amarissima esperienza della guerra dei 100 anni invano durata fino al 1453 per soggiogare la Francia, l’Inghilterra ha abbandonato ogni sogno di conquiste imperiali europee. Conserva qualche rupe e qualche isola, che ritiene necessarie per la libertà delle sue comunicazioni marittime; ma ha restituito le isole Jonie alla Grecia; ha evacuato la Sicilia e la Spagna; ha venduto Heligoland. Continua a combattere nelle guerre europee e spesso è avversario temibilissimo fra tutti, come nelle guerre contro Luigi XVI, contro Napoleone ed oggi contro la Germania. Ma il suo scopo non è di conquistare un dominio su altri popoli europei; bensì di impedire che uno degli Stati d’Europa acquisti il predominio sugli altri; il che vorrebbe dire a breve o lunga scadenza l’annientamento della sua potenza navale e quindi del suo impero extra-europeo. Così operando, l’azione oramai secolare dell’Inghilterra coincide con l’interesse comune di tutti i popoli d’Europa, salvo di quell’uno che vorrebbe acquistare il predominio sugli altri.

 

 

Un’altra caratteristica dell’impero britannico, che strettamente si allea con quella ora ricordata ed è anch’essa negativa, si è che esso non è, a parlar propriamente, un impero. Il concetto di un impero non si dissocia dall’idea di una dominazione di un popolo su altri popoli soggetti ad un’unica amministrazione centrale; in cui tutte le parti obbediscono, almeno nelle linee generali, ad una volontà comune, a cui non possono sottrarsi se non con una aperta ribellione. Nulla di tutto questo nell’impero inglese; di cui le parti vivono disunite ed indipendenti tra di loro; senza neppure l’obbligo, almeno per il più gran numero delle colonie, che sono quelle autonome, di soccorrere la madrepatria nei momenti di guerra. Il Canadà, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Africa del Sud sono venute in soccorso dell’Inghilterra perché così esse vollero; e non perché così potesse loro comandare la madrepatria. La ribellione di alcuni gruppi di boeri nel Sud Africa non sarebbe stata una ribellione se il governo del Sud Africa non avesse liberamente deciso di prendere le parti dell’Inghilterra. Se il governo sud africano, che emana dalla maggioranza boera del Parlamento locale, avesse creduto opportuno di incrociare le braccia, la guerra non sarebbe stata proclamata nel Sud Africa e la ribellione non sarebbe sorta. Tutto ciò è poco imperiale, poco euritmico e fa senso a chi pensi ad un impero nella maniera solita; mentre non meraviglia chi ricordi di trovarsi di fronte ad una agglomerazione di Stati, uniti da una vaga professione di fedeltà al medesimo sovrano, e tenuti insieme da vincoli, che sono fortissimi e di fatto spingono ad un’azione comune e financo ad una guerra combattuta solidariamente, solo perché trattasi di vincoli non legali, sibbene morali e spirituali. Ciò che fa esistere questa entità indefinibile e strana non è la forza delle leggi o delle armi, ma il sentimento di una unità imperiale.

 

 

L’impero – ed è questa un’altra delle sue caratteristiche essenziali, forse quella che dà più ai nervi ai grandi teorici tedeschi, i quali concepiscono la missione della Germania al dominio mondiale come la attuazione di un’idea organica ed organizzatrice di incivilimento che la Germania deve, anche colla forza, far trionfare sistematicamente sulla terra – è sorto per caso. Fu per caso che alcuni gruppi di puritani e di quacqueri, per fuggire all’oppressione religiosa in patria, si rifugiarono nei territori deserti del Nord America. Perdute le 13 colonie, per caso si scoprì che il Canadà, conservato sopratutto per la repugnanza di parte dei coloni inglesi ad abbandonare la madrepatria, era un paese di grande avvenire. Il Sud Africa fu il prezzo di baratti accidentali durante le grandi guerre napoleoniche e poco mancò fosse dato alla Svezia. Ancora: l’Australia presa per farne una colonia di deportati; la Rodesia conquistata da un uomo, Cecil Rhodes, in mezzo all’apatia ed all’avversione della madrepatria; la Nigeria e l’Africa Orientale dovute all’iniziativa indipendente di Sir George Taubman Goldie e di Sir W. Mackinnon. Persino l’India, la maggiore delle colonie inglesi, non fu dovuta ad un’opera deliberata del governo britannico. Furono compagnie di avventurieri, in lotta con avventurieri portoghesi e francesi che, profittando della dissoluzione dell’impero del Gran Mogol conquistarono alla madrepatria questo immenso dominio. Finché durò la conquista, fino al celebre ammutinamento del 1857, per un secolo quasi non si trovano traccie nel bilancio dello Stato inglese di spese fatte per la conquista dell’India. Sorto senza una teoria, l’impero inglese vive sovratutto grazie al sentimento della convenienza dei suoi abitanti di conservare reciproci legami politici e delle necessità di formare una unità politica più vasta di quella dei singoli Stati sostanzialmente indipendenti che formano l’impero.

 

 

Uno dei motivi che hanno spinto questi popoli ad un’azione comune e che li tengono legati strettamente tra di loro è l’appartenenza alla medesima schiatta inglese. Il fondo della popolazione bianca del Canadà, della Federazione australiana, della Nuova Zelanda, della Federazione sud africana è inglese; il che spiega come quegli Stati sentano il bisogno di tenersi stretti alla madrepatria per averne protezione e difesa e per avere la sensazione di partecipare alla vita morale, politica, religiosa di una grande nazione. Non si tratta più come nel secolo XVII per le colonie nord americane, di gente la quale sia fuggita dalla madrepatria perché aveva un ideale di vita diverso da quello ivi dominante. L’ideale nazionale è sempre anglo-sassone e gli abitanti di quelle, che noi chiamiamo colonie inglesi ma sono in realtà Stati liberi facenti parte dell’impero inglese, lo vogliono far trionfare nel mondo e sentono perciò la necessità di una stretta comunanza di rapporti con la madrepatria con gli altri Stati dell’impero.

 

 

Vero è che nell’impero vi sono altri nuclei di popolazione non anglo-sassone; di cui i più interessanti sono i Franco-Canadiani del Canadà, i boeri del Sud Africa e gli Indiani. Ma il modo con cui queste popolazioni estranee alla razza britannica sono tenute fedeli all’impero è una delle più singolari caratteristiche di questa formazione storica. Esso si può riassumere tutto nel rispetto illimitato, spinto talvolta fino alla esagerazione, delle tradizioni di razza e di cultura, e delle autonomie e libertà locali. È difficile trovare una popolazione più lealista dei franco-canadesi, ai quali le leggi riconoscono l’uso della lingua e del diritto francesi, istituzioni particolari amministrative, pienissima libertà di governo locale e perfetta parificazione nel governo federale. È difficile sottrarsi all’impressione che i franco-canadesi abbiano goduto, sotto il cosidetto dominio inglese, di una più ampia libertà ed autonomia che non i francesi in Francia; e che per vari rispetti il franco-canadese sia un’individualità altrettanto originale e potente come il francese della madrepatria. Né possiamo dimenticare come il primo atto compiuto nel Sud Africa dalla nazione dominatrice, dopo la vittoria cruenta e vogliamo anche ammettere odiosa, sia stata la concessione della più larga ed assoluta libertà di governo e di amministrazione ai boeri. Cosicché si poté affermare a ragione che una guerra, intrapresa per dare agli inglesi, che già lo avevano nel Capo e nel Natal, il predominio anche nel Transvaal e nell’Orange, per sottrarre le miniere d’oro alle imposte eccessive boere e per aumentare quindi i profitti degli azionisti inglesi auriferi ebbe per effetto invece: la estensione del dominio della maggioranza boera dal Transvaal e dall’Orange anche al Capo ed al Natal, essendosi le quattro colonie riunite in una sola federazione, il cui governo è boero; la permanenza e l’incremento delle imposte preesistenti e la diminuzione dei profitti delle miniere aurifere.

 

 

Non voglio, neppure di passata, discutere e risolvere il gravissimo problema indiano, problema dalle mille faccie, avere affrontato il quale costituirebbe da sola la gloria di un popolo. È però probabile che se la pax britannica riuscirà un giorno a ridestare il sentimento, oggi inesistente, di una nazionalità indiana tra il conglomerato di genti innumeri, varie per razza, per religioni, per lingua, per costumanze che compongono l’India, il miracolo si sarà adempiuto perché l’Inghilterra avrà tenuto fede al programma suo tradizionale di rispettare le costumanze, le fedi, il diritto, i regimi dei popoli viventi all’ombra della sua bandiera. Nessuno può oggi preveder se gli inglesi riusciranno a risolvere il problema indiano; certo è che finora nessuno dei popoli dominatori, che l’India ebbe, fece tanti sforzi e così ostinati e sinceri per risolverlo secondo lo spirito e le aspirazioni dell’India medesima. Gli scrittori germanici fanno gran colpa agli inglesi di non essere riusciti a creare nell’India una religione nuova, che desse una impronta originale e progressiva a quella antichissima civiltà. Creda chi vuole, dopo l’insuccesso italiano del Sacro Romano impero germanico, e dopo la larga eredità di affetti lasciata dagli austriaci nel Lombardo Veneto, alla capacità dei tedeschi di guadagnare le popolazioni soggette ai loro ideali spirituali; ma ci consenta di considerare preferibile il metodo inglese, il quale permette alle popolazioni dell’India di svilupparsi secondo i propri ideali e, mantenendo la pax britannica, si sforza di introdurre solo quelle idee occidentali che gli indiani volontariamente sono disposti ad accogliere.

 

 

Coloro che guardano soltanto alle piccole cose, si compiacciono di affermare che l’Inghilterra sfrutta l’India o L’Egitto o qualche altra colonia perché queste debbono pagare stipendi non piccoli ai proconsoli ed ai funzionari inglesi che sono inviati dalla madrepatria per l’amministrazione coloniale; ed in aggiunta debbono loro pagare larghe pensioni quando essi si ritirano a riposo. Sarebbe questo, in ogni caso, l’unico tributo che l’Inghilterra preleva sulle colonie, anzi sulle sole colonie della corona; poiché nelle colonie autonome l’unico funzionario inglese inviato dalla madrepatria e pagato sul bilancio delle colonie è il Viceré o Governatore, figura puramente rappresentativa e senza alcun potere reale. Ma anche quello non è un tributo; poiché per considerarlo tale farebbe d’uopo supporre che i servigi forniti dai funzionari inglesi non valessero almeno quanto gli stipendi e le pensioni pagati dalle colonie. Il che, chiunque conosca quanto più costassero i ceti dominanti indigeni prima della conquista inglese e quanto rendessero di meno, non potrà ammettere mai.

 

 

La vera caratteristica sostanziale dei rapporti economici e finanziari fra la madrepatria e le colonie inglesi è un’altra: la madrepatria deve essere disposta sempre a subire dei sacrifici a favore delle colonie. Questa è l’aurea massima che ha consentito finora al nuovo Impero inglese di durare: la madrepatria deve tutto alle colonie; le colonie non devono essere obbligate a dare nulla alla madrepatria. Per avere violato questa norma fondamentale cadde il più grande Portogallo, cadde la più grande Spagna, e caddero le più grandi Olande, Francie ed Inghilterre dei secoli scorsi. Io non voglio fare un merito all’Inghilterra di oggi di avere spontaneamente applicata la regola aurea; ma è certo che essa ha appreso assai bene la lezione della amara esperienza della perdita delle colonie nord-america. Da quando essa dovette consentire alla indipendenza degli Stati Uniti, l’Inghilterra si convinse che, per conservare le colonie, non v’era che un solo mezzo: essere sempre pronta a spendere largamente per la loro protezione navale e militare e per le opere necessarie al loro attrezzamento economico; ma non richiedere in cambio alcuna restituzione, sotto forma di tributi o di preferenze economiche a proprio vantaggio. Non solo le colonie inglesi non pagano un centesimo di tributo alla madrepatria e questa sostiene al contrario da sola il carico di spese militari, navali e di interessi di debiti pubblici contratti per la protezione dell’impero; ma l’Inghilterra ha consentito alle colonie autonome la più ampia facoltà di maltrattare con dazi protettivi le merci provenienti dalla madrepatria. Ammaestrata dagli insuccessi antichi del regime di preferenze doganali l’Inghilterra non soltanto consente alle colonie di respingere con dei dazi le sue merci; ma non pretende neppure di ottenere alcuna preferenza in confronto alle merci tedesche, italiane, francesi, nord americane. Le colonie autonome, ossia sovratutto il Canadà, l’Australia, la Nuova Zelanda e l’Africa del Sud, essendo praticamente degli Stati indipendenti, possono applicare a favore o contro l’Inghilterra i dazi che esse credono più opportuni. E se, in questi ultimi anni, grazie al crescente movimento di solidarietà fra le parti dell’Impero, le colonie autonome, pure tassando fortemente le merci inglesi, si decisero a tassarle alquanto meno delle altre merci straniere, ciò accadde spontaneamente, per iniziativa libera dei parlamenti coloniali.

 

 

Non dico che la lezione della rovina dei grandi imperi portoghese, spagnuolo, olandese, francese ed inglese dei secoli scorsi fosse molto difficile ad apprendersi; il buon senso dimostrando che, a rendere le colonie fedeli ed affezionate, giova grandemente il dar molto e il non imporre nessun tributo in cambio. È indubitato però che quella lezione non fu, per sua disgrazia, appresa dalla Francia, quando dopo il 1870 ricostituì un impero coloniale, ed è certo che la Spagna perdette gli ultimi residui delle sue colonie ed il Portogallo sta apprestandosi la fossa perché non vollero convincersi che gli imperi si costruiscono e si mantengono con sacrifici continui, mentre i benefici possono essere solo indiretti ed ottenuti per lo spontaneo consenso delle colonie. E poiché dovere di chi scrive è di usare la più stretta giustizia verso tutti, giova notare che lo Stato libero del Congo è la dimostrazione chiarissima che la politica inglese della porta aperta è considerata oramai dagli Stati europei come l’ottima fra tutte; e si deve aggiungere che la Germania rese omaggio alla dottrina britannica quando, con imperitura sua benemerenza, ottenne che il Marocco fosse un paese aperto a tutte le importazioni straniere a parità di condizioni.

 

 

Su questi fondamenti ed in virtù di queste idee fondamentali di libertà, di autonomia, di rispetto illimitato alla lingua, agli usi, alle leggi dei paesi assoggettati sorse l’Impero inglese. Su questo fondamento, quello che era un conglomerato di Stati indipendenti sta, sotto i nostri occhi, trasformandosi in un vero impero. Poiché quella parola «impero», la quale fino a qualche anno addietro non aveva quasi significato, sta ora acquistandolo. Quei popoli diversi, a cui l’Inghilterra aveva dato un’indipendenza pratica assoluta ed insieme l’esenzione da ogni peso tributario per la difesa della indipendenza medesima, cominciarono ad avere vergogna di se stessi. Come, essi dissero, possiamo noi continuare a godere della protezione della flotta e dell’esercito britannici contro gli assalti dei nemici stranieri, senza contribuire in nulla alle spese del mantenimento della flotta e dell’esercito? Appena posto il quesito, la situazione di sfruttatori della madrepatria parve alle colonie libere insopportabile.

 

 

Ma il problema era irto di difficoltà; perché non parve possibile una contribuzione delle colonie alle spese imperiali comuni senza una partecipazione delle colonie nel governo dell’Impero. Se la costituzione dell’impero inglese fosse il prodotto intellettuale di una congrega di dotti o il frutto della conquista di un popolo dominante, il problema sarebbe stato facilmente risolubile. Fu relativamente facile dare una costituzione al rinnovato impero germanico nelle sale di Versaglia, in seguito ad una guerra vittoriosa. Dare una costituzione all’impero inglese è sommamente difficile; perché si tratta di creare organi nuovi di governo per un impero che non ha finora alcun organo comune, serbando nel tempo stesso l’indipendenza reciproca sia della madrepatria che delle colonie autonome e tenendo conto anche della situazione singolarissima dell’India e delle colonie della corona. Come al solito, gli inglesi cercano di risolvere il problema alla meglio, con temperamenti pratici, senza costruire nessuna nuova teoria alla maniera tedesca o francese. Che cosa nascerà fuori dalle conferenze imperiali dei primi ministri inglesi e coloniali che si vanno periodicamente convocando e costituiscono l’iniziale, informe e finora unico organo di governo comune imperiale, non si sa. Forse è inutile preoccuparsi di prevederlo, perché la nuova costituzione imperiale probabilmente non sarà mai scritta in uno statuto, né potrà dare occasione a nessuna elegante ed euritmica costruzione di diritto pubblico alla foggia germanica. Sarà una costituzione formatasi gradualmente, quasi a caso, per rispondere a bisogni immediati, rafforzata dall’interesse degli Stati confederali, cementata dal sentimento e dalla consuetudine. Sarà una cosa bizzarra ed irregolare; un perfezionamento di quella magnifica creazione spontanea che è l’attuale impero britannico.

 

 

Anche esso, forse, quando gli inglesi avranno perduto le loro virtù odierne e quando la dissoluzione interna sarà cominciata, andrà col tempo distrutto. Nessun impero è perpetuo. Sulle rovine dell’impero inglese forse sorgeranno altri imperi più belli, più utili all’umanità . Se in quel giorno gli italiani avranno saputo perfezionare se stessi ed acquistare le energie intime che creano i grandi imperi, essi dovranno ricordarsi che il loro orgoglio maggiore dovrà consistere nel creare un tipo di organizzazione politica più perfetto e più alto dell’impero inglese. Poiché questo e non il Sacro Romano Impero e non l’Impero Germanico odierno e non lo Stato francese napoleonico è il vero erede spirituale ed il perfezionatore della più bella creazione politica che il mondo abbia visto: l’impero romano. Al pensiero che un disastro navale dovuto alla fortuna di guerra può mettere in forse il processo stupendo di cementazione politica dell’impero britannico, il quale si sta oggi compiendo e che è straordinariamente accelerato dalla guerra ci stringe il cuore. Poiché quel disastro navale sarebbe un’offesa alla civiltà: e noi italiani, se vogliamo conservare la speranza di essere un giorno i creatori di una nuova civiltà più perfetta abbiamo bisogno che si rafforzino nel mondo le forme più perfette e libere di organizzazione politica: tra le quali niente di più meraviglioso, di più spontaneo, di più vivo e mutevole, di più atto a suscitare la nostra emulazione e di meno geloso di essa, oggi esiste dell’impero britannico.

 

 



[1] Con il titolo La teoria tedesca della decadenza dell’impero inglese.[ndr]

[2] Con il titolo Che cos’è l’impero britannico. [ndr]

Le cronache economiche della guerra I fallimenti e le preoccupazioni sociali per le insolvenze degli inquilini In Germania – l’imposta di successione ed i morti per causa di guerra – Il Principio dell’indennità pei danni di guerra

Le cronache economiche della guerra I fallimenti e le preoccupazioni sociali per le insolvenze degli inquilini In Germania – l’imposta di successione ed i morti per causa di guerra – Il Principio dell’indennità pei danni di guerra

«Corriere della sera», 14 gennaio 1915

Di alcuni aspetti economici della guerra europea

Di alcuni aspetti economici della guerra europea

«La Riforma Sociale», gennaio 1915, pp. 865-899

«I Georgofili», Firenze, serie V, vol. XII, disp. 1, 1915, pp. 1-47

Studi di economia e finanza. Seconda serie, Officine grafiche della STEN, Torino,1916, pp. 61-97

 

 

 

 

(Lettura tenuta alla R. Accademia dei Georgofili di Firenze nella tornata del 6 dicembre 1914).

 

 

Fra i molti, la guerra europea avrebbe prodotto un effetto – significantissimo per noi che, fino al momento in cui rimaniamo in quest’aula sacra alla scienza economica ed alle sue applicazioni, dobbiamo sforzarci di considerare i fatti come se potessero essere soltanto oggetto di indagine oggettiva – e sarebbe, questo effetto, la mutazione dei valori scientifici normali. Più non varrebbero le leggi, le quali trovavano largo se non unanime consenso nei tempi di pace; e si dovrebbero scartare quelle opinioni o quei convincimenti scientifici che s’erano prima accolti.

 

 

L’esperienza nuova, mettendo dinanzi ai nostri occhi fatti nuovi, distruggerebbe il valore delle teorie ricevute, divenute improvvisamente vecchie, farebbe sembrare utili e ragionevoli provvedimenti di governo economico che prima si reputavano dannosi ed assurdi; e fornirebbe nuovi argomenti a coloro che hanno sempre irriso, ereticamente, ai principii insegnati dagli scrittori classici ed applicati da quegli uomini di governo, i quali ancor non si vergognavano di avere appreso sui libri le conseguenze degli errori commessi dai loro antecessori e le maniere di evitarli. Così si lesse su di una rivista la lettera di un egregio studioso, il quale confessava che la guerra aveva scosso i suoi convincimenti liberisti, incitandolo a passare nello stuolo, ahi! quanto folto, dei teorizzatori del protezionismo. Così si videro uomini, i quali pure affermavano di avere in passato plaudito agli sforzi perseveranti compiuti in Italia per restringere e quindi risanare la circolazione cartacea, farsi paladini fervidi di emissioni cartacee per somme di centinaia di milioni e di miliardi di lire, irridendo alle sterili e scolastiche proteste di quelli che consigliavano prudenza, quasi che l’ora turbinosa odierna potesse sospendere l’efficacia delle regole che in passato esperienza e scienza avevano concordemente poste come vere. E passo sopra al ricordo degli articoli accesi che si lessero durante il mese di agosto sui giornali quotidiani contro gli accaparratori e dei provvedimenti con cui a gara i Comuni attesero in quel memorabile mese ad imporre calmieri, o ad invocare perquisizioni e requisizioni forzate. Sono, questi ultimi, i frutti delle stagioni di orgasmo; e di essi aveva già fatta giustizia Alessandro Manzoni in quel capitolo della carestia a Milano, che ogni studioso di cose economiche dovrebbe considerare come una pagina classica della nostra letteratura scientifica.

 

 

Se non queste naturali risurrezioni di stati d’animo, che nessuno si era illuso fossero tramontati per sempre, essendo essi invece probabilmente eterni, come eterna l’impressionabile natura umana, sono invece degne di attento esame quelle manifestazioni più serie del pensiero contemporaneo, le quali fanno quasi pensare al crollo della scienza antica ed alla instaurazione di nuovi principii inspirati alla esperienza bellica odierna.

 

 

Non tanto perché questi siano tempi opportuni per impensierirsi della sorte più o meno lacrimevole di una qualsiasi disciplina scientifica; quanto perché la nostra è una disciplina la quale inspira o dovrebbe inspirare la condotta pratica degli uomini e può quindi diventare, pure nelle competizioni internazionali e nelle conquiste di ideali nazionali, un fattore di insuccesso, se essa si fa seminatrice di errori, o di vittoria, se essa sa indicare la via della verità.

 

 

Orbene, sembra a me che questa, la quale, come non è stata la prima così non sarà l’ultima guerra combattuta tra uomini, non abbia affatto avuto la virtù miracolosa di mutare in errori le verità scientifiche e di distruggere il valore di una disciplina faticosamente formatasi in parecchi secoli di elaborazione. Tanto varrebbe affermare che coloro che nelle sale di questa Accademia dei Georgofili disputarono nei secoli XVIII e XIX intorno alle leggi della ricchezza, precorrendo le scoperte di scienziati stranieri, che gli Adamo Smith, i Ricardo, i Mill, i Say, i Ferrara e gli altri fondatori e perfezionatori della scienza economica, non avessero mai saputo l’esistenza del fatto bellico; mentre essi non solo ne trattarono ma ne furono talvolta attori e ministri.

 

 

È illogico diventare protezionisti solo perché la guerra odierna sembra aver tramutati in campi chiusi quelle che erano finora economie aperte alle importazioni straniere. Coloro i quali additano ancora una volta la posizione della Germania e dell’Inghilterra rispetto all’approvvigionamento dei cereali e delle altre derrate alimentari ed affermano che la guerra ha provato l’errore commesso dagli inglesi per aver trascurato di erigere ai confini un’alta barriera doganale atta a proteggere l’impero dal pericolo della fame così come ha fatto la Germania, e reputano questa osservazione sufficiente a far traboccare il peso dalla parte del protezionismo nella lotta tra i due opposti principii, si rendono colpevoli di parecchie strane dimenticanze:

 

 

  • in primo luogo scordano che non esiste una scienza liberista o protezionista; ma soltanto una scienza economica la quale fa il calcolo dei costi e dei vantaggi delle diverse maniere di agire degli uomini e cerca di scegliere, con larga approssimazione pratica, quella maniera la quale, col minimo coste, conduca al massimo risultato possibile;
  • scordano ancora come da lunga pezza gli economisti scrivano e predichino che il modo più economico di produrre materiali bellici può essere la produzione interna sussidiata da dazi doganali; poiché è ben vero che il costo diretto e proprio può in tal modo riuscire più alto che all’estero, ma questa maggior spesa controbilanciata dal risparmio che si fa del ben maggior dispendio che si dovrebbe sostenere facendo venire affannosamente dall’estero i materiali bellici a guerra già scoppiata e della gravissima iattura nazionale e quindi anche economica da cui si sarebbe afflitti se riuscisse impossibile provvedersene;
  • che se gli economisti per lo più si sono rifiutati di assimilare il caso del frumento e delle derrate alimentari a quello dei materiali bellici, ciò accade perché essi non si erano persuasi finora che la bilancia della convenienza pendesse a favore della protezione doganale, pure rispetto al problema dell’approvvigionamento della popolazione in tempo di guerra;
  • che non è probabile che essi abbiano a persuadersi di siffatta opportunità al lume della odierna esperienza guerresca[1]; poiché non bisogna dimenticare, ad esempio, che in Germania quegli stessi giornali, che oggi esaltano gli approvvigionamenti tedeschi in confronto alla carestia inglese imminente, alcuni mesi fa, quando non avevano smarrita la loro bella e lucida capacità raziocinativa, esponevano i risultati di una serena inchiesta scientifica condotta nel seminario economico dell’Università di Monaco sotto la guida del professore Lujo Brentano, la quale principalmente persuadeva che gli alti dazi doganali avevano avuto come effetto di aumentare i prezzi della terra e sovratutto i prezzi della grande proprietà terriera, dove è minima la cultura mista, e massima la superficie destinata alla cerealicultura (cfr. il riassunto dell’inchiesta nella Frankfurter Zeitung del 23 giugno 1914). Ora, se questi risultati rispondono al vero, è manifesto che non l’alta protezione doganale, ma altre cause, assicurano l’approvvigionamento della Germania in tempo di guerra; poiché la protezione, innalzando il prezzo delle terre, e quindi affitti e quindi uno degli elementi del costo di produzione, fa sì che il coltivatore non abbia maggior convenienza a coltivar grano a 25 lire che a 20 lire, poiché il vantaggio delle 5 lire in più è eliminato spesso dal maggior fitto che occorre pagare per i terreni. Le preoccupazioni, che pare siano vive in Germania ed in Austria rispetto all’approvvigionamento proprio, dimostrano come la protezione doganale non sia riuscita a dare la sicurezza che essa prometteva ai popoli dell’Europa centrale in tempo di guerra;
  • che dall’esempio germanico, comunque esso possa essere giudicato, non è logico dedurre la conseguenza che anche l’Inghilterra dovesse cingersi di una forte barriera doganale per assicurarsi l’approvvigionamento dei cereali. Dopo le guerre napoleoniche il cannone non aveva più fatto sentire la sua voce nelle vicinanze delle coste britanniche, sebbene dall’abolizione delle leggi sui cereali in poi gli allarmisti avessero diuturnamente segnalato il pericolo imminente della carestia. Il problema si riduce a questo: sarebbe stato conveniente distruggere con una politica protettiva, continuata per altri 70 anni, centinaia, di milioni e forse miliardi di lire sterline di ricchezza per assicurare le necessarie provviste cerealicole agli inglesi del 1914 e del 1915? Se nessun altro mezzo più economico, più efficace fosse esistito per raggiungere cotal fine, altissimo poiché connesso col mantenimento dell’impero, nessun economista inglese avrebbe negato che le generazioni, le quali volsero dal 1840 al 1914, avevano il dovere ed anzi, ragionando a lunga scadenza, come è d’uopo fare agli uomini di stato, avevano interesse di promuovere la cerealicultura nazionale con adeguati dazi protettori. Se essi negarono e tuttora negano siffatta convenienza, fanno ciò perché ritengono che il mezzo sia inadeguato ed anzi contrario alla consecuzione del fine; e sanno che un altro mezzo è invece il solo possibile e conveniente. Quest’altro mezzo è l’esistenza di una flotta capace di serbare agli inglesi il dominio del mare; ed il dilemma non è tra: Dazi protettivi o carestia?; bensì tra Carestia malgrado i dazi doganali ovvero Dominio del mare mercé la flotta?

 

 

Se gli inglesi sono abbastanza ricchi e saldi d’animo da poter costruire e da voler possedere una flotta capace di serbar loro il dominio del mare essi non hanno da temere la carestia in patria. Come oggi accade, il dominio del mare, finché venga mantenuto, garantisce le provviste delle quantità sufficienti di frumento: nei due mesi di settembre ed ottobre 1914 la quantità di frumento importata nel Regno Unito fu di 5.004.683 quarters contro 3.929.081 nello stesso periodo del 1913 e 5.050.430 negli stessi mesi del 1912. Senza il dominio del mare, l’alta protezione doganale a nulla gioverebbe; poiché la deficienza o la distruzione della flotta vorrebbe dire per l’Inghilterra fiacchezza d’animo, incapacità di resistenza, e quindi pericolo imminente di invasione dell’isola da parte del nemico e scomparsa possibile dell’impero. Quindi il mezzo unicamente efficace per garantire l’alimentazione e, quel che più monta, la conservazione dell’impero, è per gli inglesi il dominio del mare. A questo scopo debbono gli inglesi tendere con tutte le loro forze; poiché, serbato quello, è sicura anche l’alimentazione del popolo; e quello distrutto, a nulla giovano le grosse provviste di cereali esistenti all’interno. Distrar le forze tra i due fini; aggiungere al sacrificio di 50 milioni di lire sterline annualmente sostenuto per la marina da guerra un altro sacrificio di 20 milioni per assicurare la produzione interna di una bastevole quantità di cereali, sarebbe stato un calcolo sbagliato. Poiché se gli altri 20 milioni si vogliono spendere, ciò significa che si ritiene la flotta impari all’ufficio suo di tener libere le vie dei mari; ché se si possono spendere, meglio sarebbe destinarli senz’altro all’aumento della flotta, unico mezzo, ripetasi, con cui l’impero può essere conservato.

 

 

Non solo inadeguati, ma benanco contrari al fine della conservazione dell’impero si appalesano inoltre i dazi protettori cerealicoli. Un impero non vive solo di fiducia – vedemmo quanto mal riposta – di possedere il cibo necessario a vivere. Vive sovratutto di vincoli ideali e morali. E chi non vede come il rincaro dei mezzi di sussistenza per le masse operaie e la consapevolezza che il rincaro è dovuto all’asserita necessità di conservare la grande posizione dell’Inghilterra nel mondo siano circostanze atte a fiaccare i sentimenti imperiali nelle masse, a far odiare l’impero come procacciatore di illeciti profitti ai proprietari di terre a grano, a far vedere quasi con segreta gioia la dissoluzione dei vincoli fra la madrepatria e le colonie, a considerare come un ideale di vita il tranquillo possesso dell’isola, senza ambizioni mondiali e senza rischi di gelosie da parte delle nuove politiche egemoniche, ben liete di non interessarsi dei casi di un’isola contenta della propria solitudine?

 

 

Dal che si vede che i veri rassodatori dell’impero inglese furono coloro che vollero la libertà degli scambi, mentre gli imperialisti fautori dei dazi e della politica preferenziale coloniale ponevano i germi del malcontento, della discordia e della dissoluzione dell’impero.

 

 

Ed ove si voglia anche tener conto di quell’elemento imponderabile di forza e di sicurezza che è la certezza di possedere in paese il frumento necessario per far vivere il popolo per 6 mesi, per 9, per un anno intero, perché non si ricorre al metodo delle riserve frumentarie, tenendo in pace sempre pronte un ammasso sufficiente di grani, così come si rafforza la riserva aurea degli istituti di emissione? L’interesse e l’ammortamento anche di un miliardo di lire immobilizzato nei magazzini alimentari non uguaglierebbe mai la collettività, della protezione cerealicola. E sarebbe un maschio guardare in faccia al pericolo; sarebbe un miliardo impiegato esclusivamente per scopo supremo della conservazione nazionale; né al costo suo si accompagnerebbe mai l’insidioso ed odioso vantaggio o sospetto del vantaggio per una classe privilegiata di produttori interni protetti.

 

 

Vedesi dunque che la guerra odierna non può avere per effetto di svalutare le ordinarie maniere del ragionare economico. Può dirsi invece che essa, per le sue caratteristiche di singolare vastità e quasi universalità, per la grandezza delle masse umane lottanti, per la grandiosità delle massime migrazioni armate di uomini, che mai siano state viste nella storia, per la copia dei mezzi finanziari che la sua condotta richiede, sottoponga alcuni dati nuovi all’indagine scientifica e costringa gli studiosi ad esaminarli con mente ingenua e candida lontana così dalla preoccupazione di accasellare i fatti nelle vecchie buche, le quali potrà darsi siano troppo strette per riceverli, come dalla mania frettolosa di buttare a terra l’antico edificio, col pretesto che esso è troppo angustamente costrutto per potere in sé accogliere la nuova esperienza. In verità la scienza economica, è in continua trasformazione; e come tutte le altre discipline, e forse più di molte altre, essa viene col tempo via via perfezionandosi, ed adattandosi alle nuove manifestazioni di vita della pur sempre eternamente simile a se stessa natura umana. Ciò accade già per molti aspetti della vita economica: cinquant’anni fa a stento i trattati di economia discorrevano di coalizioni tra commercianti ed industriali per tenere alti i prezzi; mentre nei trattati moderni si leggono capitoli e teoremi assai eleganti intorno ai consorzi industriali, volgarmente conosciuti sotto il nome di trusts o sindacati. Se farà d’uopo e se la guerra avrà messo in risalto fatti nuovi e principii modificatori dei vecchi, non v’è dubbio che di quei fatti e di quei principii risentiranno le trattazioni dell’avvenire. Per ora ogni tentativo di ricostruzione sarebbe prematuro; poiché le conseguenze economiche della guerra stanno ancora svolgendosi e si può dire che siano appena al principio delle loro vicende.

 

 

Potrà darsi che i teorizzatori dell’avvenire riconnettano questo grandioso fenomeno bellico al periodo di rivulsione economica incominciato da alcuni anni dopo il grande periodo di prosperità e di ascensione che si ebbe dal 1895 al 1910; e potrà darsi che la guerra debba aggravare la depressione che pareva essersi già iniziata in questi ultimissimi anni. Ma, se anche si potranno trovare i legami ideali fra le variazioni economiche od il succedersi dei periodi di pace e di guerra, sarà ben difficile che il rapporto abbia ad esser quello semplicista, che discenderebbe dalla cosidetta teoria del materialismo economico, intorno alla quale questo di interessante si può forse ancora dire: ed è che si adopera una locuzione imprecisa, dicendo quella essere una teoria «economica» quasi che l’essersi gli economisti, per necessità di divisione del lavoro e di rigore nelle indagini, limitati allo studio dei fatti economici, avesse voluto significare che essi considerassero il fatto economico come il più importante di tutti, ed il primigenio od il determinatore degli altri fatti umani. No. Questa non è una teoria economica; e forse non è neppure una teoria; è un modo di riscrivere la storia, mettendo prima certi fatti, affermati economici, e dopo certi altri, detti politici, religiosi, militari, giuridici ed affermando, in guisa affatto gratuita e non provata, che i secondi discendono dai primi e che l’interesse delle classi dominanti od altri simili moventi economici spiegano gli avvenimenti della storia umana. Teoria, sul cui fondamento sarebbe un fuor di luogo discorrere qui; ma che in ogni modo non fa certamente parte di quel complesso di verità che si sogliono designare col titolo di «scienza economica» e che, essendovi affatto estranea questa, non può quindi pretendere alla dignità di teoria economica della storia. È solo un nuovo modo di scrivere la storia, utile forse, di fronte al pubblico grande dei lettori, a scopo di reazione contro altre maniere antistoriche di narrare i fatti umani ed a cui aderirono taluni storici di professione o sedicenti tali, per lo più perfettamente digiuni di nozioni economiche, ai quali non parve vero di conquistare una facile superiorità sui loro colleghi, adoperando delle parole apparentemente difficili, come «interesse economico» «sostrato economico» «capitalismo» «borghesia» «proletariato» e via dicendo, parole per lo più prive di qualunque precisa significazione economica; modo però, dal quale profondamente dissentono appunto molti degli economisti, che con amore e candore cercano di penetrare dentro nei più riposti moventi dell’azione economica degli uomini.

 

 

Le quali cose dette intorno ad una dottrina, vecchia appena di alcuni decenni ed oggi già così remota dal nostro spirito, spiegano la mia avversione verso quei sapienti, i quali, indugiandosi a ricercare le cause economiche della odierna guerra europea – indagine perfettamente legittima, quando la si compia modestamente persuasi di andare alla scoperta di una parte sola, di una parvenza, forse fuggevole, della complessa verità – affermano senz’altro che essa fu determinata dal bisogno dell’Inghilterra di impedire il crescere rigoglioso dei rivali tedeschi nelle industrie e nei traffici o della Germania di elevare viemmaggiormente la propria fortuna economica sulla rovina dell’economia britannica. Quelli che così discorrono partono, necessariamente, sebbene inconsapevolmente, da una premessa: che gli industriali ed i commercianti dei due paesi avversari siano capaci di ragionare intorno alla utilità ed alla possibilità di conseguire il fine propostosi, che essi sappiano fare i loro conti intorno ai costi ed ai profitti dell’opera desiderata di distruzione dell’economia avversaria e finalmente che essi sappiano distinguere fra effetti immediati ed effetti remoti delle proprie azioni.

 

 

Queste son premesse necessarie, ove non vogliasi ammettere che i moventi bellici di distruzione delle economie inglesi o tedesche fossero peculiari a coloro che non sanno fare ragionamenti economici, che non partecipano alla direzione delle imprese industriali e commerciali ed attendono a scrivere spropositi su per le gazzette quotidiane, allo scopo di solleticare le passioni e le ingordigie delle folle analfabete. Può darsi ed è anzi probabile che così sia: che cioè gli unici ad immaginare la convenienza e la possibilità di distruggere, colla guerra, le industrie ed i commerci dei paesi avversari siano precisamente stati coloro che non furono mai a capo di intraprese economiche, che coi teoremi economici ebbero mai sempre scarsissima famigliarità che conobbero unicamente l’industria dello scrivere articoli desiderati e pregiati per la rispondenza momentanea alle mille e mille passioni, nobili e sordide, elevate e basse, ideali e materiali, tumultuanti nel cuore degli uomini. Ma è chiaro che così non si scrive la teoria delle cause economiche

della guerra; sibbene dalle mille e mille passioni, chiare ed oscure, consapute e subcoscienti le quali concorsero a determinare lo scoppio della guerra e ad acuire le quali può aver contribuito la idea, circonfusa di vaga nebbia, che la distruzione della economia avversaria fosse economicamente utile e possibile.

 

 

In verità, la guerra odierna ancora una volta ha dimostrato che gli uomini sono mossi ad agire da idee, da sentimenti, da passioni, non certo da ragionamenti economici puri. Perché ben si sapeva e lo sapevano gli inglesi ed i tedeschi più colti delle classi industriali, bancarie e commerciali che essi non avevano nulla da guadagnare da una distruzione rapida delle economie rivali, quale poteva essere prodotta dalla guerra, che la guerra non avrebbe tolto le ragioni profonde le quali avevano prodotto la grandezza economica del rivale e che il mezzo più economico e più efficace per giungere alle desiderate conquiste era il continuo perfezionamento di se stessi e la sperata spontanea decadenza dell’avversario.

 

 

Sapevano i tedeschi:

 

 

  • che le cagioni della propria mirabile ascensione economica erano riposte nella ricchezza del proprio sottosuolo, nella conformazione del proprio territorio tutto intersecato da vie d’acqua navigabili, e sovratutto nel proprio sforzo perseverante, organizzato, fornito di tutti i sussidi più moderni della scienza, sforzo che strappa grida di ammirazione, quando se ne leggono i fasti nei libri degli inglesi e dei francesi, additanti ai propri connazionali l’esempio di tanta energia feconda;
  • che essi, per crescere vieppiù, avevano bisogno di vendere maggiormente i prodotti delle proprie industrie agli stranieri ed avevano necessità perciò di avere attorno a sé popoli ricchi, laboriosi, non impoveriti da guerre o costretti a disperdere le proprie energie in continui sforzi di rivolta contro il dominio straniero;
  • che in particolar modo avevano bisogno del mercato britannico, metropolitano coloniale, il più vasto, il più ricco mercato del mondo, l’unico aperto agevolmente a tutte le provenienze;
  • che essi avevano d’uopo di non rinfocolare con una guerra, il cui esito era perlomeno incerto, in Inghilterra e nelle colonie quel sentimento di ostilità verso lo straniero, che finora aveva soltanto prodotto in alcune colonie alcuni timidi ed inefficaci saggi di dazi preferenziali contro i prodotti esteri ed aveva contro di sé, quasi invincibile, il solido buon senso delle masse britanniche;
  • che una guerra anche fortunata avrebbe costato tali e così colossali sacrifici, avrebbe prodotto tale arresto nella vita economica della Germania da mettere grandemente in dubbio la possibilità di trovare un adeguato compenso in un futuro anche lontano dall’impossessarsi, ancor più incerto, di colonie che l’Inghilterra conserva solo perché non ne trae alcun tributo né diretto né indiretto – neppure l’India paga alcun tributo alla madre patria, neanche sotto forma di dazi preferenziali – e verso cui la Germania sarebbe stata incapace, per l’inaridimento oramai ventennale delle sue correnti emigratorie, di inviare fiotti di emigranti atti a sommergere il fondo britannico della popolazione.

 

 

Sapevano d’altro canto gli inglesi:

 

 

  • che l’ascensione economica germanica non aveva tolto ad essi alcun mercato; anzi ne aveva cresciuto uno, quello germanico, prima povero ed oggi crescente di ricchezza e di capacità di assorbimento;
  • che mai fortuna maggiore all’industria inglese era capitata della cosidetta invasione del made in Germany nella loro isola, nelle loro colonie e nei mercati prima monopolizzati dall’Inghilterra. Prima che l’invasione del made in Germany fosse avvertita e si gridasse all’allarme contro la rovina dell’industria inglese, questa decadeva sul serio. Si era addormentata sugli allori. I capi tecnici inglesi più non studiavano. Forse non avevano mai studiato a fondo i principii della scienza tecnica; ed era poco male finché l’abilità pratica serviva a tutto. Divenne un pericolo gravissimo quando i tedeschi dimostrarono al mondo quali vittorie meravigliose si possono conseguire con le applicazioni industriali dei principii teorici. Quando gli inglesi scopersero che essi decadevano e che i tedeschi crescevano, vi fu chi predicò il verbo decadente della muraglia cinese, consigliando di circondare il proprio paese e le proprie colonie di dazi protettori, per impedire colla forza alle merci tedesche di invadere il mercato britannico. Ma, per fortuna dell’Inghilterra, la parola di Chamberlain fu ascoltata solo in quanto essa era maschia ed incitatrice, non in quanto avrebbe finito per addormentare. Gli inglesi videro che colla forza non si conservano le ricchezze e la potenza, che furono create dal lavoro, dallo sforzo; e memori di ciò che essi avevano saputo compiere in passato, fondarono scuole tecniche, istituirono facoltà di commercio, si persuasero che un culto maggiore della scienza avrebbe giovato anche ai loro industriali troppo invecchiati nelle pratiche isolane. I frutti già si vedono nelle cifre del commercio internazionale:

 

 

Importazioni Riesportazioni Import. nette Esportazioni
Amm. Totale per abitante Amm. Totale per abitante Amm. Totale per abitante Amm. totale per abitante
ANNI
1855/59

169

6. 0.3

23

0.16. 7

146

5. 8. 7

116

4. 2. 4

1870/74

346

10.17.2

55

1.14.10

291

9. 2. 4

235

7. 7. 3

1895/99

453

11. 6.5

60

1.10. 2

393

9.16. 4

239

5.19.10

1900/04

533

12.14.8

67

1.12. 2

466

11. 2. 6

290

6.18. 1

1905/09

607

13.17.8

85

1.18.11

522

11.18. 9

377

8.12. 6

1910

678

15. 2.1

104

2. 9. 1

574

12.15.10

430

9.11. 8

1911

680

15. 0.4

103

2. 8

577

12.15. 0

454

10. 0. 7

1912

745

16. 6.8

112

2. 6. 3

633

13.17. 7

487

10.13. 6

1913

769

16.14.1

110

2. 5. 4

659

14. 6. 5

525

11. 8. 2

 

 

Dopo l’espansione grandiosa che dal 1855/59 al 1870/74 portò le importazioni lorde da 169 a 346 milioni di lire sterline, le importazioni nette da 146 a 291, e le esportazioni da 116 a 235, era parso si verificasse davvero una stasi nell’economia britannica. Limitandoci soltanto alle importazioni al netto dalle riesportazioni ed alle esportazioni di prodotti britannici, gli statisti, gli economisti, gli industriali britannici avevano osservato con melanconia che, mentre la Germania progrediva vertiginosamente, l’Inghilterra rimaneva stazionaria, anzi regrediva, dopo l’acme raggiunto nel 1873. Le due cifre estreme sono date dai quinquenni 1870/74 e 1895/99. Le importazioni nette erano appena cresciute da 291 a 393 milioni di lire sterline e da L. 9.2.4 a L. 9.16.4 per abitante; e, se le esportazioni erano cresciute di una quantità minima in cifre assolute da 235 a 239 milioni di lire sterline, erano però diminuite relativamente da L. 7.7.3 a L. 5.19.10 per abitante. In questo regresso aveva parte il gioco dei prezzi calanti nell’ultimo quarto del secolo XIX, ma restava sempre un nucleo solido di verità amara e sconfortante.

 

 

Fu quello il momento psicologico dell’imperialismo chamberlainiano; il quale predicò la necessità di chiudere l’impero all’invasione dei prodotti stranieri, principalmente tedeschi, e di trovare nella coltivazione intensiva ed esclusiva del proprio giardino un compenso alle perdite subite sui contrastati mercati del mondo esteriore. L’attuazione della parola imperialista sarebbe stata l’inizio ella dissoluzione ed avrebbe giustificato le rampogne acerbe degli scrittori tedeschi, i quali rimproverano all’impero inglese di essere sorto e di conservarsi con la menzogna, con la frode e con la maschera vuota di una forza che interiormente non esiste. L’impero aveva ed ha ancora in se stesso le ragioni della sua vita; e ne è prova il fatto che la parola dello Chamberlain, non ascoltata in quanto predicava il vincolismo mortifero delle tariffe doganali, scosse, eccitò, fece riflettere e spinse all’azione le dormienti forze britanniche.

 

 

Quante volte i sogni degli uomini rappresentativi si avverano in modo diverso da quello che essi avevano immaginato!

 

 

Il principio del secolo ventesimo segna una ripresa nel commercio internazionale inglese. Le importazioni nette da 393 milioni di lire sterline nel 1895/99 salgono in cifre assolute a 466 nel 1900/904, a 522 nel 1905/909 e a 659 nel 1913, mentre passano – cito solo le cifre estreme – da L. 9.16.4 per abitante nel 1895/99 a L. 14.6.5 nel 1913. Le esportazioni, rimaste per un quarto di secolo stazionarie in cifre assolute, da 239 milioni nel 1895/99 salgono a 290 nel 1900/904, balzano a 377 nel 1905/909, e si portano a 525 nel 1913, mentre in cifre relative i due estremi sono L. 5.19.10 per abitante nel 1895/99 e L. 11.8.2 nel 1913. Anche qui influisce, come del resto in tutti i paesi del mondo, il gioco dei prezzi crescenti dopo il 1894/95; ma quanto innegabile fervore di rinnovata giovinezza e di nuovo slancio industriale!

 

 

Ora, è indubbio che di questo risveglio gli inglesi sono debitori in gran parte al pungolo della concorrenza tedesca. Se la Germania non avesse minacciato davvicino la loro supremazia industriale, se anzi in molti campi essa non si fosse indubitatamente messa alla testa di tutti i paesi del mondo, gli inglesi potrebbero ancora vantarsi di essere i primi. Ma sarebbe ben misero vanto, conservato a prezzo della propria decadenza.

 

 

Come si può affermare che gli uomini rappresentativi dei due paesi, dotati di vigor di pensiero e di azione, potessero sul serio pensare di avvantaggiare il proprio paese, costruendo, sulle rovine di una guerra, un monopolio tedesco od un monopolio britannico? Che in questa guisa si raggiunga la ricchezza e la forza lasciamolo pensare agli scribi della stampa gialla, moltiplicatisi in guisa abominevole anche a Londra ed a Berlino; che la cupidigia cieca di arricchirsi spogliando e rovinando e dominando altrui sia stato uno degli argomenti a cui i ceti dirigenti credettero opportuno di ricorrere per rendere simpatica alle folle incapaci di ragionare una volontà di guerra che già preesisteva in essi per altre ragioni, forse sbagliate, ma in ogni caso ben diverse ed, in molti uomini, più ideali od elevate, è facile ammettere; che la diffusione di una letteratura libellistica di quart’ordine, pullulante di sofismi economici le mille volte confutati, di statistiche artefatte, di incitamenti grossolani ad arricchirsi sulle spoglie altrui sia stata un’arte di governo usata per rendere popolare una causa a menti incapaci di comprenderne le giustificazioni – reali od immaginarie che queste fossero – più profonde e più umane, si può riconoscere. Ma che da questi miseri argomenti siano state indirizzate sulla via della guerra due grandi nazioni, le cui classi dirigenti si formarono pure alla scuola dei maggiori pensatori che il mondo odierno ammiri, è un assurdo inconcepibile.

 

 

Purtroppo, ora che la guerra è scoppiata, la stampa britannica e quella tedesca vanno a gara, quasi senza eccezione, nel discorrere in modo da far ritenere agli spettatori neutrali che i due grandi paesi siano stati davvero mossi alla guerra da motivi sordidi e, quel che è peggio, impossibili a raggiungersi in guisa apprezzabile e permanente. Risuona in quasi tutta la stampa inglese, col Times alla testa, un grido che sembra di riscossa ed è di odio: capturing the german trade, impadroniamoci del commercio tedesco!

 

 

Pochissimi giornali conservano la capacità di esaminare, a mente fredda, la difficoltà enorme e forse, nei più dei casi, la inanità dell’impresa; e fra questi mi piace ricordare l’Economist, il quale dallo studio accurato dei fatti economici del suo paese trae sempre nuovi argomenti a serbar fede alle sue gloriose tradizioni cobdenite. E risponde in Germania il grido di guerra: für die Ausschaltung London’s als Clearinghaus der Welt, spogliamo Londra della sua posizione di stanza di compensazione mondiale! Persino la Frankfurter Zeitung, per solito, in tempi normali, dotata di tanto spirito critico verso gli errori commessi od immaginati nel suo proprio paese, si unisce al coro di quelli che, mentre il marco deprezza e perde più del 10% in confronto all’oro, farneticano di sostituirlo alla lira sterlina; ed appena alcune riviste speciali (ad es. Die Bank) osano in Germania additare le difficoltà grandissime dell’assunto.

 

 

Trattasi, finora, in gran parte di vittorie e di distruzioni operate sulla carta. Gli industriali inglesi, in ben altre faccende affaccendati, si ostinano a non vedere la convenienza di fare impianti atti a sostituire le produzioni tedesche; e ben pochi d’altro canto sono coloro che ricorrono oggi ad Amburgo od a Francoforte per eseguire i proprii pagamenti all’estero. Formidabili sono invero le difficoltà che si frappongono ad ambi i paesi in questi tentativi di rovinare l’avversario.

 

 

Può essere facile autorizzare con una legge d’occasione l’industriale inglese ad utilizzare il brevetto di una invenzione tedesca mercé il semplice pagamento di un equo canone da fissarsi dalle corti giudiziarie britanniche. Ma è legittimo il dubbio se non fosse assai più conveniente all’industriale inglese pagare un alto canone, liberamente convenuto, in tempo di pace piuttostoché un equo, ossia basso canone, estorto colla violenza, in tempo di guerra; e forse è anche dubbio se non convenisse di più all’industriale inglese fare a meno del brevetto tedesco e tentare di raggiungere, con mezzi indipendenti di ricerca e di esperimento, la possibilità di produrre la merce venduta a buon mercato dal produttore tedesco.

 

 

Perché, l’acquisto in tempo di pace, ad alto canone, del diritto di usare il brevetto tedesco, avrebbe significato per l’industriale inglese:

 

 

  • la possibilità di accordi per la vendita dei prodotti in determinate zone;
  • l’aiuto di un personale scelto, tecnicamente capace di collaborare alla formazione degli impianti ed all’uso dei processi industriali brevettati; senza di che la semplice conoscenza del brevetto molte volte può essere vana.

 

 

L’impossibilità eventuale dell’acquisto del brevetto tedesco sarebbe stato uno stimolo a sperimentare, a cercare il modo di resistere alla concorrenza del brevetto altrui. Quanti progressi industriali non si sono compiuti appunto perché uomini energici, laboriosi, tenaci si trovarono di fronte alla concorrenza di produttori venuti prima e ne ricevettero stimolo ad emularli, tentando vie nuove, sperimentando nuovi processi e vincendo così le posizioni avversarie acquisite! Solo per tal via vinsero i tedeschi; ed alcune delle più segnalate vittorie industriali britanniche sono dovute al medesimo spirito di iniziativa. Testimone del primo processo l’industria delle calzature, la quale dieci anni fa languiva e sembrava dovesse rimanere sommersa sotto il fiotto crescente delle scarpe nordamericane, svizzere e tedesche. Oggi i fabbricanti inglesi di calzatura, avendo pagato a caro prezzo il diritto di servirsi dei brevetti stranieri ed avendone ottenuti dei proprii, hanno riconquistato il mercato nazionale e sono ridivenuti un fattore non trascurabile nelle competizioni internazionali. Tutta l’industria irlandese delle costruzioni marittime fu creata a Belfast da un uomo, il quale seppe dal nulla far sorgere un gran centro industriale, il quale vince spesso i più famosi cantieri dell’Inghilterra; né io so perché, mentre si ricorda sempre, ed a ragione, Amburgo e se ne pronosticano le vittorie sui cantieri inglesi, non si ricordino le vittorie, non meno gloriose, di Belfast città inglese in terra irlandese, contro i più antichi costruttori del suo stesso paese.

 

 

Mentre non si vedono dunque insormontabili difficoltà ad usufruire dei brevetti tedeschi in tempo di pace, od almeno non ci sono difficoltà insormontabili dall’ingegno, dall’energia, dalla capacità organizzatrice – e senza queste qualità come si può sperare di catturare alcunché ed anzi di non perdere il già acquisito? – paiono davvero gravissimi gli ostacoli ad usare i brevetti medesimi, divenuti accessibili in tempo di guerra a mite canone. Se non vi è quasi nessun industriale serio inglese, il quale segua a questo riguardo le ammonizioni della stampa quotidiana, ciò dipende:

 

 

  • dal fatto che in tempo di guerra i capitali privati non si dirigono volontieri alle industrie, neppure a quelle che i giornali descrivono come feconde di profitti illimitati. La diffidenza è lo stato d’animo normale dei lettori di tutti i giornali in tutti i paesi del mondo in tempo di guerra; e la diffidenza cresce a mille doppi quando si sente dire che il paese non deve consacrare tutti i suoi sforzi al dovere di difendere o far più grande la patria sui campi di battaglia. L’appello ai risparmiatori riesce quando è rivolto, a nome della patria, da chi la rappresenta, allo scopo di apprestare i mezzi materiali della condotta della guerra. Ma non si sente e lascia freddi quando l’appello proviene da un industriale, il quale crede essere quello di guerra il momento opportuno per allargare i proprii impianti ed accrescere i proprii profitti;
  • dalla circostanza che le banche hanno interesse ed obbligo di limitare i proprii fidi all’industria. In un momento, in cui le banche hanno strettissimo dovere di pensare alla liquidità dei proprii investimenti, non è ragionevole, né sarebbe conveniente nell’interesse generale, che le banche fornissero fondi per l’impianto di nuove imprese industriali;
  • dalla incertezza intorno alla possibilità di potere conservare dopo la guerra il godimento delle invenzioni altrui ai canoni equi o bassi fissati dalle corti giudiziarie. Ciò sarebbe contrario all’equità ed alla convenienza stessa dei paesi ritornati in amichevoli relazioni di pace. Chi osa iniziare una intrapresa sulla fragile base della ingiustizia e del latrocinio?
  • dalla quasi impossibilità di poter adunare, in tempo di guerra, i fattori umani necessari al successo dell’intrapresa. Gli uomini migliori, i più validi, anche laddove non esiste la coscrizione obbligatoria, e sono tenuti ben cari dai loro vecchi principali, ovvero sono sotto le bandiere. Non si può impiantare una industria nuova, servendosi della gente disoccupata, che non ha voluto o non ha potuto arruolarsi. Né si improvvisano le maestranze; non si imparano d’un tratto i delicati e segreti processi industriali altrui; non si gittano somme colossali, capaci di fruttare un alto tasso di interesse, in sperimenti che forse saranno svalutati dalla pace.

 

 

Non meno formidabili sono le difficoltà che si frappongono ai tedeschi nell’opposta impresa con cui essi ritorcono il grido economico di guerra degli inglesi. È certo che Londra, in conseguenza della guerra, perde centinaia di milioni e, forse miliardi di compensazioni che prima si effettuavano attraverso alle sue banche, alle sue case di accettazione, alle sue borse. Già al 25 novembre le compensazioni della City di Londra erano scemate in confronto all’anno scorso di 1.249.202.000 L.st.; più di 31 miliardi di lire nostre; ed alla fine della guerra la perdita avrà toccato altezze vertiginose. È certo che le draconiane norme di sequestro contro i nemici del Re d’Inghilterra non giovano a procacciare popolarità a Londra e saranno considerate in avvenire come un rischio delle compensazioni eseguite attraverso quella piazza. Ma le perdite di Londra non vogliono dire guadagni di Amburgo. Perché una città possa assurgere al posto di stanza internazionale delle compensazioni, non basta che alcune banche di quella città, sia pure tra essa compresa la banca di emissione, si mettano in rapporto con le banche degli altri paesi e si industriino a compensare i pagamenti che il paese deve fare all’estero con i pagamenti che esso dall’estero deve ricevere. Tutto ciò è troppo elementare e fin dalle scuole secondarie gli studenti imparano il diagramma che serve a spiegare il meccanismo delle compensazioni. Non furono però le lezioni dei professori o gli articoli di riviste che crearono le città di compensazione. Venezia prima e Londra oggi sono state il frutto di una lunga e delicatissima formazione storica, compiutasi a traverso secoli di sforzi, di adattamenti, di abilità, mercé un complesso singolare di attività industriali, commerciali, marittime, bancarie, che finora nella storia forse si realizzò solo a Venezia ed a Londra. Non a caso, e non per astuzia propria e dabbenaggine altrui Londra è oggi il centro delle compensazioni mondiali. Perché quell’antro potesse formarsi fu necessario che Londra diventasse e continuasse ad essere un grandissimo centro di affari, dove fanno capo numerose linee di navigazione, da cui si diramano ed a cui giungono i fasci più spessi dei cavi transmarini, e da cui attendono un cenno per proseguire i loro viaggi o cambiar rotta masse grandiose di merci.

 

 

Fu d’uopo che si formasse a Londra un centro bancario di primissim’ordine dotato di una liquidità non avente la pari in nessun altro paese, senza immobilizzazioni industriali tipo germanico, con miliardi di risparmio ognora disponibili per consentire appunto il funzionamento regolare della macchina delle compensazioni; che in questo centro bancario le funzioni fossero specializzate in guisa da consentire la vita a numerose case di accettazione, per lunga tradizione di decenni divenute abilissime nell’unica funzione di accettare tratte estere e presentarle allo sconto alle banche propriamente dette.

 

 

Fu d’uopo, che, grazie all’opera specializzata delle case di accettazione ed all’aiuto dei fondi disponibili delle banche, si potesse passar sopra all’ostacolo che, nei piani ingenui di stanze di compensazione, i quali vanno pullulando un po’ dappertutto, in Germania, in Italia, negli Stati Uniti, nella Svizzera è spesso insormontabile, ossia la mancanza della unicità:

 

 

  • del tempo;
  • del luogo;
  • della valuta.

 

 

Non basta invero che l’Italia debba all’estero 1 milione e sia in credito di 1 milione per potere compensare le due partite. La compensazione non è possibile se la scadenza delle due partite non si verifica nello stesso giorno. Il che basta a spiegare come tutti tendano ad effettuare le proprie compensazioni attraverso Londra, dove, appunto perché essa è la piazza universale dei pagamenti, sempre accade che il requisito della unicità del tempo possa raggiungersi, e dove, se per caso in un dato giorno non si ha, esiste una massa di mezzi creditizi grandiosa, specializzata appunto nel compiere la funzione di fornire all’uno la divisa estera richiesta, mentre se ne attende l’arrivo da altra parte.

 

 

Non basta ancora che il debito ed il credito si eguaglino nello stesso momento, quando il debito dell’Italia è verso la Russia ed il credito verso l’Argentina. Occorre una piazza unica dove affluisca il commercio delle divise di tutto il mondo, affine di effettuare le compensazioni colla minima fatica, al minimo costo. Due o tre grandi piazze potrebbero compiere ugualmente questo lavoro; ma ad un costo cresciuto. Il che non può durare in un commercio, in cui, in tempi normali, si lavora su margini minimi, talvolta di pochi centesimi.

 

 

Ed infine non basta che i debiti ed i crediti si uguaglino per ragion di tempo e di luogo; facendo d’uopo che si eguaglino altresì per ragione di valuta. Le compensazioni non si fanno, senza stento, tra lire e franchi, fra pesos e dollari, fra marchi e corone. Occorre che le divise siano espresse in un’unica moneta, se si vogliono ridurre i costi e facilitare le compensazioni. E sta di fatto nel momento presente che la lira sterlina è l’unica moneta la quale sia accettata da tutti, in tutti i paesi, da popoli civili e da popoli barbari, da europei e da americani, da inglesi orgogliosi della propria superiorità e da tedeschi ardenti dal desiderio di distruggere quella superiorità.

 

 

Non a caso. Anche la lira sterlina è una formazione storica posteriore alle guerre napoleoniche. È passato ormai un secolo, da quando gli uomini si sono persuasi che la lira sterlina era l’unica moneta la quale sempre, in qualunque momento, di pace e di guerra, di tranquillità o di torbidi interni, qualunque partito fosse al potere, qualunque fossero le fantasie legislative del giorno, era permutabile, a richiesta e subito, in un dato peso d’oro; d’oro e non d’argento non di carta. Ancora nella guerra odierna, il signor Lloyd George, il quale pure troppe volte ha peccato indulgendo alla mania del colossale, dei bei colpi, delle deliberazioni tragiche, dei piani geniali e complicati, si è arrestato ossequente dinanzi a questa grande formazione storica britannica che è la lira sterlina. La rinuncia alle tradizioni paesane, che è così dolorosa nella condotta di taluni uomini politici inglesi e che ha fatto dubitare molti della loro capacità di conservazione dell’impero, non ha toccato questa che la più paesana ed insieme la più universale tradizione della City: la convertibilità della lira sterlina in oro. Se Londra conserva oggi e conserverà per degli anni ancora la posizione di stanza di compensazione mondiale, essa deve cotal privilegio inapprezzabile alla persuasione che gli uomini hanno essere Londra l’unica piazza dove si può in ogni istante sapere quanta sia la quantità di oro che le varie divise estere possono comprare.

 

 

Non vuolsi dire con ciò che il privilegio di Londra debba essere eterno ma solo che quel privilegio non lo si scalza con i gridi di guerra stampati contro l’egoismo e il monopolio britannici. Quando Amburgo o quando Milano o New York avranno saputo creare attorno a sé tale un complesso di organizzazioni commerciali marittime, bancarie, creditizie, che le compensazioni internazionali si potranno operare con risparmio di qualche ora o di qualche frazione di centesimo eseguendole presso di loro invece che presso Londra; quando da alcuni decenni gli uomini dell’America e della Cina, dell’Africa del Sud e del Canadà, dell’India e dell’Australia, dell’Asia Minore e del Giappone si saranno persuasi, e volontariamente persuasi, che il marco tedesco, la lira italiana ed il dollaro americano sono monete altrettanto e forse più universali della lira sterlina, allora sarà suonata l’ultima ora della supremazia di Londra come stanza delle compensazioni internazionali. Ma sarà suonata perché i tedeschi ad Amburgo, ovvero gli italiani a Milano, ovvero i nord americani a New York, avranno saputo dar vita ad una formazione storica più bella, più economica di quel che non sia oggi la londinese sterlina. In quel giorno la sconfitta della lira sterlina sarà un vanto per i tedeschi o gli italiani od i nord americani, ed un vantaggio per gli altri popoli. Oggi è forse una impossibilità e sarebbe certo un danno per tutti.

 

 

Consentitemi che io mi indugi ancora su questi fatti monetari. La guerra europea, fra i suoi parecchi interessantissimi effetti, ha avuto questo: di ridare nell’opinione comune ai diversi fatti economici quello stesso valore di prospettiva che essi avevano fin da prima nella mente dello studioso professionale. È certo che, per questi, i problemi più belli, più affascinanti, i problemi che hanno più genuino e schietto sapore economico non sono quelli che, per distinguerli approssimativamente, si possono chiamare problemi sociali, sibbene quegli altri che hanno tratto ai prezzi, alla moneta, alle banche, al tasso dell’interesse, dello sconto e del cambio, al commercio ed ai pagamenti internazionali. I problemi sociali hanno questo di caratteristico per l’economista: che essi affogano nel mare infinito delle chiacchiere, danno luogo al succedersi di teorie variopinte, tutte uguali per la loro imprecisione, la loro inafferrabilità e la loro inconcludenza. È una folla quella che ragiona e discute e si accapiglia per le diverse soluzioni dei problemi sociali; e l’economista rimane confuso, con suo scorno e mortificazione grandi, nella folla degli uomini qualunque, perché egli poco ha da dire che suppergiù non sia sentito dagli altri. Quando invece il discorso volge alla moneta, allo sconto, all’aggio, ai pagamenti internazionali, l’economista vede d’un subito diradarsi le turbe attorno a lui, ed i mercanti lasciarsi docilmente cacciar fuori dal tempio, perché egli possa, nella sua vastità nuda, lietamente discettare con proprietà di linguaggio e rigore di metodo insieme con i pari suoi, che hanno durato lunghe veglie per penetrare a fondo nei problemi più momentosi del mondo economico. Ma in questa solitudine un rimpianto acerbo lo affanna: che le moltitudini non comprendano l’importanza dei fatti che a lui interessano tanto, che le masse non vedano che un buon regime monetario vale per la loro prosperità economica, per il miglioramento dei loro salari, per la regolarità della loro occupazione ben più che non una legislazione sociale anche governata da una sapiente burocrazia tipo germanico; che i risultati possibili ad ottenersi a serie fortunata di scioperi e di agitazioni sono una misera cosa in confronto ai vantaggi che si possono ottenere con l’abolizione del corso forzoso, con un perfetto ordinamento degli istituti di emissione, con l’abolizione dei dazi protettivi e la conservazione di semplici dazi fiscali. Ignorati dalla borghesia, fatti oggetto di scherno, come una diabolica invenzione capitalistica, dai missionari del socialismo, rispettati, per la loro impenetrabilità, dalla maggioranza degli uomini politici, i problemi monetari e bancari sono abbandonati agli specialisti, teorici e pratici, i quali ne fanno oggetto di dominio esclusivo e geloso, in cui alle turbe profane non è lecito di penetrare, così come non è lecito discutere i piani segreti della diplomazia e degli Stati maggiori.

 

 

A me sembra che i danni di un siffatto atteggiamento di indifferenza dell’opinione pubblica siano maggiori dei benefici. I quali – a parte la soddisfazione trascurabile degli economisti di vedere riconosciuta con ossequio la loro competenza, che nei problemi sociali è ogni giorno schernita dalle moltitudini occupate a plaudire i diversi vangeli e ricettari promettitori di ricchezze, di felicità – si riducono alla speranza che, grazie al volontario dileguarsi dei cerretani e degli empirici, i governanti seguano le buone norme che la scienza dedusse dall’esperienza passata ed ognora sono raffinate sulla base delle esperienze nuove. Ma è vantaggio che si acquista a prezzo di grandi sacrifici; poiché se si dileguano i dilettanti, dal disinteressamento universale traggono spesso partito i governanti deboli od incerti sulla bontà dei propri ideali o privi di ideali per ricavare da una inavvertita mutazione dei congegni monetari i mezzi per condurre una politica che all’universale, chiamato in tempo a pagare imposte od a concedere prestiti, non sarebbe gradita; ed a queste inavvertite mutazioni plaudono gli interessati, i quali da esse traggono ricchezze ed opimi profitti.

 

 

Perciò si deve affermare che questo prorompere alla ribalta dei problemi monetari è un fatto utile. Gioverà, alla lunga, all’educazione dell’opinione pubblica; e dall’errore nascerà il bene. L’Inghilterra deve la grandezza, finora incrollabile, della lira sterlina, agli errori commessi durante la guerra napoleonica; ed alla convinzione radicata nell’animo di ogni inglese divenuta oramai sangue del suo sangue, senza che ad ogni generazione si debbano ripetere i ragionamenti e sovratutto rifare le esperienze delle generazioni precedenti, per cui la Banca d’Inghilterra è il palladio della grandezza nazionale, è l’arca santa, cui i profani debbono venerare ma non toccare. La impossibilità dei pagamenti internazionali, la chiusura delle fabbriche, la disoccupazione operaia, il rialzo del prezzo di molte materie prime e di alcune derrate alimentari, lo sconquasso prodotto nel mondo economico dalla tesaurizzazione dell’oro, dimostrarono anche ai ciechi che l’essenza della società moderna non si può ridurre ad una lotta fra sfruttati e sfruttatori, ad una cronaca grottesca delle gesta del capitalismo asserragliato nelle banche e nelle borse a danno dell’umanità. Oggi si vede che questi erano fatti superficiali e che il fatto profondo, sostanziale era l’esistenza di un meccanismo delicatissimo degli scambi e dei contratti fra uomo e uomo, fra classe e classe, fra nazione e nazione; meccanismo spinto dalla concorrenza dei singoli e delle classi e delle nazioni fra di loro, ma avente per risultato la solidarietà più stretta fra uomini, classi e nazioni. L’urto della guerra ruppe il meccanismo, che era creazione superba di sforzi secolari, di adattamenti finissimi; e questa rottura mise in chiaro che senza moneta, senza credito, senza banche, senza borse non si può vivere od almeno non si può vivere con quella pienezza di vita, alla quale oggi siamo abituati. Gli spregiatori della civiltà capitalistica e gli assertori di schemi dell’avvenire hanno avuto campo di convincersi – alla luce dei fatti avvenuti dall’agosto in qua – che i loro schemi erano giocattoli infantili in confronto del movimento complesso di orologeria che governa la vita economica moderna; e dovrebbero modestamente confessare di dover molto andare a scuola da quello che con grandissima improprietà di linguaggio è detto «capitalismo», prima di poter aspirare a surrogarlo in quelli che sono i servigi inestimabili che esso rende agli uomini.

 

 

Non di tutti i problemi monetari suscitati dalla guerra mi è possibile tener discorso in questo momento. Dovendo, per ragion di tempo, fare una scelta, mi sforzerò a rispondere ad un quesito in apparenza assai semplice: come furono materialmente pagati nelle casse dello Stato i 5 miliardi e mezzo di lire italiane del prestito tedesco, e gli 11 miliardi dei varii prestiti inglesi, che si dovettero emettere affinché i due Stati potessero far fronte alle spese della guerra? Notisi che il problema, così come viene posto, è ristrettissimo. Non si vuol risolvere l’arduo e forse insolubile quesito se in questi 5,5 od 11 miliardi consista il costo della guerra per i due paesi e se essi bastino all’uopo. Il calcolo del costo della guerra è relativamente facile se ci si limita a fare il conto delle somme erogate dallo Stato per la condotta della guerra, le quali dovranno risultare dai bilanci pubblici e dalle somme perdute dalle economie private durante, la guerra, delle quali si potrà avere un’idea dai reclami per raccolti, case, macchine, strumenti distrutti, dai minori guadagni delle società anonime, ecc. Diventa invece difficilissimo quando si veda che più che di perdite, converrebbe discorrere di un diverso indirizzo dato alla vita del paese, per cui ai bisogni sentiti in tempo di pace dagli uomini (vitto, vestito, casa, divertimento, ecc.), ed agli atti normalmente intesi a soddisfarli si sostituiscono altri bisogni – difesa del territorio nazionale o conquista di territori nuovi o di colonie – ed altri atti intesi a soddisfare i nuovi bisogni; per cui gli uomini, in pace operosi per la produzione di oggetti di consumo o di servizi, si risolvono a produrre il servizio della difesa o della maggior grandezza del paese ed il loro posto è preso, in parte, nella produzione agricola, manifatturiera e commerciale, da altri uomini o donne o fanciulli, prima inoperosi od occupati nel produrre servizi intellettuali o personali, la cui domanda improvvisamente è cessata. È chiaro dunque che il calcolo economico dei costi della guerra ha un significato puramente convenzionale, od almeno l’affermare che una guerra costa 10 miliardi di lire vuol soltanto dire che i cittadini dei paesi belligeranti vollero sopportare un costo di 10 miliardi di lire per raggiungere un fine che essi reputavano di pregio più alto. Nella qual affermazione si ripete per la guerra un concetto comune ad ogni operazione economica; e come non si dice che chi ha speso 100 per tenere 150 ha subito una perdita di 100, ma anzi che ha lucrato 50; così si dovrebbe dire, che il paese, spendendo 10 miliardi per ottenere un fine valutato 15, non ha subito una perdita di 10 sibbene un vantaggio di 5 miliardi. La perdita potendosi affermare solo nel caso che il fine non si raggiunga o fosse un fine che la collettività, dopo ottenutolo, considera inutile o fors’anco dannoso.

 

 

Ancora: si può affermare che sia una perdita economica la avvenuta proibizione dalle bevande alcooliche in Russia e della distruzione dei capitali impiegati in quell’industria? Si può affermare che costituisca una perdita economica il passaggio di migliaia di vetture automobili dall’uso di passeggiate di diletto all’uso di trasporti di materiale da guerra?

 

 

Il problema, sul quale in questo momento richiamo la vostra attenzione non è questo vasto problema economico e psicologico, è un problema monetario, che molti sarebbero portati a trascurare per la sua insignificanza. Esso può così esprimersi dato che i risparmiatori tedeschi e gli inglesi avevano la capacità economica di mutuare allo Stato i 5,5 e gli 11 miliardi del prestito della guerra, come si effettuò materialmente il trapasso delle somme sottoscritte dai risparmiatori allo Stato?

 

 

Che il problema sia perlomeno curioso, è chiaro subito ove si rifletta che la sua risoluzione a prima vista costituisce un assurdo ed una impossibilità. A prima vista, invero, il versamento da parte del capitalista delle somme sottoscritte si concepisce come il fatto di chi avendo in cassa od avendo ritirato dalle casse di risparmio o dalla banca 100.000 lire, ad es., si reca con esse allo sportello del tesoro, e le versa, ricevendo in cambio un certificato provvisorio di debito dello Stato.

 

 

Orbene, è evidente che se noi concepiamo unicamente in tal maniera il meccanismo del pagamento delle somme sottoscritte, il prestito diventa un impossibile. In qual paese del mondo i risparmiatori possono avere a loro disposizione, anche se il versamento viene ripartito su alcune settimane o mesi di tempo, i miliardi di oro o di biglietti necessari ad effettuare i versamenti? Se si riflette che oro e biglietti erano, prima del prestito, nella quantità necessaria per effettuare gli scambi e le contrattazioni, che non è possibile sospendere per molti od anche solo per alcuni giorni, quanti sarebbero d’uopo perché i biglietti versati nelle casse del tesoro rifluissero nella circolazione, la vita economica del paese, che un siffatto assorbimento del medio circolante da parte del tesoro pubblico non può essere scisso dall’immagine di imbarazzi indicibili, di fallimenti innumerevoli e di un panico generale, se si pon mente che in momenti di panico non si sottoscrivono prestiti di miliardi, si deve forzatamente concludere che non esistono e non possono esistere in nessun paese disponibilità monetarie sufficienti a coprire, neppure lontanamente, colossali prestiti di guerra odierni.

 

 

Il che non vuol dire che i prestiti siano un mistero od un inganno; significa soltanto che il quadro del risparmiatore, buon padre di famiglia, il quale col suo gruzzolo si reca ad effettuare il versamento della somma da lui sottoscritta, è una rappresentazione di tempi che furono ed un assurdo nei tempi nostri. Un prestito di 5,5 o di 11 miliardi non si concepisce senza tutta una preparazione o meglio senza l’esistenza di un congegno creditizio e bancario che lo renda possibile.

 

 

Il pagamento di un grande prestito di guerra si può immaginare avvenuto secondo due schemi teorici; l’uno dei quali presuppone l’emissione di biglietti normalmente, sebbene non necessariamente, in regime di corso forzoso; mentre l’altro si fonda su un sistema sviluppato di assegni bancari e di compensazioni bancarie. I fatti reali si sono, è vero, sviluppati nei singoli paesi con divergenze talvolta notevoli dai due schemi, ovvero con l’uso simultaneo di amendue; ma essi giovano a rappresentarci dinanzi alla mente con una certa approssimazione il meccanismo del pagamento dei prestiti.

 

 

Un primo schema parte dalla premessa che, trovandosi nel paese soltanto quella quantità di biglietti od oro circolante che, ai prezzi correnti, è sufficiente ad effettuare le negoziazioni, e non potendosi né distrarre dal suo ufficio la massa esistente di biglietti, senza provocare una crisi commerciale, né aumentarla, senza stimolare un ritorno dei biglietti alla banca emittente in cambio di oro, che sarebbe tesoreggiato in momenti di panico, si proclama il corso forzoso allo scopo di mettere in salvo la riserva metallica.

 

 

Possono a questo punto cominciare le emissioni illimitate di biglietti, preordinate allo scopo di rendere possibile e nello stesso tempo di anticipare la riscossione del prestito futuro. Lo Stato, a poco a poco, spende 5 miliardi di lire, pagando le spese con 5 miliardi di lire di biglietti appositamente stampati ed anticipati al Tesoro dalla Banca di emissione. Dallo Stato i biglietti passano così ai suoi fornitori, alle truppe, agli impiegati, ai creditori pubblici. Costoro non avendo nessun bisogno di tenere presso di sé quei biglietti li danno a loro volta in pagamento ai proprii creditori, operai, fornitori e via dicendo. Né può tardare molto tempo che questi biglietti avranno trovato la via del ritorno presso le banche ordinarie e la banca di emissione, dove saranno stati versati in saldo di cambiali venute alla scadenza, in estinzione di altri debiti, od in depositi a risparmio od in conto corrente. Se, materialmente, una parte dei nuovi biglietti rimarrà in circolazione perché i fornitori dello Stato, ad esempio, hanno bisogno di una maggior quantità di moneta legale in riserva nel cassetto, una parte dei vecchi biglietti diventerà inutile, perché gli industriali ed i commercianti che lavorano per opere di pace, vedendo diminuiti i proprii affari, hanno minor bisogno di medio circolante e lo depositeranno alle banche. Giunge un momento, un mese o due mesi dopo lo scoppio della guerra, in cui, esauritisi altresì i primi e più clamorosi effetti del panico e della tesaurizzazione monetaria, le casse delle banche posseggono forti masse, forse la totalità dei 5 miliardi di lire di biglietti originariamente emessi dallo Stato, contro cui hanno dato credito alle proprie clientele, per minori debiti e per maggiori depositi o conti correnti. Questo è il momento psicologico dell’emissione del prestito. Il quale è adesso anche materialmente possibile; perché i sottoscrittori sono coloro che hanno disponibilità liquide o in biglietti tenuti nel cassetto e facenti parte dei 5 miliardi esuberanti alla circolazione o in depositi e conti correnti alle banche o in aperture di credito presso le banche stesse, ridiventate disponibili dopoché essi hanno estinto i loro debiti cambiari e per la mancanza di nuovi affari non li hanno sostituiti con nuovi debiti.

 

 

Essi inviano le loro schede di sottoscrizione alle proprie banche e casse, le quali, mentre li addebitano dell’importo, accreditano di altrettanto lo Stato, o versano addirittura nelle casse pubbliche i biglietti che esse tengono presso di sé. In tal modo il pagamento del prestito si può fare, perché consiste nel ritorno allo Stato dei 5 miliardi di biglietti che questo dianzi aveva emesso. In sostanza l’operazione si riduce a sostituire ad un prestito forzoso ed infruttifero, come erano i 5 miliardi di biglietti, un prestito volontario e fruttifero, come sono i 5 miliardi di titoli di debito pubblico. Già con l’emissione dei 5 miliardi di biglietti a corso forzoso lo Stato aveva raggiunto l’intento del prestito, che era quello di creare a proprio favore un diritto di usare una certa quantità di derrate, merci, munizioni o di giovarsi dei servizi e del lavoro della popolazione fino all’ammontare dei 5 miliardi; ed aveva creato un corrispondente diritto di credito verso se stesso in coloro che avevano venduto le merci od i servizi. Il diritto di credito era però rappresentato da un titolo, il biglietto a corso forzoso che per il singolo creditore ha l’inconveniente di dover essere accettato per forza, di non portare una scadenza certa e di essere fruttifero, e per la collettività di essere cagione di deprezzamento nel medio circolante; laonde è opportuno sostituirlo con un titolo di debito pubblico, ripartito fra coloro che hanno disponibilità di risparmio e volontariamente vogliono far credito allo Stato.

 

 

Se la guerra continua, l’operazione si può ripetere una o due volte, facendo ogni volta precedere al prestito volontario e fruttifero il prestito forzato nella forma delle emissioni di biglietti, il quale crea altresì lo strumento per il versamento dell’importo del prestito. Finita la guerra lo Stato si trova con un carico di 5, 10 o 15 miliardi di debito propriamente detto; ma può abolire il corso forzoso, perché ha già ritirato tutti i biglietti emessi in quantità esuberante, durante la guerra, oltre il quantitativo sufficiente perché la carta possa circolare a parità con la moneta d’oro.

 

 

Di fatto accadrà che il fenomeno non si sviluppi con quei tagli netti fra un periodo e l’altro che qui si sono detti; poiché si dovranno bensì emettere a giorni fissi i prestiti fruttiferi e volontari, ad ipotesi di 5 miliardi l’uno; ma potrà darsi che in quel giorno non ancora tutti i 5 miliardi di biglietti della prima fase siano tornati alle banche; o meglio, potrà darsi che già, mentre si emette il prestito per liquidare ed estinguere i primi 5 miliardi di biglietti, si stiano emettendo i 5 nuovi miliardi del secondo periodo per provvedere alle spese impellenti della guerra. Il concetto essenziale è che i prestiti vengano conchiusi nel tempo più opportuno, quando si sono formate nel pubblico o per esso, nelle banche, dei grandi ammassi di biglietti, che rimarrebbero oziosi o finirebbero di essere impiegati a gonfiare artificialmente affari malsani, in guisa che in nessun momento il quantitativo dei biglietti emessi cresca oltre misura.

 

 

Questo pare sia stato il concetto seguito in Germania, dove si è avuta una applicazione parziale del metodo ora delineato. Dico parziale, perché trattasi di un metodo che non è necessario applicare da solo, potendo essere impiegato contemporaneamente all’altro, di cui si dirà sotto, dei giri di scritturazioni cambiarie. In Germania, dove l’uso degli assegni sta acclimatandosi, ma non è abbastanza diffuso, si dovette ricorrere, oltreché a questo, su vasta scala al metodo ora descritto, delle emissioni preventive di biglietti. Ed invero, – mentre la quantità dei biglietti emessi, che era di 1891 milioni di marchi il 23 luglio, cresce durante l’agosto ed il settembre in maniera quasi ininterrotta giungendo il 30 settembre a 4491 milioni di marchi, con un più di 2600 milioni, – in ottobre, quando rientrano i biglietti in pagamento del prestito dei 4460 milioni di marchi, si avverte una flessione ed al 23 ottobre scendiamo a 3968 milioni, battendo poi in novembre la cifra sui 4 miliardi.

 

 

Probabilmente la stazionarietà di questa cifra è il frutto di due forze: da un lato i versamenti scalari in conto del prestito che fanno rientrare i biglietti emessi prima della fine settembre; e dall’altro le nuove emissioni di altri biglietti, fatte allo scopo di far fronte alle spese ognora rinnovantisi della guerra. E già si vide il Parlamento tedesco votare un nuovo credito di 5 miliardi e sui giornali si discorre di un altro grandioso prestito a primavera che avrà per scopo sovratutto di arginare il crescere, che sarebbe ineluttabile e deleterio, dei biglietti a corso forzoso.

 

 

Ma la Germania ha perfezionato per un altro verso questo metodo di innestare il prestito sulle emissioni a corso forzoso, che sono forse inevitabili nell’urgenza del pericolo, ma non bisogna dimenticare mai essere pericolosissimi. Supponiamo invero che lo Stato belligerante non attenda ad emettere il prestito dei 5 miliardi, il momento in cui si siano emessi tutti i 5 miliardi di lire di biglietti e questi si siano già raccolti nelle mani di coloro che hanno altrettanto risparmio disponibile, ma ritenga opportuno, per ragioni psicologiche o politiche, di emettere il prestito in un momento in cui la massa di risparmio attualmente disponibile è di soli 4 miliardi di lire e può quindi comandar l’azione di soli 4 miliardi di lire di biglietti.

 

 

Ma lo Stato vuole garantirsi una disponibilità ulteriore, ad esempio di 1 miliardo in più. Ciò urterebbe contro un ostacolo gravissimo: esistono bensì nel paese 4 miliardi di risparmio già formatosi ed esistono gli strumenti corrispondenti di pagamento, che sono i 4 miliardi di biglietti inutili alla circolazione; ma non esiste ancora il miliardo in più di risparmio che lo Stato vorrebbe accaparrare e non esistono gli strumenti di pagamento che sarebbero necessari. A sormontare le difficoltà interviene lo Stato, a mezzo della Banca d’emissione o di un’apposita Cassa di prestiti.

 

 

Lo Stato provvede innanzitutto gli strumenti del pagamento, stampando 1 miliardo di lire di biglietti o di buoni di cassa; e li anticipa ai capitalisti, i quali depositano in garanzia titoli antichi di debito pubblico, cartelle, obbligazioni, azioni, merci. Ed i capitalisti con il miliardo di biglietti così avuto in prestito sottoscrivono 1 miliardo del prestito, portando la cifra totale di 4 a 5 miliardi. A prima vista questo sembra uno scherzo, poiché le Stato, il quale ha bisogno di farsi imprestare 1 miliardo, stampa i biglietti necessari, li mutua ai capitalisti, i quali poi a lui li restituiscono, ricevendo in cambio 1 miliardo di titoli del prestito; sicché alla fine lo Stato si trova con 1 miliardo di debito al 5% e con in mano 1 miliardo di biglietti che egli stesso ha creato. O non era meglio, si può osservare, che, senza compiere questo giro vizioso, lo Stato se li stampasse per conto suo questi biglietti, poiché in ogni caso, se vorrà trarre frutto dal prestito, dovrà pur spenderli e crescere di altrettanto la circolazione a corso forzoso?

 

 

No. Emettendo questo miliardo di biglietti, dopo avergli fatto subire il salutare lavacro di un mutuo ai capitalisti contro pegno e di un ritorno nel tesoro in cambio di un titolo di debito pubblico lo Stato ha raggiunto due intenti:

 

 

  • in primo luogo ha creato una forza la quale necessariamente porterà, anche all’infuori di eventuali errori od impossibilità dei governanti, all’estinzione del miliardo di lire di biglietti. Poiché il capitalista ha bensì il titolo nuovo del prestito, che gli frutta il 5%; ma anche il debito corrispondente verso la Cassa di prestiti a cui ha dato in pegno titoli vecchi da lui già posseduti. Per liberarsi dall’onere degli interessi passivi al 6%, il capitalista si sforzerà dunque di risparmiare e di estinguere a poco a poco il suo debito. Ma per estinguerlo dovrà accumulare biglietti e portarli alla Cassa. Ecco dunque raggiunto il primo intento dello Stato, che è di estinguere o e distruggere i biglietti a corso forzoso.
  • il secondo intento raggiunto è il comando che lo Stato per tal modo acquista sul risparmio futuro. Normalmente lo Stato può, coi prestiti volontari, comandare solo al risparmio attuale di procacciargli beni e servizi attuali. Ma se il risparmio attuale disponibile è in quantità inferiore ai beni e servizi esistenti, come potrà lo Stato ottenere la disponibilità su di questi? Ove non si voglia ricorrere semplicemente al torchio a gitto continuo, per vari rispetti pericoloso, il metodo germanico della fornitura di biglietti ai capitalisti desiderosi di imprestare anticipatamente allo Stato anche i proprii risparmi futuri, è certo raffinato ed elegante. E poiché esso crea la spinta alla restituzione e distruzione dei biglietti, si deve dire che esso presenta il minimum di pericoli collettivi. L’impero germanico usò largamente di questo spediente: al 23 settembre i buoni della cassa di prestiti posseduti dalla Banca imperiale giungevano appena a 149.2 milioni di marchi; ed al 7 ottobre, all’indomani dei primi versamenti del prestito di guerra, giungevano a 949 milioni. Erano 800 milioni circa di buoni che la Cassa aveva prestato contro pegno ai sottoscrittori del prestito e con cui questi avevano fatto i pagamenti della prima rata versandoli alla Banca imperiale.

 

 

Questa poi in rappresentanza di essi poté consegnare allo Stato altrettanti suoi biglietti da spendere. Ma già si vede che i capitalisti stanno formando del nuovo risparmio, con cui rimborsano le anticipazioni ottenute contro pegno dalla Cassa di prestiti; poiché al 23 novembre i buoni di cassa posseduti dalla Banca imperiale sono diminuiti da 949 a 599.8 milioni di marchi; il che vuol dire che i capitalisti poterono fare in queste 6 settimane circa 350 milioni di marchi di nuovo risparmio e ridurre di altrettanto il proprio debito verso la Cassa di prestiti, la quale, alla sua volta, poté rimborsare la Banca imperiale, ottenendone la restituzione dei 350 milioni di buoni di cassa, finalmente scomparsi dalla circolazione.

 

 

Io non so se sono riuscito a rendere in modo abbastanza chiaro questo meccanismo, in fondo semplice, del versamento dei prestiti per mezzo dei biglietti a corso forzoso, che bene si potrebbero chiamare l’anticipazione e la condizione necessaria di uno dei due schemi tecnici di pagamento dell’ammontare dei grandi prestiti moderni.

 

 

Ma forse ancor più meraviglioso e perciò più semplice è l’altro meccanismo, non ignoto in Germania, ma che ha indubbiamente il suo prototipo nelle successive emissioni dei buoni del tesoro per 2/3 miliardi di lire e nel prestito recentissimo degli 8 miliardi ed 827 milioni di lire italiane in Inghilterra. Qui non corso forzoso, non emissione di biglietti di banca o di Stato o di buoni delle casse di prestiti. La circolazione in biglietti di banca che al 30 luglio era di 29.7 milioni di lire sterline, al 19 novembre era ancora di 35.3; ed i nuovi biglietti di Stato battevano sui 27.3 milioni di lire sterline; in tutto una quantità di biglietti emessa in più dopo la guerra di forse un 33 milioni di lire sterline, circa 820 milioni di lire italiane, appena sufficienti a prendere il posto nella circolazione ordinaria dell’oro che dai privati passò nelle casse della Banca, dove crebbe da 38 ad 85 milioni circa. Dunque non con questo strumento impercettibile dei biglietti si poté effettuare prima il versamento nelle casse dello Stato dei 91 milioni lire sterline di buoni del tesoro e si può effettuare ora il versamento dei 350 milioni del prestito di guerra: in tutto 11 miliardi circa di lire italiane.

 

 

Lo strumento dei pagamenti è quello degli assegni bancari. Che è semplice; ma più si medita e più appare una veramente superba creazione della mente e sovratutto della fiducia umana.

 

 

Lo schema teorico iniziale è il seguente. Esistono in un dato paese e disponibili durante un certo flusso di tempo, ad esempio gli 11 mesi dallo scoppio della guerra (1 agosto 1914) all’1 luglio 1915 circa 11 miliardi di beni materiali e di servizi, che in tempo di pace sarebbero stati, insieme con altri parecchi, forse 35, miliardi destinati al soddisfacimento di bisogni privati, compreso il bisogno del risparmio. Scoppiata la guerra, importa che lo Stato possa disporre di tutti questi 11 miliardi per i supremi scopi nazionali.

 

 

In quel paese è usanza generale, quasi sempre eccezione, che tutti depositino i proprii fondi disponibili per il consumo ed il risparmio presso le banche; ordinando poi a queste gli opportuni pagamenti per mezzo di assegni bancari. Perché avvenga il passaggio degli 11 miliardi dalla disponibilità dei privati alla disponibilità dello Stato, i seguenti atti devono verificarsi:

 

 

  • in un primo momento devono gli 11 miliardi essere iscritti a favore dei privati nei conti correnti e depositi delle banche;
  • nel momento della sottoscrizione od in parecchi momenti durante il decorso della guerra, debbono i privati consegnare al Tesoro tanti assegni tratti sulle proprie banche per un ammontare di 11 miliardi;
  • il Tesoro presenta gli assegni alle banche, le quali, prese in massa, addebitano i privati ed accreditano il Tesoro della somma totale del prestito;
  • il Tesoro, dotato così della capacità di trarre ordini fino alla cifra di 11 miliardi sulla massa di beni materiali e di servizi personali esistenti nel paese, fa acquisto di derrate, di vestiti, di munizioni, paga le truppe consegnando a tutti i proprii fornitori, creditori, soldati, ufficiali, assegni sulle banche, dove egli è accreditato per 11 miliardi;
  • a poco a poco il conto corrente del Tesoro presso le banche del paese che si sarebbe gonfiato fino alla cifra di 11 miliardi, se il versamento dei prestiti si fosse fatto in un momento unico e che di fatto si gonfia a punte variabili di altezza nei successivi versamenti delle rate del prestito, torna a sgonfiarsi, a mano a mano che il Tesoro, per fare i pagamenti, trae assegni bancari; e d’altrettanto crescono nuovamente i conti correnti dei privati, poiché, supponendo finita la guerra all’1 luglio 1915, a quella data il conto corrente del Tesoro, partito da zero, giunto al culmine degli 11 miliardi ritorna a zero ed il conto corrente dei privati ritorna a riacquistare i suoi 11 miliardi.

 

 

Così, pianamente, senza smuovere una lira in oro od in biglietti, teoricamente si può concepire il versamento e la spesa di questa immane somma. E così di fatto tende a compiersi l’operazione del prestito o meglio dei successivi prestiti bellici in Inghilterra: come un giro di scritturazioni sui libri delle banche e delle stanze di compensazione.

 

 

Tende dico: perché in realtà lo schema teorico deve abbandonare alquanto della propria forma iniziale per superare gli attriti che sono opposti a questo meraviglioso meccanismo delle compensazioni bancarie dalle esigenze diverse dello Stato e dei risparmiatori rispetto alla massa dei risparmi posseduti e desiderati ed al tempo dell’investimento.

 

 

Appare inverosimile innanzi tutto che i capitalisti inglesi dispongano davvero, durante questi 11 mesi, di un flusso di risparmio di 11 miliardi di lire. Per quanto scemino gli altri investimenti, non pare si possano ridurre a zero, come dimostrato dalle richieste, soddisfatte, che sul mercato di Londra stanno facendo Russia e Francia, Canadà ed Australia, ed insieme numerose imprese private. Ciò spiega come una parte, forse notevole, non certo misurabile, di questi 11 miliardi debba essere stata procacciata non dal risparmio, ma dal credito creato dalle banche. È noto, sebbene ogni volta che ci si pensa la cosa prenda l’aspetto di un mistero affascinante, che forse i tre quarti dei cosidetti 25 miliardi di lire italiane di depositi e conti correnti esistenti presso le banche inglesi non sono veri depositi di risparmio, sibbene conseguenze di un’apertura di credito fatta dalla banca alla sua clientela. Sia una banca in una piccola città, e per mezzo di quella banca tutti i cittadini transigano i propri affari. Essa ha in cassa in contanti 100.000 lire fornite dai suoi azionisti e 100.000 lire fornite dai depositanti. Con queste sole 200.000 lire la Banca può fare affari di milioni, purché osservi la prudenza bastevole a non esagerare i propri impegni in confronto al proprio fondo contante di cassa. La banca può cioè aprire un credito, contro sconto di cambiali o pegno di titoli, per 1 milione di lire. Ciò fa nascere nella parte attiva del suo bilancio una partita di 1 milione di lire per cambiali o titoli di portafoglio. Ma ciò fa nascere altresì – ed è qui il punto essenziale e quasi taumaturgico – un deposito di 1 milione di lire al passivo dello stesso bilancio. Perché i commercianti e gli industriali, i quali, avendo scontato cambiali ed impegnato titoli, hanno ottenuto un’apertura di credito per 1 milione di lire, hanno acquistato diritto – e se ne servono – di trarre per questa somma assegni sulla banca. Questi assegni i clienti della banca li consegnano ai propri fornitori, creditori, azionisti, obbligazionisti, impiegati; i quali potrebbero, quindi, volendo, presentarli all’incasso alla banca per esigerne il valsente in contanti. Se questo facessero, la banca dovrebbe fallire perché essa ha appena 200.000 lire di denaro contante in riserva. Ma poiché in Inghilterra non si usa tenere denari contanti in cassa, poiché tutti eseguono le proprie transazioni attraverso alle banche, i fornitori, creditori, azionisti, di cui sopra, trasmetteranno gli assegni ricevuti alla banca – noi abbiamo supposto, per semplicità, che in quella piccola cittadina esistesse una sola banca – e questa ne darà loro credito in conto corrente con una scritturazione sui proprii libri. Ecco dunque come la banca crei essa stessa i propri depositi. Si potrebbe persino immaginare il caso di una banca, priva assolutamente di capitale proprio e di depositi effettivi e cioè venuti prima dell’inizio delle operazioni bancarie, dotata però di un forte capitale immateriale in «fiducia«.

 

 

Niente vieterebbe a questa banca di aprire crediti per 1 milione di lire; ossia di dare alla propria clientela il diritto di trarre assegni a vista su di essa per 1 milione di lire. Per il processo già descritto il milione di assegni sarebbe trasmesso dalla clientela della banca ai propri creditori e questi li presenterebbero alla banca per la registrazione a loro credito in conto corrente. Ecco, quasi per un tocco di bacchetta magica, create aperture di credito per 1 milione e depositi in conti correnti per 1 milione.

 

 

Si estenda il caso ipotetico da una banca sola a tutte le banche inglesi, da 1 milione a molti miliardi, si consideri che le aperture di credito della Banca A alla propria clientela provocano consegne di assegni a clienti della Banca B e quindi creazione di depositi nella Banca B; mentre per converso le aperture di credito della Banca B alla propria clientela provocano consegne di assegni ai clienti della Banca A e quindi creazione di depositi presso questa Banca; si complichi il quadro aumentando le banche a 10, a 20 e più, con le rispettive filiali; e si rimarrà persuasi della verità delle affermazioni di competentissimi scrittori e pratici inglesi[2] essere i tre quarti, forse 18 sui 25 miliardi di depositi e conti correnti delle banche inglesi, non depositi veri proprii, iniziali, nella maniera in cui comunemente si intendono i depositi da noi; bensì depositi consequenziali posteriori in tempo e derivanti dalle aperture di credito fatte dalle banche alla propria clientela commerciale, industriale e speculatrice.

 

 

È un edificio meraviglioso, che dà le vertigini al pensare che esso riposa tutto sul fondamento fragilissimo della capacità di aprir credito che le banche posseggono, in seguito alla fiducia acquistata, per una lunga tradizione onorata, presso la clientela, fiducia che fa persuasa questa che le banche sarebbero in grado di far onore agli assegni tratti su di esse.

 

 

Ed il perno di questa fiducia sono i pochi biglietti e lo scarso oro che le banche hanno in cassa; e la non grande massa di biglietti che esse sanno di potersi procacciare dalla Banca d’Inghilterra.

 

 

Ora si comprende come sia possibile l’emissione di prestiti per 91 milioni di lire sterline in buoni del tesoro prima e per 350 milioni adesso. V’è una parte che fu sottoscritta, come sopra si disse, da coloro che possedevano depositi, come li intendiamo noi, presso le banche. Ma un’altra parte dovette essere certamente sottoscritta grazie al meccanismo delle aperture di credito. Giova ricordare che la guerra ha cagionato non solo una forte disoccupazione di imprenditori e di operai, ma altresì una disoccupazione, forse più intensa, della capacità di fornir credito delle banche. Chiuse le borse, a mano mano che si liquidano le vecchie operazioni, nuove non se ne fanno; il commercio internazionale è ridotto di volume; né l’attività frenetica di talune industrie belliche è compenso sufficiente al languore delle industrie di pace. È probabile dunque che, in conseguenza della guerra, la capacità di fornir credito delle banche non siasi potuta, dall’agosto in qua, sfruttare sino al limite estremo consigliato dalla prudenza.

 

 

Il qual limite da un lato si è ridotto, poiché la guerra consiglia ad essere cauti nelle operazioni di credito; ma si è d’altro canto allargato, perché:

 

 

  • fu sospeso l’atto di Peel, e quindi le banche non hanno timore che venga a mancare troppo presto la provvista di biglietti a corso legale, che è il perno intorno a cui gira la loro possibilità di aprir crediti e di far fronte agli assegni tratti a vista su di esse. Se il fondo di cassa in biglietti è di 10, le banche possono aprir crediti sino a 100; se il fondo di cassa può crescere a 15, le aperture di credito possono del pari salire non forse a 150, ma probabilmente a 120 o 125;
  • le banche sono incoraggiate ad aprir credito allo Stato dall’impegno assunto dalla Banca d’Inghilterra di essere sempre disposta sino al 31 marzo 1918 a scontare i titoli del prestito di guerra, come se fossero cambiali, alla pari del prezzo di emissione ed a un tasso dell’1 per cento inferiore al tasso ufficiale dello sconto.

 

 

Si combinino insieme questi elementi: la esistenza di una enorme capacità di fornir credito da parte delle banche; la impossibilità di utilizzare in pieno questa capacità nel momento attuale per il languore delle borse e dei traffici; la sicurezza di avere, aprendo credito allo Stato, delle attività facilmente mobilizzabili mercé il risconto alla Banca d’Inghilterra; e si avrà compreso la ragione delle forti sottoscrizioni delle Banche inglesi al prestito di guerra.

 

 

Per la parte per cui il prestito fu sottoscritto dalle banche, noi non abbiamo dunque più d’uopo di partire dalla premessa dei depositi di un risparmio preesistente. Possiamo partire dall’unica premessa della fiducia acquistata dalle banche. Queste allora, sottoscrivendo per 200 milioni di lire sterline tra buoni del tesoro già emessi e nuovo prestito di guerra, aprono un credito allo Stato, ossia danno diritto allo Stato di trarre assegni su di esse fino a concorrenza di 200 milioni di lire sterline. E lo Stato a poco a poco trae gli assegni, consegnandoli ai proprii fornitori e creditori, e questi se li fanno accreditare in conto corrente presso le banche medesime. Le banche, creditrici dello Stato per l’ammontare dei titoli sottoscritti, diventano debitrici della stessa somma verso i fornitori, creditori, ecc. I quali non incassano i loro crediti, ma a loro volta li girano alla propria clientela. A grado a grado tra i possessori dei diritti di trarre assegni sulle banche cresce il numero di coloro che possono risparmiare una parte dei loro diritti, ossia non servirsene più per pagare materie prime, operai, debiti, sibbene consacrarli all’acquisto di titoli del prestito di guerra. Il nuovo risparmio, allettato dal buon tasso di interesse, si rivolge ai titoli del prestito di guerra; ed arriverà un momento, dopo conchiusa la pace, nel quale le banche avranno venduto tutti i titoli direttamente sottoscritti alla propria clientela.

 

 

Ciò vorrà dire che esse, consegnando titoli a coloro che avevano un conto corrente presso di loro, potranno cancellare una quota corrispondente dei conti correnti passivi. L’operazione, iniziatasi con un’apertura di credito allo Stato, ossia con la concessione allo Stato, mercé consegna di titoli, del diritto di trarre assegni sulla banca, si sarà conchiusa quando la clientela, avendo formato sufficiente risparmio, avrà potuto rinunciare al proprio diritto di trarre assegni a vista, ricevendone in cambio il titolo. In quel momento sarà compiuto il classamento del titolo tra la clientela dei risparmiatori; ed il meccanismo delle scritturazioni bancarie delle aperture di credito e dei passaggi successivi del diritto di trarre assegni sulla banca dallo Stato sino al risparmiatore definitivo avrà dimostrato quanto grande sia la sua virtù nell’anticipare nel tempo le potenzialità future di risparmio del paese.

 

 

Tutto ciò, ripeto, ogni qualvolta vi ripenso, mi dà le vertigini. È semplice, finisce alla lunga di diventar chiaro; ma tien sempre del miracoloso. Io credo che forse mai nella storia del mondo si sia veduto uno spettacolo di forza e di fiducia quale ci è oggi fornito dai due grandi paesi rivali: Germania ed Inghilterra. Più meditato, organizzato in maniera più sistematica, più scendente dall’alto, dal comando del governo e dal consiglio degli scienziati il metodo tedesco delle successive emissioni di biglietti a corso forzoso e dei successivi riassorbimenti dei biglietti per mezzo dei prestiti di guerra; più spontaneo, più sciolto, agente per virtù propria ed attraverso al meccanismo quasi impalpabile di scritturazioni bancarie il metodo inglese. Nell’un caso, quello germanico, abbiamo una applicazione degli insegnamenti di quella curiosa scienza economica tedesca, la quale riesce così ostica al palato di chi ha studiato sui libri dei veri grandi maestri della scienza economica, degli Adamo Smith, dei Ricardo, dei Ferrara; e, che, se ben si guarda, e fatte salve le onorevoli eccezioni dei Roscher, dei Gossen, dei Thunen, dei Bohm Bawerk, dei Menger ed altri non molti[3], non è la scienza delle azioni che farebbero gli uomini se fossero lasciati alla propria iniziativa individuale; ma delle azioni che gli uomini compiono sotto la guida di una burocrazia infallibile e retta e dietro consiglio dei professori d’università. È la scienza dell’imperatore.

 

 

Mentre, dall’altro lato, abbiamo una creazione spontanea, sorta da sé, per la necessità in cui si trovarono i banchieri ed i mercanti della city di Londra di sfuggire alle strettoie del comando del legislatore. L’atto di Peel ordinò nel 1844 che neppure un biglietto potesse essere emesso senza essere coperto da altrettanto oro. E gli inglesi si ribellarono a quest’ordine rigido, mentre forse i tedeschi avrebbero obbedito, e crearono lo cheque, l’assegno bancario, in masse crescenti, fluidissime, mobilissime, sfuggenti a qualunque sanzione legislativa; ma utili alle opere di pace ed alle imprese di guerra. I teorizzatori vengono di poi e narrano in capolavori stupendi, come Lombard Street di Bagehot, come gli uomini si siano da sé sbrogliati degli impacci tesi dai professori e dai legislatori.

 

 

Sono due metodi i quali caratterizzano la diversa mentalità dei due popoli.

 

 

Ma sono testimoni amendue di un grande fatto: che nessuna guerra si può condurre finanziariamente senza il perdurare della fiducia del popolo nella propria forza ed il profondo sentimento che bisogna subordinare ogni altro interesse alla consecuzione dei fini supremi della salvezza nazionale.

 

 

Immaginiamo un po’ che mentre le banche inglesi devono utilizzare tutto il margine divenuto libero della propria capacità di fornire credito per concedere allo Stato ingenti diritti di trarre assegni su se stesse, alto sorgesse il clamore degli industriali, dei commercianti, degli speculatori costretti all’inerzia dalla guerra; e pretendessero di continuare ad ottenere credito nella stessa misura in cui l’ottenevano prima. Supponiamo, cosa non inverosimile in un popolo in cui non fosse così viva la coscienza della subordinazione degli interessi individuali agli interessi collettivi, che essi riuscissero, con influenze politiche, con dimostrazioni operaie, ad esercitare siffatta pressione sulle banche da indurle a continuar loro le antiche aperture di credito. Quali gli effetti? Da un lato, il danno economico della continuazione di una produzione non chiesta, di un lavoro fatto per accumular merci in magazzino e della preparazione di una grave crisi a breve scadenza. Dall’altro lato l’impossibilità nelle banche di utilizzare a favore dello Stato il proprio margine, non più libero, di capacità di trarre assegni sulla fiducia del pubblico. Quindi l’impossibilità di coprire il prestito di guerra.

 

 

Non dunque soltanto, come corre la leggenda su per le bocche del volgo, la ricchezza materiale, i tesori accumulati, frutto di ingordigie e di male arti capitalistiche, sono la fonte viva a cui attinge l’opera feconda di produzione in pace o l’impeto della difesa in guerra. La sorgente inesausta da cui zampillano i rivi d’oro ed anzi di biglietti e di assegni che mettono in moto le tremende macchine della guerra d’oggi è anche un’altra: è la fiducia che i popoli hanno in se stessi, la fiducia che hanno nell’onestà altrui nell’adempiere ai propri impegni, la persuasione profonda che i meccanismi creati dall’abilità e precipuamente dalla rettitudine di parecchie generazioni successive seguiteranno a funzionare correttamente e dolcemente anche durante la terribile crisi odierna. Una forza morale è il motore nascosto dalle grandi opere di pace ed è il motore nascosto della grande tragedia storica in mezzo a cui noi viviamo. La contemplazione quasi esclusiva, che siamo portati a fare in tempo di pace, dei problemi sociali, ci porta talvolta a conclusioni disperate sull’avidità e sull’egoismo gretto umano. La visione invece che nei giorni presenti ci si impone dal movimento complicatissimo di orologeria monetaria e bancaria da cui in sostanza è regolata la vita economica dei popoli, ci ammaestra quanto grande sia stato per fortuna il cammino compiuto dagli uomini sulla via dell’onestà, del fedele adempimento ai propri impegni, della fiducia reciproca e della rinuncia ai più gretti interessi particolari sull’altare della necessità collettiva. È doloroso che tanta energia di volontà e tanta forza di solidarietà sociale siano state spese per conseguire scopi che non a tutti appaiono nobili e grandi. Ma un insegnamento elevato possiamo ciononostante ricavare dallo studio dei metodi fragilissimi e quasi spirituali con cui si poté procedere alla adunata del nerbo pecuniario della guerra: che nel conseguimento dei nostri ideali nazionali più che la forza bruta dell’oro gioveranno la volontà determinata di ognuno di fare il proprio dovere, la decisione di avere fiducia in noi stessi, la solidarietà di tutti contro coloro che antepongono il proprio interesse all’interesse generale. In Italia, per la giovinezza della nostra formazione nazionale e per inevitabili errori commessi, abbiamo a nostra disposizione un meccanismo finanziario assai delicato e fragile; ma poiché da mezzi modesti si ottennero spesso nella storia risultati magnifici, ho ferma convinzione che, se saremo mossi dallo spirito di sacrificio, se saremo deliberati a non dare ascolto ai clamori di chi osa chiedere oggi aiuto allo Stato per sé, per i proprii affari e le proprie piccole cose, noi italiani riusciremo a trarre un rendimento apprezzabile dalla nostra ancor giovane macchina economica.

 

 

Se verrà l’ora del cimento supremo, e con questo augurio concludo, sappiano gli italiani anch’essi dar prova di quei sentimenti di fiducia in sé e negli altri e di tranquillo, sereno sacrificio che sono le sole, le vive, le fresche sorgenti del diritto alla vita ed alla espansione dei popoli consapevoli e forti.

 

 



[1] Né è probabile che i liberisti italiani rimangano persuasi di avere avuto torto nel combattere la fabbricazione in Italia della ghisa, o, meglio, la fabbricazione della ghisa a spese dei contribuenti, solo al leggere nella Rivista delle Società commerciali (31 ottobre 1914, p. 285) il commento che l’egregio ingegnere Lorenzo Allievi fa ai versetti 19/22 del capitolo VIII del libro I di Samuele. Sarebbe occorso invero che l’ing. Allievi dimostrasse che è più facile preparare in pace ammassi di 2 tonn. di minerale di ferro e di 1,5 tonn. di carbone – fatti venire dall’estero – che ammassi di 1 tonn. di ghisa, pure estera; ovvero dimostrasse che è più facile far venire in tempo di guerra per vie pacifiche o contrabbandare 3,5 tonn. della roba detta di sopra piuttostoché 1 tonn. sola di ghisa. Dimostrazione finora non data, e che si attende con curiosità dalla penna, per fermo maneggiata da un abile loico, dell’ing. Allievi. Quando egli l’avrà data per iscritto e quando altri l’avrà confermata coi fatti, gli economisti subito riconosceranno che la fabbricazione della ghisa è naturalissima all’Italia, l’unico criterio per dimostrare la naturalità di un’industria in un paese essendo il fabbricarla a proprio rischio e pericolo, senza chiedere il sussidio dei contribuenti.

[2] Cfr. Hartley Withers, The meaning of money. London, Smith, Elder, 1909, p. 63.

[3] Accenno, s’intende, nel testo soltanto agli scrittori di teorie economiche generali, dei quali la Germania, sovratutto la Germania contemporanea, è singolarmente povera; mentre può vantare specialisti insigni, e citerò per le cose monetarie solo lo Helfferich ed il Riesser, i quali si sono occupati, con molto successo, di qualche problema particolare. Noterò però essere mia impressione, forse erronea per manchevole conoscenza della sterminata letteratura economica, che il maggiore interesse è dato a questi ultimi scrittori di economia applicata dalla circostanza che essi sono, come lo Helfferich, invece di professori, direttori di banca o dirigono, come il Riesser, grandi organizzazioni economiche (Hansa Bund). Lo stuolo dei professori od aspiranti professori è serio, dotto; ma soporifero ed annegante, nella sistematicità e nel sussiego, ogni scintilla di pensiero creatore. Le monografie per concorso, di cui ognuno di noi si è reso colpevole sono la peste d’Italia; ma i Wagner e gli Schmoller ed i loro discepoli all’infinito sono forse qualcosa di peggio ed hanno impedito alla scienza economica tedesca contemporanea di prendere un posto paragonabile a quello dell’Inghilterra, degli Stati Uniti ed, oserò dire, dell’Olanda.

Di alcuni aspetti economici della guerra europea

Di alcuni aspetti economici della guerra europea

«La Riforma Sociale», gennaio 1915, pp. 865-899

«I Georgofili», Firenze, serie V, vol. XII, disp. 1, 1915, pp. 1-47

Studi di economia e finanza. Seconda serie, Officine grafiche della STEN, Torino,1916, pp. 61-97

 

 

 

 

(Lettura tenuta alla R. Accademia dei Georgofili di Firenze nella tornata del 6 dicembre 1914).

 

 

Fra i molti, la guerra europea avrebbe prodotto un effetto – significantissimo per noi che, fino al momento in cui rimaniamo in quest’aula sacra alla scienza economica ed alle sue applicazioni, dobbiamo sforzarci di considerare i fatti come se potessero essere soltanto oggetto di indagine oggettiva – e sarebbe, questo effetto, la mutazione dei valori scientifici normali. Più non varrebbero le leggi, le quali trovavano largo se non unanime consenso nei tempi di pace; e si dovrebbero scartare quelle opinioni o quei convincimenti scientifici che s’erano prima accolti.

 

 

L’esperienza nuova, mettendo dinanzi ai nostri occhi fatti nuovi, distruggerebbe il valore delle teorie ricevute, divenute improvvisamente vecchie, farebbe sembrare utili e ragionevoli provvedimenti di governo economico che prima si reputavano dannosi ed assurdi; e fornirebbe nuovi argomenti a coloro che hanno sempre irriso, ereticamente, ai principii insegnati dagli scrittori classici ed applicati da quegli uomini di governo, i quali ancor non si vergognavano di avere appreso sui libri le conseguenze degli errori commessi dai loro antecessori e le maniere di evitarli. Così si lesse su di una rivista la lettera di un egregio studioso, il quale confessava che la guerra aveva scosso i suoi convincimenti liberisti, incitandolo a passare nello stuolo, ahi! quanto folto, dei teorizzatori del protezionismo. Così si videro uomini, i quali pure affermavano di avere in passato plaudito agli sforzi perseveranti compiuti in Italia per restringere e quindi risanare la circolazione cartacea, farsi paladini fervidi di emissioni cartacee per somme di centinaia di milioni e di miliardi di lire, irridendo alle sterili e scolastiche proteste di quelli che consigliavano prudenza, quasi che l’ora turbinosa odierna potesse sospendere l’efficacia delle regole che in passato esperienza e scienza avevano concordemente poste come vere. E passo sopra al ricordo degli articoli accesi che si lessero durante il mese di agosto sui giornali quotidiani contro gli accaparratori e dei provvedimenti con cui a gara i Comuni attesero in quel memorabile mese ad imporre calmieri, o ad invocare perquisizioni e requisizioni forzate. Sono, questi ultimi, i frutti delle stagioni di orgasmo; e di essi aveva già fatta giustizia Alessandro Manzoni in quel capitolo della carestia a Milano, che ogni studioso di cose economiche dovrebbe considerare come una pagina classica della nostra letteratura scientifica.

 

 

Se non queste naturali risurrezioni di stati d’animo, che nessuno si era illuso fossero tramontati per sempre, essendo essi invece probabilmente eterni, come eterna l’impressionabile natura umana, sono invece degne di attento esame quelle manifestazioni più serie del pensiero contemporaneo, le quali fanno quasi pensare al crollo della scienza antica ed alla instaurazione di nuovi principii inspirati alla esperienza bellica odierna.

 

 

Non tanto perché questi siano tempi opportuni per impensierirsi della sorte più o meno lacrimevole di una qualsiasi disciplina scientifica; quanto perché la nostra è una disciplina la quale inspira o dovrebbe inspirare la condotta pratica degli uomini e può quindi diventare, pure nelle competizioni internazionali e nelle conquiste di ideali nazionali, un fattore di insuccesso, se essa si fa seminatrice di errori, o di vittoria, se essa sa indicare la via della verità.

 

 

Orbene, sembra a me che questa, la quale, come non è stata la prima così non sarà l’ultima guerra combattuta tra uomini, non abbia affatto avuto la virtù miracolosa di mutare in errori le verità scientifiche e di distruggere il valore di una disciplina faticosamente formatasi in parecchi secoli di elaborazione. Tanto varrebbe affermare che coloro che nelle sale di questa Accademia dei Georgofili disputarono nei secoli XVIII e XIX intorno alle leggi della ricchezza, precorrendo le scoperte di scienziati stranieri, che gli Adamo Smith, i Ricardo, i Mill, i Say, i Ferrara e gli altri fondatori e perfezionatori della scienza economica, non avessero mai saputo l’esistenza del fatto bellico; mentre essi non solo ne trattarono ma ne furono talvolta attori e ministri.

 

 

È illogico diventare protezionisti solo perché la guerra odierna sembra aver tramutati in campi chiusi quelle che erano finora economie aperte alle importazioni straniere. Coloro i quali additano ancora una volta la posizione della Germania e dell’Inghilterra rispetto all’approvvigionamento dei cereali e delle altre derrate alimentari ed affermano che la guerra ha provato l’errore commesso dagli inglesi per aver trascurato di erigere ai confini un’alta barriera doganale atta a proteggere l’impero dal pericolo della fame così come ha fatto la Germania, e reputano questa osservazione sufficiente a far traboccare il peso dalla parte del protezionismo nella lotta tra i due opposti principii, si rendono colpevoli di parecchie strane dimenticanze:

 

 

  • in primo luogo scordano che non esiste una scienza liberista o protezionista; ma soltanto una scienza economica la quale fa il calcolo dei costi e dei vantaggi delle diverse maniere di agire degli uomini e cerca di scegliere, con larga approssimazione pratica, quella maniera la quale, col minimo coste, conduca al massimo risultato possibile;
  • scordano ancora come da lunga pezza gli economisti scrivano e predichino che il modo più economico di produrre materiali bellici può essere la produzione interna sussidiata da dazi doganali; poiché è ben vero che il costo diretto e proprio può in tal modo riuscire più alto che all’estero, ma questa maggior spesa controbilanciata dal risparmio che si fa del ben maggior dispendio che si dovrebbe sostenere facendo venire affannosamente dall’estero i materiali bellici a guerra già scoppiata e della gravissima iattura nazionale e quindi anche economica da cui si sarebbe afflitti se riuscisse impossibile provvedersene;
  • che se gli economisti per lo più si sono rifiutati di assimilare il caso del frumento e delle derrate alimentari a quello dei materiali bellici, ciò accade perché essi non si erano persuasi finora che la bilancia della convenienza pendesse a favore della protezione doganale, pure rispetto al problema dell’approvvigionamento della popolazione in tempo di guerra;
  • che non è probabile che essi abbiano a persuadersi di siffatta opportunità al lume della odierna esperienza guerresca[1]; poiché non bisogna dimenticare, ad esempio, che in Germania quegli stessi giornali, che oggi esaltano gli approvvigionamenti tedeschi in confronto alla carestia inglese imminente, alcuni mesi fa, quando non avevano smarrita la loro bella e lucida capacità raziocinativa, esponevano i risultati di una serena inchiesta scientifica condotta nel seminario economico dell’Università di Monaco sotto la guida del professore Lujo Brentano, la quale principalmente persuadeva che gli alti dazi doganali avevano avuto come effetto di aumentare i prezzi della terra e sovratutto i prezzi della grande proprietà terriera, dove è minima la cultura mista, e massima la superficie destinata alla cerealicultura (cfr. il riassunto dell’inchiesta nella Frankfurter Zeitung del 23 giugno 1914). Ora, se questi risultati rispondono al vero, è manifesto che non l’alta protezione doganale, ma altre cause, assicurano l’approvvigionamento della Germania in tempo di guerra; poiché la protezione, innalzando il prezzo delle terre, e quindi affitti e quindi uno degli elementi del costo di produzione, fa sì che il coltivatore non abbia maggior convenienza a coltivar grano a 25 lire che a 20 lire, poiché il vantaggio delle 5 lire in più è eliminato spesso dal maggior fitto che occorre pagare per i terreni. Le preoccupazioni, che pare siano vive in Germania ed in Austria rispetto all’approvvigionamento proprio, dimostrano come la protezione doganale non sia riuscita a dare la sicurezza che essa prometteva ai popoli dell’Europa centrale in tempo di guerra;
  • che dall’esempio germanico, comunque esso possa essere giudicato, non è logico dedurre la conseguenza che anche l’Inghilterra dovesse cingersi di una forte barriera doganale per assicurarsi l’approvvigionamento dei cereali. Dopo le guerre napoleoniche il cannone non aveva più fatto sentire la sua voce nelle vicinanze delle coste britanniche, sebbene dall’abolizione delle leggi sui cereali in poi gli allarmisti avessero diuturnamente segnalato il pericolo imminente della carestia. Il problema si riduce a questo: sarebbe stato conveniente distruggere con una politica protettiva, continuata per altri 70 anni, centinaia, di milioni e forse miliardi di lire sterline di ricchezza per assicurare le necessarie provviste cerealicole agli inglesi del 1914 e del 1915? Se nessun altro mezzo più economico, più efficace fosse esistito per raggiungere cotal fine, altissimo poiché connesso col mantenimento dell’impero, nessun economista inglese avrebbe negato che le generazioni, le quali volsero dal 1840 al 1914, avevano il dovere ed anzi, ragionando a lunga scadenza, come è d’uopo fare agli uomini di stato, avevano interesse di promuovere la cerealicultura nazionale con adeguati dazi protettori. Se essi negarono e tuttora negano siffatta convenienza, fanno ciò perché ritengono che il mezzo sia inadeguato ed anzi contrario alla consecuzione del fine; e sanno che un altro mezzo è invece il solo possibile e conveniente. Quest’altro mezzo è l’esistenza di una flotta capace di serbare agli inglesi il dominio del mare; ed il dilemma non è tra: Dazi protettivi o carestia?; bensì tra Carestia malgrado i dazi doganali ovvero Dominio del mare mercé la flotta?

 

 

Se gli inglesi sono abbastanza ricchi e saldi d’animo da poter costruire e da voler possedere una flotta capace di serbar loro il dominio del mare essi non hanno da temere la carestia in patria. Come oggi accade, il dominio del mare, finché venga mantenuto, garantisce le provviste delle quantità sufficienti di frumento: nei due mesi di settembre ed ottobre 1914 la quantità di frumento importata nel Regno Unito fu di 5.004.683 quarters contro 3.929.081 nello stesso periodo del 1913 e 5.050.430 negli stessi mesi del 1912. Senza il dominio del mare, l’alta protezione doganale a nulla gioverebbe; poiché la deficienza o la distruzione della flotta vorrebbe dire per l’Inghilterra fiacchezza d’animo, incapacità di resistenza, e quindi pericolo imminente di invasione dell’isola da parte del nemico e scomparsa possibile dell’impero. Quindi il mezzo unicamente efficace per garantire l’alimentazione e, quel che più monta, la conservazione dell’impero, è per gli inglesi il dominio del mare. A questo scopo debbono gli inglesi tendere con tutte le loro forze; poiché, serbato quello, è sicura anche l’alimentazione del popolo; e quello distrutto, a nulla giovano le grosse provviste di cereali esistenti all’interno. Distrar le forze tra i due fini; aggiungere al sacrificio di 50 milioni di lire sterline annualmente sostenuto per la marina da guerra un altro sacrificio di 20 milioni per assicurare la produzione interna di una bastevole quantità di cereali, sarebbe stato un calcolo sbagliato. Poiché se gli altri 20 milioni si vogliono spendere, ciò significa che si ritiene la flotta impari all’ufficio suo di tener libere le vie dei mari; ché se si possono spendere, meglio sarebbe destinarli senz’altro all’aumento della flotta, unico mezzo, ripetasi, con cui l’impero può essere conservato.

 

 

Non solo inadeguati, ma benanco contrari al fine della conservazione dell’impero si appalesano inoltre i dazi protettori cerealicoli. Un impero non vive solo di fiducia – vedemmo quanto mal riposta – di possedere il cibo necessario a vivere. Vive sovratutto di vincoli ideali e morali. E chi non vede come il rincaro dei mezzi di sussistenza per le masse operaie e la consapevolezza che il rincaro è dovuto all’asserita necessità di conservare la grande posizione dell’Inghilterra nel mondo siano circostanze atte a fiaccare i sentimenti imperiali nelle masse, a far odiare l’impero come procacciatore di illeciti profitti ai proprietari di terre a grano, a far vedere quasi con segreta gioia la dissoluzione dei vincoli fra la madrepatria e le colonie, a considerare come un ideale di vita il tranquillo possesso dell’isola, senza ambizioni mondiali e senza rischi di gelosie da parte delle nuove politiche egemoniche, ben liete di non interessarsi dei casi di un’isola contenta della propria solitudine?

 

 

Dal che si vede che i veri rassodatori dell’impero inglese furono coloro che vollero la libertà degli scambi, mentre gli imperialisti fautori dei dazi e della politica preferenziale coloniale ponevano i germi del malcontento, della discordia e della dissoluzione dell’impero.

 

 

Ed ove si voglia anche tener conto di quell’elemento imponderabile di forza e di sicurezza che è la certezza di possedere in paese il frumento necessario per far vivere il popolo per 6 mesi, per 9, per un anno intero, perché non si ricorre al metodo delle riserve frumentarie, tenendo in pace sempre pronte un ammasso sufficiente di grani, così come si rafforza la riserva aurea degli istituti di emissione? L’interesse e l’ammortamento anche di un miliardo di lire immobilizzato nei magazzini alimentari non uguaglierebbe mai la collettività, della protezione cerealicola. E sarebbe un maschio guardare in faccia al pericolo; sarebbe un miliardo impiegato esclusivamente per scopo supremo della conservazione nazionale; né al costo suo si accompagnerebbe mai l’insidioso ed odioso vantaggio o sospetto del vantaggio per una classe privilegiata di produttori interni protetti.

 

 

Vedesi dunque che la guerra odierna non può avere per effetto di svalutare le ordinarie maniere del ragionare economico. Può dirsi invece che essa, per le sue caratteristiche di singolare vastità e quasi universalità, per la grandezza delle masse umane lottanti, per la grandiosità delle massime migrazioni armate di uomini, che mai siano state viste nella storia, per la copia dei mezzi finanziari che la sua condotta richiede, sottoponga alcuni dati nuovi all’indagine scientifica e costringa gli studiosi ad esaminarli con mente ingenua e candida lontana così dalla preoccupazione di accasellare i fatti nelle vecchie buche, le quali potrà darsi siano troppo strette per riceverli, come dalla mania frettolosa di buttare a terra l’antico edificio, col pretesto che esso è troppo angustamente costrutto per potere in sé accogliere la nuova esperienza. In verità la scienza economica, è in continua trasformazione; e come tutte le altre discipline, e forse più di molte altre, essa viene col tempo via via perfezionandosi, ed adattandosi alle nuove manifestazioni di vita della pur sempre eternamente simile a se stessa natura umana. Ciò accade già per molti aspetti della vita economica: cinquant’anni fa a stento i trattati di economia discorrevano di coalizioni tra commercianti ed industriali per tenere alti i prezzi; mentre nei trattati moderni si leggono capitoli e teoremi assai eleganti intorno ai consorzi industriali, volgarmente conosciuti sotto il nome di trusts o sindacati. Se farà d’uopo e se la guerra avrà messo in risalto fatti nuovi e principii modificatori dei vecchi, non v’è dubbio che di quei fatti e di quei principii risentiranno le trattazioni dell’avvenire. Per ora ogni tentativo di ricostruzione sarebbe prematuro; poiché le conseguenze economiche della guerra stanno ancora svolgendosi e si può dire che siano appena al principio delle loro vicende.

 

 

Potrà darsi che i teorizzatori dell’avvenire riconnettano questo grandioso fenomeno bellico al periodo di rivulsione economica incominciato da alcuni anni dopo il grande periodo di prosperità e di ascensione che si ebbe dal 1895 al 1910; e potrà darsi che la guerra debba aggravare la depressione che pareva essersi già iniziata in questi ultimissimi anni. Ma, se anche si potranno trovare i legami ideali fra le variazioni economiche od il succedersi dei periodi di pace e di guerra, sarà ben difficile che il rapporto abbia ad esser quello semplicista, che discenderebbe dalla cosidetta teoria del materialismo economico, intorno alla quale questo di interessante si può forse ancora dire: ed è che si adopera una locuzione imprecisa, dicendo quella essere una teoria «economica» quasi che l’essersi gli economisti, per necessità di divisione del lavoro e di rigore nelle indagini, limitati allo studio dei fatti economici, avesse voluto significare che essi considerassero il fatto economico come il più importante di tutti, ed il primigenio od il determinatore degli altri fatti umani. No. Questa non è una teoria economica; e forse non è neppure una teoria; è un modo di riscrivere la storia, mettendo prima certi fatti, affermati economici, e dopo certi altri, detti politici, religiosi, militari, giuridici ed affermando, in guisa affatto gratuita e non provata, che i secondi discendono dai primi e che l’interesse delle classi dominanti od altri simili moventi economici spiegano gli avvenimenti della storia umana. Teoria, sul cui fondamento sarebbe un fuor di luogo discorrere qui; ma che in ogni modo non fa certamente parte di quel complesso di verità che si sogliono designare col titolo di «scienza economica» e che, essendovi affatto estranea questa, non può quindi pretendere alla dignità di teoria economica della storia. È solo un nuovo modo di scrivere la storia, utile forse, di fronte al pubblico grande dei lettori, a scopo di reazione contro altre maniere antistoriche di narrare i fatti umani ed a cui aderirono taluni storici di professione o sedicenti tali, per lo più perfettamente digiuni di nozioni economiche, ai quali non parve vero di conquistare una facile superiorità sui loro colleghi, adoperando delle parole apparentemente difficili, come «interesse economico» «sostrato economico» «capitalismo» «borghesia» «proletariato» e via dicendo, parole per lo più prive di qualunque precisa significazione economica; modo però, dal quale profondamente dissentono appunto molti degli economisti, che con amore e candore cercano di penetrare dentro nei più riposti moventi dell’azione economica degli uomini.

 

 

Le quali cose dette intorno ad una dottrina, vecchia appena di alcuni decenni ed oggi già così remota dal nostro spirito, spiegano la mia avversione verso quei sapienti, i quali, indugiandosi a ricercare le cause economiche della odierna guerra europea – indagine perfettamente legittima, quando la si compia modestamente persuasi di andare alla scoperta di una parte sola, di una parvenza, forse fuggevole, della complessa verità – affermano senz’altro che essa fu determinata dal bisogno dell’Inghilterra di impedire il crescere rigoglioso dei rivali tedeschi nelle industrie e nei traffici o della Germania di elevare viemmaggiormente la propria fortuna economica sulla rovina dell’economia britannica. Quelli che così discorrono partono, necessariamente, sebbene inconsapevolmente, da una premessa: che gli industriali ed i commercianti dei due paesi avversari siano capaci di ragionare intorno alla utilità ed alla possibilità di conseguire il fine propostosi, che essi sappiano fare i loro conti intorno ai costi ed ai profitti dell’opera desiderata di distruzione dell’economia avversaria e finalmente che essi sappiano distinguere fra effetti immediati ed effetti remoti delle proprie azioni.

 

 

Queste son premesse necessarie, ove non vogliasi ammettere che i moventi bellici di distruzione delle economie inglesi o tedesche fossero peculiari a coloro che non sanno fare ragionamenti economici, che non partecipano alla direzione delle imprese industriali e commerciali ed attendono a scrivere spropositi su per le gazzette quotidiane, allo scopo di solleticare le passioni e le ingordigie delle folle analfabete. Può darsi ed è anzi probabile che così sia: che cioè gli unici ad immaginare la convenienza e la possibilità di distruggere, colla guerra, le industrie ed i commerci dei paesi avversari siano precisamente stati coloro che non furono mai a capo di intraprese economiche, che coi teoremi economici ebbero mai sempre scarsissima famigliarità che conobbero unicamente l’industria dello scrivere articoli desiderati e pregiati per la rispondenza momentanea alle mille e mille passioni, nobili e sordide, elevate e basse, ideali e materiali, tumultuanti nel cuore degli uomini. Ma è chiaro che così non si scrive la teoria delle cause economiche

della guerra; sibbene dalle mille e mille passioni, chiare ed oscure, consapute e subcoscienti le quali concorsero a determinare lo scoppio della guerra e ad acuire le quali può aver contribuito la idea, circonfusa di vaga nebbia, che la distruzione della economia avversaria fosse economicamente utile e possibile.

 

 

In verità, la guerra odierna ancora una volta ha dimostrato che gli uomini sono mossi ad agire da idee, da sentimenti, da passioni, non certo da ragionamenti economici puri. Perché ben si sapeva e lo sapevano gli inglesi ed i tedeschi più colti delle classi industriali, bancarie e commerciali che essi non avevano nulla da guadagnare da una distruzione rapida delle economie rivali, quale poteva essere prodotta dalla guerra, che la guerra non avrebbe tolto le ragioni profonde le quali avevano prodotto la grandezza economica del rivale e che il mezzo più economico e più efficace per giungere alle desiderate conquiste era il continuo perfezionamento di se stessi e la sperata spontanea decadenza dell’avversario.

 

 

Sapevano i tedeschi:

 

 

  • che le cagioni della propria mirabile ascensione economica erano riposte nella ricchezza del proprio sottosuolo, nella conformazione del proprio territorio tutto intersecato da vie d’acqua navigabili, e sovratutto nel proprio sforzo perseverante, organizzato, fornito di tutti i sussidi più moderni della scienza, sforzo che strappa grida di ammirazione, quando se ne leggono i fasti nei libri degli inglesi e dei francesi, additanti ai propri connazionali l’esempio di tanta energia feconda;
  • che essi, per crescere vieppiù, avevano bisogno di vendere maggiormente i prodotti delle proprie industrie agli stranieri ed avevano necessità perciò di avere attorno a sé popoli ricchi, laboriosi, non impoveriti da guerre o costretti a disperdere le proprie energie in continui sforzi di rivolta contro il dominio straniero;
  • che in particolar modo avevano bisogno del mercato britannico, metropolitano coloniale, il più vasto, il più ricco mercato del mondo, l’unico aperto agevolmente a tutte le provenienze;
  • che essi avevano d’uopo di non rinfocolare con una guerra, il cui esito era perlomeno incerto, in Inghilterra e nelle colonie quel sentimento di ostilità verso lo straniero, che finora aveva soltanto prodotto in alcune colonie alcuni timidi ed inefficaci saggi di dazi preferenziali contro i prodotti esteri ed aveva contro di sé, quasi invincibile, il solido buon senso delle masse britanniche;
  • che una guerra anche fortunata avrebbe costato tali e così colossali sacrifici, avrebbe prodotto tale arresto nella vita economica della Germania da mettere grandemente in dubbio la possibilità di trovare un adeguato compenso in un futuro anche lontano dall’impossessarsi, ancor più incerto, di colonie che l’Inghilterra conserva solo perché non ne trae alcun tributo né diretto né indiretto – neppure l’India paga alcun tributo alla madre patria, neanche sotto forma di dazi preferenziali – e verso cui la Germania sarebbe stata incapace, per l’inaridimento oramai ventennale delle sue correnti emigratorie, di inviare fiotti di emigranti atti a sommergere il fondo britannico della popolazione.

 

 

Sapevano d’altro canto gli inglesi:

 

 

  • che l’ascensione economica germanica non aveva tolto ad essi alcun mercato; anzi ne aveva cresciuto uno, quello germanico, prima povero ed oggi crescente di ricchezza e di capacità di assorbimento;
  • che mai fortuna maggiore all’industria inglese era capitata della cosidetta invasione del made in Germany nella loro isola, nelle loro colonie e nei mercati prima monopolizzati dall’Inghilterra. Prima che l’invasione del made in Germany fosse avvertita e si gridasse all’allarme contro la rovina dell’industria inglese, questa decadeva sul serio. Si era addormentata sugli allori. I capi tecnici inglesi più non studiavano. Forse non avevano mai studiato a fondo i principii della scienza tecnica; ed era poco male finché l’abilità pratica serviva a tutto. Divenne un pericolo gravissimo quando i tedeschi dimostrarono al mondo quali vittorie meravigliose si possono conseguire con le applicazioni industriali dei principii teorici. Quando gli inglesi scopersero che essi decadevano e che i tedeschi crescevano, vi fu chi predicò il verbo decadente della muraglia cinese, consigliando di circondare il proprio paese e le proprie colonie di dazi protettori, per impedire colla forza alle merci tedesche di invadere il mercato britannico. Ma, per fortuna dell’Inghilterra, la parola di Chamberlain fu ascoltata solo in quanto essa era maschia ed incitatrice, non in quanto avrebbe finito per addormentare. Gli inglesi videro che colla forza non si conservano le ricchezze e la potenza, che furono create dal lavoro, dallo sforzo; e memori di ciò che essi avevano saputo compiere in passato, fondarono scuole tecniche, istituirono facoltà di commercio, si persuasero che un culto maggiore della scienza avrebbe giovato anche ai loro industriali troppo invecchiati nelle pratiche isolane. I frutti già si vedono nelle cifre del commercio internazionale:

 

 

Importazioni Riesportazioni Import. nette Esportazioni
Amm. Totale per abitante Amm. Totale per abitante Amm. Totale per abitante Amm. totale per abitante
ANNI
1855/59

169

6. 0.3

23

0.16. 7

146

5. 8. 7

116

4. 2. 4

1870/74

346

10.17.2

55

1.14.10

291

9. 2. 4

235

7. 7. 3

1895/99

453

11. 6.5

60

1.10. 2

393

9.16. 4

239

5.19.10

1900/04

533

12.14.8

67

1.12. 2

466

11. 2. 6

290

6.18. 1

1905/09

607

13.17.8

85

1.18.11

522

11.18. 9

377

8.12. 6

1910

678

15. 2.1

104

2. 9. 1

574

12.15.10

430

9.11. 8

1911

680

15. 0.4

103

2. 8

577

12.15. 0

454

10. 0. 7

1912

745

16. 6.8

112

2. 6. 3

633

13.17. 7

487

10.13. 6

1913

769

16.14.1

110

2. 5. 4

659

14. 6. 5

525

11. 8. 2

 

 

Dopo l’espansione grandiosa che dal 1855/59 al 1870/74 portò le importazioni lorde da 169 a 346 milioni di lire sterline, le importazioni nette da 146 a 291, e le esportazioni da 116 a 235, era parso si verificasse davvero una stasi nell’economia britannica. Limitandoci soltanto alle importazioni al netto dalle riesportazioni ed alle esportazioni di prodotti britannici, gli statisti, gli economisti, gli industriali britannici avevano osservato con melanconia che, mentre la Germania progrediva vertiginosamente, l’Inghilterra rimaneva stazionaria, anzi regrediva, dopo l’acme raggiunto nel 1873. Le due cifre estreme sono date dai quinquenni 1870/74 e 1895/99. Le importazioni nette erano appena cresciute da 291 a 393 milioni di lire sterline e da L. 9.2.4 a L. 9.16.4 per abitante; e, se le esportazioni erano cresciute di una quantità minima in cifre assolute da 235 a 239 milioni di lire sterline, erano però diminuite relativamente da L. 7.7.3 a L. 5.19.10 per abitante. In questo regresso aveva parte il gioco dei prezzi calanti nell’ultimo quarto del secolo XIX, ma restava sempre un nucleo solido di verità amara e sconfortante.

 

 

Fu quello il momento psicologico dell’imperialismo chamberlainiano; il quale predicò la necessità di chiudere l’impero all’invasione dei prodotti stranieri, principalmente tedeschi, e di trovare nella coltivazione intensiva ed esclusiva del proprio giardino un compenso alle perdite subite sui contrastati mercati del mondo esteriore. L’attuazione della parola imperialista sarebbe stata l’inizio ella dissoluzione ed avrebbe giustificato le rampogne acerbe degli scrittori tedeschi, i quali rimproverano all’impero inglese di essere sorto e di conservarsi con la menzogna, con la frode e con la maschera vuota di una forza che interiormente non esiste. L’impero aveva ed ha ancora in se stesso le ragioni della sua vita; e ne è prova il fatto che la parola dello Chamberlain, non ascoltata in quanto predicava il vincolismo mortifero delle tariffe doganali, scosse, eccitò, fece riflettere e spinse all’azione le dormienti forze britanniche.

 

 

Quante volte i sogni degli uomini rappresentativi si avverano in modo diverso da quello che essi avevano immaginato!

 

 

Il principio del secolo ventesimo segna una ripresa nel commercio internazionale inglese. Le importazioni nette da 393 milioni di lire sterline nel 1895/99 salgono in cifre assolute a 466 nel 1900/904, a 522 nel 1905/909 e a 659 nel 1913, mentre passano – cito solo le cifre estreme – da L. 9.16.4 per abitante nel 1895/99 a L. 14.6.5 nel 1913. Le esportazioni, rimaste per un quarto di secolo stazionarie in cifre assolute, da 239 milioni nel 1895/99 salgono a 290 nel 1900/904, balzano a 377 nel 1905/909, e si portano a 525 nel 1913, mentre in cifre relative i due estremi sono L. 5.19.10 per abitante nel 1895/99 e L. 11.8.2 nel 1913. Anche qui influisce, come del resto in tutti i paesi del mondo, il gioco dei prezzi crescenti dopo il 1894/95; ma quanto innegabile fervore di rinnovata giovinezza e di nuovo slancio industriale!

 

 

Ora, è indubbio che di questo risveglio gli inglesi sono debitori in gran parte al pungolo della concorrenza tedesca. Se la Germania non avesse minacciato davvicino la loro supremazia industriale, se anzi in molti campi essa non si fosse indubitatamente messa alla testa di tutti i paesi del mondo, gli inglesi potrebbero ancora vantarsi di essere i primi. Ma sarebbe ben misero vanto, conservato a prezzo della propria decadenza.

 

 

Come si può affermare che gli uomini rappresentativi dei due paesi, dotati di vigor di pensiero e di azione, potessero sul serio pensare di avvantaggiare il proprio paese, costruendo, sulle rovine di una guerra, un monopolio tedesco od un monopolio britannico? Che in questa guisa si raggiunga la ricchezza e la forza lasciamolo pensare agli scribi della stampa gialla, moltiplicatisi in guisa abominevole anche a Londra ed a Berlino; che la cupidigia cieca di arricchirsi spogliando e rovinando e dominando altrui sia stato uno degli argomenti a cui i ceti dirigenti credettero opportuno di ricorrere per rendere simpatica alle folle incapaci di ragionare una volontà di guerra che già preesisteva in essi per altre ragioni, forse sbagliate, ma in ogni caso ben diverse ed, in molti uomini, più ideali od elevate, è facile ammettere; che la diffusione di una letteratura libellistica di quart’ordine, pullulante di sofismi economici le mille volte confutati, di statistiche artefatte, di incitamenti grossolani ad arricchirsi sulle spoglie altrui sia stata un’arte di governo usata per rendere popolare una causa a menti incapaci di comprenderne le giustificazioni – reali od immaginarie che queste fossero – più profonde e più umane, si può riconoscere. Ma che da questi miseri argomenti siano state indirizzate sulla via della guerra due grandi nazioni, le cui classi dirigenti si formarono pure alla scuola dei maggiori pensatori che il mondo odierno ammiri, è un assurdo inconcepibile.

 

 

Purtroppo, ora che la guerra è scoppiata, la stampa britannica e quella tedesca vanno a gara, quasi senza eccezione, nel discorrere in modo da far ritenere agli spettatori neutrali che i due grandi paesi siano stati davvero mossi alla guerra da motivi sordidi e, quel che è peggio, impossibili a raggiungersi in guisa apprezzabile e permanente. Risuona in quasi tutta la stampa inglese, col Times alla testa, un grido che sembra di riscossa ed è di odio: capturing the german trade, impadroniamoci del commercio tedesco!

 

 

Pochissimi giornali conservano la capacità di esaminare, a mente fredda, la difficoltà enorme e forse, nei più dei casi, la inanità dell’impresa; e fra questi mi piace ricordare l’Economist, il quale dallo studio accurato dei fatti economici del suo paese trae sempre nuovi argomenti a serbar fede alle sue gloriose tradizioni cobdenite. E risponde in Germania il grido di guerra: für die Ausschaltung London’s als Clearinghaus der Welt, spogliamo Londra della sua posizione di stanza di compensazione mondiale! Persino la Frankfurter Zeitung, per solito, in tempi normali, dotata di tanto spirito critico verso gli errori commessi od immaginati nel suo proprio paese, si unisce al coro di quelli che, mentre il marco deprezza e perde più del 10% in confronto all’oro, farneticano di sostituirlo alla lira sterlina; ed appena alcune riviste speciali (ad es. Die Bank) osano in Germania additare le difficoltà grandissime dell’assunto.

 

 

Trattasi, finora, in gran parte di vittorie e di distruzioni operate sulla carta. Gli industriali inglesi, in ben altre faccende affaccendati, si ostinano a non vedere la convenienza di fare impianti atti a sostituire le produzioni tedesche; e ben pochi d’altro canto sono coloro che ricorrono oggi ad Amburgo od a Francoforte per eseguire i proprii pagamenti all’estero. Formidabili sono invero le difficoltà che si frappongono ad ambi i paesi in questi tentativi di rovinare l’avversario.

 

 

Può essere facile autorizzare con una legge d’occasione l’industriale inglese ad utilizzare il brevetto di una invenzione tedesca mercé il semplice pagamento di un equo canone da fissarsi dalle corti giudiziarie britanniche. Ma è legittimo il dubbio se non fosse assai più conveniente all’industriale inglese pagare un alto canone, liberamente convenuto, in tempo di pace piuttostoché un equo, ossia basso canone, estorto colla violenza, in tempo di guerra; e forse è anche dubbio se non convenisse di più all’industriale inglese fare a meno del brevetto tedesco e tentare di raggiungere, con mezzi indipendenti di ricerca e di esperimento, la possibilità di produrre la merce venduta a buon mercato dal produttore tedesco.

 

 

Perché, l’acquisto in tempo di pace, ad alto canone, del diritto di usare il brevetto tedesco, avrebbe significato per l’industriale inglese:

 

 

  • la possibilità di accordi per la vendita dei prodotti in determinate zone;
  • l’aiuto di un personale scelto, tecnicamente capace di collaborare alla formazione degli impianti ed all’uso dei processi industriali brevettati; senza di che la semplice conoscenza del brevetto molte volte può essere vana.

 

 

L’impossibilità eventuale dell’acquisto del brevetto tedesco sarebbe stato uno stimolo a sperimentare, a cercare il modo di resistere alla concorrenza del brevetto altrui. Quanti progressi industriali non si sono compiuti appunto perché uomini energici, laboriosi, tenaci si trovarono di fronte alla concorrenza di produttori venuti prima e ne ricevettero stimolo ad emularli, tentando vie nuove, sperimentando nuovi processi e vincendo così le posizioni avversarie acquisite! Solo per tal via vinsero i tedeschi; ed alcune delle più segnalate vittorie industriali britanniche sono dovute al medesimo spirito di iniziativa. Testimone del primo processo l’industria delle calzature, la quale dieci anni fa languiva e sembrava dovesse rimanere sommersa sotto il fiotto crescente delle scarpe nordamericane, svizzere e tedesche. Oggi i fabbricanti inglesi di calzatura, avendo pagato a caro prezzo il diritto di servirsi dei brevetti stranieri ed avendone ottenuti dei proprii, hanno riconquistato il mercato nazionale e sono ridivenuti un fattore non trascurabile nelle competizioni internazionali. Tutta l’industria irlandese delle costruzioni marittime fu creata a Belfast da un uomo, il quale seppe dal nulla far sorgere un gran centro industriale, il quale vince spesso i più famosi cantieri dell’Inghilterra; né io so perché, mentre si ricorda sempre, ed a ragione, Amburgo e se ne pronosticano le vittorie sui cantieri inglesi, non si ricordino le vittorie, non meno gloriose, di Belfast città inglese in terra irlandese, contro i più antichi costruttori del suo stesso paese.

 

 

Mentre non si vedono dunque insormontabili difficoltà ad usufruire dei brevetti tedeschi in tempo di pace, od almeno non ci sono difficoltà insormontabili dall’ingegno, dall’energia, dalla capacità organizzatrice – e senza queste qualità come si può sperare di catturare alcunché ed anzi di non perdere il già acquisito? – paiono davvero gravissimi gli ostacoli ad usare i brevetti medesimi, divenuti accessibili in tempo di guerra a mite canone. Se non vi è quasi nessun industriale serio inglese, il quale segua a questo riguardo le ammonizioni della stampa quotidiana, ciò dipende:

 

 

  • dal fatto che in tempo di guerra i capitali privati non si dirigono volontieri alle industrie, neppure a quelle che i giornali descrivono come feconde di profitti illimitati. La diffidenza è lo stato d’animo normale dei lettori di tutti i giornali in tutti i paesi del mondo in tempo di guerra; e la diffidenza cresce a mille doppi quando si sente dire che il paese non deve consacrare tutti i suoi sforzi al dovere di difendere o far più grande la patria sui campi di battaglia. L’appello ai risparmiatori riesce quando è rivolto, a nome della patria, da chi la rappresenta, allo scopo di apprestare i mezzi materiali della condotta della guerra. Ma non si sente e lascia freddi quando l’appello proviene da un industriale, il quale crede essere quello di guerra il momento opportuno per allargare i proprii impianti ed accrescere i proprii profitti;
  • dalla circostanza che le banche hanno interesse ed obbligo di limitare i proprii fidi all’industria. In un momento, in cui le banche hanno strettissimo dovere di pensare alla liquidità dei proprii investimenti, non è ragionevole, né sarebbe conveniente nell’interesse generale, che le banche fornissero fondi per l’impianto di nuove imprese industriali;
  • dalla incertezza intorno alla possibilità di potere conservare dopo la guerra il godimento delle invenzioni altrui ai canoni equi o bassi fissati dalle corti giudiziarie. Ciò sarebbe contrario all’equità ed alla convenienza stessa dei paesi ritornati in amichevoli relazioni di pace. Chi osa iniziare una intrapresa sulla fragile base della ingiustizia e del latrocinio?
  • dalla quasi impossibilità di poter adunare, in tempo di guerra, i fattori umani necessari al successo dell’intrapresa. Gli uomini migliori, i più validi, anche laddove non esiste la coscrizione obbligatoria, e sono tenuti ben cari dai loro vecchi principali, ovvero sono sotto le bandiere. Non si può impiantare una industria nuova, servendosi della gente disoccupata, che non ha voluto o non ha potuto arruolarsi. Né si improvvisano le maestranze; non si imparano d’un tratto i delicati e segreti processi industriali altrui; non si gittano somme colossali, capaci di fruttare un alto tasso di interesse, in sperimenti che forse saranno svalutati dalla pace.

 

 

Non meno formidabili sono le difficoltà che si frappongono ai tedeschi nell’opposta impresa con cui essi ritorcono il grido economico di guerra degli inglesi. È certo che Londra, in conseguenza della guerra, perde centinaia di milioni e, forse miliardi di compensazioni che prima si effettuavano attraverso alle sue banche, alle sue case di accettazione, alle sue borse. Già al 25 novembre le compensazioni della City di Londra erano scemate in confronto all’anno scorso di 1.249.202.000 L.st.; più di 31 miliardi di lire nostre; ed alla fine della guerra la perdita avrà toccato altezze vertiginose. È certo che le draconiane norme di sequestro contro i nemici del Re d’Inghilterra non giovano a procacciare popolarità a Londra e saranno considerate in avvenire come un rischio delle compensazioni eseguite attraverso quella piazza. Ma le perdite di Londra non vogliono dire guadagni di Amburgo. Perché una città possa assurgere al posto di stanza internazionale delle compensazioni, non basta che alcune banche di quella città, sia pure tra essa compresa la banca di emissione, si mettano in rapporto con le banche degli altri paesi e si industriino a compensare i pagamenti che il paese deve fare all’estero con i pagamenti che esso dall’estero deve ricevere. Tutto ciò è troppo elementare e fin dalle scuole secondarie gli studenti imparano il diagramma che serve a spiegare il meccanismo delle compensazioni. Non furono però le lezioni dei professori o gli articoli di riviste che crearono le città di compensazione. Venezia prima e Londra oggi sono state il frutto di una lunga e delicatissima formazione storica, compiutasi a traverso secoli di sforzi, di adattamenti, di abilità, mercé un complesso singolare di attività industriali, commerciali, marittime, bancarie, che finora nella storia forse si realizzò solo a Venezia ed a Londra. Non a caso, e non per astuzia propria e dabbenaggine altrui Londra è oggi il centro delle compensazioni mondiali. Perché quell’antro potesse formarsi fu necessario che Londra diventasse e continuasse ad essere un grandissimo centro di affari, dove fanno capo numerose linee di navigazione, da cui si diramano ed a cui giungono i fasci più spessi dei cavi transmarini, e da cui attendono un cenno per proseguire i loro viaggi o cambiar rotta masse grandiose di merci.

 

 

Fu d’uopo che si formasse a Londra un centro bancario di primissim’ordine dotato di una liquidità non avente la pari in nessun altro paese, senza immobilizzazioni industriali tipo germanico, con miliardi di risparmio ognora disponibili per consentire appunto il funzionamento regolare della macchina delle compensazioni; che in questo centro bancario le funzioni fossero specializzate in guisa da consentire la vita a numerose case di accettazione, per lunga tradizione di decenni divenute abilissime nell’unica funzione di accettare tratte estere e presentarle allo sconto alle banche propriamente dette.

 

 

Fu d’uopo, che, grazie all’opera specializzata delle case di accettazione ed all’aiuto dei fondi disponibili delle banche, si potesse passar sopra all’ostacolo che, nei piani ingenui di stanze di compensazione, i quali vanno pullulando un po’ dappertutto, in Germania, in Italia, negli Stati Uniti, nella Svizzera è spesso insormontabile, ossia la mancanza della unicità:

 

 

  • del tempo;
  • del luogo;
  • della valuta.

 

 

Non basta invero che l’Italia debba all’estero 1 milione e sia in credito di 1 milione per potere compensare le due partite. La compensazione non è possibile se la scadenza delle due partite non si verifica nello stesso giorno. Il che basta a spiegare come tutti tendano ad effettuare le proprie compensazioni attraverso Londra, dove, appunto perché essa è la piazza universale dei pagamenti, sempre accade che il requisito della unicità del tempo possa raggiungersi, e dove, se per caso in un dato giorno non si ha, esiste una massa di mezzi creditizi grandiosa, specializzata appunto nel compiere la funzione di fornire all’uno la divisa estera richiesta, mentre se ne attende l’arrivo da altra parte.

 

 

Non basta ancora che il debito ed il credito si eguaglino nello stesso momento, quando il debito dell’Italia è verso la Russia ed il credito verso l’Argentina. Occorre una piazza unica dove affluisca il commercio delle divise di tutto il mondo, affine di effettuare le compensazioni colla minima fatica, al minimo costo. Due o tre grandi piazze potrebbero compiere ugualmente questo lavoro; ma ad un costo cresciuto. Il che non può durare in un commercio, in cui, in tempi normali, si lavora su margini minimi, talvolta di pochi centesimi.

 

 

Ed infine non basta che i debiti ed i crediti si uguaglino per ragion di tempo e di luogo; facendo d’uopo che si eguaglino altresì per ragione di valuta. Le compensazioni non si fanno, senza stento, tra lire e franchi, fra pesos e dollari, fra marchi e corone. Occorre che le divise siano espresse in un’unica moneta, se si vogliono ridurre i costi e facilitare le compensazioni. E sta di fatto nel momento presente che la lira sterlina è l’unica moneta la quale sia accettata da tutti, in tutti i paesi, da popoli civili e da popoli barbari, da europei e da americani, da inglesi orgogliosi della propria superiorità e da tedeschi ardenti dal desiderio di distruggere quella superiorità.

 

 

Non a caso. Anche la lira sterlina è una formazione storica posteriore alle guerre napoleoniche. È passato ormai un secolo, da quando gli uomini si sono persuasi che la lira sterlina era l’unica moneta la quale sempre, in qualunque momento, di pace e di guerra, di tranquillità o di torbidi interni, qualunque partito fosse al potere, qualunque fossero le fantasie legislative del giorno, era permutabile, a richiesta e subito, in un dato peso d’oro; d’oro e non d’argento non di carta. Ancora nella guerra odierna, il signor Lloyd George, il quale pure troppe volte ha peccato indulgendo alla mania del colossale, dei bei colpi, delle deliberazioni tragiche, dei piani geniali e complicati, si è arrestato ossequente dinanzi a questa grande formazione storica britannica che è la lira sterlina. La rinuncia alle tradizioni paesane, che è così dolorosa nella condotta di taluni uomini politici inglesi e che ha fatto dubitare molti della loro capacità di conservazione dell’impero, non ha toccato questa che la più paesana ed insieme la più universale tradizione della City: la convertibilità della lira sterlina in oro. Se Londra conserva oggi e conserverà per degli anni ancora la posizione di stanza di compensazione mondiale, essa deve cotal privilegio inapprezzabile alla persuasione che gli uomini hanno essere Londra l’unica piazza dove si può in ogni istante sapere quanta sia la quantità di oro che le varie divise estere possono comprare.

 

 

Non vuolsi dire con ciò che il privilegio di Londra debba essere eterno ma solo che quel privilegio non lo si scalza con i gridi di guerra stampati contro l’egoismo e il monopolio britannici. Quando Amburgo o quando Milano o New York avranno saputo creare attorno a sé tale un complesso di organizzazioni commerciali marittime, bancarie, creditizie, che le compensazioni internazionali si potranno operare con risparmio di qualche ora o di qualche frazione di centesimo eseguendole presso di loro invece che presso Londra; quando da alcuni decenni gli uomini dell’America e della Cina, dell’Africa del Sud e del Canadà, dell’India e dell’Australia, dell’Asia Minore e del Giappone si saranno persuasi, e volontariamente persuasi, che il marco tedesco, la lira italiana ed il dollaro americano sono monete altrettanto e forse più universali della lira sterlina, allora sarà suonata l’ultima ora della supremazia di Londra come stanza delle compensazioni internazionali. Ma sarà suonata perché i tedeschi ad Amburgo, ovvero gli italiani a Milano, ovvero i nord americani a New York, avranno saputo dar vita ad una formazione storica più bella, più economica di quel che non sia oggi la londinese sterlina. In quel giorno la sconfitta della lira sterlina sarà un vanto per i tedeschi o gli italiani od i nord americani, ed un vantaggio per gli altri popoli. Oggi è forse una impossibilità e sarebbe certo un danno per tutti.

 

 

Consentitemi che io mi indugi ancora su questi fatti monetari. La guerra europea, fra i suoi parecchi interessantissimi effetti, ha avuto questo: di ridare nell’opinione comune ai diversi fatti economici quello stesso valore di prospettiva che essi avevano fin da prima nella mente dello studioso professionale. È certo che, per questi, i problemi più belli, più affascinanti, i problemi che hanno più genuino e schietto sapore economico non sono quelli che, per distinguerli approssimativamente, si possono chiamare problemi sociali, sibbene quegli altri che hanno tratto ai prezzi, alla moneta, alle banche, al tasso dell’interesse, dello sconto e del cambio, al commercio ed ai pagamenti internazionali. I problemi sociali hanno questo di caratteristico per l’economista: che essi affogano nel mare infinito delle chiacchiere, danno luogo al succedersi di teorie variopinte, tutte uguali per la loro imprecisione, la loro inafferrabilità e la loro inconcludenza. È una folla quella che ragiona e discute e si accapiglia per le diverse soluzioni dei problemi sociali; e l’economista rimane confuso, con suo scorno e mortificazione grandi, nella folla degli uomini qualunque, perché egli poco ha da dire che suppergiù non sia sentito dagli altri. Quando invece il discorso volge alla moneta, allo sconto, all’aggio, ai pagamenti internazionali, l’economista vede d’un subito diradarsi le turbe attorno a lui, ed i mercanti lasciarsi docilmente cacciar fuori dal tempio, perché egli possa, nella sua vastità nuda, lietamente discettare con proprietà di linguaggio e rigore di metodo insieme con i pari suoi, che hanno durato lunghe veglie per penetrare a fondo nei problemi più momentosi del mondo economico. Ma in questa solitudine un rimpianto acerbo lo affanna: che le moltitudini non comprendano l’importanza dei fatti che a lui interessano tanto, che le masse non vedano che un buon regime monetario vale per la loro prosperità economica, per il miglioramento dei loro salari, per la regolarità della loro occupazione ben più che non una legislazione sociale anche governata da una sapiente burocrazia tipo germanico; che i risultati possibili ad ottenersi a serie fortunata di scioperi e di agitazioni sono una misera cosa in confronto ai vantaggi che si possono ottenere con l’abolizione del corso forzoso, con un perfetto ordinamento degli istituti di emissione, con l’abolizione dei dazi protettivi e la conservazione di semplici dazi fiscali. Ignorati dalla borghesia, fatti oggetto di scherno, come una diabolica invenzione capitalistica, dai missionari del socialismo, rispettati, per la loro impenetrabilità, dalla maggioranza degli uomini politici, i problemi monetari e bancari sono abbandonati agli specialisti, teorici e pratici, i quali ne fanno oggetto di dominio esclusivo e geloso, in cui alle turbe profane non è lecito di penetrare, così come non è lecito discutere i piani segreti della diplomazia e degli Stati maggiori.

 

 

A me sembra che i danni di un siffatto atteggiamento di indifferenza dell’opinione pubblica siano maggiori dei benefici. I quali – a parte la soddisfazione trascurabile degli economisti di vedere riconosciuta con ossequio la loro competenza, che nei problemi sociali è ogni giorno schernita dalle moltitudini occupate a plaudire i diversi vangeli e ricettari promettitori di ricchezze, di felicità – si riducono alla speranza che, grazie al volontario dileguarsi dei cerretani e degli empirici, i governanti seguano le buone norme che la scienza dedusse dall’esperienza passata ed ognora sono raffinate sulla base delle esperienze nuove. Ma è vantaggio che si acquista a prezzo di grandi sacrifici; poiché se si dileguano i dilettanti, dal disinteressamento universale traggono spesso partito i governanti deboli od incerti sulla bontà dei propri ideali o privi di ideali per ricavare da una inavvertita mutazione dei congegni monetari i mezzi per condurre una politica che all’universale, chiamato in tempo a pagare imposte od a concedere prestiti, non sarebbe gradita; ed a queste inavvertite mutazioni plaudono gli interessati, i quali da esse traggono ricchezze ed opimi profitti.

 

 

Perciò si deve affermare che questo prorompere alla ribalta dei problemi monetari è un fatto utile. Gioverà, alla lunga, all’educazione dell’opinione pubblica; e dall’errore nascerà il bene. L’Inghilterra deve la grandezza, finora incrollabile, della lira sterlina, agli errori commessi durante la guerra napoleonica; ed alla convinzione radicata nell’animo di ogni inglese divenuta oramai sangue del suo sangue, senza che ad ogni generazione si debbano ripetere i ragionamenti e sovratutto rifare le esperienze delle generazioni precedenti, per cui la Banca d’Inghilterra è il palladio della grandezza nazionale, è l’arca santa, cui i profani debbono venerare ma non toccare. La impossibilità dei pagamenti internazionali, la chiusura delle fabbriche, la disoccupazione operaia, il rialzo del prezzo di molte materie prime e di alcune derrate alimentari, lo sconquasso prodotto nel mondo economico dalla tesaurizzazione dell’oro, dimostrarono anche ai ciechi che l’essenza della società moderna non si può ridurre ad una lotta fra sfruttati e sfruttatori, ad una cronaca grottesca delle gesta del capitalismo asserragliato nelle banche e nelle borse a danno dell’umanità. Oggi si vede che questi erano fatti superficiali e che il fatto profondo, sostanziale era l’esistenza di un meccanismo delicatissimo degli scambi e dei contratti fra uomo e uomo, fra classe e classe, fra nazione e nazione; meccanismo spinto dalla concorrenza dei singoli e delle classi e delle nazioni fra di loro, ma avente per risultato la solidarietà più stretta fra uomini, classi e nazioni. L’urto della guerra ruppe il meccanismo, che era creazione superba di sforzi secolari, di adattamenti finissimi; e questa rottura mise in chiaro che senza moneta, senza credito, senza banche, senza borse non si può vivere od almeno non si può vivere con quella pienezza di vita, alla quale oggi siamo abituati. Gli spregiatori della civiltà capitalistica e gli assertori di schemi dell’avvenire hanno avuto campo di convincersi – alla luce dei fatti avvenuti dall’agosto in qua – che i loro schemi erano giocattoli infantili in confronto del movimento complesso di orologeria che governa la vita economica moderna; e dovrebbero modestamente confessare di dover molto andare a scuola da quello che con grandissima improprietà di linguaggio è detto «capitalismo», prima di poter aspirare a surrogarlo in quelli che sono i servigi inestimabili che esso rende agli uomini.

 

 

Non di tutti i problemi monetari suscitati dalla guerra mi è possibile tener discorso in questo momento. Dovendo, per ragion di tempo, fare una scelta, mi sforzerò a rispondere ad un quesito in apparenza assai semplice: come furono materialmente pagati nelle casse dello Stato i 5 miliardi e mezzo di lire italiane del prestito tedesco, e gli 11 miliardi dei varii prestiti inglesi, che si dovettero emettere affinché i due Stati potessero far fronte alle spese della guerra? Notisi che il problema, così come viene posto, è ristrettissimo. Non si vuol risolvere l’arduo e forse insolubile quesito se in questi 5,5 od 11 miliardi consista il costo della guerra per i due paesi e se essi bastino all’uopo. Il calcolo del costo della guerra è relativamente facile se ci si limita a fare il conto delle somme erogate dallo Stato per la condotta della guerra, le quali dovranno risultare dai bilanci pubblici e dalle somme perdute dalle economie private durante, la guerra, delle quali si potrà avere un’idea dai reclami per raccolti, case, macchine, strumenti distrutti, dai minori guadagni delle società anonime, ecc. Diventa invece difficilissimo quando si veda che più che di perdite, converrebbe discorrere di un diverso indirizzo dato alla vita del paese, per cui ai bisogni sentiti in tempo di pace dagli uomini (vitto, vestito, casa, divertimento, ecc.), ed agli atti normalmente intesi a soddisfarli si sostituiscono altri bisogni – difesa del territorio nazionale o conquista di territori nuovi o di colonie – ed altri atti intesi a soddisfare i nuovi bisogni; per cui gli uomini, in pace operosi per la produzione di oggetti di consumo o di servizi, si risolvono a produrre il servizio della difesa o della maggior grandezza del paese ed il loro posto è preso, in parte, nella produzione agricola, manifatturiera e commerciale, da altri uomini o donne o fanciulli, prima inoperosi od occupati nel produrre servizi intellettuali o personali, la cui domanda improvvisamente è cessata. È chiaro dunque che il calcolo economico dei costi della guerra ha un significato puramente convenzionale, od almeno l’affermare che una guerra costa 10 miliardi di lire vuol soltanto dire che i cittadini dei paesi belligeranti vollero sopportare un costo di 10 miliardi di lire per raggiungere un fine che essi reputavano di pregio più alto. Nella qual affermazione si ripete per la guerra un concetto comune ad ogni operazione economica; e come non si dice che chi ha speso 100 per tenere 150 ha subito una perdita di 100, ma anzi che ha lucrato 50; così si dovrebbe dire, che il paese, spendendo 10 miliardi per ottenere un fine valutato 15, non ha subito una perdita di 10 sibbene un vantaggio di 5 miliardi. La perdita potendosi affermare solo nel caso che il fine non si raggiunga o fosse un fine che la collettività, dopo ottenutolo, considera inutile o fors’anco dannoso.

 

 

Ancora: si può affermare che sia una perdita economica la avvenuta proibizione dalle bevande alcooliche in Russia e della distruzione dei capitali impiegati in quell’industria? Si può affermare che costituisca una perdita economica il passaggio di migliaia di vetture automobili dall’uso di passeggiate di diletto all’uso di trasporti di materiale da guerra?

 

 

Il problema, sul quale in questo momento richiamo la vostra attenzione non è questo vasto problema economico e psicologico, è un problema monetario, che molti sarebbero portati a trascurare per la sua insignificanza. Esso può così esprimersi dato che i risparmiatori tedeschi e gli inglesi avevano la capacità economica di mutuare allo Stato i 5,5 e gli 11 miliardi del prestito della guerra, come si effettuò materialmente il trapasso delle somme sottoscritte dai risparmiatori allo Stato?

 

 

Che il problema sia perlomeno curioso, è chiaro subito ove si rifletta che la sua risoluzione a prima vista costituisce un assurdo ed una impossibilità. A prima vista, invero, il versamento da parte del capitalista delle somme sottoscritte si concepisce come il fatto di chi avendo in cassa od avendo ritirato dalle casse di risparmio o dalla banca 100.000 lire, ad es., si reca con esse allo sportello del tesoro, e le versa, ricevendo in cambio un certificato provvisorio di debito dello Stato.

 

 

Orbene, è evidente che se noi concepiamo unicamente in tal maniera il meccanismo del pagamento delle somme sottoscritte, il prestito diventa un impossibile. In qual paese del mondo i risparmiatori possono avere a loro disposizione, anche se il versamento viene ripartito su alcune settimane o mesi di tempo, i miliardi di oro o di biglietti necessari ad effettuare i versamenti? Se si riflette che oro e biglietti erano, prima del prestito, nella quantità necessaria per effettuare gli scambi e le contrattazioni, che non è possibile sospendere per molti od anche solo per alcuni giorni, quanti sarebbero d’uopo perché i biglietti versati nelle casse del tesoro rifluissero nella circolazione, la vita economica del paese, che un siffatto assorbimento del medio circolante da parte del tesoro pubblico non può essere scisso dall’immagine di imbarazzi indicibili, di fallimenti innumerevoli e di un panico generale, se si pon mente che in momenti di panico non si sottoscrivono prestiti di miliardi, si deve forzatamente concludere che non esistono e non possono esistere in nessun paese disponibilità monetarie sufficienti a coprire, neppure lontanamente, colossali prestiti di guerra odierni.

 

 

Il che non vuol dire che i prestiti siano un mistero od un inganno; significa soltanto che il quadro del risparmiatore, buon padre di famiglia, il quale col suo gruzzolo si reca ad effettuare il versamento della somma da lui sottoscritta, è una rappresentazione di tempi che furono ed un assurdo nei tempi nostri. Un prestito di 5,5 o di 11 miliardi non si concepisce senza tutta una preparazione o meglio senza l’esistenza di un congegno creditizio e bancario che lo renda possibile.

 

 

Il pagamento di un grande prestito di guerra si può immaginare avvenuto secondo due schemi teorici; l’uno dei quali presuppone l’emissione di biglietti normalmente, sebbene non necessariamente, in regime di corso forzoso; mentre l’altro si fonda su un sistema sviluppato di assegni bancari e di compensazioni bancarie. I fatti reali si sono, è vero, sviluppati nei singoli paesi con divergenze talvolta notevoli dai due schemi, ovvero con l’uso simultaneo di amendue; ma essi giovano a rappresentarci dinanzi alla mente con una certa approssimazione il meccanismo del pagamento dei prestiti.

 

 

Un primo schema parte dalla premessa che, trovandosi nel paese soltanto quella quantità di biglietti od oro circolante che, ai prezzi correnti, è sufficiente ad effettuare le negoziazioni, e non potendosi né distrarre dal suo ufficio la massa esistente di biglietti, senza provocare una crisi commerciale, né aumentarla, senza stimolare un ritorno dei biglietti alla banca emittente in cambio di oro, che sarebbe tesoreggiato in momenti di panico, si proclama il corso forzoso allo scopo di mettere in salvo la riserva metallica.

 

 

Possono a questo punto cominciare le emissioni illimitate di biglietti, preordinate allo scopo di rendere possibile e nello stesso tempo di anticipare la riscossione del prestito futuro. Lo Stato, a poco a poco, spende 5 miliardi di lire, pagando le spese con 5 miliardi di lire di biglietti appositamente stampati ed anticipati al Tesoro dalla Banca di emissione. Dallo Stato i biglietti passano così ai suoi fornitori, alle truppe, agli impiegati, ai creditori pubblici. Costoro non avendo nessun bisogno di tenere presso di sé quei biglietti li danno a loro volta in pagamento ai proprii creditori, operai, fornitori e via dicendo. Né può tardare molto tempo che questi biglietti avranno trovato la via del ritorno presso le banche ordinarie e la banca di emissione, dove saranno stati versati in saldo di cambiali venute alla scadenza, in estinzione di altri debiti, od in depositi a risparmio od in conto corrente. Se, materialmente, una parte dei nuovi biglietti rimarrà in circolazione perché i fornitori dello Stato, ad esempio, hanno bisogno di una maggior quantità di moneta legale in riserva nel cassetto, una parte dei vecchi biglietti diventerà inutile, perché gli industriali ed i commercianti che lavorano per opere di pace, vedendo diminuiti i proprii affari, hanno minor bisogno di medio circolante e lo depositeranno alle banche. Giunge un momento, un mese o due mesi dopo lo scoppio della guerra, in cui, esauritisi altresì i primi e più clamorosi effetti del panico e della tesaurizzazione monetaria, le casse delle banche posseggono forti masse, forse la totalità dei 5 miliardi di lire di biglietti originariamente emessi dallo Stato, contro cui hanno dato credito alle proprie clientele, per minori debiti e per maggiori depositi o conti correnti. Questo è il momento psicologico dell’emissione del prestito. Il quale è adesso anche materialmente possibile; perché i sottoscrittori sono coloro che hanno disponibilità liquide o in biglietti tenuti nel cassetto e facenti parte dei 5 miliardi esuberanti alla circolazione o in depositi e conti correnti alle banche o in aperture di credito presso le banche stesse, ridiventate disponibili dopoché essi hanno estinto i loro debiti cambiari e per la mancanza di nuovi affari non li hanno sostituiti con nuovi debiti.

 

 

Essi inviano le loro schede di sottoscrizione alle proprie banche e casse, le quali, mentre li addebitano dell’importo, accreditano di altrettanto lo Stato, o versano addirittura nelle casse pubbliche i biglietti che esse tengono presso di sé. In tal modo il pagamento del prestito si può fare, perché consiste nel ritorno allo Stato dei 5 miliardi di biglietti che questo dianzi aveva emesso. In sostanza l’operazione si riduce a sostituire ad un prestito forzoso ed infruttifero, come erano i 5 miliardi di biglietti, un prestito volontario e fruttifero, come sono i 5 miliardi di titoli di debito pubblico. Già con l’emissione dei 5 miliardi di biglietti a corso forzoso lo Stato aveva raggiunto l’intento del prestito, che era quello di creare a proprio favore un diritto di usare una certa quantità di derrate, merci, munizioni o di giovarsi dei servizi e del lavoro della popolazione fino all’ammontare dei 5 miliardi; ed aveva creato un corrispondente diritto di credito verso se stesso in coloro che avevano venduto le merci od i servizi. Il diritto di credito era però rappresentato da un titolo, il biglietto a corso forzoso che per il singolo creditore ha l’inconveniente di dover essere accettato per forza, di non portare una scadenza certa e di essere fruttifero, e per la collettività di essere cagione di deprezzamento nel medio circolante; laonde è opportuno sostituirlo con un titolo di debito pubblico, ripartito fra coloro che hanno disponibilità di risparmio e volontariamente vogliono far credito allo Stato.

 

 

Se la guerra continua, l’operazione si può ripetere una o due volte, facendo ogni volta precedere al prestito volontario e fruttifero il prestito forzato nella forma delle emissioni di biglietti, il quale crea altresì lo strumento per il versamento dell’importo del prestito. Finita la guerra lo Stato si trova con un carico di 5, 10 o 15 miliardi di debito propriamente detto; ma può abolire il corso forzoso, perché ha già ritirato tutti i biglietti emessi in quantità esuberante, durante la guerra, oltre il quantitativo sufficiente perché la carta possa circolare a parità con la moneta d’oro.

 

 

Di fatto accadrà che il fenomeno non si sviluppi con quei tagli netti fra un periodo e l’altro che qui si sono detti; poiché si dovranno bensì emettere a giorni fissi i prestiti fruttiferi e volontari, ad ipotesi di 5 miliardi l’uno; ma potrà darsi che in quel giorno non ancora tutti i 5 miliardi di biglietti della prima fase siano tornati alle banche; o meglio, potrà darsi che già, mentre si emette il prestito per liquidare ed estinguere i primi 5 miliardi di biglietti, si stiano emettendo i 5 nuovi miliardi del secondo periodo per provvedere alle spese impellenti della guerra. Il concetto essenziale è che i prestiti vengano conchiusi nel tempo più opportuno, quando si sono formate nel pubblico o per esso, nelle banche, dei grandi ammassi di biglietti, che rimarrebbero oziosi o finirebbero di essere impiegati a gonfiare artificialmente affari malsani, in guisa che in nessun momento il quantitativo dei biglietti emessi cresca oltre misura.

 

 

Questo pare sia stato il concetto seguito in Germania, dove si è avuta una applicazione parziale del metodo ora delineato. Dico parziale, perché trattasi di un metodo che non è necessario applicare da solo, potendo essere impiegato contemporaneamente all’altro, di cui si dirà sotto, dei giri di scritturazioni cambiarie. In Germania, dove l’uso degli assegni sta acclimatandosi, ma non è abbastanza diffuso, si dovette ricorrere, oltreché a questo, su vasta scala al metodo ora descritto, delle emissioni preventive di biglietti. Ed invero, – mentre la quantità dei biglietti emessi, che era di 1891 milioni di marchi il 23 luglio, cresce durante l’agosto ed il settembre in maniera quasi ininterrotta giungendo il 30 settembre a 4491 milioni di marchi, con un più di 2600 milioni, – in ottobre, quando rientrano i biglietti in pagamento del prestito dei 4460 milioni di marchi, si avverte una flessione ed al 23 ottobre scendiamo a 3968 milioni, battendo poi in novembre la cifra sui 4 miliardi.

 

 

Probabilmente la stazionarietà di questa cifra è il frutto di due forze: da un lato i versamenti scalari in conto del prestito che fanno rientrare i biglietti emessi prima della fine settembre; e dall’altro le nuove emissioni di altri biglietti, fatte allo scopo di far fronte alle spese ognora rinnovantisi della guerra. E già si vide il Parlamento tedesco votare un nuovo credito di 5 miliardi e sui giornali si discorre di un altro grandioso prestito a primavera che avrà per scopo sovratutto di arginare il crescere, che sarebbe ineluttabile e deleterio, dei biglietti a corso forzoso.

 

 

Ma la Germania ha perfezionato per un altro verso questo metodo di innestare il prestito sulle emissioni a corso forzoso, che sono forse inevitabili nell’urgenza del pericolo, ma non bisogna dimenticare mai essere pericolosissimi. Supponiamo invero che lo Stato belligerante non attenda ad emettere il prestito dei 5 miliardi, il momento in cui si siano emessi tutti i 5 miliardi di lire di biglietti e questi si siano già raccolti nelle mani di coloro che hanno altrettanto risparmio disponibile, ma ritenga opportuno, per ragioni psicologiche o politiche, di emettere il prestito in un momento in cui la massa di risparmio attualmente disponibile è di soli 4 miliardi di lire e può quindi comandar l’azione di soli 4 miliardi di lire di biglietti.

 

 

Ma lo Stato vuole garantirsi una disponibilità ulteriore, ad esempio di 1 miliardo in più. Ciò urterebbe contro un ostacolo gravissimo: esistono bensì nel paese 4 miliardi di risparmio già formatosi ed esistono gli strumenti corrispondenti di pagamento, che sono i 4 miliardi di biglietti inutili alla circolazione; ma non esiste ancora il miliardo in più di risparmio che lo Stato vorrebbe accaparrare e non esistono gli strumenti di pagamento che sarebbero necessari. A sormontare le difficoltà interviene lo Stato, a mezzo della Banca d’emissione o di un’apposita Cassa di prestiti.

 

 

Lo Stato provvede innanzitutto gli strumenti del pagamento, stampando 1 miliardo di lire di biglietti o di buoni di cassa; e li anticipa ai capitalisti, i quali depositano in garanzia titoli antichi di debito pubblico, cartelle, obbligazioni, azioni, merci. Ed i capitalisti con il miliardo di biglietti così avuto in prestito sottoscrivono 1 miliardo del prestito, portando la cifra totale di 4 a 5 miliardi. A prima vista questo sembra uno scherzo, poiché le Stato, il quale ha bisogno di farsi imprestare 1 miliardo, stampa i biglietti necessari, li mutua ai capitalisti, i quali poi a lui li restituiscono, ricevendo in cambio 1 miliardo di titoli del prestito; sicché alla fine lo Stato si trova con 1 miliardo di debito al 5% e con in mano 1 miliardo di biglietti che egli stesso ha creato. O non era meglio, si può osservare, che, senza compiere questo giro vizioso, lo Stato se li stampasse per conto suo questi biglietti, poiché in ogni caso, se vorrà trarre frutto dal prestito, dovrà pur spenderli e crescere di altrettanto la circolazione a corso forzoso?

 

 

No. Emettendo questo miliardo di biglietti, dopo avergli fatto subire il salutare lavacro di un mutuo ai capitalisti contro pegno e di un ritorno nel tesoro in cambio di un titolo di debito pubblico lo Stato ha raggiunto due intenti:

 

 

  • in primo luogo ha creato una forza la quale necessariamente porterà, anche all’infuori di eventuali errori od impossibilità dei governanti, all’estinzione del miliardo di lire di biglietti. Poiché il capitalista ha bensì il titolo nuovo del prestito, che gli frutta il 5%; ma anche il debito corrispondente verso la Cassa di prestiti a cui ha dato in pegno titoli vecchi da lui già posseduti. Per liberarsi dall’onere degli interessi passivi al 6%, il capitalista si sforzerà dunque di risparmiare e di estinguere a poco a poco il suo debito. Ma per estinguerlo dovrà accumulare biglietti e portarli alla Cassa. Ecco dunque raggiunto il primo intento dello Stato, che è di estinguere o e distruggere i biglietti a corso forzoso.
  • il secondo intento raggiunto è il comando che lo Stato per tal modo acquista sul risparmio futuro. Normalmente lo Stato può, coi prestiti volontari, comandare solo al risparmio attuale di procacciargli beni e servizi attuali. Ma se il risparmio attuale disponibile è in quantità inferiore ai beni e servizi esistenti, come potrà lo Stato ottenere la disponibilità su di questi? Ove non si voglia ricorrere semplicemente al torchio a gitto continuo, per vari rispetti pericoloso, il metodo germanico della fornitura di biglietti ai capitalisti desiderosi di imprestare anticipatamente allo Stato anche i proprii risparmi futuri, è certo raffinato ed elegante. E poiché esso crea la spinta alla restituzione e distruzione dei biglietti, si deve dire che esso presenta il minimum di pericoli collettivi. L’impero germanico usò largamente di questo spediente: al 23 settembre i buoni della cassa di prestiti posseduti dalla Banca imperiale giungevano appena a 149.2 milioni di marchi; ed al 7 ottobre, all’indomani dei primi versamenti del prestito di guerra, giungevano a 949 milioni. Erano 800 milioni circa di buoni che la Cassa aveva prestato contro pegno ai sottoscrittori del prestito e con cui questi avevano fatto i pagamenti della prima rata versandoli alla Banca imperiale.

 

 

Questa poi in rappresentanza di essi poté consegnare allo Stato altrettanti suoi biglietti da spendere. Ma già si vede che i capitalisti stanno formando del nuovo risparmio, con cui rimborsano le anticipazioni ottenute contro pegno dalla Cassa di prestiti; poiché al 23 novembre i buoni di cassa posseduti dalla Banca imperiale sono diminuiti da 949 a 599.8 milioni di marchi; il che vuol dire che i capitalisti poterono fare in queste 6 settimane circa 350 milioni di marchi di nuovo risparmio e ridurre di altrettanto il proprio debito verso la Cassa di prestiti, la quale, alla sua volta, poté rimborsare la Banca imperiale, ottenendone la restituzione dei 350 milioni di buoni di cassa, finalmente scomparsi dalla circolazione.

 

 

Io non so se sono riuscito a rendere in modo abbastanza chiaro questo meccanismo, in fondo semplice, del versamento dei prestiti per mezzo dei biglietti a corso forzoso, che bene si potrebbero chiamare l’anticipazione e la condizione necessaria di uno dei due schemi tecnici di pagamento dell’ammontare dei grandi prestiti moderni.

 

 

Ma forse ancor più meraviglioso e perciò più semplice è l’altro meccanismo, non ignoto in Germania, ma che ha indubbiamente il suo prototipo nelle successive emissioni dei buoni del tesoro per 2/3 miliardi di lire e nel prestito recentissimo degli 8 miliardi ed 827 milioni di lire italiane in Inghilterra. Qui non corso forzoso, non emissione di biglietti di banca o di Stato o di buoni delle casse di prestiti. La circolazione in biglietti di banca che al 30 luglio era di 29.7 milioni di lire sterline, al 19 novembre era ancora di 35.3; ed i nuovi biglietti di Stato battevano sui 27.3 milioni di lire sterline; in tutto una quantità di biglietti emessa in più dopo la guerra di forse un 33 milioni di lire sterline, circa 820 milioni di lire italiane, appena sufficienti a prendere il posto nella circolazione ordinaria dell’oro che dai privati passò nelle casse della Banca, dove crebbe da 38 ad 85 milioni circa. Dunque non con questo strumento impercettibile dei biglietti si poté effettuare prima il versamento nelle casse dello Stato dei 91 milioni lire sterline di buoni del tesoro e si può effettuare ora il versamento dei 350 milioni del prestito di guerra: in tutto 11 miliardi circa di lire italiane.

 

 

Lo strumento dei pagamenti è quello degli assegni bancari. Che è semplice; ma più si medita e più appare una veramente superba creazione della mente e sovratutto della fiducia umana.

 

 

Lo schema teorico iniziale è il seguente. Esistono in un dato paese e disponibili durante un certo flusso di tempo, ad esempio gli 11 mesi dallo scoppio della guerra (1 agosto 1914) all’1 luglio 1915 circa 11 miliardi di beni materiali e di servizi, che in tempo di pace sarebbero stati, insieme con altri parecchi, forse 35, miliardi destinati al soddisfacimento di bisogni privati, compreso il bisogno del risparmio. Scoppiata la guerra, importa che lo Stato possa disporre di tutti questi 11 miliardi per i supremi scopi nazionali.

 

 

In quel paese è usanza generale, quasi sempre eccezione, che tutti depositino i proprii fondi disponibili per il consumo ed il risparmio presso le banche; ordinando poi a queste gli opportuni pagamenti per mezzo di assegni bancari. Perché avvenga il passaggio degli 11 miliardi dalla disponibilità dei privati alla disponibilità dello Stato, i seguenti atti devono verificarsi:

 

 

  • in un primo momento devono gli 11 miliardi essere iscritti a favore dei privati nei conti correnti e depositi delle banche;
  • nel momento della sottoscrizione od in parecchi momenti durante il decorso della guerra, debbono i privati consegnare al Tesoro tanti assegni tratti sulle proprie banche per un ammontare di 11 miliardi;
  • il Tesoro presenta gli assegni alle banche, le quali, prese in massa, addebitano i privati ed accreditano il Tesoro della somma totale del prestito;
  • il Tesoro, dotato così della capacità di trarre ordini fino alla cifra di 11 miliardi sulla massa di beni materiali e di servizi personali esistenti nel paese, fa acquisto di derrate, di vestiti, di munizioni, paga le truppe consegnando a tutti i proprii fornitori, creditori, soldati, ufficiali, assegni sulle banche, dove egli è accreditato per 11 miliardi;
  • a poco a poco il conto corrente del Tesoro presso le banche del paese che si sarebbe gonfiato fino alla cifra di 11 miliardi, se il versamento dei prestiti si fosse fatto in un momento unico e che di fatto si gonfia a punte variabili di altezza nei successivi versamenti delle rate del prestito, torna a sgonfiarsi, a mano a mano che il Tesoro, per fare i pagamenti, trae assegni bancari; e d’altrettanto crescono nuovamente i conti correnti dei privati, poiché, supponendo finita la guerra all’1 luglio 1915, a quella data il conto corrente del Tesoro, partito da zero, giunto al culmine degli 11 miliardi ritorna a zero ed il conto corrente dei privati ritorna a riacquistare i suoi 11 miliardi.

 

 

Così, pianamente, senza smuovere una lira in oro od in biglietti, teoricamente si può concepire il versamento e la spesa di questa immane somma. E così di fatto tende a compiersi l’operazione del prestito o meglio dei successivi prestiti bellici in Inghilterra: come un giro di scritturazioni sui libri delle banche e delle stanze di compensazione.

 

 

Tende dico: perché in realtà lo schema teorico deve abbandonare alquanto della propria forma iniziale per superare gli attriti che sono opposti a questo meraviglioso meccanismo delle compensazioni bancarie dalle esigenze diverse dello Stato e dei risparmiatori rispetto alla massa dei risparmi posseduti e desiderati ed al tempo dell’investimento.

 

 

Appare inverosimile innanzi tutto che i capitalisti inglesi dispongano davvero, durante questi 11 mesi, di un flusso di risparmio di 11 miliardi di lire. Per quanto scemino gli altri investimenti, non pare si possano ridurre a zero, come dimostrato dalle richieste, soddisfatte, che sul mercato di Londra stanno facendo Russia e Francia, Canadà ed Australia, ed insieme numerose imprese private. Ciò spiega come una parte, forse notevole, non certo misurabile, di questi 11 miliardi debba essere stata procacciata non dal risparmio, ma dal credito creato dalle banche. È noto, sebbene ogni volta che ci si pensa la cosa prenda l’aspetto di un mistero affascinante, che forse i tre quarti dei cosidetti 25 miliardi di lire italiane di depositi e conti correnti esistenti presso le banche inglesi non sono veri depositi di risparmio, sibbene conseguenze di un’apertura di credito fatta dalla banca alla sua clientela. Sia una banca in una piccola città, e per mezzo di quella banca tutti i cittadini transigano i propri affari. Essa ha in cassa in contanti 100.000 lire fornite dai suoi azionisti e 100.000 lire fornite dai depositanti. Con queste sole 200.000 lire la Banca può fare affari di milioni, purché osservi la prudenza bastevole a non esagerare i propri impegni in confronto al proprio fondo contante di cassa. La banca può cioè aprire un credito, contro sconto di cambiali o pegno di titoli, per 1 milione di lire. Ciò fa nascere nella parte attiva del suo bilancio una partita di 1 milione di lire per cambiali o titoli di portafoglio. Ma ciò fa nascere altresì – ed è qui il punto essenziale e quasi taumaturgico – un deposito di 1 milione di lire al passivo dello stesso bilancio. Perché i commercianti e gli industriali, i quali, avendo scontato cambiali ed impegnato titoli, hanno ottenuto un’apertura di credito per 1 milione di lire, hanno acquistato diritto – e se ne servono – di trarre per questa somma assegni sulla banca. Questi assegni i clienti della banca li consegnano ai propri fornitori, creditori, azionisti, obbligazionisti, impiegati; i quali potrebbero, quindi, volendo, presentarli all’incasso alla banca per esigerne il valsente in contanti. Se questo facessero, la banca dovrebbe fallire perché essa ha appena 200.000 lire di denaro contante in riserva. Ma poiché in Inghilterra non si usa tenere denari contanti in cassa, poiché tutti eseguono le proprie transazioni attraverso alle banche, i fornitori, creditori, azionisti, di cui sopra, trasmetteranno gli assegni ricevuti alla banca – noi abbiamo supposto, per semplicità, che in quella piccola cittadina esistesse una sola banca – e questa ne darà loro credito in conto corrente con una scritturazione sui proprii libri. Ecco dunque come la banca crei essa stessa i propri depositi. Si potrebbe persino immaginare il caso di una banca, priva assolutamente di capitale proprio e di depositi effettivi e cioè venuti prima dell’inizio delle operazioni bancarie, dotata però di un forte capitale immateriale in «fiducia«.

 

 

Niente vieterebbe a questa banca di aprire crediti per 1 milione di lire; ossia di dare alla propria clientela il diritto di trarre assegni a vista su di essa per 1 milione di lire. Per il processo già descritto il milione di assegni sarebbe trasmesso dalla clientela della banca ai propri creditori e questi li presenterebbero alla banca per la registrazione a loro credito in conto corrente. Ecco, quasi per un tocco di bacchetta magica, create aperture di credito per 1 milione e depositi in conti correnti per 1 milione.

 

 

Si estenda il caso ipotetico da una banca sola a tutte le banche inglesi, da 1 milione a molti miliardi, si consideri che le aperture di credito della Banca A alla propria clientela provocano consegne di assegni a clienti della Banca B e quindi creazione di depositi nella Banca B; mentre per converso le aperture di credito della Banca B alla propria clientela provocano consegne di assegni ai clienti della Banca A e quindi creazione di depositi presso questa Banca; si complichi il quadro aumentando le banche a 10, a 20 e più, con le rispettive filiali; e si rimarrà persuasi della verità delle affermazioni di competentissimi scrittori e pratici inglesi[2] essere i tre quarti, forse 18 sui 25 miliardi di depositi e conti correnti delle banche inglesi, non depositi veri proprii, iniziali, nella maniera in cui comunemente si intendono i depositi da noi; bensì depositi consequenziali posteriori in tempo e derivanti dalle aperture di credito fatte dalle banche alla propria clientela commerciale, industriale e speculatrice.

 

 

È un edificio meraviglioso, che dà le vertigini al pensare che esso riposa tutto sul fondamento fragilissimo della capacità di aprir credito che le banche posseggono, in seguito alla fiducia acquistata, per una lunga tradizione onorata, presso la clientela, fiducia che fa persuasa questa che le banche sarebbero in grado di far onore agli assegni tratti su di esse.

 

 

Ed il perno di questa fiducia sono i pochi biglietti e lo scarso oro che le banche hanno in cassa; e la non grande massa di biglietti che esse sanno di potersi procacciare dalla Banca d’Inghilterra.

 

 

Ora si comprende come sia possibile l’emissione di prestiti per 91 milioni di lire sterline in buoni del tesoro prima e per 350 milioni adesso. V’è una parte che fu sottoscritta, come sopra si disse, da coloro che possedevano depositi, come li intendiamo noi, presso le banche. Ma un’altra parte dovette essere certamente sottoscritta grazie al meccanismo delle aperture di credito. Giova ricordare che la guerra ha cagionato non solo una forte disoccupazione di imprenditori e di operai, ma altresì una disoccupazione, forse più intensa, della capacità di fornir credito delle banche. Chiuse le borse, a mano mano che si liquidano le vecchie operazioni, nuove non se ne fanno; il commercio internazionale è ridotto di volume; né l’attività frenetica di talune industrie belliche è compenso sufficiente al languore delle industrie di pace. È probabile dunque che, in conseguenza della guerra, la capacità di fornir credito delle banche non siasi potuta, dall’agosto in qua, sfruttare sino al limite estremo consigliato dalla prudenza.

 

 

Il qual limite da un lato si è ridotto, poiché la guerra consiglia ad essere cauti nelle operazioni di credito; ma si è d’altro canto allargato, perché:

 

 

  • fu sospeso l’atto di Peel, e quindi le banche non hanno timore che venga a mancare troppo presto la provvista di biglietti a corso legale, che è il perno intorno a cui gira la loro possibilità di aprir crediti e di far fronte agli assegni tratti a vista su di esse. Se il fondo di cassa in biglietti è di 10, le banche possono aprir crediti sino a 100; se il fondo di cassa può crescere a 15, le aperture di credito possono del pari salire non forse a 150, ma probabilmente a 120 o 125;
  • le banche sono incoraggiate ad aprir credito allo Stato dall’impegno assunto dalla Banca d’Inghilterra di essere sempre disposta sino al 31 marzo 1918 a scontare i titoli del prestito di guerra, come se fossero cambiali, alla pari del prezzo di emissione ed a un tasso dell’1 per cento inferiore al tasso ufficiale dello sconto.

 

 

Si combinino insieme questi elementi: la esistenza di una enorme capacità di fornir credito da parte delle banche; la impossibilità di utilizzare in pieno questa capacità nel momento attuale per il languore delle borse e dei traffici; la sicurezza di avere, aprendo credito allo Stato, delle attività facilmente mobilizzabili mercé il risconto alla Banca d’Inghilterra; e si avrà compreso la ragione delle forti sottoscrizioni delle Banche inglesi al prestito di guerra.

 

 

Per la parte per cui il prestito fu sottoscritto dalle banche, noi non abbiamo dunque più d’uopo di partire dalla premessa dei depositi di un risparmio preesistente. Possiamo partire dall’unica premessa della fiducia acquistata dalle banche. Queste allora, sottoscrivendo per 200 milioni di lire sterline tra buoni del tesoro già emessi e nuovo prestito di guerra, aprono un credito allo Stato, ossia danno diritto allo Stato di trarre assegni su di esse fino a concorrenza di 200 milioni di lire sterline. E lo Stato a poco a poco trae gli assegni, consegnandoli ai proprii fornitori e creditori, e questi se li fanno accreditare in conto corrente presso le banche medesime. Le banche, creditrici dello Stato per l’ammontare dei titoli sottoscritti, diventano debitrici della stessa somma verso i fornitori, creditori, ecc. I quali non incassano i loro crediti, ma a loro volta li girano alla propria clientela. A grado a grado tra i possessori dei diritti di trarre assegni sulle banche cresce il numero di coloro che possono risparmiare una parte dei loro diritti, ossia non servirsene più per pagare materie prime, operai, debiti, sibbene consacrarli all’acquisto di titoli del prestito di guerra. Il nuovo risparmio, allettato dal buon tasso di interesse, si rivolge ai titoli del prestito di guerra; ed arriverà un momento, dopo conchiusa la pace, nel quale le banche avranno venduto tutti i titoli direttamente sottoscritti alla propria clientela.

 

 

Ciò vorrà dire che esse, consegnando titoli a coloro che avevano un conto corrente presso di loro, potranno cancellare una quota corrispondente dei conti correnti passivi. L’operazione, iniziatasi con un’apertura di credito allo Stato, ossia con la concessione allo Stato, mercé consegna di titoli, del diritto di trarre assegni sulla banca, si sarà conchiusa quando la clientela, avendo formato sufficiente risparmio, avrà potuto rinunciare al proprio diritto di trarre assegni a vista, ricevendone in cambio il titolo. In quel momento sarà compiuto il classamento del titolo tra la clientela dei risparmiatori; ed il meccanismo delle scritturazioni bancarie delle aperture di credito e dei passaggi successivi del diritto di trarre assegni sulla banca dallo Stato sino al risparmiatore definitivo avrà dimostrato quanto grande sia la sua virtù nell’anticipare nel tempo le potenzialità future di risparmio del paese.

 

 

Tutto ciò, ripeto, ogni qualvolta vi ripenso, mi dà le vertigini. È semplice, finisce alla lunga di diventar chiaro; ma tien sempre del miracoloso. Io credo che forse mai nella storia del mondo si sia veduto uno spettacolo di forza e di fiducia quale ci è oggi fornito dai due grandi paesi rivali: Germania ed Inghilterra. Più meditato, organizzato in maniera più sistematica, più scendente dall’alto, dal comando del governo e dal consiglio degli scienziati il metodo tedesco delle successive emissioni di biglietti a corso forzoso e dei successivi riassorbimenti dei biglietti per mezzo dei prestiti di guerra; più spontaneo, più sciolto, agente per virtù propria ed attraverso al meccanismo quasi impalpabile di scritturazioni bancarie il metodo inglese. Nell’un caso, quello germanico, abbiamo una applicazione degli insegnamenti di quella curiosa scienza economica tedesca, la quale riesce così ostica al palato di chi ha studiato sui libri dei veri grandi maestri della scienza economica, degli Adamo Smith, dei Ricardo, dei Ferrara; e, che, se ben si guarda, e fatte salve le onorevoli eccezioni dei Roscher, dei Gossen, dei Thunen, dei Bohm Bawerk, dei Menger ed altri non molti[3], non è la scienza delle azioni che farebbero gli uomini se fossero lasciati alla propria iniziativa individuale; ma delle azioni che gli uomini compiono sotto la guida di una burocrazia infallibile e retta e dietro consiglio dei professori d’università. È la scienza dell’imperatore.

 

 

Mentre, dall’altro lato, abbiamo una creazione spontanea, sorta da sé, per la necessità in cui si trovarono i banchieri ed i mercanti della city di Londra di sfuggire alle strettoie del comando del legislatore. L’atto di Peel ordinò nel 1844 che neppure un biglietto potesse essere emesso senza essere coperto da altrettanto oro. E gli inglesi si ribellarono a quest’ordine rigido, mentre forse i tedeschi avrebbero obbedito, e crearono lo cheque, l’assegno bancario, in masse crescenti, fluidissime, mobilissime, sfuggenti a qualunque sanzione legislativa; ma utili alle opere di pace ed alle imprese di guerra. I teorizzatori vengono di poi e narrano in capolavori stupendi, come Lombard Street di Bagehot, come gli uomini si siano da sé sbrogliati degli impacci tesi dai professori e dai legislatori.

 

 

Sono due metodi i quali caratterizzano la diversa mentalità dei due popoli.

 

 

Ma sono testimoni amendue di un grande fatto: che nessuna guerra si può condurre finanziariamente senza il perdurare della fiducia del popolo nella propria forza ed il profondo sentimento che bisogna subordinare ogni altro interesse alla consecuzione dei fini supremi della salvezza nazionale.

 

 

Immaginiamo un po’ che mentre le banche inglesi devono utilizzare tutto il margine divenuto libero della propria capacità di fornire credito per concedere allo Stato ingenti diritti di trarre assegni su se stesse, alto sorgesse il clamore degli industriali, dei commercianti, degli speculatori costretti all’inerzia dalla guerra; e pretendessero di continuare ad ottenere credito nella stessa misura in cui l’ottenevano prima. Supponiamo, cosa non inverosimile in un popolo in cui non fosse così viva la coscienza della subordinazione degli interessi individuali agli interessi collettivi, che essi riuscissero, con influenze politiche, con dimostrazioni operaie, ad esercitare siffatta pressione sulle banche da indurle a continuar loro le antiche aperture di credito. Quali gli effetti? Da un lato, il danno economico della continuazione di una produzione non chiesta, di un lavoro fatto per accumular merci in magazzino e della preparazione di una grave crisi a breve scadenza. Dall’altro lato l’impossibilità nelle banche di utilizzare a favore dello Stato il proprio margine, non più libero, di capacità di trarre assegni sulla fiducia del pubblico. Quindi l’impossibilità di coprire il prestito di guerra.

 

 

Non dunque soltanto, come corre la leggenda su per le bocche del volgo, la ricchezza materiale, i tesori accumulati, frutto di ingordigie e di male arti capitalistiche, sono la fonte viva a cui attinge l’opera feconda di produzione in pace o l’impeto della difesa in guerra. La sorgente inesausta da cui zampillano i rivi d’oro ed anzi di biglietti e di assegni che mettono in moto le tremende macchine della guerra d’oggi è anche un’altra: è la fiducia che i popoli hanno in se stessi, la fiducia che hanno nell’onestà altrui nell’adempiere ai propri impegni, la persuasione profonda che i meccanismi creati dall’abilità e precipuamente dalla rettitudine di parecchie generazioni successive seguiteranno a funzionare correttamente e dolcemente anche durante la terribile crisi odierna. Una forza morale è il motore nascosto dalle grandi opere di pace ed è il motore nascosto della grande tragedia storica in mezzo a cui noi viviamo. La contemplazione quasi esclusiva, che siamo portati a fare in tempo di pace, dei problemi sociali, ci porta talvolta a conclusioni disperate sull’avidità e sull’egoismo gretto umano. La visione invece che nei giorni presenti ci si impone dal movimento complicatissimo di orologeria monetaria e bancaria da cui in sostanza è regolata la vita economica dei popoli, ci ammaestra quanto grande sia stato per fortuna il cammino compiuto dagli uomini sulla via dell’onestà, del fedele adempimento ai propri impegni, della fiducia reciproca e della rinuncia ai più gretti interessi particolari sull’altare della necessità collettiva. È doloroso che tanta energia di volontà e tanta forza di solidarietà sociale siano state spese per conseguire scopi che non a tutti appaiono nobili e grandi. Ma un insegnamento elevato possiamo ciononostante ricavare dallo studio dei metodi fragilissimi e quasi spirituali con cui si poté procedere alla adunata del nerbo pecuniario della guerra: che nel conseguimento dei nostri ideali nazionali più che la forza bruta dell’oro gioveranno la volontà determinata di ognuno di fare il proprio dovere, la decisione di avere fiducia in noi stessi, la solidarietà di tutti contro coloro che antepongono il proprio interesse all’interesse generale. In Italia, per la giovinezza della nostra formazione nazionale e per inevitabili errori commessi, abbiamo a nostra disposizione un meccanismo finanziario assai delicato e fragile; ma poiché da mezzi modesti si ottennero spesso nella storia risultati magnifici, ho ferma convinzione che, se saremo mossi dallo spirito di sacrificio, se saremo deliberati a non dare ascolto ai clamori di chi osa chiedere oggi aiuto allo Stato per sé, per i proprii affari e le proprie piccole cose, noi italiani riusciremo a trarre un rendimento apprezzabile dalla nostra ancor giovane macchina economica.

 

 

Se verrà l’ora del cimento supremo, e con questo augurio concludo, sappiano gli italiani anch’essi dar prova di quei sentimenti di fiducia in sé e negli altri e di tranquillo, sereno sacrificio che sono le sole, le vive, le fresche sorgenti del diritto alla vita ed alla espansione dei popoli consapevoli e forti.

 

 



[1] Né è probabile che i liberisti italiani rimangano persuasi di avere avuto torto nel combattere la fabbricazione in Italia della ghisa, o, meglio, la fabbricazione della ghisa a spese dei contribuenti, solo al leggere nella Rivista delle Società commerciali (31 ottobre 1914, p. 285) il commento che l’egregio ingegnere Lorenzo Allievi fa ai versetti 19/22 del capitolo VIII del libro I di Samuele. Sarebbe occorso invero che l’ing. Allievi dimostrasse che è più facile preparare in pace ammassi di 2 tonn. di minerale di ferro e di 1,5 tonn. di carbone – fatti venire dall’estero – che ammassi di 1 tonn. di ghisa, pure estera; ovvero dimostrasse che è più facile far venire in tempo di guerra per vie pacifiche o contrabbandare 3,5 tonn. della roba detta di sopra piuttostoché 1 tonn. sola di ghisa. Dimostrazione finora non data, e che si attende con curiosità dalla penna, per fermo maneggiata da un abile loico, dell’ing. Allievi. Quando egli l’avrà data per iscritto e quando altri l’avrà confermata coi fatti, gli economisti subito riconosceranno che la fabbricazione della ghisa è naturalissima all’Italia, l’unico criterio per dimostrare la naturalità di un’industria in un paese essendo il fabbricarla a proprio rischio e pericolo, senza chiedere il sussidio dei contribuenti.

[2] Cfr. Hartley Withers, The meaning of money. London, Smith, Elder, 1909, p. 63.

[3] Accenno, s’intende, nel testo soltanto agli scrittori di teorie economiche generali, dei quali la Germania, sovratutto la Germania contemporanea, è singolarmente povera; mentre può vantare specialisti insigni, e citerò per le cose monetarie solo lo Helfferich ed il Riesser, i quali si sono occupati, con molto successo, di qualche problema particolare. Noterò però essere mia impressione, forse erronea per manchevole conoscenza della sterminata letteratura economica, che il maggiore interesse è dato a questi ultimi scrittori di economia applicata dalla circostanza che essi sono, come lo Helfferich, invece di professori, direttori di banca o dirigono, come il Riesser, grandi organizzazioni economiche (Hansa Bund). Lo stuolo dei professori od aspiranti professori è serio, dotto; ma soporifero ed annegante, nella sistematicità e nel sussiego, ogni scintilla di pensiero creatore. Le monografie per concorso, di cui ognuno di noi si è reso colpevole sono la peste d’Italia; ma i Wagner e gli Schmoller ed i loro discepoli all’infinito sono forse qualcosa di peggio ed hanno impedito alla scienza economica tedesca contemporanea di prendere un posto paragonabile a quello dell’Inghilterra, degli Stati Uniti ed, oserò dire, dell’Olanda.

Frumento e pane

Frumento e pane

«Corriere della Sera», 15 dicembre 1914[1], 30 gennaio[2], 11 febbraio[3], 9[4] e 27[5] marzo, 4[6] e 5[7] agosto 1915, 10 gennaio[8], 13 marzo[9] 1916

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 45-82

 

 

I

La questione frumentaria continua ad appassionare il pubblico italiano. E non l’italiano soltanto. L’«Economist» di Londra del 5 dicembre reca il solito articolo mensile sui numeri indici dei prezzi e vi dà come sottotitolo: Il rialzo delle derrate alimentari quasi ad accentuare che la caratteristica più interessante dei prezzi in novembre fu l’aumento dei prezzi dei cereali e delle altre derrate alimentari. Ed invero il frumento inglese, il quale quotava 37 scellini il quarter il 31 ottobre, passava a 38,8 il 7 novembre, a 39,8 il 14, a 41 il 21 per giungere a 41,11 il 28 novembre. E ciò malgrado che gli arrivi di grano dall’estero fossero elevati: 31.824.300 mezzi quintali (centweights) inglesi nelle prime 13 settimane dell’anno agrario (cominciato il 30 agosto) corrente 1914 contro 28.174.600 nel 1913; e nonostante che anche le vendite del grano nazionale giungessero nello stesso periodo di tempo a 12.573.600 mezzi quintali nel 1914 contro 9.469.200 nel 1913.

 

 

L’elevatezza del prezzo del frumento è, si può dire, generale a tutti i mercati. Il «Sole» confrontando i prezzi attuali con quelli di fine anno di alcuni anni precedenti, presenta i seguenti dati (in lire per quintale):

 

 

1910

1911

1912

1913

1914

Chicago

17,36

17,49

16,07

16,83

21,10

New York

18,47

18,33

17,38

18,45

14,25

Londra

12,07

10,95

20,50

20,10

18,75

Parigi

27,62

25,62

27,60

26,15

28,50

Berlino

23,31

25,46

24,85

24, –

32,75

Budapest

22,98

23,48

22,94

22,70

42, –

Milano:
– nazionali

26,30

29,55

29,25

26, –

35,40

– esteri

28, –

29,50

31, –

28,50

35,50

 

 

Caratteristica comune di tutti questi prezzi regolatori è il forte aumento avvenuto nel 1914, in confronto degli anni precedenti. Il che si comprende riflettendo:

 

 

  • che il raccolto mondiale fu nel 1914 notevolmente più scarso che nel 1913. Le statistiche dell’Istituto internazionale di agricoltura danno per l’emisfero settentrionale un raccolto complessivo, per un numero notevole di contrade produttrici, di 746 milioni di quintali nel 1914 contro 818 milioni nel 1913, ossia una diminuzione dell’8,8%. Questo calo nel raccolto sarebbe bastato da solo a provocare in tempi normali un rialzo di parecchie lire per quintale;
  • ma il rialzo fu accentuato, anche qui inevitabilmente, dalla circostanza che alcuni dei maggiori paesi esportatori, come la Russia e la Rumenia, misero il veto alla esportazione; cosicché tutta la domanda dei paesi importatori dovette rivolgersi agli unici mercati rimasti liberi, ossia gli Stati uniti, il Canada ed ora l’Argentina.

 

 

Per fortuna, se il raccolto del Canada fu scarso, di appena 43 contro 63 milioni di quintali (-31,7%), e se diminuì pure il frumento di primavera degli Stati uniti da 65,2 a 59 milioni di quintali (-9,5%), il raccolto in grano d’autunno degli Stati uniti fu abbondante: 183,7 milioni di quintali nel 1914 contro 142,4 nel 1913, con un più del 28,9%. Se a ciò si aggiunge che anche in Argentina il raccolto è buono, e pare si debba arrivare ai 50 milioni di quintali contro i 35,8 dell’anno precedente, si ha una fondata speranza di potersi approvvigionare senza che i prezzi abbiano a crescere a dismisura. Non già che il sovrappiù di esportazione degli Stati uniti e dell’Argentina possa, anche tenendo conto della mancata domanda della Germania, far ritornare i prezzi al livello del 1913, essendo esso insufficiente a coprire il vuoto lasciato dalla Russia e dal raccolto deficiente di parecchi paesi europei, come pure dal maggior consumo e dall’inevitabile disperdimento che si verificano presso gli eserciti belligeranti. Ma un aumento di prezzo di 8,65 lire per quintale, quale si è verificato a Londra da lire 20,10 a 28,75, parrebbe bastevole a provocare quella non grande diminuzione nel consumo che è necessaria per mettere questo in equilibrio con le diminuite disponibilità del mercato.

 

 

In sostanza in Italia non si è verificato un aumento di prezzo superiore a quello che si è verificato a Londra; poiché l’aumento avvenuto tra il 1914 ed il 1913 nei prezzi italiani è di 9,40 lire per il frumento nazionale e di 7 lire per il frumento estero; all’incirca uguale alle lire 8,65 di aumento in Inghilterra. Ma vi è questa differenza tra l’Italia e l’Inghilterra: che, essendo diverso il punto di partenza, a Londra si rimase, pure collo stesso aumento assoluto, al disotto delle 19 lire ed in Italia si salì oltre le 35. Gli esempi della Francia da un lato, dove i prezzi sono più bassi che in Inghilterra, e del gruppo austro-tedesco, dove sono più alti od all’incirca uguali ai nostri, non è calzante. Poiché la Francia da un lato è un paese dove normalmente non si ha un gran bisogno di importazione dall’estero e dove accade non di rado, per la esuberanza della produzione interna, che i prezzi siano inferiori a quelli esteri. Ciò che accada precisamente in Francia oggi non so, perché il bollettino dell’Istituto internazionale di agricoltura non pubblica alcun dato per quel paese e per il 1914. I due paesi del blocco austro-tedesco costituiscono un mercato chiuso, dove i prezzi sono regolati unicamente dalle condizioni locali e dove è ignoto fino a che punto i prezzi siano prezzi di mercato o prezzi di calmiere e quali siano gli effetti reali dei prezzi di calmiere sul consumo.

 

 

Dimodoché un confronto istruttivo si può fare soltanto fra l’Italia e l’Inghilterra, amendue paesi dipendenti dall’estero, la prima meno e la seconda più, per il proprio approvvigionamento frumentario. Una prima differenza tra i due paesi è data dal dazio doganale, il quale in Italia è di 7,50 lire ed in Inghilterra non esiste. Siccome il governo italiano ridusse il dazio da 7,50 a 3 lire, prima sino al 31 marzo e poi sino al 30 giugno 1915, il prezzo italiano di oggi dovrebbe – a parità di circostanze – essere minore di lire 4,50 in confronto di quello dell’anno scorso. Invece conserva lo stesso livello, aumentato di quelle medesime 8-9 lire di cui aumentò anche in Inghilterra.

 

 

Il che vuol dire che la diminuzione del dazio non ha avuto finora una influenza apprezzabile nel senso di ridurre i prezzi, od almeno che la sua benefica influenza è controbilanciata da influenze contrarie. Una di queste contrarie influenze a me pare di vederla nella conservazione di un residuo di dazio. Quelle 3 lire conservate agiscono ad aumentare i prezzi non solo per il loro ammontare, ma per una cifra maggiore; inquantoché i negozianti importatori prevedono la possibilità di una loro completa abolizione; e temono, importando ora e pagando ora il dazio di 3 lire, di trovarsi a perdere in confronto di quelli i quali attenderanno ad importare nel giorno in cui il dazio sarà compiutamente abolito. Il dazio di 3 lire tende, insomma, a ritardare le compre e gli arrivi dall’estero e quindi a provocare un temporaneo rialzo in Italia. Il dazio conservato è un elemento di incertezza che aggrava i rischi del commercio cerealicolo, in un momento in cui i rischi, reali od immaginari, sono già tanti. E quindi ritengo farebbe cosa opportunissima il governo ad abolirlo senz’altro, dando al commercio la sicurezza di un regime definitivo doganale sino al 30 giugno 1915. Ciò dovrebbe farsi subito, così da permettere al commercio di entrare in campo all’aprirsi della campagna argentina.

 

 

Un’altra circostanza – e questa indipendente dal governo – la quale spiega la maggiore altezza assoluta – se non relativa – del prezzo italiano in confronto del prezzo interno sta in ciò che il nostro commercio era organizzato specialmente per la provvista del frumento dal Mar Nero, ed aveva assai minori rapporti con gli Stati uniti e l’Argentina, divenuti oramai gli unici paesi esportatori. Di frumento duro nel 1913, su 7.875.000 quintali, ne importammo ben 6.300.000 dalla Russia e solo 1.161.000 dagli Stati uniti; di frumento tenero, su 10.230.000 quintali, ne importammo 3.144.000 dalla Rumenia, 2.514.000 dalla Russia e 2.971.000 dagli Stati uniti. Sebbene fossero già avviate correnti d’affari con l’America, tuttavia questi non si intensificarono agevolmente d’un tratto, sovratutto per quanto riguarda il naviglio da carico, che occorre distogliere da altre vie marittime, e tanto meno in un periodo di scompiglio come furono i primi mesi della guerra. L’Inghilterra, che possedeva una organizzazione più perfetta, arrivò prima di noi; e vi arrivò senza uno speciale sensibile intervento dello stato. L’unica grossa compra che il governo inglese fece all’estero fu quella dello zucchero; la quale non si può certo considerare come un segnalato successo e come un incoraggiamento ai governi degli altri paesi a seguire il signor Lloyd George sulla facile via del comprare in fretta e furia ed a caro prezzo.

 

 

Certo, però, se noi vorremo approvvigionarci a sufficienza sui mercati argentini e nordamericani, dopo avere abolito totalmente il dazio e tolto così ogni ostacolo artificiale all’importazione, dovremo deciderci a fare ciò che fanno tutti i consumatori quando vogliono accaparrarsi una merce a preferenza di altri aspiranti: pagarla un po’ più cara dei concorrenti. Io non sono dell’opinione di coloro i quali vorrebbero che il governo si precipitasse sui mercati americani ed accaparrasse quanto più frumento gli fosse possibile; perché questa grottesca maniera di comportarsi ad altro non gioverebbe che a far fare un salto fortissimo ai prezzi sui mercati d’origine, in un momento in cui forse stanno diventando più deboli. Ma, ad ogni modo, sia pure comprando chetamente ed accortamente come sogliono fare i commercianti, se vorremo che nordamericani ed argentini vendano a noi il frumento di preferenza che agli inglesi od ai francesi, bisognerà rassegnarci a pagarlo non molto, ma un po’ più caro degli inglesi e dei francesi. Altrimenti, perché i produttori dovrebbero dare proprio a noi la preferenza?

 

 

Se si tiene conto di ciò e se si pensa che i noli New York – Genova e Buenos Aires – Genova sono più alti dei noli tra i medesimi porti e Londra, e non possono non essere più elevati perché noi non abbiamo tante merci da esportare in quei paesi come ne ha l’Inghilterra e quindi il grano deve sopportare una quota maggiore della spesa del doppio viaggio d’andata e ritorno, dovremo concludere che, anche dopo abolito il dazio, il prezzo di Genova dovrà essere di qualche lira più alto del prezzo di Londra. Di quanto precisamente debba essere più alto non so; forse 30-31 lire sarebbero sufficienti, quando il prezzo di Londra batte sulle 18-19 lire. Acqua però e non tempesta; ed oggi la differenza che è di 6-7 lire è veramente eccessiva.

 

 

Ecco dunque dove dovrebbe rivolgersi l’azione del governo e del commercio: a ridurre la differenza, oggi troppo forte, che intercede tra i prezzi di Londra e quelli di Genova; e ad ottener ciò il governo può contribuire con l’abolizione del dazio residuo sul frumento, con opportuni acquisti di frumento per l’esercito, magari anche con acquisti abbondanti e con la massima riduzione possibile dei premi di assicurazione per i rischi di guerra della marina mercantile. Il commercio libero, allettato dalla differenza dei prezzi fra il mercato italiano ed i mercati d’origine e rassicurato dall’abolizione completa del dazio, farà l’ufficio suo ordinario che è quello di importare quando vede la possibilità di un lucro.

 

 

Affinché però il commercio possa avere interesse ad importare occorre che esso sia assicurato contro un altro pericolo: quello delle requisizioni forzate. Chi vorrà importare frumento, pagandolo all’origine 25-26 lire, e sostenendo spese di trasporto ed assicurazione per altre parecchie lire, quando tema di vederselo requisito a 28 lire? Perché l’importazione sia incoraggiata bisogna cessare dal fare discorsi insulsi di requisizioni forzate, calmieri e simiglianti provvedimenti medievali. Il miglior calmiere è importare e poi ancora importare. Ma perché ciò accada è necessario pagare all’origine il frumento qualcosa più dei concorrenti e sperare di venderlo in patria con un profitto. Tutto il resto sono discorsi vani. Naturalmente, pure importando largamente, noi non potremo impedire che il prezzo in Italia del frumento aumenti oltre le 30-31 lire che sarebbe oggi in Italia il prezzo di parità con l’Inghilterra, ove il dazio fosse abolito e governo e commercio attivamente si occupassero, come pare facciano, dell’approvvigionamento frumentario nazionale. Ciò dipende dai prezzi americani d’origine, che non è in poter nostro di dominare. Senza voler fare in proposito alcuna previsione mi limito ad estrarre dal rapporto recente di una casa inglese le seguenti osservazioni:

 

 

Il mercato nordamericano del frumento ha tendenze piuttosto al ribasso. Lo stock disponibile visibile negli Stati uniti è fortissimo: arrivando a 40,9 milioni di mezzi quintali contro 35,9 nell’anno precedente e richiede, per essere finanziato, molto denaro che ora è caro. La tendenza debole fu accentuata dall’annuncio che l’Argentina ha disponibili 12 milioni di quarters per i prossimi 12 mesi e dalla notizia che la Russia si è accordata con la Svezia, con la Norvegia e la Danimarca per spedire il proprio grano in questi paesi, i quali cesserebbero quindi di premere sul mercato americano.

 

 

Se queste Osservazioni sono esatte, sembrerebbe logica la conclusione che, se si deve comprare – e relativamente presto – in America, bisogna astenersi dal comprare a precipizio e ad ogni costo. Noi abbiamo bisogno di acquistare frumento; ma nordamericani ed argentini – non dimentichiamo questa semplice verità hanno pure bisogno di vendere.

 

 

II

Sospensione totale o parziale del dazio?

 

Il problema del frumento si riacutizza: in Italia, in Germania, in Austria e nell’Inghilterra medesima, la quale è pure la nazione che risente meno vivamente le ripercussioni degli aumenti di prezzo. La posizione dell’Italia si differenzia però da quella degli altri paesi per una circostanza che si potrebbe chiamare artificiale, poiché dipende dalla volontà del legislatore: il dazio residuo sul grano, che dai paesi ora menzionati fu da mesi compiutamente abolito, mentre presso di noi i due decreti 18 ottobre e dicembre 1914 lo ridussero soltanto da 7,50 a 3 lire, prima fino al 31 marzo e poi sino al 30 giugno 1915.

 

 

Oggi sembra divenuto urgente un provvedimento di immediata e totale sospensione del dazio.

 

 

Anzitutto, per ragioni politiche e sociali. In un momento in cui la solidarietà fra le diverse classi sociali deve essere piena, in cui fa d’uopo escludere il sospetto che una qualsiasi classe tragga vantaggio dalle attuali circostanze straordinarie, è socialmente dannosa la permanenza di un dazio, che può apparire voluta a favore degli interessi dei proprietari di terreni. Costoro ottengono già, per causa della guerra, prezzi così elevati e superiori al normale, che deve essere tolto ogni dubbio che abbiano un ulteriore indebito lucro grazie ad un favore consentito dal legislatore.

 

 

Inoltre, per ragioni economiche. Ho già avuto occasione di notare che il dazio può esercitare un’influenza dannosa, superiore al suo medesimo ammontare. Se si sapesse con assoluta sicurezza che il dazio sarà mantenuto sino al nuovo raccolto nell’attuale cifra di 3 lire per quintale, esso potrebbe far aumentare i prezzi del frumento solo di 3 lire. Ma poiché ognuno spera o teme – a seconda del punto di vista – che, ingrossando gli avvenimenti e inacerbendosi il rincaro, il governo sarà alla fine indotto a togliere anche l’ultimo residuo di dazio, i negozianti importatori sono mantenuti in una condizione di incertezza poco favorevole al rapido approvvigionamento del paese. Ognuno teme, importando e sdaziando subito, di pagare 3 lire di dazio che forse risparmierebbe se aspettasse sino al giorno in cui il governo si sarà deciso a lasciar entrare il grano in franchigia. E perciò attende, e in questa attesa il frumento rincara sul mercato interno.

 

 

Una rapida decisione di immediata totale sospensione del dazio è, dunque, necessaria per togliere lo stato di incertezza e per accelerare gli acquisti, gli invii e gli sdaziamenti da parte del commercio libero.

 

 

L’abolizione totale è tanto più necessaria, in quanto il dazio sul grano ha, come suo compagno indivisibile, il dazio sulle farine. Contro alle lire 7,50 di dazio sul grano, vi è normalmente un dazio sulle farine di lire 11,50; ed è naturale che – astrazion fatta dal suo ammontare – sia imposto un dazio sulle farine finché dura il dazio sul grano, se non si vogliono danneggiare i mulini nazionali. Ma quando il dazio sul grano fu ridotto da lire 7,50 a lire 3, il dazio sulle farine avrebbe dovuto essere ridotto nella medesima proporzione: ossia da lire 11,50 a lire 4,60. Invece fu ridotto soltanto a lire 5,25, concedendosi quindi una vera e propria protezione ai mugnai nazionali. Credo che il vero dazio, il quale incide sui prezzi, non sia quello di lire 3 sul grano, bensì l’altro di lire 5,25 sulle farine, perché si consumano pane e pasta fabbricati con la farina e non cogli altri ingredienti del grano; e anche perché, se si potrebbe ammettere in circostanze normali una certa concorrenza e disunione fra i proprietari di terreno a grano – concorrenza la quale potrebbe in speciali circostanze elidere l’azione rincaratrice del dazio – , tale concorrenza pare non esista nell’industria molitoria. Sembra infatti che i maggiori mulini italiani, e principalmente quelli che macinano frumenti esteri, siano tra loro riuniti in sindacato o consorzio: ed il consorzio tende a produrre l’effetto, che ho avuto occasione di illustrare in passato, di sfruttare interamente tutta la protezione doganale. È probabilissimo perciò che il consorzio dei mugnai riesca, sebbene esso non domini interamente il mercato, a far aumentare i prezzi di tutto l’ammontare del dazio di lire 5,25 stabilito sulle farine. Ed è probabilissimo altresì che l’abolizione di questo dazio riesca a diminuire di altrettanto o almeno ad impedire un ulteriore corrispondente aumento dei prezzi. Il che sarebbe già un risultato apprezzabilissimo.

 

 

Sarebbe certamente stato opportuno che l’abolizione completa del dazio fosse stata deliberata sino dal 1ø dicembre. Ma forse siamo ancora in tempo. L’insuccesso relativo della sospensione deliberata nel 1898 derivò da molte circostanze: una fu il ritardo enorme frapposto a deciderla. Dopo una riduzione da lire 7,50 a lire 5 deliberata il 25 gennaio 1898, si tardò fino al 6 maggio ad abolire completamente il dazio; e il periodo della sospensione totale non durò neppure due mesi: ché già al 1° luglio si ritornava alla misura di lire 5; e il 15 agosto al dazio intero di lire 7,50 per quintale.

 

 

Come si poteva pretendere che il commercio si potesse adattare subito a queste vicissitudini incessanti del regime doganale? Il commercio richiede sicurezza dell’avvenire e possibilità di far calcoli preventivi.

 

 

Perciò a me parrebbe necessario che, oltre alla immediata abolizione del dazio sul frumento, sulle farine e sui cereali inferiori, si cogliesse l’occasione per prolungare sino al 15 agosto il periodo della sospensione assoluta. Dico sino al 15 agosto, per indicare quella data approssimativa nella quale comincia a far sentire la sua influenza il nuovo raccolto: quando i prezzi, giova sperare, scemeranno per l’affluire del grano nuovo sul mercato. La limitazione al 30 giugno mi pare troppo ristretta; poiché a quella data, in Italia i raccolti non sono ancora finiti, e in quasi nessuna regione si è trebbiata la nuova messe. Allungando il periodo della franchigia sino al 15 agosto, la finanza perde il dazio del raccolto vecchio e nulla più; e oramai a quella perdita l’erario si deve rassegnare, come al minore dei danni possibili. Al 15 agosto si vedrà quale regime convenga adottare; quali siano le prospettive del raccolto, quale sia la situazione internazionale. Forse, ove, come non è improbabile, il raccolto mondiale del 1915-16 si annunci scarso in confronto ai bisogni, e si facciano previsioni di prezzi alti, converrà tenere il dazio al di sotto delle lire 7,50; e può darsi che la guerra odierna finisca per consigliare quella permanente riduzione progressiva del dazio che per tanti rispetti sarebbe desiderabile.

 

 

Ma questi sono problemi del futuro. Il problema dell’oggi, il quale richiede una soluzione urgente, è la sospensione totale del dazio per un periodo di tempo abbastanza lungo, affinché il commercio possa fare i suoi calcoli sicuri e provvedere all’approvvigionamento del paese. Non dico che l’abolizione del dazio possa da sola bastare a risolvere il problema del frumento in Italia. Nessun problema si risolve con un provvedimento unico. Ma, sbarazzata la via dall’ingombro del dazio, sarà meno difficile organizzare un’azione concreta intesa a impedire che il problema diventi minaccioso.

 

 

III

 

I due provvedimenti che il governo ha già attuato per frenare il rialzo continuo del prezzo del grano – abolizione totale del dazio e ribasso del 50% delle tariffe ferroviarie e marittime – dovrebbero cominciare a produrre i loro effetti. Sarà più rapida l’efficacia del ribasso delle tariffe ferroviarie, sebbene più localizzata: il che è ragionevole, avendo quel ribasso lo scopo di facilitare l’approvvigionamento dei luoghi più lontani dai grandi porti o mercati interni, dove prima il frumento non poteva giungere se non con grave dispendio. Più lentamente agisce l’abolizione del dazio sul grano; in quanto essa ha per iscopo di incoraggiare i negozianti ad importare in Italia, senza il pericolo di dover oggi spendere 3 lire che avrebbero forse risparmiato aspettando ad importare. Ma è chiaro che, affinché il grano giunga ed eserciti un’influenza sui prezzi, occorre che esso sia comperato nei mercati d’origine, caricato sulle navi, approdato a Genova od a Napoli, scaricato e spedito per ferrovia sui mercati interni. Tutto ciò non si fa né in un giorno né in una settimana: ma tanto più presto ad ogni modo si fa, quanto prima si comincia.

 

 

Da taluno fu obiettato che l’abolizione del dazio italiano di 3 lire avrebbe avuto per effetto di far aumentare d’altrettanto i prezzi di Buenos Aires, cosicché le 3 lire perdute dal nostro erario sarebbero guadagnate dai proprietari e negozianti argentini. Se questa obiezione, così come fu esposta, fosse vera, un orizzonte radioso si aprirebbe alle finanze dei travagliati stati europei: basterebbe imporre dazi forti sulle merci d’oltremare per obbligare gli agricoltori americani, ed i produttori asiatici ed africani di derrate coloniali a ribassare d’altrettanto i prezzi d’origine, così da impinguare a loro spese, le esauste casse degli stati europei. La realtà è assai più complessa di questa teoria semplicista, la quale, come quasi tutte le teorie erronee, non fu immaginata dai teorici, ma da uomini che si dicono pratici. Niun dubbio che l’abolizione del dazio di 3 lire in Italia, facendo aumentare la domanda italiana di frumento può produrre un certo rialzo di prezzi sui mercati d’origine; ma un rialzo minore assai di 3 lire. Gli italiani non sono invero i soli compratori di frumento; e non si comprende come gli argentini od i nordamericani possano approfittare dell’abolizione del dazio di 3 lire in Italia per aumentare di 3 lire il prezzo a carico altresì dei francesi, degli inglesi, degli olandesi, degli scandinavi, i quali tutti fanno ora domanda di grano in America. Il prezzo è unico per tutti: non può aumentare per gli italiani e star fermo per tutti gli altri. Se aumenta per tutti, ciò accade per ragioni generali e sarebbe cresciuto anche se il dazio italiano fosse stato conservato. L’abolizione del dazio ha almeno questo vantaggio: che noi continueremo ad avere il prezzo di 40 lire, invece del prezzo di 43 lire che altrimenti avremmo avuto. Tutto al più l’abolizione del dazio del grano, facendo aumentare la domanda italiana, la quale è solo una parte della domanda totale, che veramente esercita una influenza dei prezzi, può contribuire in piccola parte a crescere la domanda totale stessa e quindi a crescere i prezzi d’origine. Sarebbe stato strano però che, per non subire un aumento di prezzo di 50 centesimi, si fosse rinunciato al beneficio di 3 lire.

 

 

Che il prezzo abbia a ribassare sui mercati internazionali e quindi, di riflesso, in Italia, pare improbabile. In Inghilterra e Francia i prezzi battono sulle 30-35 lire a seconda delle piazze; negli Stati uniti oscillano da 27 a 30 lire. Se noi riflettiamo che data la straordinaria scarsità delle navi disponibili tutta la flotta mercantile germanica è chiusa nei porti ed un quarto della flotta inglese è requisita per fini militari i noli sono altissimi, più di 8 lire per quintale dall’America all’Italia; se al prezzo di origine di 27-30 lire aggiungiamo, oltre il nolo di 8 lire, le spese di assicurazione, l’aggio, le spese di carico e scarico e trasporto ferroviario, il prezzo di lire 40 appare suppergiù adeguato ai prezzi che si hanno sui mercati esteri. Francia ed Inghilterra godono di prezzi più bassi, la prima probabilmente per la buona produzione interna, la seconda per i più bassi noli tra Inghilterra ed America del nord, dovuti a molteplici circostanze, che non è in poter nostro di mutare da un momento all’altro.

 

 

È da augurare che nuovi fattori intervengano, i quali valgano a ridurre taluni dei fattori – prezzi d’origine, noli, assicurazione, aggi, spese di scarico e trasporto – che ora inesorabilmente determinano il prezzo di lire 37-40. Se si potesse avere una flotta mercantile adibita al trasporto dei grani e se i noli potessero ribassare di 3 o 4 lire al quintale, di altrettanto diminuirebbero i prezzi. Ma finché questi nuovi fattori non si vedano ed agiscano, è inutile e puerile pretendere che il prezzo ribassi.

 

 

Quali possono essere questi nuovi fattori? Varie furono le risposte date: e conviene fare un breve cenno dei diversi metodi che furono additati per conseguire un fine che sarebbe certo desiderabilissimo.

 

 

Anzitutto le requisizioni del grano presso i proprietari e negozianti interessati. Il grano è caro, si afferma, non perché faccia difetto; ma perché i detentori lo tengono ben nascosto per affamare la popolazione ed estorcere prezzi ancor più elevati. S’obblighino costoro a portarlo sul mercato ed il prezzo ribasserà.

 

 

L’esperienza di secoli ci dovrebbe rendere profondamente scettici intorno alla virtù delle requisizioni. È risaputo, anche da chi non ha letto i Promessi sposi, che le requisizioni spaventano i detentori e li inducono ad usare ogni astuzia, pur di non palesare l’esistenza del frumento posseduto. Esse, invece di provvederlo abbondantemente, rarefanno il mercato.

 

 

Sovratutto, conviene ai consumatori italiani adottare questo sistema? Pur ammettendo che si riesca, cosa impossibile, a far portare sul mercato tutto il frumento oggi esistente in Italia, non terremmo noi lontano il frumento in viaggio od ancora giacente nei paesi d’origine, di cui abbiamo urgente bisogno? Chi vorrà importar grano in Italia, quando tema che, prima o poi, esso gli verrà requisito ad un prezzo inferiore al costo o tale da non lasciargli quel margine di utile che potrebbe ottenere, vendendolo in Inghilterra od in Scandinavia? Non dimentichiamo che i produttori e negozianti americani non sono ai nostri ordini e che, per ottenere il loro grano, noi dobbiamo dar loro l’assoluta sicurezza che essi lo potranno liberamente vendere con un guadagno maggiore di quello che essi potrebbero ottenere altrove. Le requisizioni produrrebbero, a breve andare, prezzi di carestia di 70 od 80 lire al quintale.

 

 

Colle requisizioni non si deve confondere il censimento del grano, che il governo si è riservata la facoltà di ordinare dove e quando lo creda opportuno. Il censimento per se medesimo non porta a nessuna costrizione di vendita. Ha per iscopo di far luce, di rendere pubbliche le disponibilità esistenti sul mercato. Come ogni provvedimento di pubblicità, giova a scemare l’orgasmo e ad impedire troppo vive oscillazioni di prezzi.

 

 

Importa però assicurare che il censimento non sia il prodromo delle requisizioni; ché esso spaventerebbe i detentori e produrrebbe gli stessi mali effetti che nascono dalle requisizioni.

 

 

In Germania ed in Austria-Ungheria i governi fissarono i massimi di prezzo del frumento e di varie altre derrate o merci. Ma già in Germania si vide che la fissazione dei prezzi massimi è un provvedimento incompleto; il quale, anche in un paese in stato d’assedio, come sino ad un certo punto è la Germania, non funziona o funziona male. Si cominciò, in Germania, con decreto del 28 ottobre a fissare un massimo di franchi 32,10 al quintale per il frumento di un peso naturale non superiore a chilogrammi 75 per ettolitro. E subito proprietari e negozianti vendettero a prezzi superiori al massimo, affermando che il loro frumento non era contemplato dal decreto, essendo di peso naturale superiore ai 75 chilogrammi per ettolitro. Si abrogò, con decreto del 24 dicembre, la clausola dei 75 chilogrammi, fissandosi il massimo di 32,10 franchi per ogni qualità di frumento. E la derrata cominciò a scarseggiare, perché i detentori si rifiutarono spesso a porla sul mercato ai prezzi di massimo. E poiché il decreto riguardava le vendite all’ingrosso e non quelle al minuto del piccolo commercio, molti proprietari e grossi negozianti si diedero a vendere al minuto a prezzi assai superiori ai massimi legali. Convenne che il governo decretasse il monopolio di stato di tutto il grano nazionale, lasciando libere la importazione e la vendita del grano straniero. Il monopolio è un provvedimento che può essere efficace, perché è completo. Per ragioni di difesa nazionale, lo stato si appropria tutto il grano esistente nel paese e mette gli abitanti a razione: 2 chilogrammi per settimana. Quando una piazza è assediata ed i viveri scarseggiano, non vi è altro rimedio che il razionamento. Siamo in Italia giunti a questo punto? Abbiamo pronta l’enorme e complicata ed oculatissima macchina che occorrerebbe non solo per requisire, ma anche per razionare il frumento? Come conciliare il funzionamento di questa macchina colla libertà, che dovrebbe lasciarsi agli importatori di frumento estero di importare e vendere a prezzi liberi? Se non si lasciasse questa libertà e si pretendesse requisire anche il frumento estero, neppure un chicco di grano entrerebbe più in Italia; e se la si lascerà, come regolare il razionamento? In un imbroglio di questa fatta si trova la vicina monarchia austro-ungarica, dove furono fissati, con metodi diversi, prezzi massimi per il frumento, variabili però da città a città: di lire 42,53 per quintale a Vienna e di lire 43,05 a Budapest. Ma i proprietari ungheresi, a questi prezzi, non vogliono vendere; e mentre in Austria si propone da taluno il monopolio, il governo non osa porlo in atto, perché non sarebbe seguito dal governo ungherese e l’Austria non saprebbe come obbligare i proprietari ungheresi a vendere il frumento al suo monopolio.

 

 

Niente massimi e monopoli dunque; ché produrrebbero per ora imbarazzi peggiori del male che si vuol combattere; ma il governo importi, dicono alcuni, grandi masse di frumento e le venda esercitando una azione di calmiere sul mercato.

 

 

Il problema è di misura. Se il governo importasse e vendesse dappertutto in concorrenza con i privati a prezzi minori di quelli che lascerebbero un margine di guadagno conveniente agli importatori, egli rimarrebbe il solo ad importare. Chi vorrebbe ancora importare quando avesse la prospettiva di incontrare la concorrenza a sottoprezzo del governo? A meno che il governo sappia già di potere esso importare tutto il frumento mancante sino al prossimo raccolto, il rimedio sarebbe peggiore del male. Ma se il governo si contenterà di importare grano per il fabbisogno dell’esercito, e di mettere il sovrappiù in vendita qua e là, nei luoghi dove i prezzi facessero degli sbalzi all’insù assai forti e in disarmonia con i prezzi di Genova e dei grandi mercati interni, allora non vedo come l’azione calmieratrice del governo potrebbe disanimare il commercio di importazione. Forse questa è la sola cosa utile che il governo possa fare, nell’interesse dell’ordine pubblico, il quale potrebbe essere turbato da prezzi sporadici di 5 o 10 lire più alti dei prezzi correnti nello stesso momento sui mercati principali. L’azione governativa, esercitata con rapidità e moderazione, avrebbe per iscopo di rompere i monopoli locali, che possono sorgere in località dove il commercio non è organizzato e dove non esiste un vero mercato dei cereali.

 

 

Nemmeno se il governo potesse con certezza direttamente e per proprio conto importare tutti i sei milioni di quintali che pare manchino ancora per giungere sino al prossimo raccolto, converrebbe vendere dovunque ed a casaccio a sottocosto. Il consumo assorbirebbe prima tutto il grano governativo a buon mercato; e, finito questo, dovrebbe ritornare al frumento nazionale a prezzi più alti.

 

 

Occorre perciò che il governo resista alla tentazione di vendere dovunque, a caso, a sottoprezzo, solo per soddisfare al clamore di politicanti professionisti di dimostrazioni di carestia. Perché, ripeto, vendere a sottoprezzo equivale a tenere lontane le importazioni dall’estero ed a rincarare i prezzi.

 

 

Se fosse possibile, converrebbe per ragioni di ordine pubblico seguire il metodo proposto dall’on. prof. De Viti-De Marco, secondo cui il governo potrebbe dare un sussidio ai consumatori più miserabili, i quali non possono pagare i prezzi attuali del frumento. La proposta in massima è accettabile, poiché costerebbe meno dare qualche sussidio che lasciare acuire malcontenti ed irritazioni popolari in un momento così difficile come il presente. Le difficoltà sono tutte pratiche. Come distinguere i veramente bisognosi nella turba innumere di coloro che si presenterebbero a reclamare il sussidio? La soluzione migliore pare sia di rimettersi agli organi già esistenti – congregazioni di carità ed opere pie – incoraggiandoli ad esercitare un’azione più rapida e provvida del solito.

 

 

Un ultimo freno all’aumento ulteriore dei prezzi deve essere accennato: l’uso del pane di guerra. Su questo punto oramai la discussione è accesa su tutti i giornali: e molti pratici ed igienisti sostengono che l’uso del pane integrale sia il rimedio che praticamente può avere maggiore efficacia. Con la restrizione dell’uso del pane bianco, con la utilizzazione delle farinette e di parte della crusca nella confezione di un unico tipo di pane scuro, con la mescolanza di una moderata quantità di farina di riso, pare si possa riuscire ad utilizzare, meglio di quanto non accada oggi, il grano esistente in Italia ed a diminuire la necessità di ricorrere all’estero. Molti ritengono che il pane I (integrale) ed il pane R (pane integrale, con mescolanza di farina di riso) siano altrettanto o più nutrienti del pane bianco, che la popolazione cittadina si è oramai abituata a mangiare. Se davvero si riuscisse con la panificazione integrale a far durare le provviste esistenti in paese quindici giorni o un mese di più, nessuno sforzo dovrebbe essere risparmiato per contribuire in tal modo a risolvere il problema del pane.

 

 

IV

Il pane unico

 

Il divieto di fabbricare pane con farina a meno dell’80% di resa può essere giudicato da parecchi punti di vista, e sovratutto da quelli della legittimità e della convenienza. In tempi normali non vi è nessuna ragione che lo stato si interessi dei metodi di fabbricazione del pane; poiché tutto si riduce ad un problema di prezzo. Quanto più i consumatori desiderano mangiare pane bianco, leggero, soffice, fresco, tanto più cala la resa del frumento in farina, fino a limiti bassissimi del 60% od anche meno, e tanto più cresce la proporzione di crusca, di farinette e prodotti secondari, i quali devono essere venduti per consumi diversi da quelli dell’alimentazione umana. Praticamente la cosa non presenta difficoltà veruna, essendo cresciuti, in seguito ai buoni prezzi che si possono ottenere dalla vendita delle carni e del latte, i consumi dei prodotti secondari per l’alimentazione del bestiame. Unica conseguenza è quella già detta: di dover comperare il pane a prezzo tanto più caro quanto maggiore è la proporzione eliminata dei prodotti secondari, che si possono vendere soltanto a prezzi relativamente più bassi. L’attaccamento, che può anche sembrare irragionevole, delle popolazioni cittadine verso il pane bianchissimo, di forme minute e costose, è soltanto un indice delle loro condizioni di fortuna grandemente migliorate da un terzo di secolo in qua, le quali le fanno vogliose di spendere una parte maggiore dei loro redditi sotto questa forma. Le popolazioni rustiche, sia che abbiano redditi minori, sia che abbiano abitudini di vita più frugali, consumano pane confezionato con farina più scura e quindi di minor costo.

 

 

In tempi di mercato normale la scelta fra il pane caro ed il pane a minor prezzo può dunque essere lasciata alla libera scelta di ognuno dei consumatori. Chi voglia fare della morale, può deplorare il fatto che i gusti degli uomini siansi così raffinati o pervertiti da preferire un pane che ha solo le apparenze della bontà del vecchio e sapido e nutriente pane casalingo che s’usa ancora adesso in molte campagne. Un economista, il quale voglia fare il calcolo del malo uso che spesso le classi borghesi ed operaie fanno del proprio reddito, dello spreco probabilmente notevolissimo di denaro che si fa nella scelta delle derrate utili all’alimentazione, può citare, insieme con molti altri, l’esempio del mediocre ed insipido pane bianco che si sostituisce al pane casalingo nell’alimentazione di quelle classi che più gridano poi contro il caro-viveri ed, essendo per questa ed altre parecchie ragioni, divenute incapaci al risparmio individuale, pretendono che lo stato pensi ad ogni loro occorrenza. Ma tutti questi sono discorsi accademici, destinati a cadere nel vuoto.

 

 

In tempo di guerra, i discorsi si trasformano invece in decreti necessari. Ed a ben giusta ragione. L’Italia si trova oggi nelle condizioni di una piazza assediata, a cui i viveri possono pervenire per un’unica via impervia, in cui i costi dei trasporti sono elevatissimi e siffatti da limitare grandemente le forniture. L’assedio non è posto da eserciti o da flotte da guerra, come in Germania ed in Austria; sibbene da nemici altrettanto potenti, come sono gli alti prezzi sui mercati d’origine ed i noli enormi. Ai quali nemici esterni bisogna aggiungerne un altro interno potentissimo, ed è la nostra incapacità o poca voglia di pagare prezzi sufficientemente elevati. Ho già avuto occasione di notare altra volta che i comizi, le agitazioni contro il rincaro del pane, le proposte insensate di calmieri, di perquisizioni, di vendite governative a sottoprezzo, di condanne producono un unico effetto pratico: di fare andare via la voglia ai commercianti privati di far venire in Italia pure un quintale di frumento dall’estero. Chi ha interesse, fa d’uopo ripeterlo ancora una volta, a comprare frumento caro argentino per correre il rischio di vederselo espropriato a buon mercato o di vedersi fatta concorrenza dal grano governativo venduto e sottoprezzo? Già fin d’ora, del resto, è molto dubbia la convenienza di importare frumento dall’Argentina. Si faccia il conto dei 19 – 30 franchi oro che il quintale di frumento costa al Plata, dei 9 franchi oro di nolo, delle assicurazioni marittime normali e contro il rischio di guerra, delle spese di scarico e di manipolazione in porto, degli interessi perduti, dell’aggio del 10-12% e si vedrà che il quintale di frumento argentino, comperato oggi, non costerà meno di 46-47 lire italiane carta posto sul porto di Genova. E poiché il frumento sulle piazze interne batte sulle 40 lire, è chiaro che al commercio privato in questo momento non conviene importare grani stranieri per il consumo in Italia.

 

 

Mentre si attende la caduta dei Dardanelli e la libera uscita di flotte cariche di grano russo – attesa la quale non si sa quanto dovrà durare – tutta la responsabilità dell’approvvigionamento del paese ricade sul governo. A Genova, che è il centro più sensibile del mercato granario in relazione all’estero, ho sentito fare calcoli svariatissimi del quantitativo di frumento che ancora dovrebbe giungere dall’estero per assicurare l’alimentazione italiana fino al nuovo raccolto: da 4 a 6 milioni di quintali di frumento, oltre ad 1 milione di quintali di granoturco. Una buona parte di questo fabbisogno è già accaparrata, ed è in attesa di sbarco ai porti d’origine od è in viaggio per l’Italia. Ma forse una parte, speriamo piccola, deve ancora essere acquistata. Per quest’ultima parte il problema si pone. Se il governo si assume il completo approvvigionamento del paese, ma soltanto in questo caso, è possibile ai prezzi attuali comperare grano all’estero; poiché il governo può mettere a carico dei contribuenti la differenza fra le 46-47 lire di costo ed il minor prezzo di vendita.

 

 

In questi frangenti è naturale ed è doveroso che il governo provveda a diminuire il consumo dei prodotti secondari della macinazione per l’alimentazione del bestiame, accrescendo la proporzione consumata dagli uomini. In tempi normali lo stato può fare a meno di interessarsi dei modi con cui gli uomini provvedono alla loro alimentazione, ma in tempi come i presenti, in cui:

 

 

  • i noli cresciuti e gli alti prezzi d’origine e l’aggio rinato hanno fatto sorgere come un muro attorno al paese;
  • – in cui le rimanenze di frumento ancora da acquistare, finché i Dardanelli non siano aperti, si dovrebbero acquistare a prezzi parecchio superiori a quelli a cui i consumatori vogliono fare gli acquisti;
  • – in cui si minacciano agitazioni contro il governo e gli speculatori perché non fanno arrivare il grano e si fanno contemporaneamente comizi contro il prezzo alto, che è l’unica condizione, data la quale il frumento potrebbe in copia sufficiente arrivare da sé;
  • – è giocoforza che il governo, rimasto unico approvvigionatore, per le quantità ancora da impegnarsi all’estero, cerchi di diminuire il gravissimo onere dei contribuenti costringendo gli uomini a ritornare al vecchio e saporito pane casalingo che un tempo dappertutto ed ancor oggi nelle campagne è alimento gradito delle popolazioni.

 

 

È difficile calcolare la resa in milioni di quintali di questo provvedimento. Occorrerebbe sapere quanta parte dei 5 milioni circa di quintali di frumento che si consumano in Italia al mese vada per la panificazione e quanta parte sia destinata alla fabbricazione delle paste alimentari, biscotti e dolci; ed occorrerebbe sapere quale sia la resa media attuale del frumento panificato. In parecchi casi già prima si andava vicino ad una resa dell’80%, mentre nelle città e nei borghi e nelle pianure, dove i contadini ingrassano bestiame, si rimaneva parecchio al disotto.

 

 

Se il miglioramento medio nella resa fosse del 10% in media, il provvedimento potrebbe produrre un risparmio di 500.000 quintali al mese. Anche riducendo questa cifra fortemente, trattasi pur sempre di un risparmio apprezzabile. Sarà osservato dappertutto il provvedimento? Come ottenerne l’osservanza nei numerosi forni privati casalinghi sparsi nelle campagne? Si esauriranno prima del 22 marzo, data in cui il decreto dovrebbe entrare in applicazione, le rimanenze di farina già abburattata con una percentuale di resa inferiore? Trattasi di difficoltà pratiche, a sormontare le quali devono concorrere, col governo, i cittadini tutti. Non è questo il momento di fare recriminazioni intorno alla qualità del pane. Tutti dobbiamo prestare aiuto al governo nell’opera immane da esso forzatamente assunta di provvedere all’approvvigionamento del paese. Lamentarsi, recriminare, ostacolare è oggi un delitto contro la difesa nazionale.

 

 

V

Il decreto sul pane unico ha fatto risorgere il problema del modo di calcolare il dato di panificazione ed ha aggiunto a questo l’altro problema del dato di macinazione. Già nel 1852 il conte di Cavour, in una sua relazione quasi inedita al consiglio comunale di Torino, che sarà pubblicata nel prossimo numero della rivista «La riforma sociale» intorno alle mete o calmieri del pane, lodava i criteri che a Torino erano stati poco prima deliberati per fare il calcolo del costo del pane, seguendo i consigli del prof. Giulio, mente lucidissima di tecnico e di economista; ma aggiungeva che, sebbene i calcoli del Giulio fossero i migliori conosciuti non solo in Piemonte ma in Europa, tuttavia essi erano pur sempre erronei, sicché il miglior partito appariva essere quello di non impacciarsi oltre di mete o di calmieri. Sembra invero impossibile di potere calcolare in modo sicuro e generale i dati variabilissimi del costo di macinazione e di panificazione, i quali variano secondo la qualità del frumento e della farina, la loro resa, le dimensioni del mulino o del forno, il peso delle spese generali, l’utilizzazione ed il prezzo dei prodotti secondari, ecc. ecc. Ciò che di meglio si può sperare di ottenere è un dato di costo medio: il quale, appunto perché è un dato medio, non si applicherà in concreto a nessun caso particolare e lascerà sussistere guadagni notevoli per taluni mugnai e fornai, mentre farà muovere alte lagnanze ad altri, i quali dalla sua adozione saranno costretti a perdere.

 

 

Fatta questa premessa intorno alla difficoltà estrema di poter dire in proposito qualcosa con precisione, vediamo quale influenza il decreto possa avere esercitato sul dato della macinazione.

 

 

Il punto di partenza deve essere il prezzo del quintale di frumento, a cui si dovrebbe aggiungere il costo della macinazione. Se noi supponiamo che il prezzo del quintale di frumento sia di lire 44 e se noi calcoliamo in lire 1,60 (dato medio o tipico) il costo della macinazione, otterremo un costo totale di un quintale di frumento macinato di lire 45,60.

 

 

Il decreto sul pane unico importa una variazione in questo dato? Vi sono taluni mugnai, i quali rispondono di sì. Il decreto sul pane unico, essi ragionano, diminuirà il consumo di frumento, in primo luogo del 5% permettendo un maggiore rendimento del frumento in farina, ed in secondo luogo di un altro 5% computando un maggior rendimento della farina in pane di forme grosse, contenenti una maggior proporzione di acqua delle forme piccole. Da ciò discende che i mulini macineranno il 10% meno di frumento, in confronto a quanto ne avrebbero macinato se non fosse intervenuto il decreto sul pane unico. Di qui discende ancora che essi dovranno ripartire le loro spese generali, rimaste identiche, su una produzione di macinati diminuita di un decimo; sicché il costo della macinazione risulterà per ogni quintale di frumento alquanto maggiore. Qualche mugnaio ha calcolato in 50 centesimi per quintale l’aggravio di costo per tal ragione subito; ma il calcolo, anche non avendo cognizioni tecniche in merito, sembra assai esagerato. Pure ammettendo che delle lire 1,60 di costo di macinazione circa la metà ed anzi 1 lira siano spese generali ossia fisse, e solo i restanti 60 centesimi siano spese specifiche ossia proporzionali al quantitativo macinato, si avrà che per 100 quintali si spendevano prima del decreto 100 lire e cioè 1 lira per quintale; e dopo il decreto per 90 quintali si spenderanno ancora 100 lire, ossia lire 1,11 per quintale. Il dato di macinazione si può, per larghezza, supporre cresciuto di circa 11 centesimi per quintale, portando da lire 45,60 a lire 45,71 il costo del quintale di frumento macinato.

 

 

Tanto prima che dopo il decreto supponiamo che su 100 chilogrammi di frumento macinato 20 fossero dati dalla crusca: ipotesi che sembra legittima per i mulini perfezionati, dove già prima si cercava di ricavare dal frumento la massima quantità di farina possibile. Se alla crusca noi attribuiamo un prezzo di 20 lire al quintale, per 20 chilogrammi sono 4 lire di ricavo che dobbiamo dedurre dal costo del frumento macinato per ricavare il costo degli 8o chilogrammi di farina:

 

 

Prima del decreto Dopo il decreto
Prezzo di 1 q di frumento

L. 44, –

44, –

Costo di macinazione

L.1,60

1,71

Totale

L. 45,60

45,71

Ricavo di 20 kg di crusca

4, –

4, –

Costo di 8o kg di farina

L. 41,60

41,71

 

 

Prima del decreto le lire 41,60 di costo di 80 chilogrammi di farina erano ripartite su varie qualità di farina, mentre ora deve essere ripartito su una qualità unica.

 

 

Ecco la ripartizione del costo antico, secondo i dati di fatto comunicati da un mulino moderno:

 

 

Farina n. 0 kg 7 a L.

58,50

al q

L. 4,09

Farina n. 1 68

53,50

L. 36,38

Farinette 2

30, –

L. 0,60

Cruschello 3

20, –

L. 0,60

Totale

80

L. 41,67

 

 

Oggi, il costo di lire 41,71 diviso per 8o chilogrammi dà un costo unitario di lire 52,14 per quintale. Confrontando questo prezzo con quello di lire 53,50 della farina n. 1, che era usata per la panificazione si ha una diminuzione di circa lire 1,35 per quintale.

 

 

È facile, per le ragioni già dette, che la diminuzione sia ora minore ed ora maggiore nei casi singoli; ma non pare possa allontanarsi molto da questa cifra, almeno per i mulini moderni, poiché il nuovo prezzo della farina unica non può essere altro se non la media ponderata dei prezzi che si facevano prima fra la farina finissima, la farina comune, le farinette ed il cruschello, tenendo conto altresì del lieve aumento nel costo della macinazione dovuto al minor consumo del frumento e quindi alla minore macinazione.

 

 

Naturalmente le ripercussioni del decreto sul pane unico non si fermano a questo punto. Che cosa accadrà dei prezzi delle rimanenze esistenti di farinette e di cruschello e di farine finissime? Non avranno una tendenza ad aumentare, oggi che la loro produzione è resa più difficile? Non otterranno talvolta i mugnai un compenso alle aumentate spese unitarie di macinazione, che essi affermano derivare dal decreto? Problemi complessi, che sarebbe assai difficile tradurre in cifre. Né si può pretendere di regolare con decreti od ordinanze tutti questi delicati aggiustamenti di prezzo alla nuova condizione di cose. Dopo tutto, il decreto volle ridurre il consumo del frumento e far durare più a lungo le nostre provviste. A questo suo essenziale intento tutti debbono contribuire, facendo ogni sforzo affinché il periodo di transizione sia ridotto al minimo e le inevitabili difficoltà siano sormontate con spirito di equità e tolleranza.

 

 

VI

Nello stadio del problema del grano un punto deve essere innanzi tutto messo in chiaro; ed è il fabbisogno per il consumo del paese. I dati fondamentali si leggono nella pregevole monografia «Il frumento in Italia» pubblicata nel 1914 dall’ufficio di statistica agraria, nella quale furono elaborati, a cura dell’egregio sig. Zattini, attuale capo dell’ufficio, i risultati di un quinquennio di accurate rilevazioni statistiche. Ecco la media del quinquennio 1908-12 per la produzione interna e del quinquennio dal 1908-909 al 1912-13 per la importazione dall’estero ed il consumo (in milioni di quintali):

 

 

Produzione interna (dedotta la semente)

41,6

Importazioni nette dalle esportazioni

13

Disponibilità

54,6

Consumo calcolato dalla popolazione urbana

32,3

Consumo calcolato dalla popolazione agricola

21,1

Consumo

53,4

A ricostituzione o formazione di riserve

1,2

 

 

Poche spiegazioni bastano a chiarire il significato del calcolo. Errerebbe chi volesse dalla cifra scarsa od abbondante di un raccolto dedurre che occorre importare dall’estero l’intiera differenza fra il consumo totale e la produzione dell’anno. Vi è invero una buona metà della popolazione, quella agricola, la quale non viene sul mercato a fare acquisto di grano, ricorrendo invece al consumo di altre derrate (granoturco, legumi ecc.) che può essere stata prodotta nel podere in maggior copia od intaccando le piccole riserve di frumento, che ogni famiglia rustica conserva in casa, aumentandole o diminuendole a seconda della abbondanza o scarsità del raccolto. Con una serie di calcoli minuti l’ufficio di statistica agraria ha concluso che il consumo della popolazione agricola italiana può considerarsi uguale alla metà del raccolto interno al netto delle sementi; cosicché dall’estero devesi importare la differenza fra il consumo della popolazione urbana, supposto lentamente crescente, e l’altra metà del raccolto. Nel quinquennio considerato erasi importato qualcosa di più del fabbisogno, allo scopo di ricostituire e fors’anco di accrescere le riserve depauperate da un precedente periodo in media sfavorevole.

 

 

Su queste basi, vediamo di determinare, con una larghissima approssimazione, il fabbisogno di grano dell’anno agrario 1915-16. La produzione interna è risultata inferiore alle aspettative ed al raccolto medio in parecchie regioni, come il Piemonte, le Marche, gli Abruzzi e Molise, la Campania, le Puglie e la Basilicata ma notevolmente superiore in Sicilia, in Sardegna e nelle Calabrie; né si può dire che nelle altre regioni si discosti gran fatto dalla media. Cifre precise non furono ancora comunicate dall’ufficio di statistica agraria; ma tenuto conto della estensione della cultura del frumento avvenuta nell’autunno scorso ed anche dato un ragionevole peso all’influenza dannosa delle vicende atmosferiche del pessimo mese di giugno, non pare che il raccolto abbia ad essere inferiore alla media del sessennio 1909-14, in cui si ebbero tre annate cattive, due mediocri ed una ottima. E poiché quella media fu di 49.273.000 quintali, noi possiamo assumere la cifra di 49 milioni di quintali come quella più probabile per la produzione del 1915. Facendo tale ipotesi noi veniamo a supporre un raccolto inferiore al mediocre ed anzi cattivo, ove si rifletta che in talune regioni d’Italia, le quali da sole producono circa un quarto del totale raccolto, questo fu ottimo e che dappertutto la superficie coltivata fu maggiore del solito. Se noi dai 49 milioni deduciamo 6 milioni di quintali per le semenze, restano disponibili per il consumo interno 43 milioni di quintali. La popolazione agricola provvederà ai casi propri con la metà di questa cifra, ossia 21,5 milioni di quintali, ricorrendo, per il resto dei suoi consumi, alle riserve famigliari, alle fave, ai legumi ed al granoturco, il cui raccolto si annuncia sotto assai favorevoli auspici. Si può escludere che i contadini vogliano comprare frumento, proprio in quest’anno di prezzi alti; e si può ragionevolmente ritenere che essi faranno ogni sforzo, come già fecero l’anno scorso, per venderne.

 

 

Rimangono così 21,5 milioni di quintali per la popolazione urbana; il cui consumo era calcolato di 30,8 milioni di quintali nel 1909 ed era cresciuto a 32,7 nel 1912 nella citata monografia sul frumento in Italia. Supponiamo che, nel 1915-16, il consumo sia cresciuto ancora a 33,3 milioni di quintali; e che ad essi si debba aggiungere 1 milione di quintali per maggior consumo dell’esercito ed un altro milione per il consumo dei rimpatriati. Sono in tutto 35,3 milioni necessari contro 21,5 disponibili per il consumo dell’anno. Differenza, a cui si deve provvedere: circa 14 milioni di quintali.

 

 

È probabile tuttavia che questa cifra di 14 milioni di quintali sia un gran massimo, a cui si dovrebbe giungere solo nel caso che non si volessero menomamente intaccare le riserve disponibili.

 

 

Queste devono essere ingenti. Basti riflettere che mentre dall’1 luglio 1913 al 30 giugno 1914 si erano importati 11,1 milioni di quintali, nel corrispondente periodo 1914-15 si importarono invece 15,3 milioni; che ancora nel nuovo anno fiscale le importazioni seguitano ad affluire: 1,1 milione di quintali dal 1 al 20 luglio 1915 contro 0,6 nello stesso periodo del 1914. Basti notare essere convinzione assai diffusa e suppongo fondata sul vero che molta parte del frumento importato dal governo nello scorso esercizio sia tuttora disponibile, per dover concludere che forse non sono lontani dal vero coloro i quali ritengono che l’anno agrario 1915-16 si sia aperto con una rimanenza, disponibile per il consumo della popolazione urbana, da 6 a 8 milioni di quintali. Di guisa che basterebbe importare da 6 a 8 milioni di quintali per coprire il nostro fabbisogno dell’annata, ove si volesse chiudere l’anno senza riserve; ovvero si potrebbe andare sino a 10 milioni, con la probabilità di chiudere l’anno con una non spregevole riserva.

 

 

Che nel mondo, i 6, gli 8 ed anche i 10 milioni di quintali siano disponibili non vi è alcun dubbio. Anche senza tener calcolo della Russia e della Romania, ma escludendo pure dal conto gli imperi centrali, a cui è preclusa l’importazione per mare; noi ci troviamo di fronte agli Stati uniti, al Canada ed all’India, le cui disponibilità paiono larghe. Sul raccolto del Canada, il bollettino di luglio dell’Istituto internazionale di agricoltura dà un aumento di superficie del 26,2%, con una previsione al 1° luglio di un raccolto per ettaro uguale al 99% di un raccolto medio per il frumento d’autunno ed al 103% per il frumento d’inverno. Dobbiamo dunque attenderci da questo lato una possibile maggiore disponibilità, da 5 a 10 milioni di quintali di più dell’anno scorso, per l’esportazione. Per gli Stati uniti si nota una diminuzione prevista di raccolto da 186,4 a 181,8 milioni di quintali per il frumento d’autunno; ma un aumento da 56,1 ad 80,3 per il frumento di primavera. Ecco altri 18-20 milioni di quintali, in complesso, disponibili di più in confronto all’anno scorso. Per l’India le previsioni sono magnifiche: 104,3 milioni di quintali contro 84,8 prodotti l’anno scorso: una maggiore disponibilità di 20 milioni di quintali.

 

 

Né sembra che vi siano paesi importatori costretti a farci, per la scarsità del loro raccolto, una concorrenza troppo viva nell’acquisto del frumento. La Francia ha coltivato, invero, a frumento il 7% in meno della superficie cerealicola in suo possesso; ma il raccolto è segnalato col punto 67, il quale nelle sue statistiche sta fra il 60 – buono – e l’80 – buonissimo – . Per l’Inghilterra si prevede un raccolto superiore del 7,3% a quello dell’anno scorso; per la Svizzera pure notasi un aumento del 19,1%; per la Danimarca lo stato di cultura è del 10% superiore al normale, per la Spagna la superficie coltivata segnala un piccolo aumento, per la Norvegia il raccolto è medio, per la Svezia e l’Olanda lo stato di cultura dà un sovrappiù del 7%, in confronto al normale. Se si dovesse dare un giudizio complessivo, si sarebbe portati ad affermare che da un lato il fabbisogno delle nazioni importatrici sia leggermente inferiore e dall’altro lato le disponibilità delle nazioni esportatrici siano apprezzabilmente maggiori degli anni scorsi.

 

 

Forse appunto per dimostrare che gli uomini spesso traggono dai fatti le deduzioni più contradditorie ed illogiche, i prezzi, i quali avrebbero dovuto logicamente avere una tendenza fiacca, si sono messi all’aumento. Forse non più negli ultimissimi giorni, ma per una buona settimana nella seconda metà di luglio, fu una ridda pazza all’aumento. In Italia d’un tratto da 36-37 lire si giunse a 41-42 e poi a 44-45 lire al quintale. È inutile studiare le ragioni del subitaneo movimento; perché i misteri basta constatarli. Tuttavia non è forse inutile dare uno sguardo ai rimedi che da molte parti furono messi innanzi per frenare l’inaspettato aumento.

 

 

VII

Di fronte ad un fabbisogno dei paesi importatori invariato e forse leggermente diminuito, ed a disponibilità probabilmente maggiori nei paesi esportatori, i prezzi, i quali almeno avrebbero dovuto rimanere calmi, si sono messi a salire.

 

 

Sul mercato di Chicago, il quale oggi, annullati i mercati danubiani e russi, è divenuto l’unico mercato regolatore del mondo, il frumento, il quale valeva 100 cents per bushel a metà giugno, è salito a 107-110 cents. I grani del nord America posti a Genova valevano 36-37 lire a metà giugno ed ora sono giunti a 44-45; mentre quelli del sud America aumentavano da 29-30 a 40-42 lire e, per riverbero, i grani nazionali da 32-35 balzavano a 40-41 lire.

 

 

Questi furono i massimi toccati; poiché verso gli ultimi giorni di luglio una certa maggiore calma si notava, non si sa se temporanea, la quale attenuava il rialzo intorno alle 40 lire. Prezzi sempre altissimi, i quali spiegano il riprendere delle proposte e delle grida pro censimento del grano, requisizioni, prezzi massimi, monopolio governativo del frumento, ecc. ecc. Quegli stessi sindaci, prefetti, deputati, i quali in maggio e giugno scorso avevano lasciato in asso il governo con le sue grosse provviste di grano; quei presidenti di consorzi granari, i quali alla stessa data più non volevano ritirare dallo stato il grano acquistato ed anzi avrebbero voluto restituire quello già ritirato, lamentandosi che nessuno più volesse farne acquisto e frattanto il frumento si guastasse pure in magazzini improvvisati e disadatti, ricominciano, ora che il prezzo cresce, a rivolgersi di nuovo al governo. Quando il prezzo ribassava, nessuno più voleva saperne della roba governativa; adesso che torna a rialzare, il governo dovrebbe darne a tutti, a prezzo inferiore al corrente ed imporre ai privati di vendere ad un prezzo di calmiere.

 

 

Cominciamo a scartare il censimento. Non perché non sia utilissimo censire il grano; ma perché l’operazione, in quanto sia possibile farla bene, già si fa. Coloro i quali chiedono il censimento del grano, chiedono il ritorno ad una fase superata, imperfettissima delle rilevazioni statistiche. Prima del 1907 si facevano appunto i censimenti delle produzioni agricole, domandando notizie ai sindaci, ai prefetti, alle altre autorità locali. Il servizio era appunto informato a quei criteri di ufficialità e di obbligatorietà, che sono caratteristici dei censimenti; ed i risultati erano lacrimevolmente grotteschi. Oggi, se si rifacesse un censimento del frumento, i risultati sarebbero sconcertanti. Censimento del grano vuol dire preavviso di requisizione, timore di carestia, monopolio governativo, prezzi massimi: quanto basta per far emigrare il frumento dai granai sotto i tetti, nei fienili, nei canterani, sotto il letto; dove nessun linceo sguardo di carabiniere riuscirebbe a scovarlo. Io credo che si potrebbe scommettere a colpo sicuro che il raccolto del 1915 – il quale noi sappiamo non essersi potuto discostare molto dalla media ultima sessennale di milioni di quintali , figurerebbe più vicino ai 20 che ai 30 milioni di quintali. Sarebbe un grido di terrore nel paese ed una folle spinta alla speculazione a spingere i prezzi a 5o e più lire al quintale. Sarebbe anche una bella vittoria per il servizio odierno di statistica agraria. Il quale ha questo di caratteristico: che è organizzato bene, mentre i censimenti frumentari fatalmente sono organizzati male. Diviso il paese in 695 circoli, esteso ognuno ad una zona agraria uniforme, nettamente determinata, le informazioni sono chieste a persone perite di agricoltura: professori ambulanti, ingegneri, periti agrari, agricoltori di fiducia, tutta gente, la quale non ha fatto altro nella vita che occuparsi di cose agricole, che ha l’occhio del mestiere, che non è pronta a generalizzare fuori del bisogno il fatto particolare. Arrivati a Roma, i risultati vengono verificati ed inquadrati nel catasto agrario, da cui per ogni zona risultano le superficie dedicate ad ogni cultura. Molti errori delle notizie di fonte convulsionaria (sindaci, prefetti, deputati, ai quali si fanno credere notizie inverosimili, di raccolti eccezionali o deficientissimi, assurdi perché, fatta la somma delle superfici coperte dai vari raccolti si trova che il numero degli ettari supera ed è inferiore al numero certo degli ettari per quella zona constatato dall’ufficio) vengono senz’altro corretti; di notizie dubbie si chiede la conferma. Le correzioni vengono moltiplicate, finché, conti non quadrano con le superfici note e con la verosimiglianza; e si ottengono così i dati che l’ufficio di statistica agraria rende di pubblica ragione, dati che possono essere erronei in più od in meno, ma sono ad ogni modo grandemente più approssimati di quelli buffi che si otterrebbero da un censimento.

 

 

Fissazione di prezzi massimi, requisizione, monopolio di fatto della importazione dall’estero e razionamento. Metto insieme questi quattro rimedi, poiché essi sono inseparabili l’uno dall’altro. Se il governo fissa un prezzo massimo, probabilmente si decide a ciò per trattenere i prezzi intorno ad un livello un po’ inferiore agli ultimi massimi raggiunti. Supponiamo che fissi i prezzi a 35 lire, per indicare una cifra corrispondente al livello, da cui recentemente si sono prese le mosse. In tal caso:

 

 

  • fa d’uopo che il governo possegga l’arma della requisizione, per costringere a vendere i proprietari o detentori di grano, i quali volessero astenersi dal portare il frumento sul mercato. In Germania ed in Austria il provvedimento del prezzo massimo dovette subito essere seguito da quello della requisizione; perché l’esperienza segnalò il pericolo che il semplice prezzo massimo spaventasse i detentori e li inducesse a nascondere ancora di più il frumento;
  • occorre che il governo si decida a comperare per conto suo all’estero tutti i 10 milioni di quintali occorrenti a completare il fabbisogno nazionale. Se invero il massimo prezzo per l’interno fosse fissato a 35 lire per quintale, neppure un chicco di grano avrebbe convenienza a venire dall’estero per iniziativa privata. Coi prezzi all’origine a 110 cents per bushel, coi noli a 9-10 scellini per quarter, con il dollaro a lire 6,30, il grano nordamericano non può essere portato in un punto interno dell’Italia a meno di circa 39 lire per quintale. Chi mai avrebbe interesse, tra i privati negozianti, ad acquistare a 39, mettiamo anche a 38 o 37 lire, per vendere al prezzo massimo di 35 lire? Il solo governo può far ciò, perdendo le 2, le 3 o le 4 lire per quintale ed accollando la perdita, come in tal caso sarebbe ragionevole, al conto delle spese di guerra. Occorre sapere ben chiaro che, per attuare il monopolio di fatto della importazione frumentaria, il governo dovrebbe perdere qualche decina di milioni di lire;
  • ma siccome non dovrebbe essere lecito ai privati di aumentare, in un momento di spese gravissime, a loro arbitrio le perdite del governo, il che vuol dire le imposte a carico dei contribuenti attuali od i debiti a carico dei contribuenti degli anni venturi; così la logica necessaria conseguenza del prezzo massimo sarebbe il razionamento. Bisognerebbe, come si fece in Germania e come con tanta chiarezza ed arguzia spiegò il Morandotti su queste colonne, attuare sul serio il piano di Ambrogio Fusella nel suo immortale colloquio con Renzo Tramaglino: una cartella per ogni capo famiglia, con tanti buoni per il pane per ogni bocca e per ogni giorno della settimana. Non si può permettere di mangiar pane a volontà, quando si mangia a spese dei contribuenti.

 

 

Questo il piano, il quale dovrebbe essere attuato nella sua interezza, se si volesse raggiungere lo scopo. È un piano che in certe contingenze si impone, per assoluta necessità: ad esempio, in una piazza od in un paese assediato. In altri casi, come in Italia, non è necessario in modo assoluto; ma può essere pensato ed attuato. In tempo di guerra, per evitare commovimenti popolari, per evitare che talune classi della popolazione si arricchiscano a spese delle altre, può essere conveniente che si fissi il massimo dei prezzi del frumento, che si indichino le requisizioni, che il governo perda le decine di milioni importando il grano dall’estero e che si razioni, con le marche del pane, il consumo per impedire che i contribuenti si trovino alla mercé di un consumo arbitrario di pane, compiuto dalla popolazione a cuor leggero, senza coscienza delle conseguenze dei propri atti per la collettività.

 

 

Attuato così, il regime, che si può chiamare socialista, del commercio e del consumo del pane è una cosa seria. Fastidiosa, e tale da dare la sensazione dello stato d’assedio; ma seria. Occorre però che sia attuata altresì sul serio.

 

 

Occorrerebbe, per far funzionare il nuovo regime, trovare qualcosa di meglio dei consorzi provinciali, dove si danno ritrovo molte egregie persone, sindaci, consiglieri provinciali e camerali, persone rappresentative, le quali però hanno poco famigliarità con grani duri e grani teneri, crusche, corpi estranei, immagazzinamento, umidità, muffe, macinazione e simili tecnicismi. Occorrerebbe trovare commercianti e mugnai disposti a lavorare a compenso fisso e modesto per conto del governo e con tutta l’iniziativa e l’accortezza che mettono in opera negli affari propri. Occorrerebbe imporre molto seriamente un’alta resa per le farine, con il consumo di un pane ancor più scuro dell’attuale. Occorrerebbe che la popolazione andasse a gara nel non consumare tutti i buoni di pane assegnati ad ogni bocca, restituendo alla fine settimana, per spirito di civismo, qualche tagliando non usato.

 

 

Occorrerebbero molte cose, per far funzionare bene il sistema. Può darsi che, in un momento in cui gli italiani stanno dando prova di tante qualità morali elevate, si riesca anche a far funzionare bene un sistema che, tutto sommato, è di costrizione e di sacrificio. A tale scopo, primissima condizione è di conoscere bene le condizioni, date le quali soltanto è sperabile di potere mantenere il prezzo a 35 lire, senza effetti troppo rovinosi per il pubblico erario. Non mi è parso perciò inutile delineare per sommi capi quelle condizioni.

 

 

Un’altra via si può scegliere, la quale prescinda dal prezzo massimo e dalle sue necessarie conseguenze: requisizioni, importazione esclusiva di stato e razionamento. È la via che il governo seguì l’anno scorso, e seguì con risultati tutt’altro che cattivi:

 

 

  • libertà di commercio, col correttivo della importazione da parte del governo della più gran parte del fabbisogno per l’esercito e di una quantità addizionale sufficiente per agire da calmiere nei luoghi e nei tempi in cui i prezzi accennassero a salire troppo. In tal modo potrebbe darsi che il commercio privato profittasse dei momenti in cui all’estero i prezzi sono più bassi, in cui si possono per caso ottenere noli modesti, in cui l’aggio accennasse a diminuire, per comprare frumento coprendosi contemporaneamente con vendite ai mulini nazionali. Il commercio privato è in grado di profittare di tutte le più favorevoli condizioni, assai più del governo. Se, tra governo e privati, nel 1914-15 si importarono più di 15 milioni di quintali, per qual ragione non dovrebbe accadere altrettanto in quest’anno?
  • curare, nel modo più severo, l’osservanza del decreto della resa dell’80% delle farine; ridurre al minimo possibile le eccezioni; e studiare se non sia possibile di imporre una resa ancora maggiore. La riduzione nei consumi e il ricorso a cereali cosidetti inferiori sono un dovere. Dagli igienisti abbiamo saputo che, specialmente nelle città, si deve lamentare un sovraconsumo di cibi; e che per l’economia del paese e la salute degli uomini sarebbe utilissima una alimentazione meno abbondante. La guerra può fornire occasione ad una propaganda pratica in favore di queste sane norme igieniche. Il prezzo alto agisce già efficacemente nel senso della riduzione nei consumi; e, dal punto di vista dell’interesse generale, essendo opportuno limitare le importazioni dall’estero, è utile tutto ciò che limita il consumo e fa durare più a lungo le provviste nazionali;
  • persuadere i contadini a portare sul mercato e specialmente a vendere ai consorzi una parte delle loro riserve famigliari, ora che i prezzi sono rimuneratori e sono certamente più alti di quanto si può presumere saranno a guerra finita. È forse la parte più difficile del programma, data la innaturata diffidenza delle genti campagnuole. Deputati, sindaci, consiglieri, parroci, maestri, potrebbero esercitare, se ne hanno, la loro influenza sociale in questo senso. Da varie parti mi si scrisse, in occasione del prestito, che gli uomini pubblici non godono sulle popolazioni di alcuna influenza persuasiva nelle loro faccende private. Se è così, bisogna trarne la conseguenza che la classe politica è scelta assai male; poiché non si può pretendere di dirigere una società, quando i propri consigli sono derisi e seguiti alla rovescia;
  • agendo sul cambio. Circa 6-7 lire dell’attuale alto prezzo del grano sono dovute al cambio sfavorevole all’Italia. Se il cambio fosse alla pari, il grano estero, invece di 40, costerebbe 33-34 lire porto franco a Genova od a Napoli. In grandissima parte, il problema del caro del frumento, è dunque un problema di cambio. È assurdo pretendere di agire sul prezzo del frumento con armi che si riferiscono al frumento stesso. Questo è uno strumento passivo; mentre l’elemento attivo è l’altezza del cambio.

 

 

A diminuirne l’asprezza gioverà mangiar meno frumento e consumare meno di qualunque altra merce importata dall’estero o che non si possa esportare all’estero. Fare economia, all’osso, è forse ancora uno dei mezzi migliori per fare ribassare il cambio e quindi il prezzo del frumento. Accantonare tutte le proprie economie per il momento in cui il governo chiamerà a raccolta gli italiani per un nuovo prestito, è il mezzo più efficace per evitare emissioni di carta – moneta e quindi ulteriori aumenti dell’aggio e nuovi inasprimenti del prezzo del frumento. La via può parere un po’ traversa; ma conduce alla meta forse con maggior sicurezza dei prezzi massimi e delle requisizioni.

 

 

Finalmente, è certo che il governo vorrà giovarsi degli accordi finanziari con il cancelliere dello scacchiere inglese, il quale ha aperto non indifferenti crediti all’Italia sul mercato di Londra, per tenere basso il prezzo della lira sterlina e del dollaro. Non conosco nessun altro mezzo, il quale possa essere più efficace di questo per tenere ad un limite ragionevole il prezzo del frumento e delle altre cose necessarie alla vita in Italia. Bisogna combattere, con ogni possa, l’aggio: con le economie individuali nei consumi spinte all’estremo del possibile, con i rinnovati prestiti all’interno e con una sapiente utilizzazione delle aperture di credito che abbiamo ottenuto all’estero.

 

 

VIII

I decreti per il censimento e la requisizione militare del grano e del granoturco si integrano a vicenda ed il loro meccanismo vuole perciò essere esposto contemporaneamente. Ecco quali sono gli obblighi essenziali a cui va d’ora innanzi soggetto il detentore (proprietario, affittavolo, mezzadro, colono, contadino, mugnaio, negoziante, ecc. ecc.) di grano e granoturco:

 

 

  • denunciare il quantitativo posseduto a qualunque titolo, anche come sequestratario o depositario, entro il 25 gennaio 1916, quando il quantitativo stesso complessivo, ossia grano e granoturco insieme considerati, raggiunga i 5 quintali. I detentori di quantità inferiori a 5 quintali possono, senza esservi obbligati, eseguire la denuncia. La denuncia potrà essere scritta o verbale, e dovrà farsi nell’ufficio comunale al sindaco od al suo delegato o ad altri funzionari di polizia o governativi all’uopo incaricati;
  • denunciare contemporaneamente il quantitativo necessario: – al consumo della famiglia del detentore stesso e dei suoi coloni od altri dipendenti sino al nuovo raccolto. Tale quantità necessaria al consumo si calcola in media a tre quintali a testa e per ogni dodici mesi. Non si fa distinzione, appunto perché si tratta di media, tra uomini e donne, vecchi, adulti e bambini. I tre quintali sono per 12 mesi; cosicché, supponendo che la denuncia avvenga il 25 gennaio e che da quella data debbano trascorrere in media 6 mesi sino al nuovo raccolto, ogni detentore avrà diritto di conservare per sé 1,50 quintali a testa; se il medio tempo a trascorrere si calcoli ad 8 mesi il quantitativo sarà di 2 quintali a testa;

 

 

  • al consumo per le semenze più vicine;
  • al consumo per gli usi zootecnici del proprio fondo (alimentazione del bestiame da stalla e degli animali da cortile);
  • trattandosi di mugnaio, il quantitativo occorrente per la lavorazione per due mesi del mulino;
  • trattandosi di comuni, altri enti pubblici, od istituzioni di pubblica beneficenza od assistenza, la quantità occorrente all’attuazione dei propri servizi od al raggiungimento dei fini dell’ente o della istituzione.

 

 

Il sindaco o l’altro ufficiale, a cui la denuncia è fatta, assumerà informazioni per controllare l’esattezza delle denuncie; ed, occorrendo, l’autorità potrà procedere a visite nei locali dove sia stato dichiarato o si ritenga essere depositato grano o granoturco.

 

 

Il censimento non toglie al detentore dei cereali il diritto di venderli. L’alienazione è sempre lecita e non va soggetta ad alcuna formalità od autorizzazione preventiva. Unico obbligo è quello di denunciare al segretario comunale le vendite avvenute:

 

 

  • entro il termine di 5 giorni; quando però
  • le vendite singolarmente o nel loro complesso abbiano raggiunta la quantità di 5 quintali.

 

 

Se il detentore conserva piena la facoltà di vendere o di vendere a qualunque prezzo – nessun limite di prezzo o calmiere viene infatti fissato nei due decreti per le vendite private – all’autorità militare è riconosciuta però la facoltà di requisire, evidentemente anche oltre le proprie necessità dirette, ossia altresì per l’approvvigionamento della popolazione in genere, tutto il grano o granoturco:

 

 

  • il quale raggiunga il quantitativo complessivo di 5 quintali per detentore;
  • e non sia necessario al consumo della famiglia, alle semine, agli usi zootecnici, ai mulini ed agli enti pubblici, entro i limiti che furono esposti sopra.

 

 

Tutto ciò che raggiunga e superi questi limiti è soggetto a requisizione da parte dell’autorità militare, e ad opera di commissioni provinciali nominate dai comandanti dei corpi d’armata, secondo norme stabilite nel decreto.

 

 

Il prezzo è fissato d’autorità dalle commissioni provinciali, entro il limite massimo stabilito dal ministero della guerra, sentito il parere di una «commissione centrale per gli approvvigionamenti, gli acquisti e la distribuzione dei cereali». Il prezzo in ogni caso è netto da ogni tassa e quindi anche dalla imposta del centesimo di guerra recentemente istituita. Esso può essere pagato:

 

 

  • per contanti, a pronta cassa, quando l’autorità requisente ritiri subito il cereale requisito;
  • metà per contanti subito e metà a respiro, non oltre però due mesi dall’avvenuta requisizione, quando nel frattempo l’autorità preferisca lasciare i cereali requisiti presso il detentore, costituito come depositario per conto dell’amministrazione militare.

 

 

I contravventori all’obbligo delle denuncie sono puniti con la reclusione fino ad un anno e con la multa sino a lire cinquemila; e dal canto suo chiunque rifiuti obbedienza agli ordini dati dall’autorità per l’esecuzione del decreto sulle requisizioni o comunque impedisca od ostacoli tale esecuzione è, senza pregiudizio delle maggiori pene stabilite dal codice penale, punito con la reclusione sino ad un anno e colla multa sino a lire 10.000.

 

 

Sarebbe prematuro un qualsiasi giudizio sulla efficacia del nuovo regime instaurato oggi per il commercio dei cereali; e regolato certamente con norme ispirate ad attento studio e ad ottime intenzioni. L’esperienza storica passata sembra concludere con certezza che un siffatto regime può funzionare bene solo col concorso di un complesso di circostanze svariate che non ricordo essersi mai verificate. Il che non deve fare escludere a priori che esse possano verificarsi questa volta in Italia o che almeno possa verificarsi una delle più importanti di esse, che è la disponibilità prima, e la vendita poi, eventualmente in perdita, di quantità sufficienti di cereali esteri da parte del governo. La qual vendita l’anno scorso per un certo periodo di tempo produsse da sola l’effetto che ora si vuol raggiungere con il complesso meccanismo creato dagli odierni decreti. Soltanto i fatti potranno risolvere l’interessante problema; e vi sarà tempo a ritornarvi sopra, poiché l’esperienza di fatto incomincia soltanto adesso.

 

 

IX

Il decreto sulla molitura dovrebbe produrre effetti più sicuri di quello finora in vigore, il quale imponeva la confezione del pane con farina all’80%. Era impressione generale che il decreto sul pane unico fosse poco e male osservato; né era facile, entro i limiti del decreto stesso, trovar modo di obbligare i fornai a produrre solo il pane unico, quando la clientela manifestava gusti diversi. Il decreto dell’11 marzo dovrebbe avere maggiore efficacia, poiché:

 

 

  • fa addirittura divieto ai mugnai di produrre sia per conto proprio che di privati, farina di un tipo diverso da quello legale, ossia abburattata a meno dell’85%;
  • fa divieto agli stessi mugnai di togliere dalla farina qualsiasi elemento al di fuori della crusca;
  • impone norme contro la importazione dall’estero, la circolazione e la vendita di farine diverse da quella legale; e vieta ai fornai di usare altre qualità.

 

 

Se il decreto verrà osservato i risultati potranno essere ragguardevoli. Poiché normalmente si ricavano solo 75 chilogrammi di farina dal frumento normale; e poiché è probabile che il decreto sull’80% non fosse generalmente osservato, l’aumento della resa all’85% implica un guadagno del 10% per quintale di frumento. Se noi calcoliamo il consumo totale mensile del frumento a 5,5 milioni di quintali, sarebbero 550.000 quintali mensili di più che il decreto renderebbe disponibili per il consumo umano. Ma questo è un massimo; poiché il decreto sul pane unico in parte era osservato; poiché i 10 chilogrammi di farinette e cruschello, che ora si congloberanno nella farina, erano prima usati per l’alimentazione del bestiame; e poiché finalmente non si può escludere qualche violazione del decreto odierno. Rimane però un margine di risparmio, che sarebbe necessario assicurare con severità, per ridurre alquanto i nostri pagamenti all’estero.

 

 


[1] Con il titolo Il problema del frumento. [ndr]

[2] Con il titolo La sospensione totale del dazio sul frumento. [ndr]

[3] Con il titolo I metodi per frenare l’aumento del prezzo del pane. [ndr]

[4] Con il titolo La necessità del pane unico. [ndr]

[5] Con il titolo Il pane unico e il dato di macinazione. [ndr]

[6] Con il titolo La situazione frumentaria in Italia e nel mondo. [ndr]

[7] Con il titolo Rimedi e provvedimenti contro il rincaro del frumento. [ndr]

[8] Con il titolo Il nuovo regime del commercio dei cereali. [ndr]

[9] Con il titolo Il decreto sulla molitura del frumento. [ndr]

Le cronache economiche della guerra. La battaglia zuccheriera fra Inghilterra e Germania – Portate l’oro alle Banche! e gli espedienti del signor Morgan – Devono le società anonime distribuire dividendi?

Le cronache economiche della guerra. La battaglia zuccheriera fra Inghilterra e Germania – Portate l’oro alle Banche! e gli espedienti del signor Morgan – Devono le società anonime distribuire dividendi?

«Corriere della sera», 23 novembre 1914

Le cronache economiche della guerra. Ricordi di Borsa della guerra del 1870-71 – I brevetti tedeschi in Inghilterra – I tedeschi e le miniere di ferro della Lorena francese.

Le cronache economiche della guerra. Ricordi di Borsa della guerra del 1870-71 – I brevetti tedeschi in Inghilterra – I tedeschi e le miniere di ferro della Lorena francese.

«Corriere della sera», 17 novembre 1914

Il decalogo economico degli italiani nell’ora presente

Il decalogo economico degli italiani nell’ora presente

«Corriere della Sera», 26 ottobre 1914[1]

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 43-49[2]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 31-38

 

 

La moratoria, la quale fu in Italia una necessità dolorosa per mettere una diga al panico, che minacciava di travolgere tutta l’organizzazione economica del paese, ha dato luogo ad alcune manifestazioni strane e quasi direi allarmanti. Nessuno avrebbe supposto mai, prima della moratoria, che in Italia vivesse tanta gente provvista di depositi alle casse di risparmio e di conti correnti alle banche. Nessuno più pagò, perché le banche non rimborsavano i depositi o li rimborsavano solo nella misura fissata dai decreti governativi; e sovratutto non pagarono coloro, i quali in vita loro non erano mai stati titolari di conti correnti attivi alle banche e che non sapevano come fossero fatti i libretti di assegni. Coloro che non avevano mai ottenuto credito e che non avevano mai avuto bisogno di chiederne, subitamente, avendo visto che il governo aveva autorizzato alcune moderate emissioni di biglietti di banca, si immaginarono che i biglietti si potessero fabbricare per regalarli ai richiedenti; e cominciarono a reclamare ad alta voce emissioni di centinaia di milioni, di miliardi di lire di biglietti, per fornire fondi a classi di persone che finora non si erano sognate mai di diventare clienti delle banche di emissione.

 

 

È venuto il momento di dire che una delle migliori maniere con cui gli italiani possono servire il proprio paese, in quest’ora solenne della sua storia, è di compiere fino all’ultimo il proprio dovere. Viviamo in un’epoca in cui tutti debbono fare sacrifici e debbono essere disposti a farne dei maggiori; in cui è strettissimo dovere di tutti di chiedere allo stato, ai comuni, ai consociati di meno e non di più di quanto si era soliti chiedere prima; in cui a priori deve essere biasimato e non lodato quell’uomo politico o capo di rappresentanze sociali od economiche, il quale si fa iniziatore di nuove richieste al governo; in cui possono essere tollerate od ammesse solo quelle domande, le quali sono dettate dall’estrema necessità di salvare il paese da un pericolo grave e non quelle le quali hanno per iscopo di ottenere un vantaggio o di diminuire una perdita degli individui singoli.

 

 

A chiarire la tesi sopra sostenuta, mi proverò anch’io ad enunciare, ad imitazione di quanto fecero taluni autorevoli giornali esteri, un decalogo dell’italiano nel momento presente. Sarà un decalogo esclusivamente economico, la cui osservanza mi pare doverosa per tutti quelli, i quali non si trovino nella impossibilità assoluta di obbedire ai suoi precetti.

 

 

  • 1) Pagate i debiti più puntualmente di quanto non usavate fare prima. Chi si intenerisce della sorte dei debitori è, in tempi normali, il nemico acerrimo di coloro che hanno bisogno di credito; poiché l’inosservanza degli impegni induce i prestatori, e bene a ragione, ad aumentare il saggio dell’interesse per compensare il rischio dei ritardati o mancati pagamenti. Tanto più ciò è vero in tempo di guerra; poiché la mancata osservanza degli impegni da parte dei debitori antichi impaurisce i capitalisti ed i banchieri, già timorosi nelle circostanze odierne, e li spinge a nascondere il capitale che sarebbe disponibile. Di qui il rincaro enorme degli interessi, il mancato afflusso dei capitali alle industrie, la disoccupazione e la rovina dei debitori medesimi.

 

 

  • 2) Pagate i fitti con maggiore puntualità del solito. È risaputo che una delle cause più gravi della maggiore altezza relativa dei fitti piccoli in confronto ai grossi è la minore puntualità nei pagamenti e quindi il maggior costo d’esazione dei fitti piccoli degli operai, impiegati, piccoli commercianti. Il mercato, che adegua tutti i redditi, rialza i fitti piccoli per compensare l’industria edilizia del maggior costo che essa risente per la non puntualità e la insolvenza dei minuti inquilini. Quindi tutta la propaganda la quale si va facendo per ottenere la moratoria nei fitti non può non portare ad una conseguenza dannosissima alla classe più povera: ossia ad un ulteriore rialzo dei fitti piccoli.

 

 

  • 3) Pagate le note scadute ed in corso dei negozianti e procurate per l’avvenire di pagare tutto per contanti. Anche qui l’esperienza normale dei tempi di pace prova che gli acquisti a credito rincarano le merci, arenano il commercio e rendono difficile la vita alle industrie. Nei momenti, nei quali le difficoltà di far muovere il meccanismo economico crescono a mille doppi, ogni ritardo nei pagamenti da parte della clientela è un impedimento al giro della ruota economica. Il negoziante che non incassa non può pagare il grossista; questi a sua volta non paga il fabbricante e cessa di dare ordinazioni nuove. Il fabbricante, esaurite le ordinazioni vecchie e privo di incassi, cessa di lavorare: sicché cresce la disoccupazione.

 

 

  • 4) Depositate i fondi disponibili presso le casse di risparmio e le banche. Si pretende che banche e casse rimborsino i depositi al 100% e poi i risparmiatori trattengono in cassa gelosamente i denari disponibili. Nei tempi normali, le banche fanno fronte ai rimborsi dei vecchi depositi con gli incassi dei nuovi depositi. Se questi non si fanno più, come possono le banche fronteggiare le domande di rimborsi? Debbono vendere i titoli, in cui hanno investito i fondi dei depositanti o riscontare o non rinnovare le cambiali che con gli stessi fondi avevano comprato. Ma, vendendo i titoli, li deprezzerebbero, cagionando panico e disastri; riscontando le cambiali presso gli istituti di emissione, li costringerebbero ad emettere troppa carta-moneta, facendo crescere prezzi ed aggio; mentre la mancata rinnovazione delle cambiali scadute metterebbe spesse volte l’industria ed il commercio sull’orlo del fallimento.

 

 

  • 5) Continuate a fare i soliti vostri affari con le banche. Le considerazioni sovra fatte spiegano come non si possa lodare il contegno di quegli industriali e di quei commercianti, i quali, dopo aver ottenuto il rimborso di tutto o quasi tutto il proprio conto corrente, non portano più le proprie tratte all’incasso presso la banca, ma cercano di fare le esazioni direttamente od a mezzo posta, con metodi forse più costosi, allo scopo di tenere in cassa il ricavo. Il buon funzionamento del meccanismo economico richiede che le banche aiutino il commercio, ma impone anche che il commercio dia aiuto alla banca. Un servizio unilaterale consistente nel dare sempre e non ricevere mai è inconcepibile e non può non portare al disastro.

 

 

  • 6) Non fate provviste oltre il necessario. Oggi questo inconveniente si è assai ridotto: poiché si è visto che la guerra non era la carestia e che si poteva continuare a comprare ed a vendere come prima. Ma, poiché i tempi potrebbero farsi più gravi, non è inutile avvertire che la condizione essenziale per seguitare a comprar a prezzi normali è di non allarmarsi e non fare incette. Le incette dei negozianti non sono temibili; poiché son fatte da gente che, per guadagnare, ha assoluta necessità di rivendere: mentre sono pericolose le incette dei timorosi che si asserragliano in casa, provvisti di cibarie, come se avesse a tornare il tempo degli unni, e come se tornando gli unni costoro non trovassero assai comodo di fare man bassa anche sul ben di Dio ammucchiato dalla gente morta di spavento innanzi tempo.

 

 

  • 7) Non chiedete aiuti agli enti pubblici, quando è possibile trovar lavoro in città od in campagna. Gli enti pubblici e principalmente lo stato hanno compiti gravissimi da soddisfare. Tutte le forze finanziarie dello stato devono intendere ai fini supremi imposti dall’interesse nazionale. Pensano a ciò le comitive di uomini pubblici, di cooperatori, ecc. ecc. che vanno chiedendo lavoro allo stato ed appalti governativi? Pensano essi che, così facendo, indeboliscono finanziariamente lo stato e ne diminuiscono la forza la quale dovrebbe rimanere intatta? Hanno davvero essi cercato ogni via per procacciar lavoro ai disoccupati innanzi di ricorrere all’aiuto governativo? Sono sicuri che molti dei disoccupati non preferiscano di rimanersene in città a godersi la minestra ed i buoni di cibo gratuiti del comune piuttosto che andarsene a cercare lavoro dove il lavoro è offerto? Durante la vendemmia i contadini dovettero in molti luoghi pagare le vendemmiatrici, scarsissime, anche a 3 lire al giorno con l’aggiunta del consumo libero dell’uva. Può darsi che i disoccupati delle città considerino troppo vile il salario delle 3 lire al giorno: ma certamente il fornire minestre e cibi gratuiti nelle città a coloro che potrebbero trovare lavoro remuneratore nelle campagne è atto non conforme al pubblico interesse.

 

 

  • 8) Non chiedete denari a prestito, quando ciò non usavate fare prima e quando la vostra azione può provocare il deprezzamento della carta-moneta. Negli anni scorsi non s’era mai saputo in Piemonte che i compratori d’uva usassero ricorrere per somme enormi alle banche per ottenere i fondi per i loro acquisti. Improvvisamente si scopre quest’anno che sono necessarie diecine e centinaia di milioni e vi è chi chiede che li fabbrichi il governo stampando biglietti e li dia in prestito ai negozianti, affinché questi possano comprare le uve a 15 e 20 lire il quintale. Le centinaia di milioni di biglietti fortunatamente non si stamparono e ciononostante i viticultori poterono vendere le uve a prezzi rimuneratori. Prova evidente che i biglietti conclamati avrebbero servito solo a malsani gonfiamenti di prezzi.

 

 

  • 9) Pagate le imposte esistenti con maggiore zelo del consueto. Tutti abbiamo bisogno dei nostri redditi consueti; ma nessuno ne ha oggi maggiore urgenza dello stato. Il privato oggi può vivere col reddito dimezzato, rinunciando ai consumi non assolutamente necessari alla vita fisica; lo stato deve ottenere redditi crescenti, perché i suoi scopi sono oggi più ardui, più vasti, più costosi. Ognuno deve sentire che il pagamento delle imposte è qualcosa di più di un dovere ordinario: è il dovere più alto e più urgente del momento presente, è il mezzo per la conservazione dello stato e per il raggiungimento dei fini ideali che in questo momento storico hanno il sopravvento sui fini materiali.

 

 

  • 10) Confortate del proprio assenso il governo, quando intenda stabilire imposte nuove. Che siano necessarie imposte nuove per provvedere alle cresciute spese pubbliche era manifesto da un pezzo; e l’esazione di alcune di esse era già stata autorizzata dal parlamento. Ma le spese straordinarie occorse in questi mesi e quelle che occorreranno in avvenire ci costringeranno ad imitare la Germania, che aveva stabilito l’imposta di guerra del miliardo, ed i due paesi neutrali, Stati uniti e Svizzera, che hanno istituito or ora imposte straordinarie per sopperire alle minori entrate ed alle maggiori spese provocate dalla crisi odierna. Tutti debbono essere persuasi che, oggi, il pagare imposte maggiori per fornire allo stato i mezzi necessari alla sua vita è un bisogno più urgente di quello di provvedere a molti bisogni ordinari della vita: che si può e si deve rinunciare al vino, al caffè, al cinematografo, all’automobile, ai teatri, ai divertimenti, si deve far durare più a lungo un abito vecchio, si devono portare le scarpe rappezzate, rinunciando all’acquisto di un paio di scarpe nuove; ma non si deve rifiutare il consenso volonteroso e pronto al pagamento di imposte nuove. I bisogni dell’individuo come singolo diventano secondari di fronte ai bisogni dell’individuo come parte della collettività. Questa subordinazione, che nei tempi normali vorrebbe dire decadenza civile e dominio della burocrazia, nei tempi straordinari è richiesta dalle esigenze più urgenti della conservazione e dell’incremento di quei beni ideali, dai quali in sostanza dipende la possibilità di conseguire poi più larga messe di beni materiali.

 

 



[1] Con il titolo L’ora del dovere. Il decalogo economico degli Italiani. [ndr]

[2] Con il titolo II dovere degli Italiani durante la guerra. [ndr]

Le cronache economiche della guerra. I surrogati della moratoria in Germania ed in Olanda – Casse di prestiti e casse di piccolo credito di guerra.

Le cronache economiche della guerra. I surrogati della moratoria in Germania ed in Olanda – Casse di prestiti e casse di piccolo credito di guerra.

«Corriere della sera», 9 ottobre 1914

I decreti di moratoria

I decreti di moratoria

«Corriere della Sera», 29 settembre[1] e 23 dicembre[2] 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 31-38

 

 

I

Le novità introdotte nel sistema di moratoria hanno per iscopo di facilitare un graduale passaggio dal regime straordinario odierno alla ripresa normale delle transazioni. Queste novità possono essere, trascurando i particolari minori, sintetizzate così:

 

 

  • Al rimborso di tre percentuali del 5%, ciascuna sui depositi bancari si aggiunge il rimborso di tre ulteriori percentuali del 10% ciascuna, per ogni mese fino al 31 dicembre prossimo. Siccome sono rimborsate, inoltre, senza limitazione, le somme necessarie al pagamento delle mercedi operaie, all’acquisto delle materie prime, sementi e concimi, al pagamento delle imposte e al servizio di cassa degli enti morali, non si può affermare che permangano vere e proprie durezze in confronto di qualche categoria di risparmiatori. Siccome quelli che non hanno diritto al rimborso integrale sono risparmiatori privati, è difficile credere che costoro abbiano necessità urgente di ritirare i propri depositi bancari prima della fine dell’anno in una misura superiore al 40 o 45%, quale è quella consentita dal cambiamento disposto dai tre decreti di moratoria.
  • Si istituisce una specie di compensazione tra i crediti che il correntista ha verso la banca o cassa, e i debiti che egli eventualmente abbia verso la medesima banca o cassa per cambiali scadute. Il sistema ha per iscopo di consentire che un commerciante, il quale teneva in conto corrente, al 2%, una data somma, possa servirsene per pagare una cambiale scaduta e per cui già corre l’interesse, forse, del 6 o 7%. Il sistema è ancora imperfetto perché suppone che la compensazione si verifichi presso la stessa banca: mentre può darsi che il deposito sia fatto presso una banca e la cambiale sia domiciliata presso un’altra. Occorrerà con decreti successivi, che auguro prossimi, regolare il problema delle compensazioni fra banca e banca.
  • Decreti successivi potranno perfezionare nello stesso senso il metodo analogo di compensazione inaugurato dal presente decreto e grazie al quale chi abbia un debito verso altri può soddisfarlo richiedendo il trasferimento, senza limitazione, di una somma a lui accreditata presso una banca, a favore del suo creditore. Tizio ha un deposito presso una banca di 100.000 lire e deve pagare a Caio precisamente 100.000 lire. Stando ai decreti precedenti, Tizio non poteva, se non in parte, pagare il suo debito. Oggi potrà soddisfarlo interamente poiché, se Caio accetta, potrà ordinare alla banca di trasferire le 100.000 lire del suo conto al credito del conto di Caio. Alla banca è indifferente essere debitrice delle 100.000 lire verso Tizio o verso Caio.
  • Alle operazioni di borsa viene applicato un regime alquanto diverso da quello precedente, il quale era stato oggetto di critiche svariate. Col regime passato, le operazioni di borsa erano state prorogate al 2 settembre con l’obbligo nel compratore del titolo di pagare l’interesse in ragione del 6% all’anno e di ridurre il debito nella misura del 2,50%. Subito si osservò:

 

 

  • Da un lato, che era ingiusto sottoporre i capitalisti i quali, invece di depositare i propri fondi in conto corrente presso una banca, avevano preferito di fare anticipazioni su titoli, ad un regime diverso degli altri depositanti: perché restituire ad essi solo il 2,50% mentre agli altri si restituiva il 15 in tre volte? Notisi che molte banche e casse fanno di queste operazioni; e sembrava dubbia la convenienza di imporre loro un forte rimborso dei depositi, mentre esse potevano chiedere solo un piccolo scalo dei prestiti fatti ai possessori dei titoli.
  • Dall’altro lato, che era pericoloso obbligare i possessori dei titoli a rimborsare il 2,50% del debito. Un commerciante può ridurre il suo debito cambiario perché incassa il prezzo delle merci da lui negoziate; ma il compratore o possessore di un titolo, come può ridurre il suo debito di 2,50%? Dovrebbe vendere il titolo stesso, il che è difficile in tempo di borsa chiusa e provocherebbe panico.

 

 

Pare che questa considerazione sia prevalsa tra i dirigenti; sicché le operazioni di borsa sono, col decreto ultimo, ancora prorogate al 2 dicembre; e il compratore o possessore del titolo ha solo l’obbligo di pagare l’interesse del 4,50%, se si tratta di titoli di stato, o del 6%, se si tratta di altri titoli, senza alcun obbligo di decurtare il debito suo. Potrà, volendo, ridurre il debito di almeno il 10% per volta, nel qual caso egli avrà diritto di ottenere la consegna di una frazione corrispondente dei titoli da lui comprati o impegnati.

 

 

La soluzione non soddisfa ancora completamente: ma si tratta di problema il quale si connette col funzionamento delle borse. La chiusura delle borse fu, come la moratoria, un provvedimento necessario in sul principio; ma ormai in Italia, come all’estero, si riconosce la necessità di avviarsi gradualmente verso la ripresa di contrattazioni normali. La chiusura indefinita delle borse può essere feconda di danni più gravi della sua apertura. Certo la ripresa deve essere graduale; ma non si può ammettere che duri indefinitamente uno stato di cose, per cui, chi vuol vendere, non sa a chi rivolgersi e quali siano i prezzi correnti: e chi vuole comprare ignora l’esistenza di possibili venditori. Da per tutto, nelle piazze estere, si studia il modo di uscire dal circolo in cui si è entrati; ed è da augurare che il governo prosegua sulla via in cui si è oggi inoltrato, del ritorno al regime normale di vita. Il decreto odierno può essere utilissimo se prelude a questo ritorno; sarebbe insufficiente se dovesse essere considerato come un punto fermo.

 

 

II

Il decreto di moratoria è inspirato al proposito di riportare gradatamente il paese alle condizioni normali, fissando la data del primo aprile, come quella nella quale la moratoria dovrà intieramente essere terminata. Il proposito non può non essere considerato lodevole, tanto più che parecchi fatti recenti hanno dimostrato che la necessità delle limitazioni al rimborso dei depositi è venuta grandemente scemando negli ultimi tempi. È da augurare anzi che, seguendo l’esempio della Cassa di risparmio delle provincie lombarde e di altri istituti e banche, si andrà moltiplicando il numero delle banche, le quali dichiareranno di volersi giovare della facoltà, consentita dal presente decreto, di rimborsare più del 20% al mese per il deposito residuo al 31 dicembre 1914. E l’esempio degli uni gioverà anche agli altri.

 

 

Oltre le eccezioni già vigenti, per cui era consentito il rimborso totale per le necessità di paghe agli operai, per l’acquisto delle materie prime e dei concimi, per il pagamento delle imposte, per i depositi posteriori al 14 agosto, per il servizio di cassa degli enti morali, le quali sono tutte riconfermate, un’altra eccezione alla regola del rimborso graduale apporta il decreto; ed è quella relativa alle sottoscrizioni al prestito nazionale di 1 miliardo di lire. I sottoscrittori avranno cioè diritto di prelevare intieramente i loro depositi, quando il prelievo venga fatto allo scopo di effettuare i versamenti delle somme sottoscritte per il prestito nazionale. Questa norma gioverà al successo del prestito e fu evidentemente concordata fra governo e rappresentanti delle banche, con le necessarie cautele per il trasferimento delle somme dal conto dei depositanti al credito dello stato.

 

 

Poiché il decreto fissa la data del 1° aprile per la fine della moratoria per i depositi bancari, così doveva provvedere affinché per quel tempo fosse terminata altresì la moratoria legale rispetto alle cambiali, le quali costituiscono o dovrebbero costituire il principale impiego dei depositi bancari. In questi ultimi tempi si leggevano sui giornali finanziari frequenti articoli intesi a dimostrare che l’obbligo di pagare le cambiali create prima della moratoria sarebbe stato insopportabile per i commercianti e gli industriali, perché la scadenza straordinaria prorogata delle cambiali pre-moratoria si sarebbe accavallata con le scadenze normali delle cambiali create dopo il 4 agosto, per le quali nessuna proroga è concessa. Il che è verissimo: ma non dovevano forse i debitori, impegnandosi dopo il 4 agosto, calcolare la propria potenzialità finanziaria ed obbligarsi cambiariamente, in tempi di guerra, solo quando erano sicuri di fare onore alla firma?

 

 

Lo stato non può sancire il principio, pericoloso, che si possano rinviare per decreto reale, senza un caso straordinario di forza maggiore, le scadenze accettate con piena consapevolezza del rischio corso. Se ciò si facesse, sarebbe la fine di ogni credito. Del resto, la questione è soltanto di principio: poiché in realtà si sa che in Italia le cambiali sono spesso rinnovate, quando giungono a scadenza. È inutile andar ricercando le cause del fatto, per cui il portafoglio cambiario, che dovrebbe essere liquido, in Italia spesso è immobilizzato per lungo tempo. Sta di fatto che le rinnovazioni sono assai frequenti: ed è credibile che seguiteranno ad essere consentite dalle banche in avvenire, così come si faceva in passato, nella misura, forse minore, permessa dalle circostanze presenti. Ma questo è un affare privato, che deve essere sbrigato fra banche e clientela, a seconda delle circostanze variabili di ogni caso singolo. Ogni norma generale sarebbe stata in proposito feconda di danni maggiori di quelli a cui avrebbe voluto ovviare.

 

 

Dal principio generale di favorire il ritorno a condizioni normali, il decreto di moratoria si discosta in un solo punto; ed è quello che ha tratto alle borse.

 

 

Per le obbligazioni derivanti da contratti a termine, riporti e proroghe giornaliere, si rinnova semplicemente la proroga assentita dai decreti precedenti, portandola sino al 31 marzo 1915: e conteggiando gli interessi al 4% all’anno per i titoli di stato ed al 5,50% per gli altri titoli. Il che vuol dire che, mentre le banche dovranno al 1° aprile finire di avere rimborsato i loro depositi e mentre i debitori cambiari avranno l’obbligo, per quella data, di pagare compiutamente le cambiali pre-moratorie:

 

 

  • colui che ha, prima della chiusura delle borse, comprato titoli non avrà, fino al 31 marzo, obbligo di ritirarne neppure la minima parte, purché paghi l’interesse sovra indicato;
  • colui che ha impiegato i propri fondi disponibili in riporti, ossia colui che, invece di imprestare altrui denari contro cambiali, li ha mutuati contro pegno di titoli, non avrà diritto di richiedere il rimborso neppure di una piccola parte della somma mutuata, salvo un 2,50% ricevuto in fine di agosto e salvo l’interesse come sovra stabilito;
  • mentre il venditore non ha perciò diritto di richiedere il prezzo del titolo venduto ed il creditore il rimborso del mutuo concesso, il compratore od il debitore avranno facoltà di richiedere in ogni momento la consegna del titolo comperato o dato in pegno, facendo l’offerta reale del prezzo dovuto;
  • soltanto le commissioni stabilite col decreto 24 novembre 1914 per la determinazione dei prezzi correnti di alcuni titoli negoziati in borsa, potranno stabilire se per alcuni titoli si possa far obbligo al compratore di pagare un acconto sul prezzo dovuto. In ogni caso l’acconto non potrà superare il 2% dell’ammontare del prezzo dovuto e dovrà essere pagato solo se il venditore o creditore (riportatore) depositi i titoli presso la locale stanza di compensazione;
  • il compratore del titolo potrà chiedere ad ogni momento, con l`offerta reale del prezzo, la consegna totale o parziale dei titoli: e se il venditore non possa consegnarli, perderà gli interessi e dovrà inoltre pagare un 2%. Non si comprende bene se questo 2% sia una multa od un acconto. In ambi i casi la disposizione è incomprensibile; e, come tale, ne farò astrazione nell’esaminare gli effetti del nuovo regime.

 

 

Quali gli effetti di questo complesso di disposizioni?

 

 

In primo luogo che saranno liquidate soltanto quelle operazioni – facendosi dai compratori o debitori uso della facoltà di ritirare il titolo pagando il prezzo – per le quali il compratore abbia convenienza al ritiro. Se un titolo fu comprato prima della guerra a 90 ed oggi vale 100, il compratore potrà avere interesse a ritirarlo, pagandone il prezzo, sempre quando egli non preferisca continuare a farsi far credito dal venditore, pagandogli il 4 od il 5,50% di interesse ed impiegando altrimenti, e con maggior lucro, le proprie disponibilità.

 

 

In tutti quei casi invece nei quali il titolo era stato comperato – ante moratoria – a 100 ed oggi vale 90 od un qualunque altro prezzo minore, il compratore non avrà interesse al ritiro del titolo e preferirà lasciarlo provvisoriamente nelle mani del venditore – o creditore riportatore – , sperando nell’avvenire, sia che in avvenire i titoli abbiano a rialzare o si verifichi un qualche caso imprevisto che lo liberi dai suoi impegni.

 

 

L’obbligo di pagare il 2% di acconto sul prezzo del titolo non è bastevole a mutare questa situazione di cose, perché esso è rimesso in arbitrio di commissioni, il cui ufficio è di fissare il corso dei titoli di stato garantiti dallo stato e delle cartelle fondiarie e non si vede quindi come possano occuparsi di altri titoli azionari, ai quali massimamente si riferiscono le contrattazioni di borsa.

 

 

Dopo avere spiegato, il più chiaramente che potei, il congegno e gli effetti delle norme relative alla moratoria di borsa, dovrei dare un giudizio su di esse. Mentre però il giudizio sulle altre parti del decreto di moratoria è nettamente favorevole, rimango esitante rispetto a quest’ultima parte.

 

 

Da quel che si legge nei giornali finanziari del luogo, il legislatore e le autorità di borsa in Francia, in Inghilterra e negli Stati uniti si sono sforzati a facilitare in ogni modo la liquidazione delle operazioni di borsa ante bellum, in guisa da restituirle, nel più breve tempo possibile, alla loro naturale funzione. Non dimentichiamo mai che le borse sono un organo necessario per il regolare svolgimento della vita economica del paese. A favorire il regolare classamento, la pronta negoziabilità dei titoli di stato e dei titoli privati è opportuno che le borse funzionino bene. Io non voglio pregiudicare menomamente la questione se le borse debbono essere aperte subito o più tardi. Certo è che, quando esse saranno riaperte, esse funzioneranno tanto meglio quanto più piccola sarà l’eredità del passato che esse dovranno ancora liquidare.

 

 

Nei paesi che ho citato, tutti gli sforzi del governo e delle autorità di borsa sono indirizzati a questo fine. Ho timore che invece i decreti successivi di moratoria intendano al risultato precisamente opposto. Al 31 marzo 1915 saranno state liquidate solo le operazioni, in cui si verificò un rialzo dei titoli; e neppure sempre, come si vide sopra. Rimarranno da liquidare le operazioni finite male, ossia con una perdita per i compratori. Potranno costoro ritirare allora ciò che non poterono ritirare fin qui?

 

 

Non corriamo il rischio di accumulare una massa stragrande di insolvenze, proprio nel momento in cui, riaprendosi le borse, sarebbe necessario che queste fossero più forti, più sciolte, più libere da qualsiasi pesante eredità del passato? Ecco i quesiti che mi sono venuti in mente leggendo l’articolo 10 del decreto di moratoria. Gioverebbe, a dissiparli, che il governo facesse eseguire una inchiesta intorno ai probabili impegni di borsa e ne rendesse pubblici i risultati. Così si fece in Inghilterra e si vide che la situazione era assai migliore di quanto non si immaginasse e non impossibile ad essere sbrogliata. Ho l’impressione che in Italia gli impegni di borsa, prima della guerra, fossero ridotti ad una somma niente affatto spaventevole: e che non valga la pena di impressionarsi troppo e di tenere in sospeso la vita delle borse per una massa relativamente tenue di affari, interessante un non grande numero di persone.

 

 


[1] Con il titolo Le innovazioni introdotte nel regime di moratoria. [ndr]

[2] Con il titolo L’ultimo decreto di moratoria. [ndr]

La condotta finanziaria della guerra nei sistemi tedesco ed inglese

La condotta finanziaria della guerra nei sistemi tedesco ed inglese

«Corriere della Sera», 20 settembre 1914[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 25-30

 

 

Certamente è degna di ammirazione la perfezione del meccanismo bancario, il quale ha consentito alla Germania di resistere alla bufera e di continuare il giro normale del meccanismo economico anche in tempo di guerra. Per non tacere le ombre del quadro, dirò subito che il lubrificante il quale permette il giro del meccanismo chiamasi: emissione di carta-moneta a corso forzoso ed a corso fiduciario. Ho già avuto occasione di ricordare il miliardo e mezzo di marchi di buoni di cassa che la nuova Reichs-Darlehenskasse ha diritto di emettere. È una cifra cospicua di biglietti – a corso fiduciario, ossia volontariamente accettati dal pubblico, il quale sa che alla loro volta i buoni sono accettati dalle casse pubbliche – i quali sono immessi nella circolazione. Accanto ai buoni di cassa, v’è l’aumento dei biglietti ordinari della Reichsbank, a cui è stato riconosciuto il corso forzoso, liberando la banca dall’obbligo del cambio a vista.

 

 

Il quadretto seguente spiega il meccanismo del movimento che ha per perno la Banca imperiale tedesca (le cifre sono in milioni di marchi):

 

 

Riserva metallica

Circolazione in biglietti

Biglietti e buoni della Cassa di prestiti in cassa

Cambiali scontate in portafoglio

Anticipazioni

Depositi

23 luglio

1.691

1.891

65

751

50

944

31 luglio

1.528

2.909

33

2.031

202

1.258

7 agosto

1.596

3.897

97

3.737

226

1.819

15 agosto

1.590

3.882

127

4.426

181

2.052

22 agosto

1.598

4.000

119

4.616

163

2.620

31 agosto

1.607

4.235

183

4.750

105

2.441

 

 

Procurerò di spiegare in breve il significato delle cifre sopra riportate, le quali mettono in chiaro quale era la situazione della Banca dell’impero germanico prima dello scoppio della guerra (23 luglio) e quale è diventata dopo un mese di ostilità.

 

 

La Banca non ha potuto procacciarsi rilevanti mezzi per far fronte alle esigenze del mercato ricorrendo alla riserva metallica. O, meglio, poiché la riserva metallica è diminuita di 84 milioni di marchi e questa diminuzione risulta da un aumento di 199 milioni d’oro e da una diminuzione di 285 milioni di marchi d’argento, il movimento vuol dire che la Banca ha ricevuto – probabilmente dal tesoro di guerra della torre di Spandau – circa 200 milioni d’oro ed ha erogato 285 milioni d’argento, forse in prestiti al governo.

 

 

Ma la massa maggiore delle sue disponibilità la Banca la trasse dal torchio a stampa dei biglietti; i quali infatti sono passati da 1 miliardo e 891 milioni a 4 miliardi e 235 milioni di marchi, aumentando così di ben 2 miliardi e 344 milioni di marchi la sua circolazione. Come fu impiegato l’aumento di circolazione? Non nel fare anticipazioni su valori e merci, perché le operazioni relative aumentarono appena da 50 a 105 milioni di marchi; il che si capisce perché siffatta funzione è ora devoluta alla Darlehenskasse, ossia alla Cassa di prestiti dell’impero, la quale lavora coi mezzi suoi propri del miliardo e mezzo di marchi di buoni di cassa. In piccola parte la Banca dell’impero concorre a sostenere la facile circolabilità dei buoni della Cassa di prestiti, perché si vede che essa ha aumentato la cifra dei biglietti e buoni da 65 a 183 milioni. Trattasi pur sempre tuttavia di cifre modeste. Lo scopo più importante per cui si crearono biglietti in quantità enormi fu lo sconto delle cambiali. Il portafoglio è aumentato nientemeno che da 751 milioni a 4 miliardi e 750 milioni, il che vuol dire un balzo colossale di ben 4 miliardi! La Banca dell’impero ha riscontato per 4 miliardi di portafoglio delle banche ordinarie; ed ha messo così queste in condizione di poter far fronte a tutte le domande di rimborsi ed a tutte le ragionevoli richieste di nuovi sconti, da parte dell’industria e del commercio.

 

 

Il lettore dirà: come è possibile che, con soli 2 miliardi e 344 milioni di marchi di biglietti in più, la Banca abbia potuto provvedere, oltre alle piccolezze dei 55 milioni di più di anticipazioni e dell’acquisto dei 120 milioni di buoni della Cassa di prestiti, a 4 miliardi di sconti? La spiegazione si trova nell’ultima colonna dei depositi. Le banche ordinarie, le quali, avendo ottenuto il risconto di 4 miliardi di marchi di cambiali, si sono assicurate una forte disponibilità di denaro, per il momento non ne hanno avuto bisogno, evidentemente perché il pubblico non si è affollato ai loro sportelli per richiedere il rimborso dei depositi, ovvero perché le richieste di nuovi sconti da parte dell’industria e del commercio sono state scarse o per tutte due le cause insieme. Alle banche ordinarie è bastata la disponibilità del ricavo del risconto dei 4 miliardi di cambiali. Assicurate su questo punto, hanno lasciato in deposito una notevole parte di questa disponibilità presso la stessa Banca dell’impero; i cui depositi sono perciò cresciuti da 944 milioni a 2 miliardi e 441 milioni, ossia di 1 miliardo e 497 milioni di marchi. Se le banche ordinarie avranno bisogno di ritirare, per fronteggiare un panico di depositanti o per scontare nuovi effetti commerciali, questo miliardo e mezzo di depositi, la Banca dell’impero potrà agevolmente rispondere all’appello: basterà che essa stampi i miliardo e mezzo di nuovi biglietti. In regime di corso forzoso, il torchio a stampa funziona senza difficoltà.

 

 

Alquanto diverse sono le condizioni della Banca d’Inghilterra. Riprodurrò anche qui (in milioni di lire sterline) le stesse cifre indicate sopra per la Banca germanica, in quanto ciò sia possibile data la diversità dei sistemi bancari:

 

 

Riserva metallica

Circolazione in biglietti

Portafoglio e anticipazioni

Titoli di stato

Depositi

Dei privati

Dello stato

30 luglio

38.13

29.71

47.31

11.01

54.42

12.71

6 agosto

27.62

36.11

65.35

11.04

56.75

11.50

13 agosto

33.02

35.93

70.79

23.04

83.33

7.89

20 agosto

37.96

37.19

97.92

26.04

108.09

13.67

27 agosto

43.47

36.57

109.90

29.78

123.89

23.89

3 settembre

47.77

35.29

121.82

28.02

133.82

28.68

10 settembre

47.51

35.22

116.92

25.75

130.70

24.41

 

 

Chi ha sentito discorrere di una certa autorizzazione che avrebbe dato il governo alla Banca d’Inghilterra di non tener conto dell’atto bancario di Peel del 1844 e di procedere ad emissioni illimitate di biglietti, a primo aspetto rimane disorientato nel leggere le cifre sovra esposte. Coloro che credettero sul serio ad una emissione illimitata di biglietti in Inghilterra dimenticarono che il valore delle parole è grandemente diverso a seconda dei diversi regimi monetari in cui si vive. Si comprende che in Germania, una volta proclamato il Corso forzoso ed esentata la Banca dall’obbligo del cambio a vista, la Banca abbia davvero la potestà di aumentare illimitatamente i biglietti e di portarli, come già fece, da 1 miliardo e 891 milioni a 4 miliardi e 235 milioni di marchi e forse anche a 5 o 6 miliardi e più in avvenire. In Inghilterra la facoltà di emettere illimitatamente dei biglietti ha una portata completamente diversa. Essa vuol dire solo che la Banca può emettere biglietti quanti vuole, senza essere legata dall’obbligo di contrapporre ad ogni nuovo biglietto emesso altrettanta riserva metallica. Finora la facoltà dell’emissione illimitata non vuol dire altro. È la liberazione da un obbligo rigidissimo imposto dall’atto di Peel. Se si pensa che la Banca non è però liberata dall’obbligo di cambiare i biglietti emessi in oro a vista, e se si riflette che l’opinione più autorevole del mondo bancario è di parere che la Banca non debba essere liberata dall’obbligo, sembrando sino a questo momento prevalente l’interesse nazionale di conservare l’integrità del pregio della lira sterlina nelle contrattazioni internazionali, se ne deduce agevolmente che la pretesa illimitazione delle emissioni inglesi è, per il momento, una fantasmagoria germinata nella mente di chi non badava ad una delle premesse essenziali, sebbene tacita, dei discorsi degli uomini politici e dei giornali inglesi.

 

 

Veggansi invero le cifre della tabella. Queste ci dicono che la circolazione dei biglietti è aumentata appena da 29,71 a 35,22 milioni di lire sterline, ossia di 5,51 milioni, all’incirca 140 milioni di lire italiane. Anzi nelle ultime settimane la circolazione tende a diminuire. È notevole che la circolazione dei biglietti è aumentata meno di quanto non sia cresciuta la riserva metallica, la quale dopo essersi ridotta da 38 a 27 milioni di lire sterline, nella prima settimana di agosto, ritornò, sotto la sferza salutare dei rialzi del saggio dello sconto da 4 a 6 ad 8 ed a 10%, a 33 milioni, aumentando via via sino a 47,51 milioni il 10 settembre. Trattasi sempre di una riserva metallica meschina, di circa 1 miliardo e 700 milioni di lire nostre, inferiore alle riserve italiane; ma non pare che gli inglesi se ne preoccupino, perché essi si ritengono sicuri di richiamare l’oro da tutte le parti del mondo colla prospettiva di un rialzo del saggio dello sconto e col mantenimento di un saggio relativamente elevato. Fiducia questa ragionevole, finché chi porta l’oro alla Banca è sicuro di riaverlo, ossia finché esiste il cambio a vista dei biglietti, ossia finché i biglietti sono emessi in quantità limitatissima. La preoccupazione di conservare alla piazza di Londra la prerogativa di attrarre spontaneamente l’oro da tutte le parti del mondo, è quella che, per ora, consiglia ai dirigenti del mercato monetario inglese la conservazione del cambio a vista dei biglietti.

 

 

Ho detto per ora e per il momento, perché ignoro a quali conseguenze potrà portare la legge votata dal parlamento inglese di garantire le cambiali, create prima del 4 agosto, e portate allo sconto della Banca d’Inghilterra. Questa garanzia governativa ha avuto l’effetto che si legge nella colonna portafoglio ed anticipazioni: le cambiali portate al risconto aumentarono da 47,31 milioni il 30 luglio alla enorme cifra di 121,82 milioni il 3 settembre, ridotta il 10 a 116,92 milioni. Si vede che le banche ordinarie non hanno portato al risconto, servendosi della garanzia governativa, se non una piccola parte dei 400 milioni di cambiali che si dice circolassero al 4 agosto; ma anche un aumento di soli 70 milioni non è piccola cosa. Come vi fece fronte la Banca d’Inghilterra, la quale ha, sì, ricevuto il diritto di emettere illimitatamente biglietti, ma di questa facoltà non può, sinora, servirsi per le ragioni dianzi esposte? Come fu risolto a Londra il problema che era reso di così facile soluzione a Berlino dal torchio a stampa?

 

 

Il modo si vede, anche qui, nella colonna dei depositi dei privati. La Banca riscontò alle banche ordinarie 70 milioni di più di cambiali e le accreditò sui suoi libri di altrettanta somma depositata a vista presso le sue casse. Ed invero i depositi dei privati, il che vuol dire delle banche ordinarie, aumentarono da 54 a 130 milioni di lire sterline. Finora non si vede che la garanzia governativa abbia avuto altro effetto all’infuori di questo: sostituire, nel bilancio delle banche ordinarie, alle cambiali in portafoglio altrettanto accreditamento presso la Banca d’Inghilterra.

 

 

Ignoro che cosa accadrà il giorno in cui le banche ordinarie intendessero esigere i loro crediti. Con che moneta rimborserà la Banca d’Inghilterra i 130 milioni di lire sterline di depositi, essa che ha appena 47 milioni di riserva metallica e non ha a sua disposizione il torchio del corso forzoso? Dovrà anche quel paese ricorrere al corso forzoso e rinunciare all’egemonia mondiale della lira sterlina, egemonia fatta di fiducia nel baratto a vista in oro? Per ora, non sembra che le banche ordinarie intendano ritirare i loro depositi. Pare che esse, poste di fronte al dilemma: o far nuovi affari su vasta scala e, per farli, usare dei depositi alla Banca d’Inghilterra, ovvero restringere i nuovi sconti alla clientela allo scopo di non essere costrette a ritirare i depositi, abbiano scelto la seconda alternativa. Guadagnano meno, provocano malcontento nell’industria e nel commercio, si attirano qualche mala parola, a quanto pare, di Lloyd George, ma salvano uno dei patrimoni più preziosi dell’Inghilterra: l’illibatezza della lira sterlina. Fino a quando durerà la loro resistenza?

 

 



[1] Con il titolo Germania e Inghilterra di fronte alla pressione finanziaria della guerra. La profonda diversità di due sistemi. [ndr]

Per la ripresa dei traffici internazionali

Per la ripresa dei traffici internazionali

«Corriere della Sera», 23 agosto 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 21-24

 

 

La guerra pone ogni giorno nuovi problemi che devono essere risoluti. Problemi, che non sorgevano nelle guerre d’una volta, quando il commercio internazionale aveva scarsa importanza, quando le navi andavano a vela, e quando non esistevano i complessi rapporti creditizi i quali hanno reso ogni paese dipendente dall’altro. La distruzione dei meccanismi delicatissimi creati dalla fiducia danneggia egualmente i belligeranti ed i neutrali, né risparmia i paesi aventi il dominio del mare e quelli che sono lontanissimi dal teatro della guerra.

 

 

Per fortuna i mezzi di adattamento alle mutate condizioni di cose agiscono oggi più rapidamente d’un tempo. Mentre sarebbero occorsi mesi per conoscere i provvedimenti dei paesi esteri, oggi in pochi giorni ed anzi in poche ore è agevole sostituire alle antiche spontanee norme di cooperazione internazionale nuove maniere, più imperfette e grezze, ma pur capaci di diminuire i danni dell’arresto subitaneo di ogni attività economica verificatasi allo scoppiare della guerra. Su alcuni di questi nuovi provvisori congegni non sarà inopportuno di intrattenerci, anche per vedere come essi possono gradualmente essere perfezionati.

 

 

È noto come il governo italiano abbia accolto la proposta, messa innanzi da varie parti, di assumere il rischio di guerra per le navi appartenenti alla bandiera italiana e per il carico da esse trasportato. Non so con quali modalità sia regolata la assunzione del rischio di guerra. È probabile non si seguano norme molto diverse da quelle immediatamente applicate in Inghilterra dove i premi per lo scafo e per ogni viaggio sono fissati da un comitato governativo, il quale conserva il diritto di regolare i viaggi delle navi assicurate, assumendo il governo l’80% del rischio e rimanendo il 20% a carico di associazioni mutue di assicurazione contro il rischio di guerra, che in quel paese esistevano fin da prima che la guerra scoppiasse. Quanto al carico, il governo assume il 100% del rischio, ad un premio variabile tra l’1 ed il 5% per viaggio, purché si tratti di carico viaggiante sulle navi già assicurate presso lo stato.

 

 

Siccome altri stati seguiranno il medesimo metodo, così è probabile che, ove l’Inghilterra conservi il dominio del mare, il traffico marittimo abbia ad essere ripreso a poco a poco non solo dalle bandiere neutrali, ma anche dalle bandiere dei paesi belligeranti e principalmente dalla bandiera inglese la quale fornisce la maggior parte delle navi da carico. Se la ripresa, come pare probabile, si verificherà, saranno risoluti parecchi problemi, che ora sono assai preoccupanti e che impediscono all’Italia di riprendere le relazioni commerciali con l’estero. Una di queste difficoltà è il rincaro del carbone necessario per i piroscafi non solo nei porti italiani, ma anche nei porti esteri. Ciò che il governo ed i privati stanno facendo per assicurare all’Italia il carbone necessario alle sue industrie è assai lodevole. Ma non è tutto il necessario. La catena degli affari si è rotta in parecchi punti ed occorre saldarla in tutti, affinché l’attività industriale proceda. Sta bene avere il carbone: ma occorre altresì vendere i prodotti fabbricati negli stabilimenti, a cui il carbone sarà fornito, grazie alle provvidenze adottate nei diversi stati e grazie ai nuovi adattamenti della marina mercantile allo stato di guerra. Ma per poter vendere ed incassare il prezzo, occorrono varie condizioni. Tra le molte, ricordiamone alcune più pressanti:

 

 

  • occorre aver diritto di esportare. Malgrado i chiarimenti forniti dal governo, le autorità doganali pare interpretino molto estensivamente la lista delle merci soggette a divieto di esportazione. Occorre che quella lista sia riveduta, si può dire, di giorno in giorno. La difesa nazionale non sarà per nulla pregiudicata, ad esempio, se si accorderà il diritto di esportare per le merci, di cui i magazzini militari fossero ora già a sufficienza provvisti o le merci che non sarebbero prodotte se continuasse il divieto, o per cui la materia prima, oggi non esistente nel regno, venisse importata subordinatamente alla clausola di riesportazione sotto forma di prodotto finito. È probabile che, mettendovi un po’ di buona volontà, i preposti ai dicasteri della difesa e della economia nazionale troveranno modo di allargare il novero delle materie esportabili; e dal canto suo il ministero delle finanze avrà cura di temperare lo zelo, talvolta eccessivo, dei suoi funzionari;
  • occorre che le navi non solo trovino il carbone a Genova, al momento della partenza, ma anche al porto di arrivo, al momento del ritorno. Chi vorrà mandare a Buenos Aires od a Montevideo una nave, se laggiù dovrà comprare il carbone a 125 lire la tonnellata? è probabile che il problema si risolverà in parte spontaneamente, perché, una volta liberate dal rischio di guerra, le navi da carico, neutre ed inglesi, avranno interesse a correre, provviste di carbone, verso gli scali dove il prezzo del carbone stesso sarà più elevato, per usufruire dei pingui profitti, in tal modo possibili. Ma non sarebbe inopportuno che il governo nostro, il quale pare abbia assicurata all’Italia la provvista di carbone di alcune miniere inglesi, ne diriga una parte ai porti esteri, dove è maggiore la frequenza delle navi italiane. Sarà inutile costituire riserve di carbone agli Stati uniti, dove esso si trova in abbondanza; ma può essere conveniente provvedere a tempo all’Argentina, al Brasile ed agli altri stati, con cui l’Italia conserva relazioni commerciali discrete. Purtroppo l’America meridionale traversa un periodo di crisi economica intensa; la quale fu aggravata dalla guerra; e non si possono quindi nutrire speranze di grossi nuovi affari con essa. Ma qualcosa si potrà pur sempre ottenere, data l’impossibilità della Germania e dell’Austria di continuare le loro esportazioni;
  • occorre poter pagare all’estero e ricevere pagamenti dall’estero. È materia delicatissima, forse la più ardua di tutte. Pare che il governo inglese si sia trovato nella necessità di dare presso le banche la propria garanzia a favore di quelle ditte le quali si trovavano in bisogno di credito per la impossibilità di ricevere le rimesse dall’estero. Non oso suggerire alcuna norma in proposito, trattandosi del punto forse il più delicato del meccanismo che la guerra ha rotto. Certo è che l’argomento merita attento studio da parte dei dirigenti il nostro mercato finanziario. Non fanno difetto in Italia le banche, le quali hanno sedi all’estero; e vi sono in Italia filiali di istituti bancari stranieri.

 

 

Una intesa fra questi istituti ed i loro corrispondenti può giovare a ristabilire in parte il funzionamento del meccanismo dei cambi esteri. Non giova illudersi di poter ridare al lavoro del meccanismo la velocità che aveva prima; né credo ragionevoli ed opportune le speranze di chi crede che l’Italia possa sul serio giovarsi della sua situazione di potenza neutrale per ottenere dal commercio internazionale beni in quantità maggiore di prima. La guerra ha diminuito troppo la potenza d’acquisto anche dei paesi lontani (come potranno Argentina, Brasile, Australia, India, Asia minore, Canada ecc. ecc. comprare, se essi non possono più vendere ai paesi belligeranti e se ad essi è venuto meno il credito europeo, che nei paesi nuovi è una delle fonti principali della potenza d’acquisto?) perché ci si possa illudere di fare con essi nuovi e grandi affari. Qualcosa però può farsi coltivando la potenzialità d’acquisto tuttora esistente nei mercati esteri: ed è necessario ed utile che a tal fine convergano le forze economiche del nostro paese.

 

 

L’approvvigionamento del carbone ed il rischio di guerra

L’approvvigionamento del carbone ed il rischio di guerra

«Corriere della Sera», 12[1] e 13 agosto 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 14-20

 

 

I

A Genova tutti sono consapevoli della importanza di preservare le industrie dell’entroterra del grande porto italiano da interruzioni che sarebbero disastrose, non solo dal punto di vista economico, ma sovratutto dal punto di vista politico-sociale. Al Consorzio del porto, per iniziativa del comm. Nino Ronco, alla Camera di commercio ad opera del presidente Zaccaria Oberti, alla Federazione degli armatori liberi si tengono giornalmente adunanze tra industriali, commercianti, armatori per avvisare ai mezzi di porre riparo alla stasi delle industrie ed alla disoccupazione operaia che la guerra europea minaccia anche all’Italia neutrale. Facendo astrazione dai particolari aspetti del dibattito, qui gioverà riassumere i dati del problema; sovratutto del problema massimo, che è l’approvvigionamento del pane dell’industria, il carbon fossile.

 

 

Nei giorni scorsi i rialzi di prezzo sono stati straordinari: il Cardiff, che è la qualità necessaria per l’industria, da 38 lire la tonnellata, prezzo precedente alla guerra, fece dei balzi repentini a 90, fino a 105 lire la tonnellata. Ora oscilla intorno ad 8o lire, con tendenza al ribasso. Ma sono ancora prezzi d’eccezione, proibitivi per le industrie, che lavorerebbero in perdita, qualora dovessero seguitare a comprare il combustibile a questi saggi.

 

 

Non è che lo stock esistente in porto sia oggi inferiore al normale. Batte sulle 152.000 tonnellate comprese 18.000 tonnellate ad uso della ferrovia. Ciò che impaurisce ed ha fatto ad alcuni detentori, non a tutti, stornare i contratti in corso è la paura di non potersene più procurare; è il timore che in breve ora le scorte odierne abbiano ad esaurirsi. Il consumo totale annuo in Italia di carbon fossile fu di 10.810.800 tonnellate nel 1913, di cui 9.386.159 tonnellate provenienti dall’Inghilterra. A lunga distanza, venivano in seguito la Germania con 949.000 tonnellate, la Francia con 164.000, l’Austria-Ungheria con 133.000, gli Stati uniti con 93.000. Di questi quasi 11 milioni di tonnellate si può calcolare che 3 milioni e mezzo passino per il porto di Genova, 1,2 per il porto di Savona ed 1,3 per il porto di Venezia, in tutto circa 6 milioni che vanno ad approvvigionare l’Italia nel nord. Giorno per giorno l’Italia ha bisogno, in cifre tonde, di 30.000 tonnellate di carbon fossile, di cui 15.000 destinate all’Italia del nord. A questo traffico partecipano in varia misura le diverse bandiere. Per il porto di Genova si può calcolare che ad uno sbarco di 3.235.000 tonnellate del 1912, la bandiera italiana abbia concorso con 1.100.000 tonnellate, l’inglese con 1.054.000, la greca con 369.000, la spagnuola con 209.000 e la norvegese con 160.000 tonnellate. Per fortuna, predominano le bandiere neutrali. Anche se si suppone che abbia a cessare del tutto il trasporto ad opera della bandiera inglese, la cui potenzialità è diminuita grandemente sia per essere l’Inghilterra una nazione belligerante, sia per essere molti suoi marinai stati chiamati a prestar servizio nella marina da guerra, non pare impossibile che il suo posto possa temporaneamente essere preso dalle altre bandiere. Specialmente la marineria greca, a cui ora sono chiusi i porti del Mar Nero, non potendosi dedicare al trasporto dei grani dalla Russia e dalla Rumenia potrebbe avere convenienza ad aumentare le sue prestazioni nel traffico del carbone. Naturalmente ciò non potrà ottenersi se non con un aumento sensibile di noli. Le bandiere neutrali metteranno all’incanto la loro cooperazione. Si tratta di non pagarla troppo cara e di non essere costretti a versare alla guerra una taglia troppo grave, in aggiunta ai prezzi correnti prima.

 

 

Una taglia converrà pagarla, anche perché bisognerà forse, se non in tutto, almeno in parte notevole rinunciare all’acquisto del carbone in Inghilterra. L’unico mercato disponibile sono gli Stati uniti, dove, prima della guerra, si acquistava da case italiane carbone ottimo, di qualità uguali al Cardiff, a 18 lire la tonnellata. Naturalmente, il subito afflusso di nuove domande europee sul mercato nordamericano farà ivi aumentare i prezzi e farà ancor più aumentare i noli. Negli ultimi giorni si parlava di noli per il carbone dal Nord America a Genova di 20-22 scellini la tonnellata. Né siamo i soli a lamentarci. Nei porti della Plata gli ultimi telegrammi danno il prezzo del carbone nordamericano a 125 franchi oro la tonnellata, pagamento in contanti, senza garanzia di consegna.

 

 

Se noi ci dovessimo fondare soltanto sul concorso delle bandiere estere, specialmente neutrali, otterremmo bensì carbone: ma in quantità insufficiente al consumo nazionale ed a prezzi esorbitanti. L’opera della bandiera estera può essere utile soltanto a condizione che, allato ad essa e come calmiere agli aumenti di prezzi da essa pretesi, si svolga un’azione energica e coordinata della bandiera italiana. È quanto intendono fare i benemeriti dirigenti del Consorzio del porto, della Camera di commercio e delle organizzazioni commerciali e marittime genovesi. Speriamo che i loro sforzi, coadiuvati dal governo, riescano all’alto fine.

 

 

II

Il problema dell’approvvigionamento del carbone è questo: come trovare le 30.000 tonnellate per l’Italia e le 15-17.000 per l’alta Italia che abbiamo veduto essere ogni giorno necessarie al nostro consumo? In verità basterebbe assicurare la provvista anche di una quantità minore, poiché il rialzo inevitabile del prezzo conseguente alla guerra, rialzo che non si può in alcun modo immaginare di eliminare, come quello che dipende da fattori extra italiani (aumento del prezzo del carbone alle miniere, dei noli, delle tariffe di assicurazione, dell’aggio, dell’interesse del capitale circolante, ecc. ecc.) renderà l’uso di questo combustibile antieconomico per taluni usi, riducendo i consumi per il riscaldamento, per la produzione del gas illuminante e per le industrie meno redditizie e meno atte a compensare il cresciuto costo del combustibile con un aumento del prezzo delle merci prodotte. Forse con 7-10.000 tonnellate in arrivo ogni giorno nei tre porti di Genova, Savona e Venezia si potrà provvedere a far andare innanzi il grosso delle industrie del nord, quelle per cui il carbone è davvero indispensabile, sì che possono, riducendo l’orario o le giornate lavorative, mettersi a razione, ma non potrebbero rinunciarvi del tutto, senza chiudere i battenti delle fabbriche.

 

 

Dove trovarlo, come pagarlo, come trasportarlo e presso chi assicurare navi e carico? Ecco i problemi che devono essere risoluti. Il dove trovarlo è il problema che si risolve più facilmente. Negli Stati uniti invero si produce carbone adatto agli usi industriali, di tutte le diverse qualità necessarie, con marche, come il Pocahontas, uguali ai migliori Cardiff. Ed è facile che, passato il primo tumulto di guerra, anche il carbone inglese possa ripigliare le vie del continente. L’ammiragliato britannico è ben lungi dell’aver bisogno di tutto il combustibile che si produce nel Regno unito; ed il governo inglese non ha neppur interesse a provocare la disoccupazione ed il malcontento nei bacini minerari. Il come pagarlo si ricollega all’insieme dei provvedimenti che ogni giorno più si dimostrano necessari per permettere di nuovo la quotazione ed il negozio delle divise estere. Anche qui, passati i primi momenti di ansia, non è impossibile che il meccanismo delle vendite con pagamento a scadenza futura torni a funzionare o che il credito provveda, dietro conveniente retribuzione, a procacciare il capitale necessario per l’esercizio del traffico.

 

 

Restano i problemi del come trasportare e come assicurare. Quanto alle navi da trasporto, l’Italia, per fortuna, ne possiede nel momento presente un numero notevole. La «serrata» degli armatori liberi contro le richieste della Federazione della gente di mare aveva fatto concentrare nei porti italiani circa 160 navi in disarmo, di cui 110 circa a Genova. Nell’ultimo mese, forse 60 di queste navi sono già state riarmate e si trovano nei diversi porti esteri in parte già provviste di carico ed in parte disponibili per nuove direzioni. Anche supponendo che tutte queste 60 navi siano dedicate al trasporto delle merci varie, rimangono circa 100 navi, metà a Genova e metà negli altri porti italiani, che potrebbero dedicarsi al trasporto del carbon fossile dagli Stati uniti e, possibilmente, dall’Inghilterra. Alcune sono già attrezzate per questo traffico, ed altre potrebbero esservi adattate. Supponendo una portata media di 5.000 tonnellate per piroscafo, l’intiera flotta avrebbe una portata totale di 500.000 tonnellate. Siccome per il viaggio di andata e ritorno nei e dai porti nordamericani si dovrebbero calcolare 60 giorni, forse anche, per tener conto delle inevitabili perdite di tempo, 70 giorni, la capacità media giornaliera di trasporto dovrebbe calcolarsi a 500.000 tonnellate divise per 60-70 giorni, ossia a circa 7.000 tonnellate giornaliere. Il problema sarebbe tecnicamente risoluto; poiché potremmo essere sicuri che la bandiera greca e forse anche la bandiera inglese fornirebbero il restante carbone necessario al nostro consumo; né potrebbero pretendere noli esorbitanti, per l’opera moderatrice esercitata dalla bandiera italiana. Neppure vi sarebbe pericolo di vedere interrotti altri traffici, ché il più importante, quello del frumento del Mar Nero, è ora compiutamente interrotto, e d’altro canto le provviste interne di cereali sono sufficienti sino a maggio.

 

 

Frattanto non parte nemmeno una nave e quelle in viaggio sono fermate nei porti neutrali. La ragione unica è l’impossibilità di assicurare il rischio di guerra. Il pericolo del rischio di guerra è forse ingigantito nella immaginazione degli armatori; ma non si può proibire al proprietario di una nave che vale mezzo milione di lire di temere sfumata la sua fortuna, se l’Italia dovesse uscire dalla presente neutralità, se la nave saltasse in aria per essersi imbattuta in una mina o per uno sbaglio di una nave da guerra. La paura dell’imprevisto è un sentimento umano; e non è umano pretendere che si arrischino 500.000 lire per lucrare forse qualche decina di migliaia di lire di noli.

 

 

Ora, nel momento presente non v’è nessuno che assicuri il rischio di guerra. Prima della dichiarazione di guerra pare che si fossero dal Lloyd di Londra fatte quotazioni al 10%; ma dopo fu ed è impossibile trovare chi assuma questi rischi. La guerra ha rotto i rapporti internazionali, per cui i rischi, a mezzo della riassicurazione, venivano ripartiti su moltissime imprese assicuratrici, appartenenti a tutti i paesi del mondo. Rotti i vincoli invisibili di solidarietà internazionale, ogni paese è abbandonato alle sole sue forze e deve cercare surrogati imperfetti ai meccanismi meravigliosi che la guerra ha distrutto. Due sole vie si possono indicare:

 

 

  • gli armatori si riuniscano in una mutua e deliberino di ripartire su tutte le 100 navi il rischio di guerra che effettivamente si verificasse per alcune di esse. Supporre che 10 delle 100 navi vadano perdute durante la guerra è fare già una ipotesi forse assai larga; sicché il rischio, incomportabile per ognuno, se tutti lavorassero divisi, diverrebbe sopportabile se i rischi fossero frazionati su tutti. Non par facile però costituire una mutua in frangenti come questi. Ogni organismo mutuo o cooperativo implica un alto grado di fiducia reciproca: condizione rara nei tempi normali, rarissima nei tempi di guerra;
  • lo stato assuma esso il rischio di guerra, direttamente o per mezzo di qualche pubblico istituto.

 

 

Allo stato si chiede in Italia sempre troppo; e la indiscrezione va diventando scandalosa di questi giorni, quando ognuno dei cittadini dovrebbe ricordare essere suo strettissimo dovere di risolvere da sé il massimo numero di problemi e di difficoltà, lasciando al governo la cura delle pubbliche faccende, divenute tanto preoccupanti ed ardue. Quasi quasi invece, ogni volta che un rivenditore esige un soldo di più per dozzina di uova, si pretenderebbe oggi che il governo fosse lì pronto ad impedire, colla forza pubblica, il cosidetto abuso! Perciò, nemmeno per il carbone, sarebbe opportuno chiedere cose difficili o perturbatrici dell’andamento dell’attività governativa, che dovrebbe tutta essere indirizzata, in uno sforzo supremo, alla salvaguardia degli interessi del paese. Senza escludere che, in casi particolari e per esigenze speciali, il governo si faccia esso approvvigionatore di carbone, non distogliamo dunque forze preziose dalla difesa del paese. Gli armatori viaggino dunque essi ed i commercianti vadano dunque essi in cerca del carbone. Bensì è ragionevole che essi chiedano al governo che li garantisca dal rischio di guerra. Chiedendo ciò, essi non domandano, in questo momento, nulla di illecito. Il rischio di guerra non è un fatto fisico o tecnico che dipenda dalla fortuna o dalla diligenza. È un fatto sociale: e la tutela contro di esso rientra nell’ambito delle funzioni di sicurezza che son proprie dello stato. Inoltre, qui si verifica un rischio determinato, preciso, non aumentabile dalla frode dei caricatori od armatori. Assumendo, in compenso di un premio moderato, il rischio di guerra, il governo assicurerebbe le popolazioni operaie dell’interno contro il pericolo della fame ed, eliminando una causa di malcontento, rinsalderebbe l’unità di volere e di agire di tutti gli italiani.

 

 


[1] Con il titolo Il problema del carbone. [ndr]

I provvedimenti finanziari erano democratici?

I provvedimenti finanziari erano democratici?

«Corriere della Sera», 12 luglio 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 7-13

 

 

Il dibattito che si accese intorno ai provvedimenti finanziari proposti dal ministero Giolitti e modificati dal ministero Salandra poggiava tutto sull’accusa di antidemocraticità mossa dai socialisti, ammessa in parte anche da radicali e liberali, negata, con poca vigoria, dai propugnatori dei provvedimenti, i quali ne sminuivano il valore dichiarando solennemente trattarsi di spedienti temporanei a cui in novembre si sarebbe posto rimedio con la presentazione di un progetto di grande riforma tributaria, inspirato al concetto dell’imposta progressiva sui redditi.

 

 

Confesso che a me riesce alquanto difficile intervenire in un dibattito di questo genere, per una ragione d’indole quasi pregiudiziale: ed è che non conosco il significato della parola «democratico» applicata ad un sistema tributario o ad un complesso di provvedimenti finanziari. Lodare un’imposta perché è democratica o biasimarla perché è antidemocratica è usare un linguaggio vago, indefinito, forse adatto alle assemblee politiche od ai comizi popolari, dove conviene non discutere idee, ma risvegliare sentimenti, procacciarsi popolarità, eccitare odio o disprezzo contro altri. In un discorso sensato, in una discussione ragionata quelle parole vanno bandite perché sono prive di qualsiasi senso; e confesso che, se la scienza delle finanze è ancora una «cosidetta» scienza, ciò è dovuto in parte al fatto che i suoi cultori stentano assai a liberarsi dal fardello del vocabolario comune, in cui tengono così gran posto i tributi a «democratici», a giusti ed altrettali amenità, di cui la scienza economica, a cagion d’esempio, si è da tempo liberata, con incommensurabile suo vantaggio.

 

 

Purtroppo, però, agli studiosi non è lecito mutare il linguaggio volgare, anche se questo fa loro nausea; e conviene quindi acconciarsi alle imposte «democratiche» e «giuste»; cercando solo di definire, il meno peggio possibile, ciò che si vuole in realtà intendere per democrazia e giustizia nelle imposte. Se si tenta delineare il contenuto che l’opinione pubblica dominante – badisi bene che io dico l’opinione pubblica dominante, con che voglio far astrazione da quelle che possono essere le idee particolari di chi capita a scrivere – versa nella forma verbale «democrazia» e «giustizia» tributaria, direi che esso si concreta nelle seguenti principali proposizioni:

 

 

  • a) le imposte non devono essere congegnate in modo tale da ostacolare lo sviluppo dell’industria, la creazione di nuove imprese e quindi la domanda di lavoro. Se un’imposta, cioè, per ottenere un prodotto 10, impedisce la produzione di una ricchezza nuova 15, che andrebbe distribuita fra capitale e lavoro, quella è imposta dannosa;
  • b) le imposte non devono essere congegnate in maniera tale da trattare diversamente persone che si trovano in uguali condizioni di fortuna. Sarebbe, cioè, da tutti considerato biasimevole un metodo il quale tassasse due persone aventi l’uguale reddito con 2.000 lire annue, l’una con 100 e l’altra con 200 lire d’imposta. S’intende che deve trattarsi di redditi sostanzialmente e non solo apparentemente uguali;
  • c) devono preferirsi, come oggetto di tassazione le porzioni del reddito annuo dei contribuenti che sono destinate a consumi che l’opinione pubblica considera secondari od inutili a preferenza di quei consumi che l’opinione pubblica considera come necessari alla vita fisica od al perfezionamento materiale o morale di essa e sovratutto al progresso delle nuove generazioni;
  • d) devono tassarsi a preferenza i redditi alti piuttostoché quelli bassi, non perché gli uni siano alti e gli altri siano bassi, ma perché si ritiene che i primi offrano più ampio margine dei secondi ai consumi o godimenti di ordine superiore e non indispensabili alle necessità dell’esistenza fisica od al perfezionamento dell’individuo e della specie;
  • e) deve porsi mente che le condizioni ora elencate devono soddisfarsi subordinatamente all’esigenza di istituire delle imposte serie, atte, cioè, a procacciare un’entrata al fisco, e non puramente nominali, ossia scritte sulla carta ed infeconde per il fisco.

 

 

Se noi facciamo la convenzione che siano democratiche e giuste le imposte le quali soddisfano ai requisiti sovra enunciati, ed antidemocratiche ed ingiuste le imposte, le quali vi contraddicono, avremo sgombrato il campo per un giudizio sui provvedimenti finanziari proposti dal governo.

 

 

L’ultima condizione e) spiega perché sia stato impossibile al gabinetto Salandra presentare ora un disegno di legge imperniato sulla imposta globale progressiva sui redditi. Sulla carta un progetto simile si può allestire in un batter d’occhio. Sono tante le leggi ed i progetti francesi, tedeschi, svizzeri, americani ed italiani che c’è solo l’imbarazzo della scelta. Un uomo di stato non crea però meccanismi lavoranti nel vuoto. Ed in Italia, oggi, l’imposta sul reddito globale lavorerebbe sul vuoto, perché non si conoscono i redditi, o le cifre note sono false e sono tanto più false quanto più si tratta di redditi appartenenti alla classe professionistica, in confronto ai redditi dei proprietari di terreni e fabbricati, o degli industriali aventi impianti visibili, delle società commerciali con bilanci pubblici, che già oggi pagano tutti aliquote più alte delle massime a cui si arriva in Inghilterra ed in Germania e negli Stati uniti e si arriverà in Francia con le vigenti o proposte globali sul reddito. Finora il solo uomo di stato italiano, il quale abbia proposto una via efficace per uscire fuori da questo terribile vicolo cieco in cui ci troviamo, fu l’on. Sonnino, il quale proponeva di fondare l’imposta globale non sui redditi ignoti o malnoti e che rimarrebbero malnoti, anche se prevalessero i sistemi inquisitori, di cui pare si voglia rendere propugnatore l’on. Alessio, bensì su indizi certi della ricchezza. Il Sonnino proponeva il valore locativo dell’alloggio abitato dal contribuente; e qui era il suo difetto massimo, perché il valore locativo per sé solo è insufficiente. Diverrebbe sufficiente, se lo si integrasse col tener conto del numero delle persone componenti la famiglia, del numero e qualità dei domestici, dei cavalli, vetture, ville ecc. ecc.

 

 

Se è spiegabilissimo che, volendo far opera sinceramente democratica, il gabinetto Salandra non abbia proposto subito la globale, riservandosi di studiare una forma seria – e speriamo vi giunga – come deve essere giudicata la sua opera positiva, ossia i provvedimenti suoi o fatti suoi?

 

 

Nessuna imposta deve comprimere od impedire la produzione (condizione a). Rileggendo i testi successivi dei provvedimenti, le uniche proposte le quali mi paiono soggette a questa critica sono quelle relative alle tasse sulle cambiali, sui libri copialettere, sulle acque minerali ed al diritto di statistica. La riduzione votata alla fine del 1907 del bollo sulle cambiali era stata dettata da imperiose necessità economiche; ed aveva prodotto ottimi frutti, contribuendo al risanamento di parecchie industrie e massimamente di quella bancaria; con vantaggio non lieve del fisco. Inspiegabile e dannoso è perciò il proposto aumento, a cui si può accompagnare la tassa sui copialettere, per i suoi effetti, sulla morale e la regolarità delle scritturazioni commerciali. Per lo stesso motivo una tassa su una industria nascente, come quella delle acque minerali, non pare provvida. Né mi dilungo a spiegare perché l’inasprimento e la generalizzazione del diritto di statistica si converta in un disturbo per il commercio ben più rilevante del vantaggio per il fisco e in un aggravamento di quella protezione doganale, che, almeno, dovrebbe mantenersi invariata sino a che non sia risoluta la controversia accesa su questo grande problema della vita nazionale.

 

 

Trattasi però di poche proposte, le quali paiono condannabili, perché dannose alla produzione; e potevano essere abbandonate per via, come già aveva fatto il governo per le acque minerali.

 

 

Nessuna proposta vi era la quale contravvenisse alla seconda condizione b) di un sistema tributario democratico: l’uguaglianza di trattamento tra contribuenti aventi lo stesso reddito. O meglio una proposta vi era, la quale gravemente feriva questo principio ed era l’imposta sul morto. Ma il ministero Salandra aveva già abbandonato giustamente questo mostro tributario ed a nulla erano valse le obiurgazioni di coloro che, non sapendo come lodarlo, avevano detto che l’imposta sul morto era democratica, solo perché era usata in Inghilterra e colpiva il capitale del morto. Come se l’imposta fosse pagata dal morto e non dagli eredi e come se requisito della democrazia fosse far pagare ugualmente due persone eredi di somme diversissime.

 

 

Il grosso delle proposte soddisfaceva largamente ai due requisiti massimi democratici: colpire i godimenti di lusso ed inutili e) ed i redditi più alti a preferenza dei più bassi d). Cominciamo dalla prima condizione. Non è forse vero che chi impiega il suo reddito in vetture, automobili, motocicli, autoscafi, in bevande alcooliche, in tabacchi, in giuocate ai totalizzatori, ai botteghini dei campi di corsa, ai giuochi al pallone, ecc., in biglietti di cinematografi dimostra coi fatti, i quali valgono più di ogni discorso, di avere un reddito esuberante ai bisogni della sua vita fisica, ed alle necessità del suo perfezionamento fisico, morale ed intellettuale ed insieme dell’allevamento ed educazione delle nuove generazioni? Se la caratteristica della democrazia fosse una realtà e non una mera apparenza verbale, se coloro che discorrono di imposte volessero giudicare dei loro effetti reali, mentre intendono invece a suscitare sentimenti vaghi e nebbiosi di odio od ubbidiscono a ragioni invereconde di partito, questo gruppo di imposte sugli automobili, motocicli, autoscafi, cinematografi, giuocate ai totalizzatori, spiriti, tabacchi, ed aggiungerei anche porto d’armi, dovrebbe essere considerato come democraticissimo e giustissimo: come uno strumento fiscale suscettibile in avvenire di grandiosi sviluppi, allo scopo di colpire tutta quella ricchezza, tutti quei redditi, a chiunque appartengano, i quali sono volontariamente consacrati ad usi che la generalità reputa superflui, od, almeno, non necessari a raggiungere i fini primi e più alti dell’umanità. Opinare altrimenti vuol dire:

 

 

  • che si preferisce colpire quella parte del reddito che va consacrato a fini necessari, alla formazione di nuove generazioni, al risparmio per la creazione di imprese industriali;
  • ovvero, e meglio, che la democrazia la si ha al sommo della bocca; ma guai a colpire sul serio coloro che non solo hanno il reddito, ma di fatto lo usano in maniere che dall’opinione prevalente sono considerate come la dimostrazione provata che una parte di esso è superflua al soddisfacimento dei bisogni necessari o realmente vantaggiosi!

 

 

Rimane l’ultimo connotato dell’imposta democratica, che è di colpire a preferenza i redditi più alti di quelli più bassi. Questo è un criterio di giudizio che può applicarsi a due tra i tributi contenuti nell’omnibus Salandra-Rava: e cioè all’imposta di successione ed all’addizionale del 5%.

 

 

Quanto alla prima, guardo la tabella ultimamente concordata fra governo e commissione e vedo la tassa di favore del 5% estesa dagli enti di beneficenza agli stabilimenti di educazione ed istruzione; ed accanto a quest’unica e lodevolissima mitigazione vedo tutte le altre aliquote aumentate nel senso della progressione: la tassa sulle successioni fra ascendenti e discendenti andrà dal minimo del 0,80 al massimo del 7%, fra coniugi dal 3 al 10,50%, fra fratelli e sorelle dal 7 al 15%, fra zii e nipoti dall’8,50 al 18%, fra prozii e pronipoti e cugini germani dal 10 al 22,50%, fra altri parenti ed estranei dal 15 al 30%. Che cosa vogliono di più i frenetici della democrazia? L’imposta di successione è l’imposta tipica degli abbienti. In Italia su 100 morti al disopra di 20 anni, solo 40 all’incirca lasciano un patrimonio piccolo o grosso, su cui si paga imposta di successione; e sulla minoranza che paga, l’imposta cresce progressivamente, come si è visto, dal 0,80 al 30% della quota ereditaria ricevuta, a mano a mano che cresce la fortuna ereditata o si allenta il legame di parentela. Sono aliquote che a me paiono alte; sebbene possa darsi che sembrino modeste ai frenetici della democrazia. Una verità però sembra pacifica: che nel momento attuale, in cui la ricchezza privata italiana, destinata alla produzione, è tanto scarsa, sarebbe pericoloso assorbire, a titolo di imposta di successione, una quota maggiore di quella prevista dal disegno di legge, per destinarla a scopi di consumo, siano pure consumi di stato. Si è già passato il segno; e ad ogni modo lo si è oltrepassato obbedendo ai sacri canoni della giustizia democratica.

 

 

Quanto all’addizionale del 5%, adesso non c’è esenzione alcuna per i redditi dei terreni, dei fabbricati, di categoria A1 e A2 di ricchezza mobile (redditi di capitali) e di categoria D (dei pubblici funzionari, per cui l’imposta è esatta per ritenuta, ossia con un metodo che finora, per difficoltà tecniche, si è ritenuto incompatibile con l’esenzione). Domani, le quote minime dei terreni e dei fabbricati saranno esenti dall’addizionale, e, lasciando invariata l’aliquota erariale principale, i minimi esenti, per la addizionale del 5%, saranno aumentati, per la ricchezza mobile, categoria B da 534 a 1500, categoria C da 640 a 1667, categoria D da 800 a 2.000. Il minimo esente è troppo basso per i terreni ed i fabbricati e potrebbe, senza grave danno, essere aumentato alquanto; ma è certo un passo mosso sulla via «democratica» quello di esentare i redditi meno alti e di tassare solo i più alti. Oserei dire che il passo è stato fin troppo azzardato, in materia di redditi mobiliari; poiché quanti redditi accettati vi sono in Italia che superino le 1.500, 1.667, e 2.000 lire all’anno? Ben pochi in numero, a giudicare all’ingrosso: laonde si cade in un altro difetto, che non so se sia democratico od antidemocratico, ma è un difetto sicuramente, e cioè di colpire un’esigua minoranza dei possibili contribuenti, e di rendere il tributo una imposta odiosa di classe.

 

 

Salvo poche eccezioni, facilmente rimediabili, i provvedimenti finanziari non frastornavano dunque la produzione; non erano disuguali, colpivano i redditi impiegati in consumi di lusso od in godimenti egoistici, facevano un lungo passo sulla via della tassazione delle classi abbienti. Per quali misteriosi motivi furono dunque vilipesi come antidemocratici?

 

 

Buoni del tesoro e consolidamento del debito fluttuante

Buoni del tesoro e consolidamento del debito fluttuante

«Corriere della Sera», 9 luglio 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 3-6

 

 

Intorno alla necessità di emettere i 150 milioni di lire di buoni del tesoro quinquennali, che formarono oggetto di recenti deliberazioni legislative non vi è alcun dubbio. Le spese di guerra continuano; il maggior gettito dei cresciuti tributi non può essere immediato, anche per quelli che furono approvati con catenaccio, ed ancor più lento sarà per i tributi nuovi, per i quali la camera concesse l’esercizio provvisorio; il fondo di cassa, oscillante fra i 200 ed i 400 milioni, a seconda delle epoche, non è siffattamente cospicuo da potere far fronte alle eventualità possibili di qui a novembre. Tutto ciò basta a spiegare come il ministro del tesoro abbia creduto opportuno di farsi autorizzare ad emettere 150 milioni di nuovi buoni.

 

 

La grande, crescente, direi quasi incredibile popolarità del tipo «buono quinquennale 4%» spiega d’altro canto come il ministro Rubini abbia preferito di far ricorso a questa piuttosto che ad altre forme di credito. Le ragioni della popolarità sono varie ed in parte incerte; ma sul fatto non vi e dubbio. O che i risparmiatori siano attratti dal frutto del 4% a cui avevano creduto di dover dare un perpetuo addio dopo la conversione della rendita; o che loro piaccia la certezza del rimborso alla pari a data fissa, certezza la quale distingue così vantaggiosamente il buono in confronto delle rendite perpetue, soggette a tutte le oscillazioni nel valor capitale derivanti dalle mutazioni nel saggio dell’interesse; o che essi siano resi più diffidenti verso altri valori; o che impieghino in buoni a breve scadenza le somme che avrebbero depositato in conto corrente alle banche e di qui sarebbero rifluite a pro delle industrie: certa cosa è che il buono quinquennale è popolare. Fa premio sopra la pari; è facilmente negoziabile, e preferito ad ogni altro titolo, anche alla rendita, è il solo che possa vantare un assorbimento costante nei momenti presenti di atonia borsistica.

 

 

Eppure, quanto più crescono la popolarità del titolo e gli allettamenti a preferirlo, come strumento di credito, tanto più crescono i dubbi sulla convenienza di continuare a servirsene. Oramai abbiamo toccato le cifre seguenti:

 

 

Emissioni   Milioni
1912

330

1913

400

1914 (prima)

290

1914 (seconda)

62

1914 (prossima)

150

Totale

1.232

 

 

Se a questa cifra di 1 miliardo e 232 milioni di buoni a scadenza da tre a cinque anni, si aggiungono da 300 a 400 milioni di buoni ordinari, a scadenza da 3 a 12 mesi, ed i 125 milioni di biglietti che lo stato si è fatto consegnare dalla Banca d’Italia contro altrettanta valuta aurea, noi abbiamo da 1 miliardo e 650 milioni a 1 miliardo e 750 milioni di prestiti a brevissima, breve e non lunga scadenza che pesano sul tesoro italiano.

 

 

Considerare questa come una situazione comoda sarebbe chiaramente esagerato. I prestiti a breve scadenza possono essere necessari, quando i prestiti a lunga scadenza non si possono emettere o sono troppo cari, ma sono per fermo uno strumento inferiore di indebitamento. Nessuno stato può rimborsare sul serio i debiti brevi alla scadenza, perché nessuno stato ha, come può avere un privato, risorse straordinarie disponibili, con cui rimborsare i debiti. Un privato può fare un mutuo ed impegnarsi al rimborso entro cinque anni, perché egli calcola di potere in cinque anni alienare parte della sua proprietà, ovvero fare risparmi annui cospicui, ovvero ritrarre un guadagno siffatto dall’impiego del capitale preso a mutuo da poter in breve ammortizzare il debito. Uno stato no. Parlare di risparmi importanti di qualche centinaio di milioni all’anno è un’utopia, poiché significherebbe il mantenimento di imposte gravi o la posposizione di spese ad esercizi venturi al solo scopo di rimborsare i debiti. Tutto ciò praticamente non succede, sebbene in talune circostanze sarebbe opportunissimo si facesse e sebbene l’Inghilterra ci dia l’esempio di un paese che dalla fine della guerra anglo – boera ad oggi ha in media risparmiato e rimborsato debiti per 250 milioni di lire all’anno. In un paese però, come l’Italia, dove la pressione tributaria è asprissima, per i ricchi e per i poveri, sarebbe eccessivo richiedere ai contribuenti i sacrifici necessari per rimborsare i debiti a breve scadenza con quella rapidità che sarebbe richiesta dalle scadenze formalmente ad essi apposte. Si può bensì richiedere ai contribuenti il sacrificio necessario per un ammortamento più lento, ad esempio in 40 o 50 anni, che imponga, per un debito di 2 miliardi al 4%, in aggiunta agli interessi annui di 80 milioni che si pagherebbero se si trattasse di un debito perpetuo, un onere di 20 milioni (40 anni) o di 13 milioni (50 anni) circa all’anno. Si può arrivare, come ha fatto la Francia col prestito ultimo di 805 milioni effettivi al 3,50% ad un ammortamento in 25 anni, il che implica al corso di emissione di 91%, un onere annuo, tra interessi ed ammortamento, di 53 milioni circa. Ma nessuno certamente immagina che i buoni quinquennali possano essere sul serio rimborsati entro i 5 anni dalla emissione.

 

 

Peggio accade per i buoni ordinari a scadenza da tre a dodici mesi. Qualche anno fa, i buoni ordinari del tesoro oscillavano entro cifre assai moderate: da 107 a 117 milioni nel 1907-908, da 100 a 129 milioni nel 1908-909, da 100 a 128 nel 1909-10, da 79 a 102 milioni nel 1910-11. Ed è naturale che la quantità dei buoni del tesoro ordinari si mantenga entro limiti modesti, poiché la loro funzione normale consiste nel consentire al tesoro dello stato di effettuare durante l’anno pagamenti prima che si siano incassate le corrispondenti entrate. Un bilancio può essere nell’anno in perfetto pareggio; ma può darsi che le entrate si accumulino negli ultimi mesi, mentre le spese si devono erogare subito. Coi buoni ordinari il tesoro si procaccia somme occorrenti a far fronte subito alle spese, salvo a rimborsare i buoni dopo, quando le entrate crescono. A mano a mano che i congegni tributari si perfezionano, che diventano più varie le imposte e più equamente distribuite lungo i vari mesi dell’anno, diminuiscono gli scarti mensili fra entrate e spese, e diminuisce quindi la necessità di ricorrere ai buoni ordinari del tesoro.

 

 

Ciò dimostra come l’aumento, verificatosi dal 1911-12 in poi, nei buoni ordinari del tesoro non sia dovuto a cause normali; ma alla circostanza straordinaria della guerra. Crebbero cioè i buoni ordinari ed ora oscillano fra 300 e 400 milioni, mentre nel 1910-11 oscillavano fra 97 e 102, non perché ciò sia necessario per provvedere agli scarti normali fra entrate e spese, ma perché ci servimmo dei buoni ordinari per accendere un debito vero e proprio permanente per le spese della guerra. L’espediente può essere stato necessario; ma deve rimanere un espediente, ossia un mezzo provvisorio, temporaneo di indebitamento. Nessuno stato può a lungo rimanere con un debito liquido, a brevissima scadenza, di parecchie centinaia di milioni di lire. Se sorgesse qualche nuova straordinaria emergenza, a che strumento si ricorrerebbe, avendo sfruttato fino al limite di tensione massima tutti quelli che si hanno disponibili?

 

 

Le osservazioni fatte sopra non hanno importanza retrospettiva, bensì guardano all’avvenire. Le armi, che poté forse essere necessario brandire in tempo di guerra, conviene riporle al ritorno della pace per averle sempre pronte e forbite quando una nuova occasione sorga di adoperarle. L’uso dei buoni ordinari, ossia dei debiti a brevissima scadenza, oltre quanto è richiesto dagli scarti fra entrate e spese, e il ricorso ai debiti a scadenza quinquennale, poteva essere necessario finché duravano le condizioni straordinarie della pubblica finanza. A mano a mano però che si rientra nella normalità, occorre trasformare il debito fluttuante in un debito permanente. L’obbligo di rimborsare 1 miliardo e 700 milioni di lire in pochi anni è un incubo insopportabile. In fatto di debiti, l’uomo di governo deve continuamente, in ogni istante, fare a se stesso questa domanda: se oggi dovessi, per qualunque ragione, provvedere ad una spesa straordinaria grossa, di uno o più miliardi, come farei? E siccome è ben altrimenti facile provvedere ad una spesa siffatta quando la tesoreria è franca di debiti correnti che non quando si devono rimborsare 1 miliardo e 700 milioni di buoni ordinari o quinquennali, così è dimostrato che la necessità più urgente del momento presente per il tesoro italiano è il consolidamento del suo debito fluttuante.

 

 

L’industria zuccheriera e il regime di protezione

L’industria zuccheriera e il regime di protezione

«Corriere della Sera », 26 maggio 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 716-720

 

 

 

 

Nella sua risposta alle interpellanze sugli zuccheri, il ministro delle finanze è partito dal fatto che dura ancora l’attuazione della legge Luzzatti del 17 luglio 1910, per cui ad ogni primo luglio, a partire dal 1911, l’imposta di fabbricazione sullo zucchero interno viene aumentata di una lira al quintale, in guisa che, fermo rimanendo il dazio di confine in lire 99, la differenza fra il dazio di confine sullo zucchero estero e l’imposta sullo zucchero interno, ossia il margine di protezione, si riduce di una lira all’anno; e così di quattro lire al primo luglio 1914, e di sei lire al primo luglio 1916. Aspettiamo dunque il primo luglio 1916 – ha detto il governo – e poi si vedrà. Tanto più, ha soggiunto, che l’industria dello zucchero attraversa in questo momento una crisi assai grave, che una diminuzione della protezione doganale potrebbe inacerbire cagionando disoccupazione nella classe operaia.

 

 

Pochi commenti alle dichiarazioni governative. Il fatto che una riforma precedente si trova in corso di attuazione non è un buon argomento per impedire riforme future. A questa stregua, per rendere eterna ogni protezione doganale – il che è contraddittorio con la sua stessa natura e con i suoi scopi – basterebbe sancirne in un qualunque successivo momento una diminuzione graduale così lieve, da richiedere un tempo lunghissimo per giungere alla compiuta abolizione. In realtà, trascorso un periodo iniziale, che per l’industria zuccheriera è ormai oltrepassato da anni, il processo intorno alla convenienza di conservare o diminuire o abolire una qualsiasi protezione è sempre aperto. Governo e parlamento hanno sempre il diritto, anzi il dovere, di studiare se quei fini pubblici, che con la protezione provvisoria si volevano conseguire, siano stati raggiunti, o se sarà ormai impossibile raggiungerli. E può sempre il governo, sulla base della esperienza più recente, risolversi all’acceleramento di una riforma già iniziata, nel senso del ribasso del margine protettivo, allo scopo di dare incremento al consumo e cooperare ad assidere in tal modo l’industria su basi solide e durature.

 

 

Né più valido ci sembra l’argomento della crisi e della disoccupazione operaia. La crisi indubbiamente esiste; ma a qual causa fu in parte dovuta, oltre, s’intende, l’eccezionale bontà della stagione trascorsa? Può il ministro affermare che alla crisi non abbia concorso la prospettiva degli alti profitti che la protezione doganale odierna, sia pur ribassata ora di quattro e poi di sei lire, consente alle fabbriche nuove, tecnicamente perfette, che andavano sorgendo in Italia negli ultimi anni? Può affermare che il sindacato costituitosi tra i produttori per utilizzare l’alto margine di protezione, non abbia provocato il sorgere di stabilimenti rivali allo scopo di farsi assorbire nel consorzio a buone condizioni? No: l’argomento della crisi è tale da far gravemente dubitare intorno alla convenienza di conservare un dazio così alto, che si addimostrò capace di produrre in parte la sovraproduzione odierna. Troppi altri esempi si conoscono di industrie a cui la protezione inizialmente giovò, ma che furono tratte a rovina per la sovraproduzione provocata dall’eccessiva durata del dazio protettore, perché non si debba augurare, nell’interesse permanente della industria nazionale dello zucchero, che la protezione abbia a cessare prima che essa diventi troppo dannosa.

 

 

Anche pare che si sia dato troppo peso al pericolo della disoccupazione operaia e all’altro, connesso con questo, delle agitazioni di agricoltori per lo scemato numero dei contratti di barbabietole. Nessuno, intanto, chiede l’immediato e repentino ribasso della protezione a sei lire, come nei paesi esteri, appunto perché anche gli antiprotezionisti sentono la necessità di non perturbare troppo violentemente gli interessi acquisiti. Si chiede soltanto che la riduzione venga accelerata, fissando fin d’ora il periodo di tempo in cui dovrà ridursi al limite massimo sancito dalla convenzione di Bruxelles, cioè a sei lire. Qual è, fra le due politiche, quella che giova di più alla stabilità dell’industria, all’occupazione operaia e agli interessi dell’agricoltura? Quella attuale, che riafferma la potenza del sindacato, lo pone in grado, allo scopo di smaltire le grosse rimanenze attuali, di ridurre sul serio per la campagna prossima le fabbriche lavoranti, di diminuire i contratti con gli agricoltori per la coltura delle barbabietole, e di mantenere il consumo dello zucchero in Italia al livello bassissimo a cui oggi si trova per l’azione conseguita dall’alta tassa di fabbricazione e dall’alta protezione? Ovvero un’altra politica, la quale con la riduzione graduale ma notevole del margine protettivo e dell’imposta di fabbricazione, permetta al consumo di aumentare e di assorbire le rimanenze odierne più rapidamente, all’industria di tendere verso un nuovo stabile assetto, al capitale non speculativo di interessarsi in intraprese da cui ora i capitalisti prudenti rifuggono appunto per la spada di Damocle ognora incombente di una riforma fiscale, e all’agricoltura di adattare a poco a poco la sua rotazione alla nuova situazione di cose?

 

 

Il ministro delle finanze è scettico sulla probabilità dell’aumento del consumo in seguito alla riduzione del prezzo dello zucchero. E noi non gli ricorderemo l’esempio della Spagna dove, in seguito a una lotta simile a quella recentemente combattuta in Italia fra la Pontelongo e l’Unione zuccheri, i prezzi rinvilirono provocando un notevole aumento di consumo; dove gli industriali dissidenti, più preveggenti dei nostri italo – belgi, invece di accedere al sindacato degli altri produttori, chiesero al governo di rendere permanente la fausta diminuzione di prezzi verificatasi in seguito alla rottura del sindacato. Né gli ricorderemo che in questi giorni il ministero conservatore Dato, seguendo il consiglio di questi illuminati industriali, propose alle cortes di ridurre il dazio sugli zuccheri esteri da 85 a 50 pesetas, e l’imposta sugli zuccheri da 50 a 35 pesetas, diminuendo così d’un tratto la differenza fra dazio e imposta, ossia la protezione da 35 a 15 pesetas. Non gli ricorderemo tutto ciò, sebbene la Spagna sia paese inferiore all’Italia quanto a capacità di consumo. Ma gli ricorderemo che al ribasso del dazio sul petrolio, da lui menzionato come esempio degli scarsi effetti delle riduzioni d’imposte sul consumo, seguirono le seguenti variazioni nel consumo:

 

 

Dazio per quintale

 

Q. di petrolio importati

1905 – 906 

48

656.576

1907 – 908 

24

857.252

1911 – 12 

16

1.330.044

1912 – 13 

16

1.459.717

 

 

Sono risultati brillanti e che promettono assai bene per l’avvenire. Se si pensa che nel 1912 la Svizzera esportò ben 55,2 milioni di lire di cioccolato, e 50,5 milioni di lire di latte condensato, e poté far ciò grazie allo zucchero a buon mercato; e se si riflette alle infinite industrie che in Italia potrebbero giovarsi dello zucchero a buon prezzo, si deve concludere che le preoccupazioni finanziarie non devono impedire le riforme che si ritengono utili al paese, ripetendo con Camillo di Cavour che «le riduzioni di dazi doganali, che sono sempre opportune quando vengono fatte con giudizio, sono una necessità quando una fatalità ci costringe ad aggravare la mano sopra i contribuenti» (Passi di Cavour sul protezionismo scelti ed ordinati da Luigi Emery, in «Opuscoli della Voce», Firenze).

 

 

E si può aggiungere che la necessità di ribassare i dazi protettori è palesata nel campo nostro dalla esistenza, riconosciuta dal ministro, del sindacato fra produttori di zucchero. A noi duole assai che il ministro non abbia a sufficienza tenuto conto delle considerazioni che furono qui esposte sul tema dei rapporti fra protezionismo e trusts. Che il sindacato fra i produttori di zucchero esista è certissimo; come è certo che esso è stato rinsaldato recentemente mercé l’accordo dell’Unione zuccheri con la fabbrica dissidente di Pontelongo e con la conseguente proroga del sindacato per altri, salvo errore, dieci anni. Non è quando, in conseguenza di questi rinnovati accordi sindacali, il prezzo fu rialzato da 114 a 126 lire al quintale, che si può discorrere di pericolo di crisi industriale.

 

 

Uno stato non può assistere impotente a siffatto uso dei favori da esso largiti ad un’industria nell’interesse generale. Essendo venuta a mancare la condizione in base alla quale i dazi protettori erano stati concessi, ossia la progressiva diminuzione dei prezzi grazie alla concorrenza interna, ed assistendosi anzi al rialzo dei prezzi ad opera di un sindacato di produttori, è doveroso prendere l’iniziativa di una riforma, sia pure cauta e prudente, la quale valga a tutelare l’interesse generale.

 

 

Quando l’esistenza certa di un sindacato dimostra che più non esistono le condizioni in base alle quali i dazi protettori erano stati stabiliti, prudenza di governo vuole che si affronti il problema in tempo, innanzi che i mali della sovraproduzione e del sottoconsumo si siano inacerbiti e il nodo si sia ingarbugliato diventando più difficile a sciogliersi.

Il risultato finanziario delle ferrovie di stato. (101 milioni di avanzo o 155 milioni di disavanzo?)

Il risultato finanziario delle ferrovie di stato. (101 milioni di avanzo o 155 milioni di disavanzo?)

«Corriere della Sera », 12-13 aprile 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 693-700

 

 

 

 

Il bilancio delle ferrovie di stato è, di questi giorni, notomizzato in vario senso, per chiarire se esso presenti oppure no un margine sufficiente a soddisfare in tutto od in parte le domande dei ferrovieri; essendo chiaro, sebbene questa non sia l’unica ragione del decidere, che chi sta al largo può concedere più agevolmente aumenti di paghe di chi si dibatte nelle strettezze.

 

 

Purtroppo però il bilancio delle ferrovie di stato italiane può essere interpretato con criteri siffattamente differenti, che se ne possono legittimamente ricavare le deduzioni più disparate. Basta mutare una o parecchie premesse tacite del discorso, perché l’avanzo si converta in un disavanzo, o si vada da poche diecine a più di cento milioni di avanzo.

 

 

Per evitare equivoci, indicherò esplicitamente quali sono le premesse dalle quali intendo partire nel calcolo dei risultati economico-finanziari delle ferrovie di stato.

 

 

a)    Dalle spese quali risultano dalla relazione dell’amministrazione delle ferrovie esercitate dallo stato per l’anno finanziario 1912-13 dedurrò il concorso in lire 850.000 a favore del Consorzio solfifero siciliano, perché in verità non si capisce, salvo ulteriori chiarimenti, perché sia stato accollato al conto delle ferrovie e non al conto del ministero di agricoltura, industria e commercio un cotal sussidio a favore di una speciale industria; e dedurrò pure le lire 99.216.893 di perdita subita dalle ferrovie di stato nell’esercizio della navigazione con le isole, allo scopo di non inferocire troppo contro l’esercizio di stato delle ferrovie. È vero che se le ferrovie non fossero esercite dallo stato, questo non dovrebbe colmare il disavanzo di esercizio e si contenterebbe di perdere i 2.700.000 lire di sovvenzione date ad una compagnia privata. Volendo usare la maggiore benevolenza verso le ferrovie di stato, si può consentire a non gravarle della colpa specifica del disavanzo della navigazione con le isole, addebitandolo così ad un conto navale separato da quello ferroviario.

 

 

b)    Nelle spese ancora, la partita più controversa è quella degli interessi ed ammortamenti del capitale d’impianto. È risaputo invero che le ferrovie costano somme egregie per la loro costruzione e dotazione di materiale mobile. Erano costate al primo luglio 1905 già 5 miliardi e 484 milioni di lire e costavano al primo luglio 1913 ben 6 miliardi e 917 milioni, con un aumento di 1 miliardo e 433 milioni di lire. Ed è risaputo altresì che i milioni e miliardi costano fior di interessi allo stato proprietario delle ferrovie, il quale se li è dovuti procacciare a prestito; e costano inoltre quote di ammortamento, necessarie per rimborsare a mano a mano il capitale preso a prestito, mentre gli impianti ed il materiale via via si logorano e col tempo si riducono a valere zero. In tutti i paesi del mondo le spese per interesse ed ammortamento del capitale preso a mutuo per la costruzione e l’arredamento delle ferrovie vengono considerate, come in realtà sono, vere spese iscritte al passivo del bilancio. In Italia si è seguita una via intermedia, iscrivendosi nel bilancio ferroviario tra le spese solo l’interesse e l’ammortamento del miliardo e 433 milioni impiegati dopo il primo luglio 1905. Dell’interesse e dell’ammortamento dei 5 miliardi e 484 milioni spesi prima del primo luglio 1905 non ci si preoccupa, perché, si dice, fanno carico al tesoro. Come se l’essere una spesa caricata contabilmente sul tesoro dello stato bastasse a renderla inesistente o a dimostrare che essa non ha nulla a che fare con le ferrovie dello stato.

 

 

Per far vedere i differenti risultati a cui si arriva, farò tre calcoli: a) nel primo non terrò conto affatto degli interessi e dell’ammortamento del capitale impiegato delle ferrovie; b) nel secondo terrò conto solo dell’onere annuo di 1 miliardo e 433 milioni spesi dopo il primo gennaio 1905; c) e nel terzo calcolerò anche l’onere dei 5 miliardi e 484 milioni spesi dallo stato prima di quella data. E cercherò di spiegare il significato delle tre diverse maniere di calcolo, cosicché il lettore possa scegliere quella che più gli talenti.

 

 

c)    Nelle entrate mi contenterò di far la somma delle vere entrate dell’azienda delle ferrovie, senza aggiungervi certe partite che la direzione delle ferrovie si ostina da anni a considerare come un reddito ferroviario. Voglio accennare ai 59 milioni e 174.000 lire di imposte e tasse sui terreni e fabbricati posseduti dalle ferrovie, di ricchezza mobile sugli stipendi, assegni e pensioni del personale, tasse di bollo, imposte erariali sui trasporti e tasse di assicurazione, che la direzione nelle sue relazioni afferma essere un reddito che le ferrovie danno all’erario.

 

 

Sì, è vero: le ferrovie pagano 59 milioni di tasse ed imposte; ma come non vedere che questi 59 milioni di lire sono il prezzo dei servizi pubblici (sicurezza, giustizia, difesa nazionale, istruzione pubblica, debito pubblico, ecc. ecc.) che lo stato rende alle ferrovie ed ai ferrovieri come ad ogni altra azienda e ad ogni altro cittadino dello stato? Non in quanto proprietario delle ferrovie lo stato incassa quei 59 milioni; ma in quanto stato fornitore di pubblici servizi. Le ferrovie ed i ferrovieri pagano 59 milioni allo stato a titolo di imposta come prezzo del servizio della sicurezza e della protezione giuridica, reso dallo stato con grave suo dispendio; e li pagano allo stesso titolo delle centinaia di milioni di salari e stipendi ai ferrovieri, dei milioni ai fornitori di locomotive, carri e carrozze, e dei 72 milioni ai capitalisti fornitori di capitali.

 

 

È certo che, se non esistessero le ferrovie, lo stato non incasserebbe i 59 milioni di imposte; ma nemmeno i ferrovieri incasserebbero i loro salari, i capitalisti il loro interesse, i fornitori il prezzo delle locomotive. Nessuno si sogna di dire che, essendo i 143 milioni di paghe e competenze dei ferrovieri in pianta stabile e in prova pagati dalla ferrovia, quei 143 milioni siano un reddito della ferrovia. Tutti vedono che si tratta di una spesa della ferrovia e di un reddito dei ferrovieri. Così pure i 59 milioni di imposte vanno calcolati tra le spese dell’azienda ferroviaria ed a giusto titolo, perché la ferrovia sarebbe inconcepibile in uno stato disorganizzato. Prova ne sia il Messico, dove le ferrovie non pagheranno oggi probabilmente molte imposte allo stato, ma non ricevono in cambio protezione per i loro ponti che sono fatti saltare in aria, per le linee che sono manomesse, per i ferrovieri, che sono malmenati. I 59 milioni di imposte sono un reddito dello stato; ma non dello stato ferroviere, bensì dello stato poliziotto, dello stato magistrato, dello stato difensore del paese. Affermare che questi 59 milioni sono un reddito delle ferrovie e non una spesa è un gravissimo errore.

 

 

Le premesse ora fatte, che sono quelle, in base alle quali soltanto può costruirsi un bilancio comprensibile all’universale, ci sgombrano la via alla esposizione dei risultati sommari dell’esercizio 1912-13.

 

 

Ecco prima l’entrata:

 

 

Prodotti del traffico, comprese le sopratasse 

L. 560.647.276

Introiti diversi e rimborsi di spese 

29.289.499

Entrate eventuali (interessi di conti correnti attivi) 

217.639

Totale entrate

 

590.154.414

 

 

E qui è tutto. La somma delle spese è alquanto più complicata.

 

 

Eccole, quali risultano dal bilancio speciale delle ferrovie, esclusi il sussidio al consorzio solfifero siciliano, e la perdita per l’esercizio della navigazione con le isole ed esclusi altresì gli interessi e l’ammortamento di 1 miliardo e 433 milioni impiegati negli impianti dopo il primo luglio 1905, di cui si terrà conto a parte.

 

 

Spese ordinarie (generali e di esercizio, compresi i soprassoldi) 

L. 456.306.475

Spese complementari (manutenzione straordinaria delle linee, rinnovamento del materiale rotabile e della parte metallica dell’armamento) 

26.530.000

Spese accessorie: 
Versamento netto alla riserva 

L. 249.000

Spese per la corte dei conti 

120.000

Noleggio di carri 

1.016.055

Restituzione di multe ai fornitori 

 4.886.924

6.271.979

6.271.979

Totale spese

 

489.108.454

 

 

Certamente, se le spese si fermassero a questo punto, il risultato finanziario delle ferrovie di stato, senza essere brillante, non sarebbe pauroso; poiché tra i 590,1 milioni di entrate ed i 489,1 milioni di spese vi sarebbe una differenza attiva di 101 milioni di lire, differenza uguale al 18% del prodotto lordo, essendo il rimanente 82% assorbito dalle spese di esercizio e complementari. Sono assai pochi 101 milioni di reddito netto e poche ferrovie del mondo, tenuto conto anche delle difficoltà particolari di esercizio delle ferrovie italiane, danno un risultato così meschino. Ad ogni modo esisterebbe un reddito netto di 101 milioni, cifra esigua proporzionalmente, ma discretamente importante, come quantità assoluta.

 

 

Il guaio si è che ai 489,1 milioni di spese ordinarie, complementari ed accessorie elencate sopra, fa d’uopo aggiungere agli interessi e l’ammortamento dei capitali spesi nella costruzione e nell’arredamento delle ferrovie. Il costo annuo per lo stato di 1 miliardo e 433 milioni impiegati dopo il primo luglio 1905 è esattamente noto: sono lire 72.179.833, le quali risultano dal consuntivo ferroviario 1912-13. Non è noto invece il costo annuo di 5 miliardi e 484 milioni già impiegati prima del primo gennaio 1905. La direzione delle ferrovie suppone che detto capitale costi allo stato il 3,50%; ma è ipotesi assolutamente inaccettabile, poiché in parte notevole il debito ferroviario antico costa all’erario il 5% e più. Calcolando un costo del 4% credo di tenermi benignamente al disotto della verità; sicché, supponendo che il vecchio capitale ferroviario debba ammortizzarsi in 90 anni – è il periodo di ammortamento adottato per le obbligazioni ferroviarie 3% lordo -, il costo annuo dei 5 miliardi e 484 milioni impiegati innanzi al primo luglio 1905, risulta di lire 184.784.672. Riassumendo il costo annuo delle ferrovie di stato è il seguente:

 

 

Spese vive 

L. 489.108.455

Interessi ed ammortamento del capitale vecchio di 5 miliardi e 484 milioni (cifra da me calcolata)   

 

184.784.672

Interessi ed ammortamento del capitale nuovo di 1 miliardo e 433 milioni impiegato dopo il primo gennaio 1905 (cifra certa) 

72.179.833

Totale spese

746.072.960

 

 

Questa somma potrà essere inferiore al vero per parecchie ragioni:

 

 

a)    perché forse lo stato sul capitale vecchio paga un interesse, superiore al 4%;

 

 

b)    perché forse gli assegni ai fondi di rinnovamento e di riparazioni straordinarie, compresi nelle spese complementari, sono inferiori al necessario;

 

 

c)    perché l’assegno alla riserva in sole 249.000 lire – differenza fra 7.749.000 lire versate e 7.500.000 lire prelevate – pare irrilevante ed inferiore alle esigenze di una impresa così vasta ed aleatoria come quella ferroviaria.

 

 

Pare ad ogni modo certo che la cifra di 746 milioni sia la minima che possa essere accettata per il totale delle spese ferroviarie. Tirando le somme, ecco come possono essere, in tre diverse maniere, calcolate le risultanze finanziarie dell’azienda ferroviaria:

 

 

1

 

 

Tenendo conto delle sole spese vive:

 

 

Entrate 

L. 590.154.414

Spese 

489.108.454

Avanzo

 

101.045.960

 

 

2.

 

 

Tenendo conto delle spese vive e degli interessi ed ammortamenti sul solo

miliardo e 433 milioni di nuovo capitale:

 

 

Entrate 

L. 590.154.414

Spese 

489.108.454

Spese vive 

L. 489.108.454

Interessi, ecc. 

72.179.833

561.288.287

 

561.288.287

Avanzo

28.866.127

 

 

3.

 

 

Tenendo conto di tutte le spese:

 

 

Spese 

L. 746.072.960

Entrate 

590.154.414

Deficit

 

155.918.546

 

 

Il primo metodo è quello che vorrebbe farci adottare un collaboratore del «Secolo» del 4 aprile, il secondo è quello seguito dalla nostra amministrazione ferroviaria in base alle leggi vigenti contabili, il terzo è il metodo corretto, che ogni amministrazione, la quale voglia esporre agli interessati la reale situazione di una azienda, deve seguire.

 

 

Il primo metodo nasconde la verità, poiché fa apparire un avanzo di 101 milioni, che sarebbe lucrato dal tesoro per virtù delle ferrovie, mentre si nasconde il fatto che il tesoro, a causa delle medesime ferrovie, deve sborsare ben 256,8 milioni di interessi ed ammortamenti.

 

 

Il secondo metodo è incoerente, perché è incomprensibile la ragione per cui debbano essere considerati come una spesa ferroviaria i 72 milioni di interesse ed ammortamento di 1 miliardo e 433 milioni di nuovo capitale e non i 184 milioni del ben più grosso (5 miliardi e 484 milioni) vecchio capitale.

 

 

Solo il terzo metodo è corretto perché mette in chiara luce il fatto incontroverso che ogni anno i contribuenti italiani debbono pagare 155,9 milioni di imposte di più per riparare al deficit dell’esercizio ferroviario.

 

 

Questo il fatto vero, che occorre guardare in faccia e di cui occorre cercare una spiegazione. Se ne sono date molte, fra cui principalissime le seguenti:

 

 

a)    è corretto che i contribuenti siano chiamati a pagare i 155,9 milioni di disavanzo dell’azienda ferroviaria, perché mentre gli utenti hanno il vantaggio di viaggiare e di spedire merci, i contribuenti, il che vorrebbe significare la generalità degli italiani, viaggino o non viaggino, traggono dalle ferrovie il vantaggio di vedere più efficacemente difeso il territorio nazionale (ferrovie militari), di vedere stretti i vincoli tra le varie parti del paese (ferrovie politiche), di godere di commerci intellettuali più intensi (ferrovie di cultura);

 

 

b)    sarebbe scorretto che gli utenti, i quali sono i consumatori dei servigi della ferrovia, dovessero pagare tariffe altissime solo perché si commisero errori nella costruzione e nel riscatto delle ferrovie e si spese 10 dove bastava spendere 5. Gli errori industriali dappertutto ed in ogni industria sono pagati dai proprietari dell’industria. Nel caso nostro, poiché le ferrovie sono dello stato, ossia dei contribuenti, se si spesero 6 miliardi e 917 milioni di lire per costruirle, mentre sarebbero bastati 5 miliardi, il costo del capitale inutilmente speso deve gravare sui proprietari della ferrovia, ossia sui contribuenti.

 

 

Le quali due ragioni hanno sicuramente un grande peso. Ma un dubbio fortissimo rimane: come accade che i contribuenti di altri paesi, i quali commisero gli uguali errori di costruzione, ed in cui le ferrovie presentano l’uguale utilità militare, politica, culturale delle ferrovie italiane, non sono soggetti ad alcun onere ed anzi talvolta ricavano un profitto netto dalla proprietà delle ferrovie? Non vi è qualche leggera esagerazione nella teoria, tutta «italiana», che si debbano costruire ferrovie, senza preoccuparsi se esse siano capaci di fruttare almeno gli interessi sul capitale preso a mutuo per la costruzione? Non è sovratutto esagerata la teoria che i capitali ferroviari non debbano fruttare mai alcun reddito; e non sarebbe tempo di cominciare a pretendere che, passato un certo iniziale periodo, anche lungo, di tempo e liquidati con una rivalutazione fisica – negli Stati uniti la Interstate Commerce Commission procede appunto ora ad una siffatta rivalutazione degli impianti attuali – gli errori commessi nelle costruzioni e nei riscatti, le ferrovie dovessero coprire tutte le spese? E non ha forse la teoria italiana dell’improduttività il lacrimevole effetto di spingere allo spreco, alla gestione facile, alle costruzioni inutili, agli impianti costosi, al personale esuberante e non sufficientemente utilizzato? Altra è la condotta che si segue quando si presume di avere un avanzo di 101 od anche solo di 28 milioni; ed altra quella che si seguirebbe se i contribuenti sapessero ben netto e chiaro che essi debbono pagare ed in realtà pagano ben 155,9 milioni di lire per far fronte al disavanzo dell’azienda ferroviaria.

Stipendi e guadagni netti dei ferrovieri

Stipendi e guadagni netti dei ferrovieri

«Corriere della Sera», 8 e 15[1] aprile 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 676-692

 

 

 

 

1

 

Che il problema delle paghe ai ferrovieri sia complesso e difficile a risolversi non v’è dubbio; ma è ancor più dubbio se l’articolo di Decio Papa comparso sul «Corriere» di ieri abbia gettato davvero luce su di esso.

 

 

Il Papa imposta la sua tesi essenzialmente su una dimostrazione storica: secondo la quale i salari e guadagni odierni dei ferrovieri sarebbero poco differenti da quelli che vigevano nel 1905 all’inizio dell’esercizio di stato e persino da quelli che avrebbero dovuto essere in vigore nel 885, quando le ferrovie furono affidate per un ventennio alle società private.

 

 

Su quest’ultimo punto la dimostrazione ed i ricordi rapidissimi del Papa meriterebbero di essere sottoposti ad una attenta discussione. Noi non vogliamo dare un giudizio; anzi ci limitiamo espressamente a porre dubbi e far domande. Quando la inchiesta Gagliardo sentenziò che le società esercenti dovevano formare un organico dei ferrovieri fin dal 1885 ed a quello attenersi, diede un responso politico, giuridico od economico? Se il responso ebbe natura politica o giuridica, esso si limitò a dire che per ragioni di convenienza politica o per motivi di interpretazione di un testo di legge le società avevano l’obbligo dell’organico. Non poté l’inchiesta Gagliardo affermare l’assurdo, che cioè l’organico fosse economicamente conveniente, ossia produttivo di utili risultati per l’azienda ferroviaria. Gli organici sono un malanno necessario degli esercizi di stato e delle pubbliche amministrazioni, dove non si vuole tanto far pervenire ai gradi più elevati i più degni quanto assicurare una carriera a tutti, diligenti e negligenti, poltroni e laboriosi, incapaci ed abili. Una impresa privata aborre dagli organici; e quando è costretta ad accettarli, sorge il dubbio che le sue sorti volgano sfavorevoli. Le società esercenti avevano cercato di non compilare organici del personale, obbedendo alle esigenze più elementari del buon funzionamento di una qualsiasi impresa industriale. Il personale con una lunga agitazione costrinse società e governo ad attuare gli organici, rendendo così necessario il ritorno all’esercizio di stato che solo è compatibile con la mala pianta della regolamentazione organicistica. Tutto ciò non si vede che rapporto abbia con il problema odierno dell’aumento delle paghe ai ferrovieri.

 

 

Il Papa sembra far rimontare allo «sfruttamento di 20 anni esercitato dalle società private» la cagione di ogni jattura presente dei ferrovieri. Anche qui la dimostrazione è incompiuta, poiché non tiene conto della circostanza che, se i ferrovieri hanno ragione di lagnarsi del periodo 1885-1905, ancor più hanno motivo di lagnanze le società esercenti e lo stato. È di ieri un’assemblea agitatissima degli azionisti della Società mediterranea, ed è noto come siano numerosi coloro i quali temono che una parte del capitale di quella società sia andato perduto a causa, fra l’altro, dei cattivi risultati dell’esercizio ferroviario.

 

 

La verità storica è diversa da quella che i ferrovieri pretendono: bisogna riconoscere che il periodo 1885-1905 fu un periodo, sovratutto dal 1887 al 1898, disgraziatissimo per l’economia italiana in genere; e fu siffatto da rendere assurdo sperare migliorassero le condizioni economiche dei ferrovieri. Stazionario il traffico, in disavanzo il bilancio dello stato, restio questo a concedere fondi per i miglioramenti patrimoniali, costrette le società a far economie d’ogni specie per non perdere, quale meraviglia che in quel torno di tempo i salari dei ferrovieri non crescessero? Crescevano forse i salari dei contadini, degli operai, i redditi degli impiegati privati, le rendite dei proprietari? Non diminuivano forse i prezzi? In realtà, la semplice conservazione del salario nominale in denaro voleva significare, in quel tempo, un aumento reale del salario, a cagione della diminuzione dei prezzi, che s’era iniziata verso il 1885 ed aveva toccato il suo punto più basso nel 1896-97.

 

 

L’aumento dei prezzi e la necessità dell’aumento dei salari si ebbero dopo il 1900. Orbene, si potrà discutere se gli aumenti siano stati sufficienti e corrispondenti all’aumento dei prezzi; ma non si può seriamente sostenere che siano stati irrisori. Il Papa si sforza di dimostrare che non bisogna ragionare sulle medie e che queste non hanno un significato preciso. In questo caso però lo scetticismo volgare sulle medie stastistiche non è giustificato. Trattandosi di paghe, in cui il peso dei relativamente pochi alti funzionari è piccolo, la media corrisponde realmente al salario goduto dalla maggior parte dei ferrovieri, è il punto verso cui gravita la massa dei salari. È incontroverso che il salario medio dell’agente delle ferrovie di stato crebbe da 1.420 lire nel 1904-905 a 1.880 lire nel 1912-13, con un aumento totale di spesa di 66,5 milioni di lire e non di 54 milioni, come vuole il Papa; e senza tener conto di altri 52,2 milioni di maggiore spesa dovuta al cresciuto numero degli agenti. Il Papa vorrebbe far scomparire la maggior parte dei 66,5 milioni, nascondendoli qua e là. Ma i suoi tentativi riescono incomprensibili; poiché se è vero che agli agenti si pagano in media 1.880 lire invece di 1.420 lire, se è vero che, fermo rimanendo il numero degli agenti, l’azienda ferroviaria eroga in più a titolo di paghe, competenze ed accessori 66,5 milioni di lire in confronto al 1904-905, questi sono davvero milioni incassati in più dai ferrovieri e non è possibile in alcun modo farli scomparire. Si potrà affermare che i 66,5 milioni non bastano, non negare che essi siano stati dati. A suffragare la tesi che non bastano, occorrerà che i ferrovieri dimostrino che il costo della vita è ulteriormente cresciuto dopo l’ultimo aumento. È possibile che questa dimostrazione venga data; ma farà d’uopo notare che da un anno e più il moto ascensionale dei prezzi si è arrestato, anzi si è verificato un lieve ribasso. Su di ciò tutte le statistiche sono concordi: l’«Economist» di Londra, il «Broadstreet» di New York, l’Ufficio del lavoro italiano. Il fatto dell’iniziato ribasso dei prezzi è notabile e merita di essere studiato a parte. Qui basti averlo accennato.

 

 

L’ultima dimostrazione del Papa non ha più indole storico-retrospettiva, bensì attuale. A leggerla, si ha l’impressione che le competenze accessorie, di cui godono i ferrovieri, sieno centesimi trascurabili, semplici rimborsi di spese da non doversi tenere in considerazione nel calcolo dei guadagni dei ferrovieri.

 

 

L’argomento andrebbe discusso a fondo. È impressione generale che non si tratti di pochi centesimi ma di grosse somme; ed è impressione corroborata dal consuntivo ultimo ferroviario, dove per le diverse categorie di servizi si vedono pagate al personale stabile ed in prova le seguenti somme per stipendi e paghe da un lato e per competenze accessorie dall’altro (in migliaia di lire):

 

 

Stipendi

e paghe

Competenze

accessorie

Direzione generale 

6.462

1.046

Approvvigionamenti 

1.250

280

Magazzini 

3.369

790

Movimento: servizi centrali 

10.215

1.716

Movimento: stazioni 

47.063

9.334

Movimento: personale viaggiante 

12.234

9.736

Commerciale 

4.536

1.393

Trazione: servizi centrali 

3.696

506

Trazione: depositi, condotta 

21.471

15.852

Veicoli: servizio centrale 

1.911

330

Veicoli: pulizia, verifica, ecc. 

2.610

579

Lavori: servizi centrali 

8.091

1.591

Lavori: sorveglianza e manutenzione linea

19.808

4.955

 

Totale

143.623

48.114

 

 

È naturale che delle competenze accessorie traggano in proporzione maggior beneficio il personale viaggiante del movimento ed il personale dei depositi e della condotta della trazione; ma tutte le categorie ne risentono il vantaggio, che in totale giunge alla rotonda cifra di 48 milioni di lire, il terzo della cifra delle paghe e stipendi propriamente detti.

 

 

L’impressione viene corroborata da una serie di dati, che ci furono favoriti da persona competente e tratti dai fogli di paga di uno dei mesi dell’ultimo quadrimestre. Trattasi di esempi tipici, i quali raffigurano la maggior parte dei casi reali di guadagno per le diverse categorie di agenti. Trascegliamo a caso alcuni esempi. Il deviatore, il quale ha la paga giornaliera di lire 2,50, il manovratore, con la paga di lire 2,40, il manovale con lire 1,80, guadagnano netti i seguenti mensili:

 

 

Deviatore

 

Manovratore

Manovale

Stipendio mensile 

L. 77,50

72,80

55,80

Soprassoldo legge Sacchi 

13,95

13,95

21,70

Soprassoldo località 

10

10

10

Indennità alloggio 

5

Premi diversi 

10,85

15,50

16,86

Premi diversi 

5,95

3

123,25

112,25

107,36

Trattenute diverse

 

6,40

5,65

4,87

Guadagno netto

 

116,85

106,60

102,49

 

 

Anche deducendo le trattenute per l’imposta di ricchezza mobile e per pensioni, la quale ultima in realtà è una vera integrazione dello stipendio, è chiaro che lo stipendio mensile netto viene considerevolmente aumentato e per i manovali quasi raddoppiato dalle aggiunte e competenze accessorie.

 

 

Per non citare i capi conduttori, citeremo il caso dei conduttori, adducendo un esempio per i tre tipi di stipendio annuo di 1.350, 1.080 e 980 lire:

 

 

A

 

B

C

Stipendio mensile 

L. 112,50

90

85

Soprassoldo legge Sacchi 

13,75

13,75

13,75

Soprassoldo località 

10

10

10

Premio percorrenze 

83,22

87,55

78,73

219,47

201,30

187,48

Ritenute diverse

 

17,45

15,94

15,15

Guadagno netto

 

202,2

185,36

172,33

 

 

Per i macchinisti si ottiene il medesimo risultato. Scegliamo, come quelli che sono meno favoriti, i macchinisti adibiti ai treni merci, delle tre categorie di stipendio di 2.700, 2.100 e 1.650 lire all’anno:

 

 

A

 

B

C

Stipendio mensile 

L. 225

175

137,30

Soprassoldo legge Sacchi 

22,50

17,50

13,75

Soprassoldo località 

13,50

10,50

10

Premio economia 

61,11

49,87

15,19

Premio percorrenze 

46,10

48,21

22,94

Indennità pernottazione 

50,40

40,80

43,20

418,61

341,88

242,38

Trattenute diverse diverse

 

40,01

31,18

24,37

Guadagno netto

 

378,60

310,70

218,01

 

 

I macchinisti dei treni viaggiatori, con lo stesso stipendio nominale, giungono a guadagnare nette 464,84, 425,52 e 299,78 lire rispettivamente al mese. Ed a queste cifre si devono aggiungere lire 80 all’anno per regolarità di servizio.

 

 

Si potrebbe continuare cogli esempi; per non andare troppo per le lunghe riassumerò in un quadro le cifre dello stipendio nominale e del guadagno netto complessivo per varie categorie di agenti (esempi tipici):

 

 

Stipendio

nominale

Guadagno

netto

mensile

complessivo

Guardia stazione 

L. 63

107,66

Capo squadra deviatori 

88,30

132,86

Deviatori 

77,50

116,85

Manovratori 

72,80

106,60

Manovali 

55,80

102,49

Capi conduttori A 

150

221,03

Capi conduttori B 

125

219,01

Capi conduttori C 

100

204,73

Conduttori A 

112,50

202,02

Conduttori B 

90

185,36

Conduttori C 

85

172,33

Guardafreni A 

100

141,65

Guardafreni B 

85

179,99

Guardafreni C 

80

157,57

Manovale trasbordatore A 

65,10

157,40

Manovale trasbordatore B 

58,90

152,32

Macchinisti treni viagg. A 

225

464,84

Macchinisti treni viagg. B 

175

425,52

Macchinisti treni viagg. C 

137,50

299,78

Macchinisti treni merci A 

225

378,60

Macchinisti treni merci B 

175

310,70

Macchinisti treni merci C 

137,50

218,01

Fuochisti treni viagg. A 

112,50

223,27

Fuochisti treni viagg. B 

85

248,05

Fuochisti treni viagg. C 

80

168,78

Fuochisti treni merci A 

100

179,52

Fuochisti treni merci B 

85

145,44

Fuochisti treni merci C 

80

143,49

Manovali trazione 

66

103,99

Accenditori 

81

105,78

Operai A 

150

200,22

Operai B 

72

107,50

Capo manovra 

125

152,72

Capo squadra merci 

90

113,03

Capo squadra manovra 

82,10

118,39

 

 

Il Papa potrà obiettare che si tratta di esempi scelti a caso e che possono essere contraddetti da altri esempi, scelti in altre località ed in altri momenti, in cui i risultati possono essere meno favorevoli ai ferrovieri. Una indagine spassionata ed oggettiva merita invero di essere fatta, in guisa:

 

 

a)    da chiarire l’effettivo ammontare dei guadagni netti dei ferrovieri;

 

 

b)    da paragonarne l’ammontare con le paghe degli operai dell’industria

privata, posti in uguale condizione di vita e di lavoro;

 

 

c)    da tener calcolo delle effettive spese gravanti sul reddito stesso, tenendo presente che le spese che il ferroviere deve fare per vitto, vestito, alloggio, ecc., non cessano di essere reddito o guadagno. Se così non fosse, reddito sarebbe soltanto ciò che si spreca o si risparmia, il che è assurdo;

 

 

d)    da aggiungere ai guadagni netti effettivamente percepiti l’ammontare dei vantaggi goduti sotto forma di pensioni di riposo, sussidi per malattia, ecc., che sono vere e proprie aggiunte allo stipendio, di cui gli operai dell’industria privata non godono, sebbene bene anch’essi abbiano durato lunghi anni di lavoro nell’età produttiva;

 

 

e)    da tener conto del compenso dei punti di merito, che in media si ritiene essere di due terzi di una mesata all’anno. È vero che i ferrovieri non vogliono sentir parlare di punti di merito e vorrebbero abolita ogni promozione a scelta. Essi ci dovrebbero però indicare in qual modo si possa evitare il malanno gravissimo che le promozioni avvengano solo per anzianità e siano date indiscriminatamente a laboriosi e ad infingardi, agli ottimi, ai mediocri ed ai cattivi. Essi qualificano di favoritismo i punti di merito e le promozioni a scelta; ma non hanno saputo indicare quali nuovi metodi si possano sostituire a quelli da essi condannati per impedire la rovina dell’industria.

 

 

2

 

La dimostrazione data sulle paghe dei ferrovieri ha provocato le obiezioni dell’Einaudi alle quali brevemente osservo:

 

 

1)    Al titolo «Stipendi e guadagni netti dei ferrovieri» fa seguire invece stipendi e guadagni al lordo e che rappresentano l’eccezione. Alla stregua del buon senso osservo che se percepisco, ad esempio, uno stipendio di 300 lire mensili, tutto compreso, e da esse debbo detrarne 150 per spese di viaggi conseguenti alla natura del mio impiego, per il soddisfacimento dei bisogni puri della vita mi rimangono disponibili le residuali 150.

 

 

Si potrà sofisticare quanto si vuole e dire e sostenere che ne guadagno 300, ma non cessa per questo di esistere il fatto incontrovertibile che in luogo di 10 lire giornaliere io ne ho semplicemente 5 a mia disposizione.

 

 

E se, come si vuol dal titolo e da egual concetto svolto poi, sostenere, che L. 300 rappresentano il netto, di grazia, quale è il mio stipendio lordo?

 

 

2)    I rapidi accenni storici – per necessità di spazio – non vogliono avere altro intendimento che di cronistoria e non già di una tesi. La tesi non può evidentemente essere che quella di tutte le competizioni economiche: le condizioni del mercato e la domanda – offerta di lavoro. Tutto al più il ricorso serve a sfatare quella tal leggenda di incontentabilità dei ferrovieri e delle loro condizioni economiche presenti e passate.

 

 

3)    E l’inchiesta Gagliardo non poteva certamente affermare – come ben si è detto – l’assurdo col dire che l’organico fosse economicamente conveniente e produttivo per le società private, se del caso poteva esserlo per il personale ferroviario.

 

 

Questi organici poi, non tanto per se stessi rappresentano un malanno, quanto per i criteri burocratici anziché industriali che presiedono alla loro applicazione. Oggidì una qualsiasi industria – appena notevole – ha contratti e norme che regolano il trattamento degli impiegati: né con ciò dette aziende hanno creduto di trasgredire ai canoni fondamentali delle imprese industriali.

 

 

4)    Conveniamo senz’altro che lo stato ed i ferrovieri abbiano motivo a lamentare il periodo delle convenzioni: l’inchiesta Gagliardo ne è la inconfutabile documentazione e se, d’altra parte, è vero che fu un periodo disgraziatissimo per l’economia nazionale, non comprendiamo perché dal 1900 a ieri, che fu florido, le paghe rimasero quasi allo stesso livello.

 

 

Che poi anche le società, od almeno gli azionisti della Mediterranea, se ne lamentino, più che per l’esercizio delle ferrovie, noi crediamo lo si deve ai successivi investimenti di capitale in alberghi ed intraprese non sempre indovinate.

 

 

Sta di fatto che nel periodo dal 1886 al 1901 la Mediterranea ha ricavato dal «solo esercizio» il reddito medio netto d’imposte del 5,18%, che riferito ai 16 anni ed al capitale, dà questi risultati capitale versato 135 milioni, reddito 112 milioni che sale al 5,63% comprendendovi gli utili delle costruzioni e che rispetto alla rendita al corso medio di allora del 4,34 dà un reddito in più di 1,29 e quindi di 37 milioni, senza contare gli ultimi 4 anni di esercizio. (Relazione dell’inchiesta, pagine 447, 454, 456).

 

 

Lasciamo pur da parte gli utili indiretti dei favolosi stipendi e gratificazioni ai pezzi grossi, quello che non comparve nei bilanci e quanto riguarda la sfrenata speculazione borsistica, su larga base, dei titoli ferroviari.

 

 

Se pur attualmente dovranno essere rimborsati allo stato 35 milioni per i noti disavanzi degli istituti di previdenza vorrà dire che l’industria avrà reso sempre più che se si fosse impiegato il capitale in rendita. Ma, e le società Adriatica e Sicula che notoriamente furono più attive, e di non poco?

 

 

5)    Ed infatti – come l’Einaudi ammette – «l’aumento dei prezzi e la necessità dei salari si ebbero dopo il 1900», avendo avuto luogo nel 1902 il primo serio movimento economico della classe ferroviaria, la quale, pur avendo prima tentato di far rispettare i patti intercorsi, se non seppe trovare il consentimento unanime degli addetti alle ferrovie, deve ritenersi che mancasse quel substrato economico relativo senza del quale cade nel vuoto e non si può inscenare una agitazione temibile.

 

 

Non io d’altra parte voglio richiamare l’Einaudi a riflettere sulla teoria dei grandi numeri per cui una cifra che presa a sé è per se stessa rispettabile, ma messa in rapporto alle 120.000 persone ed ai 365 giorni dell’anno si riduce a pochi centesimi. E ciò detto, prendiamo pur nota che è ammesso che sui miglioramenti in correlazione all’aumento dei prezzi vi è da discutere.

 

 

6)    Né parlando delle medie abbiamo inteso lontanamente mettere in non cale il valore delle statistiche, bensì di certe statistiche, anzi di quella determinata statistica per cui da 1.420 lire lo stipendio medio del personale si prospetta aver raggiunto le 1880, e tanto è vero il contrario che ne contrapponiamo delle altre basate su un minimo e massimo di paghe dalle quali in concreto si può avere modo di valutare con maggiore precisione il problema in discussione.

 

 

7)    La relazione 1911 – 12 a p. 10 precisa in 54 milioni il maggior onere per i miglioramenti ed i dati tutti di cui ci siamo serviti furono tratti dalla stessa fonte. Non ho quindi tentato di farne scomparire una parte poiché prendendoli come tali affermo se ne debbano dedurre parecchi per economie fatte sugli stessi, riduzioni di competenze ed in quanto non rappresentano guadagno e stipendio netto dei ferrovieri del basso personale.

 

 

8)    Infine l’Einaudi vorrebbe che per suffragare la nostra tesi che i milioni ottenuti non bastino, dovremmo dare la dimostrazione che il costo della vita, dopo l’ultimo aumento (1911), è ulteriormente cresciuto. Con tutto il rispetto dovuto ritengo, se del caso, che sono coloro, i quali a loro volta ritengono siano stati sufficienti, che dovrebbero dimostrare come quell’ultimo miglioramento fu tale da essere in relazione all’aumento verificatosi sino allora.

 

 

Poiché la tesi che prevarrebbe e che qui si sostiene è che la classe che non seppe o a cui venne violentato il raggiungimento di un determinato livello delle sue condizioni economiche in un dato momento, esso passato, debba ritenersi come se l’avesse egualmente raggiunto e non poter più pretendere di parlarne in seguito, quando si sente in grado di rivendicarne l’accoglimento. Sarebbe come dire per un creditore verso il debitore, la tesi della prescrizione del credito residuale per fatto che alla sua scadenza non poté ottenere di farsi pagare integralmente.

 

 

Ci viene fatta – egualmente dall’Einaudi – la, chiamiamola per modo di dire, accusa di aver prospettate le competenze accessorie in modo che si ha l’impressione che siano centesimi trascurabili e semplici rimborsi di spese. Pur tuttavia noi abbiamo parlato ben chiaro dividendo le competenze accessorie in tre gruppi: fisse, eventuali e compensative, poi elencandole e spiegandole per quanto è consentito dall’articolo del giornale. Abbiamo detto, inoltre, spiegandone il valore «il tutto si riduce a poche lire mensili, salvo in quei casi in cui si cumulano due o più indennità per esservene i requisiti voluti di servizio, località, ecc.». Ciò che è per l’appunto il caso di Milano tanto che si riconosce come gli esempi possano essere contraddetti da altri, meno favorevoli.

 

 

Ma vogliamo lasciare che essi restino quali sono e discutervi. Con la indennità di località di 10 lire ed il soprassoldo di prima categoria, di scambi e manovre in 15 lire, abbiamo che esse ammontano da 27 a 29 lire e con lo stipendio depurato abbiamo rispettivamente 110 per il deviatore, 98 per il manovratore e 94 per il manovale.

 

 

È il caso di fare rilevare che se si fossero portati esempi in cui tanto al manovratore come al manovale si assegnavano lire 2,50, il totale non avrebbe variato dalle cifre risultanti dagli esempi di cui parliamo.

 

 

Ebbene, per riuscire a trovare dei manovali – non certo dei migliori – si è dovuto dare quel compenso non certo invidiabile del testo e consentire che risiedano nei paesi limitrofi.

 

 

La vitaccia che conducono i manovratori, esposti alle inclemenze delle stagioni e mettendo a continuo repentaglio la propria incolumità personale, è notoria a quanti conoscono le mansioni di questi agenti, come è notoria la grave responsabilità dei deviatori la di cui più lieve disattenzione può essere causa di disastri oltre che materiali, di vite umane. Ora pagare, sia pure con 100 o 110 lire mensili l’opera di tale personale non sappiamo se si ritiene compenso sufficiente non già in rapporto alla esposizione continua della loro vita e della libertà, ma se può semplicemente dirsi tale alla stregua della semplice materialità dell’opera loro; e dove la intensità del lavoro assurge ad attenzione continua ed intensa, come avviene nei centri di forte movimento di treni, se non si debba accordare loro un lavoro breve ed un compenso determinato superiore a quello di piccole località ed a traffico limitato dove tale continuità non si riscontra.

 

 

E qui cade acconcio rilevare che l’Einaudi al punto b) delle sue conclusioni vorrebbe che il paragone fosse fatto con le paghe degli operai dell’industria privata, posti in uguale condizione di vita e di lavoro. Prendiamo queste due qualifiche di deviatore e di manovratore, prendiamo pure le molte altre che svolgono il loro lavoro con le caratteristiche dei suddetti e cerchiamo pure poi fra le industrie quali sono le uguali o le assimilabili.

 

 

Mi ci sono provato; non vi sono riuscito. È troppo diverso il lavoro ed altrettanto troppo diverse sono le condizioni nelle quali si svolge il lavoro ed inerenti responsabilità. Ai ferrovieri, questa industria tutta speciale, non possono essere opposti che confronti con ferrovieri. Vi sono, sì, alcune categorie con funzioni sia prettamente manuali, tecniche ed amministrative che trovano il loro corrispettivo nelle private industrie, ma sempre che non si tratti di personale addetto alla sicurezza, regolarità e continuità del servizio ferroviario, poiché, in tal caso, il fattore massimo non è rappresentato più dalla funzione materiale o meccanica che il detto personale compie, bensì è rappresentato, questo fattore, dalla responsabilità che ad essi incombe, dalla gravità alla quale potrebbe assurgere la più lieve delle disattenzioni o degli errori.

 

 

Or dunque l’invito dell’Einaudi noi l’accettiamo se ed in quanto è possibile soddisfarlo per modo che il confronto sarà triplice.

 

 

Tabella confronti stipendi tra ferrovieri

 

 

Stipendi lordi

 

Qualifiche 

Italia

Svizzera

 

minimi

massimi

minimi

massimi

Applicati  

1.500

3.000

2.500

4.200

A. applicati 

1.300

2.100

2.100

3.400

Capi uscieri 

1.500

2.100

2.100

2.900

Uscieri 

1.080

1.800

1.600

2.700

Portieri 

900

1.440

1.500

2.400

Sorveglianti 

1.080

2.100

2.100

3.800

Capi squadra 

780

1.440

1.600

3.100

Guardiani 

600

900

1.400

2.500

Cantonieri 

600

900

1.400

2.200

Capi stazione II 

2.400

3.600

3.500

5.500

Capi stazione III 

1.800

3.300

3.300

5.100

Aggiunti C.S. 

1.950

3.000

3.000

4.800

Capi manovra  

1.080

2.100

1.600

3.100

Guardia M. 

1.020

2.100

1.800

2.900

C.S. alle merci 

900

1.440

1.600

2.800

C.S. manovra 

900

1.650

1.600

2.800

C.S. deviatori 

990

1.440

1.600

2.700

Guardiasale 

760

1.350

1.500

2.400

Manovratori 

760

1.300

1.500

2.400

Deviatori 

760

1.200

1.400

2.500

Lumai 

720

1.180

1.400

2.200

Manovali 

660

1.080

1.400

2.000

Verificatori 

1.200

2.100

1.600

3.400

Untori 

900

1.350

1.400

2.000

Operai I 

1.000

1.680

1.600

2.500

Operai II 

900

1.680

1.500

2.390

 

 

Tabella confronti stipendi e accessorie

 

 

Stipendi lordi

Accessorie lorde medie mensile

 

Italia

Svizzera

Qualifiche 

minimi

massimi

minimi

massimi

Italia

Svizzera

Macchinisti  

1.500

2.700

2.100

3.800

150

195

Fuochisti 

900

1.650

1.400

2.500

90

125

Capotreno 

1.080

2.100

1.600

3.100

80

115

Conduttore 

960

1.200

1.400

2.500

60

105

Guardiafreno 

900

1.080

 1.400

 2.500

60

105

Frenatore

760

 1.080

1.400

2.200

50

 90

 

 

 

Gli aumenti successivi in Italia vanno da lire 60 a 300 e si verificano da tre a cinque anni secondo le categorie; per raggiungere i massimi occorrono 20, 25 fino a 35 anni, tenuto conto dello sviluppo delle carriere.

 

 

In Svizzera gli aumenti hanno luogo di 3 in 3 anni e sono di lire 250 per le infime categorie, di 300 per le basse e 350 a 400 per le medie; si toccano i massimi in 9, 12 a 15 anni.

 

 

La media, per trovare un punto di riferimento, la trarrò da paghe e competenze al netto e media lavorativa, età 25 – 27 anni:

 

 

Tabella confronti con la libera industria

 

 

Funzioni similari

 

Mensili netti a Milano

 

Ferrovia

 

Industria

Ferrovia

Industria

Applicati

 

Ragionieri

120

150

A. Applicati

 

Contabili

100

120

Portieri

 

Fattorini

85

120

Sorveglianti

 

Capi mastri

110

180

Capi squadra

 

Capi squadra

90

150

Cantonieri

 

Sterratori

80

120

Guardia M.

 

Magazziniere

100

150

Lumai

 

Gasista

90

135

Manovali

 

Manovali

90

120

Operai I

 

Montatore

115

150

Operai II

 

Tornitore

105

140

 

 

Si dice: devesi considerare per i ferrovieri il vantaggio della pensione e sussidio malattia. Nessuno vieta agli operai della libera industria di inscriversi a società di mutuo soccorso o fare assicurazione sulla vita e pagarsene i premi per usufruire della previdenza. Certo essi si trovano a non esservi costretti come noi e trovandosi in mano l’intero guadagno, ed essendo vari i bisogni non riescono a toglierne la quota necessaria. Ma quanti ferrovieri non farebbero egualmente se dipendesse dalla loro volontà, assillati come sono dal bisogno?

 

 

E se rappresenta un beneficio per il personale, per quanto a prezzo di sacrificio, non rappresenta altresì e sovratutto per le ferrovie, siano private che dello stato, la catena con la quale avvincono la maestranza?

 

 

Se le ferrovie dello stato restituissero il solo versato in occasione di dimissioni del personale a quest’ora la buona metà del personale, la migliore, avrebbe da tempo cambiato mestiere.

 

 

Per l’industria delle ferrovie la pensione è una valvola di sicurezza. Noi vorremmo bene che l’abolissero, vedreste che dopo qualche anno gli stipendi di fame attuali non esisterebbero più. Avviene invece che si sta studiando di poter affrontare il problema delle pensioni operaie.

 

Decio Papa

 

ferroviere

 

 

La risposta di Decio Papa dimostra che sono necessarie assai più notizie e confronti di quanti i ferrovieri abbiano pubblicato finora e di quanto la direzione generale delle ferrovie – avarissima nelle sue relazioni di dati a questo riguardo – abbia fornito agli studiosi.

 

 

1)    Ben pochi, immagino, sono disposti a menar per buono l’esempio delle 300 lire lorde, da cui deducendo 150 lire di spese di viaggio, rimangono disponibili per i bisogni della vita sole 150 lire nette. Bisogna distinguere fra spese e spese. La spesa la quale deve essere detratta dal salario è quella sostenuta dal ferroviere, che paga già il fitto di casa sua, per dormire fuori residenza nelle notti in cui deve pernottare fuori. Ma non è spesa di produzione – sebbene sia spesa personale – quella del vitto consumato fuori di casa, né delle bevande, né degli altri consumi personali. Ed anche dobbiamo calcolare come spesa di pernottazione non l’indennità pagata all’uopo dalla ferrovia, ma l’effettivo dispendio sostenuto dal ferroviere. Che se questi, sottoponendosi per ipotesi ad un disagio, in alcuni casi riesce a risparmiare in tutto od in parte la spesa della pernottazione, il non speso deve essere calcolato come reddito netto.

 

 

2)    Non rispetto alle esigenze delle società private esercenti dissi che gli organici erano un malanno; ma alle esigenze di una buona gestione industriale, chiunque sia l’esercente, stato e società. Una delle cagioni di inferiorità dello stato rispetto alle compagnie private si è il suo obbligo di cristallizzare, mediante organici, l’assetto interno dell’impresa.

 

 

I cosidetti organici delle imprese private, modificabili a volontà del proprietario, non hanno nulla a che fare con gli organici fissi, e tutt’al più modificabili nel senso della progressiva gonfiatura, a cui si attiene lo stato.

 

 

3)    L’inchiesta Gagliardo ebbe la pretesa di calcolare gli utili delle società esercenti; e ne risultarono calcoli, ripetuti dal Papa, i quali non possono offrire nessuna seria base di discussione. Molti sono i coefficienti – e lo dissi espressamente – di cui si deve tener conto nel calcolare i risultati dell’esercizio sociale. Alcuni di questi sono tuttora incerti. Una delle cose che si sanno è questa: che il mercato oggi reputa – colle sue quotazioni di borsa che sono il risultato dei giudizi, dati a proprio rischio e pericolo, della gente maggiormente esperti in simili valutazioni che oggi esista in Italia – essere aumentato il valore del capitale della Sicula da circa 20 a circa 24 milioni, invariato il capitale delle Meridionali in 210 milioni e svalutato il capitale delle Mediterranee da 180 a 75 milioni circa. Io non so, e non sa il Papa e non sa probabilmente nessuno, se col tempo questo giudizio sarà mantenuto; e non so quanta parte di questo scarsissimo, nullo o negativo successo sia dovuta all’esercizio durante gli anni 1885 – 905 e quanta ad altre cause. Par solo certo che l’esercizio sociale sia stato un affare assai magro e tale, in media, che i risparmiatori hanno ogni ragione di preferire l’investimento nei nuovi titoli ferroviari e nei buoni del tesoro che lo stato oggi va emettendo per provvedere capitali alle sue ferrovie.

 

 

4)    Non ho nulla da aggiungere rispetto alla media dei salari dei ferrovieri, che sarebbe aumentata da 1.420 e 1.880 lire all’anno. Quella cifra, come tale, non fu dichiarata erronea da nessuno. Ed, essendo esatta, dimostra che i salari aumentarono dal 1904-905 al 1912-13 del 32% circa. Alcune categorie probabilmente hanno ricevuto un aumento maggiore ed altre minore: ma tutte insieme debbono necessariamente aver avuto un miglioramento del 32 percento. Il Papa potrà dire che esso è scarso in confronto all’aumento del costo della vita: ma non può distruggerlo. Sarebbe utile che la direzione generale pubblicasse dati precisi, dai quali risultassero per ogni categoria di agenti gli aumenti di paghe effettivamente verificatisi; così da avere una guida per aumentare quelle paghe che fossero rimaste troppo al disotto del 32 %.

 

 

5)    Queste statistiche sicure e larghe e comprensive di tutti i casi servirebbero a saggiare il valore dei confronti che il Papa fa con i salari della libera industria. Per ora quel confronto non può essere discusso, ignorando io completamente come i dati del Papa siano stati ottenuti ed in qual modo siano state ottenute le medie, le quali non collimano affatto con i dati che avevo pubblicato per i ferrovieri, traendoli da fogli di paga relativi a Milano e rimane a dimostrare se siano la fedele fotografia dei salari dell’industria privata.

 

 

6)    Assai interessante è il quadro di confronto fra salari italiani e salari svizzeri. Lessi, anni fa, simiglianti confronti fra salari francesi e svizzeri ed udii polemiche interminabili sul modo di interpretarli. Solo una commissione di tecnici potrebbe eseguire un confronto persuasivo a tal riguardo; e sarebbe opportuno che il confronto si estendesse anche ai salari austriaci e francesi. Una sola osservazione generale si può fare: le ferrovie svizzere, malgrado siano di stato e malgrado che la spesa del riscatto sia stata assai superiore alle previsioni, sono attive; il che vuol dire, che, dopo coperte tutte le spese, compresi gli interessi e l’ammortamento di tutto il capitale, lasciano una piccola eccedenza attiva. Le nostre denunciano invece un disavanzo di 155,9 milioni. Se i ferrovieri italiani dimostrassero, coi fatti, di voler collaborare con lo stato ed eventualmente usassero di tutta la gran forza politica ed economica, di cui dispongono, per spingere l’amministrazione, non dico a far scomparire il disavanzo, ma a ridurlo solo a 100 milioni, nessuno contrasterebbe il loro diritto ad un cospicuo miglioramento nelle loro paghe. Oggi i ferrovieri vogliono aumenti di paga perché il costo della vita è cresciuto. È lecito aggiungere che a determinare i salari deve contribuire anche la considerazione dell’efficienza del lavoro? Il rendimento del lavoro dei ferrovieri è aumentato in proporzione dell’aumento delle loro paghe? Ecco un’indagine interessante, che la direzione generale dovrebbe aiutare a compiere con la pubblicazione di dati che certo essa possiede.

 

 

7)    Questa indagine illuminerebbe un problema, a cui accenno qui, per connessione di materia, sebbene il Papa non lo ponga: quello degli applicati degli uffici ferroviari. Tra le numerose lettere che ho ricevuto, quelle degli applicati ed impiegati sedentari sono state le più insistenti nell’affermare che essi non si giovano di tutte le varie indennità che spettano al personale viaggiante, di stazione, ai funzionari di ispezione, ecc. Fuori del soprassoldo Sacchi e delle indennità di residenza, essi non hanno nulla. Con stipendi, che crescono lentamente in 25 anni da 125 a 250 lire circa al mese essi, che appartengono alla classe borghese, fanno della miseria decente. Anche qui il problema è: quanto rende il loro lavoro? Il valore del lavoro compiuto è maggiore, uguale od inferiore al salario pagato? Non v’è nessun modo migliore di organizzare il lavoro d’ufficio fuorché assumere dei giovinotti muniti di qualche licenza secondaria e farli lentamente invecchiare, con esigenze crescenti, nella carriera? Gli industriali privati, finché possono, adoperano macchine, stipendiano dattilografe, ecc. Vi è qualche modo di evitare che gli uffici ferroviari e pubblici alberghino torme crescenti di piccoli borghesi malcontenti di sé e dello stato?



[1] Con il titolo Calcoli e confronti sugli stipendi dei ferrovieri [ndr].

Dazi doganali e sindacati fra industriali

Dazi doganali e sindacati fra industriali

«Corriere della Sera», 3, 8, 15, 26[1] marzo 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 643-675

 

 

 

 

1[2]

 

Taluni recenti avvenimenti, come la lotta fra l’Unione zuccheri ed alcuni industriali indipendenti, il dibattito tra un consorzio di filatori in cotone ed un gruppo di tessitori, la costituzione di leghe per la difesa del lavoro nazionale e di leghe antiprotezioniste, hanno fatto diventare d’attualità anche in Italia un problema che da tempo si discute altrove: voglio accennare ai rapporti fra protezione doganale e trusts o sindacati fra industriali. Affermano, è vero, i promotori degli istituti o consorzi od unioni o sindacati italiani fra industriali che i loro fini sono profondamente diversi da quelli, che essi riconoscono dannosi all’universale, dei sindacati (trusts) americani. Ma poiché non fu mai con parole e concetti chiaramente comprensibili spiegato in che cosa consista questa differenza; poiché i capitani dei grandi consorzi americani (del resto è ben noto che negli Stati uniti più non esiste alcun trusts propriamente detto, essendo tutti stati sostituiti da companies o corporations, ossia società anonime pure e semplici sorte al posto degli antichi concorrenti) affermano le stessissime cose che in propria difesa adducono i promotori dei consorzi italiani; poiché il «ridare tonalità all’industria… efficienza ai dazi di protezione», il «riorganizzare armonicamente in un tutto complesso le imprese prima discordi» è precisamente ciò che i trusts o cartelli di tutto il mondo si propongono, così noi ragionevolmente dobbiamo supporre che i consorzi si costituiscano al fine precipuo e chiaro di stabilire un livello di prezzi superiore, per altezza, scadenze e metodi di pagamento, a quello che si sarebbe stabilito in condizioni di libera concorrenza; e constatiamo il fatto che per raggiungere il loro fine essi si giovano dell’esistenza di una tariffa doganale.

 

 

In un articolo non è possibile esaminare a fondo questo che è davvero un grave problema. I trusts o sindacati o consorzi o cartelli industriali sono dovuti sicuramente a cause molteplici, di cui la tariffa doganale è una sola. Ma è anche certo che l’esistenza di una tariffa doganale protettiva è quella, tra le cause dei sindacati industriali, che interessa, e giustamente, di più l’opinione pubblica.

 

 

Se invero, in una industria non protetta, un consorzio tra industriali è sorto perché questi si propongono di produrre e vendere più a buon mercato e ritengono di raggiungere meglio cotale intento riunendo le loro forze e riducendo così le spese generali, risparmiando nelle spese di pubblicità, ecc. ecc., la massa del pubblico non ha ragione di preoccuparsi e di chiedere provvedimenti per un fatto ad essa benefico. Ma se il consorzio si costituì solo perché in un dato paese gli industriali, messi dalla protezione doganale al sicuro contro la concorrenza estera, hanno creduto opportuno di accordarsi tra loro per rialzare i prezzi, è ragionevole che l’opinione pubblica si allarmi e discuta il problema, per vedere se non vi sia un mezzo per scongiurare la jattura che minaccia i consumatori in genere e le industrie consumatrici ed esportatrici in ispecie.

 

 

Così il punto forse più interessante della controversia che recentemente si è dibattuta intorno all’industria zuccheriera, punto che forse non è ancora stato compiutamente lumeggiato, è: dato che gli industriali zuccherieri si erano riuniti in un consorzio, chiamato Unione zuccheri, il quale, fino a poco tempo fa dominava intieramente il mercato, e ritornerà a dominarlo prossimamente, se, come si annuncia, sia intervenuto un accordo fra il consorzio ed i dissidenti, si può affermare che, così operando, essi abbiano corrisposto alle speranze di coloro i quali, istituendo quasi un mezzo secolo fa i dazi protettori e conservandoli in seguito, avevano voluto promuovere la fondazione e l’incremento dell’industria italiana dello zucchero? I dazi protettori erano forse stati istituiti affinché gli industriali protetti si riunissero in consorzio e cercassero, sicuri dalla concorrenza estera, di tenere i prezzi elevati sino al massimo consentito dalla protezione?

 

 

Mentre i consumatori in genere fanno questa domanda per l’Unione zuccheri, in altro campo gli agricoltori italiani chiedono: i dazi sui concimi chimici esteri e sul solfato di rame furono istituiti perché la «Super» cercasse di riunire in consorzio i fabbricanti di concimi chimici e di solfati italiani allo scopo di elevare i prezzi al massimo possibile concesso dalla protezione? E di recente sentimmo i tessitori di cotone piemontesi protestare energicamente in una adunanza tenuta alla camera di commercio di Torino contro l’Istituto cotoniero italiano od un gruppo di filatori consorziati, costituito tra i soci dell’istituto, il quale dicesi si proponga di sostenere il prezzo dei filati; e pare già di sentire chiedere: forseché il legislatore concesse a voi filatori italiani una protezione contro i filati esteri perché voi, riuniti in consorzio, poteste aumentare i prezzi dei filati italiani a nostro danno ed a danno quindi dei consumatori italiani? Ed altri ancora, in altre industrie protette, fa o sta per fare lo stesso discorso: nell’industria siderurgica, dominata da un sindacato chiamato «Ferro ed acciaio», nell’industria delle vetrerie, in alcuni rami dell’industria cartaria, ecc. ecc., i consumatori – e tra i consumatori principalissimi si noverano soventi altre grandi nostre industrie – pongono il problema dei rapporti fra consorzi e protezione doganale.

 

 

Per rispondere alla domanda, non mi porrò dal punto di vista che sarebbe il mio naturale, del liberismo doganale. Questo invero non è un problema di protezionismo o di liberismo, bensì di sviluppo interno del protezionismo. Il legislatore, il quale istituì un dazio doganale a favore dell’industria nazionale quale fine volle raggiungere? e tra questi fini vi era la costituzione di consorzi o sindacati tra gli industriali protetti?

 

 

La trustizzazione di industrie protette è un fatto il quale possa da un protezionista sincero e spassionato essere considerato come utile al progresso dell’industria, conforme agli scopi propri della protezione doganale da lui voluta nell’interesse generale del paese?

 

 

A questa domanda sono sicuro che i creatori del protezionismo italiano, ed i maggiori assertori suoi viventi avrebbero dovuto e dovrebbero rispondere di no. Si intende che io parlo dei veri protezionisti; ossia di coloro che, colla protezione doganale, vollero e vogliono acclimatare in paese industrie nuove od inusate, ma promettenti; e non accenno ai protezionisti volgari che vogliono i dazi come tali, al solo scopo di impedire alla merce estera di entrare in Italia ed all’oro italiano di uscire dal paese. Nessuno dei grandi costruttori del protezionismo italiano fece propri questi pregiudizi assurdi di isolamento del mercato italiano dal mercato mondiale. Il fine che si volle raggiungere fu ben altro. V’era, intorno al 1880, una Italia prevalentemente agricola, provvista però di energie naturali non piccole e di una abbondante potenzialmente abile mano d’opera. L’industria non si sviluppava abbastanza rapidamente, perché le imprese nuove dovevano lottare contro la concorrenza di imprese fondate da tempo all’estero, già fornite di maestranze abili, con clientela fida, con impianti perfetti. Diamo – dissero quei creatori del protezionismo italiano – una temporanea protezione doganale all’industria interna; assicuriamola per quindici, venti, venticinque anni contro l’importazione delle merci straniere, mercé un dazio protettivo alla frontiera. In tal modo i capitalisti italiani, ora timidi, acquisteranno coraggio ed investiranno capitali in cotonifici, lanifici, zuccherifici, stabilimenti siderurgici e meccanici e chimici, ecc. ecc. Sicuri di poter vendere per qualche tempo ad un prezzo uguale a quello estero di concorrenza, più l’ammontare del dazio doganale, essi supereranno il periodo iniziale di errori, di tentativi, di addestramento e formazione delle maestranze, di conquista della clientela. A poco a poco l’industria interna si fortificherà, ridurrà i propri costi; grazie alla concorrenza interna le imprese migliori vinceranno le meno bene organizzate e saranno costrette a ridurre i prezzi al livello del proprio costo; e poiché noi supponiamo di proteggere soltanto industrie vitali, capaci di svilupparsi in Italia, giungerà il giorno in cui le intraprese italiane, protette dalla concorrenza straniera, ma concorrenti tra di loro, saranno in grado di poter vendere la loro merce ai consumatori italiani allo stesso prezzo a cui la venderebbero i rivali stranieri. In quel giorno la protezione doganale potrà essere abolita, perché avrà raggiunto il suo fine; e noi saremo lieti di vedere compiuta la nostra opera.

 

 

Così ragionarono coloro che vollero il protezionismo italiano; ed anche noi liberisti, che così profondamente discordiamo da essi, che siamo così profondamente scettici intorno alla possibilità pratica di attuare quegli ideali, dobbiamo ammettere che quello era un ideale logicamente ammissibile. Tanto più volontieri l’ammettiamo, in quantoché i maggiori, anzi i soli teorici del protezionismo si trovano tra gli economisti; e fu lo Stuart Mill ad esporre il celebre teorema della protezione temporanea alle industrie giovani, sebbene egli vedesse in seguito e chiaramente denunciasse gli inconvenienti pratici del suo principio teorico. Ma sempre rimanendo entro i limiti dell’ideale protezionistico e non esorbitando in polemiche antiprotezionistiche, che qui sarebbero fuor di luogo, ed escludendo di proposito pure ogni accenno a questioni diverse e nuovissime, che qui non intendo pregiudicare, come la convenienza di mantenere temporaneamente certi dazi, divenuti in sé inutili, per opporsi a casi di svendite (dumping) estere, si deve subito aggiungere che quell’ideale protezionistico, per potersi tradurre in realtà supponeva inesorabilmente una condizione assoluta: la lotta, la concorrenza tra gli industriali interni. Il dazio doganale era stato imposto per difendere temporaneamente, durante il periodo della crescenza, l’industria nazionale contro la concorrenza estera. Ma a qual fine? Non mai perché il dazio giovasse a procacciare facili lucri agli industriali interni, bensì soltanto per consentir loro di superare quelle difficoltà e quei rischi i quali insidiano la vita delle industrie nascenti. I consumatori erano stati chiamati a pagare per venti o venticinque anni più care le merci consumate, affinché, trascorso quel tempo, l’industria nazionale, oramai agguerrita, potesse fornire ad essi quella merce allo stesso prezzo dell’industria straniera. Lo scopo non era già di sostituire in perpetuo la merce nazionale alla merce straniera, senza badare ai prezzi rispettivi. Nessuno dei fondatori del protezionismo volle dare all’industria interna una protezione perpetua uguale alla differenza tra i costi di produzione esteri ed interni, poiché la protezione fu anzi data solo per il caso e con la premessa che gli industriali interni sapessero far scomparire quella differenza di costi. Lo scopo del protezionismo era quello di riuscire – col mezzo di un temporaneo dazio protettivo – a produrre e vendere in Italia la merce a prezzo uguale e forse minore della merce straniera.

 

 

L’ideale – l’unico ammissibile dal punto di vista di un protezionismo serio e nazionale – non poteva e non potrebbe essere raggiunto se non in regime di libera concorrenza fra le imprese protette italiane. Poiché soltanto il sorgere di una concorrenza viva e senza limiti tra i produttori italiani può essere arra che essi faranno ogni possa per ridurre i costi e per portarsi all’altezza dei perfezionamenti tecnici dell’industria straniera. Soltanto la riduzione di prezzi, a poco a poco verificantesi sul mercato nazionale sotto la spinta della concorrenza interna, può dimostrare ai contribuenti che essi, col pagare la merce interna rincarata dal dazio, non hanno fatto inutilmente in passato sacrifici costosi; solo il ribasso progressivo dei prezzi verso il livello estero può dimostrare a chiare note che l’industria è riuscita a ridurre i costi al limite delle concorrenti straniere. Parecchi osservatori si erano compiaciuti di aver veduto nell’industria cotoniera italiana una fortunata applicazione del principio milliano della protezione alle industrie giovani perché era parso che, sotto la spinta della concorrenza interna, i prezzi fossero ribassati al livello di quelli esteri e fosse stata automaticamente elisa, come ragion voleva, la protezione doganale. Ma oggi essi ritornano dubbiosi poiché veggono i filatori di cotone costituire sindacati per rialzare i prezzi interni e ritornare a dare efficienza alla tariffa doganale; e li veggono, peggio, augurarsi di poter giungere a dare premi di esportazione onde vendere all’estero a miglior mercato dell’interno. Il che appare, dal punto di vista dell’interesse generale, un regresso ed un venir meno ai postulati logici del protezionismo.

 

 

Perciò la trustificazione di talune industrie protette italiane deve essere guardata con sospetto e con rammarico da liberisti e da protezionisti insieme. Dai liberisti perché essa è indice di una tendenza ad un perdurante sfruttamento di tutta la protezione doganale; e dai protezionisti, i quali non siano dimentichi delle loro origini ideali e delle loro promesse più solenni, perché essa indica che gli industriali interni, invece di fare ogni sforzo per perfezionarsi e ridurre i costi, ed invece di far beneficiare i consumatori, lottando tra loro, di ogni successiva riduzione di costi, preferiscono accordarsi tra loro per trasformare il dazio, che doveva essere uno strumento di progresso tecnico, in un mezzo di dominazione e di incremento di profitti privati.

 

 

I difensori degli zuccherieri affermano che l’attuale protezione doganale, che è uguale alla differenza tra l’imposta interna di lire 73,15 ed il dazio doganale di lire 99 ossia è di 25,85 lire, è assolutamente necessaria all’industria per vivere, essendo il costo italiano di tanto superiore al costo estero, sì che sarebbe impossibile di poter vendere al prezzo di 30 lire circa al quintale – prezzo estero – più l’aggiunta della sola imposta di fabbricazione di lire 73,15 ossia a circa lire 103 ed è necessario di vendere, per non perdere, a lire 103 più la protezione di 25 lire ossia a 128 lire. Ed adducono cifre di costi per dimostrare che le cose stanno precisamente così.

 

 

Ora, è chiaro che l’unico criterio accessibile agli estranei e persuasivo per tutti, delle condizioni di una industria, è il prezzo a cui essa vende in condizioni di concorrenza. Le cifre dei costi sono elastiche, incertissime, variabilissime. Mentre se, in condizioni di aperta lotta tra i produttori, vi sono fabbriche che vendono, come per qualche mese è accaduto, lo zucchero, a 117, ed anche a meno, a 115 e 110 e persino a 109-108 lire al quintale e se quelle fabbriche non vanno in rovina e ripartono discreti profitti, certa cosa è che quello è un prezzo a cui in Italia torna conto fabbricare zucchero. Nell’interesse delle industrie protette, e nell’interesse nazionale, il protezionismo potrà dire di aver raggiunto il suo fine quando sarà diventato inutile, ossia quando vi saranno fabbriche italiane che, in lotta con altre fabbriche italiane e per strappare ad altre la clientela, venderanno ad un prezzo non superiore al prezzo estero di 30 lire od altro prezzo corrente, più l’imposta di fabbricazione di 73 lire, ossia a lire 103.

 

 

A questa meta non si arriva tuttavia coi sindacati. Perché i trusts o sindacati non si fondano in una industria protetta per diminuire i prezzi, bensì per aumentarli sino al massimo consentito dalla protezione doganale. L’Unione zuccheri, finché non sorsero concorrenti, aveva sempre cercato di mantenere i prezzi a 130 lire; ed un rialzo di prezzi vogliono gli altri sindacati sorti in Italia: fra industriali cotonieri, fra produttori di perfosfati e di solfato di rame, di vetri, di carta, di ferro ed acciaio, di lino e canapa, di macchine, ecc. ecc. La industria non cerca più di perfezionarsi e di lottare per ridurre i prezzi; bensì si coalizza per aumentare i prezzi all’ombra della protezione doganale.

 

 

Nessun protezionista, consapevole del fine di interesse generale a cui il protezionismo intende, può voler siffatto risultato. Epperciò il momento in cui le industrie si trustizzano deve essere il momento in cui tutti e principalmente i protezionisti – ché i liberisti non hanno atteso che venisse questo momento per chiedere riduzioni di dazi – devono avvisare ai rimedi adatti ad impedire che la protezione diventi strumento di oppressione delle masse.

 

 

Quali possono essere questi rimedi è controverso. Nel paese dove cotal problema fu più a lungo dibattuto, e sono gli Stati uniti, il legislatore seguì due vie nella lotta contro i sindacati; di cui l’una si potrebbe intitolare a Roosevelt ed a Taft e l’altra a Wilson, dal nome dei presidenti che ne furono gli antesignani. Roosevelt e Taft non vollero toccare la tariffa doganale, poiché ritenevano che questa fosse messa a difesa del mercato interno contro le merci estere e tentarono di fiaccare la potenza dei consorzi (trusts) con leggi proibitive e con processi giudiziari. Fecero dichiarare illegali i trusts, li fecero sciogliere dai tribunali, condannare a multe colossali. Invano; ché i sindacati provveduti di avvocati finissimi, schermidori assai abili dei più sapienti legislatori, si sciolsero per ricomporsi e si risero dei fulmini della legge.

 

 

Diverso fu il metodo tenuto dal Wilson, il quale essendosi persuaso che i sindacati signoreggiavano il mercato interno perché la tariffa doganale impediva la concorrenza estera, a sua volta convinse popolo e congresso che, a questo punto, i dazi protettivi poi dovevano più, neppure agli occhi dei protezionisti, essere considerati giovevoli all’interesse generale; e grandemente li ridusse. Già gli effetti di questa politica si cominciano a vedere; la porta, non ancora aperta del tutto, ma largamente socchiusa alla concorrenza estera, modera le pretese dei sindacati e tende a ridurre i prezzi.

 

 

In un punto le due opposte politiche, di Roosevelt-Taft e di Wilson, concordano: nella richiesta di una grande pubblicità negli affari dei sindacati. Il giorno in cui in una industria si forma un sindacato o consorzio, quella industria ha cessato di essere un affare privato e diventa un affare pubblico. Dico che diventa un affare pubblico, quando quella industria ha chiesto o chiede al legislatore favori o protezioni o premi, i quali siano pagati dalla generalità. Ad un industria vivente in regime di concorrenza il legislatore può, quando lo creda opportuno, concedere una protezione doganale, senza pretendere di rivederne i conti, perché il meccanismo stesso della concorrenza porta per se medesimo a ridurre costi e prezzi.

 

 

Ma quando, in una industria protetta o favorita – per esempio con la preferenza del 5% negli appalti pubblici – si forma un sindacato, qual garanzia ha ancora il legislatore che la protezione o la preferenza vengano adoperate a ridurre costi e prezzi e non invece ad aumentare i prezzi a carico dei consumatori e dello stato stesso? Nessuna. In tal caso, ragionarono i presidenti americani, poiché lo stato concede protezioni, sussidi o favori all’industria, ha diritto di vedere come essi siano utilizzati. Di qui numerose indagini, istituite dall’ufficio delle società (bureau of corporations) intorno ai principali sindacati (trusts) americani. Ho, fra gli altri, sott’occhio un volume di questo ufficio sulla International Harvester Co., il grande consorzio delle macchine agricole, ben noto anche ai nostri agricoltori italiani, per le macchine perfezionate che invia in Italia. Sono 384 pagine di fitta stampa, ricchissime di dati, di estratti di conti, di interrogatori, i quali denudano al vivo la situazione intrinseca del consorzio: i suoi conti, i suoi profitti, i suoi metodi di lotta contro i concorrenti, i suoi rapporti con la clientela e mettono in grado il pubblico di giudicare se le conclusioni, severe ma imparziali, del commissario siano fondate sui fatti. In ogni industria protetta, i sindacati si debbono rassegnare al regime di pubblicità dei loro affari. Il quale non implica il diritto di continuare a godere l’antica protezione, ove l’inchiesta abbia dimostrato che essi ne fanno cattivo uso. Il Wilson ridusse i dazi senza attendere i risultati delle iniziate indagini; ed ora afferma che il regime di pubblicità dovrà diventare permanente e che da essa gli stessi sindacati trarranno grande vantaggio. Non a torto, poiché chi opera alla luce del sole, è tratto ad operare puramente, sì da conciliarsi il favore e non l’odio del pubblico.

 

 

2

 

Dal dott. Ettore Candiani, presidente della «Super», riceviamo questa lettera a proposito dell’articolo di Luigi Einaudi sui dazi doganali e sindacati fra industriali:

 

 

Gentilissimo signor direttore,

 

Nell’ultimo articolo di Luigi Einaudi, pubblicato sul «Corriere» di martedì scorso, l’illustre economista domanda, o meglio fa domandare agli agricoltori italiani se i dazi sui concimi chimici esteri e sul solfato di rame furono istituiti perché la «Super» cercasse di riunire in consorzio i fabbricanti di concimi chimici e di solfati italiani allo scopo di elevare i prezzi al massimo possibile concesso dalla protezione.

 

 

Permetta a me, quale presidente della «Super», di soffermare l’attenzione del pubblico e dell’illustre economista, autore dell’articolo suaccennato, sui vari errori nei quali è incorso l’illustre uomo, errori che, costituendo una base sbagliata, inducono necessariamente a conclusioni pure erronee.

 

 

Non parlerò di quanto riguarda l’Unione zuccheri, perché, per norma, di ciò che non conosco profondamente, non ho l’abitudine di discutere. Osservo che la «Super» nulla ha a che fare col solfato di rame e se Luigi Einaudi avesse avuto la cortesia di chiedere schiarimenti prima di riferire pubblicamente su cose che la «Super» non si è mai sognata di fare, egli avrebbe appreso come lo scopo della «Super» non fu mai quello di occuparsi del solfato di rame, né quello di un accordo fra i fabbricanti di superfosfati per rialzare i prezzi, messi gli industriali dalla protezione doganale al sicuro della concorrenza estera. Anzitutto la «Super» da quando si è costituita e nonostante l’aumento enorme avuto della juta (N.B. non per il prof. Einaudi, ma per il pubblico: il perfosfato si vende in sacchi fatti di juta), non ha mai rialzato i prezzi.

 

 

Il superfosfato non ha nessuna protezione doganale ed è quindi illogico che la «Super» viva all’ombra di una protezione doganale qualsiasi.

 

 

Della «Super» fanno parte molte cooperative ed il prezzo viene fissato d’accordo con le cooperative stesse, e, ripeto, non è mai stato rialzato. Creda l’illustre economista che altre ragioni talvolta rendono assolutamente necessaria la formazione di coalizzazioni industriali e che nella crisi che attualmente travaglia l’industria italiana, codeste concentrazioni rappresentano sovente una reale ed assoluta necessità, e, non volendo parlare appunto di cose che non conosco profondamente, mi limiterò ad accennare alla crisi enorme che attraversa l’industria superfosfatiera italiana.

 

 

La «Super» ha avuto la mira di regolare la produzione in base al consumo, di eliminare i dannosi trasporti passivi di fabbriche male ubicate, accordando gli industriali fra loro perché chi aveva gli stabilimenti in ubicazione migliore, chi aveva un costo di produzione inferiore avesse la preferenza nella fabbricazione compensando il collega meno bene situato o meno agguerrito nella lotta accanita della concorrenza, concorrenza non solo interna ma estera perché l’estero, pur vendendo nei propri paesi a prezzi superiori ai nostri, col solito sistema delle svendite a prezzi ribassati (dumping) riesce ancora ad importare da noi.

 

 

Il perfosfato è materia povera e non può, non deve sopportare trasporti. Nell’interesse quindi dell’agricoltura sorsero nei principali centri agricoli fabbriche locali. La grande crisi avrebbe fatto scomparire i piccoli enti assorbiti dai grandi che poi avrebbero potuto ottenere prezzi alti. Cosa ha fatto la «Super»? Non ha permesso tale assorbimento, ha fatto sì che le unità locali potessero sussistere; ha cercato e cerca di regolare la produzione a seconda del consumo favorendo ed incitando tale consumo con una sana propaganda. Non va quindi la «Super» considerata alla stregua di consorzi inceppanti la produzione per aumentare i prezzi a danno dei consumatori.

 

 

Ora, non solo la «Super» non ha aumentato i prezzi, ma, fenomeno logico delle concentrazioni industriali, è riuscita invece ad ottenere proporzionalmente un minor costo di produzione perché ognuno ha riscontrata la necessità di un perfezionamento al tecnicismo di fabbricazione, così che la produzione unitaria o per metro cubo di camere di piombo è di molto aumentata. E la «Super» ha seguito anche il sistema di fare prezzi e condizioni assolutamente speciali a tutti gli enti agrari, a tutti quegli enti che direttamente portavano al consumatore il perfosfato. Ha diminuite le spese di vendita dei singoli, concentrandole in un ufficio solo; ha resa più efficace la propaganda intensificandola e meglio indirizzandola, e senza nessun sacrificio, nessunissimo sacrificio per l’agricoltore, spera di riuscire ad eliminare presto quella crisi che poteva suonare estrema jattura per una fra le principali industrie nostre.

 

 

Ma v’ha di più. La «Super», codesto organismo che così erroneamente viene designato come coalizzazione di industriali, a danno degli agricoltori, ha favorito i veri interessi agricoli moralizzando il mercato, insistendo per l’attuazione della legge che combatte le frodi; volendo le analisi, istituendo premi perché anche il più modesto agricoltore possa fare analizzare, dai laboratori governativi, il prodotto ricevuto.

 

 

Io mi associo alla conclusione di Luigi Einaudi per quanto riguarda il regime di pubblicità perché sono d’accordo completamente con lui che chi opera alla luce del sole è tratto ad operare in modo tale da conciliarsi il favore e non l’odio del pubblico; e lodo quella luce del sole che ogni agricoltore tanto invoca e che, noi venditori di superfosfati, invochiamo pure con gli agricoltori. La «Super» ha sempre agito così correttamente che sarà ben lieta se Luigi Einaudi vorrà cortesemente prendere visione di quanto essa fa; di quanto essa ha fatto.

 

 

Per quanto mi riguarda personalmente permetta, egregio signor direttore, che aggiunga un’altra modesta osservazione. Le concentrazioni industriali al giorno d’oggi rappresentano talvolta in Italia una necessità anche per contrapporsi a quanto già da tempo viene fatto all’estero, rappresentano una necessità anche per correggere la strana mentalità di molti che più che al proprio interesse aspirano alla rovina del concorrente e non vanno giudicate tutte in un fascio senza prima bene ponderare la genesi, senza bene verificare l’azione che esse esplicano.

 

 

Voglia gradire, egregio signor direttore, i miei più deferenti saluti.

 

 

Dev.mo

 

Dott. Ettore Candiani

 

Milano, 6 marzo 1914.

 

 

Pure a proposito dello stesso articolo di Luigi Einaudi, che si occupava in modo speciale del sindacato fra gli industriali dello zucchero, riceviamo la lettera seguente dal dott. Adriano Aducco, direttore dell’Unione zuccheri:

 

Chiarissimo signor direttore,

 

Le sarei grato se volesse pubblicare quanto segue:

 

 

Luigi Einaudi ha pubblicato sul «Corriere della Sera» del 3 corrente un importante articolo sui dazi doganali e sui sindacati industriali.

 

 

In detto articolo il dotto economista svolge, con quella alta competenza, e quella chiarezza che gli sono proprie, le sue teorie sui sindacati e sui trusts.

 

 

Dopo di aver accennato brevemente ai sindacati cotonieri, siderurgici, ecc., si sofferma più particolarmente ad analizzare il sindacato degli zuccherieri.

 

 

Credo mio dovere di entrare nell’argomento non per discutere col valente economista sulle funzioni teoriche e pratiche dei sindacati, ma allo scopo esclusivo di rettificare alcuni dati di fatto enunciati dal professore Einaudi a sostegno della propria tesi.

 

 

Il prof. Einaudi non crede di dover analizzare le affermazioni degli zuccherieri quando essi dicono che sarebbe loro impossibile di vendere lo zucchero al prezzo di lire 30 al quintale più la aggiunta dell’imposta di fabbricazione.

 

 

Il prof. Einaudi non si ferma nemmeno ad indagare quale sia l’importo della materia prima (barbabietola) che occorre agli industriali italiani per ottenere un quintale di zucchero, ma dice soltanto che «l’unico criterio accessibile agli estranei e persuasivo per tutti delle condizioni di una industria, è il prezzo a cui essa vende in condizioni di concorrenza».

 

 

Mi permetto di osservare all’egregio prof. Einaudi che questo sistema è troppo semplicista e pericoloso, giacché non si può prendere per base la situazione anormale di una industria in un determinato momento di crisi, per doverne concludere che l’industria possa vivere sempre in quella determinata condizione.

 

 

Forse che se un uomo ammalato può continuare a vivere per molto tempo con un brodo al giorno, si deve dedurne logicamente che l’organismo umano può vivere normalmente con un tale regime di alimentazione?

 

 

E più avanti il prof. Einaudi aggiunge che per qualche mese è accaduto che alcune fabbriche di zucchero hanno venduto a lire 117, 115, 110 e persino 109, 108 al quintale, e ne deduce che «se quelle fabbriche non vanno in rovina e ripartono discreti profitti, certa cosa è che quello è un prezzo a cui in Italia torna conto fabbricare zucchero».

 

 

Il prof. Einaudi venne senza dubbio male informato sul prezzi di vendita dello zucchero, poiché il prezzo minimo a cui è sceso lo zucchero raffinato è stato intorno alle 116 lire, il quale è sempre un prezzo rovinoso per l’industria nazionale.

 

 

Tanto meno si può affermare che le fabbriche vendendo al detto prezzo abbiano ripartito discreti profitti, poiché il prezzo di concorrenza a limiti così bassi, non è sceso che da circa due mesi e quindi non è possibile di conoscere già i risultati finanziari delle fabbriche, i quali saranno soltanto noti dopo un periodo di durata della crisi di almeno un anno.

 

 

Il prof. Einaudi nel suo poderoso articolo non è alieno dal consentire alla giovane industria nazionale una temporanea protezione doganale per 15-20 ed anche 25 anni mediante un dazio protettivo alla frontiera; dazio protettivo da abolirsi il giorno in cui le industrie potessero vendere la loro merce al consumatore italiano allo stesso prezzo a cui lo si venderebbe dalle rivali straniere.

 

 

Questo criterio è stato appunto applicato alla industria dello zucchero, la quale, mentre è all’estero una industria secolare, è da noi sorta, con qualche che importanza, da soli 15 anni; è appunto una industria giovane la quale ha ancora tanto cammino da fare prima di raggiungere la situazione delle estere, specialmente per quanto ha riferimento alla parte agricola, che forma la sua essenza.

 

 

Giova altresì notare che la protezione doganale di cui godeva l’industria colla legge 1883 è stata fruita da pochissime fabbriche perché il grosso delle fabbriche è sorto nel 1900, e da quell’epoca è cominciata la progressiva sensibile falcidia della protezione da parte del governo, falcidia che è tuttora in corso colla legge Luzzatti.

 

 

E faccio punto perché, come ho premesso, non intendo di entrare nella discussione delle idee svolte dal professore Einaudi essendo stato mio unico proposito quello di rettificare dei dati di fatto i quali hanno una grande importanza, tanto maggiore quanto è grande, come in questo caso, l’autorità della persona, che li ha enunciati.

 

 

Ringraziandola dell’ospitalità

 

Dev. Adriano Aducco

 

Direttore della Unione zuccheri

 

Milano, 6 marzo 1914.

 

 

Un accenno fatto genericamente da me alla protezione dei concimi chimici e del solfato di rame ed alla «Super» ha procurato ai lettori del «Corriere» alcuni interessanti chiarimenti dell’on. Candiani. Alcuni punti della lettera Candiani non riguardano l’argomento di cui avevo trattato; e quindi non possono formare oggetto di discussione in questo momento. Io mi ero occupato esclusivamente dei rapporti fra consorzi (trusts) e protezione doganale, e mi ero guardato bene dal discorrere dei vantaggi e degli inconvenienti delle grandi organizzazioni industriali. Senza essere un entusiasta della riunione di molti piccoli stabilimenti produttori di prodotti chimici in un unico complesso e senza nascondermi che in pratica i piccoli stabilimenti indipendenti, con clientela locale, possono spesso lavorare a miglior mercato dei molti grossi e piccoli, i quali lavorano sotto un’unica direzione centrale e lontana – della quale verità si ebbero, anche tra noi, prove chiarissime – non nego che in determinate circostanze e per certi fini di propaganda e di risparmio sui trasporti la concentrazione industriale possa essere economicamente utile. Epperciò io ritenevo criticabile la politica Roosevelt-Taft che perseguita i consorzi (trusts) solo perché tali e preferibile il metodo Wilson che vuole la pubblicità per tutti – s’intende pubblicità in rapporti messi in vendita ed accessibili a tutti gli interessati – e compie riduzioni doganali per impedire i rialzi di prezzi da parte degli industriali protetti. Ritengo anch’io, coll’on. Candiani, utile che i fabbricanti cerchino di mettersi di accordo con i consumatori e con le loro organizzazioni; sebbene a questo riguardo non debba nascondere che mi sembra pericolosa la tendenza a volere costringere gli agricoltori, per ottenere ribassi di prezzi, a far parte di certe organizzazioni agrarie. La cooperazione obbligatoria o semiobbligatoria non ha affatto le mie simpatie e non vedo la ragione di fare ribassi solo a certe cooperative ed enti agrari e non anche ai privati i quali facciano acquisti di partite similari di prodotti. Solo dalla concorrenza più ampia può nascere il beneficio massimo per gli agricoltori.

 

 

Ma, ripeto, tutto ciò non ha nulla a che fare colla questione di cui io avevo discorso. A me incombe solo l’obbligo di chiarire la ragione per cui sono caduto nell’equivoco, se equivoco v’è, di considerare la «Super» come uno di quei sindacati i quali si giovano della protezione doganale. Sapevo che, secondo la nostra tariffa doganale, il cloruro di calce, di potassa e di soda è colpito da un dazio di 4 lire per quintale; il nitrato di sodio raffinato da un dazio di 3 lire per quintale, i sali ammoniacali non nominati da lire 10 per quintale, il solfato di ferro da 2 lire al quintale e che finalmente il solfato di rame paga 2 lire per quintale. Di questi prodotti, alcuni sono concimi chimici propriamente detti, altri entrano nella fabbricazione di essi, ed altri sono utilissimi ed assai diffusi disinfettanti e rimedi contro le malattie delle piante. Il dazio sul nitrato di sodio deve essere considerato, sebbene il nitrato di sodio non si produca in Italia, come un dazio protettivo a favore di quei concimi chimici azotati che in Italia si producono. Dirò di più: il rincaro dei concimi azotati e dei cloruri giova a rendere comparativamente più convenienti i concimi fosfatici e di altra specie, almeno nell’opinione degli agricoltori, i quali spesso paragonano solo i prezzi e troppo poco si curano delle diverse funzioni delle diverse specie di concimi. Chi ha qualche pratica di contadini, sa che la domanda dei perfosfati e delle scorie Thomas in confronto ai concimi azotati e potassici è determinata sovratutto dal minor prezzo per quintale. Ora questa preferenza non giova forse a tenere più elevati i prezzi dei perfosfati e non è in parte dovuta ai dazi i quali rincariscono alcuni prodotti chimici utili all’agricoltura?

 

 

Dimostrato così come il mercato dei prodotti chimici utili all’agricoltura sia influenzato dal regime dei dazi, dirò come io abbia creduto che la «Super» utilizzasse questo stato di cose doganale. In una relazione del settembre scorso di una delle maggiori società affiliate alla «Super» io lessi che si era costituita tutta una rete di interessi fra quella società ed altre, indicate non come produttrici di soli superfosfati ma genericamente di prodotti chimici; e che questi controlli e queste intese avevano permesso di far entrare alcune di queste fabbriche nella «Super», permettendo così alla società in discorso «di meglio disciplinare anche il mercato del solfato di rame sottoponendo alla sua diretta sorveglianza gli impianti e la produzione delle fabbriche stesse».

 

 

A me era rimasta l’impressione che la «Super» appartenesse al genere, diffusissimo in ogni paese, di quei sindacati i quali istituiscono un legame fra imprese concorrenti in una certa direzione lasciando poi che si costituiscano o perdurino legami più stretti e variabili tra i propri federati in guisa da costituire al disotto del sindacato massimo e che adempie a talune funzioni parecchi raggruppamenti od unioni minori, di carattere diverso, con nomi e modalità diversissime aventi ciascuna finalità proprie. Può darsi che la «Super» non venda prodotti direttamente protetti, sebbene indirettamente ciò sia assurdo, per il legame intercedente tra prodotti protetti e prodotti non protetti; ma la esistenza di organizzazioni minori le quali traggono profitto da dazi doganali sembra certa; e sembra altresì probabilissimo che, senza l’esistenza della «Super», gli accordi parziali tra le fabbriche protette potrebbero non avere quell’efficacia che hanno. L’on. Candiani dirà che trattasi di dazi piccoli in confronto a quelli di cui godono gli zuccherifici, la siderurgia, ecc. ecc. E potrà darsi. Ma il mio discorso era generico e procedeva per via d’esempi; e ad ogni esempio si doveva dare il peso che effettivamente esso ha.

 

 

Ed eccomi alle obiezioni dell’egregio direttore dell’Unione zuccheri, prof.

Aducco:

 

 

1)    egli afferma che il prezzo minimo a cui si è venduto lo zucchero nei mesi scorsi fu di 116 lire. Io invece ho letto in giornali commerciali che taluni grossisti, tenendo conto degli sconti e di tutti gli altri elementi di prezzo, avevano comprato nei mesi scorsi persino a 108. Se sia vera od inesatta questa notizia io non lo so, ma immagino non lo sappia neppure il prof. Aducco;

 

 

2)    il quale, prendendo occasione dalla mia affermazione che alle industrie giovani si può consentire una protezione per un 25 anni, ne ricava la conseguenza che la protezione alla industria zuccheriera deve ancor durare per almeno 10 anni, essendo quella industria sorta solo 15 anni fa. Qui è questione di date. Nel 1867 la protezione doganale esistente era già di 20,80 lire per lo zucchero greggio e di 28,85 lire per lo zucchero raffinato. In seguito la protezione effettiva fu per lunghi anni più alta, e cominciò a diventare più bassa delle cifre ora riportate solo con la legge 17 luglio 1910, che la ridusse di 1 lira all’anno a partire dal primo luglio 1911. Il regime protettivo ha dunque quasi mezzo secolo di vita. Le prime fabbriche sorsero nel 1887, ossia 27 anni fa e si andarono moltiplicando dopo il 1897. Io conto gli anni dal 1867 o, per abbondanza, dal 1887; il prof. Aducco li vuol contare solo dal 1900 circa. Giudichi il lettore quale sia il conteggio più logico, riflettendo che una volta si diceva ed io dico ancora che la protezione può essere data per aiutare l’industria nei primissimi e nei primi passi. Ora si dovrebbe dire, secondo il criterio del prof. Aducco, che la protezione data nei primi anni, quando le fabbriche sono poche, non conta e che essa può ritenersi cominciata solo quando l’industria sta ampliandosi ed arricchendosi di nuovi e numerosi impianti, ossia quando, se non proprio adulta, è già una giovane assai promettente;

 

 

3)    tutto ciò, del resto, non ha alcuna importanza ai fini del mio articolo il quale riguardava unicamente i rapporti fra trusts e dazi protettori. E rispetto al nucleo del mio articolo, il mio cortese contraddittore rileva solo che il criterio di non badare affatto a ciò che i produttori dicono sui loro costi di produzione e di tener conto unicamente dei prezzi di vendita in regime di concorrenza, è un criterio semplicista e pericoloso. Non posso, a questo riguardo, se non confermare di nuovo la bontà del mio criterio. Io non credo affatto alle cifre di costo.

 

 

4)    Mi parvero sempre e mi paiono tuttora cifre fantastiche, incertissime, stiracchiabilissime. L’unico dato certo è il prezzo. Ma, badisi bene, il prezzo in regime di concorrenza. Il quale, s’intende, varierà, in più od in meno, a seconda della quantità prodotta o domandata; ma sarà un dato certo. Finché l’industria dello zucchero sarà dominata da un consorzio e finché ogni tentativo di concorrenza viene, con la maggior sollecitudine possibile, fatto cessare, assorbendo od accordandosi coi dissidenti e ripristinando, come sta accadendo adesso, il dominio esclusivo del sindacato, io seguiterò ad affermare che la protezione ha mancato al suo fine e che è dovere strettissimo del governo di intervenire, ribassando i dazi doganali, per ripristinare quella concorrenza che gli industriali protetti si ostinano a volere sopprimere.

 

 

3

 

Dal marchese ing. R. Ridolfi, presidente della società anonima «Ferro e acciaio», riceviamo questa lettera a proposito del recente articolo di Luigi Einaudi sui dazi doganali e sindacati fra industriali:

 

 

Signor direttore,

 

L’interessante e dotto articolo del prof. Luigi Einaudi pubblicato nel n. 62 del «Corriere della sera» (3 marzo 1914) tratta la questione generale dei sindacati fra gli industriali in regime di protezione; ma mentre si riferisce particolarmente al sindacato degli zuccherieri emette dei giudizi severi sui sindacati in genere, citando a più riprese anche quello del ferro e dell’acciaio.

 

 

Può sembrare opportuno mettere in luce come alcune critiche mosse dall’egregio economista mal si adattino al caso particolare dell’industria e delle speciali organizzazioni commerciali della nostra siderurgia a cui accade di essere sovente bistrattata e raramente difesa di fronte al pubblico.

 

 

In Italia non funzionarono mai «coalizioni dominatrici» del mercato siderurgico; quelle che hanno esistito e che esistono non rappresentano che aggruppamenti parziali, traissitori.

 

 

Non si può dominare un mercato, se non naturalmente entro i limiti regolatori e moderatori dei prezzi di concorrenza estera e in Italia l’importazione siderurgica estera è sempre ragguardevole, malgrado l’attuale protezione e la lotta sostenuta dai nostri industriali.

 

 

Si noti poi che la «Ferro e acciaio» esercita la sua azione sopra poco più di un terzo della produzione siderurgica italiana. Ben 10-12 stabilimenti nazionali non seguirono e non seguono il regime della «Ferro e acciaio» e sono quindi perfettamente liberi da ogni vincolo di produzione; automaticamente, anche il prezzo della concorrenza libera fa da regolatore a quello della produzione sindacata. La lotta interna è necessaria, scrive il prof. Einaudi, e la lotta interna c’è, e vivissima. Ed un altro errore fondamentale e gravissimo che conviene ai siderurgici di energicamente respingere, con voce alta e sicura, avviene di sentir ripetere spesso ed è ripetuto anche nell’articolo Einaudi riguardo le forniture allo stato.

 

 

È notorio, fu affermato più volte, può essere comprovato con documenti, con fatti ad ogni momento, come in tutte le effimere organizzazioni di vendita che ebbero vita in Italia, furono sempre escluse e lasciate alla libera, aperta concorrenza le fornitore allo stato, alle amministrazioni pubbliche, agli arsenali, ai cantieri navali anche privati.

 

 

Ma vi ha di più: non solo per le fornitore alla marina, alle ferrovie, ai comuni e provincie, ecc., vi è libera e vivace concorrenza, anche in regime di sindacato, ma per qualsiasi impresa privata di costruzione, per tutte le imprese di cemento armato, per tutti i costruttori di vagoni e locomotive, per qualunque, anche modesta, officina meccanica, vi è una gara accanita, giornaliera di libera offerta e di libera contrattazione fra i fabbricanti non sindacati e quelli che lo sono.

 

 

Non è esatto dunque che la così detta coalizione siderurgica sia «dominatrice»; non è esatto che abbia avuto per scopo e per effetto di aumentare i prezzi a un livello sensibilmente superiore a quello della concorrenza interna; non è esatto che sia stato per essa soppresso quel giusto calmiere che è appunto il prezzo di libera concorrenza; non è esatto che le amministrazioni dello stato, né gli industriali meccanici possano averne risentito danno.

 

 

Ma si potrebbe obiettare: perché dunque i siderurgici hanno a più riprese tentato di organizzarsi in sindacato?

 

 

I veri principali vantaggi sono tre, oltre altri minori, e non sempre sono conseguiti:

 

 

a)    quello di regolare le vendite con quasi uniforme distribuzione di lavoro fra gli stabilimenti e le maestranze rispettive;

 

 

b)    quello di ottenere il maggior coefficente di rendimento delle vendite secondo le zone di destinazione, restando costante il prezzo di vendita in ogni singola regione e non sensibilmente superiore a quello della libera concorrenza interna;

 

 

c)    quello di regolare i fidi.

 

 

Ma qui l’articolo Einaudi parla di affidamenti e promesse che sarebbero state date dai fautori del protezionismo dicendo in certo modo anche ai siderurgici:

 

 

«Vi furon concessi i dazi, ma temporanei, per un periodo di prova di 15, 20, 25 anni, perché vi metteste in grado di a poco a poco ridurre il vostro prezzo di costo tanto da pareggiare quello della concorrenza estera e andare anche al disotto, e in modo da poter poi togliere il dazio con vantaggio dei consumatori».

 

 

Da quali «veri protezionisti» sian state date queste promesse non è detto; certamente non dagli industriali metallurgici.

 

 

Non è da ritenersi che sarebbero state spese diecine e diecine e centinaia di milioni in impianti perfettissimi colla premessa che l’industria avesse a morire dopo pochi anni. Non è possibile ritenere che nessuno (parlando sempre della siderurgia) abbia presunto che né in 15 né 20 né 50 anni e più il prezzo di costo dei laminati in Italia potesse mai giungere al di sotto del prezzo dei prodotti germanici, ad esempio. Dal legislatore che attentamente studiò le condizioni della infantile siderurgia italiana e volle metterla in condizioni di sviluppo, fu elevato il dazio protettivo da lire 4,62 a franchi 6 in oro. L’aumento fu quasi illusorio, perché contemporaneamente fu applicato un dazio sulla materia prima, che in parte è fiscale, e che grava per franchi 1,30 (130 kg ghisa e rottami per un quintale di laminati) su un quintale di produzione; si ridusse così l’aumento di produzione effettiva alla differenza fra 4,70 in oro e 4,62 in lire.

 

 

Comunque sia, la protezione per il laminato italiano non è molto superiore a quella della tariffa germanica che è di franchi 3,12 (marchi 2,50): è inferiore a quella della Francia che è di franchi 6 netto e anche di più a quella dell’Austria che è di franchi 7,40 (corone 7).

 

 

Fu ritenuto dal legislatore che franchi 4,70 al quintale compensassero la disparità di condizioni naturali esistente fra l’Italia e regioni dotate di vantaggio industriale quali ad esempio la Germania, la Francia, l’Austria, ecc. e che esercitano il «dumping» contro l’Italia.

 

Ma chi poté mai sognare e promettere che mercé la perfezione degli impianti e delle maestranze avesse in 25 o 30 anni a diminuire il prezzo di costo italiano di tanto da scender al disotto del costo estero?

 

 

Per qual miracolo avrebbe dovuto avvenire che d’un tratto si fossero colmate le enormi disparità notorie (combustibile, ecc.) che mettevano e mettono in condizioni evidenti di inferiorità l’industria siderurgica italiana in confronto di quelle, ad esempio, del Belgio, della Francia, della Germania e dell’Austria?

 

 

Si verrebbe così a coonestare un’accusa di indebita locupletazione ai siderurgici; la dimostrazione del contrario sarebbe per parte dei siderurgici molto facile, ogni qualvolta il prof. Einaudi la desiderasse anche in dettaglio. I siderurgici non guadagnano sei lire al quintale sui materiali sindacati, ma appena pochi centesimi al quintale!

 

 

Certo è che l’abolizione o la diminuzione di protezione sarebbe un assurdo finché non fosse dimostrata (ciò che non è) una delle due cose: o che i siderurgici abbiano già ridotto il loro costo al disotto del costo estero; o che essi, per la sopradetta circostanza o per altro artificio, si siano isolati dal mercato mondiale, abbiano saturato colla loro produzione la richiesta nazionale in modo da impedire alla merce estera di effettuare la naturale opera di calmiere alle cupidigie dei produttori nazionali.

 

 

Il provvedimento adottato contro i consorzi dal presidente Wilson negli Stati uniti, di tagliar nel vivo i dazi protettori, ha avuto l’approvazione del prof. Einaudi nel suo articolo.

 

 

Certamente la porta non largamente, ma appena socchiusa alla concorrenza estera avrà moderato le pretese e le cupidigie dei capitalisti speculatori più che degli industriali, ma in primo luogo il funzionamento dei colossali consorzi finanziari americani non ha niente di paragonabile colle nostre modeste e parziali transitorie organizzazioni di vendita, e poi non è ancor detta sull’efficacia dei provvedimenti del Wilson l’ultima parola.

 

 

La protezione delle tariffe doganali fu dal Wilson ridotta a circa 2/3 di quella della tariffa precedente, in media.

 

Si legge difatti nel «Times» del 9 febbraio 1954, ove si riassume il memoriale della commissione inglese delle tariffe sui provvedimenti americani, che detta protezione era antecedentemente, in media, del 41% ad valorem e fu portata al 30 percento. La riduzione sui ferri e acciai fu superiore alla media, ma giova considerare che prima dell’intervento moderatore del Wilson, i dazi di protezione siderurgica agli Stati uniti erano addirittura enormi, in via relativa, e proibitivi in via assoluta.

 

 

Oltre alla difesa naturale della distanza, gli Stati uniti avevano una protezione doganale di franchi 3,43 al quintale per i laminati di ferro e acciaio; protezione enorme se si consideri che gli Stati uniti, possedendo i più ricchi giacimenti minerali di ferro e di carbone del mondo ed un’industria siderurgica perfettissima, sono in condizioni favorevolissime, superiori a quelle della Germania, del Belgio, della Francia, dell’Austria.

 

 

Il presidente Wilson, malgrado il suo ardimento liberista, non osò proporre il libero scambio per la siderurgia, sebbene gli Stati uniti potrebbero essere in grado di affrontarlo.

 

 

L’Italia, no; in questo non potrebbe accettarsi il desiderio del prof. Einaudi; piuttosto sarebbe accettabile quello, espresso dal prof. Einaudi e da altri suoi egregi colleghi nelle discipline liberiste, che fosse data maggior pubblicità agli atti dei siderurgici.

 

 

Questi sono spesso accusati di avvolgersi nel mistero, e l’accusa è forse in parte giustificata.

 

 

Si può anche apertamente convenire col prof. Einaudi che quando un’industria chiede od ha chiesto al legislatore favori o protezioni o premi, ed in pari tempo si costituisce in un sindacato che sopprima il regime di libera concorrenza e monopolizzi o domini il mercato, diventa un affare pubblico. Ma questo non è assolutamente il caso per la nostra siderurgia, perché, se ha chiesto o chiede dazi di protezione o se di tratto in tratto si formano nel suo seno delle organizzazioni commerciali, queste non hanno mai eliminato la funzione della concorrenza, sia estera, sia nazionale.

 

 

I siderurgici dovrebbero non pertanto essere pronti anche ad essere controllati e a mostrare i loro conti; il concetto, spesso falsato, che ne hanno gli egregi e valorosi liberisti, si verrebbe a modificare, e sarebbero eliminati molti incresciosi malintesi; basata la discussione sui fatti e non sulle parole e sulle teorie astratte, potrebbe anche trovarsi una formula di comune accordo a risolvere il solo problema che a tutti preme ugualmente: il benessere del paese.

 

R. Ridolfi

 

Presidente della soc. an. «Ferro e acciaio»

 

Milano, 11 marzo 1914.

 

 

Contro la tesi da me esposta, che fra protezione doganale e consorzi esista un legame, e che il legislatore debba intervenire a ridurre i dazi quando esistono all’interno sindacati industriali, che si propongono di utilizzare i dazi per ottenere aumenti di prezzi, il Ridolfi obietta che il sindacato che trae nome dalla Società ferro ed acciaio non domina il mercato, non ha elevato i prezzi, ecc. ecc. Poiché commercianti e consumatori si lamentano del contrario, l’unica conseguenza che da questo dissenso si può ricavare è la necessità di un’inchiesta su tutte le industrie notoriamente trustificate od in cui vi siano indizi di restrizioni di concorrenza per mezzo di accordi, scritti o verbali, delle più diverse specie. Naturalmente l’inchiesta, per ispirare fiducia, dovrà essere pubblica; gli inquirenti dovranno essere investiti dei più ampi poteri giudiziari, di interrogare testimoni, sotto vincolo di giuramento, di ordinare la produzione di libri e documenti d’ogni specie, di interrogare la clientela, ecc. ecc. vero che esiste una commissione reale incaricata di studiare le riforme da apportare al regime doganale; ma è anche vero che in questa materia nessuno studio può inspirare fiducia, se non quando sia circondato dalla maggiore pubblicità.

 

 

Il Ridolfi cerca di togliere importanza all’esempio americano del Wilson dicendo che le riduzioni da esso operate nei dazi furono assai miti e che i colossali sindacati americani sono una cosa assai diversa dalle «modeste», «parziali», «transitorie» organizzazioni italiane di vendita. Quanto al primo punto, non credo che i siderurgici ed altri sindacati americani siano della stessa opinione, almeno se si deve giudicare dalla vivacissima campagna che essi fecero contro la riforma doganale, la quale correva perciò rischio di essere travolta al senato, se il Wilson, con una energia, di cui in materia economica non si avevano più esempi dall’epoca aurea dei Peel e dei Cavour, non avesse provocato una inchiesta sui metodi di cui i sindacati si servivano per premere sul congresso e non avesse costretto i senatori, repugnanti e frementi, a votare il disegno di legge, sospendendo, fino a dopo il voto, l’esercizio del privilegio di cui i senatori americani godono, di far proposte al presidente per la nomina agli impieghi federali.

 

 

Quanto al secondo punto, io ho frequentemente pensato che si renderebbe assai benemerito quello studioso il quale compilasse una antologia delle opinioni che i capi di sindacati di ogni paese espongono rispetto ai sindacati degli altri paesi. Probabilmente il risultato più curioso ed interessante dell’antologia sarebbe il seguente: che i capi dei sindacati tedeschi ritengono che essi sono degni di premio avendo per iscopo di avvantaggiare l’economia nazionale, col ripartire equamente la produzione secondo le località, la potenzialità di lavoro, col regolare i fidi ed i trasporti, mentre i sindacati americani, tedeschi, italiani ed austriaci sono condannabili perché si propongono di aumentare i prezzi a danno dei consumatori, cosa dalla quale essi tedeschi aborrono. E si vedrebbe che alla loro volta i dirigenti italiani pensano male dei sindacati tedeschi, americani, ecc., e bene di sé; e così via sino alla fine. Della quale constatazione forse il buon senso popolare trarrebbe argomento per concludere che essi si rassomigliano tutti e non se ne può concepire, per ragioni di assurdo, l’esistenza senza una certa pressione sui prezzi.

 

 

Le restanti argomentazioni del mio cortese contraddittore non interessano il problema da me posto, come quelle che sono rivolte a dimostrare la necessità della protezione doganale all’industria siderurgica; intorno alla quale necessità od inutilità io non avevo detto verbo. Ma, poiché il Ridolfi quasi a forza mi vi costringe, giova chiarire un punto fondamentale. Io avevo detto che gli iniziatori del protezionismo italiano avevano voluto istituire i dazi per consentire alle industrie nascenti in Italia di potersi rafforzare durante il periodo iniziale della loro vita, sì da potere resistere colle loro forze dopo alquanti anni, dieci o quindici od al massimo venticinque, alla concorrenza straniera. Chiunque conosca le dispute dottrinali e pratiche che, su questa vessata questione del protezionismo, si sono susseguite, comprende che io rendevo così il massimo omaggio che per me era possibile ai fondatori del protezionismo italiano, riconoscendo essere la loro tesi logicamente fondata in base ad un ragionamento celebre dai tempi di Giovanni Stuart Mill; sebbene io ritenessi, insieme con lo stesso Stuart Mill, siffatta tesi di difficilissima ed assai pericolosa applicazione pratica. Viene ora il Ridolfi e dice: «Mai no. Nessuno si è mai sognato di dire in Italia che i dazi sui prodotti siderurgici dovevano essere concessi temporaneamente per sorreggere l’industria nei suoi primi passi. Né in 15, né in 20, né in 50 anni e più l’industria italiana potrà giungere al disotto dei prezzi stranieri».

 

 

Con questa dichiarazione si distrugge l’unico argomento che poteva essere astrattamente invocato a favore della protezione doganale per i prodotti siderurgici e si fornisce un’arma formidabile a noialtri liberisti i quali da anni andiamo dicendo di non sapere se per altre industrie il dazio doganale poté praticamente avere un qualche utile ufficio, ma di essere certi che simigliante utile effetto non poteva il dazio avere per l’industria siderurgica, essendoché questa non potrà né ora né poi essere in grado di produrre allo stesso costo dell’industria straniera. Taluno farà certo le più alte meraviglie nel sentirmi dire che una industria, la quale non può promettere di vendere allo stesso costo della straniera neppure fra 50 anni, non ha diritto di chiedere al legislatore alcuna protezione doganale. Ma assai maggiore è la mia meraviglia nel sentir dire che vi sia stato un legislatore in Italia il quale consapevolmente abbia stabilito un regime protettore a favore di una industria che non si prevedeva se e quando avrebbe potuto uscire dal suo stato di inferiorità in confronto alle industrie straniere. No, non posso credere che il legislatore abbia voluto una cosa che sarebbe stata priva di qualsiasi significato e di qualsiasi, anche remoto, utile effetto per il paese.

 

 

4

 

Dal comm. Giorgio Mylius, presidente dell’Associazione cotoniera italiana, riceviamo questa lettera a proposito del recente articolo di Luigi Einaudi sui dazi doganali e sindacati fra industriali.

 

 

Gentilissimo signor direttore,

 

 

Ho letto con interesse l’abile articolo del prof. Einaudi Dazi doganali e interessi industriali. Non vorrei che il silenzio di tutti i cotonieri potesse essere dai lettori dell’autorevole giornale interpretato come una acquiescenza incondizionata alle teorie professate dal facile critico e geniale cultore dell’assioma del liberismo ad oltranza.

 

 

Onde chiedo anch’io per quanto in ritardo cortese ospitalità.

 

 

Al prof. Einaudi sembra dunque giusto di estendere anche all’industria della filatura in Italia la teoria da lui professata: essere illegittima la stipulazione di accordi fra industriali fino a tanto che essi godono di una protezione doganale e di conseguenza essere doveroso di abolire la protezione doganale ogni qual volta i produttori di un dato ramo di produzione protetto si uniscano in un accordo per godere della protezione loro accordata, in quanto che, per effetto degli accordi fra industriali «il legislatore non avrebbe più la garanzia che la protezione venga adoperata a ridurre costi e prezzi e non invece ad aumentare i prezzi a carico del consumatore ed eventualmente dello stato».

 

 

Ed in via subordinata chiede: che, ove cessi in tutta la sua estensione ad agire la illimitata libertà di concorrenza debbano, quasi a compenso del beneficio della protezione, gli industriali legati da accordi dare larga pubblicità ai loro costi, ai prezzi, ai bilanci, a tutto quello insomma che concerne la loro industria.

 

 

Su quest’ultimo terreno non avrei difficoltà alcuna di seguirlo; su questo terreno d’altronde il prof. Einaudi è già stato prevenuto dagli stessi filatori sindacati colla deliberazione di invitare i tessitori, ossia i consumatori, a far parte del comitato esecutivo dell’organizzazione.

 

 

Dove invece non posso seguire il prof. Einaudi è nella parte principale delle sue argomentazioni.

 

 

Egli sembra partire da due presupposti: l’uno a) che i filatori italiani abbiano ancora molto cammino da poter fare nella via del perfezionamento della loro industria; l’altro b) che i provvedimenti che i filatori hanno attuato o che stanno per attuare, a tutela della loro industria, siano intesi a procurarsi facili lucri, mentre purtroppo, invece, tendono solo a rendere modestamente redditizia una industria che perde denaro da oltre 5 anni ed il cui percorso recente è seminato da molte rovine.

 

 

Il caso affatto eccezionale di qualche filatore che non ha perduto non può e non deve, per rimanere nel campo di una onesta discussione, essere preso per base, bensì lo stato della media delle buone filature d’Italia. Tanto varrebbe, nella determinazione dei cottimi agli operai, pretendere di fissarne la misura sulle attitudini particolari di un unico o di due soli operai fra tutti che con quel cottimo potessero guadagnare una mercede

sufficiente.

 

 

L’arguto scrittore, che ha l’abilità di esporre le sue tesi in un modo così piano e insinuante da interessare anche i profani, mi sembra che questa volta si sia lasciato trasportare dall’ardore che pone nell’attaccare tutto quello che possa nuocere al trionfo delle sue idee liberiste: «la protezione», egli asserisce «fu accordata perché venisse adoperata a ridurre costi e prezzi»; e poi, non per la prova documentata di prezzi aumentati in modo da trar profitto dalla barriera doganale, ma per la soltanto discussa eventualità che i filatori potessero far rivivere questa protezione, seppure in misura limitatissima, egli già li accusa di voler commettere un atto contrario allo spirito della legge doganale.

 

 

Ma come vuole egli che i filatori si valgano della protezione doganale, ammettiamo pure per ridurre costi e prezzi, senza adoperarla? Non lo capisco.

 

 

Forse, le parole dell’articolo non esprimono prettamente il pensiero del prof. Einaudi. Forse egli intendeva riferirsi soltanto alla teoria della protezione temporanea ed egli giudicava che ormai, alla distanza di 27 anni dalle tariffe dell’87, nonostante i successivi ribassi in occasione di trattati di commercio e per l’introduzione del dazio d’importazione sul cotone, che si traduce in una riduzione della protezione, debba essere giunto il tempo che della barriera doganale in genere non dovessero più far uso i filatori.

 

 

Ma il prof. Einaudi ha l’aria di ignorare completamente, o vuole a scopo di dimostrazione ignorare un fatto nuovo salientissimo, per la nostra industria, un fatto che segna addirittura una nuova fase nella vita della filatura del cotone in Italia.

 

 

Mi riferisco alla soppressione del lavoro notturno del 1908. Enormi furono i capitali investiti per sopperire alla soppressione del lavoro notturno, anzi, disgrazia volle che inavvertitamente gli ingrandimenti riuscissero maggiori del bisogno, tanto più che il governo, con la concessione del lavoro a due squadre, finì col rendere quasi illusorio il provvedimento, almeno dal punto di vista della preconizzata riduzione di produzione. Ma è giusto che per questo i relativi capitali vadano dispersi, che le aziende, per assenza di ogni spirito di solidarietà professionale, non organizzate, anziché diventare utili elementi della collettività, si logorino in vani sforzi, in lotte senza alcuno scopo, per un irrisorio beneficio dei consumatori, invece di procedere d’accordo in attesa che maturino gli eventi e che sia raggiunto il definitivo equilibrio fra potenzialità di produzione e collocamento? È naturale che di fronte a questo nuovo stato di cose, creato da una disposizione legislativa, la filatura italiana si trovasse a dover in parte ripetere il cammino già percorso nel ventennio precedente a quella misura. E a far ciò si sono posti con ogni lena i filatori.

 

 

I nostri stabilimenti, nelle condizioni nelle quali attualmente si trovano, data l’eliminazione e la trasformazione dei vecchi impianti, sono giunti ad un grado di perfezione tecnica tale da non aver nulla da invidiare agli stabilimenti più moderni sorti all’estero.

 

 

Ci sono però degli elementi di costo che, con tutta la buona volontà, non si possono, almeno per opera dei filatori, ridurre. In questo rinnovamento dell’industria della filatura i filatori hanno dovuto rinunziare all’uso della forza motrice idraulica nelle ore notturne, che costituiva un privilegio della nostra industria; molti filatori hanno dovuto ricorrere all’energia delle imprese elettriche pagando la forza in ragione di 120 a 140 lire per cavallo in confronto al costo del cavallo termico in Inghilterra di poco più di 50 lire; altri hanno dovuto impiegare vistosi capitali per creare nuove forze idrauliche che occorre ammortizzare a supplemento delle vecchie già ammortizzate. Si può calcolare che il costo della forza motrice per chilogrammo di filato è raddoppiato per gran parte delle filature.

 

 

Il macchinario proveniente dall’estero è gravato da un maggior costo di almeno il 25% per dazio, imballaggio, trasporto e montaggio ed i nostri impianti, per molteplici ragioni anche a difesa dell’incolumità dell’operaio e per ragioni di carattere igienico, riescono più costosi che in Inghilterra. Filatori inglesi, tedeschi e francesi hanno vantaggi per l’approvvigionamento del cotone maggiori dei nostri e noli ridotti, che si traducono in una economia.

 

 

L’unico cespite di risparmio parrebbe essere quello della mano d’opera; ma anche la mano d’opera a buon mercato è spesso un mito per la minore efficienza delle nostre masse operaie tratte da una popolazione agricola e non prettamente industriale come in Inghilterra.

 

 

D’altronde è da chiedersi se sia opportuno di convergere tutti gli sforzi nel cercare di ridurre la base unitaria delle mercedi e degli stipendi invece di conseguire un prezzo normale del prodotto, giacché un’industria non può continuare a perdere indefinitivamente.

 

 

Ma che cosa mai può importare al consumatore un aumento sul filato di 5 od anche 10 centesimi al chilo che è quello che i filatori hanno desiderato di conseguire perché il prezzo corrispondesse al costo? Nel tessuto di qualità media del peso di 100-110 grammi al metro, l’aumento di 10 centesimi al chilo rappresenta un centesimo o poco più e quindi 3 centesimi circa per una camicia. Questa frazione minima che è assolutamente insensibile per la vendita al dettaglio, può d’altra parte bastare a rendere redditizia, da perdente che era, un’industria che da 5 anni non lascia rimunerazione al capitale.

 

 

E neppure la tessitura che esporta può dolersi di una uniforme, ragionevole stabilità nei prezzi, in quanto che elimina quegli sbalzi nelle offerte che si sono verificati in passato appunto per opera di quei compratori che riuscivano ad accaparrarsi i filati a prezzi inferiori e che danneggiavano la vendita di tessuti di tutti i concorrenti.

 

 

Non è forse vero che i più forti concorrenti agli esportatori italiani sul mercato estero, sono appunto gli esportatori italiani stessi?

 

 

Può star tranquillo il prof. Einaudi che, organizzati, i filatori non commetterebbero la inavvedutezza di compromettere l’esportazione dei tessuti dei propri clienti sapendo benissimo che il principale coefficiente della prosperità loro ed il definitivo assetto della loro industria dipende dal mantenimento e dall’ulteriore sviluppo delle esportazioni.

 

 

Qualcuno sentenzierà che i filatori dovrebbero ricercare la loro difesa nella specializzazione. È presto detto!

 

 

Ma è appunto la organizzazione industriale, la necessaria preparazione alla specializzazione, la disorganizzazione, la concorrenza ad oltranza, la gara per salvarsi, tentando tutti i mezzi per sottrarsi alle conseguenze delle vendite in perdita, sono il maggiore degli ostacoli alla specializzazione e conducono gli industriali a invadere reciprocamente i campi nei quali, in tempi normali, essi si erano già divisi la produzione.

 

 

L’organizzazione industriale in generale e in particolare l’iniziativa di intese per disciplinare i prezzi, dovrebbero essere salutate dagli studiosi con intima soddisfazione e particolarmente da coloro che desiderano che l’industria della filatura possa progredire, onde, attraverso alla evoluzione industriale ed economica, la barriera doganale non rimanga più in vigore che come arma di difesa contro possibili invasioni.

 

 

Indubbiamente gli scritti del prof. Einaudi si informano ad un profondo amore della cosa pubblica ed all’interesse generale; ma non esito per un momento ad affermare che a sentimenti non diversi si sono inspirati gli uomini che particolarmente si sono occupati della riorganizzazione dell’industria cotoniera in Italia con profonda conoscenza della materia e con finissimo senso della misura per risolvere tutti gli argomenti connessi all’importantissimo problema.

 

 

L’azione loro si impernia sul concetto di giungere, mediante l’evoluzione nel congruo tempo, agli scopi prefissi, non ultimo fra i quali, come disse egregiamente il senatore Ponti, il passaggio graduale dal regime protezionista a quello del libero scambio senza quelle scosse e quei perturbamenti a cui dovrebbe inevitabilmente dar luogo la traduzione in atto delle teorie caldeggiate dal prof. Einaudi.

 

 

Mi professo, con distinta osservanza,

 

Suo dev.mo

 

Giorgio Mylius

 

Pres. dell’Assoc. Cotoniera Italiana

 

Milano, 20 marzo 1914.

 

 

Suppongo che oramai i lettori abbiano potuto farsi un’idea esatta del dibattito suscitato dal mio articolo sui sindacati industriali e protezione doganale. Sicché basterà riassumere i punti intorno a cui v’è disaccordo fra me ed i miei egregi contraddittori.

 

 

Alcuni dissensi possono chiamarsi di fatto:

 

 

1)    talvolta non esisterebbe la protezione doganale, come per i concimi chimici, e mancherebbe quindi la base della discussione; al che osservai che la protezione può essere parziale, per alcuni soli prodotti chimici e materie utili all’agricoltura, e può essere utilizzata da organizzazioni connesse con quelle che hanno, anche nel linguaggio comune, il nome di sindacato;

 

 

2)    che altra volta non esistono i sindacati (trusts) incriminati; e sarebbe il caso dell’industria cartaria, a proposito della quale il presidente dell’associazione dei fabbricatori di carta ed enti anni scrive, in una lettera a me indirizzata, «non constare a lui che esistano sindacati nell’industria cartaria; anzi constare nel modo più positivo non essere neppure possibile di portare le ditte a risultati effettivi sul terreno di semplici accordi per migliorare alcune condizioni di vendita, come la fatturazione dell’imballaggio o la spedizione in porto franco».

 

 

3)    L’indagine pubblica, che oramai si appalesa necessaria, dovrà accertare questi fatti. Naturalmente però – è opportuno avvertirlo espressamente per evitare equivoci – non dovrà partire dalla premessa che siano sindacati soltanto quelli che hanno certe determinate caratteristiche, che si suppone o si favoleggia esistano sempre nei sindacati stranieri e mai in quelli italiani. Non esistono sindacati classici o tipici; esistono invece moltissime e variabilissime forme di essi: dalle società anonime che risultano dalla fusione di parecchie imprese prima concorrenti ai sindacati o cartelli con ufficio di vendita, ai sindacati per fissare i prezzi o le condizioni, o le zone di vendita, ai semplici e transitori accordi, anche solo verbali. Vi sono sindacati, la cui caratteristica è persino il semplice adunarsi a colazione dei capi delle imprese concorrenti, per discorrere con tranquillità degli interessi comuni. Almeno negli Stati uniti tutti sono d’accordo nel reputare anche questa una forma di sindacato (o trust), talvolta più pericolosa di altre in apparenza più rigide. Ed è inutile avvertire che non è affatto necessario che il sindacato si riferisca ai prezzi. L’accordo può farsi sulle modalità della consegna, del pagamento, sulle tare, sugli imballaggi; sempre si avrà un accordo, suscettibile di tradursi in lire e centesimi e quindi in una variazione sostanziale di prezzo;

 

 

4)    con la quale osservazione si risponde all’obiezione di coloro i quali osservano che, sindacandosi, non hanno voluto aumentare i prezzi, ma organizzare meglio la produzione ed il consumo. Il che avevo esplicitamente avvertito essere questo un possibile ed utile frutto dell’organizzazione sindacale; ma poiché tutti i sindacati di tutti i paesi adducono questa loro ragion d’essere, pare necessario saggiarne la portata, per vedere fin dove l’organizzazione riesca vantaggiosa ai consumatori e quando cominci ad essere utilizzata a loro danno;

 

 

5)    che i sindacati italiani sono modestissime cose in confronto agli stranieri. Ciò ripete anche il Mylius e rifà il conto dei 3 centesimi di più che verrebbe a costare ogni camicia se il sindacato dei filatori di cotone riuscisse nel suo intento.

 

 

Certamente fa d’uopo distinguere fra sindacato e sindacato e misurare esattamente la pressione sui prezzi che essi possono, giovandosi della protezione doganale, esercitare sui consumatori. È probabile che l’industria cotoniera, in regime normale di concorrenza – anche astrazion fatta, cioè, dai momenti di crisi e di disorganizzazione – non utilizzi il margine di protezione doganale, di cui essa gode. Ma appunto per ciò, non è desiderabile che si costituisca un sindacato forte nel suo seno, sindacato il quale, qualunque fossero le intenzioni dei promotori, presenterebbe il pericolo di tendere ad utilizzare l’intero dazio protettivo. Io, ad esempio, non sarei d’accordo col Mylius nello stimare scarsissimo il peso da darsi all’aumento dei prezzi che un sindacato di filatori e tessitori di cotone, i quali premiassero l’esportazione all’estero, potrebbe provocare. Una recente polemica, in cui strenuamente e brillantemente battagliarono da un lato il senatore Ponti, il barone Cantoni, il comm. Mylius, il signor Soldini, e dall’altra il prof. Attilio Cabiati («La Riforma Sociale» dell’aprile del 1913) ed i signori Usigli e Freschi sul «Sole» ha messo in luce i vari aspetti e le complicazioni del problema.

 

 

Certamente tra un sindacato cotoniero, difficile a conchiudersi per la disparità degli interessi e delle produzioni, ed un’intesa, nazionale e persino internazionale, tra gruppi siderurgici, specie nelle produzioni di prodotti grezzi e semi-lavorati ed un sindacato zuccheriero assai lungo è il cammino; né la pressione sui prezzi, relativamente tenue e temporanea, del primo può essere paragonata a quella, più gravosa e permanente, del secondo e sovratutto del terzo. Può darsi che una precisa inchiesta dimostri la necessità dell’intervento dello stato solo nei casi in cui più saldo e forte è il legame sindacale (e forse il caso tipico è lo zucchero), mentre in altri casi (probabilmente il cotone) i consumatori possono fare affidamento più pronto e sicuro sulla difficoltà grandissima di costituire sindacati forti e vitali, data l’indole particolare dell’industria, che sembra ribelle, per fortuna, all’organizzazione sindacale.

 

 

Alle controversie di fatto si aggiungono quelle che si possono chiamare di principio:

 

 

1)    gli uni affermando che li protezione doganale è necessaria anche al di là del periodo di infanzia delle industrie; sia perché mai l’Italia si troverà in grado di resistere alla concorrenza straniera o sia perché nuove circostanze, come l’abolizione del lavoro notturno, la legislazione sociale, la persistente minor efficienza della mano d’opera italiana, il soverchio costo dei macchinari, ecc., rendono più costoso l’esercizio dell’industria in Italia.

 

 

2)    Intorno al qual punto dissi altra volta che nessuno tra gli economisti ed i politici, che si possono chiamare veri padri del protezionismo, volle questo come strumento permanente di vita economica. Sicché, in attesa di più ampia dimostrazione, finora non data, parmi legittima la aspettativa del legislatore di vedere, ad opera della concorrenza interna, ridotti, dopo un quarto di secolo di protezione, i costi al livello dei costi esteri. Legittima aspettativa, malgrado i fatti nuovi, i quali o non hanno riferenza al problema discusso od accaddero non in Italia soltanto, ma anche all’estero;

 

 

3)    ed altri sostenendo che i sindacati sono necessari per utilizzare la protezione doganale concessa dallo stato. Era questo il solo argomento specifico del mio articolo. La mia tesi, esservi cioè contraddizione stridente, insanabile tra la protezione concessa dal legislatore, nell’esclusivo intento che la concorrenza interna costringesse i produttori nazionali a ridurre i costi e quindi a ribassare i prezzi al livello dei prezzi esteri, e la costituzione di un sindacato non fu oppugnata formalmente da nessuno. Soltanto il Mylius vi fa un accenno sostenendo che il mezzo migliore per giungere al libero scambio e per ridurre i costi di produzione dell’industria cotoniera italiana al livello estero è appunto la organizzazione sindacale.

 

 

È invece mia convinzione profonda che l’industria cotoniera troverà la sua salvezza nella sopravvivenza dei più forti e nella rovina degli organismi deboli; non mai nella innaturale riunione degli uni e degli altri.

 

 

Su un punto l’accordo è parso unanime: nella convenienza di una larga pubblicità data all’opera dei sindacati. Ma ho gran paura che l’accordo sia puramente apparente. Ed invero alcuni si proffersero di fare studiare da me o da altri le condizioni della loro industria; altri dichiararono di avere invitato industriali tessitori a controllare l’opera dei filatori; altri disse che esiste già una reale commissione incaricata di studiare il regime doganale. Ad evitare equivoci, è bene ripetere che l’unica specie di pubblicità nella quale io creda è quella classica, all’inglese, del resto in parte già osservata in Italia nella prima inchiesta doganale; ossia l’interrogatorio pubblico, in sale aperte ai giornalisti e con diritto nei giornali di riprodurre quotidianamente domande e testimonianze. Gli inquirenti dovrebbero avere poteri larghissimi di richiedere produzione di documenti, registri, conti; e dovrebbero essere, a preferenza, scelti fra persone pratiche appartenenti anche e sovratutto alle industrie ed ai commerci a cui i sindacati vendono i loro prodotti. Dovrebbero essere interrogati non solo i dirigenti dei sindacati, ma anche gli estranei, ossia coloro che al sindacato non appartengono; e, possibilmente, si dovrebbe andare alla ricerca di coloro che dai sindacati furono eliminati. Tutto ciò non è sicuramente molto facile ad eseguirsi; ma si illudono grandemente coloro i quali credono che l’opinione pubblica possa acquetarsi ai procedimenti segreti ed ai rapporti ufficiali delle commissioni governative sul regime doganale, alle comunicazioni confidenziali fatte agli studiosi od al controllo di qualche piccolo gruppo di interessati. È verissimo che l’industria richiede, per svolgersi con successo, rapidità, segretezza e lontananza dalla politica. Mi guarderei bene dall’invocare inchieste a carico di industrie, le quali null’altro chiedessero allo stato fuorché di essere lasciate in pace. Ma, quando si vogliono le protezioni governative e si vuole organizzarsi per utilizzarle, nasce il dubbio che l’organizzazione contrasti coll’interesse pubblico, sicché fa d’uopo che il dubbio venga dissipato nell’unica maniera consentita in un paese libero: ossia colla pubblica discussione.



[1] Con il titolo Concludendo [ndr].

[2] Ristampato ne Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 385-394 [ndr].

Dazi doganali e sindacati fra industriali

Dazi doganali e sindacati fra industriali

«Corriere della Sera», 3 marzo 1914

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 385-394

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. III, Einaudi, Torino, 1960, 643-652

 

 

 

 

Taluni recenti avvenimenti, come la lotta fra l’Unione zuccheri ed alcuni industriali indipendenti, il dibattito tra un consorzio di filatori in cotone ed un gruppo di tessitori, la costituzione di leghe per la difesa del lavoro nazionale e di leghe antiprotezioniste, hanno fatto diventare d’attualità anche in Italia un problema che da tempo si discute altrove: voglio accennare ai rapporti fra protezione doganale e trusts o sindacati fra industriali.

 

 

Affermano, è vero, i promotori degli istituti o consorzi od unioni o sindacati italiani fra industriali che i loro fini sono profondamente diversi da quelli, che essi riconoscono dannosi all’universale, dei sindacati (trusts) americani. Ma poiché non fu mai con parole e concetti chiaramente comprensibili spiegato in che cosa consista questa differenza; poiché i capitani dei grandi consorzi americani (del resto è ben noto che negli Stati uniti più non esiste alcun trusts propriamente detto, essendo tutti stati sostituiti da companies o corporations, ossia società anonime pure e semplici sorte al posto degli antichi concorrenti) affermano le stessissime cose che in propria difesa adducono i promotori dei consorzi italiani; poiché il «ridare tonalità all’industria… efficienza ai dazi di protezione», il «riorganizzare armonicamente in un tutto complesso le imprese prima discordi» è precisamente ciò che i trusts o cartelli di tutto il mondo si propongono, così noi ragionevolmente dobbiamo supporre che i consorzi si costituiscano al fine precipuo e chiaro di stabilire un livello di prezzi superiore, per altezza, scadenze e metodi di pagamento, a quello che si sarebbe stabilito in condizioni di libera concorrenza; e constatiamo il fatto che per raggiungere il loro fine essi si giovano dell’esistenza di una tariffa doganale.

 

 

In un articolo non è possibile esaminare a fondo questo che è davvero un grave problema. I trusts o sindacati o consorzi o cartelli industriali sono dovuti sicuramente a cause molteplici, di cui la tariffa doganale è una sola. Ma è anche certo che l’esistenza di una tariffa doganale protettiva è quella, tra le cause dei sindacati industriali, che interessa, e giustamente, di più l’opinione pubblica.

 

 

Se invero, in una industria non protetta, un consorzio tra industriali è sorto perché questi si propongono di produrre e vendere più a buon mercato e ritengono di raggiungere meglio cotale intento riunendo le loro forze e riducendo così le spese generali, risparmiando nelle spese di pubblicità, ecc. ecc., la massa del pubblico non ha ragione di preoccuparsi e di chiedere provvedimenti per un fatto ad essa benefico. Ma se il consorzio si costituì solo perché in un dato paese gli industriali, messi dalla protezione doganale al sicuro contro la concorrenza estera, hanno creduto opportuno di accordarsi tra loro per rialzare i prezzi, è ragionevole che l’opinione pubblica si allarmi e discuta il problema, per vedere se non vi sia un mezzo per scongiurare la jattura che minaccia i consumatori in genere e le industrie consumatrici ed esportatrici in ispecie. Così il punto forse più interessante della controversia che recentemente si è dibattuta intorno all’industria zuccheriera, punto che forse non è ancora stato compiutamente lumeggiato, è: dato che gli industriali zuccherieri si erano riuniti in un consorzio, chiamato Unione zuccheri, il quale, fino a poco tempo fa dominava intieramente il mercato, e ritornerà a dominarlo prossimamente, se, come si annuncia, sia intervenuto un accordo fra il consorzio ed i dissidenti, si può affermare che, così operando, essi abbiano corrisposto alle speranze di coloro i quali, istituendo quasi un mezzo secolo fa i dazi protettori e conservandoli in seguito, avevano voluto promuovere la fondazione e l’incremento dell’industria italiana dello zucchero? I dazi protettori erano forse stati istituiti affinché gli industriali protetti si riunissero in consorzio e cercassero, sicuri dalla concorrenza estera, di tenere i prezzi elevati sino al massimo consentito dalla protezione?

 

 

Mentre i consumatori in genere fanno questa domanda per l’Unione zuccheri, in altro campo gli agricoltori italiani chiedono: i dazi sui concimi chimici esteri e sul solfato di rame furono istituiti perché la “Super” cercasse di riunire in consorzio i fabbricanti di concimi chimici e di solfati italiani allo scopo di elevare i prezzi al massimo possibile concesso dalla protezione? E di recente sentimmo i tessitori di cotone piemontesi protestare energicamente in una adunanza tenuta alla camera di commercio di Torino contro l’Istituto cotoniero italiano od un gruppo di filatori consorziati, costituito tra i soci dell’istituto, il quale dicesi si proponga di sostenere il prezzo dei filati; e pare già di sentire chiedere: forseché il legislatore concesse a voi filatori italiani una protezione contro i filati esteri perché voi, riuniti in consorzio, poteste aumentare i prezzi dei filati italiani a nostro danno ed a danno quindi dei consumatori italiani? Ed altri ancora, in altre industrie protette, fa o sta per fare lo stesso discorso: nell’industria siderurgica, dominata da un sindacato chiamato «Ferro ed acciaio», nell’industria delle vetrerie, in alcuni rami dell’industria cartaria, ecc. ecc., i consumatori – e tra i consumatori principalissimi si noverano soventi altre grandi nostre industrie- pongono il problema dei rapporti fra consorzi e protezione doganale.

 

 

Per rispondere alla domanda, non mi porrò dal punto di vista che sarebbe il mio naturale, del liberismo doganale. Questo invero non è un problema di protezionismo o di liberismo, bensì di sviluppo interno del protezionismo. Il legislatore, il quale istituì un dazio doganale a favore dell’industria nazionale quale fine volle raggiungere? e tra questi fini vi era la costituzione di consorzi o sindacati tra gli industriali protetti? La trustizzazione di industrie protette è un fatto il quale possa da un protezionista sincero e spassionato essere considerato come utile al progresso dell’industria, conforme agli scopi propri della protezione doganale da lui voluta nell’interesse generale del paese? A questa domanda sono sicuro che i creatori del protezionismo italiano, ed i maggiori assertori suoi viventi avrebbero dovuto e dovrebbero rispondere di no. Si intende che io parlo dei veri protezionisti; ossia di coloro che, colla protezione doganale, vollero e vogliono acclimatare in paese industrie nuove od inusate, ma promettenti; e non accenno ai protezionisti volgari che vogliono i dazi come tali, al solo scopo di impedire alla merce estera di entrare in Italia ed all’oro italiano di uscire dal paese. Nessuno dei grandi costruttori del protezionismo italiano fece propri questi pregiudizi assurdi di isolamento del mercato italiano dal mercato mondiale. Il fine che si volle raggiungere fu ben altro. V’era, intorno al 1880, una Italia prevalentemente agricola, provvista però di energie naturali non piccole e di una abbondante potenzialmente abile mano d’opera. L’industria non si sviluppava abbastanza rapidamente, perché le imprese nuove dovevano lottare contro la concorrenza di imprese fondate da tempo all’estero, già fornite di maestranze abili, con clientela fida, con impianti perfetti. Diamo – dissero quei creatori del protezionismo italiano- una temporanea protezione doganale all’industria interna; assicuriamola per quindici, venti, venticinque anni contro l’importazione delle merci straniere, mercé un dazio protettivo alla frontiera. In tal modo i capitalisti italiani, ora timidi, acquisteranno coraggio ed investiranno capitali in cotonifici, lanifici, zuccherifici, stabilimenti siderurgici e meccanici e chimici, ecc. ecc. Sicuri di poter vendere per qualche tempo ad un prezzo uguale a quello estero di concorrenza, più l’ammontare del dazio doganale, essi supereranno il periodo iniziale di errori, di tentativi, di addestramento e formazione delle maestranze, di conquista della clientela. A poco a poco l’industria interna si fortificherà, ridurrà i propri costi; grazie alla concorrenza interna le imprese migliori vinceranno le meno bene organizzate e saranno costrette a ridurre i prezzi al livello del proprio costo; e poiché noi supponiamo di proteggere soltanto industrie vitali, capaci di svilupparsi in Italia, giungerà il giorno in cui le intraprese italiane, protette dalla concorrenza straniera, ma concorrenti tra di loro, saranno in grado di poter vendere la loro merce ai consumatori italiani allo stesso prezzo a cui la venderebbero i rivali stranieri. In quel giorno la protezione doganale potrà essere abolita, perché avrà raggiunto il suo fine; e noi saremo lieti di vedere compiuta la nostra opera.

 

 

Così ragionarono coloro che vollero il protezionismo italiano; ed anche noi liberisti, che così profondamente discordiamo da essi, che siamo così profondamente scettici intorno alla possibilità pratica di attuare quegli ideali, dobbiamo ammettere che quello era un ideale logicamente ammissibile. Tanto più volentieri l’ammettiamo, in quanto ché i maggiori, anzi i soli teorici del protezionismo si trovano tra gli economisti; e fu lo Stuart Mill ad esporre il celebre teorema della protezione temporanea alle industrie giovani, sebbene egli vedesse in seguito e chiaramente denunciasse gli inconvenienti pratici del suo principio teorico. Ma sempre rimanendo entro i limiti dell’ideale protezionistico e non esorbitando in polemiche antiprotezionistiche, che qui sarebbero fuor di luogo, ed escludendo di proposito pure ogni accenno a questioni diverse e nuovissime, che qui non intendo pregiudicare, come la convenienza di mantenere temporaneamente certi dazi, divenuti in sé inutili, per opporsi a casi di svendite (dumping) estere, si deve subito aggiungere che quell’ideale protezionistico, per potersi tradurre in realtà supponeva inesorabilmente una condizione assoluta: la lotta, la concorrenza tra gli industriali interni. Il dazio doganale era stato imposto per difendere temporaneamente, durante il periodo della crescenza, l’industria nazionale contro la concorrenza estera. Ma a qual fine? Non mai perché il dazio giovasse a procacciare facili lucri agli industriali interni, bensì soltanto per consentir loro di superare quelle difficoltà e quei rischi i quali insidiano la vita delle industrie nascenti. I consumatori erano stati chiamati a pagare per venti o venticinque anni più care le merci consumate, affinché, trascorso quel tempo, l’industria nazionale, oramai agguerrita, potesse fornire ad essi quella merce allo stesso prezzo dell’industria straniera. Lo scopo non era già di sostituire in perpetuo la merce nazionale alla merce straniera, senza badare ai prezzi rispettivi. Nessuno dei fondatori del protezionismo volle dare all’industria interna una protezione perpetua uguale alla differenza tra i costi di produzione esteri ed interni, poiché la protezione fu anzi data solo per il caso e con la premessa che gli industriali interni sapessero far scomparire quella differenza di costi. Lo scopo del protezionismo era quello di riuscire – col mezzo di un temporaneo dazio protettivo – a produrre e vendere in Italia la merce a prezzo uguale e forse minore della merce straniera.

 

 

L’ideale – l’unico ammissibile dal punto di vista di un protezionismo serio e nazionale – non poteva e non potrebbe essere raggiunto se non in regime di libera concorrenza fra le imprese protette italiane. Poiché soltanto il sorgere di una concorrenza viva e senza limiti tra i produttori italiani può essere arra che essi faranno ogni possa per ridurre i costi e per portarsi all’altezza dei perfezionamenti tecnici dell’industria straniera. Soltanto la riduzione di prezzi, a poco a poco verificantesi sul mercato nazionale sotto la spinta della concorrenza interna, può dimostrare ai contribuenti che essi, col pagare la merce interna rincarata dal dazio, non hanno fatto inutilmente in passato sacrifici costosi; solo il ribasso progressivo dei prezzi verso il livello estero può dimostrare a chiare note che l’industria è riuscita a ridurre i costi al limite delle concorrenti straniere. Parecchi osservatori si erano compiaciuti di aver veduto nell’industria cotoniera italiana una fortunata applicazione del principio milliano della protezione alle industrie giovani perché era parso che, sotto la spinta della concorrenza interna, i prezzi fossero ribassati al livello di quelli esteri e fosse stata automaticamente elisa, come ragion voleva, la protezione doganale. Ma oggi essi ritornano dubbiosi poiché veggono i filatori di cotone costituire sindacati per rialzare i prezzi interni e ritornare a dare efficienza alla tariffa doganale; e li veggono, peggio, augurarsi di poter giungere a dare premi di esportazione onde vendere all’estero a miglior mercato dell’interno. Il che appare, dal punto di vista dell’interesse generale, un regresso ed un venir meno ai postulati logici del protezionismo.

 

 

Perciò la trustificazione di talune industrie protette italiane deve essere guardata con sospetto e con rammarico da liberisti e da protezionisti insieme. Dai liberisti perché essa è indice di una tendenza ad un perdurante sfruttamento di tutta la protezione doganale; e dai protezionisti, i quali non siano dimentichi delle loro origini ideali e delle loro promesse più solenni, perché essa indica che gli industriali interni, invece di fare ogni sforzo per perfezionarsi e ridurre i costi, ed invece di far beneficiare i consumatori, lottando tra loro, di ogni successiva riduzione di costi, preferiscono accordarsi tra loro per trasformare il dazio, che doveva essere uno strumento di progresso tecnico, in un mezzo di dominazione e di incremento di profitti privati.

 

 

I difensori degli zuccherieri affermano che l’attuale protezione doganale, che è uguale alla differenza tra l’imposta interna di lire 73,15 ed il dazio doganale di lire 99 ossia è di 25,85 lire, è assolutamente necessaria all’industria per vivere, essendo il costo italiano di tanto superiore al costo estero, sì che sarebbe impossibile di poter vendere al prezzo di 30 lire circa al quintale -prezzo estero- più l’aggiunta della sola imposta di fabbricazione di lire 73,15 ossia a circa lire 103 ed è necessario di vendere, per non perdere, a lire 103 più la protezione di 25 lire ossia a 128 lire. Ed adducono cifre di costi per dimostrare che le cose stanno precisamente così.

 

 

Ora, è chiaro che l’unico criterio accessibile agli estranei e persuasivo per tutti, delle condizioni di una industria, è il prezzo a cui essa vende in condizioni di concorrenza. Le cifre dei costi sono elastiche, incertissime, variabilissime. Mentre se, in condizioni di aperta lotta tra i produttori, vi sono fabbriche che vendono, come per qualche mese è accaduto, lo zucchero, a 117, ed anche a meno, a 115 e 110 e persino a 109-108 lire al quintale e se quelle fabbriche non vanno in rovina e ripartono discreti profitti, certa cosa è che quello è un prezzo a cui in Italia torna conto fabbricare zucchero. Nell’interesse delle industrie protette, e nell’interesse nazionale, il protezionismo potrà dire di aver raggiunto il suo fine quando sarà diventato inutile, ossia quando vi saranno fabbriche italiane che, in lotta con altre fabbriche italiane e per strappare ad altre la clientela, venderanno ad un prezzo non superiore al prezzo estero di 30 lire od altro prezzo corrente, più l’imposta di fabbricazione di 73 lire, ossia a lire 103.

 

 

A questa meta non si arriva tuttavia coi sindacati. Perché i trusts o sindacati non si fondano in una industria protetta per diminuire i prezzi, bensì per aumentarli sino al massimo consentito dalla protezione doganale. L’Unione zuccheri, finché non sorsero concorrenti, aveva sempre cercato di mantenere i prezzi a 130 lire; ed un rialzo di prezzi vogliono gli altri sindacati sorti in Italia: fra industriali cotonieri, fra produttori di perfosfati e di solfato di rame, di vetri, di carta, di ferro ed acciaio, di lino e canapa, di macchine, ecc. ecc. La industria non cerca più di perfezionarsi e di lottare per ridurre i prezzi; bensì si coalizza per aumentare i prezzi all’ombra della protezione doganale. Nessun protezionista, consapevole del fine di interesse generale a cui il protezionismo intende, può voler siffatto risultato. Epperciò il momento in cui le industrie si trustizzano deve essere il momento in cui tutti e principalmente i protezionisti -ché i liberisti non hanno atteso che venisse questo momento per chiedere riduzioni di dazi- devono avvisare ai rimedi adatti ad impedire che la protezione diventi strumento di oppressione delle masse.

 

 

Quali possono essere questi rimedi è controverso. Nel paese dove cotal problema fu più a lungo dibattuto, e sono gli Stati uniti, il legislatore seguì due vie nella lotta contro i sindacati; di cui l’una si potrebbe intitolare a Roosevelt ed a Taft e l’altra a Wilson, dal nome dei presidenti che ne furono gli antesignani. Roosevelt e Taft non vollero toccare la tariffa doganale, poiché ritenevano che questa fosse messa a difesa del mercato interno contro le merci estere e tentarono di fiaccare la potenza dei consorzi (trusts) con leggi proibitive e con processi giudiziari. Fecero dichiarare illegali i trusts, li fecero sciogliere dai tribunali, condannare a multe colossali. Invano; ché i sindacati provveduti di avvocati finissimi, schermidori assai abili dei più sapienti legislatori, si sciolsero per ricomporsi e si risero dei fulmini della legge.

 

 

Diverso fu il metodo tenuto dal Wilson, il quale essendosi persuaso che i sindacati signoreggiavano il mercato interno perché la tariffa doganale impediva la concorrenza estera, a sua volta convinse popolo e congresso che, a questo punto, i dazi protettivi non dovevano più, neppure agli occhi dei protezionisti, essere considerati giovevoli all’interesse generale; e grandemente li ridusse. Già gli effetti di questa politica si cominciano a vedere; la porta, non ancora aperta del tutto, ma largamente socchiusa alla concorrenza estera, modera le pretese dei sindacati e tende a ridurre i prezzi.

 

 

In un punto le due opposte politiche, di Roosevelt-Taft e di Wilson, concordano: nella richiesta di una grande pubblicità negli affari dei sindacati. Il giorno in cui in una industria si forma un sindacato o consorzio, quella industria ha cessato di essere un affare privato e diventa un affare pubblico. Dico che diventa un affare pubblico, quando quella industria ha chiesto o chiede al legislatore favori o protezioni o premi, i quali siano pagati dalla generalità. Ad un‘industria vivente in regime di concorrenza il legislatore può, quando lo creda opportuno, concedere una protezione doganale, senza pretendere di rivederne i conti, perché il meccanismo stesso della concorrenza porta per se medesimo a ridurre costi e prezzi.

 

 

Ma quando, in una industria protetta o favorita – per esempio con la preferenza del 5% negli appalti pubblici – si forma un sindacato, qual garanzia ha ancora il legislatore che la protezione o la preferenza vengano adoperate a ridurre costi e prezzi e non invece ad aumentare i prezzi a carico dei consumatori e dello stato stesso? Nessuna. In tal caso, ragionarono i presidenti americani, poiché lo stato concede protezioni, sussidi o favori all’industria, ha diritto di vedere come essi siano utilizzati. Di qui numerose indagini, istituite dall’ufficio delle società (bureau of corporations) intorno ai principali sindacati (trusts) americani. Ho, fra gli altri, sott’occhio un volume di questo ufficio sulla International Harvester Co., il grande consorzio delle macchine agricole, ben noto anche ai nostri agricoltori italiani, per le macchine perfezionate che invia in Italia. Sono 384 pagine di fitta stampa, ricchissime di dati, di estratti di conti, di interrogatori, i quali denudano al vivo la situazione intrinseca del consorzio: i suoi conti, i suoi profitti, i suoi metodi di lotta contro i concorrenti, i suoi rapporti con la clientela e mettono in grado il pubblico di giudicare se le conclusioni, severe ma imparziali, del commissario siano fondate sui fatti. In ogni industria protetta, i sindacati si debbono rassegnare al regime di pubblicità dei loro affari. Il quale non implica il diritto di continuare a godere l’antica protezione, ove l’inchiesta abbia dimostrato che essi ne fanno cattivo uso. Il Wilson ridusse i dazi senza attendere i risultati delle iniziate indagini; ed ora afferma che il regime di pubblicità dovrà diventare permanente e che da essa gli stessi sindacati trarranno grande vantaggio. Non a torto, poiché chi opera alla luce del sole, è tratto ad operare puramente, sì da conciliarsi il favore e non l’odio del pubblico.

I nuovi provvedimenti tributari. Imposte di negoziazione e di successione sul vivo e sul morto

I nuovi provvedimenti tributari. Imposte di negoziazione e di successione sul vivo e sul morto

«Corriere della sera », 19[i] e 22[ii] febbraio 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 628-642

 

 

 

 

1.

 

 

Una tra le più interessanti proposte di provvedimenti finanziari è quella relativa alla imposta di negoziazione. Interessante, sebbene trattisi di imposta quasi ignota all’universale, perché ha per iscopo di perequare i gravami, i quali colpiscono la ricchezza mobiliare od immobiliare, investita nelle forme ordinarie e quella rappresentata da azioni od obbligazioni.

 

 

Giova premettere che il legislatore italiano, trovandosi di fronte ai titoli nominativi ed al portatore (azioni ed obbligazioni) delle società anonime ed in accomandita per azioni ed alle quote o carature delle accomandite semplici cedibili a terzi con effetto verso la società, con ragione aveva riflettuto che l’assoggettarle volta per volta, ad ogni occasione di trasferimento, ad un’imposta simile a quella che colpisce i trasferimenti di case e di terreni, di cose mobili, di navi, ecc., avrebbe nociuto grandemente alla facile trasmessibilità dei titoli medesimi. E, volendo nel tempo stesso tutelare le ragioni del fisco e garantire la facile e pronta negoziabilità dei titoli, genialmente pensò di dichiararli esenti dalle ordinarie tasse di registro, assoggettandoli però ad un’imposta surrogatoria, che fu appunto detta di negoziazione, la quale non avesse i difetti che si rimproveravano alle ordinarie tasse di registro. Che cosa si rimproverava invero a queste? Che il dover pagare, ad esempio, il 2,40 od il 4,80% del valore della casa o terreno trasferito, ritarda ed impedisce i trasferimenti, perché le parti pensano che potrebbero risparmiare l’imposta, non effettuando la compra vendita. Se il danno è già grave per le case ed i terreni, assai più grave sarebbe per i titoli mobiliari, i quali hanno avuto gran successo e producono molta utilità appunto per la loro facilissima e rapida negoziabilità.

 

 

Perciò si pensò di surrogare alle imposte ordinarie sui trasferimenti, percepite in occasione dei trasferimenti stessi, un’altra imposta di negoziazione, riscossa quasi per abbonamento, ogni anno, sia che i titoli si trasferissero oppure no. Invece di far pagare il 2,40 o il 4,80 per cento lire di valore capitale della casa trasferita ogni tanti anni, quando il titolo si vendeva, si fece pagare l’1,83 per mille lire del valore capitale ed ogni anno, su tutti i titoli che potevano essere trasferiti. In tal modo poiché i possessori sanno che l’imposta deve essere pagata, ogni anno, sia che il trasferimento avvenga o no, non hanno più nessuna ragione per astenersi dai trasferimenti.

 

 

Un altro vantaggio tecnico e fiscale si ottenne: mentre le imposte ordinarie di registro avrebbero potuto facilmente essere evase dai possessori di titoli al portatore, poiché costoro non sarebbero certo andati a confessare l’avvenuta compra – vendita per il gusto di pagare l’imposta relativa, la frode all’imposta di negoziazione invece è impossibile, poiché l’imposta è esatta direttamente dalle società esistenti, ogni anno sull’intiero ammontare delle azioni ed obbligazioni emesse, salvo alle società diritto di rivalsa sui portatori al momento del pagamento dell’interesse o del dividendo.

 

 

Nel 1902 a questo sistema assai elegante ed accorto si fece un’aggiunta per i titoli al portatore. Per questi si rifletté invero che potevano sfuggire all’imposta di successione, da cui invece i titoli nominativi erano di fatto colpiti; e si pensò di compensare il minor peso dell’imposta di successione con un maggior peso dell’imposta di negoziazione; aggiungendosi perciò, per i soli titoli al portatore, all’imposta normale, dell’1,83, un 0,61%., così da portare il totale sui titoli al portatore al 2,44 ‰.

 

 

Le speranze del fisco di vedere aumentato il numero dei titoli nominativi (tassati coll’1,83%.) e diminuito il numero dei titoli al portatore (tassati col 2,44%.) andarono deluse; e poiché il fisco ritiene, in parte con ragione, che l’insuccesso sia dovuto alla differenza troppo piccola fra le due aliquote, così oggi propone di ribassare l’annua imposta sui titoli nominativi dall’1,83 all’1,50%. e di aumentare l’imposta sui titoli al portatore dal 2,44 al 3 per mille. L’imposta di negoziazione verrebbe ad essere così sistemata in avvenire:

 

 

Titoli

nominativi

 

Titoli

al portatore

Imposta di negoziazione in surrogazionedell’imposta sui trasferimenti a titolo oneroso

(compre – vendite, ecc.)

 

1,50

1,50

Imposta di negoziazione in compenso dell’impostadi successione e donazione

 

1,50

Totale ‰

1,50

3

 

 

La proposta è commendevole per parecchie ragioni:

 

 

1) instaura l’uguaglianza di trattamento fra titoli nominativi e titoli al portatore, che prima era violata a danno dei primi. Infatti i titoli nominativi pagavano in meno il 0,61%. ogni anno del loro valore a titolo di imposta di negoziazione, ma pagavano in più ad ogni succedersi di generazione, e cioè ad ogni 36 anni circa, l’imposta di successione, che si poteva ritenere in media uguale al 42 %. del valore della successione, a cui i titoli al portatore di fatto si sottraevano. E poiché il risparmio del 0,61 ogni anno equivale ad un risparmio del 21%. circa ogni 36 anni, così era evidente che i titoli nominativi pagavano a titolo di imposta di successione circa il doppio di quanto i titoli al portatore pagassero a titolo di imposta di negoziazione.

 

 

Ora non più. I titoli nominativi pagheranno solo l’1,50%. e ciò può ritenersi più che sufficiente a surrogare le ordinarie tasse di registro; ed i titoli al portatore pagheranno queste 1,50%. surrogatorie alle tasse di registro, più altre 1,50 surrogatorie dell’imposta di successione. Pagare l’1,50%. ogni anno equivale a pagare il 54%. ad ogni 36 anni e questa somma può considerarsi all’incirca come equivalente alle nuove cresciute imposte di successione, a cui i titoli al portatore si sottraggono;

 

 

2) ristabilendosi l’uguaglianza di trattamento fra i titoli al portatore ed i titoli nominativi cesserà lo schiamazzo degli analfabeti finanziari (parlo di analfabetismo tecnico, derivante da ignoranza degli ordinamenti vigenti, il quale è diffusissimo tra coloro che fanno professione di riformatori finanziari) contro le pretese frodi di cui si renderebbero colpevoli i titoli al portatore. È ben noto od almeno dovrebbe essere ben noto che i titoli al portatore pagano in Italia tutte le imposte sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile, con una esattezza ed un rigore che certo non si riscontra nella maggior parte dei contribuenti privati, i quali si erigono a severi loro censori. L’unico rimprovero che si poteva muovere ad essi era la frode all’imposta di successione. Con l’istituzione di una vera e propria imposta annua di surrogazione, dell’1,50%. del valor capitale, questo difetto vien tolto; sicché gioverebbe sperare che i titoli al portatore venissero lasciati in pace.

 

 

Gioverebbe sperare; sebbene la riforma, pur buona, difetti di parecchie essenziali aggiunte, le quali minacciano di votarla all’insuccesso e di trasformarla da strumento di perequazione in un arnese di iniquità.

 

 

Comincio da quest’ultima critica. Ragion vuole che, dove viene istituita l’imposta surrogatoria, venga abolita l’imposta surrogata. Così si fece per le imposte ordinarie di registro, le quali non vengono pagate né dai titoli nominativi né dai titoli al portatore. Così non si vuol fare, non si sa perché, per l’imposta di successione. Era scorretto prima, che i titoli nominativi pagassero l’imposta di successione più grave (42%. ogni 36 anni) ed i titoli al portatore l’imposta di negoziazione più lieve (0,61%. ogni anno, uguale al 21%. ogni 36 anni); ma sarà scorrettissima cosa che in avvenire i titoli al portatore:

 

 

a ) paghino ogni anno l’1,50%., equivalente al 54%. ogni 36 anni ed equivalente perciò all’incirca alla imposta di successione che in media pagheranno i titoli nominativi;

 

 

b ) ed inoltre paghino, quando saranno accertati in una successione, l’imposta di successione, di cui hanno già pagato il surrogato.

 

 

Accadrà che i titoli nominativi pagheranno soltanto la imposta di successione; laddove i titoli al portatore o froderanno l’imposta di successione ed allora pagheranno correttamente la sola imposta di negoziazione, ovvero non potranno nascondersi ed iniquamente saranno tassati due volte per lo stesso oggetto.

 

 

Non v’era ragione prima di mettere in una situazione privilegiata i titoli al portatore; ma non v’è alcuna ragione di assoggettarli ora ad un regime fiscale di eccezione, e di spogliazione, solo perché si chiamano titoli al portatore. È bensì vero che la relazione ministeriale, intrattenendosi, a questo punto, su argomenti i quali non riguardano affatto la materia tributaria, afferma con sicurezza strabiliante:

 

D’altra parte la conversione di tali titoli (al portatore) in nominativi è ideale che la dottrina persegue attivamente e che in epoca non lontana dovrà trovare esplicazione nella nostra legislazione commerciale al fine di risanare la costituzione e il funzionamento della società avvenire. Anche qui l’Inghilterra ci è maestra, perché la serietà ed il rigore delle sue società a responsabilità limitata sono dovuti al prevalentissimo uso che si fa del titolo nominativo, ecc. ecc.

 

 

Sia detto con sopportazione degli alti funzionari che scrissero il brano ora riferito; ma una cosa è certissima; che la «scienza» non ha dimostrato affatto la necessità di abolire i titoli al portatore, mentre, se non la signora scienza, il buon senso dimostra che oggi sono utilissimi e necessari; che non è affatto vero che essi e non altre e ben diverse circostanze siano le cause del malessere in cui si dibattono alcune delle nostre società anonime; che è inesatto ed anzi contrario al vero affermare che la serietà ed il rigore delle società inglesi per azioni siano dovuti alla nominatività dei titoli; mentre è certo che la nominatività non impedisce a molte società nordamericane di dar luogo a scandali ben maggiori di quelli che si pretendono riscontrare in Italia a causa dei titoli al portatore. Quella che è partita in guerra contro i titoli al portatore, dimenticandosi persino che in Germania, sede di grandi e potenti organismi economici, prevalgono di gran lunga i titoli al portatore su quelli nominativi, è una scienza fantasiosa ed hanno gran torto i compilatori di un disegno di legge buono a ficcarvi dentro, senza necessità, una minaccia di prossima legislazione abolitrice dei titoli al portatore. Minaccia tanto meno necessaria in un momento in cui, come dissi sopra, vien meno l’unico argomento sensato che poteva essere addotto contro i titoli al portatore.

 

 

Ma ad un’altra critica, anch’essa tecnica, si presta il disegno di legge. Coll’aumentare all’1,50%. l’imposta speciale gravante solo sui titoli al portatore in surrogazione del tributo successorio, il legislatore vuole promuovere la trasformazione dei titoli al portatore in titoli nominativi. Intento approvabile; poiché se è scorretto gravar di più l’una maniera che l’altra di titoli, è correttissimo gravarli ugualmente, affinché i vantaggi intrinseci, se ci sono, del titolo nominativo si raccomandino spontaneamente ai capitalisti e questi non siano più trattenuti dal chiedere la conversione al nominativo dal desiderio di sfuggire al debito tributario. Quando i risparmiatori sapranno che è indifferente tenere i titoli al portatore e pagare l’1,50%. all’anno, ovvero trasformarli in nominativi e pagare l’imposta di successione, essi, a norma dei vantaggi e svantaggi d’altra specie delle due maniere di titoli, si decideranno forse a chiedere, in misura maggiore dell’odierna, la conversione al nominativo.

 

 

Però, affinché il fine si consegua, uopo è che i risparmiatori sappiano che i titoli nominativi pagano solo l’1,50 e quelli al portatore due volte tanto, ossia il 3%. d’imposta annua di negoziazione. Se lo sapessero, la cosa non potrebbe non fare sull’animo loro una certa impressione; poiché l’1,50%. all’anno in più sul capitale, equivale, – supponendo che il capitale renda in media, tra azioni ed obbligazioni, il 5% – al 3% del reddito. Se si pensa che questo 3% si aggiunge ad un altro 3 a titolo di tassa surrogatoria delle tasse di registro, ad un 10 o 15% a titolo di imposta di ricchezza mobile, ecc. ecc., vi ha quanto basta per far nascere il desiderio in non pochi portatori di non pagarlo ora, rinviandone il pagamento a dopo morti, quando gli eredi dovranno solvere il tributo successorio.

 

 

Ma a tal uopo è necessario che i capitalisti sappiano tutte queste cose.

Ora accade per lo più che le società paghino interessi e dividendi al netto da tutte le imposte, compresa quella di negoziazione, cosicché i detentori si illudono di non pagare imposte; ed a loro pare indifferente che le imposte siano congegnate in uno od altro modo.

 

 

Se si vuole che l’aumento del tributo raggiunga il suo effetto, uopo è che si aggiunga una norma, la quale dica che le società saranno obbligate, a pena di nullità dei fatti pagamenti di interessi o dividendi, a pagare ai portatori di azioni nominative un interesse o dividendo aumentato di tutto l’ammontare della tassa di circolazione risparmiata in confronto a quella che esse società avrebbero dovuto pagare se i titoli fossero stati al portatore. Chi abbia una azione da 100 lire, su cui si paga un dividendo di 5 lire alle azioni al portatore, avrà diritto di ricevere un dividendo di lire 5,15 se le azioni sono al nome. Ciò non reca danno veruno alle società, le quali dovrebbero solo pagare i 15 centesimi in più all’azionista invece che al fisco. L’unico inconveniente per le società sarebbe la necessità di qualche piccolo maggior conteggio e della tenuta di un registro speciale per i trapassi di titoli nominativi. A parecchie società questo inconveniente par tanto grave, che esse rifiutano agli azionisti la conversione dei loro titoli al nome. Sicché sarebbe opportuna un’ultima aggiunta al disegno di legge, la quale facesse obbligo alle società di convertire le azioni al nome, a semplice richiesta dell’azionista; e forse sarebbe conveniente al fisco di contribuire alle maggiori spese che i titoli nominativi impongono alle società con un abbuono a favore delle società e non dell’azionista, di una parte, ad esempio 10 centesimi, dell’imposta di 1.50%. pagata dai titoli nominativi. Se provvedimenti simili a quelli ora proposti non si prenderanno, ho gran paura che la riforma, concettualmente lodevole, proposta dal governo, produrrà risultati puramente fiscali e per giunta iniqui rispetto alla perequazione dei tributi.

 

 

19 febbraio 1914.

 

 

2.

 

 

Tra i provvedimenti finanziari presentati dal governo hanno grande importanza quelli che si riferiscono all’imposta di successione. Li considererò, come già feci per l’imposta di negoziazione, da un punto di vista esclusivamente tecnico. Il che vuol dire che non mi occuperò di rispondere alla domanda: è opportuno, corretto, o, come usualmente dicesi, giusto che si chieggano 24 milioni di lire di più ai contribuenti all’imposta di successione piuttostoché ad altri contribuenti? E neppure chiederò se sia miglior partito far gravare i nuovi balzelli in maniera proporzionale o progressiva. Pur essendo ben lontano dal credere che i principii invalsi nelle legislazioni moderne sfuggano a critiche serie, supporrò, per non complicare il problema, che essi debbano stare a base delle riforme che si vogliono compiere in questo campo.

 

 

Fatta la quale premessa, importa subito avvertire che le proposte odierne si possono distinguere in due: con la prima si inaspriscono le aliquote della vigente imposta di successione sugli eredi, con la seconda si crea una imposta nuova, che, per intenderci, chiameremo imposta di successione sul morto.

 

 

Quanto all’imposta di successione vigente sugli eredi, ricorderemo che questa colpisce le somme, dette quote ereditarie, ricevute da ciascun erede o legatario. All’incirca tutte le aliquote dell’imposta vengono aumentate.

Lasciando stare le quote fino a lire 1.000, è noto che in linea retta, ossia fra ascendenti e discendenti, prima fra le 1.000 e le 50.000 lire si pagava l’1,60 percento. Ora si continuerà a pagare l’1,60 fra 1.000 e 30.000 lire; ma si pagherà l’1,80 fra 30.001 e 50.000 lire. E così via, fra 50.001 e 100.000 lire si pagherà il 2,25 invece del 2%, fra 100.001 e 250.000 il 3 invece del 2,40%, fra 250.001 e 500.000 lire il 3,75 invece del 2,80%, fra 500.001 ed 1 milione il 4,50 invece del 3,20 percento. Al disopra del milione si pagava prima il 3,60%; ora si distingueranno due categorie e si pagherà il 5,25% fra 1 e 2 milioni ed il 6% oltre i 2 milioni. In proporzioni consimili vengono aumentate le aliquote sugli altri gradi di parentela; con questo di più che le due ultime categorie attuali – parenti in quarto, quinto e sesto grado e parenti oltre il sesto grado ed estranei – vengono fuse in una sola categoria e questa viene tassata con l’aliquota massima che andrà dal 15% per le quote fino a 20.000 lire al 27% per le porzioni di quota oltre i 2 milioni.

 

 

Tuttociò può essere discutibile; ma da un punto di vista diverso da quello tecnico da cui ora mi metto. Basti notare che questi ritocchi sono fondati sulla presunzione che la ricchezza cominci in linea retta, alle 30.000 lire e negli altri gradi alle 20.000 lire. Ipotesi la quale, anche in paesi a ricchezza scarsa come l’Italia, sembra grandemente esagerata. Se si riflette che le quote fra 1 e 50.000 lire uguagliano il 99,20% del numero ed il 62,41% del valore totale delle successioni, si vede agevolmente che trattasi di inasprimenti il cui peso forse cadrà sovratutto sulle classi medie. Si può notare altresì che, cogli inasprimenti odierni, e tenendo conto dell’imposta nuova di successione sul morto, l’imposta italiana diventerà nel complesso la più aspra fra quelle vigenti nel mondo. Al progetto governativo sono aggiunti dei paragoni, con i quali si pretenderebbe provare che Francia, Spagna ed Inghilterra stanno ancora al di sopra di noi. Ma sono confronti illusori, poiché la spagnuola nel complesso appare più bassa della nostra cresciuta imposta sugli eredi da sola; in Francia finora non esiste l’imposta globale sul morto, e non appare probabile una sua pronta applicazione; in Inghilterra è più alta l’imposta sul morto in confronto alla nostra futura analoga nuova imposta; ma il disegno di legge si dimentica di dire che ivi le imposte sugli eredi sono di gran lunga più basse di quelle già vigenti in Italia. Ed il ministro proponente avrebbe bene operato ad istituire confronti anche con altri paesi, come quelli tedeschi, svizzeri, austriaci, ecc.; e dal confronto, se correttamente fatto, si sarebbe veduto che la nostra futura imposta di successione allargherà il primato, che l’Italia già godeva per altre imposte, terreni, fabbricati e ricchezza mobile, di avere, salvo in pochi casi, l’Austria e la Spagna, le massime aliquote del mondo.

 

 

E poiché è certissima cosa che le alte aliquote crescono le frodi, le evasioni, le emigrazioni di materia imponibile, una domanda si impone: una minor ferocia fiscale non avrebbe dato risultati finanziari migliori all’erario? Da anni io, con altri, predico: aliquote miti e severità di accertamenti; ed i governanti seguitano a fare il contrario. Converrà rassegnarsi e non più fiatare, sinché i vecchi canoni di Adamo Smith (scriveva nel 1776?), ora andati fuori di moda, non siano di nuovo consigliati dall’esperienza.

 

 

Ma a più serie osservazioni si presta la nuova imposta di successione sul morto. Sinora gli eredi pagavano in proporzione di ciò che ciascuno riceveva, dell’arricchimento proprio; e si pagava più o meno, a seconda della somma ricevuta e del grado di parentela che legava l’erede al defunto. Ora si continuerà a pagare in tal modo; anzi di più, come si disse sopra. Ma, in aggiunta, il patrimonio lasciato dal defunto, prima di essere diviso fra gli eredi o legatari, tenuto conto nel fare la somma anche delle precedenti donazioni, pagherà in massa una nuova imposta progressiva, la quale sarà dell’1% da 10.001 a 50.000 lire (i patrimoni fino a 10.000 lire saranno esenti), del 2% fra 50.001 e 100.000 lire, del 3% fra 100.001 e 250.000, del 4% fra 250.001 e 500.000, del 5% fra 500 mila e I milione e del 6% oltre 1 milione.

 

 

Ho letto attentamente i motivi del disegno di legge ed ho constatato che la introduzione di questo nuovo balzello sul patrimonio del defunto si fonda su tre ragioni:

 

 

a) di cui la prima si è che esso è usato in Inghilterra. Il quale argomento non val nulla, perché lassù le imposte sulle quote ricevute dagli eredi sono enormemente più tenui che in Italia; e perché la sua esistenza si spiega per ragioni storiche e giuridiche che in Italia non esistono. Uno sproposito tecnico, come è e come è facile dimostrare essere l’imposta sul morto, non diventa una verità solo perché lo sproposito si commette in Inghilterra;

 

 

b) e la seconda si è che un disegno di legge del 6 novembre 1913, presentato dal ministero defunto alla camera, ne propone l’introduzione in Francia. Pur ammettendo, cosa assai dubbia, che il progetto sia in Francia approvato, il fatto non ha alcun valore. Anche i francesi possono essere presi, come gli italiani, dalla mania d’imitazione delle brutte cose che esistono in Inghilterra; e tal comunanza di sentimenti non serve a spiegare l’errore commesso;

 

 

c) e finalmente si adduce questa ragione: «che i capitali l’esistenza dei quali è rivelata in occasione di una denunzia di successione o di un trasferimento a titolo gratuito, debbano essere considerati in se stessi e subiscano, a profitto dello stato, un prelevamento, graduato in ragione della loro massa totale e diverso da quello che colpisce l’emolumento personale, cioè l’arricchimento di ciascuno degli eredi o donatari».

 

 

E tutto finisce qui. Se non vado errato, tutto ciò vuol dire che si vuole introdurre una nuova imposta sull’intiero patrimonio del defunto perché l’intiero patrimonio del defunto deve essere assoggettato ad una nuova imposta. È una motivazione un po’ magra, contrastante con le dimostrazioni serrate e conclusive che un tempo si leggevano nei documenti parlamentari italiani; ma bisogna contentarsene. In tutta la relazione governativa non si legge nulla di più, né di meglio.

 

 

Data la quale lapidaria sobrietà di argomentazioni, è d’uopo che il pubblico si sostituisca al governo insolitamente silenzioso e ricerchi, per iniziativa propria, quali possano essere i motivi dell’introduzione del nuovo istituto tributario nel nostro diritto.

 

 

Il motivo profondo è certo il bisogno di nuove entrate; ma di questo non discuto, poiché esso ha influenza sull’ammontare del maggior prodotto (24 milioni di lire) che si chiede all’imposta di successione, non sul fatto che il maggior prodotto lo si chiede al morto piuttostoché agli eredi, come fin qui si usava. Le ragioni della preferenza data al defunto non possono essere se non queste: o si crede che in tal modo l’imposta sarà meglio ripartita ovvero si ha l’opinione che essa avrà effetti politici più desiderabili di un aumento equivalente dell’imposta antica di successione.

 

 

È facile vedere che la imposta sul morto non è meglio ripartita di un’equivalente imposta sugli eredi; anzi lo è assai peggio. Suppongansi due eredità, l’una di 100.000 lire e l’altra di 1 milione; ma sia la prima devoluta ad un solo erede, il figlio, e sia la seconda ripartita fra parecchi figli e la vedova, con legati a parenti e, famigli. Ciascuno dei figli ha ricevuto, come sua quota ereditaria, 100.000 lire ed il vecchio servitore un legato di 100.000 lire. Vediamo come funzionano le due imposte.

 

 

La vecchia, sulle quote ricevute dagli eredi, tassa – con le nuove aliquote, che supponiamo già entrate in vigore – i sei figli, che hanno ricevuto 100.000 lire nello stesso modo; essi pagheranno l’1,60% sino a lire 30.000 e cioè lire 480, l’1,80% da lire 30.001 a lire 50.000 e cioè lire 360, ed il 2,25% da lire 50.001 a lire 100.000 e cioè lire 1.125 ed in tutto lire 1.965. Il servitore sarà tassato come estraneo e pagherà il 15% di 10.000 lire ossia 1.500 lire. Tutto ciò non dà luogo ad alcuna incongruenza logica.

 

 

La nuova imposta sul morto invece dice: bisogna guardare al patrimonio complessivo lasciato dal defunto; nel primo caso abbiamo un’eredità di 100.000 lire, tassata col 2%, mentre nel secondo caso si ha un’eredità di 1 milione tassata col 5 percento. Quindi Il figlio unico del primo defunto, ereditando 100.000 lire paga il 2%, ossia 2.000 lire; ma l’erede del secondo defunto, poiché le sue 100.000 lire avevano la disgrazia di far parte in origine di 1 milione, pagheranno il 5% ossia 5.000 lire. È possibile addurre qualche ragione per spiegare il mistero per cui due persone, le quali ricevono la medesima somma di 100.000 lire sono chiamate a pagare l’una 2.000 e l’altra 5.000 lire? Questa, ai bei tempi in cui si ragionava, chiamavasi sperequazione tributaria, ed era severamente condannata, tanto è vero che la vecchia vigente imposta di successione li tassa ambedue con 1.965 lire. Volendo tener conto di elementi estranei alle 100.000 lire, che in ambi i casi l’erede riceve, si dovrebbe guardare non al patrimonio che possedeva il defunto, cosa la quale non interessa più nessuno; ma al patrimonio già posseduto dall’erede il quale riceve le 100.000 lire; essendo chiaro, per chi si mette dal punto di vista della progressività, come fa il ministro, che può pagare, sulle stesse 100.000 lire, di più chi possiede già un milione che chi è senza un soldo. Col sistema proposto potrà darsi che l’unico figlio il quale riceve le 100.000 lire paghi solo 2.000 lire, sebbene egli fosse già ricco; mentre il suo compagno dovrà, solo perché il padre suo era milionario, pagare 5.000 lire, sebbene egli fosse prima senza beni di fortuna. Peggio accadrà al servitore; il quale dovrà pagare, oltre alle 1.500 lire portate dalla legge vigente, altre 500 lire per l’imposta nuova, per la bella ragione che colui il quale gli ha lasciato il legato delle 10.000 lire, era, beato lui, un ricco signore. Se egli fosse stato al servizio di un padrone meno dovizioso, e privo di figli poteva accadergli di ricevere di più, per esempio 20.000 lire e pagare solo l’1% e cioè 200 lire!

 

 

Tutto ciò è incongruo ed illogico. Ma è altresì illogico che debbano pagare l’istessa aliquota tanto il figlio quanto l’estraneo. Il milionario, di cui dicemmo prima, oltreché 100.000 lire a testa ad ognuno dei figli, e 10.000 lire al servitore, lasciò o donò 100.000 lire ad una persona estranea, a cui era avvinto da consuetudini di affetto. Colla vecchia imposta, i figli pagano 1.965 lire l’uno e la persona estranea deve pagare 16.300 lire. E la cosa appare logica, essendo l’opinione pubblica persuasa che debbano pagare di più gli estranei che i figli. Con la nuova imposta, tutti pagano 5.000 lire, sia i figli che l’estraneo. Anche qui si chiede: quale spiegazione si può dare dell’errore? Che esso si commette in Inghilterra, è stato proposto in Francia e si intende introdurlo in Italia. Bisogna contentarsi di questa stupefacente spiegazione.

 

 

V’è di peggio. Il nuovo balzello costituisce, per il modo con cui è congegnato, un regresso tecnico, che da anni era stato denunciato dalla critica e che la grande maggioranza dei legislatori aveva studiosamente cercato di evitare; ed aveva evitato lo stesso legislatore italiano nella vecchia imposta progressiva di successione sugli eredi, istituita nel 1902, che ora si propone di inasprire. Voglio accennare al notissimo errore di colpire con l’aliquota crescente tutto il patrimonio e non le successive frazioni di esso.

 

 

Con la legge vigente, tenuto conto delle proposte correzioni, l’erede che riceve 31.000 lire paga l’1,60% sulle prime 30.000 e l’1,80% sulle residue 1.000 lire, che rientrano nel successivo scaglione; e quindi paga 498 lire, ossia un po’ più delle 480 lire che paga colui che ha ricevuto 30.000 lire. Se si fosse applicato l’1,80% a tutte le 31.000 lire, egli avrebbe dovuto pagare lire 558, ossia lire 78 di più per sole 1.000 lire in più ricevute, ossia ancora, il 7,80% su queste 1.000 lire in più, aliquota che il legislatore, per le piccole eredità e nelle eredità dirette, non aveva intenzione di applicare.

 

 

Orbene, di tutto ciò il legislatore si dimentica quando viene a proporre la nuova imposta sul morto. Le aliquote non sono applicabili alle successive frazioni dell’eredità, bensì a tutto l’intiero importo. E così accadrà che una eredità di 50.000 lire pagherà l’1% ossia 500 lire – beninteso oltre la vecchia vigente imposta -; ed una eredità di 50.001 pagherà il 2% ossia lire 1.000,02. Non è un errore grossolano di tecnica tributaria, oramai scoperto da decenni, riconosciuto come tale dai legislatori, i quali hanno l’abitudine di studiare la forma delle leggi, e riconosciuto come errore dallo stesso

legislatore italiano per l’imposta ordinaria di successione, colpire con 500 lire di più di imposta una eredità che ha la disgrazia di superare di una sola lire un’altra consimile eredità? L’errore è talmente evidente che è da sperare vi si ponga riparo, ritornando al metodo, universalmente seguito, della tassazione delle successive frazioni dell’eredità.

 

 

Ma, anche ove si ripari all’errore, che quasi direbbesi materiale, tanto è ovvio, ben si vede quali siano gli effetti della nuova imposta sul morto. Essa ha le apparenze di colpire le grosse eredità, perché esenta le successioni fino a 10.000 lire e poi procede dall’1 al 6%; in sostanza, non tenendo conto del fatto che quasi tutte le eredità si frazionano e dei legami di parentela, essa andrà ad inasprire sovratutto le piccole e medie successioni, in linea retta, aggiungendo surrettiziamente alle aliquote normali dall’1,60 al 6% della vecchia imposta di successione sugli eredi un secondo peso, variabile dall’1 al 6%, ma – ed è qui che si appunta tutta la mia critica – variabile a casaccio, la massima aliquota potendo cadere sugli eredi meno ricchi e la minima su quelli che si sono arricchiti maggiormente.

 

 

Le quali tutte osservazioni dovrebbero persuadere il legislatore a tenersi stretto alla vecchia imposta di successione sugli eredi, abbandonando la nuova imposta sul morto, la quale per chiari segni appalesa la sua indole di mostro tecnico tributario. Abbisognano 24 milioni? E traggansi pure dall’imposta vigente di successione, accrescendo di quanto occorra le aliquote. In ogni caso, invero, dicasi sugli eredi o sul morto, l’imposta di successione è pagata dagli eredi; e parmi sia logico che sia pagata in maniera corretta piuttosto che in maniera repugnante al buon senso ed alla logica.

 

 

Ma, forse, il vero fondamento dell’imposta nuova non è di fare opera di perequazione, sibbene di far credere, istituendo un balzello nuovo, nuovo almeno di nome, che l’imposta istituita è mite e va solo dall’1 al 6%; mentre in realtà è un’aggiunta ad un’imposta già asprissima. Forse, se si volessero ricavare tutti i 24 milioni dalla vecchia imposta sugli eredi bisognerebbe aumentarne le aliquote invece che ai massimi del 6% in linea retta e del 27 fra estranei, a massimi del 10 e del 40%; e ciò potrebbe far nascere rimproveri di spogliazione e preoccupazioni di frodi e fughe di capitali. Invece, dicendo che la vecchia imposta è cresciuta solo al 6 e al 27%; e che la nuova va solo dall’1 al 6%, l’impressione nel pubblico è meno viva.

 

 

È oramai invalsa l’abitudine di far rientrare in scena, come accade delle comparse in teatro, le imposte con nomi diversi, sebbene sia sempre la medesima imposta. Trattandosi non più di problema tecnico, ma di arte di governo, io mi taccio. Sia lecito però di chiedere se meglio giovi al paese, all’affinarsi della coscienza politica del popolo, al controllo dei governanti sulle spese pubbliche il nascondere, come accade col sistema delle imposte – comparse, la vera portata ed il vero peso delle imposte, ovvero dichiarare nettamente e candidamente quale è il vero ammontare dell’unica imposta, che si crede necessaria.

 

 

Spezzare in due una medesima imposta giova solo a produrre sperequazioni ed ingiustizie di trattamento fra contribuente e contribuente ed a creare illusioni nel popolo di imposte lievi, mentre sono pesanti. Organizzare bene l’unica imposta, anche pesante, rende consapevoli, ciò che è massimamente desiderabile in un governo libero e di democrazia, i popoli dell’esistenza e della gravezza delle spese pubbliche, li eccita al controllo dell’opera dei governanti e rende più facile sopportare il peso, sia pur grave, del tributo. Politicamente, il metodo delle imposte – comparse e delle imposte illusorie è proprio dei governanti che non amano, mentre il sistema delle imposte pesanti e chiare è caratteristico dei governanti, i quali desiderano ed affrettano la pubblica discussione.

 

 

22 febbraio 1914.

 

 



[i] Con il titolo I nuovi provvedimenti tributari. La imposta di negoziazione [ndr].

[ii] Con il titolo Gli Inasprimenti della vecchia e l’istituzione di una nuova imposta di

successione [ndr].

Per un rendiconto patrimoniale. Dopo il discorso Sonnino

Per un rendiconto patrimoniale. Dopo il discorso Sonnino

«Corriere della Sera», 16 febbraio 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 624-627

 

 

 

 

L’on. Sonnino col suo forte discorso ha dimostrato ampiamente una tesi notabile: i dati contenuti nella esposizione finanziaria dell’on. Tedesco sono veridici e consentono di formarsi un’idea precisa sui risultati dell’esercizio finanziario 1912 – 13. Se però le premesse intorno ai concetti di disavanzo od avanzo tacitamente assunte dall’on. Tedesco, permettono a lui di annunciare un avanzo di 111 milioni, altre premesse, forse non squisitamente perfette dal punto di vista dottrinale ma inspirate a buon senso, conducono a ritenere che l’esercizio si sia chiuso, astrazion fatta dalla Libia, con un disavanzo di 57,6 milioni, ovvero, non volendo includere nelle spese effettive i 50 milioni di costruzioni ferroviarie, con un disavanzo di 7,6 milioni di lire.

 

 

Poiché la confusione delle lingue in materia contabile proviene non dai dati e dalle cifre dei rendiconti, che sono esatti, ma dal diverso modo di ragionare intorno alle medesime cifre ed agli stessi dati, è opportuno invocare un accordo intorno ai modi di tenere la pubblica contabilità; e si chiede si mettano in chiaro tutti quegli elementi, che in questi ultimi anni sono intervenutl a rendere impossibile la comparazione dei dati ed aggrovigliati i rapporti tra bilanci e conti del tesoro.

 

 

Con alta, competentissima parola, quale poteva attendersi da colui che ha il vanto di aver pronunciato l’esposizione finanziaria del 21 febbraio 1894, l’on. Sonnino ha richiamato governo e parlamento alla necessità di palesare schiettamente, nudamente la situazione finanziaria e di discuterla in modo aperto e chiaro. Ricordiamo alcune frasi che l’on. Sonnino rivolgeva alla camera quel giorno, 21 febbraio 1894:

 

 

Sono quindici anni in cui con belle frasi, fidandosi nell’alchimia del credito, si sono sperperati milioni e miliardi presi a prestito, in spese improduttive o di lenta o di scarsa produzione; sono quindici anni nei quali, con la fantasmagoria dei conti speciali e delle logomachie contabili, il parlamento ha illuso se stesso e gli altri sulla solidità del pareggio del bilancio dello stato e sulla prospettiva di miglioramenti nell’avvenire; ed intanto crescevano con moto costante e continuo le cifre degli oneri patrimoniali per il servizio del debito. Signori… Urge pareggiare il bilancio ed arrestarci risolutamente sulla via del progressivo indebitamento dello stato.

 

 

Per fortuna, oggi non siamo giunti al punto che si debbano ripetere le lugubri e sane avvertenze di vent’anni fa. Non da quindici anni, ma da molti meno, blandamente ed inavvertitamente da prima e più intensamente dappoi si sono abbandonate le antiche norme che l’esperienza aveva insegnato doversi seguire. Non per un fine piccolo ed illusorio; ma per un fine che fu voluto, quando l’impresa di Libia si iniziava e proseguiva, dalla quasi totalità degli italiani, si sono contratti impegni finanziari che già superano il miliardo e 200 milioni e non tarderanno a giungere al miliardo e mezzo. Appunto perciò, è urgente che il male dell’oscurità finanziaria non cresca e non ci conduca a una situazione simile a quella descritta nella esposizione memoranda del 1894.

 

 

L’on. Sonnino ha dimostrato:

 

 

che col sistema delle anticipazioni di spese spettanti agli esercizi futuri si instaura l’avanzo girante e moltiplicantesi per riproduzione spontanea, come nella favola evangelica dei pani e dei pesci; che col sistema delle assegnazioni di spese sull’avanzo si possono far comparire avanzi grandi quanto piaccia al ministro del tesoro;

 

 

che col metodo dello spezzamento delle spese in tante annualità si accendono debiti latenti col tesoro, colla Cassa depositi e prestiti, con i comuni, con i consorzi, con le compagnie ferroviarie concessionarie;

 

 

che in tal modo nasce nel parlamento e nel popolo l’illusione pessima fra tutte, che è l’illusione della ricchezza, la quale spinge a far nuove spese, acuisce gli appetiti e rende impotenti i governi a resistere al clamore degli interessi piccoli e particolari, i quali traggono a rovina i bilanci meglio costrutti.

 

 

Perciò, ora che non v’è più alcun pericolo a chiarire la situazione finanziaria dello stato, urge che a questo chiarimento si dia opera, urge ricostruire i bilanci ed i conti patrimoniali in guisa che essi inspirino, non solo per l’intrinseco contenuto, ma anche per la forma, fiducia all’universale.

 

 

Nei conti presentati dall’on. Tedesco sono contenuti tutti gli elementi per un giudizio sullo stato delle pubbliche finanze. Nessuno dubita della verità dei conti presentati dal governo. Occorre solo che essi sieno presentati in una forma, la cui verità rifulga altresì agli occhi di tutti. Occorre perciò:

 

 

che si rinunci al metodo, che disegni di legge recentissimi propongono invece di estendere, delle anticipazioni di spesa su esercizi venturi;

 

 

che si rinunci per sempre al metodo di gravare gli esercizi venturi per spese già compiute in passato o che si presume di compiere nell’esercizio in corso;

 

che si riducano al minimo possibile i conti correnti con il tesoro e con le casse diverse dello stato, liquidando la più parte dei conti passati e rinunciandovi per l’avvenire; e che, per conseguenza, si provveda ad una liquidazione generale di tutti gli impegni che per causa della guerra e di lavori pubblici si sono andati accumulando e che attendono di trovare sfogo negli esercizi venturi.

 

 

È un rendiconto patrimoniale quello di cui si ha massimamente bisogno nel momento presente; rendiconto il quale chiarisca quale è la massa complessiva delle somme spese ed impegnate finora e che non hanno trovato collocamento nei bilanci passati ed in quello in corso. Occorre che l’esercizio 1913 – 14 non lasci eredità di spese da liquidare agli esercizi venturi. O, meglio, importa che questa eredità passiva sia, in cifra esatta, nota e discussa. Solo così si potranno prendere a ragion veduta i provvedimenti opportuni a fortificare la nostra finanza; prestiti, imposte, economia. A ragione l’on. Salandra disse negli uffici, discutendosi l’omnibus finanziario Facta, che mancava il modo di giudicare intorno ad esso, poiché non esiste un calcolo del fabbisogno. Si chiedono cento milioni di nuove imposte; non si sa bene perché, mentre il consuntivo ultimo accusa un avanzo di 111 milioni. Tutti sono d’accordo che le imposte nuove sono necessarie; ma trattasi di accordo tra ciechi, i quali vedono scuro e cercano di premunirsi. Meglio sarebbe veder chiaro e giudicare, sulla base di una visione esatta e compiuta della realtà, la meta verso la quale si vuole andare.

 

 

Nessun danno si ebbe, quando per la prima volta, dopo anni di oscurità, in seguito ai pressanti inviti rivoltigli anche su queste colonne, l’on. Tedesco si decise il 31 dicembre 1913 a pubblicare il conto del tesoro in modo che si vedesse chiaro il significato della partita dei crediti diversi di tesoreria. Si sapeva che sotto quel nome si nascondevano crediti che non erano tali, perché erano crediti del tesoro verso le altre amministrazioni dello stato, ossia verso se stesso; ma solo al 31 dicembre 1913 si poté sapere che sui 707 milioni di crediti diversi, vi sono 373,5 milioni di crediti del tesoro verso i ministeri della guerra, della marina e delle colonie per le spese della Libia, e 136 milioni di crediti verso i ministeri della guerra, della marina e dei lavori pubblici per anticipi sui futuri esercizi. Ben fece l’on. Tedesco a mettere in luce questi fatti, togliendo così l’impressione volgare che il tesoro avesse circa mezzo miliardo di crediti verso terzi, che in realtà non sussistono. Ancor meglio opererà, quando, arrendendosi agli inviti che ormai gli vengono da uomini d’ogni parte, mossi unicamente dall’amor di patria, compirà una esposizione contabile evidente, semplice e persuasiva di tutti gli impegni passati e, chiarita così la situazione patrimoniale dello stato nel momento presente, consentirà che abbia luogo una discussione larga e profonda sui modi migliori di assidere il bilancio su basi le quali siano davvero granitiche, perché fondate sulla fiducia universale.

Denaro caro ed imposta. (A proposito del prestito della città di Torino)

Denaro caro ed imposta. (A proposito del prestito della città di Torino)

«Corriere della Sera», 9 febbraio 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 620-623

 

 

 

 

Erano molti anni che le grandi città italiane non venivano sul mercato a chiedere denari in prestito. L’unica eccezione, se non erro, fu un prestito non grande della città di Cremona al 4,50% emesso circa due anni fa. Avevano ben ragione le città italiane di far capo alla Cassa depositi e prestiti per i loro bisogni di denaro; poiché anche pagando il 4 od il 4,50% esse riuscivano, per l’esenzione delle imposte di cui in tali casi godevano, ad ottenere credito a condizioni straordinariamente favorevoli. Oggi pare che la Cassa depositi e prestiti debba devolvere le sue disponibilità a fini diversi dai nuovi mutui alle città; sono cresciuti i bisogni per lo stato, per gli acquedotti, le bonifiche, le scuole ed ai bisogni cresciuti è impari il flusso dei risparmi nuovi. Le casse di risparmio ordinarie hanno superato i limiti massimi che statuti e prudenza consigliano di imporre ai mutui ai comuni. Cosicché è giuocoforza rivolgersi al mercato.

 

 

I risultati non sono davvero brillanti. Il primo a farne l’esperienza è il municipio di Torino, il cui consiglio ha deliberato or ora di emettere un prestito di dieci milioni di lire ammortizzabile in 40 anni a partire dal 1919 in obbligazioni da 500 lire al 4 percento. Notisi subito che, come ha fatto notare il Geisser, relatore della commissione del bilancio, le condizioni ottenute dal comune furono insperatamente favorevoli e che migliori sarebbe difficile ottenere. Notisi che Torino, lanciando il suo prestito in questo momento, profitta del buon mercato particolare del denaro che si ha nel mondo da un mese circa e che non si sa se potrà durare un pezzo. Notisi che chi prima arriva, di solito ottiene le condizioni migliori e che non è impossibile che le altre città, le quali verranno poi, debbano pagare tassi più elevati. Né si dimentichi infine che la città di Torino ha una clientela assai fida di risparmiatori locali, i quali hanno giustificata fiducia nella loro città nativa, ed assai si rammaricarono quando, alcuni anni fa, il comune decise di rimborsare anticipatamente un suo vecchio prestito in obbligazioni 4 %.

 

 

Con tutto ciò, sebbene nel caso della città di Torino si riscontrassero le condizioni quasi ideali per una emissione al minimo costo e quantunque in realtà si siano ottenute le migliori condizioni oggi possibili, ogni obbligazione da 500 lire costerà al comune:

 

 

Per interesse al 4% 

L. 20

Per imposta di ricchezza mobile, tutto compreso,al 21% sulle 20 lire

 

4,20

Per tassa di circolazione all’1,83 sul valorecapitale

 

0,91

Totale

25,11

 

 

Siccome il comune ha ceduto le obbligazioni da lire 500 ad un consorzio bancario al prezzo di lire 470, così in realtà esso paga lire 25,11 di interessi, imposte e tasse su un capitale di lire 470, il che vuol dire che il costo del prestito risulta del 5,35% circa.

 

 

Né basta. Il comune, incassando solo 470 lire, si obbliga però a rimborsare 500 lire all’estrazione. È una perdita ulteriore di 30 lire per obbligazione che viene ad aumentare il costo del prestito. Ho calcolato che l’onere di questo premio al rimborso equivarrà ad un 0,04% circa in più di interesse nel primo anno di estrazione, e via via salirà di anno in anno sino a giungere a circa il 0,30% nel quarantesimo ed ultimo anno di estrazione. Cosicché in realtà, aggiungendo questi apparentemente piccoli supplementi al costo sovra calcolato del 5,35 %, l’avere totale del prestito sarà del 5,35% sino al 1919, per diventare in quell’anno del 5,38% e crescere via via sino al massimo del 5,65% nel quarantesimo anno di estrazione; e ciò per puri interessi, senza calcolare la rata di ammortamento del capitale.

 

Non si può dire che il denaro costi poco ad uno tra i comuni italiani che gode di un credito di primissimo ordine e che fu singolarmente fortunato nelle condizioni di emissione! Né l’alto costo si può ascrivere ad ingordigia dei risparmiatori. Questi probabilmente acquisteranno le cartelle ad un prezzo di 485-490 lire e non godranno, tutto compreso, anche il premio al rimborso, un reddito superiore al 4, 10-4,20% del capitale effettivamente impiegato. Poche città al mondo riescono, in questo momento, ad ottenere mutui da risparmiatori così modesti nelle loro pretese.

 

 

La grossa ragione dell’alto costo del denaro per le città italiane ed in genere per i debitori italiani (privati, società anonime, ecc. ecc.) è data dal costo delle tasse ed imposte. Da sole, le tasse ed imposte crescono il costo del mutuo alla città di Torino nientemeno che dell’1,10 percento. Siccome le città e le società anonime non riuscirebbero a vendere neppure una obbligazione la quale non fosse munita della clausola dell’accollo al debitore di ogni tassa od imposta presente e futura, e siccome i privati imprenditori e proprietari bisognosi di credito debbono, se vogliono trovare denari a prestito, accollarsi tutte le imposte, così queste in realtà fungono come un fattore di costo dei prestiti o di rialzo del saggio dell’interesse. È una specie di taglia che lo stato preleva su quanti hanno bisogno di assumere capitali a mutuo; ed è una taglia che non di rado fa sì che i mutui non si concludano.

 

 

I privati cercano di sottrarsi alla taglia con mutui chirografari o cambiari, i quali solo in apparenza frodano l’imposta. Poiché se un industriale od un proprietario od un professionista ha un reddito di 20.000 lire e su esso paga imposte, è scorretto che l’imposta gravi sulle 5.000 lire di interesse che egli versa ad un suo creditore; od almeno l’imposta, per essere corretta, dovrebbe colpire lire 5.000 a mani del creditore e lire 20.000-5.000 = 15.000 a mani del debitore. Invece il fisco, salvo eccezioni, pretende di imporre tutte le 20.000 lire dell’industriale o proprietario o professionista, come se esse fossero tutte reddito per lui ed inoltre tassa le 5.000 del capitalista; e contro questa ingiustizia stridente – per cui si colpiscono 20.000 + 5.000 = 25.000 lire, mentre il reddito totale vero è solo di lire 15.000 + 5.000 = 20.000 – i contribuenti reagiscono stipulando i mutui sotto forma cambiaria o chirografaria. Fanno male secondo la lettera della legge; ma operano correttamente secondo equità; ed il fisco, prima di infierire, dovrebbe decidersi ad ammettere in ogni caso e per qualunque posta di debito la detrazione degli interessi passivi dai redditi dei contribuenti; cosicché l’imposta si paghi una volta e non due volte sullo stesso reddito.

 

 

Veggasi intanto in quali guai si trovano le città, le quali non possono ricorrere a mutui occulti: l’elevatezza delle aliquote è tale da rendere i mutui quasi proibitivi! Non è questo uno di quei non rari casi in cui, per accrescere il gettito dei tributi, converrebbe allo stato diminuire l’aliquota delle imposte?

Magistrature tributarie e frodi fiscali

Magistrature tributarie e frodi fiscali

«Corriere della Sera», 17 gennaio 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 614-619

 

 

 

 

Lo studio delle imposte italiane sul reddito e specialmente dell’imposta di ricchezza mobile ci ha palesato un fatto fondamentale: che accanto a taluni redditi i quali sono accertati e tassati compiutamente ve ne sono altri i quali sfuggono all’imposta; a lato dei mutui a stato, provincie e comuni, i quali sono tassati fino all’ultimo centesimo, vi sono i mutui a privati, che sono scoperti solo quando sono garantiti da ipoteca e rimangono sconosciuti se chirografari o cambiari; a lato degli impiegati pubblici, i quali non possono nulla nascondere, vi sono i professionisti ed impiegati privati le cui tassazioni danno risultati stravaganti; e finalmente, a lato degli enti collettivi, i quali pagano, per sé e per conto dei loro azionisti, obbligazionisti, creditori, impiegati ed operai su gran parte del loro reddito vero e non di rado su più del loro reddito vi sono gli industriali ed i commercianti «privati» per i quali non si può negare si verifichino notevoli sperequazioni ed evasioni.

 

 

Certamente in questa diversità di successo del fisco ha gran parte l’altezza dell’aliquota. È umano che, di fronte ad un’imposta la quale assorbe dal 7,50 al 20% del reddito procacciato ed ogni giorno sudato col lavoro ovvero coll’arrischiare capitali e sorvegliarne l’impiego, il contribuente cerchi di sfuggire e di diminuire di fatto l’aliquota legale eccessiva. Vi sono talune categorie di contribuenti, i quali non possono sfuggire e sono i creditori degli enti pubblici, i creditori ipotecari, gli impiegati pubblici e gli enti collettivi e questi pagano per tutti; vi sono altri, e sono i contribuenti «privati» senza obbligo di bilancio e di pubblicità e questi, avendo le gambe più leste, pagano solo sui due terzi, su una metà, su un terzo, su un quarto del loro reddito. Colpa, è vero in gran parte della ferocia dell’aliquota. Ma, data la abitudine diffusa ed universalmente tollerata dell’occultamento, una riduzione pura e semplice dell’aliquota produrrebbe domani l’effetto di nascondere il reddito per non pagare dal 6 al 15%, come oggi lo si nasconde per non pagare dal 7,50 al 20 percento. Lo stato, cioè, provvederebbe assai bene a dare impulso alle sue entrate, riducendo le aliquote, ma contemporaneamente dovrebbe in primo luogo instaurare tali strumenti di indagine dei redditi da scemare grandemente la frode fiscale ed in secondo luogo mettere alla riduzione dell’aliquota la condizione espressa di un aumento nel gettito dell’imposta.

 

Tutto ciò, lo ammetto, è più facile a dirsi che ad ottenersi. Ma non è neppure cosa tanto visionaria che non sia apparsa praticabilissima a taluno dei più esperti funzionari della nostra amministrazione fiscale.

 

 

Come si possa alla riduzione dell’aliquota mettere la condizione espressa di un aumento nel gettito dell’imposta è problema che richiederebbe una trattazione speciale. Per ora dirò soltanto della necessità di migliorare gli strumenti di indagine dei redditi. Questi sono gli agenti delle imposte per le imposte dirette ed i funzionari demaniali (ricevitori del registro, ecc.) per le tasse sugli affari. Già adesso costoro non sono più i rozzi arnesi di un tempo, incolti e temuti dai contribuenti terrorizzati. I contribuenti si sono raffinati ed addottrinati; ed anche gli agenti delle imposte sono divenuti colti, abili indagatori di bilanci, di maniere cortesi e sottili ragionatori e polemisti. V’è più di uno fra essi, specie nei grandi centri, che farebbe onore a qualunque ordine di professionisti e di studiosi. Ma purtroppo, mentre da essi si pretende assai e mentre dovrebbero essere nel tempo stesso giuristi raffinati, economisti pratici valorosi e tecnici esperti per risolvere sottili questioni di diritto tributario, civile e commerciale, per valutare la produttività di imprese economiche soggette alla ripercussione di avvenimenti mondiali, per controllare il rendimento, il logorio fisico ed economico di macchinari complicati, sono pagati con stipendi insufficienti ed incapaci di attirare e trattenere un numero bastevole di reclute valenti. Peggio, sono considerati dagli uffici direttivi delle intendenze e del ministero come semplici e materiali esecutori delle direttive ministeriali. Tutto ciò è assai nocivo al fisco ed al contribuente. Gli agenti delle imposte ed i funzionari demaniali devono essere considerati non come arnesi del fisco, sibbene come veri e propri magistrati. Uomini a cui viene affidato il geloso ufficio di decidere quanta parte della ricchezza privata deve essere devoluta ai fini pubblici non devono avere la mentalità fiscale; ossia quella mentalità la quale tende alla meta di accertare, ad ogni costo, quanta più materia imponibile è possibile, perché solo così si progredisce nella carriera e si ottengono le lodi dei superiori gerarchici. Essi devono avere invece la mentalità giudiziaria: devono cioè proporsi di rendere giustizia al fisco ed al contribuente. È il solo mezzo di circondarli di quel rispetto che meritano, di attirare nel corpo finanziario giovani eletti, i quali trovino nei compensi soddisfacenti, nella indipendenza di fronte al potere politico, e nella osservata giustizia, il migliore impulso a rendere allo stato preziosi servigi. Creare questa magistratura delle imposte non è impresa agevole, ed è tale che potrà essere solo compiuta per gradi. Ma l’estensione graduale ai funzionari fiscali di alcuna delle guarentigie di indipendenza dal governo, di promozioni e di giudizi disciplinari spettanti ai magistrati ordinari gioveranno a creare nel pubblico la estimazione e la forza dei funzionari delle imposte e quindi ad aumentare la loro attitudine a valutare autorevolmente i redditi e gli oggetti imponibili ed a reprimere le frodi.

 

 

Anche l’istituto delle giurisdizioni fiscali merita un attento esame. Abbiamo in Italia ottimi organi; come le commissioni censuarie della imposta sui terreni, le quali per esservi, anche nei gradi superiori, equamente rappresentati i contribuenti compiono una opera commendevole, testimonianza insigne di quanto si potrebbe fare applicando sul serio la legge di perequazione del 1886. Si potrebbe, dico; poiché, con geometri ed ingegneri del catasto mal pagati, con salari iniziali di circa 3,50 al giorno e stipendi normali da 2.000 a 3.000 lire all’anno, ogni uomo dotato di una mediocre attività fugge, se per sventura vi è entrato, dall’amministrazione catastale; ed i concorsi vanno deserti.

 

 

Non altrettanto bene si può dire delle commissioni delle due imposte sui fabbricati e sulla ricchezza mobile; prive di effettiva autorità le commissioni comunali dove restano quasi soli i rappresentanti dei contribuenti; soverchiamente soggetti al fisco le commissioni provinciali, in cui la maggioranza spetta allo stato; prettamente governativa la commissione centrale. Sono d’altra parte puramente burocratici gli organi incaricati di risolvere le controversie relative alle tasse sugli affari.

 

 

Importa perciò giungere ad avere magistrature incaricate di risolvere le questioni fra contribuenti e fisco, le quali diano garanzie di perizia tecnica e di imparzialità assoluta. Oggi i contribuenti, i quali veggono misconosciute le loro ragioni dalla commissione centrale delle imposte dirette, ricorrono ai tribunali ordinari e, finché trattasi di tribunali e di corti d’appello, talvolta riescono a farsi sentire. Purtroppo però è radicata oramai nei contribuenti la convinzione che la Cassazione romana – la quale sola in materia fiscale è competente – renda, come disse una volta il guardasigilli Eula, servizi al governo e non sentenze, e il sentir narrare di consiglieri di cassazione i quali si sarebbero vantati di aver fatto guadagnare al fisco molti milioni, non contribuisce a crescere la fiducia nei contribuenti nella giustizia delle commissioni amministrative e della magistratura.

 

 

Fa d’uopo invero non esagerare nell’importanza data a queste impressioni, ché, accanto a non pochi casi conclamati e notori di decisioni e sentenze, che erano servizi resi all’interesse immediato del fisco, vi sono i numerosi casi in cui fu elaborata una giurisprudenza logica dal testo delle leggi vigenti. Ma è sicuramente necessario togliere anche la apparenza della servilità. Il sen. Mortara, attuale procuratore generale presso la Corte di cassazione romana, ebbe a propugnare l’abolizione dI diritto di ricorso alla magistratura ordinaria che egli considera inutile e stancheggiante, quando le commissioni amministrative danno ogni garanzia di perizia tecnica e giuridica. Di perizia sì, ma non di imparzialità e di indipendenza dal governo; sicché la Cassazione romana, benché sospetta a molti, è reputata, in paragone delle commissioni amministrative, imparzialissima e liberissima. In questa atmosfera di sospetti non può funzionare bene nessuna magistratura. È necessario perciò che la competenza delle attuali commissioni delle imposte dirette nei comuni e nelle provincie venga estesa anche alle tasse sugli affari; che la presidenza spetti sempre ad un magistrato inamovibile, indipendente dal governo; che fisco e contribuenti siano ugualmente rappresentati da assessori e giurati tecnici, incaricati di illuminare il presidente sulle circostanze di fatto; ed è necessario che, al disopra delle commissioni locali, si crei una commissione centrale, forse una sezione speciale contenziosa del Consiglio di stato, un supremo tribunale fiscale, a cui siano devolute in ultima istanza le questioni tributarie, attinenti non solo alle imposte dirette ma anche alle tasse sugli affari ed alle imposte indirette; e siano i componenti di questo supremo tribunale fiscale non solo inamovibili, ma sottratti ad ogni sospetto di ossequio verso il fisco o verso i gruppi potenti di contribuenti, e perciò siano ineleggibili a qualunque altro pubblico ufficio, anche agli uffici di deputato o senatore, incapaci di incarichi, missioni, perizie, onorificenze, ecc. Ognuno, il quale sappia ragionare e vedere le conseguenze lontane dei buoni o cattivi ordinamenti giudiziari, rimarrà persuaso che al progresso delle entrate fiscali assai più gioverà una magistratura indipendente e stimata che non l’attuale incoerente sistema di giurisdizioni amministrative a base di rappresentanza insufficiente dei contribuenti, di organi prettamente burocratici, e di ricorsi alla magistratura ordinaria.

 

 

Né le proposte qui fatte implicano riforme profonde negli ordinamenti esistenti. Tolta alla magistratura ordinaria ogni competenza in materia fiscale, basterebbe trasformare le attuali commissioni amministrative in vere e proprie magistrature, presiedute da magistrati inamovibili ed assolutamente indipendenti, fiancheggiati da delegati tecnici rappresentanti diretti dei contribuenti e del fisco.

 

 

In ciò mi discosto dall’opinione di alcuni egregi funzionari delle agenzie delle imposte, i quali aspirano ad elevare la dignità della propria classe, ma vorrebbero quasi renderla sola arbitra delle tassazioni. Ciò sarebbe pericoloso; poiché non si può essere accusatore e giudice nel tempo stesso. Siano elevati in grado gli agenti delle imposte; diventino i giudici istruttori delle tassazioni, quasi i procuratori del fisco. Ma sulla correttezza – sia in materia di estimazione dei redditi o di valutazione degli enti tassati sia in questioni di diritto – delle tassazioni siano giudici altri magistrati, e cioè i presidenti, inamovibili ed indipendenti, delle commissioni locali e del tribunale supremo fiscale. Certo a queste magistrature, fornite di perizia tecnica – giuridica e di indipendenza giudiziaria, dovremo dare più ampi poteri di investigazione o dovremo dar modo di usare i poteri di investigazione, scritti nelle leggi, ma caduti in dessuetudine, a causa della enormità delle aliquote e della scarsa fiducia dell’opinione pubblica nella giustizia fiscale. Perché si possa far giustizia, è d’uopo che i contribuenti abbiano fiducia negli organi della giustizia; il che non si potrà ottenere mai fino a che essi non siano resi indipendenti dalla pressione dei momentanei bisogni del fisco da un lato e dalla pressione dei gruppi o degli uomini politicamente influenti dall’altro lato.

Parte seconda Delle imposte in generale Capitolo I. Il problema della ripartizione delle spese pubbliche indivisibili e caratteristiche dei prezzi pubblici proprii, improprii e spurii

Parte seconda

Delle imposte in generale

 

Capitolo I.

Il problema della ripartizione delle spese pubbliche indivisibili e caratteristiche dei prezzi pubblici proprii, improprii e spurii

 

Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 171-185

 

Relazione in collaborazione con F. Patetta sulla memoria di Giuseppe Prato, La teoria e la pratica della carta moneta prima degli assegnati rivoluzionari

Relazione in collaborazione con F. Patetta sulla memoria di Giuseppe Prato, La teoria e la pratica della carta moneta prima degli assegnati rivoluzionari

«Atti della R. Accademia delle scienze di Torino», vol. 50, 1914-1915, pp. 226-227 (tomo II, pp. 79-80)

Immunità o tassazione dei titoli di debito pubblico?

Immunità o tassazione dei titoli di debito pubblico?

«Corriere della Sera», 4 dicembre 1913[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 610-613

 

 

 

 

La questione su cui è stato battuto il ministero Barthou è una di quelle che gli studiosi chiamerebbero eleganti, ma intorno a cui sostanzialmente non si può dubitare che la ragione non stesse dalla parte del gabinetto caduto. Sfrondato da tutti i suoi elementi accessori, il problema si riduce al quesito: conviene allo stato francese, nell’atto in cui si accinge ad emettere un prestito di 1 miliardo e 300 milioni di franchi in rendita 3%, dichiararlo esente da imposta, ove vero affermare che, se l’imposta verrà, essa dovrà tassare la nuova rendita, così come ogni altro cespite di reddito?

 

 

Badisi che qui non si discorre dei titoli di debito pubblico già emessi, i quali seguiranno la sorte che in passato volle stabilire il legislatore, ma dei titoli nuovi, ancora da emettere; e badisi ancora che non si tratta dell’imposta globale sul reddito, la quale, quando in Francia sarà istituita, dovrà colpire tutto il reddito del contribuente, e quindi anche il frutto dei suoi titoli di debito pubblico, i quali siano stati riscossi e siano entrati a far parte del suo reddito complessivo. No. L’imposta, da cui il governo voleva dichiarare esenti i nuovi titoli di rendita 3% da emettere, era l’imposta sui redditi, esatta alla fonte sulle diverse specie di redditi e quindi, per ritenuta, sui titoli di debito pubblico all’atto del pagamento della cedola semestrale degli interessi. Il Dumont, ministro delle finanze, ed il Barthou volevano esentare la rendita dalle imposte del genere della nostra imposta di ricchezza mobile (categoria A). Aveva ragione il Dumont di ricordare che l’Italia, dal 1906, la Germania, l’Austria, la Spagna (per l’exterieure) e moltissimi stati usano emettere i titoli di debito pubblico con la clausola dell’immunità da qualsiasi imposta presente e futura. Avrebbe potuto aggiungere che in Italia noi abbiamo, anche ora, accanto al 3,50% netto, il 3% lordo, colpito dall’imposta del 20%, che ne riduce il frutto netto al 2,40 %.

 

 

Le ragioni o meglio la ragione la quale consiglia di esentare gli interessi dei titoli di debito pubblico dall’imposta è questa: che l’imposta non frutta nulla all’erario e danneggia il credito dello stato. È un’imposta oziosa, scritta sulla carta ad ostentationem e completamente improduttiva.

 

 

Infatti, se il governo francese emettesse il nuovo 3% al netto, con immunità da imposte, i capitalisti saprebbero di acquistare una rendita annua di tre franchi e pagherebbero il titolo, tenuto conto dei corsi attuali della rendita analoga già emessa, supponiamo, 85 franchi. Se invece lo stato emette il nuovo 3% al lordo, soggetto alla imposta imminente di ricchezza mobile, e se i capitalisti calcolano che l’imposta porterà via il 10% del reddito, essi in realtà non acquistano un reddito annuo di tre franchi, bensì uno di franchi 2,70; e quindi non potranno pagare per esso il prezzo capitale di 85 franchi, bensì solo di 85 meno il 10%, ossia di franchi 76,50. Che cosa avrà ottenuto lo stato con l’imposta? Un beI nulla. Poiché è perfettamente indifferente vendere ad 85 franchi un 3% netto ovvero a 76,50 un 3% lordo uguale ad un 2,70% netto. L’imposta è una semplice partita di giro, la quale non lascia alcuna traccia nel bilancio dello stato. Col 3% netto lo stato per un capitale di 85 lire si obbliga a pagare 3 lire all’anno di interesse; né ha il diritto di incassare alcuna imposta. Col 3% lordo lo stato, se vuole ottenere le stesse 85 lire, deve emettere tanta rendita che frutti al lordo 3,33 franchi, da cui detraendo il 10% di imposta, ossia lire 0,33, risulti il frutto netto di 3 lire. Ossia i contabili dello stato si potranno prendere il gusto di scrivere in entrata lire 0,33 a titolo di imposta sulla rendita; ma a condizione di scrivere lire 3,33 all’uscita; e di far spendere allo stato, come nell’altro caso, 3 lire nette di interesse.

 

 

Se l’imposta sulla rendita fosse solo inutile, sarebbe almeno innocua. Purtroppo essa è dannosa allo stato e vantaggiosa ai capitalisti. Invero accade che questi, timorosi del peggio, vogliono garantirsi anche contro gli aumenti di tributo, che appaiano possibili in futuro; e quindi, se l’imposta è del 10% essi supporranno un 12%, e, mentre avrebbero pagato 85 lire un titolo 3% netto pagheranno il 3% lordo non 76,50 lire, che sarebbe il valore di parità, ma appena 76 o 75 lire, facendo scontare allo stato non solo tutta l’imposta certa presente, ma anche gli aumenti incerti e futuri di essa. A questo si riduce il valore dell’obiezione mossa dal Caillaux contro il Dumont ed il Barthou, secondo cui l’immunità dall’imposta significherebbe rinuncia dello stato alla propria sovranità tributaria. L’immunità vuol dire, sì, rinuncia a tassare; ma nell’interesse dello stato; rinuncia fatta allo scopo di ottenere il massimo prezzo possibile dalla emissione della rendita. Ed è rinuncia temporanea; poiché, se in avvenire lo stato si accorge che il saggio di interesse, al netto dell’imposta, è scemato sul mercato, ha sempre facoltà di offrire il rimborso del capitale ed ottenere per tal modo una riduzione dell’interesse.

 

 

Da qualunque punto di vista lo si guardi, il metodo oggi seguito in Italia dell’immunità tributaria concessa ai titoli di rendita 3,50% appare più conveniente, per lo stato, dell’opposto metodo della tassazione. L’esperienza dei corsi di borsa dei due titoli 3,50% netto e 3% lordo (ossia 2,40% netto) prova come il titolo che costa di meno allo stato è il primo. Il titolo 3,50% netto vale infatti 99 lire; e per conseguenza se fosse vera la teoria di Caillaux, che i capitalisti non tengono conto dell’imposta, il 3% lordo dovrebbe valere 85 lire. Invece vale soltanto, in forza del ragionamento fatto sopra, 64,80 lire, il che dimostra che i capitalisti in realtà lo considerano, come è, soltanto un 2,40 percento. Anzi lo apprezzano meno di quanto dovrebbe valere, poiché se il 3,50% vale 99 lire, il 2,40% dovrebbe, per dare lo stesso rendimento, valere almeno lire 67,70. Il fatto che il 3% lordo (2,40% netto) vale solo lire 64,80 è probabilmente dovuto a molte circostanze tecniche, difficili a valutarsi, ma non si può escludere che l’essere quel titolo al lordo, non munito cioè della clausola della immunità da ogni imposta presente e futura, non contribuisca a deprezzarlo oltre la parità. È inutile dunque sperare di far cadere sul serio l’imposta sulla rendita sui capitalisti. Essa si risolve, nell’ipotesi più benigna, in una partita di giro e spesso conduce ad un deprezzamento del titolo dannoso per lo stato che lo deve ancora emettere.

 

 

Queste sono verità intuitive; e non si capisce come la camera francese abbia immaginato di poterle negare, rovesciando un ministero.

 

 



[1] Con il titolo Immunità o tassazione della rendita? [ndr].

La logica protezionista

La logica protezionista

«La Riforma Sociale», dicembre 1913, pp. 822-872

Studi di economia e finanza. Seconda serie, Officine grafiche della STEN (Società tipografico-editrice nazionale), Torino,1916, pp.1-59

 

 

 

 

(Dove, polemizzando coll’on. Colajanni, si discorre dei fondamenti teorici e della inapplicabilità pratica del protezionismo, dei metodi della propaganda liberista, della interpretazione delle statistiche, dei rapporti tra prezzi e consumi, dei periodi storici dell’agricoltura italiana, della cosidetta decadenza dell’agricoltura inglese ecc, ecc.).

 

 

L’on. Colajanni ha scritto sulla Tribuna del 4 ottobre un articolo su L’agricoltura del mezzogiorno e le illusioni del liberismo, seguito da un altro pubblicato l’8 ottobre col titolo: Un paradosso economico – prezzi e consumo del grano in Italia, in cui con linguaggio concitato, combatte come dannosa ed ingannatrice la campagna antiprotezionista che i liberisti vanno oggi conducendo in Italia. Sebbene io non abbia alcuna speranza di far mutare opinione al Colajanni, credo doveroso esaminare il valore scientifico delle sue dottrine, sia per l’importanza del problema, sia per la sincerità indubitata dell’uomo. Ho sempre ammirato e profondamente stimato l’egregio professore di statistica di Napoli per la franchezza rude con la quale espone il suo pensiero, non badando ad amici od a nemici. E forse non c’è in Italia nessun protezionista, il quale meriti tanta stima come lui, per la sincerità e la rettitudine profonda dell’animo suo; almeno nessuno che io possa stimare altrettanto, dopo la morte del mio amato maestro, prof. S. Cognetti de Martiis. Molti protezionisti fanno figura di saltimbanchi politici, poiché si dichiarano in teoria liberisti e costretti alle male pratiche del protezionismo dalla malvagità dei tempi e dall’esempio delle nazioni straniere. La parola e gli scritti di altri, che si vede chiaramente essere l’espressione di economici gruppi interessati al protezionismo, perdono quella vigoria di persuasione che avrebbero se francamente palesassero il proprio proposito di tutela di gruppi particolari; mentre la pretesa di volere il bene generale appare troppo insostenibile per essere creduta. Cognetti e Colajanni no. Io non so se Colajanni in giovinezza sia mai stato liberista; mentre tale era il compianto Cognetti.

 

 

Amendue però sono venuti al protezionismo – ché l’agnosticismo di Cognetti in materia doganale equivale di fatto a protezionismo – per una applicazione erronea, sebbene sincerissima, del metodo sperimentale. Amanti amendue delle statistiche, ad essi è sembrato che le statistiche non comprovassero la tesi teorica che il liberismo crea ed il protezionismo distrugge ricchezza; hanno visto che gli Stati Uniti e la Germania – questi sono i due grandi esempi protezionisti – prosperavano col protezionismo, mentre l’agricoltura inglese andava a fondo col liberismo – l’unico grande esempio in senso contrario – ed hanno concluso, il Cognetti, più temperatamente, che il protezionismo ed il liberismo a volta e volta potevano essere buoni strumenti di elevazione economica, più appassionatamente il Colajanni, che i liberisti sono dei visionari e degli ingannatori e che la salute d’Italia sta, almeno per ora, nel protezionismo. Colajanni deve avere un fatto personale coi liberisti, che al solo sentirli nominare vede rosso.

 

 

Liberisti «fanatici», il «fanatismo dei liberisti», «l’ignoranza, la mala fede, la pertinacia» degli scrittori liberisti, i liberisti «ossessionati» ecc. ecc.: questo il linguaggio che fiorisce spontaneo sotto la penna di Colajanni quando parla dei liberisti. Non sono mai riuscito a capire perché li abbia tanto in odio. Molti in Italia odiano gli economisti liberisti; perché questi non hanno mai nascosto la loro profonda noncuranza verso la pseudo scienza dei politicanti protezionisti e sempre si sono dichiarati incapaci di apprezzare la novità e la bellezza della scienza protezionista; ma Colajanni non è certo irritato contro di loro per questo motivo. La sua deve essere irritazione originata dalla trascuranza in che gli economisti hanno mai sempre lasciato le sue amatissime statistiche; e dalla ostinazione con cui non hanno risposto alle sue batterie formidabili di cifre – quante ce ne ha scaraventate contro l’ottimo collega! – con quella contraria documentazione di altrettante cifre la quale soltanto sembra a lui probatoria.

 

 

Colajanni si offende[1] se lo si accusa di essere un protezionista, ché egli vuole invece essere uno sperimentalista, il quale riconosce le virtù rispettive del protezionismo e del liberismo, a seconda dei diversi ambienti su cui si deve agire. Ma è appunto questa, dello sperimentalismo economico, la posizione intellettuale di tutti i protezionisti passati, presenti e futuri. Nessuno di essi ha mai osato sostenere che il protezionismo sia teoricamente giustificabile; ma tutti hanno detto che praticamente, qua e là, non si poteva fare a meno di adottarlo e che esso poteva riuscire in molti casi e paesi economicamente utile. Naturalmente, i più balordi hanno aggiunto alla loro difesa pratica della protezione doganale, ironie scempie contro teorie che non hanno mai capito e contro i teorici che legiferano per un mondo di angeli e non di uomini. In verità la differenza tra economisti liberisti e scrittori protezionisti sta in questo:

 

 

  • che i primi hanno fatto della teoria, ossia hanno sintetizzato i fatti ed hanno concluso in favore del libero scambio;
  • hanno ammesso la convenienza, per un mondo irreale di uomini assai sapienti ed altruisti, di una certa protezione doganale e temporanea;
  • ma hanno concluso, come si vedrà subito, che la convenienza del protezionismo era puramente teorica, fatta per uomini sapientissimi e discretissimi, disposti a rinunciare alla protezione doganale quando la teoria protezionista insegna essere passato il tempo concesso per lo esperimento e non per uomini in carne ed ossa, come li conosciamo essere di fatto e come la esperienza storica doganale ci ha insegnato che essi agiscono;
  • mentre i secondi hanno finto di dimenticare che la dottrina economica si presenta sotto i due aspetti che ho cercato di delineare; l’uno teorico, in cui si esamina la convenienza generale o di prima approssimazione del libero scambio e le convenienze speciali, o di seconda approssimazione, dell’intervento protezionista; e l’altro applicato, o pratico, in cui si dicono i motivi concreti e praticissimi del tenersi stretti alla regola generale libero scambista;
  • ed al luogo di questa complessa dottrina, hanno sostituito l’empirismo greggio di chi sghignazza in faccia agli economisti e, facendo loro gli sberleffi, dice: avete un bel predicare; ma tutti i paesi del mondo, civili e barbari, monarchici e repubblicani, industriali ed agricoli, si comportano in modo contrario alle vostre teorie! Come se gli economisti non avessero detto anche la ragione del malo modo di comportarsi dei governi; e non prevedessero anche che persino l’Inghilterra potrà ridiventare protezionista, se muteranno le classi al potere e se le masse potranno essere illuse, in un momento di crisi economica derivante da altre cause, di trovare la salvezza nella panacea protezionista;
  • ed al luogo delle precise nozioni di causalità e di convenienza esposte dagli economisti, hanno fatto vaghe considerazioni intorno al succedersi di periodi storici, l’uno dei quali sarebbe favorevole al protezionismo e l’altro al liberismo, sicché l’umanità pare sia sballottata, per qualche misteriosa ragione di ambiente mutato o di fatalità storica (diventano di moda la fatalità ed il determinismo storico per turar la bocca a chi chiede più chiare spiegazioni delle cose che succedono!), tra i due poli opposti del libero scambio o del protezionismo, senza che a questo sballottamento gli uomini, ignari e stupefatti, possano sottrarsi. Certo, gli economisti hanno la brutta abitudine di chiamare pane al pane, ladri ai ladri e trivellatori ai trivellatori; ma i protezionisti, ai quali queste parole dispiacciono, dovrebbero spiegarci con più chiari discorsi di quelli affatto gratuiti od incomprensibili finora da essi tenuti come e perché essi ritengano che il protezionismo sia stato di fatto utile all’Inghilterra prima del 1840 ed il liberismo dopo; ed in che cosa abbia consistito la convenienza effettiva del protezionismo americano dopo la guerra di secessione fino ai giorni nostri, o del protezionismo tedesco dopo il 1880, ecc.

 

 

Due indagini gli storici protezionisti non hanno mai voluto o potuto fare: delle cause sociali del protezionismo e dei suoi effetti reali. Prendasi in mano il libro su Gli scambi coll’estero e la politica commerciale italiana dal 1860 al 1910 (Roma, Accad. dei Lincei, 1912) di Stringher; mirabile storia esterna delle vicende della politica commerciale e degli scambi internazionali; ma poiché egli, sebbene si schermisca dal riconoscerlo, è profondamente e sinceramente imbevuto di cameralismo protezionista, poiché non gli cade neppure in mente che possa essere messa in dubbio la ragionevolezza dello Stato provvidenza o Stato paterno, o Stato «disciplinatore», così la sua storia è muta riguardo alla genesi ed agli effetti della politica commerciale. Da quale contrasto di classi uscivano le tariffe del 1878, del 1887, i trattati del 1902? Lo Stringher non può dirlo, poiché egli si limita alle fonti ufficiali ed alle dichiarazioni dei ministri, relatori, deputati intorno alle varie vie da seguire. Gli uomini di governo non possono non pretendere e talvolta possono essere convinti di volere il maggior bene della collettività, anche quando fanno una politica di gruppo o di classe; ma trattasi di «formule» come quelle della «volontà di Dio» o della «sovranità popolare», con cui le classi al potere cercano di giustificare le loro azioni e di illudere i molti che esse agiscono nel loro e non nel proprio interesse. Che cosa stia sotto alle formule stereotipate del protezionismo lo Stringher non lo dice; né egli dice quali siano stati gli effetti complessi, variati, ramificantisi per i più nascosti meandri sociali, effetti, tutto sommato, malvagi, che ebbe la politica commerciale protezionista. Storia turpemente contraffatta: ecco ciò che ci diedero i protezionisti volgari; storia esterna diligentissima e perfetta, ma secca e priva di sostanza nutriente per quanto tocca il nodo della questione: ecco quanto ci seppero dare i protezionisti, che, mossi dalla dirittura della loro coscienza, come lo Stringher, vollero dimostrarsi imparziali, ma non poterono spogliarsi dei loro radicatissimi abiti mentali.

 

 

La posizione scientifica di Colajanni è diversa da quella dello Stringher. Egli non ha l’animo imbevuto di paternalismo o cameralismo protezionista. Ma è un idolatra dei fatti. Le teorie ed i ragionamenti lunghi si vede che gli fanno perdere la pazienza. Venderebbe tutto Ricardo e tutto Ferrara per una tabella di statistiche che riuscisse a convincerlo dei misfatti del protezionismo. Questa tabella non la troverà mai, perché è logicamente assurdo trovarla e quindi egli rimane protezionista. Tra noi e lui il dissidio è insanabile. In un articolo di polemica pratica non si dovrebbe risalire ai primi principii della logica; ma è pur necessario di dire che la impossibilità in cui io, ad esempio, e Colajanni ci troviamo di intenderci deriva appunto da un dissidio di metodo. A me sembra assurdo, inconcepibile, che si possano addurre cifre statistiche, numerose e formidabili quante si vogliano, a scrollare la verità delle tesi degli economisti intorno agli scambi internazionali. E ciò non perché io non riconosca che i fatti debbono sempre prevalere sulle teorie, che le teorie impotenti a spiegare i fatti debbono buttarsi dalla finestra, ma perché l’esperienza dimostra che i fatti dei protezionisti sono dei non fatti, o dei fatti male interpretati o dei fatti che vogliono significare proprio il contrario di quanto essi pretendono. Le cifre traducono in numeri i fatti, quali succedono; fatti enormemente complessi, i quali sono dovuti all’interferenza di moltissime cause che in concreto è difficilissimo di poter scindere le une dalle altre. Voi mi potete dimostrare all’evidenza che gli Stati Uniti hanno progredito assai di più sotto il regime protezionista che non l’Inghilterra sotto il regime liberista; potete – sebbene sia impossibile, i fatti essendosi svolti ben diversamente – accumulare prove su prove che l’Italia liberista dal 1867 al 1887 è rimasta stazionaria, mentre progredì dal 1888 al 1912 quand’era protezionista; e non avrete dimostrato un bel nulla. Perché non avrete dimostrato che quella stazionarietà, o regresso o progresso non fossero dovute ad altre cause del liberismo o protezionismo e che il primo non abbia reso meno accentuato il regresso, come il secondo il progresso che si andavano verificando per altre cause.

 

 

Ed allora, interrompe Colajanni, giù le mani con le statistiche anche voialtri liberisti! Nessuno dei due le adoperi; poiché se non servono a niente a dimostrare la tesi protezionista, non giovano neppure a provare la tesi liberista. La finiscano i liberisti con le loro eterne cifre sul progresso dell’Inghilterra a causa del liberismo!!

 

 

Nella quale conclusione sono d’accordo col Colajanni, quando subito si aggiunga che le statistiche, inservibili da sole a creare una teoria, giovano, quando siano interpretate con grandissima prudenza, come riprova, sperimentale di una teoria che il ragionamento abbia dimostrato vera.

 

 

Nessuno di noi si è mai rifiutato di riconoscere la verità di un ragionamento protezionista, quando il ragionamento sia stato davvero fatto e sia stato riscontrato corretto. Gettarci addosso dei mucchi di statistiche è tempo perso; fare dei ragionamenti sensati ed addurre a loro riprova delle belle e buone statistiche è tempo utilmente impiegato. Anzi, se si bada bene, tutte le tesi protezionistiche, resistenti, entro i loro limiti logici, al fuoco della critica, sono state esposte non dai pseudo scienziati protezionisti, ma da economisti purissimi. Così:

 

 

  • 1) fu Stuart Mill, il quale espose la teoria dell’utilità di concedere una protezione doganale temporanea alle industrie giovani e promettenti in un paese nuovo all’industria. I protezionisti non fecero altro che copiare Stuart Mill, esagerandone grottescamente ed indecentemente i concetti, facendo passare per giovani certe industrie che erano vecchissime, e trasformando la protezione da temporanea in perpetua; sicché lo Stuart Mill, in alcune lettere memorande, che ho fatto sunteggiare nella Riforma Sociale, si dichiarò dolentissimo dell’abuso che i protezionisti facevano delle sue teorie, con danno grave dei popoli, e conchiuse che il suo principio della protezione doganale alle industrie giovani, se teoricamente era inattaccabile, praticamente non poteva essere applicato senza pericolo grandissimo. Che cosa hanno aggiunto i protezionisti a queste regole esposte dall’insigne economista inglese?

 

 

  • 2) furono gli economisti, di ogni razza e tempo, i quali esclusero dal novero delle industrie normali le industrie di guerra: arsenali, fabbriche di cannoni e di armi. Non nel senso che convenga economicamente far sorgere cotale industria in paese, ma che sia d’uopo sottostare ad un sacrificio economico per essere sicuri di potersi provvedere delle armi con cui difendere l’indipendenza paesana. Che cosa hanno aggiunto i protezionisti a queste regole? Se non erro, hanno saputo approfittare di un ragionamento inspirato ad un ragionevole senso del proprio dovere verso la patria, per giustificare il dazio sul grano, tentando di far credere che il grano sia la stessa cosa delle armi da fuoco e delle corazzate, che in tempo di guerra non si possono più acquistare dall’estero; mentre, persino per l’Inghilterra, a non parlare dell’Italia, ricca di tante frontiere di terra e di mare, il pericolo di moltitudini affamate per mancanza di grano, è sogno di immaginazione malata. Questi sogni si possono lasciare fare ai pennaiuoli della stampa gialla sensazionale, ma sono indegni di persone serie. E sarebbe sempre meno costoso impiegare una volta tanto mezzo miliardo di lire per formare una riserva di guerra in frumento, bastevole a far vivere un paese per sei mesi, piuttostoché assoggettarsi all’onere annuo di mezzo miliardo di protezione, quanto forse non basterebbe per fare produrre in casa a caro prezzo tutto il grano di cui si ha bisogno. Ma i protezionisti, i quali fanno per burla il prognostico della fame in tempo di guerra, non vogliono il tesoro frumentario; poiché il loro scopo non è di assicurare il paese contro la fame, bensì di mettere un mezzo miliardo all’anno in tasca ai proprietari di terre granifere;

 

 

  • 3) fu Pantaleoni, se non erro, ad esporre la teoria della possibile convenienza di un dazio protettivo in tempi di transizione. Sia un periodo A in cui conviene coltivare grano in un paese; e sia un periodo successivo B, in cui per la messa a cultura di terre nuove americane, il prezzo scenda da L. 20 a 12, in guisa che nel nostro paese la cultura del grano non sia più possibile. Se si prevede che il periodo B è permanente, duraturo, non c’è nulla da fare; ed è utile che la cultura del grano sia abbandonata, nonostante le perdite momentanee derivanti da tale abbandono e da tale trasformazione di cultura. Ma se si prevede – occorre però che la previsione non sia fatta per uso e consumo dei proprietari di terre a grano da indagatori compiacenti – che il periodo B avrà una durata relativamente breve, perché la produzione delle nuove terre americane sarà presto assorbita dalla crescente popolazione, ed in seguito il prezzo, in un periodo C, tornerà a risalire da 12 a 20 lire, sicché nel nostro paese ritornerà la cultura ad essere conveniente, allora si pone il problema: conviene lasciar morire l’industria agraria cerealicola, con una perdita, ad es., di 1 miliardo per macchine, strumenti, miglioramenti culturali divenuti inutili, ed impiantare ex novo, durante il periodo B, altre industrie, con una spesa di un secondo miliardo per poi ritornare, nel periodo C, alla cultura a grano? o non conviene piuttosto istituire un dazio sul grano, perdere ogni anno 200 milioni a causa della anti economicità temporanea della cultura frumentaria, conservata in tal modo artificiosamente in vita? Il problema si riduce al paragone di due perdite: di 1.000+1.000 milioni nell’un caso, di 200 milioni all’anno nell’altro caso. Quale delle due sia per essere la perdita maggiore è difficilissimo il dire dipendendo dalla esattezza delle previsioni e dalla durata del periodo di transizione; onde il principio, che è di applicazione assai svariata – per es. potrebbe essere invocato per i casi di dumping – dà luogo a molti sbagli. Quali perfezionamenti hanno i protezionisti apportato a questa teoria? Si sono forse curati di distinguere i casi in cui la teoria può essere applicata ed i casi in cui la sua applicazione probabilmente avrebbe dato luogo ad errori? Mai no. Nel loro profondo disprezzo per le teorie, essi non sono buoni ad altro che a gridare come pappagalli: ci vuole della pratica e non della teoria, intendendo per «pratica» una cosa invero praticissima, che è di mettere le mani, per diritto e per traverso, nelle tasche dei consumatori, ossia degli altri produttori di merci o servigi non protetti o non ugualmente protetti;

 

 

  • 4) fu Pareto, se non erro, il quale mise in rilievo l’importanza di non trascurare lo studio dei fattori politico sociali, accanto a quelli prettamente economici. Siano due danni alternativi in vista: l’uno è economico e consiste nel pagare ogni anno ai Junker prussiani 300 milioni di tributo, a causa del dazio protettivo sui cereali prodotti nelle terre di quella classe proprietaria semi feudale; e l’altro è il prevalere incontrastato del socialismo e della disorganizzazione da esso inoculata nel corpo politico tedesco, prevalere che si avrebbe se, abolito il dazio protettore, la classe dei Junker scomparisse e venisse meno, come è venuta meno in Francia, la forza attuale di resistenza della società tedesca e della sua classe politica proprietaria alla malattia socialista. Sono due mali – almeno son mali per chi si mette dal punto di vista della conservazione dell’attuale organismo politico sociale tedesco – che devono essere messi a confronto: val la pena di pagare 300 milioni di lire all’anno, per far vivere gli Junker prussiani, e mercé la forza del loro braccio salvarci dal socialismo? Non si discute pel momento – sebbene io ritenga la cosa discutibilissima – se il mezzo sia adeguato al fine; ma, posto ché si crede che il mezzo sia adeguato, si domanda se il sacrificio dei 300 milioni non sia eccessivo. Se si risponde che no, ecco spiegato un dazio protettore.

 

 

Argomentazioni di simil genere possono essere addotte in molti altri casi; ed hanno il pregio della sincerità. La lotta è posta nettamente tra chi vuole la conservazione dei Junker prussiani o dei marchesi o baroni siciliani, e chi li vuole abbandonati alla loro sorte, né considera il prevalere del socialismo come una calamità, o forse ritiene che il socialismo prevalga e si rafforzi anche perché si mantengono i dazi doganali a favore dei proprietari terrieri. La quale ultima ritengo sia l’opinione maggiormente fondata sui fatti.

 

 

Ancora una volta che cosa hanno aggiunto a questa teoria i protezionisti? Nulla, salvo il tentativo antiscientifico di annebbiare la sostanza del problema, facendo passare per «interesse nazionale» ciò che è «interesse dei Junker»; tentando cioè di far credere ai popoli che la questione non stia nel decidere fra due malanni, l’uno economico e l’altro politico, ma nella opportunità di crescere la ricchezza del paese mercé il dazio doganale sul grano, il quale non può avere mai questo effetto, bensì unicamente l’altro di impoverire le masse agrarie socialiste, che si vogliono deboli, e di arricchire le classi proprietarie che si vogliono forti.

 

 

Colajanni, il quale s’è subito accorto dell’argomentazione paretiana, la sbandiera ai quattro venti per dire che Pareto è un empirico, come lui, e come lui, odiatore dei fanatici del liberismo. Con buona pace sua, ho ancora da leggere in Pareto un fatto empirico addotto a caso solo per schernire, coll’esempio della pratica contraria, la teoria economica, o per difendere le male pratiche protezioniste dei governanti. Pareto è un empirico, come dovrebbero esserlo tutti; egli ama i fatti, per scrutarne il significato; ama correggere le conclusioni astratte della scienza economica con le conclusioni pure astratte di altre scienze sociali, pur di ricostruire la realtà concreta, complessa, la quale si compone di tante astrazioni separate, le quali prima si studiano analiticamente, per conoscerne le leggi fondamentali, e poi si raccolgono in una sintesi per scoprirne le leggi reali. Così accade che vi sia una legge tendenziale economica; la quale dice che, per ottenere un massimo di ricchezza, bisogna adottare il libero scambio doganale; e vi sia – od almeno si crede vi sia – un’altra legge tendenziale sociologica, la quale dice che, dato il libero scambio, la classe proprietaria semi feudale, che oggi è l’élite dirigente della Germania, tende ad essere sostituita da una nuova classe, composta dei burocrati e faccendieri della social democrazia; onde si può concludere che la classe proprietaria, la quale non vuole cedere il campo ai dirigenti della social democrazia, fa bene a mettere un dazio protettore sui cereali.

 

 

Ma questa legge concreta non trasforma in errore la verità della legge tendenziale economica, anzi la lascia intatta.

 

 

Quali altri ragionamenti, oltre quelli sovra indicati e quei pochi altri che gli economisti già esposero, seppero tirar fuori i protezionisti, i quali non siano assolutamente risibili? Invece di ragionamenti, essi hanno ripetute le solite divagazioni sentimentali e verbali, che sono errori vecchissimi e marchianissimi, le cento volte messi in luce e in ridicolo, come la necessità di rispondere, con offese alle offese altrui, con dazi ai dazi altrui, l’indipendenza nazionale, il tributo agli stranieri per l’acquisto di grano, il do ut des, la divisione nazionale del lavoro, ecc., ecc. Vero è che a sentir Colajanni, noi liberisti saremmo in errore ritenendo, come sempre facemmo, che il protezionismo debba la sua fortuna alla presa che sulle menti incolte fanno i suoi argomenti sentimentali, radicati nei pregiudizi più comuni del volgo, e dei suoi eccitamenti al disfrenarsi di istinti congeniti nell’uomo, sebbene malvagi, come l’odio contro il proprio simile straniero, la persuasione che nei contratti ci sia sempre uno che lucra e l’altro che perde, ecc., ecc. Il Colajanni ci rimprovera invero di usare argomenti «seducenti, veramente adatti ad accaparrare i voti della grande massa analfabeta degli elettori meridionali». Gioverebbe sperare che i nostri argomenti avessero tal virtù. A vedere la facilità con cui i sofismi protezionisti avevano persuaso le classi cosidette colte, c’era venuto il dubbio che la teoria liberista fosse una cosa troppo fine ed elegante ed inaccessibile ai più. L’on. Colajanni ci insegna che facciamo presa sugli analfabeti; il che vorrebbe dire che le menti vergini di costoro, non annebbiate da pregiudizi interessati, presentano una certa attitudine alla ricezione del vero, e sono in grado di comprendere, ad esempio, una verità elementarissima, che la borghesia italiana non è ancora riuscita ad intendere e che, a leggere il suo articolo, neppure l’on. Colajanni deve avere compreso: e cioè che la libertà degli scambi è utilissima se è bilaterale, ma altresì utilissima se unilaterale. Forse agli analfabeti sarà possibile di far capire ciò che le classi dirigenti non hanno mai voluto comprendere, che cioè il contadino meridionale sarà avvantaggiato se potrà comprare, quando i dazi saranno tolti, la micca di pane a 30 centesimi e lo zucchero ad 1 lira, invece degli attuali 40 centesimi o lire 1,50, anche se, per disavventura, tedeschi, austriaci e russi si rifiuteranno a togliere i loro dazi sul suo vino. Forse al contadino analfabeta sarà possibile far capire che, certo, l’ideale per lui sarebbe di vendere il vino caro e comprare il pane a buon mercato; ma che, se proprio egli deve ribassare il prezzo del suo vino di qualche lira per sormontare gli ostinati dazi altrui, questa non è una buona ragione per ostinarsi lui a volere crescere il danno proprio, conservando il dazio sul grano e quindi aumentando il prezzo del suo pane. Credo anch’io che la nostra predicazione – la quale dice al contrario: «Se lo straniero ti dà uno schiaffo mettendo un dazio sul tuo vino, almanco non lasciartene dare un altro dal proprietario tuo compatriotta, consentendo ad un dazio sul grano che ti vende o per darti licenza di produrre il quale sulle sue terre ti fa pagare un fitto o gabella più forte in proporzione al dazio» – sia più seducente pel contadino di quella dell’on. Colajanni, il quale lo vuol persuadere che i fitti alti dei terreni e la micca cara sono una bella cosa.

 

 

Ma che colpa ne abbiamo noi se alla gente, la quale, non avendo letto i sofismi protezionisti, ragiona col buon senso, la verità liberista appare sotto una luce seducente?

 

 

Che colpa ne abbiamo noi se anche il contadino più analfabeta del mezzogiorno capisce subito che i trattati di commercio non sono – come tentano di far credere i protezionisti per annebbiare la visione della realtà e per sovrapporre alla luce dei ragionamenti uno sciovinismo che falsamente appare anti straniero, mentre è soltanto anti italiano – un negoziato fra italiani e stranieri, in cui l’Italia guadagna se i negoziatori concedono le minime riduzioni sui dazi proprii mentre ottengono le massime sui dazi altrui; sibbene sono il risultato di una lotta fra la grande massa italiana dei consumatori produttori da un lato ed un piccolo gruppo pur esso italiano, o quasi, di produttori dall’altra, in cui l’Italia guadagna riducendo al minimo i proprii dazi ed approfittando dei dissensi interni altrui per ottenere le massime riduzioni sui dazi stranieri?

 

 

Certamente spiace ai protezionisti che il problema venga chiarito e denudato nei suoi veri termini, giovando ad essi far vedere che l’Italia ha interesse a tenere alti i proprii dazi. Plaudono perciò a quei negoziatori, i quali riescono a dare poco per ottenere molto. Con loro sopportazione, l’Italia non ha affatto bisogno di queste cime di negoziatori. Essa ha bisogno che il problema venga discusso all’interno; che all’interno si chieda apertamente al popolo se esso ritiene opportuno che il costo della vita sia rincarato dai dazi sul grano, sullo zucchero, sui tessuti, sul ferro e sull’acciaio, ecc., ecc., se esso ritenga utile che una moltitudine di industrie derivate – ben più importanti, nel complesso delle poche industrie realmente protette – sia oppresso dal caro delle sue materie prime. E se il popolo, quando veda chiaramente il quesito, risponderà di no, i dazi dovranno essere ribassati, con o senza negoziati, con o senza l’armeggio del do ut des doganale, che sarebbe prova di una grottesca ignoranza se non comprovasse invece l’abilità con cui i protezionisti sanno condurre il toro alla morte, ossia il popolo italiano ad inferirsi da sé ferite gravissime, agitandogli dinnanzi lo straccio rosso dello straniero in agguato!

 

 

Le quali premesse parvero indispensabili a chiarire come quelle statistiche e quei fatti, che all’on. Colajanni piacciono assaissimo e che a me piacciono altrettanto, finora sono stati interpretati bene soltanto dalla scienza economica, la quale non è liberista, né protezionista, ma ha appunto, per iscopo, di mettere in luce le uniformità dei fatti. La scienza economica, la quale, piaccia o non piaccia all’on. Colajanni, attraverso alle sue naturali variazioni individuali ed ai perfezionamenti via via apportati ai principii, primamente esposti in modo grossolano e poi in maniera più raffinata, ha una tradizione secolare di continuità ed ha costrutto un corpo di dottrine stupendo, ha dimostrato incontrovertibilmente che la libertà degli scambi interni ed internazionali è una condizione necessaria per il raggiungimento di un massimo di ricchezza; ed ha, essa e non la cosidetta scienza doganale, che non si sa dove stia di casa, chiarito in quali casi e per quale durata teoricamente possa ammettersi una deviazione della libertà degli scambi.

 

 

Essa medesima ha poi chiarito come, scendendo dalla teoria delle applicazioni concrete, quei pochi casi teorici di protezione utile si riducono a pochissimi e forse soltanto a quello delle industrie di guerra, e questa dimostrazione l’ha data col mettere in luce la quasi impossibilità di applicare i postulati teorici del protezionismo. Perché, ad es., lo Stuart Mill, l’inventore della protezione alle industrie giovani, si corresse subito dopo e concluse che il principio, teoricamente inoppugnabile, è di quasi impossibile applicazione? Perché vide che di fatto della sua teoria si giovavano i trivellatori – i «grandi ladroni», come con dolore Colajanni afferma essere essi chiamati dai liberisti, rabbiosi di non essere ascoltati – per ottenere la protezione ad industrie vecchie e niente affatto promettenti; perché vide che il connotato di «giovane» si attribuiva a certe industrie che con abili campagne di stampa ed in alcuni casi – in America il presidente Wilson ha denunciato con coraggio casi di questo genere all’opinione pubblica – con sapienti distribuzioni di fondi ai membri dei parlamenti, erano state truccate sì da trasformarle da vecchie lercie e cadenti in giovanette provocanti e bisognose di temporaneo aiuto o prestito. Che importa che in un caso su dieci la protezione venga data ad un’industria giovane sul serio, quando negli altri nove casi la teoria serve di pretesto a dare il diritto, ad industrie fruste o rachitiche dalla nascita, di spogliare a man salva i consumatori? Il buon senso non insegna forse di rinunciare al piccolo beneficio pur di evitare il grosso malanno? L’esperienza provò altresì che, pur ammettendo di aver potuto rinvenire l’araba fenice di un’industria realmente giovane, questa, quando sia protetta, inopinatamente prende l’abitudine di non giungere mai più all’età virile. Anzi bambineggia sempre più, sino a regredire, in vecchiezza, quando sono passati i 10 od i 20 anni, che avrebbero dovuto bastare ad irrobustirla ed a metterla in grado di resistere da sola alla concorrenza straniera, allo stadio di neonata.

 

 

L’osservazione dei fatti e delle statistiche non tardò a spiegare simigliante meravigliosa regressione. Poiché si vide subito che la protezione ha la virtù di far sorgere numerose intraprese, avide di trivellare il prossimo o di godere rapidamente dei lucri che il diritto di rapinare altrui dava loro. Ne sorgono troppe di queste imprese, di cui molte male attrezzate, sovraccariche fin dall’inizio da enormi spese di impianto, di lucri di lanciamento da parte dei promotori, di false spese di acquisto, di macchinari sbagliati, ecc. Più si va innanzi, più queste intraprese artificiosamente venute su coi dazi gridano di non poter vivere, affermano che la protezione non basta ed occorre aumentarla. Le imprese bene impiantate hanno quasi sempre interesse a non uccidere del tutto le concorrenti mezzo rovinate; ed anche quando si stringono con esse in sindacato, usano tenere in vita, ad ostentationem, le fabbriche ad alti costi; per potere avere un argomento, probante agli occhi dei parlamentari in cerca di voti e di popolarità, atto a dimostrare che non solo occorre conservare, ma bisogna aumentare la protezione esistente. O che forse in Italia non è questo il caso conclamato della siderurgia, delle industrie cotoniere e laniere e di quella coltivazione del grano, che si pretenderebbe di far credere che non può vivere senza dazio, coi prezzi a 18-20 lire senza dazio, citando i casi di alti costi su campi posti in situazioni sfavorevolissime? Così accade che un paese, dopo aver subito con pazienza per 20 anni il sacrificio di un dazio doganale protettivo, nella illusione di poter riuscire a possedere un’industria forte, sana, robusta si sveglia facendo la amarissima scoperta che, alla fine dei 20 anni – dal 1887, on. Colajanni, ne saran passati nel 1917 ben 30 di questi interminabili anni di giovinezza – l’industria bamboleggia sempre più ed ha bisogno del finanziamento della Banca d’Italia, delle grucce dell’Istituto cotoniero, della revoca della convenzione di Bruxelles e di simiglianti svariatissimi puntelli. I consumatori, i quali avevano con patriottismo – questo è il vero patriottismo, quello di chi paga e tace, non l’altro dei trivellatori, i quali l’hanno sempre al sommo della bocca, finché ad invocarlo si riempiano le scarselle, e subito si mettono ad inveire contro il governo del proprio paese e ad invocare gli esempi, faticosamente racimolati, di prodighi governi forestieri, appena non ottengano quanti dazi, premi, favori, preferenze nei prezzi essi pretendono – per 30 anni sopportato prezzi di carestia nella speranza di dar vita, coi loro denari, sacrosantemente loro, risparmiati col sudore della loro fronte, ad un’industria forte e capace di vendere a bassi prezzi, si veggono trattati con scherno e respinti a guisa di cani rognosi. Ohibò! vi lagnate di pagare 10; ebbene pagherete d’or innanzi 20!

 

 

Questa è la sequela dei fatti, osservati le mille volte, comprovati da statistiche numerose, in Italia, in Francia, in Germania, negli Stati Uniti. In quest’ultimo paese fu l’osservazione di questi fatti e di queste statistiche, fu l’esposizione di essi al popolo in manifesti, in disegni parlantissimi, ben altrimenti eccitatori dell’ira delle plebi derubate, di quel che non lo possano essere i miserelli manifesti veduti dal Colajanni nel mezzogiorno e che a lui parvero «monumenti di ignoranza o mala fede»[2]; fu una campagna ben altrimenti violenta di quelle che or s’annuncia in Italia, condotta da migliaia di propagandisti, di quella che riuscì a fare una prima fortissima breccia nella muraglia protezionista americana. Ben so che il Colajanni si ostina a chiamare la riforma doganale Wilson quasi quasi un trionfo del protezionismo. Lasciamoglielo credere. Non sono alcune clausole, dovute mantenere od introdurre nella legge tariffaria per salvare il grosso di questa, che ne possono mutare il carattere sostanziale. Si consolino come possono i protezionisti dello scacco subito; ma si persuadano che una riduzione di tariffa da una media del 40 ad una media del 25% sui prodotti colpiti è uno scacco, sovratutto se si tiene conto che molte voci che prima erano colpite, ora sono esenti e figurano sulla free list, che tra le voci gravemente colpite ora sono aumentate le voci puramente fiscali, sugli oggetti di lusso e di ricco consumo, che colla protezione non hanno nulla a che fare, mentre le voci protezioniste sono state notevolmente ridotte. E si persuadano anche che se nel 1917 la Germania non infliggerà loro un altro scacco, ciò sarà esclusivamente dovuto al fatto che la politica doganale in quel paese privilegio di alcuni gruppi economici che hanno in mano il governo prussiano ed all’arte sovrana con cui questi gruppi cercano di togliere al Reichstag la possibilità di interloquire sul serio in argomento. L’on. Colajanni non ha del resto bisogno di andare in Germania per convincersi del modo con cui i trattati di commercio sono fatti passare in silenzio attraverso i Parlamenti, senza che il problema sia stato discusso in pubblico, come un problema di lotta fra le masse e le classi: nomina di commissioni d’inchiesta, che lavorano in segreto, invio di questionari alle associazioni commerciali od industriali, alle camere di commercio, ecc. ecc., le quali, come un sol uomo, rispondono che bisogna proteggere il lavoro nazionale, conclusioni unanimi della commissione, sentito il parere dei «pratici», – e s’intende che i «pratici» sono i trivellatori od aspiranti trivellatori; perché come si potrebbero interrogare gli altri, e come potrebbero rispondere a ragion veduta, se prima ad essi non s’insegna il congegno con cui le loro tasche sono trivellate? – che l’industria nazionale attende dal governo una efficace difesa dei suoi interessi contro la concorrenza straniera e nel tempo stesso un efficace impulso ai progressi delle esportazioni all’estero, come se, le due cose non fossero logicamente e concettualmente contraddittorie.

 

 

Senonché, in una cosa la Germania differisce dall’Italia: nella opposizione crescente, sebbene forse, non ancora vittoriosa, che il regime protezionista incontra nel ceto industriale e commerciale. Invero gli industriali ed i commercianti tedeschi – i quali hanno la loro massima espressione organizzatrice nell’Hansa Bund e giornalistica nella Frankfurter Zeitung – si sono accorti che il regime protezionista, pur pretendendo di avvantaggiare tutti gli industriali ed i commercianti, in realtà avvantaggia massimamente, nel campo industriale, la Schwerindustrie, l’industria pesante della siderurgia, rappresentata dal Verband Deutschen industriellen, e nel campo dell’agricoltura i cerealicoltori, rappresentati dal Bund der Landwirte ed hanno incominciato una campagna insistente di dimostrazioni a base di dati e di fatti, ben altrimenti probanti, dei centoni ammannitici dai protezionisti, di queste verità: essere il progresso economico della Germania nell’ultimo quarto di secolo dovuto a cause diverse dal protezionismo, come la utilizzazione delle miniere di carbone e di ferro, il processo Thomas Gilchrist di defosforazione dei minerali di ferro, le invenzioni chimiche ed elettriche, la cultura tecnica diffusissima; avere la protezione avvantaggiato sopratutto i produttori di materie prime, ferro, acciaio, e carbone, e di derrate alimentari, frumento e segala, ed avere quindi danneggiato le altre industrie che rappresentano il grosso dell’operosità tedesca. Vuol sapere l’on. Colajanni come la Frankfurter Zeitung si ostina a chiamare le due grandi organizzazioni protezioniste dianzi citate? Der Bund der Verteuerer, il che, se non erro, in linguaggio corrente si direbbe La lega dei rincaratori, ovverosia degli affamatori! E la Frankfurter Zeitung, che io mi sappia, non è un organo né socialista, né liberista. È semplicemente l’organo delle classi industriali non appartenenti al gruppo privilegiato delle classi commerciali e bancarie, dei veri leaders del progresso economico tedesco; e combatte il protezionismo – per ora si contenterebbe di una moderazione di dazi come in America – soltanto perché, avendo gli occhi per vedere, si è persuasa dei danni che i dazi affamatori producono all’economia tedesca. Fa insomma, su più vasta scala e con grandissima competenza veramente «pratica», quel che dovrebbe fare da noi il Sole, se questo, che è pure un bello e ben fatto giornale economico, sapesse far astrazione dai pochi gruppi di grossi industriali, che riempiono di sé il mondo, e sapesse guardare alle falangi ben più numerose degli industriali e dei commercianti suoi lettori, i quali nell’Alta Italia sono danneggiati dall’alta protezione doganale.

 

 

È probabile che, quando si potranno analizzare i fatti che l’on. Colajanni riporterà nel prossimo volume sul «Progresso economico italiano», essi potranno essere spiegati benissimo dagli economisti liberisti e costituiranno una riprova delle leggi le mille volte dimostrate vere coi ragionamenti e colla riprova dei fatti. E notisi che i ragionamenti economici non sono, come con dispregio si compiacciono di dire i protezionisti, quando non sanno cosa dire per confutarli, «campati in aria» ma sono essi stessi il succo di osservazioni numerose, di fatti largamente raccolti e di statistiche studiate con occhio critico, osservazioni fatte e statistiche collegate insieme da un filo logico, senza di cui essi sono materia bruta, privi di qualsiasi significato. Invece di scaraventarci addosso delle valanghe di statistiche per dimostrare che questo o quel paese progredì col protezionismo, o questa o quella industria decadde col liberismo, per sentirsi rispondere persino dagli studenti che la prova non serve a nulla, perché quel tal paese può essere progredito malgrado il protezionismo, o che la decadenza di quell’industria non fu dovuta al liberismo, o, se dovuta ad esso, fu un beneficio per la società considerata nel suo complesso, l’onorevole Colajanni farebbe assai meglio ad analizzarne alcune poche, magari una sola, corredando la sua analisi di dimostrazioni logiche e di riprove le quali tendessero a dimostrare, per quanto si possa fare in simile maniera di ragionamenti:

 

 

  • 1) che il progresso di quelle tali e tali industrie non solo avvenne durante il protezionismo, ma per causa di esso;
  • 2) che non vi è traccia di altre cause le quali possano avere spiegato il progresso; o di queste altre cause si può misurare l’importanza, in guisa che il residuo non spiegato deve essere attribuito alla protezione doganale;
  • 3) che il progresso è stato veramente tale, ossia ha messo in grado le industrie protette di fare a meno della protezione doganale; essendo manifesto che un mero incremento di macchinario o di produzione può volere anche soltanto dire un incremento della quantità di merce prodotta ad alto costo, e su cui i consumatori nazionali saranno chiamati a pagare tributo in avvenire, ossia non un progresso, ma un lagrimevolissimo regresso;
  • 4) che il progresso in talune industrie non è stato accompagnato da sofferenze o mancato sviluppo in altre; spiegandosi anche i motivi logici e di fatto per cui si poté verificare una simile stravagante eccezione alla teoria ed alla esperienza universali.

 

 

Che, se Colajanni riuscirà a dare colle sue statistiche una dimostrazione cosiffatta, la quale uguagli in rigore di logica e ricchezza di prove statistiche, sapientemente analizzate, quelle che gli economisti hanno dato in passato della verità delle loro teorie, è probabile che egli assisterà al fatto miracoloso della conversione in massa degli economisti alle sue escogitazioni.

 

 

Fino a quel momento, egli consenta che gli economisti ostinatamente rimangano persuasi di avere dimostrato la verità razionale e sperimentale delle loro teorie, le quali comprendono, badisi bene, la esposizione della dottrina generale dell’utilità della libertà degli scambi, delle deviazioni particolari, logicamente immaginabili, e della impraticità quasi assoluta della applicazione di queste deviazioni, pur teoricamente ammissibili.

 

 

Nella quale ostinata convinzione essi si rafforzano meditando le due prove che egli adduce a favore del protezionismo e contro il liberismo, l’una relativa all’Italia e l’altra, all’Inghilterra. Prove e controprove egli afferma di addurre; ma è da ritenere che le altre dimostrazioni che egli dice di tenere in serbo pel suo volume prossimo valgano di più, ché queste non valgono proprio nulla.

 

 

Rispetto all’Italia agricola, egli afferma che i 26 anni dell’Italia liberista dal 1861 al 1887 sono la prova delle tristissime condizioni in cui il liberismo lasciò l’agricoltura; mentre i 26 anni dell’Italia protezionista dal 1887 al 1913 sono contrassegnati da un progresso confortante e notevolissimo.

 

 

Con buona pace sua, questo del progresso aritmetico del regime liberista o del progresso geometrico del regime protezionista è un paragone che non onora davvero la mente acuta di uno scienziato dalle severe abitudini scientifiche, come è l’on. Colajanni. Il suo odio al color rosso contro i liberisti gli impedisce di vedere che egli, nel fare questo paragone, dimentica le regole più elementari della logica statistica, le quali egli insegna pure ogni anno ai suoi studenti.

 

 

Le dimentica queste regole della comparazione statistica, appellandosi, non si sa perché, a Bastable ed a Pareto, i quali probabilmente volevano ammonire gli studiosi contro pericoli di paragonare due paesi differenti sotto molti rispetti e non solo sotto il rispetto della politica doganale. Probabilmente altresì, Bastable e Pareto se avessero preveduto il malo uso, che egli avrebbe fatto della comparazione tra due epoche diverse entro uno stesso paese, lo avrebbero ammonito che non bisogna paragonare, nello stesso paese, due epoche le quali differiscono, oltrecché per la mutata politica doganale, anche per altre circostanze importantissime e capaci da sole di spiegare le diverse conseguenze di fatto che il Colajanni vuole affibbiare al protezionismo ed al liberismo. Come è invero possibile un paragone fra due epoche così profondamente differenti tra di loro, come furono in Italia i due periodi 1861-1887 e 1888-1912? in cui gli effetti diversi, se ci furono, sono spiegabilissimi senza ricorrere alla testa di turco del libero scambio come fattore di decadenza od alla provvidenza protezionista come cagione di progresso. Ricorderò solo alcuni tra i fattori diversi i quali rendono assurdo di attribuire la decadenza dell’agricoltura italiana nel primo periodo al liberismo ed il progresso nel secondo al protezionismo:

 

 

  • 1) il risparmio nazionale fu nel primo periodo, ben più vigorosamente che nel secondo, assorbito dalle continue emissioni di titoli del debito pubblico ad alto tasso di interessi, dalla alienazione dei beni dell’asse ecclesiastico, e degli altri beni demaniali, dagli inasprimenti tributari succedentisi ad ogni anno, ecc., ecc. Il capitale non andò alla terra, essendo assorbito da altri impieghi attraenti o dagli acquisti della terra medesima, i quali, sebbene la cosa sembri paradossale, sottraggono capitali all’agricoltura, invece di portargliene;
  • 2) il primo periodo coincide nella prima parte, 1861-73, con un periodo di rialzo di prezzi e nella seconda parte, dal 1879 al 1887, con un periodo di ribasso mondiale di prezzi. A qualunque causa queste variazioni di prezzi siano dovute – al rincaro dell’oro, secondo gli uni, alla concorrenza transatlantica, secondo altri – certo esse producono l’effetto che le serie statistiche hanno nell’intero periodo una tendenza logica ad andare giù, perché si passa da anni di prezzi cari e crescenti ad anni di prezzi non ancora bassissimi, ma già calanti. Che cosa ha da fare il libero scambio in tutto ciò, io non riesco a comprenderlo. È chiaro che, liberismo o non liberismo, l’agricoltura italiana passò durante il 1861-87 da un periodo in cui i prezzi crescenti la incoraggiarono a progredire ad un periodo in cui i prezzi calanti scoraggiavano gli agricoltori da nuovi investimenti;
  • 3) tutto contrario fu il secondo periodo 1887-1913, in cui l’on. Colajanni immagina di vedere i trionfi agricoli del protezionismo. Esso si scinde in due parti: la prima, la quale va dal 1887 al 1894-96, in cui continua e si accentua il ribasso già iniziato nella ultima parte del periodo precedente; ed una seconda, dal 1896 ai dì nostri, in cui si inizia e progredisce quel grande incremento odierno dei prezzi di cui tutti favellano e discorrono. È altresì chiaro che in questo secondo periodo, artificiosamente fatto cominciare dal 1887, le serie statistiche debbono tendere nel complesso all’aumento, poiché si passa da anni di prezzi calanti ad anni di prezzi crescenti, da un periodo in cui gli agricoltori si astenevano da ogni nuovo investimento capitalistico, perché vedevano che i prezzi del grano, del vino, del bestiame andavano giù, ad un periodo in cui il crescere continuo dei prezzi spinse ad un inopinato fervore di vita e di audacie gli agricoltori. Gli storici protezionisti ed officiosi somigliano alla mosca cocchiera, la quale immaginava di trarre il carro, perché stava sulla schiena del bue. Essi immaginano che la «sapienza del governo» nell’istituire le «provvidenze» mirabili dei «dazi protettori del lavoro nazionale» sia stata la causa della maggiore energia produttiva degli agricoltori italiani, dei concimi chimici che si comprano in maggior copia, dei formaggi che a Reggio Emilia ed a Parma si producono in quantità crescente, delle conserve di pomidoro che spargono il nome d’Italia fino nella lontana Australia, e non s’avvedono che i governanti ed i loro dazi protettori sono delle mosche cocchiere, e che il bue il quale ha tirato innanzi il carro dell’agricoltura italiana è stato in primissimo luogo l’agricoltore italiano – che i governanti apprezzano solo per la sua pazienza nel pagare imposte ed i trivellatori per la ingenuità con cui si lascia indurre a pagare fitti alti ai proprietari di terre, e prezzi esorbitanti per gli aratri, i concimi chimici, i rimedi cuprici, i vestiti, i materiali da costruzione, ecc. – allettato dalla speranza di prezzi meno bassi di quelli che prevalevano prima. Si illudono le mosche cocchiere di condurre il mondo scarabocchiando carte a Roma od esigendo dazi alla frontiera: e non si accorgono che il mondo andrebbe assai meglio senza il fastidio della loro presenza; e, malgrado esso, va innanzi da sé;
  • 4) una storia più esatta degli avvenimenti succedutisi dal 1861 in poi dividerebbe, forse, la storia dell’agricoltura italiana in tre periodi, diversi da quelli immaginati dall’on. Colajanni. Un primo, il quale va dall’unificazione fin verso il 1880, e che non dovette essere di regresso, se in quel tempo si compì la grande trasformazione agricola del Mezzogiorno, con lo sviluppo della viticoltura e della agrumicoltura, se i fitti malgrado l’assenza di dazi, in ogni parte d’Italia erano in aumento e se si ottenevano prezzi persino eccessivi, sebbene, dopo il culmine del 1873, già leggermente calanti, per i prodotti agrari. I progressi forse non furono quanto potenzialmente potevano essere, a cagione della scarsità dei risparmi nuovi e del loro assorbimento da parte dello Stato. Ma non furono nemmeno irrilevanti.

 

 

Un secondo periodo comincia già verso il 1880, si accentua col 1887, dura acutissimo sin a quasi tutto il 1898, in cui si hanno le sue più rumorose, sebbene tarde manifestazioni, finché colla fine del secolo ha termine un periodo di depressione economica, in Italia, come in tutto il mondo. La grande ondata dei prezzi bassi, la quale si abbassa al livello minimo verso il 1894-96, era cominciata fin dal 1873, ma solo dopo il 1880 si era resa sensibile. Quell’ondata toccava gli agricoltori italiani a causa dell’irrompere della concorrenza transatlantica; ma tutti gli indagatori sono d’accordo coll’indicarne la causa più importante, sebbene forse non unica, nella diminuzione della produzione dell’oro e nella febbre di smonetizzazione dell’argento da cui furono colti i principali Stati del mondo, che fecero rincarire la moneta e svilire i prezzi. Fu allora che fu compiuta la grande inchiesta agraria, la quale ebbe il colore pessimista del tempo. Ma che in realtà l’agricoltura italiana dal 1861 fino al 1880 avesse regredito sul serio, da quell’inchiesta non fu potuto dimostrare. Si vedeva la possibilità di ulteriori grandi miglioramenti, cosa ben diversa dalla constatazione effettiva di un regresso avvenuto nel passato. E che il libero scambio dei prodotti agrari non fosse creduta la cagione di un regresso inesistente è dimostrato dalle conclusioni del presidente e relatore generale dell’inchiesta, il conte Jacini, il quale si palesò contrario all’introduzione dei dazi protettori per l’agricoltura. L’avviso contrario di chi fu davvero l’economista agrario principe dell’Italia vale almeno almeno il consenso ai dazi protettori di tutto un esercito di agricoltori pratici e di cattedratici ambulanti – non tutti però, nemmeno adesso, sono convinti della necessità del dazio! – cresciuti, dopo, all’ombra delle 7,50 lire di dazio. Ciononostante il dazio fu aumentato via via da 0,50 a 3 e poi a 5 e poi a 7 e poi a 7,50 perché la finanza, assillata dai disavanzi caratteristici dei periodi di depressione economica, trovò comodissimo di ascoltare il gridio degli agricoltori organizzati, a cui il senatore Rossi da Schio faceva eco a nome degli industriali.

 

 

Colajanni ha un bel dire il dazio sul grano non fu il pretium sceleris del patto fra agricoltura ed industria ai danni dei contribuenti; ma la verità storica, è proprio quella affermata dall’amico Prato e che, non si sa perché, dà ai nervi al Colajanni.

 

 

Si può ammettere che i bisogni della finanza abbiano avuto la lor parte nella formazione della tariffa doganale italiana; ma è certo che se i saltimbanchi della sinistra non avessero abolito il macinato, imposta incommensurabilmente migliore, dal punto di vista di quella che si usa chiamare «giustizia tributaria», del dazio sul grano, la finanza non avrebbe avuto affatto bisogno di un dazio, che pei contribuenti è quattro volte più pesante, pur rendendo i due terzi all’incirca soltanto di quanto oggi renderebbe l’odiatissimo macinato. I bisogni della finanza condussero a cercare nuove entrate; ma il patto orrendo sancito tra fisco, agricoltori ed industriali indusse il governo a scegliere i dazi protettori quale mezzo di procacciare all’erario nuove entrate, mentre altri mezzi assai più corretti, potevano essere adottati. E, dicasi quel che si voglia, le sorti dell’economia italiana, in quanto dipesero dalla tariffa doganale del 1887, volsero pessime. Io non dirò, imitando i sofismi protezionisti, che i disastri dell’agricoltura ed in genere di tutta l’economia nostra dal 1887 al 1898 siano stati dovuti soltanto alla tariffa protettiva. Molti fattori contribuirono all’uopo: la liquidazione della crisi economica scoppiata in seguito alle pazzie ed agli errori commessi nel periodo 1880-87 (crisi edilizia, crisi vinicola, crisi bancaria), agli errori commessi dal governo nella politica internazionale e nella gestione della finanza, alle dilapidazioni del tenue risparmio nazionale nei grandiosi programmi ferroviari e nelle campagne eritree, ecc., ecc. Ma quando si vede, paragonando gli anni immediatamente precedenti e quelli immediatamente successivi al 1887, verificarsi una contrazione notevole del commercio internazionale, quando si assiste al languire di alcune italianissime industrie, mentre andavano sorgendo quelle protette; quando si riflette che, a così breve distanza di tempo, gli altri fattori influenti non possono aver subito dei mutamenti profondissimi, allora si ha una certa ragione di concludere che il peggioramento avvenuto nella economia italiana dal 1887 fino verso il 1898 non possa essere considerato privo di ogni relazione di effetto a causa con la mutazione del regime doganale. Allora ci troviamo di fronte ad una di quelle riprove statistiche, che, se non hanno assoluto valore probatorio, l’hanno di gran lunga maggiore dei paragoni assurdi istituiti da Colajanni tra due periodi così diversi, così lontani come il 1861-87 ed il 1888-912.

 

 

Col 1898 circa, comincia l’ultimo periodo storico dell’agricoltura nazionale, che è periodo di ascensione. Ecco, dicono i protezionisti, i beneficii della politica protettiva! E perché, rispondiamo noi, il protezionismo ha aspettato tanto a manifestare i suoi benefici effetti?

 

 

Perché ha aspettato proprio a rivelare le sue virtù, quando l’asprezza dei dazi delle tariffe del 1887 era stata temperata dai successivi trattati di commercio, specie da quelli del 1902 con le potenze centrali? In verità anche quest’ultimo periodo della nostra storia economica è straordinariamente complesso. Il risparmio, non più assorbito dallo Stato, può dedicarsi a migliorie agricole. La classe contadina dai prezzi crescenti delle derrate agrarie riceve i mezzi per intensificare le culture. L’ascesa coincide, in Italia come altrove, coll’inizio della nuova grande ondata all’insù dei prezzi, provocata sovratutto dalla straordinaria e crescente produzione d’oro (Transvaal). In questi periodi di prezzi crescenti, i redditi aumentano, gli scioperi procacciano agli operai aumenti di salario, i quali si convertono in aumenti di consumo, di vino, di carni, di latticini, formaggio, uova, frutta, ecc., ecc. A questo risveglio economico, segnalato dagli osservatori in tutti i paesi del mondo ed in non pochi compiutosi con metro assai più rapido che in Italia, è dovuta la risurrezione dell’agricoltura padana, che nell’inchiesta agraria del Jacini era parsa la più sofferente e che sola in Italia, salvo la provincia di Napoli, aveva chiesto l’acceleramento delle operazioni catastali, perché si riteneva la più gravata d’imposte in confronto a redditi allora decrescenti. La rifioritura della terra padana è contrassegnata specialmente da quale fatto specifico nel rapporto del regime doganale? dalla minore importanza data alla cultura del grano, fortemente protetta e dalla crescente tensione della cultura dei foraggi, assai meno protetti, e dall’allevamento del bestiame e dei caseifici e dalle altre culture secondarie, come la frutta, la pollicoltura, l’orticoltura (pomidori di Parma!!), le quali o non sono protette, od hanno una protezione nominale, perché essendo industrie esportatrici, il dazio non funziona rispetto ai prezzi, non essendosi finora stabiliti sindacati simili a quelli degli zuccherieri e dei siderurgici per estorcere ai consumatori i prezzi massimi consentiti dalla protezione. E qual è il fatto caratteristico della cultura a grano? che essa, per l’alto prezzo del grano, alto non solo per i prezzi migliori mondiali, come per gli altri prodotti, ma per l’enorme sovraprezzo dovuto al dazio, si è estesa per modo da diventare un vero flagello economico. Il Colajanni ha certamente meditato a lungo le pagine del Valenti sull’agricoltura italiana nella grande pubblicazione dei Lincei e più le statistiche pubblicate da lui quand’era a capo dell’ufficio di statistica agraria, sulla ripartizione delle culture nelle varie regioni d’Italia, a seconda dell’altitudine. Se una verità chiarissima zampilla fuori da quelle indagini è questa: che la cultura del grano non ha bisogno, per vivere, di dazio dove essa è produttiva e sarebbe meglio non ci fosse, ove il dazio è indispensabile a renderla conveniente. Andiam gridando: boschi, boschi! ed ogni giorno lasciamo distruggere sotto i nostri occhi i boschi, perché il contadino vuole rubare in fretta ed in furia tutta quella maggior quantità di grano caro che la terra diboscata gli può dare, né si cura se, dopo alcuni anni, quelli che eran boschi diventano gerbidi incolti e rocce nude. Ecco gli effetti specifici del dazio sul grano e non i progressi mirabili di talune plaghe agricole d’Italia, a tutt’altre cause dovuti!

 

 

Aspetto, dopo ciò, che il Colajanni documenti le sue incredibili affermazioni intorno ai rapporti di causa ad effetto tra protezionismo e progresso agricolo. Ma deve essere una dimostrazione la quale abbia almeno quell’apparenza di un principio di prova, che le sue cifre odierne, buttate giù a casaccio, non hanno neppure da lontano.

 

 

Prove alquanto più ragionevoli dovrà altresì addurre il Colajanni per dimostrare sul serio che la sequela delle cifre da lui addotte riguardo ai rapporti fra consumi e prezzi del frumento in Italia costituisce davvero «un paradosso economico assai impressionante e molto sconcertante pei liberisti».

 

 

Egli tira fuori le seguenti cifre:

 

 

Anni

Prezzo medio del grano per q.le

Anni

Consumo medio del grano per abitante

1871-75

L. 34,81

1870-74

Kg. 145

1881-83

25,09

1879-83

132

1891-93

24,83

1894-96

119

1908-912

29,53

1907-911

156

 

 

e dice che esse ci dovrebbero impressionare e sconcertare, perché dimostrerebbero che:

 

 

  • a) è diminuito il consumo quando diminuiscono i prezzi e viceversa; diguisaché non sarebbe vero che sempre ai prezzi bassi corrisponda benessere ed ai prezzi alti malessere delle classi lavoratrici;
  • b) è erroneo supporre perciò che i dazi doganali, facendo aumentare i prezzi del frumento, ne facciano diminuire il consumo; mentre invece il regime protezionista migliorando la condizione economica dei lavoratori permise loro di acquistare maggior quantità di grano, malgrado i prezzi più alti.

 

 

L’on. Colajanni è felice, stavolta, di avere «un paradosso economico» capace di farci diventare verdi di bile. Purtroppo – è doloroso doverlo disingannare così presto – il suo non è un paradosso, ma, in quanto è vero, è spiegabilissimo senza ricorrere ai nefandi delitti del liberismo ed alle mirifiche virtù del protezionismo; ed in quanto è mal spiegato ripete un vecchissimo sproposito dei protezionisti, le cento volte confutato, fin dall’epoca della buon’anima di Bastiat. Innanzitutto, io non so, ma è cosa certissima che lo ignora anche l’on. Colajanni, se il paradosso da lui scoperto corrisponda al vero. Esso riposa tutto sulla esattezza delle tre prime cifre del consumo del grano: Kg. 145 nel 1871-75, Kg. 132 nel 1881-85 e Kg. 119 nel 1891-95. Non parlo dell’ultima cifra di Kg. 156 pel 1908-912 su cui può aver avuto influenza la nuova organizzazione della statistica agraria operata dal Valenti e che quindi può avere una certa approssimazione alla verità. Ma le tre prime cifre donde le ha tratte l’on. Colajanni? Esse si leggono, è vero, negli Annuari statistici ufficiali: ma sono ricavate dalle vecchie statistiche della produzione agraria, che sono da tutti riconosciute come erronee.

 

 

Trattasi di statistiche conclamate false da tutti gli studiosi, che è noto essere state raccolte in modo burlesco a mezzo di sindaci e di segretari comunali, statistiche su cui pesava il vizio d’origine, a partir dagli anni in cui la perequazione dell’imposta fondiaria minacciava di diventare una realtà, ossia dal 1880 in poi circa, dell’interesse di ogni comune a rimpicciolire la propria produzione agraria. Statistiche di questo genere si buttano nell’immondezzaio, on. Colajanni, e non si sbandierano a prove di fantastici paradossi economici.

 

 

Poiché il paradosso, se le statistiche false si suppongono per un istante vere, esiste solo nella immaginazione iraconda e turbata di Colajanni.

 

 

Proprio a farlo apposta, non si potrebbero inventare cifre più atte ad essere spiegate con i fatti della nostra storia economica, senza ricorrere al babau liberista od all’arcangelo liberatore protezionista. Il consumo maggiore del frumento sarebbe stato naturale nel 1871-75 e fin verso il 1883 – le cifre di 145 e 132 presentano una differenza che, vorrà ammetterlo Colajanni, deve essere trascurata in tanta incertezza sulle fonti – se si ricorda ciò che ho detto dianzi del periodo ascensionale attraversato dall’economia mondiale fino al 1880 circa. Gli anni dal 1891 al 1896 furono gli anni di depressione massima dell’agricoltura in tutto il mondo, di crisi economica in Italia e si comprende come il consumo del frumento abbia potuto diminuire. Ma ciò che non si comprende, è che Colajanni abbia la mente così turbata dalla vista dello straccio rosso liberista da addurre la cifra di 119 kg. di consumo minimo nel 1894-96 come una prova a sostegno della sua tesi. Se quella cifra è vera, essa è una riprova luminosa della verità della teoria liberista, per cui il protezionismo, inaugurato nel 1887, aveva immiserito per modo la popolazione italiana che essa, malgrado i prezzi bassi del frumento, doveva ridurne il consumo. Io non dirò che questa sia stata la sola causa del diminuito consumo. A produrlo cooperarono le rovine cagionate dalla protezione doganale nei primi anni di sua applicazione, le conseguenze delle crisi edilizie e finanziarie da cui allora era travagliata l’Italia e le ripercussioni italiane della ondata mondiale verso i prezzi bassi. Ed ho già detto sopra che, a partir dal 1900, tutto il mondo economico è portato in su da un’ondata di rialzo di prezzi, che vivifica lo spirito di intrapresa, aumenta i guadagni, sommuove le classi operaie, ne eleva il tenor di vita e ne fa quindi crescere i consumi.

 

 

Che cosa v’è di paradossale in tutto ciò? Nulla. Non è la sua la sola statistica, la quale metta in chiaro consumi crescenti a prezzi crescenti e consumi calanti a prezzi calanti. Altre parecchie, ed esatte, specialmente nel campo minerario, se ne potrebbero addurre. Provano desse qualcosa contro la verità della teoria che, a prezzi bassi, il consumo è più alto che a prezzi alti? Prezzi bassi non sono prezzi calanti; come prezzi crescenti non sono prezzi alti. I liberisti dicono che se un dazio protettore fa aumentare il prezzo del grano, i consumatori, che sono poi tutti gli altri produttori del paese con le loro famiglie, fuori dei proprietari di terre a grano, non avendo un soldo di più in tasca, debbono per forza restringere il consumo del grano o, più probabilmente, per una legge ben conosciuta della domanda congiunta, aumentare ancora di più il consumo del grano, che è cibo inferiore, e restringere altri consumi superiori, come carne, vino, vestiti, casa, ecc. dove tali consumi superiori esistano e siffatte restrizioni siano quindi possibili.

 

 

Ma se i prezzi del grano salgono, per un movimento mondiale dei prezzi al rialzo, non ci troviamo più dinanzi ad un mero fenomeno statico di trasposizione di denaro da una tasca all’altra, bensì di fronte ad un movimento dinamico. Salgono i prezzi, ma salgono anche i guadagni, fanno scioperi vittoriosi gli operai, la gente è allegra e spende volontieri; i governi diventano imperialisti; tutti sono presi dalla fregola del consumo e dalla grandigia. Tutto il mondo economico e sociale cambia faccia ed uno degli aspetti di questo mutamento di faccia è l’aumento dei consumi.

 

 

Colajanni dirà: ma anche il dazio sul grano, accompagnato da un regime protezionista generale, è un lievito di progresso introdotto nel corpo sociale. Il protezionismo fa aumentare i prezzi e quindi i guadagni degli industriali e quindi i salari e perciò dà modo agli operai di consumare di più. Ed io umilmente professo di essere pronto a credergli quando egli mi avrà dato la dimostrazione logica ed empirica – logica ed empirica insieme però, perché i fatti non spiegati e non collegati da ragionamenti non valgono nulla – che noi siamo nel torto quando dimostriamo, con ragionamenti celebri da un secolo, che i protezionisti affettano di disprezzare solo perché non hanno trovato in essi ancora la minima falla, che il protezionismo non vuol dire progresso dell’intiera società economica, ma semplice spostamento di capitale e lavoro da un impiego ad un altro e precisamente da impieghi più produttivi ad impieghi meno produttivi.

 

 

Sarebbe certamente interessante sapere in qual modo un dazio protettivo per una o parecchie o magari – se la cosa non fosse logicamente ed effettivamente assurda – per tutte le industrie di una nazione, possa riuscire ad aumentare la quantità di risparmio nuovo – di quello vecchio non occorre parlare, ché esso era già tutto, salvo i casi nei tempi odierni trascurabili, e del resto indipendenti dal protezionismo o liberismo, di tesaurizzazione, impiegato fin da prima – che via via si viene producendo nel paese; e come quindi il dazio protettivo possa, per sua virtù specifica, produrre una occupazione maggiore ed una più viva produzione complessiva di ricchezza. Ma il mistero, che sarebbe per ogni studioso avido di conoscenze nuove appassionante di poter svelare, rimane finora un mistero profondissimo. Sino al giorno in cui esso non sia svelato, Colajanni potrà sfiatarsi a gridare che i suoi fatti sono maschi e le nostre teorie sono femmine. Noi gli risponderemo che sono maschi solo i fatti che hanno parlato e che si sono organizzati in una teoria rispondente a verità; mentre i fatti, i quali non hanno ancora potuto in tanti anni od in tanti secoli dar ragione di sé stessi sono fatti mutoli, son fatti eunuchi.

 

 

E passo all’Inghilterra. Intorno a cui i protezionisti italiani si sono divertiti ad inventare ogni sorta di stravaganze contrarie alla verità storica. La più diffusa è la vecchia leggenda, secondo cui l’industria inglese si sarebbe rafforzata col protezionismo, e solo dopo essersi cosiffattamente rafforzata da non temere la concorrenza estera avrebbe voluto il libero scambio, allo scopo di poter schiacciare meglio l’industria straniera od impedirle di sorgere nei proprii paesi. Tesi la quale storicamente contrasta al vero, essendo ben diverse le cause per cui l’industria inglese assurse a grandezza nell’ultima parte del secolo XVIII e nel primo terzo del secolo XIX; non la protezione doganale, ma l’utilizzazione del carbon fossile e delle miniere di ferro insieme con l’invenzione delle caldaie a vapore furono le cause per cui l’Inghilterra vinse quella battaglia industriale, che ancora verso la metà del secolo XVIII sembrava pendere a favore dei paesi continentali. L’amico Prato ha dimostrato nella memoria sul Problema dei combustibile nel periodo pre-rivoluzionario come fattore della distribuzione topografica delle industrie (su cui confronta la relazione pubblicata a pag. 582 della «Riforma Sociale» del 1912) la mancanza di foreste aveva impedito all’Inghilterra di prendere un gran posto nel novero delle nazioni industriali europee, tra cui eccellevano la Francia, la Germania, l’Austria, la Scandinavia e ultimo anche il Piemonte; e solo la caldaia a vapore e la utilizzazione del carbon fossile condussero l’Inghilterra al primo posto tra i grandi paesi industriali. Ciononostante, l’alto costo delle provvigioni, dovuto ai dazi doganali protezionisti, danneggiava per modo l’industria, che questa durante tutto il primo terzo del secolo XIX era ben lungi dall’aver acquistato quella floridezza impareggiabile che i, protezionisti nostrani favoleggiano; e non fu per rassodare un dominio, già conquistato, ma per trarsi di mezzo ad una condizione di languore e d’inferiorità che gli industriali inglesi, più accorti in ciò degli odierni industriali italiani, vittime in gran parte di pochi gruppi privilegiati, accolsero con entusiasmo la predicazione liberista dei Cobden e dei Bright.

 

 

Questa è la vera sequela dei fatti storici: non una industria arricchita dal protezionismo e vogliosa di distruggere con un diabolico piano liberista le industrie straniere, ma un’industria che si credeva rovinata dal protezionismo e voleva col libero scambio ridurre i proprii costi di produzione. Sarebbe interessante di conoscere le prove che i protezionisti adducono della loro teoria storica. Dovrebbero essere ben diverse da quelle che il Colajanni adduce per accagionare il liberismo della rovina dell’agricoltura inglese.

 

 

Qui il groviglio delle affermazioni infondate e delle interpretazioni erronee dei fatti è siffatto che occorre procedere quasi a caso, affrontando la battaglia in ordine sparso.

 

 

  • 1) Il libero scambio sarebbe stato la causa della rovina dell’agricoltura inglese. Ha fatto Colajanni attenzione alle date? Il libero scambio si instaura nel decennio dal 1840 al 1850, e la rovina – non dico ancora la «cosidetta» rovina, per non confondere argomentazioni diverse – dell’agricoltura comincia ben dopo il 1880, e raggiunge il suo acme nel 1896, anno in cui chi scrive pubblicò sul Giornale degli economisti la sua brava tesi di laurea appunto intorno alla crisi agricola inglese. È una causa di nuovo genere questa, la quale cova sotto la cenere per quarant’anni ed esplode a distanza enorme di tempo con furia distruggitrice. Nell’intervallo nessuno si era accorto che il libero scambio avesse prodotto la crisi dell’agricoltura. I fittaioli avevano prosperato come forse non mai prima, ed i fitti delle terre avevano toccato altezze che non avevano raggiunte neppure durante il grande periodo aureo della scala mobile e dei prezzi del frumento a 100 scellini e più al quarter. Sia detto ancora una volta con sopportazione dei protezionisti, ma sembra a me che se il libero scambio era capace di tutti quei malanni, di cui ora lo accusano, avrebbe dovuto produrli subito. Tutti gli osservatori sono d’accordo invece nel ritenere che l’aculeo della concorrenza aveva giovato agli agricoltori come agli industriali inglesi, sicché essi avevano perfezionato i loro metodi culturali e diminuito i loro costi di produzione.

 

 

Non voglio con ciò affermare che la prosperità dell’agricoltura inglese fosse dovuta allora al libero scambio, poiché, non volendo cadere negli errori di logica che rimprovero ai protezionisti, debbo avvertire che fattori concomitanti e potentissimi di prosperità erano due fatti: 1) l’incremento rigoglioso dell’industria, dovuto a sua volta in parte alla possibilità di comprare le materie prime sul mercato mondiale ed interno senza alcun ostacolo di dazi protettivi, incremento il quale apprestava falangi di consumatori operai a salari crescenti per prodotti del suolo inglese; 2) l’ondata dei prezzi che dal 1850 fino al 1873, dalla scoperta delle miniere d’oro di California e di Australia sino alla smonetizzazione dell’argento, volsero al rialzo in Inghilterra come in Italia. Non che i prezzi raggiunti fossero alti come quelli del blocco continentale; ma erano crescenti e quindi incitavano gli agricoltori agli investimenti per la speranza di ottenere quei profitti che gli imprenditori godono sempre nei periodi storici «dinamici» con tendenza al rialzo.

 

 

Quarant’anni dopo l’instaurazione del libero scambio l’ondata dei prezzi si rovescia, e timidamente dal 1873, più accentuatamente dopo il 1880, rapidamente dopo il 1890 fino al 1896 i prezzi precipitano e si avvera quello che fu detto il periodo della grande depressione agraria. Ed allora i sicofanti, che erano rimasti zitti per quarant’anni, si svegliano e tornano a gridare: il libero scambio, ecco il nemico! Come se una data politica economica potesse essere chiamata responsabile delle grandi mutazioni storiche che sconquassano a tratti il mondo; come se il libero scambio potesse essere ritenuto responsabile del fatto che dal 1873, fin quasi verso il 1900, il mondo intiero attraversò un periodo di stasi e di languore, dovuto a cause imperfettamente conosciute, di cui la più importante sembra essere stato il rincaro dei metalli preziosi ed il rinvilio dei prezzi, con tutti i conseguenti fenomeni, di crisi industriale, diminuzione di profitti, perdite di capitale, disavanzi dei bilanci degli Stati, ecc. ecc[3]. Quel periodo fu di stasi e di languore dappertutto, nell’Inghilterra liberista, come nella Francia, nella Germania e nell’Italia protezionista; e, se si facessero le opportune esatte misure, riterrei ben difficile provare che le perdite siano state maggiori nell’Inghilterra che negli altri paesi. Così ad occhio e croce, disastri come quelli edilizi, bancari e viticoli dell’Italia, o come la crisi del 1873 in Austria, o come la crisi economica che travagliò la Germania, con tanto stupore di Bismarck, dopo il 1875 fin verso il 1885, non si ebbero in Inghilterra. Come pure, checché vadano dicendo gli impressionisti, le crisi economiche del periodo liberista per molte cause hanno in Inghilterra una intensità minore delle crisi del periodo protezionista e spesso minore delle contemporanee crisi europee ed americane. La crisi del 1907 informi; conclamata negli Stati Uniti, acutissima in Germania, eterna e non ancora guarita in Italia, quasi non lasciò traccie durature in Inghilterra, dove il boom della gomma elastica e il grande sciopero carbonifero passarono senza intaccare sensibilmente valori e profitti.

 

 

La depressione mondiale del periodo 1880-900 cagionò però, dicono i protezionisti, la rovina dell’agricoltura, la quale si sarebbe potuto evitare se verso il 1880 si fossero applicati dei dazi protettivi, così come insegna la scienza economica (vedi sopra l’esposizione della teoria dei tre stadi A, B, e C) per consentire all’agricoltura inglese il passaggio dallo stadio a prezzi alti A del 1850-73 allo stadio C del 1900-912 pure a prezzi alti, senza la scossa intermedia del periodo B, 1873-1896-900 a prezzi calanti. Ragion vuole che si ammetta la ragionevolezza della cosa per il motivo che subito si dirà; ma verità vuole che si ricordi subito come durante la grande inchiesta inglese del 1882 detta del Duke of Richmond Commission, citata dal Colajanni e durante la successiva inchiesta del 1890-95 on the agricultural depression, furono precisamente gli economisti quelli che misero il dito sulla piaga, analizzarono le cause del fenomeno dell’ondata dei prezzi al ribasso e videro quale era il rimedio: rimedio lontano, difficile ad attuarsi, ma unico esente da pericoli, ove si trovasse la maniera tecnica di attuarlo, ossia la creazione di un tipo monetario internazionale stabile, in cui la quantità delle emissioni di moneta sia regolata per modo da conservare stabilità al livello generale dei prezzi.

 

 

Escluso questo rimedio, che anche ora, malgrado i geniali sforzi di tanti indagatori, e recentemente del Fisher, appare di assai ardua e forse impossibile attuazione, si sarebbe potuto seguire la via che gli economisti esposero e che si potrebbe riassumere schematicamente così:

 

 

Schema primo

 

 

 

Periodo di prezzi crescenti

calanti

crescenti

 

1850-1873

1873-96

1896-912

Livello medio fuori dogana dei prezzi agricoli

30

20

30

Dazio doganale

10

Livello medio dei prezzi entro dogana

30

30

30

 

 

Si sarebbe potuto seguire questa via di una protezione temporanea, perché l’ondata dei prezzi calanti del periodo 1873-96 coincideva, non si sa se casualmente o per qualche nesso causale non bene chiarito, con la grande ondata della concorrenza cerealicola transatlantica. I prezzi dei cereali – in seguito si aggiunse, per l’applicazione dei sistemi refrigeranti ai trasporti marittimi, la concorrenza delle carni conservate argentine, neo zelandesi, nord americane, ecc. – precipitavano per l’azione combinata di due circostanze: il rincaro dei metalli preziosi e la concorrenza dei cereali prodotti a basso costo delle pianure, che parevano sterminate, degli Stati Uniti. Contro il rincaro dei metalli preziosi, il rimedio del dazio doganale protettore appariva disadatto, sia perché era ben difficile prevedere la fine del periodo dei prezzi calanti per azione della scarsa produzione aurifera, sia perché contro un’azione la quale agisce su tutti i prezzi di merci e di servizi sarebbe stato scorrettissimo applicare un rimedio, il quale, per definizione, poteva agire solo per alcuni prezzi.

 

 

Ammettendo, cosa per sé stessa dubbia, che con un dazio protettore si fosse potuto fermare la tendenza al ribasso dei prezzi dei cereali, in un periodo di prezzi calanti per cause monetarie, perché contrastare siffatta tendenza solo per i cereali e non per i carboni – che ribassavano anch’essi grandemente, onde si ragionava in quel tempo in Inghilterra anche di crisi mineraria – e non per i cotoni, e non per tutte le altre merci e servizi, la cui rimunerazione scemava per causa del ribassare del livello generale dei prezzi? Proteggere solo il grano e non tutte le altre merci, soggette alla medesima influenza, era manifestamente scorretto ed avrebbe avuto sapore di un ladrocinio di classe; proteggere tutte le merci era impossibile. Come proteggere, in Inghilterra, il carbone, che era merce di esportazione?

 

 

Il dazio protettore era dunque astrattamente ammissibile, durante il passaggio dal periodo A al periodo C, solo per contrastare la causa specifica di ribasso dei cereali, particolare ad essi e non a tutte le altre merci, consistente nella concorrenza transatlantica. Astrattamente ammissibile, dato si potesse misurare esattamente l’importanza di questa causa specifica, la durata probabile del suo agire e si potesse dimostrare con fondamento che il costo della protezione temporanea era minore del costo delle trasformazioni successive agricole nel passaggio dall’uno all’altro periodo economico. L’Inghilterra, fatti suoi calcoli, opinò che il costo della protezione fosse troppo alto e preferì che i prezzi ribassassero da 30 a 20 e poi risalissero a 30, sottoponendosi a tutte le perdite derivanti dal movimento dinamico dei prezzi, ora schizzato con cifre che non vogliono pretendere ad alcuna esattezza, ma furono addotte solo a delineare l’andamento generale dei fenomeni.

 

 

E sinceramente, a vedere che cosa è accaduto nei paesi continentali, i quali pretesero di seguire gli insegnamenti degli economisti, vien voglia di dire a questi ultimi di pigliarsi ben guardia dall’immaginare casi teorici di possibili vantaggiose applicazioni di dazi protettori, ché i trivellatori ne faranno sicuramente qualche sconcissima contraffazione.

 

 

Ecco che cosa è successo sul continente:

 

 

Schema secondo

 

 

 

Periodo di prezzi crescenti

calanti

crescenti

 

1850-1873

1873-96

1896-912

Livello medio fuori dogana dei prezzi agricoli

30

20

30

Dazio doganale

10

10

Livello medio dei prezzi entro dogana

30

30

40

 

 

Nel terzo periodo il dazio avrebbe dovuto essere abolito sia perché mancava il pretesto del ribasso dovuto a cause monetarie, sia perché la concorrenza transatlantica dell’Argentina e del Canadà ora si esercita a prezzi ben più alti di quanto dal 1880 al 1900 si esercitasse la concorrenza, degli Stati Uniti, i quali hanno finito di appartenere al novero dei paesi esportatori di grano e tutto fa credere diventeranno paesi importatori.

 

 

Malgrado ciò di fatto, è assurdo sperare che i trivellatori si decidano al sacrificio. Hanno trovato e troveranno per lunghi anni ancora ogni specie di pretesti per rifiutarsi all’abolizione. Accade in questo caso, come in quello delle industrie giovani, che i dazi si sa quando si mettono, non si sa quando, saranno tolti. Nessun agricoltore protetto troverà mai che i prezzi del grano sono troppo alti, e tutti sono pronti a fare dei conti dei costi di produzione che dimostrano, come quattro e quattro fanno otto, che essi perdono a coltivare grano. Naturalmente tra gli elementi del costo mettono l’interesse al 5% del prezzo capitale del terreno, il quale, per accidente, vale proprio 2000 lire all’ettaro e vale proprio 2000 lire all’ettaro perché i prezzi del grano sono rincarati dal dazio di protezione.

 

 

In Inghilterra pensarono che, dopotutto, lo schema primo valeva meglio dello schema secondo; e che era meglio adattarsi a perdere una grossa somma per le occorrenti trasformazioni agricole[4], piuttosto che caricarsi di dazi protettori per un tempo indefinito. Ed hanno avuto ragionissima.

 

 

  • 2) Poiché importa dire subito una verità. Coloro i quali ragionano di crisi dell’agricoltura inglese, di depressione e rovina agricola, applicano ai fatti dell’oggi le loro reminiscenze di quindici o vent’anni addietro.

 

 

Certo il passato vicino esercita ancora una influenza notevolissima sulla situazione odierna; certo l’agricoltura inglese, per motivi che dirò subito, i quali però non hanno nulla a che fare col libero scambio, ha atteggiamenti che a noi ed a molti inglesi possono sembrare dannosi all’economia generale del paese; ma è un errore grossolanissimo discorrere oggi di crisi agricola, nel senso proprio, economico, che si suole attribuire alla parola crisi: di prezzi bassi, non remuneratori, di terre abbandonate perché non offrono modo d’impiegare in alcun modo capitale e lavoro. Possono descrivere così l’agricoltura inglese d’oggi gli scrittori citati dal Colajanni e cioè il Times, disgraziatamente caduto in mano dello stesso grande giornalista giallo, il quale è a capo del Daily Mail e del trust dei giornali imperialisti e protezionisti, il Ridder Haggard, giornalista sensazionale del genere di quelli che in Italia descrissero le meraviglie agricole libiche prima della guerra e nei primi tempi di essa, lo Stead, nobile tempra di combattente, ma fantastico e prontissimo alle montature più contraddittorie, i relatori della Tariff Commission inscenata dallo Chamberlain per persuadere l’opinione pubblica a lasciarsi mettere sul collo il giogo della protezione doganale, le cui statistiche e dimostrazioni sono però prese sul serio soltanto dai protezionisti continentali ed isolani, ma la cui esattezza e veridicità è vivamente contrastata dagli organi più competenti del pensiero economico e dal governo inglese medesimo. Di “finti” liberisti, come il Ridder Haggard, in Italia ne conosciamo molti. Il loro cuore spasima per la causa sacrosanta della libertà degli scambi; ma intanto il loro voto e la loro opera politica è diuturnamente spesa a favore dei trivellatori, i cui interessi servono assai meglio di quello che non facciano i protezionisti ingenui e dichiarati, come è il Colajanni.

 

 

Sulle condizioni attuali e sulle tendenze dell’agricoltura inglese nel momento presente un buon libro ancora da scrivere. Vi sono alcuni indizi intanto i quali fanno credere che le ombre non siano più così fitte come quindici o vent’anni or sono. È chiarissimo che coi prezzi del frumento a 30-32 scellini al quarter le condizioni dei farmers sono ben migliori di quelle che erano verso il 1896 coi prezzi intorno ai 20 scellini; e poiché mutarono in correlazione tutti gli altri prezzi dei cereali, è evidente come la luce del sole che il non ritorno dell’agricoltura inglese alla cultura dei cereali deve essere dovuto a qualche altra circostanza diversa dalla libera entrata dei cereali esteri a prezzi bassi. La concorrenza delle carni refrigeranti argentine anch’essa si è chiarita incapace di far scendere i prezzi a livelli non rimuneratori.

 

 

Due fatti singolari testimoniano che la terra e l’agricoltura inglese sono sulla via della ripresa. Da un lato le vendite di latifondi agricoli non furono mai così vive come negli ultimi anni; e gli indagatori osservano che la causa di queste vendite non fu il timore dell’applicazione delle imposte di Lloyd George, bensì la possibilità, dopo trent’anni, di poter vendere a prezzi crescenti. Ora, la domanda di terreni per caccia non è in questi ultimi anni salita improvvisamente tanto da spiegare cotale rialzo dei prezzi capitali dei terreni, i quali si spiegano invece per il desiderio dei farmers di acquistare terreni, il cui reddito essi presumono crescente in futuro. Di tali vendite discorse l’Economist negli anni scorsi, mettendone in luce il significato rilevante. Un altro fatto è l’estendersi della piccola cultura orticola. Va sorgendo, specie nelle vicinanze delle grandi città, tutta una classe di piccoli farmers, i quali non occupano più vaste farms a grano, ma ottengono ugualmente prodotti di grande valore da piccole superfici. Per ora il movimento è appena sugli inizi; ma è promettentissimo.

 

 

  • 3) Più di tutto il fatto che le lagnanze attuali intorno allo stato dell’agricoltura inglese – fatta eccezione della questione agraria propriamente detta, che è un’altra cosa – sono lagnanze di letterati del protezionismo e non di agricoltori veri e proprii; il fatto che le lagnanze degli agricoltori veri e proprii e dei professori di agricoltura non superano in intensità quelle che ordinariamente si sentono in ogni paese del mondo, compresi i paesi protezionisti, intorno alle cattive annate, ai metodi arretrati dell’agricoltura nostrana in confronto all’agricoltura estera, che è ognora più progredita, all’abbandono delle terre da parte della gioventù, attratta dall’emigrazione e dalle grandi città (oh! che in Italia non si sentono forse di cotali lagnanze?), dimostrano che in Inghilterra si è iniziato quell’adattamento alle nuove condizioni di vita, che si è compiuto in Danimarca ed ha fatto tanta strada in Irlanda.

 

 

Poiché la grande ossessione di coloro i quali cianciano della rovina dell’agricoltura inglese è la diminuzione del numero degli acri coltivati a grano e la notoria insufficienza del suolo inglese a soddisfare ai bisogni di più di un quarto dell’anno della popolazione britannica. Ed io non so le quante volte fu risposto e sarà ripetuto in avvenire che la diminuzione degli acri coltivati a grano non vuole affatto dire rovina dell’agricoltura, ma può essere benissimo l’indice di un grande e notevolissimo progresso di quella medesima agricoltura. In Italia non credo, per quanto se ne sa ed è assai poco, che la superficie coltivata a frumento sia molto progredita dopo l’avvento del protezionismo; od almeno pare che essa si sia ristretta nelle regioni piane, cedendo il posto all’allevamento del bestiame ed allargata nelle regioni collinose e montane a spese dei pascoli e dei boschi; e tutti sono d’accordo nel ritenere che quella restrizione sia stata un beneficio e quell’allargamento un malanno. Così è probabilissimo che in Inghilterra la restrizione delle terre a grano sia stato un beneficio e che la terra frutti più di prima, in grano sugli ettari adatti, in cui quella cultura si è conservata, ed in pascoli dove si è creduto opportuno sostituire il pascolo al grano.

 

 

La differenza fra il fine a cui tende l’agricoltura inglese e quella a cui il protezionismo spinge – per fortuna la spinta sua è contrastata da forze potenti che le impediscono di fare tutto il male di cui sarebbe capace -, l’agricoltura italiana è questa che, nel passaggio dal periodo A al C, il protezionismo tende a perpetuare la cerealicoltura ed i vecchi metodi agricoli, mentre il libero scambio ha costretto i paesi, privi di un tranquillo ponte di passaggio, a cercare nuove vie di progresso, diverse dalle antiche e più adatte alle condizioni mutate del mercato mondiale.

 

 

I protezionisti hanno in Italia la grottesca persuasione che fuori della cerealicoltura non ci sia salvezza, e l’altra persuasione, ancor più grottesca, che i liberisti debbano insegnare essi agli agricoltori che cosa sostituire alla cultura a grano che, dicono essi, sarebbe rovinata dal libero scambio. È vero che gli agricoltori accolgono volontieri il consiglio dei protezionisti di seguitare a coltivare grano, anche laddove la sua cultura è disadatta, perché è comodo non affannarsi a cercare nuove vie, ed è comodissimo non passare attraverso a nessuna crisi. Epperciò essi si uniscono al coro delle oche protezioniste e schiamazzano contro ai liberisti: fuori i nomi! fuori le culture che dovremo intraprendere invece di quella a grano! fuori la dimostrazione lampante che esse saranno più redditizie di quelle a grano a prezzi alti! fuori i clienti sicuri che ci compreranno le derrate o le frutta che noi produrremo! fuori questo e fuori quell’altro! Parrebbe che i liberisti debbano essere i distributori della ricchezza e della infingardaggine a tutto il mondo. I liberisti non hanno nessuno di questi obblighi di insegnare agli altri a torsi d’impiccio; il loro ufficio consistendo nel dimostrare che il paese intiero non si cava d’impiccio, solo perché gli agricoltori sono riusciti a rendere produttiva la cultura a grano, traendo i quattrini, a forza di legge, dalle tasche di altri loro compatriotti. A trarsi d’impiccio debbono pensare, da sé, gli agricoltori protetti.

 

 

In Danimarca dicevano lo stesso i protezionisti e volevano alti dazi di protezione contro la segala ed il frumento della Russia. Ma poiché non l’ebbero, gli agricoltori si ingegnarono a cercare qualche surrogato e divennero i maggiori fornitori di burro e di formaggi dell’Inghilterra; copersero il paese di una fitta rete di latterie sociali e salvarono se stessi e l’agricoltura.

 

 

Oggi, sul mercato inglese, i danesi devono sostenere una concorrenza accanita, e sa l’on. Colajanni di chi? degli agricoltori irlandesi. I quali, se non erro, sono sottoposti al medesimo regime liberista dell’Inghilterra; e ciononostante hanno fatto miracoli negli ultimi venti anni e specialmente, con moto accelerato, negli ultimi dieci anni. Del quale progresso dell’Irlanda agricola, che è uno dei fatti più caratteristici del nuovo secolo, due furono i fattori: la legislazione agraria, la quale operò il trapasso della terra dalla cosidetta English garrison, ossia dai discendenti dei conquistatori inglesi, ai tenants discendenti degli irlandesi oppressi; e l’opera intelligente ed energica di un gruppo di agricoltori irlandesi per la diffusione della cooperazione agricola. Con buona pace dell’on. Colajanni, il libero scambio non poteva per se stesso avere la virtù, che sarebbe stata taumaturgica, di operare il grande trapasso della proprietà della terra da una ad un’altra specie di proprietari. Poiché in altre condizioni ed in altro ambiente – quello meridionale italiano – vi fu chi sostenne che il libero scambio avrebbe favorito la spezzamento del latifondo, l’on. Colajanni si inquieta e grida che il libero scambio non produsse cotal miracolo di là della Manica. Io non so che cosa accadrà del latifondo nel Mezzogiorno dell’Italia dopo l’instaurazione del libero scambio. Riducendo le rendite dei proprietari di terre a grano esso avrà certamente per effetto, sino a che non sia superato il periodo di transizione e non si siano adottate altre maniere di cultura più vantaggiose, di diminuire il valore capitale dei latifondi. Se questo fatto, che par certo, e che soltanto si può sperare dal libero scambio, avrà per ulteriore effetto di spezzare il latifondo oppure no, dipende da altre circostanze, che non è in potere del libero scambio di dominare. Lo spezzamento si avrà, se contemporaneamente ci sarà una classe di contadini, ritornata, per ipotesi, dall’America, con risparmi disponibili; poiché questa probabilmente troverà convenienza a comprare a lotti il latifondo a buon mercato. Se invece siffatta classe non ci sarà, il libero scambio non la potrà creare dal nulla, ed il latifondo cambierà semplicemente padrone. E sarà sempre un bene, poiché una classe nuova di proprietari, più energica, non carica di un peso sproporzionato di interessi sul capitale d’acquisto, potrà più agevolmente imprimere all’agricoltura un nuovo indirizzo.

 

 

In Irlanda, gli agricoltori non avevano i risparmi necessari per comprare la terra, neppure dopo che il libero scambio ebbe, per fortuna, ridotto le rendite della English garrison e deprezzati i valori terrieri; perciò li dovette fornire lo Stato. I liberisti non ebbero nulla a ridire in tutto ciò, poiché, come essi avevano deplorato la espropriazione violenta e sanguinaria avvenuta nei secoli XVII e XVIII degli antichi piccoli e medi proprietari irlandesi a favore dei conquistatori inglesi – la quale espropriazione, si vorrà concederlo, non era stato per nulla un provvedimento informato a quei principii di libertà di contratto a cui si ispirano i liberisti – così non poterono non riconoscere doverosa l’ammenda ora fatta dall’Inghilterra, la quale, con gran sacrificio dei suoi contribuenti, ridiede ai discendenti degli antichi proprietari le terre di cui erano stati ingiustamente spogliati. La virtù propria del libero scambio si vide dopo questo trapasso di proprietà. Se l’Irlanda avesse potuto adottare una politica doganale propria, forse i suoi leaders politici, a cui non va tolto il merito della tenace battaglia per l’home rule durata tanti anni, ma a cui non si può certo riconoscere il vanto di aver antiveduta e promossa la risurrezione agricola odierna del loro paese, avrebbero circondato l’Irlanda di una barriera doganale contro il grano transoceanico e contro il bestiame e le industrie inglesi; sicché l’Irlanda sarebbe rimasto un paese fossilizzato nelle vecchie pratiche agricole. Non lo poterono fare, perché l’Inghilterra non consentì a cedere ai primi clamori; e non lo potranno fare in avvenire, perché le dogane saranno sottratte alla competenza del parlamento irlandese. Che cosa accadde allora? Che mentre l’Irlanda politica seguiva il Redmond e gli altri benemeriti propugnatori dell’home rule, l’Irlanda agraria ascoltò la predicazione di Sir Horace Plunkett. Io spero di poter pubblicare presto in appendice alla Riforma Sociale la versione italiana del magnifico libro del Plunkett: Ireland in the new Century. Sir Horace Plunkett predico un verbo maschio; disse agli Irlandesi: ora che la terra è vostra, voi dovete conquistare da voi la vostra fortuna. Non dovete starvene neghittosi ad accusare l’Inghilterra di ogni vostra disgrazia; e proclamarvi impotenti ad andare innanzi a causa delle imposte inglesi e della mancanza di protezione alla vostra agricoltura; ma dovete colla vostra iniziativa, colla cooperazione, collo sforzo di tutti e di ognuno cercare di acquistare l’indipendenza e l’agiatezza economica.

 

 

Il sano, forte, maschio verbo di Sir Horace Plunkett fu ascoltato; l’Irlanda si coperse di cooperative per l’acquisto delle macchine, delle sementi, del bestiame, per la vendita del latte, del burro, delle ova, ecc., ecc.; e l’agricoltura irlandese ora vittoriosamente concorre con quella danese nella fornitura del mercato inglese. Ed a me sembra che la nuova prosperità irlandese e la oramai rassodata prosperità danese valgono qualche cosa di più, economicamente e socialmente, della pretesa vigoria della cerealicultura prussiana o francese od italiana; poiché quelle sono dovute unicamente alla iniziativa di chi sa offrire i suoi servizi a più buon mercato ai consumatori e questa sussiste solo grazie alla forza della legge doganale mercé cui i proprietari hanno ottenuto il diritto di derubare altrui. Tra le due classi sociali, da una parte di piccoli e medi agricoltori, che coll’intelligenza e la cooperazione traggono ricchezze dalla terra, e dall’altra di una media e grassa borghesia, tinta di alquanta nobiltà, la quale aumenta le sue rendite, rincarando il pane della povera gente, pare a me che la più forte e vigorosa sia la prima.

 

 

  • 4) Se si chiedesse perché l’agricoltura inglese non ha saputo così rapidamente trasformarsi così come accaduto in Danimarca o come accade ora in Irlanda, si deve rispondere che in un ambiente diverso naturalmente la storia degli avvenimenti deve essere diversa. Innanzitutto si noti che in Inghilterra non esiste oramai più quel vivaio di piccoli proprietari che era dato in Irlanda dalla classe dei tenants. In Irlanda la proprietà degli espropriatori era grande, ma la cultura degli espropriati era piccola. Bastò mettere i tenants o fittavoli, colla grande operazione di trapasso della terra, al posto dei proprietari e fu creata la piccola proprietà; e bastò che questa sorgesse in un ambiente in cui era necessario lottare per non perire, a causa della concorrenza libera di ogni altra regione del mondo, perché il tenant diventasse, sorretto dalla propaganda del Plunkett e dei suoi amici, un agricoltore progressivo ed ardito. Tutto diverse sono le condizioni dell’Inghilterra agricola: grande proprietà, ma anche grande cultura di farmers aiutati da contadini giornalieri avventizi. Manca in Inghilterra la classe dei piccoli proprietari o dei piccoli tenants, la quale possa fornire il personale ad una possibile risurrezione della piccola proprietà. E, notisi, cotesta mancanza di piccoli proprietari o tenants non è dovuta al libero scambio, come stranamente fantastica l’on. Colajanni, quando afferma che il liberismo «ridusse enormemente il numero dei piccoli proprietari». Fuori i dati! dirò anch’io con Colajanni. In quale storia dell’agricoltura inglese si legge che il liberismo sia colpevole di un eccidio così cruento di piccoli proprietari? Esistevano ancora i piccoli proprietari all’avvento del libero scambio? Le storie raccontano invece, a quanto pare, di enclosures, di chiusure di beni comunali, di evizioni di piccoli tenants in Inghilterra ed in Scozia, di scomparsa dei ceti numerosi di piccoli freeholders in epoche più antiche, durante quei secoli XVII e XVIII e primo terzo del XIX, che i protezionisti vantano come la culla protezionista della grandezza industriale dell’Inghilterra, malvagiamente convertitasi dappoi al liberismo. E sembra anche ragionevole che i grandi proprietari fossero stimolati all’evizione dei tenants piccoli e medi dai prezzi alti garantiti dalla protezione doganale e dalla convenienza, la quale non è né libero scambista né protezionista, ma semplicemente economica, di accrescere la rendita netta dei terreni, mercé la grande cultura, la quale fu la più adatta per un lungo periodo storico ed in parte è ancora la più adatta a massimizzare il reddito netto della terra inglese.

 

 

Porre il problema: quale dei due sistemi, il liberista od il protezionista è il più favorevole alle sorti della piccola proprietà? è porre un problema anti scientifico. Poiché se il libero scambio è atto, come pretendiamo noi, a far prevalere quelle culture le quali sono meglio convenienti alle varie parti del territorio agrario d’un paese, è chiaro che esso favorirà eziandio il trionfo della grande o della media o della piccola proprietà a seconda che l’uno e l’altro di questi metodi meglio si confà alle culture più produttive che il libero scambio avrà fatto prevalere. Tutto ciò che si può dire è che il libero scambio tende – per dimostrazioni tratte dalla logica economica e suffragate dalla riprova di fatti – a far prevalere precisamente quella forma di proprietà, la quale meglio si adatti alle culture più produttive prevalenti col libero scambio. Ciò che tenda a verificarsi col protezionismo, confesso di non saperlo, e sarebbe una gran bella cosa se i protezionisti ci dicessero quali sono le conseguenze logiche di esso rispetto al problema della piccola e della grande proprietà. S’intende che il liberismo doganale tende ad avere gli effetti ora detti, quando non sia contrastato da altre forze potenti ed agenti in senso contrario.

 

 

Che se in un paese:

 

 

  • a) esistono istituti fedecommissari i quali rendono difficile il trapasso delle terre da una classe ad un’altra;
  • b) esistono consuetudini e tradizioni famigliari le quali operano nello stesso senso; c) se la libertà degli scambi, insieme all’esistenza di miniere di ferro e di carbone, ha attratto le popolazioni agricole verso le industrie, i commerci, la navigazione, le banche e gli affari coll’attrattiva di salari ben più alti di quelli che si potevano lucrare nell’agricoltura;
  • d) se il crescere straordinario della ricchezza del paese ha fatto aumentare il valore della terra, non come oggetto di investimento economico, ma come oggetto di investimento sociale, come strumento per l’acquisto di influenza sociale e politica;
  • e) se il crescere di classi ricche, viventi di rendita, ha dato alle campagne un alto valore, come luoghi di piacere (parchi, terreni di caccia, ecc.); è chiaro che, liberismo o protezionismo che fosse, non poteva venire in mente a nessuna persona ragionevole di abbandonare impieghi più lucrativi nelle città per investire i proprii risparmi nella compra di terra valorizzata, colla prospettiva di trarne redditi inferiori a quelli che altrove si sarebbero ottenuti.

 

 

Accagionare il liberismo della «cosidetta» rovina dell’agricoltura inglese è lo stesso errore logico che si commette col lodare il protezionismo per i progressi degli Stati Uniti e della Germania. Qui si dimenticano le immense estensioni di terreno vergine da dissodare, la varietà infinita di terreni, che rendono, nei rapporti interni, il territorio degli Stati Uniti il più vasto esempio esistente di applicazione della teoria del libero scambio, le miniere di carbone e di ferro, le scoperte tecniche e scientifiche, ecc., ecc. Là si dimentica che la cosidetta rovina o decadenza dell’agricoltura inglese si è accompagnata ad una profonda trasformazione di tutta intiera la società, la quale da uno stadio agricolo industriale, con redditi medi bassi è passata ad uno stadio industriale commerciale redditiero, con redditi medi assai superiori a quelli dell’epoca pre-vittoriana. Pretendere che gli uomini seguitassero a stare nelle campagne a farsi concorrenza pel lucro di 12 scellini la settimana, quando potevano venire in città a lucrare i 20 ed i 30 scellini e più, pretendere che la gente si ostinasse a coltivare grano in patria al costo di 40 o 50 scellini per quarter, quando potevano nella città produrre cotonate, piroscafi, macchine e, lucrando salari più elevati, comprare ciononostante dall’estero il grano a 20, 30 scellini il quarter, volere che la gente ricca rinunci al piacere di andare a caccia in riserve speciali affittate ad alto prezzo, per consentire a qualche centinaio di crofters di condurre su quei terreni una vita assai più miserabile di quella che essi possono condurre come minatori, tessitori, meccanici, guardiaboschi o guardiacaccia, è pretendere l’assurdo.

 

 

Il liberismo non poteva avere la virtù di soddisfare ai desideri maniaci dei laudatori sentimentali della vita rustica e sarebbe stata invero cosa stranissima se avesse avuto questa virtù. Esso doveva soltanto offrire agli uomini le condizioni più opportune per ottenere il massimo risultato utile dalla propria opera. Accadde che il massimo utile si otteneva coll’andare in città ed abbandonare le campagne? Ed il liberismo fece benissimo ad agevolare questa trasformazione delle condizioni di vita sociale. Domani, una nuova legislazione agraria toglierà alcuni degli impedimenti legali e tradizionali che ora esistono contro il trapasso della terra dalla classe dei grandi proprietari ad una classe di piccoli proprietari? Ed il libero scambio, riducendo al minimo le rendite fondiarie e quindi il valore capitale dei terreni, permetterà a più fitte schiere di lavoratori l’accesso, divenuto possibile, alla terra; più fitte certo di quelle che sarebbero col protezionismo, il quale, da che mondo è mondo, ha rialzato – od impedito il ribasso naturale, il che è la stessa cosa – i fitti dei terreni e quindi il valore capitale di essi, e quindi ancora ha rizzato, contro gli aspiranti alla proprietà della terra, il formidabile ostacolo di un alto prezzo capitale di essa. E se una nuova legislazione agraria avrà la virtù di spezzare – coadiuvante il libero scambio, in quanto freno al rialzo dei valori terrieri che si verificherebbe all’ombra dei dazi doganali, ed entro l’ambito del territorio adatto alle culture, per cui è conveniente la piccola proprietà – il latifondo, bisognerà pur notare che il merito non sarà se non in parte della legislazione agraria, ossia dei legislatori, i quali si vanteranno d’avere essi soli provocato la grande rivoluzione sociale, mentre essi avranno avuto soltanto il merito, che è già grandissimo – e che non hanno le mosche cocchiere del protezionismo continentale ed italiano – di aver intuito i segni dei tempi e di avere agevolato ed accelerato un movimento che forse è in via di compiersi in Inghilterra.

 

 

Imperocché vi sono indizi per ritenere che le mutate condizioni tecniche e sociali, favoriscano il ritorno alla terra delle grandi masse britanniche.

 

 

La terra, la quale finora si era valorizzata sovratutto come riserva di caccia o parchi di piacere pei grandi signori, oggi tende a diventare il grande parco di una popolazione industriale e commerciale arricchita nelle città ed anelante alla campagna. Le rapide vie di comunicazione, le fitte reti di tramvie spingono impiegati, professionisti, commercianti, operai dalla città verso la campagna. Sorgono le città giardino, ad iniziativa di antiveggenti industriali, i quali trasportano la fabbrica in campagna per dare un asilo di pace alla propria maestranza. L’operaio, che prima se ne stava nei fumosi quartieri cittadini, ora sogna il cottage e l’orto di mezzo acre, di un quarto od ottavo di acre, il professionista l’home col giardino, ecc., ecc. Il ritorno alla terra, in regime liberista, si effettua, senza rincarare il pane al povero con dazi affamatori uso Italia o Germania o Francia; dove l’adozione del verbo del grande pontefice del protezionismo, il Meline, non ha impedito in Italia l’abbandono dei campi nel Mezzogiorno, in Germania la fuga della popolazione agricola dalle regioni orientali e la sua sostituzione con le bande di polacchi o lituani, i quali a centinaia di migliaia vengono a fornire la mano d’opera necessaria ai junker tedeschi, pur mantenendo nelle provincie russe di confine le loro famiglie, allo scopo espresso e dichiarato di godere ivi dei prezzi più bassi, liberisti per forza, del frumento e della segala, ed in Francia non ha impedito che le ultime statistiche ci rivelassero una diminuzione non trascurabile nel numero dei proprietari. Il ritorno alla terra si effettua, lasciando comprare alle nuove schiere di piccoli proprietari, mezzo tra rustici e cittadini, il frumento a buon mercato da oltre oceano e facendo loro coltivare prodotti orticoli, frutta, ecc., di valore ben maggiore della eterna granicultura.

 

 

Le cose finora dette hanno già fatto comprendere la ragione del mio prefiggere l’aggettivo «cosidetto», ai sostantivi sensazionali di «rovina» o «decadenza» dell’agricoltura inglese. La questione si può dividere in «oggettiva» e cioè relativa alla «terra» e «soggettiva» ossia relativa agli «uomini viventi sulla terra».

 

 

Oggettivamente ho già spiegato che non di «decadenza» si tratta, ma di «trasformazione», la quale si è operata nell’agricoltura per rispondere alle nuove condizioni sociali e sarà succeduta da altre trasformazioni, se ancora muteranno le condizioni stesse. Ma nonostante le trasformazioni stesse ed il gran gridare che si è fatto di decadenza, sarebbe assai interessante se si potesse fare una ricerca, la quale:

 

 

  • a) ci dicesse qual era, prima del 1840, la quantità lorda della produzione agraria inglese;
  • b) qual è, adesso, la medesima produzione;
  • c) rendesse comparabili e sommabili le somme in quantità fisiche di merce adottando prezzi uniformi, in guisa da eliminare le influenze perturbatrici delle ondate dei prezzi.

 

 

Naturalmente in siffatta indagine, nessun elemento dovrebbe essere trascurato, principalmente per quel che tocca le produzioni cosidette «secondarie» che molti trascurano, come le produzioni orticole, i frutteti, gli allevamenti di animali da cortile, le produzioni di latticini, di burro, di formaggio, ecc., ecc., ed anche, non dimentichiamocene, i godimenti psichici, derivanti dal possesso di parchi, e riserve di caccia pei ricchi e di giardini ed orti per le classi medie e povere. Sono proprio sicuri i protezionisti che il dato del 1840 non abbia a riuscire inferiore a quello del 1913, malgrado tutto ciò che si è gridato a proposito del grano mancante, orribile dictu!, all’alimentazione del popolo?

 

 

Colajanni pare dica di sì, e scaraventa addosso ai suoi lettori le due fatidiche cifre delle Lire sterline 66.579.933 di reddito della terra nel 1875 e di L. 17.438.969 nel 1910-911. Devo averle citate anch’io queste cifre o le analoghe, a suo tempo; ma immagino con poca critica. Scrivo anch’io in un luogo di campagna, come Colajanni a Castrogiovanni, e, non avendo in proposito dati assolutamente completi a mia disposizione mi permetto innanzitutto di dubitare che la diminuzione, come afferma il Colajanni, sia proprio stata continua dal 1875 in poi. È davvero sicuro l’on. Colajanni che l’accelerazione nella discesa del reddito non si sia notevolmente rallentata col nuovo secolo? E non sarebbe stato molto più interessante il raffronto se, invece di prendere come punto di partenza il 1875 che fu forse l’anno in cui i redditi della terra raggiunsero l’acme – l’acme dei prezzi si toccò nel 1873, ma le ripercussioni tributarie sono sempre più lente – si fosse preso come punto di partenza il 1842, anno della nuova istituzione dell’income tax e dell’avvento contemporaneo e volutamente contemporaneo del liberismo ad opera di Roberto Peel? Se questo raffronto si fosse fatto, si sarebbero potuti scernere meglio gli effetti delle varie cause che hanno contribuito a mutare la cifra dei redditi tassati. Ed è davvero sicuro l’on. Colajanni, che le due cifre del 1875 e del 1910-11 siano comparabili? Può egli escludere l’intervento di qualche causa perturbatrice consistente nel diverso modo di valutare i redditi? Se non erro, oggi i farmers godono di una facoltà che non avevano prima; ossia di denunziare, come reddito loro tassabile, e sarebbero i 17 milioni del 1910-11, la cifra minore tra quella del reddito realmente da essi goduto e quella di una frazione, fissata per legge, del fitto pagato ai proprietari per la locazione della terra; e, se non erro, essi scelgono di preferenza la seconda cifra, come quella che è la più bassa. Se le cose stanno così, la cifra dei 17 milioni vorrebbe raffigurare non il reddito degli occupanti il terreno, ossia dei fittavoli – dalle parole del Colajanni parrebbe trattarsi di questo reddito – ma una quota parte di un’altra cifra, ossia del reddito dei proprietari. Di guisa che la cifra dei 66 milioni del 1875 sarebbe di un’indole diversa dalla cifra di 17 milioni del 1910-911. Né si deve dimenticare che dal 1875 al 1910 sono mutati i limiti di esenzione dell’income tax; cosicché ciò che era tassato e conosciuto statisticamente nel 1875 in parte non è più tassato ed è statisticamente ignoto nel 1910-911.

 

 

Sovratutto io non so sottrarmi all’impressione che la precipitosa caduta da 66 a 17 milioni sia il frutto di un abbaglio curiosissimo, dovuto al furore – 51 – statistico da cui è assalito l’on. Colajanni quando può mettere le mani sopra qualche cifra, che, nella sua fantasia morbosamente accesa, possa valere come arme utile nella lotta a coltello da lui combattuta contro quello che egli si diverte a chiamare il «fanatismo laido» dei liberisti. Ho qui sott’occhio alcune annate del Financial Reform Almanack, il noto annuario statistico pubblicato dalla Financiai Reform Association di Liverpool. È un annuario liberista; ma io mi arrischio a supporre che i suoi quadri statistici non siano sbagliati; e, non avendo mai avuto occasione di riscontrarli inesatti, uso recare con me alcuni di questi piccoli e non ingombranti annuari per non rimanere privo del tutto di referenze inglesi durante l’estate. Orbene, ecco che cosa leggo sotto il titolo di Gross Amount of property assessed to income tax:

 

 

 

SCHEDULE A

SCHEDULE B

 

From the ownership of lands

From the occupation of lands

1880-1881

Lst. 69.291.973

1884-1885

65.039.166

1890-1891

58.153.900

1894-1895

55.769.061

18.727.266

1899-1900

52.814.291

17.596.152

1904-1905

52.257.999

17.479.547

1909-1910

51.910.719

17.392.508

1910-1911

52.294.614

17.438.960

 

 

Queste due serie hanno un significato ben chiaro. Nella schedule o categoria A sono compresi i redditi dei proprietari di terreni (non comprese le case e le altre proprietà fondiarie); mentre nella schedule o categoria B sono compresi i redditi degli occupanti od affittavoli o coltivatori dei terreni stessi. Da un lato cioè i redditi della proprietà fondiaria, dall’altro quelli della industria agraria. Le mie cifre hanno un solo anno in comune con quelle del Colajanni e cioè il 1910-1911; ed accade che quest’ultima cifra di Lst. 17.438.960 è all’incirca identica nella mia fonte e nell’articolo di Colajanni; sicché possiamo essere certi che essa si riferisce al reddito – quello legalmente valutato e che ora è uguale ad una quota parte del reddito dei proprietari – dei coltivatori od affittavoli della terra (schedule B). A guardare la mia tabellina non viene ragionevole il dubbio che la prima delle due cifre citate dal Colajanni, e cioè le Lst. 66.579.933 del 1875, debba essere collocata in testa alla mia colonna della Schedule A e non in testa alla colonna della Schedule B? È un dubbio questo, che a me sembra ragionevolissimo, poiché pare improbabile che i 66 milioni del 1875 precipitino a 18,7 nel 1894-1895 e poi si mettano a scendere lentamente, con una lentezza che dovrebbe essere, esasperante per l’on. Colajanni. Non presumo che il mio dubbio sia una verità assolutamente certa; ma parmi meritevole di essere attentamente esaminato.

 

 

Se esso apparirà fondato, come è quasi certo, tutto il tracollo dai 66 a 17 milioni sbandierato con tanta gioia antiliberista dall’on. Colajanni si riduce ad un equivoco statistico; al confronto cioè tra il reddito dei proprietari nel 1875 (66 milioni) col reddito degli affittaiuoli nel 1910-1911 (17 milioni). È chiaro che, confrontandosi due cose diverse, il tracollo poteva essere ancor maggiore e non avrebbe avuto tuttavia alcun significato.

 

 

La vera riduzione dei redditi dei proprietari della terra nel Regno Unito (le mie cifre si riferiscono all’Inghilterra, Scozia ed Irlanda insieme, come del resto quelle del Colajanni; né ho modo per ora di sceverare le quote dei tre paesi) è dunque solo da 69.3 milioni di lire sterline nel 1880-1881 al minimo di 51.9 nel 1909-1910, mentre i redditi degli affittaiuoli sono diminuiti solo da 18.7 milioni nel 1894-1895 al minimo di 17.4 nel 1909-1910. Dico solo, perché la diminuzione, sebbene non sia irrilevante, ha l’aria, dopo il grande discorrere che si sente fare di «rovina» e di «distruzione dell’agricoltura inglese» dovute ai misfatti del liberismo, di essere innocentissima e tollerabilissima. E, notisi, la diminuzione, come già osservai, non solo si verifica con accelerazione minore a mano a mano che si viene innanzi negli anni, ma dà luogo ad un incremento positivo di redditi nel 1910-1911, incremento che ignoro se il Colajanni potrà dimostrare essersi arrestato negli anni successivi.

 

 

Parecchie altre cose ignoro altresì:

 

 

  • 1) se nell’Italia protezionista la diminuzione dei redditi dei proprietari dei terreni dal 1880 in qua sarebbe apparsa minore ai fitti del catasto, ove in Italia si fosse ogni anno ripetuta, come in Inghilterra, la rilevazione dei redditi dei terreni. Trattandosi, tanto in Italia come in Inghilterra, di redditi non effettivi, ma accertati ai fitti dell’imposta, non è ragionevole il dubbio che il gran baccano fatto per lunghi anni dai proprietari italiani di terre intorno alla diminuzione del loro reddito, baccano non del tutto ingiustificato in molte regioni e forse in tutte in epoche diverse, avrebbe avuto per risultato una diminuzione – scritta nelle statistiche fondiarie – dei redditi fondiari dal 1880 al 1910? La diminuzione del gettito dell’imposta fondiaria in Italia da 105 ad 82 milioni circa non è, tenuto conto dei diversi metodi di accertamento, il risultato ultimo della tendenza dei proprietari a fare apparire diminuito il loro reddito? Eppure né io né il Colajanni siamo disposti a credere sul serio che il reddito della proprietà fondiaria sia nell’ultimo quarto di secolo diminuito del 20 per cento in Italia. E, in tal caso, perché non nutrire altresì un ragionevole scetticismo intorno alla realtà della diminuzione dei redditi inglesi da 69 a 52 milioni di lire sterline? è probabile, dati i diversi metodi di accertamento, che la diminuzione sia in gran parte reale; ma perché escludere senz’altro la possibilità che in parte minore sia una diminuzione politica?
  • 2) se non esistano dati i quali provino che la diminuzione dei redditi terrieri, di cui il Colajanni affibbia per l’Inghilterra la responsabilità alla dottrina liberista, non si sia altresì verificata nella Francia protezionista. Forse affermo cosa che il Colajanni respingerà senz’altro come assurda ed impossibile; ma ho un fiero sospetto che se le statistiche tributarie accusano in Inghilterra una diminuzione dal 1875-1880 al 1910 dei redditi fondiari da 66 o 69 a 52 milioni di lire sterline, ossia del 21 o 25 per cento, le medesime statistiche tributarie accusino in Francia, all’incirca nello stesso periodo di tempo, una diminuzione superiore al 20%. È un sospetto incomodo per chi non ama le facili ritorsioni; ma l’on. Colajanni farebbe bene ad accertarsi del fatto. Se il fatto non esiste, avrà occasione di aggiungere all’elenco dei suoi aggettivi anti liberisti quello di «fantastico». Se però il fatto è vero, non io incrudelirò contro Colajanni, obbligandolo, come egli logicamente dovrebbe fare, ad attribuire al protezionismo francese la colpa della rovina dell’agricoltura francese. No. Gli chiederò soltanto di astenersi finalmente dal dedurre da un fatto immaginario, come la «rovina», dell’agricoltura inglese, la illazione logicamente grottesca che quella rovina sia dovuta alla dottrina liberista[5]. Qualunque ne sia la causa, e sia che si voglia misurare con distanza che corre da 66 a 17, come vuole Colajanni, ovvero con quella da 66 a 52, come credo io, siamo logicamente indotti a concludere che quella diminuzione sia una brutta cosa? Quel salto mortale è davvero del tutto un salto dannoso per la collettività? Qui si incede davvero per ignes, tanti sono i fattori di cui si deve tener conto, per dare un giudizio di un fatto così complesso, come il ribasso del reddito dominicale dei terreni. Ma guardando il fatto nelle sue grandi linee, sotto l’aspetto che lo rende storicamente così importante, quale è il suo significato? Fino verso il 1873 – cito questa data come una specie di pietra miliare divisoria tra due epoche storiche successive – l’incremento della ricchezza inglese e della capacità di consumo delle masse, aveva urtato contro lo scoglio della difficoltà di produrre in regioni lontane e di far arrivare in paese le derrate alimentari a poco prezzo per i bisogni della crescente popolazione cittadina inglese. Epperciò – come insegnano quelle dottrine economiche, che Colajanni ha in tanto dispetto, benché siano fondatissime sui fatti, sebbene non sui fatti raccolti a caso e scagliati contro gli avversari a guisa di catapulta, ma sui fatti lungamente meditati e sottoposti ad analisi raziocinativa – la domanda crescente della popolazione cittadina doveva premere tutta contro il territorio limitato del paese e provocare un aumento della rendita fondiaria ricardiana o di monopolio. Era logico che i fitti salissero e di fatto crebbero. Immaginino pure i protezionisti che questo incremento sia stato un bene; ma abbiano la pazienza di lasciarsi dire che fu un bene solo per i proprietari ed un male per la collettività, la quale doveva pagare quei fitti più elevati. Dopo il 1873, quelle dighe si ruppero, perché il sistema ferroviario si era esteso alla grande regione cerealicola degli Stati Uniti e la Russia si apriva anch’essa sempre più alla esportazione dei cereali; sicché questi poterono giungere in Europa a bassi noli per i perfezionamenti grandi della navigazione a vapore. Era logico – e la teoria economica aveva previsto anche ciò; ma i protezionisti si sollazzarono, facendo assai sconci lazzi, intorno ad un preteso fallimento delle teorie ricardiane, come se queste avessero affermato che le rendite fondiarie dovevano di fatto sempre salire, mentre avevano esposto soltanto le condizioni, date le quali dovevano salire e le opposte, dalle quali discendeva logicamente la previsione di un ribasso – prevedere che, messo in comunicazione il grande mercato europeo di consumo, con le nuove feconde terre produttrici americane o russe, i prezzi dei cereali dovessero ribassare e le rendite fondiarie dovessero scemare. Così, infatti, accadde in Inghilterra; e così sarebbe accaduto in Italia, in Francia, in Germania se i proprietari non fossero corsi al riparo, innalzando quella barriera dei dazi doganali protettivi, la quale economicamente è soltanto un mezzo per sopprimere l’esistenza delle terre nuove, delle ferrovie e dei piroscafi veloci, mezzo che par sapientissimo, mentre tuttavia non si teme di cadere in contraddizione, magnificando l’energia e la capacità inventiva dell’uomo, che colonizza terre, inventa il vapore, unisce i continenti, ecc.

 

 

Tra i due fatti, ribasso grande dei fitti in Inghilterra e ribasso in genere, sebbene non dappertutto, come prova l’esempio francese, meno accentuato sul continente, quale è il più benefico alla collettività? Chi è ipnotizzato dal puro suono delle cifre, dirà che l’Inghilterra va alla rovina, perché i proprietari han visto discendere i fitti delle loro terre da 66 a 17 od a 52 milioni di lire sterline. Chi guarda alla sostanza delle cose dirà: quale delle due alternative preferite; che i 49 o 14 milioni di differenza siano rimasti nelle tasche dei consumatori come in Inghilterra o che, come in Italia, si sia trovato il mezzo, con un bel dazio, di seguitare a farli fluire nei forzieri dei proprietari di terre?

 

 

La risposta può essere diversa; ma la diversità proviene non più da considerazioni economiche, bensì da preferenze sociali, come il Pareto mise bene in luce. Colajanni stranamente contorce il pensiero paretiano, quando afferma (vedi suo articolo sulla Tribuna dell’8 ottobre) che questo economista, con la teoria il cui succo ho tentato sopra di delineare, si sia imbrancato con gli economisti cosidetti «pratici» i quali fanno un’insalata di teoria e di pratica, di astratto e di concreto, allo scopo di potere nel torbido delle idee pescare più facilmente dei dazi. Il Pareto non ha mai negato la verità della dottrina del libero scambio, pur mettendo in luce alcuni casi eleganti di possibile convenienza teorica della protezione doganale; ma, nel caso nostro, se l’avesse preso in esame, probabilmente avrebbe detto: sebbene dal punto di vista economico la protezione doganale sia un errore, pur tuttavia chi avesse voluto conservare la forza e la potenza politico sociale della aristocrazia britannica avrebbe dovuto imitare quel che si fece in Germania, a prò dei Junker e torre, con un dazio, i 49 o 14 milioni di tasca alle classi produttrici operaie e borghesi delle città per darli agli aristocratici della campagna, sia per conservare una classe dirigente necessaria alla vita politica dell’Inghilterra sia per consentire a questa classe dirigente di conservare attorno a sé un ceto di clienti rustici, forti e devoti, vivaio di prodi soldati per la difesa del paese.

 

 

Qui è il punto su cui deve essere portata la disputa: non sulla rovina dell’agricoltura in sé stessa. Il problema non è oggettivo, ma «soggettivo»; non è problema di «vita della terra» ma di «vita degli uomini» viventi sulla terra. È pronto Colajanni a difendere l’ideale di una società dominata da una aristocrazia terriera, circondata da clienti rustici viventi della spesa delle sue rendite? Se sì, allora egli è logico nel lamentarsi che le rendite della aristocrazia inglese siano scemate da 66 a 17 o 52 milioni di lire sterline. Ma se egli, invece, ritiene utile e necessaria quella trasformazione della società inglese, per cui le classi più forti sono diventate la borghesia industriale e commerciale e la classe operaia scelta, allora le sue querele sui milioni che non hanno più i nobili signori inglesi sono stravaganti ed illogiche.

 

 

È grottesco lamentarsi della rovina dell’«agricoltura». Questa non è una persona fisica la quale mangi, beva e vesta panni; può andare in rovina e non vi sarà alcuno che soffrirà alcun dolore, salvo, s’intende, la classe dei proprietari terrieri, che immagino non stia molto a cuore all’on. Colajanni. Se, come suppongo, a questi stanno invece a cuore le sorti delle masse, operaie e contadine, e delle classi realmente e fattivamente dirigenti, si consoli; poiché, dall’avvento del libero scambio in poi, in Inghilterra:

 

 

  • a) sono aumentati notevolmente i salari dei contadini rimasti sulla terra. Non credo che per nessuna classe di contadini inglesi si possa affermare ciò che ho letto in un ultimissimo Bollettino dell’Ufficio del lavoro italiano (dell’1 ottobre 1913) a proposito dei contadini coloni udinesi, secondo cui la media della spesa per ciascun membro delle famiglie coloniche è di 155 lire all’anno, in cui su 5980 famiglie coloniche, ben 1998 chiudevano il bilancio dell’annata con disavanzo – il che, se si deve dare un significato logico alle statistiche, vuol dire col provento di elemosine o di furti, essendo materialmente impossibile consumare ciò che non si ha – ; dove il vitto delle famiglie meno disagiate si compone al mattino della polenta con latte e formaggio, a mezzodì della minestra di fagiuoli o pasta condita con carne di maiale o parte di questa carne per companatico; alla sera di verdura e formaggio o latte con polenta, con vino solo d’inverno; mentre le famiglie più disagiate, che paiono essere il terzo del totale, ossia quelle chiudenti il bilancio in disavanzo, mangiano al mattino solo polenta e spesso solo patate; a mezzodì minestra di fagiuoli con olio di cotone; alla sera verdura cruda o polenta. Questo è il quadro che, mutatis mutandis, si poteva fare del modo di vita del contadino inglese nell’ultimo terzo del secolo XVIII e nel primo terzo del XIX quando l’agricoltura non era «rovinata» e l’Inghilterra ossia, per essere precisi, l’aristocrazia inglese godeva i benefici del protezionismo. Ma l’on. Colajanni vorrà concedermi che i pochi contadini inglesi viventi oggi dell’agricoltura «rovinata», appunto perché sono pochi, vivono meglio oggi di quanto non vivessero sotto il regime protezionista e di quanto non vivano i contadini dell’udinese, descritti sovra colle parole del Bollettino dell’Ufficio del lavoro, i quali non debbono sicuramente essere i contadini più disgraziati d’Italia. vivono forse male in senso assoluto anche i contadini britannici; ed a questo proposito Colajanni non vorrà astenersi certamente dal citarmi con aria di trionfo i recentissimi discorsi irruenti del cancelliere inglese dello scacchiere, signor Lloyd George, contro il monopolio del suolo. Ma il loro salario «derisorio» e lo «scandalo» delle loro condizioni di vita, denunciati dal Lloyd George, sono tutto un problema di prospettiva. Probabilmente i mezzadri dell’udinese od i contadini di tanta parte dell’Italia meridionale od insulare anche oggi, che, per l’emigrazione ossia in parte per una reazione contro i dannosi effetti del protezionismo, vivono meglio di prima, sarebbero prontissimi a mutare le loro sorti con quelle del lavoratore agricolo inglese. Il cui tormento massimo è la difficoltà di migliorare i proprii cottages e di ottenere un pezzo di terreno adiacente al cottage per farne un orto o per culture agricole, casalinghe, a cagione della ostinata opposizione dei landlords contro la costruzione di nuovi cottages e persino contro le riparazioni ai vecchi cottages rovinanti. L’opposizione dei landlords, che ha cause politiche e sociali, non ha però, come osservai già, nessun rapporto col libero scambio, né i liberisti hanno nulla a dire contro l’adozione di provvedimenti legislativi atti a rendere la terra un oggetto di facile contrattazione. Sono dunque spiegabilissime le aspirazioni al meglio; ma queste non possono oscurare la visione della verità storica, secondo cui i contadini inglesi vivono meglio oggi che all’epoca del protezionismo. Ritorna allora sempre il medesimo problema: è meglio lasciar rovinare l’ente «astratto» agricoltura o l’ente «concreto» contadino?
  • b) sono aumentati grandemente i salari nominali e quelli reali degli operai delle città, reclutati tra i discendenti dei miserabili labourers campagnuoli di una volta;
  • c) sono aumentati i redditi delle classi professionali, commerciali, industriali e burocratiche;
  • d) è sorta una classe di nuovi aristocratici, i quali vivono delle rendite d’oltre Oceano e le consumano in paese; ed è questa non ultima fra le classi che vorrebbe ritornare alla terra, col possesso di ville situate nella campagna e non sempre può, per gli ostacoli frapposti dal regime fondiario.

 

 

Insomma, gli inglesi stanno meglio e nella loro grande massa poco si curano delle strida di quelli i quali dichiarano minata l’agricoltura, solo perché essi inglesi non sono più costretti dai dazi protettori a pagar tributo alla classe proprietaria. È bensì crescente la tendenza al ritorno verso la terra ed alla trasformazione del regime fondiario; ma quelli stessi che sono a capo di questo movimento riconoscono che condizione essenziale della sua riuscita è il mantenimento del libero scambio doganale, poiché vedono chiaramente che il protezionismo aumenterebbe le rendite e quindi i prezzi di espropriazione delle terre possedute dagli attuali landlords.

 

 

Dopo ciò, che cosa resta delle lagnanze intorno alla rovina della agricoltura inglese? Una inconcepibile incapacità a comprendere il più grande fatto storico verificatosi nell’Inghilterra del secolo XIX; un grande errore di prospettiva storica, il cui esame profondo è compiuto in modo così attraente nel mirabile libro del Seeley, The expansion of England.

 

 

Quelli che parlano dell’Inghilterra come di un tutto economico, chiuso entro i brevi confini dell’isola britannica non hanno compreso che quella è appena la capitale di un impero; non hanno compreso che l’agricoltura inglese non si fa più nell’isola chiamata Gran Bretagna; si fa, invece, nel Canadà, nell’Australia, nell’India, nel Sud Africa; si fa anche in paesi non appartenenti alla corona britannica, ma colonizzati col capitale inglese, nell’Argentina principalmente, ove il capitale proveniente dall’Inghilterra si è alleato col lavoro proveniente dall’Italia. On. Colajanni, guardate a questi paesi nuovi per vedere che cosa è stata capace di fare col libero scambio l’agricoltura inglese! Il pregiudizio protezionista è talmente ottenebrante che agli uomini più chiari impedisce di vedere che le ferrovie e la navigazione a vapore hanno cambiato la faccia dal mondo; che oggi Londra è più vicina alle magnifiche provincie cerealicole di Alberta, di Saskatchewan, di Manitoba nel Far west canadese, di quanto non fosse alle contee inglesi del nord nell’epoca felice del protezionismo; che l’esistenza del maggior mercato mondiale di consumo, liberamente aperto alle importazioni di tutti i paesi ha fornito le condizioni per il sorgere ed il fiorire dell’agricoltura nei paesi dove i costi erano i più bassi, permettendo agli inglesi ben pagati e fruenti di rendite coloniali di ottenere le derrate alimentari ai prezzi più bassi che si conoscano in Europa. Il suolo inglese divenuto un parco ed una riserva di caccia? Non è vero se non in parte; e per quella parte per cui è vero, esso è il parco e la riserva di caccia non di una piccola isola, ma di un grande impero, su vastissime superficie del quale fioriscono l’agricoltura e l’industria per modo che i suoi abitanti ben possono darsi il lusso di un parco apparentemente vastissimo, ma non sproporzionato all’estensione mondiale dell’impero. Oggi il parco è ancora di pochi; domani, se le nuove leggi agrarie saranno approvate, potrà diventare il parco, il giardino, l’orto di molti tra gli abitanti della capitale dell’impero britannico.

 

 



[1] In un articolo Il ciarlatanismo liberista pubblicato nella «Rivista Popolare» del 30 settembre, ricevuto dopo che le presenti pagine erano in gran parte scritte. Con questi tre articoli, due usciti sulla «Tribuna» ed uno sulla «Rivista Popolare» è probabile che il Colajanni abbia appena cominciato la sua campagna anti liberista. Poiché sembra difficile che, con la sua bella foga di polemista, egli si trattenga dal rispondere agli articoli con i quali alcuni valorosi giovani – ricordo tra gli altri il Fancello ed il Lanzillo – lo hanno assalito, sicché la polemica dilagherà, con grande vantaggio della educazione economica del paese, sui giornali politici italiani. A questa opera di educazione economica ho voluto portare anch’io un mio piccolo contributo. Per esigenze di altri lavori in corso, mi sarà impossibile di tener conto di ciò che dopo la data del presente scritto (12 ottobre 1913) verrà pubblicato in proposito dal Colajanni e dai suoi oppositori. Ma spero che di tale forzata omissione mi si concederà venia, sovratutto riflettendo alla mole già esagerata del presente scritto, ed allo scopo suo, che non era quello di contrapporre dati a dati, statistiche a statistiche – non l’avrei potuto fare con quel sicuro ed ampio esame critico delle fonti, con cui simili lavori devono essere compiuti, avendo scritto tutto il presente articolo in campagna, lontano dalle biblioteche e dalle collezioni di fonti – bensì di esaminare una forma mentis, ossia il modo particolare di pensare e di ragionare e di presentare statistiche che ha uno tra i più valorosi protezionisti italiani ed un protezionista indubbiamente sincerissimo. Malgrado la mancanza dei grandi strumenti di studio, ho fatto ogni sforzo per non affermare cosa che non fosse fondata sui fatti; e, quando non ero sicuro, ho esposto il mio pensiero dubitativamente. Nei tre articoli che formano oggetto di questo esame critico, il Colajanni parla anche di molte altre cose, che a lui pare debbano servire di armi formidabili di lotta contro la improntitudine e testardaggine liberista, e di cui mi fu impossiblle fare un esame particolare approfondito, perché sarebbe stato necessario scrivere un grosso volume. Così:

  • a) egli se la piglia col prof. Antonio De Viti De Marco per l’atteggiamento da questi tenuto in occasione del modus vivendi colla Spagna nel 1905, quando combatté la riduzione del dazio protettore sul vino spagnuolo e per un voto protezionista che avrebbe dato in occasione di non so che rimaneggiamento dell’imposta di fabbricazione degli spiriti. «Ciò che – aggiunge stranamente Colajanni – gli venne rimproverato dall’on. Pantano».

Mettiamo da un canto questo rimprovero del Pantano. A me sembra un onore incorrere nell’indignazione di questo signore, uno dei padreterni dell’economia nazionale, il quale ha una gran parte di responsabilità di parecchie fra le maggiori disgrazie che siano capitate all’Italia: esercizio ferroviario di Stato, navigazione di Stato con le isole, legislazione protezionista degli spiriti, peggioramento del sistema di protezione alla marina mercantile, e, se non erro, equo trattamento degli agenti delle ferrovie di Stato. Non c’è argomento economico, intorno al quale costui non discorra ed intorno al quale egli non sia persuasissimo di possedere maggior sapienza «disciplinatrice» degli interessati. La sua persuasione che sia possibile con leggi, con regolamenti, con l’azione governativa «ben regolata e ben disciplinata» far progredire tutte le industrie che van male ed anche quelle che van bene è la prova della sua sconfinata superbia. Passa, in Parlamento, per un grande economista; e gli manca quel minimum di modestia il quale fa persuaso ogni economista, che abbia non solo meditato sui libri ma guardato attorno a sé, essere il pilota più analfabeta d’Italia meglio in grado di risollevare le sorti depresse della marineria italiana di quanto non possa essere la sapienza distillata di 508 Pantani messi insieme a scrivere relazioni ed a pontificare in interviste come padreterni salvatori del paese. Immagino perciò che l’on. De Viti De Marco deve essere rimasto assai poco impressionato della disapprovazione di un sapientone siffatto; mentre, forse, gli sarà doluto di più di non essere riuscito a far comprendere al Colajanni che egli combatteva la riduzione del dazio doganale sul vino non perché fosse favorevole a questo dazio, ma perché gli pareva ingiusto che la protezione fosse tolta ai viticultori del sud e conservata ai grandi trivellatori della siderurgia, dei cotonifici, degli zuccheri e via dicendo, ecc., appartenenti in prevalenza al nord. Su questo terreno sono d’accordo in Italia col De Viti parecchi altri liberisti i quali ritengono che non giovi all’abbattimento del regime protettivo la lotta impostata solo contro il dazio sul grano o sul vino o sullo zucchero, perché osservano che ai cerealicoltori, o viticultori o zuccherieri riescirà facile conservare il dazio, lamentandosi della iniquità di trattamento in loro esclusivo odio. La lotta, essi dicono, deve essere combattuta su tutto il fronte e non solo contro alcuni dazi e specialmente contro quei dazi che costituiscono un tenue compenso al Mezzogiorno delle grandi trivellature del nord industriale. È una questione di pura tattica nella lotta anti protezionista. Io non sono del parere di questi amici miei, e credo che, se qualcosa si riuscirà ad ottenere, sarà facendo sovratutto impeto, nel momento più opportuno, contro il punto più debole della baracca protezionista: sia grano o zuccheri o ferro, non importa, purché un anello della catena si rompa. Rotto un anello, i danneggiati getteranno alte strida e grideranno all’ingiustizia e si uniranno a noi nel chiedere l’abolizione degli altri dazi. Tatticamente sembra a me che sovratutto convenga rompere l’accordo fra agricoltori ed industriali; poiché, portata la discordia nel campo di Agramante, sarà più facile ottenere la vittoria. Su questa, che è una quistione disputabile di tattica, è ingiusto fondare un’accusa di contraddizione e di protezionismo contro l’on. De Viti De Marco, il quale è oggi uno dei più strenui combattenti per la causa liberista. Certo io avrei preferito che egli si fosse messo contro i suoi Pugliesi, che sbraitavano contro il modus vivendi senza nulla sapere di liberismo o di protezionismo: ed, a rischio di perdere il seggio di deputato, avesse lasciato, per quant’era in lui, approvare il modus vivendi, salvo poi ad eccitare alla rivolta – nelle forme legali, s’intende – quelle popolazioni contro un sistema che tutto regalava a certi industriali senza nulla o quasi nulla poter dare alle masse degli agricoltori. Sono convinto che convenga lasciare o far togliere persino l’apparenza di equilibrio di favori a tutti su cui fanno tanto assegnamento i protezionisti, equilibrio irraggiungibile, e sempre sgangherato, il quale giova soltanto a mascherare il fatto fondamentale del ricco banchetto largito ai pochi e delle briciole della mensa alle moltitudini; e per questo motivo sono d’accordo con Colajanni nel desiderare dal De Viti e dagli amici suoi una condotta diversa intorno al dazio sul vino. Per conto mio sono un piccolissimo viticultore, e, come tale, un’unica volta in cui mi toccò di parlare in un pubblico comizio di viticultori, difesi lo zucchero a buon mercato, sebbene ai viticultori del nord lo zucchero a buon mercato sia sempre parso un concorrente formidabile ed ho dichiarato che il vino straniero doveva essere lasciato entrare in franchigia;

  • b) non contento dei suoi vagabondaggi in Italia, Germania, Inghilterra e Stati Uniti, Colajanni si appella anche alla esperienza della Russia e dell’India. È un po’ difficile seguirlo in questi lontani paesi, di cui probabilmente abbiamo amendue una assai pallida idea. Colajanni pare ritenere che il fatto dei contadini russi ed indiani i quali producono grano e non lo mangiano, sebbene desso sia a buon mercato e sebbene russi ed indiani muoiano spesso di fame, sia un fatto anti liberista.

Come mai questo sia il significato del fatto, è alquanto difficile capire. Sembra che Colajanni faccia questo ragionamento: (1) i liberisti combattono il dazio sul grano perché rialza il prezzo del pane; (2) dunque essi ritengono che il liberismo sia una bella cosa perché il prezzo del pane è basso; (3) dunque, ancora, essi ritengono che al prezzo del pane basso si debba necessariamente accompagnare il benessere delle popolazioni; (4) dunque essi dicono delle ridicolaggini perché in India ed in Russia i popoli muoiono di fame, malgrado il prezzo del pane sia bassissimo. A me sembra che sia stravagante la sequela dei dunque di Colajanni; poiché i liberisti accettano la (1) e la (2) proposizione; ed accettano la (2), facendo però l’aggiunta che il liberismo fa ribassare il prezzo del pane, in confronto al prezzo che avrebbe col protezionismo, a parità di altre condizioni; essendo possibilissimo che il prezzo del pane in un paese libero scambista sia alto, pur mantenendosi ad un livello più basso di quanto non si avrebbe col protezionismo nello stesso paese e nello stesso tempo. Ma essi non accettano affatto la proposizione (3); poiché il libero scambio non può, come per un tocco di bacchetta magica, mutare d’un tratto le condizioni misere di popolazioni arretrate o densissime, condizioni dovute ad una moltitudine di cause storiche, con cui il libero scambio non ha nulla a che fare. Forseché, del resto, se il prezzo del grano fosse stato alto per merito (!) del protezionismo i contadini della Russia o dell’India non sarebbero morti di fame? Pare a me che il dover pagare il pane un buon terzo più caro, a simiglianza dell’Italia, avrebbe, caso mai, accelerato la loro morte. Non pare all’onorevole Colajanni? E non gli sembra anche probabile che le morti deploratissime dei contadini russi si debbano forsanco ascrivere in parte al fatto che i loro salari, decurtati dalle ladrerie dei cotonieri, lanaiuoli, siderurgici, ecc., della Russia, non hanno loro concesso di dedicare alla compra del grano, sebbene a buon mercato, tutta quella somma di denaro che essi avrebbero pur desiderato? c) non soddisfatto del «paradosso economico studiato nel testo intorno alla correlazione fra consumi e prezzi, Colajanni cita una recente statistica del Board of trade inglese da cui risulterebbe che i prezzi erano aumentati dal 1900 al 1912 più in certi paesi liberisti che in altri protezionisti, ed egualmente in paesi diversi per regime doganale. Ricordo di aver letto un’analisi della medesima statistica nella Frankfurter Zeitung nella quale si cercava invece di dimostrare che l’aumento dei prezzi era stato più sensibile nella Germania protezionista che nella Inghilterra liberista. Al solito trattasi di affrettate interpretazioni; poiché, per rendere il paragone significativo, rispetto alla questione del protezionismo, sarebbe stato necessario:

  • scindere i numeri indici globali in numeri indici particolari diversi per merci protette e merci esenti, per generi di merci (materie prime, prodotti industriali, prodotti alimentari, ecc.), essendo possibile che siano diverse, le progressioni di prezzi dei diversi gruppi di merci;
  • tener conto dei diversi punti di partenza dei numeri indici, poiché se, per esempio, l’aumento nel prezzo dei generi alimentari in Inghilterra fu da 100 a 130 ed in Germania da 100 a 120, non ancora si potrà dir nulla intorno all’influenza possibile del regime doganale, se il 100 dell’Inghilterra rispondeva a 20 lire ed il 100 della Germania a 30. I prezzi nella prima salirono infatti da 20 a 26 e sono ancora sopportabili; mentre il rialzo nella seconda da 30 a 36 li rende, malgrado l’uguale peso assoluto dell’incremento, gravosissimi;
  • tener conto anche della opportunità di stabilire periodi di tempo pei diversi paesi che siano realmente significativi per la questione di cui si tratta.

Supponiamo che la mutazione dei prezzi sia avvenuta nella seguente maniera:

Paese 1895 1900 1905 1910 1912
A (liberista) 20 20 22 24 26
B (protezionista) 25 30 32 34 36

 

Ben diversi sono i risultati che si ottengono a seconda che si assume il 1895 od il 1900 come la base dei prezzi per la formazione dei numeri indici. Se facciamo uguali a 100 i prezzi del 1895 abbiamo i seguenti risultati:

 

Paese 1895 1900 1906 1910 1912
A (liberista) 100 100 110 120 130
B (protezionista) 100 120 128 131 144

 

L’aumento pare assai più accentuato nel paese protezionista che nel paese liberista. Se invece facciamo uguali a 100 i prezzi del 1900 abbiamo i seguenti diversi risultati:

 

Paese 1895 1900 1906 1910 1912
A (liberista) 100 100 110 120 130
B (protezionista) 83 100 108 113 120

 

L’aumento apparente diventa più sensibile nel paese liberista. Quale delle due date convenga scegliere come punto di partenza non può dirsi, a priori. Può darsi che per ogni indagine convenga mutarlo; e la scelta può essere fatta solo in base a molte considerazioni contingenti, che è compito dell’indagatore mettere in luce. Quante cautele – parmi sentir dire dal mio avversario – pretende Einaudi dai protezionisti quando maneggiano statistiche! Ed è vero che le pretese sono molte; e son tante appunto perché è stupefacente il semplicismo frettoloso dei protezionisti, sicché occorre continuamente dire e ripetere che i fatti sono più complessi di quanto non s’immaginino. S’intende che ai protezionisti spetta uguale libertà di critica contro l’eventuale semplicismo di taluno di noi. È lecito però chiedere che, nel criticarci, i protezionisti si degnino di separare le posizioni di ognuno di noi, evitando di rinfacciare a me i dati eventualmente semplicisti che potrà citare l’Eco o la Campana o la Squilla di Cavoretto o di Roccacannuccia, supposto che a Cavoretto od a Roccacannuccia sorga un giornale settimanale ed aderisca alla lega anti protezionista? I quali dati, d’altronde, non saranno mai tanto semplicisti come sono artefatti quelli che sugli organi siderurgici e zuccherieri citano i difensori delle attuali protezioni alla siderurgia od agli zuccheri, che vedo con piacere Colajanni comincia a qualificare sulla sua rivista scandalose od esagerate.

[2] Sulla «Rivista popolare» del 30 settembre il Colajanni parla di «esagerazione pericolosa e di fanatismo semplicista e laido» dei propagandisti meridionali della lega antiprotezionista e cita a prova il seguente manifesto «pubblicato in uno dei più simpatici e battaglieri giornali, che hanno aderito alla lega antiprotezionista». Lo riproduco anch’io, a titolo documentario di uno dei primi saggi della propaganda antiprotezionista, dolente di non conoscere la fonte da cui il Colajanni l’ha tratto: Una terribile rapina «viene consumata ogni giorno contro ogni italiano. Ogni giorno gli italiani si trovano di fronte al pauroso dilemma: o la borsa o la vita! E ogni giorno gli italiani debbono vuotare la borsa per salvare la vita. Se vogliono mangiare debbono comprare il pane. Ma dentro il pane sta nascosto un nemico, pronto ad aggredire i compratori. Non si mangia pane senza pagare due soldi il chilo oltre il giusto prezzo del pane. È una malvagità fare rincarire il pane. E se gli italiani vogliono vestirsi devono comperare le vesti a caro prezzo. Tutto è rincarito. Anche la camicia nasconde un nemico. Questo nemico si chiama dazio doganale». Tutti gli italiani «debbono pagare di più le merci perché esse sono rincarite dalla dogana. Pagano più cara la camicia, le scarpe, il cappello, pagano più caro il pane e il companatico, pagano più care tutte le merci di cui hanno bisogno. Così spendono irragionevolmente i propri denari e devono dolorosamente constatare che la dogana impoverisce la maggioranza degli italiani. Perché dunque è stata approvata una legge iniqua che danneggia i figli d’Italia? Perché ci rovinano con i dazi?» Pochi speculatori «hanno imposto la propria volontà a trentaquattro milioni di italiani. Pochi speculatori hanno imposto il dazio sullo zucchero. Pochi speculatori hanno imposto il dazio sui tessuti di cotone coi quali si veste la povera gente. Pochi speculatori hanno imposto il dazio sui tessuti di lana. Pochi speculatori hanno imposto il dazio sul grano. Pochi speculatori hanno imposto il dazio sul ferro. Pochi speculatori hanno imposto la rovina della nazione!» Non si può più vivere «Tutto costa caro. E ogni giorno che passa costa di più. Non si può più mangiare! È cara la biancheria. Dobbiamo quindi restare nudi? È cara la pigione di casa. Dobbiamo restare senza casa? Sono care le calze e le scarpe. Dobbiamo andare scalzi? Sono cari gli strumenti del lavoro: zappe, incudini, martelli, ecc. Restiamo disoccupati?» Non vogliamo morire «di fame, di denutrizione, di miseria. Vogliamo lavorare! Protestiamo contro il dazio che ci toglie il lavoro. Vogliamo mangiare! Protestiamo contro il dazio che ci toglie il pane. Vogliamo allevare i nostri figli! Protestiamo contro il dazio che li rende gracili. Vogliamo il pane e il lavoro! Protestiamo contro i dazi!» Duecentosessanta milioni «costa all’Italia il protezionismo siderurgico. Per favorire pochissimi affaristi si rovina una popolazione intiera. Tutti gli oggetti di ferro costano enormemente perché così vogliono i milionari della siderurgia. E la povera gente è sacrificata. E la nazione è impoverita. Bisogna abolire i dazi sul ferro. Costano troppo! Duecentosessanta milioni ogni anno! Duecentosessanta milioni ogni dodici mesi! Duecentosessanta milioni che sono il sangue dei poveri!» Bisogna protestare «Bisogna dire che il regime protezionista è un regime iniquo! Protestate contro il protezionismo doganale!». Colajanni, a leggere questo manifesto, deve essere divenuto scarlatto per la collera, perché scrive: «Non aggiungo alcun commento a questa brutale manifestazione del più bieco fanatismo liberista; dico soltanto che se il protezionismo in sé e per sé è disonesto, non lo è meno questo liberismo… elettorale escogitato alla vigilia delle elezioni e che si propone di rubare voti. Per parte mia come ho lottato sempre contro i ladri nel senso ordinario della parola intendo anche lottare contro i ladri di voti, anche se i voti rubati potranno andare al benefizio del partito in cui milito, perché al disopra del partito amo il mio paese». Ora, ognuno ha le sensazioni che corrispondono al suo temperamento. Colajanni, il quale si vede urtato nei suoi sentimenti protezionisti, sinceramente va in collera e grida ai ladri di voti. Ed avrebbe ragione di andare in collera se le male parole del manifesto fossero indirizzate anche a lui. Si tranquillizzi. Nessuno, neppure il più bieco e fanatico liberista, può aver pensato di includere lui tra gli speculatori e trivellatori congiurati ai danni d’Italia. Siamo tutti persuasi che egli vuole il dazio sul grano, come vuole il regime protettivo perché lo crede, e profondamente e sinceramente lo crede, utile al paese, come lo credeva Cognetti. Di lui possiamo deplorare la cecità, che lo induce a vedere dappertutto statistiche protezioniste; non mai la consapevole intenzione di volere il male. E se le sorti del protezionismo fossero raccomandate solo alla penna di dottrinari del protezionismo pari suoi, noi liberisti potremmo dormire i sonni tranquilli. Il protezionismo non sarebbe mai sorto: e, se per miracolo fosse sorto, non si durerebbe fatica ad abbatterlo. Gli autori del protezionismo, i responsabili delle trivellature in Italia non sono i dottrinari tipo Colajanni. Sono coloro che dai dazi doganali hanno tratto lucri, sono i piccoli gruppi di industriali e di agricoltori protetti; sono quelli, che avendo forse avuto trent’anni or sono ragione di chiedere una temporanea protezione, ora vogliono ad ogni costo perpetuarla. Contro costoro e contro i loro scribi è diretto il manifesto riprodotto con tanta indignazione dal Colajanni, rozza ed ancora inesperta, imitazione dei tracts che a milioni si rovesciavano sugli elettori inglesi ed americani nelle ultime campagne terminate colla vittoria dei liberali in Inghilterra e di Wilson negli Stati Uniti. Certo, il linguaggio del manifesto è chiaro, semplice, da scuola elementare, senza perifrasi e senza velature di frasi sapientemente scelte per «temperare» il pensiero; certo non il linguaggio accademico che il professore deve tenere in un’aula universitaria, dove pacatamente si possono esporre ad ascoltatori addestrati al ragionamento economico i principii della teoria degli scambi internazionali e le numerose illazioni che se ne possono ricavare; certo non è il linguaggio che si tiene in una rivista scientifica, la quale ha una clientela scelta, la quale conosce il valore delle parole e delle dimostrazioni raffinate; certo, vi è un abuso di parole e di frasi improprie, come «speculatori», «rapina», «o la borsa o la vita», «sangue dei poveri», «prezzi giusti» e «dazi iniqui» i quali tradiscono la mano di uno scrittore abituato a fare appello più ai sentimenti che alla ragione del popolo; certamente sarebbe stato preferibile che le classi dirigenti avessero educato il contadino meridionale in guisa da fargli capire le verità economiche, senza d’uopo di rivestirle di un frasario sentimentale e giornalistico; ma – fatta questa premessa – dopo aver letto e riletto il manifesto, non ho riscontrato una parola che non fosse la traduzione popolare di quelle verità sacrosante che gli economisti hanno lo strettissimo dovere di coscienza di esporre a chi ascolti le loro parole o legga i loro libri. È vero che ai protezionisti importa poco delle lezioni dei professori e dei libri dottrinari. Le prime si dimenticano, appena passato l’esame, tantoché la classe politica dirigente la quale in Italia ha votato dazi protettori composta per tre quinti di avvocati che, in tempo di loro gioventù, hanno ripetuto fedelmente ai loro professori la dimostrazione degli errori del protezionismo. Ed i libri sono grossi e nessuno li legge. Io però mi sono messo a polemizzare con Colajanni appunto e solo perché lo ritengo un protezionista diverso dagli altri o desideroso che i problemi doganali vengano apertamente discussi ed appassionatamente portati dinanzi alle masse perché esse decidano quella via che deve essere seguita. Sarebbe comodo se la controversia potesse contenersi nelle chiuse aule universitarie e sui fogli economici. Sarebbe comodo, ma sarebbe indice di imperfetta educazione civile. Io mi rallegro pensando che vi siano finalmente in Italia alcuni giovani pieni di fede, che hanno sentito le nostre parole, che si sono accesi di santa collera contro i tiranni del loro paese e che hanno avuto il coraggio di tentare di tradurre le nostre dimostrazioni complicate e difficili in sentenze e dimostrazioni brevi, chiare, efficaci, atte a far presa sul popolo. Spero che questa sia l’alba del giorno in cui il paese intiero, l’analfabeta più indurito potrà dai manifesti popolari, dai disegni allegorici, dalle figure parlanti della micca grossa liberista e della micca piccola protezionista imparare finalmente quale, secondo noi, sia l’essenza predatrice del regime protezionista sotto cui noi viviamo. Fate altrettanto voi protezionisti. Diffondete anche voi dei manifesti, dei credo, delle novelle in senso protezionista. Affiggete alle mura i vostri manifesti coll’agricoltore protetto che raccoglie ampia messe di grano e paga volentieri il vestito o l’aratro caro, dell’operaio che riscuote la paga settimanale di 30 o 40 lire e che se ne infischia del pane a 46 centesimi al chilogramma; raffigurate pure la moglie, cui il liberismo ha condannato il marito alla disoccupazione, costretta a chiedere l’elemosina del pane a buon mercato per i figli affamati. La Tariff Reform League vi fornirà a centinaia ed a migliaia i campioni di manifesti e di affissi sensazionali a colori per trarre il popolo a votare a favore della causa protezionista. Sarà una bella battaglia questa, il giorno in cui la si potrà fare in piazza, sulle mura, nei comizi all’aria aperta. Io non ci sarò, poiché chi ha l’abitudine dello studio, non è atto alla propaganda; ma plaudirò l’opera santa di coloro che alla propaganda protezionista opporranno la propaganda liberista. La quale non è propaganda di odio e di furto, come voi immaginate, on. Colajanni. Quello che avete scritto contro il manifesto liberista non sono parole degne di voi, che alla libera ed aperta e fervida battaglia di idee avete incitato, tanti giovani, avete incitato anche me, che fin da studente ammiravo in voi l’uomo sincero desideroso di combattere contro avversari aperti, i quali espongono il loro pensiero con chiarezza, con sincerità, senza perifrasi. Quello del manifesto non è linguaggio di fanatici o di ladri; è, salvo i menzionati, dissensi sulla forma, il linguaggio doveroso che al popolo devono dirigere coloro che sono convinti della verità dei principii che è vanto della scienza economica di avere incrollabilmente dimostrato. A voi opporre altro linguaggio ugualmente franco e chiaro.

[3] Intorno al legame fra produzione aurea e periodi economico sociali ho scritto un articolo sul «Corriere della Sera» del 4 settembre 1913, col titolo Prezzi, salari e movimenti sociali. Fondamentale a tale riguardo è la memoria, che duolmi di non aver potuto utilizzare nell’articolo mio, scritto innanzi di averle ricevuta, di Vilfredo Pareto, su Alcune relazioni tra lo stato sociale e le variazioni della prosperità economica (in «Rivista italiana di sociologia», 1913).

[4] Notisi, perché i protezionisti non si valgano del ragionamento economico per ingrossare spaventosamente le cifre delle perdite derivanti dalle mutazioni agricole, che la perdita è quella sola derivante dalle necessarie e successive trasformazioni agricole e non quella dello sminuito valor capitale della rendita fondiaria. Sia un ettaro il quale dia una rendita fondiaria di 100 lire ed al 5% abbia un valor capitale di 2000 lire, composte di 1800 lire di valor del terreno, in quanto terreno ammendato, spianato, prosciugato ed adatto genericamente ad ogni cultura, e 200 lire di valore dei miglioramenti, i quali hanno valore solo se la terra è destinata alla cultura a grano. È una ipotesi esageratissima, perché non si capisce bene in che cosa possano consistere questi miglioramenti che hanno vita specifica solo a causa della cultura a grano. Se si trattasse di una cultura arborea si capirebbe una forte perdita, ma in una cultura annuale no. La crisi cerealicola fa abbandonare la cultura a grano ed adottare, con una nuova spesa di 200 lire, la cultura a pascolo (periodo B); ed in seguito, colla ripresa dei prezzi, provoca il ritorno del terreno alla cultura a grano con un nuovo impiego di capitale di 200 lire (periodo C). La perdita delle successive transizioni è delle 200 lire perdute nel passaggio da A in B, più le 200 lire perdute passando da B in C; ossia in tutto 400 lire. Le 200 lire spese al principio del periodo C non sono perdute, perché conservano il proprio valore derivante dalla cultura a grano che nuovamente si persegue. Notisi che la perdita non è neppure di tutte le 400 lire; perché essa dev’essere diminuita delle frazioni dei costi dei miglioramenti culturali che si sono potute ammortizzare, o si sarebbero dovute ammortizzare se l’agricoltore non fosse stato un balordo od un inesperto – di questi nessuno deve preoccuparsi, essendo opportunissimo lasciarli andare in malora e provvidenziali le crisi che li spazzano via, – durante i periodi A e B. Se questi periodi sono stati sufficientemente lunghi, per es. di 20 anni, tutta la spesa dei miglioramenti si può ritenere ammortizzata, e quindi la perdita delle successive transizioni di cultura deve reputarsi uguale a zero. È questo il caso più frequente, poiché le grandi mutazioni economiche che importano mutazioni di culture agrarie avvengono a distanza notevole di anni, sicché, tutto o quasi tutto il costo delle trasformazioni agricole si è potuto ammortizzare. Per esporre tuttavia un esempio esagerato a favore della tesi protezionista diremo che il costo dello transizioni da A in B e da B in C oscilla fra zero e 400 lire all’ettaro. A ciò si riducono le perdite dell’agricoltura e della collettività. È vero che può darsi la rendita fondiaria dell’ettaro di terreno sia discesa da 100 lire nel periodo A a 30 lire nel periodo B, per risalire solo a 50 nel periodo C, di cui però, se si faccia astrazione dalle 10 lire annue di reddito corrispondenti alle 200 lire di valore dei miglioramenti rinnovati in ogni successivo periodo, solo, 90, 20 e 40 lire sono il reddito dell’ettaro di terreno in «indistinto» migliorato, cioè, od ammendato in guisa da poter ricevere poi gli investimenti specifici delle varie possibili culture agrarie. Cosicché il valore dell’ettaro in «indistinto» da 1800 lire nel periodo A scende a 400 nel periodo B per risalire solo ad 800 nel periodo C. La differenza fra 1800 e 400 è una perdita per l’agricoltura ed è un guadagno per questa l’elevarsi successivo da 400 ad 800? Non pare. Se 400 lire sono nel periodo B ed 800 lire nel periodo C una somma sufficiente a consentire agli agricoltori di apportare ai terreni nuovi od incolti e che sia conveniente di coltivare quei miglioramenti che valgano a renderli genericamente atti alla cultura, quella diminuzione di valore capitale da 1800 a 400 è perfettamente indifferente all’agricoltura. È bensì spiacevolissima per i proprietari di terreni, i quali avevano la proprietà di un bene raro (terra inglese in un mercato chiuso) ed ora hanno la proprietà di un bene abbondante (terra inglese in concorrenza con terra americana in un mercato aperto dalle ferrovie o dai piroscafi); ma è utilissima per gli altri membri della società. L’alto prezzo delle terre era nel periodo A l’indice di gravi ostacoli frapposti all’uomo nella produzione di alimenti, il basso prezzo in B di ostacoli grandemente diminuiti, il cresciuto prezzo in C di ostacoli nuovamente più aspri. Dal punto di vista del benessere umano, il periodo migliore dei tre era indubbiamente il periodo B, che si suole chiamare della «grande depressione agricola». Chiamasi così però solo in Europa, ché in America è da tutti reputato periodo di grande prosperità e di colonizzazione rapidamente progressiva.

[5] Faccio un’unica eccezione al proposito, manifestato nella prima nota al presente articolo, di non aggiungere nulla a ciò che avevo scritto il 12 ottobre – ci sarà tempo a ritornare su ciò che Colajanni ha scritto di poi ed in ispecie sui suoi due volumi che portano il titolo Il Progresso economico (vol. 1, 2, 3 della Raccolta «L’Italia d’oggi», edita dall’editore C.A. Bontempelli di Roma) e sono in ispecie od in parte una diatriba contro le solite teste di turco liberiste! – ; per dare qualche schiarimento sul sospetto che nel testo manifestai. Si compiaccia l’on. Colajanni di leggere nell’Economiste français del 31 agosto 1912 l’analisi critica dell’ultimo rapporto pubblicato dal governo francese su quella operazione di accertamento tributario che da anni si prosegue tra i nostri vicini col nome di évaluation des propiétés non baties. Certamente vi inorridirà leggendo che, nei 25.364 comuni censiti all’1 gennaio 1912 e comprendenti il 77,47% della superficie imponibile, il valore locativo ossia il reddito netto annuo dei proprietari dei terreni era solo di 1.281.532.442 franchi, in diminuzione di ben 370.289.705 franchi, ossia del 22,65 per cento in confronto allo stesso reddito netto valutato nel periodo 1879-1884. Egli, che ha letto i quadri raccapriccianti della desolazione delle contee cerealicole inglesi, non so cosa dirà, constatando che in soli 11 dipartimenti francesi si constata un aumento, poco importante del resto, nei redditi netti; mentre in 9 dipartimenti la diminuzione varia dal 6 al 10%, in 20 dall’11 al 20%, in 18 dal 21 al 30%, in 20 dal 31 al 40%; ed il «tracollo» sale in 6 dipartimenti dal 41 al 50% ed in 3 oscilla dal 50 al 75 per cento. Stia tranquillo l’on. Colajanni; a nessun liberista salterà in mente di strillare, come fa lui per il liberismo in Inghilterra, che la causa unica di questa «rovina» è il protezionismo francese. Non si può negare che la responsabilità del «delitto» non risalga in parte anche al protezionismo; ma è certo che le cause sono complesse, sebbene questo non sia il momento di discorrerle. L’esempio si addusse solo per dimostrare che la virtù della carità verso i nemici può giovare, anche quando si vogliono stritolare i liberisti sotto il peso «sperimentale» delle cifre. Nota aggiunta il 20 novembre 1913.

La ripartizione delle imposte e la pressione tributaria in Italia

La ripartizione delle imposte e la pressione tributaria in Italia

«Corriere della Sera», 18 e 27[1] novembre 1913, 8[2] e 13[3] gennaio 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 578-609

 

 

 

 

1

 

È opinione generalmente e ragionevolmente diffusa che il problema tributario dovrà nella nuova legislatura essere discusso a fondo e dovrà fornire argomento a battaglie forse vivaci e feconde. Già s’odono le voci più diverse le quali sorgono a lamentare la cattiva distribuzione delle imposte, la sua iniqua ripartizione, per cui le classi ricche e borghesi sfuggono al loro debito tributario, mentre sono ingiustamente e sovratutto aggravate le masse.

 

 

Affinché la discussione sia proficua, sembra sia opportuno conoscere anzitutto i fatti; sapere cioè quale sia la pressione tributaria totale delle imposte esistenti; quale la sua ripartizione nelle grandi linee, sulle diverse classi sociali; quale l’altezza della sua pressione sulle diverse specie della ricchezza nazionale. Conosciuti i fatti; sarà possibile indicare i rimedi ai mali che venissero accertati; mentre può nuocere la proposta di rimedi intesi allo scopo di guarire mali inesistenti o di raggiungere una meta che per avventura fosse già toccata.

 

 

Disgraziatamente i fatti non sono così chiari e parlanti da poter darci la risposta a tutte le domande che ho posto sopra; sicché occorre procedere per via di ipotesi, schiarimenti ed approssimazioni. Molti, ad esempio, incorrono in errore, nel valutare la pressione tributaria rispettiva dei proprietari e dei proletari, tenendo conto delle sole finanze dello stato; altri supponendo che siano imposte tutto il provento delle privative del sale, dei tabacchi e del lotto, mentre la parte la quale va a compensare le spese industriali e le vincite non è imposta, ma costo di esercizio dell’industria, il quale va a carico dei consumatori diretti delle merci o delle speranze di vincita messe in vendita dallo stato. Altri farnetica di esenzioni di taluni capitalisti dalle imposte, solo perché, ad esempio, il tributo sui titoli al portatore viene pagato da enti intermediari, come, ad esempio, le società anonime, per conto dei loro azionisti ed obbligazionisti. Si odono ripetere errori grossolani da persone, le quali dovrebbero essere peritissime nel maneggiare statistiche e leggi tributarie. Sicché è necessario, innanzi di esporre un quadro della complessiva pressione tributaria italiana, avvertire che il quadro fu composto:

 

 

a)    non tenendo conto delle entrate che lo stato e gli altri enti hanno dal proprio demanio o dall’esercizio di industrie vere e proprie, come le poste, i telegrafi, i telefoni, le ferrovie, ecc. ecc. Sarebbe scorretto considerare come imposte le somme che i cittadini, in quanto utenti, pagano per ottenere i servizi dei trasporti delle persone, delle merci o delle corrispondenze; e si deve supporre che i prezzi pagati allo stato per tali servizi siano inferiori a quelli che si pagherebbero a privati che esercitassero la medesima industria, sicché l’utente non subisce nessun gravame quando il servizio gli è fornito da una pubblica amministrazione.Il criterio fu seguito fin dove era possibile; né le eccezioni cui necessariamente si dovette dar luogo, sono importanti e tali da esercitare un’influenza apprezzabile sui risultati del calcolo.

 

 

b)    deducendo dal reddito lordo che lo stato ricava dalla vendita dei tabacchi, del sale e delle speranze di vincita al lotto, il costo della produzione dei sigari, sigarette ed altre qualità di tabacchi, del sale e l’ammontare delle vincite al lotto. Se un tale spende 10 centesimi per comperare un sigaro che allo stato è costato 3 centesimi, l’imposta è eguale a 10 – 3 ossia a 7 centesimi. Per il resto l’acquirente ha avuto il vantaggio di fumare il sigaro, vantaggio identico a quello che si ha consumando vino, caffè, teatri ecc. ecc.;

 

 

c)    aggiungendo al provento delle imposte di stato quello delle sovrimposte ed imposte pagate agli enti locali. Le provincie ed i comuni invero sono organismi a cui, per evidenti ragioni di opportunità e convenienza, vengono affidati alcuni compiti, che male e con eccessivo costo sarebbero adempiuti dallo stato. E perciò a questi enti vengono assegnati taluni tributi, i quali, completando i tributi dello stato, formano con essi un tutto inscindibile. Fa senso sentire che i proprietari di terreni in Italia pagano solo 82,8 milioni di lire di imposta allo stato; ma, quando si ode che essi pagano altresì 64 milioni alle provincie, 109,9 milioni ai comuni e 5,3 milioni per aggi ed in tutto 262 milioni, il peso tributario dei proprietari di terreni appare assai più considerevole.

 

 

La somma dei tributi di stato con i tributi locali non in tutto può farsi in modo soddisfacente per la diversità del periodo di tempo a cui i dati si riferiscono. Per lo stato mi sono riferito all’esercizio finanziario 1911-12, l’ultimo di cui si hanno i dati definitivi, per le provincie ed i comuni in parte (sovrimposte e dazi consumo) al 1911 ed in parte (imposte minori) al 1907. Le fonti da cui ho ricavato i dati statistici sono la relazione generale sulla amministrazione delle finanze durante l’esercizio 1911-12 e la statistica delle finanze comunali del 1907, che sono gli ultimi due documenti ufficiali comparsi in argomento.

 

 

Le statistiche consentono di fare una sola grande ripartizione dei tributi vigenti in Italia; ripartizione la quale è ben lungi dall’essere perfetta e scientifica; ma corrisponde abbastanza bene a quella distinzione che ha maggior seguito nell’opinione pubblica, tra i legislatori ed i pubblicisti. Voglio accennare alla ripartizione tra imposta sul reddito, sul capitale e sulla ricchezza acquisita da un lato e sui consumi dall’altro. Nella prima categoria cioè si collocano tutte quelle imposte le quali cadono sui proprietari di terreni e di case, sui capitalisti, sui professionisti, sugli industriali e sui commercianti; nella seconda le imposte le quali colpiscono in genere l’uomo solo perché consuma merci o derrate soggette a dazio, a privativa, a tributo.

 

 

La distinzione non è in tutto perspicua, poiché le imposte della prima categoria sono pagate in non piccola parte da piccoli proprietari, artigiani, negozianti e professionisti; mentre le classi medie e ricche contribuiscono ed in non piccola misura al pagamento delle imposte sui consumi. Ma, pur non potendo identificare le prime imposte con quelle pagate dalla borghesia e dai ricchi e le seconde con quelle solute dalle grandi masse, si ha tuttavia un’idea approssimata della ripartizione dei tributi nel nostro paese. Si noti, se ciò ci può consolare, che nella maggior parte dei paesi civili non è possibile ottenere risultati statistici migliori di quelli che si ottengono in Italia.

 

 

Ecco ora il quadro delle imposte le quali colpiscono i redditi, i capitali e le ricchezze acquisite.

 

 

 

Stato

 

 

Provincie

 

Comuni

Totale

milioni

Imposte sui terreni 

82,8

64

109,9

256,7

Imposte sui fabbricati 

104,1

50

73,8

227,9

Aggi di riscoss. immediata 

8,9

Imposta di ricch. mobile 

 312,5

312,5

Addizione terremoto 

8,7

8,7

Ricuperi imposte dirette 

2,3

2,3

Tassa esercizio e rivendita 

9,9

Tassa valor locativo 

3,3

Tassa famiglia 

23,1

79,2

Tassa bestiame 

16,1

Altre tasse 

26,8

Imposta di successione 

50,1

Imposta di manomorta

5,6

 
Imposta di registro 

95,3

Imposta di bollo 

83,8

284,1

Imposta di surrogazione 

28,3

Imposta di ipotecarie 

11,2

Addizion. tasse sugli affari 

9,8

Totale 1.180,3

 

 

Con le imposte dirette sui redditi, sulle successioni e sulla circolazione della ricchezza lo stato e gli enti locali prelevano ogni anno circa 1 miliardo e 200 milioni di lire sui contribuenti, i quali hanno qualche proprietà immobiliare o mobiliare, piccola, media o grossa, ed esercitano professioni, industrie, commerci, negoziano e fanno affari. La somma di 79,2 milioni che si legge nel quadro pagata ai comuni a titolo di imposte minori è probabilmente inferiore al vero risalendo essa al 1907: dopo il qual anno il gettito della sola imposta di famiglia è assai cresciuto.

 

 

Passiamo alla seconda categoria di imposte: sui consumi. Qui possiamo fare a meno della distinzione delle entrate, a seconda delle varie qualità degli enti pubblici tassatori, poiché le provincie non hanno imposte sui consumi e per i comuni queste si riducono ad una sola, sebbene vistosa, cifra: quella del dazio consumo. Ecco i dati:

 

 

Milioni di lire

Imposte di fabbricazione 

200,3

Dazi doganali 

343,6

Dazi di consumo: stato 

52,1

Dazi di consumo: comuni 

194,9

247

247

Privative: tabacchi

 

244

 

Privative: sale 

75,1

Privative: lotto 

53,3

Privative: chinino 

0,9

373,3

 

373,3

 

Totale 1164,2

 

 

La somma complessiva di imposte sui consumi pagata dagli italiani torna all’incirca ad essere quella stessa di 1 miliardo e 200 milioni – in argomenti siffatti occorre arrotondare le cifre – che si paga a titolo di imposte sui redditi, capitali ed affari.

 

 

Questi due dati riassuntivi possono dar luogo a parecchie riflessioni interessanti.

 

 

Innanzi tutto la pressione totale tributaria in Italia, di 1.200 + 1.200 = 2.400 milioni di lire è tutt’altro che lieve. Quali si siano i nomi che si danno alle imposte, esse sono prelevate sempre e soltanto sul flusso annuo di ricchezza nuova che si viene formando ogni anno nel paese. La pressione o gravezza dell’imposta si misura in funzione di questa quantità, che è il reddito nazionale annuo. Quale sia il reddito nazionale della massa degli italiani è ignoto. Forse può sembrare un’ipotesi non troppo lontana dal vero calcolarlo in 12 miliardi, nel qual caso le imposte assorbirebbero complessivamente il 20% del reddito stesso. È molto: ed è, con tutta probabilità, il massimo a cui si possa giungere in un paese in cui lo stato non voglia essere un fattore di decadenza della ricchezza nazionale. Ma non è quel 30 o 40% che taluni immaginano e che, se fosse stato vero, avrebbe da un pezzo cagionato troppo dannose conseguenze. Sarebbe utile ridurre il 20 al 15 od al 10%; ma non vi è pericolo urgente nel mantenere la pressione tributaria complessiva al livello odierno.

 

 

La seconda considerazione la quale, sulla base delle cifre suesposte, sembra incontrovertibile è questa: che le due grandi categorie di imposte, sul reddito e sui consumi, si bilanciano quasi perfettamente. Chi ricorda i famosi discorsi sul bilancio di Gladstone, i suoi classici paragoni tra le due sorelle siamesi e cioè tra le imposte sui redditi e sui consumi, nell’equilibrio delle quali egli faceva consistere la perfezione pratica degli ordini tributari, chi sa come l’Inghilterra ha durato quasi tre quarti di secolo per giungere a ridurre le imposte sui consumi in guisa che esse non superassero le imposte sui redditi o sulla fortuna, dovrà concludere che la riforma più urgente non sta oggi in Italia nello scaricare i consumi per caricare i redditi e viceversa. Giungerà forse il momento di operare qualche spostamento di tal genere. Per ora sarebbe un lavoro pericoloso per la finanza e tutto sommato, dannoso per i contribuenti.

 

 

Che cosa, invero, ci dicono i due quadri che ho sovra costruito? Che in Italia tutte le forme di ricchezza sono tassate: dai terreni ai fabbricati, dai capitali mobiliari alle industrie ed ai commerci, dagli affari fra vivi alle successioni. Aumentare ancora le aliquote delle imposte sui redditi o sui capitali, anche per i redditi più elevati, allo scopo di potere, col maggior provento, ridurre talune tra le peggiori imposte sui consumi, sarebbe un perditempo, poiché non si possono aumentare aliquote già feroci e tra le maggiori che si conoscano al mondo. Quando i redditi dei terreni pagano, tra imposte e sovrimposta, da minimi del 15 a massimi del 50 e del 60 percento; quando i redditi dei fabbricati pagano da minimi del 25 a massimi del 200 e 300% dei redditi; quando i redditi mobiliari, i più liquidi e fuggevoli fra tutti, pagano dal 7,6 al 24%; quando, per soprammercato questi medesimi redditi sono sottoposti, nell’atto in cui i capitali che li producono passano da persona a persona per successione o compravendita, altre imposte saltuarie le quali, variando dall’1 al 22% del capitale, oscillano fra il 20 ed il 300% del reddito annuo, quando è notissimo che persino i titoli al portatore, rispetto ai quali corre una comica leggenda la quale li considera come immuni da tributo, pagano al minimo il 15% del loro reddito fisso, quando tutto ciò, che è certissimo, si medita e si ricorda, si rimane persuasi che da un semplice incremento di aliquote e magari anche dall’adozione di nuovi nomi di imposte, risolventisi in sostanza in addizionali alle imposte vecchie, non si può sperare alcun risultato apprezzabile.

 

 

Il problema non sta nel creare nuove imposte per costringere la borghesia o le classi ricche a pagare. Le classi borghesi e ricche, ogni volta che sia possibile accertarne i redditi, pagano imposte altissime e che la decenza vieta di aumentare. Il problema è diverso e sta nel confronto tra il gettito complessivo delle imposte sui redditi e sui capitali, che è di circa il 10% del reddito nazionale (un altro 10% è dato dalle imposte sui consumi e si ha così un 20% complessivo) e le aliquote formidabili, del 10, 20, 30, 50, 100, 200% e più scritte nelle leggi, nei bilanci, nei regolamenti comunali e provinciali. Le aliquote legali sono grottesche per la loro altezza; mentre l’aliquota di fatto complessiva è alta, ma ragionevole. Che cosa vuol dire ciò? Che, mentre taluni e non pochi disgraziati contribuenti pagano le aliquote enormi scritte nelle leggi, molti altri sfuggono ai tributi che legalmente dovrebbero solvere.

 

 

2

 

La spiegazione del contrasto tra i fatti approssimativamente sicuri rivelatici dalle statistiche finanziarie (relazione del 20% tra lammontare e il totale delle imposte e quello del reddito nazionale) e l’impressione generale intorno alla gravezza maggiore delle imposte italiane sta tutta nella discordanza tra i redditi veri, realmente goduti dai contribuenti ed i redditi legalmente accertati, ossia conosciuti dal fisco agli effetti delle imposte. Se i redditi veri sono di 12 miliardi, ma il fisco ne conosce solo 6, è chiaro che la proporzione ad aliquota effettiva dell’imposta sarà di 2 miliardi e 400 milioni sui 12 miliardi, ossia del 20 percento, mentre la proporzione apparente o legale sarà di 2 miliardi e 400 milioni su 6 miliardi, ossia del 40 percento. Questa la ragione fondamentale per cui le aliquote delle imposte in Italia appaiono altissime, e per cui tutte le proposte, le quali consistono nel crescere ancora codeste aliquote o nell’inventare nuovi nomi di imposte col fine sostanziale di crescere, senza dirlo, le aliquote delle vecchie imposte, sono destinate a dare scarsi frutti. È vero che le imposte talvolta si istituiscono per soddisfare a bisogni retorici di dimostrare la propria capacità inventiva tributaria ed il proprio coraggio a colpire certe classi di contribuenti; ma sembra che tutte le persone di buon senso dovrebbero essere concordi nel ritenere che siano inutili e dannosi gli inasprimenti tributari il cui unico effetto sia di accrescere le odierne evasioni e siano utili soltanto quelle riforme le quali giovano sul serio a far pagare di più a coloro i quali non pagano abbastanza, sgravando nel tempo stesso, – nei limiti del possibile e garantendo all’erario un aumento notevole di proventi, – coloro i quali sono eccessivamente tassati.

 

 

Per scoprire quali siano i punti di massima e di minima pressione effettiva nelle imposte non sarà inutile scrutare ancora un po’ più da vicino i fatti, per accertare quali siano le maglie della rete tributaria attraverso a cui più facilmente sfuggono i redditi imponibili. È questa la sola maniera pratica di crescere sul serio il gettito dei tributi, senza crescere ed anzi scemando le aliquote legali, già fantasticamente elevate.

 

 

E cominciamo col primo ramo della nostra imposta sul reddito. Dico della «nostra imposta sul reddito» poiché è una strana illusione, coltivata solo nei nostri ceti dirigenti politici, quella per cui si immagina che in Italia non esista una imposta sul reddito. È vero che i legislatori del periodo 1861 – 66 preferivano conservare ad essa i tre vecchi nomi di imposta sui terreni, sui fabbricati e sui redditi di ricchezza mobile; ma è vero altresì che la celebre imposta inglese sul reddito (income tax) si distingue, oltreché per talune importantissime circostanze particolari rispetto a cui in parte è migliore ed in parte è peggiore della nostra – dall’imposta italiana solo perché i legislatori inglesi del 1798 e del 1842 preferirono darle un nome solo, pure essendo essa, come la nostra, un conglomerato di parecchie (cinque) imposte diverse, ognuna delle quali è regolata con criteri propri. La qual verità, che in Italia esiste già una imposta sul reddito, è talmente chiara agli uomini, i quali non hanno la mente ottenebrata dal suono vano dei nomi, che gli stranieri, i quali vengono in Italia a studiarla ed a proporla, per certe sue mirabili caratteristiche, all’imitazione dei legislatori stranieri, la chiamano senz’altro the italian income tax, e cioè l’imposta italiana sul reddito. Così lo Seligman, reputatissimo scrittore americano di finanza, ed inspiratore di quella imposta sul reddito che il presidente Wilson fece recentemente introdurre negli Stati uniti. Tassando i redditi dei terreni, dei fabbricati e, sotto il nome di ricchezza mobile, i redditi dei capitali delle industrie, dei commerci, delle professioni, degli impieghi e del lavoro, la nostra imposta sul reddito non lascia immune alcuna forma di reddito. Se qualche reddito sfugge non è per difetto di obbligo a pagare, ma di attitudine pratica del fisco a conoscerlo ed a costringerlo a pagare.

 

 

Il primo ramo della imposta italiana sul reddito è l’imposta sui terreni. Come avvertii nell’articolo citato, l’imposta sul reddito dei terreni frutta circa 262 milioni di lire all’anno allo stato, alle provincie ed ai comuni. Dire da quale reddito netto questi 262 milioni di lire – a cui bisogna aggiungere quella parte cospicua dei 284,1 milioni di tasse sugli affari (bollo, registro, successioni, ipoteche) che grava altresì sulla proprietà fondiaria – siano prelevati è quasi impossibile. L’impossibilità nasce dal fatto che l’imposta sui terreni è distribuita prevalentemente ancora sulla base di vecchi catasti, i quali non hanno più alcun rapporto con il reddito attuale dei terreni. Se si ammette però, coll’ufficio ricostituito di statistica agraria, che il prodotto lordo della terra sia di circa 7 miliardi di lire, sembra difficile che il reddito netto spettante ai proprietari terrieri, come tali – detratte le parti del prodotto spettanti agli affittavoli, mezzadri, contadini obbligati, braccianti, giornalieri, ecc., e le spese per sementi, concimi, manutenzione, attrezzi, ecc. ecc. – sia superiore ai 2 miliardi di lire. Il catasto nuovo che si sta compiendo difficilmente scoprirà più di 1 miliardo di reddito netto dei proprietari; sicché, a raddoppiare tale cifra, pare si debba stare nei limiti del probabile. Un prelievo di 262 milioni a titolo di imposta e sovrimposta sui terreni, più una parte dei 284 milioni di tasse sugli affari, forse in tutto di non meno di 400 milioni di lire, può sembrare scarso od enorme a seconda se chi giudica è un proprietario di terreni od un professionista.

 

 

Certo l’impressione generica che fa un’imposta di circa 400 milioni per 2 miliardi di reddito netto sembra essere questa: che se si vuol ricavare dai terreni un prodotto tributario più forte, fa d’uopo non aumentarne il peso su tutti, ma solo su coloro che oggi pagano troppo poco. Si pensi ciò che si vuole intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta fondiaria, secondo cui dopo una o due generazioni l’imposta non viene più pagata da nessuno; sta di fatto che in non pochi comuni, per il sovrapporsi di imposte e sovrimposte e per effetto di vecchi catasti sperequati vi sono proprietari i quali pagano sul serio il 50 o 60% e più del reddito netto al fisco, laddove altri pagano il 3 o 4% soltanto. Aumentare di uno o due decimi le imposte attuali o sovrapporre ad esse una imposta globale sul reddito vuol dire far pagare il 60 a chi pagava il 50% ed il 3,60 a chi pagava il 3 percento. Dicasi se per questa via si possa riuscire ad altro che a crescere il malcontento dei proprietari contro l’imposta. Né trattasi di poca gente. Gli ultimi ruoli dell’imposta terreni (1911) recavano nientemeno che 6.983.553 articoli, il che si suppone corrisponda all’incirca a 5.200.000 proprietà. La maggior parte di costoro, forse i due terzi, sono piccolissimi proprietari, di non più di un ettaro di terreno e sarebbe necessario sgravarli del tutto, anche perché l’esazione delle quote minime costa di più di quanto non renda al fisco. Ma allo sgravio si oppone la difficoltà che, in alcuni comuni, la proprietà è quasi tutta piccolissima: e come vivrebbero i comuni rurali se quasi tutta la terra fosse immune da tributo? Tanto più, trattandosi di milioni di persone, si impone la perequazione tributaria: ossia l’acceleramento di quelle operazioni catastali che, cominciate nel 1886, sono ancora lontane dal fine. L’argomento meriterebbe, da solo, ampia trattazione. Qui vuolsi soltanto notare che è inutile legiferare ottimamente, come nel 1886 si fece, se poi le leggi si attuano coll’intento prevalente ed artificioso di formare un catasto, il quale consenta di ridurre la imposta erariale (le sovrimposte locali sono ognora in aumento) nelle provincie del settentrione, dove i redditi invece sono, a vista di tutti, aumentati notevolmente; se il malo esempio del nord servì al sud per ottenere una diminuzione del 30% delle imposte attuali, sgravio concesso sia a chi pagava molto come a chi pagava poco; se la emulazione tra nord e sud nel diminuire gli imponibili, fa venir la voglia a talune provincie, dove si compie oggi il catasto, di opporsi con ogni mezzo alla sua formazione nelle maniere corrette volute dalla legge; e sia testimonio di ciò la provincia di Porto Maurizio, dove si giunse all’estremo di far sciogliere la giunta tecnica provinciale del catasto, perché si temeva che i risultati dei suoi lavori non sarebbero stati graditi ai proprietari.

 

 

Questo dell’estimo del reddito dei terreni è un vero caos; dal quale non si uscirà, a parer mio, se, con adeguata spesa e con assoluta indipendenza degli organi catastali – uffici esecutivi, giunte tecniche e commissioni censuarie – dalla politica, non si acceleri la fine del nuovo catasto. A che pro discorrere di giustizia tributaria, se si impedisce poi, con ogni maniera di ostacoli, che una legge ottima, come quella del 1886, abbia una seria attuazione? Credo anch’io che sia quasi impossibile perequare del tutto gli estremi del 50 e del 3 percento, che ho citato dianzi a modo d’esempio; ma se anche si riuscisse solo a ridurre il 50 al 30 ed a crescere il 3 al 25 percento, centesimi addizionali locali compresi, le ragioni della giustizia e dell’erario riceverebbero un non spregevole vantaggio.

 

 

Il secondo ramo dell’imposta italiana sul reddito è quello che colpisce il reddito dei fabbricati. Anche qui non discuterò le questioni di principio che tale imposta fa sorgere e che sono gravi e numerose. Dirò soltanto che, malgrado la legge intenda colpire il reddito netto dei fabbricati con un’imposta erariale del 16,50% – a cui si aggiungono i centesimi addizionali comunali e provinciali, che la portano al 25-30 e, in moltissimi comuni rurali, al 50-60 e persino 80 e 100% ed in taluni, cosa incredibile ma vera, al 120, 150, ecc.,% -; in realtà i redditi tassati non sono sempre i redditi veri, sicché una parte non piccola del reddito sfugge all’imposta.

 

 

Ricordo taluni dati fondamentali. L’ultima revisione generale del reddito dei fabbricati risale al 1890 ossia a circa un quarto di secolo fa. In quell’anno, prima della revisione, i redditi netti accertati erano di 424,8 milioni di lire. Nei ruoli principali del 1911 il reddito netto totale dei fabbricati italiani è iscritto per 622,4 milioni di lire, con un aumento di 197.624.969 lire. Da quali cause derivò l’aumento? Eccole spiegate in poche cifre:

 

 

Aumento derivante dalla revisione generale del1890

 

+ L. 80.245.980

id. per costruzioni nuove 

+ 164.871.251

id. per revisioni parziali 

+ 10.564.691

Diminuzione per passaggio alla categoria dei fabbricatirustici esenti

 

– 7.874.686

id. per errori materiali 

– 4.602.203

id. per demolizioni, incendi e rovine 

– 45.580.969

Aumento netto totale

 

L. 197.624.969

 

 

Si vede che il grosso dell’aumento è da due cause: la revisione generale del 1890, la quale aumentò di un colpo di 80 milioni di lire gli imponibili, che allora erano solo di circa 425 milioni di lire, portandoli a 505 milioni, e le nuove costruzioni, aggiuntesi dopo il 1890, accertate per un reddito di 164,8 milioni di lire. Si può dire che, dopo la revisione generale del 1890, il reddito accertato dei vecchi fabbricati, e cioè esistenti a quella data, non sia variato. Le revisioni parziali ne fecero aumentare il reddito di 10,5 milioni di lire (differenza fra 24,3 milioni di aumento e 13,7 milioni di diminuzione), ossia di appena il 2% circa del reddito di 505 milioni accertato in occasione della revisione generale del 1890.

 

 

Quale significato ha il fatto che, mentre si costruivano in questi 21 anni tanti fabbricati nuovi, il cui reddito veniva accertato in 164,8 milioni di lire, i fabbricati vecchi rimanevano accertati secondo il loro reddito del 1890, aumentato appena del 2 percento? Questo, che il reddito legale tassato si avvicina al vero per i fabbricati nuovi e tanto più si avvicina al vero quanto più essi sono nuovi, ossia costrutti durante o dopo il notevole aumento dei fitti avvenuto dopo il 1900: mentre quella parte dei fabbricati nuovi che furono costrutti dal 1890 al 1900, e quasi tutti i fabbricati antichi, già esistenti nel 1890, sono ancora tassati secondo i fitti antichi, quali correvano verso il 189o e durarono fino verso il 1900. All’incirca, su 622,4 milioni di lire di reddito imponibile accertato nel 1911, un centinaio di milioni può ritenersi rappresenti i fitti nuovi, abbastanza conformi al vero, e cinquecento milioni i fitti antichi, accertati legalmente in una somma diversa dal vero. Diversa, il che non vuol sempre dire inferiore al vero, potendosi dare casi, non infrequenti, di edifici in cittadine e borghi stazionari ed in quartieri decaduti di città progredienti, in cui i fitti legali sono superiori ai fitti veri. È doveroso però riconoscere che i casi di aumento di fitti sono assai più frequenti dei casi di diminuzione; e che sono numerosi i proprietari di case vecchie già esistenti nel 1890, e di case nuove costrutte dal 1890 al 1900, i quali pagano su redditi inferiori al vero.

 

 

Si impone dunque una revisione generale del reddito dei fabbricati e se sarà revisione condotta con rigidezza, non perturbata da inframmettenze politiche, non ignote nel 1890, se son vere le accuse che allora ripetutamente si udirono, se ne potranno ottenere parecchi buoni frutti.

 

 

In primo luogo, il soddisfacimento del senso di giustizia, poiché la revisione dovrà consentire il dovuto sgravio ai proprietari i cui fitti diminuirono, mentre l’opinione pubblica consentirà all’aumento dell’imposta sui proprietari i cui fitti aumentarono. Né si tema che la revisione possa provocare un aumento dei fitti: poiché le case nuove già pagano tutta l’imposta di cui sono suscettibili; e quindi i costruttori di case potranno seguitare a fabbricarne, senza che su di essi l’imposta venga aumentata; mentre alle case vecchie i fitti furono già aumentati, in corrispondenza agli aumenti avvenuti nelle case nuove, che sono correttamente tassate, come se esse già pagassero tutta l’imposta dovuta. Perciò i proprietari di case vecchie non potranno aumentare i fitti, sotto pena di vedere trasferirsi gli inquilini verso le case nuove o costruende, dove l’imposta non sarà cresciuta oltre quanto già ora si paga. Ed è opportuno fare adesso la revisione perché, traversandosi un momento di ristagno edilizio, da un lato si evita di accertare fitti esagerati e dall’altro è tolta l’occasione ai proprietari di pretendere un aumento di fitti come forse farebbero in un periodo ascendente.

 

 

Un secondo non ispregevole frutto della revisione sarà l’aumento del gettito dell’imposta. Se oggi si ripetesse l’aumento del 1890, nella stessa proporzione del 20% sui vecchi imponibili, sarebbero circa 100 milioni di maggiore materia tassabile che si potrebbero accertare. Ma probabilmente l’aumento sarà maggiore perché nel 1890 si ebbe l’aumento del 20% dopo 12 anni soli (la revisione precedente erasi fatta nel 1878); nel 1914 o 1915 saranno passati 25 anni dall’ultima revisione del 1890 e quindi l’aumento sarà maggiore. Forse non del 40%, anche perché nel 1912 e 1913 le revisioni parziali, divenute più severe, dovettero dare aumenti non piccoli; ma probabilmente non inferiori al 25 percento.

 

 

Un maggiore reddito imponibile di 125 milioni di lire, con imposta erariale al 16,50 percento, darebbe allo stato 20 milioni di lire di maggior prodotto fiscale. Lo stato potrebbe rinunciare ad una parte di questo maggior provento, a 4 o 5 milioni ad esempio, per compiere una riforma, considerata necessaria da tutti coloro che si sono occupati dell’argomento: la riforma relativa al metodo di detrazione delle spese dal reddito lordo. Oggi, si detraggono ugualmente, a titolo di spese, 25 su 100 lire di fitti lordi, sia che si tratti di una casa ricca, signorile, ben costrutta, dove le spese sono relativamente scarse, ovvero di una casa popolare, dove le spese di amministrazione, riparazioni, insolvenze, ecc. ecc., sono ben più alte. Prima di concedere alle case popolari esenzioni, che in pratica riescono limitatissime e talvolta abusive, si cominci a far giustizia; e si conceda a tutte le case popolari, vecchie o nuove, definite in modo perspicuo ed oggettivo, una detrazione per spese maggiore del 25%, per esempio del 30 e 35 percento. Si assisterà allora ad un fatto interessante: che la revisione generale, mentre darà allo stato 15 o 16 milioni di lire di più all’anno, provocherà la costruzione di nuove case per le classi operaie e piccolo – borghesi e forse contribuirà a ribassare i fitti.

 

 

3

 

L’imposta più produttiva per lo stato, delle tre le quali insieme compongono l’imposta italiana sul reddito, è senza dubbio l’imposta di ricchezza mobile. Non tenendo conto dell’addizionale del terremoto, l’imposta sui terreni rese infatti nel 1911 allo stato 82,8 milioni, quella sui fabbricati 104,1 milioni; mentre l’imposta di ricchezza mobile da sola rese 312,5 milioni. Sappiamo già che ciò non vuol dire che i terreni ed i fabbricati paghino troppo poco; poiché i terreni danno inoltre alle provincie ed ai comuni 173,9 milioni ed i fabbricati 123,8: mentre la ricchezza mobiliare, non essendo passibile di sovrimposta, non dà nulla, o meglio dà soltanto ai comuni i 9,9 milioni della tassa di esercizio e rivendita ed i 26,8 milioni di tassa sul bestiame. Ma è certo che l’imposta di ricchezza mobile è, per lo stato, di gran lunga la più interessante fra le tre branche dell’imposta italiana sul reddito.

 

 

Anche per questa imposta si presenta il problema: è dessa produttiva di tutto il reddito che potrebbe fornire? Sono i redditi veri accertati esattamente o non vi sono, forse, redditi i quali sopportano tutto il carico legale dell’imposta, mentre altri scorrettamente vi sfuggono? Che l’imposta italiana di ricchezza mobile sia un insuccesso fiscale non si può certamente affermare. Una elaborazione approssimativa dei redditi netti accertati dal fisco mi ha condotto per il 1911 a questi risultati:

 

 

Milioni di lire

 

Redditi netti tassati con ruoli 

1.777

Redditi netti tassati con ritenuta diretta 

675

Redditi netti tassati con versamenti diretti 

78

 

Redditi tassati

 

2.530

Redditi di debito pubblico esenti dall’imposta 

400

Totale redditi accertati

2.930

 

 

Confesso che queste cifre hanno qualcosa dello strabiliante. Pensare che in un paese non ricco, prevalentemente agricolo, come l’Italia, il fisco, il quale a mala pena accerta forse 1 miliardo di reddito dominicale o padronale dei terreni e circa 600 milioni di redditi dei fabbricati, riesca a scoprire circa 3 miliardi di redditi mobiliari è meraviglioso. Dimostra che, attraverso a tutte le sue imperfezioni pratiche, malgrado le sue aliquote altissime, le quali sembrano fatte apposta per far nascondere sottoterra i redditi in genere ed in ispecie quelli mobiliari, per loro indole e per definizione mobilissimi, l’imposta italiana di ricchezza mobile è uno stupendo strumento tributario, capace di dare rendimenti ancora maggiori di quelli opimi che già fornisce.

 

 

Se si somma il miliardo circa di redditi terrieri, coi 620 milioni di redditi edilizi e coi 2 miliardi e 930 milioni di redditi mobiliari, vediamo che il fisco italiano accerta 4 miliardi e 550 milioni circa di redditi, circa il 40% del reddito totale del paese, che molti calcolano o suppongono di 12 miliardi. Sembra poco; ed invece è una proporzione ragguardevole; la quale, se potesse giungere, fatte alcune detrazioni nuove per redditi minimi, al 50%, toccherebbe le vette più alte che praticamente sia possibile di immaginare. Anche in Inghilterra la solita celebre income tax, od imposta sui redditi, non accerta più del 50% del reddito totale esistente nel paese. Noi siamo al 40%, e dovremmo essere al 35%, se in Italia si esentassero un po’ più largamente, fatte le dovute proporzioni alla diversa ricchezza dei due paesi, i redditi minimi. Siamo ancora lontani dalla perfezione pratica: ma non siamo neppure tanto lontani, da dover disperare di raggiungerla, quando si conoscano i difetti dei metodi vigenti e risolutamente ci si proponga di porvi riparo.

 

 

I difetti si possono conoscere solo facendo l’analisi di quei 2 miliardi e 930 milioni di redditi che il fisco è riuscito ad accertare, per vedere quali siano i punti di minima resa. Lasciamo da parte i 400 milioni di redditi del debito pubblico esenti dall’imposta. Questa è una esenzione data nell’interesse dello stato e non dei contribuenti. A giusta ragione, quando si fece la conversione nel 1906 del 5% lordo – allora colpito dall’imposta di ricchezza mobile del 20% e pagato al netto in un 4% si preferì convertirlo in un 3,50% netto da imposte piuttostoché in un 4,375% lordo, soggetto all’imposta del 20% e quindi ridotto ad un 3,50% netto. L’imposta, per i titoli di debito pubblico, si riduce ad un puro giro contabile e serve solo a deprezzarli sul mercato; sicché l’esenzione è utile allo stato, come quella che non toglie in sostanza nulla al fisco e mantiene elevato il credito dello stato.

 

 

Lasciamo pur da parte i 78 milioni di redditi su cui l’imposta viene esatta col versamento diretto in tesoreria (da parte di talune amministrazioni pubbliche) ed i 6 milioni di stipendi ed assegni di pubblici funzionari, su cui l’imposta viene esatta col metodo della ritenuta diretta, all’atto del pagamento dello stipendio, assegno o pensione. Su queste partite non è possibile sperare alcun accertamento più esatto, poiché già fin d’ora i redditi sono tassati nella loro interezza, fino all’ultimo centesimo.

 

 

Rimangono il miliardo e 777 milioni su cui l’imposta si esige col metodo dei ruoli; ed è da questi soltanto che si può sperare un gettito maggiore. Come si compongono essi? Lo specchietto seguente ce ne può dare un’idea:

 

 

Numero degli articoli di ruolo Ammontare dei redditi netti (in milioni di lire) Coefficiente di tassazione Ammontare dei redditi imponibili (in milioni di lire)
 Categoria

 

 

Contribuenti privati

A1 (mutui a provincie, comuni ecc.) 

A2 (mutui a privati) 

564.264

128,2

30/40

96,1

B (industriali e comm.) 

492.685

537,1

20/40

268,5

C (professionisti ed impiegati privati) 

139.652

166

18/40

74,6

D (impiegati pubblici di comuni, provincie, ecc.) 

15.507

6,4

15/40

2,4

1.212.108

 

837,7

441,7

 

 

Enti collettivi

A1 (mutui a provincie, comuniecc.)

 

217

36,2

 40/40

36,2

A2 (mutui a privati) 

58.542

190,1

30/40

142,6

B (industria e comm.) 

7.643

347,4

20/40

173,7

C (impiegati privati) 

10.929

176,2

18/40

79,3

D (impiegati pubblici) 

10.865

 189,2

15/40

71,0

88.196

939,2

502,8

1.300.304

1.776,9

944,5

 

 

Il lettore paziente può, osservando il tabellino, formarsi un’idea del modo come si formano e sono tassati i redditi mobiliari in Italia. Noto subito che le cifre dei redditi netti, stampate in corsivo, sono cifre calcolate da me e che, per varie ragioni che qui sarebbe lungo discorrerne, non sono del tutto esatte. È probabile che il miliardo e 777 milioni di reddito netto accertato sia invece di più, forse anche 1 miliardo e 900 milioni. La sola amministrazione potrebbe dirci quale ne sia la cifra esatta; e mi auguro che nelle prossime relazioni si legga la notizia. Intanto ho calcolato la cifra in 1 miliardo e 777 milioni, come la minima possibile. Come si vede dalla tabella, l’imposta non tassa l’intiero reddito dei contribuenti; ma i 40, i 30, i 20, i 18 od i 15 quarantesimi di esso, a seconda della natura dei redditi stessi, partendo dal principio che i redditi di capitale puro (A1 ed A2) si debbano tassare di più ed i redditi di lavoro puro (C e D) di meno ed in proporzioni intermedie i redditi misti di capitale e lavoro (B). È questa la caratteristica più bella della imposta italiana di ricchezza mobile, la quale vige da noi fino dal 1864 e che gli altri paesi vanno appena adesso (l’Inghilterra dal 1907) imperfettamente imitando. Perciò i redditi imponibili sono appena di 944,5 milioni, mentre i redditi netti totali sono di almeno 1 miliardo e 777 milioni.

 

 

Una osservazione capitale balza subito agli occhi: ed è che mentre i contribuenti privati sono 1.212.108 su un totale di 1.300.304, ossia sono il 94% circa del totale, i loro redditi imponibili giungono appena a 441,7 su 944,5 milioni, ossia al 47% circa del totale. Viceversa i contribuenti enti collettivi pur essendo solo 88.196, ossia circa il 6% del totale, possono vantare 502,8 milioni di reddito imponibile, ossia il 53% del reddito totale.

 

 

È evidente che il centro di gravità dell’imposta di ricchezza mobile si sposta verso gli esiti collettivi. Dieci anni fa ed ancor più venti o trenta anni fa le cose erano diverse e prevaleva il peso dei contribuenti privati.

 

 

Che cosa sono questi enti collettivi, i quali danno un provento così cospicuo al fisco? Sono le provincie, i comuni, gli enti morali, le società anonime, le società in accomandita o in nome collettivo, i quali pagano masse crescenti d’imposta per conto dei loro azionisti, obbligazionisti, creditori, impiegati, capi – operai, ecc. I contribuenti in apparenza sono pochi, perché l’imposta è pagata dall’ente collettivo; ma in realtà sono moltissimi, perché essa, sebbene pagata dall’ente collettivo, è in sostanza versata dai numerosissimi dipendenti, creditori e soci dell’ente collettivo.

 

 

Far pagare l’imposta all’ente collettivo e non al contribuente vero ecco la grande scoperta tributaria, che è il vanto massimo tecnico o pratico del legislatore inglese del 1842, che noi imitammo nel 1864 e che oggi imita il Wilson negli Stati uniti. È tecnicamente una grande scoperta, perché l’ente collettivo non può sfuggire all’imposta; coi suoi libri di commercio, con i suoi bilanci pubblici è sempre aperto all’ispezione del fisco, il quale, per mezzo suo, scopre masse cospicue di redditi, che altrimenti gli sfuggirebbero. Come afferrare l’azionista o l’obbligazionista anonimo, l’impiegato privato quando avessero già riscosso interessi, dividendi e stipendi? La maggior parte del reddito sfuggirebbe all’imposta. Invece, grazie all’avvedimento di colpire l’azionista o l’impiegato attraverso alla società od ente o comune che gli paga il dividendo, l’interesse o lo stipendio, nulla sfugge al fisco. Le evasioni all’imposta per la parte di reddito che è tassata attraverso gli enti collettivi, non sono ignote; ma non hanno importanza grandissima. Gli enti collettivi cercano, è vero, di scemare il numero e lo stipendio dei loro dipendenti, non pagano quasi nulla per conto dei loro operai, con contabilità accorte talvolta occultano parte degli interessi pagati ai loro creditori. Inconvenienti non lievi, ma a cui non è difficile trovare il rimedio, con piccole riforme di legge e con severe sanzioni per gli amministratori.

 

 

Nel complesso, per questa branca di tassazione, è sovratutto necessario che lo stato, persuaso che gli enti collettivi e specialmente le società anonime ed in accomandita per azioni sono il suo braccio destro tributario, cerchi di togliere ogni ostacolo al loro progresso e, pur premunendosi contro ogni frode, modifichi le maniere di accertamento del reddito in guisa da non vessare ma anzi da provocare il crescere del reddito in tal modo tassato.

 

 

Ben diversamente vanno le cose nella categoria dei contribuenti privati. Ivi il fisco si trova dinanzi a persone singole, le quali non pubblicano bilanci, non hanno libri soggetti a verifiche fiscali, non si prestano insomma ad alcuno di quei metodi di accertamento a cui sono soggetti i contribuenti che ricevono i loro redditi attraverso gli enti collettivi. Ed è per essi che l’imposta di ricchezza mobile non dà quel rendimento di cui sarebbe capace.

 

 

Lasciamo da parte la categoria D, la quale ha appena 15.507 contribuenti. È una categoria in decadenza, la quale comprende i piccoli impiegati, commessi, pensionati di municipi, opere pie, ecc., i quali hanno un reddito fra 800 e 1.000 lire all’anno. Coll’elevarsi degli stipendi questi piccoli stipendi vanno scomparendo; e quelli maggiori di 1.000 lire sono tassati al nome degli enti collettivi, che li pagano. Ad ogni modo, per questa categoria nessuna evasione è possibile.

 

 

Neppure sono liete le prospettive della A2, la quale comprende gli interessi dei mutui fatti a privati. Anche questa è una categoria in decadenza, perché scema il numero dei mutui ipotecari, soli conosciuti dal fisco e tassati. Debitori e creditori preferiscono i mutui cambiari, a conoscere i quali il fisco è impotente. Notisi però che la decadenza di questa categoria è compensata dal crescere della categoria corrispondente degli enti collettivi; sono miliardi di depositi presso banche e casse e di obbligazioni che sono tassati ora, mentre non lo erano in passato. Il rimedio ed il compenso alla decadenza della categoria per i contribuenti privati si trova in una più oculata tassazione degli enti collettivi.

 

 

Il grosso del problema è nelle categorie B e C dei contribuenti privati. È possibile che 492.685 industriali, commercianti ed artigiani, tutti provveduti di un reddito superiore a 534 lire, abbiano un reddito totale netto di appena 537 milioni? Ossia, all’incirca, in media di 1.000 lire ognuno all’anno? Come farebbero costoro a vivere, se queste cifre fossero vere? È possibile che in Italia vi siano soltanto 492.685 persone le quali esercitino industrie, arti, commerci, botteghe, rivendite, affittanze agricole, ecc. ecc., e guadagnino più di 534 lire all’anno? Peggio, è possibile che vi siano in Italia soltanto 139.652 professionisti, o impiegati salariati privati che abbiano un reddito di almeno 640 lire all’anno – quelli che hanno reddito inferiore sono esenti – od operai liberi che guadagnino più di 3,50 lire al giorno? È logico supporre che queste 139.652 persone – le quali, a quanto pare, costituiscono l’aristocrazia del loro ceto – guadagnino appena 1.200 lire a testa? Come farebbero, in tempi di caro viveri, a pagare l’affitto, il conto del sarto, del fornaio, del macellaio, ecc. ecc.? Trattasi di cifre veramente inverosimili.

 

 

La stranezza delle cifre comincia dall’alto. La redazione della rivista «La Riforma Sociale» ha eseguito, nei fascicoli di gennaio – febbraio 1912 ed ottobre – novembre 1913, una inchiesta sulla imposta di ricchezza mobile pagata dai nostri parlamentari. La inchiesta ha assodato che, su 169 deputati avvocati, per cui si poterono avere dati, solo 5 guadagnano più di 20.000 lire, 17 guadagnano da 10 a 20.000 lire, 42 da 5 a 10.000, mentre 42 lucrano appena da 2.000 a 4.800 lire, 21 scendono al disotto di 2.000 lire, e per molti non si ebbero dati. Le spiegazioni di queste curiose cifre possono essere soltanto due: o i redditi accertati sono inferiori al vero ed i deputati avvocati non avrebbero dato un esempio ammirando ai professionisti italiani, già troppo propensi ad occultare il loro reddito; ovvero le occupazioni politiche li assorbono per modo da scemare grandemente la loro attività professionale.

 

 

Che i contribuenti privati delle categorie B e C sfuggano in parte all’imposta dovuta è cosa certa. Sfuggono tutti, con commovente concordia: grossi e piccoli. Se è fatto mirabile che nella camera passata solo 5 avvocati guadagnassero più di 20.000 lire all’anno, è fatto altrettanto mirabile che dei parecchi milioni di operai e contadini viventi in Italia nessuno guadagni più di 3,50 lire al giorno. Nei ruoli delle imposte non si vede traccia dei miglioramenti avvenuti nei salari nel primo decennio del nuovo secolo. Appena un commesso od usciere di una pubblica amministrazione supera le 800 lire di salario all’anno, ossia le 2,19 lire al giorno, è tassato. Nessuno dei non pochi operai, i quali lucrano più di 3,50 lire al giorno, è tassato né al nome proprio né al nome della società od impresa presso cui lavora, perché la legge la quale riguarda gli impiegati, gli scrivani, i commessi, gli uscieri, ecc., non è applicabile agli operai. Ora è certo che l’imposta diretta sul reddito non si può praticamente applicare ai redditi inferiori alle 1.000 o 1.200 lire all’anno; ma, al disopra di quei limiti, che sono poi i limiti adottati in Germania, tutti vi debbono sottostare; e nessuno vi si deve sottrarre, qualunque sia il nome della classe a cui appartiene. Una delle maggiori sorprese a cui vanno incontro gli operai italiani, emigrati in Svizzera o in Germania, si è quella di essere sul serio costretti a pagare l’imposta sul reddito. Erano abituati a sentire parlare in Italia di una ferocissima «ricchezza mobile»; ma non l’avevano mai pagata. In Germania v’è la moderna e progressiva einkommensteuer (imposta sul reddito), gloria e vanto, come narrano i trattati di finanza, del ministro riformatore Miquel. Il guaio si è che bisogna pagarla sul serio, ciascuno secondo la propria misura; e le frodi sono punite con multe severe, e talvolta col carcere. In Italia quest’ultimo non sarebbe tollerato; come neppure sarebbe sopportabile lo spionaggio che altrove è organizzato. Ma una via d’uscita occorre trovarla. Per i piccoli e per i grossi contribuenti.

 

 

4

 

I lettori ricorderanno che i due grandi gruppi, in cui si possono dividere le imposte, sul reddito e sul consumo, si equivalgono all’incirca da noi. Tenendo conto delle imposte e sovrimposte comunali e provinciali ed escludendo i rimborsi delle spese di fabbricazione nelle privative, si riuscì ad un totale di circa 1 miliardo e 200 milioni per il primo gruppo e di altrettanto per il secondo gruppo. Quali siano i pregi ed i vizi del primo gruppo già dissi, discorrendo delle imposte sui terreni, sui fabbricati e di ricchezza mobile. Dovrei, in verità, ancora parlare delle imposte comunemente dette sugli affari (successione, manomorta, registro, bollo, surrogazione, ipoteche, ecc.), le quali fruttano circa una quarta parte del miliardo e 200 milioni forniti dalle imposte sul reddito. Sebbene il nome e le apparenze esteriori siano diversissimi, le imposte sugli affari sono vere e proprie imposte sul reddito, o, meglio, su quella parte speciale del reddito che proviene dal capitale. Pagare invero il 10% di un reddito di 5.000 lire all’anno equivale a pagare il 0,50% del capitale di 10.0000 lire corrispondente al reddito di 5.000 lire; e pagare ogni anno il 0,50% del capitale equivale ancora a pagare il 5% del capitale ogni 10 anni, il 10 ogni 20 anni, il 30 ogni 30 anni, ecc. ecc. Le imposte di successione, di registro, di bollo, ecc., le quali colpiscono i capitali quando si trasferiscono tra vivi o per causa di morte, altro non sono che imposte sul reddito, prelevate a periodi indeterminati, sui capitali produttivi di reddito. Esse sono perciò un complemento delle imposte sul reddito, dalle quali non si può fare astrazione quando si voglia giudicare della pressione tributaria sulla cosidetta ricchezza acquisita. Molto si potrebbe dire a lor riguardo, poiché desse presentano vizi e sperequazioni ed asperità non piccole. Ma poiché si tratterebbe di osservazioni minute, quasi sempre tecniche, non mi ci fermerò sopra per il momento, salvo a parlarne quando si discutesse qualche proposta concreta di riforme.

 

 

Ora volgasi lo sguardo al miliardo e 200 milioni di imposte sui consumi che fanno da contrappeso alle imposte sui redditi e sui capitali. Ci sono forniti da quattro grandi rami:

 

 

Milioni di lire

Privative 

373,3

Imposte di fabbricazione 

200,3

Dazi doganali 

344,6

Dazi di consumo 

247

 

 

Totale 1165,2

 

 

Il primo e l’ultimo gruppo, privative e dazi di consumo, danno luogo ai minimi dibattiti; e questi hanno indole prevalentemente retorica. Ed invero tanto le imposte esatte col metodo delle privative (tabacchi per 244 milioni, sali per 75 milioni, lotto per 53 milioni), quanto i dazi di consumo esatti all’entrata nelle cinte delle città chiuse ed all’atto della minuta vendita soddisfano ad uno dei requisiti fondamentali delle vere imposte, di costare cioè ai contribuenti non più di quanto rendono allo stato. I fumatori pagano 244 milioni di balzello al fisco per soddisfare all’abitudine di fumare, oltre il rimborso del costo dei tabacchi; ma sono sicuri che tutti i 244 milioni sono pagati nelle casse dello stato; e lo stesso dicasi per il sale, il lotto ed i dazi consumo, salvo per questi ultimi alcune eccezioni, di cui in questo momento non mette conto discorrere.

 

 

Nel loro complesso, queste imposte non presentano neppure difetti gravissimi. Tutti sono d’accordo nel ritenere che l’imposta sui tabacchi sia l’ottima fra le imposte immaginabili praticamente; come quella che è pagata volentieri da persone le quali, col fatto di fumare, dimostrano di avere un reddito, o ricchezza o capitale o somma di denaro che essi non impiegano nel soddisfacimento di bisogni ritenuti dall’universale urgenti per mantenersi in vita, o necessari per l’allevamento o l’istruzione della famiglia. Sarebbe del pari una esagerazione di affermare che i dazi di consumo, dopo aboliti i dazi sui farinacei, traendo il massimo loro provento dal vino e dalle carni, incidono soltanto le classi più disagiate o gli uomini che hanno appena di che sfamarsi. Chi non voglia fare della rettorica deve riconoscere che i due termini imposte sui consumi ed imposte gravanti sulle classi più disagiate non si equivalgono sempre e non si equivalgono affatto per i tabacchi ed i dazi di consumo; i quali gravano su persone fornite di entrate certo superiori al minimo necessario per la vita fisica, persone che spesso non pagano le imposte dirette sul reddito e le quali nessuno ha dimostrato debbano sfuggire all’onere tributario. Molti comuni ancora dovrebbero imitare l’esempio di Milano, il quale ha sfrondato largamente la tariffa dei suoi dazi consumo, togliendo tutto ciò che poteva avere carattere odioso di imposta sulla fame; ed alla lunga è certo che si otterrebbero altrove i buoni risultati finanziari che si sono ottenuti in quella città, le migliori imposte sui consumi essendo quelle le quali colpiscono poche voci, di largo consumo, sebbene non di prima necessità. Ma da queste invocazioni di accorte e proficue riforme ad una condanna generica dei dazi consumo assai ci corre.

 

 

Restano le due macchie nere del gruppo delle privative: il lotto ed il sale. Intorno al primo dei quali, ripetutamente ebbi ad affermare però un mio convincimento non recente, essere cioè il lotto non una vergogna sibbene un pregio del nostro sistema tributario; poiché non si può chiamare, parlando secondo la logica comune, vergognosa una imposta la quale, diminuendo i guadagni dei giocatori, tende a scemare lo stimolo a giocare. Poiché la opinione pubblica reputa abbominevole e dannoso il giuoco, deve reputare lodevole l’azione dello stato, il quale preleva a suo profitto il 50% in media dell’ammontare delle vincite, che teoricamente spetterebbero ai giocatori. Se a giocare si guadagnasse il doppio di quanto ora si riceve dal lotto di stato, non è forse vero che si giocherebbe di più? È invero lamentevole che sia difficile tassare le vincite fatte nei luoghi frequentati dalla gente ricca e scioperata ed è lamentevole che la direzione generale delle privative ogni tanto istighi nelle sue relazioni il legislatore ad abbassare il limite minimo delle giocate, dimenticandosi così che lo scopo dell’imposta è di frenare e non di favorire la tendenza del popolino a giocare; ma questi difetti non possono farci scordare che l’imposta sul lotto, tassando i guadagni dovuti alla sorte è una vera e propria imposta progressiva sul reddito (le vincite coi quaterni sono tassate al 90%, quelle dei terni al 60%, mentre gli ambi e gli estratti pagano solo il 40% circa d’imposta), ed è un freno ad una passione che dai più è reputata dannosa.

 

 

La sola e vera capitazione, tra le privative, è l’imposta sul sale. Ricchi e poveri, operai e contadini consumano sale in quantià poco differenti; e, pagando perciò in media ognuno 2,30 all’anno d’imposta sul sale, pagano gli uni una proporzione tenuissima su 10.000 o 20.000 o più lire di reddito e gli altri una proporzione sensibile su 500 o 1.000 lire. Se noi fossimo un popolo ricco, se il bilancio dello stato fosse in avanzo, l’imposta sul sale dovrebbe aver vissuto la sua vita. Nelle condizioni attuali del bilancio nostro, è assurdo parlare di abolizione od anche di riduzione del prezzo del sale. Ce ne possiamo consolare, riflettendo:

 

 

1)    che se è vero che tutti gli italiani pagano, malgrado la diversità delle loro fortune, lire 2,30 a testa, è altresì vero che coloro i quali hanno redditi o fortune maggiori pagano, in aggiunta, imposte sui tabacchi, sulle bevande alcooliche, sulle carni ed, in seguito, imposte sui terreni, sui fabbricati, di ricchezza mobile, sulle successioni, di registro, di bollo, ecc. ecc., che i più poveri non pagano, sicché i pesi all’incirca finiscono per equilibrarsi;

 

 

2)    che vi sono altre imposte, ben peggiori di quella sul sale, la cui abolizione o riduzione arrecherebbe più cospicuo vantaggio ai contribuenti ed una perdita di gran lunga minore all’erario. La riduzione di 10 centesimi nel prezzo del sale vorrebbe dire una perdita di 22 milioni al fisco ed un guadagno di altrettanto e non un soldo di più ai contribuenti. Vi sono imposte, in cui, per dare un vantaggio di 22 milioni ai contribuenti, basta far subire al fisco una perdita di 5 o 4 milioni o fors’anco nessuna perdita.

 

 

Sono giunto così al punto più delicato ed imbrogliato di tutto il sistema tributario nostro: alle imposte di fabbricazione ed ai dazi doganali.

 

 

Specifichiamo le cifre date prima in blocco. Le imposte di fabbricazione diedero nell’esercizio 1911 – 12 ben 200,3 milioni di lire, così ripartite:

 

 

Zucchero 

L. 113.399.000

Spiriti 

41.452.000

Gas, luce ed energia elettrica 

15.479.000

Fiammiferi 

11.238.000

Birra 

10.523.000

Polveri piriche ed esplodenti 

3.692.000

Cicoria preparata e prodotti similari 

2.985.000

Acque gassose 

138.000

Glucosio 

1.405.000

Oli minerali 

2.000

Apparecchi di accensione 

6.000

Totale 200.319.000

 

 

I dazi doganali di confine diedero i seguenti risultati:

 

 

Dazi di importazione 
Grano 

L. 84.970.000

Caffé 

35.630.000

Petrolio 

21.352.000

Spiriti 

1.471.000

Zucchero 

1.912.000

Contone greggio 

6.409.000

Totale dei prodotti fiscali

 

151.744.000

Altri prodotti non fiscali 

169.791.000

321.535.000

Diritti di statistica e proventi diversi 

8.072.000

Dazi di esportazione (compresi oggetti di antichità e zolfi) 

1.380.000

Diritti marittimi 

13.696.000

Totale 344.683.000

 

 

 

A primo aspetto, le due sole voci grano e petrolio, sembrano offensive contro i canoni più comunemente adottati di giustizia tributaria. Le altre imposte indicate specificatamente colpiscono consumi che, in Italia, sono reputati di ordine superiore e non dovrebbero perciò incorrere nel biasimo di chi crede essere le imposte sui consumi una assoluta necessità e tanto meno di chi abbia voluto dimostrare la eccellenza delle imposte sui consumi in confronto alle imposte sui redditi. Le stesse due imposte sul grano e sul petrolio, sebbene condannabili in un paese avente un grado notevole di ricchezza, potrebbero, per le ragioni già dette per il tributo del sale, essere considerate come sopportabili, perché necessarie a compiere il miliardo e 200 milioni che gli enti pubblici hanno bisogno di ricavare da questo gruppo di imposte.

 

 

Potrebbero, ho detto; e la ragione dell’uso del modo condizionale sta nella circostanza che i due grandi blocchi delle imposte sui redditi (1 miliardo e 200 milioni) e delle imposte sui consumi (1 miliardo e 200 milioni) sebbene in apparenza siano uguali ed anche in realtà abbiano uguale peso per lo stato, hanno un peso differentissimo per i contribuenti.

 

 

Guardando un bilancio dello stato inglese, si nota che i proventi delle imposte sui consumi furono nel 1911 – 12 di 72 milioni di lire sterline ed anzi di 77 milioni, tenendo conto altresì di 5 milioni di lucro sui servizi postali, lucro il quale è una vera e propria imposta sui consumi, mentre le imposte sui redditi e sui capitali fornirono 83 milioni di lire sterline. Con questa constatazione, della approssimativa uguaglianza dei due grandi gruppi di imposte, il confronto generale sarebbe compiuto, poiché nessun elemento estraneo viene in Inghilterra a crescere il peso per i contribuenti delle imposte, oltre la somma riscossa dallo stato. Si può ammettere che il canone dell’ugual peso, sebbene suffragato dalla grande autorità di Gladstone, sia un canone empirico; e si potrà discutere se convenga aumentare la pressione dell’un gruppo e diminuire quello dell’altro gruppo; ma è almeno un fatto certo che le imposte sui consumi fruttano all’incirca allo stato una somma identica al gettito delle imposte sui redditi.

 

 

Anche in Italia è certo che il gettito per gli enti pubblici è uguale; ma non è certo che il costo per i contribuenti sia identico. Costano assai di più le imposte sui consumi, perché all’imposta pagata allo stato si aggiunge l’onere della protezione che è connessa con l’esazione dei dazi doganali. Qui non si vuole discutere la questione diversa del protezionismo o del libero scambio; ma soltanto porre in luce il fatto della pressione reale delle imposte sui consumi. Ad esempio, il dazio sul grano figura per un reddito di circa 85 milioni di lire ottenuti sul grano importato dall’estero. Ma poiché i contribuenti consumarono altri 50 milioni di quintali di grano prodotto all’interno e pagarono anche questi ad un prezzo superiore di lire 7,50 al prezzo che avrebbero dovuto pagare se avessero potuto procacciarsi liberamente il grano estero senza onere di dogana, così furono assoggettati ad un’imposta ulteriore di lire 7,50 x 50 milioni di quintali e cioè di 375 milioni di lire. Questi 375 milioni, benché pagati dai contribuenti, non figurano nel bilancio dello stato, perché andarono a favore dei cerealicultori, messi in grado dal dazio di vendere il grano più caro. Anche ove si ammetta – ed è l’ipotesi più larga possibile – che per un terzo quel pagamento sia stato figurativo perché pagato dai consumatori a se stessi in qualità di piccoli proprietari coltivatori, non v’è dubbio che il dazio sul grano costa ai contribuenti 85 milioni pagati al tesoro e 250 milioni di lire pagati ai proprietari, a titolo di sussidio per l’incremento dell’agricoltura nazionale. Qui non discuto se quei 250 milioni siano bene o male spesi – è abbastanza noto che noi liberisti li riteniamo male spesi, mentre i protezionisti reputano quell’impiego utilissimo -; e solo si constata il fatto che i contribuenti pagano non 85 bensì, al minimo, 85 + 250 = 335 milioni di lire, a titolo di imposta sul consumo del grano.

 

 

Basta questa circostanza per distruggere l’uguaglianza di peso tra il gruppo delle imposte sui consumi e il gruppo delle imposte sul reddito. Se si riflette invero che i 250 milioni pagati, a titolo di sussidio, all’agricoltura costituiscono, nell’intenzione di chi richiese e di chi votò il dazio sul grano, un compenso alle esorbitanti imposte sui redditi fondiari, ne discende che il vero peso delle imposte sui redditi si ridurrebbe a 1 miliardo e 200 milioni pagati al tesoro meno i 250 milioni di rimborso ricevuto dai contribuenti a titolo di sovraprezzo sul grano e così 950 milioni. Mentre il vero peso delle imposte sui consumi sale a 1 miliardo e 200 milioni pagati al tesoro più i 250 milioni pagati ai proprietari cerealicultori ed in totale a 1 miliardo e 450 milioni.

 

 

Ragionando esattamente, le cose non stanno precisamente cosi. Non tutti coloro i quali pagano i 400 milioni di lire di imposte gravanti sulla terra ricevono il rimborso dei 250 milioni di sovraprezzo del grano, poiché non tutti i proprietari sono cerealicultori e non tutti i cerealicultori producono grano in proporzione all’imposta pagata. Venire a capo di questa difficoltà di calcolo della vera pressione tributaria è quasi impossibile, tanto più che non la sola imposta sul grano dà luogo ad aggiunte di pressione le quali non figurano nei bilanci pubblici. Non c’è voce doganale, salvo forse il caffè ed il cotone greggio, per cui non si possano notare pressioni invisibili, ossia gravanti sui contribuenti, senza corrispondente incasso per il tesoro. Così per lo zucchero, dato un consumo di 1.650.000 quintali (nel 1911-12), l’imposta pagata dai consumatori – contribuenti ai fabbricanti di zucchero ammontava a 27,85 lire per quintale e cioè a circa 46 milioni di lire, le quali si aggiungevano ai 113,4 milioni pagati allo stato per imposta di fabbricazione ed al 1,9 milione pagato a titolo di dazio doganale. Dove le aggiunte sono maggiori si è nel blocco chiamato nelle statistiche ufficiali degli «altri prodotti non fiscali», quasi ad indicare che, anche nell’opinione dei compilatori delle relazioni governative, la parte minore del gravame sopportato dai contribuenti è quella che figura nei bilanci pubblici e la parte maggiore è invisibile e va a beneficio dei produttori.

 

 

Accresce la difficoltà di un calcolo esatto la possibilità che il dazio doganale non produca sempre la conseguenza di un aumento di prezzo del prodotto interno a carico dei consumatori. L’aumento è completo: 1) nel caso del grano, perché il raccolto interno non basta al consumo ed occorre rivolgersi all’estero, sicché il grano interno equivale al prezzo estero più il dazio; 2) nel caso dello zucchero, perché il mercato interno è dominato od almeno fu dominato, sino a questi ultimi mesi, da un consorzio, il quale teneva i prezzi al livello di quelli esteri coll’aggiunta del dazio; 3) e nel caso di tutte quelle altre merci, e sono moltissime, le quali si avvicinano ai casi tipici del grano e dello zucchero. L’aumento è incompleto ed anzi perfino è nullo, quando l’industria interna, ad opera dei dazi protettori, si è sviluppata per modo da potere ridurre i costi al livello dei costi stranieri e contemporaneamente la concorrenza interna ha costretto gli industriali a vendere all’interno a prezzi uguali ai prezzi stranieri. Pare che questo sia oggi il caso dell’industria cotoniera, per cui riuscì solo a mezzo il tentativo di costituire una unione tra i fabbricanti per tenere alti i prezzi. In questi casi la pressione tributaria invisibile sui consumatori è piccola e talvolta nulla.

 

 

Per queste difficoltà io ritengo sia quasi impossibile un esatto calcolo della vera pressione tributaria italiana. Conosciamo la pressione visibile, risultante dai bilanci dello stato, delle provincie e dei comuni ed è di 2 miliardi e 400 milioni di lire, ripartiti in parti uguali fra imposte sui redditi e sui consumi. Non conosciamo la pressione invisibile, non scritta sui bilanci, risultante dagli aumenti di prezzi che i consumatori – contribuenti pagano a titolo di sussidio alle varie branche protette dell’agricoltura e dell’industria. Taluni autori fanno salire questa pressione invisibile ad almeno 1 miliardo; mentre altri ritengono più vicina al vero una cifra assai minore, ridotta forse alla metà di un miliardo. Tenendo conto di alcune cifre sicure per alcune voci, sembra certo difficile scendere al disotto di mezzo miliardo; come pure sembra improbabile che il vantaggio o rimborso di imposte sui redditi ricevuto dai proprietari od industriali, grazie ai dazi doganali, sia inferiore a circa trecento milioni. Assumendo queste cifre come quelle in cui si corre il minimo rischio di errori, si otterrebbero i seguenti risultati:

 

 

Milioni di lire 
Pressione tributaria visibile per imposte sui redditi  1.200 
A dedurre: per rimborso dai dazi doganali invisibili 300 
 Pressione netta

 

900

 

900
Pressione tributaria visibile per imposte sui consumi

 

 

 

1.200

Ad aggiungere: per pressione invisibile dei dazi dog.   

500

 

Pressione netta

 

1.700 1.700
 Pressione totale 2.600

 

 

Le risultanze sono grossolanamente approssimate; ma bastano a darci un’idea della reale struttura del nostro sistema tributario; il quale sarebbe nelle grandi linee perequato, per la parte visibile, ma diventa gravemente sperequato, per eccesso di peso sui consumi, a causa della pressione invisibile dei dazi doganali e del rimborso, pure invisibile, che per tal modo ricevono taluni contribuenti sui redditi. Sembra che, a togliere od a scemare siffatta sperequazione, il metodo migliore sia di scemare la pressione invisibile e quindi i rimborsi invisibili cagionati dai dazi doganali, cominciando da quelle industrie in cui la protezione non produsse alcun beneficio o già esaurì il suo compito od è manifestamente cagione di danni. Il che si puo’ fare senza toccare il bilancio dello stato, ogni qualvolta il dazio non produce alcun reddito fiscale od il reddito è controbilanciato dai danni che lo stato, a causa dei dazi, subisce nei suoi approvvigionamenti. Così si spiega l’affermazione sovra fatta che, mentre la riduzione del prezzo del sale di 10 centesimi arrecherebbe un vantaggio ai contribuenti di 22 milioni ed un danno di 22 milioni al tesoro, la riduzione di altre imposte potrebbe produrre benefici notevoli ai contribuenti e piccoli sacrifici all’erario. La riduzione del dazio sul grano da 7,50 a 5 lire per quintale farebbe perdere al fisco lire 2,50 su ognuno dei 10 milioni di quintali importati dall’estero, ossia 25 milioni di lire; ma i contribuenti, oltre a questi 25 milioni, lucrerebbero il terzo dei 250 milioni pagati ai proprietari cerealicultori, ossia più di altri 80 milioni di lire. Del pari, se si riducesse di 10 lire il dazio doganale sullo zucchero estero, senza toccare l’imposta di fabbricazione, il fisco non perderebbe un centesimo, poiché di zucchero dall’estero non ne entra, ed i consumatori guadagnerebbero, a causa della riduzione di prezzo provocata dalla possibile concorrenza dello zucchero estero, 10 lire x 1.800.000 quintali – consumo attuale – ossia 18 milioni di lire. Per i due gruppi delle imposte di fabbricazione e dei dazi doganali, v’è dunque tecnicamente il mezzo di arrecare larghi sollievi ai contribuenti, senza danneggiare sensibilmente il fisco. Il problema non è perciò tributario, ma economico; e va giudicato secondo i vari criteri che possono governare la politica doganale del paese.



[1] Con titolo Pressione e sperequazioni nella imposta italiana sul reddito. I due primi

rami dell’imposta: terreni e fabbricati [ndr].

[2] Con titolo I Risultati ed i difetti della imposta di ricchezza mobile [ndr].

[3] Con titolo La Pressione delle imposte sui consumi. Come l’equilibrio tra imposte

sui consumi ed imposte sui redditi viene rotto [ndr].

L’assorbimento del risparmio nazionale a pro degli enti pubblici

L’assorbimento del risparmio nazionale a pro degli enti pubblici

«Corriere della Sera», 14 ottobre 1913[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 562-570

 

 

 

 

Uno dei punti su cui il programma governativo ha insistito con particolare compiacimento fu il successo dell’Istituto nazionale delle assicurazioni, il quale ha già riscattato da 23 delle compagnie private preesistenti ben 122.206 polizze per un capitale assicurato di 792 milioni, oltre a 4 milioni di rendite vitalizie, e si è saputo procurare un portafoglio nuovo di 22.119 polizze per un capitale di 172.721.801 lire. Non è detto a quale somma di riserve matematiche oggi esistenti corrisponda questo capitale assicurato a scadenza futura; ma sebbene naturalmente la cifra sia assai minore, non può a meno di essere vistosa. Come il capo del governo ebbe ripetutamente a dichiarare, l’istituto nazionale intende, fra gli altri suoi scopi, ricevere dagli assicurati ed accumulare fondi, i quali devono servire al cosidetto finanziamento dello stato e degli enti locali. Sia lecito a chi a suo tempo ha combattuto il monopolio delle assicurazioni sulla vita, di additare l’importanza del problema che fa sorgere la prospettiva di un così gigantesco cumulo di fondi nelle mani dello stato. Ora che l’istituto nazionale è un fatto, sembra venuto il tempo di discutere questo problema di interesse generale, a cui si era appena accennato, sebbene fossero già allora vive le preoccupazioni a cui dava origine l’agglomerarsi di risparmi popolari nelle casse dello stato.

 

 

Il programma, indubbiamente grandioso, il quale va svolgendosi sotto i nostri occhi, intende, per vie diverse a raggiungere uno scopo: l’indipendenza finanziaria dello stato, dei comuni, delle provincie, dei consorzi agrari, forestali, di bonifica, ecc. ecc., i quali, per soddisfare agli svariatissimi loro bisogni di credito, dovrebbero essere messi in grado di far a meno di ricorrere a banche, banchieri, risparmiatori privati italiani o stranieri, avendo a propria disposizione i fondi di taluni istituti pubblici di credito, e cioè:

 

 

in primo luogo della Cassa depositi e prestiti, la grande banca di stato, la quale tiene, sebbene ignota al gran pubblico, il primissimo posto tra le banche italiane, coi suoi 3 miliardi circa di depositi, raccolti per mezzo delle casse postali di risparmio, a cui affluiscono per innumerevoli rivoli più di 2 miliardi di risparmi dei minuti risparmiatori, del Monte pensioni per i maestri elementari, con più di 180 milioni di fondi accumulati, del Monte pensioni per i segretari comunali, per i medici condotti, degli istituti ferroviari di previdenza, i depositi giudiziali, i depositi cauzionari, ecc. ecc. La potenza finanziaria della Cassa depositi e prestiti fu cresciuta quest’anno con la legge la quale aumentava da 4 a 6.000 lire il massimo dei depositi sui libretti delle casse postali di risparmio, e sarà ancora cresciuta coll’approvazione del disegno di legge annunciato dal ministro Calissano per la istituzione del servizio degli assegni postali. Automaticamente i fondi delle casse postali e dei vari monti pensioni amministrati dalla Cassa depositi e prestiti dovranno venir crescendo, sino a far parere piccole le somme odierne che già sembrano grandiose;

 

 

in secondo luogo della Cassa nazionale di previdenza per la invalidità e vecchiaia degli operai, i cui fondi debbono oggi aggirarsi sui 150 milioni di lire; ma andranno crescendo rapidamente, quanto più cresceranno gli iscritti alla cassa. Un disegno di legge recente importerebbe la iscrizione di circa 120.000 salariati degli enti locali e delle opere pie; e se fosse sancito il principio della assicurazione obbligatoria degli operai, col triplice contributo degli operai, degli industriali e dello stato, i fondi accumulati non potrebbero non salire presto oltre il miliardo di lire;

 

 

in terzo luogo dell’Istituto nazionale delle assicurazioni, i cui incassi dovrebbero non essere fin d’ora minori di circa 70 milioni di lire all’anno e, come ha previsto, sembrami con ragione, l’on. Nitti nel suo discorso di Muro Lucano, dovrebbero giungere fra 20 anni ad una cifra superiore ai 200 milioni di lire all’anno, con un totale di riserve matematiche superiore ai 2 miliardi di lire.

 

 

Appoggiato a queste tre formidabili forze: il risparmio popolare fluente verso la Cassa dei depositi e prestiti, i fondi delle assicurazioni sociali popolari concentrate nella Cassa nazionale di previdenza per la invalidità e la vecchiaia ed i fondi delle assicurazioni ordinarie sulla vita monopolizzate dall’Istituto nazionale delle assicurazioni, lo stato già oggi dispone di una massa di depositi e fondi diversi superiori di parecchio ai tre miliardi, massa la quale via via dovrà andar crescendo e non sarebbe a meravigliarsi in un decennio potesse raddoppiarsi.

 

 

L’attivo sicuro ed incontrovertibile del nuovo sistema bancario è l’accumulo di somme grandiose, mercé conferimenti compiuti per lo più da risparmiatori minuti e medi. Le classi lavoratrici, piccolo-borghesi, contadine, impiegatizie apportano il massimo contributo al cumulo. Sono risparmi tenui, che forse andrebbero dispersi o male impiegati, se non soccorresse l’aiuto della istituzione di stato, la quale agli ignavi ed ai diffidenti ispira fiducia. Entro i limiti in cui la fiducia è ottenuta colla persuasione ed è spontanea, l’opera di raccolta dei risparmi da parte dello stato non può non essere lodata. Esso non impedisce ad altre casse di risparmio, ad altre società di assicurazione – almeno per ora – ad altre banche di concorrere con lo stato nella raccolta dei risparmi; e se questi affluiscono alle sue casse, al merito suo non possiamo non inchinarci. Finché dura la concorrenza tra le istituzioni di stato e le istituzioni libere, è probabile che esse non si danneggino a vicenda; ma colla feconda concorrenza reciproca suscitino forze ed energie, le quali sarebbero rimaste nascoste ed inattive.

 

 

Quindi, per parlare ancora della raccolta dei capitali, la lode all’opera dello stato diventerà più incerta quando lo stato, non contento di raccogliere anch’esso risparmi e capitali, vorrà impedire ad altri di fare altrettanto, come nel 1923 accadrà per le assicurazioni sulla vita; e già ora diventerebbe dubbio se lo stato, come si propone col disegno di legge per la vigilanza dei risparmi depositati presso le banche ordinarie popolari e private, imporrà tali obblighi fastidiosi di impiego dei depositi ai suoi concorrenti da facilitare a se stesso la vittoria della feconda emulazione per la raccolta dei capitali. Queste sono ombre dell’avvenire. Al presente si può affermare che la lode oscura di gran lunga ogni critica per quanto tocca alla raccolta dei capitali.

 

 

Queste sono ombre dell’avvenire. Al presente si può affermare che la lode oscura di gran lunga ogni critica per quanto tocca alla raccolta dei capitali.

 

 

Una volta raccolti, questi capitali devono però essere impiegati. Qui è divenuto di moda recentemente un’orribile parola, che si chiama il «finanziamento» dello stato e degli enti locali. I miliardi raccolti dagli istituti di stato dovrebbero cioè esclusivamente servire a provvedere allo stato, ai comuni, alle provincie, ai consorzi le somme di cui essi hanno bisogno per le loro spese in conto capitale (costruzione di ferrovie, imprese coloniali, municipalizzazioni, acquedotti, ecc.), sottraendo tutti questi enti alla necessità di ricorrere al mercato finanziario, ai banchieri e risparmiatori privati.

 

 

Formidabile problema, che in un articolo a mala pena si può porre, ma non discutere a fondo come meriterebbe. Un primo quesito pregiudiziale è il seguente: è utile che gli enti pubblici siano sottratti al giudizio ed al controllo del mercato finanziario? Se non esistesse la Cassa depositi e prestiti ed i comuni dovessero rivolgersi al mercato libero per ottenere i prestiti di cui hanno bisogno, come accade in Germania, in Inghilterra ed in tanti paesi del mondo, si vedrebbe ad esempio, che Milano trova denaro al 4% e che un altro comune deve pagare il 5%; ed i cittadini – elettori sarebbero avvertiti del diverso giudizio che i banchieri – fini valutatori ed indipendenti da influenze politiche – fanno della gestione delle due città. Colla provvista da parte dello stato il giudizio vien dato dalla amministrazione. Siamo noi sicuri che esso sia altrettanto efficace? Siamo certi che i nostri organi rappresentativi ed amministrativi, che il controllo amministrativo, che i referendum popolari in materia di municipalizzazione funzionino tanto perfettamente da consentirci di fare a meno di quest’altro organo di controllo, indipendente e perfetto, che è il diverso saggio di interesse a cui diversi comuni sarebbero in grado di trovar denaro sul mercato libero? Purtroppo, le democrazie in ogni paese del mondo vanno trasformando le istituzioni rappresentative per modo che i consiglieri ed i deputati, i quali dovrebbero essere i frenatori delle spese, sono diventati gli eccitatori di esse. Sicché è divenuto vano il controllo dei parlamenti e dei consigli municipali sul bilancio delle spese, ed è urgente il bisogno di nuovi organi di controllo e di freno.

 

 

In Inghilterra il freno agli indebitamenti crescenti dei comuni per ogni sorta di abbellimenti, risanamenti, municipalizzazioni, fu dato dal crescere continuo del saggio dell’interesse per i prestiti sul mercato libero; e fu compito di un ministro operaio, il Burns, di vietar nuovi prestiti ai comuni, che avrebbero dovuto pagare usure troppo forti. Siamo sicuri che se i comuni potessero esclusivamente provvedersi presso gli istituti pubblici dei prestiti loro occorrenti, questo freno agirebbe ugualmente bene? I depositi agli istituti pubblici affluiscono al 2,50 od al 3%; e, costando poco, possono essere dati a mutuo a basso saggio di interesse. Il quesito è: conviene che in ogni caso e per tutti i loro bisogni di capitale gli enti pubblici sappiano dove provvedersi di denaro a buon mercato; o non sarebbe utile che gli istituti pubblici provvedessero solo ad una parte dei bisogni straordinari dei comuni, delle provincie, dei consorzi, come strade ordinarie, ponti, scuole, opere igieniche, acquedotti, bonifiche, rimboschimenti, ecc., per cui può giustificarsi un tenue saggio di interesse, lasciando loro per tutto il resto correre liberamente l’alea degli alti o bassi saggi del mercato?

 

 

Altro problema delicato del cosidetto «finanziamento» pubblico è quello della sua «periodicità». I fondi alle casse postali, agli istituti di assicurazione sociale affluiscono con una certa regolarità. Ogni anno la Cassa depositi e prestiti – supponiamo accentrato in essa tutto questo maneggio di fondi – ha disponibili, fra incremento annuo dei fondi e rimborso da parte dei mutuatari di mutui precedenti, a cagion di esempio, 300, 400 o 500 milioni di lire. È certo che ogni anno alle disponibilità corrisponda altrettanta somma di bisogni a cui soddisfare? Probabilmente no. Vi saranno periodi in cui i fondi disponibili sono insufiicienti alle richieste ed anni in cui vi sono disponibilità che non trovano conveniente ed utile impiego in prestiti allo stato ed agli enti pubblici locali. Se la cassa potesse scontar cambiali di privati, poco male; le esuberanze potrebbero essere impiegate a far incerta di portafoglio italiano od estero. Ma se la cassa deve investire tutti i suoi depositi in prestiti pubblici, non v’è il pericolo che a tratti il fattore politico acquisti una importanza eccessiva? Non è possibile che il fatto della esistenza delle disponibilità faccia sorgere bisogni che non erano in realtà né urgenti né importanti, e che non sarebbero soddisfatti, se non si trovasse il denaro al 3%? Non si corre forse il rischio di impiegare infruttuosamente parte del risparmio nazionale?

 

 

Qui si giunge al nodo della questione. I capitali che le casse pubbliche vanno accumulando per il «finanziamento» degli enti pubblici, sono sottratti al mercato generale del denaro. Lo stato crea cioè un mercato chiuso, dove affluiscono centinaia di milioni di risparmi della parte meno agiata della popolazione. Questi risparmi vengono destinati esclusivamente ai bisogni di credito dello stato in primo luogo – ferrovie, bonifiche, imprese coloniali, ecc. – e degli enti e consorzi locali in secondo luogo. Dal mercato chiuso dei risparmi che chiamerò pubblici non una lira può essere tolta e destinata ai bisogni di credito dell’industria, dell’agricoltura, dei commerci. Accanto a questo mercato chiuso, ve n’è un altro, libero, presso le banche e le casse ordinarie a cui affluiscono gli altri risparmi, preferibilmente delle classi ricche, commercianti ed industriali. Il mercato libero è soggetto tuttavia alle richieste non solo dell’industria e dell’agricoltura, ma di nuovo dello stato e degli altri enti pubblici.

 

 

In un dato paese si formi ogni anno un miliardo di nuovo risparmio. Se il miliardo fosse egualmente accessibile a tutti coloro che hanno bisogno di somme a prestito, governi, comuni, provincie, agricoltori, industriali, commercianti, ecc., a seconda dei loro meriti, il saggio dell’interesse medio sarebbe, per esempio, il 4%, con le naturali variazioni da caso a caso dovute al diverso credito dei vari debitori. Invece il fondo del miliardo si divide in due parti 300 milioni vanno, ad un interesse bassissimo, dal 2,50 al 3%, a concentrarsi nel mercato chiuso degli istituti di stato a cui possono soltanto ricorrere lo stato e gli altri enti pubblici; e 700 milioni vanno al mercato libero, dove tutti, enti pubblici compresi, ne possono far richiesta. Non è probabile, per non dire certo, che i 300 milioni verranno impiegati in opere le quali rendono pecuniariamente poco e possono pagare solo un basso saggio di interesse; e che la concorrenza intorno agli altri 700 milioni, per le imprese realmente produttive, per i prestiti pubblici e privati, per cui si è disposti a pagare l’interesse corrente, sarà tale da far salire il saggio dell’interesse al disopra di quello che sarebbe stato se i due mercati fossero stati tra di loro comunicanti? Quanto più lo stato assorbe al 2,50 o 3%, tanto meno risparmio resta disponibile per gli altri impieghi liberi; sicché industria e agricoltura dovranno pagare il 5 od il 6% e forse più di interesse per i loro bisogni di capitale. Dal punto di vista dell’economia generale è utile che il rapporto fra il risparmio che si volge ai pubblici impieghi ed il risparmio che si volge agli investimenti privati venga così profondamente modificato a favore del primo, da aumentare fortemente il costo del capitale per le intraprese private?

 

 

Il problema non si pone soltanto in Italia. Due paesi stranieri, federali amendue, se lo videro sorgere dinanzi in questi tempi. Gli Stati uniti, volendo provvedere, tre anni or sono, alla istituzione delle casse postali di risparmio, vollero nel tempo stesso non prestare il fianco al rimprovero che quella istituzione non avesse solo lo scopo di facilitare il risparmio alle classi meno fortunate (aspetto luminoso dell’iniziativa) ma anche quello di accentrare formidabili somme a disposizione del governo centrale (lato oscuro o dubbio), e decretarono che, salvo un fondo di riserva, tutti i fondi dovessero dall’amministrazione postale essere depositati presso banche locali, in guisa che, nei limiti del possibile, il risparmio del contadino, dell’operaio, dell’impiegato, del commesso, servisse a fecondare miglioramenti agricoli, imprese industriali e commerciali, imprese municipali del luogo dove il risparmio si era formato.

 

 

La stessa preoccupazione, di non assorbire tutto il risparmio campagnuolo a favore delle città, di non togliere capitali alle industrie ed all’agricoltura, inspira altresì il governo federale svizzero. Il progetto che una commissione di uomini competenti ha recentemente elaborato stabilisce che l’impiego dei fondi raccolti dalle erigende casse postali di risparmio debba avvenire a cura della Banca nazionale svizzera. Almeno il 50% dei depositi dovrà essere impiegato in obbligazioni dei cantoni, comuni, banche cantonali ed altre banche e casse di risparmio solide e soggette alla pubblicazione dei loro bilanci, in modo che, le varie parti del territorio nazionale possano disporre di una quota corrispondente all’importanza dei depositi compiuti nella medesima regione. La restante frazione dei depositi – dopo provveduto all’impiego del sovra menzionato 50% – dovrà essere collocata nel modo seguente: dal 20 al 25% come fondo di cassa; dal 45 al 50% in conto corrente presso la Banca nazionale od in cambiali estere tratte su paesi a valuta metallica; finalmente dal 25 al 30% in obbligazioni e buoni di cassa della Confederazione svizzera e delle ferrovie federali, come pure in buoni del tesoro di stati esteri.

 

 

La Svizzera ha adottato così una soluzione intermedia, la quale sembra raccomandabile. I fondi delle casse postali di risparmio devono cioè per la minor parte essere impiegati in mutui allo stato ed alle aziende statali, e per la maggior parte in mutui ai cantoni ed enti locali, in depositi presso banche e casse di risparmio ordinarie che li devolveranno a pro delle industrie e dei commerci; né si dimenticò l’opportunità, che del resto il nostro legislatore ha già riconosciuto per le riserve degli istituti di emissione italiani, di investire una frazione di quei fondi in cambiali sull’estero ed in buoni del tesoro di stati stranieri.

 

 

In tal modo si raggiunge l’intento di stabilire un canale di comunicazione tra il mercato dei risparmi pubblici ed il mercato dei risparmi privati. Il primo mercato non è, come in Italia, un campo chiuso riservato ai prestiti agli enti pubblici. Anche l’agricoltura e l’industria possono dissetarsi ad una fonte, la quale zampilla massimamente dal lavoro delle classi lavoratrici e contadine.

 

 

Inoltre si rimedia in parte al massimo pericolo delle agglomerazioni di denaro e quindi di influenza economica e politica in mano del governo. Questo non è libero negli Stati uniti e non lo sarà in Svizzera nell’impiego dei fondi pubblici; ma deve seguire norme precise di legge, che sono garanzie dell’indipendenza locale ed individuale contro le inframmettenze parlamentari e governative. Il plauso all’opera di chi raccoglie in Italia ora più di 3 miliardi e raccoglierà, in non lungo volgere di anni, 6 e forse 10 o più miliardi di lire di risparmio popolare, è plauso concorde di tutti. Ma chi può guardare senza timore all’illimitata libertà lasciata al governo, ossia alla amministrazione controllata dal parlamento, di ordinare l’impiego di queste grandiose somme? Finché esse erano una frazione relativamente tenue del risparmio nazionale, il pericolo era lieve; ora che esse ne sono una frazione rilevante e si prevede il crescere della loro importanza relativa, importa che il legislatore se ne preoccupi.

 

 

Uno stato di cose in cui i comuni, i consorzi, le società concessionarie dei servizi pubblici, le cooperative di lavoro e di produzione e finalmente anche gli industriali ed agricoltori privati, debbano dipendere dalle raccomandazioni del deputato e dal beneplacito della amministrazione, non sembra davvero un ideale. Poiché significa asservimento dell’individuo alla burocrazia, mancanza d’indipendenza negli enti locali, ribadimento delle catene che oggi mutuamente avvincono burocrazia, parlamento ed elettori, distruzione di quelle classi sociali indipendenti che sono la spina dorsale della società e da cui soltanto possono nascere governi forti e realmente progressivi.

 

 



[1] Con il titolo L’Assorbimento del risparmio nazionale ed il funzionamento degli enti pubblici [ndr].

Il protezionismo e la prosperità inglese

Il protezionismo e la prosperità inglese

«Corriere della Sera», 21 settembre 1913

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 560-561

 

 

 

 

Signor direttore,

 

 

Il senatore Pasquale Villari, nell’eloquente e bellissimo articolo su Due nuovi libri sull’Inghilterra ha fatto sua una credenza assai diffusa sul continente di Europa, secondo cui l’Inghilterra avrebbe raggiunto col protezionismo una grande prosperità industriale e commerciale; e sarebbe divenuta sostenitrice del libero scambio soltanto dopo riuscita ad essere così – ossia colla precedente politica protezionista – la prima e più ricca nazione del mondo.

 

 

Io non voglio affliggere i lettori del «Corriere» con una discussione, la quale, dopo tutto, ha importanza sovratutto storica ed interessa praticamente solo i liberisti nelle nostre continue querele contro i protezionisti. Mi dia concesso però di rilevare – guardando il problema da quell’alto punto di vista storico da cui si è posto il senatore Villari – che la credenza universalmente accolta sul continente europeo non sembra a molti storici imparziali avere il fondamento dei fatti. Sta di fatto che, prima delle grandi riforme doganali di Roberto Peel, l’Inghilterra menava una vita industriale travagliata, che le crisi si succedevano alle crisi, che la disoccupazione infieriva in misura oggi ignota, che la conquista dei mercati stranieri era assai meno sicura di quanto oggi non si creda; che il primato industriale inglese era così poco riconosciuto, che Ledru-Rollin poteva scrivere un libro lugubre sulla decadenza dell’Inghilterra. Sta di fatto che i trionfi della industria inglese nella seconda metà del secolo XVIII e nel primo terzo del secolo XIX sono da molti storici attribuiti non al protezionismo, il quale avrebbe anzi ritardato quei progressi, ma all’utilizzazione crescente delle miniere di carbon fossile e di ferro e ad altre cause economiche. Per citare un solo scrittore italiano in proposito, ricorderò che, in una memoria, che io ho avuto l’onore di presentare all’Accademia delle scienze di Torino, intorno al problema del combustibile in Piemonte nel secolo XVIII, Giuseppe Prato dimostrò che fino verso la fine del secolo XVIII la lotta per la supremazia industriale tra i paesi continentali e l’Inghilterra sembrava pendere più a favore del continente, ricco di boschi, che dell’Inghilterra, dove quei boschi erano già stati distrutti. La lotta fu decisa con la vittoria dell’Inghilterra solo con l’affermarsi vittorioso del carbon fossile. Con le quali osservazioni non affermo senz’altro che i liberisti abbiano ragione nel considerare come una leggenda la diffusa opinione suffragata ora dalla grande autorità di Pasquale Villari. Parmi certo soltanto trattarsi di un problema storicamente ancora assai controverso.

 

Luigi Einaudi

Il ribasso del cambio

Il ribasso del cambio

«Corriere della Sera», 25 agosto 1913

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 555-559

 

 

 

 

Il cambio, che aveva inaugurato l’anno con 101,42 e via via era cresciuto fino a 102,80 alla fine del primo semestre, s’è messo in questi ultimi giorni a precipitare e pare che nel momento in cui scrivo voglia andare verso il 101. Quale la causa del fatto?

 

 

La prima risposta che viene sulle labbra è: la conchiusione della pace. Come l’orizzonte internazionale scuro aveva fatto aumentare il cambio quasi al 3%, così oggi il rischiararsi delle nubi politiche, la speranza di una più o meno lunga era di pace ha rese normali le correnti internazionali monetarie. L’oro che s’era nascosto nelle cantine e nei forzieri dei privati, torna alla luce ed i cambi si raddolciscono.

 

 

Questa spiegazione, che dirò «intuitiva», come non mi aveva convinto quando il cambio aumentava, così non mi convince ora che il cambio ribassa. Come accadeva, allora, che il cambio aumentasse in Portogallo, in Ispagna, in Italia, ossia in paesi lontani dal teatro della guerra balcanica, e non si muovesse in Austria, dove era pure stato così vivo il panico finanziario, dove realmente le centinaia di milioni d’oro si erano nascoste sotto terra? Come accadeva che, sul teatro della guerra, in Turchia, in Grecia, il cambio restasse meravigliosamente alla pari od al disotto della pari? Come accade ora che le condizioni internazionali e la pace esercitino effetti così stravagantemente lontani dai punti nei quali la pace dovrebbe essere risentita? A Vienna il cambio su Parigi oscilla intorno al 100,60 senza variazioni sensibili; e Vienna è il punto in cui, se la teoria dell’influenza della situazione internazionale fosse vera, avrebbe dovuto manifestarsi il ribasso maggiore. Come pure in Grecia il cambio da due mesi sta sul 100,12 senza preoccuparsi di pace o di guerra. La lira turca era al disopra della pari e vi rimane.

 

 

Dove sono in Italia le riserve d’oro che si sarebbero nascoste durante la guerra e che improvvisamente sarebbero saltate fuori a pace firmata? Tutti erano d’accordo nel dire che le riserve fossero fortissime in Austria, specie nelle provincie di confine; ed è probabile che ivi i tesaurizzatori abbiano cominciato a riportare l’oro e l’argento alle banche ed alle casse di risparmio. Ciononostante i cambi austriaci restano suppergiù quello che erano, perché non v’è rapporto diretto tra il riaffluire dell’oro alle banche ed il corso dei cambi. Ma in Italia nessuno ha sentito parlare mai di tesaurizzamenti, di panici dei depositanti alle casse di risparmio; e l’oro che non c’era prima non può saltar fuori adesso.

 

 

Lo studioso non può spiegare tutti i fenomeni che si manifestano di giorno in giorno, perché egli ignora, e forse tutti ignorano, la moltitudine grande delle piccole circostanze le quali possono spiegare i fatti giornalieri. A mala pena si possono segnare le grandi linee del fenomeno.

 

 

Al qual riguardo io non ho che da riportarmi a ciò che scrivevo il 4 aprile scorso, discorrendo dell’ultima relazione della Banca d’Italia. Dicevo allora che gli studiosi, convinti, come sono io, che alla lunga e nelle grandi linee il rialzo del cambio, oltre il punto dell’oro, calcolato a 100,50 circa, ossia il deprezzamento della carta moneta non possa dipendere che da una eccessiva circolazione della carta, possono fare a meno che i dirigenti credano alla loro teoria, purché agiscano in base ad essa. Le credenze degli uomini in materia dottrinale valgono poco; ciò che importa sono le loro azioni. E mi congratulavo col comm. Stringher per il proposito da lui manifestato di tenere a freno la circolazione, pronosticando da ciò ottimi frutti. I quali oggi si vedono.

 

 

Nello stesso modo come l’inasprimento dei cambi nel 1912 e nel primo semestre del 1913 era dovuto all’aumento della circolazione complessiva ed al rigido e sospettoso tesaurizzamento non dei privati, ma delle riserve metalliche da parte dello stato e degli istituti di emissione, cause che produssero i loro effetti non immediatamente, ché sarebbe fuor di luogo pretenderlo, ma a lunga distanza; così il raddolcimento dei cambi odierno sembra a me dovuto a due circostanze: 1) l’arresto nell’aumento della circolazione; 2) un più libero ed opportuno uso delle riserve metalliche da parte della Banca d’Italia. Che la circolazione non sia cresciuta nel primo semestre 1913 è provato dal fatto che essa era, complessivamente per i tre banchi, di 2 miliardi e 212 milioni al 31 dicembre 1912 contro 2 miliardi e 193 milioni al 31 dicembre 1911; ed era di 2 miliardi e 149 milioni al 30 giugno 1913 contro 2 miliardi e 130 milioni al 30 giugno 1912. L’arresto nell’aumento vuol dire che la Banca d’Italia ha cessato di versare al tesoro biglietti in conto corrente, come per forse 300 milioni aveva fatto nel 1912. Dico forse perché notizie precise non si hanno più al riguardo dopo il 31 ottobre 1912, quando i biglietti consegnati al tesoro in conto corrente e che erano andati ad aumentare la circolazione assommavano all’incirca a quella cifra. Di aver cessato di aumentare la circolazione per i bisogni del tesoro e forse di averla diminuita dobbiamo congratularci vivamente coll’on. Tedesco e col comm. Stringher, esprimendo nel tempo stesso la speranza che essi vogliano offrirci dati particolareggiati e precisi sugli ultimi anni per poter permettere uno studio esatto del problema.

 

 

Il secondo fatto che a me pare di intravvedere è un più liberale uso delle riserve metalliche. Quando su queste colonne, mesi fa, espressi l’idea, del resto esposta anche da altri studiosi, come il Pantaleoni, che le riserve metalliche sono fatte per darle via e non per tenerle; che i famosi 125 milioni sarebbe stato meglio spenderli, in tutto od in parte, in oro e non in carta, dissi cosa che agli uomini politici parve un’eresia. Ma poiché era una verità di dominio comune, finì per essere riconosciuta ed eminenti uomini politici la fecero propria. Credo ora che la «superstizione dell’oro» sia svanita anche in pratica. È un po’ di tempo che le situazioni della Banca d’Italia segnalano una diminuzione di qualche milione nelle riserve d’oro e di argento. Per esempio, l’ultima situazione che ho ricevuto, che è quella del 20 luglio 1913, indica una diminuzione di 1.361.000 lire nella riserva aurea e di 3.545.000 lire negli scudi d’argento.

 

 

Lasciamo che s’allarmino coloro i quali considerano le riserve metalliche come un tesoro intangibile e congratuliamoci che delle riserve si faccia quell’uso per cui esse sono state create. Una riserva che non si potesse toccare sarebbe come inesistente. Invece le riserve sono state create apposta perché le banche vendano oro ed argento sul mercato quando vedono che il prezzo loro in carta diventa eccessivo. Forse i dirigenti hanno creduto opportuno di attendere ad esercitare questa azione modificatrice – quella moderatrice la dovettero esercitare sempre, perché altrimenti il cambio sarebbe forse andato ben oltre il 3% – dopo che la pace fu conclusa; onde perciò solo ora si risentono le conseguenze dell’azione evidentemente preparata da lunga mano. La banca cioè vende oggi via via le divise estere che a poco a poco si era procurate, anche disfacendosi di una parte delle proprie riserve metalliche; e le vendite di divise provocano il ribasso del cambio.

 

 

Ciò che importa adesso è che il miglioramento si consolidi e che il cambio si stabilisca in modo permanente intorno alla pari. Infatti non il cambio alto nuoce, ma il cambio oscillante. Se anche il cambio salisse al 200%, ma poi si fermasse lì per sempre, alla lunga ogni danno scomparirebbe. Tutti si abituerebbero a contare per due, invece che per uno; ed ogni cosa si ridurrebbe ad un mutamento di nomenclatura. Ciò che importa non è che il pane si chiami piuttosto una lira in carta o 50 centesimi in oro. La cosa è indifferente se l’operaio è pagato 8 lire in carta invece che 4 in oro, e così via dicendo per tutti i prezzi. I guai cominciano quando il cambio oscilla continuamente; perché in tal caso taluni prezzi cambiano subito ed altri no. Il pane può essere aumentato subito da 50 a 55 centesimi; ed il salario dell’operaio non essere ancora cresciuto da 4 a 4,40 lire al giorno; sicché egli rimane danneggiato.

 

 

Perciò insisto, ora che l’esperienza anche italiana ne ha dimostrato l’efficacia, a chiedere che gli istituti di emissione si assumano – dapprima volontariamente e poi per legge – il compito di stabilizzare i cambi. Le banche di emissione dovrebbero cioè obbligarsi a non lasciar salire il cambio oltre, ad esempio, 100,60, vendendo all’uopo quanta divisa estera basti a non lasciar superare tal punto. Certamente siffatta politica implica due condizioni: che la circolazione non diventi esuberante e che non si abbia paura di sbarazzarsi d’oro per comprare divisa estera da mettere sul mercato.

 

 

Se si riflette però che la prima condizione è intieramente volontaria – basta che il governo non chieda più biglietti in conto corrente – e che la seconda, quando sia soddisfatta la prima, esige l’impiego di moderatissime quantità d’oro – l’esperienza italiana attuale lo dimostra -; se si riflette che da anni l’Argentina, la Grecia, l’Austria – Ungheria praticano questa politica con successo; se si riflette, sovratutto, che lo Stringher sta applicandola oggi con successo in Italia, non sembra ardire eccessivo augurare che essa sia continuata e consolidata prima e codificata poi.

Azioni od obbligazioni?

Azioni od obbligazioni?

«Corriere della Sera», 18 agosto 1913

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 547-554

 

 

 

 

Da qualche tempo si discute altrove una questione che a primo aspetto può sembrare soltanto curiosa e che fu sintetizzata negli Stati uniti nell’interrogativo stocks or bonds? e cioè azioni od obbligazioni? Intorno a questo problema una rivista americana, la Securities review di Scranton nello stato di Pennsylvania, ha provocato un’inchiesta, di cui i risultati sono pubblicati in un libro How to invest when prices are raising (Come investire i propri capitali mentre i prezzi sono in rialzo), il quale ha un sottotitolo suggestivo: Di un metodo scientifico di provvedere all’aumentato costo della vita (G. Lynn Summer and Co. Scranton, Pa.). Il libro non ha alcuno scopo pratico, di raccomandazione di alcuni piuttostoché di certi altri titoli; ed è un frutto interessante della tendenza, la quale si va accentuando un po’ dappertutto, di sottrarre l’investimento dei risparmi all’empirismo ed al caso per sottoporlo a regole definite ricavate dall’esperienza. In Europa il bisogno di guidare il risparmiatore nella scelta dei modi d’impiego dei suoi capitali ha provocato la pubblicazione di un libro popolarissimo come L’art de placer et gérer sa fortune di Paolo Leroy Beaulieu. Negli Stati uniti al libro pubblicato dalla «Securities Review», che è come dire «rivista dei titoli», hanno collaborato economisti di fama mondiale, come il prof. Irwing Fiscer, dell’università di Yale, il prof. Kemmerer, dell’università di Princeton, il dott. J. Pease Norton; dimostrando col loro vivo interessamento come il problema del modo migliore di investire i risparmi sia tra quelli che non interessa discutere solo tra gli uomini di borsa e di affari, ma che hanno un carattere ed una importanza generale; un problema che sicuramente occupa un posto primissimo tra i grandi problemi cosidetti sociali.

 

 

Da noi, come in ogni paese il quale stia faticosamente passando dal regime di povertà e di digiuno ad uno stato di relativa agiatezza, sembra quasi disdicevole discorrere in pubblico del modo di impiegare i propri quattrini. Pare che questa debba essere una bisogna, strettamente privata, che ognuno deve compiere in gran segreto, per paura di far sapere i fatti propri al fisco ed al prossimo e nell’illusione di essere i soli ad aver messo le mani su qualche buon titolo che gli altri non conoscono e che è sicuro o lucroso in modo particolare.

 

 

Ciò che accade invece è una cosa ben diversa: i risparmiatori fanno, persuasi di essere i soli od i primi, tutti la medesima cosa. Tutti comprano lo stesso titolo che il loro agente di cambio o banchiere in gran segreto ha loro raccomandato, lasciando sottintendere che l’avvertimento prezioso era dato per una particolare deferenza al vecchio ed affezionato cliente; ovvero tutti si astengono dal comperare, quando hanno avuto le dita scottate dall’impiego fatto prima con speranze non avveratesi alla prova dei fatti. In difetto di un pubblico interessamento, di dibattiti fecondi ed aperti intorno all’investimento dei risparmi, il mercato dei titoli è lasciato in balia del caso, dell’interesse momentaneo di questa o quella banca a «far fuori» i titoli di cui ha colmi i forzieri, dei consigli spesso non disinteressati di agenti e intermediari, in cui non sono eccessivamente numerosi coloro che abbiano una reale cultura intorno alla consistenza patrimoniale, ai profitti ed ai metodi amministrativi degli stati, comuni, società anonime, italiane ed estere, i cui titoli essi vanno raccomandando ai clienti.

 

 

Perciò sono così frequenti i mali investimenti e così radicata è la sfiducia del pubblico verso le borse, utilissime istituzioni; ed è così generale la tendenza dei risparmiatori a comprare solo rendita e poi rendita e poi ancora rendita, con qualche pizzico di buoni del tesoro. Titoli i quali meritano sicuramente di entrare nel portafoglio dei risparmiatori; ma non dovrebbero essere i soli a regnarvi indisturbati. I cattivi investimenti di coloro, i quali si azzardano ad uscire fuori dalla chiusa cerchia della rendita e dei buoni del tesoro, reagiscono infaustamente sulle industrie, di cui le buone sono spesso male provvedute di capitale, mentre alle cattive i capitalisti accorrono in quantità eccessiva e provocatrice di crisi. Di qui alternative di febbrile occupazione e di disoccupazioni violente o croniche, disastrose per le classi operaie. Nessuno più degli operai è maggiormente interessato a che i risparmiatori facciano dei loro risparmi un buon impiego; e la miglior maniera di investire i capitali dovrebbe essere un argomento di interessamento altrettanto vivo per i capi delle masse lavoratrici che per i banchieri. Perciò ho detto che questo deve essere considerato come uno dei massimi problemi sociali.

 

 

Non ne discuterò oggi, ché sarebbe impossibile, tutti gli aspetti; volendomi invece restringere a brevi considerazioni intorno ad uno solo di essi: quello che si assomma nell’interrogativo azioni od obbligazioni? Il dott. Pease Norton, uno degli scrittori dell’inchiesta dianzi ricordata, riassume, in un breve quadro, il paragone da lui istituito tra due specie di investimenti, che si suppongono fatti il 2 gennaio 1901, in azioni da una parte e in obbligazioni dall’altra di dieci grandi società ferroviarie degli Stati uniti; i risultati dei quali due investimenti si accertarono il 2 gennaio 1910. Ecco il quadro:

 

 

Azioni

Obbligazioni

 

Somma originariamente investita il 2 gennaio 1901 

L. 100.000

100.000

Prezzo di vendita il 2 gennaio 1910 

126.100

91.300

 

Guadagno o perdita

 

+ 26.100

– 8.700

Dividendo od interesse ricevuto durante il decennio

 

43.300

32.800

Valore dei diritti di opzione a nuove azioni riservati ad azionisti ed esercitati nel decennio

 

30.300

 

 

 

Totale dei guadagni, dividendi ed opzioni, dedotte le perdite

99.700

24.100

 

 

Il quadro non richiede molte spiegazioni. Il risparmiatore, che il 2 gennaio 1901 investì 100.000 lire in obbligazioni di 10 tra le migliori società ferroviarie degli Stati uniti, riscosse durante i dieci anni susseguenti un interesse di 3.280 lire all’anno e di 32.800 lire in tutto. Intorno al 1901 infatti il tasso d’interesse era basso ed un reddito del 3,28% per titoli di prim’ordine era considerato un buon reddito. Alla fine dei 10 anni, se egli volle realizzare le sue obbligazioni, poté incassare solo un prezzo di 91.300 lire, con una perdita di 8.700 lire. Deducendo la qual perdita dagli interessi percepiti in lire 32.800, si ha che egli, oltre al rimborso delle 100.000 lire originarie, ha avuto nel decennio un soprappiù o guadagno o reddito netto di appena 24.100 lire. Affare magrissimo, come è agevole vedere; ed ancor più magro se si pensa che probabilmente le 124.100 lire, che egli ha alla fine del decennio, hanno una potenza di acquisto non superiore a quella delle 100.000 lire che aveva al principio. Ossia è probabile che egli avrebbe potuto comprare il 2 gennaio 1901, ad esempio, una villa al prezzo di 100.000 lire; mentre la stessa villa al 2 gennaio 1910 gli sarebbe costata, per il crescere di tutti i prezzi e quindi anche dei prezzi dei materiali da costruzione e delle mercedi operaie, almeno 124.100 lire. Talché egli rinunciò inutilmente al godimento della villa per dieci anni, andò ramingo in casa d’affitto, pagando gravose pigioni, senza ottenere altro risultato concreto fuori di poter acquistare dopo dieci anni quel medesimo bene (ville od automobili o fondo rustico od oggetti di lusso) che avrebbe potuto avere dieci anni prima.

 

 

Ché se egli si illuse di poter a mano a mano consumare le 3.280 lire annue di interesse fornitegli dal suo portafoglio di obbligazioni, alla fine del decennio la sua sorte sarà ben lamentevole. Egli non solo vedrà il proprio patrimonio in moneta diminuito in valore a lire 91.300; ma, peggio, queste lire 91.300 saranno capaci di acquistare ville, automobili, case, fondi rustici, gioielli, ecc. ecc., in quantità ben minore di quanto potevano acquistare dieci anni prima: due terzi di villa o di gioielli o di casa di reddito, ecc. ecc. Meglio per lui sarebbe stato comprar 100.000 lire di brillanti o di perle alla moglie piuttostoché compiere l’atto virtuoso del risparmio! La moglie se ne sarebbe adornata durante gli anni suoi più belli ed il marito avrebbe potuto rivenderli per 150.000 lire e forse più – brillanti e perle sono tanto cresciuti di prezzo! – alla fine del decennio, dando così accortamente termine al suo avveduto investimento capitalistico.

 

 

Ben diversa fu la sorte del risparmiatore, il quale preferì investire le sue 100.000 lire in azioni di quelle medesime dieci buone società ferroviarie di cui il suo compagno comprava le obbligazioni. Mentre queste rinvilivano a 91.300 lire a causa del crescere del saggio di interesse, aumento che negli ultimi anni fece sembrare insufficiente l’antico reddito del 3,28% e fece deprezzare quindi i titoli che erano fecondi di un reddito così meschino, le azioni aumentavano di valore per la medesima causa fondamentale. L’aumento nel saggio dell’interesse può infatti derivare dal fatto che le industrie e l’agricoltura vendono a prezzi più cari, e, guadagnando di più, sono disposte a pagar più caro il capitale preso a prestito. Ma, pur pagando salari più alti e più alti interessi sul capitale preso a mutuo, il guadagno delle industrie in questi periodi di prezzi ed interessi crescenti e finché le cose non si siano aggiustate, cresce ancor più velocemente; onde le 10 società ferroviarie scelte distribuirono dividendi per l’ammontare totale di lire 43.300, meno nei primi anni e più in seguito, ripartirono tra i soci azionisti nuove azioni ad un prezzo inferiore al corrente, cosicché gli azionisti godettero di diritti d’opzione del valore di lire 30.300; più le azioni al 2 gennaio 1910 poterono essere vendute al prezzo di lire 126.100, con un lucro di 26.100 lire in confronto al prezzo d’acquisto. Sommando questi diversi guadagni si ha un lucro complessivo di lire 99.700; il quale avrebbe potuto consentire all’azionista di consumare ogni anno 4.000 lire, ed in tutto 40.000 lire, e l’avrebbe lasciato alla fine del decennio con le 100.000 lire originarie, più un aumento di 59.700 lire: in tutto 159.700 lire. Ossia con la villa desiderata, che oggi costa 124.100 lire, come si disse sopra, più un consumo di 4.000 lire all’anno, più un non spregevole gruzzolo di 35.600 lire, differenza fra le 159.700 rimastegli il 2 gennaio 1910 e le 124.100 spese nell’acquisto della villa.

 

 

Col qual esempio non si vuole già dire ai capitalisti: vendete le obbligazioni, le rendite ed in genere i titoli a reddito fisso che possedete e comperate tutte azioni. Sarebbe un consiglio disonesto. Si è voluto solo porre in luce una delle forze profonde a cui obbediscono i movimenti, che paiono inesplicabili, dei corsi dei titoli in borsa. Quando il saggio di interesse sale, invero, v’è indubbiamente una tendenza nei prezzi dei titoli a reddito fisso (obbligazioni, cartelle fondiarie, rendite) a diminuire e nei prezzi delle azioni a reddito variabile a salire.

 

 

Quando il saggio dell’interesse è del 4%, una obbligazione ed un’azione, le quali rendono amendue quattro lire, a parità di sicurezza, valgono amendue 100 lire. Se il saggio dell’interesse sale dal 4 al 5% e se la causa del rialzo dell’interesse è la prosperità delle industrie le quali chiedono nuovo capitale a mutuo per profittare dell’ondata dei prezzi crescenti, l’obbligazione, che rende sempre le solite quattro lire, scemerà di prezzo ad 80 lire, perché 80 lire, impiegate al 5%, nuovo saggio di interesse, fruttano 4 lire; mentre l’azione, il cui dividendo sarà aumentato da 4 a 6 lire, a causa della prosperità industriale, crescerà di prezzo da 100 a 120 lire, perché 120 lire, impiegate al 5%, fruttano appunto 6 lire all’anno.

 

 

Tutto ciò però è irto di se e di ma. Innanzi tutto può darsi che il rialzo del saggio dell’interesse sia provocato non dalla prosperità delle industrie, lavoranti a prezzi crescenti, bensì dalle guerre, le quali assorbono e distruggono grandiose masse di risparmio. In tal caso – e forse è il caso dell’Europa nel momento presente, almeno in parte – il saggio sale dal 4 al 5%; ma tanto l’azione che l’obbligazione rendono sempre le solite 4 lire ed amendue perciò deprezzate da 100 ad 80 lire. E può darsi che l’azione, la quale è la prima a subire le conseguenze delle guerre, delle cresciute imposte, ecc. ecc., vegga diminuire il proprio dividendo da 4 a 3 lire, ed allora il suo prezzo diminuirà da 100 (vecchio prezzo capitale di 4 lire di dividendo annuo al 4%), a 60 (nuovo prezzo di 3 lire annue al 5%) lire.

 

 

Inoltre, come vi sono periodi in cui l’interesse sale, così vi sono periodi nei quali l’interesse discende. Come gli anni dal 1900 al 1913 furono caratterizzati da una tendenza del saggio dell’interesse, ossia del prezzo dei capitali a crescere, così gli anni dal 1880 al 1894 erano stati caratterizzati dalla tendenza opposta. Potrebbe darsi che dopo il 1914 l’interesse tornasse a diminuire. Nelle grandi linee, se si suppone che la previdenza e la capacità di risparmiare si sviluppino negli uomini di più che la capacità a distruggere capitali, l’interesse tende a scemare. Ora, mentre l’interesse scema, ad esempio, dal 4 al 3%, il prezzo delle obbligazioni fruttanti 4 lire, dovrebbe tendere a salire da 100 a 133 lire. «Dovrebbe», dico, perché gli stati e le società approfittano del ribasso del saggio dell’interesse per convertire le loro obbligazioni dal tipo 4 al tipo 3%; cosicché il capitalista nulla guadagna in capitale per questo ribasso, salvoché i titoli stessero prima al disotto della pari. Ad ogni modo, durante questi periodi, il risparmiatore non deve temere un ribasso nel valore capitale dei suoi titoli a reddito fisso.

 

 

Finalmente, quando si dice che le azioni sono preferibili alle obbligazioni perché presentano minor rischio di deprezzamento e maggiori probabilità di aumento di dividendo, si suppone che si tratti sempre di azioni buone come di obbligazioni buone. La teoria della preferibilità delle azioni alle obbligazioni è un po’ come la teoria della distribuzione geografica dei propri impieghi, un’altra dottrina assai raccomandata oltralpe. Sono tutte teorie buone, purché si sappiano innanzi tutto scegliere titoli buoni. Nel presente periodo storico, e finché le circostanze non mutino, l’azione di una impresa bancaria, industriale, ferroviaria di prim’ordine, bene amministrata, prudentemente diretta è preferibile all’obbligazione della stessa impresa od anche al titolo di rendita di uno stato di prim’ordine. L’azione buona può essere feconda di dividendi migliori e di aumento nella capitalizzazione; l’obbligazione anche ottima presenta il rischio di deprezzamenti nel valor capitale, se il saggio di interesse aumenta sul mercato e di una conversione, se il saggio scema. Ma… c’è un ma formidabile. Il risparmiatore medio e specialmente piccolo e mediocre è in grado di distinguere abbastanza facilmente le obbligazioni o le cartelle od i titoli di rendita buoni da quelli cattivi; ed è relativamente poco frequente il caso di obbligazioni il cui valore dimezzi o scompaia addirittura per insolvenza del debitore. Se un’impresa va a male, gli azionisti sono i primi a perdere; mentre gli obbligazionisti, che sono creditori, hanno maggiore speranza di ricuperare il loro capitale. Il cimitero delle azioni di imprese andate a male, gonfiate nei periodi di febbre speculativa e poi sgonfiate, è vastissimo; mentre è assai più ristretto il sepolcreto dei titoli a reddito fisso divenuti carta straccia. Stati e privati sanno per esperienza che è conveniente far onore alla propria firma e pagare i debiti. Perciò i risparmiatori prudenti e diffidenti preferiscono digiunare con le obbligazioni e con i titoli di rendita piuttosto che banchettare con le azioni.

 

 

Tra le quali opinioni opposte non si può dare una sentenza buona per tutti i casi. Bisognerebbe tener conto anche di molte altre circostanze, sapere se le obbligazioni sono perpetue od a lunga scadenza od a scadenza breve, conoscere i bisogni individuali e speciali di ogni risparmiatore; sapere se si tratta di borse piccole, modeste o grandi. Forse la regola migliore è questa: avere un portafoglio misto di obbligazioni e di azioni, in cui la proporzione di queste ultime cresca quanto più il risparmiatore ha larghi mezzi finanziari e sicure maniere di essere informato sulla situazione esatta delle imprese a cui partecipa. Per le borse modeste, il deposito alla cassa di risparmio, il buono del tesoro a scadenza certa ed a capitale in cifra sicura, il prestito ipotecario con largo margine, l’obbligazione o cartella fondiaria ed industriale quotata in borsa ed a scadenza non troppo lontana, sono ancora gli impieghi preferibili, sebbene non diano brillanti promesse di redditi crescenti e di aumenti di valor capitale.

Imposte patrimoniali. Imposte sul reddito e debito pubblico.

Imposte patrimoniali. Imposte sul reddito e debito pubblico.

«Corriere della Sera», 30 giugno[1] e 13 luglio[2] 1913

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 531-546

 

 

 

 

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Parecchi governi dei maggiori stati del mondo si trovano nel momento presente di fronte al problema come far fronte alla spesa straordinaria richiesta dai nuovi programmi militari e navali, oltreché dall’attuazione dei programmi di pensioni e di assicurazioni popolari deliberati nel decennio scorso. Tipico, anche per la somiglianza della cifra, è il contrasto fra Germania e Francia; le quali stanno oggi ambedue discutendo intorno alla maniera migliore di far fronte ad una spesa straordinaria di circa un miliardo di lire. Era 1 miliardo di marchi in Germania; ma lungo il dibattito la cifra si ridusse ad 1 miliardo di franchi (800 milioni circa di marchi); mentre il fabbisogno francese saliva da 860 milioni a 1 miliardo di franchi. Quasi identica la cifra del fabbisogno; ed opposti i mezzi scelti: in Germania un’imposta straordinaria sul patrimonio di 1 miliardo; in Francia debiti per altrettanto. Trascuriamo per ora il fatto che l’imposta scelta fu in Germania quella sul patrimonio; della quale scelta si vedrà altra volta il significato. Per ora si contrapponga solo il fatto tedesco dell’imposta al fatto francese del debito.

 

 

Corrono a questo riguardo nell’opinione pubblica molti errori, tra cui principalissimo quello di ritenere che l’imposta sia sopportata dalla generazione attuale, mentre il debito sarebbe un mezzo di accollare una spesa attuale alle generazioni future. La quaI credenza è un manifesto errore, poiché è vero che, se Tizio deve pagare una imposta straordinaria di 1.000 lire, egli rimane privo di questa somma subito ed è chiarissimo che essa è pagata da lui immediatamente. Ma è anche vero che, se il governo non gli impone alcun balzello e fa un debito di altrettanto con un capitalista qualunque al 4%,Tizio dovrà pagare ogni anno una imposta di 40 lire affinché l’erario possa far fronte all’onere degli interessi al 4% sul debito di 1.000 lire che ha contratto col capitalista. Dunque Tizio, se il governo ricorre al debito, conserva nel suo patrimonio le 1.000 lire; ma a che gli giovano se le 40 lire di reddito che esse gli danno le deve pagare all’erario a titolo di imposta affinché il tesoro possa far fronte all’onere del debito contratto? Se c’è una verità sicura è questa: che Tizio, qualunque sia il metodo scelto, perde subito, egli Tizio in persona e non i suoi figli o nipoti, 1.000 lire; coll’imposta le perde, perché le deve pagare senz’altro al fisco; col debito le perde ancora perché, sebbene in apparenza le conservi, deve pagarne il reddito al fisco alfine di mettere questo in grado di far fronte agli interessi del debito pubblico; ed un capitale di 1.000 lire, il cui reddito va a favore del fisco, è un capitale per il fisco e non più per il contribuente.

 

 

Quanto alle generazioni venture è meglio lasciarle in pace; coll’imposta esse non ricevono più le 1.000 lire che il loro autore ha dovuto pagare al fisco; col debito pubblico, esse ricevono bensì il patrimonio fisicamente intatto sotto forma di fondo rustico, di casa, di azienda industriale, di azioni od obbligazioni; ma, poiché lo ricevono gravato di una maggiore imposta di 40 lire annue, dovuta alla già detta necessità di far fronte agli interessi del debito, così il patrimonio, fisicamente integro, ha un minor valore economico di 1.000 lire. Per le generazioni venture se non è zuppa è pan bagnato; esse in ogni caso ricevono dalla generazione attuale un patrimonio diminuito di 1.000 lire. Del che del resto non hanno ragione di lamentarsi: ogni generazione avendo il diritto di disporre come crede del proprio patrimonio, conservandolo, distruggendolo od aumentandolo; e potendo, per il raffinarsi viemmaggiore dello spirito di previdenza negli uomini, farsi un fondato assegnamento sul progredire della ricchezza che ogni generazione lascia in eredità alle successive.

 

 

Non dunque la Francia si distingue dalla Germania per aver voluto rigettare la prima l’onere del miliardo sulle nuove generazioni e per esserselo accollato la seconda. Ambedue spendono il miliardo oggi ed ambedue lo pagano con una diminuzione d’altrettanto del loro patrimonio attuale. In ambe le nazioni, i figli ed i nipoti erediteranno un miliardo di meno, se a ricostituirlo col risparmio non avranno pensato per tempo i genitori attualmente viventi.

 

 

Le differenze tra i due sistemi sono ben altre; ed io cercherò di esprimerle facendo parlare un francese ed un tedesco immaginari che, avendo riflettuto sull’argomento, vengono a dirci le ragioni del diverso operare dei loro governanti.

 

 

Dice il francese: io preferisco prendere a prestito un miliardo, perché in tal modo il miliardo costa di meno ai contribuenti. La contesa è vecchia e già la dibattevano dinanzi al gran re Luigi XIV i suoi ministri; ma sempre i governi francesi preferirono ricorrere al debito. Ancora per pagare le spese della guerra del 1870 – 71 e l’indennità dei 5 miliardi, finanzieri celebri, come il Say, preferirono il debito. Fatti i conti, esso è meno costoso dell’imposta straordinaria.

 

 

Ed invero: quanto costa un debito di 1 miliardo di lire al 3,75%, che è il tasso netto che pare dovrà pagare l’erario francese sul prestito che si sta ora meditando? Nulla più di 37,5 milioni di lire all’anno in perpetuo. Talché basterà che il governo distribuisca sui contribuenti un onere cresciuto d’imposta di 37,5 milioni di lire all’anno per far fronte all’onere del debito.

 

 

Ove invece si ripartisse subito un’imposta straordinaria di 1 miliardo di lire, che cosa accadrebbe? Tizio, capitalista, pagherebbe facilmente le 1.000 o le 10.000 o le 100.000 lire di imposta straordinaria a lui afferente e perderebbe, sul capitale così pagato al fisco, solo gli interessi normali che avrebbe lucrato, se quel capitale gli fosse rimasto ed egli avesse potuto impiegarlo direttamente. Se egli non è capace di far fruttare il suo capitale più del 3,75%, egli nulla perde pagando l’imposta straordinaria. Ma se gli fosse in grado di far rendere al capitale il 4 od il 5%, evidentemente l’imposta straordinaria gli cagiona, per ogni 100 lire, una perdita di 4 o di 5 lire; mentre il metodo del debito pubblico gli farebbe subire una perdita di sole lire 3,75 %.

 

 

Peggio accade, coll’imposta, per Caio, proprietario di terreni o case od industrie. A costui nulla importa di pagare 375 lire all’anno di maggiori imposte in perpetuo per permettere all’erario di pagare gli interessi del debito. Ma pagare 10.000 lire subito di imposta straordinaria gli dà gran noia. Dovrebbe vendere una parte del terreno o della casa o privarsi del capitale d’esercizio dell’industria. Non potendo far ciò, egli prenderà a prestito le 10.000 lire; ma non le otterrà a così buon mercato come il governo: invece del 3,75%, dovrà pagare, anche dando ipoteca, il 4, il 5 od il 6 percento. Il credito dello stato, nei paesi civili, è sempre migliore di quello dei privati. Quindi l’onere di Caio sarà di 400, 500, 600 lire all’anno di interessi sul debito privato di 10.000 lire contratto allo scopo di pagare l’imposta straordinaria. Peggio ancora volgono le cose per Sempronio, impiegato o professionista avente un reddito discreto, non esente da imposta. Per costui è certo più conveniente pagare 375 lire all’anno a causa di una piccola imposta stabilita per pagare gli interessi del debito pubblico, che 10.000 lire di imposta straordinaria una volta tanto. A pagar questa si troverebbe gravemente imbarazzato; dovrebbe ricorrere a prestiti sulla parola, garantiti al più da polizze di assicurazione sulla vita e dovrebbe pagare il 6, 7 od 8% all’anno di interessi.

 

 

Conclude perciò il mio francese immaginario: l’imposta straordinaria non esclude il debito; ma il debito, invece di essere uno solo e di essere contratto dal governo alle più miti condizioni a cui si può trovare il denaro sul mercato (per esempio il 3,75 %), si fraziona in moltissimi piccoli debiti, contratti da ognuno di coloro che, essendo soggetti all’imposta straordinaria e non avendo il contante subito disponibile, devono prenderlo a mutuo da capitalisti al 4, 5, 6, 7, od 8 percento. Ed anche ove si ammetta che tutti i contribuenti abbiano – il che non è vero in moltissimi casi – il contante disponibile per pagare l’imposta straordinaria, noi togliamo ad ogni modo ai contribuenti un capitale che essi saprebbero far fruttare il 4, 5, 6, 7% e cagioniamo loro un danno inutile. La Francia preferisce oggi, come ha preferito in passato, il debito di 1 miliardo all’imposta di 1 miliardo, perché il debito cagiona un onere annuo di 37,5 milioni di lire, mentre l’imposta è fonte di una perdita di 40 o 50 e forse più milioni di lire. Il debito è il metodo più perfetto per ridurre al minimo il gravame delle spese straordinarie, ricorrendo a quei capitalisti che sono più timidi di tutti, o meno capaci di utilizzare direttamente i propri risparmi e che quindi sono disposti a cederli allo stato al massimo buon mercato possibile. A che pro vessare gli altri, quando costoro sono pronti a dare i loro denari al 3,75%?

 

 

Risponde il tedesco: ciò che il francese dimostra, è vero. Ma è solo una mezza verità. Non tiene conto dei fattori morali, che pure hanno un valore economico traducibile in lire e centesimi.

 

 

È vero che il miliardo chiesto al prestito costa solo 37,5 milioni all’anno; mentre il miliardo chiesto all’imposta costa forse 50 milioni all’anno ai contribuenti. Ciononostante io preferisco pagare 50 milioni piuttostoché 37,5 soltanto.

 

 

Innanzi tutto io so di pagare il miliardo. Sono denari che il contribuente tedesco trarrà fuori di tasca con sforzo; e che quindi è probabile siano spesi bene. Le somme ottenute a prestito sembra costino poco ai contribuenti e facilmente sono spese o sprecate con risultato talvolta incerto. Mentre si può essere sicuri che la nazione tedesca starà con occhi aperti a guardare il modo con cui il suo sudato e costoso miliardo sarà impiegato. Vorrà toccare con mano e vedere con gli occhi le armi, le navi, le fortificazioni che le saranno costate così egregia somma. Anche il contribuente francese dovrebbe fare altrettanto; poiché, in fin dei conti, pagare 37,5 milioni all’anno in perpetuo, è lo stesso come pagare 1 miliardo subito. Forse, è la stessa cosa per chi sappia ragionare e far di conti; ma per la massa è una cosa ben diversa. Di pagare 3,75 lire all’anno di più pochi si accorgono; mentre tutti avvertono di dover pagare 100 lire di più una volta tanto.

 

 

Onde il metodo del debito eccita le spese, mentre il metodo dell’imposta le frena. Noi tedeschi non abbiamo la fortuna di vivere sotto il regime della sovranità popolare. Il potere del nostro parlamento è ben più limitato della potenza delle camere francesi. Eppure la spesa straordinaria ora progettata è in Francia via via cresciuta da 800 milioni a 1 miliardo. I deputati, sapendo che alle spese si provvede col debito e che le imposte, necessarie a pagare i relativi interessi, sono di là da venire e saranno relativamente poco sensibili (che cosa sono 37,5 milioni di nuove imposte per un bilancio di 5 miliardi?), vanno a gara a chiedere nuove spese e non a resecare quelle proposte dal governo.

 

 

In Germania invece, sebbene si sia quasi tutti d’accordo nel volere attuato il programma militare, la necessità di provvedervi con un’imposta ha spinto i deputati a studiare se forse qualche parte del programma non fosse di attuazione meno urgente. La paura di scontentare troppo i contribuenti ha indotto a limare, a ridurre. Cosicché oggi, invece di 1 miliardo e 250 milioni di lire proposti dal governo, si spenderà forse solo 1 miliardo. In Francia i contribuenti spenderanno solo 37,5 milioni all’anno; ma del miliardo di debito, forse 200 milioni avranno un’impronta vagamente elettorale. Mentre in Germania il miliardo sarà speso per fini ritenuti improrogabili dall’opinione pubblica dei contribuenti, resi meditabondi dalla necessità di pagare.

 

 

Il sistema tedesco è metodo virile di chi vuole raggiungere un fine ed è pronto a pagar subito per dimostrare che quel fine non è voluto per un’aspirazione vaga, intellettuale, ma per un bisogno concreto, imperioso. È il metodo atto a creare il controllo della spesa pubblica ed a garantire che all’onere dei contribuenti corrisponderà l’importanza del servizio reso dallo stato. Soltanto l’imposta è sana e purificatrice, perché richiama i parlamenti al loro dovere primissimo, purtroppo dimenticato nei tempi moderni, di contrastare il passo alle proposte di spese dei governi, in guisa non di impedire le spese reputate sul serio necessarie dall’opinione pubblica, ma di far cadere nel nulla quelle che hanno soltanto ragioni fittizie od elettorali.

 

 

La preferenza per il sistema tedesco non significa ancora che esso sia sovra ogni altro eccellente, né che esso possa essere adottato da solo. Nel 1870 – 71 bene avrebbe fatto la Francia a ricorrere più coraggiosamente agli inasprimenti d’imposta per salvare la patria. Ma sarebbe stato necessario un governo forte e tale non era il governo imperiale. Né, del resto, un governo forte sarebbe riuscito a trarre dall’imposta i 7 od 8 miliardi necessari. Onde si può concludere: si ricorra all’imposta fino a raggiungere la pressione tributaria massima e solo per il resto si faccia appello al credito.

 

 

Quando, s’intende, non sia possibile ricorrere ad un terzo metodo, che Germania e Francia non si sono neppure proposte; ed è quello proprio dei governi veramente forti e dei parlamenti scrupolosamente vigili: l’economia sulle spese ordinarie. I bilanci degli stati moderni, mostruosi bilanci di miliardi, celano nelle proprie pieghe tante spese inutili e prorogabili, da consentire quel risparmio di 100 o 200 milioni di lire all’anno, che basterebbe a rimborsare in pochi anni il debito provvisorio di 1 miliardo che occorresse di fare per gravi emergenze nazionali. Così fecero in Italia dopo il 1896 i ministeri che si dissero della lesina; e diedero al mondo un esempio memorabile. Darà l’Italia di nuovo esempio siffatto? Giova sperarlo, sebbene l’elogio delle economie sia oggi poco gradito ai popoli, abituati al facile spendere dal rialzo dei prezzi e dei redditi, che è caratteristico dell’età presente.

 

 

2

 

Per provvedere alle spese straordinarie è pressoché generale la opinione della opportunità di far gravare le nuove imposte sulle classi abbienti, esentandone quelle meno fortunate. Così affermò l’on. Giolitti alla camera italiana, consentendo nelle idee espresse dall’on. Alessio; e così vollero Lloyd George in Inghilterra, Wilson negli Stati uniti, ed ora i governi di Germania e di Francia. La quale concorde opinione deriva dall’essere i governanti persuasi che i piccoli redditi sono già troppo gravati dalle imposte sui consumi, sicché non presentano più alcun margine all’imposta.

 

 

La espressione «classi abbienti» non va presa in senso troppo ristretto, in guisa da comprendere solo i ricchi. Una imposta che colpisca solo i ricchi darebbe un gettito così meschino, da non poter far fronte con essa alla spesa necessaria. In Germania la nuova imposta patrimoniale colpisce tutti coloro che hanno redditi da 5.000 marchi in su (6.250 lire); ed in Italia, tenuto conto del diverso grado di ricchezza, per avere proventi apprezzabili, converrebbe cominciare almeno dalle 3.000 lire, se non forse da più basso. Tanto varrebbe, altrimenti, mettere le imposte a semplice scopo decorativo e retorico. In Germania ben a ragione si notò dal governo che le classi medie dei piccoli commercianti, industriali, impiegati, professionisti devono essere chiamate a pagare in quanto da esse partono i più vivi incitamenti alle spese belliche a cui si tratta di provvedere. Poiché vogliono la spesa, contribuiscano a pagare il conto.

 

 

Fatta la quale premessa, notisi che l’imposta auspicata, gravante sulle

classi abbienti, definite nel modo che s’è detto, si può ottenere in diverse maniere: con le imposte cosidette sui consumi, con le imposte sui redditi e con quelle sul patrimonio. In fondo tutti questi sono puri nomi, a cui corrisponde un identico contenuto. Tutte le imposte gravano e non possono non gravare sul flusso di ricchezza che ogni anno i contribuenti acquistano e destinano ai loro consumi. I legislatori ed i trattatisti si sono sbizzarriti a dare alle diverse imposte un numero incredibilmente diverso di nomi; ma facilmente si può dimostrare che tutte le imposte si convertono una nell’altra; e che il giudizio che se ne deve dare non dipende affatto dal nome che ad esse si è dato. Le imposte sui consumi, non sempre a torto, hanno un nome antipatico; ma si possono dare ottime ed eque imposte sui consumi; mentre esistono pessime imposte sui redditi, malgrado il loro nome simpatico. Qui si dirà solo come nei diversi paesi oggi si cerchi di utilizzare per i nuovi bisogni le une e le altre imposte sovra elencate.

 

 

Negli Stati uniti il presidente Wilson propone, oltre una imposta sul reddito, una riforma in senso fiscale delle imposte sui consumi. La qual riforma, sebbene conchiuda all’abolizione di molti dazi non fiscali ed all’aggravamento di taluni consumi, tutti concordemente ritengono essere utile alle classi meno fortunate.

 

 

Per non discendere a particolari tecnici ingombranti ricorderò che qualcosa di simile aveva proposto l’on. Giolitti alla fine del 1909 per gli zuccheri. Oggi i fabbricanti italiani di zucchero pagano 73 lire per quintale di imposta al fisco; ma aumentano il prezzo dello zucchero ai consumatori di 99 lire, perché tale è il dazio che dovrebbe pagare lo zucchero estero se volesse venire in Italia; onde i fabbricanti interni possono aumentare il prezzo di 99 lire, invece che delle sole 73 lire realmente pagate, essendo sicuri che non subiranno la concorrenza dei fabbricanti esteri, i quali, volendo entrare in Italia, dovrebbero pagare 99 lire. Talché essi, facendo pagare ai contribuenti-consumatori 99 lire e pagando al fisco solo 73 lire, godono la differenza di 26 lire per quintale. Suppongasi ora che il governo conservi intatte le 99 lire di dazio sullo zucchero estero; ma aumenti da 73 a 99 lire l’imposta sullo zucchero interno. I consumatori non subiscono alcun danno, perché essi già vedevano accresciuto su di sé il prezzo di 99 lire; né, dopo, il prezzo può essere accresciuto, perché altrimenti il consumo italiano si rivolgerebbe allo zucchero straniero. Il fisco, il quale oggi incassa 73 lire su 1.500.000 quintali di zucchero consumati ogni anno in Italia, incasserebbe domani 99 lire, ossia 26 lire di più per quintale ed in tutto 39 milioni di lire in più. Che cosa sarebbe accaduto? Che oggi i consumatori pagano già questi 39 milioni, ma li pagano all’industria zuccheriera italiana; e domani li pagherebbero al fisco. Senza aumentare di un centesimo l’onere dei contribuenti, il fisco avrebbe 39 milioni all’anno di più di entrata.

 

 

S’intende che tutto ciò non può farsi di un tratto; né il signor Wilson negli Stati uniti vuol togliere d’un colpo alle industrie tutta la protezione di cui godono. Da uomo sensato, procede a gradi. Né il metodo seguito è sempre quello sovra indicato; per lo più anzi consiste nel processo inverso: di lasciare stare l’imposta interna a 73 o magari ridurla, e di ridurre a grado a grado il dazio doganale da 99 a 73; avvantaggiando i consumatori subito per il ribasso di prezzi ed alla lunga anche il fisco per l’aumento del consumo soggetto a tassa.

 

 

Sono molte le imposte sui consumi che possono essere utilizzate anche volendo escludere il carico sulle classi diseredate: in Francia oggi si aumentano le tasse sugli spiriti; e così pure fece Lloyd George in Inghilterra in occasione del suo famoso bilancio. Anche in Italia l’on. Luzzatti aumentò di 70 lire per ettanidro le imposte sugli spiriti; ed altre diecine di milioni potrebbero ancora estrarsi da questo balzello. Il quale per definizione non grava sulla povera gente. Può dirsi in fatto disagiato e vero proletario colui il quale consuma i propri redditi in bevande alcooliche?

 

 

Il consumo di servitori, cani, cavalli, carrozze, automobili, divertimenti, giuochi, teatri, cinematografi, ecc. ecc., può offrire largo campo alla tassazione; e solo un pregiudizio di nomenclatura può far parere condannabili queste imposte, le quali invece sono le ottime fra tutte, o quelle che meglio attuano i postulati della più pura eguaglianza tributaria.

 

 

Paiono tra loro profondamente dissimili i due altri tipi di imposta che all’estero si vanno escogitando nel momento attuale per far fronte alle crescenti spese: l’imposta sul patrimonio tedesco e l’imposta sul reddito americano. I pappagalli tributari italiani sono rimasti perplessi, né sanno quale delle due sia più «moderna» e preferibile. Probabilmente finiranno coll’invocare l’attuazione di ambedue, a maggior gloria dello spirito d’imitazione della classe politica italiana.

 

 

Sia consentito umilmente di notare che noi in Italia possediamo un’imposta sul reddito – volgarmente conosciuta sotto il nome di imposta di ricchezza mobile – che teoricamente è assai più perfetta della nuova imposta americana sul reddito del Wilson ed anche della famosa inglese income tax e praticamente più adatta alle nostre abitudini dell’imposta tedesca sul patrimonio.

 

 

In che cosa invero differiscono una imposta sul reddito ed una sul patrimonio? Facciamo un caso semplice per non imbrogliare il problema. Una imposta uniforme del 10% sul reddito porta via 500 lire all’anno, tanto a Tizio, capitalista proprietario di un patrimonio di 100.000 lire che rende 5.000 lire all’anno, quanto a Caio, industriale, la cui azienda vale 50.000 lire e rende altresì 5.000 lire all’anno, quanto ancora a Sempronio, professionista, che non ha alcun capitale e che col lavoro suo guadagna 5.000 lire all’anno. Di questo tipo è la imposta americana Wilson – salvo il fatto che l’aliquota è solo dell’1% per i redditi superiori a 20.000 lire (gli inferiori sono addirittura esenti) e sale al massimo del 4% per la parte di reddito che sta sopra le 500.000 lire all’anno – e di questo tipo è stata, fino ad una recentissima riforma del signor Asquith, la celebre imposta inglese sul reddito (income tax). Ognun vede che, malgrado cotali illustri esempi, l’imposta è grossolana e viziosa. Tizio, Caio e Sempronio hanno bensì lo stesso reddito apparente di 5.000 lire; e può sembrare che sia corretto far pagare 500 lire d’imposta ad ognun di essi. In realtà il loro reddito effettivo è ben diverso. Tizio ha un reddito non solo apparente, ma benanco effettivo di 5.000 lire, perché egli, possedendo già un capitale di 100.000 lire, impiegato in modo sicuro al 5%, è certo di avere per sé ed i suoi figli, nonostante malattie, vecchiaia e morte, le 5.000 lire di reddito. Caio, industriale, ha un’azienda che vale solo 50.000 lire, perché si sa che il reddito di 5.000 lire all’anno diminuirebbe assai il giorno in cui egli ammalasse o per vecchiaia fosse impotente al lavoro o morisse. Egli, se vuole provvedere che in queste contingenze il suo reddito non diminuisca troppo e la sua famiglia non si trovi nelle strettezze, dovrà ogni anno risparmiare 1.000 – 2.000 delle 5.000 lire del cosidetto suo reddito di 5.000 lire, il quale si ridurrà quindi a 4.000 o 3.000 lire effettive. Ancor più dovrà risparmiare il professionista, che non possiede alcun capitale e tutto il suo reddito trae dal lavoro. Se egli ammala od invecchia o muore, senza avervi provveduto col risparmio, cessa del tutto di avere reddito. Quindi per lui il vero reddito non è di 5.000 lire, ma solo di 3.000 lire o forse meno. Reddito non è ciò che si potrebbe spendere rimanendo domani nell’inopia e decadendo ad una situazione sociale inferiore; ma è ciò che si può spendere, dopo aver provveduto all’avvenire. Od almeno, ove non si vogliano fare questioni di parole, reddito imponibile agli effetti delle imposte sul reddito non possono essere le 5.000 lire in tutti i tre casi, ma le 5.000 per Tizio, le 4.000 per Caio e le 3.000 lire per Sempronio. Le imposte, come quella americana del Wilson o quella inglese prima dell’Asquith, le quali non tengono conto della differenza tra redditi apparenti e redditi effettivi, sono gravemente scorrette.

 

 

La nostra imposta di ricchezza mobile, la quale, checché dicano i pappagalli, è una imposta sul reddito sotto certi rispetti assai meglio congegnata delle straniere – i suoi difetti sono tutti pratici e stanno nell’altezza inverosimile della aliquota (20%) e nella tenuità eccessiva delle esenzioni e minorazioni d’imposta – ha rimediato, fino dal 1864, ai difetti delle imposte americana ed inglese, distinguendo i redditi in tre (divenute poi cinque) categorie fondamentali, corrispondenti per l’appunto ai redditi di Tizio, Caio e Sempronio. Tizio, capitalista, paga l’imposta sui 40/40 (interessi di mutui ad enti pubblici) o sui 30/40 (interessi di mutui a privati) del suo reddito; Caio, industriale o commerciante, paga solo sui 20/40 e Sempronio, professionista od impiegato, sui 18/40 (professionisti ed impiegati privati) o sui 15/40 (impiegati pubblici) del reddito. Cosicché l’impiegato pubblico con 5.000 lire di reddito, in Italia paga il 20%, che è  l’aliquota generale dell’imposta, solo sui 15/40 di 5.000 lire, ossia su 1.875 lire, rimanendo 3.125 lire immuni da imposta. Il guaio si è  che l’aliquota italiana è del 20%, e quindi Sempronio, pur pagando il 20% solo sui 15/40 del suo reddito, paga sempre assai: il 7,50% su tutto il suo reddito. Ma è un difetto pratico. Ove si riduca l’aliquota, il sistema è eccellente.

 

 

In, Germania, volendo raggiungere il medesimo intento di tassare – a parità di reddito apparente – maggiormente Tizio, capitalista, che Caio, industriale, e più questi di Sempronio, professionista od impiegato, hanno preferito adottare un altro sistema: l’imposta patrimoniale: ossia l’imposta stabilita in ragione del valore del patrimonio o del capitale posseduto dal contribuente invece che del suo reddito. Riprendendo l’esempio già fatto, sia l’aliquota del 0,50% del patrimonio. Tizio, capitalista, che possiede un patrimonio di 100.000 lire, il quale frutta 5.000 lire all’anno, pagherà il 0,50% di 100.000 lire, ossia 500 lire, e Caio, industriale, pur avendo un ugual reddito di 5.000 lire, pagherà il 0,50% solo su 50.000 lire, perché tale è  il valore capitale della sua azienda; ossia pagherà 250 lire. Sempronio, a primo aspetto, con un’imposta sul patrimonio non dovrebbe pagar nulla, perché egli è un professionista senza capitale e vive dei frutti del suo lavoro. Per non mandarlo del tutto indenne dall’imposta, il legislatore tedesco ha fatto un’ipotesi: che ai redditi di lavoro corrisponda un patrimonio personale. Sempronio guadagna 5.000 lire all’anno ed il suo lavoro, la sua perizia professionale, la sua intelligenza hanno un valore, che era fissato sul mercato al tempo della schiavitù e che ora non ha più i suoi listini di borsa solo perché la schiavitù è  abolita. Ma il legislatore tedesco stima questo valore moltiplicando, ad esempio, per 6 il reddito di 5.000 lire; onde il patrimonio personale tassabile di Sempronio viene valutato in 5.000 lire per 6 e cioè in 30.000 lire. Egli pagherà perciò il 0,50% di 30.000 lire, ossia 150 lire. Ecco come il sistema tedesco giunge allo stesso risultato a cui per altra via (della tassazione dei 40, 30, 20, 18 e 15 quarantesimi del reddito) arriva l’italiana imposta di ricchezza mobile di far pagare il massimo al capitalista puro, una cifra media all’industriale ed al commerciante che impiegano capitale misto a lavoro e il minimo al professionista ed al lavoratore, che vivono di puro lavoro.

 

 

Naturalmente i tre metodi schematici ora descritti comportano una quantità di variazioni: le aliquote, invece di essere proporzionali, possono essere progressive, ossia crescenti col crescere del reddito o del capitale; le categorie invece di essere 5, come in Italia, possono essere, nell’imposta sul reddito, solo due, come accade, dopo la riforma di Asquith, in Inghilterra, dove grossolanamente e empiricamente si distinguono solo i redditi di lavoro da quelli di capitale, senza tener conto della categoria intermedia dei redditi misti di capitale e di lavoro (industria e commercio) che ben a ragione il legislatore italiano tassa in misura intermedia.

 

 

Qui si è voluto porre in evidenza che la imposta tedesca sul patrimonio non è una novità peregrina, né risponde per se stessa ad alcun principio astratto di giustizia tributaria. È un metodo tecnicamente ritenuto preferibile in Germania per attuare il criterio di tassare i redditi di capitale più dei redditi di lavoro. Ben fecero in Germania a seguire quel metodo, poiché da tempo sono ivi assuefatti alle imposte patrimoniali; e la tecnica tributaria è in grado di valutare, anzi ha già valutato, ai fini di imposte patrimoniali esistenti nella maggior parte degli stati tedeschi, il patrimonio dei contribuenti.

 

 

Altrove è dubbia l’opportunità di usare un tale strumento tecnico. In paesi, come l’Italia e l’Inghilterra, dove le imposte esistenti colpiscono i redditi, è opportuno, ove si vogliano aumentare in modo permanente o straordinario i tributi, valersi dei congegni già noti, i quali sono altrettanto buoni come il congegno tedesco. Ed è opportuno perché  il fisco conosce già i redditi e via via ha riparato in parte alle frodi dei contribuenti ed ai propri errori di valutazione – in parte solo, essendo noto come la perfezione in queste faccende difficilmente si raggiunga – mentre il fisco da noi non conosce affatto i patrimoni; e per conoscerli dovrebbe compiere un nuovo tirocinio di qualche diecina d’anni, durante il quale le evasioni sarebbero troppo grandi. Val la pena di provocare le frodi, solo per cambiare il nome alle vecchie imposte, le quali sono sempre imposte sui redditi, sebbene dicansi sui patrimoni?

 

 

Il problema che dovrà risolvere il legislatore italiano il giorno in cui vorrà affrontare il problema della riforma tributaria è ad un tempo più semplice e più arduo di quello che si tenta di risolvere oggi altrove.

 

 

Più semplice, perché, possedendo noi già una compiuta imposta sui redditi che danno le diverse cose (terreni, fabbricati e ricchezza mobile) le quali sono produttive di reddito per le persone, basterà sommare quei redditi separati, e tassarli con un’imposta aggiuntiva (che può prendere il nome di imposta di famiglia, come a Milano, globale o complementare, come nei progetti francesi, sovrimposta come nella supertax inglese di Lloyd George) quando la somma dei redditi raggiunga, ad esempio, le 2.000 lire sterline all’anno, nette da spese e gravami d’ogni sorta, quote di assicurazione, ecc. ecc. I redditi da sommare dovranno essere quelli imponibili, ossia già ridotti, con la regola sovra descritta dei quarantesimi, da apparenti ad effettivi e depurati inoltre delle imposte particolari già pagate. L’imposta nuova o meglio la sovrimposta sarà moderatamente progressiva, ad esempio, dal 0,10% per i redditi di due o tre mila lire, al 5% per i redditi da 100.000 lire in più, avrà sovratutto per effetto di educare le classi dirigenti – ed oggi in Italia bisogna intendere per classi dirigenti non solo l’alta borghesia industriale, commerciale e redditiera,che dovrebbe pagare i tassi massimi, ma anche la media borghesia del commercio, delle professioni liberali e degli impieghi pubblici, che dovrebbe pagare i tassi medi, ed una parte ancora della piccola borghesia la quale aspira agli impieghi pubblici minori, e dei gradi più alti dei salariati pubblici e privati (operai) i quali ricevono paghe superiori, durante l’anno intiero, al minimo esente; e questi pagheranno i tassi minimi -; avrà per effetto, dico, questa sovrimposta sulla somma dei redditi, ora già tassati separatamente, di educare le classi dirigenti al pensiero che il conseguimento dei fini pubblici costa; e che non si può chiedere nessun nuovo servizio allo stato, sia un nuovo ramo di legislazione sociale, sia un aumento nella flotta o nell’esercito, sia una conquista coloniale, senza pagarne il costo mercé  un immediato aumento nella sovrimposta sul reddito complessivo. A parer mio l’imposta sul reddito complessivo è teoricamente imperfetta dal punto di vista della uguaglianza tributaria, per ragioni che qui sarebbe troppo lungo dire; ma è politicamente utile perché è mezzo assai efficace per persuadere le classi dirigenti della necessità del controllo della spesa pubblica. Che è quasi la sola ragion d’essere, ora troppo dimenticata, dei governi parlamentari.

 

 

Ma il problema è, d’altro canto, arduo per il legislatore italiano per due motivi: 1) perché una sovrimposta nuova dal 0,10 al 5% può essere fiscalmente feconda in un paese, come l’Inghilterra, dove essa si aggiunge ad imposte sui redditi separati tenui, tali che non superano il 6 – 8%, ma è di difficile applicazione in un paese dove quelle imposte separate già vanno dal 20% per i redditi mobiliari al 50% per una parte dei redditi dei fabbricati; 2) perché per colpire la somma dei redditi separati bisogna prima conoscere questi redditi separati; il che in Italia non accade per una buona parte dei redditi stessi.

 

 

Quindi il compito più urgente del fisco nel momento in che si applicherà la nuova sovrimposta sulla somma dei redditi dovrà essere quello di accertare meglio i redditi, in guisa da poterli conoscere e tassare sul serio. Il migliore accertamento si otterrà per molte maniere, tra cui sarà forse non priva di efficacia la attenuazione dell’altezza eccessiva delle attuali imposte sui redditi singoli o separati delle cose. Sembra certo invero che solo con più tenui aliquote e con accertamenti più rigorosi e meglio adatti alla materia imponibile si possa crescere il provento delle attuali imposte e rendere nel tempo stesso feconda la nuova sovrimposta sul reddito globale.

 

 

S’intende che a riuscire nell’intento gioverà anche moltissimo che cresca la materia imponibile, ossia aumentino i redditi degli italiani. Al qual proposito non pare fuor di luogo ricordare che, fra tutti gli odierni riformatori tributari, acquisterà, ove vinca la battaglia intrapresa, fama imperitura il solo presidente Wilson, come quello che non soltanto avrà istituito l’imposta sul reddito, ma colla riforma doganale in senso liberista avrà dato un impulso grandioso all’aumento della ricchezza nazionale e quindi della massa dei redditi da assoggettare in futuro ad imposta. Auguriamoci che il suo nome possa rimanere scritto nella storia della finanza accanto a quelli di Roberto Peel e di Camillo di Cavour.



[1] Con il titolo Imposta straordinaria o debito pubblico? Il contrasto tra i metodi francese e tedesco [ndr].

[2] Con il titolo Imposte sul reddito e imposte patrimoniali. Confronti tecnici stranieri ed italiani [ndr].

Scuola educativa o caleidoscopio?

Scuola educativa o caleidoscopio?

«Corriere della Sera», 18 maggio 1913[1]

Gli ideali di un economista, Edizioni «La Voce», Firenze, 1921, pp. 33-42

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 533-540

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1923-1924), vol. III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 507-514[2]

Scuola educativa o caleidoscopio?

Scuola educativa o caleidoscopio?

«Corriere della Sera», 18 maggio 1913[1]

Gli ideali di un economista, «La Voce», Firenze, 1921, pp. 33-42

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 533-540

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 507-514[2]

 

 

 

 

Chi legge la relazione che l’on. Credaro ha premesso al disegno di legge da lui proposto per le scuole medie, deve riconoscere che egli – oltre essere mosso dal generoso proposito di elevare le sorti materiali e morali degli insegnanti – ha visto nitidamente la ragione fondamentale dei mali che affliggono oggi l’istruzione secondaria. A più riprese sono messi a contrapposto il ginnasio, la ottima fra le scuole italiane, come quella in cui v’è unità di indirizzo, con un professore unico che accompagna i ragazzi attraverso le prime tre classi, li segue nel loro sviluppo intellettuale e morale, e li consegna al professore delle due ultime classi; il quale ne prosegue l’opera, in cui gli scolari sentono di avere sopra di sé un educatore, sussidiato da taluni insegnanti di materie speciali come la matematica, la storia naturale, il francese e non una variopinta teoria di professori di cose diverse, succedentisi ad intervalli di ore a cacciare nella testa degli ascoltanti le nozioni prescritte dal programma; e gli altri istituti, dai licei agli istituti ed alle scuole tecniche, «vere caserme», come efficacemente osserva l’on. Credaro, «attraverso le quali una enorme e confusa massa di scolari passa ogni anno davanti a trenta, a quaranta, a cinquanta ed anche più insegnanti, avendo quasi appena il tempo di farsi riconoscere, quasi mai quello di farsi ricordare e di ricordare; scuole, cui di necessità viene a mancare lo strumento più efficace per una vera educazione morale ed intellettuale: il contatto, cioè, continuo e personale fra maestro ed alunno nell’atto in cui l’anima ed il pensiero si formano; scuole che si reggono piuttosto colla disciplina esteriore che con quella derivata da un’azione educatrice diretta di chi insegna su chi impara».

 

 

Le quali ottime osservazioni mettono in chiaro la differenza profonda fra ciò che dovrebbe essere la scuola educatrice, come è in parte ancora il ginnasio, e la scuola caleidoscopio, come sono i licei e sovratutto le scuole tecniche e gli istituti tecnici.

 

 

Nella scuola vera i giovani dovrebbero essere educati da un professore che si potrebbe chiamare “formativo”, simile a quello che nel ginnasio è il professore unico di italiano, latino, e storia e geografia, con cui dovrebbero acquistare dimestichezza morale ed intellettuale, ed il quale dovrebbe imparare a conoscere intimamente ognuno dei suoi scolari, accompagnandoli per tutto un periodo del corso dei loro studi, ginnasio inferiore, superiore, scuola tecnica, istituto tecnico inferiore, superiore. In queste scuole gli scolari dovrebbero essere pochi, non più di venti; e gli orari dovrebbero esser brevi, non più di 12-15 ore la settimana pel professore “formativo” della classe; con l’aggiunta, al più, di 6-3 ore per gli insegnamenti particolari che il professore “letterario” non può impartire; e che è opportuno siano forniti da insegnanti specializzati. Naturalmente il tipo della scuola con insegnante unico, dovrebbe essere strettamente attuato nel ginnasio e nella scuola tecnica, mentre per le scuole superiori sembra opportuno far luogo ad una maggiore specializzazione di insegnanti, a mano a mano che il ragazzo si muta in giovane e diviene meglio capace di lavorare da sé colla mente, che fu già addestrata nelle scuole inferiori.

 

 

Il progetto Credaro tende ad attuare questo concetto della scuola, che il proponente in passato ha difeso ed oggi ancora difende ed esalta? È ragionevole il dubbio. La scuola resterà, così come è, un caleidoscopio e v’è gran pericolo che il male ognor più si aggravi per virtù delle norme che il disegno di legge vuole attuare.

 

 

Infatti:

 

 

  • nessun rimedio è portato alla lunghezza eccessiva degli orari, che vanno da 21 a 25 ore settimanali, nei ginnasi, da 24 a 25 nel liceo, da 24 e mezzo a 31 per le scuole tecniche, da 29 a 31 nella sezione fisico – matematica degli istituti tecnici, da 31 a 33 nelle sezioni di agrimensura e di ragioneria, da 25 a 30 per la sezione di agronomia. Sono orari incredibili, asfissianti, che non parrebbero veri, se non ne facessero fede le tabelle annesse ai regolamenti. Come è possibile che la scuola dia qualche frutto, quando per 5 – 6 e talvolta 7 ore al giorno gli studenti si vedono passare dinnanzi agli occhi, uno dopo l’altro, tre o quattro o forse più professori diversi, ognuno dei quali frettolosamente vende una fetta di scienza, che non ha nulla a che fare con la fetta che fu distribuita l’ora precedente, che forse contraddice a ciò che fu detto prima? Dannoso nelle scuole medie superiori, infecondo nelle università, il metodo di propinare nozioni disparate ad ore è soprattutto contrario ad ogni sana norma educativa per i ragazzi di 11-13 anni delle scuole tecniche ed è forse il motivo principale per cui queste scuole, affollatissime, perché rispondenti ad uno vero bisogno della borghesia minuta e delle classi operaie, danno frutti di tanto inferiori ai ginnasi. L’orario lungo ed il caleidoscopio dei professori convertono la scuola in una caserma, come ben dice il ministro, il cui unico scopo è quello di tener fermi per un certo numero di ore al giorno i ragazzi irrequieti, e di rilasciare alla fine dell’anno un diploma, il quale non giova neppure più a persuadere il pubblico che il diplomato abbia a scuola imparato qualcosa.

 

 

  • al malanno degli orari lunghi obbligatori per gli scolari, che il disegno di legge non toglie, questo aggiunge il malanno degli orari lunghi obbligatori per i professori. È certo che la grande maggioranza dei professori oggi invocava e desiderava gli orari lunghi e, quando poteva, giungeva alle 24 ed anche alle 28 ore settimanali; ed è certo che oggi infierisce, male ancor più deleterio, l’uso delle ripetizioni, poco decoroso per gli insegnanti e la cui utilità per gli studenti dipende soltanto dal fatto che, con scolaresche di 40 alunni, l’insegnante non può interessarsi di ognuno dei giovani, studiarne singolarmente la capacità intellettuale, aiutare in special modo i volonterosi, ma timidi o lenti ad apprendere, e stimolare gli infingardi. Gli orari lunghi, in classe, le scolaresche numerose ed il caleidoscopio degli insegnanti sono le cause per cui la più gran parte degli scolari trae scarso profitto dalla scuola e sono le cause per cui gli orari diventano ancor più lunghi, per scolari ed insegnanti, con le ripetizioni fornite a casa.

 

Il rimedio, oltre quelli già indicati, ed oltre all’aumento degli stipendi, a cui il ministro ha provveduto in misura che sembra decorosa, dato il livello medio della ricchezza italiana, doveva consistere nella proibizione ai professori di impartire più di un massimo di ore di lezione. A me sembra che 18 ore di lezione alla settimana sia il massimo che possa fare un insegnante, il quale voglia far scuola sul serio, e quindi prepararsi alla lezione, correggere i compiti coscienziosamente, ed attendere ai gabinetti di fisica o chimica; il quale, soprattutto, voglia studiare. Se il legislatore voleva davvero provvedere al bene della scuola, doveva aumentare gli stipendi, come fece; ma insieme vietare in modo assoluto agli insegnanti di far lezione oltre le 18 ore settimanali in istituti sia pubblici che privati; non solo, ma doveva proibire assolutamente di dare ripetizioni private a scolari propri od altrui. Meglio costringere all’ozio assoluto l’insegnante protervo nel non voler prendere un libro in mano, che costringerlo o permettergli di sfibrarsi in un lavoro di vociferazione, che può essere giudicato leggero solo da chi non ha l’abitudine dell’insegnamento. Aggiungo anzi che la legge avrebbe dovuto contenere clausole severissime, per quegli insegnanti che violassero il divieto di dar lezioni o ripetizioni oltre le 18 ore settimanali. Meglio l’ozio, meglio l’esercizio di una professione accessoria, che un lavoro, il quale talvolta sminuisce nella estimazione degli scolari e delle famiglie, e che, nell’ipotesi migliore, produce scadimento nella qualità delle lezioni componenti l’orario normale.

 

Il disegno di legge dell’on. Credaro va contro a questi postulati da lui medesimo ancor oggi propugnati ed alle esigenze della scuola educativa, quando, invece di vietare il prolungamento dell’orario e di porre un termine al danno delle ripetizioni private, di queste non parla, e rende obbligatorio il prolungamento dell’orario in tutti i casi fino alle 18, 21 e 24 ore e, a volontà del ministero, anche fino alle 24 e 25 ore. Esigere un minimo di lavoro in relazione agli stipendi cresciuti, è cosa ragionevole; ma sembra dannoso rendere obbligatorio un prolungamento, finora volontario, i cui risultati tutti riconoscevano dannosi alla scuola. Adesso v’era nelle scuole secondarie ancor taluno il quale rinunciava alle ore aggiunte, pur di aver tempo libero allo studio ed al cosidetto ozio intellettuale, fecondissimo tra tutte le maniere di ozio. V’era ancora qualche spirito bizzarro che rinunciava alle 150 lire all’ora, pur di aver l’orario breve ed essere in grado di fare bene le 12 o le 13 ore settimanali. Domani non più: tutti siano obbligati a far ciò che oggi molti purtroppo facevano per arrotondare lo stipendio: trascorrere in classe le 24 ore settimanali, col minimo sforzo possibile.

 

 

Per arrivare alle 24 o 28 ore volontarie, i professori delle grandi città usano oggi insistere per avere ore aggiunte nello stesso istituto od in istituti diversi, dando così origine al guaio delle classi aggiunte, a ragione deplorate dal ministro con parole vivaci, come quelle che accrescono i cattivi effetti del caleidoscopio, distribuendo gli insegnamenti a fette, tra gli insegnanti spinti dal bisogno economico a completare l’orario massimo consentito dalla legge con ore spicciole fornite a due o tre classi di istituti diversi. Domani, quello che oggi è un malanno particolare delle grandi città, diverrà una sciagura obbligatoria anche per i piccoli centri. Il professore che nel liceo ha possibilità di fare solo 12 o 13 ore della sua disciplina, dovrà andare a completare l’orario fino alle 18 ore e potrà essere obbligato a giungere fino alle 24 ore con spezzati d’orario nel ginnasio o nella scuola tecnica. Il professore di filosofia, a cui non basteranno le 6 ore del liceo, dovrà andar peregrinando per ginnasi, scuole tecniche, istituti tecnici, insegnando qua 4 ore di storia, là 5 ore d’italiano, altrove 8 ore di latino. E ciò sarà possibilissimo; poiché il disegno di legge autorizza a sopprimere posti d’organico, quando ciò sia utile al completamento d’orario dei professori che hanno sovrabbondanza d’ore. La bella unità didattica del ginnasio, tanto e così giustamente lodata dall’onorevole Credaro, correrà pericolo di naufragare: poiché il professore di prima ginnasio che ha 16 ore d’orario proprio, potrà essere costretto a completare le 24 assumendo metà delle 16 ore della classe seconda; e le 8 ore residue saranno date al professore di liceo in cerca di completamento d’orario. La confusione odierna crescerà; alcuni sballottati tra brani e residui di professori ad orario incompleto; professori in corsa perpetua tra una classe ed un’altra, tra un istituto ed un altro, con tutta la giornata occupata dalle ore di lezione e dagli intervalli inutilizzabili tra una lezione e l’altra.

 

 

Sento la replica che alle querimonie sovra elencate viene spontanea sulle labbra del lettore: la vostra scuola educativa, con orari brevi, con classi di 20 alunni, con professori a cui è fatto divieto di dar lezioni oltre le 18 ore settimanali ed a cui sono comminate pene disciplinari gravissime, se osano dare una ripetizione in casa, sia pure a scolari altrui od a scolari di nessuno, questa scuola ideale è una scuola cara. Chi ne pagherà le spese?

 

 

Se anche l’obbiezione fosse vera, io dico che sarebbe errore imporre alle 175 mila famiglie italiane, i cui figli frequentano le scuole medie, un aumento di tasse di circa 8 milioni di lire all’anno, per fornir loro una scuola meno efficace dell’attuale. L’unica ragion d’essere dell’aumento delle tasse è il proposito di fornire ai giovani ed alle loro famiglie una scuola migliore. E tale non è quella che si allontana dal tipo della scuola educativa ed accentua ognora più i caratteri della scuola – caserma, della scuola caleidoscopio.

 

 

Io nego inoltre che la scuola educativa costi molto di più della scuola – caserma. Le classi di 20 alunni richiedono orari assai più brevi delle classi di 40 alunni. Se due ore di vociferazione concitata da parte di un insegnante di passaggio non sono sufficienti a far capire un teorema ad una folla di 40, basta un’ora di dimostrazione tranquilla per renderlo comprensibile a 20 alunni, i quali da tempo abbiano acquistata dimestichezza col modo di pensare e di discorrere dell’insegnante. Dunque la scuola educativa consente gli orari brevi, e gli orari brevi, consentendo un notevole risparmio di insegnanti, permettono all’erario di pagarli meglio, senza onere eccessivo dei contribuenti. Tutto si concatena nella riforma della scuola. Perché non scegliere il metodo di spendere poco ed utilmente piuttostoché quello di spendere molto e senza vantaggio?

 

 

Se anche poi calcoli esatti dimostrassero che la scuola educativa costa di più della scuola-caleidoscopio, chi ci dice che all’uopo non possano bastare gli 8 milioni, i quali saranno forniti dalle cresciute tasse scolastiche? È vero che al disegno di legge Credaro non è unito alcun piano finanziario degli effetti della proposta riforma. Noi non sappiamo quanto frutteranno in più le nuove tasse, quale sarà il risparmio dell’erario per il prolungamento d’orario imposto ai professori e compreso nello stipendio cresciuto e quale l’onere dello stato per l’aumento degli stipendi ai professori. Analisi sommarie, compiute dal prof. Medici sull’«Unità», e dal prof. Contessa sulla mia «Riforma sociale», concluderebbero che l’erario dello stato verrebbe, dalla proposta riforma, a lucrare netti da 3 a 4 milioni di lire all’anno. Se questi calcoli sono esatti ed il metodo con cui furono condotti e la serietà degli indagatori me li fanno ritenere tali ci troviamo di fronte ad un fatto che richiede un profondo esame da parte del ministro e del parlamento.

 

 

Io credo esatta la teoria del Credaro che, in buona finanza, il maggior costo delle scuole debba essere pagato con un aumento di tasse sui frequentatori delle scuole stesse. È una distinzione elementare della scienza delle finanze quella fra tasse ed imposte; chiamandosi tasse quelle che sono volontariamente pagate da certe persone (per esempio, alunni), per ottenere un servizio di vantaggio particolare per essi (per es., istruzione secondaria); ed imposte quelle che sono obbligatoriamente pagate da tutti i cittadini per provvedere ai servizi generali che tornano di vantaggio, in modo indivisibile, a tutti i membri della collettività (per esempio, imposte sui redditi o sui consumi per provvedere ai servizi generali della difesa, giustizia, sicurezza, ecc.). Sarebbe scorretto che il miglioramento di un servizio come quello scolastico, il quale torna di vantaggio a determinate persone, non fosse pagato con le tasse di coloro che volontariamente si iscrivono alle scuole; ma con le imposte di coloro che per obbligo di legge sono privati di parte del loro reddito o vedono crescere il costo dei loro consumi per far fronte alle spese generali ed indivisibili dello stato.

 

 

Perciò io credo corretto l’aumento delle tasse scolastiche. Ma se è vero che l’aumento delle tasse non va tutto a favore della scuola, ma lascia parecchi milioni di utile all’erario, verrebbero per un altro verso ad essere violati i sani principi finanziari. Gli scolari pagherebbero invero tasse esuberanti ai fini della scuola; le quali, col loro sopravanzo, verrebbero ad alleggerire il peso dei contribuenti per i servizi generali. Le spese della guerra, della marina, della giustizia, del debito pubblico, dei servizi civili devono essere sopportate da tutti i contribuenti; e non v’è alcuna ragione per cui i padri di famiglia, oltre a contribuire, come tutti gli altri contribuenti, con le imposte, a tali spese, siano chiamati a dare inoltre un contributo speciale sotto colore di tasse scolastiche. I vecchi trattatisti usavano chiamare “odiosa” ogni imposta gravante su una particolare classe di contribuenti ad esclusione degli altri, che pure traggono beneficio dalla spesa. Si provveda dunque ad allestire un piano finanziario preciso e rigoroso della proposta riforma delle scuole medie; e, se si constati che il piano lascia un margine a favore dell’erario, lo si faccia scomparire, o diminuendo i proposti aumenti di tasse, ovvero, ciò che sarebbe preferibile, avviando la scuola verso il tipo della scuola educativa. I padri di famiglia italiani saranno ben lieti di pagare le tasse cresciute, quando si darà loro affidamento che la scuola si avvia ad essere, non più luogo di mortificazione e di corsa al diploma, bensì fonte di letizia e di sapere.



[1] Con il titolo Scuola educativa o caleidoscopio? (A proposito del disegno di legge Credaro) [ndr].

[2] Con il titolo La crisi scolastica e la superstizione degli orari lunghi. Scuola educativa o caleidoscopio? [ndr].

La tutela del risparmio

La tutela del risparmio

«Corriere della Sera », 26 aprile[1], 5 maggio[2] e 22 maggio[3] 1913

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 515-530

 

 

 

 

1

 

Recenti clamorosi incidenti, di cui il principalissimo fu quello della Banca di Varese, hanno richiamato l’attenzione del pubblico e dei governanti sulla eventuale convenienza di esercitare una sorveglianza sui risparmi affidati ad istituti di credito, banche popolari, casse rurali ed altre maniere di società bancarie, non assoggettati alle regole che vincolano le casse ordinarie di risparmio. Un articolo 6 di un disegno di legge presentato dall’on. Nitti nella seduta del 19 febbraio scorso intorno al «riordinamento dei servizi del ministero di agricoltura, industria e commercio» si propone appunto di iniziare l’opera di sorveglianza dello stato sui risparmi affidati ad istituti privati.

 

 

Confesso che l’avere appiccicato questo articolo 6, come altri articoli sostanziali riflettenti altre materie, ad un disegno che ha carattere amministrativo e si riassume nella solita revisione degli organici, con relativo incremento della burocrazia nostra sovrana, non sembra un espediente adatto a provocare una attenta discussione del nuovo principio che viene introdotto nella nostra legislazione. Trattasi di una norma che assoggetta le banche in genere, finora libere, alla sorveglianza governativa; norma che moltissimi legislatori non hanno mai voluto sancire e che alcuni pochi hanno approvato solo dopo matura discussione. Volerla far approvare in Italia come se si trattasse di una semplice formalità amministrativa attinente agli organici di un ministero è andar contro alla realtà e può far presumere, ciò che non è, ossia che si voglia evitare sull’argomento un’ampia discussione.

 

 

Confesso altresì che, nell’esaminare il contenuto della norma nuovamente proposta, non posso sottrarmi ad un ragionevole scetticismo; essendo evidente la quasi impossibilità di escogitare cautele che sul serio possano tutelare i risparmi che il pubblico vuole affidare altrui. La miglior tutela deve essere la prudenza e la oculatezza del risparmiatore; e queste qualità non sono in alcun modo sostituibili dalla prudenza e dalla oculatezza di sorveglianti governativi. Lo stato non può tutelare al cento per cento i risparmi se non dando la propria garanzia per il rimborso. Il che fa già colle sue casse postali di risparmio; e non è opportuno faccia per i risparmi depositati presso enti semi – pubblici o privati indipendenti dall’amministrazione governativa. Perché «garantire» per conto altrui, impone l’obbligo di sorvegliare, guidare, ordinare, ossia sostituirsi agli amministratori delle casse e delle banche; nel qual caso meglio gioverebbe – se non fosse per altri motivi assurdo e dannoso – proibire senz’altro a tutti di accettare risparmi, avocandone il monopolio allo stato. Lo stato non solo non può «garantire» i risparmi, ma non può nemmeno esercitare una sorveglianza siffatta che implichi una qualsiasi sua responsabilità nella gestione degli istituti sorvegliati. Dappertutto dove gli stati sorvegliano, si è avuto cura di sorvegliare in modo che la sorveglianza non significasse affidamento dato ai risparmiatori che i loro denari sono siffattamente tutelati dallo stato da non correre più nessun pericolo. Siffatto affidamento, qualora si radicasse nella mente dei risparmiatori: 1) implicherebbe una responsabilità, almeno morale, dello stato nelle eventuali perdite; 2) indurrebbe i risparmiatori a non esercitare essi quella prudenza che sola è massimamente efficace; 3) confonderebbe gli istituti buoni coi cattivi, tutti egualmente sorvegliati, e darebbe modo ai poco onesti di accaparrare i risparmi degli ignari, mettendosi quasi sotto l’egida della tutela dello stato.

 

 

Data la necessità di eliminare da essa qualsiasi responsabilità finanziaria o morale, la sorveglianza dello stato non può essere che formale, direi quasi esteriore, rivolta ad accertare l’esistenza di certi estremi che si suppongono a priori costituire una garanzia per i risparmiatori. L’articolo 6, difatti, proposto dal ministero, dice:

 

 

1)    che gli istituti di credito commerciale, i quali raccolgono depositi a risparmio in misura cosidetta «non eccessiva» ossia non superiore al triplo della somma costituente l’importo complessivo del loro capitale e del loro fondo di riserva, continueranno a godere del regime di assoluta libertà;

 

 

2)    che gli istituti, i quali raccolgono depositi a risparmio in misura superiore al triplo e non superiore a dieci volte l’ammontare del capitale e delle riserve, saranno sottoposti alla vigilanza del ministero di agricoltura, industria e commercio, vigilanza limitata però al potere di fare eseguire ispezioni periodiche e straordinarie agli istituti;

 

 

3)    che gli istituti, i quali superino coi depositi la proporzione di dieci volte l’ammontare del capitale e delle riserve, oltre alla vigilanza, saranno soggetti all’obbligo di devolvere a riserve i due terzi degli utili annuali. L’istituto che non osservasse questa norma dovrà, a richiesta del pubblico ministero, porsi in liquidazione.

 

 

Sono norme, come si vede, formali, esteriori, le quali nulla possono assicurare intorno alla solvibilità effettiva degli istituti raccoglitori di risparmio, e solo si limitano a stabilire dei rapporti numerici fra capitale e riserve da un lato e depositi a risparmio dall’altro. Non si avrà così una garanzia efficace per i risparmi e si imporranno pastoie dannose alle banche ordinarie e private e sovratutto alle banche e casse medie e piccole, di cui moltissime, specie nel campo del credito cooperativo o popolare, sono riuscite ad attrarre depositi in cifra superiore al triplo del capitale e delle riserve. Il progetto, se lascia perciò indifferenti le grandi banche, è importantissimo per i medi istituti, la cui esistenza e così necessaria ad impedire il monopolio di talune poche grandi banche ed a sovvenire ai bisogni del minuto commercio, dell’agricoltura e dell’industria media e piccola. Né a caso ho aggiunto «banche private»; poiché, secondo la dizione dell’articolo 6, sfuggiranno all’obbligo dei rapporti fissi legali solo i banchieri singoli esercenti da soli l’industria bancaria. Le società in nome collettivo, le società in accomandita semplice dovranno lasciare visitare i loro libri dagli ispettori governativi, i quali vorranno accertarsi se esse abbiano depositi «a risparmio« e se questi non superino tre volte o dodici volte l’ammontare montare del capitale e delle riserve. E siccome il disegno di legge parla in genere di «società commerciali» e non di «banche», che del resto sarebbero enti difficili a defnirsi, così è inevitabile che la burocrazia col tempo accampi la pretesa di esaminare i libri di qualunque società commerciale anonima, in accomandita semplice o per azioni, in nome collettivo, esercitante qualunque industria o commercio, per accertarsi che essa non riceva depositi, e che i depositi ricevuti non siano «a risparmio» ma in conto corrente, ecc. ecc. Sono numerosissime le società commerciali che hanno depositi passivi in conto corrente. Stiano attente ai pericoli di cui l’articolo 6 può insidiosamente essere fecondo anche per esse!

 

 

Altre osservazioni si presentano spontanee alla mente; e qui le riferirò sommariamente:

 

 

1)    lI rapporto fra capitale e depositi è uno solo dei fattori di sicurezza di una banca. A parità di altre condizioni, se due banche hanno amendue 10 milioni di depositi, sembra più sicura quella che possiede 5 milioni di capitali propri di quella che ne possiede soltanto uno. Il guaio si è che le altre condizioni possono essere tali e tante che la cifra aritmetica del capitale finisce di perdere ogni importanza. È difficile che una banca fallisca perché aveva un capitale troppo scarso in confronto ai depositi; mentre il fallimento è dovuto di solito al fatto che i dirigenti hanno amministrato male il capitale piccolo ed i depositi grossi; ed avrebbero ugualmente amministrato male il capitale grosso ed i depositi scarsi. La vera garanzia dei depositi non sta nell’esistenza di un notevole capitale; poiché il capitale può essere stato ingoiato da male speculazioni e da cattivi affari, così come furono ingoiati i depositi. Ma sta nell’esistenza di attività sicure, di buoni valori d’impiego contro ai depositi e contro al capitale; ed è tale garanzia codesta che dipende dalla capacità e dall’onestà degli amministratori, né può essere creata da empirici rapporti aritmetici fra capitali e depositi.

 

 

2)    Come definiremo i depositi «a risparmio», a cui si riferisce la tutela dell’articolo 6, e come li distingueremo dagli “altri” depositi, in conto corrente o diversi, che la legge non contempla? Il testo del disegno di legge non dà nessun lume al riguardo e rimanda ad un regolamento di là da venire. Il legislatore ha usato accortezza a lavarsene le mani, perché il regolamento si troverà di fronte ad un’impresa assai ardua. Tutti i depositi, anche quelli di un correntista milionario presso una società industriale sono «risparmi»; e non è possibile distinguere sul serio i depositi «a risparmio» dagli “altri” depositi. Bisognerà contentarsi di qualche distinzione grossolana: considerare, per esempio, «risparmi» i depositi non superiori alle 6.000 lire, che è il nuovo limite per i depositi delle casse postali di risparmio, od i depositi di cui non sia possibile disporre per via di un assegno bancario. Sono distinzioni incerte; perché un commerciante può avere un deposito inferiore a 6.000 lire (saranno 6.000 lire di media annua, o semestrale, o di massimo o minimo toccato nell’anno?) ed essere il suo un vero conto corrente commerciale, di quelli che il legislatore non vorrebbe considerare risparmi. La disponibilità per mezzo di assegni conferisce dal canto suo sicurezza ai depositi e dovrebbe farli considerare più prudenziali e non invece immeritevoli della tutela governativa.

 

 

3)    Come impediremo che una banca malata cerchi di far passare i suoi depositi dalla categoria dei «risparmi» tutelati alla categoria dei «depositi» semplici non tutelati? Basterà offrire agevolezze migliori, saggi di frutto vari ai depositi “diversi” per vedere una banca, di cui si matura il dissesto, sottrarsi compiutamente ai vincoli legali.

 

 

4)    Poiché la legge impone solo un rapporto tra il capitale ed i depositi «a risparmio», non potrà darsi che una banca osservi scrupolosamente i limiti legali, eppur si trovi in situazione pericolosa? È forse assurdo il caso di una banca che abbia 1 milione di capitale, 1 milione di depositi «a risparmio», 2 milioni di depositi in conto corrente e diversi (ecco come questa banca ha voluto, per inspirar fiducia, stare nei limiti legali anche tenendo conto dei conti correnti!); ma abbia 5 milioni di corrispondenti creditori? Il che vuol dire che la banca scontava cambiali d’ogni razza e, per far denaro, riscontava presso i corrispondenti creditori gran parte del portafoglio, mettendoci sotto il proprio avallo. Viene la crisi; e quel poco d’attivo che ci sarà dovrà essere diviso fra un milione di depositi a risparmio, 2 milioni di depositi in conto corrente e 5 milioni di corrispondenti creditori. I risparmiatori, che si tredevano tranquilli, riceveranno forsanco un riparto di appena il 30%!

 

 

Mentre le disposizioni che possono essere escogitate per difendere i depositanti delle casse ordinarie non possono, data la necessità di non coinvolgere la responsabilità dello stato, riuscire ad un risultato efficace, credo per contro che possa attuarsi una norma, anch’essa formale, che in se stessa non importa alcun vincolo obbligatorio, che lascia liberi istituti, banche e banchieri di assoggettarvisi o non; e che, appunto per la sua elasticità, potrebbe essere più benefica di qualsiasi norma rigida ed aritmetica che possa essere architettata.

 

 

Partasi dalla premessa che nella mente del popolo minuto, il quale è il solo a cui ragionevolmente si vuol provvedere, il concetto di «risparmio» si è confuso, quasi compenetrato col concetto di deposito fatto presso un istituto pubblico o semi – pubblico: casse postali, cassa di risparmio delle provincie lombarde, casse ordinarie di risparmio. Il piccolo risparmiatore quando riceve un «libretto di risparmio» immagina che i suoi denari siano amministrati con la stessa cautela prudentissima con cui egli suppone siano geriti i fondi delle casse di risparmio. Né si può negare che banche e banchieri privati si giovino di questa convinzione, precisa ed oscura, del pubblico per attrarre depositi, offrendo di iscriverli su libretti a risparmio.

 

 

Fatta questa premessa, non parrebbe fuor di luogo che il legislatore facesse un piccolo strappo alla libertà del vocabolario. Liberissime le banche ordinarie di accettare quanti depositi vogliono e di amministrarli come credono; ma sia vietato ad esse ed a chiunque di rilasciare libretti intitolati di risparmio. C’è tanta ricchezza di parole e di sinonimi nel vocabolario italiano, che, parola più o parola meno, poco monta. Libretti di risparmio possono essere rilasciati solo da quelle banche, le quali volontariamente si assoggettino, per tutte le loro operazioni, alle norme regolatrici delle casse di risparmio ordinarie. Senza potersi chiamare esse stesse «casse di risparmio», diventerebbero tali di fatto. Una banca potrebbe istituire una sezione autonoma per ricevere depositi a risparmio; e siffatta sezione dovrebbe avere patrimonio speciale ed attività particolari, su cui non potessero mettere le mani gli altri creditori della banca. Una contabilità a parte dovrebbe essere tenuta per la sezione dei depositi a risparmio; e per essa dovrebbero applicarsi tutte le norme che, bene o male, esistono e sono applicate per le casse ordinarie di risparmio.

 

 

Norme consimili sono applicate in parecchi cantoni svizzeri e danno buoni frutti. Per una volta tanto mi permetto di citare un esempio straniero, sebbene io sia persuaso che di solito si imitano dall’estero solo le cose cattive, intorno a cui si fa gran baccano, mentre le istituzioni buone, nostre e forestiere, rimangono ignorate. I paesi dove i governi si sono contentati di fare una opera apparentemente modesta, di puro vocabolario, sono probabilmente i soli che hanno concluso qualcosa. Vietando l’uso della parola «risparmio» a quelle banche che non si assoggettino alle norme regolatrici delle casse di risparmio, non si viola alcuna libertà sostanziale, bensì si toglie dalla mente del popoli, una confusione verbale, si lasciano liberi gli istituti che non vogliono vincolarsi e si assoggettano a sorveglianza solo quelli che fanno opera che da tempo si considera degna di sorveglianza, come quella che si rivolge ai risparmi degli ignari. Una riforma di vocabolario può sembrare poca cosa; ma in fondo è riforma assai più sostanziale che non l’imporre regole rigide aritmetiche, semplicistiche sempre ed inefficaci sicuramente.

 

 

2

 

Le osservazioni che sono state fatte dalla giunta generale del bilancio intorno al disegno di legge presentato per l’ampliamento degli organici del ministero d’agricoltura hanno provocato lunghe risposte ministeriali intorno al problema della tutela del risparmio, che indubbiamente è contenuto nell’articolo più interessante del disegno di legge. Le quali risposte dimostrano una cosa sola: le grandi difficoltà di escogitare sistemi di vigilanza che, di fronte al bene della prevenzione dei fallimenti bancari, non producano il male gravissimo della responsabilità morale dello stato sorvegliante per le azioni degli istituti sorvegliati. È indubbio che gli istituti buoni non traggono vantaggio dalla sorveglianza governativa, mentre di questa profitteranno quelli male amministrati per ispirare fiducia nel pubblico. Come non vedere che la «cosidetta» sorveglianza sarà feconda precisamente del male che essa pretende di impedire? E dicesi «cosidetta» perché, ad esercitarla sul serio, occorrerebbero nugoli di ispettori, che non sarà agevole trovare, nella copia necessaria e di capacità sufficiente; e, se esistessero, preferirebbero utilizzare più proficuamente nelle imprese private le loro attitudini.

 

 

Le risposte governative, avendo dovuto specificare meglio ciò che nella relazione era lasciato oscuro, accentuano l’impressione della gravità dei provvedimenti proposti.

 

 

In primo luogo affermano esplicitamente che non solo le banche ordinarie a forma di società per azioni od in accomandita per azioni o cooperative saranno assoggettate ai vincoli della legge ed eventualmente alle ispezioni governative; ma tutte «le società ed associazioni di qualunque specie che esercitano, ecc.». Dunque, anche le società in nome collettivo ed in accomandita semplice e persino le società di fatto e qualunque ente comunque sia chiamato e qualunque industria eserciti, sarà assoggettato all’ispezione governativa. Se si pone mente, come si dirà subito, che nella definizione dei «depositi a risparmio», prima lasciata imprecisa, sono ora esplicitamente fatti rientrare tutti i depositi vincolati a termine, è manifesto che una qualunque ditta, purché non costituita da una persona sola, qualunque sia la forma scelta di società, legale o di fatto, potrà essere assoggettata ad ispezione per constatare se essa abbia ricevuto depositi vincolati a termine in somma superiore al triplo del capitale.

 

 

Questo della definizione del risparmio è il secondo problema che le risposte ministeriali mettono nella loro vera luce. Dapprima si era rinviata la definizione al regolamento «per poterlo meglio definire con maggiore elasticità, avuto riguardo alla opportunità di tener presenti le varie condizioni di fatto e di sventare con prontezza i probabili tentativi di frode da parte di qualche istituto»; il che vuol dire che i risparmi si sarebbero definiti di giorno in giorno ad arbitrio dell’ispettorato.

 

 

Oggi, si consente a togliere l’arbitrio; ma, come è naturale, si estende la definizione del risparmio sino ad abbracciare pressoché tutti i depositi, a qualunque specie appartengano. Infatti, sarebbero considerati «depositi a risparmio»:

 

 

1)    quelli che hanno tale qualifica a norma degli ordinamenti dell’istituto che li riceve; e fin qui si può essere tutti d’accordo trattandosi della riforma del vocabolario in altro articolo reputata innocua;

 

 

2)    i buoni fruttiferi ed in genere tutti i depositi vincolati a termine. E qui invece si può osservare che i risparmiatori modesti, di cui il legislatore esclusivamente si vuol preoccupare, poco amano i buoni fruttiferi ed i depositi vincolati a termine,

 

 

poiché, importando essi una limitazione assai forte delle disponibilità delle somme depositate, non possono essere accetti alla maggior parte dei risparmiatori, i quali vogliono essere in grado di poter disporre ad ogni occorrenza con la maggiore facilità e speditezza dei loro risparmi.

 

 

Sono parole, che si leggono in una bella memoria statistica sul risparmio in Italia negli anni 1911-12, presentata or ora dal prof. Giuffrida, direttore generale del credito e previdenza, all’on. Nitti; e che avrebbero dovuto persuadere l’egregio scrittore della inopportunità di voler comprendere nella definizione del risparmio forme di depositi che egli stesso, da studioso spassionato, aveva giudicato antipatiche ai risparmiatori.

 

 

Ma forse si sono volute comprendere, perché la logica della sorveglianza porta a tutelare, oltre a quelli dei modesti risparmiatori, anche i depositi di coloro, i quali sono capacissimi di badare ai fatti propri e che, ad ogni modo, non si educano a diventare capaci addormentandoli nella fiducia della sorveglianza governativa. È questa inoltre una clausola la quale fa pendere la minaccia della ispezione sulle banche come sui cotonifici, su una fabbrica di automobili, come sul negoziante che esercita il suo commercio mercé conti correnti altrui vincolati a termine;

 

 

1)    e finalmente i depositi di qualunque qualifica quando, a norma degli ordinamenti dell’istituto che li riceve, i rimborsi siano fatti con preavviso che possa essere superiore ad un mese o per cifra giornaliera inferiore a mille lire. Il quale ultimo termine della definizione ha il pregio di essere incomprensibile; essendo incerto che cosa mai significhi un preavviso, che può essere superiore ad un mese. O il depositante ha il diritto di farsi rimborsare la somma con un preavviso non superiore ad un mese o non l’ha; ed in questo caso soltanto sembra che il ministero voglia assoggettare il suo deposito a vincolo, reputandolo più pericoloso dei depositi rimborsabili a vista od a brevissima scadenza.

 

 

L’opinione può essere in contrasto colla realtà; essendoché molte banche sono fallite non già per aver impiegato male i depositi a lunga scadenza; ma per aver impiegato in prestiti a lunga scadenza i depositi a vista od a breve scadenza. Una banca può avere 10 milioni di ottime attività, non però prontamente realizzabili. Se la banca ha solo depositi vincolati a lunga scadenza, essa può far fronte ai suoi impegni e non corre alcun pericolo; mentre può fallire se essa ha fatto quegli impieghi a lunga scadenza con depositi a vista. Eppure il ministero vuole tutelare i depositi a lunga scadenza e lasciare indisturbati i depositi a breve scadenza!

 

A parer mio, farebbe meglio a lasciarli indisturbati tutti; ma bisogna riconoscere che sono nel vero quelli tra i fautori della sorveglianza che già fin d’ora insistono sulla necessità di estendere la sorveglianza a tutti i depositi in conto corrente e dei corrispondenti creditori. Ogni distinzione invero è arbitraria; ed, una volta ammesso il principio, bisogna accettarne le logiche conseguenze. E nemmeno qui ci fermeremo; poiché sono logici coloro i quali, già adesso, vorrebbero che lo stato prescrivesse le maniere di impiego dei depositi, con una proporzione obbligatoria di titoli di stato o di cartelle fondiarie, ecc. ecc.

 

 

Provveda chi ha occhi per scorgere nel non lontano avvenire gli effetti di questa malsana tendenza. Osserva il Geisser in un articolo che comparirà nel prossimo fascicolo de «La Riforma Sociale» di Torino, che una delle maggiori cause della scarsa diffusione del credito agrario in Italia in confronto della Germania sta nell’assorbire, che fanno le casse postali di risparmio, il capitale accumulato nelle campagne per riversarlo negli impieghi di valori pubblici o in mutui ad enti locali. È questo il lato negativo dell’ascensione brillantissima dei depositi nelle casse postali di risparmio. Vogliamo noi intensificare questo pernicioso indirizzo, convertendo banche e banchieri privati in agenti dello stato incaricati di ricevere depositi e comprare valori pubblici? Dove andranno agricoltura, industrie e commerci a procurarsi i capitali di cui hanno bisogno?

 

 

A dimostrare viemmeglio quanto sia empirica l’opinione che la necessità della sorveglianza cominci quando i depositi superino il triplo del capitale e delle riserve, basti una osservazione: a questa stregua sarebbero sottoposte a vigilanza le maggiori banche del mondo, quelle che incarnano il tipo più perfetto della banca pura di depositi e sconti, aliena da speculazioni per titoli, da impieghi a lunga scadenza in sovvenzioni all’industria, voglio dire le banche inglesi. Al 30 giugno 1912 le 43 banche inglesi per azioni dell’Inghilterra e Galles, esclusa la Banca d’Inghilterra che si trova in una situazione speciale, avevano in complesso un capitale proprio, comprese le riserve ed i profitti non distribuiti, di 82.766.204 lire sterline, contro al quale stavano lire sterline 752.602.183 di depositi e conti correnti. Altro che triplo del capitale! Si giunge quasi a quel decupIo che, nella sapienza del nostro legislatore costituisce l’inizio del pericolo massimo e fa obbligo alle banche pericolanti di destinare a riserva i due terzi degli utili annui. Se quelle banche, famose nella storia economica, che hanno avuto fra i direttori, uomini, i cui libri fanno testo nella pratica bancaria, funzionassero in Italia, noi assisteremmo allo spettacolo comico della burocrazia romana che vorrebbe, a mezzo di un ispettore nominato per concorso regolare e provveduto dello stipendio di 5.000 lire, far la lezione alla Lloyds Bank, solo perché questa ardisce di avere lire sterline 86.925.261 (2 miliardi e 175 milioni di lire italiane) di depositi con appena 4.208.672 sterline di capitale versato e lire sterline 2.900.000 di riserve; od alla London City and Midland che ha lire sterline 77.707.785 di depositi e conti correnti contro lire sterline 7.379.552 di capitale e riserve. Al digiuno gli azionisti della London City, colpevoli del reato di avere in depositi più del decuplo del capitale e riserve! Al digiuno del pari gli azionisti della London County and Westminster che hanno 78.828.797 lire sterline di depositi contro appena 7 milioni e mezzo di capitale e riserve!

 

 

Si potrebbe continuare con altri esempi di banche famose, a cui i burocrati romani, se quelle avessero la disgrazia di vivere sotto il loro impero, vorrebbero imporre le loro regole onniscenti; a cominciare dal Credit Lyonnais che ha 352 milioni di franchi tra capitale e riserve e quasi due miliardi di depositi e conti correnti, per finire colla Deutsche Bank con 350 milioni di lire circa tra capitale e riserve ed 1 miliardo e 875 milioni di depositi e conti correnti. Tutti vigilati speciali questi colossi che si chiamano con i nomi famosi di Lloyds Bank, London City, London County and Westminster, Credit Lyonnais e Deutsche Bank!

 

 

Per non seguitare nell’elenco, che sarebbe lunghissimo, dei vigilati stranieri, preferisco chiudere con una tabellina che ho ricavata da quella utilissima pubblicazione che è l’ Annuario di notizie statistiche sulle principali società italiane per azioni, edito dal Credito italiano. Premettasi che i compilatori dell’Annuario, i quali sono banchieri sul serio, non fanno alcuna distinzione tra depositi a risparmio ed altri depositi, perché ben sanno essere distinzione insussistente e che non potrà durare, se anche la scriveranno nella legge. Ecco ora lo specchietto, che si riferisce al 31 dicembre 1911 (in milioni di lire):

 

 

Capitale e riserve Depositi Creditori diversi e riscontri passivi
Banco di Roma

157,2

138,9

120,1

Banca commerciale italiana

180,5

297,5

 451

Credito italiano

85

167,3

249,6

Società bancaria italiana

40,5

45

68,2

Società italiana di credito provinciale

13,2

31,7

33,8

Banca veneta di depositi e conti correnti

4,8

20,7

6

Banco ambrosiano

3,8

18,4

9,5

Banca lombarda di depositi e conti correnti

4,2

17,7

7,9

Banca di Varese di depositi e conti correnti

2,7

5,8

19,8

 

 

Date queste cifre, il ministero si sarebbe creduto in obbligo di ispezionare la Banca veneta di depositi e conti correnti, il Banco ambrosiano e la Banca lombarda di depositi e conti correnti, tutti istituti i quali godono reputazione di saggia e prudente amministrazione, a stento avrebbe lasciato fuori la Società italiana di credito provinciale (ex Banco di Busto Arsizio) ed avrebbe rispettato l’indipendenza dei quattro maggiori istituti solo grazie all’altezza del loro capitale. Ma sovratutto, l’amministrazione avrebbe lasciata indisturbata la Banca di Varese di depositi e conti correnti. O che essa non aveva forse depositi poco più che doppi del capitale e delle riserve? È vero che la grossa cifra, in confronto ai depositi, di 19,8 milioni di creditori diversi e riscontri passivi indicava una situazione malsana; ma la legge sarebbe stata formalmente osservata ed i funzionari sarebbero passati oltre, salvo a far le grandi meraviglie per il fallimento avvenuto contro tutte le buone regole scritte nella legge. Se l’esempio italiano è calzante a dimostrare l’inanità delle legislazioni di paterna tutela, non meno calzante è l’esempio inglese. La London County and Westminster e le altre banche vigilate e ridotte alla ragione congrua vivono e prosperano; ed è fallita la Birbeck Bank, creata ad immagine e somiglianza della perfetta banca immaginata dai nostri romani pastori. Impiegava i depositi in consolidati inglesi ed in altri valori pubblici; immaginando di essere al sicuro. Ma, ad un certo punto, i consolidati cominciarono a ribassare, poterono essere realizzati solo con perdita, i depositanti presero paura e la banca fallì. Quando mai si vorrà comprendere questa semplicissima verità che i fallimenti capitano sempre contro le regole e che, a moltiplicare queste, si frastornano i buoni e si lasciano indisturbati i cattivi?

 

 

3

 

Le modificazioni che la giunta generale del bilancio ha proposto al primitivo disegno di legge sul riordinamento dei servizi del ministero di agricoltura, si possono riassumere in due:

 

 

1)    la definizione precisa dei depositi a risparmio, i quali sarebbero quelli soli che hanno tale qualifica da parte delle società o banche che li ricevono; o, che non avendo tale qualifica, fruttano un interesse non superiore a quello servito dalle casse postali di risparmio e di cui il depositante non possa ottenere il rimborso mediante l’uso di assegni bancari.

 

 

La definizione in parte è corretta, perché innocua. Essa accoglie il concetto esposto ripetutamente su queste colonne: che la riforma debba limitarsi alla proibizione di usare la parola «risparmio» fatta a coloro i quali non si vogliono assoggettare alla vigilanza governativa. Ma la giunta generale del bilancio ha voluto aggiungere qualcosa alla riforma di vocabolario; ed ha detto che sono altresì depositi a risparmi quelli che fruttano non meno, ossia di più dei depositi postali (oggi 2,64%), e che non siano rimborsabili con assegni bancari. L’effetto, come bene osservò l’on. Nitti, sarebbe di spingere le banche a diffondere largamente l’uso degli assegni, allo scopo di sottrarsi alla vigilanza governativa. E sarebbe, a parer mio, effetto ottimo di un provvedimento non buono. In Italia, come in Francia ed in Germania, si ricorre troppo poco agli assegni bancari, i quali riescono tanto utili in Inghilterra e negli Stati uniti per risparmiare l’uso della moneta metallica e dei biglietti. È noto che nei paesi anglosassoni, grazie specialmente all’uso degli assegni sbarrati (crossed checks), non c’è commerciante o privato che non ricorra per i suoi pagamenti agli assegni; ed è noto che in Francia ed in Germania le autorità bancarie più eminenti, a cominciare dai direttori generali della Banca di Francia e della Banca imperiale tedesca, fanno una propaganda assidua per diffondere l’uso degli assegni. Se le norme proposte dalla giunta generale del bilancio dovessero essere approvate, produrrebbero dunque almeno un beneficio: di popolarizzare l’uso degli assegni. Probabilmente sarebbe l’unico vantaggio;

 

 

2)    l’obbligo fatto alle società od associazioni che accettano depositi a risparmio, definiti come sopra si è detto, di impiegare almeno un quinto dell’ammontare dei depositi stessi in buoni del tesoro, in titoli redimibili o in altri titoli di stato o garantiti dallo stato, in fedi di deposito (warrants), dei magazzini generali riconosciute dallo stato, e in cartelle emesse dagli istituti autorizzati ad esercitare il credito fondiario in Italia.

 

 

Era facile prevedere che si finiva qui. Oggi è il quinto, domani sarà il terzo e poi la metà dei depositi che dovrà essere impiegato in tal modo. Ma è davvero opportuno obbligare le banche e casse ad impiegare i loro depositi in titoli pubblici o in mutui fondiari? Ed è specialmente opportuno oggi, che commercio, industria ed agricoltura si lamentano del rincaro del denaro e della difficoltà di trovare crediti? Non sarà esacerbato il fenomeno che oggi già si lamenta, dell’assorbimento dei capitali dei piccoli centri e delle campagne a pro degli impieghi pubblici?

 

 

Sovratutto importa ripetere una osservazione già fatta: che gli impieghi in valori pubblici od in cartelle fondiarie non sono tecnicamente convenienti per istituti che debbono mantenere i loro capitali liquidi e facilmente realizzabili. Ottimi impieghi, ma non adatti a questo speciale scopo, se non in quella elastica proporzione che ogni direttore di banca deve poter determinare volta per volta. Non ricorderò nuovamente il fatto clamoroso, a suo tempo commentatissimo in tutti i giornali inglesi, dell’unica banca londinese fallita negli ultimi anni, la Birbeck Bank, e fallita per avere avuto fiducia nei consolidati, che poterono essere venduti solo con perdite.

 

 

Noterò invece, ripetendo una argomentazione letta in questi giorni nel «Momento economico» di Milano, che tutta la nostra legislazione italiana è stata per il passato orientata contro la tendenza che oggi si vuol fare prevalere. Quale fu uno dei maggiori meriti degli on. Giolitti, Luzzatti e Stringher in materia di impieghi degli istituti di emissione dal 1893 in poi? Di avere costretto, indotto, consigliato i banchi a diminuire gli impieghi in valori pubblici per accrescere quelli in carta commerciale. Tutti sono d’accordo che siffatta trasformazione di impieghi sia stata uno dei progressi più segnalati della tecnica bancaria italiana negli ultimi vent’anni. Gli impieghi in valori pubblici fin qui dai nostri uomini di stato furono considerati per le banche vere e proprie immobilizzazioni, mentre lo sconto di carta commerciale è l’impiego tipo, più sicuro, più facilmente realizzabile, più liquido che possa proporsi una banca la quale riceva depositi. Anche recentemente, nel dicembre 1912, lo Stringher si procacciava lodi per avere richiesto e il governo per aver fatto approvare dal parlamento un articolo di legge, con cui si autorizzava la Banca d’Italia a diminuire la sua scorta di titoli di 40 milioni ed a crescere di altrettanto il suo portafoglio bancario. Così facendo, banca, governo e parlamento rendevano omaggio alle norme classiche e universalmente riconosciute della sana tecnica bancaria. Perché oggi si vorrebbe imporre alle banche private l’osservanza di una regola che parve, e giustamente, dannosa per gli istituti di emissione?



[1] Con il titolo Vincoli legali o riforma di vocabolario? (A proposito dei depositi a risparmio presso la Banca ordinaria[ndr].

[2] Con il titolo Intorno alla cosidetta tutela del risparmio[ndr].

[3] Con il titolo La Tutela del risparmio e i precedenti legislativi italiani [ndr].

La crisi scolastica e la superstizione degli orari lunghi

La crisi scolastica e la superstizione degli orari lunghi

«Corriere della Sera», 21 aprile 1913

Gli ideali di un economista, «Edizioni La Voce», Firenze, 1921, pp. 23-31

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 526-532[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 501-507[2]

La crisi scolastica e la superstizione degli orari lunghi

La crisi scolastica e la superstizione degli orari lunghi

«Corriere della Sera», 21 aprile 1913

Gli ideali di un economista, «Edizioni La Voce», Firenze, 1921, pp. 23-31

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 526-532[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 501-507[2]

 

La crisi scolastica e la superstizione degli orari lunghi

La crisi scolastica e la superstizione degli orari lunghi

«Corriere della Sera», 21 aprile 1913[1]

Gli ideali di un economista, «La Voce», Firenze, 1921, pp. 23-31

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 526-532

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 501-507[2]

 

 

 

 

Nelle discussioni che sul problema dell’insegnamento e dei professori secondari si stanno facendo in giornali e in congressi, non ho veduto, salvoché in alcuni articoli recenti della «Stampa» di Torino, trattato un punto che mi sembra capitalissimo e che potrebbe illuminare assai la soluzione da darsi al problema. Debbo premettere che, sebbene l’argomentazione possa avere un certo sapore professionale, sebbene cioè possa credersi che chi scrive non si sia saputo sottrarre alle sue abitudini mentali di studioso di scienze economiche, in realtà è l’esperienza viva della scuola che mi fa credere di essere nel vero. Ho insegnato per parecchi anni nelle scuole secondarie; e ritengo che l’insegnamento ai giovani di meno di 17-18 anni sia non meno utile agli insegnanti che agli studenti; io, almeno, vi ho imparato parecchie cose, che in seguito mi sono state giovevoli.

 

 

Fra l’altro mi sono convinto che nelle scuole secondarie si fa un abuso enorme di orario. Certamente è opportuno che i giovani siano legati ad una disciplina oraria maggiore che nelle scuole superiori, non essendo ancora sufficientemente maturo il loro giudizio ed essendo le loro volontà facili ad essere sviate dalle male compagnie, dal piacere dell’aria libera e delle belle passeggiate nei giorni di sole; ma da questa constatazione agli orari asfissianti delle nostre scuole secondarie ci corre. Tre ore nei ginnasi e nelle scuole tecniche, quattro ore nei licei e negli istituti, dovrebbero essere il massimo dell’orario giornaliero per tutt’al più cinque giorni della settimana; il giovedì dovrebbe essere libero del tutto o al più occupato al mattino; e in questo caso dovrebbero aversi almeno due pomeriggi liberi. Una delle maggiori e più pestifere superstizioni delle scuole italiane è la lunghezza dell’orario. Più gli scolari sono costretti a rimanere nelle aule scolastiche e meno profittano. Chi non sa che, al mattino, la terza ora di insegnamento è inservibile, che l’insegnante vede occhi stanchi, gambe e braccia irrequiete, disattenzione generale? Peggio nelle ore pomeridiane. Vi sono degli istituti tecnici dove, in certe classi, si va dalle due alle cinque e magari alle sei, attraverso un caleidoscopio di insegnamenti, i quali si succedono dinanzi ad una scolaresca sempre più disattenta ed irrequieta. La scuola educativa, sana, fortificante dovrebbe tenersi solo al mattino: tre ore con qualche intervallo di riposo; nel qual caso anche la terza ora dovrebbe essere profittevole. Il pomeriggio dovrebbe essere dedicato dai giovani ai compiti, allo studio indipendente, in parte agli esercizi fisici ed alle passeggiate.

 

 

Dicono i fautori degli orari lunghi: i giovani, se non si fanno studiare in classe, non fanno niente. Falsissima asserzione per i giovani valenti e studiosi, a cui viene imposta una tortura inutile; e falsa eziandio per i mediocri e gli infingardi, la cui occupazione nella scuola non è di studiare, ma di ingannare il tempo rimanendo passivi ascoltatori di cose a cui non si interessano. Se l’orario lungo riuscisse a far lavorare i mediocri colla testa, potrebbe ancora essere spiegato; ma poiché esso serve solo a farli star tranquilli col corpo ed a lavorare, forse, materialmente, colla mano intenta a scrivere, la sua efficacia educativa è nulla.

 

 

Aggiungono ancora: con gli orari brevi, con tre o quattro ore al giorno di lezione, come si possono esaurire i programmi? Altra superstizione quella dei programmi; e forse più pestifera di quella degli orari lunghi. Il “programma” è figlio di una concezione profondamente sbagliata di ciò che debba essere la scuola media. Purtroppo è la concezione dominante nella massa dei genitori, i quali si illudono stravagantemente in tal modo di giovare ai loro figli. Credono infatti i genitori che la scuola media debba insegnare delle cose praticamente utili ai loro figli, che dalla scuola i loro figli debbano uscire atti ad esercitare una professione, un’arte, un negozio, un mestiere. Questa sciagurata persuasione dei genitori è la causa per cui i ragazzi non imparano nulla e per cui la scuola si riduce ad una fabbrica di diplomi senza valore intrinseco. Se la scuola infatti deve servire a qualcosa di utile, perché non insegna ai giovani tutto lo scibile umano? perché oltre all’italiano, alla storia, al latino, alle matematiche, alla fisica, alla chimica, alla storia naturale, non si aggiungono due o tre lingue viventi, il disegno, l’economia, il diritto, il far di conti, la ragioneria; perché non si abolisce la filosofia che non serve a nulla, il greco, che nessuno impara? Perché, sovra tutto, i programmi di ognuna delle materie non si stendono a mano a mano, in guisa da abbracciare la massima quantità di nozioni utili? Se è utile conoscere i primi principi, è anche utile conoscere le applicazioni; anzi, quante più se ne conoscono, tanto più si sarà agguerriti nella lotta per la vita. Messi su questa via, si va fino in fondo. Ogni professore diventa il rappresentante ed il difensore di una disciplina, che egli vorrebbe tutta insegnare ai suoi giovani, disciplina di cui l’utilità è incontestabile, del cui insegnamento monco si deplorano gli inconvenienti nella pratica, nei concorsi alle carriere. Ognuno opina che il proprio orario è insufficiente; che le tre ore settimanali dedicate ad una materia non bastano, ma sono necessarie le quattro, le cinque, magari le dieci.

 

 

Come non vedere che tutto ciò è grottesco? Che in tal modo si falsa compiutamente il carattere della scuola? La quale non deve essere un luogo dove si vanno ad apprendere delle nozioni. Per ciò bastano i libri per i giovani valenti, le enciclopedie per i frettolosi, i ripetitori per gli infingardi. Non c’è nessuna necessità che lo stato spenda diecine di milioni per stipendiare migliaia di professori, allo scopo di ottenere ciò che meglio si otterrebbe mettendo un fonografo in ogni classe con un bidello per imporre silenzio. Né si creda che, con fonografi o con professori, la scuola possa riuscire ad insegnare ai giovani la professione od il mestiere a cui aspirano. La scuola non è fatta per ciò. In nessun paese del mondo e in nessuna epoca gli uomini hanno imparato nelle scuole medie il modo di far denari, di esercitare un’arte od una professione. I genitori che pretendono ciò, vogliono l’assurdo. Le professioni si imparano esercitandole. Non c’è altra via. Il compito della scuola è tutto diverso: formare l’intelletto ed il carattere del giovane, in guisa che possa orizzontarsi in seguito nella vita per affrontare e superare le difficoltà che gli si pareranno incontro. Perciò gli si insegnano, ad esempio, le matematiche; non perché sappia risolvere quei problemi matematici che nella vita sua di commerciante, banchiere, agente di cambio, industriale, impiegato, ingegnere, geometra, agrimensore gli capiterà di dovere esaminare. A ciò gli basteranno i prontuari, le formule fatte, che gli saranno assai più comode delle regole teoriche. Tuttavia le matematiche gli sono utilissime a scuola, perché servono a farlo ragionare, perché costringono la sua mente a fare un certo lavorio di paragone, di analisi, a vedere la correlazione tra quantità e concetti diversi. Così dicasi del latino, così di qualunque altra scienza, anche l’economia, che negli istituti tecnici si insegna. Il latino non viene insegnato perché si impari a parlare o scrivere una lingua morta; cosa che sarebbe perfettamente inutile. Ma si insegna per abituare l’intelletto a ben pensare, a costruire logicamente un periodo. È un esercizio logico anche l’economia. Se si volessero insegnare quelle nozioni economiche che i genitori possono immaginare siano “utili”, non basterebbero tre anni e 10 ore la settimana; e sarebbe fatica sprecata; perché non v’è necessità di imparare a memoria tutti gli istituti ed i fatti economici, bastando, all’uopo, sapere che ci sono dizionari e trattati e riviste dove quelle nozioni sono scritte. L’insegnante deve insegnare a ragionare, a vedere dentro ai fatti economici la parvenza esterna e la realtà vera; deve far vedere come nove su dieci dei ragionamenti economici correnti nei giornali, nei discorsi familiari, nei comizi, nei parlamenti sono dei sofismi; deve addestrare la mente a scoprire la verità tra mezzo ai molti errori. Formare la mente ed anche il carattere del giovane: ecco lo scopo della scuola media. A raggiungere il quale non sono necessari né i lunghi orari, né le prediche interminabili, né i programmi minutissimi. Tanto meglio anzi se il programma si limiterà alla semplice indicazione della materia da insegnare. L’insegnante valoroso sarà più libero di dire al giovane le nozioni che egli riterrà più atte ad interessarlo, a risvegliare ed esercitare la sua intelligenza, a renderla capace di risolvere problemi e superare difficoltà.

 

 

Che ha da far tutto ciò con le questioni dei professori? Molto più che non sembri a primo aspetto.

 

 

Perché, invero, c’è crisi nell’insegnamento secondario? Perché i professori sono mal pagati e non se ne trovano più abbastanza e solo gli scarti della gioventù universitaria si dedicano ad una professione così mal remunerata. E sono mal pagati, perché, essendo moltissimi e crescendone sempre il fabbisogno, la spesa totale aumenta benché gli stipendi unitari siano bassi. Facendo un esempio schematico, dato che in un paese ci siano 100.000 studenti divisi in 2.500 classi, a 40 per classe, numero eccessivo didatticamente, ma che talvolta viene superato, due vie si possono tenere: o il sistema degli orari lunghi, delle molte materie e dei programmi particolareggiati; od il sistema degli orari brevi, delle poche discipline e dei programmi ridotti al titolo della materia. L’uno può dirsi il metodo della forma, l’altro della sostanza; il primo della esteriorità infeconda, del funzionarismo, il secondo della scuola viva ed educatrice. Io dico che il secondo sistema consente assai meglio di risolvere il problema dei professori. Supponiamo infatti che lo stato non possa impostare in bilancio più di 10 milioni di lire per la scuola media, di cui si tratta. È possibile spenderle in due maniere, che si potrebbero ridurre in cifre come segue:

 

 

Orari lunghi Orari brevi
Numero studenti

100.000

100.000

Studenti per classe

40

40

Numero delle classi

2.500

2.500

Numero medio delle ore settimanali di lezione per ogni classe

26

16

Numero totale delle ore settimanali di lezione per tutte le classi

65.000

40.000

Numero medio delle ore settimanali di lezione per ogni professore

20

 16

Numero dei professori necessari

3.250

2.500

Stipendio medio

L. 3.076

4.000

Spesa totale per lo stato

L. 10.000.000

10.000.000

 

 

Naturalmente questo è un puro schema grezzo, che nella realtà dovrebbe adattarsi alle infinite esigenze della scuola; ma giova a mettere in chiaro come, con la stessa spesa, sia possibile: 1) pagare 1.000 lire circa di più di stipendio all’anno ad ogni professore e quindi farli star più contenti; 2) diminuire il numero delle loro ore settimanali di lezione da 20 a 16; 3) ridurre il fabbisogno di professori da 3.250 a 2.500, rendendone più facile e nello stesso tempo più rigoroso il reclutamento; 4) diminuire da 26 a 16 le ore di insegnamento settimanale per gli studenti.

 

 

Sui vantaggi del quale ultimo risultato ho già detto abbastanza; ma son vantaggi che crescono a mille doppi quando alla diminuzione degli orari per gli studenti si accompagni la diminuzione delle ore di lezione per i professori. Questi sono diventati, cogli stipendi bassi e colla necessità di guadagnar da vivere, delle macchine per vender fiato. Da vent’anni a questa parte le ore di fiato messe sul mercato dai professori secondari sono andate spaventosamente aumentando. Specie nelle grandi città, da 10 a 12 ore settimanali, che erano i massimi di un tempo, si è giunti, a furia di orari normali prolungati e di classi aggiunte, alle 15, alle 20, alle 25 e anche alle 30 e più ore per settimana. Tutto ciò può sembrare ragionevole solo ai burocrati che passano 7 od 8 ore del giorno all’ufficio, seduti ad emarginare pratiche. A costoro può sembrare che i professori con le loro 20 – 30 ore di lezione per settimana e colle vacanze, lunghe e brevi, siano dei perditempo. Chi guarda invece alla realtà dei risultati intellettuali e morali della scuola, deve riconoscere che nessuna jattura può essere più grande di questa. La merce “fiato” perde in qualità tutto ciò che guadagna in quantità. Chi ha vissuto nella scuola sa che non si può vendere impunemente fiato per 20 ore alla settimana, tanto meno per 30 ore. La scuola, a volerla fare sul serio, con intenti educativi, logora. Appena si supera un certo segno, è inevitabile che l’insegnante cerchi di perdere il tempo, pur di far passare le ore. Buona parte dell’orario viene perduto in minuti di attesa e di uscita, in appelli, in interrogazioni stracche, in compiti da farsi in scuola, ecc., ecc. Nasce una complicità dolorosa, ma fatale, tra insegnanti e scolari a far passare il tempo, pur di far l’orario prescritto dai regolamenti e di esaurire quelle cose senza senso che sono i programmi. La scuola diventa un ufficio burocratico, incaricato di tenere a bada per tante ore al giorno i ragazzi dai 10 ai 18 anni di età, e di rilasciare alla fine del corso dei diplomi stampati. Scolari svogliati, genitori irritati di dover pagare le tasse, insegnanti malcontenti: ecco il quadro della scuola secondaria d’oggi in Italia. Non dico che la colpa di tutto ciò siano gli orari lunghi; ma certo gli orari lunghi sono l’esponente e nello stesso tempo un’aggravante di tutta una falsa concezione della missione della scuola media.



[1] Con il titolo La crisi scolastica e la superstizione degli orari lunghi [ndr].

[2] Con il titolo La crisi scolastica e la superstizione degli orari lunghi [ndr].

La superstizione degli orari lunghi

La superstizione degli orari lunghi

«Corriere della Sera», 21 aprile 1913[1]

Gli ideali di un economista, «La Voce», Firenze, 1921, pp. 23-31

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 526-532

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 501-507[2]

 

 

 

 

Nelle discussioni che sul problema dell’insegnamento e dei professori secondari si stanno facendo in giornali e in congressi, non ho veduto, salvoché in alcuni articoli recenti della «Stampa» di Torino, trattato un punto che mi sembra capitalissimo e che potrebbe illuminare assai la soluzione da darsi al problema. Debbo premettere che, sebbene l’argomentazione possa avere un certo sapore professionale, sebbene cioè possa credersi che chi scrive non si sia saputo sottrarre alle sue abitudini mentali di studioso di scienze economiche, in realtà è l’esperienza viva della scuola che mi fa credere di essere nel vero. Ho insegnato per parecchi anni nelle scuole secondarie; e ritengo che l’insegnamento ai giovani di meno di 17-18 anni sia non meno utile agli insegnanti che agli studenti; io, almeno, vi ho imparato parecchie cose, che in seguito mi sono state giovevoli.

 

 

Fra l’altro mi sono convinto che nelle scuole secondarie si fa un abuso enorme di orario. Certamente è opportuno che i giovani siano legati ad una disciplina oraria maggiore che nelle scuole superiori, non essendo ancora sufficientemente maturo il loro giudizio ed essendo le loro volontà facili ad essere sviate dalle male compagnie, dal piacere dell’aria libera e delle belle passeggiate nei giorni di sole; ma da questa constatazione agli orari asfissianti delle nostre scuole secondarie ci corre. Tre ore nei ginnasi e nelle scuole tecniche, quattro ore nei licei e negli istituti, dovrebbero essere il massimo dell’orario giornaliero per tutt’al più cinque giorni della settimana; il giovedì dovrebbe essere libero del tutto o al più occupato al mattino; e in questo caso dovrebbero aversi almeno due pomeriggi liberi. Una delle maggiori e più pestifere superstizioni delle scuole italiane è la lunghezza dell’orario. Più gli scolari sono costretti a rimanere nelle aule scolastiche e meno profittano. Chi non sa che, al mattino, la terza ora di insegnamento è inservibile, che l’insegnante vede occhi stanchi, gambe e braccia irrequiete, disattenzione generale? Peggio nelle ore pomeridiane. Vi sono degli istituti tecnici dove, in certe classi, si va dalle due alle cinque e magari alle sei, attraverso un caleidoscopio di insegnamenti, i quali si succedono dinanzi ad una scolaresca sempre più disattenta ed irrequieta. La scuola educativa, sana, fortificante dovrebbe tenersi solo al mattino: tre ore con qualche intervallo di riposo; nel qual caso anche la terza ora dovrebbe essere profittevole. Il pomeriggio dovrebbe essere dedicato dai giovani ai compiti, allo studio indipendente, in parte agli esercizi fisici ed alle passeggiate.

 

 

Dicono i fautori degli orari lunghi: i giovani, se non si fanno studiare in classe, non fanno niente. Falsissima asserzione per i giovani valenti e studiosi, a cui viene imposta una tortura inutile; e falsa eziandio per i mediocri e gli infingardi, la cui occupazione nella scuola non è di studiare, ma di ingannare il tempo rimanendo passivi ascoltatori di cose a cui non si interessano. Se l’orario lungo riuscisse a far lavorare i mediocri colla testa, potrebbe ancora essere spiegato; ma poiché esso serve solo a farli star tranquilli col corpo ed a lavorare, forse, materialmente, colla mano intenta a scrivere, la sua efficacia educativa è nulla.

 

 

Aggiungono ancora: con gli orari brevi, con tre o quattro ore al giorno di lezione, come si possono esaurire i programmi? Altra superstizione quella dei programmi; e forse più pestifera di quella degli orari lunghi. Il “programma” è figlio di una concezione profondamente sbagliata di ciò che debba essere la scuola media. Purtroppo è la concezione dominante nella massa dei genitori, i quali si illudono stravagantemente in tal modo di giovare ai loro figli. Credono infatti i genitori che la scuola media debba insegnare delle cose praticamente utili ai loro figli, che dalla scuola i loro figli debbano uscire atti ad esercitare una professione, un’arte, un negozio, un mestiere. Questa sciagurata persuasione dei genitori è la causa per cui i ragazzi non imparano nulla e per cui la scuola si riduce ad una fabbrica di diplomi senza valore intrinseco. Se la scuola infatti deve servire a qualcosa di utile, perché non insegna ai giovani tutto lo scibile umano? perché oltre all’italiano, alla storia, al latino, alle matematiche, alla fisica, alla chimica, alla storia naturale, non si aggiungono due o tre lingue viventi, il disegno, l’economia, il diritto, il far di conti, la ragioneria; perché non si abolisce la filosofia che non serve a nulla, il greco, che nessuno impara? Perché, sovra tutto, i programmi di ognuna delle materie non si stendono a mano a mano, in guisa da abbracciare la massima quantità di nozioni utili? Se è utile conoscere i primi principi, è anche utile conoscere le applicazioni; anzi, quante più se ne conoscono, tanto più si sarà agguerriti nella lotta per la vita. Messi su questa via, si va fino in fondo. Ogni professore diventa il rappresentante ed il difensore di una disciplina, che egli vorrebbe tutta insegnare ai suoi giovani, disciplina di cui l’utilità è incontestabile, del cui insegnamento monco si deplorano gli inconvenienti nella pratica, nei concorsi alle carriere. Ognuno opina che il proprio orario è insufficiente; che le tre ore settimanali dedicate ad una materia non bastano, ma sono necessarie le quattro, le cinque, magari le dieci.

 

 

Come non vedere che tutto ciò è grottesco? Che in tal modo si falsa compiutamente il carattere della scuola? La quale non deve essere un luogo dove si vanno ad apprendere delle nozioni. Per ciò bastano i libri per i giovani valenti, le enciclopedie per i frettolosi, i ripetitori per gli infingardi. Non c’è nessuna necessità che lo stato spenda diecine di milioni per stipendiare migliaia di professori, allo scopo di ottenere ciò che meglio si otterrebbe mettendo un fonografo in ogni classe con un bidello per imporre silenzio. Né si creda che, con fonografi o con professori, la scuola possa riuscire ad insegnare ai giovani la professione od il mestiere a cui aspirano. La scuola non è fatta per ciò. In nessun paese del mondo e in nessuna epoca gli uomini hanno imparato nelle scuole medie il modo di far denari, di esercitare un’arte od una professione. I genitori che pretendono ciò, vogliono l’assurdo. Le professioni si imparano esercitandole. Non c’è altra via. Il compito della scuola è tutto diverso: formare l’intelletto ed il carattere del giovane, in guisa che possa orizzontarsi in seguito nella vita per affrontare e superare le difficoltà che gli si pareranno incontro. Perciò gli si insegnano, ad esempio, le matematiche; non perché sappia risolvere quei problemi matematici che nella vita sua di commerciante, banchiere, agente di cambio, industriale, impiegato, ingegnere, geometra, agrimensore gli capiterà di dovere esaminare. A ciò gli basteranno i prontuari, le formule fatte, che gli saranno assai più comode delle regole teoriche. Tuttavia le matematiche gli sono utilissime a scuola, perché servono a farlo ragionare, perché costringono la sua mente a fare un certo lavorio di paragone, di analisi, a vedere la correlazione tra quantità e concetti diversi. Così dicasi del latino, così di qualunque altra scienza, anche l’economia, che negli istituti tecnici si insegna. Il latino non viene insegnato perché si impari a parlare o scrivere una lingua morta; cosa che sarebbe perfettamente inutile. Ma si insegna per abituare l’intelletto a ben pensare, a costruire logicamente un periodo. È un esercizio logico anche l’economia. Se si volessero insegnare quelle nozioni economiche che i genitori possono immaginare siano “utili”, non basterebbero tre anni e 10 ore la settimana; e sarebbe fatica sprecata; perché non v’è necessità di imparare a memoria tutti gli istituti ed i fatti economici, bastando, all’uopo, sapere che ci sono dizionari e trattati e riviste dove quelle nozioni sono scritte. L’insegnante deve insegnare a ragionare, a vedere dentro ai fatti economici la parvenza esterna e la realtà vera; deve far vedere come nove su dieci dei ragionamenti economici correnti nei giornali, nei discorsi familiari, nei comizi, nei parlamenti sono dei sofismi; deve addestrare la mente a scoprire la verità tra mezzo ai molti errori. Formare la mente ed anche il carattere del giovane: ecco lo scopo della scuola media. A raggiungere il quale non sono necessari né i lunghi orari, né le prediche interminabili, né i programmi minutissimi. Tanto meglio anzi se il programma si limiterà alla semplice indicazione della materia da insegnare. L’insegnante valoroso sarà più libero di dire al giovane le nozioni che egli riterrà più atte ad interessarlo, a risvegliare ed esercitare la sua intelligenza, a renderla capace di risolvere problemi e superare difficoltà.

 

 

Che ha da far tutto ciò con le questioni dei professori? Molto più che non sembri a primo aspetto.

 

 

Perché, invero, c’è crisi nell’insegnamento secondario? Perché i professori sono mal pagati e non se ne trovano più abbastanza e solo gli scarti della gioventù universitaria si dedicano ad una professione così mal remunerata. E sono mal pagati, perché, essendo moltissimi e crescendone sempre il fabbisogno, la spesa totale aumenta benché gli stipendi unitari siano bassi. Facendo un esempio schematico, dato che in un paese ci siano 100.000 studenti divisi in 2.500 classi, a 40 per classe, numero eccessivo didatticamente, ma che talvolta viene superato, due vie si possono tenere: o il sistema degli orari lunghi, delle molte materie e dei programmi particolareggiati; od il sistema degli orari brevi, delle poche discipline e dei programmi ridotti al titolo della materia. L’uno può dirsi il metodo della forma, l’altro della sostanza; il primo della esteriorità infeconda, del funzionarismo, il secondo della scuola viva ed educatrice. Io dico che il secondo sistema consente assai meglio di risolvere il problema dei professori. Supponiamo infatti che lo stato non possa impostare in bilancio più di 10 milioni di lire per la scuola media, di cui si tratta. È possibile spenderle in due maniere, che si potrebbero ridurre in cifre come segue:

 

 

Orari lunghi Orari brevi
Numero studenti

100.000

100.000

Studenti per classe

40

40

Numero delle classi

2.500

2.500

Numero medio delle ore settimanali di lezione per ogni classe

26

16

Numero totale delle ore settimanali di lezione per tutte le classi

65.000

40.000

Numero medio delle ore settimanali di lezione per ogni professore

20

 16

Numero dei professori necessari

3.250

2.500

Stipendio medio

L. 3.076

4.000

Spesa totale per lo stato

L. 10.000.000

10.000.000

 

 

Naturalmente questo è un puro schema grezzo, che nella realtà dovrebbe adattarsi alle infinite esigenze della scuola; ma giova a mettere in chiaro come, con la stessa spesa, sia possibile: 1) pagare 1.000 lire circa di più di stipendio all’anno ad ogni professore e quindi farli star più contenti; 2) diminuire il numero delle loro ore settimanali di lezione da 20 a 16; 3) ridurre il fabbisogno di professori da 3.250 a 2.500, rendendone più facile e nello stesso tempo più rigoroso il reclutamento; 4) diminuire da 26 a 16 le ore di insegnamento settimanale per gli studenti.

 

 

Sui vantaggi del quale ultimo risultato ho già detto abbastanza; ma son vantaggi che crescono a mille doppi quando alla diminuzione degli orari per gli studenti si accompagni la diminuzione delle ore di lezione per i professori. Questi sono diventati, cogli stipendi bassi e colla necessità di guadagnar da vivere, delle macchine per vender fiato. Da vent’anni a questa parte le ore di fiato messe sul mercato dai professori secondari sono andate spaventosamente aumentando. Specie nelle grandi città, da 10 a 12 ore settimanali, che erano i massimi di un tempo, si è giunti, a furia di orari normali prolungati e di classi aggiunte, alle 15, alle 20, alle 25 e anche alle 30 e più ore per settimana. Tutto ciò può sembrare ragionevole solo ai burocrati che passano 7 od 8 ore del giorno all’ufficio, seduti ad emarginare pratiche. A costoro può sembrare che i professori con le loro 20 – 30 ore di lezione per settimana e colle vacanze, lunghe e brevi, siano dei perditempo. Chi guarda invece alla realtà dei risultati intellettuali e morali della scuola, deve riconoscere che nessuna jattura può essere più grande di questa. La merce “fiato” perde in qualità tutto ciò che guadagna in quantità. Chi ha vissuto nella scuola sa che non si può vendere impunemente fiato per 20 ore alla settimana, tanto meno per 30 ore. La scuola, a volerla fare sul serio, con intenti educativi, logora. Appena si supera un certo segno, è inevitabile che l’insegnante cerchi di perdere il tempo, pur di far passare le ore. Buona parte dell’orario viene perduto in minuti di attesa e di uscita, in appelli, in interrogazioni stracche, in compiti da farsi in scuola, ecc., ecc. Nasce una complicità dolorosa, ma fatale, tra insegnanti e scolari a far passare il tempo, pur di far l’orario prescritto dai regolamenti e di esaurire quelle cose senza senso che sono i programmi. La scuola diventa un ufficio burocratico, incaricato di tenere a bada per tante ore al giorno i ragazzi dai 10 ai 18 anni di età, e di rilasciare alla fine del corso dei diplomi stampati. Scolari svogliati, genitori irritati di dover pagare le tasse, insegnanti malcontenti: ecco il quadro della scuola secondaria d’oggi in Italia. Non dico che la colpa di tutto ciò siano gli orari lunghi; ma certo gli orari lunghi sono l’esponente e nello stesso tempo un’aggravante di tutta una falsa concezione della missione della scuola media.



[1] Con il titolo La crisi scolastica e la superstizione degli orari lunghi [ndr].

[2] Con il titolo La crisi scolastica e la superstizione degli orari lunghi [ndr].

Come crebbe la più grande banca italiana. I due miliardi delle casse postali

Come crebbe la più grande banca italiana. I due miliardi delle casse postali

«Corriere della Sera», 16 aprile 1913

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 495-500

 

 

 

 

Due notizie recenti intorno alle nostre casse postali di risparmio meritano di essere commentate: per la prima essendosi saputo che i depositi di risparmio postali hanno il 17 marzo scorso raggiunto i 2 miliardi di lire; e per la seconda essendo stato comunicato che in sua seduta del 6 aprile il consiglio dei ministri aveva approvato un disegno di legge presentato dall’on. Galissano, con il quale si eleva a 6.000 lire il limite massimo dei depositi postali per ciascun libretto. Una relazione recente del comm. Giuseppe Cacopardo, fino alla fine del marzo 1913 direttore generale dei vaglia e dei risparmi al ministero delle poste e telegrafi, consente di vedere per quali gradi, dai due milioni e mezzo di depositi del primo anno di istituzione, le casse di risparmio postali italiane sieno riuscite a mettere insieme i due miliardi di oggi e mette in chiaro le ragioni per cui si è deliberato di portare a 6.000 lire il limite massimo dei depositi su ciascun libretto.

 

 

La storia delle casse postali di risparmio si può distinguere in due periodi: uno più lungo, dalla istituzione fatta con legge del 27 maggio 1875 sino alla legge dell’8 luglio 1909; e uno di minor durata, dall’8 luglio 1909 ad oggi, in cui si iniziarono nuovi ordinamenti, capaci di imprimere rinnovato slancio ai depositi.

 

 

Il primo e più lungo periodo fu segnalato per due norme: di cui la prima diceva che su ogni libretto (ed una persona non poteva avere più d’un libretto) non poteva farsi un deposito fruttifero maggiore di 2.000 lire; mentre la seconda limitava ancor più i depositi, vietando di depositare in ogni anno più di 1.000 lire per libretto. Era evidente lo scopo che s’erano proposti i fondatori delle casse postali: offrire un asilo sicuro ai modesti risparmi dei piccoli capitalisti che non si fidavano né degli investimenti in titoli di rendita, né dei depositi presso banche e banchieri privati, e non avevano, vivendo lungi dalle città in luoghi di campagna, comodità di giovarsi di altre istituzioni di credito. Alzando lo sguardo oltre la cerchia della gente minuta, i fondatori delle casse postali ambirono altresì raccogliere i depositi temporanei della borghesia di medi proprietari, professionisti, impiegati, i quali possono avere delle giacenze di cassa momentanee, che consumeranno poi nel corso dell’anno, o impiegheranno in compra di titoli o in mutui, quando la somma si sia fatta alquanto più rotonda. Con questi intendimenti prosperarono le casse postali; le quali dalle lire 2.443.404 raggranellate alla fine del 1876 a mano a mano passarono a raccogliere 112.128.422 lire alla fine del 1883, e poi 400.039.468 lire alla fine del 1893 e, raddoppiando ancora, 869.224.123 alla fine del 1903; superando il miliardo, con 1.068.384.660 lire, alla fine del 1905; e toccando 1.506.497.274 lire alla fine del 1908; malgrado che l’interesse netto pagato ai depositanti fosse via via stato ridotto dal 4,25 al 4 e poi al 3,50, al 3,25 per cadere definitivamente al 2,64 %.

 

 

Nei primi mesi del 1909 un fatto nuovo e degno di riflessione si verificava per la prima volta: i depositi accennavano a discendere: dalle lire 1.506.497.274 alla fine di dicembre 1908 erano ancora saliti a lire 1.520.617.503 alla fine di gennaio 1909, per l’affluire consueto dei salari e guadagni e degli interessi esatti dalla clientela risparmiatrice nei primi giorni dell’anno; ma poi si era iniziata la discesa: a 1 miliardo e 516 milioni alla fine di febbraio, a 1 miliardo e 509 milioni alla fine di marzo, a 1 miliardo e 503 milioni alla fine di aprile, a 1 miliardo e 497 milioni alla fine di maggio ed a 1 miliardo e 492 milioni alla fine di giugno. Se la discesa fosse continuata, gran danno avrebbero sentito le provincie, i comuni, i consorzi pubblici, le istituzioni d’ogni fatta, le quali ricorrono ai fondi delle casse di risparmio per ottenere prestiti a mite interesse con cui costruire scuole, acquedotti, strade, manicomi, ospedali, ecc. Ben poteva darsi che il fenomeno fosse temporaneo, dovuto ai ritiri degli emigranti ritornati in patria in seguito alla crisi del 1907 negli Stati uniti, i quali potevano essersi trovati astretti a consumare parte dei risparmi prima accumulati. Ma poteva anche essere indizio di una tendenza più duratura, sia che le casse postali avessero soddisfatto intieramente ai bisogni di risparmio della clientela, sia che una parte dei loro clienti tendesse a spostare i depositi a pro delle casse ordinarie di risparmio o delle banche private, le quali vanno disseminando la penisola di succursali ed offrono ai depositanti ogni maniera di agevolezze, maggiori di quelle che prima della legge 8 luglio 1909 potevano fornire le casse postali.

 

 

L’aculeo della concorrenza insegnò alle casse postali la via da tenere. Anzi i depositanti l’avevano già spontaneamente indicata essi medesimi, violando la norma di legge la quale vietava di far depositi fruttiferi superiori alle 2.000 lire. Molti depositanti invero aprivano diversi libretti intestati ad altri nomi, cosicché, per quelli che osavano violare la legge, il limite delle 2.000 lire era diventato del tutto nominale. Queste nuove vie extra-legali furono appunto legalizzate con la nuova legge dell’8 luglio 1909, la quale stabilì: 1) che fosse abolito il divieto di non poter depositare più di 1.000 lire all’anno; 2) che fosse elevato a 4.000 lire il limite dei depositi fruttiferi; 3) che fossero autorizzati, come già lo erano le opere pie, anche i comuni, le provincie e gli enti morali a far depositi fruttiferi senza limiti di somma. Le casse postali estendevano così la cerchia della loro clientela. Da un lato offrivano alle istituzioni pubbliche il mezzo, di depositare fruttuosamente le giacenze di cassa, che talvolta rimanevano infruttifere in mano dei tesorieri; dall’altro si faceva appello alle classi più agiate ed altresì alle classi commerciali e viaggianti, mercé l’istituzione del libretto di riconoscimento, con cui il possessore di libretto postale può ritirare a vista il suo denaro in ogni tempo e in ogni località del regno, che sia sede di ufficio di posta. Come osserva il Cacopardo,

 

 

mercé l’elevazione a lire 4.000 dei depositi fruttiferi, si valgono del libretto postale di risparmio, in più largo numero e per somme sempre rilevanti, i numerosi commessi viaggiatori e tutti coloro che per ragioni di traffico e di commissioni sogliono percorrere da un capo all’altro la nostra penisola. Se ne valgono tutti coloro che per ragioni di studio, di professione, di rappresentanze, ecc. ecc., sono costretti a far lunghi viaggi dalla città nativa, dal proprio collegio alla capitale, o in altre sedi del regno, dove han bisogno di permanere per un periodo più o meno lungo: di questo numero sono molti deputati, senatori, consiglieri provinciali, componenti di commissioni, professionisti e quanti altri, mossi da necessità varie, sono obbligati a trasferirsi ed a sostare più o meno lungamente nei grandi centri. Se ne servono periodicamente, in certe stagioni dell’anno, tutte quelle famiglie che sogliono raccogliere a risparmio il soprapiù delle loro entrate ordinarie, per dedicarlo nella propizia stagione in viaggi e permanenze nelle sedi balnearie o di acque termali.

 

 

L’allargamento della clientela, consentito dalla nuova legge e facilitato da una adatta opera di propaganda dell’amministrazione, conseguì ben presto i suoi effetti. Mentre i depositi, dopo essere aumentati di 142 milioni nel 1906 e di 207 nel 1907, erano nel 1908 cresciuti soltanto più di 89 milioni di lire e nel primo semestre del 1909 erano anzi, come vedemmo, diminuiti di 28 milioni; subito dopo la promulgazione della legge 8 luglio 1909 crescono nuovamente: di 3 milioni nel secondo semestre del 1909 e di 160 milioni nel 1910.

 

 

A questo punto la virtù della legge sembra rallentarsi: dal primo gennaio 1911 al 28 febbraio 1912, ossia in 14 mesi, vi ha ancora un incremento di 92 milioni, ragguardevole bensì in vista della cresciuta concorrenza delle casse ordinarie e delle banche, che hanno moltiplicato negli ultimi anni le agevolezze ai depositanti e correntisti e della istituzione, avvenuta nel 1911, di casse postali di risparmio negli Stati uniti, le quali vorrebbero anche assorbire il risparmio dei nostri emigranti; ma, sebbene ragguardevole, pur sempre meno rapido di quello che fu nel secondo semestre del 1909 e nell’anno 1910. Dal 28 febbraio 1912, in cui erano di 1 miliardo e 893 milioni al 17 marzo 1913, in cui fu toccata la pietra miliare dei due miliardi, vi fu un ulteriore aumento di 107 milioni, aumento ragguardevolissimo, se si pon mente che le vicende politiche ed economiche dell’anno avrebbero potuto anche spiegare un eventuale consumo degli interessi ossia del reddito dei depositi. Ma tuttavia aumento inferiore a quello del secondo semestre del 1909 e del 1910.

 

 

Onde da tempo l’amministrazione pensava ad escogitare nuovi avvedimenti; ed il Cacopardo scriveva

 

 

che molte altre classi più benestanti potranno essere accaparrate, se l’amministrazione, convinta dalla fatta esperienza e perseverando nel proposito di dare una maggiore espansione al risparmio postale, addivenisse ad accrescere progressivamente il limite dei depositi fruttiferi fino alle lire 10.000, equiparandolo a quello oramai concesso per varie ragioni ai nostri emigranti all’estero; e se nel contempo, abbinando al servizio del nostro risparmio quello, in corso di studio, degli assegni e delle compensazioni postali, concedesse a questo ultimo mezzo di trasmissione di valori, nei piccoli centri non sedi di banche private, il beneficio di un misurato interesse per quelle somme che si volessero far restare in potere dell’amministrazione, oltre un determinato periodo di tempo.

 

 

Il disegno di legge, che ora si annuncia, dell’on. Calissano vuol percorrere la strada a gradi; e per ora comincia ad elevare il limite dei depositi da 4.000 a 6.000 lire. Nessun dubbio però che questo è un primo passo e che qui non si fermano le ambizioni dei reggitori delle casse postali di risparmio; poiché, ricordando le parole pronunciate, in occasione del dibattito sul monopolio assicurativo, dall’on. Giolitti, doversi cioè «concentrare nello stato le maggiori forze finanziarie», il Cacopardo affermava la necessità di

 

 

presidiare lo stato di forti risorse finanziarie, per metterlo in grado non solo di agevolare agli enti il compimento di opere pubbliche di vitale importanza, ma di esercitare nelle lotte economiche moderne, la propria azione moderatrice e difensiva, nel pubblico interesse.

 

 

Intorno alla quale ultima necessità è lecito rimanere pensosi e dubbiosi, sebbene le ragioni del dubbio siano troppo complesse per poter essere esposte nella conclusione di breve articolo. Non si può tuttavia rimanere dubbiosi intorno alle ragioni logiche che spingono ogni istituto a crescere ed a rafforzarsi nella lotta di concorrenza con gli altri istituti. Credevano i fondatori di offrire un sicuro asilo alle alcune centinaia di lire di risparmio della minuta gente italiana. Ma la gente minuta s’è fatta laboriosa in patria ed ha cercato fortuna all’estero ed i suoi risparmi sono cresciuti d’anno in anno a cifre che nel 1875 si sarebbero credute assurde. Né basta: i nuovi amministratori hanno visto che altre classi sociali, di commercianti, di professionisti, di viaggiatori, potevano aver bisogno dei servizi delle casse postali; onde essi quei servizi hanno creato e si apprestano ad allargarli con nuovi perfezionamenti. Sorte e cresciute nell’aura vivificatrice della concorrenza e della emulazione feconda con le casse ordinarie di risparmio, con le banche ed i banchieri privati, le casse postali hanno consentito alla Cassa depositi e prestiti, che ne amministra i fondi, di diventare la maggiore banca d’Italia; hanno fatto dello stato, qualunque sia il giudizio che di siffatta novità si voglia fare, il primo banchiere d’Italia; e, dopo di avere raccolto 2 miliardi, si apprestano, con l’elevamento del limite dei depositi a 6.000 lire, con la istituzione degli assegni e delle stanze di compensazione postali, a raccogliere in avvenire somme ancor maggiori. Né il loro giganteggiare ha nociuto ai concorrenti, che dovettero e devono tuttodì escogitare nuovi più perfetti congegni bancari per resistere nella lotta diuturna, la quale non lascia né vincitori né vinti. Non è questo forse la bellezza della libertà di assegnare la vittoria a tutti quanti sanno rendere servigio alle genti umane?

La relazione del direttore generale della Banca d’Italia e i problemi di circolazione

La relazione del direttore generale della Banca d’Italia e i problemi di circolazione

«Corriere della Sera», 4 aprile 1913

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 489-494

 

 

 

 

Istruttiva, come al solito, è la relazione che il direttore generale della Banca d’Italia ha letto all’ultima adunanza degli azionisti. Lo Stringher ha il merito di dir cose e di riassumere dati, i quali rimangono fondamentali per lo studio delle questioni relative all’economia italiana. Delle cui recenti vicende non è possibile discorrere, senza avere sott’occhio la serie delle diciannove relazioni pubblicate dalla fondazione della Banca d’Italia. Ognuna di esse, oltre le materie correnti, tratta e discute in special modo un problema capitale dell’anno; e, sia colle argomentazioni, sia colle statistiche sapientemente raccolte, gitta su di essi nuova luce. Quest’anno il posto d’onore è dato ai problemi del cambio e della circolazione, ed è un posto che davvero meritavano.

 

 

Non ridirò il pensiero dello Stringher intorno alle cause della ricomparsa dell’aggio. Egli abbraccia la teoria di quelli che fan risalire l’aggio alle perturbazioni politiche e belliche del 1912 ed ai turbamenti nella bilancia dei pagamenti internazionali; ma, come è naturale, non si diffonde a dare le ragioni del suo pensiero né espone i ragionamenti mercé i quali l’effetto aggio può essere ricondotto alle cause sopra elencate; cosa che può formare oggetto di una memoria scientifica e non d’una esposizione ad azionisti, la quale deve trattare di fatti e non di teorie. Ond’io, non avendo finora letto alcun ragionamento che valga a dimostrare la falsità della teoria da me addotta, rimango su questo punto in disaccordo con la tesi dello Stringher; e mi attengo ai fatti che egli sapientemente espone ed illustra. Alcuni di questi fatti, non potendo tutti, raccolgo dalle sue pagine, osservando che non sempre i dati risalgono al medesimo punto d’origine, essendo stati raccolti di su diverse tabelle dallo Stringher inserite in vari luoghi della sua relazione:

 

 

Circolazione totale media dei biglietti Circolazione coperta intieramente da riserva Protafoglio, anticipazioni e prorogati pagamenti Fondi pubblici posseduti dalla banca Creditoo della banca verso lo stato per uscita dei suoi biglietti Conto corrente attivo del tesoro

1903

 

285,1

285,1

1904

 

267,5

210,8

1905

 

929,9

457,6

300,7

216,1

1906

 

1061,9

623,7

377,7

202,4

1907

 

1250,2

724

431,1

174,3

1908

 

1352,7

856,5

446,4

162,9

1909

 

1374,6

896,7

467,4

163,9

1910

 

1430,1

864,7

553,9

162,7

59,9

151,5

1911

 

1505,8

856,9

580,1

163,9

95,2

143,3

1912

 

1631

865,3

583,9

166,4

176,4

89,1

 

 

I fatti sono sintetizzati quasi compiutamente dalle cifre sovra riportate. Noi abbiamo una circolazione totale la quale cresce dal 1905 al 1912 di circa 700 milioni di lire, con un aumento che è specialmente rapido nei primi anni sino al 1908 – in quattro anni 423 milioni circa di aumento -; ed è allora aumento quasi per intero coperto da equivalente riserva metallica. Sono gli anni in cui per l’estendersi degli affari nel paese, la carta circolante non basta più ai bisogni del commercio, onde il vuoto viene spontaneamente colmato dall’oro che dall’estero entra in Italia. L’oro viene assorbito dalle banche d’emissione, le quali emettono in sua vece biglietti; onde la parte della circolazione di biglietti intieramente coperta d’oro cresce da 457 ad 856 milioni. Per qualche anno, dal 1908 al 1911, nuovo oro non entra più in quantità notevoli in paese, la circolazione essendo sufficiente ai bisogni; ma la circolazione totale cresce ancora, da 1 miliardo e 352 milioni a 1 miliardo e 505 milioni di lire, non più perché le banche emettano biglietti come contropartita dell’oro che immagazzinano; ma semplicemente per avere i mezzi onde scontare le maggiori quantità di carta commerciale che si presenta allo sconto e che cresce da 446 a 580 milioni di lire. All’ingrosso si potrebbe dire che dal 1905 al 1908 i biglietti crescono in quanto rappresentano oro spontaneamente venuto in Italia ed immagazzinato nei forzieri delle banche; e dal 1908 al 1911 crescono ancora in quanto il commercio, l’industria e la banca hanno chiesto alla banca 130-140 milioni di più di sconti e la banca non aveva altri mezzi di soddisfare a queste domande fuorché emettendo biglietti parzialmente coperti.

 

 

Nel 1911 cessa di operare anche la seconda delle due cause ora dette di aumento della circolazione; non solo non entra più oro in paese in cifre importanti, ma anche il portafoglio commerciale e le anticipazioni su titoli rimangono fissi sui 580 milioni circa. Ciononostante la circolazione totale aumenta ancora da 1 miliardo e 505 milioni a 1 miliardo e 631 milioni. La causa si legge nelle due ultime colonne della tabellina. Noi vediamo ivi che il credito in conto corrente del tesoro verso la banca diminuisce da 150 milioni a 90 milioni circa. Il tesoro, premuto da bisogni diversi, tiene meno fondi disponibili presso il suo banchiere; e quindi la banca la quale di quei fondi si giovava per fare sconti al commercio, deve nel 1912 farli ricorrendo ad altri mezzi, ossia emettendo biglietti parzialmente coperti.

 

 

Si vede anzi che la banca non solo ha dovuto emettere maggior copia di biglietti per far gli sconti commerciali che prima faceva coi fondi del tesoro presso di essa depositati, ma ha dovuto altresì emettere biglietti per consegnarli allo stato; ne aveva in media consegnati 599 milioni nel 1910, ne diede 95,2 nel 1911 e giunse a 176,4 nel 1912.

 

 

Sono così chiare le cause per cui dal 1905 al 1912 la circolazione media totale della Banca è cresciuta di 700 milioni:

 

 

1)    l’entrata spontanea dell’oro in paese nel periodo di rigoglio della nostra economia, rigoglio che culminò nel 1905 – 907 e durò ancora nel 1908. L’oro, captato dalle banche e trasformato in biglietti, non uscì dal paese;

 

 

2)    l’aumentata richiesta di sconti alla banca in un periodo, come quello che va dal 1908 al 1912, il quale deve definirsi di raccoglimento e non di espansione industriale. Durante il periodo di raccoglimento, l’industria non poté più trarre alimento dal capitale privato; e dovette di preferenza chiedere sostegno agli istituti di emissione, e questi lo diedero emettendo biglietti e scontando cambiali;

 

 

3)    il ritiro da parte del tesoro di fondi giacenti presso il suo banchiere e la richiesta di biglietti-richiesta legittima, perché lo stato aveva in media depositato presso la banca 192,5 milioni di valute oro ed argento nel 1910, che salirono a 212,6 nel 1911 ed a 261,5 nel 1912 – che il tesoro ebbe bisogno di spendere.

 

 

Quali i rimedi all’aumento della circolazione ed al suo inevitabile effetto che è l’aggio? I rimedi stanno già attuandosi oculatamente dallo Stringher, il quale si dimostra in parecchi punti della sua relazione deciso a diminuire la circolazione totale. Egli non ritiene, è vero, che l’eccessiva circolazione sia la causa dell’aggio; ma il dissenso non toglie che egli veda la necessità di ridurre la circolazione. E, poiché ciò che importa non è di andar d’accordo sulla teoria delle cause dell’aggio, ma sulla necessità di diminuire la circolazione, faccio plauso ai suoi atti, lieto se altri atti seguiranno, intonati al medesimo intento. Diminuita la circolazione, e scomparso l’aggio, ognuno potrà rimanere del suo avviso intorno alle cause che fecero comparire e scomparire l’aggio. Ciò non monta; purché si sia d’accordo nel ritenere che bisogna dar opera a diminuire la circolazione.

 

 

In due maniere lo Stringher sta dando opera a frenare la circolazione. In primo luogo «per temperare il movimento ascendente» degli sconti e delle anticipazioni saliti da 446 milioni nel 1908 a 580 milioni nel 1911 «di fronte alle condizioni della circolazione eccedente il secondo ed anche il terzo limite legale, e alla tendenza del cambio ad aggravarsi, la banca promosse successivamente l’applicazione di una più alta ragione di sconto e di interesse, sino a rendere generale, senza eccezioni, il saggio di 6 percento. E questo saggio ha mantenuto ancora quando, superata la fine d’anno, rapidamente vennero rientrando i biglietti per il successivo ristringersi delle operazioni di credito». Al 10 marzo 1913, mercé questa rigida politica del saggio dello sconto, portafoglio ed anticipazioni sono caduti da 580 milioni, media del 1912, a circa 460 milioni. Questa è sana politica bancaria e non possiamo che farvi plauso. I biglietti di banca non sono fatti per scontare carta commerciale, anche di primissimo ordine, ma esclusivamente per sovvenire ai bisogni degli scambi; e, quando la comparsa dell’aggio avverte che di biglietti ve ne sono troppi per il fine degli scambi, bisogna a qualunque costo ridurre gli sconti, per far rientrare i biglietti in cassa e non rimetterli più fuori. Ciò può essere poco popolare; ma i dirigenti sanno che loro ufficio è di servire all’interesse pubblico e far scomparire l’aggio, anche con danno di coloro che hanno bisogno di prestiti.

 

 

Il secondo metodo tenuto dallo Stringher per diminuire la circolazione totale, si fu quello di insistere presso il governo perché fosse «data equa soddisfazione ad un desiderio da tempo manifestato dalla banca» ed è di essere autorizzata a diminuire di 40 milioni il fondo impiegato in valori pubblici destinati a garanzia del servizio delle tesorerie provinciali. Per vedere come questo desiderio fosse onesto e come bene abbiano fatto governo e parlamento a darvi soddisfazione, i lettori guardino alla colonna della tabellina sovra riportata che ha il titolo fondi pubblici posseduti dalla banca. Investire capitali in fondi pubblici, ossia in titoli dello stato, non è ufficio di un istituto di emissione. Negli ultimi tempi, avere 166 milioni di lire investiti in valori pubblici aveva acquistato il preciso significato di voler mantenere la circolazione di 166 milioni più alta di quanto non fosse necessario. Adesso, mercé la vendita di 40 milioni di titoli a cui la banca, con insistenze di anni, è riuscita a farsi autorizzare, essa incasserà 40 milioni di lire di biglietti e potrà diminuire d’altrettanto la circolazione. Insista ancora lo Stringher per ottenere altre autorizzazioni di smobilizzo; ed avrà aggiunte nuove benemerenze a quelle che già s’è acquistato.

 

 

Non aggiungo: insista lo Stringher a farsi autorizzare a dar via una parte dell’oro che la banca ha nelle cantine; e non insisto perché purtroppo siamo pochi in Italia ad essere persuasi che l’oro è una merce inutile e che può essere pernicioso immagazzinarne troppo emettendo in cambio biglietti. Ci si dovrà abituare all’idea di dar via l’oro, anche a rischio di vederlo uscire dal paese; e, a parer mio, sarebbe urgente di imitare l’Austria e la Grecia che fanno obbligo alla banca di vendere divisa estera, quando il cambio sale oltre un certo punto. Ma, ripeto, questo non è invito che si possa rivolgere ai direttori degli istituti di emissione, bensì al legislatore. Ai dirigenti gli istituti si deve chiedere che essi facciano quel limitato bene che dalle leggi vigenti è consentito.

 

 

I frutti di una rigida politica di sconti e di un graduale smobilizzo forse non si faranno sentire né in un giorno, né in un mese. Come ho avvertito altra volta, discorrendo di aggio, il tempo si misura in economia ad anni, o meglio a quinquenni o decenni. Ma alla lunga il successo non può non arridere a coloro che tenacemente perseguono una politica economica sana. Oggi, in materia bancaria, il programma su cui di fatto, se non in teoria, i reggitori della pubblica finanza sono d’accordo con gli studiosi non può essere che uno solo: ridurre la massa totale dei biglietti circolanti nel paese, allo scopo di restituire ad essi parità di pregio con l’oro.

La tensione del cambio e le sue cause

La tensione del cambio e le sue cause

«Corriere della Sera», 20 marzo, 2 aprile[1] 1913

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 475-488

 

 

 

 

1

 

Il rialzo del cambio al disopra del 102 è forse il fatto che maggiormente interessa il mondo economico nel momento presente. Riassumiamo l’andamento del fenomeno, dando le cifre del prezzo medio del cambio su Francia dal 1903 in poi:

 

 

Anno

 

1903

 99,95

1904

100,14

1905

99,92

1906

99,94

1907

99,97

1908

100,02

1909

100,44

1910

100,52

1911

100,54

gennaio ottobre

 

1912

100,91

 

 

Avendo voluto ricavare i dati da fonti ufficiali, e cioè dalla nota memoria dello Stringher su la bilancia dei pagamenti fra l’Italia e l’estero e dalla esposizione finanziaria Tedesco del 7 dicembre 1912, i dati si arrestano a fine ottobre. Ma è noto che dopo d’allora i cambi hanno continuato a crescere ed in marzo oscillarono tra il 102 e il 102,35 per ridursi però in seguito a 101,88. Il rialzo in questi ultimi giorni si è attenuato, ma rimane ancora degno di attenta considerazione.

 

 

Quali le cause? La più frequentemente addotta è quella di un peggioramento nella bilancia dei pagamenti internazionali. L’Italia, si dice, compra all’estero più di quanto non venda e deve saldare la differenza in oro. Più è grossa la differenza passiva, più è forte la ricerca dell’oro, onde il rialzo del suo prezzo in carta.

 

 

Esaminiamo i fatti. Ecco quale fu nell’ultimo decennio lo sbilancio del commercio internazionale (cifre in migliaia di lire):

 

 

Importazione

Esportazione

Eccedenza

delle importazioni

1903

1.813.416

1.413.028

400.388

1904

1.877.544

1.572.592

304.952

1905

 

2.015.775

1.705.315

310.457

1906

 

2.514.351

1.905.949

608.402

1907

 

2.880.669

1.948.868

931.801

1908

 

2.913.274

1.729.263

1.184.011

1909

3.111.710

1.866.889

1.244.820

1910

 

3.245.975

2.079.977

1.165.998

1911

 

3.389.297

2.204.273

1.185.024

1912

3.604.104

2.396.146

1.207.958

 

 

 

È chiaro che la causa del recente aumento del cambio non può trovarsi nel cosidetto sbilancio del commercio internazionale. Sono cinque anni oramai che lo sbilancio batte su 1 miliardo e 200 milioni ed il cambio, se questa fosse la causa del suo aumento, avrebbe dovuto aumentare fin dal 1908; il che non avvenne. Ed è noto inoltre che il cosidetto sbilancio non esiste. Lo Stringher ha dimostrato limpidamente per il 1910 che lo sbilancio in merci è compensato in grandissima parte da crediti invisibili derivanti da rimesse degli emigranti, spese dei viaggiatori stranieri in Italia, guadagni della marina mercantile, ecc. Rimane una differenza così piccola che può spiegarsi con eventuali errori di valutazione nelle statistiche commerciali. E, caso mai, la stessa differenza esisteva da cinque anni e non può essere stata la causa di un fenomeno così recente come l’aumento del cambio oltre il 100,50.

 

 

Né si dica che lo sbilancio in merci è cresciuto nei primi mesi del 1913. Conosciamo le cifre del gennaio; e queste ci dicono che le importazioni sono aumentate di 10.845.000 lire; ma, poiché le esportazioni sono aumentate ancora più, di 12.916.000 lire, è evidente che lo sbilancio è diminuito in gennaio di circa 2 milioni di lire. Fino alla fine gennaio non pare dunque che le maggiori spese per la compra del grano, per la maggior spesa del carbone, ecc. ecc. abbiano avuto la virtù di accrescere lo sbilancio a nostro sfavore.

 

 

Si osserva, è vero, che in questi ultimi mesi sono diminuiti i crediti invisibili, perché i nostri emigranti mandano meno denari in patria, sia per essere i loro risparmi diminuiti, sia per avere gli emigranti negli Stati uniti preso l’abitudine di depositare i loro denari nelle nuove casse postali istituite dal governo americano, ed anche perché nell’inverno 1912-13 vi sarebbero stati meno forestieri in riviera. Tutto ciò può darsi; ma perché non confessare che non ne sappiamo niente, e che si può ragionevolmente rimanere incerti di fronte alle asserzioni di altri, che asseverano aumentate le falangi dei viaggiatori stranieri e non diminuite le rimesse degli emigranti? Continuano ancora taluni affermando che i debiti invisibili sono aumentati: 1) perché molti capitalisti italiani mandano le cedolette della rendita ad esigere a Parigi, appunto per godere della differenza nel cambio; 2) che furono cospicue le ricompre della rimanente rendita italiana all’estero; 3) non indifferenti gli acquisti di buoni del tesoro austriaci, ungheresi, rumeni e di altri valori esteri; 4) forti le somme che il tesoro dovrebbe pagare in oro nella Libia per approvvigionamenti militari, che dall’estero vanno direttamente nella colonia. Tutto ciò può essere vero, sebbene non esista alcun dato preciso in proposito; ma nulla si sa altresì intorno ad eventuali fattori compensatori, come sarebbero le eventuali vendite di titoli italiani all’estero da parte di privati o di banche – fu scritto che qualcosa fu venduto -, l’immigrazione di capitali stranieri a finanziare nostre imprese ferroviarie, tramviarie, elettriche, ecc.

 

 

Talché si può rimanere fondatamente scettici intorno alla spiegazione che si darebbe dell’aumento dei cambi collo sbilancio dei pagamenti internazionali. Ammettiamo pure, del resto, che esista uno sbilancio grosso, di 500 milioni, per esempio, per il paese in un dato anno; sbilancio che deve essere pagato in oro. Forseché da ciò deriva necessariamente l’aumento del cambio oltre un certo segno, quel segno che i tecnici chiamano punto superiore dell’oro e che possiamo presumere in 100,50? Mai no. Dallo sbilancio deriva soltanto la conseguenza che bisogna mandare all’estero 500 milioni di lire d’oro, non l’altra conseguenza, tutta diversa, che la rimanenza del nostro stock monetario debba deprezzare. Un paese ha una circolazione di miliardi di moneta, oro o carta convertibile in oro. Se c’è uno sbilancio, capiterà tutt’al più che andranno all’estero 500 milioni d’oro, rimanendo il paese con 2 miliardi e 500 milioni. Ma non c’è nessuna ragione plausibile perché i 2 miliardi e 500 milioni restanti debbano deprezzare, ossia che, dopo, si debbano dare 102 lire per comprare una data quantità di merce invece di 100 lire che si davano prima. Anzi, i 2 miliardi e 500 milioni di moneta, essendo in minor quantità, diventeranno più cari, e basterà darne 99 per avere quella stessa quantità di merce che si aveva prima con 100. Dal processo nasce la riduzione e poi la scomparsa dello sbilancio commerciale: per molte maniere, di cui una sarebbe questa, che gli stranieri non hanno convenienza ad importare in un paese dove le merci valgono solo 99, mentre i nazionali hanno interesse ad esportare all’estero, dove le merci valgono 100. Onde diminuiscono le importazioni e crescono le esportazioni; il che vuol dire: diminuiscono i debiti e crescono i crediti, e lo sbilancio scompare. Il processo reale è più complesso, ma in un articolo è impossibile tracciare nulla più delle grandi linee.

 

 

La realtà è che l’aumento del cambio oltre il 100,50 (ed il cambio dicesi meglio aggio oltre questo punto) può sorgere non a causa dello sbilancio, ma solo se lo sbilancio si verifica contro un paese che ha una circolazione cartacea a corso forzoso e dove la circolazione è sovrabbondante. Anzi, non c’è nemmeno bisogno del solito famigerato sbilancio dei pagamenti per provocare la comparsa dell’aggio. Basta che ci siano troppi biglietti. Se un paese ha 2 miliardi e 700 milioni di biglietti a corso forzoso e questi biglietti sono troppi per fare gli affari del paese, per negoziare, ai prezzi correnti, le merci, i servigi che sono commerciatì in esso, è inevitabile che in quel paese la carta deprezzi rispetto all’oro. Nei paesi dove non c’è corso forzoso, con 100 lire di oro si compra, ad esempio, una tonnellata di una certa merce; all’interno, se la quantità dei biglietti fosse solo di 2 miliardi e 400 milioni, per avere una tonnellata della stessa merce bisognerebbe dare altresì 100 lire in carta; e ciò perché di biglietti all’interno ve n’è, fatte le proporzioni, né più né meno di quanto ci sia all’estero di moneta d’oro o di biglietti convertibili in oro. Ed allora è evidente che il biglietto da 100 lire vale quanto 100 lire d’oro, ambedue comprando la stessa tonnellata di merce.

 

 

Ma se all’interno vi sono 2 miliardi e 700 milioni di biglietti, è inevitabile che ognuno di essi valga di meno, ossia compri meno merci di quello che varrebbe e comprerebbe se i biglietti sommassero solo a 2 miliardi e 400 milioni; onde è logico che per la solita tonnellata della stessa merce si debbano dare non più 100, bensì 102 lire di moneta cartacea.

 

 

Applichiamo adesso la nota regola aritmetica per cui due cose uguali ad una terza sono uguali anche tra di loro; ed avremo che – essendo 100 lire in oro all’estero uguali ad una tonnellata di una data merce, e 102 lire in carta all’interno uguali alla stessa tonnellata della stessa merce, – 100 lire in oro all’estero dovranno essere uguali a 102 lire in carta all’interno. Ecco la causa dell’aggio: l’esuberanza della carta interna a corso forzoso, la quale deprezza perciò in confronto alle merci e quindi in confronto all’oro, che continua invece a scambiarsi colle merci nella stessa ragione di prima.

 

 

Che la circolazione sia aumentata in Italia è innegabile. I biglietti di stato dopo il 1895 da 400 sono passati a 500 milioni; i biglietti di banca dal minimo di 1 miliardo e 69 milioni al 31 dicembre 1896 passarono a 2 miliardi e 254 milioni al 31 ottobre 1912. Anche ammettendo che oggi i biglietti di banca in circolazione non superino i 2 miliardi e 150 milioni, si vede che in complesso i biglietti (di stato e di banca insieme) sono passati da 1 miliardo e 550 milioni circa a 2 miliardi e 650 milioni circa. Se si tiene conto che è aumentato anche l’uso degli assegni bancari, che la moneta circola più rapidamente, talché con minor quantità di essa si può far fronte ad una massa maggiore di transazioni, viene legittimo il dubbio che ci siano troppi biglietti in circolazione. Dico il dubbio, perché per se medesimo l’aumento della circolazione non vorrebbe dir nulla, se gli affari, i traffici, ossia il bisogno di moneta fossero aumentati nella stessa misura. Ma il dubbio si rafforza se si pensa che dal 31 dicembre 1906 al 31 ottobre 1912 i biglietti di banca (quelli di stato aumentarono in questo più ristretto periodo di poco ed in sostituzione di altre monete d’argento) aumentarono da , 1 miliardo e 60 milioni a 2 miliardi e 254 milioni. Donde poteva nascere in sei anni questo maggior bisogno di 600 milioni di moneta circolante? L’agricoltura va meglio e vende a prezzi alti; ma l’industria e il commercio a fine 1906 erano in pieno rigoglio di espansione, come non sono certamente oggi.

 

 

A spiegare l’aumento dell’aggio fu anche addotta la ragione dei gravi commovimenti internazionali che agitarono l’Europa dal settembre in qua ed avrebbero provocato dappertutto tesaurizzazione di oro da parte dei privati e quindi una perturbazione nei cambi in ogni paese contro Parigi e Londra, le grandi detentrici dell’oro così ricercato. Per vedere quanto vi sia di vero in questa spiegazione, riproduco dall’«Economiste europeen», il seguente confronto dei cambi al 29 agosto 1912 (prima della guerra balcanica) e al 13 marzo 1913 (ultimo numero di quel giornale). Le cifre dicono quanto 100 franchi di biglietti francesi valgono all’estero nella moneta nazionale dei singoli paesi. Se le cifre sono superiori a 100, vuol dire che il cambio su Parigi è superiore alla pari, ed inversamente se le cifre sono inferiori:

 

 

29 agosto

1912

13 marzo

1913

Diminuzione od aumento del cambio su Francia tra le due date

 

Turchia

99,26

99,83

+0,57

Inghilterra

99,75

 99,89

 +0,74

Germania

99,97

 100

 +0,03

Grecia

99,87

 100

 +0,13

Olanda

99,57

100,12

 +0,61

Egitto

99,77

 100,12

 +0,35

Stati uniti

 100,05

 100,25

 +0,20

Russia

99,97

100,34

 +0,37

Svizzera

 100,73

100,38

 +0,25

Scandinavia

 100,36

 100,54

 +0,18

Belgio

 100,25

 100,59

 +0,34

Austria-Ungheria

 100,25

 100,66

 +0,47

Italia

 100,88

 102,04

 +1,16

Rumenia

 99,95

 102,65

 +2,70

Spagna

 105,48

 108,23

 +2,75

Portogallo

108,73

 113,12

 +4,39

 

 

In questa tabella le cifre relative all’Italia non sono le più alte del mese di marzo. Prendiamo nota che dopo la prima settimana di marzo il cambio italiano è ribassato così che il rialzo dalla fine d’agosto 1912 ad oggi è soltanto da 100,88 a 102 circa, cosicché ci sarebbe una variazione di un punto soltanto. Nel suo complesso il confronto dimostra che probabilmente lo stato di guerra e l’irrequietudine politica europea hanno esercitato una certa, ma moderata, influenza sfavorevole sui cambi di tutti i paesi su Parigi, grande riserva d’oro e grande creditrice insieme. Due soli paesi conservano il cambio favorevole con la Francia: l’Inghilterra, per cui non occorrono spiegazioni e la Turchia, la quale dalla propria situazione arretrata è salva dai rischi della moneta di carta, mentre la Germania e la Grecia (la quale deve avere migliorato moltissimo il suo sistema monetario se, durante una guerra, ha potuto conservare tanto bene il valore della sua dracma), conservano il cambio suppergiù alla pari. Viene poi un gruppo di paesi elencati nella lista, dall’Olanda sino all’Austria-Ungheria, contro cui i cambi si mossero sfavorevoli per differenze da 0,18 a 0,61. Non avendo nessuno di questi paesi superato il 100,66, possiamo ammettere che si tratti di variazioni dovute al tesaurizzamento dell’oro ed alle correnti monetarie, forse perturbate dalle contingenze politiche. Ma è difficile spiegare con semplici perturbazioni monetarie politiche l’aumento dell’1% dell’Italia, del 2,70% della Rumenia, del 2,75% della Spagna, del 4,39% del Portogallo. Per questi due ultimi paesi, si sa che sono paesi a circolazione cattiva, esuberante. In Italia siamo; per fortuna e sapienza dei reggitori delle banche, ben lontani da questi estremi. Ma è chiaro che è più facile far deprezzare una merce – e la carta moneta è una merce come le altre – esuberante in quantità, di cui ci siano forti stocks disponibili, che non una merce appena sufficiente ai bisogni del mercato. L’occasione del deprezzamento sono la guerra, i torbidi politici, ecc. ecc.; ma l’occasione non varrebbe a nulla, se mancasse il motivo, la causa vera del deprezzamento della carta, che è la sua esuberanza.

 

 

Onde noi possiamo concludere che l’occasione, il pretesto del rialzo del cambio è la torbida situazione internazionale; ma a nulla i pretesti avrebbero valso, se alla speculazione non si fosse fornito modo di provocare il rialzo, se cioè si fosse contenuta la circolazione entro limiti più ristretti. Non basta ridurre la circolazione eccedente, come sapientemente si e fatto negli ultimi due mesi: bisogna ridurre ancora la circolazione totale perché è la circolazione totale e non quella eccedente che pesa sul mercato. Coloro che oggi reggono l’alta banca e la cosa pubblica hanno il merito di avere, in passato, risanata la circolazione; ed è certo che essi sapranno oggi togliere la causa fondamentale dell’aggio; causa che sinora ha prodotto piccoli effetti, ma ben più gravi potrebbe produrre in avvenire, ove non fosse pronto il rimedio. Già desso fu in parte apprestato, poiché la circolazione totale fu ridotta già di forse un centinaio di milioni in confronto ai massimi del secondo semestre 1912. Gioverà che l’opinione pubblica incoraggi a compiere altri passi su questa via coloro che hanno la responsabilità della eccellenza della nostra moneta circolante, condizione primissima di ogni progresso economico.

 

 

2

 

Il prof. De Johannis sulla «Tribuna», un collaboratore del «Momento economico» di Milano, il Monzilli sull’«Economista d’Italia», il signor g. g. sul «Secolo», mi hanno fatto l’onore di occuparsi dell’articolo che ho scritto sulle cause dell’aumento del cambio; combattendo tutti, più o meno, la tesi che l’aumento del cambio sia dovuto alla sovrabbondanza della circolazione cartacea. Contro una tesi, consimile alla mia, sostenuta dal prof. Giulio Alessio come relatore della giunta generale del bilancio furono scritti sull’«Economista d’Italia» parecchi articoli, il cui stile tradisce la penna di un competentissimo, per scienza e pratica, scrittore di cose bancarie. Non io certo presumo di aver ragione di un oste così compatta e valorosa. Tanto più che, a voler discutere tutti gli argomenti dei miei contraddittori, dovrei andar troppo più per le lunghe di quanto disgraziatamente già non sia costretto ad andare dall’indole degli argomenti trattati e rischierei di disamorare il pubblico dallo studio di problemi, come quelli monetari, che, forse più di ogni altro, interessano la fortuna di ognuno e la pubblica prosperità, ma sono nel tempo stesso irti di troppo tecnicismo per essere apprezzati come dovrebbero. Tutti dicono di interessarsi dei problemi sociali; ma tutti, anche i socialisti, che fan professione di tutori delle masse, si annoiano a sentir parlare di dogane e di moneta, sebbene dogana e moneta interessino le masse operaie e contadine, nonché i commercianti e gli industriali piccoli e grandi, enormemente di più della legislazione del lavoro e delle assicurazioni sociali. Se questi ultimi fattori possono esercitare una influenza come uno sul benessere delle classi lavoratrici, non vi è dubbio che i buoni o cattivi sistemi doganali e monetari possono esercitare una influenza come dieci. Eppure tutti discorrono di legislazione sociale e quasi tutti abbandonano le discussioni doganali e monetarie agli iniziati. Rompere questa cerchia di diffidenze è un dovere; ma è naturale che l’impresa imponga a chi la tenta di adattarsi a forme di linguaggio poco rigorose e di astenersi dall’entrare in particolari che riuscirebbero fastidiosi ai lettori. Mi limiterò perciò a discutere due principali obiezioni che mi sono state fatte; l’una delle quali dice essere inutile andar cercando nell’aumento della circolazione la causa dell’aggio, quando l’esperienza giornaliera ci ammaestra che l’aggio è dovuto ai forti pagamenti all’estero, ai tesaurizzamenti di oro, alle minacce di guerra; mentre l’altra osserva che l’aggio non può essere dovuto all’aumento della circolazione, non essendo i due fatti sincroni, non sussistendo cioè che quando, mese per mese o trimestre per trimestre, la circolazione aumenta aumenti anche l’aggio, ma essendo spesso succeduto precisamente il contrario. L’una potrebbe chiamarsi l’obiezione positiva, come quella che dà altre cause al sorgere dell’aggio; la seconda sarebbe obiezione negativa, perché tende a mettere nel nulla la spiegazione che fu da me e da altri ammessa come evidente.

 

 

Notisi prima, che a bella posta ho adoperato il termine aggio, per accentuare, ciò che del resto era implicito, che io non avevo affatto inteso occuparmi delle oscillazioni del cambio sull’estero. Finché il cambio oscilla tra 99,50 e 100,50 circa (bisogna prendere queste cifre con una certa latitudine), noi ci troviamo di fronte ad un semplice fatto di cambio; fatto che può verificarsi in ogni paese, anche in quelli che hanno biglietti permutabili a vista in moneta metallica vera. Le oscillazioni tra 99,50 e 100,50 possono benissimo essere dovute ai maggiori o minori pagamenti che si debbono fare all’estero, all’abbondanza o scarsità di divisa estera sul mercato. Ma è evidente che il cambio non può salire al disopra di 100,50; perché se anche la divisa estera fosse scarsissima, se anche si dovessero fare grossi pagamenti all’estero senza contropartita, la divisa estera non potrebbe valere più di 100,50 circa; perché, altrimenti, converrebbe portare i biglietti al cambio, farsi dare oro, e spedirlo, assicurato, all’estero in pagamento dei propri debiti. E poiché a spedire ed assicurare 100 lire d’oro all’estero non costa più di 50 centesimi circa (perciò ho addotto questa cifra, mentre in realtà la cifra è variabile a seconda dei paesi, delle somme, delle spese di spedizione ed assicurazione) così non conviene pagare la divisa estera più di 100,50. Se davvero dal 1908 al 1911 avessimo avuto uno sbilancio effettivo di 1 miliardo e 200 milioni, questo non avrebbe potuto avere altro effetto che quello che si verificò, per questa od altra causa, in quegli anni e cioè di spingere i cambi sino verso il 100,50. Se nel 1912 i cambi superarono il 100,50 e si trasformarono in aggio, questa nuova conseguenza non poteva essere dovuta alla vecchia causa, ossia allo sbilancio commerciale, la quale era invariata e che, come non era riuscita in passato a spingere i cambi oltre il 100,50, così non avrebbe potuto avere dopo questa virtù.

 

 

Tutti i paesi hanno o possono avere uno sbilancio commerciale, anche più grosso del nostro; eppure non v’è paese del mondo, dove non esista il corso forzoso, in cui il cambio mai si possa trasformare e mai si sia trasformato in aggio, ossia salire oltre il 100,50. L’aggio compare solo dove esiste corso forzoso e dove, inoltre, esiste molta carta a corso forzoso, tanta che, accanto ad essa, non si vede più circolare l’oro, perché essa carta basta a tutti i bisogni del commercio. In Francia, dopo il 1870, malgrado il corso forzoso, in anni parecchi la carta moneta non bastava ai bisogni del commercio ed accanto ad essa circolava oro allo stesso corso, ed in quegli anni, malgrado il corso forzoso, l’aggio era sconosciuto. Anche in Italia, dal 1903 al 1907, non bastando la carta ai bisogni del commercio crescente, l’oro era affluito da sé in paese e si vedeva circolare alla pari con la carta; e l’aggio era scomparso. Scomparve l’oro dalla circolazione, quando un po’ per volta la carta divenne prima bastevole da sola e poi sovrabbondante ai bisogni del commercio; ed a questo punto l’aggio fece la sua comparsa. Quando si dice che la sovrabbondanza della circolazione è la causa dell’aggio, si adopera invero, per adattarsi al comune modo di parlare, una locuzione impropria. In verità, si dovrebbe dire che aggio dell’oro sulla carta è sinonimo di deprezzamento della carta ed a sua volta il deprezzamento della carta è un fatto incomprensibile se non è contemporaneo alla sovrabbondanza della carta in Italia in confronto all’oro all’estero. La parola aggio è un modo abbreviato di discorrere, il quale vuol dire semplicemente questo: che in Italia esiste tanta cartamoneta (ossia tanta merce scelta dagli uomini o dai loro reggitori per l’ufficio di rendere facili gli scambi) che bisogna dare un biglietto su cui sono stampate le parole 102 lire per avere, supponiamo, una tonnellata di una certa merce; ed invece all’estero esiste (per adempiere allo stesso ufficio di strumento degli scambi) tanto oro che basta dare un disco su cui sono incise le parole 100 lire per avere l’uguale tonnellata di merce. Il che non può avere altro significato che questo: essere più abbondanti, rispetto alle merci, in un paese i biglietti che nell’altro l’oro. Se così non fosse, e se la cartamoneta non facesse ingombro, perché gli uomini, i quali in genere conoscono il proprio interesse, darebbero 102 lire di carta quando altri uomini danno appena 100 lire di oro?

 

 

Obiettano i negativisti: se le cose da voi dette fossero vere, dovrebbe ad ogni aumento nella quantità di carta in circolazione corrispondere un deprezzamento della carta stessa ossia un aumento nell’aggio, e viceversa: ad ogni diminuzione nella quantità della carta dovrebbe corrispondere una diminuzione nell’aggio. E mi scaraventano addosso cifre da cui risulta che, nei mesi o nei trimestri in cui la quantità della carta aumentò, l’aggio diminuì e viceversa aumentò quando la carta diminuiva. E concludono: ecco che i fatti smentiscono la vostra teoria. Alla quale però nulla avevano intrinsecamente saputo obiettare.

 

 

La risposta è duplice. In primo luogo, nessuno disse mai che l’aggio cresca o diminuisca in proporzione all’ammontare assoluto della quantità di carta circolante. La circolazione cartacea può aumentare da 2 miliardi a 2 miliardi e 200 milioni e l’aggio scemare da 102 a 101; senza che con ciò la cosidetta teoria quantitativa sia scrollata. Se, nel frattempo, i bisogni del commercio sono aumentati del 15% è evidente che la cartamoneta, pur essendo aumentata, siccome è aumentata solo del 10% è divenuta effettivamente scarsa; e si capisce quindi che essa valga di più, ossia che l’aggio scemi a 101. Ricordiamo un canone ovvio di interpretazione delle statistiche: una statistica, una serie di cifre o di fatti può servire di riprova ad una teoria dimostrata vera col ragionamento; ma non serve affatto a dimostrare falsa una teoria vera. La concordanza tra le cifre e la teoria rafforza la verità, altrimenti dimostrata, di questa; la sconcordanza prova tutt’al più che bisogna trovare la spiegazione delle cifre non spiegate dalla teoria; ma finché la spiegazione non si sia trovata e questa abbia messo sulla via di confutare con nuovi ragionamenti la vecchia teoria, questa rimane in piedi.

 

 

In secondo luogo non giova ai negativisti mettere in luce alcune sconcordanze mese per mese, trimestre per trimestre tra i movimenti della quantità della moneta e dell’aggio. I fatti economici durano tanto tempo, ad aggiustarsi tra di loro, esistono tanti ostacoli al movimento sincrono dei fatti, che a ragionare di mesi e di trimestri è come pretendere che gli orologi da cinque lire non facciano mai per anni uno scarto nemmeno di un secondo. È impossibile nei fatti economici prendere ad unità di tempo neppure l’anno; la contemporaneità dei movimenti e le grandi linee, che poi sono le vere, dei fatti si scorgono solo attraverso periodi di tre, cinque o più anni. Un fatto di oggi è assurdo che produca subito i suoi effetti: li vedremo fra qualche tempo seppure non sarà intervenuto qualche nuovo fatto a deviare il corso degli avvenimenti. I fatti importanti non sono perciò i fatti momentanei del mese, del trimestre o dell’anno: sono i fatti che durano da molto tempo. Perciò ho sempre detto che il fatto preoccupante rispetto all’aggio non era il 102 o 102,35 del momento fuggevole; ma l’altro fatto, ben più rilevante, che dal 1907 ad oggi, per oramai sei anni si notava una tendenza del cambio prima e dell’aggio poi a crescere, mentre pure cresceva in media la quantità di carta circolante; né si vedeva che la prosperità e gli affari del paese fossero, rispetto a cinque o sei anni fa, aumentati per modo da legittimare l’uso di tanta maggiore copia di carta circolante. Questi sono i fatti importanti; ed i soli importanti, e poiché essi coincidono perfettamente con la opinione la quale dice che il deprezzamento della carta moneta (sinonimo di aggio) è dovuto all’aumento relativo della sua quantità, questa opinione ne rimane rafforzata.

 

 

Rimane l’opinione positiva la quale riannoda l’aggio o alle perturbazioni cagionate dalla guerra ovvero allo sbilancio dei pagamenti internazionali che sarebbe recentemente cresciuto. Poche parole rispetto alla prima opinione. Se la guerra balcanica fosse essa la causa dell’aggio, per qual misteriosa ragione l’aggio sarebbe fortemente aumentato in Spagna e in Portogallo, assai meno in Italia e non esisterebbe affatto in Grecia e in Turchia? Come mai in Austria-Ungheria, dove i tesoreggiamenti furono vistosissimi per timore di guerra, l’aggio è sul 100,60 appena, e poco variò in confronto di prima della guerra?

 

 

Coloro i quali affermano che l’aggio è dovuto allo sbilancio debbono ancora dare una spiegazione chiara e plausibile della maniera con cui la causa sbilancio possa produrre l’effetto aggio. Io ci ho pensato molto; ma non l’ho trovata. Anzi parmi chiarissimo che quella causa non può produrre quell’effetto. Infatti, che cosa vuol dire che esiste uno sbilancio di 500 milioni di lire in un anno? Che l’Italia, ad esempio, ha crediti per 3 miliardi di lire per merci esportate, rimesse di emigranti e di viaggiatori ecc. ecc., ed ha 3 miliardi e 500 milioni di lire di debiti per merci importate, interessi passivi ecc. Come pagheremo noi quei 500 milioni di lire? Non con oro esistente in paese, perché in un paese a corso forzoso oro non ve n’è in circolazione (se ve ne fosse, allora il corso forzoso esisterebbe pur sempre; ma sarebbe una forma e potrebbe essere abolito senza inconvenienti) e quel che esiste nelle casse degli istituti di emissione non viene messo fuori. Non parliamo dell’oro nascosto dai contadini e dai paurosi sottoterra, il quale è una quantità normalmente trascurabile e tanto più si nasconde quanto più la carta deprezza. Neppure i 500 milioni si potranno pagare con la carta moneta nazionale, che all’estero non viene accettata. Nessun’altra via di pagare i 500 milioni esiste, bisogna persuadersene, fuorché: 1) esportare merci o servigi nostri. Il che vuol dire crescere i nostri crediti per esportazioni, per rimesse di maggior numero di emigranti, per noli della marina mercantile e vuol dire ancora annullare lo sbilancio, che sarebbe la causa dell’aggio. Come l’esportare merci o servigi in maggior copia, ossia distruggere lo sbilancio, possa far svilire la carta moneta nazionale è mistero, ripeto, che non sono riuscito a penetrare; 2) esportare titoli di debito pubblico o privato; il che vuol dire promettere di pagare in avvenire i 500 milioni di merci che oggi importiamo in eccedenza. Il qual mezzo potrà essere doloroso, imprudente (ma può anche essere un mezzo utile se le merci importate in eccedenza sono strumenti di produzione e non merci di consumo immediato); ma ad ogni modo serve a far scomparire il famigerato sbilancio. Quando gli stranieri hanno accettato da noi, in cambio delle loro merci, una promessa di pagamento avvenire, avremo forse noi fatto un gramo affare; ma la partita è saldata: i 500 milioni per ora non li dobbiamo già pagare. Anche qui lo sbilancio è scomparso; e, non esistendo più, non può essere la causa dell’aggio. Si trovino altre maniere di pagare gli sbilanci che non rientrino sotto l’una o l’altra di queste due categorie; e si spieghi come queste maniere di pagare facciano svilire la carta moneta, la quale con i pagamenti all’estero non ha nulla a che fare, perché essa serve solo a fare i pagamenti all’interno. Fino a che questi misteri non siano svelati, io seguiterò a ritenere per vera la spiegazione vecchia, tradizionale, la quale dice che le merci tutte, e quindi anche la merce moneta e la moneta cartacea in ispecie, sviliscono, salvo mistero, quando esse diventano più abbondanti relativamente al bisogno che di esse merci si ha sul mercato.

 



[1] Con il titolo Ancora le causa dell’aggio [ndr].

La creazione della terra nella zona di Tripoli

La creazione della terra nella zona di Tripoli

«Corriere della Sera», 2 marzo 1913

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1960, vol. III, pp. 467-474

 

 

 

 

È noto come il ministro delle colonie, on. Bertolini, abbia nominato una commissione per lo studio delle condizioni geologiche, agrologiche ed economiche della Libia; e poiché certamente la primissima condizione per il buon successo dell’opera colonizzatrice italiana è la conoscenza della colonia, l’iniziativa del ministro appare lodevole. Anche chi sia completamente scettico intorno ai risultati dei lavori delle commissioni governative, è indotto stavolta a sperar bene, sia a cagione della scelta, la quale non avrebbe potuto essere migliore, degli insigni uomini, gli ottimi davvero in Italia, chiamati a comporre la commissione, sia perché taluni di essi ebbero già a dare di sé in Libia splendida prova. Alludo all’ing. Franchi, ingegnere-capo nel corpo delle miniere, al dott. Francesco Tucci, direttore dell’istituto zootecnico di Palermo, al dott. Emanuele De Cillis, professore di coltivazioni nella scuola superiore di agricoltura di Portici, e al dott. Alessandro Trotter, libero docente di botanica nell’università di Napoli. Tutti costoro, che oggi fan parte della commissione nominata dall’on. Bertolini, erano già nella primavera del 1912 stati inviati a Tripoli dall’on. Nitti per un primo studio della zona tripolitana, la sola che allora fosse accessibile agli italiani. Frutto delle loro indagini è un magnifico volume intitolato Ricerche e studi agrologici sulla Libia-La zona di Tripoli, in cui alla bellezza tipografica ed alle numerose illustrazioni risponde la bontà del contenuto. È questa senza dubbio la migliore pubblicazione che in Italia si abbia sulla nuova colonia dal punto di vista agricolo; e fa davvero onore ai valorosi e sapienti che la scrissero ed al ministro che l’ideò. In attesa dei nuovi e maggiori rapporti che saranno pubblicati dalla commissione dell’on. Bertolini, credo che la lettura di questo volume ufficiale sulla zona di Tripoli sia indispensabile a tutti coloro, uomini politici, giornalisti, imprenditori e agricoltori, i quali vogliano formarsi un’idea giusta e seria di che cosa sia la colonia e di che cosa in essa si possa fare.

 

 

Farne un sunto compiuto è impossibile: poiché in due colonne non si sunteggiano 500 pagine tutte dense di fatti e di considerazioni assennate, lontane ugualmente dall’ingenuo entusiasmo di pubblicisti inesperti di cose agricole come dal pessimismo aprioristico degli anticolonialisti. Nelle pagine del Franchi e dei suoi colleghi parlano i tecnici e gli agricoltori; leggendole si ha la sensazione viva di trovarsi finalmente dinanzi alla realtà, veduta con l’occhio clinico dell’agricoltore, uomo d’esperienza e insieme di scienza. Chi vive a lungo in mezzo ai campi e sa vivere della vita della terra, a stento tollera le descrizioni dei dilettanti e solo si innamora degli scritti che «sanno» la terra. Ora questo dei quattro commissari inviati a Tripoli dall’on. Nitti, è un libro che «sa» la terra. È un miracolo, forse, negli annali della letteratura amministrativa. Ma è un miracolo certo. Leggendolo a me è venuta la sensazione diretta e vera di che cosa sia la terra che circonda Tripoli. È la sensazione che si prova leggendo Jacini, il vecchio Ottavi, Valenti ed altri; è la sensazione dell’agricoltore che conosce un angolo qualunque di terra nel mondo e sa quante siano le difficoltà di farlo «vedere» agli altri. Non certo spero di poter ridare ai lettori del Corriere questa impressione della realtà vera. Mi contenterò di guardarla per iscorcio, pago se avrò persuaso qualcuno a leggere tutto il libro stupendo.

 

 

C’è un capitolo nel libro intitolato «come la steppa può trasformarsi in giardino», il quale contiene l’idea centrale del libro. La zona di Tripoli, estesa ad ovest sino alla reggenza di Tunisi, a nord sino alla riva del mare, limitata ad est dal breve corso dell’uadi Sanga, che passa sotto Kasr Allachen, ed a sud dal ciglione settentrionale dell’altipiano del Gebel Nefusa, Yefren, Garian, Tarhuna e Mesellata, ha approssimativamente una superficie di 16.000 chilometri quadrati, la maggior parte terreni agrari incolti od utilizzati da colture estensive e saltuarie (terre badia), in minor parte costituiti da spiaggie, dune mobili, paludi, saline e rocce nude. Non però di questi 16.000 chilometri quadrati vive la popolazione della zona tripolitana. Essa vive sovratutto dei 200 chilometri quadrati su cui si estende la cosidetta oasi, quella che più propriamente si può chiamare la terra dei giardini. Noi italiani conosciamo come si formano le terre dei giardini. La natura non le offre generosa agli uomini; ma gli uomini le «creano» colla loro fatica. Così gli italiani hanno creato, traendole dal nulla delle paludi e delle rocce, dai pendii sassosi e dai greti dei torrenti, le terre di Lombardia, i giardini della riviera ligure, gli agrumeti della conca d’oro. Dappertutto dove la terra frutta, in Italia, essa è stata creata, attraverso i millenni della nostra storia, dall’uomo. È storia di ieri la creazione della terra nell’antico lago di Fucino e nelle magnifiche bonifiche del ferrarese, la pagina economica forse più gloriosa e prodigiosa della nuova Italia. Così deve essere «creata» la terra nella zona di Tripoli. Chi immaginasse che la terra tripolitana sia «naturalmente» feconda, errerebbe di gran lunga; come grande sarebbe stato l’errore dei primi abitatori d’Italia, i quali avessero immaginato di essere giunti finalmente su terra senza fatica fruttifera, solo perché essa era apparsa ai loro occhi soleggiata e ridente. Dalla terra «badia» tripolitana, tenuta a cultura estensiva, oggi non si trae «che un frutto tale che sarà sempre superato dalla rendita più meschina che potrà trarsi dalla più infelice delle terre italiane». Se frutti cospicui si vorranno ricavare – e l’impresa è tecnicamente possibile – sarà d’uopo trasformare una parte dei 16.000 chilometri quadrati della zona, così come furono trasformati gli odierni 200 chilometri quadrati di giardini. Come una «macchia d’olio», dicono i commissari, il giardino potrà estendersi, conquistando quelle parti della pianura stepposa che meglio si presenteranno adatte alla creazione della terra feconda. La conquista della steppa non potrà essere completa mai perché mancherebbe l’acqua, indispensabile alla creazione del giardino. Supponendo, il che è assurdo, che dell’acqua caduta nulla si perda e nulla si evapori, la provvista d’acqua nella zona di Tripoli può calcolarsi a 420 millimetri di pioggia in media all’anno; mentre ne occorrerebbero 728 per consentire dappertutto la cultura irrigua a giardino. Laonde circa una metà almeno dovrà essere conservata a cultura asciutta semi-estensiva, mista tra arborea ed erbacea. Se a ciò si aggiunge che in non poche località la profondità dell’acqua probabilmente è tale da rendere non economico lo scavo dei pozzi e la elevazione dell’acqua, che la produzione di frutta e di ortaggi non può essere aumentata nei giardini oltre un certo segno per il pericolo della sovraproduzione, riesce agevole convincersi che la cultura ad alti rendimenti dovrà essere limitata ad una parte e probabilmente a parecchio meno della metà dei 16.000 chilometri quadrati della zona di Tripoli. «Una accesa fantasia – scrivono i commissari – potrebbe anche intravvedere in un avvenire più o meno lontano, la deliziosa oasi tripolitana estendersi fino ai piedi del Gebel, coprendo della sua superba vegetazione di palme e di ulivi migliaia di chilometri». Ma l’ideale, oltrecché essere economicamente e tecnicamente impossibile ad attuarsi in tutto, dovrà raggiungersi assai lentamente, pur entro i confini della convenienza pratica.

 

 

La terra dei giardini invero rende molto, quando è stata creata: i fitti, ossia i redditi netti, sono altissimi, da 200 a 600, fino a 1.000 lire per ettaro; ed i prodotti lordi sono ancor maggiori, non essendo esagerate talune cifre apparentemente eccessive di prodotti forniti dalla terra dei giardini: erba medica che dà 10 tagli all’anno e 2 volte la produzione italiana, orzo che frutta 20-25 volte ed anche 40-60 volte la semente e simiglianti meraviglie. Non però la terra allo stato naturale rende tanto; poiché anzi, data la scarsità delle piogge e l’asciuttore assoluto per otto mesi circa dell’anno, quasi nessuna cultura erbacea è possibile senza irrigazione, vedendosi a metà marzo bruciata dal sole quella erba medica che poco dopo la seminagione aveva di sé fatto concepire ai nuovi venuti splendide speranze. Gli alti e gli altissimi prodotti si hanno solo dove è possibile l’irrigazione. Ossia dove è stato creato il piccolo podere irriguo a cultura mista arborea – erbacea. Il giardino della zona tripolitana è una formazione meravigliosa dei secoli. Val la pena di citare un brano scultorio della relazione dei quattro commissari:

 

 

Il coltivatore arabo o berbero sulla costa infuocata dell’Africa, con una esperienza millenaria, ha saputo costituire delle associazioni vegetali, anzi delle vere formazioni, le quali, raggiungendo la massima utilizzazione del suolo, creano intorno ad ogni specie coltivata le condizioni più favorevoli al suo sviluppo. In alto la chioma della palma, avida di sole, che lascia più sotto, tra i suoi stipiti regolari e sottili, espandere le loro fronde all’olivo, all’albicocco, al mandorlo, agli agrumi; più sotto ancora, o le culture ortensi, o le foraggere, o i cereali, o le piante industriali, che l’acqua frequente, tratta dai pozzi, mantiene per mille ruscelli in una continua freschezza, in un ininterrotto rigoglio. Si tolga la palma, ed il sole cocente, con una luminosità che non conosce tregua, ecciterà con troppa violenza i tessuti più sensibili delle erbe, rendendo più ardua l’opera della irrigazione. Si tolga, al frutteto od all’agrumeto, il beneficio delle culture irrigue sottostanti e ne vedremo diminuito il prodotto e tutto il vantaggio economico di una così fatta cultura intensiva.

 

 

Ma questa «così intensa ed ammirevole utilizzazione del suolo», da cui «il colono italiano avrà molto da imparare, poco da mutare», deve essere creata e mantenuta a prezzo di continue, assidue, amorosissime cure. Sui 5.244 ettari dei giardini di Tripoli, Tagiura, Gargaresc e Gurgi vi sono forse 7.333 poderi di una superficie media di 7.153 metri quadrati, estesi cioè su circa sette decimi di ettaro l’uno. Culture e proprietà frazionatissime dunque, come era imposto dall’intensità e varietà grandi delle coltivazioni. Nelle oasi di Tripoli un podere di due ettari è grande, al di là di tre ettari diventa grandissimo. Il «latifondo» dei Caramandi a Sciara el Bel è il massimo della regione, e misura 4,9 ettari, di proprietà indivisa fra tre persone! È il paese tipico della piccola proprietà coltivatrice, della terra che in superficie minima richiede una enorme e paziente quantità di lavoro da parte del contadino innamorato della terra, frugale, economo, individualista. La grande proprietà potrà forse avere qualche successo nell’allevamento del bestiame e nella cultura arborea asciutta sulla steppa migliorata. Sulla terra irrigua dei giardini dura invece e vince solo il contadino paziente. Ci vollero secoli di fatica del contadino arabo, abituato a non tener calcolo dei costi e delle ore di lavoro perdute, per tracciare la fittissima rete di strade, «che incrociano in ogni senso il territorio, disposte in maniera tale che nessuna delle nostre regioni italiane potrebbe vantare un sì mirabile e perfetto sistema». Cosa meravigliosa, ognuno dei 7 od 8000 poderi dei giardini della zona strettamente tripolitana, ha accesso perfettamente indipendente e libero dalla strada; sicché sono abolite del tutto le servitù di passaggio. Ogni podere è una unità culturale indipendente dalle altre. Un muro, costrutto a gran fatica, lo circonda, e serve a segnare il confine, a difenderlo dai ladri, a proteggerlo contro i venti, la sabbia, l’invasione delle dune mobili, ad impedire gli smottamenti del terreno degli altri giardini costruiti ad un livello più alto. Entro le mura, ciò che sovratutto attrae l’attenzione e senza di cui non potrebbe concepirsi la vita del podere, è il pozzo. Su 7 od 8000 poderi si noverano 7 od 8000 pozzi, con alta armatura sovrastante, per il maneggio dell’otre di pelle che discende e sale per trar su e versare nella vicina vasca l’acqua necessaria ad irrigare ogni giorno da una quinta ad una sesta parte della superficie del giardino. Il pozzo, colla vasca, coll’arabo e la vacca la quale fa la manovra di va e vieni lungo una strada infossata ed ombreggiata avente dal 20 al 30% d’inclinazione per tirar su l’otre pieno d’acqua, è la caratteristica del giardino tripolitano. Furono tentati altri mezzi più moderni di estrazione dell’acqua; ma dopo lungo esame, i commissari concludono che il pozzo arabo, malgrado il diuturno lavoro del contadino e della vacca, è il metodo più sicuro ed economico di irrigazione. Vicino al pozzo, sorge per lo più – e sempre nei giardini prossimi alla città – la casa del proprietario coltivatore. Attorno, in questo piccolo microcosmo, sotto l’ombra protettrice delle palme, si estendono le culture arboree ed erbacee, su un terreno che prima si è dovuto sistemare con trasporti cospicui di terreno. Ogni settimana ed ogni mese dell’anno, salvo i periodi delle piogge torrenziali, si sussegue l’opera diuturna delle irrigazioni e dei raccolti.

 

 

La colonizzazione italiana non può concepirsi che come un’imitazione e un perfezionamento dell’opera dei contadini arabi delle terre a giardino. Molto si potrà perfezionare, specie nell’allevamento del bestiame grosso e degli animali da cortile, nell’impiego delle concimazioni, le quali dovranno essere prevalentemente organiche e non chimiche. Ma si tratterà sempre di costruire accanto ed ai margini della zona dei giardini, sulla terra badia o stepposa, nuovi poderi, piccoli, anzi piccolissimi, ad alto costo d’impianto, non meno di 2.500 lire per ettaro, richiedenti il lavoro personale, manuale, aiutato da arnesi semplici, simili agli arnesi oggi usati dagli arabi – le macchine agrarie in un terreno simile non hanno possibilità di larghe applicazioni – del contadino proprietario. A poco a poco la macchia d’olio si potrà estendere su una parte dei 16.000 chilometri quadrati posti fra il mare e il Gebel. Ma sarà una conquista lenta; poiché il contadino coltivatore solo col tempo può aver modo di accumulare i risparmi necessari a comprare il terreno dagli attuali proprietari – terre vuote e libere non pare esistano, neppure nella steppa – a creare poi il giardino e quindi ad aspettare i non pochi anni – almeno 4 e normalmente più – che devono trascorrere prima che la palma rechi frutti, e sovratutto ombra alle coltivazioni sottostanti. Creato il giardino, è d’uopo difenderlo contro l’assalto ripetuto dei nemici che da tutte le parti lo assediano.

 

 

L’oasi littoranea, osservano i commissari, è un prodotto eminentemente artificiale e si mantiene e prospera sotto gli sforzi assidui dell’uomo. Abbiamo detto si mantiene, perché tutto lascia supporre che, per le condizioni climatiche, l’abbandono costituirebbe la perdita quasi completa non solo del reddito, ma in buona parte dello stesso capitale fondiario. Gli alberi di tessitura più delicata finirebbero per morire, né prontamente si costituirebbe una steppa simile alla primitiva, capace di essere un discreto pascolo di ovini… In Tripolitania la terra produce solo grazie al lavoro faticoso dell’estrazione dell’acqua dal sottosuolo. I pozzi, di cui la maggior parte costano anni di scavo, si colmano ed inaridiscono presto, appena non siano più mantenuti. Le dighe protettrici, gli sbarramenti di riserva rovinano quando più non siano rafforzati dopo ogni valanga.

 

 

Ed altrove, per dimostrare l’urgenza di riparare subito i danni inevitabili della guerra, i commissari descrivono efficacemente la lotta diuturna che l’uomo deve combattere contro la natura nemica:

 

 

L’oasi è il risultato di una lotta assidua e paziente tra l’agricoltore e la steppa: il giardino è strappato a questa, grazie a delle spese e ad un lavoro abbastanza sensibile, ed è mantenuto tale per mezzo del costante lavoro e di continue spese. Se cessa lo stato attivo di difesa da parte dell’agricoltore la sabbia prende il sopravvento, ingoia a poco a poco l’oasi e la distrugge. La corrosione del giardino comincia dall’argine che lo cinge e che lo difende dall’uomo estraneo, dall’animale vagante, dalla sabbia portata dal vento. Sotto l’azione appunto di questi agenti esterni, non più difeso dall’agricoltore, l’argine si rompe in più parti e scoscende. La sabbia invade, dall’esterno, il terreno dell’interno, e questo, a sua volta inaridito, non lavorato e calpestato, si trasforma in sabbione. Le coltivazioni erbacee più non esistono, perché da sole non possono sostenersi: quelle arboree cominciano a deperire, e sono anzitutto le più gentili, quelle che più hanno bisogno di cure e di acqua. Gli agrumi vanno afflosciandosi e perdendo le loro foglie; in seguito, man mano, vengono le più resistenti, finché ultima a scomparire è la palma, dopo avere intristito per alcuni anni ancora. La morte definitiva del giardino si ha poi quando il pozzo, non più curato, si è insabbiato ed ha perduto l’acqua: allora il simbolo che distingue l’oasi dalla landa desertica non esiste più.

 

 

Se al mondo ci sono contadini capaci di collaborare con gli arabi alla creazione ed alla conservazione della terra da giardino, questi sono i contadini italiani, che hanno redenta la loro terra dalla palude, dalla malaria, dalle pietre e dai rovi. Ma è d’uopo che essi conoscano la rude bisogna a cui vanno incontro ed i capitali di lavoro, di aspettativa e di denaro che occorre impiegare perché sorga la nuova terra italiana. Aver messo in luce quali siano i frutti della terra di Tripoli, ed entro che limiti si possono ottenere, e quali ne siano i costi è merito grande dei commissari scelti dall’on. Nitti; e più gioveranno le più compiute nozioni le quali ci saranno recate dalla nuova commissione che adesso studia la terra libica. Chi vuol vincere deve prima conoscere l’oggetto della conquista. Molti errori commisero i francesi in Algeria perché nulla sapevano; ed assai meno in Tunisia perché più larga era la loro esperienza. Saviamente opera perciò il governo italiano a diffondere luce sicura sui problemi delle nuove terre italiane innanzi che si inizi la colonizzazione. Il ritardo di un anno oggi può risparmiare domani mezzo secolo di errori e di disillusioni.

Relazione [in collaborazione con G. Sforza] sulla memoria di Carlo Contessa Aspirazioni commerciali intrecciate ad alleanze politiche della Casa di Savoia coll’Inghilterra nei secoli XVII e XVIII

Relazione [in collaborazione con G. Sforza] sulla memoria di Carlo Contessa Aspirazioni commerciali intrecciate ad alleanze politiche della Casa di Savoia coll’Inghilterra nei secoli XVII e XVIII[1]

«Atti della R. Accademia delle scienze di Torino», vol. 49, 1913-1914, pp. 173-175 (tomo II, pp. 28-30)

Le nuove norme per l’elasticità della circolazione

Le nuove norme per l’elasticità della circolazione

«Corriere della Sera», 17 dicembre 1912

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 460-466

 

 

 

 

Uno dei punti più importanti della esposizione finanziaria dell’on. Tedesco fu certamente l’annuncio di una modificazione progettata nei limiti della circolazione. È opportuno precisare il contenuto della riforma proposta, tanto più che già il governo l’ha presentata alla camera e la giunta del bilancio l’ha approvata. A chiarire l’argomento dirò che la legge attuale, ad impedire che si creasse troppa carta e risorgessero i dannosi effetti dello svilimento della carta moneta e dell’aggio, che si erano purtroppo avuti prima del 1893, impose dati limiti, empirici come tutti i limiti di questo genere, ma che fecero in pratica assai buona prova, grazie al rifiorire della economia italiana ed all’abilità e prudenza dei reggitori del tesoro e degli istituti di emissione. Restringendo, per evitare troppe cifre, il mio discorso alla Banca d’Italia – gli altri due banchi, di Napoli e di Sicilia, sono regolati da norme analoghe, per cifre naturalmente più basse – dirò che la banca può emettere quanti biglietti vuole purché siano coperti da una uguale riserva metallica; se poi la banca emette biglietti a copertura parziale, la copertura in riserva metallica deve essere sempre almeno del 40% ed inoltre i biglietti che in tal modo si emettono si dividono in parecchie frazioni o gradi. Un primo grado si dice della circolazione normale ed è di 660 milioni, di cui quindi il 40%, ossia 264 milioni devono essere coperti da altrettanta riserva metallica, e 396 milioni possono essere scoperti. Questo primo grado della circolazione è colpito da una piccola tassa del 0,10 percento. I gradi successivi prendono il nome di eccedenze, perché eccedono il limite chiamato normale. Un secondo grado (primo delle eccedenze) è di 50 milioni, di cui 20 coperti e 30 scoperti, ed è colpito per i 30 milioni scoperti da una tassa uguale ad un terzo della ragione dello sconto; cosicché, essendo oggi lo sconto al 6%, la tassa è del 2 percento. Un terzo grado (secondo delle eccedenze) è di altri 50 milioni, di cui sempre 20 coperti e 30 scoperti, soggetti ad una tassa dei due terzi della ragione dello sconto; e quindi del 4% sui 30 milioni scoperti, oggi che lo sconto è del 6 percento. Un quarto grado (terzo delle eccedenze) era di altri 50 milioni, sempre coperti per 20 e scoperti per 30, e tassati coll’intiera ragione dello sconto, ossia oggi del 6%; ed un quinto grado era finalmente illimitato, ma era colpito da una tassa proibitiva del 7,50%, che rendeva quasi impossibile l’aumento oltre il quarto grado. L’anno scorso, d’autunno, un decreto convertito poi in legge e successivamente prorogato, fondeva il quarto ed il quinto grado in uno solo sino al 31 dicembre 1912; onde attualmente il quarto grado si può considerare illimitato e colpito da una tassa uguale all’intiera ragione dello sconto.

 

 

Per chiarezza riassumerò in uno specchietto le disposizioni della legge vigente, mettendovi a fianco le proposte nuove dell’onorevole Tedesco.

 

 

Sistema vigente Proposte nuove
Circolazione interamente coperta

 

Senza limite Senza limite
Circolazione parzialmente copertacol 40% di riserva

 

1° grado: Tassa dello 0,10% sulloscoperto

 

600 milioni 660 milioni
2° grado: Tassa dello 0,10% sulloscoperto 50 milioni tassati con 1/3 sconto  70 milioni tassati con 1/4 sconto 
3° grado: Tassa dello 0,10% sulloscoperto 50 milioni tassati con 2/3 sconto  70 milioni tassati con 1/3 sconto 
4° grado: Tassa dello 0,10% sulloscoperto

 

senza limite con tassa uguale a sconto intiero 70 milioni tassati con tassa uguale ai 3/4 dello sconto 
5° grado: Tassa dello 0,10% sulloscoperto

 

senza limite con tassa uguale all’intiero sconto

 

 

L’effetto delle modificazioni è evidente. Supponiamo una circolazione quale era al 31 ottobre 1912, data presa a base dall’on. ministro del tesoro, di 1 miliardo e 741,1 milioni di lire. Di questi, 799,4 essendo intieramente coperti, non pagavano tassa alcuna; i rimanenti 941,7 milioni si distinguevano in 660 milioni, tassati col 0,10% sui 396 milioni scoperti (tassa annua, supponendo costante la circolazione a questa cifra, lire 396.000); 50 milioni tassati con un terzo dello sconto del 6%, ossia col 2% sui 30 milioni scoperti (tassa annua lire 600.000); 50 milioni tassati con due terzi dello sconto del 6 percento, ossia col 4% sui 30 milioni scoperti (tassa annua lire 1.200.000); e 181,7 milioni tassati con l’intiero 6% sui 109,02 milioni scoperti (tassa annua lire 6.541.000). In tutto la tassa pagata dovrebbe ora essere di 8.737.000 lire. In realtà il tesoro incassa tasse assai meno abbondanti; poiché la circolazione solo in momenti eccezionali eccede di tanto i limiti normali. Né la tassa pagata è una perdita per la banca, la quale se paga il 0, 10, 2, 4 e 6% su ogni cento lire di biglietti emessi nei quattro gradi successivi incassa l’intiero sconto su di essi, che è oggi del 6 percento. Tutto sommato non credo che la banca perda denari propri, anche nell’ultimo grado, quando incassa il 6% a titolo di sconto e paga il 6% a titolo di tassa. È ben vero che la banca perde le spese di fabbricazione dei biglietti, quando, il che è raro, occorre fabbricarli apposta, e perde altresì le spese di gestione dello sconto ed i rischi per insolvenze; ma in contrapposto essa in quei momenti porta, come è suo dovere, lo sconto a limiti alti, per esempio al 6% e lucra questo più alto sconto su tutti i nuovi sconti, che va via via rinnovando, pure per i gradi inferiori della circolazione. Se si tiene conto poi che, per altri motivi, le maggiori spese ed i maggiori redditi vanno per metà a carico od a beneficio per lo stato, sembra poter conchiudere che, a meno di spingere le eccedenze a limiti stravaganti, non mai finora toccati e non presumibili in avvenire, la banca dalle attuali tasse non era positivamente danneggiata.

 

 

Bensì la banca era spinta a non crescere la circolazione, e tenersi sempre entro il primo grado della normalità o ad eccederlo di poco; sia perché il timore delle tasse è sempre un freno, sia perché se si eccedono i limiti normali in modo continuativo il gravame delle tasse potrebbe divenire positivamente dannoso per la difficoltà di mantenere alto, pure in modo continuo, il tasso dello sconto. Il sistema attuale ha perciò questo scopo opportunissimo: di contenere normalmente la circolazione entro i 660 milioni; ma di consentire eccedenze illimitate, senza onere apprezzabile per la banca, nei momenti eccezionali in cui vi è maggior bisogno di sconti, ed in cui quindi il saggio dello sconto aumenta.

 

 

Ora si propone di accrescere i gradi, aumentando da 50 a 70 milioni l’importanza di ogni grado e diminuendo la tassa relativa. Senza rifare tutti i calcoli, il che sarebbe cosa noiosa, basti il dire che, per la medesima circolazione di 1 miliardo e 741,1 milioni di lire, quale era quella vigente al 31 ottobre scorso, la banca, che dovrebbe pagare 8.737.000 lire in base alle leggi vigenti, pagherebbe solo 6.757.000 lire in base alle nuove proposte Tedesco.

 

 

Gli effetti delle quali sembrano perciò le seguenti: la banca che già ora ha un beneficio positivo, sebbene decrescente, a passare al secondo e forse ancora al terzo grado della circolazione e non prova perdita anche se arriva al quarto grado, purché non vi si fermi troppo, vedrà crescere il suo beneficio ed allontanarsi le sue perdite. Pare indubbio che l’effetto ultimo delle nuove proposte debba essere quello di non ostacolare, il che vuol dire favorire, il crescere della quantità della carta moneta in circolazione. Il che ho già dimostrato, nell’articolo sul prelievo dei 125 milioni, essere inevitabilmente causa di un aumento dell’aggio. Con un cambio medio che – rilevo i dati dagli istruttivi allegati della esposizione Tedesco – da 99,93 nel 1907-908 crebbe a 100,26 nel 1908-909, trasformandosi in aggio vero e proprio a 100,49 nel 1909-10, a 100,44 nel 1910-11, a 100,77 nel 1911-12 e salendo ancora a 100,91 in media nel luglio 1912, a 101,01 nell’agosto, a 101,10 nel settembre per diminuire a 100,71 nella media di ottobre e risalire in novembre sino ai massimi di 101,30, non sembra prudente di inasprire la causa fondamentale dell’aggio, che è la sovrabbondanza della circolazione cartacea. L’esistenza dell’aggio prova che la carta italiana è sovrabbondante. Giustamente l’on. Tedesco dichiara che «il governo non intende derogare al principio di austerità cui è informato il nostro ordinamento sulla circolazione ed è perciò fermo nel proposito di non consentire aumenti nella circolazione normale». Giustissimi propositi, che parmi dovrebbero spingere a cercare tutte le vie per ridurre la circolazione, di fronte ad un aggio da anni persistentemente in aumento. Invece si vuole consentire ad ulteriori possibilità di aumenti, sia pure non nella circolazione normale, ma nelle eccedenze. Confesso che, nei rispetti dell’aggio, non riesco a vedere alcuna differenza tra biglietti normali e biglietti eccedenti. La carta è sempre carta e preme sempre sulla circolazione, provocando aumenti nell’aggio, qualunque sia la tassa che la colpisce. Chi sia convinto che l’aggio è uno dei peggiori flagelli di un paese, assai peggiore di un aumento di imposte, perché più gravoso sui lavoratori, sui commercianti, sugli industriali, sui consumatori, sente crescere i dubbi altra volta manifestati intorno alle prime avvisaglie della sua ricomparsa, non abbastanza combattuta dalla vigente legislazione ed ancor meno ostacolata dalle nuove proposte.

 

 

L’aumento della circolazione cartacea essendo, in un paese a corso forzoso e con aggio inizialmente crescente, per se medesimo un danno, conviene dimostrare che esso è inevitabile per urgenti necessità economiche. L’on. Tedesco cita bensì a tal uopo un brano di una relazione dell’on. Carcano in cui si dimostra che l’agricoltura, le industrie manifattrici ed i commerci sentono più vivo il bisogno di un nuovo soffio di credito che li accompagni nel loro movimento di mirabile progresso; e ricorda i voti in proposito delle rappresentanze commerciali. Sono profondamente convinto che il movimento commerciale italiano nella sua espansione crescente sarebbe capace da solo a far scomparire in non lungo tempo ogni sovrabbondanza di carta ed il conseguente aggio. La stessa quantità di carta, che oggi è sovrabbondante, diverrà domani a mala pena sufficiente se i traffici aumentano. Ma l’aumento della carta deve venir dopo, non precedere l’aumento dei traffici. Guai a quel paese in cui i traffici hanno bisogno di essere stimolati colla creazione di carta nuova! Esso è votato a una crisi. Non essendovi alcuna ragione perché una crisi abbia da sé a manifestarsi in Italia, non v’è bisogno di provocarla artificialmente.

 

 

È esatto ciò che affermano le rappresentanze commerciali; essere necessaria una estensione nella circolazione per far fronte ai traffici cresciuti? Se l’asserzione fosse esatta, le eccedenze nella circolazione avrebbero dovuto essere provocate da un aumento nelle domande di sconti e di anticipazioni. Non pare che le cose stiano precisamente così. Sempre al 31 ottobre, epoca della maggior tensione e dei maggiori bisogni nell’anno, ecco come si comportarono la circolazione da un lato e gli sconti e le anticipazioni dall’altro negli ultimi tre anni (in milioni di lire):

 

 

1910

1911

1912

Circolazione

a piena copertura

776,1

753,1

799,4

Col 40 %

 

1° grado: normale

660

660

660

2° grado: eccedenze

50

 

50

50

3° grado: eccedenze

50

 

50

50

4° grado: eccedenze

27,7

 

177,6

181,7

Portafoglio italiano

 

576,6

573,2

519,4

Anticipazioni

 

145,4

134,9

143,5

 

 

La circolazione è aumentata notevolmente di anno in anno. Ma non è aumentata perché i bisogni di sconti di cambiali (portafoglio) o di imprestiti su titoli o merci (anticipazioni) siano cresciuti. Tutt’altro; perché anzi le cifre delle anticipazioni sono rimaste stazionarie e quelle degli sconti sono notevolmente scemate. Tuttavia quella circolazione che nel 1910 era elastica, perfettamente pronta a rispondere a bisogni maggiori degli odierni, oggi è considerata rigida ed incapace ad esigenze commerciali ridotte.

 

 

Se non sono i bisogni del traffico i quali richiedono un aumento della circolazione, quale ne sarà la causa? La causa è notissima e fu già messa in luce in documenti ufficiali. Ecco le cifre che illuminano il problema (in milioni di lire e per le stesse date):

 

 

1910

1911

1912

Conto corrente della banca a favore dello stato e delle provincie

 

164,3

157,5

170,9

Titoli

 

256,2

137,8

124,8

 

 

Se cioè lo stato avesse conservato in conto corrente presso la Banca d’Italia una somma uguale a quella che usava tenere negli anni scorsi; o se la banca potesse fare a meno di tenere, per fondo di scorta o di cauzioni, somme cospicue immobilizzate in titoli pubblici, la circolazione oggi parrebbe sufficientissima e forse non sarebbe stato necessario di eccedere la circolazione normale neppure di 50 milioni di lire, nemmeno alla data del 31 ottobre, che per i bisogni autunnali è sempre una data di massima tensione.

 

 

Epperciò si ripresenta il tormentoso dubbio: è davvero giustificata una riforma nella legislazione bancaria la quale per se stessa tende ad inasprire l’aggio – sebbene sia augurabile che le energie spontanee del paese siano tali da tener lontano il temuto flagello -, quando essa non è richiesta dalle esigenze dell’industria e del commercio, sibbene da circostanze relative ai rapporti fra stato e banca? Non è ragionevole il dubbio che altre provvidenze possano essere adottate, senza toccare un ordinamento bancario che diede buoni frutti in passato e potrebbe essere foriero di migliori frutti ancora nell’avvenire?

Il prelievo dei 125 milioni

Il prelievo dei 125 milioni

«Corriere della Sera», 2 dicembre 1912

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 455-459

 

 

 

 

Il prelievo di una somma non superiore a 125 milioni dal fondo in oro depositato presso la Cassa depositi e prestiti in rappresentanza dei biglietti di stato ha dato luogo a vivaci polemiche sui giornali quotidiani, sicché sembra forse non inopportuno esporre oggettivamente i dati fondamentali del problema.

 

 

Sfrondato di tutti gli elementi accessori, il problema si riduce al seguente: oggi esiste in circolazione una massa di biglietti di stato di 499.875.805 lire in rappresentanza e garanzia dei quali biglietti il tesoro ha depositato presso la cassa depositi e prestiti la somma di lire 241.829.720 in oro, di cui però 16.875.805 sono a garanzia speciale di altrettanti biglietti emessi per conto del Banco di Napoli, compresi a quanto si legge, nei 499 milioni precedenti. Il governo ha deliberato di ridurre gradatamente la riserva aurea dei biglietti di stato di 125 milioni; cosicché essa finirà di essere solo di 116.827.720 lire. I 125 milioni in oro saranno versati nella tesoreria dello stato ed in rappresentanza di essi saranno emessi 125 milioni di biglietti della Banca d’Italia, i quali accresceranno il fondo di cassa del tesoro. In sostanza il provvedimento ha per effetto di crescere di 125 milioni di lire la circolazione dei biglietti della Banca d’Italia, lasciando immutata la riserva metallica complessiva. Riassumendo in uno specchietto le cose ora dette, si avrebbero le seguenti variazioni nelle cifre della circolazione (in milioni di lire):

 

 

 

Biglietti di stato

Biglietti degli istituti di emissione

Totale

Ammontare dei biglietti

Prima

499,8

2.254,8

2.754,6

Dopo

499,8

2.379,8

2.879,6

 

=

+ 125

+ 125

 

Riserva

Prima

241.8

1.506,7

1.748,5

Dopo

116,8

1.631,7

1.748,5

 

– 125

+ 125

=

 

 

Si vede che la riserva rimane nel complesso immutata, diminuendo di 125 milioni la riserva dei biglietti di stato, e crescendo di altrettanto la riserva dei tre istituti di emissione (Banca d’Italia, di Napoli e di Sicilia). Mentre invece la circolazione aumenta di 125 milioni, poiché, rimanendo immutata la somma dei biglietti di stato il quantitativo dei biglietti degli istituti (e nel caso presente della Banca d’Italia, la quale è incaricata del servizio di tesoreria dello stato) può crescere di 125 milioni di lire, tutti coperti da un uguale aumento della riserva propria, accresciutasi per il passaggio dei 125 milioni dal fondo dei biglietti di stato al fondo dei biglietti degli istituti.

 

 

Il provvedimento, come è stato esposto in cifre in due maniere, rispetto ai biglietti e rispetto alle riserve, così può essere guardato separatamente rispetto alla consistenza delle riserve e rispetto al decretato aumento di circolazione. Se in Italia esistesse il cambio a vista dei biglietti, i due fatti non potrebbero essere giudicati l’uno separatamente dall’altro; perché la circolazione in biglietti non potrebbe mai diventare esuberante, ogni biglietto eccedente essendo portato al cambio e permutato con moneta metallica, la quale potrebbe essere esportata all’estero e cesserebbe quindi di contare nella circolazione interna. In Italia invece esiste di fatto il corso forzoso; ed i biglietti non sono permutabili a vista ed al portatore in oro. Quindi il legislatore può benissimo ordinare che diminuisca la riserva metallica, rimanendo immutata la quantità dei biglietti, o far crescere i biglietti, senza aumentare la riserva metallica. Le due quantità sono indipendenti l’una dall’altra, almeno nei limiti segnati dalla legge.

 

 

Premesso questo, osservo che il fatto della diminuzione delle riserve metalliche dei biglietti di stato non ha, per se stesso considerato, una importanza apprezzabile. È un errore dire, in regime di corso forzoso, che le riserve sono la garanzia della circolazione. I portatori di biglietti di stato e di banca non sono garantiti da riserve auree che non si possono toccare e che essi non hanno diritto di chiedere in cambio dei biglietti inconvertibili. Credo che tutti i trattatisti siano d’accordo nel ritenere che una riserva aurea la quale è seppellita per legge nelle cantine dei tesori pubblici non funziona come vera garanzia dei biglietti. Garanzia è quella riserva di cui i portatori possono disporre, portando i biglietti al cambio; così come garanzia di un creditore è la casa ipotecata, che si può far vendere all’incanto, quando il debitore non paghi, e non la casa che per legge sia dichiarata inalienabile. Anche se non ci fosse un soldo di garanzia aurea dietro ai biglietti di stato da 5 e 10 lire non perciò i biglietti di stato cesserebbero di aver corso per 5 e 10 lire e cesserebbero di dovere essere accettati nei pagamenti per 5 e 10 lire. Dico di più: sembra a me incontrovertibile che, se anche non esistesse un soldo della cosidetta garanzia aurea dei biglietti di banca e di stato, insieme considerati, i biglietti stessi seguiterebbero a circolare alla pari con l’oro, supponendo, e questa è l’essenziale ed in fondo unica condizione, che la quantità dei biglietti in circolazione non sia eccessiva, ossia non sia superiore a quella quantità di moneta aurea che correrebbe in paese naturalmente, se non esistesse il corso forzoso. Un paese in cui la quantità dei biglietti a corso forzoso non sia esuberante, può conservare modeste riserve metalliche ed essere ciononostante pronto a riprendere in qualsiasi momento i pagamenti a vista. L’oro va da sé nei paesi da cui non lo respinge la troppa carta a corso forzoso; e la paura di rimanere privi d’oro, sempre, s’intende, quando la circolazione di carta non sia sovrabbondante, è un’ubbia grottesca. Per se stessa, dunque, la riserva attuale aurea di 1.748,5 milioni è altissima; e si potrebbe fare a meno di una parte di essa senza nessun inconveniente. Anche come preparazione ad una ripresa futura del cambio a vista dei biglietti, quella riserva mi pare superiore alle più larghe esigenze calcolate con la massima prudenza. Siccome l’impiegare capitali sotto forma di riserve auree è, per la società, una perdita secca, così non mi sembra che alcun inconveniente si potrebbe immaginare derivante dal fatto che lo stato impiegasse 125 milioni della sua riserva a comprare all’estero cannoni, armamenti diversi, aeroplani, grano, ecc. ecc. L’oro non serve per se stesso a nulla; ed è quindi opportuno tenerne la minore quantità possibile; mentre i cannoni, le armi, il grano, ecc. servono alla difesa nazionale.

 

 

I dubbi nascono soltanto dall’annuncio che il governo sembra abbia deliberato non di spendere i 125 milioni in oro per le occorrenze sue, il che, ripeto, non avrebbe potuto recare alcun inconveniente, ma di tenerli depositati in tesoreria, emettendo, in rappresentanza di essi, altri 125 milioni di carta. Se la riserva metallica fosse diminuita di 125 milioni, da 1.748,5 a 1.623,5 milioni, nessun male ci sarebbe stato, perché si sarebbe diminuito solo un peso morto, che tutti i paesi si trascinano dietro, per forza, data l’abitudine dei popoli di servirsi dell’oro negli usi monetari, ma che è compito dei dirigenti la politica monetaria del paese di ridurre al minimo possibile. I dubbi sorgono per il fatto che, rimanendo invece immutata la riserva, la circolazione cartacea cresce i 125 milioni.

 

 

Il dubbio maggiore è naturalmente relativo alla possibilità di un aumento del cambio o meglio aggio. Alcuni hanno voluto attribuire all’aumento di 125 milioni nella circolazione l’aumento recente del cambio da 100,80 a 101,30 circa. Certo il cambio a 101,30 è fatto non lieto; ma prima di dare un giudizio positivo, occorre vedere se il fatto sia duraturo, se non sia dovuto a cagioni transitorie (è forse attiva attualmente la importazione del frumento a compensare lo scarso raccolto interno del 1912?) ecc. ecc. Epperciò non pare consentito, senza indizi più sicuri, di attribuire l’aumento avvenuto ai nuovi 125 milioni di biglietti, che, per giunta, sono ancora da emettere. Neppure si può senz’altro dar la colpa dell’inasprirsi del cambio alla speculazione, la cui efficacia nel provocare artificiosi e duraturi aumenti o ribassi nei cambi è incerta.

 

 

Certo è però che la tendenza del cambio ad inasprirsi negli ultimi anni deve essere seriamente meditata. Dopo di essere discesi da una media annua del cambio per Parigi di 105,81 nel 1900-901 a, 99,93 nel 1907-908 siamo risaliti a 100,25 nel 1908-909, a 100,49 nel 1909-10, a 100,44 nel 1910-11, a 100,68 nel secondo semestre 1911. È probabile che nel 1912 la media non abbia gran fatto a scostarsi da 101. Se occorre pagare 101 lira di biglietti italiani per avere 100 lire d’oro, la carta italiana è svilita dell’1 percento. Sembra pure certo che nessun’altra causa permanente possa immaginarsi di un fatto così persistente come l’aumento, per fortuna tenue, nel corso del cambio dopo il 1907-908, fuorché la sovrabbondanza relativa della carta. Ogni merce deprezza quando cresce in quantità in confronto ai bisogni; ed a questa legge non si sottrae neppure la carta-moneta. Non sarebbe dunque meglio spendere in oro i 125 milioni, evitando di mettere 125 milioni di più di carta già sovrabbondante in circolazione? A tutta prima sembra meglio spendere carta che oro, perché l’oro ha l’aria di essere cosa più preziosa e degna di essere meglio conservata. Ma se si riflette che quella dell’oro è una semplice illusione, che l’oro non serve a niente per sé e gli sforzi di tutti devono essere diretti a negoziare la più vasta massa di ricchezze col minimo uso di moneta costosa, che di oro ne abbiamo oggi, in regime di corso forzoso, 1.748,5 milioni di troppo, e ne avremo sempre ad esuberanza nel giorno della ripresa dei pagamenti aurei; mentre l’aumento nel corso dei cambi da 5 anni a questa parte sembra additare ai meditanti una certa iniziale sovrabbondanza di carta monetata, il dubbio si rafforza; od, almeno, si raccomanda all’attenzione di quanti riflettono su questi difficili e complessi problemi della circolazione.

Il valore italiano del trattato di Losanna

Il valore italiano del trattato di Losanna

«Corriere della Sera»,1 novembre 1912

Gli ideali di un economista, Firenze, «La Voce», 1921, pp. 57-68

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1960, pp. 446-454

 

 

 

 

Nei commenti che si lessero sui giornali italiani intorno ai vari documenti che insieme costituiscono il trattato di Losanna, due opposte tendenze sono manifeste: l’una delle quali vuole ingigantire quelle che sono dette «concessioni» fatte all’impero ottomano, ed all’uopo cerca di dimostrare che l’Italia ha rinunciato in parte alla sua affermazione di sovranità piena ed intiera ed ha suscitato un vespaio di attriti futuri fra il governo italiano ed i rappresentanti del sultano e della legge sacra dello Sceriat, mentre l’altra accuratamente espone i motivi per i quali le concessioni fatte sono di pura forma e non intaccano per nulla la nostra sovranità; e già alcuni, appartenenti alle ali estreme di questa tendenza, si industriano ad indicare le maniere con le quali le concessioni formali potranno via via essere attenuate sino a ridursi a puri nomi senza sostanza alcuna.

 

 

Vorrei esporre alcune considerazioni inspirate ad una visione dei fatti diversa sia dell’una che dell’altra tendenza. Le quali hanno la loro ragion d’essere polemica, rispetto alla politica del momento attuale. Mentre sembra a me che la sola domanda importante che dovrebbe fare a se stesso ognuno il quale sovratutto si curi dell’avvenire del paese è questa: Il trattato di Losanna giova all’Italia, e non all’Italia di ieri che non aveva colonie o stava disputandole alle armi del nemico, ma all’Italia di domani, che dovrà rassodare il suo dominio rispetto alle popolazioni arabe e dovrà attuare il programma, senza di cui la conquista sarebbe stata inconcepibile, di crescere la civiltà e la prosperità di quei paesi? Questa sembra a me la vera posizione del problema: cioè il litigare intorno alla portata, più o meno larga, delle singole clausole del trattato rispetto alle aspirazioni che erano state manifestate in Italia ed alle opposte resistenze ottomane è un rivangare sul passato, il quale non ritorna più; mentre soltanto importa dal passato trarre ammaestramenti per l’avvenire.

 

 

Se ciò è vero, sembra a me che il trattato di Losanna si avvicini, per quanto è possibile, ad un capolavoro di arte di governo, da cui l’Italia potrà trarre grandissimo beneficio, ove si sappiano utilizzare i germi fecondi di bene che i nostri negoziatori seppero includervi. Ma per dimostrare ciò è d’uopo fare alcune essenziali premesse. La prima si è questa: che l’esperienza storica ha dimostrato quei soli paesi essere riusciti a conservare per lungo tempo le colonie, i quali seppero renderne contenti gli abitanti, facendo omaggio ai loro costumi religiosi e politici, riconoscendo loro la massima libertà compatibile con la sovranità della madre patria, facendo il massimo assegnamento sulla loro collaborazione amministrativa ed anche politica. Tutto ciò è così noto che è inutile dimostrarlo. I paesi che vogliono perdere le colonie, ne considerano come sudditi gli abitanti; mentre quelli che le conservano, più o meno presto, li chiamano a collaborare nell’esercizio della sovranità locale. L’India moderna, dove tuttodì si creano nuovi consigli legislativi indigeni, ed ai vecchi si crescono i poteri, è l’esempio più attuale di questa necessità assoluta di governo.

 

 

Una seconda premessa, anch’essa di fatto, è che nella Tripolitania e Cirenaica l’elemento indigeno, e per indigeno intendo arabi e berberi, conserverà la maggioranza numerica per lunghi anni ancora. La speranza che gli italiani si dirigano in masse verso le due contrade libiche, per ora non si sa quando potrà essere attuata. L’esperienza storica dimostra che le colonizzazioni sono sempre lentissime sugli inizi e soltanto dopo aver raggiunto cifre di milioni, il moto diventa più rapido. Ora gli inizi nelle colonie non si numerano né ad anni né a poche diecine di anni. Anche lasciando impregiudicata la questione, su cui sono così discordi i pareri, sulle attitudini produttive agricole della nuova colonia, ed anzi supponendola risoluta nel senso più favorevole, gli inizi coloniali, durante i quali i coloni italiani saranno una minoranza esigua della popolazione totale, non potranno durare meno di mezzo secolo. Se poi i coloni italiani diverranno numerosi, il fatto non potrà accadere se non perché l’Italia avrà fatto regnare l’ordine, la sicurezza della proprietà e delle persone, avrà reso facili le comunicazioni terrestri e marittime. Ma di un ambiente siffatto si gioveranno altresì gli indigeni; ed uno dei frutti più sicuri della nostra opera sarà il moltiplicarsi del numero di essi. La pace inglese ha fatto pullulare a diecine di milioni gli indiani; e gli arabi algerini e tunisini crescono rapidamente di numero grazie al dominio francese. Poiché gli indigeni della Libia sono già ora più di un milione, è probabile che conserveranno per lunghissimo tempo una notevole preponderanza su tutti gli altri elementi della popolazione. Dato ciò, appare manifesto quanto grande sia l’interesse dell’Italia a trovare formule adatte di collaborazione amministrativa e politica con un popolo, il quale l’esperienza storica insegna non potere rimanere puramente soggetto. Una terza premessa necessaria è questa: essere sommamente pericoloso per la prosperità della colonia e la saldezza dei suoi vincoli colla madre patria ammettere una qualsiasi rappresentanza politica delle colonie a pro dei soli coloni provenienti dalla madre patria o ad essi assimilati nel parlamento metropolitano. L’esperienza dell’Algeria insegni. Insediata la Francia sovrana nell’Algeria, distrutta ogni organizzazione politica degli indigeni, si commise l’errore grave di attribuire ai coloni francesi l’elettorato al parlamento di Parigi. Prima ai coloni francesi, poi ad alcuni ceti ristretti di indigeni a cui si diede la cittadinanza, come agli israeliti, riconosciuti cittadini francesi in blocco per un decreto del ministro Crémieux, e ad uno scarso numero di notabili arabi, militari, ritirati, ecc. L’errore fu funesto, perché divise la popolazione in due categorie la maggioranza araba, priva di diritti politici, e la minoranza di francesi ed assimilati, che soli avevano influenza politica. Onde i ministri di Parigi furono portati ad ascoltare le voci dei cittadini francesi, dei cui deputati temevano il voto contrario; e questi deputati, di solito di poca levatura, divennero i tiranni della colonia, si preoccuparono esclusivamente degli interessi dei coloni francesi, degli israeliti ed altri assimilati, fomentarono una legislazione di classe, che fece divampare l’odio tra gli arabi oppressi e ritardò di decenni il progresso civile ed economico dell’Algeria. Adesso la Francia sta riparando faticosamente agli errori commessi nel passato, ha creato e rafforza nell’Algeria le rappresentanze di elementi locali; ammaestrata dall’esperienza, preserva con gran cura nella Tunisia gli istituti politici ed amministrativi indigeni, cercando di far sì che le autorità arabe, dal bey all’ultimo caid, esercitino un ufficio parallelo e congiunto a quello delle autorità francesi.

 

 

Onde l’utilità di un governo misto, palesatosi lo strumento più efficace, per ottenere la collaborazione degli elementi indigeni ed europei, allo scopo di conservare la colonia alla madre patria e di farla nel tempo stesso progredire.

 

 

Date queste premesse, in cui, come si vide, non entra menomamente in gioco l’interesse dell’impero ottomano, sibbene esclusivamente l’interesse dell’Italia, o meglio dell’Italia nuova, la quale si è assunta una grandiosa missione coloniale, chiaro appare che la soluzione ideata dai nostri negoziatori, sotto colore di concedere qualche soddisfazione formale alla Turchia, in realtà è quella che meglio giova agli interessi della colonia e quindi della madre patria.

 

 

Il problema era più complesso di quello risoluto dalla Francia a Tunisi. Nella Tripolitania e nella Cirenaica invero non esisteva disgraziatamente alcuna dinastia locale che potesse servire nelle mani del governo metropolitano a tenere devoti gli arabi. Una dinastia nuova non si improvvisa: né i discendenti attuali dei Caramanli di Tripoli, i quali del resto non avevano dominato nella Cirenaica, nel Fezzan e nella regione sirtica, parevano adatti all’uopo. La permanenza della sovranità ottomana, con un protettorato italiano, avrebbe sul serio menomato la sovranità italiana e sarebbe stata cagione probabilmente di attriti non lievi. La soluzione attuata col firmano del sultano e col decreto del re appare in verità pienamente rispondente agli scopi che noi (noi, ripeto, e non i turchi) dobbiamo volere nella nostra azione coloniale. La sovranità italiana, il Naib-ul-Sultan, il Cadì, le prescrizioni dello Sceriat, la commissione mista italo-araba per preparare ordinamenti locali inspirati al rispetto degli antichi costumi, l’affermazione implicita della necessità di un bilancio locale, la continuazione degli impegni finanziari dipendenti dal debito pubblico ottomano, sono tutti elementi di governo i quali, se sviluppati secondo la loro logica intima, possono essere agli interessi della collettività che dovrà a poco a poco sorgere nella nuova colonia. Altra è la parola scritta, ed altro è lo sviluppo che possono gli istituti politici prendere col tempo.

 

 

Invero, ciò che massimamente importava era che le popolazioni indigene – che sono oggi e saranno per lunghissimo tempo, per le considerazioni sovra svolte, la grande maggioranza degli abitanti della colonia – avessero contemporaneamente due sensazioni ben vive, di cui l’una è quella della sovranità italiana, e l’altra di non essere abbandonate in balìa di un dominatore, che esse apprezzeranno senza dubbio col tempo, ma che per ora non conoscono abbastanza. Esse dovevano vedere la sovranità italiana inquadrata nella cerchia delle istituzioni sacre e rappresentative alle quali erano adusate e che male avrebbero potuto essere d’un tratto abbattute. Se la guerra avviene tra due stati civili europei, ed una parte del territorio viene smembrata da uno stato a profitto dell’altro, nessuna difficoltà si oppone al vincitore che voglia estendere i propri ordinamenti al territorio annesso. Si cambia, occorrendo, il nome ai sindaci ed ai prefetti, si mandano in una nuova capitale i deputati: e formalmente l’annessione è compiuta. Invece in paesi, come quelli africani, dove non esiste l’organizzazione burocratica civile europea, dove non esiste od è una parvenza la rappresentanza parlamentare, il passaggio è estremamente più difficile. Qualche cosa di simile avveniva in Europa nei secoli scorsi; e chi non ricorda quale tenacissima vita avessero nelle provincie di nuovo acquisto gli istituti politici ereditati dai domini precedenti? Per citare soltanto ciò che accadeva da noi, basti ricordare che la sovranità del re di Sardegna si estendeva, nel 1792, su numerosi territori: la Savoia, il Piemonte antico, il ducato di Aosta, Nizza, Oneglia, il Monferrato antico ed il Monferrato nuovo, le provincie conquistate sullo Stato di Milano, tra cui la Valle Sesia si distingueva dal Novarese, dall’Oltrepo-pavese, dal Vigevanasco, ecc. ecc., la Sardegna. Su tutte queste regioni si estendeva la sovranità sabauda; ma in ognuna assumeva aspetti diversi, rispettosa sempre degli ordinamenti locali; qua assoluta, là limitata da parlamenti locali; in qualche regione con fervida vita municipale, altrove con predominio dello stato. La varietà derivava dall’ossequio, garantito da trattati, ad istituti che erano sorti durante la sovranità antica ed erano stati per trattato mantenuti, a garanzia delle popolazioni, anche dopo la instaurazione della sovranità nuova.

 

 

Ecco quale sembra a me il significato profondo degli istituti politico-religiosi, consacrati nei documenti del trattato di Losanna. Il firmano ottomano storicamente può essere considerato come una affermazione fatta dal sultano che i governi sono creati per il bene dei popoli e non i popoli a beneficio dei governi; esso afferma che ciò che tiene insieme le popolazioni delle due provincie, ciò che ne fa un popolo non è l’autorità sua, la quale egli confessa impotente; ma è l’esistenza di un comune affetto degli indigeni per «il loro paese»; la perpetuazione delle leggi Sacre dello Sceriat, le quali costituiscono il fondamento della vita civile e familiare, la esistenza loro autonoma, organizzata secondo leggi a cui essi devono essere chiamati a collaborare, che devono essere applicate mediante un ordinamento amministrativo imperniato su un bilancio «locale». In sostanza il sultano, spogliandosi della propria sovranità, ha desiderato si sapesse che egli non abbandonava i suoi antichi sudditi alla balìa di un conquistatore, libero di imporre istituzioni estranee ai costumi ed all’indole delle popolazioni conquistate. E l’Italia, facendo proprie queste esigenze della conquista, non ha compiuto cosa che non fosse sovratutto ad essa sommamente benefica. Perché, essendo nell’interesse dell’Italia che gli arabi diventino suoi collaboratori, è puranco nel suo interesse che essi sappiano di poter vivere secondo gli ordinamenti religiosi, che regolano i loro rapporti familiari, testamentari, ecc. ecc. A ciò provvede la gerarchia del Cadì e dei suoi naib subordinati; la quale gerarchia non poteva non essere legittima nel solo modo in cui dinanzi agli occhi dei musulmani è legittima una autorità religiosa, ossia mercé la nomina da parte dello sceicco dell’Islam.

 

 

A questa organizzazione spirituale si aggiunge la organizzazione finanziaria. Dopo aver pregato Dio, gli arabi dovranno pur pagare il suo rappresentante in terra perché egli mantenga l’ordine e la sicurezza e la giustizia. Ma pagare un tributo destinato ad un bilancio non proprio del paese o destinato al paese per pura condiscendenza del dominatore sarebbe stato avvilente per i nuovi sudditi e pernicioso per la madre patria. Prova ne sia la Francia, la quale, dopo aver fuso il bilancio dell’Algeria col suo, si avvide di avere gravemente errato e ricostruì il bilancio proprio della colonia, a determinare il quale concorrono gli indigeni. Mercé il trattato di Losanna, l’Italia sapientemente avverte che essa si terrà lontana dagli errori che ad altri paesi costarono e costeranno la perdita di grandi colonie. Essa avverte gl’indigeni che essi avranno un bilancio locale, a cui favore andranno le imposte che essi pagheranno. Li avverte che le entrate locali saranno destinate esclusivamente a favore della colonia, e che la madre patria farà sacrifici a pro della colonia, senza richiederne direttamente vantaggi pecuniari per il proprio bilancio. E, come primo affidamento, fa gravare sulle entrate locali le spese necessarie per il funzionamento della gerarchia religiosa ed anche per l’assegno del «rappresentante del sultano». Con quest’ultima disposizione, forse la più interessante di tutte, si pongono le fondamenta di quella graduale evoluzione che col tempo trasformerà il rappresentante del sultano (per le funzioni consolari dell’impero ottomano si potrà trovargli un sostituto, un segretario) in quel personaggio indigeno, scelto da noi con accortezza, di cui ogni grande potenza coloniale ha urgente bisogno per esercitare praticamente di fatto la sovranità sugli indigeni. La nomina potrà col tempo assumere il carattere di una investitura formale, simile a quelle che avevano reso nei secoli scorsi leggendario e misterioso il Sacro romano impero, morto legalmente soltanto nel 1806 dopo una vita durata per secoli nelle pergamene della corte di Vienna; di fatto il rappresentante del sultano potrà trasformarsi in un rappresentante degli interessi indigeni presso l’autorità italiana. Scegliere i rappresentanti degli indigeni colle forme elettorali in uso nei paesi europei sarebbe una farsa leggermente comica; mentre la genialità nostra negli espedienti saprà adattare certamente le forme vecchie agli istituti nuovi, in guisa da avere una rappresentanza dell’indigenato, che non si senta serva perché nominata in virtù di leggi proprie e di costumi aventi una sanzione quasi sacra da parte del califfo dei credenti, e nel tempo stesso volonterosa collaboratrice della sovranità italiana, alla cui opera il bilancio locale avrà dovuto la sua floridezza, ed i loro stipendi la sicurezza che forse non avevano sotto l’antico regime. Trovare la via per cui i naib, i cadì, i membri della commissione mista italo-indigena siano chiamati a collaborare insieme per la prosperità della colonia è certo impresa singolarmente difficile; la quale però viene, a parer mio, facilitata dal fatto che tutte queste istituzioni appariranno agli indigeni un diritto consacrato nell’atto della trasmissione della sovranità.

 

 

Il trattato di Losanna crea uno stato giuridico delle popolazioni arabe; stato giuridico corrispondente alla neutralità, e quindi utile strumento di governo per il sovrano. Del pari il rispetto ai diritti delle fondazioni pie, mentre assicura gli indigeni che essi potranno trovare sempre quell’aiuto che dalle fondazioni essi si ripromettevano, simile a quello che i poveri ottenevano nel medio evo dai conventi ed oggi presso di noi dalle istituzioni di beneficenza, non nuocerà menomamente alla colonizzazione italiana, ove questa sia possibile e nei limiti in cui lo sarà. Del pari la permanenza, garantita per trattato, di quegli altri beni vakufs che sono destinati non direttamente a sollievo dei poveri, ma al mantenimento di moschee, scuole, ospedali, biblioteche, alberghi, cimiteri, ecc., è utile all’Italia, in quanto alla popolazione indigena viene per tal modo assicurata la conservazione di quegli istituti autonomi, viventi di vita propria, che sono stati constituiti dalla pietà delle generazioni passate e che in Italia con ogni sforzo cerchiamo di crescere e far prosperare.

 

 

Quanto alla colonizzazione dei beni vakufs da parte di nostri coloni, dato sempre che essa sia conveniente, il diritto musulmano conosce infiniti artifizi, con cui, permanendo la proprietà e la rendita attuale dei beni vakufs nelle fondazioni pie, il dominio utile può essere trasferito ad altri. Oserei dire che, quando li conosceremo, verrà voglia a noi di applicare quegli artifizi in Italia.

 

 

Con la tesi ora sostenuta, sembrami sentir dire, quasi si afferma che il governo della Tripolitania e della Cirenaica dovrà essere in mano degli indigeni, ad esclusione delle altre razze e dei coloni italiani. No. La tesi non giunge a queste conseguenze. Afferma soltanto che sul territorio della colonia le popolazioni arabe hanno un proprio stato giuridico, obbediscono a leggi fondamentali religiose e familiari che l’Italia ha ricevuto e rispetterà; hanno diritto a non essere tassate a pro di altri popoli o ceti. L’Italia poi regolerà, rispettando le leggi e gli istituti fondamentali degli indigeni, i rapporti di costoro con i coloni italiani, con gli israeliti, ecc., ed i rapporti di tutti con la madre patria e con l’estero. Noi dobbiamo dirci fortunati che i principii così saggiamente incorporati nelle carte del trattato di Losanna pongano l’Italia sulla buona via nell’esercizio della sovranità. Che è, ripetiamolo ancora, per chi voglia conservare e far prosperare le colonie, il rispetto degli istituti degli indigeni, la collaborazione con essi, l’esclusione di qualsiasi esclusività di rappresentanza ai coloni italiani od assimilati ad essi; la creazione di tanti statuti politici quante sono le sezioni della popolazione (indigeni, israeliti, coloni italiani), in guisa che nessuna di esse possa opprimere l’altra. Certo la creazione di questa nuova struttura politica sarà opera faticosa; ma di essa il trattato di Losanna ha tracciato già le somme linee. La storia giudicherà l’opera italiana dai frutti che saremo capaci di trarre dai germi fecondi di cui quel trattato è ricco.

I metodi della riforma tributaria e la importanza crescente della esazione per interposta persona (contribuenti-esattori, società per azioni ecc.)

I metodi della riforma tributaria e la importanza crescente della esazione per interposta persona (contribuenti-esattori, società per azioni ecc.)

«Rivista delle Società Commerciali», agosto 1912, pp. 826-837

In estratto: Roma, Offic. tip. Bodoni, 1912, pp. 40

«Rivista di politica economica», agosto-settembre 1912, pp. 1125-1144

Per le convenzioni marittime definitive

Per le convenzioni marittime definitive

«Corriere della Sera », 28 maggio[1], 29 maggio[2], 1 settembre[3]e 11 dicembre[4] 1912

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 427-445

 

 

 

 

1

 

In seguito alle convenzioni del 1893 le spese dell’erario italiano per le sovvenzioni alle società assuntrici dei servizi marittimi regolari gradatamente si elevarono da 9.524.356 lire nel 1894 – 95 ad 11.915.016 lire nel 1909 – 10, ultimo anno in cui rimasero in vigore le convenzioni stesse. Nel 1910 – 11, primo anno del nuovo regime, si spesero 4.369.440 lire per le linee concesse alle società Puglia, Veneziana, Siciliana, Veloce, Napoletana, Banco Roma, Nederland, Sicania, Allodit, che esercitano servizi definitivi e lire 9.165.382 alla Società nazionale dei servizi marittimi, che esercita i principali servizi in via provvisoria, in tutto 13.534.742 lire.

 

 

Siccome però il regime provvisorio non poteva durare a lungo sulle linee principali; e la Società nazionale dei servizi marittimi aveva dichiarato di non potere consentire a proroghe, così fu d’uopo al governo presentare un disegno di legge per la sistemazione definitiva dei servizi stessi, in virtù del quale invece dei 9.200.000 lire spesi attualmente per le sovvenzioni alla Società nazionale si proponeva di spendere lire 13.883.000. La commissione parlamentare, d’accordo col governo, dopo lunghe discussioni, propone ora di elevare la sovvenzione di altri 2 milioni e 50.000 lire – giova notare che l’aumento è dovuto alla necessità di migliori raccordi con la Libia e non è una concessione ad interessi regionali – portandola in tutto a 15.933.000 lire. Aggiungendosi lire 4.460.000 dovute alle società minori arriviamo ad una somma totale di circa 20 milioni e 400.000 lire di sovvenzioni che l’erario dovrà pagare quando saremo entrati del tutto nel regime definitivo. Quasi il doppio di ciò che in media si spendeva durante le convenzioni precedenti.

 

 

lI relatore della camera, on. Cassuto, quasi a scemarne l’impressione, sembra considerare questi incrementi di spese per la marina regolare sovvenzionata come un fatto definitivo bensì per 10 anni, a partire dal 1 luglio 1913, ma provvisorio in un tempo storico più lungo. Egli ritiene che l’ideale sarebbe la soppressione delle sovvenzioni fisse e la convergenza di ogni sollecitudine alla marina libera.

 

 

E l’ideale degli ideali sarebbe che nessun limite, vincolo o condizione fossero posti per la concorrenza al sussidio; non di linee prestabilite, non di determinazione di viaggi, non di itinerari e di orari, sicché sotto il raggio fecondo della libertà le attività della marina mercantile si espandessero naturalmente e non rappresentassero più elementi integratori del tutto soggettivi e personali tendenti soltanto a sollevare il vettore da scapiti e sacrifici.

 

 

Dopo essersi così foggiato un ideale di marina libera o meglio «liberamente sussidiata», il Cassuto riconosce però che

 

 

la funzione del governo non può, come può la indagine scientifica, prescindere dalle necessità e dalle imperfezioni del momento per correre dietro a ideali che soltanto nel futuro e sotto altre forme di vitalità potrebbero trasformarsi in realtà. Essa deve rinunciare alla teoria, che resterebbe accademica ed infeconda, per seguire metodi destinati ad un risultato pratico immediato.

 

 

Dopo avere teoricamente condannato le sovvenzioni fisse alla marina regolare, l’on. relatore le accetta dunque come una necessità pratica.

 

 

Anch’io le accetto, almeno in tesi generale, salvo a discutere le applicazioni particolari; ma per un motivo compiutamente opposto a quello addotto dal Cassuto. Non sono mai riuscito a comprendere perché la marina libera, anzi liberamente sussidiata, sia un ideale bello e le sovvenzioni siano una realtà brutta. Amo moltissimo la marina libera; ma per essere tale sul serio non deve essere sussidiata, in nessuna maniera, né coi premi di navigazione, né col sistema Bettolo, né coi compensi d’armamento, ecc. ecc. La marina libera è un bellissimo ideale, purché sia libera sul serio e lo stato non se ne interessi menomamente, salvo per togliere balzelli e gravami ingiustificati. La pseudo – libera marina sussidiata non è né un ideale dell’avvenire, né una teoria accademica immaginata dalla «indagine scientifica». Essa non è altro che una degenerazione della marina libera, la quale vorrebbe avere i vantaggi della marina sovvenzionata (sussidi, premi, ecc.) senza assoggettarsi agli oneri di regolarità di viaggio, di tariffe, di resa dei conti, ecc., a cui la marina sovvenzionata può essere costretta. Aiutare la marina libera è una contraddizione in termini, è un voler rovinare quella marina, che è ancor libera, senza crearne una che possa servire ai fini che lo stato vuole raggiungere; è una bruttissima pratica del passato, non una teoria ideale dell’avvenire.

 

 

Crede il legislatore necessario garantire le comunicazioni postali fra il continente e le isole, fra la madre – patria e le colonie; crede utile creare, con una perdita attuale, un traffico che si presume fecondo nell’avvenire, con porti lontani? L’unica maniera seria di raggiungere l’intento, e’ di contrattare con una società il prezzo (chiamato sovvenzione) di questo pubblico servizio; garantendo, con opportune clausole, che il servizio sia compiuto nel miglior modo possibile, e a un prezzo dimostrato minimo in una pubblica gara. Non so se questa sia teoria o pratica. So soltanto che il buon senso insegna che non si possono ottenere merci o servizi se non si paghi il prezzo corrispondente.

 

 

Due sono i problemi che si presentano ogni volta che si discutono convenzioni marittime: quali linee sono necessarie nell’interesse pubblico? Quale prezzo deve essere pagato per l’esercizio di queste linee alle condizioni di velocità, di frequenza, di comodità, di tariffe volute dal legislatore? Accennerò ora alla soluzione data a questo secondo problema. Il primo è irto di dati tecnici, di considerazioni politiche, di contrasti regionali e ci trarrebbe oggi troppo in lungo.

 

 

Per sapere quale sovvenzione si debba dare al concessionario di una linea, bisognerebbe conoscere quale ne sia il costo di esercizio totale e quali ne siano i proventi medi. Se una linea frutta 1 milione e costa 900.000 lire all’anno, non c’è evidentemente bisogno di alcuna sovvenzione. La linea sarà evidentemente esercitata da armatori liberi; e lo stato avrà il pubblico servizio (trasporto della posta, comunicazioni assicurate, sviluppo del traffico) senza l’onere di un quattrino. Accade spessissimo tal fatto; anzi accade nel maggior numero dei casi. Altra volta invece le spese giungono ad 1 milione e le entrate a malapena toccano le 900.000 lire. Nessun armatore privato eserciterebbe la linea, se lo stato non pagasse la differenza di 100.000 lire a titolo di sovvenzione. Queste 100.000 lire sono il prezzo del pubblico servizio di avere garantita in modo «regolare» una comunicazione che altrimenti sarebbe saltuaria o non ci sarebbe affatto.

 

 

Come assicurarsi di pagare solo le 100.000 sufficienti all’uopo, e non il doppio o il triplo? Bisognerebbe conoscere i dati dell’entrata e della spesa. Qui sorsero le maggiori difficoltà. È noto che, per lo passato, la Navigazione generale italiana si rifiutò energicamente a lasciar prendere visione dei suoi registri. La commissione reale per i servizi marittimi (relatore Pantano) fece degli scandagli, ragionò a base di ipotesi e fece proposte di sovvenzione, sulla base generica delle quali si aprirono aste. Ma queste andarono deserte, segno che gli interessati giudicarono quelle sovvenzioni insufficienti. Il sistema delle convenzioni Piaggio avrebbe forse consentito di venire in chiaro della cosa; ma a ragione fu respinto, come quello che trasportava sul mare il malo metodo della cointeressenza dello stato e delle compagnie private; ed apriva la via ad una futura statizzazione delle linee sovvenzionate.

 

 

Governo e commissione parlamentare riconoscono perciò vana la speranza di poter calcolare a priori la sovvenzione «giusta», quella cioè sufficiente a colmare né più né meno il disavanzo d’esercizio delle singole linee. Le sovvenzioni proposte sono cifre che direi «storiche», in quanto risultano dalle sovvenzioni precedenti in regime provvisorio, dai progetti passati o dai calcoli approssimativi, dei quali non è detto il fondamento.

 

 

Come ottenere che queste cifre siano ridotte, se eccessive, alla misura sufficiente?

 

 

La commissione, – risponde l’on. Cassuto, – ha riflettuto che la riduzione degli annui canoni di sussidio previsti dal progetto, dato che essa sia possibile, sarà fatta automaticamente dall’esperimento del pubblico incanto. Imperocché oggi non si tratta di procedere all’aggiudicazione; si tratta soltanto di segnare il limite massimo sul quale l’esperimento delle aste si svolgerà. Laonde, ove questo limite potesse subire una riduzione, è da presumersi che nella libera concorrenza non sia a mancare chi la voglia proporre per assicurarsi la concessione dei servizi.

 

 

Speriamo – sia pure con la stessa scarsa fiducia che si legge tra le righe della relazione parlamentare – che la libera concorrenza si manifesti e riesca a ridurre le sovvenzioni al minimo possibile. Attraversiamo, purtroppo (dico «purtroppo» dal punto di vista dell’interesse dell’erario italiano), un momento di grande espansione nei traffici marittimi mondiali; onde è difficile trovare armatori disoccupati che vogliano concorrere alle gare italiane. Poiché inoltre le gare sono limitate a cittadini italiani od a società italiane costituite in Italia, è ben difficile che si abbia a manifestare una vivace gara di ribassi.

 

 

Se i servizi provvisori fossero durati più a lungo, dai loro risultati qualche lume si sarebbe potuto ricavare per risolvere il difficile problema del quantum delle sovvenzioni, intorno a cui bisogna confessare esserci buio pesto. Le convenzioni provvisorie – come del resto le convenzioni definitive per le società minori e come imporranno le future convenzioni, che ora stanno dinanzi alla camera – imponevano ai concessionari di fornire all’ispettorato generale dei servizi marittimi dati precisi intorno al movimento delle merci e dei passeggeri e all’incasso per noli. Una recentissima relazione dell’ispettorato medesimo sui servizi marittimi sovvenzionati nell’esercizio 1910-11 contiene sull’argomento numerose tabelle. Sappiamo, ad esempio, che la Società nazionale di servizi marittimi trasportò, sulle linee sovvenzionate, 1.054.472 tonnellate di merci, 20.204 passeggeri di I classe, 32.409 di II classe, e 215.666 di III classe, con un incasso totale di noli di 22.894.384 lire, a cui bisogna aggiungere la sovvenzione pagata dallo stato di 9.165.502 lire. L’utile netto fu di 718.859 lire, onde poté distribuire un dividendo del 3,80% sul capitale versato. Sono cifre interessanti, in quanto dimostrano che, anche nel primo anno di organizzazione, l’esercizio non fu passivo. Riescono anche utili le tabelle, in cui i prodotti del traffico sono distinti linea per linea e bimestre per bimestre. Ma poiché non ci sono fatte conoscere le spese relative, anch’esse linea per linea, ai non tecnici è impedito dare un giudizio sulla sufficienza od esagerazione delle singole sovvenzioni, ed ogni giudizio sarebbe prematuro dopo l’esperienza di un solo anno. Si aggiunga che le convenzioni definitive impongono tariffe di trasporto modificate e, pare, più basse delle antiche. Chi può dire come si svilupperà il traffico e come varieranno le spese, quando i noli saranno mutati? La interessante e solerte pubblicazione dell’ispettorato non aiuta perciò a risolvere il problema. Le sovvenzioni dovranno essere votate e forse sulla loro base dovranno essere fatte le aggiudicazioni, senza essere certi che sui contribuenti si sia imposto il minimo onere compatibile con la importanza dei servizi sovvenzionati. Fra dieci anni probabilmente i dati saranno più abbondanti; sulla scorta di parecchi successivi bilanci e delle minute statistiche del traffico per ogni linea sarà possibile giudicare se e quali sovvenzioni possono essere abolite e quali altre ridotte. Per ora, è giuocoforza procedere un po’ al buio, per via di approssimazioni incerte.

 

 

2

 

Dissi già come governo e commissione parlamentare propongano di risolvere il problema del prezzo da pagarsi per assicurare l’esercizio delle linee regolari affidate alla marina sovvenzionata: l’esperimento delle pubbliche gare dovrà, ove ciò sia possibile, ridurre le sovvenzioni alla misura minima necessaria.

 

 

Rimane l’altro problema: quali linee sono necessarie nell’interesse pubblico? Per quali linee è opportuno pagare una sovvenzione, determinata nel modo che dianzi si disse? Evidentemente bisognerebbe poter cominciare ad escludere tutte quelle che sarebbero ugualmente esercitate senza il sussidio dello stato. È inutile spendere i denari dei contribuenti per ottenere un intento che si raggiungerebbe ugualmente senza quel sacrificio. Anche qui però, purtroppo, buio pesto o quasi. Per sapere quali linee sarebbero esercitate anche senza il sussidio dello stato, sarebbe stato d’uopo che, durante alcuni anni, lo stato non avesse dato sovvenzione alcuna. Allora, un po’ per volta, alcuni servizi si sarebbero organizzati per opera di armatori liberi; dimostrando chiarissimamente, col fatto, che di sovvenzione non avevano bisogno. Altri invece sarebbero mancati; e per questi soltanto si sarebbe potuto discutere l’utilità di una sovvenzione. Quando negli anni scorsi si discutevano le sovvenzioni, io augurai che le sovvenzioni non si potessero rinnovare ne’ in via definitiva né in via provvisoria, appunto perché ero convinto che da siffatto esperimento sarebbe risultata lampantissima la possibilità di fare a meno di sovvenzionare parecchie linee e di convergere le cure dello stato esclusivamente sulle rimanenti. Non si volle per timore del peggio; ed ora siamo sempre al punto di non sapere quali siano le linee necessarie e quali le inutili.

 

 

Per alcune soccorrono criteri che non sono economici, bensì politici; ma, per essere tali, non devono essere trascurati dallo studioso di fenomeni economici. Voglio accennare alle linee coloniali. Trattandosi di colonie, come l’Eritrea e la Somalia italiana, antiche, per conquista, ma tuttora in uno stato iniziale di sviluppo economico, o di colonie, come la Tripolitania e la Cirenaica, nuove sotto ambedue gli aspetti, sarebbe evidentemente esagerato pretendere che esse colle proprie forze possano alimentare le linee regolari che sono necessarie allo stato dal punto di vista politico e militare. Si comprende perché si stanzino 1.800.000 lire all’anno per assicurare le comunicazioni con Massaua, Mogadiscio, Kisimayo, Merca, Brava, Assab, ecc. Sono spese che hanno carattere politico e che intendono assicurare l’esercizio della sovranità italiana sulle colonie. Così pure si comprende che le sovvenzioni per i servizi postali dal Tirreno inferiore con la Libia e la Tunisia siano state portate da 1.550.000 a 2.430.000 lire; e quelle per i servizi commerciali da 550.000 a 1.110.000 lire, con un aumento di circa 1 milione e mezzo sulla somma preventivata dal governo innanzi che si parlasse della conquista della Tripolitania e della Cirenaica.

 

 

I doveri dello stato sono oggi maggiori verso una colonia di quanto fossero prima verso un paese straniero con cui si avevano soltanto rapporti commerciali; ed è naturale che le spese crescano. Forse verrà giorno in cui quelle linee potranno sostentarsi da se stesse; per ora siamo da siffatta meta ancor lontani.

 

 

Hanno natura simigliante, sebbene non identica, a queste linee coloniali quelle altre che vogliono affermare la continuità della influenza politica della bandiera italiana nel Levante o nelle regioni vicine, dove la lingua italiana è parlata e dove sono grandi, oltreché i ricordi dei commerci passati, gli interessi economici d’oggi. In quei luoghi, dove la bandiera italiana da sé non andrebbe, può essere politicamente ritenuto opportuno inviare navi regolari mercé l’aiuto di una sovvenzione governativa. Il criterio è di difficilissima applicazione; potendosi incorrere nel pericolo di dare sovvenzioni a navi che già di per sé andrebbero in quelle località, tanto attivo è il traffico di merci e di persone su quelle linee. Negli altri casi, in cui le ragioni politico – militari non sono evidenti e dovrebbero perciò preponderare criteri economici, riesce difficile formarsi un’idea precisa. Leggendo la relazione dell’on. Cassuto, si ha a quando a quando l’impressione che per concedere o togliere certe linee, per aumentare o no le fermate, si siano pesate, con la bilancia dell’orafo, le influenze politiche delle singole località. Parlando delle linee che costituiscono il periplo della Sardegna, il relatore scrive:

 

 

La Camera di commercio di Sassari, appoggiata dall’on. Abozzi e dall’on. Pala, richiede che si rendano settimanali gli approdi di Alghero, Bosa, Oristano, Carloforte, Sant’Antioco e Teulada; l’on. Pala chiede che sia reso settimanale l’approdo a Santa Teresa di Gallura; e il sottoscritto relatore, nella rappresentanza del suo collegio, fece la stessa istanza per Marciana Marina.

 

 

Altrove ricorda che

 

 

gli onorevoli Cantarano, Visocchi, Buonanno, Santamaria, Capece-Minutolo Gerardo, Lucernari, Morelli Enrico, Ciocchi, Simoncelli, Scorciarini-Coppola, Della Pietra, Sanjust chiedono la riproduzione di una nota.

 

 

che prescriveva un approdo a Gaeta nella linea Cagliari-Napoli, per quando sarà attuata la direttissima Roma-Napoli. Le domande relative al periplo sardo sono respinte e consentite invece quelle dell’approdo di Gaeta. Le quali sentenze saranno magari fondatissime; ma si ha, ripeto, l’impressione che le linee siano state fissate in base a criteri più politici che economici, nell’interesse del «collegio», perché atte a procacciare seguito agli intercessori, non perché destinate a promuovere interessi commerciali capaci di dar luogo a traffici fecondi.

 

 

In alcuni casi la commissione parlamentare non ha saputo dissipare i dubbi che erano stati sollevati da rappresentanze commerciali competentissime; fra l’altro dalla commissione marittima esaminata dalla camera di commercio di Genova.

 

 

Una fra le linee più costose è certamente quella Genova – Bombay che oggi ha partenze mensili, velocità 12 miglia, tonnellaggio unitario 4.000, sovvenzione 1.024.000 lire; e che secondo le proposte concordate dalla commissione parlamentare col governo sarebbe portata ad una sovvenzione di 1.710.000 lire, con partenze ogni 4 settimane, con navi di 6.000 tonnellate e 15 miglia di velocità. L’accennata commissione genovese aveva protestato l’inutilità di spendere somme così forti, notando trattarsi di una linea assai redditizia, che attiva un traffico abbondante in continuo aumento: i vapori spesso rifiutano carico al porto di Genova per riservare lo spazio necessario agli altri porti italiani; ed al ritorno viaggiano quasi sempre al completo. Contemporaneamente, malgrado, ossia in aggiunta ai servizi sovvenzionati, dagli stessi scali indiani si noleggiano quasi normalmente due piroscafi ogni mese, per far fronte ai bisogni del traffico. D’altra parte, un miglioramento del servizio è destinato ad attirare una larga corrente di passeggeri, specie inglesi, che prediligono i nostri postali. La linea ha dunque gli elementi per bastare a se stessa. Ma è necessario che la compagnia assuntrice metta in linea materiale di prim’ordine ed offra ai viaggiatori tutti i comodi che la vita moderna richiede.

 

 

Sarebbe stato utile che la commissione parlamentare confutasse codeste critiche. Non avendolo fatto, si rimane dubbiosi intorno alla ragione per cui non si sia abolita ogni sovvenzione ed ancor più dubbiosi sul perché sia stata anzi aumentata da 1.024.000 a 1.710.000 lire. Essendovi una linea attivissima, a cui non bastano i piroscafi vincolati per convenzione, che abbisogna normalmente di piroscafi sovranumerari, che potrebbe espandersi ancor più, ove meglio curasse i comodi dei viaggiatori, non si vede la ragione perché ad una siffatta linea venga aumentata la sovvenzione da 1.024.000 a 1.710.000 lire. Sembra fuor di luogo spendere il pubblico denaro non per incoraggiare un traffico ai suoi inizi, ma per sussidiare chi ha già un’impresa attiva, e per indurlo a compiere mediocremente quei miglioramenti che l’armatore avrebbe interesse, se lasciato a sé, di compiere in proporzioni ben più notevoli.

 

 

Così pure non furono dissipate le incertezze intorno alla convenienza di sovvenzionare le linee periple, le quali toccano i porti della Sicilia e del continente facendo tutto il giro e ritornando al punto d’origine. Adesso per queste linee si spendono 308.000 lire per la Sicilia, e 460.000 lire per il continente. Si propone che le sovvenzioni siano portate a 340.000 e 500.000 lire, per il motivo che si sono aggiunte nuove fermate e che si è aumentata la velocità da 9,5 a 10 miglia. Lasciando da parte quest’ultima circostanza, davvero irrilevante, notisi anzitutto che, coll’aumento continuo dei porti di toccata, il governo viene a rendere vieppiù grama la vita della marina libera. «La maggior parte dei porti compresi nell’itinerario di entrambe le linee periple della Sicilia e del continente», dice la commissione genovese, «attivano un traffico più che sufficiente a compensare le spese di esercizio. Ne è prova il fatto che essi vengono toccati regolarmente dalla marina libera, la quale, senza aiuti di sorta, resiste alle concorrenze dei servizi sovvenzionati».

 

 

Ecco la stranezza del caso: vi sono porti in cui la marina libera da sola basterebbe a dare sfogo al traffico, e riesce a vivere malgrado la concorrenza artificiale della marina sovvenzionata, e ve ne sono altri a cui finora ha provveduto la marina libera senza sacrificio dei contribuenti. In riconoscimento della inutilità, anzi del danno delle sovvenzioni, adesso si propone di fare toccare altri porti, finora aperti alla libera concorrenza, alla marina sovvenzionata, e di aumentare perciò la sovvenzione da 768.000 ad 840.000 lire.

 

 

Esaudendo i voti della commissione genovese, la linea Napoli-Costantinopoli, che avrebbe assorbito 400.000 lire all’anno di sovvenzione per uno scopo che la marina libera può raggiungere senza aiuto alcuno, è stata abolita, sostituendola con altra linea che non va più a Costantinopoli e costituisce il periplo libico, intorno a cui sopra s’è già discorso. Nonostante ogni critica, è mantenuto invece intatto il gruppo IV delle linee celeri dell’Egitto. Sono due, l’una Brindisi-Alessandria, e l’altra Napoli-Siracusa-Alessandria, decadali, con vapori di 6.000 tonnellate e della velocità di 20 miglia e costeranno 2 milioni e mezzo tonnellate all’anno. Fu osservato che, così come sono proposte, le linee servono unicamente al trasporto dei passeggeri di classe; e risultano inutili al trasporto di merci, per cui unicamente i negozianti ed i coloni italiani desiderano linee più celeri tra l’Italia e l’Egitto. Ora, con piroscafi da 6.000 tonnellate e 20 miglia di velocità, date le macchine potentissime ed i vasti carbonili occorrenti, non rimane alcuno spazio disponibile per il servizio delle merci. Il che, mentre toglie all’assuntore un cespite di guadagno, rende le linee del tutto superflue ai nostri traffici. Pratici espertissimi, di grande autorità in materia, al dire della commissione genovese, non hanno esitato ad affermare che nessun assuntore delle due linee potrà trovare lo stato, se non aumentando di molto la sovvenzione annua. Ne è prova l’esperimento recentemente tentato dalla compagnia inglese Anglo-Egyptian, la quale dopo poco ha dovuto abbandonare, con fortissime perdite, il servizio Marsiglia-Napoli-Alessandria, al quale aveva adibito due splendidi piroscafi a ventun nodi di velocità.

 

 

Evidentemente la commissione parlamentare spera che il risultato delle pubbliche gare metta in chiaro che si troveranno assuntori pronti ad assumere, in compenso della sovvenzione annua di due milioni e mezzo, l’esercizio di linee destinate «ad utilizzare la posizione geografica dell’Italia nelle comunicazioni fra l’Egitto e l’Europa» portando con rapidità inusata i ricchi inglesi a svernare sulle sponde del Nilo.

 

 

L’esperienza dirà se il fine possa essere raggiunto; ché, se non fosse possibile, non ce ne dovremmo rammaricare troppo, trattandosi di una spesa rivolta a beneficio di cittadini inglesi, i quali non difettano di mezzi per farsi a proprie spese trasportare dovunque loro piaccia passare la stagione invernale.

 

 

3

 

L’asta per la aggiudicazione delle linee di navigazione sovvenzionate è dunque andata deserta per tre dei quattro gruppi di linee, e cioè per le linee del Tirreno inferiore, dell’Adriatico e dell’Egitto; rimanendo aggiudicate ad un rappresentante del Lloyd Sabaudo solo le linee del gruppo Tirreno superiore. L’esito, si era detto ripetutamente, si prevedeva; ed era quello medesimo di altre aste recenti in materia di servizi marittimi. E fu lo stesso che si ebbe quando, in virtù della legge 6 luglio 1911, si propose di affidare alla marina nazionale il trasporto di 700.000 tonnellate annue di carbon fossile per le ferrovie dello stato e per la marina da guerra. Le aste, come dai pratici si prevedeva, andarono deserte, a causa delle perturbate condizioni del traffico del carbone; sicché il governo pare si proponga di ribandirle quando quelle condizioni saranno ritornate normali.

 

 

Il fatto della diserzione delle aste, che sarebbe, se isolato, accidentale, diventa sintomatico oggi che si ripete troppo spesso. La dignità di un parlamento viene sminuita quando esso è chiamato a sanzionare provvedimenti di leggi che si sa non potranno essere attuati, per la mancanza di chi voglia accettare le condizioni che al parlamento è piaciuto di stabilire dopo lunghe e laboriose discussioni. I dibattiti parlamentari diventano così infeconde esercitazioni accademiche.

 

 

Se le cose potessero fermarsi qui, il danno sarebbe lieve, anzi i benefici potrebbero essere maggiori dei danni. La legge relativa al trasporto di 700.000 tonnellate di carbon fossile su navi sovvenzionate dallo stato è certamente un grosso errore; e ho affermato fin troppo ripetutamente la mia convinzione che le sovvenzioni ai servizi marittimi sono in notevole parte inutili e riescono soltanto a far pagare dai contribuenti servizi che sarebbero spontaneamente esercitati, senza bisogno di sovvenzione alcuna, dalla marina libera, perché io non mi debba rallegrare di quel qualunque avvenimento, magari la diserzione delle aste, che diminuisca la probabilità di conchiudere nuove convenzioni inutili e dannose.

 

 

Praticamente, però, la diserzione dalle aste non vuol dire che le convenzioni non saranno conchiuse, il che sarebbe augurabile nell’interesse generale, bensì che saranno conchiuse a trattative private od altrimenti, a condizioni più onerose di quelle volute dalla legge votata dal parlamento. Così accadde in passato e così praticamente è probabile accadrà in avvenire. La diserzione delle aste, ben lungi dall’essere il preludio di un’era nuova e feconda di libera attività marinara non sovvenzionata, sarà la condizione, forse voluta dagli interessati, per la stipulazione di convenzioni assai meno vantaggiose all’erario di quelle mediocri che erano state preordinate dal parlamento.

 

 

Il fatto acquista perciò carattere di gravità notevole nei rispetti del pubblico erario ed impone la ricerca delle cause che hanno potuto condurre a così sfavorevoli risultati. L’indagine si presenta difficilissima sotto più rispetti per la mancanza dei dati; ma due sembrano essere sicuramente tra le principali: la gravezza degli oneri imposta dal parlamento da un lato e la mancanza di concorrenza tra gli armatori dall’altro.

 

 

E primamente la gravezza degli oneri imposti dal parlamento. È un fatto notorio che la elaborazione delle leggi per i servizi marittimi è divenuta assai più complessa d’un giorno. Le esigenze a cui governo, parlamento, commercio, popolazioni vogliono che i servizi marittimi soddisfacciano vanno crescendo da un disegno di legge all’altro. Niente pare abbastanza moderno, abbastanza confortabile; nessun servizio è organizzato in modo abbastanza soddisfacente. Si fa a gara ad aumentare la velocità ed il tonnellaggio; e si giunge alle esagerazioni delle linee celeri per l’Egitto, in cui, come fu dimostrato su queste colonne e come rilevò, se ben ricordo, l’on. Bettolo alla camera, a furia di voler crescere la velocità si era giunti a dover dedicare sui piroscafi tanto spazio ai carbonili da non trovare più posto per il trasporto delle merci e dei viaggiatori di terza classe. L’esercizio della linea, per il troppo pretendere, era divenuto un lusso puramente estetico, a soddisfazione dei ricchi inglesi che vogliono andare a svernare al Cairo. Inoltre, quanto più queste convenzioni si trascinano innanzi, tanto più diventano contraddittori i fini che esse si propongono. Da un lato si vogliono linee più veloci; dall’altro non v’è porticciuolo del Tirreno o dell’Adriatico che non pretenda di avere la sua toccata. Ora, alte velocità e gran numero di approdi sono termini che si escludono a vicenda.

 

 

Si aggiungano le pretese crescenti di servizi gratuiti di trasporto di uomini pubblici, di emigranti rimpatriati per ordine consolare, di ogni sorta di persone desiderose di viaggiare a prezzo ridotto. Né si dimentichino le «clausole sociali» a favore degli equipaggi, clausole che qui non accade di discutere, che forse il parlamento non poteva trascurare. Ma tutto ciò costa; costano le clausole sociali, costano i viaggi gratuiti e semigratuiti, costano le alte velocità, costano i moltiplicati approdi.

 

 

Gli armatori dicono che il parlamento si è dimenticato di tener conto del costo ognora crescente delle sue pretese; e spiegano così la diserzione delle aste, additando l’esempio delle linee ferroviarie sussidiate, per cui, se si vollero trovare assuntori, si dovette crescere a poco a poco il sussidio chilometrico da 3.000 e 5.000 ad 8.000 e finalmente a 10.000 lire, a mano a mano che aumentavano le esigenze del pubblico. Il capitalista che ha ancora i suoi capitali liberi, prima di impegnarsi fa i conti; e se non gli torna conveniente, se la sovvenzione od il sussidio non bastano a compensare tutte le sue spese e tutti i rischi possibili, diserta le aste.

 

 

Questa è una faccia del fenomeno; l’altra è la mancanza di concorrenza tra gli armatori. Dopo aver dette le ragioni che possono spiegare la diserzione delle aste da parte degli armatori, è doveroso notare come possa ben darsi che costoro non si siano presentati alle aste non solo perché non ritenevano economicamente conveniente assumere i servizi alle condizioni volute dal parlamento, ma anche perché non si vollero «concordemente» presentare. È un fatto o, se così meglio si vuol dire, una impressione generale che le compagnie e gli armatori italiani hanno ritenuto conveniente «accordarsi» per lasciar andar deserte le aste. Siccome di questo accordo, di cui pubblicamente da molti si discorre ora e si discorse in passato, non so nulla, così mi asterrò dal parlarne oltre.

 

 

L’essere però tanto diffusa nel pubblico la convinzione di questi accordi, fornisce il destro a qualche considerazione di indole tutt’affatto generale. Quale deve essere l’atteggiamento dello stato di fronte alle eventuali coalizioni di imprenditori privati che possano tornare dannose all’erario pubblico? Due sono gli indirizzi seguiti a tal riguardo. Da un lato gli Stati uniti hanno abbracciato il partito della lotta ad oltranza. Ogni giorno i telegrammi nord-americani parlano di leggi contro i monopoli, di colossali processi iniziati dal procuratore generale contro il trust del tabacco, del petrolio, dello zucchero, dell’acciaio, dell’oceano, ecc. ecc. Il governo ha cioè creduto opportuno di assumere le difese dei consumatori e dei contribuenti contro le grandi coalizioni industriali. In Germania invece lo stato è piuttosto l’alleato dei sindacati industriali; si allea al sindacato del carbone, favorisce la costituzione del sindacato della potassa, guarda con occhio benevolo i grandi sindacati siderurgici. La burocrazia tedesca crede di essere abbastanza intelligente e forte da poter «controllare» e «regolare» l’opera dei sindacati, in guisa che essi soddisfino contemporaneamente al bisogno di ottenere guadagni ingenti e di non premere indebitamente sui consumatori e sui contribuenti. La sua può essere una pietosa illusione; ma è l’illusione della burocrazia tedesca.

 

 

Non si può dire che in Italia si sia consapevolmente seguito il sistema nord-americano o quello tedesco. Abbiamo, è vero, il consorzio dello zolfo costituito per comando del legislatore; ma è caso particolare. Finora il legislatore non ha «espressamente» affermato di voler né combattere né favorire i sindacati siderurgici, dei cantieri navali, della navigazione, dei concimi chimici, delle vetrerie; anzi la camera ha respinto la formula di un istituto serico nazionale che poteva arieggiare alla costituzione di un sindacato industriale di stato. Qualche «atto» di favore o di incoraggiamento a raggruppamenti capitalistici non è mancato; ma finora non si può parlare di una politica decisa né in un senso né nell’altro.

 

 

Né il metodo americano né quello tedesco hanno sinora dato prova sicura di sé. Quello americano pare diretto sovratutto al buon pubblico elettorale e pare infecondo di risultati pratici. Mai crebbero tanto le azioni dei monopolisti (trusts) in borsa, come dopo il successo felice dei processi contro di essi. Il sistema tedesco si fonda sulla premessa della sapienza e preveggenza della burocrazia statale, la quale premessa non è chi non vegga come sia stravagante.

 

 

Finora, a stimolare la concorrenza tra capitalisti a vantaggio del pubblico erario non si è trovato alcun metodo efficace fuor di quello di cessare di distruggere, con le leggi dello stato, la concorrenza stessa. Ridurre, se non si vogliono abolire, i dazi protettori dove questi sono manifestamente eccessivi; liberare i cantieri navali dai vincoli con cui ora sono legati all’industria siderurgica e della navigazione; non concedere con sovvenzioni inutili una forza di sopraffazione ad alcuni armatori a danno degli altri; lasciare moltiplicare le energie libere, che in passato furono sempre schiacciate dalla concorrenza invincibile delle compagnie sovvenzionate. Ecco le sole maniere di moltiplicare gli armatori e di apprestare numerosi concorrenti alle future aste marittime, ridotte ai servizi veramente indispensabili nell’interesse dello stato.

 

 

4

 

La proposta di assegnare altri 255 milioni per nuove costruzioni navali non dà luogo ad osservazioni quanto alla spesa medesima, ma deve dar luogo a qualche rilievo rispetto alle modalità contabili con le quali, pur spendendosi i 255 milioni nel corrente esercizio ed in quelli immediatamente successivi, essi verranno distribuiti nei bilanci dal 1915-16 al 1921-22. Non è la prima volta che tal metodo verrebbe seguito: questo può dire a sua discolpa il ministro del tesoro, il quale per l’erogazione di 440 milioni fatta alla marina con la legge 24 giugno 1909 ha trovato i fondi stanziati per le costruzioni nel bilancio di quel dicastero impegnati fino al 1915-16, cosicché egli, volendo seguire lo stesso sistema, deve cominciare la sua ipoteca dal 1915-16 per arrivare al 1921-22. Ma se il metodo non è nuovo e se ne trovano tracce in vari bilanci ed anche in quelli della guerra, non è meno da biasimarsi e da porsi nella sua vera luce.

 

 

Quali i risultati ed il significato del sistema contabile? Facciamo un esempio schematico, il più semplice possibile, per far comprendere la natura del problema. Supponiamo che sia già in corso di esecuzione un programma di costruzioni navali che importi per i tre esercizi 1912-13, 1913-14 e 1914-15 un onere di 100 milioni di lire all’anno e di 300 milioni in complesso. Sorgono nuovi bisogni, occorrono nuove navi da guerra; sicché, non sembrando possibile di contenere il programma nel limite dei 300 milioni, si impone la necessità di spendere altri 300 milioni e di spenderli entro il triennio medesimo. A ritardare le costruzioni si andrebbe incontro al danno militare di non avere per il 1915 una flotta pari alle esigenze della difesa nazionale ed al danno economico di dover interrompere i lavori negli arsenali dello stato e nei cantieri navali. D’altro canto, non si vuole aumentare al di là dei 100 milioni la dotazione dei tre prossimi bilanci, sembrando questa dotazione già abbastanza alta. Quale la via da seguire per uscire dal dilemma di spendere oggi i nuovi 300 milioni e di non imputarli al bilancio medesimo? L’assegnazione viene fatta sui tre bilanci 1915-16, 1916-17 e 1917-18, i quali non erano ancora impegnati e che così ricevono la loro assegnazione normale di 100 milioni all’anno e di 300 milioni in tutto; ma contemporaneamente si autorizza il tesoro, che è il banchiere dello stato, ad anticipare fin d’ora i 300 milioni al ministero della marina. Il ministero della marina riceve oggi, e cioè nei tre prossimi esercizi 1912-13, 1913-14, 1914-15, in prestito dal tesoro i 300 milioni necessari per eseguire subito le costruzioni; e li restituirà poi al tesoro stesso nei tre esercizi futuri 1915-16, 1916-17, 1917-18, per mezzo della dotazione inscritta nei bilanci di quei tre

anni a proprio credito.

 

 

È chiaro che il buon esito del congegno finanziario dipende tutto dalla possibilità, in cui il ministero della marina dovrebbe in futuro essere, di restituire nei tre bilanci 1915-16, 1916-17, 1917-18 i 300 milioni imprestatigli dal tesoro. È tuttavia probabile, è anzi immaginabile che il ministero della marina possa in quegli anni operare la restituzione? Sembra di no. La marina, alla quale oggi non bastano 100 milioni all’anno, anzi ha bisogno di altri 100 milioni annui per condurre a compimento un programma navale, che si reputa indispensabile ed urgente, dovrebbe nel secondo triennio non costruire più niente. Per tre anni la marina non dovrebbe far altro che restituire anticipazioni al tesoro, e non dovrebbe aver d’uopo di nuove navi, di attuare nuovi programmi. Tutto ciò è evidentemente contrario ai fatti più probabili. Nel secondo triennio è probabile che la marina dovrà pensare a nuovi programmi, a nuove costruzioni; ed è possibile che, se oggi sono necessari 200 milioni all’anno, dopo saranno ritenuti indispensabili 250 o 300 milioni. A che bilanci li assegneremo questi stanziamenti? Bisognerà ipotecare gli esercizi fino al 1925 e poi al 1930 e di questo passo non si sa dove si andrà a finire.

 

 

Il sistema inaugurato da qualche tempo di gravare gli esercizi futuri per spese che si debbono fare e si fanno al presente non sembra perciò sia meritevole di essere imitato e continuato. Esso in sostanza conduce a far sembrare minori di quelle che realmente sono le spese dell’oggi, ed a creare un credito fittizio del tesoro verso un debitore che si sa a priori non si troverà mai in grado di restituire l’anticipazione ricevuta o la potrà restituire solo a condizione di ottenere dal tesoro altre anticipazioni, le quali a loro volta non verranno mai restituite.

 

 

A che pro siffatti artifici contabili? La sincerità del bilancio ne soffre; il che è danno non lieve e non compensato da alcun vantaggio. Tanto meno appare la necessità dell’artificio, quando parlamento ed opinione pubblica sono concordi nel volere che la marina da guerra sia mantenuta in perfetto stato di efficienza bellica.

 

 

Se le entrate non sono sufficienti a coprire tutte le spese ordinarie che oggi si fanno (e quelle della marina sono ordinarie) e a dare al bilancio la necessaria elasticità e al tesoro il mezzo di ammortizzare in pochi anni le spese della guerra, si ritrovino altri cespiti d’entrata, ma non si ipotechino i bilanci avvenire. È proprio assurdo che il bilancio della marina deva finir di pagare nel 1921-22 navi che sono già state messe ora in cantiere.



[1] Con il titolo Le Convenzioni marittime definitive. Le difficoltà di calcolare le sovvenzioni,[ndr].

[2] Con il titolo La Scelta delle linee sovvenzionate nelle nuove convenzioni marittime[ndr].

[3] Con il titolo La Diserzione delle aste pei servizi marittimi[ndr].

[4] Con il titolo La Commissione per i servizi marittimi. Disordine per le linee di Londra e del Canada [ndr].

Il commercio internazionale dell’Italia al principio del 1912

Il commercio internazionale dell’Italia al principio del 1912

«Corriere della Sera», 9 maggio 1912

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 422-426

 

 

 

 

Dicono che gli economisti son da meno dei fisici, dei chimici, degli astronomi perché non riescono a prevedere il futuro, mentre gli astronomi calcolano con precisione assoluta il momento degli eclissi, l’avvicinarsi della cometa; ed i fisici ed i chimici possono prevedere gli effetti anche lontani delle forze naturali da essi studiate. Della quale inferiorità degli economisti son persuaso anch’io; sebbene sia facile spiegarla con la complessità grandemente maggiore dei fattori di cui si dovrebbe – e spesso non si può – calcolare la forza e la direzione per poter prevedere lo svolgersi degli avvenimenti futuri. Tuttavia, malgrado il loro stato di inferiorità irrimediabile e innegabile, il dono della profezia non è del tutto negato agli economisti. È vero che, quando azzardano qualche timida previsione, gli economisti non sono ascoltati da nessuno; non quando profetano sciagure, perché allora tutti sono di buon umore e le Cassandre sono invise agli uomini allegri; e neppure quando parlano un linguaggio incoraggiante, perché di solito accade in quel tempo che gli uomini siano scoraggiati e trattino da visionari coloro che vedono l’avvenire tinto in colore di rosa.

 

 

Malgrado il mediocre successo dei loro tentativi di emulazione profetica con gli astronomi, gli economisti persistono a voler fare di quando in quando qualche timida e modesta previsione; dimostrando, non foss’altro, la loro fede nella bontà della dottrina insegnata. Fede, che i fatti dimostrano dappoi quasi sempre fondata. Del che un mirabile esempio si ha nelle vicende recentissime del traffico dell’Italia con l’estero. Ricordava, nel novembre 1911, il direttore generale della Banca d’Italia, Bonaldo Stringher – in una memoria su La bilancia dei pagamenti fra l’Italia e l’estero – l’antico canone economico secondo cui, nel commercio internazionale, le merci si pagano con le merci, e le deficienze si saldano con altri elementi di credito e soltanto in via supplementare con specie monetarie; e dal ricordo di questo canone traeva la seguente conclusione:

 

 

È convincimento di chi scrive che se dovessero stringersi le fonti di reddito che hanno contribuito a ingrossare di anno in anno le correnti monetarie a pro dell’Italia in questi primi anni del secolo, si vedrebbero diminuire gradatamente le importazioni delle merci dall’estero, e aumentare verosimilmente l’esportazione dei prodotti italiani. Fenomeno non nuovo nella storia dei commerci dell’Italia con l’estero, a conferma delle grandi leggi economiche, che si possono disconoscere dagli spiriti superficiali, ma s’impongono anche a chi non vi creda.

 

 

Il pensiero dello Stringher si può riassumere così: i debiti dell’Italia verso l’estero per interessi passivi e per compre di merci devono in qualche modo essere pagati: o vendendo merci o incassando interessi attivi o con rimesse di emigranti o con denaro speso dai forastieri in Italia o con tutti questi mezzi presi insieme. Se per caso vengono a diminuire alcune delle partite dell’avere, non per ciò il conto non dovrà saldarsi in pareggio. Tanto si riceve quanto si dà; e viceversa. Vorrà dire che o compreremo meno merci dall’estero (diminuzione delle importazioni) o ne venderemo di più (aumento delle esportazioni).

 

 

Le previsioni dello Stringher stanno appunto verificandosi. È accaduto che nel 1911 il concorso dei forastieri in Italia difettò alquanto in confronto degli anni precedenti; e scemarono pure le rimesse degli emigranti per le poco prospere condizioni economiche degli Stati uniti. Adesso le cose pare vadano mutandosi: i forastieri accorrono a frotte nel nostro paese; e gli Stati uniti paiono avviati ad un risveglio impetuoso di attività economica, con buoni guadagni per i nostri connazionali. Ma per ora noi subiamo ancora le conseguenze del 1911, in cui le rimesse degli emigranti e dei forastieri furono in diminuzione. Il pareggio tra le partite del dare e dell’avere minacciava di rompersi, per la diminuzione di due delle partite di credito. In qual modo invece si è esso conservato? Precisamente nel modo preveduto dall’economista: diminuendo una delle partite di debito (diminuzione delle importazioni) e aumentando una delle partite di credito (aumento delle esportazioni). Ho sott’occhio il fascicolo di febbraio 1912 del solerte ufficio trattati e legislazione doganale, ed ecco i risultati del primo bimestre 1912 in confronto al primo bimestre 1911. Preferisco citare queste cifre benché i giornali abbiano anche riportato i dati riassuntivi di marzo, perché più compiute; e del resto anche marzo non muta l’andamento delle correnti di traffico:

 

 

Importazione

Esportazione

1911

L. 561.524.473

323.594.844

1912

524.850.159

351.686.928

– 36.674.314

+ 28.092.084

 

 

Ecco le previsioni verificate: diminuiscono le importazioni ossia le merci comperate, ossia ancora le ragioni di debito per quasi 37 milioni; e crescono le esportazioni, ossia le merci vendute e cioè le ragioni di credito per 28 milioni. La differenza fra le importazioni e le esportazioni scema perciò notevolmente:

 

 

Primo bimestre

1911

 

Primo bimestre

1912

 

Importazioni

L. 561.524.473

524.850.109

Esportazioni

323.594.844

351.686.928

Differenze

237.929.629

173.163.181

 

 

La differenza, che è comunemente chiamata lo sbilancio commerciale, è dunque diminuita di quasi 65 milioni di lire (37 milioni di meno di debiti e 28 milioni di più di crediti); il che vuol dire che l’anno scorso saldavamo il cosidetto deficit di 237 milioni con le rimesse emigranti e forastieri dette di sopra; mentre nel primo bimestre del 1912, essendo scemate un po’ le rimesse, noi ci siamo aggiustati in modo da avere un deficit commerciale di soli 173 milioni da saldare.

 

 

Le cifre sopra riportate non rappresentano fedelmente la realtà, non solo per le cause d’errore insite in ogni statistica, le quali però potrebbero trascurarsi, essendo, casomai, l’errore uguale in amendue gli anni; ma per una circostanza inevitabile: voglio accennare alla maniera di calcolare i valori doganali. Quelle tali cifre sopra riportate di importazioni e di esportazioni sono bensì espresse in lire italiane; ma in realtà trattasi di lire in parte immaginarie. Difatto per calcolare il valore delle merci importate ed esportate nel 1911 e nel 1912 non si moltiplicarono i quintali, gli ettolitri, i metri per i prezzi rispettivi del 1911 e del 1912; ma per i prezzi del 1910. È un errore; ma è un errore inevitabile, poiché la commissione centrale dei valori per le dogane non ha ancora potuto fissare i valori del 1911 e tanto meno quelli del 1912; e quindi i valori del 1910 sono i soli legalmente conosciuti. Come varierebbero le cifre se, invece dei prezzi del 1910, noi applicassimo alle quantità del 1911 i prezzi del 1911 e medesimamente i prezzi del 1912 alle quantità del 1912? Probabilmente, siccome i prezzi nel 1911 hanno continuato ad aumentare in confronto al 1910 e nel 1912 sono più alti che nel 1911, tutte queste cifre dovrebbero essere più vistose di quanto non appaiono. Se l’aumento fosse avvenuto in maniera da lasciare immutata la differenza fra le importazioni e le esportazioni, la cosa per noi sarebbe quasi indifferente. Se invece fosse aumentato il prezzo delle merci importate più che delle esportate, la differenza da saldare sarebbe maggiore; e il contrario avverrebbe se fossero cresciuti di più i prezzi delle merci esportate.

 

 

Comunque sia di ciò – e le statistiche venture ci illumineranno in proposito – sembra che il saldo si sia fatto nel primo bimestre I912; ed anzi sembra che il pareggio sia stato ottenuto con un piccolo saldo di metalli preziosi a favore dell’Italia. Ecco infatti come si comportarono le importazioni e le esportazioni di metalli preziosi (non compresi nelle cifre precedenti):

 

 

Primo bimestre

1911

Primo bimestre

1912

 

Importazioni

L. 3.164.600

6.728.300

Esportazioni

7.549.900

6.375.300

Saldo

– 4.385.300

+ 353.000

 

 

I metalli preziosi si scambiano fra i diversi paesi, oltreché per i bisogni industriali, per saldare in contanti le partite di dare e di avere che non si possono compensare con assegni bancari rappresentativi delle rispettive partite di dare e di avere. Ora, nel primo bimestre 1911 noi abbiamo dovuto mandare all’estero 4.385.300 lire di più di quanto ne abbiamo ricevuto; mentre nel primo bimestre del 1912 l’oro ricevuto fu in quantità maggiore di quello spedito.

 

 

Di tutto ciò, come dell’aumento delle esportazioni e della diminuzione delle importazioni, sarebbe fuor di luogo rallegrarsi o dolersi. Per conto mio sarò lietissimo se la ripresa, che or s’annuncia, nel concorso dei forastieri e nelle rimesse degli emigranti provocherà fra qualche mese un aumento nelle importazioni ed una diminuzione nelle esportazioni; perché sono convinto che quelle rimesse siano una maniera più lucrosa di procacciarsi ricchezza che non la vendita di merci, che farebbe comodo di poter consumare noi stessi. Le importazioni non sono per se stesse un male, né le esportazioni sono un bene sicuro; come neppure è vero il contrario. Ciò che importa innanzi tutto è che in ogni momento si possa risolvere il problema di pagare ciò che si compra e non comprare di più di ciò che si può pagare. Il qual problema sembra stia, anche nel 1912, egregiamente risolvendosi. Resta l’altro problema: di scegliere, per vendere e per comprare, la via più economica. Qui non si tratta più di pareggio della bilancia economica, che si raggiunge per forza, sotto qualsiasi regime. Si tratta dell’intiero indirizzo da imprimersi all’attività economica del paese: se siano o no da incoraggiarsi o da ostacolarsi i concorsi di forastieri o le emigrazioni degli uomini; se convenga o non convenga facilitare od ostacolare l’avvento dei capitali esteri in Italia o l’uscita dei capitali italiani all’estero; se si debbano regolare o non le importazioni e le esportazioni di merci. Grossi problemi, su cui i pareri possono essere discordi; mentre nessun disparere può sorgere sulla verità, qui messa in luce, con un esempio calzante, secondo cui la bilancia dei crediti e dei debiti di un paese coll’estero, si deve chiudere in pareggio.

Rame, solfato di rame e stato ramaiolo

Rame, solfato di rame e stato ramaiolo

«Corriere della Sera», 15 aprile 1912

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 414-421

 

 

 

 

Si agita sui giornali agricoli una questione interessante; e che si stenterebbe a credere discussa sul serio se tale non fosse considerata da uomini, che meritatamente hanno gran nome nel mondo agricolo e da parlamentari autorevoli, che già furono al governo della cosa pubblica.

 

 

Trattasi del solfato di rame, materia, come ognuno sa, importantissima per i viticultori nella lotta contro la peronospora. Disgraziatamente, è un prodotto che subisce sbalzi notevoli di prezzo; e più d’una volta è accaduto aumentasse proprio durante l’epoca critica di fine maggio e giugno, quando, per le piogge e le umidità prolungate, gli agricoltori mal provveduti diventano ansiosi e corrono ai ripari ordinando in gran furia solfato di rame. L’esempio classico di simili sbalzi malaugurati si ebbe l’anno scorso a metà maggio, quando il solfato di rame d’un tratto dalle 50 lire per quintale andò sulle 60, 65, 70 lire; e bene spesso anche offrendo prezzi alti era introvabile; con grande orgasmo dei viticultori, i quali sono in Italia, è bene ricordarlo per avere un’idea dell’importanza della cosa, parecchie centinaia di migliaia.

 

 

Da questa constatazione innegabile di fatto sono sgorgate spontanee le proposte di intervento dello stato. In tutti i paesi – bisogna dir così, perché oramai non si tratta più di una prerogativa dei paesi latini – quando una qualunque faccenda va male o si immagina vada male, non ci si piglia la briga di studiare quali sforzi consapevoli bisognerebbe compiere per farla andar bene; ma si chiede: perché il governo non interviene, perché non fa lui, più e meglio degli altri? Così ha ragionato anche il prof. Zublena, per parecchi rispetti benemerito dell’istruzione in genere e di quella agraria in particolare, in una sua proposta fatta al comizio agrario di Biella. Non è il solfato di rame necessario alle viti, come il pane agli uomini? Non si aggira il suo consumo in Italia sugli 800.000 quintali? E non trattasi perciò quasi di un «servizio pubblico»? Dunque: facciasi lo stato produttore e venditore di solfato di rame, come già si è fatto produttore e venditore di chinino, e ne affidi lo smercio alle rivendite di sali e tabacchi. L’industria non solo è semplice, ma è anche lucrosa. Il costo di produzione del solfato non supera le 35 lire il quintale, e lascia larghissimi margini di profitto, poiché il prezzo va da un minimo di 50 lire a massimi di 60, 70 e perfino 80 lire. La speculazione, che vende a 48 a novembre e dicembre, aumenta i prezzi nella stagione primaverile a 60 lire, dimostrando, col fatto, che il di più è un illecito lucro a danno dei viticultori pressati dal bisogno. Se lo stato assumerà l’esercizio di questa industria, anche fissando il prezzo a 40 lire per quintale, lucrerà pur sempre da 4 a 5 milioni l’anno, pur facendo risparmiare ai consumatori da 10 a 15 milioni di lire.

 

 

Non è detto esplicitamente se lo stato debba assumere il monopolio dell’industria. Ma pare di sì, poiché i calcoli si fanno come se lo stato producesse e vendesse tutta la quantità necessaria al consumo d’Italia. I parlamentari, che si sono interessati della cosa, usano maggior prudenza. Far ingoiare subito all’opinione pubblica un nuovo monopolio, vista la rude battaglia che si dovette sostenere per il monopolio assicurativo e le attenuazioni che vi si dovettero apportare per vederlo approvato, sembra difficile. Onde l’on. Marco Pozzo si contenterebbe che lo stato si facesse fornitore di solfato di rame ai viticultori, in regime di concorrenza. Con lui pare siano altri parecchi deputati, contenti, per ora, di vedere lo stato ramaiolo in concorrenza, salvo a trasformarlo in monopolista, il giorno che la concorrenza dia risultati poco brillanti.

 

 

Per fortuna, stavolta l’opinione pubblica agraria sembra fare poco buon viso ai ramaioli di stato. Il dott. Luigi Raineri, succeduto al padre suo, quando questi divenne ministro d’agricoltura, nella direzione dell’ «Italia agricola» e del «Giornale d’agricoltura della domenica», due fra gli organi più ascoltati dagli agricoltori italiani, ha pubblicato contro la proposta un assennato articolo, intervistando anche l’ing. Morandi, direttore di quella federazione italiana dei consorzi agrari che è sicuramente uno dei più grandi organismi cooperativi del mondo, ed è vanto grandissimo della capacità organizzatrice degli agricoltori nostri. Alle loro considerazioni, dettate dall’esperienza e da un vigile senso di difesa degli interessi dei viticoltori, poco vi è da aggiungere, salvo forse qualche considerazione generale. Chissà che il riassumere le semplici e chiare ragioni, le quali stanno contro i ramaioli di stato, non riesca ad evitare un altro grosso guaio al paese! Molti errori si commettono, perché, quando, per inavvertenza, l’errore è entrato nel programma di un partito, di un gruppo o di un governo, ben difficilmente si riesce ad impedirne l’attuazione od almeno l’esperimento.

 

 

Coloro che affermano che il solfato di rame costa 35 lire al quintale e che quindi la «cosidetta» speculazione lucra «indebitamente» da 15 a 20 – 25 lire al quintale in tempi normali, dimostrano di non sapere una verità certissima ed universale: che non esiste un costo di produzione del solfato di rame che possa considerarsi come normale. Non esiste per nessuna merce ed è inutile andar cercandolo. Niente di più grottesco del concetto di un costo di produzione italiano, francese, inglese, tedesco di una merce, quando esistono soltanto di fatto i costi di produzione singoli dell’industriale Tizio, che è abile a comperare e vendere e perito nell’arte sua, dell’industriale Caio, che è peritissimo nella tecnica e inabile nel commercio, e dell’industriale Sempronio, che non è né l’una cosa né l’altra; e quando Tizio, Caio, Sempronio veggono ad ogni ora mutare i prezzi delle materie prime, dei combustibili, dei capitali, della mano d’opera e d’ora in ora debbono mutare i prezzi in rapporto al mutato costo di produzione. Se il discorrere di un costo di produzione è vano in generale, diventa addirittura farnetico per il solfato di rame.

 

 

Il costo del qual prodotto dipende da molti fattori, ma principalmente da uno: il prezzo del rame metallo. Il solfato di rame invero si può ricavare da parecchie sostanze, come le piriti ma si ricava: in primo luogo dal rame. Con un quintale di rame – metallo si producono 3,90 quintali di solfato di rame. O meglio, si calcola che, industrialmente, per ottenere 1 quintale di solfato di rame cristallizzato sono necessari 25 chilogrammi e mezzo di rame puro metallico. Per ottenere il prezzo di un quintale di solfato di rame all’ingrosso l’usanza è di aggiungere 9 lire al prezzo di 25 chilogrammi e mezzo di rame. Naturalmente vi possono essere delle variazioni in più o in meno sulle 9 lire; ma paiono di scarsa importanza, in confronto alle variazioni del prezzo dei 25 chilogrammi e mezzo di rame, che costituiscono la materia prima dell’industria solfatiera. Se il prezzo del rame è alto, diventano, per simpatia, care anche le piriti; e il solfato, da qualunque materia lo si tragga, non può a meno di rincarare. Viceversa, se il rame è a buon mercato, il solfato ribassa. Né si può dire che il prezzo del rame sia apprezzabilmente influenzato dal prezzo del solfato, ossia dalla domanda di solfato (e quindi di rame metallico) per la viticultura. Una certa influenza a ritroso esiste di certo; ma è poco importante, perché la fabbricazione del solfato è uno solo degli usi a cui può destinarsi il rame; né è il più importante. Noi possiamo dire all’ingrosso che il prezzo del rame è un dato di fatto, un punto di partenza che determina il costo del solfato.

 

 

Diciamo subito che questo punto di partenza non è mai fermo. Niente di più stravagante del prezzo del rame – metallo. Si muove continuamente, talvolta senza apparenti ragioni. Mi limiterò a citare i prezzi massimi, minimi e medi del rame standard nell’ultimo quinquennio, prezzi per contanti, per tonnellata inglese, a Londra. È noto che Londra è il mercato regolatore del rame ed i suoi prezzi in lire sterline per tonnellata inglese, sono quotati in tutto il mondo:

 

 

Prezzo

più alto

 

Prezzo

più basso

Prezzo

medio

1907 

L.st. 110.15 (12 marzo)

   55.10 (23 ottobre)

87.1.8

1908 

               65.2.6 (9 novembre)

56.2.6 (2 luglio)

60.0.6

1909 

            64.3.9 (4 gennaio)

  54.10 (15 marzo)

   58.18.11

1910 

            62.1.3 (3 gennaio)

52.15 (12 luglio)

57.1.6

1911 

          64 (28 dicembre)

    53.7.6 (16 maggio)

56.3.1

 

 

Adesso (4 aprile 1912) il prezzo dello standard è di lire sterline 70.2.6; e pare che sia sulla via di ulteriori ascese.

 

 

Né si vede come si possa mettere un freno alle variazioni del rame-metallo. Fra tutti i metalli, esso è il più sensibile alle variazioni dell’equilibrio economico mondiale. Dirò anzi che esso è un vero barometro indicatore del bello e brutto tempo economico. Sensibilissimo ed agilissimo, il rame sente, con una meravigliosa sicurezza, le più lontane pulsazioni della vita industriale e commerciale. Quando il rame si muove, bisogna tendere l’orecchio, perché sta succedendo qualcosa di nuovo nel mondo. Talvolta il rame si muove solo perché si spera o si teme che qualcosa di nuovo succeda; ma, se si muove, qualcosa in aria c’è. E deve muoversi, perché il rame entra dappertutto: è parte componente delle locomotive, entra nella fabbricazione dei congegni essenziali dei piroscafi; senza di esso l’industria elettrica non sarebbe pensabile; senza di esso moltissime macchine, appena siano un po’ complesse, non potrebbero funzionare; senza di esso non esisterebbero telegrafi e telefoni, l’energia non si potrebbe trasportare a distanze, ecc. ecc. Magari esso entrerà per una piccola quota nel conto di ogni azienda industriale; ma entra. Qual meraviglia se tutte queste innumerevoli domande, talune piccole, tal altre colossali, affluendo tutte alla borsa dei metalli di Londra, facciano vibrare continuamente il prezzo del rame? Basta che la somma di tutte queste domande aumenti o si preveda possa aumentare più dell’ordinario, perché il rame rialzi dal minimo di 53 lire sterline nel maggio 1911 alle 70 lire sterline di oggi, od alle 110 del marzo 1907. I viticultori non ci hanno né colpa né merito. Bisogna ch’essi si adattino alle conseguenze del fato (e cioè della malnata peronospora) che li ha resi consumatori di un metallo così capriccioso, su cui agiscono tutte le influenze, buone o cattive, che rendono prospera o depressa l’industria mondiale. Un’altra caratteristica è da notare nel rame: finché le variazioni nella domanda sono lievi, il prezzo varia di una o poche lire sterline; ma appena le industrie vanno bene, e si prevedono ampliamenti d’impianti, specie nelle elettriche, gli stocks esistenti precipitano, le miniere attive non bastano più, occorre aprirne delle altre, le quali ai prezzi bassi non sarebbero remunerative; e finché la produzione non sia cresciuta – al che occorrono mesi e talvolta anni – le miniere esistenti godono di un monopolio, e possono aumentare moltissimo i prezzi, fino a raddoppiarli, come accadde nel 1907. Io non dico che tutto ciò sia una bella o brutta cosa. Constato il fatto e constato altresì che il governo italiano su questo fatto non ha nessun potere. Di rame si producono 850.000 tonnellate all’anno; e di queste 500 mila circa negli Stati uniti; il resto sparpagliato un po’ in tutto il mondo, con centri notevoli nel Messico, Spagna, (Rio Tinto), Giappone. Come potrebbe il governo italiano persuadere la Rio Tinto, l’Amalgamated Copper Company e gli altri grandi produttori a cedergli il rame a buon mercato, solo perché esso si è obbligato a vendere a 40 lire il quintale il solfato ai viticultori?

 

 

Data la premessa indispensabile che abbiamo fatto sui prezzi del rame, possiamo valutare quali sarebbero gli effetti della nuova industria che si vorrebbe far assumere allo stato.

 

 

1)    Lo stato non potrebbe vendere a 40 lire. Ai prezzi attuali di 70 sterline per tonnellata del rame standard, il solfato costa almeno 44 lire di puro rame. Dico almeno perché il rame usato nella fabbricazione del solfato è di solito l’elettrolitico, che costa lire sterline 73,15, corrispondenti a 46 lire il quintale di solfato. Aggiungendo 9 lire per costo di lavorazione, abbiamo un prezzo all’ingrosso di 53-55 lire, porto Genova (a Genova i prezzi quotati sono infatti di circa 56 lire). Qualche cosa bisognerà aggiungere per le spese della rivendita al minuto, il trasporto, i cali, ecc. ecc. Se lo stato si ostinasse a vendere a 40 lire, perderebbe circa 20 lire per quintale, ai prezzi odierni del rame, ossia, per 700.000 (non 800.000) quintali di consumo, perderebbe 14 milioni di lire.

 

 

2)    Lo stato non potrebbe vendere a prezzi costanti. Per far questo, e per non perdere, dovrebbe essere in grado di fare le provviste di rame sempre ai prezzi più bassi; perché se si approvvigionasse ai prezzi medi dovrebbe, per non perdere, vendere il solfato a prezzi corrispondenti a quelli medi di compra del rame. E se in primavera i prezzi del rame, come accadde nel 1908, nel 1909 e nel 1910, fossero inferiori di parecchio alla media, chi tratterrebbe i viticultori dallo strepitare e dall’additare i confratelli di Francia e di Spagna che possono comprare a prezzi inferiori? E quale governo potrebbe resistere al baccano? Quindi lo stato dovrebbe tenersi alla media, quando i prezzi del rame-metallo consentirebbero un aumento nel solfato; e vendere al prezzo corrente, quando la media fosse superiore. Perdere sempre, insomma.

 

 

3)    Pare ai proponenti che lo stato avrebbe da fare una cosa semplice: comprare il rame, o se si limita al commercio, il solfato d’autunno quando i prezzi sono bassi e vendere agli agricoltori allo stesso prezzo in primavera, senza lucro. La realtà non è così semplice. La tabella dei prezzi del rame sovra riportata dimostra che nel 1907 i prezzi del rame furono infatti minimi nell’ottobre. Ma nel 1908 e nel 1910 i minimi si ebbero invece nel luglio; nel 1909 in marzo, nel 1911 in maggio. Non c’è al riguardo – e non vi può essere – nessuna regola precisa. Dire che lo stato dovrà fare gli acquisti al prezzo minimo equivale a dire che lo stato è in grado, meglio dei privati, di prevedere se i prezzi del rame, ossia i gradi segnati sul barometro del tempo economico, aumenteranno o ribasseranno. Equivale a prevedere vicende di crisi e di prosperità che sono traversate periodicamente dall’industria. Equivale ad avere un intuito finissimo dell’avvenire, che renderebbe miliardari i felici mortali che l’avessero avuto in dono alla nascita. Dire o sperare ciò è dire o sperare l’assurdo. Ora poiché all’impossibile nessuno è tenuto, nemmeno i governanti, è evidente che l’erario rischierebbe di comprare a caro prezzo e vendere a buon mercato. Il rischio di perdere sarebbe maggiore per lo stato ramaiolo che per gli speculatori privati: perché chi specula coi denari dei contribuenti non ha ragione di prevedere così bene come colui il quale specula coi denari suoi. Ma, anche a ritenerlo uguale, il rischio è grosso. Bisognerebbe costituire riserve notabili per tenervi testa; e come costituirle, se le prime annate andassero male? Alee così grandi è consigliabile lasciarle agli uomini del mestiere, provvisti di forti capitali ed inaccessibili a malattie del sistema nervoso.

 

 

4)    Se lo stato non facesse i conti bene col consumo, come rimarrebbero i viticultori? Badisi che il consumo del solfato di rame non è costante, né in ascesa continua come quello del sale o dei tabacchi. È forse altrettanto capriccioso come i prezzi. Varia come fa il tempo. Con una produzione interna che si può ritenere costante o crescente di anno in anno, ecco quale fu l’importazione dall’estero, la quale serve a colmare i vuoti: nel 1904: 372.791 quintali; nel 1905: 306.837; nel 1906 250.604; nel 1907: 159.794. Fin qui la diminuzione è regolare e sembra dovuta al crescere della produzione interna, che rendeva sempre meno necessario di comprare all’estero. Ma ecco nel 1908 l’importazione risalire a 250.315 quintali; nel 1909 precipitare a 90.405; nel 1910 ritornare a 135.825 e nel 1911 balzare di nuovo a 378.763 quintali, ossia ad una cifra maggiore di quella dell’anno da cui si sono prese le mosse. A meno di produrre – o di comprare – sempre il massimo del consumo probabile, il che immobilizzerebbe gravemente lo stato e lo esporrebbe per un altro verso a perdite gravi, lo stato dovrebbe, nelle annate di straordinaria richiesta per improvvise invasioni peronosporiche, ricorrere all’estero con gran premura, in aprile, maggio e giugno, precisamente come fa il commercio adesso. E dovrebbe sottostare ai prezzi di mercato, che sarebbero naturalmente più elevati per il solfato, anche senza che i prezzi del rame siano cresciuti, o malgrado siano diminuiti (maggio 1911), data la urgenza improrogabile dei bisogni dei viticultori. Non volendo perdere, lo stato dovrebbe aumentare i prezzi suoi di 10 o 20 lire al quintale per i ritardatari, precisamente come accade oggi. Immaginarsi le grida e le rappresaglie elettorali!

 

 

Onde bene fanno quegli tra gli agricoltori, che sanno come si fa fronte alle avversità, a fidare non nello stato, ma nelle loro cooperative e federazioni di consorzi, i cui dirigenti, dalla lunga pratica e dall’interesse fatti esperti, cercano di attenuare, con acquisti fatti nei momenti più opportuni, i danni delle oscillazioni nei prezzi del rame e dei capricci delle vicende atmosferiche. Attenuare, dico, e non togliere; perché a rendere costanti i prezzi del rame e del solfato occorrerebbe mutar faccia al mondo. Per ora non sembra vi sia alcun governo capace di tanto.

Il rincaro della vita. Un’iniziativa americana per un’indagine internazionale sui rimedi e sul rincaro della vita ed una inchiesta tedesca sul prezzi.

Il rincaro della vita. Un’iniziativa americana per un’indagine internazionale sui rimedi e sul rincaro della vita ed una inchiesta tedesca sul prezzi.

«La Riforma Sociale», aprile 1912, pp. 289-293

Le nuovissime vicende del problema della casa. A proposito dell’istituto autonomo di Milano

Le nuovissime vicende del problema della casa. A proposito dell’istituto autonomo di Milano

«Corriere della Sera», 14 marzo 1912

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 406-413

 

 

 

 

Chi volesse sbizzarrirsi e spogliare i programmi dei candidati alle funzioni pubbliche dei comuni e dello stato potrebbe fare delle curiose osservazioni. I numeri dei programmi vanno, scompaiono, ritornano, subiscono le influenze della moda, precisamente come i numeri degli spettacoli preferiti sui cartelloni dei teatri. Ci fu un tempo in cui tutti parlavano di sventramenti e di risanamenti. I municipi emisero prestiti cosidetti per il risanamento; si costituirono società anonime; ed il piccone demolitore si abbatté sulle vecchie stamberghe del passato. Alcune iniziative riuscirono bene; altre finirono miseramente. Venne un giorno in cui nessuno ne parlò più. Fu la volta delle tramvie, del gas, della luce elettrica municipali. Non si poteva vivere più senza municipalizzare tutto e in gran furia. Adesso si considera il problema con maggior calma e si fanno i conti del dare e dell’avere; riuscendosi a soluzioni intermedie meno architettoniche e più ragionevoli. Chi non ricorda l’altra ventata dell’abbattimento delle cinte daziarie? Parecchie città non poterono resistere alla moda ed abbatterono le cinte fidando nella fortuna. Poiché questa non gradì l’invito e le finanze delle città avventurose ne uscirono dissestate, il grido dell’abbattimento del dazio murato va calmandosi. C’è ancora, ma relegato in fondo ai programmi, per il giorno incerto e futuro in cui il legislatore si deciderà alla riforma ab imis del sistema tributario locale.

 

 

Chi non ricorda, finalmente, il moltiplicarsi delle proposte per la soluzione del problema della casa? Dimostrazioni di inquilini, leghe di resistenza, calmiere dei fitti, municipalizzazione e tassazione delle aree fabbricabili, enti autonomi, esenzioni tributarie. Non si faceva altro che parlare di case popolari ed economiche e del rincaro dei fitti. D’un tratto le cose cambiano. Nei consigli comunali non si trova più un consigliere che proponga di devolvere un altro milione alla soluzione del problema. Se si trovasse, la sua proposta sarebbe seppellita nell’indifferenza universale. Pare che all’ordine del giorno della camera debba essere messo prossimamente un disegno di legge per nuove agevolezze tributarie e creditizie alle case popolari. Dubito che abbiano ad essere molti i deputati che se ne interesseranno, fuor dell’on. Casalini che ne scrisse amorosamente la relazione. Sui giornali ancor si discorre di case popolari. Non più però per ottenerne, con commosse parole, la pronta costruzione. No. Ora sui giornali si leggono delle recriminazioni. Cominciarono ad accapigliarsi a Roma, dove qualche cooperativa edilizia si trova in cattive acque. A Genova del pari i bilanci ultimi delle numerose società cooperative edilizie sono assai meno brillanti di qualche anno fa. A Milano la recente relazione dell’istituto per le case economiche e popolari ha fatto dilagare le critiche. Socialisti e radicali pare dicano: se si facevano costruire le case direttamente dal comune, come volevamo noi, invece di darle all’istituto autonomo, le cose sarebbero andate meglio. Il bilancio dell’Umanitaria non è forse ben più saldo di quello dell’istituto autonomo, e gli affitti a più buon mercato?

 

 

Certo, l’ultimo bilancio dell’istituto milanese non è soffuso di color rosa. Ha una intonazione lugubre. Non che l’opera compiuta sia stata scarsa. Al 29 settembre 1908 il comune, a cui succedette l’istituto, aveva posto sul mercato 131 alloggi con 290 locali, nel 1907 si era saliti ad appena 152 alloggi con 366 locali. Al 29 settembre 1910 siamo a 1.307 alloggi e 2.598 locali; al 29 settembre 1911 a 2.455 alloggi e 4.780 locali; ed al 29 settembre 1912 saremo a 3.238 alloggi e 6.073 locali. Né pare che il compito dell’istituto sia esaurito, se si pensa che, se la proporzione delle famiglie milanesi occupanti una camera sola è diminuita dal 30% nel 1903 a 28% nel 1911, è ancora altissima in confronto alla percentuale che negli Stati uniti è già considerata scandalosa (13,16% a Baltimora, 13,10% a Filadelfia, 8,87% a Chicago, New York a 5,62%); e se si riflette che il 71,30% della popolazione milanese abita in alloggi popolari da 1 a 3 stanze; mentre agli inglesi la proporzione londinese del 55% sembra altissima, sì da fare ogni sforzo per ridurla. Aggiungasi che nel 1911 su 157.941 abitazioni occupate in Milano vi erano ancora 17.313 abitazioni «irregolari» di cui 4.063 in soffitte, 2.310 in mezzanini e 10.940 in pianterreni.

 

 

Tuttavia, malgrado che teoricamente il bisogno di case persista, l’istituto chiude il bilancio consuntivo al 30 settembre 1911 distribuendo un dividendo al capitale versato del 2,75%. Scarso frutto in verità per un capitale che si diceva dovesse provvedere a bisogni cotanto urgenti. Ma quel che più impressiona è l’altezza delle spese e perdite in confronto ai redditi. L’entrata complessiva risulta di 648.622 lire ed è composta di 461.194 di affitti, 166.963 di interessi attivi di capitali versati dagli enti sovventori e non ancora impiegati, 1.625 lire di proventi diversi, 1.350 lire di affitti di aree, 17.333 lire di utili 1909-10 applicati a parziale rimborso di spese generali. Contro a questi redditi, di cui solo 463.000 lire circa sono redditi dell’azienda edilizia propriamente detta, stanno 317.118 lire di spese: 50.064 lire di spese generali di amministrazione, 191.533 lire di spese di gestione dei vari quartieri, 72.270 lire di perdite per locali rimasti sfitti e 3.249 lire per spese diverse. Il paragone fra rendite e spese non è facile a farsi, poiché alcuni quartieri non sono ancora ultimati; e quindi tanto le rendite quanto le spese sono in via di trasformazione. Ma se noi assumiamo i soli quartieri ultimati, otteniamo il seguente quadretto:

 

 

Affitti

Spese di gestione

Perdite per locali rimasti sfitti

Quartiere Ripamonti

56.700

29.201

146

Quartiere Mac-Mahon 

157.308

74.127

16.883

Quartiere Spaventa 

51.820

23.890

2.219

Quartiere Tibaldi 

99.406

33.550

38.613

 

 

Se noi aggiungessimo alle spese di gestione ed alle perdite per sfitti una quota delle 50.004 lire di spese generali, e delle 3.249 lire di spese diverse, e se tenessimo conto altresì di una quota di deperimento degli immobili, otterremmo risultati che certamente riuscirebbero sgradevolissimi ad un privato proprietario. Percentuali di spese che vanno, senza tener conto delle spese generali e dell’ammortamento, sino al 70% sono sconfortanti. In complesso, su tutti i quartieri disponibili al 29 settembre 1911, vi erano 630 alloggi sfitti su 2.565, pari al 24,5%, per un importo di lire 166.519 sopra un ammontare di lire 663.185, pari a 25,1 percento. Il male va aggravandosi, perché al 29 settembre 1910 la percentuale degli alloggi sfitti era del 12,5% e quella dell’importo sfitti era del 14,5 percento.

 

 

Quali le cause? Nel quartiere Mac-Mahon le perdite per sfitti sono elevate per la mancanza di buone e dirette comunicazioni tramviarie, ora interrotte da un passaggio a livello ferroviario, colla città, per la concorrenza di case vicine a miglior mercato, per la mancanza di lavoro che ha respinto alla campagna alcuni inquilini ed altri ha costretto a ridursi da tre a due stanze e da due in una; e perché, finalmente, si dovettero sfrattare alcuni inquilini ostinatamente morosi. Gli sfitti maggiori si hanno però nel nuovo quartiere Niguarda dove, col giugno 1911, si sono messi in affitto tre fabbricati dei dieci che lo compongono. Ivi, su 106 alloggi, se ne affittarono appena 6, sebbene il prezzo d’affitto, per attirar gente, sia stato limitato a 70 lire per locale. Cause: la condizione poco lieta delle strade d’accesso, la mancanza di una linea tramviaria diretta, l’isolamento per un raggio di circa mezzo chilometro da altre abitazioni, le condizioni poco buone dell’industria nei quartieri vicini.

 

 

Gli sfitti sono cresciuti quasi dappertutto nel 1911 in confronto al 1910 ma sono minori nei fabbricati grandi che nei villini e nei fabbricati grossi crescono quanto più si tratta di alloggi ampi. Nei fabbricati a 4 piani, gli alloggi di 1 camera presentano una percentuale di sfitto dell’11,4%, quelli di 2 camere del 26,8%, di 3 del 37,3 percento. Nei villini gli sfitti raggiungono l’enorme percentuale del 68,8% se sono di 2 camere, e sono ancora del 32% negli alloggi di 3 camere e del 50% se di 4 camere. La gente non vuol saperne della casetta e del giardinetto in quartieri eccentrici e di accesso incomodo.

 

 

Per spiegare l’altezza delle spese di gestione, ricorderò solo il costo dell’acqua potabile. Ogni inquilino consuma al giorno in media per uso domestico 165 litri nel quartiere Ripamonti, 122 a Mac – Mahon, 106 a Tibaldi; ed inoltre consuma per il lavatoio altri 74 litri a Ripamonti, 43 a Mac-Mahon, 47 a Tibaldi. La relazione del consiglio qualifica questo consumo un «inutile sciupio» e si lamenta acerbamente delle cattive abitudini degli inquilini a questo proposito, le quali costituiscono uno dei pesi più gravi sulla gestione.

 

 

Di queste risultanze poco allegre sarebbe ingiusto far colpa ai dirigenti l’istituto. Dal presidente ing. Pugno al direttore Alessandro Schiavi, dagli ingegneri dirigenti le costruzioni al personale di servizio e di portineria, è un complesso di uomini, di diversissimo colore politico, che attendono con zelo al compimento di un dovere non facile. Per accennare solo a ciò che si è fatto nell’ultimo esercizio, si deve ricordare che furono riorganizzati i servizi di portineria, in guisa da utilizzare il lavoro di donne, e da diminuire il numero dei custodi, con una sensibile riduzione di spesa per l’istituto. Nell’affitto delle botteghe (101 affittate su 118 offerte) si esclude la vendita di bevande alcooliche distillate e fermentate, si ha cura che in ogni quartiere vi siano le più diverse specie di negozi per comodità degli inquilini, si favorisce la concorrenza di cooperative con negozianti privati, ecc. Lavatoi, bagni, docce, stenditoi, idroestrattori esistono in pressoché ogni quartiere; nei quartieri Mac-Mahon e Tibaldi vi sono ricoveri per bambini lattanti e slattati; nel quartiere Ripamonti fu traslocata una scuola professionale. Si fanno conferenze istruttive e in due quartieri sono aperte biblioteche popolari. Per aiutare gli operai nell’ammobigliamento della casa è stata inaugurata una esposizione permanente di mobili in viale Lombardia 68, dove sono esposti tipi di mobili eleganti, solidi e a buon mercato. Per sviluppare negli inquilini l’interesse e l’amore alla coltivazione dei vegetali e agli ornamenti floreali, si sono divisi certi appezzamenti di terreno in orticelli da 20 a 100 mq l’uno, affittati a modico prezzo; e si sono creati dei campi di gioco. Né gli affitti sono cari: 157 lire in media per gli alloggi di 1 locale nelle case a 4 piani, 132 per locale negli alloggi di 2 locali, 121 per locale se i locali sono 3, e 112 se i locali sono 4. Nei villini gli affitti per ogni locale sono naturalmente più elevati: 195 lire per gli alloggi di 2 locali, 159 se di 3 locali, 138 se di 4 locali. Non pare che nei quartieri dell’Umanitaria o nelle case di privati gli affitti siano sensibilmente più bassi, salvo che per gli alloggi di 1 camera sola, più cari presso l’istituto perché sono provvisti di latrine, acquaio e talvolta ripostiglio separato. Nemmeno si può asserire che la spesa del fitto sia incomportabile per il bilancio dell’operaio: la relazione calcola che la spesa dell’affitto sia del 13,3% dei redditi del capo – famiglia negli alloggi da 1 locale, del 18,3% se i locali sono 2 e del 22,6% se i locali sono 3. Ma notisi che a mano a mano che cresce la spesa percentuale del fitto, il guadagno del capo di famiglia è rinvigorito da altri proventi: lavoro delle donne, sussidi, pensioni, ecc. Il 24,4% delle famiglie che abitano in un locale solo ha altri proventi; ma se i locali sono due, il 37% delle famiglie gode di questi proventi suppletori; e la proporzione sale al 50% se i locali diventano tre.

 

 

Non parmi dunque che possa ascriversi ad imperizia o poco zelo dei dirigenti l’istituto se la sua via in questi anni è seminata di triboli, od, almeno, se i suoi risultati finanziari sono magri e se la popolazione lavoratrice, per cui esso fu creato, non dimostra di esserne entusiasta. I guai presenti sono l’effetto delle illusioni antiche e delle paure chimeriche da cui qualche anno fa tutti s’erano lasciati impossessare. Pareva che le case dovessero mancare ai nuovi abitanti, e che tardasse l’ora di vederle costrutte. Ora le case ci sono; e furono costruite lontano, perché si presumeva che ben presto si sarebbero trovate in mezzo alla più grande Milano. Il calcolo risultò erroneo. Le vicende umane non si svolgono su una linea ascendente, sempre diritta, ma attraverso ad ondulazioni ritmiche. Agli anni di febbre e di espansione succedono gli anni di arresto o di temporaneo rallentamento. Noi ci troviamo in uno di questi periodi. La popolazione ancora cresce; non però con la foga di qualche anno fa. Ci vuoI più tempo a riempire gli spazi vuoti tra il grosso blocco cittadino ed i nuovi quartieri dell’istituto. Le tramvie rapide si fanno un po’ desiderare. Perciò gli inquilini tardano a venire o magari traslocano in quartieri più vicini ai luoghi di lavoro od al centro. Perciò gli sfitti crescono e l’istituto distribuisce un dividendo del 2,75 percento. È vero che le case costrutte da impresari privati nello stesso tempo sono piene e fruttano forse il 5 percento. Ma chi può pretendere da un ente pubblico le economie all’osso nella costruzione, la accortezza nel costruire dove ci sono già strade, tramvie, botteghe, teatri, ecc. ecc.? L’ente pubblico deve dare dei buoni esempi, segnar la via agli altri, precorrere i tempi nell’aspirazione al verde della campagna, ai campi di giuoco, ai bagni, ai lavatoi, ai quartierini perfetti in una camera sola. Tutto ciò costa e si riverbera sul rendimento dei capitali.

 

 

L’esperienza degli enti autonomi non sarà però stata vana. Ha già insegnato la prudenza nel concepire piani grandiosi. Qualunque più scalmanato socializzatore comincia a riflettere quando deve farsi imprestare il denaro al 4 od al 4,50% per impiegarlo al frutto del 2,75%. Le municipalizzazioni, pur nella loro più blanda e snella ed economica – sia detto anche questo per coloro che ad ogni costo vogliono la municipalizzazione diretta quasiché l’autonomia dell’ente fosse, non si sa come, la causa degli sfitti – degli istituti autonomi dimostrano di avere una funzione modestamente utile: di pionieri dell’edilizia popolare, gli antesignani nei progressi tecnici e morali della casa bella ed accessibile a tutte le borse. Non risolvono problemi grandiosi; soggiacciono, come gli imprenditori privati, alle crisi economiche. Ma a qualcosa servono. Contentiamocene e facciamo nostro pro dell’esperienza.

 

 

Ne ha fatto suo pro anche Sigismondo Balducci, il noto, persistente, tenacissimo apostolo della casa popolare assicurativa. Il piano del Balducci non ha fatto progressi pratici; ma l’autore ha continuato ad elaborarlo, lo ha saggiato alla critica di commissioni ministeriali, lo ha modificato in punti essenziali. Nel suo libretto recentissimo (La casa oggi – La pensione domani, Società editoriale milanese, Milano, centesimi 20) egli affronta l’ostacolo nuovo che gli si è drizzato inaspettatamente innanzi: la sovrabbondanza nell’offerta delle case. Balducci cominciò a scrivere quando si sentiva la fame delle case; ed allora la sua teoria della filiazione indefinita di case e casette seduceva. Adesso spaventa. Perciò egli non vuole più che il suo istituto fabbrichi solo case. Ne fabbricherà ove occorra. Altrimenti comprerà quelle già fatte, le migliorerà e vi applicherà il suo piano finanziario. Il quale, ad esprimerlo grossolanamente in poche parole, – e l’autore mi perdoni l’abbreviatura necessaria per far capire la cosa -, consiste nel far sopportare all’inquilino qualche piccolo sacrificio iniziale che sarà compensato ad usura negli anni tardi suoi con diminuzioni di fitto, con la casa gratuita, e magari con la pensione in aggiunta, se le cose andranno bene. Le variazioni intorno a questo motivo possono essere infinite; ma il leit-motiv è uno: la casa bella e la vecchiaia lieta devono essere conquistate con lo sforzo e colla previdenza. Perciò la casa di Balducci è buona per le minoranze che prevedono il futuro e vi si preparano con qualche rinuncia presente. Un’attuazione grandiosa, come la vagheggiava l’inventore dapprima, pare impossibile a realizzarsi. Realizzazioni modeste, in piccola scala, potranno essere il retaggio degli individui scelti della classe operaia e piccolo – borghese. Solo gli individui scelti sono capaci di rinunce e meritano i benefizi della casa gratuita nella vecchiaia. Perché il Balducci non se ne contenta? Perché, innamorato della sua idea, vuole creare per forza di legge il suo grande istituto? E fargli imprestar per forza il 10% dei depositi nelle casse di risparmio postali e autonome e negli istituti esercenti il risparmio? Perché vuole obbligare gli inquilini a diventar previdenti, costringendoli per legge a versare un fondo di garanzia, da investirsi in cartelle edilizie popolari? Perché vuol costringere tutti gli enti a seguire il medesimo piano? Certo, a furia di leggi, si possono far le cose in grande. Ma, diventando grandi, diventano macchinose e burocratiche e prive di ogni virtù educativa.

Riassicurazione obbligatoria o monopolio assicurativo o riassicurativo?

Riassicurazione obbligatoria o monopolio assicurativo o riassicurativo?

«Corriere della Sera », 22 febbraio 1912[1], 28 febbraio 1912[2]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 394-405

 

 

 

 

1

 

È inutile, ora che l’on. Nitti ha presentato gli emendamenti al suo disegno di legge, ricominciare la discussione generica sul monopolio. Gli argomenti contro di esso rimangono quali furono esposti a suo tempo; né alcuna confutazione seria venne alla luce in tutti questi mesi in cui tacque – da maggiori e ben più rilevanti cose premuta – il dibattito sui giornali quotidiani. L’unico documento importante fu pubblicato dal prof. Alberto Beneduce, ed è l’appendice statistica al discorso dell’on. Nitti. In essa, con accurata elaborazione, furono date nuove prove di una tesi che ritengo non sia mai stata messa in dubbio da nessuno: che cioè in genere, e salvo eccezioni possibili per alcune età e alcuni paesi, la mortalità degli assicurati è inferiore alla mortalità generale della popolazione. Da tale asserto una conclusione logica si può dedurre: la necessità di usare di tutte le armi di cui lo stato dispone, e sono numerose, per costringere le compagnie di assicurazione a ridurre le tariffe a vantaggio degli assicurati. Se Nitti avesse proposto all’uopo la creazione di un istituto di stato in concorrenza con le società private, se avesse proposto la creazione di un organo di pubblicità che diuturnamente avvertisse gli assicurati della elevatezza di certe tariffe, avrei plaudito anch’io. Gli assicurati sono in Italia e altrove gente di scarsa fortuna, in lotta con la vita breve e con la necessità del risparmio a pro della famiglia; ed ogni mezzo, ogni via, dovrebbero essere tentati per ridurre il carico che su di loro grava. Invece il ministro persiste nell’idea che il monopolio sia necessario, non per scemare le tariffe esorbitanti a vantaggio degli assicurati, ma per mantenerle abbastanza elevate sì da dar un lucro allo stato. L’ideale che le tariffe possono essere ridotte al puro costo, non potrà dunque essere attuato. Il costo aumenterà, anzi, per i vizi intrinseci ad ogni impresa statale, e gli assicurati non staranno meglio, forse staranno peggio che ora. Rassegniamoci. Questo si vuole e questo si otterrà. Per ora è unicamente interessante vedere quali siano le correzioni che al primitivo progetto ha apportate l’on. Nitti.

 

 

Sono due essenzialmente: l’una che sancisce il principio del periodo transitorio, l’altra che impone la riassicurazione obbligatoria.

 

 

Non esito a riconoscere che, ove si parta dal concetto, che ora non ridiscuto, di voler interessare lo stato nell’industria delle assicurazioni, parmi buona la proposta della riassicurazione obbligatoria. Cattiva è invece, per se stessa considerata, l’altra idea del periodo transitorio. Che cosa possa nascere dai due espedienti mescolati insieme è agevole immaginare.

 

 

Dico che il concetto della riassicurazione obbligatoria è buono. Era già stato esposto parecchi mesi fa. Fu messo innanzi di nuovo questo autunno da Ulisse Gobbi in un libretto su Il monopolio dell’assicurazione sulla vita (Società editrice libraria, Milano), aureo come tutte le cose che scrive questo economista, e certo l’ottimo che possa essere letto dea chiunque voglia formarsi un’idea obbiettiva sulla dibattuta questione. Che cosa implica l’obbligo della riassicurazione? Secondo l’ultima proposta Nitti, le imprese assicuratrici debbono cedere il 40% di ciascun rischio assunto d’ora innanzi. Per esempio, se una compagnia stipula un contratto di assicurazione con Tizio per diecimila lire, essa deve cedere una parte, e precisamente 4.000 lire, del contratto, all’istituto di stato. Se noi per un momento supponiamo che non esista il periodo transitorio di dieci anni, ossia che le imprese assicuratrici possano indefinitamente continuare a vivere, soggette però all’obbligo della riassicurazione, manifesti sono i vantaggi del sistema per lo stato. Elenchiamoli rapidamente.

 

 

1)    L’obbligo della riassicurazione è estensibile. Oggi lo stato lascia alle compagnie i sei decimi su ogni contratto. Fa ciò, essendosi persuaso che non sarebbe stato equo espropriarle d’un tratto, senza alcun indennizzo. Ma passato un certo periodo, lo stato può aumentare la quota propria e ridurre la quota delle società: per esempio, metà all’uno e metà alle altre. Dopo, se l’esperimento riesce, la quota dello stato può essere portata ai sei decimi, ai sette, agli otto decimi. A un certo punto converrà arrestarsi, a quel punto oltre il quale le imprese non avrebbero più convenienza a vivere. Ma si può andare ben in là su questa via.

 

 

2)    Lo stato viene a liberarsi di tutte le alee industriali. Senza bisogno di un proprio personale, senza correre il rischio di una burocrazia crescente e alla lunga inoperosa, lo stato può procurarsi gran numero di contratti: vi sono le imprese private e mutue che lavorano per lui, che gli procacciano affari. Allo stato basta organizzare un ufficio per il controllo dei rischi, e per impiegare i capitali raccolti. Il controllo non sarebbe arduo, perché le imprese hanno esse stesse interesse a non accogliere rischi cattivi e non li possono quindi offrire allo stato. Più arduo è l’impiego dei capitali, checché da taluni si dica: ma, ad ogni modo, trattasi di una sola difficoltà invece che di parecchie.

 

 

3)    Lo stato regolerebbe, per la sua quota, la materia delle provvigioni ai produttori o agenti e fisserebbe queste a non più del 70% del primo premio. Regolandola per sé, finirebbe per regolarla anche per le compagnie, le quali non sarebbero più indotte a farsi concorrenza aumentando i premi, e potrebbero ridurre le tariffe. A questo, che è in fondo l’unico difetto di certe speciali concorrenze, si può porre rimedio in parecchi modi: la riassicurazione obbligatoria potrebbe essere uno di questi.

 

 

4)    Lo stato, con tutta probabilità, riassicurando il 40 e poi il 50 e magari il 60% dei contratti conchiusi dalle imprese, finirebbe per accumulare più capitali di quanti accumulerebbe con 100% in puro monopolio. Venti, quaranta imprese sono meglio in grado di reclutare assicurati che non una sola. Se poi, oltre le riassicurazioni, l’istituto di stato lavorasse anche per proprio conto, e il disegno di legge lo prevede, allora la forza di reclutamento complessiva sarebbe data da quella che avrebbe l’istituto, più da quella che avrebbero le quaranta imprese sue concorrenti e nel tempo stesso sue fornitrici.

 

 

5)    Un vantaggio del sistema sta in ciò: che le imprese private e mutue diventerebbero le alleate, anzi gli agenti dello stato nella ricerca del cliente. Invece di denigrarlo, sarebbero costrette a magnificarne il credito e la solidità. Esse, per ottenere la loro quota di contratto, avrebbero bisogno di ottenere la quota dello stato; onde di questa si dovrebbero far forti.

 

 

6)    Non sorgerebbe una questione del personale. Agenti e produttori rimarrebbero ciascuno colla propria compagnia. Tutt’al più, per la riduzione delle provvigioni, il numero degli agenti diminuirebbe un poco, ma sarebbero eliminati solo i meno abili, quelli che non possono vivere col 70% di provvigione sul primo premio.

 

 

Altri argomenti ancora si potrebbero addurre a favore della proposta di riassicurazione obbligatoria, s’intende ove si parta dal principio che sia conveniente per lo stato di esercitare questa industria. Il guaio si è che la proposta è transitoria. Vale per dieci anni, dopo i quali diventerà unico assicuratore lo stato. È chiaro che quasi tutti, per non dire tutti, i vantaggi che s’erano dianzi elencati, perdono molto della loro importanza. Quello che vale per un’impresa la quale possa far affidamento sull’avvenire, non ha più valore per un’impresa destinata a morte sicura e a breve scadenza. Posso immaginare una società per azioni o una mutua che siano disposte ad anticipare capitali, e sovratutto organizzazione e intelligenza, per ottenere il 60, il 50 e magari il 40 e il 30% di un contratto d’assicurazione, ove preveda di poter far affidamento per una lunga serie di anni sulla propria quota; ma non immagino come ciò possa accadere per un’impresa la quale prevede che essa non potrà godere i frutti del lavoro faticosamente iniziato. Gli statizzatori non si vogliono persuadere di una verità molto semplice: che un’impresa non vale e non fiorisce per il capitale scritto nello statuto e versato, per i calcoli preventivi sicuri, per le statistiche esatte, per i metodi attuariali sapienti. Queste sono le condizioni materiali del successo, accessibili a tutti, abili e inabili. Le ragioni del successo stanno altrove: nell’abilità con cui i dati teorici sono tradotti in atto, nell’accortezza degli impieghi, nella buona scelta degli impiegati e degli agenti, nel lavoro assiduo di riparazioni continue all’edificio dell’impresa industriale, ognora minacciato dalla distruzione. Come si può sperare che questo lavoro, che deve essere perennemente rinnovato, di organizzazione, venga continuato se la morte aspetta al varco l’impresa dopo dieci anni?

 

 

Tutto ciò in generale. In particolare si osserva:

 

 

1)    Gli impiegati delle imprese, sapendo che dopo dieci anni il lavoro cessa, tenderanno a procacciarsi altra occupazione. Cominceranno, naturalmente,ad andarsene i migliori; rimarranno i meno buoni. Come sostituire quelli che se ne andranno, dal momento che si può offrire lavoro assicurato solo per otto, sette, cinque, tre anni? Esulati i funzionari dirigenti, esulati i migliori produttori, non c’evidente che ben scarsa messe di riassicurazioni potranno fornire le imprese allo stato? Non tutti i funzionari e i produttori potranno trovare impiego presso l’istituto di stato. I migliori, e più insofferenti di freni governativi, cercheranno altre vie. Per fortuna, l’ombra dello stato ancora non aduggia tutti i campi della vita industriale e commerciale.

 

 

2)    Chi ancora vorrà assicurarsi presso le compagnie, sapendole destinate a morte sicura? Gli assicurati poco sanno di riserve matematiche e di calcoli attuariali. Un’impresa moribonda potrà essere solidissima, ma non ispira fiducia. Saranno dieci anni disastrosi per la previdenza assicurativa. Gli assicurati avranno un magnifico pretesto per non assicurarsi – si sa che gli assicurati cercano sempre pretesti per togliersi di tra i piedi gli agenti di assicurazione -, nel rispondere agli uni che la loro compagnia e’ moribonda e nel dichiarare agli altri di voler aspettare che l’istituto di stato sia cresciuto ed abbia fatto le sue prove.

 

 

3)    Dopo dieci anni di stasi, converrà rifare da capo il cammino e creare l’organizzazione che nel frattempo si sarà sfasciata. Pericolo gravissimo, a cui non si penserà mai abbastanza.

 

 

4)    Chi ci garantisce che gli agenti delle compagnie estere non inducano gli assicurandi a stipulare all’estero il loro contratto? La cosa è lecita. Né si vede il modo come possa essere impedita. Ogni compagnia, dice il disegno di legge, è obbligata a denunziare i contratti stipulati nel regno; non dice che ebba denunziare anche quelli stipulati fuori con regnicoli; né, se lo dicesse, si potrebbe immaginare una sanzione contro chi contravvenisse al divieto. Chi può escludere, da parte di alcuni agenti di compagnie estere, una campagna di denigrazione, sottile ed efficace, contro le compagnie nazionali condannate a morire, mentre le compagnie estere prospereranno anche dopo, all’infuori dei confini, e contro l’istituto di stato? Chi può escludere che dalle compagnie estere si offrano, per i contratti stipulati fuori del regno, tariffe inferiori a quelle dell’istituto di stato, nell’intento di scoraggiare gli altri stati dall’imitare il lagrimevole esempio di quello italiano?

 

 

5)    Quale incitamento avranno le compagnie a trovare nuove forme di contratti, a scendere nel popolo con le assicurazioni popolari? Ciò si fa se si spera di vivere sempre, anche se si tratta di vivere solo in qualità di agente produttore per conto dello stato; non se si hanno le ali tarpate dalla brevità del tempo. Nitti ha detto che lo stato farà molte belle cose, che le società private e le mutue non hanno mai fatto. Illusioni. Su cento tentativi riescono cinque, dieci. E si vuole che lo stato abbia tanta immaginazione da sapere compiere tutti quei tentativi ai quali non bastano le menti emule dei numerosi direttori di imprese concorrenti?

 

 

Altro ancora si potrebbe aggiungere sui pericoli e sui danni del periodo transitorio, sulla sorte fatta alle imprese giovani, ecc. Ma urge concludere. Oppositore vivace e convinto del monopolio statale ancora oggi, convinto inoltre che sia dannoso non solo il monopolio, ma la semplice estensione delle funzioni pubbliche, ed avversario di questi nuovi metodi di finanziamento dello stato, credo però opportuno mettermi per un momento dal punto di vista di chi vuol dare allo stato una nuova forza finanziaria. Il concorso alle pensioni operaie è tramontato; se utili vi saranno, dovranno spettare agli assicurati, classe di uomini bisognosa quant’altra mai. Rimane, unico argomento, la necessità addotta dall’on. Giolitti di dare nuova forza finanziaria allo stato. Non credo che questi spedienti siano i migliori a fornire credito a buon mercato allo stato; ed ho fiducia soltanto nel metodo classico del governar bene, del tenere il bilancio in ordine, dell’alleggerire le imposte. L’esperienza passata dell’Italia conforta la mia opinione. Ma non monta. Ammettiamo che sia conveniente mettere il fondo delle assicurazioni in mano dello stato. Io dico che, se tanto si vuole, gli emendamenti Nitti contengono un principio fecondo. La riassicurazione obbligatoria potrà dare allo stato fondi ben più importanti che non il monopolio delle assicurazioni intero. La fecondità del concetto messo innanzi dall’on. Nitti è guasta solo dalla contemporanea introduzione del periodo transitorio. Tolto questo, la riassicurazione obbligatoria potrà funzionare con successo per un istituto di stato concorrente con le altre imprese alla conquista di nuove reclute alla previdenza.

 

 

O si vuole ad ogni costo stabilire il periodo transitorio? Si fissi allora che dopo un decennio in cui lo stato avrà diritto a partecipare ai contratti nella misura del 40% voluta dall’on. Nitti, cominci un quinquennio in cui tale misura sarà automaticamente il 50%, e poi un altro in cui la misura sarà il 60%, e magari un terzo quinquennio col 70 percento. Un po’ per volta l’istituto di stato verrebbe ad avere in mano una quota crescente di una massa crescente di affari; e le imprese assicurative sarebbero vieppiù ridotte all’ufficio subordinato di produttrici di assicurazione. Lo stato sarebbe finanziato meglio che col monopolio; e nessuna forza benefica verrebbe distrutta. Le forze esistenti finirebbero per adattarsi al nuovo ordine di cose e per cooperare al progresso della previdenza in un paese che di propaganda per la previdenza ha ancora grande bisogno.

 

 

2

 

Poche battute ancora sulla questione del monopolio. È parso a taluni fautori di esso che l’accoglienza più favorevole avuta dal progetto Nitti modificato sia stata dovuta ad una resipiscenza degli oppositori, i quali considererebbero oggi con occhio più benigno il monopolio che prima dichiararono incomportabile. Non so nulla degli altri; ma poiché tra gli «avversari irriducibili di prima ed ora a mezzo convertiti» potrei essere annoverato anch’io, mi si consenta di dichiarare ben chiara la mia persistente irriducibilità.

 

 

Se ho affermato ed affermo tuttora che nel nuovo progetto Nitti v’è un concetto buono e fecondo, ciò si riferisce soltanto alla «riassicurazione obbligatoria». Ora questa fu proposta – è doveroso riconoscerlo – non dal Nitti, ma dai suoi oppositori, i quali però l’avevano messa innanzi come un sostituto completo del monopolio. Purtroppo il ministro ha il solo merito di avere resa irriconoscibile, innestandola sul periodo transitorio, una idea che fu proposta da quelli, i quali, dinanzi ai pericoli del monopolio, si preoccuparono di trovare una via d’uscita che soddisfacesse al bisogno, dichiarato imperioso dal governo, di procacciare mezzi allo stato.

 

 

Un altro merito – e anche questo l’ho esplicitamente dichiarato – ha il ministro: di aver fatto eseguire dal prof. Alberto Beneduce una indagine statistica sulle tabelle di mortalità, con confronti tra la mortalità generale della popolazione e la mortalità degli assicurati. A questa indagine ha oggi fatto seguito una seconda indagine compiuta dai proff. Bagni e Benini sulla tavola italiana di mortalità 1899-902. Taluno affermò che, dinanzi a quelle dimostrazioni ed alle cifre di utili che ne derivavano, gli oppositori del monopolio fossero stati sgominati, spiegando così la loro maggiore arrendevolezza.

 

 

Non so nulla, ripeto, degli altri oppositori; ma, quanto a me, ben diverse – e sempre contrarie al monopolio – furono le deduzioni che ricavai dagli studi utilmente promossi dal ministro Nitti. Premettasi che dichiarai incomprensibile la tabella italiana di mortalità, quando, come sarebbe stato loro dovere, i proponenti del monopolio se ne servirono senza dare una ampia e documentata dimostrazione della sua applicabilità alle assicurazioni. Ed allora dichiarai anche che credevo funzione precipua dello stato il promuovere la formazione di buone tabelle di mortalità; così da poter, esercitare una efficace pressione sulle compagnie per il ribasso delle tariffe. Sono ben lieto che ai desideri abbia cominciato a rispondere l’opera ministeriale. L’opera del Beneduce non è compiuta, né poteva esserlo: ma è un buon incamminamento ad indagini più sicure. Possiamo già trarne la conseguenza che probabilmente le tariffe vigenti in Italia sono troppo alte. Quale è il programma di lavoro che zampilla fuori da quelle ricerche? Qui si palesa la profonda diversità di vedute tra i monopolisti e i liberisti.

 

 

Secondo i primi, il governo, istituendo il monopolio, ha un largo margine di utili, che potrà destinare ai fini da lui reputati più opportuni, per esempio, alle pensioni per gli operai.

 

 

Io affermo invece che una siffatta destinazione è iniqua, perché non è possibile dimostrare che un’altra classe sia più bisognosa di aiuto di quella degli assicurati medesimi. Costoro (in media in Italia possessori di una polizza di 6.000 lire, e con preponderanza dei più piccoli) compongono un gruppo ben bisognoso di godere l’intiero frutto del suo risparmio. Gli assicurati sono tutti piccoli commercianti, professionisti, impiegati, militari, che hanno una famiglia da mantenere, che vivono nell’angoscia di morire prima di averla educata e che vogliono garantirla dalla sventura. Questi, e non altri, sono gli assicurati.

 

 

Di fronte a costoro, credo sia funzione dello stato:

 

 

1)    promuovere la formazione di una tabella italiana della mortalità degli assicurati, che dia risultanze conformi a verità. Gli studi ministeriali sono appena un primo, sebbene utile, inizio dell’impresa;

 

 

2)    aggiornare diuturnamente la tabella, in guisa che essa segua la tendenza alla diminuzione della mortalità;

 

 

3)    imporre la tabella stessa alle compagnie in guisa da ridurre i loro utili al minimo. Se ne lagneranno le compagnie. Non monta. Gli assicurati non sono creati per dare utili alle compagnie; bensì hanno interesse ad ottenere al minimo costo l’assicurazione.

 

 

All’uopo sarebbe stato utile:

 

 

1)    dare la massima pubblicità alle tariffe stabilite sul costo, in guisa che gli assicurandi sapessero da chi e quando sono taglieggiati;

 

 

2)    istituire un ufficio di informazioni, dove ogni assicurando potesse fare esaminare rapidamente e senza spese, le proposte pervenutegli dalle compagnie, per sapere se le tariffe sono e di quanto superiori al costo, secondo le ultime tabelle della mortalità. Pochi impiegati ed una bene organizzata pubblicità sui giornali più diffusi, pubblicità da continuarsi in perpetuo e con insistenza, produrrebbero meraviglie;

 

 

3)    istituire anche un istituto di stato in concorrenza colle compagnie private, che ad esse servisse di calmiere, il quale istituto potrebbe adottare i metodi Zillmer e gli altri coi quali, sulla carta, gli utili vengono prodigiosamente aumentati;

 

 

4)    giovarsi della mutualità e stimolarla a fare una concorrenza efficace alle compagnie di azionisti.

 

 

Or veggasi chi più di me o dei monopolisti sia favorevole agli assicurati, che, ripeto, sono la sola classe da tenersi in considerazione! Son lieto che la confederazione del lavoro abbia dichiarato di non volere che agli operai spettassero somme tolte ad una classe altrettanto bisognosa degli operai. Sotto agli assicurati più favorevoli i monopolisti, che, istituendo l’istituto unico signore della industria, hanno tolto allo stato ogni stimolo a ridurre le tariffe, a correggere le antiquate tabelle di mortalità e l’hanno, per la brama di lucro, reso complice e perpetuatore delle spogliazioni che diconsi oggi commesse a danno degli assicurati? O son più favorevole io che vorrei che lo stato usasse ogni arma possibile per abbattere la cosidetta oltracotanza delle compagnie e ad ogni modo per far svanire, non con una espropriazione ingiusta, ma con una concorrenza benefica ed accanita, i loro profitti? E a chi giovano di più i documenti pubblicati dal ministero ai monopolisti o non piuttosto ai loro oppositori?

 

 

Se ho appoggiato la riassicurazione obbligatoria non fu dunque per essermi convertito al monopolio, ma anzi per tentare l’ultima via per salvare il paese dai pericoli del monopolio, ed una via che riuscisse, nel tempo stesso, assai meglio del monopolio, a finanziare – usiamo l’orribile parola – lo stato. Ripeto che allo stato non conviene provvedersi fondi in tal maniera. Ma oggi non è possibile discutere, in furia, di così grave argomento. Vuol fondi lo stato? Ne avrà di più con la riassicurazione obbligatoria che col monopolio.

 

 

Coloro che hanno detto che il favore dimostrato alla riassicurazione obbligatoria voleva dire una conversione al monopolio hanno dimenticato che la riassicurazione era considerata come un meno peggio ed hanno sovratutto confuso la riassicurazione obbligatoria col monopolio delle riassicurazioni. E fu citato anche (vedi A. Cabiati sul «Secolo» del 26 febbraio) il rapporto della commissione francese presieduta dal Guyesse, presidente dell’istituto degli attuari di Francia, che condannerebbe la riassicurazione obbligatoria. Invece il rapporto – che forse è solo in queste pagine degno della fama del presidente della commissione – condanna il monopolio delle riassicurazioni, che è cosa tutt’affatto diversa. Poche parole bastano a spiegare la essenziale differenza. Col monopolio delle riassicurazioni lo stato dichiarerebbe di essere il solo che riassicuri i rischi assunti dalle compagnie. È un errore: 1) perché è pochissimo conveniente riassicurarsi nel ramo-vita. Le compagnie riassicurano solo circa il 10% dei rischi assunti; 2) perché le compagnie avrebbero interesse a dividersi i rischi in guisa da eliminare ogni riassicurazione. Una compagnia invece di assicurare 100.000 lire e cedere in riassicurazione allo stato il di più oltre 25.000, avrebbe interesse a mettersi d’accordo con altre compagnie, assicurando ciascuna solo 25.000 lire, e non ricorrendo, nessuna di esse, alla riassicurazione; 3) perché le compagnie cederebbero solo i rischi cattivi allo stato; 4) perché le compagnie estere si riassicurerebbero all’estero, ecc. Insomma il monopolio delle riassicurazioni è condannabile suppergiù come il monopolio delle assicurazioni, perché, non essendo obbligate e non avendo interesse le compagnie a riassicurarsi, lo stato rimarrebbe a mani vuote.

 

 

Tutt’altra è la riassicurazione obbligatoria. Lo stato non si assume nient’affatto il monopolio delle riassicurazioni. Se le compagnie vogliono riassicurarsi all’estero od all’interno si accomodino. Però le compagnie sono, in ogni caso, obbligate a riassicurare una percentuale (l’on. Nitti propone il 40%) di tutti i loro rischi presso lo stato. Nessuna delle obiezioni sopra elencate e delle altre possibili contro il monopolio delle riassicurazioni può farsi contro la riassicurazione obbligatoria. Le compagnie sono obbligate a riassicurarsi, anche quando considerino inutile la riassicurazione. Dissi perciò che il provvedimento è un meno peggio; perché lo stato obbliga a fare ciò che naturalmente non si farebbe; ed una perdita sociale v’è sempre. Ma è una perdita sopportata per dar clientela allo stato. Le frodi non sono possibili. Non giova dividere i rischi tra le compagnie, perché di ogni rischio, anche minimo, il 40% va allo stato. Non è possibile offrire solo i rischi cattivi, perché si deve offrire il 40% d’ogni rischio, buono o cattivo che sia; e lo stato ha sempre diritto di rifiutare i cattivi. Possono le compagnie estere riassicurarsi all’estero; ma non potranno portar via allo stato il 40% di sua spettanza.

 

 

Questi sono i motivi chiari ed incontrovertibili per cui la riassicurazione obbligatoria può dar fondi allo stato, senza trascinarci nella morta gora del monopolio. Purché s’intende, non sia un provvedimento transitorio.

 

 



[1] Con il titolo Periodo transitorio e riassicurazione obbligatoria [ndr].

[2] Con il titolo Monopolio assicurativo, monopolio riassicurativo o riassicurazione obbligatoria?) [ndr].

Come l’Italia paga il deficit della sua bilancia commerciale?

Come l’Italia paga il deficit della sua bilancia commerciale?

«Corriere della Sera», 9 gennaio 1912

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 377-381

 

 

 

 

Le punte all’insù, oltre il 101, che già una volta in questi ultimi mesi fece e minaccia ora di ripetere il corso del cambio, hanno reso di nuovo interessante per il commercio e per l’industria italiana la domanda: come si saldano i pagamenti tra l’Italia e i paesi esteri? Quando il cambio diminuisce è segno che l’Italia è creditrice verso l’estero; mentre quando il cambio aumenta, tutti si mettono a scrutare le statistiche del commercio internazionale e si impressionano se esse segnano un forte disavanzo. Poiché è innegabile che il cambio sull’estero è da un triennio alquanto superiore a quello che correva prima, e poiché anzi da una media variabile da 99,92 a 99,97 ossia inferiore alla pari, ossia ancora, come si suol dire, favorevole all’Italia, negli anni 1905-907 siamo passati gradatamente a 100,02 nel 1908, a 100,44 nel 1909, a 100,52 nel 1910 e probabilmente supereremo questa cifra nel 1911; e poiché nel tempo stesso l’eccedenza delle importazioni di merci (importazioni del cui prezzo siamo debitori), sulle esportazioni (del cui prezzo siamo creditori), ossia il saldo passivo della bilancia del commercio internazionale, è passato da 310 milioni nel 1905 a 608 nel 1906, a 931 nel 1907, per fermarsi su 1 miliardo e 200 milioni circa nel triennio 1908-910 e su 1 miliardo e 200 milioni batterà ancora nel 1911; poiché tutti questi fenomeni si sono verificati, subito si sono moltiplicate le indagini e le ipotesi per sapere da quali cause proveniva il fenomeno e come riuscivamo noi a pagare un così ingente saldo passivo a nostro carico.

 

 

Ho già avuto occasione di dichiarare altra volta su queste colonne che il miliardo e i 200 milioni di sbilancio nel commercio internazionale non mi impressionavano affatto; anzi che, più crescevano i milioni del cosidetto disavanzo, più potevamo lietamente constatare la nostra capacità di comprare merci dall’estero senza pagarle con altrettante merci nostre, le quali potevamo con maggior godimento consumare noi stessi, compensando gli acquisti in altre maniere più comode e meno costose per noi. Questa mia convinzione viene oggi suffragata dalla lettura di una stupenda memoria che Bonaldo Stringher, direttore generale della Banca d’Italia, ha comunicato alla commissione istituita dall’on. Luzzatti, mentre era ministro d’agricoltura, per lo studio delle statistiche commerciali e che m’auguro possa venire presto resa di pubblica ragione. È una memoria questa degna di stare a paro con quelle classiche che i Say, Goschen ed altrettali economisti, versatissimi, oltrecché nella dottrina, nella pratica dell’industria bancaria, dettarono all’estero; in essa lo Stringher ha saputo utilizzare i dati sapientemente raccolti per mezzo delle sedi della banca e dei principali istituti di credito e banchieri privati italiani per gittare un fascio di luce sulle complesse correnti di denaro fra l’Italia ed i paesi stranieri.

 

 

Come si salda dunque il debito di i miliardo e 200 milioni del saldo passivo della bilancia del commercio internazionale? Anzi, come si salda il debito ancor maggiore che risulta dall’aggiunta dell’altro saldo passivo, uguale alla differenza tra gli interessi ed ammortamenti da noi dovuti ai proprietari stranieri di capitali imprestati allo stato od a privati italiani od impiegati in imprese italiane e la minor somma di redditi ricavati dai capitali italiani impiegati in titoli stranieri o imprese all’estero? Quale sia questo secondo saldo passivo, lo Stringher indaga con grande accuratezza; e brevemente si può il suo lungo studio così riassumere:

 

 

Debito dell’Italia. 
1) Interessi ed ammortamenti che lo stato paga fuori del regno per i titoli di debito pubblico consolidati, perpetui e redimibili esistenti all’estero e per altri impegni del tesoro. È una cifra che da 218,6 milioni nel 1891 – 92, uguali al 47,50% è discesa nel 1909 – 10 a 59,8 milioni, uguali all’11,86% dei pagamenti totali fatti per il servizio dei debiti all’interno ed all’estero. In media sono milioni………………………………….. 

60

2) Interessi, dividendi ed ammortamento di titoli non di stato, obbligazioni, cartelle fondiarie, ecc, possedute da stranieri. Su 7 miliardi e mezzo di titoli di questa specie esistenti in Italia si calcola che non più di 750 milioni siano posseduti da stranieri, di cui 300 milioni in Francia, 180 milioni in Germania, 150 nella Svizzera, 50 nella Gran Bretagna e 70 in altri paesi. Tra interessi ed ammortamento l’Italia dovrà pagare all’estero milioni…………………………………………………………………………………………

40

3) Reddito di capitali impiegati da stranieri direttamente in Italia, sia per mezzo di società straniere operanti in Italia, sia con partecipazioni dirette a imprese italiane. Si possono calcolare 1.370 milioni, di cui 300 di capitale belga, 300 francese, 300 tedesco, 230 svizzero, 140 inglese e 50 di varia provenienza. Onere annuo per l’Italia milioni…………………………….

85

 

Totale debito dell’Italia milioni

185

 

 

Credito dell’Italia. 
1) Interessi ed ammortamenti di valori esteri posseduti da italiani. Il fisco ne scoperse per 236 milioni e mezzo, quando applicò la tassa di bollo sui valori esteri; ma sono assai di più e non fruttano meno di milioni………………………………………………………………………   

 

24

2) Redditi delle giacenze presso banche estere, delle cambiali sull’estero, dei buoni del tesoro esteri posseduti dal tesoro e istituti di emissione italiani. In media 280 milioni, che fruttano milioni……..   

8

3) Redditi commerciali, industriali ed agrari di italiani che operano all’estero e partecipazioni italiane ad imprese estere…………………..  40
4) Lo Stringher ricorda solo per memoria, e non calcola, per esagerare in pessimismo, i 10 – 15 milioni che al minimo fruttano le offerte dal mondo cattolico alla Santa sede, i sussidi delle istituzioni cattoliche estere, i redditi degli artisti italiani in Europa ed America, i proventi delle doti di signore straniere maritate in Italia. Neppure ha tenuto conto dei 25 milioni di offerte delle nazioni estere in occasione del terremoto di Messina e Reggio Calabria……………………………………………………………………………………  

 

 

 

 

 

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Totale del credito dell’Italia, prudenzialmente ridotto da 72 milioni a…   50 50

 

Resta un saldo passivo di milioni

135

 

 

In tutto, va il miliardo e i 200 milioni del saldo passivo commerciale e i 135 milioni di saldo passivo finanziario, sono 1 miliardo e 335 milioni di lire che ogni anno dobbiamo trovare la maniera di pagare all’estero. Che si paghino in oro sonante, si può escludere senz’altro. Le statistiche negli ultimi tre anni registrano una eccedenza nell’uscita di oro e monete d’argento di appena 20 milioni di lire. Anche se le statistiche errano in difetto, devono errare di ben poco, se si pensa che le riserve metalliche del tesoro e degli istituti di emissione negli ultimi tre anni, quando il nostro saldo passivo giungeva alla «terrificante» cifra di 1 miliardo e 335 milioni, continuavano a crescere e da 1 miliardo e 389 milioni nel 1907 passavano a 1 miliardo e 593 nel 1908, a 1 miliardo e 613 nel 1909 ed a 1 miliardo e 622, nel 1910 (fine dicembre). Il disavanzo lo pagheremo in qualche altra maniera, non certo in oro.

 

 

Le maniere sono in tesi generale ben note, e sono sostanzialmente tre; ma su di esse lo Stringher accumula prove abbondanti di dati freschissimi, che l’angustia dello spazio mi vieta di riassumere convenientemente:

 

 

1)    Le rimesse degli emigranti, che le autorità federali americane valutano a 187 milioni di lire per il solo primo semestre del 1909 e per i soli Stati uniti; che il sen. Faina calcola a 350 milioni per il mezzogiorno e le isole; che l’on. Rossi dichiara non inferiori a 500 milioni, senza tener conto del denaro personalmente recato dai rimpatrianti. Lo Stringher, con indagini sue, valuta a 412 milioni gli assegni bancari e gli ordini di pagamento provenuti nel 1909 dall’estero per conto di italiani emigrati; vi aggiunge 15 milioni spediti con biglietti da 5, 10, 50 e 100 lire chiusi in lettere alle famiglie; e 75 milioni (a 250 lire per testa) recati dai 300 mila rimpatrianti. In tutto 500 milioni, da cui bisogna dedurre 30 milioni portati seco dagli emigranti quando si recano all’estero e 15 milioni di differenza fra i noli di andata pagati alla bandiera estera ed i noli di ritorno guadagnati dalla bandiera nazionale. In cifra tonda le rimesse degli emigranti si possono calcolare ad un minimo di 450 milioni.

 

 

2)    Le somme spese dai forestieri in viaggio per l’Italia. Con uno spoglio diligente dei registri dei biglietti venduti dalle amministrazioni ferroviarie italiane ed estere e calcolando che ogni viaggiatore di I classe spenda, per alloggio, vitto, compere di oggetti da collezioni e artistici, ecc. ecc., lire 30 al giorno, quello di Il lire 20 e quello di III classe lire 10, si ottiene per 900.000 viaggiatori una spesa totale di 513 milioni di lire, che per prudenza si riducono a 450 milioni, circa 500 lire a testa in media per tutta la durata della permanenza in italia, che talvolta è lunghissima.

 

 

3)    Il saldo effettivamente pagato dalle amministrazioni postali estere al ministero nostro delle poste e telegrafi e che non costituisce duplicazione con le altre rimesse per motivi che lo Stringher particolarmente dimostra. Sono 200 milioni di lire all’anno.

 

 

Con queste tre partite noi giungiamo a 1 miliardo e 100 milioni di credito da contrapporre a 1 miliardo e 335 milioni di debito verso l’estero. Se si riflette che lo Stringher ha tenute con somma prudenza basse tutte le stime dei crediti ed elevate quelle dei debiti, che probabilmente qualche cagione di errore si è infiltrata nelle statistiche commerciali ad ingrossare la cifra apparente del nostro saldo passivo, che una notevole parte dei redditi di titoli di aziende nazionali spettanti a stranieri è reimpiegata in Italia e non dà luogo quindi ad una richiesta di denaro od a rimesse a favore di paesi esteri, possiamo tranquillamente concludere che la differenza non spiegata di 235 milioni (1 miliardo e 335 milioni debito, 1 miliardo e 100 milioni credito) non desta alcuna preoccupazione.

 

 

Certo, tutto l’edificio poggia sulla continuazione delle rimesse degli emigranti e delle spese dei viaggiatori stranieri nella cifra consueta. Se queste due fonti di reddito avessero a diminuire (e forse sono di fatto scemate nel 1971 in confronto degli anni 1909 e 1910 considerati dallo Stringher), l’equilibrio fra il dare e l’avere (equilibrio che deve sempre esistere, perché è impossibile tra le nazioni comprare senza vendere, pagare senza riscuotere) dovrebbe essere ristabilito in qualche altra maniera. Lo Stringher conclude che in siffatta malaugurata evenienza l’equilibrio si avvererebbe con l’aumento delle esportazioni di merci e con la diminuzione delle importazioni. Logica, rigorosamente scientifica conclusione. Direi anche conclusione profetica, se si dovesse badare al crescere delle esportazioni negli ultimissimi mesi. Speriamo però che le esportazioni non aumentino troppo, essendo oramai ben chiaro, dopo quanto è stato detto sopra, come ben più utile sia per noi importar molto, a condizione di pagare non con merci, ossia con esportazioni, ma con rimesse di emigranti e di forestieri. Per ora ricevere rimesse è più comodo del fabbricar merci!

Progresso agrario ed agro romano

Progresso agrario ed agro romano

«Corriere della Sera», 27 agosto 1911

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 369-376

 

 

 

 

Se v’è parte del territorio nazionale atto a suscitare i nobili istinti riformatori dei fabbricanti di leggi quello è l’agro romano: una grande estensione di terreno semi-deserto, posto tutto attorno alla capitale d’Italia, quasi a farci vergognare di non aver saputo trarre, nemmeno dai terreni più vicini alla metropoli, gli alimenti necessari alla sua crescente popolazione. La redenzione dell’agro romano è infatti il sogno di tutti coloro che, essendo ignari della vita dei campi, propongono piani di colonizzazione interna, di quegli altri che reclamano cento milioni all’anno per il bilancio di agricoltura, quasiché i 100 milioni lasciati nelle tasche degli agricoltori non fossero di gran lunga più produttivi di 100 milioni affidati alla burocrazia agricola, di quelli ancora – e sono legione – i quali farneticano di 80 milioni giacenti inoperosi nelle casse del Consorzio nazionale, di 1.500 milioni riposanti inerti presso le casse postali di risparmio, ecc. ecc., e vorrebbero consacrarli a scopi che ad essi paiono di indicibile vantaggio nazionale, dimenticando che quegli 80, quei 1.500 e tutti quegli altri milioni supposti inerti sono invece investiti, in prestiti a comuni, allo stato, in costruzioni ferroviarie, ecc. ecc., ed occorrerebbe toglierli dagli usati impieghi per dedicarli ai nobilissimi intenti che ai riformatori, ragionanti su per le gazzette coi denari altrui, appaiono scandalosamente trascurati.

 

 

Gli aspiranti redentori, innanzi di protestare contro la ignavia dei latifondisti che lasciano incolti i terreni fertilissimi attornianti la capitale e contro la debolezza del governo, prima pontificio e poi italiano, che non ha mai saputo costringerli ad utilizzare la loro proprietà, avrebbero bene operato cercando anzitutto la risposta ad alcune domande modeste, ma elementari e doverose: che cosa è l’agro romano? Come sono utilizzati i suoi terreni? Perché sono utilizzati in questo e non in un altro modo?

 

 

Purtroppo, a queste domande non era possibile finora rispondere in maniera statisticamente precisa, e solo in questi giorni la pubblicazione del fascicolo terzo del volume VI del catasto agrario del regno d’Italia ci mette in grado di esporre qualche notizia esatta in argomento. Il fascicolo del Lazio è il primo saggio, in ordine di tempo, di quel catasto agrario che sarà, dopo finito, un grande vanto del ministero d’agricoltura e dell’insigne iniziatore e capo del servizio di statistica agraria, prof. Ghino Valenti. Al ministero di agricoltura furono fatti molti e spesso anche giusti rimproveri; gli sia data la meritata lode per avere stavolta messo the right man in the right place. Ghino Valenti è senza dubbio il maggiore scrittore di economia agraria che vanti l’Italia; e pochissimi all’estero possono stargli alla pari. Leggendo gli scritti suoi vengono in mente nomi di classici: Arturo Young, Lavergne, Thaer, Lambruschini, Jacini, ed altri sommi. Dell’aver scelto lui per organizzare il servizio di statistica agraria già si sono visti i frutti: vecchi errori intorno alla produzione di talune derrate agrarie, come le uve, corretti; vecchie e perniciose leggende, intorno ai terreni incolti, sfatate; il servizio italiano, prima inesistente, portato al livello dei migliori esteri, e per taluni rispetti, additato a modello dagli stranieri. Duole perciò di leggere nell’ultimo fascicolo delle notizie periodiche di statistica agraria che «l’ufficio, date le condizioni di perniciosa provvisorietà, in cui si trova, non ha potuto inviare così presto, come sarebbe stato desiderabile, il materiale e le istruzioni ai commissari e corrispondenti locali». Che si tarda dunque a dare stabilità a questo servizio, vera base di tutti gli altri servizi agricoli, se è vero che la conoscenza della realtà sia il fondamento dell’azione? Si sprecano o si vogliono sprecar milioni negli inutili e perniciosi cavalli di stato e si vogliono mettere ridicole tasse per frenare le cosidette stragi degli innocenti, e poi si nega stabile assetto a questo che dovrebbe essere la spina dorsale dei servizi a pro dell’agricoltura? Oggi che l’on. Nitti vuole, e bene a ragione, ricostituire il servizio generale della statistica, non dovrebbe altresì tardare ad assicurare definitivamente le sorti di un servizio speciale, che ha trovato, fatto rarissimo, l’ottimo fra i capi, che possiede collaboratori zelanti, innamorati del loro compito, che ha saputo conquistare la fiducia degli agricoltori, che pubblica statistiche desiderate, lette, commentate e sovratutto ritenute vere ed imparziali, non fabbricate a servizio di un partito politico o di una classe sociale. Certo, le statistiche del Valenti non sono preordinate al fine di giustificare questa o quell’altra proposta di legge, utile ad una o ad altra fazione politica od elettorale. Certo esse tendono, per la verità che se ne sprigiona e non per alcuna intenzione preconcetta, a consigliar prudenza nella fabbrica di leggi, questo primissimo tra i flagelli dei tempi nostri. Basterebbe un siffatto risultato a legittimare il desiderio vivo degli agricoltori di vedere sistemato un servizio che pubblica notizie così preziose, feconde di insegnamenti cotanto utili all’agricoltura se non ai politici agricoli.

 

 

Come è coltivato l’agro romano, secondo il catasto agrario? Ecco un quadro sommario, in cui ai dati, assoluti e percentuali, per l’agro ho aggiunto, per facilità di comparazione, i dati percentuali relativi a tutta l’Italia.

 

 

Superficie destinata

alla produzione agraria e forestale

 

Agro romano

Regno

ettari

 

%

%

Seminativi semplici

54.335

28,7

26,7

Seminativi con piante legnose

865

0,5

25,2

55.200

 

29,2

51,9

Coltura specializzata di piante legnose

 

2.720

1, 4

5,7

Boschi, compresi i castagneti

17.305

9,1

17,3

Prati e pascoli permanenti

113.971

60,3

21,2

Incolto produttivo

3,9

186.196

 

100

100

Superfice agraria e forestale

189.196

91,7

91,9

Superfice improduttiva

18.266

  8,3

  8,1

Superficie territoriale

206.462

 

100

100

 

 

Lo specchio si divide in due parti una inferiore che distingue nell’intiera superficie dell’agro romano di 207.462 ettari la parte che è vera superficie agraria e forestale (189.196 ettari) da quella che è superficie improduttiva (18.266 ettari); ed una superiore che specifica le varie colture della superficie agraria. Dicesi improduttiva quella superficie che è occupata dai fabbricati, dalle acque e strade, dalle ferrovie e tramvie e dagli sterili per natura, ossia dai terreni assolutamente improduttivi (rocce, ghiacciai, spiaggie del mare, ecc.). Una parte di questi terreni, come altresì di quelli coperti dalle acque dei laghi e delle paludi potrà, mediante bonifiche, essere in avvenire destinata all’agricoltura. Per il momento però essi sono assolutamente improduttivi e non possono essere compresi nella superficie agraria e forestale, perché, nemmeno colla miglior buona volontà potrebbero essere coltivati. Di terreni improduttivi l’agro romano, del resto, contiene una percentuale non dissimile (8,3 contro 8,1%) da quella che si ha in media in tutt’Italia.

 

 

Se passiamo alla superficie agraria e forestale propriamente detta, una prima osservazione si può fare. Nell’agro romano, come anche in tutto il Lazio, non esistono terreni incolti; non esiste nemmeno quello che il catasto chiama incolto produttivo, terreno non coltivato, offrente un qualche prodotto spontaneo utilizzabile, che figura per il 3,9% della superficie del regno. Con ciò non si vuol dire che l’agro romano sia meglio coltivato della media italiana, perché probabilmente nell’agro si preferì qualificare pascolo permanente ciò che altrove forse è stato chiamato incolto produttivo. Vuolsi però notare che l’agro romano non è meno utilizzato del resto d’Italia, se anche i suoi terreni peggiori possono essere qualificati come pascoli.

 

 

Astrazion fatta dai terreni incolti, che non esistono, la fisionomia agraria dell’agro romano è data da due fatti caratteristici: il grande predominio dei prati e pascoli permanenti (60,3% contro 21,2 per il regno) e la scarsità dei seminativi con culture specializzate di piante legnose e di boschi. Io non dirò che nulla vi sia di imperfetto in questo quadro. Tutt’altro. Sebbene in una regione di pianocolle, come l’agro romano, una soverchia estensione di boschi non giovi, pure la percentuale di essi potrebbe crescere utilmente al di là del 9,1%, specie sulle rive dei fiumi, sui dossi dei colli, ecc.; come pure appare scarsa assai la cultura specializzata e promiscua di piante legnose. Ma qui occorre fare una distinzione capitalissima: tra l’indirizzo generale dell’economia agricola di un paese ed i perfezionamenti che in questa economia si possono compiere, fermo restando l’indirizzo generale. Certo i perfezionamenti di cui è suscettibile l’agricoltura dell’agro romano sono numerosi ed indefiniti; sia lecito però, contrariamente all’opinione ancora dominante, sebbene per fortuna non più universale, affermare che l’indirizzo dell’agricoltura nell’agro romano è buono, sano, conforme alle esigenze dell’agronomia e dei consumi nel momento attuale, mentre è erroneo e malsano l’indirizzo medio della agricoltura in Italia.

 

 

Il contrasto dei due indirizzi spicca da poche cifre di confronto:

 

 

Agro romano

Regno

Seminativo %

29,2

51,9

Prati e pascoli %

60,3

21,2

 

 

Pochi seminativi nell’agro e molti nel regno; molti prati e pascoli nell’agro e pochi nel regno: chi non vede che l’agro romano ha evitato il difetto massimo dell’agricoltura italiana, ossia l’eccessiva importanza data ai cereali e il difetto delle culture miglioratrici dei prati e pascoli? L’Italia coltiva troppo grano ho scritto su queste colonne; e dopo molte polemiche fu riconosciuto che l’affermazione era vera. Noi dedichiamo una estensione eccessiva di terreno ai cereali e perciò produciamo poco grano, coltivandolo male sui terreni cattivi e difettando di bestiame e quindi di concimi animali fecondatori, per la scarsezza dei prati e pascoli. Occorre restringere i campi ed allargare i prati.

 

 

Se questa è verità certa, chi dunque può negare che l’agro romano addita la via sulla quale deve porsi risolutamente l’agricoltura italiana, specie quella meridionale, se vuol ritrovare l’equilibrio tra i diversi fattori produttivi? In una monografia, dettata dal Valenti su L’Italia agricola dal 1861 al 1911 per la nota grande pubblicazione cinquantenaria dell’Accademia dei Lincei, leggonsi queste parole, le quali a me paiono il succo di tutto il programma agrario italiano nel prossimo quarto di secolo:

 

 

Il paese nostro, si dice, è predestinato a divenire il grande frutteto, il grande orto, il grande giardino d’Europa. Se non che qui, pur designandosi un fine che dobbiamo proporci, si commette, come spesso accade, un grave errore di misura. Non si pensa che, quand’anche noi destinassimo alla orticoltura e alla coltura intensiva delle piante legnose un milione di ettari in più, noi già avremmo tanto da inondare i mercati d’Europa dei nostri prodotti, senza esito certo. Va riflettuto che una trasformazione di tal fatta è subordinata alle esigenze della produzione e del consumo estero e del contemporaneo sviluppo di molte industrie agrarie, onde non si ricada negli errori che abbiamo già commesso per riguardo alla viticoltura. La coltura delle piante legnose, l’orticoltura, il giardinaggio costituiscono elementi preziosi d’integrazione dell’economia agraria nazionale e rappresentano un nostro fortunato privilegio di cui dobbiamo saper approfittare; ma non sono elementi di sostituzione delle altre colture principali. Oggi noi coltiviamo 4 milioni e 700.000 ettari a frumento, e da tale superficie non ricaviamo che circa 50 milioni di quintali di granella. Il giorno in cui ci limiteremo a coltivare non più di 3 milioni e mezzo di ettari, ritraendone normalmente 70 milioni di quintali ed alleveremo, in pari tempo, un terzo di più del bestiame che oggi alleviamo, quel giorno l’equilibrio sarà ristabilito, e l’Italia agricola volgerà sicuramente verso il suo destino, provvedendo adeguatamente ai bisogni della nazione, col produrre le derrate più essenziali, e verso il suo arricchimento, coll’esportazione di quei prodotti della terra e dell’industria agraria, che sono una speciale prerogativa del nostro suolo e del nostro clima.

 

 

Del non aver visto che, sia pure per circostanze particolari, e sovratutto per le necessità dell’industria armentizia, i proprietari e gli affittavoli dell’agro romano avevano scelto un indirizzo agricolo buono ed additabile ad esempio ad altre molte regioni d’Italia, derivarono gli scarsi frutti ottenuti fin qui dalle leggi per la bonifica dell’agro. Legislatori ed amministratori, avendo visto in altre regioni campi produttori di 25-30 quintali di frumento all’ettaro, marcite stupende, prati irrigui, si persuasero che nell’agro romano si potesse fare altrettanto e che fosse possibile l’introduzione della cultura intensiva solo perché il terreno è in parte fertile ed è vicino ad un grande mercato di consumo. Il catasto agrario dimostra che le trasformazioni agricole non si improvvisano e sovratutto non si possono imitare gli esempi del di fuori senza prudenti e sapienti adattamenti alle esigenze locali. Dopo trent’anni di legislazione e dopo molti milioni spesi sono appena 9.685 gli ettari ridotti a cultura intensiva su una superficie agraria di 189.196 ettari e totale di 207.462.

 

 

Se si pensa che, di quei 9.685 ettari, quasi 3.000 sono occupati dalle ville e giardini e dalle vigne del suburbio e quasi 1.500 ettari dagli orti, si vede che fin qui la bonifica ha toccato appena 5.000 ettari. Dopo tanto discorrere di introdurre nell’agro l’azienda irrigua lombarda, appena 18 ettari si ridussero a marcita ed oggi di essi solo 15 si mantengono fedeli al sistema. Il prato artificiale irriguo in tutto l’agro non occupa che ettari 500 ed il prato artificiale asciutto ettari 1.100.

 

 

Coloro i quali predicano l’urgenza di grandi trasformazioni dimenticano che la terra cangia aspetto e natura solo attraverso i secoli e con spese ingenti e perseveranti. Fu calcolato che il sistema irriguo della bassa Lombardia abbia costato in antico non meno di un miliardo di lire, accumulate sopra una superficie di circa 900.000 ettari. Si sa che nel basso bolognese i terreni ottenuti per via di colmata e sistemati in poderi costarono fra 1.500 e 2.000 lire all’ettaro per spese di sistemazione. Se tali trasformazioni si volessero intraprendere oggi, e compiere di un subito, come i riformatori vogliono, dato l’elevato prezzo attuale della mano d’opera, costerebbero immensamente di più e forse non tornerebbe conto l’eseguirle.

 

 

Nessuno vuole che l’agro romano rimanga in perpetuo nelle condizioni attuali. Vuolsi soltanto che il progresso si compia sul fondamento delle esigenze reali dell’economia paesana, non di elucubrazioni dottrinali da gabinetto. Poiché l’economia dell’agro è utilmente indirizzata verso il prato e il pascolo, sarà bene che lo stato cooperi a rendere prato e pascolo vieppiù produttivi, con le opere fondamentali di bonifica, con le strade, con l’istruzione diffusa tra i contadini, ed in casi eccezionali con gli aiuti alle costruzioni di case coloniche e di stalle per il cresciuto bestiame. Quest’azione è legittima, perché lo stato in tal modo fa cose che rientrano nei suoi fini propri di cultura, di viabilità, di sicurezza, o di difesa contro la malaria o che in ogni modo non sarebbero compiute dai privati per l’altezza proibitiva del costo.

 

 

È probabile, per non dire certo, che a profittare di questi miglioramenti generali dell’ambiente agrario penserà spontaneamente l’interesse privato. Il prezzo delle carni e dei latticini è cresciuto tanto e la domanda ne è così intensa che già ora la produzione agricola dell’agro ne è grandemente stimolata. L’emigrazione dei contadini meridionali nelle Americhe è stata causa di un aumento inopinato nella richiesta di cacio pecorino da quei paesi. Gli emigranti conservano i gusti paesani e li vogliono soddisfatti, cosicché la esportazione dei formaggi dall’Italia, da 118.000 quintali nel 1900, è salita a 260.000 nel 1910, principalmente per la richiesta del pecorino, giunto a prezzi elevati. Questo fatto economico, in apparenza così modesto, ha contribuito, come ben nota il Valenti, a fare sfruttare al massimo la potenzialità produttiva dell’agro romano ed ha indotto i mandriani, poi che videro l’impossibilità di mantenervi una mandria di più, a varcare il mare e recarsi in Sardegna, ove, coll’impianto di caseifici e coll’offerta di prezzi assai convenienti per il latte, stanno ora promuovendo un benefico arricchimento agrario. Quel che per la Sardegna ed il Lazio non ottennero innumere leggi, operò l’umile cacio pecorino. Perché non aver fede che, ove il legislatore si limiti ad apparecchiare ed effettivamente apparecchi le condizioni elementari del progresso agrario, proprietari ed agricoltori sapranno spontaneamente trovare i mezzi di arricchire se stessi e l’agricoltura patria?

Mali secolari ed energie nuove. Le conclusioni dell’inchiesta sul Mezzogiorno agricolo

Mali secolari ed energie nuove. Le conclusioni dell’inchiesta sul Mezzogiorno agricolo

«Corriere della Sera»,12 agosto 1911[1], 16 agosto 1911[2]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1960, vol. III, pp. 359-368

 

 

 

 

1

 

Sono venuti alla luce gli ultimi volumi della grande inchiesta sulle condizioni dei contadini nel mezzogiorno e nella Sicilia. Comprendono le relazioni parlamentari, riassuntive e brevi, sulle Puglie dell’on. Giusso, sulla Sicilia dell’on. Carlo Ferraris, una diligentissima monografia del segretario generale della commissione, prof. Francesco Coletti sulle Classi sociali e la delinquenza in Italia; monografia, in cui si mettono in luce, con dati nuovi e sapienti elaborazioni, i mutamenti più recenti nella delinquenza e le loro caratteristiche differenze tra regione e regione, classe e classe. Chiude la serie la relazione finale del presidente della commissione, sen. Eugenio Faina. Sarebbero meritevoli amendue, la monografia del Coletti e la relazione del Faina, di un riassunto: minuta ed acutissima la prima; ampia, dal largo disegno e dalle belle proporzioni la seconda. Ma in un articolo di giornale un riassunto completo, che non si riduca ad un arido schema, è impossibile e poco proficuo. Coloro i quali vogliono formarsi un’idea di cos’è il mezzogiorno agricolo, dei suoi mali e dei rimedi possibili, assurdi od efficaci, leggano la relazione Faina, dove il problema solenne è esposto nelle sue grandi linee con serenità di storico ed eloquenza di patriotta. Dovrebbero essere in molti a leggerlo; e mi auguro che, come già si fece con la famosa relazione Jacini sull’inchiesta agraria, ne sia data alla luce una edizione maneggevole, accessibile alle borse più modeste. A che giova stampar libri, se le edizioni sono in quarto e bisogna richiederli in dono (è vero che sono signorilmente distribuiti) o comprarli – sia pure a prezzi mitissimi – da pochi librai non a tutti conosciuti? Ed un altro augurio devo fare: che l’inchiesta, ora compiuta per la metà d’Italia e la più difficile ad essere visitata e conosciuta, venga estesa a tutto il paese. Ora che l’organizzazione inquirente esiste e l’esperienza l’ha addestrata a sempre meglio funzionare, con altre 100.000 lire di spesa si potrebbe triplicare il pregio delle non so se 200 o 300.000 lire che si sono spese per il mezzogiorno. A trent’anni di distanza dall’inchiesta Jacini, si avrebbe una nuova inchiesta agraria, compiuta per tutta Italia, la quale, coll’aiuto del catasto agrario del Valenti, darebbe un’idea di quel che sono oggi agricoltura ed agricoltori in Italia.

 

 

Gioverà frattanto dalla relazione Faina estrarre talune idee fondamentali, di quelle idee che illuminano e che possono guidare gli uomini d’azione ed i legislatori. Una di queste idee fondamentali è che il male è antico. Chi non ha sentito parlare del diboscamento come di una delle maggiori cause di rovina della terra meridionale? Riassunsi nell’anno scorso il libro unilaterale ma forte, insistente ma efficace di Francesco Nitti sulla Basilicata e le Calabrie, che era tutto un quadro dei mali che erano prodotti dal diboscamento e dalla malaria; e dalla malaria come conseguenza fatale del diboscamento, della rovina delle terre alte e dall’impaludarsi delle terre basse.

 

 

Orbene, il diboscamento è reale; ma è antico, anteriore al 1860. Anche sotto i Borboni, anzi sovratutto sotto i Borboni, l’ascia lavorava ad abbattere alberi; né a caso i poeti hanno cantato da gran tempo la “calva” Italia. Già fin da quando il sud era unito in un regno autonomo né gli uomini del nord avevano, con l’indemaniazione e la vendita dei beni ecclesiastici e con l’apertura di nuovi mercati, spinto gli agricoltori meridionali a sfruttare all’estremo le pendici dei colli e dei monti, già fin da allora i colli ed i monti eran privi della loro frondosa chioma di alberi secolari. Il Faina ne dà le prove statistiche, tratte dalle due fonti più attendibili, la statistica forestale del 1870 ed il nuovo catasto agrario. La statistica forestale del 1870 era stata eseguita mediante ispezione diretta e riportava separatamente comune per comune la superficie boscata, bosco per bosco il nome del proprietario e regione per regione le essenze dominanti e il tipo di gestione forestale. Il nuovo catasto agrario del Valenti ha tenuto conto solo delle superfici destinate effettivamente a bosco, distinguendole non solo dai prati e pascoli ma anche dall’incolto produttivo (rupi boscate, zerbi, brughiere, ecc.) e dallo sterile per natura. Secondo queste due fonti, che sono le sole attendibili, nel 1870 vi erano nel mezzogiorno e in Sicilia 1.225.000 ettari a bosco; nel 1909 gli ettari erano aumentati leggermente a 1.254.677. Poiché dal 1860 al 1870 si tagliarono pochissimi boschi, è evidente che i boschi erano scarsi già fin da prima del 1860. Forse sui risultati influì il criterio più restrittivo usato nella statistica del 1870; forse nel catasto agrario furono considerati boschi anche terreni in cui gli alberi sono relativamente radi; ma sembra indiscutibile che il male sia vecchio.

 

 

Il Faina osserva che in altri tempi solo pochi studiosi notavano lo squallore delle pendici denudate e i danni che ne derivavano; oggi invece, affinato ed esteso il senso del bello e dell’utile, quello spettacolo colpisce tutti e fa l’impressione di una cosa nuova, mentre è solo una cosa vecchia nuovamente osservata.

 

 

Altra leggenda che corre è che prima del 1860 la pastorizia fiorisse nel mezzogiorno e che greggi innumerevoli di bovini e di pecore pascolassero i campi e branchi di porci popolassero i boschi. Ma i vecchi censimenti del 1876 per i cavalli ed i muli e del 1881 per gli altri animali confrontati con il censimento del 1908, porterebbero a diverse conclusioni: i cavalli essendo aumentati del 64%, i muli ed i bardotti del 35%, gli asini del 64%, i bovini del 46%, i bufali del 25%, i suini del 123%, gli ovini del 38% ed i caprini del 58 percento. Pure ammettendo che i vecchi censimenti siano errati in meno, sembra certo che quella delle greggi innumerevoli di mezzo secolo fa sia da relegarsi tra le leggende. Il sud da ricco non è divenuto agrariamente povero. Un certo progresso si è verificato; alcune culture ricche si sono diffuse; l’emigrazione ha rialzato i salari ed ha fatto sì che il lavoro abbondi. Ma non bastano 50 anni, di cui molti travagliati dal brigantaggio e dalle crisi, a guarire un paese da mali accumulati da secoli.

 

 

La commissione d’inchiesta ha veduto che era impossibile sollevare l’agricoltura e le classi agricole meridionali con rimedi facili, rapidi e con provvedimenti legislativi. Poche proposte di provvedimenti legislativi essa ha fatto, e queste con grande prudenza. Di ciò glie ne va data gran lode, perché quel che il tempo ha fatto di male, solo col trascorrere del tempo e col trasformarsi dell’ambiente sociale – opera sempre più lunga e difficile del fabbricar leggi – può essere disfatto. Il Faina ha veduto che il problema meridionale non è un problema semplicemente tecnico ed economico ma è sovratutto un problema morale. Questa è una grande verità che sovratutto noi economisti dobbiamo altamente proclamare. Il Faina ha scritto una stupenda pagina che è bene riprodurre, perché sintetizza un pensiero fecondo: la lotta per la redenzione del mezzogiorno deve essere rivolta specialmente a migliorare la pianta uomo.

 

 

La terra perduta può riguadagnarsi col rivestimento a bosco ed a pascolo in montagna e con la bonifica idraulica in pianura, e bonifica e chinino alleati finiranno per aver ragione della malaria. Utilizzando le risorse economiche dell’emigrazione si può costituire una nuova classe sociale, quella dei proprietari coltivatori, e forse il lavoro tenace otterrà un aumento di produzione anche là dove il capitale non lo ha tentato o non è riuscito. Ma tutto ciò, e altro ancora, e i provvedimenti richiesti o proposti, quando anche, profondendo denaro, fosse possibile attuarli tutti, non risolverebbero il problema meridionale, perché la causa vera di tutti i mali lamentati è il basso livello intellettuale e morale delle classi agricole lavoratrici, e non di quelle solamente.

 

 

Qui si parrà la nobiltà della missione dello stato, il quale finora si è valso della miseria economica degli uomini per asservirli politicamente, mentre dovrà in avvenire elevarli per renderli veramente liberi ed indipendenti. Continua il Faina:

 

 

Molto potrà fare la scuola, se sarà veramente educatrice, al di fuori e al di sopra delle gare e delle lotte dei partiti politici e personali, ma è illusione credere che basti la scuola. Ciò che è essenzialmente necessario, e senza il quale né forza di leggi, né forza di denaro riusciranno mai, è onestà di governo, giustizia amministrativa. Il governo parlamentare suppone nelle masse elettorali coltura intellettuale, indipendenza economica, moralità e coscienza politica, qualità che difettavano più o meno nelle nostre popolazioni, e in qual misura difettino ancora nelle plebi rurali del mezzogiorno è stato dimostrato dall’inchiesta. Si è cercato, con successive modificazioni alla legge elettorale, di trovare lo strato sociale che rappresenti una opinione popolare illuminata, onesta e cosciente, per affidare a questo, con la preponderanza numerica dei voti, le sorti del paese, ma non si è ancora trovato. Intanto, sia realtà o leggenda (e la leggenda è dannosa poco meno della realtà) il pubblico ritiene che alle male conseguenze del contrasto tra le esigenze teoriche di un governo parlamentare e le condizioni reali del paese, sovratutto là dove il contrasto era maggiore, tutti i ministeri indistintamente non abbiano saputo trovare altro riparo che l’intervento più o meno larvato nelle elezioni, non per mezzo di corruzione diretta, ch’è accusa ingiusta e sfatata, ma consentendo e tollerando che le potenze e prepotenze locali, in cambio dell’appoggio dato al governo e forti del suo favore, esercitino una indebita influenza in pro degli amici e a danno degli avversari, creando una rete inestricabile di interessi inconfessati e inconfessabili fra governo e uomini parlamentari. Un’altra leggenda ancora si è formata, e molti indizi l’accreditano, cioè che nel mezzogiorno e nelle isole, considerati come luoghi di punizione, si trasferiscano tutti gli impiegati che hanno fatto cattiva prova altrove; anche quelli, e sono i più, che vi sono destinati, pur non avendo addebiti, vanno di mala voglia in quelle residenze, non hanno il tatto di nascondere il loro malumore e brigano in tutti i modi per essere traslocati; i soli che le ricercano sono coloro che hanno in un dato luogo interessi di famiglia o di affari e che per questo solo sarebbero i meno indicati. Con un siffatto personale, con le dipendenze elettorali, e con le difficoltà che le rappresentanze politiche, sotto la pressione di esigenze locali, creano al governo, quali che siano gli uomini al potere, nessun ministero può esercitare azione moralizzatrice là dove proprio ne sarebbe maggiore il bisogno. La grande riforma, più ancora che nei sistemi, deve farsi nei metodi elettorali e nei costumi politici di coloro che aspirano all’alto onore di sedere in parlamento, poi nel personale, che rappresenta ed incarna nelle provincie l’azione del governo. Opera lenta e difficile la prima, meno assai la seconda. Si trasformino i luoghi dove maggiore è la delinquenza, l’ignoranza, la insalubrità, la mancanza di viabilità, di cultura intellettuale, di agi civili, da luoghi di punizione in posti di onore, ai quali solo i migliori funzionari possano aspirare. A questi si accordino forti indennità di residenza, vantaggi di carriera, attrattive materiali e morali di ogni sorta e, quando abbiano fatto buona prova, meritato e ottenuto promozioni, si lascino ancora sul posto sia pure con grado superiore alla funzione. Ci vogliono in tutti i rami dell’amministrazione uomini integri, intelligenti ed energici, capaci di resistere a qualsiasi pressione, salga dal basso o scenda dall’alto. Solo con tali elementi un governo onesto può sperare di riuscire; e quando tutto ciò non bastasse, un ministero che preferisse cadere – e cadesse – piuttosto che cedere solo a una indebita ingerenza avrebbe reso un grande servizio al paese e tracciata finalmente la via da seguire, perché la questione agraria meridionale è sovratutto una questione morale.

 

 

La commissione d’inchiesta, insistendo sul dovere dello stato di instaurare il regno della giustizia e della rigida amministrazione, non ha voluto affermare che lo stato non debba far nulla per rimboschire, bonificare paludi, costruire strade. Queste sono le grandi opere della civiltà che altri non compirebbe o non compirebbe nella misura necessaria e che spettano perciò all’ente pubblico massimo. Ma non dimentichi lo stato che il suo compito primo è pur sempre quello del rendere a ciascuno ciò che a ciascuno è dovuto e dell’impedire sopraffazioni di classi o di persone. Solo in un paese dove la giustizia regni possono fiorire le iniziative individuali e compiersi i grandi progressi economici.

 

 

2

 

L’abuso e il favoritismo corrompono l’elettore; i desideri di questo guastano i rappresentanti; ed il governo, che dei voti di costoro ha bisogno, deve largire favori, i quali, appunto perché son favori, vantaggiano i pochi e danneggiano i molti.

 

 

Perché questi principii non rimangano voti astratti, aspirazioni generose di menti elette è d’uopo che sorgano forze sociali le quali inducano i governanti ad intendere la loro funzione di dispensieri di giustizia, e di rigida ed imparziale amministrazione e svezzino i governati dal chiedere favori per gli oziosi e protezioni per i sopraffatori. Noi che viviamo nel nord ed abbiamo un concetto (ahimè troppo elevato) della nostra moralità politica siamo facilmente indotti a ritenere che occorre importare nel mezzogiorno questi beni supremi del vivere civile: giustizia e buona amministrazione. Per contrapposto, non pochi uomini del sud sono pronti a dare ai settentrionali la colpa di tutte le loro miserie, del loro impoverimento, gridano di essere sfruttati ed aspettano i rivendicatori dei loro conculcati diritti. Errano amendue, poiché la risurrezione morale, intima, il ricostituirsi delle energie spirituali dalle quali dipende la risurrezione economica non può essere un bene di importazione, e d’altra parte, finché un popolo è persuaso che la propria miseria è dovuta a colpa altrui, allo sfruttamento d’altri, quel popolo si sterilirà in una inutile agitazione politica. Le classi che ascendono non sono quelle che perpetuamente si lagnano di essere sfruttate; son quelle che energicamente lavorano, lottano per migliorare se stesse e per sopravanzare quelle che non adempiono ad un compito utile. Così ogni popolo deve cercare e creare in se stesso le ragioni del proprio perfezionamento. Finora gli uomini del mezzogiorno hanno troppo sperato dallo stato; hanno troppo accusato gli altri di essere cagione delle loro sventure economiche. Ed i governi hanno creduto che bastasse largire o promettere milioni per sanare tutti i mali del mezzogiorno. Si diano pure i milioni per le spese urgenti della civiltà: rimboschimenti, bonifiche e scuole; ma si persuadano tutti che l’aiuto economico non basta. Gli uomini del mezzogiorno devono, essi, imporre al governo di non essere più manutengolo di partiti politici e dispensiere di favoritismi amministrativi; perché chi riceve favori diventa servo. Gli uomini del mezzogiorno inoltre debbono cercare essi, col proprio sforzo individuale, le vie della risurrezione. Perché colui che da dolo è riuscito ad acquistare sapienza e ricchezza per dieci è infinitamente più ricco di colui al quale da altri è stata largita ricchezza o sapienza per cento. Il primo è della razza degli uomini insoddisfatti e laboriosi che creano gli imperi; il secondo fu ed è un membro inutile del gregge muto vivente nelle epoche in cui gli imperi decadono.

 

 

Faina ha pagine eloquenti su questa verità fondamentale dimostrata dall’inchiesta. Parlando della terra, dice:

 

 

Il problema agricolo meridionale è tutto qui: applicare alla trasformazione del fondo e alla sua riduzione a coltura intensiva o estensiva intensificata, intelligenza e lavoro in larga proporzione ed in via straordinaria, ossia in più di quel che occorra per la ordinaria coltivazione annuale. Ma per arrivare a tanto su chi si può fare assegnamento? Vi sono alcuni che nel desiderio di raggiungere più presto lo scopo invocano l’intervento di energie estranee alla regione, siano esse di proprietari, affittuari o coloni. Tentativi in questo senso furono fatti ma o non riuscirono o rimasero casi isolati, ed era naturale. La immigrazione di intelligenze, di capitali ed in parte anche di maestranze in paesi di antica civiltà, può essere utile e feconda quando sia applicata alle industrie e al commercio, ed il fenomeno che si è verificato e va verificandosi in Lombardia può ripetersi per il mezzogiorno, quando sia facilitato da favorevoli condizioni naturali ed aiutato da temporanei privilegi; ma ritenere che ciò possa verificarsi anche nella cultura della terra è, più che un’illusione, un sogno. Troppe sono ancora le terre libere nel nuovo come nel vecchio mondo che si offrono gratuitamente agli arditi intraprenditori, perché questi, tranne nei casi eccezionalissimi, possano trovare la convenienza di preferire le nostre, esaurite da produzione millenaria, gravate di oneri e di imposte, e, fra queste, proprio le più desolate, quelle di cui nemmeno gli indigeni vogliono sapere e che pure sono le sole per le quali s’invoca il loro intervento. La riduzione a cultura delle terre povere e la stessa intensificazione nelle zone irrigue non può essere opera che della gente del luogo, come la marcita e la risaia lo sono dei lombardi, il podere dei toscani, com’è gloria dei pugliesi la vigna, dei siciliani i giardini di agrumi, dei campani la meravigliosa redenzione della costa fra Napoli e Salerno e dei calabresi quella delle pendici lungo il Tirreno. È solo dai meridionali che l’agricoltura del mezzogiorno attende il suo risorgimento, ed i primi indicati sono naturalmente i grandi e i medi proprietari, coloro cioè che possiedono la terra in misura tale da poter vivere con sufficiente agiatezza del reddito netto ottenuto dai propri fondi senza essere obbligati ad impiegare altrove la loro attività. Essi per la stessa posizione sociale hanno stimolo e modo di acquistare una certa coltura intellettuale, e, solo che limitino il tenor di vita, possono, senza gravi sacrifici, dedicare l’opera propria e parte della rendita alla redenzione dei propri fondi. Utilissimi sovratutto i contadini che nell’emigrazione accumularono un piccolo capitale. Costituiscono essi l’elemento fisicamente più robusto, intellettualmente più colto, moralmente più energico della classe contadina, hanno le abitudini personali più propizie per diventare validi agricoltori ed utili cittadini; possiedono un capitale iniziale, per quanto modesto, ed un certo attaccamento al paese se non alla professione. Manca però anche a loro l’educazione morale e tecnica prima della partenza e dopo il ritorno, e sovratutto manca la terra a buon mercato e almeno a prezzo normale di reddito capitalizzato. L’emigrante meridionale non è apprezzato al suo giusto valore. Non bisogna vedere in lui il cattivo cittadino che abbandona una patria, di cui si è disamorato, ma l’uomo energico e previdente che affronta i rischi e i disagi dell’ignoto per raccogliere i capitali con i quali feconderà al ritorno la terra che lo vide nascere, dove conta formare il suo nido.

 

 

Molto si può sperare da questo movimento autoctono, che non è soltanto un movimento economico, ma è anche un movimento educativo-morale. Sono gli emigranti, i quali, riconosciuta la loro inferiorità per effetto dell’ignoranza nel mercato mondiale del lavoro, vogliono che non pesi più oltre anche sui loro figli. Sono i contadini che preferiscono passar l’America a conquistare col lavoro un modesto e sudato peculio con cui costruire la casetta propria, piuttosto che ricorrere al credito agrario a mite interesse dei banchi di Napoli e di Sicilia. Sono i contadini che preferiscono, emigrando, costringere i proprietari alla resa (aumento dei salari e vendita delle terre), piuttosto che chiedere leggi sui contratti agrari e sul frazionamento del latifondo. L’energia morale interna riesce laddove non valsero a nulla le interminabili chiacchiere libresche e parlamentari: nuova dimostrazione che i meridionali hanno in se stessi lo strumento della vittoria.

 

 

Mali antichi, non dovuti a malvagità di nuovi conquistatori, ma all’azione di secoli di torpore; problema essenzialmente morale; e dovere degli uomini del mezzogiorno di elevarsi colle loro proprie forze, migliorando se stessi e tendendo con tutte le loro energie ad un ideale più alto di vita: ecco le tre verità, che a me paiono essenziali, enunciate nella relazione finale della grande inchiesta sul mezzogiorno. Può parere strano che uno studioso di scienze economiche parli sovratutto di «energie morali» e di «elevazione spirituale dell’uomo». Purtroppo le lezioni che nell’ultimo trentennio si poterono leggere sui libri degli economisti non hanno contribuito molto alla formazione dell’uomo e per conseguenza all’incremento della ricchezza. Noi abbiamo avuto il torto di predicare troppo spesso che gli uomini sono il trastullo delle cieche forze economiche; che gli uomini sono quali li forma l’ambiente, la ricchezza acquisita, il mestiere, la povertà della famiglia, la classe sociale in cui si è nati. Abbiamo con queste dottrine alimentato l’odio contro quelli che stanno in alto, la credenza che sia impossibile elevarsi, schernite e dichiarate vane le energie vive, le forze più preziose che l’uomo possegga. Il male compiuto dalle nostre predicazioni non fu per fortuna grande come avrebbe potuto essere; perché gli operai, mentre usavano l’arma della lotta di classe, hanno anche fatto sforzi meritori per organizzarsi, per istruirsi e sono divenuti meritevoli di quel maggior benessere che la lotta di classe da sola non avrebbe mai saputo procurare loro; perché le classi dirigenti hanno dovuto, sotto la pressione che veniva dal basso, istruirsi, perfezionare i loro congegni produttivi, diventare più virili e salde. Il movimento di ascensione, finora ristretto al settentrione, sembra adesso si estenda ai contadini ed ai proprietari del mezzogiorno. Bisogna che anche noialtri, cultori della scienza della ricchezza, abituati troppo a vedere solo il lato economico dei problemi, diciamo ben forte che la speranza del rinnovamento economico potrà avverarsi solo se prima l’uomo si sarà rinnovato. L’«uomo» come somma di energie spirituali, morali, come forza che si oppone alla natura da secoli impoverita, al governo corruttore, all’ambiente torpido, alla miseria circostante; e vuole colla sua volontà, colla sua energia, colla religione della famiglia e della patria creare un nuovo mondo, più bello e più ricco, al posto del vecchio mondo ereditato dai secoli scorsi. Questo il significato del grandioso movimento migratorio meridionale, questo il monito della grande inchiesta ora compiuta.



[1] Con il titolo Mali secolari ed energie nuove. A proposito degli ultimi volumi dell’inchiesta sul Mezzogiorno agricolo [Ndr].

[2] Con il titolo La salute è in noi! Le conclusioni virili dell’inchiesta sul Mezzogiorno [Ndr].

Lodi e concordati di lavoro. Per una terminologia chiara ed univoca

Lodi e concordati di lavoro. Per una terminologia chiara ed univoca

«Corriere della Sera», 5 agosto 1911

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 354-358

 

 

 

 

Il lodo del prefetto di Ferrara nella contesa tra la federazione agraria e la camera del lavoro ha dato luogo a molti commenti di lode e di biasimo, a seconda del diverso punto di vista dei commentatori. Ora che l’eco di quei commenti si è acquetata e che si è data la dovuta lode a chi sovratutto ha voluto salvare il raccolto pendente di un’intiera provincia, si riconosce però quasi universalmente essere vana la speranza che il lodo abbia a durare, come ne suona la lettera, dal 29 settembre 1911 al 29 settembre 1915. Sul «Corriere della Sera» l’on. Poggi ha già messo in luce come le agitazioni agrarie siano connesse e quasi inseparabili da una forma speciale di impiego della mano d’opera, l’avventiziato, ed ha perciò augurato l’appoderamento del suolo e la formazione di una classe di affittuari e di mezzadri. Concetto, dal quale mi sembra non si discostino molto, salvo le inevitabili differenze nella formulazione, anche alcuni buoni conoscitori socialisti delle Romagne; ad esempio, l’on. Antonio Graziadei, il quale ritiene anch’egli l’avventiziato un tipo inferiore di colono in confronto al mezzadro, all’affittuario ed al piccolo proprietario, insieme consorziati in cooperative, ecc.

 

 

Ma non è sulla soluzione sostanziale dei problemi agrari del Ferrarese e delle Romagne, soluzione la quale deve riconnettersi a tutta una lenta trasformazione dell’economia agraria di quei paesi, che voglio intrattenermi, bensì sulla sua soluzione formale. Spesse volte nei conflitti del lavoro e nelle loro soluzioni la forma esteriore reagisce sulla sostanza ed è causa di nuovi conflitti e di nuove agitazioni; ed è quindi opportuno richiamare l’attenzione sugli elementi formali, non per trarne pretesto a critiche, che sarebbero fuor di luogo, ma incitamento a perfezionare la forma dei concordati e dei lodi in guisa da renderla più atta a rispecchiare nitidamente la volontà delle parti ed impedire equivoci funesti e futuri conflitti.

 

 

Spesso accade che, tratti dal desiderio di comporre momentaneamente i dissidi, parti contendenti ed arbitri si acconcino a formule vaghe, a parole dal significato equivoco, che lasciano per un istante tutti contenti, salvo a far risorgere intatte e forse peggio rate le cagioni del conflitto a non lontana scadenza. Il lodo del prefetto di Ferrara offre di ciò un esempio calzante. Ambe le parti gridarono vittoria, e sui medesimi punti: segno che il lodo si prestava ad essere interpretato in due opposte maniere.

 

 

Disse invero il prefetto intorno alla questione capitale della scelta della mano d’opera:

 

 

Premesso che la Federazione agraria, mentre afferma il principio della libera scelta della mano d’opera, prende atto dei desiderata della Camera del lavoro di Ferrara che sia data la preferenza alla mano d’opera organizzata…

 

 

Dalla quale premessa subito i proprietari trassero la conseguenza che la federazione manteneva integro il diritto di scegliere liberamente la mano d’opera nella maniera che più le talentasse, mentre prendeva semplicemente atto, ossia notizia del desiderio della camera del lavoro che la scelta venisse di preferenza (ossia non esclusivamente) fatta tra gli organizzati. Al che ribatté la camera del lavoro che l’affermazione del principio della libera scelta è puramente teorica; ma praticamente gli agrari sono costretti ad impiegare solo gli organizzati, perché non si prende atto di un desiderio per semplice notizia accademica, ma col proposito di tenerne conto; e «tener conto del desiderio degli organizzati ad avere la preferenza» ha il significato univoco che prima si debbano impiegare gli organizzati e poi, se rimarrà ancor posto, i lavoratori liberi.

 

 

Fin qui si trattava però soltanto di una «premessa» al lodo vero e proprio, di cui importa appurare la sostanza relativa al problema della libera scelta o del monopolio degli organizzati.

 

 

I proprietari e conduttori di fondi consociati, tenendo conta che da molti anni esistono nei singoli comuni organizzazioni operaie e che anche a molte di esse è stato ed è normalmente attribuibile mano d’opera per la conduzione agricola, si varranno delle organizzazioni aderenti alla camera del lavoro analogamente ed allo stesso scopo di occupare la mano d’opera organizzata.

 

 

Quale dei due principii opposti, libertà di scelta o monopolio degli organizzati, sancisce il lodo? Mistero. I proprietari affermano che il lodo non fa altro che prendere notizia di due situazioni di fatto: 1) l’esistenza di organizzazioni di contadini; 2) l’uso di ricorrere, in molti casi, ad esse per la provvista normale della mano d’opera. Ed, in base a questa situazione di cose, sentenzia che i proprietari si debbano rivolgere alla camera del lavoro per riceverne la mano d’opera organizzata; liberi di ricorrere ad altra mano d’opera, se già prima non si servivano degli organizzati, e di assumere lavoratori liberi in via eccezionale pure nei casi in cui prima ricorrevano agli organizzati. Ma i lavoratori rispondono che il dispositivo del lodo va letto in congiunzione colla premessa; e da amendue risulta che i proprietari, dopo aver preso atto del desiderio della camera del lavoro di provvedere essa sola la mano d’opera, sono stati dal lodo obbligati a ricorrere normalmente alle organizzazioni del lavoro per riceverne la mano d’opera necessaria alla conduzione agricola. Che significato avrebbe la parola normalmente se i proprietari potessero impiegare a loro arbitrio la mano d’opera disorganizzata? Quel «normalmente» vuol dire che solo in via eccezionale si potranno impiegare i non organizzati; e l’eccezionalità non deve essere capricciosa, dipendente dalla pura volontà di una delle due parti; ma oggettiva, constatabile per segni certi, come l’assoluto difetto o la incapacità fisica o mentale degli organizzati.

 

 

Non è compito di chi scrive indagare da quale parte stiano la ragione o il torto. Ho voluto citare il lodo ferrarese ad esempio delle incertezze che presentano le formule spesso adottate per risolvere i conflitti del lavoro. Sembra che le parti contendenti e gli arbitri non si siano persuasi della necessità assoluta di adoperare una terminologia chiara, rigorosa, univoca. Sembra che essi cerchino appositamente i termini ambigui, le frasi complicate che sembrano risolutive al momento; ma si rivelano ben presto feconde di aspre controversie. Vi sono parole specialmente care a quelli che hanno il non facile compito di stendere lodi o convenzioni collettive di lavoro. In tema di libera scelta o di monopolio della mano d’opera le parole meglio accette sono «di preferenza», «in via normale» e simili. Parole equivoche, che converrebbe scartare ad ogni costo. La tariffa vigente nell’industria tipografica torinese – per citare un caso che fu già minaccioso di grave conflitto – reca all’articolo 1 che «per l’assunzione del personale gli industriali si rivolgeranno di preferenza alla federazione dei lavoratori del libro». Gli industriali, prima e dopo la firma della convenzione di tariffa, sostennero che le parole di preferenza non importavano menomamente l’obbligo per essi di rivolgersi soltanto al personale organizzato, e che esse significavano soltanto l’impegno di dare una certa preferenza agli organizzati in confronto ai non organizzati, liberi però sempre i principali di ammettere anche i lavoratori indipendenti nei loro stabilimenti, purché in numero proporzionatamente minore degli organizzati. I lavoratori per contrapposto sostennero che le stesse parole «di preferenza» non avrebbero alcun significato, sarebbero una parola vuota, senza contenuto, se non volessero significare che i principali debbono innanzi tutto occupare il personale organizzato, dando a questo sempre la preferenza finché vi siano operai organizzati in confronto a non organizzati, e che solo in mancanza di operai organizzati si possa ricorrere ai lavoratori liberi. Due concezioni profondamente diverse, le quali si fondano amendue sulla stessa parola. Parola equivoca, che male si illumina con i precedenti, con le discussioni preliminari, con la volontà delle parti, di cui non rimane forse alcuna traccia scritta.

 

 

Onde si rafforza la convinzione che sia necessario dare il bando a tutte queste parole e frasi insidiose a doppio significato. È necessario nell’interesse di amendue i contendenti, ai quali importa certamente risolvere la controversia attuale, ma più deve importare non lasciare strascichi ed addentellati a controversie future. La controversia attuale, in fondo, quando si è già arrivati allo stadio del lodo o della formulazione definitiva del concordato, è una controversia per nove decimi risoluta. Gli animi sono già stanchi, e già le masse contendenti sono in quella speciale disposizione favorevole dello spirito che spinge a cercare la via della concordia. Val meglio far durare il conflitto ventiquattr’ore di più; ma trovare la parola giusta, che si presenti alla mente di tutti con lo stesso significato. Invece del «di preferenza» si usino le parole «esclusività» per gli organizzati o «libera scelta» fra organizzati e non organizzati ed altre ugualmente chiare. Non monta, per il discorso attuale, quale parte vinca, purché la vittoria sia chiara nel testo del lodo o del concordato. E se si vuole dare un po’ di vittoria ad amendue le parti, si dica chiaramente qual è la soluzione voluta. Le parole sono tante e così varie e così ricche nel vocabolario italiano che non deve essere impresa troppo difficile esprimere chiaramente un concetto che dovrebbe essere nitido nella mente delle parti e degli arbitri. Altrimenti, si preparano nuovi conflitti, che, per essere nuovi, sono sempre più lunghi e più accaniti di quelli che già dalla stanchezza sono stati condotti al loro naturale termine.

Il problema marittimo e il diversivo della cabala assicurativa

Il problema marittimo e il diversivo della cabala assicurativa

«Corriere della Sera», 16 luglio 1911

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 346-353

 

 

 

 

Che il progetto di monopolio delle assicurazioni sulla vita fosse un diversivo mirante a distrarre l’attenzione da problemi più importanti, ed a quetare gli appetiti e le richieste dei partiti estremi, era cosa risaputa. Ma ciò che non è stato rilevato a sufficienza è che il progetto di monopolio ha servito a distrarre l’attenzione del pubblico dal fatto che il governo chiedeva ed ottenne facilmente, senza che nessuno se ne accorgesse, l’approvazione di un primo gruppo di provvedimenti marittimi: il primo a favore della industria delle costruzioni navali, un secondo per la riserva alla bandiera nazionale del trasporto dai porti inglesi ai porti italiani di parte del carbone occorrente per le ferrovie dello stato e per la regia marina e l’ultimo per l’istituzione di una linea di navigazione fra l’Italia e il Cile.

 

 

Ognuno ricorda i dibattiti solenni che si svolsero alla camera e nella stampa negli anni decorsi intorno al problema marittimo. Parecchi ministeri sono caduti senza che essi potessero andare in porto, e sembrava che questo dovesse essere lo scoglio contro cui si sarebbe infranto ogni più abile nocchiero parlamentare. Quand’ecco, in una seduta semi – deserta, senza che quasi nessuno prendesse la parola, senza che quasi si sapesse che progetti di così eccezionale importanza erano messi in deliberazione, la camera ha approvato a tamburo battente tre dei disegni di legge relativi al problema marittimo, e non dei meno importanti. In silenzio li approvò il senato, neppure dubitando si trattasse di provvedimenti che pregiudicavano l’avvenire marittimo italiano. Avevo appena ricevuto le relazioni parlamentari e appena avevo finito di leggerle, che vidi dai giornali essere ormai inutile ogni discorso.

 

 

Inutile davvero? Non credo; perché ove la opinione pubblica si accorga che cosa sono e che importanza hanno quei provvedimenti che il parlamento approvò senza fiatare, tutto preoccupato dal diversivo creato dal governo; ove ancora una volta sia nettamente chiarito che qui siamo dinanzi ad uno dei maggiori problemi della vita economica italiana nel momento presente, l’opinione pubblica non potrà sopportare che le sorti dell’economia italiana siano giocate con tanta leggerezza; e si potrà ottenere che la discussione, ampia e profonda, che non ebbe luogo per i primi tre progetti del gruppo avvenga per gli altri sette. Che se nemmeno a tanto si giungerà, si sarà almeno compiuto il dovere di denunciare l’operato di chi non dubita di mettere in subbuglio un’industria antica ed indipendente, di creare precedenti di confisca della proprietà privata per il miraggio di utili evanescenti e nel tempo stesso butta i milioni in sovvenzioni ed aiuti, la cui utilità è incertissima, per non dire che è di gran lunga minore dei danni.

 

 

Che cosa vuole il disegno di legge a favore dell’industria delle costruzioni navali? Dare, oltre alle lire 1.152.584 su cui non cade disputa perché sono la liquidazione di impegni antichi, ben 5.047.415 lire all’anno per quindici anni, ossia 75 milioni di lire, tolti con le imposte ai contribuenti, a titolo di compenso all’industria delle costruzioni navali. Non ripeterò qui affermazioni di principio; non rifarò la lunga ed accanita discussione che altra volta fu fatta intorno alla convenienza o legittimità di questi sussidi. Sono sempre in campo le due opposte concezioni liberista e protezionista: quella che fa rimontare le vittorie industriali alle libere iniziative, l’altra che vuole che le iniziative private siano sorrette dall’aiuto dello stato, ossia dei contribuenti. Voglio, per un momento, dar causa vinta ai protezionisti, agli intervenzionisti; voglio, contro le mie convinzioni più profonde, suffragate nel campo marittimo dall’esperienza universale delle nazioni vittoriose – Germania ed Inghilterra – concedere che l’aiuto dello stato sia necessario per fondare una possente industria delle costruzioni navali. Ma tutti, anche gli intervenzionisti più esaltati, sono d’accordo nel ritenere che l’aiuto debba essere dato nei primi anni, nei primi dieci, nei primi vent’anni affinché l’industria sorga, si rafforzi e diventi adulta e capace di reggere da sé. Una industria che dopo dieci, dopo venti anni è incapace di vivere colle sue forze, è una industria la quale non merita che intorno ad essa si continuino a spendere i denari dei contribuenti. Sono principii ormai pacifici, non contestati dai liberisti per amore di quieto vivere e messi innanzi sempre dagli intervenzionisti a giustificazione delle loro proposte. Tanto sono accetti che la relazione ministeriale apertamente dichiara essersi scelto il periodo di quindici anni «per dare ai nostri cantieri la possibilità di sistemarsi tecnicamente ed economicamente, in guisa da consentire poi al paese minori sacrifici pecuniari e l’adozione di un regime radicalmente diverso, nel quale lo stato, liberando l’industria da ogni eccessiva gravezza fiscale, e sorreggendola politicamente e moralmente nella lotta di concorrenza coll’estero, lasci poi ad essa sola la cura di trovare il mezzo per vivere e progredire».

 

 

Santi principii, a cui non può farsi che un solo e perentorio e definitivo rimprovero: che cioè essi erano quelli medesimi con cui veniva giustificata la legge del 6 dicembre 1885, la quale iniziava il regime dei premi alle costruzioni navali; e si concedevano quei premi che la legge odierna, allegramente votata senza discussione, propone di allargare e di crescere. Se la logica, se il buon senso servono a qualcosa, si dovrebbe concludere che, essendo oramai decorso dal 1885 ben un quarto di secolo, l’industria delle costruzioni navali deve, se vitale, avere trovato in se stessa il segreto della vittoria. Né governo né commissione negano che essa si sia agguerrita; ché anzi riconoscono gli indiscutibili progressi ed il grande perfezionamento raggiunto dai cantieri in questi ultimi anni. Onde doveva concludersi che all’industria si poteva oramai «lasciare la cura di trovare il mezzo per vivere o progredire »; o se a tanto non si voleva giungere, si doveva pure concludere almeno ad una diminuzione dei premi fin qui largiti, avviandola al regime di libertà, che è il solo regime normale delle industrie sane.

 

 

Invece no; si propone che i premi siano conservati ed anzi allargati a nuovi tipi di navi, persino alle draghe, ai rimorchiatori pontati, alle navi di stazza lorda inferiore alle 200 tonnellate se piroscafi ed alle 100 se velieri, che prima erano esclusi dai premi. Verrà il giorno in cui, a mano a mano che l’industria diventerà più salda e forte, si premieranno anche le barchette da diporto ed i sandolini dei bagnanti! Di tutto questo stravagante metodo di premiare sempre più le costruzioni navali si dà una qualche ragionevole giustificazione? Mai più. Relazione ministeriale e relazione parlamentare affermano come cosa certa, indisputabile che si debbono dare 75 milioni dei contribuenti a certi industriali, solo perché questi dicono di averne bisogno. Neppur l’ombra di una ricerca critica, oggettiva sul fondamento di cotali esorbitanti richieste.

 

 

Mi proverò ad indicare due soli tra i motivi che resero il governo tanto propenso ad accettare le domande di chi, avendo molto ottenuto in passato, ritiene che questa sia da sola una ragione bastevole a molto ottenere in avvenire:

 

 

1)    il desiderio di rinsaldare ancora per quindici anni il vincolo fatale che ha finora impedito all’industria delle costruzioni navali di assurgere in Italia a quel grado di floridezza al quale potrebbe aspirare: voglio dire l’obbligo, il vincolo di dovere comperare le materie prime ad alto prezzo. Finché i cantieri non potranno provvedersi a buon mercato del ferro, dell’acciaio, delle macchine di cui hanno bisogno per costruire le navi, sarà vana speranza quella di avere in Italia una fiorente industria delle costruzioni navali. Ma il disegno di legge approvato dalla camera vuole che i cantieri possano importare dall’estero in franchigia di dazio, appena un quarto (prima era un terzo!) dei materiali metallici necessari alla costruzione dello scafo. E vuole che il compenso o rimborso daziario sia ridotto del 10% se nella costruzione dello scafo sia impiegata una quantità di materiale estero eccedente, in peso, il quarto del materiale complessivo. Vuole queste ed altre cose ed è giuocoforza allora che paghi lo scotto. Si dica dunque chiaro che i 75 milioni non sono dati per far fiorire l’industria delle costruzioni navali, ma sono dati perché questa possa pagare a caro prezzo i materiali di cui abbisogna all’industria siderurgica. Questa verità non sono io che la affermo. L’ha proclamata da tempo la reale commissione d’inchiesta sui servizi marittimi, la quale appunto perciò proponeva la franchigia per i materiali da costruzione ed insieme l’abolizione dei premi; e dimostrava altresì come l’industria siderurgica non abbia bisogno, per vivere, di quel grosso sussidio dei contribuenti;

 

 

2)    il desiderio di procacciarsi il favore della parte socialista, la quale muove in guerra contro i dazi “affamatori” quando spera di cavarne popolarità a suo pro; ma non esita ad invocare i dazi medesimi quando ciò possa tornare di momentaneo vantaggio degli operai suoi elettori.

 

 

Lessi pochi giorni prima del voto della camera, sul «Lavoro» di Genova, articoli irruenti contro il colpevole ritardo del governo a fare approvare i disegni di legge marittimi; ed ammirai, dopo, la rapidità con la quale gli operai socialisti avevano saputo farsi ascoltare. Perché dimenticarono quei socialisti che con 5 milioni di lire all’anno, certi ed attuali, si poteva iniziare la risoluzione del problema delle pensioni ai vecchi ben più sicuramente che con gli incerti e futuri milioni della cabala assicurativa?

 

 

Gli altri due progetti marittimi sono, in confronto, piccole cose. Con uno di essi si vogliono dare 500.000 lire all’anno a chi eserciterà una linea di navigazione diretta fra l’Italia ed il Cile, oltre le 500.000 lire che l’assuntore riceverà dal governo cileno. La giustificazione che più salta all’occhio nel leggere i documenti parlamentari è che la linea predetta è già esercitata da due compagnie, una tedesca, la Kosmos, e l’altra italiana, di un armatore savonese, la quale ultima ha reso «senza sovvenzioni di sorta, notevoli benefici al nostro paese». Questa è la mirabile sapienza governativa. Esistono due imprese, in concorrenza, l’una estera e l’altra italiana, che esercitano una data linea. Invece di rallegrarsene e di augurare che l’aumento del traffico consenta servizi speciali perfetti e tariffe vieppiù basse, è necessario distogliere le imprese esistenti dal lavoro liberamente iniziato e regalare 500.000 lire all’anno ad un terzo imprenditore o magari ad uno dei due già esistenti perché questo da solo eserciti a spese dei contribuenti quella linea che prima era esercitata da parecchi concorrenti senza onere alcuno dello stato. E servisse almeno il sussidio largito col denaro pubblico ad un privato senza alcuna necessità, all’impianto di una linea destinata a grande avvenire! Invece si propone di creare una linea percorsa da mediocri piroscafi, che fra qualche anno, quando sarà aperto il canale di Panama, dovranno prendere altra via, perché non più adatti alle nuove correnti del traffico. Lo avvertii l’anno scorso, quando il provvedimento fu primamente proposto; ma non giovò protestare, perché si voleva fare il dono gratuito di mezzo milione all’anno per acquetare la deputazione ligure. Il risultato del dono gratuito sarà che nessuno più verrà nei nostri porti a far scalo, perché avrà il ragionevole timore di dover lottare con la concorrenza sleale, al disotto del costo, delle imprese sovvenzionate dallo stato. Onde accadrà sempre più frequentemente che quando si avrà bisogno di trasportare qualche merce in Italia e non si avrà sottomano una nave sovvenzionata – le navi sovvenzionate non possono essere in ogni luogo – bisognerà pagare noli più alti di quelli vigenti sul mercato libero. Già ora il nolo del carbone dall’Inghilterra a Genova e Venezia è di uno o due scellini la tonnellata più elevato che dall’Inghilterra a Marsiglia e persino a Costantinopoli. E perché? Tra gli altri motivi vi è questo: che le navi da trasporto, venendo in Italia, non hanno probabilità di ottenere noli di ritorno, essendo questi accaparrati dalla marina sovvenzionata. Onde non solo i contribuenti pagano le sovvenzioni, ma gli industriali e i consumatori devono inoltre pagare il carbone fossile uno o due scellini di più la tonnellata, per il gusto di vedere il mare solcato da navi mezze di stato e mezze private.

 

 

A rimediare al quale sconcio, di pagare noli elevati, almeno per una parte dei consumatori, il governo propone di dare a taluni armatori il privilegio di trasportare dall’Inghilterra in Italia 700.000 tonnellate di carbone necessario alle ferrovie di stato ed alla marina da guerra. Ho già combattuto l’anno scorso il proposito, quando ancora non era chiaramente concretato: e non posso non confermare le obiezioni nel leggere le aggrovigliate, contorte, complicate disposizioni con cui il privilegio sarebbe sancito.

 

 

A prima vista il privilegio parrebbe per se medesimo sufficiente a far accorrere in ressa i concorrenti, non essendo piccolo beneficio di disporre per dieci anni di una clientela sicura come quella delle due grandi amministrazioni citate. Eppure il compilatore ha avuto l’abilità di mettere alla concessione di quel privilegio tante condizioni non è meraviglia lo stato debba disporsi a pagare, come è suo costume, somme non indifferenti di sovvenzione agli assuntori.

 

 

Lo stato vuole infatti:

 

 

1)    che le società assuntrici siano italiane; e questo sarebbe poco male o poco bene. Ma vuole che non possano emettere se non azioni nominative e non cedibili che a cittadini italiani. Un impiego dunque di capitali rischioso, di scarsa disponibilità e perciò poco appetibile dai risparmiatori. Siccome gli inconvenienti si valutano in soldi e denari, paghi lo stato l’equivalente di quei vincoli. Vincoli senza senso, perché l’unica cosa interessante è che il carbone sia trasportato al più buon mercato possibile;

 

 

2)    che i piroscafi abbiano una certa stazza, una certa immersione, una certa velocità, certi doppi fondi, certe iscrizioni nel registro italiano, una certa età, siano costruiti secondo certi disegni approvati dal governo, ecc. ecc. Saranno magari esigenze eleganti; ma poiché il carbone può probabilmente essere trasportato anche su navi aventi requisiti meno costosi, così è naturale che il governo paghi;

 

 

3)    che i piroscafi prendano il loro completo carico di carbone per l’una o per l’altra delle due amministrazioni interessate, non ammettendosi né la caricazione mista per ambedue le amministrazioni né qualsiasi caricazione di pertinenza d’altri. Anche questo è un onere fastidioso; e bisognerà pagare per levarsene il gusto.

 

 

Lo stato pagherà in primo luogo sotto forma di un prezzo artificioso, stabilito in lire 8,50 per tonnellata metrica per il primo quinquennio, e nel secondo quinquennio in una somma uguale alla media dei noli liberi nel precedente quinquennio. Nessuno sa dire se tutto ciò sia di meno o di più di quello che si pagherebbe se le ferrovie di stato o la regia marina potessero liberamente contrattare. I noli liberi per i porti italiani sono, come dissi sopra, sopraelevati in confronto ai porti esteri dalla difficoltà di trovare noli di ritorno; e più saranno sopraelevati in avvenire quando, per il diminuire della richiesta di piroscafi liberi, un minor numero di questi troverà convenienza a dedicarsi al trasporto del carbone in Italia. Inoltre le medie si fanno in moltissime maniere; e non sarà certo il presidente del consiglio di stato, arbitro inappellabile, il quale potrà conoscere quando una media sia confezionata ai danni dell’erario. Il desiderio di pagare un prezzo fisso per lunghi anni è un’altra delle molte fisime governative: per non pagare prezzi variabili, le ferrovie di stato (che hanno già un bilancio così redditizio, come da tutti è risaputo) e la regia marina pagheranno un prezzo fisso forse, e caro certamente.

 

 

Inoltre pagherà 300.000 lire all’anno di sovvenzione: il che per dieci anni fa 3 milioni di lire. Aggiungendoli ai 2,7 milioni della linea del Cile (mezzo milione per cinque anni, che, col tempo, diventeranno dieci o venti) ed ai 75 milioni dei premi alle costruzioni navali sono quasi 81 milioni che i due rami del parlamento hanno votato senza fiatare e senza discutere. E si tratta, per ora, dell’avanguardia.

 

 

Verranno dopo, in ordine sparso, ugualmente alla chetichella, gli altri disegni: 10 in tutto, compresi i già votati, 30 milioni all’anno, per cui una giustificazione si saprebbe, al massimo e nelle ipotesi più benigne, trovare per una diecina di milioni. Gli altri 20 milioni all’anno, 300 milioni in un quindicennio, sono elemosine date, a chi le chiede in tono arrogante, per misura di pubblica tranquillità. Perché i socialisti non hanno chiesto che siano devoluti alle pensioni operaie; anzi hanno voluto che lo sperpero fosse in fretta e furia votato? Se ad altro non avrà giovato, la cabala assicurativa ha assicurato dunque sorte tranquilla alle largizioni marittime?

Il monopolio delle assicurazioni e la questione dell’indennità delle imprese assicuratrici. (I pericoli di un principio applicabile a tutte le imprese industriali)

Il monopolio delle assicurazioni e la questione dell’indennità delle imprese assicuratrici. (I pericoli di un principio applicabile a tutte le imprese industriali)

«La Riforma Sociale», giugno 1911, pp. 404-418

Il congresso della resistenza. Organizzati ed organizzatori in Italia

Il congresso della resistenza. Organizzati ed organizzatori in Italia

«Il Corriere della Sera», 24 maggio 1911

Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti, 1924, pp. 184-190[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1960, vol. III, pp.340-345

 

 

 

 

Al congresso delle società di resistenza che si apre il 24 maggio a Padova l’on. Rinaldo Rigola, segretario generale della confederazione del lavoro, ha presentato una relazione viva, accalorata sui progressi recenti, sulle difficoltà incontrate e sui propositi del movimento associativo tra operai per la resistenza o meglio per la lotta contro gli imprenditori allo scopo di conquistare migliori condizioni di lavoro. È un dirigente di organizzazioni, anzi il capo spirituale della confederazione del lavoro che parla; e non è meraviglia perciò che il tono sia passionale. Ma piacciono anche a chi sta fuori del movimento e procura d’osservare coll’occhio dello studioso, l’impeto del discorso, la fede nell’avvenire del movimento, la fiducia energica in se stessi che si rivela nelle pagine di questi organizzatori. In fondo tutti costoro si rassomigliano: cambia la causa che si è disposata, mutano le forze sociali che si vogliono dirigere; ma la sostanza è la medesima. Rigola e Quaglino e Reina, per le confederazioni del lavoro e le leghe operaie; Craponne ed Olivetti per le confederazioni dell’industria e le leghe di imprenditori; Cavazza, Carrara e Sturani, per la confederazione nazionale agraria e le diverse «agrarie», parlano tutti lo stesso linguaggio maschio, aggressivo. Sono uomini che si mostrano i pugni, ma sono uomini e non marionette. In fondo sentono di essere fratelli spirituali; e, pur litigando tra di loro, cooperano alla formazione di una nuova e giovane e ardita classe di imprenditori, di agricoltori, di operai, che non spereranno più tutto dallo stato, ma avranno molta fiducia in se stessi, nella forza della propria educazione tecnica e morale, nella virtù della propria organizzazione. Per chi creda che nulla vi sia di più corrompitore che lo sperare la propria salvazione dal di fuori, dall’aiuto dello stato, dalla spogliazione altrui col mezzo delle imposte, questo ritorno al classico motto del self help, dell’aiutati che Dio t’aiuta, questo allontanarsi dalle morte vie del socialismo e della reazione statale è rinfrescante ed è bene augurante. Certo questi uomini non si sono ancora liberati del tutto dalla scoria delle superstizioni del passato. Rigola ha un capitolo in cui si lamenta in tono acre della sterilità parlamentare in materia di legislazione sul lavoro negli ultimi tre anni e si scaglia contro il senato per avere impedito l’approvazione di talune leggi di protezione ai lavoratori. Gli atti del comitato esecutivo, del consiglio direttivo e del consiglio generale della confederazione del lavoro recano troppe tracce di telegrammi a questo o quel ministro per invocare provvedimenti di difesa o di protezione a pro dei lavoratori. Sono le idee fossili del passato che premono sugli uomini del presente. Né premono solo, è giustizia riconoscerlo, sugli organizzatori degli operai. Gli agrari, che pure nell’ultimo congresso di Bologna sono partiti in guerra contro il governo, chiedono poi la conservazione del dazio sul grano e provvedimenti legislativi per diffondere la piccola proprietà. Gli industriali non sanno decidersi ad affrontare arditamente la questione del protezionismo; e, benché i migliori di essi siano convintissimi della convenienza di rinunciare in parte all’aiuto delle dande doganali, per fiacchezza di animo sottoscrivono agli ordini del giorno con cui i loro colleghi meno capaci invocano nuove provvidenze protettive dallo stato. Le competizioni reciproche ed i contrasti fra le associazioni agrarie, operaie, imprenditrici possono costringerle ad abbandonare questa che è la politica dei deboli, per attenersi alla politica dei forti, che da sé vogliono e sanno conquistare la vittoria.

 

 

L’appunto non è rivolto soltanto ai capi degli operai e degli industriali. In tutte le classi sociali vi sono uomini la cui condotta è inspirata alle parole ereditate dal passato e uomini i quali sentono l’ammonimento della vita presente. Anzi, in tutti gli uomini vivono due anime: l’una che guarda al passato e l’altra che intende all’avvenire. Tra gli industriali, gli uomini della seconda e della terza generazione sono meglio disposti a seguire la tradizione; e gli innovatori si trovano tra coloro i quali si sono fatti da sé, cominciando a portare mattoni e calce sui palchi od a maneggiare la cazzuola. Tra gli organizzatori, sono entusiasti quelli che hanno sperimentato cosa vuol dire lavorare nella miniera o mettere un mattone sopra l’altro a rigor d’arte. Rigola è uno di questi. Viene dalla gavetta e perciò il suo è un grido di vittoria.

 

 

Egli narra come le schiere degli operai organizzate sotto la sua direzione si siano rafforzate in numero e sovratutto in saldezza. Erano 387.384 gli organizzati nel 1906 e raggiunsero nel 1909 il numero di 503.991. Di questi, quelli aderenti alla confederazione del lavoro erano 190.422 nel 1907 e sono diventati al 31 dicembre 1910 circa 350.000. Degli organizzati, nel 1907 il 50% circa aderiva alla confederazione e nel 1910 forse il 65%. Ma se il cammino percorso non fu piccolo, quanta e ben più lunga strada rimane da percorrere! L’on. Rigola guarda ai 7.787.166 lavoratori organizzabili – uomini e donne – viventi in Italia secondo il censimento del 1901 dall’età di 16 a quella di 65 anni e, sebbene sia lieto che la percentuale dei confederati sul totale degli organizzabili sia salita dal 2,45% nel 1907 al 4,54% alla fine del 1910, si rammarica che ancora sia troppo sovrabbondante la cifra dei non organizzati. Rammarico naturale dal punto suo di vista; quantunque non abbiano valore, nell’interesse generale, le sue ire contro i sindacalisti puri, i gialli (repubblicani) ed i cattolici. Guai se l’unità sindacale avesse a prevalere, tanto nel campo padronale, quanto nel campo operaio! Sarebbero due forze monopolistiche strapotenti, frammezzo a cui rimarrebbero schiacciati coloro – e son legione e tendono sempre più a crescere nei paesi di raffinata e varia civiltà moderna – che non sono né padroni puri né operai tipici. Finché le confederazioni dell’industria a tipo accentrato lotteranno con le federazioni a tipo regionale o con le associazioni commerciali; e finché esse contrasteranno in parte con le confederazioni agrarie e sinché nel seno degli agrari vi saranno dissidi tra grandi e medi e piccoli proprietari; e fino a quando gli operai rossi si batteranno con i mezzadri gialli o con gli operai cattolici, vi sarà la speranza di poter raggiungere, col minimo di monopolio sopraffatore, il massimo di vantaggio collettivo.

 

 

È naturale però nei dirigenti il convincimento di essere i soli pionieri della civiltà ed i soli predestinati alla vittoria futura. È questo convincimento che spinge a lottare e fa prevalere i gruppi sociali dal cuore più saldo e dalla volontà più ferma. Bene perciò Rigola spinge i suoi a sacrifici maggiori. Spendono, è vero, le camere del lavoro 500.456 lire nel 1909, invece di 481.966 nel 1908 e di 403.221 lire nel 1907; ed anche le federazioni di mestiere hanno speso nel 1909 ben 599.920 lire, mentre l’uscita della confederazione toccava le lire 39.429. Tra tutte insieme, queste tre principali forme di organizzazione operaia, camere, federazioni di mestiere e confederazione, hanno incassato nel 1909 lire 1.222.680 ed hanno speso lire 1.138.805. Deducendo 93600 lire di sussidi dei municipi alle camere del lavoro, si ha che gli operai italiani sacrificarono, per mezzo dei tre organi ora ricordati, nel 1909 un milione e 100 mila lire circa all’opera di resistenza e di conquista; a cui aggiungendo le somme molto maggiori spese per mezzo delle leghe locali (le leghe locali sono l’unità associativa per mestiere, mentre le camere raggruppano molte leghe di una località, le federazioni molte leghe dello stesso mestiere nello stato o nella regione e la confederazione vorrebbe raggruppare tutte le camere e le federazioni), si arriva facilmente ai tre milioni di lire spese dagli operai organizzati nell’opera della resistenza in un anno. Sembrano a primo aspetto molte; ma in verità sono appena 6 lire a testa all’anno, 50 centesimi al mese. Troppo poche, esclama Rigola, il quale insistentemente, vigorosamente inculca la teoria delle alte quote, di almeno 1 lira al mese, la cui applicazione porterebbe senz’altro a 6 milioni di lire il bilancio della resistenza italiana. Solo con le alte quote sarà possibile di avere un personale scelto, attivo, permanente di organizzatori; solo con le alte quote sarà possibile rinunciare agli appelli alla solidarietà degli estranei, appelli che implicano forme spettacolose di scioperi impulsivi e generali; solo con le alte quote sarà possibile tenere affezionati e fedeli gli operai con sussidi di disoccupazione, di viaggio in cerca di lavoro, ecc. Chi conosca la storia del movimento operaio deve dar ragione al Rigola. L’operaio, che non si limita a far baccano nei comizi ed a percepire i sussidi di sciopero implorati dalla pubblica carità o dalla solidarietà dei simpatizzanti, ma paga con costanza le alte quote richieste dall’opera comune, è un operaio che sacrifica il presente all’avvenire e comincia ad apprezzare i vantaggi della previdenza. Costui non affronterà a cuor leggero uno sciopero, perché non vorrà giocare alla cieca i frutti del suo risparmio faticoso; ma discuterà e tratterà. E che altro è mai questa maledetta eppur stupenda civiltà borghese se non una serie di contratti e di discussioni sul prezzo delle merci e dei lavori e dei risparmi? L’operaio organizzato, il quale sacrifica 1 lira invece che 50 centesimi al mese per la resistenza, è alla vigilia di diventare un risparmiatore, un previdente, un cooperatore, ossia un borghese. La borghesia, sorta come una piccola classe ristretta di usurai e di mercatanti, ha allargato a poco a poco le sue file, ha fatto rivoluzioni ed è ormai divenuta una classe universale e nel tempo stesso varia e mobile.

 

 

Essa non è una classe chiusa e rigida, ed anzi chiama a sé ognora nuove schiere e respinge soltanto i poltroni, gli infingardi, coloro che, essendo giunti ai fastigi della ricchezza, si apprestano a decadere in questa o in una prossima generazione. Non sono borghesi i burocrati, eredi delle clientele di liberti romani e dei servitori dell’antico regime; non sono borghesi coloro che stanno contenti al loro posto, ed assillano deputati e ministri per averne favori. Sono invece borghesi gli imprenditori e gli agricoltori che lottano per far progredire industria ed agricoltura e vorrebbero tener per sé tutto il maggior prodotto ottenuto; e sono borghesi gli operai che lottano e sacrificano denari e tempo ed energia per strappare agli imprenditori ed agli agrari una parte di questo maggior prodotto. Credono costoro di essere nemici, solo perché lottano tra di loro. Ma senza queste lotte la vittoria contro la natura matrigna sarebbe parsa troppo facile e spregevole, essendo nella natura umana non di volere la ricchezza e la potenza, ma di volere più ricchezza e più potenza di quella che è concessa agli altri uomini. Questi nemici sono invece fecondissimi collaboratori nella conquista di civiltà sempre più alte. Nessuna collaborazione mai fu destinata ad essere feconda di tanto bene quanto quella risultante dalla competizione delle classi imprenditrici e lavoratrici. Purché sappiano vedere che il loro maggior nemico non è nella classe contro cui combattono, ma nelle oscure forze della reazione statale. Combattano pure tra di loro gli uomini attivi; ma per vincere l’avversario non si diano, piedi e mani legati, in braccio agli uomini ignavi che vorrebbero instaurare in terra la morta pace delle leggi e dei regolamenti.



[1] Con il titolo Organizzati e organizzatori in Italia [Ndr].

L’emigrazione all’estero di un celebre codice e la tutela del patrimonio bibliografico

L’emigrazione all’estero di un celebre codice e la tutela del patrimonio bibliografico

«Corriere della sera », 23 maggio 1911

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.IlI, Einaudi, Torino, 1960, pp. 337-339

 

 

 

 

L’incidente avvenuto alla camera tra l’on. Rava e l’on. Cornaggia nella seduta del 18 merita una spiegazione. Il «Corriere» già ebbe a dare, a suo tempo, una breve notizia della comunicazione fatta dal prof. Federico Patetta alla Accademia delle scienze di Torino nella seduta del 12 marzo 1911. Si tratta in verità di un caso gravissimo e che dimostra a quali gravi pericoli sia sottoposto il ricco patrimonio bibliografico di codici e di stampe che è disperso in tanti archivi pubblici e privati d’Italia.

 

 

Quando nel 1847 Gustavo Haenel, erudito noto e ricordato con lode per il merito indiscutibile di pregiate edizioni di testi antichi, seppe che nell’archivio capitolare udinese esisteva ancora una copia della Lex Romana Raetica Curiensis fu preso dalla voglia di possederla. E ne aveva ben ragione. Il manoscritto, unico al mondo, risale al secolo nono; e la sua importanza per la storia del diritto è dimostrata dal fatto che da sessanta anni in qua gli storici ne fanno oggetto di discussioni lunghe ed accanite, la cui definitiva soluzione sarebbe per la scienza certo interessantissima. Recatosi ad Udine, l’Haenel vi fece, per nostra disgrazia, la conoscenza dell’archivista canonico Giovanni Francesco Banchieri, che egli seppe adulare e incensare chiamandolo persino «vir multis titulis insignis, nec minus humanitate quam ingenii acumine doctrinaeque ubertate conspicuus».Seppe lo Haenel far tanto da farsi imprestare dall’archivista canonico e dai suoi colleghi il preziosissimo codice. Da Lipsia il codice una prima volta ritornò ad Udine, certo perché la trama ordita riuscisse meglio. Ma nel 1867 l’Haenel senz’altro, profittando della caduta della dominazione austriaca, gelosa custode delle ricchezze artistiche e bibliografiche dei suoi domini, propose al canonico Banchieri di vendergli il manoscritto. Non seppe respingere l’offerta l’archivista, dichiarando anzi che a suo parere il codice sarebbe stato meglio conservato in una pubblica biblioteca estera che non nell’archivio della chiesa di Udine. Fissato il prezzo a 200 talleri, ossia a 700 lire (oggi il prezzo venale sarebbe di gran lunga maggiore) la corrispondenza si trascinò per le difficoltà di fare emigrare nascostamente il codice all’estero. È del 24 ottobre 1869 la lettera seguente indirizzata dall’Haenel al canonico udinese, che il Patetta poté, insieme con altre, scovrire e comprare da un antiquario. Essa è la prova sicura che i due complici erano pienamente consapevoli non solo di aver fatto un contratto giuridicamente nullo, ma anche di aver commesso un’azione riprovevole e che poteva avere, almeno per il venditore, conseguenze assai gravi.

 

 

Ecco la traduzione della lettera rivelatrice del complotto:

 

 

Passo dunque all’altro argomento della tua lettera, che mi tiene in ansia. Poiché ti confesso in verità di non sapere proprio in che modo si possa agevolmente condurre a termine la faccenda che fra noi si tratta; essendo impedito dalla vecchiaia e dall’inverno di venir di persona a conferirne teco, e non avendo persona a cui commetterla. Così stando le cose, stimo non potersi altrimenti conchiudere l’affare, se non si mandi un uomo sicuro e per quel che si attiene ai doganieri molto accorto – la forza dell’oro espugna anche le fortezze meglio guernite – a mie spese, purché queste non eccedano la somma di quindici talleri prussiani, a Gorizia o Trieste; affinché consegni all’ufficio postale la cosa, che noi sappiamo, involta in un involucro di tela o di carta cerata, col mio indirizzo e con l’indicazione del prezzo, e al tempo stesso procuri di farsi dare indietro dall’amministrazione postale una carta, ove si dichiari che la cosa le fu consegnata. Mi farai cosa grata se mi scriverai, se questa combinazione, che a mio parere è semplicissima, ti vada a genio, perché ove a te non piacesse, io mi metto in cerca di un qualche mercante di Lipsia, avente rapporti di commercio con i setaioli udinesi, del quale ci si possa fidare.

 

 

Il codice emigrò così all’estero e per un po’ di tempo l’Haenel ebbe il pudore di citarlo ancora come Codex Archivii Ecclesiae Metropolitanae Utinensis e di profondersi in ringraziamenti al Banchieri per avergliene concesso il prestito.

 

 

Morendo, egli però lo legò, insieme con gli altri suoi codici, alcuni dei quali pure compendio di furti, alla biblioteca universitaria di Lipsia, coll’obbligo di non poterli concedere a prestito; e nel 1888 prende il nome di Codex bibliothecae Universitatis Lipsiensis.

 

 

Ora che il furto è documentato nelle sue fasi successive dai documenti scoperti dal Patetta, che cosa si deve fare? L’Accademia delle scienze di Torino nell’adunanza del 23 aprile, su ampia relazione del suo presidente, on. Paolo Boselli, fece voti affinché il governo italiano procedesse alle pratiche di ricupero del manoscritto rubato. E sarebbe certo desiderabilissimo che il governo sassone e la biblioteca universitaria di Lipsia spontaneamente imitassero l’atto nobile del Morgan rispetto al famoso piviale d’Ascoli. Propose altresì l’accademia torinese che il governo, ammaestrato da questi e simiglianti casi occorsi in passato, provvedesse energicamente per il futuro; e prendesse provvedimenti, anche con nuove norme legislative, atti a tutelare il nostro patrimonio bibliografico così come si tutela il patrimonio artistico. Bene farà il ministro Finocchiaro ad ordinare agli economi dei benefici vacanti una severa vigilanza sui tesori delle chiese e degli archivi ecclesiastici. Ma facoltà consimili di vigilanza dovrebbero essere attribuite altresì ai bibliotecari e a corpi scientifici incaricandoli di redigere inventari e di vegliare alla conservazione del nostro prezioso patrimonio bibliografico.

 

 

 

 

I cavalli di stato

I cavalli di stato

«Corriere della Sera», 15 maggio 1911

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 328-336

 

 

 

 

Oggi che il ministro Nitti vuol crescere di una nuova falange – gli assicuratori di stato – l’esercito dei pubblici funzionari, non è forse inopportuno additare a lui ed all’opinione pubblica i risultati in tant’anni di esperienza ottenuti dall’istituzione di una vecchia e benemerita, sebbene non ancora forse del tutto cosciente, schiera di funzionari: i regi riproduttori. Grandi sono le lagnanze sull’imperfetto funzionamento di questo servizio e sulle difficoltà di reclutare all’uopo, malgrado ogni diligenza dei commissari esaminatori, soggetti capaci e volonterosi. Ancora nell’ultima sessione del consiglio ippico vive furono le critiche e varie furono le proposte di competenti, tra i quali il senatore Gorio ed il professore Baldassarre. Onde non a torto il consiglio deliberò di mettere la questione all’ordine del giorno della prossima sessione.

 

 

Non è a dire che il ministero d’agricoltura, il quale provvido vigila sulle sorti dell’economia nazionale, non assistesse con cordoglio al crescere dell’importazione dei cavalli dall’estero. Malgrado che i due censimenti del bestiame del 1876 e del 1908 denunciassero un aumento nei cavalli italiani da 657.544 a 955.878, ancora si importarono 42.550 cavalli nel 1908, 45.676 nel 1909 e 40.491 nel 1910. Nonostante la Sardegna abbia ora 12.000 cavalle destinate alla riproduzione e possa facilmente fornire 1.000, invece dei 500 di alcuni anni fa, cavalli ogni anno all’esercito, con uno scarto di appena il 40% dei puledri esibiti alle commissioni militari; malgrado che in altre provincie altresì i progressi siano stati rilevanti, pur tuttavia l’esercito deve ricorrere all’estero per completare gli organici; e all’estero si devono comprare quasi tutti i cavalli d’artiglieria.

 

 

«Il paese cammina», leggesi nel preambolo di un disegno, che non so se sarà mantenuto, di provvedimenti a tutela ed incremento della produzione zootecnica nazionale; «ma andrà più veloce sulla via del progresso se alla intensificazione di questo ramo importantissimo della industria zootecnica contribuirà con maggior larghezza il governo». La legge del 1887 aveva bensì fissato ad 800 il numero dei cavalli stalloni dei regi depositi; ma volsero anni malaugurati dal 1894 al 1897, in cui gli stanziamenti per gli acquisti degli stalloni, per la urgenza delle economie sino all’osso, furono radiati; sicché il loro numero totale cadde nel 1899 a 491 e nel 1900 a 489. Ritornarono poi tempi migliori; e la legge del 1904, proponente l’on. Rava e relatore l’on. Chimirri, segnava l’inizio del risorgimento equino italiano, che oggi urge viemmeglio affermare ed accelerare.

 

 

Stabilito in 800 il numero totale dei cavalli stalloni costituenti l’organico normale dei regi depositi, l’amministrazione non trascurò sforzo veruno nel raggiungere l’intento. Alla fine del 1903 gli stalIoni governativi erano 544; e salivano a 580 alla fine del 1904; a 632 nel 1905; a 640 nel 1906; a 674 nel 1907; a 686 nel 1908; a 732 nel 1909 ed a 794 nel 1910. Gli stalloni governativi stanno così per raggiungere quel numero di 800 che fu voluto da illustri uomini di stato in epoche in cui quella cifra segnava la meta ideale. Oggi essa già si palesa insufficiente; ed un novello sforzo si impone. Contemporaneo invero al crescere del numero dei riproduttori erariali, si sviluppava l’andamento ascendente del numero delle cavalle coperte; che da 19.103 nel 1892 saliva a 22.665 nel 1900, a 27.937 nel 1905, a 35.328 nel 1908, a 38.581 nel 1909 ed a 41.615 nel 1910. Contemporaneo, ma non del tutto parallelo; anzi con andamento più rapido e con progresso meglio vibrato. Cotanto pare infatti sia sentito dagli allevatori italiani il bisogno dei regi riproduttori che in media il numero delle cavalle coperte per ogni stallone crebbe ininterrottamente da 32,32 all’anno nel 1892 a 46,33 nel 1900, a 46,10 nel 1905, a 53,12 nel 1908, a 54,10 nel 1909, a 56,54 nel 1910. In alcuni regi depositi la media annua sale ancora più in su: a 62,46 a Crema, a 64,53 a Reggio Emilia ed a 66,62 a Ferrara. «Emerge evidente – osserva il ministero che il lavoro dei riproduttori erariali si è fatto più intenso e che, quindi, bisogna porre un argine all’aumento della media delle cavalle salite, in quanto questa, se fosse eccessiva, potrebbe recare pregiudizio alla fecondità. Troppe cavalle coprono gli stalloni governativi, dei quali il numero è ben lontano dal corrispondere ai bisogni dell’allevamento». Sono centomila le cavalle italiane destinate alla riproduzione; mentre nel 1910 eranvi appena 760 stalloni governativi dei quali solo 736 funzionarono; e, pure aggiungendovi 755 stalloni privati approvati, a mala pena giungiamo a 74.615 cavalle coperte. Anche tenendo conto degli allevamenti privati non sottoposti a controllo, sono sempre assai più di 20.000 cavalle che non fu possibile di far coprire per mancanza di stalloni, sia governativi, sia privati. Nella sola circoscrizione di Reggio Emilia si sono dovute respingere dal salto più di mille cavalle. E si hanno moltissime domande di apertura di nuove stazioni che giacciono insoddisfatte per la insufficienza numerica degli stalloni.

 

 

Poiché questa è indubbiamente la cagione del lamentevole difetto nella produzione equina nazionale, appare a primo aspetto ragionevole la proposta del ministero di portare da 800 a 1.200 il numero degli stalloni governativi, l’aumento di 400 essendo quello strettamente necessario, a 50 in media all’anno, a coprire le 20.000 cavalle invano anelanti alla riproduzione. L’alto intento si propone sia raggiunto in 5 anni, con un aumento annuo di 80 stalloni nei regi depositi e con un incremento contemporaneo negli stanziamenti sino a raggiungere il massimo di lire 1.280.000 in più nel 1915-16.

 

 

Per quanto l’abitudine mi abbia fatto tetragono ad ogni dimostrazione ministeriale sulla necessità di ampliare l’organico dei regi impiegati, in conseguenza dell’incremento vertiginoso del numero delle pratiche segnate a protocollo, debbo confessare che la dimostrazione della necessità di accrescere da 800 a1.200 l’organico degli stalloni governativi m’era apparsa persuasiva. Una media di cavalle coperte crescente da 32 a 57 circa è un fatto ben altrimenti impressionante dell’aumento del numero medio delle pratiche evase dai segretari e primi segretari di un qualunque ministero ed una rimanenza di 20.000 cavalle insoddisfatte è ben più dannosa alle sorti dell’economia nazionale che non l’ingigantire dei cumuli polverosi di carte nei ministeriali uffici, dove il tempo vola nell’architettare e nell’attendere la promozione troppo tarda a venire per la lacrimevole ostinazione posta dagli anziani in grado e in stipendio a non andarsene. Almeno i regi stalloni colla modestia del loro contegno si industriano di calmare l’impulso prepotente di ribellione che ogni difensore dei contribuenti sente al leggere una proposta di cresciute spese; – non hanno, nel loro organico, gerarchie, non reclamano lo svecchiamento dei quadri, l’epurazione degli inetti, né costituiscono leghe per crescere organici o stipendi od amendue insieme. Mentre i regi impiegati sono essi soli ad illustrare la necessità delle loro funzioni, in mezzo ad un pubblico di indifferenti e di ostili, la clientela delle cavalle manifesta invece ad alta voce l’irresistibile necessità di un aumento nel numero dei regi stalloni, dalla grande fatica oramai fatti logori e insufficienti, malgrado ogni loro migliore buona volontà, ad espletare il servizio di cui hanno ricevuto il carico dallo stato.

 

 

I dubbi risorsero quando un egregio studioso di zootecnia, il dottor Vincenzo De Carolis, titolare della cattedra ambulante d’agricoltura di Cremona, mi inviò una serie di monografie brevi e succose, sue e di altri, sull’avvenire del cavallo nel cremonese, sul concorso per cavalli da tiro di razza belga in Bruxelles, sulla funzione zootecnica dei guardastalloni per i cavalli d’artiglieria, ecc. ecc., monografie che mettevano sotto una luce nuova la influenza esercitata in passato dai regi stalloni sulla zootecnia italiana. Da queste pubblicazioni, dettate dall’esperienza della provincia italiana più progredita nell’allevamento dei cavalli, balzano fuori alcune interessanti analogie tra i regi riproduttori e gli impiegati pubblici che val la pena di mettere in luce.

 

 

Come gli impiegati governativi, i riproduttori erariali danno un rendimento monetario scarso e costano assai. Con le tasse di monta riscosse, in base a 60 cavalle coperte (si esagera un poco la media ultima, che fu di poco meno di 57, per tener conto degli incrementi futuri di lavoro), ogni regio stallone, a 12 lire per volta, rende all’anno circa 720 lire. Poiché il costo annuo non può fissarsi a meno di lire 600 per interessi, rischi ed ammortamento (15% del valor capitale medio calcolato a lire 4.000), a cui si aggiunsero nel 1909 lire 951,43 per spese di personale, lire 319 per spese generali, lire 797,98 per foraggi, in tutto lire 2.688,31 di spese, risulta un deficit annuo di 2.000 lire per stallone governativo. Con l’organico di 800 la perdita dei contribuenti si può calcolare ad 1.600.000 lire all’anno e salirà a 2.400.000 lire quando l’organico sarà portato a 1.200. La perdita, non piccola, è compensata da vantaggi indiretti almeno equivalenti? È il quesito solito di tutte le municipalizzazioni e statizzazioni; e si sa che i regi impiegati, non potendo spesso dimostrare di essere direttamente produttivi, si sforzano di mettere in luce i vantaggi indiretti che dall’opera loro provengono. I regi stalloni stanno invece zitti, contentandosi di mangiare alla greppia dello stato; e pare che di conservare un religioso silenzio abbiano ben ragione. La perdita che essi cagionano allo stato deriva in vero da due cause: da una parte dalla concorrenza illecita che essi fanno, quando si tratta di lavoro utile, agli allevatori privati vendendo i loro servizi al disotto del costo e dall’altra dal lavoro scadente che essi talvolta compiono.

 

 

A causa dell’esistenza dei regi depositi, osserva il De Carolis, gli allevatori si disinteressano della produzione degli stalloni, né acquistano quella cultura zootecnica che si riscontra in chi dirige direttamente la propria industria. E, rincalza nel numero del 26 gennaio 1911 il «Giornale d’ippologia», anche supponendo la maggior economia nelle spese, l’unità di lavoro dello stallone non può calcolarsi abbia, per il privato allevatore, un costo inferiore alle 30 lire. Poiché invece lo stallone governativo esercita a lire 12, è manifesto che l’industria privata non può assolutamente svilupparsi. È un caso di concorrenza illecita analogo a quello di un municipio che si faccia costruttore di case operaie per far discendere i fitti. Appena i fitti municipali siano inferiori ai costi correnti, l’industria privata edilizia viene ridotta, acuendosi quella fame di case che il sentimentalismo municipalizzatore voleva calmare. L’allevatore privato, se non vuol perdere, deve ricorrere a soggetti di infima classe, i quali costino poco, talché diventi redditizia persino la miserabile tassa di 12 lire. Onde l’industria zootecnica intristisce e s’imbastardisce la razza.

 

 

Né basta. Poiché per usufruire dell’uso di uno stallone erariale basta pagare la lieve tassa uniforme di monta di lire 12, accade che, a parità di prezzo, la clientela sceglie la merce migliore, il che vuol dire che cavalle di infima classe sono accoppiate con stalloni di alto valore, dove questi esistono; mentre, in alcuni regi depositi, per mancanza di migliori riproduttori, cavalle distintissime sono coperte da stalloni inadatti o ignobili. Dicono i regolamenti che la tassa possa essere fatta variare dai guardastalloni a seconda delle esigenze. Ma qual mai impiegato governativo accolse nella sua mente l’idea di essere da meno di un suo pari? Qual mai professore universitario, segnalato solo per aver perduto in un incendio o in uno scontro ferroviario il manoscritto dell’unico suo libro, sopporterebbe di essere pagato meno di quel che sarebbe, se ancora vivesse, per citare solo i morti, Galileo Ferraris? Così è degli stalloni governativi: tutti eguali dinanzi alla tassa di monta. Ne soffrirebbe altrimenti il vivace sentimento di uguaglianza dei possessori di cavalle, i quali pretendono, quali che siano le costoro qualità nobilissime o ignobili, di essere tutti uguali dinanzi alla legge di monta.

 

 

Così per un altro verso rimane impedito il progresso dell’industria privata che ha bisogno di prezzi diversi per merci di qualità diversa. Nel Belgio, dove furono aboliti i depositi governativi e dove lo stato interviene soltanto con esposizioni, concorsi pubblici e solenni, distribuzione di premi per mano del sovrano, l’allevatore privato, quando uno stallone sia reso celebre ed apprezzato, ha modo di elevare la tassa di monta a cifre talvolta sbalorditive. Indigene, il celebre figlio del celeberrimo Brin d’Or, esercita la monta a lire 300 per cavalla e pare vogliano portare ora la tassa a lire 500; e, per di più, il proprietario dello stallone si riserva il diritto di prelazione sui puledri maschi nascituri, dietro compenso di lire 500, all’età di quattro mesi. La tassa variabile ed alta giova ai fini della selezione, perché, elevandosi la tassa di monta, le cavalle che si presentano allo stallone sono le più belle fra le belle.

 

 

Gli stalloni migliori desidererebbero la tassa elevata. Col sistema attuale, nel 1909, se alcuni caddero ad una media di 40-42 cavalle, agli stalloni di razze da tiro pesante toccò una media di oltre 73 cavalle. Quando poi si pensa che le razze da tiro pesante – che, nel 1909, rappresentavano il 16,88% della forza disponibile nei depositi governativi – hanno alcuni stalloni distaccati in zone non ricche di cavalle e comprendono parecchi soggetti inabili o non accetti, non è improbabile che a qualche stallone distaccato, per esempio, nella zona cremonese siano state presentate 120 – 130 cavalle o più. Se si riflette ancora al turno di presentazione che si deve assegnare alle cavalle, per accontentare in breve periodo un numero grande di richieste, si ha un’idea dell’enorme lavoro a cui sono assoggettati alcuni riproduttori erariali. Né è facile ai guardastalloni opporsi all’andazzo pernicioso; poiché, quando un’industria diventa di stato, non può sottrarsi, anche in materia di riproduttori erariali, alle prepotenti pressioni politiche ed elettorali. «Certe circolari – pressione che incoraggiano a coprire molte cavalle – esclama malinconicamente il dott. Luigi Rossi, veterinario e guardastallone, – non dovrebbero distoglierci dal fare il nostro dovere che impone di non prestarci ad un giuoco che compromette gli interessi della nostra agricoltura e quelli del nostro erario». Sagge parole, che cadono nel deserto, di fronte alla pressione organizzata di ventimila cavalle elettrici!

 

 

La irrazionalità degli accoppiamenti, fatale conseguenza del concetto, connaturato all’industria governativa, della uniformità della tassa, produce molti effetti perniciosi, fra cui principalissimo si lamenta la scarsa fecondità delle cavalle. Senza andare fino all’esagerazione di quei belgi che stimano fino all’80% la fecondità delle cavalle della lor razza, è certo che la fecondità delle cavalle italiane, che è del 47%, è troppo bassa. La irrazionalità degli accoppiamenti, il lavoro eccessivo dei riproduttori erariali, considerati spesso come res nullius, il regime artificiale in cui gli stalloni sono tenuti nei regi depositi, senza moto, senz’aria sufficiente e senza una perfetta regolarità nella distribuzione del cibo, i sinistri effetti dell’acclimatazione a cui vanno soggetti gli stalloni erariali, quasi tutti importati dall’estero: ecco le cause della infecondità relativa delle cavalle italiane. Calcolando la perdita al 15%, sono circa 6.000 puledri all’anno di meno di quanto sarebbe ragionevole pretendere; con un danno, a 300 lire in media per ogni puledro, di 1.800.000 lire, che va aggiunto alle perdite, dirette ed indirette, di cui sono causa i regi depositi all’economia nazionale. Aggiungasi che, come è impossibile sbarazzarsi di un impiegato governativo di ruolo, così il riproduttore erariale acquista il diritto alla stabilità della greppia e dell’impiego. Onde, afferma il dottor Luigi Rossi già citato, «i cattivi riproduttori continuano a dare cattivi prodotti magari per 20 anni, senza che da nessuno si pensi ad eliminarli dalla produzione». Stato giuridico, inamovibilità dalla carica, ammortamento lunghissimo del macchinario, locomotive circolanti anche se decrepite, stalloni troppo a lungo funzionanti, benché screditati, non sono forse altrettanti aspetti, sempre nuovi e sempre uguali, del moderno feticcio: l’esercizio di stato? E non è forse vana utopia lo sperare un miglioramento da riforme, da estensioni, da rinsanguamenti, quando il principio stesso è nella sua essenza errato? Quando: 1) dopo sessanta e più milioni pagati dall’erario per i regi depositi di stalloni, non si è riusciti a formare in Italia una famiglia di cavalli «razzatori»; 2) lo stato è costretto ad adoperare cattivi metodi di selezione degli stalloni; 3) vi è deficienza assoluta di stalloni nati in Italia; 4) gli accoppiamenti sono mal fatti e si dà il ludibrio di ignobilissime cavalle offerte a stalloni di gran razza e viceversa; 5) gli allevatori non osano intraprendere, per la concorrenza illecita dello stato, l’industria della produzione degli stalloni; 6) la fecondità dei riproduttori erariali è insufficiente; quando queste ed altre accuse sono mosse da tecnici conosciuti agli 800 riproduttori erariali, sembra che un più lungo discorso avrebbe dovuto essere fatto dal ministro d’agricoltura per dimostrare la necessità di spendere altri molti milioni nello stesso malo modo. Quando si sente asserire che «la distruzione di tutte le nostre rinomate razze di cavalli si deve ai meccanismi di governo», che «il sistema dei depositi stalloni toglie al produttore la libertà di dirigere la propria industria e sopprime nel modo più prepotente ogni mezzo che tenda alla selezione dei riproduttori», quando si legge che nel Belgio la soppressione dei regi depositi «determinò la fortuna della produzione cavallina da tiro», l’incoercibile difensore dei contribuenti, che è in me, insorge e grida: Per questi ideali avete accresciute le tasse di registro e bollo, le imposte sugli spiriti e sui tabacchi, e vi apprestate ad inacerbire le tasse sulla giustizia?

Intorno al rincaro dei viveri. Le esposizioni di Torino e Roma. I treni annonari. I favori alle cooperative. L’industria della pesca ed il consumo del pesce in Italia

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«La Riforma Sociale», maggio 1911, pp. 314-322

Ruoli chiusi o ruoli aperti? Freno al dilagare della burocrazia?

Ruoli chiusi o ruoli aperti? Freno al dilagare della burocrazia?

«Corriere della Sera», 26 aprile e 30 maggio 1911

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1960, vol. III, pp. 316-327

 

 

 

 

1

 

La statistica dei ruoli organici degli impiegati civili e militari dello stato che il comm. Paolo Bernardi, ragioniere generale dello stato, ha avuto la buona idea di pubblicare, aveva già destato in me un vago senso d’inquietudine quando ne vidi sui giornali un primo fugace riassunto. A leggerla per disteso, si rimane pensosi. È un esercito senza fine di impiegati, in attività e in pensione, che ci sfila dinanzi. Ecco le cifre, al primo luglio 1910:

 

 

Numero

Spesa lire

Impiegati civili e militari ed agenti di ruolo

259.624

Stipendi e retribuzioni ai suddetti

470.555.806

Assegni, indennità, sussidi, compensi di lavoro straordinario, premi di servizio e contributi alla Cassa nazionale di previdenza

137.698.500

Personale straordinario ed avventizio

80.172

68.831.054

Operai di ruolo, straordinari ed avventizi

47.013

44.925.105

_______

386.809

___________

722.010.465

Pensionati

122.000

87.555.575

_______

508.809

___________

809.566.040

 

 

Poiché ogni famiglia in Italia è composta di 4, 5 persone, ove anche noi riduciamo il numero delle persone componenti le famiglie degli impiegati dello stato a 4, per tener conto della possibilità di parecchi impiegati conviventi insieme nella stessa famiglia, troviamo che il numero di coloro che traggono il sostentamento da un impiego pubblico del capo di casa oscilla sui due milioni di persone. Dal 5 al 6% della popolazione vive di paghe di stato: una per ogni 17 persone che incontrate per istrada è un impiegato di stato, civile o militare, in attività o in pensione, operaio o avventizio, o moglie, o figlio di impiegato. Se si potesse tener conto degli impiegati delle provincie e dei comuni e dei graduati di bassa forza dell’esercito, la proporzione sarebbe ancor più inquietante: uno su 14, forse anche più risulterebbero coloro che vivono sulle tasse e sulle imposte.

 

 

Ed è un esercito crescente senza posa. Al primo luglio 1882 gli impiegati di ruolo, che oggi sono 259.624, erano appena 98.314 e la spesa per stipendi e retribuzioni, che oggi è di 470.555.806 lire, era appena di 171.512.802 lire. Per gli straordinari, gli avventizi, gli operai ed i pensionati la statistica non fornisce dati per il 1882; integrando però le cifre nell’ipotesi che l’aumento sia stato simile a quello verificatosi nei casi per cui si conoscono le cifre, si avrebbe che nel 1882 il numero totale dei dipendenti e pensionati di stato avrebbe toccato forse i 220.000 con una spesa totale di 330 milioni circa. In meno di un trentennio il numero si è più che raddoppiato e la spesa moltiplicata per due e mezzo. Poiché la popolazione nel frattempo passò soltanto da 28,5 milioni a forse 34, aumentando del 19%, mentre il numero degli impiegati e dipendenti dello stato sarebbe cresciuto da 220 a 470 mila persone ossia del 116 %, ognun vede il pericolo che, continuando di questo passo, la burocrazia di stato abbia a dilagare ed abbia ad attuarsi, inconsapevolmente, un regime di organizzazione sociale collettivistica siffattamente coercitivo da spegnere ogni libertà ed iniziativa individuali.

 

 

Le cause dell’incremento delle falangi dei ronds-de-cuir sono parecchie. Anzitutto le nuove funzioni che lo stato ha voluto assumere: su 259.624 impiegati di ruolo al primo luglio 1910 ben 110.157 erano addetti alle ferrovie di stato e 2.703 ai telefoni pure di stato. I due terzi dell’aumento dal 1882 al 1910 sono dovuti a queste due statizzazioni. L’aumento più notevole, nei vecchi ministeri, si ebbe nelle poste e telegrafi, in cui gli impiegati son cresciuti da 7.491 a 22.634 e nell’istruzione pubblica, passata da 7.642 a 17.930. Proporzionatamente aumentò assai anche il numero degli addetti al ministero di agricoltura, industria e commercio. Erano 1.089 ed ora sono 1.796 coloro che hanno il compito di non lasciar vivere in pace industriali, agricoltori ed operai. Notevole l’aumento nella marina, in cui il personale civile crebbe da 1.214 a 2.343 e quello militare da 1.031 a 2.087. Moderato l’aumento nel ministero della guerra, in cui il personale civile crebbe appena da 10.557 a 10.995 mentre il personale militare passava da 12.914 a 14.652. Caratteristico fra tutti, per la natura sua tipicamente amministrativa, l’aumento avvenuto nel ministero degli interni, in cui gli impiegati (centrali e locali) passavano da 14.177 a 24.148. La grazia e giustizia – e sia detto a sua lode – non ha aumentato il numero dei suoi sacerdoti: erano 10.516 nel 1882 e rimasero a 10.995 nel 1910.

 

 

Contro queste cause d’aumento del funzionarismo i rimedi non hanno bisogno di essere riesposti ancora una volta. In certi casi l’aumento, oltreché fatale (come oggidì si costuma dire), era utile, trattandosi di funzioni assolutamente connaturate coi fini di tutela giuridica, di difesa territoriale, di cultura affidati universalmente allo stato. In altri casi l’aumento ha natura tecnica, come quando per esigere maggior copia di tributi è d’uopo arruolare maggior numero di finanzieri, o per spedir e recapitare più lettere ci vogliono più numerosi ufficiali postali o portalettere. Il rimedio principe sta nel porre termine alla mania che imperversò nell’ultimo ventennio di statizzare, statizzare ad ogni costo e statizzare ancora. La moda, per fortuna, pare stia diventando di nuovo alleata al buon senso, se non nei politici dell’oggi, in quelli che saranno gli uomini politici del domani. Il socialismo nelle nuovissime generazioni di intellettuali, che, giova sperare, diventeranno i leaders della vita politica di domani, è caduto oramai in grande e meritato discredito; e con esso le sue propaggini pratiche: il funzionarismo, l’adorazione dello stato, ecc. ecc. Torna in onore il culto dello sforzo interiore, della vita indipendente, della formazione del carattere morale. Il mezzogiorno, vivaio fecondissimo di impiegati, finché era ed è in povertà, risorgendo per virtù propria a migliori condizioni di vita diventerà il migliore alleato del settentrione nella lotta contro il funzionarismo parassitario.

 

 

Pure, anche chi sia persuaso, come è lo scrivente, che la salvezza dalle degenerazioni burocratiche ed ugualitarie, che la reazione alle mortifere statizzazioni possa venire solo da un elevamento della vita materiale e da una trasformazione del carattere degli italiani, non può disconoscere che, a porre argine al dilagare dei burocrati, possano giovare sapienti ed opportuni avvedimenti tecnici. Il Bernardi pone in bella luce la urgenza di uno di questi avvedimenti: ed è la sostituzione del ruolo aperto al ruolo chiuso nella formazione degli organici. Che cosa sono i ruoli chiusi? Sarebbe, per spiegarsi con un esempio, un ruolo chiuso quello della carriera amministrativa del ministero dell’interno, in cui vi sono 6 posti di segretario di III classe a 2.000 lire di stipendio, 15 di II a 2.500, 20 di I a 3.000 lire, 20 di primo segretario di II a 3.500, 15 di I a 4.000, 8 posti di capo-sezione di II a 4.500, 8 di I a 5.000, 7 posti di capodivisione e ispettori generali di II classe a 6.000 e 7 di I a 7.000, e un posto di direttore generale a 9.000 lire. Il meccanismo del ruolo chiuso è chiarissimo. Il segretario di III classe a 2.000 lire non può divenire segretario di II a 2.500 se non si è fatto un posto vacante nella II classe; e ciò può nascere solo per morte, pensionamento o promozione di quelli che lo precedono. Ma la promozione deriva dalla morte o dalla quiescenza di coloro che stanno nei gradi superiori. Ognuno insomma migliora nel grado e, quel che più conta, nello stipendio, solo a condizione di spingere in su chi gli sta innanzi nell’organico. E poiché i gradi più bassi sono più numerosi, molti debbono rassegnarsi a passare quasi tutta la vita con stipendi bastevoli negli anni giovanili ed insufficienti negli anni maturi. Non tutti i 41 segretari ed i 35 primi segretari possono diventare capi-sezione, che sono appena 16 in numero, o capi-divisione (14) o direttori generali (1); e perché non si possono moltiplicare i posti superiori e far tutti generali e colonnelli per permettere ai capitani e tenenti di essere promossi, così accade che molti languiscono per lunghissimi anni a stipendi fra 2.000 e 4.000 lire. Di qui alcune conseguenze tristissime:

 

 

1)    Gli impiegati a ruolo chiuso almanaccano continuamente allargamenti d’organico. Poiché da segretario non si può aumentar di stipendio se non diventando capo-sezione e per diventarlo presto bisogna moltiplicare le sezioni, così gli impiegati sono spinti a creare e moltiplicare le pratiche, a produrre del lavoro non per un fine pubblico ma col fine per sé stante di creare il lavoro, di crescere i numeri di protocollo e poterne trarre argomento a dimostrare la necessità di sdoppiare le sezioni e nominare nuovi capisezione. Questa è la origine fondamentale di quelle che nel linguaggio delle relazioni ministeriali e parlamentari si chiamano le «esigenze dei cresciuti servizi pubblici». Ogni due sezioni in più si crea una nuova divisione; e alla lunga, quando il processo di scissiparità sia abbastanza progredito, nasce altresì una nuova direzione generale. Il peggio si è che il processo non ha termine: una volta che, per un allargamento di organico, i segretari sono divenuti primi segretari e costoro capi-sezione, bisogna nominare al basso nuovi segretari; e siccome i primi segretari sono aumentati ad esempio da 15 a 20, i segretari debbono diventare 30 invece di 20. Se no, a chi comanderebbero i superiori? Per un po’ le cose stanno quiete, perché ai giovinotti nominati segretari non par vero di toccare 2.000 lire all’anno. Passato qualche anno, ricominciano le querimonie e riprende la corsa, che non ha mai tregua, alla moltiplicazione dei posti;

 

 

2)    Negli intermezzi, fra un allargamento e l’altro dell’organico, hanno luogo sollazzi minori a spese dei contribuenti. Il più comune è il cosidetto «svecchiamento dei quadri» che si giustifica, nelle relazioni dei ministri e nei compiacenti comunicati giornalistici colla «necessità di infondere un vigor nuovo di vita nell’arrugginito organismo dell’amministrazione». In parole volgari si tratta di mandare a riposo i direttori generali, capi-divisione, ecc., per far posto ai giovani impazienti di conseguire grado e stipendio più elevato. Che importa che cresca l’onere delle pensioni e cresca inutilmente, perché gli anziani erano in grado di attendere ai servizi – data la lor natura, ben lontana dall’esigere ardimenti giovanili – forse meglio dei nuovi promossi? Se allo «svecchiamento dei quadri» non si arriva coi metodi ordinari di più copiosi crediti per i collocamenti a riposo d’ufficio, si giunge ugualmente allo scopo con i metodi straordinari delle epurazioni compiute ad opera di commissioni d’inchiesta, dei pieni poteri eccezionali attribuiti al ministro per riordinare l’amministrazione, della sospensione temporanea ed eccezionale dei diritti alla inamovibilità dalla sede e dal grado e di similianti arbitri che, mentre instaurano l’onnipotenza tirannica dei ministri e lo strapotere delle leghe di funzionari non danno né possono dare ai ministri quella libertà d’azione di cui godono gli imprenditori privati ed è incompatibile con la natura delle pubbliche amministrazioni.

 

 

A codesti malanni può in parte mettere un freno il sistema dei ruoli aperti. Nelle ferrovie di stato il quadro di classificazione dice che gli ispettori hanno stipendi aumentabili in 22 anni da 3.000 a 6.000 lire, gli ispettori principali stipendi progressivi in 17 anni da 4.500 a 7.200 lire, mentre gli ispettori capi in 19 anni vanno da 5.400 ad 8.800 lire, e i capi-divisione in 20 anni da 7.200 ad 11.000 lire. Quale il significato del sistema? Sovratutto questo: che ad ogni funzionario, pur rimanendo nel suo grado, è assicurata una carriera corrispondente alla sua anzianità. Mentre il segretario del ministero degli interni (ruolo chiuso) non può sperare di progredire da 3.000 a 3.500 lire se non quando scompaia qualcuno dei primi segretari (per promozione, quiescenza, morte, epurazione, ecc. ecc.), l’ispettore delle ferrovie (ruolo aperto) progredisce automaticamente da 3.000 a 3.300 dopo un anno, a 3.600 dopo un altr’anno e poi di 2 in 2 anni a 3.900, 4.200, 4.500, 4.800 e in seguito di 3 in 3 anni a 5.100, 5.400, 5.700 finché al 22esimo anno di carriera egli arriva, rimanendo sempre ispettore, a 6.000 lire. Non sarà stata una carriera brillante; ma è tale che soddisfa alle esigenze della vita. Nulla vieta che, se egli si distingue, possa ben prima essere promosso ispettore principale e qui, partendo dall’inizio delle 4.500 lire possa andare sino a 7.200. Ogni grado dunque permette, col sistema del ruolo aperto, una certa carriera; né è d’uopo scacciare i superiori per giungere ad uno stipendio più elevato. Un ispettore anziano, a 6.000 lire, può essere subordinato ad un giovane ispettore principale che ha appena 4.500 lire di stipendio. Fino ad un certo punto, carriera e stipendio sono due concetti separati nel sistema dei ruoli aperti. La promozione a grado più elevato porta bensì con sé stipendio maggiore e più rapidi aumenti; ma pur rimanendo nel grado inferiore si possono conseguire quegli aumenti di stipendio che sono complemento necessario del progredir degli anni e dei carichi di famiglia. Di qui maggior libertà di scelta e minor ossequio all’anzianità nelle promozioni, minore irrequietudine negli impiegati e minor pressione per il gonfiamento artificioso degli organici di quello che vi sia col sistema dei ruoli chiusi. Non tutti i malanni dell’impiegomania sono tolti. L’averne però eliminati alcuni aspetti, moralmente e materialmente pericolosi, non è piccolo merito del sistema dei ruoli aperti, che è stata l’invenzione più sapiente sinora saputa escogitare, a tener quieta la burocrazia, nostra più vera e maggiore sovrana.

 

 

2

 

Debbo, con molto rammarico, fare una confessione: quando, alcun tempo fa, illustravo i difetti del sistema dei ruoli chiusi ed esponevo come ad essi potesse in parte rimediare il sistema dei ruoli aperti, affermando che con questa invenzione sapiente, se non si evitavano tutti i malanni dell’impiegomania, si era però riusciti ad eliminarne i peggiori aspetti, ero probabilmente vittima di una grossa illusione. L’esperienza, la durissima esperienza della realtà è venuta, più presto di quanto fosse immaginabile, a distruggere il sogno di potere opporre un freno automatico, sia pure debole freno, al dilagare della burocrazia.

 

 

Il sistema dei ruoli aperti non toglieva ogni stimolo negli impiegati ad aspirare ai gradi più elevati ed ai conseguenti migliori stipendi; stimolo che del resto sarebbe pericoloso togliere, come quello che può essere argomento a ben fare ed a distinguersi. Ma si sperava che almeno avrebbe tolto le brutture peggiori del metodo dei ruoli chiusi e cioè l’indecorosa aspirazione al pensionamento ed alla morte degli anziani e la moltiplicazione dei posti superiori e quindi anche degli inferiori. Vana speranza quest’ultima; almeno a quel che si legge in una relazione di minoranza che l’on. Saporito ha dettato ad un disegno di legge sui «provvedimenti relativi agli anziani ed alla elevazione dei minimi di stipendio del personale dipendente dal ministero delle poste e dei telegrafi». Il Saporito non si occupa né degli anziani né dei minimi di stipendio, ma di un nuovo organico che fu incastrato, per farlo più facilmente approvare, in mezzo alle disposizioni riflettenti la massa degli impiegati. La legge Schanzer del 19 luglio 1907, successivamente modificata a parecchie riprese, aveva introdotto nell’amministrazione postelegrafica il sistema dei ruoli aperti, dividendo, ad esempio, il personale direttivo (di prima categoria) in tre quadri: il I quadro dei segretari, vice-ispettori e aiuti-ispettori, nel quale si progrediva da uno stipendio di 1.500 al massimo di 4.000 lire all’anno, il II quadro dei primi segretari, direttori, direttori ed ispettori aggiunti, direttori ed ispettori-capi, in cui si andava da 3.000 a 5.000 lire; ed il III quadro, quest’ultimo a ruolo chiuso, diviso in 8 gradi, ciascuno con stipendio proprio, progressivo da 5.000 a 10.000 lire. Non era ancora l’ideale del ruolo aperto, perché la carriera dei funzionari del secondo grado era troppo limitata; onde si sarebbe compreso che si fosse chiesto di togliere al III quadro i posti inferiori di capo-sezione (146 funzionari sul totale di 179 funzionari superiori) aggregandoli al II quadro così da permettere una carriera più larga ai funzionari del II quadro, fino alle 6.000 lire di stipendio. Il III quadro si sarebbe limitato così a 33 funzionari, i dirigenti della grande armata postelegrafonica, i quali avrebbero dovuto essere scelti con criteri speciali e con stipendi stabiliti con criteri quasi individuali.

 

 

Così doveva essere in sul principio; ma ben presto il sistema cominciò a degenerare. Con una legge del 30 giugno 1908 i posti di capo-sezione, che erano stati nel 1907 soppressi, per conferirli ai più meritevoli dei primi segretari e segretari, furono ripristinati ed introdotti non nel II, ma nel III quadro, ossia nel quadro superiore. Adesso si propone di fare un altro passo innanzi; che si potrebbe sintetizzare in questo confronto:

 

 

Tabelle organiche

 

 

Attuali

Proposte

I quadro
da 1500 a 4000 lire

693

da 2000 a 4000 lire

537

II quadro
da 3.000 a 4.000 lire

564

da 3.000 a 5.000 lire

607

III quadro
da 5.000 a 10.000 lire

179

292

1.436

1.436

 

 

Si vede come la malizia della burocrazia ha saputo trionfare anche dei freni opposti dal sistema dei ruoli aperti. Il numero dei funzionari si conserva immutato: sono 1.436 adesso e saranno 1.436 dopo. Soltanto che si è verificato uno spostamento generale dal quadro a stipendi bassi al quadro a stipendi più elevati. Trascuro per il momento il fatto dell’elevamento del minimo dello stipendio da 1.500 a 2.000 lire nel I quadro e del massimo da 4.000 a 5.000 lire nel II quadro. Ciò può spiegarsi con il rincaro della vita e con altre ragioni; e non era del resto compito dei ruoli aperti di impedire l’elevamento delle condizioni materiali dei funzionari. Tutt’altro. Il sistema dei ruoli aperti doveva avere per compito di impedire la moltiplicazione inutile dei posti superiori; ed in questo compito fallisce; e fallisce in due momenti successivi che, seguendo l’esposizione fatta, con frase tagliente ed incisiva, dal Saporito, si potrebbero definire: 1) il momento o fase della creazione dello stato di fatto e 2) il momento o fase della reintegrazione dei posti inferiori soppressi. Per ora siamo all’epilogo della prima fase; fra un anno o due arriveremo alla conclusione della seconda. In amendue i casi il contribuente è chiamato a pagare, in guisa però che il sacrificio appaia tenue nel primo momento ed ingrossi nel secondo, quando oramai si è dinanzi all’ineluttabile e non si può più tornare indietro.

 

 

Che cosa è la creazione dello stato di fatto, caratteristica del primo momento della degenerazione del sistema dei ruoli aperti? Semplicemente la ripetizione del giochetto che già era tante volte stato efficace coi ruoli chiusi: attribuire a funzionari del I quadro compiti spettanti a funzionari del II quadro ed a questi ultimi assegnare compiti spettanti ai più alti funzionari del III quadro, creando nuovi organi, nuove cariche, nuovi servizi, non perché questi siano necessari, ma perché in tal modo si spera di provocare una variazione d’organico dal legislatore. Quando poi lo stato di fatto esiste, quando parecchi primi segretari (II quadro) siano investiti delle funzioni di capo-sezione (III quadro) e i capi-sezione sono incaricati delle funzioni di capi-divisione, comincia una viva agitazione, perché si afferma essere indecoroso, incomportabile che funzionari di grado inferiore siano chiamati ad adempiere uffici superiori, di cui si riconoscono meritevoli, senza avere il corrispondente titolo e stipendio. L’agitazione provoca malcontento, inciampi nel servizio e per porvi riparo il ministro è costretto a proporre una modificazione d’organico, riconoscendo legalmente lo stato di fatto, creato a bella posta dalla burocrazia per ottenere l’intento. Siamo all’epilogo della prima fase: il ministro Ciuffelli propone, ed il ministro Calissano tiene ferma la proposta, malgrado per un momento i contribuenti avessero potuto sperare che la relazione di minoranza Saporito avesse servito a qualche cosa; ed i 693 funzionari del I quadro si riducono a 537, con una diminuzione di 156, aumentando corrispondentemente di 43 il numero dei funzionari del II quadro e di 113 il numero di quelli del III quadro. La proposta è coonestata dalla piccolezza del sacrificio; trattasi invero non di creare dei posti nuovi, ma di attribuire grado e stipendio maggiore a funzionari già esistenti.

 

 

La differenza, di appena 78.000 lire all’anno, è piccolo sacrificio di fronte alla impellente «necessità di aprire la carriera ai numerosi primi segretari già riusciti nei precedenti esami idonei ai gradi superiori e che altrimenti dovrebbero attendere la relativa promozione per un periodo che può variare da uno a dieci anni». Sono queste le testuali parole della stupefacente, incredibile risposta data dal ministro ad un quesito dell’on. Saporito, le quali dimostrano fino a qual punto l’ambiente riesca a fare sragionare distinti uomini politici, i quali non si accorgono neppure di avere con ciò riconosciuto ufficialmente, solennemente che i funzionari non si nominano in Italia per coprire i posti, ma i posti si istituiscono per collocare e promuovere i funzionari.

 

 

Conchiusa in tal modo la prima fase, colla legalizzazione dello stato di fatto artificiosamente creato, comincia la seconda fase, fatale e ineluttabile conseguenza del primo fallo commesso: la reintegrazione dei posti inferiori soppressi. La tabella organica nuova supponiamola già approvata dal parlamento, essendo vana ogni resistenza di fronte alla volontà della burocrazia, ossequente e consenziente il ministro coi suoi 292 generali e colonnelli, 607 capitani e 537 tenenti e sottotenenti (la bassa forza ed i soldati non rientrano in questa categoria) rassomiglia davvicino agli eserciti delle repubbliche sud-americane, in cui tutti sono generali e colonnelli. La complicazione e l’estensione dei servizi che oggi sono stati il pretesto per aumentare il numero dei capi-sezione ed altri funzionari superiori, non esauriscono la loro efficacia nel moltiplicare gli alti posti. I capi-servizio, per giustificare la propria esistenza, creeranno le pratiche e le funzioni nuove; né è immaginabile che i servizi possano andare innanzi quando gli ufficiali superiori sono in numero più grande dei subalterni. Fra un anno o due il ministro dimostrerà che 537 impiegati del primo quadro sono pochi e proporrà di crescerli a 700 od 800. L’on. Saporito ben a ragione osserva:

 

 

Mi sembra che non possa trascurarsi il fatto della diminuzione di numero dei funzionari di grado inferiore e che è di 156. Ora, se è vero che deve esistere un certo rapporto numerico tra gli impiegati con funzioni direttive ed ispettive (III e II quadro) e quelli esecutivi (I quadro), non è men vero che il maggior rendimento è dato da questi ultimi, sia pure organizzati, diretti e sorvegliati dai primi. Sono 156 unità che chiamerò produttive e che vengono distrutte, o meglio, trasformate in unità certamente meno produttive. Quale la conseguenza? Non mi sembra che possa essere che una: riconosciuta la deficienza numerica del personale esecutivo voi sarete chiamati ad autorizzarne una nuova assunzione e non vi ricorderete che la richiesta dipende appunto dal fatto che oggi vi si presenta come privo di conseguenze o se pure lo ricorderete, se pure giudicherete allora di aver fatto male oggi, nulla potrete opporre alla dimostrazione della necessità che sarà reale; dovrete cedere!

 

 

Ed allora (fra un anno o due) i sacrifici che i contribuenti dovranno sopportare non si restringeranno alla modesta somma di 78mila lire, ma assurgeranno a vette ben eccelse, alle centinaia di migliaia e forse, tenuto conto delle carriere che i promossi d’oggi ed i nuovi venuti percorreranno, al milione di lire. La seconda fase della degenerazione del ruolo sarà compiuta; e si potrà, ad ammaestramento dei contribuenti stupefatti, ricominciare da capo.

 

 

Le cose dette non dimostrano ancora che il sistema dei ruoli aperti sia da buttarsi da un lato come un limone spremuto. Esso è pur sempre migliore del sistema dei ruoli chiusi, come quello che pone il problema su più vasta scala e meglio attira l’attenzione pubblica sulle gesta della burocrazia. Col sistema dei ruoli chiusi, la espansione burocratica è inavvertita, quotidiana, a piccole dosi; si esplica colle piccole campagne per gli allargamenti di piccoli organici e con gli asti invidiosi di persona contro persona. Coi ruoli aperti sono falangi di impiegati che insieme muovono alla conquista dei quadri più alti a stipendi migliori. Quasi si direbbe che l’assalto, fatto in masse e non alla spicciolata, è più pericoloso; se non vi fosse il correttivo della sveglia data all’opinione pubblica. Bisogna persuadersi che gli accorgimenti automatici, per quanto bene architettati, a poco valgono se:

 

 

  • non soccorre vigile il controllo del parlamento o, – poiché il parlamento dalle forze elettorali è indotto a cedere, abdicando ai suoi doveri, dinanzi alle organizzazioni burocratiche, – se non soccorre la critica spietata e continua dell’opinione pubblica, tutrice degli interessi legittimi dei contribuenti e dei cittadini in genere non partecipanti al banchetto governativo;

 

 

  • non si pone un fermo all’assunzione di nuove funzioni da parte dello stato. I politici sono ciechi dinanzi alla eloquenza dei fatti che ogni giorno si incaricano di dimostrare i fatali, inevitabili pericoli della dominazione burocratica. Essi vorrebbero aggregare nuovi campi al territorio in cui si illudono di dominare sovrani, servendo invece ai funzionari ed ai gruppi organizzati di elettori.

Gli indici della vita italiana di un cinquantennio (1861-1911)

Gli indici della vita italiana di un cinquantennio (1861-1911)

«Corriere della Sera», 19 aprile 1911

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 308-315

 

 

 

 

Il progresso avvenuto nell’economia del paese dopo l’unificazione non può essere valutato con la stessa esattezza con cui si misura il crescere del bilancio dello stato, perché troppi fatti sfuggono alle indagini ufficiali. Tuttavia qualcosa di approssimativo si può dire, benché ci si muova su terreno statisticamente infido. Maestri valutava poco dopo il ’60 la produzione lorda agricola della terra italiana a 2 miliardi e 859 milioni, attribuendo 2 miliardi e 13 milioni ai prodotti vegetali ed 846 milioni ai prodotti animali; ond’è che il ricavo lordo per ogni ettaro poteva presumersi in 124 lire. Oggi, il Valenti giunge a 6 miliardi e 816 milioni di lire di produzione della terra e la arrotonda a 7 miliardi per tener calcolo delle industrie secondarie, fra cui l’allevamento degli animali da cortile e la relativa produzione del pollame e delle uova. Al prodotto medio di 124 lire per ettaro del 1860 risponde dunque attualmente un prodotto medio di 359 lire, più che doppio. Solo in qualche regione di montagna la produzione per ettaro si abbassa a quelle 124 lire che erano, or è mezzo secolo, la media di tutt’Italia (122 lire media delle montagne dell’Italia centrale e 124 lire media delle montagne meridionali). L’Italia centrale nel suo complesso tocca le 196 lire di produzione lorda per ettaro, l’Italia meridionale con le isole 200 lire e l’Italia settentrionale 371 lire. Né, chi sappia i segnalati progressi da noi compiuti nella coltivazione della terra ed ammetta che alcune plaghe d’Italia sono fra le meglio coltivate e le più intensamente produttive del mondo, può dubitare che il passaggio dai 3 miliardi del Maestri ai 7 miliardi del Valenti rappresenti il progresso reale dell’agricoltura italiana.

 

 

Anche grandi furono i passi fatti nelle altre industrie estrattive: i minerali che verso il 1860 valevano 28.103.816 lire all’anno, ora valgono 77.789.324 lire. Lo zolfo in ispecie progredì da 20 a 32 milioni, i combustibili fossili da 1 a 5 milioni, il minerale di ferro da 2 a 7 milioni, il piombo ed argento da 3 a quasi 6, lo zinco da 10 mila lire a 12 milioni e mezzo, il mercurio da 57.000 a 3.600.000 lire, le piriti da 26 mila a 2.250.000 lire. Nella lavorazione dei minerali, cinquant’anni fa si calcolava in 36 milioni di lire il prodotto annuo delle officine mineralurgiche. Oggi la medesima produzione è valutata in 483 milioni. Era di pochi milioni il valore annuo dei prodotti chimici industriali, adesso giungiamo a 134 milioni; e nel totale son comprese industrie che contano per grosse cifre: 21 milioni per l’acido solforico, 14 milioni il solfato di rame, 10 di carburo di calcio, 14 le polveri piriche, la balistite, la dinamite ed altri esplodenti, 52 milioni i perfosfati e concimi diversi. Da 95 a 400 mila tonnellate è progredita la produzione del marmo; ed il valore dei marmi, pietre ed altri prodotti delle cave oggi supera i 50 milioni di lire all’anno.

 

 

Si lagna, e non a torto, l’industria della seta di essere in crisi e di essere decaduta dalla preminenza di che un tempo godeva nel mondo: Giappone e Cina premono sul mercato mondiale coi loro bozzoli e colle loro sete a buon mercato. Pur tuttavia, quale splendida e tenace resistenza noi abbiamo opposto alle avverse vicende del mercato! Producevamo 15 milioni circa di chilogrammi verso il 1860 e ne produciamo ora 50 milioni. Il prezzo alto permetteva agli agricoltori di cavarne 83 milioni di lire; pur coi prezzi diminuiti, oggi se ne ritraggono da 150 a 200 milioni di lire. La seta greggia ricavata dalla lavorazione pesava 1.100.000 chilogrammi per un valore di 100 milioni; ora, non bastando più i bozzoli nazionali, ne importiamo per 18 milioni e mezzo di chilogrammi dall’estero, e riusciamo così a produrre da 5 a 6 milioni di chilogrammi di seta greggia all’anno. L’esportazione sericola dall’Italia si aggira su un valore di 600 milioni di lire all’anno, mentre all’epoca dell’unificazione oscillava tra i 150 ed i 200 milioni.

 

 

Dei progressi dell’altra grande industria tessile, la cotoniera, può giudicarsi dal fatto che or fa mezzo secolo la quantità del cotone greggio lavorato nelle filature italiane non superava i 150.000 quintali; mentre ora ha toccato i 2 milioni di quintali. L’importazione delle diverse qualità di lana (materia prima dell’industria laniera), è cresciuta da 70 a 200.000 quintali all’anno; dal che si può giudicare dell’impulso dato a questa industria. Quante industrie, che quasi non esistevano, sono sorte, dopo l’unificazione in Italia: primissima quella della utilizzazione delle forze idrauliche, che si limitava ai piccoli mulini, alle numerose minuscole cartiere, alle ferriere locali disseminate lungo fiumi e rivi! Verso la fine del secolo XIX: erano ancora solo 300.000 i cavalli di forza idraulica effettivamente utilizzati. Adesso, nel breve periodo di quindici anni, da quando cioè la trasmissione elettrica dell’energia a distanza si rese economicamente possibile, più di 700.000 cavalli di potenza effettiva furono strappati ai corsi d’acqua e sparsi per tutte le nostre terre ad animare le più svariate industrie. Il primato che l’Italia vantava fin dal medio evo per le opere d’irrigazione, lo va adesso conquistando altresì per la utilizzazione del carbone bianco. Ingegneri ed industriali di ogni paese convengono da noi ad ammirare ed a studiare impianti colossali, giunti, in quest’anno del giubileo, ad un milione di cavalli effettivi ed apprestantisi a duplicare ben presto la cifra bene augurante.

 

 

Per altri indici ancora si conosce il cammino percorso dagli italiani nel mezzo secolo dopo conseguita l’indipendenza e l’unità. Nel 1862 l’importazione dall’estero toccava gli 830 milioni, mentre l’esportazione stava a 577 milioni. Nel 1910 l’importazione è arrivata ai 3 miliardi e 235 milioni, l’esportazione a 2 miliardi e 56 milioni. Sono quadruplicati i valori del traffico internazionale in cinquant’anni; e, se ci pare di essere tardi in confronto al piccolo Belgio, alla montagnosa Svizzera ed alla aperta Inghilterra, sopportiamo senza angustia alcuna uno sbilancio commerciale di 1 miliardo e 200 milioni, mentre nel 1862 lo sbilancio di appena 300 milioni sembrava minacciare gravi malanni. La navigazione progredì anch’essa e, benché per difetto di omogeneità dei dati non sia facile risalire nel tempo oltre il 1881, il progresso compiuto nel trentennio da 5 milioni e mezzo di merce sbarcata a 20 1/4 e da 4 a 61-3 milioni di merce imbarcata lascia intravvedere il ben più forte cammino percorso nel cinquantennio. I bastimenti a vela che nel 1862 erano poco meno di 10.000 e giunsero a 18.000 nel 1870 sono bensì diminuiti a 4.800 con una stazza di 450.000 tonnellate contro un massimo nel passato di quasi un milione; ma i bastimenti a vapore da una cinquantina nel 1862 (10.000 tonnellate) sono cresciuti a 600 con circa 550 mila tonnellate di stazza. La potenzialità complessiva del nostro naviglio mercantile è così cresciuta da due terzi di milione a due milioni di tonnellate.

 

 

La rete ferroviaria giungeva nel 1861 a2.571 chilometri ed il prodotto lordo batteva sui 70 milioni di lire. Oggi la sola rete delle ferrovie di stato supera i 13.000 chilometri ed i prodotti del traffico, nel 1909 – 10, hanno superato i 481 milioni di lire; alle quali cifre andrebbero aggiunte quelle delle ferrovie esercitate dai privati, delle tramvie e delle linee automobilistiche aperte al pubblico. La statistica postale dava un prodotto nel 1866 di meno di 16 milioni di lire e quella telegrafica di 32-3 milioni. Nel 1909-10 si accertarono invece 103 milioni di reddito delle poste, 202-3 dei telegrafi ed 11 1/2 dei telefoni.

 

 

Le classi più numerose, non sono state ultime ad aver tratto beneficio dalla più rigorosa vita pulsante nei campi e nelle officine dell’Italia unita. Nessun indice migliore può darsi dell’elevarsi economico e sovratutto morale di un popolo, del crescere dei depositi nelle casse di risparmio. Sebbene sia oggi di moda presso taluni (per fortuna non presso tutti) lo spregiare siffatta maniera di previdenza come antiquata e non moderna, il risparmio è ancora e rimarrà per un pezzo la più elevata virtù di cui possa dar prova un popolo che guardi al futuro e voglia sacrificare il godimento momentaneo al miglioramento delle generazioni venture. Mentre le altre, le nuovissime forme di previdenza, sono sempre, più o meno, forzose, il risparmio è un atto volontario, individuale, che significa un elevamento nel carattere morale di chi lo compie. Orbene, noi dobbiamo essere orgogliosi nel contemplare l’affinarsi del popolo italiano nell’esercizio della virtù risparmiatrice. Al primo gennaio 1862 non esistevano le casse postali di risparmio ed il numero dei libretti in corso presso le ordinarie casse di risparmio era di 384.812 per il valore di 188.410.587 lire. V’erano provincie che al risparmio davano un contributo irrisorio. Nel 1864 vi era un libretto per ogni 60 abitanti in tutto il regno; e se nella Lombardia, nell’Emilia, nella Toscana si poteva noverare un possessore di libretti sopra 22 abitanti, se nell’Umbria e nelle Marche vi era un libretto ogni 41 abitanti, si notavano altresì provincie in cui il rapporto dei libretti alla popolazione era troppo esiguo: nelle Calabrie invero appena una persona su 6.232, nelle Puglie una su 8.573 e negli Abruzzi e Molise una su 10.926 aveva un deposito presso le casse di risparmio.

 

 

Oggi il quadro è profondamente mutato: al 30 giugno 1910 s’avevano, invece di 384 mila, ben 2.233.508 libretti di deposito presso le casse ordinarie di risparmio e 5.280.782 libretti presso le casse postali. In tutto 7 milioni e mezzo di depositanti, oggi forse cresciuti ad 8 milioni, quasi un quarto della popolazione italiana. Il credito dei depositanti, che non giungeva ai 200 milioni cinquanta anni fa, al 30 giugno 1910 era cresciuto a 2 miliardi e 380 milioni presso le casse di risparmio ordinarie ed a 1 miliardo e 657 milioni presso le casse postali. Nel 1911 senza fallo supereremo di qualche centinaio di milioni i 4 miliardi, cifra più di venti volte maggiore di quella da cui s’erano prese le mosse dopo il 1860. Ed ho trascurati i 72 milioni di depositi presso le casse rurali, i 67 milioni di risparmi depositati presso i monti di pità, i 317 milioni affidati in somme modeste alle banche cooperative, i 452 milioni di risparmi presso le banche ordinarie, i 183 milioni di piccoli depositi degli istituti di credito ordinari. Ogni regione partecipa al benefico moto. Al 31 dicembre 1909 su i miliardo e 586 milioni che allora erano serbati dalle casse postali di risparmio, 617 milioni appartenevano all’Italia settentrionale, 580 alla centrale; ma il mezzogiorno e le isole, che nel 1862 non giungevano, in tutte le casse, ai 3 milioni di lire, possedevano alla fine del 1909, nelle sole casse postali, 377 milioni di lire di depositi. E chi sa come nelle casse postali del mezzogiorno sia grandissimo il contributo dei contadini di ritorno dall’America conclude che, se è lunga ancor la strada da percorrere per la redenzione dei lavoratori del mezzogiorno, il centuplicarsi dei risparmi in quella regione annuncia l’alba del giorno che i nostri figli vedranno.

 

 

Il crescere dei risparmi popolari prova che l’Italia nuova non fu matrigna ai lavoratori. Basti citare alcune cifre di salari correnti intorno al 1859 per vedere il lungo cammino compiuto dopo d’allora. Nella filatura del cotone gli uomini adulti guadagnavano da lire 1,07 (media dei minimi), a 1,50 (media dei massimi), al giorno; nella tessitura del cotone da 0,98 a 1,53, nella tessitura della lana da 1,20 a 1,35, nella fabbricazione della carta a mano da 0,85 a 1,20 lire al giorno. Le donne filatrici nell’industria della seta andavano da lire 0,79 (media dei minimi) a 0,97 (media dei massimi) al giorno. Come quelle cifre sembrano oggidì lontane! I filatori di cotone del Piemonte oggi guadagnano da 3 a 4 lire, i tessitori di lana di Schio da 4 a 5 lire, gli operai addetti alla fabbricazione della carta da 2,70 a 3,50, le filatrici dell’industria della seta già alcuni anni fa non si contentavano di meno di 1-1,25, ed in seguito il loro salario è cresciuto. Senza tema di errare, noi possiamo concludere che il salario reale delle popolazioni lavoratrici, ossia non il salario in moneta, ma la quantità di derrate, di merci, di alloggio, di beni in genere che esse si possono procacciare col salario monetario è cresciuto di più del 100% nell’ultimo cinquantennio. Il rincaro dei viveri è un fatto certo; ma vero, come fatto materiale, più rispetto agli anni che volsero dal 1880 al 1900 che non rispetto al periodo 1860-80 in cui i prezzi erano spesso più elevati degli odierni; ed è vero sovratutto come fatto psicologico di malcontento di chi, riuscito ad assaporare i benefici della civiltà, a lui prima contesi del tutto, vorrebbe più largamente goderne. Del quale desiderio non è lecito muovere lagnanza, come quello che è stimolo ad operare ed a volere; purché non tolga, in questa ora di ricordi, di rammemorare il molto, forse il più (se è vero che il maggiore sforzo sia il primo), che già fu ottenuto.

 

 

Ed è un popolo, oltreché meglio provveduto di beni materiali, più pronto, in parte almeno, a far suoi i benefici intellettuali della civiltà ed a giovarsi dei moderni strumenti tecnici di progresso. Nel 1861 erano 72 gli analfabeti maschi ed 84 le analfabete donne su 100 abitanti. Nel censimento del 1901 le proporzioni erano ridotte al 51 ed al 60% e probabilmente nel censimento imminente del 1911 saranno ancor più scemate, avvicinandosi, se si pon mente alla degressione di prima, al 40 ed al 50 percento. Se badiamo soltanto agli uomini da 21 anni in su, vediamo che l’analfabetismo, dal 1872 al 1901, è diminuito dal 60,2 al 43,9%; mentre l’analfabetismo femminile ribassa dal 77,4 al 60,4 percento. In complesso, tra uomini e donne, in Piemonte, l’analfabetismo negli individui al di sopra dei 21 anni è diminuito, dal 1872 al 1901, dal 44,7 al 22,9%, in Lombardia dal 45,8 al 26,4; e son le percentuali minime. Le Calabrie discesero dall’86,6 al 79,8, la Basilicata dall’87,3 al 78,7, la Sicilia dall’84,9 al 73,2, la Sardegna dall’85,6 al 69,6. È lecito credere che nel 1911 il miglioramento apparirà più decisivo; poiché quello avvenuto fin qui, se è confortante per le regioni industriali d’Italia, addita, nell’eloquenza delle sue cifre, quale sia il dovere primo dello stato nell’ora presente.

 

 

Risultanza ultima delle condizioni economiche e sociali della vita di un popolo è l’atteggiarsi suo nella vicenda perenne delle nascite e delle morti. Nascite sovrabbondanti e morti numerose sono proprie dei popoli miserabili, imprevidenti, deboli; come l’equilibrio nelle nascite e la limitazione della mortalità sono reputati quasi concordemente indici di civiltà più alta, più ricca, più previdente. Orbene, nel quinquennio 1863-67 il numero dei matrimoni era stato in media per anno di 7,5%. abitanti. Fu nel 1906 del 7,77, nel 1907 del 7,70 e nel 1908 dell’8,30 permille. La nuzialità non ha dunque una tendenza a scemare, il che significa che l’amore alla vita familiare non si è allentato dopo un cinquantennio di nuove maniere di vita sociale. Scemarono invece le nascite, che dal 38%.abitanti nel quinquennio 1863-67 discesero ad una media del 32 nel 1906, del 31,50 nel 1907 e del 33,1%, nel 1908. Non abbiamo che da lodarci di questa diminuzione, poiché indubbiamente una percentuale di nascite annue di 38 per ogni mille abitanti dà luogo ad un aumento disordinato ed improvvido della popolazione, che, per difetto di mezzi e di cure, è destinata a venir meno in troppo tenera età.

 

 

Gli italiani, per ora, sanno tenersi lontani dall’egoismo dei francesi, i quali non vogliono sacrificare i loro comodi alle cure della figliuolanza ed han perduto perciò parte della loro forza di espansione; e neppure indulgono in un incremento improvvido che ben tosto abbasserebbe il tenore di vita delle masse e ne crescerebbe la mortalità. Di ciò è prova il discendere della mortalità dal 30,60%. abitanti all’anno nel 1863-67 al 20,78 nel 1906 ed al 20,73 nel 1907. Nel 1908 la mortalità crebbe al 22,56%; ma sarebbe stata del 20,30 soltanto se il terremoto non avesse mietuto nelle Calabrie e in Sicilia ben 77.283 vittime. dunque il 10%. della popolazione che il benessere cresciuto e la lotta contro la malaria e la pellagra e le malattie infettive sottraggono oggi ogni anno alla morte in confronto di mezzo secolo fa: circa un terzo di milione di persone all’anno che morirebbe se oggi durassero le condizioni di vita di un tempo. La statistica delle cause di morte ha inizio solo col 1887; ma pur dimostra quale sia stato il successo nella battaglia combattuta contro le malattie che anzitempo distruggono l’organismo umano. Su 1.000.000 di abitanti l’asfissia e l’apoplessia nel parto uccidevano nel 1887-89 ben 108 persone; nel 1907 solo 22. La diminuzione proporzionale è da 534 a 13 (sempre per ogni milione di abitanti) per il vaiuolo; da 655 a 242 per il morbillo; da 337 ad 87 per la scarlattina; da 886 a 225 per la febbre tifoidea; da 825 a 167 per la difterite e laringite crupale; da 595 a 125 per le febbri e la cachessia da malaria; da 191 a zero per la dissenteria; da 103 a 33 per la scrofola disseminata e lupa; da 115 a 48 per la pellagra. Chiudo così questa rapida e monca rassegna del progresso dell’Italia nostra dopo l’unificazione. Quel terzo di salvati dalla morte riassume tutto un mondo di fatti e di idee. Spiega come gli italiani siano oggi, pur crescendo di 400.000 all’anno invece che di 180.0000, più ricchi, più ardimentosi, più capaci di cercare all’estero nuove vie e di ritornare in paese a rendere possibili nuove ascese. Possano i nostri nepoti, quando fra cinquant’anni celebreranno il centenario dell’Italia una, constatare con orgoglio che nuove lotte contro l’ignoranza e la morte furono combattute e vinte, contro la malaria che aduggia la terra ed uccide gli uomini e contro le iniquità e le oscurità nuove che si ergeranno in futuro per impedire agli uomini di elevarsi a più nobili ed elevate e libere forme di vita.

Il monopolio delle assicurazioni sulla vita. Calcoli o cabale?

Il monopolio delle assicurazioni sulla vita. Calcoli o cabale?

«Corriere della Sera», 13 aprile 1911[1], 14 aprile 1911[2], 4 maggio 1911[3], 5 maggio 1911[4], 4 giugno 1911[5], 6 giugno 1911[6], 15 giugno 1911[7], 22 giugno 1911[8], 1 luglio 1911[9], 5 luglio 1911[10], 11 luglio 1911[11]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1960, vol. III, pp. 231-307

 

 

 

 

1

 

Vi sono due maniere di provvedere alle pensioni per gli operai. L’una è quella tenuta da Bismarck in Germania e da Lloyd George in Inghilterra. Fecero costoro il conto del costo del bilancio della pace sociale – questo è il nome con cui si usano chiamare oggi le assicurazioni operaie -; e lo presentarono al parlamento insieme colla proposta di nuovi balzelli sui contribuenti. Questa è finanza onesta. Provocò dibattiti solenni, che in Inghilterra non sono ancora chiusi. I partiti si schierarono l’uno contro l’altro in una feconda e magnifica battaglia di idee. Gli elettori furono chiamati a rispondere al quesito: Volete l’aumento dei dazi, o volete le imposte sulla terra per pagare le pensioni ai vecchi? Decisero dopoché per mesi e per anni ogni giorno con giornali, opuscoli, libri diffusi a diecine di milioni di copie, erano stati addottrinati – di preferire le imposte sulla terra.

 

 

Diversa è la finanza demagogica. Questa ha paura del dibattito, della profonda e larga divisione di idee e di partiti. Vuole l’unanimità nel bene; e poiché sa che tutti sono d’accordo nel volere fare il bene al prossimo, finché ciò nulla costi alla propria borsa, scopre, come i ciarlatani sui mercati e nelle fiere campagnuole, lo specifico miracoloso: i poveri avranno nella vecchiaia la pensione; e gli agiati potranno commuoversi a sì consolante spettacolo di solidarietà sociale senza che nessuna nube turbi la serenità della loro gioia; perché il finanziere demagogo ha, con una bacchetta magica, fatto sgorgare dalla rupe le decine di milioni necessarie all’opera di pacificazione. Combes ed i suoi accoliti bloccardi avevano scoperto il miliardo delle congregazioni religiose ed organizzarono la cacciata dei frati e delle monache dal suolo repubblicano di Francia. Giolitti ed i suoi amici socialisti hanno scoperto gli utili dell’assicurazione sulla vita e propongono la cacciata degli assicuratori privati e la creazione di un nuovo monopolio di Stato.

 

 

I parlamentari plaudono, commossi, alla scoperta mirabile che li farà apparire, senza spesa e senza l’impopolarità di nuovi tributi, in veste di filantropi nei prossimi comizi dinanzi alle cresciute turbe elettorali.

 

 

Benché non speri di persuadere chi ordisce l’illusione e coloro che sono lieti di essere illusi, sento il dovere, in questo momento decisivo della vita politica italiana, di denunciare la triste commedia giocata da coloro i quali vorrebbero dal nulla assoluto ritrarre i mezzi per compiere una delle più grandi e costose tra le opere della pace sociale. Da una illusione e da una viltà nacque in Italia l’esercizio di Stato delle ferrovie: l’illusione in pochi che lo Stato fosse in grado di gerire le ferrovie meglio di un’impresa delegata privata, la viltà in molti, i quali, consapevoli del contrario, tacquero per paura si dicesse che essi erano venduti alle compagnie private. È doveroso, ora che si vuol ripetere il medesimo errore, smascherare l’illusione ed avere il coraggio delle proprie opinioni, anche se queste, nell’interesse generale, son contrarie all’esercizio di Stato e favorevoli alle imprese private di assicurazione.

 

 

Quanto costeranno le pensioni operaie al tesoro? La risposta è impossibile, innanzitutto perché il ministero non ha dichiarato di voler proporre l’obbligatorietà dell’assicurazione degli operai contro l’invalidità e la vecchiaia, ma solo di voler «dare maggior energia d’azione e maggiori mezzi finanziari» alla esistente libera assicurazione presso la Cassa nazionale; ed in secondo luogo perché mancano troppi dati statistici perché un calcolo ragionevole possa essere istituito. In Germania le pensioni (obbligatorie) di invalidità e di vecchiaia costano circa 90 milioni di lire all’impero all’anno, oltre i contributi a carico degli operai e degli imprenditori. In Francia, ove l’assistenza ai vecchi già costa, per la legge del 1901, più di 100 milioni allo Stato ed agli enti locali, la nuovissima assicurazione obbligatoria contro la vecchiaia e la invalidità costerà inoltre, al solo Stato, non meno di 120-130 milioni fin dal bel principio, invece degli 80-90 che erano iscritti nei primitivi progetti governativi. In Italia, a voler fare un’ipotesi benignissima, non potremmo discendere al disotto di 60 milioni e più probabilmente andremmo verso i 100, dato che la popolazione italiana è di appena 4 milioni inferiore a quella francese, che gli italiani sono in media più poveri e quindi più numerosi in proporzione i vecchi aventi diritto alla pensione, meno diffusa la proprietà e meno numerosi coloro ai quali la pensione potrà essere negata. Ciò nel caso dell’assicurazione obbligatoria. Né le cifre potranno cambiare molto nel caso dell’assicurazione libera ove si voglia accettare come sincera ed effettiva la promessa del governo di dare sul serio «maggior energia d’azione» alla cassa nazionale. Che se anche questa fosse un’illusione, ogni discorso potrebbe essere troncato qui, in sul bel principio, come vano ed inutile.

 

 

Per far fronte a sì ingente spesa che cosa si propone? L’assunzione da parte dello Stato del monopolio delle assicurazioni sulla vita. E cioè lo Stato esproprierebbe (non indugiamoci per ora sui particolari della espropriazione) le attuali società d’assicurazione sulla vita operanti in Italia, incamerandone le riserve matematiche e surrogandosi negli obblighi e nei diritti verso gli assicurati; e per l’avvenire eserciterebbe da solo, in monopolio, questo ramo di assicurazione. Chiunque vorrà in avvenire assicurarsi sulla vita dovrà ricorrere al monopolio di Stato. Gli utili delle assicurazioni sulla vita volontariamente stipulate dai proprietari, industriali, capitalisti, commercianti, professionisti, impiegati, ecc. presso il monopolio di Stato dovrebbero essere versati alla cassa nazionale per far fronte all’onere delle pensioni di invalidità e di vecchiaia a favore degli operai. Il reddito delle operazioni fatte coi ricchi servirebbe a pagare il deficit delle pensioni date agli operai. È semplice e meraviglioso. Il guaio si è che si tratta di una illusione.

 

 

Nei discorsi privati v’ha della gente che farnetica di utili enormi ottenuti dalle imprese di assicurazione sulla vita: persino son cifre che mi capitò di sentir citare seriamente – di 500 milioni di lire all’anno. Altri si contenta di 100 milioni; l’on. Gino Incontri sulla Nuova antologia dell’1 febbraio favoleggiò di 40 milioni di lire; il prof. Attilio Cabiati sul Secolo e sulla «Stampa» reputa di potersi fermare con sicurezza sui 25-30 milioni di lire all’anno.

 

 

Sembra incredibile che il fanatismo possa spingere persone esperte del mestiere e ragionevoli negli affari ordinari della vita, economisti peritissimi nella previsione esatta dei disastrosi effetti delle statizzazioni (leggasi il profetico studio di Attilio Cabiati su La nazionalizzazione dei mezzi di trasporto ne «La Critica Sociale» del 16 ottobre 1903) a cotali estremi. Nulla o quasi nulla si conosce dei profitti attuali dell’industria delle assicurazioni sulla vita in Italia. Le notizie più fresche sono quelle che si leggono in appendice al disegno di legge sulle imprese di assicurazione sulla vita presentato dal Raineri nella seduta del 27 febbraio 1911 e che si riferiscono alla fine del 1909. Eccole riassunte:

 

 

Società nazionali

Società estere

Totale

Numero delle società

36

23

59

Numero polizze in vigore

158.647

108.273

266.920

Capitali assicurati

L. 667.492.233

930.125.684

I.597.617.917

Rendite assicurate

5.200.642

1.306.689

6.507.331

Riserve matematiche

54.181.203

245.312.222

399.493.425

Premi incassati nell’anno

25.937.634

36.295.395

62.233.029

 

 

Sono, purtroppo, cifre minime in confronto ai 27 miliardi di capitale assicurato e di 1 miliardo e 100 milioni di premi incassati nello stesso anno in Inghilterra ed alle somme, pure vistose, della Svizzera, della Germania e degli Stati uniti. Ma non è in poter nostro di ingrossarle; né di calcolare i profitti delle imprese di assicurazione su altre, fantastiche basi. Date quelle cifre, bisognerebbe, per dare i 40 milioni di profitti immaginati dall’on. Incontri, che il coefficiente di guadagno sui premi incassati arrivasse al 65% circa; o, per dare i 25/30 milioni del Cabiati, giungesse al 40-50%. Ammettendo che il coefficiente delle spese di amministrazione e di commissioni ai produttori sia solo del 20% (in Inghilterra nel 1909 fu in media del 24%), bisognerebbe concludere che, su ogni 100 lire pagate dagli assicurati, 85 lire, secondo l’onorevole Incontri, e 60-70 lire secondo il Cabiati, vadano devolute a profitti, spese e commissioni; e che soltanto dal 15 al 40% dei premi fosse restituito agli assicurati all’epoca della morte o del raggiungimento di una data età o col decorrere della vecchiaia. Tutto ciò è troppo grottesco per essere serio. Io non so, ripeto, e non lo sa nessuno, nemmeno l’on. Nitti – il quale deve certamente, mentre scrivo, far appello a tutte le arguzie del suo fervido ingegno per almanaccare una sopportabile dimostrazione statistica del progetto che scetticamente è in procinto di presentare alla camera – quanto guadagnino coll’industria dell’assicurazione le società esistenti. Ma supporre un margine del 10% di utile netto medio sui premi incassati è fare un’ipotesi che a me par ragionevole; perché se vi si aggiunge un coefficiente di spesa del 20%, arriviamo ad un carico lordo del 30% di profitti e spese sui premi incassati. Poiché il capitale nelle società di assicurazione ha sovratutto una funzione di garanzia ed è già remunerato a parte, bisognerebbe supporre, per rendere legittima l’ipotesi di un lucro più elevato, una assenza completa di concorrenza e l’impero di un monopolio assoluto. Il che non è; poiché, per quanto siano poche le compagnie potenti, tante istituzioni piccole e medie sono sorte e sorgono ancora in questo campo, che se davvero il margine di utile fosse superiore al 10% sugli incassi, ben presto sarebbe ricondotto a questo limite dalla concorrenza. Due ordini di considerazioni confermano l’ipotesi: 1) la cassa nazionale per la invalidità e vecchiaia degli operai, la quale lavora a costi minimi, perché in parte i suoi costi sono sopportati dallo Stato e da benemerite istituzioni locali, e non ha dividendi da ripartire ad azionisti, quando ha dovuto formare le tariffe per le assicurazioni popolari di rendita vitalizia ha dovuto stabilire tariffe non dissimili dalle tariffe delle società private. Che cosa vuol dire ciò? Che, pur rinunciando ad ogni profitto, pur lavorando, anzi, sotto costo, la cassa di Stato deve far pagare quanto le società private. Se queste lucrassero somme enormi, la cosa sarebbe inesplicabile; 2) gli utili delle società di assicurazioni risultano, dal bollettino delle società per azioni, in una cifra oscillante dagli 8 ai 10 milioni di lire. E più del 10% che dicevo sopra; ma la cifra conferma l’ipotesi fatta e ne dimostra anzi la larghezza eccessiva. Poiché utili delle società di assicurazioni non sono la stessa cosa degli utili attuali dell’industria dell’assicurazione. Una notevole parte degli utili delle società proviene dagli investimenti del capitale proprio di esse, e delle riserve sapientemente accumulate in passato, investimenti che spesso furono fatti con avvedutezza e con perspicacia, investimenti che sono una proprietà privata delle società, le quali ne potrebbero essere espropriate solo dietro un congruo indennizzo, i cui interessi farebbero svanire ogni lucro per lo Stato. Anche questo dovrebbe avere un capitale proprio e potrebbe ricavarne un utile; ma è sicuro di ottenerne quel 3,50% che pur converrà pagare ai portatori del prestito che converrà di emettere per dotare il futuro monopolio?

 

 

È vero che il Cabiati ha aggiunto agli 8-10 milioni di lucri palesi altri 10 almeno nascosti nelle pieghe dei bilanci a causa dei criteri prudenziali con cui le società confezionano i loro bilanci. Confesso di non saperlo seguire su questo terreno. La cifra di 10 milioni di utili nascosti è completamente arbitraria, non dimostrata e non dimostrabile. Assegnazioni a riserva devono essere fatte – e in misura cospicua – per ovvie ragioni di prudenza; né potrebbe esimersene lo Stato. Leggevo poche settimane fa, sull’«Economist», degl’imbarazzi a cui la tendenza odierna al rialzo nel saggio dell’interesse ha posto le compagnie inglesi di assicurazione sulla vita. Il rialzo avvantaggia da un lato le compagnie che vedono aumentare il reddito dei loro nuovi investimenti (4% invece del 3 o 2,50% a cui dal 1880 al 1900 s’erano dovute adattare); ma le danneggia d’altro canto ben più gravemente, perché i vecchi titoli del reddito di 2,50-3 lire acquistati a 100, quando il saggio dell’interesse era al 2,50-3%, adesso sono ribassati a 90, ad 80 ed anche a meno, essendo il reddito rimasto immutato, mentre il saggio dell’interesse ribassava.

 

 

Contro rischi di ribasso nel valor capitale degli investimenti è necessario accumulare riserve. Le dovremo noi perciò chiamare utili? Sarebbe opera di imprevidenza degna dello Stato italiano, il quale, per non avere saputo premunirsi contro le variazioni del saggio dell’interesse e contro altri rischi inerenti all’industria delle assicurazioni, ha lasciato cadere le vecchie casse pensioni del personale ferroviario nel baratro di un disavanzo di non si sa quante centinaia di milioni.

 

 

Dunque, ove non si voglia fare della finanza fantastica, ove non si voglia cadere nel grottesco, contentiamoci di dire che oggi le imprese esistenti in Italia dall’industria delle assicurazioni ritraggono una somma, che è ignoto quale sia, ma nell’ammontare della quale non si deve tener conto di quel tanto che serve a remunerare gli investimenti fatti, in occasioni talvolta superbe di rendimento, col capitale e colle riserve proprie delle società. Ho azzardato l’ipotesi che l’utile netto industriale non superasse il 10% dei premi incassati. È un’ipotesi che parmi fin troppo larga. Se fosse vera, gli utili si aggirerebbero sui 6 milioni di lire all’anno. Utili, ripeto ancora una volta, dell’industria assicurativa, che sono i soli che ci interessano. Perché degli altri utili che sono ottenuti dalle società di assicurazione con i capitali propri o con le proprie riserve, lo Stato non potrebbe impadronirsi senza espropriare capitali e riserve. Forse le società non desiderano niente di meglio. Perché pagando al valore corrente gli immobili e i titoli di proprietà delle società, queste smobilizzerebbero il loro patrimonio a prezzi sicuramente vantaggiosi. Il danno sarebbe tutto per lo Stato, che dovrebbe emettere parecchie centinaia di milioni di titoli di debito pubblico e non sarebbe sicuro di riprendere coi redditi del patrimonio espropriato gli interessi da pagarsi ai portatori dei titoli. Chi può, salvo nel farnetico di sogni avveniristici, supporre che lo Stato riesca ad impiegare i suoi capitali con un reddito – netto da spese – maggiore dal 3,50% di interesse da pagarsi ai creditori? Ed allora dove sono i redditi non industriali?

 

 

L’inanità dei discorsi sui benefici sperabili dal monopolio delle assicurazioni sulla vita può anche dimostrarsi in altro modo. In Francia una commissione parlamentare, composta di radico socialisti e desiderosa quindi di inventare pretesti per legittimare il feticcio del monopolio, si è trovata dinanzi a tali difficoltà che si è dovuta limitare a proclamare la bontà del principio, rimandandone all’avvenire l’attuazione. Orbene, nella relazione si leggono dei dati interessanti intorno ai lucri delle compagnie di assicurazione, che si distinguono, come di ragione, inutili dell’industria assicurativa, utili derivanti dagli impieghi di capitale ed utili diversi. Ecco i dati sommari dell’esercizio 1906:

 

 

Capitali assicurati

L. 5.202.457.147

Rendite assicurate

118.733.923

Utili industriali

13.528.367

» di impieghi

13.761.356

» diversi

829.180

 

 

In tutto, le società francesi, anonime e mutue, e le straniere operanti in Francia guadagnano dunque 28 milioni, la cifra all’incirca che si pretenderebbe far guadagnare in Italia al monopolio! Ma di questi 28 milioni appena 13 e mezzo sono utili industriali e sono i soli su cui un eventuale monopolio potrebbe fare assegnamento, perché gli altri sono il reddito delle case e dei titoli che sono proprietà privata degli azionisti, reddito che lo Stato farebbe un pessimo affare ad espropriare. Se in Francia, con 5 miliardi e 202 milioni di capitale assicurato e i 118 milioni di rendite a pagare, le società hanno un lucro industriale di 13 milioni e mezzo, quanto guadagneranno in proporzione le società operanti in Italia con 1 miliardo e 597 milioni di capitale assicurato e 6 milioni e mezzo di rendite promesse? Meno di un terzo di 13 milioni e mezzo, forse un 4 milioni e mezzo. È ancor di meno dei 6 milioni che, per abbondanza, avevo supposto argomentando dalle cifre dei premi.

 

 

Comunque sia, una cosa pero è certa: che questi utili, si tratti di 4 o 6 o 10 milioni, non durerebbero a lungo qualora lo Stato assumesse il monopolio delle assicurazioni. Poiché questa è un’industria che crediamo mal si presti ad essere statizzata.

 

 

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Quella delle assicurazioni, è un’industria che ad essere statizzata nulla potrebbe guadagnare e molto perdere: poiché il monopolio sarebbe per essa la forma di esercizio meno adatta, la più infida, la più finanziariamente pericolosa.

 

 

Nulla guadagnerebbe. Nessun argomento fu addotto a dimostrare che le assicurazioni sulla vita possano essere gerite dallo Stato con maggiore economia ed a costo più basso che dall’impresa privata. O, se qualche argomento fu addotto, è risibile. Tale l’allegazione che lo Stato, operando su un campo più vasto, assicurando tutti i rischi sulla vita che sono assicurabili in Italia potrà commettere meno errori di previsione, avrà bisogno di una minor riserva matematica e potrà stabilire delle tariffe più basse. Come se la verità non fosse invece questa: che le imprese private hanno nel momento presente già superato persino i limiti del mercato nazionale. Quella che per gli statizzatori appare come l’ultima Thule del progresso, come la conquista futura del nuovissimo monopolio, è, come tante altre invenzioni statali, da lungo tempo stata superata dall’iniziativa privata. Le maggiori e minori società, quando assicurano un rischio, a cui non basta il proprio capitale di garanzia, usano tutte riassicurarsi, almeno in parte. In tal guisa i rischi non gravano più su una sola impresa, ma su un complesso di imprese, talvolta su una rete di imprese che abbraccia il mondo intero degli assicuratori. Già ora la più piccola società può praticare – e dalla concorrenza è costretta a praticare – le tariffe che rispondono non ai suoi costi, che possono essere alti, bensì ai costi delle imprese meglio costituite che dominano il mercato mondiale delle assicurazioni, e può praticare quelle tariffe perché essa può sempre riassicurare i rischi che eccedono le sue forze. Il monopolio di Stato non opererebbe su un mercato più ampio, ma su un mercato più ristretto delle imprese private, e quindi – sotto questo rispetto – dovrebbe, se è vero l’argomento degli statizzatori, applicare tariffe più elevate. A meno che si decida a riassicurarsi, per una parte dei rischi assunti, presso le compagnie estere: cosa che sarebbe probabilmente resa difficile dal clamore della burocrazia nazionalista, gridante all’esportazione dei capitali ed all’arricchimento delle società straniere riassicuratrici.

 

 

Né più vale l’altro argomento, l’unico addotto dall’on. Giolitti, che il futuro monopolio guadagnerà di più perché «la garanzia sicura dello Stato provocherà un incremento della previdenza». Qui siamo di fronte al mistero. Come e perché una persona ragionevole debba avere più fiducia nello Stato assicuratore che nelle intraprese private, di cui egli può valutare il credito e studiare i bilanci, non si vede. L’esperienza proverebbe il contrario. Lo stato è riuscito a crescere il culto della previdenza solo colla forza dell’obbligatorietà. Quando lo Stato obbligherà tutti i cittadini ad assicurarsi, allora i suoi clienti si novereranno a milioni. Prima mi si consenta di rimanere scettico. Pur facendo pagare premi eguali alla metà, al terzo ed anche meno del costo, quanti operai e riuscito ad assicurare a 6 lire all’anno alla sua cassa di previdenza? Reclute individuali ne ottenne pochissime. Quasi tutte furono arruolate da municipi, enti morali, industriali, ecc. Dove sono i filantropi appartenenti alle classi ricche ed agiate pronti ad arruolare assicurati per il monopolio di Stato? Né si dimentichi che lo Stato è sempre più preso in sospetto dalle classi ricche ed agiate che dovrebbero costituire la clientela redditizia, del futuro monopolio. Chi riuscirà a togliere di testa al professionista il sospetto che, assicurandosi per un premio di 1000 lire all’anno presso il monopolio di Stato, l’agente delle imposte non ne tragga argomento per illazioni, più o meno giustificate, intorno al suo reddito od al patrimonio dei suoi eredi e per crescere a lui o ai suoi figli l’imposta di ricchezza mobile o di famiglia o di successione? Sono così facili adesso le maniere di assicurarsi all’estero che, ove appena un simile sospetto prendesse piede, subito le società di assicurazione estere avrebbero interesse ad attirare con accorta propaganda, simile a quella che riuscì con tanto successo a togliere alle banche italiane la custodia dei titoli forestieri posseduti da italiani per affidarla alle banche svizzere, la clientela migliore, più ricca e più colta, presso i loro stabilimenti francesi, svizzeri, triestini. Rimarranno al monopolio i rischi peggiori della minuta borghesia, quella a cui la sicurezza di compiere un’operazione vantaggiosa riuscirà a far superare l’istintiva repugnanza a far sapere i fatti propri allo Stato. Che cosa potrebbe fare il monopolio contro la emigrazione degli assicurati? Altra via di scampo non gli rimarrà fuorché imporre la fiducia.

 

 

Se nulla guadagna, molto perde l’industria assicurativa ad essere statizzata. Gli statizzatori, i quali vedono che nella incapacità organica dello Stato alle imprese industriali sta la massima ragione di sconfitta del nuovo monopolio, si danno un gran da fare a dimostrare che l’industria assicurativa è semplice, semplicissima senza quasi alcun carattere di industrialità, molto dissimile dall’industria ferroviaria, della cui statizzazione essi medesimi previdero il fallimento, dolorosamente e fatalmente verificatosi.

 

 

Unico elemento commerciale industriale è la ricerca degli iscritti, essi proclamano. Si lascino da questo lato le cose come sono. Paghinsi gli ispettori a provvigione, così come sono pagati ora; ed essi seguiteranno ad andare alla caccia di clienti per il monopolio di Stato, così come oggi vanno per le compagnie private.

 

 

Siamo ogni giorno spettatori di quello che lo Stato è capace di esigere dai suoi impiegati, della minima forza di resistenza dinanzi alle esigenze dei suoi funzionari riuniti in leghe, per potere rimanere un solo istante ingannati da una promessa così fragile. Il medesimo Stato che non è stato buono ad interessare, con una provvigione, i segretari comunali e gli ufficiali postali a cercar clienti per la cassa nazionale, che ha abolito la forma di pagamento ad aggio sugli incassi in pressoché tutte le pubbliche amministrazioni, che la sta abolendo, come contraria alla dignità umana, nelle ricevitorie del registro, che ha nelle ferrovie quasi distrutta l’efficienza di quei metodi di salari a premio, incerti e variabili, che potentemente servivano a stimolare la produttività del lavoro, lo Stato dovrebbe saper fare eccezione per i soli ispettori di assicurazione! Come si può ammettere che la burocrazia statale venga meno ai principii essenziali, fondamentali della sua vita: che sono la gerarchia, l’anzianità, l’eguaglianza di trattamento? Come si può credere, sul serio, che un direttore generale del monopolio di Stato pagato (lo vogliamo mettere a paro col direttore generale delle ferrovie?) 24000 lire all’anno, tolleri l’abuso, – son parole consuete nel gergo dell’invidia burocratica – di un produttore abile, intraprendente di assicurazione che ne guadagni, in provvigioni, 100 o 200 mila? Come tollereranno i commessi degli ispettori più abili di essere alla loro mercé; non vorranno essi – come vogliono ed ottengono od otterranno i commessi dei ricevitori del registro – diventare impiegati diretti dello Stato, con diritti di promozioni e di pensioni? Il giorno dopo che sul «Secolo» era stato pubblicato il programma del futuro monopolio, non si è forse domandato un ispettore d’assicurazioni: «chi può dire quale impulso meraviglioso verrebbe dato a questo ramo di operazioni dallo stuolo dei funzionari attivi che tutte le compagnie posseggono sino nei più lontani paesi quando si sapesse tranquillo nella posizione, sicuro della solidità dell’istituto, ed orgoglioso di rappresentarlo?».

 

 

Oggi gli ispettori producono e cercano clienti perché sono malsicuri, perché se non trovano il cliente, non hanno la provvigione e non vivono. È questa la forza delle imprese private, è questo l’aculeo, lo stimolo fecondo della gente che produce, lavora e crea: l’incertezza della vita, il timore perenne di essere travolti. Come sarà possibile persuadere gli ispettori di assicurazioni, passati alle dipendenze dello Stato, che essi debbono continuare a menar vita randagia ed incerta, mentre gli altri impiegati dello Stato al 27 del mese ricevono tranquillamente la loro paga senza preoccupazioni per l’avvenire? Come impedire a costoro di associarsi per redimersi dall’abbietta schiavitù della provvigione e per giungere all’ideale supremo della “posizione sicura”? La camera cederà; perché nessuna camera elettiva è capace di resistere alla pressione organizzata dei funzionari. Mi si dica per quali ignote vie, per mezzo di quali miracolose ed ora inesistenti forze si possa sperare di impedire la trasformazione graduale del libero ed attivo ed assillante ispettore di assicurazioni in un impiegato ugualitario, studioso della tabella di avanzamento, cospirante all’aumento degli stipendi, all’acceleramento delle carriere ed allo svecchiamento dei ruoli; ed io mi darò per vinto.

 

 

Le difficoltà dell’industria assicurativa non si restringono alla ricerca del cliente. Anche se questa fosse l’unica difficoltà, basterebbe a sconsigliare lo sperimento. Ma non è la sola. Un’altra difficoltà, e somma difficoltà, vi è: l’impiego dei capitali raccolti. I tedeschi, che hanno studiato tutto lo studiabile, hanno scritto libri per mettere in chiaro come gli istituti di assicurazione siano diventati oramai veri e propri istituti bancari. Sono banche che ricevono depositi di natura speciale, restituibili non a volontà del depositante, ma a date future prevedibili (morte, sopravvivenza ad una certa età, ecc.); e devono investire questi depositi in modo da averli a disposizione alla data indicata. Ciò può parere semplice e non è. Gli istituti di assicurazione debbono cercare impieghi che: 1) diano un rendimento relativamente alto, a pena di dover fare pagare agli assicurati un premio eccessivo; 2) siano assolutamente sicuri, perché si tratta di depositi spettanti a gente che ha voluto fare opera di previdenza; 3) non siano soggetti a deprezzamenti nel tempo, che può essere talora di 20, 30 e più anni, il quale rimane a decorrere tra l’epoca della riscossione del premio e quello del pagamento della somma assicurata. Creda chi vuole nella somma facilità e semplicità dei buoni investimenti rispondenti a questi requisiti. Forse è più difficile del far correre locomotive e treni su una rete ferroviaria, del fabbricare una corazzata in un cantiere militare, dell’esercire una rete telefonica, tutte cose nelle quali sappiamo benissimo quanto eccella lo Stato italiano. Perché bastano tecnici esperti e conoscitori delle correnti commerciali attuali per esercire una ferrovia, basta un ingegnere navale di genio per costruire una buona corazzata, basterebbe un buon organizzatore per far andare passabilmente i telefoni. Tutto ciò non basta per fare degli investimenti buoni non solo nel momento attuale, ma in un tempo futuro. Entra in giuoco una delle più preziose e più rare facoltà umane: la previsione degli avvenimenti futuri. Quanti amministratori prudentissimi delle società inglesi di assicurazione più potenti non si erano illusi che il consolidato del loro paese non potesse ribassare e l’ebbero a comperare a 110, 115 lire! E poi ribassò a 78 e convenne far fronte a perdite rilevanti. Così si spiega perché poche società sopravvivano di tante che si fondarono tra molte illusioni. Non sanno scegliere gli impieghi e lucrano il 3, il 2, il zero, il meno 2 o il meno 10%, laddove speravano d’aver collocati i capitali ad un frutto almeno del 4%!

 

 

Dicasi, se si osa, che lo Stato assicuratore saprà impiegare meglio dei privati i capitali che gli saranno affidati. Già li conosciamo gli impieghi preferiti dallo Stato. Sono quelli che egli in parte impone, col pretesto della sicurezza, alle società d’assicurazione per la riserva matematica: rendita, e titoli garantiti dallo Stato. Adesso si aggiungono gli impieghi sociali: mutui a case popolari, a cooperative, a compagne di redenzione delle terre incolte, e simili. Qui sta uno dei pericoli maggiori di questa pazzesca impresa: 1) da un lato agire come una pompa aspirante dei risparmi nazionali, tolti dagli impieghi liberi delle industrie e destinati a fornire i mezzi onde tappare le falle del bilancio statale e fare allegramente opere improduttive che, senza il denaro, a buon mercato, artatamente ottenuto, mai si sarebbero pensate; 2) sussidiare ogni fatta di intraprese artificiose, che da sé morirebbero, a favore di gruppi privilegiati, sapienti nell’imporsi ai governi. Il monopolio delle assicurazioni si palesa così come una nuova macchina di sprechi finanziari, di corruzione politica, aggiunta alle altre macchine di che lo Stato italiano già fruisce e che bisognerebbe ad una ad una abbattere, invece di moltiplicare insanamente.

 

 

Oggi le imprese di assicurazione hanno il senso della classificazione dei rischi, e cioè hanno vivo interesse a scortare i rischi troppo gravi, per non incorrere in perdite. Le visite mediche sono una assoluta necessità quando non si voglia mettere in forse la possibilità dell’impresa di far fronte agli impegni presi. L’interesse dell’impresa costituisce così un rimedio efficace contro la tendenza dei produttori di proporre ogni sorta di candidati, pur di lucrare la provvigione. Nel monopolio di Stato chi avrà questo interesse? Se i produttori saranno divenuti funzionari a stipendio, ad essi nulla importerà che i rischi siano buoni o cattivi, omogenei o no; tanto lo stipendio correrà ugualmente. Se ai produttori sarà ancora data una provvigione, essi non avranno alcuno scrupolo a proporre assicurazioni di persone poco adatte, ammalate o di costituzione poco resistente.

 

 

Ripeto: chi avrà interesse ad evitare il pericolo? Oggi sono i dirigenti delle imprese, che hanno interesse ad essere prudenti per salvare l’azienda. Domani, quando il disavanzo dovrà essere coperto dallo Stato, chi se ne curerà? Il direttore generale del monopolio non vorrà essere da meno di un qualunque altro direttore generale; e porrà il suo punto d’onore nel pubblicare statistiche di rilevanti crescenti somme di premi riscossi. Che cosa importerà che il coefficiente del costo cresca a poco a poco e faccia scomparire, convertendoli in una perdita, i 6 o gli 8 o i 10 milioni, che dovrebbero essere versati a pro delle pensioni operaie?

 

 

Ad ogni malanno la burocrazia sa trovare un rimedio. Il direttore generale del monopolio non avrà che da rivolgersi al collega direttore generale delle ferrovie per sapere come far apparire utili dove utili non vi sono. Vi saranno sempre attuari, che, con qualche leggero ritocco agli elementi primi del bilancio tecnico, al saggio dell’interesse ed alle tabelle di mortalità, dimostreranno che l’azienda è in perfetto pareggio. Non è abituato lo Stato a trascurare i disavanzi delle sue casse quando sono piccoli e ad accorgersene quando sono divenuti troppo visibili? Si farà tra venti o trent’anni un debito di un miliardo, come si fece per le ferrovie; ed i contribuenti pagheranno lo scotto, senza potersi rivalere contro coloro che oggi assicurano di poter risolvere, costruendo un castello di carta, il problema delle pensioni operaie.

 

 

Vi sono ore nella vita in cui il disgusto assale. Vien fatto di chiedere a che cosa abbiano servito gli insegnamenti della storia e della scienza se a distanze di secoli gli stessi spropositi si ripetono e si accarezzano le stesse chimeriche speranze. Duecento anni fa un faccendiere piemontese, il capitano Raviolato, desideroso di entrare nelle grazie del secondo restauratore della potenza di Casa Savoia, proponeva a Vittorio Amedeo II di istituire a Torino un banco reale, al quale voleva si affidasse il compito dell’assicurazione generale ed obbligatoria di tutte le case del Piemonte contro gli incendi. Prometteva premi bassissimi e redditi cospicui per il banco, il quale in pochi anni «si farà il banco più forte di tutta l’Europa», ed avrebbe dato un reddito netto siffattamente grande da poter far sorgere «manifatture non ancora praticate» negli Stati piemontesi. Vittorio Amedeo II vide che il progetto era una cabala, architettata per far guadagnare cariche ed onori all’inventore, e mandò a spasso il capitano Raviolato. Saprà l’opinione pubblica, erede della «volontà del principe» d’allora, vedere che la cabala odierna nulla darà allo Stato e gioverà solo ai burocrati anelanti a nuovi stipendi ed agli aspiranti alle future cattedre della previdenza?

 

 

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Che vi siano cabalisti i quali, dopo le discussioni avvenute nella stampa, ritengano ancora di cavare molti milioni dalla invenzione delle assicurazioni di Stato non può essere cagione di stupore, perché ogni cabalista ha l’anima del giuocatore al lotto e suppone sempre che il tenitore del banco (non è forse un banco da giuoco per costoro l’alternativa tra la vita e la morte?) guadagni almeno il 50% sulle giocate.

 

 

Ciò che meraviglia non è che i cabalisti architettino piani grandiosi e farnetichino ridde di milioni; ma che agli utili del 40-50% sui premi incassati si ostinino a credere economisti e tecnici, come il prof. Attilio Cabiati, il quale persiste a credere, in articoli pubblicati sulla Stampa, che sussistono i 25-30 milioni di utili che a me e ad altri erano parsi grottescamente esagerati.

 

 

Importa dunque che la cabala sia ancora una volta smontata. Essa non poteva decentemente presentarsi al grande pubblico senza che fosse preceduta dall’argomento che sul grosso pubblico fa più grande presa: delle azioni emesse dalle società di assicurazione ad 800, 1.000, 2.000 lire e che ora valgono le 3.000, le 7.000, le 10.000, le 25.000 e le 36.000. Probabilmente a studiare con più calma si sarebbero potuti addurre esempi di aumento ancor più spettacolosi e tali da disgradare i voli più sublimi delle azioni automobilistiche nel 1905-906 a Torino o delle azioni del caucciù a Londra nel 1909-10. Voglio anche ammettere, per abbondanza, che gli aumenti citati, i quali sono tutti di società straniere, non siano i soli; voglio persino concedere che sia corretto citare, come prova di larghi utili ottenuti in Italia, il fatto di aumenti avvenuti nei titoli di società straniere che da poco tempo operano in Italia; che esistano alcune pochissime società italiane i cui titoli sono molto aumentati di valore in confronto al corso di emissione. Anche tutto ciò ammesso, quale ne è il significato vero, non quello che può far colpo sul volgo, quel volgo non sempre analfabeta, il quale considera le società anonime come delinquenti e le borse come luoghi di perdizione? Semplicemente questo: che vi sono alcune poche società, fondate da molti anni, alcune da 80 o 90 anni, parecchie nella prima metà del secolo XIX, sopravviventi nella lotta di concorrenza dall’eccidio delle moltissime scomparse, i cui amministratori hanno, nel lungo corso di una vita prudente, accantonato utili, non distribuendoli agli azionisti, od hanno comprato, magari al corso di 40 o 50 lire, titoli di Stato che ora ne valgono 103, od hanno acquistato in passato case il cui reddito e valore ora si sono raddoppiati o triplicati.

 

 

Il patrimonio proprio di queste società ora è di gran lunga superiore al valore nominale delle azioni; spesso non risulta nemmeno dalle cifre iscritte nel bilancio, le quali talvolta corrispondono ai prezzi d’acquisto e non ai prezzi correnti; ed è naturale perciò che i titoli siano negoziati ad un prezzo superiore al nominale. Tanto più naturale in quanto i capitali di queste vecchie società erano in origine di solito piccolissimi, talché con non rilevanti redditi assoluti si riesce a pagare dividendi proporzionatamente elevatissimi. Ma ciò non vuol dire che siano elevati gli utili industriali correnti: significa soltanto ed esclusivamente che alcune poche società (la minoranza, badiamo bene, delle società esistenti) possono distribuire alti dividendi coi redditi del proprio patrimonio, accumulato con gli utili del passato e coi fortunati investimenti di essi. I redditi patrimoniali, per chi non voglia far vedere la luna nel pozzo agli operai desiderosi della pensione, sono una cosa completamente diversa dagli utili industriali attuali dell’esercizio dell’impresa di assicurazione sulla vita, i soli che ci interessino.

 

 

Tant’è vero che i corsi alti dei titoli di talune (poche) compagnie fortunate non sono una prova – la quale abbia anche un minimo valore – dell’esistenza di cospicui utili industriali, che i nuovissimi invasati dalla frenesia statale hanno dovuto architettare una prova diretta, meglio probante, di quegli utili colossali di 25-30 milioni che essi illudono di voler dare agli operai. Senonché la prova è fallita.

 

 

Diceva lord Beaconsfield, il grande primo ministro d’Inghilterra più noto sotto il nome di Beniamino Disraeli, che vi sono tre specie di bugie: bugie semplici, bugie qualificate e statistiche. Era un giudizio ingiusto contro le statistiche in genere, ma ben meritato contro le statistiche che non siano correttamente interpretate. Purtroppo, in questa faccenda delle assicurazioni, il nuovo e, perché nuovo, fervidissimo e cieco amore verso le statizzazioni ha indotto uomini, nel maneggio delle statistiche sapienti, a raccontare storie in cifre, atte soltanto a far venir meno qualunque fede nella storia e nelle cifre statistiche.

 

 

A dimostrare l’esistenza degli incredibili utili dell'”industria assicurativa”, si cita il caso – chiedo venia di dover, non per mia volontà, far nomi di compagnie singole – delle Assicurazioni generali di Venezia le quali nel 1910 avrebbero guadagnato lire 9.128.365,05, deducendo dalle quali lire 1.612.934,72 di utili distribuiti agli assicurati, sarebbero rimaste disponibili lire 7.515.430,33 da distribuire agli azionisti. Se una sola compagnia guadagna tanto, quanto non dovranno guadagnare le 60 compagnie operanti in Italia?

 

 

Il guaio si è che troppe avvertenze si erano passate sotto silenzio fra le quali principalissime le seguenti: 1) che quella compagnia è fra tutte le compagnie operanti in Italia, quella che trae dal nostro paese gli utili di gran lunga più cospicui e che quindi dai suoi utili non è possibile trarre legittimamente nessuna conclusione sugli utili ottenuti dal complesso delle imprese assicuratrici; 2) che, delle lire 9.128.365 guadagnate nel 1910, una piccola frazione (31.214,82 lire) è un riporto dall’anno precedente, il quale non va conteggiato per non far nascere doppi; ed una ben più gran parte, ossia lire 4.205.772,65 è ricavata dall’esercizio dell’assicurazione incendi, trasporti e furti. Di questi quattro milioni ed un quarto non è lecito discorrere, ora che si parla della convenienza di monopolizzare le assicurazioni sulla vita. Tanto varrebbe mettere in conto anche gli utili ricavabili dall’industria del trarre del fondo del mare i tesori d’oro e d’argento sepolti nei secoli XVII e XVIII nelle stive degli affondati galeoni di Spagna. Se ne parlerà, caso mai, il giorno in che ad un qualche altro frenetico salterà in mente, del che già si vedono i segni ammonitori, di proporre la statizzazione delle sicurtà contro gli incendi, trasporti e furti; 3) che, quindi, gli utili delle assicurazioni sulla vita sono non di 9 milioni e più, ma di lire 4.891.372,58. Dalle quali occorre dedurre lire 1.600.334,72 restituite agli assicurati e non costituenti quindi utile della compagnia. Salvo errore, l’utile del ramo vita riducesi perciò a lire 3.291.042,86, un terzo della cifra originaria; 4) che questi 3.291.042,86 di lire sono l’utile netto dell’industria assicurativa, ed insieme del patrimonio della società e che quindi gli utili industriali sono soltanto una frazione ignota di questa cifra; 5) che, finalmente, l’utile fu ottenuto col lavoro compiuto in Austria, Ungheria, Italia, Paesi balcanici, Impero Ottomano, Egitto, Germania ed in quant’altri paesi le “generali” estendono la loro influenza. Quale sia la parte spettante all’Italia ignoro, perché mi sono limitato alle avvertenze che saltano all’occhio anche da una affrettata lettura del bilancio. Se si pon mente che i premi incassati in Italia sono da un terzo a un quarto del totale incassi in tutti i paesi, si sarebbe tentati di concludere che gli utilizzi realizzati in Italia dalla compagnia stanno sotto al milione. Sarebbe calcolo avventato, per molte considerazioni tecniche che qui sarebbe troppo lungo dire. Basti concludere che, analizzata, la cifra dei 9 milioni riducesi ad una realtà di gran lunga meno consistente dell’apparenza. Almeno quella realtà la quale a noi, che discutiamo delle assicurazioni sulla vita e non delle assicurazioni incendi o furti, del monopolio italiano e non di quello austro ungherese o francese, unicamente interessa.

 

 

Poiché un bilancio, fantasticamente interpretato, aveva fatto balenare le decine di milioni di utili, bisognava spiegare da qual fonte gli utili provenissero. Le fonti sarebbero le seguenti:

 

 

1) Il cosidetto caricamento dei premi puri per le spese generali. Ogni compagnia deve farsi pagare dagli assicurati un premio corrispondente al rischio di morte (od all’altro rischio assicurato) che essa si accolla. Evidentemente però il premio puro non basta, perché la compagnia in tal caso percepirebbe un premio di 100 per restituire 100 come somma assicurata. Come qualsiasi altro commerciante, l’assicuratore deve aggiungere o caricare sul prezzo di costo (il premio puro è un vero prezzo di costo) una percentuale per le spese generali, provvigioni agli agenti, ecc. Le compagnie, dicesi caricano il 25%; e poiché in realtà spendono soltanto dal 12 al 15%, ottengono un primo guadagno uguale alla differenza del 10-13%. Si cita, in prova della affermazione, il libro di Tito Molinari sull’Ordinamento tecnico ed amministrativo delle imprese di assicurazione sulla vita.

 

 

Sono andato a leggere il libro del Molinari e nel capitolo del «caricamento» non ho visto far parola di un 25%, bensì di un 20%. È già un 5% che sfuma. Sull’esistenza del resto vi è anche molta incertezza; poiché a me risulta che compagnie mutue ed anonime, le quali hanno tariffe suppergiù uguali a quelle delle altre, caricano solo il 16% e sembra indiscutibile che il caricamento sul premio puro varii, a seconda delle specie di assicurazione, dal 10 al 20% con tendenza ad oscillare intorno alla media del 17-18%. Viceversa le spese effettive non sono limitate al 12-15%; ma salgono spesso bene al di là. Il Bario nel suo annuario delle assicurazioni dà per il 1909 e in Italia una media del 18%. Vi è una compagnia che non lavora più in Italia e, pur limitandosi agli incassi, spende il 7% dei premi; le altre vanno dal 10 al 70%. Sono calcoli difficilissimi a farsi, perché non si sa come calcolano le spese italiane le compagnie straniere, o le spese vita le compagnie esercitanti anche i rami degli incendi, ecc. La mia impressione è che le compagnie in media nulla risparmino su quanto si fanno pagare dagli assicurati a titolo di rimborso spese. Come si può immaginare, sia detto di passata e con sopportazione, che riesca in tale impresa lo stato?

 

 

2) La differenza tra la mortalità calcolata e la mortalità effettiva. Le compagnie, dicesi, calcolano i premi sulla base di determinate tabelle di mortalità; e poiché in realtà i morti sono in minor numero (appena il 50-60%), dei calcolati, è evidente che le compagnie guadagnano un altro 40%.

 

 

In prova il Cabiati cita il bilancio 1909 di una compagnia olandese, la Dordrecht. Mi sono procurato questo bilancio, ho rifatto i calcoli (mi si perdoni questa esposizione fastidiosa di spulciamenti e di contatti immondi – almeno li diranno tali quei giornali socialisti i quali gridano che io voglio togliere ai proletari i milioni che essi affermano esistere citando bilanci che agli economisti dovrebbe essere vietato di leggere – con le compagnie assicuratrici) ed ho trovato che nel 1909 la mortalità effettiva fu, per quella compagnia olandese, del 70,05% della mortalità presunta per il calcolo delle riserve, e dell’84,03 % della mortalità presunta per il calcolo dei premi. La differenza non è dunque del 40% ma del 29,95 % nell’un caso e del 15,97% nell’altro caso. La perdita degli assicurati meglio pare misurata dalla seconda cifra, la quale fa vedere quanto di meno avrebbero dovuto pagare in premi gli assicurati se la mortalità effettiva fosse stata uguale alla calcolata. Ma anche ammettendo – ciò che non risulta chiaro dai bilanci esaminati – che negli anni precedenti la Dordrecht abbia guadagnato il 40%, vi è una osservazione capitale da fare, di cui i tecnici comprenderanno subito la straordinaria importanza, la quale spero verrà intesa anche dai profani. La Dordrecht, a detta del rapporto del suo attuario, ha adottato una tabella di mortalità compilata sui risultati del censimento olandese del 1869. Se non ho stranamente frainteso, questa è dunque una tabella della mortalità generale degli abitanti di uno stato, sani e ammalati, assicurabili o no. È evidente perciò che lo scarto tra la mortalità calcolata in questa maniera e la mortalità effettiva delle teste scelte selezionate dagli assicurati possa essere rilevante, e che quindi quella compagnia possa avere per questo motivo un lucro rilevante, lucro che deve essere in notevole parte eliso, nel suo caso, dall’alto saggio dell’interesse (4%) adottato per il calcolo delle riserve.

 

 

Si può ritenere che questa differenza esista per tutte le compagnie? La cosa è inverosimile per una considerazione semplicissima: che le compagnie calcolano la mortalità sulla base della loro medesima esperienza passata, della mortalità cioè dei loro antichi assicurati, tutte persone scelte e sane. La celebre tariffa Hm generalmente adottata da noi, chiamasi così essendo le lettere Hm le iniziali del titolo Healthy males mortality table (tabella della mortalità delle persone sane), fu compilata da 20 compagnie inglesi. La mortalità è andata diminuendo, è vero, dopoché quelle tariffe furono compilate; ma è diminuita sovratutto nella massa della popolazione, che non si assicura, e meno nelle classi ricche ed agiate, le quali morivano già poco prima e le quali soltanto danno in Italia un contributo all’assicurazione. Una differenza fra la mortalità effettiva e la mortalità calcolata esiste senza dubbio, ma è, per il motivo sovradetto, minore del 40% immaginato. Per avere qualche lume positivo al riguardo ho esaminato numerosi bilanci di compagnie operanti in Italia; e, oltrecché in quello della Dordrecht, solo nei bilanci delle Generali Venezia, della Riunione adriatica di sicurtà e della Fenice austriaca ho trovato alcuni dati al riguardo. Do i risultati da me ottenuti, nella speranza che i tecnici possano fornire notizie più ampie e meglio criticate. Per le Generali Venezia la mortalità fu nel 1908 dell’84,88% di quella prevista, nel 1909 dell’87,17%, nel 1910 dell’81,32%. Quanto alle somme assicurate, la compagnia pagò nel 1908 il 16,60% di meno delle somme previste, nel 1909 il 21,24% e nel 1910 il 19,34%. La Riunione adriatica di sicurtà nel 1909 ebbe una mortalità uguale al 93,18% di quella calcolata e pagò il 9,26% di meno delle somme assicurate previste. La Fenice austriaca ebbe nel 1909 una mortalità uguale al 99,02% della calcolata e pagò il 7,89% di meno delle somme previste.

 

 

Siamo lontani da un lucro del 40%, e non ci sarebbe da meravigliarsi che, per talune compagnie, le quali spinte dalla concorrenza che è tra di loro rabbiosissima (anche gli accordi tra gli assicuratori sulla vita ho dovuto persuadermi essere una leggenda creata per mistificare il pubblico: l’accordo esiste, parziale, nel ramo incendio). Nel ramo vita le compagnie non vanno certo a spifferare nei bilanci le prove della loro inabilità; ma questo lascia sicure tracce nelle perdite di esercizio. Che se anche noi vogliamo ammettere che le compagnie abbiano un vantaggio nelle somme pagate rispetto a quelle calcolate da pagarsi, dal 59,89 al 21,24%, possiamo da ciò dedurre che sui premi pagati dagli assicurati vi sia per questo motivo un ugual margine di utile?

 

 

Le compagnie possono considerare come lucro solo il risparmio che fanno sul rischio che avevano gli assicurati di morire nell’anno medesimo in cui essi, contrariamente ai calcoli, non si decidono a morire. Ma le compagnie debbono pur sempre mandare a riserva una somma sufficiente, insieme coi nuovi premi versati poi dagli assicurati, a pagare le indennità promesse negli anni futuri in cui pure gli assicurati dovranno morire. Nelle assicurazioni miste, le quali tendono a diventare le predominanti, siccome la compagnia deve pagare la somma assicurata dopo 15, 20, 25 anni, anche se l’assicurato è in vita, l’utile ricavato dalla minor mortalità è, proporzionatamente al premio pagato, minore. Né si dimentichi infine che nelle assicurazioni di vitalizi od in caso di sopravvivenza le compagnie perdono, e non guadagnano, se gli assicurati hanno la ventura di vivere più a lungo di quanto calcolassero le tabelle. Nei resoconti della Dordrecht si leggono interessanti dati al riguardo.

 

 

3) Gli abbandoni di polizza ed i riscatti di essa per cui gli assicurati, rinunciando al contratto, perdono tutto il versato se la rinuncia avviene nei primi tre anni di polizza o, in ogni modo, una parte considerevole di quanto hanno sborsato, sarebbero la terza fonte di utili “importanti” per le società.

 

 

Anche qui pare vi sia della grossa esagerazione. Basterebbe a persuadercene la circostanza che questo è un utile non desiderato anzi aborrito dalle compagnie, alle quali assai di più conviene la prosecuzione che la rottura del contratto. I motivi sono evidenti. Se l’assicurato abbandona la polizza nei primi anni, la compagnia ha corso il rischio di morte, che è una spesa vera, ha dovuto pagare le spese generali e sovratutto non ha avuto tempo di ammortizzare le spese di provvigione agli agenti, le quali a questi si pagano tutte sul primo premio e giungono dal 50 al 70% di questo. Quindi l’abbandono di polizza spesso significa una perdita secca per la compagnia. Nei riscatti dopo i tre anni, è vero che le compagnie pagano solo una parte, circa l’80%, della riserva spettante agli assicurati, ma è vero anche che esse devono sovente finire di ammortizzare le sovradette spese di acquisizione del contratto e che esse devono garantirsi contro i prevedibili maggiori rischi futuri di coloro che continuano nel contratto. Si può infatti ritenere come probabile che riscattino le polizze i sani, i quali reputano di vivere a lungo, e non hanno più urgente bisogno di assicurarsi, cosicché il residuo gruppo di assicurati resti composto di sani e malsani, ma di questi in misura maggiore di quanto accadrebbe se non fosse assottigliato il gruppo dei sani a causa dei riscatti.

 

 

4

 

Ho cercato di dimostrare, nel precedente articolo, che sono fantastiche esagerazioni quelle di chi pretende che le compagnie di assicurazione ricavino grossi utili del 10, 40 e non so quanto per cento – percentuali che si lascia credere potersi sommare tra di loro – dai tre elementi: a) del maggior  caricamento di spese in confronto a quelle che sono spese effettivamente sostenute; b) della minore mortalità effettiva in confronto della calcolata; c) degli abbandoni e riscatti di polizze. Questi tre elementi non è certo lascino, dopo aver pagato le spese di acquisizione dei contratti e di esercizio, un lucro netto alle compagnie.

 

 

Aggiungo che il lucro lordo tenderà a diminuire a mano a mano che, ad esempio, le tabelle di mortalità andranno via via perfezionandosi sulla base della mortalità effettiva delle teste scelte assicurate dalle medesime compagnie.

 

 

In Italia le Assicurazioni generali di Venezia nel 1907 hanno già variato le tariffe sulla base della loro esperienza; e quindi è probabile che per l’avvenire lo scarto tra la mortalità calcolata e la mortalità effettiva abbia ad essere minore che per il passato. È noto altresì che le società italiane stanno apparecchiando i dati per una nuova tabella di mortalità italiana, la quale viemmeglio raggiungerà l’intento di avvicinare la mortalità effettiva alla calcolata.

 

 

Notisi bene che, pur non essendo i tre elementi fin qui discussi fonte in media di lucri netti rilevanti per le compagnie, non ne segue che nessuna compagnia ne tragga un utile, ma che le compagnie prese insieme non se ne avvantaggiano. Le compagnie che sono rigidamente amministrate, con parsimonia ed audacia nello stesso tempo, che esercitano una selezione severa sugli assicurandi, rifiutando tutti i rischi pericolosi, guadagneranno; ed invece perdono quelle in cui le spese non vengono ridotte al minimo e quelle in cui le visite mediche non sono severe. Chi può illudersi che lo stato abbia proprio ad essere un economicissimo amministratore e che i suoi medici non abbiano a chiudere gli occhi sui difetti di salute degli assicurandi bene raccomandati da qualche deputato o grande elettore del futuro blocco rosso o nero?

 

 

Rimane l’ultima fonte di guadagno delle compagnie, l’unica importante secondo me: la differenza fra il saggio di interesse pagato agli assicurati e quello lucrato dalle compagnie. Le compagnie calcolano i premi supponendo di impiegare i capitali al 3,50%, mentre invece «le società più solide ed antiche» – dice il Cabiati ne traggono un reddito medio del 4,50%. Pagano agli assicurati in ragione del 3,50% e guadagnano il 4,50%.

 

 

Ebbene sia. Voglio ammettere che le società tutte, e non solo le più solide ed antiche, lucrino il 4,50% sulle riserve spettanti agli assicurati, di cui hanno la libera disponibilità. Nessuno ignora invero come le società siano obbligate a depositare presso il tesoro in rendita pubblica una parte (che è di un quarto dei premi, oltre ad un quarto dei relativi interessi, per le compagnie nazionali e di una metà per le compagnie estere) dei premi a garanzia degli assicurati. Il reddito che da questa parte è conosciuto ed io l’ho supposto essere del 3,75%, meno il 0,10% di diritto di custodia, ossia del 3,65%. È un’esagerazione, perché si sa che la rendita oggi è al disopra della pari e rende meno del 3,75% ed ancora meno renderà nel 1912 colla automatica riduzione al 3,50%. Ed è una esagerazione credere che tutti gli altri capitali, liberamente disponibili, rendano in media il 4,50% all’anno. Ma è una esagerazione a cui si può consentire nell’intento di fare le supposizioni più benigne, le più favorevoli a ingrossare gli utili di cui verrebbe ad impadronirsi il futuro monopolio.

 

 

Supponiamo dunque che le riserve depositate presso il tesoro rendano il 3,65% e quelle libere il 4,50%. Si vuol sapere quanto, in questa ipotesi, guadagnano le compagnie? Il calcolo non l’ho fatto io; l’ha fatto, con accurato metodo e con lunga fatica, l’attuario della Società di assicurazione di Milano, il prof. Sestilli, che nel mondo scientifico attuariale è meritamente apprezzato ed insegna scienza attuariale alla Università commerciale Bocconi. Le tabelle preparate dal mio egregiocollega sono troppo complesse ed ampie per poter essere presentate integralmente qui. Basti accennare al criterio fondamentale con cui il calcolo è stato condotto ed alle risultanze che se ne sono ottenute. Il criterio si può schematizzare così, in un conto dei profitti e perdite:

 

 

Introiti Spese
1. Incasso premi al netto dalle riassicurazioni. 1. Indennizzi, riscatti ed utili pagati agli assicurati a netto dai rimborsi dei riassicuratori.
2. Interessi attivi sulle riserve matematiche.  2. Spese generali, provvigioni, onorari ai medici, ecc.
3. Tasse a carico della compagnia.
4. Aumento avvenuto nell’anno nella riserva matematica.

 

 

A me sembra questo il solo modo corretto di calcolare gli utili dell’esercizio dell’industria assicurativa. All’attivo gli incassi netti e il reddito delle riserve ed al passivo gli indennizzi ed altri pagamenti fatti agli assicurati, le spese e tasse e l’incremento della riserva matematica, il quale ultimo sta a rappresentare l’aumento nel debito della società verso gli assicurati. Se utili ci sono, di qualunque specie, derivanti dalla minore mortalità, dalle minori spese, dagli abbandoni di polizze e dal cospicuo reddito delle attività sociali, devono venir fuori da un conto impiantato in questa maniera. Rimangono fuori soltanto i redditi del patrimonio proprio (azionario e riserve patrimoniali) delle società; e rimangono fuori a giusta ragione, perché di questi redditi lo stato non potrebbe impadronirsi, a meno di macchiarsi di una scandalosa rapina della roba altrui, senza pagare una giusta indennità al prezzo corrente delle attività espropriate. E gli utili del patrimonio proprio delle società non hanno nessun legame logico con l’industria assicurativa, essendoché questa può teoricamente esercitarsi anche senza capitale, limitandosi essa a ripartire rischi; ed il capitale serve soltanto, sugli inizi, a garanzia degli assicurati e, se dà reddito, questo proviene dagli impieghi particolari suoi.

 

 

Quanto alle risultanze del calcolo, non sono certo quali le avrebbero desiderate i monopolisti. Notiamo che sono trascurate soltanto le società, i cui bilanci non offrono nessun lume o che hanno cessato di lavorare in Italia o che riassicurano integralmente i loro rischi. Le società trascurate incassarono nel 1909 (anno a cui i calcoli attengono) soltanto 1.793.212 lire di premi su un incasso totale di 62.237.032 lire. Ecco ora l’elenco dei lucri e delle perdite nette delle società assicuratrici esercenti in Italia.

 

 

Società che guadagnano

Società che perdono

Nazionali

Nazionali

L. 234.390,43

L. 112.838,64

145.548, 32

102.405,21

36.653,10

45.521,97

30.441,97

34.222,48

30.268,73

————————-

23.598,47

22.622,38

L. 294.988,30

18.167,74

12.025,74

Estere

11.866,79

L. 505.245,79

2.959,12

407.997,01

————————–

357.827,48

L. 568.542,79

250.320,22

126.575,74

84.013,22

59.892,04

58.964,76

Estere

55.269,59

18.216,03

L. 1.064.922,33

17.620,21

189.966,38

13.495,58

116.613,38

10.431,16

100.777,34

9.974,13

71.385,12

8.955,84

30.207,71

7.933,41

20.594,91

221,68

————————-

————————-

L. 1.594.467,17

L. 1.992.953,89

 

 

Queste cifre sono il risultato di calcoli accurati fatti sui dati ufficiali. Io non mi nascondo che talvolta i dati pubblicati sul bollettino delle società per azioni sono complessi e di difficile interpretazione e che quindi i risultati dei calcoli istituiti su di essi sono suscettibili di qualche variazione. E bisogna aggiungere che gli utili effettivi potranno scostarsi, in più od in meno, da quelli sopra calcolati, a seconda che le diverse compagnie lucreranno di fatto, di più o di meno del 4,50% sulle riserve libere. E mi auguro perciò che gli attuari delle compagnie o, meglio, l’associazione italiana degli attuari faccia uno studio analitico, dimostrativo per un decennio od un quinquennio, e lo renda di pubblica ragione. Mi auguro che altrettanto faccia il ministro Nitti e non in blocco con ipotesi approssimative, ma caso per caso, compagnia per compagnia, e ne presenti i risultati analitici al parlamento, in appendice al suo disegno di legge. Solo così, dal contrasto degli opposti calcoli analitici e documentati, sarà dato di formarsi un giudizio obiettivo sull’entità dei lucri dell’industria assicurativa.

 

 

Frattanto, il quadro sopra presentato ha bene una fisionomia familiare all’occhio dello studioso di scienze economiche. In tutte le industrie, accanto alle imprese che guadagnano vi sono le imprese perdenti; e sarebbe strano che le cose andassero diversamente nell’industria assicurativa. Quelle che perdono, colmano la perdita con i redditi del patrimonio proprio e talvolta nemmeno questi bastano. Né se ne rammaricano troppo le perdenti, perché è noto che nella industria assicurativa si può riuscire a guadagnare normalmente dopo una ventina d’anni di sforzi perseveranti, di esperienze ammaestratrici riguardo alla selezione degli assicurandi, alle spese generali, alle provvigioni agli agenti, di impieghi fortunati ed accorti, di valorizzazioni a lunga scadenza degli stabili comperati in momenti opportuni. Le compagnie estere perdenti perdono più di quanto guadagnano le fortunate; e ciò dipende sovratutto dal fatto che esse sono tenute ad investire una metà (invece del quarto per le compagnie nazionali) dei premi in rendita italiana poco produttiva. Qualcuna delle compagnie estere che nel quadro risultano perdere maggiormente, ha già infatti deliberato di non lavorare più in Italia e liquida solo le operazioni passate. Le altre seguitano, perché colmano le perdite italiane con i lucri esteri e considerano le prime come una spesa di pubblicità e di avviamento.

 

 

Per valutare quale potrebbe essere il guadagno del futuro monopolio ho voluto fare un altro calcolo. Ho calcolato cioè quanto, per ogni 100 lire di premio pagato dagli assicurati, guadagnano le imprese di assicurazione. Non è un criterio perfetto dell’importanza relativa degli utili; ma è il meno imperfetto che io conosca. Ecco dunque quanto, per cento lire di premio, guadagnano o perdono le società (anonime, mutue e cooperative), secondo i dati già citati:

 

 

Società che guadagnano

Società che perdono

Nazionali

Nazionali

14,09 %

650,00 %

5,18

37,11

4,36

15,81

4,07

12,52

3,96

3,25

Estere

3,15

2,72

110,89 %

1,01

101,54

0,89

88,92

0,73

82,33

40,27

38,01

35,77

Estere

30,66

30,35

9,98 %

30,01

8,26

19,85

8,09

19,65

6,51

9,01

6,51

1,49

2,31

0,21

1,76

0,16

 

 

Si vede come, proporzionatamente ai premi versati dagli assicurati, il margine di lucro – quando lucro vi è – è tenuto assai basso dalla rabbiosa concorrenza esistente fra le compagnie. Una sola società arriva a lucrare il 14,09% dei premi; ed è un caso che non conta, perché trattasi di società piccolissima, con un incasso di meno di 90.000 lire di premi all’anno, ed in cui l’alto margine è affatto accidentale. La società che in realtà guadagna di più è il n. I delle estere, col 9,98% dei premi; ed è caso che conta assai, trattandosi di una impresa primaria. Tutte le altre stanno al disotto, sino a guadagnare solo il 0,73% dei premi. E tra quelle che meno guadagnano vi sono compagnie reputate ed antiche. Invece la perdita, quando si perde, può essere rilevantissima. Trascurando il caso estremo di una perdita del 650%, dei premi, che è quello di una piccola società ai suoi inizi, le perdite annue possono andare dal 0,16 al 110,89% dei premi annualmente incassati.

 

 

Si può perciò concludere:

 

 

  • che, se lo stato amministrerà con tanta parsimonia, sceglierà i suoi assicurati con tanto rigore di visita medica, impiegherà i suoi capitali con tanta avvedutezza, come si usa dalla compagnia che maggiormente lucri, potrà ottenere un utile del 9,98% sui premi, ossia, su 62 milioni di premi, di circa 6 milioni di lire all’anno.

 

 

  • che, se lo stato gerirà il monopolio coi criteri di compagnie ottime che lucrano largamente, potrà ottenere un utile del 5% sui premi, ossia di 3 milioni di lire all’anno.

 

 

  • che, ove appena appena lo stato non usi di diligenze singolari e non sappia impiegare i suoi capitali a più del 3,50%, i suoi utili si ridurranno a zero e si potranno convertire in una perdita di 6, 10, 20 e forse più milioni di lire all’anno.

 

 

Le supposizioni prima e seconda siano probabilmente escluse per lo stato, e la meno improbabile (per la impossibilità di resistere alle pressioni degli agenti, che fin d’ora si organizzano per reclamare maggior decoro di vita, per i pericoli di rilassatezze elettorali e politiche nella selezione medica, per la accertata impossibilità di far rendere ai capitali nemmeno il 3,50%) è la terza ipotesi. Onde nell’interesse pubblico e nell’interesse dei lavoratori a cui si fa balenare la speranza di una pensione, ripeto – fino a dimostrazione contraria tuttora non data – i voti affinché il mostro del monopolio delle assicurazioni venga strozzato nelle fasce. E mi auguro, per l’affetto e la stima grandissimi che ho per lui, che lo strozzatore sia Francesco Nitti.

 

 

5

 

Coloro i quali speravano dall’on. Nitti l’annuncio di una nuova e geniale maniera di risolvere il problema del monopolio delle assicurazioni, debbono essere rimasti fortemente disillusi. Il disegno non contiene alcuna novità né pone su nuove vie l’industria assicurativa. Era del resto una stravagante pretesa quella di chi voleva che un ministro, sia pure d’ingegno grande, riuscisse a scoprire qualche cosa di nuovo in un campo che da un secolo è stato percorso e ripercorso in tutti i sensi da abilissimi uomini di affari, da tecnici di prim’ordine e da scienziati valorosi. L’unico discorso che poteva fare il ministro, era questo: lo stato d’ora innanzi eserciterà in Italia quella industria assicurativa che sinora era esercitata dai privati. Il succo del disegno di legge governativo sta tutto lì: nella proclamazione del monopolio di stato. Naturalmente, siccome in Italia l’opinione pubblica guarda con diffidenza lo stato, si è usata l’avvertenza di dichiarare che il monopolio non è governativo in senso stretto, ma spetta ad un ente autonomo, chiamato “Istituto nazionale di assicurazioni”, con proprio consiglio, sindaci suoi e direttore inamovibile. Sono le parole solite, oggidì messe di moda; ma sono una maschera la quale non nasconde a nessuno la realtà, che è la creazione di una nuova amministrazione governativa.

 

 

Il disegno di legge si può adunque riassumere tutto nella proclamazione del monopolio di stato? No. Qualche cosa di più vi è; ma questo qualcosa ha un’indole curiosa, davvero insolita in un disegno di legge.

 

 

Sfrondato dai suoi elementi formali, direi quasi procedurali, il disegno di legge si può decomporre in due parti. In una, brevissima, che avrebbe potuto stare in poche righe, si proclama il principio del monopolio. Questa prima parte era, nella mente degli ideatori del monopolio, l’unica cosa che essi volevano dire quando primamente la cabala si affacciò, ad opera degli on. Bissolati e Bonomi, all’orizzonte della vita politica italiana. Essi erano convinti che nessuna critica seria, apprezzabile, scientifica, potesse farsi al monopolio: ignorando le polemiche in passato combattute in Italia, le trattazioni estere, erano persuasi che l’unica opposizione prevedibile fosse quella delle compagnie private; ed erano deliberati a passarvi sopra, come quello che veniva dagli interessati. Sarebbe bastato proclamare il principio, perché ogni discorso dovesse aver termine.

 

 

Vennero invece la critica e le polemiche vivacissime; e sebbene se ne dicesse lietissimo, è evidente che il ministro se ne è preoccupato assai. Fin troppo; sino al punto da indurlo ad aggiungere al primitivo progetto, che poteva constare di pochissimi articoli, una seconda parte, che è una vera e propria polemica contro i nemici del monopolio. Sicuro, questa è la sola e curiosa novità del disegno Nitti; esso non è un disegno di legge, è una polemica giornalistica, scritta nella forma apparente di articoli di legge.

 

 

Avevano detto taluni che l’assunzione del monopolio sarebbe stata onerosa per lo stato, per le cospicue indennità che questo avrebbe dovuto pagare alle compagnie di assicurazione? Subito il governo risponde che non pagherà alcun compenso o indennità per qualsiasi titolo o causa. E poiché gli oppositori avrebbero potuto ribattere che non è ufficio del legislatore, ma del magistrato di stabilire i compensi e le indennità dovute in caso di espropriazione per pubblica utilità, e che contro a questo supremo principio di diritto e a questa alta ragione del viver civile non valgono difese, il ministro senz’altro replica dichiarando l’incompetenza del magistrato e costringendolo – d’ordine del principe – a non tener conto delle domande di indennizzi che contro lo stato fossero presentate.

 

 

Erasi affermato che gli assicuratori seguiteranno a stipulare contratti e gli assicurati ad assicurarsi, sia in segreto nel regno stesso, sia, e meglio, all’estero? Ed era stata preveduta dai maligni nemici del monopolio l’istituzione di sedi, filiali o succursali delle compagnie d’assicurazione a Chiasso, Lugano o Trieste? Ed eccoti il compilatore rispondere che i contratti conchiusi nel regno saranno nulli, che quelli conclusi all’estero saranno considerati fraudolenti; e i contravventori puniti con multe dal 5 al 20 % della somma assicurata, e, in caso di recidiva, anche col carcere da uno a sei mesi.

 

 

Ecco dunque come si è risolto il problema: non solo gli assicuratori, ma anche gli assicurati multati e incarcerati ove essi si ostinino a commettere il nuovissimo delitto di non aver fiducia nello stato assicuratore (e tassatore) e di preferire una compagnia di assicurazione straniera o italiana domiciliata a Chiasso! Sono enormità, che possono aver corso in un comizio o in una polemica giornalistica; ma essendo minacce inapplicabili non crescono certo il rispetto verso la maestà della legge. Viene in mente, irresistibile, il ricordo del dott. Azzeccagarbugli che legge a Renzo attonito le minacce della grida dei governatori di Milano. A quando la berlina e l’impiccagione in effige, come usavasi contro i contravventori dei monopoli sotto gli antichi regimi?

 

 

Continuiamo. Avevano detto gli oppositori che la nuova burocrazia assicuratrice avrebbe preteso ben presto stabilità di carica, organici regolari, pensioni, ecc. ecc., e avrebbe dato perciò un rendimento meschino di fronte all’odierno personale privato, agile, vivo perché assillato dalla continua paura di perdere posto e guadagno? Al solito il ministro risponde che non è vero niente: che gli impiegati dell’istituto non sono né potranno essere equiparati agli impiegati dello stato; sono assunti con contratti a termine determinato, rescindibili e rinnovabili; la loro retribuzione potrà essere commisurata al tempo o al lavoro compiuto, non avranno diritto a pensione, ma solo a una assicurazione sulla vita. Anche gli agenti produttori saranno retribuiti esclusivamente con una provvigione proporzionata al numero e all’entità degli affari per mezzo di essi conclusi, ecc. ecc.

 

 

Chi abbia una certa consuetudine di archivi e di vecchie carte dei secoli XVII e XVIII, riconosce subito una parentela spirituale di stile e di contenuto. Quei vecchi principi avevano anch’essi il vezzo di promettere a nome dei loro più lontani successori; e con giuramenti solennissimi promettevano ogni sorta di cose; che sarebbe stato l’ultimo aumento di imposta, che presto le avrebbero diminuite, che mai più avrebbero recato offesa ai diritti dei loro creditori. Promettevano sempre, quei cari vecchi principi, e regolarmente si dimenticavano delle promesse. Anche oggi Nitti giura solennemente, a nome dei suoi successori, che essi mai non commetteranno nessuno di quegli errori abominevoli che egli implicitamente riconosce sarebbero la morte del monopolio di stato. Una delle due: o gli impiegati del monopolio finiranno per diventare uguali agli altri impiegati dello stato, e allora le perdite del monopolio giungeranno a cifre alte; o voi avete scoperto qualche magica maniera, qualche forza ignota con cui impedire che l’inevitabile avvenga, impedire che gli impiegati del monopolio chiedano di essere equiparati agli altri impiegati pubblici, impedire che essi si coalizzino in leghe e che queste premano sui pubblici poteri, e voi avete l’obbligo preciso di esporre questa vostra miracolosa scoperta. Ma fare invece promesse ipotecate sul futuro non è nemmeno un molto elegante accorgimento di politica spicciola.

 

 

Ancora una osservazione delle tante che si potrebbero fare. Erasi affermato dagli oppositori che lo stato perderà dove le compagnie guadagnano, perché sarebbero disagevoli quei modi di impiego proficui che la snellezza dei movimenti e l’iniziativa individuale consentono a un privato. Qui il disegno di legge non risponde, perché la risposta era impossibile. Anzi fa un breve elenco degli impieghi di capitale consentiti al futuro istituto nazionale, elenco dal quale salta fuori evidentissima la angustia dei limiti entro i quali dovrà forzatamente muoversi lo stato. Sarà un miracolo se il monopolio riuscirà, dati quei vincoli, a cavare fuori un 3,50% netto in media dai capitali affidatigli; il che significa che l’istituto non guadagnerà.

 

 

Però gli utili che non potranno esistere spontaneamente, converrà figurino nei bilanci. Il disegno di legge appresta già alcuni mezzi atti a creare utili fittizi simili a quelli che già ben conosciamo per il bilancio delle ferrovie di stato:

 

 

  • Concedendo all’istituto l’esenzione dall’imposta di ricchezza mobile per i suoi utili;

 

  • Concedendo la franchigia postale e telegrafica;

 

  • Incaricando in esenzione di spesa del servizio delle riscossioni dei premi e del pagamento delle indennità gli uffici postali ed i ricevitori del registro;

 

  • Autorizzando i notai, i ricevitori del registro, gli agenti delle imposte, i segretari ed agenti comunali, gli ufficiali ed agenti postali a perdere il loro tempo, pagato dallo stato o dai comuni, nel procurare contratti di assicurazione al futuro monopolio.

 

 

La autorizzazione non servirà a niente, perché assicuratori si nasce e non si diventa, e il tipo dell’impiegato pubblico è quanto mai lontano dal tipo dell’assicuratore. Tutt’al più scoraggerà con la concorrenza illecita di un personale altrimenti pagato e lavorante sotto costo, i veri assicuratori di mestiere e li indurrà a non curarsi delle cabale governative.

 

 

È evidente in ogni caso l’artificio contabile con cui fino ad ora si progetta di far figurare utili inesistenti; sarà l’erario dello stato, il quale rinuncerà a talune imposte e tasse che oggi percepisce, farà a sue spese certi servizi che ora sono costosi per le compagnie, pagherà, sul bilancio generale, gli impiegati addetti al monopolio. Tutto questo scompiglio avverrà per far figurare un guadagno a favore del monopolio. O non sarebbe più semplice far versare addirittura un sussidio dal tesoro alla Cassa nazionale di previdenza?

 

 

6

 

Nel disegno di legge governativo per il monopolio delle assicurazioni quasi tutti gli articoli suscitano la critica. Ve n’è uno che in un paese, sacro ad alte tradizioni, fa venire il rossore alla fronte, ripensando che l’Italia fu la culla del diritto. Giova citarlo per disteso:

 

 

Articolo 2. – Le società, associazioni, compagnie, imprese ed i privati che comunque esercitano nel regno l’assicurazione sulla durata della vita umana non potranno mai pretendere dallo stato o dall’istituto nazionale di assicurazioni garanzie, compensi od indennità per qualsi voglia titolo o causa, in relazione alle conseguenze che dipendano, anche in via indiretta, dal monopolio stabilito con questa legge, di qualunque specie esse siano e non saranno ammesse azioni in giudizio per siffatti scopi. Continueranno i suddetti assicuratori ad eseguire i contratti in corso e a riscuoterne i premi, a norma dell’articolo 19. Ma gli assicurati nulla potranno mai pretendere o reclamare, a loro volta, contro lo stato o contro l’istituto nazionale di assicurazioni in qualsiasi caso di inadempimento, o non regolare adempimento, delle rispettive obbligazioni dei loro assicuratori.

 

 

E giova ancora citare, subito dopo, l’articolo dello statuto fondamentale del regno, il quale recita:

 

 

Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili. Tuttavia quando l’interesse pubblico, legalmente accertato, lo esiga, si può esser tenuti a cederle in tutto o in parte, mediante una giusta indennità conformemente alle leggi.

 

 

E rincalza il codice civile all’articolo 438:

 

 

Nessuno può essere costretto a cedere la sua proprietà od a permettere che altri ne faccia uso, se non per causa di utilità pubblica legalmente riconosciuta o dichiarata e premesso il pagamento di una giusta indennità. Le norme relative alla espropriazione per pubblica utilità sono determinate da leggi speciali.

 

 

Lo statuto e il codice civile non esprimevano una formula transitoria, soggetta a facili violazioni ed a dimenticanze innocue. Ricordavano i compilatori i tempi in cui la volontà del principe bastava ad espropriare senza indennità i privati a beneficio del pubblico erario; e vollero solennemente dichiarare che ogni proprietà era inviolabile e poteva essere espropriata soltanto in seguito ad equo indennizzo. Ha cioè lo stato il diritto di far sua la proprietà dei privati per motivo di pubblica utilità; ma il vantaggio di tutti non può ottenersi recando un ingiusto danno a taluni pochi. È la collettività che nel suo insieme deve sopportare le spese necessarie a raggiungere il fine comune. Lo stato non può, arbitrariamente, scegliere in mezzo ai cittadini alcuni pochi e costringerli a pagare essi soli il costo di un’opera voluta dallo stato a beneficio di tutti. Agendo altrimenti si risuscitano i metodi di governo del basso impero o la spiccia procedura dei Medici per arricchire l’erario, abbattendo singolarmente i capi delle grandi famiglie fiorentine avverse al loro dominio.

 

 

Il disegno di legge nega, invece, ogni diritto a garanzie, compensi od indennità per qualsiasi causa o titolo alle società, associazioni, compagnie e privati che esercitano nel regno l’assicurazione sulla vita. Forseché mancava in questo caso la ragione stessa della indennità, ossia l’espropriazione della cosa privata nell’interesse pubblico? Il diniego proclamato nel disegno di legge avrebbe l’intento, non di negare una indennità dovuta secondo le regole della onestà e della giustizia, ma soltanto quello più modesto e legittimo di evitare liti temerarie? Questa è la tesi che evidentemente vorrà sostenere il ministro: non esistere cioè alcun fondamento per l’indennità ed essersi voluto soltanto porre un argine al moltiplicarsi di liti infondate.

 

 

Ma bastano poche ovvie considerazioni per dimostrare quanto sia erronea la tesi governativa e quanto perciò siano inique le conseguenze che se ne sono volute trarre. Qui basti esaminare la tesi nei limiti, apparentemente ristretti, in cui l’ha posta il ministro. Pare che egli abbia avuto paura di affrontare il problema della espropriazione delle imprese assicuratrici, problema irto di dubbi e di difficoltà rispetto alla valutazione del capitale, delle riserve matematiche e degli impegni verso gli assicurati; talché, per non suscitare opposizioni e sospetti, preferì di non impacciarsi delle imprese esistenti e di ignorarle addirittura, limitandosi a dichiarare che esse non potranno più operare in futuro, pur essendo obbligate ad osservare ed a mano a mano liquidare, giusta la loro scadenza, i contratti del passato. Ignorandole ed inibendo di lavorare per il futuro, non vi è dunque soppressione di imprese, né riscatto delle loro attività; e limitandosi lo stato a dichiarare di sua spettanza certe operazioni che prima erano libere, non vi è luogo ad indennità.

 

 

Illusione grave, procedente da un ragionamento troppo semplicista. È certo che lo stato, lasciando vivere le imprese e non incamerando né capitale, né riserve, né affari in corso, non espropria alcuna ricchezza per così dire visibile, tangibile, materiale. Esso espropria una ricchezza, un patrimonio immateriale, il quale per essere immateriale non è però meno reale ed effettivo. Il patrimonio espropriato è l’organizzazione, ossia la capacità di acquistare una clientela, è l’avviamento, il nome, i quali sono arra, sicura per alcune imprese, più incerta per altre, che la clientela nel futuro verrà e si accrescerà. L’organizzazione, l’avviamento, il nome sono beni non materiali come i terreni e le case; ma sono beni che hanno un valore nello stesso preciso modo come l’hanno i terreni, le case, ecc. ecc. L’industriale che possiede un’azienda industriale, oltre alla ricchezza consistente in fabbricati, in macchinari, in scorte di magazzino, ha un’altra ricchezza, talvolta di maggior valore della prima, consistente nella clientela, nel nome, nella organizzazione. Se egli venda la sua azienda, si farà pagare, ad esempio, oltre alle 100.000 di valore materiale dello stabilimento, altre 50.000 lire per la cessione dell’avviamento.

 

 

È un fatto comunissimo, quotidiano, il quale dimostra come tutti considerino alla stessa stregua, come parti amendue integranti del patrimonio, l’impianto materiale e l’avviamento immateriale. Per lo passato, non mai si sognò lo stato di negare l’esistenza dell’avviamento come parte integrante del valore dei patrimoni privati. Dettò norme per la sua espropriazione nel caso dell’assunzione dei pubblici servizi da parte dei comuni; lo tassò coll’imposta di ricchezza mobile presso il cedente nel caso della vendita dell’azienda; lo proclamò capitale quando si rifiutò di considerarlo spesa presso il cessionario.

 

 

Nel caso nostro, proibire alle imprese di assicurazione di lavorare vuol dire proibire di utilizzare la ricchezza consistente nell’avviamento, nell’organizzazione, nel nome, vuol dire cioè annullare il valore della ricchezza medesima. Né è un fatto naturale o lecito, come una invenzione nuova, una concorrenza prima inesistente, una epidemia, un trasporto di una stazione, quello che distrugge l’organizzazione, la clientela delle imprese assicuratrici. Se lo stato si limitasse ad istituire, come del resto già l’istituì in parte con la Cassa nazionale di previdenza (ramo assicurazioni popolari), una propria impresa di assicurazione in concorrenza con quelle esistenti, di nulla avrebbero potuto queste lamentarsi. La concorrenza e lecitissima; né può essere riprovata solo perché reca danno alle imprese esistenti. Il monopolio, invece, è il fatto volontario del principe, del sovrano, il quale toglie ai privati la facoltà di lavorare in un determinato campo, prima aperto a tutti coloro che osservavano le norme poste dalla legge nell’interesse generale. Lo stato annulla l’organizzazione creata da altri; e sostituendovi d’un colpo la sua, attira a sé la clientela che la prima s’era procacciata.

 

 

Sarebbe come se lo stato d’un tratto proibisse a tutti gli editori di pubblicare nuovi libri e nuove edizioni e solo consentisse la vendita delle vecchie edizioni fino al loro esaurimento, arrogandosi il monopolio della vendita dei nuovi libri. Editori ed autori non avrebbero ragione di pretendere un compenso per l’espropriazione del loro organismo librario, della clientela da essi acquistata e da essi creata, la quale, come comprò libri in passato, così ne avrebbe acquistati in avvenire? Non sarebbe forse dovuto un indennizzo al fabbricante di vino, di liquori a cui si consentisse la vendita delle bottiglie già messe in cantina, inibendo la fabbricazione e la vendita per l’avvenire?

 

 

Il proposito della espropriazione, senza indennità, dell’avviamento non appare biasimevole (come è) solo perché i danneggiati sono pochi. Apparirebbe in tutte le sue gravissime conseguenze se esso fosse applicato, ad esempio, ai medici, agli ingegneri, ai negozianti al minuto. Se lo stato dicesse: «a partire dall’1 gennaio 1912 nessun medico potrà esercitare la professione, nessun ingegnere far progetti, nessun negoziante tener bottega aperta; provvederò io con medici, ingegneri, rivenditori miei, scelti e pagati da me»; se ne starebbero quieti i medici, gli ingegneri, i negozianti espropriati senza indennità del loro diritto di lavorare, della clientela faticosamente acquistata, del nome che essi forse speravano, insieme con lo studio o con la bottega, di poter trasmettere ai figli? Evidentemente no. Farebbero un baccano indiavolato; e ne avrebbero grandissima ragione. Governo e deputati si accorgerebbero subito, poiché gli urlanti sarebbero molti, di aver violata la ragione della giustizia e non darebbero ascolto ai pochi poltroni, medici ed ingegneri senza clienti, negozianti disertati dal pubblico, perché venditori di roba cattiva o cara, i quali si profferissero di passare ai servigi dello stato. Or dunque mutano le ragioni della giustizia solo perché le imprese assicuratrici, a cui vuolsi togliere senza indennità l’avviamento, sono poche? Ed essendo poche, diventano perciò taillables et corvéables à merci dalla nuovissima tirannia?

 

 

Certo la valutazione dell’indennità per l’avviamento espropriato non è cosa facile. Vuolsi tener conto di molti fattori. Oltre al lucro cessante, vi è il danno emergente. Le imprese assicuratrici lavorarono ad un dato costo, per esempio, del 20% dell’incasso premi, perché esse erano imprese in sviluppo continuo. Domani, quando non potranno più avere nuova materia assicurabile, le spese in proporzione aumenteranno, e potranno diventare rovinose. La mortalità effettiva che oggi può lasciare alle società meglio amministrate un breve margine, inferiore di molto a quello che da taluno si favoleggia, ma pur sempre un margine in confronto alla mortalità calcolata, tenderà, per causa del divieto di assumere nuove assicurazioni, a diventare maggiore della calcolata. È noto invero come la mortalità per due assicurati, amendue di 40 anni, non sia la medesima, ma sia minore per quello che si è assicurato nel medesimo 40esimo anno che per l’altro che si è assicurato 5 anni prima. E ciò perché la visita medica, recentissima nel primo caso, ha consentito di fare una selezione accurata rispetto alle sue condizioni fisiche nel 40esimo anno di età, mentre invece per il secondo, essendo la visita medica stata fatta nel 35esimo anno, dal 35esimo al 40esimo anno si possono essere accumulati nel suo organismo germi di decadenza fisica, che l’avrebbero fatto scartare se la visita si fosse compiuta al 40esimo anno. Col divieto di nuovi assicurati, le compagnie non avranno più assicurati di 40 anni, con visita medica fatta al 40esimo anno di età: ma tenderanno ad avere solo assicurati di 40 anni con visita fatta al 39esimo, 38esimo, 37esimo, 36esimo, ecc. anno, ossia assicurati con mortalità in media più elevata di quella media su cui i calcoli sono fondati. È lecito allo stato, solo perché si chiama stato e può fare le leggi, recare un siffatto ingiusto danno ad imprese, che non hanno scopo immorale, anzi l’hanno, sebbene di ciò esse non abbiano né merito, né colpa, moralissimo; che sono sorte conformandosi alle leggi e sotto l’egida concessa da un governo civile, come si suppone essere il nostro, a tutti coloro che lecitamente lavorano e rischiano?

 

 

Troppo andrei in lungo se volessi enumerare tutti i casi di danno emergente che la semplice proibizione di lavorare può infliggere alle imprese assicuratrici. Ne ricorderò ancora uno.

 

 

Vi sono in Italia imprese assicurative non ancora giunte allo stadio redditizio. Hanno seminato, spendendo tutto il capitale in spese di organizzazione e di conquista della clientela, in perdite di esercizio dei premi annui. L’impresa ha fiducia di ricuperare queste somme, perché sa che prima si semina e poi si raccoglie, e sa che nell’industria assicurativa il periodo della seminagione dura da 10 a 20 anni. Quel capitale – e talvolta la somma spesa può essere anche superiore al capitale medesimo proprio dell’impresa – non è perduto; è una spesa da ammortizzare in seguito cogli utili degli anni successivi, precisamente come farà il monopolio di stato coi 5 milioni anticipati dal tesoro per le spese di impianto e dei primi esercizi.

 

 

L’assunzione del monopolio da parte dello stato che effetto produce? Che quelle 500.000 lire o quel milione di lire che non erano finora una perdita, ch’erano un capitale investito in una certa necessaria ed utile maniera, che erano, secondo previsioni fondate, trattandosi di imprese bene amministrate, ricuperabili, diventano senz’altro una perdita. Non potendo più lavorare in futuro, l’impresa non ha modo di ricuperare il capitale impiegato e lo deve passare a perdita. Anche qui si chiede: quale delitto hanno commesso le imprese assicuratrici perché a loro sia negato quell’indennizzo che subito si riconoscerebbe dovuto, secondo il buon senso e le norme universalmente accolte di giustizia, a quegli ingegneri, quei medici, quei negozianti appena avviati, i quali non ebbero ancora il tempo di ammortizzare le ingenti spese del loro lanciamento, qualora fosse ad essi proibito, per pubblica utilità, di lavorare in futuro?

 

 

Né dicasi che si tratta di supposizioni immaginarie non fondate sulla realtà. Traggo da una odierna pubblicazione del dottor Gino Sestilli, sui cui primi risultati già mi sono intrattenuto alcun tempo fa, i seguenti dati su talune società nazionali che si trovano nel periodo iniziale della loro vita.

 

 

Capitale azionario versato o capitale di fondazione

Spese da ammortizzare all’1 gennaio 1910

Compagnia nazionale assicuratrice

67.030,00

196.279,76

La mutua italiana

1.600.000,00

1.630.596,35

Compagnia italiana di assicurazione

10.230,59

344.717,70

Concordia

250.000,00

175.603,16

La Roma

200.000,00

229.887,63

L’italiana

700.000,00

717.147,58

L’industriale

191.799,15

202.361,06

 

 

Tutte esercitano il solo ramo vita, salvo l’Italiana che ha anche il ramo infortuni; ma anche per questa le spese da ammortizzare devono, per l’indole stessa della assicurazione, riferirsi prevalentemente al ramo vita. Tutte queste società, salvo la Concordia, hanno già speso più del loro capitale nell’organizzazione, nell’impianto, nelle perdite inevitabili dei primi anni. Speravano di potersene rifare in avvenire. Forse la speranza poteva in parte andar delusa; ma per una parte v’era la sicurezza del ricupero. Ora viene il monopolio ed il brutale scherno del disegno di legge, il quale dice loro: Ah! voi avete lavorato per diffondere la previdenza, avete speso il vostro capitale e talvolta più del vostro capitale, talvolta, come per le mutue, senza nemmeno speranza di lucro! Tanto peggio per voi. Dovevate prevedere che un bel giorno sarebbe venuto lo stato a godere il frutto delle vostre fatiche!

 

 

Quando mai, in un paese civile, parve tollerabile un simile discorso?

 

 

La negazione dell’esistenza del problema dell’indennità per espropriazione non fa dunque sì che il problema non si imponga a quanti vogliono che lo stato non conculchi, per un preteso interesse pubblico (a parer mio, per un certissimo danno pubblico), le ragioni supreme della giustizia.

 

 

Anzi il problema si impone grave. A somiglianza di tutte le imprese industriali, delle imprese di assicurazione alcune guadagnano ed altre perdono. Altri, dai dati da me esposti e riprodotti altresì dall’on. Ancona in un lucido articolo sulla Nuova antologia, trasse, facendo la sottrazione degli utili delle imprese in guadagno dalle perdite delle imprese in perdita, la conseguenza che l’industria assicurativa sarebbe stata, a parer mio, in perdita. Conseguenza che mi guardai bene dal trarre. Non esiste una “industria assicurativa” come ente a sé, la quale guadagni o perda; esistono imprese vecchie e bene amministrate che guadagnano, imprese giovani e bene amministrate che perdono ancora ma sperano di guadagnare in futuro; imprese vecchie e nuove male amministrate che perdono ora e finiranno forse per non potere ricuperare il loro capitale e per dover cedere i contratti cogli assicurati ad altre compagnie. Gli assicurati saranno salvi, ma le compagnie dovranno scomparire. Tutto ciò che avevo detto era che lo stato rassomiglierà più al tipo delle imprese che perdono che al tipo delle imprese che guadagnano.

 

 

Secondo la onestà e la giustizia, lo stato, instaurando il monopolio, dovrebbe indennizzare quelle che guadagnano ora o guadagneranno in futuro per la perdita derivante dalla espropriazione di una parte del loro patrimonio (valor d’avviamento); e non dovrebbe dar nulla a quelle che perdono e nemmeno a quelle che guadagnano in apparenza ora e perderanno in avvenire. Impresa difficile e non scevra di pericoli per lo stato; poiché tutte le imprese a quel punto pretenderanno di guadagnare più del vero e quelle in perdita affermeranno che la perdita è temporanea e destinata a convertirsi in un beneficio futuro. Lo stato dovrebbe difendersi contro esagerate pretese e magari stabilire criteri oggettivi per la valutazione delle indennità. Ma queste tutt’al più sono nuove ed ottime ragioni per astenersi dall’imbarcarsi in una cabala rovinosa e pazzesca; non lo sono per negare persino il principio di una indennità, a stretto rigore di logica e di giustizia, dovuta. Non ho dimostrato l’obbligo strettissimo dell’indennità per concludere che lo stato si induca a pagarla davvero. No. Io affermo invece che lo stato si trova di fronte ad un dilemma o non paga nulla agli espropriati e farà cosa forse legale, perché coonestata dalla legge d’eccezione, ma immorale, deleteria per il suo buon nome, dannosa alla pubblica economia, in cui si infiltra così un elemento di rischio e di mala sicurezza, di scoraggiamento per i risparmi e gli investimenti; o si dispone a pagare la giusta indennità dovuta e suscita una infinità di controversie difficili e complicate, prepara lavoro per avvocati e tribunali per qualche decennio; ed aggiunge la certezza di nuove perdite a quelle sicure che nasceranno dal monopolio.

 

 

Dal dilemma non si esce che in una sola maniera: con la politica delle mani nette, col rinunciare ad un’impresa folle, proposta da incompetenti e voluta per ostinazione da chi oramai ne vede tutta la colpevole fallacia. So bene che, così parlando, attirerò sul mio capo l’accusa di difendere interessi particolari. Fortunato mi dirò d’aver meritato le accuse degli stolti, se in tal modo mi sarà dato di credermi, per un istante, non indegno seguace di coloro che nel secolo scorso crearono la scienza economica, fondandola sulla granitica base della lotta contro gli idoli cari ai tiranni ed alle folle.

 

 

Di uscire dal dilemma in modo degno e nel tempo stesso utile alla collettività non si cura il governo; ché anzi sembra si diletti persino a schernire gli offesi dalla violazione del diritto comune. Le imprese assicuratrici saranno costrette a sopportare spese crescenti ed a perdere così parte del loro capitale. Prese col laccio al collo, esse dovranno pregare i loro assicurati di voler riscattare i loro contratti ed iscriversi al monopolio. Le imprese nuove che hanno speso tutto il loro capitale nell’organizzazione e nell’impianto, potranno essere costrette a fallire, forse con perdita degli assicurati.

 

 

Per coronare la triste impresa, vi è, non la creazione di una magistratura straordinaria, che sarebbe stata poca cosa; ma la soppressione per i danneggiati del diritto di ricorrere alla giustizia. Né le imprese assicuratrici, né gli assicurati, frodati dei loro diritti per un fallimento provocato dal monopolio di stato, potranno trovare in terra d’Italia un giudice. Così, semplicemente, il governo crede di sbarazzarsi delle grosse difficoltà che una malaugurata promessa gli ha fatto sorgere intorno.

 

 

Purtroppo, ho poca speranza che sorgano in Italia forze sociali atte a contrastare efficacemente la risurrezione dei peggiori arnesi di governo dei regimi tirannici. Dovrebbero essere le prime ad insorgere le classi lavoratrici, le quali più di ogni altra sono danneggiate dai provvedimenti di governo che turbino la sicurezza dell’industria, la fiducia negli imprenditori di non essere defraudati dei frutti del lavoro perseverante e delle iniziative ardimentose. Ma le classi lavoratrici corrono dietro all’illusione delle pensioni (illusione finché le pensioni dovranno essere date coi lucri del monopolio); e vogliono asservirsi alla tirannia burocratica, paghe di diventare serve, quando sperino di divenire anche tiranne.

 

 

Le classi industriali ed imprenditrici, le classi commerciali non sentono l’avvicinarsi dell’uragano che le minaccia. Affaccendati a lavorare, a produrre, ad arricchire e ad impoverire, ciascuno per proprio conto, gli industriali ed i mercanti non si accorgono della sapiente tattica adottata dalla moderna tirannia, la burocrazia governativa, per crescere le sue schiere già fin troppo folte e diminuire il numero degli uomini liberi che vivono indipendenti dal banchetto governativo. È cieca la burocrazia; perché come vivrà dessa quando avrà tutto assorbito e mancheranno i contribuenti su cui assidere le imposte? Ma più ciechi sono gli appartenenti alle classi spogliate, i quali finora hanno forse plaudito ai bei colpi ed agli eleganti artifici degli espropriatori senza indennità. Ieri era la volta dei proprietari di aree fabbricabili espropriati da una leggina speciale, che non ha riscontro in nessuna legislazione tributaria, salvoché, forse, in una legge borbonica; oggi è la volta delle imprese di assicurazione sulla vita. Domani, poiché il monopolio non frutterà nulla, la burocrazia non mai sazia penserà alle assicurazioni incendio e poi a quelle grandine; e in seguito passerà ai fiammiferi, alla navigazione, alle imprese elettriche, a quelle edilizie; e così via via, per tappare le falle cagionate dai vecchi e nuovi spropositi, ne commetterà dei peggiori, assorbendo di volta in volta, ed uccidendo col suo mortifero alito, le imprese meglio organizzate, quelle che il genio dell’individuo avrà saputo portare a più alto grado di potenza, di espansione, di gloria.

 

 

Lo spettacolo più doloroso, che si vegga in occasione della cabala assicurativa, non è forse questo delle classi attive, laboriose, sane del paese che assistono impassibili e sorridenti alla propria distruzione graduale ad opera di parassiti, inutili a sé e dannosi agli altri?

 

 

7

 

Delle 30 pagine della relazione che precede il disegno di legge sul monopolio delle assicurazioni, 15 sono consacrate ad una narrazione di ciò che in passato si legiferò all’interno ed all’estero. Non si preoccupa però il ministro del fatto che il racconto prova solo che tutti i legislatori italiani e stranieri fecero il contrario di quel che divisa far lui. Rimanda al secondo anno dopo l’attuazione del monopolio il riordinamento della Cassa pensioni operaie, ossia alla fine del 1914, se utili vi saranno; e poiché gli utili verranno solo dopo i ricuperi delle perdite iniziali e queste perdite finiranno verso il 1922, assicura al governo attuale ed a parecchi futuri la immunità dal noioso fastidio di pensare alle pensioni operaie.

 

 

Così il monopolio si riduce a un bel gioco da dilettanti; a fare il monopolio, bello o brutto che sia, pur che sia fatto. La relazione vede tutto facile, roseo, promettente; non vede i triboli seminati sulla sua via. Non rende forse il monopolio dei tabacchi più di 200 milioni netti allo stato; ed il lotto 40 ed il sale 70? Perché non dovrebbe il monopolio delle assicurazioni vita rendere il 20 od il 10% almeno degli incassi annui, e perché lo stato, colla fiducia che inspira a tutti e di cui è prova lampante il miliardo e mezzo depositato alle casse postali di risparmio, non potrà spingere in due o tre anni l’incasso dai 70 milioni circa ottenuti dalle pigre compagnie private ai 150 o 200 milioni di lire? E perché lo stato non potrà guadagnare almeno 15 20 milioni all’anno, buon avviamento alla soluzione delle pensioni ai vecchi poveri?

 

 

Così parla il ministro. Il quale dimentica quali sono i motivi che hanno reso facilmente copiosi i redditi dei tre monopoli italiani. Mi voglio per un istante spogliare dei miei profondi convincimenti intorno alla incapacità dello stato a gerire imprese industriali. Pur dal punto di vista di un apostolo dell’allargamento delle funzioni statali, il monopolio delle assicurazioni vita è l’ultima delle imprese da assumersi dallo stato allo scopo di cavarne un reddito. Il monopolio del sale rende perché il sale è un alimento di prima necessità, del quale nessuna famiglia può fare a meno. Quello del tabacco frutta, poiché il fumare è un abito oramai quasi universale, che lo stato non dura alcuna fatica a generalizzare sempre più, e per cui non gli è d’uopo d’andar cercando clientela, essendo questa spontaneamente tratta a lui dalle vaporose fantasticherie connesse con le nuvole del fumo. Anche il lotto è redditizio, perché la gente ama, per sei giorni della settimana e magari tutte le settimane dell’anno, illudersi di diventare nel settimo ricca. Tratta dalla necessità o dal piacere o dal sogno la clientela va allo stato e gli paga un tributo di imposta. Tributo, che a me, – ove si eccettuino il sale e talune particolarità non essenziali nel lotto, – pare ragionevolmente distribuito e così abbondante da rendere bene accetto e compiutamente approvabile, pure all’economista più indurito nel cosidetto pregiudizio liberista, il metodo del monopolio con cui quegli opimi risultati finanziari sono ottenuti.

 

 

Qual mai forza spingerà il cittadino a gittarsi nelle braccia dello stato assicuratore? Non la necessità, perché pochissimi, a ragione od a torto, reputano in Italia necessario assicurarsi sulla vita, e quei pochi sono commercianti, industriali, capitalisti che le leggi fiscali già inducono a diffidare dello stato ed a consegnare i propri risparmi a tutti fuorché alle casse governative. Le casse postali di risparmio ricevono bensì un miliardo e mezzo di depositi; e, per questo rispetto (non per l’altro verso dell’impiego che esse fanno di quel miliardo e mezzo) sono benemerite del risparmio popolare. Ma coloro che si assicurano sulla vita (parlo, s’intende, delle assicurazioni che nelle speranze dei dilettanti dovrebbero essere redditizie, non di quelle che tutti concordemente reputano passive a favore delle classi popolari e degli operai vecchi) appartengono a classi che certamente non forniscono una clientela apprezzabile alle casse postali di risparmio. L’industriale, il commerciante, il professionista già fin d’ora tiene il suo conto corrente presso le banche o le casse di risparmio locali, non presso le casse postali. Dunque non la necessità potrà spingere i cittadini ad assicurarsi presso lo stato; a meno che lo stato non li costringa ad assicurarsi. Per ora i monopolizzatori hanno assicurato che ciò non era nelle loro intenzioni, e che questa era una calunnia sparsa dai loro nemici. Prendiamone atto, augurandoci che in futuro ad altri governanti, visto l’insuccesso del monopolio, non venga in mente di attenuarlo rendendo obbligatoria l’assicurazione e trasformandola così in una imposta, pessima fra le imposte perché gravante sui previdenti e sui bisognosi di previdenza a sgravio dei ricchi che non hanno bisogno di previdenza ed a vantaggio degli imprevidenti.

 

 

Se non dalla necessità, saranno forse gli uomini indotti ad assicurarsi dal piacere o dal sogno di acquistar ricchezza? Ohibo!; ché anzi l’assicurazione è connessa con le tristi immagini della morte, della vecchiaia, degli acciacchi! Ben lo sanno i produttori delle imprese assicurative, che devono torturare, spaventare i futuri clienti con orribili quadri di morti improvvise, di infortuni, di scontri di treni, di malattie incurabili che tolgono la capacità di lavorare, di mogli e di figli ridotti sul lastrico, cenciosi ed affamati. Queste sono le corde che nell’animo della clientela devono far vibrare gli odierni assicuratori; questo spiega la loro impopolarità; e, congiunto con l’ira di dovere ogni anno, ogni semestre, forse ogni mese sborsare un premio per premunirsi da un pericolo, la morte, che dovrebbe verificarsi presto per rendere lucrosa l’assicurazione e che nel tempo stesso, per amor della vita, si desidera lontanissima, spiega come in generale l’opinione pubblica abbia oggi in dispetto le compagnie di assicurazione; e spiega come in futuro lo stato assicuratore non potrà certo essere desiderato, cercato, amato.

 

 

I clienti lo cercheranno anche meno di quello che oggi cerchino le società di assicurazione. Oggi essi sono assillati da un nugolo di agenti, di diverse compagnie, ognuno dei quali si sforza di dimostrargli che la sua tariffa è la migliore, che il suo contratto presenta una variante utile ed adatta al suo caso individuale, che la sua compagnia è quella che possiede riserve più vistose, palazzi più splendidi e redditizi ed a tutti visibili. Il cliente ha una certa libertà di scelta; e, pur pagando una tariffa sostanzialmente non dissimile dalle altre (ed è la concorrenza che le ha adeguate al costo di produzione), ha la convinzione di aver fatto il miglior contratto possibile. Il che è spessissimo un potente stimolo a stipulare ogni sorta di contratti.

 

 

Domani, quando lo stato sarà l’unico assicuratore, il cliente avrà la sensazione sicura di essere defraudato. Perché lo stato istituirebbe un monopolio se non per guadagnarvi sopra grosse somme? Così fa per il sale, così per i tabacchi, così per il lotto. Ma il sale lo si compra perché non se ne può fare a meno, il tabacco perché non si vuole rinunciare ad un vizio, lo scontrino del lotto perché si accarezza la speranza della vincita. Si paga l’imposta spesso senza saperlo; e, quando lo si sa, ci si passa sopra perché la necessità, il vizio, la speranza sono più forti della repugnanza a pagar l’imposta. Col monopolio delle assicurazioni vita la persuasione di pagare il tributo, di doversi assoggettare ad una tariffa più alta del necessario agirà da freno ad impedire le assicurazioni. Ricordiamoci che le assicurazioni sulla vita – quelle redditizie, il cui provento dovrebbe servire a colmare, in tutto od in parte, il deficit delle assicurazioni popolari – fanno appello alla media e minuta borghesia, ai commercianti, agli industriali, agli impiegati privati e pubblici, ai professionisti. Il ricco, il capitalista, il proprietario ha minor urgenza di assicurarsi. Ora gli assicurandi direbbero: perché noi soli dobbiamo volontariamente sobbarcarci ad una imposta per consentire allo stato di pagar le pensioni agli operai? Perché lo stato vuole speculare su una nostra operazione di previdenza, sul bisogno nostro di provvedere un pane alla nostra famiglia od alla nostra vecchiaia per colpirci di imposta a favore di altre persone? Metta lo stato, se crede, un’imposta su tutti per raggiungere l’intento; e non su noi, che con l’assicurazione sulla vita dimostriamo di essere, nei limiti imposti dall’ambiente sociale in cui siamo stati educati, altrettanto bisognosi quanto gli operai oggetto delle tenerezze governative.

 

 

Tanto più crescerà la convinzione negli assicurandi di essere defraudati dall’unico assicuratore, provvisto di un’unica tariffa, quando rifletteranno alla qualità delle persone che li solleciteranno a stipulare il contratto. Notai, che redigono i testamenti, ricevitori del registro, con cui si è avuto forse a che fare in occasione del pagamento di tasse di bollo, di registro, di successione, agenti delle imposte che, pur essendo degnissime persone e da me reputate anzi degne di essere messe nella condizione di magistrati indipendenti ed imparziali, non sono dall’opinione pubblica guardati di solito con molto affetto. Si aggiungano i segretari ed agenti comunali, mescolati tuttodì con la ripartizione delle tasse di famiglia, sul valor locativo, sugli esercizi e rivendite, ecc. ecc. Questi assicuratori pubblici odoreranno di tasse e di imposte lontano un miglio e la gente li fuggirà come la peste, più che ora non si fuggano le persecuzioni insistenti, sebbene amabili e cortesi, degli assicuratori privati.

 

 

Anche quando gli assicuratori pubblici saranno gli stessi che ora sono al servizio delle compagnie, saranno però colleghi di quei tali agenti delle imposte ricevitori del registro, notai, segretari comunali di cui si disse sopra. Un po’ della popolarità al rovescio del percettore di imposte aleggerà su di loro e ne renderà, come ognun vede, agevoli le operazioni.

 

 

L’assicurando oggi si induce talvolta al contratto di previdenza in quanto l’assicuratore gli fa vedere come, designando, in caso di sua premorienza, una persona cara, moglie, figli, genitori, come beneficiaria dell’assicurazione, sulla somma assicurata non si pagheranno tasse di successione. Né è facile togliere ora l’esenzione, ove non si vogliano far domiciliare all’estero molti contratti e perché in realtà non si è aperta una vera successione quando il beneficiario era una persona diversa dall’assicurato fin dall’inizio del contratto.

 

 

Col monopolio di stato, nulla per il momento sarà mutato. Col tempo, il ministero delle finanze, che già grida adesso, strillerà però contro le immunità dall’imposta di successione; e strillerà perché lo stato assicuratore avrà in mano le prove palmari che si tratta di una vera donazione o legato od eredità mascherata sotto le forme di una assicurazione sulla vita a beneficio di terzi. Quale incoraggiamento a stipulare contratti di assicurazione collo stato! Il timore delle tasse, in un paese a tributi elevati come l’Italia, è, bisogna riconoscerlo, una delle molle fondamentali della condotta umana; e credere che il pubblico sia pronto a portar denari ad un istituto, quando quel pubblico paventerà che in tal modo lo stato venga a conoscere gli affari suoi, e una illusione.

 

 

Tanto più grossa l’illusione, quanto più benigni e graziosi i mezzi di cui si serviranno gli assicuratori pubblici per indurre il futuro cliente a preferire lo stato alle imprese private domiciliate all’estero. L’assicuratore vedrà un contrabbandiere nel cliente, che a parer suo dovrebbe assicurarsi, che si trova nelle condizioni economiche e familiari che più richieggono l’assicurazione, e tuttavia si ostina a non volerne sapere; ed, a sua volta, il cliente vedrà la spia nell’assicuratore. Una spia che ha a sua disposizione multe oscillanti dal 5 al 20% della somma assicurata, ossia da 500 a 2.000 lire per un contratto di assicurazione di 10.000 lire, aggravate, in caso di recidiva, dal carcere da uno a sei mesi. Come questi poteri inquisitori (il regolamento dovrà pure, se voglionsi rendere efficaci queste minacce di pena, stabilire una congrua interessenza per i delatori) abbiano a rendere vieppiù simpatici i rapporti degli assicuratori con i clienti non è chi non veda.

 

 

Né queste sono particolarità emendabili, che potranno essere tolte nel disegno di legge. Tolgansi le multe e le minacce di carcere contro gli assicurati e tutto il monopolio cade a terra. Chi comprerebbe più sigari dallo stato se a comprarli non si andasse incontro a nessun inconveniente? Nessun monopolio di stato può reggersi senza minacce agli averi ed alla libertà personale dei contravventori.

 

 

Il monopolio delle assicurazioni vita dovrà anzi essere più rigido e più severo del monopolio dei tabacchi o del lotto. A nessuno è vietato di consumare sigari esteri mentre si è in viaggio all’estero e la posta italiana recapita spesso offerte di biglietti di lotterie straniere. Ma la stipulazione all’estero di un contratto di assicurazione da parte di un italiano dimorante o viaggiante fuori della patria dovrà per forza essere considerata come fatta in contrabbando. Altrimenti, chi non vorrebbe fare un piccolo viaggio sino a Chiasso od a Lugano non foss’altro per non far sapere i fatti propri allo stato, per non avere a che fare con quei tali simpaticissimi ricevitori del registro, agenti delle imposte, ecc. ecc.

 

 

Tutto ciò è logico, è inevitabile, ma dovrebbe far riflettere coloro i quali leggermente asseriscono che lo stato inspirerà a tutti una grandissima fiducia ed intanto si apprestano a rinforzare questa spontanea fiducia con lo spionaggio, le multe ed il carcere!

 

 

Il progetto di monopolio è in questi ed altri punti essenziali, inemendabile e l’attuazione non potrà non essere peggiore degli odierni propositi. Si discorre di punire i contravventori dichiarando i loro contratti nulli dinanzi alla legge italiana. E cosa importerà questa minaccia, per chi sa che le compagnie estere potranno essere condannate, in caso di non osservanza dei contratti, dai tribunali stranieri? Le compagnie avranno tutto l’interesse, tranne nei casi di frode sicura a loro danno, a dare esecuzione al contratto per sottrarre clientela al monopolio. Quanti contratti cosidetti differenziali di borsa non si fanno e sono scrupolosamente osservati, in grandissima maggioranza, sebbene i tribunali si ostinino a dichiararli nulli!

 

 

I dubbi si affollano pensando alla situazione futura dell’assicurato. Dove andranno a farsi assicurare i rifiutati dell’unico assicuratore? Oggi hanno sempre la speranza di essere accettati da qualche altra compagnia. Errare è umano, ed anche i medici fiscali potranno errare. Almeno per i rifiutati la legge dovrebbe riconoscere la validità del contratto che essi riuscissero a stipulare con qualche compagnia estera.

 

 

Che spinta avrà il monopolio a pagare prontamente le somme assicurate, a non far liti, dato che avrà il privilegio di non perdere la clientela per la concorrenza altrui? Quando un contribuente stipulerà un contratto per mezzo di un agente delle imposte od un ricevitore del registro chi toglierà il sospetto che si sia voluto corrompere un pubblico ufficiale dandogli, in cambio di una diminuzione d’imposta, la provvigione sul contratto? E che bisogno v’è di far sospettare una classe di funzionari, non gradita al pubblico, ma degnissima per rettitudine di vita e per abnegazione nell’adempimento del proprio dovere?

 

 

Almeno, l’assicurato trovasse nella legge qualche motivo intrinseco di fiducia nello stato! Quali garanzie, invece avranno gli assicurati, che l’istituto di stato potrà far fronte ai suoi impegni? La domanda può parere assurda ed è invece serissima. Nel disegno di legge non c’è una parola che assicuri i clienti a questo riguardo. Anzi tutto lo sforzo del compilatore fu riposto nel mettere bene in chiaro che lo stato, come tale, non risponde di nulla, non assume nessun obbligo. Si capisce che finirà per pagare pantalone; ma intanto gli assicurandi non hanno nessun affidamento scritto che ciò debba accadere, anzi hanno parecchi giuramenti, sia pur vani, che lo stato non vuol pagare nulla di quel che pur dovrebbe pagare. Le compagnie private hanno un capitale versato, uno, maggiore, sottoscritto, che sono, nei primi tempi, la necessaria garanzia rispetto agli assicurati. L’istituto nazionale di assicurazioni che garanzia offrirà agli assicurati? In tutto e per tutto un conto corrente di 5 milioni di lire apertogli dal tesoro dello stato. Ora, per quanto i soliti dilettanti pretendano che l’industria assicurativa può esercitarsi senza versamento di alcun capitale, la realtà vera è che il capitale è necessario e deve essere consumato nel primo decennio di vita della impresa, salvo a ricuperarlo in seguito. Per un’impresa come quella statale che pretende di raddoppiare il lavoro delle compagnie private, cinque milioni di lire sono un fondo insignificante, assolutamente insufficiente. Secondo calcoli attendibili, supponendo pure che lo stato nel primo anno lavori non più delle compagnie private, e impieghi al 3,50% le somme incassate, adottando la tabella Hm, ed applicando premi uguali ai presenti, in un anno solo perderà netti i 5 milioni del suo capitale. Come farà nel secondo anno quando la perdita di esercizio arriverà a 4 milioni e mezzo di lire? E così via fino al decimo anno? Dovrà intervenire di nuovo lo stato; ma gli assicurandi possono ragionevolmente temere che non voglia intervenire. Si vuole inspirare fiducia agli assicurandi: raccontando frottole al parlamento, per fargli credere che basteranno 5 milioni come capitale d’impianto, mentre sarà necessario perdere in dieci anni circa venticinque milioni prima di avere un esercizio attivo. Attivo, si intende, nel senso che potrà, secondo i calcoli fatti sulla carta, incominciare a restituire al tesoro le anticipazioni ricevute; non secondo la realtà vera di un esercizio di stato.

 

 

Ad attirar clientela il progettista governativo, come ogni progettista che si rispetta, non manca di fare le migliori promesse: sicurezza assoluta a prezzi non superiori ai prezzi attuali delle compagnie esercenti l’assicurazione. Afferma il progettista di potere ciò nonostante guadagnare moltissimo: dal 25 al 55% dei premi pagati dagli assicurati al lordo: e poiché le spese non saranno superiori a forse il 15%, rimarrà pur sempre un guadagno netto dal 10 al 40%, che, al minimo e «nelle ipotesi più dannate», non potrà discendere al disotto del 7 od 8% dei premi incassati. A veder tanta sicurezza c’è da rimanere sbalorditi. Ma apriamo bene gli occhi. Nella parte attuariale dell’industria assicurativa il problema poggia su due elementi: il tasso di interesse adottato e la tabella di mortalità. Il saggio d’interesse è stabilito non da criteri tecnici ma dalle condizioni prevedibili del mercato per una lunga serie di anni. Il progettista ha fatto i suoi calcoli sulla base del 3,25, del 3,50 e del 4% e rispetto a questo punto non vi sono critiche a fare. La critica muove dalla scelta della tabella di mortalità, scelta della quale non vogliamo credere responsabile il ministro, premuto dalle faccende della sua carica, ma chi lo ha aiutato a compilare il progetto. Questi è andato a scegliere la tabella di mortalità della popolazione italiana del 1901, che già prima che si discorresse di monopolio era apparsa misteriosa; e che ad un esame appena appena superficiale presenta tali incongruenze da renderla affatto inattendibile, senza un esame critico minuzioso e spassionato, che il progettista non si sogna nemmeno di fare. Il mistero sta in questo che la tabella italiana si riferisce alla popolazione totale, sani e malati, dell’Italia e pur tuttavia presenta una mortalità inferiore, nella maggior parte delle singole età, alla mortalità risultante dalle tabelle speciali di teste scelte, compilate in Francia, in Inghilterra, negli Stati uniti da associazioni di attuari e da compagnie potenti sulla esperienza reale della mortalità dei loro assicurati. V’è di più. La tabella della mortalità italiana è basata su una mortalità complessiva del 22,44 per ogni mille abitanti. Vi sono altre tabelle che sono basate su una mortalità complessiva uguale o minore, e che danno risultati, nei singoli anni, differentissimi dai risultati della tabella italiana. C’è, per esempio, la tabella di Farrar (inglese del 1841-51) la quale si basa su una epoca vecchia, ma su una mortalità uguale in complesso a quella italiana (22,45%.) C’è la tabella della mortalità svizzera (1881-88) basata su una mortalità del 19,92%. ossia minore dell’italiana. C’è la tabella Hm delle 20 compagnie inglesi, di teste scelte, assoggettate a visita medica, che dovrebbero avere una mortalità minore della popolazione generale italiana. Ecco confrontate le diverse tabelle:

 

 

Tassi annui di mortalità per mille secondo la tavola

Età

Inglese

Svizzera

Italiana

1901

anni

di Farrar

di Durrer

Hm

(maschi)

(maschi)

(maschi)

(maschi)

0

183,26

182,61

175,19

5

13,69

7,01

8,66

10

5,63

3,30

4,90

3,55

15

5,19

3,41

2,87

3,46

20

8,32

6,35

6,32

6,38

25

9,20

7,42

6,63

6,78

30

10,13

8,58

7,72

6,67

35

11,33

10,57

8,77

7,02

40

13,06

12,55

10,30

8,59

45

15,54

15,24

12,19

10,43

50

19,02

19,84

15,95

13,50

55

24,85

25,74

21,08

17,66

60

33,05

37,01

29,67

27,85

65

46,98

52,64

43,43

41,68

70

62,62

78,14

62,19

66,87

75

103,91

119,25

98,36

105,41

80

152,90

173,96

144,65

163,61

85

219,66

232,57

209,88

240,40

90

307,17

317,79

279,45

318,32

95

420,35

486,49

637,03

358,44

100

550

 

 

Dinanzi ai misteri rivelati da questo confronto c’è da rimanere incerti. Ricordiamo bene che in Italia si muore in complesso il 22,44% ossia precisamente come in Inghilterra all’epoca di Farrar (22,45%). Eppure mentre in complesso si muore ugualmente, in tutte le età, salvo che nei bambini appena nati (o anni) e nei vecchi da 75 a 90 anni si muore di meno, enormemente di meno. Nella Svizzera, dove in complesso si muore solo il 19,92%, si muore viceversa di più a tutte le età, salvo che dal quinto al ventesimo anno e dall’80esimo al 90esimo anno. Non parliamo della tabella inglese, secondo cui le teste scelte morirebbero di più dal 20esimo al 35esimo anno di tutte le teste italiane. Dinanzi a queste divergenze allo studioso non rimanevano che due vie: o star zitto, aspettando dai miglioramenti della statistica italiana, o trarre dal censimento del 1911 una conferma od una smentita dei risultati del 1901; ovvero intraprendere un esame critico per vedere quale delle diverse tabelle corrisponda meglio a realtà.

 

 

Invece, chi compilò, per ordine ministeriale, le cinque pagine, che sono tutto il succo della relazione, vide una cosa sola: che la tabella italiana dava per le singole età una mortalità bassa; ne concluse che, se i morti erano pochi, il monopolio futuro avrebbe dovuto pagare poco od almeno più tardi e quindi guadagnare di più e disse: «Questa è la tabella che fa per la mia tesi. Non voglio io forse dimostrare che il monopolio guadagnerà molto? Dunque bisogna scegliere la tabella che fa morir meno gente. Che importa esaminare se e fino a questo punto la tabella sia attendibile? Queste sono ubbie da pedante. Ora non si tratta di fare opera di scienza, ma di ottenere il voto dai deputati».

 

 

Il risultato dimostrò che il compilatore, sia pure con alquanta fretta, vedeva politicamente giusto. I guai nasceranno se quella tabella funzionerà male in pratica. Io non dico che essa sia erronea, affermo soltanto che è misteriosa e che può dar luogo a sorprese. Ora le sorprese, nelle faccende economiche, si chiamano insuccessi.

 

 

Quante banche – e qui si tratta dell’istituzione di una vera e propria banca di stato – pubbliche e private non sono fallite in Italia! Oggi il ricordo di quei fallimenti è un po’ svanito, e perciò si progetta a cuor leggero di rifare ciò che a tutti vent’anni fa sarebbe parso una follia. Ricordo di avere assistito, assai anni fa, all’inaugurazione di uno stabilimento industriale. L’oratore parlava di industria facile, di smercio assicurato, moltiplicava i quintali di prodotto venduto per il prezzo di vendita, ne detraeva il costo di produzione, otteneva l’utile netto, assegnava le partecipazioni a chi di diritto e pronosticava dividendi largamente soddisfacenti agli azionisti. In un angolo, alcuni vecchi industriali sogghignavano. Io, che ero tra gli spettatori disinteressati ed ammirati del biancore dei saloni, dalle macchine lucenti e dal rinfresco, non capivo il perché di quel sogghigno. Capii quando, anni dopo, lessi sui giornali che lo stabilimento era fallito.

 

 

Chi impianta una azienda solida, non fa grossi programmi, né calcoli precisi di lucri su formule matematiche; non dice che l’impresa è facile, anzi sa che dapprima avrà solo la soddisfazione di vincere difficoltà ed intoppi d’ogni sorta. Il monopolio assicurativo nasce tra calcoli attuariali, basati su fondamenti, se non erronei certo finora non esplicati; e tra assicurazioni ingenue che gli altri elementi – ed i più importanti – di successo, organizzazione, personale, conquista della clientela, difesa contro le frodi, sono niente per lo stato. Se un’impresa privata sorgesse sotto questi auspici – e molte ne sorgono di gente vana – non me ne rammaricherei gran fatto perché del suo inevitabile fallimento dovrebbe sopportare le conseguenze – ad ammaestramento suo e degli altri – l’imprenditore balordo. Del sorgere invece di una pubblica intrapresa, insanamente concepita, molto mi rammarico perché nulla impareranno coloro che l’hanno votata a cuor leggero sapendo che del fallimento suo non essi saranno chiamati a rispondere ma i contribuenti.

 

 

8

 

I perfezionamenti veri, introdotti dalla commissione nel disegno di legge governativo, sono due: uno relativo alle società di mutuo soccorso e l’altro alla Cassa mutua di Torino. Il primo è un miglioramento perché, bene o male, equivale a una restrizione dei poteri del monopolio. È un residuo di concorrenza al mostro burocratico, sia pure debolissima concorrenza. Secondo il progetto governativo erano salve soltanto le società di mutuo soccorso che assicuravano un capitale non superiore alle lire 500 e una rendita non superiore alle lire 200 annue. La commissione ha portato i limiti a lire 1.000 di capitale e lire 400 di rendita. Sarebbe preferibile innalzare ancora più i limiti, perché questa concorrenza delle società di mutuo soccorso non può far male al monopolio, essendo la loro azione rivolta a speciali categorie di persone, che sono avvinte da molteplici legami di mestiere, di località, di altri svariati benefici. Se il monopolio fosse suscettibile di bene, ciò che non è, la concorrenza delle società di mutuo soccorso, e in generale qualsiasi concorrenza, dovrebbe essergli gradita, come quella che diffonde l’abitudine di quella previdenza, la quale dovrebbe essere il fondamento delle vittorie future del monopolio. Notisi ancora che il limite di lire 1.000 di capitale appare troppo basso in confronto a quello di lire 400 di rendita; onde se questo vuolsi tenere fermo, converrebbe aumentare il primo almeno a 2.000 lire.

 

 

L’altro perfezionamento si riferisce alla Cassa mutua pensioni di Torino. Come ognuno sa, questa cassa dovrebbe essere assorbita da un lato dalla Cassa nazionale di previdenza (soci operai) e dall’altro dal monopolio (soci non operai). Io che ho vagheggiato la trasformazione della Cassa mutua di Torino in una prima società italiana di assicurazione popolare, non posso non dolermi della sua fine ingloriosa. Affidato al monopolio, l’ideale delle assicurazioni popolari diventa ideale irraggiungibile. Per far mostra, però, di avere saputo almeno conservare la vecchia clientela della Cassa pensioni, il governo aveva escogitato un artificio assai elegante permetteva il diritto di recesso soltanto entro un mese dalla nomina del commissario regio, la quale nomina doveva avvenire entro un mese dalla promulgazione della legge. Poiché i soci avrebbero dovuto dichiarare il recesso entro un termine brevissimo e non avrebbero saputo per giunta quale somma sarebbe a essi spettata in tale caso, tutto rimanendo nell’arbitrio del governo, il quale poteva magari dare meno del versato, era evidente che ben pochi avrebbero receduto. La commissione giustamente volle che prima il regio commissario procedesse all’accertamento della situazione patrimoniale della cassa e alla determinazione e pubblicazione delle quote a cui i soci hanno diritto; e poi diede due mesi di tempo ai soci per esercitare il loro diritto di recesso.

 

 

Era stretta giustizia agire in tal modo dal momento che col monopolio si volle lo scioglimento e non la trasformazione della cassa. Non sembra invece sia osservata la giustizia quando, oltre ad aver sospeso le decadenze per causa di morosità, si dichiarò che la morte dei soci della Cassa di Torino non importerà più alcuna perdita dei loro diritti acquisiti. Questa è una delle tante violazioni dei patti contrattuali e dei diritti acquisiti di cui formicola questo disegno di legge. Tizio paga una somma per assicurarsi una pensione vitalizia. Egli perciò paga un tanto in proporzione al beneficio che si è voluto garantire. Se egli avesse inoltre voluto assicurare ai propri eredi una somma in caso di morte, avrebbe dovuto pagare di più. Tanto è vero che la Cassa mutua di Torino aveva istituito una Cassa rimborsi, la quale garantiva, grazie al pagamento di un premio supplementare, il rimborso, al momento della morte, delle quote versate. Vengono ora freschi freschi i commissari a dire che agli eredi di coloro che premoriranno all’acquisto del diritto a pensione spetterà anche un certo capitale. Siccome i denari non si inventano dal nulla (in verità il monopolio promette questo miracolo mai visto) così saranno gli altri soci che dovranno perdere, contrariamente agli statuti e ai patti sociali. Tanto che cosa valgono oramai le leggi e i contratti?

 

 

Le altre modificazioni – e sono quelle sostanziali relative al monopolio vero e proprio – devono essere diversamente giudicate. Le considererò in rapporto allo stato, alle società assicuratrici, al personale assicuratore, agli assicurati.

 

 

Quanto allo stato non pare che questo si sia voluto assumere alcuna maggiore responsabilità oltre quella già nota di fornire cinque milioni all’istituto. Quindi rimane intera la critica che gli assicurati futuri non avranno alcuna garanzia che l’istituto potrà far fronte ai suoi impegni: e che mancandovi questo ultimo, nei suoi obblighi sottentrerà lo stato. E allora, se lo stato non sarà responsabile verso i futuri assicurati, come mai si può permettere che le tariffe dei premi siano fissate, arbitrariamente, dal potere esecutivo? Quando mai si è consentito al governo di fissare da solo le tariffe ferroviarie, le tasse scolastiche, le tasse per i permessi di caccia, il prezzo del sale, dei tabacchi, ecc. ecc.? Perché questa abdicazione del potere legislativo a una sua gelosissima podestà, quella tributaria?

 

 

Quanto alle società o imprese assicuratrici si torna a consacrare il principio dell’articolo 2: nessun obbligo di indennizzo per le perdite che esse soffriranno in seguito al monopolio. E cancellato solo l’inciso che negava alle società il diritto di ricorrere al giudice; ma è cancellato, spiega sarcasticamente il relatore, non perché si sia voluto riconoscere alle società il diritto di stare in giudizio, bensì perché quell’inciso era una vera superfluità pleonastica, dal momento che la legge toglie esplicitamente ogni diritto a compensi, indennità, ecc. ecc. Le società potranno andare dinanzi al giudice, ma per sentirsi dire che esse non vantano nessun diritto di nessun genere a indennità. Non è ancora più elegante? La commissione pare si sia persuasa della bontà della tesi governativa dal nessun obbligo di pagare indennità qualsiansi, passando sopra alle evidenti e inconfutate ragioni con le quali qui e altrove si dimostrò che l’articolo 2 consacrava il principio grave e pericoloso della confisca senza indennità della proprietà privata. Contro quelle ragioni furono addotti solo meschini sofismi, sia ciò detto con sopportazione degli altissimi magistrati cui furono a ragione o a torto attribuiti. Con questi sofismi si aggravò, come era naturale, l’enormità della tesi governativa. La quale porta a questo: tutte le volte che lo stato in avvenire vorrà privare un gruppo di industriali o commercianti, senza indennità, del diritto di esercitare la loro industria e il loro commercio, non avrà che a ripetere il ragionamento dell’odierno relatore hanno forse gli industriali e i commercianti un diritto acquisito ai profitti futuri? No; essi hanno solo una speranza di profitto. Lo stato tronca la speranza e non dà nulla per questa stroncatura, come insegnano i moderni maestri del diritto. Quando mai si sono indennizzate le speranze? Il ragionamento Giovanelli potrà essere applicato con successo altresì ai proprietari di terreni, di case, di opifici, di macchine, ecc. Ha il proprietario di un fondo un diritto acquisito ai redditi futuri del fondo? No. Egli ha un diritto acquisito al fondo; ma non ai redditi futuri del fondo. Questi sono future speranze, che lo stato ha diritto di troncare senza indennità, appropriandosi tutti i redditi futuri e lasciando ai proprietari il fondo. Quando mai questi maestri del diritto vorranno imparare che il fondo, la casa, l’industria, l’avviamento sono egualmente nomi vani, senza contenuto, se si tolgano le speranze di redditi e utili futuri?

 

 

Dissi che alle società nulla volle concedere la commissione; ma erravo. Qualcosa ad alcune di esse fu dato, in apparenza di poco, in realtà di grandissima importanza. Ricordano tutti lo scalpore avutosi quando si seppe delle gravi pene sancite contro assicuratori e assicurati che in avvenire contravverranno alla legge nel regno e all’estero. Pare che le pene siano rimaste solo per gli assicuratori che assumano o procurino contratti all’interno per imprese clandestine italiane o per imprese estere od operanti all’estero alla luce del sole. Dico pare perché tante furono le tramutazioni verbali di questo articolo di legge che sarà necessaria una dizione più esplicita per mettere in chiaro che gli assicurati non saranno sottoposti ad alcuna pena, fuorché alla nullità del contratto, se conchiuso in Italia. Da quanto si può capire, i principali casi che si potranno presentare in futuro saranno i seguenti:

 

 

  • L’assicurato si assicura nel regno con una impresa assicuratrice privata. Contratto nullo, perché fraudolento, nei riguardi degli assicurati, e pene pecuniarie e personali per l’assicuratore.

 

  • L’assicurato conduce le trattative nel regno con l’assicuratore e va a stipulare all’estero il contratto. Contratto valido – a meno che poi la giurisprudenza ritenga irrilevante la semplice stipulazione all’estero – e pene come sopra per gli assicuratori.

 

  • L’assicurato conduce le trattative, stipula il contratto all’estero. L’assicuratore non è minacciato naturalmente da alcuna pena; e il contratto è validissimo anche di fronte ai tribunali italiani. L’articolo 4 dichiara infatti nulli soltanto i contratti conclusi nel regno in frode alla legge, onde è legittima la deduzione che i contratti anche fraudolenti conclusi all’estero siano validi.

 

 

La situazione quale risulta dal disegno di legge è dunque ben diversa da quella originaria. Il monopolio non è più un vero monopolio, logico e coerente in tutte le parti; ma è una esclusività dell’esercizio di un’industria entro il territorio del regno, limitata da una concorrenza che si eserciterà più o meno viva ai margini di questo territorio. I contratti con le imprese concorrenti estere potranno essere preparati in Italia dagli attuali produttori, salvo a stipularli a Trieste o a Lugano. Unico freno, evanescente, la minaccia di multe e carcere contro gli agenti assicuratori. Minaccia della quale le compagnie assicuratrici estere si rideranno, perché avranno cura di scegliere un personale che non sia in grado di pagare le multe. Chi potrà dare le prove della preparazione avvenuta in Italia, quando il contratto risulti concluso all’estero dall’assicurato in persona? I monopolisti puri che cosa dicono di questa degenerazione del loro ideale?

 

 

Il personale ha ottenuto qualche piccola cosa nella lettera della legge; e qualche poco di più nello spirito di essa. Secondo la nuova dizione della legge, il personale attuale delle compagnie godrà di una preferenza non solo all’atto della costituzione del nuovo ente, ma anche successivamente. Non so quanto valga la promessa; poiché i buoni impiegati e produttori troveranno qualche cosa di meglio da fare dell’aspettare per un tempo indefinito un impiego problematico presso il monopolio. Chi non sarà assunto subito cercherà qualche altra occupazione; e solo chi non l’avrà trovata aspirerà ad impiegarsi successivamente col monopolio. Comunque sia, la preferenza potrà provvedere a qualche pietoso caso di impiegati anziani, a cui fosse impossibile trovare un altro pane.

 

 

L’agitazione, già vivissima del personale, non cesserà per questa e per l’altra promessa di deferire al regolamento la modalità delle retribuzioni e degli stipendi. È la solita scappatoia di rinviare le questioni spinose. Da questo rinvio e da questa mezza promessa, nascerà una serie infinita di agitazioni della nuova schiera di burocrati, sulle quali è inutile dilungarsi, perché troppo sono noti a tutti gli effetti e le vicende delle rivendicazioni burocratiche.

 

 

Restano gli assicurati. Il governo ha fatto dichiarazioni solenni di essere tutto compreso della sorte dei 300 o 400 mila assicurati italiani, e questi si saranno consolati leggendo che la commissione aveva introdotto, oltre a minori correzioni, nientemeno che due nuovi articoli, il 24bis e il 24ter, per provvedere a garantire i risparmi degli assicurati attuali. Ma i due nuovi articoli garantiscono quelli tra gli assicurati che anche senza di essi sarebbero già stati altrimenti garantiti, e non danno un soldo a quelli che sono in pericolo o che dal monopolio potranno essere danneggiati. L’affermazione è grave, e merita di essere sviluppata.

 

 

1)    L’articolo 24bis dà diritto al governo di fare le opportune indagini, e quando da queste risulti un deficit nelle riserve matematiche, dà diritto di ordinare alle compagnie gli eventuali reintegri. Tutto ciò è perfettamente inutile quando si tratta di compagnie solide e antiche, aventi integri il proprio capitale e la propria riserva. Non c’era bisogno di questo intervento governativo perché esse fossero obbligate a reintegrare col proprio patrimonio le eventuali deficienze alle riserve matematiche. Il codice di commercio provvedeva ampiamente all’uopo. Ma se il capitale proprio non ci fosse, con che cosa le compagnie provvederanno al reintegro? Il governo avrà un bel dare ordini; ma fino a che non darà denari, le riserve non saranno reintegrate. Ho dimostrato altra volta che ci sono compagnie che hanno speso il proprio capitale, e talune più del proprio capitale, nell’impianto e nella organizzazione. Se per casi, che io mi auguro non abbiano a verificarsi, le riserve si dimostreranno insufficienti, con che cosa le compagnie reintegreranno queste riserve, dal momento che il loro capitale l’hanno speso, e lo stato col monopolio impedisce loro di ricuperarlo coi benefici venturi? Quindi gli assicurati, i quali sarebbero sicuri, senza il monopolio, che dal monopolio sono messi in una posizione mal sicura, non sono dal cerotto dell’articolo 24 bis niente affatto garantiti.

 

 

2)    L’articolo 24 ter dice che lo stato potrà riscattare il portafoglio delle compagnie che gli cederanno l’opportuna riserva matematica. Ciò potrà alleviare a talune compagnie il disturbo e la spesa di una liquidazione. Ma non era necessario scrivere un articolo apposito solo per dichiarare che l’ente monopolio potrà fare ciò che è nella sua convenienza di fare, ossia assumere un contratto contro il relativo pagamento del premio. Sovratutto, ciò non costituisce la menoma garanzia aggiunta a quelle che già hanno gli assicurati. Quelli di costoro che sono inquieti, lo sono perché temono che alle loro compagnie venga a mancare, per colpa del monopolio, il mezzo per far fronte ai propri impegni. Se davvero questo caso verrà a verificarsi, sarà segno che le compagnie non avranno più la necessaria riserva matematica; è in questo caso appunto che il governo se ne laverà le mani.

 

 

3)    Se nulla promette per rassicurare coloro che temono di perdere, il disegno di legge nulla dice per rassicurare i numerosissimi che hanno un contratto d’assicurazione sulla vita con partecipazione agli utili. Sono, queste, forme abbastanza diffuse; e in esse l’assicurato si obbliga a pagare premi più elevati di quelli che si pagano per le assicurazioni senza utili appunto per la speranza di ottenere una ripartizione agli utili. Spesso si paga il 10, il 20 e più per cento oltre la tariffa normale. In passato, costoro traevano un beneficio dai maggiori pagamenti perché la compagnia si era obbligata a distribuire loro il 50, il 70, talora l’80% degli utili derivanti dalla minore mortalità o dal maggior reddito delle riserve matematiche o da entrambi. Col monopolio, che cosa succederà di costoro? Molti temono – ed io ho ricevuto parecchie lettere al riguardo – che il monopolio danneggiando le compagnie danneggerà anche essi; aumentando le spese delle compagnie, rimarrà assorbito l’utile di cui parte veniva loro distribuito. Essi avranno pagato un premio assai più elevato degli altri e alla fine riceveranno una somma eguale.

 

 

Gridano costoro all’iniquità. Si confortino, pensando che la commissione ha giudicato, d’accordo con insigni maestri del diritto, che le «speranze troncate di utili futuri» non danno diritto ad alcun indennizzo. Se la prendano con la propria ignoranza, la quale non li ha ancor fatti persuasi delle ascose bellezze dei nuovi orizzonti del moderno diritto pubblico.

 

 

9

 

Tra gli ordini del giorno che sono stati presentati alla camera ce ne sono alcuni caratteristici. Saranno ritirati o saranno respinti, per ora. Ma sono la riprova caratteristica delle critiche che sono state fatte al monopolio e dimostrano che questo ha una logica sua, logica ferrea, contro cui è vano cozzare. Se il monopolio dovrà impiantarsi e durare, quegli ordini del giorno finiranno per trasformarsi in disegni di legge e per essere approvati.

 

 

Uno è presentato dagli on. Casalini, Cabrini, Turati, Treves e dice che l’istituto assicuratore potrà impiegare i suoi fondi «in mutui per abitazioni popolari, secondo le disposizioni della legge sulle abitazioni popolari od economiche ed in misura non superiore al quinto della riserva matematica e di ogni altra attività patrimoniale». Ecco realizzarsi, nei voti di coloro che forse diventeranno i governanti ed i padroni perciò del monopolio di domani, la funzione sociale della cabala assicurativa: impiegare i fondi degli assicurati in investimenti poco redditizi, ma simpatici alle idee sociali, alle ubbie umanitarie dei governanti del momento. Inutile riaprire qui la discussione sul problema delle case popolari, discussione ardua, complessa, di cui su queste colonne ripetutamente mi sono occupato. Una cosa però è certissima: che le case popolari od economiche rendono poco; le case dell’istituto autonomo di Milano, pure con la ottima e vigile amministrazione dell’ing. Pugno e del dott. Schiavi, rendono il 2,75%; altre renderanno il 3% e ve ne saranno di quelle che renderanno il 2%. Si può credere che sia un danno sociale l’impiego dei capitali ad un basso interesse; si può dimostrare che molto male all’industria ed agli operai stanno facendo quei legislatori i quali vogliono dare il capitale a buon mercato, in un momento economico in cui converrebbe lasciare liberamente svilupparsi la tendenza contemporanea al rialzo nel saggio dell’interesse; ma non ho la minima illusione che si possa togliere dalla testa dei legislatori l’ubbia che l’interesse basso sia oggi desiderabile. Onde gli impieghi in case popolari od economiche continueranno ad avere il significato di impieghi a bassissimo rendimento. Alcune volte potrà sembrare utile che l’interesse sia un po’ più elevato, del 4 o 4,50%; ma sarà a tutto scapito della sicurezza. È evidente perciò che, se l’interesse sarà basso per le cooperative costruttrici di case popolari, il monopolio ricaverà un rendimento bassissimo dall’impiego dei fondi degli assicurati ed è evidente del pari che: 1) le tariffe di assicurazione saranno elevate col monopolio più che in regime di libera concorrenza, in cui le imprese assicuratrici a ragione trascurano gli impieghi “popolari” al 3% e preferiscono gli impieghi “capitalistici” al 4,50, 5 e più per cento; e 2) ovvero i redditi netti del monopolio saranno nulli o si convertiranno in una perdita.

 

 

Dal dilemma non si esce: o impieghi buoni, ad interessi correnti industriali o tariffe alte senza guadagni netti. Ma poiché gli impieghi buoni, ad interessi rimuneratori, sono odiosissimi ai politici, giuocoforza è acconciarsi al secondo corno del dilemma: tariffe alte e perdite per il monopolio. Il che non vuol dire che il monopolio non sia un buon affare per qualcuno: per la burocrazia, per i socialisti, per i politici, i quali troveranno nel monopolio una nuova banca di stato, uno strumento di dominio atto ad assorbir capitali dalle classi borghesi, risparmiatrici, lavoratrici per distribuirlo in mutui a mite, mitissimo, evanescente interesse agli impiegati, alle cooperative edificatrici, ecc. ecc. Non sarà la prima volta che la gente che lavora avrà colle proprie mani foggiato lo strumento con cui la gente burocratica oziosa saprà inferirle colpi mortali. E non sarà l’ultima.

 

 

Un altro ordine del giorno caratteristico è quello dell’on. Coris (i cattolici spesso sono vicinissimi ai socialisti, nella politica sociale, salvo il colore della bandiera) il quale, tra l’altro, vuole che «al personale da assumersi dall’istituto nazionale sia fatta una condizione di diritti e di doveri analoga a quella dell’altro personale alle dipendenze dello stato», e aggiunge che si debba «provvedere equamente alla condizione transitoria del personale licenziato dalle compagnie per effetto del monopolio, riservandogli in ogni caso, a carico dello stato o dell’istituto, quegli stessi diritti che sarebbero ad esso spettati verso le società per il caso e per il titolo di licenziamento arbitrario». Lasciamo da parte quest’ultima eleganza giuridica. Si troverà certamente un giurista, anzi molti giuristi prontissimi a fabbricare una teoria elegante (quanti professori o magistrati non ambiscono ardentemente di fabbricare teorie eleganti in servizio del governo, senza preoccuparsi menomamente di sapere se siano teorie vere!) per dimostrare che le società, costrette dal monopolio a licenziare il personale per mancanza di lavoro, fanno atto arbitrario. Ma queste sono, in paragone, piccolezze. Il grave è che l’ordine del giorno Coris fa vedere pittorescamente la marea burocratica che monta. L’on. Carlo Ferraris, nella sua bellissima relazione di minoranza che l’urgenza del tempo mi ha impedito di commentare come meritava, ha stupendamente dimostrato che era follia sperare di poter porre un freno allo sfrenato dilagare della burocrazia assicurativa. L’ordine del giorno Coris, che sarà forse respinto oggi, per imporsi fra un anno, che cosa dice? Organico, stabilità, carriera, diritti di pensione agli impiegati assunti in servizio; indennità o pensione di grazia ai licenziati o disoccupati provvisori. Qui dentro c’e tutto. Non rimane che da aspettare la presentazione, da parte dei successori di Nitti, degli organici per la sistemazione del benemerito personale delle assicurazioni di stato, ecc. ecc. Ha un bel dire Nitti che si assumeranno solo i più degni. Ma come si prova la degnità agli occhi dello stato? Coi titoli, licenza tecnica, ginnasiale, liceale, laurea; e con le raccomandazioni dei deputati. Ora coloro che hanno i titoli saranno forse i degni impiegati dello stato, ma solo per caso saranno buoni assicuratori. Gli abili produttori odierni spesso non hanno titoli; è gran mercé talvolta se abbiano la licenza elementare. Poi si sono formati; hanno studiato; hanno magari acquistato i titoli. Ma dopo; non prima. Penseranno i degni di ottenere il sacro crisma del perfetto burocratico a far razza. Non passerà tempo che avranno distrutto fin l’ultima vestigia dell’assicuratore classico, avventuriero, fastidioso, elegante, propagandista che tutti abbiamo conosciuto. Quella sarà la degna fine del monopolio.

 

 

10

 

Le proposte dell’on. Bertolini, accettate, pare, dal governo, provano come il progetto del monopolio fosse ormai insostenibile per i maggiori uomini del parlamento, anche per quelli che sono devoti alla politica e alla persona dell’on. Giolitti. Per correggerlo, non v’è che un rimedio: ucciderlo, stroncarlo sino a renderlo irriconoscibile. Aveva già cominciato la commissione a proclamare la libertà di concorrenza da parte delle compagnie estere, sotto l’osservanza della piccola formalità di datare le polizze di assicurazione da una città di confine. Era iniquo uccidere le compagnie italiane e lasciare vivere le estere; ma era sempre meglio del monopolio. Adesso l’on. Bertolini fa un altro grande passo sulla via della ragionevolezza e propone che la concorrenza venga conservata per tutte le assicurazioni superiori a un capitale di lire 15.000 e a una rendita annua di lire 1.500. Il monopolio ci sarà solo per le assicurazioni inferiori alle cifre sopradette, e cioè alle assicurazioni che si chiamano popolari o quasi popolari. La libertà nel primo caso e il monopolio nel secondo, sono però concessi a mezzo. Liberi cioè gli assicurati, dirò così, ricchi e agiati di assicurarsi per l’avvenire presso le compagnie private; ma paghino in tal caso l’imposta non più in ragione dell’uno per cento dei premi, ma del cinque per cento e il ricavo ne sia devoluto alla Cassa di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia, quasi a titolo di multa o di penalità per non avere voluto recare il proprio contributo all’istituto di stato, nel qual caso continuerebbero a pagare solo l’attuale imposta dell’uno per cento. Siano costretti gli assicurati piccoli e medi a iscriversi all’istituto di stato; ma abbiano un periodo transitorio di libertà, in cui potranno iscriversi ancora presso quelle imprese nuove, le quali, pure essendo rigidamente amministrate e avendo le riserve in regola, hanno bisogno di ammortizzare le spese d’impianto.

 

 

Il regime Bertolini sarebbe certo preferibile al regime Nitti perché la mezza libertà, la mezza luce, sono preferibili alla tirannia assoluta e alla oscurità.

 

 

Consolazione un po’ magra. Sarà un errore a metà, ma pure sempre un errore. Senza ritornare su cose già dette, basti accennare alle obiezioni che si possono muovere a quelle proposte in se stesse considerate. Innanzi tutto le assicurazioni importanti verrebbero multate con imposta del cinque, invece dell’attuale 1 per cento sui premi. Il fatto che l’imposta andrebbe devoluta alla Cassa di previdenza per gli operai non muta natura all’imposta. Neppure è dimostrato, né è dimostrabile, che vi sia un qualsiasi legame logico fra le pensioni operaie e una imposta sulla previdenza. Le pensioni operaie saranno una bella o una brutta cosa: ma se dovranno essere istituite, non dovranno essere poggiate su una imposta sulla previdenza.

 

 

Due sole sono le vie possibili: o pagare coi fondi del bilancio, ossia con imposte generali, ovvero con i contributi misti degli imprenditori, degli operai e dello stato. Altre vie non si vedono. Volerne far gravare l’onere sui previdenti è una iniquità; perché si costringono a provvedere alle sorti degli operai, coloro che, col sacrificio dell’assicurazione, dimostrano d’avere bisogna urgente essi medesimi di premunirsi contro i pericoli della morte, della miseria, della invalidità. Il monopolio era sotto questo aspetto detestabile. L’on. Bertolini attenua il male, non lo toglie.

 

 

Devesi dire di più: che con questa imposta si andrebbe a ritroso della legislazione moderna tributaria. Una caratteristica delle più perfezionate imposte sul reddito, è di esentare in tutto o in parte i premi o somme pagate per le assicurazioni sulla vita. In Inghilterra si può dedicare a questo scopo un sesto del proprio reddito acquistando il diritto alla esenzione dalla imposta relativa. In Prussia, il medesimo concetto è seguito. In Italia, l’ultimo disegno di legge (Sonnino), per la riforma della tassa di famiglia e la sua avocazione allo stato, concedeva l’esenzione per tutte le somme destinate alla assicurazione sulla vita. È un principio destinato a trionfare, perché corrisponde alla più stretta giustizia. Le imposte si devono pagare per i redditi che si possono godere, non per i redditi a cui è giuocoforza rinunziare per provvedere ad avvenimenti dolorosi, come la morte, la vecchiaia, la invalidità. Se l’imposta Bertolini sulle assicurazioni più alte contraddice a tutto il movimento di idee moderne intorno alla legislazione tributaria, la sorte riservata alle assicurazioni piccole e medie è poco chiara. Il monopolio sarebbe proclamato in teoria; ma per un periodo variabile fino ad un massimo di sei anni, dovrebbe sottostare alla concorrenza di alcune compagnie private e precisamente di quelle che, avendo le riserve in regola, hanno ancora da ammortizzare le spese di impianto. Nobile è certo il fine voluto raggiungere dall’on. Bertolini, il quale si è preoccupato di concedere, sotto la forma speciale di continuazione di esercizio, una indennità alle compagnie che essendo sul principio della loro vita, sarebbero particolarmente ed iniquamente danneggiate da una espropriazione senza indennità. Ma i dubbi sorgono ugualmente numerosi. Poiché si riconosce che una indennità è dovuta, perché limitarla a talune compagnie e non estenderla a tutte? Il determinare quale sia o se vi sia danno non è compito del legislatore, ma del magistrato.

 

 

Non si dà un eccessivo arbitrio al potere esecutivo quando gli si dà facoltà di scegliere le compagnie meritevoli di pietà scartando le altre? Non si griderà al favoritismo? Una compagnia a cui la continuazione sarà stata negata perché il ministero non ha riscontrato l’esistenza delle necessarie riserve matematiche, non avrà modo di lamentarsi di denegata giustizia? In sostanza, si può trattare di apprezzamenti soggettivi, potendo il ministero calcolare le riserve secondo un sistema e le società secondo un altro. Non c’è il metodo Zillmer che sembra inventato apposta per diminuire le riserve matematiche delle imprese giovani e non l’ha già citato il relatore della minoranza Ferraris?

 

 

La licenza di vivere largita a talune compagnie, non potrà essere interpretata male dal pubblico? Gli assicurati avrebbero del tutto torto nel riflettere che se il governo ha concesso ad una compagnia di vivere per sei anni, ciò fu per pietà, ossia perché quella compagnia aveva delle spese di impianto da ammortizzare? Ciò potrebbe danneggiare le società presso le persone poco abituate alla lettura dei bilanci, e scemare la clientela invece di crescerla.

 

 

Né si vede a che scopo sarebbe, durante il periodo transitorio, creato l’istituto di stato. Non potrebbe fare concorrenza alle società private per le assicurazioni superiori a 15.000 lire, perché la clientela non accorrerebbe certamente ad esso, malgrado che l’aumento dell’imposta dall’1 al 5% non lo colpisca. Questo strumento di concorrenza sleale, aggiunto alle altre ingiuste immunità tributarie già contenute nel progetto Nitti, non sarebbe bastevole a raggiungere l’intento. Per le assicurazioni piccole e medie, l’istituto dovrebbe avere un certo scrupolo a portar via la clientela alle compagnie giovani, a cui il legislatore aveva desiderato di dare un mezzo di ricuperare in fretta le spese d’impianto. Sarebbe un istituto di coltura di bacilli burocratici in aspettativa di lavoro dopo sei anni. Vale la pena di creare una nuova macchina a questo scopo, quando già esiste la Cassa nazionale di previdenza, e quando tra gli scopi di essa già vi è l’esercizio delle assicurazioni popolari?

 

 

11

 

Mi sia consentito un breve commento sull’esito della discussione parlamentare sul monopolio. Io non so se al rinvio a novembre susseguirà di fatto una nuova discussione o se invece il progetto verrà seppellito. Tutto ciò non entra nel campo dei fatti che possono essere studiati oggettivamente, ma in quello delle combinazioni politiche, le quali sfuggono ad un apprezzamento scientifico. Comunque sia di ciò, una verità è sicura: che il vecchio, classico disegno di monopolio assoluto ed immediato è morto. Al posto suo verrà un nuovo disegno, migliore o peggiore, che non si sa ancora quale potrà essere e che sarà discusso a suo tempo. Frattanto alcune osservazioni si impongono. È sorta in Italia una coscienza pubblica, la quale esige che ogni proposta, la quale tocchi interessi profondi e provochi innovazioni sostanziali negli ordini sociali, debba essere largamente, severamente studiata e criticata. Il parlamento e la stampa italiana hanno dato nell’anno del cinquantenario uno spettacolo degno al paese; ed il paese li ha seguiti ed ha mostrato di apprezzare l’elevatezza degli intendimenti di coloro che vollero la discussione. Qui si vide da qual parte stessero i liberali veri, amici del progresso economico ed i reazionari veri. Il suon delle parole spesso è lontano dalla realtà delle cose; e di parole sonanti e vuote se ne sentirono a dovizia di questi giorni. Ma il paese capì che:

 

  • era reazionario il governo il quale pretendeva che una legge di tanto momento fosse approvata in pochi giorni da camera e da senato; ed erano liberali quelli i quali virilmente pretesero ed ottennero che fosse assoggettata ad un esame profondo e minuto. O che la discussione non è forse l’essenza stessa della democrazia e dei regimi parlamentari? E perché si deve tollerare che chiamino se stessi democratici e liberali coloro che di fatto vogliono le strozzature tiranniche del dibattito solenne e la fiducia cieca nella misteriosa sapienza di un uomo, solo perché quest’uomo è investito della dignità di ministro?

 

  • erano reazionari coloro i quali, come i socialisti, tuttodì difendono gli interessi di classi particolari, vogliono favori alle cooperative, appalti ai braccianti, premi ai cantieri dove sono impiegate maestranze socialiste, ecc. ecc., e negano poi il diritto ad altre classi sociali di trovare difensori, solo perché hanno il torto di vestire panni borghesi, di chiamarsi assicuratori e di distinguersi dagli operai perché mentre questi ora chieggono denari e favori allo stato, essi si contenterebbero di non essere rovinati dallo stato e neppure aspirano ad ottenere – anzi lo detestano – un posto governativo. Se le parole avessero un significato rispondente alle cose, si dovrebbe dire che erano liberali quei socialisti del 1900 che difendevano la libertà di sciopero e di organizzazione operaia; ed ora sono divenuti reazionari, “forcaioli” veri e maggiori, perché vogliono creare armi di sopraffazione contro classi sociali ad essi invise perché non asservite al governo. Oggi sono liberali e camminano sulla via luminosa dell’avvenire coloro che hanno difeso il diritto di qualche migliaio o di qualche diecina di migliaia di persone a vivere del proprio lavoro indipendente dalla tirannia burocratica. Il paese ha capito che, in certi momenti, la reazione era all’estrema sinistra, era in coloro che si dicono radicali e democratici; mentre il sentimento della libertà e delle forze che fanno vivo e grande un paese si era rifugiato all’estrema destra;

 

  • fu nuovo e bene augurante lo spettacolo di coloro i quali osarono incorrere nella taccia di difensori di interessi privati quando la loro coscienza li spronava a difendere un grande interesse pubblico. Forse, alcun tempo fa, cotale audacia non si sarebbe avuta. Non si ebbe nel 1905 quando si discusse l’assunzione delle ferrovie da parte dello stato. Allora molti, i quali temevano si commettesse un errore grave, tacquero per paura di essere denunciati come mancipi di società private. Tacquero contro il ricatto dei pubblici accusatori che speravano, essi, di soddisfare meglio agli interessi privati degli addetti al servizio ferroviario, quando questo fosse venuto direttamente in mano dello stato. Oggi più non giova discutere se e come si sarebbe potuto far meglio nel caso delle ferrovie. Ma bisogna rallegrarci che le minacce degli energumeni, le accuse dei reazionari (i reazionari per definizione sono ora i socialisti e coloro che in ispirito vi sono prossimi), la difesa disperata di coloro che avevano clientele da collocare non siano prevalse contro quelli i quali difendevano la causa della libertà e della iniziativa individuale. Certo, costoro difesero in tal modo in parlamento, e noi difendemmo sulla stampa, gli interessi delle compagnie e delle mutue assicuratrici. Ma li difendemmo non perché a noi premano i loro guadagni; ma perché siamo profondamente convinti che solo la coesistenza di compagnie e di mutue concorrenti, solo la libertà lasciata a nuove imprese di svilupparsi può garantire ai previdenti un servizio al costo minimo possibile e può essere stimolo potente al diffondersi della previdenza. Certo le casse postali di risparmio fecero molto bene e provocarono il risparmio e lo assicurarono contro pericoli molteplici. Ma quel bene lo fecero in concorrenza con potenti casse regionali e cittadine pubbliche, con banche popolari, con banche ordinarie per azioni e con banche private. Benemerite le une e le altre. Vorremmo noi creare il monopolio della banca solo perché le casse di risparmio seppero radunare un miliardo e mezzo? Sarebbe un pericolo grave di tirannia economica, a petto di cui la tirannia politica, che ne sarebbe rinsaldata, apparirebbe un gioco da ragazzi. I nemici del monopolio non sono amici delle attuali imprese di assicurazioni. Tutt’altro. Essi anzi le vorrebbero morte, purché non a tradimento, colla forza violenta della legge. Le vorrebbero morte dalla concorrenza di nuove imprese migliori, mutue o private o magari semi-pubbliche, purché la morte avvenisse in seguito a servizi resi dalle nuove imprese più a buon mercato ed a propaganda più viva nelle classi previdenti. Più che vederle morire, sarebbe augurabile che esse fossero costrette a trasformarsi continuamente, a lottare ogni giorno per sopravvivere, ad escogitare ogni giorno nuovi mezzi per non cadere sotto i colpi degli avversari. Questo è lo spettacolo che ci offrono le imprese assicuratrici in Inghilterra, negli Stati uniti ed anche in quella Nuova Zelanda, ove vive e fiorisce un istituto di stato in concorrenza con le compagnie private. Sopravvivono le più antiche, le più forti; ma difficilmente possono abusare della loro forza, perché hanno sempre alle calcagna una muta rabbiosa di nuove società pronte a portar via la clientela, ad agitare l’opinione pubblica, ad invocare luce sulle tariffe, sulle tabelle, sui metodi amministrativi, a chiedere inchieste parlamentari, ove appena le vecchie compagnie minaccino di diventare sopraffattrici. In quei paesi ed anche in Germania il metodo dei premi naturali lotta contro il metodo dei premi medi o normali, il metodo Zillmer di calcolo delle riserve lotta contro il metodo dei premi puri. Ed ogni giorno si compie un passo avanti, ogni giorno si tentano nuove vie per scuotere gli indifferenti, per profittare di quelli che a prima vista parevano ostacoli. Le pensioni obbligatorie in Germania ed in Inghilterra parevano un ostacolo al diffondersi della previdenza libera nelle classi popolari. Non ne fu nulla. Le imprese assicuratrici ne trassero stimolo a far meglio e più.

 

 

In Italia ancor molto è da fare in questo campo e non poco può fare il governo, sopprimendo vincoli assurdi e perniciosi intorno al modo d’impiego dei capitali degli assicurati, vincoli che nulla garentiscono e intanto scemano il rendimento dei capitali stessi e crescono perciò i premi; ed imponendo invece norme severe di pubblicità e di controllo sui bilanci, sulla formazione delle tariffe ecc. ecc.; smascherando abusi ed estorsioni, ove se ne dimostri l’esistenza. Il monopolio è il pantano, la morta gora burocratica, la reazione medievale. La concorrenza, sottoposta alla pubblicità ed alla critica persistente e continua e severissima dell’opinione pubblica e dell’ufficio governativo di controllo è la leva del progresso, è la spinta alle opere grandi. Le vie dell’avvenire sono con noi; e possiamo guardare con pietà e con orgoglio agli illusi ed ai frenetici che si fecero paladini di oscurantismo e di tirannia, pur avendo a fior di labbra la democrazia e le vie nuove del socialismo. La discussione avvenuta fu ancora un esempio mirabile di solidarietà: solidarietà nazionale tra gli uomini che lavorano. Anche qui l’Italia ha progredito. Alcuni anni or sono le forze della reazione burocratica e monopolistica mossero un assalto contro talune modeste industrie (affissioni, pompe funebri, ecc.), che si proclamò potessero essere municipalizzate in monopolio dai comuni. Poiché si trattava di piccole cose, il monopolio passò inosservato; né sarebbe stato forse troppo pernicioso in taluni casi od inutile in altri, se non fosse venuta poi la magistratura colla famigerata sentenza Tommaso Mosca ad affermare che nulla era dovuto agli espropriati. Altra volta accadde che, con una balorda applicazione d’una legge cosidetta di Napoli, si sancisse il principio che le ferrovie di stato, nel proprio interesse patrimoniale privato, potessero espropriare i terreni dei privati a circa metà del prezzo corrente. La magistratura qui talvolta recalcitrò; ma pure alcuni magistrati annuirono. Accadde infine che camera e senato, in giorni di canicola, ed in mezzo a vociferazioni di inquilini ed a grida incomposte contro i padroni di casa e a menzognere statistiche sugli accaparratori di terreni, votassero una legge che espropriava violentemente, senza indennità, i proprietari di aree fabbricabili. Vi fu chi gridò; e sono orgoglioso di avere una volta in queste colonne gridato anch’io. Ma le grida caddero nel deserto. Oggi invece le grida contro la violenza della espropriazione senza indennità ebbero un’eco nel paese. Si comprese che non è nell’interesse di nessuno che simiglianti violenze si commettano. Si capì che espropriare senza indennità (se non piace la parola espropriazione, i giuristi governativi, i giuristi dell'”imperatore” come li chiamò l’on. Salandra, ne inventino un’altra; ma riconoscano il fatto della violenza), fa danno all’espropriato, ma fa sovratutto danno alla collettività. Perché nel Venezuela, nel Nicaragua, nel medioevo l’interesse è od era caro? Per molti motivi, fra cui primeggia e primeggiava la poca sicurezza dei risparmiatori, dei proprietari contro le sopraffazioni governative e i latrocini pubblici. Dove c’è un rischio, bisogna garantirsene; e la garanzia e immediata ed automatica: ha nome rialzo dell’interesse. Invece che il 4, si paga il 5 od il 6 od il 10% per aver l’uso del capitale soggetto a rischio. E che cosa vuol dire interesse alto? Vuol dire che gli imprenditori, per iniziare le loro industrie, devono pagare il capitale caro e quindi lo debbono iniziare su scala più ristretta. Vuol dire produzione più bassa, occupazione minore, salari depressi. Tutti soffrono per l’interesse caro; ma più di tutti soffrono coloro che vivono del proprio lavoro. Dico che tutti soffrono dell’interesse caro; ma importa notare che si parla dell’interesse artificiosamente rincarato dalla mala sicurezza della proprietà contro i latrocini, privati e pubblici. Quest’interesse caro non giova a nessuno; è pagato in pura perdita da coloro che hanno bisogno dei capitali.

 

 

Questa verità così chiara e semplice fu compresa dalle classi imprenditrici italiane; e ne sia data loro la meritata lode. Un augurio è da aggiungere che il senso della solidarietà contro le violenze burocratiche e reazionarie deve essere tanto più squisito e deve vibrare tanto più vivacemente quanto più i danneggiati dalla violenza sono pochi e poco potenti. Se i danneggiati sono molti, non vi è bisogno che gli altri accorrano a difenderli.

 

 

Li difende il loro numero stesso, contro cui la burocrazia ed i politici non ardiscono cimentarsi. La solidarietà nella difesa contro l’idra della reazione deve applicarsi sovratutto in difesa dei pochi, in difesa di quelli che, per motivi sentimentali, sebbene a torto, sono invisi ad una parte dell’opinione pubblica. Occorre per fermo che i danneggiati non siano essi stessi dei sopraffattori. Non scriverei una parola in difesa dei proprietari di terreni a grano, dei zuccherieri, dei siderurgici, dei cotonieri, quando l’on. Giolitti proponesse di ridurre (di un terzo, di una metà, di una frazione attentamente studiata per non far sorgere squilibri troppo gravi) la protezione di cui godono e li privasse, senza indennità, di una parte dei redditi di cui godono. Qui non vi sarebbe espropriazione, perché la protezione non fu data a costoro se non per un periodo determinato, fu data coll’intesa che cessasse, non poteva logicamente esser data se non con quell’intesa; e non fu data neppure perché essi si procacciassero un reddito, ma perché potessero agguerrirsi e fortificarsi nel periodo iniziale della loro vita o della loro trasformazione industriale. Si videro o si sentirono, finalmente, gli effetti, oltreché della solidarietà interna, della solidarietà internazionale. Argomento delicato, per cui può essere opportuno non indugiarci dal punto di vista politico. È doveroso però riconoscere che la solidarietà internazionale sta diventando una delle più benefiche forze di progresso del mondo. I vincoli derivanti dalle correnti di capitali e di lavoro tra i diversi stati del mondo sono fattori potenti di giustizia e di pace. Se il Council of Foreign Boudholders (Consiglio dei portatori di obbligazioni di stati stranieri) non li avesse iscritti sul suo libro nero e non li avesse fulminati con la moderna forma di interdizione dall’acqua e dal fuoco, ossia con la interdizione dalla borsa di Londra, quanti stati dell’America latina, che oggi hanno preso posto nel novero degli stati civili, onesti e ricchi, non sarebbero ancora in preda all’anarchia ed ai briganti? Qual forza diplomatica ed economica non potrebbe essere per l’Italia la esistenza di correnti migratorie umane, preziosissime per i paesi che le ricevono? Non punimmo noi in passato un paese reo di mali trattamenti verso i nostri connazionali, col segnarne il nome sul libro nero dei paesi, verso cui l’immigrazione italiana va sconsigliata, ed, entro i limiti del possibile, impedita?

 

 

Se gli altri paesi non possono fare a meno dell’emigrazione italiana, l’Italia non può ancora fare a meno dell’immigrazione di capitali e di elementi dirigenti stranieri. O meglio: talune classi di italiani potrebbero cominciare con vantaggio ad esportare capitale italiano all’estero – e già lo fanno in Argentina ed altrove – e talune industrie italiane hanno ancora sete di capitale straniero. Sono rapporti destinati a diventare più stretti e che sarebbe follia rompere. Per non romperli, noi abbiamo interesse a non prestare il fianco ad alcuna critica; noi abbiamo interesse a che nessuno straniero, venendo in Italia coi suoi capitali e colla sua perizia, possa avere nemmeno un vago dubbio che egli potrà essere spossessato dei frutti del suo capitale e del suo lavoro senza indennità. L’alto principio fu proclamato al mondo in codici mirabili dagli italiani. Il paese ha compreso che un così prezioso retaggio non poteva essere di un tratto e con leggerezza distrutto per sempre.

 

 


[1] Con il titolo Il monopolio delle assicurazioni sulla vita [Ndr].

[2] Con il titolo Il monopolio delle assicurazioni sulla vita. I pericoli e i danni [Ndr].

[3] Con il titolo La cabala dei milioni dell’assicurazione sulla vita. Come si costruiscono e come si smontano i calcoli dei monopoli [Ndr].

[4] Con il titolo Le possibili perdite della cabala assicurativa [Ndr].

[5] Con il titolo Come non è risolto il problema dell’industria assicurativa di stato [Ndr].

[6] Con il titolo L’indennità alle imprese assicuratrici. La soluzione governativa e i suoi pericoli per tutte le imprese industriali e commerciali [Ndr].

[7] Con il titolo Monopolio e assicurati [Ndr].

[8] Con il titolo Le trasmutazioni del monopolio [Ndr].

[9] Con il titolo Diventando, degenera. A proposito di alcuni ordini del giorno sul monopolio [Ndr].

[10] Con il titolo La portata delle proposte Bertolini [Ndr].

[11] Con il titolo Gli ammaestramenti di una lotta [Ndr].

L’imposta sui liquori

L’imposta sui liquori

«Corriere della Sera », 11 aprile 1911[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 227-230

 

 

 

 

Rare volte accade che l’annuncio di studi per un rimaneggiamento fiscale debba incontrare una approvazione così incondizionata come quella che merita la notizia della revisione, studiata a Milano dal comm. Queirazza, assessore delle finanze, del regime dei dazi sugli spiriti. Pur conoscendo di questi studi solo quel tanto che si può leggere sui giornali milanesi, debbo tributare il più vivo elogio ed il più caldo incoraggiamento affinché essi vengano condotti a termine e trovino pronta attuazione. Il problema invero, che a Milano la giunta si appresta a risolvere in senso corretto e sano, fu ed è, purtroppo, oggetto nei comuni italiani di tante soluzioni diverse ed abusive che ne sorsero gravi inconvenienti, dai più inavvertiti. Su un caso tipico del genere, accaduto a Torino, e risolto in senso contrario agli interessi generali, ebbi occasione di intrattenere i lettori del «Corriere» in un articolo intitolato Protezionismo daziario municipale del 24 gennaio 1910 (qui alle pp. 9 e sgg.). Di questi mesi «La Riforma Sociale», ebbe a compiere un’inchiesta larga e documentata, opera diligentissima del prof. Giuseppe Prato, su questo argomento studiando le tariffe daziarie dei principali comuni murati italiani. Le risultanze dell’inchiesta vedranno a giorni la luce nel supplemento al fascicolo marzo-aprile della rivista; ed io spero che saranno meditate, come meritano, dagli amministratori dei grossi municipi italiani. Il Prato ha intitolato il suo studio Le dogane interne nel secolo XX; ed è un titolo che ne rileva il contenuto e spiega la importanza del problema che a Milano è meno grave d’altrove, ma che pure merita di essere risolto nell’unico senso economicamente e giuridicamente corretto.

 

 

Ecco di che si tratta. I dazi che colpiscono merci e derrate all’entrata delle città dovrebbero, nell’intendimento del legislatore, servire unicamente a dare un’entrata all’erario comunale e non anche a dare una protezione all’industria situata entro la cerchia murata contro la concorrenza dell’industria, nazionale bensì, ma extra-moenia. Di ciò le ragioni sono parecchie, fra cui essenzialissime le seguenti:

 

 

1)    pur facendo astrazione da ogni disputa di protezione o libero scambio, è certo che, ove il legislatore ha voluto proteggere i produttori nazionali, ha voluto proteggerli, a ragione od a torto, solo contro i concorrenti esteri. È perentoriamente escluso che il legislatore abbia mai inteso di consentire che i produttori di Milano (entro cinta) possano essere protetti contro la concorrenza dei produttori di Monza, Affori, GorIa, ecc. ecc. Sarebbe stranissimo che l’avesse voluto, perché ciò vorrebbe dire la rinascita, in pieno secolo XX, delle barriere feudali e degli odi campanilistici fra città e città, fra borgo e borgo che infestavano il medio evo;

 

 

2)    lo Stato italiano quando ha conchiuso i trattati di commercio con gli Stati esteri ed ha, ad esempio, stabilite certe riduzioni di dazio all’entrata nel regno di merci estere, lo ha fatto come corrispettivo di riduzioni analoghe ottenute dalle merci italiane all’entrata negli Stati esteri. I trattati di commercio sono patti solenni, che devono essere osservati con piena buona fede e lealtà. Ora a che cosa si ridurrebbero i trattati di commercio, se il governo italiano li stipulasse per suo conto, consentendo l’entrata di una merce estera col dazio di lire 10 e poi ogni comune italiano si credesse in facoltà di aumentare i dazi a 20 o 30 lire non per scopo fiscale, ma per proteggere i produttori posti entro la propria cerchia murata? Sarebbe uno sconvolgimento dei patti internazionali, di cui gli Stati esteri bene potrebbero chiedere ragione al governo italiano.

 

 

Nonostante l’evidenza delle ragioni, nei regolamenti daziari municipali inavvertitamente si sono infiltrate disposizioni che consacrano un illegale protezionismo a favore degli industriali intra-muros contro gli industriali, italiani e stranieri, posti fuori mura. Il Prato ne cita esempi numerosissimi e singolari. Così ad Ancona il marmo in blocco paga lire 0,20 ed il marmo lavorato lire 1; onde una protezione ai lavoratori di marmo anconitani di lire 0,80 per quintale, perché essi pagano solo lire 0,20 per il marmo in blocco e poi lo lavorano entro la mura, mentre i forestieri debbono pagare 1 lira se lo vogliono introdurre in città, dopo averlo lavorato. A Bari il legno da lavoro semplice è ammesso in franchigia, mentre il legno lavorato paga lire 4 ed i mobili da lire 4 a 10. A Firenze il marmo greggio entra in franchigia ed i marmi lavorati pagano lire 6. A Torino il ferro ed il metallo greggio non pagano nulla ed i ferri e metalli lavorati pagano da lire 1,50 a 6. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Quale la conseguenza? Che i consumatori pagano i mobili, i marmi lavorati, i ferri in opera aumentati di tutto il valore del dazio perché non se li possono far venire dal di fuori se il dazio non vien pagato. Viceversa il municipio incassa somme irrisorie perché in realtà i cittadini si provvedono dai fabbricanti interni che hanno importato la materia prima in franchigia o con dazi minimi. È un vero tributo che i cittadini pagano non all’erario cittadino, ma ai produttori d’intra-muros. Tributo illegale, per i motivi che si sono già detti; e che si è potuto acclimatare in Italia per la poca cura con cui i regolamenti daziari furono compilati e la insufficienza della loro revisione da parte degli organi governativi di vigilanza e di tutela.

 

 

Da questo malanno due sono le vie di uscita: 1) o abolire il dazio di entrata sulle materie prime o sui prodotti lavorati; ed è la via che si deve scegliere quando si tratta di merci di scarso rendimento fiscale e che danno luogo ad una tassazione sperequata. Osservo, per incidenza, che Milano non ha quasi bisogno di scegliere questa via, perché la sua tariffa è una delle più semplici d’Italia e le voci colpite sono poche; 2) ovvero mettere sulla merce lavorata un dazio uguale a quello posto sulla materia prima. E il caso – acutamente scoperto dal Queirazza – dell’alcool a Milano. L’alcool puro – che è la materia prima – paga 8 lire all’ettolitro di dazio; ed i liquori (rosolio, cognac, ecc.) pagano pure 18 lire all’ettolitro quando entrano in città dal difuori. Il che vuol dire che, siccome con un ettolitro di alcool puro si fabbricano quattro ettolitri di rosolio, un produttore dell’interno importando l’alcool puro e trasformandolo poi in rosolio in città, paga solo lire 4,50 per ogni ettolitro di quest’ulutimo. E poiché il rosolio importato dal di fuori paga lire 18, così si vede di quale protezione godono i produttori interni. Il consumatore paga dunque l’intiera tassa di lire 18 per ogni ettolitro di rosolio, perché il prezzo è uguale a quello italiano più il dazio; ma di questo solo lire 4,50 vanno all’erario cittadino e lire 13,50 al produttore di rosolio. L`assessore del dazio vorrebbe far sì che ciò che paga il consumatore vada tutto a favore dell’erario. Egli ha ragione ed i suoi propositi meritano ampia lode, perché si tratta di un dazio, che sia igienicamente, sia per ragioni di giustizia tributaria, non può essere abolito.



[1] Con il titolo La Tassa sui liquori [ndr].

Cinquant’anni di vita dello stato italiano

Cinquant’anni di vita dello stato italiano

«Corriere della Sera», 2 aprile 1911

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 221-226

 

 

 

 

I cinquanta anni decorsi dall’unificazione cambiarono faccia all’Italia economica, oltreché all’Italia politica. Un quadro esatto delle mutazioni accadute non si può dare, perché troppi dati fanno difetto e troppo lunghe ricerche occorrerebbe fare per raccogliere notizie sul passato comparabili a quelle che odiernamente sono divulgate. Fu annunciato che l’Accademia dei lincei pubblicherà presto un volume che si propone appunto di narrare i progressi compiuti dall’Italia nei multiformi aspetti della sua vita; si annuncia prossimo, in un campo più ristretto, un volume edito per cura del giornale L’economista d’Italia; e la Società napoletana di storia patria ha bandito testé un concorso, con premio di ottomila lire, per la miglior monografia su Le condizioni economico-sociali del mezzogiorno d’Italia nell’ultimo cinquantennio (1860-1910). Quando i desiderati volumi verranno sarà possibile contemplar più davvicino il cammino percorso dall’Italia nostra. Frattanto tentiamo di vedere come possa tradursi in cifre la mutazione che lo Stato subì. Mutarono, lentamente, gli italiani; ma, più rapidamente mutò lo Stato, come organismo politico e direttivo della nazione.

 

 

Prima della unificazione, che importanza avevano gli Stati che costituirono poi il regno d’Italia? Due quadri varranno a darcene un’idea, non inutile a guisa di prefazione a quello che sarà il primo bilancio unificato. Ecco qual era, secondo il Maestri, il nonno della statistica italiana – il padre n’è il senatore Luigi Bodio, ed i figli sono, ahimè! troppi e manca l’unità d’indirizzo – finanziariamente l’Italia prima della rivoluzione francese (1788):

 

 

Superficie           in kmq2

Popolazione

Entrate dello Stato

Debito pubblico migliaia di lire

Stati sardi

68.771

2.884.003

25.513

154.743

Genova

6.163

618.120

2.778

104.060

Ducato di Milano

11.366

1.178.063

7.000

46.400

Venezia coi possessi

46.710

2.844.212

25.000

117.000

Parma

5.939

250.000

2.530

Modena

6.550

320.000

4.120

Toscana

22.271

1.058.930

7.727

15.500

Lucca

1.494

118.000

516

83

Stato pontificio

41.434

1.308.545

10.300

36.000

Napoli

85.309

4.925.381

75.700

13.800

Sicilia

29.240

1.176.615

5.004

Corsica

8.747

124.000

50

Malta

375

100.000

400

Ragusa

1.207

56.000

——-

———

——-

——-

335.576

16.961.869

164.638

487.576

 

 

Nei vecchi Stati poco si spendeva (10 lire a testa circa) e scarso era il debito pubblico per capo (circa 30 lire). Viene la rivoluzione, l’impero, la restaurazione; la Corsica, Malta, Ragusa sono definitivamente scisse dal corpo politico d’Italia; Venezia perde i suoi possedimenti d’oltremare. L’Austria organizza la finanza lombardo veneta a suo pro e gli Stati minori con essa concordi, affilano armi e denaro contro i tentativi rivoluzionari. Il solo Piemonte prepara la unificazione. Siamo ai tempi eroici della preparazione della riscossa. Ecco le entrate degli Stati nel 1846 e nel 1858 prima delle guerre (in migliaia di lire):

 

 

1846 o 1847

1858

Stati sardi

84.282

176.990

Regno lombardo veneto

110.370

134.696

Ducato di Parma

7.748

9.826

Ducato di Modena

7.187

11.678

Granducato di Toscana

23.677

32.650

Ducato di Lucca

2.490

Stato pontificio

52.830

77.709

Regno di Napoli

118.758

137.465

Sicilia

28.742

43.141

——-

——-

436.084

624.155

 

 

Lo sforzo maggiore fu sostenuto dal regno sardo nel periodo che sta tra le due guerre del 1848 e del 1859. Era il terzo Stato d’Italia innanzi al 1843 e divenne il primo alla vigilia della guerra vittoriosa. Gli altri Stati che miravano a difendersi, non osavano scontentare troppo, per una causa ingiusta, i contribuenti. In Piemonte, in Liguria, in Sardegna, anche in Savoia ed a Nizza, il sacrificio era lietamente sostenuto perché si sapeva dove mirava e lo scopo era creduto santo. Ferdinando di Napoli faceva scrivere da Agostino Magliani (divenuto poi ministro delle finanze d’Italia) un opuscolo per celebrare la mitezza delle imposte nel vasto regno delle Due Sicilie e criticare la loro asprezza nel più piccolo regno sardo. Cavour vi fece rispondere dallo Scialoia, fuoruscito napoletano, che i piemontesi pagavano duramente; ma pagavano per costruire ferrovie e per apprestare l’esercito al riscatto della patria.

 

 

Il primo bilancio unificato fu quello del 1862. Terribile bilancio, che nei suoi 480 milioni di entrate effettivamente riscosse, 926 milioni di spese effettive e nel disavanzo di 446 milioni rispecchia, in cifre, la grandezza della battaglia combattuta. Le entrate diminuite non poco al disotto della somma dei redditi degli antichi Stati prima della guerra, e le spese grandemente cresciute. Poco migliorarono le cose negli anni fino al 1870: nel 1863 il disavanzo si riduce lentamente a 382 milioni, ed a 367 nel 1864, a 270 nel 1865 per balzare a 721 milioni nel 1866 (con 617 milioni di entrata e 1 miliardo e 338 milioni di spese). In seguito, nel 1867 sono 214 milioni di disavanzo, 265 milioni nel 1868, 148 nel 1869 e 214 nel 1870.

 

 

Qui si chiude l’epoca delle guerre e della finanza bellica; e si cominciano a gittare le fondamenta della fortuna odierna. In quei primi anni tutte le energie del nuovo regno erano tese strenuamente a raggiungere due fini: far onore alla firma dello Stato verso i creditori e sostentare l’esercito e l’armata. Nel consuntivo del 1862 (le cifre sono in totale un poco superiori a quelle citate sopra, perché comprendono anche il movimento dei capitali) si dichiarano spesi per le finanze 356 milioni, per la guerra 289, per la marina 78. Poiché almeno 250 milioni sui 356 delle finanze riguardano il debito pubblico, è chiaro che 620 milioni su 975 andavano spesi per il fine supremo della conservazione e della integrazione del territorio. Importava tener pronti l’esercito e la marina per la seconda guerra imminente coll’Austria; ed era necessario tener la fede giurata ai creditori per poterne ottenere altri prestiti nell’ora del cimento. I lavori pubblici assorbivano notevole parte della somma residua: 107 milioni, proseguendo così in Italia quella ardimentosa politica ferroviaria che aveva reso il Piemonte uno Stato fortemente unito e militarmente saldissimo. Gli uomini di Stato videro subito che l’unione politica d’Italia non poteva durare ove non fosse rinsaldata dall’unità economica. Occorreva unire quel che gli Stati antichi si erano forzati di separare. Agli altri fini della vita pubblica si dava a mala pena quant’era necessario: 65 milioni ai prefetti ed alla polizia per mantenere l’ordine e la sicurezza, 30 milioni alla grazia e giustizia, 22 milioni all’agricoltura, industria e commercio, e 15 milioni all’istruzione. Era un bilancio unilaterale, che aveva una faccia sola: la difesa nazionale; né si poteva chiedere di più quando le spese quasi superavano del doppio le entrate.

 

 

La storia finanziaria italiana fu, per gran parte del cinquantennio decorso, una lotta contro il disavanzo. Dal 1862 al 1874 non un bilancio va immune dal doloroso supero delle spese sulle entrate effettive. Col 1875 è raggiunto finalmente il pareggio, gran sogno di Quintino Sella e giustificazione sola ed alta della sua spietata ferocia tassatrice. Anzi nel 1875 stesso abbiamo un piccolo avanzo di 13 milioni di lire. Ma è avanzo di breve durata, che raggiunge il massimo nel 1881 con 53 milioni; l’abolizione del macinato lo fa discendere nel 1883 a 3 milioni appena e subito dopo ricompare la lugubre teoria dei disavanzi. Sono gli anni delle follie bancarie, delle crisi edilizie, dei grandiosi programmi ferroviari, della espansione coloniale, dell’abolizione, poco durata, del corso forzoso. Dal sogno prematuro di grandezza e di prosperità economica l’Italia si desta nel 1888-89 con un bilancio consuntivo di 1 miliardo e 500 milioni all’entrata e di 1 miliardo e 736 milioni all’uscita ed un disavanzo di 235 milioni.

 

 

La lezione fu dura; ma non andò perduta. Il disavanzo, che dura dal 1885-86 al 1896-97 insegnò la moderazione nelle spese e fu consigliero di raccoglimenti fecondi. Oggi noi godiamo i frutti della prudenza di governo consigliata dagli eventi di quell’epoca. Dal 1897-98 il bilancio italiano è sempre stato in avanzo e poté ascendere ad altezze che cinquant’anni fa avrebbero riempito di stupore. Le entrate effettive, che nel primo bilancio unificato del regno (1862) erano di 480 milioni, nelle previsioni per il 1911-12 salgono a 2 miliardi e 244 milioni; ma le spese, che allora quasi avevan superato del doppio le entrate (926 milioni), ora vi rimangono al disotto, con 2 miliardi e 169 milioni ed un avanzo di prima previsione di 74 milioni. Rimangono al di fuori di questi totali le entrate e le spese di parecchie aziende speciali che nel 1862 non esistevano, principalissima l’azienda ferroviaria, col suo mezzo miliardo di prodotti del traffico. Se teniamo conto anche solo di queste, vediamo che in cinquant’anni le entrate sono quasi sestuplicate e le spese triplicate. Cammino gigantesco che forse nessuno degli altri grandi Stati d’Europa ha compiuto. L’incremento delle entrate ha consentito una ricchezza e varietà di spese che non sarebbero parse sopportabili quando i mezzi erano di tanto più ristretti. Tesoro e finanze che nel 1862 spendevano 356 milioni ora ne spendono 1014; la guerra da 289 è passata a 396, la marina da 85 a 192. Il margine che alle altre funzioni era lasciato nel 1862 in piccolissima misura ora si è allargato: all’interno, arricchitosi di funzioni di sanità pubblica, prima quasi ignorate, si danno 119 milioni invece di 71, ai lavori pubblici 119 invece di 107, alla grazia e giustizia 52 invece di 30, alla rappresentanza all’estero 22 invece di 3, all’agricoltura e commercio 27 invece di 22, ed all’istruzione 103 milioni invece di 15. Questo è l’incremento proporzionatamente più forte che siasi verificato nei bilanci italiani; indice del fervore crescente con cui il popolo anela al suo elevamento intellettuale. Un nuovo ministero è sorto, prima conglobato con altre amministrazioni, le poste e telegrafi, con un bilancio di 122 milioni; ed una azienda di mezzo miliardo, la ferroviaria, si è costituita con un bilancio particolare.

 

 

Non tutto, in questo crescere delle spese e delle entrate pubbliche, è lodevole. Molto vantaggio sarebbe venuto al paese se i governanti non avessero caricato il bilancio dello Stato di nuove pletoriche funzioni, che meglio sarebbero state esercite da imprese delegate (ferrovie, ecc.), o se avessero provveduto ad applicare il vecchio adagio «impiegati pochi ma buoni» che fin dai primi anni verso il 1860 risuonava nelle aule del parlamento in Torino. Comunque sia di ciò e qualunque sia il giudizio che si darà dalla storia intorno al meglio che si sarebbe potuto fare e sovratutto intorno al parecchio che si sarebbe potuto evitare, una cosa è certa: che il paragone fra i bilanci del 1862 e del 1911-12 è tale da fare inorgoglire gli italiani. Quasi soli tra i grandi Stati d’Europa (ci fa compagnia l’Inghilterra) noi da tempo non accresciamo il debito pubblico ed abbiamo il bilancio in pareggio. Lunga è ancora la via da percorrere; ed il popolo d’Italia ha ben ragione di aspettare dai suoi governanti servizi pubblici migliori e meno costosi e meno ingombranti di inutili interventi. Ai suoi governanti il popolo italiano ha fornito, con tenacia di sacrificio, mezzi per condurre la guerra e per conservare la pace, per soddisfare agli impegni d’onore di un debito pubblico, ereditato dagli antichi Stati in meno di 2 miliardi e mezzo e cresciuto ben presto a 15 miliardi circa, e per dare impulso alla cultura ed agli strumenti dell’unificazione economica, che più larghi non avrebbero osato certamente immaginare, non che sperare, i grandi che prepararono l’Italia nuova.

Sono nuove le vie del socialismo?

Sono nuove le vie del socialismo?

«Corriere della Sera», 29 marzo 1911

Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti, 1924, pp. 121-128

Messaggio all’VIII Congresso del Partito Liberale Italiano, Roma, Tipografia Ferri, pp. 10-18

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1960, vol. III, pp. 215-220

Sono nuove le vie del socialismo?

Sono nuove le vie del socialismo?

«Corriere della Sera», 29 marzo 1911

Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti, 1924, pp. 121-128

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1960, vol. III, pp. 215-220.

 

 

 

 

Dicono che l’on. Giolitti sia uomo di poche letture. Del che si deve dargli molta lode perché i grandi pensatori ed i grandi statisti mai sempre si curarono poco di inutili ed ingombranti letture, remora al pensiero ed impedimento all’azione. Talvolta però lo scarso leggere induce lo statista, assai più del pensatore, a credere d’aver fatto cosa che sarà giudicata mirabile dagli storici dell’avvenire come quella che precorreva i tempi nuovi ed incanalava su nuove vie la politica ed il movimento sociale del tempo.

 

 

Oggi si proclama grande «fatto storico» la chiamata di un socialista in Quirinale a dar parere sulla situazione politica; e molti sono che, pur dissentendo profondamente nel giudizio sul fatto, pensano che davvero un «nuovo e moderno» pensiero, un «nuovo» indirizzo sarebbe prevalso nel governo d’Italia, se il «selvaggio» Bissolati avesse consentito o qualche più domestico suo compagno consentisse ancora a coprire il capo colla feluca di ministro.

 

 

Si consenta ad un dottrinario di confessare candidamente il suo smarrimento mentale a sentir dire che quello dell’on. Giolitti fu un atto od un desiderio destinato a rimanere nella storia. Poiché fatto storico pare che sia soltanto quello dello statista grande, che figge lo sguardo nel futuro e chiama a sé i rappresentanti delle idee nuove destinate a rivoluzionare il mondo, a gittare un germe di rinnovamento in una società in dissoluzione. Invece l’on. Giolitti ha guardato indietro, verso il passato, ed ha chiamato o desiderato di poter chiamare a sé il rappresentante di idee, che ignoro se siano mai esistite, ma che adesso sono ben morte. La borghesia italiana è così assente, così pavida, così poco consapevole delle sue forze che non si è ancora accorta che, almeno nel mondo delle idee, il suo nemico, il socialismo, è scomparso senza lasciare traccia di sé. Non dico che l’annientamento di una dottrina sia subito destinato ad avere nella vita vissuta una azione profonda. Ognuno di noi vive, ed è bene che viva, di tradizioni, di ricordi, di memorie gloriose; e nessuno perciò può contestare ai socialisti il diritto di vivere dei ricordi di un vangelo oramai scolorito e freddo. Non viviamo forse noi tutti dei dogmi che la rivoluzione francese ci ha tramandato: la sovranità popolare, il suffragio universale, i diritti innati ed altrettali sostituti di quelli che erano stati i dogmi delle monarchie assolute? Qui si vuol affermare soltanto che guardando al socialismo si guarda al passato, alla reazione e che le vie dell’avvenire portano gli uomini ad altra meta.

 

 

La morte del socialismo nel mondo delle idee è ben certa. Il Capitale di Carlo Marx è un vangelo su cui più nessuno giura, una fortezza le cui mura furono ad una ad una smantellate.

 

 

La teoria del valore, la dottrina del sopralavoro sono concezioni erronee, che non hanno trovato accoglienza in nessun libro elementare della scienza economica, concezioni che nessun economista si cura oggimai nonché di confutare, nemmeno di ricordare. Le previsioni catastrofiche di Marx ed Engels, secondo cui, al principio del secolo ventesimo, la società capitalistica, per il crescere mostruoso delle più grosse intraprese e la proletarizzazione progressiva di tutta l’umanità, si sarebbe alfine suicidata, per lasciar sorgere dalle sue ceneri radiosa la nuova società collettivistica, queste previsioni comiche fanno ridere persino i socialisti. Le piccole intraprese si sono moltiplicate accanto alle grandi, la piccola proprietà terriera resiste, anzi conquista nuovo terreno, la divisione della società in due sole classi, irreconciliabili nemiche, la capitalista e la proletaria, appare un sogno di mente inferma dinanzi al miracoloso affittirsi e complicarsi odierno dei rapporti e delle classi sociali, di cui l’una nell’altra digrada per lente variazioni ed i cui membri assumono figure miste di proletari che evolvono verso il capitalismo e di capitalisti lavoratori.

 

 

Dove son le balde schiere dei giovani che, quando la mia generazione un vent’anni fa usciva dal liceo, si immergevano frementi nella lettura delle pagine del Capitale e vedevano un nuovo mondo nascere dinanzi ai loro occhi di veggenti? Disperse, almeno tra coloro che studiano. Verso altri soli si volgono i giovani; e coloro che, pur rinnegando intiera la sostanza del verbo collettivistico, pure schernendo come tirannici e medioevali e reazionari gli ideali socialisti di irreggimentazione governativa, di intraprese collettive dello Stato, hanno voluto serbar fede all’ideale e dedicar la loro vita alle classi operaie, hanno inventato il sindacalismo. E che altro è il sindacalismo se non la vecchia dottrina economica liberale, rimessa a nuovo con altre parole più imprecise e violente ed adattata ai bisogni di quelli delle classi operaie che vogliono elevarsi per virtù propria e nulla aspettano anzi molto paventano dallo Stato socialista? Dove sono i socialisti della cattedra, i quali, quando il socialismo sembrava forte, avevano invaso le università? Persino nella Germania – la patria della democrazia sociale e dei riformisti sociali di governo – una reazione si disegna contro i Wagner e gli Schmoller che per tanti anni avevano dominato nella scienza e l’avevano ridotta allo stato miserando in che lassù parve dovesse per sempre giacere. Non certo nella scienza economica si trovano oggi pensatori che possono essere considerati segnacolo in vessillo al partito socialista; od almeno non sicuramente tra i pensatori che hanno seguito nelle giovani generazioni ed affascinano le menti desiderose di apprendere. Contro di essi i socialisti son ridotti alla taccia di «scribi prezzolati della borghesia»; volgare argomento che dimostra l’ira di non averli complici nella difesa dei nuovissimi privilegi a pro di ristrette combriccole proletarie.

 

 

Né pare che i fasti della azione pratica socialista – sia diretta, sia a traverso alle schiere dei politici – nella vita pratica siano siffatti da farla considerare come ben viva di vita nuova e promettente. Quali sono invero i frutti fecondi di che può vantarsi l’avvicinarsi o l’avvento del socialismo al potere? Non certo l’elevarsi dei salari e del tenor di vita delle masse lavoratrici. Bisogna pure gridarlo ben alto: il meraviglioso progresso che nelle condizioni di vita delle classi operaie si vide nel secolo XIX fu il frutto in primo luogo dei progressi dell’industria, dello spirito d’intrapresa, della libertà ed iniziative individuali, che i socialisti tentano ora distruggere colla loro azione specifica. Sono i principii liberali, sono le maniere di agire e di lavorare della borghesia le cagioni prime e vere del risveglio economico e dell’elevarsi di tutte le classi sociali e, primissima tra queste, della classe operaia. Timida e sconcertata, la borghesia imprenditrice non sa nemmeno riconoscere negli operai che costrussero le famose trade-unions inglesi, le leghe operaie i suoi fratelli di sangue, immagina che sia frutto del socialismo quella vasta e feconda e benefica tendenza all’associazione ed alla difesa di classe che è invece il risultato dei principii veramente grandi della rivoluzione dell’89: la libertà di lavoro e di associazione.

 

 

I socialisti sono venuti al mondo con un ben altro programma specifico; con il programma, ben netto e ben reazionario, di distruggere le conquiste di secoli di sforzi compiuti contro la tirannide dei governi assoluti, delle corporazioni medioevali, dei privilegi e delle immunità di classe. Sono i socialisti che vogliono ristabilire nelle Romagne i monopolistici medioevali diritti all’uso esclusivo delle macchine; sono i socialisti che nel porto di Genova instaurano le corporazioni d’arte e mestieri, coi turni di lavoro; sono i socialisti che, dovunque sono andati od hanno sperato di andare al potere, hanno risuscitato gli editti di Diocleziano e lo statuto inglese dei lavoratori, facendo fissare dai giudici i salari; sono i socialisti che invocano, dove possono, che agli uomini sia proibito di lavorare dove ad una maggioranza qualsiasi piaccia sospendere il lavoro (Millerand); sono i governi socialisti dell’Australia che ributtano dal loro territorio vasto e deserto i giapponesi, i cinesi, gli italiani colpevoli soltanto di voler mettere in pericolo l’egoistico monopolio delle privilegiate corporazioni di operai indigeni. Sono i socialisti che hanno abbandonato, ogni qualvolta credettero di fare il tornaconto di ristretti gruppi di loro elettori operai, a taluni pochi rappresentanti delle classi imprenditrici la difesa degli interessi generali dei consumatori oppressi da dazi troppo alti.

 

 

Quali sono, infine, i frutti che in Italia, in Francia, nella stessa Inghilterra si ritrassero dalle statizzazioni e dalle municipalizzazioni che sono l’essenza medesima dell’azione socialistica? Frutti di amaro tosco; rovine finanziarie e degenerazione crescente della vita pubblica, ridotta al quadro dei ricatti che i ferrovieri di Stato, i tramvieri municipali e gli altri impiegati delle imprese pubbliche muovono ai loro rappresentanti, colla minaccia di dare ad altri il voto politico. In dieci anni di governo il blocco radico socialista francese non seppe fare altro che regalare inutilmente 400 milioni alla propria clientela, più pericolosa delle vecchie clientele, perché più affamata, compiere il riscatto della rete ferroviaria dell’ovest, accumulando un disavanzo crescente alle finanze dello Stato, ed apprestare un vasto sistema di elemosine e di pensioni di Stato.

 

 

Noi saremo costretti ad assistere a nuove imprese di coloro che, chiamando sé gli uomini dell’avvenire, vivono racimolando brandelli di idee e di propositi tra i fantasmi sopravvissuti delle aberrazioni scientifiche di mezzo secolo addietro. In Francia, dopo avere volatilizzato in parcelle di avvocati e di periti bloccardi il miliardo delle congregazioni, già hanno cominciato a sperperare malamente i 600 milioni all’anno di reddito gratuito delle ferrovie che la sapienza della borghesia di Luigi Filippo e di Napoleone III aveva garantito all’erario verso il 1850 allo scadere delle vecchie convenzioni. In Italia si ode parlare del monopolio delle assicurazioni, della navigazione di Stato e di altri delitti contro il paese. Purtroppo verranno, perché un paese il quale non ha saputo trarre i doverosi ammaestramenti dal fallimento dell’esercizio di Stato delle ferrovie, merita che la sua bandiera sia ridotta a sventolare su navi viaggianti a pro della federazione dei marinai di Stato ed a spese dei contribuenti e merita che l’opera faticosa della previdenza a pro delle generazioni venture, appena ora iniziata in Italia, sia mandata in rovina dalla nuovissima falange di impiegati pubblici: gli assicuratori di Stato.

 

 

Eppure no: nonostante tutto, nonostante la reazione socialista e la dedizione borghese, è doveroso aver fiducia nell’avvenire d’Italia. Se in passato sorsero e giganteggiarono gli uomini «selvaggi» che fecero grandi le loro patrie pericolanti, perché non dovranno sorgere nuovamente nell’avvenire?

 

 

I «selvaggi» che hanno davvero la visione precisa dell’uomo di Stato, non guardano all’abito che devono vestire nelle cerimonie ufficiali, quando sanno che la loro parola è destinata a vincere ogni ostacolo ed a trascinare le moltitudini. Era un «selvaggio» vero e grande Ottone di Bismarck quando trascinava violentemente re e parlamento alle guerre redentrici per la fondazione dell’impero. Era un «selvaggio» Camillo di Cavour quando, dopo avere avidamente appreso l’arte politica nell’Inghilterra, a Parigi ed a Ginevra, aspettava per lunghi anni, tacito, nella solitudine di Leri il giorno in cui la sua azione avrebbe posto sul capo del suo re la corona d’Italia. Bisogna augurare al paese che la borghesia imprenditrice, che le classi lavoratrici del nord industriale e le nuove classi sociali sorte nel mezzogiorno dalla rivoluzione migratoria sappiano sprigionare dai loro fianchi fecondi i nuovi capi da mettere al posto dell’attuale classe politica. Lo potrebbero purché avessero coscienza di sé.

Il senato e le leggi operaie

Il senato e le leggi operaie

«Corriere della Sera», 30 gennaio 1911

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 205-214

 

 

 

 

Quando si seppe che, dai membri dell’ufficio centrale del senato, i due disegni di legge sulla disoccupazione operaia e sull’ispettorato del lavoro erano stati fatti oggetto di qualche critica, i giornali di parte socialista non tardarono a rammentare ai tardi italiani che in Inghilterra si voleva tolto il diritto di veto alla camera dei signori, che in Serbia e in Grecia – paesi, come ognuno sa, progreditissimi in fatto di costituzione – il senato non esisteva e che in Portogallo i repubblicani avevano deciso di abolirlo. Inspirati dai quali nobilissimi esempi, gli italiani non dovrebbero tardare a far giustizia sommaria di un istituto cotanto reazionario da non volere ad unanimità e per acclamazione approvare i disegni che stanno a cuore a coloro che da sé si sono eletti difensori esclusivi degli interessi delle classi operaie.

 

 

Chiedo umilmente licenza di esporre un’altra tesi la quale dice che il senato non opererebbe certamente con sapienza se respingesse – cosa del resto lontana, a quanto si è sentito da alcuni autorevoli suoi rappresentanti, dai suoi intendimenti – il disegno, troppo a lungo ritardato, dell’ispettorato del lavoro: ma neppure è da augurare che esso faccia gitto del suo potere moderatore, rinunciando ad apportarvi le opportune modificazioni; né cadrà il mondo o le classi lavoratrici saranno apprezzabilmente danneggiate, se il disegno di legge sulla disoccupazione seguiterà a far la spola per un pò tra camera, senato e ministero.

 

 

Comincio da quest’ultimo e dalle 100 mila lirette di spesa che esso accolla allo Stato a titolo di «contributo alla previdenza contro la disoccupazione involontaria». Debbo avvertire subito che la proposta di far intervenire lo Stato nella lotta contro la disoccupazione non poteva essere presentata con maggior rigore di argomentazione, ricchezza di dati ben esposti e discernimento nella scelta dei mezzi atti a produrre il bene ed a schivare il male. Si legge nella relazione come il problema, assai sentito subito dopo la crisi del 1907, sia adesso sostituito in quasi tutta Italia dall’altro della «scarsità crescente delle braccia» e come soltanto nella Romagna, per la sovrabbondanza dei braccianti, nelle Puglie, per la crisi vinicola ed olearia, ed a Milano, per la forte immigrazione dalle campagne, ancora si favelli di disoccupazione. Poiché i sussidi alla disoccupazione romagnola sarebbero un rimedio peggiore del male, e poiché nelle Puglie «le condizioni del mercato del lavoro vanno mutandosi a favore dei lavoratori», probabilmente a cagion dello scomparire spontaneo della crisi vinicola, l’estensore riconosce che l’assicurazione mutua contro la disoccupazione è applicabile soltanto agli strati più elevati della massa lavoratrice, specialmente milanese; ed in Italia invero gli esempi più cospicui, oltrecché in alcune leghe cattoliche del Piemonte, del Veneto e della Lombardia, si trovano nelle associazioni le quali fanno capo all’Umanitaria di Milano. In qual guisa incoraggiare questo movimento di previdenza operaia, movimento senza dubbio fecondo, come quello che induce l’uomo a prelevare dai guadagni degli anni di intensa attività industriale i risparmi necessari a permettergli di superare i periodi in cui il lavoro manca e la fame batte alle porte dei disoccupati? In Inghilterra gli operai si sono incoraggiati da sé e là si veggono le trade-unions, forti di 1.432.649 soci nel 1908 dedicare ben 25.048.800 lire (italiane) in sussidi a pro dei disoccupati; e così in Germania le unioni operaie socialiste dedicano ben 8.134.388 marchi a soccorrere i soci disoccupati e 1.184.353 marchi a pagar loro le spese dei viaggi intrapresi in cerca di lavoro. Sembra che in Italia, sebbene i salari non siano nelle regioni industriali più progredite – alle quali soltanto il disegno di legge si applica – di tanto più bassi dei salari tedeschi, gli operai abbiano una ripugnanza invincibile a pagare alte quote di contributo alle loro leghe; sicché queste non possono, se non per eccezione, destinare qualche fondo per i sussidi ai disoccupati.

 

 

Poiché i disoccupati non sono «scioperanti» – tali per atto di loro volontà -; e sono anzi privi di lavoro involontariamente, per effetto di generali condizioni economiche, un rimedio semplice sarebbe parso il ricorso allo Stato od al comune, i quali, come organi della società intiera, sarebbero stati chiamati a riparare ai danni arrecati ai singoli incolpevoli dalla organizzazione sociale esistente. L’estensore della relazione alla camera scarta senz’altro il sistema del sussidio di Stato: poiché, essendo l’assicurazione dei disoccupati basata tutta sull’accertamento della volontarietà o involontarietà della perdita dell’impiego, gli operai non avrebbero avuto scrupolo di «giuocare la buona fede degli amministratori dello Stato, del comune o dei pii istituti sovventori»: con quale pericolo per le finanze pubbliche è agevole immaginare.

 

 

Dunque, assicurazione di Stato, no; sotto pena di veder mutarsi troppi lavoratori in disoccupati, per godere, senza far nulla, dei soccorsi governativi. Quale, dunque, il metodo da scegliere? La risposta oramai è pacifica per gli studiosi, dopo che la città di Gand, fin dal 1901 istituiva un fondo di disoccupazione. Lo Stato, gli enti locali e le loro istituzioni debbono limitarsi ad incoraggiare, con sovvenzioni parziali, la iniziativa delle stesse classi interessate. Stato e comuni debbono limitarsi a pagare un sussidio corrispondente al 20, 30 o 50% della indennità che gli interessati si sono da sé costituite associandosi ad una cassa mutua o facendo versamenti su un libretto di risparmio. In tal modo il sussidio dello Stato va soltanto a chi veramente ha sentito il bisogno di premunirsi contro i danni della disoccupazione; sono impossibili le frodi dei poltroni perché gli assicurati hanno interesse ad impedire che il proprio fondo venga depauperato soltanto per godere del sussidio di Stato; il controllo è facile, data la comunanza di vita e di abitudini, non è dispendioso, perché spontaneo, non è inquisitorio, perché preventivamente esercitato dagli stessi soci della cassa. Né è da temersi che le spese diventino preoccupanti per gli enti sovventori: a Gand nel 1902 il comune pagò 16.171 lire di sussidi su 41.210 lire spese dalle casse sindacali, nel 1908 il supplemento comunale giunse a 46.701 lire su 99.121 lire spese dalle casse; in Francia, dove una legge del 21 ottobre 1904 sanciva il soccorso di Stato alle casse di disoccupazione, stabilendo un fondo di 110 mila lire, le sovvenzioni governative poterono giungere nel 1905 solo a 27.690 lire e nel 1908 a 47.824 lire. A Milano la Società umanitaria nel 1906 pagò 5.827 lire per completare le 15.132 lire pagate dalle associazioni mutue, nel 1909 pagò 12.242 lire a complemento delle 36.056 lire delle casse mutue.

 

 

Sì è vero: se si vuole venire in aiuto alla disoccupazione, si deve scegliere il metodo proposto nella relazione ministeriale, come quello che riduce al minimo i pericoli del dare i denari dei contribuenti a coloro che affermano e dimostrano di essere involontariamente disoccupati. Non mi dorrò nemmeno troppo se il senato, rimandandola alla camera, farà correre qualche pericolo alla proposta. L’estensore della relazione ministeriale, il quale deve essere un amabile scettico, ha fatto assai opportunamente rilevare che si tratta di uno sperimento con il quale «si tenta per la prima volta nel nostro paese e che anche all’estero non ha precedenti troppo numerosi». Perché dovremmo essere proprio noi a tentare lo esperimento, quasi per i primi? Il valoroso scrittore che redasse il disegno di legge argutamente osserva che lo Stato deve intervenire perché «nei paesi latini l’esercizio della previdenza contro la disoccupazione ha trovato nelle organizzazioni operaie un campo assai meno favorevole di sviluppo, sia in dipendenza del carattere delle popolazioni, meno inclinate in genere ad imporsi la disciplina della mutualità, sia anche in dipendenza della costituzione diversa dei sindacati operai, francesi ed italiani, vivaci e battaglieri nella loro azione, ma quasi sempre sprovvisti di riserve pecuniarie». Poiché il carattere nostro «latino» è una specie di argomento di riserva che si adduce quando non si sa da che parte cominciare il discorso, io chiederò se anche le trade-unions inglesi fossero «latine» tre quarti di secolo o mezzo secolo fa, quando, in mancanza di fondi, esaurivano tutta la loro attività in vivaci battaglie, punto curandosi di sussidiare i disoccupati e se forse non sarà possibile anche alle nostre leghe italiane di guarire, a somiglianza delle leghe anglosassoni, dalla malattia della «latinità» giovanile quando, coll’andar degli anni, avranno accumulato esperienza e denari. Questo sarebbe davvero un grande «sperimento» da fare, fecondo di benefici ben più sensibili di quelli che si trarranno dalla elemosina di 100.000 lire oggi date dallo Stato alle leghe che già dimostrano di saper fare da sé!

 

 

Notisi poi che il senato dovrà rimandare alla camera il disegno di legge, non foss’altro perché la camera durante la frettolosa discussione che ne fece l’estate scorsa, ne storpiò talmente il primo articolo da togliergli ogni possibilità di stare in piedi. Veggasi la comica sgrammaticatura: «A cominciare dall’esercizio finanziario 1910-11 è autorizzata l’annua spesa di lire 100.000 per concorrere nel pagamento dei sussidi alle associazioni professionali – aventi i requisiti prescritti dal regolamento di cui all’articolo 3 – assicurino ai loro soci validi, involontariamente disoccupati e iscritti all’associazione, per detta forma di previdenza, da un periodo di tempo non inferiore ad un anno». Poiché nessuno vorrà negare che il senato abbia il dovere, almeno, di correggere questi fioretti di bello stile, così, in via subordinata, è lecito augurarsi che si trovi il modo di rimandare negli uffici statistici e nelle aule universitarie, dove elegantemente si discetta sui problemi sociali e sulla definizione del «vero disoccupato», questo disegno che vorrebbe giustificare uno sperimento di grande novità, asserendo che, per ora, non di disoccupazione si sente il lamento in Italia, bensì di crescente scarsità di braccia; ed invocando unicamente l’opportunità di serbar fede al nostro «latino» bisogno di invadenza dello Stato e di porgere un sussidio a coloro che a Milano son diventati disoccupati, perché alla grande città vennero, senza riflettere, dalle campagne.

 

 

Ben altrimenti intonato è il discorso che si deve fare intorno alla proposta di istituire definitivamente in Italia l’ispettorato del lavoro. Correzioni potranno essere apportate al disegno di legge – e vi accennerò fra breve -; ma ciò che sovratutto importa è che presto esso sia approvato dal parlamento. Si può avere una limitatissima fiducia nella ragionevolezza della moderna mania di regolamentare con leggi tutti i rapporti fra capitale e lavoro; ma tutti sono concordi nel ritenere che una certa dose di legislazione sociale sia necessaria. Si può guardare con scetticismo alle 100.000 lire da darsi ai contadini dell’agro lombardo venuti in cerca di disoccupazione a Milano; ma non si può misconoscere la necessità di una legge sugli infortuni del lavoro. Si può aborrire dalla regolamentazione del lavoro degli adulti ed invocare una legge di tutela delle donne e dei fanciulli; si può essere convinti della inutilità e del danno dell’arbitrato obbligatorio e riconoscere la convenienza di una disciplina sanitaria delle fabbriche. Sovratutto, qualunque siano le leggi, è d’uopo che esse siano applicate; e che vi sia un corpo tecnico di ispettori incaricato di vegliare alla loro osservanza. E d’uopo, sia per migliorarle, quando siano buone, sia per revocarle, quando siano cattive. La legislazione operaia non esce, tutta perfetta come una statua greca, dal blocco di marmo lavorato dallo scalpello del giurista; si fa nelle officine, attraverso esperienze lunghe e dolorose; e solo la conoscenza perfetta della vita della fabbrica consente la elaborazione di leggi le quali aggiungano e non scemino velocità al moto della vita industriale, tolgano e non crescano attriti nei rapporti fra imprenditori e maestranze. Se tuttavia nessuno sa come le leggi siano di fatto applicate, quale sia in realtà il lavoro che esse fanno o disfanno, nessuno mai potrà affermare che le leggi, oltrecché scritte sulla carta, siano operanti e come operino, se a crescere od a distruggere ricchezza e felicità umana. L’ispettorato del lavoro è perciò l’essenza medesima delle leggi operaie; senza di esse queste non sono ed è tolta ogni speranza di farle diventare buone. Consigli del lavoro, camera e senato discorreranno all’infinito; ma discorreranno sul vuoto, finché non sappiano come le loro parole, scritte nelle leggi, si trasformino nelle azioni degli uomini, viventi e lottanti per la conquista di una vita più alta.

 

 

L’ispettorato del lavoro, malgrado che quattro anni or sono la camera ne respingesse l’approvazione, dovette essere istituito di fatto, consenziente la camera stessa, in forma provvisoria e con personale temporaneamente incaricato, tanto era vivo il bisogno di sapere se e come le leggi operaie vigenti fossero applicate e se valesse la pena di modificarle e di aggiungervene altre. Della loro opera gli ispettori provvisori diedero già conto in un grosso e beI volume; e da alcuni mesi in un «bollettino dell’ispettorato del lavoro», che è una delle più interessanti letture che si possano fare da chi si appassioni alla materia. Nel primo dei due numeri di quel bollettino finora venuti alla luce a cura dell’ufficio del lavoro si legge, a cagion d’esempio, un suggestivo e minutissimo rapporto dell’ispettore capo del circolo d’ispezione di Torino sul lavoro dei panattieri. Il campo dello studio era singolarissimo, poiché come nota l’ispettore capo, l’industria della panificazione gode del privilegio di essere, in Italia, «quella protetta dal maggior numero di leggi operaie: sul lavoro delle donne e dei fanciulli, sugli infortuni del lavoro, sul riposo festivo e settimanale, sull’abolizione del lavoro notturno». Con tanta ricchezza di testi legislativi, a cui si aggiungono i molteplici regolamenti municipali, parrebbe che le cose avrebbero dovuto procedere liscie in quella fortunatissima tra le industrie. Ci volle e ci vuole invece tutta la agilità di mente dell’ing. Magrini, capo circolo di Torino, per ottenere non che le leggi siano osservate, ma che si verifichi un numero tollerabilmente piccolo di violazioni di leggi.

 

 

Quel che l’ispettore capo del circolo di Torino narra, con larghissima e curiosa documentazione, intorno alle difficoltà di applicazione delle leggi sui panattieri ripetono altri capi circolo nel fascicolo seguente e nel volume che rende conto della loro opera dall’1 dicembre I906 al 30 giugno 1908. Tutte queste notizie non si sarebbero avute: né sarebbe possibile di iniziare una legislazione operaia veramente efficace e sperimentale, se non fosse esistito un ispettorato del lavoro. Se altra ragione non esistesse, questa sola mi sembrerebbe potentissima a consigliare la trasformazione dell’ispettorato provvisorio in definitivo e a dare ai suoi membri poteri definitivi e precisi.

 

 

Controversie possono sorgere – ed importanti – sulle modalità della istituzione. Saggiamente il ministero proponente ha pensato a togliere di mezzo una critica fondata che poteva muoversi al vecchio disegno del 1906: il soverchio accentramento derivante dall’esistenza di un ispettore generale o centrale. Poiché molte facoltà sono dalle leggi devolute all’ispettorato, se vi fosse stato un ispettore centrale a Roma, questi avrebbe finito per togliere ogni libertà d’azione ai capi circolo ed avrebbe impresso al funzionamento delle leggi un carattere troppo uniforme. Col nuovo disegno di legge i capi circolo godranno di una libertà d’azione abbastanza larga: molte questioni potranno decidere da sé e, vivendo nei centri industriali, a contatto cogli imprenditori e cogli operai, potranno deciderle, a ragion veduta, in conformità delle esigenze della vita industriale, senza troppi impacci amministrativi.

 

 

Forse potrebbe rimproverarsi da taluno l’estensione improvvisa dell’ispettorato dai quattro circoli provvisori odierni (Milano, Torino, Brescia e Bologna) a sette futuri e cioè, oltre i quattro precedenti, uno per il resto dell’Italia centrale e Sardegna, uno per l’Italia meridionale ed uno per la Sicilia. Ma è obiezione infondata in principio, perché anche da Firenze in giù esistono industrie (si prevede di dovere ispezionare 4.200 opifici, sparsi su una distesa larghissima di territorio); e non sarebbe corretto lasciare che gli imprenditori delle regioni non ispezionate potessero, mercé impunite violazioni delle leggi, muovere concorrenza, artificialmente vittoriosa, agli imprenditori delle regioni ispezionate. La obiezione può avere un fondamento pratico per ciò solo che pare difficile poter improvvisare un corpo di ispettori capaci di adempiere degnamente all’alto loro compito. Improvvisare vuol dire reclutar male e danneggiare per una lunga serie di anni il funzionamento dell’ispettorato. L’obiezione era prevista nel disegno di legge, poiché si stabilisce di reclutare il personale in tre anni, cominciando, come è giusto, dal valersi del provetto personale provvisorio ed a poco a poco addestrando, coll’aiuto di questo, nuovi ispettori. Forse tre anni sono pochi; ed a rendere le ammissioni difficili in guisa da poter scegliere i migliori tra gli ottimi concorrenti, non sarebbe fuor di luogo allungare i termini da tre a quattro o cinque anni.

 

 

Trattasi tuttavia di osservazioni pratiche e facilmente risolvibili. L’obiezione fondamentale, che suppongo sia stata sollevata in senato, è un’altra. Per spiegarla chiaramente, basterà un rapido confronto:

 

 

Ispettorato provvisorio

attuale

 

Ispettorato definitivo

proposto

Capi-circolo

3 ingegneri

 

7 ingegneri

Ispettori

9 ingegneri

 

12 ingegneri

1 medico

Aiutanti ispettori

5 operai

 

25 operai

 

 

Lasciamo da parte gli ispettori medici che hanno proprie funzioni di ispezione igienica e sanitaria. È evidente che per gli ispettori tecnici le proporzioni odierne sarebbero profondamente cambiate. Oggi vi sono 3 ingegneri capi circolo e 9 ingegneri ispettori, in tutto 12, contro 5 operai aiutanti ispettori; domani, ove il disegno di legge fosse approvato senza modificazione, entrerebbero 25 operai contro 19 ingegneri. E poiché il disegno di legge lascia la porta aperta, sibbene non spalancata, alla promozione degli operai da aiutanti ispettori ad ispettori, non è da escludersi che il numero degli ispettori «ingegneri» venga a ridursi e che anche tra i capi circolo alcuni abbiano ad essere scelti tra gli operai.

 

 

Non vi è nulla in tutto ciò di assurdo. Niente di più naturale che la vigilanza sull’applicazione delle leggi operaie venga affidata agli operai stessi che, meglio di tutti, conoscono la vita delle officine. Se fosse possibile, vorrei che diventasse ispettore anche qualche industriale; ma evidentemente il proposito deve essere scartato perché concorrerebbero ai posti vacanti esclusivamente industriali falliti. La questione degli ispettori operai è esclusivamente di tempo e di misura. Aumentare, oggi, da 5 a 25 il numero degli aiutanti ispettori operai, sia pure in tre, o quattro o cinque anni, vuol dire costringersi a reclutar in parte questi funzionari, investiti di una funzione gelosissima, tra gli operai falliti. I guidatori di scioperi impulsivi, i prosciugatori delle casse delle leghe operaie in iniziative sbagliate non saranno pochi, per mancanza di meglio, tra i vincitori dei concorsi. Ho la più grande ammirazione per gli operai che sanno diventare gli organizzatori dei loro compagni, che sanno discutere cogli imprenditori e vincere nella discussione, che sanno costituire una lega moralmente e finanziariamente salda, e ritengo che dare a costoro stipendi da 2.000 a 4.500 lire, per incitarli ad entrare nell’ispettorato del lavoro, sia dare di gran lunga troppo poco. Ritengo tuttavia altresì che la formazione di questa classe di guidatori di uomini sia una formazione lenta; e che le leghe operaie italiane non abbiano dovizia stragrande di uomini siffatti. Di guisa che un dilemma si impone: o voi spoglierete le associazioni operaie italiane dei loro uomini migliori ed avrete arrecato un danno gravissimo all’economia italiana, complessivamente considerata, poiché anche le leghe forti e prudenti cadranno nelle mani di inesperti e di impulsivi e ne andranno di mezzo operai ed imprenditori; o voi recluterete i 20 nuovi aiutanti ispettori fra le figure di second’ordine, tra gli spostati del proletariato ed allora voi avrete rovinato la nuova istituzione, ingombrandola di uomini privi del tecnicismo proprio degli ingegneri, malveduti dagli industriali e alla lunga non stimati neppure dalla classe operaia. L’ispettore del lavoro non deve imporsi tanto colla forza della legge, quanto coll’altezza dell’intelletto e coll’autorità morale. Se questi elementi morali ed intellettuali non sono spontaneamente riconosciuti dalle classi imprenditrici ed operaie, vana è la speranza che l’ispettorato possa funzionare efficacemente. Perciò sembra a me pericolosa la proposta di nominar d’un tratto un numero eccessivo di aiutanti ispettori, che non si prevede come possano in pochi anni essere bene reclutati. I progressi futuri nell’educazione delle maestranze operaie e la formazione graduale di una classe di operai, capaci di guidare i compagni nelle lotte del lavoro, permetteranno in avvenire di migliorare ed ampliare a grado a grado l’ispettorato operaio. E una elevazione questa che spetta ai migliori tra gli operai; ma purché gli scelti siano veramente i migliori.

Per la preparazione ai trattati di commercio

Per la preparazione ai trattati di commercio

«Corriere della Sera», 21 gennaio 1911

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 197-204

 

 

 

 

Nel suo breve passaggio al ministero di agricoltura l’on. Luzzatti ha avuto nella primavera scorsa il merito grande di porre dinanzi al paese il problema della non molto lontana rinnovazione dei trattati di commercio, invitando le camere di commercio, le associazioni industriali, commerciali ed operaie ad indicare i loro desideri ed a scegliere il metodo che dovrà essere tenuto nella conchiusione dei nuovi trattati, se quello della tariffa unica, con o senza l’applicazione della clausola della nazione più favorita, ovvero quello della tariffa doppia (massima e minima).

 

 

Parecchie sono le risposte già venute alla luce; e sono risposte ricche di considerazioni e di dati importanti. Quasi tutte però mi sembrano scarsamente rispondenti allo scopo che il governo aveva avuto in mira perché partirono da una ipotesi, intorno alla politica doganale che sarà per essere seguita dagli altri stati contraenti, la quale a me sembra tutt’altro che conforme al vero. Dissero cioè quasi tutti gli enti economici che pigliarono in esame la circolare Luzzatti: «Poiché gli stati stranieri sono protezionisti ed accentueranno anzi in avvenire la loro politica protezionista contro le nostre esportazioni, vediamo quali sieno i provvedimenti che noi italiani dovremo prendere a nostra difesa». Nessuno dirà che io esageri quando affermo che questa è quasi sempre la premessa, tacita od espressa, dei ragionamenti e delle proposte che camere di commercio ed associazioni economiche fecero in ossequio alla circolare ministeriale del 30 aprile 1910. Ora non è inopportuno, finché si è in tempo, avvertire che in tal guisa si è commesso un errore fondamentale, che può pregiudicare gravemente il successo dei negoziati condotti dal governo italiano alla prossima scadenza dei trattati di commercio. Prima condizione di successo in ogni trattativa è di conoscere, il meno peggio possibile, le condizioni e le opinioni delle persone o dello stato con cui si vuoi contrattare. Non è ragionevole, e sovratutto non è conveniente per noi, fingerci un contraente immaginario e su quella finzione condurre i nostri studi preliminari e foggiare i nostri strumenti di lotta o di pace. A meno che si voglia, per ipotesi inammissibile, deliberatamente fuorviare l’opinione pubblica nel proprio interesse personale sembra a me che tanto i liberisti quanto i protezionisti debbano essere d’accordo nell’affrontare il problema partendo da una premessa vera intorno al contegno che assumeranno gli stati stranieri con i quali dovremo contrattare.

 

 

A me sembra che la premessa di un più accentuato protezionismo straniero nel prossimo avvenire non sia rispondente alla realtà; e che sia vera invece la contraria opinione, la quale constata una tendenza generale in tutti gli stati ad una mitigazione notevole dei dazi protettivi. Questa nuova e recente tendenza non è sorta, mi affretto a dichiararlo, perché la gente si sia convertita alle predicazioni di noialtri economisti. Si sa che la nostra è vox clamantis in deserto; nessuno ci ascolta, per quanto serrati siano i ragionamenti, e per giunta tutti ci sbeffeggiano. C’è però un momento in cui il pubblico inopinatamente si mette al seguito dei predicatori del libero scambio; ed è quando, i prezzi aumentando, il costo della vita rincara. Allora tutti si inquietano contro gli alti prezzi, ne ricercano le cause e ne propongono i rimedi, fra cui primissimo il ribasso dei dazi doganali, i quali sicuramente aumentano i prezzi delle merci necessarie alla vita.

 

 

Che i prezzi vadano aumentando, è fatto notorio. Il dott. Achille Necco, il quale nel fascicolo quinto del 1910 della rivista «La Riforma Sociale» ha costrutto un indice dei prezzi delle merci in Italia negli anni 1881-1909, dimostrò che in Italia i prezzi, dopo essere ribassati, in media per un gran numero di merci valutate alla importazione da 100 nel 1881 sino a 70,42 nel 1897, da allora in poi gradatamente aumentarono finché alla fine del 1909 si trovavano ad 85,45. Il Necco medesimo dimostra che il movimento al rialzo è continuato nel 1910. Il numero indice dei prezzi dell’«Economist», che al gennaio 1909 era a 2.196, nel gennaio 1910 era a 2.373, giungendo in dicembre a 2.513. Né ancora si vedono i motivi per cui l’ascesa abbia ad arrestarsi: la produzione delle miniere d’oro del Transvaal (altra volta ebbi a dire che la camera delle miniere di Johannesburg era l’osservatorio dai cui bollettini poteva presagirsi il buono o il cattivo tempo per i consumatori di tutto il mondo), che nel 1909 era stata di 773.144.700 lire, nel 1910 fu di 800.072.800 lire. Il flusso dell’oro che proviene dall’Africa estrema cresce sempre; onde, crescendone la quantità, il pregio dell’oro diminuisce, il che vuol dire che le merci, espresse in oro, rincarano.

 

 

Ora, quanto più i prezzi salgono, tanto più la gente grida. Gli operai hanno cominciato a volere rialzi di salari; ma poiché ad un certo punto si sono urtati contro la resistenza degli industriali, che in moltissimi casi non possono più crescere il prezzo dei loro prodotti, hanno cambiato tattica; ed hanno iniziate campagne per la riduzione dei costi della vita e massimamente per la riduzione dei dazi doganali, che rialzano – sovrapponendosi all’azione della maggior produzione dell’oro – i prezzi delle merci protette. In queste campagne gli operai hanno subito avuti consenzienti gli impiegati, i pensionati, i risparmiatori, il cui interesse è fisso e vale sempre meno, moltissimi industriali, interessati al ribasso delle materie prime, molti agricoltori, che, esportando, debbono lottare con i dazi stranieri, e comprando macchine, concimi, ecc., debbono combattere contro i dazi nazionali. Il movimento si ingrossa quanto più procede innanzi e nuove falangi di adepti si aggiungono ai primi banditori.

 

 

Espongo e non giudico; perché, pur essendo tutte le mie simpatie per il nuovissimo movimento, voglio qui soltanto approntare dati di fatto nell’interesse comune di tutti. In Austria l’imperatore Francesco Giuseppe alle delegazioni recentemente riunitesi a Vienna pronunciò parole che, data la posizione e la nota prudenza di chi le proferiva, hanno un significato notabile: «Col più profondo rincrescimento constato che l’alto costo della vita è diventato così terribile e diffuso. Il popolo soffre atrocemente da questo stato di cose: qualcosa deve essere fatto: non si può andare avanti così».

 

 

In risposta ai severi ammonimenti del vecchio monarca, la camera austriaca ha deciso di permettere la illimitata importazione di carne congelata dall’Argentina sino alla fine del 1911; e l’ha deciso, malgrado la strenua opposizione del governo. A Vienna ed a Budapest si susseguono pittoresche dimostrazioni di centinaia di migliaia di cittadini protestanti contro l’alto prezzo dei viveri e gli alti dazi; ed è diffusa la convinzione che i due governi debbono alla fine inchinarsi dinanzi ai voti delle popolazioni.

 

 

Per la Germania ricorderò due fatti soli. Negli ultimi tre anni si ebbero dodici elezioni parziali al parlamento. I conservatori perdettero 66.000 voti, i clericali 24.000 e i nazionali liberali 8.000, mentre i socialisti guadagnarono 30.000 voti ed i progressisti 12.000. La causa delle mutate opinioni del corpo elettorale è una sola: l’irritazione contro il governo il quale si diede, mani e piedi legati, agli agrari; mantenne ed accrebbe i dazi protettivi e rifiutò di aumentare le imposte sulla proprietà. Non soltanto gli operai aumentarono le schiere degli elettori ribelli: i contadini hanno costituito il Bauern Bund od associazione dei contadini e votano contro gli agrari; gli industriali e i commercianti hanno risuscitato il ricordo della lega delle città anseatiche, costituito l’Hansa Bund, che fa una campagna vivacissima a favore dei progressisti. Nel prossimo parlamento i protezionisti saranno certamente assai meno forti d’adesso e forse si troveranno in minoranza, sovratutto se i clericali, per non perdere in popolarità, abbandoneranno la difesa degli agrari.

 

 

La convinzione della prossima disfatta degli agrari è tanto diffusa che nella recente adunanza annuale della associazione centrale degli industriali tedeschi il signor Bueck, annunciando il suo ritiro dal posto di segretario generale, in cui per 37 anni aveva strenuamente difeso la politica degli alti dazi protettivi, industriali ed agricoli, pronunciò un discorso, che ebbe una larghissima eco:

 

 

Essere impossibile negare, – egli osservò, – che l’alto costo della vita per le classi lavoratrici deriva dai dazi doganali sui prodotti alimentari, alcuni dei quali sono eccessivamente alti. Ciò porta ad un aumento progressivo nei salari, talché i fabbricanti hanno oramai raggiunto il limite estremo di ciò che possono fare a pro degli operai e sono costretti a dichiararsi in favore di una riduzione dei dazi sulle derrate necessarie all’esistenza.

 

 

Che cosa risponderanno gli agrari tedeschi a questo invito del rappresentante degli industriali? Probabilmente che, se essi devono acconciarsi ad una riduzione dei dazi protettivi agricoli, hanno diritto ad ottenere una riduzione dei dazi industriali, che gravano sulla economia agricola.

 

 

Coloro che in Italia reputavano che l’Inghilterra avrebbe abbandonato la bandiera del libero scambio, oramai hanno dovuto disilludersi. Da quando il capo del partito conservatore, signor Balfour, dichiarò solennemente che il suo partito avrebbe sottoposto la questione della scelta tra protezionismo e libero scambio al referendum popolare, la causa protezionista aveva partita perduta. Anche se i conservatori avessero vinto – e ciò non accadde – essi si erano solennemente impegnati a non introdurre in Inghilterra una tariffa doganale protettiva senza consultare prima il popolo col referendum. Chi può credere che il popolo inglese, la cui capacità di intendere i problemi economici ha fatto l’ammirazione di quanti osservatori furono presenti alle adunanze elettorali, il giorno in cui venisse posta chiaramente la domanda:volete i dazi protettivi, ossia volete il rincaro della vita, risponda di sì? L’Inghilterra è il solo grande paese in cui i prezzi della carne, del pane, dei vestiti, dei materiali da costruzione e dei macchinari non siano rialzati oltremodo negli ultimi anni, in cui il livello dei prezzi è notevolmente inferiore al livello europeo; e sarebbe stranamente illuso chi credesse che gli inglesi vogliano rinunciare a siffatta invidiabile prerogativa.

 

 

Ma la rivoluzione più chiara nel modo di pensare rispetto al problema doganale è quella che sta accadendo nell’America settentrionale. La disfatta clamorosa dei candidati repubblicani nelle recenti elezioni al congresso è stata rilevata e commentata in Italia forse più dal lato esterno che per il significato intrinseco.

 

 

Colpì assai l’insuccesso degli sforzi di Roosevelt, di cui era recente il ricordo delle cacce africane e delle spavalderie europee. Non si vide abbastanza che la causa della sconfitta dei repubblicani stava nell’avere essi tradito la promessa fatta nel 1909 agli elettori, di diminuire i dazi della vecchia tariffa doganale. Essi, che si erano impegnati a diminuire una tariffa equivalente al 43,15% del valore delle merci importate, dopo molte tergiversazioni, a gran fatica seppero sostituirvi quella che dal nome dei suoi autori fu chiamata tariffa Payne Aldrich, equivalente al 41,49% del valore delle merci importate. La ridevole diminuzione parve un insulto all’elettorato il quale reclamava prezzi meno alti; cosicché il giorno in cui il presidente Taft firmò la tariffa segnò anche il decreto di sconfitta del partito repubblicano. Per la prima volta dopo tanti anni, dopo tanti errori commessi, dopo essersi screditato col sostenere le cause del populismo e della riabilitazione dell’argento, il partito democratico ha saputo rendersi popolare, affermandosi deliberato ad attuare un ribasso generale e duraturo dei dazi doganali. Il congresso è in mano sua; e democratici sono i governatori di Stati industriali potenti, come quello di New York, Massachusetts, Connecticut, ecc., che prima erano in mano dei repubblicani. I democratici non fanno mistero dei loro propositi. Il signor Eugenio N. Foss, attuale governatore dello Stato del Massachusetts così parla della tariffa esistente:

 

 

L’intiero paese protesta contro l’ingiusta e malvagia tariffa doganale Payne Aldrich, la quale colpisce disegualmente il popolo, ne aumenta gli oneri e rende il problema della vita esasperante.

 

 

Il giudice Baldwin, nuovo governatore democratico dello Stato del Connecticut, aggiunse:

 

 

Noi abbiamo una causa comune da difendere. Nelle case del popolo, dappertutto ma particolarmente nelle case dei salariati e degli stipendiati, la privazione ha fatto la sua entrata. Il nostro cibo deve essere minore in quantità o di qualità peggiore. I nostri vestiti debbono essere portati più a lungo, prima di poterli smettere. I nostri fitti son più cari. Perché tutto ciò? Senza dubbio molte sono le cause; e su alcune non abbiamo alcuna influenza. Ma vi è una causa che noi possiamo sopprimere. È la tariffa doganale repubblicana.

 

 

Al sentire i quali discorsi, il partito repubblicano è stato costretto a correre alla riscossa. Per impedire una sconfitta che sarebbe inevitabile alle prossime elezioni presidenziali del 1952, il presidente Taft annuncia la sua intenzione di procedere ad una pronta revisione della tariffa doganale. E dubbio se potrà arrivare in tempo. Che se la riduzione non fosse cosa fatta prima, possiamo essere sicuri di vedere nel 1912 un democratico alla presidenza degli Stati uniti.

 

 

Se qualcosa i giornali ci dissero degli Stati uniti, nulla riferirono sugli accadimenti recenti nel Canada. Paese protezionista finora, quando predominavano le vecchie provincie orientali atlantiche, il Canada sta trasformando rapidamente la sua organizzazione economica. Al di là della grande zona centrale, sterile, pietrosa, sparsa di laghi e di pantani, va popolandosi un nuovo Canada, quello del Far West. Provincie, il cui nome era sconosciuto, come l’Alberta, il Manitoba, lo Saskatchewan si popolano e si colonizzano in gran furia. Sono le provincie che coll’Argentina e con la Siberia, diventeranno domani il granaio del mondo. Presto dovremo anche noi farne la conoscenza. Ora quelle provincie sono nemiche degli alti dazi, entro cui la grande nazione canadese si è asserragliata. Nell’autunno scorso il primo ministro canadese, Sir Wilfrid Laurier, visitò le nuove provincie, la cui ricchezza promette di oscurare la fama delle storiche provincie di Quebec e di Ontario. In ogni città, in ogni villaggio, lo attendevano deputazioni di agricoltori (farmes), protestanti contro la tariffa doganale che rincarava i prezzi delle macchine agricole e dei prodotti industriali che essi comprano e, per rappresaglia, provocava tariffe alte nei paesi in cui essi volevano esportare il loro grano. Gli agricoltori del Manitoba così parlarono in un memoriale a Sir Wilfrid Laurier:

 

 

Noi agricoltori dell’occidente canadese non vogliamo alcuna protezione per i nostri prodotti: in altre parole consentiamo che tutte le derrate agrarie siano ammesse in franchigia nel Canada. Noi riteniamo che i dazi doganali debbano essere prelevati unicamente per dare un reddito al fisco e non per dar protezione a nessuno; noi crediamo che la tariffa debba essere congegnata in modo da permetterci di commerciare liberamente con tutto il mondo.

 

 

Né l’agitazione è diminuita d’intensità dopo il ritorno del primo ministro ad Ottawa. Si prepara una visita di una delegazione numerosa di agricoltori al parlamento: 400 delegati di 30000 farmers (agricoltori) organizzati e 300 delegati delle vecchie provincie si recheranno ad Ottawa in treni speciali per chiedere riduzioni generali dei dazi doganali.

 

 

Questi i fatti, i quali dimostrano non essere esatta la premessa di una tendenza verso un protezionismo maggiormente inacerbito da cui partono i nostri enti economici nelle loro proposte al governo per la conchiusione dei prossimi trattati di commercio. Altri – e molti – fatti sarebbero potuti addurre ove quest’articolo non fosse già troppo lungo. Si sarebbe potuto dimostrare altresì che il sistema della doppia tariffa, che i nostri enti economici considerano come il portato più moderno e più perfezionato della politica doganale, comincia ad essere guardato con diffidenza nelle sue patrie d’origine, la Francia e gli Stati uniti; e come ivi gli si imputi a difetto gravissimo ciò che i suoi tardi assertori italiani vantano come pregio. Anche di questo fatto converrebbe tener conto, per non combattere contro mulini a vento e per non abbracciare in ritardo sistemi che gli altri paesi considerano oramai antiquati. Questo mio scritto avrà raggiunto il suo scopo se gli enti economici che hanno già presentato proposte saranno indotti a riprenderle in esame; se gli altri vorranno studiare più profondamente; e se le organizzazioni degli industriali esportatori e dei consumatori, che pur furono interrogate, si accorgeranno di poter contare per l’opera comune su falangi di alleati in tutti i paesi del mondo.

 

La strage degli innocenti

La strage degli innocenti

«Corriere della Sera », 12 gennaio 1911

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 189-196

 

 

 

 

Gli innocenti sarebbero i vitelli di età inferiore all’anno, di cui invero si fa strage non piccola nel nostro e probabilmente in tutti i paesi del mondo. Si calcola che in Italia il consumo medio della carne, da chilogrammi 21,11 nel 1903, sia salito a chilogrammi 25,38 nel 1908 e non sia oggi molto lontano dai 30 kg. Per far fronte al tanto minor consumo del 1903 era d’uopo macellare 7.305.498 animali all’anno, e cio è 1.492.369 bovini, 4.273.192 ovini, 1.504.427 suini e 35.110 equini. Ora la macellazione dei bovini non può essere ritenuta inferiore a 2 milioni di bovini all’anno; e di questi una buona metà sarebbero vitelli sotto l’anno. Se si pensa infatti che ad Udine la proporzione dei vitelli di meno di un anno raggiunge l’80% dei bovini macellati, a Parma il 74%, a Milano, a Mantova, ad Alessandria il 60%, a Napoli il 58%, a Firenze il 52%, a Roma il 36%, sembra ragionevole concludere essere indiscutibile il tragico fato del milione di vitellini condotti al macello quando appena cominciavano ad assuefarsi alle dolcezze della stalla.

 

 

Nessuno crederà che la commozione, da cui molti uomini sono stati presi da un anno a questa parte al pensiero della infelice sorte riservata agli innocenti vitelli, sia dovuta a bontà d’animo ed a sincera commiserazione verso gli scomparsi in età immatura. Purtroppo, la ragione del clamore sorto intorno alle stragi che quotidianamente si compiono nei civici ammazzatoi è dovuta al pensiero che un vitello, ammazzato quando pesa 100 chilogrammi, non può diventare un bue del peso di 600 o 700 chilogrammi. Essendo di tanto più scarsa la carne che viene sul mercato, gli uomini sono costretti a comprare il bue, saporoso e rossigno, a caro prezzo, perché troppi vitelli furono ammazzati quando la loro carne era ancora bianca e tenera. La strage dei vitelli sott’anno sarebbe dunque una delle principali responsabili del rincaro degli alimenti carnei, di cui tutti ci lamentiamo. Ed ancora di altri delitti sarebbe colpevole; poiche`, se non si allevano vitelli, non si potranno più avere buoi per i lavori della terra, e, dove questa non può essere lavorata dai cavalli o dove èimpossibile l’applicazione degli aratri meccanici, la cultura diventerà sempre più costosa, producendo l’immiserimento dei contadini e dei proprietari.

 

 

Contro questo malanno il rimedio, si afferma, èchiaro. Poichédue sono i responsabili della strage: i ricchi, i quali vogliono consumar carne bianca e tenera, ed i caseifici, i quali inducono i contadini a vendere i vitellini appena nati per la ingordigia di riscuotere subito il prezzo della vendita dei vitelli e per il vantaggio di utilizzare invece il latte nella confezione del burro e del formaggio, si proibisca addirittura la macellazione dei vitelli al disotto dell’anno o del peso dei 200 o 100 chilogrammi (son discordi i propositi degli amici dei vitelli su questo preciso punto) o mettasi una buona tassa, di almeno 10 lire, sulla macellazione, affinchéla gente, tanto golosamente efferata da preferire la carne bianca alla rossa, sia degnamente punita.

 

 

Quando lessi per la prima volta sui giornali agrari dei malefici effetti della strage dei vitelli sott’anno e vidi che persino un deputato socialista, memore delle campagne condotte sul suo giornale umoristico contro il catechismo e la storia sacra, si apprestava ad interrogare il governo sul biblico argomento, interrogai a mia volta, come èmio costume, un amico contadino, al quale ricorro per consiglio in siffatte contingenze. «Perche`, – mi rispose egli, – si fa tanto discorrere di strage degli innocenti a proposito dei vitelli da poco nati? O non sono forse innocenti anche i buoi grassi quando li conducono all’ammazzatoio? Costoro, in fondo, di null’altro sono colpevoli fuori che di mangiare più fieno di quanto non valga il loro lavoro od il loro aumento in peso di carne; e perciò noi contadini, che ragioniamo a soldi e denari, li portiamo al macello. I vitelli soggiacciono alla stessa sorte per la medesima cagione; sono ammazzati perchél’aumento di peso della loro carne vale di meno del latte che consumerebbero. O non è una pazzia spendere 100 di latte per avere 50 di carne? Se proibissero – per commiserazione verso i vitelli o piuttosto verso gli uomini della città, che si lagnano di dover pagare la carne troppo cara – la macellazione dei bovini sotto l’anno o sotto i 100 o 200 chilogrammi o la colpissero di gravi tasse, i signori della città si accorgerebbero di aver commesso un grosso sproposito. Poichéchi di noi contadini vorrebbe ancora allevare vitelli, quando non fosse sicuro di poterli, senza impaccio e senza tasse, condurre al macello? I vitelli sono talvolta, come i bambini, degli esseri curiosi. Cessano di crescere o crescono poco o vengono su male, con difetti tali, che difficilmente se ne potrebbero trarre buoi da lavoro o da ingrasso; e dovremmo seguitare a mantenerli a ufo solo perché non hanno ancora toccato l’età della ragione e cioè della macellazione? Talaltra essi vengono su bene; ma quella che viene su male è l’erba nei prati; ed allora bisogna vuotare con giudizio a poco a poco le stalle, perché altrimenti, mancando il fieno, le bestie alla fine morirebbero di fame, con danno nostro e dei cittadini mangiatori di carne. Noialtri contadini siamo ignoranti e non abbiamo il tempo di leggere i libri stampati; ma sappiamo per esperienza che i signori della città hanno torto di lamentarsi del rincaro della carne nelle annate di abbondante raccolto di foraggi. Se si trovassero al nostro posto, farebbero lo stesso, ossia terrebbero nella stalla ed ingrasserebbero vitelli e buoi negli anni di foraggio a buon mercato e li venderebbero negli anni di foraggio caro. Foraggio abbondante e a buon mercato, dicevano i miei vecchi, vuol dire bestie care, perché tutti vogliono allevare e nessuno vende; foraggio scarso e caro vuol dire bestie a buon mercato perché si è costretti a venderle, per difetto di mangime. Se i signori cittadini facessero venire tutti gli anni la pioggia in tempo e luogo opportuno ci sarebbero sempre foraggi abbondanti, molte bestie nella stalla e una regolare provvista di vitelli e buoi maturi per la macellazione. Ma poiché Domeneddio ha pensato diversamente, bisogna che i signori della città (quel contadino, che mangia carne di rado, preferendo più rustiche vivande, considera signori tutti quelli che mangiano la carne da lui fabbricata) si adattino alle vicende delle stagioni e ci lascino ammazzare ed allevare vitelli così come ne abbiamo la convenienza».

 

 

L’amico contadino parlava meglio di un libro stampato. Mi accorsi dopo che le stesse sue osservazioni le aveva fatte il prof. Enrico Voglino, direttore della cattedra ambulante di agricoltura di Alessandria, in una polemica coll’on. C. Mancini sul «Coltivatore» di Casalmonferrato; le aveva scritte il dottor Felice Guarnieri in una memoria sul recente rincaro delle carni pubblicata dalla Camera di commercio di Genova; le aveva esposte ai giovani dell’università commerciale Bocconi il prof. Maldifassi, in una elegantissima lezione, che si legge sul «Sole», e le ebbe a ribadire finalmente il prof. Bordiga della scuola di Portici in un articolo sunteggiato dal nostro Marchese in una di quelle sue succose noterelle sui «campi», che i lettori del «Corriere» ben conoscono. Il Maldifassi osservò, fra l’altro, che era ridevole accusare di ingordigia l’agricoltore della «bassa» lombarda il quale si sbarazza dei vitelli appena nati. È serio infatti affermare che costui vende il vitello per ingordigia di lucrare una quindicina di lire in media all’anno (ché tanto e non più è il valore dell’annuo ricavo del vitellino per vacca) di fronte ad un reddito di 450 – 500 lire in latte che ogni anno la vacca dà? Ed il Bordiga incalza dimostrando che in 100 giorni un vitello non consuma meno di 700 litri di latte, i quali valgono almeno quanto 100 chilogrammi di carne; mentre cresce, al più, di 100 chilogrammi di peso vivo, i quali si riducono a 50-55 kg di carne. Dimodoché se anche si riuscisse, con proibizioni e con tasse, a protrarre l’età della macellazione dei vitelli, si sarebbe raggiunto soltanto l’intento, assurdo economicamente, di cambiare 700 litri di latte (equivalenti a 100 chilogrammi di carne) con 55 chilogrammi di carne. Nascerebbe il clamore del rincaro del latte, già arrivato del resto ad altezze non piccole; e nascerebbe con maggior fondamento di ragione, sia perché il latte è un alimento nutriente come e forse più della carne, sia perché si sarebbe sottratto all’uomo, in elementi nutritivi, il doppio e più di quanto non gli si restituisca in carne.

 

 

Per queste chiarissime ragioni io mi meravigliai molto nel vedere come l’on. Raineri, che è un tecnico valoroso dell’agronomia, abbia condisceso – nei «provvedimenti a tutela e ad incremento della produzione zootecnica nazionale» da lui presentati, come ministro dell’agricoltura, alla camera – in misura limitata, ma sempre eccessiva, al sentimentalismo vitellino. In verità il ministro, che conosce bene quanto poca serietà abbia la crociata a pro dei nuovi innocenti, non ha voluto prendere la responsabilità di un provvedimento assurdo. L’ha scaricata sui municipi, imponendo che i regolamenti municipali di macellazione debbano contenere precise disposizioni relative ai limiti di età e di peso, al disotto dei quali non sarà concessa la macellazione degli animali bovini.

 

 

La scappatoia però non mi sembra felice e può essere cagione di malanni, forse più ristretti ma più intensi di quelli che nascerebbero da una norma generale di stato. I reggitori dei municipi sono invero facilmente portati a credere che del rincaro delle carni siano responsabili i troppo ingordi allevatori; anzi, non essendo nei consessi cittadini rappresentati gli abitanti del contado, sono più disposti a far opera ostile agli agricoltori ed apparentemente benefica ai cittadini, piu di quanto non lo sia la camera. Una deliberazione di consiglio comunale, sotto l’influenza di una campagna diconsumatori, è più presto presa di quanto non sia presto fatta una legge dal parlamento. Ho gran timore che, per effetto di quel «debbano», si abbia una fioritura in Italia di provvedimenti a pro dei vitelli, che renderanno difficile e complicato il commercio delle bestie bovine ed aumenteranno il prezzo delle carni invece di farlo diminuire. Tutto ciò che impaccia e limita il commercio accresce, non diminuisce, i costi delle merci. Credere altrimenti, è una singolare, sebbene rinascente, illusione. È perciò vivamente da augurare che il parlamento respinga l’obbligo fatto ai municipi di imporre limiti di peso e di età alla macellazione dei vitelli. Se le carni bianche e tenere fossero nocive alla salute, passi; ma che ciò non sia, dimostrano i consigli che i medici danno agli ammalati, di farne uso.

 

 

Il disegno di legge Raineri mette un altro impedimento alla macellazione dei vitelli, imponendo una tassa di lire tre per ogni vitello, di qualunque età e peso, portato al macello; devolvendo una delle tre lire ai comuni e due allo stato per costituire, queste ultime, un fondo da spendersi a pro della industria zootecnica. Poiché le tre lire sono fisse, è evidente che esse graveranno di più sul vitello appena nato, che pesa 20 chilogrammi e vale 22 lire, che non sul vitello di 100 chilogrammi che vale 100 – 120 lire; e sono quindi un freno protezionistico alla macellazione degli animali giovanissimi. Il ministro dice che gli allevatori non ne avranno danno, perché è cosa che non li riguarda; mentre i consumatori sopporteranno un aumento lievissimo di prezzo, di appena 5 centesimi al chilogrammo. Il ragionamento non corre, perché il consumo delle carni è già gravato di tali gravami fiscali, che proprio non si sente il bisogno di una nuova tassa ed ancora non si conosce la tassa che abbia per effetto di far diminuire il prezzo del consumo tassato. Il dire che si tratta di soli 5 centesimi è un discorso simile a quello del villano che tanto caricò di legna il suo ciuco, dicendo ogni volta che si trattava di una sola legna e che poco era il peso aggiunto, che alla fine l’asino stramazzò per terra. Sia perché le tre lire si aggiungono alle molte dei dazi consumo, sia perché si tratta di un provvedimento filo vitellino, che dimostrai sopra economicamente assurdo, la nuova tassetta deve dunque essere respinta.

 

 

Né persuade la circostanza che due delle tre lire sarebbero destinate a costituire un fondo a pro della industria zootecnica. L’on. Raineri ha dettato delle belle ed interessanti pagine a dimostrare i progressi della industria zootecnica ed a mettere in luce il molto che ancora si può fare. Il numero dei cavalli è aumentato in Italia da 657.544 nel 1876 a 955.878 nel 1908, ossia del 45,37%; gli asini sono anch’essi in aumento da 674.246 nel 1881 ad 849.723 nel 1908, ossia del 26%; i muli e bardotti aumentarono nello stesso periodo da 293.868 a 388.337, o del 32,15%; i bovi da 4.772.162 a 6.198.861, o del 29,90%; i suini da 1.163.916 a 2.507.798, o del 115,46%, gli ovini da 8.596.108 a 11.162.926, o del 29,86% e i caprini da 2.016.307 a 2.714.878, ossia del 34,65%. È confortevole che gli aumenti percentuali maggiori, se non gli assoluti, si siano verificati nel mezzogiorno d’Italia, come il Raineri dimostra, sulla scorta del censimento generale del bestiame del 1908, i cui risultati furono testé pubblicati dal Moreschi, direttore generale dei servizi zootecnici. Ma è certo che più potremmo progredire, se si pensa che nel numero dei cavalli, su 20 nazioni europee, teniamo il quindicesimo posto della media per chilometro quadrato e il decimo per 100 abitanti, nel numero dei bovini rispettivamente il tredicesimo e il diciottesimo, nel numero dei porci il quattordicesimo, e il diciannovesimo, nel numero delle pecore il quinto e l’undicesimo; e solo nel numero delle capre veniamo i terzi per chilometro quadrato e i sesti per 100 abitanti, e in quello dei muli, bardotti e asini ci troviamo rispettivamente al primo e al quarto posto nella media per chilometro quadrato e per 100 abitanti. Pure ammettendo che non si possa in parecchi casi, per circostanze di clima e di terreno, aspirare ai primi posti, potremmo però migliorare la nostra situazione. Per i cavalli, il migliorarla è una necessità militare, come dimostrarono qui magistralmente illustri generali, come il Perrucchetti e il Majnoni d’Intignano.

 

 

Intanto gioveranno sicuramente gli incoraggiamenti che il ministero d’agricoltura, dotato di qualche maggior fondo, potrà dare all’industria zootecnica. Più gioverà l’interesse economico degli allevatori di bestiame; perché se i prezzi sono bassi, a nulla servono i premi ministeriali; e se i prezzi sono remuneratori, l’allevamento fa progressi, come li fece a passo di gigante nella Sardegna, senz’uopo di incoraggiamenti governativi. A prezzi cari si moltiplicano cavalli, buoi, asini, pecore e capre come per generazione spontanea; ed a prezzi bassi pare che ogni virtù riproduttiva sia scomparsa. Ma certo anche gli incoraggiamenti ministeriali possono essere giovevoli; sotto forma di depositi governativi di stalloni (qui si ha una funzione di stato per ragioni militari), di esposizioni, medaglie, premi ai migliori allevatori, concorsi pubblici, scuole di zootecnia e via dicendo. Gli agricoltori sono avidissimi di diplomi, medaglie, premi, anche se la medaglia non c’è e c’è solo il certificato della medaglia; e se tanto poco basta per incoraggiare l’agricoltura, sarebbe un fuor d’opera lesinare i mezzi a quest’opera integratrice. Dovrebbe anzi essere raddoppiata o triplicata la dotazione data al ministero di agricoltura in croci da cavaliere e in commende dei vari ordini. Siffatta chincaglieria costa poco a regalare, non fa male a nessuno, e soddisfa le modeste ambizioni di tanta gente che, per ottenere la croce o la commenda, è anche capace di allevar cavalli o di ingrassare vitelli.

 

 

Dunque nessuna obiezione a che con questi innocenti mezzi il ministero d’agricoltura collabori, aggiungendo la sua modesta opera stimolatrice della vanità umana, a quella efficacissima dei prezzi remuneratori; ma obiezione grave a che i mezzi a far ciò siano tratti da una tassa sui vitelli. Timeo Danaos et dona ferentes, avrebbero ragione di esclamare gli allevatori di bestiame. Se si deve incoraggiare mettendo tasse, la miglior maniera di incoraggiamento è ancora quella di lasciare i denari nelle tasche dei cosiddetti incoraggiati. Né dimentichiamo che il sistema di creare tasse per costituire fondi speciali fu condannato da tutti i grandi finanzieri del passato e fu un progresso segnalato l’avere abolito simili espedienti di nascondere le entrate e di rendere meno sentite le spese. Se lo stato ritiene necessario di promuovere, nell’interesse generale, l’incremento della zootecnia, vi provveda con i fondi generali del pubblico erario. Non crei una piccola tassa fastidiosa e non risusciti un altro di quei fondi speciali, grazie a cui il bilancio italiano diventerà tra breve pezzato come il mantello della zebra e misterioso come i responsi della Pizia.

 

 

Protezionismo operaio e protezionismo municipale

Protezionismo operaio e protezionismo municipale[1]

«Atti della R. Accademia delle scienze di Torino», vol. 46, 1910-1911, pp. 675-679 (tomo II, pp. 228-232)

In estratto: Torino, Vincenzo Bona, 1911, pp. 7

 

 

 

 

Ho l’onore di presentare all’Accademia, a nome dell’Autore, due volumi del prof. Giuseppe Prato, intitolato l’uno Il protezionismo operaio – L’esclusione del lavoro straniero e l’altro Le dogane interne nel secolo XX – Il mercantilismo municipale. I due volumi portano i numeri VII e X degli Studi del Laboratorio di Economia politica S. Cognetti De Martiis di Torino (Società Tipografico-Editrice Nazionale, Torino, 1910 e 1911 e sono nuova testimonianza della serietà degli studi economici di cui l’Istituto torinese è divenuto il centro.

 

 

Le due opere del Prato hanno avuto ambedue nascimento da un motivo occasionale, quasi si direbbe da un fatto di cronaca, dal quale l’A. ha saputo trarre partito per una trattazione severamente scientifica, ricca di fatti, male o niente affatto conosciuti, e di ragionamenti acuti e serrati. L’occasione che fece nascere nel Prato l’idea di scrivere il primo volume, sul Protezionismo operaio, fu la venuta in Italia di un condottiero di leghe americane, il signor Samuele Gompers, a cui arrise il successo di accoglienze cordialissime da parte di capi di uffici governativi intesi alla tutela del lavoratore italiano e di duci del movimento operaio italiano, a cui non parve vero di dimenticare le loro medesime ragioni di vita per avere l’insigne onore di banchettare coll’astuto yankee venuto in Italia a persuadere i nostri emigranti a rimanersene a casa loro ed a non andare a muovere concorrenza agli operai altamente pagati delle Federazioni americane del lavoro. Da questo episodio significativo prende le mosse il Prato per tratteggiare un quadro dalle grandi linee storiche e teoriche. In tre momenti si divide il corso della immigrazione nei paesi nuovi; nel primo dei quali domina la tendenza favoreggiatrice, imposta dalla abbondanza di terre e dalla scarsezza degli uomini, ed intesa ad attirare, colla forza violenta della schiavitù o colla persuasione dei premi, dei viaggi pagati ecc. gli uomini delle contrade sovrapopolate. Ma, appena i nuovi venuti sono riusciti a costituire dei gruppi abbastanza potenti per avere la consapevolezza della propria forza, nasce in essi e nei partiti politici, che li guidano e li servono, la tendenza contraria di restringere l’immigrazione dei lavoratori i quali verrebbero a partecipare alle ricchezze nuove e grandi che le vergini terre contengono ed a far diminuire i salari privilegiati che la scarsezza delle braccia ha consentito ai primi immigrati. A più riprese si sviluppa la politica restrittiva: contentandosi dapprima della esclusione dell’immigrazione di colore. Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti (California) muovono in guerra contro polinesiani, cinesi e giapponesi e li vogliono escludere dal sacro suolo riservato alla razza bianca. L’A. analizza e rompe ad uno ad uno gli argomenti sentimentali, storici, economici che i fautori del monopolismo bianco hanno impugnato contro la concorrenza gialla. Falso ed ipocrita il timore della corruzione politica e della immoralità famigliare dei gialli; e certamente non degno in bocca di gente che hanno raggiunto i fastigi più alti della corruzione elettorale e della ipocrisia morale. Fuor di luogo il timore che i gialli non intendano a migliorare il proprio tenore di vita, di cui anzi si dimostrano, ove appena il possono, curantissimi. Dannosa infine alla medesima società bianca l’esclusione dei gialli, come quella che vieta di potere attendere ad occupazioni disdegnate dagli operai appartenenti alla civiltà dominatrice. Il carattere grettamente monopolistico dell’odio contro i gialli si palesa subito appena l’assalto al monopolismo operaio venga da nuovi concorrenti, appartenenti alla stessa razza bianca: da italiani, russi, ungheresi, ebrei. Comincia allora il periodo della restrizione della immigrazione bianca, di cui il Prato rintraccia gli episodi più significativi nella storia e nella legislazione dell’Australia, della Colonia del Capo, del Transvaal e degli Stati Uniti; rafforzando la dimostrazione dell’universale tendenza all’esclusivismo dei gruppi operai organizzati collo studio della legislazione e della politica in Francia, in Svizzera, in Germania, in Inghilterra, dovunque accorrono schiere di operai immigranti in cerca di lavoro.

 

 

Di questo protezionismo operaio l’A. studia, in una ultima parte teorica, le analogie profonde col sistema protezionistico doganale; e come di questo sono indisputabili i tristi effetti economici, così di quello dimostra largamente gli uguali danni nel campo economico e sociale; ostacoli posti alla migliore applicazione dei fattori produttivi, impossibilità di attendere alle opere più umili, eppur necessarie, della società, indirizzo artificiale impresso alle migrazioni del lavoro, ritardo della messa in valore del globo, rialzo del costo della vita, specialmente per le classi operaie, crescente disoccupazione per la impossibilità negli imprenditori di sottostare al rincaro artificiale della mano d’opera indigena. Né si dimentichi che le leghe operaie bianche, fautrici della politica dell’associazione, finché si trattava di associazioni monopolistiche, più gridano contro i gialli ed i concorrenti bianchi quanto più questi si valgono delle loro stesse armi e sanno unirsi in associazioni indipendenti (cinesi e giapponesi potrebbero essere maestri ai troppo orgogliosi bianchi nell’arte di associarsi a difesa ed offesa) per ottenere migliori patti di lavoro.

 

 

Da un episodio torinese ebbe origine l’altro libro del Prato su Le dogane interne nel secolo XX – Il mercantilismo municipale. Sullo scorcio del 1909 la Giunta municipale di Torino per risolvere in parte l’assillante problema finanziario di Torino, propose di sostituire per talune specie di materiali da costruzione al metodo della tassazione all’atto della introduzione entro cinta il metodo, più razionale, della tassazione a misura ed a costruzione compiuta dei materiali impiegati nella costruzione di edifizi nuovi o in notevoli rifacimenti degli edifizi esistenti. Benché il nuovo metodo fosse più razionale, perché riusciva a colpire ugualmente i fabbricati entro e fuori cinta, suscitò le opposizioni dei produttori dell’entro cinta, i quali col vecchio sistema dei dazi esatti al momento della introduzione entro le mura della città, dazi, che erano assai più alti per i lavori finiti che per i prodotti semi-lavorati ed i greggi, erano riusciti ad ottenere buoni profitti grazie alla protezione daziaria di cui godevano contro i produttori dell’extra-moenia. Le petizioni che gli industriali e gli operai, subito riuniti in fraterna comunanza di pensiero e di minacce inviarono al Consiglio Comunale di Torino sono un documento storico, che il Prato, a ragione, integralmente riproduce, perché degnissimo di essere tramandato ai posteri come parodia inarrivabile della tesi protezionistica e non inferiore forse in bellezza alla classica Petition dei fabricants de chandelles diBastiat.

 

 

Prendendo le mosse dall’incidente torinese, l’A. ha istituito una indagine, dottrinale prima, per ricercare nei trattati della scienza finanziaria ed economica i non abbondanti accenni, che vi si leggono, intorno al protezionismo municipale, e pratica poi per accertare se ed in quale misura il sistema della protezione alle industrie intra-muros per mezzo della tariffa daziaria sia invalso nelle città italiane. L’indagine portò a risultati interessantissimi: il protezionismo municipale fiorisce, dove più dove meno, in tutti i comuni murati italiani, come è manifesto dalla specializzazione crescente delle tariffe, in cui le voci si moltiplicano per permettere di raggiungere più facilmente l’intento protettivo, dalla differenza spiccata ed altrimenti inesplicabile tra i dazi bassi o nulli sulle materie prime ed i dazi alti sui prodotti semi-lavorati o finiti e dalla convinzione universalmente diffusa tra gli industriali che questo sia un sistema logico, legittimo di difesa contro i concorrenti del di fuori. Il protezionismo municipale si rafforza, come quello statale, con gli avvedimenti dei drawbacks o restituzioni di dazio in somme superiori all’ammontare dei dazi realmente pagati, instaurando così una politica di premi di esportazione. Come i dazi protettori statali anche i dazi protettori municipali danno uno scarsissimo rendimento al tesoro pubblico: a Roma quattro categorie, copiose di voci protettive, rendono nel 1908-1909 appena 1.369 mila lire su un provento totale di 20 milioni, a Napoli 592 mila lire su 11 milioni, a Firenze 500 mila lire nel 1909 su 7.390.333 lire, a Torino nello stesso anno 665 mila lire su un provento totale del dazio di 13.821.014 lire. L’onere dei consumatori ed il miserevole vantaggio del fisco servissero almeno al progresso dell’industria! Ma neppure questo può affermarsi, poiché lo sviluppo artificioso di talune industrie le rende dipendenti dal ristretto mercato locale ed incapaci di espandersi al di fuori e danneggia gravemente altre industrie situate in regioni vicinissime ai grossi mercati chiusi, che invano esse anelerebbero di approvvigionare. Né dimentichiamo che il protezionismo municipale è cagione artificiosa dell’accentuarsi di quell’inurbamento delle genti rurali, che è deprecato dagli statisti e che li costringe ad affannose cure ed a gravi dispendi per apprestare case ed alimenti alle turbe inquiete; che esso è in stridente contrasto con lo spirito ed anche con la lettura delle leggi fondamentali del paese sul dazio consumo, il quale dovrebbe essere, in virtù di quei testi, un tributo destinato a cadere esclusivamente sul consumo locale; ed è un impedimento non piccolo alla conclusione dei trattati di commercio con gli Stati esteri. Qual mai affidamento possono invero i governi stranieri riporre nella parola del governo italiano, quando gli effetti di un trattato di commercio solennemente conchiuso possono essere sconvolti dal capriccio dei reggitori di poco meno di 200 comuni chiusi, racchiudenti dentro le proprie mura circa un terzo della popolazione italiana e precisamente di questa la parte più ricca ed operosa?

 

 

I due volumi del Prato, eloquenti nel dettato e diritti nel ragionamento, sono dunque due buone battaglie, combattute con severità scientifica, per la libertà economica. Oggi che questa è insidiata dalle più opposte parti, da industriali e da operai, egoisti e monopolisti entrambi, questa franca voce di studioso meritava di essere rilevata ed incoraggiata.

 

 

L’Accademico Segretario, Gaetano De Sanctis

 

 



[1] Relazione presentata all’Accademia il 30 aprile 1911 a proposito di Giuseppe Prato, Il protezionismo operaio: l’esclusione del lavoro straniero, Torino, Tipogr. Collegio degli artigianelli, 1910, pp. 236 (Studi del Laboratorio di economia politica S. Cognetti De Martiis della R. Università e del R. Politecnico di Torino, n. VII); ID., Le dogane interne del secolo XX. Il mercantilismo municipale, Torino, Soc. tipogr. ed. naz. già Roux e Viarengo, 1911, pp. 58 (Studi del Laboratorio di economia politica S. Cognetti De Martiis della R. Università e del R. Politecnico di Torino”, n. X) [Ndr.].

Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema di imposte sul reddito consumato. Saggio di una teoria dedotta esclusivamente dal postulato dell’uguaglianza

Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema di imposte sul reddito consumato. Saggio di una teoria dedotta esclusivamente dal postulato dell’uguaglianza

«Memorie della R. Accademia delle scienze di Torino», 1911-1912, pp. 209-213

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 1-165

 

 

 

 

I

Reddito guadagnato e reddito realizzato (consumato).
I due concetti in rapporto alle cose ed alle persone

Suppongo noto il concetto del reddito elaborato dal Fisher nella sua opera The nature of capital and income. Reddito per l’uomo è il flusso dei godimenti che egli ha durante un certo periodo di tempo. Noi possiamo distinguere cioè il fondo di ricchezze che esistono ad un dato momento a disposizione dell’uomo; e il flusso dei servizi che l’uomo riceve durante un certo periodo di tempo dal sovradetto fondo. In altri termini il capitale è una massa (quantità) di ricchezze esistente in un dato momento del tempo; il reddito è il flusso dei servizi che l’uomo trae dal capitale durante un certo periodo di tempo. Dal capitale o fondo terra l’uomo ricava il reddito di 1.000 lire all’anno di frutti in perpetuo; dal capitale casa si ricavano 1.000 lire di reddito all’anno per 50 anni, se la vita della casa è di 50 anni; dal capitale cavallo 100 lire all’anno di redditi di cavalcature e trasporti durante 6 anni; – dal capitale vestito un servizio di abbigliamento del valore di 40 lire pel primo anno e 20 lire pel secondo anno; dal capitale pane il reddito di 10 centesimi di cibo durante un giorno. Questo reddito dicesi «realizzato» in quanto l’uomo gode i servizi che si «distaccano» dal capitale durante un certo periodo di tempo, senza preoccuparsi se alla fine del periodo il capitale abbia il medesimo valore che aveva all’origine. Gode l’uso della casa per un anno, uso che vale 1.000 lire, senza preoccuparsi che la casa abbia alla fine dell’anno lo stesso valore che al principio, anzi ben sapendo che non è così, essendosi la casa durante l’anno logorata ed essendo alla fine più vicina d’un anno alla sua distruzione (che avverrà dopo 50 anni dalla costruzione) di quanto non fosse al principio. Gode i servizi di cavalcatura e trasporto del capitale cavallo per un anno, ben sapendo che alla fine dell’anno al cavallo rimarranno non più 6 ma 5 anni di vita, e, il suo pregio sarà quindi diminuito; gode per un giorno il servizio «nutrimento» del capitale pane ben sapendo che alla fine del giorno il capitale pane più non esisterà.

 

 

Il reddito «realizzato» si contrappone al reddito «guadagnato» in quanto questo è il reddito che un capitale può dare senza alterazione nel suo valore. Il reddito guadagnato è uguale al reddito realizzato meno il deprezzamento e più l’apprezzamento od aumento di valore intervenuto nel frattempo nel capitale. Così per la casa della durata di 50 anni, è reddito realizzato il fitto netto di 1.000 lire che la casa dà ogni anno al suo proprietario; è reddito guadagnato invece il fitto netto di 1.000 meno il deprezzamento di 85 lire verificatosi nell’anno. Supponendo che la casa valesse 18.300 lire al principio dell’anno (valore attuale al 5 di una annualità di 1.000 lire nette all’anno per 50 anni futuri), se il proprietario consuma nel primo anno tutte le 1.000 lire di fitto, alla fine dell’anno si troverà ad avere un capitale del valore di sole 18.115 lire, che è il valore attuale al 5 di una annualità di 1.000 lire nette all’anno per 49 anni futuri. Se egli quindi vuole conservare intatto il suo capitale di 18.300 lire, deve prelevare dal reddito realizzato di 1.000 lire la somma di L. 85 e metterla a frutto, accrescendola, all’interesse composto del 5%, con successive quote di prelievo in ognuno degli anni futuri, in guisa che alla fine del 50mo anno, quando la casa per vetustà varrà zero, egli abbia ricostrutto il capitale originario di 18.300 lire.

 

 

Se 1.000 lire sono il reddito «realizzato», 1.000 lire meno il deprezzamento di 8, ossia 915 lire; sono il reddito «guadagnato». Ove però alla fine dell’anno si preveda che nell’anno seguente il fitto crescerà di un decimo passando a 1.100 lire, allora essendo preveduta una successione futura di 49 annualità di reddito non più di 1.000 ma di 1.100 lire, il valore attuale alla fine del primo anno diventerà di 18.215 + 1.821,50 ossia di 20.036,50 lire. Il reddito «realizzato» di questo primo anno sarà sempre di 1.000 lire (salvo a diventare di 1.100 nei successivi anni); ma il reddito «guadagnato» sarà di 1.000 reddito realizzato –85 deprezzamento intervenuto nell’anno +1.821,50 apprezzamento od aumento di valore capitale pure intervenuto nell’anno, ossia un totale di lire 2.736,50. Per chiarezza potremo chiamare le 915 lire di «frutti» netti, dedotto il deprezzamento, reddito «guadagnato in senso stretto». Questo, insieme con le 1.821,50 lire di apprezzamento, ossia L. 2.736,50 sarà il reddito «guadagnato in senso proprio» o »guadagnato» senz’altro.

 

 

Il reddito «realizzato» è un dato primo, perché non dipende da calcoli e da ipotesi di saggi d’interesse; bensì da avvenimenti quali realmente si verificano: il prezzo di mercato della messe di un campo, il fitto corrente di una casa, il prezzo d’un vestito, il prezzo di un pane, il nolo di un cavallo per un anno. Il reddito «guadagnato» è un dato derivato. Noi non lo conosciamo, se non abbiamo il dato primo del reddito «realizzato»; e se contemporaneamente non conosciamo, per deduzione da un saggio di interesse e da un periodo noto di durata, il valore del capitale originario, e se non possiamo calcolare, per via di raffronti e di calcoli, il deprezzamento o l’apprezzamento che il capitale subisce durante un certo periodo di tempo.

 

 

Le due quantità coincidono, quando il capitale ha durata perpetua, e il saggio d’interesse è supposto invariabile. Allora il campo che rende 1.000 lire, supponendo un saggio di interesse del 5%, vale in capitale 20.000 lire; 1.000 lire sono reddito «realizzato», frutti che ogni anno si distaccano dalla terra madre; e 1.000 lire sono reddito «guadagnato» perché non v’è deprezzamento da dedurre od apprezzamento da aggiungere, rimanendo sempre il valor capitale invariato in lire 20.000. Ma casi rarissimi.

 

 

Fin qui si è parlato di reddito «realizzato» e «guadagnato» rispetto alle diverse cose feconde di reddito. Ma la stessa distinzione può farsi rispetto alle persone fisiche che posseggono quelle cose. Anzi è questa la distinzione più interessante, la sola interessante per noi, essendoché le imposte sono pagate non dalle cose ma dalle persone fisiche. Almeno questa è l’ipotesi fondamentale che, senz’altro ripeterla, si assumerà in tutte le cose discorse in seguito. Reddito «realizzato» si dirà allora la massa (flusso) dei servizi della ricchezza goduti dall’uomo durante un certo periodo di tempo; in altre paro e le 1.000 o 10.000 o 20.000 lire consumate dall’individuo durante, ad es., l’anno finanziario, sia che siano uguali al reddito «realizzato» del capitale proprio dell’individuo, sia che siano minori, perché l’individuo ha creduto opportuno di risparmiare una parte dei redditi che nell’anno la sua ricchezza gli ha largito, sia che siano maggiori, perché l’individuo ha consumato, oltre ai redditi, parte altresì del capitale iniziale. Ed è corretta questa maniera di concepire il reddito «realizzato» rispetto alla persona perché la quantità risparmiata non è realizzata per la persona, la quale anzi rinuncia a trarne un godimento qualsiasi; e il capitale consumato diventa, col consumo, reddito, trasformandosi in un flusso di godimenti che l’individuo si procaccia. Reddito «guadagnato» invece per l’individuo sarà il reddito «realizzato» ossia la ricchezza consumata più l’aumento verificatosi durante il periodo considerato nel valore del patrimonio o capitale posseduto al momento iniziale (aumento che può essere risparmio nel senso comune della parola, compiuto con parte dei frutti della ricchezza ovvero aumento di valore del patrimonio) e «meno» la diminuzione di valore del patrimonio rispetto al momento iniziale (diminuzione dovuta a logorio oggettivo od a consumo fattone dal proprietario).

 

 

Tizio, a cagion d’esempio, ha all’inizio dell’anno 1912 un patrimonio del valore di L. 100.000. Questo valore è stato ottenuto, sapendo in primo luogo che Tizio ne ricava un frutto annuo netto di 6.000 lire (raccolti agrari, fitti di casa, profitti di impresa industriale), che è il reddito «realizzato» del patrimonio, in quanto è il flusso dei servizi resi dal patrimonio (capitale) durante l’anno. Però Tizio, il quale si preoccupa di conservare «intatto» il valore del patrimonio iniziale, sa che, volendo raggiungere tale intento, non può consumare tutte le 6.000 lire di frutti netti «realizzati» ma deve dedurne 1.000 lire per provvedere alle riparazioni al fabbricato logorantesi via via od a rinnovare le piantagioni o le macchine, ecc. ecc. Il reddito «guadagnato» rispetto al patrimonio sarà solo di 5.000 lire; che appunto al 5% corrispondono ad un patrimonio o capitale costante di 100.000 lire.

 

 

Avendo calcolato il reddito «realizzato» e quello «guadagnato» rispetto al patrimonio di Tizio, passiamo a calcolarlo rispetto a Tizio in persona, cosa, ripetesi, unicamente interessante per noi. Rispetto al reddito guadagnato non v’è differenza dal calcolo precedente. Tizio, volendo mantenere intatto il suo patrimonio iniziale di 100.000 lire, non può considerare come «guadagnato» nulla più delle 5.000 lire sovraddette. Invece il reddito «realizzato» per Tizio sarà la ricchezza da lui effettivamente consumata; e questa potrà essere di 3.000 lire sole ed allora si dirà che ha risparmiato la differenza fra le 5.000 lire guadagnate e le 3.000 sue, ossia 2.000 lire; onde il capitale alla fine dell’anno sarà divenuto di 100.000 + 2.000 = 102.000 lire. Ovvero egli può consumare tutte le 5.000 lire guadagnate ed il suo capitale rimarrà invariato e coincideranno i due redditi; ovvero può consumare 10.000 lire e queste che compongono il reddito «realizzato» saranno costituite da 5.000 lire di reddito guadagnato più 5.000 lire di consumo del capitale originario che si troverà perciò ridotto a 95.000 lire alla fine dell’anno. Insomma il reddito «realizzato» è un fatto: 3.000 o 5.000 o 10.000 a seconda che Tizio più o meno consuma. Il reddito «guadagnato» è un tipo; ed equivale a ciò che Tizio potrebbe consumare (5.000 lire) se volesse mantenere il suo capitale intatto a 100.000 lire. Il primo rappresenta ciò «che è», il secondo ciò che dovrebbe essere se tutti gli uomini fossero fatti in modo da volere sempre ed unicamente conservare i patrimoni iniziali. Se noi indichiamo con Rr il reddito «realizzato», con Rg il reddito «guadagnato», con Cc.i. il «consumo del capitale esistente all’inizio del periodo», diremo che il reddito realizzato differisce dal guadagnato per ciò che:

 

 

L. 3.000 Rr + 2.000 risparmio = L. 5.000 Rg

 

L. 5.000 Rr + 2.000 risparmio = L. 5.000 Rg

 

L. 10.000 Rr – 5.000 risparmio Cc.i = L. 5.000 Rg

 

 

Il reddito guadagnato è sempre uguale al reddito realizzato più il risparmio e meno il consumo del capitale originario.

 

 

L’esempio addotto potrebbe essere complicato, supponendo che siano diverse le fonti di reddito per Tizio; ma sarebbe complicazione puramente aritmetica, che non porta alcuna difficoltà; ovvero supponendo che il patrimonio di Tizio subisca un aumento di valore durante il 1912 (per semplicità ed evitare calcoli di interessi supporremo che ciò accada al 31 dicembre 1912), perché si prevede che durante il 1913 ed anni seguenti il reddito «realizzato» del patrimonio salirà da 6.000 a 7.000 lire ed il «guadagnato», ossia ciò che risulta deducendo la quota di logorio di 1.000 lire necessaria a mantenere intatto il valore iniziale al principio d’ogni anno, da 5.000 a 6.000 lire. È evidente che in siffatta ipotesi il valore del patrimonio da 100.000 (capitale corrispondente ad un reddito perpetuo di 5.000 lire annue) sale a 120.000 lire (capitale corrispondente ad un reddito perpetuo di 6.000 lire annue). Tizio «durante» il 1912 ha dal patrimonio un «realizzo» sempre di 6.000 lire, che sono i frutti effettivamente distaccatisi dal fondo; ma ha un «guadagno» di 5.000 lire che sono il reddito guadagnato in senso stretto come sopra, più le 20.000 di aumento del valor capitale del patrimonio. Infatti, se egli volesse soltanto conservare intatto il valore iniziale del patrimonio, – ipotesi fondamentale per il calcolo del reddito guadagnato – egli potrebbe consumare le 5.000 lire di reddito guadagnato in senso stretto ed ancora le 20.000 lire di aumento di valore; ed avrebbe sempre alla fine dell’anno un patrimonio di 100.000 lire come aveva in sul principio.[1] Onde il reddito «guadagnato» riferito al patrimonio di Tizio, è uguale al reddito «realizzato» di 6.000 lire, meno il logorio fisico di 1.000 lire, più l’aumento di valore intervenuto nel frattempo, di 20.000; in tutto 25.000 lire.

 

 

Passando a considerare i due concetti rispetto alla persona di Tizio, troviamo che il reddito «guadagnato» è ancora di 25.000 lire, come s’è calcolato sopra. Se infatti Tizio vuole conservare il suo patrimonio intatto in 100.000 lire, né crescendolo né diminuendolo, egli potrà consumare appunto 25.000 lire. Il reddito «realizzato» risulta di nuovo dal fatto puro e semplice della quantità di ricchezza da lui consumata, 3.000 o 5.000 o 25.000 o 30.000 lire. Non importa affatto che egli consumi meno o più del reddito guadagnato in senso stretto o in senso proprio, o conservi appena il capitale originario o persino lo diminuisca. Il reddito realizzato è dato dal fatto dei suoi consumi e – indicando, oltrechè con le notazioni già dette sovra i concetti espressi, con Ic.i. l’«incremento di valore del capitale esistente all’inizio del periodo» – differisce dal reddito guadagnato per ciò che:

 

 

a)     L. 3.000 Rr + 2.000 risparmio + 20.000 Ic.i = 25.000 Rg

 

b)    L. 5.000 Rr + 2.000 risparmio + 20.000 Ic.i = 25.000 Rg

 

c)     L. 15.000 Rr + 2.000 risparmio + 20.000 Ic.i = 25.000 Rg

 

d)    L. 30.000 Rr + 2.000 risparmio + 20.000 Ic.i = 25.000 Rg

 

 

Nel caso (a) Tizio non solo ha cresciuto nell’anno il valore del suo patrimonio delle 20.000 lire di aumento verificatosi, per così dire, spontaneamente nel valore stesso, ma di altre 2.000 lire risparmiate; nel caso (b) s’è contentato di veder crescere il suo patrimonio per l’incremento di valore; nel caso (c) non ha fatto risparmii ed oltre ai frutti ha consumato l’aumento di valore, rimanendo alla fine dell’anno col solo capitale originario di 100.000 lire; nel caso (d) finalmente ha consumato i frutti, l’aumento di valore e parte del capitale iniziale medesimo, rimanendo con un capitale terminale di sole 95.000 lire.

 

 

Altre complicazioni ancora potrebbero immaginarsi; ma il fin qui detto può reputarsi bastevole a dare un’idea chiara dei due concetti di reddito realizzato e di reddito guadagnato e delle principali differenze che fra essi intercedono. Il reddito «guadagnato» potrebbe anche essere detto reddito «secondo la definizione corrente», perché legislatori, studiosi e magistrati tendono a definire il reddito «imponibile» nella maniera che sopra s’è indicato per il reddito «guadagnato». Dopochè, insieme ai frutti (reddito «guadagnato» del patrimonio oggettivamente calcolato od in genere delle singole fonti di reddito) i legislatori ed i magistrati vennero colpendo d’imposta le eredità, le vincite al giuoco, gli incrementi di valore delle aree fabbricabili, i prezzi di avviamento delle aziende commerciali ed industriali, i sovraprezzi delle azioni di nuova emissione, si può affermare che reddito imponibile secondo la definizione corrente è «la massa netta di ricchezza acquistata da una persona fisica in un determinato periodo di tempo (anno finanziario) e consumabile (disponibile per consumi privati e pubblici della persona fisica) senza variare (diminuire o crescere) la massa di ricchezza posseduta all’inizio dello stesso periodo di tempo». A questo concetto del reddito «guadagnato» o «secondo la definizione corrente» si contrappone il concetto del reddito «realizzato» che è «la massa di ricchezza effettivamente consumata durante un certo periodo di tempo (anno finanziario) dalla persona fisica sia che varii in più o in meno o rimanga immutata la massa di ricchezza posseduta all’inizio dello stesso periodo di tempo». La qual’ultima specie di reddito in seguito sarà promiscuamente chiamata reddito «realizzato» o «consumato». Si preferirà dirla «reddito consumato» quando si voglia parlare del reddito della «persona fisica»; e sarà il più frequentemente; mentre la si dirà di preferenza «reddito realizzato» ogni volta che occorra riferirsi al reddito della «cosa».

 

 

 

 

II

Il postulato dell’uguaglianza ed il teorema milliano della esenzione del risparmio dall’imposta

Ora è teorema dimostrato dal Fisher, e prima di lui da altri, tra cui devesi sovratutto ricordare Giovanni Stuart Mill, che la tassazione del reddito «guadagnato» conduce ad una doppia tassazione sulla medesima quantità di ricchezza. Qui si riproduce testualmente, per non guastare una pagina bellissima, la dimostrazione che del teorema dà lo Stuart Mill (in Principles of Political Economy, V, II, 4). Notisi soltanto, a guisa di chiarimento, che lo Stuart Mill non s’impacciò di definire espressamente quel che egli intendesse per reddito (income); ma dal contesto del discorso si comprende come egli per reddito intendesse quello che sopra fu detto «guadagnato» senza tuttavia comprendervi gli incrementi dei valori capitali, dei quali poco si discorreva, quando egli scrisse. Epperciò, quando egli afferma che devesi tassare il reddito meno il risparmio, logicamente si conclude che egli volesse tassare quello che noi oggi chiamiamo reddito «realizzato» o «consumato». Il che è anzi espressamente affermato quando dice che «la maniera più corretta di ripartire l’imposta sul reddito sarebbe di tassare soltanto quella parte di reddito che è destinata alla spesa». Ecco ora senz’altro il brano classico:

 

 

«Se si potesse fare affidamento sulla coscienza dei contribuenti, o si potesse garantire, con controlli e precauzioni, a bastanza la esattezza delle loro dichiarazioni, la maniera più corretta di ripartire l’imposta sul reddito sarebbe di tassare soltanto quella parte di reddito che è destinata alla spesa, esentando la parte risparmiata. Poiché quando è risparmiata ed investita (e tutti i risparmi sono, generalmente parlando, investiti), dessa paga l’imposta sull’interesse o profitto che frutta, malgrado sia già stata tassata sul principale. A meno che, perciò, i risparmi sieno esenti dall’imposta sul reddito, i contribuenti sono tassati due volte su ciò che risparmiano e una volta sola su ciò che consumano. Il contribuente, il quale spenda tutto il suo reddito, paga il 3% d’imposta e nulla più; mentre se egli risparmii parte del suo reddito annuo e compri titoli, allora in aggiunta al 3% che egli ha pagato sul principale e che diminuisce l’interesse nella stessa ragione, egli paga il 3% annualmente sull’interesse medesimo, il che equivale ad un secondo 3% sul principale. Cosicché, mentre la spesa improduttiva paga solo il 3% i risparmi pagano il 6%; o più correttamente il 3% sul tutto ed un altro 3% sulle rimanenti 97 lire. La sperequazione, così creata a danno della previdenza e del risparmio, è non soltanto impolitica ma altresì ingiusta. Tassare la somma investita ed in seguito tassare altresì i frutti dell’investimento, vuol dire tassare due volte la medesima quota della ricchezza del contribuente. Il principale e l’interesse non possono amendue formar parte nel tempo stesso della sua ricchezza disponibile: essi sono la medesima cosa ripetutamente conteggiata; se egli ha l’interesse, ciò accade perché si astiene dall’usare il principale; se spende il principale, non riceve l’interesse. Tuttavia poiché egli può attenersi a suo piacimento all’uno od all’altro partito, egli è tassato come se potesse fare amendue le cose, come se potesse avere cioè il beneficio del risparmio e contemporaneamente il vantaggio dello spendere».

 

 

È chiaro il significato di questo teorema. Supponendo – è premessa questa essenzialissima che si può assumere come il postulato della uguaglianza – che due ricchezze uguali debbano essere tassate ugualmente, che se si tassa 1 lira con 10 centesimi, ogni altra lira, di qualunque reddito faccia parte ed a chiunque spetti, deve essere tassata del pari con 10 centesimi, si deduce che Tizio deve essere tassato ugualmente tanto sulle 5.000 lire di reddito «consumato» quanto sulle 5.000 di reddito «risparmiato», componenti, tra tutte e due insieme, il reddito «guadagnato» di 10.000 lire. È evidente che, se non si ammette il postulato ora detto, diventa lecitissimo tassare con 10 centesimi ogni lira consumata e con 10 e magari con 20 o più centesimi ogni lira risparmiata e deve ancora considerarsi lecita ogni altra regola più arbitraria. Il teorema milliano significa qualcosa solo se si ammette come repugnante una disuguale tassazione delle diverse lire di ricchezza che si vogliono tassare. Naturalmente non si può dare una dimostrazione logica di questa repugnanza; la quale si annuncia coi caratteri della evidenza, essendo quella che risponde al consiglio politico del minimo arbitrio ed alla massima: essere la legge uguale per tutti.[2] Epperciò il principio che se si tassa una data lira con dieci centesimi di imposta ogni altra lira, di qualunque reddito uguale maggiore o minore faccia parte ed a chiunque spetti, deve essere tassata con gli stessi dieci centesimi è accolto come assiomatico e chiamasi qui postulato dell’uguaglianza. Questo è il postulato il quale viene violato sé si tassano tutte le 10.000 lire. Poiché Tizio sulle 5.000 lire consumate avrà pagato, se l’aliquota imposta è del 10%, 500 lire e nulla più. Invece sulle 5.000 lire risparmiate avrà pagato 500 lire una prima volta, riducendosi così il risparmio effettivamente fatto a 4.500 lire. In seguito, quando egli avrà investito le 4.500 lire trasformandole in un reddito perpetuo, al 5% d’interesse, di 225 lire annue, egli sarà nuovamente tassato sulle 225 lire con un imposta di 22,50 all’anno. E poiché un pagamento annuo in perpetuo di lire 22,50 equivale ad un pagamento presente, fatto una volta tanto, di 450 lire, resta dimostrato che Tizio, per le 5.000 lire risparmiate paga  lire d’imposta ossia quasi il doppio delle 500 lire che unicamente paga sulle 5.000 lire consumate. Dalla quale verità si deduce quest’altra: se si vuole osservare il postulato dell’uguaglianza, bisogna esentare dall’imposta o il risparmio o degli interessi del risparmio; e poiché questa seconda alternativa, per molti motivi che qui è inutile discorrere, si deve respingere, è necessario esentare il risparmio e tassare i soli interessi del risparmio. Infatti se si tassano le 5.000 lire consumate e si esentano le 5.000 lire risparmiate, accadrà che sulle prime sono pagate 500 lire d’imposta; e così pure sugli interessi delle seconde, che saranno, al 5% di 150 lire l’anno in perpetuo, si pagheranno 15 lire d’imposta all’anno in perpetuo; e poiché un pagamento annuo perpetuo di 25 lire equivale ad un pagamento immediato di 500 lire, resta dimostrato che soltanto la esenzione del risparmio consente tassare egualmente, con 500 lire, tanto la quota consumata (reddito realizzato) quanto la quota risparmiata del reddito guadagnato.

 

 

La medesima dimostrazione vale per gli incrementi di valore capitale. Tizio durante l’anno ha 10.000 lire di reddito «guadagnato» in senso stretto, ossia frutti del patrimonio, ed in più vede aumentare il valore capitale del suo patrimonio da 200 a 210 mila lire; onde il totale suo reddito guadagnato, per le cose dette sopra, risulta di 20.000 lire. Se egli consuma tutte le 20.000 lire, l’imposta deve colpirle tutte; e nessun doppio d’imposta si sarà verificato, poiché egli pagherà 2.000 lire e in avvenire nessun altro tributo potrà di nuovo – con offesa al postulato dell’uguaglianza – gravare le stesse 20.000 o parte di esse, perché più non esisteranno, almeno rispetto alla sua persona. Se invece egli consumasse sono le 20.000 lire di frutti e risparmiasse (non consumare una ricchezza nuova equivale a risparmiare) l’incremento di valore di 10.000 lire; egli dovrà essere tassato solo sulle prime 10.000 ed esentato sulle seconde. Così operandosi, egli pagherà 1.000 lire di tributo sulle prime 10.000 lire; e pagherà 50 lire all’anno sulle 500 lire di maggior reddito annuo corrispondenti all’incremento di valore capitale di 10.000 lire (non può concepirsi, tenuto conto dell’avvertenza in nota al capo precedente, incremento di valore capitale senza incremento di reddito e viceversa), ossia poiché un pagamento di 50 lire all’anno in perpetuo equivale ad un pagamento immediato di 1.000 lire, pagherà altresì 1.000 lire sull’incremento; il che è appunto quanto vuole il postulato dell’uguaglianza. Se invece fosse stato tassato subito con 1.000 lire sui frutti consumati e con 1.000 lire sull’incremento risparmiato, il postulato dell’uguaglianza sarebbe stato violato; perché l’incremento da 10.000 si sarebbe ridotto a 9.000 lire; e i frutti perpetui di queste in 450 lire essendo tassati con 45 lire annue, Tizio avrebbe nuovamente pagato una somma equivalente ad altre 900 lire immediate; onde sui frutti consumati avrebbe pagato solo 1.000 lire d’imposta ed invece sull’incremento risparmiato  lire.

 

 

Così pure si può dimostrare che il postulato dell’uguaglianza esige la tassazione non solo della quota consumata del reddito «guadagnato»; ma puranco della quota consumata del capitale. Suppongasi Tizio privo inizialmente di qualsiasi capitale; e che nel primo anno guadagni 10.000 lire coll’esercizio della sua professione, di cui 5.000 consuma e 5.000 risparmia. Per le cose già dette, in questo primo anno, se non si vuole violare il postulato dell’uguaglianza, Tizio deve essere tassato sulle 5.000 consumate (e pagherà 500 lire); ed esentato sulle 5.000 lire risparmiate. Alla fine del secondo e del terzo anno egli ricava 250 lire di interesse dal suo risparmio (divenuto capitale) e paga 25 lire d’imposta. Se egli conservasse il suo capitale in perpetuo, pagherebbe pure l’imposta in perpetuo, il che sarebbe, come fu dimostrato, uguale al pagamento immediato (nel primo anno) di 500 lire, imposto dal postulato dell’uguaglianza. Invece egli conserva il capitale per due anni (secondo e terzo) e paga quindi di imposta due volte 25 lire. Alla fine del terzo anno egli consuma (per un motivo qualunque: giuoco, viaggio di piacere, mobilio di casa, ecc. ecc.) le 5.000 lire. Se su queste, all’atto del consumo, non fosse tassato pel pretesto che desse sono capitale, egli avrebbe pagato sulla quota risparmiata appena 50 lire (anzi meno di 50 lire, perché 25 pagate alla fine del secondo anno equivalgono, supponendo, come sempre, un saggio d’interesse del 5%, a L. 23,81 alla fine del primo anno, e 25 lire pagate alla fine del terzo anno equivalgono a L. 22,67 alla fine del primo anno, quando furono pagate le 500 lire di tributo sulla parte consumata); mentre sulla quota consumata aveva pagato fin dalla fine del primo anno 500 lire; il che viola il postulato dell’uguaglianza, essendo le due quantità uguali e per giunta identicamente consumate, sebbene in momenti diversi. Se adunque si vuole osservare il postulato fondamentale (così si può chiamare il postulato dell’uguaglianza, inteso nel senso definito più sopra) è necessario colpire con 25 lire le 250 lire di interesse guadagnate e consumate nel secondo anno, con altre 25 lire le 250 lire del terzo anno e con 500 lire le 5.000 lire di risparmio capitalizzato e poi consumato alla fine del terzo anno. Infatti queste tre quantità di 25 e 25 e 500 (non dicesi 25+25+500, perché non si possono sommare quantità di lire pagate in tempi diversi) pagate successivamente equivalgono nello stesso momento della fine del primo anno a 23,81+22,67+453,52, ossia precisamente alle 500 lire pagate alla fine del primo anno sulla quota consumata subito.

 

 

È dunque dimostrato che, se si vuole osservare il postulato dell’uguaglianza, importa tassare il solo reddito consumato, non preoccupandosi punto della sua origine, ossia non curandosi di sapere se esso derivi dal reddito guadagnato o dall’incremento di capitale o dal capitale medesimo; e bisogna invece esentare il risparmio, sia che questo consista nei frutti o nell’incremento del capitale. S’intende che deve essere esentato il capitale costituito con risparmio precedente, fino al momento in cui esso non venga consumato; ché allora dovrà essere tassato. Osservando queste regole, si osserva il postulato dell’eguaglianza. E poiché si è assunta come premessa indiscutibile questa osservanza, anche l’osservanza delle regole precedenti si impone.

 

 

La dimostrazione data qui sopra e che discende logicamente dal teorema dello Stuart Mill fu arricchita dal Fisher di molteplici sviluppi ed elegantissimi esempi, che qui è inutile ripetere. Supporrò che siano conosciuti; non essendo mio proposito di costruire una teoria economica del reddito, sibbene di studiare quale sia la teoria finanziaria della ripartizione delle imposte che si deduce dal teorema milliano, di cui la teoria fisheriana del reddito è, sotto il rispetto economico, la genialissima sistemazione.

 

 

È vero che contro il teorema di Stuart Mill – le cui applicazioni alle imposte non furono vedute se non in piccola parte; e sovratutto non fu veduta la possibilità che ne discende di una sistemazione unitaria delle imposte – furono elevate obbiezioni; ma poiché esse in parte furono già dallo Stuart Mill confutate, in parte sono di poco conto ed in parte sono evitabili mercé un’opportuna estensione del concetto di risparmio, così me ne passerò, salvo, ove occorra, a ritornarvi sopra di proposito in altra occasione. Chi creda, per qualsiasi motivo, falso il teorema di Stuart Mill ed arbitrario il postulato dell’uguaglianza, abbia provvisoriamente, fino a quando cioè in successive memorie, mie o d’altri, non siano chiarite la verità o la falsità del teorema e la necessità o arbitrarietà del postulato, la compiacenza di considerare le pagine seguenti come un tentativo di deduzione delle conseguenze logiche di alcune premesse supposte vere. È noto del resto come la bontà o l’assurdità delle conseguenze sia uno dei mezzi più efficaci per dimostrare la verità o la falsità delle premesse; sicché dal giudizio che essi faranno delle prime potranno i lettori trarre argomento per accogliere o respingere le seconde.

 

 

III

Delle difficoltà di applicazione del teorema milliano

In teoria pura, quando si ammetta che il postulato della uguaglianza richiede la tassazione del reddito «consumato» dalla persona fisica, il problema tributario sarebbe senz’altro risoluto, null’altro dovendosi accertare fuorché la quantità di ricchezza consumata dall’uomo per acquistare tutti i servizi da lui reputati utili a procacciargli godimenti, dai servizi del cibo a quelli della casa e del riscaldamento, da quelli del vestito e dell’adornamento alle cure personali, dai divertimenti all’istruzione, dai viaggi allo sfoggio di vane ricchezze. In teoria pura l’«accertamento» della quantità di ricchezza consumata dall’uomo durante un anno finanziario dovrebbe essere considerato facilissimo, trattandosi di un dato primo, come si vide sopra, che non richiede alcun calcolo complesso, alcun intervento di ipotesi contabili, come la capitalizzazione ad un dato saggio di interesse, la determinazione di quote di deperimento, di redditi normali che si possono consumare senza intaccare il capitale, ecc., ecc. Basterebbe conoscere i bilanci famigliari dei singoli uomini; e per mezzo di questi bilanci (redatti, ad esempio, sul tipo dei bilanci Le Play) constatare la spesa annua di ogni contribuente. La quale componendosi di due elementi primi: quantità fisiche di merci comperate o quantità numeriche (in unità di tempo od altra) di servizi personali e prezzo unitario di mercato, non presenta teoricamente difficoltà rilevante.

 

 

Le cose stanno purtroppo ben diversamente quando si voglia applicare la regola. Accade nella realtà che noi non conosciamo affatto quei tali bilanci famigliari. Forse ne esiste qualcuno; ma esso è libro chiuso con sette suggelli agli occhi indagatori del fisco. Quelli che sono resi pubblica ragione, sono di persone morte, ovvero di individui sconosciuti, a cui l’indagatore ha dovuto promettere il segreto; ovvero ancora sono faticosamente ricostrutti dagli studiosi su elementi strappati a gran fatica agli interessati, rielaborati in maniera approssimativa, in guisa che il bilancio non è quello di Tizio, persona fisica vivente nell’anno 1912, ma di una persona media (l’operaio medio, l’impiegato medio) e di un anno medio, non mai esistiti nella realtà. Non esistono bilanci di spese, che possano servire alla ripartizione delle imposte sul reddito: ecco il fatto certissimo, primissimo, che si impone colla forza dell’evidenza e da cui rampollano alcune verità fondamentali:

 

 

  1. di cui la prima è la seguente: che sebbene il reddito «realizzato» sia il dato primo, ed il reddito «guadagnato» sia il dato derivato; in realtà per l’uomo è assai più agevole conoscere il reddito «guadagnato» di quello «realizzato». In seconda approssimazione l’ordine delle idee è rovesciato da quello che era in prima approssimazione. Per l’agente delle imposte il dato primo è il «reddito guadagnato», ed il dato derivato è il reddito «realizzato». Noi non conosciamo la spesa in lire e centesimi degli uomini; ma possiamo conoscere approssimativamente il suo reddito «guadagnato». Per far ciò basta – dico basta sebbene si tratti di operazioni complicate e difficili e soggette ad innumeri errori – scomporre il patrimonio di Tizio nelle sue varie parti e di ciascuna di esse conoscere i frutti annui, il deperimento e l’apprezzamento. Si sa che Tizio possiede un fondo rustico che gli frutta 5.000 lire all’anno, una casa cittadina che glie ne dà altre 5.000 e le sue facoltà personali le quali, impiegate nell’esercizio professionale, gli danno 5.000 lire; in tutto 15.000 lire. Se nel calcolare i frutti netti della terra e della casa, si è già tenuto conto del deprezzamento per logorio e se in quell’anno nessun apprezzamento di valore capitale si è verificato, se Tizio non ha debiti, su cui debba pagare interessi, si sa che il reddito «guadagnato» di Tizio è di 15.000 lire l’anno. È una nozione, questa, ripetesi, difficilissima a conoscersi con precisione; poiché i catasti dei terreni sono spesso imperfetti, le revisioni del reddito dei fabbricati rade, l’evasione dei redditi professionali grandissima (parlo dell’Italia, ma sono osservazioni che valgono per molti altri paesi); tuttavia è una nozione che può ritenersi non impossibile a raggiungersi. Per giungere alla constatazione del reddito «consumato» l’agente delle imposte deve fare una operazione di più; togliere dalle 15.000 lire di «reddito guadagnato» annuo le 5.000, a cagion d’esempio, risparmiate. Enunciare la possibilità di fare questa operazione, in maniera corretta, è enunciare l’assurdo. Nello stesso modo che nessun uomo andrebbe a confessare la sua vera spesa all’agente delle imposte, quando sapesse che su quella quantità di spesa sarebbe tassato, anzi tutti confesserebbero una spesa di gran lunga minore del vero; così tutti, quando sapessero di essere esenti sul risparmio annualmente fatto, accorrerebbero a dichiarare risparmi mai più visti. Dilapidatori incorreggibili di patrimoni aviti e degli averi altrui, diventerebbero d’un subito previdentissimi risparmiatori. Le statistiche del risparmio segnalerebbero improvvisi confortanti incrementi; statisti e filantropi gioirebbero pel diffondersi delle abitudini di previdenza e pel diminuire delle spese inutili di vino, acquavite, tabacco. La virtù regnerebbe in ogni paese ed i vizi andrebbero sbanditi. Accadimenti meravigliosi anche per ciò che rimarrebbero notati solo sui registri degli agenti delle imposte. Ciò che in realtà accadrebbe sarebbe il diffondersi di un vizio già fin troppo imperversante: la frode fiscale. Il diritto alla esenzione dei risparmi sarebbe strumento efficacissimo di frode in mano ai furbi, per scaricare il peso dei tributi sulle spalle degli ingenui e degli inabili. In breve volgere di tempo, rimanendo costante il fabbisogno del fisco, e diminuendo, pel crescere apparente del risparmio, la materia imponibile, le aliquote delle imposte dovrebbero giungere ad altezze insopportabili e la ripartizione sarebbe afflitta da stridentissime iniquità.

 

  1. il risparmio (parlasi sempre, s’intende, del risparmio apparente dichiarato, non del risparmio effettivo, che solo vorrebbesi esentare) crescerebbe specialmente quando s’avesse apprensione o si fosse già verificato un aumento temporaneo di imposte, per far fronte, mettiamo, alle spese di una guerra. L’aliquota, che normalmente è del 10%, debba essere portata per tre anni al 20%. Il contribuente «onesto», che non vuole frodare il fisco se non in maniera legale, accresce, durante i tre anni, il suo risparmio di 3.000 lire all’anno; ed ottiene così l’esenzione da un’imposta che giungerebbe a 600 lire all’anno ed in tutto a 1.800 lire. Finita la guerra, l’aliquota viene ridotta al 10%; ed il contribuente consuma allora il suo risparmio temporaneo di 9.000 lire, dedicandolo a spese, come viaggi, compra di mobilio, abbellimenti alla villa, ecc., che potevano benissimo essere prorogate. Onesto come egli è, dichiara al fisco l’avvenuto consumo del risparmio, temporaneamente capitalizzato, e, secondo la regola della tassazione del reddito realizzato, paga su questa spesa l’imposta nel quarto anno. Ma, pagando quando l’aliquota è ridotta nuovamente al 10%, il tributo assolto è di 900 lire. Egli s’è sottratto alle spese della guerra, trasferendo i suoi consumi nel tempo. Non solo, ma durante quei tre anni può aver avuto occasione di comprare buoni del tesoro emessi dallo stato per procacciarsi fondi temporanei ed ha quindi, grazie alla frode fiscale, anche fatta un’ottima investita ad un interesse più elevato dell’ordinario. Se tutti agissero ugualmente, come potrebbe lo stato ottenere i fondi per la guerra? Dovrebbe aumentare l’aliquota non al 20, sibbene al 30 o 40%, provocando nuove simulazioni di risparmio.

 

  1. se l’accertamento del risparmio fatto sui redditi guadagnati dell’anno è difficile, ancor più difficile è l’accertamento della spesa fatta coi risparmi degli anni precedenti, spesa che dovrebbe essere colpita da imposta, secondo la teoria della tassazione del reddito «consumato». Supposi sopra che Tizio confessi spontaneamente nel quarto anno d’avere consumato le 9.000 lire da lui rispamiate nei tre anni precedenti. Costui ha voluto «legalmente» evadere un’imposta; ma è onestissimo, poiché v’è ogni probabilità che i suoi compagni di evasione si dimentichino di denunciare l’avvenuto consumo del risparmio precedente. Come potrebbe il fisco opporsi a simiglianti frodi? Si rizzano i capelli in testa pel terrore al solo pensiero della contabilità perfettissima che le agenzie delle imposte dovrebbero tenere per ogni contribuente dalla nascita alla morte. Ognuno dovrebbe avere una partita aperta sul gran libro dell’inventario dei guadagni, dei consumi e dei risparmi. In questa partita ogni avvenimento della sua vita dovrebbe essere registrato; da un lato tutti i flussi di ricchezza: dai guadagni professionali ai frutti patrimoniali, dalle eredità alle donazioni, dalle vincite al giuoco agli incrementi di valore delle azioni e dei beni posseduti; dall’altro tutti gli efflussi di ricchezza: dalle spese fatte coi redditi guadagnati nell’anno a quelle fatte consumando il patrimonio precedentemente accumulato od ereditato. Il saldo attivo risultante sui libri fiscali dovrebbe corrispondere con precisione al valore del patrimonio in ogni istante effettivamente posseduto dal contribuente. Ogni discrepanza metterebbe in orgasmo i contabili fiscali; così come la mancanza di un centesimo nei saldi di bilancio d’una bene organizzata casa commerciale sovreccita gli impiegati responsabili della contabilità e li costringe a febbrili, affannose ricerche per mesi e mesi per giungere alla scoperta del centesimo smarrito. Poiché se risultasse ad un dato momento che il saldo attivo di Tizio è di 100.000 lire sui libri della contabilità fiscale, mentre è notorio che Tizio, rovinato, va chiedendo l’elemosina dinnanzi alle porte delle chiese, o suona l’organetto nei crocicchi delle vie, manifesto sarebbe che Tizio avrebbe speso le 100.000 lire senza denunciare la spesa ed assolvere il dovuto tributo. Ragionevoli sono le previsioni che non poche sarebbero siffatte sorprese; a togliere le quali il fisco dovrebbe mantenere legioni di spie, specialmente nei luoghi dove si disfrena il lusso, dove il gioco e nei bagordi si perdono i patrimonii dai degeneri figli di padri parsimoniosi, per sorprendere la spesa nell’attimo fuggente in cui avviene ed asserire in quell’istante i diritti sui premi del fisco. Con scarso risultato però; e con nocumento gravissimo della dignità dello stato.

 

 

Onde è d’uopo conchiudere che ogni tentativo inteso ad accertare direttamente il reddito «consumato» ed a tassarlo secondo la sua quantità precisa e presso il contribuente di diritto è destinato a fallire. Almeno finché sulla terra non sia sorta una generazione di uomini «puri» che sappiano valutare degnamente l’importanza dei servizi pubblici e dirittamente denuncino i fatti veri. Nel qual caso ogni discorso sarebbe inutile, perché questi uomini «puri», operanti in ossequio alla teoria, farebbero volontariamente richiesta di servizi pubblici e di imposte non sarebbe d’uopo parlare, bensì soltanto di «prezzi pubblici» o «tasse».

 

 

 

 

IV

Le due approssimazioni: le imposte cosidette sui consumi e le imposte cosidette sui redditi

Da queste imperfezioni pratiche non rimane tuttavia minimamente scossa l’eccellenza del principio della tassazione del reddito «consumato»; resta dimostrata soltanto la necessità di ricorrere a spedienti di applicazione che eliminino, nella misura del possibile, i malanni derivanti dall’indole invincibilmente frodolenta dell’uomo.

 

 

Gli spedienti fin qui divisati dai legislatori, sono stati principalmente due: la tassazione dei beni materiali e dei servizi personali che l’uomo acquista col reddito che egli vuole effettivamente consumare,[3] e la esenzione di una quota presunta di risparmio nella tassazione del reddito guadagnato.

 

 

In primo luogo la tassazione dei beni consumati dall’uomo. Si vide sopra come il reddito «consumato» sia un dato primo difficilissimo, anzi impossibile a conoscersi. Ma l’uomo,che serba con così gelosa cura il segreto dei suoi bilanci famigliari, non può sottrarsi alla necessità di «spendere» quella ricchezza che vuol consumare, e che si chiama appunto reddito consumato o realizzato. Egli deve recarsi dal padron di casa e pagargli il fitto dell’appartamento da lui occupato; o, se egli stesso è proprietario di casa, può facilmente risapersi quale sia il prezzo che egli pagherebbe se fosse inquilino in casa propria. Egli deve comperare i mobili ed ogni anno pagare il premio d’assicurazione contro l’incendio dei suoi mobili, cosicché è facile conoscere quale ne sia il pregio e quale il vantaggio annuo, in lire, soldi e denari, che egli ne ricava. Egli tiene domestici, vetture, cavalli, automobili, cani, e si sa quanto spende per procacciarsene i servigi. Egli per cibarsi, vestirsi, per adornare se stesso e le donne da lui amate deve comprare beni a un prezzo di mercato. Or dunque lo stato, il quale ha abbandonato ogni speranza di accertare direttamente la quantità del reddito consumato, la accerta indirettamente, apprestandosi al varco in quei passi dove l’uomo necessariamente deve transitare per convertire la moneta il numerario indistinto, in cui si concreta la ricchezza destinata al consumo, in beni, i cui servizi egli appunto vuol consumare.

 

 

Se si potesse immaginare che lo stato conoscesse la via che deve compiere il numerario destinato al consumo per trasformarsi in servizi di beni effettivamente consumati, l’imposta ideale sarebbe raggiunta. Nessuna diversità sostanziale esisterebbe tra l’imposta pura sul reddito consumato e questa, che per brevità e per conformarci all’uso universale diremo imposta sui consumi. La differenza, secondariissima, starebbe soltanto nel momento dell’accertamento del reddito: nel primo caso volendosi accertare la quantità del numerario destinata al consumo e nel secondo caso la quantità dei servigi utili acquistata con quello numerario. Non si può disconoscere persino che la palma dell’eccellenza spetterebbe al secondo metodo; perché, se anche si riuscisse, cosa per fermo assurda, ad accertare la quantità di numerario destinata al consumo, non potrebbe evitarsi – per la impossibilità di compiere le indagini a consumi fatti, quando cioè il reddito più non esiste e quindi spesse volte difetterebbero le maniere di esigere coattivamente l’imposta, e per la necessità di fare perciò gli accertamenti prima dell’avvenuto consumo – una non infrequente discrepanza tra la quantità di numerario destinata al consumo e la quantità di numerario di fatto consumata; ben potendo darsi che nel frattempo l’uomo abbia mutato proposito e destinato al risparmio ciò che prima voleva consumare e viceversa. L’imposta sui consumi sfugge a quest’obbiezione; poiché aspetta a colpire il numerario nell’istante medesimo in che l’uomo effettivamente lo trasforma in servigi consumati di beni o di persone. Se il contribuente non paga fitto di casa neppure paga l’imposta sul valor locativo; se non tiene domestici od automobili, non viene su di essi tassato; e tarda a pagare i tributi sul caffè, lo zucchero, il vino, il pane, finché non li abbia effettivamente acquistati.

 

 

Per raggiungere la perfezione che sopra si è detto basterebbe che il fisco sapesse appostare un gabelliere al varco ogni via percorsa dal numerario per trasformarsi in consumi; e su ogni consumo prelevasse un tributo rigorosamente proporzionale. Supponendo che Tizio consumi 5.000 lire all’anno, è chiaramente uguale tassare col 10% direttamente le 5.000 lire; ovvero, pure col 10%, le 1.000 lire consumate nel fitto di casa, le 2.000 lire del cibo, le 500 dei vestiti, le 500 di servizi personali, le 1.000 lire di spese varie per istruzione (libri, tasse scolastiche, giornali), viaggi, divertimenti, ecc. In amendue i casi il fisco percepirebbe 500 lire d’imposta ed in amendue i casi sarebbe passato tutto e solo il reddito realizzato, in conformità al postulato dell’uguaglianza.

 

 

L’altra via prescelta dai legislatori per attuare il postulato dell’uguaglianza è la tassazione del reddito guadagnato, con detrazione di una quota presunta di risparmio.

 

 

Diceva già Giovanni Stuart Mill:

 

 

«Se nessun metodo può essere immaginato per esentare i risparmi effettivi, il quale sia bastevolmente immune dal pericolo di frode, è necessario, a guisa di seconda approssimazione alla giustizia, nel distribuire l’imposta, tener conto di quel che le varie categorie di contribuenti dovrebbero risparmiare».

 

 

Poiché l’accertamento diretto del reddito guadagnato è per fermo difficile, ma l’accertamento del risparmio effettivo è assurdo, il legislatore, dopo avere accertato il reddito guadagnato, ne deduce non il risparmio «effettivo» ma il risparmio «presunto». Fa cioè il legislatore l’analisi psicologica del contribuente e constata che questi, data la natura del suo reddito, la composizione della sua famiglia, l’età, le condizioni di salute, deve, per ogni 100 lire di reddito «guadagnato» ed accertato, risparmiare 20 ovvero 30 ovvero magari 50; e queste esenta da tributo, tassando solo la parte che si suppone dovere essere consumata. Nel compiere queste presunzioni di risparmio il legislatore sarà mosso da numerosi indizi, tra cui potranno noverarsi pure i risparmi effettivamente compiuti dal contribuente in modo irrevocabile, in modo tale cioè che il risparmio non possa tornare ad essere consumato frodolentemente ma solo nell’istante in che si verifica l’avvenimento (malattia, infortunio, vecchiaia, morte) per cui il risparmio fu costituito; di qui la detrazione, oltreché di quote presunte di risparmio, dei premi effettivi di assicurazione.

 

 

Le differenze che; in questo primo momento, si possono notare tra i due tipi d’imposta, il primo sui servizi consumati dall’uomo (cosidette comunemente imposte sui consumi) e il secondo sul reddito guadagnato con detrazione del risparmio presunto (cosidette imposte sui redditi), sono le seguenti:

 

 

a)    le imposte sui consumi rispondono ai fatti reali, le imposte sui redditi ai fatti immaginati dal legislatore. Le imposte sui consumi non possono non esentare il risparmio; le imposte sul reddito lo esentano solo in quanto le presunzioni del legislatore corrispondano alla realtà. E poiché il legislatore non può far presunzioni individuate per ogni contribuente, che sarebbero odiosissime e farebbero rinascere tutte le obbiezioni che già si fecero contro gli accertamenti diretti della spesa e del risparmio, se le indagini fossero compiute sul serio e sarebbero reputate partigiane, se fatte alla lesta; ma deve necessariamente contentarsi di presunzioni fatte per classi di contribuenti, distinguendo tra le classi che possono essere imprevidenti e quelle che devono essere previdentissime e le altre che possono tenere una condotta manifesta, così è manifesto che sempre le presunzioni del legislatore, corrette per l’uomo medio d’ogni classe, saranno scorrettissime per i singoli individui della classe. Laddove per una classe il legislatore avrà supposto un risparmio del 20%, vi sarà tra i componenti della classe chi nulla risparmia, e chi risparmia il 5 e il 10; mentre altri si terranno vicini alla media presunta ed altri andranno al di là, al 30, 40 e magari 50%. Onde le imposte sui redditi, per quanto si faccia, sempre riusciranno disformi dall’ideale, intendendo per «ideale» l’imposta sul reddito consumato.

 

b)    le imposte sui consumi devono dunque lottare precipuamente contro difficoltà di applicazione; metre le imposte sui redditi contro difficoltà di principio. Il legislatore può cioè immaginare una imposta sui consumi perfettissima; bastando a ciò decretare che tutti i consumi degli uomini siano percossi da un proporzionale balzello del 10% e le difficoltà sorgeranno quando i gabellieri dovranno scovrire tutti i varchi, attraverso ai quali il numerario si trasforma in consumi. Ma il legislatore, anche volendo, non può immaginare una imposta (cosidetta) sui redditi perfetta; perché gli converrebbe determinare delle presunzioni di risparmio conformi ai risparmi effettivi; il che, per le cose discorse sopra, ossia per la necessità assoluta di procedere per classi, gli è perentoriamente vietato.

 

 

Epperciò è corretto concludere questo primo raffronto, affermando che le imposte sui consumi meglio si avvicinano teoricamente all’ideale, definito come si disse, che non le imposte sul reddito guadagnato, da cui sia stato dedotto il risparmio presunto (cosidette imposte sui redditi). Vedremo, in seguito, per quali ragioni tecniche lo stato sia obbligato ad attenersi insieme alle une ed alle altre: e, non bastando amendue, a creare altri tipi ancora di balzelli, come le imposte successorie o sui trasferimenti onerosi o sul patrimonio, che sono varianti delle imposte sui redditi.

 

 

 

 

V

 

Critica delle dottrine correnti rispetto alle suddette due maniere di imposta e fecondità della dottrina qui accolta

 

Frattanto, a guisa di intermezzo, veggansi come siano fuor di luogo le lodi spropositate che si tributano alle cosidette imposte sui redditi e come siano teoricamente immeritati i vituperi onde si coprono i tributi cosidetti sui consumi. Fu sempre ritenuto, quasi per ispirazione divina, che vero oggetto dell’imposta fosse il reddito «guadagnato»; cosicché senza impacciarsi a ricercare le fondamenta di siffatta curiosa «fede», studiosi e legislatori si trovarono imbarazzatissimi di fronte al fatto imponente delle imposte sui consumi. Come spiegare la esistenza, ripugnante, se vuolsi, ma reale, delle imposte sui consumi partendo dal presupposto che l’imposta debba colpire i redditi guadagnati? Trattasi di due concetti irriducibili. Il consumo, la distruzione della ricchezza non può convertirsi nel nascimento dei frutti, nell’incremento del patrimonio, nell’aggiunta di nuove masse di ricchezza. La creazione, il guadagno di valori nuovi è precisamente l’opposto della caduta nel nulla delle cose esistenti.

 

 

Di qui svariatissime sorta di inani sforzi per spiegare l’inesplicabile. I tribuni della plebe ne trassero argomento per proclamare ancora una volta, e forse non a torto, che la scienza finanziaria non è vera scienza, ma ricettario di norme utili ai governanti ed alle classi dominanti. Le imposte sui consumi furono descritte come lo strumento di cui le classi proprietarie, capitalistiche, trovandosi al potere, si servono per opprimere i poveri, per ridurre i loro salari al minimo e per riversare sui più l’obbligo tributario, che spetterebbe ai meno. Il che evidentemente non spiega come i poveri, giunti talvolta al potere, dopo inani tentativi, abbiano dovuto ristabilire le aborrite gabelle. D’altro canto, i giuristi dell’imperatore, gli scribi prezzolati che difendono gli istituti esistenti, anche pessimi, quando piaccia al principe (sovrano assoluto o popolo) di conservarli, non tardarono a creare la teoria «speciale» atta a dare contezza della ragion d’essere delle comodissime imposte sui consumi. Si colpirebbero i consumi non in quanto tali, ma come indici del reddito del consumatore. Chi affitta una casa, chi ha cavalli, vettura, automobile, chi consuma sale, pane, carne, vino, dimostra con ciò di possedere il «reddito» necessario per fare quei consumi. Dunque la tassazione dei consumi sarebbe una maniera diversa, forse più comoda, meno sentita, più fruttuosa, di tassare i redditi. Ma la più ovvia riflessione basta a mettere in luce l’insufficienza del ripiego. I consumi non sono l’indice del reddito guadagnato, se non forse nel caso dei redditi minimi, che non lasciano alcun margine al risparmio. In questi casi l’uomo consuma solo e tutto ciò che di «guadagno» fa nell’anno, perché non ha ricchezza preesistente da intaccare, né trova credito presso gli altri uomini per consumare più del guadagno, né può consumare di meno, se non voglia morire per inanizione. Tuttalpiù i consumi potranno superare il reddito guadagnato per l’ammontare di qualche minuto latrocinio o carpita elemosina. Ma appena si supera il livello del submerged tenth, del sub proletariato, subito si manifestano profonde discrepanze tra quantità consumo e quantità reddito guadagnato. V’ha l’operaio che sul salario settimanale risparmia le quote alla società di mutuo soccorso per le malattie o alla lega di resistenza; e nemmeno per costui le due quantità coincidono. V’ha l’impiegato, il professionista che faticosamente risparmia una decima, una quinta parte del reddito; v’ha il ricco, che non può consumare i suoi proventi, per la fisica impossibilità di darvi fondo. V’ha il prodigo che consuma il reddito guadagnato ed inoltre tutto o parte del patrimonio. E v’ha chi, millantando ricchezze immaginarie, riesce, senza reddito, a vivere con splendidezza per anni ed anni. Insomma, ben difficilmente o quasi mai la quantità consumo è uguale alla quantità reddito guadagnato; onde non può il legislatore che vuole tassare i «redditi guadagnati», non può lo studioso, che assume come articolo di fede la «giustizia» della tassazione di quei redditi, affermare sul serio che egli intende raggiungere lo scopo tassando i «consumi» che ne sarebbero l’indice perspicuo ed apparente. La via, oltreché obliqua, appare viziosa e diretta ad altra meta. Perciò è accaduto che, disperati, gli studiosi «sereni», né tribuni della plebe né giuristi dell’imperatore, abbiano abbandonato alla loro sorte le imposte sui consumi; accettandole come dura necessità imposta dai voraci appetiti degli enti pubblici e dalla difficoltà tecnica di scovrire e tassare i redditi; ma condannandole come ripugnanti alle dottrine più «moderne», alle esigenze della giustizia, come fossili residui di età barbare. Perciò si esulta ogni qualvolta una imposta sui consumi viene ridotta od abolita e si afferma che la tendenza delle legislazioni «moderne» è verso la progressiva eliminazione delle imposte sui consumi. E vieppiù si irritano studiosi e riformatori quando debbono constatare che siffatta asserita tendenza è unicamente frutto della loro eccitata fantasia, che a miliardi si noverano i proventi delle imposte sui consumi negli stati moderni e che tuttodì si creano nuovi monopoli intesi a crescere, sotto menzognere sembianze, i balzelli sui consumi. Ogni trattato di scienza finanziaria, almeno ogni trattato che abbia stile di modernità, reca indelebili tracce della rabbiosa stizza degli studiosi contro l’inesplicabile «residuo» delle imposte sui consumi; sicché, posti tra la voglia di dannarle al fuoco purificatore dell’oblio e la necessità di parlarne per il loro pervicace vigoreggiare, tutti assegnano alle imposte sui consumi l’ultimo posto nella trattazione, quasiché, mettendole per ultime e maltrattandole nella fugace trattazione, se ne possa far dimenticare l’esistenza. Il quale atteggiamento non è, per fermo, conforme a serietà scientifica. Essendo compito della scienza di studiare tutti i fatti, anche quelli che hanno la virtù di irritare gli studiosi; e di collegarli possibilmente sotto un’unica legge.

 

 

Né più soddisfacente fu il contegno della dottrina rispetto alle imposte da essa predilette alle sole imposte «vere» ossia a quelle sul reddito guadagnato. Ove non si parta dalla teoria milliana della esenzione del risparmio, il reddito guadagnato diventa una massa omogenea. Non più distinzione fra parte consumata e parte risparmiata: tutto è reddito e tutto deve essere tassato. Ma i fatti ancora una volta smentiscono l’audace supposizione. Unanimi i legislatori si ostinano a frazionare il reddito in porzioni eterogenee e diversamente trattate; a trattare in un modo le lire guadagnate lavorando e in un altro modo le lire ottenute impiegando capitali; e queste diversamente da quelle vinte al giuoco od ottenute per eredità; e nelle lire ereditarie distinguendo le lire provenienti dai parenti prossimi da quelle venute dagli zii d’America. A maggior mortificazione degli adoratori del «reddito guadagnato», il legislatore sempre più bada al fine a cui servono le lire; e benignamente considera quelle destinate a garantire la persona fisica dai rischi di malattia, di infortunio, di morte prematura, più di quelle destinate a godimenti immediati. Si preoccupa anche il legislatore delle famiglie numerose e dopo avere esentato sotto Roma i patres trium liberorum e nell’antico regime i padri di dodici figli, oggi reputa che la lira di reddito dello scapolo o dei genitori senza prole sia considerata davvero eguale ad una lira; mentre riduce ad 80, 70, 60, 50 centesimi le lire dai padri di prole via via più numerosa. Naturalmente i giuristi dell’imperatore ed anche gli studiosi «sereni» e di «cuor generoso» si affrettarono ad addurre i più diversi pretesti per spiegare le singolari deviazioni dalla regola che tutto il reddito guadagnato debba essere percosso dall’imposta; e si recarono in campo i doveri sociali dello stato, l’ufficio sociale delle imposte di perequare le fortune cominciando a scemare le disuguaglianze create dalla sorte cieca delle eredità, l’opportunità di incoraggiare la previdenza e di reprimere le malsane passioni del giuoco, la giustizia di avocare allo stato gli incrementi di valore dovuti all’energia di fattori sociali; l’interesse di opporsi alla tendenza pericolosa degli uomini a diminuire il saggio di natalità. Altri più ambiziosi, tentarono teorie generali per spiegare la diversità delle aliquote d’imposta sui redditi diversi per indole o la progressività del tributo col crescere del reddito. Si disse che alcuni contribuenti avevano una capacità contributiva maggiore degli altri, ma subito si abbandonò la spiegazione, perché si vide che era puramente verbale ed equivaleva a constatare che a certe lire si fa pagare di più che ad altre lire, perché si ritiene che siano costrutte o composte in tal maniera da poter pagare di più. E volendosi determinare la ragione di questa diversa loro composizione chimico tributaria, furono esposte molteplici dottrine sul sacrificio minimo, od equi marginale, uguale o proporzionale, con un dosaggio sapientissimo della pena, del dolore che ogni uomo soffre nel separarsi dalle proprie ricchezze e anzi dalle dosi successive della ricchezza. Ma si abbandonò poi per disperata l’impresa di misurare i piaceri e i dolori dell’imposta quando si vide che, per essere corretta, questa misurazione avrebbe dovuto farsi individuo per individuo; essendo diversissima da uomo a uomo la sensibilità al dipartirsi dalla ricchezza; ed essendo ingannatrici le presunzioni medie che a tal proposito si possono istituire, di gran lunga più ingannatrici delle, pure insufficienti, presunzioni sul risparmio, le quali hanno almeno il privilegio di potersi confortare di riprove statistiche sull’ammontare dei risparmi depositati, delle investite di capitale, degli incrementi di valore e via dicendo. Cosicché ben si può dire che la dottrina corrente della tassazione del «reddito guadagnato» rassomigli al mantello pezzato della zebra e su di essa abbiano lasciato tracce le più svariate e peregrine divagazioni sociali, umanitarie, filantropiche, morali, psicologiche, fisiologiche, politiche.

 

 

Principalissima causa per cui ad uno spirito adusato alla severa disciplina logica della scienza economica o del diritto privato le trattazioni finanziarie appaiono prive di sistema, di filo conduttore, un’accozzaglia incoerente di regole di buona condotta per governanti deliberati a condursi malissimamente.

 

 

Le incongruenze, le contraddizioni, le insufficienze scompaiono invece quando si ammetta che il postulato dell’uguaglianza esige la tassazione del reddito realizzato o consumato. Od almeno tutte si riducono a difficoltà tecniche, pratiche di applicazione per le imposte sui consumi e ad inevitabile difetto di nozioni statistiche per le imposte cosidette sui redditi. Le imposte sui consumi, invece di essere relegate come un residuo inesplicabile ed irritante nel luogo dove si racconta come nelle età più civili perdurano istituti delle età barbare, o dove vergognosamente si narrano le malefatte dei governi spinti dal bisogno di accattare purchessia denari, si avanzano alla ribalta sul palcoscenico dove si recita il dramma tributario; e da imperfettissime e contennende diventano realizzazioni pratiche teoricamente perfettissime del concetto della tassazione del «vero» reddito, quello realizzato. Le imposte sul reddito guadagnato mutano indole altresì; e dalla condanna si salvano soltanto, tentando di avvicinarsi alle imposte sui consumi, mercé la detrazione delle quote di risparmio presunto. Cessa la necessità di ricorrere a considerazioni extravaganti di giustizia sociale, di sacrificio minimo o uguale o proporzionale, di incoraggiamenti alla previdenza o di pene per la stravaganza, di premi alle famiglie numerose e di multe agli scapoli ed altrettali nozioni estranee alla materia stessa tributaria. Uno è il punto di partenza per l’una e per l’altra imposta: la necessità di osservare il postulato dell’uguaglianza, non tassando due volte la medesima ricchezza. Ammesso siffatto assioma, di natura prettamente tributaria, ne discende logicamente che il risparmio deve essere esentato dall’imposta; e ne discende ancora che, dove non si vogliano o non si possano tassare soltanto i consumi e tutti i consumi (del che si vedranno sotto i motivi), e sia d’uopo discendere, nella scala della perfezione astratta, sino a tassare il reddito guadagnato, importi dedurre una quota per il risparmio. E poiché sono infinite le ragioni e le modalità del risparmiare così si spiegano ad una ad una tutte quelle detrazioni – per età, per famiglia, per malattia, per assicurazione, per redditi minimi o mediocri, per la fatica del lavoro – dal reddito imponibile che i legislatori vanno concedendo e che tutte si riconnettono, come poi si vedrà, alla necessità di provvedere a qualche maniera di risparmio capitalistico o personale. Invece di andare elemosinando dalla sociologia chiaccheroide o dal decalogo di un inverecondo politicantismo le ragioni per attenuare qua, aggravare altrove ed esentare talvolta i redditi, a seconda che piacciano o spiacciano agli uomini politici, la scienza finanziaria può tenersi stretta ai suoi postulati e tassare dovunque vi sia reddito realizzato ed esentare in ogni altro caso.

 

 

Fecondo diventa così finalmente il compito della scienza finanziaria per quanto riflette la ripartizione dei tributi. Invece di un albero sottile che si piega ad ogni soffiar di vento, invece d’un accomodevole cameralismo industriantesi a cercare le buone e generose e moderne ragioni con le quali si possa giustificare la volontà ultima del legislatore, la scienza finanziaria diventa – meglio, potrà diventare col tempo – una costruzione logica dedotta da un unico principio e svolta con dirittura sino alle sue ultime conseguenze. Oggi si condanna una novità tributaria appellandola «ingiusta», «iniqua», «antiquata», «oppressiva» e altrettali gentilezze. Perché poi ingiusta od iniqua non si sa di preciso; o si sa che così è chiamata perché spiace al buon cuore dello studioso od irrita chi la deve pagare; mentre per converso coloro che non la pagano e ne godono i frutti la proclamano giustissima e modernissima. Ove si ammetta il punto di vista della presente memoria, ogni nuova o vecchia imposta sarà detta, non più giusta od ingiusta, bensì corretta o scorretta, conforme cioè o disforme dalle regole che logicamente si deducono dal principio della tassazione del reddito realizzato. Se vi saranno legislatori i quali vorranno adottare imposte «scorrette», buon pro lor faccia. La scienza potrà trattarne nella terza o quarta approssimazione nella teoria delle illusioni tributarie o degli effetti economici delle imposte «scorrette». Le imposte hanno invero molti effetti; effetti utili, ossia tali da promuovere l’incremento della ricchezza quando le imposte sono corrette; dannosi ossia distruttori di ricchezza quando quelle sono scorrette. Essendo manifesto che un legislatore può volere questa seconda maniera di effetti e non la prima, nessuno mai potrà far esulare dalla realtà le imposte scorrette; e queste rimarranno mai sempre, alla pari delle prime, oggetto di indagine scientifica, intesa appunto a rivelarne la illogicità e il danno. L’ufficio della critica scientifica rispetto ai tributi esistenti nella realtà deve dunque essere esercitato in due modi: primamente per vedere se quel tributo risponda alle esigenze del postulato e del teorema ammessi come fondamentali; esaminando per quali aspetti si discosti dall’ideale e quali sarebbero le maniere di correggerne i vizi; e in secondo luogo per studiare quali siano gli effetti, tristi o buoni, del tributo che si allontani e di quello che si avvicini all’ideale.

 

 

Una osservazione ancora sia consentita: quando sopra si è parlato di concetto «vero» del reddito, di postulato dell’uguaglianza, di teorema della esenzione del risparmio per evitare la doppia tassazione, non si è affatto preteso che quei concetti siano i soli realmente applicabili, che il legislatore non possa, volendo, tassare una volta una parte del reddito e due o tre volte un’altra parte. Se questo immaginassimo, saremmo imitatori di quelli che bruciano incensi dinanzi all’altare del reddito «guadagnato» perché così fu a loro ordinato dalla rivelazione divina o dalla volontà del legislatore. Le definizioni e i concetti sono etichette che noi appiccichiamo ai fatti, per chiarirli, collegarli insieme logicamente e dedurne leggi, che valgano a spiegarceli. Il legislatore può, volendo, tassare replicate volte il medesimo reddito; e ben è noto come le molteplici tassazioni tuttodì accadano. Qui si è voluto affermare soltanto che se non si vuole tassare due volte la medesima ricchezza e se non si vogliono gli effetti dannosi della duplice o molteplice, tassazione, è duopo tassare il reddito consumato e non il reddito guadagnato; e, per chiarezza, si è definito il significato di queste due parole od etichette diverse; e, per brevità, si è detto «vero» il concetto del reddito consumato, perché consente di attuare la premessa, e «falso» il concetto del reddito guadagnato, perché non l’attua. Poiché il cammino universalmente percorso dalla scienza fu di partire da alcune premesse, supposte vere, sembra lecito costruire un sistema d’imposte partendo dalla premessa del postulato dell’uguaglianza. Coloro a cui la premessa non piaccia ne pongano un’altra e su quella procedano. Ma non si illudano di edificare la casa scordandosi delle fondamenta.

 

 

 

 

VI

 

Esame critico delle imposte sul reddito consumato e loro eccellenza in confronto alle imposte sul reddito guadagnato

 

Intanto si veggano le particolarità dell’edificio iniziato partendo dalle nostre premesse. E, dovendosi dire prima delle imposte sui consumi le quali teoricamente più si avvicinano alla perfezione, si aggiunga che questa perfezione teorica incontra difficoltà gravissime quando voglia essere concretata.

 

 

  1. Sarebbe infatti mestieri potere aspettare al varco ogni unità di numerario quando voglia convertirsi in godimenti per l’individuo. Tassando col 10% d’imposta tutte le merci e tutti i servigi acquistati dall’uomo, senz’altro sarebbe tassato l’intiero suo reddito consumato. Ma questa è una condizione che non può in alcun modo essere soddisfatta. Come è scarsa la sapienza del fisco nello scovrire direttamente la quantità del reddito realizzato o guadagnato, altrettanto è manchevole la sua abilità a tendere gli opportuni lacci per cogliere al varco il numerario del contribuente, quando si trasforma in servigi di merci o di persone. Occorrerebbero falangi innumere di gabellieri per giungere a tanto e quando anche vi si giungesse, il costo dell’impresa sarebbe elevatissimo. Le imposte, è inutile ricordarlo, non si esigono per amore dell’arte, sibbene per soddisfare alle esigenze dei servigi pubblici; ed a queste esigenze non si soddisfa quando occorra spendere una troppo rilevante proporzione dell’esatto per sopperire alle spese di esazione (quarto canone di Adamo Smith). A voler attuare la condizione di tassare tutti i servizi occorrerebbe appostare sorveglianti in ogni casa, in ogni bottega, in ogni luogo di ritrovo, per i crocicchi delle vie, sulle fiere, sui mercati, ecc. Siffatta maniera di vessazione rivolterebbe i popoli, che non amano essere angariati. Perciò la tassazione dei consumi deve limitarsi a quelli che tecnicamente possono essere accertati con moderata spesa di riscossione. Pochi sono i consumi che soddisfano a questa condizione; ossiano quelli che sono compiuti in modo universale, costante, visibile agli occhi di tutti (spesa dell’alloggio o dei domestici); e quelli altri che consistono nell’acquisto di beni che devono necessariamente passare attraverso a taluni pochi punti, ai quali stanno appostati i gabellieri (dogane, dazi di consumo), o che devono essere fabbricati in grandi stabilimenti facili a sorvegliarsi (imposte di fabbricazione) o la cui fabbricazione può essere vietata ai privati per assegnarla allo stato tassatore (monopoli o privative). Moltissimi sono i consumi, che parrebbero atti a tassazione e che tuttavia non possono essere tassati perché non soddisfano all’una od all’altra delle predette condizioni. A cagion di esempio, il vino, materia intrinsicamente attissima a tassazione, può essere tassato quando proviene dall’estero (dogane sui vini di lusso) o quando entra nelle città murate (dazio consumo); ma per tutta la restante quantità consumata sfugge all’imposta. Esistettero invero in passato imposte sulla fabbricazione e circolazione del vino (imbottato); e furono di recente nuovamente proposte in Italia. Ma basti pensare alla moltitudine dei piccoli produttori di vino in Italia, all’indole sparsa delle cantine rustiche, alla diffidenza all’abilità dei contadini nel dissimulare, per rimanere persuasi che un imbottato incorrerebbe fra noi nelle più gravi difficoltà di esazione, ben maggiori di quante non esistano per la tassazione dell’acquavite fabbricata dagli agricoltori, per cui per tanti anni in Francia e in Germania si dovette concedere il cosidetto privilegio dei proprietari distillatori. E come del vino, così si dica di quasi tutti gli altri prodotti agricoli, dal frumento agli ortaggi, dalle frutta agli agrumi, dalle ova ai fiori. Eppure tutti bisognerebbe tassare, se si volessero sul serio colpire tutti i consumi. Impresa assurda, che avrebbe per effetto immediato di cogliere alle statistiche agricole quel valore che con grandi sforzi vengono oggi riconquistando. Si pensi inoltre alle difficoltà di tassare gli oggetti prodotti dalla piccola industria, o dall’industria casalinga dell’abbigliamento o dell’ornamento; di accertare i servizi personali resi occasionalmente da un’infinita serie di persone che non stanno ai servizi permanenti di altre e non possono essere raggiunte coi balzelli sul servidorame; e si rimarrà persuasi che una imposta su tutti i consumi non è possibile.

 

 

  1. Il difetto ora enunciato che si può chiamare della parzialità sarebbe tuttavia lievissimo, anzi irrilevante se non andasse consuetamente congiunto ad un altro; la disuguaglianza invero se anche si potesse tassare soltanto una decima parte dei consumi fatti dagli uomini, nessuna offesa ne deriverebbe al postulato dell’uguaglianza, se quella decima parte fosse ugualmente tassata presso tutti gli uomini. È manifestamente indifferente tassare coll’1% tutta Ia ricchezza consumata, ovvero col 10% la decima parte della ricchezza consumata. Con l’uno e con l’altro metodo i contribuenti pagano e lo stato incassa la medesima somma. Onde è dimostrato che la mancanza di generalità per sé medesima non ha alcuna importanza.

 

 

La acquista quando si metta in correlazione col difetto di uguaglianza. Non tutti i consumi, che la tecnica fiscale consente di tassare, entrano medesimamente nei bilanci della spesa degli uomini. Per gli uni essi entreranno a comporre il 50% della sua spesa, per altri il 30%, e per altri ancora il 20%. Non tutti consumano nelle medesime proporzioni servizi di abitazione, di domestici, di vetture, di pane, di alcool, di sale, di tabacco. Le proporzioni dei consumi nei bilanci famigliari variano all’infinito, onde una imposta del 10% sui consumi tassati equivarrà ad un tributo del 5% sulla spesa totale nei casi in cui i consumi tassati siano il 50% dei consumi totali, o del 3%, se la proporzione dei consumi tassati ai consumi totali sia del 30%, o ancora del 2% se quella proporzione diminuisca al 20%. Bisognerebbe fare una indagine statistica assai minuziosa per vedere in che misura i singoli consumi entrano nei bilanci della spesa e dedurne le regole con cui l’offesa alla uguaglianza possa essere ridotta al minimo ed insieme calcolare l’estensione della offesa nei sistemi tributari vigenti.

 

 

Mentre si attende questa indagine statistica, la quale sarà feconda di applicazioni fiscali interessantissime, si noti come la mancanza di proporzionalità appaia di gran lunga meno grave quando si parta dal concetto del reddito consumato che non quando si assuma a criterio di giudizio il concetto del reddito guadagnato e come sia grandemente esagerato il baccano pseudo scientifico istituito nei tempi moderni contro le imposte sui consumi.

 

 

Infatti è chiaro che se si assume una proporzione variabile tra l’intiero reddito consumato e i consumi tassati, per esempio del 50, del 30 e del 20%, e se si colpiscono col 10 i consumi tassati, l’imposta starà all’intiero reddito consumato di 100 lire nelle proporzioni del 5, 3 e 2%, come sopra fu esposto; proporzioni tra di loro per fermo discordanti ed offensive del principio dell’uguaglianza. Ma l’offesa è vieppiù grave; se si bada al reddito guadagnato, che per Caio sarà precisamente di 100, essendo per lui fastidioso così il risparmiare come lo scemare il patrimonio posseduto per Tizio sarà di 80, essendochè egli consuma anno per anno un po’ per volta il patrimonio e per Sempronio sarà di 150, amando egli crescere gli averi suoi risparmiando od astenendosi dal consumarne l’incremento di valore. Si suppose come è verosimile, che Tizio, distruttore di ricchezze, abbia la proporzione più elevata, del 50%, di consumi tassati in rapporto ai consumi totali; essendo egli viziosissimo e propenso perciò a comprare di quei beni che lo stato più volentieri tassa o dovrebbe tassare, come l’alcool, il vino, le speranze di vincita al giuoco, il servidorame, i cavalli, ecc. ecc. Caio, conservatore, farà un consumo medio di quelle merci che sono percosse da imposta; e Sempronio, accumulatore, se ne asterrà deliberatamente, ripugnando a pagare i prezzi cresciuti per virtù dei balzelli. E l’imposta si comporterà così come si vede dal quadro seguente:

 

 

Tizio

Caio

Sempronio

Reddito realizzato o consumato……

100

100

100

Risparmio od aumento………………

50

Consumo del patrimonio iniziale……

20

Reddito guadagnato…………………

80

100

150

Consumi tassati ……………………..

50

30

20

Imposta 10% sui consumi…………..

5

3

2

Proporzione dell’imposta al reddito consumato……………………………

5%

3%

2%

Proporzione dell’imposta al reddito guadagnato ………………………….

6,25%

3%

1,33%

 
 

 

 

Il quadro in breve cerchia spiega la varietà dei giudizi che si danno intorno alle imposte sui consumi a seconda che si parte dal concetto del reddito consumato o del reddito guadagnato. Chi per fede innata crede nel dogma della tassazione del reddito guadagnato dovrà giudicarle assai più severamente di chi ritenga dimostrata dal teorema milliano la necessità di tassare soltanto il reddito consumato. Imperocché, per questi le sperequazioni od offese al postulato dell’uguaglianza, stanno come 2 a 5; e non dipendono, se non in quella parte che poi si dirà, dalla volontà dell’uomo, sibbene in gran parte dalla possibilità oggettiva tecnica di scegliere ad oggetto di tassazione precisamente quei servigi, che, nel loro complesso, compongano una proporzione approssimativamente uguale del reddito consumato dei contribuenti. Problema difficile, ma non del tutto insolubile, almeno con quella larga approssimazione che nelle cose umane in genere e tributarie in ispecie si impone. Non è assurdo sperare di riuscire a tassare consumi che stiano, in proporzione al reddito consumato, nel rappotto del 50, 45 e 40% invece che del 50, 30 e 20%, come sopra fu supposto; ed allora lo scarto nella tassazione si ridurrebbe da 5 a 4 e sarebbe comportabilissimo e rimediabile con avvedimenti già noti. Invece chi crede alla tassazione del reddito guadagnato, ha fondata ragione di mostrarsi ben altrimenti inorridito dinnanzi ai tributi sui consumi; perché la proporzione di essi al reddito guadagnato varia non solo in funzione dell’abilità dello stato ad aspettare al varco i consumi, ma ancora in funzione della fantasia umana la quale fa essere gli uni conservatori dei patrimoni, gli altri dilapidatori e gli ultimi accumulatori. Soltanto a Caio, ossia all’uomo neutro, consumatore di ciò che possiede e contento di spendere tutto il guadagnato è indifferente essere tassato nell’una o nell’altra maniera; mentre Tizio, dilapidatore, vede la proporzione dell’imposta essere maggiore sul guadagnato che sul consumato, perché le 5 lire d’imposta si ragguagliano nel primo caso ad 80 lire di reddito e nel secondo caso a 100; onde egli preferirebbe essere tassato sulle 80, perché fermo restando il fabbisogno dello stato in 5+3+2 ossia 10, egli spererebbe di contribuire non in ragione dei 5/10, ma solo degli 8/33. Dal canto suo Sempronio, accumulatore, gioisce per la tassazione sul consumato; perché in tal modo paga solo 2 lire, ossia 2/10  del fabbisogno totale dello stato; mentre se fosse tassato in proporzione del reddito guadagnato egli dovrebbe pagare i 15/33 del fabbisogno medesimo. Dal che si vede come il sistema della tassazione del reddito consumato porta a sgravare i risparmiatori e ad aggravare i distruttori di ricchezza, lasciando indifferenti gli uomini medi, a Dio spiacenti ed ai nimici sui. Ma ciò irrita grandemente gli uomini di grande fede, i quali considerano come un postulato di giustizia la tassazione sul guadagnato; e subito esclamano che le imposte sui consumi sono inique, tassando Tizio col 6,25%, Caio col 3% e Sempronio coll’1,33%; ed additano il povero bisognoso (è noto che gli uomini della tribù dei Tizii sono sempre, agli occhi di taluni, poveri bisognosi), il quale tanto più è tassato quanto più la sventura lo costringe a dar fondo al suo patrimonio; mentre i Sempronii, avari, grandemente arricchiscono e in premio della loro progressiva accumulazione ottengono il guiderdone di imposte decrescenti. Onde basta essere avaro per pagare poche o punte imposte; mentre la generosità e l’altruismo sono puniti con balzelli opprimenti. Così discorrono gli uomini del reddito guadagnato; e non s’accorgono che le loro querimonie discendono dalla superstizione in che sono incappati di volere ad ogni costo considerare il reddito guadagnato come l’«unico» e «vero» reddito. Ed essendo cotesto reddito caratterizzato dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci, dal riprodursi cioè, per illusione ottica, del medesimo oggetto ripetute volte sotto variate spoglie, qual meraviglia che essi inferociscano nel vedere immuni da imposta le ombre ripetute dell’unico oggetto tassabile?

 

 

La maggior sperequazione od «iniquità» delle imposte sui consumi in confronto al reddito guadagnato, più che non al consumato, ancor meglio si vede quando si faccia astrazione dalle sperequazioni che sappiamo esistere anche in rapporto a quest’ultimo concetto. Supponiamo cioè che il legislatore sia riuscito a scovrire un gruppo di consumi tassabili che costituiscano una proporzione costante del totale reddito consumato. L’imposta diventa «equa» rispetto al reddito consumato; ma è ancora «iniqua» rispetto ai reddito guadagnato. Come si vede dal seguente specchietto:

 

 

Tizio

Caio

Sempronio

Reddito realizzato o consumato……

100

100

100

Risparmio od aumento di patrimonio…………………………….

50

Consumo di patrimonio ……………….

20

Reddito guadagnato…………………

80

100

150

Consumi tassati ……………………..

33

33

33

Imposta 10% sui consumi…………..

3.33

3.33

3.33

Proporzione dell’imposta al reddito consumato……………………………

3.33%

3.33%

3.33%

Proporzione dell’imposta al reddito guadagnato ………………………….

4,16%

3.33%

2,22%

 

 

 

 

L’imposta sul guadagnato è maggiore dell’equo su Tizio, perché tassa altresì le 20 lire che i «credenti» considerano capitale intangibile e minore dell’equo su Sempronio: perché esenta le 50 lire che si reputano reddito benché siano risparmiate. Lasciamo i credenti stridere a loro posta per la fede conculcata, non essendovi rimedio alcuno contro le superstizioni; e limitiamoci a constatare come per noi, che credenti non siamo nel dogma del reddito guadagnato, le «iniquità» delle imposte sui consumi appaiono meno gravi che ad essi ed inoltre esclusivamente dipendenti da difficoltà tecniche, non impossibili a superarsi.

 

 

  1. A consolare alquanto i «credenti» vogliamo qui di seguito addurre quello che è davvero il difetto più grave delle imposte sui consumi, sebbene da loro non visto ed anzi neppure reputato un difetto: vuolsi accennare alla possibilità di tassare col loro strumento una parte del risparmio, che per distinguerlo dal risparmio ordinario capitalistico, chiamiamo «risparmio personale». È certissima cosa che le imposte sui consumi esentano tutto il risparmio che ha forma di depositi bancari, di investimenti fondiari, edilizi, mobiliari ed anche i semplici tesoreggiamenti; perché tutto il numerario disponibile che non è destinato a compra di servizi utili è senz’altro, per definizione, esente da un’imposta la quale può soltanto colpire la ricchezza quando sia spesa nell’acquisto di servizi consumabili. Questo è il risparmio «capitalistico» ed è l’unico che di solito sia preso in considerazione quando si parla di risparmio. Accanto a questa maniera di risparmio esiste e cresce d’importanza una seconda maniera: il risparmio personale, che consiste nello spendere che faccia l’uomo parte del suo numerario disponibile nel perfezionamento, fisico e intellettuale, di se stesso e dalle persone da lui dipendenti, sovratutto i figli. La linea di distinzione fra ciò che è spesa e ciò che è risparmio personale non è facile ad essere tracciata e meriterebbe uno studio apposito. Pare che il criterio fondamentale per distinguere sia quello stesso che serve a distinguere in genere la spesa dal risparmio: se cioè la spesa sia tale da esaurire per il contribuente il suo effetto in uno spazio breve di tempo che nelle faccende tributarie è giuocoforza assumere sia l’anno finanziario, ovvero estenda la sua efficacia ad un periodo di tempo più lungo. Così se uno viaggia o va ai bagni o ai monti per semplice diletto o per rinfrancare la salute scossa, quella è spesa e non risparmio. Egli aveva risparmiato prima quando mise da parte il numerario occorrente a quella spesa; e doveva essere teoricamente esentato in un precedente anno finanziario, salvo a pagare oggi. Che se invece l’uomo viaggia per procurarsi cognizioni, apprendere le modalità di arti o industrie famose in contrade straniere allora la spesa per ciò sostenuta deve essere reputata un investimento di capitali, un risparmio, che, esente oggi da tributo, dovrà assolverlo quando darà frutti di maggior rendimento professionale o industriale e questi saranno consumati per procacciare all’uomo godimenti immediati.

 

 

Il risparmio personale è di due maniere: egoistico e di specie. Il primo è fatto per migliorare se stesso e rendersi atto a lucrare maggiormente nella vita futura. Ha per caratteristica di essere in generale poco rilevante, perché l’uomo, durante la sua vita produttiva, che va dai 15-25 ai 55-65 anni circa, vive consuetamente sul fondo di vitalità e di cognizioni acquistato nella prima parte della vita; e cerca soltanto di conservarlo e qua e là migliorarlo. Il risparmio personale egoistico si esaurisce colla fine della vita produttiva; poiché quando l’uomo ha finito di guadagnare, ai 55-65 anni, egli può vivere unicamente sul fondo trasmessogli dalle età precedenti, e salvo eccezioni rarissime, non lo può più crescere. Anzi, non potendo più lavorare, per il venir meno delle forze, egli deve vivere sui frutti del risparmio capitalistico proprio, compiuto nelle età precedenti, che è il solo che possa essere apparecchiato a pro della vecchiaia.

 

 

Più importante assai è il risparmio personale di specie. Per esso l’uomo rinuncia a godere la ricchezza presente e la trasforma in spese di allevamento, di istruzione ed educazione dei figli, delle generazioni nuove. Per questo risparmio si può ripetere lo stesso ragionamento che si fece per il risparmio capitalistico. Tizio, padre di tre figli, sul suo reddito guadagnato di 10.000, consacra 5.000 lire alle spese correnti sue e della moglie, e dei vecchi genitori, se ancora vivono; e queste sono reddito consumato per godimenti presenti; economizza 2.500 lire, che versa su un libretto di risparmio al 5% e investe 2.500 lire nell’allevare, istruire ed educare i suoi figli. Se tutte le 10.000 lire fossero tassate (tassazione del reddito guadagnato), evidente sarebbe la doppia tassazione per ambe le maniere di risparmio, capitalistico e personale. Le 5.000 lire consumate per godimenti presenti del contribuente pagherebbero infatti 500 lire d’imposta attuale e nulla più; mentre le 2.500 lire di risparmio capitalistico pagherebbero subito 250 lire e poi ancora 11,25 all’anno sull’annualità perpetua di reddito di lire 112,50 fruttate dalle 2.250 risparmiate dopo il prelievo dell’imposta, ossia altre 225 lire di imposta calcolata al suo valore attuale. Lo stesso accadrebbe per le 2.500 lire di risparmio personale di specie; perché, oltre le 250 lire di tributo da lui pagato subito, i figli suoi, quando saranno giunti all’età di 15/25 anni e lucreranno un maggior salario annuo, che non lucrerebbero se il genitore li avesse lasciati premorire, o non se ne fosse curato, lasciandoli diventare vagabondi o mendichi o criminali o semplicemente li avesse fatti crescere capaci a lavori ordinari, su quel maggior salario pagheranno imposta. E poiché quel sovrappiù di salario in confronto ai salari dell’operaio comune può essere economicamente considerato come la restituzione ed insieme il frutto di tutte le somme investite dalla generazione passata e che non sarebbero state investite se non si fosse preveduto che avrebbero recato frutto, così è manifesto che, se prima si tassa la somma investita e poi quella, maggiore, restituita, vi è doppia tassazione. Si rifletta ora quanto sia grande l’importanza di educare ed istruire le nuove generazioni per accrescere la ricchezza ed il benessere del paese; e come non a torto a molti pensatori paiano ugualmente fruttiferi gli investimenti fatti nel crescere l’abilità tecnica, la sapienza teorica, l’attitudine artistica del popolo in confronto a quelli che consistono nel bonificar terre o comprare o costruire macchine nuove. Si pensi come, se da sole le qualità personali a nulla varrebbero senza l’ausilio del capitale, i risparmi capitalistici sarebbero del pari inutili ed infruttiferi se non vi fossero gli uomini atti a trarne partito, impiantando nuove imprese o perfezionando quelle esistenti od inventando nuove maniere di soddisfare ai bisogni umani; e si rimarrà persuasi della opportunità del rivolgimento operatosi nell’ultimo mezzo secolo, per cui le scuole, prima neglette, stanno o dovrebbero stare al sommo dei pensieri d’ogni statista; e si rimarrà convinti della importanza straordinaria del risparmio personale «di specie».

 

 

Nessun tributo può essere considerato corretto, in rapporto alle premesse poste in principio, se non esenta, insieme al risparmio capitalistico, altresì il risparmio personale, ed è chiaro perciò come sotto questo rispetto le imposte sui consumi siano scorrette; poiché esse tassando oggettivamente la spesa per alloggio, per servitori, per servizi personali, per cibi, per vestiti, colpiscono ugualmente sia la quota destinata a gratificazione personale presente del contribuente sia la quota destinata ad incremento della capacità produttiva futura sua o dei suoi figli. Sennonché il difetto, il quale dovrebbe servire a far dichiarare scorrette pure le imposte sul reddito guadagnato, le quali in più hanno il vizio loro, proprio della tassazione del risparmio capitalistico, sembra assai più agevolmente evitabile, almeno in parte, nelle imposte sul reddito consumato che in quelle sul reddito guadagnato. Infatti, mentre bisognerà per queste assumere delle presunzioni di risparmio personale per classi, più o meno lontane della verità, è possibile regolare le imposte sui consumi in modo che alle presunzioni per classi si aggiungano immunità particolari delle spese destinate all’istruzione ed educazione dei figli ed al miglioramento proprio. A ciò giovano massimamente i due vizi – che perciò diventano qui due qualità – della parzialità e della non proporzionalità delle imposte sui consumi. Basta non tassare i servizi dell’istruzione e dell’educazione, ossia non mettere alcuna imposta sulla spesa fatta per comprar libri, per seguire corsi scolastici elementari, medi, o superiori, classici o tecnici o commerciali;[4] e disporre i tributi sui consumi in maniera da scegliere preferibilmente come oggetto di tassazione quei servizi che non conferiscono al miglioramento della capacità produttiva dell’individuo od all’elevazione della specie. Per una fortunata coincidenza, i consumi che meglio si prestano tecnicamente ad essere tassati non cadono quasi mai nel novero dei consumi «educativi»; basti accennare ai fondamentali piedestalli dell’edificio gabellario d’ogni paese: bevande alcooliche, tabacco, caffè, tè, giuochi. Qualcuno di questi consumi sollecita transitoriamente le attitudini nervose dell’uomo, nessuno ne accresce in modo definitivo vigoria fisica o la potenza intellettuale; anzi tutti la diminuiscono per verdetto quasi concorde degli studiosi. Nessuno di quei consumi può essere considerato come un investimento di risparmio a pro delle nuove generazioni. Che se dalle imposte sui consumi propriamente dette passiamo alle imposte suntuarie, che appartengono alla stessa categoria delle imposte sulla spesa, non si potrà certo affermare che con esse, ossia tassando la spesa per il servidorame, per i cani, cavalli, automobili, mobilio, casa, si colpisca qualche porzione di risparmio personale. Ché anzi, ove non esistano imposte sui servizi dei precettori e degli insegnanti privati, quasi tutte quelle imposte colpiscono consumi volti non ad educare i giovani, sibbene a renderli incapaci al lavoro, rendendoli dipendenti da altri nelle faccende ordinarie della vita. Unica eccezione: l’imposta sul valor locativo della casa abitata, che vorrebbesi da tutti ampia, bella, soleggiata ad incremento della salute fisica e dello sviluppo intellettuale dei bambini e dei giovani. Ma nulla di così agevole come tener conto di questa esigenza: bastando esentare dalla tassazione una quota della spesa per la casa per ognuno dei membri della famiglia, una quota che sia più elevata per i ragazzi e i giovani che per gli uomini adulti, in guisa da distinguere quella che sia spesa per godimento presente dalla spesa fatta a preparare godimenti in un tempo futuro. Come più empiriche e grossolane ed erronee appaiono le analoghe deduzioni che, per lo stesso motivo, si pretendono concedere nelle imposte sui redditi guadagnati! Qui si concede, per esempio, la detrazione del reddito guadagnato di 400 lire per ogni membro della famiglia nella ipotesi che esse servano in parte a procacciare l’agio di una casa più ampia ai bambini brulicanti; ed invece il padre di famiglia egoisticamente costipa la prole in angusta camera per avere margine a procacciare nelle osterie gran copia di cibo o di vino a se stesso. Mentre la detrazione di un decimo dal valore locativo della casa abitata per ogni persona componente la famiglia viene data sulla spesa effettivamente fatta per la casa, cosicché il padre di quattro figli otterrà per le sei persone della sua famiglia (compresa la moglie) la detrazione di sei decimi del fitto, ossia di 300 lire se ne spende 500, di 600 se ne spende 1.000, di 1.200 se ne spende 2.000; e quindi a mano a mano diminuirà di fatto (e non solo per presunzione generica, che può essere erratissima nei casi singoli) la spesa per alcool, vino, tabacco, eccitanti, giuochi, e crescerà la spesa per la casa, diminuirà l’imposta pagata dal contribuente, in esatta proporzione al sostituirsi nel suo bilancio famigliare dei risparmi personali individuali o dispecie alle spese risultanti in godimenti presenti.

 

 

Talché si può concludere, che il difetto massimo che per noi si riscontra nelle imposte sui consumi, di non concedere l’immunità doverosa al risparmio personale, può essere facilmente e quasi in tutto evitato; fornendo, in aggiunta, un preziosissimo criterio per distinguere tra i consumi che devono essere tassati e quelli che devono essere esenti da un contributo il quale, per necessità tecniche, non può essere universale. Ed un altro canone fondamentale si può ricavare dalle cose dette dianzi intorno al «contribuente». Già dissi per incidente, che s’era assunta nella trattazione l’ipotesi che «contribuente» obbligato a pagare l’imposta fosse esclusivamente la persona fisica, della quale ipotesi, che si suppone dimostrata, non è qui il luogo di dire le ragioni. Adesso si può aggiungere che non tutte le persone fisiche sono contribuenti, sibbene quelle soltanto che hanno oltrepassata la minore età, intendendo questa nel significato economico di età nella quale si consuma ricchezza destinata a fruttare in un periodo successivo. La maggiore età varia a seconda delle classi sociali; e sarà dai 12 ai 15 anni per la classe manuale agricola ed operaia, dai 18 ai 20 per la borghesia commerciale o burocratica, dai 21 ai 25 per i professionisti ed i capi di imprese. Fino a quelle età l’uomo non deve essere considerato un consumatore di ricchezza, bensì un recipiente di risparmio, quasi un libretto di risparmio vincolato a certa scadenza, su cui si fanno versamenti sotto colore di cibi, vestiti, casa, istruzione, educazione, versamenti di cui non potrà essere richiesto il rimborso se non quando l’uomo sia giunto alla maggiore età economica e sia in grado di lucrare salari, stipendi, guadagni professionali, lucri d’intrapresa. Durante la minore età economica l’uomo non è contribuente, perché tutto ciò che consuma è risparmio, è investimento personale. Dopo la maggiore età egli diventa contribuente, perché egli comincia a realizzare i frutti dell’investita fatta a suo profitto, guadagnando e consumando salari e altre maniere di lucri. Né alcuna eccezione può farsi per i minori d’età che vivono di redditi patrimoniali proprii; perché o le spese da essi (o dai loro tutori) fatte tornano a vantaggio della formazione loro fisica od intellettuale e sono risparmi e come tali vanno esenti; o sono spese inutili per quel fine ed essi stessi le vogliono ed allora, sebbene abbiano pochi anni ed esperienza piccola, costoro debbono reputarsi aver raggiunta la maggiore età economica e diventano perciò stesso contribuenti; ovvero, essendo ancora quelle spese inutili per quel fine, essi ne sono l’involontario pretesto ed allora i veri contribuenti non sono i minori d’età, bensì i tutori e curatori che s’approfittano, a proprio vantaggio e spasso, delle rendite del pupillo affidato alle loro cure.

 

 

  1. Ben si può dunque passar sopra, dopo le cose discorse, nelle quali si vollero valutare con la maggiore esattezza possibile gli scarti reali delle imposte sui consumi dalla ideale imposta sul reddito consumato, a taluni pretesi difetti delle imposte sui consumi, che in realtà non sussistono.

 

 

Nulla vale l’obbiezione che le imposte sui consumi tassano i prodighi e risparmiano gli avari; alla quale si rispose già osservando che gli avari sono mitemente tassati solo in quanto si industrino a rinunciare in parte al proprio reddito guadagnato e, poco consumandone a proprio beneficio, lo volgano prevalentemente a beneficio altrui. E similmente si può rispondere a quelli che gridano al privilegio dei ricchi, i quali unicamente possono risparmiare, mentre i poveri non capitali, ma prole soltanto sono in grado di dare alla patria; anzi a costoro si può rispondere con le stesse parole di Giovanni Stuart Mill:

 

 

«che il privilegio elargito [ai ricchi] solo in quanto essi abdichino all’uso personale della loro ricchezza; in quanto essi distolgano il loro reddito dal soddisfacimento dei loro bisogni personali a pro di un investimento produttivo in guisa da, distribuirlo in salari tra i poveri, invece di goderselo essi stessi. Se ciò significa favorire i ricchi, io amerei mi fosse detto quale maniera di ripartire le imposte meriti d’essere chiamata favoreggiatrice dei poveri».

 

 

Alla quale risposta si può aggiungere quell’osservazione fatta dianzi, che lo Stuart Mill non aveva veduto nel pur densissimo brano consacrato all’argomento: non essere il risparmio capitalistico la sola maniera possibile di risparmio; essere anzi desso sopravanzato in importanza dal risparmio personale, accessibile ai ricchi come ai poveri, e per avvedimenti già esposti, esentabile così per gli uni come per gli altri. S’aggiunga doversi dare ancora la dimostrazione probante che pure il risparmio capitalistico sia di fatto compiuto sovratutto dai già ricchi; e non invece da quelli che stanno diventando tali da mediocri o poveri quali erano. Il che del resto non ci interessa direttamente, bastando all’assunto esentare il risparmio, da chiunque e in qualunque maniera sia compiuto.

 

 

Nulla monta l’altra obbiezione che le imposte sui consumi danneggino i padri di numerosa prole in confronto ai genitori sterili od agli scapoli. Intanto non si capisce perché in argomenti tributari si abbiano a introdurre surrettiziamente propositi politici o sociali di lotta contro la sterilità crescente o contro la propaganda malthusiana. Questi sono discorsi che nulla hanno a che fare con le imposte. Il legislatore potrà, volendo partire in guerra contro la minaccia di spopolamento o persuadere gli egoisti individuali a diventare egoisti di specie, altresì valersi dello strumento fiscale; ma non saranno «imposte» le sue, sebbene «multe». Le quali esigono una teoria tutta loro particolare, supposto che esse comportino una teoria; della quale ad ogni modo non è questo il momento d’impacciarsi. né dicasi che anche noi vogliamo promuovere il risparmio con l’esenzione punire la spesa con l’imposta, che l’obbiettatore dimostrerebbe di non aver nulla compreso intorno all’indole delle nostre argomentazioni; ed a lui si potrebbe rispondere ancora con le parole di Stuart Mill (e con questa citazione è chiusa la riproduzione delle brevi chiose aggiunte dall’economista inglese al brano fondamentale citato sopra nel capo secondo) contro chi gli rimproverava

 

 

«che la legge non dovrebbe perturbare, con interventi artificiosi, la naturale concorrenza tra i nuovi per risparmiare e quelli per spendere»:

 

 

essere vero invece

 

 

«che la legge perturba questa naturale concorrenza quando essa tassa i risparmi e non quando li esenta; poiché, siccome i risparmi pagano in ogni caso l’intiera imposta appena essi sono investiti, la loro esenzione dall’imposta nello stadio precedente è necessaria per evitare che essi paghino due volte, mentre il consumo paga solo una volta».

 

 

Dunque alle famiglie grosse si dovranno concedere agevolezze per la parte risparmiata del loro reddito, sia che essendo agiati o ricchi possano investire risparmi capitalisticamente, sia che si debbano contentare di risparmi personali investiti sulla testa dei numerosi figliuoli; non si dovranno concedere se nulla risparmiano in una maniera o nell’altra, salvo ché, per considerazioni extravaganti, che qui sfuggono ad una esatta valutazione, il legislatore non credesse di esentarle concedendo, a guisa di premio, l’esenzione dall’imposta.

 

 

Neppure può essere accolta l’obbiezione che l’imposta sulla spesa colpisce talvolta la spesa fatta non per godimento personale, ma a guisa di lustra destinata ad attirare clientela all’ufficio professionale o alla banca o alla bottega. Trattasi di questione secondariissima; e rispetto a cui si può solo affermare che devesi, nei limiti del possibile, distinguere fra ciò che è spesa per la casa da ciò che è spesa per l’esercizio dell’impresa. Dovendosi escludere, in un sistema ben costrutto di imposte sul reddito consumato, ogni tassazione sui locali d’ufficio, sul personale di studio o di negozio. Che se un tale, privo di redditi guadagnati proprii, tuttavia spende per uccellare ai gonzi, ragion vuole si constati il fatto della spesa, che almeno in apparenza è rivolta a suo beneficio e la si tassi.

 

 

 

 

VII

Costruzione di un sistema corretto di imposte sul reddito consumato

Volendosi ora costruire un sistema di imposte sui consumi che soddisfi alle condizioni che sopra si dissero, di essere cioè se non universali, il che è impossibile, almanco in proporzione costante al reddito consumato e di esentare il risparmio personale, soccorre primamente una regola, ottima in via approssimativa, la quale dice: doversi scegliere innanzitutto come oggetto di tassazione quelle merci o quei servizi in cui si investono le rendite di consumatore lasciate disponibili dal consumo di quei beni che vengono primissimi nell’ordine dei consumi e che sono indispensabili alla vita fisica del contribuente.

 

 

Ampio è lo scarto tra i prezzi delle merci che il consumatore effettivamente paga, date le condizioni correnti del mercato, e i prezzi che egli potrebbe pagare se in circostanze diverse il mercato imponesse prezzi più elevati. Il consumatore paga il pane di frumento 40 centesimi per chilogrammo in condizioni normali medie, dati i costi della farina, dei fitti, dei salari, del logorio del macchinario e strumenti ecc. e data la richiesta esistente; ma pagherebbe ben più, 1 lira, 2, 3, forse anche 10 lire per chilogrammo in caso di carestia, blocco marittimo, assedio di una piazza forte. Il massimo prezzo a cui il consumatore può spingersi varia a seconda della ricchezza sua e di altri fattori; il povero potrà giungere sino a 1 lira, l’agiato sino a 3, il ricco sino a 10 lire ed in casi estremi, pur di aver salva la vita, a prezzi ancor più elevati, quasi fantastici. La differenza tra il prezzo che si sarebbe in altre circostanze indotti a pagare ed il prezzo che effettivamente si paga chiamasi rendita o guadagno del consumatore. Questo concetto, la cui importanza non conviene esagerare, può essere utilizzato per scegliere le merci le quali conviene colpire coll’imposta.

 

 

In una prima approssimazione è indifferente tassare il sale o il caffè, il petrolio o il vino, il pane o il tabacco, perché, come hanno dimostrato egregiamente il Gobbi e il Pantaleoni,[5] dato che una imposta di 100 debba essere pagata, nulla importa il nome che viene dato all’imposta, se di imposta sul sale o sul tabacco, o sui giuochi, o sul valor locativo o sul reddito. Sempre l’imposta di 100 verrà pagata dal contribuente mercé il sacrificio dei consumi marginali, i quali vengono ultimi nell’ordine delle sue spese, qualunque siano i consumi colpiti dall’imposta ed i pretesti con i quali viene esatta. In altri termini, se l’imposta è messa sul sale, il contribuente non sarà nient’affatto obbligato a ridurre il consumo del sale; ma potrà comprarne, a prezzo aumentato, la stessa quantità di prima, rinunciando in tutto od in parte al consumo del tabacco. Il che vuol dire che il prezzo precedente del sale lasciava al consumatore una rendita, da lui inavvertita, la quale veniva destinata alla compra di tabacco. Questa verità non rimane scrollata dall’ovvia osservazione, pur verissima, che spesso l’aumento del prezzo di un bene, in conseguenza dell’imposta, fa diminuire il consumo per l’appunto di quel bene e non di altri; come può accadere per le imposte sul valor locativo; perché questo fatto vuol dire soltanto che prima il contribuente usava investire il guadagno o la rendita goduta per il fatto che il fitto di tre stanze era di 300 lire, mentre egli sarebbe stato disposto a pagarne, occorrendo, 400, nel consumo di una quarta stanza; laddove ora, crescendo, a causa dell’imposta, il fitto di tre stanze a 400 lire e non rimanendogli più alcuna rendita disponibile, egli deve ristringere il suo consumo a quelle tre stanze e non più.

 

 

Codesta verità dipende però dalla premessa: dato che una imposta di 100 debba essere pagata. La qual premessa si tratta appunto di vedere quando debba essere resa effettiva dal legislatore. Orbene io dico che l’imposta deve colpire di preferenza le merci, i beni, i servizi nella cui compra si investono le rendite di consumatore lasciate libere dall’acquisto, ai prezzi di mercato, di beni, merci, servizi che vengono prima nell’ordine dei consumi. In ogni paese, per ogni classe sociale, per ogni individuo esiste una scala nell’ordine dei consumi. Non si vuol dire con ciò che alcuni beni siano necessari, altri di comodità, altri di lusso, come usavano gli antichi trattatisti. Siffatta distinzione, se fatta in via generale ed assoluta, sarebbe assurda, come quella che non tiene conto delle variazioni stragrandi nei gusti degli uomini da epoca ad epoca, da paese a paese, da classe a classe, da persona a persona. Ma è certo, che per ogni paese e per le diverse classi si possono in ogni tempo constatare empiricamente, statisticamente quali siano i consumi primari e quali quelli secondari o terziari. Studiando un numero sufficientemente ampio e vario di bilanci famigliari, siffatta nozione empirica può essere acquisita. Si sappia dunque che gli uomini prima cominciano a consumare pane e verdura e poi carni; prima una stanza e poi due e poi tre; prima vestiti di cotone e poi vestiti di lana e di seta; prima pane e minestra e vestiti e casa e poi vino e giuochi e tabacco e servitori, prima petrolio e poi luce elettrica. E si sappia senz’altro che nelle carni, negli alloggi ampi, nei vestiti di seta, nel vino, nei giuochi, nel tabacco, nei servitori, nella luce elettrica si investono le rendite lasciate disponibili ai consumatori dopo che essi hanno provveduto a comprare, ai prezzi correnti, pane, verdura, vestiti di cotone, alloggi da una stanza, petrolio ed altrettali beni primari. Quindi ancora se noi faremo cadere l’imposta sui consumi secondari sapremo come cosa certissima che quei contribuenti i quali hanno appena tanto reddito [consumato] da poter comprare beni primari, non pagheranno imposta veruna; e che quelli a cui avanzano poche rendite, dopo il consumo dei beni primari, pagheranno poca imposta e molta ne pagheranno quelli a cui avanzano grosse rendite. Dunque è tutt’altro che indifferente tassare o l’una o l’altra specie di merci, sebbene sia indifferente prelevare la medesima imposta con uno o con altro nome. In questo caso trattasi soltanto di cambiar nome ad una imposta certamente esatta; nel primo invece dubitasi se imporla ovvero no.

 

 

A non imporla non si è, nel sistema ora delineato delle imposte sui consumi, spinti da considerazioni umanitarie o psicologiche intorno ai redditi minimi. Nessun concetto estraneo deve penetrare nel campo dove impera il postulato dell’uguaglianza. Se chi ha appena una lira al giorno (reddito che in Italia stimasi universalmente minimo) spende 50 centesimi in pane e 50 centesimi in vino e se il pane è reputato consumo primario e il vino consumo secondario, quegli deve essere esente da imposta sui 50 centesimi di pane ma percosso sui 50 centesimi di vino. Né si ritenga che i consumi «primari» debbano essere esenti perché si indicano con siffatto aggettivo o perché siano necessari alla vita fisica del contribuente, il quale altrimenti morrebbe di fame. Questa non può essere una buona ragione per esimerlo dai tributi, in contraddizione col principio della tassazione del reddito consumato intiero; bensì per raccomandarlo alla pietà del legislatore, il quale gli farà l’elemosina di rimborsargli l’imposta pagata (l’esenzione apparente è solo un ripiego contabile per evitare inutili scritturazioni di incasso di imposte e di erogazione di elemosine, con conseguenti elevatissimi costi di esazione e di carità legale), elemosina condizionata talora alla perdita dei diritti elettorali, alla prigionia nelle case di lavoro (workhouses), all’infamia civica e talaltra nobilitata ed incoraggiata sotto nome di panem et circenses, di pensioni di stato, di diritto all’esistenza, ecc. ecc.

 

 

La vera ragione per cui i consumi primari debbono andare esenti da imposta è quest’altra: che essi si suppongono destinati a risparmio personale, individuale o di specie. La qual verità è certissima per i minori d’età, poiché ogni spesa fatta per tenerli in vita è una spesa d’allevamento, di formazione di un capitale che alla maggiore età [economica] diventerà produttivo di frutti consumabili. Ed è verità attendibilissima pure per gli uomini adulti, perché non tutta la spesa compiuta dall’uomo adulto è spesa per godimenti personali; una parte potendo essere considerata come una quota di riparazione e di sostituzione della macchina uomo, quota dunque di risparmio che si capitalizza per dar frutti nel periodo successivo. I fisiologi insegnano che le cellule dell’uomo continuamente si logorano e vengono sostituite; dimodochè l’uomo di 50 anni è composto di una materia tutt’affatto diversa da quella ond’era composto al ventesimo anno di età. Traducendo la qual proposizione in linguaggio economico, si può dire che ad ogni anno o ad ogni momento, finché dura la vita produttiva dell’uomo, vi è una parte della spesa che non dà godimento all’uomo, ma giova soltanto a metterlo in condizioni di potere fruttare e godere nell’anno o nel momento successivo. E poiché la finanza non può tener conto di spazi minimi di tempo, parlisi soltanto di anni intieri. Nell’anno corrente l’organismo dell’uomo è produttore di ricchezza ed un ricettacolo di sensazioni piacevoli; ma cesserebbe di esserlo nell’anno successivo, se col consumo di beni primari non si ricostituissero le cellule distrutte; dunque quei beni primari non sono consumati, sibbene impiegati produttivamente a creare la possibilità di consumi veri e proprii negli anni successivi, possibilità che sarà misurata precisamente dalla quantità di beni secondari che saranno consumati in quegli anni.

 

 

S’intende che questi sono concetti generalissimi, che giovano soltanto a dare un indirizzo all’azione pratica del legislatore. Ma paiono concetti fecondi, perché pongono termine alle oziose quistioni intorno all’esenzione dei redditi minimi, se il minimo debba intendersi un assoluto necessario alla vita fisica dell’uomo od un relativo variabile a seconda del tenor di vita delle classi sociali; se debba concedersi l’esenzione del minimo solo per quelli che non lo superino od anche, fino alla sua concorrenza, a quelli che abbiano redditi maggiori e magari vistosissimi; questioni che si decidevano a norma di considerazioni extravaganti. Secondo il sistema derivato dal postulato dell’uguaglianza si dirà che è esente tutta quella quantità di ricchezza che per essere consumata in beni primari può considerarsi come un risparmio personale; quindi una quantità non relativa ai diversi gradi di fortuna od alle diverse classi sociali, ma quantità oggettiva di beni che l’opinione comune del tempo dichiara investiti per il perfezionamento fisico od intellettuale e per il proseguimento dell’esistenza medesima dell’uomo. Tanto i ricchi come i poveri ed i mediocri possono aspirare a questa esenzione; e la raggiungono di fatto ove consumino beni primari considerati fatti a scopo di risparmio o capitalizzazione personale. E poiché variano, a seconda della ricchezza e del tenor di vita, le spese considerate necessarie per l’allevamento della prole e per il mantenimento della produttività negli adulti, così è spiegabile perché il minimo da esentarsi, non sia un fisso, ma varii in relazione coi tempi e coi luoghi. Si comprende così la ragione per la quale un giorno l’imposta di macinato tassava il pane di frumento ed esentava il pane di segala, di barbariato, d’orzo, di miglio, perché questi erano assai più usitati del primo ed erano la base della alimentazione; mentre a mano a mano cresce la raffinatezza del vivere, crescono di finezza anche i consumi risparmio, maggiori cure essendo reputate necessarie alla vita del fanciullo od alla fruttificazione dell’organismo adulto, considerato come un recipiente di risparmio capitalizzato in forma personale. Perciò si esenta il pane di frumento e poi il sale e poi ancora lo zucchero ed i vestiti e i valori locativi iniziali. Non per questo vien meno la materia imponibile; poiché se quello che era godimento una volta diviene oggi capitalizzazione nervosa, muscolare od intellettuale, sorgono nuovi beni e nuovi servizi atti a dare godimento e si profila una serie indefinita di tassazioni su di essi.

 

 

La teoria ora costrutta lascia un solo residuo da essa inesplicato; ed è l’esenzione concessa ai consumi primari non solo per i minori d’età e gli adulti per i quali può concepirsi una capitalizzazione, bensì anche per gli adulti dipendenti od oziosi o criminali (non accenno genericamente alle donne, perché esse sono in grandissima maggioranza produttrici di ricchezza sia col lavoro nelle fabbriche o a domicilio, sia colla gestione della casa, coll’allevamento della prole, ecc.) e per i vecchi. Per costoro il criterio del risparmio personale dovrebbe essere interpretato non nel senso che essi debbano fare certi consumi primari per poter produrre frutti in un periodo successivo, ché essi o non furono mai capaci di fruttare alcunché, o godono meritamente i frutti dei risparmi passati, né hanno alcun dovere di nuovamente risparmiare; bensì unicamente nel senso che essi debbano fare i consumi primari per conservarsi capaci di godere successivamente. Dicasi invece che, dovendosi applicare un principio, non si può far astrazione dal costo, che può essere eccessivo, della sua applicazione in maniera rigida e precisa. Poiché cioè si debbono esentare, in ossequio al canone della esenzione del risparmio, i consumi primari e poiché tecnicamente è impossibile distinguere tra consumi primari fatti dai minori di età e dagli adulti produttivi per cui l’esistenza del risparmio personale è indiscutibile, e consumi primari fatti da oziosi, criminali, vagabondi, mendichi, di cui sarebbe augurabile la scomparsa e non la conservazione, dai dipendenti e dai vecchi, per cui è dubbio se essi facciano risparmio personale; e poiché d’altra parte, fortunatamente, queste classi sono per numero meno importanti delle prime, così, in ossequio al canone del minimo costo d’esazione delle imposte (quarto canone già citato di Adamo Smith), l’esenzione deve essere estesa oggettivamente a tutti i consumi primari.

 

 

Ma anche così difettosa l’esenzione del minimo di reddito nel sistema delle imposte sul reddito consumato è più perfetta che nel sistema delle imposte sul reddito guadagnato. Perché in quelle vengono esentati di fatto solo quei consumi che effettivamente contribuiscono a crescere il valore dei capitali personali, o almeno che sono reputati atti a crescerlo nell’opinione comune interpretata dal legislatore; mentre in queste sono esentate 400 o 1.000 o 4.000 lire indifferenziate di reddito, sia che il contribuente le destini all’acquisto di beni risparmio ovvero alla compra di beni consumo, che forse distruggono e danneggiano l’organismo, rendendolo meno atto a dar frutti. Anche stavolta il sistema della tassazione del reddito consumato esenta i risparmi personali effettivi; mentre l’altro sistema che colpisce il reddito guadagnato esenta i risparmi presunti che possono non verificarsi.

 

 

La esenzione dall’imposta dei consumi primari, essendo richiesta dalla logica del sistema, produce due principalissime conseguenze logiche e perciò benefiche:

 

 

a)    la imposta, che, potendo colpire, per ragioni tecniche, solo alcuni consumi, corre il rischio di non essere proporzionale al reddito consumato (Capo sesto, n. 2), meglio soddisfa al postulato dell’uguaglianza quando siano esenti i consumi primari. Siano infatti i redditi consumati totali, compreso il consumato a scopo di risparmio personale, di Tizio, Caio e Sempronio di 1.000, 5.000 e 14.000 lire. Siccome non tutto il reddito consumato può essere tassato, ma solo alcuni consumi, scegliendo a caso si è certi di offendere la regola dell’uguaglianza, per cui ogni lira di reddito consumato, a chiunque spetti, deve pagare l’uguale tributo. Ma l’offesa sarebbe massima se ad oggetto di tassazione si scegliessero i consumi primari. Perché questi hanno la caratteristica di essere in quantità assoluta non così diversi come sono diverse le quantità del reddito consumato totale. Alcuni volendo esagerare artificiosamente i difetti delle imposte sui consumi, o meglio delle imposte sui consumi risparmio, già abbastanza scorrette perché sia necessario esagerarne la scorrettezza, affermano che Tizio, Caio e Sempronio consumano l’uguale quantità, ad es. 700 lire, di beni primari. Il che è falso. Perché se Tizio consuma 700 lire di pane, cibi, vestiti, casa, Caio consumerà cibi più scelti, vestiti di panno più fino, casa più ampia; e Sempronio migliorerà e varierà ancor di più questi suoi consumi. Già si vide sopra che il concetto dei consumi primari o consumi risparmio è variabile da epoca ad epoca e da paese a paese; ma è variabile nel tempo stesso e nel medesimo paese altresì da classe a classe a seconda del tenor di vita, dell’ideale di cultura che si vuol raggiungere, della produttività futura a cui si mira. Dunque Caio non si contenta degli stessi beni primari che bastano a Tizio e Sempronio di quelli che paiono sufficienti a Caio. Questo soltanto si può ragionevolmente affermare: che i consumi primari, pur non rimanendo costanti, non crescono nella ragione medesima del crescere dei consumi totali: e ciò perché la fantasia e l’amore ai godimenti immediati sono per la comune degli uomini qualità o passioni ben più potenti della previdenza e dell’aspirazione al proprio miglioramento intellettuale o fisico; onde più volontieri, appena il bilancio famigliare si amplia, si corre dietro alle chimere (giuochi), alle vanità (abiti di lusso, domestici, cavalli, automobili) ed ai piaceri (vino, tabacco, donne, teatri, viaggi), che ai consumi veramente vantaggiosi alla vita. Del che sono testimonio suggestivo le difficoltà che s’incontrano a persuadere coloro, che pure largamente bevono o fumano o si pavoneggiano con vestiti di moda o con gioielli, a spendere somme più cospicue nella casa. Se Tizio perciò spende 700 su 1.000 lire per i consumi primari (e cioè il 70% del suo reddito); Caio spenderà una somma tra 500 e 2.500, mettiamo 1.500 (e cioè il 30% del suo reddito); e Sempronio una fra 500 e 5.000, supponiamo 2.800 ossia il 20% del reddito.

 

 

Il reddito totale consumato di questa società di tre contribuenti, Tizio, Caio e Sempronio, si decompone dunque in questa maniera:

 

 

 

 

 

  Tizio Caio Sempronio Totale

Reddito consumato totale, compreso il consumato a scopo di risp. personale

1.000

5.000 14.000 20.000

Reddito destinato a consumi primari o consumi risparmio esenti

700 1.500 2.800 5.000

Reddito destinato a consumi secondari

300 3.500 11.200 15.000

Conferimento proporzionale di ogni contribuente al fabbisogno pubblico supponendo che si tassino soltanto i consumi

primari 14 30 56 100
secondari  2 23,33 74,66 100

 

 

 

L’imposta deve, in ossequio al principio dell’uguaglianza tributaria, esentare i consumi primari, perché questi non sono reddito consumato, ma risparmio. Quindi una ripartizione delle imposte che costringesse Tizio a contribuire il 14% del fabbisogno totale, Caio il 30% e Sempronio il 56% sarebbe scorrettissima.[6] Nemmeno si potrebbe dire corretta del tutto una imposta la quale colpisse tutti i consumi secondari, perché anche questi possono comprendere somme destinate alla istruzione dei figli o al perfezionamento proprio (viaggio d’istruzione professionale). Ma è facilissima, anzi universale l’esenzione dei consumi educativi, come sopra si disse; essendo ben raro e strano che un governo colpisca di imposta le spese per libri, viaggi, maestri, ginnastica, ecc. Onde si può dire che la ripartizione del fabbisogno secondo la regola del 2%, del 23,33% e del 74,66% sia quella più vicina alla ripartizione corretta, dato che il contribuente provvederà da sé a procacciarsi l’esenzione per i consumi secondari che siano davvero consumi risparmio. Ed è evidente che a raggiungere questo secondo tipo di ripartizione gioverà assai che la scelta dei consumi tecnicamente passibili di imposta venga fatta soltanto tra i consumi secondari e non tra questi e quelli primari insieme. Poiché questi stando fra di loro nei rapporti, assai diversi, del 14, 30 e 56%, una scelta fatta tra amendue rischia di allontanarsi assai dalla proporzionalità corretta. Tanto più rischierebbe di allontanarsene in quanto i consumi primari, sebbene variabili da persona a persona, non sono variabilissimi; e per ragioni tecniche l’imposta deve colpire i consumi meno variabili tra essi, cosicché la tassazione facilmente prende l’aspetto di capitazione. Si può tassare, invero, una o due o tre camere, a norma del loro valor locativo; si può far variare l’imposta sul sale da 40 a 60 ad 80 centesimi per chilogrammo a seconda che i consumatori, arricchendo, preferiscono qualità più fini; ma l’imposta sulle farine e sul pane rimane fissa in 10 centesimi per chilogramma (in Italia questa è l’aliquota dell’imposta all’incirca pagata allo stato, ai proprietari fondiari ed ai mugnai a titolo di dazio doganale sul frumento e sulle farine) qualunque sia la ricchezza del contribuente. I consumi primari differiscono di così poco qualitativamente gli uni dagli altri da rendere disagevole operare compensazioni tra diverse merci; laddove tanto ampia e tanto varia è la cerchia dei consumi secondari, che è per noi abbastanza agevole cogliere un mazzo di consumi i quali in complesso entrino in tutti i bilanci e costituiscano una proporzione costante dei consumi secondari stessi; ed a questa condizione si restringono in ultimo le esigenze del postulato della uguaglianza tributaria. Vi sarà chi non fuma, ma avrà il vizio del bere; e se non avrà nessuna delle due passioni, avrà quella del giuoco; e se anche da questa sia immune, è difficile voglia rinunciare anche all’uso della casa ampia, di una domesticità numerosa, di bevande eccitanti del sistema nervoso, come il caffè o il tè; sicché graduando con accortezza le une e le altre imposte non è assurda la speranza di riuscire a tassare proporzionatamente il reddito consumato. Sarebbe assurdo sperare di poter con ciò ugualmente colpire il reddito guadagnato; ma si sa oramai abbastanza che il fine medesimo di tassare il reddito «guadagnato» deve considerarsi «iniquo».

 

 

b)    la seconda conseguenza dell’esenzione dei consumi primari e perciò della tassazione del vero reddito consumato è questa: che viene in gran parte meno la vigoria dell’accusa la quale si muove all’imposte sui consumi di essere inavvertite dai popoli e perciò illusorie e perciò corruttrici perché danno ai governanti propensi al malfare i mezzi per tradurre in atto le loro prave intenzioni senza che i contribuenti si accorgano dell’estorsione cui vano soggetti e siano perciò spinti subitamente a reagire.

 

 

La quale accusa è verissima quanto alle imposte falsamente dette sui consumi, mentre riguardando i consumi primari, dovrebbero essere dette imposte sui consumi risparmio. I consumi primari hanno invero quasi sempre la caratteristica della rigidità; entro certi limiti di variazioni di prezzo, la domanda essendo costante o magari crescente. Se aumenta da 40 a 60 centesimi il prezzo del pane, il consumo del pane non scema, ma anzi aumenta, perché diminuirà il consumo della carne, ossia il consumo di quelle merci in cui si investivano le rendite di consumatore lasciate disponibili dal basso prezzo del pane. Ora che non esistono più quelle rendite o sono scemate, si può comprare minor copia di carne o di vino; e per colmare i vuoti lasciati nell’organismo importa consumare maggiormente pane. Così è difficile scemi il consumo di sale, o della casa già ridotta all’indispensabile secondo il vario tenor di vita, o dei vestiti, se il prezzo non ne aumenti disordinatamente. Perciò accade che i governi possono sbizzarrirsi a lor posta nel crescere le imposte sui consumi primari senza che della eccessiva tassazione trapeli neppure un pallido indizio nelle statistiche dei consumi; potendo anzi sembrare che i popoli siano lieti delle gravi imposte, e la lor letizia manifestino col consumare maggiormente la merce tassata. Il legislatore può dunque ciecamente procedere sulla pericolosa via della sopratassazione, incoraggiato dal continuo aumento nel reddito dei balzelli da esso escogitati; e potrà procedere sino a quando l’ira repressa del popolo non trabocchi in incendi di casotti daziari, tumulti, disordini sanguinosi, rivolte e forsanco rivoluzioni. Questo è il danno delle imposte sui consumi primari o consumi risparmio, falsamente dette sui consumi; venendo esse a recidere le sorgenti stesse della vita al popolo e alle nuove generazioni, rendono i contribuenti inetti alle maniere ordinarie di reagire contro la ferocia fiscale e capaci soltanto di estreme e dolorose rivolte, le quali segnano la rovina dei malcauti e inconsapevoli governi.

 

 

Tutta diversa è invece la maniera di comportarsi delle imposte sui consumi secondari, ossia delle vere imposte sul reddito consumato. Appunto perché soddisfano a bisogni che vengono dopo nell’ordine volontariamente prescelto dagli uomini, accade che il loro consumo si contrae e si espande con notevole sensibilità in funzione dei prezzi. E poiché l’imposta fa aumentare necessariamente i prezzi, quindi l’imposta preme sul consumo e lo fa diminuire. Può accadere che, se l’imposta è lieve, la diminuzione del consumo sia inavvertita o sia elisa da un contemporaneo suo aumento, il quale ha luogo in ragione del mutarsi di altre circostanze, come l’incremento ancor maggiore del prezzo di altre merci che, per trattarsi di beni congiunti, ha rigettato la richiesta dei consumatori sul bene tassato; o come un aumento della ricchezza generale che renda i consumatori atti a comprare quantità crescenti di merci anche a prezzi crescenti. Ma se l’imposta è molto forte, vanamente spera il legislatore che il consumo non diminuisca. La ripugnanza dei consumatori a comprare la stessa quantità di merci tassate lo fa avvertito che nella tassazione si è oltrepassato il punto pericoloso. Chiamasi pericoloso quel punto, variabile da consumo a consumo, al di là del quale l’aumento dell’imposta non solo non produce più incrementi di gettito proporzionati al consumo precedente ed all’ammontare dell’imposta nuovamente aggiunta, anzi non dà luogo affatto ad incremento veruno o questo è troppo irrilevante. Suppongasi che il consumo prima dell’imposta fosse di 1.000.000 di unità al prezzo di 10. Se l’imposta di 1 accresce il prezzo ad 11 (mettasi il se essendo ben noto che gli effetti sono un po’ più complicati; ma da questa maggior complicazione si può astrarre) ed il consumo resta di 1.000.000 di unità, vuol dire che l’imposta, per la sua picciolezza, non ha reagito sul consumo. Crescendo l’imposta a 2 e il prezzo a 12, il consumo diminuisce a 900.000 unità; onde il gettito per lo stato che era, ad 1 d’imposta, di 1.000.000 diventa di 1.800.000. L’aumento di 800.000 è ancora sufficientemente rilevante per spiegare l’inasprimento del tributo. Postisi questo a 3 e il prezzo a 13, con un consumo scemato ad 800.000 unità. L’imposta frutta ora 2.400.000, con un aumento ancora di 600.000 in confronto del saggio precedente. Ma procedendo l’imposta a 4 e il prezzo a 14 ed il consumo diminuendo a 700.000 unità, il gettito risulta di 2.800.000 con un aumento di soltanto 400.000; troppo scarso risultato in confronto al danno dei consumatori che consumano 100.000 unità di meno, da cui ritraevano un’utilità unitaria come 13 (tant’è vero che a quel prezzo le consumavano) ossia di 1.300.000 in complesso. Il legislatore si accorge automaticamente che l’imposta si è avvicinata al punto pericoloso; e la consapevolezza di ciò lo trattiene dal compiere un passo innanzi portando l’imposta a 5 e il prezzo a 15, perché prevede che, ciò facendo, il consumo diminuirebbe a 600.000 unità ed il provento sarebbe di 3.000.000, ossia di appena 200.000 superiore al gettito precedente; finché aumentando ancora l’imposta a 6 e il prezzo a 16 e il consumo decrescendo a 500.000 unità, il gettito rimarrebbe costante a 3.000.000 con grande suo scorno; ed ostinandosi esso a crescere il balzello, il gettito persino diminuirebbe. La qual vicenda in Italia si verificò ripetutamente: dapprima per gli spiriti ed in seguito pel caffè e pel petrolio; talché il legislatore, fatto avvertito della reazione dei contribuenti dal malo risultato finanziario delle sue estorsioni, dovette rifare a ritroso in parte il cammino percorso con troppa precipitazione. E subito si vide come egli si fosse bene apposto, onde i contribuenti lieti consumano viemmeglio ed il fisco riceve plauso sincero e pecunia abbondante.

 

 

A torto dunque si afferma che col sistema delle imposte sui consumi, i contribuenti non esercitano controllo veruno sull’opera dei governanti; ché anzi il loro controllo è squisitissimo, imperocché, appena ritengono di pagare per le merci tassate un prezzo troppo elevato, si ritraggono dal consumo, mettendo sull’avviso i governanti che essi stanno per oltrepassasse od hanno già oltrepassato il punto pericoloso. Di tutte le maniere di reazione del contribuente contro l’oppressione fiscale, questa è la più sollecita; e, per i suoi effetti morali e politici, preferibile al contrabbando, che è la maniera più vicina, nelle imposte sui consumi, alla frode fiscale, all’emigrazione degli uomini e dei capitali, alle rivolte e alle rivoluzioni. Maniera così squisita di reazione non esiste certamente nelle imposte sul reddito guadagnato, dove occorre cominciare dalla frode od occultamento della materia imponibile e solo quando tal via appaia troppo ardua o pericolosa, ci si decide alla emigrazione a campi tributari immuni o meno vessati nello stesso paese od alla emigrazione all’estero.

 

 

Vero è che i contribuenti reagiscono non contro imposta, ma contro il rincaro dei prezzi delle merci tassate; e perciò, se si raggiunge l’effetto di avvertimento sui governanti, non si ottiene, se non in parte, l’effetto di educazione del popolo intorno al rapporto di causalità tra le spese inutili ed eccessive nei governi e il rialzo dei prezzi da esso risentito. Già si deve notare come, nei tempi odierni di educazione tribunizia diffusa e di gazzette imperversanti, ben difficilmente riesca tal rapporto di causalità a rimanere occulto anche ai più ottusi tra i governati; onde questi doppiamente si inferociscono, per le spese inutili e per l’inganno loro teso di aver voluto mascherare l’imposta sotto sembianza di un aumento di prezzi; e doppiamente gioiscono potendo sottrarsi, come per i consumi secondari è possibile entro certi limiti, all’aumento dell’imposta con la diminuzione del consumo: pel risparmio di spesa e per lo scorno dei governanti.

 

 

Ma quand’anche si voglia accogliere l’obbiezione sovra ricordata contro le imposte sui consumi, di non essere cioè abbastanza educative, vuolsi notare che questo carattere esse hanno soltanto quando siano imposte su merci e derrate materiali di consumo immediato, le quali cioè rendono servigio all’uomo per una volta sola. Le imposte sul caffè, sul tè, sulle bevande alcooliche, sul tabacco sono sotto questo rispetto poco educative, perché l’imposta si compenetra nel prezzo; e non è possibile accada diversamente, data la necessità di sorprendere la merce al varco e tassarla in un momento in cui essa non è peranco giunta al consumatore, il quale può quindi rimanere, sebbene sia certissimo che spesso non rimane, all’oscuro intorno alla causa dell’aumento di prezzo che lo esagita. Vi sono tuttavia parecchie altre imposte sui consumi, in cui questo effetto illusorio non si riscontra; e sono quelle sul consumo di beni durevoli, di beni cioè i quali rendono ripetuti servigi all’uomo per un periodo di tempo lungo. Ho già accennato alle imposte sul valor locativo della casa, sul valore del mobilio, sui domestici, sui cani, sui cavalli, sulle vetture, sulle automobili e si può aggiungere sulle livree, sugli stemmi, ecc. Sono le imposte che i nostri vecchi chiamavano suntuarie e che senza alcuna ragione furono abbandonate nei tempi moderni, sebbene in Inghilterra, nel Belgio e in Francia se ne osservino tuttora imponenti residui, i quali farebbero bene augurare da una più ampia loro applicazione. Per questi consumi è possibilissima ed è frequente l’imposizione diretta del consumatore, che è il vero contribuente; ed è perciò possibile che l’imposta esacerbi, inquieti, inferocisca il contribuente vero. Ciò che è massimamente desiderabile, essendochè l’unica maniera di ridurre alla ragione i governanti ambiziosi e stravaganti è il controllo assiduo e diretto dei governati, è la loro reazione continua e spietata contro le spese pubbliche inutili, è il timore dei rappresentanti di essere sostituiti da altri, per convinzione od interesse elettorale, meglio disposti a frenare le voglie della burocrazia famelica. I parlamenti non servono più spontaneamente all’uopo; creati per sorvegliare l’opera del principe, per scrutare a soldo a soldo la necessità delle spese pubbliche si sono trasformati nel principe medesimo, sicché si veggono tuttodì i rappresentanti d’ogni paese proporre spese nuove e si debbono escogitare complicati ordinamenti contabili per togliere ai parlamenti l’iniziativa delle spese, nella speranza vana di scemare queste, ristringendo il potere di proporle al governo; speranza vana finché il governo è l’emanazione delle maggioranze. Unica via di salvezza: l’esacerbazione dei contribuenti, i quali terrorizzino per modo i rappresentanti, da richiamarli all’osservanza dei loro doveri.

 

 

In fondo, una tra le principalissime spiegazioni delle imposte sul reddito guadagnato è la attitudine di alcune tra esse a risvegliare il senso di controllo da parte dei contribuenti. Non tutte hanno questa virtù; non l’hanno, ad es., quelle che sono trasferite dal contribuente legale su altra persona o che paiono così trasferite (imposta sugli interessi dei capitali dati a mutuo e sui fabbricati), quelle che si ammortizzano nel prezzo capitale (imposte sui terreni e sui titoli); quelle che sono pagate da contribuenti esattori salvo diritto di rivalsa (imposta sui redditi degli azionisti, obbligazionisti, impiegati, operai delle società anonime); quelle che sono esatte per ritenuta e che sembrano una partita di giro (imposte sugli impiegati degli enti pubblici e sui creditori dello stato). A ben guardare, in Inghilterra e in Italia, dove vige il sistema delle imposte cedolari o per categorie esatte all’origine su fittizi contribuenti esattori, le uniche imposte atte ad inquietare i contribuenti sono in parte le imposte sulle categorie da noi dette B e C e precisamente quelle che colpiscono commercianti, industriali e professionisti. Per estendere maggiormente lo spirito di controllo tra i contribuenti uopo è creare l’imposta sul reddito globale guadagnato, da noi chiamata imposta di famiglia. Ed è forse sovratutto per questo motivo che l’imposta sul reddito globale guadagnato, pur, come sappiamo, difettosissima teoricamente per l’indole sua intrinseca, può diventare di fatto raccomandabile.

 

 

Non è però per nulla necessario di scendere sino a coteste degenerazioni dell’istituto tributario per ottenere l’effetto desiderabilissimo del controllo dei governati sulle spese pubbliche deliberate dai governanti: soccorrendo mirabilmente all’uopo il gruppo «suntuario» delle imposte sul reddito consumato. Non è qui il luogo di esporre tutto un piano di applicazione di questi tributi, che ebbero difensori eloquenti in Italia nei tempi nei quali pensiero e linguaggio finanziario non erano turbati dall’odierno turpe lenocinio democratico; ricordiamo il nome di uno dei migliori economisti italiani dell’epoca cavouriana, il Giulio.[7] Per il Belgio, dove il sistema esiste da un secolo, ma è degenerato per incuria amministrativa e per inframmettenze politiche,[8] l’Ingenbleek, in uno dei libri di scienza tributaria meglio meritevoli di essere letti tra quelli comparsi nell’ultimo decennio,[9] delinea tutto un sistema compiuto d’imposte suntuarie sul reddito consumato.

 

 

Dopo aver dimostrato quanto siano fallaci le statistiche le quali affermano essere la spesa per la casa una proporzione rapidamente decrescente col crescere del reddito consumato, egli costruisce il sistema in questa maniera: I) una imposta sui valori locativi effettivi, risultanti dalle convenzioni tra le parti, controllate dal fisco, variabile dal 4% al 6% a seconda dell’importanza del comune, essendo l’aliquota minore per le grandi città, dove i fitti assorbono una proporzione elevata dei consumi totali e maggiore per i comuni rurali a fitti bassi. II) una imposta sul mobilio secondo il valore annualmente dichiarato dal contribuente e controllato dal fisco, anche per mezzo della comunicazione obbligatoria delle polizze di assicurazione contro gli incendi e in difetto per mezzo di perizia. L’imposta varierebbe dal 4.50 al 6.50 per mille a seconda della categoria dei comuni. Queste due prime basi dell’imposta dovrebbero secondo l’Ingenbleek dar luogo a detrazioni, attenuazioni e aumenti progressivi. Egli esenterebbe dalle due imposte i contribuenti con un fitto minore di 360 lire nei comuni di prima categoria, di 300 nei comuni di seconda, di 240 nei comuni di terza, di 204 nei comuni di quarta e di 156 lire nei comuni di quinta categoria; concederebbe ai genitori di figli conviventi di meno di 18 anni una detrazione della metà nel caso di fitti non superiori a 400-230 lire nelle prime quattro categorie e di un quarto per i fitti non superiori a 440-300 lire nelle prime tre categorie. Per i contribuenti di cui il fitto superasse le 1500, 1000, 700, 500 e 300 lire nelle cinque categorie, si dovrebbe stabilire un aumento del 2% del principale delle due prime basi d’imposta per ogni frazione in più di 250, 200, 150, 100 e 50 lire oltre i limiti sovraindicati per le cinque categorie. Un contribuente di prima categoria (Bruxelles e comuni assimilati) con un fitto di 3200 lire ed un mobilio di 12.000 lire, pagherebbe il 4% su 3200 ossia L. 128, il 4.50 per mille su 12.000 ossia L. 54, in tutto L. 182; più, siccome il suo fitto eccede di 1700 lire il limite delle 1500 ossia di 7 frazioni di 250, dovrebbe pagare 7 volte il 2%, ossia il 14% in più delle 182 lire e cioè L. 25,48 che aggiunte alle 182 porterebbero l’imposta a L. 207.48 in totale per le prime due basi. III) una imposta sulle automobili e sulle vetture esatta per mezzo di dichiarazione ed apposizione di placca, in ragione dei cavalli vapore, del numero e del valore. L’imposta dovrebbe essere dell’1,5% del valore. Per le prime tre basi di imposta, l’Ingenbleek vorrebbe tener conto altresì dei carichi di famiglia, diminuendo l’imposta dovuta, per i contribuenti con fitto non superiore a 1500, 1000, 700, 500 e 300 rispettivamente nelle cinque categorie, del 5% per i contribuenti aventi 1 figlio, non coniugato, di meno di 18 anni, del 7,5 se i figli sono 2, del 10% se i figli sono 3, e così via aumentando la detrazione del 2,5 per ogni figlio in più. L’imposta a sua volta dovrebbe essere, per i contribuenti il cui fitto eccedesse i limiti ora indicati, aumentata del 10% per i contribuenti che non hanno più di 2 figli, non coniugati, di età inferiore ai 23 anni, del 20% se i figli non sono più di uno e del 30% per i contribuenti senza figli. IV) una imposta sui domestici, per cui potrebbe essere accolto il sistema già vigente nel Belgio[10] il quale fa pagare 10 lire per una donna di servizio, 20 lire ciascuna, ossia 40 lire, se le donne sono due, e 25 lire ciascuna se le donne sono tre o più di tre; aumentando l’imposta a 25 lire in ogni caso, qualunque sia il numero delle donne, se si ha altresì un servitore maschio. Per i servitori maschi, se se ne tiene uno, si pagano 25 lire; 30 lire ciascuno se se ne tengono da 2 a 4; e 40 ciascuno se se ne tengono più di quattro; con un supplemento di 10 lire per il porto di livrea. V) una imposta sui cavalli di 50 lire per un cavallo di lusso, di 60 lire ciascuno, se i cavalli sono 2, di 70, se sono da 3 a 5 e di 80 se se ne tengono più di 5.

 

 

Questo nelle grandi linee il sistema quale l’Ingenbleek desidererebbe di vedere perfezionato nel Belgio. Qui fu addotto a guisa di esempio, perché si vegga la possibilità di costruire un sistema di imposte suntuarie, di facile accertamento, comode ad essere esatte, atte ad eccitare l’indignazione del contribuente direttamente colpito. E perché si vegga inoltre la possibilità di poter compensare, con acconce combinazioni di aliquote, variabili in funzione della località abitata, del numero dei figli, della importanza del fitto pagato, quel che di disuguale rimanga nel gruppo delle imposte sui beni di consumo immediato. Così combinandole insieme, il risultato si può dire perfetto: perfetto dal punto di vista della uguaglianza tributaria, come sopra definita, e perfetto dal punto di vista politico; le imposte sui beni di consumo immediato avvertendo, mercé la reazione pronta dell’aumento dei prezzi sul consumo, i legislatori di ogni eccesso loro e le imposte suntuarie sui beni durevoli spingendo i contribuenti a sostituire ai vecchi legislatori incauti o dimentichi del loro dovere nuovi legislatori meglio provvidi nella scelta e nella misura delle spese pubbliche.

 

 

 

 

VIII

 

La tecnica moderna ed i due tipi di imposta.

Ragioni d’essere delle imposte sul reddito guadagnato

 

Le condizioni nuove della tecnica industriale e commerciale e le facili migrazioni temporanee degli uomini da città a città, dal contado alla città e da stato a stato agevolano tecnicamente la formazione di un sistema di imposte sul reddito consumato in confronto del sistema di imposte sul reddito guadagnato.

 

 

a)    La tecnica industriale favorisce, se non in tutti, in molti tipi di imprese la grande industria sulla piccola e media. Epperciò cessano quelle ragioni di animosità e di odio contro le imposte sui consumi, che erano vivissime nei tempi andati, perché il fisco doveva trovarsi a contatto con una moltitudine di piccoli produttori e quelli doveva controllare e vessare. L’unica grande imposta di fabbricazione nota in passato fu per lungo tempo quella di macinazione sui cereali, ed era odiosissima ai popoli perché i mugnai erano numerosissimi e disseminati in ogni piccolo borgo rurale, perché gli squadroni volanti di gabellieri dovevano sorvegliare l’opera di costoro, per lo più poco colti e per indole loro frodatori, perché l’esazione dell’imposta esigeva l’uso di bolle d’accompagnamento anche per piccole partite di farine condotte dai contadini al mulino. La ferocia necessaria dei rozzi arnesi del fisco cresceva l’ira e la resistenza nei contribuenti e si spiegano perciò i tumulti continui contro l’aborrita macina. Oggi anche questo balzello potrebbe esigersi con assai minore fastidio dei contribuenti; perché i piccoli mulini vanno a poco a poco diminuendo di numero, perché in pochi grandi mulini si macina copia grandissima di cereali, perché l’invenzione del contatore meccanico consentirebbe l’esazione del balzello con un insignificante numero di gabellieri, che potrebbero essere meglio scelti. A ragione l’imposta sulla macinazione fu abolita, perché tassava un consumo risparmio;[11] ma altre accise durano o sono nuovamente poste, favorite dalla tecnica moderna: come le imposte di fabbricazione sugli spiriti, sulla birra, sullo zucchero, sui fiammiferi, sul gas e sulla luce elettrica, sulle materie esplodenti, sulle carte da giuoco. Di esse si può dire tecnicamente questo di bene: che basta una diligente sorveglianza su alcune centinaia di fabbriche (in Italia se ne può leggere l’elenco nominativo ogni anno nelle statistiche della direzione generale delle gabelle) per esigere centinaia di milioni. Senza sopprimere, quando trattisi di consumi secondari, la reazione del contribuente, virtù essenzialissima, la quale fu sopra discorsa, si sopprimono i rapporti sgradevoli ed inutili tra il fisco e moltissimi piccoli industriali e commercianti, che non erano, del resto, nemmeno nei tempi andati i veri contribuenti.

 

 

Le accise od imposte di fabbricazione hanno tuttavia un vizio: sorte e cresciute per virtù del sopravvento della grande impresa sulla piccola, provocano nuove vittorie della prima sulla seconda. Il quale nuovo trionfo artificioso della grande impresa deriva da ciò: che il pagamento anticipato della imposta esige una più alta messa di fondi da parte dell’imprenditore, alla quale i piccoli sono impreparati ed incapaci. Quando per fabbricar cicoria o fiammiferi o birra occorreva solo il capitale necessario alla compra della materia prima e al pagamento dei salari, poteva bastare un piccolo capitale, tanto più che i fornitori delle materie prime spesso attendevano per assai mesi il pagamento delle loro forniture. Ma lo stato non aspetta, volendo essere pagato appena la merce esce dai magazzini dell’industriale; e poiché l’imposta è per lo più superiore al costo della merce, si comprende come sia cresciuto a dismisura il capitale necessario all’esercizio dell’industria i cui prodotti sono colpiti da imposta di fabbricazione e come a poco a poco per progressiva eliminazione i più deboli tra i concorrenti siano perciò scomparsi. Il processo di concentrazione prosegue per un’altra ragione singolare, ed è la pubblicità data in ogni stato retto a forma parlamentare alle statistiche della produzione degli industriali tassati. Ogni anno, anzi ogni semestre, l’amministrazione finanziaria italiana pubblica la statistica delle imposte di fabbricazione; con l’elenco nominativo di tutti i produttori, la località dove lo stabilimento è posto, il carico di magazzino a principio d’anno, la quantità fabbricata, la quantità uscita, i cali di lavorazione, il carico di magazzino a fine d’anno, insieme con l’imposta pagata. Questa pubblicazione è indispensabile per evitare sospetti di frodi e di favoritismi e per assicurare il parlamento e il popolo intorno al corretto maneggio del pubblico danaro. Ma indispensabile come essa è partorisce l’effetto di rendere facili le costituzioni dei consorzi (sindacati, trusts, cartelli) tra produttori. Invero una delle cagioni più potenti di instabilità e di rovina dei consorzi medesimi è la sfiducia reciproca, la possibilità di inganni vicendevoli sulla quantità venduta, sui prezzi osservati, sulle zone di vendita. Se gli industriali consorziati si accordarono a non vendere più di una quantità fissata nel contratto per ciascheduno, ognuno teme che il concorrente di sottomano venda più dell’assegnatogli; se l’accordo fu sul prezzo minimo da osservarsi nelle vendite, ognuno teme che cotal prezzo si osservi in apparenza, mentre in sostanza si concedono abbuoni, sconti ed altre facilitazioni. L’imposta toglie tutte queste cause di discordia nel corpo dei consorziati; perché ognuno di essi può leggere nelle statistiche governative ad ogni fine di semestre od anno la quantità prodotta e venduta dai concorrenti. Il consorzio diventa dunque saldissimo, perché ogni violazione dei patti si riflette nelle cifre delle statistiche governative e fa temere la opportuna sanzione di multa.

 

 

Perciò l’imposta di fabbricazione ribadisce il giogo che i consorzi di produttori tentano di far pesare sui consumatori; e su di questi grava per causa di essa un onere maggiore del tributo percepito dallo stato, violando il già mentovato quarto canone di Adamo Smith. Ma il danno forse è controbilanciato dalle mutazioni che il tecnicismo moderno ha apportato nell’imposta di fabbricazione: – riducendo il numero delle merci di possibile tassazione, perché non tutte le merci sono prodotte dalla grande industria e solo queste ultime sono agevolmente tassabili; onde i contribuenti sono meno vessati da balzelli sui consumi primari, che per lo più sono consumi di merci producibili anche dalla piccola industria; – riducendo il numero delle merci tassabili con dazi doganali fiscali, essendochè nessun dazio fiscale può essere esatto, se non è controbilanciato da un’eguale imposta di fabbricazione; onde l’uno condiziona l’altro e viceversa ed, abolito il macinato, non è possibile un dazio fiscale sul frumento e sulle farine, ma solo un dazio protettivo; – riducendo sovratutto i costi di esazione delle imposte in maniera così imponente che i contribuenti risparmiano ben più di quanto essi medesimi in qualità di consumatori possono essere costretti a pagare di maggior prezzo per l’estorsione degli industriali consorziati. Talché, tutto bilanciato, l’imposta di fabbricazione palesa ancora indole di corretto ed elegante strumento fiscale.

 

 

b)    Anche le contemporanee mutazioni nei mezzi di trasporto hanno resa più agevole e meno costosa e meno irritante l’esazione delle imposte sui consumi. Quando i trasporti avvenivano per carri, per barconi fluviali o per velieri, i quali potevano approdare in ogni porto, l’esazione delle dogane era difficile e fastidiosa, perché ogni strada di campagna, ogni porto anche miserrimo, poteva servire ad introdurre merci dall’estero. Oggi le grandi vie del commercio internazionale terrestre sono poche e si chiamano in Italia: Ventimiglia, Moncenisio, Sempione, Gottardo, Brennero e Tarvisio; e attraverso ad esse deve passare la gran massa delle merci transitanti, per evidenti ragioni di economicità. I porti, i cui fondali sieno abbastanza profondi da permettere l’approdo dei piroscafi da carico non sono molti e diventano sempre meno numerosi per la tendenza, che si potrebbe chiamare mania, delle grandi navi. Se le merci tassate non sono troppe (e non possono mai diventare molte in un sistema fiscale puro quale si delinea e si suppone esistente), e se, dovendo dare forti rendimenti, sono consumate in grandi masse, è assurdo supporre che il trasporto possa avvenire altrimenti che per strada ferrata o sbarcando sulle banchine di Savona, Genova, Livorno, Napoli, Palermo, Bari o Venezia e simiglianti porti. Tanto più facilmente questo accadrà se il fisco non dà un troppo grande premio ai contrabbandieri con l’altezza esorbitante dell’imposta. Date queste condizioni nuove dei traffici moderni, le dogane possono fruttare centinaia di milioni con una spesa minima di esazione, con assai ridotte masnade di guardie doganali, con pochissimo fastidio dei contribuenti. Se l’ideale in pratica è raggiunto solo nei paesi liberisti (Inghilterra e Belgio), il fatto medesimo dimostra come un sistema fiscale puro abbia virtù di raggiungerlo e come le vessazioni e gli attriti e le spese siano dovuti al malo innesto protezionistico sul vigoroso tronco dei tributi sui consumi.

 

 

c)    Le abitudini degli uomini sono divenute nei tempi più recenti assai più vagabonde di quanto non fossero un giorno, quando eran usi a rimanere nel villaggio nativo e solo i muratori, gli sterratori, i pastori e alcune poche altre categorie di operai e di contadini facevano il giro del paese mentr’erano «compagni», o si recavano all’estero in cerca di lavoro. Oggi sono continue e frequentissime le migrazioni di genti dalla campagna alla città per affari, negozi, esercizio di industrie o di professioni, vendita di prodotti, salvo a tornare la sera in campagna; accade con frequenza vie maggiore che molti uomini eleggano domicilio in ferrovia, peregrinando perpetuamente da città a città in cerca di lucro; e sono imponenti le migrazioni temporanee di masse lavoratrici dall’interno all’estero nella stagione invernale o da regione a regione quando fervono i lavori agricoli. La mobilità grandissima degli uomini rende pressoché impossibile assidere ed esigere le imposte sul reddito guadagnato; perché queste suppongono accertamenti nel luogo di domicilio o residenza, avvisi personali, formazione di ruoli, atti esecutivi, tutte cose assurde o costosissime quando cresce il vagabondaggio delle genti umane. Come si tasserebbero in Italia i forestieri di passaggio per visitare le nostre bellezze naturali ed artistiche, se non esistessero le imposte sui consumi? Come i viaggiatori di commercio, stranieri ed italiani? Come gli immigranti giornalieri del contado potrebbero essere colpiti dalle città, che pure hanno d’uopo d’entrate ed incorrono in spese per provvedere alle esigenze del cresciuto traffico? Come gli operai, che hanno diritto all’esenzione, in quanto facciano consumi risparmio, o risparmio capitalistico, non mai in quanto abbiano nome di «operai»? Soltanto le imposte sui consumi danno il mezzo di raggiungere costoro; come soltanto le imposte suntuarie consentono di tassare coloro che, dovendo vivere e volendo vivere con agiatezza o lusso, hanno d’uopo di consumare casa, servizi di servitori, di cavalli, di carrozze, di automobili e sfuggirebbero alle imposte sul reddito guadagnato, perché essi sono di passaggio temporaneamente nello stato, o vivono in campagna per lo più gran parte dell’anno, quando la città esige l’imposta di famiglia.

 

 

Mentre così mutavano le condizioni tecniche e sociali in guisa da favorire l’applicazione delle imposte sul reddito consumato, peggioravano le condizioni che rendono facile l’esazione delle imposte sul reddito guadagnato. Queste invero esigono l’accertamento diretto dei redditi del contribuente, l’inventario della consistenza patrimoniale a periodi determinati, per saggiarne l’aumento o la diminuzione, astrazione fatta dai frutti netti annuali. Senza questi accertamenti precisi l’imposta sul reddito guadagnato è un’ingiuria alla verità, un sollazzo per orecchie democratiche, uno strumento di captazione di voti elettorali, una multa distribuita a casaccio contro quelli che non furono astuti o veloci abbastanza da sfuggire ai colpi del fisco; è tutto fuorché vera imposta. Ma quanto ardui ed ognora più ardui col progredire dei tempi moderni quegli accertamenti precisi! Poteva essere agevole la ripartizione dell’imposta sui redditi quando i redditi erano omogenei, derivanti da una o poche fonti, quando gli affari di ognuno erano risaputi da tutti nelle piccole cittadine. Oggi non più. L’uomo ricava redditi da una moltitudine di fonti diverse; e sono redditi che richiedono una finissima analisi qualitativa e quantitativa per essere determinati. I catasti odierni sono capolavori di complessità in confronto ai catasti semplici di duecento anni fa; né della complessità è possibile fare a meno, per la crescente diversità di culture, per il carattere scientifico dell’agricoltura moderna, che suppone anticipazioni a lunga scadenza, ritorni frazionati e conteggi ardui sulle quote di rischio, assicurazione, manutenzione, rinnovazione. Ben più ardua è la bisogna nell’accertamento dei redditi mobiliari; per cui ogni industria ha metodi suoi proprii e deduzioni particolari di spesa. Fu detto che gli agenti del fisco debbono essere magistrati e tecnici insieme; dotti nel diritto privato e fiscale ed insieme maestri del tecnicismo industriale ed esperti nelle valutazioni delle vicende commerciali e delle risultanze contabili. Il quale tipo ideale – eppur necessario – di agenti di accertamento ognun vede quanto sia rarissimo. Onde gli accertamenti nulla più sono di vaghissime approssimazioni, di wild guesses, che fanno disperare ognuno il quale serenamente vi rifletta della possibilità di attuare il postulato dell’uguaglianza nella ripartizione dei tributi sul reddito guadagnato.

 

 

Aggiungasi che le agevolezze di rapporti economici tra stato e stato, tra contado e città, tra città e città, rendono arduo ad ogni stato o comune di conoscere quali siano i redditi che cittadini o comunisti ritraggono da fonti straniere. Quei fatti che agevolano l’imposta sui consumi e le imposte suntuarie difficultano le imposte sul reddito guadagnato; ed è vano inveire contro le frodi dei ricchi, quando si vuole un metodo d’imposta che facilita le frodi e non si vuole quel metodo che efficacemente le combatte. Ed è inutile esacerbare gli accorgimenti inquisitivi per scovrire la ricchezza del contribuente, perché questi ognora recalcitrerà contro la pretesa del fisco di conoscere minutamente le sue faccende private, di scrutare nei libri contabili i suoi vizi e le virtù, di verificare l’impiego e le vicende del suo patrimonio. Sempre si troveranno maniere di eludere gli accorgimenti del fisco con avvedimenti ancor più accorti e di rendere sperequata e disuguale una ripartizione che è, sebbene non lo sia, nemmeno teoricamente, reputata equa nei libri e nelle parole della legge. Il contribuente non si rifiuta a manifestare l’essere suo, la sua ricchezza purché ciò avvenga nei modi da lui preferiti; ossia con la spesa. La qual verità è siffattamente nota all’universale ed agli agenti del fisco, che le imposte cosiddette sul reddito guadagnato sono in realtà imposte sulla spesa. Quando non soccorrano dati precisi, che si hanno solo per talune categorie di contribuenti, o valutazioni imperfette possedute per talune altre categorie, giuocoforza è per gli agenti fiscali attenersi alla «voce pubblica» la quale considera ricchi coloro che fanno grande sfoggio di servitori, livree, cavalli, automobili, divertimenti, ville, monti, bagnature, ecc. Così poco soddisfacenti, osserva lo Seligman (nel dotto e penetrante libro su The income tax, a study of the history, theory and practice of income taxation at home and abroad, by Edwin R. A. Seligman, New York, The Macmillan Co., 1911, pagg. 337 e 353), furono i risultati degli sforzi compiuti in Austria per accertare il reddito vero che «si dovette ricorrere in numerosissimi casi a quell’articolo della legge il quale autorizza i funzionari a stimare il reddito del contribuente secondo i suoi segni esteriori e principalmente secondo il fitto di casa da lui pagato. In pratica il reddito viene calcolato a circa cinque volte il valor locativo; cosicché, quella che doveva essere, nell’intenzione del legislatore, una corretta imposta sul reddito [guadagnato] in fatto diventò in notevole proporzione nulla più di una assai grossolana imposta sui valori locativi». E per l’Italia, osserva il medesimo autore come per gli industriali, commercianti e professionisti privati «l’amministrazione sia praticamente incapace a verificare gli accertamenti e si debba contentare di fare una stima assai grezza basata sovratutto sui valori locativi». Contuttociò un grande quotidiano belga, il Matin di Anversa, in un suo numero del settembre 1906 citato dall’Ingenbleek affermava: «Ognuno di noi è in grado di determinare il reddito dei suoi vicini ed amici, unicamente secondo il loro modo di vivere, tutti naturalmente adattando le proprie spese (son train de maison) alle proprie entrate». Idea grossolana, la quale dà luogo ad errori numerosi, tanto sono vaghe le nozioni correnti nell’opinione comune intorno al modo di vivere ed al reddito altrui; idea che pur tuttavia si accetta dai partigiani dell’imposta sul reddito guadagnato, pur di poter dire d’aver creata una imposta purchessia chiamata con quel nome e progressiva per giunta; mentre si respingono le maniere chiare, franche, disciplinate con accortezza di accertare precisamente quel reddito consumato, che tuttavia si colpisce, in cifra però erronea, mentre si dice di tassare il reddito guadagnato!

 

 

In ciò sta spesso la allegra vendetta che l’imposta sul reddito consumato trae delle invereconde lodi tributate a quella sul reddito guadagnato; quando, per le difficoltà tecniche crescenti di accertare sul serio il secondo reddito, la si trasforma insensibilmente, inavvertitamente in una imposta della prima specie; vergognosa tuttavia di se stessa, manipolata con criteri arbitrari e differenti da agente ad agente e tutta riposante sull’infido fondamento della voce pubblica.

 

 

Quando la «voce pubblica» dimostra per segni troppo chiari la sua inettitudine ingenita a consentire lo scoprimento della verità intorno al reddito guadagnato, si ricorre alla «inquisizione fiscale» affermando di imitare, ciò facendo, le regole già invalse nell’imposta sui consumi, per cui l’inquisizione sarebbe pacificamente ammessa da secoli. Per dimostrare la falsità della quale tesi, mi piace citare una pagina incalzante dell’Ingenbleek (vol. cit., pag. 361 e seg.), avvertendo che egli chiama, conformemente all’uso volgare, imposte sul reddito quelle che qui sono dette imposte sul reddito guadagnato, ed accise e imposte indiziarie alcune delle imposte che furono nella presente memoria dette sul reddito consumato:

 

 

«L’inquisione fiscale non merita veramente questo nome se non tocca la persona medesima del contribuente. Gambetta, preconizzando l’imposta sul reddito in Francia, sosteneva una volta la seguente opinione: “Si dice: come! Volete voi stabilire un’imposta sul reddito? Sarebbe l’inquisizione, sarebbe un’imposta impossibile ad accertarsi!Io rispondo: conosco nel nostro bel paese di Francia molte imposte che cagionano assai più vessazioni ai contribuenti: l’imposta sulle bevande, sulla circolazione e l’esercizio presso il distillatore e il fabbricante”. Citando queste parole alla Camera, il 10 luglio 1894, il signor Jaures le considerò come un argomento decisivo contro i timori dei suoi avversari. In verità è abusare un po’ troppo d’un’etichetta voler vedere dell’inquisizione nel fatto che i funzionari esercitano un controllo nelle fabbriche sottomesse alle leggi d’accisa. Ed è inesattissimo assimilare questo controllo alle investigazioni dirette negli affari personali del contribuente. Gli impiegati delle accise controllano e sorvegliano dei fatti evidenti; operano in locali quasi pubblici; non vogliono sorprendere nessun interesse professionale e non si lasciano andare affatto ad investigazioni vessatorie riguardo alla vita intima del contribuente. Raramente essi sono in contatto con costui; la loro azione è quasi automatica, esercitandosi su oggetti materiali e che sono a loro portata immediata; un termometro ed un densimetro regolano sovente la base dell’accisa negli stabilimenti. Finalmente il fabbricante non paga in realtà l’imposta; ne fa l’anticipazione, essendo l’intermediario momentaneo tra il contribuente consumatore e il fisco. Tutte queste considerazioni provano – e la pratica d’altronde lo dimostra abbastanza – che il controllo in materia d’accisa è una formalità che non tocca il fabbricante interessato. Ben altra cosa sarebbe, per esempio, rivedere le scritture di contabilità di questo industriale per conoscere l’importanza dei suoi sbocchi; voler conoscere il suo costo di produzione e di vendita per tassare il suo beneficio. Il controllo sarebbe allora personale, farebbe pesare una dominazione reale sul contribuente… Neppure può essere assimilata ragionevolmente l’imposta sul reddito alle imposte indiziarie sui cavalli, sui cani, sulle automobili, benché anche queste esigano delle dichiarazioni o delle verificazioni. Per queste il controllo è facile, è obbiettivo; riguarda cose visibili che si rivelano nella vita pubblica, e non la capacità economica, che si confonde colla vita intima del contribuente… L’inquisizione fiscale esiste solo quando il contribuente medesimo è soggetto ad una sorveglianza personale. Se il funzionario deve penetrate in un gabinetto da lavoro per compulsare una contabilità o sorprendere le fluttuazioni della vita privata; se deve controllare senza tregua i fatti minuti del modo di vivere di ognuno; se deve scrutare i segreti delle famiglie per sorprendere l’indole dei redditi e delle spese; nel momento, in una parola, in cui si stabiliscono contatti persistenti tra il funzionario schiavo del dovere fiscale ed il contribuente che si sottrae per tradizione ed è, altresì per tradizione, geloso della propria libertà, vi ha inquisizione fiscale».

 

 

Quali dunque le ragioni che spiegano l’esistenza delle imposte sul reddito guadagnato erronee nel loro principio fondamentale ed ipocrite nella loro applicazione pratica? Si deve mettere da parte, almeno come spiegazione generale, quella di chi dicesse essere le imposte sul reddito guadagnato necessarie per compensare le disuguaglianze delle imposte sul reddito consumato. Questa potrà essere una ragione ottima quando si parta dal falso concetto che il «vero» reddito sia quello guadagnato o quando le imposte sul reddito consumato siano male congegnate e percuotano più i consumi risparmio che i consumi spesa. Date però le nostre premesse e data l’attuazione del sistema delineato sopra, questa ragion d’essere compensatrice in generale cade. Potrà tuttalpiù sussistere per talune particolarità del sistema, che qui sarebbe lungo discorrere e fuor di luogo.

 

 

Le vere ragioni che spiegano l’esistenza delle imposte sul reddito guadagnato sono tre: l’una politica illusoria, la seconda politico reattiva e l’altra tecnica.

 

 

a)    La prima ragione è d’indole politica illusoria, poiché i governanti di ogni tempo e d’ogni paese hanno sempre usato tra le loro armi di governo questa: di moltiplicare i tipi ed i nomi delle imposte, per far credere ai popoli che con ognuna d’esse si percuotono nuovi contribuenti, prima esenti o non abbastanza colpiti. La qual credenza è falsa; poiché con le imposte comunemente dette sul reddito [guadagnato] nuovamente si colpiscono quei redditi che già avevano assolto il debito tributario con le imposte sul reddito consumato; anzi, una parte del reddito, quella consumata, paga di nuovo una volta il tributo, l’altra parte lo ripaga due volte. Né contenti della nuova tassazione, presto inventarono nomi nuovi, come di imposta di successione, sui trasferimenti della proprietà o sul capitale, con cui lo stesso reddito viene percosso una terza o quarta volta; ed ora si inventano nomi nuovissimi, come di imposte sugli incrementi di valore, con cui la ripetizione si rinnova e forse non per l’ultima volta.

 

 

Cosiffatto sollazzo della ripetizione è in parte forse innocente; perché trattasi di frazionare un tributo del 20% sul reddito [consumato], che ha aspra apparenza e sarebbe risentito dai popoli, in parecchi altri tributi, più benigni nell’aspetto, l’uno del 2, l’altro del 5, il terzo del 10 ed un quarto del 3% del reddito. La somma non muta e non può mutare, essendo immutato il fabbisogno dello stato; ma l’impressione nei contribuenti è meno viva. Arte vecchia di governo, perché sempre si seppe che a spennare la gallina senza farla stridere troppo conviene levarle ad una ad una dolcemente le penne.

 

 

Ma in parte è indubbiamente dannoso; poiché la reazione dei contribuenti, sembrando meno viva la percossa dell’imposta, è meno pronta ed efficace; sicché le spese pubbliche possono crescere ad altezze che altrimenti non sarebbero comportate; e perché la creazione di tanti nomi diversi per la stessa cosa illude i contribuenti e li persuade che realmente si tratti di imposte per una diversa materia imponibile. E si ricerca allora l’uguaglianza tributaria nella cerchia di ogni singola imposta; e si grida alla immunità «ingiusta» ogni qualvolta un contribuente non sia colpito dall’imposta che ha un nome, senza cercare se non lo sia dall’imposta che ha altro nome. Le quali baruffe intestine fra contribuenti sono graditissime ai governanti, a cui apprestano nuova occasione di balzelli.

 

 

La creazione di parecchie categorie d’imposta soddisfa a volta a volta altresì agli interessi dei gruppi politici dominanti, i quali nel nome nuovo trovano un mezzo di farsi credere osservanti esecutori delle promesse fatte quand’erano all’opposizione e di indulgere all’abito democratico d’oggi come ai pregiudizi aristocratici d’un tempo. Come alle oligarchie aristocratiche dominanti nel secolo XVII e XVIII erano piacevolissime le imposte sulla spesa quando colpivano i consumi primari o consumi risparmio, perché costringendo al lavoro le plebi oziose, contente di poco guadagno, ottenuto con scarso lavoro, accrescevano la quantità delle maestranze, così sono oggi graditissime alle democrazie moderne le imposte sui redditi guadagnati, sulle eredità, sugli incrementi, perché sono imposte che godono nomea di colpire i ricchi. Che diversa sia poi spessissimo la realtà poco monta, purché l’effetto ottico sulle plebi sia ottenuto. E si dimostrano più grandi schiamazzatori a pro dell’imposta sul reddito coloro che di fatto meno la pagano, pur essendo fondata la persuasione che a pagarla dovrebbero sentirsi astretti dal dovere.[12]

 

 

b)    La seconda ragione, che in parte fu già detta sopra nel capo settimo, è l’attitudine di alcune tra le imposte sul reddito guadagnato a risvegliare il senso di controllo dei contribuenti e la loro reazione contro le spese inutili. Ma già si disse che cotale virtù è limitata ad alcune poche tra le imposte sul reddito, ossia a quelle soltanto che sono direttamente esatte dal contribuente legale. Or si aggiunga, in questo capo destinato allo studio della azione che sul congegno tributario esercitano le mutate condizioni della tecnica e della vita moderna, che, sebbene gli innocenti propugnatori delle imposte sul reddito guadagnato non se ne siano accorti, nessuna imposta tende ad essere meno «diretta» di quelle che essi si affaticano a lodare come imposte dirette sul reddito. Chi studi la maniera reale, e non quella immaginata dal cabalista di riforme tributarie, con cui sono esatte le imposte sul reddito guadagnato si avvedrà di leggieri che cresce la proporzione di esse la quale è esatta su chi paga e diminuisce la proporzione esatta su chi riscuote il reddito. Il legislatore e più l’amministratore della pubblica finanza si sono accorti cioè che il tentativo di accertare il reddito ed esigere l’imposta a carico di chi riscuote il reddito e teoricamente deve essere considerato come il vero contribuente era unicamente fecondo di frodi e d’insuccessi fiscali; perché il contribuente, quando abbia incassato il reddito, ha mille modi di sfuggire alle indagini fiscali; e tanto è complessa la struttura economica odierna, tanto fini ed occulti i congegni creditizi e le maniere di investire capitali in lontani paesi e varii gli accorgimenti per esigere i guadagni che ogni speranza di strappare direttamente al contribuente la confessione dei suoi redditi è onninamente vana. Legga, chi voglia, i libri dello Seligman su The Income Tax, quello dell’Ingenbleek già citato e l’altro del Lia su L’imposta mobiliare e la riforma sui tributi diretti in Italia (Torino, S.T.E.N., 1906); e si persuada come l’esperienza universale, italiana, svizzera, austriaca, inglese, americana insegni la inanità degli sforzi compiuti ad accertare il reddito presso il contribuente «vero» che lo riceve; inanità che appare minore in un paese solo dal mondo, ed è la Prussia, dove i popoli supinamente son contenti di proclamarsi vassalli di una burocrazia forte, inquisitrice, persuasa della propria sapienza ed onestà. Le quali attitudini di ubbidienza e di dominio essendosi verificate per una volta sola nella storia delle genti umane, è probabile abbiano a tramontare nel loro medesimo paese d’elezione; e sarebbe impolitico da parte dei governanti di altri paesi fare affidamento sul loro inaspettato radicarsi in popoli che tuttodì vi si dimostrano ribelli. Ben fanno perciò i legislatori, volendosi tenere stretti alla teoria della tassazione del reddito guadagnato, a cercare altra via per ovviare alle frodi. E la via prescelta è l’accertamento del reddito presso non chi riceve, ma chi paga il reddito, col metodo della «ritenuta» da parte dello stato dell’imposta sugli interessi del suo debito o sugli stipendi dovuti agli impiegati pubblici, o colla tassazione a carico delle provincie, dei comuni, degli enti morali, delle società per azioni, degli industriali per i redditi degl’impiegati, degli operai, dei creditori, degli azionisti, degli obbligazionisti, ecc., che dai primi ricevono il proprio reddito. Sorge così la figura moderna del «contribuente esattore per contro altrui»,[13] il quale non ha il reddito, anzi lo paga altrui; ed è tassato perché il fisco ha maggiori facilità di accertare il reddito e di esigere l’imposta a carico degli enti pubblici, degli enti morali, delle società per azioni, tutti corpi astretti a severa disciplina di pubblicità di bilanci e di responsabilità degli amministratori e quindi incapaci, del tutto o quasi, di frodare il fisco. In Inghilterra forse i tre quarti dell’imposta sul reddito sono esatti da pseudo contribuenti; in Francia i nuovissimi progetti di imposta sul reddito pongono gran cura ad evitare, per quanto sia possibile, di mettere a contatto il fisco coi «veri» contribuenti, preferendo di gran lunga tassare i contribuenti esattori. Negli Stati Uniti lo Seligman guarda con onore al pericolo che si abbia ad abbracciare il partito di tassare i veri contribuenti sul reddito complessivo da essi ricevuto, e, mosso dal vivo disio di vedere introdotta nel suo paese l’imposta sul reddito guadagnato e di salvarla da un insuccesso che le sarebbe fatale, si industria con fatica ed ingegno grandi a delineare un sistema (a practical programme) di cui il concetto essenziale è di evitare con somma cura, per quanto sia possibile, ogni tassazione del reddito complessivo all’arrivo presso il contribuente «vero» e di estendere l’applicazione del concetto di tassare i redditi all’origine (stoppage-at-source system) presso i pseudo contribuenti esattori; e reputa sommo suo trionfo l’aver potuto dimostrare che negli Stati Uniti, paese economicamente progreditissimo per il prevalere sempre maggiore delle imprese rette a forma di società per azioni, la massima parte dell’imposta da lui auspicata sul reddito potrà essere esatta a mezzo di questi pseudo contribuenti.

 

 

Che cosa significa il fatto, certissimo ed universale e di crescente importanza, dell’esazione delle imposte sul reddito a carico dei pseudo contribuenti esattori? Che le imposte sul reddito guadagnato vanno via via perdendo l’attitudine che esse avevano di risvegliare la reazione del contribuente, che è la virtù politica massima di una buona imposta. Vero è che lo pseudo contribuente ha diritto di esercitare la «rivalsa» dell’imposta da lui anticipata nel momento in che paga il reddito al «vero» contribuente. Ma di fatto la rivalsa non viene quasi mai esercitata, amando meglio il pseudo contribuente sommare le imposte anticipate colle altre spese di gestione e pagare stipendi, salari, interessi, dividendi in cifre rotonde, nette da imposta da lui anticipata nel momento in che paga il reddito ai veri contribuenti; di guisa che nasce ed a poco a poco si radica in costoro la «illusione» di non pagare imposte; anzi, con nuova peregrina illusione, essi gioiscono delle imposte le quali cadono sui pseudo contribuenti, per lo più persone immaginarie o giuridiche, persuadendosi di non essere per nulla tocchi dalla sventura che quelli opprime. Con questo avvedimento della tassazione all’origine, gli accorti governanti raggiungono ad un tempo due per loro utilissimi fini: il primo dei quali si è di esigere agevolmente l’imposta ed il secondo di annebbiare per modo il genuino fatto tributario da persuadere ai «veri» contribuenti di essere immuni e di farsene strumenti ed alleati nella persecuzione contro gli pseudo contribuenti. Ma per tal modo le imposte sul reddito guadagnato perdono ogni virtù reattiva; essendoché le persone immaginarie, che son fatte contro lor voglia contribuenti esattori, sono incapaci a reagire e le persone, di carne ed ossa, che sono i veri contribuenti, son persuase di nulla pagare. Il quale inganno è lagrimevolissimo, perché torna massimamente utile a quelli tra i governanti che sono proni al malfare.

 

 

c)    La terza ed invero più seria ragione del costituirsi di un gruppo di imposte sul reddito guadagnato è tecnica. Ogni imposta ha, come fu spiegato sopra, un limite al quale l’aumento dell’aliquota cessa di dare un rendimento o lo dà troppo scarso. È la teoria della produttività decrescente applicata alle imposte ed è il nocciolo di verità che sta nella illusione sopra descritta. Un sistema ottimamente costrutto di imposte sul reddito consumato incontra limiti al di là dei quali non è conveniente spingerne il rendimento. Se si rialza troppo l’imposta sulle bevande alcooliche, l’uomo si avvelena con spiriti inferiori o ricorre al contrabbando divenuto lucroso. Se si aumenta eccessivamente il prezzo dei sigari e delle sigarette, si inventa qualche vizio che surroghi l’abitudine del fumare. Se dal 10 si spinge al 20, al 30 e poi al 40 o 50% l’imposta, ottima se bene regolata, sul valore locativo, si spingono gli uomini a stiparsi in poche camere. Se si tassano troppo fortemente servitori, cani, carrozze, cavalli, automobili, i ricchi andranno in aeroplano o spenderanno più forti somme negli sports invernali o butteranno denari in maggior copia nel seno di femmine galanti, materia imponibile di che è meglio il fisco non s’impacci.

 

 

Or può ben darsi che quando il sistema delle imposte sul reddito consumato è giunto al punto di sua produttività massima, il fabbisogno dello stato non sia ancora coperto. Occorrono due miliardi di lire, ed il sistema ne frutta appena uno. Ecco un fatto dal quale non si può fare astrazione. Ed ecco la ragione di essere fondamentale delle imposte sul reddito guadagnato. Il fisco dopo essersi messo in imboscata presso tutte le vie percorse dal reddito per investirsi in consumi, dopo avere tassato tutti i consumi tecnicamente tassabili, dopo averli tassati in guisa da soddisfare al postulato dell’uguaglianza si trova ad aver più fame che pria. Ed allora rifà il cammino a ritroso. Ritorna al reddito consumato e cerca di colpirlo nello stadio quand’è tuttora indistinto, espresso in numerario. Ma farlo non può, se non traverso alla forma di reddito guadagnato. Ricordiamo le considerazioni esposte nel capo terzo intorno alla impossibilità di accertare direttamente il reddito consumato. Tutte le cose discorse dappoi ebbero ad oggetto la descrizione delle maniere diverse di tassare indirettamente il medesimo reddito. Ma poiché queste diverse maniere non bastano, si rifà il tentativo, approssimandosi all’ideale per altra via. La maniera fu già esposta, criticata, messa a raffronto con l’approssimazione finora descritta e trovata inferiore (capi quarto e quinto). Benché inferiore, essendo necessaria, conviene rassegnarvisi. Abbiamo così il secondo gruppo di imposte: sul reddito guadagnato, le quali devono però essere costruite in maniera da tassare nell’indistinto reddito guadagnato quella parte che il legislatore presume consumata, esentando la parte che il legislatore presume risparmiata.

 

 

 

 

IX

 

Si dimostra come anche le imposte sul reddito guadagnato tendono ad esentare il risparmio

 

Il nostro assunto sarà perciò conchiuso quando si provi che anche nel sistema delle imposte sul reddito guadagnato, definito come sopra si disse (capo primo) e comprendere perciò, insieme alle imposte sui frutti, le imposte sulle eredità, donazioni, giuochi, incrementi di valore delle imprese, dei titoli, dei terreni, ecc., il vero oggetto dell’imposta, l’oggetto «tendenziale», è il reddito consumato.

 

 

La qual dimostrazione è evidente che non può darsi in maniera diretta, perché i legislatori premuti dalla illusione delle molteplici materie imponibili e inconsapevolmente desiderosi di scoprirne sempre delle nuove a soddisfazione dell’erario e dei popoli affermano unanimi invece che l’imposta deve colpire il reddito guadagnato.

 

 

Ma i fatti sono più forti delle false teorie. Ed i fatti ci ammaestrano che, or con un pretesto, or con un altro, i legislatori tendono sempre più ad esentare il risparmio dall’imposta sul reddito guadagnato, rendendo così, mentre lo negano, stupendo omaggio alla tesi della tassazione del reddito consumato. Qui rapidamente, si elencano i principali fatti a sostegno dell’assunto di questa memoria.

 

 

Si avverta però, innanzi di procedere avanti, che la dimostrazione è volta soltanto a provare che le imposte vigenti sul reddito guadagnato – sotto il qual nome si comprendono, come fu chiarito nel capo primo, insieme alle cosidette imposte sul reddito, anche le imposte sul patrimonio, sulle successioni, sugli incrementi di valore, ecc. – debbono a viva forza riconoscere la verità del teorema dell’esenzione del risparmio, e sono costrette perciò a foggiarsi, sotto certi rispetti, in maniera che è contraddittoria al concetto della tassazione del reddito guadagnato. Ma, dando questa dimostrazione, non si è voluto affermare che le imposte sul reddito guadagnato manchino di una propria logica. Anzi l’hanno e imperiosa e siffattamente crudele da imporre sempre nuovi ampliamenti e ripetizioni della materia imponibile. È questa logica che dopo avere assoggettato all’imposta i guadagni ordinari certi vi assoggettò anche gli incerti ed eventuali; e poi a ragione non vide differenza alcuna tra i guadagni ricorrenti e quelli straordinari non ricorrenti e per questi creò le imposte sulle successioni, sulle donazioni, sulle vincite alle lotterie, le quali nonostante il loro «nome» peculiare sono tributi sul reddito guadagnato; e, non soddisfatta ancora, comprese nel reddito i prezzi d’avviamento delle imprese economiche ed ora crea le imposte sugli incrementi di valore. Nulla resiste all’impeto della logica intima che esagita l’imposta sul reddito guadagnato, costringendola a procacciare a se stessa sempre novella preda.

 

 

Qui si vuol dire che nella legislazione tributaria, accanto agli effetti di questa logica interna conquistatrice del principio della tassazione del reddito guadagnato si veggono altresì gli effetti benefici dell’azione limitatrice di un’altra logica, esterna a quella del principio accolto dal legislatore, anzi ad esso opposta e propria del principio della tassazione del reddito consumato. L’ordinamento tributario di fatto è una risultante di queste due forze logiche, l’una interna e propria del principio accolto dal legislatore e l’altra esterna e propria di un diverso principio che a parole il legislatore vigorosamente oppugna. Qui si riconosce che il principio «espressamente» voluto dal legislatore è quello della tassazione del reddito guadagnato;[14] e che a questo bisogna uniformarsi ogni qual volta si debba risolvere un dubbio di tassabilità e non soccorra un’immunità eccezionale e dichiarata dal legislatore; a questo principio, ad esempio, dovendosi da noi ricorrere qualora si discuta della tassabilità dei prezzi d’avviamento o dei sovraprezzi delle azioni di nuova emissione. Ma si afferma inoltre che il legislatore, inconsciamente e spinto dalla forza dei fatti, ben altrimenti potente della logica di un «falso» principio, ha già recato all’edificio della tassazione del reddito guadagnato numerose e profonde offese; che queste offese sono la conseguenza dell’imperiosa violenza con cui la verità del principio opposto della tassazione del reddito consumato si fa chiara alla mente riluttante del legislatore. Cosicché non è vana la speranza che finalmente il legislatore si persuada della verità del teorema milliano e, rifiutando il contrario principio oramai contennendo per le scelleraggini commesse e tutto diroccato dagli assalti vittoriosi del nemico suo, quest’ultimo accolga nella sua purezza adamantina. Ed ora si proceda alla narrazione degli assalti che il teorema dell’esenzione del risparmio o della tassazione del reddito consumato mosse contro la rocca forte della credenza falsa ed empia.

 

 

PROVA PRIMA: il risparmio presunto e la classificazione dei redditi.

 

 

La prima e fondamentale maniera di attuare la regola della esenzione del risparmio pur entro il sistema delle imposte sul reddito guadagnato si è di presumere per ogni contribuente una quota di risparmio e quella rendere immune dall’imposta. Già vedemmo che il sistema è difettoso, perché sostituisce alla constatazione dei fatti reali nei casi singoli che automaticamente si avvera colle imposte sul reddito consumato, la presunzione compiuta dal legislatore per classi di contribuenti, presunzione che potrà presentare scarti più o meno ampi dalla verità. Tuttavia il metodo può essere accolto, in difetto di meglio, come una grossolana approssimazione all’esenzione dell’effettivo risparmio ed è universalmente noto sotto il nome di diversificazione o discriminazione o classificazione dei redditi.

 

 

Ben è vero che il metodo per cui certuni redditi sono tassati di più ed altri meno viene dalla comune degli scrittori spiegato diversamente; ritenendosi che sieno meritevoli di trattamento più simpatico i redditi che derivarono dal lavoro, perché s’acquistarono con fatica di muscoli o di intelligenza, e di tassazione più severa quelli che s’ottennero senza fatica col semplice impiego dei capitali. Spiegazione fallace; perché si introduce nella finanza un concetto extravagante di valutazione morale dei redditi che non ha alcun fondamento. Nulla di più odioso di siffatte discussioni sull’origine del reddito: sarà «guadagnato» il reddito di un cantante famoso a cui il dotto naturale di un’ugola divina fa lucrare un milione di lire all’anno e sarà «gratuito, unearned» il reddito che l’operaio, la donna di servizio, il contadino ritrae a titolo di interessi sul libretto della cassa di risparmio o di rendita fondiaria dal brandello di terreno acquistato con le sudate economie? Sarà reddito di «lavoro» e quindi meritevole di benigno trattamento fiscale la pensione passata dal gran signore alla cortigiana famosa; e sarà reddito di «capitale» e perciò abominevole e soggetto ai colpi aggravati delle imposte il dividendo che l’avventuroso capitalista ritrae dalle azioni di una società esercente una industria rischiosa?

 

 

L’origine del reddito non conta nulla agli effetti tributari; sibbene conta assaissimo la sua destinazione; e si trattano benignamente i redditi di lavoro, non perché siano di «lavoro» sibbene perché essi in parte non sono «reddito». Badare all’origine del reddito vuol dire risuscitare a rovescio le vecchie distinzioni di classi, di cui le une sarebbero immuni, le altre taillables et corvéables à merci, con le funeste conseguenze che dalle immunità di classe derivarono sempre. Badare alla destinazione del «reddito guadagnato» significa semplicemente attuare, in maniera imperfetta e grossolana, ma attuare, il postulato dell’uguaglianza tributaria. Ciò fu ben visto dai primi legislatori che vollero applicare il principio dello Stuart Mill dell’esenzione del risparmio. L’Hubbard, relatore di un comitato inglese sulla riforma dell’imposta sul reddito (Report and evidence of the Committee of 1861 on the Income tax, page XIV), constatava che i dati disponibili allora intorno al risparmio delle diverse classi sociali facevano ritenere che i possessori di redditi immobiliari e mobiliari capitalistici risparmiassero il decimo circa dei loro redditi; mentre sui redditi professionali ed industriali la proporzione saliva ai quattro decimi. Quindi egli proponeva che si esentasse dall’imposta un decimo di tutti i redditi ed inoltre un altro terzo del reddito residuo per i redditi professionali od industriali, redditi provenienti cioè sovratutto dal lavoro. La proposta non fu accolta in Inghilterra se non tardissimo;[15] e se il penultimo cancelliere dello scacchiere, Mr Asquith, la volle adottata, dovette adornarla degli ornamenti del gergo democratico di moda e perciò atto a procacciare voti, dichiarando di volere, non esentare il risparmio, sia bene tassare con un’aliquota minore (9 d. per Ls.) i redditi «guadagnati» invece dell’aliquota normale di 1 scellino e 2 d. per lira sterlina applicata ai redditi «non guadagnati». Lo sconcio nome nulla toglie alla sostanza dell’istituto, che è di tassare meno coloro che hanno maggior bisogno di risparmiare per la vecchiaia, l’invalidità, le malattie, la famiglia.

 

 

Il legislatore però che primo mosse i più arditi passi sulla via dell’esenzione presuntiva del risparmio fu il nostro italiano, il quale costrusse coll’imposta sui redditi di ricchezza mobile una imposta, che nella sua struttura fondamentale era la migliore dei suoi tempi (legge 14 luglio 1864, n. 1830) ed è ancora bellissima oggi e sarebbe vieppiù ammiranda, ove noi non avessimo l’abitudine di lodare le cose altrui, lasciando via via degenerare le migliori istituzioni nostre. L’imposta di ricchezza mobile è nulla più di un rudere rovinato dell’edificio immaginato dai legislatori del periodo eroico della finanza italiana. Veggasi come sia stupendo l’edificio concepito: distinti i redditi mobiliari in tre categorie, di capitale puro, di lavoro puro e misti di capitale e lavoro. I redditi di capitale puro, detti di categoria A, si presume siano interamente consumati dai loro percettori e sono quindi interamente tassati, per gli otto ottavi del loro ammontare. La supposizione è, in tesi generale, accettabile, perché il reddito si forma senza uopo dell’intervento dell’opera dell’uomo. Il contribuente può morire, ammalarsi, diventar vecchio ed inabile al lavoro e ciononostante il reddito gli perviene nella stessa misura di prima, sicché egli non ha bisogno di premunirsi contro queste eventualità risparmiando. La supposizione non è in tutto corretta, potendo ben darsi che contribuenti capitalisti di fatto risparmino, pure non avendone bisogno; ma essendo questo l’inevitabile difetto di tutte le presunzioni generali, è inutile discorrerne. Ovvero si potrebbe osservare che qualche capitalista può «aver bisogno» di risparmiare, se i suoi redditi di capitale puro sono così esigui che lo lascerebbero alla mercé di quei danni che col risparmio si vogliono scongiurare; il possessore di un libretto di cassa di risparmio con 1000 lire versate, del reddito annuo di 30 lire, essendo meglio tutelato contro le malattie o l’invalidità di chi nulla possiede, ma essendo ben lungi dall’essere tutelato abbastanza; e non essendo in nulla sufficiente l’avere suo all’educazione ed istruzione dei figli in caso di sua morte prematura. Al che si provvederebbe concedendo l’esenzione dall’imposta in categoria A, fino alle 400 lire imponibili di reddito, così come si fa per le altre categorie o fino alle lire 10.000 di capitale. Esigenze alle quali si potrà soddisfare a mano a mano la pressione fiscale potrà farsi meno pesante e quando il legislatore moderno vorrà decidersi a perfezionare – invece di rappezzarlo guastandolo, come fece fin qui – lo strumento fabbricato dalla generazione passata.

 

 

I redditi di lavoro puro, ossia di categoria C, per loro indole rendono necessario per il contribuente medio, sufficientemente previdente, del tipo del buon pater familias, quale appunto il legislatore deve sempre presumere, una notevole capitalizzazione. Infatti l’operaio, il professionista, l’impiegato, vivendo del proprio lavoro, hanno un reddito che muore colla cessazione della vita fisica o produttiva del contribuente. Se essi ammalano o diventano inabili al lavoro, non possono più attendere alla clientela; e l’imprenditore, l’ente pubblico a cui prestano i loro uffici manuali od intellettuali, dopo alquanta attesa, si stanca di pagare stipendio o salario. Se invecchiano e non hanno un fondo risparmiato con cui sostentarsi, sono trascurati o maltrattati dai figli e devono cercare amaro ricovero in un ospizio. Se muoiono in età prematura, l’ultima loro ora sarà angosciata dal pensiero della moglie e dei figli miserabili, costretti a guadagnarsi subito un pane, senza perfezionare la loro educazione tecnica o professionale, discendendo forse ad uno strato sociale inferiore a quello a cui il padre s’era innalzato. Perciò il legislatore italiano del 1864 aveva supposto che i redditi di lavoro puro fossero consumabili solo per i cinque ottavi, onde esentò dall’imposta i rimanenti tre ottavi, da lui supposti destinati al risparmio. Anche questa è una supposizione spesso irreale, essendo molti contribuenti scapoli e bisognosi quindi soltanto di risparmio individuale e non di quello di specie ed essendo numerosi i lavoratori incapaci di pensare all’indomani per difetto di previdenza. A quelli che all’indomani non possono pensare perché hanno guadagni appena necessari al sostentamento della vita fisica, il legislatore accordò l’esenzione totale dall’imposta sino alle 400 lire imponibili (che vogliono dire 640 lire effettive nella categoria C ed 800 lire nella D nuova che è una suddivisione della prima) e minorazioni notevoli dalle 400 alle 800 lire, tenendo conto, in misura che potrà essere discussa e col tempo variata, del concetto espresso prima che il cosidetto reddito destinato o supposto destinato a consumi risparmi non è in realtà «reddito». Si può obbiettare ancora, contrariamente a quanto si osservò per i contribuenti di categoria A, che vi possono essere lavoratori provvisti, oltreché di redditi di lavoro, di redditi di capitale, così da non aver bisogno di risparmiare; ma, pur essendo questi casi frequentissimi, se ne deve fare astrazione per non complicare tecnicamente oltre misura l’assetto dell’imposta ed essendo inoltre probabile che si tratti di capitali modesti insufficienti ai molteplici bisogni a cui debbono servire, e bisognosi di incremento ad opera di nuovi risparmi.

 

 

A mezzo tra i redditi di capitale puro e di lavoro puro s’incontrano i redditi misti di capitale e lavoro (categoria B), che sono redditi di imprese industriali e commerciali. Per questi il bisogno di risparmio non è così vivo come per i redditi di lavoro puro, perché l’impresa sussiste e continua a fruttificare malgrado la malattia, l’invalidità, la vecchiaia, la morte dell’imprenditore; onde il contribuente ha già, entro certi limiti, provveduto ai casi tristi della sua vita mediante il semplice possesso dell’impresa. Non totalmente però; poiché quel reddito, derivando insieme dall’impiego del capitale e, dell’opera personale, resta dimezzato quando cessa o si attenua l’opera personale, che male viene sostituita da quella di commessi, impiegati, sovrastanti non interessati al buon andamento dell’impresa, forse interessati a rovinarla provvisoriamente per poterla acquistare a vil prezzo. La qual verità è manifesta pure dal fatto che, se un reddito di capitale puro si capitalizza al saggio di interesse del 4% (ossia moltiplicando 6000 lire di reddito per 25 volte ed ottenendo 150.000 lire che al 4% rendono appunto 6000 lire), un reddito misto si capitalizza al 10, 15, 20 e forse più per cento; il che vuol dire che 6000 lire di reddito annuo di una impresa industriale o commerciale valgono non 150.000, ma soltanto 60.000 o 40.000 o 30.000 lire. Se quindi il contribuente vuol formarsi un capitale di 150.000 lire, non avrà bisogno di prelevare dal suo reddito guadagnato annuo tutte le 150.000 lire, sì però la differenza fra le 60.000 o 40.000 o 30.000 lire che già vale la sua impresa e le 150.000 lire. Perciò il legislatore italiano ha reputato che il bisogno di risparmio di costui fosse intermedio tra quello nullo del capitalista e quello dei tre ottavi del lavoratore, concedendogli la detrazione dei due ottavi, e tassandolo sui rimanenti sei ottavi. Anche questa presunzione di risparmio, come le altre, può essere diversa dalla realtà e ci fa ancora una volta rimpiangere la vera imposta sul reddito consumato, a cui tali difetti sono estranei; ma è approssimazione bastevolmente vicina al vero.

 

 

Ancor più al vero ci si potrà approssimare, quando il legislatore si deciderà all’auspicata opera di perfezionamento, distinguendo nella categoria B dei redditi misti alcune delle sottocategorie in cui essa si divide e che per la prevalenza del capitale o del lavoro danno fondato motivo di presumere una quantità minore o maggiore di risparmio. È manifesto invero che una intrapresa industriale in cui l’elemento capitalistico sia di gran lunga predominante sull’elemento personale si capitalizzerà al 6%, perché la perdita dell’imprenditore potrà, con qualche sacrificio di stipendio e di cointeressenza ad un abile direttore, essere riparata; mentre una intrapresa commerciale, dove sia prevalente il fattore personale, si capitalizzerà al 20%, perché la morte del commerciante, che s’era procacciata la clientela colla sua abilità personale e la manteneva con lavoro assiduo, ne riduce grandemente il reddito. Il medesimo frutto annuo di 6000 lire varrà nell’un caso il capitale 100.000 lire e nell’altro caso appena 30.000 lire. Il primo imprenditore deve risparmiare la differenza fra 150.000 e 100.000 soltanto, se vuole conservare alla sua famiglia lo stesso reddito di capitale puro – e perciò al 4% – di 6000 lire; il secondo dovrà risparmiare la differenza tra 30.000 e 150.000 lire. Eppure il legislatore italiano li tratta amendue – e pei suoi tempi fece moltissimo – alla stessa stregua, esentando uniformemente i 2/8 del reddito.

 

 

Ma forse la principale e più semplice distinzione che ancor resta da fare nella categoria B è quella tra redditi misti proprii di individui e quelli ottenuti mercé l’intermediazione di strumenti economici speciali, chiamati società. La distinzione già sussiste nella pratica amministrativa, perché si pongono in gruppi differenti e si tassano con diversi metodi di accertamento i contribuenti privati e gli enti collettivi. Lasciando stare questa differenza, pure rilevantissima, ma qui irrilevante, nei mezzi d’accertamento, la ragion teorica di distinguere tra gli uni e gli altri contribuenti sta in ciò: che il reddito guadagnato dall’industriale e dal commerciante, che è imprenditore diretto, dirigente cioè personalmente la sua impresa, è reddito che deriva certamente, in misura notevole, sebbene più o meno grande, dal lavoro; e quindi devesi presumere che il suo bisogno di risparmio sia notevole. Mentre invece il reddito guadagnato dall’azionista di una società anonima industriale o commerciale è ottenuto sovratutto coll’impiego del capitale e in parte coll’impiego del lavoro. L’azionista delega quasi del tutto il lavoro inerente all’esercizio dell’impresa a direttori generali, amministratori delegati, consiglieri di amministrazione, e questi remunera con stipendi fissi e con interessenze. Perciò egli compie un impiego che si può dire quasi intieramente di capitale; onde non vale la presunzione di un bisogno di risparmio per lui uguale a quello sentito dall’imprenditore diretto. La sua azione si capitalizza ad un saggio di interesse già depurato della spesa di stipendi ed interessenze ai dirigenti, epperciò il saggio corrente per la capitalizzazione sarà più basso di quello che si deve adottare per le imprese dirette, dove esso è al lordo delle spese stesse. Supponendo, come prima, un reddito di 6000 lire, di cui 3000 lire siano la rimunerazione dell’opera dei dirigenti, all’azionista rimarranno solo 3000 lire; ma queste si capitalizzeranno non al 6 o 20%, ma al 5 o 10%, a seconda della natura dell’impresa, e varranno in capitale 60.000 o 30.000 lire. Non sono ancora le 75.000 lire che egli dovrebbe possedere per avere, al 4%, da un impiego di capitale puro le stesse 3000 lire di reddito; ma la differenza risparmianda fra 75.000 e 60.000 o 30.000 lire è, proporzionatamente, minore che fra 150.000 e 100.000 o 30.000 lire. Dunque a lui deve essere concessa una detrazione minore per quota di risparmio. Andrebbe tuttavia nell’eccesso opposto colui che giudicasse non essere necessaria alcuna quota di risparmio, considerando questi redditi in tutto simili a quelli di capitale puro. Perché un certo lavoro è pure richiesto all’azionista, per cui s’intende, come deve il legislatore, l’azionista diligente pater familias, e non l’illuso predestinato a comprare ad alto prezzo carta straccia avente nome di «azione». L’azionista «normale» deve sapere leggere e leggere sul serio i bilanci e le relazioni del consiglio d’amministrazione, intervenire alle assemblee generali, muovere domande sui punti dubbi ed esigere spiegazioni «tempestive»; deve seguire i listini di borsa per conoscere l’opinione dei competenti intorno al valore della sua azienda, deve studiare l’andamento generale dell’industria, per entrare a tempo in un impiego ed uscirne del pari a tempo, per distribuire i suoi impieghi tra industrie diversamente soggette a crisi. Questo lavoro può essere compiuto dall’azionista mentre è sano e la sua intelligenza è lucida; onde non si consigliano siffatti impieghi ai pupilli, alle vedove, agli interdetti ed agli inabilitati, a cui invece i tribunali consentono l’impiego in terreni, case, mutui ipotecari, titoli di debito pubblico, obbligazioni di credito fondiario e obbligazioni industriali, ed altrettali investimenti di categoria A o di capitale puro. In Inghilterra il legislatore stesso ha designato, a tutela delle persone economicamente incapaci a seguire le vicende delle imprese industriali e commerciali, la linea di distinzione, vietando ai trustees o fiduciari del patrimonio altrui, a cui il testatore non abbia prefissato norme particolari di condotta, l’impiego in titoli non segnalati in apposita lista e non rispondenti a certi requisiti. Analoga linea di distinzione si potrebbe adottare per distinguere tra i titoli a reddito fisse (titoli di debito di stato e di enti pubblici, cartelle fondiarie, obbligazioni) e titoli a reddito variabile (azioni di preferenza, azioni ordinarie). Questi ultimi dovrebbero essere collocati in una sottocategoria della B; e dove alla B2 (redditi di imprese individuali) si continuasse ad assegnare la detrazione per risparmio presunto dei 2/8, alla B1 (redditi di azioni di società anonime o in accomandita per azioni) si potrebbe assegnare la minor detrazione di 1/8.[16]

 

 

Dopo il quale memorando esempio narrato ora della legislazione italiana non si dica più che il legislatore vuole sempre tassare il reddito guadagnato. Essendo la verità differentissima: che cioè il legislatore ha veduto chiaramente, con nitidezza perspicua, lo sconcio gravissimo di questa tassazione ed ha voluto evitarlo, approssimandosi quanto più poteva all’ideale della tassazione del reddito consumato, mercé le sue presunzioni di risparmio bisognevole alle varie categorie di contribuenti. Compito odierno della scienza e della legislazione dovrebb’essere quello di perfezionare vieppiù queste presunzioni, in guisa da approssimarle meglio alla realtà. Qualche via di perfezionamento fu qui in breve tracciata; ma l’opera potrebbe probabilmente essere grandemente perfezionata ove gli studi si rivolgessero, invece che a vani discorsi di giustizia sociale, ad approfondire i fatti della tecnica tributaria, giovando per tal modo efficacemente, anzi nella sola maniera efficace, all’avvento della «giustizia».

 

 

PROVA SECONDA: l’esenzione automatica del risparmio e l’imposta complementare sul patrimonio.

 

 

Altri legislatori preferirono battere diversa via per giungere in sostanza al medesimo risultato: istituendo cioè in aggiunta alle imposte sul reddito guadagnato le imposte sul patrimonio o sul capitale. È manifesto che tassare il reddito di lavoro, per cui si presume la necessità di un maggiore risparmio, sui 5/8 soltanto ed il reddito del capitale, per cui si presume inesistente quella necessità, su tutti gli 8/8, equivale a tassare, supponendo dell’8% l’aliquota dell’imposta, col 5% tutto il reddito del lavoro e coll’8% del pari tutto il reddito del capitale. Dal che si deduce che il sistema dell’esenzione del risparmio presunto può attuarsi sia col metodo italiano di adottare l’aliquota unica d’imposta e le variabili quote tassate del reddito guadagnato, come col metodo inglese della tassazione intiera del reddito guadagnato e delle aliquote variabili d’imposta. Come pure può attuarsi con un terzo sistema, che diremo prussiano o svizzero olandese, prendendo norma dai paesi che l’hanno prescelto; e consiste nel tassare con la stessa aliquota tutto il reddito guadagnato, senza distinzione di specie; ed aggiungere all’imposta sul reddito un’imposta sul patrimonio. Se tutte le specie di reddito guadagnato sono tassate coll’imposta del 5% ed inoltre il patrimonio è gravato con una imposta del 0,15% sul capitale, è evidente che, supponendo un saggio di frutto del 5%, si ottiene lo stesso risultato tributario dei metodi precedenti. Infatti il reddito di lavoro, non usando esso capitalizzarsi nelle società dove è ignota la schiavitù personale, sarà tassato colla sola imposta del 5%; mentre i redditi di capitale sono tassati col 5% sul reddito e poi ancora col 0.15% sul capitale; ossia, poiché il capitale 100, secondo l’ipotesi fatta, dà il reddito 5, con un’altra imposta del 3% sul reddito del capitale e in tutto coll’8% sul reddito.

 

 

L’imposta complementare sul patrimonio non altro dunque è in sostanza che un metodo, tecnicamente consigliabile in certi paesi che non hanno i precedenti italiani della tassazione dei redditi per categorie, per attuare il teorema milliano della esenzione dei risparmi. È un metodo, inoltre, che può essere consigliabile per evitare talune delle difficoltà sopra vedute che s’incontrano nella determinazione delle diverse quote presunte di risparmio a seconda delle diverse categorie di reddito. Provvede a tale determinazione spontaneamente il mercato col mirabile strumento del saggio d’interesse. Come ciò accada, è facile spiegare. Supponiamo un legislatore che abbia d’uopo di ricavare il 10% d’imposta dal reddito consumato dai cittadini; e supponiamo ancora che, per presunzione sua, confortata da indagini statistiche, i lavoratori o professionisti abbiano bisogno ed in media usino di risparmiare (risparmio capitalistico e risparmio personale) metà del loro reddito guadagnato; e che sia minore la quota proporzionale di risparmio di tutti gli altri contribuenti. Di quanto sia minore non è precisamente noto; onde si spiegano le approssimate e forse erronee presunzioni dei legislatori italiano ed inglese. Il legislatore, che voglia evitare il pericolo di errori, opera come segue. Colpisce tutto il reddito guadagnato di tutti i contribuenti con un’imposta del 5%; talché il contribuente lavoratore privo di qualsiasi patrimonio, pagando 5 lire sulle 100 che guadagna, paga in realtà 5 lire sulle 50 che consuma, e l’imposta è per lui precisamente perciò del 10% sul reddito consumato. Colle altre 50 lire risparmiate egli, al 5% d’interesse posticipato, alla fine della sua probabile vita produttiva, che fissiamo per ipotesi in quasi 23 anni, avrà accumulato un patrimonio di 2000 lire. S’intende che ove il guadagno sia maggiore delle lire 100, il capitale risparmiato alla fine dei 23 anni sarà maggiore di L. 2000. Basta, per calcolarlo, moltiplicare le lire 2000 per il multiplo del guadagno effettivo in confronto alle supposte lire 100 annue. Gli altri contribuenti oltre l’imposta del 5% sul reddito, pagano il 0.25% sul patrimonio, colla quale automaticamente la loro parte è adeguata a quella del lavoratore puro. Infatti l’industriale che ha reddito di 100, il quale viene capitalizzato dal mercato, per l’incertezza delle sorti dell’impresa, per la connessione della sua produttività colla vita dell’imprenditore, al saggio di interesse del 20%, possiede già un patrimonio di 500 lire. Forte di tal possesso, egli ha bisogno di prelevare dal suo reddito di 100 solo una quota annua di risparmio di L. 37,50; perché con questa quota egli accumula in quasi 23 anni – si suppone per lui la stessa vita attiva probabile per uniformità di calcolo – il capitale di L. 1500, le quali unite alle L. 500 già possedute formano lo stesso patrimonio che il lavoratore accumula col risparmio di 50 lire all’anno. Il suo reddito consumato si riduce perciò a L. 62,50; e su queste egli paga L. 5 per imposta del 5 sul reddito guadagnato di L. 100 e L. 1.25 per imposta al 0.25% sul capitale posseduto di L. 500, in tutto L. 6.25, che sono precisamente il 10% delle L. 62.50 di suo reddito consumato.

 

 

Supponiamo ora l’azionista, che ha lo stesso reddito di L. 100, capitalizzato però al 6.66%, a norma della valutazione di mercato del reddito futuro probabile dell’impresa azionaria. Costui già possiede perciò un capitale di L. 1500; ed a lui basta risparmiare L. 12.50 all’anno, ottenendo dopo i soliti quasi 23 anni il capitale di L. 500, le quali aggiunte alle L. 1500 già possedute, formano il capitale totale bisognevole di L. 2000. Egli, pagando L. 5 a titolo di imposta sul reddito e L. 3.75 (0.25 su 1500) a titolo di imposta sul patrimonio, paga L. 8.75 in tutto, ed anche qui precisamente il 10% delle L. 87.50 di reddito che gli rimangono da consumare, dopo detratta la quota presunta di risparmio di L. 12.50.

 

 

Giungiamo finalmente al capitalista puro che ha reddito guadagnato di L. 100 ed un patrimonio di L. 2000, corrispondente alla capitalizzazione al saggio d’interesse del 5% del reddito di 100 lire. Costui nulla ha d’uopo di consumare, possedendo già il patrimonio che gli altri acquistano alla fine della loro vita produttiva. Ed egli pagando 5 lire a titolo di imposta del 5% sul reddito guadagnato e 5 altre lire a titolo di imposta del 0.25% sul patrimonio di L. 2000 ossia in tutto L. 10, paga il 10% del reddito da lui consumato, che è di L. 100.

 

 

Ecco come l’imposta complementare sul patrimonio attua automaticamente, con prontezza stupenda, l’esenzione del risparmio, ovvero, che è la stessa cosa, la tassazione costante del reddito consumato. Basta osservare due condizioni: 1) fare una presunzione corretta di risparmio per i lavoratori puri e ridurre in proporzione l’aliquota dell’imposta sul reddito guadagnato: se il risparmio presunto è del 50% e l’aliquota necessaria è del 10% sul consumato, bisogna ridurre al 5% l’aliquota sul guadagnato, mentre, se il risparmio presunto è del 25%, restando ferma l’aliquota necessaria o reale sul consumato al 10%, bisognerà ridurre l’aliquota figurativa sul reddito guadagnato al 7.50%, ecc. ecc.; 2) attenersi, s’intende per periodi lunghi e nelle medie, al saggio d’interesse realmente corrente sul mercato per gli impieghi capitalistici puri. Se il saggio è del 5% bisognerà fissare al 0.25% l’aliquota dell’imposta sul patrimonio; perché così il capitalista che ha reddito guadagnato di 100 e per conseguenza possiede un patrimonio del valore di L. 2 pagherà L. 5 per l’un titolo e L. 5 per l’altro; ed in tutto le L. 10 necessarie sulle 100 di reddito consumato. Che se il saggio d’interesse per gli impieghi capitalistici puri si riduce al 4%, l’aliquota dell’imposta sul patrimonio deve essere del pari ridotta al 0.20%; perché così il contribuente capitalista pagherà L. 5 d’imposta sul reddito e L. 5 (0.20% su 2500 lire valore nuovo capitalizzato di L. 100 di reddito all’interesse del 4%) per imposta sul patrimonio, ossia sempre le solite 10 lire sul totale reddito consumato o presunto consumato dal capitalista. Quando questi dati primi siano correttamente determinati, si può lasciare al mercato la fissazione della imposta da pagarsi dai contribuenti intermedi tra il capitalista puro e il lavoratore puro. A parità di reddito guadagnato il mercato darà una valutazione più o meno alta al valore capitale corrispondente; e il contribuente pagherà più o meno d’imposta in somma assoluta, in corrispondenza al suo minore o maggior bisogno di risparmiare e al maggiore o minor reddito suo consumato.

 

 

Il problema delicatissimo che tanto angustia o dovrebbe angustiare il legislatore italiano od inglese è risolto in modo spontaneo dal sistema dell’imposta complementare sul patrimonio, affidando alle valutazioni del mercato la determinazione della quantità di imposta da pagare. Vero è che lo stupendo risultato è ottenuto a condizione che si presuma correttamente il risparmio dei lavoratori puri e che si faccia variare l’aliquota dell’imposta sul patrimonio sincronicamente e nello stesso senso delle variazioni del saggio d’interesse sul mercato per gli impieghi capitalistici puri. Vero è che molti errori si possono commettere mentre si tenta di osservare queste condizioni; e che ben può darsi che il mercato abbia dato una corretta valutazione patrimoniale dei redditi ed il fisco non la conosca, per imperfezione dei suoi strumenti tecnici di accertamento, talché si può forse concludere che praticamente il sistema italiano della esenzione diretta di quote di risparmio presunte dal legislatore e il sistema dell’imposta complementare patrimoniale finiscano per equivalersi: essendo più grezzo il primo ma più agevole ad attuarsi; più perfetto il secondo, bensì anche più delicato.[17] La diffusione crescente dell’imposta patrimoniale, qualunque siano i motivi apparenti che furono addotti a giustificarla, prova come mai s’appongano al vero coloro che hanno in ispregio le imposte sul reddito consumato e stanno attaccati ai tributi sul guadagno; essendo invece l’imposta patrimoniale, sebbene diversissima nella forma, uno strumento tecnico foggiato per raggiungere il medesimo intento che le imposte sui consumi e le imposte suntuarie si propongono: ossia l’esenzione del risparmio.

 

 

PROVA TERZA: l’esenzione di una quota variabile del reddito secondo il numero dei componenti la famiglia.

 

 

Al qual fine tendono pure le disposizioni con le quali nelle imposte sul reddito o di famiglia si esenta da tributo una quota variabile secondo il numero delle persone a carico del capo famiglia: p. es., 400 lire a testa compreso il capo nella milanese imposta di famiglia, sino alle 70.000 lire di reddito. La presunzione qui fatta è manifestamente quella che cresca il bisogno di risparmio d’ogni specie quanto più cresce la famiglia ed aumentano i doveri del capo; sicché il reddito disponibile per godimenti presenti scemi d’altrettanto. Trattasi di presunzione soggetta, come ogni altra, a fallire nei casi singoli, sebbene valida nella media dei casi, per la qual media sono fatte le presunzioni. Di cui altri esempi si potrebbero discorrere, oltre quello milanese, tratti dalle legislazioni forestiere; dai quali, per non dilungarci inutilmente, deliberatamente ci asterremo.

 

 

PROVA QUARTA: l’esenzione dei premi di assicurazione.

 

 

Non più presunzioni di risparmio; ed invece risparmi effettivi si hanno di mira in un’altra serie di immunità: quella relativa alle quote di assicurazione. Citerò soltanto l’esempio dell’Inghilterra che esenta dall’imposta sul reddito i premi di assicurazione sulla vita pagati dal contribuente fino ad un 1/6 del reddito; e quello della Prussia che li esenta fino al massimo di 600 marchi l’anno. Più largo e logico di tutti il progetto Sonnino del 1910 di avocazione allo stato dell’imposta di famiglia esentava da tributo qualunque somma pagata a titolo di premio di assicurazione a nome del capo di famiglia.[18] Sono norme che testimoniano della ripugnanza diffusa a considerare come reddito una ricchezza che attualmente non si gode; parziali ammissioni del teorema fondamentale. Il quale vedemmo sopra non potersi attuare direttamente per la possibilità di frodi: mentre, se questa possibilità viene a mancare ed è assurdo supporre che il contribuente risparmi o finga di risparmiare durante un esercizio finanziario per ottenere l’immunità tributaria, salvo consumare il risparmiato nell’esercizio successivo, rivive in tutta la sua interezza il principio e l’esenzione deve essere concessa. Questo è manifestamente il caso dei premi d’assicurazione sulla vita, essendoché nessuno vuole obbligarsi a rinunciare per tutta la vita o per lunghi anni alla sua ricchezza soltanto per evitare un tributo, se all’opera del risparmio non sia deliberato. Ai premi di assicurazione sulla vita in caso di morte o per capitali differiti devono essere ragguagliati e talora lo sono i premi pagati per le assicurazioni contro gli infortuni, le malattie, la vecchiaia, la invalidità, la sepoltura; ed eziandio le quote, pagate ad ogni maniera di società di mutuo soccorso e di resistenza, quando si possa constatare che il contribuente rinuncia ad una ricchezza presente in cambio di una promessa di prestazione futura. Quando in futuro si avrà la prestazione dalla società di assicurazione, di mutuo soccorso o di resistenza, la ricchezza ricevuta sarà o non sarà reddito a seconda dell’uso che se ne farà, ben potendo darsi che sia nuovamente investita capitalisticamente o rivolta a scopi di risparmio personale; nel qual caso converrà vedere se l’imposta sia foggiata a tipo di imposta sul guadagnato ed allora saranno esenti solo le quote presunte di risparmio; o sul consumato, ed allora invece automaticamente tutto l’investito sarà esente.

 

 

La teoria qui svolta torna massimamente a beneficio – se beneficio si può chiamare l’immunità dall’imposta non dovuta – delle classi medie e lavoratrici; essendo queste soltanto che s’assicurano sulla vita (in Italia la somma media assicurata batte sulle 6000 lire) o che s’inscrivono alle società di mutuo soccorso, alle casse pei vecchi, alle società di resistenza. Nuova conferma che il teorema fondamentale non è, come falsamente si assevera, benigno ai ricchi ed ostile ai poveri. Anzi a questi è benignissimo e verso quelli severissimo esentandoli soltanto quando rinuncino a godere la propria ricchezza. Sulla quale considerazione, che in sé stessa sarebbe turpe in una memoria scientifica, è d’uopo insistere, essendoché gli uomini si lasciano guidare dalle parole vane, della quale la più vanissima è la «scienza democratica», alla quale guai a non rendere omaggio!

 

 

PROVA QUINTA: L’esenzione delle foreste nel periodo del rimboschimento.

 

 

Molte legislazioni estere e negli ultimi anni anche la legislazione italiana concedono l’esenzione dall’imposta alle foreste nei primi 10 o 20 o 30 anni di loro vita. Mossero queste immunità dal contemplare i dannosi effetti del disboscamento e dal proposito di incoraggiare il rimboschimento mercé l’immunità dell’imposta. In realtà questa logicamente procede dal canone che vuole la tassazione del reddito consumato invece di quello guadagnato. Infatti la creazione di una foresta può considerarsi come un riporre annualmente una somma a frutto in una cassa di risparmio, alla quale i depositi con gli interessi composti non si possono richiedere se non dopo un certo periodo di tempo variabile dai 15 anni per i boschi cedui o i pioppeti canadensi, sino ai 65-70 anni per le abetaie ed ai 100 anni per i querceti. Il frutto o guadagno annuo che danno le selve consiste nell’incremento legnoso, che è diverso da essenza ad essenza. Fu calcolato, ad esempio, per le querce che se il loro volume in metri cubi è di 0.05 tra gli anni 1-25, diventa di 0,25 tra gli anni 25-50, di 0.62 tra gli anni 50-75, di 1.47 tra gli anni 75-100, di 2.73 negli anni 100-125, di 4.60 negli anni 125-150, di 5.43 negli anni 150-175, di 5.96 negli anni 175-200. Veggasi come i valori assoluti aumentino col crescere degli anni; ma gli incrementi proporzionali diminuiscano di anno in anno; talché nelle varie tabelle che si conoscono al riguardo si hanno per le querce valori d’incremento relativo del 10% circa per i buoni boschi ordinari a 20 anni, del 6-7% a 30 anni, del 5 a 40 anni, del 4 a 50 anni, del 3 a 60 anni e via decrescendo.[19] Vuol dire, che gli alberi si sviluppano rapidamente dapprima e poi, dato lo sviluppo precedente già avvenuto, al quale si paragonano gli incrementi susseguenti, via via più lentamente, finché ad un certo punto l’incremento diventa irrilevante e poi cessa convertendosi in un deterioramento fisico, per cui l’albero alla fine, ove l’uomo non se ne occupasse, finirebbe per rovinare affatto e dissolversi. Questa vicenda determina, insieme al dato fisso del saggio d’interesse corrente per gli impieghi capitalistici forestali, l’epoca del taglio a rendita massima. Gli scrittori di scienza forestale hanno dato di ciò assai eleganti dimostrazioni. Qui basti accennare come quell’epoca tanto più si allontana, quanto più il coltivatore di foreste può contentarsi di un interesse minore. Infatti si supponga un incremento legnoso (intendendo per incremento legnoso il rapporto del prodotto che si ricaverebbe tagliando l’albero in un anno col prodotto che si ricaverebbe eseguendo il taglio nell’anno precedente) che nei successivi anni sia:

 

 

al

10°

20°

30°

40°

50°

60°

70°

80°

anno

del

12

10

6-7

5

4

3

2

1

per cento

 

 

Se il saggio d’interesse è del 10% il taglio deve essere eseguito al 20esimo anno, perché altrimenti, vivendo l’albero, il coltivatore guadagnerebbe in seguito un incremento legnoso (interesse) minore del 10% e volgente via via verso il 6-7%; mentre se l’albero è tagliato ed il ricavo è investito in altra maniera dà il frutto del 10 per cento. Se l’interesse è del 6-7% la vita dell’albero può durare convenientemente sino a 30 anni; e così via via, a mano a mano che l’interesse diminuisce, cresce la vita economica dell’albero, finché, essendo sul mercato ribassato l’interesse all’1%, è conveniente lasciar vivere sino all’80esimo anno di età quello stesso albero che, dato un saggio d’interesse del 10%, bisogna tagliare al 20mo anno. Nuova dimostrazione dell’influenza del saggio d’interesse sulla lunghezza d’investimento dei capitali, la bassezza del saggio favorendo le opere grandi a lunga scadenza, fra cui sono principalissimi nella vita di una nazione i rimboschimenti, e l’altezza del saggio esagitando gli uomini colla brama dei subiti e lauti guadagni.

 

 

Su questo fondamento di fatti si innestano due principali maniere di esigere l’imposta. L’una che si potrebbe chiamare della tassazione del reddito guadagnato considera l’incremento legnoso come il guadagno che ogni anno il coltivatore della foresta ricava dalla medesima. Poiché reddito è la massa nuova di ricchezza che s’acquista durante il periodo di tempo considerato e che si può consumare senza intaccare quella che s’aveva al principio del periodo, nel decimo anno si reputa reddito della foresta l’incremento del 12% in quell’anno verificatosi, nel ventesimo l’incremento legnoso del 10%, ecc. ecc., ed il valore degli incrementi stessi si tassa ogni anno coll’imposta. Giunti al momento del taglio, che supponiamo avvenga al cinquantesimo anno di età, il contribuente nell’anno stesso paga l’imposta sull’incremento legnoso del 4% avuto in quell’anno e nulla più. Egli incasserà il valore del taglio intiero senza più pagare su di esso alcuna imposta, avendola già pagata negli anni precedenti quando l’albero a mano a mano cresceva. Una variazione di questo metodo è quello per cui invece di tassare negli anni successivi una serie variabile decrescente di incrementi legnosi, del 12, 10, 6, 5, 4%, il che importerebbe molta complicazione di calcoli per l’amministrazione fiscale, si trasforma la serie variabile decrescente in una serie costante di incrementi, poniamo del 6% e si suppone che la foresta dia dal primo fino al cinquantesimo anno di età un reddito costante, quello tassando per semplicità. Volendo operare con tutta esattezza, occorrerebbe modificare ancora le fatte ipotesi tenendo conto di altri fattori, sui quali trascorro, essendo materia estranea al presente discorso, al quale importa soltanto di mettere in luce l’essenziale diversità dal primo al secondo metodo. Il quale ultimo consiste nel non tassare affatto la foresta, mentre essa matura e si avvicina al momento in che il taglio darà la rendita massima; e nel tassarla precisamente in questo momento del taglio, quando il reddito, accumulato nel frattempo, quasi come pel gioco degli interessi composti una somma iniziale s’ingrossa su un libretto di cassa di risparmio, viene realizzato e reso effettivamente consumabile dal Coltivatore.

 

 

Volendo considerare i diversi effetti delle due maniere d’imposta, l’una delle quali tassa gli incrementi legnosi anno per anno e l’altra il taglio quando s’effettuerà al quarantesimo, cinquantesimo o sessantesimo anno di età, variabilmente a norma del dominante saggio d’interesse, si deve notare anzitutto che la scelta tra i due metodi è in un lungo periodo di tempo indifferente per l’erario: inquantochè è chiaramente uguale tassare anno per anno gli incrementi ovvero tassare alla fine del periodo l’albero in cui tutti quegli incrementi si sono insieme fusi. Nulla può perdere l’erario col secondo metodo rispetto al primo, perché ogni incremento legnoso va ad arricchire il valore dell’albero che dovrà poi essere tassato; e può desso star sicuro che l’albero non vivrà più a lungo di quanto economicamente sia utile, essendo stato dimostrato sopra come l’interesse del coltivatore forestale lo spinga ad effettuare il taglio appena l’incremento legnoso sia divenuto inferiore al saggio di interesse corrente. L’erario, scegliendo il secondo metodo, si costituisce un fondo occulto, risparmiato di materia imponibile, che ad una certa data necessariamente giungerà a scadenza e dovrà essere realizzato. Invece di consumare il grano in erba, come i contadini affamati in tempo di carestia e di siccità o come le bande di lanzichenecchi nei quartieri d’inverno, aspetta a consumarlo quando è maturo.

 

 

Così facendo promuove, senza, e ciò è essenzialissimo, concedere veruna immunità tributaria, il crescere della materia imponibile, che col primo metodo invece neppure prende nascimento. Perché è vero che il contribuente piantatore di foreste «guadagna» ogni anno l’incremento legnoso che è del 12, 10, 6, 5, 4 nei successivi anni; ma è anche vero che egli quel guadagno non realizza, non gode se non al momento del taglio. Quindi è vero che il contribuente si turberà gravemente quando gli sia richiesto il pagamento di un tributo nel momento in che egli non solo nulla incassa, nulla gode, anzi tuttavia spende per le cure dell’impianto della foresta, rinunciando a godimenti presenti in cambio di un provento futuro. Qui si pare tutta la differenza esistente fra i due metodi di tassazione del reddito guadagnato e del reddito consumato. Negli impieghi ordinari il reddito guadagnato è una quantità quasi costante di anno in anno, la quale quindi può assumere per le persone d’indole conservatrice l’aspetto di quantità consumabile durante l’anno; onde la tassazione sua non scandalizza l’opinione comune. Nel caso delle foreste il fattore «tempo» acquistando un’importanza straordinariamente in luce chiarissima il distacco profondo che esiste fra l’un concetto e l’altro e la predilezione spontanea degli uomini per il secondo metodo di tassazione. Predilezione che si accresce pel fatto che gli uomini sono poco usi a ficcar lo sguardo in fondo al tempo e ad apprezzare le cose lontane. Amano i redditi grossi ed immediati, preferiscono il titolo di debito pubblico 4%, sebbene facilmente convertibile, sebbene emesso alla pari e perciò senza alcun premio al rimborso, al titolo 3%, sebbene difficilmente convertibile, sebbene emesso al disotto della pari, ad un prezzo variabile tra la parità di 75 ed il nominale di 100 e quindi con premio fino a 25 lire al rimborso, perché essi sono di corte vedute, perché amano il 4% invece del 3% perché è 4, ossia un quantità maggiore immediata, senz’altro impacciarsi di calcoli, perché ognuno teme di morire presto innanzi di godere i frutti dell’impianto e ben pochi rinunciano ai godimenti presenti a pro delle generazioni venture.

 

 

Già è grande la difficoltà di trovare tra gli agricoltori chi voglia piantar foreste; tutti preferendo il grano, che dopo otto o nove mesi giunge a maturazione, alla vigna che frutta dopo tre anni. Si diffondono soltanto i pioppi del Canadà, ognuno sperando di vivere i 15 anni necessari a fare il lucroso taglio. Ma tutti riluttano a rimboschire pendici denudate di alti colli e di montagne, dove occorrono lavori costosi di sistemazione idraulica e terriera e dove i tagli si fanno aspettare oltre il termine della vita del piantatore. Se alla riluttanza innata nell’uomo per gli impieghi a lunga scadenza aggiungiamo l’imposta sul guadagno annuo fornito dagli incrementi legnosi, vieppiù s’inviperisce l’animo del rustico contro le foreste, già odiate per l’ombra funesta e per il terreno tolto a culture più redditizie nei tempi prossimi. Non incassar nulla è già un malanno grosso, pagare in aggiunta tributo cresce lo scorno e l’ira. Il tributo sul reddito realizzato, ossia sul taglio effettivamente compiuto appare l’unica soluzione, poiché rinvia l’epoca del pagamento del tributo al momento in che il contribuente realizza il reddito ed ha agevolezza di assolvere il debito tributario, così come insegna la terza aurea regola di Adamo Smith.

 

 

L’inconveniente di rendere deserti di tributi gli anni tutti di vita dell’albero, accumulandoli alla fine, contrariamente all’interesse fiscale di avere redditi ogni anno costanti è tutt’affatto apparente e transitorio. Apparente, perché, se così non si opera, il tributo non s’incassa né prima, né poi, per la ripugnanza degli uomini a rimboschire e per il dilavarsi delle pendici, le quali diventano rocce improduttive e insofferenti di imposta. Transitorio, perché dura solo fino a quando la foresta sia giunta nel periodo detto dai foresticultori «di regime». Gli impianti invero si fanno in guisa che, passato il periodo iniziale, la foresta sia assestata, così che ogni anno in perpetuo si possa operare un taglio regolare per una zona che, di nuovo piantata, darà taglio nuovamente dopo 40 o 50 anni. Cosicché, supposta una superficie da rimboschire di 1 milione di ettari, e supponendo che ogni anno gradualmente si rimboschino 20 mila ettari, secondo un piano ragionato di assestamento, occorreranno 50 anni prima di giungere al rimboschimento completo di tutto il milione d’ettari. Supposto poi che il momento del taglio secondo la rendita massima sia di 50 anni, ogni anno, a partire dal 51mo anno, si farà il taglio su una zona di 20 mila ettari; e ciò durerà all’infinito, perché al 101mo anno, dopo aver tagliate tutte le 50 zone primamente rimboschite, si tornerà a tagliare la prima zona, già tagliata nel 51mo anno e subito rimboschita, che nel 101mo anno sarà divenuta per la seconda volta matura pel taglio; e così via di seguito per la seconda, terza, quarta, ecc., zona.

 

 

Volendo rappresentare in un quadro il comportarsi dell’imposta a seconda che si adotti l’uno o l’altro sistema di tassazione, diamo il risultato del numero delle zone tassate sulle 50 che compongono il territorio considerato:

 

 

Anno

Tassazione secondo il reddito realizzato (3)

 

Tassazione secondo il reddito guadagnato (1)

Zone tassate

Zone da rimboschire tassate (2)

Zone in rimboschimento esenti

Zone assestate a foresta

in regime normale

 

Zona tassata

Numero totale nell’anno

50

49

1

49

48

2

48

47

3

47

46

4

46

45

5

46°

5

4

46

47°

4

3

47

48°

3

2

48

49°

2

1

49

50°

1

50

51°

50

1a

52°

50

2 a

53°

50

3 a

54°

50

4 a

55°

50

5 a

96°

50

46 a

97°

50

47 a

98°

50

48 a

99°

50

49 a

100°

50

50 a

101°

50

1 a

102°

50

2 a

103°

50

3 a

104°

50

4 a

105

50

5 a

(1) Nel qual caso non avviene il rimboschimento

(2) Sul reddito delle altre culture

(3) Nel qual caso avviene il rimboschimento

 

 

Se il rimboschimento non si effettua, perché gli agricoltori sono atterriti dalla necessità di dover pagare subito l’imposta sul guadagno dato dagli incrementi legnosi, il fisco nel primo anno si rallegra, perché tassa tutte le 50 zone sul reddito che se ne può ricavare destinandole alla cerealicultura, alla pastorizia, alla vigna, ecc. Ma proseguendo gli elementi la loro opera distruggitrice sul lieve strato di terra feconda, al secondo anno una zona sarà divenuta improduttiva ed il fisco dovrà a malincuore esentarla per l’abbandono dei proprietari, riducendosi a tassare solo 49 zone; e così via, sinché al 50mo anno avanza un’unica zona tassabile; e poi per la troppa ingordigia iniziale, ogni materia imponibile è scomparsa per sempre. Se invece, grazie all’aver rimandato l’imposta al momento del taglio, il rimboschimento si inizia, durante i primi 50 anni il fisco avrà un danno, perché vedrà a poco a poco diminuire le zone coltivate e tassabili; e crescere le zone in corso di rimboschimento ed esenti. Il danno non sarà tuttavia sensibilmente maggiore di quanto si avrebbe senza l’esenzione, come dalla tabella è chiarito; con questo vantaggio che il rimboschimento delle zone più pericolose rinsalda le rimanenti e le rende atte ad una maggiore produzione. A partire dal 51mo anno tutto il milione di ettari, diviso in 50 zone di 20 mila ettari l’una, è entrato in regime; ed ogni anno si procede al taglio di una zona ed alla tassazione del taglio stesso, procedendo dalla prima alla 50ma e poi ricominciando dalla prima e così via in perpetuo. Perciò a partire dal51 mo anno, mentre col metodo della tassazione sul reddito guadagnato e colla conseguente distruzione della foresta[20] ogni materia imponibile è onninamente scomparsa, col metodo della imposta sul reddito realizzato (taglio) ogni anno si può tassare all’infinito una zona, produttiva sempre di un taglio approssimativamente uguale. Né si gridi che il metodo è dannoso al fisco, perché ogni anno tassa soltanto 20.000 ettari invece del milione che sarebbe tassato coll’altro sistema; perché, come già spiegammo, è perfettamente equivalente tassare l’intiero taglio di 20 mila ettari, ovvero l’incremento legnoso dell’anno su un milione di ettari.

 

 

Il solo rimprovero perciò che si possa fare alle moderne norme volute dal legislatore italiano è questo: che l’esenzione limitata ai primi 10 o 20 o 30 anni è troppo esigua cosa; essendo necessaria estenderla a quel periodo, lungo o breve a seconda delle varie essenze forestali, per cui dura il periodo iniziale del rimboschimento; ed essendo mestieri tassare nel periodo d’assestamento il valore medio del taglio dell’anno, dedotte le spese.

 

 

Si noti finalmente che questo metodo, che è il solo razionale, non traduce ancora perfettamente in atto il teorema dell’esenzione del risparmio, essendo questo un atto virtuoso del foresticultore e non della foresta. Il teorema richiederebbe che nel 51esimo anno e nei susseguenti si tassasse il prodotto del taglio se il foresticultore lo consuma di fatto; e lo si esentasse se viene risparmiato. Ma sapendosi oramai troppo bene quali sono le difficoltà di attuazione del teorema, il legislatore s’è contentato di farne una applicazione approssimata esentando il risparmio – ossia l’aggiungersi di sempre nuovi incrementi legnosi, non mai realizzati, ai precedenti fino al momento della rendita massima – finché va accumulandosi nell’albero, e facendo intervenire l’imposta quando il taglio si realizza, disperando di poter perseguire l’applicazione del teorema fino alle sue ultime conseguenze, come pur si dovrebbe in una società di contribuenti puri, non mai esistiti in passato e non prevedibili nell’avvenire.

 

 

PROVA SESTA: la tassazione dei redditi del lavoro e delle pensioni vitalizie.

 

 

Le considerazioni fatte sulla tassazione delle foreste ci aiutano a risolvere uno degli argomenti più vessati nella dottrina dei tributi: il trattamento fiscale dei redditi vitalizi o temporanei. Dei quali due sono le maniere principali: i redditi del lavoro che durano quanto la vita produttiva dell’uomo, e le pensioni (o censi) vitalizie che durano quanto la vecchiaia dell’uomo stesso. Le incertezze che in molti scrittori si osservano su questo punto derivano dall’avere considerate le due maniere di reddito temporaneo l’una disgiuntamente dall’altra, e dal non essere rimontati, con dirittura di logica, al postulato fondamentale dell’uguaglianza. Il legislatore italiano professa anch’egli un’opinione con sé stessa contrastante quando tassa i redditi del lavoro in categoria C dell’imposta di ricchezza mobile, esentandone i 22/40 reputati necessari pel risparmio e di nuovo le pensioni vitalizie nella medesima categoria C, esentando da tributo i medesimi 22/40 perché considerati come rimborso del capitale che il vitaliziato ha sborsato in passato ad una impresa di assicurazione per averne il vitalizio. I due motivi di esenzione sono contraddittori, perché nel primo caso si esenta il risparmio compiuto in previsione di eventi futuri, nel secondo la quota di risparmio fatto nel passato e che vi è ogni presunzione sia consumata nel presente. Là si vuole esentare il capitale che sta formandosi; qui il capitale già formato che va consumandosi. Ancora è illogica la maniera tenuta nell’esentare la quota di capitale contenuta nella rendita vitalizia. Si comprende che, in mancanza di qualsiasi dato positivo sulla quantità di risparmio compiuta di fatto dai lavoratori per provvedere ad avvenimenti futuri, il legislatore abbia, in via di approssimazione empirica, adottato la regola dell’esenzione dei 22/40; non altrettanto si comprende perché la stessa determinazione empirica siasi preferita quando si poteva ricorrere a perfette tavole di interessi composti e di mortalità, le quali ci dicono quanto, su 100 lire di rendita vitalizia, debba essere considerato, data l’età del vitaliziato e dato un certo saggio d’interesse, rimborso di capitale e quanto interesse, esentando, se così volevasi, il primo e tassando il secondo.

 

 

Passando ora dalla critica della legge vigente alla sposizione dei principii che dovrebbero regolare la materia, dobbiamo subito notare che la vita dell’uomo si divide in tre parti: la pre-produttiva, quella produttiva, che va dalla maggiore età economica alla età in cui l’uomo, stanco, si ritira dal lavoro, e la post produttiva. Della prima fase della vita dell’uomo, la finanza non ha bisogno di occuparsi, per le ragioni innanzi discorse (cap. 6, n. 3), ed anche perché, incastrandosi la vita d’una generazione nella vita d’ogni altra precedente e susseguente, bisogna, per non cagionare dei doppi d’imposta, considerare una sola delle due vite durante il periodo in cui esse si sovrappongono; e sembra opportuno considerare la vita del padre, il quale procaccia la ricchezza a sé e ai figli, quando essi sono da lui dipendenti. Durante l’età produttiva, che va dai 15-25 ai 55-65 anni, il lavoratore, guadagnando dall’esercizio del mestiere, o professione od arte 1000 lire all’anno, ne consuma una parte, suppongasi 800, e l’altra parte 200 investe. Suppongasi che, essendo durata la sua vita produttiva 41 anni circa, costui abbia accumulato all’interesse composto del 4% al 60esimo anno di età su un capitale di 20.000 lire. Essendo rimasto scapolo, ipotesi necessaria nel caso di susseguente vitalizio, e non avendo perciò famiglia a cui provvedere, egli dà le 20.000 lire ad un’impresa di assicurazione la quale, tenuto conto della sua età e delle sue condizioni di salute, gli promette un annuo vitalizio di 2000 lire. Ecco posto il problema della tassazione. Come deve essere tassato costui nei due periodi produttivo e post produttivo della sua vita? Il problema viene risoluto diversamente dai due principii: quello «falso» della tassazione sul reddito guadagnato, e il «vero» della tassazione sul reddito consumato. Il primo principio tratta il guadagno del lavoratore come l’incremento legnoso dell’albero. Non solo tassa le 800 lire consumate, ma eziandio le 200 lire risparmiate, perché sono un guadagno che il lavoratore ha ottenuto durante l’anno e che potrebbe consumare se volesse, senza intaccare menomamente la sua fortuna originaria che era nulla. Egli preferisce aggiungere anno per anno le 200 lire le une alle altre sui conti del libretto della cassa di risparmio, ingrossando il suo credito, così come il foresticultore lascia che gli strati di incremento legnoso s’aggiungano l’uno all’altro ingrossando il tronco; ma poiché d’altrettanto cresce il patrimonio alla fine dell’anno in confronto al principio dell’anno, così l’imposta percuote tutte le  lire. Nel periodo post produttivo l’imposta sul reddito guadagnato si fa apparentemente benigna: poiché il lavoratore aveva alla fine del 60esimo anno di età sua accumulato un patrimonio di 20.000 lire e l’ha permutato con una pensione vitalizia di 2000 lire, durabile, secondo i calcoli dell’impresa assicurativa, per 13 anni di sua vita probabile, l’imposta distingue in questa ciò che è interesse da ciò che è rimborso del capitale, quello tassando e questo esentando. Infatti all’inizio del 61esimo anno, dopo l’acquisto del vitalizio, il pensionando ha ancora il patrimonio di L. 20.000 sotto forma di credito scalare rimborsabile a rate durante i 13 anni residui della sua vita; ed in quell’anno 61esimo, se egli non vuole diminuire il capitale originario, deve delle 2000 lire di pensione vitalizia consumare solo le 800 lire che al tasso del 4% sono il frutto del capitale; e le altre 1200 lire deve accantonare; perché alla fine dello stesso anno egli avrà soltanto più un credito di 13–1=12 annualità, del valore di L. 18.800, essendogli 1200 già state rimborsate. Poiché reddito guadagnato è ciò che il contribuente può consumare senza intaccare il capitale originario, egli può consumare solo 800 e deve mettere da parte 1200 lire. Nell’anno susseguente, 62esimo dell’età sua, egli nuovamente riceva una annualità di 2000 lire; delle quali soltanto L. 752 sono interesse del capitale di L. 18.800 al 4% e 1248 sono rimborso del capitale. L’imposta tassa le L. 752 di interesse, che sono una ricchezza nuova, che il contribuente potrebbe consumare senza intaccare il capitale originario di L. 18.800 (delle 1200 lire già rimborsate più non ci occupiamo, ché quelle seguiranno la sorte dei capitali messi a frutto, se lo saranno veramente, e saranno tassate sui frutti; ovvero spariranno dalla scena tributaria, se, come è probabilissimo, anzi ammesso per ipotesi, saranno consumate); mentre le L. 1248 non potranno essere evidentemente tassate, in quanto siano rimborso di capitale e non guadagno dell’anno. Così l’imposta andrà via via tassando una parte decrescente dell’annualità vitalizia e precisamente quella che corrisponde all’interesse guadagnato sul capitale ancora da rimborsare. Se invece si parte dal principio «vero» della tassazione del reddito consumato, l’imposta nel primo periodo produttivo percuote soltanto le 800 lire consumate esentando le 200 risparmiate, insieme con i relativi interessi composti scalari, che pure si suppongono risparmiati; mentre nel secondo periodo post produttivo percuote tutte le 2000 lire, perché tutte sono consumate, avendo voluto il lavoratore procacciarsi nella ultima parte della vita alquanta maggiore agiatezza di quella che era possibile col godere soltanto i frutti dei suoi risparmi.

 

 

Ben diversamente si comportano i due principii nei due periodi della vita del lavoratore: il principio «falso» tassandolo su tutte le 1000 lire di reddito guadagnato nel periodo produttivo e su 800, 752, 702, ecc., lire soltanto di interesse guadagnato sulle 2000 di pensione nel periodo post produttivo; mentre il principio «vero» lo tassa sulle 800 consumate nel periodo produttivo, esentando le 200 lire risparmiate; e su tutte le 2000 lire di pensione consumate nel periodo post produttivo. Il primo metodo è colpevole di doppia tassazione, poiché, fatta ragione al tempo diverso ed agli interessi decorsi nel frattempo, sarebbe chiaramente equivalente tassare 1000 lire durante 41 anni e poi più nulla nei 13 anni residui, ovvero 800 lire durante 41 anni e poi 2000 lire costanti negli ultimi 13 anni. Il fisco accogliendo il secondo metodo, posponendo cioè il momento dell’esazione dell’imposta perduta nel periodo produttivo al periodo post produttivo così come il contribuente pospone il godimento della sua ricchezza, opera saggissimamente in quanto, senza concedere nessun favore, senza danneggiare sé stesso, anzi preparandosi un’opima messe di tributi col trascorrere del tempo, non pone un ostacolo alla formazione del risparmio. Mentre invece col primo metodo tassa le 800 consumate e le 200 risparmiate nel primo periodo e poi di nuovo, illogicamente, una parte di queste ultime e cioè gli interessi scalarmente decrescenti in L. 800, 752, 702, ecc., nel secondo periodo. Apparentemente il fisco lucra con questa prima maniera di tassazione; in realtà perde alla lunga, perché scoraggia dalla formazione del risparmio con la iniquità della doppia tassazione.

 

 

Se il contribuente lavoratore non sia scapolo, ma abbia prole e nel periodo produttivo della sua vita abbia prelevato dalle 1000 lire di suo reddito 200 lire all’anno per l’allevamento, istruzione ed educazione dei suoi figli, il problema, sebbene in apparenza alquanto più complesso, viene alle stesse soluzioni. Anzi il principio «falso» della tassazione del reddito guadagnato può riuscire a peggior meta; poiché, considerando come reddito imponibile tutta la ricchezza consumabile senza intaccare il capitale originario, tassa il padre, Tizio, sulle 1000 lire di suo guadagno, e di nuovo i figli per tutto il guadagno che essi otterranno nella loro vita produttiva sia che essi lo rivolgano a soddisfacimento di bisogni proprii od al sostentamento del loro vecchio genitore. Né il genitore, né i figli posseggono alcun capitale, che essi debbano conservare e per la cui ricostituzione debbano prelevare una quota del reddito guadagnato. Che se anche si opinasse doversi conservare il capitale personale di qualità acquisite il prelievo dovrebbe cominciare solo alla seconda generazione; poiché il padre Tizio che ha cominciato a destinare 200 lire all’anno allo scopo di innalzare i figli suoi nella scala sociale e di metterli in grado di guadagnare un salario maggiore delle sue 1000 lire annue, non era stato, per così dire, capitalizzato dai suoi genitori o lo era stato in misura ben minore. Quindi, non essendo egli un capitale, non può pretendere di dedurre dalle 1000 lire alcuna quota di reintegrazione di un capitale personale inesistente. Ben potranno pretendere tal deduzione i suoi figli, che sono divenuti operai abili e qualificati, mentre il padre era un semplice manovale; ed usi dai loro salari di 1500 o 1600 lire dedurranno le 200 o 300 lire necessarie a ricostituire il capitale investito dal genitore sulla loro testa, e che essi non possono considerare come «guadagno» dovendolo destinare a rimborso di capitale.

 

 

Il principio «vero» dell’imposta sul reddito consumato opera diversamente; poiché esenta il padre Tizio sulle 200 lire di risparmio personale investito a pro della seconda generazione, tassando solo le 800 lire da lui consumate; ed i figli tratterà con asprezza, tassandoli su tutte le 1500 o 1600 lire da essi poi guadagnate se tutte le consumeranno a propria gratificazione, rimanendo scapoli o trascurando la figliuolanza e lasciandola di nuovo decadere alla condizione di manovalanza da cui essi erano stati tratti; ovvero li guarderà benignamente, esentandoli sulle 300 o 400 o magari 600 lire che avessero voluto destinare allo scopo di far vieppiù ascendere i loro figli nell’ordine delle dignità sociali.

 

 

Sempre dunque i due principii si comportano con grande diversità di effetti economici; perché il principio della tassazione del reddito guadagnato tassa duramente la prima generazione, che si affatica e si sacrifica a pro delle generazioni successive; e con mitezza queste ultime, che godono i frutti dell’opera altrui; mentre il principio della tassazione del reddito consumato risparmia il genitore fecondo e altruista, e tassa i figli egoisti e consumatori, esentandoli solo ove anch’essi imitino o superino le virtù del padre. A parità di risultati finanziari, il principio «falso» inferocisce contro i contribuenti quando piantano foreste, si sacrificano per provvedere alla vecchiaia od ai figli, ed è pieno di dolcezza per quelli che godono i tagli della foresta, consumano passivamente nell’ultima parte della vita le ricchezze accumulate nella prima o traggono vantaggio dall’opera altruista del genitore; il principio «vero» riconosce la convenienza di essere mite quando gli uomini compiono l’opera di rinuncia o di edificazione, ben sicuro di ripigliare il perduto quando gli uomini godranno i frutti dell’opera passata. Solo «contabilmente» i due principii, talvolta, come nel caso della foresta, si equivalgono. L’equivalenza è scritta sulla carta e risulta dal prontuario dei conti fatti. Nel mondo delle realtà, l’uomo si annoia di essere vessato quando intende con sacrificio alle opere dell’avvenire; risente con ira l’imposta che si aggiunge ai suoi sacrifici attuali di lavoro e di capitale per crescerne il costo che non si sa se potrà essere compensato in futuro. Di mala voglia paga i balzelli quando pianta gli arbusti che non sa se diventeranno alberi robusti, o spende per educare figli che non si sa se risponderanno alle sue cure ed alle sue brame, o forma un risparmio che non sa se la morte gli impedirà di godere. L’imposta agisce dunque in questo primo periodo come freno al risparmio, come impedimento alla piantagione delle foreste, come remora alla creazione di nuove giovani genti più colte, più educate. La ricchezza non si forma; e nei periodi della raccolta, quando la materia imponibile dovrebbe essersi fatta ricca e copiosa, la messe è rada e brutta, onde da sé si punisce l’ingordigia del fisco.

 

 

PROVA SETTIMA: l’imposta sul reddito dei fabbricati e quella sulle aree fabbricabili.

 

 

Le stesse riflessioni fatte sopra inducono a lodare la sapienza dei nostri padri che erano rimasti contenti a colpire di imposta i fabbricati, dopo che questi erano stati costrutti ed erano divenuti fecondi di fitti ai proprietari,[21] ed a biasimare la cortezza di vedute dei moderni legislatori i quali, impazienti di attendere la maturazione degli eventi, si affrettano a tassare le aree fabbricabili quando, tuttora immature, aspettano il momento della loro più economicamente conveniente utilizzazione. La fabbricazione è un’industria la quale procede, scegliendo nel gran novero di aree le quali sono fisicamente fabbricabili quelle economicamente mature alla fabbricazione. Ai limiti estremi dove giungono gli ultimi tentacoli della città moderna, le aree hanno valore puramente determinato dagli usi agricoli possibili in quella regione, supponiamo 1 lira al metro quadrato. A mano a mano che andiamo verso il centro o verso i diversi centri cittadini, operai, industriali, commerciali, bancari, signorili, burocratici, ecc. ecc., il valore dell’area fabbricabile aumenta a 5, 10, 50, 100 persino 1000 o 10.000 lire al metro quadrato, a seconda della possibilità di moltiplicare gli scopi per cui il terreno può essere utilizzato. Un’area che, per la sua situazione lontana dal centro e scomoda per le vie ordinarie di accesso, per la mancanza di fognatura e marciapiedi e la insufficienza di illuminazione, sebbene vicina ad una linea ferroviaria a cui si possa raccordare, può essere utilizzata soltanto per usi agricoli o per stabilimento industriale, potrà valere 5 lire. Se le strade esistono ed esiste anche la illuminazione notturna, potrà sorgere un nucleo di case operaie ed il terreno potrà innalzarsi sino al prezzo di 10 lire; e così via via il prezzo aumenta mentre si moltiplicano i possibili usi concorrenti. Spostandosi questi, si spostano i prezzi continuamente; poiché i prezzi sono l’indice delle variazioni attuali e previste negli usi dell’area. Lo speculatore prevede che fra 14 anni e 1/5  circa una data area situata su un corso già tracciato sul piano regolatore e non ancora costruito potrà essere destinata ad uso di palazzina signorile e varrà allora 100 lire al metro quadrato; ed egli calcola perciò che all’interesse del 5%, compresi gli oneri inerenti all’industria della speculazione edilizia, gli convenga comprare l’area al prezzo attuale di 50 lire e tenerla inutilizzata per 14 anni e 1/5. Facendo così egli lucra l’interesse del 5% corrente, per ipotesi, per quella sorta di impieghi. Se la costruisse prima egli perderebbe, perché l’area, prima dei 14 anni e 1/5, non è ancora diventata matura per la fabbricazione a palazzina, bensì soltanto per un uso inferiore, il quale non consente il pagamento di un prezzo di L. 100. Supponiamo che dopo 10 anni l’area sufficientemente provvista di comodità per abitazioni del ceto medio borghese possa essere venduta a 60 lire per costruirvi sopra una casa di quattro piani. Lo speculatore che ha comprato a 50 lire, – e comprare a minor prezzo gli era impossibile, data la concorrenza di altri speculatori, i quali intuivano la convenienza di aspettare 14 anni e 1/5, – perderebbe, perché dopo 10 anni, l’area gli costa, cogli interessi composti, 81 lire circa. Neppure gli conviene protrarre la costruzione oltre i 14 anni e 1/5, perché dopo 25 anni l’area potrà valere 125 lire ed essere destinata ad uso misto di abitazioni signorili e botteghe, ma a lui sarà costata invece 168.30 lire cogl’interessi composti. Quindi la convenienza di ottenere il lucro massimo consiglia lo speculatore a non anticipare né ritardare oltre i 14 anni e 1/5 la fabbricazione dell’area; perché soltanto in quel caso egli ottiene adeguato guiderdone, il massimo possibile, dalla sua speculazione. Col suo coincide l’interesse della società; essendo chiaramente interesse della società che la fabbricazione delle aree avvenga nel momento in che è massimo il lucro dello speculatore. Che cosa vuol dire infatti che in quel momento, valendo l’area 100 lire, lo speculatore guadagna il massimo? Vuol dire che lo speculatore è riuscito ad indovinare l’uso più adatto per quell’area ed il momento più conveniente della fabbricazione. Le città seguono una logica nella loro espansione; e la città più bella, più attraente, fonte di maggiori godimenti estetici e di maggiori comodità personali è quella in cui si è operata la più sapiente distribuzione dei quartieri destinati ai diversi usi e dove sulla stessa via, nello stesso rione non si toccano villini con giardino, palazzi maestosi, case operaie e stabilimenti fumiganti; e dove invece la varietà architettonica innalza il pregio delle costruzioni simili sapientemente avvicinate. Questa sapienza è in notevole parte opera dei dirigenti la politica municipale dei piani regolatori; ed è altresì opera del meccanismo dei prezzi. E il meccanismo dei prezzi che innalzando il valore di talune aree, deprimendo quello di altre, destina le prime a costruzioni eleganti e signorili e le altre a nere costruzioni industriali; e allontanando le une dalle altre innalza il pregio delle prime e crea comodità di raccordi ferroviari, di stazioni, di transiti rumorosi per i quartieri industriali. Ogni sbaglio nel calcolare le vicende future dei prezzi produce conseguenze perniciose. Ad ognuno di noi è toccato vedere con disgusto su corsi stupendi di costruzioni d’alto valore elevarsi una casetta modesta, che dal trascorrere dal tempo fatta è vieppiù turpe, od i camini di un opificio. Lo sconcio è dovuto alla fretta di chi, non essendo nato speculatore, costrusse troppo presto su un’area che, se era matura per quegli usi inferiori, stava ancora maturando per usi più perfezionati. Lo sconcio dura talvolta per decenni, finché il rialzo del prezzo dell’area non consenta di demolire la vecchia costruzione; e talvolta dura per secoli quando l’incremento di valore non è bastevole a compensare le spese della demolizione e ricostruzione. Se si fosse tardato qualche anno, l’area sarebbe stata utilizzata nella maniera più conveniente e definitiva; definitiva, s’intende, per quel lungo periodo di tempo che la mente umana può concepire.

 

 

Già aveva osservato il Fisher (Capital and income, pag. 221) che «talvolta i due usi a cui un terreno può essere destinato differiscono non soltanto nel loro ammontare, ma anche nel tempo del loro cominciare o finire. In una città, per esempio, un’area può essere destinata sia per uso presente d’abitazione o per uso futuro commerciale ed è spesso dubitabile quale dei due usi sia il più pregevole. Nel caso che la città cresca rapidamente può accadere che in certi rioni, quantunque l’uso presente per abitazione sia il più importante, in pochi anni la località cessi di essere desiderabile come residenza e l’area diventi appetibile per affari. In tal caso può “rendere” a tenere l’area del tutto libera da usi presenti, conservandola in disparte finché la città sia cresciuta sino a rendere conveniente la costruzione di un caseggiato commerciale. Se l’area fosse ora coperta da una casa di abitazione, forse la possibilità del suo susseguente uso commerciale sarebbe tolta, o fors’anche il profitto derivante dalla sua conversione a questi usi verrebbe diminuito dal costo della demolizione e dalla perdita del valore della casa d’abitazione. In siffatte circostanze lo speculatore compra e tiene vuota l’area. Il guadagno è previsto da lui sotto l’aspetto di un aumento futuro di valore derivante dall’ampliarsi della città; epperciò compra aree per rivenderle più tardi ad un prezzo superiore. Comunemente si reputa che questo speculatore mantenga le aree fuori d’uso. Egli, tuttavia, pospone solamente il momento dell’uso; e, se egli ha capacità di previsione, non deve essere condannato più del saggio speculatore alla borsa del grano, la cui opera, come è ben noto, tende a conservare la provvista di grano. Lo speculatore tende a fare utilizzare le aree nel miglior modo possibile, scegliendo tra le varie correnti alternative di reddito, che l’area può dare, precisamente quella che possiede il massimo valore presente».

 

 

Vediamo ora quale sia l’efficacia dell’imposta. Se essa, come è uso nella maggior parte dei sistemi tributari, colpisce il reddito dell’area quando essa sia stata costrutta, e cioè quando al 14esimo e 1/5 anno frutterà 5 lire nette all’ anno (il metro quadrato all’anno 14esimo e 1/5 varrà appunto 100 lire perché si stimerà fecondo di un reddito annuo di lire 5), essa ridurrà nella stessa sua proporzione il valore dell’area in quel momento futuro e per ripercussione nel momento attuale. L’area fabbricata rendendo, per ogni metro quadrato, L. 5–0,50=L. 4,50 in perpetuo a partire dal 14esimo e 1/5 anno in poi, varrà in quel momento 90 lire, e quindi varrà adesso 45 lire.[22] Lo speculatore, comprando l’area a 45 lire ha sempre convenienza di attendere il momento della maturazione, utilizzando l’area nel miglior modo possibile. Egli non ha interesse per causa dell’imposta ad anticipare la fabbricazione, perché anticipa contemporaneamente l’imposta; né ha interesse a posticipare la fabbricazione per ritardare l’inizio della percussione dell’imposta, perché ritarderebbe, in modo non conveniente per lui, altresì l’inizio della percezione dell’interesse. L’avvento dell’imposta sul reddito realizzato in seguito alla costruzione dell’area lascia lo speculatore perfettamente indifferente, libero di seguire quella via che avrebbe altrimenti scelto ove l’imposta fosse stata assente. Oggi l’area vale, al lordo da imposta, 50 lire perché avrà un valore di 100 lire fra 14 anni e 1/5. Se egli costruisce ora ne ricaverà al massimo[23] un reddito di L. 2.50 annue in perpetuo, su cui l’imposta cadrà pel valsente annuo (all’aliquota del 10%) di 25 centesimi equivalenti alla perdita attuale di 5 lire; se egli attende a costruire al 14mo anno e 1/5, egli avrà un reddito di lire 5 all’anno, e pagherà d’imposta 50 centesimi annui in perpetuo, equivalenti a 10 lire di valore attuale al 14esimo anno e 1/5. Ma poiché 10 lire fra 14 anni e 1/5 equivalgono al saggio del 5% a 5 lire ora, rimane dimostrato che lo speculatore, sia che costruisca ora o tardi a costruire al 14esimo anno e 1/5, paga sempre la medesima imposta e da questa non è indotto a preferire più l’una che l’altra soluzione.

 

 

Supponiamo ora che l’imposta sia sul reddito guadagnato e colpisca col 10% l’incremento di valore che l’area ottiene di anno in anno pel progredire della città. Supponiamo, come nel caso precedente, che si preveda possa l’area valere fra 14 anni e 1/5 100 lire al metro quadrato e valga per conseguenza 50 lire al momento iniziale. Supponiamo che sia indifferente costruire oggi ovvero fra 14 anni e 1/5; perché oggi il reddito del metro quadrato di area costrutta[24] è di L. 2.50 e fra 14 anni e 1/5 si prevede di L. 5. Sono le ipotesi fatte prima e sono tutte necessarie per evitare che la decisione di costruire o di ritardare l’edificazione si attribuisca all’imposta mentre è dovuta ad altri elementi. Supponiamo ancora, per semplicità di calcolo, che il valore dell’area cresca regolarmente come cresce la perdita dell’interesse composto al 5%, cosicché in ogni successivo momento sia indifferente, astrazione fatta dall’imposta, costruire o non costruire.

 

 

Nel caso che la fabbricazione sia immediata, supponiamo che il valore dell’area più non aumenti; come è ragionevole supporre, poiché per un lunghissimo spazio di tempo, quale la mente umana può concepire, il fitto netto del metro quadrato rimane fisso in lire 2.50; e quindi non si può immaginare un incremento di valore dell’area. In questo caso il «guadagno» sarà eguale al «realizzo» e sarà dato unicamente dall’ammontare dei fitti netti. Possono darsi casi di costruzioni temporanee: tettoie, stabilimenti industriali, ecc.; ed in tal caso la soluzione sarà la risultante della sovrapposizione delle due soluzioni di fabbricazione immediata e posposta.

 

 

Veggasi ora come si comporta l’imposta sul reddito guadagnato; e per converso riguardinsi gli effetti già narrati dell’imposta sul reddito realizzato:

 

 

ANNO
  0 1 2 3 4 5 6
Imposta sul reddito guadagnato
1) Fabbricazione posposta              
Valore lordo area 50 52.50 55.10 57.80 60.80 63.80 67
Incremento valore 2.50 2.60 2.70 3 3 3.20
Fitti netti
Imp. 10% su incremento 0.25 0.26 0.27 0.30 0.30 0.32
Imp. 10% su fitti netti
2) Fabbricazione immediata              
Valore lordo area 50 50 50 50 50 50 50
Reddito in fitti netti 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50
Imp. 10% su fitti netti 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25
Imposta sul reddito realizzato di fitti netti
1) Fabbricazione posposta              
Fitti netti
Imposta 10%
2) Fabbricazione immediata              
Fitti netti 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50
Imposta 10% 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25

 

 

 

ANNO

Dopo in perpetuo ogni anno

Valore attuale delle annualità future d’imposta

 

7

 

 

8

 

9

 

10

 

11

 

12

 

13

 

14

 

14

70.40

73.80

77.60

81.60

85.60

89.70

94.30

99

100

100

3.40

3.40

3.80

4

4.10

4.10

4.60

4.70

1

5

0.34

0.34

0.38

0.40

0.40

0.41

0.46

0.47

0.10

0.50

50

50

50

50

50

50

50

50

50

50

2.50

2.50

2.50

2.50

2.50

2.50

2.50

2.50

2.50

0.25

0.25

0.25

0.25

0.25

0.25

0.25

0.25

0.25

5

5

0.50

5

2.50

2.50

2.50

2.50

2.50

2.50

2.50

2.50

2.50

0.25

0.25

0.25

0.25

0.25

0.25

0.25

0.25

0.25

5

 

 

Mentre l’imposta sul reddito realizzato non perturba il giudizio dello speculatore; perché sia che egli si decida alla fabbricazione immediata, sia che preferisca posporla, sempre paga un tributo equivalente ad un valore attuale di 5 lire; ben diversamente accade se l’imposta percuote il reddito guadagnato. In questo caso, se egli si decide alla fabbricazione immediata, il valore dell’area rimane costante per tutto il periodo, il guadagno è limitato perciò ai fitti netti di 2.50 lire all’anno e l’imposta è uguale ad una serie annua in perpetuo di L. 0.25, equivalente ad un valore attuale di 5 lire. Se egli si decide alla fabbricazione fra 14 anni e 1/5 dovrà pagare: 1) L. 0.50 all’anno in perpetuo sul fitto netto di 5 lire che pure in perpetuo percepirà a partire dal 14esimo anno e 1/5 in poi; le quali L. 0.50 avranno il valore di 10 lire al 14esimo anno e 1/5 e per conseguenza il valore attuale di 5 lire; 2) L. 0.25 nel primo anno di imposta sull’incremento di valore di L. 2.50 verificatosi nello stesso anno, L. 0.16 nel secondo anno, L. 0.27 nel terzo anno e così via, sino a pagare L. 0.10 nel primo quinto del 15esimo anno sull’ultima lira di aumento verificatosi in quei pochi mesi innanzi alla maturazione definitiva dell’area, come si legge nella tabella. Questa serie crescente di imposte equivale, alla tassa di sconto del 5%, ad una somma attuale di L. 3.60, che aggiunte alle altre 5 lire, compongono il peso totale dell’imposta, in caso di fabbricazione posposta, di L. 80.60. Vedesi dunque che il sistema dell’imposta sul reddito realizzato lascia lo speculatore, a parità di altre circostanze, indifferente rispetto al fabbricare presto o tardi, perché con ambedue i metodi paga lire 5 di tributo. Invece il sistema della imposta sul reddito guadagnato gli fa pagare 5 lire soltanto se egli costruisce immediatamente e L. 8.60 se egli ritarda la costruzione, ed agisce perciò come un premio alle fabbricazioni più vicine, ed è causa di tutti i danni che sopra furono descritti e sono visibili ad ogni osservatore. Il mercato immediatamente tien conto di questa opzione lasciata allo speculatore; in questo senso, che costui vede che la stessa area, la quale al momento attuale iniziale ha il medesimo valore lordo (lordo cioè dalla perdita capitalizzata delle imposte future) di 50 lire, ha due possibili valori netti di 50–5=45 lire in caso di fabbricazione immediata e di 50–8,60=41,40 lire in caso di fabbricazione posposta. E cioè il mercato, con la variazione spontanea dei prezzi, addita allo speculatore la convenienza di preferire l’uso per il quale l’area viene al netto maggiormente valorizzata, ossia la fabbricazione immediata.

 

 

Peggio accade se, come usa l’imposta italiana sulle aree fabbricabili, il balzello colpisce, con l’aliquota dell’1,2 ovvero 3%, il valore invariabile dichiarato al principio del periodo. Nel caso nostro, supponendo l’imposta dell’1% ed il valore iniziale, dichiarato conformemente al vero, di 50 lire, nel caso di fabbricazione immediata nulla si paga a questo titolo e si paga solo l’imposta sul reddito di fitti netti del fabbricato, il cui equivalente attuale vedemmo essere di 5 lire;[25] mentre nel caso di fabbricazione posposta, oltre alle sovradette 5 lire, si pagherebbero supposta la aliquota anche solo dell’1%, 50 centesimi all’anno per 14 anni e 1/5, equivalenti ad un valore attuale di 5 lire. E cioè 10 lire in tutto, che diventerebbero 15.020, ove l’aliquota dell’imposta sulle aree fabbricabili fosse del 2 o del 3%; ossia il doppio, il triplo od il quadruplo di ciò che si pagherebbe in caso di fabbricazione immediata. Perciò l’imposta italiana sulle aree fabbricabili, che, percuotendo un guadagno presunto ed uniforme per tutte le aree, è un campione peggiorato del tipo d’imposta sul reddito guadagnato, produce l’inconveniente di accelerare la fabbricazione.

 

 

Intendasi ancora meglio che cosa s’intende per questo effetto di accelerazione. In parte si accelera il processo complessivo delle costruzioni edilizie di una città, perturbando i rapporti di investimento dei capitali a vantaggio dell’industria edilizia ed a danno delle altre industrie. Il quale effetto, sebbene non ci sia possibile discorrerlo oltre, devesi reputare per sé stesso già dannosissimo. Inoltre si accelera il processo di costruzione delle aree più care in confronto a quelle meno care. Laddove, nell’assenza dell’imposta o con un’imposta sul reddito realizzato, lo speculatore avrebbe avuto interesse ad offrire ogni anno, per la fabbricazione della quantità di case necessaria al consumo le aree economicamente più mature alla fabbricazione, e così le aree centrali per usi di negozio o di uffici, le aree più ridenti per palazzine o case signorili, le aree meno suscettibili di valorizzazione per case operaie, e le aree più scadenti per uso di stabilimento industriale; esistendo invece un’imposta sul reddito guadagnato – ossia sugli incrementi effettivi o presunti di valore delle aree – nasce la convenienza ad offrire, per la fabbricazione dell’identica quantità di case, quelle aree che, lasciate vuote, di anno in anno di valore di una maggiore quantità assoluta, provocando la perdita differenziale di una maggior somma di imposte. Tra due aree, l’una del valore di 50 lire al metro quadrato, che aumenta di valore di L. 2.50 nel primo anno e l’altra di 5 lire che aumenta di valore di L. 0.25, conviene di più, data l’imposta del 10% sul reddito guadagnato, costruire la prima che la seconda. Invero l’imposta del 10% su lire 2.50, riduce il reddito netto a L. 2.25 ossia al 4.50% appena del capitale di 50 lire, che è un reddito minore del saggio corrente d’interesse, onde si perde a non costruire subito. Mentre la stessa imposta su L. 0.25, riduce il reddito netto a L. 0.225, che è ugualmente il 4.50% del capitale di L. 5; cagionando del pari una perdita a non costruire. Siccome però la perdita è nel primo caso di 25 e nell’altro solo di 2.5 centesimi per metro quadrato, siccome nell’un caso la perdita è su un capitale di 50 lire e nell’altro di 5 lire, lo speculatore è indotto a preferire la perdita minore ed a costruire le aree più care. L’effetto dell’imposta non è dunque soltanto di accelerare le costruzioni nel loro complesso; bensì anche di spostarle da luogo a luogo, mutando la maniera con cui le città si formano. Alle città disseminate su vasta zona di terreno, con ampi spazi vuoti intermedi, con divisioni di rioni a seconda degli usi diversi, l’imposta sul reddito guadagnato tende a sostituire le città concentrate su breve spazio, ipertrofiche, senza spazi verdi, senza prati di libero percorso per le genti festanti, porgenti spettacolo orrendo di mistura di case adibite ad usi diversissimi. Il primo tipo di città è la città moderna, la città giardino, la città bella, estetica ed apparentemente di costosa amministrazione. La seconda è la città a cui non più le mura medievali, ma l’imposta modernissima tolgono aria e luce e sole, la città rumorosa, folta di uomini doloranti, e in sostanza costosissima per opere di risanamento, di abbellimento, di sventramento alle venture generazioni. La prima è la città dei veggenti risparmiatori, la seconda è la dimora degli avari sordidi e ciechi.

 

 

PROVA OTTAVA: spiegazione della progressività dell’imposta.

 

 

Matteo Pescatore, esponendo a carte diciotto e seguenti della sua aurea Logica delle imposte una dottrina della imposta progressiva, alla quale dà fondamento tripartendo i redditi in spesa, risparmio – che sarebbero quote decrescenti del reddito – e potere contributivo – che sarebbe perciò quota crescente del reddito -, chiarisce quale sia la vera ragione della imposta progressiva. A ciò non è mestieri accettare la sua dottrina, la quale afferma doversi destinare al soddisfacimento dei bisogni pubblici tutta quella parte del reddito «guadagnato» che non sia destinato né a spesa privata né a risparmio. Tesi manifestamente male dichiarata, perché condurrebbe lo stato a vivere delle ricchezze abbandonate, quasi res nullius, per essere state giudicate inutili dai proprietari privati; ovvero costringerebbe lo stato a giudicare dell’altezza dei bisogni assoluti e relativi della vita dell’individuo e della famiglia, i quali danno origine alla spesa presente ed al risparmio per future occorrenze; talché l’imposta sarebbe fatta uguale alla quantità di ricchezza residua dopo che un giudizio morale e perciò arbitrario del legislatore abbia ad ognuno fissata la quantità lecita di spesa e di risparmio.

 

 

La ragione vera dell’imposta progressiva egli la dà manifestando il pensiero suo intorno all’indole del risparmio, di cui «il bisogno ragionevole» a sua detta,

 

 

«non cresce in proporzione uniforme al reddito: la proporzione decresce col progressivo aumento del reddito stesso. Uno possiede la rendita di mille lire: ne avanza ogni anno il quinto (duecento lire), e non ha di che troppo rallegrarsi: un altro gode dell’amplissima rendita di lire cinquantamila, ne avanza ogni anno per titolo di aumento del capitale il solo decimo a rendere sempre più doviziosa e splendida la condizione della famiglia e può di questo progresso annuale pienamente appagarsi».

 

 

Or dicasi quando sia corretta questa particolare osservazione (non la complessa dottrina che già respingemmo) del Pescatore e quali siano le illazioni che se ne possano trarre. Essa non dice che di fatto la proporzione del risparmio decresca col crescere del reddito «guadagnato» che è la specie del reddito a cui poneva mente il Pescatore. Direbbe, così asseverando, cosa contraria al vero; essendo probabile che di fatto i piccolissimi e piccoli redditieri poco contributo diano al risparmio capitalistico, sebbene lo diano più grande al risparmio personale; mentre i redditieri medi (operai organizzati, artigiani scelti, commercianti, industriali, professionisti ossia borghesi minuti e medi) assaissimo risparmino in amendue le maniere; e finalmente i grossi redditieri scarsamente aumentino il proprio patrimonio e per lo più soltanto nella generazione da sé assunta a grande ricchezza e in quella immediatamente susseguente. Non però qui si discorre del fatto del risparmio nelle diverse classi sociali, quale potrebbe statisticamente essere determinato; bensì del bisogno ragionevole del risparmio. Del fatto è inutile discorrere, perché come già dicemmo ripetute volte, dei fatti tengono spontaneamente conto i tributi sul reddito consumato e questi soltanto; e, rispetto a cotali eccellentissimi balzelli, è inutile teorizzare di progressività o di proporzionalità; perché essi superano la vessata disputa adeguandosi volta a volta all’uso che ognuno degli uomini contribuenti fa della propria ricchezza a fini pubblici e privati, presenti e futuri. Non fa d’uopo cioè, rispetto ai tributi sul reddito consumato, vanamente disputare se l’imposta debba essere una proporzione costante o variabile del reddito «guadagnato»; poiché supponendola una proporzione costante del «consumato» una brevissima riflessione basta a dimostrare che essa è una variabilissima proporzione del «guadagnato»; né la variazione dipende dall’arbitrio del legislatore, da una sua farneticata legge dell’utilità decrescente della ricchezza o da suoi cervellotici ricettari morali o politici intorno all’impiego del denaro, ma è determinata per ogni individuo da un volontario giudizio di valutazione dei beni presenti e futuri.

 

 

L’osservazione del Pescatore risponde invece ad un’esigenza logica del sistema delle imposte sul reddito guadagnato. Queste, che sono turpi teoricamente, debbono cercare di far dimenticare i loro vizi intrinseci appropriandosi, per via di presunzioni, le virtù delle imposte sul reddito consumato. Le quali virtù riassumendosi nella esenzione spontanea di tutte le maniere di risparmio, uopo è che le imposte sul reddito guadagnato quelle eccellentissime scimmiottino cercando di esentare, non potendo il «vero», il risparmio «presunto»; e, fra le altre presunzioni, facendo altresì quella del risparmio in funzione dell’altezza dei redditi. Qui viene in acconcio l’osservazione del Pescatore, la quale dà la legge non del risparmio di fatto, sibbene del risparmio che gli uomini dovrebbero fare se ragionevolmente sapessero valutare i propri bisogni presenti e futuri. Manifestissimo essendo allora che il povero dovrebbe potere risparmiare di più per assicurare la propria vita contro gli infortuni futuri e per migliorare le sorti della figliuolanza; mentre al ricco, il quale già possiede doviziose entrate ed è sicuro di goderle in vecchiaia e trasmetterle ai figli, l’intiero reddito guadagnato appare consumabile nel momento presente. L’imposta progressiva sul reddito guadagnato si può ritenere corretta, non perché sia progressiva, ma perché una parte del reddito guadagnato in verità è «non reddito» che deve essere immune da imposta, in ubbidienza al postulato dell’uguaglianza; sicché, volendo percuotere proporzionatamente l’altra parte ossia il «vero» reddito, è d’uopo colpire progressivamente tutto il reddito guadagnato.

 

 

La progressività dell’imposta, dalla dignità di principio teorico, alla quale da taluno si volle farla assurgere, vien fatta decadere all’ufficio modesto di canone tecnico con cui, nel sistema delle imposte sul reddito guadagnato, si tenta imperfettamente di obbedire al postulato dell’uguaglianza e di scansare i doppi d’imposta inerenti alla tassazione del risparmio. «Imperfettamente» si disse; poiché se l’ipotesi che il «ragionevole bisogno» di risparmio diminuisce proporzionalmente col crescere del reddito è l’ottima fra le presunzioni, il «fatto» del risparmio realmente avvenuto eccelle sovra ogni presunzione; sicché l’imposta sul reddito consumato, quale fu sopra delineata, è più perfetta di ogni imposta, sia pure progressiva, sul reddito guadagnato.

 

 

Essendo un puro canone tecnico consigliabile per raggiungere lo intento della esenzione del risparmio presunto, è chiarissimo che la progressività del tributo è strettamente limitata dal fine a cui tende; e non potrà la scala della progressione diventare siffattamente rapida da scoraggiare gli agiati ed i ricchi dal compiere opera di risparmio. La differenza tra la proporzione pagata da chi ha reddito piccolo o mediocre e quella soluta da chi ha reddito vistoso non potrà superare la differenza nel rispettivo «ragionevole bisogno» di risparmiare. Il qual bisogno può essere dal legislatore valutato sulla scorta di eventuali dati statistici che potrebbero essere raccolti, tenendo presente che qui non si vuol valutare il fatto, sibbene il dovere del risparmio. Onde opportuna riuscirebbe una ricerca statistica la quale cercasse di rispondere alla domanda: quale risparmio deve essere fatto da ognuno degli appartenenti ad una classe sociale, il quale volesse salire egli medesimo o far salire i propri figli alla classe di reddito immediatamente superiore? Poiché gli uomini vogliono sovratutto emulare i vicini, che stanno su un gradino più elevato della scala sociale e pochissimi dall’imo fondo elevano lo sguardo fino alla sommità degli ordini umani, una ricerca siffatta riuscirebbe statisticamente assai interessante ed utilissima per la finanza, la quale vi troverebbe una base oggettiva per la formulazione di una scala progressiva d’imposta. È probabile che l’imposta così empiricamente trovata sarebbe del tipo di quelle che si dicono proporzionali con detrazione di una quota costante o variabile di reddito; come l’imposta inglese sul reddito che deduce dal reddito, fino alle 700 lire sterline, 160, 150, 120 e 70 lire sterline o l’italiana sui redditi di ricchezza mobile che, tra le 400 e le 800 lire imponibili, deduce 250, 200, 150 e 100 lire. Queste somme sono quelle che, con indagine grossolana, il legislatore ha considerato uguali al risparmio in più che i redditieri piccoli e medi debbono fare rispetto ai redditieri maggiori. Della grossolanità della quale presunzione nessuno dubitò mai; onde si impongono indagini statistiche più raffinate per giungere a più corrette stime.

 

 

PROVA NONA: l’imposta sui trasferimenti in generale.

 

 

Il concetto dell’esenzione del risparmio giova altresì, chi ben guardi, a spiegare la ragion d’essere delle imposte sui trasferimenti a titolo gratuito ed oneroso. Suppongasi invero un incremento di 100 milioni nel fabbisogno dello stato; e suppongasi un reddito guadagnato di 10 miliardi di lire all’ anno, di cui 2 destinati a risparmio capitalistico e personale, un capitale nazionale privato di 100 miliardi ed una ricchezza ogni anno trasmessa per causa di morte ed inter vivos di 5 miliardi di lire. I cento milioni bisognevoli possono ugualmente ottenersi sia aumentando dell’1.25% l’aliquota dell’imposta sui 10 miliardi di reddito guadagnato meno i due risparmiati, sia, ove già tutto il reddito guadagnato sia esuberantemente tassato ed il sistema complessivo dei tributi appaia squilibrato ai danni dei redditi di lavoro, decretando un’imposta complementare sul patrimonio dell’1%., sia istituendo un tributo sui trasferimenti, gratuiti ed onerosi, del 2%. Perché la prima imposta, dell’1.25% sul reddito guadagnato, possa essere reputata corretta, occorre, come è dimostrato nella prova prima, classificare i redditi diffalcando dal reddito guadagnato una varia quota di risparmio presunto. La seconda imposta, dell’1 per mille sul patrimonio, esenta automaticamente il risparmio, come è dimostrato nella prova seconda, purché si faccia una presunzione corretta di risparmio per i lavoratori puri e purché si accerti il saggio realmente corrente di interesse per gli impieghi capitalistici puri. La terza maniera d’imposte, del 2% sui trasferimenti, altro non è che una trasformazione della seconda. È evidente invero come sia indifferente tassare coll’1 per mille ogni anno tutti i 100 miliardi che compongono il patrimonio nazionale privato o con il 2 per cento (che è un’aliquota 20 volte superiore a quella dell’1 per mille) la ventesima parte del patrimonio medesimo ossia i 5 miliardi che ogni anno a qualunque titolo si trasferiscono. La preferenza da darsi all’uno od all’altro metodo è puramente accidentale, ossia dipende da circostanze tecniche, come la facilità di esazione, la opportunità di distribuire la pressione tributaria su punti e in momenti diversi, la convenienza di mutar nome alle imposte per renderle più accette ai popoli. La correttezza delle imposte sui trasferimenti, ossia di quelle che in pratica hanno nome di imposte sulle successioni, sulle donazioni, di bollo, di registro di negoziazione di manomorta, ecc., dipende da due condizioni: 1) dall’avere previamente calcolato in modo corretto l’imposta complementare sul patrimonio ossia nel modo che fu dimostrato nella prova seconda. Ove l’imposta patrimoniale non esista, sarà d’uopo calcolare quale ne dovrebbe essere l’aliquota se con essa si dovesse coprire il fabbisogno richiesto. Questa aliquota chiameremo di conto, nella stessa maniera come si chiamavano «di conto» certe monete ideali inesistenti di fatto ed immaginate allo scopo di poter fare i necessari ragguagli tra le monete reali; 2) dall’avere compiuto sufficienti osservazioni statistiche intorno alla frequenza dei trasferimenti delle varie specie di ricchezza e per le varie maniere di titoli per cui la ricchezza si trasferisce. Nell’esempio schematico fatto sopra si suppose che il patrimonio privato totale fosse di 100 miliardi e la ricchezza ogni anno trasferita a qualunque titolo di 5 miliardi; epperciò si dedusse che se l’aliquota dell’imposta annua sul patrimonio era dell’1%, doveva essere del 2% l’imposta, che la surroga, sui trasferimenti. Ma questa è solo una media, la quale praticamente dovrà essere variata a seconda della varietà dei periodi devolutivi. Così, ferma sempre rimanendo l’aliquota «di conto» nell’1%., e supponendo che una data maniera di ricchezza, per esempio i beni immobili rurali, si trasferisca dai genitori ai figli in linea retta ad ogni 30 anni per causa di morte e inoltre ad ogni 50 anni per compra vendita inter vivos, l’imposta di successione in linea retta dovrà essere dell’1.50% e cioè 15 volte l’aliquota di conto, e quella sui trasferimenti a titolo oneroso del 2.50% e cioè 25 volte maggiore dell’aliquota di conto, con ognuna delle quali due imposte si fa così pagare una somma uguale al 0.50 per mille ogni anno; e perciò dell’1 per mille in complesso, eguagliando per tal modo l’aliquota di conto. Se per i beni mobili in generale la frequenza dei trasferimenti a titolo oneroso si accerti statisticamente uguale al giro dei dieci anni, l’aliquota dell’imposta relativa basterà sia 10 volte l’aliquota di conto, ossia dell’1%, se non esista imposta sui trasferimenti a titolo gratuito, o del 0.50% se questa esista.

 

 

A regole somiglianti si attengono in generale i legislatori; s’intende con scarti or maggiori or minori dalla norma corretta, imposti dalle urgenze fiscali e dalle insufficienti od erronee osservazioni statistiche. Talvolta riesce fastidioso o impossibile tecnicamente istituire imposte periodiche sui trasferimenti realmente avvenuti; come pei beni posseduti dagli enti di manomorta, per i titoli mobiliari, al portatore o nominativi; e per questi si torna a trasformare l’imposta sui trasferimenti in una imposta patrimoniale, limitata a certi beni, creando le imposte di «surrogazione» dette di manomorta o di negoziazione dei titoli. È un processo a rovescio, durante il quale spesso si commettono nuovi errori, quasi sempre in eccesso, dai legislatori. Tutte queste «commutazioni» però non possono nascondere la ragion d’essere, che è semplicissima delle imposte sui trasferimenti: le quali sono cioè un mezzo tecnico per sovrimporre i redditi provenienti da capitale o da capitale misto a lavoro, nello intento di esentare, come fu dimostrato nella prova seconda, il risparmio. Perché l’intento venga esattamente raggiunto, occorre costruire una vera e propria tabella delle commutazioni, di cui gli elementi sono: il saggio corrente di interesse per gli impieghi capitalistici puri, la quantità probabile di risparmio dei lavoratori puri e la frequenza dei trasferimenti a titolo gratuito dai genitori ai figli in linea retta od a titolo oneroso per le varie maniere di beni. I quali dati primi debbono essere forniti dall’osservazione statistica, alla quale soltanto la finanza andrà debitrice di una corretta applicazione delle imposte sui trasferimenti.

 

 

PROVA DECIMA: l’imposta successoria in ispecie.

 

 

Dopo la teoria generale dell’imposta sui trasferimenti, è d’uopo esporre le teorie particolari che delle peculiarità di ognuna di esse danno ragione. E prima dell’imposta di successione. Della quale ognuno sa come dessa varii crescendone il peso in funzione del crescere della quota ereditaria e del rallentarsi dei vincoli di parentela epperciò è d’uopo spiegare queste variazioni al disopra dell’aliquota che già chiarimmo dovuta per le successioni in linea retta dai genitori ai figli. A fissare l’aliquota minima dell’imposta successoria provvede la teoria generale svolta nella prova nona; talché necessita soltanto più la spiegazione degli incrementi d’imposta, al disopra di questo minimo, sulle successioni fra collaterali ed estranei. Possiamo quindi distinguere l’imposta successoria in due parti: l’una fissa, la quale grava nella medesima proporzione tutte le successioni, di qualunque somma e in qualsiasi grado; l’altra variabile in funzione della parentela e dell’ammontare della quota ereditaria. Di questa quota variabile si vuole ora cercare la ragion d’essere.

 

 

Suppongasi innanzitutto un risparmiatore scapolo, il quale abbia accumulato durante la sua vita un patrimonio di 100.000 lire, su cui non fu mai percosso d’imposta, perché le imposte sul reddito consumato esentarono automaticamente e quelle sul reddito guadagnato seppero con adatte presunzioni rendere immune il suo risparmio annuo. Costui, non avendo figli da sostentare ed educare, può, a parità di altre circostanze, più agevolmente accumulare ricchezze e per necessità deve abbandonarle a parenti più lontani di quanto non facciano i risparmiatori prolifici.[26] Questa è la prima spiegazione della maggior gravezza dell’imposta sui patrimoni vistosi e sulle successioni tra parenti lontani e tra estranei. Gli scapoli invero, vivendo spesso a dozzina in osterie, si sottrassero in vita al debito d’imposta che avrebbero dovuto solvere sulla spesa che pur facevano di casa, di mobilio, di servidorame. Poiché le imposte suntuarie sulle abitazioni, sul mobilio, sulle vetture, sui domestici (capo settimo) lasciano immuni costoro, che consumano in prevalenza frazioni non tassate dei servizi forniti dai grandi alberghi e dalle osterie; e neppure li colpiscono le imposte sul reddito globale guadagnato, le quali in pratica sono commisurate alla spesa che dai contribuenti viene ostentata; talché gli uomini «soli» correttamente debbono pagare in punto di morte quel che in vita riuscirono a non pagare mercé l’astuzia di far loro consumi in maniera invisibili al fisco.[27]

 

 

Ma non a questo solo intento giova l’imposta di successione. Come di ogni altro balzello, l’ufficio suo principale è di guardare innanzi: non ai defunti che più non sentono, ma agli eredi che ricevono la ricchezza. Vedemmo (nel capo secondo) come il postulato dell’uguaglianza e il teorema milliano richieggano l’esenzione della ricchezza mentre viene risparmiata e la sua tassazione quando sia consumata, tuttoché in questo istante del consumo abbia nome di capitale e non di reddito. A ciò riescono le imposte sul reddito consumato, perché lo stato percuote la ricchezza destinata all’acquisto di tabacco o di casa o di vetture o di servizi personali senza impacciarsi a cercare se l’acquisto sia fatto col reddito o col capitale. Nelle più imperfette imposte sul reddito guadagnato la immunità del capitale esistente all’inizio del periodo finanziario si impone invece allo scopo di evitare se non le doppie almeno le triple o quadruple tassazioni; e soltanto la logica del teorema milliano può consigliare al legislatore di fare uno strappo alla logica del sistema della tassazione del reddito guadagnato quando si possa «presumere» che il cosidetto «capitale» il quale, come tale, è intangibile dalle imposte sul reddito guadagnato, è destinato ad essere consumato o dilapidato. Qui è la ragion d’essere vera delle variazioni nell’aliquota dell’imposta successoria. L’esperienza insegna che ben difficilmente la sostanza formata coll’assiduo risparmio dal fondatore di una dinastia famigliare si conserva intatta attraverso le successive generazioni. Rarissime sono, nel novero delle famiglie ricche, quelle la cui ricchezza rimonta ad un secolo; e sono eccezioni stravaganti quelle famiglie che da più secoli conservano le ricchezze avite. Ciò che il padre ha accumulato, il figlio sa forse conservare ed i nipoti probabilmente dilapidano; questa è verità universale che i proverbi popolari in lor sapienza insegnano e che di indagini statistiche abbisogna non per essere provata, ma unicamente perché se ne arricchisca la esemplificazione.[28] Su questa verità poggia l’edificio variabile dell’imposta successoria; la quale in taluni paesi esenta e dappertutto tassa mitemente le eredità in linea retta, perché il legislatore correttamente prevede che i figli di solito conserveranno la sostanza paterna, e via via più fortemente tassa gli eredi a mano a mano che si rallenta il vincolo della parentela, perché prevede che le sostanze, inopinatamente e gratuitamente ricevute, sempre più di frequente andranno disperse. Onde il fisco, il quale non sa accertare direttamente il fatto del consumo della ricchezza formata in periodi finanziarii trascorsi (capo terzo), si affretta ad esigere la parte sua innanzi che la sostanza venga in possesso dei probabili dilapidatori.

 

 

Non osa in verità il legislatore apertamente dichiarare cotal suo giudizio poco benigno verso gli eredi; e va cianciando di giustizia tributaria la quale esige che, se il lavoratore viene tassato col 10% sul frutto del suo lavoro, anche l’erede neghittoso venga d’altrettanto percosso sul frutto gratuito della eredità. Noi però sappiamo che questi son discorsi vani; e che il postulato dell’uguaglianza esige che il lavoratore venga tassato solo sulla parte del frutto del suo lavoro che egli consuma, esentandone la parte destinata a risparmio capitalistico e personale; ed esige pure – sempre, s’intende, per la sola quota variabile dell’imposta successoria, ché per la quota fissa l’uguaglianza tributaria esige la tassazione su tutto l’ammontare della quota ereditaria, sia che l’erede la consumi o la risparmi, e ciò, come si discorse nella prova nona, appunto allo scopo di esentare il risparmio che si presume contemporaneamente compiuto dai redditi provenienti da lavoro e, in minor grado, da lavoro misto a capitale – che l’erede venga tassato sulla quota dell’eredità ricevuta che per avventura egli consumi ed esentato su quella che egli conserva, poiché la tassazione di quest’ultima farebbe per lui doppio con la tassazione dei frutti che egli ne ricaverà negli anni avvenire. Dire, altrimenti, che anche la quota «conservata» dell’eredità deve essere tassata per evitare una esenzione scorretta a suo favore, equivale a sostenere l’assurda tesi che l’erede, ricevendo 100.000 lire in eredità e limitandosi a consumarne il frutto annuo di 5.000 lire, abbia ricevuto due cose; dapprima le 100.000 lire e in secondo luogo una serie infinita di annualità di 5.000 lire l’una, sicché tassando queste ultime, non si tassino le prime 100.000 lire; il che ancora equivale a dire che ogni eredità di 100.000 lire in realtà è uguale a 200.000 lire ed ognuna di 1 milione può essere reputata uguale a 2 milioni: grottesca illusione, sebbene utilissima a persuadere i popoli a pagar balzelli.

 

 

Cianciano altresì i sicofanti della giustizia tributaria di certa ripugnanza maggiore che avrebbero i figli a pagare il tributo, perché essi si consideravano già quasi padroni della sostanza paterna; mentre agli eredi lontani l’eredità giunge inaspettata ed affatto gratuita onde sopportano più agevolmente le pretese del fisco. La quale osservazione è praticamente importante ed il legislatore ne deve tener conto, essendo ufficio suo, dopo aver soddisfatto al postulato dell’uguaglianza, di congegnare siffattamente le imposte da suscitare la minor repugnanza morale, sebbene sia utilissima la reazione attiva, tra i contribuenti. Ma non è la ragion delle variazioni dell’imposta. La quale vuolsi, come sovra si disse, cercare per l’appunto nel consueto bisogno, imposto dall’imperfezione dei tributi sul reddito guadagnato, di sostituire all’accertamento dei fatti veri – consumo di ricchezze precedentemente risparmiate – la presunzione di fatti probabili: ed essendo più probabile la dilapidazione della ricchezza ereditata da parte degli eredi lontani che dei prossimi viene senz’altro chiarita la mitezza dell’imposta successoria rispetto a quest’ultimi e la gravezza rispetto ai primi. La varia probabilità della dilapidazione giova altresì a spiegare l’ilarità maggiore dei parenti lontani e la loro più ostentata indifferenza ai colpi del fisco. Poiché il figlio o parente prossimo, il quale vuol conservare la ricchezza paterna, che già considerava quasi sua propria, è fatto iracondo dall’imposta, la quale lo colpisce in un momento in che egli è addolorato per la morte dell’autore dei suoi giorni ed è astretto a gravi spese di ultima malattia e di funerali; mentre il parente lontano, che già s’appresta a dar fondo all’improvvisa fortuna, guarda con più benigno occhio lo stato e, reputandolo sozio nell’auspicata distruzione, quasi gli è grato di avere pure a lui lasciato qualcosa da distruggere.

 

 

Tutte quante codeste considerazioni, non è inutile ripeterlo, sebbene l’avvertenza sia oramai stata fatta le infinite volte, valgono per le classi di contribuenti e non per gli individui singoli; ben potendo darsi figli dilapidatori e cugini lontani conservatori della eredità ricevuta. Ma è proprio della ria natura delle imposte sul reddito guadagnato di dover procedere per via di larghe e spesso erronee approssimazioni; ed a tale esigenza non può sottrarsi neppure l’imposta successoria. Prima di interromperne il discorso, vuolsi aggiungere che la spiegazione ora profferita chiarisce ancora altri punti; e cioè:

 

 

1) la maggiore tassazione, in taluni paesi consentita, degli eredi giovani in confronto ai vecchi, essendo a costoro, per la debolezza dell’età e la brevità del tempo, negato di potere consumare il patrimonio ereditato così come lo possono gli eredi più giovani. Non al godimento dei frutti pose mente il legislatore, ché questi sono già colpiti ogni anno, finché dura la vita, con le vane maniere di imposte sul reddito; ma allo scialacquo del patrimonio medesimo, a cui i vecchi, fatti dalla grave età austeri, sono impotenti, mentre ché ne sono capacissimi i giovani; 2) la minorazione d’imposta talvolta concessa quando lo stesso patrimonio successivamente passa, in breve lasso di tempo, per parecchie mani. La brevità del tempo decorso consente al fisco di persuadersi, senza possibilità di artefatte prove, che egli aveva avuto torto nel presumere nel primo erede una capacità di dilapidazione, che, seppure esisteva, non ebbe tempo a manifestarsi; talché, avendo già esatto sul primo erede pochi mesi innanzi l’imposta sul consumo presunto, più non ha il fisco coraggio a pretenderla una seconda volta; e, quasi supponendo che la precedente trasmissione non abbia avuto luogo, dà credito al secondo erede pel balzello dianzi pagato; 3) l’aumento d’imposta onde alcuni legislatori moderni gravano i figli unici in confronto della prole numerosa; essendo manifesto, nota il Gini a carte 44 del già mentovato studio, che «una numerosa famiglia educa potentemente e genitori e figli ad un elevato spirito di solidarietà, di laboriosità e di disciplina» ed essendo noto «che i padri di numerosa prole sono, nella generalità dei casi, gli operai più attivi e tranquilli e che i figli unici molto spesso scialacquano nell’ozio e nel vizio i patrimoni ereditati».

 

 

Finalmente la teoria ora esposta pone i limiti al di là dei quali non potrà andare l’imposta successoria, ove si voglia osservare il postulato dell’uguaglianza. Suppongasi invero che la dilapidazione sia massima da parte dei parenti oltre il sesto grado e degli estranei quando abbiano ricevuto un’eredità superiore al milione di lire,[29] giungendo, per ipotesi abbondante, fino al totale della somma ereditata. Quale dovrà essere in questo caso l’aliquota della parte variabile dell’imposta successoria? Evidentemente dovrà essere uguale all’aliquota che grava la parte che si presume consumata di ogni altro reddito guadagnato. Se le imposte sulla parte imponibile, supposta consumata, dei redditi fondiari, edilizi, mobiliari sono del 20%, similmente dovrà essere del 20% l’aliquota della parte variabile dell’imposta successoria su questi eredi lontani e massimi; e dovrà calare al 10 o salire al 30% se ugualmente s’abbassano o rialzano le imposte sul reddito. Operare altrimenti vorrebbe dire tassare nell’un caso con 20 centesimi e nell’altro con 30 centesimi la lira consumata; alla quale disuguaglianza nessun fondamento plausibile è consentito dare. Al disotto di questo massimo, che la esperienza insegna a variare in ogni paese, l’aliquota della parte variabile della imposta successoria deve scendere o, rimanendo immutata l’aliquota, deve ridursi la quota imponibile del patrimonio ereditato, a mano a mano che diminuisce, collo stringersi dei legami di parentela e col diminuire della somma ereditata, la probabilità di dilapidazione, fino a ridursi a zero o quasi per le successioni minime in linea retta tra genitori e figli, per cui la dilapidazione si può supporre nulla o quasi nulla. Per queste minime successioni in linea retta sussisterà soltanto la parte fissa dell’imposta successoria; mentre per le successioni più vistose, pure in linea retta, e per quelle tra collaterali od estranei alla parte fissa si aggiungerà la parte variabile dell’imposta.

 

 

Ben si sa che a cosiffatti infrangibili e non arbitrari limiti della imposta successoria e dei suoi varii gradi non s’attengono spesso i legislatori; i quali spingono talvolta l’imposta, medesimamente per le parentele vicine e lontane, ad altezze distruttrici d’ogni spinta alla formazione ed alla conservazione del capitale. Ma si sa anche che l’opera dei legislatori frenetici di età e smaniosi di favore popolare appartiene non alla teoria pura dell’imposta; bensì a quelle impure della illusione tributaria e della pubblica espropriazione, senza indennità, della fortuna privata.

 

 

PROVA UNDICESIMA: l’imposta sui trasferimenti a titolo oneroso pure in ispecie.

 

 

Le variazioni delle imposte di bollo e registro sui trasferimenti a titolo oneroso al disopra del minimo fisso che, per ogni categoria di beni trasferiti, dovrebbe essere dal legislatore determinato in funzione del periodo di tempo intercedente in media tra l’un trasferimento ed il successivo – onde la parte fissa dell’imposta qui diventa variabile, il periodo devolutivo non dipendendo più dalla morte, che è involontaria, ma dalla volontà di vendere dei possessori, la quale muta per ogni specie di beni – sono ribelli ad ogni norma logica, dipendendo dal capriccio del legislatore, il quale si è sbizzarrito, forse più che in ogni altra maniera di tributi, a mutare all’infinito le aliquote, frenato unicamente dalla paura di esasperare troppo i contribuenti e guidato soltanto dalla norma cara ad ogni monopolista, la quale insegna a gravar la mano sovratutto su coloro che paiono meno recalcitranti o più capaci a sopportare il peso dell’imposta.

 

 

Ma fra le circostanze che agevolano il compito del fisco, ve ne è una, la quale fu messa in luce dal Puviani e merita di essere ricordata, come quella che aggiunge nuovo rinforzo alla teoria qui sostenuta, secondo la quale le imposte sui trasferimenti mirano a tassare i consumi e ad esentare i risparmi e unicamente sono tollerabili in quanto raggiungano questo intento, diventando intollerabili quando, come purtroppo di fatto spesso accade, ottengono, per la mala loro conformazione, l’effetto opposto. Nota invero il Puviani che le imposte sui trasferimenti percuotono il contribuente nel momento in che, per la contentezza del conchiuso contratto, egli è più propenso a spendere:

 

 

«Molti subordinano il procurarsi certi piaceri, il fare certi regali alla conchiusione di certi contratti. Per modo che il guadagno [del contratto] in senso stretto può essere più o meno intaccato dagli effetti della spinta dispendiativa, che s’accompagna alla gioia, derivante dal buon affare conchiuso e che si estrinseca spesso in banchetti, gozzoviglie tra contraenti e sensali. Anzi quel guadagno talora viene distrutto intieramente o non basta neppure per le nuove spese, che esso provoca» (Puviani, Teoria della illusione finanziaria, pag. 145).

 

 

Ed altrove, amaramente, commentando l’incidenza delle imposte di trasferimento sui venditori invece che sui compratori:

 

 

«Una moltitudine di vittime sul terreno economico, che non avrebbe mai potuto essere colpita d’imposta in ragione dei suoi lucri, dell’importanza del suo avere, fu taglieggiata nei momenti delle sue maggiori strettezze, dei suoi maggiori sacrifizi. Si colpì senza riguardo la ricchezza che si trasferiva, il poderetto, la casupola, la vendita dell’ultimo residuo della propria sostanza, fosse pure determinata dal bisogno di mantenere un infermo, i beni strappati dal creditore all’asta pubblica per un prezzo vile. Tutta una classe di deboli proprietari in dissoluzione si rassegna alle feroci esigenze fiscali, non tanto per la cosciente impossibilità di resistere ad esse, quanto perché, nello sfacelo delle sue sostanze, nell’impeto della sua rovina, considera la frazione di ricchezza strappatale

dall’imposta come un amminicolo, un accessorio, i pochi stecchi aggiunti al

pesante fardello» (Puviani, op. cit., pag. 194).

 

 

Osservazioni suggestive, come tutte quelle di questo scrittore, a torto negletto; le quali provano che le imposte sui trasferimenti onerosi sono aiutate nella loro pratica applicazione da circostanze favorevoli allo spendere, qualunque siano i motivi, lieti o dolorosi, dello spendere. Da ciò non si deduca leggermente che queste siano le ottime tra le imposte; essendo ferma opinione di chi scrive che esse siano, di questo gruppo dei balzelli sui trasferimenti, le pessime, appena comparabili alle imposte sui consumi risparmio, di che si discorse al capo settimo, per i loro dannosi effetti sulla circolazione della ricchezza e specialmente per gli ostacoli frapposti al trapasso dei beni a pro’ delle persone meglio adatte a trarne vantaggio. Se invero dal punto di vista contabile è indifferente, come si dimostrò nella prova nona, pagare l’1 per mille ogni anno su tutto il patrimonio privato esistente ovvero il 2% della ricchezza ogni anno trasferita a titolo oneroso, ove si supponga che per tal modo si trasferisca annualmente la ventesima parte della ricchezza esistente, non è indifferente dal punto di vista economico. Poiché l’imposta «annua» dell’1 per mille dovendo essere ad ogni modo pagata, sia che si verifichino oppure no i trasferimenti della ricchezza colpita, non ostacola la circolazione dei beni; mentre l’imposta del 2%, percetta «se» e «quando» i trasferimenti di fatto avvengano, ha per effetto di allontanare il momento dei trasferimenti. Ora tutto ciò che rallenta la circolazione della ricchezza ed impedisce che questa passi dai meno capaci ai più capaci di utilizzarla è dannoso economicamente. Qui si vede la differenza grande tra le imposte di successione e quelle sui trasferimenti a titolo oneroso; le prime, tuttoché periodiche, non ostacolando la circolazione della ricchezza, perché la morte, nonostante la minaccia incombente dell’imposta, resta tuttavia indeprecabile; mentre le seconde, potendosi rinviare o non compiere la vendita, sono un freno alle vendite medesime. Perciò ben fanno i legislatori i quali hanno abolito le imposte percette in occasione dei trasferimenti trasformandole in imposte annue di surrogazione sulle azioni ed obbligazioni; lieve ed apparentemente insignificante mutazione, la quale invece ha contribuito assaissimo alla facile negoziabilità ed alla popolarità dei titoli mobiliari, sottraendo capitali all’agricoltura ed all’industria edilizia e spingendoli verso le industrie manifatturiere e commerciali, che più facilmente si giovano delle azioni e delle obbligazioni a raccogliere il capitale ad esse bisognevole. Questo non vide il Puviani: che cioè il biasimo, di cui son meritevoli le imposte sui trasferimenti a titolo oneroso, non attiene alla sostanza loro, che è favorevole alla esenzione del risparmio ma alla loro forma tecnica consueta, che è nimicissima all’accorrere del risparmio verso gli impieghi più produttivi.

 

 

PROVA DODICESIMA: il consolidamento dell’imposta.

 

 

Un’altra maniera di esentare il risparmio è il consolidamento dell’imposta pagata dal contribuente. Chiamasi per noi consolidamento quel fatto per cui, crescendo i redditi del contribuente col trascorrere del tempo da 1000, a 1100, a 1200, a 1300, a 1400 ed a 1500 lire, l’imposta tuttora percuote le originarie 1000 lire, non ponendo mente agli incrementi ulteriori. Il fatto talvolta è voluto dal legislatore; e più spesso accade in spregio della sua volontà. È voluto quando si dichiarano esenti i redditi dei miglioramenti agricoli dall’imposta fondiaria per tutto il tempo che ancor rimane da trascorrere fino alla nuova censuazione catastale, che la legge comanda abbia luogo al compiersi dei trent’anni dalla prima attivazione del catasto e la storia insegna avvenire a secoli di distanza; o quando espressamente si dichiarano esenti per 5 o 10 anni dall’imposta sui fabbricati o di ricchezza mobile i redditi dei nuovi opifici o degli ampliamenti dei vecchi opifici sorti in provincie prima sfornite o scarsamente dotate di industrie. Più spesso il consolidamento avviene contro la volontà del legislatore, il quale vorrebbe che i redditi delle industrie, dei commerci e delle professioni fossero riveduti ad ogni quattro anni, in guisa che ognora gli accertamenti rispondano a verità; mentre invece le relazioni annue dei direttori generali delle imposte dirette son piene di querimonie intorno alla difficoltà, statisticamente provata, di mutare la cifra originariamente convenuta quando per la prima volta il contribuente fu assoggettato al balzello mobiliare. È invero provato dall’esperienza che i contribuenti singoli, non i collettivi tassati sulla base dei bilanci resi di pubblica ragione, con ogni lor possa riluttano ad un aumento del reddito imponibile, più che alla prima loro imposizione; sembrando ad essi che la cifra d’imposta, una volta fissata per concordato o per sentenza della magistratura competente, debba essere intangibile, comunque cresca il reddito. Né le variazioni, in aumento sono convenute in rapporto ai redditi cresciuti, sibbene all’ammontare originario del tributo: di un decimo, di un quarto, di una metà di questo, che si assume a regola della futura condotta tributaria. Talché il gettito dell’imposta in talune categorie si irrigidisce, si consolida, crescendo soltanto per l’aggiungersi di nuove imprese, e non per l’incremento delle vecchie. Il fatto è visibilissimo pure nella imposta sui fabbricati, per la quale in Italia, dopo il 1889, non fu più possibile alcuna revisione generale; ed il provento dell’imposta crebbe quasi soltanto per il sorgere di nuovi e per la ricostruzione o per l’ampliamento dei vecchi fabbricati, non per una nuova migliore valutazione del reddito dei vecchi fabbricati, il quale rimase immutato. A questo consolidamento eslege si acconcia alfine, dopo avervi riluttato a lungo, l’amministrazione fiscale, paurosa di commovimenti popolari; tenendosi paga di rompere qua e là le resistenze opposte dai contribuenti in quei luoghi dove l’assalto possa essere condotto alla spicciolata contro gli individui, senza suscitare l’ira della intera loro classe.

 

 

Questo il fatto del consolidamento od irrigidimento dell’imposta. Di cui le spiegazioni sono parecchie: le difficoltà tecniche di ripetere ad ogni anno gli accertamenti, il desiderio del legislatore di promuovere il sorgere di industrie in paesi di esse deserti, la strapotenza di talune classi sociali, ecc. Ma un effetto di quel fatto è chiarissimo in molti casi, sebbene non sia generale: l’esenzione dei frutti del risparmio investito nei miglioramenti agricoli, nella creazione di imprese nuove, nello ampliamento delle imprese esistenti. Notammo già nel capo secondo che il teorema milliano può attuarsi in due modi: o coll’esenzione del risparmio o con quello dei suoi frutti. Sebbene si sia osservato allora essere più conveniente, per motivi inutili a discorrere in questa memoria, la prima maniera d’esenzione, talvolta accade che il legislatore prescelga la seconda via, esentando i frutti del risparmio. L’esenzione teoricamente dovrebbe durare finché durano i frutti medesimi; in via di approssimazione si concede per dichiarazione legislativa o di fatto, mercé il consolidamento dell’imposta, l’esenzione solo per un «lungo» periodo di tempo. A noi basti d’aver constatato il fatto, che assai bene s’inquadra nel novero delle prove con cui si volle dimostrare che le imposte sul reddito guadagnato «tendono», sel sappia oppur no il legislatore, a diventare imposte sul reddito consumato.

 

 

PROVA TREDICESIMA: l’esenzione dell’aumento di valore non realizzato dei titoli di portafoglio e degli utili mandati a riserva.

 

 

Giurisprudenza e dottrina concordi ritengono in Italia che l’aumento di valore verificatosi durante un esercizio finanziario nei titoli posseduti da società anonime ed in accomandita e da altri istituti, come casse di risparmio, monti di pietà, ecc., non debba essere sottoposto a tassazione, finché esso non sia realizzato con la vendita dei titoli. E la dottrina prevalente consiglia in Italia al legislatore di mutare la legge in guisa da rendere immuni da imposta gli utili mandati a riserva, finché le riserve non siano ripartite tra gli azionisti.

 

 

Amendue queste immunità ripugnano profondamente al principio informatore delle imposte sul reddito guadagnato, – di cui la nostra imposta di ricchezza mobile per mille segni dovrebbe essere, quando il reddito sia stato ridotto al dovuto numero di quarantesimi consumabili, il campione immacolato, – volendo quel principio che sia imponibile la massa netta di ricchezza acquistata da una persona fisica in un determinato esercizio finanziario e consumabile senza variare la massa di ricchezza posseduta all’inizio dell’anno (capo primo, in fine). Sia una società anonima, dal capitale versato di 1.000.000 di lire, diviso in 1000 azioni da 1000 lire ciascuna. Durante il primo anno finanziario d’esercizio i titoli, in che tutto o parte del capitale sociale era stato investito, aumentano di valore di 50.000 lire in confronto al prezzo d’acquisto scritto in bilancio; e durante il medesimo anno dal guadagno d’esercizio vengono prelevate 10.000 lire, le quali sono collocate a riserva. La giurisprudenza ammette che le prime 50.000 lire siano immuni da imposta, finché i titoli non siano venduti e la dottrina invoca dal legislatore che anche le altre 10.000 lire siano fatte salve dalla percossa tributaria. Amendue queste pretese ripugnano al principio della tassazione del reddito guadagnato. Infatti l’azionista, possessore dell’azione, all’1 gennaio aveva un’azione del valore di 1000 lire e nulla più; mentre al 31 dicembre egli ha un’azione che sul mercato viene correntemente stimata e contrattata ad un prezzo uguale ad una millesima parte del milione di lire versate, ed insieme delle 50.000 lire di cui è cresciuto il valore dei titoli di portafoglio, e delle 10.000 lire mandate a riserva, ossia al prezzo di  ossia di 1060 lire. Se l’azionista volesse potrebbe vendere la sua azione per 1.060 lire, il che vuol dire che egli, volendo, potrebbe consumare le 60 lire senza intaccare il capitale originario all’inizio dell’anno, che era di sole 1000 lire; il che ancora significa che le 60 lire sono reddito guadagnato imponibile.

 

 

L’averle dichiarate o il volerle dichiarare invece immuni da tassazione è una insigne vittoria del principio della tassazione del reddito consumato, che per tal modo si insinua nella rocca forte avversaria ed a pezzo a pezzo la smantella. Infatti, secondo quest’altro principio, le 60 lire non sono reddito, non essendo consumate dall’azionista; anzi sono risparmio a cui «espressamente» l’azionista rinunzia, consentendo che i titoli non siano venduti, come si dovrebbe fare per distribuire il guadagno sul prezzo di acquisto e che gli utili d’esercizio siano tenuti nella cassa sociale; epperciò debbono, per la virtù del postulato dell’eguaglianza e del teorema milliano essere immuni da imposta.

 

 

Vero è che lo smantellamento della fortezza avversaria non è compiuto; se il principio fosse logicamente accolto in tutte le sue conseguenze, non ci si dovrebbe contentare dell’esenzione dei risparmi «certi» operati collettivamente dall’azionista a mezzo dello strumento «società anonima»; ma si dovrebbe andare sino all’esenzione dei risparmi che singolarmente l’azionista operi inoltre sui dividendi distribuiti dalla società. Se nell’anno menzionato, la società non solo ha «guadagnato» le 50 lire di maggior valore dei titoli di portafoglio e le 10 lire di utili mandati a riserva, ma ha distribuito ancora 55 lire di dividendo agli azionisti, ragion vorrebbe che si esentassero dall’imposta, oltre le 50 e le 10 lire sovraricordate, anche quella parte delle 55 lire di dividendo che i singoli azionisti risparmiassero. Il che teoricamente è verità inoppugnabile; ma noi sappiamo già, per le considerazioni esposte nel capo terzo, come sia impossibile conoscere il risparmio effettivamente compiuto dai contribuenti e come, se si ammettesse l’esenzione «generica» del risparmio, le frodi fiscali diventerebbero incoercibili. E già sappiamo anche come, per queste potentissime ragioni di fatto, nel gruppo delle imposte sul reddito guadagnato sia d’uopo esentare il risparmio «presunto» e non l’«effettivo». Siffatta necessità ferrea di non esentare il risparmio «effettivo» vien meno però quando in modo «certo» si conosca il medesimo effettivo risparmio e sia esclusa la possibilità delle frodi; del che già demmo un esempio ricordando nella prova quarta l’esenzione concessa ai premi di assicurazione, nella prova quinta l’immunità invocata per le foreste nel periodo della loro formazione, nella prova settima la sapienza degli antichi legislatori ripugnanti a tassare l’incremento di valore delle aree fabbricabili. In tutti questi casi è esclusa la possibilità di frodi e perciò l’immunità al risparmio effettivo è scevra di pericoli. Poiché non si può immaginare che gli azionisti di una società anonima abbiano in animo di frodare il fisco rinunciando a realizzare il maggior valore dei titoli di portafoglio o mandando talune somme guadagnate nell’anno a riserva e poiché, se anche volessero, ogni frode sarebbe ad essi preclusa per la impossibilità di distribuire in avvenire quei risparmi agli azionisti senza solvere il debito tributario, così appare legittima la pretesa della dottrina di volere l’immunità dall’imposta nei casi ora discorsi. Certissimamente la logica pura imporrebbe di non contentarsi di così modesta conquista e di proclamare la immunità benanco del risparmio fatto dagli azionisti sul dividendo distribuito. Alla quale maggiore vittoria si giungerà nel giorno in che tutti i contribuenti siano fatti uomini economici perfetti e giusti estimatori dei servizi pubblici e sia scomparsa la trista gente dei frodatori da un lato e degli espropriatori pubblici dall’altro.[30]

 

 

PROVA QUATTORDICESIMA: prime linee di una teoria degli stati cuscinetto e della concorrenza tributaria tra gli stati.

 

 

Talvolta, pur ripugnandovi la lettera della legge inspirata al principio corrente della tassazione del reddito guadagnato, l’arte del contribuente ha scoperto una falla minima nel dettato del legislatore e si industria a farla diventare grandissima. Uno degli esempi più interessanti e più importanti in tema di esenzione del risparmio ha tratto alla territorialità dell’imposta. Talvolta l’imposta, avendo carattere o in tutto o prevalentemente reale, limita la sua azione al territorio dello stato; come la nostra imposta di ricchezza mobile la quale espressamente percuote soltanto i redditi che hanno origine da fonte nazionale. In questo caso il contribuente può scegliere all’estero impieghi capitalistici immuni da imposta e sui frutti di essi sarà medesimamente immune in Italia sia che quei frutti consumi o risparmi; onde l’esempio non potrebbe addursi a prova della teoria che vuole esente il risparmio. Ma, altrove, l’imposta nazionale colpisce anche i redditi provenienti da fonti straniere; come accade in Inghilterra per la imposta sul reddito. Con questa avvertenza però che quei redditi, per diventare tassabili, debbono essere, almeno formalmente, importati dall’estero o dalle colonie sul territorio britannico. Così si considerano tassabili il reddito di una miniera australiana o sud africana, che il proprietario esiga, per mezzo di una banca, nella Gran Bretagna; o i dividendi di una società anonima, avente sede in Londra, che la società paghi in Gran Bretagna, a sudditi inglesi od a stranieri residenti sul territorio britannico, tuttoché ottenuti all’estero o nelle colonie. Da questa affermazione positiva di tassabilità subito i contribuenti trassero la logica dedizione negativa di intassabilità nel caso che i redditi di fonti straniere o coloniali non siano importati nel territorio britannico. L’inglese che su parte dei suoi redditi non vuole pagare tributo al governo del suo paese può dunque agevolmente riuscirvi. Basta all’uopo che egli acquisti titoli esteri o coloniali, di cui i tagliandi di interessi o dividendi non siano pagati nella sua patria, o si interessi in terreni o case o miniere o foreste o stabilimenti industriali situati all’estero o nelle colonie e con cura somma eviti che glie ne siano inviati i redditi in Inghilterra. Le magistrature britanniche hanno giudicato che, non essendo i redditi introdotti sul territorio patrio, non sono imponibili. È sorta così la consuetudine del rolling up, ossia del lasciare accumulare altrove gli interessi degli impieghi fatti fuori della madrepatria, allo scopo di sfuggire all’imposta nazionale sul reddito. Gli interessi, i frutti si aggiungono al capitale per anni ed anni ingrossandolo a dismisura, né mai possono essere colpiti da imposta. Ad agevolare l’intento al contribuente inglese si adoprano appositi istituti bancari, i quali si incaricano di collocare capitali all’estero e nelle colonie, di amministrarli e di reimpiegare i frutti, secondo le norme direttive volute dal contribuente, senza che di ciò nella Gran Bretagna si abbia altrimenti notizia che per i fogli di conto periodicamente inviati all’interessato. Vero è che il fisco inglese non abbandona del tutto la preda, che per qualche tempo gli è sfuggita. Se un capitale di 100.000 lire è impiegato in una colonia al 5%, diventando in 14 anni e 1/5 uguale a 200.000 lire; e se alla fine di questo tempo il proprietario di esso lo vuole importare in Inghilterra, in quell’istante il fisco si risveglia e considera reddito tutta la differenza tra le 100.000 lire esportate e le 200.000 reimportate e questa differenza colpisce con l’imposta sul reddito. Dal che si vede quale sia il significato della «importazione» del reddito nella madrepatria: essendo essa fatta uguale al «consumo» o «consumabilità» del reddito. Finché il reddito è «rolled up» ossia è risparmiato od accumulato all’estero da un inglese o straniero residente nella Gran Bretagna, si ha la certezza che esso non può essere consumato e quindi non si giudica opportuno di tassarlo; appena viene introdotto sul suolo britannico, vien meno quella presunzione legale di risparmio, anzi si presume che il reddito, dianzi accumulato, sia destinato al consumo e quindi lo si tassa. I progressi moderni della tecnica bancaria e più la educazione dei risparmiatori, fatti per abitudine mentale nuova internazionalisti, tendono a moltiplicare siffatti casi di immunità del risparmio. Sorgono e si moltiplicano in appositi stati, che acconciamente chiamerei stati cuscinetto, a somiglianza di quelli che l’arte diplomatica suscitò o rafforzò per impedire i contatti bellici troppo frequenti od estesi tra, maggiori stati vicini, istituzioni bancarie il cui ufficio è di amministrare le fortune private dei contribuenti di stati troppo propensi all’imposta. La Svizzera, il Belgio e la Olanda in Europa, il New Jersey negli Stati Uniti d’America sono i principalissimi di questi stati. Ivi han sede banche, le quali aprono botteghe a Ginevra, a Lugano, a Bruxelles, vicinissime all’Italia ed alla Francia, o subito varcato il fiume Hudson per i cittadini newyorkesi; e queste banche hanno reparti appositamente creati per l’amministrazione della fortuna privata degli stranieri. I governanti di questi stati cuscinetto, anche quando siano sozii delle bande spogliatrici radico socialiste od anche quando in patria propugnino armamenti e fortezze in combutta con gli industriali fornitori di armi, di cannoni e di corazze, ben s’accorgono che la neutralità finanziaria dello stato cuscinetto è economicamente altrettanto conveniente come la neutralità dal punto di vista bellico; e quindi soli larghi di immunità agli stranieri che, vivendo all’estero, affidino l’amministrazione del proprio patrimonio alle banche locali. Illustri magistrati di supreme corti di giustizia svizzere condiscendono a dar ragionati pareri in cui dimostrano a chiare note come i capitalisti stranieri possano dormir sonni tranquilli sotto l’egida della benigna legislazione fiscale dello stato cuscinetto. Le banche di questi stati pubblicano accorti annunci sui giornali a grande tiratura degli stati vicini tassatori; e moltiplicano gli annunci ogni volta che si paventi una legge d’imposta specialmente fastidiosa ai risparmiatori. Accorti commessi viaggiatori percorrono le città della Francia e già si introdussero nelle principali città italiane; ed, essendosi procacciate liste confidenziali di capitalisti facoltosi, si recano alle loro case e li persuadono della convenienza di sfuggire ai colpi del fisco, profferendo all’uopo l’opera delle banche loro mandanti. Donano opuscoli abilmente redatti e copie dei pareri dei magistrati illustri sovra menzionati. Alla lunga la seminagione è feconda; dicesi che, quanto più si moltiplicavano le minacce radico socialiste di nuova imposta globale sul reddito in Francia, tanto più i banchieri ginevrini dovessero moltiplicare le lor cantine blindate a prova di fuoco e di rapina, per renderle capaci a dar ricetto alla mole di titoli e di carte traenti in pellegrinaggio verso il franco ospizio elvetico. Negli Stati Uniti d’America, dove sono ignoti pudori ipocriti della vecchia Europa, le banche degli stati cuscinetto non si contentano di timidi annunci inoffensivi sui giornali e dell’opera discreta dei nuovissimi commessi viaggiatori del risparmio internazionale. Ricorrono invece senz’altro alla più aperta arte richiamatrice: nel 1911, avendo lo Stato di New York commesso l’anno prima l’errore di aumentare oltre misura la imposta successoria, subito le banche degli stati rimasti più miti ne profittarono; e New York apparve inondata di grandi annunci delle banche dello Stato dell’Alabama i quali gridavano ai passanti: No inheritance taxes in Alabama. Forbidden by Constitution of the State, ossia: Nessuna imposta successoria nell’Alabama. Proibita dalla costituzione dello stato. L’effetto sui legislatori newyorkesi fu mirabile e pronto. Impauriti dal vedere sfuggire la materia imponibile, per la facilità grandissima di farsi riconoscere cittadini degli stati concorrenti, nel luglio 1911 ridussero, soppressero, modificarono le esorbitanti imposte dianzi votate, in guisa da rendere il proprio stato nuovamente grato ai risparmiatori.

 

 

Queste prime linee di una teorica finanziaria degli stati cuscinetto non si vollero inserire a conclusione di questo capo nono per lodare o biasimare i contribuenti, i quali cercano di sfuggire alle leggi d’imposta della patria loro. La scienza non conosce lodi o biasimi, essendo suo compito stabilire le leggi regolatrici dei fatti. L’esistenza degli stati cuscinetto, la pratica del rolling-up e simiglianti fatti destinati a crescere col tempo di numero e di importanza provano che esiste una concorrenza tributaria fra gli stati produttori di servizi pubblici, così come esiste la concorrenza tra i produttori degli altri servigi; ed appena uno stato supera un certo punto nella pressione tributaria, subito si fa sentire la concorrenza degli altri stati, che offrono gli stessi pubblici servizi ad un prezzo minore. Il che è vero per tutti i generi d’imposta; ma è vero massimamente per quella scorrettissima maniera di imposta che è il tributo sul risparmio. Poiché la ricchezza che si vuol consumare, occorre goderla dove di fatto si vive; e lo stato, ove ha residenza il contribuente, ha mille modi di non lasciarsi sfuggire la materia imponibile. Mentre se una data ricchezza si vuol risparmiare, al risparmiatore deliberato alla rinuncia dei godimenti attuali, riesce già ora e diventerà sempre meglio indifferente il luogo del risparmio; onde egli, a parità di altre condizioni, si deciderà a scegliere quel paese i cui governanti, dall’esperienza e dalla dottrina fatti sapienti, profferiscono al risparmio libero ostello ed immunità da imposta.

 

 

Se ben si guarda, gli stati seguaci della corretta teoria che qui si tentò di delineare hanno ben presto ragione di rallegrarsi di aver prescelto la via dell’esenzione; mentre gli stati pervicaci nell’errore devono soggiacere ad una doppia ragione di mestizia. Questi, per la ostinazione posta nel pretendere tributi scorretti, a poco a poco vedono diminuire o non crescere, come dovrebbe, il risparmio impiegato nel paese; epperciò non soltanto non riescono a raggiungere il desiderato reddito risparmiato, ma perdono benanco altri redditi di lavoro e di capitale che sarebbero destinati in futuro ad essere consumati e che non son più creati dal risparmio posto in fuga. Al contrario gli stati cuscinetto e in genere gli stati che di fatto meglio seguono il postulato della uguaglianza tributaria vedono moltiplicarsi le industrie sorte mercé il risparmio forestiero; onde nuova materia imponibile si appresta al loro fisco. Non solo; ma gli stessi risparmiatori, per quanto legati alla patria, alla famiglia, alla lingua natia finiscono per disamorarsi dello stato che scorrettamente li tassa e fanno visite sempre più frequenti allo stato che al loro risparmio riconosce la dovuta immunità; e durante queste visite consumano ricchezze e sono correttamente tassati. Né di ciò si dolgono, essendo l’imposta sul reddito consumato consona al postulato dell’uguaglianza.

 

 

Con questa dimostrazione delle tendenze che la concorrenza fra gli stati e la esistenza degli stati cuscinetto impongono alla legislazione finanziaria han termine le prove, che in questa memoria si vollero addurre a mettere in chiaro come i legislatori pur mentre affermano il principio della tassazione del reddito guadagnato, sono a viva forza costretti dalla logica dei fatti a rendere omaggio al teorema milliano dell’esenzione del risparmio. Sarebbe sommamente desiderabile che altri moltiplicasse queste prove, cosicché l’edificio teorico dell’imposta sul reddito possa elevarsi armonico e perfetto in tutte le sue parti.

 

 

 

 

X

 

Nel quale si conclude con una esortazione ai critici

 

Giunto alla fine del mio discorso, debbo professarmi in anticipazione riconoscente a quanti vorranno criticarlo. La qual critica potrà essere di tre specie: quella che, giovandosi di talune maniere abituali in chi scrive di esprimere il proprio pensiero dottrinale, facendo di esso soventi immediate applicazioni pratiche, dichiarerà la sua dottrina turpe e antiscientifica, quasi fosse un panegirico delle imposte sui consumi, a pro’ delle classi ricche; l’altra, che dirà erroneo il ragionamento e sbagliate le conclusioni, perché reputerà errate le premesse dalle quali si partì: il postulato della uguaglianza ed il conseguente teorema della esenzione del risparmio, ed errate sia in se stesse sia perché altre sono, secondo i critici, le premesse del discorso tributario; e la terza che ammette, non foss’altro in via d’ipotesi, che le premesse siano corrette e studia se il ragionamento conseguente sia logico, e se siano tra di loro concordanti le conclusioni e se le premesse fatte prima e ragionate poi giovino a spiegare i fatti addotti. La qual terza specie di critica io reputo massimamente feconda, essendo chiaro che troppo comodo sarebbe respingere una dottrina corretta solo perché sembra, e non è, favorevole ai ricchi risparmiatori, e dannosa ai poveri, di cui i saltimbanchi affermano l’incapacità a risparmiare; ed essendo stato mio proposito deliberato di usare di quando in quando modi di dire che, dichiarando false, empie, facinorose, invereconde, crudeli, scellerate e turpi le imposte sul reddito guadagnato, fossero una innocua legittima ritorsione verbale contro le accuse di iniquità e di ingiustizia rivolte senza riflessione ad ogni piè sospinto contro le imposte sul reddito consumato e valessero a scernermi dalla turba di coloro che pretendono costruire una scienza economica e finanziaria imparziale mentre di fatto la vogliono parzialissima; ed essendo persuaso che compito della scienza e bensì quello di esporre le leggi astratte che regolano le relazioni tra i fatti, ma è insieme dovere dello studioso di chiarire e biasimare i sofismi con cui gli altri vogliono coonestare le loro pretese leggi. Ciò quanto alla prima specie di critica; quanto alla seconda mi professo incapace a scorgere quale sia il valore della critica che, negando le premesse si dispensa dall’obbligo di indagare se quelle, meglio delle altre che si potrebbero adottare, servano a spiegare i fatti. Perché il valore delle premesse – delle quali se ne possono enunciare a iosa, a seconda dei gusti di ognuno – si giudica dal numero dei fatti che spiegano e coordinano sotto un unico principio; essendo preferibile quella che maggior copia di fatti raccoglie e chiarisce. Onde si ricava che i critici della seconda specie in un modo possono efficacemente dimostrare la infondatezza della presente costruzione: costruendo un altro edificio su altre fondamenta. Allora si vedrà quale dei due sia più ampio ed armonico; e sarà gioioso il momento in che per me al nuovo sistema logico ed unificatore si possa rendere il doveroso omaggio.

 

 

Fino a che quel momento non sia giunto, ascolterò di preferenza i critici della terza specie, perché, come dice Francesco Acri (in Le Cose migliori, a cura di Luigi Ambrosini, Lanciano, R. Carabba editore, 1910, pag. 65), «il criterio secondo il quale conviene dar giudizio su i ragionamenti che si propongono di sciogliere alcuna questione, è quello dell’attrazione e dell’assimilazione. Ogni scioglimento di questione si opera per mezzo di una proporzione la quale da prima pare suppositiva; ma se poi le vien fatto di tirare a sé tutte le altre proposizioni che a quella questione si riferiscono, e, per la sua virtù assimilativa, conformarle e affigurarle secondo la sembianza sua propria, allora ella viene in dignità di regola, di ragione esempiativa, di principio. E per giovarmi d’una immagine, la nuova proposizione che faccia aperta la natura di alcuna cosa, per esempio quella delle idee, perché sia vera ed appaia non opinione ma scienza, fa mestieri che nel grandissimo numero delle altre proposizioni sciolte, disordinate, difformi, riferentesi alle parvenze delle idee, operi ciò che pietra gettata nell’acqua d’un lago, cioè una seguenza di cerchi paralleli che misuratamente incedono e s’allargano».

 

 


[1] Qui e in tutte le successive argomentazioni si fa astrazione dalle variazioni di valore della moneta e dalle variazioni del saggio dell’interesse. Di queste variazioni si dovrebbe tener conto a parte.

[2] Naturalmente a questa evidenza non credono coloro i quali sentono il bisogno dei ragionamenti «profondi» e si stupiscono che altri osi fondare tutto l’edificio tributario su massime dettate semplicemente dal buon senso e sui principii fondamentali ed universalmente accetti della legislazione civile. Parrà a costoro atto scortese il voler vietate ai finanzieri l’innocente sollazzo di escogitare cabale «originali» di utilità assolute o relative, di sacrifizi psicologici crescenti o decrescenti, di incrementi guadagnati o non guadagnati, di capacità contributive, di controprestazioni e simiglianti complicazioni. Chi invece rimase scettico intorno all’importanza degli acrobatismi dilettevoli che si susseguono con nomi diversi ad ogni venticinque anni nella scienza economica e finanziaria, vedrà forse con benigno occhio il tentativo che qui si fa di giungere alla meta, a cui oggi si arriva con esercizi svariati di eleganze logiche, con i metodi antichi e riposanti del ragionamento semplice, a base di lire, soldi e denari, che sono accessibili ad ogni uomo sennato.

[3] Per conformarci all’uso corrente e senza voler risolvere le questioni sottilissime che a questo punto si connettono intenderemo per «beni materiali» i servizi ovverosia i godimenti che all’uomo dà il consumo dei beni materiali che si consumano in una volta sola (pane, vino, ecc.), e anche il consumo graduale ripetuto dei beni materiali durevoli (casa, vestito, automobile, ecc.); e per «servizi personali» i godimenti che l’uomo ritrae dall’opera di altre persone fisiche (domestici, camerieri di albergo o di caffè, cantanti, attori, ballerine, avvocati, professori, medici, cortigiane, ecc.). I servizi dei beni materiali di consumo immediato o di consumo ripetuto e i servizi delle persone esauriscono, sembra, il campo di acquisto, a scopo di consumo, del numerario posseduto dall’individuo.

[4] È quasi superfluo notare che qui non si accenna alle tasse scolastiche le quali corrispondono ad un servizio particolare reso dallo stato; bensì all’esigenza di non colpire con imposte la spesa fatta per pagare le tasse scolastiche, somiglianti a quelle che si pagano sulla spesa fatta per alcool, tabacco, giornali, ecc.

[5] Ulisse Gobbi, Un preteso difetto delle imposte sui consumi, in «Giornale degli economisti», aprile 1914 e M. Pantaleoni, L’identità della pressione teorica di qualunque imposta a parità di ammontare e la sua semeiotica, in «Giornale degli economisti», marzo 1910.

[6] Perciò non si dica che qui si sono volute difendere le imposte sui consumi, quali sono oggi in Italia. Anzi le cose discorse nel testo adducono nuove prove a dimostrare la scorrettezza dell’odierno ordinamento nostrano delle gabelle sui consumi. Essendochè queste, insieme al vizio della loro indole rabbiosamente protezionista, sono afflitte da una iniquissima propensione a tassare di soverchio i consumi risparmio (sale, pane, petrolio, vestiti di cotone, ferro ed acciaio); e per tale duplice errore si palesano spesso indegne del nome di imposte sul reddito consumato.

[7] Per una esposizione delle idee del Giulio e dei suoi contemporanei, veggasi Alberto Geisser, Della tassa domestici e di alcuni minori tributi locali, in «La Riforma Sociale», luglio-settembre 1912, dove son fatte proposte di ritorno ad alcune imposte suntuarie a pro dei comuni italiani. Il Giulio, contrariamente al Cavour, riteneva però sufficiente l’imposta progressiva sui valori locativi, senza che fosse d’uopo aver ricorso alle altre imposte suntuarie. Degli scritti del Giulio parlerà forse, come a lui conviene, Giuseppe Prato, del quale intanto voglio dare il titolo di una memoria di prossima pubblicazione: Di alcune recenti teorie sulla nozione di capitale e di reddito e delle loro conseguenze tributarie, nella quale si darà, secondo la notizia che ho del suo concetto informatore, nuovo contributo alla dottrina che anche in questa memoria si vuol propugnare.

[8] Una legge del 26 luglio 1879 fu decretata – fatto unico nella storia finanziaria – non per impedire le dichiarazioni di valori locativi inferiori alla realtà, ma per porre termine alle così dette «esagerazioni» dei contribuenti i quali stanchi di pagare poco volevano denunciare un fitto che più si avvicinasse alla realtà! Vero è che i contribuenti erano presi da siffatto stravagantissimo zelo fiscale non per la voglia di pagare il tributo legalmente dovuto, sibbene per acquistare il diritto elettorale, che nel periodo censitario dipendeva dal pagamento di una certa somma d’imposta; onde, acquistato quel diritto, subito ritornavano ad ubbidire alla loro indole frodo lenta.

[9] Jules Ingenbleek, Impóts directs et indirects sur le revenu. La contribution personnelle en Belgique, l’Einkommensteuer en Prusse, l’Income tax en Angleterre, in «travaux de l’Institut de Sociologie des Instituts Solvay», Bruxelles, Ed. Misch et Thron, 1908. All’autore, che è grande fautore delle imposte suntuarie sul reddito consumato in confronto alle imposte sul reddito guadagnato per ragioni sovrattutto pratiche di accertamento, ragioni che da sé sole hanno del resto già un peso grandissimo, manca soltanto di aver veduto che le imposte da lui caldeggiate hanno un fondamento teorico ben più incrollabile delle sedicenti imposte sul reddito od imposte sul reddito guadagnato. Difetto che ha torto fa sembrare vergognosa la sua tesi, quasi fosse una difesa di istituti vigenti, venerabili per antichità, comodi praticamente ma dottrinalmente insostenibili.

[10] Per le basi precedenti l’A. apporta delle modificazioni al sistema vigente, conservandolo però intatto nelle sue grandi linee.

[11] Rivisse però ipocritamente nel ben peggiore dazio doganale sul frumento e sulle farine. È inutile notare che il sistema di imposte sul reddito consumato è costruito nell’ipotesi che esso giovi solo a fini fiscali, non mai ad intenti protettivi. Nel qual caso l’istituto ottimo diventa pessimo; e la lode si muta in acerba condanna.

[12] Cfr. per una documentazione esilarante lo studio che «La Riforma Sociale» pubblicò nel fascicolo di febbraio-marzo 1912 col titolo: L’imposta di ricchezza mobile ed i nostri parlamentari.

[13] La cui teoria cercai di delineare in altra memoria su Le premesse dottrinali della riforma del regime fiscale delle società per azioni, in «Rivista delle società commerciali», 1911, pag. 417 e segg.

[14] Vedi, a proposito di un’opinione ottimista di Enrico Barone sulla attitudine dei legislatori del tempo in che la presente memoria fu scritta (1912), una annotazione qui omessa e rinviata alla Nota bibliografica in fine del volume.

[15] Intorno ai lavori del comitato del 1861 ed alle ragioni, esclusivamente fiscali, per cui, in seguito all’apposizione vivacissima e continua per lunghi anni dal Gladstone, le proposte dell’Hubbard non furono accolte, veggasi SELIGMAN, The Income tax, pag. 61 e segg.

[16] Come si vede, nel testo per non complicare la trattazione ho fatto astrazione dalle novità introdotte dalla legge 23 giugno 1877, n. 3903 (serie seconda), la quale distinse la C in C (reddito di lavoro puro prestato a privati) e D (redditi di lavoro puro prestato ad enti pubblici) e dalla legge del 22 luglio 1894, n. 339, che distinse la A in A1 (redditi di capitale puro mutuato ad enti pubblici ed a società sovvenzionate da enti pubblici) ed A2 (redditi di capitale puro mutuato a privati), ed elevando l’aliquotà al 20%, mutò le detrazioni espresse in ottavi in queste altre espresse in quarantesimi: nulla per la A1, 10-40 per la A2, 20-40 per la B, 22-40 per la C e 25-40 per la D. Coteste mutazioni furono compiute in ubbidienza a momentanea necessità del tesoro. Semplici espedienti fiscali non rispondono a verun concetto teorico, difficilmente potendosi menar per buona la teoria che i redditi di A1 siano più sicuri dei redditi di A2, dopo ché in Italia lo stato ebbe una volta, e precisamente nel 1894 a ridurre forzatamente gl’interessi del debito pubblico, sotto colore di aumento generale (che tale non era, essendo specialissimo) dell’imposta di ricchezza mobile, e dopoché non rari furono gli esempi di comuni e provincie ridotti in stato di fallimento e costretti a ricorrere all’opera di speciale commissione governativa per venire a concordato coi creditori. Neppure ha valore teorico il motivo pur praticamente notabilissimo, che consigliò la divisione della C in C e D, con trattamento più benigno alla D. Esentando i 4-8 invece dei 3-8 ed ora i 25-40 invece dei 22-40 per i contribuenti della D in confronto della C, il legislatore non ha voluto riconoscere un maggior loro bisogno di risparmio; ché anzi lo hanno minore, essendo gl’impiegati pubblici provveduti di lunghi congedi di malattia, di pensioni di riposo e di pensioni riversibili alla vedova ad ai figli minori; sibbene ha voluto tener conto della loro minor attitudine frodolenta in confronto ai professionisti e lavoratori privati. Non si può impedire che in un sistema d’imposte sul primitivo concetto semplice e puro si innestino concetti estranei e pratici; né questi ci devono vietare di scorgere, attraverso al groviglio dei fatti nuovi e disparati il nucleo fondamentale d’idee che ha ispirato l’opera del legislatore.

[17] Passo sopra a molte peculiarità dell’imposta sul patrimonio, che lo rendono uno strumento fiscale poco maneggevole, ma che non hanno una relazione strettissima col problema in discorso.

[18] Di questo felice proposito, poi non attuato, del legislatore italiano, discorsi in un articolo Contribuente e reddito nei progetti di riforma tributaria nel numero dell’11 maggio 1910 del «Corriere della Sera», dove misi in rilievo l’importanza grandissima dell’esenzione dei premi di assicurazione chiamandola un’idea forza destinata ad iniziare l’abolizione dello sconcio diffusissimo nelle nostre e nelle estere legislazioni dei doppi d’imposta.

[19] Cfr. fra gli altri il libro di uno dei classici dell’economia delle stime, Giuseppe Borio, Primi elementi di economia e stima dei fondi agrari e forestali. Quarta edizione per cura del prof. C. Tommasina, Torino, Unione tip. ed. torinese, 1910, pag. 118 e segg.

[20] S’intende agevolmente che quando si dice essere la distruzione della foresta una conseguenza del sistema d’imposte, non si vuole asseverare essere questa l’unica causa del fatto dannoso; bensì una delle cause concomitanti, forse quella che dà l’ultimo tratto alla bilancia. Ed anche s’intende che non in ogni luogo il sistema della tassazione sul reddito guadagnato dà luogo alla distruzione della terra, bensì soltanto in quei territori dove la cultura forestale è il mezzo esclusivo per conservare la terra. E vuolsi ancora avvertire, benché sarebbe superfluo, che la religione della foresta non deve diventare una monomania e spingere a piantare alberi laddove può durare il pascolo o dove può ottenersi un conveniente equilibrio tra le varie culture.

[21] L’imposta sul reddito netto dei fabbricati costrutti chiamasi imposta sul reddito realizzato non perché sia veramente tale – dovrebbe invero percuotere solo quella parte di fitti netti che è effettivamente consumata dai proprietari -, ma perché essa colpisce il reddito quando oggettivamente si distacca dalla fonte ed è «pronto al consumo». Il reddito guadagnato, giunto a questo punto, è assai più vicino al consumo di quanto non fosse quando consisteva in un semplice incremento della fonte. A spiegare il concetto valgono del resto le ragioni esposte nel capo primo intorno alla differenza dei due concetti di reddito guadagnato e di reddito realizzato rispetto alle cose feconde di reddito e rispetto alla persona del contribuente.

[22] Una lunga annotazione, avente indole generale, inserita qui nel testo originale a chiarire le ragioni per le quali si suppose vera la tesi del ribasso di valore dell’area, in conseguenza dell’imposta, da 100 a 90 lire nel momento della maturazione, è stata, in questa ristampa, rinviata alla Nota bibliografica posta alla fine del volume.

[23] Si dice al massimo perché se rendesse di più, l’area non varrebbe 50 lire, 55 o 60, e non sarebbe più conveniente, astrazion fatta dall’imposta, ritardare il momento della fabbricazione per avere fra 15 anni e  un valore di sole 100 lire; laddove, mettendo a frutto le 60 lire, dopo 14 anni e  se ne sarebbero avute 120. Quindi non l’imposta, ma la perdita degli interessi avrebbe indotto ad anticipare la costruzione; come nel caso inverso a posticiparla. Per vedere l’effetto dell’imposta bisogna supporre che al momento dato, iniziale, sia indifferente costruire o non costruire, per vedere se l’avvento dell’imposta faccia pencolare la bilancia in favore dell’una o dell’altra alternativa.

[24] Naturalmente qui non si tiene calcolo, per non complicare il discorso del reddito della costruzione sorta su quel metro quadrato, ma soltanto del reddito derivante dall’uso dell’area edilizia, e cioè della rendita edilizia propriamente detta.

[25] In realtà l’imposta in Italia è assai più elevata; ma ciò non monta ai fini della dimostrazione, perché sarebbe anche più elevata nel caso di fabbricazione posposta.

[26] Che le successioni maggiori di preferenza vadano a favore di parenti lontani e si possono quindi supporre cumulate in vita da scapoli o da coniugati senza prole è dimostrato nel libro di Corrado Gini, I fattori demografici dell’evoluzione delle nazioni (Torino, Bocca, 1912, pag. 19 e segg.), dove si recano statistiche italiane le quali provano come, a mano a mano che cresce l’ammontare della successione, diminuisce la percentuale di essa devoluta ai figli, ai coniugi, ai fratelli e sorelle e cresce la quota spettante a zii, nipoti, pronipoti, coniugi germani ed altri parenti; e dove si prova altresì una decrescenza nell’ammontare medio delle eredità a mano a mano che i figli si moltiplicano.

[27] Un calcolo singolare dell’ufficio compiuto dall’imposta di successione ad uguagliare i carichi tributari dei «prolifici» e dei «soli» leggesi in Ingenbleek, op. cit., pag. 404.

[28] Una indiretta dimostrazione della verità della sapienza popolare si legge a carte 26 del citato libro del Gini, dove si reca l’esempio della Svezia del secolo XIX in cui, di 153 patrimoni superanti il milione, solo 63 erano stati acquisiti per eredità o mediante matrimoni e 90 erano di nuova formazione: di questi, 67 erano dovuti a svedesi, 9 a israeliti, 14 a stranieri; fra i 67 dovuti a svedesi, ben 23 erano dovuti a persone appartenenti al ceto operaio o a classi sociali equivalenti. Dal che sembra legittimamente dedursi, sebbene le cifre addotte per sé sole non lo affermino, che dei grossi patrimoni dianzi costituiti una buona parte si era andata dissolvendo per via; il che dovrebbe indagarsi meglio, seguendo nell’avvenire le vicende dei 90 patrimoni di nuova formazione. Utili e finanziariamente feconde indagini, che io mi limito ad additare ai valorosi cultori della statistica, di cui si allieta l’Italia.

[29] Per le cose discorse nella prova ottava già si sa che il bisogno di risparmio è minimo e quindi la spinta dispendiativa – così acconciamente chiamava il Puviani la propensione a spendere – è massima tra i più ricchi; onde si reputò inutile ripetere nel testo quei concetti che spiegano la progressività per ogni imposta sul reddito guadagnato e quindi anche per l’imposta successoria. Del resto la spiegazione della progressività dell’imposta successoria in ragione dell’ammontare non più della quota ereditata – per cui valgono le medesime ragioni già dette nella prova ottava – ma dell’asse ereditario, che è il sistema vigente in Inghilterra, discende da quella medesima già data della progressività in funzione dell’allentarsi del grado di parentela; poiché, crescendo, come si disse in nota precedente di questa medesima prova, l’ammontare della successione a mano a mano che una proporzione maggiore di essa è assorbita dai parenti lontani, basta in parte la progressività dell’imposta in ragione della parentela per percuotere quasi automaticamente in misura maggiore le successioni più vistose di quelle più modiche; e viceversa è sufficiente la progressività in ragione dell’ammontare dell’asse ereditario per colpire in parte di più i parenti lontani di quelli prossimi. Combinandosi le due progressioni insieme, il carico sugli eredi lontani e sulle successioni maggiori diventa viemmeglio pesante.

[30] Ciò è a dire mai, se ascoltiamo l’esperienza storica.

Dove sono le terre incolte?

Dove sono le terre incolte?

«Corriere della Sera», 19 dicembre 1910[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 173-180

 

 

 

 

Quando nella state scorsa osai affermare che in Italia si coltivava (mai dissi si produceva) troppo grano e manifestai il mio invincibile scetticismo sull’esistenza delle terre incolte, «che nessuno ha mai veduto», ebbi subito alle calcagna assai contraddittori. Erano stati in tanti a vedere le terre incolte ed in tanti avevano ideato un progetto di colonizzazione interna, nell’intento di porre termine alla duplice vergogna dei disoccupati, romagnoli o non, e del tributo pagato dall’Italia all’estero per l’acquisto del grano mancante ai suoi bisogni, che parve sfrontatezza proterva quella di chi osava pronunciare il blasfema: in Italia si coltiva troppo grano e in Italia non esistono terre incolte. O non erano forse dolorosamente note le statistiche governative, le quali denunciavano 3.878.187 ettari di terreni di scarsa o nulla produzione, veri e propri terreni incolti? E non erano vaste le estensioni di terreno che nella Basilicata, nell’Agro romano, nella Sardegna aspettavano il bacio fecondatore del lavoro dell’uomo, costretto frattanto ad incrociar le braccia, per mancanza di terreno, nell’agro romagnolo? E non insegna forse la matematica (senza di cui, a parere di un amico pubblicista, è impossibile penetrare questi oscuri e complessi problemi) che la crisi delle terre senza braccia e delle braccia senza terra non si può superare senza l’intervento dello stato il quale dovrebbe, con un sapiente piano di colonizzazione interna, permettere agli uomini forti e organizzati di superare gli attriti temporanei che importa la messa a cultura delle terre incolte in un ambiente nuovo e difficile?

 

 

Di fronte all’incalzare delle obiezioni, tacqui. Per un verso mi parve inutile di dichiarare il mio consenso con tutti coloro i quali, equivocando, ritennero che io combattessi la intensificazione delle culture e la possibilità di produrre maggior copia di frumento sulle terre italiane, possibilità che a nessuno può venir in mente di negare, quando dessa spiega appunto gli alti rendimenti di talune piaghe cerealicole italiane, augurio e sprone ad alti rendimenti pure in altre regioni, ancora arretrate. Né volli rilevare l’ipocrisia di coloro che, da un ragionamento inteso a dimostrare come dei bassi rendimenti delle regioni del colle e della montagna fosse in parte responsabile il dazio sul grano, trassero la inaspettata deduzione che io volessi la conservazione del dazio stesso. Mentre è fermo in me il convincimento – manifestato ripetute volte su queste colonne – che il dazio sul grano debba essere a grado a grado fatto scomparire, sia per il mutato livello dei prezzi, troppo superiore a quello del tempo nel quale il dazio fu istituito, sia per limitare la cultura in quelle zone agrarie in cui la produzione cerealicola è naturalmente scarsa ed ottenuta ad altissimi costi, mentre il bosco, il prato stabile e il pascolo sarebbero culture tanto più convenienti dal punto di vista generale. Dico limitare e non sopprimere, perché la cultura cerealicola nei terreni disadatti è dovuta a troppe più cause, che non il dazio sul grano, cause che non è possibile qui accennare.

 

 

Tacqui sovratutto perché ero fermamente convinto che la dimostrazione della verità delle mie eretiche affermazioni non poteva venire da ragionamenti e polemiche fondate sul vuoto o da testimonianze di osservatori casuali, ma dalla sostituzione di una nuova seria statistica alle antiquate inattendibili statistiche ufficiali sinora correnti. Le nuove statistiche sono finalmente giunte; ed io debbo, ancora una volta, dare un plauso sentito al prof. Ghino Valenti, commissario generale per la statistica agraria, il quale nel quarto fascicolo delle sue notizie periodiche ha inserito in appendice un breve saggio sulla «ripartizione del territorio del regno nelle principali categorie di culture»; saggio che è una promettente anticipazione di quella mirabile impresa che sarà il catasto agrario.

 

 

I più di coloro che, memori delle querimonie rivolte alla vergogna italiana dei terreni incolti, piglieranno in mano la statistica del Valenti, riterranno sicuramente di trovarsi dinanzi ad un grossolano errore di stampa. Nella linea dei terreni incolti, il Maestri, il fondatore di quella statistica italiana, che fu poi condotta a gran fiore da Luigi Bodio, fin dal 1857 segnava 2.885.345 ettari; e la direzione generale dell’agricoltura segnava, nel 1984, ben 3.878.187 ettari. Nella statistica del Valenti su quella linea non si legge più nulla.

 

 

Si rassicurino i lettori. Non si tratta di un errore di stampa, e neppure di un giuoco di bussolotti per cui ai terreni incolti si sia dato, per nasconderli, un altro nome. La scomparsa delle terre incolte nella statistica nuova è dovuta a ben altre cause. Prima, la quantità delle terre incolte non era rilevata direttamente, bensì ottenuta per differenza. Non si cercarono quanti davvero fossero gli ettari di terre incolte; bensì si calcolò quanta fosse la superficie delle terre coltivate, dei terreni a bosco ed a castagneto, dei pascoli alpini e dei terreni improduttivi, se ne fece la somma e si vide che la cifra risultante era di gran lunga inferiore alla superficie totale, per altre vie nota, del regno. Quella differenza, non sapendo cosa farsene, gli statistici agricoli del 1894 l’attribuirono alle «terre incolte». Onde nacque e si radicò la leggenda dei quasi quattro milioni di ettari che attendono il bacio fecondatore, ecc. ecc., e si legittimarono le invettive contro i governi impotenti a promuovere un vasto e sapiente piano di colonizzazione interna.

 

 

Il Valenti non si contentò del facile metodo della differenza, la quale poteva spiegarsi tanto col fatto positivo della esistenza di vere terre incolte, quanto col fatto negativo della incapacità a conoscere la cultura dei terreni non censiti, ma volle indagare il fenomeno nella sua vera, effettiva realtà; e modestamente venne alla conclusione che in Italia terre incolte non ce ne sono. Badisi bene che questa è la prima indagine seria che in Italia si sia fatta sulla ripartizione delle culture, che la statistica pubblicata è il frutto di anni di lavoro di tecnici provetti, di agronomi, i quali conoscono palmo a palmo il territorio nostro e non sono sviati da nessuna preoccupazione partigiana. Orbene costoro, per bocca del loro capo, così parlano:

 

 

«La modificazione più notevole ed importante che la nuova statistica apporta alle ripartizioni precedenti riguarda le terre incolte, le quali si eliminano quasi del tutto, se, per incolte, si intendono terre naturalmente suscettive di essere coltivate, o per lo meno adibite alla cultura forestale e alla pastorizia, le quali, per mancanza di lavoro e di capitale, che ad esse si applichino, restano inutilizzate. In tal senso non vi sono terre incolte in Italia e non potrebbero esservi, data la elevata densità della popolazione in generale e della popolazione agricola in particolare. L’Italia non è il paese delle terre incolte. Al contrario è un paese in cui si sottoposero a cultura anche terreni che meglio era di lasciare a pascolo ed a bosco, ed in cui la cultura, in alcune regioni almeno, è esercitata troppo estensivamente. Il problema in tal modo si sposta, dacché non è questione di portar lavoro dove assolutamente manca, ma di portarvi il capitale affinché l’applicazione del lavoro divenga più produttiva».

 

 

Se sono scomparse, dileguandosi nella nebbia della rettorica italiana, le terre incolte, non è a dire che tutto il territorio italiano sia coltivato e possa essere bene coltivato. I tecnici, che stanno compilando il catasto agrario, così hanno ripartito il territorio italiano in ettari

 

 

Terreni seminativi 

13.684.935

Frumento 

4.758.600

Granoturco 

1.515.300

Riso

   142.860

Prati artificiali a vicenda

1.933.000

Altre colture

5.335.175

13.684.935

 

 

Terreni a coltura specializzata di piante legnose

 

1.507.900

Vigneti 

879.700

Oliveti 

577.840

Altre colture

  50.360

1.507.900

 

 

Prati stabili e pascoli permanenti 

5.580.057

Boschi e castagneti 

4.563.716

Incolto produttivo  

1.036.000

Terreni improduttivi (fabbricati, strade, acque e sterili per natura) 

2.296.615

Superficie geografica

28.669.223

 

 

La tabella ci dice dove sono andate a finire le famigerate terre incolte. Una parte si vide che erano prati, stabili e pascoli permanenti, i quali rappresentano una forma necessaria di utilizzazione della terra, spesso la più utile ed ancor più spesso una forma che, soltanto con non piccolo danno economico, potrebbe cedere il posto alla cerealicoltura. Un’altra parte sono veri e propri terreni improduttivi, sia perché sono aree edilizie o stradali o coperte da acque, sia perché sono sterili per natura. Secondo le norme catastali gli sterili per natura sono terreni assolutamente improduttivi e comprendono le rocce, i ghiacciai, le spiagge del mare, ecc.

 

 

Una parte di essi, come una parte dei terreni coperti dalle acque (alcuni laghi e paludi), sono suscettivi di essere bonificati e quindi mediante impiego di capitale possono essere in avvenire destinati all’agricoltura. Il problema che per questi terreni improduttivi – e per una parte soltanto e non la maggiore di essi – si tratta di risolvere non è quello della loro colonizzazione attuale (cosa che sarebbe assurda perché essi, come terreni adesso colonizzabili, non esistono), ma della loro progressiva bonifica. Dopo che saranno stati bonificati, ossia creati dal nulla – ed in questa opera specifica di bonificamento potrà essere utilissima una maestranza di romagnoli, specializzati nelle opere idrauliche – potranno essere, ed allora soltanto, colonizzati, mercé la mano d’opera locale, la quale accorrerà volontieri ai lavori sulle nuove terre.

 

 

Rimangono i 1.035.000 ettari di incolti produttivi. Che cosa sono? Secondo le disposizioni di massima del nuovo catasto geometrico estimativo, l’incolto produttivo è qualunque terreno che senza l’intervento dell’uomo dia un prodotto valutabile; e comprende le rupi boscate, i cosidetti zerbi, le brughiere, le valli da canne e da strame, i relitti marittimi, fluviali od anche stradali, insomma tutti i terreni allo stato naturale o lasciati alla vegetazione spontanea che sono in qualche modo utilizzati. Ognuno ha veduto, e stavolta sul serio, di questi incolti produttivi e sa che, nove volte su dieci, il miglior modo di utilizzarli è di non sprecarvi lavoro o capitale, contentandosi di ottenerne quei prodotti che essi naturalmente danno. Essi, come bene osserva la statistica ufficiale, «non debbono essere confusi con le terre incolte, e cioè con terreni che sarebbero suscettivi di cultura o potrebbero essere destinati alla pastorizia, ma che restano inutilizzati per mancanza di lavoro e di capitale che vi si applichino». Non è da escludere che, col progredire della popolazione e col progressivo frazionamento della proprietà, i contadini, che sanno trasformare le rocce nude in giardini, riescano a poco a poco a ridurre a coltura una parte delle rupi boscate, degli zerbi, delle brughiere, dei relitti stradali e fluviali che costituiscono il grosso degli incolti produttivi. Come pure non è da escludere che, impiegando, a scopi igienici, i capitali all’1 o al zero %, lo stato riesca a bonificare le valli da canna o da strame. Sarà una vittoria nuova dell’uomo sulla natura, in questa Italia che vide gli uomini, con millenni di sforzi, creare dall’acqua e dal fango la magnifica agricoltura padana. Ma sarebbe pazzia lo scambiare gli odierni incolti produttivi con terre incolte, su cui possa attuarsi un piano di colonizzazione interna. I contadini italiani, i quali, sia detto con sopportazione, conoscono la terra meglio dei legislatori e degli economisti, non hanno mai pensato che in Italia esistessero di fatto terre incolte ed, avendone bisogno, sono andati a cercarle nella Tunisia e nelle due Americhe.

 

 

Della alacrità con cui gli agricoltori italiani ridussero a cultura il territorio del paese e’ testimonianza l’elevata percentuale (92%) raggiunta dalla superficie agraria e forestale in rapporto alla totale superficie geografica, malgrado la grande copia di montagne, di laghi e di paludi. Anzi nell’Italia meridionale e nelle isole, il rapporto sale al 95%, mentre è dell’87% nell’Alta Italia, a cagione delle montagne più estese. La percentuale italiana è soltanto superata dall’Austria col 93,7%, dall’Ungheria col 94,5% e dalla Francia col 95,5%. Colpisce altresì la gran copia di seminativi che in media giungono al 51,6% della superficie agraria e forestale (Italia settentrionale 47,9, media 55, meridionale ed isole 53,3%), superando tutte le altre nazioni d’Europa, salvo la Danimarca, dove i seminativi si trovano nel rapporto del 63%. Si avvicinano a noi la Francia col 48,8% e la Germania col 48,6%. Non si ha forse ragione nel sostenere che il problema agricolo italiano è: come produrre di più, diminuendo la superficie destinata ai seminativi e crescendo quella dei boschi, prati e pascoli? Per fortuna sui 13.684.935 ettari di terreni seminativi ben 6.639.422 sono misti con piante legnose, viti, gelsi, frutta, ecc., e concorrono a rialzare in valore la media della produzione.

 

 

Un’ultima osservazione interessante a proposito della ripartizione delle colture. La coltura promiscua delle piante legnose (i 6.639.422 ettari compresi nei seminativi) raggiunge il 25% della superficie agraria, mentre la coltura specializzata (1.507.900 ettari) si limita al 5,1%. Nell’Italia meridionale e nelle isole la coltura specializzata raggiunge le proporzioni massime. Infatti essa tocca il 9,5% della totale superficie agraria, mentre la coltura promiscua comprende il 14,6%. Invece nell’Italia media la promiscua sale al 28,6% e la specializzata discende al 3,4; e nell’Italia settentrionale la promiscua tocca il 34,7% e la specializzata discende ancor più al 3%! Il mezzogiorno d’Italia ha applicato le massime – un giorno così di moda – della specializzazione ad oltranza delle colture e non si può dire davvero che ne abbia tratto grande profitto.

 

 

Quale è il prodotto lordo che si ricava dalla terra italiana? Corre anche qui una leggenda, che la produzione sia rimasta stazionaria; ed è leggenda che corre sulla fede di una lunga serie di annuari statistici, i quali avevano valutato quella produzione alla immutabile cifra di 5 miliardi.

 

 

Anche su questo oscuro fenomeno il bollettino del Valenti gitta un fascio di luce. Una valutazione approssimativa, quasi un primo sondaggio, lo farebbe incline ad ammettere come verosimili le seguenti cifre:

 

 

Divisioni geografiche

 e regioni agrarie

Superficie agraria

e forestale

ettari

 

Valore della

produzione

 

per ett.

lire

totale

mil. lire

Italia settentrionale 

 

 

Montagna

Collina

Pianura

3.510.196

2.078.897

3.538.147

145

373

593

509

775

2.109

9.127.240

371

3.393

 

Italia centrale 

 

 

Montagna

Collina

Pianura

3.117.439

3.245.762

   408.864

122

267

194

380

867

79

6.772.065

196

1.326

 

Italia meridionale e isole  

 

 

Montagna

Collina

Pianura

2.631.484

6.177.410

1.663.408

124

198

324

334

1.222

539

10.472.302

200

2.095

 

Riassunto 

 

 

Montagna

Collina

Pianura

9.259.119

11.502.009

5.610.419

132

249

486

1.224

2.865

2.727

 Regno

 

26.371.547

259

6.816

 

 

Se noi aggiungiamo i risultati di varie industrie secondarie, fra cui l’allevamento degli animali da cortile e la conseguente produzione del pollame e delle uova, che probabilmente raggiunge i 250 milioni, si può calcolare, in una prima approssimazione, che indagini ulteriori dovranno verificare e perfezionare, essere il valore odierno della produzione agricola italiana di circa 7 miliardi di lire. Dai 2 miliardi e 842 milioni calcolati dal Maestri nel 1864, ai 5 miliardi dell’annuario statistico nel 1894, ai 7 miliardi attuali del Valenti, il progresso è innegabile, sebbene forse non così rapido come possono desiderare coloro che la terra conoscono attraverso i finestrini dei direttissimi.



[1] Con il titolo Dove sono le terre incolte? La ripartizione delle culture in Italia. Da tre a sette miliardi di produzione agraria annua [1864-1910] [ndr].

Per la libertà di scienza e di coscienza

Per la libertà di scienza e di coscienza

«Corriere della Sera», 7 dicembre 1910[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 521-526

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925) vol. III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 166-171[2]

 

 

 

 

Mi si consenta di abbandonare per una volta la discussione dei più generali interessi economici e finanziari del paese, per discorrere di un interesse in apparenza proprio soltanto della classe a cui appartengo. Lo faccio perché l’interesse in gioco non è di natura materiale, e perché ritengo che la sua difesa debba suscitare le simpatie di quanti spiriti elevati vi sono in Italia.

 

 

In questi ultimi anni i professori universitari hanno attirato purtroppo l’attenzione del pubblico, soltanto in occasione di aumenti, rifiutati e poi concessi, di stipendio, di corsi liberi soppressi, di incarichi decimati; né hanno saputo dimostrare a quale caro prezzo, attraverso a quale gravissimo danno per la scienza fosse stato comprato quel miglioramento economico, consentendo l’accesso nel consiglio supremo all’elemento politico, della cui ingerenza già cominciano a scorgersi gli amarissimi frutti. Oggi, finalmente, è nata una agitazione nel mondo universitario, la quale ha un carattere puramente ideale e la quale varrà a dimostrare come non tutte le questioni, che commuovono i professori universitari, siano questioni di paga e di propine. Perciò ho preso la penna in mano per difendere la causa dei miei colleghi, ingiustamente minacciati da un’ordinanza ministeriale che vorrebbe conculcare la libertà del loro spirito e con esso la libertà della scienza.

 

 

Ecco in breve di che si tratta.

 

 

Ripetutamente, mosso da non so quale strana ispirazione, il prof. Tonelli, che mi si assevera far parte del blocco radico-socialista-repubblicano nel consiglio comunale di Roma, sollecitò, essendo rettore dell’università romana, il ministero perché decidesse se poteva, come egli credeva si dovesse fare, invitare i professori universitari di nuova nomina a prestare quel giuramento che la legge sullo stato giuridico degli impiegati prescrive in genere per gli impiegati dello stato. Nessuno dei professori che ebbero notizia della cosa riuscì ancora ad immaginare perché un professore ed un rettore prendesse l’iniziativa di un provvedimento, che ogni persona anche meno amante della scienza agevolmente comprende di quanta iattura debba essere fecondo per la scienza. Comunque sia di ciò, accadde che il ministro non seppe risolutamente rispondere, come si meritava, all’interpellanza liberticida e chiese invece il parere del consiglio di stato. L’alto consesso rispose con un sillogismo. Niun dubbio che la legge sullo stato giuridico degli impiegati del 1908 ha rispettato varie leggi organiche proprie di talune categorie di funzionari dello stato e tra esse la antica legge Casati, che è tuttora la legge fondamentale della nostra istruzione pubblica e specie della superiore. Ma la legge Casati non ha a disposizione alcuna che prescriva o che escluda il giuramento dei professori d’università. Dunque, nel silenzio della legge antica e particolare, e secondo il disposto della legge nuova e generale, anche dai professori universitari dovrà richiedersi la osservanza del disposto dell’articolo 3 della legge del 1908, che è quello appunto che prescrive in genere il giuramento. In mancanza di esso non si dovrà dar corso al primo mandato di pagamento dello stipendio.

 

 

Inopinatamente il ministro, che non ne aveva alcun obbligo, accolse il parere del consiglio di stato e diramò a tutti i rettori degli atenei italiani una circolare sul giuramento. Il fermento tra i colpiti fu vivissimo. So che in talune università qualche professore di nuova nomina rifiutò sinora di giurare. Ed è noto, avendone data la notizia i giornali, che il prof. Francesco Ruffini, rettore dell’università di Torino, richiamò subito l’attenzione del ministro su talune gravi conseguenze morali del nuovissimo provvedimento e su un errore giuridico in cui sarebbe incorso il consiglio di stato; e pare che le obbiezioni del rettore torinese siano state ritenute di non lieve peso, se il ministro si decise a chiedere un nuovo parere al consiglio di stato ed a sospendere frattanto la sua circolare sul giuramento.

 

 

Questa la cronaca del fatto. I commenti discendono logicamente dalla lettura della formula del giuramento che, per iniziativa di un membro del blocco popolare romano e per consenso di un ministro che fu, se non vado gravemente errato, un tempo repubblicano od almeno radicalissimo, si vorrebbe imporre agli universitari italiani. Il giuramento in verità non ha nulla di peregrino, perché è il giuramento comune, quasi si direbbe ordinario:

 

 

Giuro di essere fedele al re ed ai suoi reali successori, di osservare lealmente lo statuto e le leggi dello stato e di adempiere tutti i doveri del mio ufficio al solo scopo del bene inseparabile del re e della patria.

 

 

Basta leggere questa formula, per persuadersi che a quei grandi che posero le granitiche fondamenta delle istituzioni nazionali e scrissero quella legge Casati, che rimarrà documento imperituro della elevatezza del loro intelletto e della larghezza delle loro idee veramente liberali, non sarebbe mai caduto in mente di imporre cosiffatto giuramento agli insegnanti universitari. Non lo pensarono né lo vollero; poiché essi scrissero nella legge Casati un articolo 166, il quale solennemente dichiara non essere punto richiesta la cittadinanza dello stato per essere assunto a professore nelle università italiane; sancendo così per i professori universitari una importantissima e significantissima deroga alla prescrizione generale, che valeva fin d’allora per tutti gli impiegati dello stato e che fu espressamente imposta dall’articolo 3 della legge del 1908 sullo stato giuridico degli impiegati. Quei sommi, che videro la proclamazione dello statuto, che condussero la dinastia a regnare su tutta Italia e che fecero davvero la patria, non ebbero timore di dire che la scienza non conosce confini di patria e di partito e vollero che anche gli stranieri – e ne vennero degli insigni – potessero essere chiamati a far parte del nostro corpo accademico. Né gli stranieri furono ammessi a professare agli stipendi dello stato italiano, per semplici motivi di cortesia internazionale. L’ammissione loro fu una conseguenza logica, rigidamente logica, di un altro e ben più alto principio: che cioè non fosse necessario guardare alla nazionalità politica, alla fede partigiana o religiosa dell’insegnante; talché, a nessuno chiedendosi conto delle sue idee, tutti, anche gli stranieri, potevano salire le cattedre italiane.

 

 

Quella conquista altissima del nostro diritto universitario fu confermata dalla consuetudine: mai il giuramento fu richiesto a nessuno che abbia fin qui salito una cattedra delle università regie. E la consuetudine, non poteva dimenticarsene il consiglio di stato, è fonte potentissima di diritto.

 

 

Ha ben riflettuto del resto il ministro alle conseguenze irreparabili che avrebbe una sua acquiescenza al primo ed al secondo (ove questo confermi il precedente avviso) parere del consiglio di stato? La questione è troppo elevata perché possa immiserirsi ad un piccolo problema di interpretazione di una qualsiasi legge del 1908. Ancor ieri leggevo un alato telegramma che al rettore dell’università di Edimburgo, annunciantegli il conferimento della laurea ad honorem in diritto, inviava Luigi Luzzatti. In questo telegramma l’illustre banditore dei principi liberali inneggiava ancora una volta al trionfo della libertà di scienza e di coscienza. Ed è sotto il suo governo che in Italia dovrebbero essere quelle due preziosissime libertà conculcate, e conculcate ferendo profondamente una delle migliori tradizioni italiane?

 

 

Poiché questo vuol dire l’obbligo di prestare il giuramento imposto ai professori universitari. Da un dilemma doloroso invero non s’esce. O i nuovi professori, appartenenti ai partiti estremi, cattolici temporalisti, socialisti, repubblicani presteranno giuramento con restrizione mentale seguendo l’esempio che dicesi sia dato dagli uomini politici appartenenti a quei partiti, o da taluni sacerdoti chiamati a prestare il giuramento anti – modernista; e quegli insegnanti meriteranno di essere cacciati con la frusta dal tempio della scienza. Per fortuna i giovani al disotto dei vent’anni non conoscono ancora le restrizioni mentali. Essi non comprenderanno mai – e sia detto a loro grandissimo onore – come un uomo, il quale dovrebbe avere la missione divina dell’insegnare la verità, si sia reso colpevole di una così turpe transazione di coscienza. Vogliamo noi che i giovani abbiano il sacrosanto diritto di fischiare e di buttar giù dalle cattedre coloro che essi disprezzano come spergiuri?

 

 

Ovvero – ed è la sola ipotesi onorevole per l’università italiana – non potranno più salire sulle cattedre se non coloro che in coscienza sentiranno di poter giurare. Sarà l’ostracismo dato ai membri dei partiti estremi dai nostri atenei. Contro questo atto di intolleranza insana, prima che si sollevino i colpiti, abbiamo il dovere di insorgere noi, che colpiti non siamo e che non possiamo essere sospetti di poca devozione alle istituzioni esistenti e di poco aborrimento politico verso ogni sorta di clericalismi, massonismi, socialismi ed altre simiglianti abominazioni. Chi sia davvero liberale deve riconoscere che gran torto si farebbe agli estremi, allontanandoli dagli atenei sotto il pretesto malaugurato di un giuramento o costringendoli a giurare il falso. Lo stato stipendia i professori non perché gli siano fedeli politicamente, ma perché insegnino quella che essi, e soltanto essi, ritengono la verità. Mettere dei limiti alle verità che si possono insegnare è sopprimere la libertà della scienza. Si può concepire uno stato il quale si proponga determinati fini nell’insegnamento superiore e voglia foggiarsi anime a lui devote. Chi vuol quello stato e chi ingenuamente crede nella possibilità di rendersi devote le giovani generazioni coartando l’insegnamento, plauda al giuramento dei professori. Non vi plaudiranno gli scienziati veri, i quali sanno che l’unica guarentigia del progresso scientifico sta nella assoluta libertà, anche nella libertà, nel campo del pensiero, della ribellione a tutti i principi universalmente accolti ed a tutte le istituzioni esistenti.

 

 

In altri paesi, si dirà, usa che i professori giurino. Ma sono giuramenti tradizionali, prestati secondo formule arcaiche. In Austria, ad esempio, si giura, oltrecché fedeltà all’imperatore, di non insegnare nulla contro la verità, di consacrarsi intieramente alla scienza. Di gran lunga ne è quindi più elevato il significato e più scialbo il colore politico che non da noi, ove si tratterebbe di far rivivere un istituto oramai morto e di dargli un contenuto nuovo e dei restrittivi, quale è appunto quello della formula sovra citata.

 

 

E poi che monta l’esempio straniero? Vale e deve valer di più il glorioso esempio nostrano, la tradizione grandemente liberale tramandataci dai legislatori dell’epoca eroica della nostra formazione nazionale, quella tradizione che ha permesso venti anni fa all’attuale ministro dell’istruzione di iniziare brillantemente la sua carriera universitaria quale professore di storia della filosofia nell’ateneo pavese, senza preoccuparsi di un giuramento che, forse, egli non avrebbe allora potuto prestare. Io spero che nell’opinione pubblica sarà sentito quest’appello in difesa della libertà di scienza e di coscienza. Sia pure dessa severissima verso di noi nell’esigere l’adempimento dei nostri doveri professionali ma si dimostri, per l’onore del nostro paese, solidale con noi nel lottare contro ogni menomazione, che sarebbe funestissima, del bene ideale, della assoluta libertà scientifica.



[1] Con il titolo Per la libertà di scienza e di coscienza. Una gravissima minaccia all’Università italiana [ndr].

[2] Con il titolo Per la libertà di scienza e di coscienza. Una gravissima minaccia all’Università italiana [ndr].

Per la libertà di scienza e di coscienza

Per la libertà di scienza e di coscienza

«Corriere della Sera», 7 dicembre 1910[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 521-526

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925) vol. III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 166-171[2]

 

 

 

 

Mi si consenta di abbandonare per una volta la discussione dei più generali interessi economici e finanziari del paese, per discorrere di un interesse in apparenza proprio soltanto della classe a cui appartengo. Lo faccio perché l’interesse in gioco non è di natura materiale, e perché ritengo che la sua difesa debba suscitare le simpatie di quanti spiriti elevati vi sono in Italia.

 

 

In questi ultimi anni i professori universitari hanno attirato purtroppo l’attenzione del pubblico, soltanto in occasione di aumenti, rifiutati e poi concessi, di stipendio, di corsi liberi soppressi, di incarichi decimati; né hanno saputo dimostrare a quale caro prezzo, attraverso a quale gravissimo danno per la scienza fosse stato comprato quel miglioramento economico, consentendo l’accesso nel consiglio supremo all’elemento politico, della cui ingerenza già cominciano a scorgersi gli amarissimi frutti. Oggi, finalmente, è nata una agitazione nel mondo universitario, la quale ha un carattere puramente ideale e la quale varrà a dimostrare come non tutte le questioni, che commuovono i professori universitari, siano questioni di paga e di propine. Perciò ho preso la penna in mano per difendere la causa dei miei colleghi, ingiustamente minacciati da un’ordinanza ministeriale che vorrebbe conculcare la libertà del loro spirito e con esso la libertà della scienza.

 

 

Ecco in breve di che si tratta.

 

 

Ripetutamente, mosso da non so quale strana ispirazione, il prof. Tonelli, che mi si assevera far parte del blocco radico-socialista-repubblicano nel consiglio comunale di Roma, sollecitò, essendo rettore dell’università romana, il ministero perché decidesse se poteva, come egli credeva si dovesse fare, invitare i professori universitari di nuova nomina a prestare quel giuramento che la legge sullo stato giuridico degli impiegati prescrive in genere per gli impiegati dello stato. Nessuno dei professori che ebbero notizia della cosa riuscì ancora ad immaginare perché un professore ed un rettore prendesse l’iniziativa di un provvedimento, che ogni persona anche meno amante della scienza agevolmente comprende di quanta iattura debba essere fecondo per la scienza. Comunque sia di ciò, accadde che il ministro non seppe risolutamente rispondere, come si meritava, all’interpellanza liberticida e chiese invece il parere del consiglio di stato. L’alto consesso rispose con un sillogismo. Niun dubbio che la legge sullo stato giuridico degli impiegati del 1908 ha rispettato varie leggi organiche proprie di talune categorie di funzionari dello stato e tra esse la antica legge Casati, che è tuttora la legge fondamentale della nostra istruzione pubblica e specie della superiore. Ma la legge Casati non ha a disposizione alcuna che prescriva o che escluda il giuramento dei professori d’università. Dunque, nel silenzio della legge antica e particolare, e secondo il disposto della legge nuova e generale, anche dai professori universitari dovrà richiedersi la osservanza del disposto dell’articolo 3 della legge del 1908, che è quello appunto che prescrive in genere il giuramento. In mancanza di esso non si dovrà dar corso al primo mandato di pagamento dello stipendio.

 

 

Inopinatamente il ministro, che non ne aveva alcun obbligo, accolse il parere del consiglio di stato e diramò a tutti i rettori degli atenei italiani una circolare sul giuramento. Il fermento tra i colpiti fu vivissimo. So che in talune università qualche professore di nuova nomina rifiutò sinora di giurare. Ed è noto, avendone data la notizia i giornali, che il prof. Francesco Ruffini, rettore dell’università di Torino, richiamò subito l’attenzione del ministro su talune gravi conseguenze morali del nuovissimo provvedimento e su un errore giuridico in cui sarebbe incorso il consiglio di stato; e pare che le obbiezioni del rettore torinese siano state ritenute di non lieve peso, se il ministro si decise a chiedere un nuovo parere al consiglio di stato ed a sospendere frattanto la sua circolare sul giuramento.

 

 

Questa la cronaca del fatto. I commenti discendono logicamente dalla lettura della formula del giuramento che, per iniziativa di un membro del blocco popolare romano e per consenso di un ministro che fu, se non vado gravemente errato, un tempo repubblicano od almeno radicalissimo, si vorrebbe imporre agli universitari italiani. Il giuramento in verità non ha nulla di peregrino, perché è il giuramento comune, quasi si direbbe ordinario:

 

 

Giuro di essere fedele al re ed ai suoi reali successori, di osservare lealmente lo statuto e le leggi dello stato e di adempiere tutti i doveri del mio ufficio al solo scopo del bene inseparabile del re e della patria.

 

 

Basta leggere questa formula, per persuadersi che a quei grandi che posero le granitiche fondamenta delle istituzioni nazionali e scrissero quella legge Casati, che rimarrà documento imperituro della elevatezza del loro intelletto e della larghezza delle loro idee veramente liberali, non sarebbe mai caduto in mente di imporre cosiffatto giuramento agli insegnanti universitari. Non lo pensarono né lo vollero; poiché essi scrissero nella legge Casati un articolo 166, il quale solennemente dichiara non essere punto richiesta la cittadinanza dello stato per essere assunto a professore nelle università italiane; sancendo così per i professori universitari una importantissima e significantissima deroga alla prescrizione generale, che valeva fin d’allora per tutti gli impiegati dello stato e che fu espressamente imposta dall’articolo 3 della legge del 1908 sullo stato giuridico degli impiegati. Quei sommi, che videro la proclamazione dello statuto, che condussero la dinastia a regnare su tutta Italia e che fecero davvero la patria, non ebbero timore di dire che la scienza non conosce confini di patria e di partito e vollero che anche gli stranieri – e ne vennero degli insigni – potessero essere chiamati a far parte del nostro corpo accademico. Né gli stranieri furono ammessi a professare agli stipendi dello stato italiano, per semplici motivi di cortesia internazionale. L’ammissione loro fu una conseguenza logica, rigidamente logica, di un altro e ben più alto principio: che cioè non fosse necessario guardare alla nazionalità politica, alla fede partigiana o religiosa dell’insegnante; talché, a nessuno chiedendosi conto delle sue idee, tutti, anche gli stranieri, potevano salire le cattedre italiane.

 

 

Quella conquista altissima del nostro diritto universitario fu confermata dalla consuetudine: mai il giuramento fu richiesto a nessuno che abbia fin qui salito una cattedra delle università regie. E la consuetudine, non poteva dimenticarsene il consiglio di stato, è fonte potentissima di diritto.

 

 

Ha ben riflettuto del resto il ministro alle conseguenze irreparabili che avrebbe una sua acquiescenza al primo ed al secondo (ove questo confermi il precedente avviso) parere del consiglio di stato? La questione è troppo elevata perché possa immiserirsi ad un piccolo problema di interpretazione di una qualsiasi legge del 1908. Ancor ieri leggevo un alato telegramma che al rettore dell’università di Edimburgo, annunciantegli il conferimento della laurea ad honorem in diritto, inviava Luigi Luzzatti. In questo telegramma l’illustre banditore dei principi liberali inneggiava ancora una volta al trionfo della libertà di scienza e di coscienza. Ed è sotto il suo governo che in Italia dovrebbero essere quelle due preziosissime libertà conculcate, e conculcate ferendo profondamente una delle migliori tradizioni italiane?

 

 

Poiché questo vuol dire l’obbligo di prestare il giuramento imposto ai professori universitari. Da un dilemma doloroso invero non s’esce. O i nuovi professori, appartenenti ai partiti estremi, cattolici temporalisti, socialisti, repubblicani presteranno giuramento con restrizione mentale seguendo l’esempio che dicesi sia dato dagli uomini politici appartenenti a quei partiti, o da taluni sacerdoti chiamati a prestare il giuramento anti – modernista; e quegli insegnanti meriteranno di essere cacciati con la frusta dal tempio della scienza. Per fortuna i giovani al disotto dei vent’anni non conoscono ancora le restrizioni mentali. Essi non comprenderanno mai – e sia detto a loro grandissimo onore – come un uomo, il quale dovrebbe avere la missione divina dell’insegnare la verità, si sia reso colpevole di una così turpe transazione di coscienza. Vogliamo noi che i giovani abbiano il sacrosanto diritto di fischiare e di buttar giù dalle cattedre coloro che essi disprezzano come spergiuri?

 

 

Ovvero – ed è la sola ipotesi onorevole per l’università italiana – non potranno più salire sulle cattedre se non coloro che in coscienza sentiranno di poter giurare. Sarà l’ostracismo dato ai membri dei partiti estremi dai nostri atenei. Contro questo atto di intolleranza insana, prima che si sollevino i colpiti, abbiamo il dovere di insorgere noi, che colpiti non siamo e che non possiamo essere sospetti di poca devozione alle istituzioni esistenti e di poco aborrimento politico verso ogni sorta di clericalismi, massonismi, socialismi ed altre simiglianti abominazioni. Chi sia davvero liberale deve riconoscere che gran torto si farebbe agli estremi, allontanandoli dagli atenei sotto il pretesto malaugurato di un giuramento o costringendoli a giurare il falso. Lo stato stipendia i professori non perché gli siano fedeli politicamente, ma perché insegnino quella che essi, e soltanto essi, ritengono la verità. Mettere dei limiti alle verità che si possono insegnare è sopprimere la libertà della scienza. Si può concepire uno stato il quale si proponga determinati fini nell’insegnamento superiore e voglia foggiarsi anime a lui devote. Chi vuol quello stato e chi ingenuamente crede nella possibilità di rendersi devote le giovani generazioni coartando l’insegnamento, plauda al giuramento dei professori. Non vi plaudiranno gli scienziati veri, i quali sanno che l’unica guarentigia del progresso scientifico sta nella assoluta libertà, anche nella libertà, nel campo del pensiero, della ribellione a tutti i principi universalmente accolti ed a tutte le istituzioni esistenti.

 

 

In altri paesi, si dirà, usa che i professori giurino. Ma sono giuramenti tradizionali, prestati secondo formule arcaiche. In Austria, ad esempio, si giura, oltrecché fedeltà all’imperatore, di non insegnare nulla contro la verità, di consacrarsi intieramente alla scienza. Di gran lunga ne è quindi più elevato il significato e più scialbo il colore politico che non da noi, ove si tratterebbe di far rivivere un istituto oramai morto e di dargli un contenuto nuovo e dei restrittivi, quale è appunto quello della formula sovra citata.

 

 

E poi che monta l’esempio straniero? Vale e deve valer di più il glorioso esempio nostrano, la tradizione grandemente liberale tramandataci dai legislatori dell’epoca eroica della nostra formazione nazionale, quella tradizione che ha permesso venti anni fa all’attuale ministro dell’istruzione di iniziare brillantemente la sua carriera universitaria quale professore di storia della filosofia nell’ateneo pavese, senza preoccuparsi di un giuramento che, forse, egli non avrebbe allora potuto prestare. Io spero che nell’opinione pubblica sarà sentito quest’appello in difesa della libertà di scienza e di coscienza. Sia pure dessa severissima verso di noi nell’esigere l’adempimento dei nostri doveri professionali ma si dimostri, per l’onore del nostro paese, solidale con noi nel lottare contro ogni menomazione, che sarebbe funestissima, del bene ideale, della assoluta libertà scientifica.



[1] Con il titolo Per la libertà di scienza e di coscienza. Una gravissima minaccia all’Università italiana [ndr].

[2] Con il titolo Per la libertà di scienza e di coscienza. Una gravissima minaccia all’Università italiana [ndr].

Il progetto ferroviario. I punti di consenso e di divario

Il progetto ferroviario. I punti di consenso e di divario

«Corriere della Sera», 1 dicembre 1910

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 160-165

 

 

 

 

Il disegno di legge presentato dall’on. Sacchi ha uno scopo: il miglioramento economico degli agenti. E ricorre a due mezzi per ottenere lo scopo: il riordinamento del servizio e l’inasprimento di talune parti della tariffa.

 

 

Se la materia del disegno di legge si fosse limitata soltanto a quella che schematicamente ho riassunto sopra, il giudizio in massima non potrebbe non essere favorevole. Lo scopo che si volle raggiungere è nel programma di tutti i partiti politici; né è possibile disconoscere le ragioni le quali consigliano un aumento di salari ai ferrovieri meno bene pagati. Sicché il progetto Sacchi, accordando 14 milioni al personale che riceve non più di 1.500 lire all’anno, 4 milioni e mezzo al personale tra 1.500 e 3.000 lire, e 2 milioni al personale con stipendi oltre le tremila lire e non superiori alle 4.800 lire, non è che un atto di giustizia.

 

 

È rincrescevole soltanto che il ministro non abbia osato aumentare altresì gli stipendi del personale con stipendi superiori alle 4.800 lire, per il quale il disagio esiste come per gli altri. La demagogia non è dimentica mai della sua qualità caratteristica: l’invidia verso i più altolocati. Che i funzionari superiori siano esuberanti è verità inoppugnabile. In un suggestivo libretto, di cui l’on. Turati ha avuto il merito di farsi l’editore (Gino Baglioni, Per la riforma ferroviaria, Edizione de «La critica sociale», Milano 1910), un ferroviere, tra le molte altre notizie interessanti e amene, ha notato altresì che all’1 novembre 1909, oltre al direttore generale e a due vicedirettori, le ferrovie di stato vantavano 5 ispettori superiori, 21 capiservizio e capicompartimento di primo grado, 26 sottocapiservizio e capicompartimento di secondo grado, 97 capidivisione, 319 ispettori capi, 327 ispettori principali, 552 ispettori. Un vero esercito di alti funzionari, di cui una parte potrebbe essere risparmiata! Se questo è vero, non ne discende perciò che essi debbano essere pagati male, il che vuol dire pagati in misura non rispondente a quella che sul mercato è corrente per tecnici dotati delle qualità richieste a funzionari dirigenti. Pagarli male vuol dire rendere difficile il reclutamento dei giovani ingegneri, vuol dire facilitare l’accesso ai meno buoni, e, coll’ingombro di mediocri lavoratori, rendere indispensabile l’esuberanza nel personale direttivo, che i ferrovieri dei gradi inferiori a ragione combattono. Né il miglioramento economico per i funzionari superiori avrebbe importato un costo per l’azienda, quando esso fosse stato condizionato alla non ammissione per un certo tempo di nuovi ispettori in servizio e di un più alto rendimento del lavoro di quelli impiegati.

 

 

Dopo lo scopo, i mezzi. La cattiva accoglienza fatta al progetto Bertolini che proponeva di ricavare i milioni necessari per l’aumento delle paghe sovratutto dall’aumento delle tariffe, e negava la possibilità di forti economie d’esercizio, ha persuaso a cambiar rotta. Oggi il discorso è mutato, ed è mutato in meglio si ricorrerà sovratutto, per 14.700.000 lire, alle semplificazioni di esercizio e alle economie; e per la restante parte, ossia per 6 milioni circa, ai rimaneggiamenti di tariffe.

 

 

Industriali e commercianti cominceranno a tirare il fiato, e più lungo lo tireranno pensando che le economie, dichiarate un anno fa assurde, saranno ottenute abolendo l’ingombro dei capicompartimento, delle divisioni, e delle ingerenze dei servizi centrali. Nessuno si dorrà della scomparsa dei capicompartimento, che ormai erano stati ridotti all’ufficio di rappresentanza nei ricevimenti ufficiali; e del pari l’abolizione delle divisioni, limitate alla funzione del passacarte tra le sezioni, veri uffici esecutivi, e i servizi centrali romani, sarà ritenuta da tutti utile. Finalmente la soppressione dell’attuale accentramento, per cui tutto, anche le più umili cose, deve essere deliberato a Roma, sarà, ove riesca a condurla in porto, una benemerenza notabile dell’on. Sacchi. L’opuscolo citato del Baglioni è una miniera di aneddoti sui fasti dell’accentramento romano; e altri se ne potrebbero aggiungere. Classico il caso di quel muletto di valore che doveva partire da una città del settentrione in treno diretto, con tariffa speciale aumentata del 50%, per una città del mezzogiorno, e che avrebbe dovuto aspettare alla stazione di partenza una diecina di giorni che l’ufficio romano avesse autorizzato telegraficamente l’inoltro, se il telegramma liberatore non fosse giunto quando già il muletto, stanco di aspettare, era giunto a destinazione per carro bestiame a tariffa ordinaria.

 

 

Il sistema che l’on. Sacchi vuole sostituire al costoso sistema odierno, è quello antico adottato dalla Società ex Adriatica, e che aveva fatto buonissima prova. Divisa l’Italia in tre grandi reti continentali e una sicula – le tre reti continentali aventi centro a Torino, Bologna e Napoli, con linee facenti capo tutte a Roma -, in ognuna di queste reti, dotata di bilancio proprio e di larghissima libertà di movimenti, saranno istituiti tre servizi: di movimento e traffico, di trazione e materiale, di mantenimento e lavori. È la tripartizione normale, invocata da quasi tutti i competenti, e che si era voluto sopprimere per amore di accentramento e di gonfiamento di servizi minuscoli a dignità di servizi fondamentali.

 

 

Al disotto dei servizi staranno non più le divisioni soppresse, ma le sezioni, che sono già oggi i veri uffici esecutivi.

 

 

L’ordinamento acquista senza dubbio in snellezza, e deve diminuire di costo. Speriamo che nell’attuazione pratica i buoni propositi non sfumino; e che si sappia, durante la discussione, resistere alle malintese esigenze delle città capoluogo di compartimento, le quali saranno capaci, per conservare una larva di ufficio, dannoso anche ad esse, di opporsi ad un riordinamento che ad esse, come a tutti, riuscirà vantaggioso. È doloroso, senza dubbio, che l’assetto delle ferrovie di stato abbia ad essere perturbato una terza volta nel giro di pochi anni. Il perturbamento sarà tuttavia meno grave di quello che si ebbe nel 1905 e nel 1908, perché si tratterà soltanto di abolire organi inutili od opprimenti, la cui conservazione avrebbe prodotto alla lunga malanni peggiori di quanto non sia per cagionarne temporaneamente la loro abolizione. Le ferrovie di stato debbono diventare forse un museo di fossili, residui di tutti i sistemi sperimentati ed abbandonati in passato?

 

 

E vengo al discorso spiacevole. Le promesse di economie sono divenute così rare, in Italia e altrove, in bocca ai governi, che, quando se ne sente proporre qualcuna, quasi non ci si crede, sebbene si tratti di economie fattibili e altre se ne possano suggerire in aggiunta. Ormai governo e parlamento sembrano organi inventati per buttare denaro dalla finestra; e il discorso delle economie pare un ricordo di tempi felici passati per sempre. Il discorso invece delle nuove tasse è ognora di attualità; sicché, se non rassegnati, siamo ad esso abituati. Nel caso delle tariffe ferroviarie, anche un nemico nato dei nuovi balzelli può riconoscere la necessità di un aumento.

 

 

Il problema economico è il seguente: un industriale a cui gli operai impongano un aumento di salari, cerca di rifarsi, se già non l’ha fatto prima, sui consumatori, aumentando i prezzi di vendita dei suoi prodotti. È un fatto naturale e nessuno trova a ridirvi. Perché l’esercente dell’azienda ferroviaria dovrebbe comportarsi in diversa maniera? Se gli agenti, in seguito al rincaro della vita, ottengono un aumento di paghe, non è corretto che l’esercente se ne rifaccia aumentando le tariffe, che sono il prezzo dei servigi suoi di trasporto di persone e di merci?

 

 

Il ragionamento, corretto in principio, non potrebbe essere applicato, senz’altro, e in generale, alle tariffe italiane. Un aumento generale delle tariffe dei trasporti sarebbe stato ingiustificabile: 1) Perché le tariffe italiane generali sono già elevatissime: un viaggiatore ordinario di terza classe paga per cento chilometri in Austria lire 2,93, in Ungheria 3,18, in Danimarca 3,51, nel Belgio 3,80, in Baviera 4,25, in Norvegia 4,40, in Olanda 4,72, in Svezia 4,92, in Francia 4,93, in Russia 5, in Svizzera 5,20 e in Italia 5,25. Lo stesso si dica per le merci. Se le tariffe minori bastano all’estero dove il rincaro della vita infierisce come da noi, perché non dovrebbe bastare la tariffa nostra più elevata? 2) In un periodo di crescente sviluppo economico, un aumento generale delle tariffe potrebbe riuscire dannoso allo sviluppo dei traffici. 3) Sovratutto poi le tariffe attuali non sono sufficienti non perché siano basse le tariffe ordinarie, ma perché si concedono ingiustificati ribassi a un nugolo di privilegiati. Nei treni, specie diretti, la maggior parte dei viaggiatori viaggia gratuitamente o a tariffa speciale ridotta. Questo è lo scandalo che importa far cessare o almeno diminuire. La gente laboriosa paga per conto di uomini politici, funzionari militari e civili, parenti di funzionari e di privilegiati diversi, che viaggiano a tariffe inferiori al costo, o viaggiano gratuitamente. Il progetto di legge Sacchi, colpendo con tasse i biglietti gratuiti e rialzando le tariffe di favore, inizia l’opera sana di falcidia dei privilegi ferroviari.

 

 

Minori simpatie desta in me la proposta di aumentare il costo dei biglietti di abbonamento, perché i biglietti di abbonamento sono quasi tutti usati da commercianti e industriali, né il costo loro ordinario si può affermare modesto. Come pure la proposta di aumento nelle tariffe vicinali e nella tariffa differenziale ordinaria per le lunghe distanze dovrà essere giudicata secondo le modalità di attuazione, ben potendo accadere che un aumento riesca di danno anziché di vantaggio all’economia dell’amministrazione ferroviaria.

 

 

Quelli che ho commentati sopra non sono che i punti fondamentali del disegno di legge. Il consenso e il plauso verrebbero meno ove si scendesse a particolari. Vi sono parecchie proposte che lasciano l’animo dubbioso. Non è possibile, ad esempio, non essere scettici di fronte alle promesse di partecipazione ai profitti netti di esercizio, sia pure la cointeressenza divisa per categorie. Trattasi di generosi propositi, destinati ad avere scarsissima virtù pratica. La molla per spingere al lavoro gli uomini è il premio individuale, commisurato alla singola prestazione d’opera, non la cointeressenza che si annega nella collettività della categoria.

 

 

Scettico del pari mi trova un’altra proposta di legge: quella dei diecimila carri (per fortuna già ridotti a ottomila) promessi dall’on. Luzzatti l’autunno scorso in un momento di ingorgo ferroviario per evitare in avvenire le perturbazioni derivanti dalle campagne vinicole.

 

 

La proposta, ispirata da un’acuta sensazione dei malanni prodotti dagli arresti della circolazione delle merci, lascia dubbiosi, sovratutto in un momento in cui i tecnici lamentano la scarsa utilizzazione dei carri esistenti e la attribuiscono all’ingombro dei carri medesimi sulle linee e nelle stazioni. Un aumento ulteriore di carri sembra debba non diminuire, bensì accrescere il lamentato ingombro.

La riforma del consiglio superiore del lavoro

La riforma del consiglio superiore del lavoro

«Corriere della Sera», 28 novembre 1910

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 153-159

 

 

 

 

Una recente lettera indirizzata dal circolo industriale, agricolo e commerciale di Milano alla presidenza della confederazione generale dell’industria ha rinnovata la disputa, già vivissima alcuni mesi or sono, intorno alla riforma del consiglio superiore del lavoro. Che una riforma sia necessaria appare chiarissimamente dalla sovrabbondanza attuale, sia assoluta che relativa, dei membri parlamentari (6 su 44), burocratici (8) e generici (2 economisti sociologi, 3 mutualisti, 3 cooperatori, 2 rappresentanti delle banche popolari, 4 delegati delle camere di commercio, 4 delegati dei comizi agrari); mentre soltanto 12 posti sono riservati, sul totale di 44, ai rappresentanti degli industriali e degli operai interessati alla soluzione delle grandi questioni su cui il consiglio superiore è chiamato a dare il suo parere. E, quel che è peggio, i dodici rappresentanti diretti non sono nominati dagli interessati, bensì dal ministro, in seguito a complicate designazioni di enti diversi. Ancora: i capi delle aziende agrarie, industriali e commerciali hanno 5 soli posti, mentre gli operai ne vantano 7, di cui 2 riservati agli operai e capimastri delle miniere di Sicilia e di Sardegna, 1 ai lavoratori del porto e del mare e 4 ai contadini ed operai.

 

 

La riforma, chiaritasi necessaria subito, è ora chiesta ad alte grida; le quali si sono fatte più clamorose dopoché il consiglio superiore, con una relazione Abbiate – Cabrini – Saldini, dimostrò di volere prendere esso medesimo l’iniziativa dei provvedimenti riparatori. Se tutti gridano in coro contro l’attuale composizione, non tutti gridano col medesimo entusiasmo, né con uguali intenti; cosicché, a volerli ascoltare tutti, l’impresa di ricostituire il consiglio del lavoro appare difficilissima e quasi impossibile. Cattolici contro socialisti, repubblicani contro ambedue, camere di commercio e comizi agrari contro le associazioni industriali tecniche, queste contro le organizzazioni sindacali, milanesi contro torinesi, regionalisti contro centralisti tutti combattono insieme per un fine comune e tra di loro per accaparrarsi la porzione più opima delle spoglie.

 

 

Procuriamo di sentire per sommi capi le ragioni dei contendenti, senza perderci per i viottoli traversi delle infinite controversie particolari.

 

 

Interessati contro estranei e generici questa è la prima ragione di rancore contro l’attuale composizione del consiglio del lavoro. Questo è un organo consultivo, in cui gli interessati, industriali ed operai, dovrebbero essere chiamati a dare il loro parere sulla nuova legislazione sociale, sul funzionamento delle leggi vigenti, sulle condizioni delle classi operaie in relazione alle condizioni dell’industria. In questo consesso consultivo, il quale dovrebbe apparecchiare i materiali legislativi per il governo ed il parlamento, che cosa ci stanno a fare i tre senatori ed i tre deputati? Senato e Camera dovranno deliberare sulle proposte che il governo farà, in seguito agli studi ed ai pareri degli interessati adunati nel consiglio; ma non debbono – a mezzo dei loro rappresentanti – dare pareri a se stessi. Il loro intervento serve unicamente a falsare l’espressione della viva voce dell’industria e delle maestranze. A seconda del partito politico che ha la maggioranza nelle due camere, le risoluzioni prese dal consiglio prenderanno un colore conservatore o democratico o socialistoide. Il vero arbitro delle risoluzioni sarà l’elemento parlamentare, frustrando così l’essenza stessa del consiglio, il quale dovrebbe essere la viva voce delle classi imprenditrici ed operaie. Peggio si dica dell’elemento burocratico, oggi esuberantissimo: otto rappresentanti delle direzioni dell’agricoltura, della statistica, della marina mercantile, dell’industria e del commercio, del credito e previdenza, dell’ufficio del lavoro, dell’emigrazione, della cassa nazionale per la invalidità e la vecchiaia degli operai. Se fosse possibile, l’intervento dei funzionari produce effetti ancor più lamentevoli dell’intervento dei parlamentari. Se i funzionari sono per ufficio ossequenti ai desideri del governo, sono ancor più desiderosi di allargare le funzioni governative, cosicché il loro voto si può dire assicurato a priori a quella parte la quale proponga i regolamenti più complicati, purché crescano con essi i bisogni di nuovi impiegati e nuovi orizzonti si aprano alla carriera delle falangi ministeriali.

 

 

Che cosa stanno a fare quei due economisti sociologi nel consiglio, se non a spostare indebitamente le sorti delle votazioni a favore di quella parte a cui volga favorevole la moda scientifica? E chi sa immaginare le ragioni arcane per cui vi hanno seggio due rappresentanti delle banche popolari? Nemmeno le rappresentanze delle società di mutuo soccorso e delle cooperative sfuggono alla critica. Poiché esse sono un duplicato della rappresentanza delle classi operaie, le quali hanno bensì ragione di elevarsi colla cooperazione e col mutualismo, ma non hanno alcun motivo di pretendere perciò una rappresentanza ulteriore a danno della equa bilancia che tra le due parti dovrebbe essere mantenuta. Tanto varrebbe concedere agli industriali, oltre i posti ad essi assegnati, nuovi posti al nome delle società per azioni, che pur sono un modo perfezionato di organizzazione del capitale, così come la cooperazione ed il mutualismo sono forme complesse di organizzazione operaia.

 

 

Contro le critiche mosse alle rappresentanze dei parlamentari, degli scienziati, dei funzionari e dei doppioni debole è la risposta; talché è da credere che, se non si trattasse di sfrattare dal consiglio personaggi illustri e benemeriti per tanti versi del paese, la loro eliminazione non susciterebbe contrasto alcuno. Una sola ragione fondata si può addurre della loro presenza: l’opportunità di avere sottomano tecnici i quali possano illuminare il consiglio nei problemi di loro competenza e possano inoltre, forti della loro competenza, far da pacieri tra le due parti operaia e padronale. Senonché sulla competenza (parlo naturalmente della competenza inerente alle cariche ed alle funzioni, in virtù di cui codesti «arbitri» ottengono la nomina, non della competenza personale, che nei casi singoli è o si presume indubbiamente grandissima) ci sarebbe molto a ridire. La competenza in siffatti argomenti non si acquista né sui libri, né nei dibattiti parlamentari e neppure con la collaborazione multiforme ad opere sociali; la si acquista invece nelle officine e nei campi, lottando per il miglioramento delle proprie condizioni di vita o subendo gli effetti di una legislazione disadatta. La sola esperienza vissuta ha valore e solo la voce di chi quella esperienza quotidianamente vive merita di avere virtù deliberativa. Nulla vieta che al consiglio intervengano anche elementi competenti in questioni riflettenti il lavoro; ma intervengano con voto consultivo, senza pesare sulle determinazioni che saranno per prendere le due parti interessate. Nulla vieta del pari che a partecipare ai lavori del consiglio siano chiamati volta a volta uomini competenti in particolari questioni. Essi ne saranno onorati ed il consiglio molto si gioverà del loro parere, il quale sarà tanto più sereno quanto minore responsabilità di voto decisivo cadrà su di essi.

 

 

Né sembri grave il pericolo che molte volte le due parti, pari in numero, degli industriali e degli operai, non riescano a mettersi d’accordo. Anzitutto molte questioni sono di indole tecnica su cui un consenso unanime o di maggioranza potrà agevolmente formarsi. Altre volte il dissenso sarà di taluni industriali o di taluni operai appartenenti a particolari industrie; né quei dissenzienti avranno tanta forza da trascinare, per motivi particolari ed egoistici, l’intiera rappresentanza della classe. Il dissidio insanabile potrà cadere soltanto sulle grandi questioni di massima, interessanti tutta l’industria o tutta l’agricoltura. Sembra a me utilissimo che questo dissidio venga alla luce, apertamente, schiettamente, senza che delle ibride rappresentanze cuscinetto riescano a nasconderlo, ad attenuarlo, a prorogarne lo scoppio. Non dimentichiamo che il consiglio è un corpo consultivo, non deliberativo. Propone le leggi, non le delibera. Che male vi è che il parlamento si vegga squadernate dinanzi nei casi più importanti (nella grande maggioranza dei casi è improbabile che le due parti non trovino una via di accordo) le ragioni a suffragio od a contrasto di una proposta di legge? In Italia abbiamo la strana abitudine di voler far prendere all’unanimità le deliberazioni dei corpi consultivi e benanco delle commissioni d’inchiesta. Persino le relazioni di minoranza sembrano uno scandalo e si frappongono ostacoli alla loro divulgazione. Facendo così, si disconosce l’essenza dei corpi consultivi, che è di porgere consigli, i quali, finché la natura umana dura come è, saranno mai sempre divergenti. Le deliberazioni del governo e del parlamento – queste, sì, devono essere univoche acquisteranno anzi maggior valore; poiché non potranno essere prese scaricandone la responsabilità su un consiglio consultivo, in cui, come accade oggidì, le voci genuine degli interessati sono soffocate dalla grave mora delle rappresentanze cuscinetto.

 

 

Risolta la questione fondamentale di ammettere, con voto deliberativo, soltanto le rappresentanze degli interessati, sorge l’altro problema: come organizzare queste rappresentanze? Qui la disputa si impernia innanzi tutto fra coloro che vogliono far nominare i rappresentanti dalle organizzazioni specifiche professionali e quelli che vogliono dar diritto di eleggere alle organizzazioni che dire generiche. Dico subito che le mie simpatie non sono né per le une né per le altre, almeno come strumento di scelta dei consiglieri del lavoro. Ma poiché la questione fu posta, essa deve in via preliminare essere discussa.

 

 

Dicono gli specifici: il consiglio è chiamato sovratutto a dare pareri su questioni riflettenti i rapporti tra capitale e lavoro, si tratti di contratti collettivi, o della tutela contro gli infortuni sul lavoro, o delle leggi sulla durata del lavoro o sul riposo festivo. Il punto specifico della competenza del consiglio stando nel regolare i rapporti tra industriali ed operai, non tutte le associazioni o le rappresentanze delle due parti hanno ragione di nominare i consiglieri del lavoro, bensì quelle soltanto che abbiano ad oggetto specifico della loro azione lo studio e la trattazione dei rapporti tra industriali e lavoratori. Una associazione del cuoio, o della lana, o della seta adempierà, a cagion d’esempio, ottimamente ai suoi fini, che sono quelli di promuovere il progresso tecnico dell’arte, di intervenire nella discussione dei trattati di commercio, di difendere l’industria dalle ingordige fiscali; un comizio agrario si sarà reso benemerito dell’agricoltura promuovendo l’adozione di nuovi metodi di coltivazione, incoraggiando sperimenti di concimazione, ecc. ecc.; una società di mutuo soccorso avrà potentemente contribuito all’elevamento delle classi operaie instaurando molteplici forme di mutualità. Tutti questi sono mezzi di azione utilissimi per le classi interessate; non riflettono però i rapporti fra capitale e lavoro. Competenti sono soltanto quelle associazioni che si siano costituite nell’intento specifico di trattare le questioni del lavoro, ossia, per usare la denominazione oramai invalsa, i sindacati di mestiere, siano essi sindacati operai o sindacati industriali. Il principio è sembrato pacifico per la classe operaia, talché i relatori Abbiate, Cabrini e Saldini proponevano senz’altro di attribuire la nomina dei delegati operai alle federazioni dei lavoratori del libro, dei lavoratori edilizi, ecc. ecc., ed in mancanza di federazioni di mestiere, alla confederazione generale del lavoro. Perché non adottare lo stesso criterio per la parte industriale, chiamando a nominare i delegati, invece delle generiche unioni delle camere di commercio, od associazioni di questa o quella industria, le specifiche confederazioni generali dell’industria o federazioni di industrie particolari, sorte e specializzatesi nella discussione e nella difesa degli interessi della classe padronale di fronte alla classe lavoratrice?

 

 

La sola obiezione sostanziale che a questo modo di vedere si sia fatta è la seguente: la legislazione sociale, su cui sovratutto deve dar pareri il consiglio, è una legislazione costosa, i cui costi cadono massimamente sull’industria. Devono gli industriali vigilare affinché le riforme non riescano insopportabilmente gravose rispetto alla potenzialità economica dell’industria; e devono vigilare altresì perché i sacrifici non siano troppo superiori alla somma dei benefici che le classi lavoratrici dovrebbero ricavare. Ora, a questo compito soddisfano assai meglio le associazioni tecniche od economiche, le quali hanno per iscopo la tutela degli interessi generali dell’industria, e conoscono profondamente le condizioni sue finanziarie, che non le associazioni sindacali le quali si sono specializzate nella lotta contro gli operai ed appunto per questa eccessiva specializzazione non sono in grado di assurgere ad un giudizio sintetico della legislazione sociale, che è sopra ed oltre le classi e la quale deve essere valutata in rapporto soltanto alla potenzialità economica dell’industria.

 

 

L’obiezione, a parer mio, non coglie nel segno. Innanzitutto è vero che la legislazione sociale è al disopra delle classi ma chi deve compiere quest’opera pacificatrice, superiore alle classi, è il parlamento, non il consiglio del lavoro. Se in questo fossero rappresentate le classi ed insieme l’elemento moderatore che cosa ci starebbe a fare il parlamento? Forse a mettere lo spolverino sulle deliberazioni del consiglio; nel quale surrettiziamente verrebbe così a trasferirsi l’autorità legislativa? Meglio è riconoscere il fatto quale è: e cioè l’esistenza di due o più classi alle quali viene dato modo di esprimere in seno al consiglio del lavoro i propri desideri in ordine alla legislazione sociale; e su questi, ora concordi ed ora discordi, venga dal governo chiamato il parlamento a decidere. Opinare altrimenti è un voler trasferire la sovranità dal parlamento alle classi ed agli organi particolaristici, è un voler ricostituire, sotto nomi diversi, il regime feudale.

 

 

Né si tema che i sindacati industriali non sappiano valutare i sacrifici che la legislazione sociale imporrà all’industria. Come? uomini che passano la loro vita a discutere di aumenti di salari o di riduzione di orario ed a valutarne il peso in rapporto alla produttività dell’industria perché questo è proprio ciò che fanno i sindacati padronali – non saranno più in grado di valutare i sacrifici imposti all’industria appena essi siano la conseguenza delle regole imposte da una legge sociale? L’addestrarli a questa opera di valutazione degli effetti della legislazione sociale sembra anzi ottimo metodo per continuare e rinsaldare, in una sfera più elevata, quei rapporti tra sindacati industriali e sindacati operai che sono la più sicura speranza di efficace pacificazione sociale. Non basta predicare la pace per averla. Essa sprizza fuori dal contrasto ed è tanto più duratura quanto più a lungo le parti contendenti hanno lottato per raggiungerla.

 

 

I sindacati, operai e padronali, oggi costituiti e di fatto riconosciuti dallo stato, sono gli organi più adatti ad esprimere la volontà dell’industria e delle maestranze a cui carico e favore si elabora la legislazione sociale? Qui è il punto controverso; ed è qui che maggiormente si accaniscono le ire di parte.

L’unità sindacale e il consiglio superiore del lavoro

L’unità sindacale e il consiglio superiore del lavoro

«Corriere della sera», 27 novembre 1910[1]

Le lotte del lavoro, Einaudi, Torino, 1924, pp. 191-200

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 328-336

 

 

 

 

La controversia circa la composizione del Consiglio del lavoro, (vedi qui, alle pp. 153 sgg.), non è finita quando si sia riconosciuta la convenienza di dare tutt’al più un voto consultivo a coloro che non rappresentano gli interessati e di preferire le associazioni sindacali specificamente costituite per regolare i rapporti fra capitale e lavoro alle associazioni generiche, tecniche od economiche. Anzi comincia appena. Poiché subito sorge il problema: quali saranno le associazioni sindacali a cui sarà affidata la nomina dei consiglieri del lavoro? Come si stabiliscono i connotati di queste associazioni per saper distinguere le «buone» dalle «spurie»? i sindacati eletti dai «reprobi»? Che non si tratti di un problema facile è manifesto dall’accanimento posto dai socialisti nell’affermare che soltanto certe associazioni sono le «buone» e che in ispecial modo sono da mettersi al bando le associazioni cattoliche. La scomunica si vorrà estendere certamente alle associazioni cosidette gialle o repubblicane, che nel Ravennate si contrappongono alle associazioni “rosse” o socialiste. Quali siano gli argomenti con cui si vorrebbe impedire alle associazioni cattoliche o repubblicane di concorrere all’elezione dei consiglieri del lavoro confesso di non essere riuscito a comprendere chiaramente e moltissimo mi meraviglia che quei misteriosi argomenti siano stati accettati nel consiglio da uomini di parte liberale. La giustificazione precipua dell’esclusione sarebbe questa: che non si debbono ammettere al diritto di voto le associazioni le quali sorgano per rompere il principio della unità sindacale in forza di una pregiudiziale di partito politico o di confessione religiosa, col condizionare l’accettazione del socio o la sua appartenenza all’associazione a dette pregiudiziali. Ammettere, si afferma, i delegati di associazioni confessionali, perché cattoliche, o perché repubblicane o socialiste, sarebbe un vero privilegio. Le associazioni debbono essere ammesse a nominare i delegati quando esse siano aperte a tutti senza chiedere professione di fede alcuna. Altrimenti esse non sono più associazioni economiche, bensì associazioni religiose o repubblicane o socialiste con vernice economica.

 

 

Chi ha fatto questo ragionamento era per fermo un uomo profondamente illiberale. Innanzi tutto perché lo stato dovrebbe preoccuparsi di mantenere intatto il principio della unità sindacale? In virtù di qual principio lo stato dovrebbe dire: – è utile, è necessario che in ogni mestiere gli industriali e gli operai siano uniti in due soli sindacati, l’uno all’altro opposto? – Non certo in virtù di nessun principio, il quale sia scritto nelle nostre leggi e che possa chiamarsi un principio liberale. Vogliono gli operai, vogliono gli industriali di un mestiere riunirsi in un solo sindacato nazionale per parte? Lo stato non ha nulla a ridire, e non potrà non ammettere di fatto i membri di quel solo sindacato ad eleggere i consiglieri del lavoro. Credono invece gli operai o credono gli industriali di riunirsi in parecchi sindacati, uno per regione, o parecchi nella stessa regione, a seconda del colore politico o delle credenze religiose o a seconda di altre differenziazioni ancor meno interessanti? Lo stato non dovrà far altro che accettare siffatta condizione di fatto e dare il diritto di voto a tutti coloro che sono in realtà operai ed industriali, qualunque sia la loro etichetta politica o religiosa. Lo spezzamento in tanti sindacati diversi campanilistici o partigiani, potrà essere antipatico ai nuovissimi cultori delle scienze economiche, potrà urtare i nervi di chi desidera l’unità sindacale e l’organizzazione accentrata; ma è uno stato di fatto che soltanto la partigianeria più cieca può rifiutarsi di riconoscere. O non sono tutti i cittadini uguali nei diritti e nei doveri?

 

 

Con qual diritto vogliamo mettere al bando i cattolici perché essi intendono far parte dei sindacati cattolici e i repubblicani di Ravenna perché si tengono stretti ai sindacati gialli e non vogliono entrare nei sindacati rossi? Dicono i socialisti ed i falsi liberali in combutta coi socialisti: lo stato deve riconoscere solo i sindacati neutri. Allegazione ipocrita questa della neutralità; perché più della neutralità scritta negli statuti vale la partigianeria delle persone che si trovano a capo delle organizzazioni cosidette neutre. Ma anche astrazion fatta dall’ipocrisia evidente dell’obiezione, vi è una cosa sola da osservare: che cioè, per ragioni buone o cattive, spiacevoli o piacevoli a certi organizzatori od a certi economisti, vi sono uomini i quali non vogliono entrare in certe associazioni perché le ritengono disadatte a difendere i loro, bene o male intesi, interessi e vogliono invece entrare in altre associazioni, che hanno un’altra etichetta, occulta o palese. Gli industriali milanesi od alcuni di essi non vorranno, ad esempio, entrare a far parte della Confederazione generale dell’industria, che ha sede a Torino, benché questa sia aperta a tutti. Avranno magari torto ad astenersene, ma intanto questa è la loro ferma, decisa volontà. Gli operai repubblicani di Ravenna non vogliono aderire alle organizzazioni neutre. Rompono con ciò l’unità sindacale operaia, così come alcuni industriali milanesi rompono l’unità sindacale padronale. Sarà questo un fatto lacrimevole, forse, ma è un fatto. Anzi il solo fatto di cui lo stato deve tener conto. Lo stato non è né cattolico, né socialista, né repubblicano, né partigiano delle organizzazioni milanesi né di quelle torinesi. Lo stato, non potendo negare a nessun uomo la libertà di agire come crede entro i limiti della legge, non può obbligare i socialisti ad entrare nelle organizzazioni cattoliche e non può, per converso, obbligare i cattolici ad abbandonare le loro leghe cattoliche e costringerli ad entrare nelle leghe neutre che essi aborrono, appunto perché neutre. I difensori, operai o padroni, dell’unità sindacale se vogliono veder trionfare il principio caro al loro cuore hanno una sola via onesta dinanzi a loro: far propaganda allo scopo di persuadere gli adepti delle altre fedi ad abbandonare le organizzazioni dissidenti ed accedere all’organizzazione neutra. Il giorno in cui sarà scomparso l’ultimo sindacato cattolico, giallo, milanese o torinese, lo stato dovrà riconoscere non il principio ma il fatto dell’unità sindacale. Riconoscendolo prima, come oggi fa, gli esclusi avranno ragione di lamentarsi di denegata giustizia e di dire allo stato: voi ci escludete dal diritto di voto, perché siamo religiosi, perché siamo repubblicani, perché siamo affezionati alla piccola regione nostra e diffidiamo delle organizzazioni nazionali troppo grandiose; ed escludendoci, voi agite da tiranno o, se meglio vi piace, da giacobino, il che è peggio di tiranno.

 

 

Senonché la tesi liberale del diritto di rappresentanza concesso imparzialmente a tutti gli operai ed industriali, qualunque sia la fede, negativa o positiva o neutra, dei loro sindacati, urta contro una difficoltà pratica. Come organizzare invero il suffragio? Anno per anno dovrebbe essere riveduta la lista delle associazioni sindacali costituite con specialità di fine allo scopo di discutere le questioni del lavoro. Fatica non lieve e non immune da pericoli. Come impedire, ad esempio, che si costituiscano associazioni di falsi operai e di falsi industriali, le quali verrebbero a perturbare il risultato genuino delle elezioni? Come far sì che un operaio od un industriale, iscrivendosi a parecchie associazioni, neutra o confessionale, regionale o nazionale, non riesca a pesare due volte col suo voto sulla designazione dei consiglieri del lavoro? Poiché nessun privilegio si deve sancire a favore delle associazioni nazionali contro le associazioni regionali, poiché nessun obbligo deve essere imposto a queste ultime di federarsi nazionalmente, ben potendo darsi che gli interessati preferiscano l’una all’altra forma di organizzazione, i doppioni saranno inevitabili e si andrà incontro a difficoltà pressoché inestricabili.

 

 

La difficoltà massima dell’elettorato «corporativo» sta del resto nella definizione della parola «sindacato di mestiere». S’intende che la difficoltà è tale per chi si metta dal punto di vista liberale e nel tempo stesso voglia far salve le ragioni supreme di vita dello stato nella forma oggidì vigente. Bisognerebbe trovare una definizione che ammettesse tutti i sindacati, quelli nazionali e quelli regionali o rossi insieme coi gialli ed i neutri e poscia, se si potesse, i sindacati dei disorganizzati e dei crumiri. Tutti costoro sono cittadini italiani, possono essere operai od industriali, e possono avere interesse a fare il mestiere del rosso o del giallo o del crumiro, ed hanno perciò diritto di voto per far valere quei loro interessi. Opinar altrimenti è un voler far risorgere le caste chiuse e negare i diritti individuali dell’uomo. Una definizione siffatta del «sindacato di mestiere» è quasi impossibile. La legge francese del 1884, che si è trovata allo sbaraglio della definizione, ha detto che i sindacati professionali sono «associazioni di persone che esercitano lo stesso mestiere, o mestieri simili, od attendono ad occupazioni connesse, concorrenti alla produzione di determinati oggetti, ed hanno esclusivamente per oggetto lo studio e la difesa di interessi economici, industriali, commerciali e agricoli». Fare a meno di quell’esclusivamente è difficile; se non si vogliono considerare come sindacati anche associazioni aventi per iscopo la lettura di giornali umoristici, e lo sport della corsa a piedi, o il premio al miglior bevitore di vino dello stabilimento. Includerlo, vuol dire dar causa vinta ai dogmatici dell’unità sindacale ed agli esclusivisti sotto bandiera di neutralità. Né uno stato monarchico potrebbe esplicitamente riconoscere, con una registrazione ufficiale presso la prefettura, un sindacato repubblicano il quale si proponga, oltre gli scopi professionali, anche l’intento di sovvertire la forma esistente di governo; e neppure potrebbe registrare un sindacato cattolico il quale invocasse il ristabilimento del potere temporale.

 

 

Il dilemma è chiaro: da un lato lo stato liberale non può negare agli operai ed industriali repubblicani o cattolici di difendere i loro interessi di classe in seno al Consiglio del lavoro, anche se essi non vogliono iscriversi ad un sindacato neutro, perché non può mettere nessun uomo al bando della società e perché è altamente impolitico, oltreché ingiusto, lasciare radicare in alcuni gruppi della popolazione il convincimento che ad essi giustizia è negata; dall’altro lato lo stato non può in una legge sancire il principio che siano riconosciuti sindacati legalmente costituiti per cospirare contro l’ordine politico costituito o contro l’unità della patria. Dal dilemma non si esce con una definizione del sindacato; od almeno a me non è riuscito di intravvedere la definizione.

 

 

Di qui l’opportunità della soluzione più radicale: che cioè il diritto elettorale sia dato direttamente agli operai e agli industriali singoli. E la proposta messa innanzi, in una forma un po’ grezza e certamente emendabile, dall’on. Luzzatti quando era ministro di agricoltura e che fu accolta con glaciale silenzio dall’attuale Consiglio del lavoro e subito mandata agli archivi. Miglior dimostrazione dello spirito nettamente settario, oggidì dominante in quell’alto consesso, non era possibile dare. Le obiezioni invero che ragionevolmente possono muoversi all’elettorato individuale diretto non sono fondamentali. Non vale dire che la formazione del corpo elettorale sia difficile od anche difficilissima; perché è ben più facile definire l’operaio o l’industriale che non il sindacato. Né si può addurre la ragione della spesa per le elezioni generali, quando la spesa sarebbe limitata finché il corpo elettorale rimanesse in gran parte assente e sarebbe giustificatissima quando gli elettori si appassionassero alla lotta. Né è necessario vi sia un collegio unico, a scrutinio di lista, per tutta Italia. Sulla base del prossimo censimento della popolazione e delle industrie, non sarebbe impresa troppo ardua organizzare nelle industrie un collegio nazionale per ogni grande gruppo di mestieri e nell’agricoltura un certo numero di collegi corrispondenti alle maggiori divisioni regionali in zone agricole. Certo, l’organizzazione dovrebbe andar perfezionandosi per sperimenti successivi; ma quale è quell’istituto umano che sia nato perfetto?

 

 

L’obiezione più forte, almeno in apparenza, all’elettorato individuale è quella che la Confederazione italiana dell’industria riassunse dicendo che nelle regioni non organizzate gli elettori rimarranno assenti e l’elettorato individuale rimarrà privo di effetti pratici, mentre nelle regioni fortemente organizzate l’elettorato individuale favorirà i disorganizzati, ossia la «massa inerte che non comprende, che non conosce, che non sente le nuove direttive e i nuovi problemi della vita sociale» a danno degli organizzati, ossia degli «uomini più illuminati, consapevoli dell’importanza e delicatezza dei rapporti sociali da classe a classe e che tendono ad esplicare, a mezzo dei sindacati, un’azione diretta all’incremento e alla difesa degli interessi di classe».

 

 

La critica è illogica. Non si vede come i disorganizzati, i quali se ne staranno assenti, a confessione della Confederazione dell’industria, nelle regioni, ad esempio, del mezzogiorno, diverranno d’un tratto elettori solertissimi nelle regioni dove l’organizzazione è progredita. Si tranquillizzino gli attuali dirigenti dei sindacati operai e padronali! Difendendo l’elettorato individuale non mi sono illuso che esso debba servire a fare effettivamente votare i disorganizzati, i crumiri ed a dare la vittoria a qualcosa d’altro dai sindacati. Purtroppo i ribelli alle organizzazioni, gli individui insofferenti dei freni corporativi, questi veri pionieri del progresso non andranno a votare e non avranno mai rappresentanti in seno a nessun consiglio del lavoro in nessun paese del mondo. Difendendo l’elettorato individuale, intendo soltanto trovare una soluzione automatica, liberale al problema dell’unità o varietà sindacale, delle rappresentanze generiche o specifiche, ecc. ecc. Sarebbero eletti i rappresentanti di quelle organizzazioni che di fatto si fossero dimostrate più attive, più energiche, meglio atte ad accaparrare i voti degli interessati. Io non sono di quelli i quali ritengono che, col metodo ora proposto, i delegati sarebbero l’emanazione genuina e diretta di tutti gli operai e di tutti gli industriali, anche non organizzati. Lungi da me siffatta utopia. Gli eletti nelle elezioni politiche od amministrative o professionali non sono mai gli eletti della generalità, sibbene della minoranza meglio organizzata. In fondo l’elezione non sarebbe fatta dagli elettori, sibbene dalle organizzazioni, ossia dai comitati direttivi dei sindacati operai e padronali. Il sistema dell’elezione apparentemente individuale presenterebbe però questo grandissimo vantaggio sul sistema dell’elezione attribuita ai sindacati: che non sarebbero fissati per regolamento i nomi dei comitati direttivi organizzatori delle elezioni. Se si fanno eleggere i consiglieri del lavoro dai sindacati operai o padronali noi: 1) costringiamo lo stato a scegliere i sindacati investiti del diritto di scelta; 2) cristallizziamo questi sindacati, almeno per un certo tempo e diamo un posto preminente ai dirigenti gli attuali comitati sindacali. È una vera oligarchia che si forma, difficilissima a spossessarsi e gelosa di tutte le nuove forze sociali sorte all’infuori della sua egida.

 

 

Se invece l’elezione è attribuita agli elettori singoli, operai ed industriali, sebbene l’elezione sia sempre fatta in realtà dai comitati sindacali, questi però non costituiscono un ruolo fisso, oligarchico. Vinceranno i comitati più abili nell’accaparrarsi gli elettori. Nell’industria tessile vinceranno, ad esempio, i sindacati operai cattolici e le associazioni industriali milanesi; nell’industria metallurgica la vittoria spetterà ai sindacati operai socialisti ed alle associazioni industriali nazionali. Domani le proporzioni muteranno e la vittoria sarà di nuovi gruppi, quelli più numerosi e fattivi. Potrà persino darsi, nel caso che in qualche regione od industria arretrata dove il proletariato sia poco cosciente, riesca persino ad essere nominato delegato uno di quegli esseri antidiluviani che hanno nome di liberali. Elezione individuale vuol dire vittoria di quei sindacati rossi, gialli, cattolici, liberali, nazionali o regionali che riescano ad accaparrarsi di fatto, volta per volta, or gli uni or gli altri, i voti degli elettori. Ogni altra soluzione sembra attissima soltanto a consacrare la tirannia di alcune oligarchie di devoti al principio della unità sindacale.



[1] Con il titolo La Riforma del Consiglio superiore del Lavoro [ndr].

Il catenaccio sugli spiriti

Il catenaccio sugli spiriti

«Corriere della Sera », 27 settembre[1] e 12 ottobre[2] 1910

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 121-130

 

 

 

 

I

 

Il provvedimento tributario, a cui il decreto del 21 settembre ha dato effetto immediato, si compone di due parti o meglio di un corpo e della sua ombra. Il corpo è il testo del breve decreto e l’ombra è la relazione che lo accompagna. Il primo mi pare vigoroso e forte; mentre l’oscurità che accompagna la sua ombra mi fa rimanere dubbioso.

 

 

Perché a me piaccia il catenaccio Luzzatti sugli alcools è presto detto. L’aumento di 70 lire all’ettolitro della tassa di fabbricazione sugli alcools non è invero una di quelle escogitazioni dottrinali del dilettantismo finanziario, che almanacca tasse per torturare i contribuenti con poco profitto delle finanze. Grazie alla forma del catenaccio che vi dà esecuzione immediata, fin dal 22 settembre, gli agenti della finanza hanno potuto cominciare a liquidare la tassa sulla base della nuova tariffa di 270 anziché di quella di 200 lire: son milioni che cominciano ad entrar subito nelle casse dell’erario pubblico, riducendo al minimo possibile i lucri dell’industria intermediaria tra contribuenti e stato.

 

 

Il decreto (parlo sempre, beninteso, dei quattro articoli del testo, e non della sua ombra) non accresce, ed è il suo secondo pregio, i malanni insiti nella nostra legislazione fiscale sugli spiriti, malanni i quali derivano tutti, come ho già ripetutamente dimostrato l’anno scorso all’epoca della discussione dell’ultima legge Giolitti del regime sugli abbuoni, dall’avere voluto convertire uno strumento fiscale in un arnese di protezione – inutile, del resto – all’industria vinicola. In verità, sarebbe stato desiderabile che si fossero potuti diminuire i difetti del regime degli alcools; ma non sarebbe equo affacciar siffatta pretesa dinanzi ad un semplice decreto del potere esecutivo. Rallegriamoci, anzi, che in questa occasione il potere esecutivo non abbia peggiorata la situazione, lasciando al parlamento l’onore o la colpa di diminuire od aumentare quegli abbuoni che deturpano la nostra legislazione fiscale sugli spiriti.

 

 

Altro pregio, anch’esso negativo del decreto catenaccio (i legislatori ed i governi sono quasi sempre da lodarsi più per ciò che non fanno che per quel che fanno!) è di essere una promessa tacita, ma sicura, che il governo ha respinto, per ottenere maggiori proventi fiscali, il metodo del monopolio o regia, attenendosi al vecchio, semplice e sicuro metodo di aumentare semplicemente la tassa di fabbricazione. L’on. Luzzatti è dotato di troppo fine intuito politico per non avere subito compreso che l’istituzione di un nuovo monopolio avrebbe incontrato un’insormontabile repugnanza nell’opinione pubblica, che è oggi scandolezzata per i risultati delle diverse imprese ferroviarie, telefoniche, marittime che lo stato italiano, con leggerezza ed incoscienza grandissime, si è accollato negli ultimi anni. Sembra anzi che la gran moda – anche in queste gravi questioni la moda impera sovrana – delle statizzazioni e delle municipalizzazioni stia passando; alla febbre di alcuni anni fa è sottentrato anche presso i partiti estremi, in Italia ed altrove, un più calmo ragionare, il quale fa persuasi che lo statizzare in genere è una pazzia pericolosa e solo in rare circostanze può essere opportuno. La statizzazione dell’industria degli alcools sarebbe stata in special modo pazzesca in Italia, dove tanti sono gli appetiti che son nati e si moltiplicano attorno allo stato. In Svizzera è nata la patata di stato, un’invenzione allegra degli agricoltori elettori di quel paese i quali hanno trovato il modo di farsi pagar le patate necessarie alla fabbricazione dell’alcool governativo ad un prezzo due o tre volte superiore al prezzo corrente delle patate comuni. In Italia avremmo avuto le vinacce di stato, le melasse di barbabietole governative, il vino e vinello acido, col gusto di spunto o di vecchio assurti agli onori di agenti elettorali; con quali disastrosi effetti per la finanza pubblica e per la moralità politica è agevole immaginare. Gli italiani non potranno mai essere abbastanza grati al governo di aver saputo resistere alle lusinghe incitatrici della novella statizzazione, che i soli scimmiottatori dell’alcool svizzero e della vodka russa di stato propugnavano; e di essersi attenuti all’antico e già sperimentato metodo dell’aumento della tassa.

 

 

L’aumento della tassa è, infine, l’ultimo e più segnalato pregio del decreto catenaccio. Gli inasprimenti di tassa vanno di solito giudicati sotto due rispetti: in se stessi, a norma del metodo tecnico seguito nell’aumentare il balzello; e in relazione al fine a cui l’accresciuto gettito del balzello deve servire. Qui, per fortuna, posso fare astrazione dal secondo criterio di giudizio; dico per fortuna perché il discorso «delle spese indeclinabili, fatte anche più urgenti da nuove sciagure», le quali rendono necessario, com’è detto nella relazione, ricorrere a nuove entrate, è un discorso che sembrerà calzante a moltissimi, ma è, a mio giudizio, solo una dimostrazione della scarsa o nessuna capacità dei governi parlamentari a resistere alla marea montante delle spese raramente necessarie, spesso inutili e talvolta dannose che con mille pretesti si vanno accollando allo stato moderno. Ma, ripeto, posso fare a meno, in questa occasione, di preoccuparmi se siano necessarie o inutili, benefiche o perniciose le nuove spese a cui si vogliono, coll’aumento da 200 a 270 lire della tassa sugli alcools, apprestare i mezzi, perché l’aumento è plausibile per se stesso. È uno dei pochi casi in cui il finanziere può permettersi il lusso di fare l’arte per l’arte, di mettere una tassa solo per il gusto di metterla, anche senza conoscere l’uso (e quale più ragionevole di quello di diminuire qualche altro balzello?) a cui il suo gettito dovrà servire. Entro i limiti imposti dalla esistenza del contrabbando, la tassa sull’alcool è tanto migliore quanto più è elevata: ecco il principio, non certo di facile attuazione a causa di quel benedetto contrabbando, che dovrebbe imperare in materia di legislazione sugli spiriti. Se è vero che le imposte devono tassare il superfluo, quale ricchezza più superflua di quella di cui il contribuente stesso proclama la inutilità nei suoi riguardi personali buttandola dalla finestra per comprare bevande alcooliche? Se è vero che i tributi debbono astenersi dal togliere ai contribuenti le ricchezze di cui il contribuente farebbe un miglior uso di quello che sia per fare lo stato, quale imposta più opportuna di questa che toglie ai contribuenti la ricchezza solo nel punto in cui, per chiara prova è dimostrato che il possessore si accinge a farne un malo uso?

 

 

Anche ammesso che lo stato italiano sia per dedicare a spese in gran parte milioni derivanti dall’inasprimento odierno di tasse, non potrà però mai lo stato destinarlo a fini così inutili e perniciosi come è il consumo di bevande alcooliche. Accenno appena, come quello che è notorio, al vantaggio, riconosciuto dal Lloyd George nella sua ultima esposizione finanziaria, di far diminuire il consumo delle bevande alcooliche e di promuovere, in maniera efficace, forse la solo praticamente efficace, il diffondersi della temperanza. Quest’ultimo pregio fa nascere la domanda: sarà davvero fecondo di risultati finanziari l’aumento della tassa? O l’aumento di prezzo non farà diminuire il consumo per modo da togliere ogni speranza di maggiori proventi per l’erario? Noi in Italia abbiamo, a questo proposito un precedente, che parrebbe ammonitore, quando nel 1888 la tassa – che era già stata aumentata dalle 20 lire del 1870, alle 30 del 1873, alle 60 del 1880, alle 100 del 1883, alle 150 del 1885, alle 180 del 1886 fu portata, compresa la tassa di vendita, a 240 lire per ettolitro. A questo punto, il provento diminuì fortemente. Era stato di 31,8 milioni di lire nel 1886-87, fu solo di 26,3 milioni nel 1887-88, e precipitò a 19,1 nel 1888-89 ed a 18,4 nel 1889-90: talché il governo, allarmato, dovette correre ai ripari diminuendo la tassa nel 1889 a 140 lire, che divennero nel 1894 di nuovo 180, nel 1900 passarono a 190 e nel 1905 alle attuali 200 lire. Fu soltanto dopo la diminuzione della tariffa che il provento fiscale poté ritornare a quei 35 milioni che sono all’incirca il reddito medio attuale dell’imposta sugli spiriti. Sarebbe spiacevole che all’aumento odierno seguisse nuovamente il risultato antico di una diminuzione di proventi; perché, siccome una vera e propria diminuzione di consumo non parrebbe credibile, si dovrebbe concludere ad una rifioritura del contrabbando, con nocumento della salute pubblica e danno dell’erario.

 

 

Vi sono tuttavia parecchie ragioni che fanno ritenere improbabile il ripetersi dell’esperienza antica di una diminuzione di gettito conseguente all’aumento delle tasse. Innanzi tutto la tassa sarà adesso in apparenza di 270 lire; in realtà, tenuto conto degli abbuoni, di assai meno, forse di un 200 lire per ettolitro; mentre nel 1880 le 240 lire erano quasi intieramente effettive. Il contrabbando non avrà quindi tutto quello stimolo che potrebbe risultare dalla enunciazione numerica della tariffa, e l’erario potrà sperare di arricchirsi di quasi tutto l’aumento di tassa. Si aggiunga che, dal 1888 ad oggi, l’opera della finanza è divenuta più oculata; e più perfetti sono i mezzi tecnici (contatori, ecc.) per l’accertamento della quantità di alcool prodotta dai distillatori. Né dobbiamo dimenticare infine che la ricchezza media italiana, da un quarto di secolo a questa parte, è cresciuta parecchio; ed è aumentata perciò la capacità di consumo delle masse. Una tassa di 270 lire è oggi meno gravosa di una tassa di 240 lire venti o venticinque anni or sono; cosicché si potrebbe affermare che il passaggio da 240 a 270 lire non fa che seguire la tendenza segnata dai recenti aumenti mondiali di guadagni e di prezzi.

 

 

Poche parole sull’ombra della relazione annessa al decreto: tanto più che sull’argomento si dovrà ritornare quando i propositi oggi vagamente adombrati si concreteranno in un esplicito disegno di legge. Il succo della relazione-ombra sta tutto in questo periodo: «La preservazione dell’interesse finanziario renderà più tranquillo l’esame dei provvedimenti economici, che il governo intende presentare alla camera insieme alla convalidazione di questo decreto. Essi mireranno segnatamente a diminuire i rabbuoni mercé l’aumento del dazio di confine, a facilitare con particolari misure la esportazione dell’alcool, e ad agevolare sempre più l’uso industriale dell’alcool nelle sue molteplici applicazioni». Parole di colore oscuro che, se da un lato aprono l’animo alla speranza quando anticipano una riduzione degli abbuoni, dall’altro fanno intravedere una serie interminabile di compromessi, esiziali per le finanze e per la viticultura e suscitatori di innumeri imprese artificiose, quando si accenna all’aumento della già forte protezione doganale e alle agevolezze all’esportazione degli spiriti. E tutta la vecchia, assurda, complicata macchina degli abbuoni, dei dazi, dei premi di esportazione che queste parole ci fanno sorgere innanzi come un’ombra nefasta, insieme al timore che la si voglia ancora più complicare e crescere. Ma forse l’on. Luzzatti ha scritto queste parole per calmare le attese impazienti di tutti quelli che da un rimaneggiamento delle tasse sugli spiriti sperano sempre un vantaggio personale. Frattanto il decreto catenaccio sarà subito applicato, e delle altre riforme si parlerà con comodo e forse solo in via accademica. Il che, dopo tutto, non sarebbe la peggiore delle soluzioni.

 

 

II

 

Siamo alle solite. La pubblicazione di ogni nuovo provvedimento (sia legge o decreto catenaccio) sugli spiriti provoca un coro di proteste da parte degli industriali colpiti. Le proteste – è bene notarlo subito – non si riferiscono all’aumento della imposta; poiché l’aumento è di pieno diritto per lo stato, né alcuno può pretendere che lo stato vincoli né per breve né per lungo tempo la sua potestà tributaria con pattuizioni private. Le proteste traggono invece motivo da una violazione che lo stato avrebbe perpetrato di diritti acquisiti per gli industriali. La stessa accusa veniva fatta al disegno di legge che diventò la legge del 1910; ed è spiacevole possa essere ripetuta tanto sovente, come quella che fa dubitare della «buona fede» dello stato, contraente e legislatore.

 

 

Ecco cosa mi scrive un grande industriale a proposito dell’ultimo decreto catenaccio sugli spiriti:

 

 

«L’articolo, quello che assoggetta all’aumento di tassa anche gli spiriti esistenti nei magazzini vincolati, costituisce una innovazione – vorrei dire illiberale – nella legislazione italiana, perché per la prima volta in materia di alcool (e credo anche in materia di tasse di fabbricazione) si vengono a colpire gli spiriti prodotti e sui quali già venne all’atto della fabbricazione liquidata materialmente la tassa, che non rappresenta quindi altro che un rapporto di conto corrente – ripeto – liquido, tra l’industriale e la finanza. E tutto ciò porta una nuova sperequazione fra l’alcool esistente nei magazzini vincolati dalla finanza, e colpito perciò dall’aumento, e l’alcool che qualche… previdente industriale rese libero di tassa pagandola nelle aliquote fissate dal vecchio regime, entro il 24 settembre.

 

 

Comprendo benissimo come tutte le questioni relative alle tasse debbano essere esaminate dal duplice punto di vista teorico e pratico ma non si possono tuttavia non rilevare senza amarezza le continue (le denominerò benevolmente così) leggerezze con cui si affrontano i problemi fiscali rendendo sempre più vana quella vantata eguaglianza dei cittadini di fronte alle leggi, che ormai rimane un semplice aforisma scritto solamente sulle pareti delle aule giudiziarie.

 

 

E a proposito di leggerezza le citerò un altro caso tipico relativo al catenaccio.

 

 

L’articolo 10 della legge stabilisce uno speciale trattamento di favore per l’industria dell’aceto, trattamento che sono certo non voleva essere aggravato col recente aumento di tassa. Orbene mentre si è provveduto col secondo comma dell’articolo 2 del decreto 21 settembre a mantenere inalterati i benefici relativi alle esportazioni tanto in natura quanto in miscela per i vini tipici, ecc., si è semplicemente dimenticato l’inciso relativo alle fabbriche di aceto… Semplice dimenticanza, è vero, ma tale da mettere in… liquidazione molte aziende già duramente colpite da due anni di crisi vinicola.

 

 

Una terza e più grave questione si riconnette al recente decreto catenaccio.

 

 

Ella ricorda che per disposizioni dell’articolo 43 comma 2 della legge, agli sventurati industriali, che per l’incoraggiamento stesso del governo avevano tentato la speculazione dell’immagazzinamento dell’alcool di vino agli effetti delle agevolazioni stabilite per la preparazione del cognac, fu imposto con la legge 11 luglio 1909 di seguire una di queste due vie:

 

 

1)    o la trasformazione dei magazzini riducendoli nelle condizioni volute dal nuovo articolo della legge;

 

 

2)    o il mantenimento delle condizioni dei loro magazzini coll’obbligo però della estrazione dell’alcool in ragione di un ottavo all’anno, previo pagamento di una tassa scalare fissata sulle basi di lire 150 da minorarsi per ciascun ottavo per ogni anno di giacenza.

 

 

Veniva per tal modo a stabilirsi un vero e proprio contratto fra l’erario e l’industriale, il quale naturalmente misurava la propria convenienza a seguire l’una o l’altra delle vie, esclusivamente sull’importo della tassa che avrebbe dovuto pagare qualora avesse accettato l’estrazione ad ottavi.

 

 

Ed infatti la maggior parte dei detentori di magazzini che scelse coll’1 luglio la seconda forma, si trova quindi oggi con la grande sorpresa…. di vedersi aumentare di 70 lire quella tassa che era servita di base alla determinazione della propria convenienza, mentre rimangono estranei al nuovo rincrudimento fiscale quegli altri industriali, i quali, essendosi decisi alla trasformazione dei magazzini, potranno ancora estrarre nei dieci anni completamente esente l’alcool da loro immagazzinato.

 

 

Tutto ciò risponde ancora ai criteri di giustizia tanto vantati dalla nostra autorità fiscale? o meglio, tutto ciò è semplicemente onesto?.

 

 

Che simili accuse di disonestà e di mancata fede alle convenzioni conchiuse, alle liquidazioni già intervenute possano essere elevate contro lo stato, è grave. Mi sia lecito però ricordare l’osservazione già fatta l’anno scorso durante l’analogo dibattito provocato dalla riduzione dei vantaggi concessi ai fabbricanti di cognacs o pseudo cognacs. Che cioè altro è una convenzione di diritto privato, fra privato e privato, o anche fra privato e stato ed altro è una convenzione o meglio un provvedimento di diritto pubblico, sulla fede del quale i privati abbiano ritenuto di poter vantare non solo legittime aspettative, ma veri e propri diritti acquisiti. Se tra due privati, o anche tra privato e stato è intervenuta una convenzione, questa deve essere osservata. Chi la violi, non solo incorre nella taccia di disonestà, ma può essere costretto dai tribunali all’osservanza del contratto ed al risarcimento dei danni. A lume di buon senso, e ragionando a fil di logica e di equità, lo stesso dovrebbe accadere quando lo stato solennemente con una legge ha promesso qualcosa od ha stabilite le condizioni in base alle quali i privati possono esercitare la loro attività. Se non ci fosse una certa probabilità che le leggi dello stato saranno di fatto osservate, nessuno più si azzarderebbe ad impiantare industrie, ad esercitare commerci od a fare quella qualunque cosa la cui sorte dipenda dalla osservanza delle leggi.

 

 

Ciò in tesi generale. Possono esservi però delle circostanze in cui, per motivi pubblici, come sarebbe il bisogno di rifornire le casse dell’erario, lo stato creda opportuno di mutare gli ordinamenti esistenti e in ispecie quelli tributari. In siffatte circostanze fin dove si deve spingere l’osservanza ai diritti acquisiti in base alle leggi precedenti? Sembra a me che un criterio adatto sia questo: cercare di non arrecare ai contribuenti colpiti nessun danno maggiore di quello che sia il dover pagare l’aumento di tributo. Non può negarsi il diritto dello stato di aumentare l’imposta, ossia di mettere un’imposta aggiuntiva nuova anche sulle merci o derrate su cui si è già liquidata l’imposta vecchia, perché negar ciò equivarrebbe a negare il diritto dello stato di aggiungere un nuovo decimo su quei fabbricati o terreni, ad esempio, per cui fosse già stato compilato il ruolo per l’imposta vecchia.

 

 

È vero, ad esempio, come dice l’autore della lettera sovra citata, che sull’alcool esistente nei magazzini vincolati la tassa era già stata liquidata. Ma qual danno, all’infuori del dover pagare le 70 lire in più, subiscono essi in conseguenza del dover pagare l’aumento di tassa? Sarà spiacevole vedere che il concorrente, il quale ha avuto l’accortezza di svincolare un giorno prima l’alcool, non ha pagato il sovrappiù d’imposta; ma non è questo un danno, bensì è tutt’al più un minor guadagno straordinario; perché si può essere sicuri che il fortunato concorrente venderà il suo alcool a 70 lire in più precisamente come se avesse pagato l’imposta. Né il dover pagare le 70 lire d’aumento si può qualificare un danno per gli industriali, poiché quelle 70 lire verranno trasferite sui consumatori. Lo stesso ragionamento si può ripetere per i possessori di cognacs in magazzino. È vero che coloro i quali si decisero alla trasformazione e possono ritirare entro i dieci anni completamente esenti i loro cognacs fanno un guadagno straordinario di 70 lire; ma ciò non vuol dire che gli altri, i cosidetti ottavini, che estraggono l’alcool ad ottavi in otto anni, subiscano una perdita. Essi non hanno quel guadagno straordinario di cui fruiscono gli altri; ma non sembra che a questo extra guadagno potessero vantare un diritto acquisito.

 

 

Assai più incerta si presenta la questione dell’aceto, per cui pare proprio si tratti di una strana dimenticanza, che dovrebbe essere riparata nel disegno di legge, il quale, secondo i propositi del governo, dovrebbe regolare in modo stabile questa complicata materia dell’imposta sugli spiriti. Finché però l’opinione pubblica non si sarà persuasa che l’imposta sugli spiriti deve soltanto ed esclusivamente servire a procacciare un’entrata all’erario e non invece a far vendere i vini acidi o spunti o sovrabbondanti ai viticultori od a far nascere talune più o meno vere o false cooperative, ci sarà poca probabilità di potersi mettere sulla via giusta. Oserà il governo profittare di quest’annata, in cui i viticultori, affaccendati a vendere il loro scarso raccolto a prezzi magnifici, mai più visti da un ventennio in qua, non pensano all’alambicco, per sopprimere tutti gli abbuoni? Sarebbero altri 15 milioni guadagnati all’erario e potrebbero essere, con i 20 del catenaccio, lo strumento di una vera politica di riforme tributarie ben più feconda della politica di largizioni alle innumeri clientele governative.

 



[1] Con il titolo Catenaccio sull’alcool [ndr].

[2] Con il titolo Il catenaccio sugli spiriti viola i diritti acquisiti? [ndr].

L’Italia coltivava troppo grano? Una rivelazione della nuova statistica agraria

L’Italia coltivava troppo grano? Una rivelazione della nuova statistica agraria

«Corriere della sera », 23 luglio 1910

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.IlI, Einaudi, Torino, 1960, pp. 113-120

 

 

 

 

Che di questi giorni si sia pubblicato il primo fascicolo delle notizie periodiche di statistica agraria non parrà a molti, ora che la pubblicazione è avvenuta, avvenimento tanto importante da meritare che ad esso si dedichi nulla più di una frettolosa attenzione. Eppure da anni in Italia si deplorava la mancanza di una statistica agraria bene organizzata; si gridava contro lo sconcio di statistiche redatte sulle informazioni erronee, per ignoranza, disattenzione e talvolta malafede, dei sindaci e segretari comunali: e nel tempo stesso, fondandosi su quelle statistiche universalmente note come prive di fondamento, si lentava che l’alma parens frugum fosse ridotta ad una produzione media di frumento di 10/12 ettolitri per ettaro, diventando quindi «tributaria» di straniere e feconde contrade. Avevamo istituito in Italia l’Istituto internazionale di agricoltura, il quale, fra gli altri suoi compiti, ha quello di raccogliere le notizie sui raccolti agricoli del mondo; ed avevamo dovuto constatare con rossore che l’Italia, e cioè il paese che convitava tutti gli altri stati a quest’opera di diffusione della cultura agraria, non conosceva nemmeno quali e quante erano le sue produzioni agrarie.

 

 

Oggi, che finalmente esce alla luce il primo bollettino italiano di statistiche agrarie, degno di stare a paro con quello degli altri paesi civili, noi dobbiamo segnalare il lieto avvenimento. Tanto più lo dobbiamo, in quanto esso non è solo una pubblicazione interessante e seria, ma è tale da superare i bollettini della maggior parte degli altri stati. A leggerlo, ci si accorge che il commissario capo della statistica agraria, prof. Ghino Valenti, non è solo quel valoroso economista che tutti conoscono, ma è altresì un tecnico della economia agricola che ha saputo dare al problema della rilevazione dei dati statistici la soluzione migliore che in Italia si potesse, ed una soluzione che appare ottima anche in confronto ai metodi altrove seguiti. Purtroppo chi ha pratica di statistiche, deve spesso osservare: che i dati raccolti sono talvolta stati scelti col criterio dello statistico o dell’economista che si interessa di problemi generali, che solo di sbieco possono essere illuminati dai dati della vita reale relativi a problemi concreti; e sono stati scelti e raccolti perciò senza quella conoscenza precisa della tecnica delle industrie, dei lavori, delle amministrazioni che solo può mettere in risalto i fatti importanti e caratteristici. Tal altra le statistiche sono compilate da pratici, privi di ogni lume di scienza e non servono né alla pratica né alla teoria, per il malo modo con cui sono imbastite. Né si dimentichi che spesso si pubblicano grosse statistiche tanto per dimostrare l’attività degli uffici incaricati di metterle alla luce.

 

 

Per fortuna, la statistica agraria è stata messa in buone mani. Agenti raccoglitori furono i professori ambulanti di agricoltura, i loro assistenti ed i periti di loro conoscenza sparpagliati in tutte le terre d’Italia; base della rilevazione fu un catasto agrario, compilato nel breve spazio di tre anni, il quale uscirà alla luce nel decorso del 1910 e rivelera’ per la prima volta agli italiani la superficie, la ripartizione delle culture, la produzione media, ecc. ecc. della loro patria. Nell’ufficio centrale i dati furono elaborati, colla maggiore imparzialità scientifica, in guisa da dare frutti che tutti gli intenditori si accorderanno presto nel ritenere veramente segnalati.

 

 

Non trarrò da questo primo fascicolo i dati sulla produzione delle diverse derrate e sulle vicende delle stagioni e dei raccolti nel 1910. Questo compito di divulgazione dei risultati correnti delle statistiche agrarie, compito utilissimo per proprietari, negozianti e lavoratori, spetta alle agenzie telegrafiche, ed un articolo di fondo non può non arrivare in ritardo. Il Valenti calcola la produzione del frumento nel regno diminuita di ben 2.420.000 quintali in confronto al 1909, in cui era stata di 50.338.000 quintali. Le diminuzioni più gravi si ebbero nelle Puglie, discese da quintali 5.149.000 a 3.365.000 negli Abruzzi e Molise, da quintali 3.382.000 a 2.408.000, nelle Marche da quintali 2.797.000 a 2.129.000, nella Basilicata da quintali 1.638.000 a 1.221.000, nella Campania da quintali 3.048.000 a 2.473.000, nell’Emilia da quintali 7.406.000 a 7.172.000. Aumentarono invece il Piemonte di quintali 653.000, la Toscana di quintali 875.000, la Sardegna di quintali 371.000, la Lombardia di quintali 147.000, la Sicilia di quintali 113.000, il Lazio di quintali 86.000, ecc. Si tratta di previsioni che potranno essere modificate quando si avranno, in agosto, i dati dei raccolti effettivi, secondo il piano di lavoro dell’ufficio.

 

 

Ma non è su queste cifre assolute che voglio attirare l’attenzione dei lettori. La statistica agraria deve avere questa virtù: di far conoscere la struttura agricola del paese e di fornire i dati su cui fondare la condotta sì dei privati che degli enti pubblici in rapporto alla agricoltura. Quante leggi cattive si promulgano in Italia per l’ignoranza in cui viviamo sulle vere nostre condizioni e per la prevalenza che, nella cecità universale, acquistano gli stravaganti ed i ciarlatani! In materia di economia agricola, a ragion d’esempio, sono radicatissime in Italia due opinioni: che l’Italia sia un paese a bassa e scarsa produzione cerealicola e che essa sia un paese con molte terre incolte. Le due opinioni hanno dato luogo a molte declamazioni sulla necessità di sottrarre al deserto le terre italiane e di liberare il paese dalla ignominiosa servitù del comprar grano all’estero. La legislazione doganale italiana è stata tutta inspirata da queste due convinzioni; e molte leggi recenti e parecchi disegni di riforma, come il famigerato progetto di colonizzazione interna, hanno per iscopo confessato di partire in guerra contro le terre incolte.

 

 

Il bollettino odierno di statistica agraria viene in buon punto a fornire i primi elementi di controllo su una delle due convinzioni che sopra ho detto essere pacificamente accolte dall’universale. È vero o non è vero che l’Italia sia un paese a bassa e non abbastanza diffusa produzione di frumento? Se non bastassero gli altri motivi, io farei un monumento al Valenti per avermi dato modo di rispondere: essere priva di significato la affermazione che l’Italia sia un paese a bassa produzione frumentaria (per ettaro) ed essere profondamente erronea l’opinione che in Italia si coltivi troppo poco grano, mentre è verità inoppugnabile che la superficie coltivata a frumento è di gran lunga superiore a quella che ragionevolmente dovrebbe essere.

 

 

È vero: la produzione media in Italia del frumento fu di 11,20 quintali per ettaro nel 1909 e si prevede di 10,64 per il 1910. A primo aspetto la tesi di coloro che mettono il nostro tra i paesi ad agricoltura arretrata e di basso rendimento sembra giustificata, anche dalle nuovissime statistiche. Ma si rifletta che quella è una media tra l’Emilia con quintali 16,02 nel 1909 e quintali 15,31 nel 1910, la Lombardia con quintali 14,90 nel 1909 e quintali 15,45 nel 1910, il Veneto con 14,51 e 14,07, il Piemonte con 12,28 e 14,31, le Puglie con 14,38 e 9,40 da un lato e regioni come la Liguria dove nel 1909 si ottennero quintali 8,67 e nel 1910 se ne prevedono quintali 9,91, l’Umbria che ha 8,10 ed 8,3 quintali, il Lazio con 8,18 ed 8,68, la Campania con quintali 9,55 ed 8,29, la Basilicata con quintali 10,24 e 7,62, la Sicilia con 9,04 e 9,21, la Sardegna con 7,58 e 9,22. Non si può pretendere che tutti i climi siano ugualmente adatti alla cultura a frumento; e se vogliamo paragonare le nostre con le celebrate produzioni dell’Inghilterra, della Francia e della Germania dobbiamo paragonare con queste soltanto le produzioni del clima continentale dell’Italia del Nord; mentre le magre produzioni delle riarse terre meridionali vanno paragonate con quelle della Provenza, della Spagna, del litorale africano, della Turchia. Altrimenti il confronto non è equo, perché fatto tra quantità non omogenee. Se noi facciamo i paragoni internazionali seguendo questo evidente criterio discriminativo, usciamo molto meglio dal cimento, di quanto non si usi far credere; poiché produzioni medie oscillanti fra 14 e 16 quintali per ettaro non sono affatto spregevoli.

 

 

V’ha di più. Anche le medie per regione sono errate; e l’errore è messo in luce meridiana dalla nuova statistica agraria. Nella quale si è seguito il concetto – che pare semplice ed è tuttavia nuovo e fecondissimo – di distinguere le produzioni a seconda dell’altimetria. Per ora è pubblicata una sola tabella che distingue la produzione del frumento a seconda che essa è ottenuta nelle tre zone di montagna, di collina e di pianura. In seguito la divisione verrà estesa alle altre culture e verrà perfezionata nei particolari. Già quella prima tabella è una rivelazione. Quelli che spargono ogni altro giorno lacrime sulle condizioni arretrate della cerealicultura italiana faranno bene a meditarla. Io ne ho estratto (con calcoli approssimativi per la mancanza di taluni dati, ma con errori che non possono, sotto questo rispetto, andare oltre all’1,8%) una tabellina sulla produzione media in quintali per ettaro, che pubblico qui sotto:

 

 

Regione di montagna

 

Regione

di collina

 

Regione di pianura

 

 

 

1909

 

1910

 

1909

 

1910

 

1909

 

1910

 Piemonte

 

10,23

12,28

 

11,51

13,27

 

13,11

 

15,49

Liguria 

8,73

10,40

8,40

7,72

Lombardia 

9,50

9,68

12,15

12,56

16,11

16,70

Veneto 

9,70

10,80

12,17

12,59

14,91

14,55

Emilia 

7,72

9,34

12,20

12,32

19,45

18,11

Toscana 

8,31

9,88

9,80

11,74

12,09

19,21

Marche 

8

6,42

11,06

8,23

Umbria 

7,30

7,02

8,56

8,87

Lazio 

5,18

4,57

8,47

9,08

10,83

12,25

Abruzzi e Molise 

9,06

7,90

10,23

5,56

Campania 

9,03

7,83

9,11

8

11,41

10,23

Puglie 

14,25

9,51

14,66

9,18

Basilicata 

8,68

6,55

13,13

9,23

11,14

8,86

Calabrie 

8,06

7,48

11,10

9,38

Sicilia 

8,71

9,77

8,88

8,72

10,34

10,12

Sardegna 

7,01

8,30

7,31

9,13

8,56

9,93

Regno

8,46

8,20

10,38

9,64

14,90

14,59

 

 

È sperabile che nessuno vorrà dire che l’altimetria sia stata inventata dalla ignavia dei cerealicultori italiani. Se si tiene conto di questa circostanza capitalissima, si deve onestamente concludere che gli agricoltori italiani hanno condotto la produzione a limiti che si possono considerare buoni, là dove era possibile progredire, ossia in pianura; ma ogni sforzo fu e resterà vano quando deve combattere contro le avverse forze della natura. Come fa opportunamente rilevare il Valenti, noi non possiamo contrapporre alla produzione del Belgio di 25 quintali, dell’inghilterra di 22 quintali, della Germania di 20 quintali, la produzione di tutta Italia, bensì soltanto quella della gran valle del Po che più si approssima a quei paesi per le condizioni di pianura continentale. Ora nella gran valle del Po noi oltrepassiamo i 16 quintali ad ettaro: e nell’Emilia oscilliamo tra i 18 ed i 20 quintali. Sono produzioni suscettibili di miglioramento; ma niente affatto vergognose. Né si obietti che si tratta di una piaga ristretta, dacché nella valle del Po si coltiva a frumento una estensione di terreni maggiore della superficie coltivata a frumento in complesso nell’Inghilterra, Irlanda e Scozia, dove, a causa del libero scambio, si destinano a tale cultura solo i terreni migliori, mentre da noi si coltivano a frumento anche terre poco adatte, a causa dell’elevata protezione doganale. La superficie coltivata a grano della valle del Po supera pure quella del Belgio e raggiunge poco meno della metà di quella dell’intiera Germania. La sola parte piana dell’Emilia coltivata a frumento rappresenta i tre quinti della superficie complessiva che il Belgio ed il Regno unito destinano al frumento. Se così stanno le cose, a che pro lamentare l’inferiorità irrimediabile dell’Italia, mentre si tratta di differenze spiegabili e sormontabili col progredire lento dei metodi culturali?

 

 

Le Puglie sono una regione caratteristica di pianura e di collina di clima meridionale, che nel 1909 superarono i 14 quintali ed anche quest’anno, malgrado l’annata disastrosa, stettero sui 9 quintali e mezzo. Orbene, l’Ungheria, paese famoso di produzione e grande esportatore di frumento, ha una produzione media che batte sui 12 quintali.

 

 

Nelle colline la produzione non è certo abbondante; ma, sebbene possa aumentare, è superiore alla produzione di paesi a cultura estensiva, che pure contano moltissimo come fornitori di grano: basti il dire che mentre la regione collinare nostra produce circa 10 quintali per ettaro, la Russia ha una media di 7 quintali, la Rumenia di 9,33, e gli Stati uniti di 9,50. Si dirà forse che in montagna produciamo appena 8 quintali per ettaro? Ma quale è il paese dove la gente usa andare a coltivare il frumento sulle pendici delle montagne, dove starebbero assai meglio il pascolo ed il bosco?

 

 

Qui tocchiamo il secondo punto del problema: è l’Italia un paese dove il frumento sia coltivato troppo poco? Ed anche qui la risposta dello studioso afferma che in Italia il frumento si coltiva su una superficie eccessivamente ampia. A rischio di importunare i lettori con troppe cifre, noterò che per chilometro quadrato di superficie la Francia produce netti da sementa 155 quintali di frumento, la Germania 65, l’Austria 47, il Regno unito d’Inghilterra, Irlanda e Scozia 48, l’Ungheria 110, gli Stati uniti 17, la Russia 6 e l’Italia 161. Siamo alla testa dei grandi paesi di produzione in quanto ad intensità territoriale. Se facciamo il calcolo in rapporto alla popolazione, allora per ogni abitante la Germania produce 0,58 quintali netti da sementa, l’Austria 0,54, il Regno unito 0,34, la Russia 0,90. L’Italia con quintali 1,36 per abitante sta indietro solo all’Ungheria con 1,86, agli Stati uniti con 2,03, ed è alla pari della Francia con 1,36. Se si pensa tuttavia che la popolazione di questi paesi è assai più rada, per chilometro quadrato, della nostra, si vede come sia elevata la produzione frumentaria italiana in rapporto alla popolazione.

 

 

La conclusione si impone ed è una sola: in Italia si coltiva troppo frumento. Le produzioni elevate per ettaro che si vogliono raggiungere sono in contraddizione stridente con la estensione eccessiva che in Italia si è data alla coltivazione del frumento. Finché si avrà la pretesa – economicamente assurda – di coltivare il frumento nelle montagne e nelle colline della Liguria, delle Marche, del Lazio, della Sardegna, si otterranno rendimenti bassi che influenzeranno sinistramente la media generale, su cui invano agiscono i buoni rendimenti della pianura e di certe regioni collinari adatte. Il male purtroppo pare vada aggravandosi. La mania di indurre per legge a mettere a cultura le cosidette terre incolte, che nessuno ha mai veduto, farà sì che si convertano terre ora tenute a pascolo in terre a grano. Sarà una perdita netta per la collettività, che coltiverà a costi elevati grano su terre fatalmente destinate a rendimenti bassi. D’altro canto gli alti prezzi odierni del frumento inducono spontaneamente gli agricoltori a diboscare ed a rompere praterie asciutte per sostituirvi la cultura del frumento; cosa deplorevole; ma conseguenza necessaria della politica legislativa nostra. A che vale lamentare il diboscamento quando si mantengono vive le cause che spingono a coltivare frumento in montagna ed in collina?

 

 

 

Le ferrovie ai ferrovieri

Le ferrovie ai ferrovieri

«Corriere della Sera», 20 luglio 1910

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 463-471

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 102-110

 

 

 

 

È una formula che ha trovato largo favore presso una parte dei ferrovieri italiani, che ha fornito, se non la materia, lo spunto a talune domande messe innanzi di questi tempi dalle loro organizzazioni; una formula infine che l’opinione pubblica non sa se debba considerare con diffidenza, con entusiasmo, ovvero semplicemente con curiosità. Diffidano coloro che credono di trovarvi una variante pericolosa dell’esercizio di stato; si entusiasmano gli altri che la reputano profondamente diversa sia dall’esercizio di stato che dall’esercizio privato; e guardano infine con sorridente curiosità quelli che vi vedono unicamente uno strumento di competizione dei sindacalisti contro i socialisti riformisti nell’accaparrarsi i lavori dalle masse operaie.

 

 

Io non voglio in un articolo di giornale studiare questa formula “le ferrovie ai ferrovieri” né dal punto di vista del sindacalismo in generale, né da quello della teoria pura economica. Mi limiterò a studiare brevemente quale sia il significato della formula ed a vedere se la sua applicazione si presenti in Italia facile ovvero più o meno ardua. I lettori concluderanno se valga la pena di tentare il nuovo sperimento a cui i ferrovieri ci invitano.

 

 

La spiegazione della formula si può trovare in un interessante libretto che fu pubblicato, con una suggestiva prefazione del Pantaleoni, col titolo Il problema ferroviario italiano – Le ferrovie ai ferrovieri da Nicola Trevisonno (Pescara, Casa Editrice Abruzzese, 1909). Chiedo venia all’A, se, dovendo riprodurre il suo pensiero in poche linee, dovrò essere incompleto. Spero però, adoperando quasi le sue stesse parole, di non fraintenderlo del tutto. Ecco dunque come funzionerebbe il nuovo organismo ferroviario auspicato dai sindacalisti:

 

 

Lo stato dà in affitto collettivo le ferrovie ai ferrovieri. Libertà a questi di organizzare l’azienda con criteri meno burocratici, più liberi, meno dispendiosi. Obbligo ad essi di versare allo stato una corrisposta di affitto e di assicurare il regolare funzionamento dell’esercizio. I ferrovieri, percependo un minimum di salario, ma avendo diritto alla ripartizione dell’avanzo risultante dall’esercizio dopo aver provveduto ai bisogni dell’azienda, sarebbero direttamente interessati al funzionamento regolare delle reti. Chi di essi non comprenderà che, lavorando di più e meglio, col migliore funzionamento dell’azienda aumenterebbero i proventi, ed aumentando i proventi aumenterebbe pure il salario? A tutelare gli interessi dei viaggiatori e del commercio non sarebbe permesso ai ferrovieri di regolare le tariffe a loro piacimento; ma queste sarebbero assoggettate all’approvazione dello stato. La concorrenza del mare e delle vie navigabili, l’interesse medesimo ad aumentare il traffico, consiglierebbe i ferrovieri a tenere le tariffe entro limiti moderati. A tutelare gli interessi dello stato proprietario, veglierebbe una commissione di controllo governativo sul modo con cui la gestione sarebbe condotta dal sindacato dei ferrovieri. Ad evitare che si riproducano i vecchi attriti tra lo stato e l’esercente, che funestarono il periodo dal 1885 al 1905, sarà necessario che la corrisposta d’affitto non sia stabilita in una quota percentuale del prodotto lordo, ma in un canone annuo fisso, e invariabile almeno per dieci anni. Dopo quel termine, potrebbe essere aumentato con certi criteri, affidati al giudizio di un collegio arbitrale.

 

 

Fermiamoci a questo punto. La formula “le ferrovie ai ferrovieri” non è dunque se non una nuova edizione del vecchio sistema delle concessioni ad una compagnia esercente. Salvo talune particolarità, non inerenti al sistema, come la fissazione di un canone invariabile, invocata a suo tempo da tutti i più competenti difensori dell’esercizio privato, l’unica, fondamentale e grossissima differenza tra l’esercizio privato in vigore dal 1885 al 1905 e quello preconizzato dai sindacalisti sarebbe questa: che la concessione, invece che alle società Mediterranea, Adriatica e Sicula, sarebbe data ad una o più cooperative di tutti i ferrovieri insieme associati. Dico subito che i ferrovieri, proclamando di essere pronti ad assumere l’impresa dell’esercizio ferroviario e di voler ottenere il miglioramento delle proprie condizioni organizzando in modo più economico il servizio, compiono un atto simpaticamente coraggioso. Se si dovesse badare solo alla teoria pura od al sentimento, quanto non dovrebbe essere considerato più ammirabile il gesto sindacalista di chi dichiara di essere pronto ad assumersi i rischi ed i benefici di una intrapresa, come la ferroviaria, manifestamente malata, in confronto del metodo socialista-riformista il quale vuole strappare, colla pressione elettorale sui pubblici poteri, milioni e milioni alle esauste tasche dei contribuenti! Il ferroviere sindacalista, almeno in teoria pura, è un individualista, un imprenditore capitalista in erba, il quale ha gran fiducia nelle proprie forze e dal proprio lavoro associato vuoi trarre fin d’ora i mezzi di elevamento materiale e morale; il ferroviere riformista rimanda all’anno 2000 l’attuazione dell’ideale collettivista e si contenta di ottenere un aumento di stipendio sul bilancio dello stato. Tra i due, sempre in teoria pura, il tipo progressivo, energico, desideroso di arricchire sé e di non spogliar gli altri è il sindacalista.

 

 

Temo forte però che il suo abbia a rimanere per un pezzo un bel gesto teorico. A rischio di essere trattato dal Trevisonno come un orecchiante di economia, non posso dimenticare che la storia del secolo XIX è seminata di cadaveri di cooperative di produzione. Salvo casi isolati, in cui il successo si può spiegare con circostanze eccezionali, le imprese industriali cooperative hanno incontrato un insuccesso colossale. Furono fondate e prosperano cooperative di consumo e queste alla lor volta condussero, con metodi prettamente capitalistici, aziende subordinate industriali; le banche popolari, le casse rurali si estesero in fitta rete sull’Europa; prosperarono mutue assicuratrici, cooperative di braccianti, ecc., ecc.; ma quante imprese industriali vere e proprie, gerite dal personale di tutte le categorie, si possono noverare che abbiano raggiunto la floridezza? Pochissime e, ripeto, quasi sempre per cause eccezionali di entusiasmo apostolico nei dirigenti, di tenuità dello scopo sociale, di formazione di una aristocrazia dirigente di cooperatori elevatasi al disopra della maestranza di salariati puri e semplici e via dicendo. Ora quale probabilità vi può essere che in Italia, nelle condizioni attuali di educazione economica e morale della grande massa dei ferrovieri, l’azienda ferroviaria – ossia la più grande delle imprese del paese ed una delle più complicate, difficili e rischiose industrie esistenti – abbia ad essere esercitata con successo da una cooperativa di ferrovieri? Basta porre la domanda perché la risposta negativa venga spontaneamente alle labbra.

 

 

Finora non si è inventato ancora un metodo migliore per gerire con successo le intraprese industriali del monarcato assoluto. In ogni azienda, anche nelle più colossali gerite a forma di società anonima, v’è un uomo; e dove non c’è, si vive sul passato e si va verso la morte. Ora in una cooperativa di 140 mila ferrovieri, od anche di 20 o 10 mila, un uomo è impossibile possa durare, sovrano assoluto nell’organizzare l’azienda, e, se per caso lo si trova, l’invidia democratica in pochi mesi lo costringe alla fuga per disperazione. I commenti sguaiati contro gli alti “papaveri” della burocrazia dirigente che intascano lautissimi stipendi dovrebbero ammaestrare. È vero che oggi in apparenza si grida contro i troppi funzionari, i quali costano eccessivamente e poco producono; ma in realtà il grido ha radice nel fatto che molti non sanno persuadersi che in certi casi è pagato moltissimo, troppo, un impiegato d’ordine a 2.000, ed eccessivamente poco il direttore generale a 20.000 o un alto funzionario a 10 o 15 mila. Niente di più avvilente di questa campagna insensata contro gli alti stipendi, quasiché le 10 e le 15 e le 20 mila lire all’anno non fossero di gran lunga inferiori alle somme che dovrebbero essere pagate, in una intrapresa bene amministrata, ai dirigenti. Se la storia della cooperazione di produzione deve servire a qualcosa, dovrebbe ammaestrarci che nulla vi è di più assurdo, in una cooperativa, che il persuadere agli inferiori la necessità di pagare ai dirigenti stipendi molto superiori ai salari da loro percepiti. Come si farà a persuadere ad un macchinista che egli deve contentarsi di 2.000-3.000 lire e che è bene che i capi siano pagati al minimo da 10 a 20 mila lire ?

 

 

La cooperativa dei ferrovieri difetterà di capi o li avrà ancor meno valenti non dico di quelli che può ottenere la industria privata, sempre disposta ad apprezzare i meriti reali degli uomini d’eccezione, ma di quelli medesimi che sono attirati oggi dagli impieghi di stato. Lo stato dà invero ai dirigenti una certa autorità, per quanto limitata da ogni sorta di ingerenze parlamentari; donde trarrebbero la loro autorità i dirigenti della futura cooperativa ferroviaria? Di preciso non si sa, perché non furono ancora resi di pubblica ragione i particolari di questa nebulosa ferroviaria. Si può supporre che, come vuole il regime democratico, la gerarchia si formi per concorso nei gradi iniziali di ogni categoria e per anzianità congiunta a merito nei gradi intermedi. Ma chi nominerà i dirigenti nei gradi massimi? Non pare si veda una via d’uscita fuori del suffragio universale o per categorie o misto dei soci della cooperativa. E come potranno mantenere la disciplina questi dirigenti che dovranno il loro posto al suffragio degli inferiori? Come potranno giudicare gli inferiori – in grandissima parte incompetenti, malgrado la conoscenza pratica di una ristretta porzione del complicatissimo lavoro della gigantesca macchina ferroviaria – dei meriti e della capacità morale e tecnica degli aspiranti ai posti supremi? Nell’industria privata la selezione dei dirigenti si fa per decisione autoritaria dell’imprenditore e dà risultati magnifici: nelle aziende di stato la selezione avviene per concorsi e per anzianità e dà risultati di gran lunga inferiori; nei corpi elettivi, dove gli amministrati eleggono gli amministratori, si può affermare avvengano scelte ancor più cattive. Nella futura cooperativa dei ferrovieri vi sarà gran probabilità che i dirigenti rassomiglino più al tipo del deputato lusingatore di folle che all’altro del tecnico scelto unicamente per la sua abilità specializzata. E sarà una scelta feconda di disastrosi risultati economici.

 

 

Né pare che la speranza di una partecipazione agli utili ottenuti dalla comune intrapresa debba essere uno stimolo bastevole ad aguzzare l’ingegno degli uni e l’energia operosa degli altri. Trascuro il fatto che in Italia parlare di una partecipazione ai profitti dell’azienda ferroviaria è dir cosa senza significato preciso, perché l’azienda non solo non dà profitti al suo proprietario, lo stato, ma costa ad esso parecchie centinaia di milioni di perdita. Suppongo ammesso che le perdite siano sopportate lietamente per scopi di pubblica utilità, per portare la civiltà industriale in tutte le regioni d’Italia, per affratellare gli italiani, educarli, ecc. E suppongo che la cooperativa o il sindacato dei ferrovieri garantisca allo stato un canone fisso, di 40 o 50 o 60 milioni, a parziale risarcimento della perdita che il tesoro sopporta per il servizio dei prestiti contratti per la costruzione delle ferrovie. Tutto il prodotto netto in più che il sindacato ottenesse dall’esercizio andrebbe ripartito tra i ferrovieri a titolo di partecipazione al profitto, allo scopo di spingerli ad ottenere economie di esercizio ed a prestare un lavoro più energico, intelligente ed attento. Siano 10 i milioni che in un dato anno si sono ottenuti di prodotto netto dopo pagato il canone fisso allo stato. Come si distribuiranno tra i ferrovieri? Sarà un tanto per cento uniforme sugli stipendi, o saranno preferiti gli stipendi minimi ai medi e questi ai grossi? In questo caso vi è gran pericolo che si dia di più a coloro che non si sentiranno affatto stimolati a lavorar maggiormente e si dia pochissimo ai dirigenti, dalla cui capacità organizzatrice dipende sovrattutto la buona riuscita dell’intrapresa.

 

 

La partecipazione ai profitti è un ideale che sembra attraente in sul principio; ma che per il passato ha quasi dappertutto funzionato con mediocrissimi risultati. Per le moltitudini dei salariati un cinque o dieci per cento in più sul salario non è stimolo sufficiente a maggiori prestazioni di lavoro. Chi è quel ferroviere che, per avere un 100 lire in più alla fine d’anno, lavorerà più intensamente, se si bada che la riscossione di quelle 100 lire dipenderà dal lavoro più intenso di centinaia di migliaia di suoi colleghi, dal prezzo del carbone, dalla buona utilizzazione del materiale mobile, dalla abbondanza dei raccolti, dai terremoti, che possono ingoiare qualunque beneficio della volenterosa operosità del personale? La speranza di una partecipazione al profitto in una azienda così colossale come la ferroviaria è qualcosa di così vago, lontano, inafferrabile, dipendente da migliaia di fattori contrastanti che nullo ne sarà lo stimolo sulla psicologia del lavoratore medio.

 

 

O invece di una partecipazione a profitti si daranno dei premi, come si fa adesso, commisurati alla diligenza specifica del ferroviere, al risparmio nel consumo del combustibile, ai minuti ricuperati, alle unità di pratiche sbrigate in un numero dato di ore, al risparmio di impiegati od agenti raggiuntosi in un dato ufficio? Sarebbe certo un sistema più razionale e più efficace, come quello che fa dipendere la maggior rimunerazione esclusivamente dalla specifica operosità del singolo agente, stimolando ognuno a lavorar di più per ottenere a vantaggio proprio un salario maggiore. Ho però un gran timore che sia un metodo poco confacente ad un regime democratico come quello che è implicito nella gestione a mezzo di un sindacato di ferrovieri. Già adesso costoro gridano contro le interessenze, contro i cottimi, vogliono i salari misurati in ragione di tempo, sono sospettosissimi degli avanzamenti per merito e per, togliere ogni sospetto di favoritismi mettono sugli altari l’anzianità. Par probabile che, in una gestione cooperativa, l’organico e l’anzianità abbiano a diventare l’idolo delle masse elettrici, la guarentigia contro la possibilità che un agente guadagni più degli altri. I caratteri peggiori dell’attuale esercizio di stato si debbono intensificare in un regime, di cui il centro di gravità stia nei più, ossia nei mediocri.

 

 

Il che accadrà tanto più agevolmente, in quanto gli uomini usano scegliere sempre la linea della minor resistenza, quando vogliono migliorare la propria sorte. Ora nella futura cooperativa dei ferrovieri la linea di minor resistenza non sarà di raddoppiar lo sforzo per ottenere una ipotetica partecipazione ai profitti o una sospettata ed antiegualitaria cointeressenza nei risparmi sul costo di produzione; sarà invece di crescere di grado e di stipendio. Aumento di organici ed aumento di paghe: ecco il vangelo di ogni buon impiegato medio, in aziende private e pubbliche. Contro questa tendenza reagisce nelle aziende private l’interesse del proprietario: mentre nelle pubbliche vi è solo il freno, debolissimo, della reazione dei contribuenti. Quali freni agirebbero nella cooperativa dei ferrovieri? Non il pericolo che diminuisca la partecipazione al profitto di fin d’anno, perché già vedemmo essere la speranza di ottenerla impotente a produrre il bene; non il timore che aumentino i costi e quindi diminuiscano le cointeressenze, perché l’uomo medio preferisce un aumento di stipendio sicuro ad una cointeressenza variabile. Servirà di freno la paura che la azienda, per il cresciuto costo, si chiuda con un deficit? Il malanno si ridurrà a non pagare il promesso canone fisso al tesoro. I ferrovieri sono 140 mila, e saranno mirabilmente organizzati; nella loro cooperativa. Qual mai ministro del tesoro oserà muovere troppo aspre querimonie se i milioni del canone invece di 50 saranno 40 o magari 20 o forse sfumeranno del tutto? A tutto ci si adatta in Italia e la scienza della contabilità a poco gioverebbe se non servisse a fare figurare come eseguito quel versamento di 50 milioni che la cooperativa non si sarà sognato di fare. Per evitare uno sciopero ferroviario, un ostruzionismo sapientemente favorito dai dirigenti, molte interpellanze della estrema sinistra, si saprà bene ritoccare le quote di ammortamento, caricare sul conto capitale, ossia sui debiti, alcune spese spettanti all’esercizio, pretestare eccezionali rialzi nel prezzo del carbone. Il governo avrà assicurata la pubblica tranquillità; i ferrovieri, moltiplicati di numero, consolideranno i nuovi stipendi per muovere in seguito a maggiori conquiste; chi pagherà lo scotto saranno i nostri nipoti, a cui affettuosamente lasceremo in legato un onere cresciuto di interessi sul debito ferroviario. E potrà anche darsi che gli stessi ferrovieri, critici arcigni, e non a torto, dei metodi di contabilità usati dalla direzione generale e delle proposte Bertolini di aumento di tariffe, si coalizzino col governo per adottare, peggiorandoli, quei medesimi sistemi contabili e per riversare, con aumenti di tariffe, spinte fino al massimo consentito dalla concorrenza di altri mezzi di trasporto, l’onere del maggior costo sui contributi.

 

 

Perciò io non sono neppure favorevole ad un esperimento in piccolo, come taluno vorrebbe, della formula “la ferrovia ai ferrovieri”. L’Italia, e in particolar modo la Sicilia – che sarebbe la regione designata per quello sperimento – è oramai diventata una specie di terra promessa degli sperimentatori sociali. Non c’è idea stravagante, enunciata od applicata all’estero con insuccesso più o meno grande, che non trovi in Italia chi la voglia sperimentare. A tacer d’altro, in Sicilia abbiamo iniziato da anni un curiosissimo sperimento di trust o sindacato obbligatorio semi – governativo per la produzione e la vendita dello zolfo, che è unico al mondo. Non paghi di ciò, abbiamo cominciato laggiù un altro esperimento di sindacato, pure coattivo, per la vendita dei derivati degli agrumi, che, se avesse avuto origine nella Nuova Zelanda o nell’Australia o in qualcun altro dei paesi cosidetti progrediti, i nostri riformatori sociali l’avrebbero già proclamato come l’alba foriera, il germe meraviglioso di una novella età sociale. Fermiamoci, per carità, su questa china; e prima di tentare nuovi sperimenti, che tutto fa presupporre pericolosissimi, procuriamo almeno di digerire alla meglio gli sperimenti passati, che già si annunciano oltremodo costosi.

Le ferrovie ai ferrovieri

Le ferrovie ai ferrovieri

«Corriere della Sera», 20 luglio 1910

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 463-471

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 102-110

 

 

 

 

È una formula che ha trovato largo favore presso una parte dei ferrovieri italiani, che ha fornito, se non la materia, lo spunto a talune domande messe innanzi di questi tempi dalle loro organizzazioni; una formula infine che l’opinione pubblica non sa se debba considerare con diffidenza, con entusiasmo, ovvero semplicemente con curiosità. Diffidano coloro che credono di trovarvi una variante pericolosa dell’esercizio di stato; si entusiasmano gli altri che la reputano profondamente diversa sia dall’esercizio di stato che dall’esercizio privato; e guardano infine con sorridente curiosità quelli che vi vedono unicamente uno strumento di competizione dei sindacalisti contro i socialisti riformisti nell’accaparrarsi i lavori dalle masse operaie.

 

 

Io non voglio in un articolo di giornale studiare questa formula “le ferrovie ai ferrovieri” né dal punto di vista del sindacalismo in generale, né da quello della teoria pura economica. Mi limiterò a studiare brevemente quale sia il significato della formula ed a vedere se la sua applicazione si presenti in Italia facile ovvero più o meno ardua. I lettori concluderanno se valga la pena di tentare il nuovo sperimento a cui i ferrovieri ci invitano.

 

 

La spiegazione della formula si può trovare in un interessante libretto che fu pubblicato, con una suggestiva prefazione del Pantaleoni, col titolo Il problema ferroviario italiano – Le ferrovie ai ferrovieri da Nicola Trevisonno (Pescara, Casa Editrice Abruzzese, 1909). Chiedo venia all’A, se, dovendo riprodurre il suo pensiero in poche linee, dovrò essere incompleto. Spero però, adoperando quasi le sue stesse parole, di non fraintenderlo del tutto. Ecco dunque come funzionerebbe il nuovo organismo ferroviario auspicato dai sindacalisti:

 

 

Lo stato dà in affitto collettivo le ferrovie ai ferrovieri. Libertà a questi di organizzare l’azienda con criteri meno burocratici, più liberi, meno dispendiosi. Obbligo ad essi di versare allo stato una corrisposta di affitto e di assicurare il regolare funzionamento dell’esercizio. I ferrovieri, percependo un minimum di salario, ma avendo diritto alla ripartizione dell’avanzo risultante dall’esercizio dopo aver provveduto ai bisogni dell’azienda, sarebbero direttamente interessati al funzionamento regolare delle reti. Chi di essi non comprenderà che, lavorando di più e meglio, col migliore funzionamento dell’azienda aumenterebbero i proventi, ed aumentando i proventi aumenterebbe pure il salario? A tutelare gli interessi dei viaggiatori e del commercio non sarebbe permesso ai ferrovieri di regolare le tariffe a loro piacimento; ma queste sarebbero assoggettate all’approvazione dello stato. La concorrenza del mare e delle vie navigabili, l’interesse medesimo ad aumentare il traffico, consiglierebbe i ferrovieri a tenere le tariffe entro limiti moderati. A tutelare gli interessi dello stato proprietario, veglierebbe una commissione di controllo governativo sul modo con cui la gestione sarebbe condotta dal sindacato dei ferrovieri. Ad evitare che si riproducano i vecchi attriti tra lo stato e l’esercente, che funestarono il periodo dal 1885 al 1905, sarà necessario che la corrisposta d’affitto non sia stabilita in una quota percentuale del prodotto lordo, ma in un canone annuo fisso, e invariabile almeno per dieci anni. Dopo quel termine, potrebbe essere aumentato con certi criteri, affidati al giudizio di un collegio arbitrale.

 

 

Fermiamoci a questo punto. La formula “le ferrovie ai ferrovieri” non è dunque se non una nuova edizione del vecchio sistema delle concessioni ad una compagnia esercente. Salvo talune particolarità, non inerenti al sistema, come la fissazione di un canone invariabile, invocata a suo tempo da tutti i più competenti difensori dell’esercizio privato, l’unica, fondamentale e grossissima differenza tra l’esercizio privato in vigore dal 1885 al 1905 e quello preconizzato dai sindacalisti sarebbe questa: che la concessione, invece che alle società Mediterranea, Adriatica e Sicula, sarebbe data ad una o più cooperative di tutti i ferrovieri insieme associati. Dico subito che i ferrovieri, proclamando di essere pronti ad assumere l’impresa dell’esercizio ferroviario e di voler ottenere il miglioramento delle proprie condizioni organizzando in modo più economico il servizio, compiono un atto simpaticamente coraggioso. Se si dovesse badare solo alla teoria pura od al sentimento, quanto non dovrebbe essere considerato più ammirabile il gesto sindacalista di chi dichiara di essere pronto ad assumersi i rischi ed i benefici di una intrapresa, come la ferroviaria, manifestamente malata, in confronto del metodo socialista-riformista il quale vuole strappare, colla pressione elettorale sui pubblici poteri, milioni e milioni alle esauste tasche dei contribuenti! Il ferroviere sindacalista, almeno in teoria pura, è un individualista, un imprenditore capitalista in erba, il quale ha gran fiducia nelle proprie forze e dal proprio lavoro associato vuoi trarre fin d’ora i mezzi di elevamento materiale e morale; il ferroviere riformista rimanda all’anno 2000 l’attuazione dell’ideale collettivista e si contenta di ottenere un aumento di stipendio sul bilancio dello stato. Tra i due, sempre in teoria pura, il tipo progressivo, energico, desideroso di arricchire sé e di non spogliar gli altri è il sindacalista.

 

 

Temo forte però che il suo abbia a rimanere per un pezzo un bel gesto teorico. A rischio di essere trattato dal Trevisonno come un orecchiante di economia, non posso dimenticare che la storia del secolo XIX è seminata di cadaveri di cooperative di produzione. Salvo casi isolati, in cui il successo si può spiegare con circostanze eccezionali, le imprese industriali cooperative hanno incontrato un insuccesso colossale. Furono fondate e prosperano cooperative di consumo e queste alla lor volta condussero, con metodi prettamente capitalistici, aziende subordinate industriali; le banche popolari, le casse rurali si estesero in fitta rete sull’Europa; prosperarono mutue assicuratrici, cooperative di braccianti, ecc., ecc.; ma quante imprese industriali vere e proprie, gerite dal personale di tutte le categorie, si possono noverare che abbiano raggiunto la floridezza? Pochissime e, ripeto, quasi sempre per cause eccezionali di entusiasmo apostolico nei dirigenti, di tenuità dello scopo sociale, di formazione di una aristocrazia dirigente di cooperatori elevatasi al disopra della maestranza di salariati puri e semplici e via dicendo. Ora quale probabilità vi può essere che in Italia, nelle condizioni attuali di educazione economica e morale della grande massa dei ferrovieri, l’azienda ferroviaria – ossia la più grande delle imprese del paese ed una delle più complicate, difficili e rischiose industrie esistenti – abbia ad essere esercitata con successo da una cooperativa di ferrovieri? Basta porre la domanda perché la risposta negativa venga spontaneamente alle labbra.

 

 

Finora non si è inventato ancora un metodo migliore per gerire con successo le intraprese industriali del monarcato assoluto. In ogni azienda, anche nelle più colossali gerite a forma di società anonima, v’è un uomo; e dove non c’è, si vive sul passato e si va verso la morte. Ora in una cooperativa di 140 mila ferrovieri, od anche di 20 o 10 mila, un uomo è impossibile possa durare, sovrano assoluto nell’organizzare l’azienda, e, se per caso lo si trova, l’invidia democratica in pochi mesi lo costringe alla fuga per disperazione. I commenti sguaiati contro gli alti “papaveri” della burocrazia dirigente che intascano lautissimi stipendi dovrebbero ammaestrare. È vero che oggi in apparenza si grida contro i troppi funzionari, i quali costano eccessivamente e poco producono; ma in realtà il grido ha radice nel fatto che molti non sanno persuadersi che in certi casi è pagato moltissimo, troppo, un impiegato d’ordine a 2.000, ed eccessivamente poco il direttore generale a 20.000 o un alto funzionario a 10 o 15 mila. Niente di più avvilente di questa campagna insensata contro gli alti stipendi, quasiché le 10 e le 15 e le 20 mila lire all’anno non fossero di gran lunga inferiori alle somme che dovrebbero essere pagate, in una intrapresa bene amministrata, ai dirigenti. Se la storia della cooperazione di produzione deve servire a qualcosa, dovrebbe ammaestrarci che nulla vi è di più assurdo, in una cooperativa, che il persuadere agli inferiori la necessità di pagare ai dirigenti stipendi molto superiori ai salari da loro percepiti. Come si farà a persuadere ad un macchinista che egli deve contentarsi di 2.000-3.000 lire e che è bene che i capi siano pagati al minimo da 10 a 20 mila lire ?

 

 

La cooperativa dei ferrovieri difetterà di capi o li avrà ancor meno valenti non dico di quelli che può ottenere la industria privata, sempre disposta ad apprezzare i meriti reali degli uomini d’eccezione, ma di quelli medesimi che sono attirati oggi dagli impieghi di stato. Lo stato dà invero ai dirigenti una certa autorità, per quanto limitata da ogni sorta di ingerenze parlamentari; donde trarrebbero la loro autorità i dirigenti della futura cooperativa ferroviaria? Di preciso non si sa, perché non furono ancora resi di pubblica ragione i particolari di questa nebulosa ferroviaria. Si può supporre che, come vuole il regime democratico, la gerarchia si formi per concorso nei gradi iniziali di ogni categoria e per anzianità congiunta a merito nei gradi intermedi. Ma chi nominerà i dirigenti nei gradi massimi? Non pare si veda una via d’uscita fuori del suffragio universale o per categorie o misto dei soci della cooperativa. E come potranno mantenere la disciplina questi dirigenti che dovranno il loro posto al suffragio degli inferiori? Come potranno giudicare gli inferiori – in grandissima parte incompetenti, malgrado la conoscenza pratica di una ristretta porzione del complicatissimo lavoro della gigantesca macchina ferroviaria – dei meriti e della capacità morale e tecnica degli aspiranti ai posti supremi? Nell’industria privata la selezione dei dirigenti si fa per decisione autoritaria dell’imprenditore e dà risultati magnifici: nelle aziende di stato la selezione avviene per concorsi e per anzianità e dà risultati di gran lunga inferiori; nei corpi elettivi, dove gli amministrati eleggono gli amministratori, si può affermare avvengano scelte ancor più cattive. Nella futura cooperativa dei ferrovieri vi sarà gran probabilità che i dirigenti rassomiglino più al tipo del deputato lusingatore di folle che all’altro del tecnico scelto unicamente per la sua abilità specializzata. E sarà una scelta feconda di disastrosi risultati economici.

 

 

Né pare che la speranza di una partecipazione agli utili ottenuti dalla comune intrapresa debba essere uno stimolo bastevole ad aguzzare l’ingegno degli uni e l’energia operosa degli altri. Trascuro il fatto che in Italia parlare di una partecipazione ai profitti dell’azienda ferroviaria è dir cosa senza significato preciso, perché l’azienda non solo non dà profitti al suo proprietario, lo stato, ma costa ad esso parecchie centinaia di milioni di perdita. Suppongo ammesso che le perdite siano sopportate lietamente per scopi di pubblica utilità, per portare la civiltà industriale in tutte le regioni d’Italia, per affratellare gli italiani, educarli, ecc. E suppongo che la cooperativa o il sindacato dei ferrovieri garantisca allo stato un canone fisso, di 40 o 50 o 60 milioni, a parziale risarcimento della perdita che il tesoro sopporta per il servizio dei prestiti contratti per la costruzione delle ferrovie. Tutto il prodotto netto in più che il sindacato ottenesse dall’esercizio andrebbe ripartito tra i ferrovieri a titolo di partecipazione al profitto, allo scopo di spingerli ad ottenere economie di esercizio ed a prestare un lavoro più energico, intelligente ed attento. Siano 10 i milioni che in un dato anno si sono ottenuti di prodotto netto dopo pagato il canone fisso allo stato. Come si distribuiranno tra i ferrovieri? Sarà un tanto per cento uniforme sugli stipendi, o saranno preferiti gli stipendi minimi ai medi e questi ai grossi? In questo caso vi è gran pericolo che si dia di più a coloro che non si sentiranno affatto stimolati a lavorar maggiormente e si dia pochissimo ai dirigenti, dalla cui capacità organizzatrice dipende sovrattutto la buona riuscita dell’intrapresa.

 

 

La partecipazione ai profitti è un ideale che sembra attraente in sul principio; ma che per il passato ha quasi dappertutto funzionato con mediocrissimi risultati. Per le moltitudini dei salariati un cinque o dieci per cento in più sul salario non è stimolo sufficiente a maggiori prestazioni di lavoro. Chi è quel ferroviere che, per avere un 100 lire in più alla fine d’anno, lavorerà più intensamente, se si bada che la riscossione di quelle 100 lire dipenderà dal lavoro più intenso di centinaia di migliaia di suoi colleghi, dal prezzo del carbone, dalla buona utilizzazione del materiale mobile, dalla abbondanza dei raccolti, dai terremoti, che possono ingoiare qualunque beneficio della volenterosa operosità del personale? La speranza di una partecipazione al profitto in una azienda così colossale come la ferroviaria è qualcosa di così vago, lontano, inafferrabile, dipendente da migliaia di fattori contrastanti che nullo ne sarà lo stimolo sulla psicologia del lavoratore medio.

 

 

O invece di una partecipazione a profitti si daranno dei premi, come si fa adesso, commisurati alla diligenza specifica del ferroviere, al risparmio nel consumo del combustibile, ai minuti ricuperati, alle unità di pratiche sbrigate in un numero dato di ore, al risparmio di impiegati od agenti raggiuntosi in un dato ufficio? Sarebbe certo un sistema più razionale e più efficace, come quello che fa dipendere la maggior rimunerazione esclusivamente dalla specifica operosità del singolo agente, stimolando ognuno a lavorar di più per ottenere a vantaggio proprio un salario maggiore. Ho però un gran timore che sia un metodo poco confacente ad un regime democratico come quello che è implicito nella gestione a mezzo di un sindacato di ferrovieri. Già adesso costoro gridano contro le interessenze, contro i cottimi, vogliono i salari misurati in ragione di tempo, sono sospettosissimi degli avanzamenti per merito e per, togliere ogni sospetto di favoritismi mettono sugli altari l’anzianità. Par probabile che, in una gestione cooperativa, l’organico e l’anzianità abbiano a diventare l’idolo delle masse elettrici, la guarentigia contro la possibilità che un agente guadagni più degli altri. I caratteri peggiori dell’attuale esercizio di stato si debbono intensificare in un regime, di cui il centro di gravità stia nei più, ossia nei mediocri.

 

 

Il che accadrà tanto più agevolmente, in quanto gli uomini usano scegliere sempre la linea della minor resistenza, quando vogliono migliorare la propria sorte. Ora nella futura cooperativa dei ferrovieri la linea di minor resistenza non sarà di raddoppiar lo sforzo per ottenere una ipotetica partecipazione ai profitti o una sospettata ed antiegualitaria cointeressenza nei risparmi sul costo di produzione; sarà invece di crescere di grado e di stipendio. Aumento di organici ed aumento di paghe: ecco il vangelo di ogni buon impiegato medio, in aziende private e pubbliche. Contro questa tendenza reagisce nelle aziende private l’interesse del proprietario: mentre nelle pubbliche vi è solo il freno, debolissimo, della reazione dei contribuenti. Quali freni agirebbero nella cooperativa dei ferrovieri? Non il pericolo che diminuisca la partecipazione al profitto di fin d’anno, perché già vedemmo essere la speranza di ottenerla impotente a produrre il bene; non il timore che aumentino i costi e quindi diminuiscano le cointeressenze, perché l’uomo medio preferisce un aumento di stipendio sicuro ad una cointeressenza variabile. Servirà di freno la paura che la azienda, per il cresciuto costo, si chiuda con un deficit? Il malanno si ridurrà a non pagare il promesso canone fisso al tesoro. I ferrovieri sono 140 mila, e saranno mirabilmente organizzati; nella loro cooperativa. Qual mai ministro del tesoro oserà muovere troppo aspre querimonie se i milioni del canone invece di 50 saranno 40 o magari 20 o forse sfumeranno del tutto? A tutto ci si adatta in Italia e la scienza della contabilità a poco gioverebbe se non servisse a fare figurare come eseguito quel versamento di 50 milioni che la cooperativa non si sarà sognato di fare. Per evitare uno sciopero ferroviario, un ostruzionismo sapientemente favorito dai dirigenti, molte interpellanze della estrema sinistra, si saprà bene ritoccare le quote di ammortamento, caricare sul conto capitale, ossia sui debiti, alcune spese spettanti all’esercizio, pretestare eccezionali rialzi nel prezzo del carbone. Il governo avrà assicurata la pubblica tranquillità; i ferrovieri, moltiplicati di numero, consolideranno i nuovi stipendi per muovere in seguito a maggiori conquiste; chi pagherà lo scotto saranno i nostri nipoti, a cui affettuosamente lasceremo in legato un onere cresciuto di interessi sul debito ferroviario. E potrà anche darsi che gli stessi ferrovieri, critici arcigni, e non a torto, dei metodi di contabilità usati dalla direzione generale e delle proposte Bertolini di aumento di tariffe, si coalizzino col governo per adottare, peggiorandoli, quei medesimi sistemi contabili e per riversare, con aumenti di tariffe, spinte fino al massimo consentito dalla concorrenza di altri mezzi di trasporto, l’onere del maggior costo sui contributi.

 

 

Perciò io non sono neppure favorevole ad un esperimento in piccolo, come taluno vorrebbe, della formula “la ferrovia ai ferrovieri”. L’Italia, e in particolar modo la Sicilia – che sarebbe la regione designata per quello sperimento – è oramai diventata una specie di terra promessa degli sperimentatori sociali. Non c’è idea stravagante, enunciata od applicata all’estero con insuccesso più o meno grande, che non trovi in Italia chi la voglia sperimentare. A tacer d’altro, in Sicilia abbiamo iniziato da anni un curiosissimo sperimento di trust o sindacato obbligatorio semi – governativo per la produzione e la vendita dello zolfo, che è unico al mondo. Non paghi di ciò, abbiamo cominciato laggiù un altro esperimento di sindacato, pure coattivo, per la vendita dei derivati degli agrumi, che, se avesse avuto origine nella Nuova Zelanda o nell’Australia o in qualcun altro dei paesi cosidetti progrediti, i nostri riformatori sociali l’avrebbero già proclamato come l’alba foriera, il germe meraviglioso di una novella età sociale. Fermiamoci, per carità, su questa china; e prima di tentare nuovi sperimenti, che tutto fa presupporre pericolosissimi, procuriamo almeno di digerire alla meglio gli sperimenti passati, che già si annunciano oltremodo costosi.

Una gragnuola di nuove imposte sul commercio e sull’industria

Una gragnuola di nuove imposte sul commercio e sull’industria

«Corriere della Sera », 30 maggio e 17 agosto[1] 1910

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 85-101

 

 

 

 

I

 

Dopo che l’opinione pubblica italiana era insorta unanime contro tutto ciò che di inquisitorio, di vessatorio vi era nel disegno di legge di riforma tributaria preparato dall’on. Giolitti e dopo che dai banchi del governo si erano sentite solenni promesse di nuove provvidenze legislative intese a togliere ogni ostacolo al fiorire delle iniziative economiche, alla feconda collaborazione del capitale e del lavoro, gli industriali ed i commercianti italiani avevano ingenuamente aperto l’animo ad una speranza: che dal ministero delle finanze cessassero di venir fuori proposte di nuovi tormenti fiscali a crescere il numero già grande dei tormentati, e si cominciasse invece a proporre al parlamento qualcuna di quelle provvidenze alleviatrici che concordemente si invocano da tempo.

 

 

Quasi ad esaudirle, il ministero delle finanze si è deciso a presentare un disegno di legge modestamente intitolato: «Modificazioni di alcune disposizioni delle leggi relative alle tasse di registro, di bollo e per le concessioni governative». Il disegno di legge viene innanzi con aspetto benigno e volto sorridente. Fu preparato, racconta la relazione, in seguito agli studi di una autorevole commissione di giuristi, economisti e finanzieri; risponde «ai voti espressi per mezzo della stampa, in pubblici congressi o dalla cattedra», ha «una portata modesta», si ispira «ad una assoluta mitezza di criteri», regola meglio alcune tasse, la cui azione è «mite e sopportabile» in ragione dell’estesissimo campo su cui dessa si esercita. La riforma proposta è «onestamente liberale e perequatrice»; ma ciononostante per la sua «modesta portata» non ha nulla che possa avvicinarla «a quei tentativi di riforme radicali, che accendono i gravi dibattiti». Tanto mite e tanto modesto appare questo disegno di legge che il governo, sicuro che non avrebbe potuto suscitare alcun dibattito apprezzabile, ha persino creduto opportuno di non farlo nemmeno passare attraverso la noiosa trafila degli uffici e della commissione parlamentare. Poiché nessuno troverà nulla a ridire a che si vogliano graziosamente beneficare i contribuenti, basterà un rapido esame da parte della giunta del bilancio a giustificare una ancor più rapida approvazione della camera, a non parlare del senato, il quale indubbiamente non metterà bocca in un affare così semplice di remissioni e perequazioni di tributi.

 

 

Purtroppo quei pochi commercianti ed industriali che, illusi dalla mitezza del preambolo, avranno letto la relazione governativa e scorso gli articoli del disegno avranno provato la più dolorosa sorpresa nessuna delle riforme invocate alle ingiustizie più sentite, alcune poco interessanti riduzioni di tributi, che finora il fisco non era riuscito a riscuotere, e una fitta gragnuola di nuove od accresciute tasse e tassette che disgraziatamente dovranno essere a forza pagate. Le modeste «modificazioni» dal volto sorridente e benigno, sono in realtà una raccolta sapientissima di nuovi tormenti quale non credo sia stata messa insieme in nessuno dei più famosi omnibus finanziari del passato.

 

 

Condoni e riduzioni per le imposte che nessuno prima pagava; Inasprimenti e nuove creazioni di imposte che tutti dovranno pagare: ecco lo spiccatissimo carattere delle nuove proposte. Chi invero pagava finora le tasse di registro e bollo sulla corrispondenza commerciale? Nessuno o soltanto coloro che ne facevano uso in giudizio. Gran mercé sua, il disegno di legge legalizza questa condizione di cose e dichiara espressamente esente la corrispondenza commerciale dal bollo e registro finché non occorra di farne uso. Commercianti ed industriali faranno ben volentieri a meno di questa dichiarazione espressa quando sappiano che, d’ora innanzi, il fisco, per esentarli, vorrà sapere di preciso chi sia e chi non sia commerciante e considererà come tale soltanto «chi si uniformi alle disposizioni del codice di commercio e della legge sulle tasse di bollo relative alla tenuta dei libri di commercio». La quale definizione porterà alcune conseguenze: fra cui precipua quella che i numerosi commercianti, forse la più gran parte dei piccoli commercianti e industriali, che non hanno una perfetta tenuta di libri, perderanno di fronte al fisco la loro qualità di commercianti e quando debbono presentare in giudizio la loro corrispondenza, andranno soggetti a multe enormi, le quali potranno essere la loro ultima rovina. Tutto ciò è un tranello teso a centinaia di migliaia di persone che onestamente si guadagnano la vita coll’esercizio di un modesto commercio o di una piccola industria, che hanno sempre fatto fronte ai loro impegni senza bisogno di tenere regolarmente i libri prescritti dal codice. Non nego sia desiderabile un maggiore ossequio ai dettami del codice sui libri di commercio; ma è iniquo si voglia raggiungere il fine nobilissimo minacciando la scelta tra la denegata giustizia e le multe rovinose. Quale spinta alla mala fede per quei contraenti i quali riescano a sapere di avere contrattato con un commerciante il quale, pur essendo onesto e puntuale, non abbia i suoi libri in ordine! Quale onere grave si imporrà per tal guisa a coloro che non saranno in grado di tenere, per mancanza di tempo o di coltura, i propri libri in ordine! È grave si voglia in un disegno che si intitola di «modificazioni» e vuol essere «modesto» e alieno dai «gravi dibattiti» introdurre una modificazione così profonda, sia pure ai soli fini fiscali, del concetto di commerciante. Nel diritto patrio, commerciante è chi compie abitualmente atti di commercio; secondo il disegno di legge commerciante sarà chi terrà i libri prescritti dal codice. Tutti gli altri saranno reprobi, da gittare sul rogo delle tasse e delle multe fiscali. Una riforma siffatta, meritevole di dibattiti lunghi e di accurata preparazione dottrinale, una riforma che può avere conseguenze inaspettate ed estesissime, la si intitola modesta e la si vuol far passare col semplice visto di una giunta del bilancio!

 

 

Un altro caso di rinuncia a tasse finora non esatte o facilmente evitabili e di inasprimento di tasse da pagarsi sul serio è quello delle tasse per i conferimenti in società. Adesso, i conferimenti di immobili pagano il 4,80%, i conferimenti di mobili, merci, bestiami, navi il 2,40% ed il conferimento di denaro il 0,12%. Le prime due tariffe erano confiscatrici; ma si aveva il vantaggio sovratutto per la seconda, che nessuno più conferiva mobili, merci, ecc., in società e quanto agli immobili si cercava di fare affittamenti o di girare in qualche modo la posizione. Tant’è vero, che nel 1906 – 1907, su 2.156.198 lire prodotte dalla tassa sui conferimenti in società appena 380.479 lire erano state date dai conferimenti di immobili, 204.685 di mobili, 11.484 di appalti e ben 1.559.549 lire dalla tassa sul denaro. Nel 1907-1908 su un provento totale di 982.756 lire ben 673.779 lire erano date dal tributo sul denaro. Lo scopo del disegno di legge risulta ora evidente. Si fa finta di rinunciare alla metà della tassa sui conferimenti di immobili (che sarebbe ridotta dal 4,80 al 2,40%) ed ai nove decimi della tassa sui mobili (ridotta dal 2,40 al 0,24%); ossia si riduce la tassa su ciò che assai poco frutta all’erario; ma si raddoppia la tassa sul conferimento di denaro, che da solo frutta assai più di tutto il resto, dal 0,12 al 0,24 per cento. Fatti i conti, nel 1907-1907 il fisco avrebbe rinunciato a 370.000 lire circa da un lato per incassare dall’altro 1.560.000 lire in più; nel 1907-1908 la rinuncia a 200.000 lire circa sarebbe stata compensata da un maggiore prodotto di 673.000 lire. Si ha un bel dire che la riforma proposta avrà «il vantaggio di favorire lo sviluppo dello spirito d’associazione»; ma fino a che i contribuenti italiani non siano disposti a comprar lucciole per lanterne, si ostineranno a non pigliar sul serio la pretesa che un aumento globale di tasse dal 50 al 60% sulla costituzione delle società sia un mezzo efficace a diffondere lo spirito di associazione. Il disegno di legge va a ritroso dei tempi, i quali sono favorevoli alla costituzione di aggruppamenti di persone e di capitali per raggiungere fini comuni. Il disegno di legge riconosce a parole questo postulato dell’economia moderna; in realtà, coll’elevare al doppio la già elevata ed irragionevole tassa del 0,12% sul denaro, pone un balzello su quello spirito di associazione che a torto pretende di favorire.

 

 

Qui trova luogo la seconda osservazione di principio che si deve fare intorno al disegno di legge. La prima, già lo dissi, è che esso finge di dare ai contribuenti dove i contribuenti nulla o poco possono ricevere e toglie assai in realtà dove ai contribuenti molto può essere preso. La seconda osservazione è che il giochetto è compiuto in nome di altissimi e solennissimi principii di giustizia tributaria. Ad ogni piè sospinto si leggono nella relazione le sante e gloriose parole di giustizia, di eguaglianza e di perequazione tributaria, parole che sono state in passato segnacolo in vessillo di rivoluzioni famose, di campagne stupende, di movimenti fecondi di idee. Ma se le parole sono le stesse di quelle che si sentirono sulla bocca dei conquistatori delle moderne libertà, il contenuto è profondamente mutato, ed ahimé!, mutato in peggio, sì che par di essere ritornati ai tempi dei signorotti feudali ché anch’essi volevano eguagliare e perequare le sorti dei mercatanti pacifici, riducendoli, con opportune taglie, tutti alla medesima stregua di povertà. Le parole uguaglianza, perequazione, giustizia hanno due significati in materia di tributi. Vi è la perequazione vera, sostanziale, la quale vuol far pagare la stessa somma a due individui, che si trovano nelle medesime condizioni e che si ritiene equo dalla coscienza giuridica del tempo di far contribuire ai carichi pubblici. Così, ad esempio, se si ritiene, come è generalmente ritenuto, che il reddito debba pagar tributo, è opera di perequazione impedire che Tizio che ha 10.000 lire di reddito di fabbricati paghi 3.000 e Caio, che ha l’ugual reddito, pure di fabbricati, paghi solo 1.500. Perché vi sia perequazione vera, è necessario, innanzi tutto, che sia equa la base della tassazione. Quando invece la base medesima dell’imposta è scorretta, quando l’unica ragione del tributo è la necessità di far incassare al fisco una data somma allora è un ridevole contorcimento di vocabolario parlare di giustizia, di uguaglianza, di perequazione. Ci troviamo di fronte invece alla pseudo perequazione, alla falsa uguaglianza; e di invocazioni alla falsa uguaglianza, alla pseudo perequazione, alla giustizia sbagliata ribocca appunto ed esclusivamente il disegno di legge che qui si esamina. Perché mai invero può essere equa una imposta sui conferimenti di capitale nelle società? Se noi facciamo astrazione da quella piccolissima tassa, di qualche centesimo per ogni mille lire, che potrebbe essere percepita come compenso esatto del costo del servizio di pubblicità, registrazione, ecc., reso dallo stato (piccolissima tassa che scompare di fronte alle attuali e future gravezze), si ha che l’unico motivo per cui si percepisce un tributo è la comodità di esigerlo. L’atto di costituzione della società è come un ponte di barche, un traghetto attraverso a cui un mercatante deve passare. Il feudatario taglieggiava le merci che dovevano per forza transitare attraverso al suo passo; e così lo stato tassa i capitali quando traghettano dalla proprietà dell’individuo a quella della società. È comoda questa taglia; ma la giustizia e la perequazione non ci hanno nulla a che fare. Nel medio evo i mercatanti, quando erano troppo aspramente taglieggiati da un feudatario sceglievano un’altra strada, ove il balzello fosse minore; e così facendo recavano utile a sé ed alla società intiera. Nei tempi moderni i soci che conferiscono capitali in una società, trovando che il ponte attraverso a cui passano gli immobili paga un pedaggio eccessivo (4,80%) ed è pur forte il pedaggio sul ponte delle cose mobili (2,40%), cercano di passare tutti sul ponte per cui tragitta il denaro, portandolo in salvo colla semplice multa del 0,12 per cento. Che cosa vi è in ciò di ingiusto, di sperequato? Assolutamente nulla. Si sceglie la via meno costosa per raggiungere un fine socialmente utile. Rialzando il pedaggio dal 0,12 al 0,24% sul ponte per cui passa il denaro avrete fatto opera di perequazione? Niente affatto. Avrete semplicemente aumentato la taglia irrazionale che colpisce quei passaggi di denaro.

 

 

Un altro esempio insigne, tra i tanti che si potrebbero scegliere, di pseudo perequazione è quello fornitoci dalle quietanze, assegni, cambiali, fatture, ecc. Attualmente si fa pagare per le quietanze da 10 a 100 lire una tassa di bollo di 5 centesimi, che diventano 10 per le quietanze superiori alle 100 lire.

 

 

Vengono ora i maniaci della pseudo perequazione e dall’esistenza della tassa sulle quietanze traggono parecchie interessantissime conseguenze: 1) che è ingiusto far pagare 5 alle quietanze da 10 a 100 lire e 10 a tutte le quietanze superiori alle 100 lire. Paghino perciò 20 centesimi le quietanze da 1.000 a 10.000 lire e 30 quelle di somme superiori. Alla prima occasione la tassa sarà ancora meglio graduata e si pagherà, ad esempio, 10 centesimi per ogni mille lire; e non passerà gran tempo che anche per queste tasse si inventerà la giustizia di un saggio progressivo col crescere della somma. Frattanto, per anticipare così felici tempi, le quietanze senza determinazione di somma, rilasciate a saldo di somme maggiori, paghino fin d’ora tutte 20 centesimi; e fin d’ora si minaccino 24 lire di multa a tutti coloro che accettino una quietanza sfornita di bollo; 2) che è ingiusto siano immuni da tassa le fatture, il cui possesso nelle mani del compratore spesso significa l’avvenuto pagamento della merce. Quindi d’ora innanzi tutte le fatture dei fabbricanti e negozianti dovranno pagare, fin dal momento del loro rilascio, una tassa di bollo di 5 centesimi, che diventano 5 e mezzo se si pensa che ogni fattura è portata a copialettere ed i copialettere in avvenire pagheranno 1 centesimo per ogni foglio di 4 pagine, oltre la tassa di vidimazione di lire 1,20 per ogni 400 pagine (di lire 2,40 per gli attuali copialettere da 500 pagine, che scompariranno tutti per lasciar posto ai nuovi da 400). Bontà sua, il disegno di legge non vuole che sia pagata una nuova tassa in occasione di quietanza scritta sulla fattura, bastando i 5 centesimi pagati al momento del rilascio. Ma non passerà gran tempo che un altro teorico della pseudo perequazione proclamerà l’ingiustizia di far pagare 5, 10, 20 e 30 centesimi alle quietanze e solo 5 alle fatture ed anche queste sentiranno le dolcezze della graduazione e poi della proporzionalità e infine della progressività. Fata trahunt. L’imposta progressiva non è forse l’ideale dei tempi moderni? 3) adesso che le ricevute ordinarie saranno graduate da 5, a 10, a 20 ed a 30 centesimi, non sarà irrazionale, sperequato – così seguita il nostro ineffabile teorico – che gli assegni bancari, che sono veri strumenti di pagamento, paghino soltanto e sempre 10 centesimi? Si aumentino dunque subito anch’essi alla stregua dei bolli per ricevute ordinarie: 5, 10, 20 e 30 centesimi a seconda dell’importanza della somma. O non hanno forse garantito unanimi gli istituti di emissione – lieti della minor concorrenza che gli assegni bancari faranno ai loro vaglia gratuiti – che in tal guisa si sarebbe giovato alla causa della giustizia? Dopo ciò, che cosa importa che si metta un altro ostacolo alla diffusione dei pagamenti per mezzo di assegni bancari, che è stata feconda dappertutto di vantaggi grandissimi? 4) ne è meno ingiusto, così continua l’innamorato dottrinario della giustizia tributaria, che gli assegni scontino sempre la tassa di 10 centesimi, mentre le cambiali al disotto delle cento lire pagano soltanto 5 centesimi. Aumentiamo dunque il prezzo delle cambiali al disotto di 100 lire a 10 centesimi, unificandole con quelle fino a 200 lire. Così a nessuno verrà in mente di trarre una cambiale invece che un assegno, per pagare 5 centesimi in meno.

 

 

Vorrei continuare in questa illustrazione della mania perequatoria, che nel presente disegno di legge tocca altri numerosi ed importantissimi punti, dalle tasse sulle trasformazioni a quelle sulle fusioni e sulle liquidazioni di società, dai metodi, divenuti assai più rigidi, per la valutazione dei beni immobili, alle restrizioni per il calcolo dei debiti ereditari, da un forte inasprimento delle tasse di circolazione sui titoli non quotati in borsa ad un rialzo non meno sensibile degli avvisi esposti al pubblico, dei permessi di porto d’arme, dei certificati ipotecari, dei libri dei commercianti, da un nuovo balzello sui biglietti delle tramvie intercomunali ad una tassa di concessione per le delegazioni rilasciate da parecchi enti, finora esenti, alla Cassa dei depositi e prestiti ed alla imposizione dei titoli esteri nei casi di successione.

 

 

È una fitta gragnuola che colpisce tutti i privati, e principalmente gli industriali ed i commercianti; ed è sperabile che non sarà sopportata in silenzio, e che le associazioni che rappresentano i grandi e reali interessi economici dell’Italia sapranno fare il loro dovere contro questo che è solo un tentativo fatto dall’amministrazione delle finanze di saggiare la loro fin qui illimitata pazienza. Né si dica che facendo appello agli interessati per combattere questo disegno di legge si fa opera ostile al pubblico bene. Quando si tratta di problemi del lavoro, di questioni doganali, è oramai accettato il principio che si debba ricorrere al consiglio dei rappresentanti degli interessati. Il consiglio superiore del lavoro, in cui gli interessati sono e si vogliono ancor più largamente interessati, prepara la legislazione sociale. Alle camere di commercio ed al consiglio dell’industria si chiedono pareri per preparare i trattati di commercio. Perché le sole leggi tributarie, che a poco a poco feriscono a morte quanto vi è di sano e rigoglioso nel paese, devono essere sottratte all’esame preventivo degli interessati? Perché i rapporti della commissione reale sulla riforma delle tasse degli affari, benché stampati, non furono mai resi di pubblica ragione e si tengono segreti sotto sette suggelli? Non è scandaloso ciò accada ai tempi odierni e la preparazione di riforme sia abbandonata ai macchinatori di pseudo perequazioni? È ora di por termine al pericoloso andazzo. Se il ministero delle finanze non vuol sentire l’avviso degli interessati, siano questi ad offrirlo spontaneamente al parlamento. Le camere di commercio delle provincie più industriose, l’unione delle camere, le associazioni del commercio, la confederazione industriale testé costituitasi a Torino, la federazione tra le società anonime, di cui si legge l’annuncio sui giornali, debbono dimostrare in questi frangenti le ragioni della loro vita. Il «modesto» disegno di riforme tributarie preparato dal ministero delle finanze non deve passare senza un attento esame critico e senza modificazioni. Se queste non si ottengono oggi, si preparino gli industriali e commercianti d’Italia, prima che due anni siano trascorsi, a nuove e meritate torture.

 

 

II

 

Le vacanze parlamentari hanno impedito che venisse portato in pubblica discussione il disegno di legge che col titolo «modificazioni di alcune disposizioni delle leggi relative alle tasse di registro, di bollo e per le concessioni governative», mirava a far cadere una fitta gragnuola di nuovi molestissimi balzelli sulle spalle degli industriali e dei commercianti. Il ritardo darà modo agli interessati di apprestare nuovi argomenti per oppugnare una riforma non richiesta da alcuno nella maniera largita dalla amministrazione finanziaria ed affermare il concetto che una riforma delle tasse sugli affari non può essere condotta in porto senza la collaborazione delle forze vive del paese. Concetto che parve assurdo ai dirigenti della pubblica finanza quando fu espresso su queste colonne; che fu rilevato con stupore ed indignazione in una intervista del ministro delle finanze, laudatrice in tatto delle proposte che i suoi funzionari gli avevano inopinatamente fatto presentare alla camera; ma che fu accolto – in seguito alla viva agitazione delle camere di commercio, delle associazioni di commercianti ed industriali – dalla giunta generale del bilancio. La relazione di questa, scritta ad opera del prof. Giulio Alessio, che si è reso in tal maniera benemerito del paese che lavora e produce, è una vittoria dei contribuenti contro le esorbitanti pretese del fisco; vittoria che non si sarebbe certamente ottenuta se essi se ne fossero rimasti buddisticamente impassibili, paghi di ricevere, ad ogni esposizione finanziaria, gli elogi dei ministri del tesoro per le loro eroiche virtù di mirabilmente puntuali pagatori. È mestieri proclamare, senza stancarsi, che l’unica forza operosa contro le follie, le prodigalità, la noncuranza incredibile in materia di spese delle camere rappresentative sta, nei paesi moderni, unicamente nella resistenza vigile dei contribuenti, chiamati a pagare lo scotto di imprese ed iniziative costose e per lo più inutili, volute dagli uomini politici. Un tempo erano i parlamentari che frenavano la mania spendereccia del potere esecutivo; anzi i parlamenti sorsero appunto in origine per adempiere a questa funzione. Oggi invece, i parlamenti non frenano, bensì crescono le pubbliche spese; ed i ministri, più che a strappare il consenso a nuove spese e nuovi fondi, debbono resistere agli inviti pressanti che dai deputati di ogni parte politica si fanno per aumenti di spese a beneficio di classi più o meno interessanti di persone e per accrescimenti di balzelli a danno di altre. Contro questo andazzo, che ai nostri vecchi sarebbe parso stravagante e che purtroppo oggi si può considerare solo come degno di meste meditazioni, non c’è che un rimedio: la resistenza dei contribuenti contro il dissanguamento che si vuol operare a loro danno ed in conclusione a danno del paese. E non abbiano paura i contribuenti di resister troppo; ché la loro forza di opposizione alle pazzie finanziarie sarà sempre ben piccola cosa in confronto alla invadenza delle classi interessate all’aumento della pubblica spesa: burocrazia centrale e provinciale, aspiranti alle largizioni, sovvenzioni, premi governativi, sieno essi industriali capitalisti o cooperative appaltatrici di lavori pubblici, gente desiderosa di acquistare un diritto allo stipendio sicuro ed alla pensione di stato per la vecchiaia, ecc. Se tra coloro, i quali, per ora, non aspirano a favori governativi o ai denari del pubblico non sorge una opposizione viva alla mania di spendere, sventuratamente connaturata nei governanti e nei parlamentari, l’Italia diverrà a non lungo andare un paese di mandarini cinesi. Avremo ancora una volta imitato l’esempio francese; avremo anche noi cresciute a dismisura le falangi innumeri di emarginatori di pratiche burocratiche, di dipendenti dalle più o meno rovinose imprese statizzate; ma a prezzo di quale decadimento del carattere nazionale, delle qualità di iniziativa indipendente, degli ardimenti individuali e delle responsabilità singole che fanno i popoli forti?

 

 

La vittoria recentemente ottenuta dai contribuenti non fu vittoria compiuta; ma non perciò meno degna di essere ricordata. Fu soppressa la nuovissima e strana definizione del commerciante come colui che tiene i libri di commercio in conformità al codice di commercio ed alle leggi sulle tasse di bollo. Il commerciante sarà così esente dalle tasse di bollo e di registro per la sua corrispondenza, finché non occorra di farne uso in giudizio: senza pericolo di rovinose multe e di ricatti da parte di clienti poco scrupolosi per coloro che non avessero tenuto i libri perfettamente in ordine. Le private scritture contenenti vendite di merci, macchine nuove, prodotti industriali, bestiame, derrate agrarie, ecc., che il governo proponeva di colpire con tassa di registro con 12 centesimi per ogni 100 lire di valore se registrate entro i 20 giorni dalla stipulazione e con 60 centesimi se registrate in seguito quando occorresse di farne uso in giudizio, saranno sempre tassate, senza limitazione di tempo, con soli 12 centesimi per cento e sarà obbligatoria la registrazione solo quando occorra di farne uso. Inoltre, siffatte scritture dovranno assolvere, per tassa di bollo, il diritto fisso di soli 30 centesimi.

 

 

Le tasse sui conferimenti in società che oggi pagano il 4,80%, se si tratta di immobili, il 2,40% se mobili ed il 0,12% se denaro e che il governo, fingendo artatamente di diminuire il gravame complessivo, scemava al 2,40% per gli immobili e fissava al 0,24% per i mobili ed il denaro, vengono dalla giunta diminuite all’1,20% se si tratta di immobili ed al 0,18% se si conferiscono mobili e denaro. Colle statistiche finanziarie alla mano avevo dimostrato che con le sue proposte, il governo aggravava i balzelli sulle costituzioni di società da mezzo ad un milione di lire l’anno. Sono lieto di constatare che le proposte della giunta del bilancio meglio raggiungono le finalità «onestamente liberali e perequatrici» che il governo a parole si proponeva; poiché, fatti i conti, col nuovo sistema, in confronto di quello attualmente vigente, si sarebbero riscosse lire 1.058.000 invece di lire 983.000 nel 1907 – 1908 e lire 931.000 invece di 1.042.000 nel 1908-1909. Le entrate fiscali all’incirca non mutano ed efficacemente si combattono gli infingimenti a cui oggi sono astretti i contribuenti dalle eccessive tasse su conferimenti di immobili, mobili, ecc. ecc. Le fusioni di società che ora sono assoggettate a diritti del 4,80, 2,40 e 0,65% saranno, secondo le proposte della giunta, anch’esse tassate coll’1,20% per gli immobili e col 0,18% per i mobili, crediti e denaro. Le quali aliquote sembrano ancora eccessive, altro essendo la costituzione di una nuova società per conferimento di beni prima appartenenti a privati, altro la semplice fusione di due o più società preesistenti, le quali semplicemente mettono insieme i loro patrimoni. Meglio provvide la giunta nel caso delle trasformazioni di società da una in altra specie; poiché, mentre il fisco, assillato dalla ragion ragionante, la quale vede dappertutto trapassi di proprietà da una persona giuridica ad un’altra, voleva colpirle con la tassa del 2 per mille, la giunta si contenta dell’1 per diecimila, ben osservando che la società, col mutar specie, non muta la intima sua essenza di società, che già preesisteva e soltanto prende un assetto giuridico diverso e si prefigge, col vecchio capitale, nuove finalità economiche.

 

 

Riassumendo e trascurando, per brevità, punti pure importanti, la giunta ha respinto la distinzione tra gli avvisi pubblici stampati su carta e su materia diversa dalla carta, che il governo voleva colpire con tassa più elevata di 15 centesimi, per la solita smania, di cui già descrissi a suo tempo i singolari effetti, della pseudo perequazione; respinse la tassa di bollo di centesimi sulle fatture, l’ugual tassa di centesimi per ogni persona iscritta nel registro dei clienti degli albergatori, locandieri e simili esercenti, che era inutilmente vessatoria; abolì l’aumento a 20 e 30 centesimi del bollo sugli assegni bancari superiori a 1.000 ed a 10.000 lire; si contentò di esigere lire 2,40 (e non, come voleva il governo, lire 3,60) sulla prima vidimazione del libro giornale, del libro degli inventari e dei libri tenuti dagli amministratori delle società, aggiunse una tassa di lire 5 per la trascrizione nel registro delle società commerciali di una società in nome collettivo od in accomandita semplice, e di lire 10 per la trascrizione di società in accomandita per azioni e di società anonime, ma non volle accettare la tassa sulle successive vidimazioni annuali del libro giornale, né quella di vidimazione del copialettere, e di bollo per ogni foglio di pagine del copialettere stesso. Finalmente, pure accettando la sostituzione della carta da lire 2,40 a quella da lire 1,20 per i certificati ipotecari anche se negativi, non volle, ed a buon diritto, accogliere l’aggiunta, meravigliosamente intonata, al solito, alla necessità di smobilizzare la proprietà fondiaria e di facilitare il credito all’agricoltura ed all’industria edilizia, voluta dal fisco di stabilire un diritto fisso di 25 centesimi per ognuna delle prime venti e di 10 centesimi per ognuna delle successive formalità di iscrizione e trascrizione esaminate dai conservatori delle ipoteche ed escluse dai certificati perché concernenti stabili diversi da quelli indicati nelle domande degli interessati.

 

 

Malgrado queste insigni vittorie contro la mania spendereccia e tassatrice, ancora il disegno di legge, così come fu modificato dalla giunta del bilancio, presenta difetti ragguardevoli. Perché mantenere al 2,40% la tassa di registro sui trasferimenti di intiere aziende commerciali, anche se queste ultime risultino costituite da soli mobili o merci, quando si è ribassata al 0,12%, con obbligo di pagarla solo in caso di uso della privata scrittura, la tassa sulle compravendite di merci? Non è un voler incoraggiare le frodi di coloro che faranno passare come vendite di merci quelle che sono invece vendite di aziende commerciali costituite in tutto od in parte da merci; e non è un volere togliere sicurezza e veridicità alle transazioni commerciali, per un intento di fiscalità, che non sarà del resto soddisfatta?

 

 

Grave assai, e meriterebbe lungo discorso, è la questione dell’accertamento dei valori imponibili nei trasferimenti a titolo oneroso. Attualmente, se il prezzo convenuto nelle compravendite di immobili è reputato inferiore di oltre un quarto al valore che l’immobile aveva in comune commercio, l’amministrazione può richiedere la stima, e le spese, oltre s’intende le tasse in più, andranno a carico del contribuente nel caso che il giudizio di stima riconosca che il valore convenuto era inferiore di oltre un quarto al prezzo effettivo. La disposizione aveva avuto per effetto che i contraenti profittavano della tolleranza legale per convenire palesemente un valore inferiore almeno del quarto al valore effettivo. È un bene od un male? Difficile dare una risposta recisa. La frode alla legge è un male in quanto non tutti possono nell’eguale misura frodare; essendovi sempre coloro che, per lo stato di minore età, di interdizione, inabilitazione, per trattarsi di persone giuridiche, ecc. ecc., devono denunciare il valore vero; mentre altri possono denunciare un valore minore del vero. Vi sono perciò contribuenti i quali pagano il 4,80% di tassa su tutte le 100 lire convenute ed altri che pagheranno solo su 75 o su 60 o fors’anco su 50 lire invece che sulle vere 100. Ciò è un male, perché si viola il principio della uguaglianza tributaria. La frode alla legge invece è economicamente benefica da un altro punto di vista; in quanto cioè, di fatto, per la denuncia quasi generalmente inferiore al vero, la aliquota viene ad essere ridotta. Pagare il 4,80% sui tre quarti del valore vero è come pagare il 3,60% su tutto il valore. La riduzione è un bene perché l’aliquota del 4,80% sui trasferimenti di immobili è eccessiva, perché non tiene e non può tener conto se vi sia o non un guadagno nei trasferimenti, è perniciosa ai trapassi di proprietà, che sarebbero utilissimi per far passare la terra dalle mani dei neghittosi ed incapaci a quelle dei volonterosi e intelligenti. Per togliere la frode fiscale il governo aveva proposto di ridurre da un quarto ad un ottavo il limite di tolleranza; la giunta del bilancio propone, parmi, (dico parmi perché nel testo è stampato così, ma nella relazione ed altrove pare si tenga fermo l’ottavo), la riduzione da un quarto ad un sesto. O sia un ottavo od un sesto, la riduzione del limite di tolleranza produrrà due effetti contrari, uno buono e l’altro cattivo. L’effetto buono sarà che sarà diminuita la disuguaglianza di trattamento fra contribuenti che sono in grado di giovarsi e quelli che non possono, pur volendo, profittare della tolleranza. La disuguaglianza di trattamento sarà diminuita ad un ottavo o un sesto. L’effetto cattivo sarà che mentre ora si paga il 4,80% sui tre quarti (ossia in realtà il 3,60% sul tutto), domani si pagherà il 4,80% sui sette ottavi o sui cinque sesti (ossia il 4,20 o il 4% sul vero prezzo). Si tratta insomma di un vero aumento delle imposte sui trasferimenti. Se si pensa che queste rendono dai 45 ai 50 milioni di lire all’anno, si vede che si tratta di un balzello cresciuto di un 10 a 15 milioni di lire all’anno. La proprietà fondiaria rurale ed edilizia – non ha davvero bisogno di questo regalo, fattole sotto colore di variati limiti di tolleranza. Si tratta dunque di questione grave: si diminuiscano pure i limiti di tolleranza, in omaggio al principio della uguaglianza dei tributi, prendendo però le opportune precauzioni affinché nei giudizi di stima d’ora innanzi non si esagerino le stime giudiziali (sempre cervellotiche) al di là dei valori correnti di mercato; ma si riducano contemporaneamente le aliquote, abolendo ad esempio uno dei due decimi, cosicché non aumentino gli ostacoli alla mobilità delle proprietà fondiarie.

 

 

Su altri punti il disegno di legge merita di essere riesaminato con ponderazione. Il sottoporre ad imposta di successione i valori esteri, fin qui esenti, è principio accettabile; ma è un principio sterile, finché non si abolisca la inconsulta tassa di bollo sui titoli esteri che solo l’ostinazione pervicace nell’errore induce a mantenere. Grazie alla tassa è esulata in Svizzera la maggior parte dei titoli esteri posseduti da italiani; e di questa migrazione sono indice curioso gli avvisi a pagamento inseriti nelle quarte pagine dei maggiori nostri quotidiani da parte di banche svizzere, le quali promettono sicura custodia, amministrazione a prezzi miti e salvaguardia da tassa di successione; ed indizio ancor più interessante il moltiplicarsi in Italia di commessi viaggiatori di queste medesime banche i quali visitano in casa la probabile clientela e le fanno leggere pareri legali, sottoscritti da eminenti giudici delle maggiori corti giudiziarie svizzere i quali mettono in luce la assoluta sicurezza dei depositi fiduciari svizzeri da ogni sorta di persecuzione fiscale, grazie alla costituzione federale, la quale toglie alla confederazione la possibilità di mettere imposte sugli stranieri non residenti e di venire ad accordi internazionali con i paesi vicini per la repressione della frode fiscale. In siffatte condizioni a che vale scrivere sulla carta l’obbligo di pagare le tasse di successione sui titoli stranieri? A null’altro fuorché a persuadere gli eredi a lasciar stare presso le banche estere i titoli già ivi inviati dal defunto per non pagare la tassa di bollo. Abolite questa, ammettete i valori esteri alle quotazioni ufficiali nelle borse italiane ed allora voi potrete avere speranza che i titoli rimangano qui e paghino sul serio qualche volta l’imposta di successione. Agire altrimenti, è un voler stringere in mano un pugno di mosche.

 

 

Né meno disputabile è l’obbligo fatto alle società, che non fanno quotare i titoli in borsa, di pagare la tassa di negoziazione in base al valore effettivo, dimostrato da certificato peritale, anche quando il valore effettivo è superiore al nominale. Senza tener conto delle difficoltà delle perizie per i titoli non quotati in borsa (stimeranno i periti per sentito dire o per presunzioni basate su canoni più o meno scientifici?), siamo di fronte ad uno dei soliti casi di pseudo perequazione. Un’anonima ha le azioni sue quotate in borsa e paga il 2,40 % all’anno sul valore effettivo; un’altra anonima, che non ha le azioni quotate in borsa, oggi paga sul nominale e la si vuol far pagare sul valore effettivo, superiore al primo, per metterla alla pari della prima. È pure giustizia distributiva, si dice; e non è vero. Perché la prima anonima emette azioni che, per essere quotate in borsa sono frequentemente comprate e vendute e per essa pagare il 2,40 % sul valore effettivo di tutte le sue azioni può non essere eccessivo dato il gran numero delle transazioni verificatesi. Le azioni dell’altra anonima, che non sono quotate in borsa, sono assai probabilmente meno negoziate, passano di mano in mano con minor frequenza; e quindi la vera, se non la pseudo, perequazione esige che esse paghino un tributo minore delle prime. Adesso l’intento si raggiunge facendo liquidar la tassa sul valor nominale, anche se questo è inferiore all’effettivo. Liquidisi pure, se si vuole, la tassa sul valore effettivo, ma si riduca l’aliquota del 2,40 ad un limite inferiore; per esempio alla metà od ai due terzi. Altrimenti si avrà la perequazione apparente, tanto cara ai ministratori della giustizia burocratica, ed insieme la disuguaglianza reale di trattamento fra due cose diversissime.

 

 

Una conclusione pertanto s’impone. Questo disegno di legge, per quanto migliorato notevolmente dalla giunta del bilancio, non merita ancora di giungere agli onori della discussione parlamentare. Il torto grave dell’amministrazione finanziaria è di aver voluto utilizzare le proposte della commissione reale per la riforma delle tasse sugli affari solo nella parte che poteva riuscire vantaggiosa al fisco e non in quella che poteva tornare di utile effettivo ai contribuenti. Da alcune parole di colore oscuro che si leggono nelle prime pagine della relazione Alessio si può dedurre che la commissione, per quanto lo consentiva la rigida limitazione del suo mandato, propose riforme radicali e complesse in ogni parte dell’ampio e complesso argomento delle imposte cosidette sugli affari. Per qual motivo dunque i risultati dei lavori della commissione sono tenuti segreti? Non era questa una commissione ministeriale interna, ma una commissione reale i cui studi dovevano illuminare l’opinione pubblica? Conservando un segreto così geloso e così ingiustificato non si dà corpo al sospetto insistente che le conclusioni di quella commissione possano in parte dar ragione alle lagnanze dell’opinione pubblica contro il sistema complicato, molesto e gravoso delle tasse di registro e bollo e si voglia giovarsene solo in quei punti in cui la commissione propose inasprimenti, buttando a mare le proposte di semplificazioni e di vera utilità generale?

 

 

In un regime di discussione pubblica, come è il nostro rappresentativo, (e la discussione è l’unico suo vantaggio in confronto ai regimi assoluti) non deve essere consentito si tengano segreti documenti così importanti. I rappresentanti dell’industria e del commercio non devono stancarsi di protestare; e non devono consentire che venga approvata una riforma parziale, avulsa dalle sue vere motivazioni, le quali non possono trovarsi se non in un piano di riforme, da attuarsi gradatamente, con criterio organico.

 

 



[1] Con il titolo Contro la gragnuola delle nuove tasse. La parziale vittoria del commercio e dell’industria [ndr].

Contribuente e reddito nei progetti di riforma tributaria

Contribuente e reddito nei progetti di riforma tributaria

«Corriere della Sera», 11 maggio 1910

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 71-78

 

 

 

 

Nei disegni di riforma tributaria e specialmente di istituzione di una nuova imposta di famiglia o sul reddito che si susseguirono recentemente ad opera dei ministeri Giolitti e Sonnino, oltre a taluni caratteri secondari e quasi esteriori, destinati a cadere colla caduta dal potere di chi li aveva ideati, si potevano notare alcune idee prime, di quelle che uno scrittore francese chiamò idee forze, destinate a lasciare lunga traccia di sé a beneficio od a danno dell’economia del paese. Giova perciò, anche se i ministeri passano, analizzare quelle idee forze, in guisa che le buone siano sceverate dalle cattive e soltanto le prime possano tradursi in realtà. Poiché il discutere per via di dottrine generali è spesso vano, gioverà pigliar le mosse da esempi concreti, richiamando l’attenzione del lettore su due idee che erano fondamentali del disegno Sonnino di una nuova imposta di stato sul reddito, e dovranno per forza ritrovarsi in ogni altra consimile proposta: vogliamo accennare ai concetti del contribuente colpito dall’imposta e del reddito destinato ad essere tassato.

 

 

Chi era chiamato, innanzi tutto nel progetto Sonnino, a pagare l’imposta? Non l’individuo, ma la famiglia. Il progetto così definiva il contribuente alla nuova imposta: «Per famiglia s’intende il consorzio di persone unite da vincoli di parentela o di affinità o comunque associate, insieme conviventi ed aventi patrimonio unico, ovvero interessi, redditi o lucri comuni. Costituiscono peraltro famiglia anche gli individui che vivono soli o abitano in albergo o pensione o presso altra famiglia senza avere con essa vincolo di parentela o di affinità, né comunione di patrimonio o di interessi».

 

 

Si deve riconoscere che questa concezione del contribuente famiglia trova molti ed autorevoli precedenti nel sistema seguito oggidì dalle città italiane nell’imposizione della tassa comunale di famiglia ed in talune legislazioni estere, quale, ad esempio, la legge prussiana la quale aggiunge al reddito del padre di famiglia quello di tutti i membri con lui coabitanti. Forte si dubita tuttavia della correttezza del concetto del contribuente famiglia, sorto, si noti bene, in tempi in cui l’imposta era proporzionale ed era quindi indifferente che si facesse o non la somma dei redditi dei componenti i consorzi familiari, pagandosi sempre la medesima aliquota, qualunque fosse l’ammontare del reddito.

 

 

Intanto la sua applicazione non è scevra di difficoltà. La definizione sovra citata dice che le persone componenti la famiglia devono essere insieme conviventi ed avere patrimonio unico, ovvero interessi, redditi e lucri comuni. Quell’ed sarà cagione di controversie non lievi. Un padre di famiglia ha 5.000 lire di reddito proprio tratto da terreni; e convive col figlio, ammogliato, il quale dispone di un reddito professionale di altre 5.000 lire, mentre la moglie ha un reddito, pure professionale, di 2.000 lire. È un caso non infrequente ora e che tende a diventare sempre più frequente coll’aprirsi delle carriere liberali e degl’impieghi alle donne. Ecco tre persone, che insieme convivono, ma non hanno patrimonio unico, né redditi che possano essere chiamati comuni. Dovranno questi redditi essere tassati separatamente o congiuntamente? La questione è importante, perché, se sono tassati disgiuntamente, ad esempio, a Milano, la moglie non pagherà nulla, non superando il minimo di esenzione, mentre padre e figlio pagheranno l’1% dalle 2.000 alle 3.500 lire e il 2% dalle 3.500 alle 5.000 lire, ossia 45 lire per uno e 90 lire in tutto. Se tassati congiuntamente, il reddito globale diventa di lire 12.000 e paga l’1% dalle 2.000 alle 3.500 lire, e il 2% per il resto, ossia 185 lire, più del doppio che nell’interpretazione precedente.

 

 

Una famiglia operaia, in cui il padre guadagna 1.500 lire, la moglie 500 ed i due figli 800 lire a testa non paga nulla, se i membri della famiglia sono tassati disgiuntamente; paga invece, su 3.600 lire di reddito complessivo, 17 lire, se tassati congiuntamente. Insomma il concetto del contribuente famiglia par creato apposta per distruggere la esenzione concessa ai redditi piccoli e il mite trattamento dei redditi modesti, ogni volta che questi redditi sono goduti in comunità familiari o quasi familiari.

 

 

La ragione sostanziale per cui si vogliono riunire insieme i redditi di tutti i componenti la famiglia è questa: che un gruppo di tre persone, le quali godono complessivamente un reddito di 12.000 lire, vive meglio e più largamente delle stesse tre persone divise con i tre redditi di lire 5.000, 5.000 e 2.000 separatamente goduti. Il che è vero; ma è una circostanza della quale una imposta sul reddito non può tener conto, senza cadere in contraddizioni inestricabili. O che forse soltanto la famiglia vera e quella spuria della associazione di persone conviventi, assimilata dal disegno alla vera famiglia, sono un mezzo per minimizzare le spese della vita e trarre il massimo beneficio da una data somma di reddito? In realtà non esiste nessuna differenza sostanziale – s’intende dal punto di vista economico finanziario – tra il figlio che, avendo redditi propri, ricavati sia da una professione indipendente, sia dalla collaborazione nell’azienda paterna, sta a dozzina presso i genitori e l’altro che va in pensione presso estranei od all’albergo. In tutti e due i casi il figlio cerca di utilizzare nel modo migliore il suo reddito; e, non volendo o non potendo crearsi una famiglia propria, cerca di ridurre le spese, facendo vita parzialmente comune con altre persone. Ebbene, questi due casi sono trattati dal progetto ben diversamente. Se il figlio è per indole attaccato alla famiglia, il suo reddito è riunito con quello del padre, cosicché amendue insieme passano in una categoria più alta, colpita da una aliquota più forte. Se egli invece è insofferente dei vincoli familiari e preferisce la vita della pensione o dell’albergo, non solo padre e figlio sono tassati a parte, con tasse più lievi, ma uno di essi può aver la ventura di non pagare nulla affatto. Si direbbe che il legislatore voglia prestar la mano all’andazzo moderno, per cui si dissolvono le forti unità familiari e vi si sostituiscono le riunioni temporanee delle pensioni, alberghi e circoli.

 

 

Tutte queste incongruenze provengono dall’aver sostituito al concetto chiaro, semplice di contribuente persona, il concetto economicamente artificioso di contribuente famiglia. Siamo così arrivati all’enormità di considerare come un reddito unico quello che è un reddito di molte persone, che, per inclinazione o per accidente, convivono insieme. Dieci o cento persone vivono separate col loro reddito individuale di 2.000 lire a testa e non vengono tassate. Deliberano di vivere insieme, per raggiungere certi scopi familiari, sociali o religiosi, e subito sono tassate come una persona sola avente un reddito di 20.000 o di 200.000 lire e pagano le aliquote massime. Ciò potrà essere una buona o cattiva arma di persecuzione dell’istituto della famiglia o della religione – del che non è il luogo di discutere qui -; ma è iniquo dal punto di vista tributario. La capacità contributiva individuale di quelle 10 o 100 persone è ancora limitata a 2.000 lire; né finora si conoscono le persone fisiche che abbiano cento bocche e pur tuttavia consumino come una persona sola.

 

 

L’imposta globale sul reddito, per definizione, non può colpire le persone giuridiche, le associazioni, ma solo le persone fisiche. Dire altrimenti è volere storcerne il significato a scopo di politica, che oggi può essere anticlericale, domani può essere antibuddista, e un altr’anno può rivolgersi contro qualunque associazione, magari d’indole operaia, che accomuni la vita di molte persone per raggiungere un intento sociale qualsiasi.

 

 

La via d’uscita non può essere che una sola: abbandonare in qualunque progetto del genere, se non il nome il concetto, pericoloso e persecutore, dell’imposta di famiglia e considerare il contribuente come individuo così come vollero Giolitti in Italia e Caillaux in Francia nei loro, per altri versi condannabili, disegni di imposta sul reddito.

 

 

Qualche temperamento sarà in pratica necessario, quando si tratti di redditi altrui che siano legalmente a disposizione del capofamiglia: si potrà ammettere cioè che al reddito del padre di famiglia si aggiungano i redditi di capitale della moglie, non separata legalmente, i quali siano a disposizione del marito, eccettuati in ogni caso i redditi provenienti dal lavoro, i quali ultimi sempre andrebbero separatamente tassati al nome della moglie; e così pure si potranno aggiungere i redditi di capitale dei figli, di cui il padre abbia l’usufrutto o la disponibilità. Ma, appena il figlio disponga dei propri redditi di capitale o ricavi un guadagno dal proprio lavoro, anche se minorenne o convivente, egli dovrà essere tassato separatamente. Così pure, in qualunque associazione di fatto, ogni associato deve essere tassato a parte, in ragione del suo reddito personale. Fare altrimenti, vuol dire arrogarsi il diritto inammissibile di inquisire nei sistemi di vita del contribuente, tassandolo forte quando egli vive in famiglia o in unione religiosa od umanitaria con altri compagni di fede o di setta, e lasciandolo magari libero e in ogni caso tassandolo meno quando preferisce dar fondo al suo in mala, e forse più numerosa, compagnia all’osteria od all’albergo.

 

 

Su che cosa si paga l’imposta? Sul reddito netto, rispondeva il disegno di legge. Conviene riconoscere che il compilatore è riuscito assai meglio a stabilire il concetto del reddito netto, che quello del contribuente. Oggetto dell’imposta è invero «la somma complessiva netta delle entrate del contribuente, siano in denaro, siano in natura». Procedendo per esclusione, si aggiunge subito che non sono entrata tassabile i «proventi straordinari, che abbiano carattere di aumento di capitali, come quelli derivanti da successione, donazione, assicurazione sulla vita, compravendita di beni immobili». Il che è logico perché queste entrate straordinarie sono già colpite da altre imposte sulle successioni e di registro; ed il tassarli ancora qui sarebbe stata una evidente duplice tassazione.

 

 

Procedendo per deduzione si nota ancora che il reddito netto può ottenersi solo dopo che dal reddito lordo si siano dedotte «tutte le spese e le passività inerenti alla produzione del reddito stesso»1898. Oltre alle spese propriamente dette, come il fitto del negozio, i salari degli operai, ecc. ecc., devono dedursi anche i pesi fondiari ed ipotecari, i canoni o censi e in generale gli altri pesi a carico del contribuente o dei cespiti che compongono il suo reddito, i premi per l’assicurazione contro gli incendi e contro i danni straordinari – ai beni. Tutto ciò sta benissimo: chi ha un reddito di terreni, o di case o di industria o di lavoro di 5.000 lire ed ha 2.000 lire all’anno di interessi di debiti da pagare, è giusto che paghi sul solo reddito netto di 3.000 lire. Se egli però, oltre a pagare 2.000 lire all’anno di interessi, rimborsasse 1.000 lire sul capitale preso a mutuo, le 1.000 lire non sarebbero dedotte, nel sistema della legge, dal reddito, perché non sono un peso gravante su di essi, ma una volontaria erogazione fatta allo scopo di diminuire il debito, ossia aumentare il patrimonio del contribuente.

 

 

La enumerazione dei pesi e spese deducibili, se è accurata, non è però compiuta. Manca l’indicazione di molte spese, fra cui sarebbe interessante vedere ricordate a parte almeno le seguenti:

 

 

1)    le imposte, le sovrimposte comunali e provinciali, i tributi camerali ed in generale qualsivoglia tributo che menomi il reddito netto residuo a mani del contribuente. Se questa deduzione non si sancisca in modo esplicito, non mancheranno tribunali e corti regolatrici, le quali diranno che il pagar tributi non è un peso, ma un modo di erogazione del reddito netto, dopo che questo è già ottenuto e quindi dichiareranno tassabili una seconda volta coll’imposta sul reddito le somme spese in pagamento di tributi.

 

 

2)    gli interessi di qualsiasi debito, anche chirografario o cambiario, a condizione che si conosca la persona del creditore e questi abbia pagato l’imposta di ricchezza mobile. A questa condizione, la deduzione non presenta nessun pericolo per il fisco ed è di evidente giustizia per il contribuente debitore.

 

 

3)    gli interessi pagati sulle operazioni di anticipazione, riporto o simili. Si tratta di debiti e sarebbe iniquo tassarli come se fossero redditi; perché se Tizio, possessore di una cartella di rendita del frutto di 1.000 lire l’anno, ha ottenuto, su pegno del titolo, una anticipazione che gli costa 600 lire all’anno di interessi, ha chiaramente solo un reddito netto di 400 lire, e su queste soltanto deve pagare l’imposta. Purtroppo, se ciò non è espressamente detto, ben difficilmente riuscirà il contribuente indebitato a far valere il suo buon diritto.

 

 

Ricordiamo per ultima una deduzione, che era davvero la più significativa e lodevole di tutte. Era una novità nel nostro sistema legislativo tributario; ed a differenza di tant’altre brutte novità, introdotte per spirito fiscale o scimmiottate dall’estero per supina imitazione di sedicenti progressi, era una novità degna di lode incondizionata. Vogliamo accennare alla deduzione dei premi annuali per l’assicurazione sulla vita in nome del capo di famiglia tassato. Alcuni legislatori esteri avevano già accolto il principio: quello prussiano esentando i premi di assicurazione fino a 600 marchi all’anno, quello inglese sino a concorrenza di un sesto del reddito totale del contribuente. Nessuno però l’ha accolto in misura così larga come il compilatore del disegno di legge italiano, il quale esenta, senza alcun limite, qualunque somma pagata a titolo di premio di assicurazione al nome del capo di famiglia. Questa è davvero una di quelle idee forze, accennate più su, che meriterebbero di non cadere in terreno sterile. Importa non solo abbracciarla e difenderla: ma affermare ben alto che essa ha una portata amplissima e fecondissima. Chi non ammetta la ragionevolezza del concetto del contribuente famiglia, deve logicamente estendere la esenzione ai premi di assicurazione pagabili al nome di qualunque contribuente, anche se con altrui convivente, e pur quelli pagati a nome della moglie o dei figli, non aventi redditi disponibili in proprio. Dovrebbero chiaramente proclamarsi deducibili non soltanto i premi per assicurazioni sulla vita intiera, ma pur quelli per assicurazioni miste o per pensioni immediate o differite. Una volta ammesso il principio, non bisogna arrestarsi a mezza via; bensì applicarlo nella sua integrità. Che si tratti di principio siffatto che la sua trascuranza sia una vera iniquità tributaria appare manifesto: colui il quale contrae una assicurazione in sostanza non fa altro che rinunciare ad un reddito attuale in cambio di un reddito futuro; rinuncia a 100, 200, 1.000 lire oggi per avere un equivalente reddito per sé o i suoi eredi in un tempo futuro, fra 10, 20, 30 anni. Egli opera un trasporto nel tempo del reddito: dal 1910 al 1940 a cagion d’esempio. Oggi, nel 1910, il reddito non vi è e non deve essere tassato; sorgerà e dovrà essere tassato, a nome del contribuente odierno, se vivo, o dei suoi eredi, se morto, nel 1940. Operare altrimenti è manifestamente tassare due volte lo stesso reddito. Se l’attuale disegno di legge avrà contribuito a togliere, anche in piccola parte, lo sconcio, diffusissimo nella nostra e nelle estere leggi d’imposta, della duplice tassazione dello stesso reddito, i suoi proponenti avranno bene meritato del risparmio nazionale.

Contributo di nolo e soluzioni provvisorie

Contributo di nolo e soluzioni provvisorie

«Corriere della Sera », 7 marzo[1] e 14 maggio[2] 1910

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 55-70.

 

 

 

 

I

 

I provvedimenti proposti dall’on. Bettolo a favore delle industrie marittime vanno segnalati sovratutto per una novità, che nei progetti precedenti non si riscontrava: il contributo di nolo. Non che questa sia la sola novità del progetto Bettolo, ma è senza dubbio la più significativa e quella che ha procacciato maggior plauso al suo autore.

 

 

Ecco, in breve, il succo di questo nuovo istituto di ausilio alla marina nostra.

 

 

Alle navi mercantili nazionali che effettuino trasporti di merci e passeggeri fra i porti del regno ed i porti esteri fuori del mediterraneo (compresi nel mediterraneo il mar di Marmara, il mar Morto e il mar d’Azoff) è concesso un contributo di nolo, corrisposto per ogni tonnellata in peso di merce importata ed esportata e per ogni mille miglia di percorrenza. L’ammontare del contributo non è fissato nella legge, essendo impossibile fissare in misura invariabile ciò che per sua indole è mutevole col variare dei prezzi, delle correnti commerciali, dell’altezza dei noli, ecc. ecc. Un comitato per i traffici marittimi, istituito presso il ministero della marina, avrà il geloso incarico di proporre le categorie o specie di merci meritevoli di godere il contributo di nolo e la misura di questo; e ad esso spetta altresì di rivedere gli elenchi delle merci e le misure dei contributi ad ogni tre anni. La legge fissa soltanto taluni principii di massima a cui dovrà informarsi la concessione dei contributi di nolo. Innanzi tutto dovranno premiarsi soltanto quelle merci importate, che siano greggie o semilavorate, destinate all’industria nazionale per subire da questa una prima od un’ulteriore lavorazione, e quelle merci esportate, che siano prodotti dell’agricoltura o dell’industria nazionale nelle sue singole forme. Aggiungasi che si potranno dar contributi anche per il trasporto dei passeggeri, i quali non siano emigranti; e l’esclusione è motivata dalla necessità di non offendere i vigenti trattati internazionali, i quali concedono parità di trattamento alla bandiera estera in confronto della nazionale. Agli effetti del contributo ogni passeggero è considerato uguale a due tonnellate di merce.

 

 

Poiché il ministro reputa più vantaggiosa la esportazione dall’Italia che la importazione in Italia, il contributo non solo è limitato alle merci importate che sieno materie greggie o lavorate, necessarie a dar incremento all’industria nazionale, ma ad esse è corrisposto un contributo minore, e può giungere sino ad un terzo soltanto, da quello che deve essere dato alle merci esportate. Poiché il ministro reputa altresì che sia più opportuno il traffico su linee regolari che su navi libere, così queste ultime (le navi addette a viaggi liberi) godranno di un contributo minore (che può essere solo della metà) di quello pagato alle navi appartenenti ad imprese marittime, le quali, in base a convenzioni con lo stato della durata di un periodo non minore di anni cinque, eserciteranno regolarmente il traffico tra i porti del regno ed uno o più determinati porti esteri situati fuori del mediterraneo. Che anzi, a queste linee regolari potrà, oltre il contributo di nolo, quando il loro carattere aleatorio lo richieda e fintantoché il traffico relativo non abbia preso un sufficiente sviluppo, essere concessa una sovvenzione fissa, non più di una sovvenzione per ogni linea, commisurata alle spese vive di esercizio, e da approvarsi dal parlamento. Inoltre, sempre alle linee regolari, potrà essere concesso il rimborso dei diritti pagati per il passaggio del canale di Suez.

 

 

Veggasi intanto quale sia realmente la portata di questo novello aiuto concesso alla marina cosidetta libera. Il disegno di legge stabilisce in 8.500.000 lire lo stanziamento massimo annuo di questo capitolo; ma dispone che da esso abbiansi innanzi tutto a detrarre le somme che, in virtù di leggi precedenti, sono tuttora dovute a titolo di premi di navigazione: ossia 3.531.043 lire nel 1910-11, 3.451.561 lire nel 1911-12 e via via scemando sino a 54.742 lire nel 1923-24, nel quale anno cessano. A mano a mano che scema l’antiparte da pagarsi per i vecchi premi di navigazione, cresce il residuo destinato ai nuovi contributi di nolo, i quali vanno così da un minimo di 4.968.957 lire nel 1910-11 ad un massimo di 8.500.000 lire nel 1924-25. Fatta la media dei 15 anni di durata della legge, saranno 1.410.187 lire destinate ai vecchi premi di navigazione e 7.089.813 lire residue per i contributi di nolo. Di questi sette milioni, un terzo (e cioè 2.363.271 lire) è destinato alle navi libere e due terzi (4.726.542 lire) alle linee regolari. Alle quali ultime, sulla dotazione ad esse assegnata per ogni linea sui due terzi sovracitati, viene innanzi tutto corrisposta la sovvenzione fissa che il governo avrà proposto ed il parlamento approvato per le linee specialmente aleatorie, ed insieme il rimborso dei diritti per il canale di Suez; e ciò che rimane sarà finalmente ripartito secondo le norme dei contributi di nolo. Onde appare che i pagamenti fatti a titolo di contributo di nolo non assorbiranno tutti gli 8 milioni e mezzo del fondo, ma soltanto le 2.363.271 lire assegnate alle navi libere ed il residuo delle 4.726.542 lire, che rimarrà dopo aver pagato le sovvenzioni ed i diritti di Suez alle linee regolari. Evidentemente le simpatie dell’on. Bettolo sono tutte per le linee regolari, le quali si avvantaggiano ancora di un’altra disposizione per cui le navi libere non potranno avere il beneficio dei contributi di nolo quando compiano viaggi e percorsi paralleli o concorrenti alle linee regolari.

 

 

Spiegato così il meccanismo e la portata delle proposte Bettolo, lo studioso sarebbe indotto a fare subito una assai ovvia osservazione: che il «contributo di nolo» non è una novità se non di nome, riproducendo in sostanza da un lato gli antichi premi di navigazione e dall’altro gli ancor più vecchi premi di importazione e di esportazione; e il discorso sarebbe senz’altro finito, perché l’esperienza dei risultati dannosi avuti in passato sì dagli uni che dagli altri dovrebbe far concludere ad una sommaria condanna di questo nuovissimo ed insieme antichissimo istituto. Ma sarebbe condanna che non avrebbe intima virtù di persuasione, perché l’esperienza storica non par fruttuosa ove non sia applicata alle mutate circostanze presenti ed i principii generali ricavati dalla esperienza del passato non sono, e giustamente, ritenuti validi se non siano provati e riprovati ogni giorno al saggio dei fatti contemporanei. Vediamo dunque se oggi, colle modalità immaginate dall’on. Bettolo, i contributi di nolo possano essere utilmente applicati.

 

 

Intanto una prima, e gravissima, difficoltà ci si para innanzi: la fissazione della misura del contributo. Dice l’articolo 19 del disegno di legge che il contributo è corrisposto per ogni tonnellata in peso di merce importata ed esportata e per ogni mille miglia di percorrenza, tenuto conto della natura della merce. Sembra che questo sia il miglior criterio per determinare oggettivamente il contributo; ma è tuttavia ben lontano dall’essere un criterio accettabile. Se invero il sussidio dato dal governo deve essere in realtà un «contributo» di nolo, deve poter seguire il nolo nelle sue oscillazioni, integrarlo dove è insufficiente, ridursi quando il nolo per se stesso è bastevole; deve, dunque, il contributo essere misurato nella stessa maniera o con gli stessi criteri con cui si misura il nolo. L’accessorio segue il principale e male si capisce un accessorio che profondamente diverga dal principale. Ora è vero che grossolanamente il nolo varia in ragione del peso delle merci, della loro natura e della distanza percorsa. Ma è un rapporto tutt’affatto grossolano; mentre si dà ogni giorno il caso che una merce più pesante sia trasportata ad un nolo più basso di una più leggera (ricordinsi i carichi di zavorra e i noli di ritorno, talvolta insufficienti a coprire le spese vive di esercizio e pure accettati ben volentieri dalle navi che senza di essi ritornerebbero a vuoto), che una merce più ricca sia trasportata ad un nolo più basso di una merce povera, e che sovratutto una merce sia trasportata ad uno stesso punto da due porti ugualmente distanti a noli diversissimi o sia trasportata a lunga distanza ad un nolo più basso che un’altra merce a breve distanza, che sia cioè il rapporto fra nolo e distanza mutevolissimo in sensi opposti ed apparentemente contradditori, per quanto assai bene spiegati dalla convenienza degli armatori. Questo è il difetto principale del contributo di nolo per quanto ha tratto alla sua misura: che esso irrigidisce in una norma legale, fissa ciò che è mutabilissimo nel tempo e nello spazio. Si potrebbe comprendere un contributo «ferroviario» regolato in base alla distanza, perché nelle ferrovie il costo dei trasporti varia in ragione della distanza, tutt’al più tenuto conto delle tariffe differenziali. Il mare invece è libero; e sul mare i noli variano di giorno in giorno, da una linea all’altra a seconda della concorrenza, dei traffici, delle stagioni, ecc. Pretendere di voler regolare ciò che per sua natura è irregolare, di «completare» con un «contributo» ciò che per indole sua è mobilissimo è pretendere l’assurdo, è l’esporsi a commettere errori continui, a dar contributi dove il nolo per sé è sufficiente, a non darne dove da solo non basta. Potrà darsi che il contributo favorisca le correnti commerciali; ma sarà per puro caso, non per merito del legislatore. Il contributo, misurato a miglia, finirà per essere un vero e proprio premio di navigazione; e nemmeno della miglior maniera perché premierà le navi che percorreranno più lunghe distanze, non quelle più veloci o più ben costrutte o più feconde di traffici.

 

 

Né più facile si presenta la determinazione dei mercati e delle linee che dovranno essere incoraggiate mercé il contributo di nolo. Le carte della reale commissione sui servizi marittimi riboccano di notizie sulla utilità di conquistare questo o quel mercato; e non passa giorno che dalle camere italiane di commercio all’estero, dai consoli e dalle rappresentanze commerciali non giungano inviti ad istituire linee nuove per mercati promettentissimi. Come si farà la scelta? Bisognerebbe avere milioni a palate per contentar tutti. A sceglierne solo alcune si corre rischio di essere accusati di partigianeria e di scegliere male. E valga il vero. Il consorzio autonomo del porto di Genova ha pubblicato di recente alcuni suoi belli ed interessanti rapporti sulla convenienza di istituire nuove linee per l’Australia, l’Estremo Oriente e l’America. Per limitarci a quest’ultima, il consorzio lumeggia l’importanza di linee fra l’Italia, il Centro America, New Orleans ed il Messico e di un’altra linea da Genova ai porti del Pacifico per lo stretto di Magellano. Sono persuaso anch’io della loro importanza; ma deve essere ancora data la dimostrazione, per alcune di queste linee – quelle che tendono al golfo del Messico e che mirano alle coste del Pacifico attraverso il canale di Panama (dopo la sua apertura promessa dal governo americano per il 1912) – che esse non possano essere esercitate, con una accorta organizzazione tecnica ed economica, senza bisogno di contributi dallo stato. Né sono persuaso che l’altra linea, da Genova alle coste del Pacifico attraverso lo stretto di Magellano, per cui specialmente si chiedono i contributi di nolo, possa essere feconda di utili risultati. Per il traffico dei passeggeri no certo, perché tutti seguiteranno a preferire lo sbarco a Buenos Aires e l’attraversamento in ferrovia del continente al lunghissimo viaggio per mare. Supporre il contrario equivale a credere che vi possa essere una sola persona che, per andare da Genova a Pietroburgo, non prenda il direttissimo ma si imbarchi a Genova ed attraverso lo stretto di Gibilterra, l’Atlantico e il mare del Nord preferisca arrivare per acqua alla meta. Quest’uno ci può essere; ma il suo sarà un viaggio di piacere. Quanto alle merci qualche risultato si può ottenere; ma è d’uopo chiedere: val la pena di iniziare un traffico che fra due anni, o tre o quattro al massimo, dovrà essere interrotto forzatamente perché, per andare al Cile, al Perù, od in California, moltissime navi abbandoneranno lo stretto di Magellano per il canale di Panama? Si dirà: intanto le navi ci saranno, già adusate al traffico, e invece dell’una seguiranno l’altra via. Nemmeno questo è vero; perché le navi atte a navigare nei climi freddi, attraverso le tormente di neve e di ghiacci ed i pericoli dei mari del Sud non potranno essere le stesse, od almeno non potranno dare lo stesso utile rendimento di quelle navi che saranno atte ai mari caldi ed al canale di Panama. Le navi, che oggi saranno mandate a conquistare i mercati delle coste del Pacifico, pescheranno forse ottimi contributi di nolo; ma poco giovamento recheranno alla economia nazionale e intiepidiranno l’entusiasmo di quegli ardimentosi che fin d’ora (ed il tempo non avanza) volessero preparare navi e capitali e organizzazione per prepararsi alla conquista dei mercati californiani e sud americani, appena fosse aperta la via del canale. Se questi dubbi fa sorgere una proposta lungamente studiata del Consorzio del porto di Genova, quali più forti dubbi sorgeranno nell’atto di scegliere tra le cento e cento proposte diverse dei postulanti al contributo di nolo! Anche qui si potrà scegliere bene; ma il caso soltanto sarà responsabile delle buone come delle cattive scelte.

 

 

Ancor più ardua sembra la scelta delle merci da incoraggiare coi contributi di nolo. Vedemmo sopra come siano sette milioni di lire al massimo da ripartirsi in contributi pagabili in ragione delle merci importate ed esportate. Probabilmente, detratti i rimborsi per il canale di Suez e per le sovvenzioni fisse, i milioni non sorpasseranno i quattro o cinque, di cui una parte dovrà andare ai passeggeri. Di fronte a questi pochi milioni, a quali cifre ascende il commercio internazionale da incoraggiare? Secondo le ultime statistiche del 1909 ben 3 miliardi e 79 milioni di lire all’importazione ed 1 miliardo e 883 milioni all’esportazione. Falcidiamo pur largamente per tener conto solo delle merci greggie e semilavorate all’importazione e dei prodotti dell’agricoltura e dell’industria all’esportazione; rimarranno pur sempre 1 miliardo e mezzo all’importazione (nel 1908 vi erano stati 1 miliardo e 63 milioni di materie gregge e 560 milioni di semilavorate) e 1 miliardo circa alla esportazione (nel 1908 erano stati 434 milioni i prodotti fabbricati e 494 i generi alimentari e animali vivi esportati) che accamperanno un diritto generico al contributo. Si dimezzino ancora queste cifre, per tenere conto solo delle correnti commerciali marittime e di altri motivi di scarto; e saranno 750 milioni di lire di merci importate e 500 milioni di lire di merci esportate, tra cui dovrà farsi la scelta, per dare 1 milione e mezzo alle prime e 3 milioni alle seconde. Ripartito su tutte, il premio sarebbe irrisorio: dal 2 al 6 per mille del valore della merce. Perché il premio sia rilevante ed efficace bisogna dunque concentrarlo su alcune merci soltanto.

 

 

Qui comincerà una nuova e più tormentosa ricerca. Sarà necessario evitare di dar contributi al trasporto di merci avviate verso paesi che fossero pronti a rispondere al nostro larvato premio di esportazione con equivalenti dazi di ritorsione, i quali ne annullerebbero il beneficio. Non sarà agevole conciliare questa pur necessarissima eliminazione con la opportunità di conquistare questo o quel mercato straniero: si sa, ad esempio, come siano gelosi della integrità delle loro tariffe doganali gli Stati uniti e pronti a ricorrere alle estreme offese contro qualunque minaccia, anche ascosa e larvata, di premi di esportazione. Troppo spesso accadrà che la scelta del mercato si trovi in stridente contrasto con la scelta della merce. Né basta: bisognerà anche eliminare quelle merci, favorendo l’esportazione delle quali con un adatto contributo di nolo si corra il rischio di dare un’arma in mano ai produttori nazionali per aumentare i prezzi della rarefatta merce rimasta in paese, a danno dei consumatori italiani. È degno di encomio il desiderio di un poderoso sviluppo delle esportazioni; ma non bisogna finir di esportare troppa roba col pericolo di rincarare i prezzi di quella poca che è rimasta in paese. Ognun sa che i sindacati (cartelli) tedeschi danno un contributo agli esportatori per sfollare il mercato interno; e di ciò si lagnano gli industriali italiani che sono soggetti alla concorrenza sotto costo dei prodotti tedeschi premiati e si lagnano del pari i consumatori tedeschi che pagano care le merci che i sindacati paesani si degnano di riservare loro. Dovrà essere cura – e senza dubbio difficilissima cura – del governo di non dare contributi di nolo all’esportazione di merci che i consumatori italiani abbiano desiderio di non pagare troppo care. Finalmente – a non citare che un ultimo caso fra i parecchi che ancora rimarrebbero da trattare – dovrà il contributo di nolo non essere dato a quelle materie greggie o semilavorate importate che siano prodotte altresì da agricoltori od industriali italiani incapaci di sostenere la concorrenza di queste merci straniere importate in abbondanza mercé il contributo di nolo governativo? Io non sono tenero del protezionismo; tutt’altro. Ma non posso non vedere una contraddizione non agevolmente superabile tra il mettere dazi contro le merci straniere e il favorirne l’importazione con contributi di nolo. Alte saranno le lagnanze dei produttori interni minacciati da una concorrenza estera sussidiata e favorita dal governo italiano, tanto più alte in quanto l’Italia è un paese produttore in ispecial modo di merci greggie e semilavorate, ossia precisamente di quelle merci a cui l’on. Bettolo vorrebbe largire i contributi di nolo. In qual maniera sia possibile districarsi da queste e simiglianti difficoltà, io non so; ma è bene che le difficoltà non siano ignorate; bensì sottoposte ad accurato vaglio.

 

 

A chi spetterà fare la triplice gelosa scelta della misura del contributo, del mercato e linea e della merce? Non sembra adatto il parlamento, poiché esso deve deliberare per lunghi periodi di tempo, e nulla più del contributo di nolo deve essere mobile e pieghevole per adattarsi alla pieghevole indole del nolo, che esso dovrebbe integrare. Il parlamento poteva fissare i premi di navigazione, di velocità, di armamento che erano determinati in base a criteri tecnici, che per alcuni anni si possono supporre stabili. Non è più adatto a fissare i contributi di nolo, per la contraddizione che nol consente della fissità del contributo e della variabilità continua del nolo. Ma se è disadatto il parlamento, dà guarentigia di efficace scelta il consesso creato dal disegno di legge? È noto come la ripartizione dei contributi sia affidata ad un comitato per i traffici marittimi, presieduto dal ministro della marina e composto del direttore generale della marina mercantile, di un delegato del ministero delle finanze, di un delegato del ministero di agricoltura, industria e commercio, di un delegato delle ferrovie di stato, di due delegati (armatori) del consiglio superiore della marina mercantile, di tre delegati di camere di commercio, e dei capi degli uffici per la navigazione sovvenzionata. Questa accolta di alti funzionari e di rappresentanti ufficiali dell’industria marittima e del commercio dovrà ogni tre anni stabilire le categorie o specie di merci ammesse a godere del contributo di nolo e la misura di questo; dovrà far la scelta fra i mille e mille postulanti, designare le poche merci favorite e le molte reiette, fissare le percorrenze allietate dalla pesca del contributo di nolo e stabilire di questo la variabile misura. Altri disse che si voleva istituire presso il ministero della marina un nuovo fondo segreto. Segreto non sarà, poiché dovranno rendersi di pubblica ragione le somme distribuite alle compagnie ed agli armatori; ma sarà ad ogni modo una moltissimo perniciosa macchina di sospetti e di favoritismi parlamentari e politici, aggiunta alle altre molte che inquinano la vita italiana, senza il freno della preventiva pubblica discussione, unico schermo rimasto nei tempi moderni contro l’onnipotenza della burocrazia e delle clientele parlamentari.

 

 

II

 

La questione dei servizi marittimi è tornata dinnanzi ad una camera disposta ad accettare per stanchezza una qualsiasi soluzione provvisoria, che per un po’ di tempo la liberi dal fastidio di dover prendere una meditata e definitiva risoluzione. Né, a dire il vero, è agevole – dinnanzi ad un progetto il quale proclama ben alto il suo carattere di provvisorietà – al critico spassionato usare quei criteri di giudizio che sarebbero a posto, ove si trattasse di una soluzione definitiva. Di qui l’opportunità di limitare l’esame a vedere se i patti, che ora si affermano temporanei, non abbiano difetti evitabili puranco in un regime di provvisorietà o non siano siffattamente congegnati da lasciare una eredità malaugurata a quello che sarà il regime definitivo. Se a queste critiche il disegno odierno non prestasse il fianco, esso potrebbe non essere buono in senso assoluto, e pure potrebbe chiarirsi approvabile come il men peggio, in attesa del meglio. Mentre, nel caso contrario, il regime provvisorio dovrebbe essere corretto subito, senza aspettare la perfezione avvenire, la quale, dati gli umori del parlamento e la incapacità finora da esso dimostrata nell’indicare al governo la via da seguire, sembra davvero relegata ad un avvenire lontanissimo.

 

 

Poche parole riguardo alla proroga del regime attuale per le industrie delle costruzioni marittime e della marina libera. Trattandosi, quasi in tutto, di una proroga pura e semplice, non si toglie nulla al bene e non si aggiunge nulla al male che, a seconda delle varie opinioni, poteva aver operato finora il regime vigente; onde la proroga non offre materia a nuove critiche od a novelle lodi oltre quelle che già si fossero fatte. I più criticarono in passato – e lo scrivente è con essi – il regime vigente come impotente a promuovere il fiorire della marina libera, attissimo per contro ad asservirla ai cantieri e ad aggiogar questi all’industria metallurgica; e siffatte critiche seguiteranno ad aver valore per un altr’anno. La proroga di suo apporta due novità: l’una buona, l’altra non approvabile. La prima novità è la soppressione dei diritti consolari gravanti sulle navi nazionali, la riduzione della tassa di registro negli atti relativi alla costruzione ed alla proprietà delle navi, l’esenzione dal diritto di bollo per gli atti di nazionalità, dei ruoli degli equipaggi, del giornale nautico, del certificato di stazza, ecc. ecc. Ognun sa che la gravezza di queste tasse è cagione di inferiorità della bandiera italiana di fronte alle bandiere estere; epperciò bene aveva fatto l’on. Bettolo a ridurre e sopprimere le gravezze maggiori nel suo disegno di legge; e bene opera il ministro attuale nell’accogliere sin d’ora il fecondo concetto. E poiché in Italia il provvisorio è la sola cosa la quale duri a lungo, auguriamoci che gli sgravi odierni di tasse per l’industria marinara entrino definitivamente nel regime fiscale dell’industria marittima. L’on. Luzzatti non ha voluto però accettare dal progetto Bettolo la riduzione dal 10 al 5% dell’imposta di ricchezza mobile per le industrie marittime. Non tenero dei favoritismi particolari in materia di imposte generali non so dargli torto. Ma forse l’on. Bettolo voleva, riducendo l’aliquota dell’imposta dal 10 al 5%, diminuire il danno, che talvolta oggi si avvera, per cui si paga il 10% su redditi accertati dall’agenzie delle imposte in misura superiore alla reale. Se i profitti esistono, non c’è ragione perché l’industria marinara paghi il 5 mentre le altre pagano il 10 per cento. Il guaio si è che talvolta si paga il 10% su redditi ipotetici, consumati da ammortamenti o da spese che la finanza non riconosce; onde la riduzione al 5% poteva voler dire un compenso all’eccesso di tassazione degli accertamenti. La questione, se è grossa, non è però nemmeno essa peculiare all’industria marittima. Tutte le imprese ed in ispecie quelle anonime sono in lotta col fisco per gli ammortamenti, le riparazioni, le riserve; onde ben venga una legge nuova, generale, per tutte le industrie, la quale chiarisca che cosa è reddito e che cosa è spesa; e consenta la tassazione solo per il primo; e non sulla seconda.

 

 

La seconda novità del disegno di legge, nella parte relativa alle costruzioni navali, è la seguente: ai costruttori di navi, per le navi dichiarate ed impostate nei cantieri nazionali dopo l’1 luglio 1910, si lascierà la scelta tra i provvedimenti vigenti, stabiliti dalla legge 16 maggio 1901, e i provvedimenti che saranno stabiliti dalle leggi future in materia. Un tal diritto di scelta a me non sembra opportuno. I costruttori, quando sieno persone di senno, se imposteranno oggi, prima della nuova legge, una nave in cantiere, faranno ciò in base agli attuali benefici certi, concessi dalla legge vigente; non mai sulla speranza di una legge futura, incerta, che potrebbe anche non venire mai o concedere benefici minori di quelli attuali. Chi agisse altrimenti non sarebbe un industriale serio, bensì un giocatore al lotto e di costoro non è mestieri preoccuparsi. Dato ciò, la legge futura, o concederà benefici maggiori o li darà minori della legge attuale. Se i benefici odierni valgono 10 e quelli futuri varranno 9, è chiarissimo che nessun costruttore di navi, avendo libera scelta, rinuncierà al 10 per contentarsi del 9. Se i benefici odierni varranno 9 e quelli futuri 10, tutti i costruttori rinunceranno al 9 per pretendere il 10; ed in tal caso non è forse vero che lo stato avrà inutilmente regalato ad essi 1, postoché si erano già `contentati di 9? Per qual ragione lo stato deve dare del suo a chi, col fatto, dimostra di non averne bisogno e neppure vi aspira?

 

 

Più grave è la materia della marina sovvenzionata, irta di interessi regionali e di complicazioni tecniche; più arduo quindi il giudizio. Procurerò di mettere innanzi in forma schematica alcuni dubbi che sorsero in me dalla lettura del disegno e della relazione.

 

 

1)    Il contratto provvisorio fa rivivere tutte le vecchie linee della Navigazione generale italiana, con mutamenti insignificanti. Se una conclusione sicura era balzata fuori dai rapporti della commissione reale, dai dibattiti parlamentari, dalle discussioni sui giornali, questa era: che alcune linee erano politicamente necessarie, pur essendo economicamente improduttive, alcune erano per ora commercialmente passive, pur promettendo bene per l’avvenire, altre erano politicamente ed economicamente inutili, ora e poi, e le ultime infine erano economicamente attive, anche senza bisogno di sovvenzione. Se si possono trovare argomenti validi Per giustificare una sovvenzione alle prime due categorie di linee, nessun argomento può addursi a legittimare lo spreco dei denari dello stato per linee che nulla promettono e per linee che hanno in se stesse l’energia di vivere. L’attuale progetto di legge continua l’inconveniente di pagare sovvenzioni di stato alla cieca, senza alcuna discriminazione. I milioni dati in passato alla marina sovvenzionata non giovarono in nulla – almeno è questa opinione quasi universale – al progresso della marina italiana. Per tre anni, e forse per più, continuerà questa strana condizione di cose, che uomini di stato eminenti contribuiscano a far spendere denari in un modo che tutti son d’accordo nel giudicare sfavorevolmente in base ad una lunga dolorosa esperienza. Unica speranza di salvezza per l’avvenire è l’obbligo fatto alla compagnia concessionaria di compilare una statistica dei redditi e delle spese delle singole linee, cosicché si possa a ragion veduta sapere finalmente quali e per qual somma siano le linee attive e quali le passive. L’attendibilità di siffatte statistiche potrebbe essere garantita solo se lo stato avesse poteri assai rigorosi di controllo; poteri che il progetto Schanzer aveva architettato, ma tutti aveano unanimamente condannato, siccome tali da togliere ogni libertà di movimento alla società concessionaria.

 

2)    Il contratto provvisorio aumenta le percorrenze, le velocità e il tonnellaggio in confronto al contratto vigente colla Navigazione generale; e quindi, aggiunge la relazione, è giusto che le sovvenzioni siano alquanto cresciute, in complesso di circa 2 milioni di lire, in confronto delle sovvenzioni vecchie. Se il ragionamento finisse qui, non vi sarebbe alcuna osservazione da fare. Ma la stessa relazione dichiara che la Navigazione generale già in passato ed ancor al presente ha accresciuto spontaneamente le percorrenze, le velocità ed i tonnellaggi. «È noto che l’attuale società adibisce ad alcune linee piroscafi di maggior tonnellaggio e di maggior velocità di quelli prescritti dai contratti; e ciò conduce in parte ad un miglioramento dei servizi; come è altresì noto che la società stessa esegue percorrenze in più di quelle prescritte, senza percepire alcun aumento sulla sovvenzione». Se tutto ciò è vero, vuol dire che la Navigazione nel proprio interesse, per guadagnar maggiormente, ha accresciuto – e di ciò le deve essere data lode – velocità, tonnellaggi, percorrenze, trovando in tali agevolezze concesse al commercio un tornaconto finanziario. Perché lo stato dovrebbe ora, soltanto allo scopo di rendere obbligatorio un miglioramento, già esistente di fatto, nei servizi, deliberato spontaneamente dalla società nel proprio interesse, spendere qualche milione in più? Finora si riteneva che le sovvenzioni potessero accordarsi alle linee povere attualmente di traffico, ma feconde di utili in avvenire; e si diceva che a mano a mano che il traffico si sviluppava, la sovvenzione avrebbe dovuto essere ridotta. Se trionfasse il concetto del disegno di legge, le sovvenzioni dovrebbero essere regolate proprio al rovescio. Ogni aumento di traffico che provoca velocità maggiori, percorrenze più lunghe, tonnellaggi più forti diventerà in avvenire un argomento per aumentare la sovvenzione. Illazione evidentemente assurda.

 

3)    Dubbi gravi sorgono pure sulle conseguenze che avranno sul regime definitivo le norme le quali impongono allo stato l’obbligo di far rilevare al concessionario definitivo i piroscafi usati di età non superiore ai 12 anni, per un prezzo globale non superiore ai 6 milioni di lire ed i piroscafi nuovi al valore iniziale diminuito del 6% all’anno. Che fosse difficile trovare una società seria, disposta ad esercitare i servizi sovvenzionati colla spada di Damocle della diffida ad ogni anno e col rischio di trovarsi sulle spalle un materiale navale non utilizzabile, si capisce assai agevolmente. Ma la difficoltà di trovare – od almeno il prezzo del rischio – sarebbe forse stata minore se la nuova società avesse potuto provvedersi del materiale navale dovunque lo avesse trovato a miglior mercato. Navi in vendita se ne trovano dappertutto; e, se si sono comprate al prezzo corrente, si possono tornare a rivendere al prezzo corrente. Il rischio della nuova società provvisoria sarebbe stato ridotto al minimo – tanto più che attualmente i prezzi delle navi hanno una tendenza ferma e sono maggiori le probabilità per un rialzo che per un ribasso – cosicché la società avrebbe forse potuto vendere fra due o tre anni le navi, comperate oggi, ad un prezzo migliore di quello di acquisto. Evidentemente però la nuova società provvisoria non ha le mani libere; deve forse comprare a prezzi particolari, non correnti, le vecchie navi della Navigazione generale e deve fare costruire le nuove navi in Italia ad un costo superiore al prezzo probabile di vendita sul mercato internazionale. È naturale che tutto ciò si rifletta sulla sovvenzione, la quale è probabilmente più alta di quello che sarebbe stata se il concessionario provvisorio avesse avuto le mani perfettamente libere. Il guaio si è che questa situazione provvisoria avrà il suo riflesso fatale sul regime definitivo. Il governo infatti avrà l’obbligo di far acquistare dalla società definitiva le vecchie navi ad un prezzo non superiore ai 6 milioni, ma sicuramente superiore al prezzo corrente; ed in ogni caso avrà l’obbligo di fare acquistare navi vecchie, che la futura società, se fosse libera, non penserebbe certamente a comprare. La futura società farà tutto ciò che il governo le imporrà; ma vorrà, a compenso dell’onere maggiore, un aumento di sovvenzione. Il regime attuale, attraverso al periodo provvisorio, aduggia fatalmente con la sua ombra sinistra il regime definitivo.

 

 

Sono dubbi cotesti che governo e parlamento potranno in parte far scomparire, migliorando alcune tra le clausole dello schema di convenzioni provvisorie. Che ogni ragione di scetticismo sull’avvenire della marina italiana possa essere eliminato, sarebbe però temerario sperare. L’ossessione della scadenza delle convenzioni e delle leggi vigenti al 30 del mese prossimo esercita una tale influenza su governanti e su parlamentari, che è venuta meno in tutti la serenità necessaria a preparare il terreno al regime avvenire. Chi scrive pensa che tutto questo terrore del finimondo che dovrebbe venire all’1 di luglio sia stranamente esagerato. Se la fortuna volesse che a quella data fatidica il parlamento non avesse potuto prendere alcuna risoluzione, si vedrebbero i traffici svolgersi tranquillamente, come se nulla fosse accaduto. O se qualche perturbazione fosse per verificarsi, sarebbe momentanea e di gran lunga meno vasta e profonda di altre crisi che tuttodì vediamo verificarsi e risolversi senza lasciar tracce apprezzabili.

 

 

Non giova però negare che sono pochissimi coloro i quali, al par di chi scrive, vedrebbero con tranquillità ed anzi con piacere avvicinarsi il 30 giugno senza che nulla si fosse conchiuso in materia di convenzioni marittime. Tutti coloro che hanno od hanno avuta o potranno avere la responsabilità del governo in Italia, ritengono pericoloso, per motivi politici, economici e di ordine pubblico, rinunciare al mantenimento, anche per breve tempo, delle linee sovvenzionate. Poiché questa è la loro persuasione, è d’uopo che si adattino a condizioni che non sono le migliori che si potrebbero con più calma ottenere. Importa tuttavia che, se non si possono ridurre i sacrifici al minimo che si otterrebbe con una convenzione definitiva, si riducano a quel minimo che sia compatibile con un contratto il quale ha nome di provvisorio. A siffatto compito non verranno meno governo e parlamento.

 

 



[1] Con il titolo Il contributo di nolo [ndr].

[2] Con il titolo La soluzione provvisoria del problema marittimo [ndr].

Le “entrate” escogitate da Sonnino e la riforma dei tributi locali

Le “entrate” escogitate da Sonnino e la riforma dei tributi locali

«Corriere della sera », 14 febbraio 1910

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.IlI, Einaudi, Torino, 1960, pp. 79-84.

 

 

 

 

Un giudizio sull’ampio programma finanziario dell’on. Sonnino non può essere dato senza una avvertenza preliminare: che per il momento e per ipotesi si suppongano buoni i fini che si vogliono raggiungere, ossia le nuove spese a cui dovrebbe provvedere il progettato aumento di tributi. È una premessa che si fa esclusivamente per comodo di critica, allo scopo di giudicare le entrate e le spese secondo i propri meriti o demeriti specifici, salvo poi a raffrontare l’una all’altra e concludere che le spese sarebbero utili a farsi, ma non si possono fare perché i mezzi scelti a sopperirvi sono cattivi, ovvero che le nuove entrate sarebbero accettabili ma non devono essere approvate perché sarebbero devolute a fini inutili o dannosi. Discorriamo dunque oggi delle entrate, che sono del resto la materia propria della finanza pubblica. Le spese sono determinate in base a criteri così vari e da forze così disparate che la finanza purtroppo è spesso impotente, nonché a criticarle, a porre un qualsiasi freno al loro dilagare, che, per essere un malanno antico ed universale, si è preso persino l’abitudine di chiamare fatale.

 

 

Le nuove entrate, escogitate dal ministero Sonnino, fanno buona impressione. Poiché l’imposta sul tabacco è, a parer mio almeno, l’ottima fra le tante imposte che colpiscono il contribuente italiano, un lieve inasprimento della tariffa di vendita delle sigarette non può sollevare critiche se non da un punto di vista che potrebbe essere ritenuto persino di preveggenza eccessiva. Voglio dir cioè che è sempre opportuno conservare in bilancio una riserva latente di maggiori gettiti per i momenti di difficoltà, di pericolo nazionale, che non si può affermare certamente siano senz’altro esclusi per l’avvenire in Italia.

 

 

È bene che il governo abbia a sua disposizione una sorgente potenziale, non utilizzata, di proventi; e deve essere una sorgente provvidamente pronta a dare milioni su milioni, senza ritardi e senza attriti. Quale miglior imposta di quella sul tabacco può adempiere a questa utilissima funzione? Un piccolo e breve decreto, ignoto fino all’istante in cui deve essere applicato, basta alla fabbrica dei milioni. Non basta tuttavia più quando si sia spinta al massimo, già in tempo di pace, la produttività del tributo. Auguriamoci che, neanche coll’attuale aumento, si sia raggiunto il punto di massimo rendimento di questa meravigliosa imposta; e che il fumo possa, in caso di gravi distrette del paese, essere ancora chiamato a contributo.

 

 

Insieme coi fumatori di sigarette, sono stati chiamati a contributo i fabbricanti di zucchero. Ho detto a bella posta fabbricanti, perché il congegno dell’aumento di tributo esclude ogni danno per i consumatori di zucchero. Invero, come bene ha rilevato l’onorevole Salandra, il prezzo dello zucchero in Italia è dato dal prezzo all’estero (Trieste), più il dazio doganale che lo zucchero estero deve pagare per entrare in Italia. Nessuno di questi due fattori (prezzo estero e dogana italiana) è variato colle proposte Sonnino e perciò il prezzo non potrà essere aumentato all’interno. I soli fabbricanti di zucchero saranno toccati, perché l’imposta sul raffinato da lire 70,15 è portata a lire 72 a partire dall’1 luglio 1910 e via via crescendo fino a lire 77 dall’1 luglio 1914. La protezione ai zuccherieri rimane ridotta così subito di lire 1,85 e fra 4 anni di lire 6,85; mentre il progetto Giolitti la riduceva subito di lire 8,85 e dopo cinque anni di lire 13,85. Sembra che l’on. Sonnino, nel ridurre la protezione agli zuccherieri, abbia adottato quei criteri di moderazione e di temporeggiamento che i più autorevoli fra gli interessati medesimi avevano invocato durante le polemiche di due mesi fa. Cosicché, senza arrecare un danno insopportabile ai fabbricanti, lo stato incasserebbe una forte somma senza far pagar nulla di più al contribuente. Non dico che ciò sia tutto quello che potrebbe dare una riforma del regime doganale degli zuccheri, ma è certo qualcosa che, senza danneggiare il consumatore, avvantaggia lo stato.

 

 

Le restanti proposte non toccano più le sole finanze dello stato, ma queste insieme con le finanze degli enti locali. Quanto alle provincie, la concessione ad esse fatta di metà del provento della tassa sulle automobili risponde ad un antico voto delle provincie, le quali mantengono le strade che alle automobili servono; il trapasso dell’ultimo decimo di guerra sui terreni consacra l’inizio di quel passaggio agli enti locali delle imposte erariali sulla proprietà immobiliare, che la maggior parte degli studiosi da tempo invoca ad imitazione di talune celebri riforme straniere, tra cui famosissima quella prussiana del Miquel.

 

 

Del pari le proposte di riforma dei rapporti tributari fra stato e comuni paiono copiate da qualcuno dei tanti, più o meno rassomigliantisi, progetti di riforma tributaria messi innanzi dagli studiosi negli ultimi tempi. È risaputo invero che si era andata formando una certa communis opinio in questo problema, di cui i caposaldi erano: abbandono ai comuni di tutto il provento del dazio consumo, tributo essenzialmente d’origine locale, male adattato alla natura nazionale dello stato moderno; avocazione allo stato dei tributi, globali e personali sul reddito, adattatissimi alla estensione nazionale dello stato e graduale limitazione, a vantaggio dei comuni, del diritto di imporre tributi reali, sulle terre, sulle case e sulle industrie, gravanti cioè su fonti localizzate territorialmente. Il programma dell’on. Sonnino si muove su queste linee e deve essere approvato da tutti quelli che hanno costantemente affermato e dimostrato che l’Italia non poteva sottrarsi a quella evoluzione tributaria, a cui avevano obbedito già gli stati più del nostro progrediti nell’assetto delle imposte.

 

 

Confesso candidamente che, se le proposte Sonnino di mutazione dei rapporti finanziari fra stato e comune poggiassero soltanto sull’esempio straniero, non esiterei un istante a condannarle. Gli esempi dell’estero hanno servito a far penetrare nel nostro paese tante idee balorde e tante riforme perniciose che l’imitazione dell’esempio straniero mi sembra sufficiente a far condannare a priori qualunque proposta di riforma. Del resto parmi che noi italiani non s’abbia ad andare scimmiottando tutto ciò che, bene o male, all’estero si fa, quando gli stranieri più dotti riconoscono che la legislazione fiscale italiana offre tipi d’imposta degnissimi d’imitazione, ed imitati da quegli stranieri medesimi che noi ogni altro giorno esaltiamo come progressivi e moderni valga per tutti l’esempio dell’italiana imposta di ricchezza mobile, imitata a gara da taluni recenti riformatori dell’income tax inglese e dal Caillaux di Francia.

 

 

Ma, per fortuna, le proposte di riforma dei tributi locali dell’on. Sonnino mi paiono, nelle somme linee, raccomandabili in se stesse, senza d’uopo di ricorrere affatto alla consacrazione straniera:

 

 

1) La avocazione dell’imposta di famiglia allo stato si imponeva. L’esempio, stavolta nostrano e probante, di Milano era stato decisivo. Un comune non può, per quanto esso sia amministrato con sapienza ed imparzialità, imporre con buoni frutti un tributo personale sui redditi globali. Troppi mezzi gli mancano per potere accertare i redditi cittadini, e tanto più quelli originanti fuor della cerchia comunale; troppi attriti sorgono tra comune e comune per la localizzazione del reddito. L’imposta sul reddito o è di stato o dà mali frutti. L’avocazione allo stato risparmierà inoltre gli sperimenti pericolosi che in un prossimo avvenire sarebbero certo derivati dall’avvicendarsi dei politici al governo dei comuni. Accadde in passato ed accade oggidì che in molti comuni meridionali e forse anche settentrionali, l’imposta di famiglia sia un testatico, quasi puro, uguale per tutti i contribuenti, qualunque sia la loro ricchezza, con sfregio evidente della giustizia distributiva. Ma potrà accadere e forse accade già, che, per ragion di contrasto, i popolari, andati al potere, gravino quasi soltanto la mano sui pochi ricchi, con offesa altrettanto evidente alla giustizia distributiva. Diventando l’imposta di stato, sarà assai più difficile che si giunga a questi estremi di spogliazione.

 

 

2) L’abbandono del dazio consumo governativo ai comuni fa sì che lo stato, mentre assume un’entrata di carattere nazionale, come l’imposta di famiglia, restituisca un’altra entrata che è di carattere indubbiamente locale, perché legata ai consumi che sul luogo fanno coloro che si giovano dei servizi comunali. L’esame delle norme particolari del disegno di legge gioverà a dimostrare se, nel momento in cui fa questo abbandono, lo stato abbia saputo ideare le guarentigie opportune ad impedire l’abuso che i comuni potrebbero fare del delicatissimo strumento di tassazione. Urgerebbe, ad esempio, che si inserissero norme tassative per impedire che i comuni si servissero della tariffa daziaria per concedere una indebita protezione alle industrie viventi entro le mura di una città contro le industrie italiane extra moenia. L’approvazione di una tariffa doganale protezionista da parte di una grande città, come Torino, dovrebbe essere impedita, ed anzi dovrebbe essere fatto obbligo ai comuni di procedere ad una revisione preventiva delle tariffe daziarie, prima ed allo scopo di ottenere il beneficio del condono del canone governativo. La revisione dovrebbe ispirarsi a due concetti:

 

 

a) semplificazione delle tariffe, con eliminazione di moltissime voci poco produttive e gravanti su consumi necessari;

 

 

b) abolizione di qualunque vestigio di protezionismo municipale. Senza questa revisione preliminare, l’abbandono integrale del dazio consumo ai comuni potrebbe fare più male che bene, mettendoli in grado di abbandonarsi alle più strambe fantasie tariffarie;

 

 

3) Ottimo è infine il concetto che debba esistere un rapporto, fissato per legge, fra il dazio consumo e la sovrimposta sui terreni e sui fabbricati. L’autonomia od autarchia comunale è forse una gran bella cosa; ma in materia di tributi i freni sono necessari. Altrimenti si vedrebbero comuni, dove spadroneggiano i popolari, abolire o quasi il dazio consumo ed aumentare le sovrimposte sino ad assorbire i redditi dei proprietari; e se ne vorrebbero altri, in balia dei proprietari fondiari, rifiutarsi ad elevare la sovrimposta ed abbandonarsi a fantastiche elevazioni delle tariffe dei dazi a danno dei consumatori. Il legislatore deve impedire queste alterne sopraffazioni e non lo può se non fissando un rapporto fra il rendimento dell’uno e dell’altro tributo. Il rapporto deve essere elastico, in guisa da adattarsi alle variabili e mutevoli condizioni delle finanze comunali; ma deve essere stabilito per legge ed è merito dell’on. Sonnino averne proclamato la necessità,

 

 

 

 

Leghe operaie, produttività del lavoro e problema delle abitazioni

Leghe operaie, produttività del lavoro e problema delle abitazioni

«Corriere della Sera», 4[1] e 6[2] febbraio, 19 giugno[3] 1910

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 29-37

 

 

 

 

I

 

Il dott. Alessandro Schiavi, direttore dell’Ufficio del lavoro della Società umanitaria, ha indirizzato alla direzione del «Corriere della sera» la seguente lettera:

 

 

Nel suo articolo «Dopo il congresso delle case popolari» Luigi Einaudi, a proposito dei «metodi negligenti e volutamente lenti dei muratori, i quali costruiscono le case nuove», domanda: «Perché la Società umanitaria non istituisce nella sua utilissima scuola di legislazione sociale un corso in cui si spieghi che la scarsa produttività del lavoro aumenta il costo del prodotto, ne scema il consumo e quindi per riflesso la produzione, con aumento fatale nelle schiere dei disoccupati e degli emigranti verso paesi più benigni?» Come direttore di siffatta scuola, mi permetto di ricordare all’Einaudi che non solo nel corso di economia politica il prof. Osimo dedica una lezione espressamente a spiegare l’assunto della influenza della produttività del lavoro sul costo del prodotto, ma che, fin dall’anno scorso, essendo uno degli scopi della scuola – sta scritto sul programma – «di contribuire a formare negli operai la consapevolezza della vera loro posizione economica e morale, e della loro forza reale, a sviluppare e ad irrobustire in essi quella probità morale anche nel lavoro, che è la più salda garanzia di prosperità e il miglior indice del valore sociale della classe lavoratrice», venne affidata la trattazione in quattro lezioni del tema «etica sociale» al prof. Giovanni Zibordi.

 

 

Il titolo è un po’ pretenzioso e scolastico, ma i concetti svolti dallo Zibordi, che ha formata la sua esperienza in quel laboratorio sperimentale della classe lavoratrice che è la provincia di Reggio Emilia, furono chiarissimi, e lontani da quella piaggeria verso gli operai che troppo spesso si attribuisce a coloro che hanno l’abitudine di parlare loro dei loro interessi.

 

 

Cito un solo brano delle lezioni dello Zibordi, stampate e distribuite agli alunni operai anche quest’anno. «Come il patto collettivo, così il patto individuale  che ciascun operaio ha col padrone, in quanto riguarda la prestazione del suo lavoro, deve essere lealmente osservato. Una tradizione secolare di servitù e di reazione, di oppressione e di rappresaglia, porta spesso l’operaio a violare i suoi patti, lavorando poco, lavorando male. Questa tendenza antica fu oggi rinverniciata e teorizzata come cosa nuova nelle aberrazioni dei predicatori del sabotaggio. E – solito errore e solito equivoco! – i partigiani di questa forma obliqua ed odiosa di lotta dicono che il sabotaggio del proletariato non è che il contrapposto legittimo del sabotaggio che la borghesia capitalista e commerciante esercita in danno comune quando mette in circolazione derrate sofisticate, prodotti non buoni. Per ben altre vie, fuor da questo circolo vizioso di azioni e reazioni, fuor da questo rimbalzarsi d’invidie o di violenze o d’inganni, andrà la classe lavoratrice verso i suoi più alti destini! Per le vie della lealtà e dell’onestà – che è anche la migliore e più fine delle accortezze, la più efficace delle furberie – essa rifarà il mondo così nel campo economico come nel campo morale, lungi da mezzi insidiosi e obbrobriosi, dai quali essa stessa, d’altronde, rimarrebbe colpita».

 

 

Questo è il linguaggio di socialisti a operai, perché i socialisti al pari dei conservatori, vedono i difetti della classe lavoratrice e più di quelli soffrono, e se ne dolgono appunto in quanto hanno presente più nitido l’ideale dell’angelica farfalla che dovrebbe uscire dal bozzolo del proletario d’oggi, e non si peritano di riconoscere quelle manchevolezze, e di aiutare i lavoratori a correggersene.

 

 

Ma non bisogna d’altro canto far rinascere la vieta accusa che siano le leghe e le camere del lavoro che di proposito, per programma, statutariamente direi quasi, incitano i loro soci a limitare la loro capacità produttiva.

 

 

È l’accusa che in Inghilterra, nel 1896 lancia il «Times» contro le Trade unions accusandole di insegnare il Ca’ Canny, modo di dire scozzese che si potrebbe tradurre in buon milanese nel cascet minga. (Quando due scozzesi vanno a spasso e l’uno d’essi cammina troppo lesto, il compagno gli dice: Ca’ Canny mon, Ca’ Canny, e cioè: Più piano, amico, più piano). Ma anche allora l’accusa corse e ricordo un’inchiesta compiuta per incarico del «Musée social» di Parigi da due scrittori politicamente agnostici, Mantoux e Alfassa, i quali vennero a queste conclusioni: «La campagna del Times ci ha rivelato una penosa condizione di spirito, una tendenza di certi industriali a voler rigettare sugli operai la responsabilità di una situazione che potrebbe diventar grave, responsabilità della quale una buona parte è ad essi imputabile», cioè agli industriali.

 

 

A non diverse conclusioni verrebbe chi indagasse se di una propaganda siffatta siano responsabili le organizzazioni operaie italiane. Resta la proibizione del cottimo che, infatti, esiste in parecchi mestieri.

 

 

Riconosco col Bernstein, che il cottimo, e sovratutto il cottimo americano, così detto, a premi, è la sola forma di mercede che tenga convenientemente conto del grado di intensità del lavoro ed è perciò più equa del rozzo e meccanico metodo del salario a giornata. A due condizioni però: che, come fanno gli industriali americani, una volta fissato un tasso equo di salario per un lavoro, esso venga conservato per incoraggiare gli operai a produrre di più, qualunque sia il salario giornaliero o mensile al quale essi possono arrivare; e che la organizzazione operaia sia così salda da stipulare essa le tariffe del cottimo cogli imprenditori, e da farle mantenere inalterate quando le condizioni tecniche del lavoro restano immutate. Ma sino a quando l’alta produttività che un operaio può raggiungere col cottimo deve servire di misura all’imprenditore per abbassare il tasso del salario o per tornare al sistema del salario a giornata in misura inferiore al guadagno realizzato col cottimo, è legittima la diffidenza e l’ostilità delle organizzazioni deboli verso il cottimo specialmente in quei mestieri nei quali il lavoro degli operai non è nettamente limitato e classificato, ma vario e generico.

 

 

Il problema è dunque questo: organizzazione solida ed educazione diffusa, continua, insistente della classe operaia da parte della stessa organizzazione.

 

 

Quanto alla questione se la crisi delle abitazioni e il rincaro degli affitti in generale siano proprio cagionati dal Ca’ Canny degli operai muratori, o se non vi entrino altri elementi e in quale misura, non è qui il luogo e il momento di discutere senza abusare della cortesia nella quale confido, on. signor Direttore, per la pubblicazione di questa nota.

 

Alessandro Schiavi

 

 

Mi sia consentito di aggiungere alcune considerazioni a quelle dello Schiavi. Sono lieto che l’Umanitaria abbia già tentato di attuare nella sua «scuola di legislazione sociale» quell’insegnamento sui rapporti fra la produttività del lavoro, il costo del prodotto, la disoccupazione e i salari, che io mi auguravo vi fosse istituito; e spero che a poco a poco esso riesca ad emulare i corsi utilissimi di legislazione sociale propriamente detta, di cui avevo, scrivendo l’articolo, sott’occhio i riassunti pubblicati dall’Umanitaria in nitidi volumetti. Non conosco le lezioni dello Zibordi; ma dal brano, che lo Schiavi cita e che deve manifestamente essere stato scelto a dimostrare nel miglior modo la sincerità coraggiosa dell’insegnante, risulta chiaro come molta e molta strada debba essere ancora percorsa affinché l’insegnamento, iniziato senza dubbio con fervido entusiasmo, dia i desiderati frutti. Io non ritengo, ad esempio, che farebbe opera molto proficua quell’insegnante il quale, volendo dimostrare i vantaggi e la funzione importantissima e benefica della banca nella società moderna, cominciasse col ricordare i fasti dell’usura antica e medioevale, le estorsioni dei caorsini, degli ebrei e dei lombardi di un tempo, e le rappresaglie dei principi e dei papi. Tutto ciò potrà essere storia vera o falsa, potrà essere il risultato di indagini pazienti o di ridevoli esagerazioni, ma non darebbe certamente nessuna idea della funzione economica della banca, anzi servirebbe soltanto a ingenerare confusione nella mente dell’ascoltatore ed a farlo diffidare del bene che l’insegnante dirà in seguito dei banchieri moderni. Del pari non ritengo che il parlare anzitutto di «tradizione secolare di servitù e di reazione, di oppressione e di rappresaglie», sia pure come premessa alla condanna del «sabotaggio» sindacalista, giovi assai alla comprensione dei rapporti fra produttività del lavoro, costo, prezzi e salari. Si sa che ciascuno afferra delle lezioni dell’insegnante, del discorso dell’oratore, del libro che legge, quelle idee e quei brani che gli piacciono di più, che solleticano di più il suo amor proprio, le sue tendenze egoistiche, i suoi preconcetti. L’ascoltatore della lezione, od almeno del brano della lezione citato dallo Schiavi, sarà indotto ad usare lealtà ed onestà nella prestazione del lavoro; ma probabilmente solo quando egli sia persuaso che la classe imprenditrice non usa «mezzi insidiosi ed obbrobriosi». Persuasione non agevole ad inspirare, se si pensa alla facilità con cui si contorce il significato dei metodi più semplici e ragionevoli tenuti dagli imprenditori per raggiungere la massima economicità nel lavoro.

 

 

Vengo alla questione di fatto su cui è sorta la controversia. Lo Schiavi non nega che il cottimo sia stato bandito dai muratori milanesi; e si limita a porre in luce le cautele dalle quali dovrebbe essere circondata la sua applicazione. Su di che non avrei osservazioni in massima da fare, salvo particolari di secondaria importanza. La questione è diversa ed è di fatto: è vero o non è vero che la mala voglia nel lavorare, il Ca’ Canny, come dicono gli inglesi, esiste di fatto a Milano e in molte altre città in parecchi generi di lavoro, fra cui principalissimo il lavoro edilizio? Quasi tutti gli impresari, con accordo troppo significativo per derivare da un fatto immaginario, dicono di sì: dicono di sì molti ingegneri e molte persone che, per cariche coperte in istituti per la costruzione di case popolari, vorrebbero poter dire di no. Pare un fatto certo che questa malavoglia nel lavoro produce un rincarimento notevole nel costo delle costruzioni. Che cosa si risponde dagli operai a questa accusa specifica? Probabilmente essi risponderanno anzi ho già udito questa risposta – che non si tratta tanto di trascuraggine nel lavoro, quanto di imperizia; e l’imperizia sarebbe provocata dalla domanda febbrile di mano d’opera fatta dagli imprenditori i quali, per costruire in fretta le molte case che devono essere buttate sul mercato edilizio, racimolano purchessia e dovunque operai inabili, i quali lavorano adagio ed a costo alto.

 

 

Se questa fosse la verità sola ed intiera, sarebbe aggiunto un argomento alla tesi che ho sostenuta nel mio articolo: essere cioè pericoloso concedere d’un tratto esenzioni tributarie ad una sola industria, quella edilizia, perché in tal modo si sposterebbero operai dalle altre industrie verso quella edilizia, in cui essi sono inabili. La loro incapacità, unita al tumultuario affluire verso l’industria edilizia, rende impossibile ogni tirocinio efficace; e finirebbe per annullare, con un maggior costo del lavoro, i benefici della esenzione dalle imposte. Ivanoe Bonomi mi ha rimproverato sull’«Avanti!» di non avere ben compreso che la esenzione temporanea tributaria, se vuole davvero spingere alla fabbricazione, deve essere speciale alle case e non generale a tutte le industrie. D’accordo che una esenzione generale non favorisce in modo particolare la costruzione delle case; ma una esenzione speciale la favorisce ancor meno, almanco fino a che il beneficio dell’esenzione è eliso dall’accresciuto costo del lavoro, provocato dall’esenzione stessa.

 

 

Dubito però fortemente che il cresciuto costo del lavoro sia dovuto soltanto all’imperizia dei nuovi lavoratori chiamati dalla campagna, e racimolati da ogni sorta di mestieri per provvedere al cresciuto fabbisogno di case. Le lagnanze degli imprenditori e degli ingegneri si riferiscono a ben altro: alla malavoglia e alla poca produttività di quelli stessi che una volta producevano tre m.c. di muratura al giorno, ed ora ne producono uno solo; alla emigrazione dei migliori, i quali dai regolamenti del lavoro sono impediti di guadagnare quei massimi di salario a cui avrebbero ben diritto per la loro abilità ed operosità. Che cosa significa la proibizione del cottimo, se non la volontà deliberata dei dirigenti di deprimere la produttività dei migliori operai, adeguandone il salario al livello dei salari dei peggiori? Occorrono ragioni valide, specifiche per spiegare questi fatti concreti. Una inchiesta fatta tra operai ed imprenditori, ed affidata a persone godenti la fiducia di amendue le classi, gioverebbe assai all’intento.

 

 

Che le leghe siano del tutto immuni dalla colpa di impedire la migliore utilizzazione del lavoro è difficile crederlo, quando si leggono le norme di lavoro che esse hanno voluto ed imposto agli imprenditori. Non ho sott’occhio i concordati nell’arte edile; e mi sono perciò limitato a ricordare la proibizione del cottimo, già lamentata dall’ing. Negri. Ma ho i concordati conclusi fra imprenditori ed operai addetti all’industria tipografica e vi leggo norme strabilianti, che ben difficilmente possono ritenersi intese ad ottenere la massima produttività nel lavoro. Così mi rimane ignoto il motivo per cui «non sono ammessi alle macchine a comporre che i combinatori tipografi passati lavoranti dopo i cinque anni di regolare apprendisaggio». Se si tratta di una ragione di umanità verso i compositori già impiegati nei giornali o nelle altre tipografie, dove sono in uso le moderne macchine a comporre, riconosco senz’altro la opportunità di una disposizione transitoria che avesse dato la preferenza ai compositori attualmente addetti alle tipografie. Ma che siano normalmente necessari cinque anni di regolare tirocinio per imparare a comporre a macchina, pare una pretesa assurda, quando si conosce il poco tempo che occorre per imparare mestieri ben più difficili. I cinque anni di tirocinio in siffatte circostanze conducono ad un aumento artificioso nel costo del lavoro, che dal punto di vista economico è dannoso. Tanto più dannoso se si pensa che il concordato aggiunge il divieto assoluto agli «apprendisti compositori di essere adibiti per tutta la durata del loro tirocinio al lavoro delle macchine». Le macchine, dunque, devono essere azionate da compositori che hanno perso cinque anni del loro tempo ad imparare un mestiere (composizione a mano) che essi durante la loro vita non eserciteranno forse mai più e non devono esserlo da chi, invece, in alcuni mesi o fors’anco in alcune settimane, si fosse messo in grado di comporre rapidamente e bene a macchina!

 

 

Se si aggiunge che il «lavoro a macchina non può essere eseguito a cottimo e neppure a contratto, ma deve essere sempre fatto a stipendio fisso» si ha un’idea abbastanza precisa del modo singolare tenuto dai lavoratori del libro per facilitare l’introduzione delle macchine nella loro industria. Che se si vuole comprendere ancor meglio in qual maniera si cerchi dai lavoratori del libro di ridurre il costo, si tenga nota di un’altra norma, la quale dice: «Gli operatori addetti alle squadre dei giornali quotidiani non potranno eseguire nessun altro lavoro all’infuori della composizione meccanica, a qualsiasi pagina essa si riferisca e solo in casi eccezionali potranno essere richiesti in aiuto all’impaginazione del giornale a cui sono adibiti»; norma, che deve essere letta insieme ad un altra, la quale si riferisce ai compositori in genere ed è la seguente: «tutti indistintamente gli addetti ai giornali quotidiani non possono essere adibiti a nessun altro lavoro». Che le leghe tutelino l’operaio per quanto riguarda l’orario e l’altezza del salario e vietino che l’operaio, temporaneamente destinato ad un lavoro diverso dal suo, sia pagato col salario del lavoro inferiore provvisorio od impongano che sia pagato col salario del lavoro superiore eventualmente compiuto, è ragionevole ed ha lo scopo di impedire che ad una classe di operai avente una data qualifica sia ridotto il salario, applicandola a lavori d’indole diversa dalla sua. Ma che, rimanendo impregiudicati i salari, l’imprenditore non possa più distribuire i suoi dipendenti nel modo che ritiene più conveniente per la rapida esecuzione del lavoro, anche trasportando qualche operatore da un lavoro ad un altro, è chiaramente un voler aumentare i costi. Una tipografia mista, che stampi giornali quotidiani, periodici settimanali, libri, ecc. come ve ne sono parecchie, specie tra quelle che assumono la stampa dei giornali a bassa tiratura – deve lasciare talvolta immobilizzata, durante l’orario normale, la squadra addetta al giornale, mentre potrebbe utilmente adibirla ad altri lavori. Se questo non è un voler crescere inutilmente i costi, coll’intento – economicamente impossibile a raggiungere in tal guisa – di aumentare la domanda di lavoro e diminuire la disoccupazione, io non so più che significato abbiano le parole.

 

 

Peggio è per gli impressori addetti alle macchine piane e rotative. Il «prospetto delle paghe minime giornaliere e distinta del personale da applicarsi ad ogni macchina» impone obblighi di stipendiare talvolta un macchinista, un aiutante, e un mettifoglio, talvolta macchinista ed aiutante per ogni macchina di quelle che si dicono piane, anche nei casi in cui tecnicamente sarebbe possibile di far dirigere due macchine piane da un solo macchinista. Se la cosa è tecnicamente possibile, diventa assurdo dal punto di vista economico obbligare all’impiego di due personali dove basterebbe uno solo. Perché non permettere al macchinista abile di guadagnare il 10 od il 20% di più del salario normale sorvegliando due macchine? La ragione pare sia sempre la stessa: crescere il costo del lavoro, nell’assurda speranza che cresca il numero degli operai richiesti ed aumenti il salario. Invano ho cercato i ragionevoli motivi con cui si potrebbe giustificare infine un’altra disposizione in cui è detto: «Gli addetti (macchinisti ed aiutanti) ai giornali, ultimato il proprio servizio, non saranno tenuti a disimpegnare altri lavori oltre alla manutenzione delle proprie macchine, anche se non avessero completato l’orario ordinario prescritto». Questa, e chi conosca anche superficialmente la tecnica dei giornali, è la più singolare di tutte le norme imposte dalla federazione tra i lavoratori del libro. Una macchina rotativa per la stampa di un giornale, anche di sole 4 pagine ed anche a tiratura limitata, richiede un macchinista, un primo aiutante ed un secondo aiutante. Questi operatori dovrebbero fare un orario diurno di nove ore ed uno notturno di sei ore. Orbene, se in un’ora la macchina rotativa ha stampato tutto il quantitativo di copie richiesto dalla tiratura del giornale – e ciò è facilissimo data la potenza delle macchine moderne per un giornale di quattro pagine a tiratura limitata – i macchinisti hanno diritto di non far più nulla durante il resto della giornata. In un’ora hanno guadagnato il salario della giornata che per quel tipo di giornali va da 4,40 per gli aiutanti a 6,65 (minimi) per i macchinisti. Se si trattasse di giornali a grande tiratura, il salario minimo del macchinista può andare sino alle 8,55. Io auguro salari anche più elevati agli impressori, ma alla condizione: che siano adottate norme atte a spingere e non a deprimere la produttività del lavoro; e che sia dato il mezzo all’imprenditore di potere fare a fidanza sulla cooperazione volonterosa e non sulla ostilità delle leghe per ottenere la più perfetta ed economica organizzazione del lavoro nella sua azienda.

 

 

II

 

La lettera di Alessandro Schiavi e la replica del prof. Einaudi – ambedue pubblicate nel «Corriere» del 4 febbraio – a proposito degli ostacoli frapposti dalle leghe operaie alla migliore utilizzazione del lavoro (il prof. Einaudi, come si ricorderà, citava ad esempio alcune delle norme introdotte nei contratti ora vigenti per l’industria tipografica), ci hanno procurato pronte risposte degli interessati.

 

 

La federazione del libro, a mezzo del suo segretario Ernesto Gondolo, osserva che le disposizioni contenute nelle tariffe

 

 

«rispondono così bene alla tecnica dell’industria, che sono in vigore anche in quegli stabilimenti diretti da industriali tecnici, i quali si trovano in città in cui la tariffa non le prescrive». E aggiunge che, a dare carattere di obiettività ai rilievi del prof. Einaudi, occorre ricordare, oltre le disposizioni che a suo giudizio inceppano l’industria, anche quella secondo la quale è fissata la media di produzione dei linotipisti: «media che, oltre essere la più alta di Europa, non è affatto una media di produzione massima, ma una media minima per i minimi di salario». Cosicché – conclude – «quello che i professori Einaudi e Schiavi vorrebbero ottenere col cottimo» ogni industriale può ottenerlo «compensando in misura superiore ai minimi quegli operai che danno una produzione maggiore o migliore, o l’una e l’altra insieme».

 

 

A sua volta Francesco Cafassi, ex tipografo, attualmente impiegato all’Umanitaria e segretario del comitato di propaganda della camera del lavoro, c’invia una lunga lettera a difesa pure del contratto di lavoro concluso dai tipografi con gl’imprenditori, che, dopo alcune premesse generiche, inizia la parte polemica con questa notevole dichiarazione non sminuita dalle successive restrizioni:

 

 

Apertamente dichiaro di esser pienamente d’accordo col prof. Einaudi, nell’ultima parte del suo articolo, quando rileva le veramente irrazionali disposizioni contenute nel contratto di lavoro degli impressori tipografi; gli stessi ragionamenti io ho svolti in parecchie occasioni coi miei ex compagni di lavoro; ed ho la soddisfazione di poter dire che l’elemento migliore e più intelligente degli impressori si trovò sempre con me in pieno accordo. Chi però, per le sue funzioni e tali sono, ad esempio, gli amministratori di giornali – ha potuto seguire personalmente lo svolgersi del contratto di lavoro da qualche lustro ad oggi, può affermare che se esso contratto è venuto complicandosi seguendo il complicarsi del macchinario e delle aziende, nel suo complesso, nel suo spirito, il contratto di lavoro ha sempre più acquistato di elasticità, di bilateralità: in una parola, la classe degli impressori va abbandonando quel corporativismo che in essa era tipico.

 

 

Con tale osservazione generica cadono le osservazioni secondarie del prof. Einaudi; appunto quelle che – riferendosi a circostanze strettamente tecniche e che sarebbe troppo noioso per il lettore sviscerare – inducono in chi esamina superficialmente il contratto di lavoro degli impressori di Milano, la convinzione ch’esso imponga esagerate clausole restrittive ed onerose. E di tutta evidenza, ad esempio, che i giornali a piccola tiratura non si stampano in macchine rotative; e che quelli di grande tiratura non esauriscono un’edizione in un’ora, normalmente. E i casi speciali non formano la regola.

 

 

Lo scrittore della lettera quindi prosegue dicendo che in pieno disaccordo è invece con l’Einaudi per ciò che riguarda i compositori tipografi.

 

 

Ciò che maggiormente ha colpito il prof. Einaudi – scrive – è la limitazione dell’apprendisaggio alle macchine a comporre, il divieto del lavoro a cottimo e quello di essere adibiti ad altri lavori all’infuori del giornale. Si riesumano qui antiche querimonie contro l’organizzazione; i liberisti non hanno mai visto di buon occhio l’intervento di una forza superiore che disciplinasse i contratti individuali tra l’offerente ed il prenditore di lavoro…

 

 

Egli però deve rivendicare ad onore della federazione del libro se l’introduzione della macchina da comporre in Italia non riuscì un disastro per la classe tipografica: la vigilanza della federazione, aiutata dalla scarsezza dei capitali che rese impossibile l’impiego di fortissime somme nei simultanei rinnovamenti delle aziende, salvò dalla disoccupazione migliaia di operai, e ciò senza causar dispersione di capitali o remore di lavoro.

 

 

D’altra parte – aggiunge – l’intervento delle organizzazioni nelle questioni dell’ordinamento del lavoro, questioni che – sia loro concesso – le toccano molto davvicino, sono per esse ragione di vita o di morte, è un fatto umano, che deriva non dal considerare l’operaio come un’entità astratta, ma come un uomo di carne ed ossa, che vive anche dopo aver prodotto, che vive anche fuori dell’officina. L’organizzazione agisce con determinate idee, si muove e si orienta verso determinati fini, appunto perché per essa l’operaio non èsoltanto il produttore di lavoro, di ricchezze, ma l’uomo, il cittadino completo, prima, durante e dopo la sua funzione economica di salariato.

 

 

Così limita l’apprendisaggio: lo limita per evitare l’affollamento di mano d’opera, fonte di disoccupazione, di maestranza incapace, di bassi salari, di immorale concorrenza, di malattie precoci, di impedimento al progredire dell’industria; limita l’apprendisaggio subordinandolo prima – empiricamente – al numero degli operai provetti, indi sostituendovi limitazioni di età (non prima dei 15 anni), di istruzione (primo corso ginnasiale o tecnico) e di sana costituzione fisica, in relazione agli specifici pericoli dell’arte. Tuttavia la limitazione è inefficace, inquantoché all’infuori delle officine sottoposte al controllo della federazione, nelle provincie e nei numerosi ricoveri per l’infanzia si alleva in gran numero la mano d’opera tipografica.

 

 

I cinque anni di tirocinio non conducono – secondo l’organizzazione – all’aumento artificioso e dannoso del costo del lavoro. Tale periodo è quello giudicato necessario – in tutto il mondo – a formare un buon operaio compositore: e siccome è generalmente ammesso, da proprietari e da operai, che il delicato e costoso utensile che si chiama macchina da comporre rende di più e dà un miglior lavoro, e deperisce assai meno quando è affidato alle cure di un tipografo, invece che a quelle di un meccanico, di un dattilografo o di un giornalista; siccome è ammesso che in casi – e ne succedono – di guasti ed interruzioni, o di bisogni straordinari, l’operatore alle macchine che sia tipografo può anche comporre alla cassa, ciò che né il meccanico, né il dattilografò, né il giornalista sanno fare; così è evidente – sempre secondo l’organizzazione – che l’utile reciproco, degli operai e dei proprietari, sia quello di affidare un valore di parecchie migliaia di lire ad un operaio provetto piuttosto che al primo venuto. E che l’organizzazione non sia del tutto in errore, si può dedurlo da questo particolare: che in Inghilterra ed in America, patrie della macchina da comporre e dove la sua introduzione lasciò strascichi terribili, agli operatori alle macchine non si possono affidare i manoscritti degli autori: tutti gli originali sono prima ricopiati a macchina sostenendo una spesa non indifferente.

 

 

Il lavoro delle macchine non può essere eseguito a cottimo o a contratto: sta bene; lasciamo per ora in disparte la questione se il lavoro a cottimo – così mal visto dalle organizzazioni in generale – sia un bene o un male, dal punto di vista sociale e non esclusivamente economico: osservo che fra i tipografi il lavoro a cottimo è da lunghi anni (a Milano dal 1881) disciplinato in modo che non dà luogo ai pessimi inconvenienti che si verificano in altre e maggiori industrie. Nella composizione manuale il lavoro a cottimo è per così dire scomparso. In quella meccanica è proibito: ma il prof. Einaudi può ben sincerarsi che all’articolo 4 del contratto di lavoro stipulato fra industriali tipografi ed editori di giornali di Milano alla fine del 1907, si stabilisce anche la produzione minima, in perfetta regola, dell’operaio per i singoli tipi delle macchine a comporre e per le differenti qualità di lavoro. E non è il minimo di produzione l’equivalente della produzione minima ottenuta in condizioni normali col lavoro a cottimo? Se l’operaio medio, che il proprietario trova conveniente retribuire come tale, è costretto a produrre non meno di quel tanto che è giudicato compatibile con le sue forze fisiche, che non pregiudichi la sua capacità di lavoro avvenire, non opera saggiamente l’organizzazione, impedendo che per ottenere un maggior bene, pagato a troppo caro prezzo, il cottimo provochi delle crisi e l’operaio s’ammali, diminuisca il suo rendimento, diventi un peso invece di un valore, e sfibrato innanzi tempo resti a carico degli altri?

 

 

E dal punto di vista tecnico, l’attuazione del cottimo non sarebbe di grande utile per i giornali quotidiani, dove si esige la più stretta regolarità; in quanto alle tipografie comuni, la federazione del libro ha dimostrato di saper conciliare i due interessi discordanti, coll’istituzione dei due turni di lavoro normali e del terzo turno in via straordinaria, ma che viene largamente concesso. Così la giornata di lavoro utile per l’imprenditore è non di nove ore, ma di quindici, e l’operaio non è sottoposto ad un lavoro troppo estenuante.

 

 

Così pure l’ultima restrizione, che tanto colpo fa sul prof. Einaudi, non è che una disposizione di ordine tecnico. Visto al lume del preconcetto, tutto quanto mira a rendere armonico ed economico il lavoro, tutto quanto mira a togliere di mezzo le cause di contese, tutto ciò che mira ad istituire nell’officina un regime di diritto, appare agli occhi dell’esaminatore una sopraffazione ai danni dell’imprenditore, del suo assoluto dominio nell’officina e della libertà di lavoro. L’operaio addetto ai giornali non potrà essere adibito ad altri lavori; ma, nella pratica, il lavoro dei giornali quotidiani non è forse appunto disposto in modo di usufruire di tutta e sola la giornata di lavoro degli operai che vi sono addetti? Anche tale norma è un’assicurazione preventiva contro tentativi di guerra: è una disposizione unicamente tattica; è, più che altro, il riconoscimento, imposto, del vincolo di solidarietà, della comunanza di interessi che lega gli operatori alle macchine ai compositori manuali; è la soppressione del crumiraggio.

 

 

Il Cafassi conclude osservando che se veramente gli interessi degli industriali fossero stati gravemente lesi dalle tariffe, essi avrebbero potuto respingerle e lottare. Firmandole, hanno dimostrato che erano accettabili.

 

 

Le lettere dei signori Gondolo e Cafassi dimostrano come sia vivo l’interesse che ha acquistato la polemica iniziata fra chi scrive queste righe e Alessandro Schiavi; ed è cagione di compiacimento vedere come dai dirigenti le organizzazioni operaie si sia compresa tutta l’importanza della questione della produttività del lavoro. Non siamo sempre d’accordo, e parrebbe difficile esserlo senz’altro, in una materia la quale presenta complicazioni tecniche non comuni e fa sorgere dubbi di principio. Ma il disaccordo parrà meno forte se si limita la discussione ai punti di principio.

 

 

Dicendo che talune disposizioni dei concordati di lavoro fra l’operaio e l’imprenditore tipografo sono di ostacolo alla migliore utilizzazione e alla più alta produttività del lavoro, non ho inteso mai di negare i benefici che possono essere la conseguenza degli alti salari e di contestare la opportunità di norme transitorie, le quali intendano stornare i mali della disoccupazione dal capo dei tipografi, già impiegati nell’arte al momento dell’introduzione delle macchine. L’altezza delle tariffe e i provvedimenti di doveroso riguardo verso gli attuali tipografi non furono da me – e ciò dichiarai in modo esplicito – messi in discussione. Contesto soltanto che le disposizioni limitatrici del miglior impiego e della più perfetta rimunerazione del lavoro giovino a aumentare i salari e a diminuire la disoccupazione. Perciò non posso seguire il signor Cafassi quando giustifica la soppressione del cottimo, dicendo che il cottimo provoca crisi economiche, disoccupazione, diminuzione della capacità di lavoro avvenire dell’operaio.

 

 

Quando si dice «cottimo» non si vuole infatti intendere «cottimo sfibrante stabilito al solo intendimento di utilizzare giorno per giorno, fino all’estremo, la capacità di lavoro dell’operaio». La parola «cottimo» indica un genere di cui vi sono molte specie; talune specie di cottimo sono puramente stabilite in ragione del lavoro fornito, laddove altre in sostanza si risolvono in salari a giornata, con premi, variamente misurati a seconda della tecnica dell’industria, per coloro che forniscono un lavoro superiore al minimo. I signori Gondolo e Cafassi dicono che oggi nulla vieta all’imprenditore di rimunerare con salari variamente superiori al minimo i compositori che diano un rendimento superiore al minimo previsto nel concordato: si dovrebbero – coi regolamenti odierni – pur sempre stabilire per i più meritevoli salari a giornata superiori ai minimi. Il che, quanto sia più difficile e meno efficace del premio o cottimo, non è chi non veda. Il salario a tempo è di sua natura uniforme e uguaglia i buoni ai mediocri; il minimo di salario e di lavoro produce il solo effetto di vietare l’entrata in fabbrica ai troppo neghittosi e inabili, ma non è stimolo ai buoni. Il maggior salario a giornata corrisposto a un operaio abile, specialmente quando la misura di esso sia data dalla qualità piuttosto che dalla quantità del lavoro, facilmente è interpretato come un favoritismo o considerato come un diritto; mentre i maggiori salari ottenuti a cottimo, essendo automatici, sono dati a chi coi fatti dimostra di aver più merito. Le organizzazioni, dice il Cafassi, non vogliono il cottimo perché, per ottenere un maggior bene, con esso, l’operaio provoca crisi e distrugge anzi tempo la propria capacità di lavoro. Ma perché le organizzazioni non studiano forme di cottimo che mantengano integra la forza di lavoro, invece di tenersi strette all’imperfetta forma del salario a giornata?

 

 

La paura delle crisi, della disoccupazione, ecc., giustifica agli occhi dei miei contraddittori le limitazioni al tirocinio e i divieti per gli addetti ai giornali di poter essere destinati ad altri lavori. Motivi tecnici non ve ne sono perché i compositori a mano siano considerati i soli che si trovino in grado di comporre a macchina, e posseggano specialissime qualità, come il Cafassi pretende, in confronto – non dirò dei meccanici, dei dattilografi, e dei giornalisti – ma semplicemente di coloro che hanno imparato a comporre a macchina.

 

 

Che sia tanto raro il caso di addetti a giornali i quali rimangano inutilizzati per un tempo più o meno lungo mentre potrebbero essere utilmente impiegati in lavori affini, è ancora più difficile dimostrare. Sarebbe interessante, a tale riguardo, una statistica per tutti i giornali quotidiani milanesi, grandi e piccoli – quali sono i quotidiani anche di piccola tiratura che non usano le rotative? – delle ore di lavoro inutilizzate, durante un anno intero, le quali avrebbero potuto essere utilizzate senza le norme limitatrici del concordato.

 

 

La discussione di principio può del resto bene essere con serenità chiusa quando il Cafassi ammette, d’accordo con me, che le disposizioni contenute nel contratto di lavoro degli impressori tipografi (macchinisti) sono veramente irrazionali. Le altre disposizioni da me criticate e relative ad altri rami del lavoro tipografico, sono della stessa natura intrinseca di quelle da lui ritenute «irrazionali».

 

 

Un esame più sereno e una esperienza più lunga persuaderanno gli organizzatori che è pernicioso combattere le nuove lotte contro i bassi salari e la disoccupazione con armi antiquate e atte soltanto a aggravare i mali che pretendono a torto di guarire.

 

 

III

 

La polemica iniziata sulle colonne di questo giornale intorno alle cause del rincarimento del costo di costruzione delle nuove case era stata chiusa dal dottor Alessandro Schiavi colla promessa di compiere e rendere di pubblica ragione una inchiesta più vasta di quella che fosse consentita dalle esigenze di un giornale quotidiano. Sono lieto di aver potuto pubblicare nell’ultimo fascicolo della rivista «La Riforma Sociale» l’inchiesta alacremente condotta a termine dallo Schiavi, la quale fornisce un utile contributo per chi voglia studiare il problema che è sicuramente tra i più complessi ed interessanti dell’odierno momento economico. Lo Schiavi ha premesso all’inchiesta sul problema italiano, anzi milanese, un succinto sguardo all’esperienza ed alle discussioni estere su questo medesimo punto; sicché si possono leggere con profitto dati e conclusioni di consimili inchieste in Inghilterra, negli Stati uniti ed in Germania.

 

 

Come spesso accade, non si può affermare che i dati dell’inchiesta milanese siano concordi e permettano conchiusioni sicure ed incontroverse. Lo Schiavi, con grande imparzialità, ha fatto parlare capomastri, imprenditori, ingegneri ed operai, ed ha riferito le loro risposte trascrivendole l’una accanto all’altra; talché riesce agevole vederne d’un tratto le stridenti contraddizioni. A cagion d’esempio, alla domanda: si può calcolare in quale misura si verifichi per metro cubo e per giorno la minore produttività? i capomastri Castoldi e Gadola, i quali, al dir dello Schiavi, hanno compiuto «una particolare accuratissima ed esauriente indagine» al riguardo, risposero con il seguente raffronto della produzione giornaliera nelle opere principali:

 

 

Muratura ordinaria (m3)

Intonachi ordinari (m2)

Posa di serramenti (numero)

Prima del 1887

2 – a 2,70

28 a 30

9 a 12

Dal 1887 al 1901

1,80 a 2,30

20 a 25

7 a 9

Dal 1901 in poi

1,25 a 1,50

15 a 18

5 a 6

 

 

Su questo stesso argomento, nella pagina seguente, la Confederazione generale del lavoro, reca la sua testimonianza – che non è detto da quali fonti sia derivata, mentre si può supporre che quella dei signori Castoldi e Gadola sia attinta dai loro libri – a provare essere bensì vero che «la produzione qualitativa giornaliera è diminuita di qualche poco con la riduzione considerevole degli orari», senza che a Milano sia però scemata dal 1880 ad oggi, più che da 2 a 1,70 metri cubi al giorno.

 

 

Sono contraddizioni queste non facilmente risolubili, senza una ulteriore indagine, simile a quella che viene compiuta dagli storici sui documenti d’archivio delle età trascorse, sulla attendibilità delle fonti da cui le opposte testimonianze sono tolte. Lo Schiavi, il quale si è proposto il compito del cronista fedele più che del critico dubbioso, pur non avendo fatto la critica delle fonti, cosa sempre difficile per gli storici che vivono in mezzo agli avvenimenti da essi narrati, non ha potuto a meno di riassumere alla fine i dati da lui imparzialmente raccolti e, per ridurli a comune denominatore, ha esposto in un breve quadro le variazioni percentuali da circa 20 anni a questa parte, da lui ritenute come più prossime al vero, dei principali coefficienti del costo di produzione delle cose. Ecco il quadro:

 

 

Spesa per la mano d’opera per ogni 100 lire di spesa complessiva 

+ 20%

Salario medio giornaliero 

+ 45 %

Costo della mano d’opera per 1 m3 

+ 54%

Ore di lavoro 

– 6%

Produz. giornaliera in muratura, secondo i capomastri 

– 41%

Produz. giornaliera in muratura, secondo la Confederazione del lavoro 

– 15%

 

 

La situazione di cose resa manifesta da questo quadro non è certo lieta. La riduzione delle ore di lavoro era stata augurata e richiesta per molti motivi, familiari, igienici e sociali, fra cui spiccava quello che un lavoro meno prolungato e meno estenuante doveva permettere all’operaio di produrre l’uguale o poco minor lavoro nel tempo più breve. La realtà, nel caso dei muratori milanesi, è malauguratamente molto diversa: le ore di lavoro sono diminuite del 16 % e la produttività giornaliera è diminuita, nell’ipotesi più ottimista (Confederazione del lavoro) di altrettanto, e secondo i capomastri, del 41%. Dunque la minor durata del lavoro non ha accresciuto la produttività del lavoro, ma pare l’abbia anzi diminuita, con deplorevoli conseguenze sul costo della mano d’opera per metro cubo, aumentato del 54%, mentre i salari aumentavano solo del 45% e sulla spesa della mano d’opera, aumentata del 20% per ogni 100 lire di spesa complessiva. Sembra, da queste cifre riassuntive esposte dallo Schiavi, dimostrata l’asserzione che uno dei maggiori coefficienti del rincaro del costo delle costruzioni sia la maggior spesa relativa per la mano d’opera e che uno dei precipui fattori di questo relativo incremento di spesa sia la diminuita produttività giornaliera dei muratori.

 

 

Le cause sono molteplici. Tecniche le une e sociali le altre. Delle cause tecniche mi limiterò a far cenno, lasciando il discorrerne ai competenti. «I lavori di ponteggio – cito le conclusioni dello Schiavi – che la legge esige per assicurare la incolumità fisica degli operai, importano una maggior spesa di materiale e di mano d’opera in confronto di un tempo; la costruzione dei muri più sottili, con più frequenti sporgenze; rientranze e spezzature, esige da parte del muratore maggior attenzione, maggior cura, maggior perizia e quindi lo occupa per maggior tempo costringendolo a un rendimento unitario minore, il quale non è in compenso abbastanza avvantaggiato ed accelerato dai progressi tecnici nell’industria edilizia, per essere essi limitati alle opere di trasporto, di elevamento e di preparazione dei materiali da costruzione, che sono messi a disposizione del muratore dal manovale, dalla solerzia del quale, quindi, esso dipende». I tecnici dovrebbero dire quale sia il maggior rendimento dei moderni progressi nelle opere di trasporto, di elevamento e di preparazione dei materiali da costruzione e quale il maggior costo dei lavori di ponteggio e dei finimenti più squisiti delle opere murarie; e da questo paragone di rendimenti e di costi dovrebbe risultare se e in qual misura la minore produzione giornaliera abbia causa in elementi estranei al lavoro puro dell’operaio.

 

 

Quanto a questo, il problema più importante era di sapere se la minor produttività dipendesse in parte dall’influenza delle organizzazioni operaie le quali, coll’intento di elevare i salari e di aumentare il numero degli operai occupati o con altri scopi diversi, si affermava predicassero agli operai il vangelo del lavorar poco. L’inchiesta italiana si avvicina, nelle sue conchiusioni, a quelle a cui pervenne il signor Maurizio Alfassa, che dal «Musée Social» di Parigi era stato inviato in Inghilterra a fare un’indagine sulle celebri accuse di Ca’ Canny (motto scozzese che invita ad andare adagio) rivolte dal «Times» agli operai inglesi, specialmente nella industria edilizia. Mal comune mezzo gaudio. Dappertutto gli operai edili sembra siano afflitti dalla medesima malattia di collocare a posto un minor numero di mattoni di prima. Anche noi quindi possiamo accettar per buona la spiegazione che l’Alfassa dà per l’Inghilterra del Ca’ Canny. Egli dalla lettura dei regolamenti di leghe operaie, dalla corrispondenza dei capi lega, dalle dichiarazioni degli interessati, padroni ed operai, si è formato l’opinione che la regola del lavorar poco non esista né come legge scritta né come legge occulta delle leghe. Però egli ha accertato altresì che «nell’ambiente operaio ha corso la teoria della massa di lavoro, secondo cui non vi è che una quantità invariabile di lavoro da eseguire e che, per conseguenza, ognuno deve evitare di produrre il suo massimo per lasciare qualche cosa da fare per i disoccupati». Sia il desiderio altruistico di giovare ai disoccupati, o quello egoistico di provocare collo scarso lavoro individuale una maggiore richiesta di operai da parte dei capomastri e quindi un aumento di paghe, sia una minore probità nel lavoratore che lo induce a considerare opera lodevole il rendere pan per focaccia al «capitalista sfruttatore» o sia un po’ di tutte queste cose insieme, sembra certo che anche «negli ambienti operai» italiani ha corso la tendenza a diminuire il rendimento del lavoro.

 

 

Lascio volontieri agli storici del futuro, il compito di giudicare se abbia ragione o torto l’Alfassa nel togliere ogni responsabilità di questo malo andazzo di dosso alle organizzazioni operaie e nell’attribuirla tutta alle «teorie che corrono nell’ambiente operaio». Queste teorie che corrono colle loro gambe, senza che nessun le propaghi, saranno un altro bellissimo argomento di studio per gli storici, i quali non avranno più timore di incorrere nella scomunica maggiore delle leghe dei muratori o dei collegi dei capomastri, per gli sfavorevoli giudizi che per avventura potranno dare dei loro fasti o nefasti nel secolo presente.

 

 

Per ora mi sia consentito, d’accordo collo Schiavi, di augurare che sia messo a nudo ogni giorno e con copia di argomenti l’errore fondamentale della pestifera dottrina della «massa di lavoro invariabile da distribuirsi tra gli operai» che ha corso in moltissimi ambienti di lavoratori. Lo Schiavi cita brani eloquenti dei Webb, i teorici delle leghe operaie, di Bernstein, il celebre socialista tedesco, contro la teoria del lavorar poco e contro la lotta inconsulta ai sistemi di salario a cottimo ed a premio. La brevità dello spazio non mi consente di riprodurre tutte quelle citazioni. Basti, fra tutte, l’indignata invettiva dei Webb contro il salario a giornata o ad ora:

 

 

Il metodo primitivo ed inetto del pagamento in base alle ore di lavoro, a pensar bene, si avvicina a quello dei possessori di schiavi. Esso non assicura in alcun modo al lavoratore ugual compenso per uguale fatica, ma soltanto ugual mercede per ugual tempo, il che è ben differente. Esso conduce sempre a reciproca sfiducia, anche se non vi è dell’inganno. L’imprenditore non è mai completamente certo di ricevere da tutti i suoi operai, in compenso della paga che egli dà loro, una corrispondente quantità di lavoro. Egli finirà naturalmente per assicurarsene mediante una incessante sorveglianza ed un continuo incitamento, che confina talvolta con la tirannia. Dal punto di vista della lega operaia non è meno enorme e vergognoso il fatto che la mercede a tempo è un metodo ingiusto ed assolutamente non scientifico di ricompensa. Se la mercede è fissata ad ora, un lavoratore può fare il doppio del lavoro compiuto dal suo collega come prestazione normale, mentre un altro può fare non più della metà del lavoro normale. Il primo rovina la mercede normale, dal mantenimento della quale dipende il benessere suo e quello della sua classe, il secondo inganna in modo odioso il suo principale, a sua stessa vergogna e a suo disonore e di tutta la classe dei lavoratori a mercede. Io non credo che l’attività di una classe di intelligenti lavoratori verrà in perpetuo compensata secondo questo rozzo ed inesatto metodo di pagamento a tempo giornata od ore), che è, come fu detto, il metodo dei padroni di schiavi.

 

 

È melanconico pensare che queste evidentissime verità non sono credute dagli operai se non quando sono affermate in Inghilterra da uno dei capi intellettuali del loro movimento o presentate in Italia da un membro in vista del partito socialista. Del resto gli economisti, che quelle stesse cose avevano dette e ripetute molto tempo prima, si possono consolare pensando che anche i conservatori di tutti i paesi, per trovare buona un’idea, che essi (gli economisti) hanno esposto da tempo, aspettano di vederla con gran fracasso esposta da qualche geniale e «non sospetto» rappresentante del socialismo parlamentare o del sindacalismo rivoluzionario. Tale è la sorte miseranda, di cui non giova lamentarsi, degli economisti: di essere sfruttati da tutti e scherniti per giunta!

 

 

L’applicazione di metodi più perfetti di salario, a cottimo, a premio, ad interessenza, ad appalto di gruppi cooperanti di operai, che è l’opera più urgente per porre un freno alla diminuzione accertata nella produttività del lavoro murario, non è certo facile. Lo Schiavi ha elencato quattro condizioni che si richieggono, a suo parere, per la utile applicazione del cottimo: 1) che la tecnica dell’industria si presti alla sua introduzione, così che sia facile, sicuro ed evidente il controllo sul lavoro con tal sistema eseguito; 2) che sia riconosciuta la organizzazione operaia, quale rappresentante dei lavoratori, per la compilazione delle norme di tariffa; 3) che sia garantita nei lavoratori a cottimo la mercede normale riconosciuta dall’organizzazione operaia come mercede minima; 4) che la tariffa rimanga inalterata, quando inalterate restano le condizioni tecniche del lavoro. Sulle quali condizioni non avrei nulla da obiettare, purché si tenga ben presente che il sistema del cottimo è uno solo dei metodi che si possono applicare, essendo sempre possibile ricorrere ad altri metodi che, a seconda delle esigenze tecniche, più facilmente traducano in atto il principio di assegnare ugual salario per ugual lavoro effettivamente compiuto. Se ad altro l’inchiesta Schiavi non avesse servito, avrebbe giovato a mettere in luce l’importanza di una migliore educazione economica, morale e tecnica delle masse operaie. Economica, perché esse comprendano l’utilità della applicazione delle vecchie verità insegnate dagli economisti, sia pure di quelle soltanto che, per la loro evidenza intuitiva, sono già passate attraverso al vaglio della critica socialista. Morale, (mi si perdoni se continuo ad adoperare la vecchia parola morale per mettere in chiaro il mio aborrimento dalle chiacchierate dell’etica sociale), per preservare le giovani generazioni dai funesti allettamenti del ricever la paga senza lavorare, dell’alcoolismo, della bettola e dai nuovissimi pericoli dell’eccesso degli sports (podismo, maratone e simili), e per indurle a pregiare le virtù della previdenza, della assicurazione volontaria, della associazione, dell’amore alla casa. Tecnica, per formare una maestranza abile e che dalle cognizioni acquisite tragga stimolo a progredire, cosa che purtroppo non si verifica ora per molti apprendisti, i quali non hanno amore per l’arte e colla loro negligenza disturbano l’opera accurata dei più anziani lavoratori.

 

 

All’opera di educazione devono contribuire così le leghe operaie come gli imprenditori. Non meno grave e solenne di quello spettante alle leghe operaie é invero il compito degli imprenditori nella campagna per l’educazione popolare.

 

 

Certo, ove le leghe si ostinino ad andare a ritroso del progresso industriale, tenendosi strette a quel metodo di salario a giornata che il Webb definì metodo da schiavi, poco rimane a fare agli imprenditori. Ma, ove il principio dell’ugual salario per ugual lavoro effettivamente compiuto sia accolto da ambe le parti, è dovere degli imprenditori attuarlo via via nelle maniere che meno contrastino le abitudini invalse e più giovino all’innalzamento tecnico e morale delle maestranze. Quindi l’obbligo per essi di adottare quei metodi di accertamento dei minimi di produzione che possono essere più facilmente controllati dalle leghe operaie, il dovere di non dare essi per i primi il cattivo esempio col pretendere una produzione abbondante ma frettolosa e di cattiva qualità; la scelta accurata dei singoli individui adatti a formare la buona maestranza operaia secondo le loro attitudini; la variazione dei salari individuali, al disopra del minimo di tariffa, per premiare e stimolare i migliori; il sistema dei premi usato con una certa larghezza proporzionatamente al buon servizio prestato dall’operaio; l’accordo con le leghe allo scopo di tener lontani dai cantieri, anche se si offrissero con ribasso di tariffe, quegli operai che si distinguessero per vizi abituali di condotta, per negligenza nel lavoro, per abitudine a suscitare contrasti e litigi con i sovrastanti e coi compagni di lavoro. Se le recenti polemiche dottrinali ed i contrasti tra imprenditori e salariati ad altro non avessero servito che a porre il problema della necessità dell’elevamento economico e tecnico, ma sovratutto morale, delle classi operaie ed imprenditrici, avrebbero già ottenuto un non piccolo e non trascurabile risultato.

 

 



[1] Con il titolo Le Leghe operaie e gli ostacoli al rendimento del lavoro [ndr].

[2] Con il titolo Tariffe operaie e produttività di lavoro [ndr].

[3] Con il titolo Il Problema delle abitazioni e la produttività del lavoro. Un’inchiesta

nell’arte muraria milanese [ndr].

Dopo il congresso delle case popolari

Dopo il congresso delle case popolari

«Corriere della Sera », 28 gennaio 1910

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 22-28

 

 

 

 

Il congresso per le case popolari che si chiuse testé a Milano va segnalato di tra la folla dei congressi, per avere additato la via alla soluzione di alcuni tra i maggiori problemi dell’abitazione e per avere messo in rilievo la necessità di affrontarne alcuni altri non meno importanti. All’apertura del congresso venne l’on. Luzzatti ad annunciare i propositi del governo; e fu cagion di compiacimento tanto il non sentir parlare di provvedimenti empirici suggeriti dal clamore dei malcontenti (come, ad es., i calmieri degli affitti ed il probivirato degli alloggi) quanto il sentire annunciati invece progetti ragionevoli in materia di tributi e di credito. Fuori della sala delle adunanze, i congressisti poterono, dalla convinta parola di un ferroviere, Sigismondo Balducci, sentire la esposizione di un suo, a lungo meditato, piano finanziario per le case popolari, che sembrami meritevole del più attento studio da parte degli organizzatori degli enti per la costruzione di case, civili e popolari.

 

 

Su due punti principalmente furono unanimi le opinioni del congresso: sulla necessità di agevolare l’accesso al credito ai costruttori di case popolari e sulla necessità di allungare il periodo della esenzione tributaria e di estendere questa anche ai privati ed alle società anonime. Mi sia lecito di esporre qui alcuni dubbi su queste conclusioni unanimi, dubbi che sorgono dal considerare il problema del credito o dell’immunità tributaria non in sé, come vantaggi isolati, ma in relazione ad altri problemi che nel congresso non pare siano stati a sufficienza approfonditi.

 

 

Nessun dubbio che il credito sia necessario alla soluzione del problema edilizio. Se si dovessero costruire case coi soli denari di proprietà dei privati e degli enti costruttori si dovrebbe aspettare mill’anni. Ma in questa stessa precisa situazione si trovano tutte le altre industrie. L’agricoltura ha sete di credito; il commercio vive sul fido; e molte aziende industriali in Italia hanno fatto assegnamento sin troppo sull’ausilio del capitale preso a prestito. Le banche esistono apposta per avvicinare i risparmiatori agli imprenditori, per ricevere i denari da chi li ha e non sa usarli e darli a chi saprebbe utilizzarli bene, ma disgraziatamente non li possiede o non ne possiede a sufficienza. Senonché le banche ordinarie non possono esercitare il credito edilizio, perché l’immobilizzare a lungo i capitali significherebbe correre incontro al fallimento. Il credito edilizio può essere esercitato soltanto da quegli enti che possono impiegare i capitali con ammortamenti a lunga scadenza, che si possono contentare di interessi miti, perché devono alla loro volta corrispondere interessi miti ai depositanti. Sono le casse ordinarie di risparmio, le casse postali di risparmio, e per esse la Cassa dei depositi e prestiti da un lato, e, gli istituti di assicurazione, specialmente quelli semi pubblici, come la Cassa nazionale per l’invalidità e la vecchiaia, dall’altro lato; né si escludano le opere pie e gli enti di beneficenza. Invalse per lungo tempo il costume di imporre a tutti questi istituti od enti un largo impiego dei loro capitali in rendita di stato; e fu costume imposto dalla necessità finanziaria di trovare chi comprasse – per amore o per forza – il consolidato italiano in tempi di strettezza per il bilancio dello stato. Oggi, che la rendita italiana supera la pari, sarebbe inutile e perfino dannoso seguitare a stringere i freni nella maniera fin qui usata. Si costringerebbero gli istituti a comprar rendita a prezzi vieppiù alti e si infliggerebbero loro perdite gravi il giorno in cui, per una nuova fortunata conversione dal 3,50 al 3%, il valore di borsa si riavvicinasse alla pari. Bene perciò si fa quando a tutti gli istituti, che sopra si sono enumerati, si vuol consentire una maggior larghezza di impieghi. La rendita, non più comprata o magari venduta dagli istituti, troverà in Italia ampio sfogo, poiché esistono capitalisti famelici di titoli consolidati statali ed a cui è d’uopo darla, poiché, per congenita e non sempre biasimevole diffidenza, aborrono da ogni altro investimento. Gli istituti potranno devolvere i fondi disponibili  ad altri scopi, fra cui il credito edilizio e, facendo l’utile proprio, promuovere la soluzione del grave problema dell’abitazione.

 

 

Ad una condizione però: che nel far mutui gli istituti non si scostino dai canoni di prudenza che sono essenziali per l’industria bancaria. Ogni tanto sorgono voci di lagnanza contro le casse di risparmio che non vogliono imprestare più della metà od al massimo i due terzi del valore della casa; e si vorrebbe che i mutui si spingessero sino all’80 od al 90% del valor della casa, affine di permettere agli enti costruttori di ottenere risultati massimi con un piccolo capitale proprio. Queste sono follie e follie preoccupanti, contro di cui è doveroso protestare con energia, finché si è in tempo. Stimare il valore delle case con larghezza e imprestare percentuali troppo forti del valore di stima, vuol dire provocare la crisi edilizia e con essa la rovina degli istituti mutuanti. I ricordi della crisi edilizia scoppiata a Roma nel 1889 e ripercossasi in parecchie altre città italiane dovrebbero suonare ammonitori.

 

 

Adesso noi ci troviamo in una curva ascendente dei fitti e dei valori delle case; ma chi può prevedere se gli aumenti abbiano a durare all’infinito? Il Leroy Beaulieu in quel suo volumetto intitolato L’art de placer et gérer sa fortune, che è un mirabile consigliere del capitalista in cerca di impieghi, mette in guardia gli investitori contro i pericoli degli impieghi eccessivi in case. Coloro che a Parigi, dal 1860 al 1880, hanno investito denari in case, per la speranza che i valori dovessero seguitare a crescere, hanno subito acerbe disillusioni negli anni più recenti. La concorrenza dei sobborghi nuovi, favorita dalle rapide vie di comunicazione, ha diminuito il valore delle case in molti rioni centrali ed ha persino fatto subire perdite al Crédit foncier, che pure si limita a mutuare il 50% del valore.

 

 

Una delle rubriche più interessanti dell’«Economiste français», diretto dallo stesso Leroy Beaulieu, è quella del mercato degli immobili a Parigi e nelle provincie; ed uno dei fatti che più colpiscono nel leggerla è l’alto saggio di reddito netto che danno le case nella città parigina. Prendendo le vendite verificatesi dal 29 dicembre 1909 al 19 gennaio 1910 si hanno i seguenti saggi di reddito netto in base ai prezzi di aggiudicazione comprese le spese: 3,80-5,17-5,90-7,26-6,29-5,60-4,52-5,97-5,06-5,55 %. Le cifre sono sintomatiche specialmente se si pensa che la rendita pubblica francese frutta al netto pochissimi centesimi più del 3 per cento. Vogliono dire che i capitalisti non hanno fiducia in genere nell’aumento di valore delle case, reputano che gli impieghi edilizi presentano rischi e pretendono ottenere dal loro denaro un interesse che va dal 3,80 al 7,26%. Notisi che fra le case vendute vi sono dei magnifici immobili, che furono oggetto di viva disputa fra gli acquirenti. Potrei citare, se non temessi di andare troppo per le lunghe, dati consimili per Londra, dove, se vi sono quartieri nuovi, signorili ed industriali, in aumento, se gli affitti della City hanno raggiunto limiti favolosi, vi sono altri quartieri dove i fitti sono in marcata diminuzione. Non basta insomma che una città ingrossi e diventi magari mostruosa perché i fitti abbiano a crescere. Date le opportune circostanze fitti e valori delle case possono magari scendere. Dato ciò, chiedere agli istituti di credito di mutuare sino all’80 o al 90% del valore della casa, stimata con larghezza è proposta pericolosa.

 

 

La proposta di aumentare sino ai 15 anni il limite di esenzione per le case popolari costruite dagli enti autonomi, municipi, cooperative, ecc. e di concedere la esenzione sino ai 10 anni ai privati ed alle società anonime risponde al principio, ripetutamente chiarito, che le immunità tributarie a nulla valgono se sono limitate da troppe condizioni regolamentari. Esentare e case popolari dall’imposta e poi definire queste in maniera fastidiosa per i costruttori; esentarle e poi restringere oltremisura il novero degli enti che possono costruire le case dette popolari, significa dare con una mano e togliere con l’altra. È da sperare che l’on. Luzzatti possa indurre il suo collega delle finanze ad interpretare con larghezza il principio dell’esenzione per le case popolari nel primo periodo della loro vita, principio che, andrebbe, a parer mio, esteso oltrecché a tutte le case in generale, a tutte le nuove intraprese industriali nei primi anni della loro costituzione. E ciò, sia per non inceppare le aziende nuove con fiscalismi eccessivi nel periodo più difficile della loro esistenza, sia per apprestare negli anni susseguenti una ampia messe tributaria al fisco. Non è valida invece l’affermazione dell’on. Luzzatti, secondo il quale, per fronteggiare l’aumento dei salari e quello dei materiali da costruzione, bisogna con calcolato coraggio alzare da 10 a 15 anni il periodo di immunità della imposta sui fabbricati a beneficio delle case popolari. Onde parrebbe potersi dedurre che, a mano a mano che i salari ed i materiali da costruzione andranno crescendo di prezzo, dovrà lo stato allungare il periodo di esenzione da 15 a 20, a 25… anni. Di questo passo, dove si andrà a finire? Sovratutto se si pensi che l’affermazione può essere letta al rovescio, così: «l’aumento del periodo di immunità dell’imposta da 10 a 15 anni farà aumentare le costruzioni e quindi i salari; onde crescerà di nuovo il costo di fabbricazione delle case e sarà d’uopo allungare ancora il periodo di esenzione da 15 a 20 anni» e così via all’infinito poiché il circolo vizioso mai non si interrompe e ritorna su se stesso.

 

 

I miei dubbi si rafforzarono nel leggere un brano assai significativo del breve discorso che al congresso delle case popolari tenne il commendatore Negri, capo del compartimento delle ferrovie di stato a Milano. Dopo aver lodato il relatore on. Casalini per aver sollevato la grave quistione del costo elevato delle case popolari, aggiunse:

 

 

Quale presidente della commissione per le case dei ferrovieri, io coi miei ingegneri mi affatico inutilmente da un anno per studiar modo di far costare il meno possibile le case operaie che si vanno ad appaltare; ma il problema è quasi insolubile. La causa vera sta, più che nell’elevato prezzo della mano d’opera, nella limitazione del lavoro, alla quale si deve il risultato che i mattoni oggi costano 28 lire al migliaio, mentre pochi anni sono non costavano che 14; e se si tiene conto che il buon muratore in passato eseguiva, lavorando a cottimo, ben tre metri cubi al giorno di muratura retta, mentre oggi, a cottimo proibito, non ne eseguisce più che uno solo, si intende subito come il costo delle case sia enormemente cresciuto. Pur conservando l’alto prezzo della mano d’opera, onde l’operaio possa vivere e vivere bene, sarebbe necessario togliere la limitazione del lavoro, che è rovinosa nei suoi effetti: e che tra l’altro produce il grave danno al paese, che molti ottimi muratori specie del comasco e del lago Maggiore cercano all’estero, ove sono desideratissimi, quella libertà di produrre colle loro braccia robuste e colla loro intelligenza, ciò che in patria viene loro proibito: il massimo del lavoro ed il largo guadagno che consegue e che mandano in buona parte alle famiglie.

 

 

I quali fatti, esposti da una persona che, per le sue funzioni, è animata dal vivo desiderio di fare cosa utile ai ferrovieri, inducono a talune considerazioni:

 

 

1)    Che il problema delle case popolari è tecnico oltrecché finanziario; e che a nulla giovano i discorsi, le invettive e le campagne contro i padroni di casa quando contemporaneamente si favoriscono e si promuovono metodi negligenti e volutamente lenti dei muratori, addetti alla costruzione di case nuove. Gridare contro i padroni di casa e lodare le leghe dei lavoratori edilizi, le quali aboliscono il cottimo è contraddizione stridente che si può spiegare solo coll’ignoranza da parte dei capi lega, i quali immaginano che, ridotta la produttività del lavoro aumenti la richiesta di operai, diminuisca la disoccupazione e crescano i salari. Perché la Società umanitaria non istituisce nella sua utilissima scuola di legislazione sociale un corso in cui si spieghi che è vero appunto l’opposto: che cioè la scarsa produttività del lavoro aumenta il costo del prodotto, ne scema il consumo e quindi per riflesso la produzione, con aumento fatale nelle schiere dei disoccupati e degli emigranti verso paesi più benigni, come ha rilevato il Negri? Perché non spiegare che invece conviene agli operai spingere al massimo il rendimento del loro lavoro per ridurre il costo e crescere la domanda, nel caso nostro, di case ampie e belle e igieniche? Coloro che sanno tutte queste cose, che le hanno lette nei libri dei Webb, i classici storici e teorici dell’unionismo operaio,male incolpano altri di un malanno di cui essi in parte sono responsabili.

 

 

2)    Che sarebbe inutile seguitare a crescere le immunità tributarie a favore delle case nuove, se esse dovessero soltanto servire di pretesto alle leghe per aumentare il numero degli operai necessari a compiere un dato lavoro. Da questo circolo vizioso è difficile una via di uscita, dovendosi fare affidamento sul progresso nell’educazione economica dei lavoratori, affidamento che per ora non si sa quale valore abbia.

 

 

Il crescendo dei fitti da un lato, il desiderio dall’altro di profittare subito delle agevolazioni fiscali, limitate nel tempo e nei luoghi, hanno portato ad una richiesta straordinaria di mano d’opera edilizia.

 

 

Questa si è trovata in una condizione privilegiata di forza ed, essendo fortemente associata, ha cercato di ottenere i prezzi massimi di monopolio, come un qualunque altro monopolista; e siccome non parve conveniente, per non dar troppo nell’occhio, aumentare ancora i salari individuali, si credette miglior partito far godere gli attuali salari ad un numero inutilmente sovrabbondante di operai. Questa la genesi del deplorato fatto, che andrebbe così ricondotta alla tumultuaria richiesta di mano d’opera e di materiali da costruzione (nel produrre i quali è impiegata nuova mano d’opera) nell’industria edilizia.

 

 

Perciò pare pericoloso moltiplicare i favori tributari ad una sola industria. Quelli che si trovano impiegati in quell’industria traggono a sé tutti i vantaggi di quei favori ed i consumatori si trovano a bocca asciutta e devono seguitare a pagare fitti elevati.

 

 

Gli sgravi tributari nei primi anni di esercizio di un’azienda sono giusti e fecondi, come sopra si disse; ma purché siano estesi a tutte le industrie. Allora né gli imprenditori né gli operai si troveranno in una condizione di privilegio perché la immunità iniziale, negli anni duri dell’organizzazione e della lotta, sarà concessa a tutti e nessuno potrà giovarsene in modo particolare. Gli operai edilizi non potranno trasformarsi in monopolisti perché l’industria edilizia non distoglierà capitali dalle altre industrie ugualmente immuni e non vi sarà quel tumultuario afflusso di capitali che oggi permette agli operai di adottar la politica del lavorar poco. Le immunità tributarie non devono essere ristrette a piccole classi di contribuenti, perché facilmente si convertono in privilegi. Non rifacciamo, per carità, a ritroso la via che i nostri maggiori hanno percorso abbattendo le immunità di classe e instaurando il principio della universalità dell’imposta!

La riforma tributaria di Torino e di un protezionismo daziario municipale

La riforma tributaria di Torino e di un protezionismo daziario municipale

«Corriere della sera», 18 gennaio[i] e 24 gennaio[ii] 1910

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.IlI, Einaudi, Torino, 1960, pp. 9-14.

 

 

 

 

1.

 

 

La questione finanziaria si impone nelle grandi città: a Milano, a Genova la si discute animatamente, e Torino non ha potuto rimandare neppure essa la discussione, ad un anno di distanza circa dal voto che poneva fine alle proposte di allargamento della cinta daziaria. I lettori ricorderanno come l’amministrazione Frola, dinanzi al crescere delle spese ordinarie e degli interessi per i debiti ultimamente contratti, avesse posto come caposaldo dell’equilibrio del bilancio l’allargamento della cinta daziaria al suburbio, in modo da perequare le condizioni degli abitanti fuori cinta a quelle degli entro cinta; i quali oggi pagano un ammontare di dazio da nove a dieci volte superiore al dazio pagato dai primi. È noto, come per la opposizione dei socialisti e degli esercenti, l’allargamento della cinta, malgrado il voto favorevole della maggioranza dei presenti, non abbia potuto esser condotto in porto. Vennero le elezioni generali e con esse il trionfo del partito liberale. Nessun trionfo elettorale però basta a far zampillare dall’arida terra nuove e fresche sorgive di redditi tributari; cosicché oggi l’amministrazione Rossi, dopo aver compiuto il preventivo del fabbisogno e delle entrate per gli anni prossimi, si trova costretta a bussare a denari. È un discorso ingrato, che fa sorgere recriminazioni, proteste e anche qualche tentativo di ostruzionismo dal piccolo manipolo dei sedici radico socialisti.

 

 

A dirla in breve, il discorso è il seguente. Dal 1910 al 1915, pure restringendo ad un supposto minimo le esigenze imposte dal progresso incessante di una grande città moderna, il fabbisogno per opere straordinarie si assomma in 34 milioni di lire, così distribuite: Nuovo arsenale militare e permute relative 12.500.000 lire; fognatura lire 2.500.000; nuovo contributo alla questione ospitaliera lire 1 milione; risanamento dei quartieri centrali lire 3 milioni; piano regolatore edilizio lire 3 milioni; nuovi edifici scolastici lire 5 milioni; diverse lire 7 milioni. I milioni, si sa, nei bilanci dei comuni moderni, ballano una ridda fantastica e bisogna oramai abituarsi alle cifre grosse. Come far fronte a questo fabbisogno di 34 milioni in sei anni? Con alienazioni di patrimonio per 10 milioni anzitutto, risponde la giunta; e la risposta sembra ragionevole, poiché il municipio di Torino è venuto negli ultimi anni, per via di permute, che diconsi fortunate, in possesso di un ingente demanio edilizio, che sarebbe antieconomico lasciare troppo a lungo inutilizzato. Che in parte sia conveniente alienarlo a poco a poco, in guisa da valorizzarlo al massimo, non è in via di massima contestabile. Per altri 10 milioni e mezzo di lire si faran dei debiti, dice ancora la giunta. E su questo punto non è sorta quasi alcuna opposizione, perché i contribuenti trovano sempre assai comodo di compiere l’opera pubblica, quando può averla col solo carico degli interessi sul capitale preso a mutuo. La giunta può addurre a sua giustificazione la circostanza che i debiti non si fanno per spese di consumo, ma per impieghi immobiliari, come l’acquisto dell’arsenale, la fognatura, gli edifici scolastici, il piano regolatore, il risanamento dei quartieri centrali. Magra giustificazione addotta, oltreché a Torino, da quasi tutti i municipi, per spiegare la corsa al debito. In parte agli acquisti di nuovi immobili corrisponde già l’alienazione di immobili vecchi (per 10 milioni di lire) e per il resto, come la costruzione di nuovi edifici scolastici e il piano regolatore, si tratta di spese che si possono chiamare straordinarie solo con figura retorica, essendo invece spese che ricorrono ogni anno e continueranno a ripetersi almeno fino al giorno in cui continuerà ad aumentare la popolazione della città. Far debiti per spese ricorrenti è pericoloso, specie ove avesse ad arrestarsi il progresso della città e con esso dovessero inaridirsi le fonti tributarie necessarie al servizio del debito.

 

 

Poiché con 10 milioni di lire di alienazioni di patrimonio e con 10.500.000 lire di mutui si arriva appena a 20.500.000 ed il fabbisogno cosidetto straordinario e di milioni di lire, al resto si spera di provvedere con disponibilità di bilancio. Le quali sono calcolate in lire 2.500.000 l’anno per i tre anni dal 1910 al 1912 e in lire 2 milioni l’anno per i tre anni dal 1913 al 1915. Avere disponibilità di bilancio significa avere un uguale supero di entrate ordinarie (compresi gli avanzi di cassa degli anni precedenti) sulle spese ordinarie. La disponibilità si ebbe a mala pena negli ultimi anni per circostanze eccezionalmente favorevoli; né sarebbe possibile senza adeguati provvedimenti, averla negli anni futuri se si pensa al crescere continuo delle spese pubbliche, fra cui e notabile l’incremento dovuto agli organici da lunga data promessi agli impiegati municipali. Da sola la maggior spesa presunta per i nuovi organici si calcola in lire 486.687 l’anno; onde si presenta il dilemma: o nuove imposte od di attuare contemporaneamente il nuovo organico e il programma dei 3 milioni di lire di opere straordinarie. Come è stato posto dalla giunta Rossi, il problema è semplice. Occorre ogni anno una disponibilità di bilancio di 2, 2 e mezzo milioni di lire per compiere il programma sessennale delle opere straordinarie. Questa disponibilità a stento la si ha oggi; ma non la si avrà più appena saranno approvate le nuove spese ordinarie, fra cui il mezzo milione di lire per gli impiegati. Quindi se si vogliono aumentare gli stipendi agli impiegati e non si vuole nel tempo stesso diminuire la disponibilità di bilancio per le opere straordinarie, occorre un aumento di imposte per circa mezzo milione di lire all’anno.

 

 

Il mezzo milione lo si ricaverebbe per 50.000 lire da un dazio di lire 10 per ogni ettolitro e di 10 centesimi per ogni bottiglia di acque minerali, per 50.000 lire (per il solo secondo semestre 1910) da un dazio di lire 40 per capo sugli equini mantenuti nel territorio fuori cinta, che ora sfuggono al dazio sui foraggi e per 450.000 lire da un rimaneggiamento dei dazi sui materiali da costruzione. Il primo dazio non ha incontrato opposizione, perché ricade sulle persone agiate e lusinga i viticultori, combattendo i surrogati del vino. Il dazio sugli equini nel forese pare sia stato altresì accolto con favore, come quello che si propone di togliere il favore di cui godono i proprietari che, per sfuggire al dazio sui foraggi, tengono i loro animali fuori cinta.

 

 

Opposizioni vivissime ha incontrato invece il terzo proposito della giunta torinese: il rimaneggiamento del dazio sui materiali da costruzione. In sostanza la giunta vorrebbe sostituire all’attuale metodo di percepire il dazio sui materiali da costruzione all’atto della introduzione in città la percezione a misura sugli edifici già costruiti. Il sistema è già in uso in parecchie grandi città italiane, tra cui Milano, ed avrebbe il grande vantaggio di perequare le condizioni del suburbio, che oggi nulla paga, a quelle dell’entro cinta. Chi ricorda come io sia stato convinto partigiano dell’allargamento della cinta daziaria a scopo di giustizia e di perequazione tributaria, troverà logico il consenso alla assai più modesta riforma, che si propone d’attuare, almeno parzialmente, il medesimo lodevole principio. La battaglia che oggi si conduce contro il nuovo metodo proposto per esigere il dazio sui materiali da costruzione, più che su questioni di principio, si fonda su argomenti secondari:

 

 

1) Si dice innanzi tutto che la proposta è illegale perché l’articolo 15 del testo unico di legge sui dazi interni di consumo vieta ai comuni di aumentare i dazi o di imporne dei nuovi su molti generi, tra cui appunto i foraggi ed i materiali da costruzione, a meno che essi procedano contemporaneamente a sgravi su altri consumi. Poiché la giunta spera di ricavare col nuovo metodo 450.000 lire di più, e non vuole concedere alcuno sgravio, si tratta manifestamente di un aumento di dazio ed anzi, per il fuoricinta, di un dazio affatto nuovo, che sarebbe perciò illegale. In virtù di un articolo 7 del regolamento generale sui dazi di consumo del 17 giugno 1909, i comuni, i quali hanno abolito il dazio sui farinacei, hanno tuttavia la facoltà di imporre un dazio sui materiali impiegati nella costruzione di edifici nuovi o in notevoli rifacimenti di edifici già esistenti mediante liquidazione da farsi, a fabbrica o lavoro ultimato, in base alle quantità accertate con computo metrico. È appunto il metodo che vorrebbesi adottare a Torino e che sarebbe consentito perciò alla nostra città, la quale ha a suo tempo abolito i dazi sui farinacei. Perché il nuovo metodo fosse illegale, sarebbe d’uopo dimostrare la incostituzionalità del regolamento daziario del 17 giugno 1909.

 

 

2) Non più forte è un argomento messo innanzi da taluni interessati nell’industria dei lavori in legno per costruzioni. Il dazio attuale, riscosso all’entrata nella cinta, concede ai fabbricanti entro cinta, che importano il legname greggio e lo lavorano, una protezione contro i fabbricanti del suburbio e delle altre città, che importano serramenta per porte e finestre, palchetti in legno ecc., già lavorati. È chiaro che, essendo il dazio per l’avvenire riscosso sui lavori in legno già posti in opera, esso colpirà egualmente tanto il fabbricante torinese quanto il suburbano o l’importatore da altre città, togliendo ogni protezione al fabbricante entro cinta. Circolò di questi giorni una protesta con la quale gli industriali si lamentavano della concorrenza che in futuro sarebbe loro stata mossa dagli industriali stranieri … voglio dire suburbani, piemontesi, milanesi, liguri, ecc. Il nuovo metodo deve lodarsi grandemente appunto per aver spazzato via gli avanzi di un protezionismo che arma gli industriali di una città contro gli industriali del suburbio o delle città vicine e crea tanti mercati chiusi quante le città murate d’Italia.

 

 

3) Veniamo da ultimo all’argomento principe degli oppositori del nuovo metodo di tassazione per i materiali da costruzione. Non tedierò con molte cifre e troppo complicate disquisizioni tecniche di computi daziari per metro cubo ed a peso. Basti il dire che il dazio attuale, a detta degli oppositori, può calcolarsi in 20 centesimi circa per metro cubo di muratura; e rende per il solo entro cinta 420.000 lire. La giunta vuole portarlo ad 80 centesimi; talché, se si riflette al numero probabile di metri cubi costruiti entro e fuori cinta, il dazio, col nuovo metodo, verrà a dare 1.200.000 lire circa: 800.000 lire di più e forse anche un milione, secondo altri e non solo 450.000 lire come è previsto dalla giunta. Onde si fa a questa rimprovero di non aver detto la verità, tenendo bassa la previsione del gettito della tassa, per far passare la riforma più facilmente. E si nota che l’aumento del quadruplo entro cinta del dazio e da zero ad 80 centesimi fuori cinta rincarirà indubbiamente il costo delle costruzioni e sarà un ottimo pretesto ai padroni di casa di aumentare i fitti con conseguenze incomportabili in un momento di ascesa di tutti i prezzi, compresi i prezzi degli alloggi.

 

 

Ribattono i difensori della giunta osservando che, anche con un dazio di 80 centesimi a metro cubo, superiamo di poco i 75 centesimi del socialista municipio di Alessandria, rimaniamo al di sotto delle 1,20 del radicaleggiante comune di Vercelli e restiamo assai inferiori alle 2 lire entro cinta ed agli 80 centesimi fuori cinta di Milano. Replicano gli oppositori che a Torino i dazi sono già altissimi e giungono all’82% delle entrate comunali, mentre a Milano, ad esempio, gittano solo il 60% delle entrate totali. Il che non ha un senso preciso, o se l’ha, significa, non che i dazi siano eccessivamente alti a Torino, ma che sono basse le altre imposte. Ed invero, secondo l’ultimo annuario delle città italiane, il dazio comunale a Milano rende lire 26,03 per abitante, mentre a Torino rende lire 27,29, differenza troppo tenue per poter servire a confronti odiosi. Notisi che a Venezia, il dazio rende lire 28,27, a Roma lire 28,71 ed a Genova lire 44,05 per abitante.

 

 

Tutto sommato può conchiudersi che, anche in rapporto alla gravezza comparativa dello stesso e degli altri dazi, sia giustificata la proposta della giunta intesa ad estendere al suburbio il pagamento del tributo e ad aggravarne alquanto la misura. Ma pare altresì certo che si sia calcata un po’ troppo la mano nella misura. Se è vero che la giunta ha bisogno solo di mezzo milione di lire, gli 80 centesimi per metro cubo sono troppi; e se il fabbisogno è superiore lo si spieghi apertamente e senza reticenze. I torinesi sono preparati al peggio, ma vogliono veder chiaro nel bilancio, e reputano che ogni tergiversazione sia segno di una politica desiderosa di fare approvare spese che non riuscirebbero mai ad incontrare il suffragio dell’opinione pubblica qualora questa fosse contemporaneamente avvertita della necessità di mettere nuove imposte per farvi fronte.

 

 

18 gennaio 1910.

 

 

2.

 

 

I lettori del «Corriere» vorranno concedermi venia se ritorno sulla questione finanziaria di Torino. I problemi municipali interessano sempre tutto il paese in generale, sovratutto in un momento in cui la questione tributaria urge ed è di ardua risoluzione appunto per i legami strettissimi che corrono tra le finanze dello stato e le finanze dei municipi. Ma stavolta il problema tributario torinese tocca davvicino i più grandi interessi nazionali, perché sulla questione tributaria locale si è innestata una questione di protezionismo industriale, la quale non può e non deve essere risoluta senza aver di mira gli interessi della nazione intiera. Inaspettatamente, con alcune modificazioni alle sue primitive proposte, la giunta municipale torinese ha posto sul tappeto un grande problema nazionale, che rientra in un campo che dovrebbe essere di spettanza esclusiva dello stato.

 

 

E valga il vero. Le primitive proposte della giunta torinese erano, come i lettori ricorderanno, queste: sostituire all’attuale metodo, con cui si tassano i materiali da costruzione nel momento dell’introduzione in cinta, l’altro metodo con cui i materiali stessi si tassano in opera, quando la casa è costrutta e finita. La proposta era sembrata approvabile, perché rispondeva a due principii incontroversi: 1) l’uno di giustizia tributaria, perché il metodo attuale lascia esenti le costruzioni del fuori cinta, mentre quello proposto dalla giunta aveva il vantaggio di parificare le condizioni tributarie delle due parti della città; 2) l’altro di politica economica, perché l’attuale metodo di tassare i lavori in metallo, in legno, in marmi e pietre da taglio all’atto dell’introduzione in cinta concedeva una protezione agli industriali interni contro gli industriali di Moncalieri, Susa, Milano, ecc. ecc., la quale è manifestamente contraria all’unità dello stato italiano e trasferiva ai municipi i compiti di politica economica che universalmente si ritengono riservati allo stato.

 

 

Ai progetti della giunta un appunto solo mi sembrava possibile fare: ed era la manchevole giustificazione della tariffa elevata (0,80 centesimi per metro cubo) proposta per la tassazione delle costruzioni. Pareva ai più difatti che potesse ottenersi un mezzo milione di lire (fabbisogno confessato dalla giunta) con una tariffa più mite.

 

 

Senonché quelli che erano i pregi chiarissimi delle proposte furono appunto quelli che fecero sorgere le più vive opposizioni. Il fuori cinta, minacciato di parificazione tributaria all’entro cinta, si agitò e trovò aiuto, come al solito, nei socialisti. Gli industriali, a cui veniva tolta la protezione daziaria, si agitarono ancor più, spalleggiati dagli operai, a cui si faceva balenare lo spettro della disoccupazione. Circolano a Torino di questi giorni memoriali degni di essere gelosamente conservati perché non mi accadde mai di leggere documenti così interessanti e curiosi:

 

 

Gli industriali in legno fanno osservare che Torino si trova in condizioni specialissime, per cui le industrie cittadine, che devono soddisfare a bisogni locali, specialmente quelle sussidiarie dell’industria edilizia, sono esposte alla più incalzante concorrenza da parte delle industrie della provincia e più ancora da parte di quelle della Lombardia, favorite da migliori condizioni naturali, da maggiore potenzialità economica e da un minore aggravio di pesi e di tributi. Tanto ciò è vero che, nonostante la protezione daziaria, la cifra delle importazioni cresce ogni giorno più e che quasi quotidianamente si impiantano a Torino agenzie e rappresentanze di industrie della provincia e di Lombardia, concorrenti di industrie cittadine. Ora, se si toglie l’ultimo ostacolo allo svilupparsi di questa concorrenza, è certo che un grave danno subirebbe la classe industriale nostra e di contraccolpo anche la classe operaia, aumentando la crisi di disoccupazione che già esiste nella nostra città.

 

 

Gli industriali in ferro, metalli, marmo, pietre e cemento rincalzano:

 

 

Tempo addietro gli industriali di provincia e gli stessi proprietari di case venivano in città ad assumere direttamente i lavori, pei quali naturalmente potevano fare condizioni migliori, trovandosi i materiali sul posto di lavorazione, colla mano d’opera inferiore quasi della metà, colle pigioni, forza motrice e spese generali infinitamente meno costose di quelle della città. Si fu allora che gli industriali ed operai torinesi domandarono alla civica amministrazione un dazio protettore contro le introduzioni di fuori [leggi delle altre parti d’Italia], e questa, riconosciutene la necessità e l’importanza, ne accoglieva la domanda. Si poté tosto constatare il primo successo dell’accordata protezione, dal notevole incremento che assunse l’industria, che si ampliò, si perfezionò: si impiantarono nuovi stabilimenti, si accrebbe la maestranza e si sanò completamente la piaga della disoccupazione, tanto che oggigiorno non v’è un solo disoccupato. È quindi indiscutibile che se si abolisse ora il dazio all’entrata in città dei materiali, si ricadrebbe inevitabilmente nel primitivo marasma, coll’aggravante che i dolorosi effetti si ripercuoteranno su una quantità ben maggiore di stabilimenti e su una maestranza assai più numerosa. In questi ultimi anni poi sono noti gli sforzi che già fecero molti industriali di fuori [e cioè italiani del Piemonte, della Lombardia], sia direttamente sia a mezzo dei loro rappresentanti, per conquistare il mercato torinese, sforzi che tornarono vani solo per la protezione del dazio. Abolita questa, l’industria torinese dovrà necessariamente perire soffocata dalla loro concorrenza e diversi milioni all’anno se ne andranno da Torino a portare il benessere nelle vicine città, mentre che agli industriali torinesi non rimarranno che le tasse da pagare, colle spese che loro incombono.

 

 

A leggere le quali cose, io mi sono fregato gli occhi per essere certo di non ingannarmi e di non aver scambiato un memoriale degli industriali torinesi contro la concorrenza piemontese e lombarda con un qualche altro memoriale indirizzato al governo da industriali italiani contro la concorrenza tedesca, francese, ecc. Senza voler far questione di protezionismo e libero scambio, avevo sempre creduto che le norme di politica economica dovessero essere dettate dal parlamento nazionale allo scopo di regolare i rapporti commerciali tra l’Italia e l’estero. Le dogane saranno buone o brutte istituzioni, ma devono essere dogane di stato. Entro i confini d’Italia, avevo sempre ritenuto come assioma incontroverso dovesse esistere unità economica, che l’epoca delle barriere doganali tra città e città, tra staterello e staterello fosse trascorsa per sempre. Ed erano miei concittadini, torinesi, eredi di quelli che avevano iniziato il movimento di unificazione italiana, figli e nipoti di quei valorosi che avevano abbattute le barriere doganali esistenti ai confini degli antichi stati, erano dessi che insorgevano contro una giunta la quale proponeva si abolissero le ultime tracce di un protezionismo campanilistico, deliberato in altri tempi, quando la materia imponibile daziaria era scarsa e costringeva a tassare anche prodotti industriali, e deliberato senza aver consapevolmente di mira la protezione degli industriali interni contro quei terribili ed odiati stranieri che vivono nelle vicine città del Piemonte e della Lombardia.

 

 

Il meraviglioso si è che, allarmata da queste strane manifestazioni di municipalismo dal sapore medievale, la giunta si ricredette e fece non uno ma due passi indietro. Mantenne la proposta di tassazione ad opera compiuta solo pei la costruzione muraria propriamente detta, proponendo che fossero perciò abolite soltanto le voci calce, cementi, gesso, mattoni, pietrami, ecc. dalla tariffa dei dazi esatti alla cinta, e riducendo la tariffa unitaria relativa da 80 a 60 centesimi per metro cubo di costruzione, sia entro che fuori cinta. E di aver ridotta la tariffa da 80 a 60 centesimi le va data lode, poiché dimostrò così di arrendersi di fatto alle obiezioni dei competenti, i quali dimostrarono che i 60 centesimi sono più che sufficienti per ottenere il desiderato fabbisogno. Ma, per tutte le altre voci, per i lavori in metallo, legno, marmi, ecc. la giunta deliberò di tornare all’antico, e cioè alla tassazione all’atto dell’introduzione, sì da conservare la sperequazione col fuori cinta, che per questi lavori continuerà a non pagar nulla e la protezione a favore degli industriali interni. Anzi la protezione sarà cresciuta, perché la giunta, a viemmeglio assicurarsi quel mezzo milione, che le è già ampiamente garantito dai 60 centesimi di tassa sulla muratura semplice, propone i seguenti aumenti di dazio:

 

 

Per quintale

 

Aum. %

 

Per i lavori in metallo di Prima categoria

da L. 5 a 6

20

Per i lavori in metallo di Seconda categoria

da L. 1,50 a 2

33

Per i lavori in metallo di Terza categoria

da L. 0,50 a 0,75

50

Pietre da taglio lavorate

da L. 0,30 a 0,60

100

Pietre da taglio non lavorate

da L. 0,10 a 0,30

200

Marmi lavorati

da L. 2 a 4

100

Arenarie e gres lavorati

da L. 1 a 3

200

Marmi ed arenarie greggi

da L. 0,30 a 1

230

Legname da lavoro

da L. 0,05 a 0,12

140

 

 

Quanto sia grave tutto ciò, non è chi nol veda. Notisi che i lavori in metallo godono già di un’alta protezione, essendoché le materie greggie nulla pagano; che la differenza fra il dazio sul marmo greggio e il marmo lavorato che ora è di 1,70 (2 – 0,30) lire salirà a 3 lire (4 – 1), che il legname da lavoro greggio pagherà, è vero, qualcosa di più (0,12 invece di 0,06), ma gode di una protezione enorme, perché il legno lavorato semplice continuerà a pagare 5 lire al quintale ed i mobili pagheranno sempre da 6 a 20 lire al quintale. L’effetto fiscale di aumenti così gravi nelle tariffe daziarie protettive, aumento che va dal 20 al 230%, quale sarà? Quello di favorire la produzione interna e di rendere a poco a poco nulla l’importazione dal di fuori; ed a mano a mano che questo accadrà, il reddito finanziario del dazio tenderà a zero. Sono questi gli scopi che si deve proporre un dazio di consumo nelle città? Che un dazio doganale sia messo a bella posta per ottenere un rendimento nullo, si comprende, perché lo stato ha adottato una certa politica economica che porta appunto ad annullare l’importazione. Ma che i dazi di consumo debbano essere messi dalle città perché non rendano nulla è tale un controsenso, tale una aberrazione che nulla più.

 

 

Almeno il danno fiscale, certissimo a non lunga scadenza, fosse compensato da vantaggi economici! Anche qui, però, nulla di più certo che il protezionismo municipale accentua tutti i danni del protezionismo di stato, senza avere alcuno dei benefici che i fautori di quest’ultimo allegano. È certo intanto che in una città sola, su un mercato ristretto, è difficilissimo avvenga quel fenomeno di concorrenza tra le industrie interne che in un grande mercato può verificarsi. Gli Stati uniti sono protezionisti: e che importa, quando il mercato interno è tutto aperto al libero scambio ed è vasto come l’Europa? La concorrenza e lo sviluppo delle industrie sono tali che il prezzo di taluni prodotti all’interno è inferiore al prezzo straniero. In Francia è accaduto in parecchi anni che il prezzo del grano protetto non fosse più elevato che sul mercato libero di Londra. In Italia certe industrie protette vendono a prezzi di concorrenza internazionale. Ma in un mercato ristretto, come quello di una città, questo fenomeno è difficilissimo a verificarsi.

 

 

Troppo poche sono le imprese produttrici perché esse non riescano a sfruttare d’accordo tutto il margine di protezione in guisa permanente. Casomai, se la loro produzione sarà esuberante al consumo dell’entro cinta potranno mantenere elevati i prezzi all’interno e sfogare provvisoriamente il sovrappiù nel territorio esterno. Il dazio protettore, insomma, è destinato ad essere pagato e per sempre, dai consumatori interni; e nel caso nostro ad aumentare in modo permanente – ed a beneficio di privati e non del tesoro municipale – il costo di costruzione delle case, del mobilio e di tutto ciò che è il conforto dell’abitazione.

 

 

Né io vedo, perché dal punto di vista dell’interesse nazionale e cittadino sia utile favorire artificiosamente la concentrazione delle industrie nelle città. Dal punto di vista nazionale è indifferente che una industria sia esercitata a Torino o a Moncalieri o a Susa o a Milano. Dal punto di vista cittadino l’argomento principe dei memoriali discorsi sopra mi dà ragione. Che cosa vuol dire infatti che fuori, nelle campagne o nelle valli alpine, i salari sono più bassi ed i fitti meno cari? Che conviene di più produrre fuori e che è inutile, dopo tanto lamentarsi di urbanismo crescente, di spopolamento delle campagne, di difficoltà di trovare alloggi nelle città, di minacciosa questione delle case popolari, aggiungere nuovi incitamenti all’inurbarsi progressivo delle popolazioni. Noi ci aggiriamo in un circolo vizioso: i fitti sono cari nelle città, e perciò gli industriali debbono essere messi in grado coi dazi di pagare salari alti agli operai: i salari alti attraggono nuova gente rurale, allucinata dalle grosse cifre dei salari nominali, e la nuova domanda fa aumentare i fitti; e così all’infinito.

 

 

Arrivati a questo punto, a me sembra che si imponga l’intervento dello stato. Altri ha invocato l’arma delle leggi per dimostrare l’illegalità dei nuovi provvedimenti in genere proposti dalla giunta. Io la invoco per dimostrare la sconvenienza che il dazio consumo – strumento di tassazione esclusivamente fiscale – venga convertito in un’arma fratricida di lotta tra città e città, tra regione e regione. Lo stato deve dire agli industriali d’Italia: io vi proteggerò, se per varie ragioni lo riterrò opportuno, contro la concorrenza straniera, ma ad una condizione: che il mercato interno sia aperto alla concorrenza, alla emulazione illimitata di tutti voi, a condizione che l’industriale di Torino lotti con quello di Susa, l’industriale di Milano con quello di Brescia colle sole armi dell’ingegno, dell’iniziativa operosa, dell’aiuto bene organizzato della maestranza e non con le armi artificiose di medievali barriere cittadine! Ma forse non è necessario chiedere l’intervento dello stato: a Torino vi sono ancora uomini preclari, industriali arditi che comprendono l’assurdità ed il danno di un campanilismo meschino e sono convinti che noi torinesi possiamo vivere di vita propria, indipendente, senza ricorrere ad armi che il progresso dei tempi ha irremissibilmente spuntate.

 

 

24 gennaio 1910.

 

 

 


[i] Con il titolo La Questione finanziaria a Torino [ndr].

[ii] Con il titolo Protezionismo dazioario municipale. Un grande problema nazionale e la riforma tributaria di Torino [ndr].

L’applicazione della tassa di famiglia a Milano

L’applicazione della tassa di famiglia a Milano
«Corriere della Sera», 1 gennaio 1910

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 3-8

 

 

 

 

La lettura degli estratti dei ruoli della imposta di famiglia che i quotidiani di Milano fanno di questi giorni ha un interesse che non è solo fatto di curiosità di conoscere gli affari altrui.

 

 

Su questa curiosità, del resto, si fondano in parte i moderni sistemi di tassazione diretta, poiché, se essa può condurre ai deplorevoli eccessi delle lettere anonime e di spionaggio invidioso, significa altresì vigile controllo dell’opinione pubblica sull’opera delle commissioni amministrative incaricate di ripartire tra i cittadini l’onere tributario. L’opinione pubblica può fornire preziosi suggerimenti sul modo di ovviare a sperequazioni od occultamenti che risultassero evidenti e può sovratutto rilevare quei punti di principio che fossero meritevoli di attenta considerazione e potessero fornire argomento ad utili riforme. Da questo punto di vista di spettatore, e nell’intendimento di interpretare, ove sia possibile, la voce della opinione pubblica media, sono scritte le presenti note.

 

 

Una prima impressione è che i ruoli della imposta di famiglia sono una prova di civismo delle classi medie ed alte di Milano. Nella lista dei 138 contribuenti con reddito tassabile superiore a 100.000 lire, dei 44 con reddito fra 75.000 e 100.000 lire, dei 141 con reddito fra 50.000 e 75.000 lire, degli 806 con reddito fra 25.000 e 50.000 lire e dei 3.732 con reddito fra le 10.000 e le 25.000 lire passano i più bei nomi della aristocrazia e della borghesia lombarda. Poiché questa è la classe che ha dato moltissimi gregari e la più gran parte dei dirigenti al partito liberale e moderato che si trova al potere nella capitale lombarda; e poiché fu questo partito a volere con energia l’imposta di famiglia, forza è conchiudere che vi è nelle classi medie e alte di Milano un senso della responsabilità del potere, dei doveri sociali della ricchezza ed una percezione consapevole, non frequente tra gli uomini, della necessità di mettere mano alla borsa se si vogliono servizi pubblici rispondenti ai bisogni ed alla dignità di un gran centro di popolazione e di affari, come Milano. I materialisti della storia diranno che il partito liberale ha tassato se stesso, spontaneamente, allo scopo di conservarsi al potere e per non essere tassato più gravemente in seguito, ove i popolari li avessero sostituiti a palazzo Marino. Ma costoro avrebbero reputato egualmente egoistica la condotta dei liberali qualora avessero preferito aumentare le imposte sui consumi o magari si fossero astenuti dalle spese e quindi dalle imposte nuove; ed è lecito non tener conto di siffatte spiegazioni contraddittorie. I ceti dirigenti hanno dato a Milano un nobile esempio di autotassazione, troppo raro perché non abbia ad essere rilevato.

 

 

Il medio lettore, osservando la lista dei 138 contribuenti che si trovano al culmine del reddito tassabile (da 100.000 lire in su), sarà stato probabilmente punto dalla curiosità di conoscere anche per ognuno di essi, come per gli altri contribuenti minori, l’ammontare del reddito individualmente accertato. Questa curiosità non può, per ora, essere soddisfatta, perché, come è noto, tutti i contribuenti da lire 100.000 di reddito in su sono tassati con la quota fissa di lire 3.800. Paga 3.800 lire tanto chi ha 100.000 lire di reddito, quanto chi ne ha 200.000, 500.000 od 1.000.000 di lire. Il che dà luogo ad una sperequazione viva da tutti rilevata; il contribuente con 100.000 lire di reddito paga un’imposta uguale al 3,80% del reddito, mentre chi ne ha 200.000 paga solo l’1,90% e chi ne ha 500.000 solo il 0,76%, e finalmente il fortunato percettore di 1 milione di lire di reddito all’anno solo il 0,38%. L’imposta, progressiva dall’1% per i redditi minimi tassabili al 3,80% per le 80-100.000 lire, diventa poi regressiva.

 

 

Il difetto è destinato a scomparire, perché fu già, a richiesta del consiglio municipale milanese, modificato il regolamento della provincia sulla tassa di famiglia, allo scopo appunto di permettere di prelevare non più lire 3.800 fisse, ma il 3,80% del reddito sui redditi superiori a lire 100.000; cosicché in avvenire, chi avrà lire 100.000 di reddito pagherà lire 800, chi ne avrà 200.000 ne pagherà 7.600 e chi sarà valutato ad 1 milione (se fra i 138 qualcuno giunga a simile fastigio) pagherà 38.000 lire.

 

 

Dalle liste pubblicate sui giornali non si rileva in maniera sicura se il reddito tassabile scritto a fianco del nome dei singoli contribuenti sia il reddito vero, depurato semplicemente dalle imposte e dalle passività, oppure sia il reddito ridotto ulteriormente di 400 lire per ogni membro della famiglia e di un quarto per gli stipendi degli impiegati pubblici e privati conosciuti nel loro ammontare certo.

 

 

Sarebbe cosa utilissima se, chiusi e giudicati i reclami od almeno la maggior parte di essi, ed accertati definitivamente i redditi imponibili, venisse data alla luce una statistica dalla quale risultasse l’ammontare del reddito effettivo, l’ammontare relativo delle detrazioni del quarto e l’ammontare relativo delle detrazioni delle 400 lire; e ciò distintamente per ognuna delle 7 categorie in cui si dividono i contribuenti. È probabile che da questa statistica abbia a risultare che l’importanza relativa di quelle detrazioni, grandissima per i redditi inferiori alle 10.000 lire all’anno, diventa assai meno grande per i contribuenti fra le 10.000 e le 25.000 lire per diventare in seguito irrilevante. Altra prova, se ve n’era bisogno – e potrà quella prova essere corroborata dalle cifre d’imposta effettivamente pagate dalle varie classi – che il peso della nuova tassa di famiglia graverà specialmente sui redditi dalle 10.000 lire in su. Poiché è evidente che, supponendo la famiglia composta in media di persone, una detrazione di 400 x 4 = 1.600 lire ha più importanza per chi ha 2.500 lire di reddito che per chi ne ha 10.000; e maggiore per questi che per chi ne ha 25.000 o 50.000. Ed è altresì evidente che gli stipendi accertabili in misura certa ai quali soltanto si dà la detrazione del quarto, sono sovratutto gli stipendi piccoli e mediocri. Coloro che guadagnano le 10.000 lire e più ancora le 25.000 e le 50.000 lire di reddito non sono quasi mai impiegati a stipendio fisso; bensì sono professionisti, direttori cointeressati, industriali, commercianti, il cui reddito è incerto e a cui quindi non si dà detrazione di sorta alcuna.

 

 

Qui nasce un problema, che lo studio minuto dei ruoli permetterebbe di precisare con esempi calzanti: è corretto trattare tutti i contribuenti dalle 10.000 lire in su quasi alla stessa stregua? Per costoro, già lo si è visto, la detrazione delle 400 lire diventa sempre meno importante ed è inoltre concessa indifferentemente a tutti; ed e per essi poco probabile che siano frequenti le detrazioni del quarto concesse agli stipendi fissi. Tra 5.000 contribuenti, destinati a fornire il nerbo maggiore del tributo, vi sono proprietari di terre, di case, detentori di redditi fissi di capitale e di redditi variabili, industriali, commercianti, professionisti. È corretto tassarli tutti alla stessa stregua, tenendo solo conto della cifra pura di reddito? O non sarebbe più giusto concedere ai professionisti, agli industriali, ai commercianti, che hanno un reddito aleatorio, oscillante, che sovratutto devono prelevare su questo reddito i risparmi necessari a far fronte ad eventualità di malattia, di vecchiaia, di morte, ecc., una detrazione che diminuisse il loro carico tributario in confronto a coloro che vivono del reddito di un capitale e non corrono quindi altrettanti rischi di interruzione del reddito e non sono soggetti ad uguali obblighi di risparmio?

 

 

La risposta al rimprovero di violazione della giustizia tributaria è facile e fu fatta anche, se non erro, dall’assessore per le finanze durante le discussioni consigliari: il commerciante, l’industriale, il professionista provvede da sé ad ottenere questa giusta detrazione: colla frode. Egli denuncia redditi minori del vero e quindi esenta automaticamente dall’imposta la parte non denunciata. La obiezione ha certo un fondamento di vero; ma trascura innanzi tutto il fatto che anche coloro i quali traggono i redditi del capitale possono denunciare redditi inferiori al vero. Non sembra corretto inoltre, che, per punire una possibile frode, si commetta ingiustizia contro coloro a carico dei quali si è potuto constatare il reddito in modo abbastanza esatto.

 

 

Né si può parlare di frodi nelle denuncie da parte dei professionisti, commercianti ed industriali milanesi, i quali non vennero invitati a fare alcuna denuncia, ma furono tassati d’ufficio per somme di reddito presunte, che talvolta saranno inferiori al vero, ma potrebbero anche, come già si afferma da taluni giornali, essere superiori alle somme effettive. Dalle quali osservazioni si deduce quale sia il difetto essenziale dell’imposta di famiglia applicata dalle città: che essa incontra difficoltà grandissime per giungere all’accertamento effettivo dei redditi. È lodevole sicuramente lo zelo con cui l’ufficio milanese delle imposte ha cercato di conoscere i redditi, tenendo conto anche di quelli nascenti fuori della città di Milano. Ma è probabile che gli errori e le dimenticanze non siano state poche. Come si fa a sapere sempre se una famiglia ha redditi aventi origine fuori della città dove abita? Si saranno interrogati i comuni di nascita; ma si possono possedere fondi all’infuori di quel comune o di quell’agenzia dell’imposta. Si possono avere crediti ipotecari tassati al nome del debitore in un comune non immaginabile. Si possono possedere titoli di società non aventi sede a Milano; né è possibile che tutte si siano interrogate; né, interrogate, abbiano fornito notizie complete. Per necessità di cose, per valutare il reddito dei terreni e dei fabbricati fa d’uopo basarsi sulle cifre dei catasti, non essendo in potere di un municipio di costringere lo stato a rinnovarli. Onde i redditi quali figurano sui ruoli milanesi rappresentano fedelmente il vero legale conosciuto e conoscibile dagli uffici locali; ma sono probabilmente disformi – e disformi in proporzioni variabilissime – dai veri redditi effettivi. Il difetto è proprio delle imposte sul reddito; ma diventerebbe meno grave se l’imposta di famiglia o sul reddito fosse di stato. Lo stato ha mezzi più efficaci per conoscere i redditi dovunque nascano, sommarli e conoscerne l’ammontare complessivo. Lo stato può migliorare – ed esso solo può farlo – l’assetto delle imposte sui terreni, sui fabbricati e di ricchezza mobile su cui si deve basare l’imposta sul reddito per accertare il reddito globale sui contribuenti. Lo stato finalmente può risolvere, annullandola, la questione, gravissima per i comuni, della attribuzione dei redditi alle varie località. In alcuni cantoni svizzeri essendo stata istituita l’imposta progressiva sul reddito, non pochi contribuenti trovarono conveniente trasportare il domicilio nel cantone vicino, dove l’imposta o non c’era od era più mite. Essendo i cantoni sovrani, non si trovò un rimedio radicale contro la concorrenza al ribasso esercitata da taluni cantoni contro gli altri in materia tributaria. Per poco che l’imposta di famiglia si generalizzasse in tutti i grandi comuni ed arrivasse, come a Milano, alla non indifferente altezza del 3,80% sui redditi maggiori, nascerà la convenienza di trasportare il domicilio nei comuni vicini o nei luoghi di villeggiatura per sfuggire ad un’imposta che oggi si ferma a 3.800 lire ma domani potrà arrivare sino a 38.000 lire per i redditi di un milione. La risoluzione delle controversie sul domicilio è una delle più difficili e disputabili in diritto tributario; e le controversie diverranno più complicate quando contro i grossi comuni ad alte imposte staranno, alleati ai contribuenti, i vicini comuni piccoli, concorrenti nell’attirare la clientela degli abitanti ricchi. Il Milanino dell’unione cooperativa, che è fuori del territorio di Milano, non diventerà forse un concorrente tributario della metropoli a cui deve la sua origine?

 

 

Ecco come nel momento in cui sorge la nuova imposta di famiglia a Milano, si pone il problema della sua soppressione, come tributo comunale, e della sua avocazione allo stato. Il passaggio non potrà evidentemente compiersi senza compensi. Quali debbano essere e come il trapasso possa effettuarsi senza squilibri e danni ai bilanci comunali è davvero uno dei problemi maggiori della finanza italiana nel momento presente.

Personalità e progressività nella nuova imposta sul reddito

Personalità e progressività nella nuova imposta sul reddito

«Corriere della Sera», 22, 24[1] novembre e 1[2] dicembre 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 802-808

 

 

I

Nel disegno di riforma tributaria presentato dall’on. Giolitti, il titolo terzo sull’«imposta personale progressiva sull’entrata» merita un attento e particolare esame. Il problema dell’imposizione diretta, globale e progressiva sui redditi è certo grave; né qui lo si vuol discutere a fondo, importando assai più mettere in luce i pregi ed i difetti di quelle norme positive che il governo ha voluto sottoporre alla critica dell’opinione pubblica. Se si volesse riassumere in una frase paradossale, l’impressione che si ha dalla lettura degli articoli componenti il titolo terzo del disegno di legge, si potrebbe dire: che i pregi stanno tutti nell’intitolazione data all’imposta, ed i difetti nel modo con cui gli articoli praticamente applicano il principio formulato nell’intitolazione.

 

 

Ed invero: imposta personale vorrebbe dire imposta che tiene conto di tutte le condizioni particolari in cui si trova un contribuente, le quali menomano od accrescono la sua capacità contributiva: imposta progressiva dovrebbe essere quella che il principio della progressività non applica nelle sue maniere più crude e primitive, ma con quegli accorgimenti che sono diventati il patrimonio pacifico dei sistemi tributari più moderni; ed imposta sull’entrata vorrebbe finalmente significare una imposta che cerca di scovrire i redditi netti effettivi e su quelli percuote con giusta perequazione.

 

 

A volerlo fare apposta il testo contiene nei suoi articoli disposizioni cosiffatte che contraddicono i principi implicitamente accolti nel nome dato all’imposta; cosicché si potrebbe affermare che il tributo nuovamente proposto dall’on. Giolitti non è personale, non è progressivo secondo quei modi di progressività che oggimai sono universalmente accolti e non colpisce la entrata netta dei contribuenti.

 

 

L’imposta voluta dal governo non è una imposta personale, bensì si avvicina talmente ad una imposta reale da costituire un regresso in confronto della vecchia e tanto criticata imposta di ricchezza mobile. Potremmo chiamarla imposta «personale» perché esenta i redditi inferiori a 5.000 lire e perché tiene conto delle passività. Tutto ciò non basta. L’imposta sul reddito per la natura sua complementare ed aggiuntiva alle esistenti imposte dirette, evidentemente non poteva colpire i redditi piccoli e mediocri che fin troppo duramente sono già gravati, ma doveva però conservare il carattere di «personalità» anche e sovratutto rispetto ai contribuenti da essa colpiti. Non basta essere personale rispetto ai contribuenti immuni, sovratutto doveva esserlo rispetto a coloro che saranno chiamati a pagarla. A questo riguardo l’imposta pecca gravemente. Pagherà l’uguale imposta tanto il contribuente scapolo con 6.000 o 10.000 lire di reddito quanto il contribuente carico di famiglia ed avente uguale reddito. A Milano, quando si volle istituire la tassa di famiglia non solo si esentarono i redditi inferiori a lire 2.500, ma oltracciò si concesse una detrazione di lire 400 per ogni membro della famiglia. Le proposte Giolitti sono dunque più fiscali di quelle già invalse nei maggiori comuni italiani: dimostrazione del poco studio e della scarsa preparazione che precedettero l’annuncio a sorpresa del disegno di legge governativo. Né si dica che del numero dei componenti la famiglia si tiene conto riducendo di un decimo o due decimi il reddito presunto, ricavato, in mancanza di meglio, dall’affitto pagato per l’alloggio del contribuente, quando costui abbia figli o parenti a suo carico. Innanzi tutto al criterio dell’affitto pagato si può ricorrere quando non si riesca a scoprire per altra via il reddito dei contribuenti; ed inoltre, con quelle riduzioni del fitto si volle evitare solo di attribuire ad una persona, oberata di figli e costretta a vivere in parecchie camere, un reddito superiore a quello vero; ma tutto il suo reddito presunto sarà tassato mentre sarebbe stato equo ridurlo ad una minor cifra imponibile.

 

 

Ecco un esempio. In una città di più di 200.000 abitanti uno scapolo ed un padre di famiglia con tre figli abitano ciascheduno in un alloggio da 1.500 lire. Invece di attribuire ad amendue un reddito di 7.500 lire, il disegno suppone che lo scapolo abbia 7.500 lire di reddito ed il padre di famiglia 6.000; il che è probabile sia relativamente anche troppo per quest’ultimo e troppo poco per il primo. Ma qui si ferma il progetto governativo, il quale tassa i due contribuenti su tutte le 7.500 o 6.000 lire del loro reddito così scoperto; mentre a Milano una volta accertati i due redditi in lire 7.500 per lo scapolo ed in lire 6.000 per il padre di famiglia, il primo avrebbe potuto ancora dedurre dal reddito lire 400 ed il secondo una cifra assai maggiore, ossia lire 1.600, cosicché i redditi imponibili sarebbero stati di lire 7.100 e di lire 4.400. Questa è personalità che gradua l’imposta in ragione del potere contributivo; non quella del disegno governativo che tassa egualmente persone le cui circostanze familiari sono ben diverse.

 

 

Non basta. Carattere essenziale della personalità è di tener conto della natura del reddito: tassando meno il reddito delle professioni e del lavoro, più quello delle industrie e dei commerci e più ancora il reddito del capitale. Donde la celebre distinzione che fin da quarantacinque anni fa insigni statisti introdussero nell’imposta di ricchezza mobile fra redditi del capitale puro, del capitale misto a lavoro e del lavoro puro; distinzione che, sotto questo rispetto, collocò l’italiana imposta di ricchezza mobile nel novero delle più perfette ed imitabili imposte dei paesi civili. Distinzione che di recente fu imitata, sebbene imperfettamente, dall’Inghilterra (qualche volta anche gli stranieri non temono di copiar noi!); distinzione che fu introdotta dal comune di Milano nella imposta di famiglia riducendo di un quarto i redditi degli impiegati di enti pubblici, delle opere pie e delle amministrazioni, i cui documenti permettono un calcolo preciso e certo dei guadagni dei loro dipendenti.

 

 

Di questa distinzione, che è vanto del nostro sistema tributario, non si trova più traccia nel disegno di legge del governo, dove si tassano i redditi netti accertati e non, come si sarebbe dovuto, i redditi netti già ridotti ad imponibile, ossia diminuiti in quelle proporzioni che il legislatore del passato, più sapiente di quello odierno, aveva concesso ai redditi del lavoro, dell’industria e del commercio. Cosicché, a parità di reddito, pagheranno ugualmente impiegati e proprietari di case, professionisti e proprietari terrieri, industriali e detentori di titoli di stato, commercianti e possessori di obbligazioni fondiarie a reddito certo e fisso. Se questa sia «imposta personale» lascio giudicare a chiunque. La personalità, che è vanto nostro e conquista recente del più squisito diritto tributario, c’è solo nel titolo, non nella sostanza della nuova imposta.

 

 

A sminuire il carattere di personalità concorre una disposizione caratteristica contenuta nell’articolo 33, la quale dice: «Si comprendono nella denuncia per l’applicazione dell’imposta anche redditi che godono di esenzione temporanea o speciale». Quale il significato delle parole di colore oscuro?

 

 

È difficile afferrarlo subito in tutta la sua estensione. Par certo, però, che si siano volute rinnegare le conseguenze più benefiche della recente legislazione a favore del mezzogiorno e delle isole. Con questa si erano concesse esenzioni quinquennali, decennali, ventennali, ecc., a coloro i quali importassero nuove industrie, nuove utilizzazioni di forze idrauliche, o rimboschissero terreni franosi ed abbandonati. Il legislatore aveva detto: poiché si tratta di iniziative di grande interesse pubblico, poiché i coraggiosi, i quali si renderanno benemeriti del risorgimento agrario ed industriale del mezzogiorno, dovranno nel primo quinquennio, o decennio, o ventennio correre tanti rischi da potersi fondatamente presumere che essi non abbiano reddito (frutta una industria nuova sul serio per i primi 5 o 10 anni o frutta una foresta prima dei 20 anni?) così essi devono essere esentati dalle imposte sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile. Oggi vien fuori il governo, il quale sembra preso da uno strano furore contro il mezzogiorno (anche da altri punti di vista la riforma tributaria danneggia le regioni meridionali) e dice: quelle esenzioni rimarranno ferme per i vecchi tributi, ma è come se non esistessero per la nuova imposta progressiva. La riduzione del 30% nell’imposta erariale sui terreni concessa al mezzogiorno avrà effetto rispetto al nuovo tributo? Ne dubito forte, perché l’articolo al capoverso 4 dice che per conoscere il reddito dei terreni si moltiplica per 10 l’imposta erariale, ed al capoverso 6 dice, come sopra si è visto, che non si tiene conto delle esenzioni temporanee e speciali; quindi pare, a meno di espliciti emendamenti, che si debba moltiplicare per 10 la vecchia imposta non diminuita del 30%. Anche sotto questo rispetto, dunque, l’imposta è tutt’altro che «personale», perché colpisce redditi dichiarati inesistenti da leggi precedenti.

 

 

Né soddisfano le norme relative alla deduzione dei debiti. L’articolo 31 dice a questo proposito che si dedurranno le passività che sono a carico del possessore e delle quali sia legalmente comprovata l’esistenza, purché risulti che delle stesse si è già tenuto conto nella tassazione del creditore agli effetti dell’imposta di ricchezza mobile. Tutto ciò corre liscio sulla carta, ma darà luogo a difficoltà non piccole nell’applicazione e ad ingiustizie stridenti. Non parliamo dei debiti per cambiali o chirografari che rimarranno occulti al fisco; poiché in questo caso il debitore, se pagherà l’imposta su un reddito che non ha, perché gravato dal debito occulto, avrà ciò fatto per sua volontà, con parziale espiazione della sua frode. Tutti sanno però che alle solite specie di mutuo si sono aggiunte nuove maniere, come, ad es., quelle risultanti dai contratti di anticipazione e di riporto. I debitori, che hanno ottenuto anticipazioni su titoli o su merci, come faranno a dimostrare che il loro creditore ha pagato, per quell’operazione, l’imposta di ricchezza mobile e come potranno ottenere la deduzione per un debito che essi di fatto hanno? Se il creditore, come quasi sempre accade, è una banca, questa non sarà stata tassata per il titolo di creditore, ma per il titolo di banchiere; né pare quindi si possa tenere conto della imposta di essa pagata, per il complesso della sua industria bancaria, a sollievo del debitore. O almeno dal testo della legge non si riesce a capire come queste passività potranno essere accertate; e nasce il pericolo che il regolamento futuro, sempre più fiscale della legge, sancisca irreparabilmente una sperequazione per cui moltissimi debitori (specie nelle regioni più evolute, dove i mutui sotto forma di anticipazione o riporto hanno una importanza grandissima) siano costretti a pagare su redditi inesistenti.

 

 

Il secondo carattere che il disegno di legge attribuisce alla nuova imposta, quello di essere «progressiva», è innegabile; ma è innegabile del pari che si tratta di una progressività grossolana, di un tipo oramai superato. Il sistema seguito è il seguente: detratte sempre 5.000 lire, alla somma residua si applica un importo dell’1% se il reddito non supera le 10.000 lire, del 2% se il reddito non supera le 30.000, del 3 fino alle 70.000, del 4 fino alle 100.000, del 5 fino alle 200.000 e del 6% oltre le 200.000 lire. Qualunque studente d’istituto tecnico o d’università, a cui venga presentata questa scala di aliquote, sa che essa è difettosa perché procede a sbalzi repentini e forti. Quali saranno invero le imposte pagate da coloro che si troveranno al limite o vicinissimi al limite da una categoria all’altra? Ecco per esempio che cosa capiterà a due contribuenti con 15.000 e 15.100 lire di reddito:

 

 

A

B

Reddito L. 15.000 L. 15.100
Deduzione L. 5.000 L. 5.000
Reddito tassabile L. 10.000 L. 10.100
aliquota 1% 2%
Imposta pagata L. 100 L. 202

 

 

Colui che abbia 100 lire di reddito più di un altro (od anche magari 1 lira sola di più) pagherà 102 lire di più di imposta. Nel passaggio da 30.000 a 30.100 lire di reddito tassabile l’imposta balza da 600 a 903 lire, da 70.000 a 70.100 lire di reddito si va da 2.100 a 2.804 lire di imposta; da 100.000 a 100.100 lire si passa da 4.000 a 5.005 lire d’imposta e così via. Qualunque studente sa anche indicare la maniera o le maniere tenute per togliere cotesto grave difetto, il quale urta il senso di giustizia distributiva e spinge alle frodi i contribuenti poco superiori ai limiti tra una categoria e l’altra.

 

 

Si può, ad esempio, seguire il sistema di Milano (ci sia consentito di citarlo ancora una volta, a spiegare come le riforme si possano fare e non solo enunciare, assai più facilmente, quando siano studiate e rispondano ai principi accolti di giustizia), il quale consiste nel fare molte categorie di redditi. Il governo da 5.000 a 200.000 fa appena sei categorie di redditi; Milano da 600 imponibili a 100.000 ne istituì trentasette. Le molte categorie fanno sì che l’aliquota, invece di saltare bruscamente dall’1 al 2, al 3, ecc., può progredire in maniera più continua dall’1 all’1,05, all’1,10, dal 2, al 2,5, ecc. ecc. Il passaggio da una categoria all’altra produce uno spostamento di qualche lira e non di centinaia di lire, e diventa quindi poco sensibile.

 

 

Oppure si poteva seguire l’esempio del legislatore italiano del 1902 (non vado a cercare esempi stranieri), il quale, volendo rendere progressiva l’imposta di successione, applicò le aliquote successivamente più elevate non su tutto l’ammontare della quota ereditaria, ma solo sul sovrappiù oltre il limite precedente. Per essere chiari e rifacendo l’esempio precedente del contribuente avente 15.100 lire di reddito, ridotte a 10. 100 tassabili, questi dovrebbe continuare a pagare l’1 per cento sulle prime 10.000 di reddito e il 2 per cento solo sul sovrappiù di 100 lire; cosicché pagherebbe lire 102, che sono in giusto rapporto con le 100 lire pagate da chi ha 10.000 lire di reddito tassabile. Naturalmente si sarebbe certo dovute cambiare le aliquote volendo sempre ottenere i previsti 25 milioni di lire. L’imposta avrebbe avuto un andamento continuamente progressivo e non saltellante in guisa capricciosa, come ha quella proposta dal governo.

 

 

II

Se l’imposta personale progressiva sull’entrata non è personale ed è malamente progressiva, essa non è neppure una imposta sull’entrata, qualora almeno si voglia dare alla parola «entrata» il significato di reddito netto complessivo o globale del contribuente. Non può invero dirsi tale una imposta la quale non abbia provveduto prima alla scoverta ed all’accertamento dei redditi. Si potrà dare a quel tributo un qualunque nome, magari di imposta sull’entrata, ma non si sarà dato ad esso natura di imposta sul reddito.

 

 

Una prima osservazione si impone e fu già fatta da parecchi: il nuovo tributo colpisce, in via di massima, i redditi quali risultano dagli accertamenti attuali per le imposte sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile, e poiché questi redditi non sono i redditi veri, e nemmeno vi si approssimano, così è logico dedurre che la nuova imposta a primo aspetto ci si presenta come una semplice sovratassa ripartita su imposte per indole loro sperequate. Notisi che, se l’imposta – base è sperequata, la sovratassa progressiva acuisce a dismisura la sperequazione. Siano due proprietari di terreni che hanno amendue un reddito effettivo di 12.000 lire; ma l’uno secondo il catasto figura di avere un reddito di 5.000 lire e l’altro di 8.000 lire. Il primo non pagherà affatto la nuova imposta, mentre il secondo pagherà l’1% sulla differenza tra 8.000 e il minimo esente di 5.000 lire, ossia pagherà lire 30. Un creditore ipotecario che ha pure un reddito netto di 12.000, tutte colpite dalla imposta di ricchezza mobile, pagherà l’1% sulla differenza fra 12.000 e 5.000 lire, ossia pagherà lire 70. Ecco tre contribuenti che pure avendo redditi identici, per effetto della sperequazione inerente alle imposte odierne, pagano il primo zero, il secondo 30 ed il terzo 70 lire. L’esempio citato non è esagerato; chiunque abbia conoscenza dei ruoli delle imposte dirette può citare a dovizia casi consimili.

 

 

Il governo ha sentito che occorreva fare qualcosa per rimuovere la fondamentale obiezione che poteva essere mossa alle sue proposte; e bisogna riconoscere che ha cercato di correre ai ripari. Senonché disgrazia ha voluto che i mezzi da lui escogitati siano in gran parte o fiscalmente feroci o grossolanamente erronei. L’on. Luzzatti ha già messo eloquentemente in luce la ferocia di taluni provvedimenti escogitati per giungere alla scoperta dei redditi mobiliari. Il diritto riconosciuto agli agenti delle imposte di ispezionare i registri delle società in nome collettivo e in accomandita semplice; e l’altro diritto di esaminare, in caso di successione, perfino i libri di commercio dei privati industriali e commercianti, diritto che sarà utilissimo anche ai fini delle imposte dirette, sono armi tipiche che si vogliono porre in mano al fisco nella frenetica lotta ingaggiata coi contribuenti per la scoperta del reddito.

 

 

Se le armi fossero atte a raggiungere lo scopo, sarebbe doveroso accettarle; ma esse né sono atte a quel fine né possono essere adoperate sul serio senza danno gravissimo della economia industriale e commerciale. L’unico effetto sarà che i contribuenti, vistisi minacciati così da vicino, ove essi tengano i libri di commercio in modo esatto, o non li terranno affatto o li falsificheranno su vasta scala. Eserciti di ispettori dovranno tenersi pronti a piombare inaspettati negli uffici delle ditte private per prendere visione dei libri veri ed evitare il pericolo che il contribuente presenti il doppione appositamente elaborato per il fisco. In questo gioco di astuzia, chi uscirà vittorioso sarà talvolta il fisco contro il contribuente onesto ed ingenuo, e più spesso il contribuente, divenuto sospettoso e disonesto, contro il fisco rapace. Le sperequazioni non che scemare cresceranno a dismisura; e le case accreditate, vecchie, cui una antica tradizione di onestà verso i clienti ed i corrispondenti imporrà di tenere i propri libri in ordine saranno sopraffatte nella concorrenza dalle ditte nuove o poco scrupolose, che nel timore delle inquisizioni fiscali troveranno un eccellente pretesto per giustificare la propria disonesta condotta. O non son tutti d’accordo nel ritenere che la facoltà di esaminare i libri sociali oggi concessa agli agenti delle imposte per le sole società anonime e in accomandita per azioni sia una delle cause precipue per cui i bilanci e i libri sono compilati in maniera sibillina in guisa che le società buone non possono mettere in luce i loro giusti e previdenti ammortamenti, mentre le società cattive possono pretendere di avere anch’esse di nascosto fatto quegli ammortizzi a cui mai non pensarono? Non è forse aspirazione antica di tutti coloro che conoscono il grave malanno che si trovi modo di tagliare alla radice ogni ragion di litigio fra contribuente e fisco tassando le società sui dividendi distribuiti? Ecco ora il governo proporre di estendere sempre alle società in accomandita semplice e in nome collettivo e saltuariamente anche ai privati il mai seme della discordia e della frode!

 

 

Sia lecito esprimere una convinzione, che so condivisa da parecchi dei migliori funzionari degli uffici esecutivi delle imposte, a cui rincresce sprecare energie e tempo nella diseguale lotta contro i contribuenti privati. Non multe fortissime, non feroci inquisizioni, non eserciti di ispettori varranno ad avvicinarci alla perequazione nell’accertamento dei redditi professionali, industriali e commerciali; ma varrà assai la collaborazione dei contribuenti stessi. Il giorno che i contribuenti fossero divisi in categorie di industrie, commerci e professioni e fossero chiamati a distribuirsi tra loro un dato contingente d’imposta (e per cominciare l’attuale gettito dell’imposta per quella categoria e città determinata), la ripartizione avverrebbe in maniera quasi idealmente equa; ed il fisco alla lunga troverebbe un tornaconto grandissimo nel lavarsi le mani della brutta bisogna di dover scovrire redditi che sono e saranno mai sempre nascosti ai suoi satelliti e alle sue minacce di multa. L’idea espressa in forma grezza, meriterebbe di essere largamente svolta; ma per i redditi dei professionisti, industriali e commercianti privati è forse la via di salvezza.

 

 

Volgiamoci ora agli altri redditi. L’obbligo fatto alle amministrazioni dello stato, provincie, comuni, società civili e commerciali di comunicare all’agente delle imposte i redditi dei possessori di titoli nominativi incontrerà difficoltà di esecuzione. È però inaccettabile l’idea che la denuncia debba essere fatta solo per i contribuenti designati dall’agente delle imposte.

 

 

Una norma la quale avrebbe potuto riuscire alla scoperta di tutti i percettori di redditi provenienti da titoli nominativi, si convertirà in un’arma di persecuzione contro quei soli contribuenti che l’agente delle imposte arbitrariamente supporrà possano aver più di 5.000 lire di reddito. Quelli che, per loro fortuna, portano un nome ignoto alle agenzie, che non figurano già per altri motivi sui ruoli, nulla pagheranno. Una formula cosiffatta è davvero inconcepibile: o tutti sì, o tutti no, ma non alcuni sì ed altri no a capriccio della scienza od inscienza dei funzionari fiscali. A poco o nulla servirà l’altro obbligo fatto agli stessi enti di comunicare se una persona designata possegga titoli al portatore. Si può essere sicuri che, a partire dal 1911, i cuponi dei titoli al portatore saranno tutti presentati all’esazione da nullatenenti.

 

 

Di passata si può porre la domanda: potranno i possessori di rendita pubblica 3,75-3,50% essere tassati colla nuova imposta sul reddito? Per rispetto alla astratta giustizia tributaria, indubbiamente sì. Ma è possibile colpirli, dopo la solenne promessa che il nuovo titolo è esente da ogni imposta presente o futura? conveniente colpirli, mentre ancora deve la rendita ridursi al 3,50% e lo stato ha gran bisogno di ricorrere al credito?

 

 

Se male si è provveduto ad accertare i redditi mobiliari, malissimo si è pensato ai redditi fondiari. Per i fabbricati l’unico provvedimento, da molti invocato, e da tutti riconosciuto come giusto, era la revisione generale dei redditi, che oggimai si impone dopo l’ormai annosa revisione del 1889. Invece si terranno fermi i redditi risultanti dall’accertamento attuale, a meno che da contratti di affitto o da altri elementi risulti un reddito maggiore di quello indicato nei ruoli. È equo si voglia tener conto solo delle variazioni in più a vantaggio del fisco e non delle variazioni in meno a vantaggio del contribuente? Vi sono molti comuni, specie minori, disertati dall’urbanismo e dall’industrialismo, dove i redditi legali son superiori ai redditi effettivi. Ai proprietari di fabbricati si dice : non solo voi non otterrete la revisione del reddito dei vostri fabbricati, come pure sarebbe stretta giustizia, ma per soprammercato sarete colpiti da una nuova sovratassa anche sulla parte del vostro reddito che non esiste.

 

 

Più lacrimevole è il metodo tenuto nell’accertamento del reddito dei terreni. Anche qui giustizia voleva che, pur rassegnandosi a tassare alla carlona per ora, si fosse preparata la via ad una equa ripartizione del tributo con l’acceleramento dei lavori di catastazione. Invece niente di tutto ciò: il reddito dei terreni si otterrà in via normale moltiplicando per dieci l’imposta erariale principale che colpisce il fondo. Poiché l’ammontare dell’imposta erariale era nella maggior parte delle provincie italiane una cifra senza senso, così la nuova imposta sarà ripartita senza alcun criterio. Però vi è un’eccezione, che qui ha significato di importanza singolare e su cui va richiamata l’attenzione degli agricoltori ed è la stessa già indicata per i fabbricati: se da contratti di affitto o da altri elementi risulta per i terreni un reddito maggiore di quello valutato come sopra si terrà conto del reddito maggiore. Di sfuggita la disposizione distrugge il catasto nuovo. Invece di miglia rare e di accelerare l’esecuzione del catasto nuovo, si crea accanto ad esso un altro ed indipendente metodo di valutare i redditi dei terreni: i contratti di affitto. Non posso, per ragione di spazio, dimostrare tutta la gravità del nuovo metodo di accertamento dei redditi terrieri: e basti dire che da secoli, scienza e pratica sono d’accordo nel condannare gli accertamenti basati sui contratti di affitto – che introdurrebbero nell’imposta sui terreni le stesse incertezze, gli stessi arbitrii e le stesse frodi e sperequazioni esistenti nelle imposte mobiliari – e nell’affermare che il solo reddito tassabile è quello ordinario, che si può accertare unicamente con un catasto geometrico-particellare periodicamente rinnovato e tenuto al corrente. Sono verità assodate fin dall’epoca del celebre catasto lombardo di Maria Teresa del secolo diciottesimo e fa pena doverle ripetere a distanza di più di un secolo e mezzo!

 

 

Che gli accorgimenti escogitati per accertare i redditi non dovessero dare buoni frutti doveva essere convinzione fermissima del governo, se all’ultimo, quasi per disperazione, creò un metodo ausiliare di controllo dei redditi globali dei contribuenti: il multiplo del valor locativo. Ecco finalmente un’idea buona, quando sia bene attuata. In sostanza si dice così: poiché gli accertamenti attuali sono incerti e sperequati, poiché le novità da noi in essi introdotte approderanno a poco o nulla, poiché le ferocie fiscali che si vogliono inaugurare moltiplicheranno le frodi, diamo all’agente delle imposte una maniera semplice, oggettiva, sottratta ad ogni arbitrio di troncare le questioni: il criterio del valor locativo. Da solo il valor locativo non è indice perfetto del reddito: ma può essere utile come strumento complementare di accertamento. Anche a Milano si adottò in fondo lo stesso principio quando si disse che «in mancanza od insufficienza di elementi diretti di accertamento dei redditi si terrà conto anche delle spese, in quanto siano sintomo di agiatezza».

 

 

Veggasi tuttavia la differenza: a Milano prudentemente non si fissò alcun rapporto rigido fra la spesa (tra cui il valor locativo o spesa per l’affitto dell’alloggio di abitazione) ed il reddito. Se per tutta Italia una regola voleva porsi, ad evitare arbitri fiscali, doveva essere tale da corrispondere al variabile rapporto che esiste tra il fitto pagato per l’alloggio e il reddito. Invece il rapporto tra il valor locativo ed il reddito varia solo in ragione della popolazione. In un comunello fino a 5.000 abitanti il fitto di casa sarà moltiplicato per 9 per avere il reddito, in un comune da 5.001 a 10.000 abitanti il fitto sarà moltiplicato per 8,5 e così via diminuisce il coefficiente di moltiplica col crescere della popolazione, finché nelle città con più di 200.000 abitanti il fitto di casa si moltiplica solo per 5 per ottenere il reddito su cui sarà tassato il contribuente. Suppergiù è una scala ragionevole perché evidentemente nei comuni più popolosi, a parità di reddito, bisogna spendere di più per il fitto di casa, che nei comuni più piccoli. Non è questa però la sola scala di cui si sarebbe dovuto tener conto; né basta che il coefficiente di moltiplico sia stato diminuito di un decimo quando il contribuente ha più di due figli secolui conviventi oppure i genitori o altro ascendente o altro parente non oltre il quarto grado a suo carico, e di due decimi quando convivano con lui più di due figli ed inoltre genitori o ascendenti o altri parenti. A questa stregua verranno messi allo stesso livello lo scapolo ed il padre di due figli: chi ha famiglia piccola di tre figli e chi è stato allietato da mezza dozzina o più di figli. Non occorrevano complicazioni di dicitura per esporre il concetto giusto in maniera soddisfacente; bastava dire che il coefficiente di moltiplico sarebbe stato diminuito di un ventesimo, a cagion d’esempio, per ogni persona vivente a carico del contribuente.

 

 

Sovratutto manca la scala dei fitti in rapporto al reddito crescente dei contribuenti. Per una famiglia borghese vivente in una gran città può ammettersi che il fisco assorba circa il quinto del reddito, così come dice il disegno di legge, e quindi accadrà che a quella famiglia, la quale paghi 1.500 lire di fitto, verrà accertato un reddito di 7.500 lire che sarà probabilmente il reddito vero. Una famiglia ricca non può d’altro canto spendere oltre ad una certa somma nel fitto di casa, sicché la proporzione di questo al reddito va via via scemando quanto più cresce il reddito. Un milionario con 200.000 lire di reddito difficilmente spenderà 20.000 lire l’anno nel fitto di casa, anche tenendo conto delle villeggiature, ed anche quando vorrà spendere tanto, gli verrà accertato un reddito di 100.000 lire, ossia la metà del reddito probabile. Basta l’esempio per dimostrare come, se il disegno di legge non riesce nell’accertamento particolare dei redditi, neppure ha saputo escogitare una correzione complessiva accettabile. La nuova imposta colpirà dunque certe cifre arbitrarie di reddito, non sicuramente però i redditi netti dei contribuenti.

 

 

III

Recenti difese ufficiose ed ufficiali dei progetti tributari governativi hanno portato la questione dell’imposta sul reddito e sulle successioni sul terreno della moralità e della giustizia. Con questo primo e piccolo inizio, con questo assaggio od embrione di imposta sul reddito (veramente non si comprende più il significato delle parole a sentir qualificare come piccola, iniziale, embrionale, quasi quasi microscopica una imposta che da sola è, in molti casi, più elevata della imposta sul reddito [income tax] inglese, della Ein-kommen-steuer prussiana e di quasi tutte le imposte sul reddito estere, le quali sono poi davvero sole e non si sovrappongono, come la nostra, ad altre imposte dirette di stato ad aliquote elevatissime) e con le piccole modificazioni alle imposte di successione e circolazione (della cui mirabile picciolezza bisognerebbe fare un discorso a parte). Si è voluto colpire il capitale mobiliare che sfugge alle imposte attuali, percuotere di più i ricchi che ora evadono i tributi ed introdurre un po’ più di perequazione nei rapporti tra classe e classe, sgravando i poveri e percuotendo i ricchi e gli oziosi percettori di cuponi, magari stranieri.

 

 

Lascio da parte per ora l’affermazione che i titoli mobiliari non paghino imposte. Strana leggenda, diffusa dall’ignoranza. O si ammette che l’imposta si ammortizzi diminuendo i valori capitali ed allora l’imposta non la paga più nessuno, né i proprietari di terreni, né quelli di fabbricati, né quelli di valori mobiliari. O si fa astrazione da quella teoria e si bada alle imposte che di fatto sono pagate dai contribuenti ed allora i valori mobiliari pagano sino all’ultimo centesimo, senza nulla poter frodare, la imposta di ricchezza mobile, quelle sui fabbricati; e sui terreni posseduti dalle società emittenti, la tassa di negoziazione, sfuggendo solo in parte all’imposta di successione, frode compensata in notevole misura da una maggiore tassa di negoziazione pagata dai titoli al portatore in confronto dei titoli nominativi. Che cosa è questo peccato veniale (bisogna chiamarlo così secondo il frasario governativo) in confronto della evasione goduta da molti fabbricati e non pochi terreni, e delle frodi ingentissime dei privati professionisti? Un nulla evanescente.

 

 

Lasciamo pure stare da un canto la leggenda della immunità fiscale dei titoli mobiliari; e riconosciamo pure, come è doveroso, onesto il proposito del governo di far contribuire di più i ricchi, di esigere maggiore onestà da coloro che ora frodano il fisco. Avvertiamo però subito che l’importante, l’essenziale non sta nell’enunciare il principio santissimo, ma nell’usare mezzi congrui, adatti a raggiungere il fine. Nulla di più banale, di più facile del principio della giustizia tributaria. Un analfabeta è capace di enunciarlo suppergiù così bene come un ministro delle finanze od un professore d’università. Non c’è nessun merito nel ripetere ciò che tutti dicono e tutti accettano. Il merito sta solo ed esclusivamente nel predisporre norme che valgano ad attuarlo davvero, sia pure con una larga approssimazione, come quella che è ragionevole richiedere in tema di balzelli. Vediamo un po’ – ad edificazione ed istruzione delle varie classi di contribuenti – che novità il disegno di legge governavo tenga in serbo per essa e se esso giunga sul serio a colpire i ricchi e ad alleviare i laboriosi.

 

 

Tizio è proprietario di terreni e, poiché la sua provincia è fra quelle in cui il catasto nuovo è già entrato in attivazione, suppone che niente di peggio gli possa capitare, se non di pagare sul reddito fondiario quale recentemente gli è stato accertato. Il catasto denuncia anzi un reddito di lire 5.000 ed egli, non avendo altri redditi, reputa perciò di essere esente. Nient’affatto. Egli ha avuto convenienza di affittare il suo fondo per 8.000 lire ed ha avuto la dabbenaggine di fare registrare il contratto. Questo sarà usato come arma contro di lui per fargli pagare la progressiva sulla differenza fra 8.000 e 5.000 lire. Secondo il disegno governativo si sarà attuata così la perfetta giustizia tributaria. Ma, poiché di questa poco cale a Tizio, che cosa accadrà in futuro? Che Tizio, dovendo stipulare un nuovo contratto di affitto, non scriverà più la cifra di 8.000 lire ma quella più bassa di 5.000 uguale al reddito catastale e si farà rilasciare dall’affittuario per le 3.000 lire di differenza altrettante cambiali quanti saranno gli anni di durata della locazione. Accadrà ancora che la durata delle locazioni diminuirà per evitare rischi di insolvenze dell’affittuario, con grave danno dell’agricoltura. In ultimo il vantaggio del fisco sarà nullo e fortissimo invece il danno dell’economia agraria.

 

 

Né basta. Tizio sa di aver diritto, ora che il reddito tassato non è più quello catastale, ma l’altro risultante dai contratti di affitto, a dedurre dalle 8.000 lire di reddito tutte le spese per riparazioni, deperimenti, lavori straordinari non a carico dell’affittavolo; e presenterà quindi una lunga lista di spese siffatte: spese di riparazioni ai fabbricati, di scasso per rinnovazione di piantamenti, di scolo delle acque, ecc. ecc. L’agente delle imposte obbietterà che queste non sono spese necessarie per conservare il reddito, ma invece riescono ad un miglioramento od aumento patrimoniale e quindi non possono essere dedotte. Le stesse contese che ora infieriscono tra industriali ed agenzie per la fissazione delle quote di ammortamento e di riparazione, infieriranno in tutti i villaggi e per tutta la distesa delle campagne italiane. Provincie a vecchio catasto ed a nuovo catasto saranno tutte affette dallo stesso morbo litigioso. O non è assurdo, non è pernicioso socialmente ed economicamente che una balorda disposizione di una legge mal studiata venga a creare tale sommovimento tra centinaia di migliaia di agricoltori, quando il catasto fu deliberato apposta per togliere tutte queste cause di litigio, e per depurare i redditi, in modo oggettivo ed uniforme, da tutte le quote di rischio, di rinnovazione, di riparazione, ecc., riducendoli dalle apparenti 8.000 lire portate dai contratti di affitto alle reali 5.000 determinate dal catasto?

 

 

Se anche, per fare un altro esempio, fosse vero che le 6.000 lire di reddito catastale di un altro proprietario fossero una media tra le 9.000 lire (sia pure nette da tutte le sovradette quote), guadagnate da un proprietario esperto, abile, amministratore diretto delle sue terre e le 3.000 lire ricavate da un ignaro assenteista, che abbandona i suoi terreni in mano a contadini ignoranti; se anche questo fosse vero, non è pericoloso tassare, agli effetti dell’imposta sul reddito, il primo per 9.000 e il secondo per 3.000 lire, annullando, non si sa perché, i benefici effetti che il catasto si riprometteva di ottenere tassando tutti e due alla stessa stregua del reddito medio ordinario di 6.000 lire? Coloro che propongono questa pestifera disposizione sono magari gli stessi che grideranno contro l’abbominio delle terre incolte e auspicheranno una imposta nuova contro gli assenteisti; dimentichi che i vecchi sapienti legislatori già avevano congegnato l’accertamento del reddito catastale in guisa da premiare i diligenti e multare gli infingardi.

 

 

Caio è proprietario di fabbricati. Finora ha sempre durato una certa difficoltà a farsi rilasciare dagli inquilini un contratto in cui, sulle 1.500 lire di fitto pagato, 1.000 lire soltanto figurassero pagate per l’alloggio e 500 lire per rimborso riscaldamento, illuminazione scala, servizi portinaio, ecc. All’inquilino sapeva male di rendersi complice di una frode contro il fisco, quando gli era ben noto che i servizi diversi a gran fatica potevano andare fino a 200 o 300 lire. D’ora innanzi l’inquilino, sapendo che il suo reddito sarà presunto in un multiplo (5 volte a Milano) del fitto pagato, si troverà in commovente accordo col proprietario. probabile che gli offra persino cambiali, a scadenze rateali, purché Caio gli usi il favore di non far figurare sul contratto, tra fitto ed accessori, disordinatamente cresciuti, più di 1.000 o 1.200 lire, convertendo il resto in un credito cambiario. Chi farà le statistiche del futuro, a vedere una siffatta discesa nel livello dei fitti, reputerà che l’Italia dopo il 1911 abbia attraversato una terribile crisi edilizia.

 

 

Primo è un commerciante od industriale che ha stretto con altri società in nome collettivo od in accomandita semplice. Egli è a capo dell’azienda e colla sua iniziativa, col suo spirito di organizzazione, col suo intuito l’ha saputa condurre ad un alto grado di prosperità. Offerte cospicue gli furono fatte, negli anni della borsa allegra, dal 1905 al 1907 perché egli consentisse a convertire la sua intrapresa in società anonima. Non consentì mai, quantunque avrebbe fatto un ottimo affare ed avrebbe intascato una rotondetta somma di qualche milione. Egli è un orgoglioso, della razza di quelli che conquistano i mercati e che fanno la fortuna di un paese. uno di quei capitani d’industria che mai non son quieti, finché l’impresa, opera del loro ingegno, non sia giunta all’apice del successo.

 

 

Non volle mettere su di sé un consiglio di amministrazione, né volle soggettarsi a rendere ragione dei suoi atti ad un’assemblea di azionisti o all’agente delle imposte; ha sempre compatito la inferiorità delle anonime, i cui amministratori debbono far finta di non ammortizzare, di lasciar arrugginire il macchinario, debbono falsificare i bilanci, debbono assistere impotenti al discredito delle loro aziende perché, se essi dicessero il vero, l’agenzia delle imposte li tasserebbe anche su redditi che non esistono, anche sulle riserve messe da parte a prevenire le crisi dell’avvenire. Egli ha sempre disprezzata la burocrazia insipiente, che prepara le leggi tributarie, e non è ancora riuscita a comprendere che è nell’interesse del fisco di tassare le anonime sui dividendi distribuiti, allo scopo di dar loro libertà di movimento, capacità di richiamar capitali e di crescere i profitti.

 

 

Oggi egli deve amaramente riflettere sulla inanità dei sacrifici compiuti. L’agente delle imposte avrà il diritto di vedere i suoi libri, di penetrare nella vita intima della sua intrapresa, di conoscere le sue operazioni, di sapere gli stipendi pagati ai suoi più fidati collaboratori. Egli, che non ha mai amato le pastoie degli organici, ha sempre pagato stipendi e salari diversissimi ai suoi impiegati, in rapporto ai loro rispettivi meriti; ed erano tutti contenti perché ciascuno si illudeva di essere pagato forse meglio del compagno. Domani, quando l’agente delle imposte avrà il diritto di vedere i suoi libri e quindi pubblicherà, nei ruoli delle imposte, la somma precisa degli stipendi assegnati ai suoi dipendenti, il malcontento sarà organizzato fra quelli che si riterranno troppo poco pagati in confronto ai loro meriti: ed ognuno, si sa, reputa i propri meriti superiori a quelli degli altri. Primo sarà chiamato, in seguito all’inquisizione sui suoi affari, a pagare 5.000 lire all’anno di imposta; ne pagherebbe volontieri 10.000, pur di non far sapere agli altri le sue faccende, o pur di non essere costretto a sospettare che qualcuno dei controllori sia tratto a lasciarsi sfuggire, a prò dei concorrenti, preziose notizie che dovrebbero rimanere segretissime, pur di non dover sospettare in ogni suo dipendente un denunciatore dei suoi affari, a norma dell’art. 40 della legge futura. Si deciderà dunque a malincuore a diventare un falsario. Stipendierà un contabile di fiducia che terrà a parte, a casa sua (finora non si propone che gli agenti finanziari possano violare i domicili privati) la contabilità vera, completa, mentre nella sede del suo stabilimento rimarrà ostensibile una contabilità parziale. Quando tutti saranno diventati frodatori, come distingueranno i giudici tra le falsità predisposte dagli onesti a lottare contro l’inquisizione fiscale e le falsità preparate a coonestare un fallimento? Gli usi e le consuetudini, contro di cui non si possono ribellare le coscienze dei giudici, copriranno egualmente la legittima difesa degli uni e i reati degli altri.

 

 

Non gioverà a Primo disinteressare i suoi soci accomandanti e ridursi ad unico proprietario della azienda. Il fisco lo aspetta al varco dopo morto e costringe i suoi eredi a rammostrare alla finanza tutti i suoi libri, per accertare la quantità ed il valore delle merci esistenti al giorno del trasferimento per successione, la specie ed il valore degli altri beni mobili (macchine, utensili, crediti, avviamento, diritto di privativa, ecc.). Incitamento maggiore a non tenere i libri prescritti dal codice di commercio ed a tenerli in doppia serie, una vera e l’altra accomodata, mai non si vide; e gli effetti saranno amari.

 

 

Sempronio è un impiegato che ha accumulato, durante una vita di paziente rinuncia ad ogni godimento diverso dall’ordinario, un piccolo patrimonio di 30.000 lire in titoli di rendita nominativa, oltre al mobilio di casa, biancheria ed altri oggetti cari, ecc., che egli ha assicurato presso una compagnia di assicurazione per 10.000 lire, ossia per la somma che egli dovrebbe spendere se dovesse ricomprare tutte quelle cose a cui è affezionato ed a cui non saprebbe come rinunciare. Egli sapeva che, in caso di morte, i suoi figli e la moglie sarebbero stati tassati dall’imposta di successione su 30.000 lire di valore dei titoli nominativi e su un 5% in più per il valore del mobilio (lire 1.500), ossia in tutto per 31.500 lire. Sappia che in futuro il mobilio verrà calcolato al 30% del valore di assicurazione, ossia per lire 3.000; e sappia che, se i suoi figli venderanno entro 10 anni la collezione di stampe a lui cara, dovranno pagare su di essa l’imposta di successione, da cui finora andavano esenti. Si rassegni alla pubblicazione di un regolamento che darà autorità agli agenti finanziari, appena lui morto, di invadergli la casa per enumerare ed elencare le stampe sue, frugargli nei cassetti per scoprirvi raccolte di monete antiche, salvo a fare ogni tanto visite periodiche per verificare se le stampe o le vecchie monete siano ancora al loro posto.

 

 

Sempronio non assicurerà più il suo mobilio contro gli incendi ed il furto; ed i suoi figli avranno cura di disperdere per vil moneta la biblioteca paterna, innanzi che gli agenti della finanza, avuta notizia della morte, siano venuti a redigere l’inventario delle stampe del padre.

 

 

Mevio è un capitalista che ha seguito, forse senza averne mai letto i libri, i consigli degli economisti, i quali predicano la convenienza di distribuire gli investimenti fra titoli di diversa specie e di diversi paesi. Ad imitazione della grandissima maggioranza dei risparmiatori italiani, Mevio vuole avere quasi tutti i suoi denari vicino, impiegati in casa, ed il suo portafoglio contiene pochi titoli esteri di stato, qualche azione di società ipotecarie ed assicuratrici tedesche ed austriache, e sovratutto rendite italiane, obbligazioni fondiarie, ed una varietà opportunamente distribuita di azioni ed obbligazioni nostrane. Non fidandosi di tenere in casa tanta grazia di Dio, ha affittato una cassetta di sicurezza presso un istituto di credito, intestata a lui ed alla moglie congiuntamente, affinché o l’uno o l’altra potesse ritirare il deposito in caso di morte, per non pagare la tassa di successione.

 

 

Dimostra con ciò scarso amor di patria; ma egli giustifica la sua condotta osservando che tutti i suoi titoli sono già colpiti dall’imposta di ricchezza mobile e già pagano la tassa di negoziazione in surrogazione dell’imposta di successione e riflettendo che tutti fanno come lui, ove appena possano.

 

 

La tassa di bollo sui titoli esteri ha cominciato ad inquietarlo, poiché il governo ha preteso di fargli pagare l’1 od il 2% sul valore nominale dei titoli esteri, che egli possiede bensì, ma non negozia in Italia. Più lo inquietò il sapere da amici, i quali avevano depositato i titoli presso le banche, che gli agenti finanziari erano andati a sfogliare quegli incarti (dossiers) per vedere se contenevano titoli esteri. La nuova imposta sul reddito e le disposizioni mutate della tassa di successione crescono il suo orgasmo, perché da parecchi articoli balza chiaro che le banche e le casse di risparmio italiane, in cui egli ha avuto finora fiducia, saranno costrette a far da referendarie a prò del fisco contro i propri clienti. Esse devono infatti denunciare i nomi dei detentori di cassette di sicurezza (ed ogni detentore di cassette sarà un presunto capitalista, più o meno grosso a seconda delle dimensioni della cassetta, anche se egli l’ha affittata soltanto per depositarvi documenti importanti, gioie, ecc.); comunicare i nomi ed i redditi dei percettori di titoli nominativi, mettere i segugi della polizia finanziaria sulle traccie di coloro che si presentano agli sportelli ad esigere cedolette di titoli al portatore, far nota alla finanza l’esistenza di conti correnti saldantisi con una differenza a favore dei defunti. Se si tratta di una differenza a debito, non importa denunciarla e, denunciata, la finanza l’ammettere soltanto quando abbia data certa anteriore alla apertura della successione.

 

 

Mevio, che non è un risparmiatore dalla borsa piccina e dall’animo timido, non piegherà il capo a questo grandinar di minacce. Invece della cassetta di sicurezza, terrà una cassaforte in casa, farà esigere le cedolette dal portinaio, o dalla domestica o da un commesso delle imprese clandestine che si formeranno per l’esazione a mitissime condizioni dei dividendi per conto dei milionari. Nessuna assemblea di azionisti delle società anonime di cui possiede i titoli, lo vedrà mai più tra i presenti, per la paura che l’agente del fisco accerti in tal modo il possesso di titoli al portatore in mano sua; sicché cadrà in basso l’ambiente morale delle società anonime, disertate dagli azionisti e rimaste in mano, assai più di quanto già non accada, dei consigli di amministrazione e delle loro teste di legno, senz’ombra alcuna di controllo e di critica. Né si azzarderà, ove abbia qualche fondo momentaneamente disponibile, a prendere a riporto titoli nominativi per il giustificato timore di essere tassato come percettore di dividendi sui titoli non suoi, ma da lui presi a riporto. I titoli al portatore diventeranno il suo idolo, né se ne staccherà mai più.

 

 

Meglio accadrà quando gli verranno sott’occhio le circolari che le maggiori banche svizzere stanno già distribuendo a migliaia in Italia dopo l’approvazione della legge sul bollo dei titoli esteri e in maggior copia distribuiranno dopo approvate le nuove leggi fiscali. Un buon mercato simile per i servizi di banca non sarà mai stato visto. Con 20 centesimi all’anno per 1.000 lire di valore capitale (2 centesimi per ogni titolo da 100 lire, 20 lire per ogni 100 mila lire, 200 lire per un patrimonio di 1 milione) il risparmiatore godrà di parecchi servigi:

 

 

  • la custodia dei titoli;
  • l’incasso delle cedole e dei titoli rimborsabili;
  • l’esercizio del diritto di opzione;
  • il controllo di sorteggi e conversioni;
  • l’assicurazione che nessuna tassa di successione sarà esatta da autorità svizzere su titoli stranieri e nessuna imposta sul reddito sarà accollata a stranieri;
  • l’assicurazione che i titoli, in caso di morte del titolare del deposito, saranno consegnati ai legittimi eredi, senza che questi debbano far risultare di aver pagate le italiane tasse di successione.

 

 

Questo è il lacrimevole risultato delle norme che vogliono colpire il contribuente coi metodi della inquisizione, delle multe e della caccia all’inafferrabile. I grossi capitalisti mobiliari – quelli che il governo pretende di voler colpire – continueranno ad evadere l’imposta ed impareranno anzi nuove malizie per non pagarla. Rimarranno presi nella rete i pesciolini minuti, la media borghesia coi sudati risparmi di qualche decina di migliaia di lire, tutti coloro che hanno timore del governo italiano, ma ancora più diffidenza per l’estero, di cui non conoscono la lingua e le leggi. Il piccolo e medio industriale o commerciante, a cui lo stipendiare un contabile incaricato di tenere la vera segreta contabilità riuscirebbe troppo gravoso, pagherà tutta l’imposta. Le imprese importanti non avranno scrupolo di ricorrere ad avvedimenti contabili diversi e vi saranno spinte dalla necessità di mantenere sui loro affari quel segreto che è condizione assoluta di successo. La banca italiana vedrà diminuita la propria forza di attrazione verso la clientela, a danno della quale dovrà farsi delatrice. La Svizzera sarà il terzo che si allieterà della lotta ingaggiata tra fisco e contribuenti italiani. L’esperienza della Francia dovrebbe insegnare qualche cosa. Da quando la Francia ha abbandonato l’antica politica di accertamenti oggettivi e si volle dare il lusso di spaventare i capitalisti (una nazione dove il capitale mobile sale a centinaia di miliardi può forse darsi di questi lussi costosi), la Svizzera ed il Belgio hanno visto crescere a dismisura il proprio lavoro di banca. Le banche svizzere a Basilea e a Ginevra sono rigurgitanti di titoli depositati da detentori francesi; il Bankverein Suisse di Basilea ha impiantato una sede a Ginevra, a due passi dalla frontiera francese, per giovare alla sua nuova clientela; ed ha recentemente istituito una succursale a Chiasso per il servizio dei risparmiatori italiani, che volessero ricorrere ai suoi servigi per sfuggire ora alla tassa di bollo sui titoli stranieri e in futuro alle imposte sul reddito e sulle successioni. A Ginevra le maggiori banche francesi hanno istituito succursali che si potrebbero chiamare le succursali della frode fiscale; così la Société généraIe, il Crédit lyonnais, il Comptoir d’escompte, la Banque de Paris et des Pays Bas, mentre il Crédit industriel et commercial preferiva fondare una banca apparentemente autonoma e in realtà dipendente, la Société Belge de Crédit industriel et commercial et des depôts, che ha sede anche a Bruxelles, dove la Société générale de Paris a sua volta ha fondato la Société française de Banque et des depôts, e dove hanno filiali il Crédit lyonnais, il Comptoir national d’escompte ed altre fra le maggiori banche parigine. Le banche italiane non potranno a meno di seguire l’esempio; e noi vedremo sorgere all’estero filiali delle banche italiane apposta per aiutare il contribuente nella lotta contro il fisco.

 

 

L’insipienza dei governi francese, italiano e in minori proporzioni del tedesco avrà così dato origine ad uno dei più interessanti fenomeni economici del mondo moderno: la creazione di paesi contrabbandieri esercitanti l’industria lucrosa di difensori dei grossi capitalisti contro le velleità persecutrici dei paesi circonvicini. Istituiscasi pure una lega di mutua protezione fiscale tra Inghilterra, Francia, Italia, Austria e Germania; ma poiché non è possibile arrestare il capitale mobile alla frontiera coi carabinieri e con le guardie di dogana, la lega ad altro non riuscirà fuor che ad alzare le sorti del Belgio e della Svizzera, i due piccoli paesi-tampone, che diventeranno sempre più la mecca del milionario europeo. Poiché l’industria del custode delle grosse fortune è altamente redditizia, poiché il custode a poco a poco diventerà il consigliere apprezzato ed ascoltato del capitalista italiano e gli consiglierà, spesso con successo, di vendere ad esempio la rendita italiana troppo cara e di scarso reddito, per comprare titoli delle ferrovie federali o di società industriali belghe o svizzere o d’oltremare più redditizie, così governi e cantoni, senza alcun riguardo all’etichetta cattolica, conservatrice, radicale o socialista, andranno a gara nel far ponti d’oro ai nuovi pellegrini carichi di titoli al portatore. Il governo italiano avrà il danno e le beffe e dello scorno ricevuto non potrà rivalersi che sui pupilli, cui è obbligatorio l’inventario, e sulla piccola gente a cui mancherà il coraggio per mettersi in salvo a Chiasso ed a cui sarà scarso conforto il sapere che, se essa paga una modesta imposta, una ben più grossa dovrebbe pagare – ma non paga – il milionario suo vicino.

 

 


[1] Con il titolo La nuova imposta è un imposta sui redditi netti? [ndr]

[2] Con il titolo I frutti della mania inquisitoria e persecutoria nei disegni fiscali.[ndr]

I preliminari della riforma tributaria

I preliminari della riforma tributaria

«Corriere della Sera», 12 novembre 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 802-808

 

 

La riforma tributaria è ritornata a formare argomento di discussione in seguito alle notizie di studi intrapresi all’uopo dal ministero delle finanze; ed è da credere non si tratti di un discorso estivo, poiché l’estrema sinistra sembra ne volesse fare un caposaldo della sua azione parlamentare. Alle antiche aspirazioni riformistiche si vorrebbe oggi far fare un passo decisivo, profittando ed invocando l’esempio che ci viene dalla Francia (riforma Caillaux) e dall’Inghilterra (bilancio di Lloyd George).

 

 

Senonché l’esempio straniero che si ama citare spesso senza saperlo valutare esattamente, ci indica altresì la strada che da noi si dovrebbe seguire per non fare infrangere ogni, anche più moderato, disegno di riforma contro ostacoli insormontabili. Il Lloyd George ha potuto proporre di accrescere il gravame sui redditi maggiori (2,50% di imposta addizionale sui redditi di almeno 125.000 lire annue per la parte eccedente le 75.000 lire) perché esiste già e fu perfezionata a poco a poco attraverso ad un’esperienza di tre quarti di secolo una imposta (income tax) la quale colpisce ed accerta i redditi, distinti prima nelle loro diverse categorie e poi insieme raggruppati. Essendo i redditi conosciuti, almeno con una certa approssimazione, fu possibile al Lloyd George e sarebbe stato possibile, senza fare a lui alcun torto, ad un qualunque altro ministro delle finanze, colpire i redditi più elevati. In Francia la intrapresa si presentava grandemente più difficile, poiché, dato il sistema di contribuzioni dirette indiziarie vigenti, i redditi dei contribuenti non erano conosciuti. Il Caillaux dovette quindi proporre di istituire, al posto delle esistenti, destinate a scomparire, nuove imposte dirette sui terreni, sui fabbricati, sui redditi mobiliari e personali; imposte miti, proporzionali; e conosciuti, mercé loro, i molteplici redditi dei contribuenti, propose di farne la somma e di istituire, per il complesso dei redditi, una seconda imposta complementare e progressiva, con larghissime esenzioni. Quale abbia ad essere il successo della riforma tributaria francese, se sarà approvata, ancora non si può dire; poiché non si sa se le imposte parziali sulle diverse specie di redditi saranno praticamente congegnate in modo da scoprire i redditi. Probabilmente alla lunga il sistema funzionerà abbastanza bene, come oggi funziona in Inghilterra; ma non è azzardato affermare che i risultati saranno soddisfacenti solo fra parecchi anni.

 

 

E in Italia? Se i disegni Sonnino e Giolitti-Gagliardo incontrarono così scarso favore, una cagione principalissima si deve trovare nel fatto, di cui tutti sono persuasi, che mancava a quei disegni, come mancherebbe ad un qualunque altro disegno che improvvisamente dovesse essere applicato, una condizione preliminare, senza di cui non è immaginabile il buon funzionamento di una qualunque imposta, progressiva o non, complementare o principale, sui redditi: voglio dire la conoscenza dei redditi che devono essere colpiti dall’imposta.

 

 

Le egregie persone che in Italia ogni tanto propongono una imposta generale sui redditi dimenticano sempre questa circostanza, secondaria forse ai loro occhi, ma in fatto di importanza principalissima e pregiudiziale, che cioè in Italia i redditi non si conoscono. Per quanto la cosa sembri incredibile, nulla di meno esatto. Di solito la difficoltà viene girata col ricordare che da noi già esistono le tre imposte dirette sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile; e poiché queste tre imposte colpiscono già partitamente tutte le forme possibili di reddito, si dice: facciamo la somma dei redditi accertati dalle imposte esistenti e su questa somma, quando essa superi le 5.000 lire o le 10.000 lire, collochiamo una seconda imposta complementare progressiva. Così diceva il progetto Giolitti-Gagliardo, e così in fondo dicono i regolamenti per le imposte di famiglia istituite dai municipi. Anche a Milano, l’imposta di famiglia, pure non precludendosi la via ad accertamenti ulteriori, assume come base e reputa esatti i redditi accertati agli effetti delle tre imposte dirette sui terreni, sui fabbricati e di ricchezza mobile.

 

 

Ora è d’uopo dire ancora una volta ciò che è nella coscienza di tutti, che qualunque nuova imposta la quale si basi sugli accertamenti attuali sarà sempre una imposta sperequata, e perciò incomportabile? La nuova imposta non potrà mai avere un sistema proprio di accertamento dei redditi, ma dovrà sempre basarsi sui redditi accertati agli effetti delle tre imposte dirette. Per sapere e dimostrare con un certo fondamento di verità (si tratta di argomenti gelosissimi in cui non basta la pubblica fama, che è di solito la universale invidia) che il contribuente Tizio ha un reddito complessivo di 10.000 lire all’anno, è d’uopo sapere che egli riceve, ad esempio, 2.000 lire dalle proprietà di terreni, 2.000 lire da crediti ipotecari o cambiari, 1.000 lire da azioni industriali e 5.000 lire dall’esercizio di una professione o commercio. Solo dopo che le cifre componenti il reddito sono state ad una ad una analizzate e dibattute fra contribuente e fisco, solo dopo che su di esse sono intervenute le decisioni delle competenti magistrature, è possibile fare la somma coll’affermare che il reddito di Tizio è di 10.000 lire all’anno. Così si fa in Inghilterra ora, così si farà in Francia quando il progetto Caillaux sarà divenuto legge, e così si fa in tutti i paesi dove le imposte sul reddito complessivo sono razionalmente congegnate. Non si fa questione di proporzionalità o progressività, non si argomenta contro l’imposta globale sui redditi, quando si fa una affermazione di semplice buon senso, quando si enuncia la lapalissiana verità: che per fare una somma bisogna conoscere gli addendi e bisogna che gli addendi siano omogenei. Per affermare che Tizio ha un reddito totale di 10.000 lire, bisogna sapere che i suoi redditi parziali sono 2.000 (terreni) + 2.000 (crediti) + 1.000 (azioni) + 5.000 (professione) e bisogna ancora che queste cifre parziali 2.000, 2.000, 1.000 e 5.000 siano omogenee e quindi sommabili, siano cioè tutte lire italiane del sistema monetario vigente attualmente nel nostro paese o ad esso riducibili.

 

 

Ora – molti purtroppo lo dimenticano – gli addendi che dovrebbero formare la somma del reddito del contribuente italiano in parte non sono conosciuti ed in parte non sono omogenei. Innanzi tutto, per una parte dei redditi, quelli agrari, gli addendi non sono omogenei. Ognun sa che la principale fonte di reddito in Italia è ancora la terra; ed ognun sa che i redditi della terra nella grande maggioranza delle provincie italiane sono ancora valutati in base ai vecchi catasti. Il che vuol dire che i redditi della terra sono nella maggior parte d’Italia ancora rappresentati da cifre numeriche 100 o 1.000 o 10.000, le quali sono pure cifre contabili senza alcuna connessione con la realtà e senza la possibilità, neppure lontanissima, di potere essere ridotte a lire italiane odierne. I catasti parlano, è vero, di lire, scudi, ducati ecc. ecc., ma sono cifre ideali, che erano già irreali all’epoca della formazione del catasto (uno o due secoli or sono) e che sono ora affatto intraducibili in linguaggio monetario attuale. Per di più, il reddito attuale dei terreni non ha alcun rapporto col reddito dei terreni all’epoca della formazione dei vecchi catasti, il che rende la confusione addirittura inestricabile.

 

 

I guai sono minori assai per quanto si riferisce ai redditi dei fabbricati, ma non sono nemmeno lievissimi. Ho già avuto occasione di rilevare altra volta come l’ultima revisione dei redditi sui fabbricati rimonti al 1889, ossia a vent’anni fa. Dopo d’allora è venuta la crisi edilizia, che ha ridotti i redditi di taluni centri ad un punto, da cui si rialzarono poi in maniera diversissima ed è venuto di recente il rialzo degli affitti, il quale ha fatto sì che le vecchie case siano valutate secondo il reddito minore che esse davano nel 1889 mentre le nuove sono tassate secondo il reddito attuale. Ove si vogliano tassare i redditi dei fabbricati secondo quella giustizia comparativa, che in materia tributaria è la sola giustizia imperiosamente richiesta, una revisione accurata dei redditi si impone.

 

 

Gravissima è infine la sperequazione per quanto ha tratto ai redditi mobiliari. È noto che i redditi soggetti all’imposta di ricchezza mobile si distinguono in cinque categorie che all’incirca si possono enunciare così: A 1, redditi dei capitali dati a mutuo allo stato, provincie e comuni (imposta 20% del reddito); A 2, redditi a mutuo a enti morali, società e privati (imposta 15%); B, redditi del capitale misto a lavoro, e cioè delle industrie e commerci (imposta 10%); C, redditi del lavoro puro in professioni ed impieghi privati (imposta 9%); e D, redditi dipendenti da stipendi, pensioni ed assegni fissi pagati dallo stato, dai comuni e dalle provincie (imposta del 7,50%). Queste cinque categorie si comportano in modo diversissimo rispetto alla verità negli accertamenti. Quelli della categoria A 1 e D sono tassati, trattandosi di redditi pagati dallo stato, dalle provincie e dai comuni, con precisione, talché neppure un centesimo sfugge all’imposta. Quelli della categoria A 2 si dividono in due parti i redditi dei mutui ipotecari da una parte, che, per la pubblicità del contratto, sono subito conosciuti dalle agenzie delle imposte e tassati intieramente ed i redditi dei mutui chirografari e cambiari, i quali si occultano con facilità grandissima e son noti in parte solo quando appartengono ad enti aventi obbligo di pubblicità nei bilanci o quando il credito diventa litigioso o inesigibile ed il creditore, per salvare qualcosa del capitale, deve ricorrere ai tribunali diventando così noto il credito al fisco, il quale giunge a tassarlo solo allorquando gli interessi sul credito stesso non si possono più esigere.

 

 

Quanto alla B (industrie e commerci) ed alla C (professioni ed impieghi), si sa come vanno le cose. I redditi sono accertati abbastanza esattamente a carico delle società anonime, dei loro impiegati e degli enti morali, i cui bilanci sono pubblici. Rispetto ai contribuenti privati, spinti dalla elevatezza dell’aliquota (15 e 10% del reddito), essi cercano di sottrarre ad ogni costo i redditi duramente guadagnati agli artigli del fisco, e ci riescono in non trascurabile misura. L’ing. Nicola ha di recente pubblicato sull’Economista di Firenze uno studio sui difetti gravi dei nostri metodi di accertamento dei redditi mobiliari; e da alcune interessanti tabelle contenute nel suo studio si ricava, ad es., che il reddito medio dei commercianti nel reparto nutrimento è nel regno di lire 838 all’anno ed a Milano di lire 1.449, che le professioni sanitarie rendono in media nel regno 900 lire appena all’anno ed a Milano 2736, che le professioni legali rendono appena 1.497 e 3.190 lire rispettivamente, e le professioni tecniche fruttano soltanto 1.014 e 3.331 lire. Questi redditi medi, già così bassi, sono quelli dei contribuenti colpiti dall’imposta; e l’ing. Nicola ha calcolato che nelle grandi città italiane appena un terzo dei professionisti esercenti indicati nelle guide è compreso nei ruoli delle imposte; cosicché quei tali redditi sarebbero quelli medi dei professionisti già arrivati a notevole rinomanza e sugli altri eminenti.

 

 

È chiaro che su queste fragilissime basi (redditi dei terreni sperequati e rappresentati da cifre contabili senza alcun significato, redditi dei fabbricati sperequati anch’essi per la antichità della ultima revisione generale del 1889, redditi di ricchezza mobile conosciuti nella loro integrità solo per la categoria A 1 e D e totalmente o parzialmente ignoti per le categorie A 2, B e C) non si può assolutamente costrurre un buon edificio tributario; e tanto meno si può assidere, come è pur ovvio avvenga, quella imposta generale sul reddito, che dovrebbe essere la attuazione più perfetta della giustizia tributaria. Oggi l’imposta generale sul reddito sarebbe giusta solo nell’apparenza, ma ingiustissima di fatto; colpirebbe a caso i contribuenti più disgraziati o meno astuti e lascerebbe sfuggire molti, magari di gran lunga più ricchi dei primi. Perciò ho intitolato questo articolo: I preliminari della riforma tributaria. Si faccia pur questa; ma sia preceduta da una revisione accurata dei metodi di accertamento. Non è certo una impresa facile quella di studiare ed attuare i metodi più adatti ad accertare i redditi. Né son problemi i quali si prestino a brillanti campagne parlamentari e giornalistiche; trattandosi di complicate questioni tecniche, le quali devono essere studiate con la maggiore ponderazione. Sono problemi preoccupanti anche dal punto di vista finanziario, perché un buon metodo di accertamento non si può scompagnare dalle aliquote tenui e le nostre sono purtroppo elevate.

 

 

Nessuna persona equa e ragionevole oserà dunque, credo, mettere in dubbio che, prima o magari contemporaneamente alla riforma nella ripartizione dell’imposta, occorra compiere la riforma nei metodi di accertamento dei redditi. Laddove i redditi sono noti, almeno approssimativamente, è possibile pensare ad attuare i postulati della giustizia tributaria. Laddove, come è da noi, predomina l’ignoranza e la diseguaglianza nell’accertamento, ogni riforma non può che aggravare i malanni della sperequazione esistente a cui ci siamo, in mancanza di meglio, già adattati. Questo è l’ostacolo primo che importa rimuovere.

 

 

I nuovi metodi di protezione alla marina

I nuovi metodi di protezione alla marina

«Corriere della Sera», 29 ottobre 1909[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 370-376

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 789-795[2]

 

 

 

 

A promuovere lo sviluppo della marina mercantile italiana, gioverebbe sovrattutto togliere quelle condizioni speciali che quello sviluppo ostacolano: fiscalismo esagerato, rialzo nel prezzo dei materiali di costruzione provocato dagli alti dazi doganali siderurgici, costo alto delle operazioni di porto, mancanza di tariffe combinate marittimo – ferroviarie, ecc. ecc. Ma è curiosissimo osservare come, il seguire questa via piana e naturale, sembri ai più un assurdo: e come molti si affannino nell’inventare compensi artificiali al male le cui cause pur tuttavia si lasciano sussistere.

 

 

Di alcuni di questi compensi artificiosi (premi e sussidi, credito a buon mercato, doti secondo il sistema Bettolo), mi sono già occupato: cosicché solo mi resta da parlare dell’ultimo metodo, che ha incontrato grandi simpatie e va facendosi rapidamente strada nell’opinione pubblica, e cioè la nazionalizzazione del trasporto degli emigranti e del carbone.

 

 

Armatori privati e compagnie di navigazione rinuncerebbero volentieri a tutti i premi di armamento e di velocità promessi dal disegno di legge ministeriale, al credito navale dell’on. Pantano, alle doti dell’ammiraglio Bettolo, se loro si concedesse un privilegio solo: l’esclusività alla bandiera nazionale del trasporto degli emigranti. Sono 60 milioni di lire all’anno che la bandiera estera lucra nel trasporto degli emigranti italiani e dei rimpatrianti, somma cospicua che permetterebbe di creare una intiera flotta, moderna, veloce, dotata delle caratteristiche necessarie a servire come naviglio ausiliario. Una propaganda continua, insistentemente condotta da anni ed anni tende a persuadere governo ed opinione pubblica della convenienza di addivenire a questa semplicissima riforma, che con un tratto di penna raddoppierebbe la marina mercantile adatta ai lunghi traffici. Avrebbe ancora altri vantaggi, secondo i suoi fautori: quello di dare un’arma in mano ai negoziatori dei trattati di commercio per ottenere favori alla nostra esportazione in cambio di concessioni da noi fatte caso per caso alle marine straniere. Mentre oggi l’uguaglianza delle bandiere nazionale ed estera è principio indiscusso nei trattati di commercio, in avvenire la regola dovrebbe essere l’esclusività della bandiera nazionale per certi traffici, principalissimo tra i quali il trasporto degli emigranti, e l’uguaglianza della bandiera dovrebbe essere concessa solo a quelle nazioni che dessero a noi equivalenti benefici sia nel campo della navigazione, sia nel campo del commercio. Senonché il principio della uguaglianza di bandiera è vigente nei trattati di commercio vincolanti l’Italia con le nazioni estere e soprattutto con la Germania; e, ove si voglia sostituirlo con l’esclusività prima della scadenza di quei trattati, sarebbe mestieri accortamente girare la situazione, imponendo alle compagnie estere esercitanti il trasporto dei nostri emigranti condizioni tali da rendere in pratica impossibile ad esse, e ad esse soltanto, la continuazione di quel traffico. Dicono che così faccia la Germania per riservare alla bandiera nazionale i suoi emigranti e magari gli emigranti polacchi e russi; e l’on. Nitti, che è studiosissimo delle economie straniere, ha volto da anni il suo arguto ingegno ad inventare vessazioni che dovrebbero impedire ai colossi delle compagnie straniere l’avvicinarsi ai porti italiani per farvi incetta di emigranti.

 

 

Per la brevità dello spazio, non narrerò tutti i graziosi ed arguti avvedimenti con cui il Nitti vorrebbe raggiungere il fine di dare 66 milioni di lire di più alla marina mercantile nazionale: si possono del resto leggere nei suoi discorsi alla camera e nella relazione generale della commissione sui servizi marittimi che li ha fatti suoi. Ricorderò solo, a cagion d’esempio, l’obbligo che egli vorrebbe fare ai vettori di emigranti di esercitare un traffico regolare e costante. Per virtù di queste due magiche parole, le compagnie tedesche, le quali hanno convenienza a sfruttare i nostri porti solo durante cinque o sei mesi dell’anno, mentre durante il resto dell’anno si riversano sui mari del nord, verrebbero, come dice l’amico Nitti, mandate via «dolcemente e cortesemente dai nostri porti, dando alla marina italiana assai più dei milioni di sovvenzioni inutili e dispendiose».

 

 

Contro questa proposta io non obbietterò gli insegnamenti della scienza economica e della esperienza della storia marittima. Queste dicono, in verità, concordemente che la esclusività concessa per secoli in passato alla bandiera nazionale, era stata causa di danni gravissimi agli stranieri ad insieme, e soprattutto, ai nazionali. Non è ancora spento il ricordo di quelle navi americane che durante il viaggio da New York all’Inghilterra dovevano viaggiare a vuoto precedute dalle navi inglesi viaggianti a pieno carico, mentre durante il viaggio dall’Inghilterra a New York le navi americane viaggiavano con carico completo seguite dalle navi inglesi in zavorra. Non è ancora scordato da tutti il rincarimento che il privilegio delle navi nazionali produceva in tutte le merci: né si possono dimenticare le carestie che affliggevano certi paesi, benché intiere flotte di navi straniere fossero disponibili per il trasporto del grano altrove abbondante. Non dirò come una delle maggiori conquiste del secolo XIX sia stato il principio della uguaglianza di bandiera, che ha moltiplicato i traffici, ridotto il costo dei trasporti e concesso il beneficio della vita a buon mercato alle moltitudini di abitanti della vecchia Europa. Tutto ciò è storia, è teoria ed agli occhi di taluni non val nulla; perché essi vogliono la pratica attuale, del momento presente, e questa dice che esistono 60 milioni di noli da portare via ai concorrenti stranieri a beneficio degli armatori italiani.

 

 

Vorranno almeno costoro consentire che questi 60 milioni di noli non potranno essere portati via alle marine straniere per virtù di legge, senza le più vive proteste e senza le più energiche rappresaglie dei governi stranieri. Possiamo noi, a cuor leggero, provocare le inevitabili rappresaglie della Germania, della Francia, forse anche dell’Inghilterra, contro le nostre esportazioni di merci? Stiano attenti gli industriali italiani esportatori a questa insistente propaganda a favore della nazionalizzazione del trasporto degli emigranti: perché essa è un attentato chiarissimo alla conservazione di quei mercati stranieri, a cui essi dirigono le loro merci!

 

 

E gli emigranti, sono forse una materia bruta che possa essere venduta, senza sentirne la voce e senza interpretarne gli interessi, alle compagnie di navigazione? A sentire i nazionalizzatori del loro trasporto, essi sono tenerissimi della sorte degli emigranti: e sarebbe per assicurarne la salute, la sicurezza, l’igiene che vogliono costringerli a viaggiare sui vapori italiani invece che su quelli stranieri. Sono tanto teneri per gli emigranti, che, dopo averli consegnati in balia delle compagnie privilegiate vorrebbero incaricare il commissariato dell’emigrazione di impedire che i noli fossero aumentati e di garantire loro condizioni migliori di igiene, vitto e sicurezza, pretesti insussistenti e promesse fallaci. Che si tratti di pretesti, lo dimostra una preziosa confessione sfuggita alla commissione reale dei servizi marittimi, pure fautrice della nazionalizzazione. «Le navi straniere», leggesi a pag. 193 del IV volume, «addette al trasporto degli emigranti dai nostri porti, in confronto alle nazionali destinate allo stesso servizio, sono, nella media, più recenti, più veloci, di maggiore tonnellaggio; ed il numero di quelle fra esse a doppia elica è superiore al numero di navi italiane. Nel complesso, dunque, sono superiori come unità nautiche». Che le promesse di tenere i noli bassi, malgrado il privilegio alle compagnie nazionali, siano fallaci, lo prova la esperienza recentissima del commissariato dell’emigrazione. Il quale fin d’ora ha la facoltà di fissare il massimo dei noli per il trasporto degli emigranti e non è riuscito ad impedirne il rialzo, nonostante che a capo di esso siano stati posti alcuni fra i migliori uomini che l’Italia potesse vantare. O non è forse una contraddizione stridente e ridevole il creare da una parte un privilegio, ossia favorire la formazione di sindacati, o leghe, o trusts fra gli armatori per rialzare i noli, e poi volere impedire con dei cerotti, che tali sono gli uffici governativi di sorveglianza, quell’aumento dei noli che è l’inevitabile conseguenza del privilegio concesso? Dicasi che si vuol mettere dei bastoni fra le ruote all’emigrazione italiana, dicasi che si vuol rendere il legislatore italiano alleato di quell’ineffabile Gompers, il quale viaggia l’Italia per persuadere gli italiani a starsene nei loro paesi a salari bassi e non andare negli Stati Uniti dove i salari sono alti; aggiungasi che si vogliono costringere i più poveri e disgraziati figli di nostra terra a pagare un tributo esoso (aumento del nolo dovuto al privilegio e … a bandiera) ad un trust di armatori e si sarà sinceri. Ma non si speri di avere compagni in questa iniquità coloro che badano agli interessi generali del paese.

 

 

Non che io non auguri fervidamente alla bandiera nazionale di conquistare magari l’intiero traffico degli emigranti! Ma auguro che ciò accada per virtù sua e non per forza di legge.

 

 

Questa espulsione della bandiera estera dal trasporto degli emigranti va già del resto accentuandosi naturalmente a mano a mano che le navi italiane riescono a pareggiare tecnicamente i potenti piroscafi stranieri.

 

 

Ecco nei due anni estremi, 1902 e 1907, contemplati dall’ultima relazione sulle condizioni della marina mercantile italiana (p. 340), le percentuali, per paesi di destinazione, della bandiera italiana e di quella estera nel trasporto degli emigranti.

 

 

Bandiera italiana

Bandiera estera

1902

1907

1902

1907

Brasile

79,8

94,1

20,2

5,9

Plata

71,5

79

28,5

21

Stati Uniti

31,5

42,3

68,5

58,7

Altri paesi oltre oceano

70,4

71

49,6

29

Totale

41,7

52,1

58,3

47,9

 

 

Dappertutto, dinanzi all’avanzarsi vittorioso della bandiera italiana, la bandiera estera retrocede. Ed è una bella e grande vittoria, ottenuta senza premi, senza sovvenzioni, creando ardimentosamente una nuova e veloce flotta moderna che è orgoglio dell’Italia marinara. Ed è vittoria contrastata palmo a palmo e non fiaccamente ottenuta dal legislatore ai danni dell’emigrante. La vittoria così ottenuta, e che auguro e son convinto diventerà sempre più sicura e compiuta, è vittoria guadagnata coll’ingegno, coll’audacia e colla lotta; è vittoria che alla lunga dovrà fruttare all’emigrante noli più bassi ed agli armatori profitti più cospicui. La vittoria, strappata col privilegio legale, sarebbe causa di ristagno e di intiepidimento nelle vie del progresso tecnico (chi si illude possano i progressi tecnici ottenersi da un ufficio di sorveglianza?) e di sfruttamento dell’emigrante.

 

 

Dopo ciò, è mestieri dire ancora la mia opinione avversissima alla nazionalizzazione del trasporto del carbone, che da taluni si chiede a grandi grida in aggiunta a quella degli emigranti? Inutile ripetere gli argomenti addotti a sostegno del concetto di concedere alla marina nazionale il privilegio del trasporto del carbon fossile, almeno per le provviste necessarie alle ferrovie di stato, al ministero della marina ed alle altre grandi aziende dello stato consumatrici di carbon fossile. Lo scopo è senza dubbio nobilissimo; ed io auguro fervidamente che gli armatori nazionali sappiano conquistare questo utile e proficuo traffico. Ma lo conquistino con le loro forze e non col chiedere privilegi. Questi inevitabilmente danno luogo ad un rincarimento del prezzo delle merci vendute dagli industriali privilegiati; nel caso nostro ad un aumento del prezzo del carbon fossile. Possono le ferrovie di stato sopportare questo ulteriore aggravio, esse che già costano ai contribuenti italiani qualche centinaio di milioni di lire all’anno? Possono le altre amministrazioni dello stato ingolfarsi sempre più nel pericolosissimo andazzo di pagare merci e servizi ad un prezzo più elevato di quello che il mercato consenta? È onesto che il governo dimentichi in siffatto modo gli interessi dei contribuenti, dei consumatori dei pubblici servizi? Industriali e consumatori di carbon fossile, contribuenti interessati nella gestione al minimo costo delle ferrovie di stato, tutti costoro dovrebbero allearsi nella lotta contro questo supremo attentato che si medita ai loro danni: attribuire agli armatori italiani, ossia ad un sindacato che inevitabilmente si formerebbe tra di essi, il privilegio del trasporto del combustibile delle masse, del pane dell’industria. È un grido d’allarme che io getto e spero non sarà stato gettato indarno!



[1] Con il titolo I nuovi metodi di protezione alla marina mercantile. La nazionalizzazione del trasporto degli emigranti e del carbone [ndr].

[2] Con la data inesatta del 21 ottobre ed il titolo Convenzioni marittime, premi alla marina mercantile, privilegi alla bandiera nazionale e la unificazione dei servizi marittimi [ndr].

Convenzioni marittime, premi alla marina mercantile, privilegi alla bandiera nazionale e la unificazione dei servizi marittimi

Convenzioni marittime, premi alla marina mercantile, privilegi alla bandiera nazionale e la unificazione dei servizi marittimi

«Corriere della Sera», 5[1], 8[2], 12[3], 29[4] ottobre e 16[5] dicembre 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 769-801

 

 

I

Il bando d’asta per i servizi marittimi viene fuori in mezzo a un gran clamore di polemiche per il recentissimo intervento del governo presso la Navigazione generale italiana perché questa concedesse la proroga, sino al 31 marzo 1910, del compromesso che la legava con il Lloyd italiano. La Navigazione generale si è dimostrata più larga di quanto non pretendesse il governo, il quale ora dichiara di essere lietissimo di una deliberazione che apre la via a tutti i concorrenti. Ben vengano dunque questi; sia che il governo già li conosca, gruppo per gruppo e sia già con essi affiatato, sia che si sia fidato alla cieca sorte sperando nel nascere spontaneo di aspiranti alle gare, così come nascono spontaneamente i funghi alle piogge d’autunno.

 

 

Non si comprendono in verità, a questo riguardo, le critiche acerbe che da più parti sono state mosse al governo, accusandolo di fare opera illegale o criminosa, col cercar di provocare la costituzione di società concorrenti e di affiatarsi con esse in via preliminare. L’asta deve essere aperta e libera a tutti; ma a che gioverebbe l’asta se non ci fossero concorrenti? E non giova talvolta, a trovare concorrenti, eliminare clausole e particolari che avrebbero forse impedito a taluni di concorrere, crescendo così il pericolo del monopolio? Coloro che hanno gridato tanto adesso contro le intese preliminari, sono quegli stessi che un anno fa, discutendosi quella che fu poi la legge del 1908, dicevano che le gare sarebbero state inutili perché ad esse nessuno si sarebbe presentato, data l’inaccettabilità dei patti contenuti nei capitolati d’appalto.

 

 

Non è dunque sugli incidenti preliminari al bando d’asta che si può trovare materia ad osservazioni fruttifere; ma piuttosto nel contenuto d’esso. Un più minuto e meditato esame del capitolato d’appalto e dei quaderni d’oneri consentirà un giudizio più sicuro di quello che oggi si possa fare sulla base della lettura del bando; ma giova fin d’ora esporre i risultati di una prima impressione.

 

 

Bene ha fatto indubbiamente il governo nel circondarsi di guarentigie atte a rendere sicura la legalità delle gare. Queste non sono precisamente bandite sullo schema di convenzione col Lloyd italiano, né su quello modificato dalla commissione parlamentare: sono nuovi capitolati, nuove condizioni di esercizio, e nuovi aggruppamenti di linee. In fondo si tratta ancora del vecchio schema di convenzioni, modificato qua e là, per tener conto dei desideri manifestati alla camera; nella forma, si tratta di nuove convenzioni, che sotto la sua responsabilità il governo crede opportuno di stipulare, in seguito ai risultati di pubblica gara, e con la riserva che l’aggiudicazione dei servizi costituirà in obbligo l’aggiudicatario fino al 31 marzo 1910, ma non lo stato, se non quando intervenga l’approvazione del parlamento. Al quale rimane sempre la facoltà di respingere le nuove convenzioni che gli verranno sottoposte. All’osservanza degli obblighi assunti, gli aggiudicatari sono del resto tenuti mercé il deposito di una rilevante cauzione.

 

 

Qui può sorgere un dubbio, il quale non tocca però la legalità delle gare, bensì la opportunità di esse in assenza di una legge impegnativa già votata; e se il parlamento vorrà apportare modificazioni al testo delle convenzioni? Evidentemente gli aggiudicatari si riterranno sciolti da ogni impegno e converrà forse ricominciare da capo.

 

 

Vero è che l’altro sistema, di votare prima la legge e poi fare le gare, fu già sperimentato e non condusse ad alcun risultato. Né poteva condurvi, perché fatalmente, in una legge teorica elaborata per gare future, il parlamento è portato a moltiplicare le linee e gli oneri ed a diminuire o determinare arbitrariamente le sovvenzioni, in guisa da rendere impossibile la buona riuscita delle gare. La questione resta dunque sospesa; se il parlamento non vorrà approvare i risultati delle gare, sarà questa la dimostrazione più chiara che le convenzioni, qualunque esse siano, hanno fatto il loro tempo e che bisogna scegliere altra via.

 

 

Qualche novità dei capitolati è degna di nota e di approvazione. La riduzione a 20 anni della durata delle convenzioni, così come si era del resto già stabilito negli ultimi giorni della discussione alla camera; l’obbligo più rigido di sostituire i vecchi piroscafi giunti all’età di venti anni e di eliminare, durante il primo quinquennio, i piroscafi temporaneamente adibiti a servizi sovvenzionati; la migliore disciplina dell’emissione delle obbligazioni; la fissazione del saggio del 3,50% per la capitalizzazione del reddito in caso di riscatto; queste e altre modificazioni, alcune delle quali suggerite da eminenti uomini dell’opposizione, costituiscono un miglioramento non spregevole della sostanza delle convenzioni.

 

 

Ma la novità più grossa sta nella divisione delle linee in gruppi; ed è appunto la novità che meno soddisfa. Non già che il sistema dell’unità fosse ottimo; ma non pare migliore, così com’è attuato, il metodo dei tre gruppi a Genova, Palermo e Venezia.

 

 

A leggere la lista delle linee assegnate ai tre gruppi, salvo che quelle evidentemente locali, viene fatto di domandarsi: quale è il concetto che ha presieduto a siffatta ripartizione? Perché, ad esempio, la linea Genova, Livorno, Napoli, Palermo, Messina, Catania, Canea, Pireo, Salonicco, Smirne, Rodi, Mersina, Alessandretta, Latachia, Beirouth, Alessandria, Canea, Catania, Messina, Palermo, Napoli, Livorno, Genova è stata attribuita al gruppo Tirreno inferiore ossia al gruppo che farà capo a Palermo, mentre la linea Napoli, Siracusa, Alessandria e ritorno è stata attribuita al gruppo Tirreno superiore, ossia a quello che avrà sede a Genova?

 

 

Questi ed altri esempi si potrebbero citare per dimostrare che la ripartizione delle linee in gruppi è stata fatta per soddisfare desideri regionali, per adattare magari i servizi ai vapori posseduti da qualche Società concorrente, ecc. La causa del grave difetto è del resto di origine antica; e sta nello sbaglio fondamentale di queste e delle passate convenzioni, di voler sussidiare linee che potrebbero vivere di vita indipendente, e di moltiplicarle per soddisfare alle brame ed alle gelosie dei maggiori e dei minori porti italiani. Si comprende allora come, non essendosi sussidiate soltanto quelle linee le quali avessero una indiscutibile importanza politico – postale, o che potessero servire a risvegliare o creare traffici adesso inesistenti, non sia stato possibile fare una ripartizione razionale delle linee in ordine a quelle necessità politiche o alle probabilità di conquista dei mercati esteri.

 

 

I gruppi ora esistono, ma non si vede come essi possano promuovere la concorrenza nei trasporti marittimi.

 

 

Dopo le novità bisognerebbe discorrere delle caratteristiche conservate dalla convenzione col Lloyd italiano. Chi non è stato favorevole prima al periodo di esperimento, non può diventarlo ora, che esso appare meno necessario, coll’aver fatto ricorso al metodo delle aste. Si era detto che il periodo di esperimento doveva servire a dimostrare se bastavano le lire 17.199.000 per citare le cifre ultime del bando, di sovvenzione fissa, e se era d’uopo integrarle con un’aggiunta che poteva andare sino al massimo del 15%, ossia di lire 2.579.850. Il periodo di esperimento doveva sostituire la mancanza delle aste e impedire che il sacrificio dello stato diventasse troppo grave per un errore di calcolo.

 

 

Si trattava però di un’illusione; e fu dimostrato ampiamente che il periodo di esperimento avrebbe condotto a fissare le sovvenzioni sulla base del massimo. Oggi quelle obiezioni hanno acquistato maggior forza. In fondo, ecco che cosa si viene a dire agli aggiudicatari: non solo voi sarete obbligati fino al 31 marzo 1910, senza che resti per nulla obbligato lo stato; ma la sovvenzione che vi si pagherà, a meno che vi contentiate fin d’ora della sovvenzione fissa o di una cifra minore, sarà o non sarà integrata, a seconda dei risultati del quinquennio di esperimento. Dunque, non gara per riuscire ad una cifra certa; ma per ottenere una cifra soggetta a mutamenti imprevedibili. Finora le gare si facevano per avere un appaltatore, a prezzo fisso; e solo in mancanza di concorrenti si ricorreva all’esercizio in economia. Adesso si fa la gara per cercare non già un appaltatore, ma un socio dello stato, poiché è un vero socio dello stato colui a cui si promette la garanzia delle obbligazioni da emettersi e che deve per un quinquennio lasciarsi invigilare, o in parte amministrare da delegati governativi, allo scopo di sapere se la sovvenzione debba essere aumentata sino ad un massimo.

 

 

Tutte le critiche, insomma, che si erano rivolte alla vecchia convenzione col Lloyd, risorgono contro i nuovi progetti di convenzione. Invece di una sola azienda semistatale per la navigazione, se ne avranno tre, egualmente impacciate dalla sorveglianza governativa e dall’interesse dell’assuntore di sottrarsi a questa eccessiva vigilanza; egualmente sospettate, per parte dello stato, di utili troppo larghi; egualmente impigrite, per parte dell’assuntore, dalla certezza degli utili garantiti dalle sovvenzioni; ed egualmente impotenti a segnare nuove vie alla espansione commerciale italiana.

 

 

II

La discussione alta e fervida avvenuta alla camera intorno al progetto di nuove convenzioni ha fatto alquanto trascurare un altro aspetto del problema: quello della marina libera. Il disegno di legge sui premi alla marina mercantile ed ai cantieri navali, che si trova già alla camera in stato di relazione, passò quasi sotto silenzio come se si trattasse di una parte trascurabile del problema. L’on. Ancona ha, sulle colonne del «Corriere», rimesso sul tappeto la questione, affermando che il problema marittimo va risolto nel suo complesso, che le convenzioni con la marina sovvenzionata non devono far dimenticare l’esistenza della marina libera, che le vane rivalità tra ministero delle poste e ministero della marina non devono far dimenticare l’unità essenziale del problema, che sarebbe un errore gravissimo continuare a procedere a casaccio intensificando oggi a dismisura le ordinazioni ai cantieri navali per le costruzioni delle nuove navi da guerra ed insieme dei piroscafi della marina sovvenzionata e della marina libera premiata.

 

 

Senonché l’on. Ancona d’accordo con altri competenti, non si limita ad affermare la necessità di studiare il problema nella sua interezza; ma aggiunge che un siffatto studio non può non far nascere dubbi fortissimi sulla giustizia della ripartizione dei 34 o 35 milioni che lo stato è disposto a spendere ogni anno a favore della marina mercantile. giusto, si dice, che oltre ai 4 o 5 milioni spesi al minimo a colmare il disavanzo delle lussuose linee fra il continente e le due isole maggiori, lo stato dia circa 22 milioni alla marina sovvenzionata e soli 8 milioni alla marina libera ed ai cantieri navali? È giusta questa ripartizione quando il rapporto fra il tonnellaggio della marina sovvenzionata e quello della marina libera è di 1 a I2, come dimostrò alla camera l’on. Colajanni? È giusto dare poco alla marina libera, la quale crea i piroscafi nuovi, moderni, audaci e molto alla marina sovvenzionata, la quale si limita ad accogliere le navi – rifiuto delle linee libere? Il contrasto è dell’on. Ancona, il quale alla camera dimostrò che in Inghilterra, in Germania, in Italia, dappertutto, le navi veloci, di tipo nuovo cominciano a viaggiare sulle linee libere «dove c’è la lotta, dove c’è la concorrenza, dove si affilano le armi» e dove quindi è necessario cambiare sempre le navi, e finiscono, quando stanno per diventare vecchie e fuori di moda, per viaggiare sulle torpide e sicure linee sovvenzionate.

 

 

Il ragionamento è giusto e logico fino a quando vuol dimostrare che è eccessivo, grandemente eccessivo spendere 22 milioni per le linee sovvenzionate. Ho espresso già, quando ferveva la discussione sulle convenzioni marittime, l’opinione che, al disopra delle modalità diverse del contratto, il problema vero ed essenziale era un altro: sono necessarie, sono utili, le sovvenzioni? Oggi che da alcuni si vorrebbe porre in contrasto il sistema delle sovvenzioni con quello dei premi alla marina libera, è pur necessario porre un altro quesito: i premi valgono dappiù delle sovvenzioni? Spendere 22 milioni nelle sovvenzioni sembra a me per fermo uno sproposito solennissimo; ma non ne segue punto che sia ragionevole spenderne 8 o 10 o 12 nei premi alla marina mercantile. Ben può darsi che siano errati e dannosi ambedue i sistemi. Marina sovvenzionata e marina premiata in realtà non sono che due suddivisioni della medesima categoria e vogliono dire ambedue marina torpida, marina arretrata e decadente; mentre di contro ad esse si erge la vera marina libera che non chiede premi o sovvenzioni, se non come compenso di un servizio effettivamente specificatamente reso allo stato, che vive della vita sua ed allo stato chiede soltanto di non volerla soffocare per troppo amore e di non volerla uccidere sotto il peso dei regolamenti, della protezione ai cantieri, del disservizio ferroviario e portuale, delle tasse esorbitanti. Ecco il vero contrasto, non quello artificioso tra marina sovvenzionata e marina premiata; ecco la vera e compiuta visione che si impone del nostro problema marittimo.

 

 

Nel quarto volume della relazione della commissione reale per i servizi marittimi v’è un confronto fra la spesa annuale sostenuta dai diversi stati per la marina mercantile e il progresso ottenuto nella potenzialità dalle flotte di commercio nel decennio 1892-1902 che è suggestivo. Gli effetti della spesa per i premi alla cosidetta marina libera sono commisti a quelli della spesa per sovvenzioni; ma notisi che gli effetti degli uni e degli altri sono convergenti allo stesso fine, perché le nazioni che più spendono per sovvenzioni sono le stesse che più spendono per premi e per converso le altre sono aliene da amendue le spese. Ecco i risultati del confronto che si legge a pagina 95 di quel volume:

 

 

Spesa annuale per la marina mercantile

Incremento nella potenzialità della flotta nel decennio1892-1902

Rapporto fra la spesa e l’incremento della potenzialità della flotta 

Inghilterra

27.600.000

702

39.316

Germania

11.306.750

239

47.308

Stati Uniti

8.773.000

193

45.456

Russia

8.140.000

51

159.608

Giappone

17.033.243

51

333.985

Austria-Ungheria

12.720.119

44

289.093

Italia

19.521.551

40

488.038

Francia

49.749.740

16

8.109.358

 

 

 

L’Inghilterra che ha compiuto il progresso maggiore indicato dal numero 702, per ottenere una unità di progresso ha speso soltanto lire 39.316. La Germania che viene subito dopo con un numero indice di progresso di 239, ha speso per ogni unità di progresso appena 47.308 lire; ed all’incirca la stessa somma è stata erogata dagli Stati uniti. Viceversa le nazioni le quali hanno progredito meno (il progresso è misurato in ragione della media del tonnellaggio, dell’età e della velocità, a ciascuno dei quali coefficienti si dà un’importanza numerica calcolata) sono l’Austria-Ungheria, l’Italia e la Francia e sono quelle precisamente che per ottenere così poche unità di progresso hanno speso per ogni unità una somma esageratamente più alta di quelle spese dall’Inghilterra e dalla Germania. La Francia, che è il paese in cui la protezione alla marina mercantile è più forte ed è dosata con maggiore precisione, è il paese in cui il governo ha la pretesa di sapere, meglio dell’iniziativa privata, trovare le vie del progresso marittimo, spende, meglio si direbbe spreca, le somme più forti e dove è più irremediabile il ristagno, più fatale la decadenza relativa della marina mercantile.

 

 

Alla eloquenza tacitiana delle cifre fanno eco le affermazioni di coloro che hanno vinto le grandi battaglie del mare. Il Ballin, direttore generale dell’Hamburg Amerika Line, forse la maggior competenza pratica della Germania marinara, augurando una intesa internazionale per la abolizione degli aiuti alla marina mercantile, soggiungeva:

 

 

Quanto a me, io saluterei con gioia una tale decisione, al modo stesso che fare il possibile, quando mi si consulterà, per impedire alle autorità germaniche di partecipare alla gara internazionale per la concessione di sovvenzioni. L’esperienza ha provato che il sistema delle sovvenzioni (qui la parola sovvenzione ha il significato generico di aiuto) non solo non favorisce la navigazione, ma piuttosto le reca pregiudizio. Per persuadersene basta pensare alle linee francesi ed italiane. La navigazione prospera sovratutto grazie alla libertà ed alla indipendenza. È un grande errore il credere che basti creare il mezzo di comunicazione per creare il traffico e ingrandirlo. Innanzi tutto, bisogna avere dei negozianti intraprendenti per mandare il prodotto dell’industria marinara nei paesi lontani e farne venire in cambio i prodotti d’oltremare. Dove l’iniziativa dello stato ha creato i mezzi di comunicazione, senza che si sia verificata questa prima condizione, si sono sempre avuti insuccessi!

 

 

Ho voluto citare i fatti che dimostrano il progresso dei paesi a marina libera e la stazionarietà (che vuol dir decadenza) dei paesi a marina protetta e le parole dell’eminente direttore di una delle maggiori compagnie del mondo perché conferissero autorità a quelle conclusioni a cui scienza ed esperienza sono oggidì arrivate concordemente in materia di premi: essere questi uno spreco inutile e pernicioso di denari e uno spreco tanto più nocivo quanto è maggiore il sacrificio sostenuto dallo stato. La relazione governativa al disegno di legge per i premi alla marina mercantile, pur pro ponendone la continuazione, sotto mutato nome ma contenuto sostanzialmente identico, deve riconoscere che i 122 milioni e 517.000 lire spesi dal 1886 all’1 dicembre 1908 hanno avuto assai scarsa efficacia. Si potrebbe invece affermare che la storia italiana della protezione della marina mercantile ha dimostrato ancora una volta, se pur ve n’era bisogno dopo la sperienza di secoli, che i premi sono impotenti a fare il bene, ma destinati a cagionare il male. La prima legge italiana di protezione, quella del 1886, concedeva alle costruzioni navali compensi di lire 60 a tonnellata di stazza lorda, per gli scafi in ferro, di lire 15 per i velieri in legno, di lire 10 a cavallo indicato per le macchine e di lire 6 a quintale per le caldaie; compensi che, in seguito ad una riforma della tariffa doganale, furono elevati nel 1888 rispettivamente a lire 55-17,50-12,50 e 9,50. Per l’industria dei trasporti concedeva un premio di 1 lira per ogni tonnellata di carbone trasportata da navi italiane a porti italiani, e un premio di navigazione per i viaggiatori continentali di lire 0,65 per ogni 1.000 miglia di percorso e per ogni tonnellata di stazza netta. Quali gli effetti sul tonnellaggio costruito nei cantieri italiani? Ecco le tonnellate nette costruite negli anni in cui rimase in vigore la legge:

 

 

1886

11.421

1889

11.615

1894

7.935

1887

5.191

1899

26.774

1895

6.750

1888

5.068

1891

29.784

1896

6.096

1892

17.599

1893

15.501

 

 

Dal 1886 al 1888, quando si sentono soltanto gli effetti della legge, le costruzioni navali sono minime, inferiori a quelle che si avevano prima della legge concedente i premi. Segno che i premi da soli non avevano prodotto alcun effetto. Nel 1889 comincia il rialzo dei noli, che si accentua negli anni successivi; ed allora, ed allora soltanto, le costruzioni ripigliano e si assiste ad una rifioritura dei cantieri navali. Dopo il 1893 si ha, contemporaneamente alla crisi in tutti gli altri rami della industria e dei commerci, una crisi di noli, diminuiscono i trasporti, scema per conseguenza la domanda di nuovo tonnellaggio marittimo e di nuovo languono i cantieri navali dal 1894 al 1896, malgrado la legge di premi continui ad essere in vigore. Dunque i premi, come ha in modo luminoso dimostrato Camillo Supino nel classico libro su La navigazione, non servono a niente quando i noli sono bassi, perché sono impotenti a compensare le perdite provenienti dai noli bassi e dai trasporti scarsi, ed accentuano le costruzioni nei periodi di prosperità, aggiungendo nuova spinta a quella che già naturalmente è data dai guadagni ottenuti coi noli alti. E sono dannosi perché, moltiplicando artificiosamente le costruzioni, inaspriscono la crisi prossima, la quale deriverà dall’abbondanza di tonnellaggio in confronto ad una massa declinante di trasporti. Di nuovo cantieri ed armatori si lagnano, attribuendo ai difetti della legge sui premi le conseguenze di quella crisi che è un fenomeno generale e che è stata, caso mai, peggiorata dai premi stessi; e chiedono accresciuti sussidi allo stato. Così fu in Italia, dove con la legge del 23 luglio 1896, mentre si mantenevano i premi di costruzione e si aboliva il premio, chiaritosi inutile ed inefficace, al trasporto del carbone, si aumentavano i premi di navigazione, estesi a qualunque genere di viaggi, a centesimi 80 per 1.000 miglia e per tonnellata di stazza lorda, con decrescenza triennale di cent. 10 per i piroscafi e 15 per i velieri. Questa volta gli effetti della legge furono terrificanti per il bilancio dello stato. Si ripeté il caso tante volte accaduto in passato di navi costrutte non per navigare ma per pescare premi; il caso per cui va comicamente famosa la storia marittima di Francia e che già Adamo Smith ricordava nella «Ricchezza delle nazioni» narrando dei pescatori che andavano a pescar premi invece che a pescar aringhe. Ecco il tonnellaggio netto costruito dal 1897 al 1900:

 

 

1897 tonnellate

11.458

1898

19.478

1899

33.802

1900

51.476

 

 

 

Si costruiva per costruire; essendosi calcolato che i premi di navigazione avrebbero consentito di remunerare ed ammortizzare da soli il capitale impiegato nella costruzione. Lo stato ad un tratto ebbe paura delle conseguenze finanziarie delle sue inconsiderate promesse; e, come è suo costume, mancando alla parola data e rovinando molti armatori che si erano fidati delle promesse solenni della legge, prima col decreto-catenaccio 16 novembre 1900 e poi con la legge 16 maggio 1901, fu stabilita nella somma insuperabile di 8 milioni di lire la spesa da sostenersi annualmente dal tesoro dello stato per premi e compensi: furono riservati i benefici della legge 1896 alle sole navi dichiarate al 30 settembre 1899, riducendosi tuttavia il premio di navigazione alla misura nominale di centesimi 45 per i piroscafi e centesimi 30 per i velieri; per le navi dichiarate dopo il 30 settembre 1899 fu soppresso il premio di navigazione, concedendosi soltanto ai costruttori due compensi, dei quali, per le navi in ferro, uno fisso di lire 35 a tonnellata lorda, e uno variabile di lire 60, 50 e 40 a tonnellata lorda a seconda della data del varo, più la facoltà di importare in franchigia di dazio, un terzo dei materiali metallici occorrenti alla costruzione degli scafi fu stabilito inoltre che i compensi per le navi a vapore, dichiarate dopo il 30 settembre 1899 non dovessero essere concessi ad una quantità maggiore di 40.000 tonnellate per ogni esercizio finanziario. Solo per le costruzioni commesse da stranieri – escluse dai compensi suddetti – si concesse il trattamento della importazione totale in franchigia di dazio dei materiali di provenienza estera. La precipitosa sostituzione della legge del 1896 con quella del 1901 dimostra un’altra verità: che nel solo caso in cui i premi realmente promuovono per virtù propria l’incremento della marina, mercantile, essi sono così gravosi per le finanze dello stato (si pensi che, se non interveniva il catenaccio del 1900, la spesa dell’erario avrebbe ben presto superato i 20-25 milioni all’anno in soli premi) da renderne inevitabile la pronta abolizione. Di qui scompiglio e crisi nell’industria delle costruzioni e preparazione alla crisi per abbondanza di tonnellaggio nell’industria della navigazione; e quella mancanza di continuità, che così giustamente lamenta l’on. Ancona e che è sovratutto dovuta in Italia all’intervento farraginoso del legislatore.

 

 

Veniamo alla legge del 1901, di cui si possono leggere non gli effetti ma i fatti posteriori nella seguente tabella del tonnellaggio netto costruito dal 1901 al 1907:

 

 

1901 tonnellate

44.543

1902

37.827

1903

44.453

1904

21.706

1905

35.702

1906

23.771

1907

36.433

 

 

Qui i fautori del sistema dei premi esultano perché vedono che la produzione delle nuove navi si mantenne ad un livello abbastanza elevato, salvo le inevitabili oscillazioni da un anno all’altro; e perché sovratutto, mentre prima il tonnellaggio medio di ogni nave oscillava (dal 1886 al 1900) da un minimo di 21 ad un massimo di 119 con una sola punta eccezionale a 274 tonnellate, nel periodo dal 1901 al 1907 si vararono navi con un tonnellaggio medio variabile da 97 a 289 tonnellate; e mentre nel periodo antecedente il tonnellaggio massimo era variato da 215 a 3.600 tonnellate, nel periodo in corso era oscillato da 2.747 a 5.405 tonnellate. Progresso dunque nel tonnellaggio totale, nel tonnellaggio medio e nel tonnellaggio massimo! Errerebbe però grandemente chi considerasse questi fatti posteriori come gli effetti dei premi consacrati dalla legge del 1901. La causa del progresso indiscutibile della marina mercantile italiana dopo il 1901 fu tutt’altra e non ha niente a che fare con i premi. Notisi intanto ad escludere l’efficacia dei premi che nel tonnellaggio costruito vi sono navi vendute a stranieri, alle quali non si concedettero premi, ma solo l’esenzione assoluta dai dazi doganali per i materiali di provenienza estera. Il che vuol dire che i cantieri nazionali sono in grado, senza premi, ove soltanto abbiano la franchigia per il materiale da costruzione – questa condizione essenziale, tanto fieramente osteggiata dal governo, di ogni progresso marittimo! – di produrre navi in gara con l’estero. Lo confessa, probabilmente per isbaglio, un grosso armatore nella sua risposta al questionario della commissione d’in chiesta (vol. II, p. 800) quando scrive:

 

 

Recenti e ripetuti esempi di navi sia da guerra che mercantili, rapidamente costruite dai nostri cantieri, per nazioni estere, ivi compresa la progredita (!!) Francia, e con piena soddisfazione dei committenti, provano che la nazione nostra è in grado di fare da sé. Occorre appena ricordare che il valore di una nave è rappresentato per circa il 60% dalla mano d’opera. L’Italia ha esuberanza di mano d’opera e la larga e continua emigrazione ne è una prova.

 

 

Se, come confessa questi, che è uno dei principali armatori d’Italia, i cantieri nostri possono costruire navi senza premi e venderle all’estero a prezzi di concorrenza, anche in paesi larghissimi di favori ai cantieri, come la Francia, come si può asserire che i premi siano la causa del progresso delle costruzioni navali e della navigazione in Italia? La verità si è che questo progresso fu dovuto a due sole cause: l’aumento dei noli, di nuovo verificatosi dopo il 1899 e sovratutto lo sviluppo straordinario preso dalla emigrazione transatlantica italiana. L’emigrante fu il massimo e misconosciuto fattore dei progressi recenti della marina mercantile italiana. Furono gli emigranti che da 166.503 nel 1900 aumentarono con progressione ininterrotta a 511.935 nel 1906, mentre crescevano pure da 80.570 a 156.273 i rimpatrianti che offrirono abbondanza di noli e una ricca e costante domanda di trasporti alla bandiera nazionale e furono essi che, offrendo milioni e milioni di guadagni e richiedendo un materiale dotato di alta qualità tecnica, resero possibile la costruzione dei più grandi e belli e veloci piroscafi di cui si vantano oggidì le compagnie italiane di navigazione. Nessuna potenza di sofisma interessato varrà mai a scuotere questa verità: che l’empiastro dei premi a nulla avrebbe servito senza l’aumento dei noli e della emigrazione. I premi sono un sovrappiù che armatori e costruttori intascano ben volentieri, come l’intascherebbe un qualunque altro industriale a cui lo stato volesse benevolmente regalare qualche centinaio di mille lire o qualche milione all’anno; ma non sono la causa per cui possono fiorire l’industria dei cantieri e della navigazione.

 

 

Perciò è grandemente da lamentare che il governo non abbia fatta sua una delle poche buone proposte fatte dalla commissione reale di cui fu relatore l’on. Pantano ossia l’abolizione completa dei premi e la concessione dell’importazione in franchigia per i materiali da costruzione. Il disegno di legge, così come è stato emanato dalla commissione, continua nelle vecchie errate vie cambiando soltanto il nome dei vecchi istituti. Esso dà un compenso daziario di lire 38 per tonnellata di stazza lorda agli scafi in ferro ed acciaio, e di lire 20 agli scafi in legno; un compenso di costruzione di lire 54 alle navi a scafo metallico varate nel primo quinquennio dall’entrata in vigore della legge, di lire 49 se varate nel secondo e di lire 44 se varate nel terzo quinquennio. Sono dati compensi di costruzione di lire 15 per cavallo indicato per le macchine motrici, di lire 12 per quintale per le caldaie e di lire 13,50 per quintale per gli apparecchi ausiliari. È attribuito un contributo annuo di armamento di lire 4 per tonnellata di stazza lorda se piroscafi, e di lire 2 se velieri, alle navi varate da cantieri nazionali, che sono state in armamento per almeno 300 giorni all’anno ed hanno percorso in media, per ogni giorno di armamento, non meno di miglia 80, se piroscafi e non meno di miglia 30, se velieri. dato inoltre un contributo di velocità variabile da lire 0,70 a 2 per ogni mezzo nodo in più e per ogni tonnellata di stazza lorda alle navi varate dai cantieri nazionali ed aventi una velocità da 14 a 17 miglia. In apparenza si vuol favorire, oltreché la costruzione delle navi mercé i compensi daziari e di costruzione, la navigazione mercé i contributi di armamento e di velocità. In realtà i soli favoriti sono i cantieri, i quali hanno il monopolio della vendita agli armatori delle navi nazionali aventi diritto a godere dei contributi d’armamento e di velocità. L’esperienza ha dimostrato che agli armatori italiani spesso conviene di più comprare all’estero navi a buon mercato che non godranno premi piuttostoché comprare in Italia navi il cui prezzo attuale sarà stato cresciuto dell’ammontare di tutti i contributi futuri di armamento e di velocità. Se ciò è vero, l’industria della navigazione non ritrarrà alcun vantaggio dai premi, ed i soli avvantaggiati saranno i cantieri, che sopra si è visto quanto sia dannoso aiutare in siffatta maniera. Né a persuadere della bontà delle nuove proposte vale il dire che il premio adesso lo si darà alle navi che staranno effettivamente in armamento e alle navi più veloci. I premi d’armamento sono la stessa precisa cosa dei vecchi premi di navigazione, inutili quando i noli sono alti, ed impotenti, salvo se altissimi, se i noli sono bassi. I premi di velocità sono fissati in misura talmente irrisoria – e non può farsi altrimenti, se non si vuole mandare in rovina l’erario – che da soli non possono certo promuovere le costruzioni di navi veloci. Chi, d’altra parte, può dimostrare che la velocità da 14 a 17 miglia sia la velocità economica per le navi mercantili italiane? È questa una delle solite pretese della amministrazione la quale, nella sua onniscienza ed onniveggenza, si illude di aver trovato la formula migliore della velocità che dovrà esser adottata dagli armatori italiani,i quali probabilmente si rideranno della sapienza governativa e sceglieranno quell’altra velocità che sarà più economica, ossia più conveniente data la natura dei loro traffici, il mercato dei noli e le vie percorse dalle loro navi.

 

 

III

La inefficacia dei metodi fin qui seguiti per promuovere lo sviluppo della marina mercantile è così manifesta che da più parti uomini eminenti per dottrina e pratica hanno preferito mettere innanzi nuovi sistemi, che potrebbero acconciamente chiamarsi «surrogati» delle sovvenzioni e dei premi. Il credito navale dell’on. Pantano, il sistema Bettolo, l’esclusività del trasporto degli emigranti, di cui il più recente abile propugnatore è l’on. Nitti, l’esclusività del trasporto del carbon fossile, a cui ha accennato anche l’on. Ancona, sono i principali di questi nuovi metodi che dovrebbero sostituire, parzialmente e totalmente, l’abusato ed inefficace sistema delle sovvenzioni e dei premi.

 

 

Diciamo prima del credito navale, come quello che, se potrà di nuovo venire a galla per la tenacia posta nel difenderlo dall’on. Pantano, è oramai caduto sotto la critica quasi unanime degli interessati che il credito navale vorrebbe beneficare. Il concetto informatore è quello di fornire credito a buon mercato non alle grosse compagnie, che non ne hanno bisogno, ma ai piccoli armatori ed alle piccole compagnie a cui difetta il capitale per attuare le loro audaci iniziative. Per dare il credito a buon mercato si farebbe concorrere il governo al pagamento degli interessi, in ragione dell’1% sopra un piroscafo di 3.000 tonnellate e di 12 miglia all’ora di velocità, con un aumento di centesimi 10 per ogni 1.000 tonnellate in più e di centesimi 25 per ogni miglio in più. Così, ad esempio, il contributo dello stato nel pagamento dell’interesse giungerebbe per un piroscafo di 8.000 tonnellate della velocità di 22 miglia, al 4%, ossia presumibilmente all’interesse totale da pagare.

 

 

Si osserva subito che nel concetto fondamentale medesimo del credito navale si annidano due errori che sia interesse nazionale o generale favorire le piccole iniziative e che sia interesse del pari generale concedere credito a buon mercato il che, se ha un significato qualsiasi, vuol dire imprestare denari ad un interesse inferiore al saggio a cui gli armatori potrebbero procacciarsi credito dalle banche private. Che il favorire le piccole iniziative non sia un interesse generale, è manifesto ove si pensi che, nove volte su dieci, operano a costi minori, ossia lavorano con maggior beneficio generale le grandi compagnie con forti capitali e con flotte potenti, le cui singole unità valgono parecchi milioni di lire. Imprestare ai piccoli armatori il denaro ad un interesse minore di quello del mercato vuol dire favorire artificiosamente (nessuno può elevare obiezioni alla vittoria dei piccoli armatori, se ottenuta per virtù propria come, per fortuna loro, accade in parecchi casi senza bisogno del credito di stato) forme di intrapresa arretrate ed antieconomiche. Che poi non sia nell’interesse generale di fornire credito a buon mercato, ossia ad un saggio inferiore a quello corrente, è chiarissimo a chi appena abbia un po’ di buon senso. Fornir denaro al 4% quando l’interesse corrente è al 4,50% vuol dire togliere i capitali a quelle imprese che sarebbero disposte a pagare il 4,50 per darli a quelle che appena possono pagare il 4; e vuol dire ancora, per logica conseguenza, togliere il capitale (che le leggi non riescono a creare ex nihilo, ma solo a spostare) alle imprese più produttive, atte a prosperare in condizioni normali, per darlo ad altre imprese che si trascinano tisicamente o non sorgerebbero se dovessero pagare il capitale al saggio normale. È una vera e propria distruzione di ricchezza, cagionata dalla mania di voler promuoverne lo sviluppo coll’aiuto dello stato. L’aiuto è, come al solito, così mal dato che riesce di fatto ad un incarimento enorme del costo del denaro. Una banca privata può fornire credito ad un armatore, quando ne conosce l’onestà e la solvibilità, fidandosi della sua firma. Un istituto autonomo – naturalmente il credito navale sarebbe dato da un istituto autonomo, forma divenuta di gran moda oggidì, sotto la quale nel caso nostro si maschererebbe per sempre lo stato che dovrebbe, all’uopo, colmare, coi denari dei contribuenti, il disavanzo dell’esercizio del credito navale – non può fidarsi della firma di un privato qualunque. Ohibò! Lo stato dà il credito a buon mercato, ma vuole essere garantito non dalle persone ma dalle cose. Quindi l’istituto autonomo si considererà proprietario della nave su cui ha accordato prestiti, fino a che il prestito non sia estinto. Non piccolo imbarazzo per l’armatore, che verrà a trovarsi in una strana situazione giuridica di fronte ai terzi, in caso di sinistri marittimi o nella eventualità di prestiti a cambio marittimo da contrarsi all’estero. Né meno pericolosa per l’istituto, il quale, in caso di negligenza dell’armatore, dovrà pensare ad eseguire tutte le riparazioni occorrenti alla sua nave, sostituendosi così con un proprio ufficio tecnico alla responsabilità tecnica dell’armatore. Né basta. Lo stato non solo vuole esser garantito dalla cosa e non dalla persona, ma vuole che la cosa, ossia la nave, sia sempre mantenuta al suo integro valore. Quindi non basterà che l’armatore si assicuri, come oggi suol fare, contro i quattro rischi principali dell’incendio, investimento, abbordaggio e naufragio, ma bisognerà fare l’assicurazione contro tutti i rischi di qualsiasi specie. Come ha dimostrato il Supino in una stringente relazione al consiglio superiore della marina mercantile, quest’obbligo importerà un maggior onere del 2-2,50%. Se si aggiunge il 4% di interesse, il 0,50% di commissione all’istituto, il 0,50% di imposte e tasse e il 0,25% di oneri diversi, arriviamo ad un onere totale del 7,25% che gli armatori dovranno sopportare per ottenere il credito di stato cosidetto a buon mercato. Togliamo pure il concorso dello stato (1 a 4%) e vediamo quasi sempre, salvo per le navi velocissime, la nessuna convenienza dell’armatore a ricorrere all’istituto, quando, appena egli goda reputazione di onestà ed abilità, può procurarsi denaro sul mercato a migliori condizioni dagli istituti ordinari di credito senza sottostare alle mille ingombranti pastoie del credito navale. Il quale diventerà così, come accade degli empiastri governativi, il rifiuto degli inetti e forse dei disonesti.

 

 

Il sistema che si intitola all’on. Bettolo consiste essenzialmente nel dare aiuti non sotto forma di sovvenzioni fisse a linee regolari o di premi a navi viaggianti, ma a guisa di doti assegnate ai diversi mercati, a cui lo stato riterrebbe conveniente di rivolgere i traffici nazionali. La dote sarebbe ripartita tra gli armatori o le società di navigazione che riuscissero a crescere i nostri scambi commerciali marittimi sotto bandiera nazionale. In base alle tonnellate eccedenti la media del movimento commerciale già esistente, la somma dovuta ai premi guadagnati sarebbe divisa tra tutte le tonnellate trasportate dalle navi nazionali, assegnando però all’esportazione una ricompensa maggiore di quella concessa all’importazione.

 

 

A parer mio la critica essenziale che può farsi al sistema Bettolo è che essa pretende di sostituire la sapienza dello stato all’interesse individuale dei commercianti importatori ed esportatori. La critica si può fare ripetendo le parole medesime che giustamente l’on. Bettolo rivolge contro coloro che vogliono fissare per legge le condizioni di velocità e di tonnellaggio delle navi.

 

 

Nessuno meglio, dell’armatore, per il quale l’intensità del traffico si traduce in un maggior lucro e nel guadagno di un premio maggiore, potrebbe essere al caso di scegliere il materiale più atto all’esercizio della sua industria e delle linee che vuol esercitare.

 

 

Benissimo detto contro i maniaci dei premi alle alte velocità ed ai grossi tonnellaggi, quasiché l’armatore non fosse in grado di giudicare meglio di ogni altro la convenienza di spedire le sue merci su un piroscafo rapido di 10.000 tonnellate o per mezzo di un lento veliero da 1.000. Chi abbia questi sanissimi concetti in mente, non può aver la menoma fiducia che lo stato sappia scegliere, sia pure «con accurata indagine» i mercati «che danno meglio a sperare rispetto allo sviluppo dei nostri scambi e della nostra produzione». Si sa come vanno le cose in queste faccende; si nomina una commissione, composta dei delegati delle camere di commercio, estere ed italiane, delle associazioni degli armatori, di qualche direttore generale dei ministeri, di parecchi parlamentari e di qualche professore; e tutta questa brava gente deve scegliere i mercati e fissare le doti per ognuno di essi. Ciascun commissario ritiene che sarebbe una bella cosa avviare traffici verso un certo porto, di cui ha sentito parlare od ha letto mirabilia; ed il risultato, favorito altresì dalle competizioni regionali, si è che i milioni disponibili vengono divisi a spizzichi un po’ dappertutto, secondo la giustizia approssimativa che di solito presiede ai giudizi degli arbitri, preoccupati soltanto di dar ragione a tutti.

 

 

Ammettasi pure che si conoscano i mercati «meritevoli» e si distinguano da quelli «immeritevoli» della dote governativa. Perché incoraggiare per quei mercati solo il traffico delle merci e non quello dei passeggeri? La fortuna della marina mercantile moderna è dovuta non tanto al trasporto delle merci quanto a quello delle persone, che pagano noli assai più elevati e richiedono un materiale più perfetto. Per le merci stesse provenienti o destinate ad un dato mercato, si dovrà usare altresì lo stesso trattamento? La dote dovrà essere distribuita a seconda del numero puro e semplice delle tonnellate di merce trasportata in più, senza tenere conto se si tratta di tonnellate di carbone o di seta, di grano o di caffè, ecc.? Il senatore Piaggio, in un opuscolo scritto nel 1904, ossia prima delle polemiche odierne – opuscolo che in apparenza è un elogio del sistema Bettolo ed in realtà è la dimostrazione convincente della impossibilità pratica di applicarlo – sensatamente scriveva:

 

 

Il riparto della dote dovrebbe farsi tenendo conto degli elementi del traffico che l’armatore riesce a porre in essere a vantaggio dei nostri commerci e dei coefficienti da assegnare alle varie categorie di passeggeri e di merci. Perché non può certo parificarsi l’esportazione di una tonnellata di tessuti di seta con quella di una tonnellata di mattoni o l’importazione di una tonnellata di coloniali con quella di una tonnellata di cotone e simili. Certo una analisi razionale dei vari elementi del traffico per tradurli nelle cifre di dotazione dei vari mercati e nelle quote di concorso al premio, offre gravi difficoltà; ma queste devono essere affrontate e superate se si vuole praticamente applicare l’ingegnoso sistema escogitato dall’on. Bettolo; altrimenti noi avremmo a mo d’esempio che dei due milioni assegnati nel suo progetto alla importazione dalle Indie, la maggior parte sarebbe assorbita dalle importazioni di cotone greggio e simili, che pur sono le materie prime che l’autore esclude dai premi per altre provenienze.

 

 

Il sistema escogitato dall’on. Bettolo è ingegnoso; ma ancora più ingegnose e sapienti ed onniveggenti dovrebbero essere le persone incaricate di applicarlo; il che, trattandosi di funzionari o uomini pubblici non personalmente interessati, è senz’altro da escludersi.

 

 

Come essere sicuri, inoltre, che il premio venga dato al vero merito e non al caso? Un armatore fa sforzi perseveranti per creare un nuovo traffico nell’intento di lucrare la dote assegnata ad un dato mercato; ma a rispondere la materia è sorda ed egli avrà speso invano denari e fatica. Un altro esercita una linea nel proprio interesse, anche a traffico stazionario e senza intenzione di lucrar doti. Per una variazione di prezzi, per un cambiamento nei consumi, per un’interruzione avvenuta rispetto a qualche mercato concorrente, le correnti commerciali crescono e l’armatore, oltre al guadagnar di più, lucra, senza alcun suo merito, una dote a cui nemmeno pensava.

 

 

Aggiungasi finalmente che premi, sovvenzioni, doti ed ogni sorta di incoraggiamenti dello stato sono via di ipotesi, soltanto quando il traffico sia inizialmente così basso da non consentire l’impianto di una linea di navigazione, oppure vi sia la speranza di un aumento futuro che renda la linea remunerativa. Perciò, sempre in via di ipotesi, sarebbe razionale quella sovvenzione che partisse da un massimo, quando la linea è ancora improduttiva, e scendesse a mano a mano a zero, quanto più il traffico aumenta e può alimentare da solo la linea. Invece col sistema Bettolo che cosa accade? che le doti sono assegnate solo in caso di incremento del traffico; ossia l’armatore tanto più guadagna quanta più merce trasporta, almeno fino all’assorbimento totale della prefissata dote; il che è irrazionale perché allora appunto egli guadagna di più coi soli noli ed è sempre meno meritevole di aiuto. Insomma, il sistema Bettolo, come tutti gli altri metodi di premio, dimentica che il solo stimolo necessario e sufficiente allo sviluppo di traffici è l’esistenza di noli, ossia di merci da trasportare; e che volere far viaggiare navi in mancanza di noli e per costringere queste a farsi innanzi è un voler mettere il carro dinanzi ai buoi. Inutile in tempi prosperi di abbondanza di traffico e di noli, non basterebbe nei tempi di crisi – i quali sono inevitabili e da nessuna ingegnosità di sistema possono essere impedite – a compensare le perdite delle navi viaggianti a vuoto.

 

 

IV

A promuovere lo sviluppo della marina mercantile italiana, gioverebbe sovrattutto togliere quelle condizioni speciali che lo ostacolano: fiscalismo esagerato, rialzo nel prezzo dei materiali di costruzione provocato dagli alti dazi doganali siderurgici, costo alto delle operazioni di porto, mancanza di tariffe combinate marittimo-ferroviarie, ecc. ecc. È curiosissimo osservare come, il seguire la via piana e naturale, sembri ai più un assurdo: e come molti si affannino nell’inventare compensi artificiali al male le cui cause pur tuttavia si lasciano sussistere.

Di alcuni di questi compensi artificiosi ho discorso dianzi: cosicché solo mi resta da parlare dell’ultimo metodo, che ha incontrato grandi simpatie e va facendosi rapidamente strada nell’opinione pubblica, e cioè la nazionalizzazione[6] del trasporto degli emigranti e del carbone.

Armatori privati e compagnie di navigazione rinuncerebbero volentieri a tutti i premi di armamento e di velocità promessi dal disegno di legge ministeriale, al credito navale dell’on. Pantano, alle doti dell’ammiraglio Bettòlo, se loro si concedesse un privilegio solo: l’esclusività alla bandiera nazionale del trasporto degli emigranti. Sono 60 milioni di lire all’anno che la bandiera estera lucra nel trasporto degli emigranti italiani e dei rimpatrianti, somma cospicua che permetterebbe di creare una intiera flotta, moderna, veloce, dotata delle caratteristiche necessarie a servire come naviglio ausiliario. Una propaganda continua, insistentemente condotta da anni ed anni tende a persuadere governo ed opinione pubblica della convenienza di addivenire a questa semplicissima riforma, che con un tratto di penna raddoppierebbe la marina mercantile adatta ai grandi traffici. Avrebbe ancora altri vantaggi, secondo i suoi fautori: quello di dare un’arma in mano ai negoziatori dei trattati di commercio per ottenere favori alla nostra esportazione in cambio di concessioni da noi fatte caso per caso alle marine straniere. Mentre oggi l’uguaglianza delle bandiere nazionale ed estera è principio sancito nei trattati di commercio, in avvenire la regola dovrebbe essere l’esclusività della bandiera nazionale per certi traffici, principalissimo tra i quali il trasporto degli emigranti, e l’uguaglianza della bandiera dovrebbe essere concessa solo a quelle nazioni che dessero a noi equivalenti benefici sia nel campo della navigazione, sia nel campo del commercio. Senonché il principio della uguaglianza di bandiera è vigente nei trattati di commercio vincolanti l’Italia con le nazioni estere e soprattutto con la Germania; e, ove si voglia sostituirlo con l’esclusività prima della scadenza di quei trattati, sarebbe mestieri accortamente girare la situazione, imponendo alle compagnie estere esercitanti il trasporto dei nostri emigranti condizioni tali da rendere in pratica impossibile ad esse, e ad esse soltanto, la continuazione di quel traffico. Dicono che così faccia la Germania per riservare alla bandiera nazionale i suoi emigranti e magari gli emigranti polacchi e russi; e l’on. Nitti, che è studiosissimo delle economie straniere, ha volto da anni il suo arguto ingegno ad inventare vessazioni che dovrebbero impedire ai colossi delle compagnie straniere l’avvicinarsi ai porti italiani per farvi incetta di emigranti.

Per ragion di spazio, non esporrò tutti i graziosi ed arguti avvedimenti con cui il Nitti vorrebbe raggiungere il fine di dare 60 milioni di lire di più alla marina mercantile nazionale; si possono del resto leggere nei suoi discorsi alla camera e nella relazione generale della commissione sui servizi marittimi che li ha fatti suoi. Ricorderò solo, a cagion d’esempio, l’obbligo che egli vorrebbe fare ai vettori di emigranti di esercitare un traffico regolare e costante. Per virtù di queste due magiche parole, le compagnie tedesche, le quali hanno convenienza a sfruttare i nostri porti solo durante cinque o sei mesi dell’anno, mentre durante il resto dell’anno si riversano sui mari del nord, verrebbero, come dice l’amico Nitti, mandate via «dolcemente e cortesemente dai nostri porti, dando alla marina italiana assai più dei milioni di sovvenzioni inutili e dispendiose».

Contro la proposta io non obbietterò gli insegnamenti della scienza economica e della esperienza della storia marittima. Queste dicono, in verità, concordemente che la esclusività concessa per secoli in passato alla bandiera nazionale, era stata causa di danni gravissimi agli stranieri ad insieme, e soprattutto, ai nazionali. Non è ancora spento il ricordo di quelle navi americane che durante il viaggio da New York all’Inghilterra dovevano viaggiare a vuoto precedute dalle navi inglesi viaggianti a pieno carico, mentre durante il viaggio dall’Inghilterra a New York le navi americane viaggiavano con carico completo seguite dalle navi inglesi in zavorra. Non è ancora scordato da tutti il rincaro che il privilegio delle navi nazionali produceva in tutte le merci: né si possono dimenticare le carestie che affliggevano certi paesi, benché intiere flotte di navi straniere fossero disponibili per il trasporto del grano altrove abbondante. Non dirò come una delle maggiori conquiste del secolo XIX sia stato il principio della uguaglianza di bandiera, che ha moltiplicato i traffici, ridotto il costo dei trasporti e concesso il beneficio della vita a buon mercato alle moltitudini di abitanti della vecchia Europa. Tutto ciò è storia, è teoria ed agli occhi di taluni non val nulla; perché essi vogliono la pratica attuale, del momento presente, e questa dice che esistono 60 milioni di noli da portare via ai concorrenti stranieri a beneficio degli armatori italiani.

Vorranno almeno costoro consentire che questi 60 milioni di noli non potranno essere portati via alle marine straniere per virtù di legge, senza le più vive proteste e senza le più energiche rappresaglie dei governi stranieri. Possiamo noi, a cuor leggero, provocare le inevitabili rappresaglie della Germania, della Francia, forse anche dell’Inghilterra, contro le nostre esportazioni di merci? Stiano attenti gli industriali italiani esportatori a questa insistente propaganda a favore della nazionalizzazione del trasporto degli emigranti: perché essa è un attentato chiarissimo alla conservazione di quei mercati stranieri, a cui essi dirigono le loro merci!

Gli emigranti, sono forse una materia bruta che possa essere venduta, senza sentirne la voce e senza interpretarne gli interessi, alle compagnie di navigazione? A sentire i nazionalizzatori del loro trasporto, essi sono tenerissimi della sorte degli emigranti: e sarebbe per assicurarne la salute, la sicurezza, l’igiene che vogliono costringerli a viaggiare sui vapori italiani invece che su quelli stranieri. Sono tanto teneri per gli emigranti, che, dopo averli consegnati in balia delle compagnie privilegiate vorrebbero incaricare il commissariato dell’emigrazione di impedire che i noli fossero aumentati e di garantire loro condizioni migliori di igiene, vitto e sicurezza, pretesti insussistenti e promesse fallaci. Che si tratti di pretesti, lo dimostra una preziosa confessione sfuggita alla commissione reale dei servizi marittimi, pure fautrice della nazionalizzazione. «Le navi straniere», leggesi a pag. 193 del IV volume, «addette al trasporto degli emigranti dai nostri porti, in confronto alle nazionali destinate allo stesso servizio, sono, nella media, più recenti, più veloci, di maggiore tonnellaggio; ed il numero di quelle fra esse a doppia elica è superiore al numero di navi italiane. Nel complesso, dunque, sono superiori come unità nautiche». Che le promesse di tenere i noli bassi, malgrado il privilegio alle compagnie nazionali, siano fallaci, lo prova la esperienza recentissima del commissariato dell’emigrazione. Il quale fin d’ora ha la facoltà di fissare il massimo dei noli per il trasporto degli emigranti e non è riuscito ad impedirne il rialzo, nonostante che a capo di esso siano stati posti alcuni fra i migliori uomini che l’Italia potesse vantare. O non è forse una contraddizione stridente e ridevole il creare da una parte un privilegio, ossia favorire la formazione di sindacati, o leghe, o accordi fra gli armatori per rialzare i noli, e poi volere impedire con dei cerotti, che tali sono gli uffici governativi di sorveglianza, quell’aumento dei noli che è l’inevitabile conseguenza del privilegio concesso? Dicasi che si vuol mettere dei bastoni fra le ruote all’emigrazione italiana, dicasi che si vuol rendere il legislatore italiano alleato di quell’ineffabile Gompers, il quale viaggia l’Italia per persuadere gli italiani a starsene nei loro paesi a salari bassi e non andare negli Stati Uniti dove i salari sono alti; aggiungasi che si vogliono costringere i più poveri e disgraziati figli di nostra terra a pagare un tributo esoso (aumento del nolo dovuto al privilegio della bandiera) ad un consorziodi armatori e si sarà sinceri. Non si speri di avere compagni in questa iniquità coloro che badano agli interessi generali del paese.

Non che io non auguri fervidamente alla bandiera nazionale di conquistare magari l’intiero traffico degli emigranti! Ma auguro che ciò accada per virtù sua e non per forza di legge.

La espulsione della bandiera estera dal trasporto degli emigranti va già del resto accentuandosi naturalmente a mano a mano che le navi italiane riescono a pareggiare tecnicamente i potenti piroscafi stranieri.

Ecco nei due anni estremi, 1902 e 1907, contemplati dall’ultima relazione sulle condizioni della marina mercantile italiana (p. 340), le percentuali, per paesi di destinazione, della bandiera italiana e di quella estera nel trasporto degli emigranti.

 

 

Bandiera italiana

Bandiera estera

1902

1907

1902

1907

Brasile

79,8

94,1

20,2

5,9

Plata

71,5

79

28,5

21

Stati Uniti

31,5

42,3

68,5

58,7

Altri paesi oltre oceano

70,4

71

49,6

29

Totale

41,7

52,1

58,3

47,9

Dappertutto, dinanzi all’avanzarsi vittorioso della bandiera italiana, la bandiera estera retrocede. Ed è una bella e grande vittoria, ottenuta senza premi, senza sovvenzioni, creando ardimentosamente una nuova e veloce flotta moderna che è orgoglio dell’Italia marinara. È vittoria contrastata palmo a palmo e non fiaccamente ottenuta dal legislatore ai danni dell’emigrante. La vittoria così ottenuta, e che auguro e son convinto diventerà sempre più sicura e compiuta, è vittoria guadagnata coll’ingegno, coll’audacia e colla lotta; è vittoria che alla lunga dovrà fruttare all’emigrante noli più bassi ed agli armatori profitti più cospicui. La vittoria, strappata col privilegio legale, sarebbe causa di ristagno e di intiepidimento nelle vie del progresso tecnico. Chi si illude possano i progressi tecnici ottenersi da un ufficio di sorveglianza o di sfruttamento dell’emigrante?

Dopo ciò, è mestieri dire ancora il mio giudizio avversissimo alla nazionalizzazione del trasporto del carbone, che da taluni si chiede a grandi grida in aggiunta a quella degli emigranti? Inutile ripetere gli argomenti a sostegno del concetto di concedere alla marina nazionale il privilegio del trasporto del carbon fossile, almeno per le provviste necessarie alle ferrovie di stato, al ministero della marina ed alle altre grandi aziende dello stato consumatrici di carbon fossile. Lo scopo è senza dubbio nobilissimo; ed io auguro fervidamente che gli armatori nazionali sappiano conquistare così utile e proficuo traffico. Lo conquistino con le loro forze e non col chiedere privilegi. Questi darebbero luogo ad un rincaro del prezzo delle merci vendute dagli industriali privilegiati; nel caso nostro ad un aumento del prezzo del carbon fossile. Possono le ferrovie di stato sopportare l’ulteriore aggravio, esse che già costano ai contribuenti italiani qualche centinaio di milioni di lire all’anno? Possono le altre amministrazioni dello stato ingolfarsi sempre più nel pericolosissimo andazzo di pagare merci e servizi ad un prezzo più elevato di quello che il mercato consenta? È onesto che il governo dimentichi in siffatto modo gli interessi dei contribuenti, dei consumatori dei pubblici servizi? Industriali e consumatori di carbon fossile, contribuenti interessati nella gestione al minimo costo delle ferrovie di stato, tutti costoro dovrebbero allearsi nella lotta contro questo supremo attentato che si medita ai loro danni: attribuire agli armatori italiani, ossia ad un sindacato che inevitabilmente si formerebbe tra di essi, il privilegio del trasporto del combustibile delle masse, del pane dell’industria. Il grido d’allarme spero non sarà stato gettato indarno!

 

 

V

Vi è una delle riforme annunciate dal ministero nella organizzazione degli uffici centrali che è destinata ad incontrare il plauso generale ed è l’unificazione dei servizi marittimi alle dipendenze del ministero della marina. La tutela e la sorveglianza sui servizi marittimi era sinora affidata a sei o sette ministeri diversi, i quali amministravano con criteri diversi e spesso contradditori. Non parliamo dei servizi della pesca affidati al ministero di agricoltura, di quelli sui fari e porti dati al ministero dei lavori pubblici, dei servizi sanitari a cui sovraintende il ministero dell’interno, delle concessioni di spiaggie ed esazione di diritti fiscali alle dipendenze del ministero delle finanze, della vigilanza sulle navi addette al trasporto degli emigranti, che è esercitata dal Commissariato dell’emigrazione dipendente dal ministero degli esteri.

 

 

Per alcuni di questi servizi, specialissimi e tecnici, vi sono buone ragioni per ritenere opportuno che se ne occupi quel ministero che sovraintende in generale a quel dato ramo di amministrazione. Se i ministeri in Italia non fossero altrettante potenze sempre in guerra tra di loro e non dessero prove quotidiane della più ridevole ed anarchica indipendenza reciproca, non vi sarebbe danno alcuno a conservare al ministero dell’interno, a quello delle finanze ed al commissariato dell’emigrazione i loro compiti rispettivi, accentrando soltanto i servizi della pesca, che male si può separare dalla navigazione di cabotaggio e quello dei fari e porti, i quali non si possono senza danno disgiungere da quella marina mercantile e militare a cui servono. Il guaio più grosso sta nella distinzione fra la marina mercantile e i servizi marittimi sovvenzionati. La prima costituisce una direzione generale appiccicata al dicastero della marina militare; e poiché essa era relativamente piccola e poco importante aveva finito per essere trascurata. I servizi marittimi sovvenzionati alla loro volta sono appiccicati al ministero delle poste, per lo strano pretesto che si tratta di servizi postali; mentre di fatto la posta è il minore e il meno costoso dei servizi per cui si danno sovvenzioni a certe linee marittime. Con mezzo milione di lire a dir molto, sui 22 o 23 di sovvenzioni, si possono fare tutte le spese dei servizi postali; che anzi sono spesso resi gratuitamente dalle navi, a cui è bastevole ricompensa l’ottenere il privilegio di innalzare il guidone postale italiano. Dal frazionamento di questi due importantissimi servizi nacquero screzi ed ire tra i due ministeri, dei quali l’uno si appresta a dare 22 e più milioni di sovvenzioni e l’altro 8 milioni di premi, l’uno senza saper dell’altro e senza quell’unità di concetto e di direzione che è essenziale in simili faccende.

 

 

Perciò è gran bene che il ministero Sonnino si sia deciso una buona volta a porre termine a un siffatto scandalo anarchico: accentrando, insieme ai minori della pesca e dei porti e fari, i due principali servizi della marina mercantile e delle linee sovvenzionate nel solo dicastero della marina. Nel quale la parte economico-civile della marina mercantile verrà ad acquistare così importanza e dignità quasi uguale a quella della marina da guerra e cesserà di essere una quantità trascurabile. Non vorremmo però che le lotte tra il ministero della marina e il ministero delle poste si perpetuassero, malgrado la unificazione, trasformandosi in lotte e gelosie tra la direzione generale della marina mercantile (8 milioni di premi) e l’ispettorato generale dei servizi marittimi (22 milioni di sovvenzioni da distribuire). Né ad imprimere unità di indirizzo basta l’autorità del ministro e del sottosegretario civile della marina, poiché la forza di resistenza della burocrazia è assai più forte di qualunque forza propulsiva dei ministri. A dare unità di indirizzo è d’uopo rinforzare l’attuale consiglio superiore della marina mercantile, dando ad esso tutte quelle competenze che i disegni di legge sui servizi sovvenzionati affidavano a molteplici nuovi consigli superiori e consigli di vigilanza. Quella dei troppi consigli superiori è una nuovissima piaga italiana, creata apposta per aumentare la confusione delle lingue e moltiplicare le necessità di pareri inutili a tirare in lungo le pratiche. Speriamo che il governo sappia, prendendo l’occasione dell’unificazione dei servizi marittimi, unificare anche in uno solo, sia pure diviso in sezioni, i consigli che a tali faccende oggi presiedono.

 

 

Sembra accettabile la seconda riforma, che si annuncia voluta dal ministero, voglio dire l’istituzione del ministero delle ferrovie. L’azienda delle ferrovie di stato ha un bilancio a cui non giunge nessun dicastero italiano, e presenta problemi così complicati che debbono necessariamente assorbire l’attenzione intiera di un ministro. Poiché il direttore generale delle ferrovie di stato non può venire alla camera a difendere i suoi progetti, né può assumersi la responsabilità politica della gestione ferroviaria, può reputarsi conveniente che vi sia un ministro particolare che di quella gestione sia il rappresentante dinanzi alla camera e studi le riforme che nell’interesse pubblico devono essere attuate.

 

 

Alla riforma non sono mancate però le critiche e gravi: il ministro delle ferrovie invero, si è detto, non servirebbe ad altro che a trasformare in un’azienda politica quella che è od almeno dovrebbe essere soltanto un’azienda industriale. Insieme col ministro entrerebbero nelle ferrovie il favoritismo di parte, l’inframmettenza parlamentare, sicché i risultati, già cattivi oggidì, delle ferrovie di stato, diventerebbero addirittura disastrosi.

 

 

Nelle quali critiche c’è qualcosa di vero; quantunque non possa affermarsi che oggi il ministro dei lavori pubblici, da cui le ferrovie dipendono, per il solo fatto di chiamarsi così e non ministro delle ferrovie, debba essere meno atto a subire le inframmettenze politiche e parlamentari. Piuttosto le critiche devono essere utilizzate nel senso che la creazione di un ministero delle ferrovie debba essere cagion di bene e non fonte di male. All’uopo gioverebbe l’osservanza di talune regole, che potrebbero anche essere formulate nel modo seguente:

 

 

  • Il ministro delle ferrovie non dovrebbe avere, di fronte all’azienda delle ferrovie di stato, altre competenze ed autorità di quelle che ha oggi il ministro dei lavori pubblici. Le competenze e l’autorità del ministro, del consiglio di amministrazione e del direttore generale devono rimanere, salvo le variazioni consigliate da considerazioni industriali, quelle stabilite nella legge fondamentale che disciplina le ferrovie di stato. Il ministro delle ferrovie potrà esercitare meglio l’autorità sua importantissima nelle faccende più gravi, delegata a lui dalle vigenti leggi, non essendo la sua attenzione frastornata da altri compiti; ma non dovrà potere amministrare direttamente l’azienda delle ferrovie di stato, così come gli altri ministri dirigono direttamente le cose del loro ministero. Se così fosse, avrebbero ragione i critici e la creazione del ministero delle ferrovie sarebbe un pericoloso salto nel buio. Ma non vi è nessun motivo perché l’istituzione del nuovo ministero significhi altresì la distruzione di quel piccolo residuo di autonomia che ancor rimane all’azienda ferroviaria.
  • Il ministro delle ferrovie non dovrebbe avere sottosegretario. L’istituzione dei sottosegretari è una funesta conseguenza del parlamentarismo né si vede che cosa starebbe a fare un sottosegretario nel ministero delle ferrovie. O non c’è forse il direttore generale delle ferrovie, che dovrebbe essere il vero sottosegretario, tecnico e permanente, del ministro? Prendiamo una buona volta la palla al balzo e facciamola finita con questa ombra di vice-ministri, la cui funzione amministrativa è nulla e di cui è dannosa la mala influenza politica! Sarebbe la più bella prova che, creando il ministero delle ferrovie, non si è voluto far opera di politica, ma unicamente di saggia amministrazione. Gli aspiranti all’alta carica potranno consolarsi pensando che, d’or innanzi, il ministro della marina avrà bisogno di due sottosegretari, uno militare, per la marina da guerra, e l’altro civile, per la marina mercantile.

 

 

Cattiva, anzi pessima, sembra finalmente l’ultima proposta di dividere il ministero di agricoltura, industria e commercio in due ministeri, l’uno dell’agricoltura e l’altro dell’industria e del commercio. Finora questo disgraziato ministero aveva di buono poco più del nome e del concetto informatore. Il nome diceva che in Italia si era pensato ad istituire un organo che avesse la funzione di propulsore del progresso economico e sociale del paese. Coll’aggiunta dell’ufficio del lavoro, il ministero, che fu anche chiamato dell’economia nazionale, si era completato in guisa che bene si poteva affermare essere destinato a promuovere il progresso dell’economia italiana sotto tutti i suoi rispetti, della terra e delle fabbriche, dei commerci interni ed internazionali (onde è augurabile l’aggregazione ad esso dell’ufficio trattati e legislazione doganale, finora esistente presso il ministero delle finanze), del capitale e del lavoro. In fatto, dopo un iniziale magnifico periodo di operosità, all’epoca dei Minghetti, dei Luzzatti, dei Bodio, il ministero di agricoltura, industria e commercio era andato decadendo. Era una decadenza dovuta alle circostanze, alle persone, all’essere sempre stato considerato come un dicastero di secondaria importanza, a cui venivano preposte persone talvolta prive di autorità e di competenza. Mettasi invece alla testa di esso un uomo superiore, come per fortuna si è fatto adesso con la nomina del Luzzatti, ed il ministero tornerà a fiorire. La direzione generale di statistica tornerà a fare delle statistiche, si provvederà a fare nel 1911 il censimento (chi se ne ricorda ormai del censimento e della necessità di prepararsi a farlo ed a farlo migliore e più ricco di quello del 1901?), si provvederà con alacrità ad affrontare la questione forestale, non si presenteranno più balordissimi disegni di legge, come l’ultimo sulle borse, ecc. ecc. È questione di uomini, non di sdoppiamento di ministeri; ed è assurdo che si voglia sdoppiare il ministero, proprio oggi che si è trovato the right man in the right piace.

 

 

Che vantaggio porterà il frazionamento del ministero in due? Nessunissimo, mentre invece i danni paiono molti. L’agricoltura tende a diventare sempre più industriale, ed i suoi rapporti coll’industria tendono a diventare sempre più stretti. Si pensi ai rapporti fra la coltivazione delle barbabietole e le fabbriche di zucchero; fra la viticultura e l’industria dell’alcool; si rifletta ai voti per la utilizzazione industriale degli agrumi, all’importanza del rimboschimento per l’industria cartaria. Voler separare l’agricoltura dall’industria è un controsenso dannoso sovratutto all’agricoltura.

 

 

Peggio per i rapporti tra agricoltura e commercio. Forseché gli agricoltori non vendono i loro prodotti, non hanno bisogno di trattati di commercio, di adatte tariffe ferroviarie? Peggio ancora per i rapporti fra agricoltura e lavoro. Forseché l’agricoltura non deve risolvere problemi del lavoro, di infortuni, di assicurazioni contro la grandine, di colonizzazione interna, di collocamento stagionale di mano d’opera? L’unico frutto della creazione di uno speciale ministero dell’agricoltura sarà la moltiplicazione di quei doppioni che, ben a ragione, l’on. Luzzatti ha tanto combattuto nell’economia privata e pubblica del paese. Il ministero dell’agricoltura, appena creato, vorrà un proprio ufficio del lavoro, per tutti i problemi attinenti al lavoro agricolo; vorrà un proprio ispettorato della previdenza, per le assicurazioni agricole; vorrà un proprio ufficio dei trattati e legislazione doganale, per studiare le questioni relative all’importazione ed esportazione di derrate agrarie. Se questo si vuole, se si vogliono moltiplicare i ministeri per collocare i fidi seguaci dei capi-partito al posto di ministro e di sottosegretario e per aver modo di crescere vieppiù la già troppo numerosa burocrazia italiana, facciasi pure il nuovo ministero di agricoltura. Non il pensiero del vantaggio del paese, ma quello della clientela politica avrà presieduto a siffatta inutile creazione.

 

 


[1] Con il titolo I nuovi progetti di convenzione. Appunti e rilievi. [ndr]

[2] Con il titolo I premi alla marina mercantile. [ndr]

[3] Con il titolo I nuovi metodi di protezione alla marina mercantile. [ndr]

[4] Con il titolo I nuovi metodi di protezione alla marina mercantile. La nazionalizzazione del trasporto degli emigranti e del carbone. Ristampato col titolo I nuovi metodi di protezione alla marina in II buongoverno, Laterza, Bari, 1954, pp. 370-376. [ndr]

[5] Con il titolo La unificazione dei servizi marittimi e la creazione dei nuovi ministeri.[ndr]

[6] La parola nazionalizzazione è qui usata in un significato diverso da quello oggi comunemente invalso: e vuol dire privilegio alla bandiera nazionale del trasporto degli emigranti e del carbon fossile.

Il chinino di stato

Il chinino di stato

«Corriere della Sera», 14 e 28[1] settembre 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 762-768

 

 

I

Sorta fra diffidenze non lievi ed osteggiata da alcuni interessi che si reputavano lesi, l’azienda del chinino di stato si è in pochi anni magnificamente affermata. L’ultima relazione, da poco pubblicata, sull’esercizio finanziario 1907-908 è tutta una dimostrazione di splendidi risultati raggiunti. In quell’anno i redditi dell’azienda salirono a 2.011.101 lire, quasi in tutto dati dalla vendita del chinino. Le spese ammontarono a lire 1.606.110 (di cui 1.414.387 lire per acquisto dei sali e loro lavorazione, 80.673 lire spese d’ufficio, di personale e di trasporti, 110.936 lire aggio sulle vendite, e 113 lire registri e stampati), da cui debbono detrarsi 295.070 lire spese per aumento delle dotazioni dell’azienda, che andarono a crescere il patrimonio, risultando l’effettivo costo industriale dei prodotti venduti in 1.311.039 lire. Il beneficio netto risulta quindi in ben 700.062 lire, che unite alle 462.890 di utile del 1906-907, alle 293.295 del 1905-906, alle 183.382 del 1904-905, alle 183.038 del 1903-904 ed alle 34.270 del 1902-903 (quale crescendo di utili!) andarono a favore del fondo destinato a combattere le cause della malaria. Questo fondo, che al 30 giugno del 1908 saliva così alla bella cifra di 1.856.940 lire, era già stato utilizzato per 661.359 lire in varie maniere di sussidi a comuni e ad istituzioni di beneficenza, risultando a quella data una rimanenza disponibile di 1.195.580 lire.

 

 

La vendita complessiva di prodotti chinacei fu nell’esercizio 1907-908 di kg 24.351 di cui, venduti a prezzo ordinario per il pubblico kg 7.590, a prezzo di favore per la gratuita somministrazione kg 14.104, ceduti a titolo di sussidio kg 2.444 e venduti per l’esportazione kg 212. Né l’incremento delle vendite governative sembra sia stato di danno all’industria privata; poiché questa nel 1898 e 1899, prima dell’istituzione dell’azienda, importava dall’estero da 15 a 16.000 chilogrammi all’anno di sali di chinina; e nel 1907 e 1908 le importazioni dall’estero salirono in tutto a 36 ed a 78.000 kg, da cui detraendo i 22 e i 61.000 kg acquistati dallo stato, rimangono pur sempre da 14 a 17.000 kg a disposizione dell’industria privata, suppergiù la stessa quantità importata nel 1898 e nel 1899. Segno questo che l’azienda di stato si è creata, con la propaganda indefessa e col buon mercato una clientela propria, che disgraziatamente dovrà ancora aumentare, essendo ben 2.700 in 8 provincie i comuni italiani che hanno zone malariche.

 

 

A capo delle province consumatrici sta quella di Roma con un consumo medio per abitante di grammi 4,02. Occorre notare però che in queste cifre sono comprese le quantità vendute all’amministrazione ferroviaria, la quale, da Roma, irradia in tutta Italia il chinino acquistato per il consumo del personale dipendente. Pur deducendo i 1.605 kg venduti alle ferrovie, rimane per la provincia di Roma un consumo medio per abitante di grammi 2,78, superato solo dai grammi della provincia di Foggia. Seguono Sassari con 2,38, Trapani con 1,87, Girgenti con 1,76, Catanzaro con 1,70, Potenza con 1,63, Cagliari con 1,61, Rovigo con 1,51, Siracusa con 1,42, Pavia con 1,36, Grosseto con 1,32, Caltanissetta con 1,31, Lecce con 1,14, Venezia con 1,12 e Mantova con 1 grammo. Tutte le altre province hanno un consumo inferiore ad 1 grammo, sino a Massa Carrara che dà un consumo di soli 7 milligrammi a testa. Il consumo è aumentato in 33 province; prima di tutte quella di Catanzaro con 831 milligrammi per abitante in più; rimase invariato in una e diminuì lievemente nelle altre 35. La diminuzione più forte si è verificata in provincia di Grosseto, da 1,80 ad 1,32 grammi a testa; diminuzione però lietissima perché si deve attribuire alla diminuita intensità del morbo. I casi di malaria curati nell’ospedale di Grosseto da 1696 nel 1900 diminuirono infatti a 1.219 nel 1901, a 904 nel 1902, a 643 nel 1905, a 217 nel 1906 ed a 168 nel 1907.

 

 

La cifra, piccola in se stessa, di kg 212 venduti per l’esportazione, mette in luce la tendenza nuova e confortante dell’azienda governativa a diventare esportatrice. Già le aziende del sale e dei tabacchi hanno iniziato la conquista dei mercati esteri. Ora è la volta dell’azienda del chinino. I risultati veramente notevoli, ottenuti in Italia coll’applicazione della legislazione sulla malaria e sul chinino di stato, hanno avuto anche all’estero un’eco che non ha mancato di apportare buoni frutti. Altri paesi funestati dal morbo palustre, ove sino ad oggi nella lotta antimalarica non era direttamente intervenuto lo stato, con un’azione di profilassi chininica, hanno plaudito all’iniziativa italiana, studiandone il funzionamento e ripromettendosi di imitarne l’esempio. Così, per prima, la Grecia, modellata un’apposita legge su quella italiana ed ottenutane l’approvazione dal parlamento, richiese al governo italiano ed ottenne di potere acquistare in Italia i prodotti di chinino necessari all’applicazione di quella legge. E per questo primo anno si è avuta una richiesta di 6.000 kg ceduti ad un prezzo specialissimo. Anche l’isola di Creta ha preannunciato l’approvazione, per parte del suo parlamento, di una legge antimalarica per la cui attuazione ha già chiesto i nostri prodotti di chinino. È un nuovo campo di diffusione che s’apre al chinino governativo, ed è altresì una novella conferma della bontà dei nostri prodotti.

 

 

Di fronte ai quali magnifici risultati sembra inspiegabile il recente voto del consiglio superiore di sanità pubblica perché sia avocato allo stato il monopolio del chinino. Noi non sappiamo quali siano i motivi, punto chiariti nei giornali, che riportarono quel voto e le discussioni relative; e supponiamo trattarsi di una delle solite proposte della amministrazione (a cagion di lode è doveroso notare che il voto non è partito dalla direzione delle privative, ma da quella della sanità pubblica), la quale non sa persuadersi che altri possa fare qualche cosa contemporaneamente. allo stato, e non contenta di fare il bene, vorrebbe avere il monopolio del bene. In verità la proposta di monopolio è pericolosa nell’interesse medesimo del fine sociale che si vuole ottenere. Se tanti progressi ha compiuto la vendita del chinino di stato fatta in concorrenza coi privati, non dobbiamo rallegrarcene e sentirci stimolati a fare sempre meglio, senza bisogno di ricorrere al monopolio? La vendita dà utili larghi, rapidamente crescenti e tali da bastare ai fini altissimi della lotta antimalarica. La concorrenza dei privati è pungolo all’azienda governativa che, per non essere sopraffatta, cerca di raddoppiare di zelo. Qual danno che stato e privati si facciano concorrenza nel vendere un prodotto così utile? Il monopolio addormenterebbe, è da temere fortemente, le energie governative e finirebbe di trasformare l’azienda in un congegno fiscale, il quale non tornerebbe a favore del tesoro, ma del fondo per la lotta antimalarica. Non vi sarebbe a fare alcuna meraviglia se questo fondo, ora già largo, crescendo ancora non andasse più devoluto ai fini suoi propri ma servisse ad ospitare una crescente schiera di nuovi funzionari: gli specialisti della malaria. È il destino proprio dei fondi autonomi, che hanno entrate obbligatorie, non dovute allo sforzo continuo di lavoro utile. Troppo istruttiva è l’esperienza in tal campo per non dovere far l’augurio che l’azienda del chinino di stato consegua altre vittorie mercé le forti iniziative sue e non sia costretta ad intorpidirsi all’ombra del monopolio.

 

 

II

 

Dall’ing. Solmann Bertolio, professore del Politecnico di Milano, riceviamo la seguente lettera:

 

 

Signor direttore,

 

In un articolo, comparso giorni sono sopra questo periodico, si facevano larghi elogi allo svolgersi dell’azienda, così chiamata dall’articolista, del chinino dello stato. Questo prodotto è troppo importante per l’economia nazionale, per non considerarlo un po’ da vicino, e per non esaminare i risultati dell’azienda che lo fornisce.

 

 

Questi, a mio parere, sono tutt’altro che largamente encomiabili, poiché l’azienda non è ai suoi primi passi, ma conta già più anni di vita. Nello scorso anno, attingo i dati dal sopraricordato articolo, la produzione dei sali di chinina dello stato fu di 24.351 kg e diede oltre 700.000 lire di utile. Non v’ha chi non veda:

 

 

  • che la produzione, ossia il consumo, del chinino è ben esiguo di fronte all’enorme importanza che, disgraziatamente, da noi ha il problema malarico;
  • che gli utili conseguiti dall’azienda del chinino di stato, sono fuori di ogni proporzione, per rispetto all’esigua produzione ottenuta. Con una spesa, infatti, di lire 1.414.387 si realizzarono 700.063 lire di beneficio!

 

 

Quale la conseguenza? Che il chinino è ancora enormememte caro e quindi se ne consuma poco, troppo poco. Se la fabbricazione del chinino dello stato è considerata come azienda commerciale, essa è indubbiamente fiorente, come poche lo sono. Ma non per merito suo, ché la legge contro la malaria impone agli enti, ai comuni, agli imprenditori, agli industriali, agli agricoltori delle regioni malariche, di acquistare e di somministrare gratuitamente ai propri dipendenti il chinino dello stato. Ogni altro chinino, agli effetti della legge, non ha valore. È quindi una industria, quella del chinino dello stato, ben protetta; che economicamente non può non essere prospera. Ma alla prosperità dell’azienda del chinino dello stato, non può aver mirato il legislatore, che sarebbe in antitesi collo scopo della legge.

 

 

Quale miglior modo di aumentare l’efficacia della lotta contro la malaria, di quello di estendere ed intensificare la distribuzione del chinino? Ed il modo migliore di estendere l’uso del chinino è di darlo a basso prezzo. L’utile vistoso, quindi, dell’azienda del chinino dello stato, è a completo detrimento della lotta antimalarica, qualunque destinazione abbiano gli utili dell’azienda stessa.

 

 

E si badi qui di non cadere in equivoco. I 24.351 kg di sali di chinina prodotti l’anno scorso, furono ottenuti con la spesa di lire 1.414.387: il chinino quindi, in media, costò lire 60 al kg. Ne furono dati gratuitamente 2.444 kg, pari quindi ad una somma di 16.640 lire in tutto. Ma la spesa di fabbricazione dei 2.444 kg di chinino dati per beneficenza, figura in bilancio, per cui essa non grava le 700.000 d’utili, che sono netti: questi utili rappresentano circa 10.000 kg di chinino sottratti alla profilassi.

 

 

Il costo medio di fabbricazione dei sali di chinina, ottenuti dalla farmacia militare di Torino, che è la fabbrica dell’azienda del chinino dello stato, è, come detto, di lire 60 al kg. Ora in commercio sono pochissimi i sali di chinina che hanno tale prezzo elevato. Il bisolfato, che costituisce quasi l’intera produzione dello stato, si compra purissimo dalla Germania a 35 lire il kg, comprese 5 lire di dogana. In Germania, quindi, al produttore, costerà circa 20 lire: da noi costa il triplo. L’anno scorso furono concessi a prezzo di favore kg 14.104 di sali di chinina: supponiamo che siano stati venduti al costo: sono 846.240 lire che i benemeriti della profilassi malarica sborsarono. Colla stessa somma, se l’azienda del chinino di stato funzionasse come una fabbrica tedesca, si sarebbe dato il triplo di chinino.

 

 

Questi 14.104 kg di chinino non portarono però all’azienda alcun beneficio. Chi adunque pagò le settecentomila lire di utili? Ahimè, l’articolo citato dice che 7.590 kg di sali di chinina furono venduti a prezzo ordinario al pubblico, disgraziato pubblico febbricitante!

 

 

La profilassi malarica richiede nel nostro paese chinino in abbondanza, e poiché la spesa relativa è accollata interamente ai disgraziati che vivono nelle regioni malariche, si cerchi almeno che la spesa ottenga il maggior effetto utile possibile. Una azienda economicamente ben condotta e moralmente intesa, nel senso che producesse a buon mercato e senza utili, avrebbe dato l’anno scorso, con le 2.011.101 lire spese, non 24.000 kg soli di chinino, ma forse 100.000 kg alle nostre popolazioni stremate dalla febbre, e per la profilassi sarebbe ancor poca cosa.

 

 

Pare, invece, che da noi non si comprenda bene la nobilissima lotta contro la malaria, flagello che insidia tanta parte del nostro paese, che demolisce le nostre popolazioni e che sembrerebbe carità patria combattere con ogni acume, da un punto di vista elevato, disinteressato, anzi profondendo magari capitali, come si fa per l’eventuale difesa da un nemico tangibile, con la differenza che, mentre queste ultime spese sono, comunque, a fondo perduto, quelle dedicate a combattere la malaria saranno poste a frutto, perché ritornerebbero al paese a mille doppi dal lavoro di una popolazione cui fu ridata la salute.

Prof. BERTOLIO

 

 

Le considerazioni svolte dal prof. Bertolio sono certo assai importanti e valgono a dimostrare che l’azienda del chinino di stato, che ha già fatto del bene, potrebbe farne assai di più. Essa ha fatto del bene, perché ben può darsi che il prezzo di costo dei sali di chinina sia per lo stato di 60 lire , mentre il prezzo dei sali di chinina in commercio è assai inferiore. Ma questi sono prezzi all’ingrosso. Per i prezzi al minuto le cose sembra volgano diversamente: poiché il chinino di stato si può acquistare ad un prezzo inferiore a quello a cui i farmacisti facevano le gare – e farebbero ancora adesso pagare senza il calmiere governativo – il chinino di fabbricazione privata. È certo eziandio che il bene potrebbe aumentare assai quando l’azienda del chinino di stato riuscisse a produrre i sali di chinina ad un costo uguale a quello dei privati, o non riuscendo a tanto, si limitasse a comprarli a basso prezzo. Per raggiungere un siffatto intento non solo è necessario che il chinino di stato non venga eretto in monopolio, come vorrebbero i medici del consiglio superiore di sanità, ma sarebbe utilissimo che al chinino di stato venissero tolte quelle prerogative di cui esso gode per la vendita nelle zone di malaria. In tal modo, assillata dalla concorrenza, l’azienda governativa dovrebbe ridurre i prezzi; e se essa non potrebbe più vantare utili cospicui, da destinare alla propaganda: farebbe l’ottima delle propagande che è, come bene nota il Bertolio, il basso prezzo.

 

 


[1] Con il titolo Intorno al chinino dello stato. [ndr]

Nuove tasse «simpatiche»: la tassa di bollo per i titoli esteri

Nuove tasse «simpatiche»: la tassa di bollo per i titoli esteri

«Corriere della Sera», 14 agosto 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 756-761

 

 

Quando corsero, di recente, voci di studi in corso al ministero delle finanze per l’applicazione di nuove tasse atte a far fronte alle crescenti spese dello stato e ad impedire il ritorno del disavanzo, quelle voci furono autorevolmente smentite; poiché, si osservò, il bilancio italiano non è in disavanzo e l’incremento delle spese pubbliche sarà contenuto con parsimoniosa cura entro i limiti segnati dall’incremento naturale delle entrate. Consolanti smentite per il contribuente, che già prevedeva un novello salasso alla borsa, ed ottimi propositi, che è da augurarsi siano seguiti dai fatti. Purtroppo però l’esperienza prova che i parlamenti sono inetti a costruire validi argini contro la marea crescente delle spese pubbliche: gli armamenti cresciuti, gli organici ampliati dei funzionari, il miglioramento dei loro stipendi, le assicurazioni e le elemosine sociali, ecc. ecc., cospirano perennemente contro la quiete del contribuente. In Francia, in Germania, in Inghilterra i ministri del tesoro hanno dovuto chiedere al paese ingenti sacrifici di nuove imposte per sopperire ai carichi dei bilanci della difesa territoriale e della pace sociale. La lotta per la integrità e la espansione della patria e la lotta contro la miseria costano assai; e sarebbe stranissimo che soltanto l’Italia avesse a sottrarsi all’universale tendenza di tutti i popoli ad aumentare le imposte.

 

 

Tanto meno facilmente vi si sottrarrà ove si pensi che i finanzieri hanno escogitato la formula nuovissima che si può chiamare delle «tasse simpatiche», riuscendo così a superare quella repugnanza naturale che nei tempi trascorsi la comune degli uomini sentiva per le gravezze fiscali. Una volta, quando i governi assoluti tentavano di imporre qualche nuovo balzello, erano rivolte od almeno fierissime opposizioni che finivano magari nella concessione di franchigie, di statuti, di carte costituzionali in cambio del consenso strappato alle nuove imposizioni. Adesso, non si è visto forse costituirsi in Inghilterra una potente lega allo scopo di patrocinare in comizi giganteschi l’attuazione dei non pochi né lievi tributi proposti nel bilancio del cancelliere dello scacchiere, Lloyd George? Egli è che le tasse nuove sono «simpatiche» ai più che non le pagano e si illudono di non avere a subire alcun danno dalla loro esistenza. Nelle democrazie moderne, un governo il quale abbia bisogno, per una buona o per una cattiva causa, di entrate cresciute è certissimo di procacciarsi plauso proponendo imposte le quali colpiscano, in realtà od in apparenza, la minoranza degli elettori, ossia l’alta banca, la borsa, il grande commercio, i trusts di produttori, i proprietari di case. Simpaticissime sono poi quelle imposte che colpiscono il capitale straniero o quello nazionale il quale cerchi impiego all’estero; poiché non solo esse procacciano il plauso delle masse, ma eziandio quello dei capitalisti nazionali, i quali temono la concorrenza del capitale straniero o desiderano ottenere a prestito quel capitale nazionale che si ostina a cercar miglior fortuna all’estero.

 

 

Si spiega in tal modo come da noi non abbia destato alcun fervore di contrasto nel pubblico l’approvazione, silenziosamente avvenuta nelle ultime tornate di luglio, di un progetto di legge sulle «tasse di bollo da applicarsi ai valori o titoli stranieri», primo e timido saggio di quelle tasse «simpatiche» che il ministero delle finanze, malgrado ogni smentita, cercherà negli anni venturi di inserire, gemme preziose, nella raccolta delle leggi fiscali italiane.

 

 

È questa una tassa la quale – spiegava candidamente il relatore on. Falletti alla camera dei deputati – ha per iscopo di «impedire che parte della ricchezza mobiliare nel nostro paese sfugga a qualsiasi imposta e che sia menomato il principio sancito dall’articolo 25 dello statuto, secondo il quale tutti i regnicoli contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello stato, di eliminare una facilitazione fiscale, non giustificata, che rende più agevole al capitale italiano di emigrare all’estero, di attuare quindi per i titoli esteri di stato, di enti locali o di società civili e commerciali, nel regno, per quanto si riferisce alle tasse, un trattamento analogo a quello in vigore per i nostri titoli all’estero». O non è forse vero che in Francia i titoli di rendita, prestiti od altri effetti pubblici stranieri assolvono una tassa di 2 lire per ogni 100 lire di valore nominale? E se questo è vero e se negli stati più ricchi i titoli stranieri sono universalmente colpiti con non esigue tasse di bollo, perché nella sola Italia i titoli stranieri potranno liberamente essere negoziati senza assolvere quelle tasse a cui sono soggetti i titoli nazionali? Grave è il pericolo dell’esportazione di capitali dall’Italia in cerca di investimenti stranieri e non dubbio è il danno, già una volta verificatosi, per la stabilità del cambio. Di qui l’opportunità, anzi l’urgenza – così afferma ancora il relatore della camera – di non perdere tempo e di colpire subito con una tassa di bollo di una lira per ogni 100 lire di valore nominale i titoli di rendita, le obbligazioni e gli altri effetti pubblici emessi da stati esteri, ad eccezione dei buoni del tesoro emessi da stati esteri con scadenza inferiore ad anni cinque; e di due lire per ogni 100 lire di valore le azioni, le obbligazioni, i titoli di prestiti di qualsiasi specie emessi da comuni o provincie di stati esteri o da società commerciali o da corporazioni o da qualsiasi istituto straniero.

 

 

Ad impedire le frodi, è detto che i titoli esteri non regolarmente bollati non possono essere esposti in vendita, ceduti, dati in deposito o a titolo di pegno, né formare oggetto di qualsiasi operazione, tanto nelle borse di commercio, che presso le stanze di compensazione, banche, istituti e privati. È pure vietata l’enunciazione dei titoli suddetti, che non abbiano scontato la tassa di bollo, in atti e scritti pubblici e privati, eccettuati gli inventari. Ogni contravvenzione alle disposizioni della legge sarà punita con la pena pecuniaria di venti volte la tassa non pagata, a carico dei possessori e di ciascuna delle persone che hanno preso parte, anche come semplici intermediari, ad un’operazione qualsiasi sopra titoli esteri non bollati, ancorché si tratti di semplice servizio di cassa per rimborsi o pagamento di interessi. La pena pecuniaria non sarà mai minore di lire trenta.

 

 

Eguale pena sarà applicabile a coloro che espongono in vendita, o enunciano in atti o scritti, titoli esteri non bollati, ai notai ed agenti di cambio, agli ufficiali e funzionari pubblici, ai giudici, cancellieri ed ufficiali giudiziari per ciascuna contravvenzione cui abbiano preso parte.

 

 

È forse necessario di dire che questa grida contro i valori stranieri, per quanto accolta con compiacimento dalla maggior parte della stampa finanziaria, è destinata a rimanere lettera morta e dimostra soltanto la scarsa valutazione della convenienza degli investimenti in titoli stranieri? L’Italia non è, come la Francia o l’Inghilterra, un paese dove sia oramai antica la consuetudine di investire capitali all’estero; e dove quindi una tassa nuova sui titoli stranieri possa essere accolta senza perturbare il mercato dei titoli stessi. In Francia, è interesse degli stati e degli enti stranieri far bollare parte dei titoli, che essi emettono, allo scopo di poter sfruttare il larghissimo mercato francese. Di solito i prestiti stranieri vengono anzi emessi in serie separate, una da collocarsi in Francia, l’altra in Inghilterra, la terza in Svizzera, la quarta in Germania, ecc. Ogni serie è sottoposta al bollo dello stato in cui viene emessa ed in cui soltanto circola in via normale. Siffatta pratica è possibile perché gli stati e gli enti emittenti godono già in Francia, in Inghilterra un largo credito, hanno il seguito di una fidata clientela e sono sicuri che quella tal massa di titoli rimarrà nel paese di emissione, e non dovrà pagare, ad ogni stormir di foglie, un nuovo diritto di bollo per essere venduta a capitalisti di un paese diverso da quello dove fu originariamente bollata.

 

 

Qual è, ora, quello stato o quell’ente straniero che vorrà venire a fare una emissione di suoi titoli in Italia? Probabilmente le camere di commercio e il governo rifiuterebbero persino di concedere la quotazione del titolo nelle nostre borse; e se pur la concedessero, il mercato offerto dal risparmio italiano è così esiguo che a quegli stati od enti non converrebbe sicuramente di pagar la tassa di bollo nell’incertezza di trovare una clientela nostrana costante.

 

 

Se è improbabile che la tassa di bollo abbia ad essere pagata in occasione di emissioni di nuovi titoli stranieri, spera forse il fisco italiano di colpire quei titoli stranieri che tuttodì sono privatamente acquistati dai capitalisti nostrani? La grida è invero solenne e terribile: multa di venti volte la tassa per ogni contravvenzione, solidarietà dei venditori, acquirenti, banche, agenti di cambio, notai, ufficiali e funzionari pubblici che siano intervenuti comunque nei negozi riflettenti i titoli stranieri non bollati: divieto di enunciazione, di vendita, di deposito, di pegno per questi titoli e via dicendo. Parole grosse, che non condurranno a nessun risultato. O meglio, condurranno a questo solo risultato: che i titoli stranieri non potranno essere negoziati pubblicamente, che gli istituti di credito non potranno farne pubblica propaganda presso la clientela minuta, specie della provincia, che non sarà possibile ottenere su quei titoli anticipazioni dalle banche italiane nelle forme volute dalla legge. E con ciò? Si sarà impedito ai piccoli capitalisti, sempre diffidenti e paurosi, l’acquisto di qualche lotto di rendita forestiera, e non si potrà formare in Italia quel largo mercato in titoli esteri, che è la condizione necessaria affinché una tassa sia produttiva e sia pagata. Ma non si impedirà menomamente ai grossi capitalisti i quali finora sono i soli che abbiano l’abitudine di comprare titoli stranieri di seguitare a comprare ed a tenere, nulla pagando, quanti titoli stranieri vorranno. I grandi istituti di credito si rifiuteranno agli acquisti? Ci sono moltissimi banchi privati che ben volentieri si incaricheranno della bisogna. Nessun banchiere od agente di cambio italiano oserà, per ipotesi inverosimile, farla al fisco, per quanto si tratti di cosa facilissima? Niente vieta al capitalista di rivolgersi al corrispondente straniero di quel medesimo banchiere o ad una delle tante solidissime banche francesi e svizzere che si occupano di collocare titoli. Non sarà possibile ottenere anticipazioni in Italia sui titoli non bollati? E i titoli si daranno a riporto a Parigi, magari ad un interesse più mite.

 

 

A pensarci bene, la nuova tassa sui titoli stranieri, la quale avrebbe potuto essere istituita con successo fra venti anni, quando l’Italia fosse divenuta una nazione creditrice, è destinata ora a convertirsi in una multa che colpirà alla cieca quei disgraziati che per una qualunque ragione non saranno riusciti a sfuggire al fisco. Se le tasse debbano essere imposte non perché siano pagate in via normale, ma perché siano esclusivamente assolte nei casi di infortunio fiscale, lascio giudicare agli uomini di buon senso. Che, economicamente, sia opportuna una legislazione la quale vieta alle piccole borse investimenti che possono essere altamente proficui al paese ed agli investitori, la quale soffoca sull’inizio la formazione di quel largo mercato dei titoli stranieri che è il presupposto primo ed indispensabile di una tassazione fiscalmente feconda; e riserva gli acquisti di titoli stranieri precisamente a quei grossi capitalisti che si vorrebbero colpire; che, ripeto, una legislazione siffatta sia economicamente ragionevole, parmi assurdo sostenere.

 

 

Un augurio perciò vogliamo fare: che negli studi di rimaneggiamenti fiscali alacremente condotti innanzi dal ministero delle finanze si tenga di mira questo punto essenziale: che è opportuno rendere le tasse (qui si parla del gruppo delle tasse sugli affari, ma il ragionamento potrebbe essere esteso anche alle imposte sui redditi e sui consumi) meglio perequate in guisa da togliere il gravame eccessivo ora esistente per le piccole contrattazioni; ma questo fine ragionevole deve essere subordinato ad una condizione essenziale: che la ricchezza non sia soffocata in sul nascere, che la tassa non distrugga la materia stessa imponibile. Alla fine del 1907, sotto il pungolo della crisi economica, il legislatore italiano si inoltrò con coraggio sulla giusta via, riducendo alla metà e più le tasse sulle cambiali e sulle anticipazioni; e dell’audace e benefica riforma già si vedono i frutti nel crescere della materia imponibile. Perché ora, con la tassa di bollo sui titoli stranieri, si è battuta una via radicalmente contraria, e, volendosi colpire con una tassa gravosa i titoli stranieri che finora da noi esistono solo sporadicamente, si vuol vietare che essi siano importati in abbondanza, in modo che valga poscia la pena di colpirli?

 

 

Le convenzioni marittime sono necessarie?

Le convenzioni marittime sono necessarie?

«Corriere della Sera», 28 giugno, 6[1], 7[2] e 12[3] luglio 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 735-755

 

 

I

Il dibattito che intorno alle convenzioni marittime si accese vivissimo e si prolunga tuttavia non fu infecondo di risultati vantaggiosi a pro dell’erario. Così come è uscito dai lavori della commissione parlamentare, il disegno di legge sfugge ad alcune delle più gravi critiche che erano state mosse alla sua primitiva redazione. Si era rimproverato sovratutto al progetto di imporre allo stato alee troppo forti, sia per la garanzia di interessi al capitale della società, concessionaria per tutti i 25 anni, sia per la determinazione della sovvenzione nel secondo e definitivo periodo ventennale, in cui essa doveva risultare dalla differenza fra le spese e le entrate effettive nel primo periodo quinquennale di esperimento. Calcolo complicato, aleatorio, prestante facile appiglio a divergenze notevoli di apprezzamento di alcune partite di spese nel secondo periodo. A questi essenziali difetti la commissione parlamentare ha posto riparo:

 

 

  • limitando la garanzia di interessi – a cui viene cambiato nome, chiamandola «integrazione di sovvenzione» per far meglio risaltare il concetto che lo stato non garantisce il capitale azionario – al massimo del 15% della sovvenzione nel primo periodo provvisorio (invece che al 20%), nel caso che gli utili sociali non raggiungano il 5% del capitale versato; e sopprimendola del tutto nel secondo periodo definitivo;
  • togliendo l’eccessiva incertezza in cui si era rispetto all’ammontare della sovvenzione nel secondo periodo, col fissarle un massimo di lire 19.920.000. Il calcolo delle spese e delle entrate si farà ancora e se la differenza risulterà minore di 19.920.000 lire, tanto meglio per lo stato che dovrà pagare per il ventennio una sovvenzione uguale soltanto a questa minor cifra. Se la differenza sarà più elevata, il danno sarà della società, a cui lo stato non potrà mai essere obbligato a pagare più di 19.920.000 lire all’anno.

 

 

Anche nel modo di calcolare l’influenza del materiale vecchio sull’ammontare della sovvenzione, la commissione ha sensibilmente migliorato il contratto originale perché mentre prima si diceva che le sovvenzioni saranno ridotte «in proporzione ai risparmi realizzati col contemporaneo impiego di materiale vecchio», ora si dice che saranno ridotte «in ragione dei risparmi realizzati col temporaneo impiego di materiale vecchio in confronto di quello prescritto, tenuto conto delle maggiori spese derivanti dall’impiego del materiale medesimo». L’aggiunta, che fu colle stesse parole suggerita su queste colonne, ha per iscopo di impedire che le condizioni cattive attuali del materiale abbiano ad influire per tutti i 25 anni sull’ammontare della sovvenzione.

 

 

Anche è lodevole il concetto di sottoporre a perizia il valore dei piroscafi attualmente posseduti dal Lloyd italiano e quelli altresì da acquistare dalla Navigazione generale italiana per evitare l’annacquamento del capitale sociale, su cui le sovvenzioni devono pagare interessi ed ammortamento.

 

 

Mentre però la commissione parlamentare si studiava di modificare le clausole peggiori del primitivo disegno governativo, avvenivano alcuni fatti nuovi i quali spostavano il dibattito verso un altro campo. La battaglia non si combatte più sulle modalità della convenzione col Lloyd, ma sulla opportunità medesima della convenzione. Alcuni, e citiamo soltanto l’on. Pantano, che scrisse da solo una relazione di minoranza della commissione parlamentare, dicono: sta bene che si sia riusciti a fissare in 19.920.000 lire il massimo della sovvenzione per il secondo periodo, togliendo così l’alea che lo stato dovesse pagar di più. probabile che la cifra della sovvenzione non si discosti molto in realtà da quella che fu fissata come massimo; ed è giusto che lo stato si obblighi a pagare per un periodo così lungo di tempo una cifra siffattamente elevata (7,30 lire per miglio, mentre la legge del 1908 importava un onere di lire 3,55 e le convenzioni attuali una di lire 4,50 per miglio), senza essere ben sicuri che quelli siano i patti migliori che si possono ottenere? È ben vero che le aste bandite sulla base della legge del 1908 andarono deserte; ma i nuovi disegni di legge stabiliscono tutta un’altra base di calcolo per il numero delle linee, la loro percorrenza, la velocità e il tonnellaggio delle navi, ecc. ecc.; sicché è fondata la speranza che l’apertura di nuove gare sia profittevole per lo stato. Tant’è vero che, appena furono conosciuti i particolari delle nuove convenzioni, due ditte, Peirce e Parodi, offersero di esercitare gli stessi servizi del Lloyd italiano, con una sovvenzione di 18.000.000 lire ed altre offerte si dice verrebbero innanzi ove le gare fossero bandite.

 

 

In tesi generale, il sistema delle pubbliche gare, a tutti aperte, è quello che meglio si addice ai negozi, sovratutto ai negozi colossali come il presente, che lo stato deve concludere. L’analogo progetto di convenzione colle Messageries maritimes, che si discute in Francia contemporaneamente al nostro, è stato fatto oggetto di critiche e minaccia di naufragare appunto perché si tratta di una convenzione conchiusa dal governo coll’attuale compagnia concessionaria, senza che una pubblica gara fosse aperta per attribuire i servizi al migliore offerente.

 

 

I motivi che possono condurre ad accogliere un metodo diverso da quello delle gare pubbliche non possono essere che motivi di opportunità. Può darsi che il governo sia persuaso essere le offerte di altre ditte poco serie o dilatorie, fatte cioè per guadagnar tempo e condurre il governo sino alla scadenza delle attuali concessioni (1 luglio 1910), senza aver nulla di apparecchiato per l’esercizio continuato dei servizi. Poiché con il 31 dicembre 1909 il Lloyd italiano riacquista la sua piena libertà d’azione, il governo può temere di trovarsi poi di fronte ad una coalizione di compagnie, oggi avversarie e domani collegate, intese ad estorcergli patti ben più duri degli attuali. Dare un giudizio sui motivi di opportunità, che possono indurre il governo a preferire il metodo delle trattative private a quello sovrano delle pubbliche gare, non è possibile ad un privato, il quale non abbia mezzi particolarissimi di informazione. Il governo, che questi mezzi deve avere, deve altresì assumersi la responsabilità di seguire una via che non è sicuramente atta ad affidare in modo chiarissimo avere lo stato ottenuto i patti migliori possibili in uno sperimento di asta pubblica.

 

 

Qui sorge una pregiudiziale, che fu di recente messa innanzi autorevolmente e replicatamente, sì da imporsi all’attenzione pubblica. Ammettiamo pure, si dice, che respinta la convenzione col Lloyd italiano ed andate magari deserte le gare, si giunga all’1 luglio 1910 senza avere assicurati i servizi marittimi sovvenzionati. Questa ipotesi, che viene agitata come uno spauracchio per indurre il parlamento ad una sollecita approvazione delle convenzioni, non ha in sé nulla di spaventevole. Sentiamo il Nitti, che ha espresso il suo pensiero in frasi incisive:

 

 

Io credo andremmo incontro ad una grande fortuna per l’Italia. Lo stato eserciterebbe le comunicazioni con le isole, garantirebbe con poco i servizi marittimi e risparmierebbe molti milioni. Passate allo stato le comunicazioni con le isole, lo stato è libero di fare o non fare convenzioni. Le sovvenzioni commerciali vanno limitate a poche linee politiche (del Mar Rosso e dell’Adriatico, ecc. ecc.); le sovvenzioni postali si riducono a poca cosa. In tutto, una spesa di cinque o sei milioni sarebbe sufficientissima. La stato deve abbandonare il sistema di parassitismo inutile seguito finora. La sua azione può consistere nell’incoraggiare con premi la marina libera. Non è la fine del mondo che non si possano conchiudere nuove convenzioni, e lo stato possa fare a meno della Navigazione generale, del Lloyd italiano, del senatore Piaggio e dei suoi concorrenti (o non concorrenti) Peirce e Parodi. Quale beneficio per la marina libera!

 

 

Leggendo le quali parole, a chi scrive si allargò il cuore. Poiché la questione vera, fondamentale è proprio questa: è davvero necessario o conveniente mantenere l’attuale sistema della marina sovvenzionata? Se non lo discussi prima, si fu soltanto per il timore che la discussione potesse sembrare teorica e cadesse nel vuoto. Ma già, nel cominciare la discussione delle nuove convenzioni, avvertivo di «nutrire dubbi non pochi né lievi sulla convenienza medesima del sistema delle linee sovvenzionate dallo stato, non sembrandomi ben dimostrato che i vantaggi ottenuti fin qui e che si otterranno in avvenire siano corrispondenti ai sacrifici che i contribuenti sono chiamati a sopportare» («Corriere» del 29 maggio, e qui sopra a p. 688). Aggiungevo che il punto di partenza della discussione era questo: «essere, per molte considerazioni più o meno fondate, per i precedenti adottati in passato, per la pressione di molteplici interessi locali, il legislatore venuto alla conclusione che convenisse assicurare con sovvenzioni un servizio postale o commerciale o locale o misto su un certo numero di linee ».

 

 

Ora il punto di partenza medesimo, la necessità delle linee sovvenzionate, è posto in forse da autorevoli parlamentari. doveroso cogliere la palla al balzo ed affermare che si può discutere, se si vuole, intorno alle modalità di nuove convenzioni ed invocare, come fu fatto, miglioramenti agli accordi del governo col Lloyd italiano; ma importa sovratutto dire ben chiaro e ben alto essere moltissimo dubbio se convenga stipulare convenzioni e dar sovvenzioni ad una o più compagnie di navigazione salvoché in due casi:

 

 

  • per le linee postali-politiche fra l’Italia e le isole minori (il servizio con le isole maggiori è già attribuito all’azienda delle ferrovie di stato), fra l’Italia, i paesi del Levante e dell’Adriatico, le colonie dell’Eritrea e del Benadir; e per tutto ciò bastano cinque o sei milioni di lire all’anno;
  • per ragioni militari, allo scopo di favorire la formazione di una marina mercantile che in tempo di guerra possa servire da flotta ausiliaria; scopo che non si ottiene con sovvenzioni postali-commerciali, ma con compensi speciali, calcolati volta per volta, a quelle navi, appartenenti a qualunque armatore, sovvenzionato o libero, che avessero e mantenessero sempre, anno per anno, le caratteristiche di navi atte a servire in guerra nella flotta ausiliaria. Probabilmente lo scopo non si otterrebbe con pochi milioni di lire; ma, pochi o molti che siano, sono una spesa di cui le convenzioni marittime non ci permettono di fare a meno.

 

 

Per tutte le altre linee, oltre Gibilterra ed oltre il canale di Suez, ed una parte di quelle mediterranee, che sono le più costose ed hanno scopi di penetrazione commerciale di viaggiatori e di merci, deve ancor oggi, dopo tanti anni di esperienza, essere data la dimostrazione che il sistema della marina sovvenzionata serva a qualcosa.

 

 

Se diamo ascolto ai maggiori e più competenti uomini della nostra marina mercantile, la risposta negativa si impone. Il senatore Piaggio, in un lucido articolo in risposta e svolgimento di alcune proposte fatte nel 1903 da un altro competentissimo, l’on. Bettolo, parlando dei servizi sovvenzionati, così scriveva:

 

 

Io dichiaro, qui, come ho sempre dichiarato a ministri delle poste e telegrafi che si succedettero a quel dicastero, nei nove anni in cui ebbi la direzione della nostra maggiore compagnia sovvenzionata, che le vigenti convenzioni non corrispondono affatto allo scopo per cui furono istituite, né al bene inteso interesse della società esercente; ed ancor meno al sacrificio cui lo stato si sobbarca.

 

 

Aggiungeva essere preferibile sostituire al sistema delle sovvenzioni ad una compagnia privilegiata quello propugnato dall’on. Bettolo, di dotazioni speciali per ciascun mercato da conquistare all’esportazione italiana, dotazioni da dividersi fra i diversi esercenti la linea in condizioni di libera concorrenza. In alcuni recenti articoli sul «Lavoro» del 10, 13, 16 e 19 giugno, il signor Zaccaria Oberti, il quale si chiarisce in essi uno dei migliori e più pratici conoscitori del nostro problema marittimo, è ritornato con ampiezza di dati e vigore di argomentazioni sull’argomento, ed ha dimostrato che i malanni della marina mercantile italiana si riannodano a parecchie cause, fra cui principali:

 

 

  • la mancanza di cultura marinara e di spirito di associazione fra i capitalisti, non abbastanza aiutati dal credito;
  • l’erroneo indirizzo protezionistico a favore delle industrie siderurgiche e delle costruzioni navali, che rincara il costo delle navi costruite in Italia e rende necessario premiare e sovvenzionare le navi italiane a guisa di compenso per i danni che la protezione loro infligge;
  • la creazione di una marina sovvenzionata che esercita un vero monopolio sul mercato dei moli e fiacca le iniziative della marina libera.

 

 

Quanto al timore che la mancanza delle sovvenzioni abbia a far cessare le linee attuali ed a interrompere un traffico avviato, tolgo dagli articoli dell’Oberti il seguente brano:

 

 

Provvisto alle comunicazioni colle grandi isole mediante l’esercizio di stato già preparato, così pure provvisto convenientemente alle altre comunicazioni indispensabili mediante i contratti stipulati alle condizioni normali colle società minori e colla «Puglia», nessun pericolo minaccia il commercio che potrà facilmente superare la crisi momentanea, quando davvero le società si inducessero a interrompere le altre linee. È ridicolo il pensare che colla scarsità attuale del traffico e coll’abbondanza del materiale, la marina libera abbandoni il commercio esistente che troverebbe facilmente mezzi di continuare tranquillamente il suo corso regolare… Chi vive in mezzo agli affari sa perfettamente che non vi è oramai porto d’Italia, meno che i porti della Sardegna gelosamente difesi dalla Navigazione generale italiana, dove a fianco delle navi sovvenzionate non si ancorino le navi della marina libera, che sostengono la concorrenza, pure essendo in condizioni di inferiorità.

 

 

Se questi fatti sono veri e chi li afferma è un commerciante che vive nel maggior centro marinaro d’Italia se è vero che la marina libera vive pur sotto la cappa di piombo della concorrenza della marina sovvenzionata, non è probabile che essa possa prosperare ancor più quando il campo fosse davvero libero a tutti? Se le cose così stanno, che sugo c’è a sovvenzionare coi denari dello stato una marina che vivrebbe ugualmente senza quelle sovvenzioni?

 

 

Questo è il punto essenziale del problema. Vuolsi aggiungere ancora che le modificazioni apportate dalla commissione parlamentare al contratto col Lloyd italiano lo hanno perfezionato bensì, ma non gli hanno tolto il suo carattere fondamentale: che è la creazione di un organismo semi-pubblico della navigazione. Sia che le sorti volgano propizie od avverse alla nuova azienda, uno solo sarà il risultato finale: la statizzazione dei servizi marittimi. Se il Lloyd guadagnerà, si vorrà l’esercizio di stato per non permettere lucri «eccessivi»; se il Lloyd perderà o trarrà innanzi una vita meschina, si vorrà la statizzazione per ottenere risultati migliori. Già lo stato si è riservata la facoltà del riscatto dopo quindici anni dall’inizio della concessione. Chi sia convinto che l’esercizio di stato della navigazione è lo sproposito massimo, il danno irrimediabile, non può volere i mezzi che a quel fine inevitabilmente conducono. Molte fra le statizzazioni e le municipalizzazioni sono sorte in siffatto modo: si è cominciato a dire che bisognava assicurare un pubblico servizio mercé l’intervento o il sussidio dello stato o del comune; e poi, visto che il servizio semi-pubblico andava troppo bene o troppo male, si è finito coll’assumerlo in regia diretta. Non sarebbe stato meglio porsi fin dal bel principio la domanda: il servizio non sarà ugualmente «sicuro» anche senza intervento o sovvenzione dello stato e sacrificio dei contribuenti? A questa semplice domanda importa anzitutto rispondere.

 

 

II

Il disegno di legge per le nuove convenzioni marittime, come non aveva avuto una stampa favorevole, così non ha avuto propizia la tribuna parlamentare. Il discorso serrato e logico dell’on. Sonnino sui pericoli del periodo di sperimento, sulla impossibilità del sistema di controllo; le critiche del Nitti riguardo alla pretesa necessità di nuove convenzioni, alla venerabile vecchiaia delle navi da museo cedute dalla Navigazione generale; le osservazioni tecnicamente efficaci dell’on. Ancona sulla facilità di mutare, con piccolissime inavvertite trascuranze, i coefficienti della spesa e degli introiti a vantaggio dell’assuntore; le lagnanze ragionate dai deputati veneti per l’abbandono in cui il loro massimo porto sarebbe lasciato dalla compagnia sovvenzionata, le fiere requisitorie degli on. Colajanni e Pantano; tutto ciò ha costituito un blocco di accuse contro cui si sono infrante le deboli difese dell’on. Schanzer. Il quale si limitò a fare una parafrasi della sua relazione ministeriale e della relazione Chimirri; e, poiché nessuno argomento nuovo fu addotto, la camera rimase perplessa e sfiduciata. Contro quelli i quali asserivano essere inutili le sovvenzioni, non giovò citare l’esempio della Francia e dell’Austria le quali sovvenzionano compagnie nostre vicine e temibili concorrenti. Troppo facile era la risposta: essere preferibile, appunto allo scopo di lottare vittoriosamente colla marineria francese ed austriaca, seguire il sistema inglese e tedesco, di non dar sovvenzioni, sistema il quale ha dato ottimi risultati, e non quello francese, che li diede pessimi, o quello austriaco, i cui risultati sono mediocri e paiono notevoli solo perché migliori dei nostri meschinissimi. Non giovò al ministro insistere sui molteplici controlli posti in essere dalle convenzioni allo scopo di ridurre i pericoli del periodo di sperimento e di salvaguardare in seguito gli interessi del commercio; poiché si nega precisamente efficacia qualsiasi a quei controlli e si afferma giustamente doversi prevedere danni gravi da una forma semi-pubblica di impresa marittima, in cui l’esercente privato non ha libertà d’iniziativa e la amministrazione controllante ha il potere di impedire il bene, non quello di vietare il male e di fare il bene. Il ministro persistette ancora a volere che la camera recitasse un atto di fede in lui, quando asserì che i servizi sovvenzionati non si potrebbero continuare altrimenti che col vecchio naviglio della Navigazione generale italiana. È difficile però che la camera chiuda gli occhi dinanzi al fatto che oggidì la industria dei trasporti marittimi attraversa un periodo di crisi profonda, per cui sono a centinaia le navi che nei porti inglesi giacciono in disarmo, per la impossibilità di guadagnare noli; navi, che i proprietari sarebbero felicissimi di vendere a miti condizioni, migliori di quelle che sono state fatte dalla Navigazione generale italiana. Forse fra un anno le condizioni saranno mutate, sperandosi in un risveglio dei trasporti: ed è perciò che è fuor di luogo ogni preoccupazione attuale sulla possibilità degli assuntori di procacciarsi le navi necessarie alla gestione dei servizi sovvenzionati.

 

 

Via via cadono le varie parti della difesa ministeriale del combattuto disegno di legge. Quali le vie d’uscita? Due principalmente: o il governo chiederà un voto di fiducia politica, riuscendo a tenere stretta attorno a sé, coll’autorità dell’on. Giolitti, una maggioranza decimata; ovvero il governo, lieto di una manifestazione di fiducia del parlamento sulla sua capacità a tutelare gli interessi più alti del paese, consentirà a studiar meglio il grave problema. Delle due soluzioni è certo preferibile la seconda, nell’interesse stesso del governo; poiché una maggioranza in quest’occasione il governo non può trovare se non a patto di peggiorare le convenzioni che già non sono approvabili. Per quanto pletorica sia invero la maggioranza consueta del ministero, è chiaro per molteplici segni che essa ha urgente bisogno di essere tenuta insieme con mezzi eccezionali, per riparare ai voti contrari di coloro che non sanno andare contro le proprie convinzioni, dei deputati premuti dalle opposizioni locali e dei timidi che preferiranno di squagliarsi al momento del voto. I mezzi eccezionali si sa quali possono essere: far concessioni, le più larghe possibili, agli interessi locali offesi, riuscendo a far passare in seconda linea il danno all’interesse generale col procacciare ai singoli vantaggi particolari. In tal modo si peggiorano le convenzioni, per se stesse non buone, e si va contro a quello che dovrebbe essere lo scopo precipuo di esse, far sventolare cioè la bandiera italiana dove è opportuno tenere alta l’influenza politica dell’Italia o dove non giungerebbero colle sole loro forze i traffici appena appena adesso iniziati dalle industrie nazionali. Col moltiplicare gli approdi, collo stabilire nuove sedi di armamento, coll’intensificare la piccola navigazione di cabotaggio, si ottengono voti di deputati; ma crescono gli oneri della marina sovvenzionata e vieppiù le si impedisce di contribuire efficacemente al progresso marittimo della nazione. A questi patti il governo può comprare la vittoria: ma questa sarà costata cara al paese.

 

 

Non in questo modo dovrebbe l’on. Giolitti ambire di vincere. Riconoscere che il problema è bisognevole ancora di studio accurato, non è riconoscere di aver voluto tradire gli interessi nazionali; ma è bella prova che non si ha timore di perfezionare l’opera propria. L’on. Pantano ha torto quando, per esaltar se stesso e i suoi meriti di relatore della commissione d’inchiesta sui servizi marittimi, accusa il governo di non essersi strettamente attenuto alla legge del 1908. La questione va posta in tutt’altra maniera. La legge del 1908 era inapplicabile, tanto erano elevate le pretese da parte dello stato e tenui le sovvenzioni promesse in compenso. I fatti si incaricarono di dimostrare che quella legge era sbagliata poiché nessuno comparve alle gare bandite in conformità di essa. Ciononostante il governo non volle allontanarsi dalla via segnatagli dal parlamento; ed a trattative private a poco a poco diminuì la quantità e l’onere dei servizi e crebbe le sovvenzioni. Timoroso poi che i patti conchiusi paressero – come sono – troppo lauti per l’assuntore, escogitò tutte quelle clausole di periodo di sperimento, di garanzie di interessi, di cointeressenze e di conseguenti controlli, che sono oggi battuti in breccia alla camera dei deputati. Badisi – può dire il governo -, se queste convenzioni furono da me presentate in siffatta maniera, la prima e maggiore responsabilità spetta al parlamento, che volle una legge inattuabile e mi costrinse ad agire secondo una falsariga che in pratica oggi si chiarisce inaccettabile. Oggi che la legge votata dal parlamento appare tale da condurre a conseguenze da esso non volute, nessun ostacolo si frappone a seguire una via diversa. Poiché non è risultato ben chiaro, dalle molteplici discussioni, quale debba essere codesta via, un voto dilatorio della camera sull’attuale disegno vorrebbe dire un invito al governo a trovare e segnalare al parlamento codesta via: sia quella delle gare a gruppi separati, sia quella delle gare limitate ad alcuni servizi indispensabili, sia quella degli incoraggiamenti – le cui modalità dovrebbero essere studiate – alla marina libera. L’invito a una dilazione non pregiudicherebbe per nulla i servizi; poiché la discussione avvenuta ha dimostrato immaginari i pericoli di non trovare in tempo i piroscafi e di lasciare interrotti i traffici. L’invito implicherebbe da parte della camera una fiducia ben più grande nel governo di quella che si potrebbe desumere da una contrastata approvazione all’attuale disegno. Della quale fiducia il governo dovrebbe andare orgoglioso, traendone argomento ad una opera efficace a pro della marineria nazionale.

 

 

III

Il signor Zaccaria Oberti, consigliere della camera di commercio di Genova, i cui assennati articoli sul «Lavoro» avevo citato per suffragare i miei dubbi intorno alla utilità delle convenzioni, mi indirizza una lettera, in cui spiega la sua tesi del danno delle attuali convenzioni e della utilità di sovvenzionare in modo diverso verso le linee di navigazione. Ecco la parte sostanziale della sua lettera:

 

 

Ove si esamini serenamente la posizione che rimarrebbe dividendo le linee sovvenzionate, a seconda dei servizi che rendono, in gruppi, risulterebbe che: vi sono linee che hanno un carattere speciale di interesse pubblico, quali quelle che collegano il continente colle isole e provvedono insieme ai servizi postali, a quelli dei passeggieri ed a quelli di approvvigionamento.

 

 

Queste linee sono indispensabili, ma è bene ricordarsi che ad esse il governo ha già provvisto in parte col servizio di stato, e in parte coi contratti conclusi colle società: Livornese, Napoletana e Siciliana e colla Puglia, contratti che nulla presentano di anormale e sono fuori di discussione. Rimangono ancora poche linee di secondaria importanza che hanno gli stessi caratteri delle precedenti e sono incluse nel contratto del Lloyd italiano e per esse il governo potrebbe facilmente trovare assuntori quando le stralciasse dal contratto.

 

 

All’infuori di questi servizi, che, ripeto, per loro natura rappresentano una necessità di ordine pubblico, rimangono i servizi interni, quelli del mediterraneo e quello oltre Suez che hanno invece un carattere commerciale e politico e non rappresentano una necessità impellente. Sono linee utili ma non indispensabili, e nessuna grave iattura ne verrebbe quand’anche venissero a mancare i servizi attuali, giacché il nostro commercio troverebbe sempre mezzo di avviare al suo destino le merci che esporta.

 

 

È bene avvertire che tali linee si trovano in uno stadio di avanzato sviluppo e già convenientemente alimentate dal commercio, tanto che, come succede per i servizi interni e per quelli dell’Egitto e del Levante, la marina libera italiana e le navi appartenenti alle marine estere hanno convenienza a seguire gli stessi itinerari che segue la marina sovvenzionata, offrendo qualche volta noli anche inferiori. Ora, si può ragionevolmente ammettere che il traffico esistente sia abbandonato e che armatori italiani e stranieri rinuncino alla possibilità di lucrare dall’esercizio di linee, che sono già alimentate da traffici cospicui, per far piacere ai monopolisti e far dispetto al governo? E ciò proprio quando invece per essi si presenta l’opportunità di avvantaggiare meglio le loro aziende sbarazzandosi della concorrenza di una compagnia privilegiata? Si potrebbe ragionevolmente quasi dubitare, che, anche colla conclusione del contratto col Lloyd italiano, la Navigazione, generale italiana si decida ad abbandonare le sue linee, la sua organizzazione di agenzie, la sua clientela e non pensi invece a continuarle ancora. Sono ad ogni modo ipotesi inverosimili che cadono di fronte alla vera” essenza delle aziende commerciali che vivono di lotta e di concorrenza e non di sentimento.

 

 

Certo non si potrà pretendere che queste iniziative si lancino nelle linee dello Zanzibar e dell’Estremo oriente, dove il traffico non può nemmeno lontanamente compensare le ingenti spese di esercizio, e dovremo quindi avvalerci, come oggi ci avvaliamo, della compiacenza delle compagnie estere che fanno scalo nei nostri porti; così come non potremo permetterci il lusso di una linea celerissima tra Napoli ed Alessandria, e dovremo accontentarci dei servizi di navigazione esteri che già toccano i nostri porti. Ma il pericolo reale, quello che si riferisce alla continuazione dei traffici, non può essere grave, ed il governo non deve preoccuparsi di questo danno inesistente per concludere così affrettatamente un contratto che tanta opposizione e diffidenza ha sollevato e che, per giunta, non soddisfa le aspirazioni del commercio, che già per bocca dell’Unione delle camere di commercio ha manifestato il suo avviso avverso.

 

 

Illustrata così l’opinione manifestata nello scritto al quale l’egregio professor Einaudi ha gentilmente alluso, colgo l’opportunità per chiarire meglio come le sovvenzioni, quando fossero utilmente elargite, potrebbero riuscire vantaggiose all’economia nazionale specialmente in riflesso all’industria lombarda, che tanto ha bisogno di espandere le sue relazioni all’estero. Come venne già rilevato, il contratto col Lloyd italiano, mentre non accresce in nulla le relazioni commerciali con mercati d’oltre mare, apporta un onere doppio di quello che attualmente grava sulla finanza dello stato per la sovvenzione alle stesse linee che all’incirca sarebbero esercite. Ciò è dipeso dall’aver esageratamente aumentata la sovvenzione a delle linee nelle quali per lo stadio di sviluppo commerciale in cui si trovano, ragionevolmente avrebbe dovuto essere ridotta e ristretta nella misura di un compenso giusto ma limitato, corrisposto per gli obblighi speciali di itinerario e di orario al quale l’assuntore è tenuto.

 

 

Le sovvenzioni per le linee della Sardegna e della Tunisia vennero aumentate da 1.190.000 lire a lire 2.197.000 quelle del Tirreno da 580.000 a 1.490.000 e quelle dell’Egitto e del Levante da 1.751.000 a lire 3.775.000, e le cifre sono troppo eloquenti per illustrarle.

 

 

Né vale a giustificare così enorme aumento il curioso ragionamento che il relatore della commissione parlamentare, ed i giornali ufficiosi hanno fatto sul presunto aggravio che in rapporto alla Navigazione generale italiana deriva al nuovo assuntore per l’aumento della media della velocità e della portata delle navi. È noto che il progresso delle industrie meccaniche e delle costruzioni verificatosi nel corso di questi ultimi anni, ha ridotto virtualmente il costo del materiale così come ha ridotto le spese della manutenzione, tanto che si può affermare che le nuove navi imposte dai capitolati, costeranno relativamente meno, certo non di più di quello che non siano costate, all’epoca in cui vennero stipulate le convenzioni in scadenza, le navi della Navigazione generale italiana e non costi la manutenzione delle macchine antiquate.

 

 

Così pure per la portata delle navi, si dimentica che essa venne fissata di mutuo accordo coll’assuntore ed è commisurata alla potenzialità reale o presunta del traffico delle diverse linee, di modo che più che un aggravio si risolverà in un ulteriore beneficio, perché mentre non è detto che le spese di esercizio della nave aumentino in proporzione geometrica in rapporto alla portata, rimane per contro all’assuntore il beneficio dei maggiori noli che la nave colla maggior portata è in grado di acquisire nel suo pieno impiego nelle linee appaltate.

 

 

Così come vennero disperse somme cospicue in sovvenzioni esagerate, altre somme non meno ingenti vennero sprecate per linee di dubbia efficacia e i cui risultati saranno molto lontani, come quella da Genova per il Benadir e lo Zanzibar che costa 1.475.000 lire all’anno e così pure per la linea celere per l’Egitto, che costa 1.750.000 lire e rappresenta un vero lusso.

 

Tutte queste somme ingenti che nel complesso rappresentano una spesa annua del doppio di quanto tutti gli altri stati più ricchi di noi spendono utilmente per la loro marina, avrebbero potuto ridare vita all’industria della navigazione appoggiando un salutare risveglio nella marina libera che, pur non avendo una azione diretta nell’espansione del paese, indirettamente può favorirla e rappresenta sempre un elemento di vita e di ricchezza per le popolazioni del litorale, e coordinando una serie bene organizzata di servizi di navigazione atti a sviluppare un’attiva corrente di traffico con i paesi d’oltre mare dove la nostra emigrazione ha preparato il terreno più adatto per una pronta e sicura espansione pacifica dei nostri commerci. È in quei paesi che l’Italia deve cercare la sua fortuna, più che persistere nel voler trovarla nelle colonie africane. Non vi è un punto solo dell’America latina, dalla parte alta del Brasile giù fino all’estrema punta della Patagonia, nel Paraguay, nell’Uruguay e nell’Argentina, e risalendo per la costa del Pacifico, nel Cile, nel Perù, nella Bolivia, e nelle repubbliche dell’America centrale dove emigranti italiani colla loro virtù e col loro lavoro non abbiano fondato dei centri commerciali che in mezzo a infinite difficoltà, per la mancanza di rapide e comode comunicazioni, tengono sempre uniti alla madre patria, attivando uno scambio di affari che si moltiplicherebbe quando si provvedesse a congiungere quei porti al nostro paese, con servizi regolari, bene diretti, che svolgessero a profitto del traffico tutta l’influenza benefica che un armatore intelligente e geniale può dare, seguendo il traffico che la nave alimenta, favorendolo in tutto onde possa superare la concorrenza.

 

 

Quando le sovvenzioni fossero così elargite e fossero commisurate ai servizi che la marina mercantile effettivamente rende ed ai benefici che la linea sovvenzionata è in condizioni di dare, creda l’egregio prof. Einaudi, che le sovvenzioni più che necessarie sarebbero indispensabili e rappresenterebbero sempre una delle spese più giuste che possa contenere il bilancio di uno stato compreso dei suoi doveri e premuroso del benessere dell’avvenire delle sue industrie. Certo lo stesso non può dirsi per quelle che formano oggetto della nostra discussione.

Zaccaria OBERTI

 

 

La divergenza fra quanto scrive l’Oberti e ciò che io dissi nell’articolo citato, sia dunque in ciò: che io manifestavo dubbi gravi intorno all’opportunità medesima delle sovvenzioni; mentre l’Oberti le ritiene inutili così come furono proposte dal governo, ma convenienti, anzi necessarie, per i gruppi di linee da lui indicati. La questione è generale intorno al sistema da seguirsi rispetto alla marina mercantile; e pratica intorno alla scelta delle linee da sovvenzionare. La difficoltà, grave in un governo parlamentare, in cui gli interessi politici premono su quelli economici, di scegliere efficacemente le linee da sovvenzionare, pregiudicando così la soluzione anche della questione generale, porta ad una conclusione: essere utile un periodo di sperimento, in cui la mancanza di sovvenzioni metterebbe in risalto se vi siano e su quali linee traffici da sovvenzionare. L’Oberti riconosce che i traffici già avviati non ne soffrirebbero danno; e, poiché il danno della mancata sovvenzione riguarderebbe solo traffici futuri od appena appena iniziati, sarebbe sopportabile. Questo sarebbe il vero sperimento da compiersi in un quinquennio; non quello voluto dal governo per giudicare delle entrate e delle spese della compagnia sovvenzionata. I fatti si incaricherebbero di dimostrare se e quali servizi possano continuare senza bisogno di aiuto governativo; e sulla base della esperienza si potrebbe studiare se e come si debbano impiegare i fondi risparmiati ad incoraggiamento vero della marina mercantile.

 

 

IV

La sospensiva approvata sul progetto di nuove convenzioni marittime è nel tempo stesso motivo di compiacimento e di dubbio. Compiacimento, perché la camera ha nettamente manifestato la sua avversione ad un contratto ibrido, di natura mista pubblico-privata, il quale, come tutti i contratti di tale indole, non tutelava le ragioni dello stato e non dava sufficiente libertà al privato esercente. Dubbio, perché il modo confuso e volutamente equivoco della votazione non lasciò scorgere quale altro sistema si volesse sostituire a quello che così vivacemente era stato criticato.

 

 

Le critiche più efficaci furono mosse al periodo di sperimento, il quale doveva servire a determinare l’ammontare della sovvenzione definitiva. A grado a grado l’esperimento si era ridotto ad essere nulla più che una lustra, sovratutto dopo che la commissione aveva determinato il limite massimo della sovvenzione nel secondo periodo ed esclusa in questo ogni garanzia di interesse da parte dello stato. L’esercente, col meccanismo del servizio delle obbligazioni, con la elasticità nelle spese di esercizio, col non incoraggiare il traffico aveva modo di spingere la sovvenzione sino al massimo fissato nella legge. Molteplici i controlli istituiti per impedire simile effetto; ma privi d’efficacia, perché nessun consigliere di amministrazione o di sorveglianza può riuscire, in una azienda colossale, ad impedire le mille e mille fughe di poche lire per volta e per giorno che, tutte sommate, danno alla fine dell’anno, milioni. Nessuno si dorrà di non sentir più discorre di periodo di sperimento e di garanzia di interessi, metodi entrambi complicati e perniciosi per diminuire qualcuna delle alee le quali gravano sulla industria marittima e contribuiscono ad aumentare il costo delle sovvenzioni.

 

 

Anche la durata eccessiva delle convenzioni fu criticata pressoché da tutti, e la critica parve così efficace che l’assuntore d servizi si era deciso alla fine a ridurlo da 25 a 20 anni. In tempi di così rapide trasformazioni tecniche, di mutazioni nel costo dei traffici e nella convenienza di indirizzare più ad uno che ad un altro intento le correnti commerciali,20 anni paiono anche troppi, salvo per talune linee per cui una siffatta lunghezza di tempo fosse assolutamente indispensabile per l’ammortamento di navi non utilizzabili in diversa maniera alla scadenza del contratto.

 

 

Non furono concordi ed esaurienti le critiche su un altro punto: quello del monopolio concesso ad una unica o, meglio, ad una di gran lunga predominante società concessionaria. Dirò anzi che la questione della convenienza di affidare tutti i servizi ad una sola società o frazionarli in parecchi gruppi composti di linee affini non fu trattata con quella larghezza ed elevatezza che fu caratteristica di quasi tutte le memorabili sedute della camera. Trovò larga eco il sentimento, diffusissimo nelle assemblee numerose, di sospetto e di rancore contro le grandi intraprese capitalistiche, contro gli accordi, i monopoli familiari, bancari, ecc.; sentimento alimentato dagli interessi regionali offesi, i quali si fecero paladini della divisione delle linee in gruppi facenti capo ad altrettante società regionali con sede a Genova, Venezia, Bari, Napoli, Palermo, ecc. ecc. A risolvere la questione scottante e gelosissima un solo metodo sembra sia adatto: quello di bandire le aste per gruppi omogenei di linee, facenti capo, per motivi economici, ad un dato porto. Ove le aste siano bandite su basi accettabili, il risultato dimostrerà se sia meglio una sola compagnia o possa tornare più utile la divisione fra parecchie società. Se una sola compagnia riuscirà vincitrice per il maggior numero di gruppi, vorrà dire che il concentramento permette un servizio più economico e più perfetto e consente all’unica compagnia di contentarsi di una sovvenzione minore. Ove invece accada il contrario, sarà questa la dimostrazione più evidente che le società piccole o mediocri, ma adatte alla regione che devono servire ed ai traffici che devono promuovere, riescono altresì meglio a soddisfare agli interessi generali. Risolvere la questione a priori è uno sbaglio; e resta tale anche se in esso siamo confortati dall’esempio straniero, come dell’Austria che crea un’unica società di navigazione e la Francia, che oggi tende a dare una assoluta prevalenza alle Messageries maritimes.

 

 

Tutto ciò parte dal supposto che si vogliano bandire nuove gare, persistendo nel sistema delle sovvenzioni fin qui adottato. Ma è noto come alla camera si siano elevate vivacissime critiche al principio medesimo delle sovvenzioni, proclamandolo disadatto a raggiungere i fini di espansione del traffico e della bandiera nazionali. A questa tesi ho dato il mio consenso più ampio, sembrando opportuno, prima di deciderci a spendere parecchie diecine di milioni di lire all’anno, studiare se questa spesa sia, in tutto od in parte, davvero necessaria. Alcuni di coloro, che non vorrebbero le sovvenzioni se non per le linee postali e politiche, vorrebbero sostituirle con premi alla marina mercantile libera, mentre altri considerano i premi come denaro sprecato o poco meno e preferirebbero il sistema delle dotazioni per le navi che effettivamente concorrono alla conquista commerciale di un mercato straniero. Gli on. Nitti e Bettolo patrocinarono appunto questi diversi sistemi di incoraggiamento al progresso della marina mercantile.

 

 

La camera non ha avuto tempo di discutere il disegno di legge sui premi alla marina mercantile libera, che è il complemento delle convenzioni marittime; cosicché è ancora possibile di coordinare le disposizioni, facendole convergere ad un’unica meta. La difficoltà più grossa da superare in questa faccenda fu pure accennata alla camera ed è la divisione amministrativa delle competenze fra i diversi ministeri. I servizi marittimi sovvenzionati dipendono dal ministero delle poste e telegrafi; e la marina mercantile libera dal ministero della marina; epperciò il disegno di legge per le convenzioni marittime fu preparato dall’on. Schanzer, mentre quello pei premi alla marina libera è dovuto all’on. Mirabello. Chi dice due ministri, dice due amministrazioni, due o più consigli superiori, quasi due stati se non in guerra, in aperta contraddizione l’uno all’altro. Il malanno, per cui si spendono molti più denari di quanti sarebbero necessari e con effetti in parte annullantisi, dovrebbe essere eliminato. Il problema dovrebbe essere considerato nella sua integrità, così come aveva fatto – giova ricordarlo – la commissione reale per i servizi marittimi.

 

 

Più si procede nell’esame della complessa situazione creata dal voto della camera più si chiariscono sempliciste le soluzioni di nuove gare che furono messe innanzi dal governo e da taluni oppositori. Sono due soluzioni che vanno scartate; tanto quella delle gare sulla base della legge del 1908, quanto l’altra delle gare sulla base della convenzione col Lloyd italiano, modificata dalla commissione parlamentare.

 

 

La legge del 1908 aveva espressamente previsto il caso che le aste andassero deserte, come di fatto accadde, ed aveva ingiunto al governo di affidare all’azienda ferroviaria di stato le linee per le isole minori, mentre gli altri gruppi non aggiudicati dovevano essere attuati «a misura che si avessero concessionari disposti ad assumere l’esercizio alle condizioni volute dalla legge». Dunque non gare, ma aspettazione dell’avvento del mitico concessionario disposto ad esercitare le linee alle condizioni stabilite dalla legge del 1908. L’on. Nitti già definì questi patti, dal punto di vista dello stato, rassomigliandoli alla pretesa di chi volesse far pensione al Grand Hôtel a due lire al giorno. L’applicazione della legge del 1908 avrebbe quest’unico vantaggio: che, non presentandosi alcun assuntore, si avrebbe tempo a vedere se e quali servizi sia davvero utile di sovvenzionare. Sarebbe, per virtù della diserzione degli assuntori, il vero sperimento invocato parecchie volte su queste colonne.

 

 

Neppure possono immaginarsi le aste sulla base della attuale convenzione modificata col Lloyd italiano. È forse accettabile l’assurdo di una gara fondata sul periodo di sperimento, sulla garanzia di interessi od integrazione di sovvenzioni, sulla unione in un sol blocco di molte linee, tutte cose che la camera a chiari segni dimostra di non volere? Qual portata giuridica avrebbe un’asta in cui l’aggiudicatario rimanesse tale soltanto ove piacesse allo stato di confermare in seguito la già avvenuta aggiudicazione, ai patti di asta od a nuovi patti deliberati dal parlamento? E queste modificazioni non daranno diritto ai concorrenti alle gare di pretendere una nuova asta? Ha il governo facoltà di indire le aste separatamente linea per linea o le deve indire su tutto il complesso delle linee assegnate al Lloyd italiano? Nel primo caso non avrebbe il Lloyd italiano indubbia ragione di pretendersi svincolato dai patti conchiusi, i quali furono conchiusi appunto in contemplazione di un complesso organico di servizi da esercitare? Da qualunque parte lo si guardi, il concetto delle aste sulla base di una convenzione non approvata, anzi fieramente oppugnata dalla camera, è un tal mostro economico-giuridico di cui è difficile immaginare uno più elegantemente repugnante.

 

 

La conclusione alla quale logicamente si arriva dalle cose sin qui dette è che bisognerebbe concretare nuove proposte. Lo stato ha le mani libere, libere rispetto ai servizi sovvenzionati e libere rispetto alla marina mercantile libera. Le convenzioni, che fino al 31 dicembre legano ancora il Lloyd italiano, non legano già più la Società livornese di navigazione (scadenza dell’impegno al 30 giugno) e non legheranno più al 31 luglio la Società veneziana di navigazione, la Puglia, la Società di navigazione marittima e fluviale e la Società siciliana di navigazione. Si potrebbe benissimo studiare un tipo di sovvenzioni fisse, senza sperimenti, senza garanzia di interessi ed anche senza partecipazione agli utili per tutte le linee affidate alle società minori e per qualche altra del gruppo affidato al Lloyd italiano, per quelle cioè le quali sono assolutamente necessarie per ragioni postali e politiche. Per queste linee, opportunamente divise in gruppi, non sembra che vi sia alcuna difficoltà ad ottenere in novembre dal parlamento l’autorizzazione ad aprire le gare sulla base delle sovvenzioni che già sono state accettate dalle compagnie interessate e che potrebbero in una pubblica gara dar luogo a qualche ribasso. Notisi che negli allegati al disegno di legge sono già indicate le sovvenzioni particolari stabilite per ogni linea, di guisa che su quella base, già concordata dalle parti, potrebbero aprirsi le gare, con affidamento di non vederle andar deserte.

 

 

Per tutto il resto delle linee commerciali, e sono le più costose, assorbendo da sole più di due terzi della spesa, la questione deve essere risoluta meditatamente in rapporto a tutto il più ampio problema della industria marittima, del movimento migratorio e delle nostre esportazioni all’estero. Una soluzione prematura o monca o sbagliata non troverebbe favore in parlamento in autunno più di quanto non lo abbia trovato ora. Certo è che le probabilità di una soluzione accettata per consenso universale sono adesso grandemente minori di quelle che fossero venti anni fa. All’esercizio di stato delle ferrovie si venne perché il parlamento non avrebbe mai approvato alcuna convenzione, anche ottima, con una società privata. I deputati sono assillati dalla paura dell’affare, del monopolio privato… Nella navigazione marittima ultra mediterranea non si potrà, per fortuna, andare sino all’esercizio di stato perché questo è radicalmente impossibile, ma, dopo aver respinto la convenzione cattiva odierna, è doveroso riconoscere che si incontreranno difficoltà non lievi a concluderne una buona. Una buona convenzione vorrebbe dire il minimo di controllo dello stato ed il massimo di libertà della compagnia, fermi i capitolati relativi alle velocità, alle tariffe ed alle altre clausole di trasporto. Poiché, date la invadenza dello stato moderno e la gelosia con cui si vogliono controllare le sovvenzioni anche dopo deliberate, una buona convenzione è difficilissima: non è meglio studiare se si debba scegliere altra via?

 

 


[1] Con il titolo La necessità del rinvio. [ndr]

[2] Con il titolo Il vero sperimento. [ndr]

[3] Con il titolo Alla ricerca della soluzione. [ndr]

La questione degli spiriti: un abisso senza fondo per lo stato e l’aggravarsi della crisi vinicola

La questione degli spiriti: un abisso senza fondo per lo stato e l’aggravarsi della crisi vinicola

«Corriere della Sera», 15[1], 18[2] e 25[3] giugno 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 711-728

 

 

I

La legislazione fiscale sugli spiriti non è mai stata inspirata in Italia al chiaro e semplice concetto di dare un reddito cospicuo al tesoro pubblico, giustamente colpendo i contribuenti a seconda delle loro ricchezze. Se obbedisse soltanto a questo elementare principio, il tributo sulla fabbricazione degli spiriti sarebbe l’ideale delle imposte sui consumi, essendo difficile scoprire un consumo più voluttuario e più nocivo nel tempo stesso degli spiriti: voluttuario e quindi attissimo ad essere colpito da tributo, anche alto, essendosi sicuri di colpire redditi destinati volontariamente dai loro possessori al soddisfacimento di un bisogno individuale di gran lunga meno importante dei bisogni collettivi della difesa nazionale, della giustizia, dell’istruzione cui lo stato provvede mercé l’imposta; nocivo e quindi tale da doversi lodare grandemente lo stato che, elevando con l’imposta il prezzo dello spirito, contribuisce efficacemente a ridurne il consumo. Quello che è vizio in altre imposte sui consumi, diventa virtù grandissima nell’imposta sugli spiriti; e si capisce perché come tutti gli stati vadano a gara nel colpire gli spiriti con elevatissimi tributi, sia per ragioni fiscali, sia sotto l’impulso della propaganda antialcoolica 220 lire per ettolitro in Francia, 245 in Russia, 268 nell’Olanda, 300 lire nel Belgio, 305 lire negli Stati uniti, 355 lire nella Norvegia e 537 lire nell’Inghilterra, che oggi il cancelliere dello scacchiere vuole crescere di altre 100 lire circa.

 

 

In Italia lo scopo fiscale – morale di tenere elevati con l’imposta i prezzi dello spirito e dei liquori allo scopo di dare un opportunissimo provento al fisco e di reprimere il consumo di una sostanza nociva è ostacolato da una circostanza di molto peso economico – politico: dall’essere noi un paese produttore di vino. In questi ultimi anni specialmente, le crisi vinicole, ripetute a breve distanza l’una dall’altra, indussero viticultori, enti locali, associazioni a chiedere soccorso al governo; ed a chiederlo sovratutto sotto forma di favori alla distillazione del vino, vinello e vinacce. «Poiché del nostro vino non sappiamo cosa farcene – esclamano i viticultori – ci sia consentito almeno farne dell’alcool! I consumatori italiani e stranieri che non vogliono saperne di bere tutta la quantità eccezionale di vino che le favorevoli stagioni ci regalano, lo berranno trasformato in spiriti, liquori, cognac, vermouth, marsala, o magari lo brucieranno sotto nome di alcool denaturato. Poiché il vino è una materia prima costosa e che a parità di condizioni non può assolutamente reggere alla concorrenza delle altre materie prime, granoni, melasse, ecc., con cui si può produrre l’alcool, è d’uopo che il governo ci aiuti concedendo favori specialissimi agli spiriti di vino».

 

 

Né il governo, spinto da potenti considerazioni politico – regionali, fu sordo alle voci dei viticultori. A parecchie riprese il regime fiscale degli spiriti fu rimaneggiato in guisa da costituire oramai una intricatissima matassa, che io non mi attenterò certo a sbrigliare tutta in un breve articolo. Basti dire che il regime normale, per le fabbriche con misuratore (e queste comprendono la massima parte della produzione nazionale) è questo: la imposta nominale sugli spiriti è di 200 lire per ogni ettolitro a 100° (già una delle tasse più tenui dei paesi civili, impulso inescusabile all’alcoolismo); ma’ poiché si concedono abbuoni variabili a seconda delle diverse qualità di spirito prodotto, non vi è neppure un ettolitro di spirito che paghi questa pur tenue tassa. Teoricamente l’abbuono dovrebbe concedersi solo per tener conto dei cali e delle perdite di distillazione e raffinazione; mentre in realtà varia a scopo protettivo. Le fabbriche di spirito ricavato dalle sostanze amidacee, dai residui della fabbricazione e raffinazione dello zucchero (melasse), dalle barbabietole, ecc., godono di un abbuono del 10% e pagano 180 lire per ogni ettolitro di spiriti. Le fabbriche di alcool di vinaccie, se «non cooperative» godono di un abbuono del 25% e pagano lire 150 per ettolitro; se «cooperative» del 28% e pagano 144 lire. Le fabbriche di alcool di vino o vinello, se «non cooperative» hanno l’abbuono del 35% e pagano 130 lire, se «cooperative» l’abbuono è del 40%, riducendosi la tassa effettiva a 120 lire per ogni ettolitro. Ciò in via normale; in via eccezionale è noto come sia stato prorogato ripetutamente per tutto il 1908 e per i primi mesi del 1909 un aumento di abbuono all’alcool di vino, portato al 40% per le fabbriche non cooperative (lire 120 di tassa effettiva) e del 45% per le fabbriche cooperative (lire 110 di tassa effettiva). Lo scopo degli abbuoni normali ed ancor più di quelli eccezionali concessi in così larga misura all’alcool di vinaccie e di vino era evidentemente quello di consentire ai viticultori, massime se riuniti in cooperative, uno sbocco al loro vino sovrabbondante.

 

 

Né i favori si limitano a questi. Poiché la legge in vigore consente ai distillatori l’abbuono non sulla tassa ma sullo spirito; il che vuol dire che un distillatore privato di 100 ettolitri di alcool di vino invece di pagare la tassa di 130 lire (200 meno il 5% di abbuono) per tutti i 100 ettolitri prodotti, può dividere il suo spirito in due parti: l’una di 6 ettolitri, schiava di tassa di 200 lire per ettolitro e l’altra di 5 ettolitri, assolutamente libera da tassa. Apparentemente è la stessa cosa, perché tanto vale pagare 130 lire per ettolitro su 100 ettolitri (tassa totale lire 13.000), quanto pagare 200 lire per ettolitro su 65 ettolitri (tassa totale lire 13.000). Il guaio si è che il distillatore comincia ad immettere nel consumo i 35 ettolitri di spirito, costituenti l’abbuono in natura e liberi perciò da qualunque tassa; e gli altri 6 ettolitri li potrà immettere in consumo, subito pagando la tassa, quando ciò gli torni conveniente, essendo elevati i prezzi degli alcools sul mercato. Data la pletora di alcools immessi in franchigia, è difficile che ciò accada; ed allora soccorre un’altra scappatoia espressamente voluta dal legislatore.

 

 

Sempre per favorire l’industria vinicola, che qui assumeva la specie di industria dei cognac, lo stato ha offerto invero ai distillatori il mezzo di non pagare la tassa nemmeno sui 6 ettolitri rimasti teoricamente soggetti all’intiera tassa di 200 lire per ettolitro. Infatti essi li possono introdurre senza cauzione e senza pagamento di tassa nei cosidetti magazzini fiduciari per cognac, versarli in fusti di legno, di ferro, di rame o di cemento, e lasciarli stare lì per almeno 3 anni. Alla fine del terzo anno essi hanno diritto di estrarre tre decimi dello spirito così depositato e che si suppone sia diventato – non di fatto, ma per definizione legale – cognac ed immetterlo nel consumo senza pagare alcuna tassa; e in seguito possono estrarre ogni anno, sempre in franchigia, un decimo dello spirito depositato, sicché alla fine dei 10 anni tutto lo spirito sarà entrato in consumo senza pagare all’erario neppure un centesimo di tassa. Non importa che il cognac debba avere, per essere tale, non più di 65 gradi e che esso debba avere un profumo ed un gusto speciali, che non si acquistano nelle botti di ferro o di cemento. Il legislatore ha voluto dare i suoi favori anche al cognac a 100ø e anche al cognac che di tale non ha se non il nome legale.

 

 

Finalmente – e mi fermo qui per non andare troppo per le lunghe – se il detentore di alcools schiavi dell’intiera tassa di 200 lire (quei 65 ettolitri dell’esempio fatto sopra), li esporta all’estero in natura o dopo averli aggiunti a vini, liquori, ecc., sia subito sia traendoli in qualunque momento a suo piacimento dai magazzini fiduciari di cognac, egli godrà fino all’ammontare massimo di 50.000 ettolitri all’anno per il complesso degli esportatori di alcools dell’abbuono o restituzione dell’intiera tassa. Cosicché i 35 ettolitri (che per le cooperative sono 40 e che in realtà per tutto il 1908 e il 1909 furono, per i provvedimenti eccezionali sovra ricordati, 40 ettolitri per i privati e 45 per le cooperative) di alcools lasciati introdurre nel consumo interno senza pagamento di tassa, perché si supponeva che la tassa di 200 lire fosse integralmente pagata dagli altri 65 (o 60 o 55) ettolitri, rimangono senza il dovuto contrappeso e la tassa non si sa da chi e quando si sarebbe finita di pagare.

 

 

Lo stato non poteva tardare ad accorgersi delle conseguenze disastrose del congegno da lui stesso volutamente formato. In via normale il consumo e la produzione dell’alcool in Italia raggiungono al massimo i 350.000 ettolitri, di cui 150.000 ricavati dalle melasse, 20.000 dai cereali (tutti questi paganti la tassa effettiva di 180 lire per ettolitro), 80.000 dalle vinaccie e 100.000 dal vino. Si può calcolare che nel solo 1908 l’alcool di vino immesso nel consumo senza pagamento di tassa grazie al sistema degli accresciuti abbuoni in natura sia salito a 170.000 ettolitri, diminuendo moltissimo il consumo delle altre specie di alcool. Contemporaneamente, per poter immettere in franchigia una siffatta straordinaria quantità d’alcool, era necessario utilizzare al massimo i magazzini di cognac e l’esportazione; e si calcola infatti che siano stati esportati 50.000 ettolitri di alcool con abbuono o restituzione completa di tassa e siano stati depositati nei magazzini d’invecchiamento ben 170.000 altri ettolitri. Se l’erario nulla perdeva per quello che si riferisce agli alcool esportati all’estero, in se stessi considerati, perdeva pere una somma ingente sugli spiriti che erano, in corrispondenza ad essi, stati immessi nel consumo interno senza pagamento di tassa e vedeva avvicinarsi a poco a poco il danno di perdere tutta la tassa sugli spiriti depositati nei magazzini di cognac. Nella relazione al disegno di legge di modificazioni al regime fiscale degli spiriti, che il governo ha presentato alla camera il 18 maggio 1909, per riparare ai danni più gravi della sua politica fiscale, così è descritto l’andamento delle riscossioni di tassa negli ultimi anni:

 

 

1905-906 L. 52.331.523
1906-907 L. 38.928.554
1907-908 L. 34.519.242
1908-909 (primi 10 mesi) L. 12.666.289

 

 

Sono circa 20 milioni di perdita che al minimo si avranno alla chiusura dell’esercizio in corso a causa di questa disgraziata faccenda degli abbuoni allo spirito di vino e delle facilitazioni ai pretesi cognac. A quanto si legge, li perdita derivante dagli abbuoni straordinari all’alcool di vino toccherà anzi al 30 giugno i 33 milioni di lire ai quali aggiungendo altri 42 milioni di perdita probabile futura sui cognac già immagazzinati a termini di legge, si ha una perdita complessiva di circa 75 milioni di imposta per l’erario pubblico.

 

 

Quali i benefici risultati di una perdita così ingente di reddito fiscale? Che si poterono distillare circa 5 milioni di ettolitri di vino, i quali furono pagati ai viticultori a non più di 70 centesimi il grado alcoolico, ossia in tutto non più di 5 milioni di lire. Che si è creata al posto, o meglio in aggiunta, della crisi vinicola una crisi degli alcool. Tutta la enorme massa di spirito prodotta negli esercizi 1907-908 e 1908-909 preme sul mercato italiano ed ha fatto ribassare per modo i prezzi che l’alcool da 315 lire circa al quintale al principio del gennaio 1908 discese a poco a poco a 250 lire nell’aprile scorso, togliendo ogni convenienza alla produzione degli spiriti di cereali e melasse e riducendo talmente anche il margine d’utile che si può avere dalla distillazione del vino, che i distillatori dovettero discendere ad offerte sempre minori per il vino; sicché questo da 85 centesimi per grado ettolitro discese a meno di 60 centesimi e discenderà ognor più, se continua la pletora sul mercato degli spiriti.

 

 

Si sperava insomma, concedendo favori di ogni sorta alla distillazione del vino, di risolvere la crisi vinicola, apprestando uno sbocco nuovo al vino trasformato in spirito. Ma il nuovo mercato fu presto saturo; e la crisi degli spiriti si ripercosse nuovamente sul vino, ridotto a vilissimo prezzo, malgrado il colossale salasso alle finanze pubbliche. Frammezzo a tutti questi dolenti – fisco, distillatori, viticultori – il solo lieto del disastro generale è il consumatore di alcools e di liquori. L’Italia fu reputata a lungo un paese sobrio, dove l’alcoolismo miete minori vittime che nel resto d’Europa. Anche questo vanto va diminuendo; e vari indizi ci ammoniscono sui pericoli gravi dell’inconsulto andazzo di andar diminuendo i prezzi dell’alcool nell’intento vano di curare le risorgenti crisi vinicole.

 

 

II.

Non l’urgenza di salvare dall’abbrutimento alcoolista le nostre popolazioni, ma il pericolo crescente della scomparsa di ogni reddito per le finanze pubbliche persuase il governo a cercare di porre rimedio all’imbroglio della legislazione fiscale sugli spiriti, che cercai sopra descrivere con rapidi tocchi. Che i rimedi siano stati efficaci e giusti, niuno è che, anche a priori, osi sperare; poiché si tratta di una imposta la quale non potrà trovare un chiaro assetto se non il giorno in cui, lasciata ogni altra preoccupazione da parte, si inspiri ad un fine puramente fiscale-morale. Tassa alta ed eguale per tutte le qualità di spiriti, salvo gli abbuoni effettivamente dovuti per ragioni di diversità di calo, raffinazione ecc. ecco l’ideale della tassa sugli spiriti. Finché si vorranno raggiungere altresì scopi di aiuto alla viticultura sofferente, non si riuscirà ad altro fuorché a compromessi: poco utili allo stato e pressoché inutili alla lunga, se non dannosi, per la viticultura. Vediamo almeno se il compromesso oggi proposto sia qualcosa di meno peggio del compromesso fin qui in vigore.

 

 

Par certo che, per l’avvenire, le norme riguardanti l’industria della produzione del cognac saranno grandemente migliorate. Invece di dare il diritto di depositare alcool di qualunque gradazione, magari a 100 gradi, si stabilisce che si possano depositare solo alcools di buon gusto con una ricchezza alcoolica non superiore a 65 gradi. Sul qual punto nessuno solleva eccezioni, poiché il cognac si può fabbricare solo con spiriti di gradazione non superiore a 65. Invece di permettere il deposito in botti di legno, di ferro, di rame o di cemento, si richiede il deposito in soli recipienti di legno. Il che appare anche ragionevole, allegandosi soltanto da taluni che i fusti debbano essere vecchi per dare allo spirito il sapore caratteristico dei cognac. Difficoltà questa, di trovare fusti vecchi, d’indole transitoria che non infirma la bontà della proposta governativa. Anche vuole il governo che si abbandoni il vecchio metodo di concedere dopo 3 anni il ritiro di tre decimi dell’alcool depositato in franchigia e in ogni anno successivo il ritiro di un altro decimo insino a che alla fine del decennio tutto l’alcool sia stato ritirato senza pagamento di veruna tassa. Per il futuro invece alla fine del quarto anno si concederà l’estrazione magari di tutto l’alcool depositato dietro pagamento della tassa per cui lo spirito è gravato (tassa effettiva), diminuita dei quattro ventesimi; ed in ogni anno successivo l’abbuono di tassa crescerà di un ventesimo sino al dodicesimo anno; cosicché alla fine del dodicennio l’alcool potrà essere estratto pagando la tassa effettiva ridotta dei dodici ventesimi. Si afferma da qualche perito che l’abbuono è insufficiente e che l’industria dei cognac ne sarà danneggiata, non bastando l’abbuono dei dodici ventesimi della tassa a compensare i cali di raffinazione e di giacenza e le perdite di interesse durante il dodicennio. È questione tecnica che deve essere posta e risoluta sulla base di dati precisi i quali finora difettano.

 

 

Ciò per l’avvenire. Il governo non si è però voluto contentare di impedire che in futuro si costituissero depositi ingenti di pseudo-cognac in franchigia di tassa – e di far ciò aveva ben ragione -; ma volle, come è suo costume, rimangiarsi anche le promesse fatte in passato e sulla cui fiducia privati capitalisti avevano impiegato somme cospicue nel deposito degli spiriti. Invece di conservare agli spiriti già depositati la promessa franchigia, ora si vuole limitarla a quei cognac i quali siano diluiti a 65 gradi e posti in fusti di legno. Per gli spiriti che siano conservati, come permetteva la legge fin qui vigente, ad una gradazione alcoolica superiore e in botti di ferro, rame o cemento, si concederà solo l’abbuono di tanti ventesimi della tassa di lire 200 quanti furono gli anni di giacenza sino al massimo di un decennio; cosicché quegli spiriti che alla fine del decennio si sarebbero potuti ritirare in perfetta esenzione di tasse, ora pagheranno alla stessa epoca i dieci ventesimi di 200 lire, ossia lire 100 all’ettolitro a 100 gradi. Il danno per gli speculatori sarebbe piccolo se essi, entro i 6 mesi prescritti,’ potessero procurarsi i 400.000 ettolitri di fustame necessari per accogliere i 300.000 ettolitri di alcool, diluito a 65 gradi, che pare esistano oggi nei magazzini di cognac. Dicono però essi che è materialmente impossibile procurarseli entro i sei mesi e nemmeno farli fabbricare, data la potenzialità attuale dell’industria; cosicché la facoltà ad essi consentita si converte in illusione, anzi in vero tranello; e di fatto essi saranno costretti a pagare 100 lire di tassa per ogni ettolitro di quell’alcool a cui una legge dello stato aveva solennemente promesso l’esenzione.

 

 

Se le cose osservate dai capitalisti detentori di alcool sono vere, essi però devono della propria sciagura incolpare sovratutto se stessi. Le promesse fatte dallo stato erano troppo laute perché ci si potesse far sopra affidamento; dirò anzi che erano promesse disoneste perché andavano contro alle ragioni supreme dell’interesse pubblico. E vero che una persona proba e scrupolosa mantiene le fatte promesse, anche se esse sono esagerate, e paga l’interesse usuraio del 10 o 20% quando esso fu volontariamente stipulato. Perché hanno aspettato sino ad oggi i capitalisti ad accorgersi che lo stato non è una persona proba e scrupolosa osservatrice dei patti buoni e cattivi volontariamente stipulati? O non è noto che lo stato italiano ripetute volte mancò agli impegni solennemente conchiusi, quando a lui non fece più comodo osservarli? A ragionare colla diritta coscienza dei galantuomini, fece malissimo lo stato a promettere l’immunità da tassa agli pseudo-cognac; ma una volta fatta l’indebita promessa, doveva mantenerla. Il ragionamento non è acconcio, giova riconoscerlo, alla coscienza elastica dello stato, il quale può sempre dire mi piace mancare ai patti, quia nominor leo. Imparino i capitalisti a non essere ingordi e a non prestar fede alle promesse dello stato, quand’esse sono troppo laute.

 

 

Nessuna obiezione credo si possa muovere ad un altro punto essenziale della riforma: ossia alla sostituzione degli abbuoni sulla tassa agli abbuoni in natura. Ho già spiegato come colla legge vigente il distillatore abbia diritto di ammettere nel consumo 35 ettolitri su 100 in franchigia da tassa, pagando lire 200 per ettolitro sui restanti 65. Il metodo, che si dice degli abbuoni in natura, ha avuto l’inconveniente di produrre sul mercato un ingorgo di spirito immune, mentre quello schiavo dell’intiera tassa di lire 200 prendeva altre vie, dei magazzini di cognac o dell’esportazione. Per l’avvenire l’abbuono si darà sulla tassa; cosicché il distillatore di vino pagherà per tutto l’alcool prodotto la tassa di lire 200, diminuita del 5%, ossia di lire 136 per ettolitro. I distillatori di altre materie godranno pur essi dell’abbuono solito calcolato sempre sulla tassa. Neppure un ettolitro potrà giungere al consumo senza avere assolto la tassa diminuita dell’abbuono. La riforma è ragionevole, toglie una fonte di gravi abusi e di perdite per lo stato e va lodata senza riserve.

 

 

Le percentuali degli abbuoni in vigore sono tutte mantenute, eccetto una, quella alle cooperative distillatrici di vino e di vinello. Il sistema vigente normale – ricordiamolo – concede alle fabbriche non cooperative di alcool di vino un abbuono del 35% ed alle cooperative del 40%. In via straordinaria l’abbuono è stato pere elevato persino al 50% e nel 1908 al 40 e 45% per le due qualità di fabbriche. La facoltà spettante al governo di elevare la misura dell’abbuono aveva dato luogo, dice la relazione ministeriale, ad agitazioni continue nelle regioni vinicole, talvolta artatamente create, sicché si propone venga senz’altro abolita. In compenso si eleva in maniera permanente la misura dell’abbuono alle fabbriche cooperative, ed a queste sole, al 45% della tassa. Lo spirito di vino prodotto dalle cooperative pagherà dunque solo 110 lire di tassa all’ettolitro, mentre quello non cooperativo pagherà ancora 130 lire; e lo spirito di cereali o melasse pagherà 180 lire.

 

 

Prima di dare un giudizio sulla opportunità della permanente e rilevante riduzione di tassa sullo spirito «cooperativo» di vino, importa di dire come all’insigne favore concesso alla viticultura se ne accompagni un altro. Finora agli alcools di vino o vinaccie esportati in natura all’estero veniva concesso l’abbuono di tutta la tassa di 200 lire, fino all’ammontare pere di soli 50.000 ettolitri all’anno. Il limite dei 50.000 ettolitri era richiesto perché, col metodo in uso degli abbuoni di tassa in natura, una esportazione all’estero di 50.000 ettolitri di alcool schiavi dell’intiera tassa di lire 200 voleva dire la immissione nel consumo interno di 17.500 ettolitri (il 35% di abbuono), liberi da tassa. Adesso col metodo degli abbuoni sulla tassa il pericolo non vi è più: tutto l’alcool di vino dovendo pagare la tassa di 130 o 110 lire all’ettolitro. Per favorire l’esportazione e costituire per il nostro vino convertito in spirito uno sbocco all’estero si propone di concedere ad ogni ettolitro di alcool di vino esportato all’estero un abbuono dei nove decimi della tassa intiera ossia di lire 180. Poiché quell’alcool paga in realtà solo la tassa di lire 130 o 110, la proposta vuol dire semplicemente questo: che ogni ettolitro di alcool di vino esportato all’estero, il quale ha pagato una tassa di lire 130 o 130, riceve all’atto della esportazione un rimborso di lire 180; ossia riceve un premio di lire 50 per ettolitro se prodotto da distillatori privati o di 70 se prodotto da cooperative. In altri termini, se noi supponiamo che per produrre un ettolitro di alcool a 100° siano necessari 9 ettolitri di vino, lo stato darà in avvenire un premio alla esportazione del vino trasformato in alcool, di lire 5,50 circa se il vino fu distillato da privati, di lire 7,70 se il vino fu distillato da cooperative. E ciò senza limite alcuno; lo stato dovrà pagare il premio di esportazione, sul vino, qualunque sia la quantità di vino esportata all’estero sotto forma di alcool, anche di 5 o 10 o 20 milioni di ettolitri.

 

 

Basta il sin qui discorso per mettere in chiaro l’enormità delle proposte. Per lenire la crisi vinicola si vogliono arrecare al paese ed al tesoro pubblico due gravi colpi:

 

 

  • favorire la distillazione del vino per il consumo interno non in contingenze straordinarie di grossissimi raccolti, ma in maniera permanente. Ogni cooperativa, vera o falsa, di piccoli o grossi proprietari, di vignaiuoli o di latifondisti milionari, potrà fabbricare alcool di vino pagando solo 110 lire di tassa. È vero che il disegno di legge limita il privilegio alle «società cooperative di proprietari e coltivatori di fondi, legalmente costituite e lavoranti vino proveniente da uve prodotte nei fondi posseduti o coltivati dai soci». In realtà sarà difficile impedire le frodi, che già avvengono in non piccola misura oggidì, assumendo le cooperative la distillazione magari di tutte le uve del loro territorio. Gli alcoolisti e gli amatori di liquori in Italia avranno la grande soddisfazione di bere solo dell’alcool di vino, ed insieme potranno benedire la crisi vinicola che loro consente di pagare una delle più risibili e vergognosamente tenui tasse del mondo;
  • concedere ad ogni ettolitro di vino esportato all’estero sotto forma di alcool «cooperativo», un premio di esportazione di circa lire 7,70 all’ettolitro. Se si pensa che a quel prezzo i viticultori oggi sono disposti a vendere tutti i vini mediocri che ingombrano le loro cantine, ciò vuol dire che lo stato, d’ora in poi, si farà compratore, a quel prezzo, di vino per qualunque, anche cospicua, quantità. Infatti pagare lire 7,70 ad ogni ettolitro di vino esportato sotto forma di alcool è la stessa precisa cosa che comprare sul mercato il vino a lire 7,70 all’ettolitro e regalarlo gratuitamente alle cooperative perché lo esportino all’estero. Le quali cooperative a loro volta potranno (e dovranno, perché non potrebbero per la concorrenza all’estero vendere a prezzi superiori) vendere l’alcool ai consumatori stranieri a un prezzo non superiore al puro costo della distillazione, calcolato come zero il costo del vino, che infatti fu loro regalato dallo stato coi denari dei contribuenti. Si può immaginare nulla di più grottesco di uno stato italiano che compra tutto il vino mediocre nelle nostre cantine per regalarlo – questa è la parola dura, ma vera – ai consumatori stranieri?

 

 

Un’altra ipotesi si può fare, ugualmente disastrosa per le finanze dello stato: che cioè il premio di lire 70 all’esportazione dell’alcool non possa essere dato in denaro, estandovi i trattati di commercio con parecchie nazioni straniere. Sarà giuocoforza darlo allora in natura, (o dove vanno le proposte fatte prima per sopprimere gli abbuoni in natura?) se non si vuole che la legge divenga lettera morta; ossia sarà d’uopo, per ogni ettolitro di alcool esportato all’estero, concedere l’immissione in franchigia nel consumo interno di tanto alcool quanto avrebbe dovuto pagare la tassa effettiva di 70 lire uguale al premio sull’alcool esportato. Se si pensa che sui 350.000 ettolitri di consumo interno, 100 mila circa sono di alcool denaturato, che già non paga tassa, un semplice calcolo basta a dimostrare che i restanti 250.000 ettolitri potranno essere immessi nel consumo interno in assoluta esenzione di tassa appena l’esportazione all’estero abbia raggiunto i 400.000 ettolitri. Poiché è probabile che questa cifra venga raggiunta, anche negli anni ordinari, ciò vuol dire che lo stato non incasserà nemmeno un centesimo della tassa sugli alcools; ed anzi correrà rischio di sborsare grosse somme in premi in denaro, se la esportazione supererà i 400.000 ettolitri e vi saranno paesi stranieri che accetteranno l’alcool premiato in denaro. È un abisso senza fondo, una voragine destinata ad ingoiare i fondi disponibili del bilancio italiano. È lecito, mentre premono tante necessità militari ed economiche, rovinare in siffatto malo modo le finanze dello stato?

 

 

Almeno con questo sacrificio si riuscisse ad attenuare la crisi vinicola! Invece esso la perpetuerà e la aggraverà. Procurare nuovi ed artificiali sbocchi al vino cattivo e mediocre è il peggior servizio che si possa rendere alla viticoltura nazionale. Solo i politicanti, che vogliono atteggiarsi a salvatori dell’economia nazionale, possono avere dimenticato questa verità evidente che le crisi non si curano perpetuando la causa del male. La crisi edilizia a Roma non fu curata permettendo ed imponendo alle banche di emissione di imprestare nuove somme ai costruttori di case. La causa della crisi era l’eccessiva costruzione di case ed era assurdo pretendere di toglierla di mezzo buttando sul mercato altre case ancora. Gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito. Oggi la viticultura soffre di crisi perché si coltiva la vigna in troppi luoghi disadatti, in pianura, dove il terreno produce vinello e non vino generoso. Bisognerebbe svellerle queste viti sovrabbondanti, perché la crisi finisse. Invece coi premi di esportazione, e colla sicurezza di vendere coll’aiuto dello stato tutto il vino cattivo, la sovraproduzione perdurerà e magari crescerà. Poiché vi sono terreni atti a produrre vino mediocre a lire 7,70 all’ettolitro, non mi meraviglierei punto se la superfice coltivata a vigna aumentasse. Se questa sia una politica sensata, lascio a tutti il giudicare. A disdoro nostro, ci penseranno gli stati stranieri a farci rinsavire. Già immagino le grida dei distillatori stranieri i quali si vedranno minacciati dalla concorrenza dell’alcool di vino premiato dallo stato italiano. Prepariamoci alle inevitabili rappresaglie, che saranno l’ultimo tristo frutto di una politica dannosa agli interessi dell’erario, fomentatrice dell’alcoolismo ed inutile, anzi perniciosissima, alla viticultura nazionale.

 

 

III

Colle modificazioni portate dalla giunta generale del bilancio (relatore l’on. Abignente) al disegno di legge per modificazioni al regime fiscale degli spiriti, il grave problema sembra avviarsi ad una soluzione, non certo ragionevole, ma assai meno pericolosa, per le finanze pubbliche e per le sorti della viticultura. La critica principale mossa al disegno di legge governativo si riferiva al premio concesso, per quantità illimitate, all’esportazione dell’alcool di vino. Diceva il progetto: i privati distilleranno quanto vino a loro piacerà pagando o rimanendo obbligati a pagare lire 130 di tassa per ettolitro, e le cooperative lire 110. All’atto della esportazione all’estero il governo rimborserà od abbuonerà non la tassa effettivamente pagata o dovuta, ma invece la somma di lire 180 per ettolitro. Era presto fatto il conto che i distillatori ricevevano all’atto dell’esportazione, se privati, un premio di lire 180-130 ossia di 50 lire per ettolitro se cooperative di lire 180-110, ossia di 70 lire per ettolitro.

 

 

Era anche facile vedere il pericolo gravissimo che la norma celava per la finanza dello stato. L’on. Abignente nella sua relazione calcola in 15 milioni di ettolitri la sovraproduzione di vino del 1908. Destinandone anche solo 12 milioni alla distillazione per l’estero, sarebbero circa 1.300.000 ettolitri di alcool che avrebbero potuto godere del premio di esportazione. A 60 lire in media, la somma sborsata dal governo avrebbe potuto giungere ad 80 milioni di lire, ossia lo stato in un anno solo di sovraproduzione di vino avrebbe dovuto spendere più del doppio dell’incasso totale della tassa sugli spiriti in due anni!

 

 

Il pericolo era così grave che giunta del bilancio e governo dovettero rimanerne colpiti e lodevolmente corsero ai ripari. Cosa curiosissima, mentre la relazione dell’on. Abignente si diffonde in modo minuzioso a spiegare le ragioni degli emendamenti, anche secondari, portati al disegno di legge governativo, su questo punto, che di esso costituiva l’errore più grossolano, non dice verbo. Anzi incidentalmente cerca di dimostrare che i danni della temuta esportazione premiata non sono eccessivi: ma lo dimostra non in base alle proposte governative, bensì ai suoi emendamenti. L’errore commesso era così inverosimilmente grosso che la giunta credette miglior partito passarlo sotto silenzio per evitare che alla camera se ne discorresse troppo.

 

 

Ecco ora quanto la giunta sostituisce alla vecchia proposta governativa. Invece di una «restituzione di tassa» di 180 lire per ettolitro e per una quantità illimitata di spirito esportato, si darà un «abbuono» od «accreditamento» di 200 lire per ettolitro fino al massimo di 50.000 ettolitri annui di spirito di vino e di vinaccia, e di 180 lire per altri 50.000 ettolitri di spirito di qualunque materia. Il maggior pericolo è tolto con la limitazione posta alla quantità di spirito da esportarsi con premio. Col metodo prima proposto dal governo si correva rischio di perdere in un anno solo di sovraproduzione il doppio del prodotto di un biennio di tassa. Colle nuove proposte, supponendo che i 50.000 ettolitri di spirito di vino siano esportati dalle cooperative, il premio sarà di lire 200-110 = 90 lire per ettolitro, ossia per 50.000 ettolitri, la perdita del fisco sarà di 4 milioni e mezzo di lire. Per diminuire alle cooperative il dispiacere di non poter più esportare in quantità illimitata, si è aumentato il premio da 70 a 90 lire per ettolitro e per 50.000 ettolitri. Per gli altri 50.000 ettolitri di spirito di qualunque materia, il premio (differenza fra 180 lire e la tassa pagata) sarà diverso a seconda delle materie prime adoperate, e calcolandolo in media a 30 lire per ettolitro, avremo un’altra perdita di 1.500.000 lire ed in tutto, con la precedente, di 6 milioni di lire all’anno.

 

 

È lamentevole che il tesoro italiano debba buttare via sei milioni di lire all’anno, senza nessun vantaggio utile alla viticultura, che si pretende di favorire, anzi con suo danno certissimo. Possiamo consolarci pensando che una perdita di 6 milioni è minore dell’altra di 30 o 40 che il disegno governativo minacciava.

 

 

È lamentevole ancora che si provochi quella perdita – minore o maggiore -, ben conoscendo la sua inutilità. Il relatore on. Abignente s’è fatto paladino della restrizione della cultura della vite, invocando anzi leggi stimolatrici e quasi coercitive al riguardo per porre adeguato rimedio alla crisi vinicola; ed ha aggiunto critiche vivaci contro il rimedio «assolutamente inadeguato» e come tale «esasperante» della distillazione di soli 4 milioni di ettolitri di vino per esportarlo sotto forma di spirito, notando che «il peggiore dei rimedi, a codesti fenomeni della produzione, è proprio quello che sicuramente non riesca al fine; perciocché, oltre al danno dell’erario è lo stato, è l’autorità dello stato che ne restano sminuiti di fronte alle popolazioni».

 

 

Come mai accada che il relatore della giunta generale del bilancio riconosca:

 

 

  • unico rimedio alla crisi vinicola essere lo spiantamento delle viti nei luoghi disadatti;
  • la esportazione di soli 4.000.000 ettolitri di vino, trasformato in 400.000 ettolitri circa di spiriti, essere rimedio inadeguato ed esasperante; e poi dopo aver tutto ciò dimostrato e spiegato, concluda col proporre di favorire con premi l’esportazione di 100.000 ettolitri di spiriti, ossia tutt’al più di 1.000.000 di ettolitri di vino, non si riesce a capire. Se la esportazione di soli 400.000 ettolitri è esasperante cosa mai dovrà dirsi di una esportazione massima di 100.000 ettolitri?

 

 

Un’altra dimenticanza si nota nella relazione Abignente, laddove non si dice il motivo per cui alle parole di «restituzione di tassa» si sono sostituite le parole «abbuono» od «accreditamento». Probabilmente il governo non avrebbe potuto dare in denaro il premio di 50 o 70 lire per ettolitro di spirito esportato, ostando a ciò i trattati di commercio con le nazioni straniere, ed il premio avrebbe quindi dovuto essere pagato in natura, colla immissione in franchigia nel consumo interno di una corrispondente quantità di spirito. La sostituzione delle parole «abbuono» ed «accreditamento» all’altra «restituzione di tassa» ha appunto questo significato. Invece di pagare lire 4.500.000 di premi ai 50.000 ettolitri di spirito di vino esportati all’estero, si accrediteranno i produttori – esportatori per ugual somma, autorizzandoli ad immettere nel consumo, se cooperative, ad esempio, ben 40.000 ettolitri di spirito in franchigia di tassa. Per gli altri 50 mila ettolitri di spirito di qualunque materia esportati all’estero, saranno 10.000 ettolitri circa che entreranno in franchigia nel consumo interno. Su 250.000 ettolitri di spirito consumati in Italia (oltre quello denaturato) ve ne sarà circa un quinto che in maniera permanente godrà dell’immunità da ogni imposta. Un quinto è meno del tutto, giova riconoscerlo ancora una volta, ma è pur sempre un sacrificio irragionevole. Tanto più che non si sa se questi premi, anche se dati in natura, siano legali, ovvero siano consentiti dai trattati di commercio. L’on. Abignente nulla risponde alle osservazioni che su queste colonne, sulla «Tribuna» e sovratutto da Edoardo Giretti sul «Lavoro» e sul «Sole» furono mosse in merito alla legalità dei premi, palesi o larvati, di esportazione. Il Giretti ha citato gli articoli dei trattati di commercio colla Svizzera, con la Russia, con la Rumenia, con la Serbia, con l’Austria-Ungheria, con la Germania, che sembrano vietare in modo chiarissimo siffatti premi. Citiamo, per brevità, solo gli articoli 7, 8 e 9 del trattato di commercio del 13 luglio 1904 tra l’Italia e la Svizzera:

 

 

Art. 7. I diritti gravanti la produzione, la preparazione o il consumo di un articolo qualunque non possono essere più elevati o più onerosi per gli articoli importati dall’uno dei due paesi sull’altro che per i prodotti indigeni.

 

 

Art. 8. I diritti come le tasse interne gravanti la produzione o la preparazione delle merci possono essere restituiti, in tutto od in parte, all’atto della esportazione dei prodotti che li hanno assolti o delle merci che sono state fabbricate cogli stessi prodotti. Ciascuna delle parti contraenti si impegna, per contro, a non accordare premio di esportazione per qualunque articolo e sotto qualsiasi titolo o qualsiasi forma, senza il consenso dell’altra parte.

 

 

Art. 9. I due governi si riservano la facoltà di colpire i prodotti alcoolici o fabbricati con alcool con un diritto equivalente ai pesi fiscali di cui è gravato, all’interno del paese, l’alcool adoperato.

 

 

La stessa disposizione per la clausola della nazione più favorita, si estende alla massima parte delle altre potenze, cosicché noi potremmo essere costretti a deferire la questione ad un tribunale arbitrale, il quale potrebbe, con grande nostro disdoro, dichiarare la legge interna italiana violatrice dei trattati di commercio.

 

 

Se la Svizzera in passato non ha protestato, ciò accadde perché la esportazione dello spirito era finora stata irrilevante; ma da 2.612 ettanidri nel 1906-907 era salita nel I907-908 a 11.482 ettanidri e nel 1908/909 toccò il massimo finora consentito di 50.000 ettanidri.

 

 

Anche senza ricorso a tribunale arbitrale, i paesi danneggiati potranno, ora che il massimo viene elevato a 100.000 ettolitri, ritorcere contro di noi il danno, colpendo le nostre fiorenti esportazioni di vini tipici, marsala e vermouth. Come mai si è lasciato passare sotto silenzio il gravissimo problema?

 

 


[1] Con il titolo La questione degli alcools. I disastrosi risultati della legislazione vigente. [ndr]

[2] Con il titolo Le riforme al regime degli alcol. Un abisso senza fondo per lo stato e l’aggravamento della crisi vinicola. [ndr]

[3] Con il titolo La legge sugli spiriti modificata. La questione internazionale. [ndr]

I provvedimenti ferroviari

I provvedimenti ferroviari

«Corriere della Sera», 1 giugno 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 704-710

 

 

Il dibattito tra l’on. Bertolini, ministro dei lavori pubblici e l’on. Rubini, relatore della minoranza della giunta del bilancio sui progetti ferroviari è stato davvero alto. Erano in campo le maggiori questioni dell’assetto delle ferrovie di stato, e furono trattate con larghezza, precisione e vigoria di argomenti non solita ad ammirarsi nelle discussioni parlamentari. Ora che il problema sta per venire dinanzi alla camera, non sembra inutile dire per sommi capi quali sieno le due tendenze fondamentali che si contendono il terreno. Non ripeteremo i particolari minuti della discussione sui singoli punti del progetto; né diremo di nuovo le ragioni pro e contro l’assegnazione di una quota del 3,65% invece del 2,50% o di una dell’1,50 invece del 2%. I lettori possono conoscere i particolari nelle relazioni Bertolini, Rubini e Pozzi, ed è probabile che essi desiderino piuttosto conoscere la «filosofia» di quelle cifre che ai profani debbono essere apparse quasi incomprensibili.

 

 

Se invece di una pubblica amministrazione ci si trovasse dinanzi ad una impresa privata delle ferrovie che fosse amministrata saggiamente, che volesse dare ai suoi azionisti i dividendi effettivamente guadagnati, che non temesse anzi di mettere da parte ogni anno una porzione dei dividendi per costituirsi una riserva di sicurezza e per essere sicura di non avere gli impianti od il materiale rotabile valutati in bilancio ad un prezzo superiore a quello effettivo di mercato, niun dubbio che quella privata azienda seguirebbe i criteri dell’on. Rubini. Anzi li accentuerebbe sensibilmente; poiché i criteri seguiti dall’egregio deputato lombardo si può dire rappresentino il minimum di una saggia e previggente amministrazione. Questa desidera piuttosto, in caso di liquidazione, essere in grado di ripartire agli azionisti 120 o magari 130 lire per ogni 100 lire di capitale versato, piuttosto che correre il rischio di ripartirne solo 70 od 80. Per chi voglia essere sicuro di non perdere proprio nulla del capitale versato, conviene largheggiare un po’ negli ammortamenti e nelle riserve in guisa che il capitale vieppiù si rafforzi e la effettiva consistenza patrimoniale non corra rischio di discendere al disotto dei valori nominali di inventario. Né l’azienda corre alcun pericolo nel seguire questi criteri di rigida amministrazione. I dividendi distribuiti saranno solo di 20 lire invece delle 25 che potrebbero a stretto rigore essere distribuite; ma la borsa ben sa la cagion vera di questi moderati utili ed è dispostissima a pregiar maggiormente un titolo del reddito di sole 20 lire ma incrollabile nella sua consistenza patrimoniale in confronto di un altro titolo del reddito di 25 lire, per cui è incerto sempre se per imprevedute circostanze il capitale effettivo non abbia a ridursi al disotto del valore nominale. Gli azionisti, se non sono ingordi oltremisura e se detengono il titolo a scopo di impiego permanente del loro denaro, approvano siffatta condotta parsimoniosa, poiché alla perdita presente nei dividendi annui contrappongono il guadagno di un migliore apprezzamento in borsa del titolo e la speranza, anzi la certezza di rafforzati dividendi avvenire.

 

 

Lo stato non può – parmi osservare in succo l’on. Bertolini – seguire questa politica nella gestione della sua azienda ferroviaria. Od almeno la potrebbe seguire se i suoi bilanci presentassero larghi avanzi e se questi non fossero già ipotecati per altri ed urgenti bisogni. Gli azionisti delle ferrovie di stato sono i contribuenti (disgraziati azionisti, come si dirà poi), rappresentati dal tesoro dello stato. Se, per accumulare un vistoso fondo di riserva o per ammortizzare le spese di impianto o per rinnovare il materiale, si diminuisce troppo il prodotto netto, a parità di altre condizioni accadrà che il tesoro, avendo minori entrate, potrà soddisfare a minori bisogni pubblici, dovrà trascurare alcune spese urgenti militari o navali o relative alla pubblica istruzione od al rimboschimento, ecc. ecc. O se il tesoro dovrà fare ugualmente queste spese, dovrà ricorrere all’accensione di debiti. Se la compagnia privata, distribuendo ogni anno 20 lire invece di 25 di dividendo, è riuscita ad aumentare la consistenza patrimoniale da 100 a 120 nessun danno ne viene agli azionisti, come sopra si dimostra. Se l’azienda ferroviaria mette da parte qualcosa per costituirsi un grosso fondo di riserva, se essa inscrive nel conto passivo delle quote di ammortamento e rinnovazione troppo vistose, grazie alle quali essa migliora ed aumenta il proprio patrimonio, non contentandosi di conservarlo intatto, evidentemente essa alla fine dell’anno non potrà versare al tesoro dello stato i 60 od i 50 milioni di prodotto netto, ma solo 40 o 30 milioni; ed il tesoro non potrà far fronte ad altre spese, diverse dalle ferroviarie e pur considerate urgentissime, o volendole ugualmente fare, dovrà istituire nuove imposte o contrarre debiti. L’azienda ferroviaria non ha nemmeno la soddisfazione di vedere meglio quotate le sue obbligazioni (qui non si parla di azioni) emesse per provvedere alle spese in conto capitale, quanto più essa migliora la sua consistenza patrimoniale, riducendo il prodotto netto da versarsi al tesoro. Le obbligazioni; ferroviarie non sono invero garantite soltanto dal patrimonio ferroviario, ma da tutto l’insieme delle attività e dei redditi dello stato, talché esse avrebbero magari l’istesso valore il giorno che per qualche accidente le ferrovie non avessero più alcun valore. La diminuzione del prodotto netto serve soltanto a mettere in cattiva luce i dirigenti delle ferrovie, poiché l’opinione pubblica non distingue tanto per il sottile sulle cause che hanno prodotto la diminuzione e non osserva se per caso essa sia dovuta alle abbondanti rinnovazioni od ai larghi ammortamenti; ma, guardando solo alla cifra riassuntiva finale, grida all’imperizia quando vede un prodotto netto di 30 milioni e lo confronta con i 60 che si ottenevano dal tesoro all’epoca delle ferrovie private. La disillusione e le critiche del pubblico non sono tali da incoraggiare nell’opera loro i dirigenti delle ferrovie di stato che non possono trarre soddisfazione bastevole dalle meschine paghe che loro sono concesse, di gran lunga minori di quelle che otterrebbero nell’industria privata, ed aspirano giustamente a guiderdoni morali di pubblica estimazione, i soli che le moderne democrazie usino concedere ai propri funzionari.

 

 

Aggiungasi. Una società privata, in sede di previsione, può stabilire, a cagion d’esempio, il 3,65% voluto dal Rubini come quota per il rinnovamento del materiale rotabile invece del 2,50% proposto dal ministro: perché è interesse degli amministratori di spendere di fatto solo ed esclusivamente la somma necessaria all’uopo. Se un risparmio vi sarà, tanto meglio, andrà ad accrescere gli utili o ad impinguare qualche riserva non fornita a sufficienza. In una azienda pubblica le cose non procedono nella medesima maniera. Se in bilancio è stabilita una quota minima del 2,50% per il rinnovamento del materiale rotabile, l’amministrazione forse cercherà di contenere la spesa entro i confini stabiliti dalla legge, per non suscitare critiche, e, non riuscendovi, chiederà un maggiore stanziamento con una nota di variazione. Se si aumenta la quota al 3,65% l’amministrazione spingerà sicuramente la spesa sino a raggiungere quel limite minimo. Basta conoscere la psicologia dei funzionari per persuadersi che questa è la verità. L’amministrazione considera di sua proprietà fin l’ultimo centesimo della somma stanziata in bilancio. Se sono stanziate 100.000 lire, tutte si debbono spendere; e nemmeno un soldo deve andare in economia. L’economia profitterebbe al tesoro dello stato, mentre la spesa avvantaggia quella speciale azienda, anzi quel determinato servizio!

 

 

Una impresa privata la quale riuscisse a mantenere intatti al valore di 100 i propri impianti e contemporaneamente potesse rimborsare agli azionisti 10 lire per ogni 100 del capitale versato, si considererebbe fortunata ed acquisterebbe nome di bene amministrata, perché gli azionisti vedrebbero ridotto il loro versamento da 100 a 90 e conserverebbero il possesso di un’azione il cui valore effettivo, secondo la stima degli impianti, è sempre di 100. La ferrovia di stato non può fare altrettanto, perché le 10 lire con cui rimborserebbe parte del capitale che le ha servito per gli impianti – pure conservando intatti con la quota di rinnovazione questi medesimi impianti – le ha dovute togliere al prodotto netto da versarsi al tesoro dello stato; e non c’è sugo ad ammortizzare il capitale, ossia a rimborsare debiti propri dell’azienda ferroviaria, quando d’altro canto lo stato, proprietario delle ferrovie, deve far nuovi debiti per far fronte alle spese a cui vengono meno i prodotti netti ferroviari. È il caso della duplicazione fra ammortamento finanziario dei 527 milioni di debito fatto per pagare il materiale ferroviario alle ex società ed ammortamento tecnico del medesimo materiale, mercé una quota di rinnovazione del 2,50%, su cui l’on. Bertolini insiste tanto.

 

 

In conclusione l’amministrazione ferroviaria deve muoversi su un filo di rasoio. Essa non deve né arricchirsi né impoverirsi. Essa deve fissare precisamente quelle quote di rinnovazione, di riserva, di ammortamento che valgano a mantenere il patrimonio ferroviario al suo punto iniziale, non un centesimo più, non un centesimo meno. Non un centesimo di più perché altrimenti si aumenta bensì il valor patrimoniale ma diminuisce il prodotto netto da versarsi al tesoro ed i contribuenti si dolgono. Non un centesimo meno perché in tal caso un po’ per volta gli impianti ed il materiale ferroviario, non essendo abbastanza riparati e rinnovati, si deteriorano e diminuiscono di valore, di fronte ad un debito costante. Quale sia questo punto giusto, al disopra del quale si danneggiano le ragioni dello stato ossia dei contribuenti mentre al disotto si cade nel baratro dei disavanzi, non è certo agevole a stabilirsi. I governi parlamentari sono propensi piuttosto a rimanere al disotto della giusta misura tecnica. Se supponiamo che la giusta misura della quota necessaria per la rinnovazione del materiale rotabile sia del 3% su un prodotto lordo di 400 milioni di lire, ossia risulti in cifre assolute di 12 milioni di lire all’anno (facciamo una ipotesi qualunque solo esemplificativa) e che in base a questa ed alle altre spese il prodotto netto da versarsi al tesoro sia di 40 milioni di lire; è chiaro che l’aumento o la diminuzione della quota di 0,5% al disopra o al disotto del 3% produce un aumento od una diminuzione di spesa di 2 milioni di lire all’anno (0,5 % su 400 milioni di lire), e quindi inversamente una diminuzione od un aumento di 2 milioni di lire nel prodotto netto da versarsi al tesoro. I dirigenti le ferrovie preferiscono diminuire la quota al 2,50% perché in tal caso le spese diminuiscono di 2 milioni e il prodotto netto sale da 40 a 42 milioni di lire. È vero che, essendo il 2,50 % una quota troppo scarsa, il materiale rotabile non è giustamente rinnovato e dopo 10 o 20 anni occorrerà fare d’un colpo un grosso debito che assorbirà ad usura il maggior provento netto avuto dal tesoro nel frattempo. Ma ciò non conta in un governo parlamentare perché la lode per i prodotti netti cresciuti da 40 a 42 milioni l’hanno i ministri dell’oggi, mentre il biasimo del grosso debito futuro l’avranno ministri in carica fra 10 o 20 anni.

 

 

Tutto ciò è detto a cagion d’esempio. Se in pratica si avvicini più alla giusta misura per il rinnovamento del materiale rotabile il 2,50% dell’on. Bertolini od il 3,65% dell’on. Rubini, se per la rinnovazione della parte metallica dell’armamento bastino lire 6.640.134 o lire 6.736.522, se per la manutenzione ordinaria delle linee siano sufficienti lire 1.000 per km o siano necessarie lire 1.200, ecc. ecc., è questione tecnica che solo i peritissimi possono risolvere. Auguriamoci che nel parlamento prevalgano i criteri più sicuri di quei tecnici che non vogliono arricchire, ma neppure impoverire l’azienda ferroviaria, astrazion fatta da qualunque considerazione politica momentanea.

 

 

Purtroppo, anche così facendo, il bilancio delle ferrovie di stato non potrà mai essere sincero. Esso è stato fatalmente impiantato fin dall’origine su una base atta a dare un concetto erroneo dei risultati dell’azienda ferroviaria. in apparenza le ferrovie versano allo stato un prodotto netto che l’on. Bertolini vuole aumentare con i suoi provvedimenti a 60 milioni circa invece dei 40 milioni risultanti dalle leggi in vigore. Amendue le cifre sono lontane dal vero. La verità si è che le ferrovie di stato non solo non rendono nulla, ma costano al tesoro, ossia ai contribuenti, circa 125-130 milioni di lire all’anno.

 

 

Come questo accada, è cosa risaputa. il bilancio delle ferrovie non è un bilancio integrale di tutte le entrate e di tutte le spese, ma un bilancio parziale delle sole entrate e spese che cronologicamente si può dire abbiano avuto origine dopo l’1 luglio 1905. Comprende bensì i prodotti del traffico e le spese di esercizio; ma quanto agli interessi ed all’ammortamento dei capitali esso iscrive nella spesa solo quelli relativi al capitale impiegato dopo l’1 luglio 1905. Di tutto il capitale speso prima, circa 5 miliardi, non vi è traccia nel bilancio delle ferrovie, facendo il suo servizio carico al tesoro. Perciò sarebbe utilissimo che accanto al piccolo bilancio, chiudentesi con un utile più o meno rilevante, si pubblicasse in maniera ufficiale ogni anno dalla ragioneria generale dello stato con criteri precisi il grosso ed integrale bilancio delle ferrovie. I contribuenti saprebbero quale sia il sacrificio preciso che essi sono chiamati a sopportare per l’esercizio ferroviario; e sarebbe più facile la formazione di una opinione pubblica oculata, vigile e pronta ad imporsi, a rintuzzare appetiti ingordi di coloro che vorrebbero ogni sorta di trasporti gratuiti o semigratuiti per viaggiatori e merci, e ad esigere una buona ed efficace amministrazione. Poiché da tutti si sa essere una finzione l’esistenza di un prodotto netto ferroviario, l’ambizione maggiore dei dirigenti le ferrovie dovrebbe essere sovratutto di diminuire a grado a grado il fortissimo disavanzo ferroviario che è la caratteristica precipua, e non da oggi, delle ferrovie italiane.

 

 

Recensione – Salvatore Pugliese, Due secoli di vita agricola. Produzione e valore dei terreni, contratti agrari, salari e prezzi nel Vercellese nei secoli XVIII e XIX (Torino, 1908)

Recensione – Salvatore Pugliese, Due secoli di vita agricola. Produzione e valore dei terreni, contratti agrari, salari e prezzi nel Vercellese nei secoli XVIII e XIX (Torino, 1908)

«Minerva», 30 maggio 1909, pp. 572-573

«Economic journal», giugno 1909, pp. 277-280

Le convenzioni marittime: congegno, garanzie e pericoli

Le convenzioni marittime: congegno, garanzie e pericoli

«Corriere della Sera», 24[1], 29[2] e 30[3] maggio 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 681-703

 

 

I

Ricordiamo. In previsione della scadenza delle convenzioni marittime, fissata al 30 giugno 1908, era stata nominata con decreto del 13 settembre 1902 una commissione reale per lo studio delle opportune proposte che, per legge del 22 aprile 1893, dovevano essere presentate dal governo al parlamento entro il 30 giugno 1905, ossia tre anni prima della scadenza delle convenzioni in corso, affinché gli assuntori potessero aver il tempo sufficiente per l’allestimento delle navi necessarie ai nuovi servizi. Prolungandosi gli studi della commissione reale, le cui proposte furono presentate appena il 31 dicembre 1905, mentre la relazione generale illustrativa era ultimata nel primo semestre del 1906, il governo poté presentare alla camera il disegno di legge soltanto il 5 aprile 1906. Le proposte della commissione reale abbracciavano un vasto campo dalla soppressione dei premi e compensi di costruzione per la marina libera alla istituzione di un nuovo regime di franchigia doganale e di agevolazioni ferroviarie e fiscali, dal credito navale agli invalidi per la marina mercantile, dei servizi postali e commerciali sovvenzionati alle linee per l’emigrazione. Il disegno del governo, per la ristrettezza del tempo e per la opportunità di non mettere troppa carne al fuoco, rimandò tutto il resto a tempi migliori e si occupò soltanto dei servizi sovvenzionati, rompendo quello che doveva essere, nel concetto della commissione, un piano organico di azione dello stato nei rispetti della marina mercantile.

 

 

Nemmeno il poco, a cui, per la scadenza imminente delle convenzioni, il governo si era ridotto, poté approdare. La crisi ministeriale del giugno 1906 impose una prima sospensione ai lavori della commissione parlamentare che esaminava il disegno Baccelli del 5 aprile. soltanto il 20 settembre 1906 il ministro Schanzer poté presentare parecchi emendamenti, di cui alcuni di capitale importanza, sicché, allungandosi i lavori della commissione, fu d’uopo prorogare, con legge del 22 maggio 1907, la scadenza delle convenzioni dal 30 giugno 1908 al 30 giugno 1910. Il disegno di legge, dopo varie vicissitudini, diventava legge il 5 aprile 1908; ma era, nell’opinione generale, nato morto. Già la commissione reale aveva largheggiato nelle percorrenze, nelle velocità e nel tonnellaggio, limitando nel tempo stesso le sovvenzioni; e col procedere della discussione, attraverso i vari stadi consultivi, ministeriali e legislativi ed il moltiplicarsi degli appetiti, la matassa si era venuta arruffando, per modo da lasciar sicuramente prevedere che nessuna società si sarebbe presentata alle gare. Così fu: l’esperimento di pubblica licitazione andò deserto, eccezione fatta pel gruppo 18°, comprendente le linee fra Ravenna e Trieste e fra Ravenna e Fiume. Iniziate trattative private, un gruppo finanziario presentò proposte per la massa principale delle linee, chiedendo però una sovvenzione annua di circa 51 milioni, ossia di 39 milioni superiore a quella risultante dalla legge e di lire 14,878 per miglio invece delle lire 3,55 consentite dal legislatore. Altre proposte, presentate in seguito, si basavano su una riduzione di linee, di esigenze rispetto al materiale, ecc., ma concludevano tutte ad una spesa di gran lunga superiore all’attuale ed alla prevista. Fu giuocoforza perciò abbandonare le trattative; e parve opportuno consiglio abbandonare altresì il sistema dapprima scelto di determinare a priori, con una legge, le condizioni volute dallo stato e di, invitare poi gli assuntori a dichiarare se essi consentivano ed a quali patti ad assumere i servizi già fissati per legge. Pur prendendo a base la legge del aprile 1908 si riconobbe l’opportunità di scostarsene più o meno largamente, discutendo con i vari gruppi finanziari le modalità delle convenzioni. Così si conclusero parecchie convenzioni, che sono ora (con il disegno di legge dell’8 maggio 1909) presentate all’approvazione del parlamento.

 

 

Le convenzioni si possono distinguere in parecchie secondarie ed in una principale. Le convenzioni secondarie comprendono:

 

 

  • la linea di Calcutta affidata alla Società veneziana di navigazione per una percorrenza annua di 166.816 miglia, un tonnellaggio complessivo di 18.000 tonnellate ed una sovvenzione annua di 1 milione di lire;
  • le linee dell’Adriatico e di concentramento affidate alla Società di navigazione «Puglia» per una percorrenza annua di 436.093 miglia, un tonnellaggio complessivo di 10.000 tonnellate ed una sovvenzione annua di 1.850.000 lire;
  • le linee dell’arcipelago Toscano, concesse alla Società livornese di navigazione per 69.262 miglia annue, 1200-1400 tonnellate complessive e 410.000 lire di sovvenzione;
  • le linee per le isole del golfo di Napoli e le Pontine date alla Società di navigazione marittima e fluviale per 102.630 miglia annue, per 2.350 tonnellate e 200.000 lire di sovvenzione;
  • le linee per le isole Eolie e di concentramento date alla Società siciliana di navigazione per 109.113 miglia, 2.500 tonnellate complessive e 385.000 lire di sovvenzione;
  • e finalmente la linea per Batavia, già esercita dalla Compagnia olandese «Nederland» per cui lo stato paga una sovvenzione annua di 70.000 lire, affinché faccia scalo a Genova ogni due settimane.

 

 

Tutto il resto delle linee e cioè quelle Tirreno-Adriatiche, per la Sardegna, la Tunisia e la Tripolitania, per l’Egitto, il Levante, le Indie e la Cina, per il Mar Rosso e Zanzibar, per l’America centrale e le isole minori intorno alla Sicilia, per una percorrenza annua di 2.711.714 miglia ed un tonnellaggio lordo complessivo di 197.200 tonnellate sono affidate alla Società di navigazione «Lloyd Italiano».

 

 

Qui sorgevano le maggiori difficoltà, sovratutto nella determinazione della sovvenzione annua. Se per le linee minori fu possibile a stato ed assuntori di accordarsi su una cifra fissa, non così per il gruppo principale. La sovvenzione è il risultato dei molti coefficienti che agiscono sulle spese e sulle entrate: costo del materiale, costo del capitale, quote di ammortamento, altezza delle tariffe, traffico probabile per viaggiatori e merci, prezzo del carbone, ecc. ecc. Se si fosse stabilita la sovvenzione in una misura fissa, gli assuntori – così giustifica il governo la soluzione scelta – avrebbero calcolato, per non sbagliare a proprio danno, l’azione di tutti quei coefficienti nell’ipotesi più pessimista di massimi costi e di minimi rendimenti e ne sarebbero risultate cifre di sovvenzione di molte decine di milioni di lire, simili a quelle che lo stato già si era rifiutato di prendere in considerazione nel primo stadio delle private trattative.

 

 

Parve perciò buon consiglio – qui esponiamo soltanto e non critichiamo – abbandonare il metodo della sovvenzione fissata a priori; e si disse: perché non tentare un esperimento? Da questo concetto fondamentale deriva tutto il nuovo congegno delle convenzioni col Lloyd Italiano che qui per somme linee si vuol ricapitolare.

 

 

La durata delle convenzioni è divisa in due periodi: l’uno provvisorio di un quinquennio che va dall’1 luglio 1910 al 30 giugno 1915 e l’altro definitivo di 20 anni dall’1 luglio 1915 al 30 giugno 1935. Nel primo periodo di esperimento lo stato dovrà pagare una sovvenzione di 15.822.000 lire per 2 anni e di 17.322.000 lire per gli altri 3 anni, sovvenzione da ridursi, secondo regole prestabilite, in rapporto al risparmio derivante dall’impiego temporaneo di materiale vecchio in confronto a quello prescritto. Su questa sovvenzione lo stato garantirà il servizio di 60 milioni di lire, al massimo, di obbligazioni 3,75% netto da emettersi per la costruzione o l’acquisto dei vapori da adibirsi alle linee assunte. Queste obbligazioni dovranno essere intieramente ammortizzate, a mezzo della sovvenzione governativa, entro il 30 giugno 1935, e alla scadenza lo stato avrà il diritto di acquistare, a prezzo di bilancio, tutti o parte dei piroscafi adibiti alle linee sovvenzionate.

 

 

La società naturalmente deve avere un capitale proprio, fissato in 20 milioni di lire e non aumentabile senza il consenso dei ministri delle poste e del tesoro. Ove le risultanze del bilancio non permettessero in un anno del primo periodo di distribuire un utile del 3% sul capitale versato dagli azionisti, il deficit dovrà innanzitutto essere colmato con un prelievo su certi fondi di riserve costituiti negli anni buoni con l’accantonamento degli utili superiori al medesimo 3%, che non potrà essere superato durante i primi cinque anni. Ove quelle riserve non bastino, lo stato dovrà pagare alla società la somma necessaria per formare ed integrare l’utile sino al 3% del capitale versato. Poiché può darsi che i bilanci si chiudano in perdita, la responsabilità dello stato potrebbe essere illimitata, ove non si fosse espressamente detto che il contributo dello stato, complessivamente per questo primo quinquennio, non potrà eccedere il 20% dell’ammontare complessivo della sovvenzione. Insomma lo stato, oltre la sovvenzione fissa, che per il quinquennio somma in complesso a lire 83.610.000, corre il rischio di pagare un supplemento di sovvenzione, a titolo di utili mancanti, che può giungere, pure nel complesso dei 5 anni, al massimo di 16.722.000 lire. In compenso, ove alla fine del quinquennio risultasse un utile netto complessivamente superiore al 5%, metà del sovrappiù andrà a favore dello stato.

 

 

Nel secondo periodo della convenzione quello definitivo ventennale, la sovvenzione, a dirla in breve, è uguale alla differenza fra le entrate e le spese verificatesi nel primo quinquennio di esperimento. Comprendendo le entrate i prodotti dell’esercizio di qualsiasi specie, le spese saranno composte dei seguenti elementi:

 

 

  • tutte le spese di amministrazione e di esercizio, compresa la manutenzione ordinaria, l’assicurazione del materiale, le ritenute fatte sulle sovvenzioni nel primo periodo per il risparmio ottenuto coll’uso di materiale vecchio, risparmio che non si otterrà più nel secondo periodo quando si adopererà il materiale nuovo;
  • tutte le perdite, ammortizzi, interessi passivi, tasse ed oneri di qualsiasi natura;
  • una quota per il fondo delle grandi riparazioni o miglioramento del materiale. – da calcolarsi in ragione dell’1,25% del prezzo d’acquisto dei piroscafi adibiti ai servizi sovvenzionati alla fine del primo quinquennio;
  • il 5,264% del capitale versato dagli azionisti, corrispondente al 5% degli utili spettanti al fondo di riserva prescritto dal codice di commercio, ed al 5% del capitale azionario;
  • un decimo degli utili netti che risultassero, oltre il 5% del capitale, alla fine del primo quinquennio;
  • una somma uguale alla media delle cointeressenze agli utili pagate nel primo quinquennio a favore del consiglio d’amministrazione e del personale.

 

 

La sovvenzione così determinata, alla fine del primo quinquennio rimarrà fissa per tutto il secondo periodo ventennale. Però quando le risultanze economiche di ogni singolo bilancio annuale non presentassero un utile corrispondente al 3% netto del capitale azionario, lo stato corrisponderà ancora alla società la somma necessaria per formare od integrare il detto utile del 3% . Tuttavia il contributo dello stato non potrà superare mai il 10% della sovvenzione annua, ove ad esempio la sovvenzione fosse fissata in 20 milioni annui, lo stato correrà il rischio di pagare al massimo 2 milioni a titolo di integrazione utili. In compenso, ove, versata la quota di legge al fondo di riserva e pagato il 5% sul capitale agli azionisti, risulti ancora in un anno un avanzo di utile, questo per il 10% andrà al consiglio di amministrazione, per il 20% potrà essere erogato in interessenze ai membri della direzione ed agli impiegati superiori ed in gratificazioni speciali agli equipaggi ed al personale ed il restante 70% sarà devoluto per metà alla società e per metà allo stato accantonandolo in un fondo speciale destinato a fronteggiare l’alea degli eventuali contributi dello stato negli anni di utili insufficienti.

 

 

Tali le norme essenziali della convenzione col Lloyd italiano. Si è voluto facilitare la raccolta del capitale necessario alla grande impresa e di qui la garanzia dello stato per il pagamento dell’interesse 3,75% sulle obbligazioni e del loro rimborso entro il 1935, come pure la garanzia di un minimo di dividendo del 3% agli azionisti. Si è voluto evitare l’alea di una sovvenzione troppo piccola (per l’assuntore) o eccessiva (per lo stato); e di qui la provvisorietà della sovvenzione fissata per i primi 5 anni e la determinazione della sovvenzione definitiva sulla base del bilancio medio di entrate e spese durante il periodo provvisorio.

 

 

Attorno al nucleo centrale si raggruppano parecchie altre disposizioni pure importantissime.

 

 

Istituito un fondo per le grandi riparazioni e per il miglioramento del materiale, da alimentarsi con quote annue in rapporto ai risultati economici dell’azienda. Nei soli anni in cui gli utili non giungono al 5%, potrà la quota essere limitata al mezzo per cento del prezzo d’acquisto dei piroscafi. Creato un altro fondo fino alla concorrenza di 3 milioni di lire per far fronte alle oscillazioni nel prezzo del carbone, alimentato dai risparmi fatti acquistando il carbone stivato nei carbonili ad un costo inferiore a lire 33 nel mediterraneo e lire 43 per le linee oltre Suez e Gibilterra. Quando il costo del carbone fosse superiore alla media annua di lire 33 e 43, la differenza in più farà carico al fondo e solo ove questo mancasse o risultasse insufficiente, sarà provveduto con temporanei aumenti di tariffe oltre i limiti normali. Al termine della concessione le somme che risultassero a credito dei due fondi saranno devolute metà allo stato e metà ai concessionari.

 

 

Fissate le tariffe in una cifra iniziale ridotta del 10% al disotto delle tariffe di fatto in vigore nel 1908; con obbligo di ridurle ulteriormente «mano mano che l’incremento del traffico permetta di compensare i minori introiti derivanti dalle riduzioni stesse» fino al limite segnato in apposite tabelle contenute nei capitolati. Data la preferenza, con un vantaggio del 5% sul prezzo, a parità di altre condizioni, ai cantieri nazionali nella costruzione dei piroscafi sovvenzionati; preferite le società di lavoratori legalmente costituite nei lavori di carico e scarico nei porti; fatto obbligo ai concessionari di adottare un ruolo organico del personale amministrativo e navigante di stato maggiore, ed un contratto tipo di arruolamento degli equipaggi conforme al modulo approvato dal ministero della marina; istituita una sezione speciale presso la Cassa nazionale di previdenza per il trattamento di invalidità e di vecchiaia al personale retribuito con più di 2.100 lire l’anno.

 

 

Ad assicurare l’osservanza della legge ed a tutelare gli interessi dello stato e del commercio son preordinati vari mezzi: due membri del consiglio d’amministrazione del Lloyd italiano sono nominati dal ministero delle poste e dei telegrafi, ed uno di questi fa parte del comitato più ristretto: la nomina del presidente del consiglio d’amministrazione e del direttore generale della società deve essere approvata dal governo; le deliberazioni dell’assemblea generale degli azionisti relative al bilancio e ad altri gravi argomenti devono essere approvate dal ministro delle poste. Finalmente sono fissate norme che appaiono assai rigide per la comunicazione documentata delle statistiche dei prodotti, per la compilazione dei bilanci e delle relazioni tecniche ed economiche sull’andamento dell’azienda e sulla ripartizione dei prodotti e delle spese per ciascuna linea, per il diritto di ispezione sui libri di commercio, con gravi comminatorie di multe e decadenze.

 

 

Il congegno che viene così creato per l’esercizio delle linee sovvenzionate, non è ancora tutto di stato, ma non è nemmeno più tutto privato. Siamo dinanzi ad una azienda semipubblica dei servizi marittimi, che ha singolari rassomiglianze con le aziende che le convenzioni ferroviarie creavano nel 1885 per l’esercizio delle tre grandi reti mediterranea, adriatica e sicula. Per essere sicuri che l’esperimento abbia a riuscire più felicemente di quello che durò nelle ferrovie dal 1885 al 1905, sarebbe d’uopo che il congegno odierno fosse mondo di quei gravissimi errori che necessariamente indussero al discredito del sistema misto di esercizio ferroviario. La formula difficilissima per la costituzione di una azienda semi-pubblica della navigazione, è stata oggi trovata?

 

 

II

Un esame critico delle proposte per le nuove convenzioni marittime può essere fatto partendo da assai differenti punti di vista. Chi scrive, ad esempio, nutre dubbi non pochi né lievi sulla convenienza medesima del sistema delle linee sovvenzionate dallo stato, non sembrandogli dimostrato che i vantaggi ottenuti fin qui e che si otterranno in avvenire siano corrispondenti ai sacrifici che i contribuenti sono chiamati a sopportare. Per qual motivo lo stato invero si è sobbarcato finora ad una spesa annua di 12 milioni di lire circa e ne pagherà in avvenire forse 25, compresa la perdita sulle linee esercitate dall’azienda ferroviaria? In parte per avere la sicurezza del servizio postale fra il continente e le isole e fra l’Italia ed i paesi del Levante; in parte per ragioni politiche e di pubblica sicurezza allo scopo di avere comunicazioni periodiche e certe fra le diverse parti dell’Italia, colle colonie dell’Eritrea e del Benadir, con le coste mediterranee dell’Africa e del Levante; in parte per ragioni militari per favorire la formazione di una marina mercantile che in tempo di guerra possa servire da flotta ausiliaria e finalmente per promuovere con la istituzione di linee regolari e con servizi cumulativi ferroviari-marittimi, il traffico di importazione e di esportazione con paesi oltre il Mar Rosso e lo stretto di Gibilterra, traffico che, per trovarsi nei suoi inizi, non potrebbe da solo consentire la formazione di una marina libera, mentre i sacrifici dell’erario paiono giustificati dalle probabilità di un aumento futuro di traffico. Gli ultimi due scopi sono quelli che più costano, poiché fu da taluno calcolato che i servizi postali, locali e politici non importerebbero una spesa maggiore di 5 o 6 milioni di lire all’anno; ed è appunto per essi che sorgono più forti i dubbi. Lo scopo militare non potrebbe essere invero meglio ottenuto, concedendo, volta per volta, per periodi brevi di tempo, compensi a quelle società che su qualunque linea, anche libera, mantenessero navi atte a servire in guerra nella flotta ausiliaria? Probabilmente si dovrebbe spendere non poco, a somiglianza di quanto accade in Inghilterra; ma si sarebbe sicuri di spendere efficacemente in vista dei servizi prestati da determinate navi. Quanto alle sovvenzioni per le linee commerciali oltre Suez e Gibilterra in sostanza esse, a guardar bene, si traducono in premi indiretti alla esportazione ed importazione; e ci vorrebbe un troppo lungo discorso per dimostrare come teoria e pratica inspirino un profondissimo scetticismo intorno alla possibilità di ottenere effetti apprezzabili con siffatti metodi.

 

 

Non è questa tuttavia la via per esaminare criticamente l’attuale disegno di legge. Per molte considerazioni più o meno fondate, per i precedenti sistemi adottati in passato, per la pressione di molteplici interessi locali, il legislatore è venuto alla conclusione che convenisse assicurare con sovvenzioni un servizio postale o commerciale o locale o misto su un certo numero di linee. Questo è il punto di partenza, che non giova discutere da capo, quantunque il dibattito sarebbe pur sempre importante, perché il legislatore ha per indubbi segni manifestato la sua volontà di mantenere in attività talune linee. Il problema è questo: dato che le linee debbano essere mantenute, il metodo prescelto nella convenzione col Lloyd italiano è il migliore od è, almeno, accettabile?

 

 

Qui si appuntano molti dubbi, che non discuterò tutti perché alcuni attengono a piccole cose e ruberebbero inutilmente tempo e spazio. Distinguerò gli altri in problemi tecnici che soltanto i periti possono risolvere con una certa approssimazione, problemi economici che possono essere risoluti mercé un’acconcia correzione delle norme portate dal disegno di legge e finalmente in problemi economico-politici nascenti dalla natura intrinseca semi-pubblica della società sovvenzionata. Prima dei problemi tecnici. Lo stato paga ora per i servizi attuali – escluse le linee da esercitare dallo stato – solo 10 milioni: pagherà nel primo quinquennio lire 21.237.000 che potranno anche giungere a circa 24 milioni e mezzo ove il Lloyd italiano abbia bisogno della garanzia di interessi. È troppo od è poco? Certo la cifra appare più che raddoppiata: ma è d’uopo notare che la percorrenza è cresciuta da 2.646.000 a 3.957.642 miglia, che la velocità media fu portata da 9,8 a 11,2 miglia, che il tonnellaggio progredì da 1.400 a 2.126 tonnellate e che in conseguenza sono variati tutti i coefficienti di costo e di rendimento. Valutare tutto ciò non può essere se non l’opera del governo contraente, risoluto a spendere il più economicamente possibile il denaro pubblico ed a scegliere quella offerta che sia parsa la migliore. Per i gruppi minori, ove un errore sia stato commesso, esso è irreparabile perché la sovvenzione deve rimanere fissa per tutta la durata dei servizi. Per il gruppo principale, l’errore commesso col Lloyd italiano potrà essere corretto dopo il primo quinquennio di sperimento ed in questo stesso primo periodo con le garanzie di interesse, ove lo sbaglio sia stato fatto a danno del Lloyd, e con la partecipazione dello stato agli utili nel caso contrario. La critica perciò per il gruppo principale deve essere rivolta al congegno del periodo di sperimento e non alla cifra assoluta delle sovvenzioni in se stessa poco significativa.

 

 

Anche è tecnico il problema dell’età dei piroscafi che sono ammessi a prestar servizio provvisorio nel periodo di sperimento, e del periodo di ammortamento dei piroscafi vecchi e nuovi che presteranno servizio nel ventennio definitivo. Pare che il Lloyd italiano abbia acquistato dalla Navigazione generale italiana 48 piroscafi usati per proseguire i servizi senza nessuna interruzione dopo l’1 luglio 1910 sino al 30 giugno 1915. Non tutti questi 48 piroscafi sono vecchie carcasse da vendere come rottami; ma parecchi sì, per convinzione universale. È vero che per l’ammissione in servizio è sempre prescritto il parere delle commissioni di visita: ma certo non sarebbe inopportuna qualche disposizione particolare che provvedesse ad una rapida eliminazione sin dai primi anni del quinquennio dei piroscafi più antiquati. Sovratutto sarebbe opportuno stabilire qualche criterio per la valutazione in bilancio di piroscafi usati che entreranno subito in servizio, ad evitare che lo stato debba garantire interessi e pagare sovvenzioni sulla base di un attivo di un valore reale inferiore a quello apparente. Per i piroscafi nuovi si può fare a meno, data la notorietà relativa dei prezzi di costruzione, di stabilire criteri aprioristici che sarebbero probabilmente erronei. Non così per i piroscafi vecchi iniziali, la cui valutazione può avere un’importanza notevole sui risultati finanziari della convenzione.

 

 

Nel secondo e definitivo periodo per i servizi postali e postali commerciali è stabilito che l’età massima dei piroscafi sia di 20 anni, che può però essere prorogata sino ad un massimo di 25 anni per i piroscafi nuovi costrutti nel primo periodo ed a 28 per 5 piroscafi usati aventi non più di 3 anni all’1 luglio 1910. Per le linee puramente commerciali l’età massima è portata ai 30 anni. Nel disegno di legge apparecchiato dalla commissione reale (relatore Pantano) era accolto il concetto di una proroga di 5 anni (a decorrere dalla aggiudicazione delle linee) per l’impiego di piroscafi nuovi; ma era espressamente detto che i piroscafi dovessero essere esclusi dal servizio quando avessero l’età di 20 anni. Il governo ha accolto il sistema del Pantano, prorogando in casi particolari i limiti d’età sino a massimi di 25, 28 e 30 anni. Se queste eccezioni siano razionali o dovute solo all’opportunità di mantenere in servizio talune navi esistenti è difficile dire. Sembra razionale soltanto la distinzione fra piroscafi postali che devono essere rinnovati più presto ed i piroscafi (cargoboats) commerciali a cui può essere consentita una vita più lunga.

 

 

L’uso del materiale vecchio nel primo periodo fa sorgere un grosso problema con cui entriamo nel campo economico propriamente detto. È noto che la sovvenzione definitiva sarà uguale alla differenza fra la media delle spese e la media delle entrate nel primo periodo. Ora, fu detto, le spese nel primo periodo saranno artificialmente elevate per il fatto che i piroscafi vecchi costeranno maggiormente dei piroscafi nuovi. Senza addentrarci in un pelago di cifre, sembra provato che i piroscafi vecchi costeranno di più quanto a consumo di carbone, manutenzione e riparazione, mentre costeranno meno, dato il loro minor prezzo, per interesse, assicurazione ed ammortamento. I difensori del disegno di legge affermano che da queste differenze allo stato non può derivare né danno né vantaggio perché nel primo periodo la sovvenzione sarà soggetta ad una ritenuta per deficienze di velocità e di tonnellaggio e ad una riduzione corrispondente al risparmio realizzato con il contemporaneo impiego di materiale vecchio in confronto di quello prescritto. Se supponiamo – cito le cifre addotte da un giornale difensore delle convenzioni – che durante il primo periodo il piroscafo vecchio abbia costato in meno 80.000 lire per interesse e 20.000 lire per ammortamento e in più 20.000 lire per carbone e 10.000 per riparazioni e manutenzione, l’assuntore alla fine dell’anno avrà realizzato un beneficio di 100.000 lire minore spesa meno 30.000 lire spesa cresciuta e quindi di 70.000 lire. Durante il primo quinquennio la sovvenzione sarà ridotta di lire 70.000, mentre nel calcolare la sovvenzione definitiva non solo si terrà calcolo che i piroscafi nuovi costeranno 100.000 lire di più all’anno per interessi ed ammortamenti, ma altresì che essi costeranno 30.000 di meno per carbone, manutenzione e riparazione. Tutto ciò è detto dagli articoli 13 della convenzione e 17 del capitolato. Il che è vero, ma vuolsi aggiungere che la dizione non è chiara, poiché si parla soltanto di riduzioni dipendenti dai risparmi realizzati col contemporaneo impiego di materiale vecchio. Pare che il materiale vecchio faccia conseguire solo «risparmi»: né si accenna esplicitamente a maggiori spese. Non sarebbe opportuno aggiungere un tenuto conto delle maggiori spese dovute all’impiego del materiale vecchio? Non sarebbe non dico opportuno, ma necessario, inserire, laddove si parla del calcolo delle spese per la determinazione della sovvenzione definitiva (articolo 19), un inciso per mettere bene in chiaro che, se ad esse si devono aggiungere le maggiori spese derivanti dall’adozione del materiale nuovo, devono anche da esse detrarsi le spese in più cagionate dall’uso del vecchio materiale?

 

 

Né qui finiscono le incertezze derivanti dall’impiego provvisorio dei vecchi piroscafi. E noto come il traffico sia in funzione, oltreché di altri elementi, della velocità, del tonnellaggio, dell’arredamento e del tipo dei piroscafi. A parità di altre condizioni un piroscafo vecchio attira meno traffico di un piroscafo nuovo. «Nessuno può valutare ora – scrisse qualche anno fa il sen. Piaggio, presidente del Lloyd italiano – ciò che sarebbero stati i prodotti delle stesse linee, se esercitate con materiale moderno e più capace». Accadrà perciò che durante il primo quinquennio il traffico sarà relativamente scarso perché si saranno adoperate navi vecchie; e ne deriverà la conseguenza che la sovvenzione definitiva sarà di altrettanto più elevata, certo maggiore di quella che sarebbe stata fissata sulla base del materiale nuovo.

 

 

La via d’uscita non è facile; eppur qualcosa bisogna trovare, se non si vuole che la sovvenzione sia fissata in misura troppo elevata per lo stato. Altri più perito trovi la formula esatta; a me sembra che potrebbe tenersi conto del fatto che nel quinquennio di prova il materiale vecchio andrà progressivamente eliminandosi. Se in seguito alla sostituzione di piroscafi nuovi ai vecchi si verificasse un aumento di traffico, una quota parte di quest’aumento, per esempio il 50%, potrebbe aggiungersi alla cifra media dei prodotti del quinquennio.

 

 

Si accolga questo od un altro metodo, sembra necessario, partendo dal concetto informatore del disegno di legge, di lasciare cioè fissare la cifra esatta della sovvenzione definitiva ad uno sperimento, condurre il principio sino alle sue ultime conseguenze e lasciare allo sperimento di determinare altresì l’influenza rispettiva del materiale vecchio e nuovo sull’ammontare del traffico.

 

 

È accettabile il principio medesimo dello sperimento in una materia come questa delicatissima? Poiché stato e società non sono in grado di determinare oggi le entrate e le spese e di calcolare esattamente quella differenza tra le une e le altre che costituirà la sovvenzione definitiva, dovrebbero i fatti stessi incaricarsi durante il primo quinquennio di stabilire le basi del calcolo. Il sistema, è inutile nasconderlo, è semplice solo nell’apparenza. Per molti esso si presta a meditati inganni da parte della società concessionaria che volutamente potrebbe manipolar le cifre, e far risultare più alte le spese e più bassi gli introiti del vero allo scopo di aumentar la sovvenzione. Questa causa di errore può essere esclusa e non per la persuasione dell’onestà dei dirigenti del Lloyd italiano, che il pubblico ha diritto di non avere, trattandosi pur sempre di uomini mutevoli e fallibili. L’organizzazione oggettiva di una grande società anonima, con 20 milioni di capitale e 60 milioni di obbligazioni non si presta alla frode. Ho già avuto occasione altra volta di combattere il volgare pregiudizio fiscale che colpisce assai più gravemente le società anonime che i privati contribuenti, quasi che quelle fossero colpevoli di ogni sorta di delitti e di frodi. La verità è assai diversa: che le società anonime, per la pubblicità dei loro bilanci, per la presenza di amministratori e dei sindaci, per la necessità imprescindibile, nell’interesse dell’impresa, di molteplici controlli, per la collusione quasi impossibile di un gran numero di esecutori, riescono a frodare il fisco meno dei privati. Nel caso poi del Lloyd italiano, le difficoltà di frodare lo stato crescono per la presenza nel consiglio di due amministratori nominati dal governo, per il controllo minuzioso da parte del ministero sui libri sociali e su tutti i documenti dell’azienda. Escludiamo dunque la frode. Resta l’interesse che la società può avere a diminuire di fatto gli introiti e ad aumentare le spese. Il «Giornale d’Italia» ha calcolato che alla società converrebbe anche perdere di fatto nel primo periodo una parte del capitale sociale, sicura di riguadagnarla ad usura nel secondo periodo con un aumento della sovvenzione. Una lira persa ogni anno durante il primo quinquennio fa una perdita totale al suo termine, cogli interessi, di lire 5,55. In cambio la società godrebbe di una sovvenzione più elevata di 1 lira all’anno per venti anni; e 20 annualità di una lira scontate al momento iniziale, ossia sempre alla fine del primo periodo ed al principio del secondo, corrispondono ad un guadagno di lire 14,21. Val la pena di perdere lire 5,55 per guadagnarne 14,21, ossia è dimostrato che la società ha interesse ad un esercizio in perdita nel primo periodo allo scopo di crescere la cifra della sovvenzione. La dimostrazione mi lascia dubbioso. La società invero non ha interesse ad un esercizio passivo iniziale solo per ottenere nel secondo periodo una sovvenzione che consenta di pagare un interesse del 5% sul capitale; perché essa ha diritto già ad una sovvenzione sufficiente a tale uopo, l’interesse del 5% essendo già calcolato fra le spese legali. Essa può avere interesse ad un esercizio passivo unicamente per guadagnare nel secondo periodo più del 5%. In tal caso non bisogna dimenticare che lo stato parteciperà alla metà dei superutili, e che quindi il guadagno di lire 14,21 si riduce a lire 7,10. La differenza fra la perdita di lire 5,55 e il guadagno di lire 7,10 si riduce a lire 1,55. Notisi ancora che la società è obbligata a ridurre le tariffe «mano mano che l’incremento del traffico permetta di compensare i minori introiti derivanti dalle riduzioni stesse». Se fin dal bel principio del secondo periodo appare un guadagno netto superiore al 5% quale miglior argomento per costringere la società ad una riduzione di tariffe più presto di quanto non sarebbe altrimenti accaduto. Non c’è pericolo per la società di perdere per via della anticipata riduzione di tariffe quell’utile di lire 1,55 che le rimaneva?

 

 

Tutto sommato, sembra che il pericolo di una artificiosa elevazione reale di spese e diminuzione di introiti non sia grave. Piuttosto mi spavento delle difficoltà di valutazione delle spese. Finché si tratta delle spese di amministrazione e di esercizio la cosa può andare. Chi ci assicura che non si faranno né più né meno delle spese necessarie per riparazioni e manutenzioni? Anche senza perdere un centesimo del suo capitale, la società può destinarne una parte a riparazioni ordinarie (come distinguerle sicuramente sempre dalle grandi riparazioni?) che accrescono il valore del suo materiale e che sono messe fra le spese correnti. Anche sugli ammortizzi potrà sorgere litigio. Un amministratore di una società, pur non mutando per nulla la situazione intrinseca della sua azienda, può a suo piacimento presentare un bilancio in guadagno, in pareggio o in perdita a seconda dei criteri seguiti negli ammortamenti. Né mi pare che la convenzione contenga regole abbastanza precise al riguardo. La conclusione dei quali riflessi sarebbe che lo sperimento dovesse farsi, caso mai, solo per gli introiti e non per le spese. Si lasci imprecisata la cifra degli introiti da determinarsi sulle risultanze del primo quinquennio. La cifra degli introiti può essere considerata, entro certi limiti, indipendente dalla volontà del concessionario, salvo la correzione dovuta all’impiego del materiale vecchio, di cui sopra si disse; e lo stato può conoscerla con tutta sicurezza dalle statistiche del movimento dei viaggiatori e delle merci che per ogni viaggio devono essere comunicate al ministero, insieme colle copie dei manifesti di bordo e delle note di trasporto autenticate dalla dogana.

 

 

Quanto alle spese, io ritornerei ad una vecchia proposta del sen. Piaggio. Il quale in una lettera indirizzata al direttore del «Corriere della sera», e pubblicata su questo giornale il 26 giugno 1906 (riprodotta in questo volume a p. 370), quando fervevano le discussioni sul rapporto della commissione reale, così scriveva:

 

 

Circa il metodo da seguire per l’aggiudicazione delle linee, ricorderò la premessa dalla quale partivo nel mio opuscolo, che cioè, mentre le spese di esercizio delle linee di navigazione possono essere determinate con sufficiente esattezza, né il governo, né alcuno dei nuovi concorrenti hanno dati per stabilire i prodotti di ciascuna linea. È chiaro per ciò, che all’atto delle gare il ribasso dovrebbe essere offerto sulla cifra determinata per le spese di esercizio; il che significa che ogni gruppo di linee dovrebbe essere aggiudicato a chi avesse offerto di esercitarlo col costo minore: a quel concorrente cioè, che avesse valutato in una cifra minore il complesso delle spese di esercizio. In questo metodo nulla vi è di incerto e di arbitrario, perché, ripeto, le spese di esercizio sono il solo elemento che gli assuntori possono determinare con certezza, ed ognuno di essi può quindi calcolare sino a qual limite il suo tornaconto gli permetta di discendere in tale valutazione.

 

 

Il sistema propugnato dal sen. Piaggio nel 1906 è di gran lunga preferibile a quello convenuto dallo stesso sen. Piaggio col governo nel 1909: né si vede perché esso non possa ancora essere adottato adesso. Nel calcolare le cifre della sovvenzione provvisoria per il primo quinquennio governo e società devono avere pur stabilito cifre di spese e di prodotti, per quanto esse non siano rese di pubblica ragione. Ebbene, sulla base di quelle cifre di spesa si potrebbe calcolare fin d’ora uno dei due elementi della sottrazione che dovrà essere fatta nel 1915: l’elemento spesa; e fin d’ora si potrebbero stabilire coefficienti di riduzione e di aumento per la adozione del materiale nuovo. La cifra dei prodotti rimarrebbe sola incerta e determinabile dallo sperimento, con l’eventuale correzione derivante dall’impiego del materiale nuovo. L’alea dello stato rimarrebbe ridotta al minimo e verrebbe meno la necessità di un intervento troppo minuto nella gestione della intrapresa concessionaria dei servizi sovvenzionati.

 

 

III

Rimangono da esaminarsi i problemi economico – politici che sorgono dalla natura intrinseca dell’azienda semi-pubblica creata dalle nuove convenzioni. Si tratta davvero di problemi gravissimi, poiché la legge viene a creare in sostanza una intrapresa di navigazione che non può essere a nessun patto considerata alla stregua di una intrapresa privata. Non è ancora l’esercizio di stato: ma è senza dubbio, per quanto il termine sia alla scadenza di 25 anni, un incamminamento ad esso. bando si vuole che lo stato dia una garanzia di interessi, partecipi agli utili, abbia diritto di riscatto del materiale a valore di bilancio, fissi la tariffa, sorvegli con disposizioni minutissime la gestione ed anzi intervenga nell’amministrazione con due suoi consiglieri, che cosa in sostanza si crea se non «una amministrazione pubblica temporaneamente delegata ad una società privata sotto la sorveglianza dello stato?» Si comprende come i giornali socialisti, pur muovendo particolari critiche, abbiano in complesso approvato il concetto informatore della legge, salutandola come un passo in avanti sulla via che conduce all’esercizio di stato della navigazione marittima. Quanti ritengono essere l’esercizio di stato della navigazione non soltanto un salto nel buio ma un pericoloso regresso, debbono essere avversi a tutto quanto nelle presenti convenzioni, ci avvicina a siffatta non auspicabile meta.

 

 

Mettendoci su questa strada noi abbiamo, al solito, scimmiottato la Francia la quale di recente rinnovò le convenzioni colla compagnia delle messaggerie marittime con modalità che fanno lo stato un vero e proprio socio partecipante agli utili ed alle perdite.

 

 

Mal comune mezzo gaudio, dice il proverbio. In verità però in Italia ed in Francia siamo stati condotti a questo estremo perche amendue le nazioni soffrono della stessa malattia latina dell’invidia demagogica verso il capitale fortunato, del sospetto contro gli affari in generale e dell’intervenzionismo statale. Vi è nella relazione ministeriale sul disegno di legge una frase rivelatrice che val la pena di riportare:

 

 

I poteri di controllo e di sorveglianza che la legge ed il capitolato assegnano all’ufficio governativo dei servizi marittimi ed al comitato per i servizi marittimi; le norme restrittive sancite appunto in materia di tariffe, le quali esplicheranno la loro azione moderatrice sul movimento dei noli e la partecipazione dello stato agli utili dell’impresa costituiscono già tale un complesso armonico di freni e di temperamenti che, pur lasciando alla gestione dell’azienda la iniziativa, la elasticità e la libertà necessarie al buon andamento di un’impresa industriale, non consentono agli assuntori la possibilità di troppo lauti guadagni.

 

 

Ecco tutto il succo dei sistemi nuovi di concessione di imprese pubbliche in Italia e anche in Francia. L’essenziale non è che lo stato faccia un buon affare; ma che non lo faccia troppo buono (il che vuol dire unicamente che lo faccia cattivo) la società assuntrice. Se per caso qualche assuntore sfuggisse al suo natural fato di concludere un contratto meschino o cattivo, lo stato si ricorderebbe di essere non solo un contraente, obbligato ad osservare scrupolosamente i patti convenuti, ma il sovrano che quei patti può violare impunemente.

 

 

Un pretesto tratto dall’arsenale dei nuovi bisogni sociali è presto trovato per falcidiare i profitti di una società cotanto audace da volersi amministrare bene e con successo. Tante sono del resto le condizioni di convenienza politica o economico-sociale a cui lo stato vuole oramai assoggettare i servizi da lui concessi che può dirsi quasi impossibile ad una qualunque società privata di fare buoni affari. Quando è obbligatorio far costruire i piroscafi in Italia e quindi pagarli più cari del prezzo di concorrenza, quando non si possono cogliere le favorevoli occasioni per comprare e per vendere i piroscafi, è giuocoforza lavorare ad un costo alto e prolungare i periodi di ammortamento di un materiale invendibile senza perdite. Quando si debbono stabilire «ruoli organici» degli impiegati si farà opera socialmente umanitaria, ma si fa certamente cosa non consentanea alla libertà di movimento di una impresa privata e si va incontro ad un aumento di spesa per lussureggiante fioritura burocratica.

 

 

Quando non si fa come in Inghilterra, dove la compagnia Peninsular and Orierital trasporta a tariffa intiera, senza alcuna riduzione, i numerosissimi impiegati coloniali, e conteggia allo stato, nove volte l’anno, a prezzi certamente non di favore e largamente profittevoli, un piroscafo per il trasporto delle truppe nell’India; ma, ad imitazione della Francia, si inseriscono nei capitolati clausole numerose per tariffe di favore e talvolta per trasporto gratuito a senatori, deputati, impiegati civili e militari, a missionari, a nazionali indigenti rimpatriati o chiamati a servizio militare, a soldati, a congressisti, a persone di servizio dei sovradescritti privilegiati, ai diplomatici, delegati commerciali, marinai naufraghi, ecc. ecc.; quando sono imposte riduzioni del 30% pel trasporto dei generi di privativa, quando si dà diritto al governo di imporre senza alcun compenso riduzioni del 50% sulle tariffe ordinarie in occasione di straordinarie carestie o di calamità pubbliche, ecc. ecc.; quando volutamente e quasi sempre irragionevolmente si vuol fare l’elemosina di stato a tanta gente, non si possono rimproverare i capitalisti se, prima di concludere il contratto, fanno il conto del costo delle elemosine governative ad essi accollate. bando non si ha la libertà di variare le tariffe entro certi limiti e si corre dietro alla fisima irraggiungibile di sottrarre un paese alle variazioni della domanda e della offerta sul mercato dei noli, bisogna essere preparati alla inevitabile conseguenza di dover pagare sempre ed in maniera continua noli, forse equi, ma certamente più elevati di quelli liberi, pur costringendo ad affari meschini le compagnie concessionarie.

 

 

Naturalmente, nessuna società di capitalisti ragionevoli ama avventurare i suoi capitali con un contraente così malfido come lo stato, e, non potendo valutare i rischi ignoti che potranno sorgere in avvenire, cerca un’ancora di salvezza: la garanzia di un interesse minimo. In una recente adunanza alla società di economia politica di Parigi il signor Estier, alto funzionario della compagnia delle Messageries maritimes, ricordò che dodici anni or sono egli al governo aveva chiesto una cosa sola, di lasciare la compagnia tranquillamente attendere ai propri affari: «Lasciateci in pace, ecco quanto noi desideriamo; ma se voi vi mescolate nei nostri affari dateci il compenso dei sovraccarichi che c’imponete». Ma siccome nulla ripugna più ai regimi parlamentari di fare con industriali un contratto di natura prettamente e prevalentemente industriale, così dall’intervenzionismo governativo nasce quella brutta cosa che si chiama la garanzia di interessi. Bruttissima, perché addormentatrice delle migliori energie economiche. Il capitalista, che è sicuro di ottenere almeno il 3% o che vede allontanato moltissimo il pericolo di non avere almeno quel reddito minimo si abitua a considerare il suo impiego di capitali come un impiego di tutta sicurezza, consigliabile ai pupilli, alle vedove ed alle opere pie, e la malattia, a poco a poco, dai semplici azionisti passa nei dirigenti, fiaccandone la volontà e tarpando le ali alle loro coraggiose iniziative.

 

 

La garanzia di interessi non nasce sola. Appena lo stato ha con cesso quest’insigne favore (meglio si direbbe questo pegno di sicura degenerazione), subito entra in sospetto che l’altro contraente possa da questa garanzia trarre un «illecito» guadagno. La demagogia parte ogni secondo giorno in guerra contro gli «illeciti» guadagni, senza sapere il più spesso dare a questa vaghissima parola un significato preciso qualsiasi. Si inventa così l’altro mirabile congegno della «partecipazione dello stato agli utili»; come contrappeso a bilanciare gli eventuali danni della garanzia di interessi. È un contrappeso che cresce il malanno della garanzia di interesse. Nello stato, socio e compartecipe alle perdite ed agli utili, crescono i sospetti di venir defraudato dall’«astuto capitale». Dai sospetti la burocrazia non si salva se non applicando alla lettera i regolamenti, le consuetudini. Facendo ciò che per legge deve essere fatto, che gli usi impongono, leticando sul centesimo sicuro e perdendo i milioni incerti, si è sicuri di far bene secondo lo spirito della burocrazia e del governo parlamentare. Poiché la legge stabilisce che nel calcolo della sovvenzione definitiva di debba calcolare una quota per il fondo delle grandi riparazioni o miglioramento del materiale, dell’1,25% del prezzo d’acquisto del materiale, si può considerare come cosa certa che ministri del tesoro, delle poste, consiglieri governativi di amministrazione, consigli superiori e via dicendo considereranno quella cifra dell’1,25% come l’ultima thule delle grandi riparazioni. che monta, se per speciali ed ora non prevedibili circostanze la quota dovesse salire in qualche caso al 2 o 3 o 4% I Dovrebbe entrare in scena la garanzia d’interessi, dovrebbe rinunciarsi alla partecipazione agli utili. Chi salva il ministro dalle interpellanze alla camera di deputati d’opposizione pronti ad accusare il governo di connivenza con la società per ridurre artificialmente gli utili col mezzo di una quota troppo alta per le grandi riparazioni? Vada in malora la flotta, ma non si rinunci ad un centesimo di ciò che spetta al governo. Tanto, quando si saprà che la flotta è deperita, un altro sarà il ministro responsabile, che dovrà recitare il mea culpa in parlamento!

 

 

 

La società ha convenienza di ridurre le tariffe in un determinato momento, per promuovere un traffico promettente o per serbare a sé il traffico in una crisi di noli? Sono eventualità possibilissime: son problemi che la marina libera è chiamata ogni giorno a risolvere. La società sovvenzionata dovrà invece ottenere il consenso dello stato, socio negli utili e nelle perdite; e questo, che darebbe il consenso a cuor leggero se non dovesse subirne le conseguenze, comincerà a far i suoi calcoli di rischi per garanzie d’interessi o per scemate partecipazioni agli utili. Vi è qualcuno che in Italia abbia la memoria così corta da non ricordar più gli sciagurati effetti del contratto a partecipazione stretto fra lo stato e le società esercenti le reti ferroviarie? E può forse essere negato in buona fede che quei tristi effetti di traffico mal servito, di materiale antiquato, furono proprio le conseguenze del patto che toglieva alle compagnie private ogni libertà d’azione ed incitava lo stato a speculare grettamente sulla cifra del prodotto netto ed a contrastare tutto ciò che potesse minacciarlo anche lontanamente? Si sa che la storia non serve a nulla, perché gli uomini la dimenticano mai sempre nei momenti nei quali sarebbe maggiormente utile ricordarla. Si può essere perciò facili profeti, dichiarando oggi che dalle stesse cause nasceranno uguali effetti e che l’intervenzionismo statale, la garanzia di interessi e la partecipazione agli utili saranno fatali al progresso della marina italiana.

 

 

Contrario all’esercizio di stato della navigazione, non posso perciò non dichiararmi avversario alla sua forma spuria di una amministrazione cointeressata. Si può ammettere che nel primo periodo provvisorio, quando non si conoscono ancora i dati del problema, la garanzia di interessi e la partecipazione agli utili costituiscano un rimedio contro gli errori troppo gravi di previsione. Chiuso il primo periodo, cessa ogni ragione di mantenere in vita siffatti ibridi istituti. Se la sovvenzione è già stata calcolata sull’ipotesi che essa debba compensare tutte le spese e retribuire il capitale su una base del 5%, che bisogno vi è di garantire almeno un dividendo del 3%? Notisi che la garanzia di interessi che qui si combatte è quella del 3% sui 20 milioni di capitale sociale, non quella del 3,75% sui t60milioni di obbligazioni. Quest’ultima garanzia, in sostanza, ammonta solo a questo che lo stato si obbliga a pagare l’interesse e ad ammortizzare le obbligazioni prelevando la somma occorrente dalla sovvenzione fissa che in ogni modo deve pagare. È un modo economico di facilitare l’emissione delle obbligazioni ad un basso saggio di interesse, senza alcun rischio per lo stato. Od almeno il rischio è così lontano che può essere trascurato; potendo nascere nel solo caso in cui venendo meno la società ai suoi impegni, venisse meno il diritto suo alla sovvenzione. Lo stato dovrebbe allora seguitare a fare il servizio sulle obbligazioni, pur non avendo più l’obbligo della sovvenzione. Notisi che il caso è di improbabile verificazione perché lo stato avrebbe anche il diritto di rivalsa sul patrimonio della società.

 

 

La vera garanzia di interessi è quella sul capitale sociale, ed essa è addormentatrice e dannosa, sia in sé, sia nel suo inevitabile corollario della partecipazione agli utili. La relazione ministeriale parla, a giustificare la proposta nuova e non bella, di «condizioni generali del mercato finanziario» non favorevoli alla raccolta di un ingentissimo capitale, ed insiste sulla «cresciuta diffidenza del risparmio nazionale per un’industria che, fuori delle regioni marittime, non ha mai molto allettato il capitale italiano, timoroso dei rischi del mare più che d’ogni altro». Qui sembra davvero che vi sia qualche esagerazione. Ci sarebbe da disperare dell’Italia se non si riuscisse a raccogliere 20 milioni di lire per quella che sarà la maggiore impresa di navigazione del nostro paese! Né il capitale deve essere raccolto da nuovi capitalisti, ignari dei rischi di mare, poiché il Lloyd italiano esiste già e, se non erro, è già costituito con un capitale di 20 milioni di lire. Sarebbe far grave torto al suo presidente, reputato fra i competenti come abile amministratore, supporre che manchi in lui e nei suoi colleghi il coraggio di destinare 20 milioni di lire ai servizi marittimi sovvenzionati. Perché questo coraggio, nella società in discorso o in un’altra, sorga e dia buoni frutti, è necessario abbandonare il falso indirizzo di una impresa pubblica, garantita e cointeressata collo stato, mancipia della burocrazia e priva di quella libertà ed agilità di movimenti che sole possono far fiorire, nell’interesse generale, le imprese economiche.

 

 


[1] Con il titolo Le Convenzioni marittime. Il congegno della nuova azienda semipubblica. [ndr]

[2] Con il titolo I problemi tecnici ed economici delle nuove convenzioni. Le modificazioni necessarie. [ndr]

[3] Con il titolo Il pericolo maggiore delle nuove convenzioni. Garanzia d’interessi e partecipazione agli utili. [ndr]

Per la ricostruzione delle foreste italiane

Per la ricostruzione delle foreste italiane

«Corriere della Sera», 7 maggio 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 676-680

 

 

La questione della ricostituzione delle foreste italiane, la quale sino a poco tempo fa appassionava soltanto alcuni solitari predicatori nel deserto, sembra finalmente entrata in una via di dibattiti fecondi e di propositi efficaci. Siamo ancora all’inizio dell’opera grandiosa da compiere per ridonare ai monti d’Italia le antiche selve protettrici, ma è cominciamento degnissimo di lode. È invero significativo il fatto che, quasi contemporaneamente, il ministro Bertolini in Italia e il cancelliere dello scacchiere, Lloyd – George, in Inghilterra, abbiano amendue proposto al parlamento di destinare la medesima somma di 5 milioni di lire per il rimboschimento. La proposta dell’on. Bertolini fa parte di un ampio disegno di «provvedimenti per la sistemazione idraulico-forestale dei bacini montani, per le altre opere idrauliche e per le bonifiche», che qui non è il momento di esaminare e discutere a fondo. Il disegno si inspira al giusto concetto del legame strettissimo che passa fra il regime delle acque nella pianura ed il rimboschimento nelle montagne; cosicché un’opera previdente e concorde di sistemazione idraulico-forestale nei bacini montani a ragione si ritiene sia il migliore e più economico metodo di prevenire e limitare le inondazioni, con notevole risparmio futuro per le finanze dello stato. Invece di spendere decine di milioni nel riparare al male già avvenuto (nel decennio 1891-900 si spesero in media 5.392.296 lire all’anno per riparare ai danni delle piene!), lo stato si è deciso a prevenire all’origine le cause del male. La spesa è fatta prima, ma il carico alla lunga dovrà risultare più moderato di quello odierno; e, quel che più monta, compensato dagli inestimabili benefici futuri della ricostituzione delle foreste. Certamente cinque milioni sono pochi per «eseguire a cura e spese dello stato», come dice il disegno di legge, «nei bacini montani dei corsi d’acqua le opere di sistemazione idraulico-forestale necessariamente coordinate e collegate ad opere idrauliche o portuali di qualunque categoria o classe, ovvero ad altre opere pubbliche che stiano a carico dello stato». È anche evidente che l’opera di rimboschimento non può essere limitata a quei lavori che rientrino nelle strette definizioni del disegno Bertolini; ma, ripetiamo, trattasi di un inizio che, prudentemente, è opportuno restringere ai mezzi disponibili. Quando l’organizzazione a mano a mano sarà perfezionata e si sarà acquistata una esperienza preziosa di anni, sarà più facile che ora non sia dare un forte impulso ai rimboschimenti.

 

 

Pure in Inghilterra la proposta del cancelliere dello scacchiere di costituire un «fondo per lo sviluppo delle risorse del paese», destinando anzitutto 5 milioni di lire per il rimboschimento, è il primo passo verso l’attuazione di un grandioso piano messo innanzi da una reale commissione d’inchiesta. Propose questa che siano rimboschiti nientemeno che 3.600.000 ettari di terreni incolti o a pastura di reddito meschinissimo. Rimboschendo 60.000 ettari, all’anno si sarebbero dovuti spendere circa 50 milioni di lire all’anno, e si calcolava che all’ottantesimo anno i boschi ricostituiti avrebbero cominciato a restituire tutte le spese fatte, insieme coll’interesse composto del 3%. Il governo inglese, come il nostro, preferì non impegnarsi in un piano troppo grandioso ed a lunga scadenza, e con un primo stanziamento di 5 milioni di lire volle dimostrare il suo proposito di cominciare a far qualcosa in un campo in cui l’iniziativa privata si dimostra impotente.

 

 

Quanto sia proceduto il diboscamento in Italia in rapporto agli altri paesi d’Europa è manifesto da uno specchietto compilato dalla commissione inglese d’inchiesta, che qui sotto riproduciamo, classificando i paesi in rapporto alla percentuale della superficie boschiva sul territorio totale:

 

 

 

Superficie boschiva ettari

 

 

% di boschi sul totale

Svezia

21.080.000

51,9

Russia Europea, esclusa la Polonia

170.230.000

34,2

Austria

9.670.000

32,6

Ungheria, compresa la Croazia e la Slavonia

8.890.000

27,5

Germania

13.828.000

25,9

Svizzera

871.000

22,0

Norvegia

6.738.000

21,9

Belgio

503.000

17,3

Francia

8.889.000

17,0

Italia

4.100.000

14,5

Olanda

255.000

7,9

Gran Brettagna ed Irlanda

1.230.000

4,0

 

 

Probabilmente la cifra addotta per l’Italia è parecchio esagerata, potendo i boschi vincolati calcolarsi a non più di 5 milioni di ettari ed a 400.000 ettari quelli non soggetti a vincolo: Sia però la nostra superficie boschiva del 14,5% del territorio, o sia solo del 12%, è certo che noi ci troviamo ad uno degli ultimi posti tra i paesi europei e che, tenuto conto delle nostre peculiari condizioni, siamo forse in una situazione peggiore dell’Olanda e della Gran Brettagna, che pur vengono dopo di noi. Il territorio di quei paesi, per la sua natura più pianeggiante, per i monti più bassi, per la umidità del clima, si presta mirabilmente alla cultura a prato ed al pascolo; né i pericoli delle inondazioni sono così gravi come da noi. Una percentuale del 12% per l’Italia è almeno altrettanto preoccupante di una del 4% per la Gran Brettagna.

 

 

Per effetto del diboscamento noi abbiamo veduto a poco a poco crescere le importazioni di legname e diminuire le esportazioni. Nel 1908 per alcune voci più importanti il commercio internazionale presentava le seguenti cifre (in tonnellate):

 

 

Importazione

Esportazione

Legno comune rozzo o sgrossato

117.493

6.771

Legno comune squadrato o segato

1.185.652

22.598

Legno comune in assicelle

13.526

3.140

Legno da ebanista

48.799

24.354

Legna da fuoco

99.484

9.947

Carbone di legna

47.115

24.603

Pasta di legno, di paglia, ecc. (cellulosa)

616.629

6.495

 

 

Se questa sproporzione, la quale nella categoria del legno e paglia ci fece nel 1908 spendere 110 milioni di più degli incassi, fosse una conseguenza della divisione del lavoro internazionale, non ci sarebbe nulla a ridire. Invece di produrre a costo elevato del legname, produrremmo a costi più bassi qualche altra merce, con cui compreremmo il legname a noi occorrente. Il guaio si è che noi non produciamo legname non perché costi troppo caro il produrlo, ma perché abbiamo in passato inconsultamente distrutto le foreste, consumando il capitale insieme col reddito. Se si fosse avuto quel tanto di previdenza che è necessario per fare i conti ad una certa distanza, si sarebbe visto che l’industria forestale era quella che meglio si attagliava a certe regioni e produceva il massimo reddito netto possibile ad ottenersi in quei luoghi. Adesso abbiamo delle rocce nude, dei pascoli quasi sterili, frane, inondazioni, paludi e malaria; e, per soprammercato, dobbiamo comprare quel legname che potremmo avere in paese con un dispendio minore.

 

 

Notisi che il costo del legname comperato andrà crescendo sempre più. Si calcola che i paesi esportatori di legname nel mondo siano la Spagna, il cui sovrappiù delle esportazioni sulle importazioni si calcola a 20 milioni di lire, la Norvegia con 95 milioni, la Svezia con 320 milioni di legname e 30 milioni di pasta di legno, la Russia con 280 milioni, l’Austria-Ungheria con 270 milioni, gli Stati uniti con 200 milioni, il Canada con 185 milioni. Ma si calcola altresì che le provviste degli Stati uniti possono durare per un periodo limitato di tempo: di 33 anni secondo i più ottimisti e di 9 anni secondo i più prudenti. Nel Canada già si avvertono segni inquietanti di diminuiti tagli nelle regioni colonizzate. Nella Svezia sembra che il ricavo dei tagli delle foreste superi di 100 milioni di piedi cubi all’anno l’incremento naturale del legname. L’unica risorsa a lunga scadenza si ha nella Russia e nella Siberia, ma anche questa non è indefinita. Con il progresso continuo del consumo basti ricordare la distruzione spaventosa di boschi per sopperire alle richieste di pasta di legno per la fabbrica della carta da giornali), i prezzi hanno la tendenza a crescere vieppiù. La più elementare previdenza impone dunque di pensare al rimboschimento, sia per indisputati benefici al clima, all’igiene, alla sistemazione dei fiumi, alle bonifiche che da esso derivano, sia perché fra vent’anni è probabile che la «fame di legno» sia purtroppo divenuta una realtà.

 

 

Rincaro dei fitti e calmieri

Rincaro dei fitti e calmieri

«Corriere della Sera», 8[1], 9[2] aprile e 11[3] maggio 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 657-675

 

 

I

Alle scadenze dei contratti di affitto degli alloggi nelle grandi città è universale il lamento del rincaro, di cui si sono avute caratteristiche recenti manifestazioni a Milano. Se si pensa che una casa sana, arieggiata ed attraente è forse il bene più desiderato e moralmente più elevato che possa augurarsi agli abitatori delle moderne città, è doveroso associarci all’augurio che il rincaro degli affitti abbia ad arrestarsi. Non sarebbe assolutamente possibile, discutere in breve spazio i gravi problemi che si affollano intorno alla questione della casa e ne rendono difficile la soluzione. Poiché il rincaro degli affitti può essere ammesso come un fatto di comune esperienza e sovratutto se ne invocano i rimedi, così parmi opportuno riassumere brevemente alcuni dati intorno alle cause del rincaro ed alla via che occorrerebbe seguire, non per eliminare – ché sarebbe impresa probabilmente assurda – ma ridurre alquanto o per lo meno contrastare la tendenza all’aumento.

 

 

È opportuno escludere innanzi tutto un’opinione molto diffusa, la quale fa risalire il rincaro degli affitti alla volontà dei padroni di case. Se c’è un’industria nella quale la volontà degli imprenditori valga poco a determinare il prezzo della merce venduta, questa parmi l’industria edilizia. In un’altra azienda, commerciale od industriale, è fino ad un certo segno possibile di cambiare indirizzo e scopo alla produzione, se quella iniziata non appaia più remunerativa. Si possono nella trasformazione subire gravi perdite, ma una certa resistenza agli impieghi meno remuneratori può essere ammessa anche per gli imprenditori che hanno già immobilizzato i loro capitali. Una volta costrutta, la casa civile o popolare non può invece servire ad altro scopo che ad abitazione, ed al proprietario non conviene tenerla vuota per ricavarne fitti maggiori, dato anche che dovrebbe continuare a pagare l’intiera imposta, a meno che la tenesse sfitta tutta intiera e per almeno un anno; e dato che altri costruttori potrebbero venire sul mercato a offrire in concorrenza le loro case. Il padrone di casa non crea di sua volontà l’aumento dei fitti; ma, alla pari di qualunque commerciante, cerca di sfruttare le condizioni favorevoli del mercato per trarne il miglior partito. Dobbiamo subito soggiungere che le condizioni economiche del mercato sono negli ultimi anni divenute favorevoli all’aumento dei fitti. A non parlare del fattore iniziale massimo, che è l’aumento infrenato della popolazione nei grandi centri, fattore troppo evidente per essere discusso, è d’uopo ricordare che, mentre cresceva la domanda, l’offerta diveniva sempre più costosa. Il prezzo degli alloggi nelle case esistenti in una città popolosa, case vecchie e case nuove, finisce alla lunga per livellarsi al costo di produzione degli alloggi delle case nuove o meglio delle nuovissime che si vanno ogni giorno costruendo. Poiché la popolazione nelle grandi città cresce moltissimo ogni anno, a Milano di 14.781 persone nell’ultimo anno, e i nuovi venuti, specie gli immigrati, non possono trovare da collocarsi se non nelle case nuove, poiché quelle vecchie sono già tutte occupate, così è evidente che gli inquilini delle case nuove devono pagare fitti per lo meno sufficienti a compensare il costo di costruzione di queste case, che altrimenti non sarebbero edificate. Se calcoliamo in 1.500 lire il costo di una camera in una casa popolare alla periferia della città e se calcoliamo che il capitale debba rendere almeno il 7-8% lordo di spese (4-5% netto), ogni camera alla periferia non potrà essere affittata a meno di 105-120 lire l’anno. Tutte le altre camere delle case recenti di età media o vecchia, situate vieppiù verso il centro, si adegueranno a questo livello aggiuntavi naturalmente una percentuale che può essere fortissima per il maggior costo di costruzione delle case nelle località più centrali e per le maggiori comodità che offre un’abitazione meglio esposta, in luogo più ameno o più vicino al centro. Non vale il dire: la tal camera, nella tal casa vecchia, è, venti o trent’anni fa, costata solo 800-1.000 lire, e dovrebbe essere affittata in ragione del costo: poiché, ripeto, il costo regolatore è quello delle case nuove.

 

 

Ora il costo di costruzione è andato certamente crescendo negli ultimi anni. Molti ne fanno colpa al cresciuto prezzo delle aree, scambiando anche qui l’effetto per la causa. I fitti sono cresciuti non perché le aree siano divenute care; ma le aree sono aumentate di prezzo perché gli inquilini pagano fitti maggiori e diversi a seconda delle località. L’influenza dell’area è invero assai differente, a seconda del luogo dove la casa è costrutta. In una via centrale, per un edificio di lusso di 5 piani, ogni metro quadrato può costare magari 1.000 lire per l’area e 700-900 lire per la costruzione, e quindi il fitto è in notevole parte pagato per l’uso dell’area. Questi sono i casi meno interessanti. In quegli edifici sono collocati negozi, uffici, sedi di società, alloggi di persone ricche e l’alto prezzo dell’area è appunto il risultato dei guadagni e dei comodi che si possono ottenere in una località centrale. Alla periferia le parti sono invece profondamente invertite. Per ogni metro quadrato la costruzione di 5 piani costerà forse, a seconda del grado di conforto, dalle 300 alle 500 lire, mentre il valore dell’area discende a 30, 20, 15 lire. La parte dell’area nel costo dell’affitto è assai minore. Su 120 lire all’anno di fitto per camera, forse 5 lire, al massimo 10, saranno pagate per l’uso dell’area. Direi anche meno, perché l’area non richiede spese di manutenzione, di ammortamento, di riparazioni, ecc. ecc. Se anche si riuscisse a ribassare della metà il valore delle aree con qualche provvedimento tributario (ad esempio la tassa sulle aree fabbricabili, il che è assai dubbio), si sarebbe arrecato agli inquilini un vantaggio di poche lire all’anno.

 

 

Non è dunque a questa parte che bisogna rivolgano gli sforzi i riformatori; ma al costo di costruzione delle case nuove, che è il vero regolatore del mercato edilizio. Qui appunto cominciano le difficoltà gravi. Tutti gli elementi del costo di costruzione sono cresciuti di prezzo, né pare vi sia tregua all’aumento. A Torino i salari di un muratore erano di 16,6 centesimi per ora di lavoro dal 1850 al 1860; crebbero dopo il 1860 a 20,9 dopo il 1872 a 25; dopo il 1886 a 31,3; dopo il 1902 a 38 e dopo il 1906 a 40 centesimi. Fu un progresso lento, ma ininterrotto, di cui sono da lodarsi gli effetti per il benessere della classe operaia, ma di cui non possono essere dimenticate le inevitabili conseguenze per coloro che soffrono del rincaro degli affitti. I mattoni a Torino erano diminuiti da 24 lire il mille nel 1879 a 18-15-18 lire nel 1892-95, ma ora sono risaliti a 25-26 lire. Il legname, dice una recente relazione dell’Istituto di beni stabili di Roma, è cresciuto dal 1903 ad oggi nelle seguenti proporzioni: l’abete da 60 a 80 lire il metro cubo, il pitch-pine da 80 a 120 lire, il castagno da 70 a 110 lire. A Roma la calce spenta aumentò da 7,25 a 9,20 il metro cubo, la pozzolana da 3 a 4 lire, il tufo da 3,50 a 4,25. Forse nell’Italia settentrionale i prezzi saranno diversi; ma dappertutto la conclusione è la stessa: essere nel giro di pochi anni aumentato il costo di costruzione delle case dal 30 al 40%.

 

 

Nelle altre industrie l’imprenditore reagisce contro l’aumento del costo dei fattori della produzione impiegando macchine potenti che risparmiano lavoro; e così riesce a pagare meglio l’operaio, pur riducendo il costo unitario del prodotto. All’industria edilizia non è consentita siffatta via d’uscita. Il macchinario ed i nuovi procedimenti tecnici hanno avuto in essa finora una limitata applicazione. Coll’impiego su vasta scala del ferro, del cemento armato e di altre novità, si ottengono risultati apprezzabili da parecchi punti di vista, ma non pare si sia riusciti a vincere la tendenza dei costi di costruzione al rialzo.

 

 

Si aggiungano gli effetti dell’intervento pubblico e dei gravami fiscali. I regolamenti urbani e di polizia hanno, per lodevolissimi intenti, accresciuto sempre più i limiti imposti ai costruttori riguardo all’altezza delle case, all’ampiezza dei cortili, allo scolo delle acque bianche e nere, all’acqua potabile, all’illuminazione, ecc. ecc. Tutto ciò sta benissimo, ma accresce i costi. È utile che non si edifichino più casoni altissimi, con cortili angusti, con ballatoi promiscui, che diano accesso alle stanze aventi un’unica apertura. Le linde case dell’Umanitaria o del comune di Milano sono un ideale; ma sono un ideale costoso. Né si dica che si tratta di aumenti modesti. Il regolamento 24 aprile 1904 per la legge delle case popolari aveva messo tali vincoli circa l’ampiezza dei cortili e l’altezza dei fabbricati che a Roma nessun costruttore, fatti i suoi conti, aveva creduto conveniente avvalersi della esenzione concessa alle case popolari, che pure era di dieci anni. Adesso l’inconveniente fu in parte eliminato con la nuova legge, ma non tolto tutto, e, per un curioso equivoco, lasciato immutato per Roma. Né dimentichiamo le conseguenze di quelli che sono i nuovi bisogni odierni, anche se non imposti dai regolamenti municipali: scale meglio tenute ed illuminate, pavimenti di legno o di mattonelle, due o tre stanze anche per modeste famiglie popolane invece di un’unica cucina-camera da pranzo e da letto. Tutti comodi ampiamente giustificati, ma che non si possono avere se non pagandoli.

 

 

Quando poi la casa è costrutta, entrano in campo le leggi fiscali a crescerne il costo. Ho già avuto occasione di spiegare altra volta come la nostra imposta sui fabbricati sia elevata: del 16,25 per cento per lo stato e di una somma variabile, spesso altrettanto e più, per i comuni e le provincie. Il costruttore di case nuove se non è sicuro che il fitto gli rimborserà anche questa spesa – almeno per la parte che supera l’imposta che egli pagherebbe se destinasse i suoi capitali ad altro impiego – rinuncierà alla costruzione. Poiché il reddito imponibile è sempre uguale al 7% del reddito lordo, sia dove le spese di amministrazione, insolvenze, riparazioni, ecc. sono altissime, ad esempio per le case popolari periferiche, sia dove le spese sono minori, l’imposta sui fabbricati viene a gravare maggiormente sulle case nuove costrutte alla periferia, che sono le regolatrici dei fitti. Qual meraviglia se, dopo tutto ciò i fitti continuano ad aumentare, tanto più che, per il non bastevole afflusso dei capitali verso l’industria edilizia, questa può lucrare, nelle case periferiche nuove, più di quel 4-5% che parrebbe la remunerazione corrente dei capitali siffattamente impiegati? Diminuire il costo di costruzione e spingere i capitali verso l’industria edilizia: ecco le condizioni indispensabili per un arresto nell’ascesa degli affitti.

 

 

II

La prima proposta e la più spontanea che vien fatto di metter fuori per impedire il rincaro dei fitti è quella del calmiere. Lo stato dovrebbe imporre un limite equo e ragionevole ai fitti, magari riconoscere come giusti i fitti esistenti e dare agli inquilini il diritto di rimanere nel proprio alloggio finché continuassero a pagare puntualmente il fitto pattuito ed osservassero le altre clausole del contratto. Un brillante scrittore, in una lettera alla «Nuova antologia» (1 marzo 1908), esponeva appunto quest’idea, che fece il giro dei giornali italiani ed era ispirata alla famosa legislazione irlandese a favore dei contadini affittavoli.

 

 

Ahimè! Come i vecchi errori, che parevano debellati per sempre, ritornano sempre a galla ed a nulla serve la esperienza del passato! Questa, del calmiere dei fitti, che pare novità schietta e di marca forestiera, è una usanza vecchissima ed usitatissima dagli stati italiani di antico regime. I Papi se ne servirono spesso in Roma, persino a favore degli ebrei, e con effetti lacrimevoli. In Piemonte le regie patenti del 10 luglio 1749 commisero al vicario di politica e di polizia di Torino la cognizione delle differenze cui desse luogo l’esuberanza dei fitti, concedendogli facoltà di tassarle e di pronunciare su ciò inappellabilmente. Tanto questa ordinanza, però, che l’editto 2 novembre 1750 che la confermò ebbero poco effetto, come è confessato nel proemio d’un altro editto 24 aprile 1762, nel quale, constatato «che si continua ad esigere un prezzo esorbitante negli affittamenti e volendosi togliere un disordine così pregiudiziale agli abitatori di questa metropoli», si vietano anzitutto gli affittamenti generali di intieri corpi di casa e si ordina perentoriamente che i proprietari non eccedano «quel giusto ed onesto prezzo relativo al valore della casa ed alle riparazioni annualmente necessarie a farsi».

 

 

Alla scadenza l’inquilino non potrà venire licenziato ma avrà diritto a preferenza, pagando il prezzo di prima. Potrà concedersi un aumento unicamente per speciali riparazioni, e anche, ma soltanto eccezionalmente e in misura limitata, in corrispondenza al cresciuto livello delle pigioni nella città. Dovranno i funzionari vigilare alla difesa energica dei diritti degli inquilini. (Giuseppe Prato, in «La riforma sociale » del marzo-aprile 1908).

 

 

Tutta questa «illuminata» legislazione (eravamo nell’epoca dei principi illuminati, così come oggi in quella della legislazione sociale) non ebbe e non poteva avere alcun effetto utile. Soppressa dalla rivoluzione francese, ripristinata dalla restaurazione, scomparve definitivamente, e senza rimpianto, colle riforme albertine. Essa non poteva produrre altro effetto fuorché di limitare o far cessare affatto le nuove costruzioni e di acuire quell’addensamento della popolazione in case anguste e mal tenute che era caratteristico delle vecchie città nostre. Il capitale non accorre agli impieghi dove è sicuro di essere vigilato, spiato, dove è soggetto a noie infinite, regolamenti e bolli ufficiali; dove occorre iniziare un vero e proprio giudizio per costringere gli inquilini a pagare un affitto maggiore in proporzione delle spese che si sono fatte nella casa. O, se il capitale continuerà ad investirsi nelle costruzioni, calcolerà le spese delle liti e le difficoltà di non potere aumentare i fitti in proporzione al progresso economico della città, fra i rischi dell’industria, che devono entrare nel calcolo del costo di produzione degli alloggi. Il che equivale a far pagare subito, e forse cresciuto, quell’aumento di fitto che si sarebbe verificato in prosieguo di tempo. Come si farà inoltre ad impedire che al di sotto della classe dei proprietari di case non sorga una nuova classe di sub-proprietari, composta di inquilini che cederanno il loro «diritto di insistenza» (così si chiamava nel vecchio Piemonte) ai nuovi inquilini in cambio di una somma in denaro? Nell’Irlanda il diritto dell’affittavolo di terreni (tenantright) è oggetto di contrattazioni quotidiane e senza dubbio lo sarebbe, sia apertamente, sia clandestinamente, anche da noi il diritto di insistenza negli alloggi.

 

 

Dall’applicazione del calmiere nessun effetto buono si è mai ottenuto, dall’imperatore Diocleziano al comune di Roma dei giorni nostri. Perché una merce si venda a buon mercato bisogna incoraggiare il capitale a produrla; e non lo si incoraggia molestandolo e limitandolo in ogni maniera. Il che è tanto più vero nella industria edilizia dove il capitale sa di doversi immobilizzare per sempre. Pochi hanno un concetto adeguato della grandezza dei capitali che l’industria edilizia assorbe. Da un calcolo approssimativo il capitale impiegato nelle case soggette all’imposta sui fabbricati civili ed industriali (escluse dunque le case rurali) ascendeva in Italia a poco meno di 14 miliardi di lire, da un quarto ad un quinto della ricchezza nazionale. Di quei 14 miliardi, più della metà, dai 7 agli 8 miliardi di lire, è immobilizzata nelle 69 città capoluoghi di provincia, e in queste circa 1 miliardo e mezzo può calcolarsi impiegato in nuove costruzioni negli ultimi 17 anni. Negli anni 1906 e 1907 ben 150-200 milioni all’anno in media si impiegarono nella costruzione di case nuove. Sono cifre colossali, le quali assorbono una porzione cospicua del risparmio nazionale. Con le industrie e l’agricoltura che reclamano sempre nuovi investimenti, è da stupire si sia fatto tanto, quantunque le nuove costruzioni non soddisfino ancora all’immensità del bisogno, determinato dall’affluenza straordinaria e morbosa delle genti verso le città.

 

 

Per incoraggiare il capitale ad accorrere all’industria edilizia, lo stato e gli enti locali dovrebbero innanzitutto astenersi dall’allontanarlo da essa a bella posta. Nella compilazione dei regolamenti edilizi ed igienici non dovrebbero essere sentiti soltanto i consigli degli ingegneri e medici igienisti, i quali, come tutti i sacerdoti di una scienza, spingono l’amore verso di essa sino alla esagerazione. Il concorso delle organizzazioni dei proprietari di case, dei capimastri, delle leghe di operai e di inquilini sarebbe utilissimo. Spesse volte accade che una norma igienica sia teoricamente bellissima ma sia troppo costosa in confronto al fine da raggiungere. Può accadere altresì che il fine possa raggiungersi per altre vie meno costose, che il pratico conosce e lo studioso di tavolino non può immaginare.

 

 

Nel campo tributario l’azione dello stato può sovratutto farsi sentire. La legge sulle case popolari ha elargito esenzioni dalle imposte e sovrimposte per 10 anni, ma le ha condizionate a tali restrizioni, rispetto al prezzo dei locali, alla fortuna degli inquilini, ai trapassi, agli enti costruttori, che persino la lettura del regolamento riesce fastidiosa. Lo stato potrebbe senza pericolo – pur lasciando sussistere la speciale esenzione decennale per le case popolari e per quegli enti che le volessero costruire – allungare portandolo dai cinque ai dieci anni il periodo di esenzione per le case nuove che ora è di due anni. Dovrebbe essere una esenzione generale, non assoggettata a veruna condizione.

 

 

Solo così essa potrebbe essere efficace. In fondo lo stato non verrebbe a perdere nulla di ciò che già incassa, poiché la esenzione si riferirebbe alle sole case nuove non ancora iniziate all’atto dell’approvazione della legge. Anzi lo stato verrebbe, con questa saggia politica d’incoraggiamento, a prepararsi una messe di cresciuti redditi dopo passati gli anni di esenzione.

 

 

Molti capitalisti, i quali oggi non possono costruire case popolari coi benefici misurati a goccia a goccia dalla legge attuale, sarebbero spinti a costruir case il giorno che sapessero di non dover pagare imposte per un periodo che si aggirasse fra i 5 e i 10 anni; e costruirebbero per necessità case in prevalenza popolari, dovendo rivolgersi alla fabbricazione delle aree libere, le quali si trovano specialmente alla periferia. Mettere un limite di valore agli alloggi esenti, per esempio 1.200 lire di fitto all’anno, sarebbe un errore, perché farebbe dipendere l’esenzione dalla stima del fisco, del quale poco v’è da fidarsi.

 

 

Un’altra riforma tributaria dovrebbe essere compiuta, differenziando alquanto le quote legali di detrazione dal reddito lordo. Oggi due case che rendono al lordo 10.000 lire pagano ambedue, detratto il 25% per spese, l’imposta su 7.500 lire di presunto reddito netto imponibile; anche se il reddito netto dell’una (abitata da persone più agiate, posta su un suolo più caro e in cui quindi è in proporzione minore il capitale da ammortizzare, da riparare, da mantenere) è di lire 8.000 e quello dell’altra (posta alla periferia, divisa in moltissimi alloggetti, con popolazione variabile, richiedente forti spese di amministrazione e di riparazioni) è di sole lire 7.000. Ciò torna di danno alla costruzione di case ad alto costo annuo, ossia di case popolari. A togliere l’ingiustizia sarebbe d’uopo rinunciare alla unica quota di detrazione odierna del 5%, e stabilirne tre o quattro, ad esempio del 25, 30, 35, 40%. In tal modo per un altro verso si spingerebbe il capitale privato ad investirsi nella costruzione di case nuove periferiche. Poiché queste regolano i fitti, la loro abbondanza non potrà non riuscire benefica agli inquilini.

 

 

Le osservazioni e le proposte qui fatte non vogliono esaurire l’argomento, nulla essendosi detto, ad esempio, dell’azione diretta dei comuni nel costruir case, dell’azione degli enti autonomi nello stesso senso, delle iniziative comunali nell’aprire nuove strade e piazze, e nel provvederle di illuminazione, acqua potabile, fognatura, tramvie, ecc. ecc. Accanto alle iniziative d’ordine collettivo, è sovratutto necessario spingere il capitale agli impieghi edilizi. Dove l’impresa è così vasta e grandiosa, non si può fare astrazione dal capitale privato. Sarebbe già un risultato apprezzabile essere riusciti a ridurre i prezzi regolatori degli alloggi periferici al livello del costo di produzione, abolendo quel distacco che oggi può esservi fra i fitti di 150 lire e più per stanza nelle case popolari e il costo di forse 120 lire (sempre supponendo il costo della camera a 1.500 lire); distacco che dipende dal non essere, per la scarsità dei capitali investiti in case, perfetta la concorrenza tra i proprietari.

 

 

Purtroppo neppure le proposte ora fatte possono reputarsi di efficacia immediata. A qualche cosa di bene si può, applicandole, approdare; mentre le vessazioni ai proprietari di case ed i calmieri non farebbero, alla lunga, che aggravare il male. La causa fondamentale del rincaro dei fitti, che è il rincaro delle costruzioni nuove, può bensì essere attenuata con adatti provvedimenti tributari, ma non tolta. Sarebbe d’uopo che i rialzi dei salari e del materiali da costruzione fossero elisi da perfezionati metodi costruttivi; il che è forse in potere della tecnica avvenire, non mai dello stato.

 

 

III

 

La questione del rincaro degli affitti continua ad appassionare, e non nella sola Milano, tutte le classi sociali, promuovendo controversie ardue, la cui eco non può rimanere ristretta ai brevi confini di una città. Purtroppo lo spirito di parte, la smania di popolarismo, hanno intorbidato il dibattito; sicché sembrano trovare migliore accoglienza le proposte più empiriche, le quali forse riusciranno ad acquetare il male momentaneamente, ma ne aggravano a dismisura le cause sì da rendere, dopo brevissima tregua, più acuto il dolore e più difficile a curare il male. Giova perciò ritornare sul problema, non per discuterlo in tutte le sue facce, ma per meglio difendere le vedute ragionevoli e pratiche contro gli empirismi perniciosi.

 

 

Prima, brevemente, delle cause del rincaro dei fitti. I giornali socialisti hanno voluto dare una piccola lezione di economia politica agli «economisti della borghesia», i quali avevano affermato che una delle cause del rincaro delle nuove costruzioni era il rialzo – del resto riconosciuto come necessario e fecondo di buoni risultati sociali da quei medesimi economisti – dei salari degli operai. E assurdo, dissero, che il rialzo dei salari dei muratori, ecc., sia causa di un aumento nel costo delle costruzioni; poiché è noto come esista una legge compensatrice detta degli «alti salari», per cui gli operai pagati bene dell’Inghilterra, degli Stati uniti, della Germania e del Belgio sono anche gli operai che lavorano a minor costo, in confronto degli operai mal pagati d’altre nazioni più arretrate. Nessun economista della borghesia si è mai sognato di negare la verità, entro ragionevoli limiti, di questa legge, la quale fu messa in luce, del resto, da un grande costruttore di ferrovie, lord Brassey, e fu strenuamente difesa da economisti cosidetti borghesi nelle loro polemiche dottrinali contro le teorie catastrofiche dei socialisti. Nessuno nega che l’operaio ben pagato, ben nutrito ed istruito produca più e ad un costo più basso dell’operaio denutrito, che magari si ciba di poco riso e si contenta di pochi soldi di salario al giorno, come i cinesi o gli indiani. Non è possibile tuttavia seguitare all’infinito a crescere il salario agli operai, rimpinzandoli di maggior cibo e di maggior istruzione, colla certezza di ottenere un rendimento crescente in esatta proporzione col crescere del reddito. Vale per l’operaio, come per tutti gli altri fattori della produzione, la legge delle proporzioni definite; per cui, dato un operaio, di una certa cultura e vivente in una data società, vi è un salario che ne spinge al massimo la produttività. Pagar di meno, come pagar di più di quel salario, vuol dire impiegare i capitali in maniera antieconomica. La questione non è qui; è invece nel vedere se la legge degli alti salari si sia di fatto verificata a Milano, a Torino e nelle altre grandi città italiane per gli operai delle arti edilizie. È vero che a più alti salari abbia corrisposto in questi operai ed in Italia un più forte rendimento?

Un ugual rendimento non basterebbe per escludere l’aumento nel costo delle costruzioni; è necessario, affinché si verifichi la legge degli alti salari, che l’operaio che ad una paga giornaliera di lire 2,50 produceva un metro cubo di muratura, ne produca due ove la paga aumenti a 5 lire. Dare una risposta generale e sicura al quesito è difficile, in mancanza di un contradditorio ampio ed esauriente fra gli interessati. Pare tuttavia che le cose non stiano precisamente come pretendono i socialisti. Ancor pochi giorni fa, sul «Corriere», una persona competente affermava

 

 

che non sono tanto le alte paghe dei muratori che hanno fatto elevare enormemente la percentuale della mano d’opera, come il nessun loro rendimento. Se prima un muratore colla paga giornaliera di lire 2,50 produceva mettiamo un metro cubo di muro, attualmente, con una paga superiore alle 4,50, ne produce assai meno. Si è voluto persino abolire il cottimo nelle fabbriche per non creare un pericoloso termine di confronto, e così continuando con questa progressione è impossibile impedire che il costo delle nuove case continui ad aumentare.

 

 

Ed a me un ben noto e stimato ingegnere di Torino, scriveva:

 

 

Non basta accennare al rincaro della mano d’opera; bisogna tener conto che da un po’ di tempo questa mano d’opera – pur così aumentata – rende poco e va sempre diminuendo nel suo effetto di lavoro utile. L’operaio non è più diligente; è svogliato, insofferente di ogni disciplina, desideroso solo che il tempo passi, senza curarsi dell’effettivo lavoro fatto. E ciò si manifesta di più nei lavori edilizi, perché l’operaio gode di una certa libertà. Ne consegue che il lavoro viene così gravato di una somma per mano d’opera sproporzionata e si rende ancora necessaria una spesa, forte e continua, per sorveglianza, la quale, a sua volta, ha molti inconvenienti. A tutto ciò si aggiunga che quello stato d’animo degli operai, indisciplinati e poco volonterosi, rende poco simpatico il far lavorare e molti lasciano di dedicarsi a lavori edilizi per non entrare nel ginepraio dei fastidi.

 

 

Dimostri il «Tempo» che tutte queste sono esagerazioni, che i fatti sono diversi da quelli sopra narrati. Finché l’esperienza quotidiana di persone competenti ci porta a concludere che da noi nelle arti edilizie vige la legge dei salari alti e del costo rincarato, gli economisti della borghesia, i quali non hanno aspettato il pungolo dei socialisti per dimostrare la convenienza dei salari alti e dei costi bassi, dovranno pur sempre concludere che una delle cause precipue del rincaro delle nuove abitazioni e quindi del rincaro dei fitti è il rialzo dei salari, non compensato da un maggior rendimento del lavoro. Del che, giova ripetere una osservazione da me fatta altra volta: non tutta la colpa è degli operai; ma in parte anche della tecnica edilizia che non ha saputo o potuto spingere gli operai all’aumento della loro produttività mercé l’impiego di macchine. Sono queste che, nelle altre industrie, rendono possibile il pagamento di alti salari e ne neutralizzano gli effetti nel costo della merce; ed è da augurare che anche nelle arti edilizie riescano ad affermarsi i congegni ed i sistemi atti a risparmiare l’impiego della forza lavoro.

 

 

Nel fervore di indagini suscitato dalla recente polemica sul rincaro degli affitti torna in campo una vecchia osservazione: non essere conveniente per i costruttori fabbricare case da uno o due locali, adatti per abitazioni popolari. Alcuni costruttori milanesi che avevano cominciato a costruir case di questo tipo, dovettero abbandonarlo per rivolgersi ai tipi di 3-5 camere. Molteplici le ragioni: alto costo di impianto, mobilità continua degli inquilini, scarsissima cura dei locali e degli infissi da parte loro, spese elevate di riparazione, rapporti tesi con gli inquilini che vedono nel proprietario soltanto il nemico e non l’industriale che compie un impiego di capitale e di lavoro d’indole non diversa dagli altri impieghi ed alto costo di esazione dei fitti, complicato da un non indifferente rischio di insolvenze. Tutto ciò aumenta il costo di produzione degli alloggi piccoli in confronto ai grandi e per conseguenza accresce i fitti. Molte e lodevoli proposte furono fatte per eliminare questa causa specifica di aumento nei fitti minori: premi agli inquilini più stabili e diligenti, costituzione di cooperative per comprar case già costrutte ed affittarle ai soci, affitti in blocco di case da parte dell’ente autonomo che eliminerebbe i refittour e le loro speculazioni. Non ho visto accennare ad una proposta che fu fatta a Torino due anni fa dal Geisser[4] e che sembra pratica e di non costosa attuazione: quella della costituzione di cooperative di affitto da parte di operai ed impiegati. Mettere insieme il capitale necessario a costruir una casa non è affar da poco, per quanto l’azione delle cooperative sia oggi resa più agevole di una volta da molteplici aiuti. Più facile sarebbe ad un gruppo di operai e di impiegati seri, onesti e previdenti costituirsi in cooperativa di affitto, al che basterebbe il conferimento d’un capitale corrispondente ad un semestre o poco più di pigione. Non dovrebbero far difetto i proprietari di case, desiderosi di non aver le noie dei rapporti minuti con numerosi inquilini e ripugnanti all’idea di servirsi dell’opera dei «refittour» i quali sarebbero lieti di affittare le loro case in blocco a ragionevoli prezzi a siffatte cooperative, col vantaggio di non correre l’alea di sfitti e di trattare con un ente responsabile per i danni cagionati dagli inquilini alla casa, i cui soci avrebbero interesse a sorvegliarsi a vicenda per impedire che la condotta incivile di uno solo tornasse a danno di tutti. Perché non dovrebbero trovarsi costruttori e capitalisti disposti a costruir case adatte ai bisogni ed ai mezzi della classe operaia o dei più modesti impiegati, contentandosi del 4,50 d’interesse annuo netto, qualora sapessero di avere per unico contraente solvibile e duraturo una cooperativa di affitto? Aggiungasi che la cooperativa potrebbe concludere affitti della durata di anni o più, salvo a subaffittare ai singoli inquilini a periodi minori, in guisa da sottrarli alle alee dei continui aumenti. In fondo si tratta di applicare all’industria edilizia il metodo delle affittanze collettive che nell’agricoltura ha avuto larga applicazione. La Società umanitaria che delle affittanze collettive agricole si è fatta benemerita patrona potrebbe iniziare una analoga azione promuovendo la costituzione di cooperative d’affitto tra inquilini, nella quale opera probabilmente troverebbe aiuto e non contrasto da parte dell’Associazione dei proprietari di case.

 

 

L’egregio collaboratore della «Nuova antologia», la cui proposta di un calmiere delle pigioni avevo combattuto, ritorna nell’ultimo fascicolo della rivista sulla sua vecchia idea e dopo avere dichiarate «astratte» le mie obbiezioni, osserva che l’Italia non domanda più né discussioni, né leggi, ma vuole fatti. Il «fatto» sarebbe un semplice articolo di legge, da applicarsi in via temporanea e transitoria alle città superiori a 100.000 abitanti, il quale dicesse: «A cominciare da oggi e per il termine di dieci anni, l’inquilino abbia il diritto di rimanere nella casa che attualmente occupa, pagando regolarmente il fitto che il proprietario ha denunciato all’agente delle imposte agli effetti dell’imposta sui fabbricati». A me rincresce di dover ripetere le antiche obiezioni, le quali, se paiono astratte ai fautori del calmiere, sono invece praticissime e purtroppo reali. I rimedi ai malanni sociali possono essere di due specie: quelli che si arrestano alle manifestazioni esterne, agli effetti più visibili e dolorosi del male e pretendono di curarlo mettendo un empiastro purchessia sulle piaghe esteriori; e quelli che risalgono alle cause vere del male e cercano di curar il male togliendone o limitandone le cause. I soli rimedi veramente efficaci sono i secondi; mentre i primi sono empiastri che, come le ricette dei ciarlatani da fiera, tutt’al più possono essere innocui e di solito aggravano il male. Il calmiere è uno di questi empiastri ed è uno dei peggiori. Non giova citare la legislazione inglese in Irlanda, la quale stabilì il massimo dei fitti, il diritto del colono di rimanere sulla sua terra e la libertà di subaffitto. La situazione è profondamente diversa, poiché in Irlanda era mestieri por fine ad una lotta secolare tra conquistatori e vinti e si legalizzava quello che era sempre stato il diritto, se non riconosciuto dalle leggi inglesi, vigente nella coscienza giuridica delle popolazioni irlandesi, le quali pretendevano di rientrare in possesso di quella terra che era loro propria prima che gli antenati ne fossero stati violentemente spogliati dai conquistatori inglesi. Perché non ricordare che, non ostante tutto, il calmiere dei fitti diede luogo ad inconvenienti gravi, talché dovette intervenire la legge del 1903 a sancire addirittura la espropriazione, a favore dei coloni, a condizioni talmente favorevoli ai proprietari che questi l’accolsero con entusiasmo? Entusiasmo così grande che oggi il tesoro inglese si arretra titubante dinanzi al moltiplicarsi dei compromessi di vendita volontariamente conclusi tra proprietari e coloni a norma della legge del 1903. Lasciamo dunque da parte gli esempi stranieri, dovuti a motivi differenti dai nostri e non adatti al problema odierno. Il calmiere, nella forma proposta dallo scrittore della «Nuova antologia» ed in qualunque altra forma, determinerebbe l’arresto della attività costruttiva. Chi è quel capitalista che vorrà ancora costruir case sapendo che egli dovrà per dieci anni almeno e in realtà per sempre (una volta introdotto il calmiere sarebbe impossibile abolirlo, di fronte alle ricorrenti agitazioni degli inquilini!) essere posto fra l’incudine e il martello, fra il denunciare l’intiero fitto all’agente delle imposte e il diritto dell’inquilino a non pagare più del fitto denunciato? Bisogna avere il coraggio di dire la verità ed affermare che in Italia il contribuente, il quale cerca di occultare parte del suo reddito al fisco, compie un’azione di legittima difesa. Uno stato ha diritto di pretendere l’integrale pagamento dei tributi quando esso non li stabilisca in misura esorbitante; altrimenti le penalità possono essere scritte nelle leggi, ma non rispondono al sentimento comune di giustizia, il quale giustamente condanna non il cosidetto reato fiscale, ma la barbarie delle imposte e delle penalità eccessive. Le penalità e le sanzioni portano ad un’unica conseguenza: accrescere il rischio di costruire ed amministrare case e accrescere perciò i fitti. Lo stato, quando voglia fissare il massimo dei fitti al livello attuale, proibendo qualunque aumento futuro, dovrebbe garantire ai proprietari la fissità delle imposte e sovrimposte, delle spese per acqua potabile, illuminazione, assicurazione, amministrazione, rischi di sfitti, quote di riattamenti, ecc. ecc. Altrimenti il costruttore avrebbe tutte le alee sfavorevoli, data la tendenza all’aumento delle spese, e nessuna favorevole. Poiché è assurdo che lo stato dia le garanzie ora dette, il calmiere necessariamente produrrà questi effetti: nessuna riparazione alle case vecchie, ed arresto delle costruzioni nuove. Ciò accadde in passato sempre; perché non dovrebbe accadere in avvenire? Ho ricordato altra volta il calmiere imposto a Torino dal governo paterno della casa di Savoia per frenare l’aumento dei fitti; e non sarà male aggiungere qualche cifra. Intorno al 1750, quando quella legislazione appena si iniziava, era possibile affittare una intiera casa oltre Po per lire 300, ed al pianterreno del palazzo dell’università in via Po per 1.612 lire; e si fittavano tre botteghe e cinque camere nel palazzo dell’accademia per lire 270. Nel 1793, dopo 40 anni di editti restrittivi e probabilmente in causa di essi, gli appartamenti di via Doragrossa (ora Garibaldi) si pagavano lire 120 per camera; e nelle catapecchie peggiori dei quartieri popolari di dovevano pagare per un piccolo camerino fitti da 40 a 50 lire l’anno. I proprietari, malgrado tutto, erano riusciti a crescere a dismisura i fitti, e, giovandosi della mancanza assoluta di nuove fabbricazioni, non facevano la menoma spesa negli alloggi vecchi, sicché questi presentavano per lo più condizioni igieniche deplorevoli. Questi e non altri furono in passato e sarebbero in avvenire gli effetti dei calmieri dei fitti.

 

 

Favorire l’afflusso del capitale verso le edilizie: ecco il rimedio più sicuro della carestia degli alloggi. A raggiungere il fine molti possono essere i mezzi opportuni, e non bisogna dare l’ostracismo a nessuno di essi, purché di fatto raggiungano il fine voluto e non riescano invece ad allontanarlo. Sulla opportunità di chiedere il prolungamento del periodo di esenzione delle imposte dall’attuale biennio ad almeno 5 anni e meglio a 10, per tutte indistintamente le case senza timide restrizioni, sono oramai d’accordo tutte le persone ragionevoli. Come pure tutti riconoscono la necessità di una riforma, già ampiamente spiegata, nel calcolo del reddito imponibile, in guisa da tener conto delle maggiori spese delle case popolari. La «Lombardia» ha insistito, ed a ragione, sovra un altro punto: la convenienza di una nuova revisione generale dei redditi dei fabbricati. L’ultima revisione rimonta al 1889; e dopo d’allora il reddito di talune case è diminuito e quello di altre è aumentato, sicché una revisione porterebbe ad una giusta perequazione. Ben più: essa potrebbe essere così congegnata da produrre un ribasso di fitti. Una casa nuova infatti paga l’imposta erariale e le sovrimposte locali, supponiamo il 30% in tutto del reddito imponibile, sul reddito attuale; e su 10.000 di reddito imponibile, paga perciò 3.000 lire. Una casa vecchia ha attualmente un reddito imponibile pure di 10.000 lire; ma paga il 30% sull’imponibile accertato nel 1889 che era, per ipotesi, di sole 7.600 lire ossia paga solo 2.280 lire di imposte e sovrimposte. Il proprietario della casa nuova rimbalza sugli inquilini tutto o parte dei suoi gravami in proporzione dell’imposta di 3.000 lire da lui pagate, e siccome i fitti delle case vecchie sono regolati su quelli delle case nuove, anche il proprietario della casa vecchia, benché paghi solo 2.280 lire di imposta, si fa rimborsare in proporzione di 3.000 lire. Contro di ciò si può gridare e ci si può magari indignare; ma, poiché quel lucro è il risultato del libero gioco delle forze economiche, l’indignazione a nulla serve. Occorre cambiare il gioco delle forze economiche, e lo si può seguendo un criterio esposto dall’on. Rubini in una delle sue belle relazioni sul bilancio d’assestamento. Procediamo, egli diceva, alla revisione dell’imposta, ma questa avvenga senza beneficio (o con quello solo che gli sarebbe spettato dal consueto incremento precedente nel gettito dell’imposta) dell’erario ed a totale vantaggio dei contribuenti. Nel caso sovra citato lo stato, la provincia ed il comune insieme, percepiscono dalle due case un provento di lire 3.000+2.280=5280. Teniamo ferma questa cifra magari portandola a 5.350 lire; e distribuiamola sul reddito imponibile attuale, accertato con la nuova revisione, che è di 10.000 lire per ciascun caso. Ognuno dei due proprietari pagherà lire 2.675 ed il proprietario della casa nuova potrà al massimo rimbalzare sugli inquilini questa somma, crescendo i fitti non più in ragione di lire 3.000, ma di lire 2.675. Poiché i fitti delle case vecchie si equilibrano a quelli delle nuove, anche il proprietario della casa vecchia non potrà pretendere di più. I fitti diminuiranno dappertutto e non vi sarà più nessuno che possa trarre un lucro dalla sua sottotassazione.

 

 

Altri provvedimenti fiscali si potrebbero indicare; alcuni ne ha indicato lo Schiavi in un articolo sul «Tempo», in cui si leggono parecchie proposte assennate, come quelle dell’applicazione dei contributi di miglioria, del diritto di superficie (fitto delle aree per anni o più). Son problemi su cui a Milano potrebbe formarsi un consenso unanime di uomini appartenenti ai più diversi partiti. L’imposta sulle aree fabbricabili allontana e non avvicina il momento della costruzione delle case popolari, non per il suo concetto informatore, ma per le pessime modalità della sua applicazione volute dal legislatore italiano. Il dissenso coi socialisti che vorrebbero portare l’imposta al 3% non è di principio, ma di modalità di applicazione, modalità, a mio parere, tanto importanti da distruggere il principio stesso. Perché su questo punto, sui contributi di miglioria, sulle esenzioni fiscali, sui criteri di una nuova revisione generale, sui metodi di calcolo delle spese non potrebbe farsi una discussione ampia e serena? Trattandosi di problemi tecnici, ci sembra probabile giungere ad una conclusione accettata da tutti, la quale avrebbe un grande peso sul legislatore. Questi ha legiferato fin qui sulla base di agitazioni tumultuarie, di sentimenti umanitari ed il frutto del suo legiferare è stato scarso. Milano, dove i partiti politici comprendono uomini fattivi e capaci di dimenticare la retorica mitingaia e le rivalità personali, potrebbe prendere l’iniziativa di proporre in materia edilizia provvedimenti tributari tali da raggiungere il fine del vantaggio universale; né le sue proposte potrebbero essere ignorate dal governo e dal parlamento.

 

 


[1] Con il titolo Le cause del rincaro dei fitti. [ndr]

[2] Con il titolo Il calmiere dei fitti e la legislazione tributaria. [ndr]

[3] Con il titolo Concludendo sul rincaro dei fitti. Per una comune intesa sui provvedimenti tributari . [ndr]

[4]Geisser, Il problema delle abitazioni popolari nei riguardi finanziari e sociali, Lattes Torino 1907.

Il commercio internazionale dell’Italia. Un anno di progressi: il 1906

Il commercio internazionale dell’Italia. Un anno di progressi: il 1906

«Corriere della sera», 7 aprile 1909

 

 

 

 

La direzione generale delle gabelle ha pubblicato di questi giorni contemporaneamente due documenti della più grande importanza: la statistica del movimento commerciale italiano nel 1905 e la statistica provvisoria del commercio speciale di importazione e di esportazione dall’1 gennaio al 31 dicembre 1906. Sono due documenti che si integrano a vicenda; poiché il secondo, breve e riassuntivo, tiene dietro ogni mese al commercio dell’anno nella maniera più sollecita possibile, mentre il primo rielabora le medesime notizie, le corregge, le amplia e le presenta al pubblico un anno e tre mesi circa dopo la scadenza del periodo a cui si riferisce.

 

 

Una prima dimostrazione del crescere del commercio internazionale italiano si ha nella stessa aumentata mole del documento principale; il quale fino ad un anno fa si conteneva in un volume solo, benché di peso e dimensioni rispettabili, mentre nel 1905, se si vollero elencare i movimenti tutti delle merci entrate ed uscite dall’Italia, fu d’uopo occupare nientemeno che 1418 fitte pagine di due volumi di tabelle in formato grandissimo.

 

 

* * *

 

 

In mezzo a questa selva selvaggia di cifre interessanti per gli studiosi e per gli uomini politici noi non possiamo addentrarci. Ci basti mettere in luce alcuni fra i dati più interessanti. Colpisce intanto il crescere irrefrenato del movimento complessivo del traffico. Trascurando i metalli preziosi, si pensi che dal 1891, punto di massima depressione dopo il 1871, al 1906 siamo passati da 2,003 a 4,252 milioni di lire di merci importate ed esportate! Nessun paese forse d’Europa può presentare una percentuale così brillante d’aumento. Se il confronto col 1891 pare troppo ottimista – quantunque non sia male, nei tempi prosperi, guardare ai punti iniziali da cui s’eran prese le mosse – confrontisi pure il movimento degli ultimi due anni colla media del quinquennio 1900-1904 (le cifre sono in milioni di lire):

 

 

Importazione Esportazione Totale
1900-1904

1794

1459

3253

1905

2064

1730

3794

1906

2416

1835

4252

Aumento del 1905 sul 1900-904

+270

+271

+541

Aumento del 1906 sul 1905

+352

+105

+458

Aumento del 1906 sul 1904-904

+622

+376

+999

 

 

Il progresso appare meno accentuato nel 1906 in confronto del 1905; ma è chiaro che, quando già si è fatto un gran passo in un anno, il compierne uno quasi eguale nell’anno successivo è segno di vitalità ancora più energica ed operosa. Notisi che dalle cifre sopra riportate sono esclusi i metalli preziosi (oro ed argento in verghe ed in monete) e che di questi entrarono in Italia nel 1905 ben 161 milioni e nel 1906 ancora 124 milioni di lire di più di quanti non siano usciti; segno che le nostre transazioni coll’estero si chiusero con un saldo a nostro vantaggio di altrettanta somma, che fu colmata con importazione di oro e di argento.

 

 

È vero che nel 1905 importammo 333 milioni di lire di merci di più di quante ne esportammo e che l’eccedenza delle importazioni sulle esportazioni salì nel 1906 a 580 milioni, cifre colossali, le quali non hanno però nulla di pauroso, poiché dimostrano soltanto che l’Italia aveva nel 1906, a cagion d’esempio, tanti crediti verso l’estero per rimesse di emigranti, di stranieri viaggianti in Italia, ecc., che per pagarli l’estero dovette inviare in Italia 580 milioni di merci in eccedenza di quelle da noi comperate e per soprammercato dovette mandare 120 milioni di oro e di argento.

 

 

* * *

 

 

Volendo discendere a qualche particolare, è opportuno seguire la classificazione adottata dalla direzione generale delle gabelle delle merci in materia greggia ed altre necessarie all’industria, prodotti fabbricati e generi alimentari. All’importazione, le materie greggie necessarie all’industria sono cresciute dal 1905 al 1906 di 111 milioni di lire, passando da 775 ad 887 milioni di lire. Ci furono alcune diminuzioni, fra cui specialmente importante quella degli animali equini da 45.582 a 25.150 per un minor valore di 14.291.000 lire. Ma gli aumenti furono tali e tanti che ci conviene ricordare, a scopo di brevità, solo quelli superiori ai due milioni di lire. Eccoli: la juta greggia da 274 a 327 mila quintali per un maggior valore di L. 2.350.935; i cascami di seta greggi da 19.657 a 23.509 quintali (prevalenza lire 2.040.240); le lane naturali, i cascami e la borra di lana da 84.467 a 97.051 quintali (+ L. 3.098.465); i minerali metallici d’ogni specie da 47.213 a 113.320 tonnellate (+ L. 3.186.273); l’avorio, la madreperla e la tartaruga, greggi, da 2183 a 3511 quintali (+ L. 4.205.200), i rottami di ferro, ghisa e d’acciaio, da 276.311 a 345.331 tonn. (+ L. 5.521.632); le pietre, terre, gessi, calce e cementi non metallici da 438.332 a 578.256 tonnellate (+ L. 5.522.000); l’avena da 39.487 a 69.311 tonn. (+ L. 5.219.200); la gomma elastica greggia, da 7.669 ad 11.731 tonnellate (+ L. 5.382.150); i bozzoli da 48.734 a 55.907 quintali (+ L. 8.164.100); le pelli crude da 218.000 a 255.756 quintali (+ L. 8.126.510); il tabacco in foglie da 127.585 a 208.284 quintali (+ L. 9.361.084); il legno comune rozzo e le doghe per botti, da 846.681 a 994.221 tonn. (+ L. 12.716.195); il cotone in bioccoli o in massa, da 1.650.691 a 1.830.194 quintali (+ L. 20.104.336) ed il carbon fossile da 6.437.539 a 7.673.435 tonnellate (+ L. 31.515.348). È una fiumana straripante di merci che s’è rovesciata sul’Italia industriale per dar forza ai suoi motori e materia prima alle sue macchine. Con tutto ciò, ed anzi a cagione di questo aumento nella capacità di assorbire le materie prime estere, l’industria italiana si è trovata nella necessità di dover pure ricorrere all’estero per completare i propri impianti ne` ha potuto soddisfare alle esigenze del consumo, il quale è cresciuto in proporzioni ancor maggiori della produzione interna, cosicché all’importazione nella categoria dei prodotti fabbricati, accanto a poche ed insignificanti diminuzioni (sintomatica quella del petrolio, benzina e benzolo da 664.926 a 645.408 quintali), segniamo un aumento complessivo netto di 162 milioni, da 472 a 635 milioni. A ricordare solo gli aumenti superiori ai 3 milioni di lire, notiamo i colori, estratti coloranti e vernici, saliti da 87.056 a 97.480 quintali (plusvalenza L. 3.363.420); i tessuti ed altri manufatti di cotone da 29.612 a 36.251 quintali (+ 3.716.768); i tessuti ed altri manufatti di seta o di filugello da 390.012 a 450.303 chilogrammi (+ 4.484.286); il vasellame, i gioielli ed altri lavori d’oro e d’argento da 30.737 a 34.082 chilogr. (+ L. 4.917.835); gli orologi d’ogni specie, gli organini, ecc. da 461.393 a 734.406 in numero (+ L. 3.222.262); le pietre preziose lavorate da 32.815.421 a 37.087.196 lire (+ L. 4.271.775); i carri, le vetture, i velocipedi e gli automobili da 4200 a 5967 in numero (+ L. 3.665.056); i bastimenti ed altri galleggianti da 40.921 a 63.762 tonn. di stazza (+ L. 5.263.635). Sono i consumatori italiani che, divenuti più agiati ed avendo maggiormente da spendere, fanno una domanda crescente di prodotti che l’industria italiana, pur lavorando ad alta pressione, non riesce a provvedere. E che l’industria italiana lavori ad alta pressione è dimostrato dal fatto che essa nel 1905 ha comperato all’estero 474.514 quintali di ferro ed acciaio di seconda lavorazione invece di 261.163 quintali nel 1905, per un maggior valore di lire 12.208.538; e così pure 200.838 quintali di veicoli da ferrovia invece di 44.922 (+ L. 10.756.365); 26.296 quintali invece di 17.350 (+ L. 12.552.750) di strumenti di ottica, di fisica, apparecchi per le applicazioni dell’elettricità, ecc.; e finalmente 1.099.739 quintali di macchine e parti di macchine invece di 712.237 per un maggior valore di 57.206.433 milioni di lire.

 

 

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All’esportazione gli aumenti non sono né così importanti né così vari.

 

 

Avrebbe torto chi da ciò traesse motivo di allarmi eccessivi; poiché chi non si rallegra che l’industria nazionale abbia trovato in sé tanta forza da trattenere in copia le materie greggie necessarie appunto alle manipolazioni industriali, lasciandone andar all’estero appena per 8.906.731 lire di più che nel 1905? Nelle materie diverse pure necessarie all’industria noi esportammo 698 milioni di lire invece di 626, con un aumento di 72 milioni, dati in grandissima parte dalla seta tratta semplice o torta, anche tinta e seta artificiale, progredita da 492 a 554 milioni di lire con un incremento di 62 milioni. Questa della seta rimane pur sempre la nostra massima industria esportatrice ed ancora nel 1906 dava più del 37 per cento del totale movimento d’esportazione dall’Italia. Tanto più grandi devono essere quindi gli sforzi di tutti, privati, associazioni, governo per agguerrire questa industria e renderla forte nelle prossime lotte internazionali della concorrenza che si annunciano gravi di pericoli e di tempeste.

 

 

Poco cresce l’esportazione dei prodotti fabbricati dall’Italia, passandosi complessivamente solo da 416 a 423 milioni di lire. Qui vi sono contrasti fortissimi. Diminuiscono gli oggetti da collezione e d’arte di L. 1.529.804, i cappelli di L. 2.648.320, le mercerie comuni, fini e ventagli di lire 1.008.529, il corallo lavorato di L. 7.694.460, il vasellame, i gioielli ed altri lavori d’oro e d’argento di L. 1.056.255, le botti nuove o vecchie di L. 3.442.736, i tessuti ed altri manufatti di lana di L. 2.299.760, i bastimenti ed altri galleggianti di L. 17.640.123. Per alcune voci la diminuzione può essere accidentale; per le altre, siccome non consta di industrie in crisi, è da ritenere che si sia verificato il fatto consueto in periodi di prosperità in confronto a quelli di crisi.

 

 

Quando i prezzi scemano e non si può vendere convenientemente in paese, gli industriali cercano a gran fatica sbocchi all’estero ed avviano correnti importanti di esportazione. Vengono i tempi buoni e gli industriali, dimentichi dei sacrifizi fatti per procacciarsi una clientela all’estero, si tengono paghi dei buoni affari più facilmente conchiusi all’interno. Essi ottengono un beneficio momentaneo; ma è da chiedere se non sia ottenuto a scapito dell’avvenire e di quei legami commerciali che in un periodo di crisi, sempre possibile, potrebbero riuscire utilissimi.

 

 

Cresce al contrario l’esportazione dei tessuti ed altri manufatti di cotone da 248.933 a 280.169 quintali per un maggior valore di L. 12.734.137, dei tessuti e manufatti di seta e filugello per un maggior valore di lire 3.716.328, dei mobili, cornici ed utensili per L. 2.468.365, dei carri, vetture velocipedi ed automobili per L. 8.352.160, dei cappelli di paglia per L. 3.797.970, delle stampe, litografie, libri per L. 2.078.150, dell’avorio, madreperla e tartaruga per L. 1.083.565 ecc.

 

 

Vicende egualmente varie ha avuto l’esportazione dei generi alimentari, progredita di quasi 17 milioni, da 424 a 441 milioni di lire. Il maggior consumo di carni trattenne in patria gli animali bovini, di cui si esportarono 13.458 capi invece di 32.876 nell’anno precedente e così per un minor valore di L. 8.388.570; ne` volsero prospere le sorti all’esportazione delle frutta e dell’uva fresca, diminuite di ben lire 6.450.282, delle mandorle, noci, nocciuole, scemate di L. 6.996.045, del vino di lire 3.328.691, delle uova ridotte di L. 1.492.090. Quanta parte di questa contrazione sia dovuta alle vicende atmosferiche, quanta alla aumentata richiesta interna e quanta al disservizio ferroviario, non è dato sapere. Consoliamoci pensando che esportammo in più L. 4.127.380 di frutta, legumi ed ortaggi preparati, L. 1.941.898 di pistacchi, fichi, uva e altri frutti secchi, L. 2.879.703 di agrumi, L. 5.521.177 di paste di frumento e di pane L. 1.973.375 di riso e L. 28.012.538 di olio d’oliva.

 

 

L’anno 1906 rimarrà memorando nella storia del commercio internazionale italiano. Forse in nessun altro anno, nemmeno nel 1905, si ebbe una così fortunata espansione nel consumo e nell’industria nazionale; espansione così rapida da interrompere persino alcune fra le correnti di traffico che si erano avviate all’estero. Dovremmo ora consolidare le conquiste fatte e sull’incrollabile base di un crescente e forte consumo interno, ripigliare quell’opera di conquista dei mercati esteri che era stata iniziata in mezzo a tante speranze.

Le derivazioni di acque pubbliche

Le derivazioni di acque pubbliche

«Corriere della Sera», 19 febbraio 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 655-656

 

 

Uno dei più importanti disegni di legge che la chiusura della sessione ha fatto decadere è senza dubbio quello sulle derivazioni e usi di acque pubbliche. La relazione al re per lo scioglimento della camera e la convocazione dei comizi elettorali dichiarava che per la sua importanza, il disegno di legge sarebbe stato tosto ripresentato al nuovo parlamento. Cosicché, dopo una breve interruzione, l’esame del disegno di legge deve continuare dinanzi al senato, a cui, per la sua speciale competenza, esso era stato prima presentato. La legge del 10 agosto 1884 è oramai antiquata, soprattutto tenuto conto del meraviglioso cammino percorso nel frattempo dalla utilizzazione industriale ed agricola delle acque; e si comprende perciò come da un decennio in qua si siano succedute le proposte di nuovi disegni di legge ed anche le semplici circolari che pretendevano innovare sulle leggi esistenti. Cominciò il generale Afan De Rivera a diramare il 17 giugno 1898 una circolare che ingiungeva di non dar più corso alle domande di concessione, allo scopo di non pregiudicare le future applicazioni della trazione elettrica ferroviaria. Ma un disegno di legge presentato l’11 dicembre 1899 dai ministri Carcano, Lacava e Fortis, inspirato a preoccupazioni ferroviarie, non trovò fortuna presso il senato, il quale si preoccupò giustamente dei danni immediati che alla industria italiana avrebbe arrecato una ipoteca posta sulle forze idrauliche per lontani ed ipotetici bisogni ferroviari. Il tempo si incaricò di dar ragione ai timori del senato, poiché la elettrificazione delle ferrovie, dopo alcuni esperimenti riusciti tecnicamente, ma forse non commercialmente, non fu più proseguita con fervore né da noi né altrove. Segue un altro periodo che va dal 1902 al 1904 in cui si sospese per un po’ di tempo ogni nuova concessione allo scopo di potere, con una nuova legge, aumentare i canoni, abbreviare le concessioni ed impedire i cosidetti accaparramenti delle acque. Col 1907 entra in campo una nuova preoccupazione: quella delle preferenze da accordarsi alle provincie ed ai comuni posti lungo il percorso delle acque: onde il disegno del 6 marzo 1907 che aumentava assai i canoni a beneficio degli enti locali e dava a questi molti diritti e perfino il monopolio della distribuzione di energia elettrica per piccole forze motrici, per illuminazione e per riscaldamento. Anche il nuovo disegno di legge naufragò in senato, per le obiezioni sollevate dall’aumento eccessivo dei canoni, dalla abbreviata durata delle concessioni e dai privilegi concessi agli enti locali che avrebbero ostacolato moltissimo l’accorrere dell’industria privata verso gli impieghi elettrici.

 

 

La riforma tributaria di una grande città allargamento della cinta e moderazione di dazi a Torino

La riforma tributaria di una grande città allargamento della cinta e moderazione di dazi a Torino

«Corriere della Sera», 25[1] e 26[2] gennaio 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 641-654

 

 

I

Quasi contemporaneamente, il problema finanziario si è imposto in parecchie grandi città italiane. A Milano, a Genova, a Torino il compimento di grandiose opere pubbliche e le conseguenze prime di talune municipalizzazioni hanno reso evidente la necessità di allargare la base del bilancio, dandogli, con nuove imposte e con rimaneggiamenti delle imposte esistenti, una elasticità maggiore di prima. È naturale che il problema sia stato risoluto in modo diverso nelle grandi città ora menzionate; poiché il materiale su cui si doveva lavorare era differente e non si era giunti dappertutto allo stesso stadio di evoluzione tributaria. Non deve perciò parere inutile, anche per i lettori d’altre città, riassumere rapidamente lo stato attuale della questione finanziaria e tributaria torinese. Le considerazioni fatte a proposito della capitale piemontese hanno una portata che va oltre la città particolarmente interessata.

 

 

La cittadinanza torinese s’interessa moltissimo al grosso problema; i comizi si succedono ai comizi ed, essendo per lo più convocati e composti da persone, che sono o reputano di esserne danneggiate, si pronunciano contro alle proposte della giunta. L’interesse si concentra però quasi soltanto sulla parte che chiamerò attiva delle proposte della giunta, ossia sull’allargamento della cinta daziaria, trascurando la parte passiva, ossia le spese cresciute e nuove a cui il maggior gettito del dazio dovrebbe far fronte. Chi scrive non è niente affatto tenero della grandiosa politica municipale che è stata inaugurata da qualche anno nella città di Torino, senza studi maturi, con progetti incompiuti e con una furia che non poteva essere giustificata se non dalla fretta di fare. Il grido d’allarme che allora fu gettato da pochi solitari non fu voluto ascoltare: cattolici, liberali e socialisti concordi approvarono a grandissima maggioranza in solenne referendum l’acquedotto municipale, l’impianto idroelettrico, il riscatto delle tramvie dalla Società dall’Alta Italia. Se i cattolici ed i liberali votarono con eccessiva furia e per amore del bel gesto l’inizio di imprese che avrebbero dovuto essere meglio e più maturamente studiate, per scegliere solo quelle promettitrici di reali vantaggi, i socialisti peccarono di poca sincerità, quando appoggiarono l’amministrazione liberale nelle sue grosse imprese, colla riserva mentale di farsene belli quando esse fossero riuscite bene e di rigettare sugli avversari la colpa dell’eventuale insuccesso.

 

 

Oggi è troppo presto ancora per poter dare un giudizio sui risultati delle nuove imprese; sembra però fuor d’ogni dubbio che la spesa supera notevolmente i preventivi, che tecnicamente si sono incontrate gravissime difficoltà nell’impianto idroelettrico, che non si è trovata tutta l’acqua che si sperava poter addurre a Torino, che le tramvie municipali danno un risultato finanziario peggiore della partecipazione antica ai prodotti dell’ex società, ecc. ecc. da sperare che in avvenire le cose mutino e che vantaggi indiretti di varia natura (qualcosa si ottiene già col ribasso del prezzo della luce elettrica e della forza motrice) compensino i sacrifici finanziari. Ma è indisputabile verità che i contribuenti debbono prepararsi a pagare lo scotto delle spese da essi consapevolmente (si suppone almeno che ne fossero consapevoli) votate; e peccano quindi di poca sincerità quei socialisti che oppongono una negativa assoluta alla domanda di nuove imposte, pur pretendendo opere ben più grandiose, a favore delle classi operaie, di quelle volute dalla giunta e quei pochi liberali i quali vanno accortamente sottilizzando sulle cifre dei bilanci, ma non si possono sottrarre alla conclusione che qualche imposta nuova od un aumento di un’imposta vecchia sia necessario per far fronte alle conseguenze di opere e di spese già approvate nel passato. Qualcosa si potrà risparmiare sui 32 milioni di lire di nuove spese straordinarie che costituiscono la sostanza della parte passiva delle proposte della giunta per il settennio 1909-15; ma in fondo non si tratta di risparmi di gran conto. I cinque milioni necessari per colmare i deficit nei preventivi per l’impianto termo-idroelettrico e per l’acquedotto sono certo dolorosi, ma non sono punto una sorpresa e sovratutto non sono oramai evitabili. I 2 milioni e mezzo per l’ampliamento della rete municipale delle tranvie si sarebbero forse potuti evitare se il municipio non avesse direttamente assunto quest’azienda; e sono adesso imposti dalla necessità di mettere in comunicazione i sobborghi col centro della città. Necessità assoluta invece non vi è per il prolungamento dei murazzi lungo il Po, che costerà altri 2 milioni e mezzo, e potrebbe benissimo essere ritardato ad un’epoca ulteriore quando l’espansione della città, sotto la spinta del nuovo piano regolatore, si sia fatta più sicura. Ma le 700.000 lire per la risoluzione della questione ospitaliera, le 600.000 per la nuova biblioteca civica, i 2 milioni ed 800.000 lire per la fognatura, i 3.070.500 lire per gli edifici delle scuole elementari sono voluti da imperiose esigenze dei servizi pubblici, mentre par scarso a molti, non a me, il milione per le case popolari. Si potrà dubitare altresì dell’urgenza assoluta di risanare i quartieri centrali con una spesa di 2.400.000 lire; come pure di dedicare due milioni ai nuovi ponti sul Po e 5.520.000 lire ai piani regolatori fuori cinta. Se si può dubitare dell’urgenza di far subito tutto ciò, pare sia dovere di amministrazione previdente di formare un piano di lavori destinato a svolgersi in un lungo periodo di tempo. O non si è gridato spesso contro i municipi che non sanno concepire un piano d’insieme, che vivono alla giornata, che fanno e disfanno? Non si è forse criticata l’amministrazione cittadina attuale di disperdere la sua attività in troppe cose, iniziando imprese aleatorie non strettamente attinenti ai compiti municipali? Se ciò è vero, con quale logica si vuole criticare ancora l’amministrazione quando – dopo aver saldata la partita dell’impianto idroelettrico e dell’acquedotto, il che era una necessità evidentissima – limita la sua azione al piano regolatore, al risanamento dei vecchi quartieri, ai ponti, agli edifici scolastici, alla fognatura, agli edifici ospitalieri, ecc., spese tutte che rientrano indubbiamente nella sfera primissima delle attività municipali? Si scaglioni pur nel tempo l’esecuzione di queste opere; ma si dia la giusta lode a chi le propone per tempo e fissa lo sguardo all’avvenire, avendo di mira la grandezza di Torino. Unica spesa, che rimane ancora da giustificare, è quella di due milioni di lire (2 su un piano di 32 milioni) richiesti dalla costruzione della nuova cinta. Qui il giudizio sulla opportunità delle spese si collega con quello della natura delle entrate scelte per farvi fronte, né è possibile discorrerne separatamente.

 

 

A dare la necessaria elasticità al bilancio – che, ripetiamolo ancora una volta, oggi mancherebbe anche se non si spendesse neppure un centesimo per nuove opere straordinarie, oltre quelle richieste dalle necessità dei servizi pubblici e dall’urgenza di colmare i preveduti disavanzi dei preventivi delle aziende municipali – due programmi si contrappongono: quello socialista e quello della giunta. Lascio da parte il programma degli esercenti fuori cinta, i quali vorrebbero non far nulla, limitandosi tutt’al più a dare un altro giro di torchio al dazio di minuta vendita nel forese, portandolo da lire 275.000 a forse 450.000. Questo sistema di rattoppi non accomoda nulla; lascia sussistere l’attuale dannosa divisione fra il centro e i sobborghi ed è contrario, come dire poi, alla più elementare giustizia distributiva. Lascio da parte anche l’abbozzo di programma esposto sulla «Stampa» dall’ing. Sincero, un colto industriale e consigliere comunale. A differenza della parte critica, irta di cifre e di calcoli complicati e non persuasiva, malgrado la studiata sua diligenza, la parte ricostruttiva del programma dell’ing. Sincero (che si potrebbe chiamare il portabandiera dei pochi liberali dissidenti), è singolarmente povera di dati e di calcoli precisi, cosicché nulla si può dire dei probabili risultati delle sue vaghe proposte. Sul programma socialista, esposto dall’on. Nofri, i socialisti medesimi per ora amerebbero far poco rumore; poiché è certo più popolaresco combattere l’estensione della cinta e del dazio murato voluto dalla giunta, che venir fuori a proporre tutto un piano di nuovi tributi. A farla in breve i socialisti vorrebbero abbattere completamente la cinta, conservando il dazio soltanto sulla minuta vendita del vino, delle uve, delle bevande e delle carni, la tassa di macellazione, il dazio sui foraggi riscosso per capi, il dazio sui materiali da costruzione esatto sulla muratura dei nuovi edifici, e le tasse sulla birra, acqua gazosa, gas e luce elettrica riscosse presso i produttori. Il reddito totale preventivato dal Nofri (cito le sue ultime cifre da una lettera alla «Stampa») sarebbe di lire 9.225.000 con una perdita di lire 5.106.000 sull’accertamento del 1907. Uno studio assai ponderato della direzione del dazio torinese ed un opuscolo pieno di buon senso, di esperienza e di dottrina del consigliere Alberto Geisser (largamente diffuso di questi giorni col titolo Il programma finanziario di Torino e l’allargamento della cinta daziaria) hanno messo in chiarissima luce la fallacia delle previsioni e la ingiustizia fondamentale delle previsioni socialiste. I comuni che in Italia hanno abolito la cinta, a cui hanno sostituito la riscossione colla minuta vendita e cogli accertamenti detti, hanno dovuto diminuire di una buona metà i preventivi, né gli accertamenti hanno corrisposto alle previsioni, pure ridotte. Como ridusse i preventivi da lire 648.145 a 305.000; Bergamo da lire 555.000 a 225.000; Casale Monferrato da lire 445.000 a 128.000 ed Alessandria da 1.176.000 a 772.000, riscuotendone poi solo 675.419. È probabile che anche a Torino il reddito diminuirebbe almeno della metà, tenendo conto della molto maggior facilità di frode da parte delle migliaia di esercizi sparsi in tutto il territorio. Dal punto di vista della giustizia distributiva e della tecnica finanziaria, il dazio sulla minuta vendita è infinitamente più vessatorio ed ingiusto del dazio murato. Ben fece Milano a non volerne sapere nel 1898; e ben farà Torino a respingere la proposta. Il Geisser ha calcolato che ognuno degli spacciatori di bevande dovrebbe pagare alla gabella comunale lire 1.540 all’anno e lire 30 per settimana; trasformandosi da esercente in gabelliere municipale con vessazioni e sperequazioni gravissime e con la rovina economica di tutti gli esercenti che fossero meno furbi o più onesti degli altri. Vessatorio dal punto di vista fiscale, il metodo della minuta vendita è ingiusto socialmente, perché i ricchi e gli agiati sfuggirebbero in gran parte agli oneri daziari, facendo le provviste all’ingrosso o facendosele pervenire direttamente dalle proprie campagne o dai fornitori rurali. Volere far passare la trasformazione del comune chiuso in comune aperto come una riforma democratica è fare troppo a fidanza sulla ignoranza del pubblico e sulla sua propensione a prendere la retorica delle parole mitingaie per verità sostanziale.

 

 

Sperperati in questo malo modo, 5 milioni a suo parere o 7 milioni secondo l’opinione di più autorevoli amministratori, l’on. Nofri procede a colmare i vuoti del bilancio istituendo due nuove imposte, quella di famiglia, che dovrebbe rendere 2.600.000 lire, e quella di esercizio, il cui reddito sarebbe di 500.000 lire ed accrescendo da 44 a 100 i centesimi addizionali della sovrimposta fondiaria, con un provento di lire 2.435.000. Anche qui il programma socialista tenta di far passare sotto la bandiera della giustizia sociale una merce in parte immatura (imposta di famiglia) ed in parte avariata (tassa di esercizio). Nessuno nega che la imposta di famiglia sia un tributo equo, specie se ripartito bene e con saggia moderazione; e parve all’opinione pubblica lodevole la giunta milanese per le sue saggie proposte su tal materia. La situazione di Torino è per ora radicalmente differente da quella di Milano, dove la imposta di famiglia venne 10 anni dopo il fortunato allargamento della cinta; mentre a Torino sarebbe richiesta soltanto, per qualche anno almeno, dalla artificiosa ed ingiusta sostituzione del dazio a minuta vendita al dazio murato. Si sopportano le imposte nuove e giuste, quando esse siano a ragion veduta dimostrate necessarie, non quando siano soltanto la cervellotica conseguenza di una abolizione della cinta fatta per sprecar denari, senza raggiungere un intento di perequazione tributaria, anzi aggravando enormemente la sperequazione esistente. La imposta di famiglia verrà a Torino a suo tempo, quando si sarà intieramente percorsa la via, a capo della quale si trova Milano, di ampliamento della cinta e di contemporanea riduzione, più o meno larga, di dazi; ed è da augurare che, prima d’allora lo stato abbia veduto la opportunità di avocare a sé la imposta famiglia, assai più adatta ad un’organizzazione estesa a tutto il paese, dando ai comuni altri cespiti di entrata. La seconda nuova imposta voluta dal Nofri, ossia la tassa di esercizio, non è nuova in altre città; ma non si può certamente affermare che sia una gemma del nostro sistema tributario locale. È una brutta copia parziale dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile ed, appunto per essere parziale, ha una forte tendenza a ripercotersi sui consumatori, trasformandosi in una non desiderabile aggiunta al dazio, or ora criticato, sulla minuta vendita. Né dalle critiche si salva l’aumento della sovrimposta fondiaria da 44 a 100 centesimi. Ben a ragione la giunta milanese non volle accogliere il partito di aumentare la sovrimposta sui fabbricati; e con altrettanta ragione è dello stesso parere la giunta torinese. Se vi è cosa certissima, data l’attuale legislazione e la natura stessa della sovrimposta sui fabbricati, è questa: che la sovrimposta in una grande città, come Torino, si trasferisce sugli inquilini, e vi si trasferisce con tanta maggior facilità quanto più si tratta inquilini appartenenti alle classi operaie ed al medio ceto. Si affretti quanto si vuole la costruzione di case operaie; ma non si riuscirà ad impedire la ripercussione della sovrimposta sulla grande maggioranza degli inquilini! Affermare, dopo ciò, come fa il Nofri, che la resistenza all’aumento della sovrimposta sia l’indice di una devozione eccessiva agli interessi delle classi padronali e reddituarie è dare ulteriore prova di quella scarsa sincerità e di quel consapevole travisamento del vero per cui si distinguono i nostri socialisti ed i popolari con essi confederati.

 

 

II

Di fronte ai programmi negativi degli esercenti e dei pochi liberali dissidenti ed al disastroso ed ingiusto progetto socialista, il programma della giunta torinese fa assai migliore impressione e si raccomanda per ossequio alla giustizia distributiva e per modernità di vedute, se almeno giustizia e modernità non si identificano con le declamazioni pseudo-scientifiche inspirate dalla mania di scimmiottare a sproposito i pretesi grandi esempi stranieri. Ecco in breve la sostanza del programma. I 32 milioni di nuove spese dovranno farsi ricorrendo per 24 milioni al prestito, scaglionato dal 1909 al 1915, ed alle disponibilità del bilancio per il resto. Siccome gli avanzi di bilancio devono provvedere non solo a queste opere, ma anche ai residui di altre già prima deliberate, così la giunta ritiene necessario che la disponibilità di bilancio (ossia il supero delle entrate al di là delle spese ordinarie, supero da consacrarsi alle spese straordinarie) non cada al disotto dei due milioni di lire all’anno. Sinora, negli anni dal 1906 al 1909, la regola fu potuta osservare; ma l’incremento degli oneri ordinari di bilancio (interessi sui mutui passivi, deficit delle aziende municipalizzate, ecc. ecc.) fa ragionevolmente temere che nell’avvenire il margine dei due milioni di lire non possa conservarsi ove non crescano le entrate. La giunta propone di rimaneggiare le tariffe per le occupazioni delle aree pubbliche in guisa da ricavarne 150.000 lire di più all’anno; e su questo punto non furono sollevate obiezioni di peso, trattandosi di un atto di saggia amministrazione del demanio cittadino. Più ancora propone di costruire una nuova cinta, assai più ampia dell’odierna, in guisa da comprendere tutta l’area del nuovo piano regolatore, approvato con legge del 5 aprile 1908. Ove le voci della tariffa non venissero mutate in nulla, l’allargamento della cinta darebbe subito un maggior provento di lire 1.550.000; da cui si dovrebbero però dedurre lire 275.000 di cessato reddito dell’odierno dazio forese sulla minuta vendita e lire 300.000 di maggiori spese d’esercizio, d’interesse ed ammortamento della nuova cinta, con un maggior reddito immediato di lire 980.500. Poiché tutta questa somma non è subito necessaria, la giunta propone di cogliere l’occasione per sfrondare la tariffa daziaria, diminuendo il numero delle voci colpite, con una perdita variabile, a seconda dell’ampiezza della riduzione, da 400 a 600.000 lire; cosicché il maggior provento immediato del dazio varierebbe da 600 a 400.000 lire all’anno.

 

 

La riforma proposta dalla giunta torinese ricorda nel suo concetto essenziale – allargamento della cinta e moderazione di dazi – la memoranda riforma operata dalla giunta conservatrice milanese nel 1898 e raffermata, con nuovi parziali allargamenti, nel 1908. Gli oppositori dicono che l’esempio milanese non può essere invocato per confortare l’odierna proposta torinese, perché a Milano si trattava di unificare i due circondari interno ed esterno, già uguali per importanza, il primo retto a comune chiuso ed il secondo col regime della minuta vendita; mentre a Torino l’entro cinta al 31 dicembre 1903 comprendeva 305.655 abitanti ed il fuori cinta appena 62.081, di cui solo 41.460 abitanti sarebbero compresi entro la nuova cinta e 20.621 ne rimarrebbero ancora esclusi. Il che è verissimo; ma fa concludere solo che Torino è in condizioni infinitamente migliori di Milano per compiere la saggia riforma. Milano aspettò ad annettersi tributariamente i Corpi santi, quando ogni ulteriore ritardo sarebbe riuscito incomportabile, mentre gli amministratori di Torino godono ancora oggi i frutti dell’opera lungimirante dei loro predecessori i quali nel 1854, quando la popolazione era appena di 160.000 abitanti, allargarono la cinta sino a comprendere una superficie di 1.705 ettari, di cui 1.185 erano terreni coltivati. Adesso la popolazione è cresciuta a 367.736 abitanti e l’incremento maggiore si verifica nei sobborghi aumentati in meno di sette anni da 52.570 a 62 081 abitanti. Se si lasciasse la cinta dove è, in un ventennio alle porte della città, fuori dazio, si agglomererebbe una popolazione di forse un centinaio di migliaia di abitanti; le spese pubbliche andrebbero crescendo a dismisura nel suburbio, senza un corrispondente aumento di tributi e la sperequazione fra le due parti della città acquisterebbe un carattere acuto. Se fosse possibile abolire del tutto la cinta, senza sostituire il dazio murato con l’infelice surrogato del dazio sulla minuta vendita e senza imporre – attraverso i centesimi addizionali sui fabbricati – un tributo gravosissimo sull’uso delle abitazioni, sarebbe benvenuta l’abolizione. Ma poiché ciò è impossibile, almeno fintanto che lo stato non intervenga a sbrogliare l’arruffatissima matassa con una riforma dei tributi generali e locali, la scelta si ha soltanto fra l’allargamento della cinta e la conservazione dello statu quo con tutti i pericoli di una crescente sperequazione fra circondario esterno e circondario interno della città, i cui abitanti oggi pagano 41 lire i primi e lire 4,55 i secondi di dazio. La riforma, che allarga la superficie della zona urbana entro cinta da ettari 1.705 ad ettari 4082 non è più audace di quella compiuta nel 1854 ed è altrettanto previdente. Essa permette l’attuazione integrale del piano regolatore che sarebbe altrimenti ostacolato, chissà per quanto tempo, dall’esistenza del muro e delle strade di cinta, dalle zone vincolate per la sorveglianza daziaria e dai mille ostacoli che alla circolazione ed al commercio oppone la mancanza di continuità nelle strade e nei corsi. È interessante osservare come i partiti i quali, a loro detta, rappresentano l’avvenire, siano stati presi da una strana mania di orrore per il grande e l’esteso e da un amore insospettato per le cose piccole e meschine. Si dice che entro la cinta odierna ci sono ancora molte aree fabbricabili ed è vero. Il fatto che aggruppamenti estesi di abitazioni si sono costituiti e rapidamente allargati fuori cinta non prova forse che per una città in via di espansione, non vi è forza artificiale che possa indurre la fabbricazione a svilupparsi piuttosto in vicinanza del centro che alla periferia quando le naturali circostanze portano ad uno sviluppo eccentrico? Della fabbricazione tumultuaria nella zona esterna non è responsabile forse, in parte, la cinta stessa odierna troppo ristretta, la quale ha reso troppo care le aree interne ed ha spinto industriali e costruttori a cercare al di fuori aree meno care? Quando la cinta sia invece allargata così da comprendere praticamente tutte le aree adatte alla fabbricazione, anche questa si svilupperà in modo più regolare; non vi saranno più spazi vuoti nell’interno ed agglomeramenti artificiosi fuori barriera e il progresso edilizio della città diventerà più normale e meno costoso, per l’erario cittadino, di quanto non sia adesso con la fioritura sporadica di tante cittadine periferiche. Con la istituzione di nuovi ampi magazzini generali, e con l’istituto dei rimborsi si potrebbero poi togliere, come è nei propositi, in parte già tradotti in atto, degli amministratori attuali, gl’inconvenienti del dazio murato per gli industriali e per i commercianti, inconvenienti assai minori del resto di quelli che sarebbero cagionati dal metodo del dazio sulla minuta vendita.

 

 

Sconfitti su questo campo della convenienza dell’allargamento della cinta per lo sviluppo edilizio della città, gli avversari della giunta si rifugiano in quello della giustizia tributaria e proclamano essere contrario alla scienza ed allo spirito dei tempi moderni l’inasprimento dei dazi consumo. L’equivoco è evidente. L’inasprimento non esiste salvo che per una parte degli abitanti del suburbio, quelli che, facendo le loro provviste all’ingrosso, sfuggono ora al dazio sulla minuta vendita. Essi che ora pagano poco o nulla pagheranno di più ed anche gli altri che già pagano il dazio sui generi comprati alla bottega pagheranno maggiormente perché il dazio murato colpirà un numero maggiore di voci. Astrazion fatta dal possibile alleviamento delle tariffe daziarie, è da osservare che i foresi oggi sono privilegiati, poiché il loro contributo all’erario cittadino è minore delle spese fatte a lor favore dal municipio, ed il privilegio crescerebbe col tempo, se non vi si ponesse prontamente riparo.

 

 

A parte l’equivoco, è poi vero che scienza ed esperienza sieno d’accordo nel condannare i tributi comunali sui consumi? Il consigliere comunale Alberto Geisser nel citato opuscolo su «L’allargamento della cinta» ha messo insieme alcuni fatti che gli pseudo-scienziati popolareggianti montati in cattedra troppo spesso dimenticano nella loro apologia dei tributi diretti.

 

 

L’Inghilterra non ha dazi consumo comunali, ma ha una imposta sulla proprietà immobiliare che io non auguro a nessuno dei nostri grandi comuni e che assorbe delle percentuali elevatissime, fino al 75% del reddito lordo delle case, la quale si ripercote totalmente sugli inquilini, ed anzi è pagata direttamente da costoro. È davvero tanto migliore un tributo sul consumo della casa che un tributo sul consumo delle bevande alcooliche? Il primo limita l’uso di un elemento della vita sano e moralmente elevatore ed è perciò condannabile; mentre il secondo è un tributo che per ragioni congiunte di igiene e di reddito fiscale va incoraggiato e prende sempre più piede in tutti gli stati moderni. La crisi vinicola non potrà curarsi con pericolose ed ingiuste abolizioni del dazio sul vino, ma con la riduzione e il miglioramento della produzione. Non c’è proprio alcun motivo ragionevole perché le grandi città rovinino le loro finanze per dare un momentaneo sollievo ai viticultori. Per ritornare alle città inglesi, queste, se non hanno dazi consumi, ricevono però sussidi dallo stato, sussidi che giungono al 25% dei loro bilanci e che sono per più di metà alimentati dai tributi governativi sui consumi. Il che dimostra una verità nota a chi studi, senza preconcetti declamatori, le finanze degli stati moderni: essere impossibile far fronte alle crescenti spese pubbliche, centrali e locali, con le sole imposte dirette, poco elastiche ed espansive, ma essere d’uopo lasciar sempre un notevole posto ai tributi sui consumi. In Prussia, la celebrata riforma di Miquel, che attribuiva agli enti locali le imposte reali ed allo stato le imposte sul reddito e sul capitale, tradisce oggi la sua crescente debolezza, con i disavanzi continui da cui sono afflitte le finanze delle città, dello stato e dell’impero. L’ultimo disegno tributario minaccia ai tedeschi una fitta gragnuola di tributi sui consumi. Nella Svizzera stessa, i comuni, che dal dazio aborriscono, impongono non di rado un testatico uguale per ogni adulto (a Lugano 18 lire a testa), che equivale ad un vero dazio, senza la sicurezza e la generalità della percezione, e spesso si giovano delle aziende municipalizzate per far pagare il gas e la energia elettrica a prezzi di monopolio, i quali comprendono un forte guadagno, che non è per nulla diverso da un’imposta sui consumi.

 

 

Ciò che si può ragionevolmente pretendere dalle imposte sui consumi è che esse non colpiscano generi di prima necessità, non costituiscano una inutile vessazione per i contribuenti, limitandosi non troppe voci, di uso relativamente non di prima necessità. L’esempio della città di Milano dove la tariffa daziaria venne ridotta a poche voci, è certo un ideale; ma importerebbe alle finanze torinesi una perdita di 2.520.000 lire. La relazione della giunta osserva che si potrebbero conservare i dazi sul burro, zucchero, caffè, confetti, conserve, formaggi, frutta secca ed in composta, funghi freschi e secchi, miele, tartufi, glucosio e melassa, sciroppi, carbone e legname, mobili, profumerie, thè, carta da parato, cristalli e vetri; e certamente molte di queste voci non corrispondono a consumi di prima necessità e potrebbero essere conservate, data la maggior facilità di riscossione che si avrebbe a Torino colla cinta murata in confronto di Milano, dove la cinta simbolica ha ridotto la convenienza fiscale di molti dazi. La lista delle voci da abolire potrebbe allungarsi parecchio, abbracciando ad esempio le voci che non danno un apprezzabile risultato fiscale, e sono collocate nella tariffa per proteggere certe industrie torinesi dalla concorrenza esteriore (confetti, cioccolato, mobili, ecc.). Può essere discussa la convenienza di un protezionismo di stato; ma è sicuramente stranissima la protezione concessa a pochi interessi torinesi sul mercato cittadino, contro le industrie delle altre parti d’Italia. È uno scandalo che dovrebbe cessare al più presto. Certo il risultato finanziario dell’allargamento della cinta discenderebbe, ove si largheggiasse nella riduzione delle voci, alle 400.000 lire indicate nella relazione della giunta; e queste paiono meschinelle a molti, anche agli avversari dell’allargamento, i quali dicono non valer la pena di così grande sconquasso per una cifra tanto piccola. La cifra i piccola appunto perché si prevedono parecchie cospicue abolizioni di voci daziate; e la piccolezza si riferisce tutta ai primi anni. Passati i quali, il dazio, su un’area tanto più vasta e coll’impulso dato dall’attuazione del piano regolatore al progresso edilizio, non mancherà di dare proventi vie maggiori, malgrado l’inevitabile riduzione di voci.

 

 

La piccolezza dell’aumento immediato e la sua graduale ascesa dappoi è anzi un bene per me che sono d’accordo cogli avversari della giunta nel criticarne la mania un po’ troppo spendereccia per fini diversi da quelli indubbiamente spettanti ai comuni. La mancanza di mezzi tratterrà dal promettere nuove grosse e pericolose imprese ed il progressivo maggior gettito dei tributi metterà la città in grado di attuare a mano a mano le opere necessarie connesse col piano regolatore. Non so perciò associarmi all’augurio che parecchi giornali e molte associazioni commerciali fanno di questi giorni a Torino: che il sindaco abbia il coraggio di ritirare il progetto od almeno sospenderne la discussione. Non sarebbe questo certamente un atto di coraggio; e dimostrerebbe soltanto che alla concezione sana degli interessi cittadini si sovrappongono meschine considerazioni elettorali e il rispetto a piccoli interessi momentaneamente offesi dall’allargamento della cinta. L’amministrazione comunale di Torino doveva essere criticata prima, quando preparava troppo frettolosamente disegni di imprese problematiche; ma deve essere lodata oggi che, rispetto a quelle imprese, si limita a presentare l’inevitabile conto delle spese da saldare, e dimostra di avere di mira, un programma di opere strettamente attinenti ai fini della vita municipale, un programma degno dell’avvenire di una grande città moderna e dimostra di volerlo attuare con una riforma tributaria equa, semplice e per nulla contraria ai dettami della finanza democratica.

 

 


[1] Con il titolo Il problema finanziario e la riforma tributaria di una grande città. [ndr]

[2] Con il titolo Allargamento della cinta e moderazione di dazi. La riforma tributaria a Torino. [ndr]

I milioni del consorzio nazionale per Messina e Reggio?

I milioni del consorzio nazionale per Messina e Reggio?

«Corriere della Sera», 6 gennaio 1909

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 638-640

 

 

Da più parti veniamo sollecitati a chiarire un’idea, che fu già messa innanzi in altre occasioni e che oggi pare adatta a darci i mezzi di venire in aiuto alle regioni così duramente provate dalla sventura. La proposta sarebbe quella di destinare, in tutto od in parte, alla redenzione materiale di Messina e di Reggio Calabria i 70 milioni circa del patrimonio posseduto dal Consorzio nazionale. E poiché indubbiamente la proposta parte da un generoso impulso dell’animo, è doveroso discuterla serenamente, benché io debba avvertire subito di non potere in essa consentire.

 

 

Il Consorzio nazionale, sorto nel 1866 in Torino, per iniziativa del Bottero, il valoroso giornalista e patriota fondatore della «Gazzetta del popolo» e sotto la presidenza del principe Eugenio di Savoia-Carignano, possiede un cospicuo patrimonio proprio, proveniente da elargizioni di municipi, enti morali e moltissimi privati. Vollero costoro, in un momento di patriottico entusiasmo, che le somme da essi donate fossero investite nella compera dei titoli di debito pubblico italiano e che nella medesima guisa si investissero gli interessi, fino al giorno che, per virtù della moltiplicazione degli interessi, il consorzio fosse venuto in possesso di tutti i titoli del debito nazionale. In quel giorno il debito nazionale sarebbe stato estinto, poiché con quello scopo appunto era sorto, per carità di patria, in momenti di credito bassissimo, il nuovo ente. Economisti e finanzieri oggi, immemori del passato, usano irridere al consorzio ed ai suoi fini; ma l’unico argomento addotto è questo: che lo stato contrarrà più in fretta nuovi debiti, di quanto il consorzio non riesca ad accumulare titoli di debiti vecchi, cosicché la sua è un’opera di sisifo. Osservazione non concludente, poiché, se il consorzio non può impedire che lo stato faccia nuovi debiti (non però lo provoca esso a farne), non cessa dal comprare titoli di debito pubblico (e cioè non cessa dal diminuirne la quantità reale) e dal comprarne in quantità vie maggiori quanto più si proceda col tempo. Ognuno di noi, se fosse costretto a fare un nuovo debito di 100 lire, si dichiarerebbe lieto di veder scemare almeno, ad opera di altri, il debito vecchio da 1.000 a 950. Non si deve tacere inoltre, che qualcosa di bene ha già operato il consorzio, poiché ha costituito una domanda, continuamente operosa, di titoli pubblici, la quale non è stata ultima cagione del loro progressivo aumentare di valore.

 

 

Contuttociò è talmente grande la sciagura che ci ha colpito che io rinuncerei, sebbene con dolore, alla speranza di vedere attuato il programma dei nostri padri, ove la rinuncia potesse essere feconda di un risultato diverso da quello che si può, volendo, in altra guisa ottenere. Ma così non è. Destinare il patrimonio del Consorzio nazionale a sollievo delle popolazioni calabro-sicule equivale, né più né meno, a fare un nuovo debito. A che pro ricorrere ad un surrogato, quando si ritenesse opportuno di fare un debito?

 

 

Che l’incameramento del patrimonio del consorzio e l’accensione di un nuovo debito siano l’istessa cosa è agevole dimostrarlo. Se il consorzio possedesse 70 milioni di lire in denaro contante, finora sottratto alla circolazione, l’incamerare quella somma varrebbe a procurare, senza ricorrere al mercato, o, in altre parole, al fondo del risparmio nazionale una risorsa apprezzabile e vistosa al governo. Così non è. Il consorzio possiede invece 70 milioni di lire di cartelle di debito pubblico; e lo stato, ove le incamerasse, dovrebbe necessariamente vendere quelle cartelle sul mercato. O che differenza esiste fra il vendere sul mercato 70 milioni di lire di titoli vecchi, finora appartenenti al consorzio, e 70 milioni di titoli da stamparsi ex novo? In entrambi i casi lo stato fa un debito nuovo; poiché nel primo caso (delle rendite consorziali) lo stato soltanto figurativamente si può considerare oggi come un vero debitore. In realtà lo stato è debitore verso un ente il quale adempie una altissima funzione propria dello stato medesimo: ammortizzare il debito pubblico. Per l’ammontare del patrimonio già posseduto dal consorzio, quel fine si può considerare come raggiunto ed il debito è in realtà estinto, seppure apparentemente esistente. Ove dunque lo stato si appropri nuovamente quei titoli, che per statuto erano fin qui obbligatoriamente immobilizzati per sempre nelle casse del consorzio e li venda ad altri privati, è come se facesse con questi privati un nuovo debito, realmente esistente, mentre quello col consorzio era in sostanza figurativo. L’unico vantaggio, miserrimo, sarebbe che lo stato non pagherebbe più al consorzio gli interessi annui sul debito distrutto. Dico male «miserrimo vantaggio», perché quel risparmio tornerebbe a questo: che non solo lo stato italiano non sente in sé la forza di ridurre il proprio debito, ma neppure consente che privati, mossi da spirito patriottico, lo redimano con denari di loro proprietà!

 

 

Almeno l’incameramento ci evitasse di ricorrere al credito pubblico, di emettere sul mercato nuovi titoli, eventualità che oggi governo, alta banca, eminenti finanzieri ritengono dannosa! Le cose or discorse mettono in chiaro come neppure questo fine possa ottenersi. Giova ripeterci. Lo stato, incamerando il patrimonio del consorzio, si troverebbe possessore di cartelle di rendita e siccome queste, in qualità di pezzi di carta, non possono direttamente giovare alle province devastate, dovrà necessariamente venderle. Mettere sul mercato 70 milioni di titoli di debito, vecchi bensì, ma già sottratti al mercato e tali che non vi sarebbero ritornati mai, equivale a mettere sul mercato 70 milioni di titoli nuovi. Le due operazioni sottrarrebbero nell’identica maniera un fondo di 70 milioni di lire al risparmio nazionale attuale degli italiani.

 

 

Certo un sacrificio gli italiani dovranno sopportarlo, in una maniera o nell’altra, più o meno attenuato dall’esistenza di avanzi di bilancio. Sia ben chiaro che quella sottrazione al fondo del risparmio nazionale attuale non scema di un centesimo ricorrendo all’incameramento del patrimonio del Consorzio nazionale. Se questo è vero, non è meglio pensare ad altri e più palesi metodi, e non mettere in forse una delle più sante iniziative del periodo eroico della nostra storia?

 

 

Comuni municipalizzati e comuni insolventi

Comuni municipalizzati e comuni insolventi

«Corriere della Sera», 29 ottobre 1908

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 634-637

 

 

Fra i molti rapporti che veggono la luce ad opera di commissioni governative, uno dei più interessanti è senza dubbio quello che per il triennio 1905-907 ha recentemente presentato l’on. Salvarezza, presidente della commissione reale pel credito comunale e provinciale e per la municipalizzazione dei pubblici servizi. La commissione ha un duplice compito innanzi a sé: la tutela dei comuni e delle province insolventi e la trattazione delle domande di assunzione diretta di pubblici servizi per parte di comuni. Sono due compiti che per ora non hanno nulla a che fare l’uno coll’altro: nell’un caso occorrendo rimediare alle distrette, in cui si trovano taluni comuni per ragione di insolvenza. Il fatto che un comune municipalizzatore (Catania) si sia trovato in imbarazzi di cassa prova, benché l’insolvenza non sia poi stata dichiarata, non essere fuor di luogo temere che dalle audacie eccessive e non ponderate nascano non buone conseguenze. Per fortuna, il caso è, per ora, isolato; auguriamoci non abbia a moltiplicarsi.

 

 

Di una provincia (Reggio Calabria) e di 52 comuni più o meno ridotti a mal partito ebbe la commissione ad occuparsi dalla sua istituzione sino alla fine del 1907. Di essi, 1, il comune di Pisa, le fu sottoposto per legge speciale, 30 vennero dichiarati insolventi, per 8 sono in corso gli studi e per i rimanenti 14, non ricorrendo gli estremi dell’insolvenza, o diversamente essendosi potuto provvedere in base ad amichevoli accordi, gli atti vennero restituiti alle rispettive prefetture perché avessero corso secondo le norme ordinarie. Fanno parte di quest’ultima categoria i comuni di Catania, Torre Annunziata, Catanzaro, Cosenza, Lecce, Tropea, Serra San Bruno, Sant’Antimo, Trapani, Tufaro, Salza Irpina, Casoria, Summonte e San Massimo e sono in corso gli studi per i comuni di Cropani, Sersale, Zagarise, Cerva, Galatina, Cutrofiono, Ruffiono, Sogliano Cavour e Trentinara.

 

 

Delle 30 amministrazioni dichiarate insolventi, quella provinciale di Reggio Calabria e le comunali di Bari, Reggio Calabria, Livorno, San Benedetto del Tronto, Potenza e Baselice non sono oramai più soggette alla vigilanza speciale per decorrenza quinquennale e per i comuni di Chieti, Vocca, Vallego e Davagna fallirono le trattative coi creditori, mentre infine per i comuni di Triona e Mulini di Triona fu sospesa provvisoriamente la dichiarazione di insolvenza. Perciò adesso i comuni insolventi sottoposti alla vigilanza della commissione sono diciotto: Campobasso, Spinazzola, Montemilone, Amalfi, Portici, Mojo della Civitella, Castellammare di Stabia, Pescara, Paola, Avellino, Barletta, Corato, Lacedonia, Volturara Arpina, tutti posti in province meridionali, Jenne in provincia di Roma, la città di Pisa, ed i comuni di Carrodano e Carro in provincia di Genova.

 

 

L’intervento della commissione fu certamente utile ai comuni insolventi, i quali in 19 casi, per cui si poté giungere ad una sistemazione, ottennero per un debito di lire 84.405.513 una riduzione di lire 27.973.235 ed invece di un onere annuale di 3.114.314 lire, rimasero obbligati a pagar soltanto lire 1.498.490, con un vantaggio annuo di lire 1.645.823. Sistemazione vantaggiosa senza dubbio; ma a quali tristi riflessioni conduce il dover constatare l’esistenza di comuni dichiarati insolventi, come un qualunque commerciante fallito! Nella relazione son citati casi tipici: da quello notissimo di Barletta, che tuttavia poté concordare sulla base del 63%, a quello di Corato, transatto col 70%, a quello di Lacedonia, per cui fu respinta la transazione del 44,75%, a quello di Chieti, per cui non si poté giungere, sulla base del 70%, a nessuna conclusione, per il rifiuto del maggior creditore, per la malavoglia del consiglio comunale e per l’aspirazione di fare un trattamento diverso al maggior creditore (una ditta forestiera, costruttrice dell’acquedotto) ed ai portatori paesani del prestito civico! I casi più interessanti sono quelli dei comuni della provincia di Genova, che la legge ha costretto (é la parola dura, ma vera) a diventare bancarottieri. Citiamo fra i parecchi, il caso del comune di Carro, che nel 1881 aveva 1.900 abitanti e forse li avrebbe ancora se la costruzione delle strade obbligatorie, appaltate d’ufficio dalla prefettura, non l’avesse costretto a far debiti per 350.000 lire. Comune poverissimo, dovette applicare ben 6.500 lire di sovraimposta, corrispondenti a lire 1,60 per ogni lira d’imposta principale erariale; oltre lire 2.700 per tassa focatico, lire 550 per tassa esercizi e 800 lire per dazio. Gli abitanti, angariati, presero il partito di fuggire dalla natia terra ingrata; ed oggi il comune conta poco più di 1.400 abitanti e sempre più arduo diventa far fronte ai crescenti debiti. Al più la percentuale da offrirsi ai creditori giungerà al 10% . Del disastro il maggior responsabile non i forse lo stato?

 

 

Dopo i comuni insolventi, i comuni municipalizzatori. La commissione fu chiamata a dare il suo parere su 32 proposte di assunzione diretta di pubblici servizi nel 1905, su 34 nel 1906 e su 24 proposte nel 1907. La diminuzione delle proposte portate dinanzi alla commissione in parte è dovuta alla maggior complessità delle questioni che gli uffici dovettero istruire nel 1907, e in parte ad una certa prudenza con cui le amministrazioni si valgono della facoltà accordata dalla legge; prudenza che va lodata. Il maggior numero delle proposte municipalizzazioni si riferisce ad acquedotti, illuminazione elettrica ed a gas, impianti termoelettrici, tramvie. Qualche progetto di case popolari, di farmacie, di forni normali, di mulini municipali, di pompe funebri completano il novero. Aggiungasi, per la loro singolarità, il progetto di cantina sperimentale di Canneto Pavese (parere favorevole) e di stabilimento balneare di Castel San Pietro dell’Emilia (istruttoria).

 

 

Come indice di una tendenza, che potrebbe diventare pericolosa, a sottrarsi alla vigilanza voluta dalla legge sulle municipalizzazioni, si devono notare le lagnanze mosse dalla commissione a proposito della soverchia facilità con cui qualche giunta provinciale amministrativa accordava ai comuni l’autorizzazione ad esercitare in economia servizi che per i loro peculiari caratteri avrebbero dovuto essere gestiti per mezzo di azienda speciale. L’inconveniente non è cessato affatto ed è grandemente pericoloso poiché in tal guisa i comuni possono arrischiarsi in imprese industriali, senza pur quelle guarentigie, già scarse ed inefficaci, che il legislatore ha voluto. Gli elettori non hanno il mezzo di potersi opporre alle imprudenze delle loro amministrazioni; come è provato dal fatto che in tre anni un solo ricorso fu presentato dagli elettori contro l’autorizzazione data dalla giunta amministrativa di esercitare ad economia servizi che meglio avrebbero dovuto essere assunti per azienda speciale, ed anche quell’unico ricorso (Grignasco in provincia di Novara> fu dichiarato irricevibile perché le firme degli elettori non erano autenticate da notaio e perché non presentato in tempo. Onde giustamente la relazione afferma che da troppe pastoie è vincolato il diritto di ricorso, Massima fra esse la necessità dell’intervento di un quinto degli elettori. Nessun ricorso fu presentato nel triennio contro atti di gestione delle aziende municipalizzate; ciò che induce la commissione a bene arguire del senno e della prudenza degli amministratori eletti dai consigli comunali. Speriamo che i fatti rispondano alle favorevoli previsioni e che nuovi casi di comuni municipalizzatori in pericolo di insolvenza non abbiano ad aggiungersi a quello di Catania.

 

 

Nei paesi dov’è proibito scioperare

Nei paesi dov’è proibito scioperare 

«Corriere della Sera», 6 agosto 1908

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 628-633

 

 

I conflitti agrari che hanno avuto in quest’anno una vivace ripresa in Italia, hanno di nuovo messo sul tappeto la grave questione dell’arbitrato obbligatorio. Su queste colonne furono già largamente discusse le ragioni le quali rendono difficile una efficace legislazione in materia; sovratutto per le questioni relative ai nuovi patti di lavoro. Sinché si tratta di vegliare all’osservanza di un contratto già conchiuso, i probiviri od altre consimili magistrature possono essere utilissime. Chi giudicherà tra l’industriale che per l’avvenire vuole pagare 4 lire al giorno di salario e gli operai che ne pretendono cinque? Quali criteri si metteranno a base di un giudizio cosiffatto? Come si sceglierà un arbitro competente? Quale sanzione avranno i giudicati dell’arbitro, sovratutto nei rispetti degli operai che non volessero obbedire al lodo?

 

 

Nell’ultima sessione del consiglio superiore del lavoro si ebbe da noi un elevato dibattito sul problema su cui gittava molta luce l’importante relazione dell’avv. Abbiate; e pure nella camera dei deputati diversi progetti di legge d’iniziativa parlamentare fecero persuasi della gravità e della complessità del problema. Poiché in quelle discussioni si fece ripetutamente accenno al sistema di arbitrato obbligatorio introdotto nella Nuova Zelanda e nell’Australia, riteniamo opportuno dire qualcosa degli ultimissimi risultati del sistema e delle difficoltà che esso incontra nella sua applicazione pratica.

 

 

È noto che Nuova Zelanda e Nuova Galles del sud sono diventate quasi laboratori di esperienze sociali, dove tutti i più arditi postulati dei riformatori europei trovano da tempo pratica applicazione. Anche in materia di conciliazione e di arbitrato quei paesi si trovano – è la frase comunemente accetta – all’avanguardia del progresso. Proibiti gli scioperi e le serrate, devolute tutte le controversie, anche quelle per contratti nuovi, al giudizio di corti arbitrali, investiti i giudici della facoltà di determinare i salari e gli orari giusti: il regno della pace sociale realizzato in terra. Per un po’ di tempo il sistema di arbitrato obbligatorio funziona bene, sovratutto perché i giudici davano sempre ragione agli operai e questi non avevano nessun motivo di non osservare le sentenze arbitrali. Gli industriali non potevano recalcitrare, poiché le penalità in caso di disobbedienza, le quali difficilmente si sarebbero potute far pagare agli operai, gravavano invece irremissibilmente sui datori di lavoro. D’altro canto, per lo sviluppo prodigioso delle industrie e la prosperità economica universale dopo il 1900, gli industriali potevano sottostare ai costi crescenti della mano d’opera che, ove non fossero stati voluti delle sentenze arbitrali, sarebbero stati le conseguenze di scioperi fortunati per gli operai. Datano da quel tempo gli articoli ed i libri – uno dei quali fu anche voltato in italiano – sui felici paesi dove non si scioperava.

 

 

A partire del 1907, le notizie provenienti dai lontani paesi della pace sociale hanno cambiato tono. I corrispondenti dei giornali inglesi non ristanno dal commentare con amarezza i disinganni a cui la legislazione australiana dà continuamente luogo. Dapprima, al principio del 1907, i giudici cominciarono ad aver paura di seguire gli operai nelle loro pretese crescenti di aumenti di salario perché, come negli altri paesi del mondo, era chiara la esagerazione dei prezzi e degli affari e sembrava pericoloso fissare i salari sulla base di una prosperità effimera. Quando venne la crisi, gli stessi giudici dovettero forzatamente dar qualche volta ragione agli industriali, che dimostravano di non poter più pagare i salari d’una volta.

 

 

Il nuovo atteggiamento delle corti d’arbitrato non fu visto di buon occhio dalle masse operaie, le quali iniziarono una nuova era di scioperi, quelli combattuti contro i lodi arbitrali e contro i fulmini della legge. Caratteristico è il caso dei garzoni macellai di diverse città della Nuova Zelanda, i quali al principio dell’anno scorso scioperarono per ottenere salari più elevati di quelli concessi dalla corte d’arbitrato. I giudici furono colti da indignazione al vedere così disprezzate la loro sentenza e la maestà della legge e colpirono di multe numerosi scioperanti. Questi non se ne diedero per inteso, vinsero la partita e col maggior salario ottenuto dai principali versarono alla cassa della loro lega la somma necessaria a pagare le multe. Cosicché si ottenne il comico risultato che la multa fu pagata coi denari guadagnati mercé lo sciopero deciso e proseguito in sfregio alla corte d’arbitrato.

 

 

Qualche tempo fa i porti di Sydney e Newcastle furono il teatro di dissidi tra capitale e lavoro. Siccome la corte d’arbitrato aveva emesso una sentenza, nella quale si dichiarava che gli imprenditori avevano diritto, pagando il salario normale fissato dalla corte stessa, di impiegare operai non iscritti alla lega dei lavoratori del porto, il segretario della lega indisse guerra alla corte d’arbitrato, minacciandola, ove essa non avesse immediatamente condisceso alle sue domande, di far proclamare uno sciopero generale in tutti i porti dell’Australia, paralizzando il commercio e costringendo all’inazione le navi. In che modo impedire queste che sono vere e proprie sfide al legislatore, il quale con le corti d’arbitrato aveva voluto togliere le occasioni di sospensione di lavoro tanto per colpa degli industriali che degli operai? La risposta è difficile a dare e non sembra che finora l’abbiano trovata quei lontani legislatori. Le corti potrebbero bensì mandare in carcere qualcuno dei caporioni; quantunque, a semplice lume di buon senso, non si comprenda nemmeno in Australia, perché un operaio debba essere privato della libertà personale per non aver voluto lavorare, a condizioni a lui non gradite, a pro di una terza persona. O non è forse stata abolita la schiavitù? Ma pur ammettendo la possibilità di mettere in carcere qualche segretario di lega, come è possibile privare della libertà personale centinaia e migliaia di operai, che si ridono della legge proibitiva degli scioperi e da cui non si può ottenere il pagamento di una multa, perché essi son nullatenenti? Alcuni giudici delle corti d’arbitrato hanno dato le loro dimissioni, infastiditi di vedere che le loro sentenze erano obbedite solo nel caso in cui davano ragione agli operai.

 

 

Una questione che è vivamente discussa nell’Australia è quella dei criteri da seguirsi nella fissazione dei salari. Devono questi essere stabiliti in ragione dello stato di prosperità o di crisi attraversata dall’industria, ovvero in ragione dei bisogni dell’operaio? Questione difficilissima, che nei paesi europei viene risoluta sul mercato libero del lavoro secondo le comuni leggi economiche. In Australia i giudici, che, come i giudici di tutti i paesi del mondo, preferiscono deliberare in base a principi generali, pur ammettendo che i salari potessero variare a seconda delle condizioni dell’industria, finirono un po’ per volta ad attenersi sempre più alla teoria del living wage. Si deve cioè pagare all’operaio un salario sufficiente a farlo vivere secondo il tenor di vita comune del paese. La teoria in apparenza sembra semplice; ma ha dato luogo a molte contestazioni e sta producendo conseguenze gravi. Che cosa si dovrà intendere per salario sufficiente a conservare il tenor di vita normale? Chi deve poter vivere con quel salario: il giovanotto scapolo o l’uomo ammogliato con cinque o sei figli da mantenere? Come impedire che a poco a poco gli operai pretendano che il loro tenor di vita debba essere ragguagliato sempre a quello di coloro che sono abituati a vivere meglio? Gli operai migliori si lamentano del salario normale perché li mette in una condizione di inferiorità nel trattare cogli imprenditori per una rimunerazione maggiore, e tutti, buoni e cattivi, se ne ricordano soltanto quando gli affari vanno male, salvo a pretendere aumenti al disopra del living wage, quando l’industria è prospera. Gli industriali da parte loro si lamentano che l’industria non permette loro spesso di pagare quel salario che il giudice ha considerato necessario per la vita degli operai.

 

 

Ecco il punto di partenza di una nuova e singolare legislazione, a proposito della quale si sta ora in Australia combattendo una vivace battaglia. Poiché, si disse, gli industriali affermano di non poter pagare i salari stabiliti come equi dai giudici, proteggiamoli contro la concorrenza straniera, a condizione che essi paghino agli operai salari equi e ragionevoli. Una legge della federazione australiana, entrata in vigore l’1 gennaio 1907, stabilì che i fabbricanti di macchine e strumenti agricoli dovessero appunto pagare, in cambio della protezione doganale ad essi con quella legge largita, salari «equi e ragionevoli» agli operai. Ove una sentenza della corte d’arbitrato ritenesse che essi erano venuti meno al dovere, sarebbero stati colpiti da una imposta di fabbricazione su tutte le merci prodotte nell’anno. Gli operai subito si lamentarono di non ricevere quei tali salari equi e ragionevoli dinanzi alla corte federale di conciliazione e d’arbitrato; e con sentenza dell’8 novembre 1907 il giudice Higgins ritenne che il salario normale da pagarsi ai lavoratori ordinari, non qualificati per nessun mestiere di speciale abilità (unskilled labour), fosse di 7 scellini (lire 8,75) al giorno, somma minima con cui nella sua opinione si deve remunerare «un essere umano, vivente in una società civilizzata».

 

 

Siccome pere i fabbricanti di macchine agricole, malgrado la protezione loro concessa, non erano abituati a pagare salari di questa fatta ai lavoranti non qualificati, e nemmeno i salari naturalmente più elevati agli operai abili (skilled), il giudice condannava contemporaneamente a pagare l’imposta di fabbricazione su tutte le macchine prodotte a partir dell’1 gennaio 1907 ed a depositare una cauzione individuale di lst. 5.000 (lire italiane 125.000) come garanzia per l’esatta osservanza in avvenire della clausola del salario «equo e ragionevole». Alcuni industriali hanno pagato, altri hanno chiuso il loro stabilimento ed altri hanno interposto appello all’alta corte di giustizia per far dichiarare incostituzionale la legge. Non vi è dubbio che una volta posto il principio che il legislatore possa costringere gli industriali a pagare salari considerati equi dai giudici delle corti di arbitrato, il legislatore medesimo deve garantire agli industriali la possibilità di pagare quei tali salari. In Australia si è creduto di dar la garanzia proteggendoli contro la concorrenza straniera. Si è cominciato con i fabbricanti di macchine agricole; ma già un disegno di legge è stato preparato dal governo federale per estendere il principio a moltissime industrie, a cui si vuol imporre una imposta di fabbricazione uguale alla metà del dazio doganale protettivo, imposta esigibile nel caso che i salari non siano dalla corte d’arbitrato considerati equi e ragionevoli. Molto probabilmente, per non dire certamente, questa singolare mistura di protezionismo doganale e di legislazione sui salari operai non farà raggiungere lo scopo, quando i salari fissati dalle corti siano superiori a quelli consentiti dalle leggi economiche. Che cosà farà il legislatore australiano? Già vi fu chi propose di mettere a carico del bilancio della federazione la differenza fra il salario «equo e ragionevole» e il salario che un’altra o la stessa corte d’arbitrato giudicherà essere in grado l’industriale di pagare. Non fa d’uopo di molta fatica per immaginare le disastrose conseguenze economiche e finanziarie di quest’ultimo logico portato della legislazione arbitrale sui salari fiorente nei paesi «dove non si scioperava».

 

 

I fatti e le considerazioni, che si vennero esponendo in questo articolo, si riferiscono ad un paese assai lontano dal nostro; ma non parve fuor di luogo, in un momento in cui si discute tanto di arbitrato obbligatorio o facoltativo, esaminare talune delle controversie e delle esperienze interessanti a cui ha dato luogo altrove l’applicazione del principio dell’arbitrato obbligatorio nei conflitti economici.

 

 

La tassazione dei sovraprezzi delle azioni

La tassazione dei sovraprezzi delle azioni

«Corriere della Sera», 18 luglio 1908

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 620-627

 

 

La tassazione dei sovraprezzi o premi di emissione delle società è oggi, e rimarrà per parecchio tempo, vivamente dibattuta dinanzi alle commissioni amministrative e nelle aule giudiziarie. È noto che, più di un decennio fa, la Corte di cassazione romana a sezioni riunite, giudicando in una causa fra la Banca tiberina e le finanze, stabiliva che i sovraprezzi delle azioni non erano reddito passibile d’imposta di ricchezza mobile (sentenza 21 luglio 1897); e che, essendosi la commissione centrale delle imposte dirette uniformata ai principii in quella sentenza affermati (23 ottobre 1897), anche l’amministrazione finanziaria con circolare del 1897, riconfermata nel 1902, aveva ingiunto agli agenti delle imposte di non procedere più ad alcun accertamento di tal fatta. Lo sviluppo economico dell’Italia dopo il 1905, la creazione di numerose società anonime per azioni e l’espansione delle antiche, fatte sulla base di nuove serie di azioni emesse a premi talora vistosissimi, attirarono nuovamente l’attenzione del fisco, il quale di malavoglia si era sottomesso alla pronuncia della suprema corte del 1897 ed ardeva dal desiderio di riprendere una così ghiotta materia imponibile, ascendente a cifre colossali, di centinaia di milioni, per tassarla col 10% d’imposta dl ricchezza mobile. Ad incoraggiare il fisco venne una nuova edizione, pubblicata nel 1903, del commento all’imposta di ricchezza mobile scritto dal senatore Oronzo Quarta, procuratore generale alla Corte di cassazione romana e presidente della commissione centrale delle imposte dirette; nella quale esplicitamente si sosteneva l’assunto che i sovraprezzi o premi fossero reddito tassabile con l’imposta di ricchezza mobile. Per ordine ricevuto nel marzo 1906, gli agenti delle imposte ripresero gli accertamenti; ed una prima vittoria importante per fermo, sebbene non decisiva, il fisco l’otteneva l’1 novembre 1906 in una causa contro l’Oleificio pavese dinanzi alla commissione centrale delle imposte dirette (relatore il Quarta). La decisione, che era stata confermata dal tribunale di Pavia, fu recentemente messa nel nulla dalla corte d’appello di Milano, la quale già in occasione di una causa dibattuta fra privati e che a suo tempo fu ricordata da tutti i giornali, aveva affermato che il sovraprezzo non aveva carattere di reddito ma di capitale e quindi non era passibile d’imposta.

 

 

Questa, in attesa della decisione della cassazione romana, le vicende amministrative e giudiziarie dei tentativi fiscali di assoggettare all’imposta i premi o sovraprezzi delle azioni. La importanza della questione è indubbia in ragione dei rilevanti interessi in gioco, e ove si pensi che ad un periodo di raccoglimento economico, in cui le emissioni vengono fatte alla pari o si emettono invece obbligazioni a reddito fisso. Non sembra quindi fuor di luogo esprimere, pur mentre durano le contese giudiziarie, il parere della necessità che governo e parlamento studino ex novo la questione e la risolvano con nuove provvidenze, come è richiesto dallo sviluppo grandioso che han preso le società per azioni e degli importanti problemi che esso ha fatto sorgere, e di fronte ai quali si palesa oramai antiquata la legge d’imposta di ricchezza mobile.

 

 

Valga il vero: per dimostrare tassabili i sovraprezzi o premi d’emissione delle azioni, il fisco ebbe d’uopo di provare che essi costituiscono per la società un reddito di identica natura di quelli che sono già colpiti dalla imposta detta appunto di ricchezza mobile. Il caso tipico può essere esposto nella seguente maniera. Supponiamo che, anni addietro, si sia costituita una società anonima con un capitale di 1.000.000 di lire, diviso in 10.000 azioni di lire 100 ciascuna, intieramente sottoscritte e versate. Col procedere degli anni, per la prudenza e l’abilità degli amministratori, che seppero cumulare riserve, acquistare clientela e far buoni affari, il reddito netto della società crebbe a grado a grado fino a diventare, in maniera sufficientemente stabile, di lire 80.000 l’anno, nette da prelievi ed ammortamenti, e cioè di lire 8 per azione. Ognuna delle quali finì per acquistare sul mercato un valore di 160 lire; cosicché quegli azionisti originari, i quali seppero conservare l’azione sino ad oggi, potrebbero, vendendola, realizzare un utile di lire 60 per azione. Non è di questo utile che il fisco si occupa, non avendo sino ad ora potuto rintracciare alcun argomento nelle leggi vigenti per colpire quegli azionisti come percettori di un reddito mobiliare. Il fisco aspetta invece al varco la società, quando essa sente il bisogno di allargare i limiti della sua intrapresa, raddoppiando il suo capitale ed emettendo una nuova serie di 10.000 azioni.

 

 

È chiaro che la società non può, a meno che riservi esclusivamente ai vecchi soci l’opzione delle nuove azioni, emettere queste al prezzo di lire 100. Ognuna delle vecchie azioni rende 8 lire e vale 160 lire perché gli azionisti hanno subito sacrifici, rinunciato nei primi anni a dividendi, cumulato riserve, corso alee, amministrato bene e con successo. Chissà perché essi dovrebbero permettere ad una nuova schiera di azionisti di partecipare a vantaggi siffatti ed ottenere 8 lire annue di dividendo, pagando solo 100 lire per azione? Paghino dunque costoro per ogni azione 160 lire, di cui 100 corrispondenti al valore nominale dell’azione e 60 a titolo di premio.

 

 

La società, che aveva prima un capitale versato di lire 1.000.000 – il quale, però, aveva già acquistato una potenzialità produttiva come se fosse stato di lire 1.600.000 – incasserà adesso una somma complessiva di 1.600.000 lire, raddoppiando la sua potenza produttiva. È chiara dunque la duplice ragione per cui su ogni azione si versano 160 lire invece di 100; mettere in primo luogo le nuove alla pari colle vecchie azioni, dando ad amendue uguali diritti e sovratutto speranze di uguali dividendi a parità di apporto – costituito per le vecchie azioni di 100 lire in denaro e di 60 lire in rinuncie a guadagni passati a riserva, in rischi, in buona organizzazione commerciale dell’azienda e per le nuove azioni di 160 lire tutte in denaro effettivamente versato -; e, per necessaria conseguenza, porre la società in grado di ottenere doppio utile e quindi di continuare a pagare ugual dividendo su un numero raddoppiato di azioni. Se la società, per la nuova serie di azioni, incassasse soltanto 1.000.000 di lire, essa difficilmente potrebbe, a parità di ogni altro fattore, lucrare senz’altro 80.000 lire nette all’anno di più. Essa lucrava bensì 80.000 lire all’anno sul vecchio capitale di 1 milione di lire; perché questo, coll’andar del tempo, si era siffattamente irrobustito cresciuto, per l’aggiunta di riserve e di capitali immateriali (clientela, buona organizzazione, ecc.) da dar quel reddito. Le riserve e i capitali immateriali esistenti non crescono tuttavia per il solo fatto che si emette una nuova serie di azioni. Se si versassero su queste solo 1.000.000 di lire, dovrebbe passar del tempo prima che il nuovo capitale si sia a sua volta irrobustito per riserve cumulate e per nuova clientela acquistata e si sia messo in grado di lucrare anch’esso 8 lire per azione. Frattanto dovrebbe mantenersi una differenza di trattamento fra vecchie e nuove azioni, impossibile in pratica; tanto impossibile che i nuovi azionisti si decidono a versare 160 lire per azione appunto per evitare la difficoltà nascente da un eventuale divario di trattamento e per essere subito messi in grado di far rendere al loro capitale tanto quanto rendeva il vecchio ottenendone quindi l’indispensabile parità di trattamento.

 

 

Dal che si vede come la dimostrazione del fisco fallisce al suo intento; tutte le lire 1.600.000 sono un vero e proprio apporto di capitale e non possono in alcuna maniera considerarsi utile né della società, né dei nuovi, né dei vecchi azionisti. il fatto che le nuove azioni sono del valore nominale di lire 100 e che gli azionisti versano altre 60 lire chiamate premio è pura forma, ritenuta necessaria per non dare, emettendo le azioni nuove al valor nominale di lire 100, ai nuovi azionisti diritti maggiori di quelli attribuiti a vecchi possessori di azioni del valore nominale di lire 100. Pura forma, che alcuni insigni commercialisti non ritengono neppure necessaria, potendosi assicurare uguaglianza di trattamento anche ad azioni di valor nominale diverso. Astrazion fatta dalle parole, con cui si designa il fatto economico del versamento di lire 100 per azione, dove è l’utile per la società, la quale riceve, è vero, una somma maggiore di quella scritta nominalmente sull’azione, ma deve ugualmente impiegare e le 100 lire di cosidetto capitale e le 60 lire di cosidetto premio per mettersi in grado di pagare 8 lire di dividendo annuo alle azioni? Dove per i vecchi azionisti, i quali, già fin prima dell’aumento del capitale, possedevano un’azione comunemente valutata 160 lire e con quella stessa azione, dell’identico valore, rimangono in seguito? Dove, per i nuovi azionisti, i quali versano una somma da cui, al tasso corrente sulla piazza, potrebbero in qualunque altro impiego ricavare la medesima speranza di dividendi di 8 lire all’anno?

 

 

In un articolo di giornale non è possibile seguire, nelle sue più minute ramificazioni, la battaglia che si combatte tra fisco e società. In fondo si tratta di stiracchiamenti, talora arguti e spesso sofistici, per adattare la vecchia imposta di ricchezza mobile a fenomeni nuovi, nemmeno sospettati quando la legge d’imposta sorse e prese stabile assetto.

 

 

Questa, per fare un esempio facilmente comprensibile, aveva per iscopo di colpire i frutti periodici, annui, che si staccano dall’albero del lavoro e del capitale mobiliare o di tutti due insieme uniti.

 

 

Da qualche tempo il fisco vuole invece servirsi del vecchio strumento per colpire altresì gli incrementi di valore della fonte medesima del reddito, quello che sarebbe in una foresta l’incremento legnoso dell’albero. Il tentativo è riuscito per la tassazione dei prezzi di cessione degli avviamenti delle imprese commerciali e industriali; ed oggi si ripete per la tassazione dei sovraprezzi. Ma siccome la vecchia legge era fatta per colpire i frutti periodici del capitale e non gli incrementi di valore del capitale medesimo; così essa non serve alla sua nuova bisogna. È una locomotiva che, messa ad una velocità doppia di quella adatta alla sua struttura minaccia di uscire ad ogni istante, anzi è già uscita dalle rotaie. Quando, in ogni caso, si sarebbe dovuto scoprire l’utile nell’esempio della società che dianzi ho citato? Non nel momento dell’emissione delle nuove azioni; ma, prima ed indipendentemente da essa, quando le vecchie azioni aumentavano a poco a poco di valore da 100 a 160 lire. Qui i vecchi azionisti hanno ottenuto un guadagno, non ancora colpito dall’imposta di ricchezza mobile per la parte d’aumento superiore alle somme mandate a riserva palese e già tassate. Ma di questo guadagno il fisco non si occupa perché il grossolano strumento da lui posseduto non gli fornisce alcun appiglio; ed invece si accanisce contro gli utili ipotetici dei sovraprezzi che sono apporti di capitale.

 

 

Vi son casi nei quali realmente si hanno fondati motivi per credere che una società non sia stata costituita per esercitare l’industria a cui si intitola, ma, in mano di accorti speculatori, sia stata lanciata, in momenti di parossismo borsistico, per la fabbricazione artificiale di aumenti di valore delle azioni e di successive emissioni di nuove serie di azioni a premi crescenti, solo in parte lasciati nelle casse della società e per la miglior quota ripartiti fra i membri del sindacato lanciatore dell’affare? Di questi casi il fisco o non si occupa, quando i premi si realizzarono indipendentemente dall’emissione delle nuove azioni a cura diretta della società, o si occupa solo per dare una spiegazione pretestuosa di quegli altri ben più numerosi casi, in cui il premio è parte integrante e necessaria dei nuovi apporti di capitale.

 

 

I danni dell’ostinazione nell’usare un vecchio e imperfetto strumento tributario non sono né pochi né lievi. Per ora le emissioni di nuove serie di azioni sono piuttosto rare, a causa dell’attuale periodo di raccoglimento industriale. In un momento eventuale di ripresa, quale società vorrà ancora fare emissioni con premi, sapendo di dover andar soggetta ad una taglia del 10% sul capitale eccedente il nominale? Già si corre ai ripari e si inventano, come si disse sopra, le azioni da 160 lire nominali che hanno diritti identici a quelle primitive da lire 100, con accorgimento che potrà essere legale, ma che alla lunga condurrà ad attriti fra le due specie di azionisti, almeno all’atto della liquidazione della società; e che non si sa come potrà influire sulla negoziabilità delle vecchie e nuove azione. Altre società non emettono più a lire 160, ma a sole lire 100 riservando però l’opzione ai vecchi azionisti; espediente questo che distrugge ogni possibilità di tassazione per il fisco; ma, facendo incassare alla società solo un milione di lire della nuova serie di 100.000 azioni la costringe a ridurre – poiché è impossibile che 1 milione frutti come 1.600.000 lire – il dividendo sulle vecchie e nuove azioni, con ripercussioni non felici sui loro corsi in borsa.

 

 

Sovratutto lo spauracchio della nuova tassazione mette un altro ostacolo fiscale a quella moltiplicazione delle società anonime che il fisco dovrebbe guardare con occhio benignissimo e favorire in ogni miglior maniera. Sono noti i funesti effetti che sul credito delle società anonime e sulle quotazioni dei loro titoli producono il modo tenuto nel tassarne gli utili e la necessità in cui gli amministratori si trovano di nascondere riserve ed ammortamenti. La tassazione dei sovraprezzi cresce la inferiorità delle società anonime. Un privato industriale che voglia allargare la sua intrapresa ha mille modi per non pagare o di pagar poco. Una società anonima invece dovrebbe sempre essere assoggettata alla multa del 10% sulle eccedenze al di là del valor nominale. Non sembra che il fisco si diletti ad impedire il fiorire delle forme più complesse e grandiose di intrapresa economica?

 

 

Non si deve tuttavia conchiudere che nulla si debba fare nel campo della tassazione degli incrementi di valore del capitale delle società anonime. Quando si vollero colpire gli aumenti di valore delle aree fabbricabili non si ricorse all’imposta fondiaria sui terreni, adatta soltanto a colpire i frutti annui ordinari dei fondi e disadattissima a seguire i cambiamenti del prezzo corrente di terreni situati vicino alle città. Si creò invece una nuova e speciale imposta; grossolana bensì, sperequata e tale da produr più male che bene, ma costituente pur sempre il primo germe di una legislazione futura.

 

 

Il caso degli aumenti di valore delle azioni è un po’ simile a quello delle aree fabbricabili. Il pubblico ha visto formarsi fortune mercé i salti acrobatici di certe azioni e il fisco ha pensato di profittare dell’ambiente di antipatia diffusa verso i lanciatori di affari per muovere all’assalto della nuova materia imponibile. Non così si risolvono nell’interesse generale siffatte grosse quistioni. L’argomento va preso in esame in tutta la sua ampiezza. È conveniente tassare i guadagni ottenuti cogli incrementi di valore delle azioni? Fino a che punto si può andare senza tema di danneggiare la raccolta dei capitali per le grandi intraprese economiche? è possibile distinguere fra gli incrementi di valore che sono dovuti a sacrifici compiuti dagli azionisti (accumulo di riserve, perdite di dividendi e svalutazioni di capitali nei primi anni, ecc. ecc.), e quelli che ne sono indipendenti e potrebbero essere considerati come veri lucri? Si può ancora distinguere fra incrementi formatisi in un lungo volger di tempo e dovuti alla sapiente organizzazione della intrapresa, che vanno risparmiati dall’imposta ed anzi incoraggiati ed incrementi estemporanei e fugaci? Son problemi gravissimi, che è assurdo, che è pernicioso risolvere in sede di interpretazione di nuovi modi di definir la parola «reddito» agli effetti dell’imposta di ricchezza mobile.

 

 

Se una soluzione dovrà essere data al grave problema, la sede più adatta sembra a me la tassa di circolazione sulle azioni. Questa è ora alta (2,40%. all’anno pei titoli al portatore ed 1,80%. pei titoli nominativi) e colpisce, quando sia possibile accertarlo, l’intiero valore di borsa delle azioni. Un’azione capitalizzata al 5% finisce di pagare ogni anno 24 centesimi per ogni 100 lire di valor capitale, ossia circa il 5% del reddito, che si aggiunge al 10% d’imposta di ricchezza mobile ed aggrava oltre misura le società anonime. Non si potrebbe fare qualche differenziazione nell’imposta, riducendola ad esempio, alla metà od anche a meno per la parte del valore corrente delle azioni che è uguale al capitale effettivamente versato, più le riserve e graduandola fino al massimo del 2,40 per la eccedenza? Nessuno pagherebbe più di quanto ora si paga e molti pagherebbero di meno. Forse la graduazione potrebbe farsi anche in ragione della percentuale di eccedenza del valor di borsa sul capitale versato e del tempo in cui queste eccedenze si formarono.

 

 

Una autorevole commissione attende da tempo allo studio delle tasse di registro e bollo; e qualche buon frutto dei suoi studi già si vide, anche per merito degli avvenimenti, nelle ottenute mitigazioni delle tasse sulle anticipazioni e sulle cambiali. Perché non si potrebbe incaricare la commissione di prendere in esame anche il grave problema della tassazione dei sovraprezzi, ponendo fine alla guerra giudiziaria che ora si combatte e che, ove la cassazione romana si inspirasse a criteri troppo fiscali, potrebbe condurre ad una soluzione empirica e dannosa?

 

 

La situazione attuale del porto di Genova

Il dazio sul grano e sulle farine

«Corriere della Sera», 10 aprile[1] e 17 maggio[2] 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 207-215

 

 

I

 

Ritorna sul tappeto la questione del dazio sul grano. L’aumento recente dei prezzi, facilmente preveduto da chi aveva tenuto dietro alle vicende dei raccolti ed alla situazione statistica dei mercati internazionali, ha già provocato una interrogazione alla camera e nuove recise risposte dell’on. Majorana, deliberato a respingere assolutamente ogni proposta di diminuzione, provvisoria o definitiva, dell’attuale dazio. Certo non si può affermare che, dal punto di vista del momento presente, la situazione sia pienamente rassicurante; né d’altra parte aveva torto il ministro delle finanze quando affermava che una riduzione provvisoria del dazio non avrebbe portato alcun giovamento ai consumatori. I lettori possono seguire giorno per giorno sui bollettini commerciali i prezzi del grano. Qui, per dare un’idea comparativa del movimento dei prezzi calcolati su una base uniforme, ricorderemo soltanto che l’ultimo listino ufficiale del ministero d’agricoltura porti queste cifre (in lire per quintale di frumento):

 

 

26 dicembre 26 dicembre 31 dicembre 18 marzo

1900

1902

1904

1905

Parigi

19,00

21,12

23,62

23,62

Budapest

17,11

15,19

22,46

20,47

Chicago

12,20

14,58

21,84

21,62

Odessa

—-

14,90

17,12

16,07

 

 

La campagna del 1904 segna un rialzo notevolissimo sulle campagne precedenti. Non sembra però, che vi sia la probabilità di un rialzo ulteriore (i prezzi di marzo 1905 sentono già l’influenza del nuovo raccolto e sono meno alti di quelli di dicembre 1904); e una riduzione, anche forte, del dazio doganale, mentre danneggerebbe gravemente le finanze, non gioverebbe oggi ai consumatori. Già lo dicemmo in modo esplicito l’autunno scorso. Il momento per sospendere il dazio sul grano non è la primavera: quando la speculazione non può far giungere in fretta grandi quantità di grano senza passare per le forche caudine delle compagnie di navigazione, che assorbono in noli tutto il beneficio della riduzione. Novembre e dicembre sono i mesi propizi; poiché allora la concorrenza fra importatori ed armatori può agire tranquillamente e provvedere il mercato interno a sufficienza di frumenti ai noli normali. Oramai cosa fatta capo ha; e non resta che da augurarci una stagione favorevole al raccolto nuovo, la quale tenga lontano il grosso guaio di un rialzo ulteriore dei prezzi al disopra del livello odierno.

 

 

Non è la riduzione temporanea del dazio ciò che oggi più preme. È infatti chiarissimo che da qualche tempo è posta – e sempre più si imporrà – la questione di un ribasso permanente del dazio. Già le cifre addotte sopra indicano quale rivolgimento si sia verificato nei prezzi del grano nell’ultimo quinquennio. Forse ci si potrebbe obbiettare che si tratta di un fatto isolato, dipendente dalla campagna infelice del 1904. Per far vedere che il rialzo odierno si ricollega con un movimento assai più ampio, abbiamo costruito la seguente tabellina, che sembra persuasiva:

 

 

Numeri indici del frumento

in Inghilterra riferito alla media degli anni 1867-77 (= 100) in Italia riferito alla media degli anni1862–66 (= 100) Dazio doganale italiano d’importazione per ogni quintale di frumento e data delle sue variazioni

1882

?

100

Dal 16 giugno al 21 aprile 1887 L.1,40

1887

60

84

Dal 21 aprile 1887 L. 3

1889

55

90

Dal 10 febbraio 1888 L. 5

1890

50

88

1891

68

96

1892

56

94

1893

48

82

1894

41

78

Dal 21 febbraio 1894 L. 7

1895

42

79

Dal 10 dicembre 1894 L. 7,50

1896

48

86

1897

55

99

1898

62

103

1899

47

97

1900

49

9

1901

49

99

1902

52

91

1903

49

92

 

 

Abbiamo preferito di dare non i prezzi per quintale, ma i numeri indici, ossia il rapporto percentuale fra i prezzi di ogni anno ed i prezzi di un periodo base (1867-77 per l’Inghilterra e 1862-66 per l’Italia) uguagliati a 100. I numeri indici sono quelli di Sauerbeck per l’Inghilterra e del Geisser-Magrini per l’Italia. La tabella è parlante. Dopo il 1880 comincia la grande inondazione dei grani nord-americani sul mercato europeo; sul mercato libero dell’Inghilterra i prezzi discendono da 100, punto di partenza, a 60 nel 1887, ed anche in Italia, dove il dazio sino allora era mitissimo (lire 1,40 per quintale) il numero indice scende ad 84. Allarmati gli agricoltori italiani, come i francesi, i tedeschi, ecc., chiedono protezione ed ottengono un aumento a 3 lire nel 1887 a 5 nel 1888. Per l’Italia il dazio arresta per un po’ la discesa dei prezzi; non così sui mercati liberi, dove il prezzo, salvo la breve punta all’insù del 1891, ribassa continuamente, sino a toccare l’estremo fondo nel 1894 con 41. Il ribasso si ripercuote anche sull’Italia. Malgrado il dazio, il grano tocca l’indice di 73. Il che vuoi dire un prezzo, compreso il dazio, di lire 19,22 per quintale. Gli agricoltori protestano che il prezzo non è sufficiente; che, se essi vendono il grano a meno di 22-23 lire per quintale, lavorano in perdita. Ed ottengono così il rialzo del dazio a lire 7 ed a lire 7,50 per quintale. Non discutiamo qui le loro ragioni. È certo però che essi non avrebbero ottenuto l’aumento del dazio a lire 7,50 se il grano nel 1894 non fosse stato ridotto al prezzo infimo che dicemmo. Forse non l’avrebbero ottenuto nemmeno allora, se nel 1894 il tesoro non si fosse trovato in pessime acque e non avesse veduto nel desiderio degli agricoltori il mezzo per impinguare un po’ le proprie entrate.

 

 

Dopo il 1894 le cose cambiano. Il livello dei prezzi sui mercati liberi e sui mercati protetti sale, riguadagnando in Inghilterra metà ed in Italia tutto il terreno perduto dopo il 1887, quando era ritenuta sufficiente una protezione oscillante fra 3 e 5 lire. Se nella tabella avessimo aggiunto anche i prezzi del 1904 il movimento sarebbe stato ancor più accentuato; non lo facemmo per non essere tacciati di esagerazione.

 

 

Il fatto certo, indubitato è dunque questo: che dal 1894 è cominciato un periodo di ripresa nei prezzi del grano. Noi non sappiamo quali sorprese ci prepari l’avvenire; né vogliamo fare i profeti a buon mercato. Tutto però fa ritenere che il movimento verso l’ascesa dei prezzi non sia giunto al suo termine. Non ripeteremo qui gli allarmi del grande chimico inglese Crookes, il quale prevede a non lungo andare prezzi altissimi pel grano, se una qualche benefica rivoluzione nella chimica agraria non darà il mezzo di produrre pane a buon mercato. Le materie fertilizzanti azotate diventano sempre più care; il guano del Perù è esaurito; il nitrato di soda del Cile è tutt’altro che eterno. Sovratutto vi sono paesi che una volta inondavano l’Europa con grani a bassi prezzi e che ora un po’ per volta si ritirano dal commercio di esportazione. Non è un’affermazione gratuita. Guardisi il listino dei prezzi pubblicato in principio di questo articolo; fra i quattro mercati, quello su cui si verificò il rialzo più violento è Chicago (da 12,20 a 21,62 lire per quintale). La ragione del fatto vogliamo dirla colle parole del direttore generale delle nostre gabelle, il quale nell’ultima sua relazione per l’esercizio 1903-904 scrive che il rialzo dei prezzi sui mercati americani «si spiega con le mutate condizioni della produzione e del consumo del cereale negli Stati uniti, per le quali questi andarono perdendo il carattere, che da tanto tempo possedevano, di grande paese esportatore di grano. Coll’affievolirsi della corrente di esportazione, in quanto ciò provenga, com’è il caso, delle cresciute esigenze del consumo interno, è naturale che negli Stati uniti i prezzi del grano tendano a sollevarsi dall’antico basso livello regolatore internazionale, e ad assumere il carattere di prezzi nazionali, come quelli di ogni altro paese consumatore».

 

 

Potrà accadere dunque che i ricchi e popolosi Stati uniti si tengano per sé il loro grano. L’Europa ricorrerà, è vero, all’Argentina, alla Russia, all’Australia, alla Siberia; ma dovrà pagare prezzi più elevati, sia per le maggiori spese di trasporto dei mercati più lontani, sia perché questi avranno un formidabile concorrente di meno.

 

 

Evidente la conclusione del nostro discorso. Oggi, se il dazio fosse ancora a 3 od a 5 lire, a nessuno verrebbe in mente di chiederne l’aumento; e, se da qualche agricoltore troppo esigente si chiedesse, non sarebbe concesso. Perché ostinarsi allora a conservare il dazio ad un’altezza, giustificata dagli stessi agricoltori solo grazie ad un livello basso di prezzi che oggi non esiste più per cagioni permanenti? Non sarebbe opportuno ritornare al punto di partenza: almeno alle 5 lire del 1888 se non alle 3 lire del 1887? La via del ritorno non dovrebbe essere percorsa d’un salto; nessun uomo ragionevole vorrebbe perturbare improvvisamente le aziende agricole, e cagionare perdite dolorose di capitali. Se la riduzione avvenisse gradatamente, a 50 centesimi all’anno ad esempio, gli agricoltori in 5 o 9 anni avrebbero tempo di prepararsi al nuovo stato di cose, organizzando meglio le loro intraprese, riducendo i costi, facendo quello insomma che fanno tutte le intraprese di questo mondo quando debbono adattarsi a nuove condizioni di vita. Anche lo stato – il quale non può e non deve sin d’ora far calcolo preventivo sul provento del dazio sul grano al disopra dei 50 o 60 milioni all’anno – potrebbe gradatamente adattarsi alla inevitabile riduzione dei suoi introiti.

 

 

Forse saremo giudicati visionari e temerari. In verità siamo più imprudenti noi o chi non sospetta nemmeno la possibilità di rialzi di prezzo nel futuro e di moti di piazza che costringono a abolire in fretta ed in furia il dazio, con quali perdite degli agricoltori e dello stato è facile immaginare?

 

 

II

 

La promessa fatta alla camera dall’on. ministro Majorana di presentare un disegno di legge per la riduzione del dazio doganale sulle farine ha suscitato una vivissima agitazione fra i mugnai, timorosi che i propositi del governo possano riuscire funesti all’industria molitoria.

 

 

Una questione della massima importanza, in cui sono in gioco interessi rilevanti dei consumatori di pane e dei produttori di farine; e vale la pena di sentire ambe le parti nelle ragioni che esse hanno da mettere innanzi in difesa della loro tesi.

 

 

Intanto è opportuno avvertire che la protezione delle farine è una conseguenza necessaria del dazio sul grano. Dato che questo esista nella misura di lire 7,50 al quintale – e sulla opportunità di ridurlo gradatamente, già ci pronunciammo – è evidente che un dazio deve essere messo sulla quantità di farina corrispondente. Se no, le farine estere prenderebbero il posto del grano e rimarrebbe frustato l’intento che il legislatore si proponeva mettendo il dazio sul grano. L’intento potrà essere giudicato buono o cattivo, ma, una volta ammesso, non è possibile negare la necessità di mettere il dazio sulle farine. La questione è nella misura.

 

 

Dicono i consumatori e sembra voglia dire il governo: l’attuale dazio sulle farine di lire 12,30 al quintale è troppo elevato in proporzione al dazio di lire 7,50 sul grano e lascia ai mugnai una protezione supplementare eccessiva. Vediamo come. Si può ammettere (citiamo i calcoli di un progetto Wollemborg del 1901) che per ottenere 100 kg di farina siano necessari 135 kg di grano. Per mettere importatori di grano o importatori di farine nella stessa condizione bisogna far pagare a un quintale di farina l’ugual dazio che a 135 kg di grano. E siccome 135 kg di grano pagano 1,35 x lire 7,50 ossia lire 10,15 di dazio, così il quintale di farine dovrebbe pagare pure lire 10,15. E poiché le farine estere pagano invece lire 12,30, è chiaro che il mugnaio nazionale gode di una protezione di lire 2,15. Non basta. Il mugnaio che paga lire 10,15 di dazio per 135 kg di grano, ne ricava, oltre i 100 kg di farine, anche 35 kg di crusca. Una parte del dazio serve a proteggere pure la crusca; e conteggiandolo pure a sole lire 3,50 al quintale, noi avremo che il mugnaio acquisitore di 135 kg di grano ha pagato lire 10,15 di dazio, di cui lire 9 per la farina e lire 1,15 per la crusca. Egli è quindi protetto contro l’importazione della farina estera (che paga lire 12,30, ricordiamolo) non dalla differenza fra lire 12,30 e lire 10,15, ma da quella fra lire 12,30 e lire 9; e può quindi aumentare i prezzi delle farine di tutto l’ammontare del dazio, godendo dell’alta protezione di lire 3,30 al quintale. Stringendosi insieme, i mugnai si sono accordati per tenere alti i prezzi. I consumatori che si lagnano del dazio sul grano, dovrebbero ancor più lagnarsi della protezione eccessiva ai mugnai, per nulla in rapporto col costo della macinazione.

 

 

Questa la tesi dei consumatori e crediamo anche del governo, il quale ne trae argomento a volere ridurre il dazio sulle farine, non sappiamo quanto al disotto delle lire 12,30, in guisa da metterlo in più equo rapporto col dazio sul grano. Sappiamo però già che i mugnai non si danno per vinti ed oppongono calcoli a calcoli.

 

 

Innanzi tutto essi non vogliono si parli della crusca. È un artificio, essi dicono, separare le lire 10,15 che pagano i 135 kg di grano in lire 9 pagate per i 100 kg di farine e in lire 1,15 per i 35 kg di crusca. In realtà i mugnai, quando vendono la crusca non ottengono un centesimo di più di quello che ottengono i loro colleghi dell’estero, quando forse non la vendano a minor prezzo. La crusca non fa parte del mercato dei cereali e delle farine, ma di quello del bestiame, dei foraggi, delle biade e dei cereali inferiori. Quindi se essi han pagate le lire 10,15 di dazio sui 135 kg di grano, le devono ripigliare tutte sui 100 kg di farina, non potendo sperar nulla dalla crusca. Ecco ridotta la protezione dei mugnai da 12,30-9 a 12,30-10,15 ossia a lire 2,15, secondo il primo calcolo.

 

 

Non siamo ancora alla fine. Dei 100 kg di farina ottenuti dai 135 kg di grano, solo 91 circa è farina panificabile. Il resto (9%) sono farinette in minima proporzione atte a fabbricar pane di qualità inferiore e in massima parte destinate all’alimentazione del bestiame, insieme agli altri cascami e non protette. Tenendo conto di ciò, noi vediamo che i mugnai, pagando lire 10,15 di dazio per introdurre 135 kg di grano, debbono rifarsi in definitiva di questa spesa su una vendita netta di soli 91 kg di farine, tutto il resto essendo farinette e crusca, a cui l’esistenza del dazio non fa né caldo, né freddo. Per non rimetterci, il dazio per ogni quintale di farina buona dovrebb’essere, fatte le debite proporzioni, almeno di lire 11,15. Invece esso è di lire 12,30, ed essi godono perciò di una protezione di lire 1,15 per quintale. La quale, come tutti vedono, è molto lontana dalle lire 3,30 asserite dal governo e dai consumatori.

 

 

Abbiamo riassunto così le ragioni dei consumatori e dei produttori. Malgrado il nostro desiderio e pur lasciando in disparte molti calcoli secondari, non ci è stato possibile di essere più chiari. È facile vedere che si tratta di una quistione aggrovigliata, come tutte quelle di parificazione dei dazi, in cui i dati del problema cambiano a seconda del punto di vista dal quale ci si mette. Né vogliamo perciò concludere senz’altro in pro di una delle due tesi. La posizione del problema ci si presenta assai poco chiara; e meriterebbe di venire maggiormente dilucidata, dando una risposta precisa, non controvertibile ad alcune domande che ci permettiamo di formulare così:

 

 

Qual è la precisa proporzione di farine, di farinette e di crusca che si ricava da un quintale di frumento?

 

 

È vero che le farinette e la crusca in Italia non godono menomamente della protezione che viene ad esse concessa sia direttamente sia colla protezione del frumento?

 

 

A noi sembra che dovrebbe essere compito di qualche ente autorevole ed imparziale eseguire una ricerca su questi punti e sugli altri che i competenti vorranno suggerire. Un esame dei prezzi del grano, delle farine, delle farinette e della crusca su alcune principali piazze italiane ed estere in paesi protezionisti e liberisti e per un periodo abbastanza lungo, dovrebbe mettere in sodo se i prezzi si risentano della protezione doganale anche per le farinette e per la crusca, ed offrire dati preziosi per una soluzione del problema. Altrimenti dinanzi all’agitazione dei mugnai dovremo sempre rimanere in dubbio se si tratti di calcoli sbagliati del governo o di ingordigia di lucri eccessivi degli industriali.

 

 

 


[1] Con il titolo Il dazio sul grano. [ndr]

[2] Con il titolo Il dazio sulle farine. [ndr]

Italian finance To the Editor of The Economist

Italian finance

To the Editor of The Economist

«The Economist», 21 marzo 1908, p. 617

 

 

 

 

Sir, – The note on relief for Italian taxpayers which you publish in your issue of March 7th is subject to some criticism. While it is correct to say that the large surpluses of recent years have been mainly devoted to public works, the increase of the salaries of civil servants, and to the cost of na­tional defence, it is to be added that the money so applied has been in the main squandered to satisfy petty interests, and it is not correct to con­sider as certain a reduction of taxation. As yet no definite scheme of tax reform has been made public by the Government, and it is highly probable that no such scheme will be this year seriously laid before the Parliament. Or if it is laid, that will be done only with a view to win the votes of the constituencies at the next general elections. The reason is not far to seek; the huge surpluses of the last years have been swallowed by the increased expenditure, so that nothing is left for the taxpayers. A statesman of high standing (probably Mr Sidney Sonnino, formerly Premier, who, it is to be observed, is not a regular opponent of the present Government) has pub­lished in one of the last numbers of the Nuova Antologia, the leading Ita­lian review, a critical examination of the Italian budget, and has shown clearly that the surplus of which the Minister of the Treasury was so boast­ful in his Esposizione finanziaria of November last, was a fictitious surplus. Some days ago Mr Rubini, the president of the Giunta generate del Bilancio (Committee of the Chamber of Deputies on Ways and Means) resigned, thinking it to be his duty to warn the Parliament and the public opinion as to the way the public accounts are manipulated. It will suffice to quote only one instance of this manipulation: the account of the State railways for the year 1906-07 is made to close with a surplus of 50 million lire; but this result is obtained by the device of putting some 10 million lire of ordinary expenses to the charge of a reserve fund, which should be devoted only to expenses of extraordinary character. From the residue, 40 million lire, other vast sums should be deducted if the accounts were regarded from the point of view of a joint-stock company and not made up with a view of deluding the taxpayers. But the Government think necessary to muster a surplus on State railways of 50 millions, as a minor sum would have brought too rudely to the mind of the public – firstly, the fact that the gen­eral surplus is not so great as was said; secondly, the necessity of a severe administration, even by the State railway; thirdly, the fact that the State railway cost for interest and sinking fund of a part of the public debt a sum vastly greater than the so-called surplus.

 

 

The Italian public finance and the economic development of Italy are to-day extremely interesting. But I fear that the correspondents of English journals do not convey a true idea of it to their readers. – Yours truly,

 

 

Luigi Einaudi

 

 

Turin, March 9, 1908.

 

I postelegrafici e le riforme

I postelegrafici e le riforme

«Corriere della Sera», 30 gennaio 1908

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 573-577

 

 

Le lagnanze dei postelegrafici e le richieste da essi messe innanzi a proposito del disegno di legge sugli impiegati erano state generalmente riconosciute giuste, specie per quanto riguarda l’elevamento degli stipendi minimi da 900, 1.200 e 1.500 a 1.100, 1.600 e 2.000 lire, come fissato per gli altri impiegati dello stato e alla approvazione era seguito il consiglio alla federazione a studiare nuovi metodi di remunerazione ai postelegrafici, basati sulla cointeressenza, i quali valessero ad aumentare il rendimento del lavoro ed a crescere lo zelo di ogni impiegato. La federazione ha raccolto l’invito ed in un memoriale inviato alla commissione parlamentare, che esamina il progetto sugli impiegati, espone, insieme alle domande relative ai miglioramenti di carriera, tutto un piano di cointeressenza del personale ai risultati dell’azienda postale-telegrafica.

 

 

Sulle domande, che in questo memoriale si leggono, noi non ci tratterremo, poiché è quistione delicata decidere se i milioni chiesti dalla federazione debbano essere dati per ragioni di giustizia e il concederli non contrasti colle esigenze del bilancio. Amiamo invece fermarci sul punto della cointeressenza, poiché qui veramente pare che il memoriale contenga una nota elevata e presenti proposte a parer nostro feconde di risultati.

 

 

Che molti difetti vi siano nell’organamento interno del servizio postale-telegrafico è impossibile negare. Chiunque si trovi in frequenti rapporti colla posta è testimone di lentezze, disguidi, complicazioni inutili e costose che riescono di impaccio gravissimo alla speditezza del servizio. Nel memoriale la federazione afferma che nel solo ufficio telegrafico di Milano vi sono circa 60 impiegati addetti a pratiche inutili, ma consacrate da disposizioni regolamentari; e questi impiegati costano allo stato circa centomila lire!

 

 

Se le nostre pubbliche amministrazioni somigliano alle lumache, se il nostro stato possiamo paragonarlo ad una mastodontica macchina che consuma enorme quantità di combustibile e si muove pesantemente e cigolando, gli è appunto perché da noi tutto si deve emarginare ripetute volte, ogni pratica deve portare un dato numero di visti e di bolli; e nessuno può mettere penna sulla carta senza prima consultare centinaia di articoli di regolamenti e montagne di bollettini e di circolari.

 

 

La federazione suggerisce molteplici migliorie nell’organismo tecnico del servizio a rimuovere gli ingombri: abolizione della registrazione del telegramma, ricevuta gratuita attaccata al modulo del telegramma e riempita dal mittente, ecc.

 

 

E prende in esame ad uno ad uno i diversi servizi – posta lettere, pacchi, raccomandate, vaglia, contabilità, ispezioni e missioni, reclutamento del personale, alte cariche direttive – per suggerire per ognuno di essi qualche miglioramento e qualche semplificazione, che se anche non fossero in tutto accettabili, dimostrano nei capi del movimento un lodevole desiderio di meritare quegli aumenti di stipendio che i postelegrafici richiedono. In confronto a tante altre schiere di funzionari, anche elevati e di cultura superiore, i quali di null’altro si sono preoccupati fuori dell’aumento dei loro stipendi ed hanno deliberatamente postergato le riforme organiche dei loro servizi alla riforma economica degli stipendi, di fronte a questo spettacolo talvolta repugnante, l’esempio della federazione postelegrafica meritava di essere segnalato a titolo di lode.

 

 

Poiché non si dicesse che tutta questa era un’abile manovra per fare accettare la merce avariata di una eccessiva richiesta di aumento degli stipendi – ed in verità i milioni richiesti ci sembrano troppi nel momento presente – la federazione dice nel suo memoriale: noi chiediamo, insieme all’aumento di stipendio, l’abolizione del lavoro straordinario che ci abbrutisce e snerva che oggi è necessario per completare le nostre paghe troppo misere, ma è mal visto dall’amministrazione, la quale ci sospetta di rallentare il lavoro durante le ore normali per far nascere il bisogno artificioso di ore supplementari; e chiediamo di essere cointeressati al lavoro nostro, in guisa che l’interesse individuale ci spinga tutti a raddoppiare di zelo nel servizio del pubblico e dello stato.

 

 

Ecco un esempio calzante dei benefici che la cointeressenza potrebbe arrecare nel solo ufficio telegrafico di Milano. Ivi a ricevere i 17.000 telegrammi giornalieri sono normalmente occupati nel maneggio degli apparati 219 impiegati, esclusi quelli addetti ai servizi interni. Tenendo conto del mese di congedo e della media di 12 libertà festive, vi sono 4 impiegati che durante i 323 giorni di lavoro rendono 188 telegrammi in media ciascuno, 9 che ne rendono 170, mentre 7 impiegati rendono 157 telegrammi, 12 solo 132, 35 appena 110, 77 scendono a 79 telegrammi l’uno e 75 si abbassano a 55 telegrammi. L’esistenza di pochi impiegati che rendono più di 150 telegrammi e di molti che ne rendono meno di 80 significa che nei nostri uffici vi sono parecchi i quali sanno poco e lavorano meno, riuscendo a caricare il lavoro su una minoranza di conoscitori di tutti i servizi e di tutti gli apparati celeri. È chiaro come la sperequazione, in uffici pubblici dove si va innanzi sovratutto per anzianità, produce malcontento e rilassatezza anche nei buoni, i quali guadagnano lo stesso o poco più degli infingardi. Si aggiunga che l’eccesso di impiegati produce confusione, dirigenza distratta e meno energica e arenamento nel servizio.

 

 

Istituendo la cointeressenza di 1 centesimo per tutti i telegrammi Morse e di 1 centesimo e mezzo per gli apparati celeri, sarebbe facile, dice la federazione, spingere ogni impiegato ad una produzione media di 108 telegrammi, media inferiore di gran lunga alle medie dell’Austria, della Germania, del Belgio, dell’Inghilterra, degli Stati uniti, ecc. In una giornata 200 soli impiegati darebbero un rendimento di 21.600 telegrammi ed in un anno, detratto sempre il mese di congedo e le 12 libertà festive, ne darebbero 6.976.800, ossia circa un milione in più sul lavoro annuo che oggi si compie nell’ufficio di Milano con 219 impiegati.

 

 

Gli impiegati avrebbero un guadagno complessivo giornaliero di 294 lire, che divise fra 200, darebbero una media giornaliera di lire 1,40 a testa: media che potrà elevarsi a 2 lire per i più abili e scendere a lire 0,80 per i mediocri. Ma, ed è quel che più monta, anche gli impiegati oggi cattivi, i quali danno un rendimento di appena 55 telegrammi in media, sarebbero spinti dal proprio interesse a diventare almeno mediocri, ad istruirsi, a perfezionarsi allo scopo di poter ottenere una maggiore cointeressenza. Migliorata la media degli impiegati, creato nel personale il «senso di responsabilità», sarà possibile supplire gli apparati Morse, che costano lire 250, con gli apparati Sunder, che costano appena 42 lire; e così si avrà non solo la semplificazione dell’apparato e quindi minor spesa d’impianto (10.400 lire nel solo ufficio di Milano), ma anche la abolizione dei rotoli di zona, con un risparmio per 50 Sunder a Milano di 10 kg di rotoli, ossia di lire 12,50 al giorno. Il cresciuto rendimento del lavoro degli impiegati e il minor costo d’impianto e di manutenzione degli apparati consentirà all’amministrazione di affrontare, con maggior coraggio di adesso, la grande riforma, che oramai s’impone, della riduzione della tariffa telegrafica, riforma che oggi rappresenta un’incognita paurosa sia per il costo degli impianti nuovi necessari per il cresciuto servizio, sia, ed ancor più, per il deterioramento della macchina umana addetta al lavoro postale-telegrafico.

 

 

Tutto questo non diciamo noi; dice la federazione postale-telegrafica. Potranno discutersi ed essere ritenute eccessive le sue domande di milioni all’erario pubblico; ma è certo che la intensa aspirazione ad elevare la macchina umana, a trovare i mezzi pratici per spingere l’impiegato, l’immobile vecchio lento travet, a meritare un guiderdone più alto, ci trasporta in più spirabili aere e fa concepire un desiderio: che a non lungo andare memoriali simili a quello che ci sta sotto gli occhi siano scritti da altre federazioni di pubblici impiegati. Vi è un servizio, di natura industriale quanto e forse più del servizio postelegrafico, a cui il concetto della cointeressenza e della iniziativa individuale per il maggiore rendimento potrebbe essere di larghissima e feconda applicazione: ed è il servizio ferroviario. È certo anzi che di un più diretto interessamento del personale l’azienda ferroviaria ha urgente bisogno. Son cose di ieri la relazione Bianchi sull’esercizio 1906-907, e gli sforzi penosi per far comparire un utile netto maggiore del reale o meglio, poiché di utile è vano parlare, una perdita minore di quella vera. Almeno l’azienda postelegrafica è realmente attiva, sebbene di poco. Perché i ferrovieri non imitano i loro colleghi postelegrafici nell’aspirazione ad ottenere il vantaggio proprio mercé il vantaggio dello stato e della collettività? Perché, messisi al seguito di una banda di ventura sindacalista, minacciano scioperi ad ogni momento ed intendono presentare richieste di miglioramenti per decine di milioni, che nessuno per fermo può reputare giustificate dalle loro maggiori prestazioni di lavoro? Orsù, si scuotano i ferrovieri di dosso coloro che si sono impadroniti delle loro organizzazioni, seguano gente, sia pur di loro fiducia e di lor parte, ma seria e lungiveggente; e l’opinione pubblica comincerà a guardarli con quella simpatia con cui oggi guarda agli sforzi dei postelegrafici per rendersi meritevoli di più liete sorti.

 

 

Il bilancio della guerra e la finanza sabauda alla pace di Utrecht – Parte IV: La finanza sabauda alla pace di Utrecht.Conversioni di debiti pubblici ed abolizione di tributi straordinari

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La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 439-455

Il bilancio della guerra e la finanza sabauda alla pace di Utrecht – Parte III: Il costo della guerra per il Principe e per i popoli

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La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 392-439

Il bilancio della guerra e la finanza sabauda alla pace di Utrecht – Parte II: Le angustie dei popoli e della finanza durante la guerra. Gli espedienti finanziari

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La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 360-392

Il bilancio della guerra e la finanza sabauda alla pace di Utrecht – Parte I: Partizione e riassunto delle entrate pubbliche dal 1700 al 1713

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La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 321-359

Le entrate provenienti dalla guerra – Parte VII: I tributi nei paesi di nuovo acquisto (Monferrato, Alessandria, Valenza, Lomellina, Terre separate e Val di Sesia)

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La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 305-319

Le entrate provenienti dalla guerra – Parte VI: I tributi imposti sui paesi conquistati su Francia. (Delfinato italiano e Pragelato)

Le entrate provenienti dalla guerra – Parte VI: I tributi imposti sui paesi conquistati su Francia. (Delfinato italiano e Pragelato)

La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 303-305

Le entrate provenienti dalla guerra – Parte V: Le contribuzioni di guerra levate in Provenza, nel Bugey e nel Delfinato francese

Le entrate provenienti dalla guerra – Parte V: Le contribuzioni di guerra levate in Provenza, nel Bugey e nel Delfinato francese

La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908,pp. 299-303

I prestiti pubblici durante la guerra – Parte VII: La distribuzione sociale dei titoli di debito pubblico

I prestiti pubblici durante la guerra – Parte VII: La distribuzione sociale dei titoli di debito pubblico

La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 270-276

I prestiti pubblici durante la guerra – Parte II: I prestiti contratti coll’intermediazione e la garanzia delle città di Torino e di Cuneo

I prestiti pubblici durante la guerra – Parte II: I prestiti contratti coll’intermediazione e la garanzia delle città di Torino e di Cuneo

La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 185-230

I prestiti pubblici durante la guerra – Parte I: Il credito dello Stato Sabaudo all’aprirsi della guerra

I prestiti pubblici durante la guerra – Parte I: Il credito dello Stato Sabaudo all’aprirsi della guerra

La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 175-184

Il sistema tributario sabaudo all’aprirsi del secolo XVIII – Parte VI: Il donativo degli Stati generali del Ducato d’Aosta

Il sistema tributario sabaudo all’aprirsi del secolo XVIII – Parte VI: Il donativo degli Stati generali del Ducato d’Aosta

La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 106-117

Il sistema tributario sabaudo all’aprirsi del secolo XVIII – Parte V: I tributi nel Principato di Oneglia

Il sistema tributario sabaudo all’aprirsi del secolo XVIII – Parte V: I tributi nel Principato di Oneglia

La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 103-106

Il sistema tributario sabaudo all’aprirsi del secolo XVIII – Parte IV: I tributi nel Contado di Nizza

Il sistema tributario sabaudo all’aprirsi del secolo XVIII – Parte IV: I tributi nel Contado di Nizza

La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 98-102

Il sistema tributario sabaudo all’aprirsi del secolo XVIII – Parte III: I tributi nel Ducato di Savoia

Il sistema tributario sabaudo all’aprirsi del secolo XVIII – Parte III: I tributi nel Ducato di Savoia

La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp.90-98

Il sistema tributario sabaudo all’aprirsi del secolo XVIII – Parte II: I tributi nel Principato di Piemonte

Il sistema tributario sabaudo all’aprirsi del secolo XVIII – Parte II: I tributi nel Principato di Piemonte

La finanza sabauda all’aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, Officine grafiche della Società tipografico editrice nazionale, Torino 1908, pp. 45-90

Le riduzioni tributarie sulle anticipazioni e le cambiali

Le riduzioni tributarie sulle anticipazioni e le cambiali

«Corriere della Sera», 23 dicembre 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 567-572

 

 

Le riduzioni già deliberate della tassa sulle anticipazioni e sulle cambiali sono il primo accenno ad una riforma di quelle tasse sugli affari che compongono la più ingarbugliata branca della nostra pubblica finanza e tanto duramente pesano sullo sviluppo dei commerci e delle industrie. Per molti le «tasse sugli affari» risvegliano l’idea di gravami imposti su coloro che fanno affari, che con gli affari si arricchiscono e possono quindi agevolmente pagare qualche tributo allo stato in occasione dei loro arricchimenti. Chi pensi tuttavia che le tasse sugli affari comprendono non soltanto l’imposta sulle successioni, teoricamente giusta ed abbastanza ben congegnata praticamente nel nostro sistema legislativo, ma anche le tasse di registro sulle trasmissioni dei beni immobili, mobili e di merci, sugli appalti, sulle locazioni, sulle obbligazioni e liberazioni di somme e valori, le tasse giudiziarie, le tasse di bollo, le tasse di negoziazione sui titoli, di anticipazione contro deposito e pegno, sulle assicurazioni e sui contratti vitalizi, le tasse ipotecarie, le tasse sulle concessioni governative, ecc. ecc., si persuaderà di leggieri che non v’è atto della vita civile ed economica di un cittadino il quale non sia soggetto a una delle numerosissime tasse cosiddette sugli affari. Se si aggiunga che l’insieme di codeste tasse è un disorganico affastellamento di norme in parte ereditate dal regime francese ed in parte aggiunte via via sotto la pressione dei bisogni fiscali, che le contraddizioni fra i testi di legge sono numerose e l’oscurità loro siffatta che bene spesso vi si smarriscono uomini peritissimi per lunga esperienza, che le aliquote sono alte e feroci le multe contro i contravventori, si avranno motivi bastevoli a spiegare l’urgenza di una riforma intesa a semplificare, ordinare e mitigare la arruffata matassa tributaria. Una commissione reale lavora da qualche anno a preparare la riforma; e della prossima presentazione di un disegno di legge sulle tasse di bollo si ebbero ripetuti annunci. Frattanto, poiché da noi le riforme grandi ed organiche si fanno sempre aspettare a lungo, possiamo contentarci che l’urgenza di agguerrire gli istituti di emissione e gli altri istituti di credito contro i pericoli della crisi abbia affrettato almeno l’attuazione di alcuni parziali ritocchi a due fra gli istituti tributari maggiormente meritevoli di riforma.

 

 

Che la tassa sulle anticipazioni contro deposito o pegno di titoli o di merci non fosse consona al nuovo sviluppo del credito era cosa oramai manifesta. Lasciando da parte la tassa sulle operazioni compiute dalle private case di pegno, che è di lire 1,80 per ogni 1.000 lire e per semestre, la tassa sulle operazioni compiute da società ed istituti è attualmente di 1 centesimo al giorno e per ogni 1.000 lire effettivamente anticipate contro deposito di titoli o di merci, ossia di lire 3,65 all’anno per ogni 1.000 lire. Il provento dell’imposta non è stato mai molto grande, poiché da 541.000 lire nel 1899-900 scemò a lire 490.000 nel 1900-901 per scendere ancor più fino al 1903-904, quando rese solo 463.000 lire, risollevandosi alquanto in seguito, ma solo sino a toccare le 547.000 lire nel 1905-906. La ragione dello scarso rendimento della tassa è segnatamente la grande concorrenza che alle operazioni di anticipazioni fanno quelle di riporto, preferite dal pubblico per la forma sbrigativa e più ancora per il duplice vantaggio che esse offrono, in confronto di quelle di anticipazione, di essere soggette a una tassa fissa minima (lire 4,80 per i privati e lire 2,40 per gli agenti di cambio, senza distinzione di valore e di somma), e di non imporre alcuna riduzione sui prezzi di borsa. Rispetto all’onere della tassa, è chiaro che per le operazioni di una certa durata o di un valore non troppo esiguo convenga assai di più il riporto, che non l’anticipazione, soggetta alla gravosa imposta del 3,65 per mille.

 

 

Si aggiunga che gli istituti di emissione – ai quali sono vietati dalla legge bancaria i riporti – possono concedere anticipazioni solo fino ai quattro quinti del valore di borsa, per le rendite, e ai tre quarti per gli altri titoli garantiti dallo stato e per le cartelle fondiarie; limiti questi poco comodi per i possessori di titoli, i quali si preoccupano sovratutto della entità delle somme, che possono essere messe a loro disposizione; preferendo perciò i riporti, su cui gli scarti sono assai più tenui.

 

 

La questione non è tale da interessare soltanto gli istituti di emissione, danneggiati dalla concorrenza degli istituti di credito ordinari, cui è consentito fare operazioni di riporto; ma interessa anche il pubblico, poiché le operazioni di anticipazione possono costituire una valida difesa per il mercato delle rendite, offrendo il mezzo ai detentori di procurarsi le disponibilità di cui abbisognano senza ricorrere alla vendita, la quale, segnatamente nei momenti di penuria monetaria, esercita influsso sfavorevole sui prezzi. Nella ultima crisi è risaputo come la Banca d’Italia poté venire in aiuto del mercato appunto mercé una operazione di anticipazione, sui titoli ferroviari posseduti dalle meridionali. Appunto per la elevatezza della tassa, le operazioni di anticipazioni sono assai meno copiose in Italia che all’estero: al 31 dicembre 1906 ai 579 milioni di anticipazioni della Banca di Francia, la Banca d’Italia poteva contrapporre solo 53 milioni. Al 21 novembre di quest’anno la Banca di Francia aveva anticipato 653 milioni (767 al 5 dicembre), mentre la Banca d’Italia al 20 novembre raggiungeva solo i 69 milioni di lire. È evidente come la elasticità di movimento delle nostre banche sia assai minore di quella francese, il che può loro impedire di esercitare una influenza benefica nei momenti difficili.

 

 

Il disegno di legge presentato alla camera migliora sotto due rispetti la situazione attuale. In primo luogo riduce la tassa da un centesimo al giorno a mezzo centesimo per le anticipazioni in genere contro deposito o pegno di merci, titoli o valori ed a un quarto di centesimo quando il deposito o pegno sia costituito esclusivamente da titoli dello stato o garantiti dallo stato. È una forte riduzione, che diminuendo l’onere a 1,825 e a 0,91 lire per ogni 1.000 lire all’anno potrà per le operazioni a non lunga scadenza e per somme non grandi mettere in grado gli istituti di emissione, le casse di risparmio e gli altri enti, a cui dalle leggi o dagli statuti non sono concessi i riporti, di venire in aiuto del mercato. Sotto un altro aspetto il disegno di legge è utile: perché scema lo scarto imposto agli istituti di emissione, consentendo loro di anticipare sino alla totalità del valore dei buoni del tesoro ordinari, ai nove decimi del valore di borsa dei titoli di debito pubblico dello stato, dei buoni del tesoro a lunga scadenza, dei titoli garantiti dallo stato o dei quali lo stato abbia garantito gli interessi, e delle cartelle di credito fondiario; fino ai tre quarti del valore per le cartelle dell’istituto di credito agrario di Catanzaro, sino ai quattro quinti del valore dei titoli pagabili in oro, emessi o garantiti da stati esteri. Lo scarto imposto, data la brevità del termine per cui sono consentite le anticipazioni (quattro mesi), appare sufficiente ad assicurare gli istituti sovventori contro ogni pericolo di ribasso dei titoli, che sono scelti del resto tra i più solidi.

 

 

Anche per le cambiali la gravezza della tassa, se non aveva impedito che il provento del cespite crescesse in misura abbastanza cospicua, imponeva un gravame al commercio ed all’industria, contro di cui vivissime erano e sono le lagnanze ed i tentativi di reazione. Le tasse di bollo graduali sulle cambiali ed altri effetti di commercio, emessi o tratti nel regno o provenienti dall’estero rendevano nel 1898-99 lire 7.518.012; e con un aumento incessante giunsero a lire 8.287.512 nel 1901-902, a lire 9.355.241 nel 1904-905 per toccare i 10 milioni ed 86.000 lire nel 1905-906. L’aumento, notevolissimo, si spiega coll’accresciuto fervore della vita economica italiana e colla sanzione che la legge contiene per le cambiali irregolari nei rapporti alle quali è negata l’efficacia cambiaria, onde il timore rende poco frequenti le infrazioni.

 

 

D’altra parte non mancano fra i commercianti vive le lagnanze e le richieste di una riduzione della tariffa della tassa, che induce talvolta a rinunciare alle garanzie consentite dalla forma cambiaria; ovvero ad adottare accorgimenti non sempre utili dal punto di vista generale. L’uso invalso fra i privati e gli istituti di credito di farsi rilasciare titoli cambiari in rapporto ad operazioni di varia natura, sia per averne garanzie di terzi sotto forma di avallo o di girata, sia per premunirsi di un titolo esecutivo nel caso di inadempienza del debitore, per fermo dannoso al fisco; ma a dubbi maggiori anche dal punto di vista degli interessi generali può dar luogo invece la consuetudine delle banche ordinarie di consentire aperture di credito in conto corrente a commercianti ed industriali, aperture che vengono in tal modo a sostituirsi alle operazioni di sconto di buona carta commerciale. Finché i tempi volgono propizi, le aperture di credito riescono utili per la loro maggiore elasticità e la economia di tasse; ma è chiaro come in tempi di crisi riesca assai più difficile ad una banca, bisognosa di ottenere disponibilità di denaro contante, cedere i propri crediti in conto corrente che non scontare le cambiali possedute in portafoglio. Gli istituti di emissione, che potrebbero riscontrare la buona carta commerciale, non possono, ad esempio, assumere per proprio conto operazioni in conto corrente. La diminuzione della tassa sulle cambiali non farà scomparire le aperture di credito; il che non sarebbe nemmeno da augurare nell’interesse dei commercianti a cui giova siffatto mezzo di procacciarsi credito. Contribuirà a mantenere fra queste operazioni e quelle cambiarie propriamente dette l’equilibrio che torna sommamente utile sovratutto nei tempi difficili.

 

 

La riduzione di tassa sulle cambiali stabilita dalla legge Carcano è abbastanza cospicua, come si vede dal seguente raffronto, per le cambiali sino a 6 mesi.

 

 

Tassa attuale, coi due decimi e la tassa di quietanza Tassa futura
fino a L. 100

L. 0,17

Da L. 100 a 200

L. 0,34

Centesimi 6 per ogni 100 lire o frazione di 100 lire, compresi i decimi e la tassa di quietanza.
Da L. 200 a 300

L. 0,46

Da L. 300 a 600

L. 0,82

Da L. 600 a 1.000

L. 1,30

Da L. 1.000 a 2.000

L. 2,50

e così di seguito per ogni lire 1000, lire 1,20 in più

 

 

Naturalmente, la tassa è raddoppiata per le cambiali aventi scadenza superiore a sei mesi, come del resto accadeva già prima; aggiungendosi la novità che le cambiali in bianco sono soggette alla tassa propria di quelle aventi scadenza superiore a sei mesi. Novità voluta all’intento di colpire specialmente gli effetti posti in essere fra i non commercianti e per causa non commerciale.

 

 

Notisi la nuova gradazione, per cui la tassa progredisce di cento in cento lire e non più a gruppi di parecchie centinaia, o di un migliaio di lire; cosicché ad esempio, le cambiali di 1.050 e di 2.000 lire, che ora pagano amendue la identica tassa di lire 2,50 pagheranno in futuro lire 0,66 la prima e lire 1,20 la seconda, con maggiore rispondenza all’importanza della somma. Giova altresì, a tal fine di giustizia, la norma per cui la tassa di bollo per gli originali degli atti di protesto cambiario, stabilita oggi indistintamente in lire 3,60 per le cambiali di qualsiasi valore, sarà graduata partendo da lire 0,50 per le cambiali non superiori a lire 50 e salendo a lire 0,60 per le cambiali da lire 50 a 100, a lire 1,20 per le cambiali tra 100 e 500 lire, a lire 2,40 per quelle fra 500 e 1.000, giungendo al massimo di lire 3,60 per le cambiali superiori a lire 1.000. È un giusto criterio di proporzionalità che in tal modo viene accolto; e dobbiamo essere lieti che ciò accada nella materia delle tasse di bollo, sinora rimasta refrattaria ai concetti più semplici di giustizia tributaria.

 

 

Le convenzioni marittime che si stanno discutendo

Le convenzioni marittime che si stanno discutendo

«Corriere della Sera», 12 dicembre 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 560-566

 

 

Il progetto di legge per le nuove convenzioni marittime, che si sta discutendo dinnanzi al parlamento, ha una storia non breve. Una commissione reale, nominata il 13 settembre 1902, per studiare l’importante problema, presenta nel 1905 una pregiata relazione, arricchita dall’on. Pantano di gran dovizia di considerazioni e di dati comparativi. L’ultimo volume degli allegati fu anzi distribuito appena nel luglio di quest’anno. In base agli studi ed alle proposte della commissione reale, fu dal ministro Baccelli presentato alla camera un disegno di legge nella tornata del 5 aprile 1906. La crisi ministeriale del giugno 1906 impose una prima sosta ai lavori della commissione parlamentare, giacché bisognò dare agio al nuovo ministero di pronunziarsi in merito al progetto preparato dal ministero precedente. Il 20 settembre 1906 il ministro Schanzer comunicò parecchi emendamenti, alcuni dei quali di capitale importanza; cosicché, allungandosi i lavori della commissione e, data anche l’imminente scadenza delle convenzioni vigenti al 30 giugno 1908, fu d’uopo prorogarne, con legge votata dalla camera il 22 maggio scorso, la durata di due anni, sino al 30 giugno 1910.

 

 

I lettori ricorderanno che ripetute volte mettemmo in luce l’assoluta necessità di risolvere il complesso problema; e di risolverlo sovratutto per tempo. Due anni e mezzo appena ci separano dal giorno in cui le nuove convenzioni dovranno entrare in vigore; e due anni e mezzo sono a mala pena sufficienti per lo stato ad indire le gare e ad aggiudicare le linee, e per i concessionari ad organizzare i servizi e a preparare il materiale navale da sostituire a quello esistente, riconosciuto oramai non più adatto e in gran parte non ammesso dal disegno di legge. Se un rimprovero si deve fare a governo e parlamento, si è per il ritardo eccessivo frapposto all’approvazione del progetto. Siamo lieti, ad ogni modo, che esso si sia cominciato a discutere sulla relazione che fin dal 22 giugno di quest’anno l’on. Chimirri aveva presentato alla camera.

 

 

La prima e più importante caratteristica del nuovo ordinamento è senza dubbio l’esercizio di stato applicato alle linee tra Civitavecchia e Golfo Aranci, con prolungamento a Terranova e ritorno (giornaliera), tra Golfo Aranci e la Maddalena (giornaliera), tra Napoli e Palermo (giornaliera), e tra Napoli, Messina e Catania (bisettimanale). Su queste colonne furono già esposti gli argomenti che in un efficace articolo sulla «Nuova antologia» il senatore Erasmo Piaggio aveva addotti a sostegno dell’esercizio di stato applicato a queste linee: essere le linee un prolungamento delle linee ferroviarie, essere necessario che l’esercente delle linee ferroviarie esercisca anche le linee di navigazione per imprimere unità e rapidità al servizio; consentire l’unità della gestione, l’unità del biglietto per i viaggiatori e della polizza di carico per le merci, evitando così le noie e le spese dei trasbordi; essere utile la fusione delle due aziende per avvicinare le isole al continente, ecc. ecc. Questi argomenti persuasero la commissione parlamentare a insistere presso il governo, il quale dapprima vi si era mostrato contrario, affinché fosse sancito il principio dell’esercizio di stato. Tanto più, si disse, tenuto conto della esiguità del capitale, di 15 milioni di lire, richiesto per acquistare piroscafi di 2.200 tonnellate l’uno e con una velocità oraria di 20 miglia (Sicilia), 3 da 1.500 tonnellate e 15 miglia (Sardegna) ed 1 da 150 tonnellate e 10 miglia (Maddalena). La direzione generale delle ferrovie di stato prevede una spesa di 4.768.000 lire all’anno con un introito per passeggeri e merci di 2.168.000 lire; cosicché lo sbilancio sarebbe di 2.600.000 lire superiore parecchio a 1.775.000 lire che già oggi si spendono per sovvenzioni alle linee private. Alla maggior spesa dovrebbe contrapporsi la maggiore rapidità e bontà del servizio, il quale sarebbe congegnato in modo da giungere in 12 ore da Roma a Palermo. Al progetto furono mosse obiezioni specialmente dalla città di Palermo, la quale temeva di perdere notevole parte del- l’importanza che oggidì ha il suo porto per le linee dipendenti dalla Florio-Rubattino. Vi si provvide, dichiarando che i piroscafi adibiti alle linee di stato Napoli-Palermo e Napoli-Messina-Catania abbiano per porto di armamento Palermo, senza fare alcuna novità; ma non sembra che il provvedimento abbia giovato a calmare le apprensioni dei palermitani.

 

 

Obiezioni di interesse più generale furono fatte da quanti non hanno molta fiducia nelle ferrovie di stato e dalla esperienza dei due anni trascorsi non si sentono incoraggiati ad affidare all’azienda ferroviaria nuovi servizi marittimi. La commissione rispose all’obiezione, osservando che all’1 luglio 1910 l’azienda ferroviaria, vinte le inevitabili difficoltà inerenti all’inizio di una così complicata gestione, avrà trovato il suo assetto e potrà senza difficoltà assumere l’esercizio delle linee di navigazione. Auguriamoci che la speranza si avveri; ma poiché l’esperienza dei risultati del secondo anno, che sono peggiori di quelli del primo, ci rende per ora scettici intorno all’avvenire dell’azienda ferroviaria, insistiamo affinché per spirito di imitazione non si allarghi l’esperimento pericoloso e questo si restringa davvero alle linee che sono il prolungamento e come la proiezione della rete di stato.

 

 

Un altro carattere del presente disegno di legge è che in esso non si portano al parlamento convenzioni già conchiuse con società private, da approvarsi o respingersi in blocco; ma schemi in cui sono riassunte tutte le condizioni a cui dovranno essere in seguito concessi i vari gruppi di linee. Lo stato dice cioè: qui sono indicate le linee da percorrere, la frequenza e la velocità dei viaggi, la stazza delle navi, le tariffe del trasporto delle persone e delle merci; e la sovvenzione massima che per ogni linea si è disposti a concedere. Quanti sono armatori in Italia che vogliano e possono assumere le linee si facciano avanti; la linea sarà aggiudicata a chi, rispettando tutte le altre condizioni, farà un ribasso maggiore sulla sovvenzione richiesta. Così operando lo stato corre il rischio di vedere andar deserte le gare per quei gruppi di linee per cui si offersero sovvenzioni troppo esigue in confronto degli oneri imposti; ed al pericolo si provvede, obbligando i concessionari dei gruppi più vicini ad accollarsi il servizio dei gruppi andati deserti, magari distribuendo fra questi parte del lucro ottenuto nelle gare sui gruppi preferiti. Poiché i concessionari possono anche rinunciare ai gruppi già assunti, pur di non subire le perdite di quelli meno favoriti, l’esperienza sola potrà dimostrare se il governo bene si sia apposto nel fissare i massimi di sovvenzione nei vari casi. Potrebbe darsi, ed il caso è previsto, che alcune linee per qualche tempo non potessero essere esercite.

 

 

Difficile è l’attuazione di un progetto, secondo il quale le linee dovrebbero essere divise in 15 gruppi da concedersi con gare separate. Scopo della divisione era la speranza di favorire il sorgere di imprese di navigazione piccole e mezzane, concorrenti fra di loro, con beneficio dell’erario e del pubblico. Da un lato si può osservare che, specialmente nell’industria marittima, è vano ostinarsi a sostenere in vita le piccole imprese quando si vede dappertutto l’affermarsi e lo svilupparsi progressivo di potenti colossi; dall’altro lato, data la esiguità del tempo che ci separa dall’1 luglio 1910, è ben difficile sorgano in Italia molte imprese nuove, fornite del naviglio occorrente ad esercitare i servizi sovvenzionati. Le società esistenti rimarranno padrone del campo, del che è sintomo il gran discorrere odierno di un consorzio tra la Navigazione italiana, la Veloce, l’Italia ed il Lloyd italiano.

 

 

I miglioramenti recati nel progetto ai servizi sovvenzionati sono parecchi ed importanti. A parte le maggiori rapidità e comodità dei servizi con le isole, notiamo le proposte riguardo alla linea per l’estremo oriente. Il governo non l’aveva accolta, adducendo la gravità della spesa (lire 2.400.000) e l’attuale scarsezza dei traffici con quelle lontane regioni. La commissione parlamentare – e dobbiamo riconoscerne il merito – pensò che, disciplinando adesso i servizi marittimi per la durata di un ventennio, si darebbe prova di scarsa previdenza trascurando di allacciare fin d’ora rapporti commerciali con la Cina e col Giappone ove si appuntano le viste e si dirigono le attività delle più potenti nazioni. Frutto degli sforzi della commissione fu la linea Genova-Livorno-Napoli-Messina-Catania, alternata con Venezia-Ancona-Bari-Brindisi (eventualmente Alessandria)-Porto Said-Suez-Aden-Bombay-Colombo-Singapore-Hong Kong-Shanghai-Yokoama, che ogni quattro settimane congiungerà direttamente l’Italia con l’estremo oriente, con vapori di 12 miglia orarie e di 7.000 tonnellate e con un sacrificio per l’erario di 2 milioni e 200.000 lire all’anno. Citiamo ancora, fra le linee destinate ad aprire alle produzioni italiane i mercati più lontani, le linee bimestrali per il Messico e le repubbliche dell’America centrale, le quali metteranno Genova, Napoli e Palermo in diretta comunicazione con i porti americani del golfo del Messico, e la linea mensile che partendo da Buenos Aires, porto già frequentatissimo dalle nostre navi libere, toccherà Punta Arenas e giungerà a Valparaiso e il Callao mettendo così in comunicazione i nostri commercianti con le coste americane del Pacifico meridionale.

 

 

Né minori benefici deriveranno ai traffici dalla mitezza delle tariffe prescritte per i viaggiatori e per le merci. Quando si tratti di trasporti fra i porti del regno e da questi da e per quelli esteri dell’Adriatico e da e per quelli della Tunisia, della Tripolitania e della Cirenaica, fra l’Italia e la colonia Eritrea e fra i porti del Mar Rosso compresi fra Aden e Suez, i passeggeri, per i primi km pagheranno in prima classe da 6 ad 11 centesimi, in seconda da 3,80 a 6 ed in terza da 2 a 3,50 centesimi il km, a seconda che la velocità va da meno di 15 a più di 20 miglia all’ora. Dopo i 333 km si applicherà una riduzione del 20% sino a 1.000 km sulle tariffe unitarie; dopo 1.000 km la tariffa sarà ridotta alla metà.

 

 

Le merci di prima categoria pagheranno non più di 10 centesimi per tonnellata-chilometro per i primi km; di 5 da 100 a 200, di 3 da 200 a 300, di 2 da 300 a 400. La tariffa va decrescendo sino alla quarta categoria, la quale pagherà 3 centesimi per i primi 100 km e mezzo centesimo per il quarto centinaio di km. Dopo i 400 km tutte le merci pagheranno solo mezzo centesimo per tonnellata-chilometro. Alla quarta categoria sono ascritte le merci povere ed i prodotti agricoli, alla seconda le merci di lusso ed alla prima quelle di valore, concentrando nella terza tutte le altre merci che costituiscono il nucleo vero dei trasporti. Il beneficio delle nuove tariffe rappresenta una riduzione del 30% sui trasporti di prima e seconda categoria e del 50% sui trasporti di terza e quarta categoria in confronto delle tariffe vigenti.

 

 

Naturalmente i massimi valgono solo per le linee che sono più vicine all’Italia e si possono considerare linee interne, non essendo possibile stabilire praticamente massimi dei noli per vent’anni per le linee estere. Il comitato per i servizi marittimi avrà l’incarico di determinare, di regola con revisioni semestrali, i noli massimi per le altre linee internazionali, in misura non mai superiore a quella praticata dalle compagnie concorrenti.

 

 

Vantaggio grande per i viaggiatori e per i commercianti sarà dato dall’obbligo fatto tanto ai concessionari privati che all’azienda ferroviaria di stato di concordare le norme per il servizio cumulativo ferroviario e marittimo a base di tariffe contenenti prezzi globali. Solo così potrà darsi slancio ed espansione ai commerci italiani con profitto della marina mercantile e con universale vantaggio. Né possiamo finalmente dimenticare, in questa rapida rassegna delle caratteristiche precipue del disegno di legge, l’istituzione di un efficace servizio di allacciamento dei porti minori con quelli più importanti. Appena si cominciò a parlare delle nuove convenzioni piovvero a centinaia i voti delle minori città marittime, le quali domandavano l’approdo di linee internazionali nella speranza di dare incremento ai loro traffici. Soddisfare questi voti era tecnicamente impossibile, data la portata dei piroscafi adibiti alle linee internazionali, ed economicamente dannoso poiché l’eccessivo numero di approdi avrebbe distrutto il vantaggio della celerità e dell’efficacia delle linee dirette. Si pensò di ovviare a queste difficoltà, stabilendo adeguati servizi di allacciamento, obbligatori in numero di 52 all’anno per i concessionari delle grandi linee, a beneficio dei piccoli porti e delle rade, dove non possono accedere i piroscafi delle linee di esportazione. A questi trasporti dovranno applicarsi tariffe non superiori al minimo della prima zona, cosicché la spesa non possa mai superare, a seconda della merce, i 30-40 centesimi al quintale. Si opererà così il concentramento del carico in pochi porti, toccati dalle linee internazionali, obbedendo alla legge economica che disciplina i moderni trasporti, la cui trascuranza contribuì a mettere la nostra marina in stato di inferiorità rispetto al crescente poderoso sviluppo di altre marine europee.

 

 

Tutto sommato, il progetto di legge per le nuove convenzioni marittime può essere migliorato in parecchi punti; e parecchi altri lasciano adito a ragionevoli dubbi. Ma il meglio è nemico del bene; e sarebbe impossibile acconciarsi all’idea, messa innanzi da taluni, di sospendere la discussione del progetto per completarlo con proposte relative a punti affini; naviglio ausiliario da guerra, credito navale, regolamento del lavoro della gente di mare, casse invalidi della marina mercantile. Problemi degnissimi di studio. Ma l’1 luglio 1910 è vicino; ed il tempo perduto vuol dire minor probabilità per lo stato di ottener buoni patti dai concessionari privati.

 

 

 

Le incognite del bilancio ferroviario

Le incognite del bilancio ferroviario

«Corriere della Sera», 10 dicembre[1] 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 554-559

 

 

Uno dei punti più interessanti dell’esposizione finanziaria dell’on. Carcano è stato certamente l’accenno al bilancio ferroviario ed alla decrescenza nei redditi netti spettanti al tesoro. L’on. Carcano in verità ha parlato solo di diminuzione dell’incremento nei redditi netti; cosicché parrebbe non già che questi diminuissero, ma che soltanto aumentassero più lentamente del solito. L’accenno non è parso chiaro ed ancor meno chiara è parsa la giustificazione del prelievo di 10 milioni e mezzo dal fondo di riserva per le spese impreviste. A molti il prelievo fece l’effetto di un artificio per non diminuire i redditi netti ferroviari di altri 10 milioni e mezzo, facendoli scendere d’un balzo in un anno solo da 60 a 40 milioni circa.

 

 

La questione è davvero importante, e merita di essere discussa a fondo. Una prima indagine è possibile fare tenendo sott’occhio il conto consuntivo dell’esercizio 1906-907 delle ferrovie di stato, a cui appunto si riferiva l’on. Carcano nella sua esposizione finanziaria. È un documento interessantissimo e che darà certo occasione a vivaci dibattiti quando la giunta generale del bilancio lo sottoporrà al suo acuto scalpello notomizzatore e richiederà alla direzione ferroviaria quegli schiarimenti che varranno senza dubbio a togliere di mezzo quelle oscurità che impediscono per ora di formarsi un concetto netto dei risultati finanziari dell’azienda.

 

 

Non che il consuntivo non faccia buona figura. Anzi, se si leggono le cifre, a prima vista c’è da rimanere contenti. Il totale delle entrate ordinarie era previsto in lire 415.962.000; e se ne riscossero invece già lire 425.001.708, rimanendo da riscuotere 5.909.068, con un totale di entrate accertate di lire 430.910.776, ed una maggiore entrata di lire 14.948.776. Le spese erano previste in lire 367.783.570; e se ne pagarono già per lire 340.348.595, rimanendo da pagare lire 39.791.588. Cosicché il totale delle spese tocca le lire 380.140.183, con una eccedenza di lire 12.356.613. Malgrado ciò, siccome l’incremento delle spese fu minore dell’incremento delle entrate, gli utili netti dell’esercizio, da versarsi al tesoro dello stato, passano da una previsione di lire 48.178.429 ad un accertamento di lire 50.770.593 – di cui lire 49.941.849 versate e lire 828.744 da versare -; con un maggior utile per lo stato di lire 2.592.163.

 

 

Che si sia ottenuto questo risultato brillante di dare un utile netto maggior di quello previsto allo stato, in un periodo di gravissime difficoltà tecniche, parrebbe bastevole a soddisfare i critici più arcigni. Ai quali la direzione generale presenta per soprammercato, un confronto fra le spese dell’esercizio 1904-905, ultimo delle società concessionarie, e del 1906-907, primo esercizio in cui le ferrovie di stato si estesero alle venete ed alle meridionali. Nel 1904-905 i prodotti del traffico, dedotti i reintegri per le tariffe eccezionali ed il compenso per la soppressa sovratassa per il valico dell’appennino, non più riscossi oggi dalle ferrovie di stato, sommavano a lire 344.462.272 a cui paragonando la spesa, pure depurata da coefficienti perturbatori, in lire 225.655.684, si otteneva un coefficiente d’esercizio sociale del 65,51%. Nel 1906-907 i prodotti del traffico e quelli estranei al traffico giungono a lire 408.789.361; ed essendo state le spese di lire 285.857.238, il coefficiente dell’esercizio di stato risulta del 69,93%, con un lieve aumento, nonostante le difficoltà dei primi anni del nuovo esercizio. Aumento che l’amministrazione ferroviaria afferma non essersi neppure verificato, se si tiene conto che ben 17.452.135 lire di spese furono dovute ad oneri assegnati alle ferrovie dello stato e che non figuravano fra quelli iscritti nei bilanci delle società, come: sviluppo delle carriere, maggiori assegni alle vedove degli iscritti alle casse soccorso, imposta sui redditi di ricchezza mobile assunta a carico dell’esercizio, unificazione degli organici e delle competenze accessorie ecc. ecc. Se si escludessero questi nuovi aggravi, il coefficiente d’esercizio si ridurrebbe al 65,66%, suppergiù uguale a quello del 1904-905.

 

 

Senonché la impressione ottimista delle cifre principali iscritte nel consuntivo ferroviario si attenuano di fronte a taluni rilievi, che si impongono a chi osserva i dati meno appariscenti. Una prima osservazione si impone. Malgrado che già nel bilancio d’assestamento le cifre dell’entrata e della spesa fossero state accresciute notevolmente, il conto consuntivo reca nuovi aumenti, di lire 15.894.800 nelle entrate e di lire 14.484.683 nelle spese. Le speranze, espresse anche dalla giunta generale del bilancio, che le spese avessero a crescere assai meno delle entrate non si sono dunque verificate; né quindi si poté attuare l’aspirazione della giunta medesima che l’utile netto dello stato avesse ad avvicinarsi, in sede di consuntivo, ai 59 milioni e 290.000 lire che le ferrovie resero nel 1905-906. Poiché questo importa notare, che se nel 1906-907 le ferrovie resero allo stato, come si disse sopra, 2 milioni e 592.000 lire di più del previsto, resero però 8 milioni e 520.000 lire meno dell’anno scorso, risultato, in verità, non del tutto soddisfacente.

 

 

Tuttavia l’opinione pubblica potrebbe passare sopra al minor rendimento delle ferrovie, se esso significasse un servizio migliore, più efficace. Il danno dello stato sarebbe sopportabile in vista dell’utile dei privati. Purtroppo il documento che abbiamo sott’occhio non contraddice alle lagnanze che continuano a levarsi di tra i commercianti, gli industriali ed i viaggiatori in genere contro il servizio ferroviario.

 

 

V’è nelle spese del servizio movimento e traffico (stazioni) un dato che fa meditare: gli indennizzi per perdite, avarie e ritardata resa per cause ordinarie si elevano a lire 8.965.027, oltre a lire 163.601 dovuti a cause straordinarie. La cifra ai più sembrerà assai alta e deve essere sembrata tale anche alla direzione generale delle ferrovie se essa fu indotta a distinguerla in due parti, di cui la più grossa, per ben lire 5.528.629, fu collocata nelle spese straordinarie. Nel conto consuntivo si nota invero che le condizioni speciali dell’esercizio hanno avuto la loro inevitabile ripercussione sul servizio movimento e traffico, inquantoché la scarsità dei mezzi non potesse non produrre una lentezza notevolissima nella circolazione, a causa degli ingombri e dei conseguenti ritardi, aumentando così le spese d’indennizzi per ritardata resa, perdite ed avarie al di là della somma che poteva riferirsi al maggior traffico avutosi.

 

 

Invece di collocare quei 5 milioni e 528.000 lire nella parte ordinaria delle spese, diminuendo così ulteriormente d’altrettanto l’utile netto dello stato, si sono dunque collocati nella parte straordinaria, facendovi fronte con un prelievo dal fondo di riserva per le spese impreviste. Ai milioni ora ricordati fanno buona compagnia lire 344.364 di infortuni sul lavoro degli operai ascritti agli istituti di previdenza, lire 2.240.000 di maggior costo del carbone, che risulta di 29,60 lire in media la tonnellata nel 1906 – 907, mentre nel 1905-906 la media fu di 28,20 lire, e lire 2.400.000 pagate alle ferrovie meridionali per lo scambio di veicoli avvenuto nel 1905-1906. Tutte queste spese, che in totale ascendono a 10.512.994 lire, furono considerate come straordinarie ed impreviste e messe a carico del fondo di riserva. Il che, se può essere comodo per far fare bella figura al conto consuntivo e per non diminuire di altri 10 milioni e mezzo l’utile netto dello stato, già ridotto oltremisura in confronto all’esercizio passato, non ci sembra del tutto corretto. Bisogna ricordare invero che il fondo di riserva (accumulato col prelievo del 2% sui prodotti del traffico) è fatto, come osserva l’on. Rubini nella relazione dell’ultimo bilancio d’assestamento, per fronteggiare casi eccezionali di spese o di esercizi sfortunati; è un vero premio di assicurazione del provento netto che le annate buone accantonano per ogni contraria emergenza. È corretto considerare gli indennizzi per infortuni del lavoro, l’aumento di prezzi del carbone, gli indennizzi per ritardata resa come spese eccezionali? Il carbone potrà aumentare ancora di prezzo, gli infortuni sul lavoro sono purtroppo normali, gli indennizzi per ritardata resa potranno crescere se l’amministrazione con solerzia non curerà l’esatto adempimento del loro dovere da parte di tutti gli agenti. Perché collocare spese, che davvero non hanno i caratteri dell’imprevisto, o li hanno solo perché non si vollero prevedere o non si seppero impedire, a carico del fondo di riserva per le spese impreviste? Ciò non in un anno di crisi e di minori prodotti, ma in un anno di prosperità e di prodotti crescenti? Intanto il fondo di riserva, che al 30 giugno 1907 aveva una disponibilità di lire 14.908.702, è stato ridotto oltremisura; ed è dubbio se in un anno di vera crisi potrà fronteggiare le eventuali spese davvero impreviste.

 

 

Un altro rimprovero, almeno di poca chiarezza, potremmo fare al conto consuntivo rispetto alla cifra della spesa per lavori e provviste di materiale rotabile per sopperire alle deficienze all’1 luglio 1905 e per far fronte all’aumento del traffico del 1905-906 e 1906-907. Sono nientemeno che 142 milioni e 763.000 lire di spese straordinarie, sulla cui natura di spese straordinarie noi non muoviamo in principio nessuna obiezione. Avremmo però desiderato una maggiore copia di particolari affinché tutti si potessero persuadere che si tratta sempre e soltanto di spese straordinarie in conto capitale e non mai di spese d’esercizio. Altrimenti, senza gli opportuni particolari, nasce il dubbio che si sia fatto passare qualche milione dalla parte ordinaria (conto d’esercizio) alla parte straordinaria (conto capitale). Perché non spiegare meglio la differenza fra i noli passivi che in lire 1.173.203,21 si collocano fra le spese ordinarie e sono dovuti, come è detto altrove, alla necessità in cui l’amministrazione si è trovata di ritardare la restituzione di carri alle altre ferrovie, e il noleggio di materiale rotabile e di esercizio che in lire 5.366.163 si è collocato nella parte straordinaria ossia in conto capitale? Molti non comprenderanno, e rimarranno dubbiosi.

 

 

Noi ci limiteremo a chiedere chiarimenti, e chiuderemo i nostri rilievi richiamando l’attenzione dei lettori sul modo con cui la direzione generale fa i calcoli del coefficiente di esercizio. Abbiamo visto come, a furia di deduzioni e di inclusioni, la direzione generale sia riuscita a dimostrare che il coefficiente di esercizio del 1906-907 è del 65,66% soltanto e sostiene quindi benissimo il paragone con il 65,51 dell’ultimo anno di esercizio privato. Tutto ciò potrà essere utile per chi voglia fare della storia retrospettiva, ma non può che fomentare illusioni. A che scopo invero non calcolare nelle spese di esercizio le spese per i miglioramenti concessi ai ferrovieri? Perché non includervi le quote spettanti ai concessionari, gli interessi e gli ammortamenti sui capitali impiegati nei nuovi impianti, ecc. ecc.? Si inchiudano queste ultime spese a parte, in una seconda categoria all’infuori delle spese vive di esercizio, ma se ne tenga calcolo. Noi abbiamo fatto il calcolo della proporzione delle spese ordinarie alle entrate ordinarie accertate ed abbiamo trovato un coefficiente d’esercizio dell’88,21%, il quale aumenterebbe al 90,64%, se fra le spese ordinarie si fossero inclusi quei 10 milioni e mezzo di spese cosidette impreviste, di cui abbiamo parlato or ora. Poiché nel 1905-906 il coefficiente d’esercizio calcolato dall’on. Rubini nella stessa maniera che fu da noi adoperata – e gli chiediamo venia se forse interpretammo non esattamente i suoi criteri – era appena dell’83,15%, abbiamo un peggioramento in un anno del 5,06%, peggioramento che diventerebbe del 7% circa se non si menasse buona in tutto la manipolazione contabile dei 10 milioni e mezzo.

 

 

Né le illusioni finiscono qui. A dare al lettore un’idea esatta del vero rendimento – o meglio della perdita esatta – delle ferrovie per il bilancio dello stato, bisognerebbe tener calcolo altresì delle spese che non figurano nel conto ferroviario e solo compaiono nel conto consuntivo del ministero del tesoro. Sono parecchi miliardi di capitale, il cui servizio sotto forma di interessi, ammortamento, annualità ecc., è fatto dai contribuenti. Ai 50 milioni che lo stato ha incassato nel 1906-907 dalle ferrovie, bisogna così contrapporre i 200 e più che spende per il servizio dei debiti ferroviari. Il conto andrebbe fatto con ogni rigore; e se l’on. Rubini, a cui sono dovute tante belle pagine di penetrante analisi di pubblica contabilità, lo facesse e desse le norme affinché ogni anno la direzione generale delle ferrovie lo allegasse al suo conto consuntivo, acquisterebbe un nuovo e grande titolo di benemerenza. Poiché quei 50 milioni fanno gola a parecchi, sarebbe doveroso e onesto dire chiaramente che le ferrovie non solo non rendono nulla, ma costano molti e molti milioni allo stato, ossia ai contribuenti. Il fatto che costoro da anni sopportano questi oneri gravissimi senza lagnarsi troppo, non è una buona ragione per accrescerli ancora e per far comparire utili laddove vi sono invece fortissime perdite.

 

 



[1] Con il titolo Il bilancio ferroviario. [ndr]

La proroga della convenzione sugli zuccheri

La proroga della convenzione sugli zuccheri

«Corriere della Sera», 17 settembre 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 550-553

 

 

A suo tempo abbiamo dato notizia delle gravissime quistioni che si agitavano intorno alla rinnovazione della convenzione di Bruxelles del 5 marzo 1902 sugli zuccheri. L’Inghilterra, che aveva preso nel 1902 l’iniziativa della conferenza, minacciava di denunciare la convenzione che era opera sovratutto sua, se non le si dava facoltà di sottrarsi all’obbligo di imporre dazi di ritorsione sugli zuccheri esteri premiati. Egli è che la situazione politica interna era profondamente mutata. Nel 1902 il governo conservatore, imperialista e colonialista erasi fatto patrono della conferenza per tener lontani dal suolo inglese gli zuccheri continentali europei, i quali potessero ivi vendersi ad un prezzo inferiore al costo di produzione, grazie ai premi larvati o palesi concessi dai governi. Pur di difendere nell’aspra lotta della concorrenza gli zuccheri di canna delle Indie occidentali e delle altre sue colonie, l’Inghilterra si disse pronta a colpire con un dazio di ritorsione gli zuccheri esteri premiati. Non era uno strappo deciso al principio della libertà di scambio, ché anzi si voleva con i dazi di ritorsione ristabilire la libertà di commercio falsata dai premi allo zucchero di barbabietola.

 

 

Adesso, il governo democratico, little-englander, antimperialista, non vuole invece saperne di rincarare lo zucchero, alimento desideratissimo delle classi popolari inglesi, che ne consumano più di 30 kg all’anno (ahi! quanto lontani dai 3,50 kg italiani), e minaccia di denunciare la convenzione per l’1 settembre 1908 se non lo si esenta dall’obbligo, inviso ai fautori dello zucchero a buon mercato, dei dazi di ritorsione. La conferenza, alla quale erano rappresentati i governi della Germania, dell’Austria-Ungheria, del Belgio, della Francia, della Gran Bretagna, dell’Italia, del Lussemburgo, dei Paesi Bassi, del Perù, della Svezia e della Svizzera, ha dovuto piegare il capo e per non distruggere la convenzione del 1902, consentire, con un atto addizionale firmato il 28 agosto, che l’Inghilterra si sottragga alla più importante delle sue disposizioni a partire dall’1 settembre 1908.

 

 

Ad attenuare alquanto la concessione fatta all’Inghilterra, la quale potrà così in avvenire importare in franchigia gli zuccheri premiati, gli stati contraenti hanno voluto premunirsi contro il pericolo che lo zucchero di barbabietola, premiato ad esempio dalla Russia, per andare in franchigia in Francia o in Italia, prendesse la via dell’Inghilterra, dove, accolto senza pagamento di dazio, prenderebbe la nazionalità inglese e verrebbe poi in franchigia riesportato in Francia od in Italia. L’articolo 2 della convenzione addizionale di Bruxelles, stabilisce perciò che a partire dall’1 settembre 1908 gli stati contraenti possano esigere che per godere del beneficio della convenzione lo zucchero raffinato nel Regno unito della Gran Bretagna ed Irlanda ed esportato verso i loro territori sia accompagnato da un certificato constatante che nessuna parte di detto zucchero proviene da un paese riconosciuto dalla commissione permanente come accordante premi alla produzione od alla esportazione dello zucchero.

 

 

Così si è mantenuta la speranza che il privilegio concesso all’Inghilterra non riesca a danneggiare gli altri stati produttori di zucchero. È evidente che la speranza è sospesa ad un filo sottilissimo. Infatti in qual maniera un premio di lire 10 per quintale, concesso da uno stato, può tornare dannoso alla produzione degli altri stati? Perché con essi i produttori premiati possono esportare all’estero facendosi magari pagare lo zucchero 20 lire invece delle 30 lire al quintale che lo zucchero loro costa; compensandosi della perdita col premio pagato dal governo. La concorrenza dello zucchero prodotto negli stati che non danno premi diventa così impossibile e si producono un ingorgo generale di zucchero ed un rinvilio dei prezzi. Ai gravi inconvenienti intese riparare la convenzione del 1902; la cui opera corre oggi gran pericolo di essere distrutta. Infatti supponiamo che la Russia esporti zuccheri premiati a vil prezzo nell’Inghilterra; e lo potrà fare a partire dall’1 settembre 1908 non incontrando ivi più l’ostacolo dei dazi di ritorsione equivalenti ai premi da essa concessi. Apparentemente gli effetti si avranno solo nell’Inghilterra, perché gli altri paesi seguiteranno ad escludere lo zucchero russo premiato. Se però Francia e Germania importavano anch’esse zucchero in Inghilterra, in avvenire dovranno abbandonare la loro esportazione, perché lo zucchero non premiato non potrà reggere alla concorrenza di quello russo premiato. Respinto dall’Inghilterra, lo zucchero tedesco o francese, rifluirà nel paese d’origine, riproducendo ivi quelle crisi che prima del 1902 da tutti si lamentavano e che è merito della convenzione di Bruxelles avere impedito.

 

 

Perciò è tenue la speranza di salvare l’opera del 1902 dopo il privilegio concesso all’Inghilterra. Di ciò devono essere rimasti profondamente persuasi gli stati contraenti se, pur prorogando per altri 5 anni, a partire dall’1 settembre 1908, la convenzione, hanno stabilito che sia lecito a ciascuno dei contraenti ritirarsi dalla convenzione, a partire dall’1 settembre 1911, mediante preavviso di un anno, se nell’ultima riunione tenuta prima dell’1 settembre 1910 la commissione permanente avrà a maggioranza deciso che le circostanze impongano di lasciare questa facoltà agli stati contraenti. La disposizione è assai singolare, se si rifletta che in realtà la durata della convenzione viene ridotta a tre anni, quando così abbia deciso la maggioranza della commissione permanente. La quale deciderà probabilmente in tal senso, quando si sia persuasa che il privilegio concesso all’Inghilterra non ha avuto effetti limitati soltanto a quel paese; ma per ripercussione questi si sono estesi anche agli altri stati contraenti.

 

 

Si apparecchia insomma un periodo di osservazione e di attesa, del quale duplice è la via d’uscita. o la politica dei premi, che tuttora dura in taluni stati sarà mitigata o non produrrà alcuna perturbazione violenta nei fornitori del mercato inglese e la convenzione potrà durare, zoppicante come è ridotta. Ovvero gli altri stati si accorgeranno di non riceverne alcun beneficio, pur assicurando lo zucchero a buon mercato ai consumatori inglesi e la convenzione sarà denunciata per il 1911, ricominciandosi più viva la lotta affine di costringere gli stati a premi a cedere o l’Inghilterra ad abbandonare i suoi privilegi.

 

 

E noi? Siccome l’Italia paese ad altissima protezione doganale, – ed il diritto di avere alti dazi protettori le è consentito dalla convenzione, – i suoi produttori non hanno da temere rovine come gli altri dal risorgere della concorrenza degli zuccheri premiati. Nemmeno è l’Italia obbligata a ratificare il nuovo patto addizionale di Bruxelles, perché, a norma dell’articolo 6 della vecchia convenzione essa può conservare il proprio regime fiscale protettivo finché essa non diventi una nazione esportatrice. Si dice che il governo italiano studi la convenienza di denunciare la convenzione di Bruxelles allo scopo di dare libertà alla sua industria di esportare liberamente all’estero. È probabile che questa non sia la soluzione o meglio tutta la soluzione data dal governo italiano al problema fiscale dello zucchero. Oggi l’industria italiana non può, in virtù della convenzione del 1902, esportare all’estero se non rinuncia alla protezione di lire 20,80 al quintale che le è concessa per il greggio dalla legislazione interna, riducendola a lire 5,50.

 

 

Di qui si vede che la denuncia della convenzione di Bruxelles non può essere deliberata a cuor leggero, implicando essa una profonda modificazione anche del regime fiscale interno; perché, se i fabbricanti affermano di avere ancora bisogno di protezione, i consumatori dal canto loro desiderano che l’attuale protezione non sia cresciuta, come accadrebbe in sostanza per parecchi motivi colla denuncia della convenzione. Perciò è probabile che il governo si decida per la conservazione dello statu quo. Data l’importanza degli interessi in giuoco questa è la previsione più facile e sicura.

 

 

La questione solfifera siciliana. Pericoli e dubbi

La questione solfifera siciliana. Pericoli e dubbi

«Corriere della Sera», 6[1] agosto 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 545-549

 

 

L’anno scorso, quando fu votata la legge del 15 luglio 1906 sul Consorzio obbligatorio tra i produttori di zolfo, fummo i soli tra i giornali quotidiani a mettere in luce la importanza straordinaria dell’esperimento che il parlamento italiano aveva, forse inconsapevolmente, deliberato. Si trattava in fondo di dare un assetto, quasi collettivistico, nuovissimo negli annali dell’industria, alla produzione ed alla vendita dello zolfo, per trarre la grande industria siciliana dalle difficoltà gravissime nelle quali essa s’era dibattuta sempre nei periodi di libera concorrenza irrefrenata e di sindacato capitalistico libero.

 

 

Si pensi: prima del 1896 i produttori di zolfo, padroni o quasi del mercato mondiale, a parecchie riprese, spinti dalla brama di partecipare ai lucri di prezzi rimuneratori, crescono per modo la produzione da condurre ai prezzi bassissimi di lire 66 la tonnellata nel 1889 e di lire 55 nel 1895. Dalla crisi l’industria si solleva la prima volta per la chiusura delle miniere minori e per l’incremento della domanda. Per uscire dalla seconda crisi fu d’uopo costituire nel 1896 una specie di sindacato privato, l’Anglo-Sicilian Sulphur Company, con capitali inglesi e siciliani la quale, favorita dallo stato con ogni maniera di esenzioni tributarie, stipula contratti con la maggioranza dei produttori, riuscendo così a dominare il mercato dello zolfo per la acquistata disponibilità del 60% della produzione. Quella parve l’età dell’oro per l’industria dello zolfo: per i produttori aderenti all’Anglo-Sicula, i quali ottennero per un decennio il prezzo remuneratore di 96 lire per tonnellata; e per i produttori indipendenti, i quali, mercé l’azione regolatrice esercitata dall’Anglo-Sicula sul mercato, riuscirono ad ottenere prezzi sempre uguali e spesso superiori a quelli dei produttori consorziati.

 

 

Negli ultimi anni due circostanze vennero però a turbare la tranquilla sicurezza degli interessati e ad oscurare l’orizzonte prima così sereno dell’industria solfifera. Da un lato, molte piccole miniere, che durante il periodo di prezzi bassi erano state chiuse, si riaprirono e disordinatamente cominciarono a buttare zolfo sul mercato. L’Anglo-Sicula per sostenere i prezzi dovette comprare lo zolfo indipendente o, il che fa lo stesso, diminuire la sua vendita per modo da trovarsi, alla scadenza dei suoi contratti, nel 1906, con una forte rimanenza di 360.000 tonnellate di zolfo, minaccia continua alla tranquillità dell’industria. D’altro lato, le minacce di concorrenza nord-americane, che per lunghi anni erano parse vane, prendevano consistenza per la geniale scoperta di un ingegnere, il quale, giovandosi della favorevole posizione dei giacimenti della Louisiana, immetteva con adatti tubi acqua calda nel sottosuolo alla voluta profondità, discioglieva l’ammasso di minerale di zolfo e lo estraeva liquido e notevolmente puro (circa l’80%) per mezzo di altri tubi. Sui particolari del sistema Frasch si hanno poche notizie a cagione della riservatezza estrema con la quale l’inventore comunicò notizie agli ingegneri siciliani inviati sul luogo dal governo e dalla camera di commercio di Caltanissetta. I pericoli della concorrenza nord-americana sono certissimi: l’importazione italiana dello zolfo negli Stati uniti discese da 176.000 tonnellate nel 1901 a 69.000 nel 1905 ed a 45.000 nel 1906. I produttori siciliani, i quali dapprima si erano illusi che il mistero di cui si circondava il Frasch celasse una mistificazione, dovettero ricredersi, ed a gran voce chiesero rimedi.

 

 

Le provvidenze governative vennero abbastanza sollecite con la legge che statuiva il consorzio obbligatorio dello zolfo siciliano. Parve l’anno scorso che l’unica arma per combattere la forte impresa americana fosse la costituzione di un consorzio tra tutti i proprietari ed esercenti miniere di zolfo della Sicilia, col quale il Frasch avrebbe dovuto venire a patti per la divisione del mercato mondiale. Trascurando le minori, seppure importantissime, immunità fiscali, i principi informatori della legge del 1906 erano i seguenti: 1) monopolio della vendita di tutto lo zolfo siciliano concesso al consorzio; 2) facoltà nel consorzio di limitare la produzione dei singoli proprietari per non essere costretto a vendere a basso prezzo troppo zolfo; 3) acquisto da parte del consorzio delle 360.000 tonnellate di zolfo accumulate dalla Anglo-Sicula al prezzo di lire 59 per tonnellata, mercé l’emissione di obbligazioni 3,65 %, garantite dallo stato ed ammortizzabili in 12 anni; 4) facoltà al Banco di Sicilia di eccedere fino a 10 milioni la somma di 6 milioni consentita dall’articolo 30 della legge sugli istituti di emissione per lo sconto a saggio di favore delle note di pegno (warrants) degli zolfi depositati nei magazzini del consorzio.

 

 

Noi dicemmo, quando la legge fu approvata, che avremmo assistito non senza trepidazione ad uno sperimento così audace di collettivismo di stato introdotto ex abrupto in un’industria tecnicamente in media arretrata, come quella solfifera; e dichiarammo che ad ogni modo lo sperimento sarebbe stato assai istruttivo, poiché non accadeva di frequente che lo stato si rendesse garante della regolare vendita a prezzi remuneratori di una forte rimanenza accumulata da un’industria in crisi. Molti dubbi ci si affacciavano. Potrà il consorzio resistere a lungo alla concorrenza americana? Se gli zolfi deprezzassero al disotto delle 59 lire la tonnellata o il consorzio non riuscisse a venderli a questo prezzo quali sarebbero state le conseguenze per lo stato e per il Banco di Sicilia? Non sarebbe stato contagioso per le altre industrie in crisi l’esempio dato una volta dell’intervento dello stato a garantire la vendita a un dato prezzo della merce invenduta?

 

 

Oramai è passato un anno e si può affermare con sicurezza che i dubbi non erano infondati. Una risposta esauriente non è ancora possibile dare, perché il consorzio si è a malapena costituito in maniera definitiva in questi ultimi giorni, e, come al solito, in tutte le cose provvisorie l’amministrazione provvisoria è stata prudentissima nel fare. E questo un primo difetto di un organismo semistatale: di essere lento ed impacciato nei movimenti laddove occorrerebbero deliberazioni rapide ed azione pronta. Il signor Frasch nel combattere la battaglia contro lo zolfo siciliano non ha che da consultare il consiglio d’amministrazione della sua società. Il direttore del consorzio siciliano deve ascoltare l’avviso di un mezzo parlamento nominato dai produttori di zolfo, deve sentire il parere del governo che garantisce le obbligazioni emesse per conservare il fondo delle 360.000 tonnellate ereditate dall’Anglo-Sicula, né può trascurare eziandio di dare il giusto peso ai consigli del Banco di Sicilia che sconta le note di pegno zolfifere. Tutto questo è complicato e lento; e non è meraviglia che il consorzio non si sia finora deciso né a venire a patti col Frasch per la divisione del mercato mondiale né a buttare sul mercato a prezzi di concorrenza le rimanenze accumulate per costringere il rivale ad una intesa.

 

 

Frattanto la semi-statizzazione dell’industria solfifera ha cominciato a produrre ovvie conseguenze curiose. Quest’inverno, prima ancora che si sapesse qualcosa della riuscita del singolare esperimento di monopolio semi-pubblico, i minatori di parecchie miniere, fatti persuasi che il consorzio voleva dire prezzi alti, chiesero ed ottennero una partecipazione ai benefici futuri del monopolio. Oggi l’agitazione si estende nuovamente nei bacini minerari per esercitare, a quanto sembra, una pressione sul governo e sul Banco di Sicilia.

 

 

Infatti, siccome il consorzio in questo suo primo anno di vita, non è riuscito a vendere, non diciamo parte delle rimanenze accumulate, ma nemmeno tutta la produzione corrente, i produttori hanno largamente profittato della facoltà di scontare le note di pegno rappresentati dallo zolfo invenduto presso il Banco di Sicilia; tanto largamente che oggidì il fondo apposito è quasi esaurito ed il Banco ha dovuto elevare il saggio dello sconto e ridurre dai quattro quinti ai tre quinti la percentuale del prezzo per cui esso fa le anticipazioni. Adesso si vorrebbe dagli interessati aumentato il limite delle anticipazioni e cresciuto il fondo disponibile all’uopo presso il Banco di Sicilia. È naturale che il governo, memore delle non remote immobilizzazioni edilizie delle banche di emissione, sia titubante nel concedere al Banco di Sicilia facoltà di mettersi a fondo sulla via pericolosa dell’aumento della emissione di biglietti per sconti garantiti da una merce che potrebbe subire rinvilii profondi.

 

 

Noi non ci attentiamo a dir nulla intorno alla soluzione di un problema che appare intricatissimo ai più competenti. Questo solo ci pare sicuro: che in Sicilia imprenditori e minatori abbiano fatto un po’ troppo a fidanza sull’intervento del governo e degli enti pubblici. L’obbligatorietà del consorzio, la garanzia dello stato per le obbligazioni solfifere, l’allargata facoltà di sconto presso il Banco di Sicilia parvero un anno fa rimedi efficaci; ma non erano. Poiché con essi non si rimediò in tutto ad una situazione difficile che in poche parole si può riassumere così: una industria abituata da un decennio a produrre a prezzi alti (lire 96 la tonnellata) e che si trova d’un tratto a dover combattere contro due nemici: una grossa rimanenza accumulata nel passato appunto per sostenere alti i prezzi e un formidabile concorrente sorto negli Stati uniti, il quale, dicesi, può vendere con profitto a prezzi infinitamente più bassi, del 50 o 60%.

 

 

Il passaggio da una vecchia situazione di privilegio ad una nuova di concorrenza non si opera facilmente con mezzi artificiali; richiede sempre qualche sacrificio che parta dagli interessati. È davvero l’organismo consorziale creato dalla legge 1906 il più adatto a dirigere la lotta col potente rivale ed a ripartire, senza lagnanze acerbe di ingiustizia, le perdite sui molti interessati? Ecco i nostri dubbi. Auguriamo che lo spirito di sacrificio degli industriali e dei minatori, la prudenza dei governanti e l’avveduta energia dei dirigenti il consorzio sappiano far sormontare all’antica e grande industria solfifera l’attuale difficile momento.

 

 



[1] Con il titolo La questione solfifera in Sicilia. Pericoli e dubbi. [ndr]

Le amarezze internazionali dello zucchero

Le amarezze internazionali dello zucchero

«Corriere della Sera», 28 luglio 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 541-544

 

 

Lo zucchero ritorna a far parlare di sé, dopo l’intenzione manifestata all’Inghilterra di denunciare la convenzione di Bruxelles, ove non le venga concesso di sottrarsi ad una delle clausole più importanti della convenzione stessa. Come è noto, la convenzione di Bruxelles ebbe per intento di far cessare il sistema perturbatore dei premi palesi o larvati che parecchi stati europei concedevano alla esportazione dello zucchero, premi grazie ai quali i produttori potevano buttare sui mercati liberi lo zucchero a prezzi vili, inferiori al costo. Un produttore che ricevesse 10 lire al quintale di premio per l’esportazione dello zucchero poteva, anche se a lui costava 25 lire al quintale, venderlo sui mercati liberi a 15 lire senza perdita. Era una concorrenza sleale che i paesi produttori di zucchero di barbabietola facevano, coll’aiuto dei contribuenti, ai paesi produttori di zucchero di canna.

 

 

Lo stato che di ciò si commosse maggiormente fu l’Inghilterra, nella quale dominavano le idee imperialiste dello Chamberlain; e fu l’Inghilterra la più insistente a chiedere provvedimenti internazionali contro la politica dei premi, i quali avevano ridotto alla rovina le sue colonie produttrici di zucchero di canna. La convenzione di Bruxelles del 1903 sancì, dopo lunghe trattative, i seguenti principi:

 

 

  • che lo zucchero dovesse dappertutto essere tassato a peso e per la quantità effettivamente prodotta; allo scopo di impedire che rimanesse esente da tasse una parte dello zucchero prodotto, a cui il dazio veniva rimborsato all’atto dell’esportazione;
  • che la protezione concessa alla produzione indigena non potesse superare le lire 5,50 per lo zucchero greggio e le lire 6 per lo zucchero raffinato; dalla quale norma sono esentate solo l’Italia, la Svezia e la Spagna;
  • che fossero aboliti tutti i premi all’esportazione;
  • che gli stati contraenti si obbligassero a colpire con dazi equivalenti di ritorsione le provenienze da quegli stati i quali continuassero a concedere premi allo zucchero esportato.

 

 

Le speranze – almeno per l’Inghilterra – non corrisposero ai fatti. Si sperava che l’importazione artificiale dello zucchero di barbabietola avesse, dopo la abolizione dei premi, a diminuire assai; e che il posto vuoto fosse preso dallo zucchero di canna delle colonie. Invece l’importazione dello zucchero di barbabietola nell’Inghilterra non diminuì affatto; e quella dello zucchero di canna crebbe in misura insignificante. Lo zucchero di canna infatti, che si importava dal 1888 al 1890 in quantità di 444.351 tonnellate in media ed era diminuito a 157.673 tonnellate nel triennio 1900-902 e nel 1903, anno della convenzione, era rimasto a 187.971 tonnellate, crebbe soltanto a 205.494 tonnellate nei tre anni seguenti. Non erasi ottenuto l’intento di aprire allo zucchero di canna un largo sbocco sul mercato della madrepatria; e di ciò le colonie mostravansi malcontente, adducendo l’esempio degli Stati uniti dove lo zucchero di canna delle isole Sandwich, della Louisiana, di Portorico, delle Filippine e di Cuba, favorito da dazi protettivi elevati batte in breccia lo zucchero di barbabietola europeo. Le colonie inglesi avrebbero voluto che la madre patria non solo respingesse, come era imposto dalla convenzione di Bruxelles, lo zucchero premiato di barbabietola, ma desse a sua volta un premio allo zucchero di canna. Mentre così la convenzione era criticata dai colonialisti per la sua manchevolezza, i consumatori d’altro lato la criticavano, perché aumentava i prezzi dello zucchero; ed infatti dal prezzo di circa lire 16,60 al quintale di zucchero greggio ad 88% nel 1901-902 si era saliti a 19,60 nel 1902-903, a 21,80 nel 1903-904, a 31,80 nel 1904-905 ed a 20,80 nel 1905-906. È vero che del rialzo non era responsabile in tutto la convenzione di Bruxelles; ma sovratutto lo scarsissimo raccolto del 1904 che esaurì completamente tutte le riserve disponibili. L’opinione pubblica inglese non faceva però cotali ragionamenti sottili; e, vedendo che lo zucchero era divenuto più caro dopo la convenzione di Bruxelles, cominciò a dire : «Perché noi, consumatori di frutta candita, di conserve, di dolci, ecc. dobbiamo ancora pagare lo zucchero più caro? Almeno il nostro sacrificio avesse giovato alle colonie; ma, ciò non essendo accaduto, non vi è neppure motivo perché noi dobbiamo pagare ad un prezzo elevato lo zucchero di barbabietola, che i paesi produttori sarebbero ben lieti di darci a prezzo più basso». Forse, se il partito conservatore fosse rimasto al potere, le querele non avrebbero trovato ascolto. Lo trovarono invece nel partito liberale, il quale, essendo riuscito vincitore nel nome del libero scambio assoluto, ha finito adesso per porre ai governi aderenti alla convenzione il dilemma: «O voi consentite che io sia libero dall’obbligo (indicato sopra al numero 4 delle norme della convenzione di Bruxelles) di mettere dei dazi di ritorsione contro gli zuccheri premiati od io entro il primo settembre prossimo denuncerò la convenzione».

 

 

Il dilemma è certo imbarazzante per gli stati aderenti alla convenzione. Respingendo la proposta inglese, essi possono certamente conservarne intatti i principi negli altri stati; ma la convenzione avrà ben limitata efficacia, essendovi sottratto il più gran mercato libero del mondo. Accettandola, la convenzione in apparenza è salva; ma praticamente vedrà ben ridotta la sua efficacia, poiché, mancando il timore dei dazi di ritorsione inglesi, i premi di esportazione torneranno in parecchi luoghi a funzionare.

 

 

Nel momento presente le sorti dello zucchero sono ben curiose. In Francia i viticultori aspramente si lamentano del suo eccessivo buon mercato, ed ottengono dalle camere l’inasprimento dell’imposta almeno sullo zucchero destinato alla vinificazione. In Inghilterra i consumatori si lagnano perché esso è troppo caro; ed il governo minaccia la denuncia della convenzione di Bruxelles, ove non gli sia concesso di abolire tutti i dazi di ritorsione e di spalancare quindi le porte del mercato inglese allo zucchero di qualunque provenienza, premiato o non, di barbabietola o di canna. Tutti e due gli atteggiamenti sono oltremodo istruttivi: quello francese, perché insegna come sia prudente ridurre a parecchie riprese e non d’un tratto le imposte sullo zucchero per non correre il pericolo di danneggiare d’un subito i viticultori; e quello britannico perché, se le minacce di denuncia della convenzione si avverassero, potremmo ricadere nell’anarchia precedente al 1903 e rivedere prezzi artificialmente bassissimi degli zuccheri premiati esteri. Il problema, tocca una delle industrie più importanti del mondo e uno dei consumi più graditi e più diffusi.

 

 

Come avvengono le rivoluzioni sociali in Italia

Come avvengono le rivoluzioni sociali in Italia

«Corriere della Sera», 28 maggio 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 535-540

 

 

Non certo nei modi classici e ad opera dei partiti sovversivi. Secondo la concezione classica una rivoluzione sociale, che si assomma poi consuetamente in un grande trapasso di proprietà e di ricchezza da una classe ad un’altra, dalla nobiltà e dal clero alla borghesia e dalla borghesia al proletariato, è preparata da una lunga e fervida opera di intellettuali e di propagandisti usciti spesso dal seno della classe dirigente a diffondere la buona novella fra le classi inferiori. Lunghi anni di lotte acerrime e di propaganda indefessa sono necessari perché le nuove idee si facciano strada, perché le classi diseredate o soggette acquistino coscienza della propria forza e perché le classi dirigenti si lascino vincere dalla marea montante. Talvolta, quando le classi inferiori non sanno elevarsi e le classi dirigenti sanno resistere ed acquistano nuova vitalità arricchendosi di vigorosi elementi tratti dai vergini strati popolari, ogni conato di rivoluzione si spunta ed il trapasso della proprietà non accade. Quasi mai una novità grandissima, un principio nuovo di organizzazione sociale sembra potersi introdurre in una società vecchia e tranquilla senza discussioni appassionate, senza lunghe lotte destinate ad avere una larghissima eco nei comizi e nei parlamenti. Per citare soltanto alcuni piccoli fatti recenti, piccoli in confronto delle grandi rivoluzioni sociali ricordate dalla storia; la soppressione del bilancio dei culti in Francia, la progressiva sostituzione dei contadini irlandesi ai proprietari anglosassoni, la campagna contro gli onnipotenti monopoli negli Stati uniti americani non poterono essere compiute od iniziate senza lotte prolungate, senza che tutte le forze della nazione sembrassero esaurirsi nello sforzo di risolvere il tormentoso problema del momento.

 

 

In Italia sembra che si segua una via profondamente diversa da questa nell’iniziare rivolgimenti radicali nella organizzazione industriale e nel regime della proprietà. Neppure ci si accorge che vengono talvolta presentate al parlamento ed approvate proposte in apparenza di importanza lieve e locale ma destinate a segnare una pietra miliare nella storia dei maggiori rivolgimenti sociali. L’anno scorso il parlamento approvava, senza che nessuno dei deputati socialisti se ne accorgesse, una legge sul consorzio obbligatorio dello zolfo la quale, forse prima nel mondo, istituiva una nuovissima forma di organizzazione industriale: il sindacato obbligatorio dei produttori, a cui la legge toglie la facoltà di vendere i prodotti e sottopone all’alta vigilanza dello stato, divenuto in parte garante dei rischi economici gravi di un’impresa industriale soggetta ad una fortissima concorrenza straniera.

 

 

Lo storico futuro dell’economia in Italia stupirà constatando come un passo così grave sulla via dell’organizzazione collettiva si sia potuto compiere senza che nessuno o quasi dei parlamentari approvanti se ne sia accorto e senza che se ne siano accorti nemmeno i rappresentanti professionali delle idee collettiviste. Oggi è la volta di un modesto progetto per la città di Roma, nel quale, a proposito della espropriazione delle aree fabbricabili, è sancito un principio destinato, se fortuna lo assiste, ad avere le più imprevedute e grandiose conseguenze. Di questo progetto per Roma chi scrive ha già parlato per combattere la insipiente proposta di aumentare dall’1 al 3% la tassa sulle aree fabbricabili, mettendo innanzi i provvedimenti più opportuni, a suo modo di vedere per cansare quei mali che la tassa del 3% indubbiamente aggraverebbe. Rileggendo con attenzione il progetto così come è definitivamente formulato dalla commissione della camera ed ampiamente spiegato in una diligente relazione dal relatore on. Pozzi, ho dovuto persuadermi che ben altra è la portata sua e ben più grande è la novità da esso senza parere introdotta nella nostra legislazione civile. Dinanzi alla novità impallidiscono i fasti di una imposta ignota, per la sua formidabile altezza e per la sua illogica incidenza, ai paesi che hanno visto nascere e propagarsi le dottrine del George e del Flurscheim sulla nazionalizzazione della terra. Il ravvicinamento fra alcuni articoli dell’interessantissimo disegno di legge permetterà a tutti di formarsi un’idea della sua straordinaria portata.

 

 

La imposta sulle aree fabbricabili è portata, lo dicemmo, per la città di Roma e per le città che per deliberazione dei rispettivi consigli comunali ne facciano domanda, al 3% all’anno sul valore capitale, esclusa la prima lira di valore per ogni metro quadrato, supposta equivalente al puro reddito agrario del terreno. Il valore delle aree dovrà essere dichiarato dal proprietario o, in difetto, accertato d’ufficio. La dichiarazione di valore non potrà essere mutata per Roma per tutti i 25 anni di durata del piano regolatore: dal che si deduce che per le altre città italiane la dichiarazione di valore non potrà essere mutata del pari per 25 anni o per quell’altro periodo di tempo rispettivamente stabilito dai propri piani regolatori.

 

 

Fin qui sono norme fiscali, intese in apparenza a garantire una esatta valutazione delle aree colpite dall’imposta ed anzi ad assicurare il proprietario contro le troppo frequenti valutazioni ed elevazioni della base imponibile. Allo stesso scopo di ottenere un accertamento veritiero del valore delle aree, il progetto di legge accoglie il principio, già inserito nei regolamenti di Milano e Torino, che il municipio possa espropriare le aree ad un prezzo corrispondente al valore dichiarato dal proprietario delle aree od accertato d’ufficio. La norma, che parrebbe avere il significato soltanto di una minaccia sospesa sul capo dei proprietari non veritieri acquista valore quando la si ponga in confronto coll’altra disposizione che il valore dichiarato od accertato d’ufficio non potrà mutarsi per tutti i 25 anni di durata del piano regolatore. Ecco le conseguenze a cui si arriva per un’area di 10.000 metri quadri del valore unitario tassabile di 10 lire al metro quadro (esclusa cioè la prima lira di valore del terreno agrario) e del valore totale di 100.000 lire. Nel primo anno di applicazione della legge, il proprietario ha fatto la sua dichiarazione veritiera (né del resto egli avrebbe interesse a denunciare un valore inferiore al vero per non correre il pericolo di una dannosa immediata espropriazione) di un valore di 100.000 lire, assoggettandosi quindi al pagamento di una tassa annua di 3.000 lire. Alla fine del quinto anno, egli ha già pagato, compresi gli interessi composti al 4%, 16.248 lire d’imposta. Se egli per un qualunque motivo non ha potuto costruire la sua area, il municipio potrà espropriarlo pagandogli le 100.000 lire da lui denunciate al principio: cosicché egli, dedotta l’imposta pagata, siccome nel frattempo l’area vuota non gli ha reso un centesimo, verrà in realtà a percepire l’indennità netta di sole lire 83.752. Trascuriamo gli interessi sul capitale originario di 100.000 lire supponendo che il proprietario avesse preveduto questo rischio quando comprò aree fabbricabili. La supposizione è in verità fuor di posto perché egli aveva rinunciato agli interessi annui nella speranza di vendere la sua area ad un prezzo più elevato, speranza che gli è tolta dal legislatore, il quale fissa per 25 anni l’indennità in lire 100.000. La dimostrazione riesce egualmente così stringente, che possiamo perfino trascurare quei poveri untorelli di interessi. Alla fine del decimo anno le annualità di tassa di 3.000 lire hanno cagionato al nostro proprietario una spesa di lire 36.018; cosicché, se il municipio a questo punto lo espropria, egli, al netto dalla tassa, riceve solo lire 63.982 per l’area che dieci anni prima era stata stimata 100.000 lire. Per farla in breve, l’indennità sempre uguale di 100.000 lire si riduce al quindicesimo anno scemata di 60.070 lire di tasse pagate a lire 39.930; al ventesimo anno, diminuita di 89.334 lire di tasse, a lire 10.666; finché al venticinquesimo anno il nostro disgraziato proprietario, che in origine aveva un’area del valore di 100.000 lire, ha pagato al municipio ben 124.937 lire di tasse ed interessi decorsi sulle medesime affinché il municipio prelevi sulle somme ricevute 100.000 lire per restituirle al proprietario tenendosi per sé 24.937 lire di profitto oltre l’area gratuitamente espropriata.

 

 

Non so che cosa si potrà obiettare alla dimostrazione: non certo che il proprietario potrà sempre sottrarsi alla confisca costruendo la sua area. Poiché la costruzione potrà verificarsi in molti casi, ma non sarebbe consigliabile si verificasse tumultuariamente e subito per tutte le aree disponibili. A Milano, secondo la relazione del sindaco Ponti del 24 marzo per l’applicazione dell’imposta in discorso, esistevano entro il nuovo piano regolatore ben 2.230.000 metri quadrati di aree fabbricabili. È probabile, è possibile che tutta questa enorme superficie sia costrutta subito? Non sarebbe anzi la affrettata costruzione causa di rincaro di capitali e di mano d’opera edilizia, e di distrazione momentanea di capitale e di lavoro da altri impieghi più rimunerativi, colla inevitabile conseguenza di disoccupazione quando fosse terminato il periodo di febbrili costruzioni? Uopo è perciò ed è utile che le costruzioni si compiano regolarmente, con metro più accelerato forse per le case popolari, ma non con furia selvaggia. Se questo è vero, è indubitato del pari che molte aree dovranno rimanere vuote – ed è utile che rimangano vuote anche dal punto di vista sociale – nei primi anni dell’applicazione del piano regolatore per andare diminuendo a mano a mano che ci avviciniamo alla scadenza del periodo. Quindi è indubitato che il municipio potrà sempre espropriare le aree vuote, concedendo una indennità parziale, nulla o persino negativa, dato il meccanismo spiegato sopra della indennità fissa e delle accumulantisi rate annue di imposta sulle aree fabbricabili. Il municipio potrà astenersi da siffatte espropriazioni, pago di aver escogitato un mezzo per incassare tasse fortissime, finché al potere vi saranno amministratori imbevuti delle idee ancora dominanti in fatto di appropriazione della roba altrui. Col mutarsi degli amministratori e sovratutto coll’avvicinarsi della scadenza del periodo e colla possibilità crescente per il comune di espropriare i terreni ad un prezzo di gran lunga inferiore al valore corrente, quale municipio potrà resistere alla tentazione?

 

 

Non so se a molti farà impressione grande, come a me ha fatta, vedere sancito in un piccolo ed ignorato disegno di legge per la capitale d’Italia il principio che la proprietà privata possa essere espropriata ad un prezzo talvolta uguale, ma più spesso inferiore al suo valore, qualche volta persino senza indennità e financo coll’obbligo di pagamento di una multa da parte del proprietario costretto a lasciarsi gratuitamente espropriare.

 

 

Qui si critica un metodo di espropriazione che equivale ad una confisca; e non altri metodi che fossero diretti invece ad impedire che il proprietario riceva una indennità superiore al valore corrente o tale da comprendere il maggior valore derivante da un’opera pubblica compiuta dai municipi. L’impedire gli abusi rientra perfettamente nel concetto dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità mentre la novità del progetto per Roma sta nel negare addirittura l’indennità che si proclama apparentemente dovuta.

 

 

Per ritornare al punto dal quale ho preso le mosse nello scrivere la meraviglia più grande sorge nel vedere come un rivolgimento così profondo nei principi della espropriazione per utilità pubblica e nei diritti della proprietà privata si verifichi in mezzo alla indifferenza universale e senza che nemmeno i socialisti abbiano sul serio discusso l’opportunità di chiedere alle classi proprietarie un sacrificio così grande; senza che nel parlamento, nei congressi municipali, nella scienza e fra gli interessati di ogni classe sia avvenuta una qualsiasi apprezzabile discussione intorno alle ragioni di utilità pubblica che potrebbero legittimare cotesto sovvertimento dei vigenti principi più elementari del diritto e dell’economia. Dopo tutto, ogni classe ha la sorte che si merita. Oggi i milioni di proprietari e di industriali, che lavorano in Italia e sono fattore precipuo dei suoi progressi, forse ridono pensando ai proprietari di aree cittadine espropriati senza indennità e forse anche son lieti pensando al grazioso tiro giuocato agli odiosi «speculatori sulla fame di case». Che cosa diranno domani quando i socialisti, fattisi potenti, vorranno ad essi applicare lo stesso ragionamento e ripetere, consapevolmente stavolta, a lor danno il grazioso tiro una volta riuscito?

 

 

Per le nuove convenzioni marittime: almeno la Sicilia e la Sardegna!

Per le nuove convenzioni marittime: almeno la Sicilia e la Sardegna!

«Corriere della Sera», 25 maggio 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 532-534

 

 

Ancora una volta ci avviciniamo a grandi passi alle vacanze parlamentari estive e nessun accenno vi è che si possano discutere largamente le nuove convenzioni marittime. Il governo ha presentato la proposta, da tutti preveduta ed oramai necessaria, di una proroga al 30 giugno 1910; e purtroppo la proroga otterrà l’effetto di addormentare commissioni e governo, sicché arriveremo all’anno venturo senza aver concluso nulla. È un brutto vezzo il nostro; e per quanto noi abbiamo replicatamente alzata la voce per deprecare un danno economico così grave, non ci illudiamo di riuscire a qualcosa. Di questa verità dolorosa è persuaso anche l’on. Maggiorino-Ferraris, il quale ha scritto nell’ultima «Nuova antologia» un coraggioso articolo sui Servizi marittimi, per la Sicilia e la Sardegna. Egli propone che, vista l’impossibilità di risolvere tutto il problema delle convenzioni prima dell’estate, almeno non ci si contenti di una proroga pura e semplice; ma si stralci dal progetto di legge il gruppo sedicesimo che riguarda le linee celeri della Sicilia e della Sardegna, affidandone, come propone il governo, l’esercizio alle ferrovie di stato dall’1 luglio 1909 al più tardi. Si tratta di un ripiego; ma possiamo accettarlo, in mancanza del meglio, che sarebbe una discussione compiuta di tutto l’argomento. Quanto alla questione importantissima del modo di esercizio, è noto che attualmente quei servizi sono geriti dalla Navigazione generale, che la commissione reale proponeva di affidarli alle amministrazioni ferroviarie, che il progetto del ministro Baccelli proponeva di nuovo l’esercizio privato, mentre l’ultimo progetto Schanzer ritorna all’esercizio ferroviario. Le ragioni, addotte anche da uomini pratici e che si potrebbero ritenere propensi all’esercizio privato, per consigliare di affidare alle ferrovie l’esercizio delle linee che, come la Napoli-Palermo o la Civitavecchia-Golfo Aranci, sono la prosecuzione per mare delle linee ferroviarie terrestri, sono ragioni valide e si possono riassumere nei vantaggi del servizio cumulativo con un’unica consegna e responsabilità della merce, risparmiando le spese e le noie degli intermediari, con un’unica classificazione delle merci, con il cumulo delle distanze percorse sia in ferrovia, sia per mare, per dare al viaggiatore ed alla merce il beneficio delle tariffe ferroviarie. Solo colla unificazione dei due servizi si potrà da qualunque stazione interna della Sicilia e della Sardegna spedire o ricevere merce per tutta Europa con una spedizione unica e con una tariffa che cumuli le distanze. Oltre a ciò, è evidente che si assicurano assai meglio alle isole i vantaggi dei biglietti circolari, biglietti di abbonamento, delle tariffe fisse per i piccoli colli, ecc., mentre è sperabile si possano pure grandemente diminuire le attuali formalità doganali.

 

 

L’Inghilterra è senza dubbio il popolo di Europa dove sia più libero lo spirito di iniziativa e di indipendenza individuale e dove le aziende commerciali traggono maggior vantaggio dalla reciproca concorrenza. Eppure basta compiere anche solo un breve viaggio, fino a Londra, per avvederci che la nave che riceve il passeggero alla costa francese e lo porta alla costa inglese è un piroscafo ferroviario – un railway steamer – come lo si chiama con fraseologia appropriata. Le società ferroviarie inglesi, oggidì, posseggono ed esercitano non solo con bastimenti propri, ma persino con porti e magazzini di loro proprietà, la maggior parte delle linee di navigazione, che sono il complemento delle loro linee ferroviarie. Questo sistema è così diffuso nella Gran Bretagna, che un recente scrittore sulle ferrovie inglesi, il Grinling, ha potuto calcolare che gli impianti marittimi delle compagnie ferroviarie inglesi – tra piroscafi, magazzini e porti – rappresentino un capitale di 2 miliardi e mezzo di lire italiane.

 

 

Grazie a questo sistema organico e permanente di linee ferroviarie e marittime unificate, le quali dai porti inglesi si diramano non solo alle coste del Regno unito, ma ai porti della Francia, del Belgio, dell’Olanda, della Germania, ecc., si sono attivati e sviluppati grandiosi commerci di generi di alimentazione e di derrate agrarie nel canale della Manica. Questo appunto è il compito che ora spetta all’industria italiana dei trasporti, a beneficio reciproco delle isole e della terraferma. I prodotti agrari, sopratutto, richieggono rapidità di trasporto, agevolezze di trasbordi, semplicità e mitezza di tariffe, vantaggi che è difficile, se non impossibile, di ottenere, senza l’unificazione dei servizi ferroviari e marittimi del continente e delle isole.

 

 

Noi ci auguriamo che il parlamento trovi modo di discutere il problema subito per non defraudare le popolazioni isolane dei vantaggi che loro verrebbero dall’adozione dei provvedimenti proposti nell’ultimo disegno di legge Schanzer. La tariffa dei passeggeri da Napoli a Palermo, ad esempio, verrebbe ridotta in prima classe da lire 34,20 a 21,90; in seconda classe da lire 22,90 a 14,08 ed in terza classe da lire 11,40 a lire 7,04. Quanto alle merci, quelle classificate di prima classe pagherebbero lire 18,30 invece di 28,90 la tonnellata, quelle di seconda classe lire 14,15 invece di 23,10, quelle di terza classe lire 8,60 invece di 17,35 e quelle di quarta classe lire 5,60 invece di 11,55. Il vantaggio per i viaggiatori e per le merci è indubitato. Il Ferraris non se ne contenta e vorrebbe anche velocità maggiori; ed è certo che le 15 miglia di velocità fra Palermo e Napoli sono troppo poche in confronto delle 21 miglia dei piroscafi ferroviari fra Brighton e Dieppe, delle 22,54 della linea Calais-Dover, delle 24 miglia dei piroscafi ferroviari delle ferrovie di stato nel Belgio; ed è certo che, quando sarà finita di costrurre la direttissima Napoli – Roma, con un piroscafo un po’ celere si potrebbe andare in 12 ore e mezzo da Palermo a Roma, all’incirca nello stesso tempo che si impiega da Milano a Roma. Ma, ripetiamo, il punto principale sta nella discussione pronta di questo problema capitale per l’economia nazionale. L’esercente vedrà poi di migliorare a poco a poco le velocità ed i metodi di esercizio. La legge dovrebbe contenere disposizioni atte a stimolarne lo zelo in questo senso e ad impedire che esso si fossilizzi in metodi antiquati.

 

 

L’imposta sulle aree fabbricabili aumento dall’1 al 3% ed incremento delle costruzioni popolari

L’imposta sulle aree fabbricabili aumento dall’1 al 3% ed incremento delle costruzioni popolari

«Corriere della Sera», 20[1], 24[2] e 25 maggio[3] 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 516-531

 

 

I

Una recente deliberazione del consiglio comunale di Milano ha introdotto, anche in questa città, dopo che già l’esperimento erasi iniziato a Roma ed a Torino, l’imposta sulle aree fabbricabili consentita dalla legge dell’8 luglio 1904. Della deliberazione io non mi sarei occupato se il consiglio, mentre tassava le aree fabbricabili nella misura dell’1 per cento del loro valore capitale, non avesse approvato eziandio un ordine del giorno, proposto dal prof. U. Gobbi, affinché il governo volesse estendere a tutte le grandi città italiane la facoltà, consentita in un disegno di legge per la città di Roma del 12 marzo 1907, di aumentare l’aliquota dell’imposta al 3% del valor capitale delle aree e di espropriare le aree ad un prezzo corrispondente al valore dichiarato dal proprietario. Questa seconda facoltà ha per iscopo di costringere il proprietario a fare una dichiarazione giusta, conforme al prezzo corrente delle aree; e di essa non intendo occuparmi perché è già consentita dai regolamenti delle città di Milano e Torino, e dei disegni di legge per Roma e per il riordinamento dei tributi locali. Le mie osservazioni si limiteranno al chiesto aumento dell’aliquota dall’1 al 3%, aumento che a me sembra empirico, sperequato e tale da raggiungere fini contrari a quelli che il legislatore si è proposto con la imposta sulle aree fabbricabili. Alla quale mi lega un antico affetto, poiché sin dal 1898 ho avuto occasione di propugnarla in uno studio per la «municipalizzazione del suolo nelle grandi città», ed in seguito in altri opuscoli e libri. Né posso dimenticare che su queste stesse colonne invocavo in due articoli del 19 e 20 aprile 1903 un’imposta del 30% sull’aumento netto di valore delle aree fabbricabili. La proposta, che io ed altri avevamo ripetutamente fatta, fu tradotta in fatto colla legge dell’8 luglio 1904. A diminuire il piacere che ogni studioso sente vedendo tradotti in pratica i concetti da lui per lo innanzi manifestati, è venuto il disegno di legge per Roma che aumenta l’aliquota dall’1 al 3% non sull’aumento di valore ma sull’intero valore capitale. La fretta insolita con cui la città di Milano ha invocato il diritto di aumentare anch’essa l’aliquota al 3%, mi ha persuaso a dire le ragioni per cui ritengo che così si farebbe un passo indietro nella nostra legislazione tributaria.

 

 

Tutti quelli che si sono occupati dell’argomento sono d’accordo nel ritenere che quando le aree non aumentano di valore, non c’è ragione di allarmarsi dal punto di vista sociale e neppure di creare imposte. Se le aree fabbricabili sono stazionarie, è segno evidente che la popolazione non cresce e che non c’è bisogno di costruire nuove case. Se il bisogno vi fosse, i proprietari di aree sarebbero ben lieti di soddisfarlo, poiché non è certo piacevole tenere i capitali investiti, in maniera improduttiva, in aree le quali non danno nemmeno la speranza di un aumento di valore. Il problema delle aree fabbricabili nasce soltanto quando per il crescere continuo della popolazione, degli affari e della ricchezza i fitti delle case crescono e cresce la possibilità di utilizzare le aree con notabile profitto. La speculazione si impadronisce delle aree, a cui è annessa la speranza di un aumento di valore, ed inacerbisce il fenomeno dell’aumento di valore, accaparrando le aree e mettendole sul mercato a spizzico, in maniera insufficiente, in guisa da provocare nuovi aumenti. Di qui la fame di terra edificabile, caratteristica di tutte le grandi città; di qui le imposte sulle aree edilizie, il cui intento è doppio:

 

 

  • di far contribuire alle spese comuni coloro che hanno un reddito, consistente nell’aumento di valore delle loro aree, reddito che altrimenti rimarrebbe immune dell’imposta;
  • di scemare la speranza di lucro dei detentori speculatori di aree e quindi di deciderli più presto a metterle sul mercato.

 

 

Il nostro legislatore ha creduto conveniente colpire l’aumento di valore delle aree indirettamente mettendo un’imposta dell’1% sul valore totale delle aree. La tariffa sembra mite, ma in realtà non è. Poiché un’area del valore di lire 100 al metro quadro aumenterà in media di 4 o 5 lire all’anno di valore; e quindi un’imposta di 1 lira all’anno se è dell’1% sul valore capitale, è del 25 o 20% sullo sperato aumento di valore. Ho detto «sperato» perché l’area può magari aumentare di valore più rapidamente, ma può non aumentare affatto; cosicché l’imposta attuale si può dire colpisca del 20-25% l’aumento medio annuo presunto. Sarebbe stato meglio colpire senz’altro col 20-25% (o, come io proponevo nel 1903, col 30%) l’aumento effettivo di valore; ma, essendo sembrato praticamente difficile di accertare l’aumento annuo, si preferì colpire coll’1% il valore capitale totale, che è di più facile accertamento e si presta meno alle frodi. Naturalmente siccome si dovette fare la presunzione che tutte le aree aumentassero di valore in proporzione al valore capitale e siccome la presunzione non è vera, ne risultò che l’imposta dell’1% corrisponde, per le aree che aumentano poco o nulla, magari al 50 od anche al 100% dell’aumento annuo e, per le aree, che aumentano assai, forse soltanto al 5 o al 10% dell’aumento stesso. Cosicché l’imposta avrebbe potuto essere uno stimolo efficace a vendere le terre nelle città e nelle località dove le terre crescevano poco di valore e diventava uno stimolo inefficace per le località a rapido sviluppo dove la speranza di aumenti futuri di valore è più forte del dispiacere di pagare la imposta e di perdere gli interessi correnti sul capitale investito. Se l’aumento dell’imposta dall’1 al 3% può significare una maggior pressione a vendere sui detentori anche delle aree più promettenti, le cose dette sopra dimostrano che essa aggraverebbe in modo incomportabile l’ingiustizia insita nell’attuale sistema. Un’imposta infatti del 3% sul valore capitale delle aree, corrisponde in media ad un’imposta del 60-75% sull’aumento annuo presunto di valore delle aree che in media non si può supporre maggiore del 4 o del 5%. Occorre infatti notare che gli aumenti consistono in gran parte di speranze e non ancora di fatti. Un’imposta del 3% sul valore intiero dell’area può dunque essere un disastro per chi alle speranze non vede corrispondere i fatti, e sarà magari obbligato a pagare 3 lire d’imposta per un’area che è aumentata di valore solo 2 o 3 lire o magari non è aumentata affatto. Invece chi detiene terreni in rapido sviluppo pagherà 3 lire per un’area che è aumentata di 8, 10 e più lire all’anno. Se questa sia giustizia tributaria, lascio giudicare al lettore. Portata a questa inverosimile ed uniforme altezza, l’imposta non è più uno stimolo a spingere alla fabbricazione, ma è una multa che i comuni adoperano per battere e vessare alla cieca i proprietari di aree edilizie, solo perché tali. Finora l’essere proprietari di aree non era ancora un delitto. Lo diventerà colla nuova legge per Roma. Può darsi che questo sia per taluni un bel costrutto da cavarsi dalle leggi; ma non deve sembrar tale a coloro i quali ritengono che le imposte debbano avere una certa proporzione colla capacità contributiva. Poiché l’unico indice della capacità contributiva è qui la probabilità di aumento delle aree, è chiaro che un’imposta del 3% sul valore capitale graverebbe sui proprietari in ragione inversa della probabilità. Accadeva lo stesso già coll’aliquota all’1%; ma, essendo l’imposta più tenue, la ingiustizia era meno stridente.

 

 

Aggiungasi un’altra considerazione. Un’imposta del 3% sul valore totale delle aree fabbricabili spingerà certamente alla fabbricazione. Per quali aree la spinta sarà maggiore? Evidentemente per quelle per cui sia minore la probabilità di aumento di valore, poiché per esse l’imposta assorbirà tutta o gran parte di quella speranza che manteneva viva la speculazione. Già adesso chi abbia un’area del valore di 100 lire al metro quadro, che aumenti ogni anno di valore del 4 o del 5%, ha un mediocre interesse a continuare a tenere vuota l’area, perché identico e forse più cospicuo frutto del suo capitale ritrarrebbe con altri impieghi. Figuriamoci cosa succederà quando l’imposta gli porterà via inesorabilmente 3 delle sperate 4 o 5 lire di aumento! Quali sono le aree per cui le speranze di aumento di valore sono più forti? A me pare di non fare una affermazione azzardata ritenendo che gli aumenti di valore siano proporzionalmente tanto meno elevati in generale quanto più è elevato il valore iniziale unitario. Dura maggior fatica un’area da 100 lire al metro quadro a passare a 110 che una di 20 a salire a 22 ed una di 5 a 5,50. Le aree di maggior pregio si trovano in centri già popolosi, con vie ben tracciate e costrutte, con impianti fatti di acqua, fognatura, illuminazione. Tutte queste comodità sono già state valutate e capitalizzate nel valore dell’area, la quale aumenta soltanto più per il naturale e tranquillo incremento circostante della popolazione e degli affari. Invece, dove le aree valgono poco si possono, è vero, commettere sbagli colossali; ma si possono pure conseguire fortune parimenti colossali. L’impianto di una fabbrica, l’apertura di una strada, il prolungamento di una tramvia, la introduzione dell’illuminazione, ecc. ecc., sono argomento di rialzo dei terreni. Nelle località relativamente concentriche non sono possibili i grandi sbalzi che si hanno alla periferia. Chi volesse far dei nomi potrebbe più facilmente ricordare gente fattasi milionaria in breve ora con terreni di valore iniziale basso, che su terreni da 50, 100 e più lire al metro quadro.

 

 

L’imposta del 3% spingerà dunque assai più a buttare sul mercato aree di un valore unitario elevato che aree di basso prezzo. Saranno i proprietari di aree da 50, 100 e più lire al metro quadro i primi ad infastidirsi, piuttosto che i detentori di aree da 5, 10 e 20 lire. Per seguire i dati della giunta di Milano, a me sembra che una imposta del 3% farebbe costruire i 220.000 metri quadri di aree entro i bastioni da 34 lire in media al metro quadro più presto dei metri quadri 1.577.000 del già circondario esterno a 17 lire e dei 440.000 metri quadri della zona del nuovo piano d’ampliamento a 5 lire il metro quadro. Il che se potrà sembrare utile ai fini dell’euritmico e regolare sviluppo della città, produrrà un inconveniente forse non previsto da quelli che vogliono aumentare l’imposta sulle aree per favorire la costruzione di case popolari: sarà cioè dato ai costruttori privati un impulso maggiore di quello già esistente ad erigere case su terreni di alto valore. Oggidì molti preferiscono costruire case su aree di poco valore non perché le prediligano, ma perché le aree più centrali sono troppo care. Fate sì che l’imposta costringa i detentori delle aree centrali a metterne in maggior copia sul mercato, ed i costruttori ripiegheranno nuovamente verso le aree centrali, che da 100 saranno discese ad 80, 70 lire al metro quadro. La conclusione non mi pare sia lieta per le classi operaie. Su aree care, sebbene meno care di prima, non si costruiscono case operaie con fitti a buon mercato; ma case signorili, locali commerciali, ecc. ecc. Gli operai non trarranno vantaggio dall’imposta; poiché non si può supporre che i costruttori si decidano ad edificare case sulle aree di basso valore che già prima non aumentavano di valore. Vi sono in quasi tutte le grandi città zone fabbricabili dove le aree, per quanto a prezzi vili, non allettano i costruttori, perché nessuno vuole andare a stare in quei quartieri. L’imposta deciderà forse i proprietari a disfarsene a qualunque costo; ma ciò non provocherà ancora la costruzione di case, perché bisognerebbe persuadere la gente ad andare a stare in zone non desiderabili.

 

 

Ricordiamo brevemente altri difetti di un aumento al 3% dell’imposta. Son difetti comuni all’aliquota odierna dell’1%; ed hanno di speciale soltanto questo che, se i malanni piccoli sono tollerati, i malanni grossi diventano fastidiosissimi. Il difetto massimo di un’imposta sul valore totale sulle aree è di essere un mezzo empirico e grossolano – sebbene praticamente ritenuto forse necessario – per colpire quello che è il vero oggetto dell’imposta: l’incremento di valore delle aree; e per raggiungere il fine del legislatore: ostacolare l’accaparramento delle aree. Dal difetto essenziale discendono parecchi altri minori:

 

 

  • Un industriale compra il doppio od il triplo dell’area che attualmente coprirà col suo stabilimento. Vuol avere una riserva di terreno per gli ampliamenti futuri. Desiderio più che legittimo e socialmente rispettabile, se si pensa che forse è l’industriale medesimo che colla sua fabbrica ha messo in valore quelle aree. Anche qui l’imposta si converte in una persecuzione, che costringe l’industriale previdente a vendere la sua riserva di terreno e ad andarsene in seguito in cerca di altri terreni, quando l’area precedente non gli basti più. Non c’è ragione di provocare così inutili spostamenti di fabbriche, di macchinari, di maestranze, ecc.
  • Un caso interessante fu ricordato da uno dei commissari inglesi nel rapporto finale dell’inchiesta del 1901. Un impresario edilizio compra un’area vasta in un luogo non ancora abitato (ad esempio 10.000 metri quadri) e costruisce una casa su 1.000 metri quadri. Egli provoca così la venuta di nuovi abitanti, mette in valore il terreno circostante e può azzardarsi quindi a costruire una seconda casa. Il suo profitto consiste da tutto l’insieme delle operazioni e dalla vendita che egli farà a prezzi cresciuti dell’area residua. Sono questi veri pionieri edilizi, la cui opera dal punto di vista generale non può essere considerata inutile. Ricordo in un’assemblea di proprietari di aree, davanti a cui avevo fatto una difesa della nuova imposta sulle aree fabbricabili, di aver avuto una impressione vivissima dalla narrazione fatta da uno dei presenti delle difficoltà che incontrano i costruttori a mettere in valore le aree edilizie eccentriche. Perché multare costoro inesorabilmente col 3% d’imposta, quando non si sa ancora se le loro aree sono cresciute di valore?
  • In molte città la zona fabbricata è circondata da orti posseduti e coltivati da piccoli, spesso piccolissimi proprietari. La loro area diventa a poco a poco fabbricabile e cresce di valore; ma frattanto l’unico risultato dell’avvicinarsi della fabbricazione si è che essi debbono lottare contro i danni dei più frequenti passeggeri, furti, manomissioni, ecc. Se vi aggiungete il 3% d’imposta sul valore totale, i disgraziati dovranno vendere per forza ben presto a speculatori, i quali soli trarranno tutto il profitto possibile dall’aumento. Perché non scegliere un metodo di tassazione più equo ed egualmente efficace dal punto di vista sociale?

 

 

II

Ingiustamente sperequata, favorevole alla fabbricazione sovratutto delle aree care e quindi alla costruzione di edifizi signorili, causa di inconvenienti non piccoli per gli industriali ed i costruttori bona fide, la imposta annua del 3% sul valore totale delle aree fabbricabili è un congegno fiscale grossolano, empirico e perciò condannabile. L’aumento di valore delle aree edilizie e la speculazione sulle aree derivano da circostanze svariate, obbediscono a leggi mutabilissime ed è quindi inutile ostinarsi ad affrontare un problema complicato con un rimedio semplice. Uopo è che il regime tributario si pieghi alla complicazione e cerchi di seguire il plusvalore dei terreni nelle sue diverse manifestazioni. L’imposta cioè dovrebbe avere caratteri diversi a seconda che si tratti di colpire:

 

 

  • l’aumento medio generale che ragionevolmente può supporsi esista per tutte le aree fabbricabili di una grande città;
  • l’aumento effettivo di valore dovuto ad opere pubbliche compiute dai comuni;
  • l’aumento effettivo di valore constatato a periodi determinati in più dell’aumento medio presunto ed indipendentemente dall’aumento già colpito dovuto ad opere pubbliche;
  • la casa costrutta.

 

 

Diciamo partitamente di queste quattro diverse specie di tassazione. Le cose dette nell’articolo precedente dimostrano perché io ritenga eccessiva e dannosa l’aliquota del 3% sul valore totale delle aree, senza distinzione fra le aree che aumentano e quelle che rimangono stazionarie in valore. Anche l’aliquota dell’1% è, a mio parere, troppo elevata e dovrebbe essere ridotta al 0,50% del valore totale. Ricordiamo che con questa imposta si colpiscono le speranze di aumento di valore e che queste speranze in media non possono presumersi superiori al 4 od al 5% del valore totale dell’area. Una imposta del 0,50% sul valore totale dell’area equivarrà sempre ad una del 10-12% sulla speranza di aumento, e non è poco. I redditi mobiliari degli industriali e dei commercianti, che sono redditi effettivi e non soltanto sperati, non sono forse colpiti dall’aliquota del 10% e non sembra questa già fin troppo gravosa? Si aggiunga che l’imposta del 0,50% diventerebbe parte di un completo ordinamento tributario e sarebbe soltanto il minimo che dovrebbero pagare sempre tutte le aree, anche quelle che non aumentano di valore. Il suo pregio, oltreché fiscale e sociale, sarebbe quello di costringere comuni e proprietari ad una valutazione periodica, annuale o biennale delle aree, in guisa da apprestare il saldo fondamento per le altre imposte.

 

 

Le aree fabbricabili possono aumentare ed aumentano spessissimo per opere pubbliche compiute dai municipi (strade, piazze, selciatura, illuminazione, fognatura, condutture d’acqua, tramvie, ecc. ecc.). Che i proprietari di aree avvantaggiate da un’opera pubblica debbano contribuire a sopportare le spese che il comune ha perciò dovuto fare, è principio oramai pacifico nella nostra legislazione. La legge italiana 25 giugno 1865 sulle espropriazioni per pubblica utilità, al capitolo quarto del titolo secondo formula le disposizioni da applicarsi nel caso che in una legge, la quale dichiari un’opera di pubblica utilità, sia imposto ai proprietari di beni confinanti o contigui alla medesima l’obbligo del contributo. Il contributo di ciascun proprietario deve essere uguale alla metà del maggior valore risultante dall’esecuzione dell’opera di pubblica utilità. Che i comuni abbiano fatto una applicazione assai ristretta dei contributi stessi, dipende, oltrecché da una certa timidezza nell’entrare per una via nuova e dalla mancata opportunità di ottenere le leggi speciali occorrenti; anche dalla persuasione diffusa che le perizie, necessarie a farsi per la stima del maggior valore, avessero a riuscire troppo favorevoli di regola ai proprietari, cosicché il profitto dei comuni risultasse troppo esiguo. È una obiezione che ha certo il suo peso; ma non è impossibile fissare alcuni criteri abbastanza sicuri per la valutazione delle aree prima e dopo compiuta l’opera pubblica. Intanto per il valore susseguente all’opera si potrebbero accogliere senz’altro le stime già fatte nell’anno dopo compiuta l’opera agli effetti della tassa del 0,50% sulle aree fabbricabili. Per la stima del valore prima dell’opera, ad evitare che nel valore dell’area fosse già compenetrato il maggior valore derivante dal compimento dell’opera pubblica ancor prima che questa fosse compiuta, si potrebbe, salvo prova contraria, presumere un valore uguale a quello denunciato agli effetti dell’imposta sulle aree fabbricabili nell’anno precedente a quello in cui il consiglio municipale prese le deliberazioni relative all’opera pubblica. Espongo l’idea in forma grezza. Ai pratici di rivederla, modificarla od anche sostituirla con una proposta migliore.

 

 

L’imposta del 0,50% sul valore totale delle aree fabbricabili colpirebbe così il vantaggio sperato ed il contributo del 50% sulla miglioria arrecata all’area da un’opera pubblica, colpirebbe il vantaggio risentito effettivamente dal proprietario. La prima sarebbe un’imposta annua, mentre il secondo sarebbe un contributo da esigersi ogni qual volta fosse compiuta un’opera pubblica. Naturalmente il contributo colpirebbe insieme colle aree fabbricabili anche le case già costruite; ma non è questo un punto che ora ci interessi. Ci preme solo far rilevare che tutti e due insieme questi balzelli darebbero probabilmente ai comuni una somma almeno uguale al provento sperabile dall’imposta odierna dell’1% sulle aree. Da un calcolo comunicatomi dall’avv. Alberto Geisser e relativo alla città di Torino, l’imposta dell’1% dà un reddito presunto di lire 380.000 all’anno. Riducendo l’aliquota alla metà si avrebbe è vero, una perdita di lire 190.000; ma se si mettesse a carico dei proprietari anche solo la metà delle spese in media sopportate dal municipio torinese nel ventennio 1886-1905 per acquisto di aree occorrenti per le nuove vie e per la loro apertura e sistemazione – escluse le opere di risanamento – si avrebbe un reddito di 162.000 lire all’anno. Siccome i contributi di miglioria avrebbero un campo di applicazione più vasto e siccome l’attività edilizia dei comuni nel prossimo ventennio si può presumere ben più grande che nel ventennio passato, così possiamo sicuramente affermare che la perdita subita per la riduzione dell’imposta sulle aree fabbricabili dall’1 al 0,50% sarebbe largamente colmata – e con un vantaggio fiscale apprezzabilissimo – da un largo uso del contributo di miglioria del 50% sul maggior valore derivante dalle opere pubbliche. E poiché la giustizia è il fondamento dei regni, non bisogna dimenticare che l’utile risultato sarebbe ottenuto facendo pagare di più a chi ha maggiormente lucrato e meno a chi poco o nulla si è avvantaggiato per i progressi cittadini.

 

 

Si può osservare che le aree non aumentano di valore solo per causa di opere pubbliche comunali. Gli aumenti che in molte grandi città si verificano tuttodì, aumenti che rincarano assai specie i terreni di poco prezzo iniziale, i più appetibili per costruzioni popolari, sono spesso indipendenti dalle opere pubbliche. Riconosco anch’io che un’imposta del 0,50% sul valore totale è insufficiente a moderare l’impeto degli aumenti ed a frenare la speculazione accaparratrice; ma ritengo che, invece di ricorrere all’inasprimento dell’aliquota al 3% del valore totale, il quale colpirebbe anche gli innocenti del peccato di accaparramento, sia più opportuno riscuotere a periodi fissi un’imposta sull’aumento di valore effettivamente verificatosi nel frattempo. L’unica obbiezione di peso fatta alla proposta fu la difficoltà di valutare gli incrementi di valore, difficoltà che avrebbe indotto molte città tedesche ad abbandonare siffatto sistema e ad attenersi all’imposta pura e semplice sul valore totale. Giova ricordare che l’imposta del 0,50% sul valore totale, che io proporrei di conservare, da sola equivarrebbe alle imposte che son messe dalle città tedesche appunto sul valore totale; e che quindi l’imposta sull’aumento di valore sarebbe un soprappiù. Aggiungo che, quando esistesse un’imposta percepita ogni anno del 0,50% sul valore totale delle aree, non presenterebbe nessuna difficoltà calcolare di dieci in dieci anni l’aumento di valore delle aree stesse. Basterebbe guardare al valore dichiarato ed accertato nel primo e nel secondo anno e fare la differenza. Per asseverare impossibile il calcolo della differenza di valore nei due tempi è d’uopo considerare erronee le valutazioni fatte per l’imposta odierna sul valore totale delle aree; ed è allora contro di essa che vanno dirette le obiezioni e non contro l’imposta sugli incrementi di valore. Né posso credere che oggi riesca impossibile ciò che riusciva agevole ai finanzieri tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 a Torino quando i proprietari delle case e delle aree situate nel nuovo ampliamento della città verso il Po erano costretti a pagare una imposta chiamata dei tre quinti della maggior valenza dei siti, ossia del 60% del maggior valore acquistato dalle aree e dalle case dopo il decretato piano di ingrandimento della città.

 

 

Ecco un esempio del come funzionerebbero contemporaneamente le tre imposte del 0,50% all’anno sul valore totale, del 50% sul maggior valore effettivo dovuto ad un’opera pubblica, e del 50% (metto innanzi questa percentuale elevata, comoda agli scopi di calcolo, senza affermare che quella e non altra debba essere l’aliquota) da riscuotersi a periodi fissi di 10 anni sull’aumento effettivo di valore verificatosi nel frattempo, dedotte le imposte precedenti. Un’area del valore iniziale di 10 lire al metro quadro ha progredito di 1 lira all’anno di valore, salvo ad esempio nel sesto anno in cui, oltre all’aumento naturale di una lira, ha fatto un salto di 4 lire d’un tratto perché il comune ha sistemata una via nell’immediata contiguità. L’imposta del 0,50% sul valore totale, supponendo che la valutazione per semplicità si faccia ogni due anni, sarebbe negli anni successivi del decennio di centesimi 5, 5, 6, 6, 7, 7, 10, 10, 11, 11 e così in totale di lire 0,78. Al sesto anno il proprietario avrà pagato anche un contributo di miglioria del 50% sulle 4 lire di aumento dovuto alla sistemazione della contigua via, ossia 2 lire. All’undicesimo anno l’area vale 24 lire al metro quadro invece di lire 10 nel primo anno. Il plusvalore essendo di 14 lire, l’imposta del 50% equivarrebbe a 7 lire. Ma occorre tener conto che il proprietario ha già pagato 0,78 lire durante i 10 anni e 2 lire nel sesto anno, cosicché il residuo da pagarsi è di 4,22 lire. Coll’imposta del 3% all’anno sul valore totale il proprietario avrebbe pagato, fatti i calcoli, soltanto lire 4,68, mentre colle tre imposte messe ora innanzi pagherebbe 7 lire. La differenza sta in ciò che nel primo caso egli pagherebbe lire 4,68 anche se la sua area non aumentasse di valore, mentre nel secondo caso la somma fissa da pagarsi, per così dire a fondo perduto sarebbe solo di lire 0,78, mentre le 2 lire dovrebbero pagarsi in seguito alla miglioria comunale, e le lire 4,22 nel caso che alla fine del decennio la sua area non fosse ancora costrutta e fosse aumentata di valore da 10 a 24 lire al metro quadro. La mia proposta ha questo di vantaggio: che mentre il 0,50% sul valore totale sarebbe sicuramente pagato ogni anno, ed il contributo del 50% sulla miglioria del pari sicuramente al compiersi dell’opera pubblica, il terzo tributo del 50% sull’aumento generico di valore dovrebbe essere eventuale, subordinato cioè alla condizione che alla scadenza del decennio l’area non fosse ancora costrutta. O non si afferma (con parecchi sottintesi, è vero, da parte degli amministratori comunali, ben lieti del nuovo cespite d’imposta ad essi consentito) che l’imposta sulle aree non deve avere scopo fiscale, ma unicamente quello sociale di promuovere la fabbricazione? Non ci sarà nessun male se i due intenti nella pratica si concilieranno e se, mentre i due primi tributi, del 0,50% sul valore totale e del 50% sulle migliorie pubbliche daranno un apprezzabile provento fiscale, il terzo tributo servirà sovratutto come spauracchio per gli accaparratori e stimolo alla fabbricazione. Se il termine di un decennio sembri troppo lungo e tale da dar luogo ad una fabbricazione disordinata a periodi fissi, lo si potrà abbreviare o si potrà anche dare ai proprietari la facoltà di solvere il tributo a decimi negli anni successivi. Certo si è che in tal maniera l’imposta sarà effettivamente proporzionata agli aumenti di valore delle aree e la sua pressione sarà tanto più forte quanto è più accentuata la speculazione accaparratrice. Pur osservando la giustizia nei rapporti fra i diversi proprietari, l’imposta diminuirà della metà quella speranza di lucro che è lo stimolo più forte della speculazione. Né produrrà l’inconveniente, inevitabile con l’imposta del 3% sul valore totale, di far mettere sul mercato sovratutto le aree care e di favorire quindi le costruzioni signorili. Saranno messe sul mercato le terre per cui più rapido è l’aumento di valore, perché, per quanto rapido sia, lo speculatore avrà paura di fare un cattivo affare quando debba dividere per metà i lucri col comune. Siccome sono le aree di prezzo relativamente basso quelle su cui la speculazione è più attiva, saranno favorite specialmente le costruzioni popolari.

 

 

Non ci nascondiamo però che tutte queste provvidenze fiscali a poco gioveranno quanto all’intento di promuovere la fabbricazione di case popolari se non saranno accompagnate da una riforma dell’imposta sulle case costrutte. L’imposta odierna sui fabbricati è il peggiore nemico delle case popolari; e contro di essa i consigli comunali delle grandi città avrebbero ben ragione di votare vibrati ordini del giorno. Mi limiterò ad un punto solo: quello delle detrazioni per le spese. Come è noto, l’imposta sui fabbricati colpisce col 16,25% di aliquota erariale e frequentemente con altrettanto per centesimi addizionali delle provincie e dei comuni, diciamo in tutto col 30%, il reddito dei fabbricati, dopoché questo è stato diminuito di un quarto in blocco per le spese di manutenzione riparazione, assicurazione, ammortamento, ecc. ecc. Prendiamo due case del valore amendue di 500.000 lire, una signorile ed una operaia. La prima, situata nel centro, sarà costrutta su un’area che varrà 150.000 lire, mentre la costruzione ne costa 350.000. Del valore totale occorre assicurare, ammortizzare, riparare, mantenere solo la parte relativa alla costruzione, perché l’area non si deteriora e probabilmente anzi continua a salire di valore. Inoltre la casa è abitata da inquilini puntuali nei pagamenti, curanti della pulizia e del buon ordine dei loro alloggi; il portinaio riceve frequenti mance, ecc. ecc. Sarà molto attribuire alla casa una spesa di 4.000 lire che, dedotte dalle 30.000 lire di reddito della casa, lasciano un utile netto di lire 26.000, da cui bisogna ancora dedurre l’imposta. Invece la casa operaia, situata alla periferia, del valore pure di 500.000 lire, sarà situata su un’area del valore di appena 50.000 lire, cosicché le spese di ammortamento, assicurazione, ecc., devono farsi sulle residue 450.000 lire della costruzione. Si aggiungano le insolvenze, la incuria e la povertà degli inquilini, la suddivisione maggiore degli alloggi; e non sarà esagerato di ritenere che il proprietario debba spendere assai più che nel primo caso, forse il doppio, cosicché, se il reddito lordo fosse di sole 30.000 lire, il netto si ridurrebbe a 22.000 lire. Malgrado la differenza, il fisco tassa amendue le case come se rendessero al netto i tre quarti del reddito lordo, ossia 22.500 lire. Coll’aliquota complessiva sono 6.750 lire di imposta sui fabbricati che riducono il reddito della casa signorile a lire 19.250 e quello della casa operaia a lire 15.250. Se il primo reddito può essere considerato sufficiente, non così il secondo su un capitale di mezzo milione di lire. Perciò il proprietario, per rifarsi dell’imposta, deve aumentare i fitti agli inquilini operai in proporzioni maggiori che agli inquilini agiati. Giustizia vorrebbe perciò che, se si vuole lasciare immutata la detrazione del quarto per le case in genere, la si aumentasse al 40% almeno per le case operaie. Per togliere le difficoltà di definire le case operaie si potrebbero senz’altro considerare come tali tutte quelle case in cui nessun alloggio superi una data somma di fitto, variabile secondo le città. Per Roma si concesse l’esenzione per 70 anni quando le case non avessero alloggi di un fitto superiore alle 1.200 lire; né sarebbe difficile trovare una regola consimile per le altre città. Manifesta è certamente l’inanità dell’affannarsi odierno dei comuni popolosi a risolvere il problema delle case popolari quando stato, provincie e comuni vanno a gara coi loro metodi di imposta ad ostacolarne la costruzione ed a favorire invece la fabbricazione delle case signorili. A far traboccare la misura viene oggi la proposta di aumentare l’aliquota dell’imposta sulle aree fabbricabili al 3%, con la quale si creerebbe un altro elemento artificiale di favore per le costruzioni signorili. Perciò ho additato gli inconvenienti della proposta ed i metodi più convenienti per facilitare – per quanto sia negli ordinamenti tributari – quella costruzione delle case operaie, che è certo uno dei compiti più urgenti del momento presente.

 

 

III

Il prof. Ulisse Gobbi, consigliere comunale ed insegnante di economia politica al Politecnico di Milano ci invia la seguente lettera:

 

 

Signor Direttore,

l’articolo del prof. Einaudi intorno all’imposta sulle aree fabbricabili lascia credere che il consiglio comunale di Milano abbia chiesto le facoltà contenute nel nuovo disegno di legge per Roma mirando sopratutto all’aumento della tassa dall’1 al 3%. Invece chi propose l’ordine del giorno votato dichiarò espressamente che non tanto l’aumento della tassa, quanto le altre facoltà proposte per Roma interessavano Milano, e cioè l’estensione della tassa alle aree comprese nel piano regolatore anche se adibite all’agricoltura, il diritto di espropriare le aree al valore dichiarato od accertato (mentre i regolamenti di Torino e Milano consentono solo di offrire quel valore come base per l’espropriazione, salva al proprietario la richiesta della perizia a termini di legge), la norma già sancita nella legge del 1885 per Napoli sulla valutazione delle indennità, l’imposizione (con maggior larghezza che nella legge del 1865) dei contributi di miglioria.

 

 

Sono ben lieto, del resto, di trovarmi d’accordo col prof. Einaudi nel giudicare gli effetti della tassa. Domando solo, quanto alla misura di essa, se la facoltà di arrivare fino al 3% non possa offrire ai comuni un mezzo per attenuare l’empirismo e la sperequazione inerenti alla tassazione proporzionale (anzi progressiva, colla deduzione della prima lira) sul valore delle aree.

Suo devotissimo

U. Gobbi

 

 


[1] Con il titolo L’imposta sulle aree fabbricabili. La proposta d’aumento dall’1 al 3%. [ndr]

[2] Con il titolo La tassazione delle aree fabbricabili e l’incremento delle costruzioni popolari. [ndr]

[3] Con il titolo La tassa sulle aree fabbricabili. [ndr]

La proroga delle convenzioni marittime ed i suoi pericoli

La proroga delle convenzioni marittime ed i suoi pericoli

«Corriere della Sera», 6 marzo 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 505-506

 

 

L’on. Schanzer ha presentato alla commissione parlamentare per le nuove convenzioni marittime gli atti di proroga per due anni delle convenzioni vigenti. La soluzione era prevista da quanti si occupavano della materia ed avevano insistito affinché governo e parlamento studiassero e risolvessero per tempo il ponderoso e delicato problema. La legge 22 aprile 1893 stabiliva che il governo dovesse presentare entro il primo semestre del 1905 le proposte per le nuove convenzioni che avrebbero dovuto andare in vigore dopo il 30 giugno 1908, giorno di scadenza delle attuali convenzioni. A ragion veduta il legislatore del 1893 aveva voluto un intervallo di 3 anni dalla preparazione delle proposte governative all’inizio dei nuovi servizi; poiché quel tempo appariva ed è appena sufficiente per la discussione del disegno di legge, per le gare e per la costruzione del naviglio da parte dei nuovi concessionari. Invece le proposte del governo furono presentate appena il 5 aprile 1906; e su di esse dovettero ancora pronunciarsi il consiglio superiore della marina mercantile e le camere di commercio del regno. Siamo oramai ad un anno dalla scadenza delle convenzioni vigenti; né si vede che la commissione parlamentare sia prossima a deliberare.

 

 

E così la trascuraggine del governo, la lentezza e la incontentabilità di commissioni, che troppo studiano e poco concludono, ci hanno condotti a questo stremo: di darci piedi e mani legati alle compagnie di navigazione esistenti. Quale speranza invero che in un anno si discuta la legge, si bandiscano le gare, si costruisca un naviglio, quale è voluto nel disegno di legge? Nessuna; e tanto meno che una concorrenza effettiva metta lo stato in condizione di scegliere le condizioni più favorevoli per il pubblico. Fu quindi vera generosità da parte delle compagnie concessionarie – Navigazione generale italiana, Società veneziana di navigazione, La veloce, la Puglia, la società siciliana di navigazione, la compagnia Nederland – di accettare la rinnovazione dei patti attuali per due altri anni, oltre il 30 giugno 1908, e cioè sino al 30 giugno 1910; e di consentire per soprammercato qualche piccolo vantaggio allo stato. Avrebbero potuto pretendere ben di più e nulla concedere, senza che lo stato potesse in alcun modo difendersi!

 

 

Comunque, poiché le compagnie di navigazione hanno voluto essere più patriottiche di quanto non sia stato previdente il governo italiano, corre adesso obbligo a governo e parlamento di utilizzare bene i tre anni che ci separano dalla nuova scadenza delle convenzioni. Purtroppo sembra che si sia pronti a ripetere l’errore già commesso ed ora deplorato. La «Tribuna» infatti dubita che commissione e parlamento possano, avanti la fine di giugno, assolvere il loro compito; né si stupirebbe che la commissione domandasse di discutere adesso solo la proroga delle vecchie convenzioni al 1910, rimandando a tempi migliori il problema delle nuove convenzioni. Ora già sappiamo che cosa vogliano dire studi di commissioni e proroghe in materia di esercizio ferroviario. Giungemmo all’1 luglio 1905 che nulla vi era di fatto; e si dovette dare inizio all’esercizio di stato delle ferrovie senza alcuna preparazione.

 

 

Mostri fermezza il governo ed esiga dalla commissione di riferire non solo sulla proroga, ma anche sulle nuove convenzioni, senza altri studi che, di proroga in proroga, ci condurrebbero al 1910 senza concludere nulla. Più ancora non consenta il parlamento di separarsi in giugno senza aver posto le fondamenta del nuovo edificio dell’Italia marinara. Qualunque ritardo sarebbe danno irreparabile per il paese.

 

 

Il progetto di legge sul lavoro nelle risaie dall’arbitrato alla conciliazione

Il progetto di legge sul lavoro nelle risaie dall’arbitrato alla conciliazione

«Corriere della Sera», 4 marzo[1] e 17 maggio[2] 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 507-515.

 

 

I

Il progetto di legge che gli on. Giolitti e Cocco-Ortu hanno presentato al parlamento sulla risicoltura è stato presentato nel momento in cui scoppiavano violente di nuovo le agitazioni agrarie nelle plaghe risicole del vercellese e del novarese.

 

 

Se proprietari ed affittavoli se ne sono mostrati soddisfatti in massima, non così i contadini, che contro di esso sono partiti in guerra. Importa perciò valutare le disposizioni di quel progetto, affinché si vegga bene quali ne siano la portata e gli intenti.

 

 

Pochi contrasti susciteranno le proposte d’indole igienica. Le leggi precedenti erano sotto tal rispetto troppo monche e partivano da concetti dimostrati oggimai erronei dalla scienza perché non si abbiano a reputare migliori le nuove disposizioni. In sostanza i regolamenti per la coltivazione del riso sono ancora affidati alle provincie; ma si tutelano nello stesso tempo gli interessi locali, rendendo obbligatorio il parere dei consigli comunali e quelli generali, richiedendo l’avviso del consiglio superiore della sanità e del consiglio di stato. Inoltre si indicano più precisamente le materie di cui i regolamenti provinciali dovranno occuparsi, ad evitare che si occupino soltanto della distanza delle risaie dall’abitato, importando altresì fissare le norme sulla dotazione, sul deflusso e sullo scarico delle acque, i terreni paludosi, la durata e la distribuzione del tempo di riposo nel lavoro di mondatura e nel lavoro della raccolta e trebbiatura del riso. Qualche aggravio verrà ai proprietari dalle norme che impongono la somministrazione gratuita del chinino a scopo profilattico e curativo a tutti gli addetti alla coltivazione del riso, e istituiscono un conveniente servizio di assistenza medica e farmaceutica gratuita per i lavoratori avventizi. Sono norme già entrate in parte nella legislazione per i luoghi malarici ed a cui avrebbero torto i proprietari di volersi sottrarre. Più grave sarà l’onere derivante dall’obbligo fatto ai proprietari di certe condizioni minime di cubatura, ventilazione, abitabilità ed arredamento nelle case rurali, e l’altro di munire le aperture di reticelle contro la penetrazione delle zanzare, e di avere locali adatti alla separazione dei sessi ed un locale destinato al provvisorio isolamento e ricovero dei lavoratori colpiti da infezione malarica o da altra malattia trasmissibile. Il disegno di legge ha provveduto però a rendere possibile la trasformazione delle case rurali senza troppo grande sacrificio dei proprietari, concedendo loro un lasso di tempo di sei anni.

 

 

Le opposizioni più vivaci si appuntano contro le norme relative al contratto di lavoro. Qui è il pomo della discordia fra contadini e proprietari. Il disegno di legge non ha voluto accogliere il principio della limitazione dell’orario di lavoro né per tutti i lavoratori né per tutti i lavori risicoli, come avrebbero voluto le leghe contadine; e neppure ha riprodotto la vecchia disposizione dei regolamenti Cantelli per cui il lavoro in risaia era vietato nella prima e nell’ultima ora del giorno. Brevi parole bastano a dimostrare la opportunità dell’abbandono di questa antiquata regola; la quale era basata sulla teoria dei miasmi palustri, che sarebbero causa delle malattie malariche, specie per le emanazioni al levare ed al tramontare del sole. Abbattuta dalla scienza la teoria dei miasmi, la vecchia norma diventava senz’altro insostenibile. Quanto al rifiuto opposto a regolare l’orario di lavoro di tutti i lavoratori, uomini e donne, adulti e giovani, e per tutti i lavori, gli on. Giolitti e Cocco-Ortu osservano: che la limitazione legale della giornata di lavoro per i lavori agricoli non esiste in nessun paese del mondo, salvo nella Nuova Zelanda, per molti rispetti non paragonabile all’Italia; che questo unanime rifiuto dipende dall’imperio delle condizioni atmosferiche nel lavoro dei campi, le quali non consentono continuità e regolarità di occupazione; che, prima di porre un precedente così grave, il quale sarebbe subito invocato per le altre industrie, occorreva badare bene alle conseguenze; non essere il lavoro delle risaie più malsano o più pericoloso di molti altri lavori agricoli, anzi migliore della più parte dei lavori industriali; e non essere quindi legittimo un trattamento eccezionale di favore per i lavoratori delle risaie. Il progetto si limita perciò a regolare il lavoro della monda; vietando l’impiego dei minori di 13 anni e delle donne durante l’ultimo mese di gravidanza e 3 settimane dopo il parto; e limitando a 9 ore il lavoro dei fanciulli da 13 a 15 anni e delle donne da 13 a 21; ed estendendo alle donne maggiori di 21 anni le disposizioni della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli. Per tener conto delle intemperie il progetto consente che le ore di lavoro non fatte in un giorno possano farsi nei 6 giorni successivi, pur di non superare mai le 10 ore e mezzo. Ai mondarisi dovrà essere concesso un riposo settimanale di 2 ore; nel quale potrà computarsi il tempo perduto per intemperie, quando l’interruzione sia durata almeno per 24 ore consecutive.

 

 

A noi pare che i lavoratori potrebbero per ora dirsi contenti. Le conquiste legislative migliori si fanno a gradi ed in seguito a esperienze successive. Accadrà che, siccome i mondarisi giovani e donne sono la maggioranza, le limitazioni poste al loro lavoro si estenderanno per forza anche agli adulti; e quando l’orario sarà ridotto uniformemente dalla consuetudine, potrà essere ridotto anche dalla legge. Quanto al permesso di tener conto del tempo perduto a cagione delle intemperie, noi temiamo molto che un’insistenza eccessiva nel fissare limiti infrangibili al lavoro giornaliero, non abbia a riuscire soverchio dannosa agli interessi dell’agricoltura e per conseguenza dei lavoratori. Nessuna legge potrà impedire che spesso si debba nelle campagne stare in ozio quando piove: e per compenso si debba in certi giorni dell’anno lavorare febbrilmente per salvare il raccolto dalla rovina.

 

 

Contro le norme relative al contratto di lavoro propriamente detto i socialisti mossero il rimprovero che con esse si voleva consacrare il divieto dello sciopero nelle risaie. Noi abbiamo letto attentamente quelle norme; ma non vi abbiamo trovato traccia di siffatto divieto, che sarebbe sicuramente biasimevole; poiché si può essere discordi spesso sull’opportunità e sulla convenienza di certi scioperi, ma non si può negare che il diritto allo sciopero ed alla serrata sia uno dei cardini della attuale organizzazione industriale. Si potrebbe vietare lo sciopero nel solo caso in cui si stabilisse l’arbitrato obbligatorio; ma ne siamo lontani, sovratutto per le industrie private.

 

 

Se nel disegno di legge non abbiamo trovato traccia né del divieto di sciopero e neppure dell’arbitrato obbligatorio in senso proprio, abbiamo letto parecchie altre norme, alcune buone ed altre dubbie e di significato oscuro. Buona per fermo ci apparve la disposizione che mette in rapporto diretto, nonostante qualunque patto in contrario, i lavoratori coi proprietari od affittavoli. Non si vuole uccidere il caporale, od intermediario, assoldatore di squadre di operai agricoli; ma si vuole che sia pagato a parte, con una mercede fissata appositamente, e non con un prelievo sulle paghe dei lavoranti, che dà luogo ad abusi a carico di conduttori e locatori di opera. Neppure ci paiono obiettabili le norme relative al termine di disdetta, fissato in tre mesi per i contratti annuali ed in 8 giorni per i contratti di più breve durata. Siccome la legge si applicherà solo in mancanza di patti e di convenzioni contrarie, i lavoratori, che non volessero accettare quel termine, potrebbero sempre convenirne uno più breve. Una volta convenuto, sembra giusto debbano rispettarlo; e sembra giusto altresì vi sia una sanzione civile (non penale) per la rottura intempestiva del contratto, consistente nella perdita di una somma pari all’ammontare della retribuzione che il lavoratore avrebbe percepito per il periodo di tempo mancante a raggiungere il termine convenuto per il compimento del lavoro. I socialisti che in recente occasione additarono all’ammirazione universale le leghe operaie, le quali prestarono forti cauzioni per l’adempimento di contratti collettivi di lavoro, non possono logicamente biasimare la norma per cui il proprietario od affittavolo può trattenersi sino al 20% del salario dovuto al lavoratore in garanzia dell’adempimento dei patti stipulati.

 

 

Se tutto ciò è chiaro ed ammissibile, dubbie ed oscure ci sembrano le disposizioni relative alla conciliazione ed all’arbitrato. Qui il governo, volendo innovare ed essendo incerto, ha fatto opera che comprendiamo sia dispiaciuta ai lavoratori e non sembra degna di lode da un punto di vista generale. In ogni mandamento sarebbero istituite commissioni arbitrali, presiedute dal pretore, e composte di un numero eguale di delegati delle parti. Le commissioni dovrebbero decidere, prima in via di conciliazione, poi con sentenza obbligatoria ed inappellabile tutte le questioni «relative al contratto di lavoro in risaia, alla remunerazione del lavoro, al pagamento delle mercedi, ai patti speciali di lavorazione, all’abbandono del lavoro, allo scioglimento del contratto, ed in genere alla interpretazione ed applicazione del contratto». Pare chiaro ma non è. Infatti se l’ultima frase «alla interpretazione ed applicazione del contratto», restringe la competenza delle commissioni ai contratti già conchiusi, il resto del periodo può far nascere il sospetto che la competenza si allarghi anche ai patti nuovi. Se così fosse, i pretori delle plaghe risicole avrebbero in ultima analisi l’incarico gelosissimo di fissare, invece delle due parti, salari, orari e condizioni di lavoro. Sarebbe questo un arbitrato obbligatorio dei più coercitivi, perché senza diritto di appello. Noi non crediamo che il governo abbia voluto l’arbitrato obbligatorio, ed avrebbero ragione i socialisti di gridare alla soppressione del diritto di sciopero. Dovrebbero gridare anche i proprietari ed affittavoli, poca fiducia potendosi avere nella esperienza tecnico-economica dei pretori.

 

 

Neppure meglio inspirato ci pare il progetto quando regola l’intervento della commissione in caso di sciopero. Sarà in sua facoltà di intervenire offrendo i suoi buoni uffici per la conciliazione; e dovrà intervenire quando sia indubbia la perdita del raccolto. Fin qui poco male. È utile che vi sia un organo permanente inteso a conciliare le parti. Il progetto aggiunge:

 

 

In tal caso (di perdita indubbia del raccolto) il presidente della commissione dovrà adoperarsi affinché il lavoro abbia, secondo i casi, ad essere intrapreso o ripreso nel termine pii breve, in pendenza della procedura di conciliazione e di arbitrato; e darà anche, durante la procedura stessa, i provvedimenti temporanei urgenti nell’interesse delle parti e per evitare danni irreparabili al raccolto.

 

 

Ora, noi non sappiamo se sia ufficio del legislatore dar buoni consigli ai pretori sul modo di comportarsi durante i conflitti del lavoro; ed è da sperare che i pretori non abbiano aspettato la legge per fare il loro dovere sociale, né è da credere che la legge aggiunga alcunché alla loro autorità. Piuttosto è da chiedersi: oltre ai buoni uffici, i pretori dovranno anche dare ordini? e di quale natura saranno i loro provvedimenti per salvare i raccolti? Noi non riusciamo ad immaginarli poiché l’ordine del pretore agli scioperanti di riprendere il lavoro od agli affittuari di consentire ai desideri dei lavoratori è destinato a rimanere inefficace, essendo privo di una qualunque sanzione. Per aver voluto regolare troppo, il governo ha dettato disposizioni che non hanno un significato preciso e che possono dar luogo a conflitti più vivaci di quelli che si volevano evitare.

 

 

II

Il disegno di legge presentato dal governo per regolare il lavoro nelle risaie, se conteneva parecchie disposizioni buone, aveva però un grave difetto: di creare un nuovo istituto arbitrale oscuro ed ibrido. In ogni mandamento dovevano essere istituite commissioni arbitrali presiedute dal pretore e composte di un numero eguale di delegati delle parti. Le commissioni dovevano decidere, prima in via di conciliazione, e poi con sentenza obbligatoria ed inappellabile, tutte le questioni «relative al contratto di lavoro in risaia, alla remunerazione del lavoro, al pagamento delle mercedi, ai patti speciali di lavorazione, all’abbandono del lavoro, allo scioglimento del contratto ed in genere alla interpretazione ed applicazione del contratto». Competenza dunque larghissima, sebbene in apparenza limitata dall’ultimo inciso alla interpretazione ed applicazione del contratto. Noi osservammo, e parecchi osservarono con noi, che i pretori delle plaghe risicole avrebbero potuto ritenersi in diritto di fissare le paghe, le ore di lavoro e tutte le altre condizioni di loro ragione. Proprietari e contadini sarebbero stati alla mercé delle fantasie, per giunta inappellabili, di un magistrato privo spesso di qualunque competenza tecnica.

 

 

Né meglio inspirati apparivano i concetti del governo in caso di sciopero. La commissione doveva intervenire, offrendo i suoi buoni uffici per la conciliazione; e doveva intervenire quando fosse indubbia la perdita del raccolto. Qui si aggiungeva una disposizione di colore oscurissimo «In tal caso (di perdita indubbia del raccolto) il presidente della commissione dovrà adoperarsi affinché il lavoro abbia, secondo i casi, ad essere intrapreso o ripreso nel termine più breve, in pendenza della procedura di conciliazione e di arbitrato; e darà anche, durante la procedura stessa, i provvedimenti temporanei urgenti nell’interesse delle parti e per evitare danni irreparabili al raccolto». Che cosa erano questi buoni uffici del pretore? e di che specie i provvedimenti che egli poteva prendere d’urgenza? Quali sanzioni avrebbero avuto gli ordini del pretore? E come poteva immaginarsi, senza riso, un pretore a capo di soldati o di crumiri, affaccendato a salvare dalla distruzione il raccolto?

 

 

La commissione parlamentare ha fatto sommaria giustizia di questo informe tentativo di creare un istituto di arbitrato legiferante in materia di salari e di orari ed operante persino contro la volontà degli interessati; e si è limitata ad escogitare un qualche provvedimento di conciliazione.

 

 

Non più dunque commissioni di arbitrato, incaricate di dar sentenze inappellabili su qualunque materia; ma semplici commissioni di conciliazione, intese a cercare di mettere d’accordo le parti ed impedire il prorompere di un conflitto acerbo coll’intervento di persone autorevoli e competenti. In ragione dell’umiltà maggiore del fine, ridotta la competenza territoriale delle commissioni, che sarebbe estesa al solo comune. L’on. Turati, commissario dissenziente, di ciò si lagna, affermando che le molte commissioni comunali daranno luogo ad una disparità grande di giudizi e saranno più facilmente soggette all’influenza dei proprietari e propenderebbe per commissioni provinciali.

 

 

A parte l’accusa di facile condiscendenza verso i proprietari, che ha poca importanza, in quanto le parti, salvo un solo caso, di cui diremo poi, sono sempre in facoltà di respingere il consiglio delle commissioni; a noi sembra che l’istituto della conciliazione guadagni assai con una competenza ristretta. A metter d’accordo due contendenti giova di più l’opera di chi amendue li conosce ed abbia su di essi un ascendente morale, meglio che il consiglio di una lontana commissione posta nel capoluogo della provincia. La varietà dei deliberati corrisponderà alla varietà delle condizioni agricole, la quale è grande anche nelle zone risicole.

 

 

Quanto alla competenza per materia, essa è limitata «all’esame di ogni controversia che sorga, di carattere individuale o generale, tra i conduttori ed i locatori d’opera, purché relative all’interpretazione, applicazione ed esecuzione dei patti contrattuali e delle consuetudini in vigore». Qui la dizione è chiara. La commissione non si potrà ingerire nelle questioni nuove che sorgessero fra contadini e imprenditori, non potrà statuire, ad esempio, sulla domanda di un aumento di paga o di fissazione di un nuovo orario; ma dovrà esclusivamente occuparsi dell’interpretazione ed applicazione dei contratti già conchiusi fra le due parti e delle consuetudini già in vigore. Anche per questa materia, la risoluzione della commissione è definitiva ed obbligatoria solo quando sia emessa con l’intervento di tutti i commissari, sia dei rappresentanti dei contadini come dei datori di lavoro, ed adottata a voti unanimi. Negli altri casi le parti avranno sempre diritto, dopo esperito inutilmente il tentativo di conciliazione, di far valere i loro diritti dinanzi all’autorità giudiziaria competente.

 

 

In conclusione, quello che si vuol creare è un istituto permanente di conciliazione in ogni comune, al quale le parti debbono portare le controversie relative ai patti già conchiusi prima di adire i giudici ordinari, per vedere se è possibile l’accordo. Le questioni più importanti saranno sottratte al tentativo di conciliazione; poiché è certo che gli scioperi più gravi non avvengono per interpretare ma per modificare i contratti vecchi.

 

 

Soltanto le controversie più modeste, di carattere particolare, relative al passato e non all’avvenire, saranno portate dinanzi alle commissioni di conciliazione. La cui opera non perciò sarebbe inutile, poiché molti conflitti sui patti nuovi avvengono a causa della pretesa inosservanza od insufficienza dei contratti vecchi; e le commissioni a molto gioverebbero togliendo equivoci, chiarendo contratti e codificando consuetudini. Appunto perché l’opera delle commissioni dovrà essere sovratutto di persuasione, di buoni uffici, di smussamento di asperità; noi toglieremmo persino la obbligatorietà dei suoi giudicati in caso di accordo unanime di tutti i commissari. Occorre che l’autorità morale delle commissioni conciliatrici rimanga sempre superiore ad ogni sospetto. Chi impedirà alla parte soccombente di recriminare contro i propri rappresentanti, quasi fossero stati comprati dalla parte avversa? Le decisioni saranno più rispettate se avranno un valore puramente morale e se rispecchieranno semplicemente l’opinione di cinque probi uomini intorno al conflitto insorto. Se, malgrado l’opinione unanime di costoro, una parte vorrà andare dinanzi ai giudici ordinari, sia libera di farlo. È probabile che quasi sempre si acquieterà volontariamente al responso, poiché qual giudice non vorrà tenere conto grandissimo del parere delle commissioni, se espresso ad unanimità di voti?

 

 


[1] Con il titolo Il progetto di legge sul lavoro nelle risaie. [ndr]

[2] Con il titolo Dall’arbitrato alla conciliazione nel disegno di legge per le risaie. [ndr]

La riduzione del dazio sul petrolio

La riduzione del dazio sul petrolio

«Corriere della Sera», 28 febbraio 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 500-504

 

 

Che il ministero si fosse deciso per la riduzione del dazio doganale sul petrolio era cosa nota da molto tempo, anche per la presentazione già avvenuta del relativo disegno di legge. Non erano noti invece i motivi che avevano fatto preferire al ministero quello sgravio e le ragioni che l’avevano limitato a 24 lire, mentre i più auspicavano un ribasso più forte, da 48 a 15, o magari a 10 lire. La relazione del ministro delle finanze, on. Massimini, vuole appunto esporre l’avviso del governo su questi due importantissimi punti, ed è opportuno perciò esaminarla e discuterla.

 

 

Il governo ha certamente con sé la più gran parte dell’opinione pubblica, quando asserisce che la riduzione del dazio sul petrolio era, fra tutte, la più desiderata e quella preferita agli sgravi sul grano, sul sale, sullo zucchero e sul caffè. Nessun dubbio che se oggi si indicesse un referendum, troppo gravi sarebbero i dissensi intorno al mantenimento od alla riduzione del dazio sul grano; sicché si può assentire coll’on. Massimini, quando dichiara che la maggioranza degli italiani vuole «lasciare ancora impregiudicata quella questione». Nessun dubbio del pari che «una efficace diminuzione della tassa interna sul sale, mentre significherebbe una perdita permanente per la finanza, non recherebbe un sensibile beneficio per i consumatori e non avvantaggerebbe tutti i consumatori». La riduzione di soli 10 centesimi al kg nel prezzo del sale farebbe infatti perdere alle finanze 17 o 18 milioni di lire, e non provocherebbe un aumento percettibile nel consumo. L’opinione pubblica, incerta intorno al contegno da tenere in ordine al regime degli zuccheri, che gli uni proclamano scandalosamente protettivo, e gli altri difendono come un equo ed appena sufficiente baluardo della produzione nazionale, vede riprodotta la sua incertezza nelle dichiarazioni del ministro, il quale, non sapendosi decidere, scrive: «che, se è sentita la necessità di modificare il regime fiscale dello zucchero, non è ancora giunto il momento in cui ad una riforma di tale regime si possa addivenire coll’effetto di rendere il prezzo meno gravoso per i consumatori in modo altrettanto sensibile di quanto può risultare per il petrolio».

 

 

Quanto al caffè, nessuno contesta che «una diminuzione dell’alto dazio che grava sul caffè, già del resto diminuito nel 1900 in seguito all’accordo commerciale col Brasile, non assumerebbe il carattere di un provvedimento inteso a recar sollievo alle parti più bisognose della popolazione». Insomma già l’opinione pubblica aveva scartato, per consenso generale, il grano ed il caffè; ed i più ritenevano che una proposta di sgravio avrebbe corso rischio di non approdare, quando avesse preso a suo oggetto il grano e lo zucchero, essendo troppo forti e contrastanti gli interessi messi da siffatta riforma in gioco. Noi perciò non lesineremo le nostre lodi al governo per essersi incamminato su quella via che gli era indicata dall’opinione pubblica, e per avere scelto quello sgravio che appariva più attuabile e nello stesso tempo fecondo di vantaggi abbastanza grandi per i consumatori e per la produzione.

 

 

La storia che il ministro fa delle vicende del dazio sul petrolio è storia vecchia, ma non perciò meno interessante. Istituito nel 1864 nella misura di 2 lire per quintale e portato nel 1866 a 6 lire, nel 1871 a 9 lire, nel 1872 a 24-25, nel 1878 a 27-28, nel 1880 a 33, nel 1887 a 47, e nel 1891 a 48 lire per quintale, l’aumento continuo del dazio non scemò il consumo perché nel tempo medesimo il valore d’origine del petrolio, fuori dazio, scemava da 50 a 17 lire per quintale, cosicché il consumatore vide il prezzo aumentare in complesso, tra valore d’origine e dazio, da 56 a 65 lire per quintale. Siccome in quel tempo non così viva era la concorrenza del gas, della luce elettrica, del carburo di calcio e degli altri illuminanti, il consumo individuale del petrolio poté crescere da 1.405 grammi nel 1871 a 2.530 grammi nel 1892-93, e il provento del dazio per lo stato da 3.384.483 a 35.816.592 lire. Dal 1893-94 comincia una nuova vicenda per il dazio sul petrolio. Battuto in breccia dalla concorrenza dei succedanei, il petrolio un po’ per volta scema d’importanza. Il consumo del gas-luce da 112 milioni di metri cubi nel 1896-97 cresce a 189 milioni nel 1905-906; il consumo di energia elettrica per illuminazione e riscaldamento da 161 milioni di ettowatt – ore nel 1896-97 sale a 738 milioni nel 1905-906; e quello del carburo di calcio da 112.000 quintali nel 1903 a 200.000 quintali nel 1905-906. Il petrolio invece diminuiva a grado a grado il suo consumo individuale da 2.530 grammi nel 1892-93 a 2.131 nel 1904-905 ed il reddito del dazio, dopo aver quasi toccato i 36 milioni di lire, a mala pena superava nel 1906 i 30 milioni. La causa della continua diminuzione dei consumo era l’altezza esagerata del dazio. La relazione ministeriale a ragione nota:

 

 

Se si esaminano le tariffe degli altri stati, tralasciando quelli nei quali, come l’Inghilterra, la Svezia e la Norvegia, il petrolio è esente da dazio, troviamo che in nessun stato d’Europa il dazio su questo prodotto raggiunge l’elevatezza di quello italiano; solo quello spagnuolo vi si avvicina, ma a distanza, non mai superando esso la misura di 37 pesetas per quintale. Dopo quello spagnuolo, il più alto è quello dell’Austria-Ungheria (11 corone, pari a lire 11,55, più 13 corone di tassa di consumo), malgrado questa abbia da difendere la propria produzione interna. Il dazio francese (minimo) è di 10 franchi per ettolitro, e quello tedesco di lire 7,55 per quintale oppure 6 lire per ettolitro, a scelta. La Danimarca ha un dazio di lire 5,80; la Rumania e la Bulgaria di 5; la Svizzera di 1,25 i Paesi bassi di 1,16. È tempo oramai che cessi il triste primato.

 

 

Non solo era tempo che cessasse il triste primato nell’interesse dei consumatori, ma anche in quello della finanza; che, se negli ultimi anni non fossero venuti in aiuto del fisco i brillanti progressi dell’automobilismo e i cresciuti consumi industriali di benzina, il reddito fiscale sarebbe diminuito ben più di quanto accadde.

 

 

Appunto perché la riduzione del dazio sul petrolio da 48 a 24 lire per quintale era divenuta urgente per la finanza medesima, che noi riteniamo non aver dato il ministero, a questa riforma, l’importanza ed il posto dovuti. Nella relazione si fanno i conti della perdita che il fisco subirà in conseguenza della riduzione del dazio da 48 a 24 lire; e dopo averla calcolata in 16 milioni di lire, nell’ipotesi che il consumo non avesse ad aumentare, si riconosce che la perdita sarà di molto minore, perché l’aumento del consumo è indubitato.

 

 

Qui giungiamo al vivo del problema.

 

 

Il governo, per bocca dell’on. Majorana, si professò pronto nel novembre scorso a destinare 16 dei 20 milioni di beneficio della conversione a sollievo dei contribuenti. Oggi, colla proposta di riduzione del dazio sul petrolio, il conto dei 16 milioni di sgravio torna aritmeticamente, ma non torna nella sostanza. È vero che i consumatori pagheranno il petrolio meno caro; ma, siccome ne consumeranno di più, riceveranno dal fisco un dono di 16 milioni di lire, solo per restituirne al fisco medesimo una parte imprecisabile, ma rilevantissima, forse 8 o 10 milioni o magari più. In conclusione il governo avrà fatto il bel gesto di dare ai contribuenti 16 milioni coi proventi della conversione; ma finirà per dare solo 8 o 6 milioni, ed è da augurare che fra qualche anno non abbia a dare più nulla.

 

 

Torniamo così alla nostra proposta antica, di istituire con i 16 milioni un vero e proprio fondo di sgravi. Noi non sappiamo oggi, né possiamo prevedere a quanto ammonteranno i ricuperi del fisco per l’accresciuto consumo; ma possiamo fin d’ora deliberare che quei ricuperi non vadano confusi con le altre entrate pubbliche; ma, essendo di spettanza dei contribuenti, siano destinati a loro sollievo ed assegnati, con solenni dichiarazioni ministeriali, ad un fondo speciale per gli sgravi. Accadrà che fra due o 3 o 5 anni la perdita dello stato sarà scomparsa e di nuovo i 16 milioni affluiscano al fondo degli sgravi? Si penserà a scemare un altro tributo, magari di nuovo quello sul petrolio, da 24 a 10 lire al quintale. Forse fra qualche anno i dubbi che oggi assillano il governo intorno alla opportunità di ridurre il dazio sul grano o di modificare il regime degli zuccheri, saranno scomparsi; e l’opinione pubblica, più franca di quanto oggi non sia, saprà additare al governo la via da percorrere nell’interesse del paese, senza turbare d’un tratto interessi costituiti forti ed importanti. Se il governo avrà allora sottomano il fondo degli sgravi, formatosi a poco a poco col crescere inevitabile del consumo del petrolio, potrà dar ascolto alle richieste divenute imperiose dell’opinione pubblica. In verità, fin d’ora il governo potrebbe dedicare alla riforma tributaria somme ben più importanti dei 16 milioni concessi al petrolio; non è quando si parla di avanzi di 60 milioni che si deve essere timidi nella soluzione di problemi, che possono essere risoluti solo con concezioni ardite. Se non si osa far di più, almeno si dica che lo sgravio dei 16 milioni concesso ai contribuenti non deve convertirsi solo in un lucro prossimo del fisco; e si affermi la volontà di far in modo, con la costituzione di un fondo per gli sgravi, che il sollievo abbia ad essere perpetuo e riproduttivo!

 

 

La riforma dei tributi locali

La riforma dei tributi locali

«Corriere della Sera», 26 febbraio 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 495-499

 

 

La riforma dei tributi locali che l’on. Majorana si è ostinato, con insistenza degna di più alta impresa, a ripresentare al parlamento per mezzo del collega on. Massimini, è davvero disgraziata. Un anno fa, discorrendo della prima edizione di questo disegno di legge, facevamo notare che il ministro delle finanze, al quale i colleghi non consentano di fare davvero qualcosa di nuovo, di iniziare una trasformazione tributaria importante e sentita dai contribuenti, può, per consolarsi del suo disinganno, accingersi ad un lavoro parziale di piccole modificazioni degli ordinamenti esistenti, in guisa da migliorarli dal punto di vista tecnico, da renderli più adatti a fornire alle finanze le identiche entrate di prima con più giusta ripartizione di pesi sui contribuenti. Lo stesso concetto potremmo ripetere oggi, se nel frattempo non fosse divenuta incomportabile l’esistenza di ministeri intesi unicamente a fare dell’ostruzionismo intorno alle sostanziali riforme volute dal paese e dimostrate possibili con argomenti e dati inoppugnabili.

 

 

Un anno fa, quando si discuteva del primo disegno di legge Majorana, che era identico in tutto al disegno odierno, poteva essere dall’opinione pubblica consentito che i governanti si baloccassero attorno a gingilli innocui, perché si volevano rimandati i problemi gravi a conversione della rendita compiuta. Oggi le premesse di riforma tributaria debbono essere intonate al momento ed alla necessità universalmente riconosciuta che qualche cosa davvero si faccia; ed oggi perciò delle proposte Majorana non può essere contento nessuno, perché troppo con esse si rimane lontani da qualunque anche timido proposito di riforma.

 

 

Se il disegno di legge dovesse essere guardato solo dal punto di vista della tecnica tributaria, potrebbe essere accolto, ed anzi essere reputato buono, se non ottimo. In sostanza si tratta di questo: mettere al posto delle due imposte locali esistenti, l’imposta di famiglia e l’imposta sul valor locativo, una imposta nuova chiamata imposta sull’entrata. Tutti gli scrittori e tutti i pratici sono d’accordo nel ritenere che l’imposta di famiglia è arbitrariamente applicata in molti comuni, con aliquote disformi, spesso senza nessuna giustizia, poco tassandosi i ricchi e molto relativamente i poveri; e parimenti tutti sono d’accordo nel reputare l’imposta sul valor locativo meno arbitraria, ma altresì alquanto cervellotica, non essendo i redditi spesso in rapporto regolare coi fitti pagati dagli inquilini. Se l’on. Majorana si fosse contentato di presentare un modesto disegno di legge intitolato: «Per la fusione delle due imposte di famiglia e sul valor locativo», avrebbe trovato consenzienti parecchi, specie fra gli amministratori dei comuni. L’imposta sul valore locativo avrebbe dato un criterio oggettivo, il fitto pagato, per la valutazione dei redditi, il criterio avrebbe potuto servire di guida, perché l’imposta nuova, il cui nome avrebbe potuto ancora essere quello antichissimo di «imposta di famiglia», avrebbe potuto tener conto di altri criteri, come la figliuolanza numerosa, il celibato, il reddito accertato in altre maniere; ed avrebbe potuto stabilire un minimo di esenzione, variabile a seconda dei comuni, ed avrebbe benissimo potuto fissare massimi e minimi di tassazione, cominciando con un’aliquota mitissima e crescendo progressivamente a poco a poco, sino ad un’aliquota massima del 4 o del 5% per i redditi più grossi. Se così si fosse fatto, nessuno si sarebbe spaventato – spesso i nomi incutono più timore delle cose! -; tutti si sarebbero accorti che non c’era nulla di nuovo, che l’unica novità stava nel fondere insieme due vecchissime imposte esistenti, e nel regolarne l’attuazione meglio di quanto non si faccia oggi, che essa e’ lasciata al buon senso, e, diciamolo pure, all’arbitrio, soventi ingiusto, dei comuni. Gli amministratori dei comuni non avrebbero avuto argomento per strillare; poiché, come oggi sono liberi di applicare una o l’altra o tutte e due o magari nessuna delle due imposte di famiglia e sul valor locativo, domani sarebbero del pari stati liberissimi di applicare o no la nuova imposta di famiglia. Unico nuovo vincolo sarebbe stato quello di applicarle secondo criteri più giusti di distribuzione sociale; e qui, a togliere il pericolo che alcuni comuni, oggi abituati a tassare la povera gente per la mancanza di gente ricca, si fossero trovati senza materia imponibile, non sarebbe stata impresa ardua escogitare qualche provvedimento transitorio, atto a giovare ai comuni veramente poveri, senza incoraggiare quelli dove i ricchi e gli agiati ci sono, ma non amano pagare le imposte.

 

 

Il Majorana ha proposto precisamente alcune di queste modestissime e buone, anzi ottime, cose; ma ha avuto il torto di innestare su di esse parecchi fronzoli inutili ed allarmanti e di decorarle col nome pomposo di «riforma dei tributi locali». Errori amendue gravissimi per un perspicace uomo politico, ma gravi sovratutto nel momento presente. Nel quale, se si possono ammettere le piccole riforme tecniche (e quante innocue ed utilissime per la pubblica finanza se ne potrebbero fare!), si ammettono a condizione di chiamarle col loro vero nome e di non volere ostacolare con esse il compimento di altre riforme sostanzialmente e subito utili ai contribuenti.

 

 

Se il Majorana si fosse contentato di apportare qualche giusta modificazione al congegno delle imposte esistenti avrebbe fatto opera utile e pratica; mentre a nulla riuscirà coll’aver di sottomano voluto introdurre nella nostra legislazione il principio dell’imposta progressiva sull’entrata, e coll’aver per giunta affidato l’incarico di attuare una così gelosa e momentosa riforma ai comuni, dimostratisi incapaci di applicare efficacemente persino quegli strumenti assai più semplici di tassazione che sono il focatico ed il valor locativo.

 

 

Tra i fronzoli inutili con i quali il Majorana ha creduto di ornare il suo disegno di legge, rendendolo invece antipatico ai più, è la pretesa di volere con la nuova imposta sull’entrata iniziare la riduzione delle sovrimposte sui terreni e sui fabbricati, del dazio consumo, delle tasse sul bestiame e di esercizio e rivendita. Bellissimi propositi per fermo, ad attuare i quali fa d’uopo però di molti denari; né questi si otterranno con la nuova imposta sull’entrata, la quale, a dir molto, darà un reddito uguale a quello delle due imposte che si vogliono con essa sostituire (26 milioni di lire per tutti i comuni italiani). Perché il proponente non si è contentato di dimostrare che con le sue proposte quei 26 milioni si sarebbero ripartiti più giustamente tra i contribuenti? Perché ha voluto mettere innanzi l’idea che invece si avrebbe avuto un gettito molto maggiore, di 50 o 60 milioni? Tutti si son detto che un risultato tanto meraviglioso si sarebbe potuto raggiungere solo dando un altro giro al torchio tributario ed, incolleriti si pensasse ad aumentare i tributi proprio dopo la conversione della rendita, dopo tante promesse di sgravi, hanno cominciato a gridare in coro la croce addosso al progetto di legge. Né si può dire che contribuenti e deputati abbiano torto, perché non è questo il momento di aumentare subdolamente le imposte, sia pure per perseguire fini, astrattamente giusti, di migliore distribuzione dei tributi.

 

 

Questo per i fronzoli inutili. Quanto al titolo di «riforma dei tributi locali» dato al disegno di legge, non poteva essere più infelice. Passiamo sopra ai ricordi di decine di progetti di legge aventi quel nome e tutti andati a male, cosicché pochissimi hanno ancora fiducia nelle riforme di quel genere. Vi è un appunto più grave da fare a quel titolo: perché affibbiare un nome così pomposo ad una riforma così modesta? Nell’opinione di molti, ed anche nella nostra, il ministero non può sottrarsi al rimprovero di aver voluto con ciò distrarre l’attenzione del pubblico dalle riforme sostanziali che esso ha diritto di pretendere.

 

 

Il pubblico chiede una riforma la quale riduca davvero l’onere tributario; cosa perfettamente compatibile con un bilancio il quale presenta, anche nel 1906-907, malgrado tutte le spese straordinarie, un grosso avanzo valutato dai tecnici da 60 a 100 milioni di lire. Invece il ministero presenta bensì la proposta di riduzione del dazio sul petrolio da 48 a 24 centesimi il kg; ma ne amareggia la gradita impressione, ostinandosi a far comparire in lontananza l’immagine d’una riforma destinata a fruttare 50 o 60 milioni invece di 26, promettendo mirabilia ai contribuenti quando vi sarà tutta quella grazia di Dio nelle casse comunali.

 

 

Qual meraviglia che negli uffici della camera il rinnovellato progetto Majorana abbia avuto accoglienze ostili, pur fra i membri di parte ministeriale e sia oramai tacitamente buttato a mare dai giornali ufficiosi? Intanto però al governo sembra di aver fatto tutto il dover suo riducendo il dazio sul petrolio della metà, con una perdita teorica di 15 milioni di lire e reale di assai meno – quasi si oserebbe dire senza alcuna perdita se si volesse badare non al presente ma ad un prossimo avvenire -; e rimandando ogni discorso sull’impiego degli avanzi alla discussione della riforma sui tributi locali, riforma che viceversa dovrebbe fruttare ai comuni un vistoso aumento di entrate. Così hanno ragione di lamentarsi tutti: tanto i fautori degli sgravi, quanto i patrocinatori di maggiori spese e sovratutto i fautori dell’avocazione delle scuole elementari allo stato. Che monta, quando col non affrontare i grandi problemi si prolunga la vita ministeriale?

 

 

 

Contratti collettivi di lavoro o concordati di tariffa?

Contratti collettivi di lavoro o concordati di tariffa?

«Corriere della Sera», 25 febbraio 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 488-494

 

 

Fra i temi che non poterono essere trattati nella passata sessione del consiglio superiore del lavoro, ma sono discussi nella presente, vi è quello del contratto di lavoro, su cui ha già riferito una commissione, relatore Murialdi.

 

 

Tre sono i tipi di accordi di cui la commissione ha constatato la importanza o la frequenza:

 

 

  • contratti collettivi di cottimo;
  • contratti collettivi di lavoro;
  • concordati di tariffa.

 

 

Il «contratto collettivo di cottimo» regola quei casi in cui una squadra di lavoratori assuma dagli imprenditori, per un prezzo stabilito col sistema del cottimo, l’esecuzione di lavori manuali di breve durata e di natura molto semplice. Sarebbe eccessivo pretendere che questi lavori di breve durata e compiuti da un personale operaio instabilissimo, richiedano un contratto conchiuso coll’intervento di una «associazione registrata». Per quanto poche siano le formalità richieste per costituire un’associazione registrata secondo le proposte della stessa commissione, sarebbero sempre troppe per un contratto collettivo di cottimo. Si propone perciò che tutti i componenti la squadra di lavoratori firmino il contratto coll’imprenditore, indicando la persona a cui essi affidano la propria rappresentanza. I firmatari sarebbero solidariamente responsabili per l’esecuzione del contratto di fronte agli imprenditori, ai quali, in caso di infrazioni, dovrebbero pagare penalità garantite da ritenute non superiori al 10% sul salario. La squadra, per mezzo del suo rappresentante, potrebbe agire sia verso gl’imprenditori, sia verso i lavoratori singoli, obbligandoli a rimborsare alla cassa sociale le penalità pagate all’imprenditore, od espellendoli dal lavoro, previa dichiarazione firmata dai due terzi dei partecipanti, se colpevoli di infrazione del contratto.

 

 

Il «contratto collettivo di lavoro» dovrebbe avere forme assai più precise. Esso dovrebbe essere stipulato soltanto fra imprenditori ed «associazioni registrate» di lavoratori. L’associazione avrebbe l’impegno di fornire il personale occorrente all’esecuzione di determinate opere, di fronte all’impegno dell’imprenditore di provvedersi presso l’associazione stessa del personale occorrente per le opere stesse, ed a condizioni di salario, di orario, ecc., fissate nel contratto. L’associazione, impegnandosi di provvedere il personale, alcune volte si riserva il diritto di destinare essa stessa (col sistema del turno od altro) i singoli suoi aderenti al lavoro, a seconda delle richieste dell’imprenditore che, o si limita a far conoscere all’associazione il numero degli individui occorrenti, o si riserva anche il diritto di rifiutare, per determinate cause, alcuni dei proposti. In altri casi, l’associazione lascia che l’imprenditore eserciti il diritto di scelta del personale dell’associazione, a seconda del bisogno che egli ha di lavoratori. Questo il nocciolo del contratto collettivo del lavoro, rappresentato in Italia finora da tre contratti conchiusi per le operazioni di sbarco ed imbarco dei carboni fossili nel porto di Genova, per la fabbricazione di cappelli Borsalino in Alessandria e per la fabbrica di automobili «Itala» in Torino.

 

 

Di fronte alla scarsezza ed alla breve durata delle esperienze compiute finora in Italia, sarebbe stato pericoloso sia il rendere in alcuni casi obbligatorio questo contratto, sia l’imporre discipline troppo precise, che potrebbero dimostrarsi spesso inapplicabili. Perciò la commissione, la quale non nasconde le sue vive simpatie per questo tipo di contratto, si limita a proporre che ne sia riconosciuta la validità, quando:

 

 

  • risulti da scrittura privata od atto pubblico firmato dall’imprenditore o dai rappresentanti dell’associazione;
  • indichi il periodo in cui esso avrà vigore, periodo che nel silenzio delle parti non potrà essere superiore ai tre anni;
  • i modi e i termini entro cui deve essere notificata la disdetta Nel silenzio delle parti il termine sarà di tre mesi;
  • le norme riflettenti le garanzie per l’esecuzione del contratto. Se non fosse altrimenti stabilito, la garanzia sarà rappresentata per parte degli operai da cauzioni formate o da depositi all’atto della stipulazione, o da vincoli sopra parte dei fondi dell’associazione, o con ritenute sui salari. Da parte degli imprenditori, la garanzia sarà data da obbligazioni in proprio;
  • le norme per l’accettazione del contratto da parte dell’associazione registrata o per voto dell’assemblea generale dei soci o per deliberazione del consiglio direttivo avente mandato di fiducia dell’assemblea. Saranno valide solo le deliberazioni prese col voto dei due terzi dei soci presenti e della metà degli iscritti.

 

 

La commissione, la quale evidentemente considera il contratto collettivo di lavoro come la meta ultima verso cui è incamminata l’evoluzione industriale ed operaia moderna, riconosce però che per ora quei contratti sono l’eccezione e che ben più numerosi sono invece i «concordati di tariffa». Necessità quindi di regolare anche questi, definiti come quelle «condizioni di orario e di salario che vengono, per una determinata zona o regione e per determinate imprese agricole ed industriali, accettate da alcuni padroni da una parte e da masse di lavoratori dall’altra, o completamente disorganizzate in associazioni di fatto e disciplinate in forma precaria e variabile». Il difetto del concordato di tariffa, secondo la commissione, sta nel fatto che né i lavoratori si obbligano, sia personalmente, sia in forma collettiva, ad andare a lavorare alle condizioni in esso contemplate, in guisa che, se, dopo un mese o qualche anno, essi, che l’hanno accettato, o quelli che saranno impiegati nell’impresa in quel momento, crederanno conveniente rifiutarsi al lavoro a quelle condizioni per ottenerne altre, potranno legalmente farlo. Da parte loro i padroni, quando trovino lavoratori disposti a locare la loro mano d’opera ad altre condizioni, possono a lor volta non più rispettare il concordato senza poter essere richiamati alla sua osservanza.

 

 

La commissione, a cui la incertezza giuridica non piace, ha voluto porvi in parte riparo, dichiarando legalmente valido il concordato di tariffa solo quando sia stipulato a mezzo di una associazione registrata, ovvero, per eccezione nelle località in cui associazioni consimili non esistono ed in seguito a scioperi o serrate, a mezzo della assemblea di almeno due terzi degli scioperanti, coll’intervento di un pubblico ufficiale e redazione di un verbale accettato dalla maggioranza dei presenti. Il concordato dovrà essere depositato entro 24 ore nel comune e pubblicato all’albo pretorio, allo scopo di evitare i dubbi sul testo dell’accordo intervenuto fra le parti. Nel concordato dovranno essere indicate le norme per la durata, la disdetta, ecc. L’imprenditore dovrà rispettare le condizioni del concordato nei riguardi degli operai suoi dipendenti, iscritti o non all’associazione registrata; nel senso che queste condizioni rappresentino il minimo di trattamento che può essere migliorato, ma non peggiorato in confronto di nessun operaio; ed a sua volta l’operaio non potrà in via legale pretendere di più di quanto stabilisce il concordato, salvo le personali pattuizioni in rapporto alle sue speciali abilità personali. Liberi sempre però gli operai di ricorrere allo sciopero e gli imprenditori alla serrata, come «ultima ratio» per dirimere le loro controversie.

 

 

Questi, per somme linee, i capisaldi dei tre tipi di contratto di lavoro che la commissione del consiglio del lavoro propone di consacrare, lasciando agli imprenditori ed agli operai libertà di accogliere o l’uno o l’altro o anche di non adottare nessuno dei tre.

 

 

Poiché in massima la commissione si è limitata a stabilire le norme procedurali con cui si può dar vita e validità ad ognuno di quei tre tipi di contratto, noi ci auguriamo che le sue proposte formino oggetto di una feconda discussione legislativa. Durante la quale ci auguriamo però che non predomini quel senso assoluto di sfiducia e di antipatia verso i concordati di tariffa che caratterizzano il rapporto dell’avv. Murialdi. Di fronte al contratto collettivo, il concordato di tariffa giuridicamente fa certo una figura meschina: ivi non parti contraenti definite, poiché un’assemblea di scioperanti o i delegati di una lega di fatto mutano da un giorno all’altro, scompaiono e ricompaiono; e perché gli imprenditori possono disvolere domani ciò che hanno accettato oggi ed assoldare operai a salario minore della tariffa; ivi non sanzioni efficaci, perché nessun fondo comune, nessuna cauzione vincolano gli operai verso gli imprenditori.

 

 

Eppure il concordato di tariffa ha ancora nella società industriale moderna un compito importante da assolvere, più vasto forse di quello assegnato al contratto collettivo.

 

 

Purtroppo nelle lotte fra capitale e lavoro sarà sempre difficile di giungere, con qualsiasi forma di contratto, collettivo o non, all’equilibrio perfetto, all’armonia duratura. Anche il contratto collettivo di lavoro riuscirà benefico in quanto renderà forse la lotta meno acerba, meno frequente, più civile, come è di moda dire oggi. In epoche di crisi industriali – crisi sia nel senso di rapido progresso dei profitti, sia nel senso di cadute rumorose e frequenti di imprese male organizzate od esuberanti – nessun contratto collettivo di lavoro stipulato in antecedenza in altre condizioni economiche varrà ad impedire lo scoppio di conflitti violenti fra le due parti in lotta. Sarà gran fortuna se riuscirà a smussare gli angoli ed a rendere la rottura meno clamorosa. Lo stesso ufficio moderatore ha avuto ed ha il concordato di tariffa. Quando, dopo una lotta prolungata, imprenditori ed operai, sia pure un po’ confusamente, senza le garanzie legali del contratto collettivo patrocinato dalla commissione del consiglio del lavoro, si mettono d’accordo su una tariffa di salari a cottimo od a tempo, essi pongono con ciò una «regola comune», la quale forma pro tempore la base di tutti i contratti individuali di lavoro in una località e per una data industria. Gli operai sanno che quella è la loro rimunerazione tipica, e gli imprenditori sanno che urterebbero il sentimento del giusto nelle loro maestranze se violassero quei patti. Senza gravi motivi la maggioranza degli uni e degli altri si attiene alla tariffa concordata, finché un po’ per volta l’azione del tempo non l’abbia resa antiquata. Una nuova lotta, che può essere anche pacifica, dà luogo alla formazione di una nuova tariffa. Vi potranno essere defezioni, sovratutto da parte dei piccoli padroni e degli operai inferiori, disoccupati permanenti. ecc.; ma il blocco della grande industria vi si mantiene fedele.

 

 

Forse questo parrà un metodo imperfetto perché non importa sanzioni legali precise. Importa però sanzioni morali, non meno efficaci spesso di quelle legali; ed ha per sé il grande vantaggio di essere facilmente mutabile, di adattarsi a tutte le circostanze, di lasciare agli imprenditori una grande libertà nella scelta della propria maestranza e nel tempo stesso laddove le leghe operaie sono davvero forti, di poter essere fatto osservare rigidamente. Perciò noi non vediamo di buon occhio il tentativo di strozzamento dei concordati di tariffa compiuto dalla commissione con due disposizioni che passerebbero inavvertite, se non ne fosse messa in rilievo tutta la portata. Una dice: «La disdetta data da uno degli imprenditori verrà in confronto di tutti». Così concordati che potrebbero vivere e continuare a fissare il tipo delle remunerazioni operaie vigenti in un luogo o per una industria, dovranno cadere nel nulla solo perché ad un imprenditore, magari minuscolo, è caduto in mente di non volerlo più osservare! È la lotta in permanenza, organizzata dalla legge, laddove potrebbe essere pace quasi generale. L’altra disposizione dice: «Il concordato di tariffa potrà estendersi anche agli appartenenti alla stessa forma di attività industriale od agricola che non lo hanno firmato, qualora però i firmatari rappresentino la maggioranza (desunta dal numero degli operai da loro impiegati) degli esercenti l’impresa cui il concordato si riferisce». O perché la commissione, che per il contratto collettivo di lavoro si contenta di vederlo adottato volontariamente, pretende imporre il concordato di tariffa anche a quelli che non ne vogliono sapere? Non è un organizzare la serrata e gli scioperi in nuovi stabilimenti, subito dopo che furono, grazie al concordato, sedati in altri? Che valore ha questa obbligatorietà, se un singolo industriale può sempre denunciare il concordato con effetto legale per tutti gli altri?

 

 

La commissione aveva fatto opera buona limitandosi a stabilire diversi tipi di contratto, tra i quali si sarebbe operata liberamente la selezione, secondo la volontà e gli interessi delle parti. Era la concorrenza fra i diversi tipi che avrebbe designato il contratto vincitore. Non distrugga la commissione l’opera sua, uccidendo un tipo di contratto, e per giunta, quello più diffuso a vantaggio di un altro tipo, che deve ancora dimostrare, colla prova dell’esperienza, la sua maggior perfezione.

 

 

Per un’inchiesta ferroviaria

«Corriere della sera», 10 febbraio 1907

L’opinione pubblica ha già fatto giustizia in questi pochi giorni del provvedimento salvatore annunciato dall’on. Giolitti per l’attuale enorme disservizio ferroviario: la nomina di un Comitato parlamentare permanente di vigilanza. Agli occhi della burocrazia l’aver escogitato questo rimedio sarà forse parso atto di grande sapienza e di grande avvedutezza. O non hanno forse un Comitato parlamentare di vigilanza tutti gli Enti autonomi che esistono nella nostra legislazione? La Cassa dei depositi prestiti, banca di Stato sui generis, la quale certo funziona egregiamente, ha il Comitato di vigilanza; e l’ha pure il Commissariato dell’emigrazione.

 

 

Accanto al Consiglio di vigilanza, che sorveglia e riferisce al Parlamento.

 

 

Perché lo stesso sistema non potrebbe applicarsi alle ferrovie di Stato? A capo, un Comitato di amministrazione, che delibera ed esegue: ed accanto un Comitato di vigilanza, che ricorda ai dirigenti come essi amministrano un’impresa dello Stato e siano responsabili del loro operato dinanzi al Parlamento; un Comitato che inquirisca continuamente sull’andamento dell’azienda ferroviaria, studii i mali e riferisca al Parlamento.

 

 

Senonché subito si vide che il paragone per più rispetti era sbagliato. La Cassa dei Depositi e Prestiti e una banca, che ha un vasto movimento finanziario; ma le cui operazioni si riducono in sostanza a pochissimi tipi fondamentali: depositi liberi e vincolati, mutui agli Enti locali, ai consorzi, ecc. La legge fissa il modo con cui i mutui devono essere fatti, ne determina le condizioni, riducendo al minimum l’iniziativa della cassa.

 

 

Il Comitato parlamentare può esaurire il suo compito con poche adunanze all’anno; e di solito non vi sono materie controverse che richieggano il suo giudizio. Così pure pel Comitato di vigilanza sul Commissariato dell’emigrazione. Il suo compito si limita sovratutto alla gestione finanziaria e non ha nulla a che fare nella determinazione dei noli, nella ammissione delle navi al servizio emigranti, ecc., che sono fra le materie più gelose di competenza del Commissariato. Tutt’altra sarebbe la posizione di un Comitato parlamentare di vigilanza sulle ferrovie di Stato. A voler essere efficace, il suo controllo dovrebbe essere quotidiano, minuto, su tutti gli atti del Comitato di amministrazione. Finirebbe per diventare un bastone di più tra le ruote del carro ferroviario, già così sconquassato.

 

 

Noi abbiamo voluto, per paura che ritardasse troppo la necessaria rapidità delle deliberazioni e dell’azione, che il controllo della Corte dei Conti si facesse per le ferrovie di Stato nelle maniere consuete alle altre amministrazioni pubbliche; ed abbiamo avuto ragione, poiché i lagni del pubblico sarebbero ancor maggiori, se possibile, di quanto già non siano, ove agli altri ostruzionismi si fosse aggiunto quello della Corte dei Conti.

 

 

Ed ora, colla solita nostra mania di fare e disfare, vogliamo creare un altro organo di controllo, più inframmettente e più pericoloso di quello della Corte dei Conti, perché d’indole parlamentare!

 

 

* * *

 

 

La verità si è che il presidente del Consiglio ha voluto indicare un rimedio ad un male di cui né egli né gli altri conoscono le vere cagioni. La proposta di creare un Comitato di vigilanza fa supporre che le cause del disservizio stieno nella mancanza di vigilanza parlamentare. E se le cose non stessero così; e se questo difetto di vigilanza, altri direbbe di ingerenza, parlamentare fosse invece un beneficio? Se si interrogano gli industriali ed i commercianti, novantanove su cento si dichiareranno scettici sulla efficacia di questa vigilanza da parte di deputati e di senatori; ed anzi la maggior parte vedrà in questa dipendenza più stretta delle ferrovie dal Parlamento un gravissimo pericolo; che le ferrovie vengano ancora più asservite agli interessi elettorali e parlamentari e che aumenti lo strapotere dei ferrovieri, abilissimi a premere colle loro organizzazioni sul Parlamento. Ad altre cagioni si imputa la rovina ferroviaria, che incombe oggi come un incubo pauroso sull’Italia. Alla mancanza di carri, di vetture, di locomotive; alla ristrettezza degli impianti fissi, alla incapacità di tutto l’organismo ferroviario di far fronte ad una qualsiasi difficoltà, magari prevedibilissima, come le nevi che rendono difficile il passo degli Appennini, od i geli che diminuiscono il rendimento degli impianti di energia elettrica ed accrescono il fabbisogno di carbone. Secondo altri lo sfacelo è invece dovuto alla rilassatezza crescente della disciplina tra i ferrovieri, favorita dalla indulgenza del direttore generale, accusato di appoggiarsi troppo sul personale. O non sarà ancora la fretta con cui si vollero, da un momento all’altro, scompigliare le esistenti organizzazioni della Mediterranea e dell’Adriatica, fondendo insieme due ordini diversi di funzionari e sovrapponendo a tutti e due i funzionari provenienti dal vecchio Ispettorato? Le gelosie, le invidie, le constatazioni di troppo facili carriere, specie tra i membri dell’Ispettorato, quanta parte hanno nella lentezza e nella malavoglia dei servizi? Vi è chi aggiunge che l’istituzione delle Direzioni compartimentali non abbia giovato a rendere più snelli i servizi, ma abbia soltanto cresciuta la confusione, per la smania della Direzione generale di voler tutto vedere e tutto controllare a Roma, cosicché le Direzioni compartimentali sono ridotte all’ufficio di inutili ed ingombranti trasmettitori di una ingente quantità di carte burocratiche.

 

 

* * *

 

 

Quale di queste cause sia la vera o se i malanni ferroviari debbano attribuirsi a tutte queste cause insieme dovremmo sapere prima che sia compilata la legge definitiva per l’esercizio di Stato. Quando fu approvata la legge provvisoria, si disse che nella compilazione della legge definitiva si sarebbe tenuto conto dell’esperienza dei primi anni di esercizio di Stato. La legge definitiva sta per essere presentata ma non si sa come si sia tenuto conto della dolorosissima esperienza degli ultimi anni. Chi ne è stato il giudice? La Direzione generale, interessata naturalmente a reputare buona l’opera sua e ad accagionare il gelo, la nave, la mancanza di carri e di binari dell’odierno disservizio?; od il Governo, composto di uomini politici, che non hanno tempo di studiare a fondo l’argomento e sono pronti a contentarsi di un qualunque rimedio fittizio, che aiuti a tirare innanzi alla meglio?

 

 

Perciò noi crediamo che l’idea di una rapida inchiesta, fatta da uomini parlamentari, che siano anche tecnici valenti ed industriali sperimentati, meriti di non essere lasciata cadere. L’inchiesta dovrebbe dire all’opinione pubblica ed al Parlamento quale sia stata l’esperienza compiuta in questi due anni di esercizio di Stato: additare i difetti dell’organizzazione attuale ed i mezzi a porvi riparo. Così la legge definitiva non sarà il risultato di un colloquio tra il direttore generale, il ministro dei lavori pubblici ed il presidente del Consiglio; ma il frutto della collaborazione di tutto il paese che lavora e produce e che ora soffre sotto la nuova tirannia ferroviaria. Se l’inchiesta dirà che il rimedio a tutti i mali si trova nella istituzione di un Comitato parlamentare permanente di vigilanza, sarà il benvenuto anche il nuovo Comitato. Ne dubitiamo assai.

 

 

Probabilmente invece l’inchiesta farebbe constatazioni ostiche al Governo, alla Direzione generale ed alle organizzazioni del personale; ed è per questo che non la si vuole, e si discorre invece di vigilanza parlamentare, di responsabilità ministeriale e di ministri delle ferrovie, tutte parole prive di contenuto ed appunto perché tali, deleterie per il buon andamento del servizio ferroviario. Né si dica che le inchieste sono eterne e non servono a nulla; poiché i fatti sono oramai tanto noti ed ogni ordine di interessati è così pronto a metterli in luce che in pochissimo tempo i commissari, se competenti, potrebbero esaurire il loro compito. E chi osa dire inutili le inchieste, quando ogni giorno che passa mette in luce i frutti copiosi e sostanziali di quella, che fu proclamata inutilissima fra tutte, l’inchiesta sulla marina?

L’ufficio ed i problemi del lavoro

L’ufficio ed i problemi del lavoro

«Corriere della Sera», 7 febbraio 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 484-487

 

 

Il direttore dell’ufficio del lavoro, prof. Giovanni Montemartini, è partito in guerra nella «Critica sociale» contro le soluzioni atomistiche, anarchiche, contradditorie, empiriche dei problemi del lavoro, spezzando una lancia a favore del coordinamento amministrativo di tutti i servizi relativi a quei problemi. Quelle poche persone che in Italia si dilettano di studi teorici di economia politica, sapevano da un pezzo dell’odio giurato dal Montemartini contro lo studio atomico o frammentario dei problemi economici; ma erano beghe di famiglia tra economisti – ahi! quanto simili ai letterati nella mania di discutere sulle parole! – che non interessavano nessuno. Oggi invece la faccenda cambia aspetto poiché non è più l’economista, il quale critica coloro che osano fare una teoria del salario separatamente da quella dell’interesse, ma è il direttore dell’ufficio del lavoro che acerbamente si lagna del metodo frammentario con cui in Italia si discutono e si risolvono i problemi del lavoro.

 

 

Ecco, in sostanza, il punto in discussione. Trattisi, ad esempio, di provvedere alla disoccupazione agricola imperversante in una zona d’Italia, e siasi progettato di compiere altrove certi lavori pubblici per bonifiche e strade allo scopo di impiegare quei disoccupati. Sui progetti oggi si deve sentire il parere di parecchi consigli e commissioni: consiglio superiore del lavoro, consiglio dei lavori pubblici, consiglio d’agricoltura, magari consiglio superiore di sanità. La pratica dovrà essere istruita da parecchi uffici, forse dipendenti da diversi ministeri, perché il problema è di competenza di amministrazioni differenti. Ciò dà ai nervi al direttore dell’ufficio del lavoro, il quale scrive:

 

 

Una pratica qualunque deve fare la trafila e passare per questi diversi organismi, che talvolta si riuniscono a diversi intervalli e che non si trovano mai in coincidenza d’orario. Qualunque pratica che abbia qualche attinenza a diversi servizi – e non è difficile il caso, perché tutti i problemi del lavoro sono interdipendenti – deve trascinarsi per un tempo indefinito a traverso ai diversi uffici competenti, alle diverse commissioni o consigli superiori non meno competenti; creandosi così un sistema in sommo grado ostruzionistico. Ma il peggio è che l’indirizzo unico, sicuro, che deriva dallo studio complessivo di tutta la vita complessa dei lavoratori, e che deve rifrangersi nella risoluzione dei singoli problemi, viene ad essere reso inattuabile col sistema della divisione anarchica dei servizi. Avremo sempre delle decisioni contradditorie e cozzanti fra loro, fra problemi della stessa specie, solo perché vengono trattati da organismi diversi.

 

 

Istituiamo perciò il nuovo grande ministero del lavoro, sopprimiamo per tutte le questioni attinenti da vicino e da lontano i lavoratori, il parere di qualunque consiglio diverso da quello del lavoro, ed incarichiamo il direttore di vegliare alla tutela della concezione unitaria dei problemi del lavoro, per preservarli dalla lebbra di una trattazione anarchica.

 

 

Noi dubitiamo molto che l’istituzione di un grande ministero del lavoro – che ha altri argomenti a proprio favore – debba essere difeso dal punto di vista della soppressione d’ogni controllo sui problemi del lavoro da parte di ogni altro ufficio, consiglio o corpo. Nessuno nega che l’amministrazione abbia escogitato metodi sottilissimi per opporre una barriera ostruzionistica contro l’attuazione di qualunque progetto nuovo; ma chi ci garantisce che nel nuovo ministero del lavoro l’ostruzionismo non abbia a rinascere? Il nuovo ministero, se sarà davvero completo e grande, dovrà per forza dividersi in parecchie direzioni generali, divisioni ed ispettorati; il consiglio del lavoro, impotente a tener testa alla fiumana crescente di pratiche, dovrà frazionarsi in sezioni, nominare sotto-comitati e sotto-commissioni; e le pratiche continueranno a trascinarsi fra consigli, comitati e uffici, precisamente come ora. Per togliere lo sconcio dei ritardi bisognerebbe mutare l’indole della burocrazia, e per impedire l’orrore delle soluzioni contradditorie date allo stesso problema dai futuri uffici del ministero del lavoro, bisognerebbe supporre che a capo di tutti stesse in perpetuo il prof. Montemartini, colla lancia in resta contro le soluzioni atomistiche ed anarchiche. Siccome né l’una né l’altra di queste due cose è possibile, così dovremo rassegnarci, anche in futuro ed anche col presidio del ministero del lavoro, a questi che sono gli inconvenienti quotidiani di tutte le pubbliche amministrazioni.

 

 

Il problema è tutt’altro e precisamente il seguente: conviene che sui problemi del lavoro abbia a dare il suo avviso soltanto il consiglio e di essi abbia ad occuparsi unicamente l’ufficio del lavoro! Da parecchi segni si vede che questa è non solo l’opinione del direttore dell’ufficio, ma anche la tendenza del consiglio superiore del lavoro. Da quando questo è stato istituito, nessuno sente più parlare del consiglio dell’industria, del consiglio della previdenza, che pure esistevano e funzionavano egregiamente presso il ministero d’agricoltura. Col pretesto che la previdenza giova agli operai, un membro del consiglio del lavoro è riuscito a far discutere sul serio da questo corpo la ridicola proposta di istituire un nuovo genere di insegnanti, i professori ambulanti di previdenza, che a spese dello stato dovranno ogni giorno ripetere alle turbe qualche imparaticcio sulla utilità indiscutibile della previdenza. Col pretesto che gli operai disoccupati potrebbero trovare da occuparsi sulle terre incolte, l’ufficio del lavoro è riuscito a persuadere l’on. Pantano a presentare uno strampalato disegno di legge sulla colonizzazione interna, perfettamente contradditorio a un altro ragionevole disegno che, dietro gli studi degli uffici competenti, lo stesso ministro presentava contemporaneamente per utilizzare le medesime terre sedicenti incolte. È una vera elefantiasi da cui sono afflitti il consiglio e l’ufficio del lavoro. Accortisi che il lavoro è un coefficiente importante di molti problemi, non solo vorrebbero dire su quei problemi il loro parere, cosa ragionevolissima, ma vorrebbero impedire che gli altri dicessero il proprio. Certo il problema dei disoccupati è di competenza dell’ufficio del lavoro; ma se per impiegare i disoccupati è d’uopo compiere opere pubbliche, non sarà competente il ministero dei lavori pubblici a dare il proprio parere sulle modalità tecniche e sulla convenienza economica di quei lavori? O che i giuristi e gli economisti della nuova burocrazia del lavoro hanno il monopolio delle nozioni riflettenti problemi in gran parte tecnici, industriali ed agricoli?

 

 

Oggi l’ufficio del lavoro ha cominciato a mettere innanzi l’idea del collocamento interregionale degli operai. È un’idea discutibile nelle modalità; ma che può essere studiata con qualche frutto. Chi ci garantisce però che domani il prof. Montemartini, trovandosi di fronte ad operai italiani che non vogliono cercare collocamento all’interno o non possono trovarlo ai salari ritenuti normali dalle leghe o dagli uffici di collocamento, non sia indotto a reputare di sua competenza anche il collocamento degli operai all’estero, per sfollare il mercato interno? È così breve il passo da una cosa all’altra! Noi assisteremo allora ad una lotta eroicomica fra il commissariato dell’emigrazione e l’ufficio del lavoro, voglioso di accaparrare tutto per sé e specialmente di mettere le mani sul grosso fondo della tassa degli emigranti. O non sono forse gli operai che a frusto a frusto finiscono per pagare questa tassa; e chi meglio dell’ufficio del lavoro potrebbe averne amorevole cura?

 

 

Frattanto il contrasto fra i diversi uffici e consigli ha salvato finora l’Italia da un pericolo: che a tutti i problemi del lavoro si desse la medesima soluzione. A ragione od a torto il prof. Montemartini è ritenuto assai amico dei socialisti, sicché spesso i progetti elaborati dal suo ufficio – veggasi quello sulla colonizzazione interna – parvero impeciati oltre misura di collettivismo avveniristico; e tal’altra volta il suo intervento personale – veggasi lo sciopero della gente di mare – fu veduto con sospetto da una delle parti in lotta. Per fortuna l’esistenza di altri corpi consultivi e di altri uffici salvarono il paese da sperimenti pericolosi. Se è vero che la contraddizione e la anarchia negli organi amministrativi è pessima, è anche vero però che soltanto la discussione ampia fra tutti gli interessi contrastanti riesce ad eliminare i progetti stravaganti e dannosi. Compiendo quest’opera di ostruzionismo contro una legislazione affrettata, i molteplici consigli ed uffici che deliziano il nostro paese, dimostrano qualche volta di non essere del tutto inutili al paese.

 

 

Esiste un margine di bilancio?

Esiste un margine di bilancio?

«Corriere della Sera», 23 gennaio 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 480-483

 

 

Nascondere gli avanzi di bilancio non è buona politica nel momento presente. La politica di grande prudenza poté essere utile in passato quando si preparava la conversione della rendita ed urgevano altri problemi. Oggi non più. L’unica ragione, che si potrebbe addurre per giustificare gli occultamenti degli avanzi, è il timore di fomentare la ressa degli aspiranti alla ripartizione del bottino. Il pericolo non si toglie con siffatto spediente, perché gli interessati ad ottenere un aumento di spesa sanno molto bene rifare i conti al ministro del tesoro; e questi, se non è assai forte moralmente e parlamentarmente, non diventa forte col raccontare bugie presto scoperte. Mentre non si ottiene l’effetto benefico desiderato, si raggiunge sicuramente l’altro di impedire una discussione serena, ampia, fatta a tempo e su dati sicuri, sui modi di disporre degli eventuali avanzi. Forse da molti governanti non si desidera l’intervento dell’opinione pubblica e della stampa, la pressione morale esercitata dal di fuori sulle deliberazioni del parlamento. Antipatia soverchia, che toglie ai governanti la forza, di cui avrebbero bisogno per raggiungere quella qualsivoglia meta, che un governo consapevole dovrebbe proporsi come fine della propria vita.

 

 

Questo preambolo abbiamo voluto fare per venire a discorrere di una noterella comparsa nell’ultimo numero della «Nuova antologia» e dovuta evidentemente alla penna di Maggiorino Ferraris. L’on. deputato di Acqui ha avuto ed ha dai suoi critici la taccia di visionario: ma ha avuto il merito di esporre un programma finanziario che nelle grandi linee già dichiarammo consono ai bisogni del momento presente, ed ha il merito di tenere desta su quel programma l’opinione pubblica con studi ed articoli sempre ricchi di dati e di considerazioni. Oggi egli in poche pagine espone il succo di quelle notizie che periodicamente la Stefani dirama intorno al gettito delle entrate dello stato e che ben pochi meditano. Nel primo semestre dell’esercizio corrente 1906-907 quasi tutte le imposte sono ancora in notevole aumento sull’esercizio passato 1905-906. Se si escludono infatti l’imposta fondiaria, che dà in meno lire 2.749.964, l’imposta fabbricati (- 18.109), ed il dazio consumo (- 116.455), diminuzioni prevedibili in massima parte perché dipendenti da leggi in corso di attuazione, tutti gli altri cespiti sono in aumento: le tasse sugli affari per lire 4.574.886, l’imposta di ricchezza mobile per lire 4.398.660, le imposte di fabbricazione per lire 5.514.905, le dogane ed i diritti marittimi per lire 15.743.354, i tabacchi per lire 3.752.230, i sali per lire 204.355, ed il lotto per lire 3.234.709. In tutto, un aumento di lire 34.508.580 nelle sole entrate principali dello stato. Se aggiungiamo lire 3.467.288 di aumento sulle poste e telegrafi e 3 milioni sulle entrate minori, abbiamo in cifra tonda un aumento di proventi per il solo primo semestre dell’esercizio di oltre 40 milioni di lire. Raddoppiando la cifra, si giungerebbe ad 80 milioni di maggior reddito per tutto l’anno; ma il Ferraris crede più opportuno tenersi modestamente a 55 milioni, di cui 40 già incassati nel primo semestre e 15 previsti pel secondo semestre. Siccome il consuntivo del 1905-906 diede un’entrata effettiva di 1945 milioni, l’aumento di 55 milioni porta l’entrata prevista per il 1906-907 a 2 miliardi in cifra tonda. Levando i 40 milioni di minor ritenuta per imposta di ricchezza mobile sulla rendita 5% (che nel secondo semestre 1906-907 diventerà già 3,75% netto), si avrà una entrata effettiva di 1.960 milioni. Le spese presentano maggiori difficoltà di valutazione: nel bilancio di prima previsione furono stimate a 1.773 milioni; per non errare in meno fissiamole pure a 1.900 milioni, con un aumento di 127 milioni sul preventivato, a causa di spese straordinarie, nuovi assegni, ecc. Dai 1.900 milioni dobbiamo dedurre i 40 milioni che non si incassano più nel secondo semestre come ritenuta per imposta di ricchezza mobile sulla rendita 5% , ma che neanche si dovranno calcolare più nella spesa, essendo, come si disse, ora la rendita iscritta al netto e non al lordo. La spesa effettiva totale risulta così di 1.860 milioni e l’avanzo effettivo di 100 milioni di lire.

 

 

Esagerazioni, si dirà; ma l’on. Maggiorino Ferraris risponde trionfalmente additando la serie degli avanzi degli anni scorsi, da lui sempre con tenacia meritevole di maggior fortuna predetti e sempre negati dai ministri del tesoro fino a che la pubblicazione dei consuntivi non veniva a dare ragione a lui e torto ai ministri. Infatti gli avanzi (differenza fra le entrate e le spese effettive) che erano di 9 milioni nel 1897-98, furono di 32 milioni nel 1898-99, di 38 nel 1899-900, di 68 nel 1900-901, di 64 nel 1901-902, di 99 nel 1902-903, di 8 nel 1903-904, di 75 nel 1904-905, di 8 nel 1905-906. Né l’avanzo probabile del 1906-907 può attribuirsi al dazio sul grano; ché anzi il grano entra per sole 101.000 lire nell’aumento di 40 milioni accertato per il primo semestre.

 

 

Una osservazione dobbiamo fare alle cifre della «Nuova antologia», ed è che l’avanzo di 100 milioni previsto per il 1906-907 e quelli accertati per gli anni scorsi, sono uguali alla differenza fra le entrate e le spese effettive. Ognun sa che il nostro bilancio novera, oltre questa delle entrate e delle spese effettive, altre tre categorie; di cui una, delle partite di giro, non ha influenza pratica nel caso nostro, ma le altre due, del movimento di capitali e di costruzioni ferroviarie, assorbono spesso una parte notevole dell’avanzo della categoria delle entrate e spese effettive. L’anno scorso, se non andiamo errati, più di 20 milioni sugli 8 di avanzo andarono a far fronte al disavanzo del movimento di capitali, cosicché l’avanzo netto si ridusse a quei 60 milioni circa che il Majorana propose di consacrare a spese straordinarie.

 

 

Comunque sia, rimane pur sempre una bella sommetta, e meritevole che se ne discorra. Quello che noi chiediamo è che si controllino le cifre del Ferraris e che i ministri del tesoro dicano la verità sempre e in qualunque tempo. Facendo pure la tara alle previsioni, si deve sapere quale margine presenti il bilancio, affinché un’opinione pubblica possa formarsi e ragionare sul sodo. Una decisione deve essere presa sugli sgravi e sulle opere riproduttive; ed è opportuno che il problema sia chiarito prima fuori del parlamento affinché i deputati facciano loro pro delle discussioni e sappiano che c’è chi saprà farsi render conto a ragion veduta dei loro voti.

 

 

L’osservazione che abbiamo fatto alla «Nuova antologia» ci dà agio di chiarire un altro punto. Dicemmo sopra che nel 1905-906 sugli 85 milioni di avanzo effettivo più di 20 furono assorbiti dal disavanzo della categoria «movimento dei capitali». A parlar chiaro, in modo da farsi capire da tutti, si sarebbe dovuto dire che più di 20 milioni furono impiegati a rimborsare debiti vecchi, rimborso che viene appunto inscritto nella categoria del «movimento di capitali». Non dunque a fare una spesa furono impiegati quei 20 milioni di avanzo, ma ad estinguere un debito; che è un uso ragionevole fra i tanti che si possono fare degli avanzi di bilancio. Qui si pone un altro problema: se è certo più ragionevole impiegare gli avanzi di bilancio nel pagar debiti che nel fare spese inutili, è davvero più ragionevole di quanto sarebbe una diminuzione dei tributi più eccessivi? Od almeno – se si vuole continuare, e noi non siamo certamente di parere contrario, ad estinguere quei debiti vecchi che siamo obbligati contrattualmente ad ammortizzare – perché noi, che siamo o ci reputiamo tanto ricchi da pagare cogli avanzi i debiti vecchi, perché non sentiamo il dovere con un’altra parte di quegli avanzi di assolvere il vecchio debito, assunto da molti ministeri e proclamato in parecchi discorsi dalla corona, di una diminuzione di imposte verso i contribuenti? Se questa cambiale, oramai giunta alla scadenza, la si vuole lasciare andare in protesto, si faccia pure; ma si affermi chiaramente che si vuole lasciarla protestare e non si cerchi dimostrare, con finzioni e sapienti maneggi di cifre, che non è giunto ancora per l’Italia il momento di fare onore alla sua firma.

 

 

La personalità giuridica delle leghe operaie

La personalità giuridica delle leghe operaie

«Corriere della Sera», 20 gennaio 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 474-479

 

 

Il problema della personalità giuridica delle leghe operaie è uno fra i più complicati di quelli che la moderna legislazione del lavoro è chiamata a risolvere; poiché da un lato occorre evitare una eccessiva rigidezza di vincoli che distoglierebbe gli operai dal chiedere la personalità stessa, e dall’altra urge sempre più la necessità di istituire un ente che possa obbligarsi ad assumere responsabilità precise di fronte agli imprenditori. Una recente relazione presentata al consiglio superiore del lavoro dall’avv. Gino Murialdi, a nome di una commissione composta dei consiglieri Pisa, CappelIoni, Callegari, Maffi, Murialdi, Reina e Saldini ci dà modo di esporre i criteri informatori del disegno di legge che, dopo essere stato vagliato dal consiglio del lavoro, dovrà essere sottoposto alla discussione parlamentare.

 

 

Una lode dobbiamo anzitutto dare alla commissione di non aver voluto creare un sistema di norme dedotte da principî astratti di carattere obbligatorio, per cui tutte le forme di contrattazioni collettive di lavoro dovessero d’ora in avanti, a pena di nullità, essere costrette in determinate formule ed ispirate a prescrizioni fisse. L’organismo industriale muta di continuo; e nuovi rapporti, nuove forme giuridiche si palesano oggi opportune, che erano disadatte ieri e torneranno disadatte domani. La legislazione dovrebbe piuttosto dar modo agli operai ed imprenditori di accordarsi validamente, togliendo ostacoli e vincoli che oggi nascono dall’imperfezione dei vecchi istituti giuridici non più adatti ai bisogni nuovi. Senza creare per ora nuovi tipi obbligatori di contratto di lavoro – cosa che tornerebbe per un altro verso pernicioso ai progressi dell’industria – la legge dovrebbe limitarsi a fornire l’intelaiatura entro cui le parti tesseranno le fila del loro contratto e le norme procedurali che dovranno essere osservate affinché i contratti siano validi ed obblighino le parti. Opportunamente perciò «la commissione si è inspirata alla esperienza, allo studio accurato delle condizioni di fatto nelle quali in Italia si svolgono e avvengono le contrattazioni, ed ha creduto di studiare norme facoltative, a cui possano, volendo, ricorrere gli operai e gli imprenditori, quando di comune accordo vogliano stabilire i loro rapporti in forma legale, tale che obblighi ciascuna parte al rispetto, per il tempo fissato, delle norme concordate, colla comminatoria delle relative sanzioni in caso di inadempienza». È il sistema di larga libertà di cui si è giovata assai l’Inghilterra, e che le ha consentito di creare a poco a poco un sistema legislativo adatto ai bisogni dei tempi. L’esperienza proverà che frequentemente gli operai sceglieranno una data forma di associazione e che operai e proprietari di solito si atterranno ad uno o due tipi di contratto? La legge potrà aggiungere nuove norme che valgano a dare più efficace sanzione alle regole ed ai patti già entrati nelle consuetudini, già adottati alle necessità industriali da un lungo uso. Non dimentichiamo mai il motto della sapienza romana: ex facto oritur jus e non pretendiamo di codificare quello che è ancora oscillante ed incerto.

 

 

Noi perciò approviamo la commissione del consiglio del lavoro per aver saputo resistere alla tentazione di creare rappresentanze obbligatorie degli operai, sul tipo delle camere di commercio. La esperienza non in tutto felice di queste dovrebbe bastare a persuadere dell’inopportunità di creare ad esse un contraltare obbligatorio nelle camere di lavoro. Esse cadrebbero in mano facilmente ai soliti caporioni, soffocherebbero ogni velleità di resistenza dei gruppi isolati degli operai e finirebbero per diventare le tiranne delle masse operaie che, volenti o nolenti, non potrebbero più trovar lavoro se non per mezzo della loro rappresentanza obbligatoria. A che varrebbe il vantaggio della responsabilità delle camere del lavoro verso gli imprenditori, di fronte al danno gravissimo di essere costretti a reclutare la maestranza per mezzo loro?

 

 

Si lascino gli imprenditori liberi di scegliere i loro operai nel modo che credono, fra i lavoratori indipendenti o fra quelli associati; e si lascino gli operai liberi di scegliere fra le varie forme di associazione quella che essi riterranno più adatta al raggiungimento dei loro scopi: leghe, camere del lavoro, federazioni di mestiere, associazioni di resistenza e di previdenza, ecc. La legge si limiti a stabilire le condizioni alle quali questi istituti potranno ottenere il riconoscimento, ed essere investite della capacità di obbligarsi in un contratto di lavoro. Certamente lo stabilire queste condizioni è impresa non facile e può dar luogo a dispute vive; ma non è difficoltà insuperabile. La commissione ha proposto di dare il nome di associazione registrata alle leghe, federazioni, camere che osservassero le seguenti modalità principali:

 

 

  • Ottenere la registrazione presso l’ufficio del lavoro. La domanda dovrebbe essere accompagnata da due copie dello statuto sociale, dall’elenco autentico dei soci promotori e da copia delle deliberazioni già prese per costituire l’associazione. Ove questa fosse già costituita, basterebbe inviare copia del verbale dell’assemblea la quale deliberò di chiedere il riconoscimento giuridico, colle firme dei soci votanti e copia dello statuto. La registrazione fatta dall’ufficio del lavoro darà all’ente personalità giuridica. Statuto e certificato di registrazione dovranno essere pubblicati nel bollettino ufficiale della prefettura.
  • Lo statuto sociale dovrà contenere norme riguardo alla nomina, a maggioranza assoluta dei soci, di un consiglio d’amministrazione, di un presidente e dei revisori dei conti; alla durata ed all’esercizio delle loro funzioni, al controllo dei loro atti da parte di assemblee generali e sezionali.
  • Così pure lo statuto conterrà le norme relative alle attribuzioni del consiglio, del presidente e dell’assemblea in materia di stipulazione di contratti e di concordati collettivi di lavoro e di tariffe: e disciplinerà le attribuzioni del presidente nelle controversie del lavoro e per la rappresentanza dell’associazione o della classe interessata nei giudizi innanzi all’autorità giudiziaria od alle commissioni arbitrali.
  • Nello statuto saranno poste altresì le norme per l’amministrazione del patrimonio sociale e quelle riflettenti lo scioglimento e la liquidazione della società e si daranno disposizioni per il collocamento dei fondi, dei quali un quinto deve essere vincolato, con investimenti speciali, a garanzia degli impegni sociali.

 

 

È agevole vedere quale forma snodata e libera di associazione sia quella che sopra delineammo sulla scorta della relazione Murialdi. In fondo la legge non precisa se non i punti che dovranno essere contemplati nello statuto e le modalità procedurali richieste per ottenere la registrazione. Quei punti potranno essere risoluti in maniere diverse a seconda degli interessi locali o contingenti; e la associazione potrà proporsi molteplici scopi oltre quello di stipulare dei contratti di lavoro e di sorvegliare la stipulazione di questi contratti. Una sola restrizione è posta ai fini delle associazioni registrate: esse non potranno esercitare abitualmente atti di commercio. Il che facilmente si comprende riflettendo che esiste il codice di commercio il quale regola questi atti ed offre agli operai modo di costituire cooperative o altre forme di società quando vogliano essi medesimi diventare commercianti od industriali. Fuor di questa limitazione, le associazioni potranno proporsi scopi di resistenza, di previdenza, di semplice tutela, ecc. ecc.; distinguendosi dalle associazioni di fatto odierne solo perciò che esse avranno personalità giuridica e gli imprenditori sapranno con certezza con quale ente inizieranno rapporti.

 

 

Un solo vincolo positivo – oltre quello di non compiere atti di commercio – ha posto il disegno di legge alle future associazioni registrate: l’obbligo di vincolare un quinto dei loro fondi in garanzia degli impegni sociali. Si propone di risolvere in questa maniera una grossa questione. Sono note le controversie sorte in proposito nel paese classico delle Trade-unions, l’Inghilterra: dove dapprima si proclamarono le associazioni operaie libere da ogni responsabilità rispetto ai contratti di lavoro da esse stipulati od agli scioperi da esse provocati; e poi, con una sentenza famosa del comitato giudiziario della camera dei signori, si vollero assoggettare a vincolo tutti i fondi delle unioni; anche quelli destinati a soccorsi di malattia e di vecchiaia. Tra l’un estremo e l’altro c’è una via di mezzo; e la commissione italiana ha creduto di aver trovato una soluzione soddisfacente vincolando un quinto dei fondi a garanzia degli impegni sociali. La commissione pare sia stata assai peritante nello scegliere siffatto partito, per il timore di allontanare alcune associazioni operaie dal richiedere la personalità giuridica. Essa finì tuttavia per accoglierlo «dacché la disposizione ha carattere altamente educativo, abitua i lavoratori alla prudenza, al senso della responsabilità, impedisce sperperi tanto più dannosi in quanto riguardano somme raccolte a soldo a soldo, con sacrifici non comuni, crea infine in ciascuna società un nucleo di vita perenne». Nel che consentiamo, pur sembrandoci che la commissione, per la troppa timidezza, sia stata imprecisa nella fissazione del vincolo di un quinto dei fondi sociali. «Imprecisa perché il vincolo è – così si legge nella relazione Murialdi – per gli impegni sociali». Ora a noi sembra inutile vincolare genericamente i fondi sociali per un quinto a garanzia degli impegni sociali, non potendosi supporre che una associazione avente personalità giuridica possa essere responsabile degli impegni sociali solo per l’ammontare di un quinto dei suoi fondi. Supponiamo che una associazione registrata abbia vari scopi:

 

 

  • la stipulazione di contratti o concordati di lavoro con gli imprenditori;
  • il soccorso ai soci in caso di sciopero;
  • di disoccupazione;
  • di malattia;
  • di vecchiaia.

 

 

Nelle Trade-unions inglesi ed in parecchie leghe italiane tutti o parecchi di questi scopi coesistono. Quelli elencati dal n. 2 al n. 5 si differenziano profondamente dal primo, riferendosi a rapporti della società con i soci. Per questi scopi tutti i fondi della società devono essere vincolati ed il vincolo è inutile perché si può supporre che i soci pensino sovratutto a se stessi. Il primo scopo tocca invece rapporti della società con terzi, con gli imprenditori; ed è qui che il vincolo dei fondi sociali ha vera importanza. Gli imprenditori – se si vuole che essi diano peso al vincolo di un quinto dei fondi sociali, e se si vuole così trattare con la società e ad avere fiducia in essa – devono sapere quale parte dei fondi sociali è specialmente riservata a garanzia dei contratti che essi possono concludere con l’associazione. Sapere che è vincolato un quinto per tutti gli impegni sociali è sapere meno che niente. Ciò che importa è la costituzione di un fondo di garanzia, specialmente riservato ad assicurare l’osservanza dei patti conclusi dagli operai con gli imprenditori. A questo punto non ci pare provvedano a sufficienza le proposte della commissione, pur meritevoli di lode per la semplicità e libertà a cui si inspirano.

 

 

La politica degli sgravi conservatrice?

La politica degli sgravi conservatrice?

«Corriere della Sera», 11 gennaio 1907[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 469-473

 

 

Gli sgravi dei tributi sui consumi debbono combattere contro due nemici: contro i timidi, che son tali perché di ogni novità dubitosi o perché paventano di non avere fondi a sufficienza per l’incremento delle spese e contro i riformatori, a cui gli sgravi paiono troppo piccola impresa e vorrebbero – con innovazioni profonde e con traslazioni di oneri dalle classi ricche alle classi povere – instaurare un nuovo ordine tributario. Costoro – i riformatori – trascinano dietro di sé i timidi; i quali, difettando di buone ragioni proprie, applaudono a chi giudicano insufficienti le riduzioni tributarie, e così ottengono il fine loro, che è di non far nulla.

 

 

Giova perciò sovratutto studiare serenamente le argomentazioni dei riformatori, i quali avversano gli sgravi per motivi di principio. La condanna o l’approvazione dei timidi opportunisti sarà una logica conseguenza del giudizio che avremo dato dei riformatori. I quali, prima di difendere i concetti propri, pensano a criticare quelli degli avversari, ossia dei fautori degli sgravi. L’ultima novità in questa critica consiste nel definire la politica degli sgravi «politica conservatrice». Si sa che la fortuna delle cose dipende in gran parte dalla fortuna delle parole. Se gli avversari degli sgravi riuscissero a rendere la parola «politica conservatrice» indissolubilmente unita alla «politica degli sgravi», la condanna di questa sarebbe pronunciata. In un paese dove nessuno vuol passare per conservatore e tutti si proclamano liberali, radicali o quanto meno democratici, tutti si vergognerebbero di dichiararsi paladini degli sgravi, quando gli sgravi fossero reputati «conservatori».

 

 

Il più noto e diciamo anche il più convinto degli assertori parlamentari dell’accusa di conservatorismo agli sgravi è l’on. Wollemborg. Autore e memore paladino – e ciò gli fa onore – di un piano organico di riforma tributaria, egli non si acqueta alle riduzioni dei tributi sui consumi; e contro di esse muove in guerra, bollando la politica degli sgravi come politica conservatrice.

 

 

Conservatrice – citiamo la chiusa del suo ultimo discorso alla camera – in quanto, coll’offerta di un pronto ribasso di aliquote, distoglie dal pensiero di radicalmente trasformare il sistema tributario; e così riesce ad evitare che per tal via si proceda. Conservatrice, in quanto esplicitamente riconosce, ed ha anzi per suo logico presupposto, la bontà intrinseca almeno relativa, dell’ordinamento vigente, e pensa solo a renderlo meno intollerabile, ritagliandone qualche punta più acuta, correggendone qualche eccesso; e così tende a garantirne l’intangibilità sostanziale. Conservatrice in quanto, col diminuire il saggio delle tassazioni su questo o su quel prodotto di largo uso, prepara nelle tasse ridotte una latente riserva finanziaria avvenire; e così dà la possibilità e, scansata l’introduzione di nuove democratiche forme di imposta, impone la necessità di ricorrere, ancora e sempre, nei giorni del bisogno, all’inasprimento dei balzelli sui consumi popolari.

 

 

Un bello squarcio di eloquenza parlamentare codesto ed anche un bello sforzo di logica formale; ma nulla più. Può essere invero elegante l’affermare che un pronto ribasso del dazio sul petrolio o sullo zucchero o sul sale renda tranquilli i contribuenti. e paghi dell’ordine vigente tributario; ma non è vero. Non gli operai miserabili dell’India e della Cina lottano per un salario migliore; ma invece gli operai meglio pagati dei paesi industriali, i quali veggono un avvenire migliore e si sforzano di raggiungerlo. Non i contribuenti taglieggiati della Turchia si agitano per una riforma tributaria; ma i piani più arditi di mutazioni innovatrici sono messi innanzi nei paesi dove è minima la pressione tributaria sui generi di consumo di prima necessità. Coloro i quali citano sempre l’esempio dell’Inghilterra e della introduzione dell’imposta sull’entrata come strumento di riforme tributarie profonde dovrebbero ricordare che dal 1815 a Roberto Peel corse un trentennio durante il quale si alternarono al potere ministri timidi, che nulla fecero, e ministri che coraggiosamente falcidiarono le aliquote delle più forti imposte sui consumi, preparando così la via alla finanza riformatrice venuta dappoi. Può essere nuovissimo – e battano le mani i socialisti rivoluzionari catastrofici, i quali sperano la salute dall’eccesso del male – dichiarare che il rendere meno acute le punte e correggere le ingiustizie più stridenti dell’attuale sistema tributario abbia per iscopo di rendere quel sistema intangibile; ma non è giusto. Giudichi qualunque spassionato se sia più atto a superare la crisi di una radicale riforma (ad esempio trasferimento delle imposte sui terreni e sui fabbricati agli enti locali e creazione di una nuova imposta generale progressiva sul reddito, che è l’ideale di un forte nucleo di riformatori, tipo Wollemborg), una afflitta schiera di contribuenti dissanguati da aliquote eccessive, ovvero un paese dove la ricchezza sia cresciuta e la produzione resa più facile dall’alleviamento dei tributi sui consumi e sulle materie prime dell’industria. Possiamo riconoscere la raffinatezza preveggente di chi non vuol ridurre i tributi sui consumi per evitare il lontano pericolo che i tributi medesimi debbano essere di nuovo aumentati nei giorni del bisogno; ma dobbiamo ricordare essere canone elementare di pubblica finanza di provvedere alla formazione di una riserva tributaria latente col rendere tenui le aliquote di tutte le imposte – sui consumi e sul reddito – negli anni della pace e della prosperità, sicché negli anni avversi possano essere cresciute. Pensino i contribuenti dell’avvenire ad imposte sulla ricchezza invece che ad aliquote tenui sui consumi. Intanto non si ritardi, quando sia possibile, lo sgravio ai contribuenti dell’oggi per la paura che lo sgravio abbia ad essere temporaneo per il verificarsi di avvenimenti futuri imprevedibili!

 

 

In realtà i veri conservatori – ove si voglia ad ogni costo dare un significato negativo a questa parola – sono i nemici degli sgravi. Essere conservatore in senso negativo vuol dire volere conservate le imposte sperequate, gli istituti dannosi. Vuol dire volere conservare di fatto gli istituti dannosi, anche se a parole si proclama la necessità urgente della loro distruzione. Quel rivoluzionario catastrofico, il quale augura alla classe operaia del suo paese salari della fame, divieti di scioperi e di associazioni, persecuzioni poliziesche, imprenditori ignari o noncuranti dei loro doveri sociali di capitani della grande industria, ed augura codesti mali affinché gli operai ridotti alla disperazione instaurino nel giorno della catastrofe una società nuova perfetta, quegli è un conservatore nel senso negativo della parola; poiché non avverrà mai che operai cosiffattamente avviliti sappiano e siano degni di elevarsi d’un tratto ad una vita più alta. Così è nella finanza. Chi sostiene la conservazione di tutte le attuali aliquote altissime – ed inutili al tesoro – dei tributi sui consumi, affinché lo stato, forte di larghi mezzi finanziari, possa iniziare e compiere la grande riforma da lui vagheggiata; quegli è un conservatore nel senso cattivo, perché uno stato cosiffatto non sarà mai forte – non è forte chi si appoggia solo sullo sfruttamento della miseria altrui – e sarà sempre in mano di politicanti timidi o neghittosi verso qualunque riforma tributaria, grande o piccola che sia.

 

 

Che cosa ha ottenuto l’on. Wollemborg, che cosa hanno ottenuto gli altri deputati, i quali hanno messo innanzi piani di grandi riforme tributarie? Men che nulla; e meglio la taccia di visionari e di teorici dai loro colleghi, ben lieti di riconoscere impossibile fare il meglio e di avere dagli apostoli del meglio un pretesto per non fare il bene. Che cosa otterranno quelli che oggi avversano le piccole riduzioni di tributi, perché preferirebbero un piano che riorganizzasse le finanze dello stato e dei comuni, ad imitazione di quanto si fece in Prussia ed altrove? Questo soltanto, che per voler imitare le cose perfette, l’avanzo frattanto scomparirà ed i contribuenti rimarranno alla fine con i tributi sui consumi immutati e privi del conforto di sapersi retti da un qualsiasi ideale sistema tributario.

 

 

O non sarebbe meglio che alla perfino i fautori degli sgravi e i difensori delle grandi riforme lasciassero da parte le idee preconcette? Certo i riformatori hanno ragione di avversare le piccole riduzioni di tributi fatte a casaccio, su consumi non suscettibili di aumento, e prive di efficacia sul progresso della ricchezza. Ma quando gli sforzi dei più competenti e dei più autorevoli uomini parlamentari convergessero oggi alla costituzione di un fondo intangibile degli sgravi, quando si scegliessero quei consumi che sono più suscettibili di aumento e la cui riduzione di prezzo può essere maggiormente utile all’industria; quando i ricuperi della finanza per il cresciuto consumo ritornassero al fondo per gli sgravi; o non sarebbe questa la migliore preparazione ad una politica riformatrice; anzi non sarebbe questa la vera politica riformatrice? Oggi si comincia col petrolio; domani, quando le perdite della finanza siano rimarginate – e sarà più presto di quanto immaginino i timidi – si continua con un altro consumo di grande capacità espansiva. Nulla vieta che nel frattempo non si pensi a ritoccare le imposte di ricchezza mobile sui fabbricati e le tasse sugli affari, in maniera da renderle più eque e sopportabili e togliere le cagioni delle lagnanze più vive dei contribuenti. Molte riforme possono farsi senza pericolo del tesoro, purché si osi. Così il sistema tributario nostro si avvia verso l’equità e la mitezza; e la grande riforma si attua da sé, a poco a poco, senza che i timidi ed i neghittosi osino protestare od opporsi. Fra dieci anni – che cosa sono dieci anni nella vita di un popolo; e non se ne sono persi assai di più nell’opporre gli uni agli altri i grandi piani organici di riforma? – sarà venuto il momento di cogliere i frutti dell’opera già in gran parte compiuta; ed il bel piano organico che sistematizzi e renda coerenti le riforme parziali, che instauri nuovi metodi di imposizione, sarà maturo e confortato dal consenso universale. A questa meta occorre tener fiso lo sguardo anche oggi, mentre si operano le riforme parziali; né fare alcuna cosa che dalla meta ci allontani. Volerla raggiungere, stando fermi a cantar le lodi della grande riforma ed impedendo il passo a chi vorrebbe muoversi avanti, è una illusione.

 

 



[1] Con il titolo La politica conservatrice degli sgravi. [ndr]

La direttissima Genova-Milano: il progetto del comitato ligure-lombardo

La direttissima Genova-Milano: il progetto del comitato ligure-lombardo

«Corriere della Sera», 9 gennaio 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 462-468

 

 

Or è passato circa un anno – dopo avere esaminate le diverse soluzioni proposte – noi conchiudevamo una serie di articoli sul problema ferroviario del porto di Genova ed il valico degli Appennini con queste parole:

 

 

Se domani una società di capitalisti privati si assumesse di costruire a sue spese, dando allo stato una partecipazione negli eventuali benefici, la direttissima fra Genova e Ronco o meglio fra Genova e Milano, perché non lasciarle correre questo rischio? E se la società si proponesse di creare addirittura una rivoluzione nei metodi ordinari di trasporto, riducendo il tempo del viaggio fra Genova e Milano ad un’ora e mezzo, facendo partenze frequentissime ad ogni mezz’ora e ad ogni ora, perché, ripetiamo, non incoraggiare l’audace tentativo? … La logica di quelli i quali dicono: bisogna seguire il traffico ed anche anticiparlo di qualche cosa, senza precorrere i tempi, forse è la più illogica e la meno pratica di tutte, ed in definitiva risultano più logici quelli i quali paiono costrurre per l’avvenire lontano. L’Italia è in un periodo di intensa trasformazione industriale; una nuova linea ferroviaria che riducesse d’assai il tempo e il costo dei trasporti fra il massimo centro commerciale ed industriale e il massimo porto d’Italia, se non potrà essere ottenuta subito e tutta dallo stato, lento a muoversi e solito a farsi rimorchiare, forse darebbe profitti non spregevoli a quegli ardimentosi capitalisti, i quali osassero tentarla colle sole loro forze. Se a questo si riuscisse e se gli uomini di Genova e di Milano dicessero allo stato: «Facciamo da noi», a noi pare che lo stato non dovrebbe porre impacci, lasciando libertà d’azione a chi vuole e può.

 

 

Poco più di un anno dopo dal giorno nel quale queste parole venivano scritte, l’ipotesi che avevamo messo innanzi si può dire abbia fatto un grande passo verso la sua realizzazione. Un comitato ligure – lombardo, composto di eminenti uomini di Milano e di Genova si è costituito per lo studio di un progetto di direttissima, ha fatto eseguire i piani particolareggiati ed ha presentato al governo la domanda di concessione. Noi abbiamo sott’occhio una relazione a stampa, firmata dal presidente senatore E. Piaggio e dai membri T. Bertarelli ed O. Joel, la quale dà ragione dei lavori compiuti dal comitato e della proposta direttissima; e da questa relazione togliamo quei dati che valgano a dare un’idea della grandiosa impresa progettata.

 

 

Le condizioni difficili del movimento ferroviario nel porto di Genova ed attraverso ai valichi appenninici sono ben note; e più diverranno ardue quanto più crescerà il traffico. La commissione Adamoli ha calcolato che nel 1923 il movimento complessivo del porto ascenderà a 10 milioni di tonnellate; il comitato ligure-lombardo prevede che il limite dei 10 milioni o forse più alto sarà raggiunto assai più presto, verso il 1913, o poco dopo. Già nel 1906 il movimento complessivo fu di tonnellate 6.192.747; e maggiore sarebbe stato se il porto avesse offerto maggiori facilità di sbarco e di imbarco. Prevedendosi in 8 anni il tempo necessario per la esecuzione del progetto di ampliamento del porto e potendo le calate essere utilizzate parzialmente anche prima, è tutt’altro che esagerato prevedere un aumento medio di traffico di 400-500000 tonnellate; di guisa che alla fine del 1913 o al più del 1915 tutto fa ritenere probabile che noi ci troveremo di fronte all’imponente movimento di 10 milioni di tonnellate da smaltire. Tenendo conto che il movimento commerciale del porto si compone per circa sei settimi di movimento in entrata e per un settimo di movimento in uscita, che della merce sbarcata il 75% è la parte che compete ai trasporti ferroviari, e che di questa l’80% circa sale il valico dei Giovi ed una metà viene istradata verso la capitale lombarda e l’Emilia; e tenendo conto altresì dei carri provenienti da Sampierdarena e dalle due linee della Riviera; possiamo concludere che in cifra tonda 2.000 carri al giorno dovranno attraversare il valico dei Giovi quando il porto raggiungerà il movimento totale di 10 milioni di tonnellate.

 

 

Oggi per i due valichi dei Giovi salgono in media 1000 carri al giorno; ed è secondo il comitato vana la speranza di poterne far salire molti di più, benché si sia affermata la possibilità di giungere sino ai 2.000 carri con la ventilazione artificiale nelle gallerie di valico, con la divisione in due sezioni di blocco della galleria di Ronco, con la rettifica Ronco-Voghera, o con quella Ronco-Novi e con altri spedienti costosi e di dubbio effetto. Egli è che le linee esistenti non si prestano ad un intenso movimento di traffico quale è quello che richiede il porto di Genova. La linea Genova-Novi è la ferrovia di maggiore traffico che esista in Italia (275.000 lire a chilometro) e lungo la medesima (linea di Busalla) si ha la massima pendenza (35% all’esterno e 30% in galleria) che si verifichi sulle ferrovie italiane. Su questa rampa per trasportare una tonnellata di merce occorre trasportarne in più quasi tre di peso morto, con condizioni di esercizio talmente disastrose, che il meglio di tutto sarebbe escludere nei calcoli la vecchia linea, per lo stesso motivo che nelle industrie si abbandonano vecchi e disadatti meccanismi per sostituirli con altri più perfetti che danno una produzione migliore ed a miglior mercato. La succursale dei Giovi da sola, anche per la sua pendenza del 16%, già troppo forte per una linea destinata a traffico così intenso, non potrà bastare quando si avranno i 10 milioni di tonnellate. Se si bada al servizio viaggiatori fra Genova e Milano, è manifesto il bisogno che hanno i due centri di comunicazioni continue e rapidissime a cui le linee attuali, sovraccaricate del servizio delle merci e soggette a continui ritardi inevitabili per le necessità del servizio di coincidenza, non possono soddisfare. Dati gli intimi rapporti di indole industriale e commerciale tra i due centri, il mettere a disposizione del pubblico una linea breve, piana ed indipendente mediante la quale si possa compiere il tragitto in poco più di un’ora, non può a meno di agevolare la trattazione degli affari e di creare un incentivo per il pubblico che viaggia per diporto a servirsene con frequenza intensificando il movimento attuale e creandone anzi uno nuovo che oggi non esiste.

 

 

Di qui l’opportunità di una nuova linea direttissima la quale per soddisfare bene al suo compito deve essere la più breve possibile, a due binari, avere pendenze miti e curve a grandissimo raggio, il punto culminante il più basso possibile, armamento molto robusto, sede tutta propria ed indipendente dalle linee in esercizio, stazioni proprie tanto a Milano, Tortona e Genova quanto nei principali punti intermedi, ed essere allacciata mediante raccordi con le linee e stazioni esistenti.

 

 

Ecco i concetti che presiedettero al progetto della nuova linea, la quale avrebbe la sua stazione d’origine a Genova, nel largo ove trovasi il monumento al duca di Galliera; e che, dopo avere attraversato con la galleria del promontorio il nucleo montuoso a ponente di Genova, evitando la stretta di Sampierdarena, entrerebbe nella valle del torrente Polcevera, ad est del parco del Campasso; ed a metà fra Pontedecimo e Campomorone, entrerebbe nella grande galleria dell’attraversata dell’Appennino, dirigendosi verso Rigoroso, frazione di Arquata Scrivia. Dal punto culminante di Rigoroso la linea si dirigerebbe, prima sulla sinistra e poi sulla destra dello Scrivia, a Tortona: piegando subito dopo leggermente verso nord-est in direzione di Milano, che raggiungerebbe quasi con un unico rettifilo attraverso la pianura padana, terminando con una grande stazione indipendente posta nella zona occidentale compresa tra il Naviglio grande e San Cristoforo e il viale Michelangelo Buonarroti, a sud-sud- ovest della esistente stazione di smistamento del Sempione, su un’area di 320.000 mq ed uno sviluppo di oltre 36 km di binari, con 140 scambi e 30 piattaforme.

 

 

La linea partirebbe dalla stazione di Genova, a m 8,60 sul mare; e salirebbe in modo continuo, con pendenze massime di 8,45 per mille all’esterno e 7,65 per mille nella grande galleria, fino al punto culminante che trovasi allo sbocco della grande galleria di Rigoroso (quota m 241,75). Dopo discenderebbe fino a Tortona (m 124,60) con pendenze massime del 7 e 6 per mille; e da Tortona verso il Po, con pendenze dal 2 al 4%. Dal punto più basso (m 73,8) a Milano (m 127) le pendenze sarebbero mitissime e non mai superiori al 4 per mille.

 

 

La lunghezza totale della linea progettata è di km 124,45; di cui in curva km 15,09 ed in rettilineo km 109,35, ossia con appena il 12% delle linee in curva. L’opera d’arte più importante ed anzi colossale è la grande galleria di valico dell’Appennino, lunga m 18271; e certo presenterà difficoltà non piccole di esecuzione. Il comitato si propone di perforarla, oltreché dai due attacchi estremi, anche mediante otto attacchi intermedi forniti da quattro pozzi inclinati, con un totale di dieci attacchi. La galleria verrà divisa così in cinque nuclei, della lunghezza minima di 2.870 metri e massima di 4.700 l’uno. Si prevede di ultimare la galleria nel termine di sei anni, dal giorno in cui si attaccherà la perforazione, ciò che determina il tempo massimo necessario per l’apertura dell’intera linea.

 

 

La linea sarà esercitata con trazione elettrica tanto per il servizio viaggiatori che per le merci, presentandosi le migliori condizioni richieste all’uopo: nei riguardi del tracciato avendosi infatti rettilinei lunghissimi, curve di ampio raggio (m 1.000 al minimo), pendenze mitissime (8,45, 7 e 4 per mille); e nei riguardi del traffico verificandosi la condizione essenziale per la migliore utilizzazione dell’energia elettrica, qual è quella di poter fare treni frequenti e di mite ed uniforme portata. Per intensificare il movimento viaggiatori fra Genova e Milano, sarà necessario fare treni viaggiatori frequenti e rapidissimi; e perciò il comitato propone di adoperare per i treni delle locomotrici-bagagliaio a peso tutto aderente, a due carrelli e quattro assi motori di 300 HP l’uno, del peso in totale di 45 tonnellate, e di carrozze a due carrelli della capacità di 50 persone e del peso complessivo di 115 tonnellate. Il programma sarebbe di far partire dopo le 4 del mattino e fino alle 24 un treno omnibus raccoglitore, seguito a breve distanza da un treno diretto ad ogni due ore; e ciò nei due sensi di Genova-Milano e Milano-Genova. L’omnibus precede il diretto che lo raggiunge a Tortona, dove i viaggiatori delle stazioni intermedie possono prendere così il diretto per Milano. Lo stesso succede in senso inverso per i due treni che partono da Milano e che si raggiungono a Tortona. Con la velocità di 80 km l’ora sulle rampe del valico e di 120 km l’ora nelle tratte rimanenti con pendenza massima del 4 per mille, la durata del viaggio Genova-Milano sarebbe di ore 1,25′ per i diretti e di ore 2,5′ per gli omnibus, ed in senso inverso rispettivamente di ore 1,20′ e ore 1,55′. Il numero dei viaggiatori che potrà trasportarsi in 24 ore, essendo ridotto a 20 il numero delle coppie di treni, sarà di 6.000 al giorno nei due sensi e di oltre 2 milioni all’anno. Il numero potrà all’occorrenza essere aumentato, bastando aumentare la composizione dei treni e gli impianti elettrici. Quanto al servizio merci, la linea essendo munita anche in galleria di posti di blocco ad ogni km, si potranno avere teoricamente 100 treni e praticamente 70 treni al giorno, di 30 carri l’uno, ossia 2.100 carri. Basterà che alla nuova linea siano inviati dal parco del Campasso o direttamente dal porto, i treni composti di carri che vanno a Milano o sulla via di Piacenza, perché essa abbia, quando si raggiungerà nel porto un movimento di 10 milioni di tonnellate – epoca che coinciderà con l’apertura della nuova linea – da fare il servizio di circa 1.000 carri al giorno, lasciando ai valichi attuali il servizio degli altri 1.000 carri destinati al Piemonte, al Novarese ed alla Lombardia occidentale. Amendue le linee, vecchia e nuova, avranno dinanzi a sé aperto un campo di espansione con l’incremento futuro del traffico del porto oltre i 10 milioni di tonnellate. La questione dei valichi appenninici potrà dirsi così risoluta – almeno per un periodo lungo di anni – non a base di espedienti e di palliativi, ma sul fondamento di una razionale divisione di lavoro.

 

 

Il costo della linea non sarà certo tenue, dato l’importanza delle opere d’arte, la grande galleria di traversata, la solidità dell’armamento, i ponti sul Ticino e sul Po, l’abolizione di tutti i passaggi a livello, il doppio binario, le espropriazioni a Genova ed a Milano, ecc. ecc. Ecco il preventivo:

 

 

Linea corrente km 124,45 a lire 1200000 il km L. 149.500.000
Raccordi colle linee e scali esistenti a Genova, Rigoroso, Tortona e Milano per uno sviluppo totale di 13 km L. 18.050.000
Stazioni sociali di Genova e Milano e per quelle di smistamento lungo la linea L. 28.800.000
Impianti elettrici e blocco L. 14.650.000
Materiale mobile L. 25.000.000
Totale L. 236000000

 

 

che per km 137 di linea corrente e raccordo dà un costo medio di lire 1.722.627 per chilometro, che non è certo esagerato quando si pensi alle grandiose opere ricorrenti lungo la linea ed alla vastità degli impianti previsti perché la nuova ferrovia corrisponda allo scopo per il quale viene costruita.

 

 

Poiché l’enunciazione di una cifra così grande potrebbe rendere scettici sulla possibilità dell’impresa, il comitato conclude la sua memoria così:

 

 

Nel presentare il progetto all’esame delle competenti autorità governative, il comitato si è dichiarato disposto ad assumere la costruzione e l’esercizio della nuova ferrovia; giacché, sicuro del buon esito finale sia dal lato tecnico che da quello economico della grande opera, non lo spaventa l’ingente capitale necessario alla medesima che facilmente sarà messo insieme, quando il governo, conscio del proprio dovere di fronte ad una situazione tanto grave come quella che si presenta in oggi nel primo emporio commerciale marittimo dell’Italia e che andrà sempre peggiorando, dia il suo incondizionato appoggio alla grandiosa opera testé progettata.

 

 

Noi, che abbiamo voluto esporre il progetto del comitato con obbiettività, facciamo voti che il progetto sia assoggettato, non solo nelle sfere governative, ma anche in pubblico ad una esauriente discussione. Molti sono i problemi tecnici ed economici che la grandiosa impresa fa sorgere: e se parecchi di essi sono eliminati in parte dal fatto che la costruzione e l’esercizio della linea verrebbero assunti da una società privata a suo rischio, altri ne sorgono quanto ai rapporti tra la nuova linea e quella di stato, alla natura dell’appoggio «incondizionato» chiesto dal comitato al governo, alle clausole di eventuale riscatto della linea da parte dello stato, alla partecipazione dello stato ai benefici superiori ad una certa misura, ecc. ecc. Non mancheranno di tornare in campo i fautori di altre linee: e si tratterà della concorrenza alle ferrovie dello stato. L’opinione pubblica ha da dire la sua, per concorrere alla soluzione migliore e perché la soluzione data al problema ferroviario di Genova e Milano sia sollecita e definitiva.

 

 

La direttissima Genova-Milano: il progetto del comitato ligure-lombardo

La direttissima Genova-Milano: il progetto del comitato ligure-lombardo

«Corriere della Sera», 9 gennaio 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 462-468

 

 

Or è passato circa un anno – dopo avere esaminate le diverse soluzioni proposte – noi conchiudevamo una serie di articoli sul problema ferroviario del porto di Genova ed il valico degli Appennini con queste parole:

 

 

Se domani una società di capitalisti privati si assumesse di costruire a sue spese, dando allo stato una partecipazione negli eventuali benefici, la direttissima fra Genova e Ronco o meglio fra Genova e Milano, perché non lasciarle correre questo rischio? E se la società si proponesse di creare addirittura una rivoluzione nei metodi ordinari di trasporto, riducendo il tempo del viaggio fra Genova e Milano ad un’ora e mezzo, facendo partenze frequentissime ad ogni mezz’ora e ad ogni ora, perché, ripetiamo, non incoraggiare l’audace tentativo? … La logica di quelli i quali dicono: bisogna seguire il traffico ed anche anticiparlo di qualche cosa, senza precorrere i tempi, forse è la più illogica e la meno pratica di tutte, ed in definitiva risultano più logici quelli i quali paiono costrurre per l’avvenire lontano. L’Italia è in un periodo di intensa trasformazione industriale; una nuova linea ferroviaria che riducesse d’assai il tempo e il costo dei trasporti fra il massimo centro commerciale ed industriale e il massimo porto d’Italia, se non potrà essere ottenuta subito e tutta dallo stato, lento a muoversi e solito a farsi rimorchiare, forse darebbe profitti non spregevoli a quegli ardimentosi capitalisti, i quali osassero tentarla colle sole loro forze. Se a questo si riuscisse e se gli uomini di Genova e di Milano dicessero allo stato: «Facciamo da noi», a noi pare che lo stato non dovrebbe porre impacci, lasciando libertà d’azione a chi vuole e può.

 

 

Poco più di un anno dopo dal giorno nel quale queste parole venivano scritte, l’ipotesi che avevamo messo innanzi si può dire abbia fatto un grande passo verso la sua realizzazione. Un comitato ligure – lombardo, composto di eminenti uomini di Milano e di Genova si è costituito per lo studio di un progetto di direttissima, ha fatto eseguire i piani particolareggiati ed ha presentato al governo la domanda di concessione. Noi abbiamo sott’occhio una relazione a stampa, firmata dal presidente senatore E. Piaggio e dai membri T. Bertarelli ed O. Joel, la quale dà ragione dei lavori compiuti dal comitato e della proposta direttissima; e da questa relazione togliamo quei dati che valgano a dare un’idea della grandiosa impresa progettata.

 

 

Le condizioni difficili del movimento ferroviario nel porto di Genova ed attraverso ai valichi appenninici sono ben note; e più diverranno ardue quanto più crescerà il traffico. La commissione Adamoli ha calcolato che nel 1923 il movimento complessivo del porto ascenderà a 10 milioni di tonnellate; il comitato ligure-lombardo prevede che il limite dei 10 milioni o forse più alto sarà raggiunto assai più presto, verso il 1913, o poco dopo. Già nel 1906 il movimento complessivo fu di tonnellate 6.192.747; e maggiore sarebbe stato se il porto avesse offerto maggiori facilità di sbarco e di imbarco. Prevedendosi in 8 anni il tempo necessario per la esecuzione del progetto di ampliamento del porto e potendo le calate essere utilizzate parzialmente anche prima, è tutt’altro che esagerato prevedere un aumento medio di traffico di 400-500000 tonnellate; di guisa che alla fine del 1913 o al più del 1915 tutto fa ritenere probabile che noi ci troveremo di fronte all’imponente movimento di 10 milioni di tonnellate da smaltire. Tenendo conto che il movimento commerciale del porto si compone per circa sei settimi di movimento in entrata e per un settimo di movimento in uscita, che della merce sbarcata il 75% è la parte che compete ai trasporti ferroviari, e che di questa l’80% circa sale il valico dei Giovi ed una metà viene istradata verso la capitale lombarda e l’Emilia; e tenendo conto altresì dei carri provenienti da Sampierdarena e dalle due linee della Riviera; possiamo concludere che in cifra tonda 2.000 carri al giorno dovranno attraversare il valico dei Giovi quando il porto raggiungerà il movimento totale di 10 milioni di tonnellate.

 

 

Oggi per i due valichi dei Giovi salgono in media 1000 carri al giorno; ed è secondo il comitato vana la speranza di poterne far salire molti di più, benché si sia affermata la possibilità di giungere sino ai 2.000 carri con la ventilazione artificiale nelle gallerie di valico, con la divisione in due sezioni di blocco della galleria di Ronco, con la rettifica Ronco-Voghera, o con quella Ronco-Novi e con altri spedienti costosi e di dubbio effetto. Egli è che le linee esistenti non si prestano ad un intenso movimento di traffico quale è quello che richiede il porto di Genova. La linea Genova-Novi è la ferrovia di maggiore traffico che esista in Italia (275.000 lire a chilometro) e lungo la medesima (linea di Busalla) si ha la massima pendenza (35% all’esterno e 30% in galleria) che si verifichi sulle ferrovie italiane. Su questa rampa per trasportare una tonnellata di merce occorre trasportarne in più quasi tre di peso morto, con condizioni di esercizio talmente disastrose, che il meglio di tutto sarebbe escludere nei calcoli la vecchia linea, per lo stesso motivo che nelle industrie si abbandonano vecchi e disadatti meccanismi per sostituirli con altri più perfetti che danno una produzione migliore ed a miglior mercato. La succursale dei Giovi da sola, anche per la sua pendenza del 16%, già troppo forte per una linea destinata a traffico così intenso, non potrà bastare quando si avranno i 10 milioni di tonnellate. Se si bada al servizio viaggiatori fra Genova e Milano, è manifesto il bisogno che hanno i due centri di comunicazioni continue e rapidissime a cui le linee attuali, sovraccaricate del servizio delle merci e soggette a continui ritardi inevitabili per le necessità del servizio di coincidenza, non possono soddisfare. Dati gli intimi rapporti di indole industriale e commerciale tra i due centri, il mettere a disposizione del pubblico una linea breve, piana ed indipendente mediante la quale si possa compiere il tragitto in poco più di un’ora, non può a meno di agevolare la trattazione degli affari e di creare un incentivo per il pubblico che viaggia per diporto a servirsene con frequenza intensificando il movimento attuale e creandone anzi uno nuovo che oggi non esiste.

 

 

Di qui l’opportunità di una nuova linea direttissima la quale per soddisfare bene al suo compito deve essere la più breve possibile, a due binari, avere pendenze miti e curve a grandissimo raggio, il punto culminante il più basso possibile, armamento molto robusto, sede tutta propria ed indipendente dalle linee in esercizio, stazioni proprie tanto a Milano, Tortona e Genova quanto nei principali punti intermedi, ed essere allacciata mediante raccordi con le linee e stazioni esistenti.

 

 

Ecco i concetti che presiedettero al progetto della nuova linea, la quale avrebbe la sua stazione d’origine a Genova, nel largo ove trovasi il monumento al duca di Galliera; e che, dopo avere attraversato con la galleria del promontorio il nucleo montuoso a ponente di Genova, evitando la stretta di Sampierdarena, entrerebbe nella valle del torrente Polcevera, ad est del parco del Campasso; ed a metà fra Pontedecimo e Campomorone, entrerebbe nella grande galleria dell’attraversata dell’Appennino, dirigendosi verso Rigoroso, frazione di Arquata Scrivia. Dal punto culminante di Rigoroso la linea si dirigerebbe, prima sulla sinistra e poi sulla destra dello Scrivia, a Tortona: piegando subito dopo leggermente verso nord-est in direzione di Milano, che raggiungerebbe quasi con un unico rettifilo attraverso la pianura padana, terminando con una grande stazione indipendente posta nella zona occidentale compresa tra il Naviglio grande e San Cristoforo e il viale Michelangelo Buonarroti, a sud-sud- ovest della esistente stazione di smistamento del Sempione, su un’area di 320.000 mq ed uno sviluppo di oltre 36 km di binari, con 140 scambi e 30 piattaforme.

 

 

La linea partirebbe dalla stazione di Genova, a m 8,60 sul mare; e salirebbe in modo continuo, con pendenze massime di 8,45 per mille all’esterno e 7,65 per mille nella grande galleria, fino al punto culminante che trovasi allo sbocco della grande galleria di Rigoroso (quota m 241,75). Dopo discenderebbe fino a Tortona (m 124,60) con pendenze massime del 7 e 6 per mille; e da Tortona verso il Po, con pendenze dal 2 al 4%. Dal punto più basso (m 73,8) a Milano (m 127) le pendenze sarebbero mitissime e non mai superiori al 4 per mille.

 

 

La lunghezza totale della linea progettata è di km 124,45; di cui in curva km 15,09 ed in rettilineo km 109,35, ossia con appena il 12% delle linee in curva. L’opera d’arte più importante ed anzi colossale è la grande galleria di valico dell’Appennino, lunga m 18271; e certo presenterà difficoltà non piccole di esecuzione. Il comitato si propone di perforarla, oltreché dai due attacchi estremi, anche mediante otto attacchi intermedi forniti da quattro pozzi inclinati, con un totale di dieci attacchi. La galleria verrà divisa così in cinque nuclei, della lunghezza minima di 2.870 metri e massima di 4.700 l’uno. Si prevede di ultimare la galleria nel termine di sei anni, dal giorno in cui si attaccherà la perforazione, ciò che determina il tempo massimo necessario per l’apertura dell’intera linea.

 

 

La linea sarà esercitata con trazione elettrica tanto per il servizio viaggiatori che per le merci, presentandosi le migliori condizioni richieste all’uopo: nei riguardi del tracciato avendosi infatti rettilinei lunghissimi, curve di ampio raggio (m 1.000 al minimo), pendenze mitissime (8,45, 7 e 4 per mille); e nei riguardi del traffico verificandosi la condizione essenziale per la migliore utilizzazione dell’energia elettrica, qual è quella di poter fare treni frequenti e di mite ed uniforme portata. Per intensificare il movimento viaggiatori fra Genova e Milano, sarà necessario fare treni viaggiatori frequenti e rapidissimi; e perciò il comitato propone di adoperare per i treni delle locomotrici-bagagliaio a peso tutto aderente, a due carrelli e quattro assi motori di 300 HP l’uno, del peso in totale di 45 tonnellate, e di carrozze a due carrelli della capacità di 50 persone e del peso complessivo di 115 tonnellate. Il programma sarebbe di far partire dopo le 4 del mattino e fino alle 24 un treno omnibus raccoglitore, seguito a breve distanza da un treno diretto ad ogni due ore; e ciò nei due sensi di Genova-Milano e Milano-Genova. L’omnibus precede il diretto che lo raggiunge a Tortona, dove i viaggiatori delle stazioni intermedie possono prendere così il diretto per Milano. Lo stesso succede in senso inverso per i due treni che partono da Milano e che si raggiungono a Tortona. Con la velocità di 80 km l’ora sulle rampe del valico e di 120 km l’ora nelle tratte rimanenti con pendenza massima del 4 per mille, la durata del viaggio Genova-Milano sarebbe di ore 1,25′ per i diretti e di ore 2,5′ per gli omnibus, ed in senso inverso rispettivamente di ore 1,20′ e ore 1,55′. Il numero dei viaggiatori che potrà trasportarsi in 24 ore, essendo ridotto a 20 il numero delle coppie di treni, sarà di 6.000 al giorno nei due sensi e di oltre 2 milioni all’anno. Il numero potrà all’occorrenza essere aumentato, bastando aumentare la composizione dei treni e gli impianti elettrici. Quanto al servizio merci, la linea essendo munita anche in galleria di posti di blocco ad ogni km, si potranno avere teoricamente 100 treni e praticamente 70 treni al giorno, di 30 carri l’uno, ossia 2.100 carri. Basterà che alla nuova linea siano inviati dal parco del Campasso o direttamente dal porto, i treni composti di carri che vanno a Milano o sulla via di Piacenza, perché essa abbia, quando si raggiungerà nel porto un movimento di 10 milioni di tonnellate – epoca che coinciderà con l’apertura della nuova linea – da fare il servizio di circa 1.000 carri al giorno, lasciando ai valichi attuali il servizio degli altri 1.000 carri destinati al Piemonte, al Novarese ed alla Lombardia occidentale. Amendue le linee, vecchia e nuova, avranno dinanzi a sé aperto un campo di espansione con l’incremento futuro del traffico del porto oltre i 10 milioni di tonnellate. La questione dei valichi appenninici potrà dirsi così risoluta – almeno per un periodo lungo di anni – non a base di espedienti e di palliativi, ma sul fondamento di una razionale divisione di lavoro.

 

 

Il costo della linea non sarà certo tenue, dato l’importanza delle opere d’arte, la grande galleria di traversata, la solidità dell’armamento, i ponti sul Ticino e sul Po, l’abolizione di tutti i passaggi a livello, il doppio binario, le espropriazioni a Genova ed a Milano, ecc. ecc. Ecco il preventivo:

 

 

Linea corrente km 124,45 a lire 1200000 il km L. 149.500.000
Raccordi colle linee e scali esistenti a Genova, Rigoroso, Tortona e Milano per uno sviluppo totale di 13 km L. 18.050.000
Stazioni sociali di Genova e Milano e per quelle di smistamento lungo la linea L. 28.800.000
Impianti elettrici e blocco L. 14.650.000
Materiale mobile L. 25.000.000
  Totale L. 236000000

 

 

che per km 137 di linea corrente e raccordo dà un costo medio di lire 1.722.627 per chilometro, che non è certo esagerato quando si pensi alle grandiose opere ricorrenti lungo la linea ed alla vastità degli impianti previsti perché la nuova ferrovia corrisponda allo scopo per il quale viene costruita.

 

 

Poiché l’enunciazione di una cifra così grande potrebbe rendere scettici sulla possibilità dell’impresa, il comitato conclude la sua memoria così:

 

 

Nel presentare il progetto all’esame delle competenti autorità governative, il comitato si è dichiarato disposto ad assumere la costruzione e l’esercizio della nuova ferrovia; giacché, sicuro del buon esito finale sia dal lato tecnico che da quello economico della grande opera, non lo spaventa l’ingente capitale necessario alla medesima che facilmente sarà messo insieme, quando il governo, conscio del proprio dovere di fronte ad una situazione tanto grave come quella che si presenta in oggi nel primo emporio commerciale marittimo dell’Italia e che andrà sempre peggiorando, dia il suo incondizionato appoggio alla grandiosa opera testé progettata.

 

 

Noi, che abbiamo voluto esporre il progetto del comitato con obbiettività, facciamo voti che il progetto sia assoggettato, non solo nelle sfere governative, ma anche in pubblico ad una esauriente discussione. Molti sono i problemi tecnici ed economici che la grandiosa impresa fa sorgere: e se parecchi di essi sono eliminati in parte dal fatto che la costruzione e l’esercizio della linea verrebbero assunti da una società privata a suo rischio, altri ne sorgono quanto ai rapporti tra la nuova linea e quella di stato, alla natura dell’appoggio «incondizionato» chiesto dal comitato al governo, alle clausole di eventuale riscatto della linea da parte dello stato, alla partecipazione dello stato ai benefici superiori ad una certa misura, ecc. ecc. Non mancheranno di tornare in campo i fautori di altre linee: e si tratterà della concorrenza alle ferrovie dello stato. L’opinione pubblica ha da dire la sua, per concorrere alla soluzione migliore e perché la soluzione data al problema ferroviario di Genova e Milano sia sollecita e definitiva.

 

 

Prestito o fondo per gli sgravi?

Prestito o fondo per gli sgravi?

«Corriere della Sera», 8 gennaio 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 456-461

 

 

Il concetto di un «fondo per gli sgravi» che abbiamo ripetutamente esposto e difeso su queste colonne, va facendo la sua strada. L’opinione favorevole ad una riduzione dei tributi, che era rimasta un po’ nell’ombra quando tutti gridavano alla necessità di rinforzare i pubblici servizi, trova un’altra volta seguito. Autorevoli parlamentari hanno espresso alla tribuna della camera il convincimento che un passo si dovesse fare sulla via degli sgravi; e che sovratutto fosse d’uopo restituire ai contribuenti i 20 milioni derivanti dalla conversione della rendita. Il governo – per bocca dell’on. Majorana – ha dichiarato che ad una riforma tributaria si stava pensando; ha preso l’impegno di dedicarvi per l’appunto i noti 20 milioni, che ha affermato salvi dagli impegni di nuove spese; e solo per ragioni di opportunità (trattative commerciali in corso con la Russia, ecc.) ha chiesto tempo a palesare i suoi intendimenti di riforma.

 

 

Senonché un pericolo rimane sempre. Con 20 milioni poco si può fare; od almeno poco si crede di poter fare: tutt’al più, si dice, una piccola riduzione di un tributo sui consumi, che darà ad ogni italiano l’annuo beneficio medio di un 60-70 centesimi. Dinanzi a così tenue cosa, ecco drizzarsi i sostenitori di spese, i quali magnificano l’utilità di migliori, cresciuti, nuovi pubblici servizi, ed additano una via, più facile e tale da procacciare il plauso più intenso, se non più largo, da parte dei gruppi e dei luoghi beneficati. La contesa fra i fautori degli sgravi e i patrocinatori delle spese finirebbe con la sicura vittoria di questi ultimi, se un altro elemento non entrasse in giuoco a tentare di far preponderare la bilancia dal lato degli sgravi. In sostanza, è il medesimo concetto della efficacia riproduttiva delle riduzioni d’imposte che noi abbiamo messo innanzi col nome di «fondo per sgravi»; ma viene espresso in diversa maniera.

 

 

Non è vero – afferma ad esempio il professor Antonio Graziadei in alcuni recenti articoli dell’ «Avanti!» – che 20 milioni siano pochi per una riforma tributaria. Anzi, quando si sappia trarne partito, sono molti, e permettono di ridurre alcuni tributi ed insieme di migliorare i pubblici servizi.

 

 

Il contribuente italiano era abituato a pagare ogni anno 20 milioni di lire, che erano trasmessi ai creditori dello stato. Adesso che l’interesse è ridotto dal 4 al 3,75%, lo stato paga gli interessi dovuti con 20 milioni di meno. Supponiamo per un momento che lo stato non voglia saperne di fare questo risparmio annuo, e che intenda di pagare per il debito pubblico la medesima somma di prima. Esso potrà, ad esempio, fare un debito ammortizzabile in 40 anni al 3,50% di circa 427 milioni di lire, al cui servizio (interessi ed ammortamento) applicherà i 20 milioni di utili della conversione. I contribuenti continueranno a pagare come prima, la spesa per il debito nuovo sarà coperta; ma lo stato si troverà nelle casse la bella somma di 7 milioni di lire circa. Supponiamo ora che lo stato, forte di questo presidio monetario, voglia tentare una speculazione industriale simili a quelle che sono condotte tutte a termine con successo da tanti imprenditori privati, e dica: I contribuenti italiani pagano oggi (prendiamo gli esempi del Graziadei) lo zucchero lire 1,50 al kg (comprese lire 0,99 tra imposta e protezione ai fabbricanti); ed il petrolio lire 0,65, 0,70 al litro (comprese lire 0,48 al kg ossia lire 0,38 al litro di imposta); e di pagar tanto si lagnano, magro conforto trovando nel pensare che lo stato esige ogni anno lire 77.600.000 dallo zucchero e lire 32.000.000 dal petrolio. Questi alti redditi oggi li ottengo mettendo imposte fortissime che superano d’assai il valore d’origine della merce tassata. O non si potrebbe tentare di ottenerli egualmente col metodo inverso di mettere imposte miti e di promuovere così un vivace aumento dei consumi? Se, ad esempio, riducesse l’imposta e la protezione sullo zucchero da lire 0,99 a lire 0,55 al kg, il prezzo dello zucchero scemerebbe da lire 1,50 a lire 1,07 il kg, ossia di quasi il 30%; e se riducesse l’imposta sul petrolio da lire 48 a lire 12, il prezzo scenderebbe da lire 0,70 a lire 0,45 al litro, ossia del 35%. Basterebbe che ai nuovi prezzi il consumo dello zucchero raddoppiasse e quello del petrolio quadruplicasse perché l’erario tornasse ad incassare la stessa precisa somma che incassa oggi. Il risultato non si raggiungerebbe in un batter d’occhio; e forse occorrerebbero anni; ma in un certo numero di anni l’aumento si verificherebbe sicuramente. Anche con un consumo doppio dello zucchero noi rimarremmo inferiori assai al consumo dell’Austria, e giungeremmo appena al 40% di quello della Francia o della Germania e ad un settimo di quello dell’Inghilterra. Non parliamo del petrolio, le cui nuove applicazioni rendono modesta la previsione di un consumo quadruplo, di gran lunga superato in paesi esteri. Il punto difficile è di stabilire il numero d’anni entro cui l’aumento del consumo dovrà riportare il reddito fiscale alla cifra odierna. Il Graziadei lo suppone di cinque anni, durante i quali la perdita dell’erario potrà al massimo essere di 62 milioni di lire (38 sullo zucchero e 24 sul petrolio). Il fondo dei 427 milioni di lire del prestito fatto cogli utili della conversione servirà appunto ad indennizzare il fisco delle perdite momentanee. Se anche supponessimo una perdita costante di 62 milioni di lire l’anno, mentre in realtà sarebbe decrescente e tenderebbe a zero nel sesto anno, sarebbero 310 milioni di lire circa da prelevare sul fondo del prestito. Avanzerebbero ancora 117 milioni per tante altre belle cose e sovratutto per il riordinamento dei pubblici servizi.

 

 

Naturalmente, perché l’operazione riesca, bisogna scegliere derrate il cui consumo possa aumentare; ed è per tale motivo che lo zucchero ed il petrolio sono preferibili al sale ed al grano, quantunque questi ultimi, e specialmente il grano, possano raccomandarsi da altri punti di vista. Sale e grano sono derrate a consumo rigido; e quindi una riduzione d’imposta per esse significherebbe una perdita secca per il fisco; mentre quel che occorre è una perdita momentanea, decrescente e tale da poter essere colmata prima che sia esaurito il prodotto del prestito.

 

 

Al progetto del Graziadei noi non faremo l’obiezione di massima che non si debbono far debiti per diminuire le imposte. A questa stregua non bisognerebbe nemmeno diminuire le tariffe ferroviarie, quando lo si creda opportuno per aumentare il traffico ed il reddito netto futuro, perché lo scopo non si può ottenere senza crescere gli impianti ed il materiale rotabile e sono perciò necessari impieghi di capitali presi a prestito. O non è oramai invece passato in giudicato – anche tra coloro che più erano avversi tempo fa a qualunque forma di debito – che i prestiti ferroviari sieno utili invece quando si può presumere che il loro servizio (interessi ed ammortamento) possa farsi col prodotto cresciuto del traffico? Il caso di un prestito per una trasformazione tributaria non è sostanzialmente identico? Invece di dedicare ad un solo e piccolo sgravio 20 milioni di lire all’anno, si consacrano quei 20 milioni a pagare gli interessi e l’ammortamento in 40 anni di un prestito di 427 milioni; e con questo ingente fondo di riserva lo stato affronta i pericoli di momentanee perdite derivanti da una riforma tributaria più vasta e più utile pei contribuenti.

 

 

Se in Italia si osasse dagli uomini politici non diciamo fare in grande, ma fare con lo sguardo fisso ad un programma d’insieme, questo del Graziadei od un altro consimile progetto potrebbe formare la base di una utile discussione. Tecnicamente esso ci sembra presentare il difetto di un apparecchio troppo grandioso per un fine troppo modesto. Con un fondo di riserva di 427 milioni di lire si dovrebbe poter osare qualche altra riforma oltre gli sgravi sul petrolio e sullo zucchero. Non si corre però il pericolo di suscitare troppi desideri e di mettere in forse quella parte del fondo che deve essere riservata agli sgravi? Temiamo poi molto che l’idea di dover perdere 62 milioni di lire di entrata annua, sia pure colla speranza di prossimi ricuperi, e coll’appoggio del prestito dei 427 milioni, sembri terrificante alla gran maggioranza dei parlamentari; e faccia perdere un tempo prezioso. In politica si scelgono non i piani più belli ma quelli che si raccomandano meglio per semplicità e pronta applicazione. Il nostro vecchio concetto del fondo degli sgravi, ci sembra perciò preferibile a quello del prestito per gli sgravi, tanto più che può condurre a risultati non molto diversi.

 

 

Noi diciamo: l’opinione che con i 20 milioni della conversione si possa far poco deriva sovratutto dall’erronea credenza che, una volta impiegati in un qualunque sgravio, essi siano perduti per sempre. Se invece si costituisse, con quei 20 milioni (che il ministro Majorana afferma integri e salvi dalla marea montante delle spese), e con gli altri 20 che verranno nel 1912, un «fondo per gli sgravi» destinato esclusivamente a colmare i deficit derivanti dalle riduzioni di tributi, subito si vedrebbe che quel fondo ha la virtù di rinascere dalle sue ceneri. Supponiamo ad esempio che si riduca nel 1907-908 da 48 a 12 lire il dazio sul petrolio. Per quell’anno forse la perdita dello stato sarebbe di 20 milioni e il fondo sarebbe tutto assorbito. Ma nel 1908-909 la perdita probabilmente, per il crescere del consumo, sarà solo di 16 milioni; ed al fondo rimarrebbero 4 milioni. E così via si può supporre che nel 1909-10 rimangano al fondo 8 milioni, nel 1910-11, 12 milioni, nel 1911-12, 16 milioni. Nel 1912-13 la perdita dello stato a causa della riduzione del dazio sul petrolio è di soli 4 milioni; e viceversa il fondo degli sgravi è salito per il contributo dell’anno a 40 milioni, per la riduzione automatica della rendita dal 3,75 al 3,50%, con i quali si può tentare la riforma del regime degli zuccheri. Dopo la quale nulla vieta, che, sempre col medesimo presidio, si tenti il passaggio delle imposte reali ai comuni e l’istituzione di un’imposta personale di stato sul reddito. Altri preferirà invertire l’ordine e far precedere gli zuccheri al petrolio, o magari a tutti due una più radicale riforma tributaria. Sono problemi importantissimi, che si debbono discutere a parte. Quel che importa affermare e sostenere è la necessità di cominciare una qualche riforma tributaria, che abbia effetto continuativo e sia feconda di risultati importanti. A raggiungere lo scopo è indispensabile il presidio di una riserva monetaria capace a sorreggere lo stato attraverso i periodi momentanei di trasformazione. Il sistema di riserva più semplice ed agevole noi l’avremmo indicato nel «fondo degli sgravi». Non ci dorremmo affatto che venisse adottato un altro qualsiasi metodo, che si chiarisse più adatto. Ci dorremmo invece assai se nulla si facesse, o se si facessero gli sgravi o le riforme tributarie a spizzico, senza spirito di continuità. Poiché grande sarebbe allora il nostro timore che la riforma avesse a riuscire una misera cosa infeconda.

 

 

L’inondazione dell’oro

L’inondazione dell’oro

«Corriere della Sera», 25-26 dicembre 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 450-455

 

 

La questione monetaria sembra destinata ad essere il tormento perenne dei popoli moderni. Mezzo secolo fa la scoperta delle miniere d’oro della California e dell’Australia fece versare fiumi d’inchiostro agli economisti, i quali paventavano il deprezzamento della moneta aurea e il rialzo dei prezzi, e costrinse l’Italia insieme cogli altri paesi della lega latina, a ridurre il titolo di fino delle monete divisionarie d’argento, perché, in obbedienza all’antico adagio, «la moneta cattiva scaccia via la buona», l’oro rinvilito aveva finito col far scomparire dalla circolazione tutte le monete d’argento da una e due lire. Poi venne la volta dell’argento che per l’eccessiva produzione era caduto da 220 lire a 90 lire il chilogrammo e minacciava di inondare il mondo, mettendo in fuga l’oro. Lunga e titanica fu la lotta sostenuta dai partigiani dell’argento contro la tendenza universale degli stati, i quali, stanchi di queste continue alternative, uno dopo l’altro abbracciavano il monometallismo oro, riducendo l’argento alla funzione di moneta sussidiaria e fiduciaria per le piccole contrattazioni. L’ultimo grande episodio della lotta tra oro ed argento fu l’elezione presidenziale del 1896 negli Stati uniti d’America. L’eloquenza calda edimaginosa del Bryan non valse a salvare l’argento dalla disfatta suprema. Parve dopo d’allora che la questione monetaria fosse un problema d’altri tempi e che la generazioneattuale non avesse almeno ad essere testimone di nuovi interminabili dibattiti fra gli economisti e di nuove conferenze internazionali per regolare la vessata materia.

 

 

Purtroppo sembra che l’orizzonte monetario torni ad infoschirsi. Da qualche tempo, nelle più gravi riviste economiche e statistiche, un forte dubbio tormenta di nuovo gli economisti: quali saranno le conseguenze del grande incremento odierno della produzione dell’oro?

 

 

Che l’incremento vi sia e sia notabile, senza parallelo nella storia del mondo, è innegabile. Poche cifre bastano a dimostrarlo.

 

 

Produzione annua dell’oro in lire Incremento medio per anno in lire
1891-1895 (media)

815.000.000

1896-1900 (media)

1.285.000.000

95.000.000

1901

1.305.000.000

5.000.000

1902

1.485.000.000

180.000.000

1903

1.630.000.000

145.000.000

1904

1.735.000.000

105.000.000

1905

2.000.000.000

269.000.000

1906

2.250.000.000 (?)

250.000.000

 

 

Siamo dinanzi ad una vera fiumana di oro, la quale parte dalle miniere e si spande per la terra. Se dapprima la terra avidamente assorbe l’acqua fecondatrice e questa scompare senza lasciar traccia di sé, giunge alla fine il momento in cui l’acqua, non più assorbita, ristagna ed impaluda. Così è dell’oro. L’aumento verificatosi nella produzione, specie per la scoperta delle miniere del Transvaal, poté passare inosservato nei primi anni: ma è oggimai arrivato ad un tal punto che non può rimanere nascosto. In dieci anni lo stock aureo del mondo che era calcolato (al 1 novembre 1896) di lire 20.720.000.000, passò (al 1 gennaio 1906) a lire 37.435.000 con un aumento di lire 16.715.000.000, ossia di più dell’80%. Né la progressione accenna a scemare d’intensità. Mese per mese, dopo la fine della guerra, la produzione delle miniere del Transvaal aumenta visibilmente. Nel gennaio 1903 furono estratte 16.200 once d’oro; nel gennaio 1904 siamo a 19.400 once; nel gennaio 1905 a 32.500 once; nel gennaio 1906 a 43.300 once; e in settembre siamo arrivati a 48.400. Ogni due anni la produzione di quelle miniere raddoppia. Miniere d’oro si scoprono in tutte le parti del mondo; e quel che più monta si possono utilizzare. Dieci o quindici anni fa i proprietari di miniere non avevano convenienza ad estrarre l’oro, quando il contenuto di una tonnellata di minerale non giungeva almeno a 60 lire d’oro; adesso si possono lavorare minerali il cui contenuto in oro non supera 6,50 lire per tonnellata. Se si pensa che i minerali poveri sono assai più diffusi dei minerali ricchi, si comprende agevolmente come potente sia stata la spinta dei perfezionamenti tecnici a provocare la ricerca dei minerali aurei e l’incremento nella produzione d’oro. Sicché non può prevedersi ora un limite alla tendenza della fiumana aurea a crescere ed a straripare in proporzioni ognora più grandiose.

 

 

Poco male, si dirà. Se la quantità d’oro esistente nel mondo diventerà più grande, tutti potranno riuscire ad averne un po’ di più di prima e tutti saranno più ricchi. Conclusione spiccia; ma gli economisti, parecchi dei quali hanno la cattiva abitudine di fare i profeti (chi ricorda più le nere profezie fatte dagli economisti quando, intorno al 1850, cominciarono a giungere in Europa le prime notizie delle portentose miniere d’oro della California e dell’Australia), pretendono di vedere più in là.

 

 

Intanto una prima differenza vi è fra l’oro e le altre merci. Quando si produce molto grano, o cotone, o ferro, il prezzo ne rinvilisce; ed i produttori, che guadagnano meno, cercano di ridurre i loro affari finché alla lunga la crisi trova il suo rimedio nel restringimento della quantità prodotta. In ogni caso i danneggiati sono soltanto i produttori di grano, cotone o ferro. Invece l’oro, non può diminuire di prezzo, perché è esso stesso l’unità monetaria, in cui tutti i prezzi si esprimono. Una pezza d’oro da 20 lire continuerà sempre ad essere una pezza da 20 lire, anche se il numero di cosiffatte pezze in circolazione è raddoppiato o triplicato. Quello che cambia è la potenza d’acquisto della pezza da 20 lire. Essendoci molte più di queste pezze in circolazione, se vorranno cambiarsi con merci, ne otterranno una quantità minore. Se con una pezza da 20 lire comperavamo prima un quintale di grano, compereremo adesso solo più quattro quinti o tre quarti di quintale. In altri termini i prezzi delle merci aumentano. Che negli ultimi dieci anni la media dei prezzi sia rialzata, non è dubbio. Tutti i numeri indici di prezzi sono concordi al riguardo. Prendiamo, ad esempio, l’indice dei prezzi compilato dal Dun su un grande numero di merci:

 

 

1 gennaio 1897

72,5

1 gennaio 1898

79,9

1 gennaio 1899

80,4

1 gennaio 1900

95,3

1 gennaio 1901

95,7

1 gennaio 1902

101,6

1 gennaio 1903

100,4

1 gennaio 1904

100,1

1 gennaio 1905

100,3

1 gennaio 1906

104,5

1 novembre 1906

106,7

 

 

Il che vuol dire che se il 1 gennaio 1897, tenendo conto di moltissime merci, appartenenti alle più svariate categorie, il loro prezzo poteva ritenersi uguale a 72,5; il 1 novembre 1906 il prezzo delle stesse merci si ragguagliava a 106,7, con un aumento di circa il 40%. Che cosa importa che ci sia nel mondo più oro, se è d’uopo pagare più care tutte le merci? Non basta: il prezzo delle merci disgraziatamente aumenta per tutti, per coloro che hanno saputo trarre a sé un rivolo di quella fiumana aurea che trascorre per il mondo, e per gli altri che se la vedono passare accanto senza poterla toccare. Gli uomini si possono distinguere a questo riguardo in due grandi classi: quelli per i quali l’inondazione dell’oro è dannosa, e quelli ai quali essa è largamente benefica. Mettiamo fra i primi gli impiegati a stipendio fisso, i creditori dello stato e di privati che hanno dritto ad un interesse e ad un capitale determinato, tutti coloro che non riescono a far aumentare i loro redditi in proporzione del rialzo dei prezzi. Costoro, che furono i beniamini della fortuna nel periodo dall’80 al 96, quando i prezzi scendevano, ora sono diventati i reietti; quanto più crescerà la quantità d’oro nel mondo, tanto più lagrimevole diventerà la loro sorte. I favoriti dalla fortuna sono quelli che hanno redditi mobili: i proprietari di terre, gli industriali, i commercianti, che riescono a vendere le loro derrate e merci a prezzi più elevati e pagano le stesse imposte di prima, e possono rimborsare i loro debiti con una moneta svilita. Anche gli operai, quando si fanno aumentare i salari, non fanno altro che emulare i loro principali nella corsa per il dominio della fiumana d’oro che viene dal Transvaal, dal Klondike, dalle miniere americane ed australiane.

 

 

Quando rialzano i prezzi, le industrie vanno bene od almeno tutti si immaginano che le loro sorti volgano propizie. Tutti perciò vogliono impiegare capitali nelle industrie, abbandonando gli impieghi a reddito fisso, i quali non offrono che disinganni. In tutti i mercati e nelle borse mondiali il saggio dello sconto aumenta, la speculazione si sviluppa febbrilmente; e mentre il consolidato inglese, l’antico re del mercato, giace negletto, la folla dei capitalisti si precipita sulle azioni di miniere di rame, di stagno, di cotonifici, di automobili e via dicendo. È una frenesia alla quale non si vede un termine, sinché non sia cessata la causa, ossia l’incremento della produzione dell’oro. Il metallo giallo non dà solo le vertigini a chi cerca nelle terre nuove le pepiti meravigliose, ed a chi arrischia una fortuna attorno alle tavole del gioco; ma è un elemento potentemente sovvertitore di tutti i rapporti sociali. L’abbondanza dell’oro dà la febbre a tutti; poiché coloro che non possono arricchirsi scavandolo nelle miniere vogliono possederlo, correndo dietro ai rialzi di prezzo nelle merci che esso provoca. Né la crisi può risolversi in breve tempo nelle maniere consuete, col ribasso di prezzo delle merci che tutti vogliono produrre. Se invero il prezzo ribasserebbe per la abbondante produzione delle merci, si tiene d’altro canto elevato, in quanto la produzione dell’oro cresce ancora più velocemente. È una febbre continua di crescenza quella a cui oggi il mondo economico è soggetto; né si vede spuntare l’alba della tranquillità.

 

 

Decisamente, la schiatta degli economisti è strettamente affine a quella dei profeti e dei veggenti; od almeno è affine la schiatta di quegli economisti i quali vogliono dai fatti trarne argomento ad esporre regole di condotta o previsioni sociali. Se tutti gli anelli della catena logica ora costrutta fossero saldamente legati tra di loro, la silenziosa rivoluzione economica che ora si prepara in conseguenza dell’inondazione dell’oro, sorpasserebbe in importanza molte di quelle che nelle storie vanno sotto il nome di grandi rivoluzioni. Né sarebbe del resto la prima rivoluzione di tal fatta. O non fu grandioso il rivolgimento prodotto nell’economia europea dalle scoperte delle miniere di argento e d’oro del Perù nel secolo XVI? Ma… altri economisti ritengono che quella catena logica sia un po’ arrugginita; e sovratutto dicono che sul rialzo odierno dei prezzi ebbero influenza altri fattori oltre quello dell’aumento delle riserve auree. Né qui vogliamo risolvere il quesito. Basti avere additato all’attenzione del pubblico un fatto di capitale importanza: l’aumento della produzione dell’oro. Se l’aumento continua ancora per qualche anno nelle stesse proporzioni, assisteremo di nuovo a qualche campagna elettorale negli Stati uniti, imperniata sulla questione dell’oro; né mancheranno di sorgere polemiche acerbissime sulla necessità per gli stati di porre un riparo alle perturbazioni monetarie derivanti dalla crescente inondazione d’oro.

 

 

La conversione della rendita e gli enti ecclesiastici

La conversione della rendita e gli enti ecclesiastici

«Corriere della Sera», 9 dicembre 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 443-449

 

 

La conversione della rendita ha lasciato dietro di sé uno strascico di controversie che dal luglio in qua non sono state risolute, né accennano ancora a trovare una via di soluzione definitiva. Gli ufficiali si lagnano che non si sia presentato il promesso disegno di legge per rimediare agli inconvenienti non piccoli che dalla conversione nascono rispetto alla dote militare. Le opere pie invocano un aiuto che valga a trarle dal disagio in cui la riduzione del reddito le mette. Noi riteniamo che presto o tardi queste domande dovranno essere soddisfatte, quelle degli ufficiali, in quanto non importano alcun onere al tesoro e intendono solo a fissare per le doti una cifra minore dell’attuale, e quelle delle opere pie perché lo stato troverà il modo di venire in aiuto di quelle opere pie che dalla conversione fossero poste nella impossibilità di provvedere ai loro fini di beneficenza.

 

 

La controversia più delicata e difficile, rimane pur sempre quella degli enti ecclesiastici. Altra volta (21 luglio) abbiamo già esaminato gli argomenti che erano addotti per esimere questi enti dalla conversione ed abbiamo concluso contro la loro tesi. In seguito gli enti ecclesiastici hanno intensificato – ad opera sovratutto di monsignor Teodoro Valfré di Bonzo, arcivescovo di Vercelli – una agitazione intesa a dimostrare la illegalità del provvedimento che ora diminuisce le loro rendite; e di questa iniziativa partita da Vercelli è frutto un libro del teologo Luigi Sincero, membro del capitolo metropolitano di quella città. La tesi va esaminata con quella oggettività, di cui fanno professione aperta i patroni della causa degli enti ecclesiastici. Poiché tanto monsignor Valfré nel suo memoriale, quanto il teologo Sincero nel suo libro fanno omaggio caloroso ai progressi economici e sociali della patria e solo sostengono che un fatto tanto benefico, come la conversione, non deve ledere diritti pure sanciti dal legislatore italiano, è dover nostro metterci al medesimo punto di vista giuridico per riesaminare serenamente la tesi degli enti ecclesiastici.

 

 

Lasciando da parte le minori argomentazioni sussidiarie, ecco come potrebbe quella tesi essere posta. La conversione del debito pubblico consiste nell’alternativa, offerta dallo stato ai suoi creditori, di rimborsare alla pari il capitale ricevuto in prestito (100 lire), ovvero di pagare un interesse minore (3,75% netto, invece del 5% lordo) a quelli che preferiscano continuare nel mutuo. Perché vi sia conversione vera e propria, occorre che il creditore abbia libertà di richiedere il rimborso del capitale, quando a lui non piaccia di accettare il minore interesse offerto dallo stato. Se non vi è libertà di chiedere il rimborso, non vi è più conversione; siamo invece di fronte ad una riduzione coattiva di interessi, equivalente né più né meno ad una confisca, ad una imposta sui redditi dei creditori.

 

 

Tutto ciò è pacifico o incontroverso; e di ciò mirabilmente si giovano gli enti ecclesiastici. I quali, soli fra tutti i privati e gli enti morali, sono dalla legge costretti ad un’unica forma d’impiego dei loro patrimoni: la rendita 5% del debito pubblico. Tutti gli altri creditori dello stato hanno avuto facoltà di chiedere il rimborso del loro capitale; e quelli che di questa facoltà non hanno, per la brevità del tempo, potuto usufruire, hanno almeno, con certe formalità, il diritto di vendere i loro titoli di rendita e di impiegare altrimenti i loro capitali. Gli enti ecclesiastici no. Essi sono piedi e mani legati alla rendita pubblica, perché l’articolo 11 della legge 7 luglio 1866 stabilì che «i beni immobili di qualsiasi ente morale ecclesiastico conservato, eccettuati quelli appartenenti ai benefizi parrocchiali e alle chiese ricettizie, saranno convertiti per opera dello stato, mediante iscrizione in favore degli enti morali, cui i beni appartengono, in una rendita 5% eguale alla rendita accertata e sottoposta al pagamento della tassa di manomorta». Dunque, si conclude, se gli enti ecclesiastici non possono chiedere il rimborso, perché la legge li vincola all’impiego in rendita, la conversione rispetto ad essi non è una vera conversione, ma è una imposta od una confisca, che non fu apertamente dichiarata dal legislatore, che dunque non fu da esso voluta. Ancora: lo stato, quando nel 1866, allo scopo di togliere la manomorta ecclesiastica, si impadronì dei beni immobili dei vescovadi, arcivescovadi, capitoli, seminari, ecc., disse di voler conservare intatto il reddito di questi enti, dando per ogni 5 lire di reddito immobiliare altrettanto reddito iscritto sul debito pubblico. Se adesso, con una conversione forzata, si riduce il reddito a lire 3,75 e poi a lire 3,50, l’uguaglianza primitiva è distrutta; e corre obbligo allo stato di ripristinarla, risarcendo gli enti ecclesiastici della perdita, coll’iscrizione di tanta rendita in più.

 

 

Questi gli argomenti degli enti ecclesiastici. Diremo più innanzi su qual punto essi abbiano ragione. Intanto dobbiamo notare che il legislatore volle bensì nel 1866 conservare intatto il reddito degli enti ecclesiastici; ma intese adempire a questo suo obbligo solenne col dare tanta rendita 5% che fosse eguale al reddito dei beni immobili convertiti. Dopo ciò, cessava per lo stato ogni obbligo derivante dalla legge del 1866 per quanto ha tratto all’uguaglianza dei redditi. Lo stato cioè non si obbligò a garantire in perpetuo agli enti ecclesiastici una rendita uguale a quella che prima avevano. Se avesse voluto far questo, avrebbe dovuto iscrivere nel gran libro o fuori del gran libro una rendita speciale ecclesiastica fissa in perpetuo e inconvertibile, come fece colla legge delle guarentigie per la dotazione della Santa sede. Invece lo stato non fece nulla di tutto questo; ed intese sdebitarsi consegnando tanti titoli nominativi di rendita 5% iscritta sul gran libro. E badisi: lo stato, mentre diede in tal modo una certa quantità di rendita 5%, consegnò anche il capitale equivalente; poiché, secondo le leggi fondamentali del debito pubblico, consegnare un titolo di lire di rendita 5% vuol dire anche consegnare un titolo del valore nominale di 100 lire. Dunque, in virtù della legge del 1866, gli enti ecclesiastici furono privati della loro vecchia proprietà immobiliare e divennero proprietari di una ricchezza diversa, mobiliare e precisamente di titoli nominativi di rendita 5% inscritti nel gran libro. Come tali andarono soggetti a tutte le vicende, prospere ed avverse, dei portatori di titoli di debito pubblico. Fra le vicende prospere notiamo l’aumento di valore dei titoli stessi, che da 50 lire in media nel 1866 giunsero a superare la pari e risarcirono in parte le perdite che – per ragioni non spiegabili in breve spazio – gli enti avevano subito in quell’anno nel passaggio dalla proprietà di beni immobili a quella di rendita 5%. Fra le vicende avverse, comuni a tutti i portatori di rendita, son da notare prima i replicati aumenti dell’imposta di ricchezza mobile dall’8 al 20% ed ora la conversione dal 5 al 3,75 ed al 3,50%. A questa conversione gli enti ecclesiastici non possono sfuggire:

 

 

  • perché essi posseggono titoli di debito pubblico ai quali non è stata apposta nessuna clausola di inconvertibilità, e non fu posta perché sarebbe colpa gravissima di un governo l’obbligare le generazioni venture a pagare in perpetuo un interesse fisso;
  • perché, colla conversione, lo stato non viola la legge del 1866, in quanto quella legge si limitava a dare agli enti ecclesiastici un patrimonio nuovo (titoli di debito pubblico) uguale in reddito ed in capitale nominali al reddito ed al capitale legale (agli effetti della tassa manomorta), ossia al nominale che essi prima possedevano.

 

 

Ciò fu fatto; né lo stato poteva garantire agli enti ecclesiastici la immunità da tutte le vicende future toccate in sorte, per motivi superiori e indeclinabili di pubblica utilità, ai portatori di rendita 5%, così come non avrebbe prima potuto garantire l’immunità dai decimi di guerra, dai centesimi addizionali delle province dei comuni, dalle inondazioni, dalla fillossera e da tutti quegli altri accidenti che fossero venuti a scemare il reddito dei loro terreni.

 

 

Che cosa rimane dunque della tesi degli enti ecclesiastici? Un punto solo, che però non esitiamo a dichiarare siffatto da richiedere, in quanti abbiano senso di giustizia, attenta considerazione.

 

 

Nessun dubbio per noi che la conversione debba colpire gli enti ecclesiastici; e che non debbano tollerarsi eccezioni che in futuro potrebbero anche da altri essere sfruttate contro gli interessi economici del paese. Nessun dubbio altresì che la conversione fu nel 1906 imposta agli enti ecclesiastici mentre fu liberamente consentita o poté supporsi fosse liberamente consentita da tutti gli altri creditori dello stato. I portatori privati malcontenti poterono chiedere il rimborso o vendere i loro titoli. Anche gli ufficiali, gli appaltatori, i contabili, con rendite vincolate: gli enti morali poterono e possono, con qualche lentezza e adempiendo a certe formalità, che andrebbero semplificate, alienare la rendita e fare altri investimenti. Soli gli enti ecclesiastici non possono, perché la legge li vincola all’investimento di rendita: ed essi soli hanno quindi ragione di dire che la conversione del 1906 non fu vera conversione, ma confisca, non consentita, di parte dei loro redditi. Vi sono qui due leggi che sono contradditorie; perché son contradditori i due principî da cui presero le mosse. La legge del 1866 volle abolire la manomorta ecclesiastica e dare agli enti una nuova proprietà che non prestasse il fianco alle ragionevoli critiche che erano fatte alla proprietà fondiaria ecclesiastica. Fu scelta la rendita pubblica perché nel 1866 non vi erano altri titoli mobiliari egualmente apprezzati, ed anche perché lo stato italiano aveva necessità di tener alto il credito pubblico favorendo e quasi rendendo obbligatori gli investimenti in rendita. La legge del 1906 volle attuare il dovere strettissimo che lo stato ha di ridurre l’interesse sui titoli di debito pubblico, appena ciò sia consentito dalle mutate condizioni economiche.

 

 

Come si esce dal conflitto tra il diritto pubblico finanziario, il quale proclama il principio della universalità e della necessità della conversione ed il diritto pubblico ecclesiastico il quale, per abolire la manomorta, impone l’investimento obbligatorio in titoli di rendita? Finché le due leggi rimangono, il conflitto è inevitabile ed, osiamo dire, insolubile. Per toglierlo è d’uopo modificare una delle due leggi e precisamente quella che oggi ha minore importanza. Sembra a noi certissimo che dei due principî, uno abbia valore maggiore ed è quello che proclama la necessità della conversione adversus omnnes. Rinunciare alla universalità non significa solo una rilevante perdita finanziaria attuale, ma una maggiore nel futuro quando altre conversioni saranno possibili. Significa imporre ai contribuenti avvenire l’obbligo di pagare un canone perpetuo immutabile, obbligo che un legislatore non può ordinare se non in circostanze eccezionali, che interessano l’esistenza medesima dello stato. Il che non essendo nel caso nostro, non rimane che modificare la legge che ordina l’investimento obbligatorio del patrimonio ecclesiastico in rendita 5, ora 3,75%. Nessun danno pubblico nascerebbe dal concedere agli enti ecclesiastici quella libertà moderata di impieghi che hanno, ad esempio, le opere pie, consentendo l’impiego in altri titoli a debito dello stato o garantiti dallo stato, o in titoli di credito comunale e provinciali, in titoli di credito fondiario, ecc.

 

 

Oramai lo stato italiano vede posto il suo credito così in alto che non ha più bisogno di costringere nessuno a comprar rendita; ed il dar libertà agli enti ecclesiastici gioverebbe anzi ad accrescere il suo prestigio finanziario. Scegliendo accuratamente pochi titoli di stato o garantiti o in altro modo sicuri, si dovrebbe far obbligo agli enti ecclesiastici di renderli nominativi, in guisa che lo stato possa sempre conservare l’alta sorveglianza sul patrimonio del clero. Nessun investimento potrebbe farsi senza il consenso del fondo per il culto; e non essendo permesso l’investimento in terreni, case, azioni, ecc., non vi sarebbe pericolo di veder risorgere la manomorta ecclesiastica.

 

 

Gli enti, che ora si lagnano, e non a torto, della conversione come d’una confisca, non avrebbero più ragione di lagnanza; poiché anche ad essi si potrà rispondere come si rispose agli ufficiali ed alle opere pie: «se non volete subire la conversione, vendete la vostra rendita ed acquistate altri titoli non convertiti». Probabilmente in grandissima maggioranza gli enti ecclesiastici agiranno come fecero i privati, e, nel proprio interesse conserveranno la rendita 3,75%, come il più conveniente fra tutti gli impieghi loro consentiti. Lo stato, senza nulla perdere, eviterà così che una classe di cittadini possa a ragione lagnarsi di essere stata ingiustamente colpita da confisca.

 

 

Gli enti ecclesiastici hanno bensì l’abitudine di essere soggetti ad uno speciale diritto tributario; ma vi è un limite a tutto. Il teologo Sincero ha compilato la storia tributaria dei redditi di alcuni enti ecclesiastici tipici: ed è una storia veramente lacrimevole. Un arcivescovo che avesse 60.000 lire di reddito nel 1866, vide a poco a poco diminuire i suoi redditi per le seguenti cause: imposta fondiaria, lire 11.000 ; tassa straordinaria del 30%, lire 13.200; tassa del 30% sulle decime sacramentali, lire 1.500; imposta di ricchezza mobile e successivi aumenti, lire 2.578,40 + lire 3.867,60 + lire 5.860; tassa di manomorta lire 1.125,12; quota di concorso lire 4.493,33; tassa di passaggio di usufrutto lire 439,50; perdita netta per la conversione nel 1912 lire 1.976,51. Fatte tutte queste deduzioni, si trova che il reddito netto dell’arcivescovo nel 1906 è ridotto da lire 60.000 a lire 17.382,05, e discenderà nel 1912 – quando la conversione avrà intiero effetto – a lire 15.905,54. Non c’è che dire: gli italiani, schivi dal fare tutto quel gran baccano che in Francia si fa attorno alla legge di separazione, hanno raggiunto un effetto consimile con sapienti giri di torchio del meccanismo tributario! L’esempio citato lascia l’arcivescovo con un discreto reddito; ma nel libro del Sincero vi sono i calcoli per un vescovo che aveva lire 20.000 di reddito nel 1866 e che nel 1906 ne ha lire 7.291,94 e ne avrà nel 1912 lire 6.362,25; per un canonico che da lire 3.000 nel 1866 passerà a lire 953,58 nel 1912, e per altri canonici che avevano lire 2.000 e 1.200 ed avranno lire 635,78 e lire 537,96. È una fitta granuola d’imposte che si è abbattuta sul reddito degli enti ecclesiastici; una gragnuola tanto devastatrice che gli investiti affermano che talune di queste imposte siano manifestamente un duplicato di altre. Sul qual punto non possiamo soffermarci, benché non possa negarsi il fondamento della lagnanza. Basti aver messo in chiaro questo: che se il legislatore ha voluto che i redditi degli enti ecclesiastici diminuissero, non ha voluto però che essi potessero lamentarsi della diminuzione come di cosa contraria alle leggi. Poiché oggi la conversione per essi è una confisca, data l’obbligatorietà dell’impiego in rendita, togliamo questa obbligatorietà nei limiti del possibile. Ciò non farà crescere il reddito di quegli enti; ma, almeno, se sarà scarso, nessuno potrà dire ché sia scarso contrariamente alla volontà del legislatore.

 

 

Il discorso dell’on. Majorana a Catania

Il discorso dell’on. Majorana a Catania

«Corriere della Sera», 9[1] e 11[2] novembre 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 434-442

 

 

I

 

Se noi dicessimo che il discorso del ministro del tesoro ci abbia cagionato una qualsiasi disillusione, diremmo cosa non esatta; poiché da più segni era oramai evidente che il ministero, premuto da troppi lati e costretto dalla sua stragrande maggioranza parlamentare, avea finito per acconciarsi a quella politica, che è solitamente seguita dai governi, i quali hanno troppi amici da contentare e non vogliono rendere malcontento nessuno: promettere molto a tutti e specie a quelli che gridano di più e promettere in misura così larga che il tempo manchi con una vita ministeriale media di tradurre in atto le promesse. Nello stesso tempo di nessun problema affrontare una soluzione compiuta, esauriente: ciò per deficiente coscienza dei più urgenti bisogni del paese e per deficienti attitudini riformatrici.

 

 

Per cominciare dalla riforma tributaria, della quale era parso per un momento che l’on. Majorana volesse farsi banditore tenace, nulla è abbandonato dei buoni propositi antichi. I sindaci dei comuni, in un recentissimo congresso che ebbe larga eco in paese, avevano chiesto con insistenza che lo stato adempisse le promesse, fatte solennemente in leggi, di cui l’applicazione era stata semplicemente rinviata, di assumersi le spese pubbliche di natura governativa che ora gravano i bilanci locali? Il ministro del tesoro risponde che i comuni chiedono troppo poco, che non bisogna contentarsi di un «semplice spostamento meccanico di oneri», ma occorre una «radicale» riforma dei tributi locali, la quale appunto si sta studiando. Una parte della pubblica opinione reclama che i denari, resi disponibili dalla conversione, ritornino ai contribuenti sotto forma di riduzione di tributi sui consumi? Anche a costoro il ministro del tesoro non sa dar torto ma avverte che di sgravi si discorrerà dopo il luglio dell’anno venturo, se a quella data la rivoluzione russa avrà permesso al governo italiano di conchiudere quel trattato di commercio di cui uno dei caposaldi principali dovrebbe essere la riduzione del dazio sul petrolio, e se allora i venti milioni nella conversione non saranno già stati «restituiti» ai contribuenti nella veste di servizi pubblici migliorati. Intanto, perché i contribuenti non abbiano a stancarsi di una aspettativa troppo lunga, si promette loro che il catasto sarà semplificato ed affrettato – il che probabilmente significa che lo si farà terminare fra 40, invece che fra 50 anni; che si rinnoverà il sistema delle tasse sugli affari; al qual proposito si può aggiungere che l’on. Majorana, circa due anni fa, quand’era ministro delle finanze, ebbe appunto a nominare una commissione di studio, i cui segretari lavorarono in passato e lavoreranno forse ancora per anni parecchi prima che la commissione si decida a prendere deliberazioni destinate certo a riuscire vantaggiosissime ai contribuenti dell’avvenire.

 

 

Così crede il ministro di aver tranquillizzato i contribuenti promettendo ad essi di studiare per l’avvenire quelle riforme che non vuole iniziare subito; e dichiarando di voler fare subito delle riformette che egli ben sa inattuabili prima di anni parecchi o tali da avere efficacia solo a lontana scadenza.

 

 

Dopo le promesse ai contribuenti, vengono quelle per i servizi pubblici. «Politica di lavoro» e «politica di sviluppo e di intensificazione dei servizi pubblici» sono belle frasi che procacciano plauso a chi sa accortamente adoperarle. L’on. Majorana non è stato davvero parco di promesse di maggior lavoro e di sviluppo dei servizi pubblici: alle ferrovie darà doppi binari, impianti fissi, trazione elettrica, materiale mobile, ecc., per 500 milioni di lire; alla pubblica sicurezza miglioramenti di paghe per i carabinieri, alla marina provvidenze per i sottufficiali e gli specialisti; alla guerra, aumento della parte straordinaria del bilancio da 16 a 20 milioni di lire; alla giustizia la riforma della magistratura; ai lavori pubblici darà ponti, tramvie, strade rotabili, navigazione interna; alle poste, nuovi uffici postali, materiale automobilistico, linee telegrafiche e telefoniche; all’agricoltura e commercio una serie infinita di provvedimenti economici; all’istruzione, maggiori somme per monumenti e le belle arti; a Roma, una legge complessa che comprenderà la passeggiata archeologica e altre cose ancora.

 

 

Poiché il discorso del Majorana non contiene una dimostrazione precisa della portata finanziaria dell’aggrovigliato cibreo delle riforme promesse, non è possibile fare di esse un minuto esame critico. Del programma ministeriale non può tuttavia essere soddisfatta quella parte dell’opinione pubblica che bada agli interessi generali ed alle necessità veramente urgenti del paese.

 

 

È vero che oggi la corrente, la quale invoca gli sgravi tributari, sembra meno forte di quella che vuole aumenti di spese sotto nome di miglioramento dei pubblici servizi. Che perciò? O non è accaduto sempre che i contribuenti disuniti, disorganizzati, scarsamente spinti dall’interesse individuale ad una agitazione vivace e quotidiana fossero meno rumorosi di coloro che da un aumento di spese pubbliche sperano un vantaggio individuale rilevante? L’essere stato il contribuente italiano il più paziente del mondo per una lunga serie di anni non assolve nessuno dalla colpa inescusabile di aver violato la promessa, tante volte ripetuta in programmi di governo e in discorsi della corona, di diminuire l’attuale pressione tributaria non appena la conversione della rendita l’avesse consentito. Il dire che prima del luglio 1907 non si godranno i frutti della conversione è misero sotterfugio che nulla vale, data la necessità di preparare in tempo la via da seguire e d’indicare la meta da raggiungere mercé un fondo di sgravi derivato appunto dagli utili della conversione e sottratto per un lungo numero d’anni all’assalto di tanti bisogni più o meno urgenti che finirebbero col divorarlo.

 

 

Neppure possono essere contenti coloro che credono doversi pensare al miglioramento dei servizi pubblici secondo un piano organico e non alla rinfusa per soddisfare le domande incalzanti dei colleghi di gabinetto. Due problemi principalissimi richiedevano una parola coraggiosa e precisa nel momento attuale: il problema ferroviario e quello della difesa nazionale. Né sull’uno, né sull’altro punto, il discorso dell’on. Majorana ci affida. Quanto alle ferrovie, è noto il quesito posto dal «Corriere», quando si seppe che il ministero voleva annunciare a Catania un piano di lavori per 500 milioni di lire. Il mezzo miliardo di lire viene ad aggiungersi od a sostituirsi al miliardo che già il Carmine aveva dichiarato necessario per completare i 300 milioni già votati dal parlamento?

 

 

È evidente la differenza tra le due soluzioni. Nel primo caso sarebbero stati 1.300 milioni previsti dal Carmine più 500 milioni voluti dal Gianturco: nel secondo si sarebbero solo avuti i 300 milioni più i 500 annunciati ora dal Majorana. Pare che la seconda soluzione sia stata preferita; il che dimostrerebbe che il programma ferroviario, malgrado i clamori altissimi dell’opinione pubblica, si è ristretto in confronto a quello da altri reputato necessario poco tempo fa. Non noi certamente vogliamo che si spenda molto subito per la smania delle cifre grosse; ma ci pare che un piano, sia pure da attuarsi gradatamente, ma organico, ma compiuto debba preferirsi ad un altro frammentario, presentato sotto la pressione delle necessità momentanee.

 

 

La presenza del ministro degli esteri al banchetto di Catania, ed il consenso del ministro della guerra non bastano poi a tranquillare l’animo nostro intorno alla sufficienza delle proposte ministeriali per la difesa nazionale. L’on. Majorana non ha esposto nessun piano, è vero: ma sono troppo recenti le dichiarazioni dell’on. Viganò, ed è troppo nota la manchevolezza delle opere di difesa al confine orientale e dell’artiglieria italiana, per tacer d’altro, perché possiamo rimanere persuasi che col prometter quattro milioni di aumento alla parte straordinaria del bilancio della guerra, il governo abbia adempiuto al suo dovere verso la patria.

 

 

Forse accadrà che, per il silenzio dei contribuenti, e per la paura di moltissimi di far figura di militaristi, il governo raccoglierà, col discorso di Catania, plauso da tutti coloro, i quali sperano qualcosa dalle tante promesse ministeriali; ed a chi bada alle maggioranze parlamentari, il plauso sembrerà bastevole. Frattanto si sarà sciupata una occasione splendida per iniziare quella riforma tributaria alla quale il più paziente contribuente del mondo ha oramai diritto; né si saranno risoluti i problemi economici e militari che massimamente urgono nel momento presente.

 

 

Tenendo distinti gli sgravi e gli aumenti di spese dagli investimenti di capitale in alcuni grandi servizi pubblici; devolvendo a questi sgravi e a queste maggiori spese i frutti della conversione e i forti avanzi di bilancio indipendenti dalla conversione; non occultando più – ché sarebbe follia il farlo – gli avanzi stessi, c’era modo e materia per ammanire ben più vasto, pratico ed esauriente programma alle aspettative del paese.

 

 

II

Alla fine del discorso di Catania, l’on. Majorana ha osservato che la fortunata situazione delle finanze italiane era tutta un paradosso ed un miracolo; poiché in nessun altro paese moderno il disavanzo era stato vinto, come in Italia, con accrescere le spese e diminuire le entrate. Da un disavanzo di lire 465.072.636,09 nel 1888-89 si era passato ad un avanzo di più di 63 milioni nel 1905-906; e frattanto erano scemate le imposte dal 1894-95 al 1905-906 per ben 46 milioni di lire ed erano cresciute le spese effettive di 226 milioni di lire. Come spiegare senza un miracolo il passaggio dall’era dei disavanzi a quella della floridezza senza che si sia dovuto pagare nulla più degli antichi tributi «già consacrati dall’uso?»

 

 

È vero che dal 1888-89 al 1905-906 la situazione del bilancio è migliorata di più di mezzo miliardo di lire; ed è anche vero che da un decennio in qua non si misero nuove imposte, si abolirono i dazi sui farinacei e si crebbero le spese per più di 200 milioni di lire l’anno. Non bisogna però dimenticare certi fatti. Dal 1887 al 1895 si votò l’aumento del dazio sul grano da lire 3 a 7,50 al quintale, l’aumento dell’aliquota dell’imposta fondiaria per le regioni a catasto nuovo dal 7,70 all’8,80%, l’aumento dell’aliquota dell’imposta di ricchezza mobile dal 13,20 al 20%, la istituzione del dazio sul cotone e dell’imposta sulla produzione del gas luce e dell’energia elettrica e sulla fabbricazione degli zolfanelli, l’aumento del prezzo del sale da 35 a 40 centesimi il kg, i rimaneggiamenti dell’imposta sugli spiriti che la portarono da 140 a 190 lire l’ettolitro, per non dir nulla dei giri di torchio sulle minori tasse e tassette delle quali non merita conto di parlare. Se si confrontano gli avanzi del 1905-906 coi disavanzi del 1888-89 ed invece le spese ed i tributi del 1905-906 con le spese ed i tributi del 1894-95 si trascurano gli anni più fortunosi dal 1885 al 1895, che certo non sono dimenticati dai contribuenti italiani. I quali sono orgogliosi di avere col proprio indefesso lavoro consentito alle finanze italiane di assurgere alle presenti altezze; ma sono anche consapevoli che a questo maggior lavoro essi volonterosamente soggiacquero quando le sorti della patria erano oscure, fiduciosi nella promessa che, col ritorno di tempi migliori, il nuovo e pesante fardello sarebbe stato tolto di su le loro spalle. Purtroppo pare che non si sia ancora a questo punto, e che i grandi progressi compiuti, i meravigliosi risultati raggiunti non vengano ancora giudicati, dai governanti, tali da autorizzare una politica finanziaria più organica e più ardita di quella annunziata a Catania dall’on. Majorana.

 

 

Il paese s’aspettava un’altra parola, una parola che segnasse diritta la via da percorrere e dicesse quanto lo stato può restituire ai contribuenti, e quanto deve consacrare al miglioramento dei pubblici servizi.

 

 

Dobbiamo dire ancora una volta che il miglioramento non solo dei servizi ferroviari, ma anche di quelli postali, telegrafici, telefonici è indipendente dall’impiego che si voglia fare degli avanzi di bilancio. Non solo i servizi ora citati, ma tutti quelli che hanno carattere riproduttivo devono trovare in se stessi i mezzi del proprio incremento. Spendere di più e anche parecchie centinaia di milioni, anche un miliardo e mezzo, ove occorra, non è impegnare il bilancio; è impiegare fruttuosamente un capitale, il quale renderà frutti sufficienti a pagare l’interesse e l’ammortamento dei debiti che si dovessero contrarre all’uopo. La paura che alcuni anni fa si aveva di far debiti, paura non ingiustificata, in un’epoca di ferrovie elettorali e di prodotti decrescenti del traffico ha lasciato luogo ad un migliore apprezzamento della realtà e, naturalmente, ove si adoperi prudenza, ove le aziende riproduttive vengano esercitate con criteri industriali, nessuno si rifiuterà, per la paura di riaprire il gran libro del debito pubblico, di largire capitali copiosi a servizi che devono diventare la leva più potente del risorgimento economico dell’Italia.

 

 

Restano le spese non riproduttive, come quelle della guerra, o dell’istruzione, o delle bonifiche, o della pubblica sicurezza per aumentare le quali è necessario ipotecare gli avanzi ordinari del bilancio; e restano gli sgravi tributari. Le due vie debbono essere percorse insieme: poiché i servizi pubblici richiedono miglioramenti urgenti e poiché, ripetiamolo ancora una volta, non si può rifiutare ai contribuenti quel conforto al quale essi hanno diritto. Fa d’uopo sapere la meta alla quale si vuoI giungere; né è possibile proporsi una meta se non sono noti e dichiarati i mezzi sui quali si deve fare a fidanza per giungervi. Sinora parve prudenza politica e finanziaria negare pertinacemente fino all’ultimo momento l’esistenza degli avanzi; e forse era davvero prudenza quando si voleva apparecchiare la grande opera della conversione. Oggi però, che la rendita è convertita, conviene mutar metro ed imperniare la nostra politica finanziaria alla più trasparente chiarezza. Si dicano, si confessino onestamente quali sono gli avanzi acquisiti di bilancio; e si dichiari quali sono le promesse sicure di sviluppo futuro delle entrate; e su queste basi si fondi il programma finanziario dell’avvenire. Si tengano pure le previsioni di maggiori entrate, a tutela del pareggio, entro i confini di una saggia prudenza; ma non si occultino troppo, altrimenti accadrà che gli avanzi, quando alla fine debbono pure venire a galla, sembreranno una manna piovuta dal cielo, da distribuirsi alla meglio ed ai più importuni; ed accadrà, come ora, che il ministro del tesoro si troverà costretto a distribuire alla fine dell’anno i 63 milioni di avanzo a tutti i suoi colleghi, in piccole dosi per non rendere malcontento nessuno.

 

 

Anche noi accettiamo il concetto che gli avanzi di bilancio vadano ad incremento dei servizi pubblici; ma a condizione che degli avanzi passati e di quelli futuri si faccia un calcolo esatto e si distribuiscano fra i diversi servizi pubblici, a norma della loro urgenza ed importanza rispettiva; in guisa che ciascun servizio possa fare assegnamento sopra somme predeterminate, in guisa approssimativa almeno, ed il suo sviluppo avvenga regolarmente, seguendo un concetto organico e non alla rinfusa, a scatti, a seconda del più e del meno che ogni ministro è riuscito ad ottenere nel momento della distribuzione degli avanzi finalmente constatati.

 

 

Agli sgravi siamo convinti che debbasi fin d’ora consacrare tutto il prodotto della conversione; ed anche qui, non decidendosi all’ultimo momento a fare qualche riforma spaiata e frammentaria e perciò poco proficua, ma stabilendo coi 20 milioni che cominceranno a godersi nell’anno venturo e coi 20 milioni che si avranno nel 1912 un vero e proprio fondo di sgravi. Noi siamo convinti che con questa somma ove sia religiosamente consacrata a questo solo intento – si possa fare assai più di quanto si creda. Vi sono riforme da compiere le quali richiedono non tanto un sacrificio effettivo dell’erario, quanto un presidio momentaneo, mentre la riforma si va compiendo e non ha ancora dato i suoi frutti. Noi manchiamo sovratutto di coraggio, non di possibilità, quanto alle riduzioni di tributi sul petrolio, sullo zucchero, sul grano, alle riforme delle fiscalissime tasse sugli affari ed alle mitigazioni delle aliquote più mostruose e delle incongruenze più stridenti delle imposte dirette. Queste riforme possono con sicurezza essere attaccate una alla volta e condotte a termine in un periodo di tempo non lungo, purché si sappiano mantenere fermi due concetti:

 

 

  • non temere di urtare interessi privati potenti, pure rispettando le ragioni dell’economia nazionale ed operando le trasformazioni a gradi;
  • principiare da quelle riduzioni di tributi le quali siano destinate a provocare un più vivace incremento di consumi e quindi un ricupero a profitto dello stato delle perdite sofferte e dedicare i ricuperi a nuove riduzioni di tributi, in guisa che la riforma tributaria alimenti se stessa quasi perennemente.

 

 

Bisogna insomma rifare col fondo degli sgravi a rovescio il cammino che si è percorso dal 1860 al 1895. Durante quel periodo, che in certi momenti fu non solo politicamente, ma anche finanziariamente eroico, la dura necessità delle cose, l’urgenza dei disavanzi e delle spese ci spingeva ad aumentare ogni giorno i tributi; e quanto più i tributi aumentavano e nuovi tributi si imponevano, tanto meno rendevano quelli preesistenti; sicché di nuovo il diminuito gettito spingeva a crescere le aliquote nella speranza disperata di potere colla energia della pressione tributaria sopperire ai decrementi che l’avidità del fisco cagionava nel gettito delle imposte. Oggi è giunto il momento di mutare strada; e con un addolcimento progressivo delle aliquote – compiuto col presidio di un fondo di sgravi alimentato in origine dai frutti della conversione ed in seguito dai risultati degli sgravi stessi – provocare quegli incrementi lenti e sicuri di reddito che i nostri predecessori, incalzando i bisogni, dovettero procacciarsi col metodo rozzo dell’inasprimento delle imposte.

 

 


[1] Con il titolo Il discorso dell’on. Majorana a Catania. La parte finanziaria. [ndr]

[2] Con il titolo Per un fondo degli sgravi. [ndr]

Un’agitazione nei comuni meridionali

Un’agitazione nei comuni meridionali

«Corriere della Sera», 23 ottobre 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 430-433

 

 

Nel mezzogiorno si va di questi giorni diffondendo una agitazione la quale vorrebbe riunire in un fascio i comuni per iniziare un movimento contro il governo a proposito dell’applicazione della legge sul mezzogiorno. Ecco in poche parole il nocciolo della questione. La legge ha abolito la tassa sulle bestie da tiro, da sella e da soma ed ha elevato e regolato il limite minimo d’esenzione per la tassa fuocatico e bestiame. Sta benissimo per i contribuenti meno fortunati, ai quali quelle tasse riuscivano talvolta crudeli. Si è pensato però alle condizioni dei comuni? Si è pensato alla maniera di colmare il disavanzo rilevante che l’abolizione di una tassa e le esenzioni più larghe di altre produrranno nei bilanci comunali? Affermano gli iniziatori dell’odierna agitazione – che ha il suo centro ad Olevano sul Tusciano ed alla quale hanno già aderito i sindaci di Vallo della Lucania, Campagna, Eboli, Montecorvino Rovella, Stella Cilento, Montecorvino Pugliano, Acerno, Bellosguardo, Roscigno, ecc. – che ai comuni sono stati dati buoni consigli, ma non mezzi efficaci per sottrarre i loro bilanci al fallimento. Aumentare le imposte sul valor locativo nei gradi più alti, sui domestici, sugli esercizi e rivendite e sui dazi sui consumi più voluttuari? A che vale se di ricchi residenti non ve ne sono, e se l’inasprimento della tassa sul valor locativo farebbe strillare solo le classi medie, che hanno redditi mediocrissimi e la cui condizione è per parecchi versi più disagiata talvolta di quella delle classi popolari? A che vale se la tassa domestici frutta somme irrisorie, se il dazio consumo investe già quasi tutte le voci tassabili, e se commercianti ed industriali invocano piuttosto di essere sgravati di carichi? In conclusione, la maggior parte dei comuni si troverà di fronte al dilemma: o fallire od aumentare la sovrimposta fondiaria, unico strumento tributario di facile applicazione e di frutto certo e facilmente calcolabile. In questa seconda alternativa che cosa sarà tuttavia dei fini della legge sul mezzogiorno che aveva voluto diminuire del 30% il contingente dell’imposta sui terreni? Noi avremmo dato un condono di imposta ai proprietari per gravarli di oneri sociali giustissimi ma costosi verso i loro contadini; e nel tempo stesso obbligheremmo i comuni a riprendere ai proprietari medesimi quella somma che lo stato aveva dato, con jattura dell’economia agricola, mettendo nell’impossibilità proprietari, anche volonterosi, di profittare del sollievo fiscale per iniziare un’opera di risurrezione agraria e sociale del mezzogiorno.

 

 

Fin qui le lagnanze. I sindaci firmatari della circolare vorrebbero risolvere il problema in un modo fin troppo spiccio e risolutivo. Essi dicono ai loro colleghi di dimettersi ed alle giunte ed ai consigli dei 355 comuni dell’Italia meridionale, della Sicilia e della Sardegna di non votare il bilancio preventivo finché lo stato non abbia indennizzato i comuni delle perdite finanziarie della legge 15 luglio 1906, proponendo per il risarcimento i seguenti mezzi:

 

 

  • la graduale assunzione da parte dello stato dell’istruzione primaria, con relativo onere finanziario, cominciando almeno dal 1 gennaio, ad assumere metà della spesa;
  • l’assunzione da parte dello stato di tutte le spese per il mantenimento degli esposti, per gli uffici giudiziari, carceri, telegrafi e di tutte le altre che ora ingiustamente gravano sugli stremati bilanci comunali.

 

 

Le minaccie sono grosse e le richieste forti; ed a noi pare converrà agli iniziatori dell’agitazione di moderare assai le loro pretese se vorranno ottenere qualcosa di concreto. In altre occasioni noi abbiamo affermato il nostro convincimento che lo stato dovesse ricordarsi delle promesse non solo ripetutamente fatte, ma anche consacrate in leggi approvate dal parlamento, di avocare a sé il pagamento di quelle spese di carattere spiccatamente generale per gli uffici giudiziari, per i carabinieri, per le carceri, ecc. ecc., che ora gravano sui comuni e sulle province in virtù di leggi che temporaneamente in tempi di disavanzi di bilanci sospesero l’applicazione di altre leggi organiche fondamentali. Il problema è generale a tutti i comuni italiani e non peculiare ai comuni meridionali; è quistione di giustizia nella quale tutti sono consenzienti in principio, e sulla quale si potrà dissentire da taluno solo per l’opportunità del momento. L’«Associazione dei comuni italiani» ha discusso nei suoi congressi ed ha preso risoluzioni in proposito. Perché i comuni meridionali non vengono a rincalzare l’opera dell’associazione, rendendola più efficace? La questione non nasce dalla legge del 1906 sul mezzogiorno; ma è più vecchia assai ed i comuni si possono appoggiare ad argomenti di giustizia stretta.

 

 

Non così siamo d’accordo sugli altri caposaldi della nuovissima agitazione che si vorrebbe estendere nel mezzogiorno. Chiedere che d’un colpo lo stato assuma metà dell’onere dell’istruzione elementare è chiedere cosa che assorbirebbe buona parte degli utili della conversione della rendita, cosa che non può farsi senza dimostrare che per i contribuenti sia più vantaggioso questo spostamento di spesa dal comune allo stato di tutte le altre soluzioni che si possono dare al quesito del miglior impiego degli utili della conversione. Si aggiunga. Hanno fatto i comuni protestanti il calcolo preciso dell’aggravio che dalla legge sul mezzogiorno deriva per l’abolizione della tassa sulle bestie da tiro e da soma e per l’innalzamento dei redditi minimi esenti dalla tassa focatico e bestiame? Hanno fatto il calcolo dei vantaggi non piccoli che ai comuni medesimi arreca la legge in ordine alle spese scolastiche, di viabilità, ecc., assunte dallo stato? Noi vorremmo conoscere i risultati del calcolo per potere dare un giudizio preciso sugli effetti della legge del 1906 e per sapere se veramente essa sia stata tanto micidiale alle finanze comunali.

 

 

Né sappiamo trattenerci dall’esprimere un sentimento di tristezza nel vedere alcuni comuni del mezzogiorno non riconoscere i benefici effetti della legge e preoccuparsi soltanto del momentaneo squilibrio dei loro bilanci. D’altro canto è davvero indiscutibile che i comuni meridionali non possano ricorrere ad altro mezzo per assestare le loro finanze fuorché all’aumento della sovrimposta? È certo che con una saggia revisione, non diciamo in senso progressivo, ma puramente proporzionale della tassa focatico non si possa ricavare qualcosa per diminuire le perdite sulle quote minime? E che dalla tassa sui domestici, dalla combinazione della tassa sul valor locativo con quella focatico, dalla tassa esercizi e rivendite nulla, assolutamente nulla si possa ricavare? È opinione di molti che nel mezzogiorno le imposte locali non siano sempre ripartite con perfetta giustizia fra le diverse classi sociali. Forse in questa opinione si è da taluni esagerato; e forse l’ingiustizia maggiore è troppo connessa con le misere condizioni economiche per poter essere tolta d’un tratto. Ma non è ammissibile, oggi che la legge del 1906 ha voluto impedire le ingiustizie tributarie più stridenti, affermare che nulla possa farsi per redistribuire più equamente il carico dei tributi fra le diverse classi sociali.

 

 

Noi non diciamo che lo stato, a ragion veduta e fatti bene i conti, debba disinteressarsi affatto delle lagnanze odierne. Ma ci sembra che la salute debba venire al mezzogiorno anche dai suoi figli; e che questi debbano bensì chiedere allo stato ciò che a loro spetta di diritto, ma debbano anche cercare nella propria energia le vie del risorgimento. Se non si vuole, ed è giusto, che i poverissimi paghino tributi eccessivi, occorre che i più agiati si rassegnino a pagare in vece loro le spese locali. Il che si fa sempre meglio, oltreché dai comuni settentrionali, anche da parecchi dei comuni meridionali, i cui amministratori hanno compreso che la soluzione del problema finanziario locale non è solo in un trapasso di spese da comune a stato, bensì anche entro i limiti del possibile – in un trapasso di oneri da una classe ad un’altra di cittadini.

 

 

Immigrazione di contadini settentrionali nella Basilicata?

Immigrazione di contadini settentrionali nella Basilicata?

«Corriere della Sera», 29 settembre 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 423-429

 

 

La legge per la Basilicata comincia a dare i suoi frutti. Finora l’attività maggiore è stata spiegata dal commissariato civile e dagli uffici amministrativi della provincia; ed è stata, più che altro, rivolta a studiare ed a preparare il terreno per l’opera feconda ventura. Noi non sappiamo se nella Basilicata il capitale privato abbia accolto l’invito ed i favori della legge con quello slancio che fa invece sperare bene per l’avvenire della città di Napoli. Ne dubitiamo, perché in una provincia essenzialmente agricola, le iniziative sono più lente e le innovazioni più difficilmente vengono accolte. Inoltre, come a Napoli furono imprenditori stranieri e settentrionali i primi a giovarsi della legge e, con grandi impianti industriali, a dare il buon esempio ai capitalisti locali, così nella Basilicata l’impulso dovrebbe venire dal di fuori.

 

 

Noi abbiamo frequentemente invocato questa discesa nel mezzogiorno del capitale e dell’intelligenza tecnica del settentrione, non a fine di conquista economica, ma unicamente nell’intento di promuovere, con profitto proprio, il risorgimento economico di quelle regioni. Società potenti per capitali e per competenza tecnica sono state fondate per esercitare imprese agricole nel mezzogiorno e nella Sardegna; ed è fatto assai confortante che ci fa bene sperare per l’avvenire. Non consta che alcuna di queste società si sia costituita od abbia cominciato ad operare nella Basilicata, la quale pure si trova in condizioni peggiori di ogni altra provincia meridionale.

 

 

Forse è appunto perciò che il capitale si dimostra tanto restio ad avventurarsi nella Basilicata. Nella quale si verificano fatti che non trovano riscontro in nessun’altra regione, almeno nel loro insieme. Anzitutto la popolazione scema di anno in anno. Da 1.006 emigranti nel 1876, si sale a 14.500 negli ultimi anni, su una popolazione di 491.558 abitanti su 10.670 chilometri quadrati; meno della metà per chilometro quadrato della popolazione media relativa dell’Italia. L’uomo fugge dalla terra ingrata, che uccide colla malaria, che dà un frutto meschino ed alla quale è legato da patti agricoli non equi; e la sua fuga acuisce i mali da cui aveva avuto origine. Crescono ogni anno di superficie i terreni che i proprietari lasciano incolti per la deficienza di mano d’opera. L’emigrazione ha funzionato come un gigantesco silenzioso sciopero collettivo; ed ha fatto aumentare i salari al disopra della misura conveniente a proprietari attardati in antichi metodi poco produttivi di coltivazione. È rimasta in patria la mano d’opera più debole; ed essendo scarsa la capacità industriale delle classi proprietarie, l’aumento dei salari non ebbe per conseguenza l’intensificazione della cultura, bensì il ritorno a sistemi sempre più estensivi di sfruttamento del suolo.

 

 

Se noi aggiungiamo alle sfavorevoli condizioni demografiche, la mancanza di vie di comunicazione, il diboscamento spietato che ha rotto le antiche e proficue consuetudini pastorali ed ha mutato i pascoli feraci in rupi scoscese, il raggruppamento della popolazione in grossi borghi, la mancanza di case rurali nella campagna, l’imperfezione dei contratti agricoli, l’indebitamento eccessivo dei proprietari fondiari, si avranno elementi sufficienti di giudizio sui motivi che impediscono il progresso dell’agricoltura nella Basilicata e trattengono il capitalista del nord dal fare investimenti pure vantaggiosi sotto altri rispetti per il basso prezzo delle terre.

 

 

Quel fermento di progresso economico che finora non si è saputo trovare per la Basilicata, lo si vorrebbe da alcuni trarre dall’immigrazione di contadini settentrionali. Abbiamo sott’occhio un pregevole opuscolo scritto dal dott. Ilario Zannoni in seguito alla visita fatta dal 9 al 22 luglio 1906 nella Basilicata per conto del segretariato per la emigrazione interna istituita dalla Società umanitaria. La genesi dell’iniziativa dell’Umanitaria si può riassumere in poche parole. Esistono intiere regioni italiane, il Veneto, le Romagne, l’Emilia dove infierisce la disoccupazione; e ne esistono altre, dal Grossetano e dagli Abruzzi sino all’estremo limite della penisola nostra, dove l’agricoltura langue per la scarsezza della mano d’opera. Se le altre condizioni dell’ambiente economico fossero identiche sarebbe utilissimo e facile promuovere una corrente di emigrazione interna dalle regioni soprapopolate alle regioni in cui c’è bisogno di mano d’opera. La Società umanitaria, fondata da P. M. Loria coll’intento di combattere la disoccupazione, avrebbe qui un magnifico campo d’azione, poiché l’emigrare dai paesi in cui la mano d’opera sovrabbonda a quelli in cui scarseggia è certo uno dei più efficaci mezzi per combattere la disoccupazione.

 

 

Purtroppo il problema non può riassumersi in una formula così semplicista. Basta pensare che nella Basilicata la mano d’opera scarseggia perché la popolazione è fuggita e fugge in proporzioni allarmanti nella lontana America, per far sorgere il dubbio: dove non sono riusciti i contadini del luogo, affezionati alla terra, pratici delle culture locali, assuefatti al clima, cresciuti in quell’ambiente sociale, potranno riuscire i contadini settentrionali? Questo dubbio si è presentato anche alla mente del dott. Zannoni; e siccome egli se ne è preoccupato vivamente, le sue considerazioni e le sue proposte acquistano un valore pratico, che non avrebbero ove fossero partite soltanto dal puro confronto statistico fra le due densità diverse, eccessiva in un luogo e deficiente nell’altro, della popolazione agricola.

 

 

Due sono le direzioni in cui la mano d’opera settentrionale potrebbe trovare impiego: le opere pubbliche e l’agricoltura. Le opere pubbliche, le quali in base alla legge per la Basilicata dovranno essere eseguite ogni anno per parecchi milioni di lire, vanno assai a rilento, perché gli impresari non trovano sterratori e manovali a sufficienza e non sono o vogliono pagare salari elevati così da invitare gli operai a venire da lontano. Lo Zannoni ritiene che a risolvere il problema convenga aggiudicare i lavori per trattative private alle cooperative di lavoro della Romagna, ove vi è forte abbondanza di mano d’opera, ottenendosi così due vantaggi: quello di ottenere pronta esecuzione dei lavori, che, data la provenienza dei lavoratori, non potranno mancare di essere ben condotti, e l’altro di far meglio conoscere all’operaio le vere condizioni della Basilicata, ove, all’occorrenza, data la necessità di lavoratori per l’agricoltura, potrebbe fermarsi alle dipendenze dei proprietari. È il concetto che da altri fu messo innanzi per la costruzione delle opere pubbliche – strade, prosciugamenti, arginature e sistemazione di fiumi e di montagne, ecc. – in Sardegna; e può accogliersi ove si usi somma prudenza nell’applicarlo affinché la importazione delle squadre volanti di sterratori settentrionali nel sud non urti troppo di fronte gli operai del luogo e non intensifichi il movimento di emigrazione all’estero.

 

 

Più difficile è la emigrazione agricola propriamente detta. Qui la mano d’opera dovrebbe essere pratica nei metodi agricoli settentrionali, ed adatta quindi a servire di strumento efficace nelle mani di agricoltori intraprendenti nell’opera di trasformazione e valorizzazione del suolo. Non essendo ammissibile che i contadini sopportino i rischi del viaggio e della dimora in paese nuovo per trovarvisi in condizioni peggiori che nelle contrade native, la emigrazione non appare possibile se non a certi patti: – che, se il contratto sarà di mezzadria, per i primi due anni almeno il proprietario assicuri al colono un certo minimo di prodotto sufficiente per la sussistenza; ed anticipi, ad un interesse non superiore al 5 od al 6%, anche le scorte di parte colonica ed il vitto fino al primo raccolto. Se il contratto sarà a salariato – e sarebbe preferibile, per togliere ogni alea per il colono ed ogni contrasto di interessi col proprietario – il salario dovrebbe superare di alquanto quelli in uso nelle regioni dell’Italia settentrionale, ove vige la condizione dei fondi ad economia, trattandosi di località che, presentemente, sono meno progredite ed attraenti. Quindi il saggio corrente dei salari nella Basilicata, per quanto cresciuto negli ultimi anni, dovrebbe aumentare notevolmente per attirare i contadini del nord. Ai quali dovrà assicurarsi eziandio una buona casa, rispondente alle condizioni richieste per i sussidi governativi di costruzione, l’acqua sana e la salubrità relativa della regione, non attirando famiglie in zone malariche senza avvertirle. Le famiglie dovrebbero prima sapere la distanza dai migliori centri abitati, dalle scuole, dal medico, dalla farmacia, ecc. L’ufficio d’emigrazione dovrebbe andare assai a rilento nello stipulare contratti di lavoro con i proprietari basilischi, spesso troppo facili a promettere. Prima sarà bene appurare le cose e vedere se realmente tutto ciò che si promette esiste, se il richiedente presenta una certa garanzia morale e più che tutto se avrà la possibilità materiale di attenersi alle condizioni contrattuali. Dovrà evitarsi di collocare le famiglie isolatamente nella campagna; essendo preferibile costruire dei centri rurali vicini alle aziende da coltivarsi, ai quali l’articolo 83 della legge concederebbe per venti anni l’assoluta esenzione da qualunque imposta governativa e comunale.

 

 

Fin qui le condizioni che il relatore dell’Umanitaria ritiene necessarie perché si attui una corrente di emigrazione dal nord al sud: né sono esagerate, perché non si può dare ad alcuno il consiglio di emigrare per stare peggio che a casa propria. Senonché dove troveranno i proprietari della Basilicata l’iniziativa, la capacità tecnica ed i capitali necessari per osare una così radicale trasformazione delle loro aziende? Certo è desiderabile che si paghino salari alti; ma pagare non si possono senza un’agricoltura ad alti rendimenti e per ora tale non è l’agricoltura basilisca. Lo stesso Zannoni riconosce che la costruzione di case coloniche nuove, assai migliori delle «stalle» attuali, inabitabili per contadini del settentrione, incontrerà difficoltà grandi, malgrado i sussidi governativi. La cassa provinciale di credito della Basilicata potrà anticipare qualche capitale, le cattedre ambulanti di agricoltura potranno diffondere un po’ di istruzione. Ma i capitali saranno forzatamente scarsi e l’istruzione agraria si diffonde coll’esempio degli agricoltori vicini e fortunati più che con le prediche ed i campi sperimentali.

 

 

Il difetto principale della proposta dell’ufficio di emigrazione dell’Umanitaria è di non avere badato a sufficienza ai fattori «capitale» ed «intelligenza tecnica». Se i proprietari della Basilicata non posseggono questi fattori, temiamo forte che la emigrazione di contadini settentrionali non abbia a costituire un insuccesso. Non si troveranno proprietari che vogliano accettare ed osservare sul serio i patti sovraenunciati, che siano in grado di trarre partito da una mano d’opera cara e dopo qualche tempo le due parti si disgusteranno una dell’altra. Né si può ammettere che il contadino settentrionale da solo possegga l’intelligenza tecnica adatta a trasformare l’agricoltura del sud. Basti notare a tal proposito che anche nei loro paesi quei contadini sono semplice strumento, per quanto abile, in mano degli affittavoli e dei direttori dei fondi che essi coltivano. Né sappiamo vedere perché il contadino meridionale, se ben diretto, debba, nel suo paese, valere di meno del contadino del nord trasportato in un ambiente nuovo. Perciò noi non crediamo che nello studiare la possibilità della migrazione interna dal nord al sud si possa far a meno di considerare la contemporanea migrazione di capitali e di imprenditori agricoli pure dal settentrione al mezzogiorno. Un certo numero di acquisti di latifondi nella Basilicata da parte di capitalisti del nord, i quali portassero con sé abili tecnici pratici ed un buon numero di famiglie contadine settentrionali farebbe molto, con l’esempio proprio, per il progresso di quella regione. La colonizzazione, fatta con tutti gli elementi necessari, potrebbe riuscire. Gli altri proprietari, vedendo coi loro occhi il successo delle prime poche imprese, si metterebbero sulla via dell’imitazione né, dopo aver toccato con mano i fatti, avrebbero difficoltà a far venire qualche contadino dal nord, magari a portarlo via alle aziende settentrionali, perché servisse di guida alla mano d’opera locale.

 

 

In conclusione, se vi è bisogno di mano d’opera abile nel sud, vi è anche e forse più bisogno di capitale che voglia impiegarla e di intelligenza tecnica che sappia dirigerla. Diciamo forse più, perché abbiamo un forte dubbio che se si trovassero capitale e tecnicismo, la mano d’opera non sarebbe nel sud per fare difetto quanto si dice. È vero che nella Basilicata la popolazione relativa è di 49,26 abitanti per kmq mentre in due province del nord di estensione suppergiù eguale ed anch’esse con molte montagne, Cuneo e Torino, la popolazione è di 85,90 e di 109,83 abitanti per kmq. Quanto cammino tuttavia non deve ancor fare la Basilicata per giungere al livello di queste due province! Forse, date le attuali condizioni, che non potranno mutarsi se non lentamente, una popolazione di 49,26 è più densa di un’altra di 85,90 o di 109,83 per kmq. Forse più che scarsa, la mano d’opera è maI diretta e poco abile. O che non vi sono nel mondo regioni agricole in grande progresso con una popolazione relativa ancora minore che nella Basilicata?

 

 

Uno sperimento di intervento dello stato. Il consorzio siciliano dello zolfo

Uno sperimento di intervento dello stato. Il consorzio siciliano dello zolfo

«Corriere della Sera», 8[1] e 9[2] agosto 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 412-422

 

 

I

 

Dal primo d’agosto del 1906 in virtù di una legge affrettatamente votata dal parlamento nelle sue ultime tornate, i proprietari o possessori e gli esercenti delle zolfare presenti e future di Sicilia sono costituiti di diritto in consorzio, per la durata di dodici anni, sotto il titolo di Consorzio obbligatorio per l’industria zolfifera siciliana. Questo il fatto, che deve avere esercitato mediocrissima impressione sui legislatori che lo vollero in una breve seduta antimeridiana, la quale non ebbe eco alcuna nella stampa, ed invece è uno dei fatti più importanti della storia industriale moderna non pur d’Italia, ma del mondo.

 

 

Per mettere in luce l’importanza grandissima del «Consorzio zolfifero» si pensi a ciò che sono i trusts, i sindacati, i cartelli nell’organizzazione economica dei tempi nostri; si rifletta ai colossali organismi capitalistici che raggruppano tutti o la maggior parte degli stabilimenti di una industria sotto una sola direzione, assicurando ai produttori il monopolio della produzione e dello smercio; mettendoli in una situazione privilegiata, rispetto ai consumatori, che essi possono taglieggiare a loro posta con aumenti nei prezzi, ed agli operai, che ben difficilmente possono lottare con le loro leghe contro colossi dell’industria; si pensi alla lotta titanica iniziata dal presidente Roosevelt contro gli odiatissimi trusts del petrolio, delle carni conservate, degli acciai e delle ferrovie; si ricordi il brivido di spavento che fece sussultare la vecchia Europa e sovratutto l’Inghilterra quando si annunciò il proposito del Morgan di monopolizzare coll’accordo dell’Oceano la navigazione fra l’Europa e l’America; si rammenti quanto possono i sindacati tedeschi del carbone, i sindacati internazionali degli acciai ed il sindacato italiano capitanato dalle Terni; e si comprenderà la sorpresa che a tutta prima colpisce l’osservatore, il quale vede lo stato italiano farsi paladino e creatore di un altro monopolio, quello dello zolfo; imponendo a proprietari ed esercenti le miniere di unirsi in un consorzio di vendita ed intervenendo a sorreggere e fino a un certo punto a garantire le sorti finanziarie del nuovo ente monopolistico.

 

 

L’Italia, o meglio la Sicilia zolfifera, sarebbe giunta a quell’ultimo stadio di sviluppo industriale preconizzato da Carlo Marx, nel quale – essendo ormai unificata la produzione in ogni singola industria nelle mani di una sola impresa – lo stato interviene per regolare la produzione privata, primo passo ad un prossimo collettivismo minerario? L’industria zolfifera siciliana, di cui finora si lamentarono gli scarsi progressi tecnici e l’incredibile sminuzzamento della produzione, avrebbe in breve ora compiuto tali progressi da poter senz’altro passare allo stadio della produzione unificata sotto l’alta direzione dello stato?

 

 

I liberisti puri non si spaventino troppo ed i collettivisti non si rallegrino ad occhi chiusi: la profezia di Marx non si è avverata nella sua storica sequenza e lo stato italiano non ha intrapreso nessun cosciente sperimento di collettivismo. I metodi tecnici nella coltivazione delle miniere sono ancor oggi scarsamente progrediti; la proprietà e l’esercizio delle imprese zolfifere è ancora frazionato, troppo frazionato. Ma è certo che lo stato italiano si è messo a capo – per motivi di fatto, spinto da considerazioni d’urgenza e quasi senza saperlo – di uno dei più interessanti sperimenti, se non di collettivismo, di regolazione e monopolizzazione di un’industria importante, a cui si possa oggidì assistere nel mondo intiero. La trasformazione del monopolio industriale in un istituto socialmente benefico: ecco il nuovo fatto voluto dal legislatore italiano. Se si tolgono pochi esempi di monopolio russi e tedeschi creati sotto l’egida dello stato, per motivi assai più strettamente capitalistici, noi non conosciamo altro esempio di tentativo così nuovo. Noi non siamo schiavi di apriorismi e riteniamo che la scienza debba studiare i fatti che la vita industriale moderna ci presenta nel suo continuo, febbrile sviluppo, anche se quei fatti non rientrano negli schemi classici dei vecchi trattatisti. Perciò pur facendone rilevare tutte le incognite, seguiremo con simpatia il nuovo tentativo italiano. Per ora ci limitiamo a dire delle ragioni che condussero alla costituzione del consorzio zolfifero.

 

 

Esse si riassumono nello stato di crisi cronica in cui versa da tempo l’industria zolfifera siciliana. Malgrado sia rimasta fino a pochi anni fa quasi l’unica provveditrice del mercato mondiale, le sue vicende non erano state sempre fortunate.

 

 

Nel 1800 le zolfare attive erano 300 con 16.000 operai, una produzione di 150.000 tonnellate, di un valore ognuna di 120 lire. La persistenza di alti prezzi fino al 1876 – in qualche anno i prezzi erano giunti a 142 lire la tonnellata – fa aumentare la produzione; la quale giunge a 329000 tonnellate nel 1879. Una prima crisi si produce, con il ribasso dei prezzi a lire 97,41 la tonnellata; ma fu di breve durata. Subito i prezzi si rialzano sino a 115 lire nel 1881 e con essi la produzione. Nel 1885 le miniere sono 347, la produzione è a 377.000 tonnellate, ma i prezzi sono caduti a 83 lire. È peggio negli anni seguenti: nel 1889 si cala a 67,50 lire. Una ripresa nella domanda porta nel 1891 i prezzi a 115 lire; ma porta anche le miniere attive a 581. Nel 1892 le miniere attive sono 657 ed i prezzi sono scesi a 95 lire. Scendono ancora più negli anni seguenti sino a toccare le 55,69 lire nel 1895. La crisi gravissima, le dimostrazioni dei zolfatai, i cui salari erano stati ridotti alla metà, stimolano alla ricerca dei rimedi.

 

 

Le cause della crisi erano, allora come adesso, le seguenti: la concorrenza irrefrenata dei coltivatori delle miniere di zolfo, chiamati gabelloti, i quali, nelle epoche di alti prezzi vanno affannosamente alla ricerca di miniere da coltivare, si obbligano a pagare estagli o fitti elevatissimi ai proprietari, e per rifarsi crescono la produzione; e quando i prezzi scemano, la crescono ancora per ripartire le spese su una quantità maggiore di minerale; la mancanza di capitali nei gabelloti, costretti, per pagare usure spietate, a vendere il minerale in anticipo; la disordinata vendita del minerale per far denari ad ogni costo, e le manovre speculative fatte da negozianti e spedizionieri per provocare ribassi di prezzo quando i produttori hanno bisogno di vendere; l’alto costo della estrazione, dovuta allo sminuzzamento delle miniere (nelle regioni minerarie lo zolfo appartiene al proprietario della superficie e questi, contrariamente all’opinione comune, sono moltissimi, per lo più piccoli e medi proprietari, restii ad unirsi insieme) ed alla difficoltà di applicare metodi tecnici perfezionati in intraprese troppo minute.

 

 

Nel 1895, quando la crisi imperversava fierissima ed i prezzi erano ridotti a 55 lire la tonnellata il rimedio venne dall’estero. A Londra nel 1896 si costituì l’Anglo-Sicilian Sulphur Company con un capitale di un milione e 35000 sterline, di cui versate 750000, la quale stipulò col governo italiano la convenzione del 27 luglio 1896 approvata colla legge del 22 luglio 1897, con cui lo stato aboliva tutte le tasse dirette e indirette governative e comunali – tranne l’imposta fondiaria e le tasse di registro – sulla produzione e sul commercio dello zolfo di Sicilia, sostituendole con una tassa unica di una lira per tonnellata di zolfo esportato; e la compagnia si obbligava ad acquistare tutto lo zolfo prodotto in Sicilia nel decennio dal 1 agosto 1896 al 31 luglio 1906, al prezzo fisso da lire 76 a 82 secondo le qualità, pagabile entro il mese dalla consegna. Era un tentativo di sindacato di vendita, libero però, in quanto i proprietari e gli esercenti potevano anche non vendere affatto lo zolfo alla Sulphur; e difatti questa non riuscì mai ad accaparrare più del 60% della produzione. Gli altri produttori, alcuni grossi e molti piccoli profittarono della fermezza impartita al mercato dalla costituzione della Sulphur, e si tennero in disparte per profittare al massimo dei prezzi alti. Gli effetti del nuovo stato di cose furono ottimi per i produttori; il prezzo corrente dello zolfo nel 1896 salì a 69,92 lire; nel 1897 balzò a 90,39, e negli anni successivi si è tenuto fra le 95 e le 96 lire. La Sulphur, che comperava dai produttori vincolati a circa 15 lire di meno per tonnellata, ha distribuito alle sue azioni di preferenza (L. st. 750.000 in capitale) il 6% ed alle sue azioni ordinarie (L. st. 35.000) il 50% di dividendo. Ciononostante la Sulphur non ha voluto sapere di rinnovare il contratto e col 31 luglio di quest’anno ha abbandonato l’intrapresa. Egli è che, dopo un decennio di prosperità l’orizzonte tornava a farsi oscuro per l’industria dello zolfo. Da un lato, sotto la spinta dei prezzi remuneratori, la produzione cresceva rapidamente specie nelle miniere non vincolate colla Sulphur. Le miniere attive che nel 1895 erano 432 nel 1904 erano diventate 800; gli operai impiegati da 24.194 passavano a 35.695; e la produzione progrediva da 352 a 496.000 tonnellate. Anzi, nel 1899 e nel 1901 si erano raggiunte persino le 537.000 tonnellate. La esportazione tanto sul continente italiano, quanto all’estero, continuava a progredire e passava da 364 a 506.000 tonnellate dal 1895 al 1904; mantenendosi l’equilibrio fra produzione e consumo. Ma negli ultimissimi anni un fatto nuovo si produceva: gli Stati uniti d’America che nel 1898 compravano 142.000 e nel 1902 ben 176.000 tonnellate di zolfo siciliano, nel 1904 ne comprarono appena 107.000 e nel 1905 circa 70.000.

 

 

La loro produzione – che prima si aggirava intorno a 1500 tonnellate, nel 1893 saliva infatti a 35.000 e nel 1904 a 194.000; e nel 1905 e 1906 si mantenne intorno alla stessa cifra solo per accordi intervenuti colla Sulphur e che ora sono spirati. Notizie ottenute per mezzo di indagini di ingegneri italiani recano che nella Louisiana esistono giacimenti di una ricchezza calcolata di 40 milioni di tonnellate; e che, mentre a causa dell’inclinazione e delle spezzature dei nostri giacimenti i lavori di ricerca, di avanzamento e di coltivazione sono spesso incerti e dispendiosi, le condizioni normali dello strato louisiano permettono di constatarne facilmente l’esistenza e la massa e di applicare il sistema di trivellazione, con un’ingegnosa combinazione di tubi e di sifoni, mercé cui lo zolfo può essere attaccato e fuso dall’esterno all’interno e riversato esteriormente allo stato liquido. Il costo sulla miniera dello zolfo louisiano sarebbe di lire 18,43 e potrebbe discendere a lire 13,31, mentre in Sicilia il costo è stato valutato in 35,76 lire la tonnellata. Una concorrenza formidabile si annuncia dunque, concorrenza che ha già ridotte moltissimo le nostre esportazioni verso l’America prima uno fra i principali mercati dello zolfo siciliano; ed ha fatto crescere gli stocks zolfiferi esistenti sugli scali della Sicilia a circa 550.000 tonnellate di cui 400.000 appartenenti alla Sulphur. Altra incognita codesta: allo spirare del contratto che cosa avrebbe fatto la compagnia inglese della rimanenza invenduta e da essa nei propri bilanci già largamente svalutata? L’avrebbe buttata sul mercato, facendo rinvilire i prezzi ed arrestando per un anno la vendita dei produttori?

 

 

II

 

Numero delle miniere attive aumentato da 432 ad 800; Produzione interna cresciuta da 350 a 500.000 tonnellate circa; produzione americana cresciuta dal nulla a quasi il terzo della produzione mondiale e con possibilità di rapida espansione a prezzi bassi; stock interno valutato in 550.000 tonnellate; rifiuto della Anglo-Sicilian Sulphur Company di rinnovare il contratto: e pericolo imminente di ritorno alle condizioni di concorrenza di un dieci anni fa: ecco i fatti ed i timori che diedero origine al nuovissimo consorzio obbligatorio zolfifero. Se si pensa che parecchie migliaia di persone sono interessate come proprietari o gabelloti alla prosperità dell’industria; che circa 200.000 persone, un diciottesimo della popolazione della Sicilia – tra operai, impiegati e le loro famiglie – dipendono per la loro esistenza dalle miniere, si capisce come la minacciante crisi provocasse molti a fare proposte, suggerimenti, ecc. Anni or sono i socialisti siciliani, in un memorandum al commissario civile per la Sicilia, avevano proposto l’espropriazione delle solfare e il loro esercizio da parte dello stato; ma la proposta apparve impraticabile, per il capitale vistoso richiesto per l’espropriazione e per i rischi che si sarebbero accollati allo stato coll’esercizio di un’industria aleatoria sia dal punto di vista tecnico che da quello economico. A poco a poco l’opinione pubblica siciliana, le camere di commercio di Girgenti, Caltanissetta, Catania e Palermo, il sindacato obbligatorio per gl’infortuni del lavoro finirono per fermarsi sul concetto di un ente creato per legge che obbligatoriamente riunisse tutti i produttori e gli esercenti ed effettuasse le vendite per conto comune. Anche una commissione, nominata dal consiglio superiore del lavoro per riferire sulle condizioni dei solfatai, concluse, su relazione dell’avv. Abbiate, favorevolmente alla creazione di un sindacato obbligatorio per la produzione e la vendita dello zolfo. La legge approvata dal parlamento, in parte sotto la pressione di minacciosi disordini dei solfatai di Caltanissetta, accoglie tale principio e gli dà forza obbligatoria.

 

 

Il consorzio obbligatorio di tutti i proprietari ed esercenti le miniere non è perpetuo e non si estende in apparenza alla produzione ed alle trasformazioni successive dello zolfo; è limitato a 12 anni ed ha per iscopo di vendere lo zolfo non lavorato per conto e nell’interesse comune di tutti i consorziati. Il legislatore ha quindi tolto ai proprietari ed esercenti miniere di zolfo della Sicilia quello che è un diritto riconosciuto a tutti dal codice civile: vendere a chi, quando ed a che prezzo si vuole i frutti del proprio lavoro e della propria industria. L’industriale siciliano rimane libero nella produzione dello zolfo; ma non può venderlo. La vendita è unicamente affidata al consorzio, il quale dovrà, è vero, venderlo a prezzo uguale per tutti, fissato per periodi, ed a chiunque ne faccia richiesta per l’esportazione nei mercati italiani ed europei; ma naturalmente venderà non secondo gli interessi individuali, ma secondo l’interesse collettivo reputato massimo di tutti i consorziati. Lo zolfo non sarà ammesso all’imbarco nei porti di Sicilia, senza una speciale richiesta del consorzio e non sarà ammesso al trasporto nelle ferrovie o in altri veicoli dell’isola, se non sia diretto ai magazzini consorziali o se la richiesta di spedizione non sia fatta dal consorzio.

 

 

Da questa prima limitazione al diritto di proprietà privata discende logicamente un’altra. Invano si sarebbe infatti costituito il consorzio col monopolio della vendita se i proprietari ed esercenti lo avessero potuto costringere a vendere tutta la quantità di zolfo che ad essi fosse piaciuto di produrre. Forse la crisi sarebbe stata attenuata, per la migliore organizzazione commerciale della vendita; ma col crescere della quantità prodotta – e questa sarebbe cresciuta certamente, dati i prezzi remuneratori, la facilità delle vendite, la sicurezza dei pagamenti, ecc. – i prezzi avrebbero dovuto rinvilire. Quindi l’articolo 4 della legge dà diritto al consorzio di limitare la produzione, quando le condizioni del mercato la rendano necessaria. vero che la limitazione deve essere circondata da opportune norme e garanzie statutarie, e deve essere approvata dal ministro d’agricoltura; ma è anche vero che i produttori di zolfo sono di fatto vincolati non solo nell’atto della vendita, ma anche in quello della produzione: possono produrre come vogliono, ma solo quanto piace al consorzio di lasciar loro produrre. Conseguenza necessaria – ripetiamo – dell’obbligatorietà del consorzio; ma conseguenza che involge una profonda trasformazione nella natura dell’impresa industriale privata la quale merita di essere attentamente seguita.

 

 

Notisi che le conseguenze sono gravi non solo per i produttori, ma anche per i consumatori. Limitare la produzione vuol dire vendere a prezzi più elevati, con scarso giubilo di quelli che devono comperare lo zolfo. Agli agricoltori italiani il legislatore ha pensato, imponendo al consorzio di vendere loro ad un prezzo non maggiore della media di quello segnato dalle mercuriali nel triennio precedente, diminuito del 5%. I viticultori italiani si rallegrino: essi non pagheranno lo zolfo più caro di quanto l’abbiano pagato in passato. Ma non dormano noncuranti sui cuscini di piuma; poiché senza un energico intervento delle loro cooperative di consumo, potrà ben darsi che i prezzi siano aumentati, se non dal consorzio, dai fabbricanti e dai grossisti a cui il consorzio venderà lo zolfo greggio per l’agricoltura nazionale. Per tutto il resto della produzione, i prezzi non sono vincolati; e in sostanza per gli italiani non v’è danno, perché sono i consumatori stranieri che ne faranno le spese, così piacendo alla concorrenza nord-americana. Questo è il motivo principale per cui i consumatori italiani possono guardare con indifferenza il costituirsi di un monopolio privato sotto l’egida dello stato: che esso cioè è un mezzo di sfruttamento dello straniero, il quale assorbe i sette ottavi dello zolfo prodotto dalla Sicilia. Tanto meglio per l’Italia se la Sicilia riuscirà a far pagare caro lo zolfo all’estero. Anche il governo cileno favorisce i sindacati del nitrato di soda, perché è interessato alla prosperità di quell’industria esportatrice. Il guaio si è che il Cile ha un quasi – monopolio naturale del nitrato di soda; mentre la Sicilia rischia di perdere il suo antico quasi – monopolio a causa delle nuove miniere della Louisiana. Come provvede la legge a scartare il pericolo delle 550.000 tonnellate di zolfo esistenti nei magazzini dell’isola? Tutti i propositi di difesa dei prezzi a poco avrebbero giovato se i detentori dello stock, e principalissimo la Sulphur, avessero potuto premere al ribasso sul mercato. Di nuovo la legge ha creduto necessario vulnerare il diritto di proprietà privata ed insieme un altro principio sacro ai giuristi: quello della irretroattività delle leggi. Le partite inferiori alle 15.000 tonnellate sono lasciate libere, reputandosi scarsa la loro influenza sul mercato; ma i detentori delle partite superiori (fra cui la Sulphur), nei primi dieci giorni d’agosto di quest’anno debbono dichiarare al consorzio se vogliono vendergli il loro zolfo al prezzo fisso di lire 59 per tonnellata, posto alla vela nei porti d’imbarco, ovvero affidarglielo per la vendita alle stesse condizioni dei produttori consorziati. Insomma lo stato dice ai vecchi produttori che detengono stocks di zolfo: voi avete prodotto il minerale in un’epoca in cui produzione e vendita erano libere; con tutto ciò io vi esproprio del vostro zolfo ad un prezzo fisso, quando voi non preferiate apportarlo nel consorzio nuovamente istituito.

 

 

Una difficoltà si presentava: quella del capitale necessario alla compra di tanto zolfo. Mezzo milione di tonnellate a 59 lire l’una corrispondono a circa 30 milioni di lire; somma egregia se si pensa che nelle casse del consorzio per ora di denari ce ne sono pochini. Di nuovo lo stato interviene a risolvere le difficoltà, autorizzando il consorzio ad emettere obbligazioni da 500 lire, fruttanti il 3,65% netto, esenti da ogni imposta presente e futura. Il consorzio pagherà i detentori degli stocks di zolfo con le obbligazioni e le rimborserà in dodici anni. Le obbligazioni sono garantite dallo stato, tanto in conto capitale quanto in conto interesse. Lo stato con un nuovo debito pubblico – sia pure coperto da una massa rispettabile di zolfo – interviene ad impedire le vendite precipitose di zolfo e la crisi minacciante la Sicilia zolfifera. Che cosa accadrà se i prezzi discendessero, per la concorrenza della Louisiana, parecchio al disotto delle 59 lire? Che cosa accadrà se il consorzio nei dodici anni non riuscisse, per le pressioni dei produttori interessati a vendere la massima quantità dello zolfo prodotto anno per anno, a disfarsi di tutto lo stock iniziale? I produttori non accuseranno il governo di spingere al ribasso, se volesse far vendere al consorzio gli stocks anche a prezzi ridotti? Aveva ragione il senatore Di Camporeale, nella sua relazione al senato, di dire che il primo periodo transitorio «è pieno di pericoli ed il governo sarà certamente chiamato responsabile di ogni possibile inconveniente». Quale risposta si darà quando altre industrie in crisi faranno appello al credito dello stato?

 

 

A premunirsi dai pericoli, il governo si è riservata una larga parte nella amministrazione del consorzio. Il quale sarà amministrato da un comitato di delegati composto di 50 membri, a cui sono conferiti i poteri dell’assemblea generale nelle società anonime, e da un consiglio di amministrazione composto di nove titolari, quattro supplenti e dal direttore generale. Nel comitato dei delegati entrano due membri nominati dal ministro di agricoltura, due dal consiglio generale del Banco di Sicilia, due dal complesso delle camere di commercio di Palermo, Catania, Girgenti e Caltanissetta; gli altri membri sono scelti dai consorziati, metà colla votazione per numero e metà colla votazione per interesse (un voto ogni 100 tonnellate di zolfo). I consorziati conservano anche la maggioranza nel consiglio d’amministrazione, ma è assai diminuita: infatti, il direttore generale è nominato dal governo; su 9 membri titolari, uno è nominato dal ministero d’agricoltura, uno dal Banco di Sicilia, uno dalle camere di commercio siciliane e sei dai consorziati; su quattro supplenti, uno è scelto dal ministro, uno dal Banco di Sicilia e due dai consorziati; in totale, su quattordici membri, sei sono di nomina pubblica ed otto sono scelti dai consorziati; e si noti che il direttore generale, vera anima dell’azienda, è di nomina regia.

 

 

Non avevamo ragione di dire che questo è un esperimento interessante di un monopolio rivolto sovratutto allo sfruttamento dei mercati stranieri, avente carattere semi-pubblico, creato dallo stato e posto sotto la sorveglianza e la responsabilità del governo? Che il legislatore italiano abbia trovato la formula intorno alla quale si affaticano da tanto tempo gli americani per fiaccare l’oltrepotenza dei monopoli privati e per renderli socialmente benefici? Giova sperarlo, perché lo stato italiano non ha risparmiato sacrifici per far si che lo sperimento riuscisse a buon fine: alleviamenti di imposte, di tariffe ferroviarie, istituzione di magazzini generali e di una banca di credito minerario con capitale fornito dal tesoro per due milioni a fondo perduto e per due milioni dal Banco di Sicilia. La storia industriale si arricchirà certamente negli anni venturi di un capitolo interessante. Auguriamo alla Sicilia ed all’Italia che il capitolo sia a lieto fine.

 

 



[1] Con il titolo Uno sperimento industriale. Il consorzio siciliano dello zolfo. [ndr]

[2] Con il titolo Il consorzio dello zolfo e le responsabilità dello stato. [ndr]

Le leghe di industriali

Le leghe di industriali

«Corriere della Sera», 31 luglio 1906

Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti, 1924, pp. 175-183

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 406-411

Il socialismo nella storia d’Italia. Storia documentaria dal Risorgimento alla Repubblica, a cura di Gastone Manacorda, Editori Laterza, Bari,1966, pp. 351-358

Le leghe di industriali

Le leghe di industriali

«Corriere della Sera», 31 luglio 1906

Le lotte del lavoro, Piero Gobetti editore, Torino 1924, pp. 175-183

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 406-411

Il socialismo nella storia d’Italia. Storia documentaria dal Risorgimento alla Repubblica, a cura di Gastone Manacorda, Editori Laterza, Bari,1966, pp. 351-358

 

 

Sui giornali socialisti si conduce in questi giorni una stranissima campagna contro una lega testé costituita fra ditte industriali torinesi, coi seguenti scopi dichiarati nello statuto: tutelare e difendere gli interessi collettivi dei suoi soci e dell’industria; – propugnare efficacemente il rispetto e la difesa della libertà del lavoro; – favorire la buona intesa con gli operai. Il Tempo accusa la nuova lega industriale di volere – per mezzo delle serrate nelle industrie dove scoppiano scioperi parziali, delle messe all’indice durante gli scioperi degli operai provenienti dagli stabilimenti forzatamente inoperosi – uccidere la libertà del lavoro, condannare alla fame, ridurre all’esasperazione ed eventualmente al delitto ed alla galera gli operai desiderosi di lavorare; e senza ambagi denuncia i fondatori della lega all’autorità giudiziaria come colpevoli di voler «mettere in scompiglio l’ordine pubblico e la comune sicurezza».

 

 

A leggere le grosse parole, noi ci siamo ricordati degli inni così di sovente letti sul Tempo e sugli altri giornali socialisti al modo elevato, sereno, perfezionato, evoluto con cui si combattono le lotte del lavoro nella madre patria delle leghe operaie, l’Inghilterra, ai vantaggi indiscutibili che per ambedue le parti contendenti si traggono dall’essere la battaglia combattuta non fra industriali ed operai singoli, ma fra associazioni o leghe di industriali e di operai; e ci siamo chiesti quale ignoto movente poteva indurre oggi a biasimare fieramente ciò che ieri si esaltava. Ma poiché rispondere alla domanda ci porterebbe ad una inutile indagine sulle opportunità momentanee di determinati atteggiamenti politici; così ci sembra giovar più alla causa della pace sociale vedere quale sia il fondamento del nuovissimo fenomeno delle “leghe di industriali” contro di cui, ora che l’abbiamo in Italia, si lanciano tante invettive.

 

 

Nelle contese tra capitale e lavoro si sono attraversati dappertutto, anche nei paesi che si trovano alla testa della civiltà industriale, diversi stadi. Nel primo stadio, che in Inghilterra è durato fino a circa il primo quarto dal secolo XIX, in Italia fino a pochi anni or sono, il ceto imprenditore aveva decisamente il sopravvento. Con una legislazione ed una giurisprudenza contrarie all’esercizio del diritto di coalizione e di sciopero, con le masse operaie disorganizzate, con la grande industria provvista di una maestranza eterogenea, racimolata da mille mestieri e luoghi diversi, l’operaio non aveva modo di far sentire le sue ragioni; e se i salari crescevano, era solo nei periodi prosperi per la cresciuta domanda degli imprenditori. Gli scioperi erano poco frequenti; ed il più spesso finivano in modo disastroso; piccole convulsioni che agitavano or questo ed or quello stabilimento, specie di baruffe in famiglia, che finivano con un accomodamento alla meglio. In quelle condizioni era verissimo il detto celebre di Adamo Smith: essere l’imprenditore per se stesso una coalizione contro gli operai. Cosa valevano 100, anche 1000 operai disuniti, discordi, contro un imprenditore solo, che aveva una sola volontà diretta contro mille che non avevano nessuna volontà?

 

 

Il progredire continuo della grande industria, il rafforzarsi dei sentimenti di solidarietà e di unione fra gli operai degli stessi stabilimenti e delle stesse industrie, la modificazione profonda intervenuta nelle leggi, nella giurisprudenza, nella pratica di governo, nell’opinione pubblica, hanno condotto a poco a poco a sancire i principî della libertà di coalizione, di sciopero e di lavoro e ci hanno fatto assistere alla fioritura meravigliosa delle leghe operaie, altrove dette trade-unions, o sindacati professionali. La classe operaia muoveva un po’ tumultuosamente, con forse troppa giovanile baldanza, all’assalto delle posizioni da conquistare. Il campo di battaglia era qualche volta seminato di rovine; ma gli osservatori spassionati sorridevano benignamente a questi peccati di gioventù, lieti che finalmente fosse raggiunto l’equilibrio stabile; e che le discussioni sui problemi del lavoro avvenissero fra l’imprenditore da una parte ed i cento, i mille operai insieme riuniti dall’altra. Riusciranno – dicevasi – più presto ad intendersi; e dopo qualche istante di battaglia cruenta, vi sarà pace duratura, non perturbata da continui litigi individuali.

 

 

Senonché lo stato di equilibrio stabile non pare sia possibile nella vita economica. L’ebbrezza della prima vittoria diede agli operai il desiderio spiegabile di affermare le conquiste fatte e li spinse ad iniziare un’altra fase dei rapporti fra capitale e lavoro che noi auguriamo abbia a riuscire ancor più benefica della precedente. Agli operai non basta di essersi riuniti in leghe per ogni stabilimento; ma vollero riunirsi – cosa naturale e giustificata per mille ragioni – per tutti gli stabilimenti della stessa industria nella città, nella regione e persino nello stato. Nacquero così le grandi federazioni operaie che abbracciano gli operai appartenenti allo stesso mestiere di uno stato intiero; nacquero le camere del lavoro che riuniscono insieme le sezioni locali delle diverse federazioni; cosicché una duplice organizzazione venne a rendere compatte le falangi delle masse lavoratrici: riunite mestiere per mestiere per tutto lo stato, e riunite in camere dove sono rappresentati tutti i mestieri in ogni città o centro industriale.

 

 

Giunti a questo punto è chiaro che la posizione di uguaglianza nella contesa industriale fra imprenditori ed operai è un’altra volta distrutta; ma distrutta al rovescio di prima ed a danno degli imprenditori. Prima la lotta era disuguale perché l’imprenditore poteva a suo agio lottare separatamente contro ciascuno dei suoi operai; e, forte della sua potenza, atterrarli uno dopo l’altro. Adesso invece contro gli imprenditori divisi stanno le leghe di mestiere e le camere del lavoro. Quelle possono iniziare uno sciopero contro l’industriale A di un’impresa determinata, ad esempio quella nella tessitura della lana, e mettere a contribuzione gli operai lavoranti presso gli altri imprenditori B, C, D, E, ecc., della stessa industria per soccorrere gli scioperanti dell’imprenditore A. È possibile anche, quando specialmente il lavoro urge, che le ordinazioni disdette dall’imprenditore A siano affidate invece agli imprenditori B, C, D, ecc. e che questi impieghino temporaneamente gli operai di A. Chi dei due contendenti si trova in una situazione strategica peggiore adesso è l’imprenditore, il quale perde gli interessi e l’ammortamento dei capitali, il guadagno commerciale, deve pagare spesso multe fortissime per inadempienza di contratti, ecc. ecc.; mentre i suoi operai ricevono soccorso dagli operai degli stabilimenti suoi concorrenti o sono impiegati in questi stessi stabilimenti concorrenti e possono a lungo aspettare l’esito della battaglia.

 

 

Qui nasce la “lega industriale”; la quale allarga nel campo degli imprenditori la cerchia della contesa così come l’avevano allargata nel campo degli operai le federazioni di mestiere e le camere del lavoro. Per spiegare il sorgere delle leghe industriali noi abbiamo deliberatamente trascurato i motivi occasionali, come le prepotenze degli scioperanti contro i cosidetti crumiri, la inerzia del governo che non tutela a sufficienza la libertà del lavoro e fa per un momento pensare agli imprenditori più battaglieri alla convenienza di organizzare forze di difesa private alla foggia americana in surrogazione della forza pubblica che lascia far bersaglio di pietre gli stabilimenti e di ingiurie e di percosse gli operai desiderosi di lavorare. Tutto ciò è momentaneo e superficiale; mentre il vero fondamento della lega industriale è la necessità di opporre ad una organizzazione operaia estesa per tutta una regione od uno stato nello stesso mestiere, od a tutti i mestieri di una città, una lega che abbracci ugualmente tutti o quasi tutti gli imprenditori della stessa industria o località. In Italia la lega formatasi l’altro giorno a Torino abbraccia gli industriali della città, appartenenti ad industrie diverse; e pare che sullo stesso tipo debbano costituirsi prestissimo altre leghe a Milano ed a Roma. Né ci recherebbe meraviglia che in seguito coteste leghe locali si federassero in una unica associazione di difesa contro gli scioperi simile all’Haupstelle Deutscher Arbeitgeberverbände (Ufficio centrale delle federazioni di imprenditori tedeschi) ed al Verein Deutscher Arbeitgeberverbände (Unione delle federazioni di imprenditori tedeschi) che nel campo l’uno della grande e l’altra della media e piccola industria uniscono in Germania le forze di decine di migliaia di imprenditori in occasione di scioperi o di contese industriali.

 

 

Le armi di cui le leghe di imprenditori si servono sono il contrapposto di quelle che furono con successo adoperate dalle leghe operaie. Gli operai cercano di attaccare ad una ad una le posizioni nemiche, giovandosi intanto dei soccorsi degli operai impiegati presso gli altri stabilimenti, giovandosi del precetto napoleonico, che contro il nemico disperso in parecchi nuclei giova far massa contro ogni nucleo successivamente per disperderlo più facilmente? E le organizzazioni padronali, invece di lasciare battere i propri soci alla spicciolata con una lunga guerriglia, faranno massa ed attaccheranno battaglia (spesso la vittoria è di chi attacca, non di chi si difende) con quella serrata generale, che al Tempo tanto dispiace, come violatrice della libertà del lavoro, mentre è norma elementare di strategia guerresca applicata alle lotte del lavoro. Vorrebbesi forse, in omaggio alla libertà del lavoro, che gli imprenditori dovessero tenere aperti gli stabilimenti quando essi siano persuasi che ciò tornerà dannoso agli interessi permanenti della loro industria?

 

 

Gli operai scioperanti, durante lo sciopero, cercano lavoro negli stabilimenti attivi? La federazione degli imprenditori, ben sapendo che il fornir lavoro agli scioperanti in siffatta occasione equivale a crescere il tesoro di guerra degli avversari, ordina ai soci di proscrivere temporaneamente dai propri stabilimenti gli scioperanti finché duri la contesa.

 

 

Le leghe operaie costituiscono dei fondi di resistenza con i quali provvedono a sostenere gli scioperanti durante il periodo di disoccupazione volontaria, che sia ritenuta giustificata dagli ufficiali dirigenti delle federazioni centrali? Le federazioni di imprenditori pensano (in Germania) all’istituzione di casse di assicurazione contro gli scioperi le quali, in compenso di premi variabili secondo le industrie, le località e gli anni, si obblighino a indennizzare gli imprenditori, colpiti da scioperi, per le perdite sofferte.

 

 

Se le armi con cui si combatteranno le future contese industriali diventano ognor più potenti; se il campo della battaglia si estende vieppiù e gli eserciti combattenti diventano addirittura colossali, come gli eserciti veri nelle guerre moderne; non è da credere che tutto ciò sia per tornare dannoso ai progressi dell’industria. Tutt’al contrario. Nello stesso modo che gli inventori degli strumenti più micidiali possono vantarsi di rendere più difficile lo scoppio della guerra, per la grandiosità crescente delle sue conseguenze e per il maggior sentimento di responsabilità dei governanti; così nel campo industriale la esistenza di forti ed agguerrite leghe di industriali e di operai sarà un fattore di pace sociale. La guerra è facile quando uno dei due avversari è forte e l’altro debole; ma se amendue sono uniti e forti, dopo essersi guardati in cagnesco per un po’ di tempo, finiranno di trovare il modo di mettersi d’accordo. Tanto più lo troveranno in quanto le trattative non saranno più condotte dagli imprenditori singoli e dai rappresentanti dei loro operai, ma dai consigli dirigenti delle due federazioni o leghe. Minore sarà la probabilità che si dia importanza ai piccoli puntigli, alle quistioni particolari e di poco peso; la discussione si concentrerà sui punti sostanziali di interesse generale. L’esperienza sta a dimostrare che nei paesi dove questi sistemi di lotta sono invalsi, i casi di conflitto violento sono diminuiti; e dimostra che in definitiva il terzo degli scopi della lega industriale di Torino «favorire la buona intesa con gli operai» – oggetto di tanto sarcasmo da parte del Tempo – è quello che in definitiva più sicuramente è stato raggiunto. Informino i numerosi ed attivissimi consigli di conciliazione e di arbitrato inglesi, di cui i più operosi furono quelli appunto istituiti per opera delle leghe di imprenditori e di operai!

 

 

Le leghe di industriali

Le leghe di industriali

«Corriere della Sera», 31 luglio 1906

Le lotte del lavoro, Piero Gobetti editore, Torino 1924, pp. 175-183

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 406-411

Il socialismo nella storia d’Italia. Storia documentaria dal Risorgimento alla Repubblica, a cura di Gastone Manacorda, Editori Laterza, Bari,1966, pp. 351-358

 

 

Sui giornali socialisti si conduce in questi giorni una stranissima campagna contro una lega testé costituita fra ditte industriali torinesi, coi seguenti scopi dichiarati nello statuto: tutelare e difendere gli interessi collettivi dei suoi soci e dell’industria; – propugnare efficacemente il rispetto e la difesa della libertà del lavoro; – favorire la buona intesa con gli operai. Il Tempo accusa la nuova lega industriale di volere – per mezzo delle serrate nelle industrie dove scoppiano scioperi parziali, delle messe all’indice durante gli scioperi degli operai provenienti dagli stabilimenti forzatamente inoperosi – uccidere la libertà del lavoro, condannare alla fame, ridurre all’esasperazione ed eventualmente al delitto ed alla galera gli operai desiderosi di lavorare; e senza ambagi denuncia i fondatori della lega all’autorità giudiziaria come colpevoli di voler «mettere in scompiglio l’ordine pubblico e la comune sicurezza».

 

 

A leggere le grosse parole, noi ci siamo ricordati degli inni così di sovente letti sul Tempo e sugli altri giornali socialisti al modo elevato, sereno, perfezionato, evoluto con cui si combattono le lotte del lavoro nella madre patria delle leghe operaie, l’Inghilterra, ai vantaggi indiscutibili che per ambedue le parti contendenti si traggono dall’essere la battaglia combattuta non fra industriali ed operai singoli, ma fra associazioni o leghe di industriali e di operai; e ci siamo chiesti quale ignoto movente poteva indurre oggi a biasimare fieramente ciò che ieri si esaltava. Ma poiché rispondere alla domanda ci porterebbe ad una inutile indagine sulle opportunità momentanee di determinati atteggiamenti politici; così ci sembra giovar più alla causa della pace sociale vedere quale sia il fondamento del nuovissimo fenomeno delle “leghe di industriali” contro di cui, ora che l’abbiamo in Italia, si lanciano tante invettive.

 

 

Nelle contese tra capitale e lavoro si sono attraversati dappertutto, anche nei paesi che si trovano alla testa della civiltà industriale, diversi stadi. Nel primo stadio, che in Inghilterra è durato fino a circa il primo quarto dal secolo XIX, in Italia fino a pochi anni or sono, il ceto imprenditore aveva decisamente il sopravvento. Con una legislazione ed una giurisprudenza contrarie all’esercizio del diritto di coalizione e di sciopero, con le masse operaie disorganizzate, con la grande industria provvista di una maestranza eterogenea, racimolata da mille mestieri e luoghi diversi, l’operaio non aveva modo di far sentire le sue ragioni; e se i salari crescevano, era solo nei periodi prosperi per la cresciuta domanda degli imprenditori. Gli scioperi erano poco frequenti; ed il più spesso finivano in modo disastroso; piccole convulsioni che agitavano or questo ed or quello stabilimento, specie di baruffe in famiglia, che finivano con un accomodamento alla meglio. In quelle condizioni era verissimo il detto celebre di Adamo Smith: essere l’imprenditore per se stesso una coalizione contro gli operai. Cosa valevano 100, anche 1000 operai disuniti, discordi, contro un imprenditore solo, che aveva una sola volontà diretta contro mille che non avevano nessuna volontà?

 

 

Il progredire continuo della grande industria, il rafforzarsi dei sentimenti di solidarietà e di unione fra gli operai degli stessi stabilimenti e delle stesse industrie, la modificazione profonda intervenuta nelle leggi, nella giurisprudenza, nella pratica di governo, nell’opinione pubblica, hanno condotto a poco a poco a sancire i principî della libertà di coalizione, di sciopero e di lavoro e ci hanno fatto assistere alla fioritura meravigliosa delle leghe operaie, altrove dette trade-unions, o sindacati professionali. La classe operaia muoveva un po’ tumultuosamente, con forse troppa giovanile baldanza, all’assalto delle posizioni da conquistare. Il campo di battaglia era qualche volta seminato di rovine; ma gli osservatori spassionati sorridevano benignamente a questi peccati di gioventù, lieti che finalmente fosse raggiunto l’equilibrio stabile; e che le discussioni sui problemi del lavoro avvenissero fra l’imprenditore da una parte ed i cento, i mille operai insieme riuniti dall’altra. Riusciranno – dicevasi – più presto ad intendersi; e dopo qualche istante di battaglia cruenta, vi sarà pace duratura, non perturbata da continui litigi individuali.

 

 

Senonché lo stato di equilibrio stabile non pare sia possibile nella vita economica. L’ebbrezza della prima vittoria diede agli operai il desiderio spiegabile di affermare le conquiste fatte e li spinse ad iniziare un’altra fase dei rapporti fra capitale e lavoro che noi auguriamo abbia a riuscire ancor più benefica della precedente. Agli operai non basta di essersi riuniti in leghe per ogni stabilimento; ma vollero riunirsi – cosa naturale e giustificata per mille ragioni – per tutti gli stabilimenti della stessa industria nella città, nella regione e persino nello stato. Nacquero così le grandi federazioni operaie che abbracciano gli operai appartenenti allo stesso mestiere di uno stato intiero; nacquero le camere del lavoro che riuniscono insieme le sezioni locali delle diverse federazioni; cosicché una duplice organizzazione venne a rendere compatte le falangi delle masse lavoratrici: riunite mestiere per mestiere per tutto lo stato, e riunite in camere dove sono rappresentati tutti i mestieri in ogni città o centro industriale.

 

 

Giunti a questo punto è chiaro che la posizione di uguaglianza nella contesa industriale fra imprenditori ed operai è un’altra volta distrutta; ma distrutta al rovescio di prima ed a danno degli imprenditori. Prima la lotta era disuguale perché l’imprenditore poteva a suo agio lottare separatamente contro ciascuno dei suoi operai; e, forte della sua potenza, atterrarli uno dopo l’altro. Adesso invece contro gli imprenditori divisi stanno le leghe di mestiere e le camere del lavoro. Quelle possono iniziare uno sciopero contro l’industriale A di un’impresa determinata, ad esempio quella nella tessitura della lana, e mettere a contribuzione gli operai lavoranti presso gli altri imprenditori B, C, D, E, ecc., della stessa industria per soccorrere gli scioperanti dell’imprenditore A. È possibile anche, quando specialmente il lavoro urge, che le ordinazioni disdette dall’imprenditore A siano affidate invece agli imprenditori B, C, D, ecc. e che questi impieghino temporaneamente gli operai di A. Chi dei due contendenti si trova in una situazione strategica peggiore adesso è l’imprenditore, il quale perde gli interessi e l’ammortamento dei capitali, il guadagno commerciale, deve pagare spesso multe fortissime per inadempienza di contratti, ecc. ecc.; mentre i suoi operai ricevono soccorso dagli operai degli stabilimenti suoi concorrenti o sono impiegati in questi stessi stabilimenti concorrenti e possono a lungo aspettare l’esito della battaglia.

 

 

Qui nasce la “lega industriale”; la quale allarga nel campo degli imprenditori la cerchia della contesa così come l’avevano allargata nel campo degli operai le federazioni di mestiere e le camere del lavoro. Per spiegare il sorgere delle leghe industriali noi abbiamo deliberatamente trascurato i motivi occasionali, come le prepotenze degli scioperanti contro i cosidetti crumiri, la inerzia del governo che non tutela a sufficienza la libertà del lavoro e fa per un momento pensare agli imprenditori più battaglieri alla convenienza di organizzare forze di difesa private alla foggia americana in surrogazione della forza pubblica che lascia far bersaglio di pietre gli stabilimenti e di ingiurie e di percosse gli operai desiderosi di lavorare. Tutto ciò è momentaneo e superficiale; mentre il vero fondamento della lega industriale è la necessità di opporre ad una organizzazione operaia estesa per tutta una regione od uno stato nello stesso mestiere, od a tutti i mestieri di una città, una lega che abbracci ugualmente tutti o quasi tutti gli imprenditori della stessa industria o località. In Italia la lega formatasi l’altro giorno a Torino abbraccia gli industriali della città, appartenenti ad industrie diverse; e pare che sullo stesso tipo debbano costituirsi prestissimo altre leghe a Milano ed a Roma. Né ci recherebbe meraviglia che in seguito coteste leghe locali si federassero in una unica associazione di difesa contro gli scioperi simile all’Haupstelle Deutscher Arbeitgeberverbände (Ufficio centrale delle federazioni di imprenditori tedeschi) ed al Verein Deutscher Arbeitgeberverbände (Unione delle federazioni di imprenditori tedeschi) che nel campo l’uno della grande e l’altra della media e piccola industria uniscono in Germania le forze di decine di migliaia di imprenditori in occasione di scioperi o di contese industriali.

 

 

Le armi di cui le leghe di imprenditori si servono sono il contrapposto di quelle che furono con successo adoperate dalle leghe operaie. Gli operai cercano di attaccare ad una ad una le posizioni nemiche, giovandosi intanto dei soccorsi degli operai impiegati presso gli altri stabilimenti, giovandosi del precetto napoleonico, che contro il nemico disperso in parecchi nuclei giova far massa contro ogni nucleo successivamente per disperderlo più facilmente? E le organizzazioni padronali, invece di lasciare battere i propri soci alla spicciolata con una lunga guerriglia, faranno massa ed attaccheranno battaglia (spesso la vittoria è di chi attacca, non di chi si difende) con quella serrata generale, che al Tempo tanto dispiace, come violatrice della libertà del lavoro, mentre è norma elementare di strategia guerresca applicata alle lotte del lavoro. Vorrebbesi forse, in omaggio alla libertà del lavoro, che gli imprenditori dovessero tenere aperti gli stabilimenti quando essi siano persuasi che ciò tornerà dannoso agli interessi permanenti della loro industria?

 

 

Gli operai scioperanti, durante lo sciopero, cercano lavoro negli stabilimenti attivi? La federazione degli imprenditori, ben sapendo che il fornir lavoro agli scioperanti in siffatta occasione equivale a crescere il tesoro di guerra degli avversari, ordina ai soci di proscrivere temporaneamente dai propri stabilimenti gli scioperanti finché duri la contesa.

 

 

Le leghe operaie costituiscono dei fondi di resistenza con i quali provvedono a sostenere gli scioperanti durante il periodo di disoccupazione volontaria, che sia ritenuta giustificata dagli ufficiali dirigenti delle federazioni centrali? Le federazioni di imprenditori pensano (in Germania) all’istituzione di casse di assicurazione contro gli scioperi le quali, in compenso di premi variabili secondo le industrie, le località e gli anni, si obblighino a indennizzare gli imprenditori, colpiti da scioperi, per le perdite sofferte.

 

 

Se le armi con cui si combatteranno le future contese industriali diventano ognor più potenti; se il campo della battaglia si estende vieppiù e gli eserciti combattenti diventano addirittura colossali, come gli eserciti veri nelle guerre moderne; non è da credere che tutto ciò sia per tornare dannoso ai progressi dell’industria. Tutt’al contrario. Nello stesso modo che gli inventori degli strumenti più micidiali possono vantarsi di rendere più difficile lo scoppio della guerra, per la grandiosità crescente delle sue conseguenze e per il maggior sentimento di responsabilità dei governanti; così nel campo industriale la esistenza di forti ed agguerrite leghe di industriali e di operai sarà un fattore di pace sociale. La guerra è facile quando uno dei due avversari è forte e l’altro debole; ma se amendue sono uniti e forti, dopo essersi guardati in cagnesco per un po’ di tempo, finiranno di trovare il modo di mettersi d’accordo. Tanto più lo troveranno in quanto le trattative non saranno più condotte dagli imprenditori singoli e dai rappresentanti dei loro operai, ma dai consigli dirigenti delle due federazioni o leghe. Minore sarà la probabilità che si dia importanza ai piccoli puntigli, alle quistioni particolari e di poco peso; la discussione si concentrerà sui punti sostanziali di interesse generale. L’esperienza sta a dimostrare che nei paesi dove questi sistemi di lotta sono invalsi, i casi di conflitto violento sono diminuiti; e dimostra che in definitiva il terzo degli scopi della lega industriale di Torino «favorire la buona intesa con gli operai» – oggetto di tanto sarcasmo da parte del Tempo – è quello che in definitiva più sicuramente è stato raggiunto. Informino i numerosi ed attivissimi consigli di conciliazione e di arbitrato inglesi, di cui i più operosi furono quelli appunto istituiti per opera delle leghe di imprenditori e di operai!

 

 

Dopo il voto delle leggi pel Mezzogiorno

Dopo il voto delle leggi pel Mezzogiorno

«Corriere della Sera», 16 luglio 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 377-381

 

 

Colla approvazione del senato sono divenute leggi dello stato due progetti che avranno una lunga e feconda influenza sull’avvenire dell’Italia: il riscatto delle ferrovie meridionali ed i provvedimenti per il mezzogiorno.

 

 

Il riscatto delle ferrovie meridionali appassionò molti uomini politici solo perché parve per un momento mezzo adatto ad abbattere un gabinetto e ad esaltarne un altro; ma non furono certamente cotesti uomini politici quelli che a fondamento del loro voto posero un esame accurato e spassionato del difficile problema. Costoro plaudirono prima all’on. Saporito, il quale li aiutava ad abbattere l’on. Sonnino; e lo zittirono poi quando egli, con costanza degna di rispetto, minacciava di mandare in lungo l’inizio delle vacanze estive. In realtà il problema fu deciso alla camera dai pochi competenti, i quali, al disopra delle divisioni di parti politiche, si trovarono d’accordo nell’approvare quanto era stato proposto dall’on. Carmine, a buon diritto onorato e stimato da tutti, amici ed avversari, come uomo integerrimo e di grandissima competenza in materia. Le obiezioni dell’on. Saporito, sia pur dettate da amor di patria e da scrupolosi intendimenti di difesa dell’erario, parvero ai più poggiate su erronei calcoli intorno all’aumento del coefficiente di esercizio nell’avvenire. Egli più volte fece e rifece il conto dei vantaggi che la Società delle meridionali ritraeva dalla vendita delle ferrovie allo stato, argomentando dalla convenienza per la società di sottrarsi agli obblighi contrattuali di raddoppio dei binari ed all’aumento inevitabile nelle spese di esercizio, e concluse che se la società faceva un affare buono, lo stato doveva farlo pessimo. Non vide l’implacabile avversario del riscatto che il suo ragionamento peccava nella premessa, potendo ben darsi che un contratto sia buono per amendue i contraenti. Se era inevitabile che, vendendo la rete meridionale, la società facesse un buon affare – preparato d’altronde da leggi e convenzioni antiche e da una accorta amministrazione – ; è convinzione dei più che lo stato abbia saggiamente provveduto ai suoi interessi. I vantaggi del riscatto delle meridionali per lo stato non si debbono commisurare al reddito che quelle ferrovie possono dare per se stesse; ma ai vantaggi ben diversi che se ne potranno ricavare, innestandole sul tronco maggiore delle ferrovie di stato. Ad un industriale può tornare conveniente comprare un salto d’acqua ad un prezzo alto, che gli concede appena l’interesse del3% sul capitale impiegato, quando il possesso di quel salto gli permette di utilizzare meglio un’altra forza idraulica vicina da lui posseduta, con un aumento nel reddito di questa dal 3 al 5%. Così si dica delle ferrovie meridionali: il possesso delle quali da parte di una società privata poteva incagliare in mille modi il più perfetto ed economico funzionamento dell’esercizio delle ferrovie dello stato. Già lo vedemmo l’anno scorso all’epoca della vendemmia, quando non fu possibile istradare le spedizioni di uve, provenienti dalla zona servita dalle ferrovie di stato, lungo la comoda e grande via ferrata dell’Adriatico, per non far perdere all’erario il guadagno di quei trasporti.

 

 

Da questo elevato punto di vista conviene guardare il riscatto della rete meridionale, come uno sforzo, che l’avvenire dimostrerà con quanto sacrificio finanziario sia stato compiuto, per rinsaldare vieppiù l’unità economica d’Italia. Oramai lo stato possiede integro nelle sue mani questo massimo strumento e fattore della prosperità nazionale, le ferrovie. Noi auguriamo che sappia servirsene per favorire efficacemente l’incremento dei traffici, per facilitare i viaggi a distanza, per fare conoscere a vicenda agli italiani tutti le regioni che compongono la loro patria bellissima.

 

 

L’incremento di traffici, e la maggiore conoscenza delle varie parti del nostro paese gioveranno al settentrione; ma gioveranno ancor più al mezzogiorno, che di elevarsi a più moderne condizioni di vita sente ora il bisogno; e tanto più gioveranno, quanto meglio i meridionali sapranno trarre vantaggio dalle provvidenze contenute nell’altro disegno di legge or ora approvato dal senato e che si intitola appunto dai «provvedimenti per il mezzogiorno».

 

 

Nella breve discussione avvenuta dinanzi alla camera vitalizia, vi fu un senatore che definì quella legge come una legge di impulso e di stimolo per i meridionali; e questo appunto reputiamo noi che sia il suo pregio massimo. Certo, se si prendono ad una ad una le disposizioni contenute in questa legge, è facile accusarle, come fecero gli attuali ministeriali quando si trattava di abbattere a furia il gabinetto proponente, di insufficienza e di manchevolezza. Chi può negare che una revisione giusta negli estimi catastali, con ribasso dell’imposta in ragione dello scemato reddito, sarebbe cosa migliore di una riduzione uniforme del 30% nell’imposta erariale e che una legiferazione compiuta sui rapporti fra proprietari, affittuari, coloni e contadini sarebbe stata più perfetta di una norma riguardante solo le anticipazioni di vitto e di semenze ai coltivatori? Può anche concedersi che una legislazione la quale accortamente avesse contemplato in maniera generale per tutta Italia i casi più dolorosi di pressione tributaria e di deficienze scolastiche, stradali ecc., avrebbe in sostanza giovato sovratutto al mezzogiorno, senza escludere quei distretti poverissimi che si possono trovare sparpagliati, qua e là, nelle diverse regioni d’Italia.

 

 

Ai critici abbiamo replicato che questo non era più tempo da inchieste e che l’amore del meglio troppe volte in passato avea impedito il bene. Oramai urgeva l’azione; e, se non si voleva passare per mancatori di parola di fronte alle popolazioni del mezzogiorno, era pur d’uopo concretare subito provvedimenti che, senza impedire, anzi affrettando il meglio per l’avvenire, facessero il bene nel presente. L’aver compreso questa verità costituisce il vanto del ministero Sonnino; e l’aver condotto in porto sollecitamente i provvedimenti pel mezzogiorno, non monta se con qualche dubbiezza, è cagion di lode per il ministero attuale e per il parlamento.

 

 

Ai meridionali spetta oggi di trarre partito da quella legge. La quale sarebbe stata approvata invano, se non se ne traesse stimolo a migliorare la produzione agraria, ad instaurare nuove industrie, a rendere socialmente stretti i vincoli fra proprietari e coltivatori, a perfezionare la rete stradale e ad elevare il livello intellettuale delle popolazioni. La legge ha gittato i germi di un rinnovamento fecondo; ma quei germi debbono, per poter germogliare e dar frutti abbondanti, essere accolti da un terreno fertile. La responsabilità maggiore spetta alle classi dirigenti del mezzogiorno; alle quali appartiene il dovere di dimostrare come avessero torto quei loro rappresentanti alla camera, i quali volevano accogliere negli utili il progetto di legge, approvando la riduzione dell’imposta fondiaria del 30%, respingendo gli oneri che in compenso si imponevano ai proprietari verso i loro contadini. Alle classi dirigenti, non pure del mezzogiorno, ma di tutta Italia tocca il compito di accogliere l’incitamento che dalle esenzioni tributarie volute dalla nuova legge viene alla creazione di industrie nel mezzogiorno. La conversione della rendita favorirà certamente l’esodo dei capitali verso i campi non ancora sfruttati del sud; ed è da sperare che i fatti presto dimostrino come possa essere feconda l’azione stimolatrice dello stato, anche se limitata a non opprimere le iniziative private.

 

 

L’azione dello stato non è e non deve essere chiusa a questo punto. L’unificazione della rete ferroviaria ed i provvedimenti per il mezzogiorno sono due leve potenti del risorgimento economico delle nostre regioni meno fortunate; ma non sono tutto. Un campo sterminato rimane da coltivare alle iniziative individuali in Italia; un campo vergine e da secoli non tocco. Chi può immaginare lo sviluppo superbo dell’industria e del lavoro italiano se fosse dato di coltivare e di sfruttare quegli strati vergini di consumo che ora sono isteriliti dalla elevatezza eccessiva dei prezzi e delle imposte che gravano sulle merci più necessarie e sugli atti più consueti della vita? Il danno che al progresso dei consumi e della ricchezza in Italia e specie delle regioni più povere d’Italia, fa l’asprezza eccessiva dei tributi è troppo grande perché i ciechi medesimi non lo veggano. Eppure, oggi che la conversione della rendita ci offre il modo – da tanto tempo auspicato – di iniziare una profonda riforma tributaria, già si affilano le armi per ingoiare in molte piccole spese, non inspirate ad un criterio che, solo ove fosse pensato ed organico, sarebbe ammissibile, i frutti di quella che a ragione fu detta eroica conquista dei contribuenti italiani. Una nuova battaglia si annuncia: nobile e bella battaglia per l’avvenire della patria nostra.

 

 

Dopo dodici anni

Dopo dodici anni

«Corriere della Sera», 31 giugno, 1[1],10[2], 21[3] e 25[4] luglio 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 382-405

 

 

I.

Ricordiamo: il 21 febbraio 1894 il ministro del tesoro del tempo, on. Sonnino, faceva una esposizione finanziaria che doveva rimanere celebre negli annali del parlamento italiano e doveva per lunghi anni suonare ammonimento salutare agli uomini di governo. Il conto consuntivo dell’esercizio 1892-93, ad onta della larga importazione di grano, per cui il dazio aveva superato di 15 milioni la somma prevista, si chiudeva con un indebitamento di circa 48 milioni per nuove passività create oltre quelle estinte e per consumo di attività patrimoniali. Peggiori le previsioni d’assestamento per l’esercizio in corso 1893-94: una deficienza a carico del tesoro di 6 milioni, ed un maggior indebitamento patrimoniale dello stato di 165 milioni. Pessime le prime previsioni per l’esercizio 1894-95: una deficienza di milioni 155,2 ed un indebitamento di circa 177 milioni. Frattanto il debito del conto del tesoro al 30 giugno 1894 saliva ad oltre 563 milioni, ed inceppava tutta l’opera finanziaria dello stato, sì da reclamare una sistemazione, resa non facile dalla difficoltà di emettere titoli di debito a buone condizioni. L’aggio dell’oro sulla carta oscillante fra un minimo dell’11,08 ed un massimo del 15,70%; la circolazione disordinata, come recenti gravissime inchieste bancarie avevano messo in luce; la moneta spicciola necessaria alle quotidiane contrattazioni ostinatamente deficiente; lo stato delle finanze degli enti locali cattivo al par di quello delle finanze dello stato, e reso anche più grave dacché la Cassa dei depositi e prestiti, istituita con la principale missione di sovvenire ai bisogni di quegli enti, nulla di serio poteva oramai fare per essi, in conseguenza delle sovvenzioni che doveva fare allo stato, ultima e più pericolosa delle altre quella per l’operazione sulle pensioni di 31 milioni di lire all’anno.

 

 

Alle depresse condizioni della finanza pubblica corrispondeva tristamente il quadro dell’economia privata. Per citare soltanto alcuni principalissimi indici il corso del consolidato 5%, che nel 1886 era pur giunto a 102,55 alla borsa di Parigi, scaduto fino al minimo di 72; le banche di emissione con un portafoglio al 31 dicembre di 309 milioni in confronto ai 743 del 1889, e con una cifra di anticipazione di 67 milioni invece di 126; mentre le sofferenze da 38 salivano a 55 milioni. Le società per azioni che nel 1890 erano 412 con un capitale di 1.016.106.403 lire ed una riserva di 68.022.945 lire ridotte a 358 con un capitale di appena lire 750.020.132 ed una riserva di lire 46.340.362. Le risultanze medie economiche delle società anonime da parecchi anni oscillanti fra una perdita dell’1,95 ed un guadagno del 3,57%. Il commercio coll’estero ridotto per le importazioni a lire 1.094.649.101, ossia a lire 35,21 per abitante, minimi che in cifre assolute non erano stati toccati se non nel 1871 e nel 1878 e in cifre relative non avevano riscontro; e per le esportazioni non superiore a lire 1.026.506.040 in totale ed a lire 33,02 per abitante. Il traffico ferroviario da alcuni anni in diminuzione sui massimi che si erano raggiunti; cosicché il prodotto lordo per chilometro esercitato che nel 1883 era di lire 22.073 e nel 1890 ancora di lire 19.635, era scaduto a lire 17.346, causa non ultima del disastroso risultato delle convenzioni ferroviarie del 1885. Conseguenza finale di queste cattive condizioni della finanza pubblica e privata i consumi medi per abitante in diminuzione; il frumento da 123 kg nel 1884-85 a 121 nel 1891-95, il granturco da 76 kg a 59, il vino da litri 98 nel 1886-90 a 91 nel 1891-95, lo zucchero da kg 3,17 nel 1881-85 a 2,37 nel 1891-95, il caffè da kg 0,58 nel 1881-85 a 0,42 nel 1891-95 e persino i tabacchi da kg 0,591 nel 1884-86 a 0,506 nel 1891-96.

 

 

È noto il grido d’allarme con, il quale l’on. Sonnino chiudeva la sua lugubre esposizione finanziaria:

 

 

L’orizzonte è carico di nubi e la situazione si può davvero, senza esagerazione, dire grave … Occorre, con un’azione energica e virile, salvare il nostro paese dalla rovina economica e finanziaria che gli sovrasta. Urge anzitutto pareggiare il bilancio ed arrestarci risolutamente sulla via del progressivo indebitamento dello stato.

 

 

Il monito solenne non cadde nel vuoto. Per un decennio circa fu virtù grande degli uomini di stato italiani l’aver resistito alle tendenze di espansione grandiosa e l’aver ostinatamente mirato al pareggio delle finanze dello stato. Primo il ministero Crispi-Sonnino, con la riduzione forzata del frutto della rendita da lire 4,34 a lire 4 salvò l’Italia dal pericolo di dover scendere a patti coi suoi creditori, a guisa d’un debitore fallito; ed i portatori della rendita sopportarono la riduzione, mascherata sotto il nome d’aumento dell’imposta di ricchezza mobile, pensando che altre classi di contribuenti venivano assoggettate a pesi pure gravissimi, in causa dell’aumento – operatosi allora o nell’anno susseguente – dalle tasse di successione, del dazio sul grano, del dazio sugli zuccheri, della tassa sugli spiriti e dell’istituzione di nuovi balzelli sui fiammiferi, il gas, l’energia elettrica, il cotone greggio, ecc. ecc.

 

 

Tutti i ministeri venuti di poi contribuirono in qualche misura a promuovere il rifiorire della pubblica finanza; ma qui va ricordato specialmente, a cagion d’onore, Luigi Luzzatti, che nella esposizione finanziaria del 7 dicembre 1896 tracciava maestrevolmente la via da seguire e subito si poneva a percorrerla: porgere mano soccorrevole agli enti locali che in tanta parte d’Italia gemevano sotto il peso di debiti usurai e risanare la circolazione. Data da allora la istituzione della sezione speciale per il credito comunale e provinciale presso la Cassa depositi e prestiti, che tanto bene recò ai municipi della Sicilia e della Sardegna prima, ed a tutti i italiani poi; e datano da allora le nuove provvidenze approvate, in aggiunta a quelle del 1893, per restringere la circolazione esuberante dei banchi di emissione, favorire la liquidazione delle partite immobilizzate e salvare dall’ultima rovina il Banco di Napoli.

 

 

Troppo lungi andremmo se volessimo ricordare l’opera di tutti coloro che in questi anni di prudente aspettativa contribuirono alla ricostituzione finanziaria dello stato italiano. Forse essi andarono troppo più in là, di quanto fosse assolutamente necessario, nella repugnanza ad ogni spesa straordinaria, contrastando persino quelle opportune accensioni di debiti che erano consigliate per il mantenimento e l’accrescimento del nostro demanio ferroviario; fors’anco essi furono e sono troppo timidi nel fare quelle riduzioni dei tributi più gravosi che in pochi anni avrebbero dato, per il crescere dei consumi, frutti opimi al tesoro dello stato. Ma chi giudichi in complesso dovrà dar loro merito grandissimo per avere saputo resistere sino a pochi anni fa a quella tendenza irrefrenata all’aumento delle spese che è il tarlo roditore della finanza di tutti gli stati moderni e per aver saputo insegnare a tutti, contribuenti e funzionari, la virtù del sacrificio.

 

 

Oggi – di quell’opera prudente ed insieme dello spirito di sacrificio dei contribuenti italiani e delle energie grandissime di lavoro di un paese che nel 1894 pareva rovinato ed era invece soltanto in un momento di sosta sulla via del progresso, – si raccolgono i frutti. Lasciando il potere, il ministro del tesoro Luzzatti poteva a giusta ragione dire al successore Majorana che mai il tesoro italiano si era trovato in condizioni più prospere e che nel momento attuale nessun paese del mondo poteva vantare una situazione così sinceramente forte come la nostra.

 

 

Un fondo di cassa presunto al 30 giugno 1906 – secondo il bilancio d’assestamento – di quasi 442 milioni, il saldo debiti di tesoreria ridotto a 347 milioni, il saldo passivo del conto residui a 270 milioni, la consistenza ordinaria dei buoni del tesoro aggirantesi sui 170 milioni, con un margine di 130 milioni in confronto del massimo consentito dalle leggi; nessuna anticipazione dalle banche d’emissione. Il bilancio dello stato da alcuni anni rallegrato da imponenti avanzi delle entrate sulle spese effettive e ferroviarie: 65 milioni nel 1900-901, 65 nel 1901-902, 86 nel 1902-903, 49 nel 1903-904, 64 nel 1904-905 e probabilmente non meno di 25-30 milioni nel 1905-906, malgrado le straordinarie spese occorse per circostanze varie in quest’anno. Il consolidato italiano giunto a 105 nelle borse estere ed interne; l’aggio scomparso ed anzi sostituito spesso da un premio di 15-20 centesimi per cento della carta italiana sull’oro. Le banche di emissione quasi interamente risanate e rese atte ad adempiere all’altissima loro funzione di tutrici della circolazione monetaria e di regolatrici dei mercati.

 

 

Le partite immobilizzate della Banca d’Italia ridotte da 449 nel 1894 a 83 milioni il 30 aprile 1906, del Banco di Napoli da 167 ad 81 milioni, del Banco di Sicilia da 19,3 a 3,6 milioni. Il rapporto fra riserva metallica e circolazione giunto al 74,58%. Le società anonime aumentate nel 1903 di nuovo a 492 con un capitale nominale di lire 1.404.733.427 più una riserva di lire 122.205.289, ed il saggio medio dei loro profitti giunto al 5,33%. E dopo il 1903 parecchie centinaia di nuove società anonime si costituiscono e portano il capitale nominale in azioni dell’Italia a più di 2 miliardi e mezzo ed il valore di borsa a 4 miliardi circa. Il commercio coll’estero a poco a poco da 2 miliardi nel 1894 sale ai 3 miliardi e mezzo nel 1905. Il consumo del frumento in rialzo da 121 (punto a cui l’avevamo lasciato) a 146 kg a testa, del granoturco da 59 a 72 kg, del vino da 91 a 125 litri, dello zucchero da kg 2,47 a 3,29, del caffè da kg 0,42 a 0,54; mentre il consumo del tabacco ribassava bensì da kg 0,506 a kg 0,489, dopo essersi ridotto nel 1897-98 ancor più in basso a 0,468; ma in compenso i prezzi erano stati rialzati e le qualità consumate a preferenza erano divenute più fini e più care.

 

 

Di questa rifiorente condizione economica d’Italia il frutto più splendido è oggi la annunciata conversione della rendita dal 4 per cento netto al 3,75% per cinque anni e al 3,50 dopo. Con questa grande conversione noi non imitiamo soltanto le maggiori nazioni straniere, che nel secolo XIX ci precedettero su questa via gloriosa; ma ci riattacchiamo alle nobili tradizioni italiane del secolo XVIII. In questo momento non è forse inutile ricordare che nel 1753 la Repubblica di Venezia e nel 1763 Carlo Emanuele III re di Sardegna convertirono il loro debito pubblico dal 4,5 e dal 4% al 3,5%. Dopo un secolo e mezzo noi ripigliamo l’avita tradizione. Auguriamo all’Italia che i suoi governanti non indulgano al vizio di sperperare i frutti della conversione in piccoli favori di cresciuti stipendi ed in aumenti di spese inutili; ma sappiano volgerli – con un piano meditato di prudenti e forti riforme tributarie e sociali – a pro dell’economia italiana. Dopo essere stati i contribuenti più pazienti del mondo – ricordiamo le parole del più valido propugnatore e cooperatore della conversione, Luigi Luzzatti, al quale va ora la riconoscenza della nazione – i contribuenti italiani hanno oggi il diritto di cominciare ad ottenere il guiderdone di quelle virtù che salvarono l’Italia.

 

 

II

La nota più spiccata della conversione odierna della rendita italiana è che essa vien fatta in due tempi: le cedolette del primo luglio 1906 e primo gennaio 1907 saranno pagate ancora al tasso antico del 4%; quelle dal primo luglio 1907 fino al gennaio 1912 in ragione del 3 75%; e solo quelle a partire del primo luglio 1912 saran pagate in ragione del 3,50%.

 

 

L’idea di addolcire il passaggio dal vecchio al nuovo saggio d’interesse con una sosta intermedia di parecchi anni non è nuova; e anzi si può dire sia stata la regola seguita sempre dai finanzieri inglesi, a cominciare dalla conversione del 1750 con cui si ridusse per un capitale di 1 miliardo di lire italiane l’interesse dal 4 al 3,5% dal 1751 al 1757; e dal 3,5 al 3% dal 1758 in poi; a venire alla conversione del 1844 per 6 miliardi e 218 milioni di lire italiane dal 3,5 al 3,25% subito ed al 3% dopo dieci anni; sino alla più colossale conversione dei tempi moderni, quella di 14 miliardi di lire italiane effettuata dal Goschen nel 1888 dal 3 al 2,75% subito ed al 2,5 dopo 14 anni e cioè dal primo aprile 1903.

 

 

La conversione in due tempi presenta, insieme con alcuni inconvenienti, pregi notevoli; e qui procureremo di chiarire gli uni e gli altri. È un inconveniente della riduzione in due tempi questo: che il tesoro avrà per cinque esercizi, dal 1907-908 al 1911-12, un’economia di soli 20 milioni circa l’anno; e solo a partire dal 1912-13 otterrà l’economia degli altri 20 milioni. Ora, se 40 milioni l’anno di margine nel bilancio sono vistosi e possono permettere di tentare con sicurezza una ardita riforma tributaria; l’economia di soli 20 milioni nel 1907-908 rischierà di venire smarrita in piccoli aumenti di spese o in ritocchi parziali di scarsa utilità; e lo stesso potrà accadere dei 20 milioni del 1912-13. L’inconveniente non è però assoluto; e, dipendendo dalla saviezza dei governanti, è da augurare e da chiedere fermamente che alla riduzione scalare degli oneri del debito pubblico si accompagni una riduzione scalare, preordinata sin d’ora, dei tributi più gravosi e più irrazionalmente alti, come sarebbero i dazi sul petrolio, sullo zucchero e sul grano o l’imposta sul sale. Il parlamento italiano, che ha dimostrato tanto slancio patriottico nell’approvare la conversione, sappia trattenersi sulla ripida china dello sperpero dei frutti della conversione in cose meno urgenti del concedere sollievo ai contribuenti. Qui si parrà anche l’abilità del governo; e come l’on. Majorana fu rapido nel dar seguito al piano maturato dal Luzzatti, sia rapido nell’incitare il suo collega delle finanze a proporre gli opportuni sgravi tributari, prima che si risveglino gli appetiti stimolati dai benefici della conversione.

 

 

Un altro inconveniente della riduzione in due tempi è il seguente. Oggi il consolidato 5 per cento lordo è intorno al 105 e di poco gli è inferiore il 3,5%. Si può prevedere che il nuovo 3,75% si terrà anch’esso di qualche lira superiore alla pari; cosicché la conversione si sarà compiuta senza scosse sensibili nelle borse e nella valutazione delle fortune private. Ma nel 1912, quando avrà luogo la riduzione dal 3,75 al 3,5% potrà darsi che la situazione monetaria sia mutata ed il costo del danaro cresciuto, aggirandosi, ad esempio, sul 3,75%. La riduzione automatica della rendita dal 3,75 al 3,5 potrà quindi ridurre il valore capitale del nuovo titolo in borsa al disotto della pari, con danno del credito italiano. È ciò che successe al consolidato inglese convertito, come dicemmo sopra, nel 1888 dal 3 al 2,75% subito e al 2,5 dopo 14 anni. Nel 1888 erano buone le condizioni del tesoro e del mercato, ed il titolo 2,75% mantenne i corsi del vecchio 3%; ma nel 1903, quando il 2,75 fu ridotto al 2,5%, la guerra del Transvaal aveva scosso il consolidato inglese, ed il nuovo 2,5% fu quotato appena 86 lire, ed oggi si aggira sulle 90 lire, tenendosi considerevolmente al disotto della pari.

 

 

Senonché l’obiezione non è decisiva. È vero che nel 1903 il consolidato inglese 2,5% fu quotato al disotto della pari; ma è anche vero che non vi è modo di impedire che una guerra prolungata e costosa deprima il credito pubblico di uno stato. Lasciando da parte gli avvenimenti internazionali, su cui non abbiamo presa, sarà compito dei governanti di amministrare la cosa pubblica per modo che la finanza italiana sia nel 1912 prospera così come è oggi e la riduzione al 3,5% possa operarsi senza scosse. In ogni caso lo stato direttamente non avrà a rimetterci nulla, anche se il corso del 3,5% avesse a discendere di qualche punto al disotto della pari; poiché la conversione è perfetta sin dal momento attuale; ed il danno sarà dei portatori di rendita, per i quali, del resto, le variazioni dei corsi del consolidato non sono una novità. Lo stato, se vorrà contrarre nel 1912 un prestito e se il corso del 3,5 sarà al disotto della pari, potrà sempre emettere dei titoli al 4 od al 3,75% alla pari.

 

 

La conversione in due tempi ha il pregio massimo di non scontentare troppo i portatori di rendita; e facilitare in tal guisa l’operazione grandiosa. È d’uopo tener presente che la buona riuscita di una conversione dipende anche, in non piccola parte, da fattori psicologici. Bisogna che i portatori di rendita siano convinti di non poter altrimenti impiegare in modo migliore i propri capitali; e se essi potevano, di fronte ad una immediata conversione al 3,5%, restare in dubbio, non vorranno darsi tanta briga solo per una diminuzione immediata di 25 centesimi per ogni cento lire del loro capitale. Quanto all’ulteriore riduzione al 3,50% da verificarsi nel 1912, oggi probabilmente penseranno che allora il saggio dell’interesse per gli altri impieghi sul mercato potrà essere ancora diminuito; e che dopo tutto la sicurezza di avere il reddito fisso del 3,50% dal 1912 al 1920 è una prospettiva abbastanza buona. Nel che nessuna persona ragionevole saprebbe dar loro torto, se si pensi alla discesa progressiva nel saggio dell’interesse.

 

 

Tutti gli stati usano dare un premio ai portatori di rendita al momento della conversione, quasi per indorare l’amara pillola.

 

 

Nel 1902 il signor Rouvier convertì bensì 6.790 milioni di rendita 5,5 in 3% – senza passare per l’intermezzo del 3,25% – ma diede ai portatori un premio per una volta tanto di franchi 1,62 per ogni 100 lire di capitale, aumentando di 68 milioni il debito pubblico. Tra due sistemi, quello Rouvier di dare subito un premio di lire 1,62%, e quello Luzzatti – Majorana di dare un premio di 25 centesimi l’anno per cinque anni, preferiamo il secondo, perché il sacrificio sopportato dallo stato è in tutto appena di lire 1,25, le quali, invece di aumentare il capitale del debito, come si fece in Francia, sono prelevate sulle entrate del bilancio. In Francia il signor Rouvier ebbe ragione di accendere un debito per pagare il premio di lire 1,62, avendo egli bisogno subito del vantaggio di 33 milioni l’anno derivante dalla conversione per colmare il disavanzo del bilancio. Noi, con un bilancio florido ed in notevole avanzo, possiamo per 5 anni rinunciare ad un maggior risparmio di 20 milioni di lire all’anno, pur di assicurare la riuscita della conversione. Forse se noi avessimo pagato subito un premio di lire 1,25 e ridotto senz’altro l’interesse al 3,5%, la conversione sarebbe riuscita lo stesso, perché i portatori di rendita si sarebbero compiaciuti nell’incassare il premio; ma era da temersi che, incasssato il premio, taluni vendessero il titolo 3,5% in borsa, determinando un ribasso spiacevole in un momento in cui l’Italia ha bisogno di dar mostra, agli occhi del mondo, della sua forza finanziaria. Col sistema adottato, costoro conserveranno la rendita per lucrare i 25 centesimi di maggior reddito per 5 anni; e nel 1912 altri fatti probabilmente saranno intervenuti per indurli a conservare ancora il 3,50%.

 

 

Un’altra nota simpatica della conversione odierna è che il capitale del debito, come non aumenta per dare un premio ai portatori della rendita, così neppure cresce per le spese inerenti alla grandiosa operazione: commissioni ai gruppi bancari garanti, spese di allestimento del nuovo titolo, rinnovazione dei bolli all’interno ed all’estero, interessi sui capitali di cui si chiederà il rimborso. Tutte queste spese si faranno con mezzi ordinari di tesoreria, utilizzando gli avanzi di bilancio dell’esercizio 1906-1907, in guisa da non lasciar nessuno strascico per l’avvenire.

 

 

Su un ultimo carattere della conversione vogliamo fermarci un momento: quello per cui essa sarà integrale e non comporterà eccezioni di sorta. Il ministro Majorana, rispondendo all’on. Agnini, che domandava al governo di tutelare il patrimonio delle opere pie investito in rendita dal 15 luglio 1903 in poi, rispose che la conversione odierna è per tutti, e non v’è, né poteva esservi eccezione. Gli enti i quali si ritenessero danneggiati, poter dimandare la trasformazione dei loro investimenti.

 

 

Per comprendere l’importanza del rilievo fatto dall’on. Agnini e che vediamo ripreso da parecchi giornali, è mestieri ricordare quale sia la composizione del nostro debito consolidato 5 e 4%. Secondo alcuni dati che troviamo riportati dal De Johannis[5] il consolidato 5% sarebbe così distribuito:

 

 

Rendita al portatore

all’estero

L. 700.000.000

all’interno:
Casse di risparmio

255.000.000

Istituti di credito ordinario

236.000.000

Società di assicurazioni

52.000.000

Privati

2.804.000.000

L. 4.047.000.000

L. 4.047.000.000

Rendita nominativa

Libera

2.432.080.000

Vincolata dai privati

956.348.000

Vincolata da comuni, provincie, opere pie ecc.

61.885.000

Vincolata a favore dello stato

491.986.000

L. 3.942.299.000

L. 3.942.299.000

L. 7.989.299.000

 

 

Qualche variazione deve essere intervenuta in seguito, ma di poco conto; e se a questa cifra aggiungiamo la rendita al 4%, pur essa convertita, giungiamo al totale del debito da convertire in 8 miliardi e 191 milioni di lire.

 

 

L’obiezione dell’on. Agnini voleva in sostanza dire; vi sono opere pie, le quali hanno dovuto investire i loro capitali in rendita 4%. La riduzione al 3,75 ed al 3,50 li metterà nella impossibilità di adempiere in tutto ai loro fini caritatevoli; e ciò per colpa delle leggi che hanno loro prescritto una determinata forma di investimento. Senonché l’obiezione – pure rispondente a sentimenti di umanità – urta contro parecchi ostacoli. Non sono le opere pie soltanto che saranno danneggiate da una conversione che di fatto per essi è forzata; anche le diverse amministrazioni dello stato (fondo per il culto, cassa depositi e prestiti, ecc.), che ne posseggono per quasi mezzo miliardo; ma anche i privati che, per una ragione o per l’altra, hanno i loro capitali vincolati in rendita per quasi un miliardo. Vi sono infine altri enti o privati i quali potrebbero invocare ragioni di umanità o di interesse pubblico per esimersi dalla conversione. Aperta la breccia, molti vi sarebbero passati; e la conversione avrebbe finito di fruttare allo stato non più 20 e 40 milioni all’anno; ma appena 15 e 30. Lo stato non può del resto garantire in perpetuo a nessuno – nemmeno agli enti di beneficenza – un interesse fisso dei capitali. L’investimento in rendita pubblica fu imposto, per ragioni che oggi forse non esistono più in tutti i casi, ma erano indipendenti dal saggio dell’interesse; il quale si sa essere soggetto alle vicende del mercato. Non si può imporre in perpetuo ai contribuenti l’onere di pagare il 4% sui capitali presi a prestito dallo stato, quando è possibile pagare solo il 3,50%; ed è naturale che si scindano i due fatti del pagamento dell’interesse sul debito pubblico – che deve essere uguale per tutti e conforme all’interesse corrente -; e la opportunità di aiutare le opere pie e gli enti che per una ragione o per l’altra (fra cui la conversione) possono trovarsi a disagio. Potrà magari lo stato, in sede di bilancio del ministero degli interni, provvedere a maggiori assegni per l’assistenza pubblica, quando ciò sia richiesto da doverose esigenze caritatevoli, in conformità alle leggi che regolano la materia. Il sussidio dovrà essere dato caso per caso, a ragione veduta, e non sotto la forma generica di una garanzia perpetua del 4% d’interesse. Nessun capitale in qualunque forma investito si sottrae alla legge naturale della decrescenza del saggio dell’interesse; o perché dovrebbe sottrarvisi il capitale investito in cartelle del debito pubblico?

 

 

III

Parecchi ufficiali ci scrivono manifestando le loro preoccupazioni a proposito della conversione della rendita. Procuriamo di rispondere partitamente ai loro dubbi.

 

 

La conversione è stata giustamente estesa alle rendite possedute dagli ufficiali col vincolo derivante dal matrimonio? Come è noto gli ufficiali, per ottenere il regio assentimento al matrimonio, devono provare di possedere una rendita annua di 4.000 lire, cumulativamente tra lo stipendio al lordo, compresi i sessenni ed una rendita lorda assicurata con vincolo ipotecario a favore della futura sposa e della prole nascitura sul debito pubblico consolidato o sopra beni stabili ovvero assicurata su titoli garantiti dallo stato.

 

 

Il reddito annuo è ridotto a 3.000 lire in certi casi speciali, come per gli ufficiali che abbiano superato i 40 anni di età. Facendo un esempio generale, un ufficiale che abbia un reddito lordo di 2.500 lire, deve dimostrare di possedere inoltre una rendita di 1.500 lire, la quale può essere anche la dote della moglie ecc., investita in stabili, in titoli garantiti dallo stato o in titoli di debito pubblico consolidato. Se quest’ultimo era il caso, la rendita da 1.500 lire in consolidato 5% lordo per il fatto della conversione diminuisce a 1.125 lire dal primo luglio 1907 al primo gennaio 1912 ed a 1050 lire dal primo luglio 1912 in poi.

 

 

Nessun dubbio che la conversione sia stata giustamente estesa anche al caso ora detto. Se lo stato avesse esentato gli ufficiali dalla conversione, avrebbe ad essi garantito, a spese dei contribuenti, un reddito del 4% che non è più consentito dalle condizioni del mercato. La riduzione può essere dolorosa per molte famiglie di ufficiali; ma è anche dolorosa per molte altre modeste famiglie borghesi; né di ciò lo stato poteva preoccuparsi.

 

 

Dicono gli ufficiali: noi siamo nella assoluta impossibilità di chiedere il rimborso della rendita 5% per il vincolo che ce lo impedisce. Perciò troviamo giusto che disposizioni di regolamento od, occorrendo, di legge, agevolino agli ufficiali la trasformazione della loro rendita in beni stabili od in altri titoli garantiti dallo stato. Dubitiamo però, per le cose che andiamo a dire, che molti abbiano a giovarsi della facoltà. Impieghi immobiliari che rendono con tutta sicurezza e senza fastidi più del 3,75 difficilmente si trovano e i titoli garantiti dallo stato rendono quasi tutti di meno.

 

 

La conversione avrà per conseguenza di obbligare gli ufficiali già ammogliati a completare di nuovo la loro rendita sino a 4.000 lire? è questo il timore più forte dei nostri corrispondenti. L’ufficiale che aveva 2.500 lire di stipendio più 1.500 lire di consolidato 5% avrà il primo luglio 1907 solo 2.500 lire di stipendio più lire 1.125 di rendita 3,75% ed al primo luglio 1912 2.500 lire di stipendio più 1.050 lire di rendita 3,50%.

 

 

Gli mancheranno prima 375 lire e poi 450 lire a raggiungere le 4.000 lorde richieste dalla legge. Dovrà egli comprare 375 lire di altra rendita 3,75% per completare le 4.000 lire? Sarebbe per molti impossibile disporre di 10.000 lire, quante occorrono per comprare 375 lire di rendita; donde conseguenze facilmente immaginabili.

 

 

Noi crediamo però che il timore sia infondato. L’articolo 2 della legge 24 dicembre 1896 dice: «Non può ottenere il regio assentimento l’ufficiale che non abbia provato di possedere un reddito annuo di lire 4000, ecc …» Gli ufficiali già ammogliati questa prova l’hanno già data ed hanno già ottenuto il regio assenso al matrimonio. La legge della conversione non può avere l’effetto retroattivo di costringere gli ufficiali a provare una seconda volta l’esistenza del reddito, ed a chiedere, quasi diremmo, un secondo assenso. Una legge di finanza non può distruggere la carriera degli ufficiali, basata su atti validissimi del potere esecutivo.

 

 

La questione si presenta diversamente per gli ufficiali che contrarranno matrimonio in avvenire. Fin adesso bastava, per chi avesse uno stipendio di 2.500 lire, possedere una rendita di 1.500 lire al 5% lordo, ossia un capitale di lire 30.000. Adesso, siccome il nuovo 3,75 è esente da imposte, per avere 1.500 lire di rendita bisognerà possedere 40.000 lire circa di capitale, ed anzi, a partire dal primo luglio 1912, circa 43.000 lire. È un nuovo ostacolo impreveduto posto al matrimonio degli ufficiali. Sarebbe equo si adottasse un qualche temperamento. Poiché la legge del 1896 ammetteva che per arrivare alle 4.000 lire si calcolassero le rendite al lordo dell’imposta di ricchezza mobile, e così si reputava che per avere un reddito di 1.500 lire bastasse una rendita netta di appena 1.200 lire; si calcoli anche ora quale reddito lordo corrisponderebbe a quello netto di lire 3,75 e lire 3,50, se il nuovo consolidato non fosse esente dall’imposta di ricchezza mobile; e si tenga conto dell’ipotetico reddito lordo e non del reddito netto. Se si fa il conto, lire 3,75 nette, coll’imposta al 20%, corrispondono a lire 4,6875 lorde; e lire 3,50 a lire 4,375; cosicché il capitale richiesto verrebbe, per il nostro ufficiale con 2.500 lire di stipendio, ad essere di 34.090 lire subito e 34.300 circa dopo il 1912. Certo è qualcosa di più d’adesso; ma, ripetiamo, in quale maniera sottrarsi alle leggi inesorabili della diminuzione del saggio dell’interesse? L’importante si è di non peggiorare la situazione attuale artificiosamente, richiedendo 1.500 lire nette, mentre ne bastano 1.500 lire lorde; ed il temperamento da noi proposto condurrebbe a richiedere 1.500 lire lorde anche in futuro, calcolate al nuovo saggio di interesse.

 

 

IV.

La conversione a mala pena è compiuta, che già da parecchie parti si avanzano richieste e si affacciano diritti, i quali, ove fossero accolti e riconosciuti validi, ne metterebbero in forse i risultati benefici per lo stato. Dopo le timide parole pronunciate dall’on. Agnini a pro delle opere pie, nella seduta memoranda in cui fu annunciata alla camera la conversione, sono venuti gli ufficiali, i quali si lagnano di non aver avuto libertà di accettare o respingere in tempo la conversione per le doti investite in rendita pubblica; ed alle lagnanze si associano tutte le persone e gli enti che hanno capitali vincolati. Sovratutto cominciano ad agitarsi gli investiti di benefizi parrocchiali e di cappellanie, le fabbricerie, i seminari, i capitoli cattedrali, le mense vescovili, le opere di esercizi spirituali per il clero e tutte le opere di culto in generale. La questione è assai interessante, sia dal punto di vista giuridico, sia per la massa di interessi religiosi e di stato che alla sua soluzione si collega.

 

 

Due sono in sostanza le argomentazioni con le quali si vorrebbe provare che certi enti non debbono sottostare alle conseguenze della conversione. La prima si è che quegli enti o persone non hanno la facoltà di chiedere il rimborso o non hanno potuto quella facoltà esercitare nel breve periodo dei sei giorni accordati dalla legge di conversione. In questo secondo caso debbono essere noverati gli ufficiali, i quali certo non potevano in così breve tempo compiere tutte le formalità legali per mutare l’investimento dei capitali dotali. Nel primo caso – ossia nella impossibilità assoluta di chiedere il rimborso – si trovano i benefizi ecclesiastici, a cui la legge del 7 luglio 1866 ha imposto la conversione dei loro beni ad opera dello stato, in rendita pubblica 5%. Ora, argomentano i loro patroni, è evidente che la offerta di rimborsare il capitale in 100 lire per chi non voglia contentarsi del reddito del 3,75% può essere fatta solo a chi abbia il diritto di accettare il rimborso; ed i titolari dei benefizi ecclesiastici, che quella facoltà non hanno, possono citare in tribunale lo stato a sentirsi condannato al pagamento dell’antica rendita 5% (proposta del marchese Crispolti sull’ «Avvenire d’Italia» e sull’ «Osservatore romano»).

 

 

Noi crediamo che i titolari dei benefizi ecclesiastici non vorranno mettersi allo sbaraglio di una lite mossa allo stato su tanto fragili basi. Chi ha proposto di seguire questa via, ha dimenticato che la conversione del debito pubblico riposa su un principio incontroverso di diritto pubblico finanziario: che lo stato non possa, salvo in casi espressi e per ragioni gravissime, rinunciare al diritto di convertibilità del proprio debito. Può lo stato talvolta rinunciare nel proprio interesse a questo diritto; ma, laddove non vi sia l’espressa eccezione, la facoltà del rimborso è sempre implicitamente ammessa. Altrimenti si verrebbe all’assurdo, che lo stato debba per secoli continuare a pagare un interesse che è superiore al saggio corrente sul mercato, con lesione manifesta della massa dei contribuenti. Ma, si osserva, il diritto dello stato di rimborsare i capitali a coloro che non accettano la conversione, trova un ostacolo nel fatto che vi son persone fisiche o enti morali i quali, neanche se lo volessero, potrebbero chiedere il rimborso dei loro capitali. L’obiezione è forte; ma non si risolve negando il diritto dello stato, sibbene studiando i motivi per i quali è negata ai privati la facoltà di chiedere il rimborso. Se si tratta di ufficiali per le doti o di contabili per le cauzioni prestate in rendita pubblica, non essendovi motivi di indole pubblica che impongano l’impiego in rendita dello stato, e non essendo d’altronde proibita la trasformazione degli investimenti, tutto consiglia – già lo dicemmo altra volta – a facilitare, per coloro che ne mostrino il desiderio, il mutamento dell’impiego dalla rendita in altri titoli od in terre o in case. Di questa facoltà – che già esiste – ben raramente si gioveranno gli interessati; ma giova rendere facile il servirsene, per evitare anche il sospetto che si sia voluto esercitare una coazione. Coloro i quali vorranno giovarsi di questa facoltà, otterranno il rimborso dei loro capitali investiti in rendita nel modo con cui l’ottennero i nove decimi delle persone sensate che non vollero sapere della conversione: vendendo i titoli in borsa.

 

 

Se invece si tratta di enti ecclesiastici, noi ci troviamo di fronte a un tutt’altro ordine d’idee. Lo stato imponendo colla legge del 1866 di soppressione delle corporazioni religiose la trasformazione dei beni di qualunque specie degli enti ecclesiastici conservati in rendita pubblica 5%, ha obbedito ad un concetto economico-sociale, che potrà da taluni essere discusso, ma che forma il principio informatore della nostra legislazione: impedire che si mantenesse la manomorta ecclesiastica, considerata, per parecchi motivi, che qui non mette conto riferire, dannosa al progresso economico. Si volle fare entrare nella circolazione una grande massa di beni che da secoli v’era sottratta; e siccome non si volevano spogliare gli enti ecclesiastici che ne erano proprietari, si indennizzarono con l’iscrizione di una rendita a debito dello stato. Anche questa è una manomorta; ma non produce effetti sociali perniciosi.

 

 

Ecco dunque il succo della questione: da un lato lo stato che non può rinunciare mai al diritto di rimborso del suo debito; dall’altra gli enti ecclesiastici, a cui, per ragioni politico – economiche, la legge impone lo investimento in titoli di debito pubblico soggetti a rimborso e quindi a conversione. A noi pare che qui tutto cospiri alla conclusione che gli enti ecclesiastici non possono sottrarsi alla conversione. È vero che essi non hanno libertà di chiedere il rimborso; ma non l’hanno perché alla loro si è sostituita la volontà della legge, la quale impone una determinata forma d’impiego – rendita pubblica – con tutte le conseguenze che dessa comporta: tributo di ricchezza mobile prima, conversione adesso. La nazione la quale poteva sopprimere senz’altro cotesti enti ecclesiastici, invece li ha conservati, obbligandoli ad una forma d’impiego dei loro capitali, soggetta a tutte le alee dipendenti dall’avversa o prospera situazione delle finanze pubbliche.

 

 

Qui non si fermano però gli oppositori della conversione, i quali soggiungono – secondo capitale argomento -: lo stato ha convertito ad opera sua i beni degli enti ecclesiastici in una rendita 5% uguale alla rendita accertata dei beni di cui esso si è impadronito in virtù della legge del 7 luglio 1866. Ciò che lo stato deve pagare non è l’interesse di un capitale investito in titoli di debito pubblico; è invece una rendita uguale a quella che gli enti possedevano in terre, case, ecc., prima del 1866. Che questa rendita sia stata inscritta sul gran libro del debito pubblico è un accessorio; risalendo all’origine di questa iscrizione si vede che lo stato ha promesso di pagare una somma uguale al reddito dei beni incamerati.

 

 

Anche a non volere notare che i quarant’anni decorsi dal 1866 sembrano sufficienti a togliere valore a questi ricordi storici ed a radicare, nelle iscrizioni di rendita 5% a favore di enti ecclesiastici, la natura di veri e propri titoli di debito pubblico, è ovvio l’osservare, che lo stato iscrisse nel 1866 una rendita 5% perché questo era il tipo di consolidato allora accolto; ma non pretese certo e non poteva pretendere di assicurare in perpetuo una rendita immutabile ai nuovi suoi creditori. La immutabilità del reddito non c’era quando i patrimoni degli enti ecclesiastici erano investiti in terreni, o in case, o in mutui; o perché mai sarebbe stata acquisita dopo per il solo fatto dell’investimento obbligatorio in rendita pubblica? Una legge, come quella del 1866, che non era certo di favore per quegli enti, si convertirebbe adesso in una legge di singolare privilegio, il che non è ammissibile. Gli investiti di benefizi ecclesiastici si lagnino – lagnanza oramai inutile – della legge del 1866; ma non di quella del 1906, che ne è la conseguenza implicita.

 

 

In fondo a tutta questa agitazione contro gli effetti della conversione sta un sentimento naturale, del quale però non spetta né a noi, né allo stato di farsi i sollecitatori: il sentimento di disagio in che si vengono a trovare i piccoli e medi redditi per fatto della conversione. I privati reagiscono contro la diminuzione del reddito, intensificando il loro lavoro, e cercando impieghi più produttivi del capitale. Gli investiti di benefizi ecclesiastici non possono fare altrettanto. Il Crispolti narra che la media dotazione dei canonici è di 600-650 lire e discende talvolta a 100 e persino 50 lire annue. Non è una situazione allegra codesta sicuramente; ma è da reputare che anche qui dal male nascerà il bene. Non sarà la conversione una spinta – la quale andrebbe secondata dal governo – affinché la Santa sede a poco a poco riduca il numero dei benefizi ecclesiastici e – facendo così agli investiti una situazione più decorosa – promuova l’elevazione materiale ed intellettuale del clero in Italia?

 

 

V.

L’Italia si trova in questo momento in un imbarazzo che di solito affligge soltanto i gran signori: cosa deve fare dei 20 milioni che la conversione della rendita frutterà l’anno venturo e dei 40 che darà tra cinque anni? Purtroppo però l’Italia non è nella medesima situazione di un gran signore che si trova imbarazzato nella scelta tra diversi capricci e divertimenti; ma piuttosto in quella di un lavoratore, ancora affaticato dal soverchio lavoro, il quale non sa se debba dedicare una sua maggiore attuale ampiezza di reddito a diminuire alquanto le ore eccessive di sua fatica od a cibarsi e vestirsi un po’ meglio, Attorno all’Italia stanno quindi molti consiglieri e medici; e tutti le consigliano un rimedio diverso. Procuriamo di riassumere questi consigli in un rapido quadro, prima di far la scelta.

 

 

I servizi pubblici in Italia sono insufficientemente dotati; e non rendono quanto i cittadini legittimamente debbono aspettarsi dai loro sacrifici finanziari.

 

 

Mentre la vita dello stato è vigorosa – scriveva qualche giorno fa la «Tribuna» – mentre la vita della nazione è in un periodo di magnifico rigoglio, gli organi primi, gli organi essenziali e fondamentali di questa vita sono in una condizione di assoluta anemia. Nessun ramo dei pubblici servizi va eccettuato: impianti ferroviari, materiale rotabile; strade ordinarie, porti, canali, bonifiche; materiale, locali e personale per le poste, i telegrafi, i telefoni; aule per la giustizia; edifizi e sovvenzioni per le scuole… insomma non vi è un solo dei servizi pubblici adeguato ai bisogni del paese. Questo lavora, produce, si muove e si agita; ma ad ogni passo si sente inceppato, paralizzato, asfissiato dall’insufficienza dei suoi apparati motori e respiratori.

 

 

Osservazioni in gran parte giuste; ma che non conducono ancora alla conseguenza che nel migliorare tutte queste cose debbano impiegarsi i milioni della conversione. O si parla invero di deficienze nelle industrie di carattere pubblico esercitate dallo stato: ferrovie, poste, telegrafi e telefoni; ed il servizio stesso deve provvedere ai propri bisogni. Se ai dirigenti le ferrovie di stato, ad esempio, si concede di provvedere normalmente – salvo i bisogni straordinari del momento a cui si è provveduto e si provvede con mezzi straordinari – all’incremento dei servizi con prestiti in obbligazioni ammortizzabili e garantite sull’aumento dei prodotti, è da credere che quei dirigenti si debbano dimostrare contenti. Lo stesso per i telegrafi, telefoni, ecc. Nelle industrie riproduttive, l’aumento annuo dei prodotti è sufficiente a permettere, come in ogni industria privata, le spese in conto capitale e in conto esercizio che valgono a stimolare ulteriormente i traffici. Occorrono, s’intende, buona direzione, ed audacia previdente.

 

 

Ai fondi del tesoro è necessario ricorrere solo per i servizi pubblici che non sono riproduttivi finanziariamente: esercito, marina, giustizia, scuole, bonifiche, strade, ecc. ecc. Anche per questi servizi va fatta però una fondamentale distinzione tra il significato che la opinione pubblica dà alla frase «miglioramento dei pubblici servizi» e il significato corrente in una certa sfera dell’amministrazione. L’opinione pubblica desidera che i servizi pubblici siano meglio organizzati, ottengano il massimo risultato col minimo di spesa. Ad essa non importa tanto, ad esempio, che i marinai siano 25 o 26.000, quanto che essi siano bene addestrati, ben disciplinati, al comando di ottimi ufficiali, imbarcati su navi potenti e perfette. Per molti appartenenti alla burocrazia, il miglioramento dei pubblici servizi vuol dire invece semplicemente: «aumento del numero e dello stipendio degli impiegati». Quando i due scopi sono raggiunti, e sono per la burocrazia inscindibili – perché l’aumento del numero serve a crescere i posti meglio retribuiti e l’aumento degli stipendi innalza il livello della classe intera – il miglioramento dei servizi è cosa fatta e non v’è più da occuparsi d’altro. Chi si occupa più della riforma della scuola media oggi che i professori hanno ottenuto i desiderati aumenti di stipendio? Una commissione reale, la quale studia e studierà per molti anni ancora, con relative medaglie di presenza.

 

 

Ad impiegare nel miglioramento dei servizi pubblici inteso in questo secondo modo – aumento del numero e dello stipendio degli impiegati – i proventi della conversione, noi crediamo che ci si debba opporre risolutamente. A soddisfare gli appetiti dei reclamanti, non basterebbero né 20, né 40, né 100 milioni, e dopo averli spesi, non si sarebbe ottenuto alcun risultato tangibile. Il miglioramento dei pubblici servizi non deve essere disposto per gli impiegati ma per il pubblico; e solo in quanto il pubblico possa esser meglio servito, si debbono migliorare le sorti degli impiegati.

 

 

Sorge una domanda: il miglioramento intrinseco e sostanziale dei pubblici servizi richiede sempre un aumento di spesa? O non si dovrà cominciare a spendere meglio la somma che si spende adesso, salvo ad aumentare gli stanziamenti quando essi si dimostrino assolutamente insufficienti? Chi deve essere giudice della spesa: la burocrazia, il cui giudizio spesso è viziato, od i politici? Poniamo le domande, senza per ora risolverle.

 

 

Vi sono altri i quali dicono: la cosa più urgente nel momento odierno non è di spendere i milioni della conversione; ma di non tirarli più fuori dalle tasche dei contribuenti, dove darebbero molto maggior frutto che nelle casse dello stato. Non dimentichiamo che il vero eroe della conversione è il contribuente italiano, il quale per quarant’anni ha seguitato a pagare senza lamentarsi alte imposte, che non hanno riscontro in nessun paese del mondo. Al contribuente da anni ed anni si andava dicendo che non era possibile concedere alcuna sensibile diminuzione d’imposte per non compromettere la solidità del bilancio e con essa la conversione della rendita; ed ora che questa è un fatto compiuto, quei milioni, che sono suoi, indubbiamente suoi, perché egli li ha versati nelle casse dello stato, si vorrebbero togliere al contribuente, per darli a Tizio ed a Caio col pretesto dell’aumento dei servizi pubblici? Un così inaudito mancamento alla parola data sarebbe incomportabile e dovrebbe provocare una viva reazione nel paese. Si aggiunga che l’Italia ha progredito assai negli ultimi anni; ma a guisa di uomo che salga un’erta ripida colla schiena ricurva sotto un pesantissimo fardello. Diminuite l’onere tributario che grava sulle spalle del lavoratore, dell’industriale italiano; e voi lo vedrete guadagnare la cima dell’erta in tempo e con fatica assai minore.

 

 

Questo dicono i fautori degli sgravi tributari ed hanno ragione. Senonché essi si dividono subito nella scelta dei tributi da diminuire. Alcuni – la vecchia guardia memore delle battaglie fervide di un giorno – preferisce ridurre il prezzo del sale. Altri osserva che la diminuzione di 10 centesimi sul sale assorbirebbe quasi tutto il vantaggio attuale della conversione e riuscirebbe quasi indifferente ai consumatori; ed addita il petrolio, il cui tributo opportunamente dovrebbe ridursi alla metà o ad un quarto con immenso vantaggio dei consumatori poveri e dell’industria. Vi sono poi i fautori della riduzione del dazio sul grano, dei tributi sullo zucchero; mentre altri ancora vorrebbero condonar qualcosa su tutti i principali consumi. Gioverà discutere partitamente le proposte; ma fin d’ora sembra opportuno stabilire un caposaldo: che gli sgravi non debbano essere fine a se stessi, e debbano possibilmente giovare ad una espansione notevole dei consumi che risarcisca la finanza della perdita del reddito e dimostri come gli sgravi abbiano avuto la virtù di recare un vero beneficio all’industria ed ai consumatori. L’aumento dei consumi, provocando un aumento delle entrate erariali, creerà in cinque anni, ad esempio, una nuova disponibilità di bilancio che unita agli altri 20 milioni della conversione permetterà nuovi e maggiori riduzioni di tributi. Non bisogna mai dimenticare che noi non solo paghiamo troppo, ma paghiamo male in modo che ci è impedito ogni movimento. Bisogna scegliere sgravi che non solo ci permettano di pagar meno, ma insieme ci consentano di consumar di più e di sviluppare energie che oggi sono latenti per l’eccessiva pressione tributaria.

 

 

L’ultima schiera è composta di coloro che vogliono giovarsi della conversione per compiere quella che essi chiamano una «traslazione» di tributi. Ridurre le imposte sui consumi non giova, dicono costoro, se non si cambia l’ordinamento attuale tributario, se la massa dei tributi seguiterà, anche dopo gli sgravi, a colpire le masse lavoratrici a preferenza dei ricchi.

 

 

Inspiriamoci all’esempio dell’Inghilterra che nel 1842, ad opera del Peel, ha foggiato la grande arma dell’imposta sul reddito (income tax), per avere i mezzi di colmare gli eventuali disavanzi di bilancio derivanti da una coraggiosa riforma nei tributi sui consumi. Senza un’imposta progressiva sui redditi che assicuri i finanzieri contro il ritorno dei disavanzi, noi seguiteremo a lasciar sussistere le attuali ingiustizie tributarie e faremo delle riforme piccole e monche. Un’annata cattiva e la nostra opera sarà interrotta. Niente di bene si può sperare finché sussiste l’attuale intrico di imposte e sovrimposte miste fra stato, provincie e comuni, finché l’Italia sarà divisa da cento barriere daziarie ostili allo sviluppo dei traffici, finché non si comincerà a dare coraggiosi colpi di scure nella selva selvaggia tributaria che ci affligge. Il Majorana aveva l’anno scorso proposto un’imposta generale progressiva sul reddito a favore dei comuni; bisogna riprendere il concetto, e, rendendo quell’imposta di stato, poggiarvi sopra tutto un piano di trasformazione radicale, se bene graduale, che dia libertà ai bilanci comunali, elasticità al bilancio dello stato e mezzi adatti a compiere una politica di sgravi in grande.

 

 

Questo dicono i fautori di una riforma tributaria inspirata a criteri di radicale trasformazione dei nostri ordinamenti finanziari. I venti milioni della conversione dovrebbero dare ai nostri finanzieri il coraggio di compiere quella grande riforma che Peel fece in Inghilterra nel 1842, che Scialoia vagheggiò in Italia nel 1866, che i radicali francesi al governo si apprestano ad attuare oggi coll’imposta sul reddito.

 

 

Altri – più modesti – si contentano di attirare l’attenzione degli uomini di stato sugli innegabili e non mai abbastanza lamentati difetti delle nostre leggi in materia di imposte dirette e di tasse sugli affari. Non sono soltanto i tributi sui consumi che comprimono lo smercio ed arrestano lo slancio delle industrie. Vi sono le tasse sugli affari, che un maI genio ha in Italia congegnato in modo da creare inciampi a tutti coloro che hanno un po’ di iniziativa, da impedire che gli affari si facciano, i traffici si avviino, le industrie sorgano. Vi è l’imposta sui fabbricati, che par costrutta in modo da ostacolare l’aumento delle case operaie; vi è l’imposta di ricchezza mobile, il cui intento precipuo sembra essere quello di impedire che si creino società anonime ed in accomandita per azioni, mettendo a tortura l’ingegno dei loro amministratori, che andrebbe molto più utilmente spiegato in altra maniera. Perché non si avrebbe adesso il coraggio di compiere alcune riforme, in apparenza piccole, e che senza recar in definitiva danno alle finanze, riuscirebbero utilissime per adattare questi congegni tributari alle nuove necessità economiche? Le imposte dirette e sugli affari gravano, è vero, le classi capitalistiche; ma un buono loro assetto gioverebbe moltissimo alle classi operaie; chi può infatti immaginare la massa di lavoro che potrebbe crearsi quando quelle imposte non impedissero l’impiego più adatto dei capitali? Anche queste domande sono la eco di bisogni profondamente sentiti e meritano perciò attento esame.

 

 


[1] Con il titolo Le modalità della conversione. [ndr]

[2] Con il titolo La conversione della rendita e gli ufficiali. [ndr]

[3] Con il titolo Gli enti ecclesiastici e la conversione. [ndr]

[4] Con il titolo Le vie da seguire. [ndr]

[5] De Johannis, La conversione della rendita, Firenze 1904.

Le nuove convenzioni marittime

Le nuove convenzioni marittime

«Corriere della Sera», 14[1], 15[2] e 21[3] maggio, 9[4] e 26[5] giugno 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 346-376

 

 

I

Il problema delle nuove convenzioni marittime, colla presentazione del disegno di legge al parlamento, è entrato nella sua fase risolutiva, sicché importa oramai discuterlo serenamente ed affrontarlo in tutta la sua interezza. Un qualche risveglio dell’opinione pubblica si è già avuto, dopoché fu resa nota la relazione della commissione reale per i servizi marittimi, relazione che forse tardò troppo ad essere condotta a termine, ma in compenso apprestò larga messe di dati agli interessati ed al governo. Il consiglio superiore della marina mercantile discusse nelle sue ultime tornate il problema e furono ad esso presentate alcune pregevoli relazioni dell’ing. Capuccio e del prof. Supino. Finalmente il senatore Piaggio, il quale già altra volta si era occupato dell’argomento, insistendo sulla necessità di non perdere tempo, vi è tornato sopra in un recente scritto su Lo Stato e le convenzioni marittime.

 

 

Riassumiamo dapprima i precedenti della quistione. Per procedere diritti verso una meta sicura nell’avvenire, è necessario sapere donde si sieno prese le mosse nel passato e quale sia stata l’azione del governo e l’opera dei privati nell’industria alla quale si vuole dare nuovo impulso.

 

 

Che la marina mercantile italiana dal 1870 si dibatta in condizioni non buone, è cosa risaputa. In quell’anno la nostra flotta mercantile teneva il quinto posto tra le marine del mondo per il tonnellaggio complessivo e non era preceduta che dall’Inghilterra, dagli Stati uniti, dalla Norvegia e dalla Francia. Con questi ultimi due paesi non vi era che un leggero distacco. Ma già sin d’allora la nostra marina cominciava ad essere rosa dal male che doveva in breve ora trarla a quasi compiuta rovina. Appena una trentesima parte del tonnellaggio italiano era rappresentata da piroscafi mentre la proporzione delle navi a vapore rispetto alle navi a vela era del decimo in Germania, del settimo negli Stati uniti, del sesto nella Francia e nell’Austria-Ungheria, del quinto nell’Inghilterra. Mentre tutti gli altri paesi compievano una rapida trasformazione tecnica verso le navi a vapore, l’Italia si ostinava a tenersi attaccata alla navigazione a vela, e rimaneva stazionaria quando tutte le altre nazioni progredivano. La decadenza non poteva tardare. Gli 88 cantieri del 1870 si riducono nel 1880 a 48; il nuovo tonnellaggio costruito da 90.693 a 14.526 tonnellate; il numero delle navi costruite da 724 a 263; ed il valore da 25 a 4 milioni di lire. Né alla mancanza delle costruzioni all’interno suppliva la compra di navi all’estero; sicché eravamo discesi al settimo posto fra i paesi del mondo.

 

 

Una commissione d’inchiesta, presieduta dall’on. Boselli, mise in chiaro le cause del male e propose di aumentare le sovvenzioni e di concedere compensi di costruzione e premi di navigazione; ciò che fu fatto con legge del 1885. Lo stato italiano si indusse a spendere dal 1886 al 1896 circa 150 milioni di lire in sovvenzioni e premi; grave sacrificio che sarebbe stato sopportato di buon animo se vi avessero corrisposto i risultati. Invece il tonnellaggio complessivo del nostro naviglio scendeva da 999.196 tonnellate nel 1880 ad 820.716 nel 1890 ed a 765.000 nel 1896; il numero dei piroscafi era appena di 351 per 237.727 tonnellate; e nel movimento complessivo internazionale dei porti italiani le nostre navi, che nel 1880 rappresentavano ancora il 34,8%, erano precipitate al 24,1%.

 

 

La legge del 1885 era dunque riuscita inefficace e, nonché eccitare le energie nazionali, aveva forse contribuito a sopirle. Invece di mutar strada, governo e parlamento credettero che la marina nostra abbisognasse di aiuti ancora maggiori; e con la legge del 1896 si aumentarono assai premi e compensi di costruzione e di navigazione. Questa volta i risultati furono superiori alle speranze concepite, ed anzi tali da incutere timore non piccolo per la solidità del bilancio. Le costruzioni impostate sui cantieri si moltiplicarono per guisa che il sacrificio dello stato pareva dovesse salire in breve ora a parecchie decine di milioni all’anno in soli compensi e premi; e che sotto una spinta così disordinata l’industria delle costruzioni dovesse alla perfine ridursi ad una acuta crisi di sovraproduzione. Una nuova legge del 1901 ridusse ed in parte soppresse i premi e compensi concessi alle navi denunciate dopo il 30 settembre 1899.

 

 

Tra tanto fare e disfare la marina mercantile italiana libera negli ultimi anni sembra avere acquistato novello slancio più per virtù propria che per impulso di leggi. Nel 1904 i cantieri erano di nuovo cresciuti a 35 con una potenzialità di produzione annua di 800.000 tonnellate e produssero effettivamente nel 1905 più di 60.000 tonnellate nette. Specialmente sotto l’impulso del cresciuto movimento migratorio, un felice risveglio si è manifestato negli ultimi anni nell’industria delle costruzioni e della navigazione; ed al 31 dicembre 1904 il tonnellaggio complessivo delle navi con bandiera italiana ammontava a 1.032.614.

 

 

Si tratta però ancora di un movimento iniziale. Più di metà del tonnellaggio complessivo del nostro naviglio è costituito ancora da velieri, di cui due terzi hanno lo scafo in legno. I piroscafi di bandiera italiana rappresentano per tonnellaggio lordo il 2,5% del naviglio mondiale, mentre l’Inghilterra ha la percentuale del 51,7; la Germania del 10,1, gli Stati uniti dell’8,6, la Francia del 4,4, la Norvegia del 3,6. L’Italia non ha nessuna unità nautica di stazza lorda superiore a 7000 tonnellate; e nessuno dei suoi transatlantici supera le 15 miglia di velocità. L’età media del materiale a vapore è salita da 14 anni nel 1892 a 16 anni nel 1904 ossia noi lo abbiamo lasciato invecchiare, mentre altri paesi, specialmente la Germania, l’Olanda, l’Austria-Ungheria, la Russia, l’Inghilterra lo ringiovanirono. Solo per la velocità media e per il tonnellaggio medio noi abbiamo ragione di confortarci; ma nel complesso il progresso compiuto dalla nostra marina è stato inferiore a quello compiutosi in Germania, Stati uniti, Norvegia, Giappone, Russia ed Austria-Ungheria.

 

 

Già abbiamo accennato alle leggi con le quali lo stato italiano è venuto in aiuto alla sua marina mercantile. Sarà opportuno dichiarare più largamente quali siano le maniere diverse che fin, qui furono usate per siffatto intento. Il protezionismo marittimo può difatti prendere forme svariate, i cui effetti possono essere anch’essi diversissimi. In Inghilterra alla marina si danno soltanto sovvenzioni per i servizi postali e sovvenzioni militari per le navi, che in tempo di guerra possono trasformarsi in navi ausiliarie. Sono circa 26 milioni di lire che il tesoro inglese spende; ma sono tutti dati come compenso sia pure larghissimo di un servizio pubblico. La Germania aiuta la marina in parecchi modi: esentando il materiale delle costruzioni navali dai dazi doganali, concedendo tariffe ridottissime per il trasporto dei carboni, degli acciai, ecc., dall’interno ai cantieri, stabilendo tariffe combinate ferroviarie-marittime che favoriscono le spedizioni di merci per mare; e dando infine 11 milioni di lire di sovvenzioni a certe linee postali. L’Austria-Ungheria oltre a sovvenzionare la marina per i servizi postali e commerciali con circa milioni di lire concede premi di costruzione e di navigazione. Così pure fanno il Giappone e specialmente la Francia, la quale paga più di 26 milioni di sovvenzioni per servizi postali e militari e 25 milioni all’anno in premi di costruzione e di navigazione ed in compensi di armamento.

 

 

L’Italia ha seguito quest’ultima via che si potrebbe dir mista e noi, che non siamo certi ricchi signori abbiamo preferito imitare la Francia piuttostoché la Germania e l’Inghilterra; e ci siamo inspirati piuttosto all’esempio di una nazione, la cui marina mercantile è stazionaria che non a quello dei paesi i quali si trovano a capo del movimento marittimo mondiale.

 

 

L’Italia spende infatti adesso 12 milioni di lire all’anno in sovvenzioni per i servizi postali (380 milioni di lire in cifra tonda dal 1860 al giugno 1905), per i quattro quinti pagati alla Navigazione generale italiana. Che a questo non indifferente onere annuo abbiamo finora corrisposto adeguati vantaggi commerciali, nessuno oserebbe dire. La flotta sovvenzionata per i servizi postali si compone di materiale per lo più vecchio e scadente, tale in certi casi da non poter decorosamente tenere il mare. Le linee sono stabilite in maniera disadatta ai bisogni del commercio; senza alcun concetto organico; quasi per sovrapposizione operatasi a caso sotto la spinta degli interessi più influenti. Di fronte alla principale, quasi l’unica, compagnia sovvenzionata la quale gode di un vero monopolio, lo stato si trova disarmato rispetto alle tariffe, alla bontà e velocità dei trasporti, alla tutela dei grandi interessi economici nazionali. Nessun limite di età e’ stabilito per le navi che fanno il servizio postale, cosicché tengono il mare bastimenti costruiti più di 40 anni fa, i quali fanno concorrenza alle locomotive sgangherate di taluni nostri depositi ferroviari. Le compagnie sovvenzionate pur troppo hanno per lungo tempo preferito di addormentarsi sui facili dividendi garantiti dai milioni delle sovvenzioni governative; e se sembrano essersi svegliate recentemente dal lungo torpore, vi ha contribuito sovratutto il timore delle nuove convenzioni che debbono in quest’anno essere stipulate.

 

 

Né vantaggi maggiori ha l’Italia ricavato dagli 8 milioni che l’erario spende nella seconda maniera di aiuto alla marina mercantile, ossia nei compensi di costruzione per le navi costrutte nei cantieri italiani e nei premi di navigazione alle navi costrutte in Italia e dichiarate prima del 30 settembre 1899. Questi compensi, per spingere realmente a costruire ed a far navigare navi italiane, avrebbero dovuto essere stabiliti in conformità della legge del 1896; ma allora avrebbero messo in pericolo le sorti del bilancio; e noi ci saremmo avviati alle condizioni, punto invidiabili, della Francia, ove la marina nazionale naviga per pescar premi anziché pesci, e dove si son costruiti numerosi velieri, argutamente chiamati «cueilleurs de primes», i quali soventi fanno il viaggio fra la Francia ed i porti americani del Pacifico in zavorra, nell’unico intento di lucrare i premi stabiliti dalle leggi. Inefficaci se miti, pericolosi se forti, i premi non hanno soddisfatto mai né i costruttori, né gli armatori e tanto meno il commercio sano e fecondo.

 

 

Questa, che abbiamo tratteggiata brevemente, è la situazione del problema marittimo oggi che il parlamento è chiamato a discuterlo. Una marina mercantile, che cominciò negli ultimi anni a svilupparsi alquanto, ma si trova in uno stato di decadenza di fronte all’epoca della marina a vela, e di inferiorità rispetto alle marine estere. Una protezione che costa allo stato circa 20 milioni di lire all’anno, per averne in cambio servizi postali disorganizzati, monchi, condotti con navi vecchie, lente e con tariffe alte e non confacenti ai bisogni del commercio.

 

 

Conviene mutar strada? La commissione reale, relatore l’on. Pantano, dice risolutamente di sì; alcuni membri del consiglio superiore della marina mercantile, come il Capuccio, inclinano piuttosto a conservare l’indirizzo presente, migliorandolo alquanto. Il governo accetta in parte le vedute della commissione reale; e chiede sul resto una proroga, la quale potrebbe essere dannosissima.

 

 

II.

Una marina mercantile scarsa, decaduta dalla antica prosperità del tempo della navigazione a vela, e, malgrado il risveglio delle attività marinare negli ultimissimi anni, ancora troppo inferiore alle marine estere; ed un sacrificio ingente di 380 milioni in sovvenzioni e di 100 milioni in premi e compensi sopportato dallo stato; ecco i risultati di un quarantennio (1862-1905), di legiferazione mancante di vedute larghe ed organiche, varia per intenti e saltuaria per mezzi. Importa quindi scegliere adesso altra via, la quale possa indirizzare efficacemente la marina mercantile ad alta meta. E poiché, di tutte le forme di aiuto dello stato, l’aiuto concesso in premi di navigazione e compensi di costruzione si è dimostrato il più inefficace ed anzi pericoloso, come quello che spinge le navi a far viaggi non economici nel solo intento di lucrare i premi, e induce a mettere navi in cantiere, anche quando non sono richieste dal mercato, allo scopo di guadagnare i compensi di stato; così la commissione propone di abbandonare in tutto il sistema dei premi; e con gli otto milioni risparmiati in tal guisa, uniti ai 12 delle sovvenzioni marittime provvedere ad un’opera complessa, la quale possa veramente riuscire feconda. Quale sia quest’opera complessa si dirà brevemente.

 

 

Parità di condizioni nella lotta fra cantieri nazionali ed esteri.

 

 

La principalissima causa di inferiorità dei cantieri italiani di fronte a quelli esteri è il costo alto dei materiali, rincarati notevolmente a causa del forte dazio di protezione sui metalli. Per proteggere la industria della siderurgia si colpiscono di dazi i materiali metallici navali, salvo per un terzo, per cui è concessa l’introduzione in franchigia: quindi per indennizzare i cantieri della maggior spesa dovuta al dazio sui due terzi che ne son colpiti, lo stato rimborsa loro 35 lire per tonnellata di registro. La conclusione si è che lo stato paga ai cantieri 35 lire per tonnellata, affinché essi possano pagare ai siderurgici i materiali a prezzo più alto di quel che converrebbe pagare all’estero. A questa causa di inferiorità si aggiungono il costo maggiore del carbone, le più alte imposte, l’interesse maggiore dei capitali, le spese generali minori, ecc. ecc.; elementi che le leggi vigenti valutano in altre 40 lire per tonnellata, che lo stato dà ai cantieri come compenso di costruzione.

 

 

La commissione ha reputato che il sistema non potesse più essere seguito. La siderurgia nazionale è giunta oramai a tale grado di floridezza che può bene consentire una diminuzione del protezionismo di che essa gode; e siccome i cantieri assorbono un quinto della produzione attuale della industria siderurgica, così l’abolizione integrale dei dazi sui materiali metallici delle costruzioni navali, mentre non ruinerebbe affatto la industria siderurgica – la quale rimarrebbe protetta per gli altri quattro quinti della sua produzione -, metterebbe i cantieri in grado di combattere sotto il rispetto dei dazi ad armi pari coi cantieri esteri. Quanto agli altri elementi di inferiorità, alcuni di essi sono discutibili nella loro misura, come il costo dei capitali e gli oneri fiscali ed è più che probabile siano inferiori – e non di poco – alle 40 lire per tonnellata pretese dai costruttori; e siano in parte compensati dal minor costo della mano d’opera e di altri fattori di costo. La commissione propone, ispirandosi alle tendenze recentissime della legislazione fiscale, di diminuire le tasse sui contratti di costruzione navale e sulle quietanze, di ridurre notevolmente l’imposta di ricchezza mobile, di concedere riduzioni di tariffe per i trasporti ferroviari del materiale metallico, di obbligare le compagnie concessionarie dei servizi sovvenzionati a far costrurre in Italia le loro navi, purché il prezzo offerto dai cantieri nazionali non superi di più del 5% il prezzo offerto dai cantieri esteri.

 

 

A queste proposte crediamo dover consentire, sovratutto a quelle fiscali. Molto preferibile ci sembra ridurre le imposte che impediscono alle industrie di svilupparsi, piuttosto che estorcere tributi gravosi ed essere obbligati poi a restituirli sotto forma di compensi di costruzione. Il sacrificio sarà tanto più sopportabile per lo stato, in quanto la più mite tassazione creerà nuova materia imponibile, che non sarebbe esistita altrimenti. Che se poi malgrado la assoluta franchigia daziaria, le imposte diminuite, i trasporti a buon mercato e la preferenza fino al 5% del prezzo nelle ordinazioni, i cantieri italiani pretenderanno ancora di non poter vivere, non resterà altro da fare. Se un’industria, malgrado facilitazioni notevoli e malgrado la lunga protezione goduta finora non riesce a vivere bene, è davvero un grande interesse nazionale proteggerla ancora? Non crediamo che i cantieri abbiano a rimanere deserti: ché anzi saranno posti in grado di poter liberamente progredire, senza impacci daziari e fiscali, a norma della effettiva richiesta del mercato.

 

 

Credito navale.

 

 

Questa è la più discussa e la più discutibile delle proposte fatte dalla commissione. A rimediare alla inferiorità degli armatori sul mercato dei capitali, si propone di fondare un istituto autonomo di stato, con un capitale iniziale non inferiore a 5 milioni aumentabile sino a 50 milioni di lire in azioni da 5000 lire ciascuna, assunte da istituti di credito, società di assicurazioni, casse di risparmio e tesoro dello stato. L’istituto potrebbe emettere cartelle per un ammontare 20 volte superiore al capitale, simili alle cartelle fondiarie e garantite sulle navi degli armatori mutuanti. I prestiti agli armatori sarebbero concessi sino al 50% del valore per la marina libera, del 75% per le linee di emigrazione, del 90% per le linee postali e commerciali sovvenzionate, e dell’intiero valore per i servizi postali fra il continente, la Sicilia e la Sardegna, che fossero disimpegnati dall’azienda ferroviaria di stato. Gli armatori pagherebbero a rate trimestrali quote comprendenti l’ammortamento, il rimborso delle imposte e tasse, una commissione non superiore al 0,50% e le spese di assicurazione della nave contro qualsiasi specie di rischio. A garanzia dei prestiti l’istituto, finché resti creditore, sarà considerato proprietario della nave e il mutuatario noleggiatore, in modo che questi non la possa vendere, né pignorare, né ipotecare, se non dopo estinto il debito e che l’istituto, in caso di mancato pagamento, possa provvedere, senza impacciose formalità, alla salvaguardia dei suoi diritti. A rendere meno oneroso agli armatori il ricorso al credito navale, lo stato concorrerà, sempre quando si tratti di crediti garantiti per navi destinate a servizi postali o commerciali sovvenzionati, nel pagamento delle somme dovute dai mutuatari per interessi, tasse ed assicurazioni in una misura variabile dall’1%, per le navi di stazza minore e meno veloci, al 5,50%, per le navi di velocità e tonnellaggio massimi.

 

 

Molte furono le critiche mosse a questo progetto. Il prof. Supino, in una relazione al consiglio superiore della marina mercantile, notò che l’obbligo imposto agli armatori di assicurarsi contro qualsiasi specie di rischio, mentre ora si assicurano soltanto contro i quattro rischi principali dell’incendio, investimento, abbordaggio e naufragio, importerà un onere del 2-2,5% che eliderà in tutto o in buona parte il vantaggio del credito navale. Gravissima la norma per cui l’istituto rimarrebbe proprietario delle navi fino all’estinzione del prestito, anche quando le quote da pagare siano poche. Fastidiose le formalità diverse richieste per ottenere credito; ed ingombrante tutta la istituzione della quale nel momento presente non è affatto sentito il bisogno. Gli istituti di credito ordinario riusciranno a muovere spesso concorrenza vittoriosa all’istituto di stato, e lasceranno a lui solo gli affari cattivi e gli armatori deboli e poco meritevoli di credito.

 

 

Qui davvero sembra che le critiche siano fondate. Al credito di stato si deve ricorrere solo in casi estremi, quando l’iniziativa privata non soccorra in nessuna maniera. L’industria marinara è davvero ridotta allo stremo di non poter trovare capitali e credito se non dallo stato? Recenti aumenti di capitali in intraprese di navigazioni confortano nell’assunto contrario. Meglio sarebbe con riforme di taluni istituti giuridici antiquati agevolare il credito ordinario alle navi. Il proposito di facilitare il sorgere di molti armatori privati e compagnie piccole col mezzo del credito navale, ci sembra un anacronismo. L’avvenire nell’industria marinara è delle grandi intraprese capitalistiche; ed a queste il credito non mancherà mai.

 

 

Sovvenzioni per i servizi postali e commerciali.

 

 

La brevità dello spazio non ci consente di esporre per disteso le modificazioni che la commissione ha proposto per le linee da sovvenzionare. Laddove ora per i servizi sovvenzionati si noverano 98 piroscafi di un tonnellaggio netto di tonnellate 67.290 per cui si ha una media per piroscafi di tonnellate 687, con un massimo di tonnellate 2.500; le proposte della commissione porterebbero ad un naviglio di 127 piroscafi, del tonnellaggio lordo di tonnellate 396.470, per cui si ha una media di tonnellate lorde 3.122 (2000 nette), con un massimo di 10.800 lordo, pari a 6500 netto. Mentre i 98 piroscafi attuali hanno una velocità prescritta di 997 miglia, ossia in media di 10 miglia all’ora; i 127 piroscafi proposti avrebbero una velocità complessiva di 1.559 miglia e media di 12,3. La massima velocità sarebbe data da 4 piroscafi a 20 miglia e la minima da 45 piroscafi a 10 miglia. Riguardo alla spesa, attualmente per una percorrenza annua di miglia 2.845.816 si spendono lire 12.066.925 con una media per miglio di lire 4,24; in futuro per una percorrenza di 5.038.698 miglia si avrebbe la spesa massima di lire 13.288.500 compreso il concorso dello stato nel pagamento degli interessi dovuti al credito navale, con una media per miglio di lire 2,63.

 

 

Al miglioramento nelle percorrenze, si aggiunge un migliore ordinamento dei servizi sovvenzionati divisi in gruppi di linee vicine in guisa che possano aspirare alla concessione parecchie compagnie, e i servizi sovvenzionati non divengano, come ora, il monopolio di una sola società. Anzi per le linee fra il continente, la Sicilia e la Sardegna la commissione proponeva l’esercizio di stato affidato all’azienda ferroviaria di cui le linee stesse sono da considerarsi come un prolungamento.

 

 

Inspirandosi all’esempio luminoso della Germania i nuovi capitolati dovrebbero imporre ai concessionari delle linee sovvenzionate norme precise riguardo ai noli ed alle tariffe. Stabilite tariffe differenziali per i passeggeri e le merci, con massimi minori degli attuali di circa il 50%, regolato con tariffe uniformi di 1 lira fino a 60 kg, di 2 lire fino a 120 kg, il trasporto dei piccoli colli nel regno, e con tariffe altrettanto miti per l’estero; fermo il fecondo principio che sia obbligatorio determinare tariffe cumulative ferroviarie-marittime in guisa che un emigrante possa in una qualunque stazione del regno acquistare un biglietto diretto ed un industriale spedire merci direttamente ad un qualunque porto estero ed anche per una qualunque stazione dell’interno di una nazione estera, con una notevole riduzione sui prezzi dei biglietti separati e con risparmio di commissioni intermediarie; dichiarata chiaramente la responsabilità dei vettori in conseguenza delle polizze di carico rispetto agli imbarchi e sbarchi; determinata in 20 anni la durata delle convenzioni; stabilite le condizioni alle quali in tempo di guerra le navi più veloci della marina mercantile potranno essere aggregate come navi ausiliarie alla marina da guerra; riorganizzato il servizio dell’ispettorato marittimo; e prese altre minori disposizioni; sarebbe lecito sperare che le nuove convenzioni rispondano, se non agli interessi dei concessionari attuali, a quelli più ampi del progresso economico del paese ed alla necessità di possedere un naviglio mercantile potente, veloce ed, occorrendo, utile in guerra alla difesa del paese.

 

 

Provvedimenti di tutela sociale per i lavoratori del mare.

 

 

Si mira così a stabilire per i marinai e gli impiegati della marina sovvenzionata un trattamento in qualche parte simile a quello garantito ai ferrovieri. Fissato l’obbligo ai nuovi concessionari di assumere di preferenza gli impiegati, gli ufficiali e i marinai che restassero disoccupati in seguito alla cessazione dei servizi vigenti; fermo il principio che le mercedi pagate dalle compagnie sovvenzionate non siano inferiori a quelle medie corrisposte sul mercato del lavoro; attribuito al consiglio di vigilanza sui servizi marittimi il compito di fissare il massimo di ore di lavoro per ogni categoria di operai; fatto obbligo alle compagnie di dare al basso personale alloggi non inferiori a quelli prescritti dalla legge sull’emigrazione; fondati uffici di collocamento misti di rappresentanze degli armatori e dei lavoratori; unificate finalmente le casse per gli invalidi della marina mercantile di Napoli, Palermo, Livorno ed Ancona e il fondo invalidi di Venezia, che ora distribuiscono ai marinai vecchi ed invalidi pensioni miserrime e si trovano ciò nonostante in condizioni precarie. La cassa unica dovrebbe essere alimentata coi proventi patrimoniali (lire 900.000), coi contributi degli armatori, in misura uguale all’attuale (lire 750.000), con un nuovo contributo obbligatorio dei marinai aventi un salario inferiore alle 2.100 annue (lire 500.000), con un contributo dello stato fissato in lire 2.500.000 e con una sovratassa del 10% sulle tasse marittime (lire 900.000). La nuova cassa unica potrebbe distribuire così, con un’entrata complessiva di 5.550.000 lire, pensioni più elevate assai di quelle pagate attualmente in lire 1.800.000 all’anno. Per gli ufficiali dipendenti dalle compagnie sovvenzionate, ed aventi uno stipendio superiore a 2.100 lire all’anno, sarebbe stabilito uno speciale trattamento di vecchiaia a carico delle compagnie.

 

 

Queste le proposte della commissione reale; le quali sostituiscono alle vecchie spese di 12.066.925,34 per le sovvenzioni ed 8 milioni di lire di premi e compensi (in totale lire 20.066.925,34); una nuova spesa di lire 9.989.000 in sovvenzioni dirette per i servizi postali e commerciali, di lire 3.299.500 in sovvenzioni indirette (credito navale), lire 2.700.000 per i servizi postali fra il continente, la Sicilia e la Sardegna affidati all’azienda ferroviaria; lire 2.500.000 per concorso dello stato nelle pensioni alla gente di mare. In tutto lire 18.488.500, alle quali deve però essere aggiunta una somma decrescente da lire 3.592.000 nel 1908-909 a lire 57.219,30 nel 1921-22 per il residuo degli effetti della attuale legge sui premi.

 

 

L’edificio, non è possibile negarlo, era armonico: e, salvo i] punto debole del credito navale, si imponeva come uno sforzo vigoroso per imprimere novello slancio ai servizi pubblici postali e commerciali ed alla marina libera.

 

 

III

Le proposte della commissione reale presentavano però un grave difetto: il ritardo eccessivo nella sua presentazione. I servizi marittimi scadono il 30 giugno 1908; e le proposte della commissione furono consegnate al governo appena il 31 dicembre 1905, mentre la relazione illustrativa non era distribuita che parecchi mesi dopo. Il governo che entro il 31 marzo 1906 dovea presentare le sue proposte al parlamento fu quindi costretto ad un esame troppo affrettato delle proposte della commissione.

 

 

Né un ulteriore indugio sarebbe stato possibile, perché anche adesso sarà ben difficile che prima del 1907 sia approvata dal parlamento la nuova legge, e nella migliore ipotesi rimarrà appena un anno e mezzo di tempo agli armatori ed alle società per studiare i tipi delle navi per i servizi sovvenzionati, prepararsi alle gare; e, queste indette e risolute, costruire il numeroso tonnellaggio richiesto dalle convenzioni rinnovate. Il tempo assolutamente non è sufficiente; di qui la necessità perentoria di non perderne dell’altro in studi e discussioni e di consentire provvedimenti transitori.

 

 

L’infausto ritardo ha già condotto ad una conseguenza dannosa che il governo – trovandosi di fronte ad un disegno complesso, che sopprimendo premi e compensi di costruzione, ed istituendo un nuovo regime di franchigia doganale e di agevolazioni ferroviarie e fiscali, disciplinava la marina libera, fondava il credito navale, provvedeva alle sorti della gente di mare, ed alle linee per l’emigrazione; e finalmente organizzava in nuova maniera i servizi postali e commerciali sovvenzionati; – ha preferito rinviare la soluzione di tutti gli altri problemi e far sue, con lievi modificazioni, solo quelle proposte che si riferivano ai servizi sovvenzionati.

 

 

Il disegno per l’ordinamento del credito navale è rinviato al 30 giugno; quelli per il regime dei cantieri navali e per il trasporto degli emigrati al 30 novembre 1906; e solo entro due anni dalla promulgazione della legge si penserà agli invalidi della marina mercantile. Tutto l’edificio composto della commissione reale viene così rotto e le sorti di ciascuna delle sue parti abbandonate alle mutabili vicende parlamentari.

 

 

Oramai però il male è irrimediabile, data la ristrettezza del tempo; e toccherà alla opinione pubblica, al governo ed al parlamento di vegliare affinché esso non diventi ancor più grave.

 

 

Quanto ai servizi postali e commerciali sovvenzionati, il governo in sostanza ha fatto sue le proposte della commissione, riducendole e modificandole alquanto. La commissione avea proposto 127 piroscafi del tonnellaggio lordo di 396.470 tonnellate al posto degli attuali 96 piroscafi e 67.290 tonnellate di stazza nette. Il governo si contenta di 116 piroscafi e di 273.631 tonnellate lorde. Invece della percorrenza attuale di miglia 2.493.428 e di quella proposta dalla commissione in miglia 5.038.698, propone una percorrenza di 3.746.186 miglia all’anno; con una spesa assoluta di lire 14.600.000 e per miglio di lire 3,87 in media, superiore alla spesa attuale di lire 12.066.925 (lire 5,65 per miglio) e superiore pure alla spesa proposta dalla commissione in lire 13.288.500 (media per miglio lire 2,63).

 

 

Di fronte ai servizi attuali, le proposte del governo rappresentano un miglioramento del 30% nel tonnellaggio e nelle percorrenze, e del 20% nella velocità, un aumento del 20% nella spesa complessiva ed una diminuzione del 30% della spesa unitaria per miglio. Rispetto alle proposte della commissione, il risparmio si è ottenuto sacrificando la linea per l’estremo oriente, per cui si ritenne non giustificato il grave sacrificio che avrebbe richiesto, sospendendo le linee proposte per l’America del nord e del sud, che in verità paiono superflue dato il grande sviluppo della marina libera non sovvenzionata su quelle linee migratorie; e così pure la linea pel nord d’Europa, alla quale si pensa di supplire con facilitazioni ferroviarie; e sostituendo alla linea italiana per l’Australia un concorso pecuniario a favore di quella compagnia estera, che si obblighi a toccare qualche porto italiano. Neppure fu accolto il concetto che si dovessero esercitare per ora direttamente dall’azienda ferroviaria di stato le linee di allacciamento fra il continente, la Sicilia e la Sardegna, sembrando impreparata l’azienda di stato a tale compito nel momento della sua prima riorganizzazione, dandosi tuttavia facoltà al governo di riscattare le linee quando l’esercizio di stato sembrasse maturo.

 

 

Era facile prevedere che, malgrado la riduzione del tonnellaggio e del numero delle navi, gli assuntori non si sarebbero trovati al 30 giugno 1908 pronti ad assumere il servizio con navi tutte nuove e rispondenti ai requisiti prescritti di velocità e di tonnellaggio, a meno di comprare quel materiale in massima parte all’estero, con jattura non piccola dei nostri cantieri, i quali avrebbero potuto in un adeguato periodo di tempo soddisfare alle richieste a prezzi superiori non più del 5% a quelli esteri. Di qui la disposizione – che può essere lamentata, ma di cui la responsabilità è del tempo che stringe secondo la quale ai concessionari sarà concesso un quinquennio di dilazione per provvedersi dei piroscafi prescritti, facendo però una ritenuta sulle sovvenzioni proporzionali alle deficienze di velocità e di tonnellaggio del materiale provvisoriamente adoperato.

 

 

Queste le proposte del governo le quali toccano soltanto il problema dei servizi sovvenzionati, lasciando da parte il credito navale, la marina libera, la gente di mare e l’emigrazione. Noi a queste proposte governative ci limiteremo a muovere due appunti: l’uno relativo al sistema seguito nella proroga accordata per l’impiego di navi veloci e potenti, l’altro alla misura delle sovvenzioni.

 

 

Scopo delle nuove convenzioni era di permettere a parecchi armatori e società di entrare in gara, evitando così il monopolio quasi assoluto della Navigazione generale italiana.

 

 

A quest’intento era ordinata la divisione delle linee in gruppi da aggiudicarsi separatamente; ed a quest’intento era ordinata in parte la istituzione del credito navale. A raggiungere l’intento è però assolutamente necessaria una condizione: che al 30 giugno del 1908 possano gli armatori che avranno vinto le gare trovarsi pronti se non con tutto il materiale prescritto, almeno con parte di esso e con materiale provvisorio per il resto. Non potrà a quest’intento fare ostacolo la circostanza che la sola Navigazione generale si troverà ad avere a quella data un materiale, vecchio sì, ma provvisoriamente sufficiente allo scopo, e in notevole parte ammortizzato? E non potrebbe questa essere una causa di inferiorità per gli altri armatori vogliosi di concorrere, ai quali è concesso bensì un tempo adeguato per provvedersi di materiale nuovo; ma a cui sarà d’uopo sottostare ad oneri non lievi di noleggio per procurarsi il materiale provvisorio? Esponiamo il dubbio, non sapendo quale sia la portata di siffatto possibile ostacolo alla uguaglianza assoluta fra i possibili concorrenti. È interesse generale che la gara sia quanto più è possibile larga, estesa a tutti ed a molti gruppi di linee, perché ogni risparmio fatto sulle sovvenzioni, gioverà a migliorare i servizi in altra guisa; né vorremmo che si ripetesse l’esempio delle concessioni passate, per cui la concorrenza fece quasi in tutto difetto.

 

 

L’altro appunto si riferisce alla misura delle convenzioni. Il governo, sulla traccia della commissione reale, propone di assegnare ai 116 piroscafi della marina sovvenzionata di una stazza lorda di 273.631 tonnellate una sovvenzione complessiva di 14.600.000 lire per una percorrenza di 3.746.186 miglia all’anno. È troppo o è troppo poco? Nessuno è in grado di dare una risposta precisa. Commissione e governo hanno fatto i calcoli del costo di esercizio e del rendimento probabile delle varie linee, per sapere quale sia la perdita probabile da colmarsi con le sovvenzioni; ma si tratta di calcoli molto ipotetici, specie quanto al rendimento. Si può sapere a quanto ammonta il traffico attuale, con le tariffe, le velocità e le percorrenze odierne; ed anche si può sapere soltanto all’ingrosso, perché la Navigazione generale italiana non ha comunicato i dati da essa posseduti. Nulla o ben poco si può arguire intorno al traffico futuro con tariffe più basse, con velocità maggiori, con navi di tonnellaggio più forte, con percorrenze in parte diverse. I nuovi capitolati d’oneri, assai più rigorosi degli antichi, e per fini di utilità generale indiscutibile, imporranno ai concessionari spese assai maggiori delle attuali. Quando si verrà alle gare, i concorrenti, per tener conto di questi rischi imprevedibili, si terranno assai bassi nelle offerte: e quindi non ci sarebbe da meravigliarsi che nella maggior parte dei casi le riduzioni ottenute sieno di lieve entità e che parecchie linee non possano aggiudicarsi.

 

 

Il senatore Piaggio propone una via di uscita dall’imbarazzo, che merita di essere esaminata seriamente: fissare d’accordo tra governo ed assuntori, la cifra delle spese di esercizio, che è dato abbastanza facile a determinarsi; e quindi dare per un triennio una sovvenzione uguale alla differenza in meno fra le spese ed i noli effettivamente conseguiti. La somma complessiva a pagarsi non dovrà però superare le lire 14.600.000 che il governo si è dichiarato disposto a dare come sovvenzioni per i servizi postali. Trascorsi tre anni dall’inizio dei servizi, la sovvenzione sarà definitivamente determinata sulla media dei noli conseguiti nel triennio e consolidata così per tutto il resto del ventennio. Verificandosi nel ventennio una eccedenza di prodotti in confronto della media suddetta, essa per metà rimarrà agli assuntori e per metà sarà destinata alla costituzione di un fondo, che lo stato potrà erogare in eventuali riduzioni di tariffe, in concessioni speciali al personale, o, volendo, nella istituzione di nuove linee.

 

 

Il disegno si presenta sotto un aspetto simpatico perché istituisce quasi una cointeressenza dello stato e del personale nel prodotto dei servizi sovvenzionati. Forse ogni difficoltà non è tolta nemmeno con questo sistema. Quale sarà il criterio per distribuire le linee fra i diversi assuntori? La sovvenzione dovendo essere determinata dall’esperienza del primo triennio, come potrà un concorrente dimostrare che egli è in grado di fare patti migliori di un altro? Se in uno od in parecchi gruppi il disavanzo fosse talmente grande nel primo triennio da superare, col disavanzo delle altre linee, la somma fissa di lire 14.600.000, la perdita nell’esercizio come dovrà essere ripartita fra stato ed assuntori? Sono punti codesti che l’opuscolo Piaggio lascia all’oscuro, e che meriterebbero di essere chiariti.

 

 

Risoluto il problema delle nuove convenzioni, rimarrà però intiero l’altro grosso quesito dei premi alla marina mercantile libera. I cantieri navali pare non siano disposti a contentarsi della preferenza fino al 5% nel valore che è già consentito dal disegno di legge governativo per i servizi sovvenzionati; e neppure della franchigia doganale, delle riduzioni di imposte e di tariffe ferroviarie proposte nella relazione Pantano; e per bocca dell’ing. Capuccio hanno, in una relazione al consiglio della marina mercantile, dimostrato di non avere a sufficienza degli 8 milioni attuali, ma di volere portata la somma da assegnarsi in compensi di costruzione, contributi di armamento, e compensi di velocità a 10 milioni all’anno.

 

 

Abbiamo già spiegato perché non crediamo opportuno seguire questa via, la quale finora non ci ha fruttato se non disinganni o pericoli. L’esempio della Francia prova il contrario della tesi sostenuta dai fautori dei premi; e sarebbe davvero doloroso che i mirabili risultati ottenuti in Germania con una politica simile a quella propugnata dalla commissione reale non ci dovessero essere di alcun ammaestramento.

 

 

Tuttavia il pericolo più grave è appunto qui: che non si osi toccare il regime esistente di protezione alla siderurgia ed ai cantieri; e si lasci sfuggire una bella occasione per risolvere il problema marittimo, promuovendo sovratutto lo sviluppo dei traffici e per conseguenza anche le industrie della navigazione, dei cantieri e della siderurgia. I cantieri, quando ebbero solo lo stimolo dei premi, vissero vita grama e stentata e progredirono soltanto collo sviluppo delle attività marinare del paese. Vorranno tutti persuadersi che quest’ultima è la via regia da percorrere; e che si può ben rinunciare a qualche milione di premi, quando lo stato inizi sul serio una politica doganale, fiscale, ferroviaria, marittima, che possa riuscire di verace impulso ai traffici?

 

 

IV

Gli articoli che abbiamo pubblicato sul riordinamento dei servizi marittimi e sulla protezione alla marina mercantile ci hanno procurato da alcune egregie persone osservazioni, notizie, opuscoli, gli uni favorevoli e gli altri contrari all’ordine di idee da noi sostenuto. Della qual cosa noi siamo lieti, perché l’interessamento del pubblico prova che il problema delle nuove convenzioni marittime è uno dei più gravi che si affaccino nel momento presente alla discussione pubblica, toccando interessi molteplici privati, degni di una più o meno grande considerazione: tocca sovratutto un grande interesse pubblico: il progresso della marina mercantile e dei traffici internazionali marittimi, che sono tanta parte dell’avvenire economico dell’Italia nostra. Adottando un sistema sbagliato noi possiamo correre il rischio di sacrificare un grande interesse pubblico ad interessi e fini, qualche volta rispettabili, non tali però da preponderare nella bilancia del legislatore. Grave essendo dunque il problema, il più grave forse che aspetti una soluzione adeguata nel campo dell’economia dei trasporti, dopoché una soluzione iniziale s’è data al problema ferroviario, sarà sempre vantaggiosa la collaborazione di tutti nel discuterlo serenamente.

 

 

A tre ordini di considerazioni si inspirano i nostri corrispondenti nel farci rilevare alcuni punti sui quali l’esame nostro non era abbastanza approfondito: tecniche, amministrative ed economiche. Cominciamo da quelle tecniche, rispetto a cui noi dobbiamo necessariamente limitarci ad un breve accenno, essendo argomento che può essere discusso soltanto in base a considerazioni minute, esorbitanti dai limiti ristretti di un giornale quotidiano.

 

 

L’avv. T. Bogianchino, membro del consiglio superiore della marina mercantile, ci addita, in un suo opuscolo, alcuni errori in cui sarebbe caduta la commissione reale, ed anche per conseguenza il progetto ministeriale, nel fissare i gruppi delle linee sovvenzionate, la velocità ed il tonnellaggio delle navi, ecc. Perché chiedere per la linea Genova-Porto Torres vapori di 2.000 tonnellate (ridotte a 1.500 dal progetto ministeriale), ossia piroscafi che per la maggior parte dell’anno non potrebbero entrare nel porto di Porto Torres ed inutili per soprammercato, se si pensa che gli attuali piroscafi di 500 tonnellate viaggiano semivuoti? Quale il motivo di raggruppare in uno stesso gruppo la Genova-Alessandria (secondo il progetto ministeriale Napoli-Alessandria, con facoltà di prolungamento a Genova e Marsiglia) e la Venezia-Alessandria che hanno diversi porti di armamento e debbono curare traffici diversi, e perché richiedere una velocità di venti miglia ed un tonnellaggio di 7.000 tonnellate, quando con una velocità alquanto minore e con un tonnellaggio proporzionalmente scemato, purché l’orario fosse effettivamente osservato, si potrebbe provvedere bene al servizio?

 

 

Su altre osservazioni particolari non indugiamo, perché un esame minuto di ognuna di esse ci porterebbe troppo per le lunghe. Alcune non hanno più adesso ragion d’essere, perché il progetto ministeriale le ha già accolte; e sulle altre attiriamo ben volentieri l’attenzione dei competenti, affinché, additando particolari mende, contribuiscano a rendere perfette, quanto è possibile, le nuove convenzioni. A queste il Bogianchino rimprovera altresì di avere frazionato le linee in troppi gruppi, nell’intendimento di promuovere la concorrenza fra gli armatori; mentre l’effetto più sicuro sarà di far andare deserte le gare per i gruppi meno remuneratori. Invece di 16 gruppi se ne sarebbero potuti fare soltanto sette od otto, raggruppando insieme le linee aventi maggiori legami reciproci, senza per questo distruggere la concorrenza al monopolio, da tutti dichiarato pericoloso, di un’unica società concessionaria; e si sarebbero creati organismi più forti, capaci di far fronte per lunghi anni agli impegni assunti.

 

 

A considerazioni amministrative si inspirano coloro i quali criticano le proposte della commissione reale e del governo riguardo alla sorveglianza sui servizi marittimi sovvenzionati. È un punto al quale non avevamo accennato perché a chi non vive in qualcuno dei ministeri interessati sfuggono certi dietroscena. Le relazioni che ci furono comunicate persuadono che siamo qui di fronte ad un male grave della pubblica amministrazione. Questa crebbe a poco a poco per iniziative sparse di singoli ministri senza che un concetto organico presiedesse all’organamento dei servizi. Quante volte una pratica non va innanzi perché debbono dare il loro parere o la loro approvazione due o tre o magari più autorità, tutte competenti e gelose l’una dell’altra? Non è forse cosa risaputa che gli undici ministeri a Roma sono altrettante potenze, per lo più nemiche, che trattano fra di loro con protocolli ed ambasciate? Così pare avvenga altresì per la marina mercantile ed i servizi sovvenzionati. Esiste un ministero che intitolasi della regia marina ed è sovratutto un ministero militare, ma ha anche una direzione generale della marina mercantile con un consiglio superiore della marina mercantile. Alla direzione, assistita dal suo consiglio, dovrebbe essere affidata la suprema direzione della marina mercantile, per mezzo dei suoi organi locali, le capitanerie di porto. Viceversa i servizi sovvenzionati spettano al ministero delle poste, perché in origine le sovvenzioni si davano esclusivamente per i servizi postali. Ora le cose sono mutate e le sovvenzioni si danno a scopi commerciali, e le linee marittime possono in parte considerarsi come un prolungamento delle ferrovie. Ciò nonostante il ministero delle poste provvede sempre ai servizi sovvenzionati, mentre ai premi alla marina libera provvede il ministero della marina. Più ancora, si vorrebbe al ministero delle poste istituire un «consiglio di vigilanza sui servizi postali», con funzioni che suppergiù uguali a quelle già proprie del «consiglio superiore della marina mercantile». Il quale invoca dal canto suo che tutta la materia marittima sia raggruppata in una sola amministrazione, e uno solo sia il supremo corpo consulente, ad evitare lo sconcio che, quasi per ripicco, un ministero faccia il contrario di ciò che l’altro opera ed i pareri dei consigli consulenti facciano a pugni. Non basta. Altre autorità si ingeriscono nelle cose marinare e dei porti: il commissariato dell’emigrazione, contro i cui progetti protestano i capitani di porto, allegando che il commissariato non si contenta di interessarsi degli emigranti, che è affar suo, ma si vuole occupare di questioni tecniche, di navi, ecc., che sono di competenza delle capitanerie; il ministero degli interni, con i medici di porto, esecutori delle volontà dell’invadentissima direzione della sanità pubblica. E così via.

 

 

A Genova si è potuto mettere un po’ d’argine alla confusione nascente dal rimescolarsi di tante autorità diverse coll’istituzione del consorzio del porto. Qualcosa di simile dovrebbe farsi anche pel resto del regno. Importa poco che i servizi marittimi mercantili siano aggregati ad un ministero piuttostoché all’altro; purché ad essi presieda una direzione sola, la quale coordini le attività di tutti gli organi subordinati. Oggi è una tela di Penelope: l’uno disfa ciò che l’altro ha fatto. La commissione reale per i servizi marittimi propone la soppressione dei premi alla marina mercantile; e subito il consiglio superiore della marina mercantile si dimostra propenso non solo a mantenerli, ma ancora a crescerli di qualche milione di lire all’anno.

 

 

Siamo così giunti all’ultimo punto segnalatoci: quello economico dell’abolizione voluta dalla commissione reale e lasciata in sospeso dal governo, dei premi alla marina mercantile. L’ing. Capuccio ha richiamata la nostra attenzione sul rapporto da lui presentato al consiglio superiore della marina mercantile, il quale conclude alla continuazione, sia pure migliorata, dei premi; e desidera si dica che egli non si è fatto portavoce degli armatori e dei costruttori; che le sue proposte di elevare l’assegno annuo a 10 milioni di lire furono accettate alla quasi unanimità dal consiglio superiore, allo scopo di elevare il tonnellaggio annuo da costruirsi a 60.000 tonnellate; afferma non bastare né la franchigia doganale, né la protezione del 5% in confronto ai prezzi esteri, laddove i costruttori di materiale ferroviario, non ne hanno abbastanza di una del 23%, compresi i dazi doganali; e conchiude dichiarando essere ingiusto togliere la protezione all’industria marittima quando i principali generi di consumo industriale e commerciale sono protetti con dazi che vanno dal 25 all’80%.

 

 

A guisa di pregiudiziale, notiamo che i problemi di protezione non vanno discussi per via di paragone. Non ha nessun significato dire: L’industria X gode di una protezione del 50%; quindi altrettanto deve essere concesso all’industria Y. Invece per ogni industria deve vedersi se essa deve avere una protezione; e in quale misura; e quali frutti da essa possano ricavarsi. L’avere poi in passato protetto un’industria, non è buon argomento per continuare a proteggerla in futuro; anzi è ottimo argomento per ridurre e togliere i dazi protettivi. Nel frattempo l’industria deve essere diventata adulta e capace di far da sé; e se in tanti anni ancora non s’è rinforzata, il meglio è abbandonarla e cessare di far sacrifici per uno scopo irraggiungibile. Che l’aumentare le nuove costruzioni a 60.000 tonnellate annue sia cosa desiderabilissima, affermiamo anche noi; ma neghiamo che debbansi aumentare a spese dei contribuenti, essendosi dal metodo dei premi di stato ottenuti in passato frutti non buoni e talvolta pericolosi. Lo stato deve togliere, per quanto sta in lui, le due cause di inferiorità dei cantieri nazionali di fronte ai cantieri esteri:

 

 

  • la protezione concessa alla siderurgia, che accresce assai il costo dei materiali da costruzione delle navi; e
  • le spese maggiori per imposte, diritti, tariffa di trasporto, forza motrice e mano d’opera.

 

 

Quanto al primo elemento di inferiorità il modo migliore di provvedere è quello di ammettere in franchigia i materiali da costruzione delle navi. Sotto il regime della franchigia i cantieri prospererebbero certamente più che non coll’attuale sistema dei rimborsi di dazi; ed in ciò siamo d’accordo coll’on. Salvatore Orlando, il quale afferma che alla franchigia doganale «l’industria navale tedesca deve in gran parte il rapido progresso che l’ha condotta al punto attuale per il quale essa nel campo della concorrenza è tanto temibile per noi quanto l’industria inglese». Dalla franchigia doganale saranno danneggiati gli stabilimenti siderurgici; cosa della quale non comprendiamo però debbano lamentarsi i cantieri, che della siderurgia nazionale non hanno certo a lodarsi. La siderurgia, e non i cantieri, deve, caso mai, addurre le sue buone ragioni per mantenere il regime attuale daziario; e dovranno essere ragioni assai convincenti, perché l’opinione pubblica non è certo propensa a dar milioni a spese dei contribuenti ai siderurgici.

 

 

La commissione d’inchiesta sulla marina da guerra ha fatto il processo agli stabilimenti siderurgici per le forniture di corazze, cannoni, ecc. Un altro processo rimane a fare: quello del costo e degli effetti dell’alta protezione doganale concessa alla siderurgia. Temiamo forte che il processo, se si farà, non abbia a riuscire a conclusioni gran fatto favorevoli al consorzio che oggi monopolizza, all’ombra dei dazi, questa grande industria in Italia.

 

 

Quanto al secondo elemento di inferiorità esso si distingue alla sua volta in maggiori imposte, diritti, spese. di trasporto da una parte, e costo più elevato della forza motrice, della mano d’opera, dell’interesse del capitale. Per le imposte, ecc., i casi, che il Capuccio cita, di enormi oneri gravanti sui cantieri e sulle navi italiane sono verissimi; ma non ci portano a concludere alla politica dei premi. Segua lo stato la politica che ha cominciato ad adottare nel mezzogiorno: riduca le imposte ad aliquote più tenui, le applichi in maniera non vessatoria e non opprimente. Le imposte gitteranno di più e i cantieri respireranno. Perché voler torturare i contribuenti, per poi dare ai torturati, quando già agonizzano, un cordiale sotto forma di premio? Aboliamo gli strumenti di tortura e sarà meglio per tutti. Sempre in questo campo, abbiamo fatto plauso ad una delle proposte che a noi e a molti paiono feconde della commissione reale: stabilire tariffe combinate uniche ferroviario-marittime, con forti riduzioni sulla parte ferroviaria della tariffa, a scopo di avvantaggiare la marina mercantile. Non si daranno così favori come oggi si fa coi premi, alle navi, che facciano viaggi inutili; ma si favoriscono i trasporti di passeggeri e di merci: e si aiuta la marina mercantile solo in quanto essa promuova il commercio e nella misura in cui lo promuove.

 

 

Quanto al maggior costo della mano d’opera, dell’interesse del capitale, della forza motrice, ecc., confessiamo di non poter seguire il Capuccio su questo terreno. Se lo stato avesse a risarcire con premi tutti quegli industriali i quali pretendono di pagar di più dei loro concorrenti stranieri, non basterebbero centinaia di milioni; e per giunta sarebbero denari buttati. Lo stato deve stabilire tali discipline giuridiche per cui il capitale trovi sicurezza nell’impiegarsi in mutui su garanzia di navi; non deve aumentare il costo del capitale con fiscalismi eccessivi; può anche ammettersi che obblighi le compagnie sovvenzionate a concedere la preferenza ai cantieri nazionali ad un prezzo non maggiore del 5% ai prezzi esteri; ovvero anche, per semplicità di conteggio, non maggiore di una cifra fissa per tonnellata in confronto ai prezzi esteri; ma non crediamo debba andare più in là. Tanto più che parecchi di questi pretesi elementi del maggior costo per i cantieri italiani sono più che dubbi. O non ha affermato l’on. Salvatore Orlando, competentissimo in materia che «fortunatamente in Italia per la speciale attitudine ed il buon mercato della nostra mano d’opera, ci troviamo in condizioni assai migliori di quello che non si trovino altri paesi, per esempio, la Francia, dove un cargo-boat di 5.000 tonnellate costa 1.800.000 franchi, mentre ne costa 1.200.000 in Italia ?»

 

 

V

Dal senatore Erasmo Piaggio riceviamo questa lettera, che si riferisce agli articoli da noi pubblicati sulla grossa questione delle convenzioni marittime:

 

 

Ill. signor direttore del «Corriere della sera»,

L’assennato articolo sui servizi marittimi, pubblicato nel n. 17 del «Corriere della sera», solleva alcuni dubbi, e mi rivolge anche qualche domanda a proposito dei concetti e delle proposte che di recente io ho svolto in una pubblicazione dal titolo: Lo stato e le convenzioni marittime. Accade disgraziatamente troppo di raro, in Italia, che una discussione serena ed obbiettiva assecondi la iniziativa delle persone studiose, diretta ad illuminare la pubblica opinione in materie – come questa – tanto trascurate e pure tanto importanti, perché io non abbia a sentirmi lieto di rispondere a quelle domande quanto meglio mi sia possibile, nella speranza che dal dibattito altri tragga occasione e motivo a fare proposte migliori delle mie.

 

 

Sono pienamente d’accordo con l’egregio scrittore dell’articolo, nel ritenere che la presente situazione sia molto pregiudicata dal soverchio ritardo con cui è giunto dinanzi al parlamento il disegno di legge per le nuove convenzioni.

 

 

Come rimediare, oramai, a difficoltà non risolute a tempo e che non trovano conveniente riparo nemmeno in quel disegno di legge?

 

 

Si vuole davvero che le prossime gare riescano sincere ed efficaci, basate sulla libera concorrenza? O non piuttosto si vorrà tollerare che esse risultino un atto puramente formale che potrebbe nel fatto, risolversi in un favoritismo non voluto né desiderato?

 

 

La risposta a queste domande non può essere dubbia se non si provveda a che i concorrenti vengano a trovarsi tutti nelle medesime condizioni. Ora questa parità di condizioni è fatta impossibile dalla facoltà lasciata nel disegno di legge agli assuntori, di adoperare per parecchi anni materiale vecchio per l’esercizio delle linee. Infatti di materiale vecchio dispongono in quantità esuberante, le società attualmente sovvenzionate, ed esse – ove riescano aggiudicatarie dei nuovi servizi – potranno adoperarlo con notevole vantaggio, mentre con grande sacrificio, se pur possibile, ciò che non credo, dovrebbero i nuovi concorrenti provvedersene all’estero.

 

 

Per ovviare a questi gravi danni io avevo proposto nel mio opuscolo un provvedimento col quale si ricostituirebbe, quasi, lo stato di fatto creato dalla legge del 1901, perché una proroga di due o tre anni delle attuali convenzioni compenserebbe una gran parte del tempo che è andato perduto per non essersi la nuova legge presentata al parlamento entro il 1903, ossia nel termine che il legislatore aveva opportunamente prestabilito. Questa proroga, pure eliminando la posizione privilegiata delle società ora esercenti, non potrebbe tornare sgradita nemmeno ad esse, poiché darebbe loro il mezzo di adoperare con discreto profitto ancora per un paio d’anni un materiale che, altrimenti, dovrebbero gettare come ferro vecchio. E dal lato dell’interesse pubblico, poi, verrebbe ridotto a due anni soli il periodo dei servizi da esercitarsi con materiale scadente, mentre nel progetto governativo questo periodo sarebbe di cinque anni.

 

 

Soggiungevo, però, che ove a questo sistema mancasse l’adesione delle compagnie sovvenzionate, una sola via semplice e sicura rimarrebbe al governo per sanare le difficoltà: quella di aprire subito le aste per i soli servizi che si ritengono indispensabili, e che, a mio giudizio, sarebbero i seguenti:

 

 

Categoria prima

1. Napoli-Palermo; Civitavecchia-Golfo Aranci; Napoli-Tunisi.
2. Genova-Sardegna.
3. Sicilia-Isole minori.
4. Costa dell’Adriatico.
5. Golfo di Napoli-Arcipelago toscano-Isole Eolie.

 

 

Per le linee indicate al numero 1 e 2, che sono le più importanti, ben si potrebbe, prima del 30 giugno 1908, costruire il materiale occorrente, ordinandolo, se necessario, anche all’estero; mentre per le altre potrebbe consentirsi la facoltà di impiegare vapori non del tutto corrispondenti alle caratteristiche prescritte, ma in buono stato, con l’obbligo però di sostituirli con vapori aventi i requisiti voluti, entro tre anni dall’aggiudicazione dei servizi.

 

 

All’appalto delle altre linee, e nell’ordine che indicherò tra poco, si potrebbe provvedere in seguito e con minor fretta.

 

 

Circa il metodo da seguire per l’aggiudicazione delle linee (e qui intendo rispondere al primo dei quesiti propostimi nell’articolo del «Corriere della sera»), ricorderò la premessa dalla quale partivo nel mio opuscolo, che cioè mentre le spese di esercizio delle linee di navigazione possono essere determinate con sufficiente esattezza, né il governo, né alcuno dei nuovi concorrenti hanno dati per stabilire i prodotti di ciascuna linea. È chiaro per ciò, che all’atto delle gare il ribasso dovrebbe essere offerto sulla cifra determinata per le spese di esercizio, il che significa che ogni gruppo di linee dovrebbe essere aggiudicato a chi avesse offerto di esercitarlo col costo minore: a quel concorrente, cioè, che avesse valutato in una cifra minore il complesso delle spese di esercizio. In questo metodo nulla vi è di incerto e di arbitrario, perché, ripeto, le spese di esercizio sono il solo elemento che gli assuntori possano determinare con certezza, ed ognuno di essi può quindi calcolare sino a qual limite il suo tornaconto gli permetta di discendere in tale valutazione.

 

 

La seconda domanda rivoltami dall’articolo del «Corriere» mi pare fondata sopra un equivoco. Lo scrittore sembra, infatti, avere inteso che il triennio di esperimento da me proposto debba precedere la gara, e servire per la scelta dei concorrenti, come se la gara cioè, dovesse tradursi in una specie di attesa sperimentale di tre anni, allo spirar della quale, soltanto il governo avrebbe modo di contrattare con gli assuntori. Ma il mio concetto è ben altro. La gara sarebbe definitiva sino dall’inizio, i singoli gruppi sarebbero assunti, per vent’anni, da chi nelle sue offerte avesse valutato in una cifra più bassa il costo dei servizi. Il triennio di esperimento avrebbe il solo scopo di permettere che l’elemento dei prodotti, mal sicuro in oggi, venisse determinato dai risultati della esperienza, col dovuto e più efficace controllo governativo, in una cifra precisa la quale potesse in modo pratico ed efficace porsi a raffronto con l’altro elemento, quello cioè delle spese.

 

 

Durante il triennio, la sovvenzione governativa sarebbe provvisoriamente corrisposta, per ogni gruppo di linee, in una cifra uguale alla differenza fra le spese e i noli effettivamente consegnati, ma la media di questi noli, dopo tre anni, darebbe l’ammontare vero dei prodotti, e dal confronto di esso con le spese risulterebbe accertata la sovvenzione definitiva da assegnarsi per tutta la rimanente durata del contratto ad ogni gruppo di linee. E perché gli assuntori non debbano essi soli beneficiare dei maggiori prodotti che derivassero dall’incremento del traffico nei venti anni della concessione, avevo proposto di devolvere a vantaggio dell’erario il 50% dei prodotti eccedenti l’ammontare medio accertato nel triennio di esperimento, per la costituzione di un fondo del quale il governo potesse disporre per ribassi di tariffe o per la istituzione di nuove linee.

 

 

Debbo però aggiungere che – data la impossibilità di determinare preventivamente con esattezza i prodotti delle singole linee – non si può nemmeno prevedere se la spesa complessiva, prevista a carico dell’erario per le sovvenzioni marittime sia sufficiente a sussidiare tutte quante le linee di navigazione progettate. Ed appunto perciò io avevo suggerito nel mio opuscolo che il governo, per aver modo di colmare le eventuali deficienze dei noli previsti, non impegnasse nei primi anni tutta la somma disponibile. Per chiarire meglio la mia proposta – ed insieme per rispondere alla terza domanda del «Corriere della sera» – dirò che uno dei mezzi per tradurre in pratica il mio concetto potrebbe essere quello di attuare i servizi in modo graduale. Si attuerebbero ciò subito le linee assolutamente indispensabili che ho già indicato più sopra, e poi di seguito le altre le quali, secondo il loro grado di importanza commerciale o politica, si potrebbero scindere in due categorie. Una divisione opportuna credo potrebbe essere la seguente:

 

 

Categoria seconda

6. Mar Rosso–Zanzibar.
7. Pantelleria-Tunisi, Marsala-Tunisi.
8. Genova-Tunisia-Tripolitania.
9. Genova-Cirenaica-Soria.
10. Celeri Egitto.
11. Centro America.

Categoria terza

12. Genova-Bombay.
13. Genova-Levante.
14. Venezia-Levante.
15. Venezia-Calcutta.
16. Venezia-Cirenaica-Soria.
17. Tirreno-Adriatico.
18. Fiume-Ravenna.
19. Pacifico.

 

 

Io sono d’avviso che il complesso delle mie proposte, mentre darebbe modo al governo di spendere a ragion veduta le somme destinate alle sovvenzioni marittime, lasciando in sua mano le tariffe ed offrendogli un’interessenza nei maggiori introiti, serberebbe d’altra parte ai concessionari non già la lusinga di troppo lauti guadagni, ma la certezza di evitare l’alea di sgradite sorprese.

 

 

Si potrebbe osservare che anche nel disegno di legge che è dinanzi al parlamento, il disciplinare le tariffe è riservato al governo. Ma ciò, se da parte degli assuntori è pienamente accettabile col sistema da me proposto, si traduce in una condizione insostenibile nel progetto governativo, dove le sovvenzioni sono arbitrariamente assegnate in una cifra determinata a ciascuna linea, e dove le facoltà relative alla tariffa sono lasciate, senza alcun limite e senza norme precise, ad un comitato permanente. Ora, io domando, qual base può avere il concessionario per stabilire gli introiti della sua azienda, quando questi son fatti dipendere dai criteri di un comitato che potranno anche essere opportuni, ma tra i quali non vi sarà certamente quello di dover salvaguardare ad ogni costo il concessionario da ogni rovinosa eventualità ?

 

 

A questo proposito io non posso astenermi dal ricordare anco una volta la mia convinzione, che i patti leonini imposti in un capitolato non possono avere alcun giovamento, come non ha giovato mai il voler legare un concessionario con vincoli, più che rigorosi, illegittimi. Il concorrente avveduto si terrà in disparte, o farà pesare nelle sue offerte tutte le ipotesi meno vantaggiose. Ma quello che si adatta ad accettare condizioni impossibili ha già studiato il modo di eluderne le conseguenze.

 

 

Generalmente i legami irragionevoli sono imposti quando si procede ad occhi bendati nella infondata speranza di evitare così ogni malanno. Meglio vale aprire gli occhi, studiare serenamente la situazione e procedere cauti sì, ma fiduciosi nella efficacia di criteri ben precisi e fondati.

 

 

Ringraziandola della cortese ospitalità che Ella vorrà offrire a questa lettera, La riverisco distintamente.

 

E. Piaggio

 

 

La lettera del senatore Piaggio mette in luce alcuni punti del suo progetto, che prima non si presentavano abbastanza chiariti. Una delle difficoltà massime delle nuove convenzioni marittime – dicevamo noi negli articoli a cui qui sopra si accenna – è di fissare la misura delle sovvenzioni. Incerto il traffico, incerte le spese, nuove le tariffe, la portata e la velocità delle navi. Che meraviglia se i concorrenti, date tutte queste incertezze, avessero a valutare rischi e non tener conto dei coefficienti favorevoli?

 

 

Il Piaggio qui sopra lucidamente espone il suo concetto: fare la gara sul solo elemento noto a sufficienza e cioè sulle spese di esercizio; ed aggiudicare le linee a chi si contenti delle spese minime di esercizio. Per fare un esempio, un gruppo di linee sia posto in gara sulla base di un costo di esercizio di 2 milioni di lire all’anno. Avrà la concessione fra 5 concorrenti chi si contenterà di esercitarlo col costo minore di esercizio, supponiamo 1 milione 800.000 lire. Durante il primo triennio se i prodotti delle linee saranno di 1.500.000 nel primo anno, lire 1.600.000 nel secondo, lire 1.400.000 nel terzo, il governo corrisponderà una sovvenzione di 300.000, 200.000 e 400.000 lire rispettivamente, eguale cioè alla differenza fra il costo convenuto in seguito alla gara e i prodotti effettivi. Durante il resto del ventennio i prodotti dovrebbero reputarsi consolidati nella media dei prodotti del primo triennio e cioè in lire 1.500.000 e lo stato dovrebbe quindi corrispondere una sovvenzione uguale a lire 300.000 l’anno, tale da permettere all’assuntore di pareggiare le entrate colle spese presunte. All’assuntore rimarrebbe intiera l’alea di spese maggiori delle previste per tutto il ventennio e di prodotti minori della media del primo triennio per gli ultimi 17 anni. Se durante questi 17 anni i prodotti superassero invece la cifra di lire 1.500.000, la metà dell’eccedenza dovrebbe andare a favore dell’erario per ribassi di tariffe, costituzione di nuove linee, ecc. ecc.

 

 

Il piano, così chiarito, presenta certamente parecchi vantaggi; come la cointeressenza dello stato nei risultati dell’azienda, la probabilità che gli assuntori, sottratti a troppi rischi, facciano buoni patti allo stato, ecc. ecc. Il punto debole sta – oltreché nella istituzione di un controllo governativo che dovrebbe essere assai bene regolato nella necessità di accollare allo stato un onere incerto o di ritardare l’attuazione di alcuni gruppi di linee. Difatti una delle due: o si attuano subito tutte le linee proposte nel progetto del governo e la differenza fra il costo d’esercizio ed i prodotti di queste linee può superare in definitiva le lire 14.600.000 che il governo si è dichiarato disposto a spendere. Ovvero si attuano subito le linee per cui le sovvenzioni si sa di certo staranno entro quella cifra, aspettando la fine del triennio per attuare le altre entro i limiti delle disponibilità residue ed in tal caso che cosa diranno le regioni che dovrebbero essere servite dai servizi sospesi? Il dilemma non è in tutto conclusivo – è d’uopo ammetterlo subito – poiché se, per sfuggire alle querimonie di questa o quella città, si vogliono ad ogni costo attuare subito tutti i servizi, bisognerà pur decidersi a spendere più di lire 14.600.000, se queste non bastano a trovare gli assuntori per tutti i gruppi di linee, qualunque sia il sistema d’appalto seguito. Il Piaggio sostiene che il sistema da lui preferito in quanto fa aggirare la gara su un elemento noto, fa l’interesse dello stato meglio del sistema governativo, in cui i concorrenti dovrebbero valutare troppi elementi incerti e naturalmente li valuterebbero a tutto loro favore.

 

 

La questione oramai ci sembra chiarita per modo che i lettori abbiano potuto formarsi un concetto esatto in proposito. Il nostro timore è soltanto che di queste feconde discussioni non si tenga il dovuto conto, e che nel gravissimo problema si accolga la pessima delle soluzioni, rimandare ogni cosa e preparando così il terreno ad un qualche contratto frettolosamente conchiuso all’ultimo momento, non certo nell’interesse dello stato. Purtroppo non pochi indizi ci inducono in questo timore.

 

 


[1] Con il titolo Per le nuove convenzioni marittime. Il passato. [ndr]

[2] Con il titolo Le nuove convenzioni marittime. Le proposte della commissione reale. [ndr]

[3] Con il titolo Le proposte del governo per i servizi marittimi. I problemi insoluti. [ndr]

[4] Con il titolo Il problema della marina mercantile. Spunti polemici. [ndr]

[5] Con il titolo A proposito delle convenzioni marittime. Una lettera al sen. Piaggio. [ndr]

Piccola proprietà ed affittanze collettive

Piccola proprietà ed affittanze collettive

«Corriere della Sera», 2[1] e 4[2] aprile 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 335-345

 

 

I.

Abbiamo tardato a discorrere delle proposte contenute nel disegno di legge sul mezzogiorno per «favorire l’enfiteusi e la proprietà coltivatrice» e nell’altro intitolato dei «provvedimenti per la colonizzazione interna», poiché su di esse un giudizio maturo non poteva essere dato senza ponderazione; ed ancora oggi, più che un giudizio reciso, vogliamo esporre il succo dei propositi ministeriali e presentare i quesiti ed i dubbi che nascono in chiunque li esamini.

 

 

A dire il vero, quantunque i due progetti siano presentati dalle medesime persone, i dubbi non dovevano essere pochi nell’animo degli stessi proponenti, se per giustificare le disposizioni del disegno di legge sul mezzogiorno si afferma nella relazione di voler favorire la divisione delle terre in piccole proprietà «le sole che danno affidamento di sicuro e continuo progresso agricolo»ed invece nel disegno per la colonizzazione interna si propugna il principio delle affittanze collettive, affermando che il contrario sistema del frazionamento della terra in piccole proprietà «è lontano dal promuovere un innalzamento nel grado della coltura», e dà luogo alla formazione di piccole aziende le quali rappresentano «un tipo non già elevato ma basso» rispetto alle altre in mano di proprietari ordinari. La contraddizione fra i principî informatori dei due disegni di legge non potrebbe essere più grave; e chi volesse spiegarla con criteri puramente personali e politici potrebbe riferire le disposizioni favorevoli alla piccola proprietà del progetto sul mezzogiorno alla parte temperata del ministero (Sonnino – Luzzatti), mentre le affittanze collettive del disegno sulla colonizzazione interna sarebbero il frutto dell’entrata nel ministero di un radicale come il Pantano e dei suggerimenti a lui dati dal prof. Montemartini, direttore dell’ufficio del lavoro, le cui tendenze socialistiche sono ben note, e di cui si sente evidente l’influenza nella relazione ministeriale. Astrazion fatta dalle predilezioni di persone, il contrasto – importantissimo a nostro avviso – che l’opinione pubblica è chiamata a giudicare è fra due principi: deve l’azione dello stato essere orientata nel senso di promuovere la formazione di piccole proprietà o deve invece essere indirizzata a promuovere la coltivazione dei fondi secondo norme collettive o cooperative? Può darsi che alla fine il contrasto risulti meno aspro che a primo aspetto non paia; ma è utile che il problema sia posto con tutta la precisione possibile.

 

 

Perciò non sarà male che subito si tolga di mezzo una difficoltà pregiudiziale. Il disegno di legge Pantano intitolandosi infatti «Provvedimenti per la colonizzazione interna» lascierebbe supporre che il suo intento non sia già quello di favorire le affittanze collettive, ma di favorire la colonizzazione delle terre cosidette incolte per mezzo delle braccia che si trovano disoccupate in Italia. In realtà il nome è assai poco appropriato al contenuto del disegno di legge. La relazione riporta, è vero, una vecchia statistica del 1894, secondo la quale su ettari 28.658.900 di superficie del regno, vi sarebbero 20.131.509 ettari di terreni produttivi, 4.649.203 ettari di terreni improduttivi e 3.878.187 ettari di terreni di scarsa e nulla produzione (le cosidette terre incolte). Il Pantano deve essere talmente persuaso della assoluta inattendibilità del dato, che più non se ne occupa, né indica alcun mezzo per «redimere dal pascolo» e far diventare «terra coltivata» tutta la inverosimile quantità di terreni cosidetti incolti. La relazione dimostra pure – e qui i dati sono assai più sicuri – che in Italia esiste una zona composta delle provincie di Bologna, Ferrara e Ravenna, dove le braccia rurali sono sovrabbondanti ed infierisce la disoccupazione e pare accenni alla opportunità di trasferire una parte dei lavoratori qui sovrabbondanti in un’altra zona dove si lamenta scarsità di mano d’opera; zona che partendo dalle Marche ed attraversando gli Abruzzi e la Basilicata giungerebbe sino alla Calabria, poggiando verso il mediterraneo. In questa zona vi sarebbe il massimo delle terre incolte, alla cui colonizzazione si dovrebbe provvedere. Il problema di trasportare i lavoratori bolognesi, ferraresi e ravennati a colonizzare una regione dalla quale gli abitatori nativi fuggono per andare alla lor volta a colonizzare le terre americane dovette apparire anch’esso supremamente arduo al ministro proponente, tantoché di una soluzione diretta non si parla affatto. A noi sembra perciò opportuno non discorrere di colonizzazione ed attenerci piuttosto alla sostanza che al nome delle proposte del Pantano.

 

 

Il progetto del mezzogiorno prende le mosse dalle terre che si trovano in possesso degli istituti di emissione e dei loro crediti fondiari e di cui sarebbe utilissimo che gli istituti potessero in tutto sbarazzarsi per essere più liberi nelle funzioni loro specifiche. E vuole promuovere la costituzione di società anonime con un capitale non minore di 5 milioni, aumentabile sino a 20 e più milioni, il cui scopo dovrebbe essere quello di comperare grossi fondi rustici nel mezzogiorno, a preferenza appartenenti alla manomorta bancaria, non esclusi però fondi privati, per dividerli in lotti e concederli in enfiteusi o venderli ai lavoratori in guisa da favorire la formazione di proprietà coltivatrici. Per evitare che i piccoli proprietari cadano nelle mani di usurai, ricostituendosi così la grande proprietà che si vorrebbe frazionare, si vuole che le società anonime si interessino alla costituzione di cooperative fra produttori per lo smercio dei prodotti, imprestino capitali a terzi per migliorare e dividere fondi rustici e per costruire case coloniche; anticipino agli enfiteuti le somme per le spese di raccolto, di coltivazione, di sementi, di concimi, per migliorare i fondi e dotarli di scorte vive e morte, di attrezzi e di quant’altro occorre all’esercizio dell’agricoltura e per costruire case coloniche.

 

 

La enfiteusi deve essere come un ponte di passaggio tra la condizione di contadino lavoratore e quella di piccolo proprietario. Così come è regolata attualmente dal codice civile, l’enfiteusi non è bene accetta ai concedenti perché la terra può dal colono essere venduta, frazionata e riscattata magari subito, cosicché i canoni, frazionandosi e riducendosi per il riscatto di parte dei fondi, vengono a costare assai per le spese di esazione. D’altra parte i contadini fanno ogni sforzo per accumulare il capitale necessario al riscatto, il quale, se è attraente, calcolandosi l’interesse del 5%, li depaupera però dei mezzi necessari al miglioramento del fondo. Alla fine il contadino si trova ad essere bensì proprietario assoluto del terreno, ma nel contempo privo di capitale circolante e soggetto negli anni cattivi a cadere vittima dell’usura.

 

 

Il disegno di legge ha voluto togliere gli inconvenienti; ed oltre a far sussidiare il colono durante la sua ascesa alla proprietà con anticipazioni di sementi, concimi, scorte, attrezzi ecc., come sopra si vide; stabilisce altre norme affinché l’enfiteuta possa mantenersi nel possesso della sua proprietà, come il divieto del frazionamento del fondo finché dura l’enfiteusi, e l’attribuzione di esso ad uno solo fra gli eredi in caso di successione, allo scopo di evitare il polverizzamento eccessivo della proprietà; il massimo di estensione dei fondi stabilito in 15 ettari, con proibizione di concedere più fondi allo stesso colono; l’obbligo del colono di coltivare il fondo o dirigerne personalmente la coltivazione, salvo il caso di malattia, servizio militare ecc.; il divieto della vendita, della ipoteca ed altri vincoli per 20 anni dalla concessione; il divieto dell’affranco prima di 60 anni.

 

 

Alcuni di questi vincoli potrebbero sembrare eccessivi quando si trattasse di norme generali, come il divieto della vendita e della ipoteca; ma qui non sono fuor di luogo poiché devono le società pensare alle operazioni di credito agrario necessarie ai coloni. Il divieto dell’affranco prima dei 60 anni si presta altresì a qualche obiezione. A che cosa gioverà il miraggio della proprietà piena, quando lo si debba raggiungere solo dopo un periodo normalmente superiore alla vita di un uomo? Noi avremmo preferito che il divieto dell’affranco lo si limitasse ai primi 20 anni; poiché, se il contadino non avrà migliorato il fondo in 20 anni, non lo migliorerà certamente dopo. D’altra parte il riscatto compiuto tutto insieme può riuscire dannoso al colono che si faccia mutuare parte della somma richiesta, quindi sarebbe desiderabile che, ristretto ai primi venti anni il divieto del riscatto, le società permettessero in seguito il riscatto a rate annue per ammortamento in 25-50 anni, di guisa che il colono alla fine si troverebbe, quasi senza accorgersene, libero proprietario del suo fondo. Già il disegno di legge stabilisce che il canone per i primi 4 anni sia ridotto alla metà; e giustamente perché i primi sono gli anni più difficili per il coltivatore. Si allarghi questo concetto; e si dica che per altri 16 anni il canone si pagherà integralmente; e per gli ultimi 25 sia accresciuto di una quota di ammortamento. L’ammortamento non dovrebbe essere rigidamente imposto a pena di decadenza; ma libero in guisa da poterlo sospendere nelle annate cattive. A togliere il malvezzo dei contadini di dedicare tutti i loro risparmi non al miglioramento del fondo, ma al riscatto della terra, si potrebbe capitalizzare il canone non più al tasso del 5%, ma all’interesse legale del 4% o meglio a quello minore del 3% così da far toccare con mano al contadino la convenienza di tenersi per sé i denari piuttosto che darli per il riscatto alla società concedente.

 

 

Per brevità passiamo in silenzio l’enumerazione dei vantaggi fiscali che si propone di concedere alle società anonime intermediarie per la compra ed il frazionamento dei fondi rustici, fra cui sono da lodarsi specialmente le riduzioni delle gravose tasse che gravano in Italia sui trapassi della proprietà terriera.

 

 

Nel loro insieme, le disposizioni di legge ci sembrano atte, con alcune modificazioni, a raggiungere il fine che si propongono, laddove le condizioni economiche ed agricole siano favorevoli allo sviluppo della piccola proprietà. A noi sembra che di questa limitazione implicita non si sia tenuto abbastanza conto nella relazione ministeriale che precede il disegno di legge sul mezzogiorno. Diffondere la piccola proprietà a noi sembra un ideale nobilissimo e socialmente di grande importanza, checché ne pensino il ministro Pantano ed il direttore dell’ufficio del lavoro, troppo infervorati nella propaganda delle conduzioni collettive; ma riterremmo assurdo ogni tentativo di acclimatare la piccola proprietà, ad esempio, nella bassa lombarda coltivata – a prati e marcite, o nella campagna romana dove per molteplici ragioni si impone ora e si imporrà per un pezzo la conduzione estensiva. La piccola proprietà attecchisce e si diffonde nelle colline, dovunque predominano le culture arboree, e quelle richiedenti mano d’opera abbondante, paziente, innamorata della terra. Per fortuna siccome il disegno di legge affida l’opera di frazionamento della manomorta bancaria e della grande proprietà privata a coltura estensiva a società anonime private, è da credere che queste, spinte dal proprio interesse, sceglieranno, per frazionarle, terre le quali dal punto di vista tecnico, economico, commerciale si prestino alla diffusione della piccola proprietà coltivatrice. Entro questi limiti la loro opera potrà essere economicamente e socialmente utile.

 

 

II

Il progetto Pantano intitolato «per la colonizzazione interna» e che meglio potrebbe chiamarsi «per le affittanze collettive» prende le mosse da un concetto diverso dal concetto informatore del progetto ministeriale sul mezzogiorno e tende ad un fine diverso. Questo vorrebbe facilitare il trapasso della manomorta bancaria in piccoli proprietari coltivatori. il progetto Pantano vorrebbe invece colonizzare le terre incolte d’Italia, ma siccome le notizie su queste terre incolte sono vaghissime, si limita a costituire commissioni regionali per compilarne l’elenco e proporre i piani di colonizzazione – punto che può accogliersi limitandosi a promuovere studi, i quali riusciranno per fermo interessantissimi -; ed a stabilire fin d’ora che debbano essere colonizzate, concedendole in uso temporaneo e col vincolo della inalterabilità, le terre incolte di proprietà dello stato. Ma siccome i beni demaniali dello stato si riducono ad assai poca cosa, di un valore minore di 4 milioni di lire, così questa concessione – lo confessa lo stesso ministro proponente – ha un’importanza limitata. inoltre è da credere che i contadini poveri non sapranno che cosa farsi dell’uso temporaneo e col vincolo dell’inalienabilità, supponiamo perpetuo, di beni, la massima parte dei quali furono già esposti in vendita e non trovarono acquisitori.

 

 

Siccome il progetto non osa per il momento abbordare il problema delle terre «colonizzabili» appartenenti ai privati, il succo delle proposte Pantano si riferisce ai beni delle provincie dei comuni, delle opere pie ed altri enti morali.

 

 

Qui veramente si tratta di una massa imponente di beni valutata in poco meno di 900 milioni di lire per i beni stabili (comprese le case, ecc.) di spettanza dei comuni, ed estesa ad una superficie ignota per le opere pie, rispetto alle quali si sa soltanto che su 8127 opere pie esistenti in 35 province ve n’erano 1852 che possedevano 238.383 ettari di terreno. Il progetto, riferendosi altresì ad altri enti morali, tende a permettere la colonizzazione dei beni dei banchi di emissione, i quali potrebbero scegliere fra il sistema del progetto sul mezzogiorno e quello del progetto Pantano.

 

 

Il metodo principe auspicato dal Pantano per la «colonizzazione» dei beni rustici delle province, dei comuni, delle opere pie e degli altri enti morali è quello dell’affittanza collettiva mediante asta pubblica o licitazione privata a cooperative di lavoratori della terra, composte cioè di «braccianti ed anche di piccoli proprietari, enfiteuti, affittuari e coloni i quali coltivino personalmente la terra e lavorino a mercede più che per proprio conto». A queste cooperative si concederà l’esenzione per 15 anni dall’imposta di ricchezza mobile sugli utili netti, e per dieci anni l’esenzione dalle tasse di bollo e di registro per gli atti relativi alle loro operazioni. Alle cooperative si concederà il credito da parte dell’ «Istituto nazionale per la colonizzazione interna» fondato dallo stato con la somma iniziale di 10 milioni di lire, con la facoltà di emettere altri 10 milioni di lire di cartelle di credito agrario, le quali in sostanza, per essere l’istituto di stato, finiranno per essere garantite da quest’ultimo.

 

 

L’intento del progetto Pantano è dunque di sostituire ai metodi attuali di affitto ad imprenditori agricoli dei beni rustici delle provincie, dei comuni e delle opere pie, un altro sistema per cui i beni sarebbero affittati collettivamente a cooperative di contadini. Che tutto ciò lo si chiami « colonizzazione interna» a noi sembra cosa stranissima, spiegabile soltanto con la riflessione che forse meno facilmente il parlamento si sarebbe lasciato indurre a dare 10 milioni ed a concedere la garanzia per altri 40 milioni alle cooperative di lavoratori che non per un’opera di colonizzazione delle terre incolte. In realtà però le terre dei comuni, delle province e delle opere pie sono per la più parte coltivate; e quel che si vuole è semplicemente sostituire un conduttore ad un altro. Del disegno di legge Pantano l’opinione pubblica non si è invero interessata nell’Italia centrale e meridionale dove si lamenta l’esistenza delle terre incolte. Nella Lombardia e nell’Emilia, per iniziativa della Società umanitaria e di associazioni fra cooperative, ecc. ecc., si indicono infatti convegni per studiare il progetto e proporvi modificazioni. Sul «Tempo» di Milano il prof. Samoggia propone che l’affittanza collettiva dei beni degli enti pubblici e morali sia resa obbligatoria e non semplicemente facoltativa come vorrebbe il Pantano. A Genova l’avv. Murialdi vorrebbe che si desse facoltà di stipulare affittanze collettive anche alle cooperative di operai cittadini, con sezione agricola, affinché, esse potessero rimandare ai campi le braccia disoccupate delle città. Da Piacenza l’egregio deputato Raineri dirama a tutti i giornali d’Italia un suo lucido scritto per spiegare che cosa siano le affittanze collettive.

 

 

È quindi dovere imposto dalla sincerità porre il problema non sotto il nome equivoco di «colonizzazione interna» ma di affittanze collettive di beni coltivati, spesso anche intensamente, e posti un po’ dappertutto in Italia, ma specialmente nell’alta Italia, dove notoriamente esistono le opere pie più ricche e potenti. Porre il problema, non risolverlo; poiché dobbiamo candidamente confessare che a noi mancano gli elementi sufficienti per risolverlo a ragion veduta.

 

 

Nella relazione Pantano e nell’opuscolo Raineri (di cui sono distribuiti solo i preliminari) si contengono infatti notizie utilissime intorno agli scopi ed al congegno delle affittanze collettive; ma quasi nulla è detto intorno ai loro risultati. A quanto si sa le affittanze collettive sarebbero di tipi diversi. Un tipo sarebbe quello delle affittanze collettive a conduzione divisa istituite, ad iniziativa dei cattolici, nelle province di Bergamo, Brescia, Como e Milano. Vi erano qui alcuni grossi fondi che il proprietario affittava ad un canone, ad esempio, di 10000 lire all’anno ad un solo conduttore e questi spezzava poi in piccoli lotti, mettiamo 20, subaffittandoli a contadini ad un prezzo medio di 750 l’uno. I contadini pagavano 15 mila lire ed il proprietario ne riceveva 10000; la differenza andava a beneficio dei fittabili. I parroci hanno messo insieme i contadini, hanno costituito un fondo unico per la cauzione, spesso coll’aiuto di persone caritatevoli, ed hanno indotto il proprietario ad affittare tutto il fondo alla cooperative per 10.000 lire; frazionandolo poi di nuovo in 20 masserie distinte subaffittate ai soci a 500 lire, forse 525 lire l’una, in guisa da potere pagare l’affitto e le spese di amministrazione. L’utilità di questo contratto è chiara, perché fa guadagnare ai contadini la somma che prima era intascata dagli intermediari. Pare che di cooperative cattoliche ve ne sia una quindicina circa; ma in esse di collettivo vi è solo il contratto e la responsabilità solidaria per il pagamento del canone; la coltivazione rimane individuale.

 

 

Diverso è il tipo delle affittanze collettive dell’Emilia, della Romagna e del Mantovano, le quali si possono chiamare, trascurando differenze minori, a conduzione indivisa. Queste affittanze sono di iniziativa socialistica; e parecchie furono fondate dalle leghe di braccianti dopo il 1901 per ovviare ai danni della disoccupazione. Gli scioperi del 1900 ed il rialzo dei salari avevano indotto i grossi proprietari ad alimentare il numero delle macchine ed i piccoli a ridurre al minimo l’impiego di braccia estranee alla famiglia. Alcune leghe, per porre uno schermo alla disoccupazione e al ribasso dei salari, assunsero in conduzione tenute, dove danno lavoro ai soci, a turno, in guisa che tutti possono guadagnare qualcosa. «Le cooperative – dice la relazione Pantano – naturalmente abbondano in lavori nella stagione in cui la disoccupazione è maggiore, ottenendo così la conservazione delle tariffe della organizzazione e talora anche un aumento che torna a loro stesse di danno».

 

 

Nel reggiano dal 1901 al 1905 furono costituite 10 di queste cooperative, di cui 3 già sono morte. Nel bolognese ne vivono parecchie, su cui le notizie mancano. Non parliamo della cooperativa romagnola d’Ostia «il cui successo economico non fu pari a quello tecnico» – sono parole della relazione malgrado i generosi sussidi di re Umberto.

 

 

Vi è poi un nucleo di affittanze collettive in Sicilia, di cui una ventina sorte per opera dei cattolici un po’ dappertutto sullo stampo delle affittanze collettive cattoliche lombarde; e nove in provincia di Trapani dovute al movimento socialista delle leghe di resistenza. Tutte sono a conduzione divisa.

 

 

Esposte così in breve riassunto le notizie che si hanno intorno alle affittanze collettive italiane esponiamo alcuni quesiti, la risposta ai quali dovrebbe servire di fondamento ad una discussione seria in argomento. Quali sono i risultati delle affittanze collettive fondatesi in Italia? Se si debbono dare 50 milioni dello stato non per promuovere la coltivazione di terre incolte, ma per sostituire agli affittuari di terreni coltivati cooperative di lavoratori, è utile si sappia quali garanzie di successo presentino le cooperative.

 

 

Non si dovrà fare distinzione fra i diversi tipi di affittanza collettiva? Se una affittanza si proponga, come quelle emiliane, di aiutare i soci disoccupati e mantenere alti i salari, dovrà il legislatore aiutarle col credito di stato? O non porterebbe ciò alla conseguenza di far rimanere i disoccupati dove si trovano, in contraddizione coll’intento voluto dalla legge di sfollare le regioni troppo popolate per colonizzare le terre a popolazione rada?

 

 

È davvero utile che si venga in aiuto delle cooperative agricole col credito di stato nell’alta Italia? Noi non siamo molto teneri del credito largito dallo stato; e ricordiamo il nomignolo di società – pompe (pumpen genossenschaften) dato dai tedeschi alle cooperative fondatesi apposta per suggere il dolce licore dei quattrini governativi e squagliatesi come nebbia al sole quando la fontana del tesoro cessò di buttare acqua. Ammettiamo tuttavia un limitato credito di stato nel mezzogiorno, dove i capitali sono scarsi e le iniziative private difettose. Ma nell’Alta Italia, così ricca di istituzioni di credito d’ogni fatta, c’è davvero bisogno di un credito di stato?

 

 

Che cosa dicono i maggiori interessati, provincie, comuni ed opere pie, dell’istituto delle affittanze collettive? Il loro parere sarebbe utile a sapersi e non sarebbe male che gli amministratori di enti pubblici proprietari di beni rurali facessero sentire la loro voce. Certo il sistema vigente degli affitti obbligatori al più alto offerente lascia molto a desiderare; ma ogni mutamento va ponderato con attenzione.

 

 

La nostra conclusione si è che il progetto Pantano, sfrondato dal titolo improprio e dei propositi troppo grandiosi in confronto al contenuto, pone un problema pratico della più alta importanza: come debbono essere gestiti i beni rustici degli enti pubblici e dei corpi morali? Coll’unica mira di ottenere l’affitto più alto possibile, od anche coll’intento di recare il massimo beneficio, compatibile coi fini dell’ente proprietario, alle popolazioni coltivatrici? Le affittanze collettive sono il mezzo migliore per raggiungere l’intento?

 

 

Appunto perché il progetto Pantano pone ma non risolve il problema momentoso, noi siamo contrari alla proposta Samoggia di rendere obbligatorie le affittanze collettive. Queste debbono ancora fare le loro prove e dimostrare la loro eccellenza di fronte ad altre forme di conduzione della terra. L’eccellenza loro dovrà essere dimostrata non con bei ragionamenti dottrinali, quali si leggono nella relazione Pantano – ufficio del lavoro, ma con fatti, ai quali soltanto si ha il dovere di credere. Fino a quel momento parlare di obbligatorietà delle affittanze collettive è voler fare un salto nel buio. La libertà di scelta sancita in proposito dal progetto Pantano è più che sufficiente. Nessuno sarà più lieto di noi se, nella lotta a pari condizioni con gli altri metodi, le affittanze collettive verranno ad aggiungersi ai congegni che già esistono per trarre il massimo utile, economico e sociale, dalla terra.

 

 


[1] Con il titolo Piccola proprietà e colonizzazione interna. [ndr]

[2] Con il titolo Le affittanze collettive e il progetto Pantano. [ndr]

I provvedimenti per i tributi locali nel mezzogiorno

I provvedimenti per i tributi locali nel mezzogiorno

«Corriere della Sera», 27 marzo 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 330-334

 

 

Il disegno di legge Majorana intorno alla riforma dei tributi comunali non era certo un passo innanzi nello sgravio dei contribuenti; od una grande riforma che mutasse radicalmente od in parte il sistema tributario dei comuni. No; la riforma si riduceva a sostituire alle dite antiche imposte di famiglia e sul valor locativo una nuova imposta sull’entrata, essa pure comunale, la quale presentava il vantaggio di un congegno assai migliore, più equo, flessibile ed elastico, delle due imposte odierne, oramai irrigidite e sperequate. Non ci eravamo perciò uniti a coloro che criticavano il progetto Majorana perché non rispondente ai loro ideali tributari. Parecchi studiosi di pubblica finanza avrebbero preferito togliere ai comuni addirittura le due imposte di famiglia e sul valor locativo, ed istituire una imposta generale sul reddito a favore dello stato. L’esempio della Prussia, dell’Olanda e di tant’altri paesi, insegna che l’imposta generale sull’entrata può essere amministrata con successo soltanto dallo stato, il quale può seguire il reddito del contribuente in tutte le sue manifestazioni, dovunque abbia origine. L’imposta comunale sul reddito per necessità diventa parziale, frammentaria; e lascia adito ad evasioni ed a frodi di ogni specie. Ai comuni si sarebbe dato qualche compenso per il gettito perduto delle attuali imposte di famiglia e del valor locativo; ad esempio, come si fece in Prussia, una maggior partecipazione alle imposte reali sui terreni e sui fabbricati, abbandonando loro parte deI contingente erariale. Ai critici noi avevamo osservato che se si cominciava a discutere dei primi principi delle imposte e della miglior maniera ideale di distribuire i tributi fra lo stato e gli enti locali, la disputa non avrebbe mai avuto fine; e che da qui a dieci anni ci saremmo trovati al punto di prima. Accettiamo intanto – dicevamo – la proposta Majorana la quale aveva il pregio di perfezionare le due imposte attuali di famiglia e sul valor locativo sostituendole con un’unica imposta sul valor locativo: quando saranno perfezionate, se ne potrà fare quell’uso che si crederà migliore.

 

 

Era certissima cosa però che, se anche il progetto Majorana avesse potuto giungere agli onori della discussione parlamentare, le discussioni sarebbero state vivacissime; e le poche novità del progetto avrebbero spaventato molti, sicché in definitiva il risultato pratico sarebbe forse stato nullo. Il ministero presente, fermo nel proposito di voler fare subito opera utile al mezzogiorno, ha perciò, pure tenendone conto nelle sue proposte, ritirato il progetto Majorana; e si contenta di alcune piccole riforme, apparentemente di poco peso, ma la cui utilità non può essere messa in dubbio. Forse il presentarle sotto forma modesta e di semplici modificazioni di norme particolari gioverà a fare approvare le proposte; e sarà tanto di guadagnato. Per non destar diffidenze, non si propone nessuna novità rispetto al nome ed al numero dei tributi locali sulle entrate. L’imposta sul valor locativo è lasciata immutata; e si fanno pochi ritocchi all’imposta di famiglia o focatico, conservandole il nome antico e ben noto alle popolazioni. Poiché oramai l’ «imposta di famiglia» o «focatico» è una istituzione accettata dai contribuenti, perché spaventarli dicendo ad essi che d’ora innanzi dovranno pagare un’imposta sull’entrata? Il nome nuovo darebbe l’idea di inquisizione fastidiosa, mentre quello antico non eccita più diffidenza. Così pure sono abbandonate le proposte di progressività dell’aliquota, e quelle altre novità che potevano ritardare il consenso del parlamento o innestavano sulla riforma altre modificazioni più vaste del sistema tributario vigente. Le proposte si restringono a pochi punti: il minimo di reddito esente, le attenuazioni per le famiglie numerose, il divieto della regressività e la procedura degli accertamenti e ricorsi. Esaminiamoli partitamente.

 

 

L’imposta di famiglia purtroppo, in molti comuni, specialmente del mezzogiorno, è assai male ordinata. Talvolta nessuno è esente ed anche i poverissimi devono pagare; tal’altra sono esenti i «miserabili» con locuzione imprecisa ed arbitraria. Spesso vi sono pochissime classi di contribuenti, cosicché i più poveri pagano ad esempio 3 lire e i più agiati 20; eppure 3 lire di imposta su un reddito di 500 lire è uguale al 0,60% , e 20 lire su un reddito di 10.000 è uguale appena al 0,20% avendosi così lo sconcio di un’imposta progressiva a rovescio. Il progetto Sonnino-Salandra per il mezzogiorno vuol porre riparo a queste ingiustizie più stridenti. Anzitutto vi è un minimo di reddito che deve andar esente dall’imposta ed è di 400 lire nei comuni con popolazione fino a 5000 abitanti, di 800 nei comuni con popolazione fra 5001 e 10.000 abitanti e così via fino a 2000 lire pei comuni con più di 100.000 abitanti. I comuni potranno stabilire minimi di esenzione più elevati, non mai più bassi. Per tener conto del numero dei membri della famiglia si prescrive che il minimo di reddito esente sarà aumentato della metà, portato, ad esempio, da 400 a 600 lire per i comuni più piccoli, per i padri di famiglia con più di quattro persone a carico; e ridotto di un quarto, da 400 a 300 lire, quando il contribuente sia solo e non abbia nessuno a cui provvedere. Per impedire la progressività a rovescio si stabilisce il principio che la misura percentuale dell’imposta sul reddito tassabile non sia nei gradi inferiori mai maggiore di quella che risulterà per i gradi superiori. Ripigliando l’esempio dato sopra se colui che ha 500 lire di reddito paga 3 lire d’imposta (0,60%), non potrà colui che ha 10.000 lire di reddito pagare solo 20 lire (0,20%), ma dovrà pur esso pagare almeno il 0,60% ossia 60 lire; e se si vuole che costui paghi solo 20 lire, dovrà a sua volta il contribuente che ha 500 lire di reddito pagare 1 lira e non 3, in guisa che sia salvo il principio della proporzionalità. Non siamo arrivati alla progressività voluta dal Majorana; ma in un paese dove ci sono tanti comuni rimasti allo stadio delle imposte regressive ossia progressive a rovescio, pare prudente cominciare a fare un passo innanzi, attuando il principio della proporzionalità, proclamato nello statuto.

 

 

Sono proposte certamente modeste ma precise e utili. Se il parlamento le approverà, qualcosa si sarà guadagnato nel campo della giustizia tributaria, e la via sarà libera per procedere innanzi, se si vorrà, nel cammino delle riforme. Si aggiunga che il progetto a questi ritocchi ne aggiunge alcuni consimili per l’imposta sul bestiame, che unifica con l’imposta sulle bestie da tiro, da sella e da soma. Qui è detto che saranno esenti in ogni caso i possessori di due bovini od equini di specie armentizia, ovvero di tre suini, o di cinque lanuti, o di due capre, o di un animale da lavoro. Sarà esente anche chi possegga animali di due delle specie ora ricordate; e l’esenzione sarà concessa alla famiglia del contadino, considerata nel suo complesso, in guisa da non dare più di una esenzione per famiglia. Se si pensa che nel mezzogiorno vi sono moltissimi contadini, la cui unica ricchezza è negli armenti, o nelle bestie da lavoro, il valore dell’esenzione risulta evidente.

 

 

L’ultimo ritocco ai tributi locali si riferisce alla procedura d’accertamento ed ai ricorsi dei contribuenti. Le lagnanze contro le imposte spesso derivano non tanto dalla loro durezza, quanto dalla loro ingiusta e partigiana distribuzione. Dove coloro che distribuiscono i contribuenti nelle varie classi e giudicano i ricorsi dei contribuenti sono in primo grado i consigli comunali ed in secondo grado le giunte provinciali amministrative, come accade oggidì, chi può togliere i sospetti della partigianeria?

 

 

Il progetto vuole che sui reclami decida in primo grado una commissione nominata dal consiglio comunale con la rappresentanza delle minoranze e presieduta dal pretore, ed in secondo grado la commissione provinciale già esistente per le imposte dirette. Si spera che in tal modo la risoluzione delle questioni tributarie, avvenendo per mezzo di corpi tecnici, sia equa e sfugga alle passioni di parte. Sarebbe eccessivo negare ogni valore alla speranza; ma è doveroso avvertire come su questo punto lo scetticismo non solo sia lecito, ma consigliato dall’esperienza del passato. Per le imposte dirette di stato sui fabbricati e la ricchezza mobile esistono già da lunghi anni commissioni mandamentali e provinciali; ma esse non hanno impedito mai che i redditi, sovratutto mobiliari, fossero colpiti in maniera sperequata. C’è forse qualcuno il quale crede che i ruoli di ricchezza mobile corrispondano a verità? Dell’ingiustizia, per cui un contribuente è colpito più e l’altro meno, pur avendo lo stesso reddito, non sono in parte responsabili le commissioni per le imposte dirette, alle quali si vorrebbe in secondo grado affidare la risoluzione dei ricorsi in materia di tributi comunali? Quali garanzie di imparzialità presenterebbe la commissione di primo grado eletta dal consiglio comunale e presieduta dal pretore noi non sappiamo. I membri della commissione sarebbero, almeno in maggioranza, partigiani, se è partigiano il consiglio; ed il pretore, nuovo alle località e di solito uccello di passaggio, diverrebbe una specie di bocca del leone di tutte le lettere anonime, le calunnie e le malignazioni che fioriscono nei villaggi e nelle piccole città. Nelle grandi città che conoscenza si può pretendere abbia un pretore delle fortune dei contribuenti?

 

 

Fatta la critica, dobbiamo riconoscere però che è difficile additare un rimedio. Questo è un punto su cui non si può concepire una riforma la quale non sia legata ad un mutamento più vasto nei rapporti tributari fra stato e comuni. Forse l’unica via di uscita sarebbe di togliere ai comuni ogni ingerenza nella compilazione delle liste dei contribuenti, affidandola ad un unico corpo tecnico per lo stato e gli enti locali, e organizzando in guisa diversa il controllo dei contribuenti. Il discorso ci porterebbe troppo lontano; tanto lontano che ci sembra inutile farne pur cenno in un momento nel quale urge far qualcosa di pratico a favore del mezzogiorno. Contentiamoci perciò delle parecchie piccole, modeste e utili riforme contenute nel progetto Sonnino. Al resto si penserà poi.

 

 

Le provviste di materiale ferroviario e le preferenze all’industria nazionale

Le provviste di materiale ferroviario e le preferenze all’industria nazionale

«Corriere della Sera», 17 marzo 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 326-329

 

 

Un punto di grande importanza nel progetto presentato dall’on. Carmine per l’esercizio di stato è quello sulle provviste del materiale.

 

 

Nella legge 22 aprile 1905, che sancì frettolosamente l’esercizio ferroviario di stato, era stato inserito un articolo (l’11) del seguente tenore:

 

Il governo commetterà all’industria nazionale le nuove ordinazioni di materiale, provvedendo che, a pari condizioni, esse siano equamente ripartite tra gli stabilimenti congeneri nelle diverse parti del regno. Il direttore generale potrà, su conforme parere del consiglio d’amministrazione e in seguito a deliberazione del consiglio dei ministri, prescindere dalle gare di appalto e procedere per trattative private quando ciò sia consigliato dall’interesse dell’amministrazione o per assicurare un’equa ripartizione delle forniture. Nel caso di collusioni o di altre frodi degli industriali a danno dell’amministrazione ferroviaria, e quando non sia possibile ottenere dall’industria nazionale a prezzi convenienti ed equi, tenuto conto delle condizioni generali del mercato, si potrà con la osservanza delle forme prescritte nel precedente capoverso, ordinare l’appalto della fornitura all’industria estera.

 

 

L’articolo, così come era stato formulato, aveva dato luogo a non piccoli inconvenienti. Quale competenza può avere il consiglio dei ministri nel deliberare sulla convenienza di indire le gare o procedere piuttosto a licitazione o trattativa privata? Non c’era il pericolo che il consiglio d’amministrazione, corpo tecnico, avesse a trovarsi in contrasto col consiglio dei ministri, dominato sovratutto da criteri politici? Più grave era poi la indeterminatezza di quei prezzi convenienti ed equi tenuto conto delle condizioni generali del mercato, l’esistenza o non esistenza dei quali doveva far decidere se le forniture dovessero essere riservate all’industria nazionale o concesse all’industria straniera. Tutto era rimesso all’arbitrio del consiglio d’amministrazione, il quale non avendo a guida norme precise poteva essere accusato di essere troppo benigno verso l’industria nazionale o di avere inconsultamente fatto emigrare il nostro lavoro all’estero, a seconda delle deliberazioni che prendeva. V’era stato difatti chi, a proposito delle ultime ordinazioni concesse all’interno, affermava che agli industriali nostri s’erano fatti patti troppo grassi, con grave danno dell’erario che aveva pagato 1,75 quella stessa fornitura che gli stranieri avrebbero data per 1,25.

 

 

Il disegno di legge dell’on. Carmine intende a provvedere ad inconvenienti, i quali potevano in avvenire farsi ancora più gravi di quanto già ora non siano. Innanzi tutto al consiglio dei ministri è tolta ogni ingerenza in materia; e la facoltà di prescindere dalle gare e provvedere per licitazione o trattativa privata è riservata al comitato di amministrazione delle ferrovie. Inoltre è meglio regolata la materia della preferenza da darsi alle industrie nazionali: «Se il risultato delle gare, delle licitazioni o delle trattative private dimostra che le condizioni dell’industria nazionale non permettono di ottenere prezzi convenienti e rapide consegne nelle forniture, la direzione generale, su conforme parere del comitato di amministrazione, procede a gare internazionali, alle quali sono invitate anche le ditte nazionali».

 

 

La formula adoperata presenta rispetto a quella della legge del 22 aprile 1905, il pregio di una maggiore chiarezza. È tolto ogni accenno alle collusioni o frodi degli industriali italiani, cosa sempre difficile a provare; e così pure non si parla più di prezzi equi, concetto pur esso di ardua applicazione. Si dice soltanto che, se l’amministrazione non giudicherà le offerte italiane convenienti rispetto ai prezzi ed alla prontezza delle consegne, potrà bandire le gare internazionali.

 

 

La legge dell’anno scorso pareva imporre senz’altro la scelta tra i fornitori italiani e quelli stranieri, prima ancora che il risultato di una gara internazionale venisse ad indicare pubblicamente a chi dovesse darsi la preferenza, e poneva così la direzione delle ferrovie in una posizione delicatissima quando di sua volontà non bandisse le gare internazionali ammettendovi anche le ditte nazionali. Adesso non è più la direzione che deve attribuire le forniture, col pericolo di farsi accusare o da una parte o dall’altra; ma si deve badare al risultato delle gare. Se le offerte delle ditte nazionali saranno inferiori o pari a quelle delle ditte straniere, la fornitura sarà loro riservata; e così pure se la loro offerta sia superiore solo del 5% a quella estera. Questo limite del 5% potrà essere portato all’8% quando ciò sia giudicato opportuno dalla direzione e dal comitato amministrativo delle ferrovie in ragione dell’urgenza delle forniture e della natura del lavoro. Siamo nel campo di disposizioni precise. Gli industriali italiani sanno che essi possono godere di un maggior prezzo di fronte agli stranieri del 5 e fino dell’8%; margine il quale, unito alla protezione doganale, sembra sufficiente a garantire loro una continuità di lavoro proficua.

 

 

Un’ ultima definizione ha voluto dare l’on. Carmine: quella dell’offerta dell’industria estera. Se ad una gara internazionale per locomotive tender concorrono 6 industriali stranieri, i quali offrono i prezzi di 1,25, 1,30, 1,35, 1,40, 1,45 e 1,50 al chilogrammo, e 3 italiani i quali offrono 1,37, 1,50 e 1,60 al chilogrammo, a chi dovrà essere concessa la fornitura? Se si confrontano le due offerte più basse straniere (1,25) ed italiane (1,37) si dovrebbe conchiudere che siccome l’offerta straniera anche aumentata del 5% (1,25 + 0,0625 = L. 1,3125) è sempre inferiore a quella italiana (lire 1,37), alla ditta straniera deve darsi la preferenza. Il Carmine adotta un altro criterio; e dice che si debba fare la media dei prezzi risultanti dalle offerte più basse riconosciute valide che rappresentino la metà (in caso di numero pari), la metà più uno (in caso di numero dispari) dei concorrenti esteri. Nel caso nostro facendosi la media dei tre prezzi più bassi ed aggiungendo il 5% si otterrebbe 1,30 + 0,078 = L. 1,378; cosicché la preferenza spetterebbe ancora all’industriale nazionale che ha offerto lire 1,37.

 

 

Tra l’offerta più bassa di lire 1,25 dell’industria straniera e l’offerta della ditta italiana rimasta aggiudicataria vi sarebbe lo scarto di quasi il 10%, doppio di quello che a prima vista sembrerebbe sancito dalla legge. La ragione di questo singolar modo di calcolare gli scarti fra le offerte estere e le offerte nazionali non è detta. Si è voluto ovviare evidentemente al pericolo di favorire le industrie straniere che facessero prezzi bassissimi di esportazione, inferiori al costo, nel supposto intento di distruggere l’industria nazionale ed in seguito rialzare eccessivamente i prezzi a danno delle ferrovie di stato. Essendo difficile che la metà o la maggioranza delle ditte estere si mettano d’accordo per fare prezzi di esportazione, la media dei prezzi più bassi potrebbe essere considerata meglio rispondente a verità.

 

 

Ai competenti di vedere se sia il metodo migliore per ottenere il risultato voluto o se forse non convenga adottare un’altra formula. Ciò che importa è che sia migliorato, come il Carmine propone, il sistema un po’ nebuloso ed incerto prescritto dalla legge vigente, sostituendolo con una formula chiara e precisa che non lasci adito a sospetto alcuno di favoritismi ed inframmettenze politiche e che limiti esattamente il sacrificio che l’erario è chiamato a sopportare per favorire l’industria nazionale.

 

 

L’arbitrato obbligatorio nel «paese dove non si sciopera»

L’arbitrato obbligatorio nel «paese dove non si sciopera»

«Corriere della Sera», 6 febbraio[1] 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 321-325

 

 

Quando si parla di arbitrato obbligatorio si presenta alla nostra mente subito l’Australia: il felice «paese dove non si sciopera», dove operai ed imprenditori vivono tranquilli e contenti sotto la tutela della legge, la quale vieta scioperi e serrate, istituisce tribunali arbitrali, fissa i salari minimi e il massimo delle ore di lavoro, rende obbligatorio le leghe, insomma instaura in terra un mondo simile a quello invocato in Europa dai più fervidi avvocati del movimento socialistico-operaio. Senonché sembra che non siano tutte rose quelle che fioriscono agli antipodi: od almeno cominciano a sentirsi voci di gente che si lamenta. Sono, è vero, voci di imprenditori; ma, per quanto possano sembrare sospette ad alcuni, è opportuno segnalarle, perché finora si era voluto quasi far credere che laggiù tutti fossero arcicontenti dell’arbitrato obbligatorio, anche quelli che manifestamente dovevano sentirne primi le dannose ripercussioni. Noi in verità, esaminando il testo della legge, eravamo sempre rimasti un po’ scettici. È noto quali siano i poteri delle corti d’arbitrato australiane: la legge del Nuovo Galles meridionale, ed è contro questa che vennero diretti i primi attacchi, stabilisce che la corte di arbitrato possa: fissare il salario minimo degli operai normali ed il salario ridotto per i lavoratori deficienti; determinare che debba darsi la preferenza agli unionisti o soci delle leghe in confronto dei crumiri; dichiarare «regola comune» e quindi obbligatoria per tutta una industria una sua decisione, o una consuetudine, o norma vigente, o una clausola qualsiasi di un contratto collettivo; espellere soci dalle unioni; sciogliere queste e imporre multe sino a 500 lire sterline per unione (lega), o fino a 5 sterline per ogni socio in caso di violazione di un giudicato od ordinanza della corte. Vietati gli scioperi e le serrate sotto pena di una multa di 1000 sterline o di due mesi di carcere; dichiarato delittuoso l’incitamento allo sciopero o alla serrata.

 

 

Era facile prevedere che poteri così estesi dati alle corti d’arbitrato le avrebbero convertite in legislatori irresponsabili ed avrebbero diminuita assai la indipendenza degli imprenditori e la loro facoltà di organizzare liberamente le imprese. Pare, se si ascoltano gli industriali, sia precisamente ciò che è accaduto. Per virtù della clausola della «preferenza agli unionisti» subito largamente applicata dalle corti, l’imprenditore non può più scegliere i propri operai, preferire quello che egli crede più abile ed operoso ad un altro che egli crede disadatto od infingardo. Una sentenza stabilisce che «un imprenditore non è giustificato se assume un operaio non organizzato, se prima non si rivolge al segretario della lega operaia per accertare se non sia disponibile un qualche operaio competente inscritto alla lega». Chi giudicherà della competenza, dell’abilità degli operai? Nella vecchia Europa, il datore di lavoro dà il giudizio sull’abilità dell’aspirante all’impiego. Nel Nuovo Galles del sud il sistema è considerato antiquato: un tal Wild fu diffidato come violatore di una sentenza arbitrale perché occupava un operaio non leghista da lui ritenuto più competente dell’operaio organizzato che contemporaneamente chiedeva occupazione e la sentenza dichiarò che la corte e non l’imprenditore deve decidere riguardo alla relativa competenza degli operai unionisti e non unionisti che chiedono contemporaneamente lavoro. La corte, ossia un collegio composto di un delegato degli operai, un delegato degli imprenditori, che naturalmente sono di parere contrario, e possono appartenere ad un mestiere differente da quello intorno a cui si deve giudicare, e un presidente giurista, il quale deciderà lui solo in base a criteri, che colla competenza hanno ben poco da fare.

 

 

Gli imprenditori, dopo aver accettato operai magari ritenuti inabili, non li possono licenziare; anche se il lavoro si riduce, non si può ridurre la maestranza agli operai migliori, in guisa da formarne un nucleo attaccato all’impresa anche nei tempi difficili. No: vi sono sentenze le quali stabiliscono la massima «dell’ultimo assunto, primo licenziato», massima che può essere volontariamente adottata quando l’imprenditore abbia avuto mani libere nella scelta dei suoi operai, ma significa, in regime di arbitrato obbligatorio, l’obbligo di conservare una maestranza conscia del suo diritto all’impiego e perciò scioperata e turbolenta.

 

 

Nel Nuovo Galles rinascono i costumi dimenticati del corporativismo medievale. Chi ricordava più da noi le beghe tra calzolai e ciabattini che si davan botte da orbi perché gli uni pretendevano che il proprio campo di lavoro fosse stato invaso dagli altri? O le altre tra falegnami e stipettai, e via dicendo, tra le diverse corporazioni, le quali asserivano d’avere il privilegio di fabbricare o vendere una certa cosa? Orbene, quelle dispute risorgono nella modernissima Australia, a riprova solenne che le istituzioni sedicenti nuove hanno sovente tanto di barba. Il capitano della nave Resolute, giunto nel porto di Sydney, comincia a far scaricare la nave mediante la propria ciurma. Subito la lega dei lavoratori del porto lo diffida di cessare da siffatto orrendo attentato ai propri diritti, perché il lavoro dello stivatore spetta agli uomini dell’apposita lega e non ad altri. Stavolta la corte annullò la diffida, perché male formulata; ma in un caso analogo, quello della nave Andromeda, la corte multò il capitano e gli ordinò di eseguire lo scarico con mano d’opera unionista. La «Vacuum Oil Company» aveva impiegato alcuni giovani operai per saldare i cerchi di certi barili. Diffida della lega dei bottai e sentenza della corte, la quale, pure riconoscendo che il lavoro era semplice e poteva benissimo essere eseguito dai giovani che vi erano stati adibiti, dichiarò tuttavia che, trattandosi di lavoro da bottai, da bottai doveva essere eseguito, anche se il costo del lavoro aumentasse perciò inutilmente di 400 sterline all’anno. A quando la divisione definitiva degli operai nelle antiche classi dei garzoni, apprendisti, compagni e maestri, in guisa che a percorrere tutta la carriera ci voglia almeno il tempo necessario negli eserciti europei per diventare capitani? Dove se ne sono andati i bei discorsi della necessità di stimolare l’intelligenza, l’istruzione, l’iniziativa delle classi operaie, se poi tutti devono consumare lo stesso periodo di tempo a raggiungere il bastone di maresciallo, ossia la facoltà di lavorare come operai propriamente detti?

 

 

Sono almeno scomparse le cause di conflitti e gli scioperi, grazie a questa legislazione antico-modernissima? Pare di no; scioperi se ne sono verificati durante l’impero dell’arbitrato obbligatorio; e le corti non seppero qual rimedio trovare. Uno sciopero nell’industria mineraria scoppiò nel dicembre 1904-gennaio 1905, e produsse la disoccupazione di 5 o 6000 operai. Fu promossa azione penale contro gli scioperanti; ma la lega fu assolta perché la corte giudicò potersi gli operai astenere in massa dal lavoro dopo il preavviso consuetudinario; ed in realtà come costringere gli operai a continuare un lavoro o gli imprenditori a tenere aperta la fabbrica contro il proprio volere od interesse? Sarebbero i lavori forzati per gli operai e l’obbligo di andare in rovina per gli imprenditori; né finora sembra che in Australia i governi vogliano compensare gli imprenditori delle perdite sofferte nei periodi di esercizio obbligatorio dell’industria.

 

 

La conclusione si è che, secondo gli imprenditori, «la legge sull’arbitrato ha condotto non alla pace, ma alla guerra nell’industria. Si sono formati due campi ostili che compiono operazioni offensive e difensive con gran danno e perdite finanziare per entrambe le parti. La legge promuove l’idea che l’imprenditore è un oppressore e distrugge nell’operaio il giusto sentimento che l’imprenditore è il suo datore di lavoro e che egli deve cercare di acquistarne la stima. D’altro lato l’operaio è condotto a ritenere vi sia un’autorità esterna cui sottoporre le sue proteste, autorità che diventa così, sotto ogni riguardo, il vero padrone. In conseguenza dello spirito diffuso nella classe operaia, non vi fu mai nella storia del lavoro nel Nuovo Galles un’epoca di così forte antagonismo fra imprenditori e lavoratori».

 

 

Queste parole – che si leggono tradotte nell’ultimo «Bollettino dell’ufficio del lavoro italiano», dal quale abbiamo tratto i fatti ora ricordati – meritano di essere meditate da coloro i quali cianciano di arbitrato obbligatorio senza essersi curati di pensare mai sul serio che cosa esso significhi e quali siano le sue necessarie conseguenze.

 

 



[1] Con il titolo Nel «paese dove non si sciopera». L’arbitrato obbligatorio giudicato dagli imprenditori. [ndr]

I duecento milioni del ministro Tedesco e la necessità di un programma ferroviario

I duecento milioni del ministro Tedesco e la necessità di un programma ferroviario

«Corriere della Sera», 5 febbraio 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 318-320

 

 

Quando l’on. Tedesco rispondendo all’on. Ferri – che l’accusava di aver dispensato a dritta ed a manca, nel suo giro ferroviario attraverso le principali città italiane, promesse molte, sapendo di non poterle mantenere – disse di avere 200 milioni pronti per mantenere quelle promesse, parve a lui d’aver detto una cifra altissima ed all’on. Ferri fecero difetto le notizie necessarie per potere mettere in chiaro quel che di vero e di inesatto vi era nelle affermazioni ministeriali. Riprendiamo per un momento la questione, perché ci sembra opportuno affermare ancora una volta che l’Italia lavoratrice aspetta dai suoi governanti ben altro di promesse ingannevoli che mascherano appena i bisogni del presente e lasciano intatto il problema dell’avvenire, che sarà domani il problema d’oggi.

 

 

Sì, i 200 milioni ci sono od almeno il governo in parte li ha ottenuti (legge del 22 aprile 1905 per 95 milioni) e in parte ha chiesto (disegno di legge 30 novembre 1905 per 105 milioni) al parlamento l’autorizzazione a procurarseli per mezzo di mutui colla Cassa depositi e prestiti, l’emissione di certificati ferroviari 3,65% ecc. ecc. Ma di questi 200 milioni ben 45 sono destinati a soddisfare impegni antecedenti al 1 luglio 1905 ossia all’esercizio di stato (acquisto di materiale rotabile e manutenzione straordinaria ecc.); sicché per i nuovi bisogni residuano soltanto 155 milioni. Di questi 100 milioni sono destinati alla compra di materiale rotabile, 10 milioni alla esecuzione di progetti già definitivi di lavoro, 10 milioni alla espropriazione di terreni per l’ampliamento delle stazioni in alcune grandi città, e 35 milioni per posa di nuovi binari, ampliamento di stazioni, ecc. Lasciamo giudicare al lettore se tutto ciò possa essere considerato come un programma ferroviario organico e meditato e se in base ad esso siano giustificate le larghissime promesse di milioni a bizzeffe che l’on. Tedesco si credette in dovere di dispensare nella sua corsa lungo la penisola. Salta agli occhi la sperequazione fra la somma consacrata all’acquisto del materiale rotabile (100 milioni) e quella dedicata agli impianti fissi (55 milioni), sperequazione già rilevata nella bella relazione scritta dall’on. Carmine sul disegno di legge del 30 novembre 1905. Egli con accorti raffronti e positive considerazioni ha dimostrato che se la provvista di materiale rotabile che si potrà fare con quei 100 milioni non sarà sufficiente a colmare tutte le lacune, sarà possibile al resto provvedere negli anni futuri a mano a mano che gli impianti migliori consentiranno di utilizzare il maggior materiale. Ma è sovratutto negli impianti che noi siamo deficienti, ed è questo difetto che renderebbe oggi inutile una maggiore dotazione di carri, vetture e locomotive! 55 milioni appena, quando la sistemazione delle stazioni principali richiederà una spesa più vicina ai 200 che ai 100 milioni, quando la costruzione di doppi binari sembra doverne assorbire almeno 100, e la posa di circa un milione di metri lineari di binari di servizio altri 150 milioni, e le opere minori per gli impianti stradali non richiederanno certo meno di 50 milioni: in tutto circa mezzo miliardo. Al quale bisognerà aggiungere, secondo i prudentissimi calcoli dell’on. Carmine, altri 350 milioni per le nuove linee dalla riviera ligure alla valle del Po, da Sarzana a Sestri levante, da Bologna a Firenze, oltre i doppi binari Genova-Chiavari e Pisa-Civitavecchia.

 

 

Di fronte a tutti questi bisogni certissimi e prevedibili si stanziano 55 milioni; ed al ministro Tedesco parve aver fatto un bel gesto e di aver conquiso la camera dei deputati gridando che c’erano 200 milioni disponibili! I deputati non si lasciarono conquistare, non tanto perché sapessero dare il giusto peso a quel tintinnio di milioni fatto risuonare alle loro orecchie, quanto perché l’uomo non affidava. Ma le rappresentanze locali, commerciali ed industriali debbono da quel breve battibecco Ferri-Tedesco trarre argomento per risvegliarsi e per mettere innanzi ai nuovi governanti la necessità di tenere cammino diverso da quello che le parole pronunciate ultimamente alla camera, dimostrarono che si voleva ostinatamente seguire dal ministero passato. A definirla in poche parole, la via preferita dai Ferraris-Tedesco-Carcano era questa: chiedere al parlamento il minimo di fondi necessario per comperare il materiale rotabile e costruire gli impianti necessari non per l’avvenire e neppure per il presente, ma appena appena per rimediare alle insufficienze del passato. Tutto ciò col pretesto che ci vuol tempo a fare i progetti e che i lavori non si possono eseguire in un giorno e che è inutile accantonare fondi per lavori che non si eseguiranno né oggi né domani, ma tutt’al più sotto un ministero di là da venire. Bisogna bene persuadersi che l’avere in passato seguito questo sistema ci ha condotti allo sfacelo attuale; e il seguirlo in avvenire ci condurrà ad uno sfacelo peggiore. Tutto si è fatto sotto la pressione della necessità; e si è fatto male. Furono rabberciamenti e non impianti nuovi. Si comperarono aree disadatte a prezzi eccessivi laddove, con un po’ di previdenza, si poteva comperare bene ed a prezzi miti. I progetti furono fatti e disfatti le mille volte per adattarli alle contingenze che mutavano d’ora in ora.

 

 

Così l’esercizio di stato non può durare bene. Importa che un piano generale di lavori si faccia; e che si chieggano i fondi al parlamento per attuarlo sia pure gradatamente ed in un certo numero di anni. L’on. Carmine ha dimostrato che il bilancio dell’azienda ferroviaria possiede l’elasticità necessaria per rimborsare al tesoro in un conveniente numero di anni le perdite derivanti dai prestiti da contrarsi per l’esecuzione di un piano organico di lavori. Poiché la cosa è possibile, la si faccia dunque. Ricordi il ministero nuovo di avere lo sguardo fisso all’avvenire. Solo così riuscirà a fare opera meritoria anche pel presente ed a procacciarsi favore duraturo.

 

 

Lo sfacelo ferroviario in Italia

Lo sfacelo ferroviario in Italia

«Corriere della Sera», 22 gennaio 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 313-317

 

 

Dopo un anno dalla pubblicazione di un articolo sull’ «anarchia ferroviaria» che ebbe una lunga eco di consenso nella opinione pubblica, l’on. Maggiorino Ferraris ritorna alla carica, con un nuovo vigoroso studio sullo «sfacelo ferroviario in Italia» (nella «Nuova antologia» del 15 gennaio 1906). Purtroppo, dopo un anno lo scrittore ha, unico conforto, quello di potersi considerare non più come l’araldo di una causa misconosciuta, ma come uno dei capi di un movimento che ogni giorno più ingigantisce nelle classi industriali, agrarie e commerciali, che ha già costretto ministri dei lavori pubblici e direttori delle ferrovie a recarsi nelle principali città italiane a calmare gli animi sovreccitati, che presto proromperà, se si continua a voler pascere gl’interessati di promesse e di telegrammi, con una furia cosiffatta che dinanzi ad esso nessun ministero potrà resistere. La condizione attuale del problema ferroviario, come di tanti altri problemi urgenti, fa sì che in Italia esista un contrasto profondo, insanabile fra un paese operoso, giovane, desideroso di nuova vita ed un governo pigro sonnolento e testardo di uomini preoccupati da piccole cose e da piccoli intrighi, i quali si destano solo quando sentono rumoreggiare la piazza e si vedono vicini ad affogare. La storia che il Ferraris narra un’altra volta della incredibile, proterva impreparazione del governo alla soluzione del problema ferroviario sta a provare la verità di quanto affermiamo. A nulla giovano le proteste delle camere di commercio, il memoriale presentato nel novembre 1899 – sei anni fa – dalle Società mediterranea ed adriatica, per dimostrare l’urgenza assoluta di provvedere subito con stanziamenti di centinaia di milioni per evitare pericoli gravissimi allo scadere delle convenzioni; a nulla valsero le raccomandazioni di relatori parlamentari, di deputati competenti, di scrittori tecnici i quali dimostrarono la necessità di prepararsi a tempo alla assunzione dell’esercizio di stato delle ferrovie od alle nuove convenzioni. Pochi si diedero per inteso che ancora nel gennaio 1904 la Società mediterranea in una pubblicazione ufficiale dichiarasse le stazioni ed i binari in tali condizioni di insufficienza da rendere impossibile un servizio normale; – le linee e specialmente le arterie essenziali della Liguria talmente impari ai bisogni, sì da destare serie preoccupazioni non solo per la regolarità ma per la sicurezza dell’esercizio, – il materiale mobile un museo di antichità vecchio e disadatto, reggentesi a furia di costose riparazioni ed ingombrante le officine, con perturbazione del servizio e sperpero del pubblico danaro; – i carri presi a nolo bisognevoli di continue riparazioni. Che anzi quando si sperava, con la legge Lacava-Boselli del 25 febbraio 1900 per la provvista di materiale rotabile per 230 milioni, di porre riparo ai malanni più urgenti, successe il fatto incredibile che, dopo aver speso nel 1900 – 903 circa 142 milioni, nel 1903 – 904 si ridussero le spese a poco più di 7 milioni e nel secondo semestre del 1904 si spesero pure solo 7 milioni, sospendendo l’impiego dei fondi votati dal parlamento per ben 73 milioni di lire, quando da tutte le parti si gridava alla mancanza di locomotive, di carrozze e di carri. Tutto ciò col pretesto che si era alla vigilia della scadenza delle convenzioni e che occorreva prepararsi all’avvenire quasiché il materiale ferroviario non fosse di proprietà dello stato e la preparazione all’avvenire stesse nell’inerzia!

 

 

Saremo in avvenire più consapevoli della necessità di prepararsi a tempo e di oprare con energia? Se si confrontano il fabbisogno del momento e le promesse del governo c’è da rimanere scettici. Il Ferraris nota che il materiale mobile in Italia si trova in condizioni miserande rispetto ai limiti di età; perché mentre le ferrovie prussiane di stato eliminano dal servizio le locomotive quando hanno superato i 21 anni, le vetture oltre i 26 anni, ed i carri oltre i 35 anni; e quantunque le convenzioni del 1885 fissassero i limiti inverosimilmente elevati di 40, 50 e 60 anni di età, si hanno ora in Italia nientemeno che 252 locomotive, 1156 carrozze e 5901 carri che hanno superato i 40 anni, senza calcolare 230 locomotive fra i 30 ed i 35 anni e che sono poco meno che inservibili: un vero museo di antichità, come diceva nel 1904, con frase scultoria, la Mediterranea. Se si tiene conto anche solo del materiale che ha superato i limiti della decrepitezza, al di là dei quali le convenzioni del 1885, pur così larghe, decretano l’eliminazione dal servizio, della deficienza riconosciuta al 1 luglio del 1905, delle necessarie rinnovazioni e dell’aumento normale del traffico, si calcola che nel biennio 1905 – 907 sarebbe necessario provvedere ad una fornitura per la sola rete di stato di 1230 locomotive, 3070 carrozze – viaggiatori, 16500 carri-merci e 700 bagagliai con una spesa minima di 240 milioni di lire. Invece il governo chiede uno stanziamento di soli 92,6 milioni, sui quali ha già impegnate 355 locomotive e potrà ordinare 10000 carrozze di tipo moderno e 10000 carri.

 

 

È qualche cosa; ma il vuoto alla fine del biennio sarà nulladimeno altissimo: 875 locomotive, 2070 carrozze, 6500 carri e 700 bagagliai; il che vuol dire la permanenza della disorganizzazione e dello sfacelo. Se si passa agli impianti fissi, le prospettive per il futuro non sono più rassicuranti. La commissione Adamoli ha calcolato per le linee che servono il porto di Genova un fabbisogno di 130 milioni; la Società adriatica ha studiato anni or sono progetti di massima per l’assetto delle sue stazioni che importerebbero una spesa di 260 milioni. Se si aggiungono i lavori indispensabili in altre parti della rete, la necessità di un migliore armamento di molte linee, il prezzo ognora crescente delle aree nelle vicinanze delle stazioni non si può temere di andare errati fissando pel biennio 1905-906 un fabbisogno di 400 milioni di lire. Ebbene il governo contrappone uno stanziamento inefficace di 6 milioni di lire, voler col quale provvedere alle stazioni ed alle linee sarebbe come asciugare una fontana con un bicchiere. La politica della impreparazione e dello sfacelo continua. «Paese e parlamento sollevarono le più vive rimostranze contro la politica ferroviaria del ministero precedente (Fortis-Carcano-Ferraris); ma paese e parlamento devono oggi constatare con dolore che il nuovo ministero (Fortis-Carcano-Tedesco) nulla ha mutato. I provvedimenti oggi annunciati sono quelli stessi che erano già in corso al momento della crisi del dicembre. Sopravvennero telegrammi, dichiarazioni, viaggi: ma non una locomotiva di più, non un metro di binario di più, non una lira di più in bilancio! L’anno scorso, quando la voce del paese eruppe clamorosa contro la deficienza di materiale mobile, il governo vantò le 547 locomotive ordinate dopo la legge del 1900: ma tacque che un numero ben maggiore di macchine avevano nel frattempo superato i limiti d’età od erano diventate decrepite per vecchiaia, per lavoro eccessivo e per cattiva manutenzione. Quest’anno, in condizioni ancora più gravi, il governo vanta la tardiva ed insufficiente fornitura di 5 locomotive, mentre ne occorrono almeno 1000; ma tace che un numero ancora maggiore di macchine è invecchiato o decrepito».

 

 

Le conclusioni non potrebbero essere più sconfortanti. Il Ferraris si augura che con una agitazione forte, immediata, irrefrenabile, il paese sappia ottenere gli stanziamenti di bilancio necessari per vincere in un paio d’anni l’anarchia ferroviaria. Purtroppo in Italia gli interessati si agitano forte solo quando i mali sono divenuti insoffribili. Dovrebbero invece vigilar sempre e influire sull’opinione pubblica, la quale sola può aver ragione dell’inerzia dei governi e della acquiescenza delle maggioranze che li sorreggono. Si spinga un po’ lo sguardo fuori di casa, e si osservi l’esempio della Prussia che con continuità e sano criterio industriale stanziava 178 milioni di lire nel 1903, 206 nel 1904, 231 milioni di lire nel 1905 per compra di materiale mobile e per nuovi impianti fissi, nonostante il disavanzo del bilancio. In tre anni 1603 locomotive, 2094 carrozze, e 20190 carri merci; mentre in Italia ci vollero 19 anni dal – 1885 al 1904 – per dare alle ferrovie 1531 locomotive nuove, meno di ciò che la Prussia costruì in soli tre anni.

 

 

L’on. Ferraris, per dimostrare che è possibile seguire l’esempio prussiano, ha citato ancora una volta la serie promettente degli avanzi di bilancio fra le entrate e le spese effettive dal 1898-99 in poi. Noi non siamo adoratori dell’avanzo di bilancio – un feticcio pericoloso talvolta ma non possiamo dimenticare che quegli avanzi di più di 60 milioni di lire all’anno in media, devono servire a tante cose e principalmente a quella riforma tributaria ed a quella rigenerazione del mezzogiorno che stanno anche tanto a cuore dell’illustre direttore della «Nuova antologia». E perciò ci limiteremo a ricordare la progressione dei prodotti delle tre grandi reti, che oscillò dal 1900-901 al 1904-905 da 9 a 20 milioni di lire, e fu in media del 5,58% all’anno. Noteremo come nel secondo semestre del 1905 le ferrovie di stato abbiano dato quasi 10 milioni di più del corrispondente periodo del 1904. Togliamo pure il 55-60% per maggiori spese d’esercizio rimane pur sempre un incremento netto che può bastare al servizio di un prestito di oltre 100 milioni di lire all’anno: prestito che sarebbe riproduttivo quant’altro mai, che in un decennio ci metterebbe in grado di impiegare un miliardo per l’assetto della rete ferroviaria, prestito dal quale l’alta banca certo non trarrebbe argomento per deprimere, bensì per innalzare il credito italiano. Sentasi che cosa dicono i «Times», il gran giornale del primo paese industriale e bancario d’Europa: «In Italia i servizi della posta e del telegrafo sono deplorevolmente addietro a quelli degli stati vicini. Il servizio ferroviario è assolutamente vergognoso. Ciò accade in un paese che è uno dei pionieri nell’ingegneria elettrica, il cui genio meccanico occupa quasi il primo posto in Europa, e la cui mano d’opera ha costrutto metà delle ferrovie e compiuto all’estero alcune delle più stupende opere del mondo. Ma ovunque in Italia è la stessa condizione di cose: ferrovie, telegrafi ed innumerevoli altre imprese affamate e rovinate per mancanza di una spesa fatta a tempo. Questo è specialmente il caso delle ferrovie, di cui le locomotive ed il materiale mobile in genere sono state ridotte dall’uso, dall’abbandono e da una falsa economia a condizioni quasi incredibili».

 

 

Il disegno di legge Majorana: tributi comunali ed imposta sull’entrata

Il disegno di legge Majorana: tributi comunali ed imposta sull’entrata

«Corriere della Sera», 20 gennaio 1906

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 308-312

 

 

Il disegno di legge per il «riordinamento dei tributi comunali» ha avuto nel suo nascere parecchie disgrazie: principalissima quella che il Majorana non si trova più al banco dei ministri a difenderlo con convinzione e calore; e l’altra che egli forse non fu malcontento di andarsene dal palazzo di finanze, per non dover difendere con troppo calore un progetto riuscito troppo al di sotto delle sue prime aspirazioni riformatrici. Il rimprovero che i critici più affrettati hanno rivolto a questa postuma edizione degli intendimenti dell’on. Majorana, di essere una riforma timidissima ed anzi di essere a mala pena un invito ed una preparazione a riforme venture, contiene una constatazione di fatto, la quale non può essere certamente messa in dubbio. La constatazione di fatto – che la riforma del Majorana muta cioè assai poco alla legislazione attuale non può però condurre ad una condanna incondizionata dell’opera dell’ex ministro.

 

 

Premettiamo qualche ricordo. Discutendo della riforma tributaria in rapporto al problema meridionale, noi ci siamo posti qualche tempo fa alcuni quesiti: La riforma tributaria deve essere compiuta a base di traslazione o di sgravio delle imposte? E concludemmo che per quanto sottili artifici si volessero escogitare per trasferire da una classe ad un’altra gli attuali pesi tributari (sistema della traslazione), si dimenticava che in Italia tutte le classi sono troppo colpite dalle imposte; ed esprimevamo le nostre preferenze per la politica degli sgravi ossia della diminuzione, graduata e coordinata ad un fine voluto, dei tributi che più opprimono il consumo e la produzione. Il bilancio italiano presenta avanzi siffatti che si potrebbe benissimo in un decennio giungere alla abolizione di 100 milioni d’imposte. Sollevate così le condizioni dei contribuenti tutti, dato un impulso difficilmente immaginabile ai consumi e per conseguenza alle industrie, sarà possibile ed utile istituire una imposta generale sul reddito, la quale colpisca gli italiani divenuti più ricchi e meno tribolati da aliquote alte nelle imposte già esistenti. Oggi noi non vedremmo con simpatia il sorgere di un’imposta sul reddito la quale verrebbe ad aggiungersi, a sovrapporsi ad imposte sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile, le quali si trovano già con aliquote altissime, che sarebbe pericoloso aumentare.

 

 

Il disegno di legge Majorana che si impernia in apparenza sull’istituzione di una imposta sul reddito e non abolisce nessun tributo sui consumi, non dovrebbe dunque ricevere accoglienza benigna da noi che vogliamo una politica, che effettivamente riduca i pesi dei contribuenti e non si limiti a mutare il nome alle cose. Noi non eravamo tuttavia esclusivisti nelle nostre proposte; e non avremmo lesinato la nostra approvazione a propositi diversi dai nostri ed anche all’imposta sul reddito, che si diceva essere negli intendimenti del Majorana, purché finalmente si facesse qualcosa sul serio e purché si volesse fare opera utile. Purtroppo il disegno ora pubblicato è nato morto, sicché ci resta da vedere soltanto se esso sia intrinsecamente buono e tale da essere raccomandato ai reggitori attuali e futuri della pubblica finanza.

 

 

Un ministro delle finanze, al quale i colleghi non consentano di fare davvero qualcosa di nuovo, di iniziare una trasformazione tributaria importante e sentita dai contribuenti, può, per consolarsi del suo disinganno, accingersi ad un lavoro paziente di piccole modificazioni degli ordinamenti esistenti, in guisa da migliorarli dal punto di vista tecnico, da renderli più perfetti e più adatti a fornire alle finanze le identiche entrate di prima con minori attriti, e più giusta ripartizione dei pesi sui contribuenti. Questo tal ministro delle finanze dice al suo collega del tesoro: Voi non volete rinunciare ad un centesimo dei redditi fiscali odierni, o non volete sobbarcare lo stato a nessun sacrificio per migliorare le finanze comunali? E sia: io vi garantisco il reddito attuale; consentitemi soltanto di darvelo in maniera un po’ diversa, con ordinamenti meglio congegnati.

 

 

Nessuno, che sia in buona fede, – pure lamentando che i ministeri collettivamente non abbiano il coraggio di andare più in là e preferiscano al piccolo rischio delle riforme tributarie lo spreco certo degli avanzi di bilancio – può biasimare quel ministro delle finanze il quale almeno cerca di migliorare gli ordini attuali. Un congegno più perfetto servirà sempre meglio di un rozzo strumento quando in avvenire riformatori più audaci vorranno tentare nuove vie. Perciò noi non ci sentiamo di condannare il Majorana nei suoi propositi di paziente intarsio e di perfezionamenti tecnici. Egli ha visto, ad esempio, che in Italia su 8300 comuni ve ne sono ben 6437 che già fin d’ora applicano le due tasse di famiglia e di focatico, con un reddito nel 1905 di oltre 26 milioni di lire; ed osservando – ciò che del resto tutti gli amministratori e gli studiosi sapevano – che le due imposte sono male congegnate, hanno tariffe or troppo alte or troppo basse, non colpiscono i contribuenti in proporzione ai redditi, si prestano a diventare facile strumento di ire partigiane, ha detto: perché non migliorare queste due imposte e, dato che amendue colpiscono in fondo la stessa cosa, sostituirle con una sola imposta, sempre riservata ai comuni, detta imposta sull’entrata la quale sia regolata in maniera tecnicamente più perfetta? La sostanza non muterà perché i comuni che prima applicavano la tassa di famiglia o il valor locativo, in futuro applicheranno l’imposta sull’entrata; e quelli che non aveano mai voluto sapere delle prime, potranno anche lasciare stare da parte la seconda. Si avranno insieme parecchi vantaggi: i primi avranno a propria disposizione un congegno certamente più equo e produttivo di imposizione; ed i secondi appunto per ciò potranno indursi ad applicare un’imposta buona mentre prima si erano dimostrati riluttanti alle vecchie imposte imperfette. Che la nuova imposta sull’entrata sia migliore delle attuali tasse di famiglia e sul valor locativo, non c’è dubbio; il Majorana ha tenuto assai accortamente calcolo dell’esperienza paesana e straniera ed ha tessuto una trama che non diremo perfetta, ma che certo è assai migliore degli ordinamenti attuali. L’imposta normalmente lascia esenti i redditi inferiori alle 800-2500 lire a seconda dei centri di popolazione; colpisce i redditi tassabili con un’aliquota che va da un minimo di 0,50% per i redditi fino alle 2000 lire, ad un massimo di 5% per i redditi oltre le 200.000 lire; tien calcolo dei pesi, imposte, interessi ipotecari che gravano sui redditi; diminuisce l’imponibile per coloro che abbiano ascendenti, figli, o parenti stretti a proprio carico, ecc. ecc.; regola bene i rapporti fra i comuni dove i contribuenti risiedono e quelli donde essi ricavano i loro redditi, per evitare le doppie imposizioni e le ingiustizie a danno dei comuni rurali; stabilisce norme lodevoli per la risoluzione dei reclami e per il controllo dei contribuenti sugli organi tassatori, ecc. ecc. Leggendo gli articoli del disegno Majorana, si ha l’impressione che la nuova imposta sull’entrata sarebbe tecnicamente assai più progredita delle due vecchie imposte da abolire. Ripetiamo: ciò non può soddisfare coloro, i quali dall’imposta sull’entrata attendono mirabili cose; ma, mentre queste si invocano inutilmente dai ministri susseguentisi, perché non cominciare a dare ai comuni il mezzo di ordinare più equamente i tributi locali? L’esperienza, che si dice sempre essere la maestra della vita, insegnerà quale frutto i comuni abbiano saputo ricavare dall’imposta sull’entrata; ci dirà se essa possa opportunamente applicarsi a tutta Italia o solo all’Italia più ricca, fornirà insomma i dati opportuni per risolvere l’altro problema più momentoso dall’adozione di un’imposta di stato sull’entrata, la quale sarebbe davvero un’aggiunta, per il momento pericolosa, alle imposte attuali, mentre l’imposta Majorana non è se non una veste nuova più agghindata e piacevole data a nostre vecchie, se non care, conoscenze.

 

 

Nell’intendimento del Majorana l’imposta sull’entrata deve essere altresì come la leva di un movimento spontaneo riformatore nelle finanze comunali. Egli ha cercato di favorire il movimento con parecchie disposizioni proibendo, ad esempio, per il futuro in maniera assoluta di aumentare i limiti delle sovrimposte sui terreni e sui fabbricati; di imporre nuovi e maggiori dazi sui generi più necessari; consentendo di operare riforme daziarie, di ridurre le sovrimposte, la tassa sul bestiame e la tassa di esercizio e rivendite a quei comuni, i quali, per ottenere codesti scopi, si serviranno dell’imposta sull’entrata. Noi non possiamo qui fare una critica minuta – qualcuna presterebbe il fianco a critiche fondate – di tutte queste disposizioni. Il concetto informatore in sostanza è questo: Oggi i comuni si poggiano troppo sulle sovrimposte ai terreni e fabbricati, sui dazi di consumo e sulle tasse bestiame ed esercizi e rivendite. Tutti tributi codesti utili a colpire certe riforme di ricchezza, ma dannosi perché la loro pressione è stata spinta ad un punto eccessivo a danno sovratutto della proprietà fondiaria e dei consumatori. Bisogna che i comuni un po’ per volta ne riducano la pressione, abolendo i dazi più esosi e diminuendo le aliquote più alte. Ad agevolare loro l’impresa ardua offriamo l’imposta sull’entrata, meglio adatta a raggiungere il fine delle imposte di famiglia e sul valor locativo. In quella maniera il peso tributario, che oggi appare insopportabile perché preme eccessivamente sui consumatori, sugli agricoltori e sui proprietari (meglio si direbbe inquilini) di case, sembrerà più lieve perché una parte si sarà trasferita su tutti gli abitanti dei comuni che abbiano più di un certo reddito minimo (800 lire nelle campagne e 2500 nelle grosse città di più di 100.000 abitanti), in proporzione leggermente progressiva del reddito; e saranno costretti a pagare anche taluni che oggi danno ai comuni troppo poco, ad esempio i percettori di redditi mobiliari.

 

 

L’esperienza avrebbe detto se si sarebbero ottenuti i buoni risultati auspicati dal Majorana. Limitiamoci per ora a lamentare che le vicende parlamentari abbiano tolto la possibilità di ottenere quel miglioramento tecnico nelle imposte comunali sul reddito già esistenti che si sarebbe certamente ottenuto colla loro trasformazione in una imposta sull’entrata. Sarebbe stata una riforma utile e di puro tecnicismo tributario; ed è doloroso che in Italia si sia ridotti a lamentare che i ministri delle finanze non possano nemmeno dotare il paese di leggi più perfette per codificare meglio gli istituti esistenti.

 

 

Il problema ferroviario del porto di Genova e la direttissima di Genova-Milano

Il problema ferroviario del porto di Genova e la direttissima di Genova-Milano

«Corriere della Sera», 24[1] e 25[2] novembre; 3[3] e 29[4] dicembre 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 285-307

 

 

Le recenti notizie secondo le quali a Roma si sta pensando al riordinamento degli scali ferroviari di Milano, i non lontani discorsi degli on. Fortis e Ferraris a Genova, promettitori di una soluzione adeguata del problema ferroviario del porto di Genova; l’annuncio dato dal sindaco di Genova della costituzione di un comitato milanese-genovese, con a capo il senatore Erasmo Piaggio, il comm. Otto Joel, il comm. Tommaso Bertarelli, allo scopo di ottenere dal governo l’autorizzazione per fare gli studi opportuni onde presto costrurre ad iniziativa privata la nuova linea ferroviaria direttissima Milano-Genova; ci hanno fatto pensare alla utilità di porre sotto gli occhi del pubblico alcuni dati sul grandioso problema delle comunicazioni ferroviarie che si diramano dal porto di Genova e che fanno capo sovratutto a Milano. I lavori inaugurati dal consorzio del porto alla presenza del re saranno certo lo strumento di un mirabile progresso negli scambi commerciali del maggiore porto italiano. Ma i lavori saranno stati compiuti invano se non sarà possibile di utilizzarli prontamente e compiutamente con impianti ferroviari adatti a ricevere e diffondere nell’Italia settentrionale la crescente quantità di merci che si riverseranno sulle calate del porto. Presentare all’opinione pubblica sotto i suoi diversi aspetti il problema ferroviario del porto di Genova e dell’alta Italia: ecco il nostro compito.

 

 

Dire che il movimento del porto di Genova cresce ogni anno in proporzioni superiori alle previste, è dire cosa nota. Il traffico che dal 1872 al 1878 oscillava tra 700.000 e 933.000 tonnellate, ed ancora nel 1881 era di appena 1.290.489 tonnellate, prende un rapido slancio dopo che si cominciano a far sentire i primi benefici delle opere di sistemazione ed ingrandimento del porto, eseguite in base alla convenzione stipulata nel 1876 fra lo stato e il duca di Galliera. Nel 1882 balziamo a 2.072.065 tonnellate; nel 1889 siamo a 4.099.615; nel 1899 a 5.076.398 e nel 1903 a 5.652.158 tonnellate. Nell’ultimo ventennio l’aumento medio annuo è di 170.000 tonnellate, di cui 160.000 nello sbarco e 15.000 all’imbarco. Sono cifre grosse, e che sembrano ancor più promettenti se si pensa che mentre dal 1895 il 1912 la merce sbarcata a Marsiglia cresceva del 23%, a Genova l’aumento fu del 32%. Ma quanto lontani siamo ancora dal 57% di Amburgo, dal 58% di Anversa e dal 66% di Rotterdam! E con quanta invidia Genova coi suoi 4 milioni ed 809.000 tonnellate di merce allo sbarco deve guardare agli 8 milioni di Anversa ed ai 10 milioni di Rotterdam e di Amburgo! La nostra inferiorità rispetto ai grandi porti dell’Europa centrale diventa ancor maggiore se si pensa che il 50% della merce sbarcata a Genova è costituita da carboni fossili destinati alle industrie dell’alta Italia, ossia da una merce non ricca; si accentua riflettendo che nei grandi porti ricordati il movimento è distinto fra importazione ed esportazione in parti eguali o non molto diverse; mentre a Genova l’imbarco è appena il 16% dello sbarco; onde si ha l’inconveniente di una fiumana di merci la quale partendo dal porto attraversa l’Appennino per spandersi nell’entroterra continentale; e, per contrapposto, di un’esile corrente che dalla valle del Po fluisce a Genova, costringendo moltissimi carri a tornarsene vuoti sulle calate del porto. Lo squilibrio nelle nostre correnti commerciali cresce il costo dei trasporti, incaglia spesso la rapidità delle comunicazioni ed è non ultima causa degli ingorghi che si verificano a Genova. Nei porti di Anversa, di Marsiglia, di Rotterdam, gli stessi carri ferroviari che trasportano la merce diretta al porto vengono utilizzati per la spedizione della merce in arrivo dal mare. La doppia corrente si svolge così naturalmente, nelle condizioni più favorevoli per l’esercizio. A Genova invece i carri destinati alle spedizioni debbono essere concentrati vuoti per la massima parte (circa l’80%), facendoveli affluire artificialmente da molte stazioni dell’interno della rete, con disposizioni e manovre spesso complicate e difficili, sempre onerose per l’esercente.

 

 

Altro punto in cui Genova è di troppo inferiore ai porti del Nord: il traffico di transito internazionale. Malgrado il canale di Suez e il traforo del Gottardo, malgrado la posizione geografica, Genova è rimasta un porto nazionale, che solo in minime proporzioni serve ai bisogni dei paesi dell’Europa centrale. Appena il 5% del movimento complessivo del porto è dovuto al transito internazionale: 266.000 tonnellate nel 1902, di cui 236.000 per via di terra. La maggior parte delle merci di transito (211.000 tonnellate) è diretta alla Svizzera; le quantità inviate verso altri paesi sono insignificanti. Anche nella Svizzera la posizione dell’Italia è ben lungi dall’essere predominante; delle 800.000 tonnellate, che formano il commercio della Svizzera con i porti intermediterranei ed interoceanici, appena una quarta parte traversa l’Italia, passando per Genova e Venezia. La linea del Gottardo ha giovato a Genova assai meno di quanto si era previsto; e – come ben nota l’ing. Edilio Ehrenfreund in uno studio pubblicato nel rapporto della commissione Adamoli – l’errore di previsione fu commesso sovratutto perché non si valutarono esattamente: il grande progresso della navigazione marittima; lo sviluppo dei porti settentrionali d’Europa; l’utilizzazione mirabile del Reno e degli altri grandi fiumi della immensa pianura del nord, che ha permesso ai porti del Belgio, dell’Olanda, della Germania, di lottare vittoriosamente con quelli dell’Atlantico e del Mediterraneo nel servire agli scambi dell’Europa con l’America ed il Levante. Oggi i trasporti da Anversa e da Rotterdam, per Berna e Zurigo, sono a miglior mercato che da Genova, non ostante che il percorso sia doppio. Una tonnellata di grano da Rotterdam a Berna, via Mannheim, costa di trasporto lire 21,80 per una lunghezza di 938 km; la stessa tonnellata da Genova a Berna costa lire 25,10 non ostante che la lunghezza sia di soli 517 km. La ragione si è che in territorio tedesco il trasporto si fa da Rotterdam a Mannheim per 567 km sul Reno ad un costo di 6 millesimi per tonnellata – chilometro; mentre da Genova a Berna il trasporto è tutto per terra con costi unitari di 35 e di 59 millesimi. Siccome i noli marittimi dei porti del Mar Nero, delle Indie, dell’Estremo Oriente sono gli stessi tanto che le merci siano spedite ai porti del Mediterraneo, come se siano spedite ai porti del nord, è chiara la convenienza di fare un giro più lungo compensato dalle tariffe più basse sui fiumi. Genova quindi non deve tanto lottare con Marsiglia, quanto ambedue i porti del Mediterraneo debbono lottare con i porti del nord se vogliono accaparrarsi una parte del trasporto di merci per l’Europa centrale. La concorrenza è resa difficile oltreché dal mite costo dei trasporti dalle condizioni stesse dei porti del nord; i quali hanno un retroterra industriale attivissimo, che assicura i noli di ritorno alle navi che vi fanno approdo, cosa la quale manca a Genova per la deficienza delle esportazioni; ed hanno saputo diventare grandi centri internazionali di traffico, accentrando in sé tutto quel movimento che in Francia ed in Italia, per gelosie regionali, è sparso in numerosi porti, tutti insufficientemente dotati d’impianti e dove i negozianti non sono certi di trovare partenze sicure, frequenti con tutti i porti esteri con i quali si mantengono rapporti commerciali. I porti del nord sono divenuti, ciascuno per determinate categorie di merce, vere piazze internazionali di mercato; il commercio vi affluisce da ogni parte d’Europa, perché in essi sono le borse dei prezzi, i centri degli affari. È appunto l’abbondanza delle merci affluenti ai porti di Amburgo, Rotterdam, Anversa, che ha reso possibile la creazione di quelle numerose linee regolari di navigazione, con partenze frequenti e con percorso rapido, che trasportano merci e viaggiatori a tariffe basse e pur remunerative.

 

 

Ciò nonostante il porto di Genova cresce sempre più d’importanza assoluta, benché stia in via relativa al disotto dei concorrenti del nord; né è a dubitarsi che il suo traffico crescerà ancora. Le nostre industrie citiamo ancora da uno studio dell’ing. Ehrenfreund – non hanno raggiunto il loro massimo sviluppo. Mentre l’Inghilterra consuma annualmente 43 quintali di carbone per abitante, gli Stati uniti 35, il Belgio 30, la Germania 25, la Francia 10, e l’Austria 8, l’Italia ne consuma meno di 2. Nelle regioni che formano la zona di competenza nazionale del porto di Genova, l’intensità industriale si può ritenere circa doppia di quella media del regno. Ma anche se aumenta in questa proporzione, il consumo di carbone del retroterra di Genova è molto al disotto di quello dell’Austria e della Francia, per non dire dei paesi intensamente industriali. Quindi è da credere che il fiorire dell’industria interna vorrà dire sviluppo crescente del porto di Genova. Quanto al traffico internazionale, senza dubbio l’apertura della linea del Sempione migliorerà sensibilmente le condizioni del porto di Genova rispetto al transito diretto per la Svizzera, specie occidentale, riducendo la distanza fra Genova e Losanna a km 419 in confronto dei 531 fra Losanna e Marsiglia. La nostra zona di penetrazione nella Svizzera si allargherà ancora di più quando si sia provveduto al traforo delle Alpi Bernesi (galleria del Lötschberg), il quale ridurrà la distanza effettiva da Genova a Berna di 120 km, e da Genova a Basilea di 15 km.

 

 

Noi dobbiamo dunque aspettarci nei 10 o 20 anni prossimi un incremento nel traffico del porto; incremento che sarà più o meno forte a seconda degli sforzi fatti per ridurre i costi dei trasporti e per creare altre condizioni favorevoli allo sviluppo del traffico. La commissione Adamoli ha fatto un calcolo approssimativo dello sviluppo che prenderà in un ventennio il movimento del porto di Genova; ed è giunta alla conclusione che se oggi il traffico è di tonnellate 5.650.000 tra sbarco ed imbarco, nel 1923 – supponendo un incremento corrispondente a quello verificatosi dal 1882 al 1903, di 3 milioni e mezzo di tonnellate, aggiuntevi 300.000 tonnellate di più di transito per la Svizzera per l’apertura del Sempione e 550.000 tonnellate di maggior transito fra il Levante e l’Europa centrale – giungeremo ad un movimento di 10 milioni di tonnellate. La commissione aggiunge che i 10 milioni vanno considerati come un massimo che difficilmente sarà raggiunto a meno di circostanze eccezionali.

 

 

Compito nostro nel momento presente dovrebbe dunque essere:

 

 

– di dare sfogo al traffico esistente; – di preparare i mezzi con i quali si potrà provvedere al movimento che si prevede crescente in un avvenire non lontano; – di creare le condizioni affinché l’incremento di traffico avvenga nel periodo più breve possibile e sia anticipato di fatto in confronto alle previsioni che oggi ragionevolmente si possono fare. Due vie infatti si possono seguire: la prima delle quali sta nell’aspettare che il traffico si sviluppi per creare in seguito quegli impianti e quelle facilitazioni che valgono a smaltirlo. È la via degli indecisi e dei deboli; purtroppo è la via che lo stato italiano ha in troppi casi seguito e che ci ha fatto rimanere indietro a tanti altri paesi. Noi preferiamo additare la seconda via, con la quale si provoca il traffico, creando prima tutte quelle condizioni favorevoli che invitano i commercianti a venire ad un porto e ad alimentare ferrovie e linee di navigazione. Siamo troppo ardimentosi nel dire che l’Italia deve mettersi su questa via, in un momento nel quale produttori e commercianti, con sì mirabile slancio di operosità, null’altro aspettano fuorché di poter lavorare? Noi crediamo di no.

 

 

Per ora ad alcuni dei mezzi con i quali si deve provocare l’aumento del traffico non possiamo accennare. È chiaro, ad esempio, che i nuovi lavori del porto di Genova riusciranno di utilità grandissima al commercio, togliendo buona parte degli inconvenienti che ora si lamentano per la ristrettezza delle calate e per la insufficienza degli impianti del porto. È chiaro che un nuovo assetto della marina mercantile, migliori convenzioni marittime gioveranno ad accrescere l’importanza del nostro naviglio nei traffici internazionali; ed è chiaro pure che l’abilità con la quale i nostri uomini d’affari trasformeranno Genova in un grande mercato internazionale, servirà a garantire i noli di ritorno e ad ottenere al nostro massimo porto navi che oggi non hanno convenienza di approdarvi. Ma un problema specialmente ci urge: quello ferroviario. A che serve attirare merci a Genova se le ferrovie non possono darvi sfogo oggi e meno ancora lo potranno in avvenire? Qui è il punto sul quale è d’uopo insistere.

 

 

II

 

Il problema ferroviario è il massimo problema del porto di Genova. Più del 70% della merce sbarcata nel porto viene spedita per ferrovia; nel 1903 ben 3.606.849 tonnellate su 4.891.417 sbarcate. Sono 320.000 carri circa all’anno che devono essere spediti: più di 1.000 carri al giorno. Quando il movimento del porto giunga a 10 milioni di tonnellate, delle quali 8.640.000 allo sbarco, la parte destinata alla ferrovia salirà al 75%, ossia a circa 6 milioni e mezzo di tonnellate, ed a circa 2.000 carri al giorno. Siccome il traffico è generalmente massimo d’inverno e minimo d’estate, se si vorranno evitare giacenze, sarà necessario che gli impianti ferroviari del porto di Genova e delle sue linee di accesso siano messi in condizione da poter servire un movimento giornaliero di almeno 2.100 carri in partenza.

 

 

Come si distribuisce il movimento ferroviario in partenza dal porto? Il diagramma unito[5] dà la più evidente risposta. Verso levante – linea di Pisa – va il 5%, a Sampierdarena il 7%; a ponente verso Savona-Ventimiglia l’8 per cento. Sono piccoli rigagnoli. La grossa fiumana, il 78%, s’incanala verso l’Appennino; e giunto a Novi si ripartisce in due principali direzioni: il 32% va verso Alessandria e di lì si diffonde per tutto il Piemonte – Torino, Vercelli, Biella, Novara – oltrepassando le Alpi a Luino nella misura del 5% ; il 37% va verso Milano, il più importante centro consumatore e distributore della valle del Po. Filoni più piccoli si diramano da Sampierdarena verso Ovada-Acqui e da Voghera verso Piacenza.

 

 

Il diagramma presenta vivamente all’occhio una verità importantissima: non si potrà mai ritenere che il problema ferroviario del porto di Genova sia risoluto, se non saranno risoluti i problemi di tutti gli scali che a Genova sono legati. Tutti i punti segnati su questa carta dipendono gli uni agli altri; ed un ingorgo, un arresto che si verifichi sulle linee della cornice, od a Novi, o a Torino o sovratutto a Milano, producono un arresto ed un ingorgo sul porto.

 

 

Di qui la necessità di distinguere – ragionando del problema del porto di Genova – il programma di preparazione all’avvenire prossimo dal programma di assetto del presente. Molti credono che tutto il problema ferroviario del porto di Genova stia nella direttissima; ciò che non è esatto. La direttissima è una ottima iniziativa; occorre non sia scompagnata dai lavori che devono servire a mettere in buon assetto le linee attuali. Sono due punti di vista che non bisogna assolutamente scindere. A che gioverebbe la direttissima se gli scali ferroviari di Milano rimanessero nel loro stato attuale di insufficienza? Nient’altro che a crescere la confusione. Mentre invece, ampliati gli scali e aumentata la loro potenzialità e la loro agibilità, la direttissima gioverà a sfruttare potenzialità ed agibilità sino al loro limite massimo.

 

 

Ragioniamo innanzi tutto dei problemi più urgenti che importa risolvere per mettere in buon assetto le linee esistenti.

 

 

Cominciando dall’origine, i primi difetti si avvertono negli impianti ferroviari del porto. Con sforzi grandissimi gli impianti possono ridursi a servire un movimento di 1.200 carri; ma le difficoltà allo stato attuale sarebbero quasi insormontabili quando il numero dei carri crescesse. Bisogna pensare che il concentramento dei carri vuoti destinati al porto ed il riordino di quelli caricati, si compiono alla stazione di Novi S. Bovo, distante da Genova nientemeno che 54 chilometri! Nessun grande porto ha il parco ad una distanza così grande e, peggio, in una località situata in condizioni climatiche al tutto diverse. Quando a Genova l’inverno fa sole, a Novi ci può essere una tempesta di neve ed i lavori di smistamento essere resi difficili. Le cose muteranno quando sarà ultimato il nuovo parco del Campasso, situato in prossimità di Sampierdarena; ma è d’uopo che si anticipi possibilmente sulla data della consegna da parte della società costruttrice, che è la fine del 1906. Ogni mese di guadagnato vorrà dire un vantaggio grandissimo per l’esercizio.

 

 

Anche i miglioramenti consigliati nella relazione Adamoli per le stazioni di Sampierdarena e di Genova, per la linea di Ovada e per le linee di levante e ponente saranno utilissimi, per quanto il grosso del traffico sia quello che passa attraverso i valichi dei Giovi. A tutti è noto lo stato infelice delle linee della cornice. Tanto la linea di levante come quella di ponente sono ancora oggi presso a poco nelle condizioni dell’impianto primitivo; ambedue hanno un solo binario e stazioni ristrette, mancanti di binario di incrocio o con binario di non sufficiente lunghezza; su ambedue ha luogo un movimento intenso di viaggiatori, sia locale, sia di transito per l’interno e per l’estero. Anche senza costrurre una nuova linea, che sarebbe, per la ristrettezza dello spazio e la difficoltà dei luoghi, assai costosa, i tecnici hanno additato lavori con i quali si può aumentare assai la potenzialità delle linee e che costerebbero una quarantina di milioni.

 

 

I lavori principali – astraendo pel momento dai valichi dei Giovi – sono quelli che si debbono compiere sulle linee a settentrione dell’Appennino, dove si riversa il 70% del traffico del porto. Qui urge provvedere perché i treni merci possano circolare con regolare successione da tronco a tronco; perché gli scali delle stazioni non abbiano a subire ingombri; perché nelle stazioni si possano eseguire liberamente le manovre, scaricare con sollecitudine i carri e rinviare prontamente i vuoti; perché infine il ritorno di questi avvenga senza deviazioni e senza ritardi. Di due specie sono i provvedimenti necessari: gli uni riguardano le stazioni e gli altri le linee. Fra le stazioni il problema di gran lunga più importante è quello delle stazioni di Milano, dove affluisce il 25% del traffico del porto, oltre il movimento che proviene dalla riviera ligure; e dove questi arrivi costituiscono la metà circa del movimento che giunge a Milano per le molte ferrovie che vi fanno capo. La persuasione della necessità di risolvere il problema delle stazioni milanesi è oramai radicata in tutti. Attualmente esse sono affatto inadatte a servire il traffico: ed i mali crescono ad ogni anno che passa e diverranno acuti in occasione dell’esposizione. Gli studi oramai sono fatti in modo esauriente: non manca che la decisione. Auguriamo che questa sia pronta e che si dia mano ai lavori con solerzia. Poste in buon assetto le stazioni di Milano, molto sarà fatto per risolvere il problema del porto di Genova. In settembre ed ottobre passati la direzione delle ferrovie a Genova era riuscita a caricare 1.200 carri al giorno; ma ogni tanto tutto era sospeso perché a Milano si era verificato un ingorgo. Minore importanza di quelle di Milano hanno le stazioni di Alessandria, centro principale di diramazione della rete piemontese, di Novara, punto di transito per il Gottardo e per il Sempione, e di Torino; ma il loro riordinamento si impone del pari affinché il servizio possa essere esercitato con efficacia, tutte le parti di un sistema ferroviario essendo strettamente tra di loro dipendenti.

 

 

Fra le linee i lavori maggiori si debbono compiere sulla Novi-Milano e sull’Alessandria-Novara. Sulla prima, oltre a parecchi lavori di completamento, si richiede il sistema del blocco; sulla seconda oramai, colla apertura del Sempione, è urgente il raddoppiamento del binario da Torre Beretti a Novara, dove manufatti e sede sono già predisposti; in maniera che tutta la linea abbia il doppio binario.

 

 

Complessivamente, se si eccettuano i lavori da farsi intorno ai valichi dei Giovi, sui quali discorreremo poi, la relazione Adamoli aveva proposto di spendere circa 90 milioni di lire per mettere in buon assetto le stazioni di Genova e Sampierdarena, la linea di Ovada, le linee della cornice e le linee settentrionali colle loro stazioni; fra cui principalissima Milano.

 

 

La somma può parere grossa; ma senza di essa i guai che ogni giorno si lamentano e che nell’autunno fanno gittare così alte strida ai commercianti, si ripeteranno aggravati ad ogni aumento del traffico. Se non si vuole spendere, vano sarà stato l’aver posto il fondamento di nuovi grandiosi lavori in porto; vano sarà il discorrere di direttissima. Come potrà crescere il traffico, se mancano gli impianti per servirlo?

 

 

A compiere l’elenco dei mezzi di rendere efficaci le linee esistenti, importa accennare ai progetti di funicolari aeree per il trasporto dei carboni dal porto di Genova a Busalla. A Genova si nutre grande fiducia intorno all’attuabilità di progetti che verrebbero ad alleggerire la ferrovia della parte più ingombrante del suo traffico. Tecnicamente sembra che non vi sia dubbio sulla possibilità di costruire impianti assai ingegnosi per il trasporto dei carboni. Maggiori dubbi vi sono sulla convenienza economica; ma quando si trovino i capitali disposti a impiegarsi nell’impresa, nessuno certo vorrà lamentare che ci siano uomini abbastanza arditi da correre il rischio. L’impianto delle funicolari potrebbe alleggerire le linee dei Giovi di un movimento ascendente di 360 carri al giorno; e sarebbe di utilità grandissima durante il periodo in cui non sarà ancora pronta la direttissima, la quale risolverebbe radicalmente il problema del valico dei Giovi. Anche dopo, le funicolari potrebbero sempre avere una funzione sussidiaria, non essendo logico limitare le previsioni dell’aumento del traffico, quando le spese e le facilità dei trasporti fossero assai minori di quello che siano attualmente.

 

 

III

Le difficoltà in cui si dibatte ad intervalli il traffico ferroviario che fa capo al porto di Genova hanno fatto sorgere in molti il quesito: perché non risolvere radicalmente la questione costruendo una nuova linea direttissima fra Genova e Milano, una linea moderna adatta al grande traffico, con miti pendenze e curve ristrette, la quale possa dar sfogo al crescente movimento di merci e di viaggiatori?

 

 

I progetti, al solito, sono stati molti; ma un po’ per volta la discussione si è ridotta. I primi ad essere scartati, non già perché tecnicamente impossibili o privi in modo assoluto di utilità, ma perché non urgenti, furono quelli che intendevano creare una nuova linea diretta fra Genova e Piacenza o Borgotaro. La Genova – Piacenza si staccherebbe dalla stazione di Piazza Brignole rimontando il corso del Bisagno con pendenze sino al 16 per mille; traverserebbe l’Appennino con una galleria di km 13,5 elevandosi alla quota culminante o punto più alto di 574 m e seguendo la Valle della Trebbia raggiungerebbe Piacenza dopo uno sviluppo totale di 128 km. Importante dal punto di vista militare, utile per facilitare le comunicazioni coll’Emilia e col Brennero, questo progetto presenta il difetto dell’altezza non piccola che bisognerebbe superare e che aumenterebbe le spese d’esercizio, del costo rilevante (250 milioni), e della poca rispondenza allo scopo. Infatti, mentre l’intento è di sfollare il porto di Genova del suo traffico verso il nord, la linea Genova-Piacenza assorbirebbe un traffico che ora è appena del 7% del movimento complessivo. Per analoghi motivi, anche della Genova-Borgotaro si deve affermare trattarsi di progetto che potrà maturare in futuro; ma che per il momento è inutile presentare alla discussione pubblica, ove occorre parlare dei problemi dell’ora presente.

 

 

In sostanza, la discussione per ora si restringe ai valichi dei Giovi ed alle direttissime fra Genova e Novi-Tortona-Voghera. Qui sono i bisogni maggiori e qui il problema da risolvere. Per chiarire la materia pubblichiamo una piccola carta geografica ed una tavola[6] dove sono tracciati i profili longitudinali delle linee della succursale e di due direttissime in progetto.

 

 

Sulla carta geografica sono indicate le linee esistenti e quelle progettate. Le linee esistenti fra Genova e Ronco – dove esse si riuniscono in una sola – sono due a doppio binario. La più antica ha tratte di forte pendenza (dal 20 al 35 per mille) fra Pontedecimo e Busalla, in cui è compresa la galleria dei Giovi con pendenze del 30 per mille, lunga m 3.258. L’altra, la succursale dei Giovi, ha una pendenza del 16 per mille per la prima tratta e del 12 per mille sull’ultima tratta che comprende la grande galleria di Ronco, lunga m 8.297. A Ronco le due linee si riuniscono per formarne una sola pure a doppio binario, che discende con pendenze non superiori all’8 per mille per circa 26 km fino a raggiungere la stazione di Novi, dove si trova il grande parco di concentramento.

 

 

Quando furono costrutte, queste due linee parvero miracoli dell’ingegneria ferroviaria. Adesso cominciano a sembrare difettose, elevandosi l’antica linea a 361 m con curve che discendono sino a 300 m e con pendenze del 35 per mille, e rimanendo la nuova a 324 m nel suo punto massimo, con la pendenza massima del 16 per mille e con curve del raggio minimo di 300 m. Perciò, si disse, occorre fare una nuova linea la quale si tenga per tutto il suo percorso più bassa, che abbia curve ampie e sia possibilmente rettilinea, e abbia pendenze tenui. I progetti sinora pubblicati sono due: il primo per Voltaggio-Gavi-Novi, di cui la Società mediterranea ha redatto un piano di massima, ed il secondo per Rigoroso-Tortona. Anche solo a guardare le due nostre sommarie cartine si vede differenza tra i due progetti.

 

 

Il primo, quello per Voltaggio-Gavi-Novi, ha pendenze non superiori al 9 per mille allo scoperto ed al 7,6 per mille in galleria. Il tracciato, dopo una serie di curve, e parecchie gallerie elicoidali nell’Appennino, giunge alla quota culminante di 313 m; poco meno della esistente succursale dei Giovi; i raggi minimi sarebbero di 500 m e la galleria di traversata sarebbe lunga quasi 10 km. Affrettiamoci a dire, senza perder tempo, che il progetto, che trovò patroni esclusivamente per ragioni di indole elettorale, deve essere senz’altro scartato. Non val la pena di chiamare direttissima e di spendere un centinaio di milioni e più per costruire una linea che non ridurrebbe il percorso, che avrebbe un numero grande di curve e di opere d’arte di costosa manutenzione, che salirebbe ad un’altezza di poco inferiore alle linee esistenti, che si palesa insomma da tutti i punti di vista disadatta al grande traffico internazionale. A Genova faranno benissimo a non parlarne più, se non vogliono ostacolare altre iniziative più utili.

 

 

Il secondo progetto per Rigoroso-Tortona è patrocinato dal municipio; ed è la vera linea direttissima. La linea Genova-Rigoroso-Tortona si eleva sull’Appennino ligure con pendenze non superiori all’8,50 per mille; lo attraversa con una galleria di circa 20 km, sboccando presso Rigoroso alla quota culminante di m 235 sul livello del mare, indi si dirige su Tortona seguendo la vallata della Scrivia. Tanto la carta geografica quanto i profili longitudinali mettono in rilievo la grande superiorità del progetto municipale di fronte alle linee esistenti ed alla rivale per Voltaggio-Gavi-Novi. Il percorso complessivo da Genova a Tortona è di circa 58 km, cosicché a confronto della esistente linea succursale dei Giovi, presenta una diminuzione di percorso di circa 14 km e la riduzione di un terzo dell’altezza massima da superare. Le curve non avrebbero mai un raggio inferiore a 750 m ed il percorso si svilupperebbe per lunghi tratti quasi rettilineo. Secondo i suoi fautori, il tempo occorrente ad un treno viaggiatori per giungere da Genova a Tortona si ridurrebbe di 42 minuti; la potenzialità di trasporto fra Genova e Tortona aumenterebbe di 2.900 carri al giorno, il che, unito con la potenzialità delle linee esistenti, lascerebbe un margine per qualsiasi più vertiginoso aumento del traffico; e la spesa del trasporto per il commercio potrebbe ridursi di una dozzina di milioni di lire all’anno. Di fronte ai vantaggi, la spesa di costruzione della linea, variamente valutata, ma probabilmente aggirantesi sui 150 milioni, appare giustificata. La difficoltà grossa della costruzione della direttissima è nella galleria di 20 km presso Rigoroso; ma non pare sia difficoltà insuperabile coi metodi dell’ingegneria moderna.

 

 

Senonché qui insorgono coloro i quali dicono: è necessario aver bene presente lo scopo al quale si intende. O si vuole servire il traffico attuale e quel maggiore traffico che si andrà naturalmente sviluppando e che la commissione Adamoli ha previsto in 220000 tonnellate all’anno e in 10 milioni di tonnellate in tutto alla fine di un ventennio. Ovvero si vuole creare un traffico nuovo, offrendo a questo l’opportunità di svilupparsi.

 

 

Nel primo caso, la relazione Adamoli ha calcolato che – quando saranno compiute tutte le opere di miglioramento del porto e saranno sistemate le linee e sarà in esercizio il parco del Campasso – sulle linee dei Giovi potranno salire senza difficoltà 2000 carri al giorno, ossia il quantitativo a cui si giungerà con un traffico di 10 milioni di tonnellate. La difficoltà vera dell’esercizio non sarà più fra Genova e Ronco, ma oltre Ronco, dove le due linee si uniscono insieme. La costruzione di un nuovo tronco Ronco-Voghera è dunque la sola cosa veramente urgente. Con le opere connesse, il tronco Ronco-Voghera costerebbe una quarantina di milioni, da aggiungersi ai 90 di opere varie di cui dicemmo in un articolo precedente. La nuova linea presenterebbe il vantaggio di abbreviare di circa 14 km il percorso da Genova a Milano e non ostacolerebbe per nulla la costruzione della direttissima; anzi potrebbe dirsi la seconda parte della direttissima, perché con un raccordo facilissimo presso Rigoroso ed Arquata la direttissima verrebbe a sboccare sulla Ronco-Voghera.

 

 

Fin qui coloro i quali ritengono prematuro parlare di direttissima. Sembra tuttavia che il problema non debba essere posto così. Si sa che in Italia è impresa erculea muovere lo stato a fare le cose più necessarie e più urgenti. Se si dice che per ora basta il tronco Ronco-Voghera, il governo sarà felice di adottare il ripiego provvisorio; e non pensare oltre alla Genova-Ronco-Rigoroso, col pretesto che il bisogno è ancora lontano. Poi, quando il bisogno sarà divenuto vicino, non si sarà fatto nulla e saremo da capo. Cominciamo pure ad eseguire la seconda parte della direttissima fra Ronco e Voghera, di più facile e rapida costruzione, ed utile anche allo sfogo delle linee esistenti. In pochi anni questo tronco dovrebbe essere finito, ed il problema ferroviario avrebbe certo per il momento un grande giovamento.

 

 

La possibilità di porre rimedio ai mali che oggi si lamentano con le opere di miglioramento degli impianti esistenti (90 milioni) e con la seconda parte della direttissima (rettifica Ronco-Voghera, 90 milioni), non deve però togliere la visione dell’avvenire ed il coraggio di fare opera per se stessa atta a creare un nuovo traffico. Forse è troppo chiedere allo stato – premuto da tanti bisogni e da tante competizioni regionali – di spendere 150 milioni nella costruzione della prima parte della direttissima fra Genova e Ronco allo scopo di creare un traffico nuovo, quando gli uomini competenti, i quali compongono la commissione Adamoli – nominata appunto per riferire sul problema ferroviario del porto di Genova – dicono che il traffico attuale e quello probabile del futuro per un ventennio, può benissimo essere servito dalle linee esistenti, rafforzate, perfezionate, come dicemmo, e completate con la Ronco-Voghera. Allo stato forse è troppo chiedere iniziative coraggiose che solo un imprenditore dalle larghe e lontane vedute può affrontare.

 

 

Se domani però una società di capitalisti privati si assumesse di costruire essa a sue spese, dando allo stato una partecipazione negli eventuali benefici, la direttissima fra Genova e Ronco, o meglio fra Genova e Milano, perché non lasciare correre il rischio? E se la società si proponesse di creare addirittura una rivoluzione nei metodi ordinari di trasporto, riducendo il tempo del viaggio fra Genova e Milano ad un’ora e mezzo, con partenze frequentissime ad ogni mezz’ora e ad ogni ora, perché, ripetiamo, non incoraggiare l’audace iniziativa? Chi può predire l’aumento dei viaggiatori il giorno che l’andare da Milano a Genova fosse poco meno comodo che l’andare da Milano a Pavia, in cui in una stessa giornata si potesse senza troppa fatica e troppa spesa andare e venire due volte dalla capitale lombarda al suo grande porto del mediterraneo? Tutto sta a trovare capitalisti che abbiano un coraggio, che dieci o cinque anni or sono sarebbe in Italia parso chimerico. Non è molto le tramvie a cavallo sembravano aver accaparrato tutto il traffico esistente; vennero le tramvie elettriche e molte persone che non erano salite mai sulle tramvie a cavalli, trovarono comodissimo andare sui trams elettrici. La logica di quelli i quali dicono: bisogna seguire il traffico, anche anticiparlo di qualche cosa, senza però precorrere i tempi, forse è la più illogica e la meno pratica di tutte; ed in definitiva risultano più logici quelli i quali paiono costrurre per l’avvenire lontano. L’Italia è in un periodo di intensa trasformazione industriale; e una nuova linea ferroviaria che riducesse d’assai il tempo e il costo dei trasporti fra il massimo centro commerciale ed industriale ed il massimo porto dell’Italia, se non potrà essere ottenuta subito e tutta dallo stato, lento a muoversi e solito a farsi rimorchiare, forse darebbe profitti non spregevoli a quegli ardimentosi capitalisti i quali osassero tentarla colle sole loro forze. Se a questo si riuscisse e se gli uomini di Genova e di Milano dicessero allo stato: «Facciamo da noi», a noi pare che lo stato non dovrebbe porre impacci, lasciando libertà d’azione a chi vuole e può.

 

 

IV

L’on. generale Luchino Dal Verme in una lettera al direttore del «Corriere», pubblicata il 29 dicembre aveva osservato che la linea Genova-Piacenza, progettata dall’ing. Vincenzo Soldati ed eseguita nel 1874 è solo il primo tronco di una vera direttissima da Genova al Brennero la quale attraverso Cremona e Peschiera con tracciato in gran parte in pianura e con incrocio a Domegliara si innesta ivi colla esistente linea del Brennero. Il costo calcolato dall’ing. Ferdinando Rossi risulta di 145 milioni di lire se ad un solo binario, di 191 se a due binari. Il traffico che oggi da Voghera va verso Piacenza è in verità solo del 7% del totale proveniente da Genova, laddove quello verso Milano giunge al 30% dello stesso totale, ma sarebbe ben maggiore se potesse istradarsi subito su una linea adatta senza passare per il nodo milanese troppo congestionato. Il costo dell’adattamento della stazione di Milano all’aumento del traffico risulterebbe minore se una parte di questo potesse essere deviato verso la Piacenza-Brennero. Volendo evitare una delle obiezioni che si muovono alla Piacenza-Brennero, nulla vieta che il tracciato possa essere tenuto ad una altezza massima non superiore a quella della progettata direttissima per Voghera, ove si adotti una variante per la galleria di attraversamento degli Appennini, variante non diversa dalle proposte proprie del progetto della direttissima.

 

 

In ogni caso, poiché si impone una soluzione rapida, perché non contentarsi per ora della scorciatoia Ronco-Voghera e di una agevole rettifica, che in soli tre anni e mezzo invece dei dieci richiesti dalla direttissima e con la spesa di soli 36 milioni di lire, si potrebbero ottenere miglioramenti sufficienti?

 

 

Fin qui il generale Luchino Dal Verme. Egli ci consenta alcune osservazioni alla lettera. La quale ha certamente il merito di avere posto un problema importantissimo: quello della linea diretta da Genova a Piacenza verso il Brennero, di cui non si debbono disconoscere i benefici militari ed economici non certamente piccoli, attraversando quella ferrovia una zona la quale ora, in parte, di ferrovie è priva o ne ha talune che servono soltanto per il traffico locale. Senonché a noi pare che il problema non debba essere esaminato dal punto di vista della utilità assoluta, ma da quello della utilità relativa con le altre linee che sono in concorrenza con quella che è difesa dal generale Dal Verme. Si tratta di spendere qualche centinaio di milioni (il Dal Verme dice che per la Genova-Piacenza ne occorrono solo 191 e mezzo; e noi non litigheremo sui preventivi, quantunque ci paia che abbia più probabilità di essere vicino al vero il preventivo della Mediterranea di 245 milioni); ed occorre che la spesa sia fatta nel modo più produttivo e in guisa che i frutti non comincino a raccogliersi eccessivamente tardi. Dato ciò, è manifesto che occorre innanzi tutto migliorare gli impianti, accrescere la potenzialità delle linee già esistenti e, occorrendo, costruirne delle nuove laddove esiste un traffico, crescente, esuberante, il quale non può essere soddisfatto cogli impianti attuali. Noi abbiamo osservato – e pubblicammo anche una cartina a dimostrazione del nostro assunto – che il 78% del traffico in partenza da Genova si dirige su Novi; e qui – dopo aver perduto qualcosa nelle stazioni intermedie – si biforca: il 32% si dirige verso Alessandria-Novara ed Alessandria-Torino, mentre il 7% si dirige verso Voghera. A Voghera il 7% va su Piacenza e il 30% giunge a Milano. Dunque è chiaro che il problema veramente urgentissimo è quello di mettere le linee e le stazioni attuali in condizioni perfette di impianto, sì da poterle sfruttare sino al massimo della loro potenzialità. Quindi occorre risolvere il problema delle stazioni e sovratutto della stazione di Milano, il cui ingorgo è una delle cause massime degli arresti periodici del traffico nel porto di Genova. I milioni spesi a questo intento saranno spesi dallo stato in modo che non potrebbe essere migliore e più produttivo a prontissima scadenza. Il generale Dal Verme quasi ha l’aria di credere che i 40 milioni consigliati dalla relazione Adamoli per le stazioni di Milano siano troppi; ed afferma che la costruzione della Genova-Piacenza-Brennero avrebbe per iscopo di far risparmiare una parte (quale?) della gravissima spesa dei 40 milioni. Noi gli chiediamo in qual modo potrebbe compiersi il miracolo, dato che soltanto il 7% del traffico in partenza da Genova va verso Piacenza; e ci va partendo da Voghera, ossia molto prima di giungere a Milano. Di qui appena il 3% del traffico va verso Treviglio-Rovato-Brescia, e meno dell’1% verso Codogno, ossia verso una zona che in piccola parte potrebbe essere di competenza della Genova-Piacenza. Evidentemente non è possibile risparmiare nulla sui 40 milioni necessari per le stazioni di Milano, a causa della infinitesima deviazione prodotta dalla Genova-Piacenza nel traffico interno. Rimane il traffico internazionale, che il nostro contradditore afferma incanalarsi per Milano perché non esistono altre linee dirette da Genova verso il Brennero. Il male si è che questo traffico che da Genova e Milano va verso l’Europa centrale attraverso il Brennero non esiste.

 

 

Il transito uscito per via di terra dal porto di Genova nel 1902 era di appena 236.000 tonnellate, di cui 211.000 dirette alla Svizzera. Ossia appena il 5% del movimento del porto è un movimento internazionale; tutto il resto serve per l’interno. E i nove decimi del transito internazionale vanno nella Svizzera, ossia non si servono affatto del Brennero. Si aggiunga che il transito internazionale da Genova verso la Svizzera non passa per Milano; e tanto meno vi passerà quando sarà aperto il Sempione, e la linea più diretta per la Svizzera sarà la Genova-Alessandria-Novara-Domodossola. La soluzione del problema ferroviario di Milano urge, astrazion fatta dal traffico internazionale e da quei piccoli rivoli che una Genova-Piacenza potrebbe distogliere dalla corrente impetuosa di merci e di persone che si svolge fra Genova e Milano.

 

 

Accanto alle stazioni, le linee esistenti. Noi abbiamo affermato, e lo ripetiamo volontieri, che è compito dello stato metterle subito in buon assetto. Indicammo, fra l’altro, il raddoppiamento del binario da Torre-Beretti a Novara e la rettifica Ronco-Voghera. Non dicemmo che la rettifica Ronco-Voghera sia la «sola cosa veramente urgente»; che anzi criticammo questo concetto degli avversari della direttissima Genova Milano, dimostrando come fosse addormentatore. Ma è certo che la rettifica è urgente e deve essere intrapresa dallo stato per mettere le linee attuali in condizioni di funzionare bene.

 

 

Dimodoché noi in massima potremmo essere d’accordo col generale Dal Verme quando afferma che lo stato deve, per ora, limitarsi alla costruzione del tronco Ronco-Voghera. Ma qui l’accordo cessa. Il nostro contradditore non vorrebbe si parlasse di direttissima Genova-Milano e non vorrebbe nemmeno che si lasciasse l’iniziativa della intrapresa a privati capitalisti; e tutto ciò per non pregiudicare l’altra direttissima Genova-Piacenza. È certo che ambedue le direttissime non si presentano con caratteri di assoluta urgenza, se badiamo al traffico attuale ed al suo incremento normale; e quindi noi, che pure siamo fautori della Genova-Milano, non abbiamo la pretesa di chiedere allo stato che la costruisca subito coi denari dei contribuenti. Non sappiamo tuttavia vedere la ragione per la quale si dovrebbe negare a privati capitalisti il permesso di tentare l’impresa a loro spese ed a loro rischio. Già il fatto solo che capitalisti sembra che si trovino per la Genova-Milano mentre non ci sono per la Genova-Piacenza, dimostra che la prima linea è ritenuta dagli uomini d’affari assai più produttiva della seconda. Si accampa l’inopportunità di una concorrenza allo stato; e noi non vorremmo certo favorire una iniziativa privata la quale mirasse a rubare alle ferrovie di stato una parte del traffico presente. Non possiamo però nascondere che un po’ di concorrenza agirebbe come uno stimolante benefico per le ferrovie di stato. Quanti progressi nella velocità, nel numero dei treni, nelle tariffe non sono stati ottenuti mercé la costruzione di due o più linee parallele fra gli stessi centri in Inghilterra e negli Stati uniti! Perché dovremmo negare a una società privata la facoltà di vedere se sia possibile creare un traffico nuovo, ora latente, fra Genova e Milano, costruendo una ferrovia nuova, che lo stato non costrurrebbe mai? Dovrebbe essere certo bene assodato che la linea nuova sarà costrutta a spese e a rischio dei concessionari, che lo stato avrà il diritto e non il dovere di riscattarla se lo crederà opportuno, secondo le leggi vigenti; che siano stabilite eque norme per la ripartizione del traffico in guisa che le ferrovie di stato non abbiano a scapitarci od almeno abbiano a perdere solo il traffico che è esercitato in condizioni tanto onerose da riuscire passivo; che lo stato parteciperà agli utili netti della nuova linea oltre un certo minimo. Se queste e altre clausole nell’interesse dello stato si inseriranno nell’atto di concessione, qual danno ne può derivare ai contribuenti? Se la galleria dei 20 chilometri non si potrà costruire, tanto peggio per gli azionisti; ma se la galleria si farà e se il traffico prenderà uno sviluppo nuovo ed insospettato, non sarà questa la più bella dimostrazione che la direttissima Genova-Milano era utile e necessaria, più di tante altre linee che non sarebbero mai costruite se i contribuenti non fornissero i fondi? Concludendo: né noi, né il generale Dal Verme, né i tecnici eminenti della commissione Adamoli possiamo immaginare che cosa sarà il traffico tra Genova e Milano in condizioni tutte diverse di velocità e di costi. Sembra che si siano trovati dei capitalisti almeno a quanto si è saputo da un comunicato del sindaco di Genova – disposti a fare l’esperimento a loro spese. Ancora una volta: perché voler negare a costoro di correre l’alea? Non noi certamente negheremmo il permesso ad altri capitalisti i quali volessero costruire una Genova-Piacenza-Brennero.

 

 



[1] Con il titolo Il problema ferroviario del porto di Genova. [ndr]

[2] Con il titolo Il problema ferroviario del porto di Genova e dell’Alta Italia. I lavori urgenti. [ndr]

[3] Con il titolo La direttissima Genova-Milano. [ndr]

[4] Con il titolo La direttisima Milano-Genova e la Genova-Piacenza. [ndr]

[5] Omesso.

[6] Omesse.

Per le nuove convenzioni marittime

Per le nuove convenzioni marittime

«Corriere della Sera», 21 novembre 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 281-284

 

 

Il problema delle convenzioni marittime è uno dei maggiori e più urgenti fra quanti aspettano una pronta risoluzione nel momento presente.

 

 

Per molti motivi l’opinione pubblica non è conscia dell’importanza che una soluzione buona o cattiva di esso può avere sull’avvenire dell’economia nazionale, di cui i traffici marittimi sono tanta parte. Ed è un male gravissimo perché, nel silenzio e pur troppo nell’ignoranza dell’opinione pubblica e del parlamento, noi ci avviamo fatalmente ad una soluzione di ripiego che non potrà non essere la peggiore di tutte. Importa adempiere al dovere di informatori e preparatori di una sana e vigile opinione pubblica, dato che per legge entro brevissimo termine il governo è obbligato a presentare opportune proposte al parlamento. Occorre incitare, quasi costringere il governo a dire presto, subito quali siano i suoi intendimenti. Il tempo è il fattore principale che già ci manca ed ogni giorno più ci farà difetto per una buona risoluzione del problema. In poche parole ecco di che si tratta. Attualmente sono in vigore convenzioni per i servizi marittimi, con le quali il governo ha provveduto a garantire un certo numero di servizi postali e commerciali fra i diversi porti della penisola, fra il continente e la Sicilia, la Sardegna e le isole minori e fra l’Italia e parecchi porti dentro e fuori del Mediterraneo. Le convenzioni sono assolutamente necessarie per garantire il servizio postale e commerciale ed adempiono sul mare allo stesso compito a cui per terra servivano, prima dell’1 luglio 1905, le convenzioni con le società mediterranea, adriatica e sicula; compito così importante che lo stato attualmente paga una somma di più di 10 milioni di lire all’anno alle società assuntrici del servizio. Le convenzioni scadono il primo luglio del 1908; e quindi è necessario prepararci sin d’ora per avere pronto per quella data il materiale ed organizzato il servizio. Né il primo luglio del 1908 deve essere considerato come una data così remota da esimerci dallo studiare adesso il problema. Siamo in un campo ben diverso dall’esercizio ferroviario. Malgrado il doloroso esempio di impreparazione per cui governo e parlamento giunsero alla vigilia della scadenza delle convenzioni senza aver nulla di pronto e deliberarono l’esercizio di stato sotto la pressione dello sciopero dei ferrovieri, malgrado questa impreparazione stupefacente, il danno poté sembrare sopportabile perché le linee ed il materiale erano già di proprietà dello stato e con un semplice mutamento di dirigenza il servizio poté alla meglio essere continuato. Per la navigazione il caso è profondamente diverso. Il materiale è posseduto da privati e sovratutto dalla Navigazione generale italiana, che ora esercita in gran parte i servizi sovvenzionati. Se le convenzioni con questa società non saranno rinnovate, come e da chi sarà esercitato il servizio? Una flotta di un 350.000 tonnellate per un valore di forse 200 milioni di lire, quale si ritiene necessaria dai competenti per esercitare i servizi postali, non si improvvisa né in due né in tre anni. La flotta attuale non può essere assolutamente conservata senza radicali migliorie. Basta pensare che, secondo le statistiche del 1903, la Navigazione generale italiana possedeva, tra gli 86 costrutti all’estero, 11 piroscafi di 42 anni, 4 di 40, 7 di 35, 28 di 30, 31 dai 20 ai 30 anni, per persuadersi che la flotta attualmente sovvenzionata potrà essere buona per un museo di antichità, ma non può, per almeno i tre quarti, tenere decentemente il mare per conto dello stato. Si badi che la flotta sovvenzionata dovrebbe non solo servire per mantenere rapide comunicazioni postali e commerciali, ma dovrebbe nel tempo stesso servire come flotta ausiliaria della marina da guerra. Tutti oramai sono d’accordo che la nostra marina da guerra non potrà combattere senza una flotta ausiliaria per i trasporti. Lo stato non può, per ovvie ragioni di economia, costruirsi una flotta che in tempo di pace sarebbe quasi sempre disoccupata; e deve imporre perciò, dietro adeguato compenso, alla flotta sovvenzionata per i servizi postali tali condizioni di velocità e di costruzione che essa possa in tempo di guerra convertirsi in flotta ausiliaria. Tutti i paesi stranieri fanno così; ed hanno quindi visto la necessità di mantenere in paese una flotta moderna, ben costrutta e rapida. Tale non è la attuale flotta italiana, almeno in massima parte, e non bisogna quindi nemmeno per un momento pensare a mantenere in navigazione tutte le attuali carcasse che eserciscono i servizi postali.

 

 

A ciò il governo aveva pensato; e con legge del 16 maggio 1901 si era imposto l’obbligo di presentare al parlamento le opportune proposte di legge entro il 1903, affine di lasciare quattro anni di tempo agli armatori italiani per mettersi in grado di partecipare alle gare per le nuove convenzioni marittime. Una commissione reale fu nominata per studiare il problema ed illuminare il governo.

 

 

La commissione studiò e studia; ma è passato il 1903, è passato il 1904, sta per passare il 1905 ed ancora il governo non ha presentato al parlamento nessuna proposta; né la commissione reale ha pubblicato la sua relazione. Tutto ciò che si conosce di concreto consiste in un foglio di sei paginette, in cui sono elencati i servizi che la commissione propone di istituire, colla periodicità, il tonnellaggio e la velocità delle navi, e sono riassunte le norme per il credito navale, per le aste e per la costruzione dei piroscafi. È qualche cosa; ma è troppo poco, per non dire nulla, in confronto a quello che sarebbe necessario. Poiché non è detto quali sovvenzioni sono stabilite per ogni gruppo di linee, e senza la conoscenza di questo dato come possono gli armatori preparare i progetti per adire alle gare? Vi è di peggio. Il ministero delle poste e telegrafi, pubblicando il 2 agosto di quest’anno il sunto delle proposte incomplete ed insufficienti e non motivate della commissione reale, vi ha aggiunto una noterella secondo la quale sulle proposte stesse è riservata ogni conclusione da parte dei ministeri interessati e del governo. Quindi neanche le proposte della commissione reale possono formare una base di studio e di preparazione concreta.

 

 

Date queste premesse, dolorose perché dimostrano la trascuratezza colpevole

del governo in un tema di tanta urgenza e di tanta importanza noi diciamo: urge che siano presentate al parlamento proposte concrete entro l’anno; ed urge che il governo le faccia discutere e lasci il tempo all’opinione pubblica di dibatterle ampiamente, in guisa che per il 30 giugno del 1906 le nuove convenzioni siano concluse e si possa iniziare la costruzione di parte della flotta che dovrà entrare in servizio il primo luglio del 1908. Purtroppo a costruirla tutta per quella data oramai non si arriverà più; e converrà rassegnarci in via provvisoria a conservare per il resto le navi attuali, anche se disadatte. Sarebbe intollerabile però che per la lentezza della amministrazione e del governo, si tardasse ancora dell’altro; poiché sarebbe giuocoforza rassegnarci a prorogare le attuali convenzioni ed a mantenere in navigazione anche quella parte del naviglio che fa più vergogna al nostro paese e che in tempo di guerra sarebbe affatto inservibile. Chi potrebbe, se per imprevidenza si giungesse a tale estremo, dar torto a coloro i quali accusassero il governo di essere mancipio di società interessate a conservare i lucri derivanti dall’impiego delle vecchie navi da museo che ora tengono il mare?

 

 

Gli inconvenienti, che oggi risentiamo dalla impreparazione ferroviaria del passato, ci siano di ammaestramento a cansare lo stesso pericolo per i servizi marittimi. Oggi noi non ci facciamo paladini di una soluzione piuttosto che un’altra; né vogliamo decidere se i servizi abbiano a concedersi all’attuale società, quando si fosse provveduta di navi moderne, od a parecchi armatori concorrenti od assunti in parte dallo stato. Sia qual si voglia la soluzione; purché una soluzione ci sia e governo e parlamento si rendano conto che esiste un problema dei trasporti marittimi e dimostrino di averlo studiato e di conoscere con precisione l’opera grandiosa di rinnovamento che si deve intraprendere.

 

 

Problema meridionale, riforme tributarie, opere pubbliche ed iniziative private

Problema meridionale, riforme tributarie, opere pubbliche ed iniziative private

«Corriere della Sera», 13[1] e 16[2] novembre 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 267-280

I

 

Che in Italia si possa cominciare una riforma tributaria dimostrammo in un articolo recente e dimostrammo pure come destinando al fondo di sgravi 10-15 milioni di lire all’anno si possa giungere in un decennio ad una diminuzione d’imposte di 100-150 milioni, senza tener calcolo di orizzonti più vasti aperti dalla conversione della rendita.

 

 

Aggiungiamo ora che si deve cominciare da quelle riforme, le quali siano di più largo vantaggio al mezzogiorno. Quel ragionamento che si fa per dimostrare la giustizia di un minor gravame fiscale sui poveri che sui ricchi, si può ripetere nei rapporti fra le regioni ricche e le regioni povere.

 

 

I calcoli del Nitti, del Colajanni e di altri meridionali, se in un certo senso poterono essere esagerati, riuscirono però a dimostrare la relativa maggior pressione delle imposte nell’Italia meridionale che nell’Italia settentrionale. Il Colajanni afferma che questa maggior pressione giunge a far pagare al mezzogiorno preso in blocco 100 milioni più del dovuto, e se la cifra può meritare un attento controllo, non vi è dubbio sulla verità del fatto. Perché dunque il legislatore italiano – che ha già applicato il concetto della progressività in misura ignota altrove nell’imposta sui redditi ecclesiastici, in misura accentuata nell’imposta di successione, e tenue nell’imposta di ricchezza mobile – non potrebbe applicarlo ancora nella distribuzione regionale delle imposte? Progressività non vuol dire confisca dei redditi, ma può anche voler dire, come nella più parte delle legislazioni estere, tassazione mite dei redditi minori. Poiché i redditi minori sono accentrati nel mezzogiorno, perché non potremmo cominciare di laggiù una politica di sgravio e di traslazione tributaria? Operando riforme particolari si potrebbe operare in proporzioni molto più efficaci, che non se si volesse estendere quelle riforme a tutto il paese.

 

 

Noi riterremmo perciò opportuno di far convergere i nostri sforzi su taluni punti essenziali:

 

 

  • Riordinamento dei bilanci comunali, nel senso iniziato in Sicilia sotto il commissariato Codronchi. Cancellare senza pietà tutte le spese inutili; proseguire l’opera della conversione e della unificazione dei debiti; consentire la accensione di debiti nuovi solo quando si tratti di spese sicuramente riproduttive; avocare allo stato le funzioni che son sue e che ingiustamente furono accollate ai comuni (alloggi, prefetti, sottoprefetti, pretori, caserme, pubblica sicurezza, ecc. ecc.); concorrere nel modo voluto dalle recenti leggi e, occorrendo, in misura più larga da determinarsi a ragion veduta, con un fondo di stato allo sviluppo dell’istruzione elementare, professionale ed agricola.
  • Prosecuzione dell’opera di riordinamento dei tributi locali. Non a caso diciamo “proseguire” poiché con le ultime leggi in materia di dazi sui farinacei non poco si è fatto. Togliamo da un recente studio di Maggiorino Ferraris sulla Nuova Antologia, il seguente prospetto del numero dei comuni chiusi in Italia nel 1897 e nel 1905:

 

 

1897

1905

Differenze

Italia centrale e settentrionale

128

120

– 8

Italia meridionale ed insulare

210

117

– 93

Totale

338

237

– 101

 

 

Proseguire nell’opera già iniziata, ecco il punto. Il prof. De Johannis ha calcolato che per abolire totalmente il dazio in tutti i comuni di terza e di quarta classe e in due terzi dei comuni di seconda classe, ossia in 205 comuni più piccoli e poveri su 237 comuni chiusi oggi esistenti, lo stato dovrebbe sopportare una perdita totale di 51 milioni. Che se venissero conservati i dazi sulle bevande, sulle carni e su altri consumi non necessari in regime di comune aperto – la perdita si ridurrebbe a 34 milioni. La cifra si riferisce a tutta Italia, ed è chiaro dunque che, volendola nell’inizio limitare all’Italia meridionale ed insulare con un sacrifizio totale forse inferiore ai 25 milioni, a graduarsi in parecchi anni secondo il nostro piano, si potrebbe abolire il casotto del dazio, segno a tanti odi ed occasione di tanti tumulti, in tutti, si può dire, i comuni chiusi del mezzogiorno, eccettuate soltanto le città di Bari, Catania, Messina, Napoli e Palermo. Alla riforma del dazio consumo dovrebbe andar compagna una più moderna concezione dell’uso fatto dai comuni delle attuali imposte di famiglia, sul valor locativo, di esercizio e rivendita e sul bestiame. Come preparazione alla futura istituzione di una imposta generale sul reddito, perché non trarre miglior partito dai tributi locali già esistenti, i quali, acconciamente trasformati, possono dare ottimi frutti? Oggi si muovon contro di essi forti lagnanze perché si tassano le famiglie quasi in ragione delle persone e non degli averi; ma nulla vieta che gli abusi siano tolti e che, grazie alla sorveglianza di commissioni tributarie estranee ai partiti locali, la ripartizione delle imposte avvenga nei comuni del mezzogiorno secondo norme di giustizia.

 

 

  • Riduzione dell’imposta sui terreni ed acceleramento dei lavori catastali. Sono questi due punti connessi tra di loro. nota la proposta dell’on. Sonnino di ridurre del 50 per cento l’imposta fondiaria, e sono note altresì le critiche esposte a suo tempo in proposito. Ridurre del 50 per cento il contingente delle provincie meridionali non parrebbe accettabile quando la riduzione andasse a beneficio di quei proprietari il cui reddito non è punto scemato in proporzione dell’imposta o forse è già troppo poco colpito. Noi vorremmo si applicasse alle regioni più povere del mezzogiorno un metodo simile a quello sancito dalla legge per la Basilicata, ove si ordinò l’applicazione con procedimenti speditivi di un estimo provvisorio nuovo, riducendo l’imposta all’8,80 per cento del nuovo reddito così accertato. L’estimo provvisorio potrebbe condursi a termine in un anno o due, e la sua applicazione potrebbe tornare vantaggiosa per studiare se l’attuale catastazione, tanto costosa e tanto lontana dal suo termine ultimo, possa giustificarsi ai soli fini tributari, senza innestarvi sopra la riforma giuridica, che – a detta di molti – può coonestare l’altissima spesa. La revisione dell’imposta di ricchezza mobile e dei fabbricati si fa spesso e per tutta Italia, perché non potrebbe rivedersi a periodi determinati con procedimenti simili l’imposta sui terreni? Sinora ciò non poté farsi, per il timore che revisione volesse dire aumento dell’imposta, ma l’obiezione non avrebbe più valore il giorno che per talune regioni si dicesse che il contingente attuale in complesso non potrà essere aumentato, anzi dovrà diminuirsi del 25% e che in nessun caso l’imposta erariale supererà l’8,80% del reddito nuovo. Se anche taluni proprietari dovranno pagare di più, non sarà un male, poiché sarà dimostrato che in rapporto al loro reddito essi hanno sempre pagato ingiustamente troppo poco ed in compenso altri proprietari otterranno diminuzioni che potranno essere persino superiori al 50% proposto dall’on. Sonnino.
  • Riforma dell’imposta sui fabbricati. Qui noi non possiamo non associarci all’on. Colajanni che disse un’infamia e al Nitti che chiamò iniqua l’applicazione di quest’imposta al mezzogiorno. Forse nella nostra legislazione tributaria non vi è uno scandalo che sia lontanamente paragonabile all’incidenza effettiva dell’imposta fabbricati nell’Italia meridionale. Sarà dura cosa pagare caro il sale, il petrolio, il pane ed altri generi necessari alla vita, ma almeno la legge e l’intenzione del legislatore sono chiare: si è voluto per l’appunto ottenere un largo provento fiscale colpendo quei generi con imposte, che sono gravissime, ma sono legali. Per l’imposta sui fabbricati il caso è profondamente diverso: il legislatore quando l’istituì per la prima volta, si è preoccupato della necessità di tassare solo gli edifici che devono un reddito a sé, in quanto erano destinati ad abitazione civile, ed ha esentate le case rurali perché queste sono utili solo in quanto siano connesse ad un fondo agricolo, e il loro reddito non può essere scisso dal reddito dei terreni. Che cosa è accaduto? Che nell’Italia settentrionale e nella media le case rurali, sparse nella campagna, furono esenti, mentre nel mezzogiorno e nelle regioni a popolazione concentrata, dove i contadini abitano nei grossi borghi, le stesse case rurali, che servono ai lavoratori dei campi, furono tassate perché non erano situate sui terreni di cui economicamente erano una dipendenza, ma avevano la disgrazia di essere poste nei borghi. Il concentramento della popolazione nei borghi sarà un male; ma è un male profondamente radicato nelle abitudini e nelle necessità locali, come ha benissimo dimostrato il prof. Mosca, un male che si potrà togliere lentamente e con mezzi indiretti. Frattanto urge con una legislazione speciale togliere il danno fatto da una legislazione generale, dovuta a persone che non avevano mai vissuto nel mezzogiorno e che si immaginavano che tutta Italia fosse, come il Piemonte, la Liguria e la Lombardia, cosparsa di cascinali e di fattorie disperse nella campagna. Il male che ha fatto la ignoranza è inenarrabile: basta pensare che mentre in Piemonte nel 1905 vi erano 198.000 articoli di ruolo per l’imposta sui fabbricati, in Lombardia 209.000 e in Liguria 67.000, nelle Puglie ve ne erano 238.000, in Basilicata 109.000, in Calabria 232.000, nella Campania e Molise 485.000 e in Sicilia 645.000! Il confronto sarebbe ancora più suggestivo se potessimo paragonare quelle cifre con quelle della popolazione. Non vi è oramai sul punto nessun dubbio per tutti coloro che hanno studiato l’argomento; nel mezzogiorno pagano l’imposta sui fabbricati classi di persone che nel settentrione vanno esenti. È un’ingiustizia stridente che importa togliere; e non sarà mai tolta troppo presto.

 

 

Noi mentiremmo però al vero se dicessimo che le riforme tributarie proposte per il mezzogiorno ne debbano elevare di molto le condizioni economiche. Nel campo delle riforme tributarie importa distinguere fra le riforme inerti e le riforme dotate di una potenza attiva di bene. La riduzione dell’imposta fondiaria, e la abolizione dell’imposta sulle case rurali del mezzogiorno sono riforme che si impongono perché è giusto far pagare l’imposta a persone, le quali, secondo lo spirito della legge, non la devono pagare, sia per mancanza del reddito tassato, sia per non essere l’identico reddito altrove tassato. Sono riforme utilissime perché persuadono alle popolazioni che il legislatore è deciso a far opera di giustizia, e perché riducono i sacrifici che contribuenti poverissimi sono costretti a fare per pagare l’imposta. Ma la loro utilità finisce lì. Noi possiamo sperare che i denari lasciati ai contribuenti saranno impiegati in guisa utile allo sviluppo della ricchezza: ma è una speranza a cui possono non corrispondere i fatti. La riforma non è dotata di una tale virtù attiva da mettere essa stessa in moto un meccanismo capace di un nuovo lavoro produttivo. Sotto questo aspetto giovano assai più le riforme attive; le quali presentano l’altro vantaggio di essere assai meno gravose per l’erario e di possedere una mirabile virtù ricuperativa delle perdite cagionate al fisco nel primo momento di loro applicazione. Alcune di queste riforme possono essere fatte regionalmente, altre per necessità debbono estendersi a tutta Italia. Enumeriamo brevemente le più urgenti, su cui dovrebbe concentrarsi la discussione.

 

 

  • Esenzione regionale dall’imposta sui fabbricati, di ricchezza mobile e di registro per le industrie nuove o tecnicamente organizzate che si impiantassero nel mezzogiorno in un periodo di dieci anni. L’esenzione dovrebbe durare 5 o 10 anni a seconda della natura dell’industria. È un principio già sancito per Napoli e la Basilicata e che noi ameremmo estendere gradatamente. Lo stato non perde nulla da questa esenzione per quant’è al bilancio attuale. Perde l’imposta che avrebbe messa sulle nuove industrie, se queste fossero egualmente sorte. Ma quante sarebbero sorte senza l’esenzione? Quanti capitali si sarebbero senza questo stimolo distolti da impieghi usurari, ereditizi, oggi spesso non raggiungibili dal fisco? Quanti capitali non andrebbero dall’alta Italia ad impiegarsi nel mezzogiorno, lasciando nel settentrione un vuoto che sarà colmato dall’afflusso di capitali stranieri indotti così a diventare tributari verso il fisco italiano? E quanti capitali stranieri non andranno direttamente verso il mezzogiorno, creando una materia che diverrà imponibile dopo un decennio?

 

 

L’esenzione non dovrebbe essere limitata alle industrie propriamente dette, essendo invece convenientissimo estenderla ai miglioramenti culturali della terra. Il prof. Mosca ha messo in rilievo gli ostacoli molteplici che si oppongono alla trasformazione industriale del latifondo nell’interno della Sicilia, ostacoli che non si possono eliminare da un giorno all’altro con provvedimenti legislativi empirici, uso Crispi, ed ha rilevato l’importanza che avrebbero l’introduzione delle culture del mandorlo e del gelso e il rimboschimento per elevare la produttività del latifondo. Una minorazione proporzionale d’imposta, che in certi casi potrebbe spingersi sino alla esenzione, per quei terreni che fossero rimboschiti od arricchiti di piantagioni di mandorli, gelsi, ecc., gioverebbe a spingere a codeste costose trasformazioni culturali e preparerebbe al fisco una più ricca messe in seguito per lo sviluppo dei consumi e degli affari a cui le nuove produzioni darebbero luogo.

 

  • Diminuzione delle tasse di registro sui trasferimenti e sulle divisioni della proprietà immobiliare. Il sacrificio dell’erario non dovrebbe essere largo, se si pensa alle molte transazioni che ora non hanno luogo per l’altezza esagerata della tassa. Se la tassa di registro fosse diminuita d’assai, specie per le minori vendite, e se fosse riformata contemporaneamente la materia delle tasse ipotecarie ed altre che gravano sulla trasmissione della proprietà fondiaria, quante maggiori contrattazioni non avverrebbero! La cosa ha importanza maggiore di quanto non si creda, perché agevolerebbe il trapasso della proprietà a persone più attive ed intraprendenti, favorirebbe la liquidazione di intricate situazioni patrimoniali, darebbe impulso, laddove fosse conveniente, al frazionamento della proprietà fondiaria.
  • Riforma delle tariffe ferroviarie e dei noli della marina sovvenzionata. Sono questi argomenti gravi che hanno importanza nazionale, ma li accenniamo qui, fra i punti più urgenti di discussione del problema meridionale, perché non potremo certo illuderci di avere spinto il mezzogiorno verso destini economici più elevati, se non avremo dato modo ai produttori di laggiù di spedire a costi convenienti le loro derrate nel settentrione e all’estero. Già molto si è fatto colle tariffe differenziali per certi prodotti del mezzogiorno, ma potrebbe farsi meglio e sovratutto non bisognerebbe soltanto occuparsi dei trasporti ferroviari, essendo necessario metterli in correlazione coi noli marittimi. Col 30 giugno 1906 dovrebbero essere approvate le nuove convenzioni marittime per poter andare in vigore il primo luglio 1908. Il problema quindi urge, ed urge studiare se le convenzioni marittime non possono essere congegnate in modo da favorire il traffico per mare a costi bassi delle derrate agricole meridionali, sgravando e sussidiando l’opera parallela delle ferrovie.
  • Tra le riforme tributarie attive mettiamo anche quelle che hanno attinenza coi trattati di commercio. Oltre ai trattati già conchiusi con le potenze centrali, si sta ora trattando con la Russia, la Bulgaria, la Romania, la Grecia, l’Egitto, il Canadà e discussioni proficue potrebbero sempre farsi con gli Stati uniti, il Brasile e la Francia. Durante tutte queste trattative si dovrà tener conto della necessità di agevolare le esportazioni agricole meridionali. Temiamo forte però che i vantaggi non saranno sensibili se il governo non si deciderà a ridurre i dazi sul petrolio, sul caffè e sul grano. Un governo, il quale osasse ridurli uno alla volta gradatamente in un decennio sino alla metà, alla fine avrebbe raddoppiato e forse quadruplicato il consumo del petrolio, aumentato d’assai quello del caffè ed avrebbe dato impulso ai consumi succedanei del pane.

 

 

Per ora a noi mancano i dati per dimostrare che le riduzioni d’imposte da noi messe innanzi possono contenersi nella disponibilità di bilancio calcolata in 100-150 milioni alla fine del decennio. Ciò che occorre del resto non è la precisione matematica dei calcoli preventivi. Basta aver la chiara visione del programma che gradatamente si dovrà applicare a mano a mano che gli avanzi ci saranno e la fermissima volontà di usare quegli avanzi alla riduzione di tributi nell’ordine da noi esposto od in quell’altro che la discussione dimostrasse più adatto. Con chiara visione e con ferma volontà si otterranno miracolosi risultati, ché l’incremento di produzione e di consumi dovuto all’alleggerimento progressivo dei pesi tributari sarebbe cosiffatto da diminuire la perdita dello stato assai al disotto del previsto e da consentire audacie, che oggi sembrerebbero assurde.

 

 

II

 

Il compito dello stato e del paese di fronte al problema meridionale non può arrestarsi alla riforma tributaria. Fa d’uopo non dimenticare quelle riforme economiche per cui venga dato un impulso diretto al progresso agricolo ed industriale del mezzogiorno; escludendo quei rimedi empirici che avrebbero per iscopo, ad esempio, di spezzare violentemente il latifondo, nell’illusione che la piccola proprietà o forme perfezionate di mezzadria possano instaurarsi per virtù di legge. Una saggia legislazione per i contratti agrari potrà giovare nel senso di togliere i patti angarici e di impedire che la lettera della legge soffochi colla sua rigidità trasformazioni agrarie altrimenti possibili. Così la proposta dell’on. Alessio di estendere ad altre regioni l’enfiteusi quale è regolata nella legge per la Basilicata, cioè con la facoltà di riscatto soltanto dopo un lunghissimo periodo, è commendabile in quanto permette che si faccia più largo ricorso ad un istituto oggi trascurato perché nessun proprietario vuol dare parte del suo fondo in enfiteusi, quando subito dopo il colono può senz’altro riscattarlo. Ma è d’uopo non illudersi troppo sulla efficacia trasformatrice della legislazione sui contratti agrari. Il latifondo siciliano e meridionale non è una istituzione dovuta alle leggi od all’opera voluta delle classi dominanti; faremmo torto al lettore se gli ricordassimo la dimostrazione esauriente data dal Mosca, accennata dal Colajanni, esposta già prima dal Di Rudiní e da altri, delle cause profonde, di clima, di convenienza economica per cui latifondo e cultura estensiva a grano sono oggi e rimarranno ancora per lungo tempo connaturate a certe contrade del mezzogiorno, ove non mutino le circostanze ambienti. Bisogna operare su queste se si vogliono ottenere risultati percettibili. Tutto il resto sarà utile a guisa di complemento, ma è destinato a rimanere sterile se prima non si provvede al regime delle acque, al rimboschimento ed a facilitare la vendita dei prodotti agrari più raffinati che si vorrebbero sostituire al grano. Noi avremmo desiderato di porre termine colle riforme tributarie all’elenco dei modi di intervento dello stato, perché ci fa paura questo molteplice ingerirsi in faccende le più diverse di un organo da tutti accusato – ed a ragione – di essere causa principalissima dei mali del mezzogiorno. Con un governo debole meglio è non far nulla e rassegnarci al disfacimento; e d’altra parte nulla di quanto ora diciamo è possibile compiere senza l’azione di uno stato forte, preveggente, dalle vedute larghe e dalle iniziative coraggiose. Rimboschimento e regime delle acque non sono e non possono essere se non opera collettiva. Se noi avessimo avuto solo fiducia nell’opera dell’iniziativa privata, oggi non avremmo le splendide foreste di cui si vanta la Svizzera, non il mirabile sistema d’irrigazione della Lombardia, non le colossali opere romane nell’Africa, od inglesi nelle Indie e nell’Egitto.

 

 

Siamo di fronte ad una funzione che lo stato unicamente può intraprendere perché soltanto un ente centrale, a vita perpetua, che può rinunciare al reddito immediato, rimboschendo a lunga scadenza, può costruire serbatoi artificiali che i privati non vogliono ciascuno individualmente costruire perché gioverebbero pochissimo, forse nulla a sé e molto ad altri.

 

 

È nota la mala distribuzione delle piogge in Sicilia, per cui la stagione più abbondante di piogge è l’inverno, quando esse a nulla giovano e si disperdono inutilmente nei torrenti ingrossati e devastatori. A regolare il corso delle acque gioverà il rimboschimento; ma sarebbero sovratutto utili grandi serbatoi, costrutti nei luoghi più adatti, per raccoglierle d’inverno e distribuirle durante l’estate a beneficio dell’agricoltura e delle industrie. Il prof. Michele Capitò, direttore della scuola d’applicazione degli ingegneri di Palermo, ha scritto, in appendice al libro del Nitti sulla Conquista della forza, uno studio in cui dimostra appunto la possibilità e la convenienza di costruire serbatoi nella Sicilia. Egli ne costrusse uno per conto della casa Trabia, che costò 250.000 lire e fece accrescere di circa 80 litri al secondo le esistenti scaturigini che ne rendevano circa 110. Il prezzo capitale fu per litro di lire 3.125, di cui la rendita annua al 5% è di lire 156,25.

 

 

In Sicilia con un litro perenne d’acqua si irrigano circa tre ettari di terreno e quindi si ebbe la spesa di 52 lire all’anno per l’adacquamento di un ettaro. Spesa convenientissima, se si pensa che nell’agro palermitano un litro d’acqua ad efflusso continuo ai nostri giorni si paga 500 lire all’anno. Il professore Capitò aggiunse che sui 25.465 chilometri quadrati della Sicilia cadono ogni giorno 12.735 milioni di metri cubi d’acqua, di cui gran parte si disperde nei corsi torrentizi, mentre, se fosse utilizzata, si potrebbe raggiungere il triplice scopo di provvedere ad abbondanti irrigazioni, di dar forza idraulica sufficiente all’industria agricola ed alla trasformazione industriale dei prodotti del suolo ed infine di risanare vaste regioni malariche.

 

 

Sia pure il quadro alquanto ottimista, certo è che allo stato qui si para innanzi un vasto campo che dall’iniziativa privata è e sarà sempre trascurato. Diciamo di più: non è conveniente che il regime delle acque sia lasciato all’iniziativa privata. L’esperienza dimostra – Spagna, Indie, Egitto, regione costiera della Sicilia informino che nei paesi meridionali l’irrigazione conduce alle culture ricche ed intensive e queste alla lor volta al frazionamento della proprietà. ora volete voi che questi piccoli proprietari siano in futuro lasciati in balia del privato possessore del serbatoio d’acqua, che potrà decretarne la rovina rifiutando l’acqua o costringerli a pagare rendite esorbitanti? I serbatoi debbono essere in mano dello stato o di un ente pubblico, il quale curi in modo inflessibilmente rigido la distribuzione egualitaria delle acque a tutti i proprietari in relazione alle loro culture.

 

 

Alla costruzione di serbatoi per conto dello stato si muoverà l’obiezione della spesa. La quale però a noi sembra destituita di fondamento perché, ove i serbatoi siano costruiti nei luoghi adatti, i canoni, pure miti, pagati per l’uso delle acque da proprietari e industriali, dovranno bastare a servire l’interesse e l’ammortamento del capitale impiegato dallo stato. Il ricorso al credito non deve spaventare, come non ha spaventato nessuno il debito contratto dal Consorzio del porto di Genova per le nuove opere portuarie o dallo stato per l’assetto della rete ferroviaria.

 

 

Qui avremmo finito di riassumere i capisaldi dell’azione di un governo riformatore nel mezzogiorno, se non ci corresse l’obbligo di accennare alle proposte di credito di stato fatte dall’on. Maggiorino Ferraris. Il quale sostiene da tempo una nobile campagna per la riforma agraria, campagna che ha già esercitato grande influenza sull’opinione pubblica e già s’è tradotta parzialmente in atto nella legge per la Basilicata, con la istituzione della Cassa provinciale di credito agrario. Diciamo subito che il credito di stato noi lo concepiamo per ora – pel futuro nulla può dirsi – nei limiti modesti di questa legge; e vorremmo che si limitasse ad un’opera parzialmente sussidiaria di quella funzione educativa, che sopra dicemmo essere uno dei doveri precipui dell’ente pubblico. Lo stato favorisca, per mezzo di organi locali, la diffusione di cattedre ambulanti, di scuole agrarie, di poderi sperimentali e promuova pure – colla concessione di credito da parte del Banco di Napoli o di altri istituti creditizi sovvenuti coi fondi delle casse di risparmio – la costituzione autonoma di consorzi agrari per la compra del bestiame, semenze, concimi chimici, per la vendita dei prodotti agrari, ecc. ecc. Ma, per carità, la sua azione sia indiretta e frapponga sempre fra sé e gli agricoltori sovvenuti dei forti istituti di credito pienamente responsabili delle somme eventualmente ricevute dalle casse postali di risparmio! Lo stato ha tante altre cose grandi da compiere, senza gittarsi a capofitto in una impresa bancaria, che sarebbe quella più facilmente accetta alle popolazioni, le quali concepiscono a stento l’utilità di una montagna rimboschita e vedono subito i vantaggi di una somma presa a prestito, e che si spera di non dover restituire, trattandosi di roba di tutti.

 

 

Si abbia, vivaddio, un po’ di fiducia in noi stessi, nella capacità nostra di collaborare attivamente all’opera di questo nuovo stato che noi concepiamo forte e risoluto, ma non potrà mai agire fortemente e risolutamente, se noi staremo fiacchi a guardarlo, senza muovere un dito. Quando diciamo “noi” intendiamo accennare agli uomini del mezzogiorno e del settentrione insieme: tutti devono sforzarsi di giovarsi delle nuove situazioni economiche promettitrici di eque remunerazioni al lavoro ed al capitale. Ogni giorno nell’Italia settentrionale si formano nuove notabili aggregazioni di capitali italiani e stranieri; le banche estendono la rete delle loro sedi e filiali e non una goccia di questo capitale fecondatore si riverserà nel mezzogiorno! Nei paesi di piccola proprietà del settentrione, gli agricoltori trovano correntemente a farsi imprestar denari al 4,25 ed al 4,50 e il capitale mutuabile non scoprirà mai la via delle contrade italiane dove può ottenere remunerazioni maggiori! Le terre del nord salgono di prezzo di anno in anno in correlazione coll’aumento di valore dei fondi di stato, e non un briciolo del capitale in cerca di investimenti fondiari si deciderà a far ricerca di terre meridionali deprezzate! Quando gli uomini che lavorano riescono ad inspirare fiducia nella loro intelligenza tecnica e nei risultati probabili della loro opera, i banchieri non mancano mai, e gli usurai debbono scomparire o ridursi alle piccole intraprese di spennacchiare la gente inesperta od imprevidente, la quale non manca anche nei paesi ricchi.

 

 

Non lo stato, ma gli individui dovranno intraprendere la trasformazione delle culture resa possibile dalle agevolezze fiscali, doganali, ferroviarie, dalle opere di irrigazione e di rimboschimento concesse o promosse dallo stato. Né è da dubitare che trovandoci la convenienza, gli agricoltori siciliani e meridionali non abbiano la virtù di produrre derrate nuove, di estendere le piantagioni del mandorlo e del gelso, l’allevamento del bestiame, di costrurre case in campagna. Le pazienti ed industri coltivazioni delle regioni litoranee della Sicilia, delle Puglie, della Campania, sono arra sicura di ciò che si saprà fare in avvenire se le condizioni economiche saranno propizie. Anche nella vendita dei prodotti agricoli occorrono nuove energie e nuove iniziative. Chi scrive ha avuto occasione di conoscere uno degli organizzatori della più potente società produttrice di vino nella California: un piemontese da anni emigrato negli Stati uniti. Discorreva egli a Palermo, durante un Congresso, con numerosi agricoltori, della convenienza di costituire dei consorzi o sindacati per la vendita degli agrumi simili a quelli californesi, i quali hanno monopolizzato il mercato nord-americano: e, dove prima si facevano prezzi rovinosi, si riuscì a regolarizzare e conoscere per modo le piazze di consumo, da stabilire una costanza di prezzi e di sbocchi utilissima a produttori e compratori.

 

 

«È vero – gli fu risposto, – i sindacati per le vendite degli agrumi sono una cosa utilissima; scriveremo al ministero a Roma per fare qualcosa». Al nostro italo-americano cascarono le braccia. A lui sembrava stranissimo che in argomento di interesse tutto privato, dove ciò che conta è la energia e la prontezza delle risoluzioni e la saldezza dell’organizzazione commerciale, si volesse prendere l’imbeccata della burocrazia romana. Finché non avremo abbandonato il malvezzo di aspettar tutto dallo stato, correremo rischio di non saper profittare nemmeno di quel poco di buono che lo stato fa.

 

 

Così con la cooperazione di tutti, governo e governati capitalisti del nord e lavoratori del sud potremo guardare in faccia senza spavento al problema meridionale.

 

 

In alto i cuori! Con un governo rigido ed inflessibile, osservante della legge, il quale non speculi sulle debolezze dei meridionali per artificio misero di potere, con una legislazione fiscale mitigata, con provvidenze legislative ed opere pubbliche atte a stimolare lo sviluppo delle attività individuali, non vi deve essere un limite al risorgimento morale ed economico del mezzogiorno. Il preteso antagonismo fra due Italie, una ricca e l’altra povera, una istruita e l’altra ignorante, una sfruttatrice e l’altra sfruttata, che già oggi ha perso valore dinanzi alla mirabile prova di solidarietà di tutti gli italiani verso i percossi dalla sventura nelle Calabrie, non avrà più senso dinanzi al fermo volere di tutti i partiti e di tutte le regioni di elevare gradatamente il mezzogiorno sino ad un punto, che le sole differenze fra il nord ed il sud sieno le differenze simpatiche derivanti dal clima, dalla natura del suolo e delle colture, dalle usanze e dalla psicologia degli abitanti.

 

 


[1] Con il titolo Problema meridionale e riforme tributarie. [ndr]

[2] Con il titolo Opere pubbliche ed iniziative private nel risorgimento economico del Mezzogiorno. Concludendo. [ndr]

È possibile una riforma tributaria?

È possibile una riforma tributaria?

«Corriere della Sera», 11 novembre 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 260-266

 

 

Alla instaurazione di un ordine nuovo nei rapporti fra stato ed enti locali ed al ristaurato impero della legge in quei campi dove essa è ora spesso violata noi abbiamo dato il primo posto in queste nostre conclusioni sul problema meridionale. Senza un governo fermo e senza la convinzione assoluta che nulla può essere tentato contro la legge, vane sarebbero tutte le altre riforme; anzi sarebbero torte ad altro fine da quello voluto e ridonderebbero a danno del mezzogiorno ed a disdoro del paese. A che valgono le riforme tributarie ed economiche, il credito agrario, i lavori pubblici se si conserva e cresce il sospetto che tutto ciò sia fatto non a vantaggio del paese, ma a pro dei procaccianti che sapranno impadronirsi della macchina amministrativa distributrice di favori governativi? Qui è il punto di partenza; e senza aver ben fermo questo caposaldo sarebbe inutile indugiarci in una discussione qualsiasi di riforme.

 

 

Eppure queste sono urgenti e molte: primissima la riforma tributaria. Anche a chi ritenga che il problema massimo dell’ora presente è quello del mezzogiorno, una indagine si impone: è possibile adesso una riforma tributaria efficace?

 

 

Riformare i tributi, anche collo speciale intento di favorire il mezzogiorno, non si può se non da chi abbia una chiara idea di quello che sia concesso fare nelle condizioni attuali del bilancio dello stato e dell’economia del paese. Subito si presentano due domande: quali i mezzi per effettuare le riforme ed in che ordine compierle? Sono discordi i pareri fra i teorici e profondamente diverse le proposte concrete presentate alla pubblica discussione. Ricordiamo, tra i principali i progetti Wollemborg, Alessio, Maggiorino Ferraris, Bonomi, De Johannis, senza ricordare l’ultimo, e non noto ancora nelle sue linee precise, del Majorana. Non potendo tutti riassumerli, diremo soltanto come la contesa sia specialmente tra coloro i quali vorrebbero cominciare dall’abolizione o trasformazione radicale del dazio-consumo e gli altri che preferirebbero ridurre subito le imposte sul sale, petrolio, zucchero caffè, grano; tra quelli che vogliono creare un nuovo strumento di riforma colla imposta generale progressiva sul reddito ed i riluttanti a nuove imposte e fiduciosi piuttosto in un saggio impiego degli avanzi di bilanci attuali e di quelli maggiori derivanti dalla conversione della rendita; tra quelli i quali vogliono trasferire ai comuni le attuali imposte sulla terra, sulle case e sulle industrie creando per lo stato nuovi cespiti e quelli che ritengono prematura una grandiosa trasformazione tributaria. Né vogliamo erigerci giudici fra tanti egregi polemisti; e combattere per una soluzione contro un’altra. Amici più del paese che di idee sistematiche noi siamo anche disposti ad abbandonare le nostre proposte ed a propugnare le altrui, purché qualcosa si faccia sul serio e con vedute d’insieme e di avvenire. Dicesi ad esempio che il Majorana voglia proporre la trasformazione del dazio consumo e dei tributi locali, mercé l’adozione di un’imposta generale sul reddito: e noi, quantunque ci sorrida un’altra via, siamo disposti ad appoggiare le proposte sue, lieti se si troverà un ministero forte da infondere nel parlamento la persuasione della necessità di agire. Senonché, trovandoci per ora dinanzi a progetti teorici, ci sia concesso dire quale debba praticamente essere la via da seguire per raggiungere due intenti: dei quali il primo è di fare opera che giovi principalmente al mezzogiorno ed il secondo si è di fare opera che prepari l’avvenire pur essendo attuabile nel momento presente.

 

 

Noi perciò ci troveremmo d’accordo con Maggiorino Ferraris, il quale respinge e contrari al Bonomi, al Wollemborg ed agli altri che propugnano l’adozione di una imposta generale sul reddito. Non già che in noi vi sia qualche obbiezione di principio contro di essa; se invece di tutta Italia si trattasse di Milano, o di Genova o di Torino noi applaudiremmo ad una imposta, per la nostra città voluta e applicata, a norma delle leggi vigenti. Nei paesi evoluti, come è l’Italia settentrionale e come sono l’Inghilterra, la Prussia, l’Olanda, ecc., l’imposta sul reddito è un mirabile strumento fiscale che rende tutti i contribuenti, percettori di un reddito superiore ad un minimo, direttamente interessati all’azione dello stato e vigili custodi delle pubbliche spese da cui dipende l’altezza delle aliquote. Noi però non dobbiamo dimenticare che il problema urgente dell’ora presente è il problema meridionale dove la ricchezza è poca e le fortune tenui; e dove sono elevatissime le imposte sulle terre, sulle case e sulla ricchezza mobile. Altrove l’imposta sul reddito è sopportata agevolmente da contribuenti i quali non hanno da pagare altre imposte dirette, o pagano aliquote basse a province e comuni. Qui l’imposta generale sul reddito si aggiungerebbe all’imposta sui terreni, della quale la pressione è variabile, ma elevatissima, al 16,25% dell’imposta sui fabbricati (aliquota erariale, senza i centesimi addizionali), al 7%, 8, 10, 15 e 20% dell’imposta di ricchezza mobile. Si aggiunga che i maggiori colpiti sarebbero i mediocri e piccoli redditieri, che hanno un reddito superiore alle 1.200 lire, perché se si volesse cominciare da più alto, da 3.000-5.000 lire, il gettito dell’imposta sarebbe trascurabile, tanto basso è in Italia in media il livello delle fortune. Chi pagherebbe l’imposta generale sul reddito? Sovratutto gli impiegati, i proprietari di case e terre, anche mediocri, tutti coloro che hanno redditi fissi e non occultabili. Vogliamo noi che ciò accada? Sì, quando sia possibile di ridurre la forte pressione che sugli stessi redditi esercitano le imposte attuali. Poiché, ciò che di meno si pagherebbe da un lato, lo si dovrebbe pagare – e con maggiore giustizia distributiva – col mezzo dell’imposta generale sul reddito. Non si correrebbe il rischio di gravare coll’imposta sul reddito contribuenti sparsi nelle campagne, nei borghi semi-rurali del mezzogiorno per vantaggiare sovratutto i contribuenti delle grandi città che risentirebbero il massimo vantaggio dall’abolizione del dazio consumo.

 

 

A proposito del dazio consumo, conviene intenderci. Il dazio è certo un’imposta medievale, dannosa ai traffici interlocali: ma si ricordi, come bene notava il Ferraris, che nel 1898 su 177 milioni di proventi del dazio nei 338 comuni chiusi, ben 65 milioni provenivano dalle bevande, 32 dalle carni, 26 dai farinacei, 8,2 dai coloniali, riso, ecc., 8 dai combustibili, 8 dal burro, olio, 6,5 dagli erbaggi, foraggi, ecc., 4,5 al latte e formaggi, 4 dai pesci, 2,5 dal pollame e uova, 7,5 da articoli industriali e 4,6 da prodotti diversi e di lusso. Oggi, che i dazi sui farinacei sono scomparsi, si può sul serio sostenere che l’abolizione del dazio sulle bevande e sulle carni sia più urgente del dazio doganale sul petrolio, sul grano, sullo zucchero o sul sale? Tolgasi subito dal dazio consumo tutto ciò che vi è di più irrazionale, tutto ciò che preme specialmente sulle popolazioni più povere; e pel resto si lasci al tempo apprestare suoi rimedi, che non saranno lontani, se si vorrà sapientemente colle riforme dell’oggi preparare le riforme del domani.

 

 

Riassumendo, noi vorremmo che si stabilissero due piani, uno per l’avvenire e l’altro per il presente, i quali si sorreggessero a vicenda. Il piano avvenire dovrebbe essere basato sulla disponibilità lasciata dalla conversione della rendita e dai benefici lasciati dalle riforme urgenti. In quel giorno, che noi dobbiamo preparare coll’opera diuturna, senza parlarne troppo, sarebbe possibile porre il problema nella forma più larga voluta dai riformatori. Non sarebbe assurdo discorrere di trasformare le imposte dirette sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile, diminuendone l’aliquota e facendo parecchie utilissime riforme minute che non possono qui essere accennate. In quel giorno magari diventerebbe pratico imitare certe famose riforme straniere, trasferendo le imposte terreni, fabbricati e alcune categorie della ricchezza mobile a favore dei comuni, avocando allo stato la esazione dei dazi sulle bevande e sulle carni che ora sono esatti dai comuni, abolendo del tutto le barriere daziarie con un diverso sistema di esazione.

 

 

La grande riforma sarebbe, secondo i suoi fautori, l’istituzione di una imposta generale sul reddito a favore dello stato, che ne ritrarrebbe largo reddito, essendo diminuita per altre vie la pressione tributaria. Anche favorita dai 40 milioni di margine della conversione della rendita, l’audace riforma o quella qualsiasi altra che si preferisse porre dinanzi alla discussione pratica, non riuscirebbe, se noi non sapessimo prepararle il terreno con l’attuazione di quello che abbiamo chiamato il piano del presente. Il quale, in sostanza, consiste in ciò: che oggi noi dobbiamo, cogli avanzi di bilancio, rigorosamente custoditi, attuare quelle riforme che valgano a togliere le asperità maggiori, le ingiustizie più stridenti del sistema tributario e ad elevare per modo la capacità contributiva e di consumo delle masse da renderle atte a quel nuovo regime tributario che noi vorremmo applicare in avvenire.

 

 

Non v’è dubbio che qualche cosa può farsi subito, sol che si voglia con fermezza di propositi e con continuità di vedute. Ecco la serie degli avanzi di bilancio fra le entrate e le spese effettive, secondo i conti consuntivi definitivamente chiusi:

 

 

Entrate milioni Spese milioni Avanzo annuale

1898-899

1658,8

1626,1

+ 32,6

1899-900

1671,5

1633,1

+ 38,4

1900-901

1720,7

1652,3

+ 68,3

1901-902

1743,4

1679,8

+ 63,6

1902-903

1794,7

1695,9

+ 98,7

1903-904

1786,3

1727,6

+ 58,7

1904-905

1832,0

1768

+ 61,0

 

 

Dell’avanzo, una trentina di milioni è consacrata a diminuzione del debito pubblico ed a costruzioni ferroviarie; ed il resto è a disposizione del tesoro. Si può affermare che ove non si tenesse conto del reddito del grano o meglio ove si supponesse che il reddito, aleatorio, del grano servisse a pagare debiti (ed in realtà che bisogno vi è di pagare debiti, di cui nessuno pretende la restituzione, quando vi sono tant’altre cose più urgenti da fare?), rimarrebbero circa 30 milioni di avanzo netto all’anno. Anzi il supero sarebbe maggiore ove si ponesse un freno alle spese, che negli ultimi anni sono cresciute troppo, di 19, 27, 16, 31 e 40 milioni all’anno, disperse soventi in cose da poco conto, stipendi cresciuti di impiegati, aumento della burocrazia, ecc. Se si dicesse, ad esempio: eccettuate le aziende riproduttive, come le poste e le ferrovie, per le quali occorrono criteri industriali, le spese non dovranno superare più di 15 milioni quelle dell’anno precedente, noi diremmo cosa che terrebbe equamente calcolo dell’incremento inevitabile delle pubbliche funzioni. Il resto, 15 milioni all’anno, dovrebbe costituire un fondo di sgravi da consacrarsi a diminuzione d’imposte. Nel primo anno le imposte si diminuirebbero di 5 milioni, nel secondo anno di altri 15, e così il totale sgravio dei contribuenti salirebbe, con quello del primo anno, a 30 milioni. Nel terzo anno noi avremmo 30 milioni di diminuzioni d’imposte dei due anni precedenti, più i 15 dell’anno: totale 45, finché al decimo anno si giungerebbe ad uno sgravio totale di 150 milioni. Sono i miracoli dello spirito di continuità. Scemare le imposte di 15 milioni può parere ai più quasi indifferente su un miliardo e mezzo di tributi; ed è perciò che si buttano dalla finestra i 15 milioni in spese inutili; mentre se si avesse la costanza di aggiungere ogni anno una diminuzione di imposte di 15 milioni alle identiche riduzioni compiute negli anni precedenti, in dieci anni si giungerebbe ad abolire 150 milioni di imposte, cosa tutt’altro che indifferente.

 

 

Potrà obbiettarsi: se nel primo anno voi consacrate i 30 milioni d’avanzo per metà ad aumenti di spese e per metà a riduzioni d’imposte, nell’anno successivo l’avanzo non ci sarà più e quindi tutto il piano crolla. L’obbiezione sarebbe giusta se le entrate alla loro volta nel secondo anno non fossero aumentate; ma siccome l’esperienza prova che ogni anno le entrate naturalmente crescono, si produce un nuovo avanzo, sul quale appunto l’operazione è basata.

 

 

Certo tutto ciò suppone che l’economia del paese continui a progredire, ma anche se peggiorasse e gli sperati avanzi non si verificassero più, noi ci troveremmo sempre meglio stabilendo il fondo degli sgravi che seguitando nell’andazzo presente di aumentare disordinatamente le spese. Le spese è difficile ridurle, se consolidate; mentre è sempre possibile sospendere una riduzione d’imposte. Una volta che si sia aumentato lo stipendio di qualche categoria di impiegati da 2.000 a 2.200 lire, tutte le forze della terra congiurate assieme non riuscirebbero a riportarlo al punto di prima; mentre è relativamente più facile non ridurre per un anno una imposta che si era promesso di ridurre. In sostanza noi non vogliamo impegnare il bilancio; ma dire soltanto: se avanzi ci saranno, non si consumino tutti in spese, ma se ne dedichi metà a riduzione d’imposte. Noi speriamo così in dieci anni di arrivare ad uno sgravio di 150 milioni; fossero pure soltanto 100, sarebbe un risultato notabile, in confronto ai risultati irrilevanti che si sono avuti in tanti anni di bilanci floridi per non aver mai voluto concludere nulla dopo tanto chiacchierare, e sovratutto per non essersi imposto l’obbligo di volere eseguire un programma sino alla fine, ostinatamente.

 

 

Politica e amministrazione nel Mezzogiorno

Politica e amministrazione nel Mezzogiorno

«Corriere della Sera», 6 novembre 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 255-259

 

 

L’appello nostro dopo i dolorosi fatti di Grammichele, non è stato lanciato invano. Uomini illustri, appartenenti ai partiti più diversi, sono venuti ad esporre nelle colonne del Corriere il loro pensiero sulla questione meridionale, e – cosa confortante in sommo grado – i propositi loro furono quasi in tutto concordi, senza distinzione di partiti o di scuole. Tacquero i meschini puntigli che tanta eco hanno nelle aule di Montecitorio e tanto hanno contribuito alla politica dell’ignavia e delle debolezze; ed in tutti parve vibrare un unico sentimento altamente patriottico: il desiderio grande di illuminare l’opinione pubblica sui mezzi più adatti a rialzare le sorti del mezzogiorno d’Italia. Sicché a noi in questa conclusione che vogliamo dare al fecondo dibattito, un ben modesto compito è riservato: riassumere e concentrare in un unico fuoco quanto i nostri collaboratori hanno scritto con un così elevato spirito di bene e di verità.

 

 

Durante l’analisi fine e profonda che fu fatta delle cause dei mali del mezzogiorno, forse non vi fu nessun punto, sul quale così impressionante fosse l’accordo di tutti, come nelle accuse mosse al governo ed alla mala amministrazione instaurata dopo il 1860 nel mezzogiorno. Dalla frase ricordata da Maggiorino Ferraris: «Nel mezzogiorno il governo vende il prefetto e compera il deputato», al paragone fatto da Napoleone Colajanni degli amministratori italiani in Sicilia ai portatori di tappeti (carpet- baggers) che invasero e spogliarono, veri briganti, gli stati del sud della confederazione americana dopo la guerra di secessione, al detto di Francesco Saverio Nitti essere il mezzogiorno un campo di conquista per ogni condottiero di ventura, alla definizione di «semi-anarchia» data da Gaetano Mosca al periodo immediatamente posteriore al 1860, è tutto un conserto di accuse che debbono fare meditare le classi dirigenti italiane sulla responsabilità che esse hanno contratto di fronte al mezzogiorno a causa dell’opera loro inefficace sempre e spesso deleteria. Noi non vogliamo andare sino all’esagerazione dannosa di coloro i quali dipingono un «Reame delle due Sicilie» ricco e prospero e ben governato sotto lo scettro paterno dei Borboni; ma dobbiamo ricordare che sotto i Borboni l’alta burocrazia, l’alta magistratura, i capi della gendarmeria erano «quasi sempre incorruttibili e, quando la politica non c’entrava, si sforzavano di far osservare la legge» (Gaetano Mosca) e che la corruzione, i favoritismi erano limitati alla burocrazia minuta, la quale lasciava commettere qualche piccolo sopruso locale. Indubbiamente, anche se si eccettua il periodo transitorio della rivoluzione coi suoi venturieri e col rimescolamento inevitabile delle più basse cupidigie, il nuovo governo non ha saputo migliorare, anzi ha peggiorato assai le cose, almeno per quanto tocca le amministrazioni locali, province, comuni, opere pie, insomma tutti gli enti che dovrebbero essere soggetti alla sorveglianza del governo centrale. Qui si videro subito i mali frutti della peggior forma di parlamentarismo di quella degenerazione cioè del controllo parlamentare per cui i deputati diventano i servi di qualunque ministero ed a Roma votano a favore di tutti i gabinetti e delle politiche più contraddittorie, purché il potere esecutivo lasci a sua volta libere le mani ai deputati e lor partigiani nel governo locale. Di qui la complicità fra le amministrazioni locali ed il potere centrale nel fare il male e nel lasciarlo fare impunemente; di qui la necessità di mandare nel mezzogiorno non i funzionari migliori, che si ribellerebbero alla inosservanza della legge; ma i più deboli e condiscendenti che diventano zimbello dei partiti locali. Di qui ancora la impotenza ad agire nei momenti di maggiore urgenza e di grandi calamità, come il terremoto calabrese, per la mancanza nel corpo dei funzionari di menti alacri ed entusiaste nel compimento del proprio dovere. Anche gli ottimi – e ve ne sono molti nella amministrazione – tacciono e se ne rimangono neghittosi ben sapendo che l’azione è resa inefficace dalla loro instabilità, prodotta appunto dai rapporti fra governo e partiti locali.

 

 

Rompere la cerchia del male che stringe insieme governanti e governati è impresa ardua, ma necessaria. Occorre che il parlamento sappia trovare la forza ed i mezzi per porre fine ad un sistema di governo che conduce al disfacimento sociale. Molto bene ha fatto il commissariato Codronchi del 1896. Non ha certo peccato di orgoglio il conte Codronchi quando sulle nostre colonne ha ricordato che per la fine del 1897 si erano raggiunti 4 milioni di alleggerimenti di imposte, 6 milioni di spese diminuite; ridotti i dazi sulle farine; colle transazioni dei debiti comunali ottenuti 12 milioni di benefici, oltre un milione e mezzo di economie nei bilanci comunali colle unificazioni dei prestiti; i bilanci in pareggio. Se orgoglio è stato, è legittimo sentimento che dovrebbero avere tutti gli uomini di stato, i quali non si curino soltanto del favore popolare del momento, ma guardino al giudizio che la storia darà sull’opera loro. Quale seguito fu dato alle iniziative prese dal commissariato civile siculo nella sua troppo breve vita? È da sperare che almeno si sia conservato quel che di buono si fece; ed è da augurare, pensando ai mali – forse superiori a qualunque altro male umanamente rimediabile – procedenti dall’instabilità e dalla debolezza del governo centrale, che fosse riorganizzato un commissariato civile, come quello del 1896. Sia un commissariato stabile, il quale possa contare su una vita sicura di 10 od almeno di 5 anni. Senza sottrarre l’opera sua al controllo delle magistrature supreme amministrative e del parlamento, gli siano date facoltà ed autorità più larghe di quelle ora godute dai funzionari governativi. Facoltà per operare ed autorità per resistere alle illecite inframmettenze dei deputati, dei grandi elettori e dei faccendieri locali. Per fortuna il livello morale dell’opinione pubblica si è talmente elevato nel paese che noi osiamo sperare anche da Montecitorio una cosa: che il parlamento sappia e voglia sorreggere contro le congiure regionali quel ministero il quale difenda l’instaurazione di una amministrazione rigida e superiore ai desideri illegittimi dei partiti.

 

 

Tanto più lo speriamo in quanto i primi a salutare con gioia il mutamento di rotta sarebbero gli elettori del mezzogiorno. Anche la psicologia del partitante siciliano, così vividamente descritta dal Mosca, finirebbe per modificarsi quando sapesse di non poter più ottener nulla con le vie tortuose dell’intrigo, e si persuadesse che al disopra di lui e dei suoi avversari unica dominatrice sia la legge. Né gioverebbe poco a modificare questa curiosa psicologia, – non ignota del resto in certi comunelli poveri dell’Italia settentrionale, dove tutta la vita si appunta, per mancanza di altri sbocchi, nella conquista del potere municipale – l’allargamento della base elettorale. Nel mezzogiorno troppo pochi sono gli elettori. Nel 1904 mentre il numero degli elettori politici con diritto al voto era in Piemonte del 44,87% maschi maggiorenni, in Liguria del 38,29, in Lombardia del 36,14, il rapporto si abbassava al 15,39% nella Sardegna, al 17,81 nella Sicilia, al 22,39 nelle Calabrie, al 22,37 nella Basilicata. Non abbiamo sottomano le cifre per le liste amministrative; ma il quadro non deve essere gran fatto diverso. Noi non proponiamo che si allarghi il suffragio anche agli analfabeti, che nel mezzogiorno danno il massimo contingente al grosso blocco degli esclusi dal voto; ma vogliamo che lo stato senta il dovere suo di elevare gradatamente il livello della istruzione nel mezzogiorno affinché a masse crescenti di elettori sia dato il mezzo di acquistare la capacità minima necessaria per l’esercizio del diritto di voto. Adesso le lotte elettorali degenerano in contese di famiglie o di piccoli gruppi, perché scarso è il numero degli elettori. Il senatore Codronchi ha affermato che nelle province del mezzogiorno «gli operai ed i contadini elettori e consiglieri comunali attutirebbero molte lotte» e forse educherebbero le masse a sostituire alle sommosse convulsive le agitazioni legali della scheda, che sarebbe certo un passo verso un più elevato concetto della vita civile e politica. Se poi al basso numero degli elettori contribuisce, insieme con l’analfabetismo, l’imperfetta compilazione delle liste elettorali, deve essere compito del governo curare la rigida applicazione della legge e garantire a tutti l’esercizio di quei diritti che essa sancisce. Con il rigido mantenimento della giustizia dall’alto e con la cooperazione ed il controllo di più larghe classi politiche, educate all’esercizio dei diritti elettorali, il mezzogiorno d’Italia potrà vedere attuato un concetto superiore di stato e dimenticare i tempi in cui veniva considerato come un campo di conquista per i politicanti.

 

Il «referendum» torinese sull’impianto idroelettrico

Il «referendum» torinese sull’impianto idroelettrico

«Corriere della Sera», 6 novembre 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 250-254

 

 

Il referendum del 4 novembre rimarrà, qualunque sia il suo esito, come un esempio doloroso del modo come le istituzioni apparentemente più utili possano essere male utilizzate, quando manchi nel ceto dirigente una chiara coscienza dei propri doveri e della propria responsabilità verso il corpo elettorale. Forse la nostra frase potrà sembrare dura; ma non è perciò meno vero che il referendum odierno di Torino è l’ultimo atto di una commedia, cominciata male e che temiamo assai andrà a finire peggio. Si agita da un pezzo a Torino una questione grave intorno al grandioso impianto idroelettrico progettato dal municipio e giunto ora alla decisione finale. La storia è cominciata con la compra fatta dal municipio per alcune centinaia di migliaia di lire di un salto d’acqua a Chiomonte e sanzionata dal consiglio comunale con la espressa riserva che la compra del salto d’acqua non avrebbe pregiudicato per nulla la questione assai più importante dell’impianto e dell’esercizio idroelettrico. È continuata con la proposta presentata alquanto tempo dopo da sindaco e giunta di approvare l’impianto, con il pretesto che non per nulla dovevano essere state spese le alcune centinaia di migliaia di lire per la compra del salto. È proseguita con la approvazione da parte del consiglio del salto nel buio di un impianto colossale in base a progetti e preventivi adottati in diciannove giorni da una commissione che nello stesso periodo ha riferito su non osiamo dire quanti altri progetti di grande importanza. Ha ricevuto la sua cresima dall’alto con la sanzione della commissione reale per la municipalizzazione dei pubblici servizi che in pochi giorni venne, vide, banchettò ed approvò; ed ora sta per ricevere l’ultimo sigillo dal voto degli elettori, ai quali si dice non dovere essi addentrarsi nella selva selvaggia delle cifre, dei preventivi e delle relazioni, ma starsene paghi a dir di sì a quanto fu trovato ottimo e vero da tante commissioni municipali e reali.

 

 

Il contegno tenuto dai partiti nell’occasione nella quale si discuteva di un’impresa tanto grandiosa, non corrispose davvero all’importanza del momento. Soli coerenti fin dal primo giorno furono i socialisti, i quali dichiararono che avrebbero votato sì per ragioni di principio, non preoccupandosi di esaminare criticamente il progetto per vedere se le sue basi fossero attendibili; pronti a chiedere ragione alla classe borghese dominante dell’insuccesso eventuale dell’impresa. Ragionamento comodo da parte di uomini persuasi di poter rovesciare sulle spalle dei ricchi il peso delle imposte nuove che bisognerà istituire per colmare le passività dell’impianto idroelettrico. Il ragionamento non si capisce da parte di chi avrebbe almeno dovuto proporsi il quesito: «Se ci sarà un disavanzo, non converrà rialzare la sovrimposta sui fabbricati, e questa non finirà a rimbalzare sugli inquilini, ossia anche e, pur troppo in gran parte, sui poveri di cui noi ci facciamo i paladini?»

 

 

All’ultimo anche i cattolici – i quali si erano occupati del problema più degli altri senza molto slancio – sentirono il dovere di farsi innanzi e sulle colonne del «Momento» aprirono in queste ultime settimane una campagna vivace e nudrita contro il progetto municipale, accusandolo di varie colpe – che erano state da noi già rilevate su queste colonne mesi or sono partendo da considerazioni puramente oggettive ed apolitiche – fra cui principalissime:

 

  • ottimismo esagerato nella valutazione del volume d’acqua da utilizzarsi, che in certi giorni fu dimostrato essere non di 4.000, ma di soli 2.600 litri;

 

  • ottimismo inspiegabile nella valutazione in 9 milioni della spesa d’impianto; la quale sarà invece molto superiore, non essendosi tenuto conto dell’imprevisto, delle variazioni inevitabili all’attuale progetto di massima; delle spese generali e legali; essendosi tenuta ridicolmente bassa la spesa degli espropri, ecc. ecc.;

 

  • insufficienza dell’impianto termico di riserva per i casi in cui venisse a mancare od interrompere l’energia elettrica; impianto che l’Edison di Milano costruì uguale alla forza idraulica, che la Società Alta Italia di Torino ha uguale ai due terzi e che il municipio di Torino per economia progetta di appena 2.000 HP sugli 8.000 HP che dovrebbe fornire l’impianto idroelettrico. Chi comprerà la forza dal municipio anche a prezzo più mite, quando non sia sicuro della continuità dell’esercizio?

 

  • ottimismo eccessivo nella valutazione delle spese d’esercizio in 500.000 lire all’anno, mentre se si spendessero solo 100 lire per cavallo alla pari dell’Edison di Milano, la spesa complessiva salirebbe a 800.000 lire. Se si tien calcolo di ciò, e se si ammette la possibilità di un aumento nel servizio interessi ed ammortamento, si vede che le promesse municipali di vendere il cavallo elettrico a 138 lire e la lampadina elettrica a prezzo finito a 10 lire sono assolutamente illusorie;

 

  • ottimismo nel prevedere di vendere la energia elettrica colla progressione di 2.000 cavalli l’anno, in guisa da aver venduto al quarto anno tutta l’energia disponibile. Il municipio arriverà sul mercato quando le società attuali si saranno già accaparrati con contratti a lunga scadenza tutti gli industriali ed avranno già venduto non solo la forza ora da esse portata a Torino, ma anche l’altra di recente acquistata dalla Cenischia;

 

  • ostinazione nel non volere servirsi per combattere il monopolio privato dell’arma assai più sicura dell’esproprio degli attuali impianti privati, esproprio che non costerebbe caro, dato che negli ultimi cinque anni la principale delle società private non ottenne un centesimo di utile;

 

  • imprevidenza per non avere acquistato a patti convenienti l’impianto della Cenischia, ora accaparrato da una società privata che se ne varrà nella lotta contro il municipio.

 

 

Si potrebbe continuare nell’elenco di accuse che il clericale «Momento» espone nelle sue colonne, basandosi, giova notarlo, sulle affermazioni di autorevoli tecnici e della maggior parte, per non dire tutte, le rappresentanze dei ceti di ingegneri, industriali ed altri maggiormente periti nella materia.

 

 

La lotta – la quale doveva essere puramente tecnica e lo sarebbe stata se gli avvocati, igienisti, professori e dilettanti della giunta e del consiglio municipale non avessero delegato l’esercizio del loro dovere di votare ex informata conscientia ad un solo assessore, ingegnere ed autore del progetto – è ora diventata una lotta politica che si combatte fra socialisti e clericali. I liberali ne usciranno colle costole rotte e cioè colla responsabilità di dover condurre a termine un impianto, di cui molti tra gli stessi assessori e consiglieri, che l’hanno votato, criticano nei segreti conversari i difetti, attribuendone la colpa a tutti, al sindaco, all’assessore dei lavori pubblici, alla commissione di studio, alla commissione reale, al referendum, a tutti fuorché alla loro inerzia, la quale fece sì che un’opera progettata per nove milioni di lire potesse avviarsi alla sua esecuzione definitiva senza che né in consiglio, né sulla stampa liberale si fosse fatta in merito una qualsiasi ponderata discussione. Il peggio si è che anche adesso che la questione è stata portata per merito altrui dinanzi all’opinione pubblica, i liberali seguitano a dire che bisogna votare per rispetto alle opinioni di tutte le autorità e commissioni, le quali hanno giocato fin qui così graziosamente a scaricabarile o tacciano di venduti alle società private gli avversari dell’impianto municipale, o affermano, provocando le più recise smentite, la necessità di addivenire all’impianto per il rifiuto pervicace delle società a trattare col municipio; o si lagnano, quando il lagnarsi è inutile, che la questione sia stata portata sino all’estremo del referendum, mentre il loro segreto pensiero era che si dovesse approvare pro forma l’impianto salvo a non eseguirlo perché disastroso ed a servirsene come spauracchio per le società. Ma di una discussione fatta a tempo e sul serio del grave problema, neppur l’ombra da parte dei liberali. Il che spiace a chiunque non sia né socialista, né clericale e tema il discredito di una istituzione dottrinalmente buona a causa del malo uso che per leggerezza si finirà col farne.

 

 

L’esito del referendum

 

 

Causa il tempo pessimo ed un po’ anche l’apatia congenita nel corpo elettorale, assai scarso fu il concorso degli elettori amministrativi chiamati oggi per la prima volta a pronunciarsi in sede di referendum circa l’assunzione diretta da parte del comune dell’impianto per produzione, trasformazione e distribuzione di energia idrotermoelettrica, nei termini deliberati dal consiglio comunale nelle sedute 11 e 23 gennaio 1905. Ecco l’esito della votazione:

 

 

Inscritti

38.454

Votanti

18.338

Votarono (cioè a favore della municipalizzazione)

12.780

Votarono no (cioè contro la municipalizzazione)

5.481

 

 

 

 

Così l’impianto idrotermoelettrico municipale, che costerà 9 milioni, venne definitivamente approvato in tutti i modi voluti dalla legge.

 

 

La conquista della forza

La conquista della forza

«La Tribuna», 5 ottobre 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 534-537

 

 

Vi sono studiosi che hanno il temperamento combattivo. Essi ricercano il vero, sia perché il raggiungerlo è fonte di intima soddisfazione morale, sia e sovratutto perché vedono subito oltre la verità scientifica le sue applicazioni pratiche e le sue molteplici ripercussioni nella vita. Uno di essi è F. S. Nitti. Egli studia la distribuzione della ricchezza e giunto alla fine della ricerca vede un contrasto economico fra nord e sud e intraprende una campagna a favore del rinnovamento economico del mezzogiorno. La tesi fu discussa ed è discutibile; ma che importa, se l’enunciarla giovò ad un’opera di bene? Il Nitti studia ancora il grandioso fenomeno delle trasformazioni della tecnica industriale, intravvede la lotta fra il carbone nero ed il carbone bianco, sogna un’Italia prodigiosamente arricchita mercé la utilizzazione delle sue mirabili forze d’acqua e subito comincia una propaganda indefessa per la nazionalizzazione delle forze idrauliche.

 

 

Che importa che i tecnici sieno discordi sulla convenienza della sostituzione in ogni caso della forza idraulica alla forza prodotta dal carbone o dal gas povero; e che ancora più vivace sia il dissenso intorno alla opportunità di far intraprendere dallo stato lo sfruttamento delle forze idrauliche? Nulla, poiché quello che urgeva era aprire gli occhi dei torpidi – che sono i più – dinnanzi alla gravità del problema, di risvegliare i dormienti, persuadendoli della necessità di operare subito affinché un tesoro grandioso, poc’anzi ignorato, non venga sciupato.

 

 

L’ultimo libro di Nitti su La conquista della forza [1] è appunto una campagna per una opera di bene. Lo scrittore vi perora la sua causa e la fa perorare con la parola di tecnici, industriali ed agricoltori eminenti, come il senatore Colombo, i proff. Capito, Masoni, Lombardi, Chistoni, Pagliani, l’ing. Bignami e l’on. De Asarta.

 

 

Si chiude il libro con la persuasione che questo delle forze idrauliche è davvero uno dei massimi problemi dell’Italia moderna: problema che presenta molte facce diverse, tecnica, economica, politica, giuridica; che solo l’insipienza ha finora potuto trascurare o considerare alla leggera.

 

 

In un articolo di giornale non è possibile nemmeno lontanamente sfiorare tutti i punti, che devono esser tenuti in conto per una risoluzione adeguata del problema. Fermiamoci un istante sul problema cardinale, su quello che forma l’ossatura del libro del Nitti: Convien nazionalizzare le forze idrauliche e che cosa vuol dire nazionalizzazione delle forze idrauliche?

 

 

Forse il Nitti stesso non concepisce più il problema nel modo rigido con cui l’avea posto nei primi momenti: lo stato intraprenditore di impianti destinati ad utilizzare le forze idrauliche e venditore dell’energia elettrica. Troppe sono le obbiezioni che si possono muovere alla nazionalizzazione intesa come socializzazione completa dell’industria produttrice dell’energia elettrica. Chi non mette subito a contrasto lo stato italiano, quale noi lo conosciamo, lento, regolamentare, fiscale, non immune da sospetti di corruzione, con la natura rischiosa di quest’industria nuova e innovatrice, in continua trasformazione tecnica, ansiosa di tener dietro agli ultimi risultati della scienza e costretta ad una concorrenza accanita con il carbon fossile, il gas povero, il petrolio ecc.? Sarà pari lo stato all’arduo compito? Molti ne dubitano; e ne dubita, crediamo, anche il Nitti se ora la sua concezione si è di tanto allargata.

 

 

Nazionalizzare per lui non vuol dire avocare allo stato lo sfruttamento di tutte le forze idrauliche esistenti in Italia: vuol dire invece spingere in tutti i modi possibili allo sfruttamento di questa ricchezza latente, salvaguardando nel tempo stesso i diritti della società e gli interessi dell’industria. Non v’è dubbio che la società abbia una specie di diritto eminente sulle acque pubbliche. Nessuno assolverebbe quei governi che regalassero per sempre, senza adeguato corrispettivo e senza garanzie sufficienti, a speculatori privati la forza da cui in avvenire potrà dipendere la fortuna industriale dell’Italia. Ma neppure vanno sottomessi gli interessi dell’industria al fiscalismo del governo, bramoso di trarre un largo immediato frutto pecuniario dalla concessione delle sue acque, e soggetto ad esagerati timori di danneggiare un ipotetico sfruttamento futuro migliore, timori che intanto producono il danno certo di impedire l’utilizzazione attuale. Il Nitti vuole conciliare i due termini, del diritto pubblico e dell’interesse privato, ponendo due

capisaldi:

 

  • riduzione al minimo dei canoni;
  • riduzione al minimo possibile della durata delle concessioni.

 

 

Dobbiamo subito dire che la via additata dal Nitti ci sembra l’ottima. È un bene che i canoni di concessione delle forze idrauliche siano ridotti al minimo per tutelare gli interessi dell’industria, per stimolare lo sfruttamento delle acque, per far nascere le industrie nuove, È noto come i primi passi sono sempre i più difficili a muoversi, e i primi tempi sono quelli in cui più gioverebbe essere liberi da qualunque soma gravosa.

 

 

Orbene lo stato sembra abbia fatto il possibile per crescere la soma che pesa sulle spalle di quegli ardimentosi, i quali osano sostituire al carbone straniero l’acqua italiana. Non contento di imporre sulle forze d’acqua un canone non mite, minaccia ogni tratto di aumentarlo. Non contento di colpire con l’imposta di ricchezza mobile l’industria, ha voluto assoggettare all’imposta sui fabbricati le forze idrauliche con una interpretazione della legge che, se è legale, è iniqua e ingiustamente mette la forza idraulica in condizioni diseguali di concorrenza col carbone e col gas povero, abbandonandola per soprammercato alle variabili fiscalità delle province e dei comuni.

 

 

Il peso fiscale ostacola talmente i progressi industriali, senza giovare allo stato, che l’abbassamento del canone e forse anche la concessione gratuita sarebbero un mezzo per far crescere gli introiti indiretti erariali! Nulla di meglio dunque della direttiva: ridurre al minimo i canoni per imprimere uno slancio gigantesco all’industria. Nulla di meglio d’altro canto della direttiva: ridurre al minimo possibile la durata delle concessioni per salvaguardare gli interessi della società senza nuocere agli interessi permanenti dell’industria. Oggi si può dire che le concessioni sieno di fatto perpetue. Alla scadenza del trentennio, il concessionario, anche se ha ammortizzato tutto il capitale d’impianto, anche se ha ottenuto redditi rilevanti, conserva la proprietà della forza, senza nulla pagare più del solito allo stato. Il Nitti dice: trascorso il trentennio o quell’altro periodo che i tecnici giudicheranno sufficiente per ammortizzare il capitale d’impianto, la forza idraulica, insieme con tutte le opere di utilizzazione, torni gratuitamente allo stato. Nessuno sarà danneggiato: non il concessionario, il quale durante il trentennio ha ricostituito il capitale originario ed ha ottenuto gli utili industriali; non lo stato che alla fine ricupera il possesso di un valore indubbiamente suo.

 

 

Sull’uso che lo stato farà in seguito delle forze idrauliche i pareri possono essere divisi: il Nitti sembra vagheggiare lo stato imprenditore diretto e venditore dell’energia elettrica. I rischi, per la maturità dell’industria e per l’ammortamento eseguito saranno minori. Gli scettici, nella attitudine dello stato ad esercitare un’industria che, tutto sommato, sarà sempre complicata e bisognosa di continue innovazioni, persistono tuttavia nel ritenere che anche allora lo stato dovrà limitarsi a vendere le sue forze per un periodo successivo al più alto prezzo possibile, lasciando a intermediarii le operazioni industriali propriamente dette. Si tratta però di un punto particolare, che può benissimo lasciarsi riservare all’esperienza graduale del tempo. L’importante è che lo stato oggi non comprima, con soverchi fiscalismi e regolamenti, il rapido sfruttamento delle forze idrauliche; e, tutelati così gli interessi dell’industria, conservi per l’indomani alla nazione la libera proprietà di una quota così preziosa del nostro demanio pubblico.

 

 



[1] Francesco S. Nitti, La conquista della forza. L’elettricità a buon mercato. La nazionalizzazione delle forze idrauliche, vol. XLIX della «Biblioteca di scienze sociali e politiche», Roux e Viarengo, Roma-Torino.

L’arbitrato obbligatorio per i ferrovieri

L’arbitrato obbligatorio per i ferrovieri

«Corriere della Sera», 23 settembre 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 244-250

 

 

Il prof. Montemartini, direttore dell’ufficio governativo del lavoro, che già in seno al consiglio superiore del lavoro, insieme coll’on. Chiesa, aveva difeso l’istituto dell’arbitrato obbligatorio per le questioni economiche concernenti i ferrovieri contro le formidabili e vittoriose argomentazioni contrarie, ritorna alla carica nelle colonne della «Critica sociale», con una lettera aperta indirizzata al Murialdi, valentissimo avversario, come tutti ricordano, dell’arbitrato obbligatorio per i ferrovieri.

 

 

Ammessa l’opportunità di un istituto di giustizia amministrativa il quale risolva le questioni dipendenti dalla interpretazione delle leggi, dei regolamenti e degli organici esistenti (ed il non ammettere ciò sarebbe negare il diritto nei ferrovieri ad ottenere la riparazione dei torti loro cagionati in sfregio delle leggi); non segue che si debba altresì ammettere l’arbitrato obbligatorio per domande di miglioramenti di carriera, di stipendi, di orario che ai ferrovieri piacesse di fare. Non segue, perché qui non si tratta più di diritti lesi, ma di domande che mirano a mutare il diritto esistente; non segue, perché il servizio ferroviario pubblico e monopolistico – non deve essere lasciato in balia degli scioperi; non segue perché al parlamento non può togliersi la facoltà di legiferare in materia di pubbliche spese; e perché ai ferrovieri sono concesse garanzie di stabilità, di carriera, di pensioni, ecc., siffatte, da renderne la posizione al tutto privilegiata e diversa da quella degli operai dell’industria privata.

 

 

Il direttore dell’ufficio del lavoro si accinge a combattere queste ragioni – che egli stesso giudica «formidabili» e che furono difatti accolte, salve l’opposizione sua e di pochi altri, dal consiglio superiore del lavoro, – con una sottile analisi di ognuna di esse. Le sue argomentazioni intorno al servizio pubblico ed al monopolio hanno un carattere soverchiamente dottrinale e poco pertinente al problema. I caratteri di servizio pubblico e del monopolio non bastano, a suo parere, a giustificare il divieto di sciopero e il mantenimento costrittivo della continuità del lavoro; perché lo stato dovrebbe intervenire anche a mantenere la continuità, ad es. della produzione del pane e perché, non essendoci alcun altro mezzo pratico per costringere gli operai a lavorare quando non ne hanno voglia, l’arbitrato facendo appello alla loro coscienza ed ai loro interessi è il miglior mezzo per ottenere appunto la continuità del servizio. Gli argomenti non sono calzanti: il servizio dell’alimentazione, aperto alla libera concorrenza, è ben diverso dal servizio ferroviario. Se oggi i panettieri fanno sciopero a Torino, non si muore certamente di fame, tanti sono i mezzi per far venire il pane dal di fuori, tanto difficile è la completa soppressione della produzione, agevole il ricorso parziale alla produzione di stato (panifici militari), numerosi i temporanei surrogati del pane. Se invece domani scioperano i ferrovieri d’Italia, o anche solo della Lombardia, quali rimedi ci sono, se non insufficientissimi? Quanto alle qualità educative dell’arbitrato obbligatorio, il quale dovrebbe persuadere gli operai a non scioperare mai, noi ne siamo persuasi. Ma ad un patto: che l’arbitro desse sempre ragione ai ferrovieri e che il parlamento non applicasse il lodo arbitrale, caso mai ai ferrovieri riuscisse contrario. È chiaro però che in tal caso meglio varrebbe per i contribuenti un buono e definitivo sciopero che la morte per lenta consunzione.

 

 

Queste in sostanza sono solo fiorettature eleganti del pensiero del Montemartini. Veniamo al nocciolo delle sue argomentazioni. «Non è possibile» avevamo detto noi, avevano dimostrato i senatori De Angeli, Pisa, gli on. Pantano e Murialdi al consiglio del lavoro, «non è possibile togliere al parlamento il diritto di votare le spese pubbliche. Il giorno in cui un arbitro potesse fissare i salari, la carriera, le rimunerazioni accessorie, ecc. ecc., dei ferrovieri, addio controllo del parlamento sulle pubbliche spese! Ministro del tesoro e camera dovrebbero accettare il responso del novissimo vate e limitarsi a pagare lo scotto, con quale enorme regresso politico e grave pericolo finanziario non è mestieri dire». Ribatte il Montemartini: «Funzione del parlamento è quella di stabilire quali pubblici bisogni devono essere soddisfatti, tenendo conto naturalmente del loro costo; ma non è sua funzione di fissare il costo dei servigi e delle merci che vuole consumare. Facendo un esempio, che supponiamo renda il pensiero del nostro avversario: come il parlamento non può fissare i prezzi dei carboni, ma può solo dire: dati i tali e tali prezzi che sono stabiliti dal mercato internazionale, conviene comprarne una data quantità; così rispetto ai ferrovieri non potrà affermare che il loro salario debba essere di 5 o 6 lire, ma potrà dire unicamente: dato il loro salario di 5 o 6 lire, conviene assumere in servizio 100.000, ovvero solo 90.000 ferrovieri; sostituendo gli altri con macchine, ecc. ecc.? Che tecnicità può avere, prosegue egli, il parlamento a determinare caso per caso le condizioni del lavoro? E ad ogni modo potrà il parlamento, in questa determinazione, sottrarsi all’impero delle leggi economiche? Se esso determinerà un prezzo troppo basso, non troverà lavoratori adatti all’impresa; se determinerà prezzi troppo alti, creerà salari privilegiati ed artificiali. Lo stato non varia forse il saggio degli interessi e delle rendite che paga ai capitalisti ed ai lavoratori, a seconda delle oscillazioni del mercato? Perché dobbiamo ritenere che solo per il lavoro la rimunerazione sia costante e irrevocabilmente invariabile?»

 

 

Rispondiamo subito – prima di procedere innanzi – che il Montemartini, ansioso di partire brillantemente in guerra contro un fantastico tentativo medioevale dello stato di fissare per legge prezzi ed i salari, si è per un istante dimenticato di guardare ai fatti. Sì, è vero: il parlamento non può fissare i salari dei ferrovieri, come non può fissare i prezzi del carbone; non può obbligare il carbonaio di Cardiff a vendere il carbone a 1 scellino meno la tonnellata del prezzo di listino, come non può costringere i lavoratori ad accettare da lui 4 lire quando altrove possono riceverne 5. Nessuno vuole, oggi, ristabilire la servitù personale e l’obbligo al lavoro, almeno sino a tanto che non si sia giunti al regime del socialismo completo. Non anticipiamo i tempi auspicati, a quanto pare, dal Montemartini; e limitiamoci a guardare a quello che lo stato fa e deve fare nell’assunzione dei suoi impiegati. Se guardiamo ai fatti, risulta chiaro che lo stato non può, per numerose ragioni, conoscere il valore dei servigi personali di cui ha bisogno; avendo di solito bisogno di lavoratori diversi da quelli impiegati nell’industria privata e dei quali sul mercato non è fissato il prezzo. Un industriale può pagare 5 lire all’operaio abile e 4 all’operaio meno buono; lo stato no. Figuriamoci che strilli il giorno in cui lo stato pagasse ad un professore d’università veramente illustre e veramente grande uno stipendio di 25 o 50.000 lire (che non sarebbe troppo) e alla massa degli altri professori seguitasse a pagare le solite 5.000 lire! Il minor male possibile sarebbe che le 50.000 lire le beccherebbe un intrigante mediocre e ciarlatano e che lo scienziato veramente grande resterebbe a far la figura del mediocre; finché tutti, grandi e mediocri, per evitare il peggio, finirebbero per accordarsi a dare le 50.000 lire al più vecchio a turno, a guisa di premio di anzianità. Come per i professori, così accadrebbe per tutti gli altri impiegati, alti e bassi, dello stato. Il quale perciò appunto ricorre al sistema dei concorsi; e fissa i salari che paiono possibili e ragionevoli in rapporto alle sue finanze, dicendo a tutti: quelli che ritengono sufficienti i salari da me offerti, si presentino al concorso. I migliori saranno scelti: s’intende, i migliori in rapporto ai salari ed alle altre soddisfazioni offerte agli impiegati governativi. Dunque lo stato non si sottrae, né può sottrarsi, come benissimo dice il Montemartini, all’impero delle leggi economiche; e se vorrà ottenere lavoratori adatti dovrà per forza offrire salari sufficienti ad attrarli. Né si cianci di scarsa capacità tecnica del parlamento a determinare il livello dei salari sufficiente ad attirare i lavoratori; perché gli studi in proposito sono fatti prima dall’amministrazione tecnica competente, precisamente come dovrebbero essere fatti da qualcuno per il futuro arbitro. O che forse si crede che l’arbitro (probabilmente un uomo di toga) sarà sempre un tecnico competente, e che di tecnici competenti non ve ne saranno mai in parlamento, almeno tali da poter giudicare i dati di fatto preparati dall’amministrazione?

 

 

Né si affermi che lo stato tratta in modo diverso i lavoratori dai capitalisti; perché lo stato tratta, quando può, nel medesimo modo, capitalisti e lavoratori. O che forse lo stato, quando chiede una somma a prestito, si obbliga a variare l’interesse, dietro richiesta dei risparmiatori, quando lo sconto sul mercato sia variato?

 

 

Nei prestiti perpetui e consolidati – forma sempre più preferita dagli stati – l’unica variazione possibile per i risparmiatori è nel senso del ribasso. Il Montemartini cita la conversione della rendita a corroborare la sua tesi; e non si accorge che lo stato al più, nel caso di mala riuscita, continua a pagare l’interesse di prima. Bel costrutto ricaverebbero i ferrovieri da un arbitrato col quale si potesse discutere solo se convenga ribassare e mai aumentare i salari!

 

 

Il paragone colla conversione della rendita il Montemartini l’aveva tirato fuori per dire che al tesoro devono essere consentite tutte quelle condizioni di libertà che gli permettono di giovarsi delle buone condizioni del mercato. Il che sarebbe giusto se, come nel caso della conversione, il tesoro potesse dire, ad esempio, ogni dieci anni, e, s’intende, a suo rischio e pericolo: ferrovieri dello stato, io vi dò un anno di tempo ad accettare una diminuzione di salario; se non accetterete, io vi surrogherò con altri lavoratori, che frattanto andrò addestrando sulle mie linee. Non è però questo sistema – pericoloso e costoso per molti versi – e neppure l’inverso che si vuole; ma si vuole dare ad un terzo, chiamato arbitro, il diritto di imporre al tesoro il pagamento di certi salari piuttostoché di certi altri. Questa sì è fissazione medievale di prezzi e di salari, ed un ritorno alla vieta politica delle corporazioni chiuse d’arti e mestieri!

 

 

Un privato industriale, il quale si vegga imposto dall’arbitro un salario incomportabile, ha almeno la libertà di cessare di produrre. Magra soddisfazione e grossa rovina a cui non pensano tutti i panegiristi dell’arbitrato obbligatorio neozelandese ed australiano, i quali non si sono mai posti il problema delle industrie che laggiù non esistono e del lavoro fecondo che non si può svolgere per la politica protezionista del partito operaio del mondo nuovissimo. Ma lo stato non ha nemmeno questa soddisfazione. Non potrebbe cessare di esercitare le ferrovie, solo perché l’esercizio è troppo caro; e neppure ridarlo all’esercizio privato. I contribuenti sono lì, pazientemente pronti a pagare le spese; e subito eleganti sofisti dimostrerebbero che le ferrovie non costano caro perché i ferrovieri pretendono troppo, ma per causa del militarismo che ha fatto costrurre ferrovie strategiche, o del capitalismo che voleva far prestiti allo stato, o del regionalismo che pretese le ferrovie elettorali; e chi più ne ha più ne metta. Altro che vederci più chiaro nelle aziende di stato che nelle aziende private, come il Montemartini pretende, per dimostrare che l’arbitrato obbligatorio sarebbe più opportuno per i servizi pubblici, dove tutto è limpido come cristallo, che non per le industrie private, rese misteriose dall’ingordigia dei capitalisti! è questa la penultima affermazione sua. L’ultima è che ai ferrovieri non possa negarsi, malgrado l’organico, malgrado la carriera sicura e progrediente, malgrado la pensione, ecc., il diritto ad un elevamento progressivo del loro tenor di vita. Qui basti rispondere: credete davvero che il parlamento, organo aperto a tutte le correnti e a tutte le pressioni dell’opinione pubblica, sia meno in grado di un arbitro qualunque di valutare quelle mutate condizioni economiche che consigliano un elevamento nel tenor di vita dei ferrovieri? Non foss’altro la diserzione degli elementi migliori dai nuovi concorsi dovrebbe consigliare ad una amministrazione intelligente di migliorare organici e stipendi nel suo proprio interesse.

 

 

La conversione della rendita

La conversione della rendita

«Corriere della Sera», 13 agosto 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 240-243

 

 

Le sedute straordinarie della camera sono finite senza che il ministero abbia lanciato il razzo finale del disegno di legge autorizzante la conversione del consolidato 5% lordo in 3,5% netto. Poiché una facoltà simile deve essere chiesta solo quando sia probabile servirsene, al ministro del tesoro sarà parso, non senza ragione, che l’attuale momento internazionale non sia propizio ad una operazione fra le più gigantesche – per non dire la maggiore – che la storia finanziaria ricordi. È vero che i corsi delle rendite di stato – e specialmente dell’italiana – sono sostenutissimi, ma è anche vero che non è certa ancora la pace russo-giapponese; e che in ogni caso la pace renderà necessaria l’emissione di parecchi miliardi di titoli per regolare le conseguenze della guerra. Non è in un momento siffatto che si può sperare di condurre brillantemente in porto una conversione portante su otto miliardi di capitale. Un semplice successo di stima nuocerebbe assai al credito italiano.

 

 

Se tutto ciò è incontrastabile, se cioè la grande conversione per il momento (ed è inutile cercare quanto durerà questo «momento») non appare prossima, può nascere il dubbio se non convenga fin d’ora prepararsi, con accorti assaggi, alla maggiore impresa, ed è sotto questo punto di vista che da alcuni fu lamentata la mancanza nel governo della facoltà di addivenire a conversioni parziali e facoltative. Già qualche cosa in tal senso fu fatto colla conversione in rendita 3,5% netto della rendita 4,5%, di parecchi titoli redimibili, del consolidato 5% tenuto dalla Cassa depositi e prestiti; piccole operazioni in se stesse, ma che ebbero il grande effetto morale di far apprezzare ed entrare nelle abitudini il nuovo titolo 3,5; e di ridurre di qualcosa, sebbene di poco, la massa degli 8 miliardi di 5% da convertire. Poiché, giova ripeterlo, uno degli ostacoli maggiori alla conversione italiana – ostacolo che in altri paesi non si dovette superare – è l’unicità del titolo che si tratta di convertire di un colpo. La conversione di due miliardi di rendita è assai meno difficile di quella di quattro miliardi, e grandemente meno ardua di quella di otto. Se fosse possibile ridurre questi 8 a soli 6 o 5 miliardi, la grande conversione potrebbe farsi assai più presto e con minori difficoltà.

 

 

Partendo da queste considerazioni in un recente numero dell’«Economista» il prof. De Johannis lamentava che il governo non avesse chiesto l’autorizzazione a convertire con amichevoli trattative e con accordi liberi quella parte del consolidato 5% che i possessori spontaneamente presentassero al cambio. Perché il governo non potrebbe offrire ai proprietari di rendita nominativa 5% (circa 4 miliardi di capitale) il cambio in un titolo 3,5% pagabile trimestralmente anziché semestralmente, oltre un premio di 30 centesimi per 100 lire di capitale per una volta tanto? E perché del pari non potrebbe offrire ai possessori di titoli al portatore (altri 4 miliardi di capitale) il cambio in titoli 3,5 pagabili semestralmente, con un premio di 60 centesimi per 100 lire di capitale? Così si otterrebbero due vantaggi: uno futuro, di creare due tipi di rendita, il primo pagabile trimestralmente ed il secondo semestralmente, e quindi convertibili in futuro, senza possibilità di eccezioni giuridiche, in momenti separati, ed un altro attuale, se una parte notevole dei possessori di rendita accettasse le proposte. È vero che molti capitalisti direbbero: perché rinunciare al 4% certo, che percepiamo oggi, per accettare volontariamente il 3,5% netto, ossia l’immediata riduzione di 50 centesimi all’anno di frutto, ricevendo in compenso solo 30 o 60 centesimi, oltre il pagamento trimestrale dei cuponi, il quale vuol dire un vantaggio di circa 3 centesimi all’anno per 100 lire? Ma forse altri ragionerebbero in maniera diversa; perché non accettare negli utili questi 30 o 60 centesimi subito, dal momento che la conversione è inevitabile e che, il giorno in cui il governo minacciasse per davvero il rimborso delle 100 lire, noi dovremmo accettare il titolo 3,5% senza un centesimo di premio?

 

 

Non è possibile predire quanti sarebbero della prima opinione e quanti della seconda. Il De Johannis, supponendoli divisi in due schiere uguali, calcola che, ove la conversione riuscisse per 2 miliardi di rendita nominativa e 2 miliardi di rendita al portatore, il governo dovrebbe nel primo anno pagare per premi e anticipazione di due trimestri lire 18.612.400; ma siccome gli interessi diminuirebbero di 20 milioni di lire, lo stato finirebbe per risparmiare ancora lire 1.387.600. Negli anni successivi il guadagno dello stato sarebbe di 20 milioni, dedotta soltanto la perdita per l’anticipazione di due trimestri all’anno sulla rendita nominativa. Ai quali vantaggi si dovrebbe aggiungere la facilità di convertire nei modi soliti, con la minaccia del rimborso del capitale mutuato[1], i 4 miliardi rimanenti, senza più concedere un centesimo di premio.

 

 

L’operazione è bene congegnata; ma ad un patto che siano numerosi quelli che si lascino adescare dai 30 o 60 centesimi di premio ed accettino, senza esservi costretti, la conversione in 3,5%. Se si fosse certi, o se almeno fosse probabile l’accettazione di 4 miliardi su 8, l’operazione sarebbe consigliabile e doverosa. Ma esiste codesta probabilità? Bisogna essere ottimisti per crederlo. Non tutti i portatori di rendita sono banchieri, uomini d’affari, calcolatori pronti a paragonare il valore di 30 o 60 centesimi in più di capitale alla perdita di 50 centesimi d’interessi ed a scegliere la prima alternativa appena nel loro giudizio 30 o 60 centesimi oggi valgono più di 50 centesimi che forse si otterranno ancora per parecchi anni e forse non si riscuoteranno più nemmeno una volta. La rendita italiana oramai si è classata, è entrata nel patrimonio di moltissime famiglie a scopo di impiego. Basta pensare alla psicologia dei proprietari di rendita per vedere che essi sono assai più affezionati ad un reddito alto che non ad un piccolo aumento di valor capitale. Vi sono molti che non guardano mai i listini di borsa: che cosa importa che il loro titolo valga 30 o 60 centesimi di più, se non lo vogliono vendere? Oscillazioni ben maggiori nelle quotazioni di borsa si sono verificate senza che essi pensassero a profittarne. Ciò a cui essi tengono è di avere un certo reddito: per esempio 4.000 lire all’anno, che essi possono spendere. Andate a proporre a costoro la rinuncia a 500 lire all’anno in cambio di 300 o 600 lire di più di capitale! C’è da scommettere che tutti si terranno stretti alle loro 4.000 lire di frutto e alle vostre argomentazioni risponderanno: non sono riusciti a convertire il 4 in 3,5 sinora; non vi riusciranno tanto presto.

 

 

Se costoro fossero maggioranza; e se su 8 miliardi la conversione fosse accettata solo per mezzo o 1 miliardo; il vantaggio parziale e momentaneo dello stato sarebbe offuscato da un danno più grave: dall’impressione cattiva che i portatori non vogliono assolutamente saperne del 3,50%, anche se allettati con vantaggi non ispregevoli. Di quanto ciò ritarderebbe la futura grande conversione? Non è possibile dirlo; ma un effetto lo avrebbe sicuramente.

 

 

Perciò noi riteniamo che l’operazione del De Johannis sia rischiosa. Non che essa sia da respingersi, tutt’altro. Prima di tentarla, converrebbe studiare quali siano le probabilità della sua riuscita. Certo è questo uno studio di psicologia finanziaria difficilissimo a farsi; e a noi mancano i dati per compierlo. Forse il De Johannis potrà presentarceli, adducendo argomentazioni nuove. Nessuno più di noi sarebbe lieto che i suoi giudizi avessero ad avverarsi. Per ora sembra prudente rimanere dubitosi.

 

 



[1] La differenza fra, la conversione proposta dal De Johannis e quella classica sta invero in ciò che questa presuppone l’alternativa fra l’accettare la riduzione dell’interesse e il rimborso del capitale; laddove invece il tipo De Johannis, mancando la minaccia del rimborso del capitale, deve fare affidamento solo sui minuti vantaggi offerti agli accettanti.

La ferrovia gratuita

La ferrovia gratuita

«Corriere della Sera», 5 agosto 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 235-239

 

 

Gli economisti – innocua congrega di teorici – hanno inventato la «ferrovia gratuita», leggiadro ideale del futuro ed elegante motivo di discorsi accademici per il presente. Supponiamo, si disse, che venga il giorno nel quale tutti vadano in ferrovia, nella stessa maniera che tutti oggi si servono delle strade ordinarie. La ferrovia che oggi è una necessità per molti ed uno strumento potente di progresso commerciale ed industriale, sarà allora diventata come l’acqua, il sole e la pubblica via; nessuno potrà fare a meno di giovarsene e non si potrà dire che essa sia utile più all’uno che all’altro dei membri della consociazione politica. Perché lo stato – proprietario delle ferrovie – non potrebbe rendere le ferrovie gratuite; abolire l’antipatica esigenza di farsi pagare i biglietti e consentire a tutti di salire quando e come vorranno sui treni, spedire merci, nello stesso modo come oggi sulla grandissima maggioranza dei ponti e delle strade sono scomparsi i guardiani posti un tempo ad esigere pedaggi dei viandanti? La ferrovia non sarà gratuita nemmeno allora, come adesso non è gratuito l’uso delle strade: ma i viaggiatori e i commercianti, seccati di dover pagare ad ogni tratto il prezzo del trasporto, si saranno messi d’accordo per fare le spese delle ferrovie per mezzo di imposte proporzionali, a cagion d’esempio, al reddito di tutti i cittadini. Lo stato ci guadagnerà perché potrà abolire bigliettari, controllori, impiegati computisti e limitarsi una volta all’anno a mandare a casa di ognuno la bolletta dell’esattore, nella quale sarà compresa anche il costo della ferrovia. L’industria, i commerci, le comunicazioni se ne avvantaggeranno grandemente, perché, grazie all’imposta liberamente consentita da tutti, il costo del trasporto sarà abolito e tutto il paese economicamente sarà unificato.

 

 

Se i fatti sono fatti, all’Italia dovrebbe spettare il vanto di essersi messa per la prima sulla via che dovrà condurre alla meta gloriosa della «ferrovia gratuita».

 

 

Lasciamo stare che in Italia il capitale impiegato nelle ferrovie è completamente improduttivo diguisaché già si applica la teoria della «gratuità» o meglio del pagamento a mezzo dell’imposta per quanto ha tratto all’interesse ed all’ammortamento del capitale ferroviario. Il bello si è che non si vuole nemmeno più pagare il costo vivo di esercizio. Chi viaggia in Italia in prima e in seconda classe con biglietto pagato deve avere constatato che bisogna essere ingenui per pagare il prezzo a tariffa intera. Spesso, quando si presenta il controllore per la verifica, i più sono permanenti gratuiti degl’ispettori ferroviari, dei deputati o senatori, dei giornalisti bene accetti ai ministeri, delle persone che hanno ottenuto biglietti di servizio, forse per servizi resi in tempo di elezione, ecc. ecc. Dopo vengono i militari col 75%, gli impiegati governativi e famiglie col 40-60% di riduzione e via dicendo. È miracolo, specie in prima classe e tolta qualche linea di grande traffico, se qualche volta viene ultimo, peritante e vergognoso un viaggiatore che ha avuto la tracotanza di pagarsi il biglietto a tariffa intera.

 

 

Altri progressi si faranno sicuramente coll’esercizio di stato. Le ferrovie dello stato sono di tutti, ragionano molti; e perché pagare per servirsi di una cosa che è nostra? Hanno cominciato i deputati, i quali, avendo ricevuto la investitura di una parte della sovranità popolare, sono in diritto più degli altri di giovarsi del patrimonio nazionale; e non paghi di viaggiare gratuitamente per i loro affari professionali in lungo e in largo l’Italia, hanno a grandi grida rivendicato (oggi tutte le più dubbie pretese si chiamano «rivendicazioni») il medesimo diritto per le loro famiglie, genitori, mogli, figli e forse anche parenti sino al decimo grado e relativo servidorame.

 

Forse a tanto non giungeranno subito; ma si ritengono certi di poter ottenere o, piuttosto, credono di potere, senza sollevare l’indignazione pubblica, votare a proprio favore il trasporto gratuito di 50 chilogrammi di bagaglio più tre biglietti gratuiti all’anno per la famiglia[1]. Calcolando ognuno di questi tre biglietti al minimo a 50 lire l’uno – e tutti saranno certamente utilizzati e sarebbero utilizzati anche se non fossero gratuiti – e ammesso che i senatori imitino i deputati rinunziando a dare ai loro colleghi elettivi una lezione di temperanza, è una bella somma che le casse dello stato verranno a perdere. Quale impressione fa tutto ciò sul paese e quanto lontani dal tempo in cui i ministri viaggiavano frammischiati al pubblico grosso! Oggi, invidioso dei ministri, dei sotto-ministri e dei presidenti del senato e della camera, anche il numeroso stuolo dei vice presidenti ha ottenuto lo scompartimento riservato. Dopo verranno i questori, poi i segretari, gli scrutatori, ecc. ecc.

 

 

Il cattivo esempio, che viene dall’alto, fruttifica. Perché – hanno subito soggiunto gl’impiegati – se i deputati e le loro famiglie viaggiano gratis, non dovremmo fare altrettanto anche noi? Noi, anche viaggiando, rimaniamo servitori dello stato e legittimi superiori degli altri cittadini. Per qual motivo farci pagare, quando viaggiamo nell’interesse della cosa pubblica? Se anche talora usiamo della ferrovia per andare ai monti od al mare, è sempre lo stato che trarrà giovamento dalla salute rinfrancata nostra e dei nostri figli, potendo noi in tal maniera con maggiore tranquillità dedicarci all’ufficio nostro.

 

 

Forse che minori sono i nostri diritti a viaggiare gratis? – rincalzano gl’impiegati a riposo, ora esclusi con sconoscenza ingrata da ogni beneficio – anzi maggiori; poiché abbiamo servito lo stato fedelmente e lungamente; e non è decoroso essere buttati via come limoni spremuti. Invecchiando, i bisogni aumentano; ed è triste non poter seguire i consigli del medico solo perché il nostro antico padrone si ostina a farci pagare un odioso balzello, dimentico dei nostri onorati servizi.

 

 

Fin qui le rivendicazioni note; ma, non v’è a dubitarne, altre seguiranno. Qual motivo di far pagare il biglietto ai viaggiatori di commercio, i quali affollano le ferrovie non per loro diletto, ma per mettere alla portata dei consumatori, ossia di tutti, i prodotti più nuovi e più a buon mercato dell’industria? Suvvia, un buon ordine del giorno delle unioni dei viaggiatori di commercio e il nobilissimo intento sarà ottenuto; e il sogno teorico degli economisti sarà avvicinato ancora un poco alla sua attuazione.

 

 

Cioè… sarà reso impossibile anche in un futuro lontanissimo. Poiché la teoria della «ferrovia gratuita» suppone non già che lo stato possa, per miracolo soprannaturale, esercire la ferrovia senza costo, ma che ripartisca i costi su tutti i cittadini, fatta l’ipotesi che tutti in proporzione ai loro mezzi si giovino della ferrovia. Questa è la condizione necessaria – lasciamo stare per ora se vera o falsa, opportuna o no – perché lo stato possa fare a meno di farsi pagare volta per volta il prezzo dei trasporti.

 

 

È superfluo dimostrare quanto l’andazzo italiano di concedere favori a classi speciali contrasti a questo concetto fondamentale. Qui sono ceti speciali, deputati, impiegati, pensionati, semplici grandi elettori, che viaggiano o pretendono di viaggiare gratuitamente. Naturalmente lo stato deve farsi pagare da qualcuno le spese di trasporti, che non sono gratuiti o semi-gratuiti se non per i viaggiatori. Se le fa pagare tenendo elevate le tariffe dei disgraziati che pagano (e noi abbiamo tariffe fra le più elevate d’Europa); ovvero mettendo o conservando imposte che sono pagate da tutti i contribuenti e quindi anche dai contribuenti che viaggiano poco (e viaggiando pagano) o non viaggiano mai. È giustizia codesta? Potrà mai una specie cosiffatta di socialismo bolso a favore di classi, già favorite in mille modi dallo stato, condurre all’ideale della «ferrovia gratuita» o più semplicemente all’ideale più pratico e per ora più ragionevole di poter ridurre i costi dei trasporti e quindi le tariffe a favore di tutti quelli che delle ferrovie si giovano? Certamente no; ed è per questa radicata convinzione che noi combattiamo ad oltranza le agitazioni antipatriottiche, egoistiche, di classi che dovrebbero essere il fior fiore del paese e si dimostrano invece chiuse ad ogni spirito di solidarietà sociale.

 

 



[1] Oggi i biglietti gratuiti per le famiglie concessi ai senatori e deputati sono di 21 di prima classe, valevoli ciascuno per andata e ritorno (equivalenti a 42 semplici di andata, come erano quelli d’un tempo) ed a 4 di seconda classe di andata e ritorno (equivalenti ad 8 semplici, e così a 50 in tutto). I buoni per trasporto di bagagli concedono il trasporto di un peso di 300 kg (Nota del 1959).

La riforma del dazio consumo

La riforma del dazio consumo

«Corriere della Sera», 2 agosto[1] 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 230-234

 

 

Il ministro Majorana aveva concepito un disegno audace, dati i nostri costumi parlamentari: riuscire ad una riforma non irrilevante del dazio consumo giovandosi di una circostanza che rendeva assolutamente necessaria l’approvazione a scadenza fissa di una legge da parte del parlamento. È noto infatti come al 31 dicembre di quest’anno scada il consolidamento decennale, stabilito dalla legge dell’8 agosto 1895, dei canoni che i comuni debbono pagare allo stato per il dazio di consumo governativo. Essendo urgente sistemare la materia per regolare i rapporti finanziari fra stato e comuni, bene si poteva unire alle proposte in tal senso, altre che pure riguardassero il dazio consumo e valessero a proseguire e rafforzare l’opera riformatrice iniziata dalle leggi del 1894 e del 1902. Di qui il disegno di legge dell’on. Majorana, il quale si proponeva, oltre il consolidamento dei canoni per un altro decennio, la sistemazione migliore delle aziende locali del dazio, la limitazione della facoltà dei comuni di colpire i generi di prima necessità e le materie prime delle industrie, l’incoraggiamento ad abbattere le cinte daziarie dei comuni chiusi e la riforma del dazio nei comuni aperti.

 

 

Programma ambizioso, a cui nocque la strettezza del tempo nel quale si pretendeva fosse esaminato dal parlamento. La camera dei deputati, premuta dai molti disegni di legge urgenti, i quali aspettavano di essere discussi ed approvati nelle ultime tornate estive, non osò lanciarsi in una discussione che sarebbe stata forse lunghissima, e stralciò dal disegno di legge governativo quelle sole parti che strettamente toccavano il consolidamento dei canoni e la sistemazione delle aziende daziarie, queste approvando e rimandando tutto il resto alle tornate autunnali.

 

 

Forse fu un bene, perché non furono confuse materie pacifiche con altre che meritavano più larga discussione da parte della stampa e del parlamento di quella che non si fosse potuta fare nel mese scorso. Sull’opportunità di prorogare per un altro decennio l’attuale consolidamento del canone non cadeva dubbio. Per quanto infatti la legge distingua il dazio consumo in governativo e comunale, è certo che il dazio è un’imposta locale, strettamente legata con la ricchezza ed i consumi del luogo ed adatta a riforme compiute per iniziativa dei comuni. Grazie al consolidamento stabilito dalla legge del 1895 lo stato venne quasi a disinteressarsi del dazio, abbandonandolo completamente ai comuni in compenso di un canone annuo fissato nella cifra di 50 milioni circa. I comuni, per lo sviluppo del commercio e dei consumi, videro a grado a grado aumentare il gettito della parte governativa del dazio, sicché essi, pur pagando sempre solo 50 milioni, incassavano una somma che progredì da 6 milioni nel 1897, ad 80 milioni nel 1902, ed a 77 milioni nel 1903. Oramai sono circa 30 milioni di guadagno annuo che i comuni fanno mercé l’appalto a loro concesso dal dazio governativo. Prendere l’occasione della scadenza del consolidamento decennale per avocare allo stato tutto o parte del guadagno dei 30 milioni sarebbe stato atto di poco accorta politica. I comuni si sono abituati a fare assegnamento sul maggior gettito del dazio governativo ed hanno sistemato le loro finanze in base a queste previsioni. D’altro canto, per le cose dette, è bene che il governo a poco a poco si disinteressi del dazio consumo.

 

 

Di qui la proposta di consolidare per un altro decennio il canone nella cifra dei 50 milioni. Alcune modificazioni si apportarono tuttavia alla legge vigente. Ricorderemo la più importante, relativa al modo di distribuire fra i comuni il guadagno di 30 milioni fatto nell’esazione dei dazi governativi. Adesso, siccome ogni comune si tiene il guadagno ottenuto sui dazi governativi esatti nel proprio territorio, nascono sperequazioni grandissime: dai comuni che pagano allo stato quasi il 100% del dazio governativo si va ad altri che pagano meno del terzo. Tutto ciò è ingiusto – si disse -; perché lo stato deve regalare somme così vistose ai comuni in misura disuguale? O non sarebbe meglio ripartire i 30 milioni uniformemente a norma di giustizia? Si avvertì subito che una ripartizione uniforme avrebbe sconvolto le finanze comunali; avrebbe tolto ogni incitamento ai comuni migliori ad amministrare bene, con parsimonia, il dazio governativo ed avrebbe rafforzato per il dazio il carattere di imposta governativa, che invece si vuol eliminare. La legge approvata dal parlamento segue una via di mezzo: nessun comune sia tenuto a pagare allo stato un canone superiore ai 9 decimi del dazio governativo, in guisa da garantire a tutti almeno il guadagno di 1 decimo; e nessun comune possa pagare meno di un terzo del provento del dazio, cosicché il guadagno non possa superare i 2 terzi, del dazio governativo. Le commissioni provinciale e centrale già esistenti provvedano a rivedere i canoni entro questi limiti ragionevoli ed equi.

 

 

Assai più controverse si presentavano le altre riforme rinviate alle tornate autunnali. L’on. Majorana, visti i buoni risultati della legge del 1902 in virtù della quale i dazi comunali sui farinacei sono stati completamente aboliti grazie ad un concorso del governo di 18.930.677 lire e le cinte daziarie sono state abbattute in 95 comuni che ricevono dallo stato un sussidio annuo di 1.215.941 lire, avrebbe voluto fare un altro passo innanzi sulla stessa via; e proponeva norme che avrebbero incitato i comuni a ridurre od abolire i dazi su altri generi di prima necessità e ad abbattere le cinte daziarie. Parecchi i mezzi indicati per raggiungere l’intento; né è possibile nemmeno accennarli tutti in breve spazio. Ne indichiamo soltanto qualcuno per dimostrare quanto il disegno di legge meriti di essere accortamente studiato dalle amministrazioni comunali per evitare sorprese spiacevoli in seguito.

 

 

È noto come talune provvide riforme tributarie si poterono compiere in seguito all’allargamento delle cinte daziarie. Orbene, il progetto Majorana – obbedendo al preconcetto che le cinte siano sempre nefaste – stabilisce il divieto assoluto per il futuro di ampliare le cinte. Così i comuni finiranno per toglierle del tutto. Per aumentare il reddito del dazio nei comuni aperti si stabilisce, fra le altre molte cose, che il limite per la minuta vendita, che ora è di 25 litri, sia portato a 100. Chiunque nei comuni aperti venderà 100 litri o meno di vino sarà colpito dal dazio consumo; mentre ora è colpito solo se vende quantità non maggiori di 25 litri. Il semplice annuncio dell’aumento del limite ha messo in agitazione le regioni vinicole; né certo è destinato a crescere simpatie ai disegni di riforma del dazio il vederli indissolubilmente congiunti ad inasprimenti di aliquote.

 

 

Ancora: per incoraggiare la soppressione delle cinte, lo stato concede un sussidio pari ad una quota parte del dazio prima riscosso. Qui è in gioco una questione di principio: è un bene che si continui nel metodo dei sussidi dati dallo stato ai comuni, i quali compiono una riforma tributaria? Il ministro proponente riconosce che il sistema è cattivo e che meglio sarebbe stato provvedere alla bisogna cedendo ai comuni imposte aventi carattere locale ed alleggerendoli di compiti pertinenti allo stato ed ora indebitamente accollate agli enti locali. Si sarebbe potuto aggiungere che è strano crescere la dipendenza dei comuni dallo stato e far loro elemosinare sussidi governativi proprio mentre tanto si discorre di autonomie locali; né si doveva dimenticare che il sistema dei sussidi, per la sua facilità, è come le piante parassite, le quali non abbandonano più l’albero che le nutrisce. Testimone l’Inghilterra: che riluttante accolse il sistema dei sussidi e riluttante ogni anno lo allarga. È tanto facile chiedere l’elemosina; e così insidiosa la voglia degli enti più grossi di dominare sugli enti minori, legandoli a sé con mille tentacoli! L’on. Majorana non ha trovato nessuna ragione a sostegno della sua proposta se non che aveva fretta e gli altri sistemi, indubbiamente migliori, erano prematuri. Come se fosse prematura una riforma della quale si discorre almeno dalla costituzione del regno d’Italia! Andando di questo passo, il momento della maturità non giungerà mai; ed il problema finanziario locale, che altrove fu risoluto abbastanza bene e per cui non mancano da noi studi larghissimi, andrà diventando sempre più intricato a furia di compensi, concorsi, sussidi, rimborsi, ecc. ecc. Francamente uno stato che deve indennizzare tutti, comuni, società ferroviarie, consorzi, ecc. ecc., ad ogni mutamento economico imposto dai tempi nuovi, non ci è simpatico. Che non sia possibile scegliere una via migliore?

 

 



[1] Con il titolo La riforma del dazio consumo. La legge approvata e le riforme sospese. [ndr]

L’esercizio ferroviario di stato. Contro le arrendevolezze

L’esercizio ferroviario di stato. Contro le arrendevolezze

«Corriere della Sera», 11 luglio 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 227-229

 

 

L’esercizio di stato delle ferrovie è cominciato da pochi giorni e già i pessimisti possono rafforzare la loro tesi con indizi che sono davvero inquietanti. Noi abbiamo detto che il grande sperimento avrebbe dato buoni frutti a patto che alla sua audacia fosse andato unito un severo spirito di sacrificio. Sarebbe ingiusto pretendere che fin d’ora i capi dell’azienda ferroviaria avessero preso notabili iniziative. Senza una buona preparazione ogni proposito anche ottimo produce scompigli peggiori dei malanni dell’inerzia. Ma la resistenza alle pressioni, e la rigidità severa contro i favoritismi, queste sì che sin dal primo giorno dovevano essere norme di condotta dell’amministrazione ferroviaria di stato! Contro le previsioni oscure di coloro che dipingevano i treni di stato popolati nelle prime e nelle seconde classi da viaggiatori con biglietto gratuito o a prezzi ridottissimi, contro gli altri che prevedevano la degenerazione delle ferrovie nelle mani dei politicanti, era dovere morale del governo dimostrare con gli atti che ben altri erano i suoi propositi: con atti e con parole. Poiché non basta che il presidente del consiglio od il ministro dei lavori pubblici vadano con belle parole a dichiarare al parlamento che il governo opporrà valido schermo a tutte le intemperanti richieste e si inspirerà al solo interesse del paese e dell’economia nazionale; quando a pochi giorni di distanza si impone alla Corte dei conti riluttante la registrazione con riserva di un decreto generico che sanziona senza specificarli gli usi invalsi nella concessione dei biglietti gratuiti e semi-gratuiti, contro il preciso disposto della legge, la quale impone di regolare la materia in maniera definitiva entro l’anno. Non vale il dire che si tratta di un provvedimento transitorio sino a quando non sia studiato nei suoi particolari minuti il decreto voluto dalla legge. Tutto è provvisorio in questa faccenda, a cominciare dall’esercizio stesso di stato; ma quelli relativi ai cosidetti «usi» sono provvisori più pericolosi dei provvedimenti definitivi, perché permettono il perpetrarsi subdolo di consuetudini cattive, che sarebbero state eliminate quando chiaramente si fossero volute imporre al parlamento ed all’opinione pubblica. O perché, se si trattava davvero di provvedimenti transitori, non accettare il temperamento proposto dalla Corte dei conti di prorogare fino a tutto agosto i biglietti di favore in corso? E, dopo non averlo accettato, pretendere la registrazione del decreto che noi ora combattiamo e che par fatto apposta per legittimare tutti gli abusi esistenti e per crearne dei nuovi? Se mancava il tempo per presentare subito il decreto definitivo, i due mesi concessi dalla Corte dei conti erano più che sufficienti per prepararlo con calma, trattandosi di materia notissima e di concessioni già stabilite per consuetudine e che ora dovrebbero essere soltanto precisate e ridotte. Anzi meglio sarebbe stato addirittura pubblicare al più presto il decreto definitivo, perché ogni giorno che passa sarà cagione di nuovi assalti all’azienda ferroviaria. Nessuna forza al mondo potrà adesso ridurre le concessioni in uso, che hanno avuto il crisma dell’approvazione provvisoria per decreto reale. E quanti non pretenderanno frattanto di avere diritti uguali o maggiori degli attuali favoriti! Abbiamo già veduto alla camera un deputato elemosinare il viaggio gratuito per le famiglie degli unti dalla sovranità popolare e trovare simpatica eco nei banchi dei democratici-socialisti; e vedremo ancora i liberi docenti universitari insistere per ottenere il viaggio ridotto per i propri affari avvocateschi o medici, i professori delle scuole pareggiate, gli avvocati, i parenti sino al decimo grado dei portalettere e dei portieri governativi farsi avanti e dimostrare a luce meridiana la loro qualità di investiti di una pubblica funzione. Fra breve, se non si mette subito riparo, in Italia tutti saranno pubblici ufficiali per non pagare il biglietto.

 

 

Animo, on. Ferraris[1]! Voi che siete salito in alto per la scienza da anni nobilmente professata, e per la dignità austera della vita, voi che avete avuto la ventura di attuare coll’esercizio di stato delle ferrovie la più grande forse delle aspirazioni della vostra scuola scientifica, abbiate il coraggio degli atti che varranno a salvare l’iniziativa grande dai pericoli che d’ogni parte la minacciano! Voi non siete uno scettico dell’azione dello stato; ed anzi avete sempre propugnato le riforme per opera dello stato. Fate che non si possa dire essere stata precisamente l’opera vostra a scalzare nell’animo del pubblico quella fiducia che è ancora riposta nella virtù dello stato!

 

 



[1] L’on. Carlo F. Ferraris, ministro dei lavori pubblici, deputato di Vignale nel Monferrato, professore di diritto amministrativo nell’università di Padova.

 

Le non–sentenze dell’On. Turati

Le non–sentenze dell’On. Turati

«Corriere della Sera», 3 maggio 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 224-226

 

 

L’on. Turati risponde nella «Critica sociale» – e la risposta fu in anticipazione pubblicata dal «Tempo» – agli articoli che siamo venuti recentemente pubblicando intorno all’arbitrato dei ferrovieri in rapporto all’esercizio di stato. Non vale la pena di trattenerci su ciò il Turati scrive intorno alla nostra nomenclatura di questioni giuridiche e di questioni economiche. Come ricordano i lettori, noi avevamo chiamato questioni giuridiche tutte quelle le quali nascono dall’interpretazione delle leggi, dei regolamenti e dei contratti esistenti. Tutti comprendono che possono essere questioni di vitalissima importanza economica per i ferrovieri e lo stato; ma le chiamammo giuridiche, perché possono essere risolute in base a testi scritti, che ogni magistrato deve sapere interpretare. In ogni caso allo stato non si accolla mai un debito nuovo; ma tutt’al più si impone il pagamento di un debito vecchio, che avrebbe dovuto essere già stanziato nel bilancio dello stato. Invece chiamammo «economiche» quelle questioni che nascono da dispareri tra ferrovieri e stato intorno alla formazione di un diritto nuovo, questioni che, se decise in senso contrario allo stato, possono dar luogo a nuovi aggravi per le pubbliche finanze, aggravi che occorrerebbe impostare per la prima volta nel bilancio dello stato. Ogni nomenclatura ha i suoi pregi e i suoi difetti. A noi pareva che la nostra fosse chiara. Così non sembra all’on. Turati. E noi, se egli ne proporrà un’altra migliore, siamo pronti ad accettarla, non volendo litigare sulle parole.

 

 

Non ci pare tuttavia che egli sia sulla buona via per proporre una nuova nomenclatura perfetta, poiché non ha capito quali siano le questioni che noi abbiamo chiamato economiche. Lasciamogli la parola nel suo tentativo di definire in modo oscuro ciò che a noi pareva di aver dichiarato in modo non equivoco:

 

 

I diritti, invece, collettivi – quelli che nascono non dalla lettera di un paragrafo del regolamento, ma dalla interpretazione generale del contratto, dalle evoluzioni dell’industria, quelli che promanano insomma dal diritto, e che minacciano importanti collisioni che importa per l’appunto prevenire coll’arbitrato quelli lì cessano di essere giuridici e diventano l’oggetto di semplici questioni economiche, anche se magari l’interesse pecuniario non ci abbia nulla da vedere. Le quali questioni, se risolte dagli arbitri, si avrebbe la decapitazione del parlamento, il saccheggio probabile delle finanze nazionali ad opera di una «autocrazia» arbitraria ed irresponsabile.

 

 

Il periodo citato dimostra la disinvoltura con la quale si pretende confutare i nostri ragionamenti. Noi avevamo detto: se i ferrovieri non si contentano più dell’organico esistente, se vogliono un aumento di paga, o una modificazione d’orario, o turni di servizio, o competenze accessorie oltre e contro ciò che è stabilito dalle leggi e dai regolamenti esistenti, non ci troviamo più di fronte ad una questione di diritto che possa essere risoluta dai magistrati; ma ad una pretesa di fondare un diritto nuovo, pretesa di cui il solo parlamento deve essere giudice, essendo pericolosissimo, essendo assurdo lasciarla giudicare da un arbitro, per quanto insospettabile, portato per sua indole a tagliare i nodi gordiani a metà, sovratutto giocando colla borsa di quelle disprezzabili e trascurabili persone che sono i contribuenti. E l’on. Turati ci viene a dire che qui si tratta di diritti collettivi, di interpretazioni generali del contratto (interpretazioni che dovrebbero essere capovolgimenti), diritti nascenti dalle evoluzioni dell’industria ed altrettali parole prive di contenuto su cui i magistrati si dovrebbero dichiarare incompetenti, perché essi interpretano la legge vigente e non la fanno.

 

 

In fondo, l’on. Turati è tanto persuaso che queste non sono questioni giuridiche, che indignato protesta contro la sola ipotesi, dovere le sentenze arbitrali diventare obbligatorie per lo stato senza l’approvazione del parlamento! Egli non può negare che «nessun responso di arbitri può avere facoltà di alterare i bilanci, che sono leggi dello stato o di sovrapporsi al parlamento». Ma allora che commedie sono codeste sentenze fra due parti le quali hanno valore solo se una delle due parti, lo stato, le accetti dopo che esse sono rese? Il Turati trova in queste non-sentenze, un vantaggio: che il parlamento «non deciderebbe sotto l’influsso di pressioni elettorali o politiche, o per paura o per rappresaglia ma sul fondamento di una sentenza, autorevolmente ed ampiamente discussa e motivata».

 

 

Tutti vedono come il vantaggio sia più che dubbio. O la sentenza sarà favorevole ai ferrovieri ed allora, secondo lo stesso Turati, «riuscirebbe praticamente difficile al parlamento ribellarsi ad essa». Figuriamoci le male parole rivolte ad un parlamento il quale osasse ribellarsi ai verdetti della giustizia, ecc. ecc.! O il verdetto riuscirebbe favorevole allo stato; ed i ferrovieri non per ciò disarmerebbero ed invocherebbero tutti i fulmini proletari contro la giustizia borghese, di classe, forcaiola, invecchiata, che non capisce lo spirito dei tempi nuovi, ecc. ecc. In fondo, codeste non-sentenze sarebbero peggiori delle sentenze vere: perché, col pretesto della facoltà ipotetica di revisione del parlamento, le sentenze arbitrali, di cui già dimostrammo le incognite per il bilancio dello stato, sarebbero solo soggette a revisione a danno dell’erario.

 

 

A noi sembra che se qualcosa si vorrà statuire nella futura legge organica sulle questioni economiche (seguitiamo a chiamarle così finché non piaccia all’on. Turati suggerirci un termine migliore e preciso), bisognerà ritornare a qualcosa di simile a ciò che era sancito dal progetto Tedesco. Il quale ogni dieci anni faceva dall’amministrazione rivedere gli organici in rapporto alle condizioni dell’azienda ferroviaria e allo stato generale dei salari, obbligava a sentire in proposito il parere del consiglio generale del personale; e proposte e pareri sottoponeva al parlamento. Chi più competente dell’amministrazione e del personale ad indicare riforme e miglioramenti? e chi miglior giudice del parlamento dell’opportunità di concederli? Non è meglio tutto ciò del sistema di sentenze che non sono sentenze?

 

 

La legge provvisoria

La legge provvisoria

«Corriere della Sera», 2 maggio 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 220-223

 

 

Ora che la legge sull’esercizio ferroviario di stato fu approvata, dobbiamo riconoscere che si è fatto qualche cosa di più di ciò che l’on. Fortis aveva annunciato alla camera nel suo discorso-programma per la candidatura alla presidenza del consiglio: un progettino di passaggio dell’esercizio privato all’esercizio di stato, che sancisse la presa di possesso delle ferrovie da parte dello stato. Già durante la elaborazione ministeriale fu facile accorgersi che non si poteva in un solo articoletto disciplinare tutti i punti che erano di urgenza assoluta; sicché un po’ per volta gli articoli crebbero sino a diventare 24; e la camera li aumentò ancora a 28. Forse se si facesse il conto, si vedrebbe che questi 28 articoli abbracciano più della metà della materia disciplinata del progetto Tedesco; cosicché meglio di una legge provvisoria, si dovrebbe parlare di una legge parziale, la quale dovrà a mano a mano essere ritoccata e completata a norma della esperienza e delle necessità.

 

 

Però la necessità di completarla si presenterà ben presto, essendo di primissima importanza alcuni dei punti che dalla legge odierna si vollero deliberatamente trascurare, reputando utile – e non a torto – una discussione più matura di quella che si poteva fare nelle sedute anteriori alla pasqua. Accenniamo ad alcuni dei principali. Di tutta la parte relativa alla costituzione della direzione centrale e delle direzioni compartimentali nella legge Ferraris non si tocca. Ciò è logico perché per ora non si deve far altro che sostituire ai consigli d’amministrazione ed al direttore generale delle tre reti un unico comitato d’amministrazione ed un unico direttore generale, ferme restando le attribuzioni vigenti. È augurabile si sappia trar partito dall’esperienza del primo anno per porre fine ad una situazione di cose che potrebbe diventare intollerabile. Un ordinamento nuovo ed uniforme è assolutamente necessario, giacché ben si sa come la rete adriatica sia gerita con norme ben diverse dalla rete mediterranea; e del conservarle insieme sotto una sola direzione nascerebbe il caos.

 

 

Intanto qualche concetto essenziale è posto e dovrà necessariamente essere svolto. L’amministrazione delle ferrovie di stato dovrà esser autonoma. Lo dice – con collocazione strana – non il primo, ma l’ultimo articolo della legge, rimandando l’ordinamento definitivo ad una prossima legge. Per quanto sia poca cosa, è bene che l’aggiunta sia stata deliberata dalla commissione parlamentare. L’on. Ferraris l’aveva dimenticato, o non aveva voluto fare in proposito nessuna dichiarazione di principio; ed era legittimo il timore che l’esercizio ferroviario dovesse essere sottoposto alle medesime norme di ogni amministrazione pubblica ed alle medesime funeste ingerenze politiche e parlamentari. Ora sappiamo invece che l’amministrazione dovrà essere autonoma; e speriamo che l’attuale ministro dei lavori pubblici, valente scrittore di studi poderosi sull’autonomia e sull’autarchia, voglia dare polpa e muscoli a questa per adesso scarna promessa di autonomia. A tale scopo gioveranno assai disposizioni accurate, le quali disciplinino la scelta, le funzioni e le responsabilità degli agenti tutti, dagli altissimi agli umili, dell’amministrazione ferroviaria. La legge attuale dice soltanto che il direttore e i membri del comitato d’amministrazione sono nominati con decreto reale su proposta del ministro dei lavori pubblici e sentito il consiglio dei ministri. Nulla qui che assicuri sulla indipendenza e sullo stato giuridico di questi altissimi funzionari. Per gli altri agenti meno che nulla, malgrado il progetto Tedesco stabilisse opportunamente per la assunzione del personale nuovo il pubblico concorso. Il quale non è forse un metodo perfetto, ma almeno impedirà che le ferrovie di stato diventino il rifugio di tutti i raccomandati degli uomini politici, come era accaduto ai tempi dell’esercizio di stato dell’Alta Italia. Inutile concedere guarentigie di arbitrato al personale, se non se ne disciplini la scelta e non si impedisca l’accesso agli inetti. La legge Ferraris ha in un punto migliorato il progetto Tedesco: ed è quello della posizione del direttore generale di fronte al consiglio d’amministrazione.

 

 

Il progetto Tedesco stabiliva un consiglio d’amministrazione di sei membri ed un presidente ed, accanto a questo, con voto consultivo, un direttore generale. L’ordinamento si capiva in una società anonima, dove il consiglio d’amministrazione, col suo presidente, emana dagli azionisti, nomina il direttore generale e lo sorveglia. Nell’esercizio di stato, – dove presidente e consiglieri e direttore generale sono tutti nominati dal governo, dove ai consiglieri si affidano funzioni che in parte sono di sussidio a quelle del direttore generale, – non si capiva la posizione subordinata fatta a quest’ultimo. Ne sarebbero certamente sorti attriti ed incagli nel servizio. La legge Ferraris qui ha innovato. Il direttore generale è il vero capo sotto al ministro dei lavori pubblici – delle ferrovie di stato, ed è coadiuvato da un comitato di amministrazione di sei membri, nominati dal governo, ma da lui presieduti. C’è qui maggiore unità e snellezza.

 

 

Nel concetto moderno della gestione ferroviaria di stato, alla soppressione di ogni ingerenza politica va compagna l’istituzione di organi consultivi, in cui abbiano voce i rappresentanti del commercio, dell’industria e dell’agricoltura del paese; organi incaricati di dar pareri sulle tariffe, sugli orari, sui trasporti, di tenere insomma vivo il contatto tra il pubblico che viaggia e traffica e l’azienda ferroviaria. A ciò provvedevano nel progetto Tedesco il capitolo VI relativo alle tariffe ed agli orari e il capitolo VIII, il quale istituiva un consiglio generale del traffico e commissioni consultive locali. Tutto ciò è scomparso nella legge Ferraris; ma è assolutamente necessario ritornarvi sopra in guisa da attuare al più presto il concetto sopra espresso ed altre riforme assai utili, come quella che stabiliva tariffe ridotte per gli abbonamenti settimanali degli operai e dei lavoratori della terra.

 

 

Sull’urgenza di disposizioni, che sono di capitale importanza per la buona riuscita dell’esercizio di stato, si potrà discutere; dove non è possibile la discussione è sulla necessità di completare subito gli articoli 9 e 10 che autorizzano la spesa di 65 milioni di lire nel 1905-906 e l’impegno di altri 30 milioni per il 1906-907 per lavori, forniture di primo impianto, provviste di materiale, ecc. La liquidazione delle pendenze con le società esistenti, anche all’infuori del riscatto delle Meridionali, non è infatti cosa da potersi rimandare.

 

 

Il progetto dell’onorevole Luzzatti valutava il debito dello stato verso le società a 482 milioni circa e indicava i mezzi con i quali far fronte al pagamento con un onere annuo di interessi di lire 14.550.000, inferiore di lire 2.155.000 all’onere attuale, che è di lire 16.705.000. Il problema non ammette dilazioni; poiché se all’1 luglio 1905 il debito non viene pagato, bisogna corrispondere alle società il 5% netto, con una spesa annua di lire 24.117.500 ed una perdita di lire 9.567.500 solo per l’esercizio 1905-906, in confronto alle proposte Luzzatti. Non si può neppure lontanamente supporre che il governo voglia fare un così grosso regalo alle società esercenti; e d’altra parte, il progetto Luzzatti è ancora dinanzi alla camera. Importa che esso sia discusso presto, senza rinviarlo alla discussione della legge definitiva sull’assetto delle ferrovie. Senza dubbio il governo ritiene che l’argomento deve essere subito risoluto; ma sarebbe bene che anche nel parlamento entrasse la medesima persuasione. Sono circa 10 milioni all’anno in gioco; ed un ritardo sarebbe colpa non scusabile.

 

 

Il pericolo di un equivoco

Il pericolo di un equivoco

«Corriere della Sera», 25 aprile 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 216-219

 

 

Le parole, che il presidente del consiglio ha pronunciato al senato intorno al rinvio alla legge definitiva della questione dell’arbitrato dei ferrovieri ed all’esame che nel frattempo se ne farà da parte del consiglio superiore del lavoro, meritano un commento. Disse l’on. Fortis che l’argomento non era maturo nel pensiero di alcune delle parti della camera per un equivoco che si nascondeva nella questione. Il ministero credeva «che si potesse costituire per via di compromesso una giurisdizione speciale, una speciale giustizia amministrativa per cui ciascun impiegato ferroviario potesse chiedere e avere giustizia da questo tribunale arbitrale, nei limiti della competenza assegnata al medesimo. Invece nel concetto di altri l’arbitrato, obbligatorio o facoltativo, doveva essere chiamato a risolvere le questioni che potessero sorgere fra la collettività dei ferrovieri, tra la massa organizzata dei ferrovieri e lo stato, la qual cosa è essenzialmente diversa dal concetto del ministero».

 

 

Qui sta veramente l’equivoco sebbene esso sia tanto grave che l’on. Fortis è riuscito a spiegarlo soltanto in una maniera molto approssimativa e nebulosa. Ecco di che cosa si tratta in poche parole. In tutte le controversie fra operai ed imprenditori, e nel caso nostro tra ferrovieri e stato, si possono presentare due ordini di questioni. Le prime che chiameremo giuridiche e che riguardano l’interpretazione dei patti di lavoro convenuti o delle leggi o regolamenti vigenti. Un ferroviere si vede negata la promozione a cui ha diritto secondo l’organico del 1902? O viene punito in una misura che egli non ritiene consentita dai regolamenti vigenti? O un anziano non otterrà l’aumento di paga che gli è garantito dalla legge, or ora votata dal parlamento? Ecco altrettante quistioni giuridiche; che debbono essere risolute dai tribunali sulla base di leggi, regolamenti, organici che si conoscono e che tutti, stato e ferrovieri, debbono osservare. Queste questioni sinora avrebbero dovuto essere risolute dai tribunali ordinari; ma la cosa dava luogo a molti inconvenienti. Il progetto Tedesco istituiva un apposito collegio arbitrale del personale ferroviario, il quale appunto doveva risolvere – ad eccezione delle piccole punizioni e delle controversie di competenza dei comitati amministrativi degli istituti di previdenza – tutte le controversie, nelle quali si facesse questione di un diritto assicurato dalla legge, dal regolamento sul personale e dai regolamenti e norme di servizio. Tutte le questioni giuridiche insomma erano sottoposte alla competenza del collegio arbitrale. Al collegio non erano sottoposte però le questioni della seconda specie, che chiameremo economiche. I ferrovieri non sono contenti dell’organico attuale e ne vogliono attuato un altro che conceda promozioni più rapide? Gli anziani non stanno paghi ai milioni concessi dal parlamento? Dispiacciono agli agenti le punizioni disciplinari stabilite per ogni singola mancanza nei regolamenti e le vorrebbero mitigare, convertendo, ad es., la destituzione in degradazione e questa in sospensione di un mese con o senza trasloco? Ecco altrettante questioni economiche. I ferrovieri non si lamentano di un loro diritto violato, di un regolamento interpretato a loro danno; ma vogliono creare un diritto nuovo, vogliono migliorare le loro condizioni al di là di quello che consentano le leggi vigenti.

 

 

Per codeste controversie il progetto Tedesco non concedeva il ricorso al collegio arbitrale e sembra non lo voglia concedere nemmeno il ministero presieduto dall’on. Fortis. E se ne capisce facilmente il perché. Se il collegio arbitrale potesse decidere anche le questioni economiche, i ferrovieri per ottenere un aumento di paga o una diminuzione di orario o il riposo festivo, non avrebbero bisogno del consenso del parlamento, ossia dei rappresentanti di quei contribuenti che dovrebbero pagare lo scotto; basterebbe portare il desiderio dinanzi al collegio arbitrale; e se il presidente desse loro ragione, la cosa sarebbe fatta. Un potere grandissimo sarebbe dato al capo del collegio arbitrale, potendo egli far pendere la bilancia a suo talento a favore dello stato o dei ferrovieri. Suppongasi che il presidente sia un magistrato alla Magnaud, desideroso di popolarità, od un delegato – come vorrebbero i socialisti – del consiglio superiore del lavoro scelto per caso fra i membri radicaleggianti o magari socialisti di quella rispettabile assemblea, e lasciamo immaginare ai lettori il risultato. Il bilancio delle ferrovie verrebbe sottratto alla votazione libera del parlamento. Il ministro del tesoro non reggerebbe più i cordoni della borsa dello stato. Parlamento e tesoro dovrebbero senz’altro pagare i milioni concessi dal collegio arbitrale o meglio dai rappresentanti dei ferrovieri insieme col presidente del collegio. E ciò magari in anni di disavanzo; o quando i milioni fossero dal parlamento ritenuti necessari per qualche altro scopo, forse una riduzione d’imposte.

 

 

Per questi motivi il progetto Tedesco stabiliva che allo scadere di ogni decennio l’amministrazione ferroviaria di stato dovesse bensì esaminare le condizioni organiche del trattamento del personale in relazione a quelle generali di retribuzione del lavoro ed a quelle speciali dell’azienda; e riconoscendone l’opportunità, sentito il consiglio generale del personale, potesse presentare al governo le sue proposte. Ma su queste proposte il solo giudice era il parlamento; e nessuna modificazione degli organici poteva essere consentito se non per legge.

 

 

Ove le cose non si mettano in chiaro sin da principio, possiamo avere brutte sorprese. L’on. Fortis – per quanto ritenga che le sole quistioni giuridiche debbano essere sottoposte all’arbitrato – ha consentito alla domanda dei deputati socialisti di sottoporre la questione, insieme con tutte le altre relative alla composizione del collegio arbitrale, all’esame del consiglio superiore del lavoro. Noi non abbiamo nulla da osservare intorno all’opportunità di far fare un esame preventivo della legge da quest’alto consesso consultivo. Ma desideriamo che il campo su cui esso sarà chiamato a dare il suo parere, sia ben delimitato. Comprendiamo che gli si chieda come debba essere composto il collegio arbitrale, come debba funzionare, e quali controversie giuridiche siano di sua competenza. Ma escludiamo che il governo possa sottoporgli la questione se le controversie economiche abbiano ad essere sottoposte all’arbitrato. Nessun governo che abbia la coscienza dei suoi doveri verso il paese, che non voglia violare deliberatamente lo statuto, il quale fa il solo parlamento giudice delle entrate e delle spese nazionali, può ammettere per un istante che al parlamento possa essere tolta la facoltà di votare i bilanci e data ad un irresponsabile capo di un collegio arbitrale.

 

 

Sarebbe gravissima novità e nessuno può dire che l’on. Fortis abbia in senato voluto ammettere una siffatta tesi. Intanto però il comitato d’agitazione nell’ultimo suo proclama affida i ferrovieri «che il governo accetta il principio dell’arbitrato e delle trattazioni con le rappresentanze delle organizzazioni nelle questioni di indole economica che interesseranno la causa dei ferrovieri». Qui vi è un equivoco voluto, che importa subito chiarire. Non dimentichiamo che le equivoche promesse del 1902 furono il pretesto all’agitazione odierna; e non diamo adesso nuova esca ad equivoci che potrebbero dare in avvenire amarissimi frutti.

 

 

Il dazio sul grano e sulle farine

Il dazio sul grano e sulle farine

«Corriere della Sera», 10 aprile[1] e 17 maggio[2] 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 207-215

 

 

I

 

Ritorna sul tappeto la questione del dazio sul grano. L’aumento recente dei prezzi, facilmente preveduto da chi aveva tenuto dietro alle vicende dei raccolti ed alla situazione statistica dei mercati internazionali, ha già provocato una interrogazione alla camera e nuove recise risposte dell’on. Majorana, deliberato a respingere assolutamente ogni proposta di diminuzione, provvisoria o definitiva, dell’attuale dazio. Certo non si può affermare che, dal punto di vista del momento presente, la situazione sia pienamente rassicurante; né d’altra parte aveva torto il ministro delle finanze quando affermava che una riduzione provvisoria del dazio non avrebbe portato alcun giovamento ai consumatori. I lettori possono seguire giorno per giorno sui bollettini commerciali i prezzi del grano. Qui, per dare un’idea comparativa del movimento dei prezzi calcolati su una base uniforme, ricorderemo soltanto che l’ultimo listino ufficiale del ministero d’agricoltura porti queste cifre (in lire per quintale di frumento):

 

 

26 dicembre 26 dicembre 31 dicembre 18 marzo

1900

1902

1904

1905

Parigi

19,00

21,12

23,62

23,62

Budapest

17,11

15,19

22,46

20,47

Chicago

12,20

14,58

21,84

21,62

Odessa

—-

14,90

17,12

16,07

 

 

La campagna del 1904 segna un rialzo notevolissimo sulle campagne precedenti. Non sembra però, che vi sia la probabilità di un rialzo ulteriore (i prezzi di marzo 1905 sentono già l’influenza del nuovo raccolto e sono meno alti di quelli di dicembre 1904); e una riduzione, anche forte, del dazio doganale, mentre danneggerebbe gravemente le finanze, non gioverebbe oggi ai consumatori. Già lo dicemmo in modo esplicito l’autunno scorso. Il momento per sospendere il dazio sul grano non è la primavera: quando la speculazione non può far giungere in fretta grandi quantità di grano senza passare per le forche caudine delle compagnie di navigazione, che assorbono in noli tutto il beneficio della riduzione. Novembre e dicembre sono i mesi propizi; poiché allora la concorrenza fra importatori ed armatori può agire tranquillamente e provvedere il mercato interno a sufficienza di frumenti ai noli normali. Oramai cosa fatta capo ha; e non resta che da augurarci una stagione favorevole al raccolto nuovo, la quale tenga lontano il grosso guaio di un rialzo ulteriore dei prezzi al disopra del livello odierno.

 

 

Non è la riduzione temporanea del dazio ciò che oggi più preme. È infatti chiarissimo che da qualche tempo è posta – e sempre più si imporrà – la questione di un ribasso permanente del dazio. Già le cifre addotte sopra indicano quale rivolgimento si sia verificato nei prezzi del grano nell’ultimo quinquennio. Forse ci si potrebbe obbiettare che si tratta di un fatto isolato, dipendente dalla campagna infelice del 1904. Per far vedere che il rialzo odierno si ricollega con un movimento assai più ampio, abbiamo costruito la seguente tabellina, che sembra persuasiva:

 

 

Numeri indici del frumento

in Inghilterra riferito alla media degli anni 1867-77 (= 100) in Italia riferito alla media degli anni1862–66 (= 100) Dazio doganale italiano d’importazione per ogni quintale di frumento e data delle sue variazioni

1882

?

100

Dal 16 giugno al 21 aprile 1887 L.1,40

1887

60

84

Dal 21 aprile 1887 L. 3

1889

55

90

Dal 10 febbraio 1888 L. 5

1890

50

88

1891

68

96

1892

56

94

1893

48

82

1894

41

78

Dal 21 febbraio 1894 L. 7

1895

42

79

Dal 10 dicembre 1894 L. 7,50

1896

48

86

1897

55

99

1898

62

103

1899

47

97

1900

49

9

1901

49

99

1902

52

91

1903

49

92

 

 

Abbiamo preferito di dare non i prezzi per quintale, ma i numeri indici, ossia il rapporto percentuale fra i prezzi di ogni anno ed i prezzi di un periodo base (1867-77 per l’Inghilterra e 1862-66 per l’Italia) uguagliati a 100. I numeri indici sono quelli di Sauerbeck per l’Inghilterra e del Geisser-Magrini per l’Italia. La tabella è parlante. Dopo il 1880 comincia la grande inondazione dei grani nord-americani sul mercato europeo; sul mercato libero dell’Inghilterra i prezzi discendono da 100, punto di partenza, a 60 nel 1887, ed anche in Italia, dove il dazio sino allora era mitissimo (lire 1,40 per quintale) il numero indice scende ad 84. Allarmati gli agricoltori italiani, come i francesi, i tedeschi, ecc., chiedono protezione ed ottengono un aumento a 3 lire nel 1887 a 5 nel 1888. Per l’Italia il dazio arresta per un po’ la discesa dei prezzi; non così sui mercati liberi, dove il prezzo, salvo la breve punta all’insù del 1891, ribassa continuamente, sino a toccare l’estremo fondo nel 1894 con 41. Il ribasso si ripercuote anche sull’Italia. Malgrado il dazio, il grano tocca l’indice di 73. Il che vuoi dire un prezzo, compreso il dazio, di lire 19,22 per quintale. Gli agricoltori protestano che il prezzo non è sufficiente; che, se essi vendono il grano a meno di 22-23 lire per quintale, lavorano in perdita. Ed ottengono così il rialzo del dazio a lire 7 ed a lire 7,50 per quintale. Non discutiamo qui le loro ragioni. È certo però che essi non avrebbero ottenuto l’aumento del dazio a lire 7,50 se il grano nel 1894 non fosse stato ridotto al prezzo infimo che dicemmo. Forse non l’avrebbero ottenuto nemmeno allora, se nel 1894 il tesoro non si fosse trovato in pessime acque e non avesse veduto nel desiderio degli agricoltori il mezzo per impinguare un po’ le proprie entrate.

 

 

Dopo il 1894 le cose cambiano. Il livello dei prezzi sui mercati liberi e sui mercati protetti sale, riguadagnando in Inghilterra metà ed in Italia tutto il terreno perduto dopo il 1887, quando era ritenuta sufficiente una protezione oscillante fra 3 e 5 lire. Se nella tabella avessimo aggiunto anche i prezzi del 1904 il movimento sarebbe stato ancor più accentuato; non lo facemmo per non essere tacciati di esagerazione.

 

 

Il fatto certo, indubitato è dunque questo: che dal 1894 è cominciato un periodo di ripresa nei prezzi del grano. Noi non sappiamo quali sorprese ci prepari l’avvenire; né vogliamo fare i profeti a buon mercato. Tutto però fa ritenere che il movimento verso l’ascesa dei prezzi non sia giunto al suo termine. Non ripeteremo qui gli allarmi del grande chimico inglese Crookes, il quale prevede a non lungo andare prezzi altissimi pel grano, se una qualche benefica rivoluzione nella chimica agraria non darà il mezzo di produrre pane a buon mercato. Le materie fertilizzanti azotate diventano sempre più care; il guano del Perù è esaurito; il nitrato di soda del Cile è tutt’altro che eterno. Sovratutto vi sono paesi che una volta inondavano l’Europa con grani a bassi prezzi e che ora un po’ per volta si ritirano dal commercio di esportazione. Non è un’affermazione gratuita. Guardisi il listino dei prezzi pubblicato in principio di questo articolo; fra i quattro mercati, quello su cui si verificò il rialzo più violento è Chicago (da 12,20 a 21,62 lire per quintale). La ragione del fatto vogliamo dirla colle parole del direttore generale delle nostre gabelle, il quale nell’ultima sua relazione per l’esercizio 1903-904 scrive che il rialzo dei prezzi sui mercati americani «si spiega con le mutate condizioni della produzione e del consumo del cereale negli Stati uniti, per le quali questi andarono perdendo il carattere, che da tanto tempo possedevano, di grande paese esportatore di grano. Coll’affievolirsi della corrente di esportazione, in quanto ciò provenga, com’è il caso, delle cresciute esigenze del consumo interno, è naturale che negli Stati uniti i prezzi del grano tendano a sollevarsi dall’antico basso livello regolatore internazionale, e ad assumere il carattere di prezzi nazionali, come quelli di ogni altro paese consumatore».

 

 

Potrà accadere dunque che i ricchi e popolosi Stati uniti si tengano per sé il loro grano. L’Europa ricorrerà, è vero, all’Argentina, alla Russia, all’Australia, alla Siberia; ma dovrà pagare prezzi più elevati, sia per le maggiori spese di trasporto dei mercati più lontani, sia perché questi avranno un formidabile concorrente di meno.

 

 

Evidente la conclusione del nostro discorso. Oggi, se il dazio fosse ancora a 3 od a 5 lire, a nessuno verrebbe in mente di chiederne l’aumento; e, se da qualche agricoltore troppo esigente si chiedesse, non sarebbe concesso. Perché ostinarsi allora a conservare il dazio ad un’altezza, giustificata dagli stessi agricoltori solo grazie ad un livello basso di prezzi che oggi non esiste più per cagioni permanenti? Non sarebbe opportuno ritornare al punto di partenza: almeno alle 5 lire del 1888 se non alle 3 lire del 1887? La via del ritorno non dovrebbe essere percorsa d’un salto; nessun uomo ragionevole vorrebbe perturbare improvvisamente le aziende agricole, e cagionare perdite dolorose di capitali. Se la riduzione avvenisse gradatamente, a 50 centesimi all’anno ad esempio, gli agricoltori in 5 o 9 anni avrebbero tempo di prepararsi al nuovo stato di cose, organizzando meglio le loro intraprese, riducendo i costi, facendo quello insomma che fanno tutte le intraprese di questo mondo quando debbono adattarsi a nuove condizioni di vita. Anche lo stato – il quale non può e non deve sin d’ora far calcolo preventivo sul provento del dazio sul grano al disopra dei 50 o 60 milioni all’anno – potrebbe gradatamente adattarsi alla inevitabile riduzione dei suoi introiti.

 

 

Forse saremo giudicati visionari e temerari. In verità siamo più imprudenti noi o chi non sospetta nemmeno la possibilità di rialzi di prezzo nel futuro e di moti di piazza che costringono a abolire in fretta ed in furia il dazio, con quali perdite degli agricoltori e dello stato è facile immaginare?

 

 

II

 

La promessa fatta alla camera dall’on. ministro Majorana di presentare un disegno di legge per la riduzione del dazio doganale sulle farine ha suscitato una vivissima agitazione fra i mugnai, timorosi che i propositi del governo possano riuscire funesti all’industria molitoria.

 

 

Una questione della massima importanza, in cui sono in gioco interessi rilevanti dei consumatori di pane e dei produttori di farine; e vale la pena di sentire ambe le parti nelle ragioni che esse hanno da mettere innanzi in difesa della loro tesi.

 

 

Intanto è opportuno avvertire che la protezione delle farine è una conseguenza necessaria del dazio sul grano. Dato che questo esista nella misura di lire 7,50 al quintale – e sulla opportunità di ridurlo gradatamente, già ci pronunciammo – è evidente che un dazio deve essere messo sulla quantità di farina corrispondente. Se no, le farine estere prenderebbero il posto del grano e rimarrebbe frustato l’intento che il legislatore si proponeva mettendo il dazio sul grano. L’intento potrà essere giudicato buono o cattivo, ma, una volta ammesso, non è possibile negare la necessità di mettere il dazio sulle farine. La questione è nella misura.

 

 

Dicono i consumatori e sembra voglia dire il governo: l’attuale dazio sulle farine di lire 12,30 al quintale è troppo elevato in proporzione al dazio di lire 7,50 sul grano e lascia ai mugnai una protezione supplementare eccessiva. Vediamo come. Si può ammettere (citiamo i calcoli di un progetto Wollemborg del 1901) che per ottenere 100 kg di farina siano necessari 135 kg di grano. Per mettere importatori di grano o importatori di farine nella stessa condizione bisogna far pagare a un quintale di farina l’ugual dazio che a 135 kg di grano. E siccome 135 kg di grano pagano 1,35 x lire 7,50 ossia lire 10,15 di dazio, così il quintale di farine dovrebbe pagare pure lire 10,15. E poiché le farine estere pagano invece lire 12,30, è chiaro che il mugnaio nazionale gode di una protezione di lire 2,15. Non basta. Il mugnaio che paga lire 10,15 di dazio per 135 kg di grano, ne ricava, oltre i 100 kg di farine, anche 35 kg di crusca. Una parte del dazio serve a proteggere pure la crusca; e conteggiandolo pure a sole lire 3,50 al quintale, noi avremo che il mugnaio acquisitore di 135 kg di grano ha pagato lire 10,15 di dazio, di cui lire 9 per la farina e lire 1,15 per la crusca. Egli è quindi protetto contro l’importazione della farina estera (che paga lire 12,30, ricordiamolo) non dalla differenza fra lire 12,30 e lire 10,15, ma da quella fra lire 12,30 e lire 9; e può quindi aumentare i prezzi delle farine di tutto l’ammontare del dazio, godendo dell’alta protezione di lire 3,30 al quintale. Stringendosi insieme, i mugnai si sono accordati per tenere alti i prezzi. I consumatori che si lagnano del dazio sul grano, dovrebbero ancor più lagnarsi della protezione eccessiva ai mugnai, per nulla in rapporto col costo della macinazione.

 

 

Questa la tesi dei consumatori e crediamo anche del governo, il quale ne trae argomento a volere ridurre il dazio sulle farine, non sappiamo quanto al disotto delle lire 12,30, in guisa da metterlo in più equo rapporto col dazio sul grano. Sappiamo però già che i mugnai non si danno per vinti ed oppongono calcoli a calcoli.

 

 

Innanzi tutto essi non vogliono si parli della crusca. È un artificio, essi dicono, separare le lire 10,15 che pagano i 135 kg di grano in lire 9 pagate per i 100 kg di farine e in lire 1,15 per i 35 kg di crusca. In realtà i mugnai, quando vendono la crusca non ottengono un centesimo di più di quello che ottengono i loro colleghi dell’estero, quando forse non la vendano a minor prezzo. La crusca non fa parte del mercato dei cereali e delle farine, ma di quello del bestiame, dei foraggi, delle biade e dei cereali inferiori. Quindi se essi han pagate le lire 10,15 di dazio sui 135 kg di grano, le devono ripigliare tutte sui 100 kg di farina, non potendo sperar nulla dalla crusca. Ecco ridotta la protezione dei mugnai da 12,30-9 a 12,30-10,15 ossia a lire 2,15, secondo il primo calcolo.

 

 

Non siamo ancora alla fine. Dei 100 kg di farina ottenuti dai 135 kg di grano, solo 91 circa è farina panificabile. Il resto (9%) sono farinette in minima proporzione atte a fabbricar pane di qualità inferiore e in massima parte destinate all’alimentazione del bestiame, insieme agli altri cascami e non protette. Tenendo conto di ciò, noi vediamo che i mugnai, pagando lire 10,15 di dazio per introdurre 135 kg di grano, debbono rifarsi in definitiva di questa spesa su una vendita netta di soli 91 kg di farine, tutto il resto essendo farinette e crusca, a cui l’esistenza del dazio non fa né caldo, né freddo. Per non rimetterci, il dazio per ogni quintale di farina buona dovrebb’essere, fatte le debite proporzioni, almeno di lire 11,15. Invece esso è di lire 12,30, ed essi godono perciò di una protezione di lire 1,15 per quintale. La quale, come tutti vedono, è molto lontana dalle lire 3,30 asserite dal governo e dai consumatori.

 

 

Abbiamo riassunto così le ragioni dei consumatori e dei produttori. Malgrado il nostro desiderio e pur lasciando in disparte molti calcoli secondari, non ci è stato possibile di essere più chiari. È facile vedere che si tratta di una quistione aggrovigliata, come tutte quelle di parificazione dei dazi, in cui i dati del problema cambiano a seconda del punto di vista dal quale ci si mette. Né vogliamo perciò concludere senz’altro in pro di una delle due tesi. La posizione del problema ci si presenta assai poco chiara; e meriterebbe di venire maggiormente dilucidata, dando una risposta precisa, non controvertibile ad alcune domande che ci permettiamo di formulare così:

 

 

Qual è la precisa proporzione di farine, di farinette e di crusca che si ricava da un quintale di frumento?

 

 

È vero che le farinette e la crusca in Italia non godono menomamente della protezione che viene ad esse concessa sia direttamente sia colla protezione del frumento?

 

 

A noi sembra che dovrebbe essere compito di qualche ente autorevole ed imparziale eseguire una ricerca su questi punti e sugli altri che i competenti vorranno suggerire. Un esame dei prezzi del grano, delle farine, delle farinette e della crusca su alcune principali piazze italiane ed estere in paesi protezionisti e liberisti e per un periodo abbastanza lungo, dovrebbe mettere in sodo se i prezzi si risentano della protezione doganale anche per le farinette e per la crusca, ed offrire dati preziosi per una soluzione del problema. Altrimenti dinanzi all’agitazione dei mugnai dovremo sempre rimanere in dubbio se si tratti di calcoli sbagliati del governo o di ingordigia di lucri eccessivi degli industriali.

 

 



[1] Con il titolo Il dazio sul grano. [ndr]

[2] Con il titolo Il dazio sulle farine. [ndr]

Il pronunciamento dei comuni

Il pronunciamento dei comuni

«Corriere della Sera», 30 marzo 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 203-206

 

 

Quando i rappresentanti dei comuni italiani si radunarono a congresso nello storico salone dei dugento a Palazzo vecchio di Firenze, pochi si immaginavano che le adunanze sarebbero state così burrascose e che per poco non si sarebbe andati a finire col «colpo di scure» dello sciopero in massa delle amministrazioni comunali. Colpa del manipolo repubblicano-socialista, si dirà, che voleva spingere le cose agli estremi. Ed è vero; ma solo in parte, poiché si videro anche uomini temperati manifestare propositi forti, se pure non estremi, e pronunciare parole vivacissime.

 

 

Quale dunque la ragione di tutta questa nuovissima agitazione, che si aggiunge alle altre molte che angustiano la vita presente italiana? Per spiegare le cose compiutamente, bisognerebbe risalire assai indietro, alle prime leggi votate dal parlamento per disciplinare le spese comunali. Sarebbe un discorso assai lungo, e che si può del resto riassumere in poche parole: lo stato di fronte ai comuni non ha saputo far altro che togliere loro entrate da una parte e rovesciare su di essi nuove spese generali e non locali. Purtroppo le finanze italiane hanno attraversato momenti assai brutti; e lo stato, in quasi tutte quelle occasioni, per evitare l’impopolarità di aumentare troppo le sue imposte e di ridurre le spese, ha trovato più comodo togliere ai comuni imposte prima ad essi assegnate e fare loro pagare funzioni di stato. Ricorderemo soltanto, fra le imposte tolte ai comuni, il caso dell’imposta di ricchezza mobile, su cui i comuni potevano sovraimporre 50 centesimi addizionali quando l’aliquota allo stato era dell’8% del reddito; e che dapprima fu avocata tutta allo stato, lasciandosi ai comuni un decimo dell’imposta esatta per ruoli, finché anche quest’ultima partecipazione fu tolta. Quanto alle spese sue, che lo stato accollò ai comuni, sarebbe troppo lungo farne l’elenco. Diremo soltanto che un giorno il governo parve in proposito rinsavire, e fu quando – dietro le insistenze dei comuni oberati di debiti – introdusse nella nuova legge comunale e provinciale del 1888 un articolo 79 (272 del testo unico del 1889), in cui parecchie di quelle spese venivano avocate di nuovo – secondo giustizia – allo stato.

 

 

«Cesseranno – recitava quell’articolo – di far parte delle spese poste a carico dei comuni e delle provincie dal primo gennaio 1893:

 

  • le spese pel mobilio destinato all’uso degli uffizi di prefettura e sottoprefettura, dei prefetti e dei sottoprefetti;
  • le spese ordinate dal R. decreto 6 dicembre 1865 sull’ordinamento giudiziario;
  • le spese ordinate dalla legge 23 dicembre 1875 per la indennità di alloggio ai pretori;
  • le spese ordinate dalla legge 20 marzo 1865 relative al personale ed al casermaggio delle guardie di pubblica sicurezza, come pure le spese per le guardie di pubblica sicurezza a cavallo in Sicilia;
  • le spese per l’ispezione delle scuole elementari;
  • le spese delle pensioni agli allievi e alle allieve delle scuole normali, attualmente a carico della provincia».

 

 

L’articolo non era gran cosa; ma era un indizio di rinsavimento; e sembrava esplicito per quanto la attuazione ne fosse rinviata al 10 gennaio dei 1893.

 

 

I comuni pur troppo avevano fatto i conti senza ricordarsi delle necessità rinascenti del bilancio dello stato. Ai 3 di luglio 1892 una leggina proroga l’attuazione dell’articolo 272 a date variabili dal 1894 al 1898; né basta, poiché una legge del luglio 1894, per tagliar corto, sospende l’applicazione del famigerato articolo «fino a nuova disposizione legislativa». Una più chiara mancanza di parola dello stato di fronte ai comuni non s’era mai vista. I comuni pazientarono, supponendo che i tempi tristi impedissero allo stato di adempiere alle promesse fatte in leggi solennemente promulgate. Vennero però gli anni buoni per la finanza italiana, vennero gli avanzi, e della «nuova disposizione legislativa» non si sentì più parlare. Anzi; il ministero Giolitti – forse immaginandosi di avere regalato ai comuni, con la sua legge sulla municipalizzazione, il toccasana di tutti i loro mali ed una fonte inesauribile di redditi – pensò subito scontarne gli effetti, accollando, coll’ultima legge per l’aumento del numero degli agenti di pubblica sicurezza, nuove spese ai disgraziati comuni.

 

 

Ecco, in brevissimo riassunto, perché i 700 rappresentanti dei comuni italiani hanno usato un linguaggio così acceso nei giorni scorsi a Palazzo vecchio di Firenze. Essi sono indignati tutti – dai cattolici ai socialisti, dai conservatori ai repubblicani – contro lo stato invadente e mancatore di parola, contro la sorveglianza minuta e noiosa che li opprime e non riesce a impedire mai le malversazioni, ed oppongono al quadro ridente degli avanzi del tesoro lo spettacolo triste del debito comunale ognora crescente e del fallimento provocato dalle leggi del parlamento.

 

 

Né è possibile a noi – come a nessun giudice imparziale – negare che il tumultuoso comizio fiorentino abbia avuto ragione nel protestare fieramente contro la noncuranza governativa e nel rammentare al parlamento che esso deve mettersi a lavorare seriamente se il paese non deve cadere in grave disordine. Ha avuto però anche ragione la maggioranza dei congressisti nel respingere l’ordine del giorno Comandini che, imponendo le dimissioni in massa a giorno fisso, avrebbe organizzata ed inasprita quell’anarchia, che tutti desideriamo possa essere tenuta lontana. Le dimissioni in massa – anche se, per impossibile potessero seriamente attuarsi – non gioverebbero per nulla a raggiungere gli scopi che i comuni si propongono: metterebbero l’opinione pubblica, malcontenta di vedere i municipi in mano di commissari regi, contro le legittime aspirazioni locali; ed indurrebbero il parlamento alla resistenza. Le dimissioni in massa potranno giovare ai partiti estremi, dove essi sono al potere, cavandoli dall’imbarazzo di amministrare la cosa pubblica; non ai comuni, i quali hanno tutto da guadagnare da una agitazione seria a favore del progetto Mariotti per una sistemazione razionale della irritante questione delle spese comunali. Il parlamento non resiste mai alle pressioni locali anche se ingiustificate; e non è da temere che possa negare ai comuni insieme fortemente riuniti il soddisfacimento di una solenne promessa oramai consacrata dalla legge. Dopo tutto, l’agitazione dei comuni ha un carattere ben diverso dalle agitazioni dei ferrovieri, degli

impiegati delle poste e telegrafi, ecc. ecc. Questi vogliono accrescere i propri stipendi a spese dei contribuenti, i quali, avendo sofferto e soffrendo ancora in silenzio, hanno un ben maggior diritto a partecipare agli avanzi di bilancio. Quelli vogliono che lo stato faccia lui certe spese sue che rovinano i comuni a cui indebitamente sono state accollate. In sostanza sono i contribuenti comunali che, vista l’incapacità dei contribuenti di stato a farsi sentire, pensano di non volere pagare più le imposte necessarie a soddisfare certe spese a cui è sufficiente l’avanzo del bilancio di stato. Contribuenti attivi contro contribuenti silenziosi: a questo siamo ridotti in Italia di dover considerare un contrasto in se stesso così poco simpatico come un minor male dell’altra lotta fra ferrovieri aggressivi e stato debole rappresentante degli interessi della collettività!

 

 

Sono in troppi?

Sono in troppi?

«Corriere della Sera», 7 marzo[1] 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 199-202

 

 

Il comitato d’agitazione dei ferrovieri ha fatto, in un proclama in difesa dell’ostruzionismo, una scoperta assai interessante: che cioè l’ostruzionismo ha dimostrato a luce meridiana come solo l’abnegazione continua e lo spirito di sacrificio dei ferrovieri abbiano permesso il regolare funzionamento di un servizio tanto che, appena i regolamenti fossero applicati, richiederebbe un personale molto più numeroso di quello attuale. Le società ferroviarie, estorcendo un lavoro estenuante ai ferrovieri, avrebbero compiuto il miracolo di far andare innanzi le ferrovie con un numero di agenti di gran lunga inferiore a quello che sarebbe necessario per la regolarità e la sicurezza del servizio.

 

 

In verità, a sentir di queste cose, si rimane stupiti. A chi, viaggiando all’estero, si è abituato a vedere stazioni quasi deserte di quell’innumerevole stuolo di agenti, controllori, vicecontrollori, capi e sottocapi, ecc. ecc., che ingombrano le nostre stazioni, ed a non accorgersi quasi dell’esistenza del personale viaggiante, fa una curiosa impressione sentire che i ferrovieri in Italia sono troppo pochi ed, a voler far le cose per bene, dovrebbero essere aumentati. Non c’è dubbio che è giusta l’impressione del pubblico viaggiante e sono cervellotiche le affermazioni dei comitati ferroviari. Apriamo la relazione ministeriale sul disegno di legge per l’esercizio di stato e guardiamo all’ultima appendice, dove sono contenuti dati statistici di confronto fra le principali linee ferroviarie dell’Europa nel settennio 1896-1912. Su di essi abbiamo costruito, trascurando le frazioni troppo piccole, una tabellina suggestiva:

 

 

Ferrovie Coefficiente di esercizio, ossia rapporto percentuale fra le spese totali ed il prodotto lordo % della spesa del personale in confronto alla spesa totale di esercizio Spesa di personale per treno-chilometro
Rete Adriatica  

68

61

1,86

Rete Mediterranea  

71

63

2,03

Rete Sicula  

88

58

1,53

Ferr. austriache dello stato 

68

54

1,64

Ferr. bavaresi dello stato  

74

50

1,40

Ferr. sassoni dello stato  

71

53

1,97

Ferr. Wurtemberg dello stato

62

44

1,23

Ferr. badesi dello stato

70

55

1,73

Ferr. belghe dello stato

61

58

1,25

Ferr. francesi dello stato

71

43

0,93

Parigi – Lione – Mediterraneo

48

53

1,39

Compagnia francese dell’Est

54

60

1,37

Compagnia d’Orleans

47

45

1,03

Rete del Gottardo

55

45

1,53

 

 

Sappiamo benissimo che le statistiche ferroviarie sono assai difficili da maneggiare; e che occorrerebbe tener conto di molti fattori prima di pronunciare un giudizio esauriente. Ci limiteremo perciò ad affermare che in Italia il coefficiente di esercizio, ossia le spese in rapporto ai prodotti, non è uno dei meno elevati d’Europa. Vi contribuiscono molte circostanze: la infelice conformazione geografica della penisola, il caro prezzo dei carboni, le molte linee passive, ecc. Vi ha la sua parte anche la spesa del personale; poiché noi siamo, fra quelli citati, sicuramente il paese dove in media è più alta la spesa del personale in confronto alle spese totali; e dove in media è più elevata la spesa di personale per treno-chilometro. Il fatto incontrastato che in Italia si spende molto per il personale non dimostra che di personale ve n’è troppo poco ed importa ancora crescerne la spesa. Se la logica non mente, vuol dire invece che di ferrovieri ce ne sono troppi ed è possibile scemarne il numero. Né sarebbe opportuno scemarlo soltanto nell’interesse dello stato esercente le ferrovie, quantunque questo sarebbe già un vantaggio non ispregevole, dato che stato e contribuenti sono tutt’uno. Tutti – ferrovieri, pubblico e stato – debbono avere la loro parte nei benefici della diminuzione del numero degli agenti. Il comitato d’agitazione ed i socialisti non hanno pensato che il progetto Tedesco conteneva altri punti meritevoli di una assai attenta considerazione: fra i quali sono da ricordare gli articoli 58 e 59 sulla cointeressenza nelle economie e sulla partecipazione agli utili. A noi sembra che in essi sia sancito un principio altamente moderno; garantita la posizione del ferroviere, data a lui la sicurezza di una carriera progressiva – sicurezza che nessun operaio dell’industria privata ha -, assicurata la sua vecchiaia e la sorte della sua famiglia, esclusi i licenziamenti del personale esistente, sia lasciato a questo personale stesso il compito di migliorare la sua posizione.

 

 

Oggi sono 100 agenti destinati ad un servizio; domani quei 100 agenti si riducono, non per licenziamenti, ma per morti, promozioni o giubilazioni, a 95. Se questi 95 si sentono di compiere con eguale efficacia il servizio, perché ad essi non verrebbe data una parte del beneficio che l’amministrazione risentirà per il diminuito numero del personale? La tendenza dell’industria moderna è nel senso di impiegare un numero sempre più piccolo di persone a fornire quantità crescenti di servizi. Pur troppo il principio del minimo mezzo di rado si applica nelle amministrazioni dello stato, nelle quali invece ogni giorno cresce la burocrazia e questa moltiplica un lavoro inutile, fastidioso e seccante per il pubblico, allo scopo di trovare un pretesto alla propria esistenza. Anche nell’esercizio di stato delle ferrovie uno dei pericoli massimi è che ben presto le ferrovie diventino, malgrado ogni autonomia, il ricovero di un personale sovrabbondante ognora più numeroso per le raccomandazioni di deputati, di senatori e di grandi elettori. Se ben si guarda, il pericolo non esiste solo per il contribuente; esiste pure per i ferrovieri, e forse ancor più grave. Un’industria passiva per le eccessive spese di personale non può dare ad esso larghi guadagni. Saranno molti cani affamati attorno ad un osso. Perciò a noi sembra che i ferrovieri, – invece di lamentarsi con alte strida di essere in troppo pochi, facendo ridere il pubblico, – dovrebbero apparecchiarsi a trarre loro pro dalla cointeressenza nelle economie e dalla partecipazione ai profitti. Dalla cointeressenza nelle economie che l’art. 58 assegna agli agenti che riescono, senza eccedere i limiti delle ore di lavoro fissate dai regolamenti, a disimpegnare il servizio con risparmio nelle spese. Dai premi speciali conferiti al personale che con la sua opera diretta abbia contribuito a migliorare i risultati dell’esercizio, specialmente sulle ferrovie a servizio economico. Dalla partecipazione agli utili che l’art. 59 stabilisce nella misura di un terzo della differenza fra il coefficiente di esercizio previsto e il coefficiente effettivamente verificatosi, tenuto conto della spesa del carbone.

 

 

Certo, le cointeressenze ed i premi e le partecipazioni sono stabiliti con criteri alquanto complicati ed in parte incerti. D’altro canto è difficilissimo in una industria complicatissima applicare formulette semplici da contentare anche quelli che non conoscono nulla della contabilità ferroviaria. I ferrovieri potranno sempre mandare nei consigli del personale, eletti esclusivamente da essi e nella corte di arbitrato, i migliori e più colti del loro corpo a rappresentarne gli interessi. In quale stato una massa così considerevole di operai è stata chiamata a lavorare al proprio elevamento economico con altrettanta indipendenza e con fiducia così larga?

 

 



[1] Con il titolo Sono in troppi. [ndr]

Il pane municipale di Catania

Il pane municipale di Catania

«Corriere della Sera», 5 febbraio 1905

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 194-198

 

 

Son note l’aspettazione e le polemiche suscitate dal tentativo di municipalizzazione del pane fatto a Catania per iniziativa dell’on. De Felice. Il «Corriere della sera» se ne occupò ripetutamente, inviando il Barzini a fare una inchiesta sul luogo e pubblicando lettere del Buffoli. Ora il De Felice ha comunicato ai giornali, alle riviste ed agli studiosi italiani le bozze di una inchiesta eseguita, per incarico del comm. Bedendo, prefetto di Catania, dal cav. Edoardo Anceschi, consigliere delegato, e dal dott. Giuseppe Poidomani, ragioniere della prefettura di Catania. L’on. De Felice, deputato e pro sindaco, presentando ai consiglieri municipali catanesi ed al pubblico di Catania, i risultati dell’inchiesta vi appone molte sue osservazioni a discolpa, affinché la luce più ampia sia fatta sulla grave questione.

 

 

In verità noi diremmo cosa non esatta, affermando che l’inchiesta ci sia sembrata esauriente e tale da affidare in tutto gli imparziali. Innanzitutto essa non è stata compiuta in contradditorio degli avversari del partito politico defeliciano, i quali si ritirarono dalla commissione, per motivi che, a tanta distanza, non vediamo ben chiari. I due commissari, egregie e stimabili persone senza dubbio, sono amendue dipendenti dal prefetto Bedendo, il quale deve essere amico assai devoto all’on. De Felice, se si deve giudicare dalle lodi di modernità e di larghezza di vedute che questi ad ogni tratto gli tributa. I due commissari perciò – e forse è la loro sola colpa non hanno saputo sottrarsi alla tentazione di premettere alla loro inchiesta una inutile storia ad usum delphini delle origini della municipalizzazione del pane a Catania mal celando la loro avversione alla «ingorda classe dei padroni fornai» e le loro simpatie verso il «grande avvenimento» del forno municipale, trionfante traverso a mille difficoltà, rancori, accuse, pregiudizi, grazie alla «influenza personale dell’on. pro-sindaco e della sua straordinaria popolarità nelle classi operaie che hanno per lui una devozione senza confini». Avversioni e simpatie che li fanno passar sopra ai mezzi riprovevoli adoperati dal pro-sindaco per vincere la concorrenza dei padroni fornai e per istituire così una municipalizzazione sorretta dal monopolio assoluto della vendita e priva dello stimolo benefico e del paragone continuo della concorrenza privata.

 

 

Comunque sia di questa mancanza delle qualità imparziali dello storico che si può rimproverare ai due inquirenti, bisogna riconoscere che essi si sono adoperati con molta diligenza a sbrogliare la matassa intricatissima dei conti dell’azienda municipale. Quello relativo alla contabilità è uno degli appunti più gravi mossi alla municipalizzazione di Catania. Sembra che una contabilità vera e propria mancasse del tutto dal 17 ottobre 1902 al 4 aprile 1903; ed anche dopo, nel periodo dal 5 aprile 1903 al 9 luglio 1904, se qualche libro fu impiantato dal nuovo direttore del panificio, l’impianto fu insufficiente e tale da non permettere un controllo completo ed efficace. A questo vizio fondamentale sono dovute altre magagne dell’azienda, come la scomparsa di 3.020 sacchi su 140.000, di 15.407 mazzine di legna su 1.688.448, di 540,5 salme di scorza su 1.857, di 77.002 kg di pane su una produzione di 16 milioni 819.542 kg di pane, la appropriazione indebita continuata di 323 lire da parte di una guardia daziaria. Sembra che le mancanze di materie prime e di pane riscontrate dall’inchiesta non siano state dovute ad atti disonesti se non in minima parte e si riducono a deficienti metodi di registrazione del consumo di materie prime, del pane gratuito concesso agli operai, alla infelice ubicazione dei magazzini che impediva un controllo severo, al disordine dei primi tempi di organizzazione di una impresa grandiosa. Non sarebbe equo trarre argomento da questi inconvenienti per condannare la municipalizzazione del pane, tanto più che l’on. De Felice dichiara di aver dato incarico ad uno dei commissari inquirenti di modificare l’impianto della contabilità del panificio ed espone tutta una serie di controlli ora messi in azione per togliere in futuro la possibilità di ammanchi e di errori.

 

 

Si comprende come data l’imperfezione dei metodi scritturali in uso nel panificio catanese, i commissari durassero gran fatica a chiarire i risultati finanziari dell’azienda; e fu soltanto dopo molto fare e disfare conteggi complicati che essi poterono riuscire ad accertare i fatti principali e più interessanti. La tirannia dello spazio ci costringe ad essere brevissimi ed a trascurare molti dati che pure lumeggerebbero assai bene la situazione economica del panificio.

 

 

Nel primo periodo (17 ottobre 1902 – 4 aprile 1903), di organizzazione tumultuaria dell’azienda per opera di due commissioni di cittadini volonterosi, i conti si chiudono con una spesa di 1.248.195 lire e con un’entrata di 1.220.542 lire. il deficit è di 27.653 lire. Nel secondo periodo (5 aprile 1903 – 9 luglio 1904) funziona una direzione tecnica ed esiste un impianto contabile. Ciononostante il passivo è di lire 5.248.751 e l’attivo di lire 5.163.157 con un disavanzo di lire 85.594. Occorre notare però che fra le spese la commissione di inchiesta annoverò alcune che più che spese d’esercizio sono spese d’impianto, sicché, sottilizzando, il disavanzo del secondo periodo potrebbe ridursi a 15.812 lire.

 

 

Quali le cause del risultato così lontano dal primitivo miraggio di lautissimi profitti che il panificio doveva dare al comune, sì da permettere di trasformare il sistema tributario di Catania nel senso di larghi alleviamenti di tributi alle classi meno abbienti? La causa è dovuta sovratutto alle circostanze nelle quali nacque e si formò l’azienda municipale. Se si pensa che il costo totale del pane per quintale risultò nel secondo periodo di lire 31,20 e che di queste solo 24,06 rappresentano il costo delle farine, mentre la spesa media della produzione e della vendita di un quintale di pane è stata di ben lire 7,13, si rimane senz’altro convinti che a Catania si è speso troppo per gli operai e per i rivenditori. Costoro hanno assorbito lire 5,89 per quintale di pane; spesa eccessiva che i commissari ritengono potersi agevolmente ridurre a lire 4,40, con un risparmio per il panificio di 255.000 lire circa, risparmio che avrebbe convertito la perdita in un magnifico profitto. Qui è il punto debole del panificio catanese: di avere troppi operai, che non si possono licenziare perché sono essi che il De Felice volle sovratutto beneficare colla municipalizzazione; e di pagare troppo cari i rivenditori, i quali sono gli antichi padroni di forni, che il municipio indennizza in tal modo della violenta espropriazione fatta loro subire. Né il problema degli operai e dei rivenditori deve essere facile a risolvere, dovendosi necessariamente in un periodo di transizione rispettare in parte gli interessi acquisiti e non potendosi d’un tratto buttare sul lastrico molti operai, a rischio di far nascere tumulti. L’on. De Felice assicura che a grado a grado il problema sarà risoluto e già sin d’ora la spesa per la maestranza è stata ridotta; ma è facile immaginare che un’amministrazione popolare troverà qui un osso duro da rodere.

 

 

Non bisogna del resto dimenticare che, se il panificio ha chiuso i suoi conti in perdita, ha però venduto il pane ad un prezzo costantemente basso, più basso dei prezzi usati prima a Catania e di quelli vigenti ora in altre città d’Italia. Il pane di seconda qualità, ed il più usato, si vendette nel 1903 dal forno municipale da 5 a 10 centesimi di meno che nel periodo 1898-1902 quando esisteva il regime dei forni privati.

 

 

Adesso il pane di terza qualità costa 20 centesimi, mentre dal 1897 al 1901 costò da 30 a 34 centesimi, il pane di seconda qualità costa 30 centesimi invece di 36-41; quello di prima qualità 34 centesimi invece di 45-51 centesimi. Mentre ora a Catania il pane detto di prima qualità (tutto semola Taganrog e maiorche di prima qualità) costa a Catania 34 centesimi, nelle altre città italiane, secondo le tariffe comunicate dai sindaci al De Felice, i prezzi variano da 35 a 50 centesimi, con prevalenza dei prezzi sui 40-45 centesimi; mentre il prezzo del pane di seconda qualità (due terzi semola Taganrog, prima qualità, con un terzo di fiore di prima qualità) è a Catania di 30 centesimi, varia nelle altre città da 30 a 42 centesimi, con prevalenza dei prezzi intorno ai 35-37 centesimi.

 

 

Sono risultati davvero soddisfacenti, di cui l’on. De Felice ha ragione di andare orgoglioso; come pure può allietarsi dei più alti salari pagati ai suoi operai e delle migliorate condizioni igieniche dei locali di lavoro. Non altrettanto lieto egli deve essere delle risultanze dell’inchiesta rispetto alle qualità igieniche del pane municipale. È questa una delle pagine meno chiare della relazione dei due commissari. Vi si parla di molti campioni di pane avariato, scadente, acido, mal lievitato, appena tollerabile, ecc. ecc.; ma non si capisce quale sia la proporzione di questi campioni col totale del pane venduto; sicché viene il dubbio che non siano ingiustificati i lamenti che ogni tanto si odono dai catanesi sulla qualità del pane municipale.

 

 

Per ora dunque sarebbe prematuro dare un giudizio definitivo sulla municipalizzazione del pane a Catania e tanto meno sull’imitazione che altrove se ne possa fare. La nuova intrapresa municipale deve ancora lottare contro difficoltà numerose e deve migliorarsi assai se vuol raggiungere gli ideali che i suoi promotori si erano prefissi e che intendono tuttora raggiungere. I ribassi avvenuti nel prezzo del pane sono frattanto assai apprezzabili; né i difetti i quali condussero ai lamentati disavanzi dell’azienda municipale sembrano con essa tanto connaturati da non potere essere tolti. È da augurare che a Catania lo spirito civico si innalzi e si mantenga vivo abbastanza da preservare questa prima intrapresa municipale dai malanni dell’indifferentismo, della burocrazia e delle condiscendenze popolaresche che furono in passato i tarli roditori di tante consimili nobili iniziative.

 

 

Il dazio sul grano

Il dazio sul grano

«Corriere della Sera», 11 dicembre 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 189-193

 

 

A trattare il tema del dazio sul grano consigliano le recenti dichiarazioni dell’on. Majorana, ministro delle finanze. Non si può certo dire che le dichiarazioni non siano state recise e chiare: «il governo non intende né abolire, né ridurre il dazio sui grani, perché esso è istrumento validissimo di bilancio ed efficace mezzo di compensazione delle gravezze che colpiscono la nostra agricoltura». Noi, che sin dalla state avevamo dimostrato essere necessario che il governo si pronunziasse subito favorevole o contrario alla riduzione, che anche recentemente ci siamo dichiarati contrari al sistema a scala mobile dell’on. Maggiorino Ferraris, non possiamo non essere lieti che il governo abbia manifestato chiaramente il suo pensiero. Forse ha aspettato troppo; ma è meglio sapere che il dazio non si ridurrà, anche se ciò è contrario alle nostre aspirazioni ed alla politica che ameremmo meglio fosse seguita. Niun dubbio infatti che la cosa peggiore di tutte – sia per quelli che vogliono ridotto il dazio, sia per quelli che lo vogliono conservato – è la incertezza; perché la incertezza favorisce soltanto gli speculatori, trattiene l’importazione di grano estero per la speranza che il dazio venga ribassato, favorisce un rialzo artificioso di prezzi all’interno e toglie persino che i ribassi di dazio possano tradursi in ribassi di prezzi. L’esperienza del 1898 a qualche cosa ha giovato; e bene operò il Majorana dichiarando recisamente il pensiero del governo e tarpando le ali alla speculazione, la quale dall’incertezza dei propositi del governo cominciava a trarre suo pro.

 

 

Detto questo, noi dobbiamo aggiungere che avremmo desiderato che l’on. Majorana avesse invece – altrettanto recisamente, come egli fece nel senso della conservazione del dazio – annunciata la sua prossima riduzione a rata fissa ad un limite inferiore all’attuale, per esempio a cinque lire, ed avesse avvertito gli agricoltori che, permettendolo il bilancio dello stato e con opportuni preavvisi, si sarebbero operate anche altre riduzioni graduali.

 

 

In questa sentenza ci inducono motivi svariati che male si potrebbero elencare tutti in un solo articolo. Ben sappiamo che la questione è grave sia sotto l’aspetto finanziario, sia sotto quello dell’economia nazionale. Dal punto di vista del tesoro noi comprendiamo tutta la riluttanza del governo a spogliarsi di un cespite di reddito, il quale fruttava 11 milioni nel 1885-86, 16 nel 1886-87, 33 nell’anno successivo e via via saliva a 40 nel 1899-900, a 74 nel 1900-901, a 69 nel 1901-902, a 93 nel 1902-903 ed a 65 nel 1903-904. Il dazio sul grano è disgraziatamente divenuto una colonna del bilancio dello stato; e noi comprendiamo come, in un periodo in cui da tante categorie di presenti e futuri impiegati dello stato si reclamano miglioramenti di carriera e già sin d’ora si accaparrano i frutti della futura conversione della rendita, sia ardua cosa rinunciare ad un dazio che in media oramai frutta ogni anno una sessantina di milioni di lire. Ed è perciò che noi abbiamo per ora limitati i nostri desideri ad una riduzione da 7,50 a 5 lire per quintale, ossia a quella parte di introiti dello stato che i ministri del tesoro di solito non tengono in conto nelle loro previsioni, le quali debbono basarsi sulle rendite sicure e non sugli aumenti saltuari possibilissimi a verificarsi in un cespite così capriccioso come il grano. Una riduzione a 5 lire al quintale provocherebbe la sostituzione di grano estero a quella parte del grano interno che ora è prodotta in condizioni più costose, ed, almeno per alcuni anni, manterrebbe il gettito del dazio a quel minimo che ora è contemplato nelle previsioni del tesoro. Non vogliamo con ciò accennare ad un programma di riforma tributaria completa e neppure ai rapporti che la riduzione del dazio sul grano può avere con la riduzione di altri dazi, per esempio, sul petrolio o sugli zuccheri. Abbiamo voluto dire soltanto che limitandola in via normale a 20 milioni di lire la perdita dello stato non ci sembrava impossibile a sopportarsi da un bilancio, il quale accusa ogni anno avanzi maggiori; e che fin d’ora non può fare preventivo assegnamento su tutto il gettito del dazio sul grano.

 

 

La possibilità per lo stato di sopportare la perdita non sarebbe motivo sufficiente a farci concludere a favore di una riduzione del dazio sul grano, se essa non fosse richiesta nell’interesse dell’economia nazionale. Noi non possiamo esporre tutti i motivi che ci inducono in questa sentenza. Vogliamo soltanto metterne oggi in chiaro uno che a noi pare di grande importanza e che di rado ci occorse di vedere esposto da coloro i quali dell’argomento si occuparono nella stampa italiana. Il dazio sul grano fu posto cioè in Italia, come negli altri paesi europei, nel decennio 1880-1890 quando sembrava che l’Europa dovesse rimanere sommersa sotto l’inondazione di grano americano, russo, argentino, indiano a buon mercato. Era una barriera contro il mare, contro le flotte colpevoli di trasportare il grano quasi per nulla che la vecchia Europa ergeva dintorno a sé. Ora le cose sono profondamente mutate. Non è più il timore dell’«inondazione» straniera che assilla l’uomo di stato e l’indagatore; è di quando in quando la domanda insolita se e fino a quando l’Europa sovrapopolata riuscirà a trarre dai paesi nuovi il grano di che ha bisogno; è talvolta, nel 1898, l’ansia febbrile di non giungere a tempo ad approvvigionarsi sul grande mercato internazionale; è il timore ricorrente nella state del 1904 di vedere ritornare gli alti prezzi del 1898. Tutto ciò prova che la condizione del mercato mondiale del grano è mutata. Anzi quelli che a noi paiono soltanto indizi di un mutamento profondo, sembrarono ad uno dei più illustri scienziati viventi, sir William Crookes, così gravi da fargli gittare un vero grido d’allarme. Nella sessione del 1899 dell’Associazione britannica per l’avanzamento delle scienze l’inventore del radiometro, l’indagatore acuto della materia raggiante preannunciava il momento in cui non più i bassi prezzi stimoleranno I’agricoltore a raddoppiare di attività, ma le carestie mondiali lo sforzeranno a rendere più produttiva la terra a lui data in retaggio. Ricordiamo brevemente le cifre che il Crookes adduceva e che si trovano riprodotte, confermate e corredate d’altri dati in un libro di rara dottrina del prof. Italo Giglioli[1], libro che il suo autore ha avuto il solo torto di fare troppo grosso perché sia accessibile a molti lettori. La popolazione che consuma frumento va crescendo di anno in anno. Non sono soltanto gli incrementi naturali di popolazione, ma sono nuovi strati di popolo prima adusati al consumo di cereali inferiori che ogni giorno vengono ad aumentare la già numerosa schiera dei mangiatori di pane.

 

 

Secondo i calcoli del Crookes costoro erano 371 milioni nel 1871, diventarono 416 nel 1881, 472 nel 1891 e 516 milioni e mezzo nel 1898. Non solo; ma cresce altresì il consumo individuale; del cento per cento negli ultimi 25 anni in Svezia e Norvegia, dell’80% in Austria – Ungheria, del 50% nel Belgio, del20% nella Francia. Rimane stazionario il consumo soltanto in Russia, in Turchia ed in pochi altri paesi arretrati. Sinora la produzione mondiale ha tenuto dietro all’incremento del consumo; siamo passati da una produzione di 560 milioni di ettolitri nel 1871 a 800 milioni circa nel 1887-91, ad 894 nel 1892-98 ed abbiamo visto persino nel 1903 (secondo il «Bulletin des Halles») una produzione di 1078 milioni di ettolitri. Ma continuerà l’incremento? Il Crookes ha calcolato che nel 1911 la popolazione frumentivora del mondo sarà di 603 milioni, nel 1921 di 674 milioni, nel 1931 di 746 e nel 1941 di 819 milioni di persone. Saranno necessari allora – anche supposto stazionario il consumo individuale – 1.343.500.000 ettolitri di grano per alimentare tutta questa popolazione. Li avremo noi? Il Crookes ne dubita assai.

 

 

Le terre fertili accessibili a buon prezzo e con bassi costi di trasporto vanno diventando sempre più rare. Negli Stati uniti, dall’est siamo passati al centro, dal centro al nord e poi al Canadà, via via spingendoci verso regioni più fredde. Nell’Argentina la colonizzazione dalle provincie mesopotamiche di Rosario e di Santa Fé si spinge verso le Ande e verso le Pampas. Grano ne avremo ancora in abbondanza: ma le nuove quantità di esso si avranno a costi cresciuti. Questa la sintesi del pensiero del Crookes, e del libro pensato del Giglioli, il quale non è soltanto un teorico, ma un agricoltore che ha impiantato a Suessola, nella Campania felice, forse il più bel podere sperimentale d’Italia ed è ora direttore della stazione agraria di Roma. Sono conclusioni queste che fanno pensare assai e su cui noi ameremmo si aprisse larga e feconda la discussione in Italia. Poiché, se la minaccia è vera, se la semi-carestia del 1898 e i timori del 1904 non sono fatti accidentali, ma indizi di una nuova tendenza permanente dei prezzi del grano al rialzo, è chiaro che bisogna ritornare su di noi, domandarci se giovi conservare un dazio messo in tempi di temuta imminente «inondazione» di grano estero e prepararci con un sapiente impiego dei nuovi metodi agrari a lottare per il ribasso dei costi di produzione del grano.

 

 



[1] Italo Giglioli, Malessere agrario ed alimentare in Italia, Portici 1903.

I ferrovieri e l’esercizio di stato

I ferrovieri e l’esercizio di stato

«Corriere della Sera», 30 agosto 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 170-174

 

 

La pubblicazione delle notizie intorno alle gravi domande dei ferrovieri ha avuto il merito di scuotere l’opinione pubblica e di interessarla al problema ferroviario, che a molti era apparso sinora come troppo complicato e tecnico per essere accessibile ai più. Quelle domande hanno reso evidente una cosa: che cioè ad una buona risoluzione del problema ferroviario sono interessati non solo coloro che viaggiano, non solo i commercianti e gli industriali che spediscono merci, non solo i ferrovieri, ma anche i contribuenti in generale. Quando si vede che i frutti di una futura conversione della rendita, tanto agognata e tanto difficile a conseguirsi, possono essere assorbiti per i due terzi ed anche più da una minaccia di sciopero ferroviario, è mestieri concludere che occorre guardare un po’ più davvicino il problema dell’assetto delle ferrovie.

 

 

Una domanda si presenta intanto spontanea: poiché i ferrovieri sembrano d’accordo nell’invocare l’esercizio di stato, è da ritenere che questo regime sia davvero più favorevole alla loro causa che non l’esercizio privato? A seconda che la risposta è affermativa o negativa, ed a seconda che si ritiene opportuno o non procedere innanzi subito sulla via dei miglioramenti al personale ferroviario, è chiaro che si sarà tratti a favorire più l’uno o l’altra soluzione del problema ferroviario.

 

 

Le opinioni però sono tutt’altro che concordi sul punto; e chi voglia sincerarsene non ha che da riandare le risposte ottenute dal «Secolo» alla sua inchiesta sull’esercizio privato e sull’esercizio di stato. Il giornale radicale milanese ebbe ad indirizzare infatti a deputati, senatori, studiosi, alcune domande, fra cui vi era anche questa : «quale dei due sistemi (esercizio di stato o privato) meglio risponde ai diritti ed alle aspirazioni del personale ferroviario, diritti lesi e aspirazioni deluse finora, come risultò dall’inchiesta presieduta dal senatore Gagliardo?» Non si potrebbe affermare che tutti coloro i quali risposero alla domanda abbiano avuto chiara coscienza del grave problema che essi erano chiamati a risolvere. Molti – troppi specialmente fra i deputati i quali pare si ritengono dotati di una specie di infallibilità innata – credettero che bastasse esprimere semplicemente la loro opinione, senza curarsi di suffragarla con un argomento purchessia. Altri sono meno assiomatici nelle loro affermazioni.

 

 

Fra i fautori dell’esercizio di stato, l’on. Nofri ritiene che esso sarà più favorevole ai ferrovieri, riferendosi all’«oramai unanime consenso delle organizzazioni dei ferrovieri»; l’igienista on. Celli sembra ritenere che solo l’esercizio di stato possa dare un’interessenza del personale agli utili, in equa proporzione; per l’on. Marescalchi sembra chiaro come il sole il vantaggio dell’esercizio governativo «poiché il personale sarà pareggiato agli impiegati dello stato»; l’on. De Cristoforis non ha alcun dubbio al riguardo, ma come il De Marinis e il sindaco di Milano, Barinetti, non dice il motivo della sua certezza; l’on. Cao-Pinna afferma che lo stato deve provvedere (pare che secondo lui i privati non possano) «con sicurtà assoluta a tutto quanto riguarda il personale». Almeno il senatore Rossi più diffusamente si augura «che l’esercizio di stato possa migliorare le condizioni del personale ferroviario, il quale verrebbe tolto alla capricciosa disposizione delle società, interessate ad ottenere il massimo lavoro colla minima spesa, si vedrebbe assicurata la carriera e la pensione per invalidità e vecchiaia e, assunto a dignità di impiego pubblico, avrebbe quei conforti morali e quelle vie di ricorso alla superiore giustizia, che sono attualmente contesi a questi poveri paria della più grande industria del paese». L’on. Turati, è favorevole all’esercizio di stato, perché in esso la questione del personale potrebbe definitivamente risolversi mercé il sindacato obbligatorio di tutti i ferrovieri, la stipulazione di contratti collettivi di lavoro, la partecipazione agli utili, e la nomina di un collegio arbitrale collettivo. È questa la più organica e seria giustificazione della preferenza che i ferrovieri possono avere per l’esercizio di stato, trattandosi di un passo verso l’instaurazione di quel collettivismo industriale che, a torto od a ragione, i socialisti ritengono apportatore di tanti benefici. Dal suo punto di vista l’on. Turati è logico nel perseguire la idealità socialistica, ma che logica vi è – a non parlare dei non criticabili De Marinis, De Cristoforis, Barinetti – negli onorevoli Celli e Marescalchi, i quali affermano che i ferrovieri devono volere l’esercizio di stato perché così avranno l’interesse agli utili e negli onorevoli Cao-Pinna e Rossi che fanno appello alla maggiore sicurezza, alle pensioni ed ai ricorsi, quasiché in un sistema misto come l’odierno italiano non si potesse, con buone leggi, garantire tutte queste cose ai ferrovieri?

 

 

Ciò hanno visto i non numerosi fautori dell’esercizio privato che risposero all’inchiesta del «Secolo». L’on. Pavia crede infatti che in entrambi i sistemi si possono svolgere ed applicare forme di cooperazione e compartecipazione atte a soddisfare diritti e bisogni del personale. L’on. Brunialti – che ha dettato la risposta forse più vivace ed interessante dell’inchiesta, – benché fautore dell’esercizio privato, è pure recisamente favorevole ad un sistema d’esercizio che assicuri ai ferrovieri la più larga partecipazione. Secondo il senatore Vidari i diritti del personale possono essere efficacemente guarentiti pur coll’esercizio privato purché si mutino le convenzioni, il governo vigili, e il personale moderi le sue pretese. Il prof. G. Mosca, crede anche lui che con qualunque dei due sistemi sia possibile assicurare i diritti e soddisfare le legittime aspirazioni del personale ferroviario. Il dott. Calderoni è dello stesso parere; ma aggiunge essere ignoto se le aspirazioni dei ferrovieri possano essere più prontamente e facilmente soddisfatte nel caso di esercizio di stato, dove trovano un limite insormontabile nelle esigenze del bilancio.

 

 

Secondo i professori Loria e Sella la bilancia dell’utile per i ferrovieri fra i due sistemi, dipende dall’organizzazione del governo. «Se nel governo imperano – dice il Loria – le classi lavoratrici, l’attribuzione delle ferrovie allo stato trae con sé vantaggi pei ferrovieri; ma in caso diverso, costoro non ne saranno vantaggiati, anzi potranno anche essere esposti a più duri sfruttamenti. Esempio: Vittoria (Australia)». A parte l’esempio dello stato di Vittoria, dove il governo fece benissimo a resistere ad un vero ricatto dei ferrovieri, alleati agli altri impiegati dello stato, il Loria applica così il criterio fondamentale del materialismo storico. Anche il Sella fa dipendere dalla pressione che possono esercitare i ferrovieri sulle classi politiche, il dire se sarà per essi migliore l’esercizio di stato o quello privato. «In tesi generale però lo stato – aggiunge egli – tende ad aumentare la burocrazia, non a pagarla meglio. In Isvizzera i ferrovieri domandano ora (dopo il riscatto) che si conservino le condizioni esistenti prima della nazionalizzazione delle ferrovie».

 

 

In fondo in fondo questo è il motivo principale dell’«oramai unanime consentimento delle organizzazioni dei ferrovieri» a favore dell’esercizio di stato a cui accenna nella sua risposta l’on. Nofri. I ferrovieri ritengono cioè di essere tanto forti da potere imporre allo stato ed al parlamento le condizioni da essi volute per mezzo della pressione elettorale e politica, mentreché di fronte ad imprenditori privati potrebbero disporre solo dell’arma dello sciopero. Il calcolo dei ferrovieri potrebbe essere sbagliato; poiché, come osservava il dott. Calderoni nella sua risposta, alle domande dei ferrovieri vi sarebbe un limite infrangibile nel bilancio; e l’opinione pubblica, indifferente alla discesa dei dividendi delle società private, potrebbe allarmarsi di fronte ad un assalto alle casse dello stato. È grave che il problema possa essere stato posto quale un problema di forza e di capacità di sopraffare le classi politiche avversarie. Le persone temperate avrebbero invece desiderato che qualcuno almeno di coloro che risposero alla inchiesta del «Secolo», avessero posto così il problema: l’esperienza, italiana e straniera, può farci concludere se l’esercizio di stato sia più o meno favorevole dell’esercizio privato al miglioramento della classe dei ferrovieri; e se uno dei due sistemi giovi di più a che il miglioramento avvenga senza danni all’economia nazionale, senza provocare squilibrio nel seno delle classi operaie, senza pericolo di dissesto per le finanze dello stato, senza intromissioni parlamentari, ecc. ecc.? Quest’appello all’esperienza straniera non fu fatto da alcuno – salvo fugacemente ed in modo incompleto dal Sella – di coloro che risposero all’inchiesta del «Secolo». Eppure sarebbe stato il metodo migliore per dare una base di fatto a risposte che altrimenti appaiono spesso campate in aria, per quanto corrispondenti a convinzioni rispettabili ed utilissime a conoscersi, quali indici dell’opinione pubblica, sul problema più vitale del momento in Italia.

 

 

I problemi della conversione in Italia

I problemi della conversione in Italia

«Corriere della Sera», 25 agosto 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 165-169

 

 

Le discussioni sulla conversione del prestito per Roma, hanno fatto ritornare d’attualità l’argomento della grande conversione. Gli ostacoli che si sono dovuti sormontare per un piccolo prestito di 150 milioni, hanno aperti gli occhi a coloro i quali si illudevano che la conversione degli otto miliardi di rendita nostra fosse un’intrapresa facile, che si era rimandata solo per ragioni di opportunità momentanea. I fatti dimostrano invece che una conversione è sempre irta di difficoltà tecniche.

 

 

Un libro utile, piano, istruttivo di educazione del pubblico allo studio delle difficoltà delle conversioni è quello recentemente pubblicato dal De Johannis[1], su cui vale la pena di fermarsi, perché illumina assai bene il problema.

 

 

L’ostacolo principale alla conversione, è in Italia l’enorme somma di consolidato 5% lordo esistente: otto miliardi di capitale non sono piccola cosa da maneggiare. Nessuno stato mai – anche di quelli più forti di noi – ha dovuto sottoporre a conversione una massa simile di consolidato. A parecchi è quindi venuta l’idea di fare la conversione a riprese successive, in guisa da scemarne i pericoli, ed anche il De Johannis accetta quest’idea, resa attuabile dal fatto che gli 8 miliardi di consolidato si distinguono in due parti quasi uguali 3.952.300.000 di rendita nominativa ed il resto di rendita al portatore. Si potrebbe cominciare la conversione dalla rendita nominativa, di cui circa 1 miliardo è posseduto dallo stato medesimo, dalla Cassa depositi e prestiti e dalla Banca d’Italia. Siccome questi enti accetterebbero senz’altro la conversione, questa si rivolgerebbe solo a 3 miliardi posseduti da privati. Se l’operazione così diventa più facile, non è da credere possa farsi senza concedere qualche agevolezza o premio ai possessori dei titoli. Questa dei premi è certo una materia delicata, in cui le diffidenze, specialmente di quelli che sospettano sempre maneggi e illeciti lucri dell’alta banca, sono vivissime. Ma se si pensa che il Rouvier in Francia, per fare la conversione del 3,5 in 3% ha dovuto concedere agli accettanti un premio di franchi 1,62 ½ % di capitale, sembra impossibile che l’Italia per una conversione più grossa riesca a pagare meno dell’1,25%, ossia meno di 100 milioni. Se alcune recenti conversioni italiane non riuscirono affatto, come quella delle obbligazioni ferroviarie, o riuscirono non del tutto bene, come la conversione del prestito di Roma, ciò si deve in parte notevole alla meschinità dei premi offerti ai creditori, premi che spesso si ridussero a pochi centesimi. Se si vogliono fare buoni affari, bisogna sapere arrischiare qualche cosa; e 100 milioni nel caso presente non sono troppi. I 100 milioni bisognerà aggiungerli al capitale del debito, a meno che si voglia per tre anni circa rinunciare ai benefici della conversione, destinando i 35-40 milioni di risparmio di interesse ad ammortizzare il premio dei 100 milioni. Sarebbe un metodo pericoloso perché nel triennio si acuirebbero talmente gli appetiti degli aspiranti a godersi i 35 milioni di risparmio, che il governo non troverebbe poi la forza di servirsene per diminuire le imposte e dovrebbe lasciare divorare tutto il risparmio dagli aumenti di spesa. Mentreché se il risparmio andasse subito a beneficio del bilancio, si potrebbe trovar modo di iniziare qualche grande riforma tributaria.

 

 

Stabilito di dare un premio, come concederlo? Il De Johannis per la rendita nominativa, che sarebbe la prima ad essere convertita, propende ad accordare vantaggi di diversa natura. Il primo sarebbe quello che il nuovo 3,5% nominativo si pagasse non più a semestri, ma a trimestri. I possessori di titoli avrebbero così tre mesi prima meta dell’interesse, con un lucro non spregevole. Chi ricevesse 25 lire ogni trimestre invece di 50 lire ogni semestre, avrebbe un guadagno all’interesse del solo 3% – di lire 0,345 all’anno. Lo stato che anche adesso comincia ad accumulare somme molto prima delle scadenze di gennaio e luglio, ci rimetterebbe poco. Inoltre si potrebbero concedere 87 centesimi e mezzo di premio per ogni cento lire di capitale a coloro che accettassero la conversione. E finalmente si potrebbe dare ai portatori del nuovo 3,5% trimestrale nominativo la assicurazione che i loro titoli non saranno convertiti per un periodo di quattro o cinque anni maggiore del periodo che si garantirà ai possessori del nuovo 3,5 al portatore. Così si raggiungerebbe uno scopo importantissimo: frazionare il consolidato in due masse diverse: 3,5 trimestrale nominativo convertibile più tardi ad un saggio inferiore; e 3,5 semestrale al portatore convertibile più presto. Il futuro ministro del tesoro non dovrà più convertire otto miliardi d’un colpo; ma avrà la conversione naturalmente frazionata in due tempi.

 

 

Supponendo che i 4 miliardi di rendita nominativa siano convertiti, rimangono ancora circa 4.050 milioni di rendita al portatore di cui 600-650 all’estero ed il resto in Italia. Del consolidato esistente all’estero sembra che almeno 400 milioni siano in mano di banche e banchieri e di quello esistente in Italia si puoi dire lo stesso per oltre 540 milioni. È possibile approfittare di questo stato di cose per tentare un nuovo metodo di conversione? Il De Johannis dice di sì. Gli istituti bancari, o di assicurazione, o di risparmio, che in Italia ed all’estero posseggono quasi 1 miliardo di rendita al portatore, potrebbero essere invitati a far parte di un consorzio per la conversione della rendita. A quelli che presentassero alla conversione almeno 25 milioni di capitale nominale, il tesoro potrebbe dare un premio variabile di 1 lira, 1,20 e anche più, per cento, in ragione crescente, a seconda del capitale presentato. Se si fissasse un periodo di 10 giorni per questa conversione facoltativa aperta ai più grossi portatori, banche e casse andrebbero a gara nell’accaparrare titoli anche appartenenti ai privati, allo scopo di godere del premio. Finito il periodo di conversione libera, il governo vedrebbe quanta parte del consolidato al portatore rimarrebbe a convertire; e fisserebbe una data in cui i possessori dovrebbero dichiarare se accettano la conversione o preferiscono il rimborso. L’ultimo periodo di conversione non contemplerebbe che il consolidato rimasto inconvertito e riferendosi ad una cifra probabilmente inferiore ai 3 miliardi, sarebbe meno rischioso.

 

 

Quanto costerebbe e quanto frutterebbe una conversione fatta in tal guisa? Il capitale nominale del consolidato 5% ammontava al 30 giugno 1903 a lire 7.997.887.182, fruttante un interesse netto di lire 319.915.487,28.

 

 

La conversione porterebbe un’economia del mezzo per cento sulla rendita netta, ossia di lire 39.989.435,91. Questa è l’economia lorda. Supponendo la necessità di un premio dell’1,20% sul capitale, e pur sottraendo dai 7,997 milioni lire 491.968.092 di consolidato di proprietà dello stato a cui si potrebbe fare a meno di dare il premio, rimarrebbero sempre lire 7.505.901.090 da premiarsi. Sono circa 90 milioni di spesa; a cui aggiungendo 3 milioni di spese varie di conversione, si avrebbero 93 milioni di maggiore spesa.

 

 

Arrotondando la cifra in 100 milioni per far fronte ad ogni eventualità, bisogna sottrarre dall’economia lorda 3 milioni e mezzo di lire di interesse sul consolidato 3,5%, che si emetterebbe per procurare al tesoro i 100 milioni. L’economia della conversione si residua al netto a lire 36.489.435,91. È pur sempre un bel risparmio, che, massimamente se ottenuto d’un tratto, potrebbe essere adoperato per raggiungere qualche fine notabile di riforma tributaria.

 

 

Queste le proposte del De Johannis. Le abbiamo volute riassumere perché la stessa loro ingegnosità e complicazione provano che la conversione della rendita è tutt’altro che un problema facile. Altri opporrà certamente al piano del De Johannis molteplici obbiezioni: la ingiustizia di convertire prima i creditori nominativi, che pure hanno dimostrato maggior fiducia nello stato; la sconvenienza di affidarsi troppo all’alta banca. Obbiezioni importanti, sulle quali si potrà tornare quando la conversione entri nel campo concreto dei fatti. Per ora importava soltanto di illuminare il pubblico.

 

 



[1] Jean De Johannis, La conversione della rendita, Barbera, Firenze.

Le eccedenze d’impegni e la ragioneria generale dello Stato

Le eccedenze d’impegni e la ragioneria generale dello Stato

«Corriere della Sera», 23 luglio 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 161-164

 

 

Con rara sollecitudine un ordine del giorno votato il 29 giugno scorso dalla camera dei deputati, per invitare il governo a prendere i provvedimenti opportuni ad impedire in avvenire le eccedenze d’impegni, è stato già attuato; se pure si può chiamare attuazione la pubblicazione di un decreto sulla «Gazzetta ufficiale». Ad ogni modo il decreto è degno di nota e di lode per aver dato maggiore autorità alla commissione di vigilanza del parlamento, alla Corte dei conti ed al ministro del tesoro sulle eccedenze d’impegno.

 

 

È certo che se le nuove norme saranno attuate, molto sarà fatto per impedire il rinnovarsi dello sconcio delle eccedenze di spese; ma ad una condizione indispensabile: che cioè si proceda contemporaneamente alla riforma sostanziale dei nostri metodi di contabilità dello stato. Non già che le nostre leggi siano in proposito difettose o monche; difettosa e monta è la maniera con cui quelle leggi sono attuate. Chi non è addentro nella pratica degli uffici contabili centrali dura fatica a farsi un’idea chiara del punto a cui gli abusi sono giunti nella tenuta dei conti dello stato. Un articolo stato pubblicato di questi giorni da «La riforma sociale» di Torino e dovuto alla penna di un’assai competente persona che si nasconde sotto la sigla V. d’A., ci rivela infatti che qualche cosa di ben più grave di un imperfetto funzionamento si verifica nella nostra ragioneria generale ossia la sistematica e cosciente violazione della legge fondamentale di contabilità, violazione che sola ha reso fin qui possibili le eccedenze d’impegni. Quantunque non sia cosa facile, a causa del complicato linguaggio tecnico della contabilità di stato, procuriamo di spiegare in breve e chiaramente in che cosa consistano queste violazioni.

 

 

Secondo la nostra legge, la ragioneria generale dello stato dovrebbe dunque tenere un sistema di libri dal quale in ogni istante risultasse chiara la situazione rispetto alle somme stanziate per ogni capitolo, agli impegni di qualunque specie presi su questo capitolo, alle somme che si è già ordinato pagarsi ed a quelle che si sono effettivamente pagate. È chiaro che il libro più importante dovrebbe essere quello degli impegni; poiché se su un capitolo sono stanziate 10.000 lire, se ne sono impegnate già 9.000, si è ordinato il pagamento di 8.000 e se ne sono pagate 7.000, non varrebbe nulla il dire che si sono pagate solo 7.000 lire per giustificare una nuova spesa di 2.000 o 3.000 lire. Il vero si è che se ne sono impegnate 9.000 e quindi il disponibile è solo di 1.000 lire. Se la ragioneria generale tenesse al corrente giorno per giorno il libro degli impegni, essa potrebbe porre il veto agli impegni nuovi eccedenti le somme stanziate e sarebbe posto un freno assai efficace alle eccedenze di bilancio.

 

 

Disgraziatamente il libro degli impegni alla ragioneria generale dello stato non lo si tiene affatto; e per quanto la cosa possa parere incredibile, la ragioneria generale tiene in vece sua un certo informe libro, nel quale segna come impegno gli ordini di pagamento (mandati diretti, di anticipazione e a disposizione emessi e ruoli di spese fisse), dimenticando così tutti gli impegni assunti con atti e contratti di ogni genere! Soltanto se si segue il movimento degli obblighi a scadenza più o meno lunga, la contabilità degli impegni può servire di norma all’amministrazione; sono infatti gli impegni stati assunti con contratti ed altri atti amministrativi che formano quasi completamente le somme rimaste a pagare alla fine dell’esercizio e costituiscono altresì le deplorate eccedenze di spese. Si può dunque, senza tema di errare, dire col Cerboni, un antico ragioniere generale dello stato, che «oggidì la contabilità di stato non rappresenta che un amalgama complicato, pauroso ed informe di scritture e partite semplici, delle quali, non ostante i moltiplicati e dispendiosi riscontri personali, non ostante l’esercito dei revisori e degli ispettori, non ostante un dispendio rilevantissimo, è impossibile guarentire la esattezza». Da questa mancanza strana del libro degli impegni deriva che la ragioneria generale dopo la chiusura dell’esercizio (nel 1903 ciò si fece il 10 di luglio), è costretta a rivolgersi alle ragionerie dei singoli ministeri per chiedere l’elenco delle somme impegnate al 30 giugno, contentandosi di riceverlo insieme alla presentazione del rendiconto consuntivo. L’enormità della necessaria richiesta salta subito agli occhi. La ragioneria generale dovrebbe al 30 giugno sapere che su un capitolo di 10.000 lire, se ne impegnarono 9.000 a quella data; e quindi 1.000 devono andare in economia. Invece essa sa solo che si è ordinato il pagamento di 8.000 lire e che se ne sono pagate 7.000. In questo modo essa è in balia dei ministeri, dai quali va elemosinando le notizie. Ai ministeri, passato il 30 giugno, comincia una vera e propria fabbricazione di residui. Poiché la ragioneria generale dello stato non è in grado di sapere quanto resta ancora da riscuotere e da pagare su ciascun capitolo dell’esercizio, finito ma non chiuso, e quindi di esercitare un qualsiasi riscontro sulle somme residue determinate dalle varie amministrazioni, va da sé che queste non hanno alcun freno e possono segnalare somme arbitrarie come residui. Nessuno vuol rendere i fondi che ha avuti, e poiché la ragioneria generale dello stato, priva di scritture, non ha modo di riscontrare gli elenchi dei residui, si può impunemente porvi tutto ciò che si vuole. Insieme ai residui, si fabbricano le eccedenze di spese, sempre parecchi mesi dopo il 30 giugno. È curioso il modo con cui la ragioneria generale dello stato raccomanda ai ministeri di tenersi modesti in questa fabbricazione di eccedenze: «Occorre – si legge nella circolare già citata del 10 luglio 1903 – che le varie amministrazioni pongano tutta la cura possibile nel discernere ed illustrare le cause dalle quali derivano le eccedenze… procurando di eliminare… tutti quegli impegni che non rispondono ad imprescindibili bisogni del servizio o non effettivamente accertati nell’esercizio di cui si rende conto».

 

 

Siffatta prosa ufficiale è davvero stupefacente. Dunque, in un paese dove la legge impone di chiudere l’esercizio finanziario al 30 giugno, dove le spese che non sono impegnate in modo liquido e certo a quella data debbono portarsi per legge in economia, in questo paese, diciamo, non solo la ragioneria generale dello stato non sa nulla intorno all’ammontare delle somme impegnate, ma discorre delle eccedenze verificatesi nell’esercizio già chiuso come di somme che possono venire limitate dalle rispettive amministrazioni, come di cosa di cui occorra tuttora determinare l’entità! L’illegalità flagrante è eretta a sistema, bollata e cresimata col suggello dello stato.

 

 

Sperare che il decreto recentissimo sulle eccedenze d’impegni valga a sanare queste piaghe, è in parte una illusione. Quel decreto è certo provvido perché istituisce un controllo presso i singoli ministeri affinché non si compiano atti relativi a spese senza le dovute garanzie. Se ciò è provvido, non basta. In tutte le amministrazioni private si è trovato che per essere ad ogni momento in grado di conoscere la situazione dell’azienda, occorre che i libri siano tenuti al corrente giorno per giorno. Senza di ciò, immaginate quanti controlli ed ispezioni volete, e si riuscirà a ben poco. Il decreto recente si richiama ad un progetto di legge presentato alla camera il 17 marzo 1904 sul riordinamento dei servizi contabili dei vari ministeri, i quali verrebbero tutti posti alle dipendenze della ragioneria generale dello stato. Sarà anche questa una riforma assai utile, se prima si penserà a correggere i vizi di quella stessa ragioneria. Altrimenti la riforma equivarrebbe a porre un cadavere alla direzione delle ragionerie ministeriali.

 

 

Occorre dunque che le riforme felicemente iniziate vengano con coraggio condotte a compimento. L’on. Luzzatti dovrà certo, in questa intrapresa, lottare contro il misoneismo della amministrazione; ma nell’opera sua sarà sorretto dal consenso dell’opinione pubblica.

 

 

Per l’agricoltura meridionale?

Per l’agricoltura meridionale?

«Corriere della Sera», 13 giugno 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 136-139

 

 

Mentre alla camera dei deputati si approvavano, dopo un alato discorso del ministro Tedesco, le proposte governative per la costruzione della direttissima fra Roma e Napoli, giungeva notizia che il ministro Rava aveva proposto di elevare da 20 a 150.000 lire la somma già stanziata nel bilancio dell’agricoltura per incoraggiare il commercio di esportazione degli agrumi e la fabbricazione dei derivati di tali prodotti.

 

 

Noi siamo lieti che la sanzione ad un modo non buono di risollevare il mezzogiorno si accompagni coll’inizio di nuovi metodi assai più efficaci ed assai più moderni. Appunto mentre ci perveniva la notizia dell’iniziativa dell’on. Rava, leggevamo il testo dell’ultimo discorso che in maggio passato il senatore Cavasola ebbe a pronunciare al senato: per l’agricoltura meridionale. Un discorso denso di fatti e di utili suggerimenti, questo del Cavasola; ed è ad augurare che presto dia altri frutti, simili a quelli che già si vedono. Il Cavasola, che è uomo dalle vedute precise, non descrive fondo al problema meridionale; e si limita a dire al ministro d’agricoltura quante cose egli potrebbe fare per promuovere l’incremento della produzione agricola nel mezzogiorno. L’utilità di promuovere il commercio degli agrumi è evidente.

 

 

Noi parlavamo alcuni mesi fa col signor P. C. Rossi, il presidente della più forte società produttrice di vino della California: la Italian-Swiss Company, un piemontese che fa veramente onore al nostro paese; ed egli, che aveva visitato la Sicilia e il mezzogiorno, non sapeva celare il suo stupore per il modo anarchico, primitivo con cui viene condotto il commercio degli agrumi. «Se noi avessimo, egli ci diceva la materia prima bella ed abbondante che avete voi, non saremmo rimasti colle mani alla cintola ad aspettare la manna dal cielo e la liberazione dalla crisi; ma avremmo organizzato il commercio in modo scientifico come facemmo per il vino in America. Tolti gli scarti, osservata la uniformità dei tipi, la esattezza degli arrivi, la costanza nei prezzi, impedita la inutile concorrenza sulle stesse località, noi saremmo sicuri di guadagnare laddove voi perdete». Se la iniziativa dell’on. Rava otterrà qualcosa in questo senso, l’agricoltura meridionale ne trarrà certo vantaggio grandissimo. Occorre solo che i privati si scuotano e rispondano all’appello.

 

 

Molto può fare il governo, soltanto coll’incoraggiare e stimolare le iniziative private. Per la cultura della seta, che una volta prosperava nel mezzogiorno e che oggi vegeta soltanto più in scarse proporzioni nella Terra di Lavoro, non vi sarebbe motivo perché non dovesse dare nuova e grande ricchezza al mezzogiorno. Il Cavasola ha narrato nel suo discorso alcuni fatti che provano come un po’ di spinta basterebbe a cambiare lo stato delle cose al riguardo. Quando egli fu prefetto a Napoli, gli venne riferito che la cultura del gelso non rendeva. Stupitosene volle conoscere la ragione dello strano fatto; e ben presto si persuase che l’allevamento del baco non rendeva perché non si sapeva scegliere il seme e la produzione era cattiva e scarsa, di appena trenta chili per oncia di seme, e perché il prodotto veniva accaparrato a prezzo vilissimo, non più di 2 lire per chilo da un piccolo gruppo di accaparratori. Egli fece venire seme selezionato, incubatrici, distribuì norme razionali di allevamento, istituì a Casoria un mercato di bozzoli, fornendolo giornalmente dei listini dei prezzi di Voghera, Vercelli, Asti; fece costruire dal comune un forno essicatore, affinché la gente non fosse costretta a vendere quando i prezzi non fossero rimuneratori. Il risultato si fu che, fino quando il Cavasola rimase prefetto a Napoli, la foglia di gelso andava a ruba, si producevano 70 chilogrammi in media di bozzoli per oncia di seme e il prodotto si vendeva a lire 3,25 al chilogramma. Dopo di lui, ogni cosa fu abbandonata. Se le autorità pubbliche facessero un pò di quel che fece il Cavasola, e provvedessero anche, fuor della Terra di Lavoro, a favorire la costruzione di essicatori provvisori, sarebbero milioni di maggior reddito per il mezzogiorno.

 

 

Né qui è tutto. Chi ha mai pensato a diffondere notizie intorno alla sulla, una mirabile foraggiera che prospera nei climi caldi? Alcuni la tentarono; ma non riuscendo subito, smisero. Il Cavasola nota, ed a ragione, che gli insuccessi furono dovuti al fatto che non si è studiato bene il metodo di preparare bene il terreno a ricevere la sulla. Altrove si è largamente messo in pratica la teoria della fecondazione dei terreni, trapiantandovi certi microbi che si trovano nei sulleti rigogliosi. Basterebbe imitare ciò che fece il governo degli Stati uniti per i fichi. Nella California i frutticoltori erano disperati perché, dopo aver speso decine di milioni di dollari per trapiantare sui loro terreni i fichi di Smirne, questi non giungevano a maturazione. Il dipartimento di agricoltura non si scoraggiò e mandò a Smirne una commissione di scienziati; i quali, studiando ed osservando finirono per scoprire che a Smirne i fichi maturavano per un processo detto di caprificazione, ossia per la esistenza di fichi selvatici che facessero da maschio e fecondassero il fiore del fico buono. Detto fatto, si imbarca una gran quantità di fichi selvatici per la California, si diffondono a migliaia istruzioni brevi e chiare sulla caprificazione; ed oggi in California si producono fichi più gustosi e belli che a Smirne.

 

 

Paiono miracoli, ma sono un nulla di fronte a ciò che in Egitto seppero ottenere i sette ingegneri inglesi capitanati da Willcock, che dal 1882, colla irrigazione artificiale, crebbero la produzione della villata del Nilo. L’Italia meridionale non è in condizioni così favorevoli come l’Egitto; ma è almeno in condizioni eguali alla Spagna, dove colla irrigazione si ottennero risultati portentosi in terreni suppergiù egualmente accidentati come quelli del mezzogiorno. Perché il governo non si assume nemmeno la modesta iniziativa di creare nei politecnici una sezione di ingegneria agraria che sappia dedicarsi all’arte di rigenerare le terre troppo poco irrigate? Sarebbero certo denari bene spesi, meglio che non quelli sprecati per la fabbricazione di professori e di avvocati.

 

 

Con ciò non si vuol dire che il ministero di agricoltura non operi nulla; ma la sua è un’opera troppo parziale e, bisogna aggiungere, troppo clandestina. Chi conosce gli studi che si fanno nei laboratori, nei campi sperimentali, nelle scuole che il ministero sussidia? Ben pochi; mentre invece negli Stati uniti il governo nel 1901 (cito i dati dell’ultimo annuario del «Department of agriculture» che ho sott’occhio) diffuse gratuitamente ben 8 milioni di copie di 606 diverse sue pubblicazioni; e di questi otto milioni, ben 500.000 sono grossi annuari di un migliaio di pagine con splendidi articoli ed illustrazioni, e 3.345.000 sono «Farmers Bulletins», sorta di opuscoli o foglietti volanti con istruzioni pratiche agricole, diverse per le diverse regioni e per le varie culture. La maggior parte di questi opuscoli vengono dati ai senatori ed ai deputati, che li distribuiscono agli elettori.

 

 

Da noi i deputati ed i senatori crederebbero di venir meno alla propria dignità se si facessero distributori di carta stampata. Preferiscono parlare dei vantaggi politici e strategici delle direttissime e della convenienza di arrivare a Napoli un’ora e mezza più presto del solito. Mentre ciò che sovratutto importa al mezzogiorno è di crescere la produzione agricola; e le somme che si spendessero a tale scopo non sarebbero male spese.

 

 

Uno scienziato ignoto premiato dall’Accademia dei Lincei

Uno scienziato ignoto premiato dall’Accademia dei Lincei

«Corriere della Sera», 7 giugno[1] 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 140-143

 

 

Riferendo circa l’assegnazione dei quattro grandi premi reali (10.000 lire l’uno), da parte dell’Accademia dei lincei, si ricordò come il premio di filologia, su relazione del senatore Graziadio Ascoli, fosse stato conferito al professore Alfredo Trombetti, insegnante al liceo di Cuneo, per un lavoro di materia glottologica.

A proposito del prof. Trombetti riceviamo ora da un insegnante che fu suo collega a Cuneo, il seguente cenno biografico:

 

 

A Cuneo, il prof. Trombetti era ed è un mito. Gli allievi liceali rimanevano dapprima stupefatti dinanzi ai ravvicinamenti inaspettati che il professore faceva tra il latino ed il greco e gli idiomi più strani ed ignoti dell’Africa e dell’Asia. I colleghi quando andavano a trovarlo nel suo modesto alloggio fuori città, quasi in aperta campagna, lo vedevano immerso nello studio di libri rari e impenetrabili, imperturbato in mezzo al chiasso indiavolato che sette bambine gli facevano attorno. Si sapeva che il Trombetti lavorava attorno ad un’opera di lunga lena di comparazione glottologica; ma gli scettici dubitavano che quella fosse una forma di mania, come ve ne sono frequentemente in coloro che si occupano a cercare le origini delle parole. Il fatto che il Trombetti parlava poco di sé e meno ancora dei suoi meriti aveva contribuito a crescere il mistero.

 

 

A poco a poco gli amici suoi più intimi erano riusciti a scoprire cose molto interessanti sulla sua vita. Si seppe così che nel Trombetti, nato nel 1866 a Bologna da poverissimi genitori, la passione delle lingue si era sviluppata precocemente. In seconda elementare imparava il francese su una vecchia grammatica del Leibnitz, regalatagli da un amico: in terza elementare compra con cinque soldi una grammatica tedesca e di lì a poco stupisce il maestro leggendogli Lessing nell’originale. Ottenuta la licenza elementare deve imparare un mestiere; e dall’età di 8 ai 18 anni fa il commesso di negozio, l’apprendista orefice, il garzone barbiere, ecc. Ma l’amore agli studi non veniva meno in lui, pure in mezzo a queste occupazioni così poco intellettuali. Per qualche tempo si appassiona all’astronomia ed alla matematica: ed una mattina lo trovano addormentato in terra su una carta astronomica che gli aveva servito per studiare la proiezione degli astri. Ben presto però la passione per lo studio delle lingue si riaccende. Si fa insegnare il latino dal parroco del suo rione. Un giorno avendo saputo che era di passaggio a Bologna un persiano convertito alla religione evangelica gli si offre per dargli lezioni di italiano in cambio di lezioni di persiano. Passando una volta dinanzi ad una libreria antiquaria fu colpito da un fac-simile arabo che precedeva la traduzione francese della vita di Abdel-Kader. Il libraio mosso a curiosità e compassione di questo giovinetto che contemplava con tanto desiderio quelle lettere arabe, glielo imprestò e parlò poi dello strano suo cliente col Landoni ed il Rocchi, che frequentavano la sua libreria. Chiamato dinanzi ad essi, ed al Gandino, ed al Carducci, il Trombetti li fece stupire colla sua prodigiosa cultura linguistica; sicché i cinque illustri uomini credettero doveroso di facilitargli la via degli studi rilasciandogli nel dicembre 1883 una dichiarazione, così calda[2] che, in base ad essa il municipio di Bologna assegna al giovinetto una pensione annua di 600 lire per compiere i suoi studi. Nel 1891 egli ottiene con lode la laurea in lettere; ed allora comincia la sua via crucis attraverso i ginnasi ed i licei del regno. Dove lo mandano egli si ferma; e non gli viene neppure in mente che sia possibile ottenere una sede migliore per mezzo di qualche raccomandazione. Un giorno capita in ispezione in una cittadina spersa del mezzogiorno, dove il Trombetti insegnava, un suo antico professore; e, meravigliato di vederlo così privo di qualunque mezzo di studio, lo appoggiò per una sede migliore; ed è così che da 8 anni il Trombetti è al liceo di Cuneo, da cui non è mai uscito, altro che per andare a Roma questa volta a ricevere il premio reale.

 

 

In questa epoca di titolografia sfrenata, e di rapida concorrenza ai posti universitari, uno che avesse avuto anche solo il decimo delle cognizioni del Trombetti, avrebbe battuto la gran cassa e si sarebbe fatto strada. Egli invece non si è mosso; ed ha continuato e continua a vivere delle magre 200 lire al mese di stipendio di professore liceale, senza pensare ad altro. O meglio costruiva pazientemente, mattone a mattone, un grande edificio di scienza glottologica. Sono quattro volumi manoscritti in-folio, intitolati Nessi genealogici tra le lingue del mondo antico, che oggi gli hanno procurato – dietro voto unanime di una commissione di cui faceva parte l’Ascoli – il gran premio reale delle diecimila lire dei lincei. Non è qui il luogo di esporre il contenuto di quest’opera, che forse potrà far epoca nella scienza glottologica e sarà vanto della scuola italiana. Basti dire che il Trombetti vi delinea tutto un ciclo di parentela fra le più diverse lingue del mondo, che vi sono ridotte ad unità. Il Trombetti è un tenace fautore della dottrina dell’unità dell’origine delle lingue che in seguito alle sue investigazioni è oramai posta su buone basi.

 

 

Dell’importanza scientifica dell’opera non è qui possibile di parlare. Basti mettere in luce il caso singolarissimo di studioso solitario che aspetta quindici anni a cogliere il frutto delle sue fatiche: e d’un tratto balza alle cime più alte della fama scientifica. Dimostriamoci lieti che egli abbia saputo trovare giudici degni della loro missione. Par lecita una domanda: è possibile ancora lasciare uno dei primi fra i glottologi viventi alla modesta cattedra del liceo di Cuneo?

 

 

 



[1] Con il titolo Rivelazione d’uno scienziato premiato dall’Accademia dei Lincei. [ndr]

[2] La dichiarazione era così concepita:

Il giovanetto Alfredo Trombetti, bolognese, dell’età d’anni diciotto non compiuti, orfano di padre, estremamente povero, e che ha due fratelli minori accolti nel ricovero di mendicità, si è dato per naturale inclinazione allo studio delle lingue con tale sollecito profitto da potersene sperare, nel seguito di ben regolati studi, un distinto poliglotto.

Infatti, desideroso di dare un suo modesto saggio di quanto ha saputo apprendere nelle lingue, le quali chiamansi dotte, fu appositamente conchiusa un’amichevole adunanza dei qui sottoscritti la sera del 18 aprile di questo anno 1883. Alla quale presentatosi il Trombetti, e da lieta accoglienza incoraggiato, interpretò e chiosò molto accuratamente quanto gli fu messo innanzi di greco e di latino (ed anche d’inglese e di tedesco) non senza addurre, ad ogni interrogazione, la ragione filosofica ed etimologica delle frasi e delle parole che domandavano particolare schiarimento.

Fu quindi stimato soverchio il proseguire nell’esame d’altre lingue da lui sapute, come a dire della francese, della spagnuola e della portoghese, dappoiché si guardò il profitto ottenuto nelle più ardue, come guarentigia ben sufficiente di quello ch’egli deve aver raccolto nelle rispettivamente agevoli; tanto più, che offresi a prova altresì nell’ebraico e nell’arabo.

Qui si espone un fatto; e qui non si esprime né più, né meno di quel che detta la coscienza nel caso certamente straordinario, lasciando stare tutte le frasi encomiastiche, affinché sia libera da ogni ombra di coazione la umanitaria volontà di chiunque amasse il pregio di muovere spontaneo al soccorso di un giovane povero, studiosissimo, e di sicuro riuscimento.

Giosue Carducci, Gio. Battista Gandino,

Teodorico Landoni, Gino Rocchi

Bologna, 21 novembre 1883.

L’imposta sulle aree fabbricabili

L’imposta sulle aree fabbricabili

«Corriere della Sera», 26 maggio 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 133-135

 

 

In occasione di una legge d’interesse locale a favore della città di Roma, il governo ha formulato una proposta di legge che ci pare meritevole di essere rilevata, sia perché è realmente della più grande importanza, sia perché intende attuare una riforma tributaria che, per il primo in Italia, ho propugnata in alcuni articoli pubblicati nei numeri del 19 e 20 aprile e difesa nel numero del 4 maggio 1903 (vedi qui alle date) contro le obbiezioni esposte dall’egregio presidente dell’Associazione dei proprietari di case di Milano.

 

 

In quegli articoli si proponeva l’istituzione di una nuova imposta che colpisse l’aumento di valore delle aree fabbricabili nelle grandi città. C’é qui un reddito che non viene colpito da nessuna imposta. Vi sono proprietari di aree poste alla periferia delle grandi città che ogni anno ne vedono crescere il valore del 5, del 10% a causa dell’aumento della popolazione, della ricchezza, dei traffici. Perché questo aumento di valore – che è un vero reddito, ed un reddito ottenuto per giunta senza alcun sforzo dei proprietari – non dovrebbe essere colpito da una imposta uguale a quella che colpisce, ad esempio, il reddito analogo dei fabbricati? Questa la nostra proposta, che noi suffragavamo coll’esame delle controversie e dell’esperienza straniera e che illustravamo in guisa che essa non apparisse, come in realtà non è, ingiustamente confiscatrice.

 

 

Ad un anno appena di distanza il governo, per consiglio, sovratutto, crediamo, degli on. Luzzatti e Majorana, ha fatto sua la proposta che allora sottoponevamo all’esame dell’opinione pubblica. Infatti, nel disegno di legge per Roma, accanto ad altre disposizioni intese ad esentare dalle imposte le case nuove, è contenuto un articolo che «autorizza non solo il comune di Roma, ma tutti i comuni d’Italia, nei quali sia necessario promuovere la fabbricazione di nuove case, ad imporre una tassa sulle aree non fabbricate. La tassa non potrà eccedere l’un per cento del valore delle aree stesse, le quali per essere tassabili bisogna che siano comprese in una rete stradale pronta alla viabilità e che non facciano parte accessoria di edifici completi, come ad esempio cortili, giardini e ville».

 

 

Parecchie cose abbiamo da lodare nella sobria proposta. Lodevole innanzi tutto il concetto che la nuova imposta venga riservata ai comuni nei quali sia necessario promuovere la fabbricazione delle case. Dove il valore delle aree è basso, è segno che non vi è fame di case e che non occorre sollecitare la fabbricazione con stimoli legislativi e fiscali. D’altra parte solo dove esiste la fame di case imperversa l’accaparramento delle aree fabbricabili e le aree crescono di anno in anno di valore. Lodevole pure è l’esclusione dei cortili, dei giardini e delle ville dal novero delle aree tassabili. Una legge che vuole favorire il moltiplicarsi delle case non deve però distruggere i giardini e le aree alberate, veri polmoni delle grandi città. Geniale altresì il concetto – nuovo, per quanto a noi risulta, anche alla pratica forestiera – di colpire solo le aree comprese in una rete stradale pronta alla viabilità. Si tenta così di risolvere il quesito che tanto ha angustiato i riformatori inglesi: quali sono le aree che dovranno essere considerate come fabbricabili e colpite coll’imposta, e dove finiscono le terre agricole propriamente dette? Una commissione inglese d’inchiesta aveva finito per concludere che non potesse darsi una regola generale e convenisse risolvere la questione caso per caso. Probabilmente anche la definizione ministeriale delle aree fabbricabili dovrà essere intesa in un senso negativo; nel senso, cioè, che le aree non comprese in una rete stradale aperta alla viabilità non possono essere colpite dalla nuova imposta; e che quelle che ci son comprese – qualora altri elementi concorrano a farle ritenere fabbricabili – possono essere comprese. Considerarle senz’altro tutte fabbricabili potrebbe essere causa talvolta di ingiustizie.

 

 

Su un punto facciamo alcune riserve. Il progetto ministeriale dice che la nuova imposta «non potrà eccedere l’un per cento del valore delle aree stesse». Se non andiamo errati, con questa dizione non si è afferrato bene quale debba essere la base imponibile della nuova imposta. La quale, come dicemmo più su e come spiegammo ampiamente lo scorso anno, è il reddito che il proprietario di un’area ricava dall’aumento di valore dell’area stessa. Se un’area vale oggi 1.000 e domani 1.100, c’è un reddito di 100 il quale dovrebbe essere colpito da imposta. Se l’area invece continua sempre a valere 1.000, non si capisce perché l’imposta debba colpirla. Noi commetteremmo una spogliazione, da cui il legislatore dovrebbe tenersi lontano. Noi colpiremmo il proprietario solo perché non fabbrica sulla sua area; quando il proprietario può avere le sue buone ragioni per non fabbricare, ed anzi, fino a prova contraria, il fatto stesso che l’area non aumenta di valore è una prova che il bisogno di case nuove non è poi così sentito da rendere consigliabile investire capitali nella fabbricazione. Guardiamoci dunque dalle esagerazioni. L’imposta, per essere giusta, deve colpire un reddito quando c’è, ossia quando le aree aumentano di valore. Ma non deve col pretesto di impedire un accaparramento che si impedisce benissimo anche col metodo da noi indicato spingere ad ogni costo alla fabbricazione di aree stazionarie in valore. Sarebbe una provocazione artificiosa di crisi edilizie.

 

 

Sono sinceri i nostri bilanci?

Sono sinceri i nostri bilanci?

«Corriere della Sera», 13 maggio 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 129-132

 

 

L’opinione pubblica, che si è risvegliata di un tratto per il caso Nasi, rimasta stupita non solo per le malversazioni del denaro pubblico venute a galla, ma anche per il fatto stranissimo che un ministro avesse potuto impegnare il bilancio con spese da farsi negli esercizi prossimi, e con eccedenze di spese, in guisa che il nuovo ministro non sapendo più a che santo votarsi, dovrà ricorrere al partito di chiedere nuovi fondi al parlamento.

 

 

Come mai è ciò possibile? chiedono coloro, i quali sanno che esiste una legge di contabilità dello stato destinata a regolare minutamente tutta questa materia senza lasciare, almeno parrebbe, nessuna possibilità di abusi…

 

 

Eppure non solo ciò è possibile, ma avvengono normalmente cose le quali, se sono meno appariscenti, sono assai più gravi e più pericolose per i contribuenti; accade cioè che non si sappia in Italia con precisione che cosa si sia incassato o si sia speso dallo stato. Accade non solo che i consuntivi siano sempre molto diversi dai preventivi, ma che essi medesimi non abbiano neppure un significato ben preciso. Sono cose vecchie, od almeno risapute da quei pochi che in Italia hanno acquistato fama di leggere nei bilanci dello stato; e ci tornavano alla mente nel leggere un tal libro pubblicato di questi giorni dal Flaminii[1].

 

 

Il Flaminii si era già acquistato, con articoli pubblicati nell’«Archivio di diritto pubblico» del Luzzatti e più recentemente sulla «Rivista di politica e scienze sociali» del Colajanni, una bella fama di conoscitore di bilanci, che col suo volume viene definitivamente consacrata. La conclusione che emerge dai suoi scritti merita di essere ricordata: i nostri bilanci preventivi ed anche i consuntivi non sono mai sinceri. A differenza dei consuntivi inglesi, che pochi giorni dopo la chiusura dell’esercizio, al 31 marzo, ci dicono con precisione quanto è entrato e quanto è uscito dalle casse dello stato, da noi un ministro del tesoro non ci può dir nulla di simile nemmeno dopo molti mesi; ed anche quando espone qualche cifra, esse sono approssimative e lasciano il campo alle sorprese più strane. Le cause di tutto ciò sono i residui e le eccedenze di spese.

 

 

In Inghilterra i due flagelli non si conoscono. Quando un esercizio si chiude al 31 marzo, se rimangono ancora somme da riscuotere o da pagare, il consuntivo non ne tiene conto affatto. Ci si penserà nel bilancio dell’anno successivo, se si crederà che effettivamente quelle somme debbano essere riscosse o pagate. Ma frattanto l’esercizio dell’anno or ora finito si chiude senza lasciare passività o residui da liquidare. Se poi un ministero si è impegnato per somme maggiori di quelle stanziate in bilancio, queste somme non si pagano e sono messe a carico dello stanziamento dell’anno successivo.

 

 

Così, se per un capitolo è stanziato un milione, e si sono impegnate spese per 1.100.000 lire, con un’eccedenza di 100.000 lire, queste non vengono pagate e nemmeno ne viene chiesta la sanatoria al parlamento; nell’anno successivo dal solito milione stanziato si deducono anzitutto le 100.000 lire già impegnate; ed il dicastero per nuove spese ha a sua disposizione solo più 900.000 lire. Si capisce che in questo modo nessun dicastero vorrà in un anno spendere di più dello stanziato, perché sa che dovrà scontare le maggiori spese nell’anno successivo.

 

 

Invece in Italia i residui e le eccedenze sono un malanno grossissimo. Prendasi l’ultimo consuntivo pubblicato, quello relativo all’esercizio 1902-903. Le cifre riassuntive sono: Entrate riscosse, milioni 1.863, più quelle da riscuotere milioni 81, totale 1.944. Spese pagate milioni 1.664, da pagare 230, totale 1.874. Differenza attiva, ossia avanzo, milioni 70. Parrebbe chiaro ed invece è oscuro e sovratutto incerto, a causa delle entrate da riscuotere e delle spese da pagare. Finché si tratta delle entrate riscosse (1.863 milioni) e delle spese pagate (1.644), sappiamo che sono fatti avvenuti e certi e sappiamo che la loro differenza è una somma di 219 milioni di lire che si trovano effettivamente in cassa. L’incerto viene quando si passa alle entrate da riscuotere ed alle spese da pagare. Gli 81 milioni di entrate da riscuotere sono tutt’altro che crediti liquidi e di cui i debitori siano persone note; vi figurano ad esempio 142 milioni di cosidetti «rimborsi e concorsi» di cui il meno che si possa dire è che non se ne conosca assolutamente il significato e l’esigibilità. Di questi rimborsi e concorsi da parte degli enti locali se ne annullarono nel 1902-903 nientemeno che 23 milioni come inesigibili, e rimangono nei residui circa 59 milioni che non si poterono ancora esigere, e per cui un progetto di legge presentato dall’on. Di Broglio portava il termine del rimborso nientemeno che ad un secolo! Frattanto ogni anno i rimborsi e concorsi sono iscritti imperturbabilmente nelle entrate e servono ad ingrossare l’avanzo.

 

 

Peggio accade per le spese da pagare, che ammontano alla enorme cifra di 230 milioni di lire. Di esse oltre 19 milioni rappresentano le eccedenze di impegno al di là della somma bilanciata. Che cosa dovrebbero significare e che cosa significano invece queste cifre? Dovrebbero significare – è cosa chiarissima – le spese che effettivamente sono state impegnate a carico dello stanziamento di un anno e che si faranno in seguito. Si sono impostate, ad esempio, 10.000 lire su un capitolo e se ne sono spese – durante l’anno – 6.000 lire; ve ne sono ancora da pagare, per impegni presi prima della fine dell’esercizio, 1.500 lire: totale lire 7.500. Le rimanenti 2.500 lire dovrebbero andare in economia. Il ragionamento semplice non piace però alla burocrazia. Essa ragiona così: se il parlamento ha stanziato 10.000 lire per un certo capitolo, tutte quelle 10.000 devono essere spese. Quindi se anche alla chiusura dell’esercizio se ne sono spese solo 6.000 ed impegnate 1.500, non per questo si rinuncerà alle altre 2.500. Queste verranno considerate come impegnate a calcolo insieme a quelle impegnate davvero e mandate ai residui passivi. Solo così si spiega come, leggendo i consuntivi, si incontrino a centinaia capitoli in cui la somma pagata, più quella da pagare, sono eguali fino al centesimo alla somma stanziata. Come è possibile un fatto così strano e così generale? Come è possibile che nei capitoli per cui si sono stanziate 10.000 lire, vi siano precisamente 6.000 lire pagate e 4.000 lire da pagare? Egli è che l’amministrazione vuole conservare per sé fin l’ultimo centesimo della somma votata e non vuole restituir nulla all’erario. Facendo passare tutte quelle 4.000 lire come spese da pagare, l’amministrazione, nell’esercizio successivo, avrà il solito stanziamento di lire 10.000, più il residuo di 4.000 lire provenienti dall’anno precedente, e così potrà spendere di più. Se poi in un capitolo con 10.000 lire di stanziamento se ne sono invece impegnate effettivamente 12.000, le 2.000 lire in più non vengono messe a carico del bilancio dell’anno successivo, riducendolo da 10 ad 8 mila disponibili per altre spese. Mai no. Le 2.000 lire impegnate in più sono un’eccedenza, di cui alla fine dell’anno si chiederà la sanatoria al parlamento. Dinanzi al fatto compiuto, i deputati non osano sconfessare l’opera dei ministri; e così accade che in quell’anno si son spese 12.000 lire e si è mantenuto intatto lo stanziamento dell’anno successivo.

 

 

Per tal modo le economie non si fanno e si verificano eccedenze di spese, con il bel risultato che vi sono 230 milioni di spese da pagare le quali diminuiscono l’avanzo ed andranno a formare una partita di residui di carattere non ben definito, su cui le amministrazioni dello stato potranno trarre mandati per l’avvenire.

 

 

Tutto questo non accadrebbe se anche da noi si adottasse il sistema più semplice dell’Inghilterra. Sarà certo meno scientifico e perfetto; ma è l’unico, grazie al quale si riesca a sapere presto e sicuramente ciò che si è speso e ciò che si è riscosso. Da noi, per voler fare le cose alla perfezione, è accaduto che vi sono somme esatte da funzionari di stato negli anni 1872 e retro che non trovarono mai la via di entrare nelle tesorerie dello stato, e ciò nonostante da quel tempo non cessano di comparire nei conti dello stato. Sembrano cose incredibili; e provano che molto vi è da fare per ricondurre alla sincerità i nostri bilanci.

 

 



[1] De Flaminii, La materia e la forma del bilancio inglese, Roux e Viarengo editori, Torino 1904.

Un’esposizione finanziaria ammonitrice

Un’esposizione finanziaria ammonitrice

«Corriere della Sera», 21 aprile 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 125-128

 

 

Tutti i nodi vengono al pettine. L’esposizione finanziaria che il signor Austen Chamberlain, cancelliere dello scacchiere d’Inghilterra, ha fatto alla camera dei comuni il 19 aprile, è una prova di più che anche nella pubblica finanza è pericoloso volere iniziare nuovo cammino o compiere riforme prima che ne sia giunto il momento. Veramente il signor Austen Chamberlain deve pagare il fio di colpe non sue: prima e maggiore colpa, la guerra sud-africana che ha sconvolto le finanze inglesi ed ha portato un bilancio di spese che nel 1895 era di 2.545 milioni di lire italiane, alla cifra di 3 miliardi e 672 milioni di lire in tempo di pace, liquidate o quasi le pendenze della lotta col Transvaal. Ma di questa grossa colpa collettiva dell’imperialismo inglese non importa oggi discorrere, trattandosi di un fatto che nelle sue conseguenze trascende i limiti del bilancio di un anno. Importa invece mettere in luce la seconda colpa, di cui l’attuale cancelliere dello scacchiere deve sopportare la pena, come quella che può essere di qualche ammaestramento anche agli impazienti d’Italia.

 

 

Poiché la causa diretta del grosso disavanzo odierno dell’Inghilterra, di 135 milioni di lire per l’esercizio 1903-904 e di 95 milioni previsti per il bilancio 1904-905, è la riduzione d’imposta operata l’anno scorso dal cancelliere dello scacchiere Mr. Ritchie. Dinanzi alle lagnanze dei contribuenti inglesi, i quali male sopportavano l’onere cresciuto delle imposte dopo la guerra anglo-boera, il governo conservatore commise infatti l’anno scorso un atto di debolezza ed abolì il dazio sul grano e sulla farina che pure aveva reso 35 milioni di lire nostre, al tenue saggio di 1 scellino per quarter (1 lira 25 centesimi per 296 litri); e ridusse ad 11 pence per lira sterlina l’aliquota dell’imposta sul reddito. L’income tax è un’imposta che colpisce il reddito globale dei contribuenti inglesi che hanno più di 4.000 lire italiane di reddito. Quelli che hanno meno di 4.000 lire di reddito sono esenti ed anche quelli che hanno solo da 4.000 a 17.500 lire di reddito pagano su una parte appena del loro reddito. L’aliquota generale – che colpisce così integralmente solo i redditi di 17.500 lire e più – era sempre stata assai tenue: dal 1895 al 1900 di appena 8 pence (80 centesimi) per ogni lira sterlina di reddito, ossia del 3,20%. Ma la guerra anglo-boera l’aveva fatta rialzare nel 1901 ad 1 scellino per lira sterlina (5%), nel 1902 ad 1 scellino e 2 pence (5,80%), nel 1903 a 1 scellino e 3 pence (6,20%). Il signor Ritchie, riducendola l’anno scorso ad 11 pence, ossia al 4,60% del reddito, aveva soddisfatto ad un vivo desiderio dei contribuenti inglesi ed aveva osservato una regola antica della finanza britannica, secondo cui l’income tax in tempo di pace deve essere mantenuta bassa al fine di potere rialzarla in tempo di guerra.

 

 

Fra le regole della finanza ve ne è pure un’altra, secondo cui non si debbono ridurre le imposte se prima il bilancio non sia tanto solido da potere senza scosse sopportare la perdita. È vero che il signor Ritchie aveva calcolato che le entrate del 1903-905 dovessero giungere a 144.270.000 lire sterline e le spese solo a lire sterline 144.186.000.

 

 

A prescindere però dal piccolissimo margine esistente fra le due cifre, sembra che le previsioni del Ritchie fossero troppo ottimiste per le entrate e troppo ristrette per le spese. I fatti smentirono le previsioni poco serie, fatte per accattare popolarità tra i contribuenti. Le dogane per cui il Ritchie aveva previsto un aumento di 207.000 lire sterline pel 1902-903 diedero invece 583.000 lire sterline in meno. Le imposte interne sui consumi invece di 600.000 lire sterline di aumento, una diminuzione di 550.000 lire sterline; le tasse di bollo invece di 200.000 lire sterline in più, 700.000 in meno; le tasse di successione per cui si era prevista una diminuzione di 550.000 lire sterline diedero un manco di 850.000 lire sterline. In tutto, le entrate diedero circa 3 milioni di lire sterline (75 milioni di lire italiane) meno del previsto; mentre le spese raggiungevano pure una cifra di 3 milioni circa di lire sterline maggiore della prevista. Da un lato la guerra anglo-boera, per quanto liquidata nelle sue immediate conseguenze, aveva lasciata in eredità un forte incremento di spese militari e navali che tutto fa ritenere debba essere permanente. Dall’altro lato lo sviluppo della ricchezza privata, l’operosità ed il commercio dell’Inghilterra, dopo aver attraversato un brillantissimo periodo dal 1895 al 1900, cominciavano ad illanguidirsi, sì da parere in crisi. Il Ritchie avrebbe potuto persuadersene solo che avesse osservato alcuni indici ben noti del movimento economico del suo paese: ad esempio, la curva della disoccupazione. Il numero dei loro soci che le trade-unions inglesi accusavano come disoccupati era andato scemando dal 5,8% nel 1895 al 3,4 ed al 3,5% nel 1896 e 1897, al 3% nel 1898, al 2,4% nel 1899. Ma nel 1900 la curva della disoccupazione aveva ricominciato a salire: 2,9% nel 1900, 3,8% nel 1901 e 4,4% nel 1902. Questi ed altri indici consimili avrebbero dovuto rendere guardingo il cancelliere dello scacchiere, ove l’impazienza di diminuir le imposte non avesse sopraffatto ogni ragione di prudente oculatezza.

 

 

L’anno 1903 fu ancora peggiore di quelli precedenti. La percentuale dei disoccupati salì al 5,1% (nel gennaio 1904 fu di 6,75 contro 5,50% nel gennaio 1903). Le classi operaie videro diminuire i loro guadagni; su un totale di 891.000 operai, i cui salari nel 1903 furono variati in più od in meno, la perdita netta nel salario settimanale raggiunse quasi le 39.000 lire sterline, ossia 10 scellini a testa. I consumi diminuirono: e si vede il consumo del cacao estero scemare da 53,7 a 51,1 milioni di libbre, degli spiriti nazionali da 35,3 a 33,7 milioni di galloni, degli spiriti esteri da 8,7 ad 8,1, della birra da 35,2 a 34,9. Il gettito delle imposte sui consumi non poteva non risentirsene; e di qui i cattivi risultati del consuntivo 1903-904 coi suoi 135 milioni di disavanzo.

 

 

Il signor Austen Chamberlain deve ora rifare indietro il cammino percorso dal suo predecessore, riportando ad 1 scellino per lira sterlina di reddito (5%) l’aliquota dell’imposta sull’entrata ed aumentando i dazi sul tè e sul tabacco. La cosa era inevitabile; ma temiamo forte che produrrà sull’opinione pubblica un malcontento più vivo di quello che si avrebbe avuto se l’anno scorso non si fosse fatto nascere l’illusione che si apriva una nuova era di diminuzioni d’imposta. Se un anno fa si fosse saputo resistere alla tentazione di un bel gesto, oggi si sarebbe potuto ridurre l’imposta sull’entrata da 1 scellino e 3 pence ad 1 scellino e 1 penny e abolire il dazio sul grano, ancora molto inviso in Inghilterra, malgrado la campagna protezionista di Chamberlain padre, in cambio di qualche leggero aumento sul tè e sul tabacco. Nessuno avrebbe fiatato; anzi, a molti la cosa sarebbe riuscita simpatica; e non si avrebbero avuti i 135 milioni di disavanzo del 1903-904. Oggi invece al miele delle riduzioni succede l’amaro dei nuovi inasprimenti. Serva questo di avviso a coloro che vogliono le riforme per le riforme e vogliono ridurre le imposte senza pensare alle probabili conseguenze. Se l’Inghilterra, pur così ricca e potente, è costretta ad avere di questi pentimenti, che cosa sarebbe dell’Italia e della conversione del debito pubblico?

 

 

Le sorprese dell’Eritrea: grano tunisino e grano eritreo

Le sorprese dell’Eritrea: grano tunisino e grano eritreo

«Corriere della Sera», 22 marzo[1] e 8 giugno[2] 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 108-115

 

 

I

 

L’Eritrea è il paese delle sorprese. Prima erano sorprese militari; oggi sono argute iniziative di un letterato che vorrebbe emulare nella colonia i seri provvedimenti di pubblica economia onde vanno orgogliose le terre della sua natia Toscana per opera di scienziati e letterati che rispondevano ai nomi di Bandini, Capponi, Ridolfi, Lambruschini, ecc. Per attingere inspirazione a questi grandi spiriti, l’on. Martini ritorna ogni anno a passare sei o sette mesi nella sua villa di Monsummano, dando così l’esempio – unico ed inimitabile fra i governatori di tutte le colonie del mondo di un governatore che dalla madre patria governa la colonia a migliaia di chilometri di distanza. Forse nella tranquilla Monsummano il Martini attenderà a prepararci un libro sui progressi economici dell’Eritrea; e noi gli auguriamo che il libro possa gareggiare con i magnifici rapporti che lord Cromer è riuscito a mandare al parlamento britannico, dopo anni ed anni di pertinace lavoro e di diuturna permanenza, sui progressi economici e finanziari dell’Egitto. Sinora però i profani possono indovinare il contenuto di uno soltanto dei capitoli di cui si comporrà il libro del governatore letterato: di quello precisamente nel quale si farà il conto di ciò che è costato e costerà allo stato italiano il cosidetto risveglio economico eritreo. È un piccolo conticino che bisognerà aggiungere al conto grosso delle spese di guerra; ma è un conticino che può assumere proporzioni imprevedute. Sinora vi si raccolgono soltanto le partite di dare ed avere delle coltivazioni dei cavoli venduti ad Aden, dei quali il «Corriere della sera» ha raccontato la curiosa istoria alcuni giorni fa; o delle ricerche misteriose di oro, di cui non si ha più notizia da qualche tempo. Presto avremo però altre novelle: quando sarà stato approvato il progetto, tanto caro al cuore dell’on. Martini, di esenzione di dazi a favore del grano e di altri prodotti dell’Eritrea e quando i capi lega di Portomaggiore e di altri luoghi del Polesine avranno condotte le loro torme di contadini disoccupati ad occupare le libere terre dell’Asmara, non più aduggiate dall’ombra torva del capitalismo sfruttatore.

 

 

Evidentemente l’on. Martini ha studiato la storia e la pratica attuale della colonizzazione; egli sa che in Inghilterra nella prima metà del secolo XIX si imbarcavano i disoccupati ed i galeotti per i porti dell’Australia a spese dello stato e vorrebbe ripetere l’esempio classico. Egli ha studiato la legislazione coloniale della Francia e sa che molti prodotti delle più importanti colonie francesi (Guadalupa, Guiana francese, Indo-Cina, Madagascar, Martinica, Nuova Caledonia, Riunione, Algeria, ecc.), sono ammessi in esenzione di dazio nella madre patria, mentre i «coloniali» propriamente detti pagano solo la metà dell’attuale tariffa; sa che gli animali vivi, i cereali, la selvaggina, il vino, ecc., della Tunisia sono ammessi in franchigia in Francia purché la importazione non superi una determinata quantità. Né la Francia è il solo paese che abbia accordato trattamenti preferenziali alle sue colonie. Anche il Portogallo, il quale pare abbia saputo trarre mirabile partito dalle sue colonie, impone solo la metà dei dazi normali sulle importazioni coloniali, e li riduce anzi ad un terzo per il granoturco e ad un quarto per lo zucchero di Madera. Pure la Spagna usava le stesse preferenze per le sue antiche colonie di Porto Rico e di Cuba ed ora, ahimè! si duole di potere essere soltanto generosa verso alcuni prodotti delle Canarie. Gli Stati uniti d’America, ultimi giunti nell’arringo coloniale, hanno unificato col territorio americano quello di Porto Rico e delle Hawai, e percepiscono solo il 25% dei dazi soliti sulle provenienze delle Filippine; e persino il Giappone tratta come parte del proprio impero l’isola di Formosa e ne ammette le importazioni in completa esenzione di dazio.

 

 

Appoggiato a questi esempi, l’on. Martini ha indotto il ministro degli esteri a presentare un disegno di legge, in virtù del quale le importazioni di grano dell’Eritrea sarebbero ammesse in esenzione di dazio in Italia, per ora sino all’ammontare di 20.000 quintali all’anno e in seguito sino ai limiti che piacerà al governo di fissare con decreto reale quando le speciali facilitazioni alla cultura del grano – che la legge autorizzerebbe pure il governo a concedere senza dubbio per aiutare gli sforzi dei disoccupati polesani trapiantati sotto i torridi climi eritrei – avessero prodotto gli auspicati benefici effetti. Sarebbero del pari ammesse in completa esenzione di dazi, senza limitazione di quantità, il cotone in bioccoli, o in masse, la dura, il miglio, l’orzo, la saggina, il succo di aloe, la gomma e le resine, il tamarindo, il legname, il fiore di cusso e le foglie di sena, la crusca.

 

 

Francamente però ci sembra che ben altra avrebbe dovuto essere la dimostrazione di dati e di esempi necessaria a legittimare la presentazione di proposte così gravi. Lasciamo stare l’argomento della emigrazione sussidiata, su cui occorrerà tornare di proposito, ora che un po’ da tutte le parti si vuole che il commissariato dell’emigrazione sussidi gli esperimenti di colonizzazione. Sinora l’emigrazione sussidiata non ha prodotto altro fuorché disinganni e vergogne e prova ne siano i dolori dei nostri contadini attirati colla gratuità del viaggio e con promesse allettatrici nelle fazende del Brasile a sostituirvi gli ex schiavi negri liberati. Anche la convenienza di favori doganali è più che dubbia. Che la Francia, il Portogallo, la Spagna, gli Stati uniti ed il Giappone li abbiano concessi e li concedano, non è ancora motivo bastevole per indurre noi ad imitarli. I dazi di favore non tolsero che la Spagna perdesse quasi tutte le sue colonie, non impedirono la decadenza irrimediabile delle colonie portoghesi; e per gli Stati uniti ed il Giappone possono essere, più che altro, uno strumento di annessione politica di isole relativamente vicine e simili alla madre patria. Quanto alle colonie francesi, è più che dubbia per molti – e citiamo soltanto il Leroy-Beaulieu, forse il più illustre cultore di studi di questo genere in Francia che i dazi differenziali abbiano prodotto qualche effetto utile. Intanto né l’Inghilterra, né la Germania, né l’Olanda, che pur contano qualcosa fra i paesi colonizzatori più fortunati non sotto l’aspetto politico, ma sotto il rapporto commerciale, non hanno concesso nessuna preferenza alle loro colonie; ed in Inghilterra si contrasta ora a colpi d’inchieste, di statistiche e di documenti se si debba concedere una modesta preferenza del 10%.

 

 

Anche in Italia – se si voglia fare un passo su questa via – occorrerebbe seguire lo stesso sistema indagare quali siano le condizioni del commercio fra la madre patria e la colonia Eritrea; vedere se e quali coltivazioni meritino di essere eventualmente incoraggiate, e per quali motivi plausibili si debba imporre all’erario dello stato un onere non indifferente. Poiché oggi sono 150.000 lire a cui lo stato rinuncia per l’abolizione del dazio sul grano eritreo (20.000 quintali per 7,50); ma domani potranno essere molte di più e diventare anche milioni per poco che la cultura del grano e delle altre derrate ammesse in franchigia cresca. Perché lo stato, il quale molto ha speso e molto spende per l’Eritrea, dovrebbe indursi a spendere ancora di più, in una forma larvata, sottratta al voto del parlamento, senza benefizio dei consumatori che non vedranno diminuire i prezzi delle merci, e col solo vantaggio di un ristretto numero di persone a cui l’on. Martini concederà – ad arbitrio suo – il permesso di seminare grano e di importarlo franco di dazio in Italia? Sinora di motivi ne è stato addotto uno solo e curiosissimo: che cioè il grano eritreo costa 12 lire sul mercato d’Asmara, a cui aggiungendo 5,50 per il trasporto alla costa, 2,50 per il nolo, 1,50 per il facchinaggio, carico, ecc., e 7,50 di dazio, si raggiunge un costo in Italia di 27,50, superiore al prezzo corrente da noi. Perciò occorre condonare il dazio allo scopo di ridurre il costo a 20 lire e far guadagnare 5 lire al quintale a non si sa chi, forse ad una società di negozianti organizzata sotto gli auspici dell’on. Martini. Il ragionamento, non c’é che dire, legittima qualunque più ardita intrapresa di saccheggio a danno del tesoro dello stato. Se il grano costa troppo per spese di trasporto, abbiate il coraggio, on. Martini, di chiedere fondi per la costruzione della ferrovia per l’altipiano eritreo, e chiedete, se mai, mezzi per ridurre il costo dei noli per l’Italia! Almeno si saprà dove i denari andranno a finire e si vedrà di far qualcosa che possa essere utile anche sotto l’aspetto militare! Coi favori proposti è probabile si avranno nuovi disinganni e si ripeterà la storia dei muletti d’Africa. Ora di queste graziose storielle il pubblico italiano è stufo.

 

 

II

 

Dunque la giunta permanente dei trattati e tariffe ha tarpate le ali ai voli fantasiosi dell’immaginazione del governatore eritreo. Chiedeva infatti l’on. Martini che fossero ammessi in Italia, in esenzione di dazio, 20.000 quintali di grano all’anno, aumentabili in seguito sino ai limiti che sarebbe piaciuto al governo di stabilire quando si fosse allargata sull’altipiano eritreo la coltivazione cerealicola. Ma la giunta permanente – diventata forse arcigna in seguito all’insurrezione dell’opinione pubblica contro codesto larvato modo di distribuire il pubblico denaro a pretesi importatori di grano dalle terre africane – non si lasciò commuovere dalla visione superba dei campi biondeggianti di spighe laddove adesso impera il deserto ed ha sentenziato che al più dovessero essere 20.000 i quintali di grano che si potranno importare in franchigia dall’Eritrea. Se il governo coloniale vorrà estendere la cultura del grano, dovrà far presentare dal ministero degli esteri un apposito disegno di legge al parlamento, affinché questo possa giudicare a ragion veduta dei progressi della coltivazione del grano e della opportunità di sussidiarla con favori doganali.

 

 

Questo il motivo che la giunta adduce a suffragare il suo deliberato, cotanto crudele verso le speranze eritree di poter ben presto redimere l’Italia dal tributo di grano verso lo straniero. Noi dubitiamo forte che la giunta, richiedendo per ogni aumento al disopra di 20.000 quintali la presentazione di un disegno di legge, non abbia voluto che apprestare alla camera una periodica occasione di sollazzo e una gratuita maniera di istruirsi intorno ai modi inventati dall’ingegnosità umana per procacciarsi ricchezze con poca spesa.

 

 

Almeno questo è il frutto che in Francia si è ottenuto dalle discussioni parlamentari intorno all’importazione in franchigia dalla Tunisia. Anche per la Tunisia i governanti francesi ritennero – come ritenemmo noi ad imitazione loro – fosse conveniente stimolare la coltivazione del grano, dell’orzo, dell’olivo, della vite, ecc. ecc., concedendo l’esenzione in franchigia ad una certa quantità di quei prodotti introdotti in Francia. Divenuti però per antica esperienza sospettosi, i legislatori francesi vollero imporre specialissime cautele doganali per difendersi dalle frodi, e vollero, di più, che ogni anno venisse determinata dal parlamento la quantità che potesse essere introdotta in franchigia nel territorio della madre patria. Così si riteneva che la protezione non avrebbe potuto superare quei limiti che fossero effettivamente dimostrati onesti ed utili, precisamente come ora ritiene la nostra benemerita giunta dei trattati e delle tariffe, anch’essa divenuta sospettosa contro le eccessive facoltà da rilasciarsi all’on. Martini.

 

 

Difatti l’anno scorso, dopo lunga ed esauriente discussione, ministero, deputati e senatori, sentiti i rapporti sull’estendersi promettente della cultura del grano in Tunisia, erano rimasti d’accordo che la cifra del grano esportabile in franchigia di dazio dalla Tunisia nella madre patria dovesse essere fissata in 800.000 quintali: cifra certamente elevata, si diceva, in confronto al 1890, anno in cui si era iniziata la prova, ma giusta e ragionevole in base a molti fatti che oratori competenti non mancarono di rilevare celebrando i vantaggi della unione sempre più salda, cementata dai vincoli economici, ecc. ecc., fra la Tunisia e la Francia.

 

 

Siamo ad un anno di distanza. Nel 1904 la questione torna a presentarsi al parlamento per la solita formalità della fissazione della quantità di grano e di altri prodotti da esportare in esenzione di dazio. Stavolta un noiosissimo deputato, il signor Plichon, il quale forse aveva viaggiato in Tunisia e sentiva il bisogno di partecipare le sue scoperte ai colleghi, si alza e narra una storiella interessante. Che, cioè, nel 1903 la Tunisia aveva importato bensì in Francia in franchigia 800.000 quintali di grano; ma che di questi 800.000 quintali poco più della metà si produceva sul suolo della Tunisia medesima. Il miracolo di una esportazione di 800.000 quintali per mezzo di una produzione indigena di soli 450.000 avveniva in un modo semplicissimo, un po’ diverso dalle maniere antiche di compiere i miracoli, ma pure assai ingegnoso: importando 353.000 quintali di grano dall’estero e riesportandolo subito come grano tunisino.

 

 

Lo scandalo, alle rivelazioni del signor Plichon, fu grande. Subito si vide che i commercianti russi od egiziani di grano avevano trovato un mezzo assai comodo di non pagare il dazio di 7 franchi che in Francia è posto sul grano importato dall’estero: fargli fare un piccolo viaggetto di diporto in Tunisia, e fargli prendere la patente di nazionalità tunisina. Con questo metodo non solo i commercianti russi od egiziani od ungheresi non cavavano più fuori di tasca quegli antipatici 7 franchi; ma se a loro veniva in mente, dopo sbarcatolo a Marsiglia, di far macinare il grano e riesportare la farina a Genova, avevano il diritto di farsi pagare dall’erario francese un rimborso di dazio di 7 franchi. Sicuro. Perché il grano russo-tunisino non cessava, solo per non avere pagato il dazio, di essere straniero e quindi di avere diritto al rimborso di dazio che si concede a tutte le merci straniere che sono riesportate.

 

 

L’ilarità e lo scandalo furono grandi alla camera di Francia, sì che per quest’anno ogni concessione di esenzioni di dazio per la Tunisia fu sospesa, almeno insino a tanto che non si siano meglio appurati i fatti. Forse per procurare alla camera italiana da qui a dieci anni un qualche trattenimento altrettanto vario ed esilarante la nostra giunta permanente non vuole lasciare libere le mani all’on. Martini, ma desidera che egli renda conto ogni tanto dei fatti suoi al parlamento.

 

 

Senonché noi crediamo che il giuoco sia troppo pericoloso. La Tunisia è a quattro passi dalla Francia; ed è stato facile al signor Plichon, sebbene un po’ tardi, ricevere informazioni e scoprire il giochetto. In Eritrea non ci va nessuno; e che cosa obbietteranno perciò i deputati nostri, che non mettono mai il naso fuori d’Italia all’on. Martini, quando questi verrà a dimostrare che bisogna lasciar entrare in franchigia non 20, ma 100 o 200.000 quintali? Nulla. Noi crediamo dunque non convenga concedere favori a nessuno, nemmeno ai tristanzuoli primi 20.000 quintali, avanguardia di un esercito di sacchi di grano destinato ad arricchire speculatori, senza alcun vantaggio per i consumatori italiani.

 

 



[1] Con il titolo Le sorprese dell’Eritrea. [ndr]

[2] Con il titolo Grano tunisino e grano eritreo. [ndr]

Tecnicismo e parlamentarismo nel progetto sull’esercizio di stato delle ferrovie

Tecnicismo e parlamentarismo nel progetto sull’esercizio di stato delle ferrovie

«Corriere della Sera», 19 marzo[1] e 20 aprile[2] 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 116-124

 

 

I

 

Le norme predisposte nel disegno di legge preparato dal ministro Tedesco, sull’esercizio di stato delle ferrovie, sono certo meditate profondamente e frutto di larga esperienza e di dottrina non comune. Il giovane ministro dei lavori pubblici si è in tal modo dimostrato convinto della necessità di non lasciarsi cogliere alla sprovveduta nel momento in cui sarà d’uopo risolvere il problema ferroviario.

 

 

Non è facile esaminare criticamente un progetto così complesso ed organico e che tocca tanti e così momentosi punti del problema delle ferrovie. Più che critiche, le nostre vogliono quindi essere osservazioni frammentarie e domande dubitative che sorgono in noi dalla lettura del disegno di legge. Il quale si propone soprattutto di creare un’azienda autonoma, sottratta alla ingerenza ed agli arbitri del governo e del parlamento.

 

 

Tanto cattivi sono i frutti della inframmettenza parlamentare, che tutti son d’accordo nella necessità di non fornirle nuova esca coll’esercizio interamente governativo delle ferrovie. Sia l’azienda autonoma; le nomine degli impiegati sieno fatte per concorso; i viaggi gratuiti per sedicenti ragioni di servizio siano ristretti al minimo possibile; non possa la camera proporre nuove spese stravaganti o ridurre le previsioni dell’entrata. In questo modo si ovvierà ad uno dei più gravi pericoli delle aziende di stato, che esse diventino lo scaricatoio di tutti gli agenti elettorali dei deputati, il mezzo per render favore ai collegi; e che, come dice per il Belgio un testimone non sospetto, il socialista Vandervelde, si vadano a cercare per preporli alla direzione delle ferrovie «uomini politici, avvocati, che, il più sovente, non hanno altri titoli alla direzione delle locomotive nazionali che i servizi resi al loro partito».

 

 

Ma è davvero autonoma l’azienda ferroviaria quale è immaginata dall’on. Tedesco? Innanzi tutto l’azienda dovrà essere soggetta al controllo di quattro autorità diverse: del parlamento per l’approvazione dei bilanci di previsione e di assestamento e del conto consuntivo, della Corte dei conti per la legalità delle spese, del ministero dei lavori pubblici per la parte tecnica ed amministrativa, e del ministro del tesoro per la parte contabile e finanziaria. Quanto siamo lontani dall’agilità e dalla scioltezza di movimenti che dovrebbe avere un’azienda industriale! Chi può prevedere i ritardi, inevitabili, ai quali, con tutta questa organizzazione di controllo, si va incontro? Anche oggi, con gli attriti continui tra società e governo, non si cammina spediti; ma in avvenire è dubbio se il passo potrà venire accelerato.

 

 

D’altra parte, trattandosi di un’amministrazione pubblica, per quanto autonoma, non si può rinunciare al controllo della Corte dei conti. Al ministro del tesoro non si può negare il diritto di vigilare su un bilancio che può turbare l’equilibrio delle entrate e delle spese complessive dello stato. Né alla camera può sottrarsi il diritto primordiale della votazione dei bilanci, quando non si voglia creare un nuovo e gigantesco e pericolosissimo fondo segreto. Né, infine, il ministro dei lavori pubblici può essere costretto ad assumere, di fronte al paese, la responsabilità di un bilancio presentato da un suo subalterno, senza dargli almeno il diritto di proporre nuove spese od aumento di spese. A meno che non si sopprima senz’altro la dipendenza dell’azienda ferroviaria dal ministero dei lavori pubblici, creando, anche ad evitare le mutazioni frequenti di governo, un commissariato permanente direttamente responsabile dinanzi al parlamento.

 

 

Accanto alla preoccupazione dell’autonomia si ha la preoccupazione della finanza. L’on. Tedesco ha avuto paura che per motivi politici elettorali si aumentassero le spese e si diminuissero le entrate di qui le regole minute per il numero dei treni, per le tariffe, per le promozioni ed i miglioramenti d’organico del personale. L’iniziativa delle spese deve spettare al direttore generale dell’azienda, e tutt’al più il ministro può far nuove proposte, coll’obbligo di dar notizia del parere contrario del consiglio d’amministrazione delle ferrovie. Tutto ciò per legare le mani alla camera e per impedirle di commettere stravaganze. Ma si è raggiunto in tal modo l’intento? O il pericolo, una volta girato, non risorge più minaccioso di prima? La causa dell’aumento delle pubbliche spese non sta essenzialmente e direttamente nelle proposte di iniziativa dei deputati. Queste ben di rado giungono all’onore della discussione ed ancora più di rado sono approvate. La responsabilità maggiore risale al governo – al comitato della maggioranza dei deputati – che per sostenersi al potere fa sue le proposte che partendo dai singoli deputati avrebbero poco peso, le ravvalora e le presenta al parlamento. Quindi, finché si dice soltanto che la camera non può approvare nuove spese, quando non siano proposte dal governo, si dice ben poco. La camera approverà mozioni o voterà ordini del giorno per invitare il governo a proporre quelle spese che essa di sua iniziativa non può votare.

 

 

Si aggiunga un dubbio: che cosa ci sta a fare il parlamento in un’azienda, della quale il bilancio attivo è sottratto al suo controllo perché le tariffe vecchie si debbono conservare provvisoriamente, e di cui il bilancio passivo non può essere mutato in più per il divieto di votare nuove spese e difficilmente può essere mutato in meno perché gli stipendi del personale non si possono toccare, ed i prezzi del carbone, dei vagoni e delle locomotive dipendono dalle oscillazioni del mercato e non dal voto dei deputati e senatori?

 

 

Sono dubbi codesti che forse una discussione approfondita potrà risolvere; e perciò li accenniamo appena, senza svolgerli. Un ultimo dubbio ancora. Il disegno di legge provvede a tutelare le sorti del personale, ne sistema l’ammissione, ne regolarizza le promozioni, e cerca di dar ragione ai loro reclami istituendo un collegio speciale d’arbitrato. Ma come si è pensato al pubblico che viaggia e spedisce merci? Qui è il punto che sovratutto occorre chiarire, sia per i reclami, sia per le tariffe.

 

 

Per le controversie sui trasporti il disegno di legge conserva la competenza attuale dell’autorità giudiziaria; ma aggiunge che l’azienda autonoma non potrà essere condannata alle spese di lite se prima non si sia sperimentato il ricorso in via amministrativa. È un impaccio, non lieve, per coloro che hanno ragioni da far valere contro le ferrovie. Per le tariffe poco si dice: ed è a temersi che la sorveglianza del ministro del tesoro sull’azienda autonoma non si risolva in una remora continua alle diminuzioni delle tariffe a vantaggio del commercio. L’on. Giusso ebbe a dire una volta che il più grande nemico delle riduzioni tariffarie in Italia fu sempre lo stato; e la stessa cosa si può ripetere per la Germania, per il Belgio ed ora per la Svizzera. Il disegno di legge dell’on. Tedesco non elimina il dubbio che così sia anche in avvenire in Italia.

 

 

II

 

Discorrendo, subito dopo che erano stati sommariamente resi di pubblica ragione, dei principii informatori del disegno di legge dell’on. Tedesco sull’esercizio di stato, avevamo manifestato alcuni dubbi intorno alla possibilità di raggiungere quegli scopi di autonomia dell’azienda, di snellezza nell’amministrazione che sono i postulati primi di un proficuo governo delle ferrovie. I dubbi permangono anche ad una più attenta lettura del disegno di legge e della concettosa relazione che l’accompagna; ma nasce altresì la persuasione che il disegno dell’on. Tedesco si avvicini molto più di altri ad un ideale che per molte ragioni forse è irraggiungibile: ottenere coll’esercizio di stato quei medesimi fini di rapidità, di esecuzione e di indipendenza dagli influssi parlamentari che sono quasi connaturati all’esercizio privato.

 

 

Ad infondere in chi lo studia questa persuasione, il progetto Tedesco è stato aiutato singolarmente da una forse non fortuita concomitanza: la diffusione avvenuta per opera della «Federazione nazionale fra i sindacati dei ferrovieri» di un progetto di amministrazione autonoma delle strade ferrate dello stato dell’on. Quirino Nofri. Fu una vera fortuna per l’on. Tedesco che il progetto Nofri sia venuto subito a dimostrare la notevole superiorità del suo disegno.

 

 

Amendue vogliono ottenere il medesimo fine: l’autonomia dell’esercizio ferroviario di stato. Ma quanto diversi i mezzi! Per l’on. Tedesco, il fatto che l’azienda ferroviaria è di stato, non ne muta la natura di impresa da gerirsi con criteri industriali, con unità e rapidità di indirizzo, con responsabilità quasi accentrata in chi è preposto alla sua direzione. Perciò a capo di essa stia un direttore generale nominato dal ministro, il quale abbia l’iniziativa dei provvedimenti e insieme la responsabilità dell’esecuzione. Perché egli non sia un autocrate assoluto, dovrà avere allato un consiglio d’amministrazione, poco numeroso, composto di un presidente e di appena quattro membri, chiamato a dare il suo parere sulle proposte di lavori e forniture più importanti, ad approvare i contratti, a pronunciarsi sul personale, sulle disposizioni generali di servizio, sugli stanziamenti da iscriversi in bilancio, sui prelevamenti dal fondo delle spese obbligatorie e d’ordine e dal fondo di riserva per spese impreviste, sull’aggiunta dei treni oltre dati limiti, ecc.

 

 

Direttore generale e membri del consiglio d’amministrazione dovranno essere tutti residenti a Roma e tutti dovranno essere incompatibili con pubbliche cariche elettive, solo modo di sottrarre questi altissimi uffici alle più sfrenate ambizioni politiche.

 

 

Al disotto del direttore generale stanno tutti gli organi esecutivi e di controllo. Il criterio dominante è sempre quello della unità di indirizzo e della economicità della gestione. L’on. Tedesco difatti non è tenero verso i concetti di coloro che, sotto pretesto di concentrare, produrrebbero una inutile moltiplicazione di uffici. La questione più importante era se dovessero istituirsi una o più direzioni di esercizio. Dovrà, ad esempio, esservi una sola direzione a Roma coi servizi del movimento, della trazione, della manutenzione, i quali provvedano poi con uffici dipendenti distaccati nelle principali città all’effettivo andamento dell’azienda? Ovvero si dovrà dividere la rete in parecchi compartimenti con ciascuno una propria direzione di esercizio coi servizi del movimento, della trazione, ecc. ecc.? A prima vista questo secondo sistema può sembrare più consono ai postulati del decentramento e delle autonomie locali, e come tale fu adottato in Austria, in Prussia e dalla Mediterranea in Italia. Ma questa divisione in compartimenti in realtà ha portato soltanto ad una moltiplicazione di servizi ed alla necessità di istituire nel centro, presso la direzione generale, uffici intesi a mantenere uniforme per ogni ramo l’azione dei servizi nei diversi compartimenti. Donde diversi inconvenienti, principale quello di far intervenire nei particolari di servizio il direttore generale, svisandone così la caratteristica di amministratore centrale e di supremo ordinatore e confondendola in taluni casi con quella dei direttori compartimentali di esercizio, i quali alla loro volta, mancando di sufficiente autorità, devono continuamente richiedere istruzioni alla direzione generale, con grave danno alla speditezza propria dell’esercizio ferroviario e notevoli aumenti di personale. Perciò, seguendo l’esempio dell’Adriatica, della Sicula, delle ferrovie di stato della Francia e del Belgio e delle ferrovie private della Francia e dell’Inghilterra, l’on. Tedesco, nella fiducia fors’anco che l’esercizio di stato non dovrà estendersi a tutte le ferrovie italiane, propone di seguire il sistema della unicità della direzione di esercizio.

 

 

Il direttore generale, assistito così da un direttore dell’esercizio e da un ragioniere centrale per il controllo, potrà veramente dedicarsi alle sue funzioni di alta sorveglianza. Niente impedirà che l’unica direzione possa poi attribuire larghi compiti agli uffici locali. Quando si mantenga l’unità e la rapidità dell’esercizio, il decentramento è cosa possibile ed anche economica.

 

 

L’on. Nofri è partito da concetti intieramente diversi. Le sue ferrovie di stato saranno l’immagine del parlamentarismo applicato alle più grandi branche della industria moderna. Eccone i capisaldi:

 

 

La dirigenza e la sorveglianza superiore saranno affidate al parlamento per l’approvazione dei bilanci preventivi e consuntivi, dei ruoli organici del personale, dei prestiti, sussidi chilometrici, riscatto di linee private, sussidi per costruzione di nuove ferrovie, stazioni, ecc.; ed al ministro dei lavori e servizi pubblici per la compilazione del regolamento generale, sentito il consiglio del lavoro ed il consiglio di stato, la nomina di parte dei membri dei consigli generale e compartimentali di amministrazione, ecc.

 

 

Fin qui nulla di male. L’ingerenza del governo e del parlamento è forse qui più visibile che nel progetto Tedesco, ma in parte è un malanno inevitabile.

 

 

Il più bello viene dopo, col potere amministrativo affidato ad un consiglio generale di amministrazione, composto di 35 membri, di cui 19 nominati dal consiglio dei ministri, 8 dall’unione delle camere di commercio, da quella dei comizi agrari e delle rappresentanze dell’industria agraria, ed 8 dai comitati centrali delle federazioni operaie di mestiere e delle camere di lavoro ed in modo che una metà almeno faccia parte del personale della strade ferrate del regno.

 

 

In seno al consiglio generale e nelle medesime proporzioni di classe si nominerà un comitato permanente di 8 membri residenti in Roma. Il concetto dell’on. Nofri è certamente plausibile per l’intenzione di dare ai ceti interessati voce per far valere i loro diritti. Ma noi crediamo che il modo sia errato. Il commercio ha interesse ad un buon ordinamento delle ferrovie; ed i ferrovieri ad un buon ordinamento del lavoro. Questo è tutto. Si dia ai primi una larga rappresentanza in un consiglio superiore consultivo del traffico o delle tariffe ed ai secondi in un collegio dei ricorsi del personale ferroviario, come propone il Tedesco; ma basta lì. Che cosa hanno a che fare queste 35 degnissime persone ed i loro otto delegati nell’amministrazione dell’azienda ferroviaria? Qui ci vogliono tecnici e non una persona qualunque, «purché sia eletta secondo le varie norme che reggono i vari enti che hanno diritto di partecipare alla elezione» (art. 8). In pratica questi qualunque saranno – per almeno i due terzi dei membri eleggibili dal governo – deputati e senatori, per i membri operai, in parte capi dei sindacati ed in parte avvocati o deputati patroni dei ferrovieri. Gli unici tecnici saranno i rappresentanti del commercio e dell’industria; ma saranno tecnici in altri mestieri, non in ferrovie, come sarebbe necessario. Avremo molte bellissime discussioni simili a quelle che avvengono oggi in seno al consiglio superiore del lavoro o al consiglio dell’emigrazione; ma anche continui bastoni fra le ruote ai dirigenti.

 

 

Né l’invadenza dello spirito parlamentare nel disegno Nofri si ferma qui: la rete ferroviaria dello stato si dovrà dividere in sei compartimenti, per ognuno dei quali vi saranno sei consigli compartimentali di 15 membri, nominati 7 dal ministro dei lavori e servizi pubblici, 4 dalle locali camere di commercio, comizi agrari ed altre rappresentanze agrarie e 4 dalle camere di lavoro e federazioni operaie di mestiere, in modo che almeno 2 siano ferrovieri. Anche qui chiunque potrà far parte dei consigli compartimentali.

 

 

Il male non è nella creazione dei sei compartimenti, a Torino, Milano, Bologna, Firenze, Napoli e Palermo. Sono troppi è vero; ma per sé il progetto Tedesco, pur amantissimo dell’unità di indirizzo, non esclude che la rete ferroviaria italiana sia divisa in parecchie parti, essendo il progetto compilato nell’ipotesi che lo stato eserciti una parte soltanto della rete e le altre siano lasciate a società private. Forse, se il progetto Tedesco avesse previsto la possibilità di tutta la rete italiana divenuta di stato, avrebbe creato due o tre direzioni, per l’alta Italia, l’Italia peninsulare e la Sicilia. Il difetto del progetto Nofri sta nella creazione di tutti questi piccoli parlamentini locali, coi loro interessi collidenti, colle loro gelosie e coi loro attriti. Il male sta nel sottomettere a questi parlamenti, uno grande e parecchi minuti, il direttore generale e i direttori compartimentali. Il direttore generale diventa un servo del consiglio generale. Da questo deriva la sua nomina; alle sedute sue partecipa, ma con voto puramente consultivo; e ne esegue le deliberazioni. Ben poco resta di quella larga facoltà d’iniziativa e di spinta che forma uno dei pregi migliori del progetto Tedesco.

 

 

Molte altre osservazioni ancora potremmo fare sui disegni di legge Tedesco e Nofri; né vogliamo astenerci dal riconoscere che anche in quest’ultimo sono parecchi particolari bene congegnati. Sono le linee sue essenziali che ci trovano assai dubbiosi e, a guisa di contrasto, fanno eccellere la semplicità e la snellezza del sistema Tedesco. Il quale ben potrebbe essere definito il progetto di un tecnico persuaso dei benefici immensi dell’iniziativa individuale dei competenti, anche nei servizi pubblici; mentre il progetto Nofri è caratteristico di chi vuole infiltrare dappertutto, pur negli affari industriali, i criteri delle rappresentanze di classe, delle elezioni e del parlamentarismo. Quale dei due sistemi sia il migliore, è facile giudicare a chi sappia che cosa sieno industria e commercio.

 

 



[1] Con il titolo Il progetto sull’esercizio di stato delle ferrovie. [ndr]

[2] Con il titolo Tecnicismo e parlamentarismo nelle ferrovie di stato. [ndr]

L’economia pubblica veneziana dal 1736 al 1755

L’economia pubblica veneziana dal 1736 al 1755

«La Riforma Sociale», 15 marzo 1904, pp. 177-196; 15 aprile 1904, pp. 261-282; 15 giugno 1904, pp. 429-450; 15 luglio 1904, pp. 509-536

Studi di economia e finanza, Società tipografico editrice nazionale, Torino-Roma, 1907, pp. 116-207

 

 

 

 

I

L’opera da cui si traggono i dati di fatti del presente studio è una raccolta di documenti forse la più interessante che in Italia abbia visto la luce in materia di storia economica e finanziaria. L’iniziativa di questa magnifica pubblicazione spetta all’on. Luigi Luzzatti, il quale, essendo Ministro del Tesoro, nominò una «Reale Commissione per la pubblicazione dei documenti finanziarii della Repubblica di Venezia» e ad essa volle assegnare un fondo per le spese di stampa e di redazione.

 

 

Il Luzzatti, geniale sempre ed innamorato della grandezza storica di Venezia, aveva visto – pure in mezzo alle gravi occupazioni del Tesoro italiano -quale preziosa miniera di notizie e di insegnamenti si raccogliesse nella storia finanziaria della Repubblica Veneta; e nella sua perspicua e dotta relazione al Re del 16 agosto 1897, come pure nel discorso inaugurale delle sedute della Commissione il 24 ottobre 1897, aveva saputo con linguaggio smagliante additare il vantaggio che all’Italia moderna sarebbe derivato dalla conoscenza degli ordini finanziari veneti, così sagaci e così singolari. «Quantunque si tratti di opera altamente scientifica, il fine è essenzialmente pratico. Trattasi si migliorare le nostre istituzioni finanziarie ed economiche e gli ordini costituzionali della nostra contabilità di Stato». A così alto intento molto può giovare l’esempio di Venezia, la quale con l’istituzione degli Scansadori delle spese superflue e dei Deputati ed aggiunti alla provvision del denaro avea arrecato nuovo vigore alla antica usanza delle strettezze ossia delle «speciali procedure e prove e scutinii richiesti a difesa dei contribuenti prima di aggravare con nuove spese l’erario; poiché chi proponeva in Senato una spesa sopra certe materie, doveva pagare forti multe, il che era un freno grandissimo». E concludendo, il Ministro, istitutore ed ideatore della Commissione, aveva tratto i più lieti auspicii da questi studi che «ribattezzaranno nell’ambiente purificatore della nostra storia nazionale i nostri istituti costituzionali troppo informati agli esempi di Francia e d’Inghilterra ed ancora troppo poco italiani».[1]

 

 

A parole così alte e ad esortazioni così autorevoli non potevano non corrispondere degni risultamenti.

 

 

Il piano dei lavoro che la Commissione, appena nominata, si accinse a compiere è infatti vasto e grandioso. In una relazione litografata del Prof. Fabio Besta, in data 25 giugno 1898,[2] leggesi che la Commissione si propone di pubblicare tutti i documenti finanziari della Repubblica Veneta che hanno carattere generale, lasciando da parte soltanto i documenti relativi a fatti singoli di carattere personale e particolare. Fu giuocoforza addivenire a questa restrizione per la quantità enorme, o, per dir meglio, spaventosa dei documenti contenuti in quel meraviglioso Archivio dei Frari di Venezia che è certo uno dei templi più imponenti innalzati alla scienza storica nel mondo intero. Solo per i tempi più arretrati pei quali mancano le leggi e le notizie autentiche sugli istituti e sugli organi finanziari possono divenire preziosi i documenti riguardanti fatti o negozi singoli, perché da essi in mancanza di altre fonti si può per via di induzione assurgere agli ordinamenti generali.

 

 

Ma, pur così ridotta ai documenti l’indole generale, le carte da pubblicarsi formano una massa così imponente che la divisione in parti era inevitabile.

 

 

Una prima serie intitolata del Governo e tutela del pubblico denaro comprenderà perciò tutte le leggi, gli atti e le notizie che tendono a chiarire l’origine, la costituzione, le attribuzioni, i riti, l’azione effettiva, le correzioni o riforme successive dei diversi consigli, collegi o magistrati che ebbero nel corso del tempo parte nel Governo delle finanze, e conseguentemente le parti, le scritture e i ricordi che concernono la formazione graduale del patrimonio pubblico e la sua amministrazione, la deliberazione dell’imposta, la sua allibrazione ed esazione, la limitazione delle spese e la scansazione di quelle superflue, la provvisione e la disposizione del pubblico denaro, il governo delle pubbliche casse, le revisioni e regolazioni della scrittura, la resa dei conti, la investigazione delle frodi nei giri delle partite o degli intacchi alle casse. Per i volumi di di questa serie si presenta opportuna la divisione in parti, di cui la prima vada sino al 1324, anno in cui la quarantia diventa anche di diritto un sol corpo coi pregadi quando si tratta di deliberare in materia di economia e di finanza. La seconda parte andrà dal 1324 alla fine del secolo XV, quando il consiglio dei dieci coll’aggiunta prende la direzione suprema delle finanze. La terza parte, dalla fine del secolo decimoquinto giungerà sino al 1582, abbracciando il periodo che segna l’apogeo del dominio dei dieci. In quell’anno accade la correzione del consiglio dei dieci e si abolisce la sua aggiunta; e da quella data prende inizio la quarta parte che va sino alla caduta della repubblica.

 

 

Per la seconda serie intitolata Bilanci generali d’avviso e di fatto e fa-bisogno del Savio Cassier la divisione in parti non si presentava altrettanto facile, poiché un solo volume può comprendere tutti i bilanci d’avviso di cui si ha notizia e i fa bisogno sino al 1736. Quattro volumi bastano per la pubblicazione di tutti i bilanci di fatto dal 1736 al 1783 insieme con i decreti del Senato e le relazioni dei Deputati ed aggiunti alla provision del denaro. Un sesto volume sarà destinato a raccogliere le notizie generali sulle finanze dopo l’anno 1783, l’indice analitico per materie e il glossario di tutti i sei volumi.

 

 

La terza serie dal titolo: Debito Pubblico nelle sue relazioni col credito pubblico e privato comprenderà le notizie e documenti e le parti e decreti numerosissimi sugli antichi prestiti volontari od obbligatorii, sui monti, sui depositi in zecca e fuori zecca, sulla loro amministrazione la loro conversione e la loro affrancazione, e inoltre sulla moneta, sugli antichi cambisti, sui banchi pubblici di Rialto, del giro e presso i magistrati di esazione che pagavano prò (interessi) di pubblici depositi (prestiti). Tre saranno le parti di questa serie ed andranno rispettivamente la prima fino alla istituzione del monte nuovo avvenuta il 23 aprile 1482, la seconda dal 23 aprile 1482, alla fondazione del Banco di Rialto, cioè al 29 dicembre 1584, e la terza dal 29 dicembre 1584 alla fine della repubblica.

 

 

La quarta serie dei Dazi e gravezze comprenderà le notizie ed i documenti sulla origine e la formazione del patrimonio pubblico che risalgono al doge Obelerio, ciò al principio del secolo nono, sulle entrate procedenti da multe o confische di beni, e le leggi, le scritture, i ricordi tutti che si potranno avere sui dazi e le gravezze, su tutte le imposte insomma. Rispetto a questi monumenti le epoche per la divisione in parti possono trovarsi nelle leggi di istituzione delle due maggiori imposte dirette, la decima ed il campatico. La parte prima comprenderà i ricordi ed i documenti della originaria formazione del patrimonio pubblico, i patti, le promissioni, gli statuti e le leggi sino al 25 giugno 1463, data della istituzione della decima. Una seconda parte comprenderà i monumenti relativi alla istituzione delle decime del laico e di quelle del clero, alle varie redecime fatte nel corso del tempo, alle tanse, alle riforme continue degli antichi dazi, all’istituzione dei dazi nuovi e dei varii monopoli, ecc. La terza serie, che si inizierà colla istituzione del campatico nel 1665, comprenderà le leggi e le scritture sul campatico medesimo, sulle riforme delle decime e dei dazi numerosissimi e delle loro tariffe, sulla istituzione del taglione, sui sussidi delle città e luoghi sudditi, sui partiti da quell’anno infino al cadere della repubblica.

 

 

Ad ogni serie dovrà precedere una prefazione, ad ogni parte una introduzione storica; e ricchi glossari ed indici dovranno facilitare le ricerche.

 

 

Questo il piano dei lavori che con mano maestra il Prof. Besta tracciava cinque anni fa dei lavori della Commissione. Difficoltà di varia indole, bene valutabili da chi abbia pratica dei lavori d’archivio, impedirono che dei lavori diuturni della Veneta Commissione venissero prima d’oggi alla luce i frutti; ma il ritardo è ampiamente compensato dai due primi volumi, ora pubblicati, di questa raccolta veramente insigne. Vi appongono un’avvertenza il Presidente effettivo della Commissione Senatore Felele Lampertico ed una lunga introduzione il Prof. Fabio Besta.[3] Nell’avvertenza – sinteticamente classica – il Sen. Lampertico pone in luce gli insegnamenti che dai due volumi si possono ricavare rispetto alla amorosa sollecitudine dello Stato Veneziano per ripartire equamente le imposte e per ridurre, con fortunate ed abili conversioni del debito pubblico, le spese incombenti sull’erario. Nella introduzione il Besta delinea la storia dei tentativi che nella Repubblica Veneta furono fatti sin dal secolo XVI per dare ordine alla arruffatissima materia dei bilanci generali finché Gerolamo Costantini, ragioniere presso i Deputati ad aggiunti alla provision del denaro, nel 1736 condusse a termine la pubblicazione da tanto tempo desiderata e deliberata dal Senato Veneto dei bilanci delle rendite e delle spese effettivamente compiute. Egli nel 1737 in un primo libro, avente per titolo Bilanci generali delle pubbliche casse, accese dei conti a tutte le casse dei magistrati della Dominante e delle Camere e dei reggimenti della Terraferma, della Dalmazia, del Golfo e del Levante e vi trascrisse i ristretti dei loro conti relativi al 1736 epilogando in gruppi le singole intrate ed uscite. Per dare un’idea della complicazione della materia che il Costantini doveva ordinare basti dire che nel 1755 vi erano ben 213 Casse diverse nei domini della Serenissima, di cui ognuna teneva conti separati da quelli delle altre Casse ed avea con esse continui rapporti di versamenti e di incassi. Poi in un secondo libro avente per titolo Distinzione delle rendite e spese il Costantini riprodusse e classificò in numerosi conti o rubriche gli incassi e i pagamenti effettivi, non più badando alle casse in cui avvennero, sibbene alle varie fonti di rendita o cagione di spesa, insomma alla varia indole delle entrate e delle uscite. E vi pose separatamente ma omogeneamente le rendite e le spese della Dominante, quelle della Terraferma, quelle della Dalmazia, quelle del Golfo e quelle del Levante. Tra le entrate figurano le somme esistenti nelle singole casse, o, come dicevasi, i sopravanzi al principio dell’anno, e tra le uscite, i sopravanzi accertati alla fine dell’anno medesimo. Per il 1737 si provvide a compilare i due bilanci delle pubbliche casse e delle rendite e spese su appositi moduli a stampa i quali poi durarono, salvo poche modificazioni, per molti anni successivi.

 

 

A questi due registri aggiunse, pure su moduli a stampa, un Bilancio generale nel quale si epilogarono per classi e separatamente in opportuni ristretti le rendite e spese della Dominante prima, quindi quelle della Terraferma, della Dalmazia, del Levante e del Golfo, e per ultimo in un ristretto generale le rendite e spese di tutto lo Stato. Rendite e spese, si noti, non previste ma effettivamente compiutesi; diguisaché, salvo pochi scarti che qui sarebbe troppo lungo ed irrilevante ricordare, i bilanci veneti sono dei veri e propri rendiconti consuntivi e rispecchiano i fatti finanziari quali realmente si sono svolti.

 

 

Sarebbe certo interessante esaminare nei suoi particolari il sistema ideato dal Costantini per riassumere le entrate e le spese della Serenissima, sistema che il Besta nitidamente espone e grandemente loda, chiarendo inoltre le modificazioni che dopo il 1790 si apportarono nella pubblicazione dei bilanci. Ma, sia perché si tratta di notizie già egregiamente svolte dal Besta nella citata sua introduzione sia perché altro è l’argomento della presente scrittura, ci limiteremo a ricordare che nel volume III sono riprodotti integralmente i bilanci generali degli anni 1736, 1737, 1740, 1745, 1750 e 1755; e di quelli e di tutti i bilanci intermedi sono dati i ristretti e le partite che riguardano i provvedimenti straordinari, oltre alla particolareggiata distinzione dei dazi della terraferma, che nei bilanci generali erano indicati in una somma sola, in monte, per ogni singola cassa. Nel volume II sono raccolte invece, quasi a spiegazione delle cifre nudamente esposte nei bilanci generali, le scritture e relazioni dei magistrati ed i decreti del Senato che riguardano la intiera economia dello Stato ed i principali documenti che si riferiscono a rami notabili di essi. Nel volume sono perciò riprodotte tutte le scritture e relazioni generali dei deputati ed aggiunti alla provisione del denaro sui bilanci di fatto (dal 1736 al 1755), e i decreti corrispondenti del Senato[4] le scritture e i decreti sui bilanci d’avviso dei cassierati, che concernono le entrate e le spese variabili e straordinarie di maggior momento, e inoltre i documenti di ogni indole riguardanti provvedimenti straordinari e riforme complesse (ad es. aumento di imposte, alienazioni di parte del pubblico demanio e delle rendite dello Stato; accensione di debiti, conversioni ad un tasso minore degli interessi del Debito Pubblico, ecc.) per ridurre, come si diceva «l’economia pubblica in bilancio».[5]Su questo materiale greggio – bilanci di fatto, relazioni e decreti finanziarii – chi scrive vorrebbe fare un tentativo: esporre come in un quadro, le condizioni dell’Economia dello Stato veneto negli anni che volsero dal 1736 al 1755 e durante i quali furono alla Serenissima cagione di preoccupazioni politiche gravi e di angustie finanziarie inquietanti prima la neutralità armata in occasione della guerra per la successione al ducato di Parma e poi l’altra neutralità armata per la guerra di successione di Casa d’Austria.

 

 

Tentativo, si disse e non a caso; poiché un quadro compiuto dell’economia finanziaria della Repubblica Veneta non sarà possibile disegnare prima che siano pubblicati i documenti delle altre tre serie nelle quali si divide la grandiosa raccolta veneziana. I dati che ora possediamo ci permettono non tanto di fare uno studio di storia finanziaria quanto di mettere insieme degli indici preziosi per un giudizio sulla Economia pubblica e privata di Venezia nel secolo XVIII. Adesso la semiologia economica può disporre di molti dati per assorgere alla misura delle variazioni dello stato economico di un paese: dal rendimento delle imposte alle cifre del commercio internazionale, dal corso del cambio ai prezzi del consolidato, dai salari ai prezzi del pane, ecc. ecc. Per le epoche passate questa ricchezza grande – se bene talvolta pericolosa – di dati non esiste; e ben di rado è possibile imbattersi in raccolte frammentarie sufficientemente sicure di statistiche atte al illuminarci su quelle epoche. Una di queste fortune e rare occasioni ci è data dalla pubblicazione veneziana nella quale cono contenute cifre veritiere, tratte dai bilanci consuntivi di uno Stato ove esisteva una mirabile organizzazione della pubblica contabilità. Perciò basti per ora tracciare un quadro sommario sulla Economia di quei tempi. Forse fra anni parecchi – quando saranno usciti alla luce molti più volumi della Raccolta – sarà possibile compiere il quadro, entrando nel vivo dei congegni amministrativi e finanziari, di cui i bilanci ci presentano le ultime risultanze numeriche. Per ora – e sarebbe ad augurarsi che lo stesso potesse farsi per gli altri Stati italiani – ci basti gittare uno sguardo fugace sul modo in cui viveva lo Stato Veneto in un periodo che l’opinione corrente suole mettere a fascio insieme con quelli di più profonda decadenza della secolare Repubblica.

 

 

II

 

Non erano state certamente floride le condizioni delle venete finanze durante l’ultimo terzo del secolo XVII e nel primo terzo del XVIII, ossia nel periodo immediatamente anteriore a quello di cui noi ci occupiamo. Acerbamente se ne lagnavano i deputati ed aggiunti alla provvigione del denaro, sovra i cui omeri venivano a scaricarsi le richieste pressanti degli altri Magistrati a cui era affidata la difesa del territorio o l’amministrazione della cosa pubblica. «Sarà sempre argomento di meraviglia, – si legge in una loro scrittura del 28 marzo 1739 – che nel giro di questi ultimi novantadue anni, quanti sono dal 1646 sino al presente, abbia la Repubblica negli ultimi 54 del secolo decorso sostenute per sopra 40 anni due guerre ottomane, et che nel corso dei trentaotto anni del secolo presente ella abbia dovuto patire una terza guerra contro quella formidabile potenza ed inoltre due gelose armate e difficili neutralità d’Italia, la quale per l’insorte guerre è ancora tanto conturbata ed afflitta».[6]

 

 

Maraviglioso ancora più è il fatto che la Repubblica abbia potuto trovare i mezzi pecuniari per far fronte a così grave emergenze. Uscita appena dalla guerra di Candia essa si trova nel 1670 (come segna un bilancio del savio cassier di quell’anno, Marco Molin), di fronte ad un disavanzo totale di 768 mila ducati[7] all’anno, a cui aggiungendo uno sbilancio anno della mal regolata zecca, di 450 mila ducati, giungesi ad uno disavanzo totale di 1.218.000 ducati «così esorbitante, che appena si potevano cimentare per pareggiarlo le speranze nonchè le prove» (II, 54). Vi si rimediò con qualche accrescimento di rendita, ma sovratutto con «la riduttione de’ censi», ossia con la riduzione degli interessi del Debito Pubblico, riduzione probabilmente forzosa, sebbene i documenti pubblicati non siano chiari in proposito. Con questi espedienti, necessari sebbene dolorosi, il bilancio del 1679 presentato da ser Zuanne Lando, savio cassier di quell’anno, presentava un avanzo di 250 mila ducati. Ma la guerra di Morea, durata dal 1684 al 1699, la neutralità d’Italia per la guerra di successione di Spagna, cominciata nel 1700, rinnovarono lo sconcerto nelle finanze venete, sicchè ad es. dal 1700 al 1714 si dovettero fare nuovi debiti per 5 milioni di ducati; contrarre imprestanze garantite sulle decime e sui taglioni, imporre nuovi gravami per 200 mila ducati all’anno, ricorrere alle offerte volontarie, alle aggregazioni alla nobiltà, agli indulti, alla liberazione di banditi, al lotto, all’imposizione di tre soldi per lira di estimo, di un quarto soldo sul consumo dell’olio ed accrescere il prezzo dei sali e del porto delle lettere. Malgrado ciò il bilancio del 1711 presentava un disavanzo di 900 mila ducati; e non vedendosi mezzo alcuno di porvi riparo, fu giuocoforza ricorrere di nuovo all’estremo rimedio della riduzione dei censi che già nel 1699 si erano per la seconda volta ridotti dal 5 al 4 per cento. Nel 1714 gli interessi son ridotti ancora dal 4 al 2 per cento; fallimento questo che dovette sembrare dolorosissimo ai reggitori di allora, se a tanti anni di distanza, nel 1739, strappa ai deputati ed aggiunti alla provision del denaro la frase seguente: «Da questo caso ne rissulta un utile ammaestramento di riconossere quanto sia pregiudiciale il non rissanare le piaghe terminate le occasioni de dispendi, et che non vi è sorte più infelice in un principato di quella di non poter sussistere in tempo di pace senza far nuovi debiti; perché dillatandosi sempre più il male, la difficoltà del rimedio inlanguidisce le applicazioni e per risanarlo conviene poi ricorrere a quegli espedienti che feriscono ugualmente il cuore del Principe che l’interesse dei privati (II, 55)».

 

 

Ma non bastarono nemmeno le riduzioni forzose degli interessi a ridare stabile assetto alle finanze; poiché una terza guerra ottomana (1713-1718) e la seconda neutralità d’Italia per la guerra di successione al ducato di Parma (1733-1735) furono causa che si istituissero due nuovi Depositi (Casse di Debito Pubblico) detti di «macina ed oglio», si desse mano alle anticipazioni e prestanze sui proventi dei dazi e si facessero nuove aggiunte agli antichi debiti già esistenti, sicchè dal 1714 al 1729 il Debito Pubblico si accrebbe di circa 2 milioni di ducati e dal 1730 al 1739 di 5.642.650 ducati, aumentando così una somma che già doveva essere prima enorme e che può calcolarsi non fosse inferiore nel 1740 a circa 71 milioni di ducati.[8]

 

 

Somma codesta che forse potrà parere modesta in rapporto alle odierne costumanze ma che assorbiva invece la forza più viva delle rendite della Repubblica in quel tempo, tantochè è da meravigliare che la Repubblica abbia potuto dal 1714 in poi far a meno di ricorrere all’espediente della bancarotta larvata colla riduzione degli interessi del Debito Pubblico.

 

 

III

 

Quanto fosse difficile mantenere intatta la fede promessa ai creditori dello Stato, si vede dall’esame dei bilanci che Girolamo Costantini apparecchiò e che ora vedono la luce nei due nitidi volumi già ricordati. Qui non è possibile riportare, nemmeno per sunto, le entrate e le spese in tutti gli anni dal 1736 al 1755; e perciò è necessità limitarsi agli anni che furono scelti dalla Commissione veneta per la pubblicazione dei bilanci completi: 1736, 1737, 1740, 1745, 1750, 1755, di cui i due primi portano ancora le traccie della neutralità per la successione di Parma, il terzo (1740) si trova all’inizio, il quarto (1745) in mezzo, il quinto (1750) dopo la fine delle neutralità per la successione d’Austria; e l’ultimo tradisce già i notevoli miglioramenti che la pace aveva permesso di ottenere nella pubblica economia.

 

 

Fra le spese a Venezia due categorie sovratutto meritano di essere ricordate: quella per la difesa della Repubblica e quella per gli interessi (che nel linguaggio del tempo dicevansi prò) e l’ammortamento del Debito Pubblico. Sono le due cagioni massime – e tutte e due derivanti dalle medesime circostanze di guerra e di neutralità armata – di angustia per le finanze venete. Dell’ammontare di queste spese ecco un quadro riassuntivo (in ducati effettivi di otto lire venete);

 

 

 

Spese relative all’ordine militare

 

 

 

1736

 

 

1737

 

 

1740

 

 

1745

 

 

1750

 

 

1755

Venezia

814.529.10

1.008.511.23

694.249.8

693.159.3

697.220.19

789.466.18

Terraferma

1.114.181.4

589.051.10

441.959.1

1.252.637.4

435.983.8

368.675.18

Levante, intiera spesa, detratti li salariati N.N.U.U. e salariati particolari

267.975.3

227.487.15

277.084.2

209.915.19

255.240.28

318.664

Dalmazia, come sopra

142.542.4

195.749.17

148.155.12

126.981.13

132.807.5

175.528

Golfo, intiera spesa, detratti li salariati

50.871.1

40.164.18

31.336.3

27.717.8

33.326.3

28.527.18

Totale della spesa relativa all’ordine militare

2.390.098.22

2.060.965.11

1.592.784.2

2.310.410.23

1.554.578.7

1.680.862.6

 

 

Spese di Debito

Pubblico

 

Venezia, per interessi

1.781.598

1.772.709.17

1.774.675.4

1.920.335.14

1.856.957

1.867.834

Terraferma

59.657.15

86.861.9

92.595.1

60.017.13

60.615.13

67.999.2

Ammortamento del Debito Pubblico (affrancazione de capitali, maccina et oglio)

383.809.12

310.979.23

439.157.8

494.038.21

577.333.18

419.284.23

Totale della spesa pel Debito pubblico

2.225.065.3

2.170.511.1

2.306.427.13

2.474.392

2.494.906.7

2.355.118.1

 

 

Sono da notare in queste cifre la elevatezza delle somme destinate alla difesa nazionale ed al Debito Pubblico, la variabilità delle spese militari e la energia dell’ammortamento del Debito Pubblico. Dato che il ducato effettivo corrispondeva – a peso, astrazion fatta dalle quistioni di variazioni di valore della moneta – a circa lire 4.375 di moneta italiana, è facile vedere che non erano indifferenti le somme che la Repubblica consacrava a mantenere integro il territorio contro le cupidigie straniere ed a conservare alto il credito dello Stato. Anche è interessante vedere come, appena finita la guerra, i reggitori veneti provvedessero a sminuire le spese dell’esercito, sia riducendo il numero dei soldati sia facendone passare una parte dalla Terraferma nella Dalmazia e nel Levante dove le spese per il mantenimento dell’esercito erano minori che non in Terraferma. Anzi è opportuno a questo riguardo riprodurre una parte di un quadro che i Deputati ed aggiunti alla provision del denaro avevano compilato nel 1752, forse a persuadere il Senato, cogli esempi trascorsi, della opportunità di praticare economie nell’esercito in tempo di pace (II, 572). Sono le spese militari dalla fine della seconda alla fine della terza neutralità d’Italia.

 

 

1737 Fine della seconda neutralità d’Italia ……………………… 2.060.965
1738 Studio di economia ……………………………………………… 1.886.322
1739 Riforma eseguita e truppe oltre mare …………………….. 1.670.333
1740 Morte dell’imperatore Carlo V addì 12 ottobre …………. 1.592.784
1741 Terza neutralità …………………………………………………… 1.818.147
1742 Leva di 4.000 cernide ………………………………………….. 2.845.481
1743 Licenziate le dette cernide ……………………………………. 2.413.244
1744 Continua la neutralità con 20.000 teste ………………….. 2.108.412
1745 Simile come sopra ………………………………………………. 2.310.410
1746 »           »         »………………………………………….. 2.305.665
1747 »           »         »………………………………………….. 2.227.114
1748 Segue la pace ……………………………………………………. 1.973.615
1749 Riforma in 16.000 teste e truppe al di là del mare …… 1.680.056
1750 Segue la pace…………………………………………………….. 1.554.578
1751 Simile come sopra……………………………………………….. 1.611.517

 

 

Sulle somme destinate all’ammortamento del Debito Pubblico ritorneremo in seguito, quando se ne parlerà di proposito; per ora basti notare che esso era in notevolissima parte fittizio, dovendosi ogni anno ricorrere a nuovi debiti per ammortizzare il vecchio debito che pure, conformemente ai patti, volevasi estinguere. Ma questa medesima necessità di contrarre nuovi debiti poneva in difficoltà la Repubblica perché in tempi torbidi meno facile riusciva ottenere credito a buone condizioni.

 

 

Oltre a quelle per l’ordine militare e per il servizio del D.P. molte sono le spese che i rendiconti specificavano; ma per brevità qui è possibile ricordarne solo alcune, come è fatto nel quadro seguente:

 

 

 

1736

 

1737

1740

1745

1750

1755

Spese per i  provvisionati in tutta la Repubblica

101.613.13

95.724.21

107.186.7

98.972.23

116.353.5

120.860.18

Spese per i salariati

215.934.23

218.370.9

204.995.4

207.157.2

244.995.6

239.221.5

Spese per i graziati

5.842.19

4.530.4

6.141.10

4.935.20

4.772.8

3.820.1

Venezia: Urgenze d’Acque

74.833.9

69.229.19

103.352.1

71.167.2

50.550.4

62.108.16

Spese per il Bailo a Costantinopoli:

 

Lettere di cambio

32.871.18

25.168.18

50.767.11

30.613.18

31.508.23

45.541.12

Id. Salario suo e suoi ministri

4.256.20

4.078.7

3.746

4.035.19

Id. Drappo d’oro, seta e panni spediti al medesimo

2.741.21

13.999.13

9.393

16.381.6

2.887.3

Spese per gli ambasciat. e residenti all’estero: Spazzi

32.711.12

32.627.4

39.669.16

39.328.18 28.018.16 6.843.21
Id. spese ordinarie

67.880.2

74.578.21

64.924.2

56.263.18 94.449.4 64.529.5
Id. spese straordinarie

13.667.17

14.388.8

6.022.15

36.671.23 2.394.20 13.014.16
Spese per il Serenissimo Principe, Consigli e Collegi

59.422.17

58.398.3

58.664.23

58.533.11 61.880.2 60.685.13
Eccelso Consiglio dei dieci

45.362.10

46.354.21

52.281.2

42.789.7 45.559.5 56.276.7
Elemosine

13.533.6

12.852

15.565.11

17.898.23 16.893.3 13.412.10
Doni Pubblici

8.074.15

5.723.6

11.512.7

9.988.5 8.226.22 8.103.5
Ospitale della pietà

7.560.17

7.767.1

7.110.23

6.986.20 8.682.7 6.442.2
Accademia dei Nobili

3.807.17

5.491.23

4.409.6

5.256.10 5.757.18 5.593.9
Fabbriche

17.502.5

23.299.1

24.864.15

33.589.11 26.371.4 57.263.12
Carte, stampe, libri e cere

11.378.17

10.626.4

21.834.10

19.256.22 20.264.9 21.953.18
Porti di lettere ed annessi

3.254.17

4.648.18

5.667.16

9.637.15 5.249.7 6.044.18
Controllo (revisione ed appontadure)

7.156

8.047.4

6.453.1

11.096.11 9.959.9 12.168
Guardie di piazza

1.577.10

946.11

903.16

900.14 945.22 900.16
Spese di Ufficio

2.782.5

3.535.6

4.097.18

4.319.12 4.175.7 5.464.16
Spese straordinarie

8.171.9

13.661.7

46.442.1

14.510.14 26.575.22 106.256.9
Spese diverse

41.220.9

40.960.6

46.598.23

51.692.3 51.676.17 47.987.14
Deconti prestanze ed anticipazioni

98.583.16

70.549.19

64.628.10

98.411.15 85.556.2 84.193.17
Terraferma: Fabbriche

10.993.20

16.715.23

20.588

9.404.8 18.444.4 17.528.8
Elemosine

1.995.5

1.961

2.272.2

1.994.20 2.152.10 3.046.11
All’eccelso Consiglio dei Dieci

9.021.11

7.619.8

7.750.8

7.307.18 7.547.19 6.201.17
Carta e libri

1.736.3

1.798

1.365.8

1.554.22 1.022.18 1.022.4
Stampe

1.227.19

1.911.11

2.501.17

2.626.6 4.142.8 4.293.6
Deconti d’anticipazioni e prestanze

145.822.6

189.677.4

180.209

159.428.11 110.270.8 62.945.22
Mantenimento studio di Padova

26.958.6

23.167.23

26.124.13

25.667.15 21.896.1 30.544.12
Spese diverse

9.466.22

19.018.20

25.446.17

17.974.6 18.299.6 22.040.12
Id. straordinarie

10.695.11

11.050.3

22.109.12

12.934.7 20.879.18 19.943.20
Id. dei condannati alla galera

13.865.15

11.861.18

16.510.8

10.870.17 14.977.22 9.644.18
Id. di capitani di campagna coi suoi uomini

2.948.2

11.950.4

11.700

11.139.6 10.328.10 10.672.4
Id. di cavalcate 2.833.9 4.246.11 3.674.22 5.197.12 6.312.17 6.896.13
Dalmazia: Elemosine 55.14 230.20 165.17 165.8 141.15 142.20
Benemeriti e provvisionati 4.889.18 2.773 1.825.18 2.632.7 2.459 2.287.18
Spese straordinarie 5.119.12 9.277.20 6.616.14 13.491.13 9.654.17 17.408.11
Fabbriche 677.6 734.1 2.754.18 3.775.11 11.903.1
Levante: Elemosine 440.13 427.8 270.20 307.3 289.14 273.12
Benemeriti 727.4 3.055.17 989.22 2.860.3 2.776.12 2.781.3
Felucca pubblica 731.4 731.4 731.4 731.18 731.4 985.6
Straordinarie 6.047.10 8.317.3 10.825.16 11.965.20 12.271.6 14.986.6
Fabbriche 4.910 14.701.7
Golfo: Straordinarie 1.190.23 1.237.15 298.23 385.8 570.12 170.14
Diverse 24.23 333.14 158.14

 

 

Queste le spese principali, od almeno più interessanti della Repubblica nel periodo studiato. Non sarà inutile però fornire qualche particolareggiata notizia intorno ad alcune di esse.

 

 

Fra gli stipendiati notiamo il Monsignor Eletto d’Aquileja con 1.200 ducati all’anno, il console di Livorno con 480 dal 1736 al 1740 e 768 nel 1745, il Marchese Ferdinando Carlo Gonzaga con 100 e poi 300 e poi 200 e poi 700 ducati nel 1745; il Feld maresciallo (Veltz Marescial) di Scolemburg il quale dal 1736 al 1740 ricevette 25 mila ducati e nel 1745 solo più 18.750 ducati, il Tenente Generale Guglielmo di Greem a cui nel 1755 si pagavano 4.125 ducati, con notevole risparmio sullo stipendio prima pagato allo Scolemburg. Oltrecchè coi generali forestieri, la Repubblica era larga verso gli ambasciatori e residenti all’estero. L’ambasciatore a Roma riceveva per salari da 11.329.7 (1740) a 15.248.18 (1745) ducati all’anno oltre al rimborso delle spese straordinarie in ducati 1471.17 nel 1737 e D. 727.17 nel 1745 ed allo spazzo[9] di D. 5310.12 nel 1740 D., 3517.13 nel 1750, e D. 105 nel 1755. Quello di Vienna aveva da D. 10.383.14 (1750) a D. 13.850.21 (1740) di salario; e gli si rimborsarono inoltre D. 6955.16 nel 1737, D. 4437 nel 1740, D. 14.541.21 nel 1745 di spese straordinarie, oltre a più di 15 mila ducati di spazzo nel 1736, 1737 e 1740, 5610.16 nel 1750 e 2899.4 nel 1755. L’ambasciatore in Inghilterra si trova ricordato solo nel 1745 e in quell’anno ricevette un salario di 15.114 ducati. Nel 1755, anno in cui l’organico, per chiamarlo così, delle Ambasciate si trova all’incirca al completo si hanno le seguenti cifre per salari: all’ambasciatore a Roma D. 11.749.9; a Vienna 11.731.11, in Francia 9.238.15, in Spagna 10.764.22; ai segretari a Roma 1008, a Vienna 575.6, in Francia 575.6, in Spagna 575.6, al Residente in Inghilterra 5.473.12, a Napoli 3735.12, a Milano 4.302.14, a Torino 4299.12.

 

 

Larga nelle relazioni estere, la Serenissima era invece severa coi suoi funzionari dell’interno, a cominciare dagli assegni al Doge ed ai membri delle Quarantie e dei Collegi, che fra tutti ricevevano, come si vide più su, appena un 60 mila ducati all’anno, ad andare sino ai Magistrati le cui paghe non erano certamente laute. Nei due anni estremi 1736 e 1755 ecco che cosa ricevevano, in salari e utilità[10] alcuni fra i Nobiluomini giudici dei diversi Magistrati, Consigli e Collegi della Repubblica:

 

 

 

1736

1755

 

SALARI

UTILITÀ

SALARI

UTILITÀ

Officio Avogaria di Comun.: Ai pubblici rappresentati che sostennero i reggimenti più del tempo prescrittogli

3.098.13

6.482

Alli Tre NN. UU. Avogadori

336

366

Officio Biave: Salariati NN.UU.

760.20

90.9

725.13

Officio de Cattaver: NN.UU. Giudici

154.12

6.10

Officio Dacio vin: Alli NN.UU. Giudici per salario

421.7

724

Alli detti per supplimento

302.12

1.408.22

Alli patroni dell’Arsenale per salario

180

180

Officio Giustitia nova: Alli quattro NN.UU. Giudici per salario di ducati uno e mezzo per sentata li giorni feriali

1.036.13

108

1.044.16

133.15

Officio provveditori di Comun.: Alli due NN.UU. Giudici

88.17

57.16

22.8

Ufficio Camerlenghi di Comun.: Alli NN.UU. della Dominante

5.796.12

?

6.519.2

?

Ufficio Camerlenghi di Comun.: Alli NN.UU. dè Reggimenti

4.217.3

4.191.21

Officio Ternaria nova: Alli quattro NN. UU. Giudici

926.6

290.17

1.584

322.6

Officio fontico dei Tedeschi: Alli tre NN. UU. Giudici

216

349.12

840

557.7

Officio Messettaria: Alli quattro NN.UU. Giudici

645

51.20

537.12

50.12

Officio provveditoriori et argenti: Alli quattro NN.UU. Masseri, due all’oro e due all’argento

554

?

629

?

Officio Beccarie: Alli quattro NN.UU. Giudice

775

630.22

710.10

632.10

 

 

Dove la Serenissima poteva dare segnalato esempio di Governo economico si è nelle spese di controllo, di carta, stampa e altre spese d’ufficio. È vero che talvolta lamentavansi degli «intacchi», come allora chiamavansi le malversazioni del denaro pubblico, ma non dovevano essere gran cosa né dovevano avvicinarsi per niente alle cifre moderne. Mentre ben diversi dai colossali organismi di controllo dello Stato moderno erano i semplicissimi strumenti che la Repubblica adoperava per «le appuntadure e revisioni». Pur prendendo l’anno della maggiore spesa, che fu nel 1755 con ducati 12.168, vediamo che D. 2.894.2 bastavano per l’ufficio dei Revisori e regolatori alla scrittura che pur aveva vaste attribuzioni di riscontro. Si spendevano poi 1560 D. per l’ufficio della Ternaria vecchia, 1562.17 per l’ufficio del nuovo Stallaggio, sovra cui si erano caricati i pagamenti di diverse partite del Debito Pubblico, 780 l’uno per gli Uffici del Dazio del vino, dell’uscita e delle beccarie. L’Ufficio dei Dieci savi spendeva appena D. 18.2; e per parecchi uffici, per cui nel 1736 figuravano ancora le spese di controllo, queste erano state abolite, accentrando la revisione in altri uffici più importanti. Pur essendo molto cresciute – per la consuetudine di stampare molti atti pubblici e di redigere parecchi registri su noduli stampati -, le spese di stampa rimanevano ancora modeste, come anche le spese della corrispondenza ufficiale che oggi sono divenute esorbitanti. Nel 1740, in cui la specificazione delle spese è maggiore, si spendevano D. 985 per la corsa di Milano, D. 1312.20 al Console di Genova per lettere, 180.18 al Bollador Ducal per espressi, 534.22 per trasporto di pubblici dispacci, 602.6 al Conte Niccolò Bolizza per spese di dispacci da Costantinopoli, 1315.1 al Corrier Maggiore per espressi e 736.21 al Conte di Cattaro per espressi. Talvolta le spese crescevano un pò, come nel 1745 quando si rimborsarono al Conte Niccolò Bolizza D. 3797.11 per spese di dispacci da Costantinopoli. Ma, tenendo sovratutto conto del costo molto maggiore della spedizione dei corrieri, e delle spese già riportate dei corrieri speciali degli ambasciatori, le cifre di spesa non potrebbero essere tenute entro limiti più ristretti.

 

 

Le spese d’ufficio appaiono piccole se si bada alla cifra generale (ad es. nel 1755 Ducati 5.464.16 in tutto); ma ancor più piccole se si elencano separatamente per ogni ufficio. In quell’anno 1755 l’Ufficio Avogaria di Comun spendeva D. 717.14, l’Ufficio dell’Armar 69.22, quello del Dazio Vin 138.18, l’Ufficio Biave 375.18, l’Ufficio Formento a S. Marco 129.21, quello del Formento a Rialto 129.1 l’Ufficio dei Dieci savii 14.22, l’Ufficio Beccaria 134.17, quello dei Cinque savii alla mercanzia 145.7, i Camerlenghi di Commun spendevano appena 8 lire nell’anno, l’Ufficio Rason Vecchie 40.15, i Sette savii 67.3, il Fontico dei Tedeschi 14.8, l’Ufficio dell’Uscita 108.21, la Ternaria vecchia 3.16, l’Ufficio sopra Camere 193.22, i Tre savii sopra gli officii 263.3, l’Ufficio della Sanità 852.22, l’Ufficio Rason nove 114.23, i Provveditori di comun 320.15, l’Ufficio Tana 8.17, i Governatori delle entrade 32.21, la Cassa piccola del Sal 765.21, l’Ufficio Fortezze 127, l’Ufficio Cazude 10.22, l’Ufficio Acque 562.1, l’Ufficio dei Beni inculti 40, e l’Ufficio Artiglierie 73.7. È già vedemmo che per la Pubblica Sicurezza di Venezia si spendevano poco più di 900 Ducati all’anno per il Capitano ed i guardiani di notte nella piazza di S. Marco.

 

 

Quanto alle spese della Terraferma, basti ricordare le spese per lo studio di Padova, pei sei anni prescelti:

 

 

 

1736

 

1737

1740

1745

1750

1755

Spese di lettori

24.031.3

19.843.3

21.883.7

21.939.20

17.427.16

20.790.1

Id di salariati

745.1

682.20

1.724.22

2.057.21

1.143.15

2.028.4

Id. di livelli

104.1

87.11

105

217

161

104.23

Id. per li 12 scolari greci

600

690

720

662.10

680

Id. per li 2 scolari di Cattaro

139.19

116.15

139.22

139.20

116.16

140

Affitto dello stabile ove alloggiano li scolari greci

93.8

112

112

Provision dello studio

73.2

87.16

149.15

Al Collegio Cottunco

32.6

38.17

38.17

Spese straordinarie

1.799.16

1.537.13

1.135.15

Id. diverse

137.16

101.15

71.19

509.20

Id. di fabbriche

83.5

83.6

6.539.17

Filosofia esperimental, teatro anatomico, Accademia Delia, Orto de’ semplici

Utilità ragionato, Revisori e regolatori entrate pubbliche in zecca e quadernier Rocchi

26.958.6

23.167.21

52.10

26.124.13

25.667.15

21.896.1

30.544.12

 

 

La repubblica cercava di diffondere la cultura italiana nei suoi possedimenti della Dalmazia e del Levante; e, tenuto conto dei tempi, spendeva somme abbastanza forti per l’istruzione superiore.

 

 

Già furono ricordate le spese principali della Dalmazia; ora si aggiunga che il Provveditor general da mar, la massima autorità veneziana in quella regione, riceveva 1.156 ducati di salario nel 1736, 1737 e 1740, 1.254.13 nel 1745 e 5.025.5 nel 1755, probabilmente comprendendosi dei rimborsi di spese in quest’ultima cifra. In Dalmazia il governo veneto spendeva per i «bastardelli»[11] nel 1745 D. 1.286.13 a Zara e 77.13 a Spalato; e nel 1755 D. 746.1 a Zara e 76.4 a Spalato. Il Provveditor general del Levante riceveva da 4.103.22 (1737) a 6.355.16 (1745) ducati all’anno di assegno, e pure nel Levante si spendevano nel 1755 ducati 1.163.5 a Corfù e ducati 2.203.13 a Zante per i «bastardelli».

 

 

Riassumendo tutti i fatti fin qui arrecati sulle spese pubbliche della Serenissima, si ottiene la tabella suguente:[12]

 

 

 

1736

 

1737

1740

1745

1750

1755

Spese della Dominante

4.252.319.8

4.201.953.5

4.333.070.15

4.461.714.13

4.507.262

4.515.251.6

Id Terraferma

1.546.368.21

1.087.713.14

967.082.2

1.674.737.19

835.833.23

733.513.1

Id. Levante

299.779.13

258.043.23

365.439.14

234.251.10

279.119.9

348.065.12

Id. della Dalmazia

168.144.22

221.852.7

170.485.7

149.826.18

175.150.21

205.737

Id. del Golfo

51.181.4

40.474.21

31.675.10

27.958.20

33.756.23

28.740.18

Totale spese effettive

6.317.793.20

5.810.037.22

5.867.753

6.548.489.8

5.831.123.4

5.831.307.13

 

Sopravanzi a benefizio dell’anno successivo:

Dominante

1.054.849.5

1.128.327.5

1.711.439.11

1.914.390.16

2.231.848.16

2.891.609.12

Terraferma

73.151.12

86.389.19

50.568.19

203.697.19

103.033.9

51.195.12

Levante

9.577.16

29.552.12

14.828.1

43.582.16

63.092.6

32.879.7

Dalmazia

235.14

21.835.23

9.269.11

7.816.16

21.474.7

16.276.15

Golfo

1.21

11.768.4

154.7

695.11

Totale sopravanzi

1.137.813.23

1.266.105.11

1.786.107.15

2.181.255.23

2.419.602.22

2.992.656.9

 

Totale generale

7.455.607.19

7.076.143.9

7.653.860.15

8.729.745.7

8.250.726.1

8.823.963.22

Somme da aggiungersi o da togliersi per contabilità speciali

7.455.607.19

+ 33.085.10

7.109.229.4

7.653.860.15

8.729.745.7

8.250.726.1

8.823.936.22

 

 

IV

 

In qual modo la Repubblica riusciva ad incassare i sei milioni di ducati che all’incirca erano necessari per far fronte alle spese del]o Stato e di cui più dei due terzi erano destinati alle spese fondamentali dell’esercito e del servizio del Debito Pubblico?

 

 

Il grosso delle entrate era dato da quelle che oggi si dicono imposte indirette e che allora chiamavansi «partiti e dazi» e che abbracciavano i dazi di importazione, di esportazione, di transito, di consumo, i monopoli del sale e del tabacco, le imposte sulla macellazione e sullo spaccio, ecc. ecc. Distinguevansi i «partiti» dai «dazi» non per qualche differenza intrinseca, ma per il modo di esazione od ancora piuttosto per la importanza dei contratti che la Serenissima faceva con le persone incaricate dell’esazione. I «partiti» comprendevano specialmente gli appalti della riscossione di un grosso dazio o di molti dazi presi insieme; ed i partitanti erano dei forti capitalisti, specie di fermiers généraux di Francia, che potevano fare notevoli anticipazioni allo Stato o prestavano cauzioni importanti. I dazi, numerosissimi, potevano anche essere affittati col cosidetto «ordine delle serrate» e sulla loro esazione il governo esercitava ancora una certa sorveglianza, oppure erano condotti in economia o, come si diceva, «per Serenissima Signoria». Molti di questi partiti e dazi venivano affittati a Venezia; ma l’affitto si estendeva anche ai territori dipendenti, diguisachè la distinzione fatta fra le somme esatte nella Dominante e negli altri paesi non ci può dare un’idea delle proporzioni in cui effettivamente quelle somme gravavano sulle diverse parti della Repubblica. Ecco le cifre complessive, distinte per regioni, dei «partiti e dazi».

 

 

 

1736

 

1737

1740

1745

1750

1755

Dominante: Partiti ……

929.354.17

913.493.20

967.493.9

958.089.12

979.015.15

1.083.010.18

                   Dazi …….

1.272.091.15

2.201.446.8

1.186.108.19

2.099.602.15

1.261.893.19

2.229.387.4

1.212.191.6

2.170.280.18

1.319.077.2

2.298.092.17

1.301.879.18

2.384.890.12

Terraferma: Dazi…….

942.986.23

975.631.20

928.188

970.918.17

981.848.2

1.025.725.12

Dalmazia: Dazi……….

8.836.15

10.068.5

9.444.15

9.716.9

25.428.13

26.358.20

Appalti………

188.21

188.17

188.22

189

257.11

200.16

Levante: Dazi ………….

47.565.6

39.731.21

39.044.15

57.042.10

58.281.1

55.735.5

         Appalti……..

695

737.12

848.13

698.19

716.22

941.14

TOTALE

3.201.724.22

3.125.962.15

3.206.903.9

3.308.849.10

3.364.625.21

3.493.854.4

 

 

Le imposte di consumo rendevano dunque dal 50 al 60% del fabbisogno della Repubblica, assumendo così nel sistema tributario d’allora quella posizione prevalente che hanno conservato nei bilanci odierni; e riesce quindi opportuno un breve esame della natura di quelle imposte.

 

 

Il sale, derrata anche allora tassabile per eccellenza, rendeva forti somme.

 

 

 

1736

1755

Partito generale di qua dal Mincio………..

408.406.5

430.174.22

Gabella sali per partito di qua dal Mincio..

37.492.20

Partito dei cinque dazi di Lombardia……..

154.500

179.067.7

Partito di Milan……………………………..

5.820

Partito di Mantova………………………….

1.701.17

Partiti con le comunità privileggiate, compreso quello del sardeler d’Istria…….

5.649.22

5.859

Partito delle saline del Zante……………..

2.501.8

Partito delle gabelle della Dominante ed Albania……………………….…………….

17.717.8

Gabella dei sali Dalmazia………………..

34.288.23

32.306.8

Totale…..

630.585.11

684.900.9

 

 

Per gli altri dazi e partiti è bene citar solo quelli esatti nella Dominante, perché per quelli esatti nelle altre parti del Dominio veneto o si hanno solo le cifre in monte, o la classificazione è fin troppo minuta, come accade per la Terraferma. Eccone alcuni:

 

 

 

 

1736

1737

1740

 

1745

1750

1755

Partito del tabacco

144.843

144.843

147.227

177.527

180.100

223.100

Id. dell’osso di balena

755

1.785

1.571.12

1.610

1.557

Id. della pesca de coralli

275

Id. della vendita della polvere

10.074

10.074

14.420.13

8.851.22

11.938

12.557.4

Id. animali bovini della Dominante

2.053.11

1.781.15

610.19

607.14

432.23

6.084.15

Id. vitelli della Dominante

16.459.12

10.916.1

17.871.11

19.497.7

17.676.22

19.652.22

Id. castrati della Dominante

12.754.15

11.990.15

16.051

18.327.2

21.103.23

23.059.19

³ Id. animali porcini della Dominante

2.367

6.261.19

5.899.9

4.027.19

4.658.23

4.244.12

Id. delle anguille di Comacchio

3.033.8

3.033.8

2.550

2.550

3.000

3.200

Id. detto di Venezia o sia pesce al pallo

3.608.15

3.799.18

2.532

4.656

Dacio biave

56.243.19

69.227.8

75.605.20

186.500.4

188.236.1

187.766.2

Maccina pistori

75.357.21

63.861.19

73.721.10

Dacio di Chiozza

2.115

300

6.500

3.733.4

9.882.12

Id. uscita biave

2.339

1.875.7

1.939.6

931.11

2.060.6

1.143.7

Nuova imposta della maccina

33.177.15

31.178.1

34.817.13

169.19

Pistorie di Mestre

3.550

4.740

4.320

3.703.6

Dacietti del Dogado

3.291

2.030.17

4.004

3.280

3.060

4.520

Dacio del fieno della Terraferma

5.661.20

5.811.23

7.187

3.976.9

7.983

6.568.20

Id. delle carte da giuoco della città

4.036.2

6.482.10

4.641.7

4.979.5

4.516.6

2.914

Id. vino

313.331.8

319.046.23

4.645.15

305.237.5

7.356.3

293.978.5

6.685.12

298.830.23

330.302.15

Id. Vino di Chiozza
Id. delli soldi due per carra di legna

Id. del soldo uno per carra

6.143

5.088.15

7.459

6.685.12

3.129.1

4.200.20

8.438.20

Dacii dei frutti affittato all’arte de fruttaroli et ad essa assegnato per prestanze capital et soldi sette per lira

5.996.16

5.340.21

5.795.9

5.929.18

7.584.3

8.494.18

Id. detto per soldi tre per lira risservati

893.6

308.20

Id. delle carte da giuoco della Terraferma

1.327

1.269.20

2.200

2.545.20

3.659

2.851

Id. della grossa

32.751.14

39.007.7

25.469.3

23.592.17

35.538.19

36.332.8

Id. entrada et uscida oglio et bollettoni per la Germania

58.366

55.533.6

52.115.20

50.790.6

52.203.17

50.402.20

Id. soldi otto per lira entrada et uscida et bollettoni per Germania  risservati per conto pubblico

24.136.16

22.943.22

21.621.14

21.070.18

21.267

21.084.21

Id. del quinto capital e soldi otto come sopra

4.292.20

1.632.15

584.20

3.171.4

93.16

148.15

Id. del consumo capital et soldi otto per lira

276.350.10

248.860.13

289.005.19

293.570.12

334.153.4

301.863.9

Poste da oglio

5.226

5.435.4

2.536.1

2.450.6

956.23

Dacio sopra legname

15.782.7

9.528.20

14.192.16

12.442.13

10.698.17

13.343.16

Id. del nuovo stallaggio: – p. Levante
– p. Ponente

 

74.108.8

46.224.3

40.207.16

52.223.21

91.172.8

78.432.20

32.861.16

13.229.8

11.111.22

13.431.11

Id. nuova imposta caffè

307.18

Id. dell’uscida

40.996

36.710.19

36.731.17

37.034.16

36.778.7

34.195.15

Id. d’entrada da terra

11.759.11

9.898.11

21.596.15

20.376

25.033.17

15.179.7

Id. del transito

12.458.17

10.131.8

21.596.15

20.376

25.033.17

9.105.6 ³

Id. delle osterie

5.538.5

6.953.15

5.528.4

3.525.12

3.970.6

3.309.17

Id. del canevo

17.611.5

17.168.18

16.728.20

19.102.7

20.324

15.166.10

Id. dell’oglio di lino di Venezia, Vicenza, Treviso, Padova, Verona, Rovigo

2.133.21

4.741.4

7.398.7

9.078.12

9.637.12

10.259.2

Dacio della grassa

1.601.20

3.039.8

2.060.10

1.749.13

3.396.16

3.271.4

Id. del pesce salato

27.666.9

30.146.2

29.906.2

31.573

30.000

32.000

Id. Messettaria del 2%

4.635.12

2.102.7

3.528.8

5.060.11

6.483.18

4.845.22

Id.          »         del 3%

3.971.10

5.232.17

4.476.12

3.852.10

11.474.2

3.864.12

Id. delle lettere

10.138.12

10.138.12

10.138.12

11.100

11.100

11.115

Id. degli affitti dei bastioni

37.205.11

34.976.20

40.824.12

33.714.4

35.541.11

38.175

Id. delle sentenze

395.22

381.2

550.3

537.2

583.22

125

Id. d’instrumenti e testamenti

2.911.21

2.290

2.851.17

2.785.4

2.449.23

1.726.18

Id. entrada candelle

95.2

64.5

294.15 ³

315.11

1.476.20

1.022.18

Id. dei gramatici

1.061.20

892.15

625.21

729.15

506.15

587.1

Id. caffè e giazzo

3.796.3

3.294.9

3.380

3.580

4.381.18

3.680

 

 

Non tutti questi partiti e dazi colpiscono i consumi: quelli della Messettaria, delle sentenze, d’istrumenti e testamenti, dei gramatici sono simili alle attuali tasse di registro per atti civili e giudiziarii; quello delle lettere colpisce un pubblico servizio, e quello degli affitti dei bastioni è una entrata derivante dal demanio fiscale. Ma la varietà degli altri dazi dimostra come la Serenissima avesse cercato di colpire numerose merci all’entrata, all’uscita, nel transito, al momento del consumo, presso gli osti ecc.; e come pure tassando di preferenza oggetti necessarii e di consumo generale non rifuggisse dal colpire consumi voluttuosi o di lusso.

 

 

Quelli che sopra si sono elencati sono soltanto una parte dei dazi che si percepivano a Venezia. Altri ve ne sono come: il partito del pesce dolce di Padova, che nel 1755 rendeva D. 941, il dazio delle piere (D. 816.2 nel 1755), il dazio entrada ed uscida del Fontico dei Todeschi (16.541.10), il dazio dei carboni (1523.23), il dazio della ferrarezza (829.9), il dazio del soldo per stara e di piccoli sei sopra le farine del Fontico di S. Marco (134.5) e di Rialto (132.13), il dazio delle banderole, delle malvasie (1190), delle albergarie (389.12), il dazio dei panni (2326.23), il dazio del scudo sopra i panni (1287), il dazio dei panni di lana nostrana (1074.4), il dazio della foglia d’oro (2609.9), il dazio delle botteselle del sale (4.214), il dazio capelli (1713), il dazio dell’ancorazzo (497), il dazio pegola (49.9), del cinaprio (170), delle cendaline (74), dei lavezzi (32.23), dei fachini dei campi (806.12), del grosso per zattera (912), ecc.; i quali provano come le Repubblica gravasse la mano, non sempre con felice esito, sopra tutti indistintamente i consumi.

 

 

Non è possibile per i dazi che si percepivano nella Terraferma, nel Levante ed in Dalmazia diffonderci come per la Dominante. Per il Levante e la Dalmazia vi sono solo le cifre in monte; per la Terraferma le cifre sono divise per ognuna delle 17 casse di Verona, Vicenza, Capo d’Istria, Feltre, Pinguente, Salò, Brescia, Conegliano, Cividal di Friuli, Cividal di Belluno, Padova, Rovigo, Crema, Udine, Cologna, Treviso e Bergamo, sicchè la enumerazione dei dazi riscossi per ognuna di queste camere riuscirebbe, oltrecchè troppo lunga, una inutile ripetizione. Basterà indicare quali fossero i dazi riscossi per una di queste Camere e scelgo quella di Verona, che era la più importante fra le Camere della Terraferma, esigendo nel 1755 ben 195.097.5 ducati su un totale di ducati 1.025.725.12 esatti in Terraferma.[13] A Verona dunque nel 1755 il dazio seda, case e fornelli rendeva ducati 5.700, il dazio carni del territorio 1.080.7, il dazio porte 4.088.74, il dazio acconcia pelli 2949.14, il dazio peschere Fossa 299.14, il dazio peschere Mezana 425.22, il dazio del mercato delle biade 1.309.6, il dazio scorta lago 687.22, il dazio del ducatone del vino che si estrae per terre aliene 7.17, il dazio delli soldi tre per lira dell’oglio della Gardesana 755.10, il dazio dell’oglio delle olive veronesi 1.255.19, il dazio del ducato per botte di Verona 8.787.14, il dazio delle lane terriere e forestiere 778.9, il dazio ucchierie, sive uscita de calcetami 227.23, il dazio panni e saglie e follo di Montorio 242.21, il dazio carni di Peschiera 30.17, il dazio del vino dell’osterie della città e suburbi 2.579.17, il dazio del vino dell’osterie di Villa 230.21, il dazio del ducato per botte di Legnago 163.22, il dazio della malvasia 63.20, il dazio istrumenti e testamenti 3.275.15, il dazio vino a foro 194.3, il dazio del ducato per botte di Peschiera 77.4, il dazio stadella 27.213.18, il dazio degli animali porcini 1.405.15, il dazio del vino al minuto 1.558.18. Tutti questi dazi erano pagati alla cassa militare di Verona e rendevano insieme 65.360.3.

 

 

Venivano poi i dazi pagati alla Cassa obbligata: il dazio della maccina della città con ducati 16.467.19, il dazio del pestrin della città che rendeva 4.274.5, il dazio dell’uscida della seda 11.533.5, il dazio del pestrin del territorio 2.067.16, i dazietti di Cona con Alfaè 40.16, i Vicariatti 774.4, il dazio della maccina del territorio 22.544.19, il dazio di Frizolana (Frizzolone ?) 99, il dazio della maccina di Legnago 1.065, il dazio delle carni della città 13.548.9, il dazio sede, case e fornelli 16.000, il dazio delle carni del territorio 360.2, il dazio dogana 1.371.11, e li «aggionti de dacii» che rendevano 39.590.18. In tutto ducati 129.737.4 che aggiunti ai 65.360.3 formavano i ducati 195.097.7 che rendeva la Camera di Verona.

 

 

Dopo i dazi, le gravezze costituivano il cespite più importante delle entrate della Repubblica. Erano le gravezze all’incirca imposte come quelle che ora si dicono dirette. Importantissima era la decima del laico e del clero, antichissima fra tutte ed a cui accennano documenti anteriori al mille. Caduta in disuso e sostituita cogli imprestiti coattivi sin dal secolo XII, rinacque nel 1463 durante la guerra coi Turchi e si impose da prima sugli affitti delle case, dei molini e degli altri beni d’ogni fatta, poi nello stesso anno, anche sui prò delle camere d’imprestiti, sui noli delle navi, sui salari e le rendite tutte dei cittadini di Venezia e del Dogado. Le decime prendevano un numero d’ordine ed il numero era determinato dalle volte per cui si levavano. Generalmente si levavano una volta all’anno. Il numero d’ordine si rinnovava e ricominciava dalla redecima o lustrazione dei quaderni che servivano per la tassazione. Il campatico deliberato nel 1665 era un’imposta reale su ogni terra fruttifera appartenente ai sudditi di tutto lo Stato. La tansa era un nome generico che valeva ad indicare le imposte sulle arti, ossia sui guadagni e le rendite dei negozianti, dei professionisti e degli artieri. I taglioni sono le tanse normali ed avevano come la decima il loro numero d’ordine secondo gli anni in cui si levavano dopo la tassazione o revisione generale di essa. La tansa insensibile era una imposta di guerra, non grave. Le somme che essa fruttava dovevano costituire un deposito o fondo, intangibile in tempi normali, e da servire per le necessità di guerra. Il sussidio ordinario era l’antico donativo che i territori della terraferma pagavano ed a cui si era aggiunto il campatico. Le gravezze de mandato dominii (specificate in taglia ducal sive colta sive dadia, alloggi di cavalleria sive ordine di banca, Tasse di gente d’armi, Fabriche di Legnago, Limitazioni, Soldi per lira sopra la limitazion e censo, Gravezze dell’Istria), erano tasse relativamente piccole, antiche, forse d’origine feudale, ed in parte d’indole militare. La gravezza del 5% sopra le eredità esisteva dapprima prima solo nella Dominante e fu estesa nel 1750 ai paesi terraferma.

 

 

 

1736

1737

1740

 

1745

1750

1755

Dominante:            
Benintrada d’officij

68.8

123.6

127.11

235.2

83.2

86.3

Cinque per cento sopra eredità

16.759.23

22.437.15

53.104.6

52.084.18

35.040.2

30.157.5

Decima dal clero, suo importar per Venezia et diocesi ad essa obblig.

20.843.12

30.420.3

26.131.22

29.974.22

25.907.8

29.354

Decima del laico ordinaria

349.281.9

347.023.3

138.864.15

155.434.11

153.774.1

156.464.11

Id. scossi con mandati verdi

106.689.23

109.490.2 ³

115.166.9

112.374.18

Campatico

107.688.5

108.130.17

107.672.15

117.405.3

123.082.18

124.064.2

Taglioni

5.808.16

5.645.14

7.618

14.754

11.550.12

11.409.14

Tansa insensibile dell’arti, comunità e traghetti

24.161.10

32.803.17

21.041.10

33.464.2

40.556.1

37.087.19

Taglioni delle arti

11.944.9

12.555.16

13.341.12

26.673.11

25.147.20

21.664.11

Tansa del ghetto

5.257.6

Grosso per ducato per escavazion canali

1.424.4

73.3

2.186.12

1.758.13

2.556.2

1.474.2

Decime de’ ministri (impiegati pubblici) ed altri

33.516.20

25.087.3

23.152.10

23.710.19

28.330.13

23.584.18

Totale (comprese alcune piccole gravezze e partite diverse sopra non specif.)

604.386.5

648.975.17

515.149.1

577.682.19

582.555.12

568.871.7

 

Terraferma:

Campatico

205.860.5

206.725.13

210.746.7

219.342.3

231.283.4

133.391.1

Tansa

14.405.22

17.361.22

20.921

20.361.8

38.766.16

42.180.21

Sussidio ordinario

75.597.17

80.806.14

88.824.12

78.205.4

92.048.10

85.229.6

Gravezze di mandato dominij

77.139.13

66.990.11

83.990.18

59.772.18

75.517.13

78.202.12

Gravezze del cinque per cento sopra le eredità

4.587.17

52.592.22

Decima ordinaria del clero

37.093.10

5.675.13

40.081.18

46.841.20

45.357.20

48.019.16

Decima d’officij

18.716.3

20.081.16

16.824.18

18.312.3

17.525.1

15.542.18

Campatico per li restauri del fiume Adige

5.299.22

Totale

424.815.22

397.641.17

461.391.16

442.842.2

503.088.6

560.461.13

Dalmazia:

Gravezze diverse

35.502.13

30.748.21

17.521.14

18.122.12

46.128.9

41.088.12

Levante:

Gravezze diverse

104.661.8

62.589.22

57.799.8

73.487.6

121.194.10

140.714.4

Totale generale

1.169.370.21

1.139.936.5

1.051.865.0

1.109.137.15

1.252.972.4

1.311.139.15

 

 

Le rendite rimanenti hanno una importanza di gran lunga minore; gli affitti e livelli di botteghe, pascoli, boschi, feudi, case, stamperie; le esazioni diverse per diritti di ufficio, penalità, condanne, risarcimenti, robe vecchie vendute, confische, investite di beni feudali, contrabandi, diritti notarili e di cancelleria; utilità dei ministri, graziati, morti devoluti, licenze d’armi, pensioni, tassa napolitana, limitazioni, erbatici, fieni e trattenuti alle milizie per soldi all’ospitale, sopravanzi morti e falliti, trattenuti a milizie per fruo d’armi; residuati di imposte e dazi non pagati negli anni precedenti; vendita di effetti di pubblica ragione, come vendita di cariche, di salnitro, di beni, formentone; sopraggi ossia guadagni sui pagamenti fatti in moneta di piazza, in moneta di rame della Dalmazia, in moneta lunga di Terraferma; le utilità del pubblico lotto al netto da spese; le partite di giro derivanti da aggiustamenti di conti fra le molteplici casse della Serenissima; rendita delle correrie; aggio de’ cecchini di Levante; vendita farine in pubblici fondici, esercitando la Repubblica, a quanto sembra, il commercio delle farine al minuto, come calmiere dei prezzi, ed essendo impostata nelle spese una somma corrispondente.

 

 

Nel quadro seguente sono ricordate codeste entrate secondarie:

 

 

 

1736

1737

1740

1745

1750

1755

 

Dominante: Affitti e livelli

8.018.22

7.079.4

8.278.1

7.670.15

9.698.7

10.448.19

Esazioni diverse

82.822.16

69.414.22

80.356.18

92.026.6

105.770.19

86.846.2

Vendita farine da pubblici fontici

240.730.9

110.046.22

269.584.6

69.628.18

176.285.5

134.503.6

Risarcimenti in cassa Revisori e Regolatori alle scritture

167.4

1.794.5

640.8

308.10

221.4

166.1

Sopraggi

41.132.23

58.177.4

47.809.7

97.069.5

77.338.13

76.015.2

Residuati

67.599

50.133.17

78.837.5

57.343.10

46.994.14

44.141.2

Vendita effetti di pubblica ragione

2.372

3.506.6

12.239.21

5.662.22

5.125.1

4.743.4

Utilità del Lotto netta da manifatture

54.224

156.596.5

82.859.8

9.397.14

122.635

65.100

Utilità dello stampo netta da manifatture

33.877.3

14.791.3

4.466.14

3.611.3

12.124.17

22.401.2

Eredità Patriarca Sagredo

Risarcimenti fatti  risultanti dai saldaconti dei bilanzi dei passaggi

15.361.13

1.080.9

Aggiustamenti di scrittura

28.029.5

60.127.21

Rendita Correrie

2.364.1

 

Terraferma: Residuati

111.722.8

128.969.15

140.011.2

125.932.22

103.360.11

100.687.7

Sopraggi di valute

181.267.3

91.980.22

63.082.16

207.599

66.039.14

45.965.1

Affitti e livelli

440.2

906.18

819.12

522.4

2.229.22

1.687.1

Esazioni diverse

22.898.8

27.736.10

59.346.9

41.218.3

52.539.8

49.408.9

Risarcimenti fatti risultanti dal saldaconti dei bilanzi dei passaggi

59.3

104.4

Aggiustamenti di scrittura

515.11

1.475.13

Rendita Correrie

 

 

1736

1737

1740

1745

1750

1755

 

Dalmazia: Affitti e livelli

331.11

547.12

518.19

814.10

884.15

1.813.12

Residuati

989.7

556.17

16.455.14

20.684.16

972

16.956

Esazioni diverse

7.850.13

7.857.23

10.999.20

6.517.16

11.833.15

13.357.1

Estraordinarie

643.12

419.12

460.6

5.290.4

313.8

Aggio della moneta di rame

21.574.8

13.776.10

8.300.2

5.056.4

5.883.8

33.306.8

Gabelle de’ sali

34.288.23

27.047.22

22.216.16

29.338.17

37.828

7.466.22

Aggio de’ Cecchini

Aggiustamenti di scrittura

12.877.17

Risarcimenti fatti risultanti dal saldaconti dei bilanzi dei passaggi

22.5

Levante: Affitti e livelli

3.517.5

3.759.15

3.221.17

3.541.21

3.750.21

3.981.14

Esazioni estraordinarie

2.064.22

1.619.10

882.1

23.164.15

1.682.12

685.11

Esazioni de’ residuati

7.397.14

7.373.17

21.865.23

18.204

11.447

15.586.17

Aggio della moneta di rame

1.397.5

3.831.10

1.244.19

9.569.5

14.497.14

33.283.7

Rendita de’ sali

1.053.18

Gabella sali del Zante

1.157.10

1.519.4

1.205.17

Risarcimenti fatti risultanti dal saldaconti dei bilanzi dei passaggi

3.1

731.21

Aggiustamenti di scrittura

65.270.5

3.193.13

43.501.1

 

 

Riassumendo, ecco ora un quadro sintetico di tutte le entrate della Repubblica:

 

 

 

1736

 

1737

1740

1745

1750

1755

Rendite della Dominante

3.336.777.12

3.220.117.13

3.372.998.15

3.151.890.2

3.436.841.13

3.400.495.3

      »     della Terraferma

1.688.127.18

1.656.160.23

1.653.411.6

1.789.160.10

1.727.313.8

1.802.342.15

      »     del Levante

206.317.10

147.200.23

217.801.22

191.844.18

259.199.18

258.000.1

      »     della Dalmazia

109.562.15

91.435.19

98.943.7

90.900.12

134.528.8

140.861.3

      »     del Golfo

274.4

16.742.5

1.146.1

395.2

Totale rendite ordinarie

5.341.059.11

5.114.915.6

5.343.155.2

5.240.537.23

5.559.029.-

5.602.095.-

Provvedimenti estraordinari: Dominante

1.258.928.17

749.620.-

775.161.10

1.112.044.20

513.400.3

293.266.7

Id. Terraferma

40.893.6

99.512.3

20.191.22

39.384.1

246.14

Totale rendite straordinarie

1.299.821.23

849.132.3

795.353.8

1.151.428.21

513.400.3

293.512.21

Sopravanzi dell’anno precedente a beneficio dell’anno presente:

Dominante

831.727.13

1.052.175.8

1.422.930.1

2.099.791.12

1.967.246.18

2.764.131.19

Terraferma

84.708.21

84.029.20

72.092.15

217.073.3

152.835.19

79.304.15

Levante

4.899.2

4.899.2

14.810.3

14.507.1

46.846.21

62.986.11

Dalmazia

29.12

3.914.7

5.512.4

6.364.3

11.363.6

21.933.4

Golfo

7.6

42.16

4.6

Totale sopravanzi

921.365.-

1.145.018.13

1.515.352.5

2.337.778.11

2.178.296.22

2.928.356.1

Crediti di casse

164

Totale generale

7.562.246.10

7.109.229.22

7.653.860.15

8.729.745.7

8.250.726.1

8.823.963.22

 

 

Come è facile osservare col confronto di questa tabella con la tabella delle spese complessive della Repubblica, questa non è mai riuscita negli anni studiati ad ottenere il pareggio delle entrate ordinarie colle uscite effettive. Crescente dapprima e poi in diminuzione, il disavanzo era pur tuttavia il tarlo roditore dei bilanci dell’antica Repubblica come dei bilanci moderni. Per valutare questo disavanzo, occorre ricordare ciò che già si disse, che cioè essendo i rendiconti della Serenissima a partita doppia, nelle entrate figurano i sopravanzi al principio dell’anno e nelle spese i sopravanzi alla fine dell’anno. Per conoscere perciò il vero disavanzo annuo, bisogna aggiungere alla somma che si aveva in cassa (sopravanzo) al principio dell’anno la somma che nell’anno si introitò per provvedimenti straordinari all’infuori delle entrate ordinarie e togliere poi dal risultato la somma che il cassiere lasciava alla fine dell’esercizio a beneficio dell’anno successivo.

 

 

Prendiamo ad esempio l’anno 1755. In quest’anno, come si vede dalle due tabelle riassuntive delle entrate e delle spese, le entrate ordinarie furono di ducati 5.602.095 e le spese effettive di D. 5.831.307.13 con un disavanzo di 229.212.13 ducati. D’altra parte al principio dell’anno vi erano in cassa soltanto 2.928.356.1 ducati; mentre alla fine dell’anno vi erano ducati 2.992.656.9 con un sovrappiù di ducati 64.300.8. A colmare il disavanzo di D. 229.212.13 ed a lasciare in cassa 64.300.8 ducati di più di quanto vi era al principio dell’anno, si dovette ricorrere a provvedimenti straordinari per ducati 293.513.21. Diguisachè in quest’anno i provvedimenti straordinari servirono non solo a far fronte al disavanzo, ma anche a mettere la cassa in migliore stato. In altri anni invece, in cui il disavanzo era eccessivo ed i provvedimenti straordinari non si dimostrarono all’uopo bastevoli, fu necessario diminuire il fondo cassa, e lasciare alla fine dell’anno un sopravanzo minore di quello ricevuto. Per formarsi però un giusto criterio della natura dei disavanzi della Repubblica Veneta, bisogna ricordare che ogni anno i suoi reggitori consacravano fortissime somme a rimborsare i debiti fatti. Se essi erano sempre costretti a ricorrere a nuovi debiti ciò accadeva perché si ostinavano a volere rimborsare i debiti vecchi. Felice ostinazione nella quale i governanti veneti rimanevano saldi perché reputavano che la correntezza nel restituire alle epoche fissate i debiti antichi giovasse a tenere alto il credito dello Stato e a assicurare alla Repubblica la possibilità di ottenere nelle gravi emergenze forti somme ad un mite saggio di interesse.

 

 

Non accadde mai – almeno non risulta dai documenti che sia accaduto nel periodo studiato – che la Repubblica dovesse procurarsi somme a prestito ad un saggio di interesse più alto di quello corrente sui debiti che si rimborsavano.

 

 

Ecco ora una tabella, in parte compilata dal ragionato Costantini ed in parte da noi completata sui dati dei bilanci, la quale ci indica le somme destinate in ogni anno all’ammortamento del Debito Pubblico, il disavanzo accertato alla fine dell’anno e le somme che fa d’uopo procurarsi con provvedimenti straordinari. Le cifre non sempre concordano con quelle ricordate altrove; ma sarebbe troppo lungo spiegare le ragioni di queste differenze, del resto piccole.

 

 

 

 

Disavanzi

Spese per l’ammortamento del Debito Pubblico

Disavanzi effettivi (Disavanzi-Spesa per ammortamento del Debito Pubblico)

 

Entrate ottenute con

provvedimenti straordinari

1736

?

383.809.12

?

1.299.821.23

1737

770.784.17

310.979.23

459.804.18

849.132.3

1738

706.985.14

363.938.82

343.046.16

733.793.4

1739

469.038.3

393.685.18

75.352.9

636.980.12

1740

524.597.22

439.157.8

85.440.14

795.353.8

1741

700.018.3

448.369.17

251.648.10

1.038.397.18

1742

1.741.701.4

558.068.21

1.183.632.7

1.421.315.21

1743

1.282.149.20

482.660.13

799.489.3

1.268.804.21

1744

815.895.3

527.597

288.298.3

1.378.557.2

1745

1.307.951.9

494.038.21

813.912.12

1.151.428.21

1746

1.119.955.19

575.816.15

544.139.4

1.236.912.22

1747

1.072.200.18

549.717.9

522.483.9

1.080.063.8

1748

978.085.12

666.999.7

311.086.5

731.333.11

1749

596.717.3

517.137.1

79.580.2

894.044.21

1750

272.094.3

577.333.18

+ 305.239.15

513.400.3

1751

497.958.7

606.358.7

+ 108.400

437.241.4

1752

873.022.17

684.685.16

188.337.1

533.212.16

1753

+ 144.537.15

76.768.8

+ 221.305.23

96.835.20

1754

+ 262.669.17

130.001.1

+ 392.670.18

210.057.22

1755

229.212.13

419.284.23

+ 190.072.10

293.512.21

 

 

In tutti gli anni, eccettochè nel 1742, 1743, 1745, 1748, 1751, 1752, le somme ottenute per mezzo di provvedimenti straordinari furono superiori a quelle che erano d’uopo per colmare i disavanzi; il che significa che le somme esatte in più andavano a crescere il fondo di cassa. Infatti i sopravanzi esistenti al principio dell’anno che nel 1736 erano di ducati 916.436.10 giungevano al principio del 1755 a 2.928.356.1 ducati: due milioni di ducati in più che giovarono a rendere solide le condizioni del bilancio della Repubblica e possibile l’attuazione di quei vasti disegni di conversione del Debito Pubblico di cui sarà tenuto discorso in seguito. Se poi si bada ai disavanzi effettivi, ossia a quelli che ci sarebbero stati, se non si fosse mai pensato a restituire i debiti vecchi, si vede che essi erano gravi bensì, ma solo durante gli anni della neutralità; né si sarebbe potuto immaginare cosa diversa, specie in quei tempi quando il sistema tributario era così poco elastico. Appena ritornata però la pace, subito l’equilibrio si ristabiliva e rinasceva l’avanzo, permettendo di ammortizzare rapidamente i debiti di guerra.

 

 

V

 

Comunque sia, dovuti alle necessità della difesa, od al desiderio di mantenere alto il credito di Stato soddisfacendo puntualmente ai rimborsi pattuiti, certo si è che i disavanzi esistevano ed angustiavano forte i finanzieri dell’epoca. Le relazioni dei Deputati ed aggiunti alla provision del denaro e i decreti del Senato che riempiono tutto il primo dei due volumi ora pubblicati della Raccolta veneziana sono quasi intieramente dedicati a querimonie altissime intorno ai disavanzi dei bilanci ed a proposte e ricerche di provvedimenti atti a colmarli. Querimonie e ricerche che ci fanno entrare nel vivo dell’economia pubblica veneta e ci mettono dinanzi in movimento e quasi in trasformazione continua quegli istituti che or ora abbiamo veduti riflettersi nelle cifre nella loro configurazione normale.

 

 

Per la segretezza di cui circondavasi rigidamente la pubblica economia a Venezia, le querimonie sullo stato deplorevole delle Finanze non erano sentite fuor d’una piccola cerchia di persone; ma forse appunto perciò erano più sincere, né si doveva ricorrere a quei metodi di palliare e nascondere la verità che ora sono tanto cari ai ministri del tesoro desiderosi di crescere la popolarità intorno al proprio nome. Non mancavano per conseguenza i deputati od aggiunti alla provision del denaro di usare un linguaggio spesse volte allarmante, nell’intento di esercitare una forte pressione sull’animo del Senato, a cui spettava di decidere in queste materie e che d’altra parte era spinto da altri Magistrati – quelli che provvedevano alle spese – a crescere gli stanziamenti per le urgenze pubbliche dipinte come ogni giorno più pressanti.

 

 

«Per l’eccedenza di questo dispendio» – esclamavano i deputati predetti il 27 novembre 1742 – «sono talmente angustiati gli animi nostri per la difficoltà dè provvedimenti necessarj et estremamente gravosi, che dobbiamo rispettosamente protestare l’insuperabile difficoltà che, specialmente nel semestre venturo e successivi, s’incontrerà di provvedere il bisognevole con l’intiero addempimento degli altri pubblici pesi (II, 292)». E dopo avere affermato (II, 296) «la necessità di diminuire li pubblici dispendj o di ricorrere all’instituzione di nuovi tributi tanto a cittadini che a sudditi, senza de quali mezzi, quando persista la fatalità delle cose presenti e il modo delle attuali precustodie, impossibile si renderà l’addempimento di tutte le partite che compongono gli aggravi della pubblica economia», finiscono per concludere che se i bisogni della difesa del territorio e della pubblica sanità continueranno nella medesima misura, «cose tutte che non appartengono agli studi (loro)» essi deputati ed aggiunti «non (sarebbero) per cessare nelle proteste che tanto dinaro non è possibile provedersi nell’attual situazione della pubblica economia senza dar mano ad espedienti, nell’uno o nell’altro degli indicati modi dolorosi alla carità dell’eccellentissimo Senato et gravosi a benemeriti cittadini et agl’amatissimi suoi sudditi, et Vostra Serenità ben comprende se pur questi saranno sufficienti et adeguati al bisogno (II, 300)». Altrove (relazione 9 agosto 1745, II, 390-1) dopo aver notato che «tutti li dazij sopra quali si sono potute ingiungere delle anticipazioni… hanno somministrato in passato somme ragguardevoli… per quanto è stato possibile di spremere dinaro per questo mezzo…», amaramente concludono che «doppo l’essiccamento di tanti fondi non è facile di prontamente conseguirne l’effetto». Più tardi (23 luglio 1746) quando le spese della neutralità armata per la successione d’Austria incombono maggiormente, i deputati ed aggiunti hanno degli accenti di disperazione: «Se difficile è stata sempre la materia de provedimenti estraordinari, ella s’attrova in presente circuita da difficoltà sempre maggiori: primo, perché molti fondi che in passato hanno somministrato dinaro sono presentemente essicati; secondariamente perché molti dei suggeriti o non hanno corrisposto col fatto all’idea concepita, o non è stato possibile porli in uso per li fraposti impedimenti; e perché finalmente talun’altre proposizione da noi rassegnate né furono ammesse, né proposta fu per esse, come par che si doveva, alcun’altra equivalente sostituzione» (II, 467).

 

 

Il meccanismo complicato del governo veneto non era certo la cagione ultima di incertezze e ritardi nel prendere deliberazioni talvolta urgenti. Il controllo reciproco dei diversi magistrati se era utile ad impedire che alcuni soverchiassero, ritardava ogni iniziativa benefica. I deputati ed aggiunti possono bensì raccomandare le economie nelle spese; ma «dipende dal zelo e dall’attenzione benemerita de’ respettivi magistrati et de’ pubblici rappresentanti il meditare e suggerire tutti quei mezzi che per loro virtù et esperienza possono credere atti all’effetto del miglioramento delle pubbliche rendite et della minorazione dei pubblici dispendi» (II, 390). Il Senato, spesso, di fronte al contrasto fra i magistrati che reclamano fondi per i bisogni dello Stato ed i deputati alla provision del denaro che vogliono si faccia economia, indice delle conferenze. Così ad es. il 30 luglio 1746 dopo aver raccomandato «al magistrato de’ Deputati, e così ad ogni altro magistrato, come lo fa con precise (lettere) ducali a tutti li rettori da terra e da mar, di contribuir con tutto lo studio e con tutti li mezzi al vantaggio della publica cassa e al sollievo del suo patrimonio, o suggerendo nuovi fondi o migliorando le vendite o promovendo con forte mano le pubbliche esazioni e tutti poi scansando e diminuendo le spese» il Senato, preoccupato sovratutto dell’onere delle casse dell’Arsenale, dove si spendevano 300 mila ducati annui, come pure per quelle dell’Armar, Fortezze ed Artiglierie, ordina che «il Savio cassier unirà in conferenza a parte a parte essi (quelli preposti alle casse dell’arsenale, ecc.) magistrati con li Deputati alla provision del dinaro, onde esaminare quali dispendj o potessero minorarsi o potessero differirsi, e in questo modo sollevare l’erario dalli tanti pesi che lo aggravano» (II, 480). Ma sembra che le «conferenze» venete fossero un pò come le commissioni parlamentari e governative d’adesso: le quali difficilmente si radunano e, quando ne trovano il tempo, ancora più difficilmente concludono qualche cosa. Questa almeno era l’opinione dei magistrati ed aggiunti alla provision del denaro a cui fin dal 1739 ai 19 di febbraio era stato ordinato di versare in conferenza col Magistrato delle Acque per una faccenda importantissima; se non che «per le molteplici, tutte importanti, foragginose incombenze d’ambo li magistrati restò arenata la materia»; al qual proposito essi, osservando che questo «è solito accadere in quelle cose che demandate sono alle conferenze, che difficilmente si uniscono e più difficilmente si accordano» (II, 462-3), propongono che non si indicano nuove conferenze altrettanto inutili.

 

 

Pur tuttavia, attraverso a difficoltà ed ostacoli, molto si faceva per attuare i provvedimenti straordinari utili ad ottenere il pareggio. Non sempre la scelta cadeva sui partiti migliori; ma le difficoltà dei tempi e la urgenza di provvedere subito possono servire di scusa ai redditori veneti, i quali non disponevano del resto dei sussidi che l’economia monetaria perfezionatissima e la diffusione estrema del credito offrono ai governanti di oggidì. Una delle preoccupazioni più forti dei Deputati era di reprimere gli abusi e le trascuranze nella contabilità e nei controlli. La istituzione dei bilanci generali, ogni anno rinnovati, l’esercizio di un controllo regolare su tutte le pubbliche casse giovavano assai ad impedire questi abusi, che riuscivano di tanto nocumento alla cassa pubblica. Incessanti sono le proposte dei Deputati per evitare gli «intacchi» del denaro pubblico «con efficace eccitamento al zelo molto benemerito dei signori Revisori e regolatori alla scrittura di devenire contro de’ trasgressori rissolutamente al lievo della pena di privazione della carica et agl’appuntadori che omettessero le riferte a quelle pene criminali che saranno riputate proprie dalla maturità dell’eccellentissimo Senato» (II, 16). Mercè l’adozione di queste norme, si riusciva talvolta a scoperte importanti; come quando nel 1737 si vide che le Comunità del Vicentino, per un loro credito verso lo Stato avevano continuato a percepire l’interesse del 5 e del 4 per cento, laddove per tutti gli altri creditori dello Stato l’interesse era dal 1714 stato ridotto al 2% con un discapito per la pubblica cassa in tanto tempo di più di 50 mila ducati (II, 17).

 

 

Uno degli abusi contro di cui maggiormente si elevavano i Deputati era il numero eccessivo delle Casse che, tenendo conti separati, facilitavano le manomissioni del denaro pubblico e richiedevano numerosi impiegati, inutili ed eccessivamente dispendiosi. «Su tal proposito della molteplicità delle casse nelle quali vien di formarsi molteplicità di cariche e per conseguenza la spesa de ministri (impiegati), rifferiremo (sono i Deputati che scrivono una relazione al Senato sul bilancio 1738) che alle Rason nove sussistono due casse con due scontri e due quadernieri separati: l’una nominata cassa grande qual esige da debitori decaduti, l’altra de salariati che paga li salari de dazi, provisioni et altro; nell’offizio de’ Provveditori di comun tre casse: una del dazio lettere, l’altra delle fabbriche, la terza d’escavazioni, con tre scontri e tre libri separati; nelle Rason vecchie due casse: l’una nominata grande, l’altra d’affitti e livelli, con due ministri separati; nel magistrato delle Legne parimenti due casse con distinti ministri: l’una delli dazj delle legne da fuoco, che assai aggravano e poco rillevano in pubblico, l’altra degl’affitti dei boschi di molto tenue rilevanza; al Stallaggio due casse: l’una del dazio, l’altra dell’estraordinario che raccoglie il terzo delle senserie, quando avesse a correre, e le varee di Spalato, pur esercitate da due ministri. In tutte le accennate, per la quantità e qualità delle loro incombenze sarà conosciuto da magistrati competenti rendersi sufficiente una sola mano di ministri». Non par di sentire un inascoltato relatore di un bilancio moderno alla Camera, quando fa risaltare l’inutilità di molti uffici di poca importanza e la opportunità di conglobarli con altri maggiori che pur attendono agevolmente alle loro funzioni? Anche allora esistevano di questi uffici maggiori. «Regge un solo scontro della cassa dei Proveditor agl’ori et argenti in cecca al peso di 18 casse di rilievo, quello del Conservator del Deposito a tre, quello dell’Acque a cinque, e così dir si potrebbe di molte altre; non v’è però a parer nostro ragione alcuna perché lo stesso far non si possa in magistrati di un azienda tanto inferiore. Non è possibile pagar a dovere tanto numero di ministri, quali per altro, sotto titolo del loro necessario mantenimento, ricevono per tutte le vie il loro maggior profitto, ed in farlo o sono per arrecare troppo di peso alla pubblica cassa per la via de salari, o, Dio non voglia, per quella dei defraudi, o per lo meno con inferire troppo di peso a privati che corrispondono con le loro casse; il che tutto vien poi di riffondersi in pubblico discapito» (II, 196).

 

 

Con molti impiegati male pagati e poco contenti, i servizi pubblici non possono procedere speditamente ed è facile che le leggi sieno poco osservate o anzi apertamente violate su vasta scala: specialmente le leggi di imposta per la renitenza dei contribuenti a pagare, il contrabbando e le difficoltà della sorveglianza. Sul contrabbando sono frequenti le lagnanze. Presentando al Senato il consuntivo del 1739 raffrontato coi dati del 1740, i Deputati rilevano il 21 luglio 1741 come il dazio sul vino che era solito rendere 350 mila ducati all’anno abbia reso nel 1739 soli ducati 329.810 e nel 1740 ducati 312.590. «Che un tal consumo siasi diminuito non è così facile a persuadersi, non essendo certamente diminuita la popolazione. Né la scarsità del raccolto di un dal prodotto può scemarne il consumo, mentre le cose necessarie concorrono da tutte le parti attirate dal loro valore, sempre che s’aumenti in qualche stato; il che si diede specialmente a vedere nell’anno susseguente alla mortalità delle viti del 1708, in cui, in onta della carestia maggiore, si fece maggiore la summa del dazio. Convien vedere che li soli contrabandi che hanno forse il commodo di farsi nelle vicinanze della laguna, siano la vera caggione, e che per conseguenza, per estirparne l’occasioni più facili, necessario si rende lo studio dei competenti magistrati, altrimenti sempre più gravi si faranno in esso li pubblici degradi, quando anche riuscir potesse di trovarne abboccatori (appaltatori del dazio) con ribbasso delle decorse affittanze, già avvezze con troppo pubblico discapito ad essere dalla necessità accordate» (II, 224).

 

 

Per evitare i pericoli di dovere percepire i dazi in economia per mezzo di agenti del Governo, era infatti norma generale della Repubblica di appaltare quasi sempre la riscossione dei dazi. «Principal studio deve essere, a nostro credere, quello di sottrarre i dazi dal pericolo sempre maggiore di correre per conto pubblico, con procurar d’affittarli» (II, 40). Ed altrove: «L’esperienza, maestra di tutto, documenta che li dacj che per loro natura devono correre per via di governo per conto pubblico, qual’ora sono gravosi altro non producono che la richezza dei contrabandieri e l’utilità indebita delle custodie destinate a diffenderli da contrabando» (II; 437). Questa è una delle massime di buon governo che son ripetute più di frequente nelle relazioni dei Deputati, i quali del resto si persuadevano dei cattivi risultati della riscossione in economia, osservando l’accumularsi dei residui nelle imposte dirette. Nel 1738, per cui si hanno dei dati precisi, nella Dominante la Decima del Laico aveva lasciato residui in ragione del 12 per cento, il campatico del 14, li taglioni de’ mercanti del 25, li taglioni dell’arti dell’81, la tansa insensibile del 44, le decime dei ministri (pubblici impiegati) del 57 e le gravezze della terraferma esatte a Venezia del 68 per cento. Quanto alla terraferma, il campatico andò in resta ossia lasciò residui per il 22 per cento, la tansa per il 70, il sussidio ordinario del 33 per cento, le gravezze de mandato dominii del 31 per cento; in media le quattro gravezze insieme del 27 circa % (II, 182-189).

 

 

I deputati non sanno vedere a questo malanno dei copiosi residui altro rimedio migliore di un nuovo estimo che renda perequate o sopportabili le gravezze. Essi citano l’esempio della città di Treviso che «ha in questi ultimi anni compito il proprio estimo nel modo più chiaro e sicuro che mai si possa» dimostrando «oltre la descrizione dei possessori de beni, della qualità, quantità e valore di essi… in disegno ogni più minuto corpo de’ beni con tutte le più distinte particolari notizie». Ma trattandosi di materia grave ed importante, se ne rimanda ad epoca più propizia la trattazione definitiva; e frattanto si dovrà ricorrere «al metodo delle cariche estraordinarie (ispettori viaggianti), tenutosi in passato, destinate a girar la terraferma (dove i residui erano più copiosi) convenendo certamente introdurre una soggezione valevole a rimovere tante copiose summe degli annui suoi residui» (II, 189).

 

 

Ma il malanno non cessa. Nella relazione al Bilancio 1739, i Deputati accusano nella Dominante dei residui del 16 per la decima del laico, del 16 per il campatico, del 23 per li taglioni dei mercanti, del 30 per li taglioni dell’arti, del 52 per la tansa insensibile, del 60 per le decime dei ministri, e nella terraferma del 22 per cento per il campatico, del 20 per la tansa, del 33 per il sussidio ordinario, e del 30 per cento per le gravezze de mandato dominii. Al solito essi fanno delle raccomandazioni ai Magistrati competenti «a rinforzar le loro fervide diligenze» a fine «che resti in avvenire promossa una più abbondante esazione»; incuorandoli a prestare sull’argomento «una particolare attenzione per rinvenirvi il conveniente riparo». Ma essi medesimi sono scettici sui risultati delle loro esortazioni ed anzi accade che per la tansa della terraferma prevedono per il futuro «sempre maggiori diminuzioni, e tali che la faranno riuscire una rendita di solo nome», restando dessa «per altro una gravezza che per essere mal ripartita ne sudditi, vien d’arrecare ad essi, in riguardo alle vessazioni de ministri, dell’aggravio senza pubblico proffitto. Essi fanno perciò nuovi propositi di modificar gli estimi mercantili; ma non è chiaro se ai propositi buoni sia seguita l’opera efficace (II, 228-233). Ancora il 25 Marzo 1742 i Deputati mettono in luce la necessità di un qualche estraordinario espediente che ponga freno al disordine dell’esazione in primo luocco, et secondariamente per redimere li pregiudici che possono derivare dall’imposizione delle (gravezze) sopra gl’estimi a contribuenti, quali estimi essendo di vecchia data et confusi in tanti luochi, non distinguono li beni vecchi dai nuovi et dai comunali, e meritano certamente universal regolazione» (II, 273).

 

 

Siccome però occorre tempo a stabilire i nuovi estimi, si cerca di ottener denaro dai contribuenti ritardatari, concedendo loro degli indulti per il ritardo e permettendo di pagare i residui senza multe. Ma non pare che le promesse di indulgenza giovassero molto, poiché il Senato, impazientito ed irritato, il 5 dicembre 1742 decreta: «Trar convenendo sopra ogni cosa da debitori pubblici le summe maggiori, come da quelli che, abusati essendosi del passato indulto e delle proroghe accordategli, si resero immeritevoli di ulterior atto della pubblica indulgenza, sieno pertanto incaricati gl’inquisitori conti o pubblici debitori a dar mano a tutte quelle più forti e rigorose esecuzioni ed atti che furono loro prescritti, onde per ogni modo astretti sieno, e succeda copiosa l’esazione da fonti naturali della pubblica cassa a conforto della medema in tanta esigenza di dispendio» (II, 312).

 

 

Un metodo efficace, se fosse possibile attuarlo in vaste proporzioni, per ristabilire l’equilibrio nelle pubbliche Finanze sarebbe di fare economie riducendo le spese; ma come è difficilissimo attuarlo ora per non scompaginare i servizi pubblici e per non ledere diritti acquisiti, altrettanto arduo sembra fosse a Venezia. Nel 1739 finita la seconda neutralità d’Italia i Deputati insistono affinché sia ridotto il piano militare che ascendeva allora a 21.736 uomini; e poiché da una «conferenza» militare si era già ottenuto un risparmio di 115 mila ducati, essi se ne dimostrarono riconoscenti verso i magistrati «che in tutte le unioni secco loro fatte si sono mostrati tanto commossi ed inteneriti dalla sincera esposizione fatta dell’infelice stato della pubblica economia e confidano che continueranno a produrre nuovi riguardevoli risparmi». Essi poi dal canto loro non si stancano di «sempre rippetere, che senza giungere finalmente al reale risparmio di ducati 250.000 non si potrà mai conseguire il bilanzo sovra d’ogni altra cosa desiderabile e profficuo» (II, 61).

 

 

Qualcosa si ottiene dunque quanto alle spese militari appena scemono le urgenze di guerra. Ma la bisogna è più ardua per gli altri servizi. I Deputati se ne lagnano in una relazione dell’8 giugno 1740 e ne attribuiscono la causa all’essersi trascurato il metodo allora invalso degli assegnamenti alle singole casse. Questo metodo che oggi è stato universalmente abbandonato consisteva in ciò che per ogni servizio pubblico si creava una speciale cassa, assegnandole il reddito o parte del reddito di una data imposta, per esempio il partito della vendita della polvere e del salnitro all’ufficio delle Artiglierie. Ciò produceva l’inconveniente che se il provento di quella speciale imposta era esuberante ovvero insufficiente alle spese della cassa a cui l’imposta era applicata, i magistrati potevano trovarsi o spinti a fare spese inutili per spendere i fondi esistenti o costretti a lasciare andare a male il servizio che ad essi era stato affidato. Il secondo inconveniente era quello più sentito a Venezia, e vi si era provveduto supplendo alle deficienze delle singole casse con fondi forniti dalla cassa del Conservatore del Deposito, che era come la cassa centrale a cui affluivano i resti di tutte le casse speciali ed a cui ricorrevano per aiuto le casse in disavanzo. Ma la consuetudine di ricorrere per supplementi di assegni, o come allora dicevasi «per la via dei fabbisogni e delle ballottazioni» alla Cassa del Conservator del Deposito, spiaceva assai ai Deputati i quali lamentavano che per tal modo venisse ad obliterarsi l’ufficio precipuo del metodo degli assegni alle singole casse, che era quello di mettere quasi un freno automatico all’eccesso delle spese; poiché i magistrati consapevoli di poter disporre soltanto del provento ad es. dei partiti delle polveri e del salnitro, avrebbero cercato di non spendere in Artiglierie più della somma disponibile. Invece, grazie alla facilità di poter far gravare l’eccedenza della spesa sulla cassa del Conservator del Deposito, quel salutare freno veniva onninamente a mancare e le spese non avevano più limiti di sorta alcuna. «Né sarà fuori di proposito» – ammonivano perciò i Deputati – «il riandare le spese delle casse principali della Dominante per fissargli una corrispondente assegnazione, altrimenti accorrendo questa cassa a tutte le loro esposte indigenze, benchè con la scorta sempre de decreti, viene talmente ad impoverirsi l’errario, per il sopracarico de censi, che difficile molto, come abbiamo detto; sarebbe per riuscire il conseguimento del bilancio voluto dall’Ecc. Senato per li gravissimi oggetti del suo vero servizio». In tal modo forse sarà possibile ottenere qualche economia. «Convien solo che il zelo de magistrati e delle cariche primarie modifichi li bisogni, o almeno che l’ecc.mo Senato, in quella parte ch’è compatibile col suo servizio, li diminuisca per trasportarne il di più a tempi meno incommodi e però più atti ad addempirli… Il solo magistrato ecc.mo dell’Artiglierie si è sino ad’ora proddotto col risparmio della spesa di due tiri al bersaglio, già decretato dall’ecc.mo Senato; resta che l’attenzione benemerita di questo magistrato venga d’imitarsi da tanti altri a cui incombe il carico di tante maggiori spese». Fra tutte le spese una di quelle che angustia maggiormente l’animo dei Deputati è quella delle fabbriche: «Le spese di fabbriche giungono ormai all’eccesso; per le sole Terraferma e Dominante nel 1738 si sono spesi per esse ducati 53.000 effettivi. Questo è un genere di dispendio che commove l’economia ad implorare qualche ritegno, e sarà dell’ecc.mo Senato l’ingiongere quei maggiori risparmi, che saranno creduti giovevoli dalla maturità di vostre eccellenze, per procurar di scemare e rippartire un tal dispendio all’urgenze più premurose col riguardo del possibile sollievo della pubblica cassa, sempre con le previe informazioni de magistrati» (II, 159-160). Ripetutamente ed ancora il 26 luglio 1746 i Deputati tornano alla carica: «Se la fabbrica del tezzon che per li precedenti decreti doveva sospendersi quando fosse andata a coperto fino al segno dei volti che erano all’ora fabbricati, sia tempo, come pare a noi, di restar per ora sospesa, lo detterminerà la pubblica prudenza, mentre noi dobbiamo con asseveranza ripeter che, senza diminuir qualche dispendio compatibile con pubblici riguardi, sarà molto difficile poter supplire a tanti estraordinari militari dispendij della Terraferma; e però crederessimo che tutte le spese di fabbriche, di strade e ponti meritar potessero una sospensione per qualche tempo almeno, alla risserva dei ripari che conosciuti fossero necessari per evitar le ruvine» (II, 475).

 

 

I provvedimenti temporanei di questo genere sono i soli che possano essere attuati. Sospendendo una fabbrica iniziata e provvedendo ad «evitar le ruvine» si può sperare di riprenderla ben presto e condurla a compimento. Del pari per l’esercito, rispetto a cui la Serenissima era tuttavia tanto più energica nelle riduzioni dei governi presenti, si preferivano le mezze misure, simili a quelle a cui si ricorre tanto volontieri adesso, di ridurre la forza effettiva delle compagnie e dei reggimenti senza diminuirne il numero. «Fu laudabile, non può negarsi» – riconoscono i Deputati in scrittura del 21 Gennaio 1741 – «la direzione tenuta dalla militar conferenza nel suggerire le comandate riforme del 1739 al mezzo della diminuzione del numero delle compagnie (all’ora almeno si riducevano di numero le compagnie), piuttosto che con riforme di corpi intieri». Ed il motivo allora addotto per dar lode a questo provvedimento era quello che ancora oggidì si adduce: «cosicchè nel caso presente si può ottener l’intento dell’unione delle truppe che occorrono senza la necessità di formar nuovi corpi, che avrebbero arrecato molto maggior dispendio alla pubblica cassa».

 

 

Ma, se sui metodi di ridurre le milizie si poteva discutere, niun dubbio vi era sul principio della riduzione. Appena conchiusa la pace il 4 febbraio 1749 i Deputati subito avvertono che importa moltissimo «al vero interesse della Repubblica che nell’attuale tranquillità d’Italia s’arrechi sopra il dispendio militare un sollievo corrispondente per quanto mai si può al vero bisogno dell’erario. Quella ragione che costrinse in tempi di neutralità a dispendiar molto in milizie per la precustodia dei publici Stati, è a parer nostro la stessa per risparmiar possibilmente simile dispendio in tempo di quiete, onde abilitare la pubblica cassa a provedere ciò che fosse per occorrere di milizie nei casi di nuove moleste insorgenze» (II, 519).

 

 

Ma purtroppo, fuor della riduzione delle spese militari e della sospensione delle fabbriche, non sembra che in altri campi si riuscissero a fare economie rilevanti; ed è curioso osservare l’intonazione pessimista del seguente sfogo dei Deputati, in data 23 luglio 1746: «Indicassimo varie diminuzioni di dispendij, oltre quelli che furono col decreto 26 settembre prossimo passato abbraciati per li dragomani e giovani di lingua, ed intendessimo a merito particolare degli ecc.mi signori Scansatori fatta una limitazione del consumo della carta, già approvata dall’ecc.mo Senato, che si lusinghiamo sarà per essere sostenuta dai decreti dell’ecc.mo Senato; ma tant’altre partite di spese proseguiscono sul solito piede» (II, 470).

 

 

VI

 

Perciò vista la impossibilità di ridurre le spese, i Deputati vorrebbero trovare nuove entrate, e prima di tutto ristabilire almeno alcune fra le imposte indirette (dazi doganali e imposte di fabbricazione) che erano state abolite nel 1736 per agevolare gli scambi e promuovere l’industria. Essi non osano proporre di ritornare alla condizione di prima; ma affacciano il dubbio che le riforme daziarie siano state eseguite forse con troppa sollecitudine ed occorra operare dei «ritocchi» solito eufemismo di cui allora si conosceva se non il nome, la sostanza e che serviva a mascherare la proposta di nuove gravezze.

 

 

Al commercio, essi dicono, lo Stato ha fatto nel 1736 in via di esperimento «un generosissimo dono di 115.000 ducati». «Se una tale grandiosa somma va a cader tutta in benefficio dell’arti, in vantaggio del comercio ed in onor della piazza, anche in questi molestissimi pensieri della pubblica tanto afflitta economia, non possiamo se non benedire l’indole caritatevole e beneffica dell’eccell. Senato. Ma ci sia lecito l’accennare che la tariffa che regola il peso dell’ingresso et l’uscita delle mercanzie, quantunque formata con zelo et con studio benemerito del magistrato ecc.mo della Deputazione, è stata un opera adempita con quella sollecitudine che conveniva all’ora per mettere in esecuzione un tanto proggeto. Chi sa che nuovi e maturi esami della medesima non potessero ancora render noto all’errario senza togliere al comercio, sia nell’estere maniffature che entrano nello Stato a confronto delle nostre, sia a danno delle nostre di non dissimile genere che potrebbero subrogarsi con utile alle straniere, et sopra di queste, quando si credesse di aggravarli di nuovi pesi in ordine al consumo, questa sarebbe una compensazione all’erario senza vulnerare il commercio». (Cfr. relazione 28 marzo 1739, II, 74). Il 3 febbraio 1744 ritornano alla carica e ricordano che l’alterazione delle tariffe del commercio sin’allora aveva già arrecato una perdita di 900 mila ducati, oltre alla perdita del dazio sulla seta di qua del Mincio che ammontava a circa 210 mila ducati, «sagrificati con oggetti speciosi di commercio e di stato e di prodotto, con aumento di impiantaggione de moreri», cosicchè in tutto si era risentito il rilevantissimo discapito di 1.100.000 ducati (II, 349). Tanto insistono che il Senato decreta l’8 febbraio 1744: «non si dubita che dal zelo benemerito de cittadini che compongono la Deputazione del comercio… non sia per essere quanto prima, in ordine alli replicati decreti di questo Consiglio, prodotta quella regolazione delle tariffe che sarà creduta la più conferente, onde, preservati gli oggetti del possibile sollievo al comercio, sia restituita alla pubblica cassa quella summa di rendita, che sarà per essere di giustizia a respiro della medesima. E per quello riguarda al punto ugualmente esenziale della seda di qua dal Mincio, resta incaricato il dilettissimo nobile nostro ser Polo Querino Inquisitor eletto a quella parte d’internarsi per riconoscere se in fatto riesca quella maggior affluenza e perfezione de lavori proposta con l’alleviamento datosi al dazio stesso, e se corrisponda agli oggetti accordati dalla pubblica munificenza, al qual fine dovrà la Deputazione suddetta munirlo di tutti quei lumi che occorrere gli potessero» (II, 353).

 

 

Ma più che dal ristabilimento delle imposte abolite, sembra che i Deputati sperassero dalle imposte nuove che essi andavano escogitando continuamente in obbedienza agli inviti del Senato desideroso di maggiori entrate.

 

 

Non era la prima volta che il Senato deliberava di doversi ricorrere a nuove maniere di imposte, se in decreto del 4 agosto 1742 si legge l’invito ai Deputati ed aggiunti alla provision del denaro di «versare» e di «riferire» «sopra la massima già presa fin dall’anno 1681 col decreto di questo Consiglio di 30 dicembre per l’imposizione della carta bollata, onde facilitarne le maniere della sua esecuzione». «Proseguiranno egualmente – seguita il citato decreto – in consimili esami anche in relazione ad altri fondi nuovi che per prudente loro parere potessero instituirsi col possibile minor peso de sudditi» (II, 326).

 

 

I Deputati studiano ed il 9 agosto 1745 si dicono «ardentemente» desiderosi «che possa aver il suo effetto il proggetto di nuovo fondo sul caffè, sopra cui dovendosi di nuovo replicare l’unione della comandata conferenza con l’eccell.ma Deputazione del commercio, sarà per essere quanto prima informato l’eccell.mo Senato del rissultato, onde per effetto di sue provide deliberazioni possono instituirsi quei metodi che saranno conosciuti più certi per proveder denaro alla publica cassa in tempi di tanta ristrettezza. Si versa ugualmente per rassegnare alla Serenità Vostra a momenti altro proggetto d’aggravare il consumo della carta, et dietro a tutto quel più che si desidera poter riuscir valevole all’effetto di non aggravare, se fosse possibile, con estraordinarie gravezze (imposte dirette) li cittadini e li sudditi, al quale espediente per altro converrebbe senza ulterior ritardo darsi mano per necessità quando venissero d’abbortire le accennate speranze della instituzione di nuovi fondi (dazi replicatamente comandati dalla sovrana autorità, perché sommamente necessarii onde poter reggere a tanti e così gravosi provedimenti» (II, 392-3).

 

 

Urgendo i bisogni il 1° ottobre 1745 i Deputati possono rallegrarsi che sia stata decretata la massima dell’appalto del caffè; e sollecitano il compimento della cosa temendo che, «altro modo operando, s’arricchiranno poche persone con molto discapito dell’universale e tenue profitto della pubblica cassa». Essi credono che, seguitando nel cammino incominciato, in «senza molti riguardi convenisse d’aggravarsi tutte quelle cose che sono di consumo voluttuoso et di lusso», ed annunciano che poco tarderanno «a rassegnare un altro proggetto sopra il consumo della carta, dietro al quale pocco manca alla raccolta di tutti li lumi necessari» (II, 437).

 

 

Sembra che questi progetti di nuove imposte fossero da parecchie parti criticati ma i Deputati, dopo avere sarcasticamente notato che «l’opponere qualunque proposizione è cosa di pocca fatica, non così riesce nel dover sostituire l’equivalente» (II, 437) passano subito a fare altre proposte di una nuova imposizione ancora più gravosa per i contribuenti, e cioè di una «estraordinaria universale gravezza, cioè di mezza decima di capital et soldi per lira della Dominante, et una imposizione estraordinaria di ducati 200.000 alla Terraferma. Mezza decima parimenti sopra li salari tutti, così de N. N. H. H. come de ministri di ogni genere, non esclusi li provisionati tanto della Dominante che della Terraferma; la metà parimenti delli due taglioni che si pagano in questa città dagli avvocati, causidici, mercanti et dalle arti; et mezza tansa della Terraferma, affinché sia proporzionalmente rippartito l’aggravio tanto sopra dei possessori dei beni stabili, quanto sopra quelli che traggono proffitto dalle pubbliche beneficenze, dal pubblico servizio et dagl’esercizij dell’industria così liberale come meccanica». La proposta è così grave che i Deputati sentono il bisogno di ricordare che già nel 1701 e 1705 erasi applicato un provvedimento di questo genere e di esortare i contribuenti alla pazienza «trattandosi del ben comune e del dovere che ogn’uno concorra all’aggravio, che al fine è estraordinario et che può sperarsi che non averà ad essere replicato per molti anni, potendo esser forse non molto lontana la benedizion della pace doppo tanti anni che sono trascorsi di eccedenti dispendj di tutte le potenze guerreggianti in Europa» (II, 440). Purtroppo però i Deputati non sperano di poter ricavare tutti i 450 mila ducati che l’imposta dovrebbe rendere e si augurano «ardentemente che nell’invernata che si va approssimando s’allontani l’occasione delle gravezze estraordinarie che la cruda necessità ci costrinse di indicare, pur troppo temendo che sarebbe per essere copiosa di resti la loro esazione, o che si diminuirebbe di gran lunga quella delle ordinarie gravezze» (II, 441). Sia per il timore che l’aumento delle aliquote riducesse lo sperato beneficio delle gravezze straordinarie, sia perché era politica costante del Senato di non mettere nuove imposte se non quando non fosse davvero aperta altra via di scampo, le proposte dei Deputati non sono accolte dal Senato il quale in suo decreto del 7 ottobre 1745 manifesta al «benemerito magistrato de Deputati il publico aggradimento per tanti e così fruttuosi suoi studi», ma si riserva «a determinarsi sopra la suggerita mezza decima di capital e soldi per lira, e la metà dei due taglioni in questa città, e sopra la estraordinaria imposizione di ducati 200.000 e mezza tansa in Terraferma» raccomandandosi che in caso di necessità i Deputati prontamente suggeriscano «in qual tempo dovrà essere imposta, dentro qual termine pagata, con qual benefizio ai più o meno pontuali». Siccome poi la incertezza del Senato a prendere determinazioni definitive circa le nuove imposte gli ha impedito di mettere in attuazione il dazio sul caffè pur già deliberato, come si vide, in massima; nuovi inviti si fanno ai Deputati a suggerire nuove fonti di rendita. «Quello del caffè che quanto più presto si maturerà dall’autorità pubblica e quello della carta che si promette, valeranno a questo essenzialissimo oggetto. Il Magistrato interni li suoi esami e suggerisca nuovi fondi, particolarmente come egli stesso saviamente riflette, sopra quelle cose che sono di consumo voluttuario e di lusso» (II, 446).

 

 

Frattanto, potendosi sperare una prossima diminuzione nelle spese militari, la proposta della gravezza straordinaria di 450 mila ducati viene messa da parte; e solo – mentre si procede col solito metodo degli spedienti temporanei, che saranno in seguito descritti – si raccomanda ancora il 30 aprile 1746 al Magistrato dei Deputati di applicarsi «a rinvenir nuovi fondi che soccorrono ed aggiongono forze all’erario. Tra questi riconoscerà anche quello della carta bollata e, riconosciuto, porterà a publico lume gli effetti de’ suoi studj. Può meritare pure esame e riflesso se alcuna gravezza vi fosse cui si trovassero soggetti li soli abitanti di questa città, ch’estender anche si potesse alli sudditi della Terraferma». Simili studi il Senato si promette altresì «dal magistrato della Deputazione al commercio che vorrà, col proddur sollecitamente gli effetti delle sue applicazioni, in esecuzione alle commissioni ingiontegli in riguardo al caffè, assicurare un conveniente fondo. E come l’erario pubblico ha molto donato al commercio, verserà se dal commercio in adesso restituir in alcun modo si potesse all’erario e rimmettergli il patrimonio» (II, 458).

 

 

Ma sembra che molto tempo si perdesse nelle conferenze tra i diversi Magistrati e che gli studi sui nuovi dazi e sulle imposte straordinarie a poco giovassero; sicchè in una scrittura del 21 maggio 1746 i Deputati, pieni di sfiducia non sanno più che partito prendere. «Tutte le cose che, non necessarie alla vita umana, possono dirsi di lusso, et quelle ancora che per la quantità del loro necessario consumo potrebbero senza aggravio della povertà essere caricate di nuovi pesi prendessimo in esame; ma fatto riflesso all’occorso per il caffè, fossimo disanimati dalle cose sempre decretate in favor del commercio, che rispettar dobbiamo per tanti riguardi». Visto che di lì non si poteva ricavar nulla, i Deputati si erano posti «a ripassare ogni categoria (di entrate); et prima di tutte fu quella dei dacij della Dominante e della Terraferma; ma vedendoli caricati di 10 soldi per lira, che è la metà dell’antico aggravio, e considerato inoltre il grave peso aggionto loro di 29 per cento a cagion del rialzo delle monete, fossimo costretti a persuadersi che, piuttosto che aumentarli, s’havesse dovuto attendere tempi più felici onde poterli diminuire più tosto a sollievo dei sudditi e specialmente dei poveri artisti delle città e dei villici dei territori». Scartati i dazi, i Deputati passano all’esame «delle ordinarie gravezze che cadono sul ben reale e sull’industria personale delle arti liberali e meccaniche». Ma anche qui i risultati della rassegna sono lamentevoli: «La decima ordinaria della Dominante, per esser stata caricata essa pure di 10 soldi per lira, et perché rissente ugual discapito delle monete, che produce il considerabile pernicioso effetto di pagarsi la decima in pubblico col ducato effettivo di quella rendita che esiggono i privati in moneta di piazza,[14] non potessimo divisar sopra la medesima alcun’altro aggionto. Il campatico poi, che nel suo nascere fu imposto come gravezza estraordinaria nei casi di gravi bisogni dell’errario, è divenuta ordinaria, essendo stata ogni anno dopo il 1688 imposta, perché pur troppo da allora in poi non ha potuto respirare l’economia; e noti essendo all’eccellenze vostre (i membri del Senato) li reclami di tanti territorij meno fecondi degli altri, che hanno tentato d’ottenere qualche diminuzione, passar dovessimo all’altra gravezza del taglione che cade sull’industria, come parimenti la tansa insensibile. Queste due gravezze sono fissate in cadaun anno, ma tanto eccedenti sono comparsi in passato li ressidui caduti in pena, che l’unico studio esser deve quello d’invigilare alla dirrezione de’ corpi per rendere col minor loro aggravio più copiosa l’esazione». Dopo d’avere accennato alle analoghe imposte dirette che cadevano sulla Terraferma, anche per esse conchiudono i Deputati non potersi «certamente pensare di dar nuovi accrescimenti… Ripassassimo dopo ciò anco le gravezze che cadono sul ministerio, da cui tanto numero di persone trae il proprio sostentamento; ma vedendole caricate del 30% di decime sopra li salarj che escono dalla publica cassa, d’altrettanto sopra le utilità delle pene, ed altro passanti per cassa, e similmente di 30 p.% sopra gli utili incerti, coll’obbligo inoltre di pagar la pena di 25% nel caso di cader in diffetto, con l’aggionta inoltre a detta pena de soldi 10 per lira, che rivengono 37,5 p.%, oltre il danno che essi pure rissentono nella moneta, non ci diede l’animo di pensar né pur sopra di esse all’istituzione d’alcun nuovo fondo» (II, 459-61).

 

 

Finalmente, dopo tanto cercare e ricercare, i Deputati si fermano sul progetto di estendere alla Terraferma l’imposta del 5% sulle eredità che si esigeva da tempo nella Dominante. In verità sino dal 1617 si era deliberata l’estensione; ma poi per le solite titubanze dai reggitori veneti quando si tratta di disgustare i sudditi e più ancora «per la felicità che correva» allora, fu sospesa nel 1619. Né più se ne era parlato sino al 1738 quando «per le disgrazie resesi sempre maggiori nel secolo presente», il Senato col decreto 27 settembre 1738 commetteva al magistrato competente di studiare se «convenisse rinovar alla Terraferma l’imposizione predetta, con qual modo e con quali regole». Ora i Deputati, visto che malgrado gli inviti del Senato non si era potuto far nulla a causa delle lungaggini delle conferenze fra i diversi magistrati interessati[15], propongono nuovamente che l’estensione dell’imposta ereditaria del 5% alla Terraferma sia seriamente studiata. «Posto che per l’estremità del bisogno di proveder nuovi fondi et l’impossibilità in riguardo a noi d’aggravare il commercio, i daci di consumo e le gravezze ordinarie, applicar si debba almeno per uguagliare possibilmente nelle imposizioni ordinarie li sudditi della Terraferma in proporzione della Dominante, non sapiamo veder che esser vi possa opposizione alcuna perché la maturità del Governo, senza ulteriori conferenze, avesse a detterminarsi nella massima antedetta»; tanto più, che un’imposta migliore, secondo l’avviso dei Deputati, non potrebbe essere escogitata: «L’aggravio è giusto, perché eguale alla Dominante; non è pesante, perché non vi soggiacciono se non quelli che restano benefficati per eredità o per legati; né può riuscire se non grato all’universale che verrà per tal mezzo ad essere sottratto dall’occasione di soggiacere a maggiori e più pesanti gravezze sia del genere delle ordinarie che di quello delle estraordinarie» (II, 462-4).

 

 

Il Senato, con decreto 4 giugno 1746, pur abbracciando «la massima di detta imposizione, conveniente e giustissima anche sopra i sudditi della Terraferma, in soccorso e difesa de’ quali si son profuse con paterna predilezione dal Senato, e nei tempi decorsi e di recente, in occasione di guerra e di pace, copiose beneficenze» non accoglie il suggerimento dei Deputati di far senza di ulteriori conferenze, e, ligio alle antiche norme, incarica «il magistrato alle Acque e quello dei Deputati et Aggionti alla provision del denaro, di unirsi in conferenza onde meditare e suggerire i mezzi più facili per dar sistema a questa imposta, e per assicurarne la sua esazione» (II, 405-6).

 

 

Al solito col metodo delle conferenze le cose vanno per le lunghe. In una scrittura del 23 luglio 1746 i Deputati si lagnano nuovamente che «dei fonti che furono da essi posti in vista per il sollievo dell’economia» nessuno abbia avuto «per anco la sorte d’essere secondato». L’appalto del caffè decretato, poi sospeso e poi divenuto litigioso, sospesi gli studi sui nuovi dazi sulla carta e su altri, non ancora esaudita la speranza dei ritocchi ai dazi sul commercio, non accettata la proposta della gravezza straordinaria sulle imposte dirette; ecco l’infelice esito dei disegni di nuove gravezze escogitate con tanta difficoltà. Il Senato di nuovo dà delle buone parole; raccomanda ai Magistrati competenti di studiare i dazi sul commercio e l’imposta ereditaria (Decreto 30 luglio 1746); ma non si conclude nulla; sicchè il 23 agosto 1747, in seguito ad altre rimostranze dei Deputati, è costretto a rinnovare le sue esortazioni platoniche: «Impiegherà – dice il Senato al Magistrato dei Deputati – assidue le sue applicazioni per rinvenir nuovi fondi che soccorrano ed aggiungano vere forze all’erario. Verserà, come ne fu incaricato particolarmente, nei modi di dare esecuzione alla massima presa dal Senato di render commune ai sudditi della Terraferma la imposizione delle 5 per cento cui soggiacciono al magistrato delle Acque li abitanti di questa città; esaminerà nuovamente se introddur si potesse la imposizione sopra la carta bollata; se un qualche aggravio instituire sopra la cera di consumo; e porrà in opra ogni studio onde stabilire una sicura rendita sulla imposizione che si è fissata nell’anno decorso sul caffè… Dalli sempre utili studi di cittadini così esperti, a quali è tanto nota la costituzione dell’afflitta economia pubblica, si promette il Senato, e sopra le cose proposte e sopra altre, e specialmente di lusso che riconoscesse addattate a dar suffragio al pubblico errario, suggerimenti così vantaggiosi che allontanar possano li motivi di ricorrere a’ mezzi sin ora usati con troppo sensibile suo sconcerto» (II, 497). Invece a questi mezzi-vendita di entrate pubbliche e nuovi debiti di varie forme – si continua a ricorrere per tutto il 1747 e per l’anno successivo. Il 18 luglio 1748 non si era concluso nulla, perché nuovamente il Senato, dolente di «ritrovarsi per la urgenza dei momenti nella necessità di provedere alle occorrenze con modi tanto gravosi» ingiunge ai Deputati di versare «sopra la carta bollata, sopra li modi di estendere anche alla Terraferma la già indicata imposizione delle 5 per cento… e sopra pure quegli altri argomenti che con la sua esperienza trovasse opportuni» (II, 506). I Deputati «versano» ed il 4 dicembre 1748 riferiscono che «non lieve vantaggio si è ritratto sinora ed altro giova sperare nell’avvenire dalle riforme introdotte nei metodi di esazione delle rendite del Levante e della Dalmazia, dazij della Dominante e gravezze della Terraferma, specialmente coi nuovi regolamenti adottati per la tansa della Terraferma. In quanto poi alli nuovi fondi, poco manca alla consumazione della ricupera della regalia del Principato nella parte delle correrie della Terraferma; e per l’istituzione della carta bollata si è donato nei mesi scorsi lungo e serio esame onde vincere le molteplici difficoltà da quali è circuita, e poco manca onde poterne rassegnare alla Serenità vostra la proposizione. Si sono anco estesi li capitoli per il metodo dell’esazione delle 5 p.% sopra l’eredità della Terraferma, né altro vi resta se non comunicarli alla comandata conferenza del magistrato eccell.mo delle Acque» (II, 507).

 

 

Gli inviti del Senato erano stavolta così perentori, che sembra qualche risultato concreto si sia ottenuto, a quanto almeno si può dedurre da una relazione dei Deputati ed aggiunti in data 11 dicembre 1750 nella quale si nota che «in ordine al punto dell’istituzione de fondi nuovi, oltre l’aggiunta data alle rendite coll’instituzione del pubblico lotto, si fece la ricupera delle correrie della Terraferma e la dilattazione delle 5 per cento alla medesima». Ma i Deputati debbono confessare «essere questo uno studio che esigge longezza di tempo e che incontra gravi difficoltà non facili a superarsi, specialmente nei tempi correnti; e quando anche nuovo profitto fosse per ritraersi, dobbiamo francamente asserire che non riuscirebbe corrispondente alle pubbliche indigenze. Che se poi rivolger si volesse il pensiere all’imposizione di nuove gravezze, oltre che ciò riuscirebbe spiacente all’animo dell’eccell.mo Senato, che ha voluto tenersene lontano anche nelle circostanze dei recenti estraordinarij dispendij, non sapressimo qual lusinga poterne concepire della loro esazione, mentre sono pur troppo caricati di peso poco meno che eccedente li cittadini e li sudditi per le gravezze e dazi già imposti, e per li repplicati accrescimenti che vi sono stati aggiunti; tra quali non è tenue quello che deriva nelli pagamenti di tutte le pubbliche gravezze e dazij per il rialzamento delle valute, che non importa meno di 29 per cento di estraordinario aggravio, così che anzichè aumentare il loro gravoso importare, voressimo suggerire qualche sollievo, che per le angustie presenti esser dovrà riservato a tempi migliori» (II, 531). I Deputati sono lieti, oltrechè del frutto, per quanto esiguo, ottenuto dalle nuove imposte, altresì dei risparmi ottenuti nelle spese: «Col aperta della cassa del Banco si è sottrata alla publica cassa la considerabile spesa che risentiva dal danno dei concambij. Si sono diminuite varie spese delle casse libere della Terraferma, e quella inoltre de dragomani e giovani di lingua di Costantinopoli, oltre varie altre partite di minor rilevo, che furono secondo l’opportunità dei casi scansate» (id. id.). Ancora maggior profitto si ottenne per la via del miglioramento delle vecchie rendite: «Hanno operato» – riconoscono i Deputati – «certamente con zelo e benemerita applicazione tutte si può dire le magistrature e le pubbliche rappresentanze dietro lo studio di migliorare le antiche rendite, e non lieve fu il beneficio ritratto per molti dazij di Terraferma levati dalli mani dei corpi ed affittati a privati conduttori. Per quelli in oltre del Levante, Dalmazia ed Istria, posti in altro sistema in riguardo alle loro deliberazioni. Per la tansa della Terraferma posta sopra del nuovo. Per le provide regolazioni della fervida applicazione degl’ecc.mi magistrati della Deputazion al comercio e de Cinque savi sopra la mercanzia date a buon conto e sin’ad ora alli dazi delle dogane. Finalmente per gli aumenti ritratti nelle ultime deliberazioni dei principali dazi della Dominante, e specialmente sopra li partiti del tabacco, del sale e del fontico dei curami della Dominante» (II, 529).

 

 

Da tutti questi provvedimenti finanziarii i Deputati calcolano di aver potuto ricavare un maggior provento annuo di circa 300 mila ducati. Infatti se si bada alle cifre pubblicate più sopra nelle tabelle riassuntive dei bilanci si vede che il provento dei partiti e dei dazi della Dominante passò da 2.170.280.19 ducati nel 1745 a 2.298.092.17 nel 1750 ed a 2.384.890.12 nel 1755; che i dazi della Terraferma progredirono pure da 970.918.17 a 981.848.2 ed a 1.025.725.12 ducati rispettivamente nei medesimi anni; che il Campatico della Terraferma passò pure da 219.342.3 nel 1745 a 233.391.1 nel 1755, la tansa da 20.361.8 a 42.180.21 alle medesime date; che la gravezza del cinque per cento sulle eredità, che nel 1745 non esisteva in Terraferma e nel 1750 ascendeva appena 4.587.17 ducati, giungeva a dare nel 1755 ben 52.592.22 ducati; e che in complesso le rendite ordinarie della Repubblica passarono da 5.240.537.23 ducati nel 1745 a 5.559.029 nel 1750 e giungevano a 5.602.095 nel 1755.

 

 

VII

Ma questo notevolissimo progresso si verificò specialmente dopo il 1746, ossia verso gli ultimi anni della neutralità d’Italia e quando già eravamo vicini alla pace. Prima ben poco frutto si potè ricavare dai rimaneggiamenti d’imposte e dalle più sollecite ed efficaci norme di esazione; cosicchè in tutto il periodo che va dal 1736 al 1746 il campo rimase aperto ai «provvedimenti straordinari» per escogitare i quali i finanzieri veneti dovettero dar prova di una ingegnosità non comune.

 

 

Scarso affidamento facevano i reggitori veneziani sul «tesoro di guerra» che essi avevano avuto la prudenza di accumulare col prodotto della tansa insensibile; poiché, malgrado fosse questa stata istituita per preparare, durante la pace, il nerbo pecuniario per la guerra, reputavasi miglior consiglio non intaccarne il fondo affine di averlo pronto per le emergenze davvero estreme in cui fosse in pericolo l’esistenza stessa della Repubblica. Tant’è che ad es. il 18 agosto 1747 calcolandosi che nel semestre venturo il fondo del Conservatore del deposito si sarebbe dovuto ridurre da 611 ad 80 mila ducati, i Deputati propongono di fare un nuovo prestito per lasciare alla fine del cassierato la cassa almeno altrettanto ben fornita come lo era in principio (II, 495). Né questo è il solo esempio che si riscontri scorrendo i documenti veneziani; e tutti provano come la Repubblica non amasse mai trovarsi sprovvista di una forte riserva per le circostanze imprevidibili e gravissime.

 

 

Uno dei metodi preferiti di avere entrate straordinarie era ancora quello di «ritrarre qualche non spregevole somma di danaro dalla vendita di varie cose che essenzialmente dipendono dalla regalja del Principato, inviamenti, cariche, correrie, acque et cose simili; da quali fonti senza verun pubblico aggravio entrando il dinaro con benefizio de privati, verrebbe di sotraersi alla cassa pubblica il gran danno che secco portano le anticipazioni et li depositi con affrancazione, da’ quali possibile non sarebbe finalmente di ritraere tutta la summa occorrente et caricata troppo l’ecconomia di pro, d’affrancazioni et di milizie, angustiati si renderebbero i consigli et le pubbliche deliberazioni» (II, 318). Ed ancora di poi i Deputati ritornano sul medesimo concetto affermando in relazione del 26 febbraio 1746 che «questo della vendita della regalja è il punto più essenziale delle speranze della pubblica ecconomia, perché sottragono non solo l’aggravio delle affrancazioni che sarebbero per slontanar sempre più il suo bilanzio, ma non lasciano né pur sentire l’aggravio del pro» (II, 483). È la teoria della alienazione del pubblico demanio applicata già fin d’allora in vaste proporzioni. Poiché i beni demaniali davano scarso e talvolta nessun reddito, era opportuno alienarlo a buone condizioni.

 

 

Le vendite infatti proseguono assiduamente.[16]

 

 

Nel 1736 si incassano nella Dominante per vendita fatta dall’officio dei Presidenti sopra l’esazion del dinaro publico delle banche di beccaria e botteghini  

D. 1.270

Id., per vendita di cariche in aspettativa » 5.464.12
Id., id » 1.892.9
Id. per vendita de beni della Procuratia de supra » 1.169.17
Nel 1737, id., per vendita beni botteghini a Rialto » 1.450
Id. per vendita beni comunali » 153.5
Nel 1738, id., Affrancazioni perpetue di diversi comuni per il dazio dell’imbottato » 3.225.23
Id., Dalla val Camonica per ottenere il privileggio della fabbrica d’anni 20 entro i confini della valle per le mazze rigate » 2.000
Nel 1739, id., per vendite dacioli della Dominante » 3.540.7
Id., Bergamo, id., di Zarisca » 478.10
Id.,id., diversi » 1.411.20
Nel 1740 id., id » 5.975.20
Id. Brescia. Affrancazioni perpetue dei comuni di Travagliato e Colombaro del dazio dell’imbottato » 14.216.2
Nel 1742 id. Dominante per vendite ostarie ed officij » 58.760.9
Nel 1743 id., affrancazioni d’affitti e livelli » 2.884.2
Id., Vendite d’affitti e livelli » 1.712.18
Nel 1744 id., id. beni delle Procuratie di S. Marco » 7.353.9
Id., id. cariche » 13.261.11
Id., id. ostarie e beccarie della Terraferma » 28.046.8
Nel 1744 Brescia, id., limitazioni » 11.076.3
Nel 1745 Dominante, id., cariche » 17.771
Id., id., ostarie e beccarie Terraferma » 11.250.14
Id., id., affitti » 727.6
Nel 1746, id., id. beni stabili delle Procuratie di S. Marco » 4.787.23
Id., id., cariche » 22.206.17
Id., id, poste d’oglio » 27.100
Id., id., ostarie e beccarie Terraferma » 46.107.21
Nel 1747 id., id., id » 12.061.7
Id., id., officij in attualità » 19.824.10
Id., id., poste oglio Cà di Dio » 21.125.3
Id., id., beni stabili ecc.me Procuratie » 3.720
Nel 1748 id., beni di Po » 11.130.15
Id., id., carico di nodaro acque » 1.860
Id., id., ostarie e beccarie Terraferma » 8.146.12
Id., id., poste oglio » 32.746
Id., id., offici in attualità » 15.060.5
Nel 1749 id., id, beni di Po » 5.253
Id., id., carico nodaro Acque » 387.12
Id., id., laguna in S. Erasmo » 968.21
Id., id., officij in attualità » 20.262.13
Nel 1749 id., ostarie e beccarie Terraferma » 2.602.15
Id., id, beni stabili tre Procuratie di S. Marco » 6.600
Id., Palma, id. carica di ragionato della Camera predetta » 2.120
Nel 1750 id., Dominante, id., ostarie e beccarie Terraferma » 10.971.11
Id., id., officij in attualità » 7.928.12
Nel 1751 id., beni in sacca di Malamocco » 1.398.10
Id., id., beni a S.ta Eufemia di Mazorbo » 534.9
Id., id., officij in attualità » 14.907
Id., id., ostarie e beccarie della Terraferma » 264.20
Nel 1752 id., officij in attualità » 23.649.18
Id., id., ostarie e beccarie » 632
Nel 1753 id., beni » 1.142.8
Id., id., ostarie e beccarie » 495.1
Id., id., officij in attualità » 12.074.10
Id., Camera di Pinguente, id., molini » 220.3
Nel 1754 Dominante, id., officij in attualità » 17.347.5
Id., id., beni di pubblica raggione » 266.6
Id., camera di Pinguente, id., di molini » 259.19
Nel 1755 Dominante, id., officij in attualità » 16.275.18
Id., id., id., beni di pubblica ragione » 158
Id., Camera di Pinguente, id., de Molini » 246.14

 

 

Dal quadro ora composto si vede che le speranze dei finanzieri veneti in ordine alla alienazione del pubblico demanio non si realizzarono guari, e che fuor degli uffici pubblici, delle ostarie, di alcuni dazi e di pochi beni, nulla si potè realizzare delle sperate vendite delle regalie della Serenissima. Forse ciò fu dovuto al fatto che la Repubblica non volle mai essere molto condiscendente nel prezzo di vendita delle regalie e persino nel 1743, quando pure urgevano i bisogni dello Stato, il Senato insisteva a vendere i dazioli di Brescia e di Bergamo al capitale ragguagliato ad un tasso d’interesse del 4% e l’imbottato delle medesime città al 3% (II, 344 e pagine in seguito). Del pari il 31 maggio 1747 i Deputati davano parere contrario alla proposta ricevuta di vendere i dazietti dei territori della Terraferma ad un capitale ragguagliato all’interesse del 4,5 % (II, 492). Per queste cause o per altre ancora, come l’incertezza dei capitalisti in tempo di guerra e la possibilità di facili investimenti in titoli di Debito Pubblico, è certo che la vendita delle regalie dello Stato procedeva stentatamente; e se ne lamentano i Deputati in una scrittura dell’1 ottobre 1745: «Le vendite delle cariche, delli beni di Caurle, delle limitazioni delli terrritori bresciano e bergamasco,[17] delle ostarie di qua dal Mincio et delle cavalerie di Bergamo, che portar potevano in pubblico un million e mezzo incirca di ducati, sono talmente arrenate, che sopra d’esse vendite non sapressimo cosa poter sperare, quando la concordia de sentimenti nei magistrati a quali la respettiva matteria s’aspetta non fosse per vincere una volta le opposizioni dei privati interessati nelle medesime. In tale stato di cose, rippassati dal magistrato li fonti tutti che in passato hanno soministrato dinaro, s’osserva che somme rillevanti entrarono col mezzo delle offerte volontarie per l’aggregazione alla veneta nobiltà, et non siamo fuori di tutta la speranza che nelle città suddite della Terraferma non possa anco in presente trovarsi tal’una famiglia fra quei nobili che fosse in grado di far sopra ciò il solito onorevole proggetto. Habbiamo per tal effetto animato il zelo dell’eccell.mo signor savio cassier che ha onorato la consulta degl’attuali provedimenti, di introdurre qualche maneggio con la naturale sua avvedutezza e desterità per diriggersi poi in questa delicata matteria a misura delle notizie che si ritraeranno. Le chiamate dei banditi non corrisposero all’aspettativa che s’era concepita, et non essendo rimotto il tempo dell’ultima chiamata, non ci dà l’animo di proporne una nuova che altro effetto sicuro non produrrebbe, se non moltiplicar il numero pur troppo osservabile de malviventi» (II, 435-6). Sembra che malgrado la «naturale avedutezza e desterità» del savio Cassiere i suoi maneggi non abbiano giovato a persuadere nessuna famiglia nobile della Terraferma; talchè le speranze di ricavar larghi proventi da questa fonte rimangono deluse al par di quelle di estorcer denari ai banditi per concedere loro il permesso di tornare liberamente in patria.

 

 

Un ultimo partito rimaneva alla Serenissima per procurarsi entrate straordinarie: ed è ancora il partito che oggi viene a preferenza abbracciato: quello di far debiti. Anche allora, come oggi, varie erano le maniere di far debiti.

 

 

Anzitutto le «anticipazioni» dei partiti, dazi ed altre entrate appaltate. Era un metodo facile perché i creditori che anticipavano le somme alla Repubblica, si rimborsavano di anno in anno sul prodotto delle imposte di cui erano appaltatori, conteggiando altresì a proprio vantaggio il solito interesse corrente, che allora era del 4 per cento. È per questo che la Repubblica tanto facilmente ricorreva al metodo delle anticipazioni, si che è possibile compilarne una lunga lista.[18]

 

 

1736 Dominante:

 

 
Anticipazione sopra il partito generale dei sali di qua del Mincio  

D. 100.000

Id., dacio bolla panni e razze di Treviso »  3.000
Id., gli otto dacj di Treviso »  5.000
Id., il partito del tabbacco, condotta Ventura »  130.000
Id., il dazio dell’uscida del tabbacco »  24.500
Id., il dazio della seda di Brescia »  36.580.15
1737 Dominante:

 

 
Anticipazione sopra il dacio oglio lino »  1.000
Id., dacio mercanzia Brescia »  30.000
Id., Pio Luocco della Pietà di detta »  1.500
Id., Cittelle e Soccorso id »  900
Id., Orfani id »  1.800
Id., della Cà di Dio id »  2.100
Anticipazione della Congrega Apostolica id »  2.700
Id., dall’Ospital maggiore id »  7.000
Id., dall’Ospital S.ta Maria de battudi »  3.363.12
Id., sopra dacio uscida Verona »  7.000
Id., sopra il dacio, sive partito animali bovini »  16.000
1737 Terraferma Vicenza:

 

 
Quarto anticipato de dacij diversi in luocco di pieggieria  

»  7.491.22

Brescia. Anticipazion del dacio ducato per botte di Brescia  

»  20.000

 

 

E così di seguito tutti gli anni le anticipazioni formano uno dei mezzi più consueti di sopperire alle urgenti necessità della Repubblica.

 

 

Per non dilungarmi, ricorderò soltanto nel 1741 l’anticipazione del dazio sull’uscita del tabacco di Ducati 20.000 e pel partito generale del tabacco di Ducati 100.000; nel 1742 l’anticipazione del dazio sul pesce salato dall’arte dei salumieri per D. 124.000; dalla Camera di Brescia D. 4931.21 per annate anticipate di Lonato ed Iseo, dalli Corrieri di Roma D. 20 mila, dalla Camera di Brescia D. 64.052.11 per limitazioni e dazi anticipati; nel 1743 anticipazioni diverse delle Camere di Brescia, Salò, Verona, Vicenza; nel 1744 ducati 100 mila dalla Città di Verona per anticipazione sul dazio delle carni, ducati 100 mila sul partito del tabacco, ducati 30 mila sul dazio delle lettere, ecc.; nel 1745 ducati 136 mila sul partito generale del tabacco, ducati 24 mila sul dazio d’uscita dello stesso, D. 124 mila sul dazio del pesce salato, D. 44 mila sul dazio della seta della città di Verona, D. 13.523.18 sul dazio della frutta dall’arte dei fruttaroli; nel 1746 D. 76 mila dalla Città di Verona sul dazio delle carni, D. 16.476.7 dall’arte dei fruttaroli sul dazio delle frutta, D. 14.968.10 dalle tre Procuratie di S. Marco per conto delli D. 150 mila sopra i beni di Caorle, dalla Camera di Bergamo D. 15.435.14 e da quella di Brescia D. 94.865.19 per dieci annate anticipate.

 

 

A Partire dal 1747 le anticipazioni diventano meno frequenti. Esse servivano in casi estremi a procurare rapidamente delle entrate, con metodi a cui si trova un riscontro nei tempi più recenti della unificazione italiana; come per l’anticipazione, sovra ricordata fra le altre, sui beni di Caorle. Erano questi beni demaniali stati messi in vendita al pubblico incanto, ma poiché la vendita procedeva lentamente si stabilì di ottenere, come già si era fatto nel 1696, delle anticipazioni dalle tre Procuratie di S. Marco, le quali dovevano poi ripagarsene a mano a mano che avrebbero venduto i beni, precisamente come si fece in Italia per la vendita dei beni dell’Asse ecclesiastico (II, 346-7). Ma si trattava però sempre di espedienti, i quali erano considerati dai reggitori veneti bensì di esito facile, ma gravosi «perché oltre l’aggravio del prò distragono il capitale dalle pubbliche annuali correnti rendite assegnate al loro rinfranco in breve giro di tempo». Oltre al diminuire le entrate della Repubblica le anticipazioni avevano anche lo svantaggio di legare le mani al governo, il quale, pressato dal bisogno, non poteva ottenere nei nuovi incanti tutti quegli aumenti di prodotto che sarebbero altrimenti stati possibili. È vero che nei contratti di anticipazione si è sempre avuta la mira «di conciliare col mezzo de pubblici incanti la presservazione, se non l’aumento, della pubblica rendita col benefficio degli esborsi anticipati». Ma se si è conservata la cifra del passato, non la si è accresciuta: «Questo modo, quando anco sempre presservar potesse la rendita, del che non si può compromettersi, è ugualmente gravoso: prima perché non si possono promuovere quegl’aumenti delle offerte che s’averebbero in tanti daci, quando potessero esser levati da persone che non fossero tra le più ricche o tra le più accreditate, capaci unicamente di aniticipare le grandiose somme delle anticipazioni. Secondariamente perché ipotecato lo annual redito, convien che l’erario resti proveduto annualmente di tanta summa di più quanto è l’importare dei rispettivi deconti delle anticipazioni ritratte» (II, 434).

 

 

Appena perciò è possibile la Repubblica saviamente abbandona il metodo delle anticipazioni: nel 1748, nel 1749 e nel 1750 non se ne constata alcuna. Nel 1751 viene a scadere il partito generale del tabacco, sopra di cui era solito prima ottenersi una forte anticipazione al momento dell’incanto dagli appaltatori. Ma questa volta, osservandosi che la Cassa del Conservatore del Deposito era abbondantemente provveduta per le occorrenze attuali, che non era forse «conveniente l’aggravar l’economia del prò di 4 per cento fuori del bisogno», ed inoltre «creder potendosi che senza detto vincolo di provedere in piazza gli abboccatori tanta somma di dinaro, potrebbe più facilmente restar promossa la gara dei concorrenti, da quali unicamente dipende il vantaggio di simili deliberazioni»; si rimase in dubbio se si dovesse nuovamente richiedere tale anticipazione agli appaltatori. Ma poi si decise di lasciare a questi di versare la cauzione a loro scelta sia con un anticipazione di ducati 100 mila sul partito del tabacco e di ducati 24 mila sul dazio d’uscita del medesimo, sia con l’ipoteca su titoli di Debito Pubblico; colla riserva che nel primo caso i 124 mila ducati dovessero servire ad accelerare l’ammortamento del Debito Pubblico redimibile (nuovi depositi di maccina ed oglio). Gli appaltatori scelsero difatti la prima alternativa, cosicchè nel 1751 si veggono figurare tra le entrate straordinarie anche 124 mila ducati di anticipazioni. In seguito abbiamo ancora 25 mila ducati nel 1752 dal dazio sul vino, anche questi anticipati a guisa di cauzione; e con ciò cessano le anticipazioni nel periodo studiato.

 

 

Ma rimanevano – molto simili alle anticipazioni – le prestanze di Corpi pubblici ed Enti morali, che in un breve periodo di tempo si ripagavano delle somme imprestate allo Stato sul prodotto di certe imposte dirette o dazi che erano quasi date in pegno a quei corpi. Non vi era norma fissa, quanto al periodo di tempo entro cui le prestanze dovevano essere rimborsate; ma di solito oscillava tra i 5 ed i 20 anni, mantenendosi l’interesse quasi sempre al 4%. Ricordo alcune fra le principali prestanze:

 

 

Nel 1736 prestanza sopra il dazio della trattura della seta della città e territorio di Verona D. 19.877.20

»               »

dall’arte dei fruttaroli 6.902.9

»               »

dalla Val Camonica 20.000

»               »

Santo Monte di Treviso 10.000

»               »

Id., id., di Este 3.000

»               »

territorio Bergamo 18.786.4

»               »

città di Verona sopra dazio macina 50.000.2
Nel 1737 prestanza Santo Monte di Verona 20.000

»               »

Id., id., di Vicenza 12.000

»               »

città ed ospital di Udine 18.000

»               »

magnifica città di Bergamo 12.000

»               »

Santo Monte di Treviso 8.000.3
Nel 1738 prestanza città di Brescia 20.000

»               »

Santo Monte di Treviso 2.000
Nel 1739 prestanza pio Ospedale S.ta Maria de battudi di Treviso 1.550
Nel 1742 prestanza città di Verona 100.000

»               »

Udine 3.875

»               »

santo Monte di Vicenza 4.000

»               »

Id., id. di Cologna 2.000

»               »

Id., id. di Crema 3.875

»               »

corrieri di Roma 20.000

»               »

luochi pii di Brescia 40.000

»               »

città di Brescia 20.000

»               »

Santo Monte di Rovigo 2.325

»               »

Id. di Treviso 20.000

»               »

dal Corpo degli ebrei di Verona sopra dacio pestrin 16.800

»               »

Santo Monte 25.299.22
Nel 1743 prestanza città di Brescia 25.000

»               »

Id. Val Camonica 15.000

»               »

Id. territorio di Brescia 60.000

»               »

arte della lana di Verona 20.000

»               »

Santo Monte di Verona 4.700.2

»               »

dal Comun di Tregnago 4.900

»               »

Santo Monte di Vicenza 12.000

»               »

id. di Udine 9.152.22
Nel 1744 prestanza dal territorio di Bergamo 16.000

»               »

ecc.me Procuratie di S. Marco sopra beni di Caorle 42.077.10

»               »

dal Corpo degli Ebrei di Verona 5.000

»               »

città, Santo Monte et Ospital maggiore di Udine 18.000

»               »

Santo Monte di Vicenza 9.000

»               »

città e territorio di Bergamo 40.460.19

»               »

città di Brescia, Val Sabbia e Val Trompia 60.000

»               »

Patria di Salò e suoi comuni 30.000

»               »

città e territorio di Crema 5.000
Nel 1745 prestanza Procuratie ecc.me S. Marco D. 49.559.20

»               »

città di Crema 1.900

»               »

territorio di Bergamo 1.539.5

»               »

Val Sabbia e Val Trompia 4.000

»               »

territorio Crema 1.000

»               »

Id. Vicenza 27.696.7

»               »

Comunità di Cittadella 2.500
Nel 1746 prestanza arte fruttaroli sopra dacio frutti ” 16.476.7

»               »

tre Procuratie di S. Marco per conto delli D. 150 m. sopra beni Caorle 14.968.10

»               »

territorio di Vicenza 16.052.21
Nel 1747 prestanza tre Procuratie sopra beni Caorle 54.973.11

»               »

Santo Monte di Pietà di Vicenza 8.176.6

»               »

territorio di Vicenza 6.250.20
Nel 1748 prestanza tre Procuratie di S. Marco 9.727.21
Nel 1749 prestanza Id. Id. 6.600

 

 

È questa una categoria che presentava poca elasticità, trattandosi in sostanza di anticipazioni fatte dalle Città, dai Comuni rurali, e dai Monti di Pietà sulle imposte che si esigevano nei loro territori, di anticipazioni fatte dalle Procuratie di S. Marco sopra i beni di Caorle, ecc. Il nome è diverso – nell’un caso «prestanza», nell’altro «anticipazioni» -; ma la sostanza è quasi identica; poiché nell’un caso e nell’altro la Repubblica cercava di ottenere subito quelle somme che le imposte avrebbero fruttato in seguito. Erano, se si può usar la parola, le anticipazioni e le prestanze simili ai buoni del tesoro a lunga scadenza (settennali) a cui si ricorse in Italia tempo addietro. I compilatori di bilanci veneti hanno chiara consapevolezza di questa identità fondamentale, poiché nel bilancio delle spese mettono insieme le somme che la Repubblica paga per il servizio degli interessi e dell’ammortamento sia delle anticipazioni che delle prestanze:

 

 

Anni

Dominante

Terraferma

Anni

Dominante

Terraferma

 

Ducati

Ducati

 

Ducati

Ducati

1736

98.583.16

145.822.6

1746

101.882.20

209.957.4

1737

70.549.19

189.677.4

1747

155.158.23

189.841.10

1738

73.589.4

178.929.22

1748

104.357.15

222.071.3

1739

89.374.21

160.677.21

1749

85.556.2

137.908.9

1740

64.628.10

180.209.-

1750

91.942.4

110.270.8

1741

238.039.15

124.404.-

1751

50.285.20

93.273.23

1742

64.058.2

122.255.22

1752

84.345.15

131.000.8

1743

65.573.14

181.541.16

1753

82.377.17

94.603.15

1744

84.199.22

154.377.4

1754

111.181.5

71.291.20

1745

98.411.15

159.428.11

1755

84.193.17

62.945.22

 

 

Ma sovratutto si ricorreva ai prestiti conchiusi col metodo dei depositi e dei capitali istrumentati. Erano i depositi come dei crediti iscritti su quaderni o mastri tenuti presso la Zecca o presso altri magistrati od uffici le cui entrate erano assegnate o vincolate al pagamento dei prò ed all’affrancazione dei capitali. I depositi erano prestiti volontari che i capitalisti facevano dirttamente al governo della Repubblica; e rimontano nelle loro origini non più in là della prima metà del secolo XVI, quando i vecchi monti procedenti da prestiti obbligatori erano scaduti di pregio e di credito per il ritardo nel pagamento degli interessi e per la riduzione di questi. La cessione dei depositi si effettuava con un semplice giro di partite nei quaderni dove si tenevano le iscrizioni. I depositi erano simili ai debiti redimibili attuali, perché oltre al pagamento degli interessi la Repubblica provvedeva all’estrazione a sorte di una forte quota dei capitali dati in deposito. Siccome però il bilancio di solito non era in grado, come già vedemmo, di fornire le somme per l’ammortamento del Debito Pubblico, così accadeva che si dovessero contrarre nuovi prestiti per affrancare i precedenti; e chiamandosi questi, dal nome delle imposte vincolate al servizio dei prestiti, depositi della maccina e dell’oglio, ne veniva che i nuovi prestiti venivano detti aggionte o depositi aggionti alla maccina ed all’oglio. Ad esempio il 4 dicembre 1748 lo stato del debito pubblico redimibile, era il seguente, in capitale e numero degli anni entro cui doveva verificarsi l’ammortamento integrale (Cfr. Relazione dei Deputati, II, 514).

 

 

 

Ducati

 
Aggiunte alla maccina

3.240.000

redimibili in anni 9
Un milione aggiunto alle aggiunte predette

1.000.000

        id.             10
Ultima aggiunta data alla maccina

300.000

        id.             19
Resto del nuovo deposito oglio

1.372.544

        id.               5
Aggiunte all’oglio

3.000.000

        id.             15 (cominciando dopo 5 anni)

Totale …. Ducati

8.912.544

 

 

Di solito le aggiunte non superavano l’ammontare degli antichi prestiti che venivano ad estinguersi, perché data la deficienza dei metodi creditizi di allora e l’impoverimento della Repubblica, non era facile trovare nuovi capitali a prestito; e di solito si poteva ottenere soltanto il reinvestimento dei capitali che erano stati estratti a sorte ed affrancati. Così, in una scrittura dell’1 ottobre 1745 i Deputati riferiscono che non osano proporre nuove aggiunte al deposito dell’oglio, sovra del quale già si erano fatte varie aggiunte per l’ammontare di 1.800.000 ducati, perché «avendo il fatto datto a conoscere che non ivi concorrono se non li capitali condizionati che sortiscono in affrancazione de depositi stessi, e cadendo queste nel semestre di giugno di cadaun anno, sarebbe cosa impropria dilatarle fuori del semestre medesimo, perché non essendovi per essere, come dicessimo, alcun concorso di volontarj, che cercano in altro modo, benchè col pubblico medesimo, di far le loro investite, si darebbe qualche motivo di discredito alle aggionte medesime (II, 435)». Altrove (II, 459, in data 15 aprile 1746), notano parimenti che «soliti sono d’entrare non già volontarij i nazionali e forestieri (ossia di imprestar denaro in deposito alla Repubblica, il che allora dicevasi «entrare nei depositi»), ma quelli unicamente che estratti per le affrancazioni dei nuovi depositi sono obbligati di rinvestire li capitali, che per la maggior parte non sono a libera loro disposizione ma condizionati, ciò che in sostanza altro non fa un tal dinaro che cambiar luocco, passando dalli primi depositi maccina et oglio in quello delle nuove aggionte di quest’ultimo».

 

 

I capitalisti che aveano capitali disponibili cercavano bensì di impiegarli, come dice la relazione ora citata, «col pubblico», ossia in imprestiti allo Stato; ma preferivano altre maniere di imprestito, e specialmente quello così detto dei capitali istrumentati. Erano questi dei mutui che lo Stato otteneva in modo più o meno coattivo dalle Scuole di S. Rocco, della Carità, della Misericordia e di S. Giovanni Evangelista e delle Arti della seda, dei luganegheri, dei pistori e dei testori. Queste che erano potenti e ricche corporazioni di mercadanti e di artefici ottenevano i capitali dai privati promettendone la restituzione. I mutui così nei riguardi dello Stato come in quello delle Scuole si provavano mercè istrumenti notarili. Erano i mutui cedibili e la cessione si operava colla trascrizione dell’istrumento. Probabilmente i capitali istrumentati aveano preso un grande sviluppo dopochè la Repubblica aveva ridotto nel 1714 gli interessi dei vecchi mutui al 2% Allora essa dovette da una parte coi depositi «della maccina e dell’oglio» dare in pegno alcune sue entrate se volle ottenere direttamente a prestito dai capitalisti, ovvero ricorrere al credito antichissimo delle Arti e Scuole, rendendo queste mallevadrici dei contratti di prestito che per mezzo loro stipulava. I reggitori veneti preferivano questa maniera di prestito ai depositi «perché non caricano se non del solo prò del 4%, né obbligano mai il pubblico ad alcuna affrancazione» (II, 433). Erano perciò i capitali istrumentati una specie di debito perpetuo consolidato, per il quale bastava provvedere al servizio degli interessi senza dover mai pensare all’ammortamento. I privati lo preferivano del pari sia perché a tutti gli istrumenti stipulati colle Arti e Scuole restava accordata l’esenzione di ogni spesa di messetaria, gramatici ed altro (II, 331), sia perché potevano stipulare il loro contratto con le Arti e Scuole a scadenze variabili a seconda delle convenienze particolari. Si aggiunga che le Arti e Scuole accettavano senza spesa le cessioni degli istrumenti o, come allora dicevasi, i «sub ingressi» e talvolta anticipavano le restituzioni dei capitali provvedendo esse a rivendere i titoli ad altri capitalisti. Per usare un paragone approssimativo con istituzioni moderne, le Arti e Scuole fungevano da garanti dei prestiti, da custodi dei gran libri del Debito Pubblico d’allora e da Borse dove i capitalisti potevano cedere e comprare titoli al prezzo corrente, pur rimanendo sempre il Debito consolidato ed irredimibile nei riguardi dello Stato.

 

 

VIII

 

Qui sotto è compilata una tabella la quale fa vedere quale fosse il gravame annuo che la Repubblica sopportava per il servizio degli interessi e dell’ammortamento del suo debito pubblico, sia antico che nuovo. Le cifre che vanno sotto la denominazione di «ridotti, ad haeredes» e di «ratte vecchie» corrispondono al debito antico, anteriore al 1714, che in quell’anno era stato ridotto forzatamente ad un tasso d’interesse del 2%. I «vitalizi» e i pagamenti «a fuorusciti» erano partite speciali di poca importanza. Lasciando da parte i debiti «antichi» che oramai erano diventati un carico perpetuo e consolidato, le maniere di debito che costituivano le fonti da cui la Repubblica traeva entrate straordinarie nel periodo 1736-55 erano in sostanza i depositi ed i capitali istrumentati.

 

 

 

 

 

 

1736

1737

1740

1745

1750

1755

Dominante

 

Debito antico: Ridotti, ad haeredes

1.105.746.22

1.055.288.22

1.044.356.15

1.034.646.15

1.058.447.12

1.050.352.21

Ratte vecchie

10.284.17

1.474.21

28.071.8

33.225.1

24.663.20

31.019.22

Partite speciali: Vitalizi

49.228.5

58.316.16

52.152.13

48.153.1

38.005.3

27.725.12

a fuorusciti

2.882.1

1.865.13

2.468.7

3.003.10

2.780.19

1.763.21

Debito nuovo: Depositi maccina et oglio con aggiunte

339.901.1

359.246.6

367.498.8

378.972.16

331.053

11.040.12

Capitali istrumentati

273.555.2

296.517.11

280.128.1

422.334.19

402.006.18

734.144.16

Affrancazioni dei depositi di maccina et oglio

383.809.12

310.979.23

439.157.8

494.038.21

402.006.18

419.284.23

Nuovo deposito al 3,5%

11.786.16

Prò (interessi) pagati per debiti in Terraferma

59.657.15

86.821.9

92.595.1

60.017.13

60.615.13

67.999.2

 

 

A procurare queste ingenti somme che, come già si è visto in principio del presente scritto, ammontavano l’11 dicembre 1750 a ducati 80.243.525 di capitale, di cui 9 milioni contratti nella neutralità durata dal 1740 al 1748 non erano lievi le difficoltà. In una relazione del 15 aprile 1746 i Deputati si lamentano infatti che l’angustia loro è cresciuta «per la difficoltà del fondo da assegnarsi per il pagamento dei pro»; poiché crescendo i debiti male si potevano rinvenire nuove entrate tanto sicure e larghe da dar affidamento ai creditori che non sarebbero mai per venir meno ai bisogni del servizio del prestito garantito con quelle entrate (II, 453). Né sempre i capitalisti, malgrado le più ampie garanzie, si dimostrano pronti a far mutui alla Repubblica. Il 23 luglio 1742 riferiscono i Deputati non essere possibile nel trimestre corrente ottenere mutui nei depositi dell’olio per più – di 100.000 ducati; «né alcuna maggior industria per promuovere in maggior concorso sapressimo adottare. Desiderabile sarebbe bensì qualche maneggio co’ capitalisti forestieri per ottenere il loro denaro; ma difficile l’introdurne le pratiche, non sappiamo se non farne questo cenno perché tutto sia a scarico del nostro divoto zelo. Da capitalisti della nazione è certo che maggior summa non può sperarsi di ritraere, mentre s’è fatto ne’ scorsi mesi ogni tentativo per accelerarne l’unione» (II, 316). Dai capitalisti nazionali è impossibile ottenere somme sufficienti; e «senza il concorso del dinaro forestiero» si teme che non sia possibile supplire alle straordinarie emergenze che continuamente si presentano (II, 332).

 

 

Tanto maggiormente era necessario – per non incontrare «delle opposizioni incredibili in tutto ciò che la necessità costringe a gettar l’occhio» – che la Repubblica, la quale avea pure da far scordare la funestissima conversione forzata al 2% decretata nel 1714, mantenesse rigidamente i patti convenuti e fosse puntale nel pagamento degli interessi e delle quote d’ammortamento. I Reggitori veneti ben lo sapevano; e tratto tratto nelle relazioni dei Deputati ed aggiunti alla provision del denaro si leggono dimostrati i benefici numerosi che la puntualità nei pagamenti, pure frammezzo alle maggiori angustie, ha arrecato alla Repubblica e la necessità di mantenere intatto anche nel futuro il credito dallo Stato. «Per aggiungere» – essi dicono in una scrittura dell’1 ottobre 1745 – «tempi di tanta avversità maggior credito alla pubblica fede, si sono, dopo il 1714, effettuati con somma pontualità li pagamenti non solo delle rate dei prò di qualunque genere, vecchio e nuovo, ma ancora quelli delle affrancazioni nei termini prefissi, ottenuto perciò essendosi l’effetto proposto del concorso de’ privati nel rinovare col pubblico, in uno o in un altro modo, le investite dei loro capitali. Noi siamo di parere che non sia facile lo spiegare quanto abbia confluito ai provvedimenti già fatti detta pontualità; et conoscerà la virtù e ‘l zelo di vostre eccellenze rendersi più che mai necessario di mantenerla in riguardo al tempo avvenire. Nell’atto che detta pontualità giova alla confluenza del dinaro privato in soccorso delle pubbliche straordinarie esigenze, facilita il pagamento delle pubbliche gravezze e dazj; e rende felice in certo modo la condizione de cittadini e sudditi che, non trovando da investire in fondi stabili, si chiama contenta nelle pubbliche investite che in proporzione gli riescono più utili. Per fino taluni forestieri sentonsi attratti a reinvestire li loro capitali che escono annualmente in affrancazione de nuovi depositi, et se ne sono veduti alcuni altri trasportar da proprj paesi il contante in somme non lievi per riporli in seno della pubblica fede. Dalla predetta puntualità altro bene è derivato, di non essersi accresciuto il prò di 4% in qualunque contratto col pubblico, lo che non solo ha giovato all’errario, ma all’universale del comercio, che in caso diverso averebbe pagati molto maggiori gli interusurj della piazza». Non solo si otteneva di mantener basso il tasso corrente dell’interesse a Venezia; ma si riusciva ad effettuare la conversione di titoli di Debito pubblico emessi ad un tasso superiore al 4 per cento. «La cassa pubblica ha finalmente con un tal mezzo potuto ricuperare ducati 24.000 circa di rendita ch’era ipotecata nel pagamento delli prò dalle 4 alle 4,5 et 5 rispettivamente %, essendo al solo cenno della offerita affrancazione concorsa la maggior parte de’ capitalisti a contentarsi volontariamente del detto limite del 4%, che attualmente è comune a tutte le investite posteriori al 1714; e crediamo di poter dire a gloria dell’eccell.mo Senato, che verun Principato d’Europa che versa in dispendj estraordinari ha potuto fermar li prò al limite accennato di 4%. E noi siamo fermi nel proposito che tutt’altro abbia a tentarsi fuorchè ad aumentarlo, per il timore che ci sorprende dei mali effetti che ne deriverebbero di aumentare il pubblico dispendio col pericolo di alterare la pontualità di pagamenti, che tanto importa che si mantenga illibata; oltre quello di alterare le misure dell’universale comercio della Dominante et dello Stato, et per l’oggetto in oltre di mantenere in credito la Nazione et di accrescere il decoro del Principato» (II, 432-33).

 

 

A Venezia si era tanto attaccati all’interesse del 4% e tanto si paventavano le conseguenze di un rialzo dell’interesse che non si accettavano offerte, anche favorevoli, di vendite di beni demaniali o di alienazioni temporanee d’imposta, solo perché gli acquirenti offrivano di trattare sulla base di un tasso di capitalizzazione superiore al 4%. Così i Deputati proposero in relazione del 31 maggio 1747 di respingere le proposte di vendita dei dazietti dei territori della Terraferma perché fatta sulla base del 4,5%; e ciò che loro «fà la maggiore impressione è la novità di permettere in presente le investite al quattro e mezzo%, mentre ci sembra molto ragionevole il timore di potersi invogliare l’universale de capitalisti a tenere in sospeso le investite del denaro solite farsi al 4%, per credere che sarà la pubblica autorità per seguire l’esempio del quattro e mezzo negli altri ordinarij provvedimenti, come pur troppo nei tempi trascorsi è accaduto con grave peso della pubblica cassa non solo, che dell’universale commercio». Perciò essi temono che, per volere ottenere subito una straordinaria entrata si venga a cagionare un pregiudizio permanente alla cosa pubblica, distruggendo «il solo bene o per meglio dire il minor male» che «fra li molti piegiudicij che furono dalla necessità dall’attuale neutralità d’Italia arrecati nell’ecconomia nell’occasione degl’eseguiti provvedimenti dopo il 1740» si è riusciti a conseguire, ossia «di tenere il prò sempre fermo alle quattro per cento, a differenza di tutte le estere nazioni che ne hanno alzato il prezzo» (II, 492-3).

 

 

Qualunque sacrifizio è lieve quando tenda a conservare alla Repubblica la reputazione di fedele esecutrice dei patti stipulati; ed è perciò che i Deputati si allarmano quando nel 1748, dopo eseguita l’estrazione a sorte di ducati 598.709.12 dei depositi della macina e dell’olio, si accerta che «la rendita della macina e pestrini della Terraferma; assegnata in fondo delle affrancazioni del deposito del detto nome, per diffetti corsi negl’anni antecedenti, ciovè per residui e ritardo nell’esazione, in luoco di soministrare a tempo opportuno l’occorrente, lascia talmente esausta la cassa dell’eccell.mo sig. Proveditor agli ori et argenti in zecca, in cui fluir deve per intiero la rendita stessa, che in presente non avrebbe ella modo di supplire in conto alcuno alle affrancazioni sudette, se non col dinaro solito da qui innanzi pervenire mensualmente delle camere della Terraferma di ragion della maccina e pestrini dell’anno corrente, quale per altro in forza delle pubbliche disposizioni restar dovrebbe per intero risservato all’affrancazioni dell’anno venturo» (II, 501). Perciò i Deputati propongono si instituisca subito un nuovo deposito di mezzo milione di ducati; e siccome i Savi manifestarono contrario avviso, essi protestano di non saper ricorrere a migliore spediente ed importare sovra ogni altra cosa il mantenimento della pubblica fede: «Solenni tanto» – essi esclamano – «e promulgati con le stampe, passate anco a cognizione degl’esteri interessati per una gran parte nei nuovi depositi, sono l’impegni della publica fede, che né ci può dar l’animo di suggerir per ora ripieghi nuovi per il timore, che è pur troppo ragionevole, di potersi sconcertare con essi le maniere corse sin ora felicemente nel promuovere alla pubblica cassa li opportuni estraordinari soccorsi» (relaz. 16 luglio 1748, II, 503). Notevoli parole, le quali dimostrano con quanto senno ed antiveggenza i finanzieri veneti sapessero consigliare oggi sacrifizi gravi per ottenere domani ampio guiderdone.

 

 

Né il meritato guiderdone mancò. Pur mantenendo sempre l’occhio fisso alla conversione del Debito pubblico ad un piede di interesse minore del 4% i reggitori veneti non si nascondevano che un impedimento grave si trovava nella molteplicità dei titoli redimibili, dei quali alcuni finivano di ammortizzarsi (alla data del 4 dicembre 1748 a cui si riportano le cifre più su riportate, cadenti appunto negli anni in cui per la pace di Acquisgrana si cominciava a formar pensieri di risanamento del bilancio) fra 5, altri fra 9 ed altri ancora fra 10 e 19 anni, mentre di altri, da estinguersi in 15 anni, l’ammortizzamento doveva iniziarsi solo fra 5 anni. Si aggiunga che ad esempio la somma destinata all’ammortamento delle aggiunte alla maccina (di ducati 3.240.000 di capitale) rimaneva fissa in 360 mila ducati all’anno, ed il risparmio degli interessi per il minor capitale da servire dovea formare il fondo per l’ammortamento del milione aggiunto alle anzidette aggiunte. Per il deposito oglio (di ducati 1.372.544 di capitale) la quota di ammortamento era fissata in ducati 246.917 ed il risparmio negli interessi doveva andare, come si usa anche adesso nei debiti redimibili, ad aumentare la quota di ammortamento. Tutto ciò faceva si che ogni debito redimibile avesse quasi una vita a sé, indipendente da quella degli altri, legando le mani alla Repubblica qualora avesse voluto compiere qualche operazione finanziaria. Perciò i Deputati nella scrittura citata propongono che tutti i depositi vengano posti in cumulo, destinando al servizio degli interessi la somma di ducati 356.501.18 ed a quello dell’ammortamento ducati 621.317.6 all’anno. Il periodo dell’ammortamento sarebbe unico e verrebbe fissato in anni 15. Un primo vantaggio da codesta mutazione sarebbe derivato subito alla Repubblica ed è lo stesso vantaggio a cui pongono la mira adesso i governanti quando allungano i periodi di ammortamento dei loro debiti redimibili; ossia un risparmio nella quota annua di ammortamento che i Deputati concretarono nella cifra di ducati 24.850. Siccome lo sbilancio dell’anno seguente 1749 era calcolato in ducati 600.000, così il fondo reso libero avrebbe appunto servito a permettere alla Repubblica di pagare gli interessi al 4% per un nuovo prestito di 600 mila ducati fatto per colmare il disavanzo. Calcolando che ogni anno il disavanzo continuasse nella medesima cifra, siccome contemporaneamente venivano ad estinguersi 621.317.6 ducati del debito antico, rimaneva ogni anno (ed era il secondo vantaggio dell’operazione), un fondo di 24 mila ducati disponibile per pagare gli interessi di un nuovo debito di altrettanta somma. Era come se la Repubblica rinunciasse all’ammortamento del Debito pubblico. Permaneva però l’inconveniente di dover sempre contrarre un debito nuovo per estinguere il debito vecchio coll’incertezza che i capitalisti estratti volessero reimpiegare i loro capitali alle medesime condizioni. Per evitare anche questo pericolo i Deputati propongono che sia data licenza ai capitalisti di trasportare i loro mutui dalla categoria dei depositi (debiti redimibili, contratti direttamente collo Stato), alla categoria dei capitali istrumentati (debito consolidato, contratto per mezzo delle Arti e Scuole), abolendosi così l’ammortamento e ponendo fine alla finzione di pagare il vecchio debito con uno nuovo. I Deputati sperano che volontieri si appiglieranno a tal partito le Arti e Scuole che hanno investito nei depositi ben 2.494.908 ducati e che sarebbero liete di trasformare quel loro credito in capitali istrumentati posti sotto la loro diretta gestione. Così pure accetterebbero l’offerta i possessori di depositi condizionati, ossia i corpi morali, i tutori di pupilli, le doti, per cui l’estrazione annua rappresenta un fastidio e la necessità di dover cercare nuovo impiego. Col trasporto nei capitali istrumentati queste difficoltà di reimpiego cesserebbero. «Sono in tanto credito» – osservano a ragione i Deputati – «li capitali istrumentati ed in tanta quantità li capitali condizionati e molto rari li casi d’investite in beni stabili, che convien credere che, oltre li capitali antedetti che sussistono in ditta delle arti e scuole, quali per la maggior parte saranno per abbracciare la libertà, quallor gli verrà offerta, di passare nelle accennate aggionte d’istromentati, che sarà anco per essere da molti privati capitalisti fatto lo stesso, giacchè possono da corpi col mezzo de’ subingressi, aver l’affrancazione de’ loro capitali» (II, 511). Se tutti i depositi si trasportassero nei capitali istrumentati, cessando il bisogno delle annue affrancazioni di ducati 621 mila, scomparirebbe senz’altro il disavanzo ed il bilancio della Repubblica si troverebbe in perfetto equilibrio. Ma i finanzieri veneti vogliono che il trasporto avvenga col pieno e libero consenso dei creditori dello Stato, poiché l’imporlo forzatamente od il sospendere le affrancazioni annue «in forza di publico comando» e non di persuasione, sarebbe altamente pregiudicevole al credito dello Stato «dato avendo l’esperienza a conoscere essere questo (delle affrancazioni sicure ad epoca fissa) l’unico mezzo d’attraere il dinaro forestiero che in molta copia v’è concorso nelle accennate aggiunte che finalmente furono tutte composte di capitali vergini (ossia non provenienti da estrazioni a sorte di precedenti depositi)» (II, 512). Il Senato con decreto 14 decembre 1748 accetta la proposta dei Deputati; e già in iscrittura dell’11 decembre 1750 i Deputati sono in grado di riferire che lo sbilancio dell’anno 1749, verificatosi in ducati 596.727, «restò riparato coll’introito del denaro confluito col metodo nuovamente istituito de capitali istrumentati… in cui furono permessi li trasporti volontarij di quelli capitalisti estratti a sorte nel mese di decembre 1748 per ragione delle affrancazioni fissate in somma di ducati 621.317.6… Poterono aver effetto li detti volontarij trasporti per la ristrettezza che corre delle investite in beni stabili, e perché la maggior parte delle facoltà de privati sono di natura condizionata» (II, 524-5).

 

 

Non bastava però aver raggiunto in tal modo il pareggio contabile. Appena ottenuto lo scopo, subito i finanzieri veneti si propongono più alta mira: quella di ammortizzare effettivamente il debito pubblico e di ridurre insieme l’onere degli interessi al disotto del 4 per cento. «Se da un canto» – seguitano i Deputati nella citata scrittura – «si è operato un bene con facilitare l’impiego del detto dinaro destinato alle affrancazioni che passa molto opportunamente da cassa a cassa nell’officio medesimo del Proveditor agli ori (era l’ufficio che sovraintendeva ad una parte del Debito Pubblico), ed apporta suffraggio alle publiche esiggenze senza che si abbiano a praticare altri generi di provvedimenti, quali per altro sarebbero stati indispensabili, si è dovuto dall’altro canto perdere l’occasione di un ben maggiore che sarebbe derivato dall’effettuata affrancazione di detti nuovi depositi, che si doveva fare, et si sarebbe fatta quando la pubblica cassa si fosse trovata in bilanzo» (II, 525).

 

 

Quindi occorre profittare della pace seguita nel 1748 per tentare di risollevare effettivamente la pubblica economia. Non già che nuovi bisogni non urgano. Le necessità della guerra aveano fatto trascurare spese indispensabili ed il desiderio di profittar della pace avea indotto ad economie forse troppo precipitose. «Sono esausti li magazeni della casa dell’Arsenal di tanti generi necessarij così al deposito come al consumo della pubblica armata. Le fortificazioni delle piazze principali sono bisognose, per le frequenti relazioni, dei più importanti ristauri, non meno che delli proporzionati provedimenti di munizioni da bocca e da guerra. Il piano militare è stato ridotto per oggetti di economia nel più ristretto numero di cui sia mai stato in passato, e pure per essere mantenuto conviene che si facciano delle reclute d’ambo le nazioni, alle quali già si è dato principio con quell’aggravio che va in conseguenza di simili provvedimenti. Manca affatto lo Stato generale,[19] ed anche per questo doverà un giorno rissentire non indifferente peso la pubblica cassa: Vi sono inoltre tante, tutte rillevanti ed indispensabili, spese le di cui cattegorie essendo ad una ad una distinte nel general bilanzio, noi, riportandosi ad esso, non aggiungeremo l’incomodo della loro descrizione. Ma oltre gli ordinarij aggravij vi sono quegli altri che recentemente sopravenero di due inquisizioni in Terraferma, due commissariati ai confini, sindicato in Dalmazia, e tutte le altre spese estraordinarie che non possono prevedersi, ma che pur troppo possono sopravenire e di fatto sopravengono di tratto in tratto ad aggiungere nuovo maggior sconcerto all’errario» (II, 527).

 

 

Ma ciò nonostante, la necessità più urgente non è già di fare nuove spese ma di raggiungere il pareggio; e sia un pareggio effettivo, tale che per ammortizzare il debito vecchio non occorre più farne dei nuovi; poiché «ciò che maggiormente affligge gli animi nostri si è il riflettere che non vi è sorte più infelice in un principato di quella di non poter sussistere in tempo di pace senza far nuovi debiti, perché dilatandosi sempre più il male, conviene poi, per risanarlo, ricorrere a quegli espedienti, che feriscono egualmente il cuore del Principe e l’interesse dei privati» (II, 528).

 

 

Nessun tempo più propizio dell’attuale per ristorare davvero le finanze dello Stato, «giacchè piace a Dio Signore di donare una perfetta tranquillità all’Europa ed all’Italia, e che si troviamo liberi non solo da estraordinari impegni, ma perfino anche dalle gielosie. Non v’ha dubbio che gli studi e li regolamenti d’ecconomia non sono per veruna maniera compatibili con quei pensieri che ricercano le estraordinarie combinazioni e la necessità di gravosi e difficili provedimenti: il solo tempo di tranquilità e di pace è addattato alle vere regolazioni ecconomiche. Se per comprovar ciò ci mancassero gli esempi interni derrivanti dalla maturità e prudenza de’ nostri maggiori, potressimo ricorrere a quelli dei Principati forestieri. Infatti, cessate le ultime guerre, è noto a Vostra Serenità aver tutte le potenze d’Europa applicato ed applicarsi attualmente per riordinare le loro finanze» (II, 529).

 

 

IX

 

A Venezia gli studi cominciano subito; e da un lato si provvede a riordinare le entrate, a rimaneggiare gli ordinamenti fiscali ed a fare economie, sicchè i disavanzi scemano e compaiono anzi degli avanzi. Dal 1748 al 1752 si ottengono i seguenti risultati nei bilanci consuntivi.

 

 

 

 

Anni

 

 

Entrate effettive

 

 

Spese effettive

Disavanzo nella spesa compreso l’ammortamento del Debito Pubblico

Disavanzo od avanzo dedotto dalla spesa l’ammortamento del Debito Pubblico

 

Fondo di cassa (sopravanzo) alla fine di ogni anno

1748

5.549.770.12

6.527.856

– 978.085.12

– 311.086.5

2.003.495.2

1749

5.603.985.4

6.200.702.7

– 596.717.3

– 79.580.2

2.303.810.12

1750

5.559.029

5.831.123.3

– 272.094.3

+ 305.239.15

2.419.602.22

1751

5.553.371.5

6.031.329.12

– 497.958.7

+ 108.400

2.566.756.5

1752

5.357.451.20

6.230.474.12

– 873.022.17

– 188.337.1

2.325.949.11

 

 

Specialmente intorno al 1750 la situazione finanziaria sembra buona ed auspicante tempi decisamente migliori, sicchè fioriscono i disegni audaci. Sovratutto sorride ai finanzieri veneti l’idea della conversione del Debito pubblico, di cui s’era già nel 1739 fatta una limitata esperienza rispetto a circa tre milioni di capitali istrumentati che erano stati investiti ad un tasso d’interesse maggiore del 4%. L’operazione, prescritta con decreto del Senato del 21 febbraio 1739 era riuscita bene, col consenso dei capitalisti che aveano accondisceso volontariamente alla riduzione e col vantaggio per l’erario di 25 mila ducati all’anno. «Senza verun reclamo furono eseguite le riduzioni e con tanto buon successo, che nel breve giro di pochi mesi e coll’esborso di soli ducati 147.000 circa si sono ridotti tre millioni circa di ducati che erano col prò maggiore di ducati 4%» (II, 65, 66, 171, 433 e 534).

 

 

I nuovi desiderii di conversione non possono però essere immediatamente attuati. Forse lo impedì la portata troppo larga e l’audacia eccessiva dei primi disegni che i Deputati presentarono al Senato. Volevano essi (cfr. scrittura dell’11 dicembre 1750) iniziare la conversione del Debito pubblico dal 4 al 3%. Sugli 80 milioni di ducati che componevano a quell’epoca il Debito pubblico, ve ne erano circa 22 milioni al 4%, i quali comportavano un onere annuo di ducati 884.920.[20] I Deputati proponevano di istituire un nuovo deposito di 4 milioni di ducati impinguandolo subito della somma di 400.000 ducati che esistevano disponibili ed esuberanti nella cassa del Conservator del deposito. Le somme entrate nel nuovo deposito dovrebbero servire per intimare ai capitalisti, cominciando da quelli di più antica data, l’affrancazione di quei mutui che erano stati stipulati ad un tasso di interesse maggiore del 3%, salvo ai capitalisti la facoltà di scansare la restituzione della somma col contentarsi del tasso del 3%. A mano a mano poi che scadevano le quote dei depositi redimibili non sarebbe stato concesso ai capitalisti estratti di potere effettuare il reinvestimento a più del 3%. Inoltre per i capitali istrumentati che i loro possessori volessero vendere (e si poteva, come sopra si vide, mediante subingressi trascritti nei libri delle Arti e Scuole) doveva essere proibito ai Corpi d’Arti e Scuole, tanto, della Dominante che della Terraferma e delle Procuratie, di ricevere subingressi a più del 3%. Così in breve volgere di tempo tutti i 22 milioni di Debito pubblico al 4% sarebbero stati convertiti al 3% senza in nulla offendere la pubblica fede, «essendo in arbitrio di qualunque debitore di sgravarsi dei proprii debiti coll’effettivo pagamento», e col «notabile sollievo alla pubblica cassa d’annui ducati 221.230 che si risparmieranno».

 

 

I Deputati sono persuasi che la loro proposta sia pienamente attuabile, poiché «il maggior numero de capitalisti, anzichè ricevere il proprio dinaro sarà per concorrere di buon animo alla riduzione predetta. Ci persuade a ciò la penuria delle investite in fondi e beni stabiliti, la tenuità del profitto che da tali investite possono avere, e sopratutto la qualità de capitali predetti che essendo per la maggior parte condizionati; ovvero assegnati ad Opere pie, o doverà ridursi, o pure ritornare nel nuovo deposito. Ma sopra tutto serve a togliere qualunque esitanza la notizia che abbiamo, che a quest’ora dalle arti e scuole sono già stati ricevuti capitali per subingresso con minore prò del 4 %». Occorrendo, non mancheranno nuovi capitalisti a prendere il posto di quelli che volessero la restituzione dei loro crediti, poiché «vi è certamente del dinaro della nazione che non ha occasione d’essere investito se non a meno di 3% in beni stabili, de’ quali tall’ora accadendo le vendite da farsi in ordine alle leggi dalli luoghi pii, e dovendo questi investirne il rittratto, è necessario che vi sia un qualche deposito aperto per dar impiego a questa ed a qualunque altra natura di soldo».

 

 

Ad agevolare la riuscita dell’operazione, i Deputati non trascuravano di ricorrere a suggerimenti che adesso apparirebbero vieti e che erano invece allora assai usitati; facendo presente «al Senato la necessità che gli riconfermi nei modi più robusti le proprie provvide leggi, dalle quali restano inibite le fortive estrazioni di dinaro dallo Stato, e le investite ne Stati eteri, o in fondi o sopra li monti de Stati medesimi» (II, 531-35).

 

 

Era dunque la scarsezza delle industrie, le difficoltà dei commerci, le condizioni arretrate dell’agricoltura e i divieti all’emigrazione dei capitali le cause che permettevano allora agli Stati di ottenere credito a buon mercato. Il Debito pubblico formava allora, come oggi nei paesi poco industriosi, la principalissima e forse l’unica maniera di investire i risparmi dei privati. Finchè durava la guerra ed il bilancio degli Stati si chiudeva in disavanzo, i capitalisti potevano pretendere interessi, se non alti, almeno soddisfacenti; ma, appena conchiusa la pace, gli Stati potevano tentare di costringere i capitalisti a tenersi paghi di interessi più miti, i quali venivano accettati per la impossibilità di altri impieghi più fruttuosi.

 

 

Alla proposta precedente di iniziare la conversione libera di 22 milioni di ducati dal 4 al 3%, i Deputati ne aggiungevano un’altra, relativa al debito antico, cosidetto «dei capitali alla zecca alle tre che esigono le due», e «dei capitali fuori zecca alle due», il quale ammontava a 52.549,511 ducati, che essendo stati ridotti nel 1714 forzatamente al 2%, costavano allo Stato l’annua somma di 1.060,000 ducati.[21] Dividevansi questi 52 milioni e mezzo in due parti, di cui la prima di 21 milioni di ducati comprendeva i capitali che aveano le intiere loro rate e prò rispettivi, ed era in mano per la maggior parte di Opere pie per favore alle quali sembrava opportuno procedere coi maggiori riguardi possibili. Per questi non si proponeva alcun provvedimento forzato; e solo si proponeva ai creditori di contentarsi degli interessi ridotti all’1,5%. La residua parte (0.50 per cento) non sarebbe andata a favore dello Stato; ma avrebbe, insieme con le altre somme, di cui ora si dirà, formato un fondo di ammortamento, con cui si sarebbe provveduto a mano a mano a rimborsare alla pari il debito capitale. I Deputati sperano che la proposta di riduzione degli interessi dal 2 all’1,5 per cento, e la costituzione del fondo di ammortamento sarà per essere benevolmente accolta dai creditori i quali ora veggono i loro titoli sviliti del 50 per cento, per la riduzione degli interessi al 2 per cento; ed in futuro ci rimetterebbero bensì quanto agli interessi, ma avrebbero la speranza del rimborso del capitale al 100%, cosa alla quale «in altro modo non possono aspirare».

 

 

Fin qui siamo sempre nel campo delle conversioni libere. Diverso è il discorso per gli altri 31 milioni e mezzo che contribuivano a formare, coi 21 milioni precedenti i 52 milioni e mezzo di Debito pubblico al 2%. Questi 31,5 milioni detti «depositi che si attrovano impresente senza le rate e prò, che sono stati con privati contratti allienati ad tempus, o sopra la vita de capitalisti», si distinguevano dai 21 milioni precedenti, in ciò che questi non erano stati dai creditori alienati ad altri, mentre i 31 milioni e mezzo erano stati dagli antichi creditori alienati ad altri capitalisti. Costoro, comprando un titolo screditato a causa della riduzione forzata degli interessi al 2% avvenuta nel 1714, lo avevano naturalmente comprato ad un prezzo di gran lunga minore del nominale. «Dette private vendite anno formato nei precorsi anni una specie di comercio tra quelli che colpiti nella loro fantasia, forse per la qualità ed antichità de capitali di detti depositi vecchi, anno creduto del loro interesse farne l’allienazione, e quegl’altri che, allettati dal proprio eccedente vantaggio, applicarono a farne gli acquisti. Essendo stato maggiore il numero delli venditori, specialmente nei primi anni che cominciò detto privato commercio, di quello fossero li compratori, derivò da ciò la tenuità del prezzo, che invogliò specialmente li forastieri denarosi a farne gli acquisti; di modo che negli anni precedenti è stato investito il dinaro a più di 6%, e quelli degli ultimi tempi, per essere cessato il maggior numero de venditori, che già avevano venduto, e per conseguenza per essersi diminuita la materia, furono le dette investite in ragione per lo meno di 5%, giusta l’annessa fede di pubblico sensale della zecca».

 

 

Per costoro i Deputati credono convenga dipartirsi alquanto dai metodi seguiti per le altre categorie di creditori e ridurre forzatamente gli interessi che nominalmente limitati al 2% in realtà raggiungono il 5 e il 6%. «Che rispetto quei capitalisti di qualunque nazione che avendo avuta buona fede di conseguire li loro prò, non anno vendute le rate né li prò vitalizi, e che non anno per conseguenza arrecato alcun pregiudizio agli eredi gravati, come pur troppo è avvenuto per le rate vendute, l’eccell.mo Senato concorra ad accordargli le agevolezze e privileggi indicati di sopra, sembra a noi che sia conveniente; ma a quelle investite che, con l’acquisto delle ratte corse e prò vitalizi, sono seguiti coll’eccedente sopra accennato vantaggio, crediamo che non sia lontano dal giusto il devenire a qualche moderata dettrazione. Se questi tali capitalisti che hanno aspirato a lucrare più di sei per cento avessero posto li loro capitali in comercio della piazza, averebbero arrecato primieramente un beneficio all’universale del comercio, ed in oltre averebbero contribuito alla pubblica cassa li diritti cui l’industria e il comercio sono sogetti; o se avessero investito il loro dinaro in beni reali, averebbero pagate le pubbliche ordinarie gravezze, o altrimenti se l’avessero impiegato nelle investite de pubblici depositi che nel tempo medesimo erano apperti, non sarebbero, è vero, stati esposti ad alcun aggravio, ma finalmente non avrebbero lucrato se non quattro per cento, come hanno fatto tutti li capitalisti nazionali, né sarebbe successo il pregiudizio che per il vero da questo genere di comercio è derrivato agli eredi gravati». Sono codeste le ordinarie premesse dei ragionamenti con i quali i governi vogliono legittimare una riduzione forzata dell’interesse del Debito pubblico, quasi che non si trattasse d’altro se non di uniformarsi alle regole delle contrattazioni di piazza che, valutando poco in capitale certi titoli, per esempio il 40 per cento del valor nominale, indicano che basterebbe rimunerare al tasso dell’interesse corrente il capitale effettivo (40) invece che il capitale nominale. Si aggiunga che il fatto del fruttare i titoli di debito vecchio un interesse reale superiore a quello del 4% contraddiceva la massima di governo allora largamente adottata, che non dovessero essere permessi gli interessi al disopra di un determinato tasso. «Questi contratti adunque, nella manutenzione dei quali non è in modo alcuno impegnata la pubblica fede, siccome furono dannosi in passato al bene universale, cui molto importa che gli interessi non eccedano le comuni ordinarie misure, così sarà per giovare che siano moderati in riguardo all’avvenire, molto influendo al detto ben comune che non si dia dal pubblico alcun, benchè tacito, assenso all’alterazione degl’ordinari interessi». Pare ingiusto inoltre ai deputati che mentre si propone di ridurre dal 4 al 3%l’interesse sui crediti dei capitalisti che investirono effettivamente i loro capitali in mutui allo Stato, sia poi permesso a «questi tali ratieri, giente oltre modo industriosa» di potere «anco continuare in avvenire ad essiggere sopra il loro dinaro più di 5%, prendendo anco solamente in vista l’ultime loro investite». Perciò i Deputati propongono di «trattenere dalli pagamenti delle rate corse e vitalizie acquistate dai particolari il quarto del loro importare; con che, supposte tutte le vendite in ragion di 5%, benchè molte ve ne siano di maggior summa, resterebbero ciò non ostante tali investite in ragione di 3-4%, quando le investite vergini render non doverebbero per l’avvenire più di tre per cento, e per ciò non averebbero li ratieri antedetti ragionevole motivo di querelarsi del tempo avvenire dopo tanto maggior utile che anno conseguito in passato».

 

 

La riduzione porterebbe ad un risparmio di 160 mila ducati all’anno che i Deputati propongono vada, in aggiunta al mezzo per cento di cui si disse più sopra, a formare un fondo di ammortamento del debito antico. Il fondo dovrebbe ogni anno automaticamente essere accresciuto dell’ammontare degli interessi sopra i capitali che venissero rimborsati. «Con questo mezzo corrispondendo la nostra aspettazione, come ragionevolmente si può supporre per tanti non spregievoli allettamenti, il corso de capitalisti al trasporto de propri capitali nelle maniere indicate, vi sarà circa la somma non indifferente di ducati 250 mila in ogni anno da poner in affrancazione dei capitali medesimi. Da ciò tre vantaggi assai preggievoli ne deriveranno alla pubblica ecconomia; il primo che con il concorso de capitalisti al suggerito trasporto si conserverà la proporzione tanto necessaria tra li vecchi depositi ed il novissimo da istituirsi, il che non si otterrebbe altrimenti. Il secondo che la cassa pubblica, senza alcun proprio aggravio, resterà sollevata dal peso dei capitali che si anderanno con un tal mezzo estinguendo. Il terzo, più d’ogni altro apprezzabile, sarà quello di accrescere il credito alla pubblica cecca con un esempio che renderà onore alla fede pubblica, ravivandosi capitali d’antichissima data e molto pregiudicati nell’estimazione degli uomeni; il che servirà d’allettamento nell’occorrenze dell’avvenire per attraere il dinaro forastiero. A tutto ciò si deve aggiungere che le affrancazioni di un tal genere di capitali che non sono per la maggior parte di loro natura disponibili, entrar doverebbe necessariamente ad impinguare il deposito novissimo, col qual mezzo sarebbe aumentato l’ingresso di un dinaro che, impiegar dovendosi nell’affrancazioni di quei capitali che reccano maggior peso, promoverebbe con sollecitudine il benefizio di circa annui ducati 300.000» (II, 536-40).

 

 

Ho detto che la proposta dei Deputati che qui si è riassunta era audace. Aggiungo ora che, se fosse stata accolta, la Repubblica avrebbe violata la pubblica fede. Era audace perché voleva abbracciare quasi tutto il debito pubblico veneziano, ossia circa 22 milioni di debito nuovo e 52 milioni e mezzo di debito antico: ben 74 milioni e mezzo su un totale di 80. Era audace perché proposta nella speranza che i 22 milioni di creditori nuovi volessero volontariamente condiscendere alla riduzione dell’interesse dal 4 al 3%, riduzione improvvisa e gravissima sovratutto perché avvenuta tutta insieme e non a grado a grado. Era audace perché fondata sulla fiducia che per 21 milioni di debito vecchio i capitalisti consentissero volontariamente a vedersi ridotto il già magro interesse del 2% all’1,5%, in cambio di un rimborso del capitale alla pari, rimborso effettuabile forse a scadenza molto lontana. Finalmente per i 31 milioni e mezzo per cui si proponeva la riduzione forzata di un quarto dell’interesse non valeva il dire, con gli argomenti veduti, che si trattava di porre rimedio a «contratti seguiti con discapito dei capitalisti nazionali, degli eredi fideicommissari e con indecoro della pubblica zecca» (II, 542). La verità si era che la Repubblica avrebbe con tale provvedimento rinnovata la bancarotta del 1714, con questa differenza però che nel 1714 urgevano i bisogni e tempestava al di fuori la guerra; mentre nel 1750 in tempi di tranquillità nulla giustificava un atto che avrebbe per sempre compromesso il credito pubblico dello Stato.

 

 

È probabile che codeste considerazioni siano state fatte valere nelle adunanze del Senato. Sappiamo soltanto che un cenno apposto a carte 31, tomo I, del vecchio Catastico dell’archivio dei Deputati ed Aggiunti alla provvision del denaro, dice: «Questa scrittura fu posta in Segreta e non nacque decreto alcuno sopra la medesima» (II, 542).

 

 

X

 

Per un po’ di tempo i progetti di conversione tacciono. Anzi i nuovi Deputati vi si mostrano poco favorevoli, pure cercando di rafforzare per altre vie il bilancio. Sono gli anni in cui, come sopra si vide, non si chiedono più agli appaltatori delle anticipazioni di imposte; ed anzi per essere «costituita in grande vigore la cassa del Conservator del deposito» quasi non si vorrebbero più le cauzioni od almeno si desidererebbe che le cauzioni fossero prestate in titoli del Debito pubblico già emessi in guisa da non arrecare alcun nuovo aggravio di interessi all’erario (II, 544 e 546). Migliorandosi il bilancio ed essendosi il disavanzo ridotto nel 1750 a circa 300 mila ducati ne venne che era inutile di permettere – in conformità delle norme spiegate più sopra – a tutti i 621.317 ducati di debiti estratti a sorte e rimborsati ogni anno di potersi reinvestire nei capitali istrumentati. Questo si capiva quando, il disavanzo essendo appunto di circa 600 mila ducati, si sarebbe dovuto fare un nuovo debito di cifra equivalente per potere rimborsare i capitali estratti i quali davano appunto origine al disavanzo. Allora, già si vide, era preferibile senza dubbio di non rimborsare i vecchi debiti e permetterne il rinvestimento. Ma ora, ridotto il disavanzo a 300 mila ducati, l’erario si trovava in grado di potere con le sue risorse ordinarie provvedere al rimborso di circa la metà dei 625.317 ducati annualmente rimborsati; e solo per l’altra metà occorreva ricorrere a nuovi debiti ovvero a rinvestimenti. Ed è appunto questo che fece il Senato quando permise che i trasporti nei capitali istrumentati dei depositi che si rimborsavano si effettuassero solo per la quota di 300 mila ducati all’anno. Ciò era un bene per l’erario, che invece di conservare intatto il Debito pubblico lo diminuiva con le estrazioni a sorte di circa 600 mila ducati mentre lo aumentava, coi rinvestimenti, solo di 300 mila. Ma era un danno per i creditori i quali dovevano aspettare a lungo (secondo la anzianità della loro estrazione) l’occasione di poter reinvestire i capitali in titoli di Debito pubblico; ed «essendovene molti dell’ordine dei monasteri, mansionerie ed altre opere pie obbligate per la maggior parte alle investiture nei pubblici depositi» questi hanno dovuto soffrire la perdita dell’interesse durante un tempo non indifferente. Si aggiunga che siccome si erano estratti capitali per 600 mila ducati e se ne potevano reinvestire solo 300 mila in capitali istrumentati presso le Arti e Scuole, da ciò «derivò una novità che portò avvantaggio ai corpi, un discapito e disgusto ai capitalisti» poiché «li detti corpi cominciarono, col pretesto de subingressi, ed intimare le affrancazioni a quelli che non si fossero contentati di recedere dalle quattro alle tre e mezzo, alla quale necessità molti furono costretti d’aderire per non sapere ove investire il loro dinaro» (Relaz. 15 aprile 1752, II, 550).

 

 

Era la conversione dal 4 al 3,5 che si effettuava a poco a poco a vantaggio delle Arti e Scuole che erano le intermediarie fra lo Stato e i privati. Lo Stato continuava a pagare il 4%alle Arti e Scuole e queste a mano a mano che i debiti venivano a scadenza li rinnovavano solo al tasso minore del 3,%. Naturale quindi sorgeva la domanda: perché l’erario pubblico non potrebbe profittare esso medesimo delle mutate condizioni del mercato, sia istituendo un deposito nuovo al 3,5%, sia dando incarico alle Arti e Scuole di creare dei nuovi capitali istrumentati al medesimo tasso, per impiegarne il provento nel permettere i rinvestimenti dei vecchi depositi affrancati o nel convertire i capitali istrumentati prima al 4%? La domanda era tanto naturale che se la posero anche i Deputati; e se la risposta fu negativa, ciò si dovette a ragioni momentanee di opportunità. Un nuovo deposito, essi notavano nella relazione citata, non sarebbe espediente poiché andrebbe contro al principio adottato dal Senato di non emettere più titoli di debito redimibile (come sarebbero i depositi) ed anzi di convertire a poco a poco tutto il debito redimibile esistente in debito consolidato (capitali istrumentati) senza l’onere di quote di ammortamento. Il nuovo deposito sarebbe screditato perché i capitalisti preferirebbero investire nei capitali istrumentati presso le Arti e Scuole dalle quali possono pattuire il rimborso alle epoche ad essi più convenienti. Nemmeno sarebbe ora consigliabile di affidare alle Arti e Scuole di emettere nuove serie di titoli di debito consolidato (o come allora dicevasi «assegnare ad esse nuove quote di capitali istrumentati») al 3,5% perché, se vi fosse apposta la clausola che il ricavo della nuova emissione dovesse servire a rimborsare titoli vecchi al 4%, evidentemente i capitalisti si asterrebbero dall’accogliere con favore un titolo a basso interesse destinato a rimborsare i titoli da essi già posseduti e fruttanti il 4%. Quando poi la clausola anzidetta non fosse apposta, il pubblico potrebbe credere che la Repubblica si trovasse nella necessità di far debiti e «verrebbe di palesarsi l’attuale accidental sbilanzo della pubblica cassa, quando è finalmente un ben pubblico che resti per quanto si può occultato all’universale». Si aggiunga che se in futuro il tasso dell’interesse rialzasse di nuovo al 4%, le Arti e Scuole dovrebbero ripristinare l’antico saggio, per evitare il pericolo che i capitalisti pretendessero il rimborso dei loro crediti; e finalmente che la riduzione dal 4 al 3,5% danneggerebbe solo i portatori di titoli del debito «nuovo» mentre i portatori di titoli di debito «vecchio» al 2%, che avendoli comprati a basso prezzo, lucrano in realtà il 5 od il 6%, non solo non verrebbero danneggiati, ma «si vederebbero con una specie di inconvenienza assendere (i loro titoli) di valor in piazza senza di averne alcun merito».

 

 

Concludono perciò i Deputati non essere ancora tempo da pensare alla conversione del Debito pubblico: «Se con modi naturali venisse un tempo di tal felicità che l’ecconomia pubblica fosse in bilanzio, cui da tanto tempo s’aspira, ed abbondassero talmente ne privati i contanti, cosicchè dovessero per necessità l’investite, per un effetto naturale e non violente, farsi a meno del 4% da tutti indifferentemente li denarosi, potressimo essere facilmente persuasi noi pure che ciò avesse a ridondare in benefficio pubblico e privato». Ma per il momento i Deputati lasciano alla saggezza del Senato «decidere qual sia il miglior espediente, se quello di far giungere a grado a grado e con modi blandi e piacevoli la sua ecconomia all’intiero bilanzo, non diminuendo senza evidente necessità li prò della nazione, il dinaro della quale, per quanto circola nella quantità maggiore, allimenta maggiormente le arti che travagliano dietro le manifatture in proporzione de dispendij che possono farsi dai richi, overo far della diminuzione de prò col danno tanto de ricchi quanto degli artieri, in un tempo e in un modo che in fatto non sarà atto a far ottenere l’effetto del vero bilanzo; concluder dovendo che la natura delle reduzioni dei prò è dipendente o da una estrema necessità, o vero da una somma felicità, né sembrar a noi d’esser lo stato attuale della pubblica ecconomia né sopra il primo né sopra il secondo piede». I Deputati sperano però che presto possa venire «un giorno che, con sodisfazione de privati capitalisti e col vero respiro dalla pubblica cassa, si potesse promovere all’errario, con sicurezza e senza sconcerto quel maggior benefficio che difficilmente in ora ottener si potrebbe» (II, 552-554).

 

 

Ma i consigli di peritanza dei Deputati che erano Zuan Alvise Mocenigo, Borbon Morosini, Sebastian Zustinian ed Alessandro Zeno non sono già accolti dal Senato che in data 20 aprile 1752, forse persuaso dall’ingrossare del disavanzo che da 272 mila ducati nel 1750 era passato a 497 mila nel 1751 e doveva giungere a 873 mila nel 1752 ed anche premuto dall’interesse dei capitalisti che non sapevano come impiegare i loro capitali, «ad oggetto che il dinaro della nazione non resti ozioso, e perciò darle modo di trarne frutto onde divenga sempre più vigoroso» decreta che si debbano dalle Scuole grandi di San Rocco, della Carità, della Misericordia e di San Giovanni Evangelista emettere per 621 mila ducati di capitali istrumentati in sostituzione dei 621 mila ducati di depositi estratti. Era un passo indietro perché l’ammortamento del Debito Pubblico veniva in fatto di nuovo sospeso; ma era un passo innanzi perché i nuovi titoli dovevano essere emessi al 3,5 per cento (II, 555-6).

 

 

L’ordine del Senato, l’aumento dell’avanzo effettivo e del fondo di cassa infondano coraggio anche nel nuovo Collegio dei Deputati ed aggiunti alla provision del denaro, composto di Bernardo Nani, Savio cassier, Zuan Alvise Mocenigo, Nicolò Tron, Barbon Morosini, Andrea de Lezze e Piero Barbarigo, i quali in una loro notevolissima scrittura dell’8 febbraio 1753 (II, 556-565) propongono si inizi la conversione del Debito pubblico dal 4 al 3,5%. Temono essi che il parlar di conversione possa nuocere nell’opinione pubblica al credito dello Stato; e perciò innanzitutto premettono essere loro desiderio vivissimo conservarlo intatto e superiore ad ogni sospetto: «Il Credito pubblico e della Nazione è a parer nostro quel mezzo che sopra tutti può esser efficace al conseguimento di un tanto bene. Con esso formasi la maggior richezza di uno Stato, e perciò dallo stesso credito dipende la sua maggiore o minore grandezza. Questa è una massima che senza alcun dubbio è ammessa da tutte le nazioni ben regolate. Questo credito non importa meno della moltiplicazione proporzionata del fondo reale che da un Principato può girarsi ne’ suoi bisogni, vale a dire che quanto è maggiore il credito d’uno Stato per altrettanto almeno, se non più, egli dell’altrui può senza danno de’ sudditi disponere in caso di bisogno, oltre il proprio peculio, per il volontario concorso del dinaro de’ nuovi depositi. Nei tempi presenti non v’è sovrano alcuno che alle spese della guerra regger possa col proprio ordinario fondo, ma gli conviene, oltre le nuove imposte, attraere con allettamenti il dinaro de’ sudditi e de’ forestieri. Sempre adunque che li depositi di Vostra Serenità saranno posti in maggior credito in tempo di tranquillità e di pace, ogni ragion vuole che si tenga per certo che in occasione di moleste sopravvenienze sarebbe per concorrervi anche il dinaro degli esteri».

 

 

I provvedimenti proposti dai Deputati non ledono – secondo il loro avviso – codesti così salutari principii. Poiché ai portatori dei 3.300.000 ducati di depositi redimibili che, dopo le affrancazioni ed i trasporti nei capitali istrumentati eseguiti prima, rimangono in vigore, si propone la scelta fra le seguenti alternative:

 

 

a)    accettare subito il trasporto nella categoria dei capitali istrumentati, dove continuerebbero a godere dell’interesse del 4% senza aver più diritto alla affrancazione colle vecchie norme dei depositi redimibili;

 

b)    ottenere l’immediato rimborso (entro il semestre susseguente alla domanda) di tutta la somma mutuata;

 

c)    rimanere nell’attuale condizione, ossia continuare a far parte della categoria dei depositi coll’interesse del 4% redimibili nel giro di sette anni, come è presentemente pattuito e coll’interesse del 4%.

 

 

Il silenzio dei creditori sarebbe interpretato come l’accettazione della alternativa (a) del trasporto nei capitali istrumentati. I Deputati ritengono che la grande maggioranza dei creditori sceglierebbe la prima alternativa; e tutt’al più, dopo un attento esame dei registri dei creditori, i rimborsi immediati (b) potrebbero raggiungere la cifra di un milione di ducati, composti per la maggior parte di capitali forestieri. È questa una cifra sicuramente eccessiva; «ma dato ancora che un million al più si volesse per le affrancazioni richieste, non sarebbe per nascere sconcerto alcuno, imperciocchè la cassa pubblica avrebbe il modo di facilmente provvedere il bisognevole».

 

 

Riuscita l’operazione nel modo indicato e scelto dai creditori la trasformazione dei loro depositi redimibili in capitali istrumentati, tutto il Debito pubblico veneto «nuovo» verrebbe a comporsi esclusivamente di titoli consolidati presso le Arti e Scuole al 4%. Unificato così il debito «nuovo» al 4% i Deputati propongono la istituzione di un deposito «nuovissimo» di quattro milioni di ducati al tre e mezzo per cento presso l’ufficio del Conservator del deposito. Questo deposito dovrebbe essere redimibile in un periodo di 40 anni con una quota fissa di ammortamento di 100 mila ducati all’anno. Con le somme che entrerebbero in detto deposito si intimerebbe l’affrancazione ai capitali istrumentati al 4% a cominciare da quelli di più antica data, a meno che i capitalisti non si contentassero dello scemato interesse del 3,5%.

 

 

È la conversione libera compiuta a grado a grado, diversa dalle conversioni moderne in quanto ora si intima il rimborso o l’accettazione dell’interesse minore a tutta una massa unica di titoli; mentre a Venezia si preferiva intimare la conversione solo per quelle somme che si avessero disponibili in cassa. Ma i Deputati sperano che la conversione possa procedere abbastanza rapidamente, poiché ben pochi saranno i creditori che preferiranno il rimborso e quasi tutti contentandosi dell’interesse del 3,5, sarà dato alla Repubblica di procedere con lo stesso fondo a sempre nuove intimazioni. Infatti, siccome si comincierebbe ad intimar la conversione coll’alternativa del rimborso ai capitali di più vecchie investite, «queste come le più antiche essendo per essere per la maggior parte condizionate (appartenenti cioè ad opere pie, a pupilli, a corpi o individui con cauzione, ecc.), passar dovrebbero necessariamente, benchè senza alcuna né men palliata violenza ma di spontanea volontà de’ proprietari, a ridursi alle tre e mezzo». Né il nuovo deposito del 3,5% – col cui fondo si dovrebbe iniziare la conversione – sarà disertato dai capitalisti; ed invero «non essendovi altra unione di più vantaggiose investite, tutto il dinaro della Nazione entrerebbe nel deposito, oltre quello delle doti de’ conventi e delle vendite de beni ad pias; e v’è ragion per credere che anche quello dei forastieri sarebbe per concorrervi, ben comprendendo essi che, a confronto dei monti degl’altri Stati, sono a migliori condizioni li depositi della Repubblica. Grande per tutti è l’allettamento dell’affrancazione, persuasi che come l’acqua che scorrendo sempre è fuori di pericolo di guastarsi, così il moto continuo del dinaro de’ depositi che s’affrancano rende quieti i capitalisti né la fede pubblica resta esposta a pericoli di alterarsi».

 

 

Dalla conversione al 3,5% i Deputati si ripromettono grandi vantaggi.

 

 

Lo Stato, col risparmio del mezzo per cento, potrebbe finalmente e stabilmente ottenere il pareggio cosicchè «quallor estraordinarie emergenze sopravenissero che violentassero a far più pronta e maggior unione di dinaro, presto si averebbe facilmente anche da forastieri con tornar a ponere gl’interessi sul piede del 4%».

 

 

Né basta; anche la nazione in generale ne risentirebbe grandi vantaggi, assai somiglianti se pure non identici a quelli che oggidì gli economisti si ripromettono dalla riduzione dell’interesse sui Debiti pubblici.

 

 

«Anche il commercio ne sentirebbe vantaggio, avvegnachè li di lui interessi che in presente forse lo aggravano, s’anderebbero a poco a poco diminuendo, prendendo questi naturalmente la misura in proporzione da quelli che del pubblico si pagano senza la forza d’alcun decreto, che in tali casi non potrebbe a parer nostro riuscire se non pregiudiziale. In questi Stati ne’ quali sono più bassi gl’interessi del dinaro sono gli erari de’ Prencipi ed i commerci delle nazioni più floridi e ricchi. Crescono in proporzione del contante che gira le manifatture. Dietro a queste s’impiega maggior numero di popolazione che viene attirata da paesi più poveri; e da tutto ciò nasce l’aumento dei consumi e per conseguenza delle pubbliche rendite».

 

 

Il Senato, persuaso dell’ampia e lucida relazione che ora è stata riassunta, ne approva tutte le proposte con decreto 15 febbraio 1752, dando ai Deputati amplissima «laude et approvazione» per il loro benemerito zelo, ed ingiungendo che «oltre gli ordinari privileggi de depositi» il nuovissimo deposito del 3,5 abbia ad essere «protetto ed assistito in modo particolare dal magistrato dei Deputati per assicurarlo da ogni pubblico e privato pregiudizio e per l’uso da farsi del denaro che vi sarà per confluire» (II, 562-8).

 

 

Correvano i tempi propizi alla grandiosa operazione finanziaria che i veneti reggitori avevano escogitata. I bilanci pubblici presentavano le seguenti risultanze:

 

 

 

 

Anni

 

 

Entrate effettive

 

 

Spese effettive

Disavanzo nella spesa compreso l’ammortamento del Debito Pubblico

Disavanzo od avanzo dedotto dalla spesa l’ammortamento del Debito Pubblico

 

Fondo di cassa (sopravanzo) alla fine di ogni anno

1752 5.357.451.20 6.230.474.13 – 873.022.17 – 188.337.1 2.325.949.11
1753 5.498.496.10 5.353.958.19 + 144.537.15 + 221.305.23 2.454.278.20
1754 5.581.222.7 5.318.552.14 + 262.669.17 + 392.670.18 2.929.208
1755 5.602.095 5.831.307.13 – 229.212.13 + 190.072.10 2.992.656.9

 

 

Crescevano dunque le entrate ed un salutare freno essendo stato posto alle spese, l’avanzo effettivo si manteneva rilevante, cosicchè il fondo di cassa che ora direbbesi del Tesoro e costituiva la riserva per le circostanze straordinarie, impinguavasi ogni giorno più.

 

 

È quindi naturale che il piano finanziario di unificazione del debito pubblico veneziano e di conversione del debito unificato dal 4 al 3,5% incontrasse il pubblico favore. Sopratutto l’esito fu immediatamente favorevole per la prima parte del piano: l’unificazione del debito. Una relazione dei Deputati del 4 dicembre 1753 informa che su 3.555.733.4 ducati di depositi francabili aveano dichiarato di eleggere l’alternativa a, ossia il trasporto nei capitali istrumentati, ben ducati 1.679.211,16 nelle quattro Scuole grandi, ducati 590.862.5 nelle quattro arti, ai quali dovevansi aggiungere ducati 939.369.16 per i quali non era stata fatta dichiarazione alcuna e che secondo i decreti si doveano interpretare come assenzienti al trasporto: in tutto ducati 3.209.443.13. Aveano dichiarato di voler rimanere nei vecchi depositi redimibili e correre l’alea delle affrancazioni solo 346.289.15 ducati, di cui 319.208.12 amministrati dai banchieri commissionari dei creditori stranieri alla Repubblica (II, 573). L’operazione da questo lato poteva dunque dirsi riuscita. E del resto quanto fosse progredita l’unificazione del debito «nuovo» appare dalle seguenti cifre estratte dai bilanci (esprimenti l’onere annuo in interessi ed ammortamenti del debito veneziano nuovo).

 

 

 

Anni

Depositi redimibili di maccine ed oglio

Per affrancazione dei depositi redimibili

 

Capitali istrumentati

1752

330.118.21

684.685.16

283.771.2

1753

320.877.15

76.768.8

438.008.10

1754

32.911.23

130.001.1

740.388.2

1755

11.040.12

419.284.23

734.144.16

 

 

Di quanto diminuiscono i depositi redimibili, di altrettanto crescono i capitali istrumentati, col vantaggio che le quote che la Repubblica deve consacrare all’ammortamento sono di gran lunga minori.[22]

 

 

Quanto alla seconda parte del programma, la conversione dal 4 al 3,5%, i documenti pubblicati nei due volumi[23], da cui traggo le presenti notizie, non permettono di trarre conclusioni precise, la quali probabilmente saranno contenute nelle relazioni dei Deputati posteriori al 1755, quando l’operazione a grado a grado sarà stata condotta al suo termine. Si può affermare soltanto che l’operazione era bene avviata.

 

 

Alla data del 4 dicembre 1753 erano entrati nel deposito nuovissimo al 3,5%, destinato a convertire il debito «nuovo» al 4%, appena ducati 77.900 (II, 574). Né pare che in seguito il deposito si sia impinguato molto se le somme di interessi pagate su questo deposito ammontano soltanto

 

 

nel 1753

a ducati

434.21

  »  1754

»       »

1.729.14
  »  1755

»       »

11.786.16

 

 

Ma se i capitalisti erano renitenti ad entrare nel nuovissimo deposito, ciò non voleva dire che la Repubblica non potesse altrimenti provvedere alla conversione. Infatti in due relazioni del 4 (già citata) e del 18 dicembre 1753 i Deputati propongono:

 

 

a)    che si abbia ogni cura di impinguare il nuovissimo deposito al 3,5% e che delle somme per tal modo ottenute, l’erario si valga per intimare le affrancazioni all’arte dei testori «da cui si divisa cominciarle per renderla sollevata dal grave peso che rissente, per poi procedere con tal una delle altre arti in seguito, a misura dell’introito di dinaro che seguirà nel detto deposito nuovissimo»;

 

b)    che l’erario pubblico rimborsi ai Corpi d’arti e scuole soltanto l’interesse che essi effettivamente pagano ai creditori dello Stato. Come già si disse i Corpi d’arti e scuole fungevano da intermediari fra lo Stato ed i capitalisti, assumendosi un debito perpetuo verso lo Stato che pagava il 4% ed obbligandosi verso i capitalisti al rimborso del capitale ad epoche variamente stipulate e con un saggio di interesse fissato caso per caso. Era accaduto che per la migliore situazione del mercato monetario i Corpi, giunta la scadenza degli istrumenti conchiusi coi capitalisti o chiesto da costoro il subingresso con altre persone, – rinnovassero i prestiti al 3,5%, pure continuando a percepire il 4% dallo Stato. Ora i Deputati propongono che a somiglianza di quanto già si era fatto con decreti 21 febbraio 1738, 23 luglio e 9 settembre 1739 per la precedente conversione dal 5 e dal 4,5 al 4%, lo Stato non abbia più a rimborsare ai Corpi se non la cifra di interessi effettivamente da essi pagata ai creditori, inibendo nel tempo stesso ai Corpi[24] di accettare subingressi o rinnovazioni di istrumenti ad un tasso superiore al 3,5%. Così a poco a poco la conversione si sarebbe allargata a sempre più gran parte del debito pubblico;

 

c)    ad accelerare il movimento verso il nuovo tipo al 3,5, i Deputati – riflettendo che forse molti capitalisti privati non amano molto il deposito nuovissimo al 3,5, stipulato direttamente coll’erario «a causa delle disagradevoli condizioni dell’ordine opposte alle affrancazioni tanto attive quanto passive per non potersi per conto della pubblica cassa, che soggiace a particolari metodici vincoli, admettere quelle facilità che sono compatibili col metodo diverso dei corpi da quali esigevano li capitalisti… le pronte ed immediate affrancazioni a misura delle private loro premure» – propongono che la conversione al 3,5 si operi non solo mercè il deposito «nuovissimo» ma anche mercè nuovi capitali istrumentati che si permette alle scuole ed arti di prendere a prestito nella somma complessiva di 550 mila ducati. I Deputati nutrono fiducia che le Arti e Scuole non trovino difficoltà a farsi imprestare questa somma, al 3,5%, dai capitalisti, i quali preferiranno le maggiori agevolezze del Debito consolidato;

 

d)    del resto, quando le Arti e Scuole tardassero a collocare le quote dei nuovi capitali istrumentati al 3,5% e non potessero procedere abbastanza sollecitamente nelle intimazioni per la conversione, i Deputati propongono che la pubblica cassa, ora abbondantemente provveduta (vedi sopra le cifre che fanno testimonianza del rapido crescere dei fondi di cassa esistenti alla fine d’ogni anno), faccia passare alle Arti e Scuole le somme necessarie per procedere ai rimborsi ai capitalisti renitenti a contentarsi del nuovo saggio del 3,5%. Ma i Deputati sperano che i capitalisti vorranno contentarsi del più mite tasso d’interesse.

 

 

La speranza medesima nutre altresì il Senato, il quale con suo decreto del 16 gennaio 1753 accoglie tutte le proposte dei Deputati, e pone così la pietra angolare di una riforma destinata «a costituire il pubblico erario in vigore di reggere (ai gravosi pesi che soffre) ed acquistar nuove forze per li casi estraordinarj che Dio voglia sempre lontani» (II, 586).

 

 

L’economia pubblica veneziana ci si presenta dunque con caratteri ben diversi da quelli che sogliono contrassegnare nelle credenze di molti le finanze di antico regime. Severo l’ordinamento amministrativo della gestione del denaro pubblico; perfetti i congegni di controllo contabile, meraviglioso per quei tempi l’impianto di scritture a stampa che riassumevano tutti i fatti dei molteplici bilanci delle diverse casse e li riunivano in un unico quadro di ammaestramento per il passato e di ammonimento per l’avvenire: questi i principali segni esterni della cura meticolosa che la Repubblica metteva nella gestione della propria finanza. Né meno segnalati sono i meriti del Governo aristocratico veneziano per quanto riflette l’ordinamento dei tributi e l’ammontare delle spese. Fastosa nelle relazioni esterne, la Repubblica sapeva ridurre al minimo le spese delle magistrature interne; ed anche nei bilanci militari – se gli storici le possono muovere rimprovero di infiacchimento e di decadenza morale – gli economisti debbono riconoscere che essa sapeva ridurre, appena assicurata la pace, quelle spese militari che apparivano sproporzionate alla capacità contributiva della nazione. Forse i governanti veneti non sapevano facilmente trovare nuove entrate per il fisco esausto e troppo si mantenevano ligi alle vecchie forme d’imposta, anche quando in Piemonte ed in Lombardia si dava impulso vigoroso all’opera della perequazione fondiaria; forse in tempi di calamità e di guerra erano troppo propensi a ricorrere a vieti espedienti per far denari e troppo rifuggivano dalle riforme audaci. Ma d’altra parte la stessa invincibile riluttanza del Senato ad accogliere proposte di nuove imposte e di restaurazione o inasprimento di vecchie imposte contrastava luminosamente colla leggerezza colla quale in altri Stati, come la Francia, si spingevano al malcontento la borghesia e le masse popolari con la pressione soffocante di un regime tributario esoso, incerto ed ingiusto. La sollecitudine per i sudditi e la brama di evitare le mutazioni brusche negli oneri tributari formerà mai sempre il vanto di uno Stato forse invecchiato e ristagnante, ma risoluto a non distruggere per colpa propria i resti della antica fortuna nazionale. D’altra parte una politica di raccoglimento e di amministrazione avara si imponeva ad uno Stato curvo sotto il peso di un enorme Debito ereditato dalle nobilissime lotte sostenute in difesa della civiltà contro il Turco. Per pagare gli interessi di quel Debito e mantenere intatta la fede pubblica verso capitalisti timidi e scarsi, era d’uopo di grande prudenza e di una ordinatissima amministrazione; e una grande avvedutezza si richiedeva per condurre felicemente a termine i felici ardimenti delle conversioni al 3,5% del Debito Pubblico. La Repubblica veneziana seppe, in momenti di scarsa vigoria nell’economia privata e di depressi commerci, essere prudente nell’imporre nuovi sacrificii ai sudditi ed audace nell’alleviare il pondo degli interessi pagati ai suoi creditori. Prudenza meritoria ed audacia non piccola codeste; delle quali è giusto che gli storici sappiano ricordarsi.



[1] Cfr. la relazione ed il discorso di S. E. Luzzatti nel Nuovo Archivio Veneto 1897, tomo XIV, parte II.

[2] Venezia, Litrografia Alberto Pellizzato.

[3] R. commissione per la pubblicazione dei documenti finanziari della Repubblica di Venezia. Serie II, Bilanci Generali della repubblica di Venezia. Vol. II, Bilanci dal 1736 al 1755 (Scritture e Decreti). Un vol., di pagg. XII – 599. Vol. III, Bilanci dal 1736 al 1755 (Bilanci). Un vol. di pagg. XCV (introduzione del Prof. Fabio Besta col titolo Appunti sulla compilazione dei bilanci generali di fatto) – 357. Venezia, Premiato stabilimento tipo litografico Visentini Cav. Federico, 1903.

Il Senatore Lampertico ed il Prof. Besta, oltrechè all’ideatore on. Luzzatti, esprimono i loro ringraziamenti al Prof. Riccardo Predelli, dell’archivio di Stato di Venezia, il quale coadiuvò nelle ricerche non facili cui occorreva di fare e vigilò la stampa dei due volumi, ed al signor Carlo Minotto, segretario della Commissione, che cooperò a tutto l’arduo lavoro e più specialmente alla riproduzione e collezione dei bilanci. Era doveroso che anche qui quei due nomi, insieme con quelli del Luzzatti, del Lampertico e del Besta, fossero ricordati a titolo di onore.

Chi scrive coglie la gradita occasione di ringraziare pubblicamente l’illustre Prof. Fabio Besta per le cortesi comunicazioni epistolari, con le quali gli volle fornire notizie e schiarimenti preziosissimi.

[4] Nel periodo di cui ci occupiamo, in seguito alla riforma del 1582, era stata molto diminuita, in materia di finanza, l’autorità del Consiglio dei Dieci e cresciuta corrispondentemente quella del Senato, o del Consiglio dei Pregadi. Ecco come il Prof. Enrico Besta (cfr. la sua opera Il Senato Veneziano. Origine, costituzione, attribuzioni e riti, in Miscellanea di Storia Veneta. Serie seconda Tomo V, Venezia 1899, pag. 157) ne delinea i poteri in materia economica e finanziaria.

Non meno ampie furono le sue competenze d’indole economica. Tutti gli interessi fiscali erano tutti da esso dipendenti, salvo due eccezioni: la cura dei boschi, pur molto importante in una città come Venezia che doveva aver la principale sua forza nella marina, e quella delle miniere rimasero al consiglio dei dieci che vi attendeva per mezzo di provveditori proprii. Del resto il senato solo provvedeva alle entrate della repubblica con facoltà di aumentare e diminuire i dazi e le imposte esistenti; d’aprir prestiti e di concedere in esenzioni e dilazioni nel pagamento dei tributi. Non poteva però instituire imposte nuove senza l’assenso del maggior consiglio. Accresceva e instituiva salari; ma, altro freno a tanta autorità, perché le sue deliberazioni avessero in efficacia, era necessaria come sappiamo, l’approvazione del maggior consiglio. Sopraintendeva altresì alla zecca colla circolazione monetaria; dettava regolamenti per le casse e uffici d’esazione, sorvegliava e regolava i banchi. La autorità sua in materia commerciale faceva si che spedisse le galee ai viaggi, e ne determinasse il personale e la rotta, disciplinasse i loro cottimi, la importazione ed esportazione delle merci e le tariffe relative, l’apicoltura, l’industria e le arti, vigilando sulle scuole e paghe degli artigiani. Sole rimanevano sottratte alla sua competenza le scuole grandi, soggette, come quelle in ch’erano le più pericolose, al consiglio dei dieci.

In seno al Senato si nominavano i Savi grandi e quelli di terraferma che avevano la direzione dei diversi rami dell’amministrazione pubblica; e fra questi specialmente importante il Savio Cassier, nominato prima per un anno e poi per sei mesi, il quale badava alle finanze, sollecitava l’esazione delle imposte, sovraintendeva alle spese generali, curava il saldo delle casse, e procurava di migliorare il servizio pubblico denaro.

Così pure erano uno dei Magistrati del Senato propriamenti detti, ossia nominati nel proprio seno, i Deputati ed Aggiunti alla provision del denaro che furono istituiti il 2 agosto 1658 per provvedere alle spese ingenti della guerra di Candia. Erano prima tre, cresciuti a cinque nel 1664 con due aggiunti. A poco a poco tanto crebbe l’autorità loro che ebbero nelle loro mani la direzione di quasi tutte le finanze, regolando le casse e proponendo le riforme nell’ordinamento dei dazi, delle gravezze e del Debito Pubblico.

Se tutti questi magistrati cfr. specialmente Fabio Besta. Lezioni (litografate) di Contabilità di Stato, libro primo, Capitolo 3, Art. 1, dove in successivi capitoli si parla della Costituzione veneziana, dei Consigli e dei collegi che ebbero il governo delle finanze nei varii tempi, dei magistrati pel governo dei beni pubblici, del tesoro centrale e delle camere, dell’esazione delle imposte, dei magistrati sindacatori, dei ragionieri, scontri ed appuntadori, della molteplicità delle casse, della ordinazione delle spese, delle previsioni di cassa, delle scritture e dei bilanci ecc, e Prof. Enrico Besta, Il Senato Veneziano, opera citata.

[5] Nel volume I che sarà pubblicato in seguito saranno pubblicati i bilanci, non sistematici e non compiuti, che si hanno anteriormente alla riforma contabile Costantiniana del 1736; e nel volume lV e successivi saranno riprodotti i bilanci del 1760, 1765, 1770, 1775, 1780 e 1782 (anno sino a cui giungono i bilanci generali conservati negli Archivi Veneti, essendo quelli del 1783 al 1792 andati dispersi), oltre ai ristretti ed alle partite più importanti dei bilanci intermedi, ed alle relazioni e decreti illustrativi.

[6] Vol. II, pag. 53. Quando si citano soltanto queste due cifre, il lettore le riferisca sempre, quella romana al volume della serie II della raccolta citata e quella arabica alla pagina relativa. Così quando si legge soltanto «deputati» si intendano i «deputati ed aggiunti alla provision del denaro».

[7] Nei bilanci si fa sempre uso di una moneta speciale che èil ducato detto effettivo o ducato valuta corrente o ducato moneta di zecca; ma tuttochè si chiamasse «effettivo» era puramente «moneta ideale». Si disse effettivo nel 1561 (cioè circa il tempo in cui cominciò ad essere moneta di conto nei pubblici registri), quando si coniò in una grossa moneta d’argento equivalente a lire venete 6 soldi 4 e conservò poi sempre tale nome e la sua equivalenza nominale in lire 6 soldi 4. Ma la lira scemò di valore nei secoli successivi, onde il ducato moneta di conto che corrisponde sempre a lire 6,4 o a soldi 124 perdette esso pure valore. In una regolazione seguita sullo scorcio del secolo XVII si riconobbe valere lo zecchino 17 lire venete, e allora il ducato valuta corrente valse 6,4 di questa lira e tale valore serbò poi sempre nei pubblici conti fino alla caduta della Repubblica.

Lo zecchino, l’antico ducato d’oro, che non mutò mai sensibilmente dal 1284, tempo della sua creazione, al termine della Repubblica, equivale a it. L. 12.03, e però il ducato effettivo o valuta corrente o valuta di conto dei bilanci vale a oro

Ma dopo il 1687, durante la guerra di Morea e la neutralità armata, nelle contrattazioni di piazza la lira veneta perdette valore e conseguentemente crebbe rispetto ad essa il valor nominale dello zecchino e del ducato valuta corrente; nel 1730 lo zecchino valeva 22 di quelle lire. Di qui ne venne che dal principio del secolo XVIII si distinse la lira e conseguentemente il ducato valuta di piazza, o moneta lunga (il qual ducato venne pure adottato per i conti di alcune casse pubbliche) dalla lira e dal ducato valuta corrente od effettivo il quale continuò ad essere la moneta di conto dei bilanci generali. Il ducato valuta di piazza risultava di lire 6,4 valuta di piazza delle quali 22 valevano uno zecchino; onde questo ducato aveva il valore di   e la lira 22 veneta a oro valuta di piazza L. 0.5468. Si calcolava poi che otto di queste lire fossero pari al ducato valuta corrente od effettivo, a cui si attribuiva così il valore di L. 4.375 che differisce, come si vede, assai poco da quello di L. 4.387 trovato di sopra partendo direttamente dal valore dello zecchino.

Su di questo argomento (a chiarire il quale mi giovò assai una cortese lettera del Prof. Fabio Besta) scrisse una eccellente memoria il Senatore Nicola Papadopoli, letta nell’adunanza del R. Istituto Veneto di Scienze, lettere ed arti del 20 gennaio 1885 ed inserita negli atti di quell’anno di tale Istituto col titolo: Sul valore della moneta veneziana. In tale memoria la lira veneta di piazza è valutata dal 1739 al 1797 in rapporto all’argento L. 0.537 e rispetto all’oro L. 0.546. Nel 1739 a Venezia il rapporto fra il valore dell’argento e quello dell’oro era un pò diverso da quello legale odierno da 1 a 15,5 degli Stati della Lega latina; da ciò la differenza dei due valori sopra detti della medesima lira.

A meno di dichiarazione in contrario, il ducato di cui si parla nelle presenti pagine è sempre quello effettivo o V. C. del valore di L. 4.375 o 4.387 secondo le diverse valutazioni.

Il ducato si divideva in 24 grossi e il grosso in 32 piccoli. S’intende denari grossi e denari piccoli.

[8] Almeno che questa fosse la cifra del D.P. all’aprirsi della neutralità per la successione di Casa d’Austria può arguirsi dal fatto che l’11 dicembre 1750, ritornata la pace, i Deputati ed aggiunti alla provision del denaro riferivano che il debito della Serenissima ammontava a 80.243.525 ducati, di cui circa 9 milioni contratti per la anzidetta neutralità (II, 526).

[9] La voce spazzo suona dispaccio cioè lettera o relazione breve. Tuttavia questo semplice significato mal si attaglia alle locuzioni «… ambasciator di Vienna per suo spazzo…» (III, 108), e all’altra «…in quest’anno fu corrisposto lo spazzo alla sola ambasciata di Spagna» (II, 414). I dispacci si mandavano dagli Ambasciatori o residenti o rettori col mezzo di corrieri speciali celerissimi e la loro spedizione richiedeva perciò spese non lievi. Perciò alla voce spazzo si può nei documenti nostri attribuire il significato di: «facoltà di mandar lettere col mezzo di corrieri speciali».

[10] Le utilità dei ministri e dei nobiluomini magistrati sono compensi pagati dalle casse pubbliche con denaro pubblico diversi dai salari. In generale ogni ufficio era retribuito; e la retribuzione, o si commisurava a un tanto fisso all’anno e allora era detta salario anche rispetto ai NN.UU. eletti alle magistrature od ai reggimenti, oppure si ragguagliava a un tanto per ogni radunanza di Consiglio o magistrato per ogni sentata, come si soleva dire, o rappresentava una quota parte di entrate percette e specialmente di pene pecuniarie inflitte ai contravventori delle leggi sull’esazione delle imposte o sul governo del denaro pubblico, e allora si diceva utilità.

[11] I bastardelli erano i figli illegittimi abbandonati, i trovatelli o esposti si direbbe ora. A Venezia erano accolti nell’Ospizio della Pietà che esiste tuttora con un patrimonio proprio e serba lo stesso ufficio. Sopra si può vedere la cifra della sovvenzione accordata dalla Serenissima a tale Ospizio.

[12] Come in tutti i bilanci tenuti col sistema della partita doppia, fra le entrate figuravano le somme esistenti nelle singole casse, o, come allora dicevasi, i sopravanzi al principio dell’anno; e fra le spese i sopravanzi accertati alla fine dell’anno medesimo. Diguisachè per ottenere la somma che la Serenissima doveva introitare nell’anno per far fronte alle spese e lasciare in cassa il sopravanzo verificatosi, bisogna alle spese effettive aggiungere la differenza positiva fra i sopravanzi finali ed i sopravanzi iniziali ovvero dalle spese effettive togliere la differenza negativa fra le medesime due quantità. Per brevità, supponendo che all’ingrosso i sopravanzi ricevuti all’inizio corrispondessero ai sopravanzi lasciati alla fine dell’anno, si può ritenere che approssimativamente la cifra delle spese effettive uguagliasse il fabbisogno annuo a cui dovevasi provvedere colle entrate.

[13] Mi limito a citare le cifre del 1755 sia per brevità, sia perché non ci sono variazioni notevoli e sia perché le cifre del 1736 e 1737 sono in lire e non in ducati.

[14] Come già si disse il ducato effettivo, in cui si pagavano le imposte, era di lire otto venete, mentre il ducato di piazza, valuta corrente, in cui si ricevevano le rendite dai privati era di sole lire sei e soldi quattro.

[15] Erano i magistrati alle Acque a cui era devoluto il provento dell’imposta ereditaria nella Dominante; ed il Magistrato dei Deputati, che doveva proporre le modalità dei nuovi aggravi.

[16] Cfr. Provvedim. straord. cit. in vol. III, pag. 263 e segg.

[17] Le limitazioni dei territori di Bergamo e Brescia erano delle antiche imposte la cui esazione erasi ceduta ai Comuni o in perpetuo o temporaneamente per una somma annua definita, onde appunto si chiamavano limitazioni. Comprendevano il dazio dell’imbottato e altri dazi che in quel di Bergamo si dicevano dazioli.

[18] Cfr. vol. IV, pag. 261-281 Provvedimenti straordinari nei singoli anni dal 1736 al 1755, dove sono elencati particolareggiatamente anno per anno tutti i singoli provvedimenti straordinari della Repubblica nel periodo studiato.

[19] È lo Stato maggior generale dell’esercito e comprende gli stipendiati, la cui spesa si era ridotta a ducati 5719.14. Il maresciallo di Scolemburg aveva cessato di servir la Repubblica e non era stato sostituito.

[20] Queste cifre, contenute nella relazione dell’11-12-1750, non corrispondono esattamente con quelle che sono riportate nei bilanci generali e che sono più sopra riassunte. Probabilmente gli 884.920 ducati comprendono la cifra degli interessi sui depositi, sui capitali istrumentati, sui debiti della terraferma e sulle prestanze di Città e Corpi morali di cui nel testo si parlò a parte, prima di discorrere del Debito pubblico propriamente detto.

[21] Erano lasciati a parte i debiti vitalizi i quali «si vanno da per sé stessi estinguendo» ed i «capitali della zecca alle due» per «la troppo loro infelice condizione» (Cfr. II, 536).

[22] Specie nel 1753 e 1754. L’aumento del 1755 è dovuto ad altre cause.

[23] Si noti ancora che le relazioni dei Deputati ed i relativi decreti del Senato relativi al bilancio dello Stato ed al Debito pubblico finiscono in data 16 gennaio 1754, dimodochè per il 1754 e il 1755 si hanno poi le sole notizie contenute nelle cifre dei bilanci, che forse richiederebbero di essere illuminante dalle relazioni. L’unico documento pubblicato, il quale sia posteriore al 16 gennaio 1754, si riferisce unicamente a questioni di contabilità.

[24] Come pure alla Ecc.ma Procuratia di supra che aveva imprestato allo Stato ducati 150 mila.

Disoccupazione agraria ed espropriazione di terre nel rapporto di un ufficio del lavoro

Disoccupazione agraria ed espropriazione di terre nel rapporto di un ufficio del lavoro  

«Corriere della Sera», 15[1] e 17 febbraio[2] 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 101-107

 

 

I

 

Disoccupazione elevatissima, abbandono dei contratti colonici a base di operai avventizi e rifiorire della mezzadria, sostituzione delle culture a prato ed a grano a quelle a risaie, delle macchine alla mano d’opera, trascuranza delle migliorie agricole: ecco il quadro poco lieto delle condizioni dei contadini nel basso emiliano, che si può dedurre dalle risultanze di una inchiesta compiuta dall’ufficio del lavoro dell’Umanitaria. Ma non basta analizzare acutamente un fenomeno, studiarne le pulsazioni e segnalare l’esistenza di una male sociale. Occorre, potendo, indicare i rimedi più opportuni; od almeno quelli che, sia pur lentamente, possono alleviarlo di qualche poco.

 

 

In ciò siamo tutti d’accordo. L’osservazione dei fatti sociali servirebbe a ben poco se non avesse qualche pratica risultanza. Non varrebbe la pena di istituire uffici del lavoro se questi non dovessero fornire la materia prima su cui il legislatore elaborerà le sue leggi, l’uomo d’azione i suoi atti; se insomma gli studi dovessero servire soltanto a crescere i mezzi di studio dei teorici e non fossero stimolo ad opere di bene. Il compito degli uffici del lavoro deve però fermarsi lì: a fornire la materia prima ai legislatori ed agli uomini di azione. Andare più in là è pericoloso: da una officina di dati, l’ufficio corre gran pericolo di mutarsi in uno strumento di politica partigiana od almeno di essere creduto tale. Se si vuole proprio che gli uffici del lavoro indichino i rimedi ai mali sociali che essi hanno constatato, occorre sia ben chiaro che a questo punto cessa la loro funzione oggettiva, ufficiale e subentra l’opera soggettiva dei singoli direttori od impiegati dell’ufficio, i quali a seconda delle loro credenze socialistiche, liberistiche, riformistiche, ecc. ecc., trarranno dai dati conclusioni differenti, le quali avranno una portata puramente individuale.

 

 

Queste cose abbiamo voluto premettere alla critica che vogliamo brevemente fare al capitolo in cui lo Schiavi delinea nel suo lavoro i rimedi alla crisi di disoccupazione del basso emiliano. Lo Schiavi è socialista e dal suo punto di vista ha perfettamente ragione di scrivere a modo suo; ma sarebbe stato bene anche per lui che tutti potessero distinguere tra la parte oggettiva, veramente encomiabile e degna di ogni più ampia lode, in cui egli constata il fatto della disoccupazione e la parte soggettiva in cui egli vuole riassumere i rimedi a quel male. Anche in questa parte sono dette parecchie cose sensate, come quando egli elenca i lavori pubblici che potrebbero essere intrapresi con ordine sistematico e potrebbero distribuire 300 mila giornate di lavoro all’anno nei quattro comuni del ferrarese: 150.000 a San Giovanni ed a Molinella e 750.000 nei comuni del ravennate; o come quando fa il calcolo dello sfollamento che sul mercato locale del lavoro produrrebbe una ben diretta emigrazione all’estero. Siamo fin qui nel campo delle constatazioni di fatto, discutibili forse, ma sempre oggettive. Invece entriamo nel campo della politica e delle credenze economiche quando si enumerano i provvedimenti legislativi che si potrebbero prendere contro «l’incompetenza, l’assenteismo, il malvolere dei proprietari che mantiene molte terre improduttive o bassamente produttive» per costringerli «a coltivare razionalmente la terra secondo le buone norme agricole». Lo Schiavi potrà anche aver ragione di affermare che «essendo la terra la principale fonte delle sussistenze della nazione, il giorno in cui il proprietario che la detiene essicca volontariamente quella fonte, la collettività ha il diritto di sostituirsi a lui e di attingervi a beneficio di tutti». Gli esempi da lui addotti, della Nuova Zelanda che compra grossi latifondi e li fraziona in lotti, della politica agraria inglese in Irlanda, dei progetti di nazionalizzazione delle miniere di antracite nella Pennsylvania, sono così lontani dall’Italia, si sono verificati in condizioni politiche, sociali ed economiche così diverse dalle nostre che davvero non possono persuadere. Non è serio voler dimostrare che lo stato deve espropriare i latifondisti del ferrarese, adducendo il motivo che il governo americano, in un momento di panico pubblico per il caro del carbone, aveva l’intenzione di nazionalizzare le miniere di antracite. Il governo americano avrebbe probabilmente fatto un cattivo affare; ma uno pessimo lo farebbe certo il governo nostro, malgrado la procedura spiccia che l’ufficio milanese del lavoro propone per togliere di mezzo gli attuali proprietari, a cui si dovrebbe dare un prezzo corrispondente all’imposta che ora pagano. Quando l’on. Baccelli – durante la sua comica permanenza al ministero d’agricoltura – propose che i latifondi dovessero essere espropriati su questa base, la cosa parve sovvertitrice di ogni più saldo canone intorno ai diritti acquisiti, ed il senato respinse la proposta. L’ufficio del lavoro osserva semplicemente che la ripulsa del senato fu una «evirazione dell’intera legge», come se una bella frase valesse le molte ragioni addotte contro quell’aborto di legge. Non è serio nemmeno affermare che lo stato dovrebbe «risolvere il problema gravissimo della disoccupazione con provvedimenti radicali e inspirati a concezioni moderne della vita collettiva», quando la modernità delle concezioni consiste nel ripetere il vecchio ed abusato esempio delle colonie agricole semi – collettiviste fondate dall’Australia del sud nel 1894. L’esempio non calza, perché le colonie furono fondate in seguito ad una grave crisi bancaria che aveva seminato la rovina nelle grandi città australiane della costa ed aveva costretto i governi a trasportare nelle campagne gli operai affinché non tumultuassero e non cagionassero guai nelle città. Quelle colonie furono un solennissimo fiasco e vissero colle sovvenzioni dello stato; e quando il governo si stancò di pagare gli operai, si disfecero. Citare ora quelle colonie come esempio, è dare un ben cattivo consiglio al governo italiano.

 

 

E così di seguito. La indicazione dei rimedi è superficiale: l’ufficio del lavoro parte dall’ipotesi che i proprietari siano nemici della società, deliberati a ridurre la domanda di lavoro per far dispetto alle leghe ed ai loro organizzatori; e per costringerli a impiegare un numero maggiore di operai ricorda in fretta ed in furia certi provvedimenti che all’estero furono adottati in casi analoghi. Ma quei provvedimenti non sono esposti in modo oggettivo, con lo studio delle cause che li promossero, delle condizioni che li favorirono, degli effetti che produssero e di quegli altri effetti che produrrebbero in Italia. No: essi sono puramente messi lì a coonestare la proposta di una frettolosa legislazione socialisteggiante che nulla dimostra possa riuscire efficace.

 

 

Non così operano i grandi uffici del lavoro di Washington e di Londra. Nei loro rapporti veri modelli del genere – i fatti sono molti, larghissima l’esposizione dei provvedimenti adottati, ma le proposte concrete sono scarsissime o meglio non se ne fanno. Perciò noi abbiamo subito voluto elevare una voce contro un andazzo che potrebbe radicarsi in Italia, quando anche l’ufficio di Roma – diretto dalla medesima persona che inspira quello di Milano – si mettesse sulla stessa via di dare consigli ai politici socialisti invece che fornire fatti a tutti gli uomini di buona volontà.

 

 

II.

 

Abbiamo esaminato e discusso nel numero del 15 i giudizi dati dal dott. A. Schiavi, in una pubblicazione dell’ufficio del lavoro della società Umanitaria su La disoccupazione nel basso emiliano. Ci pare interessante ritornare sulla stessa pubblicazione per astrarre dai giudizi e riferire i dati di fatto che essa contiene.

 

 

Sono quattro comuni del ferrarese (Argenta, Bondeno, Copparo e Portomaggiore), due del bolognese (San Giovanni in Persiceto e Molinella), e tre del ravennate (Alfonsine, Conselice e Ravenna), tutti racchiusi in un trapezio fra l’Adriatico, il Po, il Panaro e la linea ferroviaria Bologna-Lugo-Ravenna; quelli su cui l’ufficio del lavoro di Milano diresse le sue investigazioni. In tutti il numero dei disoccupati è grande, ed in taluni sembra persino inverosimile. Non già che vi siano molti lavoratori i quali siano per tutto l’anno disoccupati, accanto ad altri oppressi da eccessivo lavoro. No. Il lavoro è entro certi limiti, distribuito a tutti, ma tutti lavorano assai poco, molto meno del numero dei giorni durante i quali potrebbero essere occupati. I 5.100 braccianti di Argenta rimangono disoccupati per 227 giorni all’anno, quelli di Bondeno per 170, quelli di Copparo 182 e quelli di Portomaggiore 205. Nel bolognese, i disoccupati sono il 47% dei braccianti esistenti a San Giovanni in Persiceto (ossia tutti lavorano solo il 47% del tempo utile al lavoro), e il 52% a Molinella. Nel ravennate, i 2.011 braccianti di Alfonsine sono occupati appena per 76 giorni all’anno; i 1.980 di Conselice per 77 giorni ed i 9.352 di Ravenna, per soli 55 giorni all’anno. Sebbene qui vi sia il compenso delle giornate di lavoro nelle opere pubbliche, 21 ad Alfonsine, 13 a Conselice, 31 a Ravenna, e sebbene la misura dei salari sia più elevata, il fenomeno della disoccupazione si presenta con una crudezza davvero notabile. A causa dei più bassi salari che si pagano alle donne, queste riescono a lavorare di più degli uomini. Eccetto che a Molinella, dove le donne sono più fervide leghiste degli uomini e dove esse sono disoccupate per il 55% e gli uomini per il 50%, le donne infatti sono sempre più occupate degli uomini. A San Giovanni in Persiceto gli uomini disoccupati sono il 51% e le donne il 43%; nei quattro comuni del ferrarese gli uomini hanno 197,9 giornate di disoccupazione e le donne 181,4; a Ravenna gli uomini lavorano in campagna per 62 giorni e le donne 72. Tra gli operai, quelli maggiormente colpiti dalla disoccupazione sono gli affiliati alle leghe; a Molinella sino al 56%. I disorganizzati riescono a lavorare un po’ di più e la proporzione dei disoccupati è appena del 51%; mentre i più favoriti sono gli organizzati nelle leghe cattoliche, che rimangono privi di lavoro solo per il 39%. Di qui l’odio delle leghe contro le organizzazioni cattoliche.

 

 

Quali le cause di un fenomeno così intenso e così doloroso per gli operai che ne sono a preferenza colpiti?

 

 

Innanzi tutto la sostituzione di metodi di cultura più economici ed esigenti un minor impiego di mano d’opera. Nel ferrarese, terreni già condotti ad economia vengono dati a terzeria e a quarteria. A Portomaggiore, mentre dal 1821 al 1902 i giornalieri sono aumentati nella misura del 25%, gli obbligati crebbero del 92%. A San Giovanni in Persiceto ritorna in onore la mezzadria risparmiandosi così le spese della mano d’opera salariata, poiché il mezzadro – dice lo Schiavi -«preferisce assoggettarsi ad un lavoro che lo rende esausto, piuttosto che spendere denaro nei braccianti». probabile invece che il lavoro del mezzadro fatto a proprio conto sia semplicemente più produttivo del lavoro dell’avventizio, disinteressato dai risultati della produzione. Forse è questa altresì la cagione per la quale a Molinella una famiglia di mezzadri composta di 4 o 5 persone valide riesce a coltivare fin 25 ettari di terreno, mentre 15 ettari sarebbero, secondo lo Schiavi, inorridito al vedere i mezzadri lavorar tanto, più che sufficienti per una famiglia di 5 o 6 persone.

 

 

Una seconda causa di disoccupazione sarebbe quella che l’ufficio del lavoro chiama la «reazione dei proprietari», i quali oltre al preferire le organizzazioni confessionali ed al far venire operai piemontesi o veneti o romagnoli, limitarono od anche soppressero le culture. Ad Alfonsine nel 1902 non fu coltivato neppure uno dei 200 ettari di risaie, sopprimendo così d’un colpo 37.000 giornate di lavoro con un danno ai lavoratori di 65.000 lire circa. A Ravenna i proprietari hanno sospesi tutti i lavori di scavo, scasso, trapiantatura, ed hanno limitato anche negli altri lavori l’opera degli avventizi, preferendo l’opera dei mezzadri.

 

 

Le macchine si sono moltiplicate nel 1903; e quando si pensi che con una mietitrice-legatrice un uomo può compiere il lavoro di 16 mietitori a mano, si può valutare il danno fortissimo che ne è derivato agli avventizi. Alle macchine si aggiunge la trasformazione delle culture, per cui ai lavori di bonifica che occupano un numero massimo di operai, si sostituiscono prima le risaie, le quali ancora richiedono molto lavoro, e poi le culture del grano, del prato e della canapa. La limitazione della cultura umida a risaia porta tristi lacune nell’annata lavorativa non compensate dai lavori a cultura asciutta, se si pensi che un ettaro di terreno a prati, cereali, canapa esige 93 giornate di lavoro, mentre un ettaro di risaia ne abbisogna di ben 175. Ora a Conselice, in 20 o 30 anni, 1.100 ettari di risaia si sono ridotti a 200: a Molinella nel 1902 centinaia di ettari, nel 1903 solo a San Martino 1.200 ettari di risaia furono trasformati o avvicendati. La soppressione di quei 1.200 ettari si può calcolare abbia portato una perdita di circa 200.000 giornate, cioè di 70 giorni all’anno per bracciante. A Ravenna, col «pretesto» delle alte tariffe della mano d’opera, la proporzione di risaia nuova che dovrebbe essere impiantata nel terreno incolto è in proporzione sempre minore a quella che viene trasformata in cultura asciutta, con una perdita progressiva e costante di lavoro per la classe dei braccianti.

 

 

Se a tutto ciò si aggiunge l’irrazionale e tumultuario metodo con cui sono distribuiti i lavori pubblici, richiamando da altre regioni torme di operai, i quali poi, finiti i lavori, rimangono sul luogo a crescere la disoccupazione, si avrà un quadro completo delle cause le quali, secondo l’ufficio del lavoro, contribuiscono a mantenere un numero costante ed alto di disoccupati in permanenza in una delle più fertili regioni d’Italia.

 

 



[1] Con il titolo Un ufficio del lavoro che propone espropriazioni di terre. [ndr]

[2] Con il titolo Dopo tre anni di agitazione. Crisi di lavoro e disoccupati. [ndr]

Baraonda regolamentare universitaria

Baraonda regolamentare universitaria

«Corriere della Sera», 20 gennaio[1] 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 97-100

 

 

Gli echi dell’amministrazione dell’on. Nasi non si sono ancora dileguati. Molti giornali hanno discorso dei gravi inconvenienti del nuovo regolamento universitario emanato da lui abusivamente in articulo mortis, regolamento che veniva a sovrapporsi ad altri esistenti, creando grande confusione. In proposito noi riceviamo quest’articolo da un professore di uno dei maggiori nostri atenei, che spiega e stigmatizza uno stato di cose a cui è urgente che l’on. Orlando ponga riparo, senza debolezze o troppi riguardi personali.

 

 

Il ministro Nasi sembra abbia voluto lasciare nelle cose della pubblica istruzione un seme di agitazione e di malcontento perenni. Di questi giorni – dopoché già i membri giuristi del consiglio superiore si erano presentati all’on. Orlando per fargli presente la urgenza di modificare gli ultimi decreti stessi – si stanno radunando i consigli delle facoltà di giurisprudenza delle università di Roma, Torino, Napoli, Pavia, Padova, ecc., per protestare energicamente contro alcuni attentati che d’improvviso sono venuti a compiersi contro il carattere scientifico degli studi giuridici e le più elementari norme di buon andamento didattico. La causa della nuovissima agitazione sta nel regolamento universitario, che, sebbene emanato il 26 ottobre e pubblicato il 23 dicembre sulla «Gazzetta ufficiale», appena ora, finite le vacanze natalizie, è stato comunicato alle facoltà, portando lo scompiglio nelle iscrizioni, negli orari e nell’ordine degli studi. Studenti e professori non sanno più a che santo votarsi per fare camminare di pari passo tre regolamenti, quello Boselli del 1890 valido ancora per gli studenti del terzo e del quarto anno, quello Nasi del 13 aprile 1902 valido per gli studenti del secondo anno ed il nuovissimo Nasi del 26 ottobre valido per gli studenti ora iscritti al primo anno. Si pensi, ad esempio, che il primo regolamento Nasi trasportava al primo biennio alcune materie che appartenevano al secondo biennio; e che il nuovo regolamento le rimette al secondo biennio, cosicché quei corsi devono contemporaneamente essere accessibili agli studenti di tutti i quattro anni di legge, coll’obbligo quindi per il professore di far lezione in un’ora nella quale non legga nessun altro professore, la iscrizione al cui corso sia del pari obbligatoria per gli studenti di uno qualunque dei quattro anni, per non far correre agli studenti il rischio di vedersi annullata l’iscrizione e di perdere un anno. D’altra parte i corsi obbligatori sono venti, le ore del giorno sono limitate, gli orari sono già compilati ed approvati dal consiglio superiore. Di qui una confusione anarchica, resa ancor maggiore dal fatto che il nuovissimo regolamento impone agli studenti certe iscrizioni che prima erano vietate, e le impone ora, mentre le iscrizioni dovrebbero essere state chiuse sino dal 15 dicembre.

 

 

Questo è il meno, di fronte alla singolare posizione fatta a cinque sventurate materie, poste nel primo biennio, e che sono la storia del diritto italiano, la storia del diritto romano, il diritto ecclesiastico, la statistica e la medicina legale. Per queste materie l’esame non sarà più singolo, ma per gruppo. Il candidato verrà interrogato da tre professori ufficiali e due liberi docenti e verrà dichiarato idoneo se otterrà trenta punti almeno su cinquanta, con diritto di compensazione fra le varie materie. Cosicché potrà darsi che un candidato pur non sapendo nulla di storia del diritto italiano venga promosso per alcune risposte di medicina legale; e, siccome i professori ufficiali commissari sono soltanto tre e due fra i cinque insegnanti delle materie d’esame rimangono necessariamente esclusi dai due liberi docenti, così succederà che forse sulla medicina legale dovrà interrogare un professore incompetente che ne saprà meno del candidato. Insomma, un vero sconcio incomportabile colla serietà degli studi.

 

 

Il peggio si è che nel mondo accademico corre voce che tutto questo aborto abbia la sua origine in una gelosia di una persona la quale ha collaborato alla confezione dei nuovi regolamenti e che aveva ragioni speciali di malanimo contro un professore di storia del diritto italiano. Per sfogare il proprio malumore quella persona non trovò altro mezzo migliore di quello di ridurre l’importanza didattica della materia insegnata dal professore a lui antipatico.

 

 

Così ora la storia del diritto italiano, una volta materia biennale, non solo si trova ridotta ad un anno solo, ma vede la sua dignità manomessa dal modo barocco con cui in futuro si dovrà sostenere l’esame, magari per interrogatori di un professore di medicina legale! Lo stesso si dica della statistica, che vede menomata ancora quella posizione non lieta che l’ordinamento antico già le faceva.

 

 

Quasi a voler compensare la diminutio capitis inflitta ad importantissime discipline, il nuovo regolamento impone e disciplina cosidetti corsi di pratica forense civile, commerciale e penale. Ve le immaginate voi le lezioni universitarie convertite in parodie di processi, con gli avvocati difensori, le parti civili, i testimoni e gli accusati? Tentativi di questo genere in passato se ne fecero, ma degenerarono sempre in tumulti ed in chiassi d’inferno. I giovani, se vogliono, possono andare a sentire processi veri in tribunale, senza bisogno di farne essi parodie in classe. Si noti che dopo la laurea è prescritta ai dottori in legge una pratica forense di due anni prima di poter esercitare l’avvocatura. A che pro allora la risurrezione modernissima delle ridicole tenzoni fra Cartaginesi e Romani che deliziavano i nostri genitori nelle classi di umanità e rettorica?

 

 

Basti per oggi. Noi non finiremmo più se volessimo riassumere tutte le stranezze del nuovo regolamento. Del resto, se è vera una voce insistente, esso sarebbe incostituzionale. Infatti nel preambolo del decreto, che ha la data del 26 ottobre 1903, è detto: «Udito il consiglio superiore della pubblica istruzione». Invece il consiglio superiore avrebbe cominciato a discutere il regolamento solo il 26 ottobre e la discussione sarebbe finita ai primi di novembre. Cosicché il decreto sarebbe stato presentato alla firma reale dal ministro Nasi in articulo mortis, quando il consiglio superiore non aveva ancora espresso alcun avviso e al decreto già firmato si sarebbero in seguito apportate modificazioni in base ai voti posteriori del consiglio. Le voci non sembrerebbero vere se non fossero oggetto di discorso quotidiano tra i professori!

 

 

Oserà il ministro Orlando sospendere o modificare un complesso così stravagante di norme? Speriamolo. In tal caso, se si avrà il beneficio di essere liberati da disposizioni dannose, si otterrà di mettere in vigore, accanto ai tre ora vigenti, un quarto regolamento. Chi si raccapezzerà allora sarà veramente bravo.

 

 



[1] Con il titolo Banda regolamentare. [ndr]

Le spese pubbliche a Venezia nel secolo XVIII

Le spese pubbliche a Venezia nel secolo XVIII

«Corriere della Sera», 5 gennaio[1] 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 92-96

 

 

In Italia le grandi collezioni storiche di documenti importantissimi per la nostra storia civile non fanno difetto e tornano ad onore insigne dei pazienti eruditi che le composero seguendo le tracce lasciate dal sommo Muratori, della cui raccolta è stata ora, con ardimento, iniziata la ristampa dal compianto editore Lapi. Difettavano – come del resto difettano in parte anche all’estero – le collezioni di documenti finanziari ed economici. Sia per la mancanza di studiosi che si interessassero dell’argomento, – preferendo gli economisti gli studi teorici ed attuali, ed ignorando spesso gli storici la importanza del lato economico della vita sociale – sia per la vastità dei campi affatto vergini da esplorarsi, una cosa era certa: che in Italia la storia dell’economia e della finanza era troppo, quasi del tutto, trascurata.

 

 

Noi non possiamo perciò passare sotto silenzio la pubblicazione di due bei volumi nei quali la «real commissione per la pubblicazione dei documenti finanziari della Repubblica di Venezia» ha ora pubblicato, coi tipi dello stabilimento Visentini (Venezia 1903), i Bilanci generali della Repubblica di Venezia dal 1736 al 1755 insieme con le relazioni ed i decreti relativi. La pubblicazione, dovuta alla geniale iniziativa dell’onorevole Luzzatti, quand’era ministro del tesoro, e curata assiduamente dal senatore Lampertico, dal professore Besta, dal prof. Riccardo Pedrelli e dal signor Carlo Minotto, prelude ad una lunga serie di volumi dai quali sarà illuminata tutta la vita economica e finanziaria della repubblica veneta ed è di per se stessa già ora una miniera ricchissima di dati interessanti e preziosi. Essa comprende, come dicemmo, i bilanci generali a partire dal 1736 (quando un modesto e benemerito «ragionato» della serenissima, Gerolamo Costantini, propose ed attuò un piano di bilanci generali a complemento degli antichi e complicatissimi bilanci speciali) sino al 1755, ed abbraccia il periodo fortunoso della fine della neutralità per la successione di Parma, delle neutralità per la successione d’Austria ed il ristabilimento della pace che finalmente durò sino alla rivoluzione francese. Fu un periodo durante il quale la repubblica dovette sostenere gravissimi sacrifici per mantenere intatto il suo territorio contro le «gelosie» straniere; e, malgrado ciò, seppe gittare le basi della restaurazione delle pubbliche finanze. Noi non vogliamo tediare i lettori con una esposizione storica che non sarebbe adatta ad un giornale quotidiano; ma, dopo avere accennato nelle poche righe che precedono alle benemerenze insigni di coloro che si accinsero alla pubblicazione di una così importante raccolta, non vogliamo perdere l’occasione di ricavare dai volumi citati un mazzo di notizie relative alle spese della serenissima. Avvezzi alle cifre dei bilanci moderni, che hanno per unità il miliardo, non sappiamo più nemmeno immaginare che i bilanci di un secolo e mezzo fa sembravano grossi quando avevano per unità il milione. A Venezia (compresa la dominante, la terraferma, il levante, la Dalmazia ed il golfo) si spendevano da 6.317.000 ducati nel 1736 (in tempo di neutralità armata) a 5.831.000 ducati nel 1755, in tempo di pace profonda in tutta Europa. È vero che il ducato effettivo d’allora corrispondeva a 4,37 lire di moneta italiana; ed è vero che la potenza d’acquisto della moneta era allora ben maggiore d’oggidì; ma ciò nonostante il divario tra le cifre antiche e quelle moderne è rilevante.

 

 

Allora, come oggi, le due partite che assorbivano la parte migliore del bilancio delle spese erano il debito pubblico e le spese militari. Il debito pubblico costava nel 1736 ben 2.225.065,3 ducati, di cui 383.809,12 erano dedicati all’ammortamento, ed il resto al servizio dell’interesse; nel 1755 raggiungeva i 2.355.000 ducati, di cui 419.000 per l’ammortamento. Non si deve però credere che di regola la repubblica ammortizzasse il suo debito con tanta velocità, poiché essendo quasi sempre le spese superiori all’entrata, per ammortizzare i vecchi debiti se ne dovevano contrarre dei nuovi.

 

 

Venivano subito dopo, per importanza, le spese militari che assorbivano 2.390.000 ducati nel 1736 in tempo di timori di guerra e 1.680.000 ducati in tempo di pace.

 

 

Rimanevano per tutte le altre spese 1.702.000 ducati nel 1736 ed 1.795.000 nel 1755, nei quali si dovevano comprendere parecchie partite di giro e parecchie somme per restituzione di prestiti temporanei che avrebbero dovuto essere comprese nel debito pubblico. Non è quindi a stupire se la serenissima dovesse essere assai tirchia di regola nello spendere per le magistrature civili e giudiziarie. All’interno l’unico stipendio abbastanza elevato era quello (che del resto avrebbe dovuto essere inchiuso nel bilancio militare) del capo mercenario del suo esercito, il Feld maresciallo di Scolemburg, il quale riceveva dapprima 25.000 ducati all’anno (100.000 lire nostre circa). Ma poi lo stipendio gli fu ridotto a 18.750 ducati ed al tenente generale Guglielmo di Greem, che nei bilanci figura come suo successore, si pagavano appena 4.125 ducati all’anno. Larga era altresì, per antica tradizione, la repubblica coi suoi ambasciatori e ministri all’estero. L’ambasciatore a Roma riceveva per salari da 11.329,7 (1740) a 15.248,18 (1745) ducati all’anno, oltre al rimborso delle spese straordinarie in ducati 1.471,12 nel 1737 e ducati 727,17 nel 1745 ed allo spazzo (rimborso di spese per l’invio di dispacci con corrieri speciali) di ducati 5.310,12 nel 1740, 3.517,13 nel 1750 e 105 nel 1755. Nel 1755, anno in cui l’organico, per chiamarlo così, delle ambasciate si trovava all’incirca al completo, si avevano le seguenti cifre per stipendi: all’ambasciatore a Roma ducati 11.749,9; a Vienna 11.731,11, in Francia 9.738,15, in Spagna 10.764,22; ai segretari a Roma 1.008, a Vienna, in Francia e in Spagna 575,6; al residente in Inghilterra 5.473,12, a Napoli 3.735,12, a Milano 4.302,14 ed a Torino 4.299,12. Stipendi da 40 a 50.000 lire nostre per gli ambasciatori; da 15 a 22.000 lire per i residenti e da 2.300 a 4.000 lire circa per i segretari erano per quell’epoca stipendi lauti e superiori agli stipendi pagati da potenze pure di gran lunga più importanti.

 

 

Nell’interno le cose erano ben diverse. La repubblica era avara con i suoi magistrati: a cominciare dalla carica massima, il doge, il quale riceveva, insieme con tutte le quarantie e tutti i collegi, ossia insieme con le supreme autorità giuridiche, legislative ed esecutive, appena 60.000 ducati all’anno, ad andare all’«eccelso consiglio dei dieci», al quale era assegnata una somma variabile dai 40 ai 50.000 ducati (e con questo si doveva pensare a tutti gli uffici dipendenti), per scendere giù giù sino agli altri magistrati grandi e piccini. Ad esempio ai tre nobiluomini avogadori era assegnato un salario complessivo fra tutti e tre di 336 ducati all’anno. Racimolavano essi ancora le cosidette utilità; ma non erano gran cosa: nel 1755 appena 516 ducati in tutto. Ai due giudici provveditori di comune si davano nel 1736 ducati 88,17 di salario complessivo; ai tre giudici del fondaco dei tedeschi 216 ducati; ai quattro giudici della messettaria 645 ducati, sempre nel 1736.

 

 

Per tutta la sua burocrazia giudiziaria e civile compresi anche gran parte degli stipendiati della marina da guerra, la repubblica spendeva nel 1736 ducati 101.000 per i cosidetti provvisionati, 215.000 per i salariati e 5.000 per i graziati. Nel 1755 la spesa si era elevata a 120.000 per i provvisionati, 239.000 per i salariati e 3.000 per i graziati. Non era certo quella una burocrazia molto costosa, sebbene sin d’allora vive fossero le lagnanze per il numero eccessivo degli impiegati male retribuiti ed infesti alla cosa pubblica. «Non è possibile» – si legge in una relazione dei revisori dei conti «pagare a dovere tanto numero di ministri, i quali per altro, sotto titolo del loro necessario mantenimento, ricercano per tutte le vie il loro maggior profitto, ed in farlo o sono per arrecare troppo di peso alla pubblica cassa per la via dei salari, o, Dio non voglia, per quella dei defraudi, o per lo meno con inferire troppo di peso ai privati che corrispondono con le loro casse; il che tutto vien poi di riffondersi in pubblico discapito».

 

 

Economica era altresì l’amministrazione veneziana per quello che si riferisce alle spese di controllo, di carta, di stampa e d’ufficio. Per il controllo del 1755 – che fu l’anno della maggiore spesa – si erogarono ducati 12.168. Per la carta, stampe, libri e cera, si spendevano nel 1736 ducati 11.378,17 e nel 1755 ducati 21.953,18, piccola somma se si pensa che la consuetudine di stampare gli atti ed i registri pubblici era allora a Venezia molto diffusa. Per il porto delle lettere e per gli espressi si spendevano da 3.254,17 (1736) a 9.637,15 (1745) ducati, secondo gli anni e le circostanze, essendosi ad esempio nel 1745 alle spese ordinarie aggiunto il rimborso di ducati 3.797 per dispacci da Costantinopoli. Tenuto conto del costo molto maggiore della spedizione dei corrieri, le cifre di spesa non avrebbero potuto essere tenute in limiti più ristretti. Le spese d’ufficio in tutta la dominante ammontavano appena a 5.464,16 e le spese diverse a 47.987,14 ducati nel 1755.

 

 

La repubblica era pietosa verso gli indigenti ed i malati, ma con moderazione: nel 1755 si assegnavano appena 13.412,10 ducati per le elemosine, 8.103,5 per i doni pubblici, 6,442,2 per l’ospedale della pietà. Più larga era verso l’istruzione superiore: lo studio di Padova costava ducati 26.958,6 nel 1736, 21.896,1 nel 1750 e 30.544,12 nel 1755, somma ragguardevole, data l’indole dei tempi. In compenso, tolti 5.593,9 (1755) ducati per l’accademia dei nobili non si scorgono nei bilanci ora pubblicati altre spese per l’istruzione pubblica. Lo stato evidentemente si disinteressava dell’istruzione media ed elementare. Poco spendeva del pari per la pubblica sicurezza: al capitano e alle guardie della piazza di San Marco si assegnavano circa 900 ducati all’anno e questo, a quanto pare, era tutto. Al resto forse provvedeva il bilancio militare.

 

 

Codeste abitudini di risparmio non impedivano che la repubblica fosse afflitta dal male cronico degli stati moderni: il disavanzo. Anche deducendo dal disavanzo nominale le spese per l’ammortamento del debito pubblico, rimaneva pure sempre un grosso disavanzo effettivo: su 20 anni appena 5 presentano un avanzo che va da un minimo di 108.400 ad un massimo di 392.670,18 ducati mentre 15 sono colpiti dal malanno del disavanzo per un minimo di 79.580,2 ed un massimo di 1.183.632,7 ducati. I veneziani per porre rimedio al male cronico del disavanzo non aveano saputo inventare nessun metodo che fosse migliore di quello odierno del far debiti ed il debito pubblico della serenissima raggiungeva la cifra allora enorme di 80 milioni di ducati (350 milioni circa di lire nostre).

 

 



[1] Con il titolo Le spese pubbliche a Venezia nel secolo XVIII. A proposito di una nuova raccolta storica. [ndr]

Di alcuni recenti studi di storia economica e finanziaria

Di alcuni recenti studi di storia economica e finanziaria

«La Riforma Sociale» 15 dicembre 1903

Studi di economia e finanza, Società tipografico editrice nazionale, Torino-Roma, 1907, pp. 95-114

 

 

 

 

Se fra gli economisti è controversa l’importanza degli studi storici, ciò è dovuto a due circostanze principalissime: a) che troppe volte furono scritte storie da studiosi che non conoscevano la scienza economica e finanziaria e, guardando con disprezzo alle teorie da essi ignorate, non potevano vedere i nessi che i piccoli fatti appassionatamente studiati nelle vicende del passato avevano con le grandi leggi che governano il mondo economico; b) che gli studiosi – specialmente italiani – di storia economica, presero ad oggetto delle loro pazienti investigazioni quasi soltanto la letteratura dell’Economia e della Finanza. Ora è facile vedere come il riassunto, sia pure diligentissimo, di quello che scrissero gli economisti dei tempi andati, non può non riuscire spesso freddo e incolore, sia perché le dottrine di quei vecchi corrispondevano a tempi che noi brameremmo vedere rivivere dinanzi ai nostri occhi per potere gustare e comprendere le morte dottrine, sia perché esse – separate dal quadro dei tempi in cui ebbero nascimento – ci paiono erronee od almeno più non corrispondenti allo stato avanzato della scienza presente.

 

 

Qui invece si vuole rendere conto di alcuni libri in cui si studiano dei fatti economici e finanziarii del passato – cosa sempre interessante, qualunque opinione si abbia intorno alla rilevanza teorica di questi studi; – libri scritti da persone che non affettano disprezzo per la scienza e, pure limitandosi ad un campo specialissimo, intendono portare il loro contributo ad un’opera più generale di cultura. Due trattano espressamente di storia finanziaria, descrivendo l’uno le finanze medievali della città di Douai e l’altro la trasformazione degli ordini tributari nel Tirolo dalla fine del medioevo alla formazione degli Stati assoluti. Il terzo – e l’unico scritto da un italiano – indaga le cause economiche della rivoluzione siciliana del 1647; – e l’ultimo finalmente èuna genialissima ricostruzione dei lineamenti di fatto della conquista nel diritto antico, ricostruzione dalla quale è prezzo dell’opera stralciare le risultanze precipue rispetto ai rapporti economici e finanziarii fra conquistatore e conquistato.

 

 

Il signor Giorgio Espinas[1] si è proposto il compito non facile di narrare la storia del regime finanziario del comune di Douai dal 1200 circa al 1400, attraverso al periodo fiammingo, quando il potere spetta alla aristocrazia degli scabini (1200 a settembre 1296), al periodo rivoluzionario delle lotte fra lo scabinato aristocratico e il popolo (settembre 1296 ottobre 1311), al periodo comunale sotto la supremazia francese (ottobre 1311 settembre 1368), ed al periodo di decadenza dell’autonomia comunale e dello sviluppo dei poteri sovrani della Casa di Borgogna (settembre 1368-1401). Noi non possiamo seguire l’A. nella sua minuta e ricchissima esposizione delle vicende finanziarie ed economiche della città di Douai in tutto questo periodo fortunoso. Ci basti il dire che esso culmina intorno alla lotta combattutasi nel settembre 1296 fra l’aristocrazia degli scabini e la borghesia popolare. Questa, malcontenta delle vessazioni dei patrizi, chiede l’aiuto dei Duchi di Borgogna e dei Re di Francia che si alternano nell’alto dominio della città. Alla quale dapprima è consentita una larghissima autonomia anche fiscale; ma poco a poco cresce l’ingerenza del governo, le spese di Stato aumentano ogni giorno e l’imposta assume carattere intieramente pubblico, cessando di essere comunale.

 

 

Durante il periodo comunale (1311-1368), che è il più interessante per la maggior fissità ed autonomia degli ordinamenti amministrativi e fiscali, l’imposta, che allora avrebbe dovuto essere fondamentale, era quella sulla fortuna e sul reddito: la taille. I cittadini dovevano fare la dichiarazione giurata dei loro beni, sia fondiarii che mobiliari, distinti il più spesso in due divisioni principali: l’«hiretage» e il «catel». La prima comprendeva tutta la proprietà immobiliare, costrutta o non, con le rendite perpetue, pecuniarie od in natura, che essa produceva o vi si riattacavano. Il «catel» era la proprietà mobile, comprendente i mobili propriamente detti; gli oggetti della economia domestica o mercantile, l’argento liquido e le rendite vitalizie. Durante il regime aristocratico, la taille dovea servire in mano agli scabini per tassare sovratutto la borghesia ed il popolo minuto; di qui il largo uso che ne è fatto in tutto il secolo XIII. Ma coll’avvento al potere del popolo, probabilmente le parti furono investite; almeno ciò si può congetturare dal tasso della taille nel 1302 che era di 2 soldi per ogni lira di valore capitale della ricchezza mobiliare, ossia del 10%; mentre la ricchezza immobiliare era tassata solo di 16 denari per ogni lira, ossia col 6.66 per cento. Era cioè tassata maggiormente la ricchezza mobiliare, posseduta specialmente dal patriziato. Si aggiunga che per ogni parte di fortuna valutata 50 lire, vi era una aliquota supplementare di 1 lira, ossia del 2 per cento, dando cosi all’imposta carattere di progressività.

 

 

L’aristocrazia ne dovette quindi essere malcontenta, e dovette sforzarsi di farla mettere in disuso, aiutata potentemente in ciò dal fatto che la valutazione delle fortune si compieva male, la riscossione era malagevole; ed insomma si trattava di un’imposta oppressiva e male distribuita. Così è che dopo il 1308 non si sente più parlare della taille.

 

 

I redditi indiretti della città in parte provenivano dal suo demanio fiscale ed in parte erano antichi dazi di consumo che per i concetti propri al medioevo avevano preso un carattere regalistico. Alcune erano specie di tasse per l’occupazione del suolo pubblico, come i mercati, le mura antiche, i prati fuori porta, ecc. Fra i dazi di consumo il più importante era il tonlieu o teloneum diviso in varie parti. Il «tonlieu del markiet» formava senza dubbio un diritto di entrata o di vendita per ogni sorta di merci o di oggetti di consumo portati per terra. I «menus tonlius» erano diritti d’entrata sugli oggetti in terra o in legno portati per terra o per acqua. Vi era il diritto di «muiage» sorta di patente sui negozianti di vino, e di «forage» sui negozianti che non facevano la loro dichiarazione annua. Vi si aggiungano i diritti di «stalaticum» o di pesi e misure, i diritti di «issue» o diritti sul passaggio a forestieri di immobili prima appartenenti a cittadini, i diritti di «cauchies» percepiti alle porte sulle vetture e carri, per la manutenzione delle strade. Tutte queste erano tasse ad aliquota mitissima; le quali appartenendo all’«hiretage» della città, erano percepite senza l’autorizzazione del sovrano.

 

 

Invece occorreva il consenso del sovrano per l’assise o maltôte che era dapprima un’imposta generale su tutte le vendite e divenne nel 1369 una imposta di consumo e di esportazione sul vino venduto al dettaglio od all’ingrosso, sui vini dei giardini e vigne per uso privato, sui grani venduti nella città od esportati fuori, sulla fabbricazione della birra, e su tutte le bevande con miele e senza, idromele ed altre. Sorta in origine per il pagamento del debito dalla città, rimane in seguito per far fronte a tutte le spese straordinarie. La aliquota ne doveva essere elevata: sul vino era in media nel 1260 da 1-7 a 1-10 del prezzo del liquido. Per le altre derrate alimentari il tasso, di 2 denari per lira, era molto meno elevato. In parte era un raddoppiamento dei dazi di tonlieu, con questa differenza che i diritti di tonlieu erano divenuti una quantità minima invariabile e fissata secondo i prezzi e le monete del passato, mentre l’assise poteva essere adattata alle condizioni del momento.

 

 

Le risorse straordinarie della città erano due: la «vinée» ed il «Debito». La vinée era una curiosa impresa di compra e rivendita di vino che la città esercitò fra il 1312 ed il 1320 per mezzo di quattro ricevitori che facevano venire il vino dalla Borgogna, dal Poitou e dalla Guascogna e lo rivendevano al minuto ed all’ingrosso per conto della città. In principio la città guadagnava bene: nel 1313-1314 in un periodo di quindici mesi i guadagni si elevarono a 2550 lire; ma durante 7 mesi del 1319 caddero a 38 lire; sicchè il Comune, giudicando l’operazione poco fruttuosa, «laissa le viner».

 

 

Il Debito pubblico era anche allora a breve od a lunga scadenza. Il debito fluttuante, detto «dette courant» o «dette du moeble» comprendeva i prestiti forzati senza interesse imposti agli abitanti della città, ovvero «a usures» contratti verso i Caorsini od i Lombardi. Il debito consolidato comprendeva le «rendite perpetue» garantite sul demanio fiscale della città e sulle entrate che facevano parte del suo hiretage, e le «rendite vitalizie» garantite sull’assisa. Le rendite perpetue erano vendute care e fruttavano appena dal 3-4 al 5%. Essendo emesse in piccole quantità e garantite sui redditi più sicuri dalla città, erano un investimento ricercato dalle opere pie, dai tutori di pupilli, ecc. Invece le rendite vitalizie erano capitalizzate più basse; e fruttavano fino al 20%; ma per tutto il periodo borgognone appena dall’8,33 all’11%.

 

 

Le spese – a cui tutte queste entrate dovevano servire – presentavano a Douai dei caratteri identici a quelli che offrono nelle altre città del Medio Evo. Esse non comprendevano nessuna parte economica o civilizzatrice. La funzione economica non esisteva od era limitata alla manutenzione delle strade, dei ponti e degli edifici urbani; quella civilizzatrice (istruzione pubblica), era assunta da associazioni religiose. La quasi totalità delle entrate aveva un doppio impiego: amministrativo, per spese di rappresentanza; militare, per le fortificazioni ed i gravami locali ed esteriori della guerra: guardia della città e spedizioni contro i nemici.

 

 

Come conclusione riportiamo il quadro delle entrate e delle spese della città dal 7 gennaio 1391 al 31 ottobre 1494 (in lire parisis).

 

 

 

Esercizi finanziari

 

 

Entrate

 

Spese

Prodotto delle

Assise

 

Avanzo

 

Disavanzo

7 gennaio 1391-7 febbraio

1392

24.451

23.874

19.652

577

7 febbraio 1392-6 marzo

1393

22.210

21.766

20.133

544

7 aprile 1394-6 maggio

1395

27.665

28.758

20.872

93

8 agosto 1398-7 settemb.

1399

38.217

37.435

21.148

782

7 settemb. 1399-7 ottobre

1400

46.004

44.681

22.924

1.323

7 ottobre 1400-7 novemb.

1401

27.994

27.103

20.805

891

7 febbraio 1405-7 marzo

1406

34.624

25.688

18.556

8.936

7 novemb. 1414-7 dicembre

1415

32.224

34.225

12.517

2.001

7 gennaio 1417-7 febbraio

1418

21.837

29.217

8.846

7.380

1 novemb. 1425-31 ottobre

1426

26.425

29.356

17.451

2.931

»

1427

1428

21.560

27.513

19.798

5.953

 »

1428

1429

24.856

26.735

19.872

1.879

 »

1429

1430

22.480

21.150

20.345

1.330

 »

1431

1432

25.441

28.321

20.688

2.880

»

1436

1437

21.606

22.629

18.792

1.023

»

1439

1440

25.518

30.233

17.838

4.715

»

1444

1445

23.128

23.247

18.037

49

»

1446

1447

32.235

34.481

18.029

2.246

»

1450

1451

23.253

21.320

19.455

1.933

»

1451

1452

25.059

22.128

18.193

2.931

»

1452

1453

21.208

15.453

15.198

5.755

»

1454

1455

27.156

26.089

19.728

1.067

»

1455

1456

22.662

21.553

18.560

1.109

»

1456

1457

23.768

19.242

19.338

4.526

»

1458

1459

32.537

25.656

20.036

6.881

»

1460

1461

31.381

26.056

18.544

5.325

»

1461

1462

27.920

22.743

18.385

5.177

»

1462

1463

26.055

19.737

17.878

6.318

»

1464

1465

24.337

23.200

17.276

1.137

»

1469

1470

26.412

18.550

16.898

7.862

»

1478

1479

19.186

32.458

15.538

13.272

»

1486

1487

16.693

18.815

14.446

2.122

»

1493

1494

22.496

20.533

19.434

1.963

 

 

Il prof. Tullius R.V. Sartori Montecroce, insegnante di diritto all’Università di Innsbruck, aveva già nel 1895 pubblicato un primo contributo alla storia del diritto austriaco con uno scritto su la recezione del diritto straniero nel Tirolo (Uber die Reception der fremden Rechte in Tirol und die Tiroler Landes Ordnungem, Innsbruck, 1895). Ora egli pubblica un secondo contributo dedicandolo alla storia del sistema territoriale di imposte nel Tirolo, dall’imperatore Massimiliano I a Maria Teresa (1490-1740).[2] Periodo questo importantissimo, perché sotto Massimiliano I soltanto comincia a formarsi un regolare sistema di imposte locali, in conseguenza delle continue guerre da lui condotte, alle quali non bastarono i mezzi e gli aiuti straordinari a cui si aveva ricorso prima. Il Land libell del 1511 è la carta fondamentale del sistema tributario tirolese, e in esso possiamo scorgere gli inizi di quelli che sono ancora i moderni sistemi tributari. L’obbligo feudale dei quattro Stati, della nobiltà, del clero, delle città e delle giudicature, a fornire per la difesa del territorio un determinato contingente di soldati, è la base sulla quale si stabiliscono i sussidi che il Tirolo concede al Principe in denaro per le guerre esterne da lui condotte. Ne è la base, perché nel medesimo modo con cui prima i diversi Stati e paesi contribuivano a fornire i 5000 uomini che erano il contingente normale del Tirolo, così in seguito vengono distribuite le somme che gli Stati largiscono al Principe in sussidio per le sue guerre. Ma non ne è la giustificazione perché il servizio militare per la difesa del territorio era una prestazione feudale obbligatoria, mentre l’imposta pagata per le guerre esterne ha il carattere di un dono graziosamente concesso dagli Stati. L’imposta era di contingente fra i diversi Stati: i 5000 uomini venivano distribuiti in parti fisse fra gli Adel (nobiltà), Prälaten (clero), le Städten und Gerichten (terzo Stato). La nobiltà e il clero provvedevano poi a distribuire fra i loro membri il contingente sullabase dalla loro entrata totale e del domicilio del contribuente, cosicché per essi l’imposta aveva un carattere spiccatamente personale. Invece per il terzo Stato l’oggetto dell’imposta era la cosa singola valutata separatamente dalle altre; e l’imposta reale veniva pagata nel luogo rei sitae. Le terre e le altre sostanze imponibili venivano raggruppate in unità dette Feuerstatte, il cui valore nel 1551 era di 150 fiorini. Erano nelle valutazioni compresi anche i beni posseduti dagli stranieri, ed i redditi degli impiegati del Governo e delle provincie; esentandosi soltanto i minatori ed alcune comunità che aveano certi obblighi militari speciali. Il contingente del clero e della nobiltà da una parte, delle Città e Giudicature dall’altra era fissato una volta per sempre; e per evitare gli inconvenienti derivanti dal passaggio dei beni da uno Stato ad un altro, si supponeva che la loro situazione fosse sempre quella dell’anno 1500 principio questo solito ad adottarsi in quei tempi.

 

 

Questi i lineamenti principali del sistema tributario locale nel Tirolo all’inizio del periodo, la cui storia è scritta dall’A.; e forse il carattere più spiccato di questo ordinamento è la mancanza di privilegi tributarii per il clero e la nobiltà, mancanza dovuta all’influenza che i ceti degli artigiani e dei contadini ancora sapevano esercitare.

 

 

Sarebbe troppo lungo seguire l’A. nella chiara e diligentissima esposizione da lui fatta delle vicende storiche del sistema territoriale tributario del Tirolo. Ci basti in questo brevissimo riassunto dire che questa storia si può distinguere in due periodi: prima e dopo il 1573. Prima di quell’anno l’autonomia locale ancora vigorosa, la novità medesima dei sussidi dati volta per volta dagli Stati, la mancanza di una burocrazia centrale forte ed organizzata, la povertà del Principe, l’indebitamento crescente della Camera Regia mettevano il Principe in una specie di dipendenza verso gli Stati, i quali concedevano bensì i sussidi, ma non ponevano molto zelo nel fare riscuotere le somme concesse, sicché i contribuenti renitenti, specie nel Trentino e verso i confini italiani, erano numerosi ed ostinati. I residui sono sempre così elevati, e così grandi le difficoltà di far rientrare l’imposta che nel 1525 il Principe invita gli Stati a procedere essi medesimi alla revisione dell’imposta per mezzo di propri uomini di fiducia. È l’inizio dell’istituto dello Steuercompromissariats, delegazione degli Stati che sovraintende alla percezione dei sussidi straordinarii ed alla erogazione dei fondi per conto della Provincia. Coll’andar del tempo i debiti della Camera regia crescono talmente che, malgrado la concessione dei sussidi da straordinaria sia divenuta normale, le finanze si trovano in gravi distrette. Nel 1573 gli Stati consentono ad assumere il servizio degli interessi e dell’ammortamento di un debito regio di 1.600.000 fiorini, obbligandosi a pagare gli interessi e ad ammortizzarlo entro 20 anni, a patto che l’amministrazione delle imposte del Tirolo sia lasciata completamente ad essi. È il punto culminante dell’autonomia finanziaria del Tirolo. La quale si mantiene poi quasi intatta per mezzo secolo. Ma già nel 1626 l’Arciduca Leopoldo impone l’Ungeld, che era un’imposta sui consumi, senza richiedere il consenso degli Stati e l’opera sua è proseguita dal Canceliere Bienner, il quale rimette di suo arbitrio l’imposta di minuta vendita sul vino, incamera definitivamente l’Ungeld, istituisce l’imposta sulle carni e vorrebbe avocare tutta la materia delle finanze alla Camera Regia. La lotta prosegue fra gli Stati che vogliono conservare i loro privilegi ed il Principe che compie sempre nuove usurpazioni, favorito in ciò dall’inerzia degli Stati; i quali non riescono mai a condurre a termine la perequazione tributaria. In due modi il principe riesce a minare le autonomie provinciali, specialmente a partire dal principio del secolo XVIII: a) sminuendo l’importanza del diritto di voto delle imposte (Steuerbewilligungsrecht). Gli eserciti permanenti, rendendo l’imposta necessaria ogni anno, favoriscono questa tendenza, la quale nel 1722 si manifesta in un decennato di 65-70 mila fiorini all’anno per l’esercito. A poco a poco il governo fa radicare la consuetudine di un sussidio minimo, al disotto del quale gli Stati non possono discendere; b) riducendo l’autonomia dell’amministrazione delle finanze spettante agli Stati (Selbständige Stewer und Finanzverwaltung), per mezzo della nomina di un Commissionsactuarius, nominato dal Principe che avrebbe dovuto servire come segretario permanente della Commissione provinciale delle imposte. Dapprima gli Stati si oppongono; ma poi col consentire la nomina di autorità permanenti dette Activitat porgono il destro al Principe di crescere la propria autorità.

 

 

A tal fine cospirava altresì la situazione poco propizia delle finanze provinciali che presentavano dal 1711 al 1720 un’entrata media di 179-180 mila fiorini per provento dell’imposta fondiaria (nel 1721-40 più di 200 mila); di 22-23 mila fiorini per l’accisa sul sale, 2400 fiorini da entrate varie, e dopo il 1730 circa 5-6 mila fiorini della tassa sul vino. Ma la Provincia aveva nel 1714 un debito di 2.115.031 fiorini cresciuto nel 1732 a 2.411.853, e nel 1740 a 3 milioni di fiorini. Il carico degli interessi ragguagliava 125-130 mila fiorini, a cui aggiungendo le spese d’amministrazione della Provincia arriviamo a 162-168 mila fiorini. Quantunque si fosse cercato di economizzare molto negli stipendi (pagando ad es. il tesoriere generale solo 1500 fiorini all’anno, il segretario della Provincia appena 400 e così via), il margine fra le spese e le entrate era troppo piccolo per far fronte alle domande continue di sussidio del Principe, all’ammortamento del debito e ad altre spese non comprese nella cifra ora ricordata. Necessaria quindi si palesava l’opera della perequazione tributaria per procacciare nuove entrate. L’avea decretata nel 1740 prima di morire Carlo VI, ed avea rinnovato l’ordine nel 1746 e nel 1771-74 Maria Teresa, finché finalmente si compieva nel 1784. Con la perequazione l’imposta cessava di avere un carattere locale e diventava un’imposta levata con criteri uniformi a quelli del resto dell’impero; tramontando così, anche per la burocratizzazione di tutti gli organi locali, l’autonomia tributaria del Tirolo.

 

 

Questa, sommariamente, la tela della materia trattata dal professor Sartori Montecroce. Ma il rapido sunto non ha potuto dare se non una pallidissima idea della cura con cui l’A. ha studiato i documenti d’Archivio ed ha saputo egregiamente tracciare le vicende storiche degli istituti tributari del Tirolo.

 

 

Il signor Francesco Morsellino Avila ha compiuto un lodevole tentativo nello scrivere sulle cause della Rivoluzione del 1647 in Sicilia.[3] Quello dell’A. è, dicemmo, un tentativo. Basta paragonarlo con gli altri volumi di autori stranieri di cui è tenuto discorso nel presente articolo per vedere quanto più scarso ne sia l’apparato bibliografico, meno dirette le ricerche d’archivio e troppo frequenti i ricorsi a libri recenti di indole così generale da essere meno adatti del dovuto a fornire la documentazione di prima fonte che sarebbe sempre necessaria in lavori di questo genere. Né sappiamo persuaderci che negli archivi palermitani non si trovino documenti molto più ricchi di quello che si dovrebbe arguire da ciò che l’A. dice ad esempio nel Cap. II par. 2, sulla Finanza dello Stato Siciliano.

 

 

Ma l’autore deve essere incoraggiato a proseguire – sia pure con maggiore ampiezza di ricerche dirette e con maggiore critica delle fonti – in questi studi nei quali dimostra di possedere attitudini egregie. Innanzitutto il il suo discorso corre ordinato e chiaro. Discorre egli in paragrafi successivi dell’ordinamento politico, economico, doganale, cambiario dell’isola, dell’ordinamento finanziario della città di Palermo; e studia i «capitoli» in cui il D’Alesi riassunse le ispirazioni del popolo siciliano durante la rivoluzione del 1647, sì da mettere il lettore in grado di formarsi un’idea sufficientemente chiara delle tristi condizioni in cui il popolo si trovava sotto il dominio degli spagnuoli. In secondo luogo l’A. è immune dalla lebbra del preconcetto di teorie con le quali si vorrebbero spiegare tutti i fatti della storia. Egli è persuaso soltanto che la storia debba studiare la genesi dei fatti, ed investigarne le cause psicologiche e sociali. È il concetto della causalità che non è più controverso ed, a parte la difficoltà di applicarlo, non presta il fianco a critiche. Ma l’A. saggiamente non ha una propria dottrina da far trionfare intorno alla causa dei fatti storici; ed è perciò che può permettersi il lusso di descrivere i fatti senza contraffarli. Si aggiunga che l’A. ha voluto attrarre l’attenzione degli studiosi su un lato – quello economico – non abbastanza studiato della vita della Sicilia nel secolo XVII; e noi avremo ragioni sufficienti per lodarlo d’avere scritto un libro che, mentre fornisce notizie saggiamente ordinate, può dare argomento a lui e ad altri ad approfondire gli studi sulla storia dei fatti economici nella Sicilia.

 

 

L’ultimo libro di cui vogliamo parlare in questa rapida rassegna, non è un’opera di storia economica o finanziaria; ma di storia del Diritto internazionale.[4] Noi non ci fermiamo però sull’importanza sua dal punto di vista della storia del diritto per non entrare in argomenti che sarebbero estranei all’indole della presente rassegna; limitandoci a citare il seguente brano di una recensione del prof. Ruffini[5] che bellamente riassume l’idea informatrice delle indagini geniali e pazienti che il Lameire da anni prosegue: «Gli scrittori antichi di diritto internazionale intesi a gettare le basi dalla scienza, badano unicamente a mettere insieme un corpo di dottrine, composto per lo più di reminiscenze classiche e magari bibliche e di concetti filosofici, e appoggiato più sul diritto naturale, da essi appunto messo in voga, che non sul diritto positivo. Gli internazionalisti moderni guardano più al futuro che al passato, curanti più di prevenire gli abusi del diritto di conquista nei tempi avvenire che non di studiarne gli effetti nei secoli trascorsi. Egli invece si propone di studiare nelle guerre dell’antico regime i rapporti di diritto internazionale generati dalla conquista, e di chiarire i modi con cui la sovranità si spostava, esaminando gli effetti giuridici complessi e complicatissimi, così di diritto pubblico come di diritto privato, che nella vita reale, nella pratica hanno fatalmente tenuto dietro alle fortunose vicende dell’occupazione bellica; quando i confini dei due Stati belligeranti sono in continuo movimento, fluttuando e spostandosi incessantemente a seconda del successo di una carica di corazzieri o di una incursione di foraggiatori o di una punta di pattuglia. L’autore quindi vuole lasciar parlare i fatti stessi; proponendosi – com’egli dice immaginosamente – di raccogliere la teoria giuridica non sotto la penna dei pubblicisti, ma sotto quella degli intendenti, dei commissari di guerra, dei generali, dei sindaci e dei segretari comunali».

 

 

Per una fortuna singolare per l’Italia[6] il Lameire – che nel primo volume avea posto le basi dottrinali di tutta la trattazione successiva – nel secondo volume ha scelto come campo dei suoi studi il Piemonte durante le guerre della lega di Asburgo e della successione di Spagna, ossia durante il periodo 1690-1713, interrotto dagli anni di pace 1696-1703. Con una pazienza incredibile il Lameire ha percorso passo a passo tutto il Piemonte, ha rovistato gli archivi delle grandi città e dei paesi minuscoli e ne ha ricavato una massa stragrande di fatti poco noti ed interessantissimi. Qui noi ne vogliamo riassumere soltanto alcuni e più specialmente quelli che si riferiscono ai rapporti economici e finanziari tra le potenze belligeranti.

 

 

I più s’immaginano che nei secoli scorsi i paesi di conquista fossero abbandonati senz’altro all’arbitrio del nemico, il quale avrebbe levato imposte esorbitanti, requisiti raccolti ed angariate in ogni maniera le popolazioni soggette. L’impressione che si ricava dalla lettura del libro del Lameire è ben diversa. Non già che le truppe francesi[7] usassero molti riguardi: ad ogni momento si minacciano alle città conquistate le esecuzioni militari; come a Fossano il 13 luglio 1691 «sotto pena di far patire la detta città de rigori della guerra» (vol. II, pag. 69); od il giugno 1690 a Carignano, quando il tesoriere De Beausse con poco rispetto dell’ortografia e della sintassi italiane scrive: «Mi rincresce sig. di mandarmi che se non apportate domani 15 li denari che dovete a Nona dove campara l’Armata, sarete bruggiati doppo domani; à l’aviso, che do a luori altri signori, de quali sono il dev.mo servitore» (pag. 93). Così pure a Racconigi il 9 settembre 1691 il Consiglio comunale riceve avviso «di dover senza perdita di tempo pagar tutto il restante di da contributione, alla pena dell’esegutione militare e d’esser questo luogo saccheggiato» (II, 98). A Cavour ordine brutale di pagare in data 20 luglio 1704: «J’ay ordre de M. le duc de la Feuillade de vous avertir de vous rendre incessamment à la Pérouse pour traiter des contributions, et que si dans quatre jours vous ne prenez pas vos mesures auprès de luy, vous serez brùléz, c’est sur quoy vous pouvez compter. Je suis, messieurs votre très humble serviteur. Ganvis, commandant» (II, 271). Non sono certo dei complimenti codesti: ma in sostanza il principio adottato era quello del mantenimento delle imposte esistenti: le somme richieste corrispondendo quasi sempre alle imposte che i comuni pagavano diggià in ragione di tasso (imposta fondiaria), o di sale (che i comuni in Piemonte doveano comprare in una certa quantità fissa): ad es. lire 10.008 a Bricherasio nel 1692, lire 43.340 a Carignano nel 1690 e lire 41.915 nel 1706, lire 49 mila a Racconigi nel 1691, lire 122.406 a Savigliano nel 1691, lire 87.035 a Fossano nel 1706, lire 56.554 a Cherasco nel 1690, ecc. Le cifre, che precisano persino le unità, indicano esse medesime che si aveva avuto cura di verificare che cosa pagavano prima i comuni al Duca di Savoia.

 

 

Le novità principali, in fatto d’imposte, si riducevano alle requisizioni militari ed al bollo. In realtà le requisizioni e gli alloggi militari non erano cosa nuova, perché quando non vi erano le truppe di Francia, facevano altrettanto e peggio le truppe del Duca di Savoia. Ma non si può negare che le requisizioni fossero assai gravose, come risulta dalle rimostranze continue dei consigli municipali, uno dei quali, quello di Susa, durante la seconda occupazione francese (1703-1707) si lamenta ingenuamente di essere costretto a «far bollire la marmitta dei soldati della guarnigione» (II, 249).

 

 

Quanto alla carta bollata la pratica seguita varia a seconda dei casi: 1) talvolta l’occupazione francese lascia che le amministrazioni locali scrivano i loro processi verbali sulla carta bollata piemontese: 2) altrove è proibito l’uso della carta bollata piemontese e si esige la redazione dei processi verbali su carta libera; 3) in certi casi l’occupazione introduce la carta bollata francese, ora la carta normale, ora una carta «di fortuna» coi fiori di gigli neri; 4) e finalmente in alcuni casi si estende l’uso della carta bollata a fiori di giglio anche alle tappe d’insinuazione (II, 34-35).

 

 

Un fatto curioso si è che, durante la guerra di successione di Spagna, quando la Francia stringeva il Piemonte da un lato dalle alpi e dall’altro da Milano, sottoposto al nipote di Luigi XIV, l’impiego della carta bollata a fiori di giglio si verifica a Vercelli, a Biella, ad Ivrea e non a Susa ed a Saluzzo. Forse era più facile importare nelle città vicine l’organizzazione fiscale esistente a Milano che non mandare a Susa od a Saluzzo la carta bollata della generalità più vicina che era quella di Grenoble; e forse si temevano opposizioni da parte della Camera dei Conti. Il fatto, benché non spiegato, è interessante. Un altro fatto curioso che si verifica ad Ivrea (1704-1706) è questo: che gli atti registrati nelle tappe d’insinuazione che sono sotto la diretta sorveglianza dei commissari francesi sono su carta bollata ai fiori di giglio; mentre gli originali conservati negli uffici dei notai, i cui rapporti con gli occupanti erano molto meno frequenti, sono su carta bollata della gabella piemontese (II, 200-201).

 

 

Questa sovrapposizione dalle due organizzazioni fiscali, francese e piemontese, non è rara. Nel 1690 il Comune di Bibbiana nutre ed alloggia le truppe piemontesi e nello stesso tempo paga la contribuzione ai francesi (II, 54). A Cavour alla minaccia (4 luglio 1704) dei francesi «di saccheggio et fuoco» se non si consegna del fieno in conto della contribuzione, il Consiglio municipale risponde di aver ricevuto ordine dal Duca di Savoia «di non lasciar condurre alcuna benché minima parte di foraggio». Naturalmente i francesi si infuriano, e gli abitanti «in grandissima apprensione» abbandonano le loro case (II, 272). Talvolta i contribuenti, che hanno interesse a dichiararsi fedeli al Duca di Savoia per non pagare le imposte a nessuno dei belligeranti, si rifiutano a versare le somme stabilite dal Consiglio Comunale per ordine dei francesi; ed allora il Consiglio ricorre all’esercito d’occupazione per esserne aiutato. Così a Chivasso nel 1706 il Consiglio impetra dal Governatore francese «la licenza di havere dei soldati per mandare alle spese dei particolari renitenti et che negano di contribuere in danari la Capitatione» (II, 246-7). Alcuni Comuni, prima di pagare la contribuzione ai Francesi, hanno l’idea originale di chiederne licenza al Duca di Savoia. Così la città di Cherasco avvertita il 13 giugno 1691 di «aggiustar la contributione con il generale Intendente dell’armata francese senza perdita di momento de tempo con pericolo d’esser messa a sacco, sangue e fuoco» tergiversa alquanto, invia i ruoli delle imposte e frattanto chiede consiglio al Duca di Savoia, il quale avvertito «della chiamata contributione da Francesi, consente che la città paghi la Medesima» (II, 106-108). Un’altra volta il Comune di Bricherasio dovendo pagare una contribuzione ai Francesi vorrebbe far venire del vino di sua proprietà che si trova a Luserna, per venderlo e col prezzo acquetare il nemico. Ma Luserna è soggetta al Duca di Savoia; ed allora Bricherasio domanda al Duca il permesso di far venire il vino, alla qual domanda non solo il Duca consente, ma concede persino una scorta di «barbetti» (valdesi) i quali però a mezza strada si gettano sulle botti e le portano via. Storia bizzarra che dimostra a quali compromessi le parti belligeranti si adattassero (II, 51-2).

 

 

Dove il rispetto alla situazione finanziaria preesistente è maggiore si è nei cosidetti Paesi di Stato (Pays d’États), nei quali il sovrano non aveva burocratizzata tutta l’amministrazione civile e politica, e rimanevano ancora tracce della indipendenza e della autonomia antiche. Da noi l’unico paese di stato era il Ducato d’Aosta governato dal Consiglio dei Commessi, il quale in materia fiscale distribuiva le imposte; ed era verso il sovrano direttamente responsabile del «Donativo» da esso deliberato. Quivi l’occupazione francese conserva l’esenzione dall’uso della carta bollata, che il Ducato già possedeva sotto la casa di Savoia; quivi il Consiglio dei Commessi, radunato dinnanzi al comandante delle truppe francesi delibera che la taglia sia di 36 lire per «focage» fissandola cioè nella stessa cifra degli anni precedenti (II, 206-7). Per il sale, il Consiglio dei Commessi si adatta a riceverlo dai francesi purché sia «aussy bon que celluy qui se débitait icy avant la réduction et qu’il se vende au mesme prix»; altrimenti chiede di essere lasciato «dans le droit d’en faire prendre ou bon nous semblera» (II, 208). Siccome il governo francese bussava a denari, il Consiglio dei Commessi, geloso tutore delle «franchises, usages et Costume» che dal Re di Francia ancora recentemente erano state riconfermate, si adopera unicamente ad ottenere da una terza persona un prestito di 10 mila lire purchè il commissario del Re «s’obblige a proprio de les restituer» (II, 208).

 

 

Il rispetto alle consuetudini fiscali esistenti va fino a permettere che si continuino a pagare le tasse dovute ai signori locali, anche quando questi signori sono della Casa di Carignano, membri della famiglia regnante. In un processo verbale 31 magio 1706 contenente la convenzione fra il Comune di Carignano e l’intendente d’Esgrigny è stabilito che si devolvano al Re di Francia le contribuzioni prima dovute al Duca di Savoia; ma che continuino a pagarsi al Principe di Carignano i diritti dovutile «les, sommes qui luy sont dues pour la taxe et l’insinuation» anche se si tratta di diritti che si potrebbero considerare regalistici, come il prodotto della cancelleria delle tappe d’insinuazione (II, 284).

 

 

Le novità più importanti in materia fiscale sono le seguenti:

 

 

a)    Affermazione del principio dell’uguaglianza di tutti i ceti dinnanzi all’imposta. In un tempo in cui era in Piemonte vigente l’esenzione per i beni del clero e della nobiltà dal tasso, affermare che tutti i ceti doveano pagare le contribuzioni, sia pure di guerra, era audace. Questa audacia l’ebbe Catinat in una decisione che ha tutti i caratteri di una decisione generica. Avendo nel 1690 la città di Cherasco, per poter pagare la contribuzione ai francesi, preteso che «tutto l’intero registro concorresse, tanto dei patrimonnii che abbazie, priorali et beni, ciò che di chiesa etiandio non cattastrate» i reverendi Padri Cassinesi rifiutarono di pagare e chiamarono a giudice il generale di Catinat. Questi risponde che tutti debbono pagare «senza una accessione»; ed anzi esorbitando dal quesito postogli, dà una soluzione generale per tutti i casi di questo genere: «l’istesso pure senza replica si estende nelle beni feudali, vecchi et novi et diqual sicciaglia immunità» (II, 109-110). La decisione di Catinat sembra formasse la regola generale, poiché così pure si procede a Fossano nel 1691 (II, 21), a Carmagnola nel 1691, dove il Consiglio comunale richiede il governatore di «prestar il civico brachio della luoro autorità compellendo anche li signori ecclesiastici et altri pretesi immuniti» (II, 80-1), ad Asti, dove il clero molto graziosamente si sottomette ad un prestito, che si direbbe patriottico, di guerra (II, 133), e ad Ivrea nel 1204. Nei paesi di Stato la regola pare non si sia potuto applicare, poiché vediamo che ad Aosta nel 1705 l’intendente accorda al capitolo della cattedrale la rinnovazione del privilegio goduto sotto il regime piemontese, di ottenere una certa quantità di sale ad un prezzo più basso di quello comune (II, 214). Ma forse si tratta qui di un caso specialissimo.

 

b)    Introduzione di speciali imposte di guerra. Oltre alle requisizioni ed alloggi militari, abbiamo una singolarissima imposta, consueta a quei tempi: il prezzo di riscatto delle campane. A Carmagnola gli ordinati del Consiglio municipale in data 18 luglio 1691 fanno allusione al riscatto delle campane della città che, secondo la consuetudine, dovevano appartenere all’artiglieria dell’esercito d’occupazione. «Hanno proposto li signori sindici esser spirato il termine stabilito col sig. dell’artiglieria di S.M. Xma per il pagamento del residuo della somma convenuta per le campane della città nella conquista di questa Piazza» (II, 78). A Vercelli subito dopo la resa avvenuta il 20 luglio 1704, i francesi pretendono «la devolutione ad essi di tutte le campane come altressì de tutti gli stagni, bronzi, rami, ottone et piombi de presente Città et habitanti». Dopo alcune trattative la città prende l’iniziativa del riscatto, pregando il nemico ad «accetar quella somma che sarà compatibile con le forze di questa povera città massime nel stato che si ritrova dai presenti emergenti di guerra, et ciò a fine et effeto anche di non lasciar le cose alla discretione, havendo a tal effeto di già praticato l’aggiustam., et quando come stabilita la pretentione di tal devolutione nella somma di due mila et cinquecento luigi d’oro» (II, 146). La Città di Chivasso, presa il 29 luglio 1705, riuscì a cavarsela a più buon mercato: con 800 luigi d’oro riscattò tutte le sue campane e bronzi (II, 242).

 

c)    Introduzione di speciali tasse di guerra. Il riscatto delle campane serviva a mascherare in realtà una contribuzione di guerra senza alcun correspettivo da parte del conquistatore. Invece qui si tratta di una tassa che le città occupate pagano volontariamente per ottenere un servigio particolare dall’esercito nemico. La città di Racconigi il 27 giugno 1706, quando non era ancora stata occupata dai francesi, avendo saputo che le truppe nemiche occupavano di già Carmagnola e temendo di essere posta a sacco, si indirizza al Duca De La Feuillade e chiede due salvaguardie. Il Duca chiede un diritto fisso di quattro luigi d’oro per la patente di salvaguardia ed un luigi d’oro in più per salvaguardia e per giorno. Sembra che il Consiglio comunale non abbia trovato la tariffa eccessiva, perché dà la sua approvazione unanime al contratto che i suoi inviati hanno conchiuso col Duca De La Feuillade (II, 281).

 

d)    Consuetudine dei donativi (pot de vin) ai maggiorenti dell’esercito nemico. Per essere trattati bene era buona norma da parte delle città conquistate di propiziarsi i segretari particolari dei generali e degli intendenti francesi. Il 9 settembre 1691 la città di Fossano delibera di regalare 3600 lire ai segretari del maresciallo di Catinat e dell’intendente Bouchu (II, 73). Il comune di Bricherasio per avere il permesso di vendere il suo vino si vede costretto a regalarne una parte (una volta del vino in genere, ed un’altra dieci carra specificatamente), al Marchese di Herleville, governatore di Pinerolo (II, 51). A Crescentino, il Consiglio comunale, minacciato il 28 giugno 1705 di saccheggio e di esecuzione militare, ad evitare tanta jattura decide di inviare venti luigi d’oro al segretario dell’Intendenza generale di guerra per averne la protezione (II, 232). A Susa per ammansare il governatore. M. De Masselin, la Città fa venire delle stoffe di damasco a grandi fiori da Torino del prezzo di lire 256 e le regala alla sua signora (II, 251).

 

 

Queste le principali caratteristiche del regime fiscale francese in Piemonte. Alquanto diverse quelle dell’occupazione piemontese nel territorio allora francese del Delfino posto sul versante italiano delle Alpi e che comprendeva, fra i principali comuni, quelli di Bardonecchia, Exilles, Feuestrelles, Oulx, Pragelato, ecc.

 

 

Malgrado la promessa solenne di non cambiare nulla nel regime fiscale esistente (II, 304), il Duca di Savoia, com’era naturale, sostituisce subito alla carta bollata dai fiori di griglio e dal delfino della generalità di Grenoble la carta bollata piemontese (II, 311). Anche per il sale, il Duca «voulant bien décharger les communautez et les habitans de la dite vallée de Pragelas du pesant fardeau du prix excessiff qu’ils payoient du sel, ordonne pour cet effet qu’à l’avenir le sel soit distribué tant en gros qu’en detail selon la volonté des dites communautez, ed habitans au prix seulement de 4 sols 6 deniers la livre, poids et monoie de Piémont» (II, 328). Abolisce pure tutti i dazi d’entrata e d’uscita fra le valli del Delfinato ed il Piemonte, conservando quelli esistenti fra le valli anzidette e la Francia. Abolisce i diritti di controllo e del centieme denier e vi sostituisce i diritti di insinuazione e bollo nel modo usato in Piemonte. Conserva soltanto la taglia reale a seconda di ciò che s’era praticato prima (II, 329-330). Malgrado il buon volere del Duca i nuovi sudditi non sono contenti e protestano che «il y a trop d’impôst, et c’est ce qui fait le malheur de votre pauvre peuple» (II, 336).

 

 

Si potrebbero continuare a spigolare nel volume del Lameire i particolari interessanti, ma quelli ora citati possono bastare a dimostrarci questa ricchezza d’informazione l’A. sia riuscito a ricavare dagli archivi ignorati e talvolta negletti dei villaggi e delle cittadine del Piemonte. Se qualcuno volesse studiare quegli archivi, senza limitarsi allo specialissimo punto di vista del Lameire, probabilmente scoprirebbe tesori di notizie curiose intorno all’economia ed alla finanza dei tempi andati. L’opera è tale che dovrebbe tentare gli studiosi di buona volontà.

 



[1][1] Georges Espinas, Les finances de la Commune de Douai, des origines au XVe siècle, Paris, Alph. Picard et Fils, 82, rue Bonaparte, 1902.

[2] Dr. Phil. et jur. Tullius R. V. Sartori Montecroce, Professor der Rechte an der Universitat in Innsbruck. Beitrage zur Oesterreichischen Reichs und Rechtsheschichte II. Geschichte des Landschaftlichen Steuerwesens in Tirol, von K. Maximilian I, bis Maria Theresia. Innsbruck (Varlag der Wagner’schen Universitats buchhandlung, 1903).

[3] Francesco Morsellino Avila, La genesi della rivoluzione del 1647 in Sicilia. Palermo, Stab. Tipo Lit. Era Nova, 1903.

[4] Irenee Lameire, Théorie et pratique de la Conquête dans l’ancien Droit. (Étude de droit international ancien). I Introduction, p. 84, Paris, Arthur Rousseau, editeur, 1902. – II Les Occupations militaires en Italie pendant les guerres de Louis XIV, pp. VIII/400, ibid, 1903.

[5] Francesco Ruffini, Teoria e pratica della conquista del Diritto antico. A proposito di alcuni recenti scritti di Irenee Lameire (Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, vol. XXXVIII). Torino, Clausen 1903. A questa larga recensione ed al libro medesimo rimandiamo il lettore desideroso di più ampie notizie sull’opera del Lameire.

[6] La scelta dell’autore non è però dipendente dal puro caso o dalle predilezioni singolari dell’autore, ma da una vera elaborazione storica e scientifica. L’autore avendo voluto studiare le guerre di conquista, ha dovuto eliminare tutte le guerre che erano infette di quello che il Lameire chiama precarietà. «La quale può derivare – citiamo ancora il Ruffini – da tre fonti principalmente, e cioè o dal vincolo feudale finchè esso conserva importanza politica, o dalla egemonia imperiale così persistente in tanti paesi come è troppo noto, o dalle pretensioni a una medesima sovranità di entrambi i belligeranti». Escluse per questo motivo tutte le guerre imperiali, quelle degli stati tedeschi tra di loro, le guerre dell’Inghilterra contro la Francia, le imprese di conquista in Italia da Carlo VIII a Luigi XII, a Francesco I, a Enrico II, a Luigi XIII, il campo rimane molto limitato; e per l’Italia si restringe alla guerra della Lega di Asburgo e alla guerra per la successione di Spagna, durante le quali la Francia ed il Piemonte lottavano tra di loro come veri Stati indipendenti, senza nessun carattere di precarietà. Ed il secondo volume del Lameire, di cui qui discorriamo, tratta in una prima sezione delle occupazioni francesi in Piemonte e in una seconda delle occupazioni piemontesi nel territorio allora francese del Delfinato posto sul versante italiano.

[7] Dell’occupazione piemontese nel Delfinato si parlerà di poi.

Tariffe e costo d’esercizio nelle nuove convenzioni ferroviarie

Tariffe e costo d’esercizio nelle nuove convenzioni ferroviarie

«Corriere della Sera», 16 ottobre 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 88-91

 

 

Lo schema di nuove convenzioni ferroviarie, ideato dal ministero dei lavori pubblici, malgrado il suo carattere incerto e quasi provvisorio, ha una tale importanza per la vita economica del paese da meritare la più viva attenzione da parte del pubblico. Contro le convenzioni, fu detto che esse erano atte a diminuire le iniziative delle società esercenti per ciò che riguarda le tariffe e l’esercizio. È questo in realtà uno dei punti principali delle convenzioni, senza una adatta risoluzione del quale è vano sperare che le ferrovie vadano bene. Ed è lecito criticare con qualche fondamento le proposte del governo, in quanto non è la prima volta che si espone da fonti autorevoli, quale sarebbe il succo delle idee dell’on. Balenzano: concedere l’esercizio delle ferrovie ad un prezzo fisso a società private, riservando allo stato la direzione dell’azienda ed ogni libertà di movimento rispetto alle tariffe, alla velocità ed al numero dei treni, ecc. Invece di due padroni, come si hanno adesso, dei quali l’uno stiracchia in un senso e l’altro tira in senso opposto, si avrebbe un solo padrone, lo stato, il quale darebbe in appalto l’esercizio ad un canone fisso. Invece della divisione attuale del prodotto lordo in due parti, divisione che impedisce, a detta di tutti i competenti, le riduzioni di tariffe, si darebbe tutto il prodotto lordo allo stato; il quale potrebbe così a piacimento ridurre le tariffe per accrescere il traffico, senza dover temere opposizione alcuna da parte delle società, limitate, per contratto, a ricevere una somma determinata, indipendente dall’altezza delle tariffe.

 

 

Precisando maggiormente e lasciando da parte i punti secondari, le società riceverebbero:

 

 

  • a) un interesse minimo garantito del 3,50% sul capitale sociale;
  • b) il rimborso delle spese d’esercizio, calcolate con una somma a corpo sulle spese dell’ultimo quinquennio delle attuali convenzioni;
  • c) un corrispettivo fisso per ogni tonnellata-chilometro di aumento del costo del servizio in confronto dell’attuale ordinamento.

 

 

Lo schema presta il fianco a molteplici dubbi. Non è presumibile che società industriali si contentino dell’interesse minimo del 3,50% garantito dallo stato. Il progetto medesimo suppone, come è naturale, che le società riescano ad aumentare l’utile e provvede a destinare il 50% degli utili al di sopra del 5% e l’80% degli utili al di sopra del 6,50% metà allo stato e metà al personale. Come faranno le società ad aumentare gli utili? L’unico mezzo possibile sarà di spendere meno della somma fissa assegnata dalle convenzioni come rimborso delle spese di esercizio. Le società che adesso spendono 100 e che riceverebbero una somma equivalente per rimborso delle spese di esercizio, dovrebbero cercare di spendere 95, o 90, od 85 per accrescere colla differenza i proprii utili al disopra del 3,50% di interesse minimo. Non si vede nessun altro mezzo con cui le società potrebbero accrescere i proprii utili, perché ad esse sarebbe negata qualsiasi partecipazione al prodotto lordo e qualsiasi ingerenza sulle tariffe. Esse di loro iniziativa non potrebbero ridurre le tariffe, quando la riduzione delle tariffe volesse dire aumento dei traffici e dei profitti netti; e non sarebbero nemmeno interessate a ridurle, perché la riduzione delle tariffe vorrebbe bensì dire aumento di traffico; ma non vorrebbe dire necessariamente aumento di profitti netti per le società, le quali verrebbero al più compensate, come più sopra in lettera c, dell’aumento di spese correlativo ad ogni espansione del traffico.

 

 

Rispetto alle società verrebbe adunque abolito uno dei due metodi che soli si conoscono per accrescere i profitti delle aziende industriali: le riduzioni nei prezzi di vendita per accrescere il consumo. Rimarrebbe l’altro, notevolissimo bensì, ma difficile ad essere maneggiato da solo: la riduzione dei costi. Diciamo difficile perché in verità dubitiamo che si possa parlare di riduzione dei costi in senso assoluto nelle ferrovie moderne. La riduzione dei costi è quasi sempre tutta relativa e consiste nello spendere un’ugual somma o di poco cresciuta per un traffico maggiore. Ma noi vedemmo che le società appaltatrici non avrebbero nessuna azione per aumentare il traffico riducendo le tariffe.

 

 

Questa azione dovrebbe spettare allo stato: il quale, padrone assoluto del prodotto lordo e delle tariffe, potrebbe benissimo ridurle per aumentare i trasporti e con ciò crescere i suoi guadagni. Senonché anche qui ci si affacciano imperiosi i dubbi. Ridurre le tariffe è sempre cosa aleatoria, incerto essendo l’aumento dei traffici, mentre certo sarebbe l’aumento della spesa. Ricordiamo ciò che ebbe a dire l’on. Giusso alla camera nello scorso giugno: essere sempre stato il governo il più fiero oppositore delle riduzioni di tariffe per la tema di veder scemata la propria quota del prodotto lordo. Ora, se ciò accadeva in passato, a fortiori accadrà in avvenire. Se ora lo stato teme di perdere parte della propria quota (circa il 30%) del prodotto lordo, quanto più grande non sarà in futuro il suo timore, quando sarà per lui in gioco tutto il prodotto lordo? e quando per giunta ogni diminuzione di tariffe, mentre gli rende incerto il reddito suo, accresce in modo certo le sue spese, per il corrispettivo fisso in più che dovrà pagare, per tonnellata-chilometro, alle società esercenti?

 

 

In conclusione, i dubbi sono forti di avere da un lato società ancora meno interessate all’aumento dei traffici di quanto non siano adesso e dall’altro lato uno stato ancora più timoroso di ridurre le tariffe di quanto già non sia. Dubbi che traggono origine da un errore fondamentale insito nelle convenzioni attuali e nel disegno di future convenzioni: quello di credere che un’azienda industriale possa essere scissa in due parti: entrate e spese e che sia possibile attribuire ad un ente l’onere delle spese senza dargli nel tempo stesso le entrate che sono il correlativo di quelle spese. Per quanto si faccia su questa via, non si riuscirà mai che a creazioni ibride senza vitalità e senza energia di progresso. Quando si voglia lasciare l’esercizio delle ferrovie a società private, non è possibile contemporaneamente togliere loro ogni iniziativa ed ogni responsabilità nella direzione dell’azienda. Se una via di mezzo è possibile per la proprietà delle ferrovie, non è facile immaginarne una soddisfacente per lo esercizio; ed il compromesso immaginato dall’on. Balenzano o dai suoi consiglieri ci pare incerto sovratutto dal punto di vista dell’interesse del pubblico che viaggia e trasporta.

 

La controversia doganale in Inghilterra

La controversia doganale in Inghilterra

«La Riforma Sociale» 15 ottobre 1903

Studi di economia e finanza, Società tipografico editrice nazionale, Torino-Roma, 1907, pp. 65-93

 

 

 

 

A proposito dell’opuscolo Balfour, di un articolo del Bowley nell’«Economic Journal» e del rapporto del Board of Trade.

 

 

 

La grandiosa battaglia che si combatte in Inghilterra in questo momento intorno alle proposte di riforma doganale in senso protezionista presentate dallo Chamberlain, è un avvenimento di così notevole interesse scientifico e pratico da meritare di essere attentamente seguito. In pochi mesi però, la letteratura pro e contro le tariffe preferenziali l’imperialismo doganale ed il libero scambio è diventata una vera valanga: volumi, opuscoli, foglietti volanti a migliaia ed a milioni di copie si sono sparsi sull’Inghilterra e di giorno in giorno diventano più numerosi, sicché riesce impossibile tenervi dietro in guisa anche solamente approssimativa. Ma due fra le più recenti pubblicazioni non possono essere dimenticate: l’opuscolo del primo ministro Balfour ed il volume di inchieste statistiche pubblicato dal Board of Trade. Il primo espone la teoria di quello che il Balfour chiama il vero ed il nuovo libero scambio e che in sostanza invece è il vecchio protezionismo; ed il secondo mette insieme i dati di fatto opportuni a suffragare le novissime teorie Balfouriane e le misteriose ed ogni giorno mutevoli affermazioni dell’ex ministro delle colonie.

 

 

Il breve opuscolo del Balfour,[1] se presenta il vantaggio di contenere una serie ordinata di affermazioni, a differenza delle epistole dello Chamberlain, che ogni giorno presentano un aspetto nuovo del sistema delle tariffe differenziali, è però scritto con una oscurità artificiosa di linguaggio che rende spesso difficile di comprendere il pensiero dell’autore.

 

 

Egli parte da un punto di vista libero scambista, ed ha «il desiderio di promuovere la libertà di commercio per quanto le circostanze contemporanee lo vorranno permettere». Oramai l’antica distinzione fra protezionisti e libero scambisti dell’epoca di Cobden non ha più valore e novi problemi sono sorti. È diventato sempre più accentuata l’antagonismo tra alcune forze potenti della vita sociale e l’ideale del puro libero scambio. Imperando quest’ultimo, il lavoro ed il capitale dovrebbero essere perfettamente fluidi e correrebbero dove potessero impiegarsi col maggior profitto, producendo così un equilibrio simile a quello dell’Oceano sotto l’influenza della forza di gravità. Ma in pratica né il lavoro, né il capitale, sono fluidi. Se fossero tali, ogni vita nazionale sarebbe impossibile. Essa è tenuta insieme dall’attrito di varie forze, come l’amore della casa, la forza dell’abitudine, la difficoltà ed il costo dell’emigrazione, che impediscono al lavoro di essere fluido nel significato richiesto del puro libero commercio. Il capitale, quantunque entro certi limiti più fluido, è altresì «viscoso» per simiglianti cagioni naturali.

 

 

«Le nazioni», seguita il Balfour, «sono perciò economicamente possibili solo perché, per varie ragioni, l’umanità è nello stesso tempo incapace e contraria ad usufruire il più economicamente possibile le risorse naturali del mondo».

 

 

Le nazioni sono in realtà «una violazione permanente del libero scambio Mondiale»; e «nei loro sforzi di preservazione non si sono sentite costrette a considerare solo gli argomenti tratti dalla scienza economica cosmopolita… Esse hanno riconosciuto che lo Stato è qualcosa di più degli individui componenti e che non solo è irrazionale supporre che ciò che è buono per la potenzialità produttiva del mondo sia necessariamente buono per ogni Stato particolare; ma si sono convinte del contrario».

 

 

Ne segue che siccome «non vi è un’armonia prestabilita fra gli interessi economici mondiali ed il benessere nazionale, noi dobbiamo abbandonare la posizione di laisser faire come un dogma assoluto ed accettare provvisoriamente il concetto che il carattere della nostra politica doganale dovrebbe variare secondo le variabili circostanze, né abbiamo alcun diritto di riguardare un qualsiasi sistema come perfetto semplicemente perché è semplice, non artificiale e sovratutto famigliare».

 

 

Questi i fondamenti teorici dell’opuscolo Balfouriano. Letti i quali, sembra a me perfettamente inutile seguitare l’esame delle teorie del primo ministro inglese. Poiché egli non ha fatto altro in sostanza che scoprire per la ennesima volta alcuni fatti elementari che tutti gli economisti conoscono e mettono a fondamento dei loro trattati del commercio internazionale.

 

 

Nessuno, infatti, vorrà pretendere che il paragone dei flutti dell’Oceano che trovano il loro equilibrio, che la enumerazione degli ostacoli che si frappongono alla mobilità assoluta del capitale e del lavoro, siano delle novità nuove di zecca. Forse mi ricorderò male; ma ai tempi in cui leggevo i primi trattati di economia politica, mi era accaduto il vedere considerate le nazioni diverse – allo scopo dello studio in prima approssimazione del commercio internazionale – come altrettanti mercati chiusi fra cui esisteva solo la concorrenza commerciale e non la concorrenza industriale, ossia mancava la mobilità del lavoro e del capitale, precisamente come scopre ora il Balfour.

 

 

Però quei vecchi economisti non ricavavano da questa scoperta le considerazioni di filosofia mondiale dette più sopra, e neppure ne traevano argomento per cambiare le regole aritmetiche dell’addizione; ma si contentavano di insegnare che l’esistenza di due mercati chiusi, quando vi fosse una differenza nei costi comparati, era appunto la condizione per gli scambi reciproci. Insegnavano ancora che affine di rendere gli scambi proficui al massimo per i due paesi, era necessario lasciarli liberi.

 

 

Ora, da quando è divenuto di moda per i ministri ed i presidenti del Consiglio di non studiare più l’economia politica, le cose sono mutate. Ma è legittima la conclusione, che prima di asserire, come fanno i conservatori inglesi, che l’opuscolo del Balfour segna un’epoca nuova nella scienza e rinnova dall’imo fondo la teoria del commercio internazionale, dovrebbero i conservatori ed il Balfour degnarsi di leggere e di capire quanto sugli stessi argomenti hanno scritto i loro connazionali che il mondo venera come fondatori della scienza economica. Dopo, riparleremo della opportunità di distruggere la vecchia teoria e far posto ad una nuova. Per ora la nuova teoria ci sembra incomprensibile ed è tempo perso interpretare le cose che non si capiscono.

 

 

E passiamo all’inchiesta del Board of Trade.[2] Racchiusa in un enorme volume di 495 pagine in folio e 30 grandi carte diagrammi, contiene una massa di informazioni realmente preziose, e raccolte con quella precisione e limpidità di cui danno sempre prova le pubblicazioni statistiche inglesi e specialmente quelle del Board of Trade. L’unico – e purtroppo gravissimo – inconveniente di una così ricca pubblicazione si è che, essendo di viva attualità, i giornali e gli uomini politici hanno già cominciato a servirsene per i loro scopi partigiani ed a rinfacciarsi le cifre che ivi sono contenute, gli uni per provare che l’Inghilterra va diritta alla rovina, e gli altri per dimostrare che essa progredisce sempre in ricchezza e potenza economica.

 

 

Gli ufficiali del Board of Trade, a cui era stato commesso di preparare delle risposte statistiche a certe domande determinate, non potevano adempiere meglio al loro incarico e non era compito loro di avvertire quale fosse il reale significato dei dati che essi mettevano alla luce. Così accade che, siccome novantanove persone su cento di quelle che vogliono illuminare l’opinione pubblica ignorano i primi elementi del metodo statistico, ben di rado le statistiche siano adoperate con quelle cautele e con quelle riserve che sono indispensabili per non ingenerare nella mente dei lettori impressioni false ed ingannatrici. Ben pochi in Inghilterra, prima di percorrere il ponderoso volume del Board of Trade, si saranno curati di leggere un mirabile articolo che A. L. Bowley,[3] il noto insigne statistico inglese, ha pubblicato nell’ultimo fascicolo dell’«Economic Journal» intorno alle cautele che si devono adoperare nell’interpretazione delle statistiche doganali. Vale la pena di riassumere alcune fra le considerazioni dell’autore. Le quali si riferiscono a sei casi principali:

 

 

  1. Le mutazioni che avvengono in una serie fluttuante. Non si possono ricavare deduzioni certe dalla serie delle cifre del commercio internazionale anno per anno. Troppi fattori vengono a perturbare il calcolo ed a rendere assolutamente erronea qualsiasi conclusione.

 

 

Solo la «tendenza generale» rappresentata da una curva la quale faccia astrazione dalle oscillazioni minori, ha importanza. Dato ciò, l’unica cosa che si può dire del commercio inglese di esportazione, è che esso ha tendenza a crescere sino al 1872, e dopo d’allora rimane stazionario. Ma il perché la statistica non può dirlo, troppe cause interdipendenti essendo in gioco, fra cui basti ricordare la tendenza al ribasso dei prezzi. Così pure la statistica non può fornire alcun lume sugli effetti del dazio di uno scellino sul prezzo del grano. Bisognerebbe che nessun’altra causa fosse intervenuta a mutare i prezzi. Invece da un anno all’altro, dal 1890 al 1900, i prezzi del grano in scellini per quarter variano così: +5 s.; –6 s. 9 d.; –3 s. 11 d.; –3 s. 6 d.: +3 d.; +3 s. 1 d.; +4 s.; + 3 s. 10 d.; –8 s. 4d.; +1 s. 3 d.; –2 d. Nemmeno di un dazio di 5 scellini si sarebbero, potuti discernere gli effetti.

 

  1. Addizione di quantità dissimili. Un errore di questo genere, si fa quando si somma il valore delle importazioni e delle esportazioni e lo si divide per il numero degli abitanti di un paese, reputando di avere con ciò costruito un indice della prosperità del paese medesimo. Ora i valori delle importazioni e delle esportazioni non sono quantità omogenee. Gran parte delle importazioni (materie prime), si deve propriamente sottrarre dalle esportazioni (manufatti contenenti le materie gregge). Le merci pronte per il consumo e quelle che devono ancora essere lavorate, il macchinario, i manufatti esteri concorrenti, le materie prime hanno tutte una speciale significazione in ordine alle diverse classi di persone interessate. Le esportazioni variano grandemente per le proporzioni di materie gregge (interne ed estere), di lavoro e di servizi di capitale che esse rappresentano. Pure suddividendo le merci nei loro gruppi, non siamo autorizzati a dividere le cifre dei vari gruppi per la popolazione. Il consumo delle merci le più semplici, grano e carne, varia per classe, occupazione età e sesso.

 

 

Servirsi delle cifre del commercio internazionale, del consumo del carbone ed altrettali indici per misurare il progresso di un paese, conduce ad equivoci, data la eterogeneità degli elementi primi.

 

  1. Valore e quantità. Spesso il considerare solo il valore delle merci inganna; ed è utile studiarne insieme le quantità. Ad esempio, in Inghilterra le merci per esportazione crebbero di valore dal 1886 al 1902; quello che si vendeva 964, ora si vende 1000. Invece le merci di importazione diminuirono di valore: ciò che si comprava per 1088, ora si compra per 1000. Questo interessante risultato non si sarebbe ottenuto studiando solo i prezzi o solo le quantità. Occorre combinare insieme le due cose.

 

  1. La precisione delle valutazioni. Errori ne accadono sempre nelle statistiche. L’importante si è di valutarne la grandezza, cosa sempre difficile. Si sa, ad esempio, che le cifre del commercio fra la Germania e l’Inghilterra sono imperfette a causa del transito nei porti belgi ed olandesi. Ma ciononostante si fa un uso quotidiano di statistiche riconosciute erronee; e tali che non possono essere adoperate né in un senso né nell’altro, sinché non si sia misurata la grandezza dell’errore. Così si dica del commercio in grano fra l’Inghilterra da una parte e gli Stati Uniti ed il Canadà dall’altra. Quanta parte del grano provenga dal Canadà e quanta dagli Stati Uniti, noi non sappiamo, quantunque ciò abbia molto peso nell’attuale controversia doganale.

 

  1. Misure incomplete. La somma delle esportazioni è trattata spesso come un indice della prosperità generale del paese. Ora questo è un grossolano errore. Le esportazioni formano solo una piccola proporzione del prodotto totale del lavoro britannico e possono crescere e diminuire senza che l’intiero prodotto ne rimanga influenzato. Può darsi benissimo che una diminuzione di esportazioni sia dovuta ad un aumento di fabbricazione per il mercato interno. È perciò futile trattare le esportazioni per sé medesime; e gli «errori» inevitabili nella stima del prodotto totale sono così enormi che date le nostre presenti informazioni è meglio lasciare irresoluto il problema. Così pure l’importazione di merci per il consumo è solo una frazione del consumo totale, e quest’ultimo difficilmente può essere definito.

 

 

L’unico criterio applicabile per misurare la prosperità del paese è ancora quello dell’entrata totale del paese. A tale scopo esistono in Inghilterra i rapporti dell’income tax, il censimento dei salari del 1886 ed i rapporti sui cambiamenti dei salari dopo quell’epoca. È qualcosa; ma non è tutto, mancando ogni notizia sui redditi non pagati in salari e non registrati nell’ufficio delle imposte. Supponendo pure che questo vuoto si colmasse, noi ignoriamo quasi del tutto i prezzi al minuto e non possiamo trasformare il reddito nominale in reddito reale. La stima sarebbe poi incompleta non conoscendosi il numero delle persone appartenenti ad ogni classe e le mutazioni relative.

 

 

Attualmente è speranza vana di poter fare una stima completa della prosperità del paese. Tutt’al più si può ricorrere ad indici parziali, fra cui sarebbero preferibili i seguenti: il numero indice del prezzo di tutte quelle merci (vicine il più possibile allo stadio di consumo), che si prestano all’impiego del metodo statistico; il numero indice delle merci consumate; il numero indice dei salari; la stima delle entrate che pagano imposte; la stima della disoccupazione.

 

 

Se la tendenza è verso il miglioramento (entrata media e salari in rialzo, prezzi al minuto in ribasso, consumo medio accresciuto, disoccupazione diminuita), v’è una grande probabilità che il paese diventi più prospero; e viceversa nel caso contrario.

 

 

A questi indici se ne possono aggiungere altri; badando però ad escludere rigorosamente quelli che si riferiscono solo ad una piccola frazione del tutto (ad esempio, importazioni od esportazioni di manufatti), o sono del tutto eterogenei (come il commercio totale coll’estero ed il numero delle lettere spedite dalla posta), o sono mere ipotesi (come le merci buttate il disotto del costo sul mercato inglese).

 

 

Se si facesse un altro censimento sui salari comparabile a quello del 1886, se le cifre delle imposte sul reddito (income tax) fossero rivedute da periti; se si impiantasse un sistema di registrazione dei prezzi al minuto; se si rendessero più complete le statistiche della produzione interna, e se si cercassero notizie sulle entrate e sui salari al disotto del limite della esenzione dalle imposte, forse fra una decina d’anni noi potremmo abbordare il problema della stima statistica della prosperità nazionale con qualche speranza di risolverlo.

 

 

I signori Balfour e Chamberlain non hanno voluto aspettare i dieci anni che la prudenza del Bowley assegna come limite minimo, prima del quale sembra impossibile ad un così esperto maneggiatore di cifre ottenere delle informazioni attendibili, ed hanno commesso agli abilissimi ufficiali del Board of Trade la compilazione del volume che sopra è già stato meritamente lodato per la massa enorme di informazioni che contiene. Alcune di queste informazioni conviene ora mettere sotto agli occhi dei lettori, dopo averli avvertiti con le parole del Bowley che scarso sarà il frutto che legittimamente è possibile di ricavarne in ordine alla controversia doganale esistente. Che significato invero può avere la tabella seguente che ho ricavata da una serie di altre bellissime tabelle,[4] nelle quali si vede per parecchi mesi l’aumento rispettivo delle importazioni e delle esportazioni di articoli manufatti. (Valore del 1901=100)?

 

 

Anni

Gran Bretagna

Germania

Francia

Stati Uniti

 

Importazione

 

 

Esportazione

 

Importazione

 

Esportazione

 

Importazione

 

Esportazione

 

Importazione

 

Esportazione

1854

18.1

40.1

6.8

1860

20.5

56.5

66.1

9.8

1865

30.5

69.3

14.4

1870

39.9

82.5

68.2

16.6

1875

50.9

91.0

75.7

80.2

22.5

1880

58.3

89.7

73.5

57.7

77.7

81.8

83.1

25.0

1885

58.4

85.1

78.9

62.2

79.0

72.4

82.3

35.9

1890

68.8

103.3

92.1

74.2

84.1

88.9

107.3

36.8

1895

75.5

88.2

87.0

75.4

75.4

84.9

98.2

44.6

1900

101.8

101.7

112.8

103.1

109.1

100.2

97.5

105.6

1901

100.0

100.0

100.0

100.0

100.0

100.0

100.0

100.0

1902

104.3

103.0

 

 

Diranno i protezionisti che in nessun paese, come in Inghilterra, sono aumentate tanto le importazioni e sono cresciute meno le esportazioni di manufatti; donde impoverimento da un lato e minor arricchimento dall’altro lato. Ma sono cifre il cui significato deve perlomeno essere considerato incerto, tenendo conto delle seguenti circostanze: a) i paesi di cui si tratta si trovano ad un grado diverso del loro sviluppo e non sono quindi comparabili. Come si fa a paragonare paesi nuovi o quasi come gli Stati Uniti e la Germania con paesi vecchi come l’Inghilterra? Bisognava paragonare la Gran Bretagna di 50 anni fa con gli Stati Uniti d’adesso; b) si capisce che negli Stati Uniti l’aumento nelle esportazioni sia da 6.8 a 100 quando si pensi che il punto di partenza era di 5 milioni ed 800 mila lire sterline nel 1854. Invece in Inghilterra il punto di partenza era 88 milioni e 700 mila L. st.; e tutti comprendono come riesca più agevole decuplicare una cifra di 6 milioni che non raddoppiarne una di 88; c) come è lecito rammaricarsi delle cresciute importazioni di manufatti nell’Inghilterra, quando si pensa che esse sono pagate, e lo vedremo presto e del resto è cosa nota, coi guadagni della marina mercantile e cogli interessi dei capitali investiti all’estero? d) si ricordi la fallacia messa in chiaro dal Bowley nel ragionamento che dalle diminuite esportazioni dei manufatti vorrebbe dedurre la decadenza di un paese. Le esportazioni di manufatti sono una parte sola del lavoro di un paese. Il rapporto citato si affatica a ricercare che importanza relativa abbiano i salari guadagnati dagli operai inglesi in tutte le industrie esportatrici di fronte ai salari totali; e trova che il costo in salari delle merci esportate si aggira intorno ai 130 milioni di lire sterline; circa un quinto od un sesto dei salari totali che sarebbero di 700-750 milioni di lire sterline.[5]

 

 

Non potrebbe darsi che la stazionarietà della somma guadagnata in salari nelle industrie esportatrici fosse compensata ad usura dall’aumento dei salari guadagnati nelle industrie lavoranti per il consumo interno, e non ci potrebbero autorizzare a questa conclusione gli aumenti meravigliosi constatati nei redditi colpiti dall’income tax? Dall’altra parte non potrebbe darsi che il rapido aumento nelle esportazioni, ad esempio, della Germania, fosse neutralizzato da un meno rapido incremento dei guadagni netti della produzione per il mercato interno? E non ci potrebbero autorizzare a questa conclusione i metodi seguiti dai trusts tedeschi ed americani di forzare l’esportazione all’estero con prezzi al disotto del costo, rialzando i prezzi all’interno e così riducendo la potenza d’acquisto dei salari operai e frenando l’espansione del consumo nazionale?[6]

 

 

Ma noi non vogliamo arrischiare delle conclusioni che potrebbero sembrare tanto infondate come lo sono quelle dei protezionisti. Diciamo soltanto che da quella tabella non si può ricavare alcuna conclusione certa.

 

 

Conclusioni certissime ricavarono invece i protezionisti da un’altra serie di tabelle contenute nel rapporto, le quali vogliono mettere in luce i dannosi effetti dei dazi stranieri sulla esportazione inglese. Veramente non c’era bisogno di molte statistiche per convincersi che è più difficile esportare in un paese a dazi protettivi alti che in un paese a dazi miti od addirittura senza dazi.

 

 

Ad ogni modo a dimostrazione di questa verità istruitiva, il Rapporto espone una serie formidabile di prove. Ecco innanzitutto una stima approssimativa dell’altezza percentuale dei dazi di importazione percepiti dai paesi sottoindicati per ogni 100 lire delle principali merci esportate dall’Inghilterra.

 

 

Russia ………………………………………..

%

131

Stati Uniti …………………………………….

%

73

Austria – Ungheria ………………………..

%

35

Francia ……………………………………….

%

34

Italia ……………………………………………

%

27

Germania ……………………………………

%

25

Canadà ……………………………………….

%

16

Belgio …………………………………………

%

13

Nuova Zelanda …………………………….

%

9

Unione australiana ……………………….

%

6

Unione doganale sud africana ……….

%

6

 

 

Il record del proibizionismo spetta alla Russia ed agli Stati Uniti, ma non bisogna credere che i dazi protettivi degli altri paesi siano miti. Un dazio protettivo infatti del 25 per cento in Germania, dato i progressi compiuti dall’industria tedesca, può infatti essere più efficace a tener lontani i prodotti inglesi che non un dazio del 131 per cento in Russia, dove parecchie industrie sono ancora in una condizione straordinariamente arretrata.

 

 

Che questi dazi così alti abbiano fatto un grave danno alla esportazione dei manufatti dall’Inghilterra non c’è dubbio. Basta dare una occhiata alla seguente tabella la quale ci dice quale sia la percentuale dei manufatti importati in diversi paesi dall’Inghilterra rispetto alla quantità totale dei manufatti importati:

 

 

 

Germania

Francia

Russia

Italia

Stati Uniti

 

1890

47.1

38.8

23.3

40.3

48.4

1895

46.5

39.9

22.8

29.5

44.5

1900

 

40.3

29.7

19.9

22.8

42.2

1901

34.4

28.5

17.6

36.5

 

 

L’Inghilterra provvede sempre meno questi paesi di manufatti; e deve necessariamente cercare di scaricare la sua produzione nei paesi non protetti. Nel rapporto vi è a questo proposito una tabella molto istruttiva in cui le esportazioni inglesi (prima complessive e poi dei soli manufatti), sono distinte a seconda che sono destinate alle principali nazioni estere e colonie inglesi protezioniste (Russia, Germania, Francia, Belgio, Olanda,[7] Spagna, Portogallo, Italia, Austria-Ungheria, Stati Uniti, Canadà, Victoria), ovvero a tutte le altre nazioni estere e colonie che costituiscono ancora un campo relativamente aperto per la esportazione inglese.

 

 

 

Principale nazioni estere e colonie inglesi e protezioniste

 

 

Tutte le altre nazioni e colonie

 

Totale

 

Esportazione totale inglese

1850

% 56

% 44

% 100

1860

% 51

% 49

% 100

1870

% 53

% 47

% 100

1880

% 49

% 51

% 100

1890

% 46

% 54

% 100

1900

% 45

% 55

% 100

1902

% 42

% 58

% 100

Esportazione di manufatti e semi-manufatti inglesi

1850

% 57

% 43

% 100

1860

% 50

% 50

% 100

1870

% 50

% 50

% 100

1880

% 47

% 53

% 100

1890

% 44

% 56

% 100

1900

% 42

% 58

% 100

1902

% 38

% 62

% 100

 

 

Diminuì la esportazione totale verso i paesi protezionisti; ma diminuì ancor più la esportazione di manufatti, sicché unico scampo per l’Inghilterra rimasero le colonie non protezioniste ed i pochi paesi che non si cinsero ancora di barriere daziarie, fra cui preziosissimi sovratutto la Turchia e la Cina.

 

 

Mentre l’Inghilterra viene così a poco a poco respinta dai paesi europei, il suo territorio medesimo viene ognora più invaso (adoperiamo per un momento la fraseologia protezionista), dai prodotti manufatti di paesi con cui essa si trova in concorrenza. Veggasi la percentuale che delle esportazioni totali di manufatti dei paesi sottonotati va in Inghilterra:

 

 

 

 

Germania

Francia

Russia

Italia

Stati Uniti

 

1890

10.9

26.3

2.7

9.9

1895

11.2

30.2

4.0

6.7

30.5

1900

 

11.8

29.5

3.2

7.5

22.4

1901

13.4

30.8

6.6

24.8

 

 

Non è un fenomeno molto accentuato; ma è quanto basta per far gridare ai protezionisti che l’Inghilterra è divenuta il dumping ground, il territorio di scarico dove si buttano a basso prezzo i rifiuti delle industrie protette dall’estero.

 

 

L’esempio più doloroso per l’Inghilterra dell’influenza di dazi esteri è certo quello dell’industria delle lastre di stagno (tinplate industry). Procedeva dessa nel 1887-90, quando il dazio americano era solo di lire sterline 4.60 per tonnellata, ben 399.329 tonnellate di cui 304.695, ossia il 26 per cento, andava negli Stati Uniti. La tariffa Mackinley eleva il dazio a lire sterline 10.10; e la tariffa Dingley lo conserva a 6.90. Gli industriali inglesi malgrado ribassino i prezzi fuori dazio da 14.01 L. st. nel 1887-90 a 11.43 nel 1895-96, non possono reggere alla concorrenza americana che può dare la tonnellata a 16.62 compreso il dazio di 6.90; e così l’industria loro soffre terribili colpi.

 

 

Nel 1898-1901 la produzione si è ridotta a 262.881 tonnellate di cui solo più 65.687 vanno negli Stati Uniti, ossia il 25%.

 

 

Nel 1902 la produzione cresce a 311.869; ma negli Stati Uniti vanno solo 65.142 tonnellate, e queste perché il dazio viene rimborsato all’atto dell’importazione sotto forma di manufatti finiti. Frattanto la produzione delle lastre di stagno, che nel 1887-90 era nulla negli Stati Uniti, è diventata già superiore a quella dell’Inghilterra medesima: nel 1892-3 siamo a 36.993 tonnellate; nel 1895-6 a 137.014; nel 1898-1901 a 347.437: nel 1902 a 366.000 tonnellate.

 

 

Tutto questo sarà verissimo; ma non si vede quali suffragio ne possa ricavare la tesi protezionista. Il Balfour nel suo opuscolo ha scritto che siccome i paesi esteri arrecavano cotanto danno alle esportazioni inglesi coi loro dazi, era mestieri non rimanere disarmati nelle trattative doganali. L’Inghilterra, egli ha osservato, è il solo paese che non possa costringere i suoi rivali a miti consigli. Essa, attaccata al feticcio del libero scambio, non si può minacciare i paesi stranieri di elevare i suoi dazi quando essi aumentino eccessivamente i loro. I negoziatori stranieri sanno che l’Inghilterra terrà sempre le porte aperte e quindi non tengono conto alcuno delle sue platoniche esortazioni alla libertà degli scambi. Urge, dice il Balfour, abbandonare questa politica del porgere la guancia a chi vi schiaffeggia. Minacciamo anche noi i paesi straniere di dazi di ritorsione e li vedremo ribassare i dazi contro di noi.

 

 

Nemmeno in questa scoperta dei mirabili effetti della politica dei dazi di rappresaglia può sperare il Balfour di aver detto delle novità; né l’esperienza passata prova che le sue speranze siano fondate. La storia prova che i sistemi protezionisti hanno tutti avuto inizio così: dai dazi di rappresaglia che doveano durare pochissimo tempo, i mesi necessari a ridurre alla ragione l’avversario recalcitrante. Nel frattempo degli interessi sorgono all’ombra dei dazi, ed il momento di abolirli non si trova più. Cosicché il paese che avea messo i dazi di rappresaglia per poter vendere bene all’estero, non solo non ottiene il suo scopo; ma aggiunge agli altri il danno di dover comprar caro dall’estero a causa dei suoi dazi. Forse il Balfour desidera appunto inaugurare, d’accordo collo Chamberlain, il protezionismo a favore delle industrie nazionali; ma, non osando dirlo, cominciò col mettere innanzi il pretesto dei dazi di rappresaglia. Il giuoco è abile; e data l’ignoranza delle masse e la facilità di ingannarle, può anche darsi che riesca.

 

 

Meno facile riesce di giudicare, coi materiali offerti dal rapporto del Board of Trade, i probabili effetti di una unione doganale fra tutte le colonie britanniche e la madre patria. Come è noto, secondo il progetto dello Chamberlain, la madre patria dovrebbe continuare ad ammettere in franchigia i prodotti delle colonie e tassare invece con un dazio i prodotti dei paesi stranieri. Le colonie poi dovrebbero dare una preferenza, ossia far pagare un dazio minore ai prodotti della madre patria che a quelli delle colonie. Ogni giudizio è difficile su questo progetto, perché lo Chamberlain prima diceva che si dovea – lasciando esenti quei delle colonie – mettere un dazio sui prodotti alimentari esteri; ma visto il clamore minaccioso delle classi lavoratrici contro il pane caro, ritirò subito la proposta, sostituendovi dei dazi sui manufatti, che le colonie non esportano, e su altri generi mal definiti. Ora poi, nel discorso di Glasgow tornano in campo i dazi sui cereali e sulla carne, insieme ad un diritto del 5% sui manufatti. Comunque sia di ciò sarebbe interessante rispondere a questa domanda: Quanta parte del commercio con le colonie ora compiuto dai paesi esteri potrebbe essere accaparrato dalla madre patria?

 

 

Il rapporto tenta di fornire qualche dato per illuminare il problema. Nel 1900 per 113 milioni di lire sterline di merci importate nelle colonie autonome 55 venivano dall’Inghilterra, 47 da paesi esteri ed 11 da altri possedimenti britannici (commercio intercoloniale). Dei 47 milioni di merci estere, 9 milioni e 3/4 sono di una specie di merci che l’Inghilterra non produce ed 8 e 3/4 di merci che l’Inghilterra, pur potendole produrre, non potrà mai sperare di esportare in concorrenza con i paesi esteri. Rimangono 28 1/2 di merci che potrebbero essere esportati dall’Inghilterra, a cui aggiungendo 3 e 3/4 milioni di merci straniere, ora esportate per mezzo dell’Inghilterra e che questa potrebbe produrre direttamente, giungiamo ad un totale di 32 e 1/4 di milioni di lire sterline di merci che forse, grazie all’Unione doganale, l’Inghilterra potrebbe sperare di esportare nelle sue colonie invece dei paesi stranieri che attualmente godono di quel traffico.[8] Sembra una cifra grossa; ma occorre notare: a) che le nazioni estere ben difficilmente si lascierebbero strappare dalle mani tutto quel traffico, e farebbero ogni tentativo per conservarne almeno una parte; b) le nazioni straniere cercherebbero di rispondere all’Inghilterra con dei dazi di rappresaglia, cosicché questa perderebbe nelle proprie esportazioni verso l’estero forse meno e forse più di quanto guadagnerebbe nelle esportazioni verso le colonie. Adesso (1902) le esportazioni inglesi verso le nazioni estere salgono a 169.848 mila lire sterline; ed è un traffico crescente, benché in proporzioni minori del traffico colle colonie. Basterebbe che l’Inghilterra perdesse da un quinto ad un sesto di questo traffico per non ricavare più nessun vantaggio dall’Unione doganale con le colonie; c) si aggiunga che il problematico guadagno sarebbe ad usura controbilanciato dai danni inerenti ad una così colossale trasformazione di capitali (distruzione di una parte dei capitali importati nelle industrie esportatrici verso l’estero, capitali che nella loro forma attuale non sempre potrebbero destinarsi a produrre merci per le colonie); e dal rincaro della vita derivante dai dazi differenziali che l’Inghilterra dovrebbe mettere sulle importazioni all’estero.

 

 

La conclusione a cui sono venuto esaminando i dati del Board of Trade è quella stessa a cui per altra via è giunto il Root in un suo libro recente, che è forse il migliore contributo attuale allo studio delle relazioni commerciali nell’interno dell’impero inglese.[9] «Nel complesso, – egli conchiude dopo un lungo esame di fatti compiuto senza alcuno di quelli che si dicono preconcetti teorici, – è difficile scorgere quale azione determinata sia praticabile su una scala considerevole dai parlamenti imperiali o coloniali allo scopo di promuovere delle relazioni commerciali più strette fra le varie parti dell’impero». Se il filatore vuole cotone americano, non gli si può offrire del cotone egiziano solo per favorire un protettorato inglese; e neppure si può obbligare il mugnaio abituato al grano della California o dell’Illinois a prendere il grano del Canadà. Sono mutazioni che possono sembrare indifferenti ai politicanti; ma non agli uomini del mestiere. Probabilmente industriali ed operai insorgerebbero in massa contro i pretesi benefici che loro si vorrebbero accordare; a somiglianza di quell’operaio del Lancashire, che, all’epoca della fame del cotone, elevava al cielo frequenti preghiere perché l’Inghilterra fosse abbondantemente provveduta di cotone greggio, non scordandosi però mai di aggiungere: «Ma, o Signore, non mandateci cotone Surats!» Meglio pagare un po’ più caro cotone buono ed adatto, che non avere cotone cattivo a buon mercato.

 

 

La politica a cui lo Chamberlain invita l’Inghilterra è un vero salto nel buio; e ben a ragione la si può definire con Lord Goschen un vero gioco e, per giunta, un gioco in cui la posta è l’alimentazione del popolo.

 

 

Il salto nel buio è tanto più grave in quanto che quello che si conosce degli effetti del regime coloniale nel passato e dei dazi differenziali attualmente vigenti in Francia, in Germania, nell’Olanda ed in altri paesi, non dimostra che le madri patrie ne abbiano ritratto eccezionali vantaggi.

 

 

È vero che nelle colonie francesi della Riunione, Majotte, Indo Cina, Nuova Caledonia, San Pierre, Guadalupa, Martinica e Guiana le importazioni dalla Francia (quasi esenti da dazio), sono salite, nel periodo 1892-1901, da 65.957 a 154.282 mila franchi; che nel Madagascar si passò da 9.583 a 35.582 franchi, che nel Senagal, Guinea, Costa d’Avorio, Dahomey, Congo francese, possedimenti indiani e Taiti si passò da 16.956 a 52.103 mila franchi, che nell’Algeria si progredì da 189.639 a 258.977 mila franchi, a Tunisi da 21.774 a 34.264; e che nel complesso la proporzione delle importazioni di queste colonie dalla Francia in confronto alle importazioni totali salì dal 61 al 65% dal 1892-94 al 1899-1901; ma bisogna notare che – eccettuata l’Algeria, divenuta quasi parte della Francia – gran parte di queste importazioni francesi sono per conto del governo e rappresentano un costo, e non un beneficio, per la madre patria. Né si può dimenticare che l’Inghilterra, senza bisogno di dazi preferenziali, accrebbe le proprie esportazioni verso le colonie da 19.429 mila lire sterline nel 1850 ad 87.370 mila nel 1890 ed a 107.704 mila nel 1902.[10] Perché ciò che si ottenne nel passato, non si potrà conservare ed accrescere nell’avvenire? Forse che l’Inghilterra è divenuta meno abile nel ridurre i costi di produzione e sopportare la lotta coi produttori stranieri? In questo caso, essa dovrebbe accusare sé medesima e non gli altri del suo triste fato.

 

 

Né si può onestamente asserire che si può correre a cuor leggero l’alea, perché l’alimentazione del popolo non sarà mai in pericolo a causa dei dazi differenziali, non potendo il dazio ripercotersi sui prezzi delle merci. È un’indagine molto sottile questa, la quale qui non può essere esaurita di passata. Ma non posso trattenermi dall’inserire alcune cifre tratte dal rapporto, le quali provano quanto grande sia stata l’influenza dei dazi sul grano esistenti nella Francia e nella Germania sui prezzi del grano medesimo. Pur tenendo conto delle cautele accennate dal Bowley, e ricordate più sopra, la tabella seguente ha una significazione troppo chiara per essere trascurata. È un quadro del ribasso dei prezzi del grano dal 1871 in poi in varie nazioni:

 

 

 

Inghilterra

 

Germania

Francia

Stati Uniti

Anno tipo 1871…………………

100

100

100

100

Media 1872-81……………..

88.1

94.8

87.7

88.9

     »    1882-91………………..

61.6

77.8

71.4

63.0

     »    1897-1901…………..

48.0

67.8

62.6

50.3

Anno 1902…………………….

49.6

70.1

63.7

52.4

 

 

 

La differenza marcatissima fra l’Inghilterra liberista e gli Stati Uniti – dove il dazio sul grano, trattandosi di una nazione esportatrice è puramente nominale – da una parte, e la Germania e la Francia dall’altra parte è tale da far conchiudere, anche attesa l’unità mondiale dei prezzi, che il minor ribasso dei prezzi in Germania ed in Francia è stato dovuto all’unica loro circostanza differenziale, ossia all’esistenza di forti dazi in questi due paesi.

 

 

In Germania, dove l’importazione del grano crebbe costantemente dalle 20 alle 40 libbre per abitante nel decennio 1883-92 a 80-90, negli ultimi anni 1901-1902 il prezzo del grano rimase in media più alto di 6 scellini ed 11 pence nel periodo 1893-1901 del corrispondente prezzo inglese. Il dazio tedesco sul grano importato dall’estero era di 7 scellini e 7 pence e mezzo; cosicché il dazio in realtà fece aumentare il prezzo del grano nell’interno di quasi tutto il suo ammontare.

 

 

In Francia le cose sono meno chiare. Nel periodo 1883-1902 bisogna innanzitutto escludere gli anni 1885, 1887, 1891, 1892, 1894 e 1902, nei quali avvennero mutazioni nel dazio sul grano, sia in Inghilterra che in Francia, a causa delle quali ogni confronto riesce impossibile. Gli altri 14 anni devono essere divisi in due gruppi: a) di minima importazione (1895 con 29 libbre per abitante, 1896 con 10 libbre 1899, 1900 e 1901 con 10 libbre). Siccome il consumo medio è di circa 470 libbre per abitante, in questi anni si può dire che l’importazione sia stata quasi nulla e la Francia abbia bastato a sé medesima. Per l’abbondanza del raccolto interno il dazio non si poteva far sentire in tutta la sua intensità; e così accadde che mentre il dazio era di 12 scellini e mezzo per quarter, il prezzo francese fosse maggiore del prezzo inglese di soli 8 scellini e 3 pence; b) di massima importazione (tutti gli altri anni, con una importazione che andò nel 1891 sino a 120 libbre per abitante). In questi anni, per la scarsità del raccolto interno fu d’uopo ricorrere largamente al grano estero; ed il dazio ottenne il suo pieno effetto; ed anzi di più; perché mentre il dazio fu in media di 7 scellini e 5,5 pence per quarter, il prezzo francese fu maggiore del prezzo inglese di ben 9 scellini ed 11 pence.[11]

 

 

La conclusione interessantissima che si ricava da queste statistiche si è che il dazio sul grano non solo si repercote sui prezzi, ma si ripercote tanto più vivamente quanto più il raccolto è scarso. Conclusione questa la quale per sé forse sarebbe insufficiente, ma acquista valore probatorio in quanto viene a confermare le deduzioni teoriche che parecchi economisti aveano già raggiunto e fra gli altri il Dietzel nel suo scritto: Die Kornzoll und die sozialreform (Berlin, Simion). Vogliono gli inglesi, istituendo dazi differenziali sulle derrate alimentari, andar incontro a questo rischio?

 

 

È da sperare, se non da confidare, di no, tanto più che non sembra provato che essi stiano tanto male da aver il bisogno urgente di tentare nuovissime vie per far fortuna, specie quando queste vie sono sparse di precipizi e di abissi profondissimi e pericolosi.

 

 

L’argomento medesimo, di cui più si servono i protezionisti inglesi per dimostrare che l’Inghilterra corre alla rovina, ossia l’eccesso delle importazioni sulle esportazioni, è una fulgidissima riprova della sua potenza economica. Quell’eccesso variò dal 1903 al 1902 da un minimo di 132 ad un massimo di 184 milioni di lire sterline, con una media di 161 milioni all’anno. L’Inghilterra vive sul suo capitale, esclamano al contemplare queste cifre enormi i protezionisti. Non è possibile che essa compri tutti gli anni 160 milioni di lire sterline (4 miliardi di lire nostre), più di quanto non venda, senza spogliarsi a poco a poco del proprio capitale. Sono i valori esteri, le azioni delle ferrovie americane, i consolidati di governi stranieri che se ne vanno per comprare le importazioni eccedenti. Dopo, quando non ci saranno più titoli da vendere, sarà la rovina.

 

 

Ora il Rapporto del Board of Trade viene a smentire queste affermazioni. Pur lasciando da parte tutte le partite minori che concorrono a formare il saldo della bilancia monetaria, il Rapporto si ferma su due soli punti: i guadagni della marina mercantile inglese ed i profitti dei capitali presi all’estero; e con una serie di minute analisi e di ipotesi plausibili conclude che i primi non possono essere minori di 90 milioni di lire sterline all’anno ed i secondi di 62,5 milioni all’anno al minimo. Queste due cifre da sole quasi bastano a controbilanciare l’eccedenza dei 160 milioni; e forse la superano, se si tiene conto che una parte ragguardevole, se bene non precisabile dei redditi di valori stranieri, sfugge alle indagini degli agenti del fisco.[12] Non bisogna dimenticare che la cifra degli interessi e dividendi di nazioni straniere percepiti da inglesi non è né stazionaria, né decrescente: erano 31.890.423 lire sterline nel 1883-85, diventarono 55.488.832 nel 1890-91 e 62.559.429 nel 1901-2, le quali si dividono in 8.880.908 lire sterline provenienti da consolidati e prestiti ferroviari del governo indiano; 19.245.888 da titoli di governi coloniali ed esteri; 9.367.766 da titoli di imprese coloniali ed estere; 10.454.343 da dividendi di imprese straniere; e 14.610.574 da titoli ferroviari fuori dell’Inghilterra.

 

 

Né questa ha cessato di essere un grande mercato di borsa, dove si emettono fortissime quantità di titoli di prestiti esteri, di imprese straniere e coloniali; queste emissioni raggiunsero nell’ultimo decennio le seguenti somme:

 

 

1892…………..

milioni di lire sterline

49.9

1893…………..

»

29.0

1894…………..

»

52.2

1895…………

»

55.1

1896………….

»

56.1

1897………….

»

47.4

1898………….

»

59.8

1899………….

»

48.2

1900………….

»

24.2

1901………….

»

32.6

1902………….

»

57.7

 

 

La maggiore o minore ampiezza delle emissioni corrisponde ad anni di prestiti più o meno forte da parte dei governi e dal rinvigorirsi o rallentarsi delle speculazioni ferroviarie e minerarie. Nell’ultimo anno (1902) la cifra di 57.7 milioni di titoli assorbiti dal mercato inglese andò distinta così:[13]

 

 

Prestiti a governi stranieri ……………………………..

13.9

Prestiti a governi coloniali ……………………………..

19.4

Altri corpi pubblici stranieri e coloniali ……………..

1.8

Ferrovie straniere e coloniali …………………………

12.4

Compagnie minerarie …………………………………..

10.2

 

 

Anche la marina mercantile inglese non ha cessato di progredire sotto il regime del libero scambio; mentre lo stesso non si può asserire per alcune nazioni protezioniste, come la Francia e gli Stati Uniti (flotta oceanica).

 

 

Ecco un quadro dei progressi della marina mercantile a vela ed a vapore, in migliaia di tonnellate nette, dal 1840 al 1902.

 

 

 

1840

1860

1880

1900

1902

Regno Unito ………………………….

2768

4658

6574

9304

10054

Possedimenti britannici …………..

543

1052

1872

1447

1511

Totale Impero britannico ……….

3311

5710

8447

10751

11566

 

Russia ………………………………….

467

633

Finlandia ……………………………….

288

340

Norvegia ……………………………….

276

558

1518

1508

1467 (1901)

Svezia ………………………………….

542

613

640 (1901)

Danimarca ……………..…………..

249

408

416 (1901)

Olanda …………………………………

433

328

346

407

Impero Germanico …………………

1181

1941

2093 (1901)

Belgio …………………………………..

22

33

75

113

106

Francia …………………………………

662

996

919

1037

1110 (1901)

Spagna …………………………………

560

774

Italia …………………………………….

999

945

999 (1901)

Austria ………………………………….

223

198

232 (1901)

Ungheria…………………………..

51 (1890)

66

71 (1901)

Stati Uniti:

Navigazione marittima …………….

899

2546

1352

826

882

Totale compresa la navigazione su fiumi e laghi ………………………

1240

2752

2715

4338

4915

Giappone ……………………………..

863

917 (1901)

 

 

Anche per le costruzioni navali. L’Inghilterra conserva una posizione predominante (in migliaia di tonnellate).[14]

 

 

 

1858

1878

1902

 

Inghilterra: navi a vela ………………………….

156

148

81

       »          »    »  vapore …………………………

80

322

869

Totale ………

236

470

950

Germania ………………………………………………

32

101 (1901)

Francia ………………………………………………….

21

105 (1901)

Stati Uniti: sulla riva del mare …………………..

177

155

290

       »        sul Mississippi e suoi tributari ……

35

68

9

       »        sui grandi laghi ……………………….

31

11

168

Totale ………

244

235

468

 

 

Altri indici vi sono del progresso dell’Inghilterra. In una serie di appendici statistiche al rapporto ora citato si leggono delle tabelle relative al progresso dell’Inghilterra dal 1854 al 1902. Ne cito alcune scelte a caso.[15]

 

 

L’aumento della popolazione in Inghilterra e Galles da 18.6 a 33 milioni e nella Scozia da 3 a 45 – malgrado che l’Irlanda siasi ridotta, per le note sue traversie – da 6.1 a 4.4, porta la popolazione totale del Regno Unito da 27.7 a 41.9. L’emigrazione che era dello 0.97% del numero degli abitanti nel 1854, e che dallo 0.48 nel 1855-59 era salita gradatamente allo 0.75 nel 1880-84, ora è gradatamente discesa allo 0.39%. Risultato a cui ha contribuito in parte la minore natalità, ma in parte altresì il benessere maggiore delle classi operaie, le quali tendono meno ad abbandonare la patria.

 

 

Il tonnellaggio entrato nell’Inghilterra che era di 10 milioni nel 1855-59, di cui il 59,3 per cento appartenenti a navi inglesi, nel 1895-99 era salito a 44 milioni, di cui il 70.5 con bandiere inglesi. Le partenze erano passate contemporaneamente da 11 a 45 milioni di tonnellate; è da una proporzione del 58.3 ad una del 71.1% di navi battenti bandiera inglese.

 

 

La produzione di diverse merci era aumentata nelle seguenti proporzioni:

 

 

 

1855-59

1885-89

 

Carbone (milioni tonnellate)…

66

202

Ferro (pig.)   »             » ……..

 

3.5

8,6

Cotone greggio importato al netto delle riesportazioni (in milioni di cents) ……………….

7.9

14.1

Lana greggia importata al netto delle riesportazioni (in milioni di libbre) ………………

89.1

378.8

 

 

Il traffico ferroviario si è ampliato in relazione all’aumento enorme delle materie prime importate ed esportate e dei prodotti finiti circolanti nell’interno del paese. Il numero dei passeggeri trasportati salì da 135 a 1022 milioni (sempre confrontando le medie 1855-9 a 1895-9), il peso dei minerali trasportati da 46 (nel 1856-9) a 265 milioni di tonnellate; il peso delle altre merci in genere da 25.5 a 106 milioni di tonnellate. Le compagnie ritraevano un provento lordo di 11.6 milioni di lire sterline dal traffico dei passeggeri; ed ora ne ritraggono 40.5 milioni. Le merci rendono 47.9 milioni invece di 12.1. Le entrate totali delle ferrovie per abitante crebbero così:

 

 

1855-6

lire sterline 0

16 scellini

10 pence

1860-4

  »        »   1

0         »

8         »

1865-9

  »        »   1

5         »

6         »

1870-4

  »        »   1

11       »

11       »

1875-9

  »        »   1

15       »

9         »

1880-4

  »        »   1

17       »

5         »

1885-9

  »        »   1

17       »

8         »

1890-4

  »        »   2

0         »

11       »

1895-9

  »        »   2

4         »

2         »

 

 

Il guadagno netto delle Compagnie da 15.661.168 L. st. nel 1860-4 salì a 40.098.870 L. st. nel 1895-9.

 

 

Le somme compensate nella Clearing House di Londra ebbero un notevole incremento:

 

 

1870-4 ……………………… milioni di lire sterline

5.333

1875-9 ………………………

»

5.114

1880-4 ………………………

»

6.020

1885-9 ………………………

»

6.410

1890-4 ………………………

»

6.789

1895-9 ………………………

»

7.981

 

 

Le Casse di risparmio postali che nel 1862 aveano 178.495 depositanti e un milione e 700 mila lire sterline di depositi, nel 1902 aveano 9.133.161 depositanti e 144 milioni di depositi senza calcolare 16 milioni di titoli di Debito Pubblico comprati e custoditi per conto dei depositanti. Le Casse di risparmio ordinarie che nel 1854 aveano 1.277.873 depositanti e 33.7 milioni di depositi, ancora nel 1902, malgrado la concorrenza formidabile delle Casse postali, che distribuiscono un interesse artificiosamente alto a carico del Governo, contavano 1.670.394 depositanti e 52.5 milioni di depositi. In totale adesso i depositanti a risparmio salgono alla enorme cifra (che in media ogni anno cresce di più di 400 mila persone), di 10.803.555 con una somma depositata di 197.1 milioni di lire sterline, circa 5 miliardi di lire nostre.

 

 

Si comprende come, in codeste condizioni, il reddito delle classi medie ed alte abbia dovuto gradatamente espandersi. Per valutarne l’incremento nessun indice migliore dei dati forniti dai resoconti dell’imposta sui redditi (income tax). I rapporti dei Commissioners of the Inland Revenue forniscono ancora uno degli indici migliori (come nota anche il Bowley) dell’incremento della prosperità nazionale. Orbene, quei rapporti ci forniscono i seguenti dati rispetto al reddito lordo degli inglesi valutato agli effetti dell’income tax e distinto nelle cinque categorie A (redditi dominicali delle terre e case): B (redditi dei fittabili e coltivatori agricoli); C (interessi, annualità pagate dai Governi, nazionali ed esteri e da Enti pubblici); D (profitti industriali e commerciali, stipendi e salari non classificati nelle altre categorie), E (stipendi di pubblici funzionari).

 

 

 

A

B

C

D

E

Totale

   

 

(in milioni di lire sterline)

 

 

1855-9

131

51

28

90

17

317

1860-4

147

53

30

101

20

351

1865-9

151

57

33

155

24

420

1870-4

154

59

39

210

28

490

1875-9

172

68

40

263

32

575

1880-4

190

68

40

268

35

601

1885-9

196

62

44

292

40

634

1890-4

202

58

40

354

49

703

1895-9

214

55

39

379

57

744

1900

229

53

39

436

70

827

1901

233

53

41

466

75

868

1902

238

53

41

488

79

902

 

 

 

 

Questa tabella va completata con un’altra la quale specifica alcuni redditi più importanti delle categorie A e D:

 

 

 

                        A

 

                   D

 

Terre

Case

Miniere

Cave

Ferriere

Gazometri

 

1865-9

63.1

73.8

5.3

0.6

2.0

2.0

1870-4

65.4

87.6

7.1

0.8

4.0

2.6

1875-9

68.4

102.5

13.2

1.1

3.6

3.4

1880-4

67.8

121.0

6.9

0.9

2.6

4.6

1885-9

62.2

133.0

7.4

0.8

1.6

4.9

1890-4

57.3

143.4

10.3

1.0

2.3

4.9

1895-9

54.6

159.4

10.7

1.3

2.2

5.6

1900

52.8

174.4

9.5

1.6

3.2

6.1

1901

52.6

179.0

12.0

1.7

5.4

6.4

1902

52.5

184.6

17.6

1.6

6.6

5.9

 

 

Le due tabelle combinate insieme ci dicono: 1) che il reddito delle terre e delle imprese agricole è scemato a causa della crisi agraria; ma non è del resto scomparso come alcuni pretendono. È soltanto disceso al disotto delle cifre eccessive dei tempi di prezzi alti, e ciò con grande vantaggio delle masse; 2) il reddito dei titoli di Debito Pubblico tende a rimanere stazionario. È un bene perché vuol dire diminuzione del saggio dell’interesse e stimolo ad impiegare i capitali nelle industrie e nei commerci; 3) il reddito delle case cresce rapidamente, cosa poco lieta in quanto significhi aumento della rendita dei suoli edilizi, ma lietissima in quanto indichi un incremento grande nella capacità di consumo e nel comfort delle classi operaie; 4) la categoria di reddito che cresce di più è la D, ossia quella che comprende precisamente i redditi industriali e commerciale che i neoprotezionisti pretendono siano sulla via di volatilizzarsi e ridursi al nulla. Non solo non si volatilizzano ma crescono con una rapidità di cui non sia ha esempio altrove. Persino le miniere, le cave e le ferriere che, come tutti sanno, sono industrie aleatorie ed a profitti variabilissimi, si mantengono salde ed offrono dei bilanci soddisfacenti.

 

 

Queste per le classi capitaliste. Per le classi operaie il rapporto del Board of Trade ci offre una massa di dati così grande da produrre un vero imbarazzo nella scelta. Ricorderò i principali. Il pauperismo, la terribile piaga dell’Inghilterra nella seconda metà del secolo XVIII e nella prima metà del XIX è assai diminuito.

 

 

 

Poveri adulti capaci di lavorare

Altri poveri

TOTALE

Rapporto del numero dei poveri alla popolazione

%

Somme spese in soccorso ai poveri

 

Ammontare assoluto L. st

Per ogni povero L. s.d.

Per ogni abitante L. s.d.

   

Migliaia

   

Migliaia

 

   
1855-9

146

748

894

4.7

5.846

6.10.8

0.6.1

60-4

168

779

948

4.7

6.052

6.7.8

0.5.11

65-9

158

803

962

4.5

6.967

7.4.10

0.6.6

70-4

147

804

951

4.2

7.779

8.3.6

0.6.9

75-9

98

654

752

3.1

7.548

10.0.6

0.6.2

80-4

103

683

787

3

8.221

10.8.11

0.6.4

85-9

99

688

788

2.9

8.354

10.11.11

0.6.1

90-4

96

669

765

2.6

8.963

11.14.3

0.6.2

95-9

103

710

814

2.6

10.526

12.18.5

0.6.9

1900

93

698

792

11.567

1901

91

690

781

12.119

1902

94

706

801

11.548

 

 

Il numero dei poveri subisce delle oscillazioni cicliche; ma attraverso ad esso lo si può veder diminuire in cifra assoluta ed ancor più in cifra relativa; cosicché nonostante i poveri, trattati meglio, adesso costino più di prima, ogni abitante inglese finisce di essere in media gravato di una somma non diversa per il mantenimento dei poveri da quella che pagava quarant’anni fa.

 

 

I non poveri, d’altro conto, non possono certo lamentarsi di fronte ai loro compagni delle altre nazioni.

 

 

Ecco i salari di alcuni operai abili (skilled) impiegati nelle capitali dei seguenti Stati:[16]

 

 

 

Inghilterra

 

Stati Uniti

Germania

Francia

Numero dei casi ai quali si riferiscono le medie seguenti

470

141

184

248

 

Salari medi settimanali (in scellini e pence) per 15 industrie skilled:

 

a) Città capitali …………………..

42 s. O d.

75 s. O d.

24 s. O d.

36 s. O d.

 

b) Altre città ………………………

36 s. O d.

69 s. 4 d.

22 s. 6 d.

22 s. 10 d.

 

Percentuale dei salari rispetto ai salari inglesi considerati uguali a 100:

 

a) Città capitali …………………

100

179

57

86

 

b) Altre città …………………….

100

193

63

63

 

 

Se si eccettuano gli Stati Uniti, dove vigono condizioni speciali e dove è notoria l’altezza eccezionale dei salari, i salari inglesi si conservano superiori a quelli del continente europeo; e ciò malgrado che l’industria tedesca ottenga trionfi colossali e minacci di distruggere a breve scadenza, secondo quanto dicono i protezionisti, le prosperità dell’Inghilterra.

 

 

La superiorità dei salari inglesi è dinamica oltreché storica, perché nell’ultimo ventennio crebbero più che in ogni altro luogo. Se si assumono come uguali a 100 i salari inglesi del 1900, ecco a quanto ammontavano i salari di certe classi di operai in alcuni paesi (medie e valutazioni approssimative):

 

 

 

Inghilterra

Stati Uniti

Germania

Francia

Italia

1881

83.1

88.1

85.0

86

1885

81.9

90.6

87.5

91

1886

81.1

90.7

81.4

92

1890

90.1

95.5

84.4

98

1895

88.2

94.6

85.9

98

1896

89.2

94.7

88.6

96.6

98

1898

92.6

95.6

94.4

99

1899

95.1

98.2

96.8

100

1900

100.0

100.0

100.0

100.0

 

 

Se si parte dal 1886, anno in cui si hanno i dati, anche per la Germania, si vede che l’Inghilterra è il paese dove i salari sono partiti dal punto più basso per arrivare nel 1900 al 100; il che vuol dire che nel quindicennio i loro progressi furono massimi.[17]

 

 

Non solo gli operai inglesi sono pagati meglio, ma vivono anche a più buon mercato. È difficile avere statistiche esatte a questo proposito, ed il rapporto del Board of Trade, dopo una lunga disamina, è indotto a concludere che «le differenze di bisogni e di gusti fra popolo e popolo sono tali che il benessere comparativo delle classi lavoratrici in varii paesi, nel più largo senso della parola, non può essere determinato con qualsiasi metodo statistico».[18] Malgrado questo, ecco alcune cifre sui prezzi al minuto di alcune derrate di consumo popolare:

 

 

 

Londra

Parigi

Roma

Berlino

New York

Mosca

Budapest

 

Pane di frumento per 4 libbre (in pence) 1903

4 ½ 5

6 ½

5 ¾

5 ¼

(di segala)

0.10

5 ¾

4

Carne di bue per libbra:

Prussia

Pennsylvania

1901

nazionale

estera

 

9.0

9.5

7.4

6.4

Carne di montone:

1901

nazionale

estera

 

7.9

5.2

6.6

Burro 1901

13.6

12.3

13.4

Zucchero 1901

2

3.5

3.0

     »         1902

1.5

2.8

 

 

Il pane e lo zucchero, le due derrate che sono più minacciate dal neo protezionismo, sono anche fra quelle che si trovano più a buon mercato in Inghilterra. Pure la carne di montone estera, largamente consumata dagli operai, è poco cara. Il burro suppergiù ha lo stesso prezzo, è solo la carne di bue è più cara.

 

 

Ma veggasi il seguente interessante confronto fra la Germania e l’Inghilterra rispetto alle variazioni del costo dei cibi comperati in media da una famiglia operaia:[19]

 

 

 

Germania

 

Inghilterra

1877-81 …………………………….

112

140

1882-86 …………………………….

101

125

1887-91 …………………………….

103

106

1892-96 …………………………….

99

98

1897-1901 …………………………

100

100

 

 

Il che vuol dire che l’operaio tedesco nell’ultimo quinquennio con 100 marchi ha potuto comperare quella medesima quantità di cibo che venti anni prima gli costava 112 marchi. È un bel progresso, ma più rilevante fu il miglioramento dell’operaio inglese, che oggi compera con 100 ciò che prima gli costava 140.

 

 

Contro questi fatti si spuntano le lamentele dei neo protezionisti inglesi. Il regime libero scambista, durante il quale (io non voglio dire a causa del quale, per non ricorrere nel sofisma del post hoc propter hoc, così caro ai protezionisti passati e presenti), avvennero progressi così notevoli e persistenti nella ricchezza pubblica e nel benessere delle masse, può essere abbandonato senz’altro prima che sia dimostrato a luce meridiana che esso è la causa di mali più grandi dei benefici che la teoria insegna e l’esperienza conferma essere stati da lui prodotti? A me sembra di no; ed è certo che – a parte ogni inclinazione di scuola – non spetta a noi liberisti di provare che il sistema liberale deve essere mantenuto. L’onere della prova contraria spetta ai protezionisti. Sino a questo momento costoro non l’hanno fornita.

 



[1] Economic Notes on Insular Free Trade. By the Right Hon. Arthur James Balfour M. P. Longmans. 1 s. net.

[2] Memoranda, statistical tables and charts prepared in the Board of Trade with reference to various matters bearing on British and Foreign Trade and Industrial Conditions. London, 1903. Eyre and Spottiswoode. (Cd. 1761). Prezzo 3 s. 6 d.

[3] A.L. Bowley, «Statistical Methods and the Fiscal Controversy» in the «Economic Journal». September 1903.

[4] Rapporto cit., I, pag. 3 e seg.

[5] Rapporto cit., XXIII, pag. 360

[6] Leggere a questo proposito le notizie contenute nel n. XXII del Rapporto citato, The Export Policy of Trusts in certain Foreign Countries, pagg. 295-359 che è una vera e propria monografia sull’argomento dovuto al noto economista Mr. Schloss.

[7] Il Belgio e l’Olanda sarebbero per sé paesi liberisti, ma siccome gran parte del loro commercio è in realtà commercio con la Germania per Rotterdam ed Anversa, così è d’uopo includerli nella lista dei paesi protetti.

[8] Cfr. il calcolo il Rapporto cit., pag. 381.

[9] I.W. Root, The Trade Relation of the British Empire. Liverpool, Commerce Chambers, 1903, pagg. 431, Prezzo 10 s. 6 d. net.

[10] Cfr. Rapporto cit., pagg. 138 e segg., e 17 e segg.

[11] Cfr. Rapporto cit., pagg. 119 e segg.

[12] Cfr. Rapporto cit., pagg. 99 a segg.

[13] Cfr. Rapporto cit., pag. 104.

[14] Cfr. Rapporto cit., pag. 379.

[15] Cfr. le tabelle da pag. 397 a pag. 496 del Rapporto cit.

[16] Cfr. Rapp. cit., pag. 289.

[17] Cfr. Rapp. cit., pag. 275.

[18] Cfr. Rapp. cit., pag. 229.

[19] Cfr. Rapp. cit., pag. 226.

La lotta contro l’aggio

La lotta contro l’aggio

«Corriere della Sera», 8 ottobre 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 84-87

 

 

È una lotta alla quale agli italiani sembra di poter assistere con indifferenza di spettatori, che hanno già superato i pericoli dell’alto mare e tranquilli sulla spiaggia commentano le vicende in balia alle quali si trovano le navi non ancora giunte in porto. Una di queste navi economicamente battute dalle onde della tempesta è la Spagna, ove l’aggio per i cinque anni decorsi si tenne in media dal 30 al 40% ed oggi ancora tocca il 37,50%. A noi interessa notare quanto si faccia nella Spagna per moderare l’aggio, se non altro perché non è affatto vero che in Italia sia del tutto scomparso ogni pericolo di un ritorno offensivo del deprezzamento della carta moneta. Basterebbe un po’ di rilassamento nell’osservanza della legge bancaria, un ristagno negli affari che facesse scemare il bisogno del medio circolante, perché l’aggio ricomparisse, se bene forse in proporzioni moderate. Urge perciò tenere dietro con amorosa cura alle provvidenze che altrove si escogitano per riparare ad un malanno che domani potremmo avere di nuovo in casa nostra. In secondo luogo è interessante seguire l’esperienza della Spagna in quanto questa nazione è nostra vigorosa concorrente sul mercato mondiale nella vendita del vino di grande consumo e da taglio. Molti ritengono che i viticultori spagnuoli possono vendere il vino in oro più a buon mercato di noi perché, convertendo in carta, ad esempio, 100 lire ricevute in oro dall’estero, ottengono 137,50 pesetas; e siccome i salari ed altre spese conteggiate in carta non sono cresciuti, così essi si trovano in migliori condizioni di noi che riceviamo solo 100 lire in carta; ed è loro possibile perciò contentarsi di sole 80-90 lire in oro, con grave danno nostro. È evidente che se l’aggio in Spagna venisse meno, i viticultori italiani sarebbero posti in condizioni migliorate di concorrenza di fronte ai viticultori esteri; di qui un altro motivo per tener dietro attentamente a tutto ciò che si pensa nella penisola sorella a proposito dell’aggio.

 

 

Questo ha trovato il suo più convinto avversario nell’attuale presidente del consiglio dei ministri Villaverde, uno dei pochi uomini politici spagnuoli, il quale abbia una seria competenza economica. Non è davvero lieve il compito che egli si è proposto, se si pensa che nella Spagna esiste una forte circolazione fiduciaria di carta, la quale raggiunge il miliardo e 637 milioni di pesetas. Tutti questi biglietti non sono a corso forzoso; bensì sono convertibili a vista in argento, di cui la Banca di Spagna tiene nelle casse 484 milioni per far fronte appunto ai rimborsi. Oltre all’argento immobilizzato nelle casse della banca, vi sono in circolazione altri 513 milioni di pesetas d’argento. L’aggio dei biglietti nasce dal fatto che essi sono troppi e sono oltracciò convertibili non in oro, ma in argento, moneta essa pure ridondante nel paese e per giunta deprezzata di più della metà.

 

 

Il signor Villaverde si propone di combattere la pericolosa situazione con due ordini di provvedimenti: l’uno, che potremmo chiamare temporaneo, mentre il secondo avrebbe carattere permanente. Sarebbe un provvedimento temporaneo l’istituzione di un ufficio dei cambi esteri presso la Banca di Spagna, con un largo intervento governativo. L’ufficio avrebbe per scopo di comprare e vendere, ad un prezzo fissato nei suoi avvisi, gli assegni, le lettere di cambio e tutti gli altri mezzi di pagamento in carta ed in oro. La fissazione del corso del cambio avrebbe per effetto di tenere un po’ più bassi i cambi ed inoltre di impedire le oscillazioni frequenti dell’aggio. Per ottenere i mezzi necessari, il Villaverde propone che i dazi doganali siano resi pagabili in oro, che si possano ogni anno emettere 100 milioni di buoni del tesoro in franchi – oro, rimborsabili e garantiti col provento delle dogane e finalmente che si emetta un prestito di 94 milioni di franchi – oro redimibile in 20 anni e garantito dalle miniere di mercurio di Almaden.

 

 

Confessiamo francamente che questa prima parte dei provvedimenti Villaverde, ci sembra assai discutibile. L’aggio esiste perché c’è ridondanza di carta e di argento deprezzato e non perché la speculazione spinge al rialzo del corso del cambio. Finché permarrà la causa, sarà impossibile togliere l’effetto. L’ufficio ideato dal Villaverde consumerà i 94 milioni di prestito originario, impiegherà i 100 milioni di buoni del tesoro pagabili ogni anno col provento delle dogane in un’opera, di moderazione dei cambi, vana, perché di durata effimera. La Spagna non potrà tuttavia rinunciare per sempre ogni anno a 100 milioni delle sue entrate; e quando vorrà cessare, se la circolazione sarà ancora ridondante, l’aggio tornerà a salire.

 

 

Più convincente è la seconda parte dei provvedimenti Villaverde. Egli vorrebbe infatti che il tesoro contraesse un prestito di 700 milioni di pesetas, allo scopo di rimborsare alla Banca di Spagna i 700 milioni di pagherò di guerra che la banca ha ricevuto in cambio di un analogo prestito fatto allo stato. Rimborsati i pagherò, la banca dovrebbe in corrispondenza ridurre di altrettanto la propria circolazione fiduciaria. L’operazione cominciata nel 1904 dovrebbe aver termine nel 1907, alla qual data la circolazione cartacea si troverebbe ridotta da 1.637 milioni a meno di 1.000. Frattanto gli scudi da 5 pesetas, di cui nel 1902 fu sospesa la coniazione, dovrebbero cessare di servire come mezzo illimitato di pagamento, e la Banca di Spagna dovrebbe formarsi una riserva aurea, in guisa da poter passare col tempo al regime della peseta d’oro.

 

 

Il piano è grandioso e se le vicende politiche della Spagna permetteranno al Villaverde di condurlo a compimento – cosa assai dubbia – potremmo sperare di veder ridotto fortemente l’aggio in rapporto alla diminuzione progressiva della carta circolante. Diciamo «potremmo sperare» perché nessun paese più dell’Italia è interessato alla scomparsa dell’aggio in Spagna. Giova sperare che il Villaverde voglia rinunciare alla prima parte del suo piano, forse d’effetto più pronto, ma anche conducente a sprechi di denaro notevolissimi ed attenersi alla seconda parte del programma meno impaziente, ma più sicura, come quella che si basa sui benefici ed automatici effetti della riduzione della carta circolante. Noi ne sperimentammo i benefici effetti in Italia. Ancora ci rimane però da proseguire nella via bene iniziata bruciando altri biglietti, e consolidando così l’opera gloriosa, che è oggetto di tanta invidia da parte delle nazioni estere ancora gementi sotto il peso dell’aggio. Questa è davvero la migliore delle riforme tributarie possibili nel momento attuale.

 

 

Gli sgravi sui consumi, il Mezzogiorno e l’imposta sui fabbricati

Gli sgravi sui consumi, il Mezzogiorno e l’imposta sui fabbricati

«La Tribuna», 7[1] e 20[2] gennaio 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 523-529

 

 

I

 

La esposizione finanziaria dell’on. Di Broglio ha agito come una doccia fredda. L’annuncio che l’avanzo andava progressivamente diminuendo, ha contribuito a far guardare di cattivo occhio, ancor più di prima, le proposte le quali intendono a regalare i denari dello stato a classi sociali, delle quali sono ignoti i titoli ad ottenere siffatti regali e l’uso che ne saprebbero fare. Il salutare ammonimento non toglie debbano continuare gli sforzi per utilizzare bene gli avanzi ancora esistenti, sovratutto a favore delle regioni meridionali, le quali per unanime consenso hanno maggiore necessità di aiuto.

 

 

Poiché l’avanzo dei bilanci dello stato è pericoloso forse più ancora del disavanzo, poiché sarebbe ingenuo tesaurizzarlo per vederselo portar via dai mille e mille appetiti scatenati alla vista di così bella preda, e poiché d’altra parte già si è provveduto in equa misura ai lavori pubblici straordinari più urgenti, l’impiego migliore che oramai si possa fare dell’avanzo residuo si è di dedicarlo a sgravi d’imposta. Si evita così di far sorgere nuove cause di spesa, le quali poi dovrebbero essere consolidate, e, scemando la pressione tributaria, si accresce il gettito delle imposte rimanenti. Che le attenuazioni di imposte debbano anzitutto andare a vantaggio precipuo del mezzogiorno, rispettando al tempo stesso il principio della uguaglianza dinnanzi alla legge tributaria è oramai verità pacifica.

 

 

Le difficoltà sorgono soltanto quando si tratti di attuare il principio, osservandolo da ambedue le parti di cui si compone: riduzione in diritto estesa a tutti; ed in fatto più larga per il mezzogiorno.

 

 

In verità si potrebbe prendere a caso un qualsiasi tributo sui consumi, per ottenere l’effetto desiderato. Il mezzogiorno, intanto, si giudica meritevole di maggiore riguardo, in quanto i suoi abitanti hanno in media un reddito minore dei settentrionali. Dunque, siccome i tributi sui consumi – sul sale, sul petrolio, sul caffè, sullo zucchero, sul grano – gravano, in proporzione al reddito, più sui poveri che sui ricchi; ove noi ne riducessimo l’aliquota, potremmo essere sicuri di beneficare maggiormente il mezzogiorno che il settentrione.

 

 

Essendosi, però, già proposta la riduzione del prezzo del sale, sembra difficile di procedere subito ad un’altra riduzione d’imposta sui consumi, la quale si mantenga entro i limiti dell’avanzo disponibile per gli sgravi. Bisognerebbe limitarsi ad una riduzione quasi insignificante e che, attraverso all’attrito degli scambi, potrebbe riuscire inavvertita ai consumatori. Perciò le simpatie dei più sono rivolte ad una modificazione nell’assetto di qualcuna fra le imposte dirette; ed è questa la ragione per la quale si ritiene che l’imposta sui fabbricati possa servire di strumento per beneficare il mezzogiorno, senza ledere l’uguaglianza tributaria. Già il progetto ministeriale all’art. 12 propone che nelle province dei compartimenti catastali napoletano e siciliano, fino a quando non abbia effetto il catasto nuovo, i fabbricati esistenti all’1 gennaio 1903, quando servono di abitazione ai lavoratori di terreni appartenenti ai proprietari dei fabbricati stessi, saranno assoggettati all’imposta fondiaria soltanto in ragione del suolo, assimilato, pel valore imponibile, alle migliori terre del comune. La disposizione è giusta, in quanto estende al mezzogiorno una disposizione già vigente nelle altre parti d’Italia, e che non si era potuta applicare al mezzogiorno per circostanze storiche e per la diversa distribuzione degli abitanti. Se il principio si volesse allargare, accordando l’esenzione dall’imposta a tutte le case rurali che nel sud sono situate nei grossi centri, crediamo che nessuno del settentrione potrebbe lamentarsi, trattandosi di una disuguaglianza (case sparse nel nord, case ammassate nel sud) di cui il legislatore deve tenere conto per potere trattare, in sostanza, ugualmente, cose disuguali.

 

 

Ma l’imposta sui fabbricati può essere efficace strumento di perequazione tributaria tra nord e sud, non solo sotto questo rispetto notissimo; ma anche sotto un altro, che ai più è sinora sfuggito.

 

 

Invero, l’imposta sui fabbricati fu concepita dal legislatore come un tributo reale sul reddito dei proprietari di case, ma in realtà fu attuata per modo che essa è ora in Italia un’imposta sul consumo delle abitazioni. Ognuno comprende la sostanziale differenza che vi è fra le due specie d’imposta. In apparenza noi ci troviamo dinnanzi ad un tributo il quale grava sulla proprietà edilizia; ad un tributo, quindi, che non dovrebbe essere alleviato, poiché colpisce una ricchezza già consolidata, od almeno non dovrebbe potersi alleviare finché rimangono in vita altri tributi pesanti sui consumi popolari. Se invece l’imposta sui fabbricati non è in realtà quale si palesa in apparenza; se essa incide non sulla ricchezza consolidata dei proprietari, ma sulla spesa dei consumatori di alloggi; evidentemente, può venire assimilata alle altre imposte sui consumi, e la sua riforma presenta lo stesso carattere di urgenza della riforma delle altre imposte sui consumi.

 

 

Come accada che la imposta sui fabbricati sia in realtà diversa da quella che è in apparenza, è detto da una dottrina che si dice della traslazione dei tributi. La traslazione tributaria – ossia il processo per cui un’imposta messa su un contribuente, viene da questi trasferita su altri, e magari su parecchi successivamente, sinché incida sul contribuente definitivo, è certo uno dei più intricati ed oscuri capitoli della pubblica finanza; ed è per questo che di solito i finanzieri pratici lo saltano di piè pari, allegando trattarsi di cose troppo astruse, per poterne ricevere un qualsiasi costrutto. Ragionamento comodo, ma anche pericoloso, perché in grazia sua spesse volte i finanzieri immaginano di ottenere un certo risultato, e ne ottengono uno invece tutto diverso e magari contrario a quello desiderato.

 

 

Noi non possiamo rifare qui il ragionamento per cui si dimostra vera la proposizione ora esposta rispetto al tributo sui fabbricati. Riassumendo i risultati dalle indagini più recenti, si può affermare che l’imposta sui fabbricati ha la tendenza a trasferirsi dai proprietari sui consumatori di alloggi, non tanto in virtù del principio informatore suo (colpire i proprietari di case in base al loro reddito netto), quanto grazie ai modi adottati dal legislatore italiano per attuare in pratica quel principio. Questi modi consistono sovratutto:

 

  • nella variabilità dell’aliquota da luogo a luogo e da tempo a tempo a causa dei centesimi addizionali;
  • nell’incremento esagerato dei centesimi addizionali che innalzano l’aliquota sua bene al di là sopra delle aliquote delle altre imposte; e
  • la uniformità della quota di detrazione per ispese dal prodotto lordo per riceverne il prodotto netto.

 

 

Quest’ultima circostanza – ossia il fatto che per tutte le case di abitazione, per ricavare dal prodotto lordo delle case il reddito netto, si detrae la aliquota uniforme del 25% – è cagione principale della incidenza dell’imposta sui consumatori. Con quel sistema sono poste sull’istesso piede le case ricche a logoro basso e lunga durata, e le case povere con logoro alto e durata più breve; le case di città, in cui parte del fitto è compenso per l’uso dell’area, spesso pregevolissima e per la quale non occorre fare spese di manutenzione, e le case della periferia o dei villaggi o delle piccole città, dove il valore dell’area è nulla e tutto il reddito è compenso dell’uso della casa che si deteriora col tempo ed è causa di spese continue. Eppure due case le quali rendano 1.000 lire lorde ed in cui le spese siano di 500 e di 250 e rendano perciò nette 500 e 750 lire, sono tassate dal legislatore italiano amendue col 25% di detrazione ossia a 750 lire. Di qui viene disparità fra case ricche a logoro basso, poste nei centri dove il valore dell’area è alto e dove abitano i ricchi e case povere della periferia o dei borghi di campagna, dove abitano popolazioni povere. Siccome i costruttori intendono, dai proprii impieghi di capitale, ricavare il medesimo compenso, ne viene che se si vogliono costruire case della seconda categoria, l’imposta dovrà essere sopportata dai consumatori.

 

 

Da questa considerazione e dalle altre appena accennate, deriva che la imposta italiana sui fabbricati ha la tendenza a trasferirsi ad incidere sui consumatori di case e ad incidere su di essi con tanta maggiore facilità, quanto più le case sono abitate da gente povera.

 

 

II

 

L’effetto non è stato certamente voluto, né desiderato dal legislatore, il quale intendeva, con quella imposta, creare uno strumento con cui colpire i redditi edilizi, e non già i consumatori già vessati in mille altri modi dal fisco.

 

 

Purtroppo non basta che il legislatore voglia una cosa, perché l’intento si raggiunga. Le leggi della traslazione delle imposte sono altrettanto inesorabili nel loro processo quanto le leggi fisiche; e tanto più gravemente producono i loro effetti, quanto più i finanzieri pratici affettano di trascurarle. Se dunque il fare incidere l’imposta edilizia sui proprietari è opera di giustizia, occorre eliminare le cause dalle quali nasce la tendenza in quella imposta a trasferirsi dai proprietari agli inquilini.

 

 

Tolte in tutto od in parte quelle cause, il trasferimento non potrà più verificarsi, e l’imposta inciderà sui proprietari, in conformità ai criteri di giustizia che il legislatore si è imposto di seguire. Non è certo impresa facilissima; ma non è nemmeno tale che non si possa tentare. Già fu detto che una delle cause principali del trasferimento dannoso ai consumatori è l’uniformità dell’aliquota di detrazione per ispese del prodotto lordo delle case. Invece di detrarre da tutte le case il 25%, il fisco dovrebbe adottare una aliquota di detrazione variabile a seconda della variazione effettiva di quelle quote di spesa. Se in una prima casa del reddito di 1.000 lire le spese fossero di 400 lire, il fisco dovrebbe dedurre il 40% e colpire solo un reddito netto di 600 lire. Una seconda casa pure del reddito lordo di lire 1.000, ma con sole 100 lire di spesa, dovrebbe pagare su un reddito netto di lire 900. Se, supponiamo, l’aliquota complessiva è del 30% (compresi i centesimi addizionali) adesso le due case pagherebbero amendue il 30% su lire (1.000-il 25%) 750 ossia lire 225; dopo la riforma pagherebbero: la prima lire 180 (lire 45 in meno), e la seconda lire 270 (lire 45 in più).

 

 

Le due case sono le rappresentanti di due tipi fondamentalmente diversi: le prime sono le case di breve durata, di costruzione mediocre, poste su terreni di poco valore, nelle quali le spese di manutenzione e di ammortamento sono alte; le seconde sono le case ben costrutte, di lunga durata, poste su terreni di gran pregio, nelle quali le spese di ammortamento sono minime ed anche quelle di manutenzione (se si tolgano l’illuminazione ed il riscaldamento pagati a parte), sono scarse in proporzione al valor capitale della casa.

 

 

Se quindi si attuasse quella riforma, si avrebbero i seguenti risultati:

 

  • aumenterebbe l’imposta sulle case abitate dai ricchi e scemerebbe l’imposta sulle case abitate dai poveri… ed a questo spostamento di classe dell’onere tributario, corrisponderebbe uno spostamento regionale dal sud al nord, se è vero che il sud è abitato da persone più povere del nord;
  • l’imposta tenderebbe a spostarsi nel suo onere complessivo dai villaggi di campagna ai borghi cittadini, dalle città mediocri alle grandi città, dalle situazioni in cui il valore del suolo è stazionario o magari decadente, alle situazioni in cui il valore del suolo è in aumento, dalle montagne alle valli, dai paesi a forte emigrazione ai paesi di immigrazione.

 

 

Sotto un altro rispetto quindi il carico del settentrione – dove è il numero massimo di città progressive, dove il movimento di immigrazione nelle grosse città e nei borghi industriali è accentuato – verrebbe accresciuto e diminuirebbe il carico del mezzogiorno, dove quelle cause di rialzo del valore dell’area in confronto al valore della costruzione, operano in una misura più tenue o non operano affatto.

 

 

Né il settentrione potrebbe lagnarsi, trattandosi di una riforma intesa ad attuare i principii della più stretta giustizia distributiva; di una riforma anzi la quale costituisce il postulato di taluni partiti – specie nei paesi anglo-sassoni – i quali si propongono di attribuire alla collettività il così detto «incremento non guadagnato» del valore del suolo nelle grandi città. Colla nostra proposta non si giunge alla confisca della rendita; ma la si costringe solo a contribuire come gli altri redditi alle spese dello stato, facendo così opera di stretta giustizia. Né si violerebbe alcun altro canone tributario, trattandosi di impedire la degenerazione di un’imposta reale sul reddito in un’imposta sperequata su un consumo di prima necessità.

 

 

Lo stato andrebbe bensì incontro ad un’alea; ma ad un’alea in cui forse le probabilità di guadagno sono altrettanto grandi come le probabilità di perdita. Infatti crescerebbero le spese di valutazione degli imponibili edilizi e diminuirebbe il gettito dell’imposta per le case a logoro alto e con detrazioni dal lordo più elevate del 25% attuale. Aumenterebbe invece il provento dell’imposta nelle grandi città e nei borghi industriali progressivi; aumento di onere tributario che andrebbe a carico – badisi – non dei consumatori di alloggi e nemmeno dei costruttori di case; ma dei percettori delle rendite edilizie, ossia dei percettori dell’incremento cosidetto «non guadagnato» di valore del suolo fabbricabile. La quale ultima non è certo la più interessante delle classi economiche e neppure quella che più contribuisce al progresso della ricchezza.

 

 

Quale di queste due somme – la perdita od il guadagno – abbia a riescire superiore è difficile dire. Alla finanza spetta il dovere di compiere studi in proposito, atti a fornire gli elementi di una riforma, che avvicini l’assetto dell’imposta sui fabbricati a quello che deve essere il suo vero ufficio: colpire la rendita dell’area ed il reddito netto della casa.

 

 



[1] Con il titolo Gli sgravi sui consumi e l’imposta sui fabbricati [ndr]

[2] Con il titolo L’imposta sui fabbricati ed il Mezzogiorno [ndr]

Le ferrovie contro le forze idrauliche

Le ferrovie contro le forze idrauliche

«Corriere della Sera», 23 settembre[1] e 12 dicembre[2] 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 77-83

 

 

Una circolare diramata recentemente dal ministro Carcano agli agenti delle imposte «per regolare l’imposta sui fabbricati ed accertare il reddito degli opifici» ha richiamato viva attenzione dell’opinione pubblica. In un paese dove spesso in materia fiscale le circolari invece di limitarsi ad interpretare le leggi, vi si sostituiscono e vi aggiungono, è sempre interessante tener dietro alle circolari dei ministri delle finanze; ed è tanto più interessante oggi che la circolare Carcano vuole statuire definitivamente su una delle questioni che più sono state dibattute fra industriali ed agenti delle imposte, che ha provocato persino a Bergamo la formazione di una vera e propria società di resistenza ed ha dato origine a vivissime proteste dell’Associazione elettrotecnica italiana a Torino, del Circolo industriale a Milano e del quarto congresso delle società economiche a Torino nel gennaio di quest’anno.

 

 

Ahimé! gli industriali, dopo la circolare Carcano, dovranno ricominciare la campagna antifiscale. Già un corrispondente del «Sole» ha esposto il dubbio che nella circolare vi fosse una «svista», tanto la cosa gli parve enorme. Ma in ogni caso si tratta di una svista troppo consona alle tradizioni del nostro fisco, perché non si debba prevedere che il ministero persisterà a tenervisi stretto.

 

 

Ecco in poche parole di che cosa si tratta. L’articolo 7 della legge 11 luglio 1889, interpretativa della legge organica sull’imposta sui fabbricati, stabilì che dovessero considerarsi come parti integranti dei fabbricati i generatori della forza motrice, i meccanismi ed apparecchi che servono a trasmettere la forza motrice stessa, quando siano connessi od incorporati col fabbricato; e dovessero quindi essere soggetti non all’imposta di ricchezza mobile (aliquota del 10%), ma a quella sui fabbricati (aliquota variabile dal 30 al 50%). Subito sorsero dubbi – dubbi funesti ai contribuenti – intorno al significato della frase: «i generatori della forza motrice». Per gli opifici mossi dalla forza meccanica prodotta dal vapore, dal gas, o dal petrolio, non v’era dubbio. Né il carbon fossile, né il gas, né il petrolio sono connessi od incorporati al fabbricato; e nessun agente delle imposte, neppure quelli dotati di più fervida immaginazione fiscale, osò colpire coll’imposta sui fabbricati la forza motrice prodotta dal carbone o dal gas, ma solo le caldaie, i gasometri od i motori a gas stabilmente connessi col fabbricato.

 

 

Non così invece per la forza motrice idraulica. Qui il ministero delle finanze ha sempre ritenuto – ed oggi l’on. Carcano ribadisce l’interpretazione malgrado le proteste unanimi degli industriali – che la frase «i generatori della forza motrice» comprende anche la forza prodotta dall’acqua. Mentre per gli opifici a vapore od a gas, si considerano come meccanismo stabile ed infisso solo le caldaie ed i motori, e il carbone ed il gas sono ritenuti, come sono, materie prime da trasformarsi; per gli opifici a forza idraulica diventano un annesso del fabbricato non solo le opere di derivazione, i canali conduttori, le turbine e gli alberi motori, ma anche l’acqua, di cui la caduta è utilizzata per mezzo di quei meccanismi, nello stesso preciso modo con cui le caldaie utilizzano il carbon fossile.

 

 

Quanto sia arbitraria questa interpretazione ognun vede. Basta il buon senso per capire come non possa considerarsi parte integrante od incorporata dell’opificio l’acqua, che lo traversa con la massima mobilità, che lo abbandona non appena esaurito il suo lavoro e che torna a compiere altrove il proprio ufficio. Orbene questo assurdo inconcepibile diventa nella circolare Carcano una cosa naturalissima: «non vi è nessun dubbio» – vi si legge – «che l’acqua la quale colla sua caduta sviluppa la forza che serve a dar vita e movimento ad uno stabilimento industriale forma parte integrante dell’opificio».

 

 

Da questo comodo metodo di non vedere nessun dubbio in cose che moltissimi trovano illogiche, derivano parecchie conseguenze gravissime.

 

 

Gli industriali, i quali in Italia hanno dedicato capitali grandiosi ed iniziative audaci ad utilizzare le cadute d’acqua delle nostre valli, vedono premiati i loro tentativi, destinati a rendere il nostro uno dei paesi più industriali del mondo, in questo modo: la loro forza motrice idraulica sarà colpita con l’imposta sui fabbricati ossia con un’aliquota che va (compresi i centesimi addizionali) dal 30 al 50% mentre i loro colleghi che adoperano carbon fossile, vanno esenti dall’imposta medesima; e solo il loro reddito complessivo industriale sarà percosso dall’imposta di ricchezza mobile, che è del 10%, aliquota grave in sé, ma mitissima in confronto di quella confiscatrice per i fabbricati.

 

 

Incoraggiati dalla circolare ministeriale, gli agenti delle imposte persisteranno nei metodi antichi; e fra questi basta ricordare il caso tipico ed importantissimo della creazione di energia elettrica con trasporto e distribuzione a distanza. Per le centrali idroelettriche il fisco non si contentò infatti di colpire la forza idraulica anziché i generatori; ma la stessa forza venne nuovamente colpita includendo nel reddito le dinamo elettriche che la convertono in energia elettrica. Né questo bastò: questa stessa energia portata a distanza ha bisogno di venire trasformata in altra a più basso potenziale mediante apparecchi che si chiamano appunto trasformatori; ebbene per la terza volta l’energia venne colpita dall’imposta immobiliare. Ma la via crucis non era ancora finita; la stessa energia che dai trasformatori viene condotta negli opifizi degli industriali che se ne servono, per la quarta e finalmente ultima volta fu assoggettata all’imposta sui fabbricati.

 

 

Ora sembra che la circolare Carcano escluda questa quarta tassazione; ma il resto che rimane è sufficiente per arrecare gravissimi danni alla nascente industria che deve utilizzare il carbone bianco d’Italia. Non è certo col ritenere reddito mobile quello del carbone e reddito immobiliare quello della caduta d’acqua, che il governo può incoraggiare il paese a diminuire il servizio dei 200 milioni di lire pagati ogni anno all’estero per comprare il carbone nero. Non così si contribuisce a risolvere la questione del mezzogiorno, il cui risorgimento molti reputano connesso in parte all’utilizzazione delle forze idrauliche.

 

 

A ragione osservava l’ing. Esterle, dinanzi ai congressisti delle società economiche a Torino nel gennaio scorso, essere inverosimile che, – mentre camere di commercio, industriali e corpi legislativi si oppongono al rialzo del canone per le concessioni di forze idrauliche al disopra di tre lire per cavallo, – una semplice circolare ministeriale possa assoggettare lo stesso cavallo ad un’imposta che facilmente potrà superare le 20 lire all’anno.

 

 

II

 

Il ministero delle finanze, dinanzi alle critiche vivissime mosse intorno alla sua, oramai tristamente nota, circolare dell’11 settembre scorso, ha emanato una nuova circolare che è dover nostro riassumere e criticare, trattandosi di interessi vitali per l’industria italiana.

 

 

La circolare dell’11 settembre riguardava la tassazione degli opifici industriali ed aveva dato luogo a critiche per la tenacia con la quale ribadiva le fiscalissime interpretazioni della legge date dagli agenti delle imposte, allo scopo di poter colpire la forza idraulica con l’aliquota oppressiva (dal 30 al 50%) dell’imposta sui fabbricati invece che con quella più mite (10%) dell’imposta di ricchezza mobile.

 

 

La circolare odierna, al solito, cerca di ammansare gli industriali, dando loro una parvenza di ragione e mantenendo nel tempo stesso immutata la pratica ministeriale rispetto al fondo del dibattito.

 

 

Il ministero riconosce – bontà sua grande – che hanno torto coloro i quali ritengono che, nella estimazione del reddito di un opificio, si debbano stabilire distintamente ed aggiungere l’uno all’altro, il valore locativo della forza prodotta dall’acqua e l’interesse del capitale impiegato per le opere di derivazione e di conduttura. Per spiegare in che cosa consista la graziosa concessione ministeriale, supponiamo che il proprietario di un impianto d’acqua affitti la forza motrice prodotta dalla caduta d’acqua ad un canone annuo di lire mille. Il ministero riconosce che alle lire mille non bisogna aggiungere gli interessi del capitale impiegato per derivare e condurre l’acqua. L’opinione contraria era assurda come quella di chi ritenesse che per conoscere il reddito di una casa si dovesse aggiungere al fitto pagato dagli inquilini, l’interesse del capitale speso per comprare il terreno e costrurre la casa. Sarebbe come tassare due volte la stessa casa. Per ottenere la forza motrice idraulica bisogna aver l’acqua, le condutture, le turbine, ecc., ed il fitto pagato per la forza motrice idraulica comprende l’interesse dei capitali spesi nel comprar l’acqua, nel costruir le condutture, nell’impiantar le turbine, ecc. ecc. Se il ministero ha creduto necessario spiegare una cosa talmente ovvia, gli industriali non debbono rendergli grazie per la magnanima concessione, ma pensare con spavento alla mentalità fiscale degli agenti delle imposte, che richiederebbe su verità intuitive spiegazioni dalla superiore autorità per non inferocire contro i contribuenti.

 

 

Fatta questa parvenza di concessione, la circolare passa a dire ancora una parola per rispondere ad un’altra obbiezione, mossa «da chi vorrebbe che della forza motrice idraulica non si tenesse conto nel determinare il reddito dell’opificio».

Siccome il «Corriere della sera» aveva, subito dopo la circolare dell’11 settembre, gittato il grido d’allarme contro il suo contenuto minaccioso per gli industriali, così ci interessava leggere la risposta del ministero. Noi avevamo sostenuto che la forza prodotta dall’acqua non dovesse essere colpita dall’imposta sui fabbricati (aliquota 30 – 50%), ma da quella sulla ricchezza mobile (10% del reddito), perché l’articolo 7 della legge 11 luglio 1889 aveva stabilito che dovessero considerarsi come parti integranti dei fabbricati i generatori della forza motrice ed i meccanismi ed apparecchi che servono a trasmettere la forza motrice stessa, quando siano connessi ed incorporati col fabbricato. Avevamo soggiunto che nello stesso modo che l’imposta sui fabbricati colpisce la caldaia che genera la forza motrice e non il carbon fossile, materia prima elaborata dalla caldaia, così dovesse la medesima imposta colpire le turbine, i canali conduttori che generano la forza motrice idraulica e non l’acqua che dalle turbine viene utilizzata, che non è incorporata coll’edificio, che lo traversa colla massima mobilità e che torna a compiere altrove il proprio ufficio.

 

 

La cosa era tanto evidente che il ministero nella circolare recentissima non osa più fare appello alla legge del 1889 e non osa più sostenere che l’acqua sia un «generatore di forza motrice». Battuto su questo punto, il ministero ripiega indietro e ricorre alla legge del 1865 che stabiliva l’imposta sui fabbricati.

 

 

La tassabilità della forza idraulica – ecco la parola che dovrebbe bastare ad annientare la nostra tesi – ha il suo fondamento nella legge organica del 26 gennaio 1865, in questa parte non stata mai variata, e secondo la quale il reddito di un opificio dotato di forza motrice idraulica, a qualunque industria sia destinato, è quello risultante dall’affitto in corso, o che si presume ricavabile in via di affitto, compreso, ben si intende, il godimento dell’acqua con le relative opere di derivazione e di conduttura, e non solamente il godimento del fabbricato e dei motori in esso incorporati.

 

 

Se nella legge del 1865 esistesse veramente un articolo redatto così come il ministero pretende, la questione sarebbe giudicata; e ci rimarrebbe soltanto il diritto di invocare una nuova legge meno odiosamente fiscale della precedente. L’articolo non esiste. Noi lo abbiamo cercato invano; e se è vero che l’art. 6 dice che il reddito degli opifici è quello risultante dall’affitto reale o presunto, nulla vi è nel detto articolo e negli altri che possa far ritenere doversi nell’affitto comprendere il valore dell’acqua utilizzata per la produzione della forza idraulica. Le parole relative all’acqua sono state aggiunte dal ministero, il quale a scusa delle sue leggiadre invenzioni può invocare soltanto la giurisprudenza quasi costante in suo favore. Appunto contro questa giurisprudenza noi insorgiamo perché siamo persuasi che essa non sia consona alle mutate condizioni delle industrie elettriche. Se noi non vogliamo dare un colpo mortale alla utilizzazione delle forze idrauliche, se non vogliamo istituire uno stolto protezionismo a rovescio a favore dei minatori inglesi di carbon fossile ed a danno delle cascate d’acqua, se noi non vogliamo ritardare di decenni la progressiva conquista del carbone bianco sul carbone nero, noi dobbiamo rovesciare una giurisprudenza antiquata che non trova fondamento nella legge positiva e che vuole soffocare le iniziative audaci. Che se si chiarisse impossibile far cambiare opinione ai tribunali ed al ministero, converrà premere sul parlamento affinché una legge nuova interpreti in modo definitivo la legge esistente e dia ragione alle giuste domande della industria italiana.

 

 



[1] Con il titolo Il Ministero delle Finanze contro le forze idrauliche. [ndr]

[2] Con il titolo La lotta del fisco contro le forze idrauliche. [ndr]

Conversioni antiche al 3,5%

Conversioni antiche al 3,5%

«Corriere della Sera», 17[1] e 21[2] agosto 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 68-76

 

 

I

 

La conversione della rendita dal 4 al 3,5%, se forma una fervidissima aspirazione di tutti gli uomini di stato italiani, se è bene accolta dalla grande maggioranza dei contribuenti desiderosi di un alleviamento di imposte, se è preveduta con filosofica rassegnazione dai maggiori detentori, già abituati dall’esperienza estera ai titoli al 3,5 ed al 3%; non riesce però egualmente accetta alla massa dei medi e piccoli detentori, i quali hanno investito una gran parte del loro patrimonio in titoli di debito pubblico. Costoro non possono trovare, come dai più grossi risparmiatori si fa, uno schermo contro le conversioni della rendita mercé giudiziose mescolanze di titoli svariati nel proprio portafoglio. Il loro capitale è troppo piccolo per poter essere azzardato in compere di azioni di società od in valori esteri; e ricerca per forza i titoli da buon padre di famiglia, i quali offrano assoluta sicurezza di impiego. I medi ed i piccoli risparmiatori sono dunque più rudemente esposti ai colpi delle conversioni; e non possono trovare altro conforto se non quello, molto magro, di mormorare contro il governo, il quale manca di fede ai contratti e viola la parola data, giovandosi delle favorevoli, e forse provocate, condizioni del mercato monetario per costringere i creditori suoi, che lo hanno sovvenuto nei momenti critici della vita nazionale, a rinunciare ad una parte del già meschino reddito. Le lagnanze sono vane; poiché i risparmiatori oramai debbono essere rassegnati alla diminuzione progressiva del saggio dell’interesse e debbono cercare per altre vie un compenso alle falcidie continue che il tempo fa subire ai redditi da interesse. Del resto, i risparmiatori italiani hanno già dato prove di rassegnazione ripetute volte; quando senza mala grazia eccessiva si adattarono a vedere a poco a poco ridursi il frutto della rendita dal 5 al 4,34 e poi al 4%, col crescere continuo dell’imposta di ricchezza mobile. Ma il 4% sembrava dovesse essere per un pezzo l’ultima thule delle riduzioni; sicché troppo amara riesce la prospettiva di un’ulteriore falcidia del mezzo per cento. Né vale addurre l’esempio dell’estero; poiché questo, si afferma dagli esasperati, non può applicarsi all’Italia nostra, tanto diversa per ricchezza e per opportunità di impiego di capitali.

 

 

Perciò noi vogliamo oggi ricordare a questi irreconciliabili un fatto che forse essi non ricordano e che pochissimi del resto conoscono in Italia: che cioè le conversioni della rendita al saggio del 3,5% non sono un avvenimento nuovo nel nostro paese e che già i nostri antenati si erano dovuti contentare per circa un terzo di secolo di un interesse non superiore a quello che oggi incute tanto raccapriccio ai creditori dello stato italiano. Comunemente si ha l’idea che per il passato in Italia il saggio dell’interesse sia stato sempre alto; e siano fenomeni del tutto recenti i ribassi al disotto del 5%. La credenza così diffusa è contraria al vero; e dimostra soltanto come facilmente gli uomini si dimentichino del passato, se questo sia diviso dai tempi nostri da periodi di sconvolgimenti politici e sociali. Ha contribuito eziandio alla diffusione della credenza la scarsa attenzione prestata dagli storici allo studio delle vicende economiche del passato; per il qual motivo nei libri di storia più diffusi, se si vedono menzionate le riforme civili ed amministrative del periodo storico posto fra il 1748 e la rivoluzione francese, ben di rado occorre veder ricordate le grandi operazioni finanziarie che resero benemeriti i governi dei Bogino, dei Tanucci e dei principi riformatori della seconda metà del secolo XVIII. Fu quello uno dei periodi più gloriosi della finanza italiana; e, come sempre quando i governi riescono a mettere un po’ di ordine nelle dissestate finanze, i primi a subirne le conseguenze furono i creditori dello stato. A Napoli, come narra il Bianchini nella sua antiquata, ma sempre unica «Storia delle finanze del regno di Napoli», i creditori dovettero acconciarsi alla grande riforma del riscatto degli «arrendamenti» per cui moltissimi cespiti di entrata pubblica, ceduti prima dallo stato a privati in cambio di mutui, furono ricomprati e l’interesse ridotto in fortissima misura che andò persino dal 7 al 4%.

 

 

Dove la pratica delle conversioni divenne presto un criterio stabile di governo fu in Piemonte. Questo piccolo paese, sotto tanti rispetti rimasto economicamente in arretrato in confronto ad altre contrade più progredite, merita di essere ricordato nella storia, oltreché per la virtù dei suoi ordinamenti militari, anche per la tenace sagacia con la quale i principi di Casa Savoia sapevano preparare ed eseguire le conversioni libere del debito pubblico.

 

 

A quei tempi – parliamo degli anni immediatamente successivi al 1749, quando quel prudente amministratore che fu Carlo Emanuele III cercava di iniziare l’opera di ricostituzione economica del paese, accasciato dalle lunghe, sebbene gloriose guerre – il gravame del debito pubblico era davvero opprimente per il piccolo stato subalpino. Si pensi che il bilancio preventivo (già fin d’allora vi erano i bilanci preventivi detti

semplicemente «bilanci», i conti consuntivi chiamati «spogli» e i bilanci di

assestamento detti «biglietti» o «lettere di scarico») per il 1750 presentava un attivo di 21.229.106 lire piemontesi, 7 soldi, 10 denari e 4 punti ed un passivo di 25.173.053 lire piemontesi, 4 soldi, 5 denari ed 8 punti; con un disavanzo di 3.943.946 lire piemontesi, 16 soldi, 7 denari e 4 punti. Carlo Emanuele III provvide riducendo per il 1751 le spese per l’esercito da 9.191.102 ad 8.746.280 lire, quelle per l’artiglieria da 268.870 a 223.870 lire e quelle per le fortificazioni da 1.329.800 a 495.067 lire; tagli coraggiosi che gli permisero bensì di consacrare 150.000 lire all’inizio dei lavori di scavo del porto di Lempia a Nizza; ma che non bastavano a ridonare il desiderato stabile assetto alle sue finanze. Il tarlo roditore era nel debito pubblico; il quale nel bilancio del 1750 era rappresentato sovratutto da due grosse partite: l’una detta delle Alienazioni delle gabelle generali, la quale comprendeva gli interessi delle diverse specie di debito consolidato ed ammontava a 2.484.149 lire, 4 soldi ed 11 denari; l’altra, detta dei pagamenti a farsi dalla tesoreria generale e comprendeva una somma di 2.816.072 lire e 10 soldi di debiti a breve scadenza, specie di buoni del tesoro, la cui somma capitale era rimborsabile nell’annata. Questa seconda partita era, come sempre si verifica per il debito fluttuante, la più pericolosa di tutte; tanto più che nel 1751, per il sopravvenire della scadenza di altri debiti contratti durante le passate guerre si sarebbe accresciuta a 6.107.819 lire, 15 soldi e 9 denari, con grave disagio del bilancio pubblico, privo di qualsiasi elasticità nelle entrate. Come i consiglieri di Carlo Emanuele si siano tratti d’impaccio sarebbe una cosa troppo lunga a narrare minutamente entro i ristretti limiti di un articolo di giornale. Basti dire che per la seconda partita, quella che possiamo chiamare «rimborso del debito fluttuante» si provvide prima ad ottenere dilazioni dai creditori e la si tolse poi del tutto dal bilancio corrente delle spese, creandosi con regio editto dell’8 febbraio 1751 una Cassa di redenzione, dotata di alcuni fondi speciali, principalissimo tra i quali tutti i risparmi futuri dovuti a rifusione di interessi passivi per rimborsi di prestiti o per conversioni di rendite, ed incaricata di provvedere a poco a poco alla estinzione del debito fluttuante.

 

 

Provveduto in tal modo con la Cassa di redenzione – la quale finché visse Carlo Emanuele rimase sempre presidio fortissimo delle finanze piemontesi, né cessò di rendere preziosi servigi anche quando ebbe ammortizzato tutto il debito fluttuante – a sistemare la partita dei «pagamenti a farsi dalla tesoreria generale»; le previsioni del bilancio corrente per il 1751 si presentavano molto più rosee che non per l’anno precedente: con 21.427.918 lire, 12 soldi, 4 denari, 7 punti alle entrate e 21.104.588 lire, 1 soldo, 3 denari e 9 punti alle uscite ed un avanzo di cassa di 323.330 lire, 11 soldi, 0 denari e 10 punti. Subito Carlo Emanuele volle giovarsi della nuova situazione del bilancio, per convertire ad un interesse più mite alcuni debiti perpetui che gli parevano troppo gravosi. Voleva egli cioè scemare l’onere delle alienazioni delle gabelle generali che abbiamo detto giungere fino alla cifra di 2 milioni e 484.000 lire, cifra non indifferente su un bilancio passivo permanente di 21 milioni circa.

 

 

II

 

Il debito pubblico si compendiava sovratutto nella partita detta delle «alienazioni delle gabelle generali», perché lo stato, quando emetteva un prestito, a garantire il servizio, «smembrava» od «alienava» una parte del reddito delle gabelle governative dei sali, della carne e del vino, e le assegnava ai due consigli dei monti di San Giovanni Battista di Torino e del Beato Angelo di Cuneo, affinché con quel reddito provvedessero al pagamento degli interessi del debito pubblico. Erano i «monti» qualcosa di simile al gran libro odierno del debito pubblico, la cui amministrazione era affidata alle città di Torino e di Cuneo, sotto l’invocazione rispettiva di San Giovanni Battista e del Beato Angelo. I titoli o cartelle di debito pubblico chiamavansi «luoghi», ed erano di solito ognuno di 300 lire di valore capitale. Erano luoghi «fissi», che ora si direbbero titoli di consolidato perpetuo, per cui lo stato si obbligava solo al pagamento degli interessi annui, senza obbligo di rimborso del capitale, ma col diritto di riscatto; luoghi «vacabili», specie di rendite vitalizie, per cui lo stato era tenuto solo ad una rendita annua sino alla morte del creditore; e luoghi «di tontina», i quali erano rendite vitalizie inscritte in capo ad un gruppo di persone, per modo che la stessa somma annua d’interesse continuava a pagarsi sino alla morte dell’ultimo vitaliziato. Più importanti di tutti, e soli convertibili, erano i luoghi fissi, creati successivamente dal 1681 in poi in parecchie erezioni, ossia gruppi di luoghi di monte emessi a date diverse ed a saggi diversi di interesse.

 

 

Le erezioni più antiche, ma anche meno importanti per capitale ed interesse, di San Giovanni Battista di Torino (dalla I alla XVII) erano a saggi piuttosto bassi di interesse, dal 3 al 4%; e soltanto parte della XVII, tutta la XVIII e parte della XIX erezione erano al saggio del 5%; mentre i monti del Beato Angelo della Città di Cuneo per 800.000 lire di capitale erano emessi al 6%. Prudentemente Carlo Emanuele cominciò dai monti emessi al saggio più alto; e con editto 21 agosto 1749 offriva ai montisti del Beato Angelo il rimborso del loro capitale quando non si contentassero di ricevere l’interesse scemato al 5%. L’operazione riuscì bene, sicché dal bilancio del 1751 appare che il capitale dei monti cuneesi ridotti al 5, ammontava ancora a 781.500 lire. Il rimborso era stato chiesto per meno di 20 mila lire di capitale. Incoraggiato dal lieto successo, l’anno dopo, con editto 14 novembre 1750, Carlo Emanuele propone ai montisti della XVII, XVIII e XIX erezione di San Giovanni Battista di Torino ed a quelli (già falcidiati l’anno prima) del Beato Angelo di Cuneo la riduzione dell’interesse dal 5 al 4% qualora entro la fine dell’anno non dichiarassero di volere il rimborso del capitale mutuato allo stato. A Cuneo, dove pare che il saggio dell’interesse fosse alquanto più elevato, vi fu un po’ di incertezza. Pare che parecchi montisti abbiano chiesto il rimborso del capitale che da 781.500 lire al 5%, si trova ridotto nel bilancio del 1752 a 570.700 lire al 4%. Ma a Torino l’operazione riuscì quasi completamente. Su 11.187.673 lire, 10 soldi ed 8 denari di capitale, ben 10.696.693 lire, 10 soldi e 8 denari accettarono la conversione. Solo per 490.980 lire i montisti non accettarono la conversione; e furono subito sostituiti da altri montisti assuntori di una nuova erezione al 4%. Il carico degli interessi da 559.383 lire, 13 soldi e 6 denari era scemato a 427.867 lire, 14 soldi e 9 denari, con non leggero beneficio per l’erario pubblico.

 

 

Passa una decina d’anni, durante i quali non si tentano altre novità, che avrebbero potuto tornare troppo irritanti per i montisti. La cassa di redenzione, istituita, come vedemmo, per estinguere il debito fluttuante, aveva tacitamente seguita l’opera sua indefessa, sicché pochi debiti a scadenza fissa rimanevano oramai a pagarsi, ed era vicino il momento in cui, nel 1766, il bilancio preventivo non avrebbe più indicato alcun residuo a pagarsi dei debiti fluttuanti delle passate guerre. A poco a poco erano state altresì abolite quasi tutte le imposte straordinarie che erano state istituite durante le guerre e che si erano conservate durante la pace per estinguere il debito fluttuante. Le circostanze – di pace profonda, di credito pubblico rialzato dal rimborso dei debiti più pericolosi, di tributi alleviati – erano propizie: ma forse il coraggio di tentare una nuova conversione del debito perpetuo sarebbe mancata se la sagacia politica di Carlo Emanuele e di Bogino non avesse saputo prepararne i mezzi. Erano vecchie le pretese della casa di Savoia sul piacentino; ma poiché non pareva probabile vederle coronate presto dal successo, i reggitori del Piemonte abbracciarono il partito di cedere le proprie ragioni alla Francia, la quale in cambio pagò 8 milioni e 200.000 lire tornesi, corrispondenti a 6.773.541 lire piemontesi. Con editto 30 settembre 1763, l’ingente somma veniva versata nella cassa di redenzione; e Carlo Emanuele, dopo di avere senz’altro soppressa l’ultima imposta di guerra, in un giorno che egli disse il più bello di sua vita, deliberava di servirsi dell’indennità francese come strumento per la conversione dei monti dal 4 al 3,5%. I montisti, sapendo che lo stato possedeva i capitali necessari per rimborsare i creditori recalcitranti, più facilmente si sarebbero acconciati alla mai gradita riduzione degli interessi. Ad assicurare l’esito dell’operazione, che portava su 34 milioni circa di capitale – somma grandiosa per quell’epoca e per quel piccolo paese – acconciamente si divisò di dividerla in parecchi momenti, cosicché lo stato fosse sicuro di rimborsare magari la metà dei montisti, se questi si fossero ostinati a non accettare la riduzione dell’interesse. Prima con editto 27 dicembre 1763 si stabiliva la riduzione della sedicesima erezione dei monti fissi di San Giovanni Battista di Torino, i quali ammontavano a 12.516.755 lire, 14 soldi e 3 denari. Si legga il preambolo dell’editto, magnifico nella semplice sua motivazione:

 

 

Con li mezzi sinora adoperatisi per isgravare le nostre finanze dalle obbligazioni più urgenti contratte nella passata guerra, si è felicemente riempiuto l’oggetto, a cui furono da noi indirizzati; il quale è sempre stato d’andare sollevando i nostri popoli dalle annuali straordinarie imposizioni; e perciò dopo di avere, proporzionatamente alle circostanze dei tempi, quelle negli anni scorsi diminuite, abbiamo ora la piena consolazione d’interamente sopprimerle, come per l’anno venturo rimarranno soppresse. Nel pigliare però questa risoluzione abbiamo dovuto considerare la mancanza del fondo di esse (ossia lo sbilancio proveniente dall’abolizione di dette imposte), che ne deriva al nostro erario, e quindi rivolgere i nostri pensieri ad alleggerirgli il grave peso degli interessi, a cui sta tuttora reggendo a cagione delle seguite alienazioni e massimamente di quelle de’ monti, con ritrattarne il provento (interesse) dal 4 al 3,5% ed offerire a quei montisti li quali non si acquietassero ad una tale riduzione, il capitale sborsato per il loro acquisto.

 

 

Con queste parole, di sapore così stranamente moderno, Carlo Emanuele invitava i montisti, che non accettavano l’offerta riduzione dal 4 al 3,5 a presentarsi, prima della fine di marzo 1764, dinanzi al segretario del consiglio del monte di San Giovanni Battista a fare dichiarazione di volere il rimborso del capitale. Il rimborso si sarebbe effettuato a partire dall’1 giugno; dopo la qual data i capitali dei monti sarebbero rimasti in tesoreria generale senza decorrenza d’interesse a disposizione dei montisti. Il segretario del monte era autorizzato a rivendere ad altri acquirenti i monti, di cui si fosse chiesto il rimborso, alla pari al nuovo interesse del 3,5%.

 

 

I montisti, in massa, non osarono rifiatare; ed i conti successivi alla liquidazione dell’operazione ci dicono che di 12 milioni e mezzo di monti al 4, ben 12.092.007 lire e 9 denari erano stati convertiti al 3,5%.

 

 

Il governo prende coraggio e con editto 27 marzo 1764, quando già il buon esito della conversione della XVI erezione era assicurato, proclama la conversione della XVII erezione dal 4 al 3,5% per un capitale di 9.055.054 lire, 9 soldi e 5 denari. Si dava tempo sino al 30 giugno ai montisti per dichiarare di volere il rimborso del capitale. La riduzione fu accettata per ben 8.657.131 lire, 5 soldi e 10 denari.

 

 

La data del 30 giugno non era ancora passata, che già coll’editto 28 giugno 1764 si intimava la conversione della XVIII e XIX erezione dei monti del Beato Angelo di Cuneo e di parecchie partite delle erezioni dalla prima alla XV, che si trovavano ancora al 4%. Stavolta l’operazione portava su 12.753.248 lire, 10 soldi ed 8 denari; ed i montisti che volevano il rimborso dovevano dichiararlo entro il settembre 1764. Alla resa dei conti la conversione era stata accettata per 12.196.241 lire, 10 soldi ed 1 denaro. Il maggior numero relativo di montisti recalcitranti si era avuto a Cuneo, ove su 570.700 lire di capitale, la conversione era stata accettata per sole 362.950 lire.

 

 

In complesso l’operazione, accortamente compiuta in tre riprese, era riuscita; tanto che, come avverte un regio viglietto 16 gennaio 1765, avendo alcuni creditori di quelli renitenti rammostrato al governo di volere ritirare la loro domanda di rimborso, Sua Maestà «volendo usare a favore dei medesimi un grazioso riguardo» benignamente si dispose «per evitare il pregiudizio che ne soffrirebbero per la cessazione degli interessi di permettere alli possessori suddetti de’ monti di revocare le loro dichiarazioni, con ciò però che fra il termine di giorni 15… ne facciano altre espressive non solamente della rivocazione delle precedenti, ma altresì dell’accettazione come sovra per essi offerta della riduzione al 3,5%».

 

 

Era la resa a discrezione degli ultimi malcontenti. Con questa splendida operazione, Carlo Emanuele e Bogino avevano ridotto gli interessi dei monti fissi di Torino e di Cuneo da 1.631.309 lire, 9 soldi e 10 denari a 1.392.768 lire, 12 soldi e 9 denari con un risparmio di 238.540 lire, 7 soldi ed 1 denaro all’anno. I milioni di Francia erano rimasti quasi tutti in cassa di redenzione, strumento prezioso di altre benefiche riforme.

 

 

Dopo d’allora, sino ai fallimenti del governo rivoluzionario francese, non vi fu più nessun’altra grande operazione sui monti piemontesi. La conversione del 1763, insieme con quelle precedenti, meritava di essere ricordata a titolo d’onore di Carlo Emanuele e di Bogino, accorti preparatori ed abilissimi esecutori, a cagion d’esempio e di sprone ai moderni uomini di stato, ed a motivo di consolazione per i creditori attuali dello stato. Pensino dessi che un interesse del 3,5% non è una novità e che, se i montisti del Piemonte seppero tenersene paghi quando i capitali erano tanto più scarsi d’adesso e le occasioni di guadagno meno frequenti, con lieto animo si deve accogliere oggi un avvenimento che ristorerà le pubbliche finanze ed imprimerà un nuovo slancio all’economia del paese.

 

 



[1] Con il titolo Conversioni nuove ed antiche. Firmato con lo pseudonimo di «Spectator». [ndr]

[2] Con il titolo Una conversione al 3,5% del secolo XVIII. Firmato con lo pseudonimo di «Spectator». [ndr]

La camera e gli aumenti di spesa

La camera e gli aumenti di spesa

«Corriere della Sera», 15/16 agosto 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 63-67

 

 

Scrivendo testé intorno alla circolare dell’on. Nasi, sulle agitazioni degli studenti e degl’insegnanti, avevamo occasione di analizzare alcuni dolorosi fenomeni inerenti ai sistemi democratici, e d’insistere particolarmente sui danni delle proposte per nuove spese firmate da molti deputati che il governo ora non ha mezzo d’impedire e contro le quali sarebbero opportune nuove prescrizioni regolamentari. In proposito riceviamo da un nostro collaboratore questo articolo ricco di notizie e dati interessanti.

 

 

Se è vero che le vacanze servono ai ministri per preparare i disegni di legge intorno alle materie che loro più stanno a cuore, noi dovremmo essere sicuri che al ministero del tesoro ed alla presidenza del consiglio si stia ora alacremente lavorando a compilare un disegno di legge per restringere il diritto di iniziativa parlamentare in argomenti di finanza e sovratutto di nuove spese, diritto del quale si usa e si abusa. Tutti ricordano infatti la irritazione vivissima dimostrata nel giugno decorso dall’on. Zanardelli dinanzi al dilagare delle mozioni e delle proposte di nuove spese presentate da deputati amici dei maestri, dei professori, dei telegrafisti, dei cancellieri, ecc. Se si continua di questo passo, sarà ben presto ridotta a poco meno che nulla la responsabilità dei ministri, e l’aumento delle spese pubbliche non avrà più freno. Occorre togliere ai deputati il diritto di fare proposte di spese, riservandolo esclusivamente al governo. I ministri soli possano proporre spese; e spetti ai deputati, rappresentanti e difensori naturali dei contribuenti, controllare le proposte in guisa da impedire ogni spreco ed ogni tassazione ingiusta dei cittadini.

 

 

La controversia è antica; e mette conto di attendere con curiosità le proposte del governo, per riparare ad un malanno innegabile e da tutti lamentato. Però c’è da rimanere dubbiosi intorno ai risultati dei tentativi fatti in tal senso, se si pensa agli scarsi risultati che altrove si sono ottenuti. Il male è generale a tutti i paesi parlamentari; ed in tutti i paesi i ministri del tesoro a tratto a tratto si sono elevati contro l’abuso invalso nelle camere di sostituirsi al potere esecutivo nella proposta di nuove spese.

 

 

Nell’Inghilterra medesima, il paese classico dei freni posti al diritto di iniziativa parlamentare in materia di finanza, si è stati costretti ad elevare sempre nuove barriere contro la invadenza della camera dei comuni. La consuetudine, rafforzata da espresse risoluzioni della camera, toglieva quivi da tempo ogni iniziativa ai deputati. Ma la regola era troppo assoluta perché non vi si apportassero nella pratica temperamenti: si cominciò dal permettere ai deputati di introdurre bills, contenenti la clausola: «che le spese necessarie per la loro esecuzione abbiano ad essere pagate sui fondi a votarsi dal parlamento». Ben presto l’abuso della clausola divenne così generale che fu necessario proibirla con un ordine del giorno votato nel 1866. Dopo d’allora l’iniziativa finanziaria dei membri dei comuni giunse a manifestarsi in altri modi, specialmente colla adozione di risoluzioni, esprimenti un’opinione astratta in favore di questo o quel provvedimento, il quale in futuro avrebbe richiesto assegnazioni di un credito, ovvero col votare degli indirizzi alla corona per indurla e fare questa o quella spesa, «dandole l’assicurazione che la camera era pronta ad approvarla». In realtà l’iniziativa parlamentare si esercita sui bilanci inglesi con una intensità crescente; ciò che dimostrerebbe che non basta proclamare principii astratti per sopprimere le cause di spese.

 

 

La discussione fu in questi ultimi anni viva sovratutto in Francia. Quivi, dal 1892 al 1902, le somme inscritte nel bilancio delle spese sono aumentate in media di 35 milioni all’anno; e dal 1899 al 1903 la cifra delle spese aumentò di 228 milioni a causa di leggi votate dalle camere o di impegni aventi la loro origine in una deliberazione del parlamento. Per quanto meno importante, pure è sensibile altresì l’aumento delle spese dovute all’approvazione di emendamenti presentati dai deputati durante la discussione dei bilanci: dal 1889 al 1898 sono 25 milioni e mezzo di maggiori spese che ebbero origine dal diritto di emendamento. La progressione parve così pericolosa, che la camera francese cominciò da quest’ultimo a restringere i proprii diritti di iniziativa. Invero, mentre le proposte di legge comportanti nuove spese sono sempre inspirate a considerazioni d’ordine generale, gli emendamenti ai bilanci hanno di solito per iscopo la difesa di interessi locali o personali. Mentre le proposte di legge esigono una motivazione, un emendamento di bilancio può essere improvvisato facilmente. Per redigerlo, basta aumentare le cifre dei crediti iscritti in un capitolo del bilancio. Per essere ammessi a sostenerlo, non è necessario di aspettare che esso abbia formato l’oggetto di una relazione scritta. La procedura essendone semplice e spiccia, è grande il numero degli emendamenti al bilancio; in Francia ammontarono a 406 nel 1897, 547 nel 1898, 387 nel 1899.

 

 

Di qui la opportunità di proposte intese a porre un limite almeno agli aumenti di spese provocati da emendamenti improvvisi e insidiosi. Cominciò nel 1896 la commissione del regolamento, su iniziativa dell’on. Boudenoot, a proporre che dopo l’apertura della discussione su ogni bilancio speciale fosse proibito di presentare emendamenti importanti un sovrappiù di spese. Le vicende parlamentari impedirono che la proposta del Boudenoot fosse discussa; né miglior fortuna ebbe nel 1900 una proposta del Berthelot secondo cui nessun aumento di spesa poteva essere iscritto in bilancio se non in virtù di una legge speciale. La proposta parve contraria alla costituzione ed offensiva delle prerogative della camera dei deputati, alla quale si toglieva il diritto di votare per la prima le spese quando non fossero state previamente prescritte da una legge approvata dal senato.

 

 

Se il Berthelot non riuscì a fare adottare senz’altro la sua proposta, qualche frutto si ottenne dalla discussione del marzo 1900. Poiché la camera adottò una proposta, presentata dal Rouvier, di modificazione del proprio regolamento interno, secondo la quale nessun emendamento avente per iscopo di aumentare le spese può essere deposto dopo le tre sedute che seguono la distribuzione del rapporto in cui figura il capitolo relativo del bilancio. A questa precauzione seria contro gli emendamenti improvvisati, la camera fece un’aggiunta dovuta al Berthelot, del seguente tenore: «Nessuna proposta tendente, sia ad aumenti di stipendi, di indennità o di pensioni, sia a creazione di servizi, di impieghi, di pensioni od alla loro estensione al di là dei limiti previsti dalle leggi in vigore, può essere presentata sotto forma di emendamenti o di articoli addizionali al bilancio». In tal modo attualmente gli emendamenti, che in Francia possono essere presentati alla legge del bilancio, rientrano in tre categorie differenti. Da una parte quelli che possono essere presentati ad ogni momento della discussione del bilancio, come gli emendamenti aventi per iscopo la soppressione o la riduzione di spese; dall’altra parte, quelli che non possono essere presentati dopo la terza seduta successiva alla distribuzione del rapporto speciale; ed è il caso degli emendamenti aventi per iscopo di sancire aumenti di spese, purché gli aumenti non si riferiscano a spese di personale. Finalmente vengono quelli assolutamente proibiti, ossia gli emendamenti intesi ad aumentare le spese di personale, gli stipendi, le indennità e le pensioni.

 

 

Questo il diritto vigente adesso in Francia, il quale presenta il vantaggio di rispettare le prerogative della camera rispetto al senato facendo esso parte semplicemente del regolamento interno della camera dei deputati. Riusciranno le nuove disposizioni ad apporre un valido schermo all’espansione irrefrenata delle pubbliche spese? In Francia i più chiaroveggenti sono assai dubbiosi. Invece di proporre emendamenti alla legge del bilancio, i deputati prenderanno l’abitudine di presentare mozioni od ordini del giorno per invitare il governo a fare questa o quella spesa. Se l’abitudine si generalizzasse, sarebbe peggio di prima, perché una proposta di spesa emanante dall’iniziativa parlamentare non avrebbe altra autorità fuori di quella dei suoi autori, mentre una mozione di spese si presenterebbe al governo confortata dall’autorità di un voto della camera. Il governo che può abbastanza facilmente opporsi all’adozione di una proposta individuale di un deputato implicante una spesa, potrebbe ben più difficilmente rifiutarsi a tener conto di un invito ripetuto del parlamento. La sua responsabilità sarebbe quasi posta fuori causa; d’altra parte la camera, che avrebbe forse esitato, di fronte all’opposizione del governo, a votare una proposta di spesa immediata, esiterebbe molto meno quando si trattasse di affermare semplicemente un principio, lasciando al governo la cura di prepararne l’applicazione.

 

 

Una via d’uscita dunque non si vede la quale sia aperta e netta. In Francia, come in Inghilterra, come in Italia gli studi proseguiranno. Un freno all’aumento delle spese di stato deve essere fondato su una più perfetta educazione politica del paese, sul controllo degli elettori sugli eletti, sull’ossequio degli interessi particolari dinanzi agli interessi generali.

 

 

L’azione delle leghe ed i turni

L’azione delle leghe ed i turni

«Corriere della Sera», 30 giugno 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 58-62

 

 

La «serrata» di Genova ha una importanza la quale trascende i confini di una disputa locale. Dalle accuse delle leghe e dalle difese dei negozianti, si ha l’impressione che, nonostante l’appoggio dato agli operai dall’opinione pubblica, dai giornali e dal governo, i negozianti abbiano avuto – insieme ad una indiscutibile mancanza di tatto e ad una ostinazione eccessiva – il merito di porre innanzi nettamente un problema fondamentale nei rapporti fra imprenditori e leghe: debbono cioè gli imprenditori rinunciare ad ogni libertà di scelta della propria maestranza ed accettare senza discussione gli operai designati dalle leghe?

 

 

Posta in questo modo, la questione può essere discussa senza animosità di parte, poiché è una questione, la quale è viva in molti paesi da molti anni ed a cui si sono date soluzioni differenti e controverse. Noi oggi vogliamo soltanto riassumere quanto intorno a questo punto capitale si legge in quel libro che può essere veramente chiamato la bibbia delle leghe: l’Industrial Democracy dei coniugi Sidney e Beatrice Webb. Com’è noto, questa coppia geniale di coniugi ha scritto l’opera più importante finora pubblicata sul trade-unionismo inglese. Inspiratori della socialista Fabian Society, apostoli di un nuovo ordine sociale, studiosi appassionati del movimento operaio, i coniugi Webb hanno innalzato con la loro Storia del trade-unionismo e con la loro Democrazia industriale, un monumento perenne di gloria alle classi operaie del loro paese. La loro parola non può quindi essere sospetta agli operai; i quali anzi nei libri dei Webb possono andare a leggere la giustificazione della loro opera passata e lo sprone a conquiste future.

 

 

Quale è la causa, essi si chiedono, delle lotte le quali avvengono spesso nei lavori dei porti? La risposta è semplice. Se il lavoro fosse costante e regolare esisterebbe un certo numero di operai continuamente occupati, né ad altri operai verrebbe in mente di andarsi ad offrire ogni giorno per un lavoro che non esiste. Gli imprenditori avrebbero a fare con una maestranza poco variabile e suppergiù corrispondente ai loro bisogni; e dovrebbero servirsi degli operai del mestiere, siano affiliati o non alle leghe. Invece il lavoro dei porti è variabile e saltuario; un giorno si espande straordinariamente e richiede 100 operai; ed il giorno dopo si contrae e si contenta di 50. Di qui la necessità assoluta di una massa fluttuante di operai, i quali vengono occupati nei giorni di gran ressa e lasciati inoperosi nei giorni di morta. La massa operaia si accresce ancora per il fatto che – sia per le qualità di forza richieste nei facchini, sia per la stessa saltuarietà del lavoro – il salario giornaliero è abbastanza alto; sicché moltissimi uomini forti e giovani vengono attratti sul porto dalla speranza di guadagnare le 10, le 15 e le 20 lire al giorno; e colla loro presenza concorrono a scemare le probabilità di potere ogni giorno essere occupati.

 

 

Il problema a cui si trovano di fronte le leghe è dunque assai complesso. Le leghe non vogliono lasciare ogni libertà agli imprenditori perché, se esse permettessero ai negozianti di contrattare individualmente con ogni facchino, i negozianti si gioverebbero della massa disoccupata per giocare al ribasso dei salari. Non si sa dove il ribasso potrebbe finire e quanto potrebbero essere depresse le condizioni dei lavoratori. Sarebbe il dominio incontrastato dei mediatori (leggi a Genova dei «confidenti»). Se qualcosa devono fare le leghe per assicurare condizioni buone di salario e per garantire contro i mali della disoccupazione cronica gli operai dei porti, il problema è però tanto complicato da non doversi meravigliare «se nessuna trade-union (sono i coniugi Webb che parlano) è riuscita sinora a trovare un metodo per assicurare la continuità di impiego agli operai».

 

 

Se dunque è un principio fondamentale del trade-unionismo di lottare contro la irregolarità e la incostanza del lavoro, è ben vero che i metodi adottati male riescirono allo scopo. Farsi pagare un salario fisso giornaliero, sia che si lavori o no: questa è la prima idea che viene in mente agli operai. Dopo il grande sciopero del 1889 gli operai dei docks di Londra fecero trionfare il principio che ad ogni facchino iscritto sulle liste fosse garantito il salario di almeno 4 ore di lavoro al giorno, libero l’imprenditore di occuparlo e di pagarlo per un numero maggiore di ore. Il metodo è malvisto dagli imprenditori a cui aumenta moltissimo le spese in tempo di morta; ed in definitiva non torna utile agli operai meno forti, i quali si vedono esclusi dalle liste e concorrono a formare una riserva di disoccupati, posta fuori dalle leghe e pericolosa alla conservazione dei salari da esse fissati.

 

 

Un altro metodo è quello a cui ricorsero anche le leghe di Genova: il turno. Il metodo del turno in Inghilterra rimonta al 1669 ed ha per iscopo di assicurare all’operaio una certa probabilità di lavoro, sì da renderlo meno propenso ad andarsi ad offrire a salario ridotto. Il metodo non è esente da gravi pecche; fra cui gravissima quella che esso «può degenerare nella abolizione assoluta per l’imprenditore di ogni facoltà di scelta dei suoi operai». Così ad esempio, seguitano i Webb, «la lega dei vetrai prescrive all’imprenditore di assumere il socio da più lungo tempo disoccupato, sia che egli sia abile o conveniente o no; e la lega degli operai in cappelli di seta espressamente impone che l’imprenditore non possa nemmeno vedere l’operaio assegnatogli prima di stipulare il contratto». Si vede che tutto il mondo è paese e che le lagnanze dei negozianti di Genova trovano il loro riscontro in altre epoche ed in altri paesi.

 

 

In altre guise si può tentare di raggiungere lo scopo: riducendo il lavoro di ogni operaio ad un certo minimo che le leghe proibiscono di oltrepassare. Se, quando scarseggia il lavoro, nessun operaio fa un lavoro maggiore di 10, mentre nello stesso tempo potrebbe fare un lavoro come 20, sono tanti operai in più, ragionano le leghe, i quali saranno impiegati per fare il lavoro supplementare. È la famosa pratica, detta in gergo operaio ca-canny, contro cui insorsero veementemente due anni fa i «Times» in una serie di articoli, i quali ebbero la virtù di commuovere la opinione pubblica inglese, spaventata dalla concorrenza del Nord America, dove gli operai non hanno per la testa la fisima di lavorar poco per procurare lavoro ai compagni disoccupati. Quasi che il lavoro da farsi fosse una quantità fissa e che, crescendo il costo del lavoro, non diminuisse il consumo delle merci.

 

 

Ancora: gli operai che devono lottare con la disoccupazione cronica ricorrono al rimedio di impedire l’entrata nel mestiere ad altri operai, quando il numero dei soci delle leghe appaia sufficiente al bisogno. In tal guisa essi riescono bensì a tener alti i loro salari, ma attirano anche una folla di operai avventizi dagli altri mestieri, i quali riescono di tanto in tanto a lavorare e nei momenti di pericolo sono un’arma in mano agli imprenditori per la riduzione dei salari.

 

 

Nessuno dunque dei metodi finora descritti regge alla critica dei coniugi Webb, che pur sono, come dicemmo, filosofi e teorizzatori benevoli del trade-unionismo. L’obbligo di pagare a tutti gli iscritti un certo salario ossia di garantire a tutti un minimo di lavoro, il turno, la diminuzione dell’operosità dei lavoratori, gli impedimenti frapposti all’entrata nel mestiere, ecc. ecc., sono tutti metodi difettosi, perché tendono a creare un monopolio più o meno larvato a favore degli operai leghisti. Come tali la pratica si incarica dopo breve tempo di dimostrarne l’inanità. Tutte le volte che gli operai hanno cercato di elevare attorno a sé una barriera per difendere salari superiori al saggio del mercato, sempre la marea montante degli esclusi arriva a sormontare ed abbattere le dighe. Il mercato del lavoro è troppo mobile perché alla lunga possano durare i tentativi di monopolizzazione.

 

 

Altri sono i metodi essenzialmente moderni, di cui i coniugi Webb si sono fatti paladini: il salario normale e la giornata di lavoro normale per mezzo del contratto collettivo. In sostanza essi dicono: le leghe non devono porre nessun impedimento alla libera scelta degli imprenditori, non debbono pretendere i turni o ridurre la quantità di lavoro di ogni operaio. Esse debbono chiedere una cosa sola: che nessun operaio guadagni meno di un certo salario e lavori più di un certo tempo fissato per contratto collettivo; ad esempio meno di 10 lire per giornata normale di 10 ore. Chiedendo ciò essi garantiscono gli operai contro gli abusi dei contratti individuali, i salari della fame e le giornate eccessive. Né danneggiano l’industria, perché gli imprenditori assumeranno soltanto quegli operai che siano in grado di guadagnare le 10 lire; e lentamente si produrrà quindi una selezione fra operai, di cui i meno capaci od i meno forti saranno respinti verso altre industrie dove il tenor di vita sia meno alto e le esigenze di abilità e di forza meno elevate.

 

 

Fra queste due categorie degli ottimi, prescelti dai negozianti a lavorare permanentemente, e degli esclusi, perché incapaci a guadagnare gli alti salari vigenti nei porti, verrà una categoria intermedia, dei mediocri, che saranno impiegati nei soli giorni di lavoro superiore al minimo normale. Per questi, aggiungiamo noi, non sarebbe male che i negozianti (i quali già esercitarono la loro libertà di scelta rispetto agli ottimi), in via di equità distribuissero uniformemente il lavoro fra gli operai presenti sul porto e che non si fossero dimostrati incapaci a guadagnare il salario normale fissato per contratto collettivo.

 

 

Noi non possiamo fare altro che accennare all’idea madre informatrice di un libro che riassume l’opera secolare delle leghe inglesi. È un’idea che è ben lungi dall’essere dappertutto attuata nel paese dove ebbe sua origine. Non è quindi a stupire che in Italia le masse operaie, le quali pure in questi ultimi anni diedero prova di tanta insospettata capacità organizzatrice, si attardino in metodi – come il turno senza libertà di scelta per i negozianti – condannati come vieti dai più insigni difensori del movimento operaio. Gli operai genovesi, i quali hanno stavolta l’opinione pubblica unanime in loro favore, dovrebbero profittarne per rivedere le parti meno accettabili dei loro principi d’azione. Già forti adesso, diventerebbero elemento davvero permanente della vita del grande porto italiano.

 

 

Proprietari e contadini in Germania

Proprietari e contadini in Germania

«Corriere della Sera», 30 giugno[1] 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 53-57

 

 

L’avvenimento più saliente delle ultime elezioni germaniche è stato senza dubbio, insieme alla vittoria del partito socialista, la sconfitta degli agrari. I quali furono battuti nelle medesime provincie che sono la loro rocca forte, ossia nelle sei provincie prussiane al di là dell’Elba (Prussia orientale ed occidentale, Posen, Pomerania, Slesia, Brandeburgo), nei due Meklemburgo e nella parte orientale dell’Holstein. In questa, che i tedeschi indicano complessivamente come la grande regione transelbica, sembrava che il Bund der Landwirte fosse diventata onnipotente e dovesse mandare al parlamento una massa compatta di suoi rappresentanti. Come un esercito disciplinato e serrato, la lega degli agricoltori, forte di centinaia di migliaia di soci, muoveva all’assalto del potere; non un uomo doveva mancare all’appello per salvare la terra dalle rovine di cui la minacciavano i liberali trattati di commercio del 1892. Tutti, dai nobili Junker discendenti dai condottieri militari, che dall’XI al XIV secolo avevano conquistato alla Germania il territorio orientale, insino ai fittavoli ed ai contadini, dovevano obbedire alla parola d’ordine, la quale diceva: la Germania ai tedeschi! Abbasso il cosmopolitismo industriale, che strappa gli uomini alla terra per gettarli nelle fucine ardenti e negli opifici divoratori! Ritorniamo all’agricoltura, vera ed unica fonte della ricchezza nazionale e preservatrice suprema delle tradizioni tedesche!

 

 

Invece fittavoli e contadini troppo spesso, nel segreto della cabina elettorale, violarono la consegna; e votarono per quelli che la lega aveva indicato come i nemici dell’agricoltura. Il disinganno degli agrari fu vivo; ed ancora adesso i dirigenti la organizzazione di difesa dell’agricoltura non sanno persuadersi di avere sbagliato strada e di essere stati essi medesimi gli artefici della propria disfatta.

 

 

Poiché è inutile negarlo: i contadini hanno avuto ragione di ribellarsi – per quanto non tutti l’abbiano osato – contro la formidabile lega, la quale pretendeva difendere i loro interessi. Essi hanno veduto che il programma della lega degli agricoltori, se in apparenza era indirizzato alla tutela di tutte le classi agricole, in realtà ne rafforzava una sola: quella dei grandi proprietari. Detentori dei tre quinti del suolo nel Meklemburgo e nella Pomerania e del 44% in media del suolo nella regione transelbica, i grandi proprietari avevano visto diminuire le loro rendite in virtù di due fatti, di cui in Italia già conosciamo l’uno, e si intravvedono qua e là gli albori del secondo: il ribasso dei prezzi dei cereali e la scarsezza della mano d’opera. La concorrenza dei cereali stranieri aveva ribassato i prezzi; e l’attrattiva nuovissima delle grandi città, anzi delle vaste regioni industriali dell’ovest della Germania aveva spinto gli Inste (i contadini obbligati e disobbligati della Germania orientale) ad abbandonare in masse compatte la terra ed a dirigersi a frotte verso la Sassonia (onde il nome di Sachsengänger ai contadini migranti), la Westfalia ed i paesi del Reno, dove le miniere, le officine e la piccola proprietà a base di culture industriali richiedevano larga copia di mano d’opera.

 

 

I grandi proprietari, rudemente percossi dal ribasso dei prezzi dei cereali e dal rincaro dei salari, non si scoraggiarono e mirarono alla riscossa. Ma fu loro torto di non limitarsi a lottare colle armi apprestate dalla scienza agricola, progreditissima in Germania; e di volere risuscitare dal vecchio arsenale delle leggi dell’antico regime una serie di disposizioni incompatibili coi tempi mutati. Allo stato essi chiesero di togliere la libertà di migrazione ai minori di ventun anno, di prelevare una tassa su coloro che immigrano nelle città e di concedervi il soggiorno soltanto a chi possa provare di avervi trovato una conveniente abitazione. Nei periodi della mietitura ottennero che ai lavori agricoli fossero applicati soldati e prigionieri; e contro gli operai violatori del contratto del lavoro propongono l’applicazione di pene privative della libertà personale.

 

 

A ribadire i ceppi che avvincono i contadini alla gleba, gli agricoltori si servono inoltre delle leggi sulla colonizzazione interna della Prussia. Col pretesto di dare ad ogni contadino una casetta, un orto ed una vacca, essi vorrebbero estendere su vastissima scala il sistema già iniziato – coll’ausilio del credito di stato – delle colonie agricole. Presso ogni grande dominio rurale dovrebbero trovarsi coloni possessori di una casa e di una particella di terreno variabile da mezzo ad un ettaro; tanto quanto basta, cioè, per rendere il contadino innamorato della sua proprietà, renitente ad abbandonare i luoghi natii e costretto a vendere ai grandi proprietari vicini la propria esuberante forza di lavoro ad un prezzo che sarebbe artificialmente tenuto basso dalla offerta delle braccia dei piccoli proprietari, privi della facoltà di spostarsi verso le città ad alti salari. Machiavellico piano codesto di servirsi della invincibile forza che attrae il contadino alla proprietà, anche minuscola, per creare una popolazione di servi attorno alle grandi proprietà feudali!

 

 

Allo stesso scopo – con una varietà meravigliosa di mezzi cospiranti allo stesso fine – gli agricoltori vanno fondando altresì cooperative di costruzione, le quali avrebbero per iscopo di fornire ai proprietari i capitali per la costruzione di casette da vendersi, insieme ad un piccolo orto, ai contadini, con ammortamento parte in 47 e parte in 17 anni.

 

 

Tutto ciò aveva per iscopo di trattenere i contadini sulla terra. I vincoli feudali di cui, sotto forme palliate, si proponeva il ristabilimento, erano presentati con le formule attraenti della difesa della piccola proprietà, della resistenza all’intensificarsi pernicioso dell’urbanismo e con le descrizioni idilliache della vita di campagna. Una cosa mancava: il tornaconto ad esercitare la cerealicultura coi metodi consueti della grande proprietà. Malgrado tutto, i grandi proprietari, rovinati dai debiti, dovevano vendere la terra a vil prezzo a medi ed a piccoli proprietari, che lentamente avevano cominciato un’opera sinora poco visibile, ma certa, di conquista della terra feudale. Perciò i grandi proprietari giuocarono l’ultima carta intraprendendo una campagna, mirabile per costanza, se non per la nobiltà degli intenti, per il rialzo del dazio sul grano da marchi 3,5 a marchi 7,5 per quintale. Anche qui il motivo addotto era la difesa dell’agricoltura tedesca ed il desiderio di pagare più alti salari agli operai agricoli. Gli operai agricoli sapevano però che l’effetto primo del dazio sarebbe stato: da una parte il rialzo dei prezzi della terra e quindi accresciute difficoltà per essi di esaudire il loro desiderio di conquista della terra nobiliare; dall’altra parte le rappresaglie degli stati stranieri contro l’industria tedesca, il ristagno di questa, il ribasso dei salari industriali, il riflusso degli operai nelle campagne orientali e in definitiva il ribasso dei salari agricoli.

 

 

Ecco perché fittavoli e contadini hanno in molti collegi elettorali votato contro agli agricoltori. È l’inizio della fine di una grandiosa lotta sostenuta dall’aristocrazia terriera per conservare l’egemonia politica ed economica che ogni giorno più le sfugge di mano. L’augurio nostro è che questa aristocrazia terriera, la quale ha dato prova sicura di non essere guasta e timida, applichi le proprie meravigliose energie ad un’altra battaglia più audace di quella ora miseramente perduta: trasformare l’agricoltura della Germania orientale e far fronte alla concorrenza straniera, al rialzo dei salari, non più con provvedimenti coercitivi e coi dazi, ma con una nuova organizzazione tecnica delle proprie aziende e col ribasso dei costi. Probabilmente se sarà tenuta questa via, si attenuerà il conflitto acerbo delle classi sociali, che fu uno dei fenomeni più sintomatici e pericolosi delle ultime elezioni tedesche. Se quella battaglia si fosse combattuta non fra i misurati teutoni, ma fra gli impulsivi italiani, ben diverse ne sarebbero state le conseguenze. Per ciò le elezioni tedesche sono un monito anche a tutti i partiti italiani. Esse dicono che oramai certe cause non si possono più difendere; e che la grande e la media proprietà, per conservarsi, non debbono far ricorso a rimedi che sembravano plausibili venti anni fa. Oggi, se si vuol vivere, occorre trasformare i proprii metodi produttivi; perfezionarli ogni giorno e resistere col ribasso dei costi alla concorrenza straniera, ed al rialzo dei salari. Non è una via facile; né sarà possibile percorrerla d’un tratto, rinnegando d’un colpo l’opera del passato. Ma è la sola via che conduca alla pace sociale.

 

 



[1] Con il titolo Proprietari e contadini in Germania. (A proposito della sconfitta degli agrari). [ndr]

Indifferenza per il disboscamento

Indifferenza per il disboscamento

«Corriere della Sera», 24 giugno[1] 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 50-52

 

 

Le pioggie fastidiose del mese di giugno non hanno allarmato l’opinione pubblica perché i fiumi non hanno straripato e città intere non sono state distrutte, come l’anno scorso in Sicilia, per la violenza dei nubifragi; ma quei pochi i quali in Italia si preoccupano della urgenza dei rimboschimenti non hanno potuto non pensare che ogni pericolo di maltempo aggiunge qualcosa ai danni antichi e rende più difficile e costosa l’opera di salvezza. Abbiamo detto costosa l’opera che sarebbe necessaria per impedire le devastazioni delle acque; ma in realtà, per quanto costosa, non è nemmeno lontanamente paragonabile alle perdite vive che ogni giorno sopportiamo per la mancanza di un’azione continua di difesa e di ricostruzione delle nostre ricchezze forestali. Ben pochi hanno un’idea precisa di quanto grandi siano le perdite che l’incuria governativa e la furia privata di distruzione addossano all’Italia. L’impressione generale è che si tratti bensì di cifre grosse; ma che siano però esagerati i clamori di coloro che si lagnano del diboscamento; e che vi siano altre questioni ben più urgenti a cui pensare che non questa, la quale per giunta ha il difetto di dividere profondamente gli animi degli interessati appartenenti alle diverse regioni italiane.

 

 

Purtroppo, la realtà è assai peggiore delle impressioni più pessimiste. Nell’ultimo numero del «Giornale degli economisti» il signor Ezio Branzoli-Zappi si è assunto il carico faticoso di spogliare diligentemente i bilanci consuntivi dello stato ed altre statistiche governative per trarne qualche indice delle perdite del paese a causa delle inondazioni e dei diboscamenti. I risultati da lui ottenuti sono addirittura impressionanti, e tali che dovrebbero scuotere l’opinione pubblica e farla pensare sul serio ad una questione così grave.

 

 

La spesa minore è quella dei rimboschimenti: dal 1867 al 1899 si rimboschirono a spese dello stato ettari 20.366 di terreno con una spesa di 5.147.088 lire. Misera cosa davvero in confronto degli 84.000 ettari che le statistiche ufficiali danno per diboscati dopo il 1878 e del numero molto maggiore di ettari, in cui la distruzione dei boschi od il loro grave deterioramento non si poté constatare ufficialmente. Né grandi risultati si otterranno quando si saranno rimboschiti i terreni dei bacini montani per cui, in esecuzione della legge del 1888, si devono spendere su circa 6.000 ettari 3.240.940 lire e quando i comuni con una spesa di circa 5 milioni di lire avranno coperto di alberi 21.000 ettari circa di loro terreni incolti. Finita quest’opera, imposta dalle leggi vigenti, si saranno spesi circa 13 milioni di lire per riparare al male fatto su 48.000 ettari di foreste malauguratamente distrutte.

 

 

Questa non è tuttavia che una minima parte delle spese a cui il paese va incontro: poiché è pur giusto tenere calcolo delle somme che l’Italia spende per procurarsi dall’estero il legname da costruzione, che, se le sue foreste non fossero state distrutte, potrebbe avere in paese. Qui non si tratta di fare del protezionismo; ma solo di constatare il fatto che, se l’insipienza passata non avesse annullato il risultato lento di secoli, noi potremmo risparmiare per molti milioni di lire all’anno di lavoro che ora dobbiamo impiegare per comprare fuori d’Italia il legname che potremmo avere in casa a pochissimo costo. Dal 1862 al 1902 noi abbiamo speso nientemeno che 1.353 milioni di lire per comprare legname di costruzione comune all’estero; ed, in aggiunta alla grossa cifra nell’ultimo decennio 1892-1902, abbiamo dovuto spendere altri 131 milioni 867.386 lire nell’acquisto di legnami diversi in gran parte greggi o necessari all’industria, alle costruzioni navali, alle opere pubbliche, alle fabbricazioni delle botti, alle casse per gli agrumi. Noi non diciamo con ciò che si debba proteggere con dazi la produzione forestale italiana, a rischio di aggravare le difficoltà del trattato di commercio con l’Austria-Ungheria; sembra ragionevole che almeno si pensi a far cessare la vergogna di dover comprare in un quarantennio 1 miliardo e mezzo di legname all’estero (nel solo 1902 si spesero ben 7 milioni e 689 mila lire), mentre i nostri monti potrebbero benissimo fornirci legname per somme ancor maggiori e farci risparmiare per giunta le spese per le riparazioni straordinarie ai corsi di acqua o per sussidi alle riparazioni dei danni cagionati dalle alluvioni o dalle frane. Questa è un’altra e non indifferente spesa cagionata dai diboscamenti. Lasciamo pure stare i 280 milioni spesi nel bilancio ordinario delle opere idrauliche dal 1862 al 1902. Anche per questa partita gravitano fortemente le spese dovute ad inondazioni ed a piene; ed a questa causa sono senza dubbio dovuti tutti i 211 milioni stanziati nel medesimo periodo nella parte straordinaria delle spese per le opere idrauliche. Se vi aggiungiamo i 7 milioni di lire per riparazioni comuni alle acque ed alle strade e dovuti anch’essi alle alluvioni e frane, raggiungiamo nell’ultimo quarantennio un totale di circa mezzo miliardo di lire spese dallo stato, di cui una buona metà si sarebbe potuta risparmiare se i monti fossero stati rimboschiti ed i corsi d’acqua sistemati. Noi non abbiamo tenuto conto dei danni sofferti direttamente dall’agricoltura per le inondazioni, delle perturbazioni atmosferiche, degli svantaggi igienici ed indiretti del diboscamento. Le notizie, riferite sulla base dell’accurato studio del Branzoli-Zappi, bastano a dimostrare che in materia di boschi in Italia si è seguita una politica di dissipazione spensierata senza preoccuparci delle sue disastrose conseguenze economiche. Fino a quando durerà la indifferenza funesta?

 

 



[1] Con il titolo Indifferenza funesta. [ndr]

Per un trattato di economia politica

Per un trattato di economia politica

«La Riforma Sociale», 15 giugno 1903

Studi di economia e finanza, Società tipografico editrice nazionale, Torino-Roma, 1907, pp. 33-52

 

 

 

 

Una persona colta, la quale si proponga di acquistare quelle nozioni di scienza economica che sono necessarie per spiegare i fatti che di giorno in giorno si verificano, e per dare un giudizio sulle quistioni che numerose gli si presentano nella vita quotidiana, si trova di fronte ad un singolare imbarazzo: la difficoltà di trovare un trattato di economia politica che soddisfi ai suoi desiderii e giovi ai propri fini di cultura non specializzata. Il manuale che sarebbe utile ad uno studente od i libri opportuni per uno studioso che voglia diventare specialista di cose economiche non sono quelli che siano pure convenienti per la persona colta.

 

 

Sono domande diverse che esigono un genere diverso di offerte. Purtroppo gli studenti avrebbero bisogno spesso di studiare la scienza economica servendosi un po’ meno di mezzi didattici e mnemonici ed interessandosi un po’ di più, come le persone colte, alle cose studiate; e purtroppo anche gli studiosi, per la furia di specializzarsi e di produrre dei titoli scientifici, cominciano a scrivere dei libri di economia politica senza avere nemmeno acquistato quella cognizione generale della loro scienza che posseggono le persone colte che l’economia politica studiarono a scopo di semplice istruzione. Ma questi malanni, per quanto visibilissimi e fastidiosi, non impediscono che, in via di discorso generico, non si possa assumere come fondata la distinzione tra lo studente, la persona colta e lo studioso. La persona colta non si può arrestare ai manualetti che formano la delizia degli studenti che vogliono superare l’esame, e finisce là dove lo studioso dà principio alle sue fatiche di ricerca specializzata.

 

 

Perciò il trattato di economia politica, che voglia essere letto in quella larga cerchia di persone che studiano la scienza, né per forza, come gli studenti, né per professione, come gli economisti, ma per poter discorrere di fatti e di problemi economici senza dire dei grossolani strafalcioni; questo trattato deve avere una serie di qualità, in parte positive, in parte negative.

 

 

Non deve avere un carattere pedagogico. – Le dottrinette poco piacciono a chi non va più a scuola, ed a chi vuol conservare l’illusione di sapere già certe cose elementari e di avere solo desiderio di allargare ed approfondire le proprie cognizioni. Per fare dei nomi, voi a codeste persone non riescirete mai a far trangugiare con piacere i manualetti di Cossa. Ottimi per gli studenti che hanno la disgrazia di avere un professore a base di definizioni ed utili come vademecum a chi vuol ricordare dottrine a lui già note, non sono sopportati da quelli che oltre alla enunciazione vogliono la dimostrazione dei principii della scienza. A questo punto di vista anche il manuale, pur bellissimo sotto tanti aspetti, di Gide, presenta alcuni inconvenienti. Quella sua abitudine di citare in ogni argomento l’opinione delle diverse scuole e di farle manovrare un po’ l’une contro le altre ha dello scolastico. Le sue conclusioni saranno buone o saranno cattive. Su questo punto non mi è possibile ora entrare né per il Gide, né per gli altri autori ai quali accennerò in seguito; ma è certo che tutte le pagine occupate a confutare le sciocchezze e le esagerazioni delle altre scuole, sarebbero state dal Gide più convenientemente impiegate a spiegare quali siano le sue opinioni. Invece spesso il lettore ha l’impressione di trovarsi dinanzi ad un amabile scettico il quale dica: Vedete come gli altri economisti si affannano a scaraventarsi addosso argomenti e dimostrazioni! Badate bene però che a me di tutto questo fracasso non importa niente; io sto a vedere. Cosicché gli uomini che, nelle professioni, nei commerci, nelle banche, nelle industrie, nella vita politica hanno già cominciato ad interessarsi di fatti economici, rimangono stupefatti a vedere quanto tempo gli economisti abbiano perso a non mettersi d’accordo sul carattere vero dell’economia politica, sul valore, sul comunismo, sul socialismo, sull’ozio, sul diritto di proprietà, sul salariato, sul consumo, sulla legittimità dell’interesse, e quanto poco in conclusione sappiano dire di concreto sul meccanismo dei prezzi, sulla moneta, aggio, corso forzoso, macchine, scioperi, cambi stranieri, banche, variazioni, dell’interesse, trasporti, ecc. ecc. Non già che non se ne parli; ma si dicono cose così elementari e generiche che i lettori si persuadono subito che gli economisti sono dei chiacchieroni e che essi ne sanno molto di più.

 

 

Deve essere un trattato moderno. – È ben difficile infatti di riuscire a persuadere un contemporaneo a leggere quei libri che rispondono ai nomi venerabili di G.B. Say, Cherbuliez, Stuart Mill, ecc.: quantunque sotto tanti rispetti quei trattati siano più adatti di quelli moderni alla classe speciale di persone di cui stiamo discorrendo. Un libro vecchio di trent’anni non va più. Col pretesto che è antiquato e che non risponde agli ultimi dettami della scienza nessuno lo vuol più leggere. Questo pregiudizio contro i libri vecchi deriva in parte da una causa ragionevole: ed è che nel frattempo la scienza economica ha compiuto dei progressi e sarebbe dannoso e ridicolo non volerne tener conto. Il motivo però è solo in parte ragionevole, perché la scienza economica ha progredito non tanto perché si siano scoperte molte verità del tutto ignote prima o si sia dimostrato che i vecchi economisti affermarono molti errori; quanto sovratutto perché la scienza si è raffinata e complicata; e si è veduto che i principii degli economisti anteriori non doveano essere distrutti, ma completati, corretti, e condotti a minore rigidità. In certi momenti parve davvero che sotto l’assalto delle nuove schiere di indagatori, la vecchia economia dovesse, poveretta, far fagotto ed andare nel limbo delle cose tramontate; ma, spazzato via il fumo della mischia, si vide che dopo morta essa era più viva di prima; e che, come dice bene il Marshall, le nuove dottrine hanno completato, esteso, sviluppato e talvolta corretto le vecchie dottrine; ma ben di rado le hanno sovvertite del tutto.

 

 

Ora se i vecchi trattati corrispondevano ad uno stadio più semplice della scienza, che cosa vi sarebbe di meglio per chi non ne sa ancora nulla e vuole studiarla? Non sarebbe conveniente cominciare da questi più semplici vecchi trattati, ed avere per giunta il vantaggio di essere sicuri di leggere roba buona, per il motivo che essi pervennero sino a noi attraverso a tanti rivolgimenti scientifici, mentre dei trattati moderni noi non sappiamo ancora quali sopravviveranno?

 

 

Il ragionamento corre; e per chi abbia un po’ di pazienza non credo vi sia cosa più proficua di questa: leggersi il Say o lo Stuart Mill e confrontarlo subito dopo con qualche trattato moderno. Le differenze fanno risaltare i progressi della scienza; e le concordanze imprimono nella mente il concetto della continuità dei principii svolti dagli economisti. Ma per quanto il ragionamento corra, è ben difficile di riuscire a persuadere della opportunità di applicarlo chi non faccia professione di studi. Chi legge libri, a torto ed a ragione, pretende che il libro rappresenti l’ultimo stadio della scienza; si annoia a vedere esempi e dati e cifre che risalgono a 50 od a 70 anni fa. Sembra quasi che quelle cifre, solo perché vecchie, non siano più vere od almeno non siano più probanti. È una curiosa superstizione; ma siccome è diffusissima, è inutile mettersi in capo di distruggerla. Dunque il trattato che si dovrà suggerire deve essere moderno; deve tener conto dei risultati ultimi della scienza; deve usare cifre, esempi, fatti di data non remota. Il che vuol dire che una delle opere più utili, se bene più noiosa, per la diffusione della cultura economica, sarebbe ancora quella di copiare Stuart Mill, cambiando gli esempi vecchi e dandovi una verniciatura sì da far parere nuovo ciò che viceversa ha mezzo secolo di vita. Tanto meglio se è possibile di imbattersi in uno scrittore che non si limiti a copiare e che pure avendo tutte le splendide qualità positive di quei vecchi, non ne abbia anche l’unica negativa: la data antica scritta sul frontispizio. Il Pantaleoni ha osservato, col suo solito humour, che «siccome ogni generazione giunge alla luce del sole altrettanto ingenua quanto lo erano, al loro apparire, le precedenti, non trasmettendosi le cognizioni acquisite; ma soltanto i mezzi per conseguirle, ne viene, che, appena si è cessato per qualche tempo dal predicare certe verità, perché reputate troppo note, o dal confutare certi errori, perché creduti troppo grossolani, nel pubblico quelle verità si ignorano e questi errori si riproducono». (Teoria della press. trib., pag. 33). L’osservazione è giustissima, ma bisogna aggiungere che non basta dire alle generazioni nuove ignoranti: badate bene, gli errori che voi dite si trovano confutati già le mille volte in Smith, Ricardo, Mill, ecc.; il sofismo protezionistico che voi ripetete è già stato messo in burletta da Bastiat nella Petizione dei mercanti di candele, sego, olio, ecc., od in Ce qu’on voit et ce qu’on ne voit pas dans l’Économie politique. Vi diranno che siete antiquato, metafisico ed altrettali parole prive di senso comune. È necessario – se si vuol far breccia – che le stesse cose siano dette con un altro vocabolario e con altre formule, modernizzate. Per riuscire a farsi credere, bisogna aver pazienza e lasciar supporre che si dicano delle novità, mentre si ripetono cose che hanno la barba lunga come quella di Mosé.

 

 

Non deve avere un’apparenza esclusivamente teorica. – Ripeto che qui vado, per via di esclusioni, alla ricerca non dei libri migliori su cui uno studioso possa imparare l’economia politica a scopi scientifici, ma del libro che più opportunamente può essere dato in mano ad una persona che di quella scienza voglia formarsi un’idea esatta bensì, e sovratutto utile per applicazioni pratiche, ma senza propositi di indagine pura. Per questo genere di lettori i libri che hanno un carattere prevalentemente teorico non sono adatti od almeno non sono adatti subito. Per citare esempi, è molto dubbio se trattati sul genere di quelli di Marshall, Pareto, Pantaleoni, Walras possano servire. Per gustare cibi di questo genere ci vuole un palato fatto apposta. Vi sono delle persone che si deliziano a seguire il filo di un ragionamento; che provano una soddisfazione intensa quando il ragionamento od una certa manipolazione di fatti conducono alla scoperta di un principio teorico vero. La verità astratta basta per costoro; e non provano il bisogno di toccare con mano nulla di più. Essi trovano perfettamente ragionevole che il trattatista, quando discende dai principii puri di prima approssimazione allo studio delle seconde approssimazioni, si contenti di arrischiare delle ipotesi, di stabilire delle conclusioni condizionate; si limiti a mettere in chiaro la complicazione dei fatti e la difficoltà di stabilire una regola assoluta. Costoro, che hanno la mente adusata alle indagini scientifiche, quando hanno letto Walras – che pure è il più astratto ed il meno esemplificato di tutti – sono contentissimi e sicuri di non avere perso invano il loro tempo. Ma costoro sono una minoranza. Vi sono moltissimi – specialmente nel pubblico di cui parlo ed alla cui domanda si tratta di soddisfare – sui quali le verità puramente teoriche non fanno presa. Essi le pigliano in mano quelle verità, le osservano ben bene, le rigirano in qua e in là e poi le ripongono, – senza capire il perché si siano create delle teorie, delle quali non si fanno vedere subito le applicazioni pratiche. E per applicazioni pratiche non intendo dire delle ricette con le quali si venga a conoscere il modo di diventare milionari; o si possa far andare innanzi la baracca di un certo determinato Stato. Voglio dire che quei lettori desiderano sapere in qual modo le verità teoriche possano essere applicate alla risoluzione di problemi economici; in qual modo, ad es., la dottrina della moneta possa spiegare la scomparsa od il riacutizzarsi dell’aggio, indicare se sia buona o cattiva (ossia conducente o no allo scopo) una data politica sulla circolazione fiduciaria, ecc. ecc. L’addentellato c’è ed è evidente; ma siccome spesso non è spiegato a passo a passo, ed il trattatista, spiegato il problema teorico, lascia che i lettori se la cavino loro; accade spesso che i lettori non se la cavino affatto e vadano a sbattere contro un paracarro. Come spiegare altrimenti la quantità di spropositi che dicono delle persone – anche non interessate nell’errore – le quali tuttavia hanno studiato i principii della scienza economica? Egli è che l’applicazione delle verità economiche ai fatti correnti esige una disciplina mentale, un’abitudine a non lasciarci fuorviare da circostanze accidentali, che non tutti hanno; ed anche quando l’hanno, è raro che vogliano fare lo sforzo necessario per giungere alla meta. Occorre che il trattatista abbia pazienza e si adatti a procedere un po’ più innanzi di quanto consuetamente non si soglia. Continuando l’esempio già citato, basterà che dopo avere svolto la dottrina della moneta, si dia uno sguardo ai principali sistemi monetari; si faccia vedere dove essi hanno errato; come l’errore sia stato subito seguito dalle conseguenze che la teoria prevedeva; come le successive modificazioni apportate in un certo sistema monetario, per es., in quello della Lega latina, non siano altro che un’applicazione di insegnamenti teorici. Anche se il trattatista non dice al lettore perché l’aggio è scomparso in Italia nell’anno di grazia 1902, non v’è poi gran male; basta che il lettore abbia la persuasione che la dottrina è vera e che con essa si ha la chiave per spiegare molti fatti storici che egli conosceva già, ma di cui non si era saputo prima spiegare la ragione.

 

 

Oltre a codesta simpatia per le applicazioni delle dottrine, i lettori hanno altre abitudini mentali: fra le quali una antipatia fortissima per i formulari tecnici. Non accenno nemmeno alla questione dell’uso delle matematiche; perché suppongo che tutti siano d’accordo nell’opportunità – in un trattato di farne uso – in modo che chi non le conosce possa seguitare a leggere il testo; come accade in Marshall e Pareto. Ma nella letteratura economica più recente è invalso l’uso di chiamare certe cose con certi nomi: ossia di connotare certi concetti con certe parole usate in un senso che spesso non è quello volgare, ma un altro convenzionale per usi scientifici; e magari di indicare con delle lettere dell’alfabeto A, B, C… una specie di idee o di caratteri, che, a ripeterli ogni volta, richiederebbero delle frasi lunghe un miglio. Dico subito che nelle scienze fisiche, matematiche, giuridiche quest’uso è invalso da moltissimo tempo; ed è un uso ragionevolissimo, senza il quale non si possono compiere alcuni notevoli progressi scientifici. Nell’economia politica la mancanza di questa lodevole abitudine ha condotto ad una quantità innumerevole di dibattiti, oziosi e ridicoli perché i combattenti disputavano su cose diverse mascherate dalle identiche parole. Chi non è persuaso dell’importanza di un’esatta terminologia nelle scienze legga il bel saggio del Vailati appunto sulle «questioni di parole» (Torino, Roux 1899).

 

 

Ma il riconoscere questa necessità non toglie che nei lavori di volgarizzazione della scienza non si debba procedere per gradi. Se noi pretendessimo che i lettori, anche desiderosi di apprendere, dovessero trangugiarsi d’un colpo tutto il nostro formulario scientifico, abituarsi a ricordare, leggendo il periodo, il significato tecnico – diverso dal volgare – di due o tre parole ed a sostituire ad una o due lettere dell’alfabeto la frase che per brevità quelle lettere rappresentano, noi faremmo un buco nell’acqua. Dopo due o tre pagine quei lettori, stanchi della eccessiva tensione di spirito, chiuderebbero il libro e manderebbero l’autore a casa del diavolo. E così, per il desiderio di essere corretti e precisi e di non dare delle idee vaghe ai lettori, non se ne darebbe più nessuna, né precisa, né approssimativa. Il che mi sembra essere molto peggio. È sempre infatti opportuno che le verità economiche siano diffuse in qualche modo, se bene non con quella veste rigorosamente scientifica che si incontra nei più moderni scrittori. Qualche fecondo seme esse lascieranno sempre. L’abbiamo veduto tra il ’30 ed il ’60 quando l’economia politica – per le eccellenti volgarizzazioni che erano allora diffuse – era dalle classi colte molto più conosciuta d’adesso. L’influenza che dessa esercitò allora sull’opera dei Governi e sul progresso della civiltà fu enorme. Non dico che molti errori moderni o meglio molte copie moderne di errori antichi siano dovuti alla mancanza di trattati piani e facili di economia politica; poiché sarebbe un volere chiudere gli occhi dinanzi al fatto della pressione degli interessi di classe o di regime o di persona. Ma una parte – sia pur piccola – del pernicioso svolgersi degli avvenimenti va pure attribuita al fatto della scissione tra la scienza economica e la vita, o meglio fra il ceto degli economisti ed i problemi quotidiani. Come dice l’Edgeworth, che pure è un principe degli economisti astratti, gli antichi economisti classici inglesi presentavano questo vantaggio sui nuovi: che essi si tenevano in contatto con la vita pratica e non si sognavano nemmeno di trasformare la loro scienza in una raccolta di raffinatezze remote degli affari di questo mondo.

 

 

Con ciò l’Edgeworth non ha voluto dire che gli economisti facciano male a raffinare la loro scienza. Sarebbe stato un darsi la zappa sui piedi; poiché egli è forse il più elegante raffinatore di problemi economici che vi sia in Inghilterra. Ma ha voluto solo esprimere il desiderio che i medesimi economisti teorici od altri, invece loro, si ricordino che esiste un largo pubblico di uomini politici, di impiegati, di persone colte, di artigiani istruiti, i quali hanno bisogno di conoscere la scienza economica attraverso ad un trattato non irto di formule, in cui non ci siano soverchie abbreviazioni, in cui l’apparato scientifico sia ridotto al minimo possibile; ed il discorso vada piano e facile per il suo verso, con parole che tutti siano in grado di comprendere. Non è certo facile scrivere un trattato di questo genere, con parole, che pure conservando molta affinità al loro significato volgare, non si prestino all’equivoco; ed in ogni caso sarà pure indispensabile di usare una certa dose di tecnicismo. Ma il problema non è insolubile.

 

 

Si noti che ai lettori – passati attraverso a questo trattato – sarà più agevole e proficua cosa in seguito leggere quegli altri trattati, esclusivamente teorici, che in sul principio sarebbero stati un cibo troppo forte pel loro palato. Oramai essi le verità economiche le conoscono già e ne conoscono anche le applicazioni; e sono meglio atti a gustare maggiormente le verità teoriche ed a cercare di per sé delle altre e nuove applicazioni pratiche, e stavolta senza tanto pericolo di smarrirsi per strada.

 

 

Forse per una sola classe di persone è consigliabile di far senza di questa preparazione e di leggere subito i trattati a tipo puro; e sono gli ingegneri e coloro in genere che sono passati attraverso la facoltà di scienze. Costoro colle formule sono amicissimi; e la tecnicità del linguaggio economico sembrerà anzi ad essi sbiadita e poco estesa. Ma l’eccezione non fa regola; e la regola sono persuaso che sia quella delineata sopra.

 

 

Deve essere un trattato di economia politica e non di qualche altra scienza. – Questo può sembrare un truismo, degno del signor De La Palisse. Ma non è inutile dire che un trattato di economia politica deve parlare di questa e non di altre scienze, almeno se si bada a taluni curiosi fatti recenti. Prendete in mano uno degli ultimi trattati tedeschi di economia politica: quello dello Schmoller, del quale la Unione tipografica editrice – tanto benemerita degli studi nostri – sta ora pubblicando la traduzione, mentre contemporaneamente prosegue la traduzione degli splendidi Principii del Marshall. Siamo già alla sesta dispensa (480 pagine), ma non si trova sinora traccia di qualche cosa che – almeno vagamente – rassomigli alla economia politica, se non forse qualche argomento spaiato qua e là; come il cenno sulle macchine o gli altri sui metodi e sulla storia dell’economia «nazionale». Ed anche in questo riassunto storico si veggono delle cose singolari. Si vede, ad es., che Carlo Marx è onorato con un cenno di due pagine; mentre a Ricardo sono dedicate 5 righe; e dei successori di Smith, di Ricardo e di Mill, «i Mac Culloch, i Senior, i Fawcett, i Bagehot, i Cairnes, i Sidgwick» si dice che «non hanno alcuna importanza propria». Non varrebbe davvero la pena di rilevare queste sciocchezze e di rammentare come lo Schmoller non si degni di ricordare – eccetto, di sfuggita, il Marshall, per dire che, poverino, ha capito qualcosa delle opere lodate in paese di tedescheria – nessuno degli economisti i quali non hanno l’abitudine di lustrare gli stivali a lui ed ai suoi accoliti; se, almeno, lo Schmoller avesse saputo scrivere un trattato, che, anche senza poter essere messo a paro di quelli da lui tenuti in non cale, fosse un trattato di economia politica. Piccola pretesa in verità; ma non tale da essere soddisfatta. Nei lineamenti di Schmoller si impara infatti che «il sorgere del linguaggio è un lato del processo per cui l’uomo diventa un essere ragionevole» (pag. 22), e si leggono delle cose divertenti sul quando e sul come la gente ha imparato ad usare l’alfabeto per scrivere ed ha preso l’abitudine di divorar gazzette. A pag. 121 si apprende che «la ricongiunzione con Dio, la redenzione dal peccato e dal mondo, è il termine finale, che tutta la vita terrena fa apparire non altro che una breve preparazione alla vita ultraterrena. A pag. 197 e seguenti noi siamo messi in grado di sapere come è fabbricata la terra, coi suoi continenti e relativi mari ed isole; e si sa altresì che «dalla superficie dei mari si inalzano le tre parti continue della terra – l’Asia, l’Europa e l’Africa – e, separate da esse da lungo tratto, l’America e l’Australia». A pag. 231 siamo avvertiti che i Mongoli sono «uomini gialli, dai capelli neri, dalla testa rotonda» e che sono «tra i più forti e vigorosi di tutta la terra». Prima e dopo facciamo conoscenza con la mescolanza delle razze, coi neri, coi cafri, coi boscimani, coi pelli rosse, coi semiti, ecc. ecc. Volete sapere come son fatti gli Italiani? Eccovi serviti; è lo Schmoller che parla: «Gli Italiani d’oggi hanno nelle vene sangue etrusco, italico, greco, celtico, fenicio, semitico arabo, germanico. Essi sono una nazione una dai giorni della dominazione di Roma sul mondo… Sotto quel cielo così felice i bisogni materiali sono più facilmente soddisfatti che sotto il cielo nordico, e così lo stesso proletariato viene a conservare una libertà, una certa dignità personale che, unita al sentimento del bello, ad una facilità di parole che non ha l’uguale, sorprende e confonde gli uomini del Nord. Frugale, sobrio, cortese ed amabile, loquace ed amante della musica, ma anche per natura interessato e intrigante, prudente e riflessivo, l’Italiano mostra nel pensare e nell’agire una semplicità ed una abilità che vogliono essere riferite specialmente all’assenza di profondi movimenti dell’animo. Ogni individuo è un uomo compiuto; l’impero su lui della famiglia, della società, dello Stato è poco; con lui c’è sempre modo di trovare, come colla Chiesa, degli accomodamenti esteriori; ei va dietro ai suoi piani con sagacia, raggiungendo grandi risultati nell’arte, nella diplomazia, in molti campi, ma anche nell’intrigo, nella mancanza di pietà, nella doppiezza e, diciamolo pure, nella bricconeria. La coscienza ed il pudore hanno, di fronte alla ingenuità naturale, alla fantasia ed alla passione, una parte secondaria. Il popolo zufola e canta, ciancia e gesticola tutto il giorno, ma anche, in gran parte, lavora indefessamente; le classi inferiori si logorano al lavoro fin quasi a lasciarci la vita…».

 

 

A leggere di queste gentilezze più o meno spiritose sotto il titolo di Lineamenti di economia nazionale generale si rimane stupefatti. Tanto più urgente quindi la necessità che i lettori colti, i quali vogliono studiare l’economia politica, non si lascino fuorviare in questi viottoli di traverso. Se no, chissà mai cosa crederanno essi che sia la nostra scienza? Probabilmente qualcosa di simile allo scibile universo. Il che non toglie che le cose dette dallo Schmoller non siano interessanti e che i suoi studi al riguardo non siano meritevoli del più grande rispetto. Ma non sono economia politica: ecco tutto. Forse rientrano nell’ambito di quella scienza che hanno inventato adesso e che chiamano sociologia. Nella quale, trattandosi di cosa misteriosa come il libro dell’Apocalissi, ci stanno tutti: dai pochi ricercatori seri alle migliaia di ciarlatani.

 

 

Il trattato ideale per le persone colte deve dunque avere questi caratteri: non essere troppo pedagogico e nemmeno essere circondato da un eccessivo apparato scientifico; essere moderno e trattare – con chiarezza, rigore ed abbondanti applicazioni – di Economia politica e non di qualche altra cosa. Suppongo che i lettori saranno persuasi che io non ho fatto tutto questo lungo discorso per conchiudere che un trattato cosifatto non esiste e che quindi la domanda, di cui si parla, non può trovare modo di soddisfarsi. Anzi, il preambolo è stato compilato per mettere in luce la funzione sociale – per dir così – alla quale può servire precisamente un trattato di Economia politica, che è quello del Pierson.

 

 

Non già che il trattato del Pierson sia una novità nuova di zecca. In olandese la prima volta comparve nel 1884-90; e fu rifatto in una seconda edizione, di cui il primo volume uscì nel 1896 e la seconda (ultima) parte del secondo volume nel 1902. Quei pochi Economisti che avevano la ventura di conoscere la lingua olandese, così scarsamente nota fuori del suo piccolo paese, aveano già da un pezzo saputo apprezzare l’opera del Pierson; ma fuori di questa piccolissima cerchia di persone, nessuno ne sapeva niente, fuori che per sentita dire, e per averne lette le lodi nella Guida del Cossa. Cominciò due anni fa la Casa Roux e Viarengo a far conoscere del Pierson l’opera minore; e quei Problemi odierni fondamentali dell’Economia e della Finanza egregiamente tradotti dal prof. E. Malagoli, parvero a tutti mirabili per perspicuità di dettato, per intima fusione della dottrina e della pratica; sicché la loro fortunata diffusione contribuì assai alla buona cultura economica italiana. Molti che non avrebbero mai letto di proposito un trattato, lessero, magari a sbalzi, gli ottimi saggi del Pierson; e molte idee, prima annebbiate, si schiarirono e molti errori palesarono le loro magagne.

 

 

Ora è la volta del Trattato che potrà acquistare diritto di cittadinanza in una parte – forse non larghissima, ma sempre più estesa di quando esisteva solo il misterioso originale olandese – del pubblico colto italiano. Poiché la Casa Macmillan di Londra ha testé pubblicato in elegante veste la traduzione inglese del primo volume del Trattato; ed il traduttore, signor A.A. Wotzel, promette che farà seguire ben presto anche la traduzione del secondo.[1] Certo una traduzione inglese non è così accessibile come sarebbe una francese; ma la limpidezza della forma e la semplicità del contenuto fanno persuasi che anche la traduzione inglese avrà in Italia un discreto numero di lettori; mentre si aspetta il giorno che una Casa editrice italiana si assuma l’impresa di una versione nella lingua nostra, impresa che sarebbe, non ne dubitiamo, ben corrisposta alla lunga dal pubblico.

 

 

Il Pierson era ben dotato per scrivere il Trattato di scienza economica, i cui caratteri si è cercato di delineare sopra. Come scrive l’Edgeworth (loc. cit., pag. 582) nel Pierson si trova «quella combinazione dell’uomo d’affare e dell’economista di professione che è divenuta rara in Inghilterra» e che l’Edgeworth rimpiangeva nei vecchi economisti classici.

 

 

Il Pierson infatti, dopo essere stato per più di venti anni professore di Economia politica all’Università di Amsterdam e direttore prima e poi presidente della Banca dei Paesi Bassi, resse per circa una decina d’anni, dal 1891 al 1901, il Ministero delle finanze del suo paese e coperse anche per qualche tempo l’alta carica di presidente del Consiglio dei ministri. Durante il suo passaggio al governo della Banca e delle Finanze egli die’ opera a riforme bancarie e fiscali che hanno collocato il suo nome fra quello dei più benemeriti riformatori moderni. Conoscitore profondo della scienza economica e maneggiatore espertissimo di fatti reali, egli si trovava in una condizione privilegiata per applicare la teoria alla pratica e per infondere nella scienza un alito di modernità, traendola ad occuparsi dei problemi più vivi dei tempi suoi.

 

 

A me parrebbe così di avere assoluto il mio dovere che era quello di indicare per via di esclusione i pregi peculiari di questo Trattato, che la edizione inglese della Casa Macmillan ha ora reso accessibile ad una più larga cerchia del pubblico italiano. Ma, forse, una breve esposizione del contenuto di esso verrà a dare un’idea più efficace degli intenti a cui può servire il libro dell’A. Si compone desso di quattro parti; la prima si occupa del Valore e dello Scambio, gittando così le fondamenta dell’intiera trattazione; la seconda degli Strumenti dello scambio: moneta e banche. Insieme queste due parti formano il primo volume, che viene edito ora dalla Casa Macmillan. La parte terza tratta della Produzione; ne studia il concetto; indaga i limiti dell’ingerenza governativa nella produzione; e sottopone ad acuta analisi il rapporto fra produzione e popolazione e la controversia del protezionismo. Le crisi, i sistemi agrari ed altri argomenti sono pure trattati in questa parte, che forma quasi una prosecuzione ed una applicazione della dottrina del valore esposta nel primo volume. Poiché ben a ragione il Pierson ritiene errato il procedimento di quei trattatisti, i quali parlano della produzione prima che dello scambio; e debbono per conseguenza limitarsi ad esporre delle generalità, più o meno conclusive, sulla natura, sul lavoro, sulle macchine, ad un punto di vista che non è economico, ma puramente tecnico. Mentre invece lo studio della produzione deve essere come la meta alla quale tendono i diversi fili del ragionamento economico: una meta alla quale non sarà possibile di giungere se prima quei fili non sono stati acconciamenti disposti. In luogo poi dell’appendice che gli Economisti classici – e sul loro esempio altresì alcuni moderni come il Gide ed il Leroy Beaulieu – consacrano in fine delle loro trattazioni al consumo, ed in luogo delle disquisizioni semi esilaranti sul lusso, sulla opportunità di consumare pane o carne o tutte due insieme, ed altrettali cose divertenti, il Pierson nella quarta ed ultima parte dell’opera – che è quasi un’appendice separata – si occupa delle Entrate dello Stato, studiando alcuni argomenti di scienza finanziaria in quello che hanno di più spiccatamente economico: occupandosi cioè della traslazione e degli effetti delle imposte; della natura e degli effetti del Debito Pubblico. La terza e la quarta parte compongono il secondo volume, di cui la traduzione inglese deve ancora comparire.

 

 

Questa la tela generale dell’opera; ed ora rifacciamoci al primo volume per esporne con alquanti maggiori particolari il contenuto. Si apre desso con una introduzione magistrale, nella quale si studiano la posizione della scienza economica; la natura delle sue leggi ed il metodo da seguirsi nella soluzione dei problemi economici (pag.1-43). Tema vecchio, che il Pierson illumina con linguaggio semplice e piano, mettendo soprattutto in luce perché le dottrine economiche non possono essere subito applicate nudamente alla realtà, e facendo vedere entro quali limiti è possibile fare qualche applicazione ed anche qualche predizione.

 

 

Segue la parte prima, consacrata al valore. E qui in un primo capitolo (47-78) l’A. gitta le fondamenta della trattazione, ispirandosi ai principii di quella scuola che per la brevità chiamerò di Jevons e degli economisti austriaci; e lo fa con tale chiarezza e con tale sobrietà di dettato da rendere evidenti anche le cose apparentemente più astruse. Parco nell’uso dei diagrammi (in questo capitolo sono appena due) ne sa trarre un prezioso sussidio alla intelligenza dei fenomeni di valore. Nel capitolo secondo (pag. 79-126) applica la dottrina del valore alla Rendita della terra, facendo un’analisi acuta della teoria ricardiana, studiando i rapporti fra la rendita agricola ed i prezzi dei prodotti agricoli, fra la rendita e le imposte, indagando le influenze che sulla rendita esercitano i migliorati metodi di cultura, la riduzione del costo dei trasporti, l’aumento della popolazione e tracciando infine un breve quadro delle variazioni storiche della rendita. Noi siamo subito così messi in grado di apprezzare la virtù educatrice del libro del Pierson; poiché egli ci trasporta in mezzo ai fatti contemporanei e ci apprende a giudicarli. La dottrina della rendita non sembra più un’astrazione teorica e nemmeno un frutto esclusivo dell’Inghilterra del principio del secolo XIX. Coloro i quali si immaginano che oramai non si possa più parlare di rendita perché è venuta la crisi agraria e gridano perciò che Ricardo è morto e sotterrato, leggano i bei capitoli del Pierson e si persuaderanno che i fatti recenti sono la verificazione esattissima di quella teoria, la quale forse richiederà di essere migliorata e formulata più esattamente, ma rimane pur sempre testimonianza di fulgidissima percezione della realtà.

 

 

Lo stesso discorso fatto a proposito della rendita della terra si dovrebbe ripetere per i successivi capitoli, terzo La rendita delle case (pag. 127-175), quarto L’Interesse del capitale (pag. 176-232), quinto Il Profitto degli imprenditori (pag. 233-255), sesto Il Salario del lavoro (pag. 256-340). In tutti l’A. applica la dottrina generale del valore al valore dei diversi servizi produttori; cosicché quand’egli scenderà a parlare della produzione, sarà già noto il valore di tutti i servizi produttori, che combinandosi danno luogo alla produzione. È il metodo corretto seguito dal più dei trattatisti moderni; e dal nostro autore forse più sistematicamente che da altri.

 

 

Ciò che distingue il Trattato del Pierson in questa parte si è la importanza speciale da lui assegnata allo studio della rendita delle case. È questo uno studio che è ignoto agli altri trattatisti e che l’A. sviluppa con profondità e chiarezza di vedute. Anche qui egli non sa rimanere nel campo della pura dottrina; ma discute a lungo dell’influenza delle imposte sulla rendita; dei rapporti fra le variazioni dell’entrata degli abitanti e il fitto delle case; e piglia in esame i provvedimenti fin qui proposti per migliorare le condizioni delle abitazioni cittadine. Il Pierson è favorevole a quella che si potrebbe chiamare la politica «igienica». Il Comune non ha bisogno di favorire la costruzione di case nuove e nemmeno di favorire società filantropiche. Il suo dovere principale deve essere quello di rendere agli inquilini impossibile – con rigide norme sanitarie – di ottenere delle case malsane e cattive. Bisogna educare il popolo all’amore della casa igienica e sana; il che vuol dire educare il popolo ad un alto tenor di vita, e a frenare la prolificazione troppo abbondante. L’A. dimostra che il limitarsi a mettere sul mercato migliaia di nuove camere equivale a fare un buco nell’acqua. Il problema è molto più complicato; ed a risolverlo non basta pensare alle case; bisogna anche agire sugli uomini che le dovranno abitare. Il rimedio della municipalizzazione è un cerotto troppo semplice, quando bisogna nel tempo stesso risolvere un problema di equilibrio rotto in una certa industria, di distribuzione della ricchezza e di modificazione della psiche operaia.

 

 

Nel modo stesso come il Trattato del Pierson offre nel capitolo sulla rendita delle case una guida allo studio di un problema di attualità scottante, così pure nei capitoli successivi dà la chiave a trattare altri problemi urgenti: scioperi, disoccupazione, riduzione delle ore di lavoro, alti e bassi salari, ecc. Sempre la dottrina vivifica la pratica; e si vede l’uomo di Stato che la scienza non considera come fine a sé medesima, bensì come mezzo a migliorare le condizioni economiche del suo paese.

 

 

L’ultima applicazione della teoria del valore è fatta nel capitolo settimo ai prezzi delle merci ed al valore della moneta (pag. 341-400). Senza fermarci alla limpida esposizione della dottrina dei prezzi in caso di monopolio, di produzione in circostanze simili e dissimili, e dei beni fungibili, è specialmente degno di nota come tutta la trattazione del valore della moneta sia illuminata dalla introduzione del concetto del prezzo del lavoro, per il quale gli Economisti olandesi intendono la somma complessiva di tutta l’entrata in denaro ottenuta mercé l’applicazione di una definita quantità di lavoro e di capitale.

 

 

«Si supponga che il lavoro di un uomo, aiutato da un capitale di mille fiorini, produca in duecento giorni delle merci del valore di 250 fiorini; allora, naturalmente, un giorno di lavoro e l’applicazione di un giorno di capitale varranno, in media, fiorini 1,25. Questo ammontare di fiorini 1,25 sarà distribuito in modo che il capitale riceva 25 centesimi ed il lavoro 1 fiorino; ovvero in modo che il capitale riceva 50 centesimi ed il lavoro 75 centesimi di fiorino. Nel primo caso l’interesse sarà al saggio di circa il 9 per cento e nel secondo caso del 18% all’anno. Eppure in amendue i casi la rimunerazione combinata dell’impiego di un capitale di 1.000 fiorini e del lavoro di un uomo sarà di 1,25 fiorini. È questa remunerazione complessiva che è chiamata prezzo del lavoro. La parola non dovrebbe essere scambiata per quella di salario del lavoro; il salario del lavoro e la rimunerazione dell’imprenditore sono solo una parte di esso; ed il resto è interesse del capitale. Siccome la rendita ed il premio dell’imprenditore non sono ottenuti in tutti i casi, ma solo quando la produzione ha avuto luogo in circostanze favorevoli, per rendere la nostra definizione completa, occorre perciò formularla così: il prezzo del lavoro è la somma complessiva di entrata in denaro derivata dall’impiego di una data quantità di lavoro e di capitale in circostanze non privilegiate».

 

 

È in fondo una formula tecnica per esprimere un determinato concetto; ma di essa l’A. si vale per illuminare il punto del valore della moneta in differenti paesi, in differenti periodi e le mutazioni nei prezzi derivanti dalla scarsità e dall’abbondanza della moneta. È questo per i profani uno degli argomenti più astrusi della scienza economica; ed è così grande la difficoltà di spiegarlo in modo accessibile a tutti, che parecchi compilatori di manuali hanno adottato il partito più comodo di non occuparsene affatto o di accennarvi solo di sfuggita a proposito di qualche altro argomento. Ad es. il Gide è fra questi. Eppure senza un’idea chiara in proposito come si fa ad impossessarsi bene della dottrina della moneta?

 

 

È quello che si vede nella parte seconda (p. 403-598) del volume, dedicato allo studio degli strumenti dello scambio. L’autore, il quale ha già, nel libro precedente, posti i fondamenti dottrinali della ricerca, può ora attenersi ad un metodo diverso da quello seguito fin qui dai trattatisti. I quali, parlando di moneta e banche, si indugiano a descrivere i requisiti della moneta, i vari metodi di riserva e di organamento delle banche di emissione, accennando in via di esempio ai sistemi seguiti nei diversi paesi; e dando così un andamento pedagogico e poco simpatico alla trattazione. Invece il Pierson, che della moneta ha detto già quanto basta per mettere in luce la funzione economica, comincia subito con uno sguardo storico ai principali sistemi monetari del mondo (Cap. I, pag. 403-448). Seguendo passo passo le vicende della moneta nella Gran Bretagna e nell’India Britannica, nella Francia e nella Lega Latina, nella Germania e nell’Austria Ungheria, nell’Olanda e nelle sue Colonie, e negli Stati Uniti d’America egli ha l’agio di farci un quadro di errori e di esperienze fortunate; e di dimostrarci che gli errori pratici aveano il loro addentellato in false concezioni teoriche; mentre le esperienze fortunate, e le riforme faticose erano un’applicazione di luminose verità teoriche. Lo stesso sistema è seguito nel secondo capitolo sulle Banche di emissione (pag. 449-515). Lo studio, larghissimo e magistrale, del sistema bancario in Inghilterra prima e dopo il 1844 gli dà modo di esporre nei suoi particolari la celebre controversia tra il Banking Principle e la Currency Theory, controversia di cui nei trattati moderni appena si fa menzione; mentre costituisce il caposaldo indispensabile per la interpretazione corretta di quasi tutti i moderni sistemi bancari. Le Banche della Scozia, della Francia, della Germania, dell’Olanda, della Svizzera e degli Stati Uniti, gli offrono mezzo di trattare – non con ragionamenti campati in aria, ma sulla base dei fatti – di altre controverse questioni: della libertà e del monopolio bancario, dei limiti legali della riserva metallica, della posizione delle Banche di emissione di fronte alle altre Banche e nei rapporti internazionali.

 

 

Noi abbiamo molte e belle applicazioni del metodo storico nella Economia politica; intendo dire del metodo storico che non si limita a raccogliere dei piccoli fatterelli ed a metterli in fila come i burattini; ma li vuole razionalmente spiegati ed anche scelti. Ma fra tutte queste applicazioni, quella del Pierson presenta il vantaggio di essere inserita in un manuale destinato al gran pubblico e di essere compiuta con tale insigne padronanza della materia e con tale rara facoltà di ricordare solo i fatti essenziali, da dover concludere che una trattazione così magistrale e stringata non era mai stata fatta in un Corso generale di Economia politica.

 

 

Oramai il lettore conosce già per esserci vissuto in mezzo il meccanismo monetario e bancario, ed è così pronto a comprendere gli altri argomenti che seguono: e primo il trattato delle cambiali e dei cambi stranieri (Cap. III, pag. 516-567). È una vera teorica dei cambi stranieri, in taluni punti superiore persino a quella classica del Goschen; e del Goschen l’A. critica con molto acume la dottrina che l’esportazione dell’oro e dell’argento rappresenti uno spostamento del capitale e sia il risultato della scarsità di capitale: dottrina la quale è un ultimo residuo del mercantilismo.

 

 

Il capitolo finale che degnamente chiude il volume si occupa dei metodi di regolare la circolazione (pag. 568-598), ed era necessario trattarne dopo aver parlato non solo della moneta metallica e dei biglietti di banca, ma anche delle cambiali e dei cambi stranieri, poiché anche le cambiali sono uno strumento di scambio.

 

 

Come è noto, l’A. alla pari di altri Economisti olandesi, è un fautore del bimetallismo universale; ed è interessante leggere la difesa del bimetallismo, scritta da uno il quale è persuaso della inutilità pratica di ogni tentativo in tal senso compiuto nel presente momento. Ma non solo si parla dei rapporti fra le monete vere; ma anche fra queste e la moneta divisionaria e fra la moneta d’oro e gli scudi d’argento nei paesi che, come la Lega Latina, la Germania, gli Stati Uniti, hanno da liquidare questa eredità del passato. Il capitolo si chiude con uno sguardo ai danni dell’abbondanza e della scarsità della circolazione.

 

 

Questo il volume del Pierson: uno dei più bei frutti di quella scuola di Economisti olandesi, il cui unico torto è stato quello di avere scritto in una lingua che ben pochi capiscono. Cosicché il miglior augurio che si possa fare al pubblico colto italiano si è che presto la Casa Macmillan pubblichi la traduzione del secondo volume. Un augurio ancora migliore sarebbe che qualche Casa editrice nostra ne assumesse la versione italiana. Se questo voto sarà esaudito, l’Italia possederà, accanto ai manuali di scienza pura, anche un trattato il quale, pur non essendo a quelli inferiore per il rigore scientifico, rappresenti come un addentellato più stretto fra la scienza e la realtà quotidiana. In tempi in cui tutti parlano, per diritto e per traverso, di problemi economici senza mai avere studiata la scienza economica, non sarà questo un piccolo beneficio.

 

 



[1] Dr. N.G. Pierson, Principles of Economics, translated from the Dutch by A.A. Wotzel: Vol. I. London. Macmillan. Un vol. in 8° gr. di pp. XXX 604. Prezzo 10 scellini net.

Le responsabilità delle leghe operaie. Un lodo arbitrale americano

Le responsabilità delle leghe operaie. Un lodo arbitrale americano

«Corriere della Sera», 25 maggio e 19 giugno[1] 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 42-49

 

 

I

 

È ancora vivo il ricordo dello sciopero gigantesco dei minatori della Pennsylvania dell’anno scorso. Gigantesco per il numero degli operai che abbandonarono il lavoro e che furono ben 147 mila; notevole per la sua durata, dal 12 maggio al 23 ottobre 1902; grave per le sue conseguenze, fra cui la perdita di 24 milioni e 604 mila tonnellate di antracite del valore di 46 milioni di dollari (230 milioni di lire), di 25 milioni di dollari di salari, di 28 milioni di dollari di guadagno per le ferrovie, e sovratutto per la «fame del carbone», la quale negli ultimi mesi dell’autunno era divenuta così acuta negli Stati uniti da minacciare giorni terribili di freddo alla popolazione delle grandi città. Sotto la pressione del pubblico il presidente Roosevelt alla fine intervenne e persuase imprenditori ed operai a deferire ad una commissione arbitrale da lui scelta la risoluzione del grandioso conflitto, il maggiore che la storia economica americana ricordi. Il 23 ottobre gli operai, in attesa del lodo arbitrale, ritornavano al lavoro; e, se non si impedì così che i prezzi del carbone rimanessero altissimi durante tutto l’inverno, si riuscì almeno a fare in modo che la popolazione non fosse costretta a troppo grave sacrificio.

 

 

Lunghi furono i lavori della commissione, composta di un membro dell’ammiragliato, di un ingegnere delle miniere, di un giudice federale del circuito della Pennsylvania, di un sociologo eminente, di un commerciante in antracite e dell’on. Carroll Wright, commissario federale del lavoro. Noi non vogliamo qui ritornare sul lodo arbitrale, il quale concesse un aumento dei salari del 10% ed una diminuzione delle ore di lavoro; stabilì una scala mobile per cui ad ogni aumento dei prezzi corrisponde un aumento dei salari, concesse garanzie per il peso del carbone, per la paga del salario, ecc. Tutto ciò è storia locale e non ha interesse all’infuori degli Stati uniti. Quello che invece interessa molto è la parte del rapporto della commissione che tratta dei rapporti fra leghe operaie ed imprenditori. Da queste pagine – le quali si leggono nel Bulletin of the Department of Labor del maggio corrente, giunto in Italia da pochi giorni – anche noi possiamo ricavare alcuni preziosi insegnamenti.

 

 

Chiedevano gli operai, per bocca del loro presidente Mr. Mitchell, che i patti relativi al salario ed alle altre condizioni di lavoro fossero incorporati in un contratto conchiuso tra l’associazione generale dei minatori d’America detta «United Mine Workers of America» e le società carbonifere dall’altro lato. Era il riconoscimento aperto dell’obbligo degli imprenditori di trattare non con gli operai singoli, ma esclusivamente con la lega, considerata come rappresentante di tutti gli operai, ascritti o non ascritti alla lega. La commissione arbitrale dovette respingere la domanda, perché l’accettarla esorbitava dalle sue facoltà legali: ma però credette opportuno di esprimere il suo avviso intorno al riconoscimento delle leghe operaie; e su questo autorevolissimo parere è opportuno fermarci un istante, poiché si tratta di un problema, pur vivo e palpitante da noi.

 

 

La commissione opina in tesi generale che gli imprenditori hanno interesse a trattare direttamente colle leghe, per rafforzarle e trasformarle in un elemento di pace. L’ostinarsi a non volerle riconoscere fa sì che nella massa operaia prevalgano gli animi più accesi e si presti orecchio alle proposte più estreme.

 

 

Anche le leghe, per rendersi meritevoli di fiducia, devono inspirarsi però a certi concetti fondamentali. Esse non devono ordinare l’abbandono del lavoro prima che sia spirato il termine stabilito per contratto o per consuetudine; non devono impedire di lavorare a chi lo voglia, né imporre i proprii metodi di risolvere le questioni del lavoro a quegli operai, i quali si vogliono valere di altri metodi. Le leghe debbono cercare di rendersi utili a tutti gli operai, così da contare di fatto tutta la maestranza nelle proprie file; ma non devono offendere i diritti individuali inviolabili degli operai non unionisti; epperciò una maggioranza di unionisti non ha il diritto di imporre la propria volontà ad una minoranza di non unionisti, o di vietare agli imprenditori di impiegarli. Ogni atto contrario a questi principi è una invasione nel campo della libertà individuale e del diritto che gli imprenditori hanno di organizzare le loro imprese nel modo migliore possibile; e deve perciò apertamente essere condannato.

 

 

Né basta. Le leghe, se vogliono essere rispettate, non debbono cadere nelle mani di inesperti o di persone facili a riscaldarsi ed a commettere spropositi. Troppo gravi sono le decisioni che le leghe sono chiamate a prendere; e troppo alta è la loro responsabilità, perché ai giovani che non hanno ancora raggiunta la maggiorità legale sia concesso il diritto di voto. Solo i maggiori di età debbono poter votare: insegnamento da non trascurarsi da quelle leghe italiane, le quali decisero anche recentemente scioperi coi voti di ragazzi e di donne minorenni.

 

 

Nessuno sciopero dovrebbe essere deliberato se non a maggioranza dei due terzi dei delegati del distretto. Il voto dovrebbe essere segreto, con esclusione assoluta dell’appello nominale o dell’alzata di mano. La decisione favorevole allo sciopero dei delegati del distretto dovrebbe, prima di essere applicata, ottenere ancora l’approvazione del presidente generale della lega; ed in caso di disaccordo fra i delegati di distretto ed il presidente dovrebbe decidere il consiglio esecutivo nazionale.

 

 

Finalmente, ad un’ultima circostanza si dovrebbe badare. Spesso le leghe sono composte d’operai appartenenti bensì alla medesima industria, ma occupati in stabilimenti i quali producono articoli alquanto diversi e fra di loro concorrenti. Era il caso dei minatori americani, i quali si distinguono in minatori di antracite ed in minatori di carbone bituminoso, che è un concorrente dell’antracite. Quelli che scioperarono erano i minatori di antracite; e gli imprenditori si rifiutarono a trattare con la lega generale dei minatori, l’«United Mine Workers of America» perché dicevano che i minatori di carbone bituminoso avevano interesse ad incoraggiare nel consiglio generale della lega alla resistenza, allo scopo di avere essi maggior lavoro; ed aggiungevano che gli stessi imprenditori di carbone bituminoso avevano fornito fondi agli scioperanti, per acuire il bisogno di carbone e vendere la propria accresciuta produzione ad un prezzo più rimuneratore.

 

 

Come si vede, è un caso che, sotto forme diverse, si è verificato e può verificarsi pure da noi; e non basta, per risolverlo, fare appello ai soliti luoghi comuni della solidarietà operaia e simili. La commissione arbitrale diede pienamente ragione agli imprenditori; e deliberò di non poter consigliare a questi di trattare con la lega operaia, finché i minatori di antracite non si fossero uniti in una lega speciale od almeno in una sezione autonoma della «United Mine Workers of America». Solo quando le decisioni relative all’industria dell’antracite fossero affidate unicamente ai minatori di antracite, la commissione potrebbe consigliare agli imprenditori di trattare sempre e soltanto colle leghe. A tal uopo essa ha preparato un progetto di statuto di lega modello, che sarebbe utile fosse studiato in Italia da organizzatori di operai, da imprenditori e da uomini politici.

 

 

Altre osservazioni potremmo aggiungere sulla scorta del rapporto americano. Quanto abbiamo detto ci sembra basti a dimostrare come il problema del riconoscimento delle leghe non sia insolubile. Occorre soltanto che le classi imprenditrici ed operaie siano animate da spirito di giustizia, da rispetto verso i diritti altrui, e dal desiderio di elevarsi moralmente per poter assumere la responsabilità delle proprie decisioni in problemi tanto gravi per la società intiera.

 

 

II

 

La commissione arbitrale nominata dal presidente Roosevelt per risolvere la gravissima lotta fra gli imprenditori ed i minatori d’antracite della Pennsylvania non aveva creduto di poter raccomandare agli imprenditori di trattare direttamente colla lega operaia, per alcuni gravi difetti che questa presentava nel modo del suo funzionamento; ed aveva fatto proposte le quali, accolte, avrebbero tolti quei difetti ed avrebbero reso consigliabili i rapporti diretti fra imprenditori e leghe.

 

 

Il fatto di uno statuto di lega modello proposto da una commissione governativa nominata dal capo di un grande stato è così segnalato, almeno per i non abituati alla franchezza ed alla spontaneità del modo di pensare americano, che val la pena di ritornarvi su; ed anzi di riprodurre senz’altro, quasi letteralmente, i principali articoli di questo statuto semi-ufficiale per le leghe operaie.

 

 

  • La lega dovrà essere composta e governata dai minatori di antracite, senza alcuna ingerenza ai minatori di carbone bituminoso (i quali appartengono ad una industria concorrente). In ogni caso vi dovrà essere una sezione separata ed autonoma della lega dei minatori riservata a quelli che vivono nel bacino antracitifero.

 

 

  • Tutti gli operai impiegati dentro o fuori delle miniere, eccettuati i sovrastanti, gli impiegati d’ufficio ed i capi in genere, possono far parte della lega; purché i giovani al disotto dei vent’anni non abbiano voce e voto nelle risoluzioni relative a scioperi.

 

 

  • Per ogni miniera vi dovrà essere una sezione speciale della lega, composta di operai che in essa siano impiegati e diretta da ufficiali scelti dai medesimi operai nel loro seno. Il comitato direttivo della sezione dovrà cercare, abboccandosi coi dirigenti la miniera, di risolvere tutte le questioni particolari alla miniera, quando il socio leso nei suoi interessi non sia riuscito ad accomodare la cosa col suo immediato superiore.

 

 

L’articolo ha per iscopo di impedire che per ogni piccola questione i dirigenti la miniera si veggano capitare in ufficio persone che non appartengono allo stabilimento e che possono far nascere attriti inutili. Solo per le questioni gravi si ricorrerà a persone estranee alla miniera, come è spiegato negli articoli successivi.

 

 

  • Ogni miniera nominerà uno o più rappresentanti nel comitato generale degli operai impiegati presso la medesima società imprenditrice, quando questa possegga parecchie miniere. Dinanzi a questo comitato saranno portate le questioni che non si saranno potute risolvere dalle sezioni di ogni singola miniera. Il comitato degli operai si abboccherà coi dirigenti superiori dell’intrapresa e si cercherà di venire ad una intesa.

 

 

Come si vede anche in questo secondo stadio della procedura si è cercato di mantenere il contatto fra la impresa ed i suoi operai. In prima istanza, per dir così, l’ingegnere direttore del pozzo tratta con i delegati degli operai del suo pozzo; in seconda istanza i direttori superiori dell’intrapresa trattano con i delegati di tutti gli operai della ditta. Sinora non si sono ancora visti delegati i quali non siano anche impiegati nella medesima intrapresa. Questi entrano in scena solo nella terza istanza.

 

 

  • La quale opera nel modo seguente. Ogni sezione della lega, oltre a nominare uno o più delegati nel comitato generale degli operai impiegati dalla stessa ditta, invia altresì un delegato all’assemblea generale (Convention) rappresentante di tutti i minatori d’antracite, a qualunque ditta siano ascritti. L’assemblea generale stabilisce le regole per il funzionamento interno della lega, gerisce i fondi sociali, fissa la quota dei soci, e nomina un presidente ed altri ufficiali generali della lega.

 

 

Quando una disputa non si sia potuta risolvere né in prima, né in seconda istanza, allora, ma allora soltanto, il presidente o gli altri ufficiali generali della lega possono intervenire – benché non impiegati della ditta – nelle conferenze che si tengono fra i dirigenti l’impresa ed il comitato generale degli operai della ditta. Costoro, che son direttamente interessati, non si traggono in disparte, ma pur rimanendo a trattare, durante le trattative sono consigliati e sorretti dai capi lega, che di regola sono estranei al corpo degli operai della ditta. I capi lega così operano come periti i quali intervengono a consigliare gli operai nei casi più difficili.

 

 

  • Quando nemmeno la conferenza plenaria, coll’intervento dei capi lega, abbia portato ad alcuna conclusione, il punto litigioso dovrà essere deferito ad un comitato arbitrale, il cui lodo le parti si sono obbligate a rispettare per contratto collettivo fra la lega e l’impresa.

 

 

  • Siccome però l’arbitrato non è obbligatorio per legge, ma si raccomanda solo che la clausola arbitrale sia inserita nei contratti collettivi di lavoro fra imprenditori e leghe, così potrà ben darsi che non per tutti i casi di controversia la clausola arbitrale funzioni, e sia quindi ancora aperta la via agli scioperi.

 

 

La commissione prevede anche questa possibilità e propone che mai uno sciopero possa essere deliberato prima che si siano esauriti tutti gli stadi della procedura e le parti abbiano onoratamente fatto ogni sforzo per la pacifica soluzione della questione; e dispone inoltre che lo sciopero non possa essere deciso se non sia stato approvato dal suffragio segreto dei due terzi degli operai interessati ed aventi diritto al voto.

 

 

Questo il disegno della commissione, che fa appello ai seguenti principi: franchi e cordiali rapporti tra le parti; riconoscimento dei diritti degli operai ad essere rappresentati dalle loro leghe; accettazione di tutti gli operai, senza riguardi ad antichi rancori od a pregiudizi, nella lega; pubblicità massima sul funzionamento e sulla direzione di essa; cautele contro gli scioperi tumultuosi o di simpatia; rapporti diretti tra l’impresa ed i suoi operai; intervento di estranei a consigliare gli operai solo in terza istanza; ed adempimento scrupoloso dei patti per tutta la durata delle convenzioni.

 

 

La commissione, non composta di visionari, ma di uomini pratici, conchiude il suo interessante schema così: «Diversità di pareri fra imprenditori ed operai nasceranno sempre; ma se ambe le parti sono animate dal desiderio e legate dal patto di deferirne la risoluzione all’arbitrato, ove sia necessario, vi sono adeguate garanzie di pace e di amichevoli relazioni».

 

 

L’augurio della commissione è già diventato realtà in molti casi, di cui il rapporto ci presenta la lista. Fra di essi è da ricordare l’esempio dell’accordo contrattuale fra l’associazione dei proprietari di giornali e la unione tipografica operaia. Quest’accordo funziona tanto bene che il direttore di un grande giornale di St. Louis finisce una sua lettera dicendo: «Tutto sommato, l’arbitrato non è un ideale; è molto meglio: è pratico».

 

 



[1] Con il titolo Lo statuto di una lega modello. [ndr]

La statistica delle società per azioni

La statistica delle società per azioni

«La Riforma Sociale», 15 maggio 1903

Studi di economia e finanza, Società tipografico editrice nazionale, Torino-Roma, 1907, pp. 21-32

 

 

 

 

A proposito dell’opera: Felix Samary, Die Aktiengesellschaften in Oesterreich, Wien. Manz’sche K. u. K. Hof-Verlags und Universitäts-Buchhandlung, 1902.

 

 

Le Società per azioni sono un fenomeno interessante a parecchi punti di vista: il giuridico, l’economico e lo statistico. Noi non possiamo qui di proposito accennare a tutti questi problemi ed ancor meno studiare a fondo anche uno solo di essi; ma vogliamo solo rendere conto dei risultati a cui è giunto il dottor Samary in un suo studio sulle Società per azioni in Austria, inserito prima nella rivista Statistischen Monatschrift, di Vienna (1902), ed edito poi a parte, arricchito di appendici e di tabelle.

 

 

Al punto di vista economico, forse la più suggestiva domanda che ci si possa fare intorno alle Società per azioni, è questa: rendono desse più o meno delle altre forme di Società, delle intraprese individuali, delle intraprese dette cooperative, ecc., ecc.? È possibile cioè di poter stabilire statisticamente la produttività netta comparativa delle Società per azioni e delle altre intraprese, tenuto conto delle differenze di mercato, di dimensioni, di industrie, di tempo?

 

 

Alla domanda, per quanto suggestiva, non si è ancora dato statisticamente una risposta; ed anzi mancano persino i materiali greggi, sulla base dei quali si possa fare il tentativo di una risposta. Poiché invero, innanzi di saper dire se le Società per azioni rendono più o meno delle altre forme di intrapresa, è necessario conoscere quanto rendano esse medesime. Come si fa ad ottenere questo dato, che a tutta prima sembra semplicissimo, del guadagno netto delle Società per azioni? Non certo lo conosceremo badando alla pura e semplice cifra del dividendo distribuito agli azionisti, poiché bene spesso il dividendo è solo una parte del guadagno netto, essendosi l’altra parte mandata a riserva; e non di rado il dividendo è fittiziamente prelevato sul capitale. Nemmeno potremo dire che il guadagno netto sia quella cifra che con quel titolo viene indicata nei bilanci delle Società per azioni. Poiché di solito gli amministratori considerano come guadagno od utile o rimanenza o residuo attivo netto quella somma sulla cui destinazione deve deliberare l’assemblea degli azionisti. E l’assemblea di solito delibera destinandone una parte: 1) alle svalutazioni straordinarie dell’impianto che si fossero rese necessarie; 2) alle partecipazioni concesse agli amministratori ed al personale direttivo della Società; 3) alle varie forme di riserva, ordinarie e straordinarie, per garanzia contro le oscillazioni dei titoli; e solo la parte residua lo destina a pagare un dividendo alle azioni. Neppure le diverse Società adottano un criterio unico nella fissazione del guadagno netto; poiché le une vi comprendono ed altre ne escludono le somme destinate alle svalutazioni ed alle riparazioni, cosicché ogni comparazione sui dati grezzi riesce impossibile.

 

 

Per girare tutte queste momentose difficoltà, il dottor Samary propone che il guadagno netto delle Società per azioni debba consistere nella somma complessiva che indirettamente o direttamente è ripartita dall’intrapresa degli azionisti.

 

 

Il guadagno netto dell’intrapresa risulterebbe così da una differenza: «Guadagno degli azionisti – Perdita degli azionisti».

 

 

Innanzi tutto il guadagno degli azionisti, il quale comprende parecchi elementi: a) dividendi distribuiti agli azionisti, dividendi che di quel guadagno sono la parte più importante sebbene non la sola; b) gli incrementi dei fondi di riserva, i quali possono considerarsi come parte del capitale, esclusi quindi i fondi di riserva per le oscillazioni dei titoli, per il pagamento di premi agli impiegati o di imposte, esclusi cioè quei fondi che sono una spesa. Siccome i fondi di riserva, anche se non costituiscono una spesa corrente, sono destinati a far fronte alle perdite eventuali, potrebbe sembrare utile di aspettare a vedere se le perdite non si verifichino per sapere se i fondi di riserva siano entrati nel patrimonio degli azionisti. Ma se si ragionasse in tal modo, converrebbe aspettare o che la Società si liquidi o che distribuisca la riserva agli azionisti, coll’inconveniente di far figurare come guadagno di un solo anno il guadagno che invece si è ottenuto gradatamente in un periodo più o meno lungo di tempo. Invece è più opportuno di considerare l’incremento di riserva che si è verificato in un anno come un guadagno e la diminuzione, destinata in un altro anno a coprire una perdita, come una vera e propria perdita. In questo modo si ha il vantaggio di avere un quadro più esatto delle vicende successive delle Società, separando gli anni di guadagno dagli anni di perdita. Gli incrementi della riserva, che vengono considerati come un guadagno, sono quegli incrementi che si verificano dopo che alla riserva siano state aggiunte o tolte le somme che in via normale debbono essere aggiunte o tolte ogni anno; c) le somme destinate a coprire i disavanzi degli anni precedenti. Sono anche queste un guadagno, quando i disavanzi corrispondenti siano stati considerati come una perdita; d) il guadagno di liquidazione, ossia la somma per la quale il ricavo dalla liquidazione della Società supera il capitale sociale ed i fondi di riserva; e) il guadagno di preferenza. Quando delle nuove azioni sono concesse agli azionisti ad un prezzo più basso di quello usuale di emissione, la differenza costituisce per gli azionisti un guadagno.

 

 

A questi guadagni corrispondono le perdite degli azionisti, le quali si compongono così: a) il disavanzo del bilancio annuo, tenuto conto di tutte le perdite, sia pure mascherate; b) le riduzioni del capitale sociale, le quali sono in sostanza delle perdite gradualmente verificatesi e che non si vollero confessare subito; c) le perdite della liquidazione e del fallimento risultanti dalla differenza fra la somma ricavata dalla liquidazione da una parte ed il capitale sociale, più le riserve, più il saldo delle perdite già conteggiate negli anni precedenti.

 

 

Definiti così con precisione i dati primi che la statistica delle Società per azioni deve manipolare, è possibile formarci un’idea approssimativa dei loro risultati economici. Disgraziatamente non sempre il materiale statistico che si ha a propria disposizione è completo e tale da prestarsi a conclusioni soddisfacenti. Il materiale per l’Austria, di cui poté disporre il Samary, non rimonta più in là del 1878 e soltanto rispetto al numero delle Società per azioni, alla loro data di fondazione ed al loro capitale si può risalire più indietro. Ma, anche così ridotti, quei materiali ci offrono il mezzo di ricavarne conclusioni interessanti.

 

 

Il numero totale delle Società per azioni, fondatesi in Austria dopo la prima che risale al 1816, fu di 1.142 con 1.640.783.000 fiorini; e di queste, ben 538 con 706.257 mila fiorini liquidarono (43,3% del capitale azionario), 94 con 56.420 mila fiorini fallirono (3,4%) e solo 510 Società, con un capitale di fondazione di 878.005 mila fiorini, seppero mantenersi; ossia solo il 53,3% del capitale azionario. Questo risultato complessivo si distingue in tre periodi storici nettamente distinti. Il primo periodo va dal 1816 al 1865; e durante esso si fondarono 113 Società per azioni con 254.695 mila fiorini di capitale; di queste 55 con 4133 mila fiorini liquidarono (16,7%), 6 con 1.326 mila fiorini fallirono (0,5%), e 52 con 210.236 mila fiorini (82,8%) si mantennero. Era un periodo in cui poche Società si fondarono; e per la maggior parte si trattava di creazioni solide. Il secondo periodo invece, che va dal 1866 al 1873, è il più breve, ma anche quello maggiormente seminato di cadaveri; come del resto era facile presumere da quanti conoscono la febbre straordinaria di speculazione che si impadronì dell’Austria in quegli anni e che condussero alla fondazione di ogni sorta di intraprese, ragionevoli e pazzesche; tanto che quello fu appunto detto il Gründungsperiode. La terribile crisi del 1873, della quale non è spento ancora il ricordo, spazzò via la maggior parte di quelle creazioni effimere; e le cifre riportate dal Samary ce ne danno una rappresentazione singolarmente suggestiva.

 

 

Dal 1866 al 1873 furono invero fondate 731 Società con 1.011.692 mila fiorini di capitale; e di esse ben 442 con 639.962 mila fiorini liquidarono (63 e mezzo per cento), 85 con 54.275 mila fiorini fallirono (5,1%) e solo 204 con 317.457 mila fiorini riuscirono a salvarsi (31,4%).

 

 

L’esperienza disastrosa giovò; sicché nel terzo periodo, che va dal 1878 al 1900, si fondarono solo più 298 Società con un capitale azionario di 374.396 mila fiorini; e di esse liquidarono 41 con 23.164 mila fiorini (6,2%), fallirono 3 con 820 mila fiorini (0,2%), e rimangono in vita 254 con 350.412 mila fiorini di capitale (93,6%).

 

 

Le vicende che abbiamo ora descritto ci spiegano come, attraverso alle vittorie ed alle sconfitte, il numero ed il capitale delle Società esistenti nei diversi anni abbiano subito un andamento oscillante. Nel 1830 esistevano 8 Società con 30.02 milioni, ed il numero sale a 111 nel 1865 con un capitale di 315 milioni. Nel maggio 1873 si raggiunge il punto massimo con 815 intraprese e 1291.29 milioni di capitale. Segue la crisi che spazza via, come il vento le foglie d’autunno, le intraprese instabili, sicché nel 1879 si giunge al punto più basso con 411 Società e 603.15 milioni.

 

 

E qui ci fermiamo immobili per quasi 15 anni; alla fine del 1894 troviamo ancora 413 intraprese con 711.1 milioni di capitale. Ricomincia allora lentamente il movimento all’insù e nel 1900 contiamo 529 Società con un capitale di 1005.28 milioni di fiorini. Non abbiamo ancora riconquistato le posizioni del 1873.

 

 

Cosa interessante a notarsi, il capitale delle Società in media diventa sempre più elevato. Mentre nel 1873 il capitale sociale medio era di 1.55 milioni di fiorini; nel 1886 di 1.6 milioni, nel 1896 di 1.75, e nel 1899 di 1.83 milioni.

 

 

Le piccole Società sono in parte fallite a causa della crisi (Società di costruzioni), ed in parte soggiacquero alla concorrenza delle grandi intraprese nazionali (industria dello zucchero) od alla concorrenza straniera (mulini a vapore).

 

 

Il capitale medio delle intraprese che liquidarono fu di 1.32 milioni, di quelle che fallirono di 0.6 milioni; mentre invece il capitale delle nuove Società raggiunse 1.83 milioni in media. Altra prova codesta che le Società nuove sono più potenti delle antiche.

 

 

I fondi di riserva salgono da 42.11 milioni nel 1878 (6,7% del capitale azionario) a 183.32 milioni di fiorini (18%) nel 1900; e ciò dimostra come più oculate norme di prudenza presiedano all’Amministrazione delle Società per azioni.

 

 

Quanto al guadagno netto, che per noi la cifra più interessante, su 8.872 bilanci, compilati nel periodo 1878/1899, se ne chiusero 7.338 con un guadagno e 1.534 con una perdita. Ecco il bilancio dei guadagni e delle perdite (in milioni di fiorini):

 

 

Guadagni:

 

   
a) Dividendo ……………………………………

933.43

b) Aumento della riserva ……………………

150.12

c) Copertura dei disavanzi precedenti ….

23.58

d) Guadagno di preferenza ………………..

23.50

e) Guadagno di liquidazione ……………….

1.23

Totale guadagni ……..

1131.87

1131.87

 

Perdite:

 

a) Disavanzo dei bilanci annui …………….

62.28

b) Riduzioni del capitale sociale ………….

16.93

c) Perdite di liquidazione e di fallimento

42.51

d) Perdite della riserva ………………………

1.13

Totale perdite ………

122.86

122.86

Guadagno netto ………

1009.01

 

 

Siccome il capitale su cui questo guadagno si distribuisce ammonta a 14.854.2 milioni, così ne risulta che il guadagno netto medio fu, durante il 1878-1899, del 6,75%.

 

 

Non tutte le specie di intraprese ottennero un risultato consimile, che si può considerare come abbastanza remunerativo. Ecco un quadro del tasso di guadagno ottenuto nelle varie specie e sottospecie disposte in ordine decrescente:

 

 

I. Società d’assicurazione……

13,30%

 
II. Banche ………………………….

8,5%

 

 

 

Gazometri

16,60%

Industrie diverse

10,60%

Spiriti ed acquavite

7,76%

Macchine, metalli ed armi

7,66%

Birra

7 – %

Materiali da costruzione

5,86%

Carta

5,14%

Miniere ed acciaierie

3,60%

Industrie tessile

3,33%

Zucchero

2,80%

Società di costruzione

0,01%

Mulini a vapore

–  2%

   

 

 

 

 

 

 

 

 

III. Società industriali………….

5,27%

 

 

 

 

IV. Società diverse

4,65%

 
V. Società di comunicazione

4,20%

 

 

 

In media in ogni gruppo il tasso del guadagno netto si conservò superiore al 4% e soltanto in alcuni gruppi delle Società industriali si scese al disotto.

 

 

Le miniere sono in tutti i paesi un genere di intraprese molto aleatorio; e non è quindi meraviglia che anche in Austria il guadagno medio non sia molto elevato e che le più potenti Società non abbiano per lunghi anni pagato alcun dividendo. È un’industria in cui si possono ottenere dei guadagni altissimi ed andare incontro a perdite fortissime.

 

 

Si guardi ai dividendi medi di queste che sono le più forti Società dell’Austria (in %):

 

 

 

1880-1890

 

1890-1901

Oesterreichische Alpine Montangesellschaft

1,8

4

Kohlenindustrieverein…………………………….

Prager Eisenindustriegesellschaft………………

4

17

Bruxer Kohlenbergbaugesellschaft…………….

3

11

Rossitzer Bergbau………………………………………

3

5

Böhmische Montangesellschaft…………………….

2

14

Westböhmischer Bergbau – A – B – ……………….

2

6

Trifailer Kohlenwerksgesellschaft……………….

5

11

Krainische Industriegesellschaft…………………

4

 

 

Oscillazioni così forti piacciono ai capitalisti avventurosi; ma come accade nei giochi di azzardo, essi non sono capaci a tenere conto in egual misura delle probabilità di perdita, come di quelle di guadagno; sicché in definitiva il risultato medio delle loro intraprese è inferiore a quello che si ottiene in altre intraprese più sicure, e meno emozionanti. È questa un’osservazione vecchia; e trova conferma nei dati del Samary.

 

 

Nell’industria tessile la concorrenza è molto viva; e nelle fabbriche di zucchero si avverte una tendenza spiccatissima alla scomparsa delle piccole intraprese. Ora siccome queste sono ancora numerose in Austria, così esse lavorano a costi alti e non possono presentare dei bilanci molto brillanti.

 

 

Ancora meno brillante è la situazione delle Società di costruzione, le quali erano in gran parte sorte nel periodo 1866-1873. Prima di quel periodo una sola Società esisteva di quel genere.

 

 

Nel 1873 erano diventate 41 nella sola Vienna, con 145.38 milioni di fiorini di capitale, e 19 nelle Provincie con 25.14. Adesso ne rimangono solo 11 con 12.18 milioni di capitale, le quali conducono una vita languidissima, anche perché la concorrenza degli imprenditori indipendenti è così forte, ed i ribassi di prezzi talmente elevati, che le Società devono bene spesso in definitiva lavorare a perdita.

 

 

La triste sorte dei mulini a vapore si spiega colla concorrenza ungherese, troppo forte da sostenere, per la vicinanza dei mercati di produzione dei cereali e per altre circostanze.

 

 

Nel 1873 le Società erano 18 con 3.9 milioni di capitale; alla fine del 1899 erano ridotte a 2 con 0.37 milioni. I fondi di riserva, che nel 1878 ammontavano a 0.37 milioni (tanto quanto oggi il capitale azionario!), si ridusse a 0.068 milioni.

 

 

I favoriti, nel campo delle Società per azioni, sono: Gazometri, le Società di assicurazione e le Banche.

 

 

La prima Banca, che fu anche nel 1816 la prima Società per azioni in tutta l’Austria, fu la «Nationalbank»l’odierna in «Oesterreichisch ungarische Bank».

 

 

Nel maggio 1873 le Banche per azioni erano 141 con 619 milioni. Dopo la crisi, nel 1878, il numero si trova a 45 con 236.3 milioni di fiorini di capitale. Alla fine del 1900 il numero è rimasto identico ed il capitale è salito a 388.6 milioni. Le azioni che valevano per ogni 100 fiorini nominali ben 215 fiorini in media nel 1871, caddero a 62 nel 1876, e risalirono sino a giungere a 186 nel 1894. Il più alto dividendo distribuito dalle Banche fu quello dell’80% dato dalla «Wiener Bankverein» nel 1872, e del 76  dato nel 1868 dall’«Anglobank». Seguono l’«Allgemeine Bodencreditanstalt» che nel 1872 diede il 26 il «Creditanstalt» che nel 1856 distribuì il  e la «Böhmische Escomptebank» che diede nel 1900 il

 

 

I dividendi medii delle Banche più forti sono elevati (in %):

 

 

 

1870-1880

1880-1890

1890-1901

 

Allgemeine Bodencreditanstalt………………..

8

11

18,3

Böhmische Escomptebank…………………….

9

9,1

13,3

Galizische A – Hypothekenbank………………

12,5

11,2

12,25

Creditanstalt…………………………………….

9,8

9,4

10,7

Wiener Bankverein……………………………..

17,4

6,8

8,13

Unionbank……………………………………….

5,5

5,7

8

Oesterreichisch – ungarische Bank……………

8,75

6,8

7,4

Anglobank……………………………………….

8,9

5

7

Niederösterreichische Escomptegesellschaft

11

6

6

Landerbank……………………………………

5

6

 

 

Anche le Società di assicurazioni hanno dovuto superare il loro periodo di crisi. Dopo la prima Società che fu la «Azienda assicuratrice» sorta nel 1822 a Trieste, se ne fondarono altre, sicché nel solo periodo dal 1871 al principio del 1873 ne erano sorte 27 con 16.8 milioni di fiorini di capitale, ed il numero totale era di 54 con 33.6 milioni. Alla fine del periodo di purificazione, nel 1880, le intraprese erano ridotte a 17 con 8.35 milioni. Nel 1900 si sono rialzate a 23 con un capitale di 25.43 milioni. Il dividendo più alto fu quello pagato dalle Assicurazioni generali, che nel 1895 diedero il 55,1%, nel 1901 il 58,2%; e, siccome il suo dividendo medio dal 1890 risulta del 47,2%, così il suo capitale, in un decennio, si è quintuplicato.

 

 

Ecco un breve quadro dei dividendi distribuiti nei due ultimi decenni dalle principali Società:

 

 

 

1880-1890

 

1890-1901

Assicurazioni generali ……………………

31

48

Anker …………………………………………..

25

20

Riunione adriatica ………………………….

11

14

Oesterreichische allgemeine Unfallversicherung……………………..

6

11,4

Donau ………………………………………….

9

8

Wiener Lebens – and Rentenversicherung ……………………….

5

8

Böhmische Ruckversicherung ………….

7

6

Rückversicherung Securitas …………….

5

6

Wiener Versicherungsgesellschaft…….

4

5

Phöenix ………………………………………..

7

4

Phöenix Lebensversicherungsgesellschaft……..

5

 

 

Le intraprese più fortunate, rispetto al dividendo (16,60% in media), furono senza dubbio le Società per la fabbricazione del gas. Il loro numero ammontava, nel 1873, a 20 con 14.21 milioni di capitale; nel 1878 erano ancora 20 con  milioni; ed ora sono 12 con 5.65 milioni.

 

 

Ma la diminuzione solo in poca parte è dovuta a liquidazione od a fallimento. Furono le città, che, accortesi dei lauti guadagni che si potevano ottenere dai gazometri, si affrettarono a municipalizzarli e così costrinsero alcune Società a sciogliersi ed altre a ridurre il loro capitale. Quanto sia alta la probabilità di guadagno delle intraprese del gas è dimostrato dal fatto che le azioni da 100 fiorini aumentarono costantemente sino a superare il corso di 667. Il più alto dividendo fu ottenuto dalla «Oesterreichische Gasgluhlicht und Elektrizitats A. G. (Auer)» che distribuì nel 1896 il 130% ed anche nel 1897 e 1898 pagò più del 100%. Segue la Wiener Neustädter Gasbeleuchtungsgesellschaft col 70% nel 1900, ed il dividendo minimo (dalla fondazione ad oggi), dell’8% nel 1875.

 

 

Così pure l’«Allgemeine österreich ungarische Gasgesellschaft» e la «Wiener Gasindustriegesellschaft» hanno distribuito dividendi anormali: il 45% la prima dopo il 1898; ed il 30% la seconda dal 1897 al 1899.

 

 

Ecco la media dei dividendi nelle principali Società (in %):

 

 

 

1880-1890

 

1890-1901

Allgemeine österr – ungar. Gasgesellschaft……….

27

34

Oesterreichische Gasglühlichtgesellschaft……….

69

Oesterreichische Gasbeleuchtungsgesellschaf….

11

9

Wiener Gasindustriegesellschaft ……………………..

8

17

Gasbeleuchtungsgesellschaft Wiener – Neustadt..

12

26

 

 

Ma queste sono eccezioni fortunate e dovute, come i grassi dividendi dei gazometri, a condizioni schiettamente monopolistiche, o, come gli altri dividendi delle imprese bancarie o di assicurazione, alla enorme difficoltà di suscitare una concorrenza efficace contro Istituti antichi che godono già di un largo credito; fattore codesto che ha altresì un carattere, se non di monopolio, almeno di rendita che è difficile scrollare.

 

 

Nelle altre intraprese, in cui questi fattori sono esclusi o non agiscono così potentemente, i dividendi non superano un limite molto modesto. Né si può dire che un guadagno netto medio del 6,75% sia veramente alto, se si tiene conto dei rischi che incombono ad ogni impresa industriale e commerciale. E neppure si può dimenticare che questo 6,75% tiene conto dei guadagni e delle perdite verificatesi dal 1878 al 1899; ma non comprende i guadagni e le perdite del periodo intorno al 1873, quando i guadagni erano in gran parte immaginari e le perdite tali, che condussero alla rovina moltissime Società.

 

 

Se si fosse potuto tenere conto anche delle perdite degli anni di liquidazione 1873-1878, forse quell’indice del 6,75% si sarebbe dovuto ribassare notevolmente. Così com’è, quell’indice ci rappresenta la potenzialità media di guadagno della forma d’intrapresa per azioni in un periodo che non si distingue né per eccezionali slanci, né per crisi deprimenti, in un periodo in cui l’opera dolorosa di liquidazione del terribile anno 1873 era già condotta a termine e la vita industriale si svolse con tranquillità e sicurezza. Quella cifra ci dimostra che le Società per azioni – quando siano tolte da un ambiente di eccessiva speculazione – possono dare buoni frutti.

 

 

Tranne poche ed appariscenti eccezioni, esse non sono lo strumento sicuro per cambiare le sabbie aride del deserto in oro colato, ma sono un sistema di organizzazione tecnica e di acquisto dei capitali e del credito che adempie, entro certi limiti, una funzione molto utile e discretamente remunerativa. Almeno questo ci dice l’esperienza dell’Austria. Forse in Italia i risultati sarebbero alquanto diversi; ma appunto il fatto che non se ne sa nulla di preciso dovrebbe tentare qualche accorto studioso a scrutare con pazienza un fenomeno così interessante.

Un esempio di partecipazione ai profitti

Un esempio di partecipazione ai profitti

«La Riforma Sociale», 15 aprile 1903

Studi di economia e finanza, Società tipografico editrice nazionale, Torino-Roma, 1907, pp. 15-20

 

 

 

 

(A proposito di un articolo di Walter Wellmann nella The American Monthly Illustrated Review of Reviews. March, 1903).

 

 

Le minaccie di sciopero dei ferrovieri e le trattative tumultuarie, conchiuse nel 1902 fra Governo, Società e rappresentanti del personale, hanno lasciato uno strascico di inquietudine. Si vorrebbe trovare qualche specifico per ovviare in futuro a pericoli così gravi ed a squilibri economici che sarebbero davvero spaventosi. Ma sinora i medici non si sono messi d’accordo sulla cura.

 

 

Fra le altre idee buttate innanzi, una ve n’ha, che per il suo carattere semplicistico, è probabile abbia larga accoglienza, ed anzi si afferma il Governo abbia già accarezzato; e sarebbe di inserire nelle nuove convenzioni ferroviarie, se e quando si conchiuderanno, una clausola per concedere al personale una partecipazione ai benefizi dell’esercizio, imitando l’iniziativa previdente delle ferrovie secondarie sarde. Noi non sappiamo sino a qual punto l’esempio di una piccola azienda, come quella delle secondarie sarde, possa essere imitato sulle due grandi Reti continentali. Ma vorremmo che gli entusiasmi per la partecipazione ai benefizi dovessero prima saggiare la loro virtù di resistenza alla rude scuola dei fatti. Ora questi ci dicono che la partecipazione ai benefizi nella sua forma classica, – se può riuscire utile nelle piccole aziende, dove tutti collaborano all’opera comune, se riesce vantaggiosa per interessare gli alti funzionari delle aziende grosse, i quali hanno responsabilità e la cui opera, più o meno intelligente ed amorosa, ha un’influenza diretta sui profitti, – produce effetti dubbi od addirittura irrilevanti quando la si voglia applicare al personale subalterno delle grandi aziende. Allora essa è malvista dagli operai a cui lega le mani nelle controversie cogli imprenditori; aumenta i salari alla fine dell’anno in proporzioni ben lungi dal rappresentare qualcosa di sostanziale, e finisce per venire in uggia a principali e ad operai: ai primi perché sancisce un quasi diritto di controllo degli operai sui loro affari; ai secondi perché, dopo aver lavorato con amore per la speranza di avere alla fine dell’anno una partecipazione larga ai profitti, vedono questi portati via da una crisi, dalla necessità di costituire un fondo di riserva straordinario, dall’inabilità dei direttori, tutte cose su cui essi non possono esercitare alcuna azione. In Inghilterra, dove si hanno le statistiche più precise in proposito, si sa che su 187 esperimenti di partecipazione ai profitti, iniziatisi dal 1829 al 30 giugno 1902, ben 98 finirono con un insuccesso assoluto, e di 11 non si hanno notizie; cosicché, mentre nel 1890 circa trentadue ditte avevano applicato il sistema, negli ultimi anni appena due o tre sperimenti nuovi all’anno si sono cominciati. Si aggiunga che, nei casi per cui si conoscono i risultati, il salario degli operai alla fine dell’anno fu accresciuto nel 1899 del 5,2% nel 1900 del 6,2% a causa degli utili distribuiti. Troppa poca cosa per rendere contenti e tranquilli gli operai.

 

 

Non si può dunque far nulla su questa via per rendere possibile la pace sociale? Ai fatti la risposta ed ai volonterosi che vorranno tentare nuove vie. Intanto vogliamo brevemente narrare di un grandioso tentativo fatto in quest’anno da quella che forse è la più potente Società industriale del mondo: United States Steel Corporation di cui tanto si è parlato quando il Morgan la fondò, a causa dei suoi cinque miliardi di lire di capitale. Che cosa non si disse allora contro il gigantesco trust che sorgeva all’orizzonte? Pareva che l’industria dell’acciaio dovesse fra breve essere monopolizzata da due, tre miliardari, despoti assoluti di tutto l’umile mondo dei consumatori.

 

 

A sfatare l’accusa ed a rendere simpatica la loro impresa, i suoi direttori si sono proposti uno scopo: rendere il popolo americano proprietario dell’azienda. Morgan ed i suoi collaboratori si considerano come degli uomini di fiducia incaricati di fondare l’azienda, renderla solida e diffonderne tutte le azioni nel popolo, cosicché non vi sia in fondo tra la loro impresa ed un’impresa pubblica, amministrata dal ministro del tesoro della Confederazione, nessun’altra differenza fuori di questa: che nel colossale tentativo di democratizzazione non sia impegnata la diretta responsabilità del Governo e non sia spezzata la molla potente dell’iniziativa individuale. È un programma grandioso ed in apparenza utopistico. Ma l’attuazione è già cominciata, con quella prontezza di decisioni che caratterizza gli Americani.

 

 

I metodi sono diversi a seconda delle persone. Per i 1750 impiegati alti, che compiono un lavoro di direzione e che ricevono un salario superiore a 2.500 dollari all’anno, è concessa una partecipazione ai benefizi dell’1% se gli utili saranno fra 80 e 90 milioni di dollari; e la partecipazione crescerà di un quinto di 1% per ogni dieci milioni in più di benefizi. Se nel 1903 i benefizi raggiungeranno i 140 milioni di dollari, i maggiori collaboratori a questo risultato, niente affatto improbabile, si divideranno fra di loro 3.150.000 dollari.

 

 

Ma il sistema non poteva servire per tutti i dipendenti in genere del trust, un vero esercito composto di 168.000 persone. Ed allora fu escogitato un altro piano: 25 mila azioni del «trust» furono offerte al prezzo di 82,50 dollari ciascuna agli impiegati. Per impedire che solo gli impiegati meglio pagati accaparrassero tutte le azioni (che erano offerte ad un corso inferiore a quello di Borsa) si divisero gli impiegati ed operai in sei classi: a) con più di 20.000 dollari di stipendio, che potevano impiegare nella compra non più del 5% dello stipendio; b) con salari da 10 a 20 mila dollari e limite dell’8%; c) con salari da 5 a 10 mila dollari e limite del 10%; d) con salari da 2.500 a 5.000 dollari e limite del 12%; e) (operai scelti) con salari da 800 a 2.500 dollari e limite del 15% ed f) (operai comuni) con meno di 800 dollari e limite del 20%. Il pagamento delle azioni si poteva fare a rate mensili non maggiori del 25% del salario; con un accreditamento del 7% sul versato ed un addebitamento del 5% annuo sul residuo a versare. Agli azionisti i quali per cinque anni avessero esatto il dividendo, rimanendo alle dipendenze della Società, questa si obbligò inoltre a pagare un dividendo supplementare di 5 dollari per azione all’anno, ossia 25 dollari alla fine del quinquennio. Cosicché un operaio che avesse comperato due azioni, obbligandosi a versare i 165 dollari in un anno, alla fine dei cinque anni avrebbe versato 165 dollari, ne avrebbe incassato 116.25 tra dividendi principali e supplementari, e si sarebbe trovato in possesso di due azioni del reddito di 14 dollari all’anno se egli fosse uscito dal servizio della Società e di 24 dollari se vi fosse rimasto.

 

 

All’offerta fatta il 1° gennaio del 1903 impiegati ed operai risposero con entusiasmo; sicché il 31 gennaio, quando si chiusero le liste di sottoscrizione, le 25 mila azioni erano sottoscritte tre volte. Ben 27.633 impiegati avevano sottoscritte 51.125 azioni. Di quest’armata di azionisti 12.170 appartenevano alla classe infima F e ad essi furono attribuite tutte le 15.038 azioni richieste; i 14.260 della classe E ottennero il 90% delle 29.013 azioni richieste; mentre alle classi più alte D, B, C ed A fu dato solo l’80, 70, 60 e 50% delle 7.000 azioni complessivamente domandate. È così un sesto dei dipendenti della Società è divenuto interessato alle sue sorti per un capitale azionario nominale di 4 milioni e mezzo di dollari. Incoraggiati dal successo i direttori del grandioso trust faranno l’anno venturo una offerta di azioni ancora più vistosa. Adesso essi hanno già 90 mila azionisti, compresi i nuovi venuti. Fra cinque anni calcolano di averne 250 mila; e non passerà lungo tempo, essi sperano,che in ogni famiglia americana, e sovratutto nelle famiglie degli operai dell’industria dell’acciaio, vi sarà qualche azione della Società.

 

 

Dal tentativo della Società fondata dal Morgan molto vi è da imparare, pur facendo le dovute differenze di luogo e di proporzioni. Esso ci dice che nulla impedisce di democratizzare l’industria, quando, per democratizzare un’industria si intende diffonderne le azioni tra gli operai e nel popolo; ma che a tale scopo non conviene concedere dei doni graziosi e sospettati, come sarebbe la partecipazione ai benefizi. Si pregia solo ciò che si è pagato, e vi è da scommettere che gli operai della U.S.S.C., divenuti capitalisti, si interesseranno molto alle sorti dell’azienda nella quale i loro sudati risparmi li hanno fatti entrare.

La statistica ed il concetto dell’equilibrio economico

La statistica ed il concetto dell’equilibrio economico

«La Riforma Sociale», 15 marzo 1903

Studi di economia e finanza, Società tipografico editrice nazionale, Torino-Roma, 1907, pp. 1-13

 

 

 

 

È verità antica che le varie scienze sono legate fra loro da vincoli strettissimi; cosicché ogni mutazione di indirizzo o di metodo la quale avvenga in una scienza esercita un’azione, più o meno profonda e diretta, sulle scienze affini, sia mutandone i metodi sia mettendo in luce problemi nuovi prima trascurati e che ora appaiono degnissimi di considerazione.

 

 

Uno dei rivolgimenti più significanti avvenuti nella Economia politica in quest’ultimo quarto di secolo fu la introduzione più larga del concetto sintetico dell’equilibrio economico. Gli economisti classici aveano fatto un uso notevole del processo di astrazione e di isolamento del fatto economico in genere e dei singoli fatti economici in ispecie, e questo uso li avea condotti a scoprire verità che rimangono anche adesso la base granitica di ogni investigazione ulteriore. Ma codesta abitudine avea altresì accresciuti i pericoli nei quali potevano cadere gli economisti mediocri – che sono legione – e sovratutto i politici pratici i quali, non avendo la mente formata alla comprensione delle sottili verità teoriche, si impazientivano ritrovandosi dinanzi a teoremi astratti, dei quali non si scorgevano i rapporti colla realtà complicata delle cose. E questi pericoli erano sostanzialmente due: – di scordarsi che i teoremi dimostrati veri dalla scienza postulavano un isolamento del fenomeno economico da tutti gli altri fenomeni della vita; e siccome quello che era vero teoricamente non si applicava senz’altro ai fenomeni complicati, i più conchiudevano essere la economia politica un gioco intellettuale senza nessun costrutto pratico; – e di dimenticarsi ancora che l’ipotesi iniziale di considerare come dati fissi alcune parti del fenomeno economico e come variabile un elemento solo era un’ipotesi plausibile solo entro certi limiti. Invece si costruirono delle catene di ragionamenti per cui da un unico fenomeno si facevano discendere, a guisa di serie, altri fenomeni collegati fra loro col rapporto di causa ad effetto: esempio massimo la dottrina classica dei rapporti fra il costo di produzione ed il valore. E si trascurava così la ricerca dei rapporti di azione e di reazione che intercedono fra gli elementi del fenomeno economico, per cui essi appaiono tutti interdipendenti l’uno dall’altro, né è possibile dire quale sia la causa e quale l’effetto, ma tutti entrano a far parte di un sistema che ognora tende verso il proprio equilibrio.

 

 

Di qui un duplice movimento di integrazione esterna e di perfezionamento interno nella economia politica.

 

 

Da una parte, dopo avere isolato il fenomeno economico ed averne studiate le leggi, si tende a vedere come queste siano nella loro azione intersecate dall’azione di altre leggi morali, giuridiche, politiche, ecc.; e si tende a costruire una scienza più complessa e più vicina alla realtà, la quale ponga in chiaro la risultante di tutte queste leggi economiche o politiche o giuridiche pure. Codesta scienza complessa – che la moda vuole oggi si chiami sociologia – è ancora ben lontana dall’essere costituita. Ma gli sforzi dei ricercatori continuano indefessi.

 

 

Dall’altra parte, nell’ambito medesimo della scienza economica, si tende a sostituire sempre più agli antichi metodi di isolamento e di analisi una maniera nuova e più larga da concepire tutti i fenomeni economici come legati fra di loro da rapporti di interdipendenza. Come nell’astronomia non si crede più che la terra sia la causa dei movimenti del sole o viceversa, ma si ritiene che terra e sole e tutti i pianeti e tutte le stelle facciano parte di un sistema in equilibrio le cui leggi sono spiegate dall’ipotesi massima della gravitazione universale; così nella Economia politica si ritiene inesatto dire che il costo di produzione sia la causa del valore delle merci o viceversa; ed invece si dice che costo di produzione, prezzi, quantità prodotta, quantità consumata, depositi disponibili, quantità di beni strumentali rivolti alla produzione dei beni diretti, siano tutte quantità che dipendono le une dalle altre, e tali che, conosciute alcune di esse, anche le altre possano essere determinate, in base alle leggi che esprimano i rapporti di interdipendenza fra tutte quelle quantità.

 

 

Senonché sinora l’enunciazione di questi rapporti era rimasta per necessità di cose una enunciazione teorica; ed erano rari i tentativi di applicazione di questi nuovi criteri di studio ai fatti economici concreti.

 

 

Già all’estero se ne era sentita la influenza nelle investigazioni del Jevons, del Bowley ed ultimamente del Pease Norton nei suoi splendidi studi statistici sul mercato monetario di New York (New York, Macmillan, 1902).

 

 

E ben a ragione codesti statistici hanno saputo apprezzare la fecondità grandissima del concetto dell’equilibrio economico anche nella loro scienza. Anzi nella statistica l’idea della interdipendenza e dell’equilibrio delle forze è antica: e lo dimostra il largo uso che dagli statistici fu sempre fatto del metodo delle variazioni concomitanti. Di guisa che ben si potrebbe dire che quei concetti siano stati importati dalla scienza statistica nella economica. Ma come sempre accade, il fatto che gli economisti vedono ora i fenomeni da un punto di vista diverso che nel passato, fa in modo che anche la statistica economica si rivolga a studiare alcuni aspetti dei fenomeni prima trascurati. Se noi fissiamo, ad esempio, la nostra attenzione sui prezzi, vedremo subito che sinora le indagini statistiche si erano essenzialmente proposte come intento la costruzione di numeri indici delle variazioni di quei prezzi, e, per quanto non ne mancassero esempi insigni, era stato relativamente trascurato lo studio dell’azione e della reazione reciproca tra i prezzi, i costi, le quantità prodotte o consumate, i depositi disponibili, le quantità di beni strumentali ed i prezzi di questi, ecc., ecc.

 

 

Ecco invece che oggi gli statistici non possono sottrarsi all’influenza del nuovo indirizzo che si va facendo strada nell’economia politica; cosicché Antonio Graziadei, avendo voluto applicare l’agile suo ingegno allo studio di un fenomeno di statistica economica, ci presenta un saggio originale di applicazione del concetto dell’equilibrio economico alle statistiche dei prezzi. E poiché le indagini del Graziadei costituiscono una riprova – fatta magistralmente e su materiali ignoti – dei rapporti già ricordati tra i metodi economici ed i metodi statistici, vale la pena di discorrerne alquanto partitamente.[1]

 

 

Scopo dell’indagine sua, afferma esplicitamente il Graziadei nella lucida introduzione, non è quello di ricercare quale sia la causa dei prezzi, ma quella di ricercare, data una variazione nella quantità prodotta o consumata di una merce, quale sia il senso in cui varia il prezzo, e quale sia inoltre la misura della variazione avvenuta in un certo senso. Ricerche statistiche codeste, le quali si inspirano al concetto dell’equilibrio economico ed i cui risultati, ove la ricerca sia correttamente condotta, dovrebbero servire di riprova o di verificazione delle verità scoperte dai maestri della scienza. Ed affinché la indagine sia feconda di risultati esatti, il Graziadei si consacra anzitutto alla preparazione ed alla critica acconcia del materiale statistico che si tratterà poi di utilizzare.

 

 

I. La scelta della merce. Non tutti i beni invero si prestano ad una indagine statistica sui prezzi. Per alcuni il materiale è deficiente od incerto. I beni diretti, che pure riflettono meglio le variazioni del consumo, vanno incontro alla grave difficoltà che sono rarissimi i casi in cui si possono rilevare i prezzi al minuto; né, se fosse possibile ora la rilevazione, se ne potrebbe ottenere gran frutto per la mancanza di serie di prezzi complete nel tempo e nello spazio.

 

 

Per i beni strumentali, per cui si conoscono meglio i prezzi dei grandi mercati internazionali (ad es. grano, carbone, ferro, rame, ecc.) vi sono altre difficoltà: fra cui massima la incertezza delle cifre della produzione, del consumo e delle esistenze (l’A. chiama così le quantità prodotte, ma non ancora acquistate dai consumatori finali; ed è infatti il loro nome tecnico). Il Graziadei ha avuto la ventura di poter utilizzare un vasto materiale statistico relativo al nitrato sodico. È un’industria quella del nitrato di soda che è concentrata su un unico punto del globo, nelle provincie di Tarapaca e di Antofagasta del Cile ed è in mano tutta di grandi officine. Le quali poi sono riunite in una Associazione per la propaganda del nitrato (Associacion salitrera de propaganda), uno dei compiti principali è appunto di raccogliere e di pubblicare tutti i dati circa la produzione, l’esportazione, il consumo, i prezzi, le esistenze ed ogni altro particolare tanto all’interno che all’estero rispetto all’industria del nitrato di soda. È evidente come sia difficile trovare un’industria in cui lo studio dei prezzi e di tutti gli altri fenomeni economici possa farsi più esaurientemente.

 

 

II. La scelta delle fonti. Scelta la industria, occorreva scegliere, fra i tanti documenti noti, quelle che presentassero maggiori garanzie di attendibilità. Il Graziadei ben a ragione dà il primo posto alle Circolari dell’Associazione per la propaganda, nelle quali sono riassunte, di solito trimestre per trimestre, tutte le principali notizie relative all’industria.

 

 

Questa delle «circolari» è una fonte di studio per le statistiche economiche che meriterebbe di essere tenuta in maggior conto di quanto normalmente non si faccia. Le notizie che si leggono nelle riviste tecniche e nei rapporti ufficiali hanno spesso l’attendibilità derivante dalle cure coscienziose dell’investigatore; ma non possono avere quel grado di certezza che deriva dall’interesse personale. Invece le circolari che una associazione invia ai soci, la direzione di un trust agli industriali sindacati, il grossista ai clienti, il fabbricante e l’importatore ai grossisti, il banchiere agli uomini d’affari con cui è in rapporto hanno sempre quelle caratteristiche di interesse personale e diretto che spingono il compilatore a non fare delle divagazioni inutili, ma ad enunciare dei fatti e solo quelli che premono a sé od ai clienti. Le circolari possono essere diversamente colorite a seconda dell’interesse di chi scrive: ma si possono controllare esaminandone parecchie di diverse provenienze. Sulle circolari – che più o meno hanno una circolazione limitata e non vanno in pubblico – si dicono cose che non si scriverebbero sui giornali od in rapporti ufficiali. Esse meritano perciò di essere tenute in conto di documenti economici del più alto valore. Il supplemento annuo dell’«Economist», che esce ogni anno nel penultimo sabato di febbraio e contiene una rivista commerciale dell’anno precedente, è fondato in gran parte su codeste circolari delle grandi case inglesi. In Italia il Sole ne fa una miniera di notizie preziose; e ne è una prova il libro del Graziadei, il quale ha potuto esaminare 26 di queste circolari, dal 1894 al 1901.

 

 

Di importanza complementare sono le altre fonti a cui ricorre l’A. e cioè i rapporti annuali della Delegazione fiscale per i terreni salnitrosi, ed una Memoria del Console cileno Ross.

 

 

III. La critica delle fonti. Non basta avere delle fonti attendibili di studio. Occorre farne un esame critico per vedere quale sia il significato dei dati che vi si trovano contenuti. Invero quei dati non sempre hanno una significazione uniforme a quella convenzionale scientifica od a quella volgare. Spesso vogliono dire tutt’altra cosa, in rapporto a certe particolarità tecniche od a certe necessità pratiche di compilazione di cui non si può avere conoscenza senza un esame critico preliminare. Così nell’industria del nitrato di soda, è facile conoscere la cifra della produzione avendo l’Associazione di propaganda estesi poteri al riguardo; ed i dati sono sovratutto precisi quando l’industria è organizzata a regime di sindacato, essendo allora la quantità prodotta sottoposta al controllo della direzione. Anche il controllo della esportazione è facile poiché neppure un sacco del prezioso fertilizzante si dirige al consumo per una via che non sia la marittima, e ciò a causa della situazione geografica dei terreni salnitrosi. Più arduo è determinare la cifra del consumo. Impossibile per ovvie ragioni, conoscere la cifra che dai dettaglianti è venduta agli agricoltori che sono i consumatori definitivi del nitrato di soda inutile conoscere la quantità comprata dai grossissimi commercianti di Valparaiso o di Europa, poiché costoro spesso comprano, specialmente nei tempi di prezzi bassi, per speculazione e trattengono nei magazzini.

 

 

Opportuno, se pure non perfetto, si presenta il temperamento di considerare come consumate le quantità che furono vendute a Valparaiso prima della partenza, e che giunte in Europa non furono messe nei magazzini di deposito; aggiuntevi quelle quantità che erano nei magazzini di deposito e che ne uscirono per essere state vendute ai commercianti di seconda mano.

 

 

Le esistenze constano di tre gruppi quantitativi distinti: a) le quantità dell’articolo che sono già state elaborate nelle officine, ma che giacciono ancora invendute sulla costa cilena; b) i carichi di nitrato che hanno già abbandonati i porti del Cile, che viaggiano verso i paesi di consumo, ma sono ancora in proprietà dei compratori di prima mano; c) le differenze fra le quantità totali del prodotto giunte a destinazione e quelle parti di esse che sono già state rivendute, differenze che normalmente si trovano nei magazzini di deposito di Liverpool, Amburgo, Marsiglia, Genova, New York, San Francisco, ecc. I prezzi finalmente sono quelli contrattati fra i produttori ed i commercianti di prima mano sui grandi mercati di Valparaiso e di Europa. E, vista la impossibilità di conoscere i prezzi al minuto, occorre rimettersi ai prezzi all’ingrosso e supporre vera l’ipotesi che nello stesso senso – se non nella stessa misura – della loro variazione variino anche i prezzi al minuto; ciò che può ritenersi sufficientemente esatto.

 

 

L’industria del nitrato di soda presenta finalmente un’ultima particolarità: quella che si può fare astrazione dalle variazioni del costo di produzione; essendo questo, per unanime asserto di tutti i punti dell’argomento, rimasto costante da una ventina di anni a questa parte. Od almeno le variazioni sono di così poca entità che non val la pena di tenerne conto.

 

 

Compiuta così la scelta dell’industria, la scelta delle fonti e la critica dei dati, occorreva elaborare questi dati in guisa da ricavarne delle leggi empiriche le quali servissero di verifica a leggi teoriche già acquisite alla scienza o di stimolo a scoprire nuovi rapporti tra i fatti. Ed anche questa seconda parte del lavoro – di statistica applicata – è compiuta dall’A. egregiamente, con una copia singolare di osservazioni acute e di raffronti suggestivi. Occorrerebbe seguire a passo a passo l’A. nella sua cronistoria delle vicende statistiche dell’industria prescelta. Ce lo vieta lo spazio. Piuttosto è opportuno mettere in luce alcuni risultamenti più generali dell’indagine sua a dimostrare la verità di quanto dicemmo sopra, che cioè anche nella statistica si scorgono gli effetti dell’intervento dei nuovi criteri dell’equilibrio economico.

 

 

I lettori gettino uno sguardo su questa mirabile tabella costruita dal Graziadei.

 

 

Produzione, esportazione, consumo, esistenze, prezzi del nitrato sodico dal 1880 al 1901

 

 

 

ANNI

Produzione

***

Migliaia di quintali spagnoli

Esportazione

***

Migliaia di quintali spagnoli

Consumo totale nel mondo

***

Migliaia di quintali spagnoli

Esistenze totali nel mondo al 31 dicembre

***

Migliaia di quintali spagnoli

Esistenze in Europa al 31 dicembre

***

Migliaia di quintali spagnoli

Prezzi

 

in Europa

 

Costa Cilena

 

per quantità da imbarcare

consegna immediata

Scell

Penc

Scell

Penc

1880
1881
1882
1883

 

4.869

4.869

7.733

7.733

10.701

10.701

12.820

12.820

1884
1885
1886

 

12.150

12.150

9.478

9.478

9.805

9.805

1887
1888
1889
1890

 

15.495

15.495

16.682

16.682

15.809

20.682

20.682

17.085

8

4 –

23.373

23.373

20.160

7

7 –

1891
1892
1893

 

18.739

18.739

20.960

9

1-

17.478

17.478

20.194

14.341

9

1-

5

7

21.056

21.076

20.453

15.485

9

1-

5

11-

1894
1895

 

23.778

23 978

22.750

17.282

11.670

8

9-

5

11-

28.428

27.401

23.858

22.067

15.528

8

5

4-

1896
1897

 

24.759

25.175

24.604

21.111

15.703

8

0-

5

7-

25.798

24.971

25.225

21.664

14.558

7

7-

5

2-

1898
1899
1900

 

28.572

27.903

27.682

23.720

16.276

7

3-

4

7-

31.312

30.213

30.712

23.425

16.839

7

5-

4

10-

32.778

31.741

30.443

24.957

18.034

8

1-

5

2-

1901

 

28.368

27.385

31.337

21.032

13.902

8

11-

6

3-

 

 

Ho scritto mirabile tabella, poiché anche le cifre hanno una bellezza tutta loro di natura non dissimile dalla essenza divina della bellezza musicale o poetica. E le cifre sono belle quando la loro anima vibra all’unisono con l’anima delle altre cifre; quando nessuna manda degli striduli suoni ed urta con la ragione la quale ci dice che esse debbono essere così e non altrimenti per costituire un quadro armonico insieme con le altre cifre assunte a rappresentarci, quasi in iscorcio, la mirabile unità complessiva del fenomeno economico.

 

 

Nel quadro e nel libro del Graziadei le cifre non sono delle parole inanimate dentro le quali indarno si può sperare di infondere un soffio di vita. Esse sono belle perché sono logiche.

 

 

È logico e conforme alle leggi economiche note che in regime di libertà debba crescere la produzione per la concorrenza sfrenata degli industriali desiderosi di profittare degli alti prezzi iniziali; è logico che il consumo debba aumentare e debbano diminuire i prezzi; ed è logico che ove l’incremento del consumo, dati i prezzi correnti di mercati, non tenga dietro all’incremento spesso vertiginoso della produzione, Produzione, esportazione, consumo, esistenze, prezzi del nitrato sodico dal 1880 al 1901si accumulino nei magazzini degli stock disponibile (le cosidette esistenze). Tutto questo è logico; e tutto questo accade infatti in via normale nei periodi di libertà, come spiega la tabella e come a lungo illustra il Graziadei nelle sue pagine.

 

 

Ed è logico per converso che nei periodi di sindacato, i produttori cerchino di restringere la produzione per ottenere prezzi più alti e tanto più la restringano (o ciò che fa lo stesso non la aumentino di fronte ad una domanda crescente ai prezzi antichi) quanto più ampie sono le esistenze che premono sui prezzi; ed è logico che i prezzi aumentino – astrazione fatta da altre circostanze perturbatrici – col diminuire delle esistenze e della produzione. E tutto ciò ancora si vede e si legge nelle statistiche che l’A. ci va mettendo sotto gli occhi. Permodochè quelle cifre ci appaiono legate da rapporti siffatti che l’una di esse non può variare senza che le altre tutte non variino nello stesso senso od in senso opposto e con un’ampiezza diversa a seconda della spinta originaria e della resistenza che il moto incontra nel suo propagarsi nella massa economica. Ora questo diceva la dottrina dell’equilibrio: che voi non potete gittare una pietra nel mezzo di uno stagno tranquillo senza che le ondate, nate al centro, si propaghino fino alle estreme sponde e di là ritornino al centro. Così voi non potete arbitrariamente mutare una sola cifra, senza togliere che le cifre che vengono prima e quelle che vengono poi perdano ogni loro significazione e divengano assurde.

 

 

L’equilibrio economico si può studiare dal punto di vista statico e dal punto di vista dinamico. In un dato momento, dati certi prezzi e certe curve della domanda e certi costi di produzione, una deve essere e non altra la quantità prodotta e la quantità delle esistenze. Ma l’aggregato economico non sta mai immobile; esso per cause molteplici, di cui forse alcune ci rimarranno sempre ignote, vibra continuamente ed ogni sua vibrazione si propaga all’infinito e costringe l’aggregato economico a ricomporsi in un nuovo equilibrio. Così un rialzo dei prezzi, comunque originato, è causa di una produzione cresciuta da parte dei concorrenti desiderosi di profittarne, e quindi di ribasso dei prezzi; e questo alla sua volta persuade i concorrenti ad unirsi in sindacato per porre uno schermo alla rovina progrediente; ma il sindacato produce un rialzo dei prezzi. Nuovi terreni sono venduti dal Governo, che prima doveva tenerli improduttivi, perché troppo lontani dal mercato. Nuove imprese sorgono, e reclamano di essere ammesse a far parte del sindacato; e se non vi sono ammesse muovono ad esso dal di fuori una pericolosa concorrenza. Cosicché a poco a poco il sindacato non può durare più entro la strettoia dei prezzi antichi elevati di monopolio, sotto pena di vedersi sfuggire tutta la clientela e deve ammettere nel proprio seno sempre nuovi concorrenti; sinché i più forti amano meglio disciogliersi dai vincoli che più non danno benefici e raffrenano le voglie espansioniste degli ardimentosi. E così con alterna vicenda dalla libertà si passa al sindacato e dal sindacato si torna alla libertà con un ritmo regolare che forse durerà sinché gli ultimi giacimenti si siano quasi esauriti. Questa che è storia di moltissime industrie, è raffigurata, quasi in un unico foco, nella storia della industria del nitrato sodico. Ogni equilibrio ha in sé le cause della prossima sua scomparsa e genera le condizioni di un nuovo equilibrio economico. Le cifre, pazienti seguono la trama del pensiero logico; e danno quasi l’impressione di avere subito un trattamento artificioso per poter essere costrette entro i limiti ferrei della dottrina preconcetta. Ma così non è. Poiché la teoria non era se non la proiezione ideale e semplificata di un numero enorme di fatti; e poiché quei fatti erano stati bene osservati, i fatti nuovi non possono non adagiarsi nella forma apprestata acconciamente dalla scienza.

 

 

Talvolta pare che i fatti si ribellino. Come quando il consumo cresce malgrado che i prezzi siano di poco diminuiti (dal 1893 al 1896) o siano persino aumentati (dal 1900 al 1901). Ma la ribellione è tutta apparente. I rapporti antichi fra prezzi e quantità consumate ed i rapporti fra le relative variazioni più non sono rapporti normali poiché sono entrati in scena nuovi consumatori. In Argentina, nel Giappone, in Italia si ignorava l’esistenza o meglio l’utilità del nitrato di soda nel 1894, e quindi le quantità consumate erano ivi nulle. Ma l’1 aprile 1894 si fonda l’Associazione per la propaganda del nitrato, la quale conduce una splendida campagna di reclame su per le riviste ed i giornali agricoli e tenta la conquista di nuovi mercati. Persone che prima non sapevano l’esistenza del prezioso concime e sovratutto non sapevano fosse una cosa utile, ora lo sanno. Nuovi consumatori si affacciano sull’orizzonte dell’industria cilena. Nel 1895 si consumano 402 quintali spagnoli nell’Argentina, 28.413 nel Giappone, 213.822 nell’Italia. È una nuova forza la quale è sorta e che neutralizza l’azione della produzione cresciuta; sicché i prezzi non ribassano o magari rialzano. Ma ciò non è, come ai miopi potrebbe sembrare, una confutazione della dottrina per cui ad una variazione nel senso dell’aumento della quantità prodotta deve corrispondere una variazione in un senso contrario dei prezzi; ne è anzi la riprova più splendida. Poiché la indagine statistica, mettendo in luce le variazioni del consumo nei diversi paesi, ha dimostrato che il consumo si era sovrattutto accresciuto laddove più vivace e più nuova si era esplicata la propaganda dei produttori; ed ha additato al ricercatore la causa peculiare che aveva ostacolato il normale applicarsi della nota legge economica. E così la indagine statistica, come è ufficio suo, segue fedelmente i progressi infaticati dell’ingegno umano e di ogni variazione nell’organamento interno ed esterno dell’industria è la registrazione silenziosa.

 

 

Questo invero è il libro del Graziadei: un’indagine di fatti materiata di idee e corsa da un vivo soffio di dottrina fresca e rallegrante. A poco a poco cadono gli idoli dinanzi ai quali si prosternavano, chiudendo gli occhi, i giovani italiani, cui i primi entusiasmi socialisti aveano dato insieme la febbre del sapere e nel tempo stesso aveano tolto le fonti del sapere, costringendoli a spiegare tutti i fatti con uno o pochi libri che volevano essere quasi una Bibbia.

 

 

Oggi le nuove generazioni di economisti stanno buttando a terra gli idoli invecchiati e guardano sereni ed ardimentosi alla vita. E si accorgono che forse la Economia politica tradizionale, che Carlo Marx diceva antiquata e borghese, rappresenta ancora la migliore approssimazione alla verità; e che il compito delle nuove generazioni sta nell’approfondire il solco fecondo tracciato dai padri nostri. Sta nel misurare con strumenti sempre più perfetti le pulsazioni della vita economica e nel sostituire alle concezioni troppo rigide e schematicamente semplici dei vecchi economisti delle concezioni più flessibili ed atte a rappresentare aggregati complicatissimi ed ognora mutantisi da una condizione ad un’altra di equilibrio. Ma non è questa opera iconoclasta di distruzione selvaggia. È un edificio maestoso che i secoli innalzano ai cieli. Le prime generazioni gittano le fondamenta ed erigono il tronco immane su cui si adagia la delicata trama di trafori sottili, di pinnacoli superbi e di bassorilievi mirabili, che le generazioni successive vanno pazientemente intessendo a torno a torno affinché nel tempio della scienza gli uomini sentano l’armonia delle cose belle.

 



[1] Cfr. Antonio Graziadei. Saggio di una indagine statistica sui prezzi. (L’industria del nitrato sodico dal 1880 il 1901). Imola, Cooperativa tipografica editrice, 1902.

Una scritta colonica

Una scritta colonica

«Corriere della Sera», 12 marzo 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 21-24

 

 

Nelle campagne spira oggi un vento di rinnovazione. Le masse contadine reclamano anch’esse un miglioramento nelle loro condizioni di vita. Alle nuove domande dei lavoratori rispondono i proprietari, organizzandosi per respingere le pretese esagerate, e concedendo spesso quando il concedere è necessario e non dannoso alla vita dell’azienda. II dissidio fra le due classi sociali stimola a pensare se non sia possibile statuire una forma di contratto che, tutelando gli interessi dei lavoratori e dei proprietari, li affratelli nell’opera comune della conquista sulla natura.

 

 

Subito torna alla mente l’antico esempio della mezzadria toscana, che oggi alcuni socialisti deridono, ma che fu ciononostante strumento di mirabili progressi agrari sui ridenti colli toscani nel secolo XIX. Progressi davvero mirabili che ci si presentano alla mente, mentre sfogliamo il buon libro che il conte Giovannangelo Bastogi ha voluto pubblicare di questi giorni col titolo Una scritta colonica (Ricci, Firenze 1903), nel quale si commentano ad uno ad uno gli articoli del contratto di mezzadria che in Val di Chiana i conti Giovannangelo e Giovachino Bastogi hanno stipulato coi loro numerosi coloni. Leggendo gli articoli ed i commenti sembra di ritornare ad una età oramai passata da tre quarti di secolo, quando intorno al 1831 uomini insigni che rispondevano ai nomi di Gino Capponi, Lapo dei Ricci, Pietro Capei, Cosimo Ridolfi, Michelangelo Bonarroti, Ignazio Malenotti gravemente discutevano, nelle aule solenni dell’Accademia dei georgofili di Firenze, intorno ai contratti agrari; e sembra di rileggere le lettere che nel 1871 si scambiavano intorno alla mezzeria toscana il marchese Luigi Ridolfi ed il letterato Lambruschini, abate e senatore. Parlavano e scrivevano quei vecchi nostri gloriosi in buona e forbita lingua italiana, come oggi più non si parla né si scrive nei parlamenti e nei comizi ove si discute intorno al contratto di lavoro; e nel tempo stesso dicevano cose che anche oggi vanno meditate. Leggano i legislatori, che oggi si affannano intorno agli articoli del nuovo codice del lavoro, leggano questo libro di un patrizio, degno continuatore delle nobili tradizioni avite; e vi impareranno di molte cose che forse non sanno. Vi leggeranno le cause per cui talvolta i contadini mezzadri prestano facile l’orecchio ai propagandisti del socialismo, i quali vanno predicando come la mezzadria consacri lo sfruttamento del colono colla divisione del prodotto a metà. Vi vedranno come sia infatti improvvido sancire sempre la divisione a metà; «poiché – ammoniva l’avv. Galgonetti sin dal 1843 – come in ogni cosa umana l’agire con rigoroso sistema universale è pericoloso, così nella mezzeria colonica può riuscire pernicioso. Infatti come può bene sperarsi di quel podere, i cui prodotti debbano dividersi a perfetta metà, quando questa metà è assolutamente insufficiente ad offrire sussistenza alla famiglia dei coloni?». Variano i terreni per fertilità, per posizione, per ampiezza, per culture; e ad ogni singolo podere deve sapersi adattare la partecipazione colonica, la quale sarà di un terzo, di una metà, dei due terzi o di quell’altra qualsiasi quota che meglio appaia conveniente. Trascurare queste circostanze, come vorrebbero fare i legislatori frettolosi ed i proprietari incuranti, vuol dire spesso dannare i contadini alla rovina e stimolarli alla trascuranza. «Verità lucidissima» aggiungeva il marchese Cosimo Ridolfi, ma pure poco intesa. Ed altrettanto poco intesa è un’altra verità che sin dal 7 ottobre del 1772 era stata messa in chiaro in una adunanza dell’Accademia dei georgofili, discutendosi della utilità delle leggi intese a regolare il patto agrario. Utili furono dette allora – e rimangono ancora adesso – le leggi direttive, le quali regolano la interpretazione delle convenzioni private, che ne determinano la minima durata in un anno almeno, che stabiliscono i termini di disdetta ed i modi di definire all’amichevole le quistioni insorgenti. Dannose quelle leggi invece che costringono i contraenti a regolare i loro patti nel modo voluto dalla legge; e, non tenendo conto della molteplice diversità dei casi singoli, sottopongono l’industria agraria ad una legge uniforme e tolgono ogni iniziativa agli imprenditori. Fecondo ammonimento che dai dotti del tempo del primo Leopoldo giunge ai legislatori moderni di null’altro preoccupati fuorché della uniformità legislativa!

 

 

È sperabile che di questi precetti si faccia tesoro, così come ne fecero tesoro i conti Bastogi nel compilare il loro contratto colonico. Il quale non sorse d’un tratto; ma si andò lentamente formando negli anni, dopoché si gittarono le prime basi nelle convenzioni verbali strette fra i «capoccia» delle famiglie di mezzadri e Bettino Ricasoli, antico proprietario dei fondi ora pervenuti agli attuali possessori. Il conte Pietro Bastogi perfezionò e completò quel contratto, che ora i figli suoi tradussero in iscritto.

 

 

I limiti imposti dallo spazio disponibile vietano di fermarci a lungo, come vorremmo, su codesto contratto, il quale resisté già alla prova del fuoco degli scioperi agrari che infierirono negli anni scorsi dappertutto nella Val di Chiana, eccettuati i possedimenti dei conti Bastogi. I quali non chiamano più se stessi padroni, ma accogliendo un’usanza moderna, diffusa prima in Inghilterra, si dicono semplicemente proprietari (cfr. preambolo della scrittura colonica), vogliono, ad evitare abusi frequenti, che la semente sia provveduta metà dal capoccia e metà dal proprietario e non tutta dal primo (art. 13); riconoscono il fatto moderno della introduzione delle macchine; e mentre l’antica mezzadria metteva a carico del colono tutte le spese della trebbiatura, essi si contentano di una somma che rimuneri all’interesse corrente, il capitale impiegato dai proprietari nella compra delle trebbiatrici (art. 17). Essi sanciscono pure che i contadini non paghino fitto per la casa colonica, e non paghino alcuna parte delle imposte gravanti sui campi (art. 46). Equa disposizione; ma pure violata in molte parti d’Italia.

 

 

Tutto il contratto è accortamente inteso a dirimere la possibilità di quistioni fra le parti contraenti; sicché molte cose che il codice civile lascia in dubbio o risolve male, come le stime delle scorte, i termini della disdetta, la direzione dell’azienda sono contemplate e risolte nel contratto Bastogi. Anche contro gli scioperi si sono i compilatori premuniti, stabilendo che ogni domanda di modificazione al contratto debba presentarsi al momento in cui si forma il saldo colonico annuale. La domanda presentata in altro tempo dà diritto al licenziamento immediato. Il che, se non toglie la possibilità di garantire forse meglio gli interessi dei lavoratori, dimostra una cosa: che non è necessario ricorrere alle clausole penali e considerare la mietitura come un servizio pubblico; e che i proprietari posseggono mezzi sufficienti per tutelare i proprii interessi.

 

 

La mezzadria è dunque una cosa viva e che ognora si trasforma, adattandosi ai tempi. Dagli antichi contratti verbali ai 60 articoli della scritta Bastogi il passo è lungo. Forse all’antico contratto è riservato ancora di compiere altri progressi, quando si ponga mente agli ammonimenti che vengono dalla realtà.

 

 

Il pericolo di una illusione

Il pericolo di una illusione

«La Tribuna», 5 febbraio 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 530-533

 

 

Torino, 26 gennaio.

 

 

On. Senatore,

 

 

Leggo in un recente numero della «Tribuna» un articolo sul credito ipotecario, nel quale si contengono parecchie considerazioni veramente assennate e pregevoli sulla necessità di dare credito alla agricoltura meridionale e sulle difficoltà che contrastano i prestiti a quel saggio di interesse tenue che è richiesto dalle condizioni delle produttività delle terre nel mezzogiorno. L’autore dell’articolo conclude affermando la necessità di autorizzare all’esercizio del credito fondiario le casse di risparmio ordinarie, per il loro patrimonio e per un terzo almeno dei depositi; le società di assicurazione sulla vita e le altre istituzioni di previdenza, per le loro riserve matematiche ed i loro capitali di garanzia. Premetto subito che la proposta, in quanto non vincola ma solo autorizza le casse di risparmio ad esercitare il credito fondiario, è una proposta commendevole. Essa è un passo innanzi nella via della libertà degli impieghi, che accortamente utilizzata dalle casse di risparmio, può condurre a commendevoli risultati, di cui si sono già veduti i primi saggi in alcune casse di risparmio dell’alta Italia.

 

 

L’autorizzazione così data alle casse di risparmio fa forse crescere la somma di capitale disponibile in Italia e toglie forse l’inconveniente a cui l’autore accenna quando dice che in Italia «si è fatto di tutto per sottrarre il capitale alla attività produttrice»? Od io mi inganno grossolanamente, o qui sotto vi è un rimasuglio di un’idea molto strana ma molto diffusa nel nostro paese: che, cioè, i capitali depositati nelle casse di risparmio postali ed ordinarie, negli altri istituti ed impiegati in titoli di rendita od in mutui a comuni, siano capitali immobilizzati. Le casse postali hanno 700 milioni di lire di depositi; le casse di risparmio ordinarie 1.700. Molti reputano che tutti quei milioni sieno perduti per l’attività produttiva; e che basti autorizzare le casse a distoglierne una parte, per esempio, 500 milioni, dagli impieghi in titoli di stato, per vedere spargersi quei 500 milioni, come manna vivificatrice, sui campi assetati di capitali. Tutto ciò fa l’effetto di una singolare illusione. Supponiamo infatti che le casse postali ed ordinarie siano autorizzate a vendere e vendano 500 milioni di lire di titoli di rendita ed impieghino il ricavato in mutui all’agricoltura al 3,50%, come vogliono i propugnatori del credito agricolo. Certo tutti quei milioni faranno del gran bene all’agricoltura, non è possibile negarlo; ed è quel bene che si vede, come diceva la buon’anima di Federico Bastiat.

 

 

Ma da dove sono usciti fuori i 500 milioni di lire? Evidentemente le casse li hanno ricevuti in cambio dei titoli di rendita che hanno venduti. Dunque vi erano dei privati o delle altre banche che avevano 500 milioni di lire in contanti e ora non li hanno più; ed è molto probabile che quando li avevano, prima di comprar rendita, non li tenessero chiusi negli scrigni senza cavarne alcun frutto. Adesso non si usa più tesoreggiare come facevano i vecchi avari. Dunque i 500 milioni erano impiegati altrove, in sconto di cambiali, in mutui ipotecari, ecc.; ed ora che i capitalisti, avendo trovato la convenienza di comprar la rendita buttata sul mercato dalle casse di risparmio, hanno distolto quelle somme dagli antichi impieghi, questi ne devono soffrire.

 

 

È quel che non si vede di Bastiat. È probabile anche che le sofferenze dei commercianti, dei proprietari a cui si ridussero gli sconti sieno così vive da indurli ad offrire alle casse di risparmio un raggio di interesse così alto da essere i preferiti fra coloro che concorreranno ai mutui possibili coi 500 milioni, di cui le casse hanno acquistata la disponibilità. Dopo un certo periodo di assestamento le cose ritorneranno dunque come prima.

 

 

Il ragionamento che ho esposto è così semplice, da riuscir quasi impossibile comprendere come si sia potuta radicare l’illusione che nelle casse di risparmio vi sia un fondo disponibile per il credito agrario, un tesoro inutilizzato, che basti scovare per fecondare con esso tutta la terra italiana. L’illusione è pericolosa perché radica il concetto che si possa fare con qualche disposizione legislativa il miracolo di indirizzare alle terre i risparmi che spontaneamente non ci vogliono andare. Perché il credito si rivolga alla terra, il mezzo più efficace è ancora un mezzo noto per esperienza antica e che l’onorevole De Viti De Marco ha avuto recentemente il merito di mettere con forza in luce nel suo discorso di Lecce; far in modo che la produttività netta della terra cresca, sì che diventi più remunerativo impiegare i risparmi nelle terre che nelle altre industrie. Quando questa condizione esiste, i capitali non corrono soltanto, ma volano verso le terre, senza bisogno di aiuto del governo; e quando quella condizione non esiste, non c’è forza alcuna che possa costringere i risparmiatori a fare cosa che sarebbe uno sproposito economico ed una distruzione di ricchezza. A crescere il reddito netto della terra in confronto al reddito delle industrie, occorre aumentare la possibilità di sbocchi ai prodotti della terra, diminuire i costi dei trasporti, ridurre la protezione degli strumenti, delle macchine, dei concimi chimici, ecc. ecc., che gli agricoltori consumano. Quando ciò sia fatto, si può star sicuri che le istituzioni di credito agricolo saliranno in gran fiore. Prima, sarebbe voler galvanizzare un morto.

 

 

Non bisogna credere però che nemmeno allora i risparmi esistenti od in formazione possano d’un tratto soddisfare ai bisogni dell’agricoltura. Un economista noto per la sua singolare competenza nell’economia agricola, il prof. Ghino Valenti, ha calcolato in uno degli ultimi numeri del «Giornale degli economisti» che il fabbisogno di capitale – per compiere una trasformazione agricola assai più modesta di quella auspicata da molti desiderosi di vedere i così detti latifondi incolti mutati in terreni ubertosi e coltivati – sia di sette miliardi di lire. A duecento milioni all’anno, saranno necessari 40 anni circa prima che l’opera sia compiuta.

 

 

Non facciamoci per ciò illusioni e sovratutto non lasciamo sorgere speranze in una ipotetica capacità delle leggi a fare più di quello che ad esse è umanamente concesso. È per questo, onorevole senatore, che vi ha chiesto l’ospitalità cortese delle colonne della «Tribuna».

Il vostro

Luigi Einaudi

Un’inchiesta sulla municipalizzazione

Un’inchiesta sulla municipalizzazione

«Corriere della Sera», 1 febbraio 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 17-20

 

 

Uno dei punti più controversi del problema della municipalizzazione sta nel significato spesso incerto e contradditorio delle statistiche le quali dovrebbero riassumere i risultati delle esperienze che si sono già fatte al riguardo. È noto come le statistiche e le inchieste americane ed inglesi – che sono quelle che più frequentemente vengono citate – siano state interpretate a proprio favore sia dagli avversari, come dagli amici della municipalizzazione. In Italia le «notizie statistiche» annesse al progetto di legge Giolitti, per quanto costituissero un tentativo lodevole di indagine, erano troppo scarne e, riferendosi solo al capitale impiegato, alle entrate ed alle spese annue ed ai profitti e perdite, lasciavano nell’ombra troppi punti, senza dei quali era malagevole, per non dire impossibile, formarsi una chiara idea dei risultati effettivi delle intraprese municipali.

 

 

Abbiamo sott’occhio le bozze di uno studio che viene pubblicato nel fascicolo di gennaio di «La riforma sociale» di Torino e che costituisce una vera e propria inchiesta sulla municipalizzazione dei pubblici servizi in Italia. Il prof. Riccardo Bachi che, per incarico della rivista torinese, ha compiuto quell’inchiesta, aveva inviato un minutissimo questionario a tutti i municipi che esercitano in Italia la fornitura del gas illuminante, dell’acqua potabile, le officine elettriche, i bagni popolari, la manutenzione delle vie, lo sgombro della neve e la nettezza e l’inaffiamento delle vie. Sarebbe troppo lungo ricordare, sia pure sommariamente, le risposte che i municipi interrogati inviarono al questionario. Ma la impressione generica è questa che, se le «notizie statistiche» del progetto Giolitti non potevano fornire argomenti a favore dell’una o dell’altra tesi, l’inchiesta de «La riforma sociale» dimostra che i municipi italiani sono ben lungi dal gerire le imprese municipalizzate con quei criteri contabili che soli possono permettere di istituire confronti e di ricavare conclusioni attendibili. Pochissime fra le imprese municipalizzate sono ordinate a forma di aziende autonome. Le officine elettriche e gli acquedotti anche nei maggiori comuni sono quasi sempre amministrati dalla giunta senza che sia istituita una speciale commissione; spesso – specialmente per gli acquedotti – non esiste uno speciale direttore e le imprese sono dirette dall’ufficio tecnico comunale. In alcuni casi, molto notevoli, si è abbandonato il metodo di affidare la gestione delle imprese ad una commissione e si è preferito dare più larghi poteri ad un direttore dipendente direttamente dalla giunta. Così a Padova, secondo un regolamento del 1896, l’amministrazione del gasometro era affidata ad un consiglio, composto di sette membri nominati dal consiglio comunale, che si radunava almeno due volte al mese e in seno al quale il direttore aveva solo voto consultivo; un regolamento dell’1 aprile 1899 conservò per il gasometro una amministrazione separata, ma la fece dipendere direttamente dalla giunta; infine un regolamento del 1901 riunì i servizi municipalizzati del gas e dell’acqua sotto un solo direttore dipendente dalla giunta. Così pure a Vicenza si abbandonò il metodo della commissione per porre tanto l’acquedotto, quanto il gasometro alla dipendenza della giunta come sezioni dell’ufficio tecnico municipale.

 

 

Potrebbe anche darsi che questa dipendenza diretta delle imprese municipali dalla giunta non sia sbagliata; ma intanto, sia per questo o sia per altri motivi, è difficile raccapezzarsi nei conti delle aziende municipalizzate. Citiamo a caso. Il gasometro municipale di Padova indica un guadagno netto di 106.445 lire nel 1902; ma l’ammortamento del debito non è caricato al conto dell’impresa. A Firenze vi è un’officina elettrica che costò 88.477 lire d’impianto e che è destinata a provvedere solo alla pubblica illuminazione. Ma è impossibile calcolare la spesa vera annua; perché nel costo di produzione di lire 18.903 nel 1901 non sono comprese le spese per il personale amministrativo e l’alto personale tecnico, essendo il servizio direttamente dipendente dall’ufficio tecnico del comune; e non sono da computarsi spese per il servizio di prestiti essendo il capitale impiegato stato provvisto coi mezzi ordinari del bilancio. A Monte Marciano l’acquedotto municipale accusa una perdita di lire 7.508; ma non si tiene conto del consumo pubblico. Viceversa a Potenza la perdita è di lire 42.797, malgrado non si sia tenuto conto della quota dello stipendio dell’ingegnere municipale, imputabile al servizio dell’acquedotto. A Spezia l’acquedotto denunciò un profitto netto di lire 6.934; ma non si tiene conto del deperimento; cosicché, se invece dell’annualità pagata pel servizio del prestito si computa l’interesse del 5% sul capitale d’impianto e il deperimento in ragione di lire 12.000, si ha un deficit di lire 3048,70. A Padova, tenendo conto della quota di deperimento del capitale di impianto in lire 25.000, il disavanzo dell’acquedotto sarebbe presunto in lire 37.907,65; tenendo invece conto della somma da pagarsi effettivamente per rimborso del mutuo (lire 35.592,54), il disavanzo salirebbe a lire 48.500,19. Non è però valutato e compreso fra le entrate il consumo pubblico.

 

 

Date queste imperfezioni e divergenze contabili, non è possibile assolutamente trarre conclusioni generali e dire che i casi di perdite siano in numero inferiore o superiore ai casi di guadagno. Perdite e guadagni si alternano e rappresentano spesso realtà diverse dall’apparenza.

 

 

Tanto meno è facile il dire se i servizi, dopo la municipalizzazione, procedano meglio o peggio di prima. Per il gas sembrano certi un aumento di consumo ed una diminuzione di prezzi; per l’illuminazione elettrica un servizio migliore a costo cresciuto. Talvolta i comuni medesimi, per difendere la municipalizzazione, fanno dei confronti grotteschi. Così in dodici comuni, che direttamente attendono al servizio della manutenzione delle vie, si dice che il servizio diretto riesce meno costoso dell’appalto. Però il dato non ha un significato assoluto, perché talora l’assunzione ha avuto luogo da molti anni e le condizioni edilizie sono notevolmente mutate. In alcuni casi il sindaco od il segretario hanno risposto che il servizio riesce meno costoso, mentre che nella scheda stessa è affermato che l’esercizio diretto risale a tempo immemorabile!

 

 

Non è meraviglia che con simili risposte sia difficile dare un giudizio ponderato sulla municipalizzazione in genere; e che quindi il problema debba essere studiato caso per caso senza troppo badare a quel che altrove si è già fatto. Tanto più che le statistiche straniere paiono inquinate dalle stesse incongruenze delle nostre. Il disegno di legge che ora il senato dovrà discutere permetterà che per l’avvenire il giudizio possa essere più sicuro? Speriamolo.

 

 

L’educazione «popolare»

L’educazione «popolare»

«Corriere della Sera», 4 gennaio 1903

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 9-16

 

 

Decisamente l’Italia cammina a passi da gigante sulla via del progresso. Sono ancora recenti alcune vittorie dei partiti popolari nelle elezioni politiche ed amministrative ed è già meravigliosa l’influenza che i vittoriosi hanno saputo esercitare sugli affari del paese. Chi scrive non vuole tratteggiare tutta l’opera assidua di penetrazione nel governo della cosa pubblica che rapidamente è seguita al trionfo della politica popolare in alcuni grandi centri; soltanto vuole attirare l’attenzione su uno dei lati più curiosi di codesta conquista: quella della scuola.

 

 

Nella scuola si formano i futuri cittadini ed elettori; ed è naturale quindi che subito i «partiti popolari» abbiano veduto fosse necessario sostituire ai «vecchi ciarpami» della educazione religiosa e borghese i nuovi insegnamenti che i tempi mutati comportano.

 

 

Quali siano i nuovi insegnamenti noi possiamo per fortuna sapere in modo autentico leggendo tre volumetti che i signori Moro e Ferrari, insegnanti amendue e direttore didattico il secondo nelle scuole municipali di Milano, hanno licenziato di recente alle stampe[1]. I tre volumetti, uno dei quali ha già raggiunto in breve spazio di tempo la seconda edizione, sono destinati, come libri di lettura, agli alunni delle classi inferiori e superiori nelle scuole elementari serali e festive ed hanno il santissimo scopo di apprendere agli operai «come si deve agire per divenire uomini onorati e stimati da tutti».

 

 

Antonio Sormanni, un vecchio lavoratore che nei suoi giovani anni, quand’era soprannominato «sbarazzino» ha visto le vittorie dei partiti popolari ed ha aiutato il padre disoccupato ad attaccare sui muri delle case i manifesti elettorali, vi racconta nel primo e più interessante volumetto la sua storia, «alle volte pietosa e commovente, alle volte gioconda e serena».

 

 

Non si può negare che, inframmezzati al racconto, non si incontrino abbastanza spesso saggi ammaestramenti e buoni consigli ai futuri operai. Il carattere distintivo del libro non consiste tuttavia in questi insegnamenti ottimi di morale pratica ché esso, come si rileva dal suo titolo medesimo, Vita sociale, vuole avere una significazione ed un’importanza nuove di fronte alla «vecchia» morale dei soliti libri di lettura per le scuole elementari. Con quei vecchi precetti si fa tutt’al più l’uomo buono, ma non si educa il cittadino «cosciente», il quale – come insegna il Decalogo civile promulgato dal comune di Reggio Emilia nella solennità del primo maggio – «non odia, non offende, non si vendica mai; ma difende il suo diritto e non si rassegna alla prepotenza» (II, 163). Allo scolaro, futuro cittadino cosciente, conviene dunque innanzi tutto conoscere i malanni e le prepotenze della vita sociale odierna; ed i signori Moro e Ferrari provvedono a questo bisogno con descrizioni minute e precise delle torture dei carusi siciliani (vol. II, p. 55), dei piccoli schiavi bianchi condannati a lavoro inumano nelle vetrerie (I, 27), degli emigranti che laceri e scalzi abbandonano la patria diletta per lidi lontani (III, 129), dei facchini curvi sotto pesi enormi (III, 171), dei contadini sfruttati dai padroni, ai quali debbono mandare i capponi migliori, conservando per sé unicamente «quell’intima soddisfazione che si può provare soltanto in una casa dove regni l’accordo e l’affetto» (II, 63 e 65).

 

 

Quest’intima soddisfazione sembra però poca cosa agli scolari delle classi serali italiane, annoiati dal lavoro notturno (III, 6), umiliati dal sistema delle mance (III, 21), torturati dal cottimo (III, 90).

 

 

Occorrono perciò riforme sociali e politiche a togliere tutti questi malanni. Non basta osservare lo statuto, il quale sancisce la libertà di associazione e di sciopero. Occorrono leggi ed istituzioni nuove. Ad esempio leggi sul lavoro delle donne e dei fanciulli, sul lavoro notturno, ecc. Nel comune per fortuna adesso «hanno vinto i partiti popolari» (I, 78) e quindi si potrà procedere, appena scadranno i contratti colla «Union des gas» e colla «Edison», alla municipalizzazione del gas e delle tramvie, e così «il comune guadagnerà di più, i consumatori potranno ottenere qualche economia ed i cittadini l’alleggerimento di qualche tassa» (I, 80). Alcuni comuni più progrediti, Como, Spezia, Padova, ecc., hanno già cominciato a dare «il lodevole esempio» e se questo principio si estendesse «si potrebbe fare una corsa in tram con cinque centesimi e, quel che più importa, mangiare del pane eccellente pagandolo metà di quanto costa oggigiorno» (III, 108).

 

 

Al giovane operaio dà noia il dover interrompere il lavoro a causa del servizio militare; importa perciò a lui patrocinare il principio della «nazione armata» frequentando il «tiro a segno, che è destinato a propagarsi per tutta Italia, rendendo inutile l’esercito permanente, troppo dispendioso» (III, 139).

 

 

Verrà giorno in cui questi, che ora sono sogni, diventeranno realtà, in cui «il sole della civiltà splenderà alto, magnifico, ristoratore per tutti» (II, 67); verrà giorno in cui «di tutti i popoli si farà un popolo solo» (III, 167), in cui gli italiani, scomparsa la «triste ed antipatica distinzione di italiani del nord e di italiani del sud», si sentiranno tutti fratelli, tutti uniti e concordi «per combattere le sante battaglie del lavoro e della propria rigenerazione economica e civile». Allora, quando il sole della civiltà sarà alto, gli uomini osserveranno il settimo comandamento del decalogo civile di Reggio Emilia: «Ricordati che i beni della terra sono frutto del lavoro; goderne senza far nulla è come rubare il pane a chi lavora» (II, 163).

 

 

Per affrettare l’avvento di quel giorno radioso non bastano i desiderii. Occorrono le opere. Non basta avere il culto degli eroi che guidano il proletariato sulla via faticosa della sua elevazione; non basta battezzare col nome di «Filippo» i proprii figli e comprare il «Tempo» (I, 43) per leggervi i fattacci di cronaca od i resoconti degli scioperi redatti in istile socialistico. Bisogna iscriversi alle «camere del lavoro», dove si trovano un «ufficio di collocamento» che è «l’unico mezzo di trovare un’occupazione sicura e lucrosa» (I, 34, 35, 75) ed un «ufficio di consulenza legale» dove ci sono avvocati che fanno riammettere al lavoro gli operai licenziati a torto (I, 34). La camera del lavoro è una «civile e modernissima istituzione, che riunisce in una sola immensa famiglia l’innumerevole stuolo dei lavoratori». Per mezzo di essa «chi vive del lavoro, sia delle braccia come del pensiero, può trovare il modo di manifestare i proprii bisogni e le proprie aspirazioni, di rivendicare i proprii diritti» (III, 82). Tanto è vero che i comuni «civili e liberali» accordano alle camere del lavoro la loro protezione; e quello di Milano, ad esempio, concede «oltre all’uso di un vasto caseggiato, anche un sussidio di diecimila lire all’anno». Alla camera del lavoro tutti gli operai debbono portare il proprio contributo di operosità. Nessun operaio deve vivere «appartato dai suoi compagni di lavoro» e si debbono lodare ed imitare quelli che si sacrificano «a portare alle loro società, alle loro sezioni il contributo della propria attività per il bene comune» (II, 35). In mezzo ai compagni si apprende la religione della solidarietà; ed il giovane «sbarazzino» Antonio Sormanni vi apprende infatti come bisogni scrivere le lettere per i compagni analfabeti, senza accettare il soldo offerto in compenso, perché «fra compagni di lavoro bisogna aiutarsi a vicenda, con solidarietà, in modo da contraccambiare favore per favore, senza curare esageratamente il proprio interesse personale» (I, 35). Vi impara altresì, egli garzone di armaiuolo, come gli convenga una volta rilasciare 50 centesimi sul suo settimanale di tre lire e mezza «per lo sciopero dei muratori, per solidarietà con quei poveri diavoli» (I, 46). Per lui questa è una novità, di cui spera di «rifarsi con le mance», pauroso tuttavia della solenne ramanzina che gli toccherà dal padre, al vedere mancanti i 50 centesimi; ma, giunto a casa, si consola perché il padre gli dice: hai fatto bene! e comprende allora «che la solidarietà fra operai, specialmente nel momento del bisogno, è uno dei doveri principali de lavoratori» (I, 48). Né più se ne scorda, poiché quando, giunto oramai agli anni maturi, il principale rimette ai suoi dipendenti l’opificio e lui, l’antico «sbarazzino» diventa il direttore della nuova cooperativa di produzione, giura prima di ogni altra cosa di non dimenticarsi mai «che i suoi doveri sono pari a quelli di tutti gli altri suoi compagni, coi quali deve dividere, anche per l’avvenire, le gioie e le fatiche del lavoro» (I, 128).

 

 

I doveri della «solidarietà» si sentono, osserva a ragione il nostro «sbarazzino», sovratutto nei momenti del bisogno, ad esempio, di sciopero. Allora il compiacimento di aver dato i 50 centesimi per la santa causa, interessa lo scolaro delle classi serali allo sciopero, «come se anch’egli vi avesse preso parte» (I, 48). Allora egli compra il «Tempo» per conoscere chiaramente la causa e l’intento dello sciopero, e vi impara «in quale miseria siano obbligati a vivere tanti disgraziati muratori» con 645 lire all’anno e conclude: «È giusto, è santamente umanitario il pensare a loro; e l’aiutarli a raggiungere un miglioramento economico, è un dovere per tutti quanti hanno in cuore un sentimento di giustizia e comprendono le esigenze ed i bisogni della odierna società» (I, 50). Compreso di sì nobili sentimenti, egli va al comizio dei muratori scioperanti che si tiene al castello e vi assiste al giudizio sommario che la folla pronuncia su due crumiri. Uno è lodato per aver fatto causa comune cogli scioperanti, l’altro che «tradendo la causa comune, spinto unicamente dal sentimento del guadagno, si è rimesso al lavoro» è bollato come «un traditore, degno di essere messo alla berlina». E probabilmente anche il nostro scolaro si unisce alle voci che vogliono sapere il nome del traditore; e saputo che si chiama Luigi Carsonni, anch’egli, come gli altri, avrà gridato: «Abbasso! abbasso! in modo assordante» (I, 57). è naturale che lo sciopero finisca con la vittoria degli operai. Anch’egli «prova un intenso piacere» al sapere che «avevano ottenuto un aumento sullo stipendio minimo, una diminuzione delle ore di lavoro ed il riconoscimento della loro lega di resistenza» (I, 57). Non sempre le cose vanno così bene negli scioperi, di cui i signori maestri delle scuole municipali di Milano amano raccontare le vicende ai loro scolari; ma non mai gli operai hanno la peggio. Qualche volta, bontà loro, fanno qualche piccola concessione alle ditte, pur di ottenere causa vinta sulle domande più importanti; ed in tal modo dimostrano «di essere ragionevoli ed animati da spirito conciliativo» (III, 97).

 

 

Per essere animati da codesti spiriti conciliativi e moderati, bisogna che gli operai si istruiscano e vadano a scuola. La scuola deve essere l’ideale della gioventù; ma non la scuola del curato, dove si imparano soltanto sciocchezze, come questa: che «la terra dovrà sempre essere lavorata dalle braccia dei contadini e bagnata col sudore della loro fronte» (II, 70).

 

 

Utili cose insegnano le visite ai musei; ed il nostro «sbarazzino» dopo una rapida corsa nei saloni del museo del risorgimento nazionale sa chi erano Garibaldi, Antonio Sciesa e Felice Orsini; e, se gli rimasero ignoti i nomi di Cavour e di Vittorio Emanuele, si è entusiasmato in compenso dinanzi alle memorie delle guerre dei piemontesi (come ognun sa, il regno d’Italia non era allora peranco costituito) e dei prussiani contro l’Austria nel 1866 (I, 94). Tornato a casa, i saggi ammaestramenti del padre lo fanno ritornare in se stesso dai bollenti entusiasmi guerreschi di cui s’era acceso nel museo poiché il padre, mandandolo a comprare dei fiammiferi, si lagna che ben presto una nuova tassa ne farà rincarare il prezzo, ed aggiunge: «Più di tutto sono le spese militari che assorbono la massima parte dei denari dello stato. Anche una piccola riduzione potrebbe per ora dare i mezzi agli altri ministeri di aiutare la popolazione, alleggerendola alquanto dei pesi dei tributi, dai quali ora è gravata. Basterebbe trasformare la cavalleria, non richiamare alcune classi, che hanno già prestato il servizio militare, diminuire gli anni di ferma e che so io» (I, 202). Quel «e che so io» avrà certo aperto dei vasti orizzonti di pensiero al giovinetto operaio, tanto più che nell’anno successivo le lezioni dei suoi maestri lo mettono in grado di fare un confronto fra l’Italia – dove esistono il militarismo e che so io cosa d’altro (ad esempio la lista civile) o dove le statistiche del governo insegnano che nel Veneto una famiglia di cinque lavoratori guadagna, tra padre, madre e figli, appena 365 lire all’anno (II, 79) – e l’Australia, dove l’esercito è ridotto al minimo, la monarchia è lontana ed in compenso si è ottenuta già da tempo «la legge delle otto ore di lavoro ed ogni anno al 21 aprile, si celebra da quei lavoratori tutti il grandioso avvenimento» (II, 110).

 

 

Le macchine sono ciò che dà maggiore speranza all’operaio di ridurre la giornata di lavoro e di aumentare le paghe. Adesso le macchine sono ancora troppo care perché se ne possa fare largo uso, ad esempio, nelle campagne; ma l’inconveniente, assicura il maestro, «sarà facilmente riparato quando i comuni o le leghe apposite si provvederanno di esse, per conto della comunità, e si potrà adoperarle dietro tenue compenso» (II, 73). Queste parole del maestro sono ascoltate con quella «religiosa attenzione» con la quale non si ascoltano più le prediche del curato; e con la medesima religiosa attenzione il nostro allievo va in un comizio ad imparare verità così limpidamente esposte come la seguente: «La vita sociale ha elevato e modificato il consumo della produzione» (I, 90). La genialità innata ai giovani operai italiani fa loro comprendere a prima vista la verità che si nasconde in questa proposizione, il cui significato può rimanere nascosto solo alla mente ottusa degli economisti di mestiere; ed è proprio la loro incapacità ad elevarsi al disopra degli interessi meschini della classe borghese che costringe gli economisti a scrivere tanti grossi e difficili volumi sulla traslazione delle imposte, quando bastano due parole al babbo, illuminato dalla coscienza del proletariato, per risolvere la questione in modo definitivo: «È vero che i ricchi pagano le tasse direttamente, ma poi si rimborsano di queste aumentando i prezzi dei prodotti e tenendo basse in proporzione le paghe a chi lavora per loro. Così, alla fine dei conti, chi paga realmente le tasse sono i lavoratori ed i consumatori, fra i quali predominano i poveri» (I, 101).

 

 

All’università popolare i futuri operai apprendono le verità più difficili. Ivi, a quanto sembra, ci debbono essere dei professori di economia politica, i quali intendono rivoluzionare la scienza, riportandola ai tempi anteriori ad Adamo Smith, e rimettendo in onore le dottrine della bilancia del commercio tanto disprezzate a torto dagli economisti borghesi. Infatti gli allievi vi imparano che «quanto minore è l’importazione e maggiore la esportazione in uno stato, tanto più la ricchezza nazionale è in prospere condizioni» (I, 100).

 

 

Ben a torto le università popolari sono ritenute dunque il focolaio dello spirito rivoluzionario. Al contrario esse amano conservare intatto il fuoco sacro della scienza medievale, che la scettica borghesia volterriana ha tentato invano di spegnere. Oggi quella scienza imperitura risorge ed i nuovi professori di economia politica, a scherno ed onta degli economisti asserviti al vitello d’oro, insegnano – nelle aule gremite di operai avidi di essere illuminati dal sole novello che risplende sull’orizzonte che «il denaro non è una merce, sebbene i banchieri, coi giuochi di borsa, lo considerino tale» (I, 106).

 

 

Dopo apprese le quali sublimi verità, a noi non rimane che nasconderci il viso dalla vergogna ed aspettare che una nuova scienza «popolare» sia sorta ad offrirci i mezzi di penetrare nei segreti della «vita sociale». Quei segreti noi, sommersi nelle tenebre della ignoranza borghese, non riusciremo mai a conoscere. Forza è ritornare sui banchi della scuola serale in un comune dove imperino i partiti popolari. Al contatto del popolo, la nostra coscienza, ottenebrata dagli interessi di classe, si schiuderà alla luce del nuovo verbo. Come Cristo diceva «Pace fra gli uomini di buona volontà» così oggi i due apostoli del novello Verbo dicono nella prefazione dei loro libri: «L’avvenire è dei volonterosi».

 

 



[1] A. Ferrari, A. Moro, Vita sociale. Letture per gli alunni delle scuole serali e festive. Tre volumetti. Luigi Ronchi editore, Milano 1902.

Contro la esagerazione del male

Contro la esagerazione del male

«La Tribuna», 20 dicembre 1902

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 519-522

 

 

Uno dei fenomeni più curiosi della vita sociale italiana è la tendenza alla esagerazione. Noi amiamo esagerare a scatti, ora in bene ed ora in male. Qualche volta ci sembra di essere diventati gran signori ed ogni menomo indizio viene colto a volo e scrutato con intensità di sguardo per trovarvi le prove della nostra prossima grandezza. Altre volte amiamo farci piccini ed allora ingrandiamo le cause dei nostri mali ed accogliamo, senza critica, affermazioni gratuite come prove irrefragabili di rapida decadenza.

 

 

Così oggi è venuto di moda parlare dell’agricoltura e della proprietà fondiaria, come se esse gemessero sotto pesi incomportabili, e siffattamente gravi, che ogni speranza di scampo sia tolta, ove lo stato non intervenga a largire larghi e subiti sussidii. Chi scrive, non vuole negare che la agricoltura italiana si trovi in un periodo di trasformazione e che occorra un paziente studio nei governanti, affine di non ostacolare e possibilmente favorire codesta necessaria trasformazione. Ma è chiaro che non giova a togliere la causa dei mali, esagerare di questi la portata e non intenderne la natura. Su due punti sovratutto si dicono cose poco esatte rispetto all’agricoltura italiana: sull’ammontare delle imposte che la gravano e sulla somma di ipoteche da cui la terra è coperta. Nell’ultimo numero dell’«Economista» di Firenze, il prof. De Johannis in un efficace articolo ha posto in chiaro come la proprietà fondiaria che al costituirsi del regno versava al bilancio il 18% delle entrate erariali, dopo quaranta anni non dà più che il 6%; ai comuni versava nel 1871 il 24% delle loro entrate ordinarie ed ora non contribuisce che col 19%; alle province la proprietà fondiaria dava il 63% delle entrate ordinarie ed oggi soltanto il 59.

 

 

Noi non vogliamo qui ripetere quella dimostrazione, la quale ci sembra porre in luce come se vuolsi ridurre il gravame della agricoltura non bisogna rivolgere le proprie cure ad imposte la cui gravezza relativa è scemata, ma a quelle che ne rendono difficile la circolazione ed il trapasso a mani più abili. Vogliamo piuttosto richiamare l’attenzione dei lettori sulla seconda delle maggiori inesattezze correnti rispetto all’agricoltura nostra: la cifra delle ipoteche. Una varietà statistica che ebbe sino a poco tempo fa più lunga fortuna nelle colonne dei giornali italiani, fu quella in cui si narrava come il debito ipotecario gravante sulla proprietà fondiaria (terre e case) nostra, fosse andato crescendo da circa 10 miliardi e mezzo nel 1871, a circa 15 miliardi negli ultimi anni. Alcuni più onesti degli altri, aggiungevano che circa 6 miliardi erano però di debito ipotecario non fruttante interesse; ma la somma residua di 9 miliardi (al 31 dicembre 1901 precisamente 9 miliardi e 74 milioni) era ancora tanto enorme, sovratutto paragonata ai 51 miliardi di valore capitale delle terre e delle case in complesso, ed aggiunta alla cifra ignota e paurosa dei debiti chirografari e cambiari, da far riflettere sul serio alla probabile bancarotta della proprietà fondiaria italiana.

 

 

Coloro che si occupavano di statistiche ipotecarie, sapevano che quella cifra era falsa per numerosi motivi: perché molte ipoteche estinte non vengono cancellate; perché molte iscrizioni ipotecarie sono duplicate, e non è sempre possibile di conoscere la duplicazione; perché nei giudizi di purgazione, e nelle vendite all’incanto le ipoteche nuove legali si aggiungono, persino due volte, alle ipoteche antiche; perché le ipoteche giudiziarie vengono accese e poscia mantenute per somme superiori al vero, ecc., ecc. Intanto la cifra dei 9 miliardi continuava, malgrado lo scetticismo dei competenti, a costituire la prova delle rovinose condizioni della proprietà fondiaria.

 

 

Per fortuna, nell’ultimo fascicolo del Bollettino di statistica e legislazione comparata – pubblicazione che non ha nulla da invidiare alle più rinomate pubblicazioni analoghe straniere – il direttore generale del demanio, comm. Solinas-Cossu, ha istituito un sottile calcolo di controllo di quella cifra fantastica dei 9 miliardi. Seguendo il sistema pazientemente escogitato e perfezionato dal De Foville in Francia e dal Bodio e dal Pantaleoni in Italia, egli ha pensato che moltiplicando per la durata media della vita umana la somma annualmente detratta dalle successioni a causa dei debiti ipotecari, noi avremmo ottenuto una somma corrispondente al totale dei debiti ipotecari esistenti nel momento presente.

 

 

Poiché la durata media della vita umana è di 36 anni, per esempio, e poiché la generazione che muore in un anno lascia i suoi beni gravati in media dello stesso debito ipotecario che colpisce le altre generazioni, se noi moltiplichiamo per 36 il debito ipotecario medio dei defunti in ogni anno, avremo il debito ipotecario totale. È inutile dire attraverso a quali complicati conteggi il Solinas-Cossu sia riuscito a tener conto di molti altri fattori secondari di cui qui non si può nemmeno fare un cenno. Basti ricordare come da questa indagine il debito ipotecario che pesa sulla proprietà privata individuale si ridurrebbe a 3 miliardi e 700 milioni di lire. Si ridurrebbe, dico, perché onestamente il Solinas-Cossu avverte che codesta rilevazione indiretta presta il fianco a dubbi svariati. Intanto una cosa è sicura: che il calcolo di controllo ora istituito è una riprova valida di una verità nota da lungo tempo agli statistici: che, cioè, il debito ipotecario è di gran lunga inferiore alla cifra dei 9 miliardi e forse non giunge nemmeno alla metà di quella somma. Si aggiunga che una notevole parte del debito ricade sulle case (nel 1901 su 385 milioni di lire di nuove iscrizioni, 105 cadevano su soli terreni, 100 su soli fabbricati e 179 su terreni e fabbricati insieme); e non si rimarrà lontani dal vero affermando che forse nemmeno un terzo di quei famosi nove miliardi costituisce il debito vero ipotecario della terra. Se poi si osserva ancora che il debito ipotecario in minima parte trae sue origini da prestiti per miglioramenti agricoli e quasi sempre da residui non pagati del prezzo di acquisto dei fondi o da quote ereditarie pagate ai coeredi da colui che si assume la proprietà dei beni fondiarii ereditati; se questo si pensa, si vedrà dalle cose dette, zampillare una verità molto semplice: che il debito ipotecario è un fenomeno naturale, che si verifica in tutti i tempi ed in tutti i paesi, che nessuno potrà togliere mai; e che quel che vi è di eccessivo e di socialmente pericoloso, deriva dall’artificioso innalzamento del valor della terra dovuto a molte cause, fra cui i dazi di protezione, le speranze di condoni d’imposte, il rinvilimento della mano d’opera. Cause le quali, rialzando artificiosamente il valor della terra, e cristallizzando le speranze delle rendite elevate future, magari poi non ottenute, hanno indotto gli acquisitori e gli eredi a pagare troppo cara la terra e li costringono a gemere oggi sotto il peso ipotecario dei residui non pagati. Se dunque si vuole che il debito ipotecario in futuro non cresca, unica cosa possibile a farsi sì è di togliere le cause del suo artificioso incremento e di non aggiungere esca al fuoco con condoni d’imposta fatti a caso.

La riduzione dell’imposta fondiaria

La riduzione dell’imposta fondiaria

«La Tribuna», 9 dicembre 1902

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 515-518

 

 

La proposta di ridurre a metà il contingente dell’imposta fondiaria erariale nel mezzogiorno, ha suscitato dovunque vivaci discussioni. Non mancarono coloro che, al solito, per giustificare quel provvedimento, citarono gli esempi stranieri di riduzioni della fondiaria avvenuta in Francia ed in Inghilterra, e credettero dimostrare che non era poi quella una eresia tale da doversi condannare senz’altro. Benché l’imitare od anche il solo citare esempi stranieri sia abitudine non buona, mi si conceda stavolta di parlare brevemente del più singolare degli esempi stranieri di riduzione dell’imposta fondiaria. Mi reputerò fortunato, se quest’esempio potrà giovare a persuadere qualcuno della convenienza di non imitarlo.

 

 

Non discorro della Francia, dove la riduzione della fondiaria fu un’offa gittata ai contadini alla vigilia di un’elezione generale. Con ragionamenti elettorali, non si potrebbe giustificare da noi una proposta consimile. Quando in Francia si volle accaparrare il corpo elettorale rurale si ridusse la fondiaria per tutta la Francia e non solo per una parte del paese.

 

 

Vengo all’Inghilterra la quale dalla crisi agraria, che spietatamente da un ventennio annulla le rendite ed i profitti della terra, si vede scissa in due sezioni economicamente opposte: l’Inghilterra cittadina, ricca per manifatture e commerci, e l’Inghilterra agricola, dalla quale fuggono uomini e capitali. Qualcosa di simile alla differenza di cui ora tanto si parla da noi, fra il nord ed il sud. Stremati dalla crisi, privi di braccia, impotenti a trarre qualsiasi profitto dai loro capitali, gli agricoltori inglesi chiesero per lunghi anni aiuto allo stato; e l’ottennero coll’Agricultural Rates Act del 1896, il quale dava facoltà allo stato di pagare agli enti locali un canone uguale alla metà dell’imposte locali da cui erano gravate le aziende agricole.

 

 

Gli agricoltori della Gran Bretagna vedevano così diminuita la somma d’imposte che pagavano agli enti locali, di circa 40 milioni di lire nostre. Perché non si potrebbe fare da noi altrettanto, dato che l’agricoltura è l’industria notoriamente meno remunerativa delle altre, e perché non si potrebbe cominciare a seguir l’esempio altrui nel mezzogiorno, dove l’agricoltura si dibatte in più gravi strettezze?

 

 

Varie sono le ragioni per le quali è meglio che qui non si faccia ciò che in Inghilterra si fece – e si fece, notisi, malgrado la viva opposizione dei liberali e dei superstiti della politica tributaria gladstoniana.

 

 

Innanzi tutto, l’imposta che in Inghilterra si condonò per metà, era esatta in base ad una valutazione rinnovata ogni quinquennio, del reddito delle terre. Minor pericolo dunque vi era, per la instabilità dell’aliquota, che si verificasse l’ammortamento dell’imposta o la capitalizzazione del condono. Notisi che l’imposta ridotta non era la land tax pagata dai proprietari di terre. Per non fare regali ai proprietari, la land tax non venne mai ridotta per condono, e ne fu permesso solo il riscatto, come di un canone ipotecario. Da noi il pericolo di fare regali ai proprietari, data la fissità del contingente erariale e la improbabilità attuale di una pronta perequazione fondiaria, sarebbe evidente.

 

 

L’imposta locale inglese sulle terre di cui si tratta è parte del sistema delle imposte (rates) locali, che sono intese a colpire le persone in base al fitto che pagano: l’inquilino sul fitto dell’alloggio, il commerciante sul fitto della bottega, l’agricoltore sul canone di fitto da lui pagato per l’uso della terra. Oggetto immediato dell’imposta è dunque il fitto; ma oggetto vero è invece il reddito della persona che paga il fitto, il quale è così assunto come indice del reddito, come nel valor locativo italiano. Parve fosse ingiusto tassare egualmente un inquilino che paga 10.000 lire di fitto per l’alloggio, e l’agricoltore che paga 10.000 lire di

fitto per la terra che coltiva. Il primo avrà forse un reddito di 50.000 lire, mentre il secondo a stento ne racimolerà 10.000. Quindi la riduzione dell’imposta dell’agricoltore alla metà, fu ritenuta opera di giustizia, intesa ad equiparare meglio l’imposta al suo oggetto vero che è, ripetiamo, il reddito e non il fitto. Tanto è vero che il condono fu concesso solo per le terre coltivate e non per le terre incolte, parchi, brughiere da caccia, che potevano reputarsi indici di un reddito elevato. La imposta sui terreni fu dunque potuta ridurre in Inghilterra perché essa era in sostanza, se non in apparenza, una imposta personale sul reddito; e fu ridotta in modo che la sua aliquota (rispetto al reddito) è ancora adesso più alta che per le

altre forme di reddito. Se fosse stata un’imposta reale, senza dubbio la riduzione non sarebbe stata fatta. Una semplice scorsa ai documenti parlamentari basta a dimostrarlo.

 

 

Invece in Italia l’imposta sui terreni è imposta reale che non ha alcun rapporto uniforme noto col reddito attuale dei terreni. La riduzione a metà dell’imposta favorirebbe non le persone che stanno peggio, ma le terre che erano state maggiormente valutate all’epoca ormai remota, della catastazione. Beneficio massimo ne trarrebbero codeste terre, ossia quelle di più antica cultura e meno atte, per il loro esaurimento, a trasformazioni culturali, ed il beneficio si convertirebbe in un aumento della rendita dei proprietari e del valor capitale delle terre. Beneficio minimo ne trarrebbero le terre da epoca più recente diboscate o trasformate in vigneti poiché desse al momento della catastazione erano rimboschite e furono quindi poco valutate. Si vorrebbe forse che da meno di 1 lira per ettaro di condono i proprietari più colpiti dalle ingiurie della crisi traessero argomento per la rigenerazione agraria del mezzogiorno?

 

 

La imposta locale inglese sui terreni viene pagata non dai proprietari, ma dagli affittuari; cosicché in un paese, dove son diffusissimi gli affitti, il condono dell’imposta non può essere assorbito dai proprietari sotto forma di maggior rendita o di capitalizzazione più elevata del terreno, almeno finché dura il periodo dell’affitto. Perciò come rimedio alla crisi agraria, il condono dell’imposta si addimostrava temporaneamente efficace; ed era ciò che voleva il parlamento inglese che votò il condono solo pro tempore.

 

 

Invece in Italia il condono vien dato ai proprietari. È una incognita assoluta il sapere che cosa faranno di questo condono i grandi proprietari. Dei piccoli non importa parlare poiché ad essi si può provvedere con una riduzione scalare delle quote minime. Già il prof. De Johannis ha chiesto che cosa i grandi proprietari hanno saputo fare delle precedenti riduzioni della fondiaria e dei frutti del dazio sul grano; e la sua domanda è rimasta sinora senza risposta.

 

 

Non è dunque alla terra ed alla proprietà che va concessa la riduzione d’imposta, quando si voglia essa agisca ad incremento dell’agricoltura e non si voglia sperare questo effetto benefico solo in base ad ipotesi gratuite. La riduzione d’imposta va concessa alle persone che geriscono l’industria agricola ed ai capitali nuovi che si desidera siano impiegati nella terra. Alla terra ed ai capitali che vi sono già impiegati è inutile pensare. Ogni aiuto dato ad essi giova soltanto a farne crescere il valore capitale. Ciò che ora importa, nel nord come nel sud d’Italia, ma sovratutto nel mezzogiorno, si è che la terra venga svalutata, e ridottone il valor capitale – ora tenuto artificiosamente alto col dazio sul grano, e che si tenta di crescere ancora con le proposte Sonnino – diventi più accessibile al capitale. Importa sia reso facile l’impiego in terre ed in miglioramenti culturali ai nuovi capitali, che ora non si impiegano nelle terre perché questa costa troppo cara, perché sono alte le spese di trapasso, perché è incerta la situazione doganale e la possibilità di smercio dei prodotti agrari, perché sono eccessive le tariffe ferroviarie, perché la capacità d’acquisto dei consumatori di tutta Italia è ridotta da dazi fiscali e da dazi protettivi di ogni sorta. Nel togliere questi, che sono i veri ostacoli alla rigenerazione dell’agricoltura nostra, si appaleserà veramente l’intelletto d’amore degli uomini di stato verso il mezzogiorno d’Italia.

 

 

Ben diverso dai regali alle classi proprietarie è il programma di progresso vero; e sta tutto nel lasciare il campo libero allo esplicarsi delle nuove forze e delle attività modeste ed iniziali, che pure si vanno timidamente affermando anche nel mezzogiorno d’Italia.

 

 

Il progetto del ministero sulla riduzione del prezzo del sale

Il progetto del ministero sulla riduzione del prezzo del sale

«La Stampa», 28 ottobre 1902

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 512-514

 

 

Roma, 27, ore 20.

 

Ho potuto avere alcune notizie più precise sulla riforma che il ministero prepara a proposito del prezzo del sale. Vi ho già telegrafato, tempo fa, che il ministero pareva intenzionato a limitare questa riduzione ai poveri, e ad affidare la rivendita del sale a prezzo ridotto alle congregazioni di carità. Ora il progetto, che è stato meglio concretato di questi giorni, si inspira in genere al concetto di distribuire il sale a prezzo ridotto soltanto ai poveri. Ma si sono dovute lasciare da parte le congregazioni di carità, le quali non in tutti i comuni funzionano bene, e spesso mancano di locali adatti e sovratutto di personale pagato e volonteroso di sobbarcarsi alle nuove incombenze volute dal disegno di legge.

 

 

La distribuzione del sale si farebbe direttamente dai comuni. Il sindaco, od uno dei consiglieri a turno, sovraintenderebbe a questa faccenda. Il segretario terrebbe i conti, aggiungendo questa alle altre sue mansioni. Verrebbe compilato un ruolo degli abitanti poveri aventi diritto al sale a prezzo ridotto. Ogni persona inscritta su quel ruolo riceverebbe, pagando la somma relativa, un libretto di buoni, con i quali potrebbe recarsi dal magazziniere del sale e provvedersi a seconda dei suoi bisogni.

 

 

Secondo i suoi ideatori, il progetto presenterebbe il vantaggio di fare una differenza fra il sale venduto ai ricchi e quello venduto ai poveri; e, pur soddisfacendo ad un criterio di giustizia, di diminuire la perdita che lo stato soffrirebbe ove la riduzione fosse generale. Anche riducendo il prezzo pei poveri della metà, a 20 centesimi, la perdita dello stato si calcola che non potrebbe mai essere superiore a 15 milioni; e si ha speranza di tenersi al disotto di questa cifra.

 

 

Noi non vogliamo discutere a fondo la questione del sale, perché bisognerebbe anzitutto vedere se la gabella del sale sia proprio quella che per la prima debba essere toccata. Ci limiteremo ad alcune osservazioni specifiche alla riforma ideata dal ministero e che francamente, ci appare assai pericolosa e di esito dubbio.

 

 

Innanzi tutto con quale criterio si faranno i ruoli dei contribuenti poveri aventi diritto allo sgravio d’imposta? Non sembra inevitabile che i favoritismi, le parzialità abbiano buon giuoco e possano frustrare i benefici effetti della legge? Se si adotterà il criterio della notorietà, non potranno in molti comuni i partiti al potere inscrivere gli amici ed escludere gli avversari? Ognuno sa a quali eccessi trascendano spesso i partiti che traggono la loro forza da camarille locali o da gruppi di famiglie. Né è senza pericolo il fatto che in molti comuni, per amore di popolarità o per avere ligi gli elettori, si tenderà ad applicare con larghezza il criterio della povertà; sicché pare probabile che il preventivo della perdita fatto dal ministero debba poi in pratica venire superato.

 

 

Se si adotteranno – ad evitare favoritismi – criteri estrinseci per constatare l’esistenza della povertà; potrà darsi che quei criteri non includano molti casi di povertà e contemplino invece casi di agiatezza. Il non pagare imposte dirette od il pagarne meno di una certa cifra non basta a provare che il tale sia povero; i possessori di titoli al portatore informino.

 

 

Si aggiunga che sarà difficile impedire le frodi e le incette del sale a prezzo ridotto. Il portiere o l’inquilino inscritto nel ruolo dei poveri provvederà il sale per tutta la casa, pur di guadagnarci su qualcosa; ed anche se si metterà un massimo al consumo individuale, sarà sempre possibile creare teste di legno. Si darebbe un nuovo impulso alla fioritura delle teste di legno, a danno dell’erario dello stato.

 

 

Saranno molti gli operai ed i veramente poveri che avranno le 5 o le 10 lire necessarie per comprare il libretto dei buoni di sale? Oggi è possibile avere 20 centesimi per comprare mezzo chilogrammo di sale; domani che si dovessero tirar fuori d’un colpo somme relativamente grosse, c’è da scommettere che parecchie famiglie proletarie mangerebbero la polenta senza sale. Se poi si volesse consentire il pagamento a chili, si dovrebbe tenere una contabilità grandiosa e complicata.

 

 

Quello della contabilità è un altro grave difetto del disegno ministeriale. Non si vede il costrutto di caricare i comuni di nuove funzioni e di nuove spese. Chi le pagherà? E su chi andranno a cadere i fitti dei magazzini, ecc. ecc.? O non è forse un assurdo che nello stesso comune vi abbiano ad essere, accanto alle rivendite di sali e tabacchi, altri uffici incaricati di distribuire il sale?

 

 

In fondo, tutto questo progetto di ridurre il prezzo del sale per le classi povere e non per tutti, corrisponde ad un concetto antiquato delle imposte indirette. Tutti i tentativi fatti nel passato di proporzionare le imposte sui consumi alle fortune sono cadute nel vuoto. Bisognerebbe che i poveri portassero addosso una scritta che indicasse la loro condizione di povertà. Il che, oltre ad essere impossibile, sarebbe poco piacevole per i poveri medesimi. Una volta si obbligava la gente ad acquistare una data quantità di sale, variabile in proporzione alla fortuna. Adesso si vuole proporzionare il prezzo a norma della ricchezza. Entrambi sono criteri ridicoli di finanza. Se proprio si vuole fare un dono ai poveri, sarebbe meglio regalare qualche lira agli iscritti sui ruoli lasciando loro libertà di comprare il sale dove e come loro più talentasse. Almeno si risparmierebbero le spese di controllo e di magazzino; ed i beneficati saprebbero di aver ricevuto un’elemosina. Forse, se questo sapessero, la rifiuterebbero e chiederebbero qualche altra riforma, atta a servire di maggior giovamento allo sviluppo della ricchezza ed alla domanda di lavoro.

 

 

Professori sovversivi

Professori sovversivi

«La Stampa», 26 settembre 1902

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 507-511

 

 

I resoconti che arrivano da Firenze intorno al congresso degli insegnanti delle scuole medie italiane sono uno dei più interessanti documenti dello stato d’animo di una gran parte dei dipendenti dello stato e dell’influenza che su di essi ha esercitato l’esempio dei miglioramenti economici ottenuti dagli operai delle officine e dagli impiegati delle grandi amministrazioni ferroviarie.

 

 

I professori, specialmente i professori delle scuole medie, sono uomini di solito mancanti di iniziativa; privi di stabilità di sede, talvolta privi della stabilità di posizione, sottoposti ad essere sbalestrati da un estremo all’altro d’Italia ad arbitrio del ministero, ossia dei capi-divisione e dei segretari della Minerva, essi stanno muti come pesci ed aspettano il miglioramento della loro carriera dalla benevolenza dei superiori.

 

 

Perché i professori si siano decisi a strillare così forte, in modo da spaventare i giornali fiorentini, deve essere accaduto davvero qualcosa di straordinario.

 

 

Se si vuol dire la verità, le lagnanze dei professori secondari duravano da un pezzo; ma nessuno se ne preoccupava, poiché erano sepolte nei giornali didattici e lette, a conforto reciproco, dai soli insegnanti. Oggi invece gli strilli sono pubblici, e sono messi sotto la salvaguardia del capo dell’estrema sinistra radicale; cosa la quale conferisce importanza politica a codesta singolare dimostrazione.

 

 

Gli insegnanti si lagnano di parecchie cose: di avere uno stipendio, per i professori titolari, il quale va da un minimo di 2.000 lire ad un massimo di 3.000 lire, massimo il quale sarà raggiunto, secondo gli organici in vigore, con difficoltà estreme, dopo 25-30 anni di servizio o non sarà raggiunto mai; di essere perciò posti in condizioni inferiori a quelle di tutti gli altri impiegati dello stato, persino degli impiegati d’ordine, dove gli stipendi finali variano dalle 4.500 alle 6.000 lire; di ottenere, dopo anni ed anni di servizio, promozioni ridicole, che qualche volta si riducono a quattro lire e qualche centesimo al mese; e di dovere, ciò nonostante, ringraziare Iddio di trovarsi in una condizione così misera e nello stesso tempo così relativamente sicura e larga. Infatti quegli altri disgraziati che si chiamano reggenti (e tutti sono reggenti prima di diventare titolari) devono passare dieci o dodici anni della loro esistenza colla paga di 1.800, 2.000 e 2.200 lire, senza possibilità di alcun aumento, nemmeno sessennali, che sono pure concessi a tutti gli impiegati. Quegli altri disgraziati d’ordine inferiore che si chiamano incaricati hanno paghe che vanno dalle 70 alle 125 lire all’anno per ogni ora di lezione settimanale; cosicché un incaricato di scuola tecnica che abbia due ore di lezione al giorno da fare, ritira alla fine del mese una rimunerazione di 70 lire circa, senza nessuna garanzia di stabilità, senza diritto a pensione, senza riduzioni ferroviarie, senza infine nessuno di quei piccoli vantaggi che rallietano alquanto la vita della piccola burocrazia italiana. Questa gente – che comincia colle 50 e colle 70 lire al mese e faticosamente scala ad uno ad uno i gradini della carriera sino ad arrivare, vecchi di corpo e di anima, ridotti ad una minoranza infima di privilegiati, all’ultima Thule delle 3.000 lire all’anno, soggette a ritenuta – tutta questa gente ha studiato, ha ottenuta una laurea, ha sostenuto concorsi dove pugnano centinaia di concorrenti, deve vestire decentemente, deve mantenere una famiglia più o meno numerosa, deve essere esempio di tutte le virtù pubbliche e private, deve scrivere e pubblicare volumi; deve, insomma, avere tanti meriti e tante virtù che cinquant’anni or sono sarebbero bastati a farne dei professori d’università. Invece adesso sono dei travetti obbligati a correre qua e là tutto il giorno per avere lezioni negli istituti privati a due o tre lire all’ora; a dare ripetizioni a prezzi ancora inferiori; sono costretti, insomma, ad ingegnarsi nei modi più sconfortanti per campare la vita con quell’apparenza di decoro che è richiesta dagli educatori della gioventù, speranza e fiore della patria italiana.

 

 

Tutte queste cose i professori le avevano dette da lungo tempo, ed avevano scritto memoriali, umiliandoli ai piedi degli onorevoli deputati, senatori e ministri.

 

 

I lagni erano stati vani e le belle promesse erano rimaste inadempiute; cosicché già lo scoraggiamento si era impadronito degli insegnanti; quando una nuova speranza ed una nuova fede vennero a rianimarli ed a riannodarne le sparse fila: la speranza e la fede nella organizzazione di classe per strappare i miglioramenti, non concessi di buona grazia, con una pressione diretta sul parlamento e sul governo. La trasformazione di tattica degli insegnanti è uno dei fatti più impressionanti della politica del giorno. Il fatto dimostra il diffondersi nei ceti dove meno ce lo saremmo aspettato di un’idea pericolosa: dell’idea che per ottenere qualcosa bisogna organizzarsi in classe separata per imporre al parlamento le riforme desiderate. L’esempio dei ferrovieri è stato contagioso. L’aver visto che i ferrovieri colla minaccia di fare sciopero hanno messo in orgasmo l’Italia per circa due mesi e sono riusciti a strappare concessioni che, a detta dei loro stessi capi, mettono i ferrovieri al disopra, per garanzie di carriera, della maggior parte degli impiegati governativi, ha montato la testa a molti. Gli impiegati postali e telegrafici si uniscono in federazione ed eleggono a presidente l’on. Turati. I professori anch’essi fanno la loro brava lega e si mettono sotto il patronato dell’on. Sacchi.

 

 

Né basta. Codesti professori, a cui i programmi prescrivono di insegnare i diritti ed i doveri dei cittadini, che devono inculcare il rispetto alle istituzioni vigenti, votano un ordine del giorno in cui affermano che se i quattrini per aumentare i loro stipendi non ci sono, si piglino sugli altri bilanci; ossia sul bilancio della guerra, mandando a spasso uno o due corpi d’armata. Codesti professori, che alcuni anni fa non osavano parlare di politica nemmeno in segreto adesso gridano che per aumentare gli stipendi non si devono aumentare tasse scolastiche, perché ciò sarebbe antidemocratico. Ed il prof. Salvemini aggiunge che i professori ora gettano il loro programma (di aumento di stipendi ecc. ecc.) come un guanto nell’arena parlamentare e «beato il partito che lo raccoglierà!», conchiudendo: «Chi si metterà contro la scuola, la scuola lo combatterà».

 

 

E poiché un professore, più degli altri timido, aveva osato dire che l’ordine del giorno gli sembrava fatto da una lega socialista, il prof. Salvemini, interrompendolo, riconobbe che desso era fatto da una lega di professori che si può anche trovare d’accordo coi socialisti. E poiché ancora qualche giornale si era permesso di esprimere le sue meraviglie per il carattere sovversivo dei discorsi del congresso, un professore di filosofia enunciò l’idea che la lega si debba imporre in modo «da non dovere mendicare nei giornali la pubblicazione di articoli in favore della nostra causa o di notizie che ci riguardano».

 

 

Noi non giudichiamo. Esponiamo soltanto. Codesti professori, che hanno buone ragioni da far valere e che credono di non avere modo migliore di farle valere se non che fare congressi a base di discorsi accesi, formare leghe per premere sui deputati e sul governo, promettere la loro alleanza a quel partito, anche di estrema sinistra, che sposerà la loro causa, minacciare i giornali non disposti a pubblicare le loro querimonie; codesti professori non sono forse un fenomeno interessante?

 

 

Le loro minacce non spaventano come quelle dei ferrovieri, perché uno sciopero di professori sarebbe divertente, sovratutto per gli allievi. Ma fanno pensare di più. Dicono che il malcontento e la disorganizzazione devono essere ben grandi nell’organismo statale se persino gli educatori della gioventù alzano la loro voce contro il governo e cercano paladini nei partiti extra-costituzionali.

 

 

Che i professori d’università fossero talvolta insofferenti di freno e poco rispettosi delle autorità costituite, si capiva, ed era forse una conseguenza necessaria della libertà della scienza; ma che i professori secondari adottino i procedimenti degli operai e dei contadini per migliorare la propria condizione, è cosa inaudita non solo in Italia, ma in ogni paese straniero, dove l’istruzione sia un affare di stato. Altrove è inconcepibile una lega di professori ben pagati e sicuri di una carriera relativamente rapida, mentre da noi il sovversivismo dei professori trova una scusante nella noncuranza del governo verso di loro e nel disprezzo della pubblica opinione verso la gente male remunerata ed ognora mendica.

 

 

È assai probabile che al congresso di Firenze abbiano preso il sopravvento alcuni pochi violenti, i quali non rappresentano in tutto le opinioni delle migliaia di loro colleghi.

 

 

Scarso conforto, poiché le minoranze rumorose sono sempre quelle che si tirano dietro le maggioranze pacifiche. Se noi non vogliamo che lo spirito sovversivo guadagni terreno tra i professori – con quanto pericolo dell’educazione nazionale è facile vedere – è d’uopo correre prontamente ai ripari con una azione di stato, la quale sia risoluta e ferma da un lato e soddisfaccia dall’altro alla legittima aspirazione di un ceto di persone che nella società compie un ufficio nobilissimo e che noi purtroppo abbiamo ridotto ad una condizione inferiore a quella degli impiegati d’ordine emarginatori dei ministeri.

 

 

Il punto dell’oro

Il punto dell’oro

«La Stampa», 4 settembre 1902

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 502-506

 

 

Le borse del primo giorno di settembre hanno salutato il ritorno di un fenomeno che da una quindicina d’anni più non si ricordava: il cambio ridotto al punto dell’oro.

 

 

Ai lettori poco pratici del linguaggio di borsa occorre una spiegazione. La cifra che sui listini di borsa si vede indicata col nome di cambio, per esempio 100,40, indica la somma che occorre dare in valuta legale di un paese per avere una tratta pagabile su una piazza straniera, per esempio Parigi, in confronto della quale si indica il cambio. Paesi la cui circolazione metallica è ottima si trovano talvolta nella condizione di dover pagare un cambio per avere divise estere. Ciò dipende dalle domande e dalle offerte di divise. Il cambio non può tuttavia superare – nei rapporti fra paesi a circolazione sana – certi punti che si dicono i punti dell’oro. Tra la Francia e l’Italia si ritiene che il cambio possa oscillare al massimo fra 99,55 e 100,45 il che vuol dire che per aver una divisa estera (cambiale di prim’ordine) pagabile a Parigi non si possono dare meno di 99,55 lire italiane e non più di 100,45. Questo, s’intende, quando la circolazione sia sana, ossia in Italia ed in Francia circolino a perfetta parità biglietti fiduciari e monete d’oro. Lo sconto massimo del cambio dalla parità di 100 può essere di 45 centesimi, rappresentanti la somma di spese di trasporto, assicurazione, ecc. necessarie ad inviare 100 lire d’oro dalla Francia in Italia e viceversa. Infatti se il cambio scendesse al disotto di 99,55 ossia si dessero meno di lire 99,55 per un effetto di 100 franchi pagabile a Parigi, converrebbe mandare l’effetto a Parigi, incassare i 100 franchi in oro e poi spedirli in Italia con una spesa di 45 centesimi, ricavando nette dall’operazione in Italia almeno 99,55 lire in oro. Se il cambio aumentasse al disopra di 100,45, ossia se per avere un effetto su Parigi bisognasse pagare di più di quella somma, converrebbe alla persona obbligata a fare un pagamento di 100 franchi in oro a Parigi, prendere 100 lire oro, spedirle a Parigi con una spesa di 45 centesimi e così evitare la compra dell’effetto.

 

 

Due sono dunque i limiti – massimo e minimo – del cambio, i cosidetti punti dell’oro, fra due paesi a circolazione sana; ed è evidente che quando il cambio non supera il punto dell’oro massimo, noi siamo in un paese a circolazione monetaria sana, ove l’oro può circolare a condizioni di perfetta uguaglianza col biglietto fiduciario. Infatti oggi che in Italia il cambio è a 100,40, nessuno vorrà dare per 100 lire di oro più di 100,45 lire in carta; poiché per le contrattazioni interne varrebbe meglio servirsi della carta a corso legale e per le contrattazioni esterne, per trovare convenienza a spedire l’oro, bisognerebbe pagarlo 100,40 sotto deduzione della spesa occorrente a spedirlo e ad assicurarlo, ossia dei 45 centesimi di scarto. Altrimenti converrebbe più spedire effetti esteri pagabili a Parigi, che sul mercato si trovano a 100,40.

 

 

Come va allora, chiederà alcuno dei lettori, che in Italia, da una quindicina d’anni, il cambio sia stato superiore, e talvolta di assai, al limite insorpassabile di 100,45? E come va che solo ora, dopo tanto tempo, noi siamo ritornati a quel punto dell’oro che non avrebbe dovuto essere sorpassato mai?

 

 

Dare una risposta precisa ad una domanda di questo genere in un articolo di giornale non è cosa facile; né vogliamo far tanto, contenti di poter chiarire il fenomeno solo in via approssimativa, in modo comprensibile ai più, anche se non del tutto corretto in tutti i particolari dal punto di vista scientifico.

 

 

Si suol dire che il motivo per cui il cambio può superare le lire 100,45 e convertirsi in aggio, sia la proclamazione del corso forzoso dei biglietti delle banche di emissione e dello stato. Così in Italia sino a che le banche cambiarono a vista i loro biglietti in oro, il cambio non poté superare il punto dell’oro e l’aggio comparve e crebbe quando il cambio a vista dei biglietti in oro fu in via di fatto soppresso. La spiegazione ha un certo fondamento di verità, poiché è evidente che se i biglietti si cambiano a vista in oro dalle banche, il cambio non può, per le cose già dette, superare il punto dell’oro. Ma può benissimo darsi che esista ancora il corso forzoso e che il cambio non superi 100,45.

 

 

Nel momento presente dura in Italia in vigore la legge sonniniana del 22 luglio 1894, la quale esenta lo stato e gli istituti di emissione dall’obbligo del cambio del biglietto in oro a vista ed al portatore, e ciò non ostante il cambio si mantiene entro i limiti normali. In Francia il corso forzoso durò in vigore dopo la guerra del 1870, per parecchi anni, e durante quel tempo ben di rado il punto massimo dell’oro fu superato; malgrado la mancanza del cambio a vista, l’oro continuava a circolare a perfetta parità colla carta.

 

 

Non basta dunque che il corso forzoso sia proclamato in un paese, perché l’oro fugga ed il rialzo dell’aggio stia ad indicare il sovrappiù in carta che occorre dare per avere 100 lire d’oro, come non è necessario che il corso forzoso sia formalmente abolito con una legge perché l’oro ritorni. Nessuna legge fu votata dal parlamento, e tuttavia l’oro sta ritornando a grandi passi in Italia; mentre nel 1884 si decretò solennemente l’abolizione del corso forzoso e si spesero 644 milioni per comprare oro e portarlo in Italia; e tuttavia tre anni dopo l’oro era di nuovo tutto scappato via.

 

 

Sinché le banche continuano a cambiare i biglietti in oro il cambio non supererà il punto dell’oro. Ma nessuna forza al mondo potrà consentire alle banche di prolungare il cambio dei biglietti a vista quando esse abbiano emessi troppi biglietti. In Italia poco importò che nel 1884 si introducessero 644 milioni di lire in oro per provvedere al cambio dei biglietti. Siccome di biglietti se ne erano emessi troppi; e siccome quando vi sono due monete in circolazione, – una cattiva esuberante (biglietti) ed una buona d’oro, – è sempre la cattiva che scaccia la buona; così nulla poté impedire – nemmeno la proclamazione dell’abolizione del corso forzoso – che l’oro se ne andasse via, come era venuto. E quanto più la quantità di biglietti circolanti superava il fabbisogno del paese, tanto più il loro valore sviliva di fronte all’oro e l’aggio aumentava. Se la emissione di biglietti fosse cresciuta ancora e gli affari del paese si fossero ristretti ancora più, l’aggio avrebbe potuto aumentare al di là del 16% a cui giunse, ed arrivare al 400-500%, a cui giunse nell’Argentina, od alle cifre spaventevoli della Francia all’epoca degli assegnati. All’aumento dell’aggio non vi è alcun limite a priori prefissabile.

 

 

Oggi invece l’aggio è scomparso e l’oro si scambia a parità colla carta, sovratutto, riteniamo noi, per una causa fondamentale, del resto molto complessa. In questi ultimi anni lentamente la ricchezza italiana si è andata a grado a grado sviluppando, gli scambi si sono intensificati sia nell’interno del paese, sia nei rapporti coll’estero; e mentre dieci anni fa 1.500 milioni di biglietti in carta erano esuberanti e svilivano, adesso 1.629 milioni sono a malapena sufficienti e lasciano persino di quando in quando un vuoto che deve essere colmato dall’oro che ritorna. Altre cause – come la maggiore fiducia nello stato e nel tesoro italiano, la rallentata e quasi terminata importazione di nostri titoli di debito dall’estero; la accresciuta esportazione di merci; e la accresciuta quantità di rimesse di emigranti e di pagamenti di forestieri – hanno giovato allo scopo; sintomi del consolidarsi della ricchezza nazionale e dell’intensificarsi degli affari.

 

 

Non perciò ci dobbiamo addormentare sugli allori conquistati. Tutt’altro. La cifra attuale della circolazione cartacea – 1.629 milioni – è pur sempre pericolosamente alta. Basterebbe un lieve regresso nel movimento economico per renderla di nuovo esuberante e ripiombarci sulle delizie dell’aggio. Si dice che il pericolo dell’alta circolazione è scemato poiché la proporzione della riserva metallica è cresciuta dal 39 al 49% per i biglietti delle banche e dal 0 al 30% per i biglietti di stato. Ottima provvidenza di certo; ma che da sola non basta. Se bastasse aumentare la riserva per premunirsi dell’aggio, allora il paese più sicuro dovrebbe essere la Spagna dove la riserva è fortissima. In realtà la riserva è utile soltanto quando serve all’effettivo cambio dei biglietti; ma quando deve essere conservata sotto triplice chiave, equivale ad una miniera d’oro situata nel centro della terra, ossia non serve a nulla. Noi ameremmo meglio vedere la riserva diminuire, purché si bruciassero duecento milioni di biglietti. Allora veramente si sarebbe posto uno schermo efficace al ritorno offensivo dell’aggio. Allora soltanto il corso forzoso potrebbe ritenersi abolito di fatto definitivamente, il cambio potrebbe essere tenuto entro i punti dell’oro in guisa permanente e la permuta a vista dei biglietti in valuta metallica potrebbe effettuarsi senza pericolo per le banche.

 

 

Mentre si aspetta l’ufficio del lavoro governativo

Mentre si aspetta l’ufficio del lavoro governativo

«La Stampa», 25 luglio 1902[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 497-501

 

 

Per un anno si è trascinato dinanzi al parlamento il disegno di legge sull’ufficio del lavoro; ed è prevedibile che, dopo l’approvazione legislativa, dovrà ancora passare qualche tempo prima che gli studi i quali si stanno ora compiendo al ministero di agricoltura siano tradotti in realtà.

 

 

Frattanto allo scopo che non poté ancora essere conseguito dall’opera dello stato, intende con successo l’iniziativa privata. A Milano, coi fondi della Società umanitaria, istituita dal munifico lascito Loria, si sta organizzando un ufficio di statistica e di collocamento del lavoro, che ci sembra meritevole di essere studiato, poiché ci fornisce l’esempio di un istituto nuovo per l’Italia e siffattamente congegnato da arrecare notevoli vantaggi alla classe lavoratrice. La relazione, scritta dal prof. G. Montemartini, è un documento sobrio, guida preziosa sull’argomento.

 

 

Varii sono i metodi con i quali si è cercato di provvedere al collocamento dei disoccupati. Gli uffici privati di collocamento sono più dannosi che utili, perché hanno interesse a non trovare uno stabile posto al disoccupato per poter percepire ad ogni cambiamento una nuova mediazione. Gli uffici pubblici gratuiti di collocamento, sia di stato che municipali, presentano il pericolo del possibile predominio di un partito politico sugli altri partiti. Gli uffici di collocamento confessionali offrono il fianco alla obbiezione di venire a preferenza in aiuto ai lavoratori che appartengono alla corrente di idee morali o religiose o politiche degli amministratori. Il pericolo si è manifestato nelle più note e grandiose di quelle istituzioni, quali l’Esercito della salute in Londra e l’ufficio della Church Army, pure in Londra.

 

 

Migliori sono gli uffici di collocamento istituiti dagli imprenditori o dai lavoratori medesimi, sovratutto da questi ultimi. L’ufficio di collocamento nelle mani dei lavoratori non esercita la semplice funzione intermediaria; significa anche organizzazione dell’offerta. Essi giovano così, non solo a collocare i disoccupati, ma a farli pagar meglio. È questa una delle funzioni principali delle Trade-Unions inglesi, le quali cercano lavoro ai soci disoccupati, e nel frattempo, coi fondi per la disoccupazione, permettono all’operaio di ottenere migliori salari, astenendosi dall’accettare patti inferiori a quelli ritenuti sufficienti dall’unione. Codesti uffici dispongono di un nucleo di persone tecniche che rappresentino i diversi mestieri, che conoscano direttamente le esigenze delle singole industrie e dei singoli lavori. Semplici impiegati non sarebbero adatti. E le persone tecniche si formano in seno alle associazioni dei lavoratori.

 

 

Il prof. Montemartini conclude perciò che i rimedi contro la piaga della disoccupazione non possono essere messi in opera che dalla medesima classe lavoratrice, direttamente interessata; e che il modo più efficace per combattere la disoccupazione, in tutte le sue forme, consiste nell’organizzazione della classe lavoratrice, in modo da poter controllare la vendita della forza di lavoro ed il mercato del lavoro. Siccome il sussidio più potente all’organizzazione operaia sta nella conoscenza delle reali condizioni di offerta e domanda su un determinato mercato del lavoro, così il Montemartini propone alla Società umanitaria di costituire un ufficio del lavoro, il quale abbia per iscopo di illuminare la classe lavoratrice sulle condizioni di occupazione e disoccupazione nel mercato del lavoro, sulla piazza di Milano.

 

 

L’ufficio dovrebbe avere per iscopo: – la raccolta, per i lavoratori organizzati per arti e mestieri, dei dati statistici riflettenti le condizioni di fatto, specialmente economiche, dei lavoratori, occupati e non occupati, organizzati e non organizzati, che trovansi sulla piazza di Milano; – la raccolta di dati statistici riflettenti il movimento migratorio interno ed esterno per i lavoratori dei campi, ed il movimento emigratorio dei lavoratori industriali in rispetto alla piazza di Milano; – la raccolta di dati statistici riflettenti le condizioni di fatto, specialmente economiche, dei lavoratori dei campi, per l’Italia settentrionale e per l’Emilia.

 

 

La vigilanza sul funzionamento tecnico dell’ufficio dovrebbe essere deferita ad un apposito consiglio del lavoro, composto:

 

  • da 11 rappresentanti delle 11 industrie in cui è divisa la locale camera del lavoro, secondo le disposizioni della legge dei probi – viri, ed eletti dal consiglio generale della camera del lavoro di Milano;
  • da 11 rappresentanti dei lavoratori agricoli organizzati, nominati dalle federazioni provinciali e regionali delle leghe dei contadini dell’alta Italia;
  • da due rappresentanti nominati dall’umanitaria;
  • dal direttore tecnico dell’ufficio.

 

 

L’ufficio sarebbe costituito: – da un direttore tecnico, incaricato di dirigere le operazioni di rilevazione, di coordinare ed elaborare i dati raccolti, di attendere alle pubblicazioni; – da impiegati fissi per le rilevazioni dei dati riguardanti Milano; – da impiegati viaggianti, i quali dovranno raccogliere i dati statistici riguardanti i lavoratori dei campi ed i lavoratori industriali nelle regioni che interessano la piazza di Milano, e cioè: la Lombardia, il Veneto, l’Emilia, la Romagna, il Piemonte. Le operazioni statistiche sarebbero controllate da un comitato esecutivo composto di tre membri della Società umanitaria, che in tal modo manterrebbe sempre una oculata sorveglianza sull’intero andamento dell’ufficio.

 

 

L’attuazione del progetto importa lire 23.200 di spesa annua per il personale e lire 22.500 per il funzionamento (affitto, cancelleria, stampati, pubblicazioni, inchieste, ecc.); in tutto lire 45.700. È un progetto il quale si basa su due concetti cardinali. Il primo, che a lenire i mali della disoccupazione giovi sovratutto avere una conoscenza esatta della domanda e della offerta del lavoro. Il concetto difficilmente può essere posto in dubbio, poiché, a meno di proporsi scopi di impossibile raggiungimento, il compito di un ufficio di collocamento sta appunto nel mettere a contatto capitale e lavoro; scopo tanto più agevole a raggiungere quanto meglio si conosca se e dove la richiesta di operai abbondi e se e dove difetti ed abbondi invece l’offerta.

 

 

Più controverso parrà il secondo principio informatore del disegno: quello della grande e quasi esclusiva preponderanza che nella direzione dell’ufficio del lavoro viene data alle organizzazioni degli operai ed alle leghe dei contadini.

 

 

Forse alcuni rimarranno scandolezzati che si pensi ad attribuire così larga

influenza a corpi non legalmente costituiti. Già si scandolezzò il senato nel vedere introdursi nel consiglio del lavoro governativo alcuni rari rappresentanti delle organizzazioni operaie; più grande sarà quindi lo scandalo di vedere a Milano un consiglio del lavoro, dove non avranno parte né governo, né comune, né camere di commercio, ecc. ecc., e dove sederanno esclusivamente i rappresentanti delle leghe operaie e contadine!

 

 

Malgrado lo scandalo, è opportuno che l’ufficio del lavoro sorga a Milano in questa forma. Dopo tutto, gli uffici di collocamento concepiti come emanazione diretta degli operai organizzati fioriscono in Inghilterra; e l’Inghilterra è uno dei paesi in cui la lotta contro la disoccupazione è meglio combattuta. Le leghe operaie hanno steso su tutto il paese una mirabile rete, grazie alla quale l’operaio disoccupato non si sente mai solo; e trova dappertutto appoggio e consigli nei suoi compagni di lavoro. Lo stesso ufficio del lavoro governativo si basa quasi esclusivamente sulle informazioni inviate dai segretari delle leghe operaie. È molto probabile che ciò che è riuscito così bene in Inghilterra riuscirà anche nell’alta Italia, e che coi mezzi della Società umanitaria si riuscirà a fare bene ciò che il governo non è riuscito a fare né bene né male, ciò che gli uffici municipali del lavoro compiono con iscarso successo e gli uffici privati di collocamento fanno molto male.

 

 

Che la necessità dell’ufficio sia sentita, e che gli uffici municipali e gli uffici privati non bastino all’intento, è verità dimostrata dal fatto che più o meno dappertutto sorgono iniziative per provvedere al nuovo bisogno. A Torino abbiamo la «borsa del lavoro», presieduta dal prof. Mosca e contrassegnata dalla cooperazione di imprenditori e di operai. A Milano l’ufficio del lavoro sorge in base a principii diversi e con basi finanziarie molto più forti. Amendue le iniziative potranno riuscire utili alla classe operaia. Dati i larghi mezzi che l’Umanitaria possiede, l’esperimento di Milano, che la pratica contribuirà a perfezionare, potrà riuscire di guida preziosa anche alle altre regioni d’Italia.

 

 



[1] Con il titolo Contro la disoccupazione. Mentre si aspetta l’Ufficio del lavoro governativo [ndr]

Recensione – Prof. S. Cognetti de Martiis: La mano d’opera nel sistema economico. – (prefazione al volume V della biblioteca dell’economista). Torino, unione tipografico-editrice

Recensione – Prof. S. Cognetti de Martiis: La mano d’opera nel sistema economico. – (prefazione al volume V della biblioteca dell’economista). Torino, unione tipografico-editrice

«La Riforma Sociale», 15 luglio 1902, pp. 695-696

Il programma amministrativo-tributario dei socialisti torinesi

Il programma amministrativo-tributario dei socialisti torinesi

«La Stampa», 17[1] e 30[2] maggio, 5 giugno[3] 1902

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 485-496

 

 

I

 

I socialisti torinesi hanno pubblicato il loro programma per le elezioni amministrative; e presentandolo agli elettori dichiarano di volere la discussione sulle questioni nette, precise, positive che essi pongono sul tappeto e di cui tutta la cittadinanza domanda la soluzione. È d’uopo riconoscere che il programma odierno dei socialisti è qualcosa di diverso dagli antichi programmi indeterminati di rivendicazioni sociali. Gli scopi ultimi del partito non vi sono nemmeno accennati; e le affermazioni di principio riguardano esclusivamente alcuni determinati punti, rispetto ai quali i socialisti invocano riforme: autonomia comunale, riforma tributaria, municipalizzazione dei pubblici servizi, istruzione, tutela al lavoro, tutela della salute pubblica, abolizione delle spese di lusso e superflue.

 

 

Su ognuno di questi punti il programma dei socialisti espone alcuni criteri essenziali, che si vorrebbero tradurre in atto. Disgraziatamente, per quanto si sia fatto, come dicemmo, un certo progresso, è difficile dare un giudizio preciso sulle proposte socialiste, perché queste sono pur sempre espresse con linguaggio generico, senza discendere a quelle enunciazioni concrete e specificate che sole possono dar modo di fare un esame esauriente dei problemi posti. L’esame, più che sull’applicazione pratica, va fatto sullo spirito informatore del programma e sui limiti che è d’uopo osservare nella sua esplicazione concreta. L’esame deve essere compiuto colla maggiore serenità possibile, guardando non al partito da cui le proposte provengono, ma alle proposte per se medesime; nell’intento di vedere quali di esse siano accettabili ed entro quali confini lo siano.

 

 

La prima impressione che produce la lettura del programma socialista è sinteticamente racchiusa nella frase che un nostro amico coltissimo nelle discipline economiche ci diceva: «O il mondo è andato innanzi, o il socialismo è rimasto indietro». Il dilemma è giusto in tutte e due le sue affermazioni: il mondo è andato innanzi e perciò il socialismo è rimasto addietro. Molte idee che in Italia – data la poca coltura dei nostri uomini politici – parvero esclusive dei socialisti, esaminate un po’ da vicino, appariscono, come sono, idee che furono discusse, propugnate da conservatori, e applicate da stati che politicamente hanno sistemi meno liberi dei nostri. È bastato che lo sprone socialista eccitasse l’energia intellettuale dei partiti costituzionali perché un nuovo cumolo di idee penetrasse nel partito liberale.

 

 

Il socialismo, che frattanto si sviluppava e progrediva, acquistando qua e là il potere, posto di fronte alla imperiosa voce dei fatti, ha dovuto rinunziare – in pratica – a tutto quanto era la sua ragione di vita: il principio collettivista, e ripiegarsi su programmi e su idee che possono essere accettati da una parte, ripudiati da un’altra parte dei nostri, senza che diano diritto a chi se ne fa sostenitore deciso di essere perciò solo un partito nuovo, con idee e programmi nuovi.

 

 

Chi al giorno d’oggi non vuole dare maggiore snellezza e maggiore indipendenza ai comuni? Chi si rifiuta a riconoscere la necessità e anche l’urgenza di una riforma tributaria, intesa a rendere meno gravoso il peso che opprime le classi diseredate? Chi non vuole tagliare sulle spese inutili dello stato e dei comuni e trarre di lì i mezzi per compiere riforme nei pubblici servizi? Quale persona oramai osa parlare male, a priori, come pure una volta si faceva, della municipalizzazione dei servizi del gas, dell’acqua potabile, delle tranvie, ecc. ecc.? Così pure tutti desiderano che in un modo o nell’altro si dia una refezione ai bambini poveri; si istituiscano ricreatori; e si rinsaldi l’educazione della gioventù con scuole professionali che siano complemento e sussidio alle scuole elementari.

 

 

Né è probabile possano sorgere dissensi di principio sulla opportunità delle cosidette clausole sociali a tutela dei lavoratori posti alle dipendenze dirette od indirette dei municipi.

 

 

Sono tutte cose le quali sembrano pacifiche; ed intorno alle quali la contesa verte sull’applicazione pratica e sulla possibilità di procacciarsi i mezzi con cui attuare principii così generalmente accettati. Data l’accoglienza universalmente benevola che conservatori e progressisti, costituzionali e cattolici, sono disposti a fare ai principii, non è forse inutile presentare, quasi fosse un programma di azione, un elenco di riforme desiderabili, senza indicare quando e con che mezzi quelle riforme si possano conseguire? Un programma in tanto vale in quanto è possibile attuarlo in un periodo di tempo non troppo lungo; tutto il resto è vento e rumore inutile. O, meglio, tutto il resto è qualcosa che serve soltanto a fare nascere speranze, destinate a rimanere insoddisfatte. Meglio sarebbe ridurre il campo delle proprie aspirazioni, ma dimostrare con dati precisi che una certa riforma potrebbe attuarsi con una data spesa e che alla spesa si sarebbe potuto sopperire con proventi indicati con precisione. Altrimenti si riesce soltanto, come riescirono in fatto i socialisti col loro programma, a tappezzare un’altra volta l’inferno di buone intenzioni, e frattanto a mandare in isconquasso l’edificio solido del bilancio di Torino.

 

 

Tutti siamo d’accordo sull’abolizione del dazio consumo, specialmente sui generi di prima necessità: e già si è fatto qualcosa in questo senso. Per abolirlo completamente bisogna dire chiaramente in quale misura saranno applicate le imposte dirette e progressive che devono sostituire nelle casse del municipio l’introito del dazio; e ciò è particolarmente necessario dato il programma dei socialisti che implica un aumento cospicuo ed imprecisato di spese, a cominciare dai rischi, che devono essere preveduti, della municipalizzazione dei pubblici servizi, estesa alla macellazione, all’assicurazione degli incendi… La refezione a tutti i bambini poveri non è idea bella e simpatica ad ogni cuore? Ma l’amministratore deve fare i conti e dire quanto essa costerebbe, e in che modo si può far fronte alla spesa.

 

 

Perché poi solo i bambini? e i vecchi, i poveri vecchi? e perché non tutti quanti soffrono? Molto suggerisce il cuore; ma è amministrazione? il comune deve essere il grande elemosiniere? coi denari di chi? con quali entrate nuove si sopperirebbe alla spesa? Il programma socialista, esaminato minutamente, partitamente, porterebbe a spese altissime, a fare fronte alle quali non basterebbe certamente raddoppiare tutte le imposte attuali. La politica dello «stato provvidenza», del «comune provvidenza» è amministrativamente un’incognita, senza che perciò si possa raggiungere l’ideale umano che essa si propone.

 

 

I primi a soffrirne sono i lavoratori, i quali, nel declinare dell’industria, del commercio, delle forze vive e creatrici di una nazione, diminuiscono le probabilità di avere lavoro, e colle probabilità diminuisce automaticamente il salario; come sta accadendo attualmente in Francia, laddove in Inghilterra, ove la teoria socialista dello stato e del comune non ha attecchito sinora né in teoria, né in pratica, abbiamo lo sviluppo meraviglioso delle leghe operaie, e il continuo e progressivo aumento di mercede e diminuzione delle ore di lavoro.

 

 

Forse i capi del socialismo torinese non hanno avuto una chiara visione dei risultati ultimi del loro programma. Purtroppo quello del chiedere l’elemosina a stato e comuni è andazzo generale che abbiamo deplorato, prima che nei programmi dei socialisti, nel programma e nei fatti dei nostri governanti. Occorreva avvertirlo innanzi di scendere all’esame particolareggiato delle proposte socialiste.

 

 

II

 

Il programma dei socialisti torinesi per le prossime elezioni amministrative, si inizia con alcuni postulati sull’autonomia comunale: adesione all’associazione dei comuni italiani – referendum; il comune sovrano e libero nel governo dei suoi interessi particolari.

 

 

I socialisti partono dal concetto che se è ammissibile che il potere centrale vigili a che le sue attribuzioni non siano violate, non si può e non si deve tollerare si ingerisca negli affari locali sindacando la convenienza economica ed amministrativa degli atti del comune. Non solo la tutela dello stato viola i diritti comunali e lede la dignità dei cittadini, ma tale è anche la tutela esercitata da qualsiasi autorità locale che non emani direttamente dal suffragio degli elettori comunali. Amendue le forme di tutela presuppongono la deficenza intellettuale e morale dei cittadini e sono un vieto avanzo dell’antico sospettoso regime del paternalismo. Dovere dei comuni è dunque di agitarsi legalmente valendosi anche delle loro forze unite (leghe comunali) per la conquista dell’autonomia. Gli affari più importanti saranno decisi direttamente dalla cittadinanza invitata a manifestare il proprio parere col referendum.

 

 

Fin qui i socialisti.

 

 

Se noi ora dicessimo che il sistema attuale di ingerenze governative nelle amministrazioni locali ci piaccia in tutto, diremmo cosa non vera. Il bisogno di una maggiore autonomia è vivamente sentito; e già prima che i socialisti formulassero il loro programma, uomini di parte liberale avevano fatto l’argomento oggetto di profondi studi; e, quel che più monta, non si erano fermati alla enunciazione di desiderata generici, ma avevano formulato proposte precise, che si potrebbero quandochessia tradurre in disegni di legge.

 

 

Vogliamo ricordare soltanto l’opera diligente dell’avv. Gabbioli, segretario generale della provincia di Torino, il quale, facendosi interprete dei voti del primo congresso nazionale delle rappresentanze provinciali, compilò uno schema di disegno di legge, inteso a sostituire l’attuale legge provinciale e comunale. Noi non diciamo che lo schema del Gabbioli fosse perfetto; era uno schema preciso, sul quale una discussione poteva essere proficuamente intavolata, uno schema il quale indicava la via a tenersi per fare rifiorire la vita dei comuni, rendendola più indipendente e pieghevole.

 

 

I socialisti non si contentano di disegni concreti posti nella sfera del possibile. Essi vogliono distruggere tutto l’ordinamento esistente e proclamano la completa indipendenza del comune, sottratto a qualunque sindacato del governo. La qual cosa non si può in alcun modo ammettere, neppure per maniera teorica di discorso. Il comune non è e non può essere un ente sovrano, avente tutte quelle funzioni che ad esso piaccia di assumere, soggetto alla sola limitazione che quelle funzioni non siano state già assunte dallo stato. Se così fosse, il potere legiferante non spetterebbe più al parlamento, ma ad ognuno degli ottomila e più consigli municipali d’Italia, i quali potrebbero a loro posta restringere la sfera d’azione dei privati a beneficio del comune. Per fortuna così non è; ed il comune deve essere considerato come un ente, il quale, ha bensì vita e tradizioni storiche, ma che nel momento attuale esiste per virtù di legge. La legge che gli dà l’esistenza, prescrive altresì gli atti – spesse volte delegati dal potere centrale – che il comune deve o può compiere. È quindi naturale che lo stato eserciti una certa sorveglianza per vedere se il comune adempia a tutte le funzioni assegnategli per legge, e non compia atti dalla legge non considerati come suoi propri. L’ingerenza non deve essere fastidiosa; la tutela non deve, come troppo spesso accade, trasformarsi in un ostacolo all’operare legale dei comuni; ma una ingerenza ed una tutela devono esservi.

 

 

Come faremmo altrimenti a constatare se gli amministratori del comune adempiono correttamente all’ufficio a cui furono nominati e come potremmo valutare la loro responsabilità?

 

 

Gli agenti del potere centrale sono soggetti ad una sorveglianza di un potere estraneo all’amministrazione, quella della Corte dei conti, la di cui esistenza in tutti i paesi prova quanto essa corrisponda ad un bisogno urgente. E vorrebbesi che i soli comuni fossero sottratti ad ogni controllo?

 

 

I socialisti pongono grande fiducia nel referendum popolare. Né di questo vuolsi disconoscere l’utilità educativa notevole, la quale ci sembra siffattamente preziosa, che quell’istituto vorremmo gradualmente trapiantare nel nostro paese. Ma non bisogna illuderci che il referendum possa servire a tutto. Esso è adatto solo quando si tratti di porre agli elettori quesiti assai semplici sulla politica generale, o su problemi speciali, o sui risultati finali di un’amministrazione. Ma è inetto al controllo minuto e contabile delle spese e delle entrate pubbliche. L’esperienza della Svizzera e dell’America è lì a provare la verità delle nostre asserzioni.

 

 

Il controllo delle pubbliche spese ed entrate non può essere efficacemente condotto qualora non si basi su questi due principii: la responsabilità personale degli amministratori e la revisione periodica degli atti comunali da parte di persone esperte, non nominate dagli amministratori e neppure dagli elettori degli amministratori.

 

 

In Italia non esiste una responsabilità effettiva degli amministratori, ed il controllo è esercitato dai funzionari delle sotto – prefetture e delle prefetture, le quali, da lontano, male controllano e male impediscono le cattive azioni di amministratori poco onesti. Di qui i fatti rivelati dalle recenti inchieste. Al danno non si rimedia però sopprimendo ogni controllo ed ogni freno ed affidandosi al buon senso dell’elettorato. Gli elettori chiamati a referendum sarebbero ingannati dagli amministratori, i quali a tale intento farebbero convergere quelle arti che ora adoperano a chiudere gli occhi degli organi di tutela.

 

 

Meglio dunque che distruggere tutto giova migliorare il sistema esistente. Il controllo del governo permanga, ma sia esercitato da ispettori viaggianti, scelti a causa della loro capacità tecnica, i quali si rechino sul posto ad esaminare se gli atti dell’amministrazione siano conformi alla legge. I comuni inglesi non sono sottratti ad ogni sorveglianza, come forse immaginano i socialisti; anzi, sono soggetti ad una sorveglianza severissima. Gli auditors o revisori sono nominati dal Local Government Board, ossia dal ministero del governo locale; ed hanno larghi poteri riguardo all’esame degli atti delle autorità locali. «La loro revisione dei conti non è – così scriveva il prof. Bachi in un interessante articolo ne

«La riforma sociale» del 1899 – un semplice controllo materiale, aritmetico, tendente solo a vedere se i libri sono tenuti al corrente e correttamente in base alle prescrizioni; se i risultati degli uni concordano coi risultati degli altri, ecc.; è, invece, un largo, pieno controllo su tutta quanta l’amministrazione. Il giorno dell’audit è quello del redde rationem sia per l’autorità che per gli agenti. Mediante metodi di registrazione così elaborati, così minutamente determinati come sono quelli prescritti dalla legge per le autorità locali, nessun particolare amministrativo può sfuggire all’occhio esercitato dell’auditor, che esamina i libri. Egli li rivede minutamente, e, qualora riveli qualche pagamento la cui legalità gli paia sospetta, fa un’inchiesta, e, dove i suoi sospetti siano fondati, rifiuta la propria approvazione. Né può dirsi che l’audit sia una semplice formalità: l’efficacia sua sta nel fatto che le somme illegalmente spese e i consumi eccessivi devono venire rimborsati dalle autorità e dagli agenti colpevoli. Così si istituisce una vera e reale responsabilità di fatto, che ha grandissima efficacia».

 

 

Vedano adunque i socialisti torinesi che il problema non può essere risolto con un’affermazione teorica semplicistica. Se essi per «autonomia» comunale vogliono significare che gli amministratori comunali non debbono richiedere al governo l’approvazione preventiva dei loro atti, e possano operare liberamente, salvo poi ad un serio controllo di ispettori governativi lo stabilire le responsabilità pecuniarie in caso di inosservanza della legge, siamo d’accordo. Ma se per «autonomia» intendono la più assoluta libertà di fare tutto ciò che si crede utile di fare salvo il controllo degli elettori, difficile in materia di cifre, di contabilità, di bilancio, noi dobbiamo opporci ad un’autonomia apparente, che condurrebbe in realtà, in molti casi, e specialmente in Italia, alla tirannide dei partiti al potere – o costituzionali, o socialisti, o cattolici – ed allo sperpero del denaro dei contribuenti.

 

 

III

 

Il programma dei socialisti rispetto alla riforma tributaria chiede essenzialmente due cose: l’abolizione graduale dei dazi comunali e la creazione di imposte dirette sul reddito, con esenzione dei redditi minimi. A complemento di questi due postulati cardinali si richiede che i comuni si agitino per ottenere che siano ridotte le spese improduttive dello stato, e siano liberati perciò i comuni da gravi oneri di spettanza dello stato.

 

 

Non è possibile, in argomento di bilanci comunali, ingolfarci in una discussione intorno a problemi che involgono tutta l’organizzazione finanziaria dello stato. Certo il sistema attuale di intricati rapporti tra finanze comunali e finanze statali è quanto di più barocco si possa immaginare; certo la cessazione di questo sistema, la instaurazione di un regime separato di entrate per lo stato da una parte e per i comuni dall’altra; e la abolizione del canone governativo in sostituzione del dazio consumo statale che oggi pesa per 2.850.000 lire sul bilancio di Torino, sono cose assolutamente necessarie. Come si possa ottenere il fine non è facile dire; e l’esame ci lancerebbe nel mare magnum del problema della riforma tributaria italiana, della quale pare non si sia trovato sinora il geniale solutore.

 

 

Piuttosto vogliamo fermarci ai due principii specificatamente sostenuti per Torino dai socialisti; ed a sostegno dei quali essi così ragionano: «Il cittadino deve sopportare le spese pubbliche in ragione della sua agiatezza. Il dazio consumo è la violazione più aperta di questo principio supremo di giustizia distributiva, perché la spesa che ogni individuo fa per l’acquisto delle derrate non rappresenta neanche lontanamente la misura del suo reddito. È noto che esprimendo il dazio pagato con una percentuale dell’entrata si ha per risultato che le aliquote aumentano in ragione della povertà del contribuente. Chi meno è agiato più paga. Invece se per base dell’imposta si prende il reddito effettivo che ognuno ricava così dai proprii beni come dall’industria o professione che esercita e lo si colpisce in forma moderatamente progressiva, si riesce a far gravare il peso del tributo in ragione della forza di colui che deve sopportarlo. I cittadini poi che dal loro lavoro ricavano appena quanto basta per campare una misera vita, non devono pagare un soldo all’erario comunale, perché una qualunque percentuale d’imposta costerebbe a loro un sacrificio troppo forte. La loro capacità contributiva è nulla».

 

 

A questa dimostrazione della giustizia di proporzionare le imposte alle entrate non si sa in linea di giustizia astratta cosa opporre. È certo, e già lo notavano i primissimi teorici, che lo stato deve richiedere ai contribuenti un pagamento il quale sia proporzionale ai loro redditi. L’ideale che tanti pensatori si proposero fu perciò quello di instaurare l’imposta unica. A principiare da Vauban che architettava la Dime royale, l’imposta unica sul reddito rimase il sogno di moltissimi che tentarono di realizzare il regno della giustizia nella selva selvaggia del diritto tributario. A questo aggiunsero un altro sogno: l’abolizione dei dazi – consumo, le odiose barriere che separano terra da terra, intralciano il commercio e fanno gravare il pondo delle imposte più sul povero che sul ricco. Codesto ideale – che prima di essere dei socialisti fu di tutti coloro che si affacciarono per la prima volta allo studio del problema – è un ideale bello e nobile.

 

 

Anche qui l’ideale urta colla realtà, in modo che la sua effettuazione deve necessariamente esser graduale. Che molte e gravi difficoltà esistano è riconosciuto – bisogna subito dirlo – anche dai socialisti, poiché essi voglion l’abolizione graduale del dazio consumo. Ma forse essi non hanno valutato esattamente la grandezza degli sforzi che bisognerebbe fare per giungere allo scopo. Innanzi tutto vi è l’ostacolo delle leggi vigenti. Finché sono in vigore le leggi attuali – ed il mutarle è e deve essere opera del parlamento e non del consiglio municipale – non si può pensare sul serio ad allargare l’azione delle imposte dirette che oggi possiamo usare; e sono: le sovrimposte sui terreni e sui fabbricati, l’imposta di famiglia, l’imposta sul valor locativo e l’imposta di esercizi e rivendite.

 

 

Crescere i centesimi addizionali della sovrimposta sui terreni e sui fabbricati vorrebbe dire con assoluta certezza, nelle condizioni attuali della legislazione italiana su questo argomento, riversare un nuovo onere sulla proprietà rurale della campagna torinese e fare crescere i fitti degli alloggi nella città. A parte il primo effetto, è da credere che 99 volte su 100, gli operai torinesi preferiscano pagare la imposta sotto forma di dazio a pochi soldi per volta, che non in grosse somme alla scadenza del fitto.

 

 

Le imposte di famiglia e sul valor locativo sono imposte cattive in principio e difettose tecnicamente. A Milano gli amministratori stanno logorandosi il cervello per trarne qualche costrutto; ma è fatica improba, equivalente alla quadratura del circolo. Né si parli della tassa di esercizi e rivendite. Quantunque migliorata recentemente nella tecnica, non potrà mai dare larghi proventi; certo non mai qualcosa che, neanche lontanamente, si avvicini agli 11.268.677 lire che fruttò, secondo il consuntivo del 1900, il dazio consumo a Torino. Sappiamo bene che i socialisti non chiedono di abolire subito il dazio consumo; ma è improbabile che, data la legislazione esistente, sia possibile alleviarne il peso in modo appena appena significante.

 

 

Che cosa si possa fare con la riforma delle leggi tributarie, è difficile dire, poiché tutto dipende, anche qui, dal modo con cui sarà risolta la questione principe, quella dei rapporti fra stato e comuni. Poiché siamo in tema di ideali, possiamo dire che fra i tanti, la migliore cosa per il comune sarebbe che lo stato abbandonasse agli enti locali le imposte reali sulle fonti del reddito, conservando per sé l’imposta generale sul reddito. Le riforme tributarie più felicemente compiute, quelle della Prussia e dell’Olanda, si inspirarono al concetto di abbandonare ai comuni le imposte sui terreni, sui fabbricati e sulle industrie e riservando allo stato l’imposta generale sul reddito. La riforma parte dal concetto che solo lo stato sia in grado di conoscere e di accertare – malgrado la sua mobilità e le sue trasformazioni – il reddito globale dei cittadini; e che i comuni non possano mai colpire questo reddito totale e debbansi limitare a colpire certi redditi derivanti da terre, fabbricati od industrie, ossia non il reddito della persona, ma invece il reddito delle aziende che si trovano sul territorio comunale.

 

 

Non è qui il luogo di esaminare criticamente l’applicabilità della riforma all’Italia, applicabilità che fu ritenuta possibile anche da noi nei progetti degli onorevoli Wollemborg, Alessio e Prinetti. Qualunque sia il giudizio che su di essa si deve dare, è un fatto che nessuna riforma fu praticamente attuata od anche solo ritenuta di possibile attuazione, la quale si basasse sul principio opposto di assegnare ai comuni l’imposta progressiva sul reddito.

 

 

Se non andiamo errati, i socialisti torinesi, quando dicono che «il cittadino deve sopportare le spese pubbliche in ragione della sua agiatezza» e che si deve prendere «per base dell’imposta il reddito effettivo che ognuno ricava così dai proprii beni come dall’industria o professione che esercita» e quando aggiungono che si deve colpire codesto reddito «in forma moderatamente progressiva», intendono patrocinare una imposta sul reddito globale dei cittadini. Non si può essere sicuri che questa sia veramente la loro intenzione, perché il linguaggio impreciso lascia luogo a dubbi; ma si può ritenere che la nostra supposizione sia la giusta, sovratutto vedendo che essi vogliono un’imposta progressiva, la quale sarebbe illogica, se i comuni disponessero soltanto, come in Prussia, delle imposte reali, per loro indole proporzionali. Se così è, è evidente che i socialisti si fanno fautori per il futuro di una riforma che in nessun luogo è stata tentata e che contrasta coll’indirizzo informatore di tutte le riforme più sapientemente congegnate e meglio riuscite.

 

 

Ancora un’altra osservazione vogliamo fare: è strano che i socialisti, i quali colgono ogni occasione per municipalizzare ogni sorta di cose, non abbiano nel loro programma neppure un accenno alla tendenza, così viva nei municipi americani ed inglesi, di assicurare all’ente comunale una parte del crescente valore dei suoli cittadini. È una questione grossa codesta, la quale può essere largamente discussa; ma è certo che, per chi parta dal punto di vista dei socialisti, difficilmente potrebbe immaginarsi una forma migliore di tassazione di quella che consiste nell’assorbire una parte dell’aumento di valore dei suoli delle grandi città, aumento di valore che è dovuto a cause sociali e che l’imposta devolverebbe a beneficio della società, che ne è autrice. Poiché si era nel campo della creazione di nuove leggi, sembrava naturale che i socialisti mettessero innanzi la proposta.

 

 

Il non averne nemmeno parlato può essere argomento per supporre che questa parte del programma dei socialisti sia stata compilata con poca preparazione e scarsa visione della realtà delle cose e dei mezzi atti a raggiungere quel fine che i socialisti si proponevano.

 

 



[1] Con il titolo Il programma amministrativo dei socialisti torinesi [ndr]

[2] Con il titolo L’autonomia comunale secondo i socialisti torinesi [ndr]

[3] Con il titolo Il programma tributario dei socialisti torinesi [ndr]

Sconfitte dolorose

Sconfitte dolorose

«La Stampa», 8 aprile 1902

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 481-484

 

 

Gli scioperi agrari nel Polesine, nel basso modenese, nel mantovano finiscono quest’anno tutti ad un modo: con la sconfitta schiacciante e generale dei contadini. Questi hanno resistito fin che hanno potuto; hanno a passo a passo abbandonato il terreno su cui si erano posti; e ad ogni abbandono hanno dovuto far seguire una nuova ritirata.

 

 

Nel Polesine i contadini avevano scioperato ponendo una pregiudiziale alle trattative coi proprietari: che questi dovessero discutere unicamente con la federazione generale delle leghe. I proprietari tennero duro riuniti in associazione e dichiararono che erano disposti a trattare non con le leghe, ma con una commissione di contadini appartenenti al distretto.

 

 

I contadini nominano le commissioni distrettuali, deliberando nel frattempo di desistere dallo sciopero. I proprietari chiedono ed ottengono che dalle commissioni siano esclusi tutti coloro che facevano parte delle leghe, e di più dichiarano che il lavoro non sarà ripreso se non dopo compiuti gli accordi in tutto il distretto. Si cominciano le trattative. Prima di porre inizio ai lavori i contadini chiedono di essere assistiti da un segretario, nello stesso modo che i proprietari erano assistiti da un avvocato non segretario. La domanda non è accolta, ed i contadini si devono adattare.

 

 

In seguito, insieme alle tariffe ed ai patti del lavoro, quasi uguali a quelli già altrove vigenti, i contadini presentano alcune domande: «Licenziamento dei cosidetti krumiri dopo dieci giorni dalla ripresa del lavoro; abbandono degli sfratti, delle domande di risarcimento dei danni contro i lavoratori; redazione dei patti in forma legale».

 

 

A tutte queste domande l’associazione dei proprietari risponde di no; alla prima perché gli operai forestieri debbono finire i lavori in corso; alla seconda perché l’intervento della associazione nella rinuncia degli sfratti sarebbe lesivo del diritto di proprietà; alla terza dichiarando che anche l’associazione vuole i patti per iscritto; ma, siccome purtroppo i rappresentanti dei contadini non possono impegnarsi per i loro compagni, così essa rompe le trattative sulle tariffe presentate dai contadini.

 

 

È da prevedersi che i proprietari vorranno resistere sino alla fine per aver vittoria completa sui contadini. I quali, anche per bocca dei loro rappresentanti e sui loro giornali non cercano nemmeno più di nascondere la triste verità e si confessano vinti. Parecchi di essi sono già emigrati in province vicine ed altri si apparecchiano a seguirli. Triste fine di una battaglia cominciata con entusiasmo.

 

 

Certo i proprietari avrebbero potuto, senza danno, usare, sotto parecchi aspetti, maggiore condiscendenza. Noi non abbiamo mai approvata la ostinazione pervicace con cui proprietari ed industriali si sono opposti al riconoscimento delle leghe, ed abbiamo ripetutamente dimostrato che le leghe possono essere nella vita economica un elemento di ordine e di pace sociale. Né possiamo approvare che i proprietari abbiano voluto stravincere e quasi umiliare i contadini. Codeste vittorie portano quasi sempre frutti acerbi di discordia e di lotta nell’avvenire. Meglio una transazione la quale, pur significando vittoria, non equivalga all’umiliazione dell’altra parte.

 

 

Ma è pur d’uopo riconoscere che i proprietari non senza qualche ragione si opponevano e si oppongono al riconoscimento delle leghe. Se queste fossero corpi esclusivamente economici, se non vi avessero parte i politicanti ed i mestatori, i proprietari non avrebbero alcun motivo di non riconoscere le leghe e di non scendere a trattative con operai con i quali da lungo tempo si ha consuetudine e dimestichezza. I proprietari non vogliono che le trattative siano perturbate da considerazioni che non siano quelle puramente economiche e non tengano conto delle condizioni tecniche speciali in cui si esercita il lavoro. Opponendosi alla intrusione di politicanti nella discussione di problemi prettamente economici, i proprietari in definitiva fanno il bene degli operai medesimi. Una cosa è da mettere bene in chiaro: che nessun danno maggiore si può arrecare ai lavoratori del far fare loro domande giustificate solo da ragioni di propaganda politica ed il cui esaudimento non è consentito dalla situazione economica.

 

 

Nessuno più di noi è persuaso che sarebbe un bene grandissimo che i salari degli operai fossero cresciuti, che le condizioni di vita di gran parte delle nostre masse rurali fossero migliorate. È questo non un desiderio filantropico, ma la convinzione che quel generale miglioramento ed elevazione sia un coefficiente di progresso civile e di prosperità pel paese.

 

 

Per ottenere aumenti di salario ed altre più elevate condizioni di vita è d’uopo agire con accortezza; scegliere il momento opportuno; inspirarsi a concetti unicamente economici, i quali soli possono dire quando l’industria sia prospera o non, e possono inspirare quella moderazione di domande e di contegno che è la migliore garanzia di felice successo. A tutto ciò si oppone il carattere politico che pur troppo si è impresso a tanta parte dell’odierno movimento operaio ed agrario. Gli scioperi non vengono proclamati come un’extrema ratio in caso che le amichevoli trattative non abbiano approdato a nulla, ma come uno spiegamento di forza contro l’intera classe proprietaria, come auspicio di predominio dei proletari e di scomparsa prossima della proprietà individuale.

 

 

Con questi mezzi non si raggiunge nulla di solido; si spargono unicamente semi di irritazione e di malcontento, e si precipitano i lavoratori a passi inconsulti. Che cosa vi è di più inconsulto del proclamare lo sciopero per aumento di salari quando a poche miglia di distanza vi sono centinaia e forse migliaia di disoccupati, desiderosi di occupare, forse a prezzo più basso, il posto lasciato vuoto dagli scioperanti?

 

 

I capi hanno un bel gridare contro il crumiraggio degli incoscienti; sta il fatto che il far perdere il posto a chi lo aveva, colla speranza di miraggi di impossibile attuazione, se è cecità nelle masse, è un vero delitto sociale per i consiglieri di tanto errore.

 

 

Oramai le lezioni, dolorose e dure, sono state tante che è maraviglia come gli operai ed i contadini non abbiano ancora compresa quale sia la via da seguire. Agitatevi pure per il miglioramento delle vostre condizioni; ne avete il diritto ed il dovere. Ma sia la vostra azione economica e sia in accordo colle condizioni economiche del momento. L’opinione pubblica imporrà ai proprietari il riconoscimento delle vostre leghe, ed i proprietari non potranno non concedere quei miglioramenti che la civiltà progredita richiede. Se voi invece vi abbandonate in braccio ai politicanti, andrete alla sconfitta sicura; il vostro non apparirà più un movimento economico, ma un pretesto politico; e nessuna meraviglia che il ceto proprietario tragga profitto dall’errore fondamentale per opporre un assoluto rifiuto alle vostre domande, e nessuna meraviglia che l’industria e l’agricoltura, perturbate da movimenti incomprensibili, si restringano e diminuiscano la loro domanda di lavoro, con danno vostro principale e gravissimo.

 

 

La municipalizzazione dei pubblici servizi

La municipalizzazione dei pubblici servizi

«La Stampa», 4 aprile 1902

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 477-480

 

 

Le notizie che nella relazione sul disegno di legge per l’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni sono contenute sulla municipalizzazione all’estero (Inghilterra, Stati uniti, Germania), non sono tali da permettere di formarci un concetto preciso della convenienza di avocare ai municipii i cosidetti servizi pubblici. Dati e cifre possono essere fatti servire a dimostrare opposte tesi; e nell’Inghilterra stessa, fautori ed oppositori della municipalizzazione, hanno battagliato a lungo e battagliano ancora basandosi appunto sulle cifre che l’on. Giolitti pubblica in appendice alla sua relazione. Come al solito, entrambe le parti, dopo molto discutere, sono rimaste ciascuna dell’opinione di prima.

 

 

Probabilmente accadrà lo stesso a coloro che studieranno le statistiche italiane che ora per la prima volta sono pubblicate. Pur così monche ed incomplete, quelle statistiche sono le prime che vengono in luce; e va data lode a chi le raccolse e le pubblicò. Da esse nessuna conclusione positiva può trarsi né a favore né contro la municipalizzazione. Ci sono comuni che fecero pessimi affari; ma non è necessario si debbano sempre fare affari cattivi. Ci sono comuni che ne ottennero buoni frutti; ma si ignora se altrove altrettali buoni frutti si sarebbero pure ottenuti senza la municipalizzazione.

 

 

Nella maggior parte dei casi, l’esperienza è troppo recente, od i conti sono presentati così oscuramente, che non se ne può trarre una conclusione qualsiasi.

 

 

Che cosa importa che certi conti accusino un utile od una perdita, se non si sa come si sia provveduto agli interessi ed all’ammortamento del capitale d’impianto e se si ignora se nella parte passiva siano state calcolate tutte le spese di esercizio, ed anche gli stipendi ad impiegati forse appartenenti nel tempo stesso ad altre amministrazioni pubbliche? L’unica via da seguire è quella di decidere caso per caso, senza partito preso, se convenga o no municipalizzare un certo servizio ritenuto pubblico. È un campo rispetto al quale non si sono ancora scoperte regole generali; od almeno queste sono così oscillanti da servire poco come guida. Neppure gioverebbe risolvere la quistione partendo da preconcetti di parte: favorendo o respingendo, cioè, la municipalizzazione perché si favoriscono o si osteggiano, ad esempio, i principii socialisti. Nella municipalizzazione il socialismo ha ben poco da fare. Mercanti accorti e tipicamente individualisti, in tutta la pratica della loro vita, come gli inglesi, hanno municipalizzato il gas o l’acqua potabile, non per voler fare degli esperimenti di socialismo; ma semplicemente perché hanno creduto di fare un buon affare.

 

 

Appunto perché la municipalizzazione non deve essere imposta come regola generale e non deve essere voluta per ragioni di partito, così noi crediamo che debba essere data ai municipii la più ampia libertà in questa materia.

 

 

Sotto questo punto di vista il progetto elaborato dal ministro dell’interno è tale da poter essere in massima accettato. Il progetto autorizza i comuni ad esercitare, volendo, certi servizi pubblici, impone la costituzione di questi servizi in azienda autonoma; pur non vietando che i comuni esercitino, con certe garanzie, certi servizi di poca importanza in economia, senza le inutili formalità della costituzione di un’azienda speciale.

 

 

Il disegno stabilisce incompatibilità, forse troppo sospettose, per le cariche di direttore e di impiegato dell’azienda, e sottopone i conti alla vigilanza del consiglio comunale e delle autorità governative con disposizioni assennate.

 

 

Una novità pur essa accettabile è quella del referendum obbligatorio degli elettori comunali ogni qual volta si tratta di decidere sulla convenienza di istituire oppur no una municipalizzazione. È una novità che potrà educare gli elettori a prender parte diretta alla amministrazione della cosa pubblica; e, siccome il referendum è molto più conservatore dei consigli comunali, potrà anche servire a tenere a freno le velleità di esperienze troppo frettolose ed audaci, fatte da corpi elettivi in cerca di popolarità a spese dei contribuenti.

Paiono invece eccessive tutte le altre formalità con cui il progetto ha voluto circondare l’assunzione dei pubblici servizi da parte dei comuni, ossia: deliberazione del consiglio comunale; parere della giunta provinciale amministrativa; osservazioni del prefetto; parere della commissione centrale per il credito comunale e provinciale. Qui c’è troppa roba.

 

 

Così pure paiono criticabili le disposizioni del disegno circa il riscatto dei servizi già affidati all’industria privata. La questione è importantissima in pratica; se e come un comune possa riavocare a sé un servizio già concesso all’industria privata. Poiché moltissimi comuni si trovano in questo caso, è interessante esaminare come il disegno di legge abbia risolto il quesito.

 

 

Secondo l’art. 21, quando sia trascorso un quinquennio dall’atto della concessione del servizio, i comuni hanno la facoltà di revocare le concessioni; ma debbono pagare ai concessionari una indennità da calcolarsi, tenendo conto:

 

  • del valore attuale del materiale mobile ed immobile dell’impianto;
  • dell’equo compenso da corrispondersi pel profitto che viene a mancare per la restante durata della concessione, in base alla media dei redditi netti dell’ultimo quinquennio, dichiarati agli effetti dell’imposta di ricchezza mobile.

 

 

Le disposizioni non sono applicabili quando le condizioni del riscatto o della revoca della concessione siano stabilite da contratto, purché stipulato prima della promulgazione della presente legge.

 

 

Noi temiamo molto che codesta disposizione avrà per effetto di impedire in futuro qualsiasi concessione di servizi pubblici ai privati. Chi sarà quella società privata, la quale vorrà assumere un’impresa di gas o di tranvie, colla consapevolezza che dopo un quinquennio potrà essere espropriata? E quel che è peggio, colla certezza che non le verrà dato un indennizzo corrispondente al rischio corso? Perché nessuno può onestamente asserire che i profitti ottenuti nei primi cinque anni di esercizio, sovratutto quelli dichiarati agli effetti dell’imposta di ricchezza mobile, siano un criterio esatto dei profitti che la impresa potrà fruttare negli anni avvenire.

 

 

Spesso una intrapresa viene esercitata in perdita o con tenuissimi profitti nei primi anni, per la speranza di potersi rifare in seguito, quando le nuove invenzioni avranno permesso di ridurre il costo di produzione, o quando sarà stato ammortizzato in parte il capitale d’impianto. Se noi diamo ai comuni il diritto del riscatto dopo cinque anni sulla base dei profitti passati accadrà che quando l’azienda va male, il comune non riscatterà; e quando l’azienda comincerà ad andar bene sarà riscattata sulla base dei profitti degli anni in cui non si guadagnava nulla o poco. A meno che le imprese private non si premuniscano contro questo pericolo denunciando, agli effetti dell’imposta di ricchezza mobile, un reddito più grande del reale. Sarebbe un caso nuovo in Italia; e che avrebbe l’inconveniente di accrescere i rischi e le spese delle imprese private e quindi il prezzo per i consumatori.

 

 

L’articolo dovrebbe essere radicalmente modificato, sovratutto nel senso di allungare il periodo dopo il quale i comuni acquistano il diritto al riscatto, in modo che i privati assuntori dei pubblici servizi abbiano modo di compensare le perdite dei primi anni con gli utili degli anni susseguenti e sia ridotto al minimo il rischio del riscatto da parte del comune.

 

 

Altrimenti c’è il pericolo che un disegno di legge, istituito per disciplinare la libera municipalizzazione dei pubblici servizi, finisca per renderla obbligatoria, rendendo impossibile la creazione di imprese private. Sarebbe un effetto inaspettato del disegno di legge; ed un effetto per giunta pericoloso. Oggi in Italia la municipalizzazione coattiva sarebbe un salto nel buio. Ed è da credere che sarebbe tale non solo in Italia, ma dappertutto.

 

 

Una categoria ferroviaria dimenticata dai socialisti

Una categoria ferroviaria dimenticata dai socialisti

«La Stampa», 19 marzo 1902

 

 

 

 

Gli impiegati delle ferrovie hanno promossa una agitazione legale a proposito dell’organico nuovo concretato a Roma tra i Governi ed i rappresentanti dei ferrovieri. Già tennero a Roma ed in altre città, ed una ne tennero pure, se bene non cospicua di numero, nella nostra città nei locali dell’Unione liberale monarchica.

 

 

Ecco il nocciolo della questione. Il personale delle ferrovie consta di tre categorie: quella degli ingegneri che hanno la direzione dei servizi tecnici, degli impiegati di concetto e di ordine degli uffici centrali e degli operai.

 

 

I Sodalizi i cui rappresentanti ebbero parte nelle trattative accolgono esclusivamente soci appartenenti alla terza categoria, macchinisti, fochisti, frenatori, deviatori, operai delle officine, ecc., ecc.

 

 

Ora si afferma che nelle trattative si sia esclusivamente tenuto conto delle aspirazioni degli operai e non si sia menomamente pensato al personale degli uffici ed agli ingegneri, che il nuovo organico provveda soltanto a migliorare la sorte degli operai e lasci immutata quella delle altre categorie.

 

 

Nè la supposizione sembra essere fuori della realtà, se nell’ultimo numero del Treno l’onorevole Turati ebbe a scrivere a proposito appunto delle lagnanze degli impiegati, le seguenti significanti frasi:

 

 

«È precisamente dalle schiere che meno cooperano alla vittoria che sentiamo oggi levarsi più acuti i lamenti. Dagli uffici centrali si grida che i diritti degli impiegati non furono tutelati abbastanza. Coloro che crollavano la testa quando ci mettemmo in cammino, strepitano oggi perché non saremmo abbastanza avanzati!»

 

 

E prosegue additando agli impiegati l’esempio dei ferrovieri anziani, i quali seppero fare atto di abnegazione, rinunciando alla retroattività degli organici. Ora se di abnegazione si discorre, e se nello stesso modo come la vittoria fu dei forti organizzati, così i frutti della vittoria non debbono spettare a quelli che sono nello stesso articolo chiamati «dei timidi, schivi di ogni affratellamento e di ogni azione decisa, degli ignavi e dei fatalisti che attendono la manna dal cielo, degli ingenui baloccantisi tuttora colle cause giudiziali e colle istanze supplichevoli mandate su in via gerarchica»; è lecito conchiudere che davvero agli impiegati ed agli ingegneri non rimanga altro se non rassegnarsi a non trarre alcun vantaggio, se pure non ne verrà nocumento dai nuovi organici.

 

 

La cosa, se vera, sarebbe profondamente ingiusta. Poiché non è chi non veda come ingegneri ed impiegati cooperino potentemente al buon andamento dell’azienda ferroviaria, e come se le esigenze della vita sociale e le mutate condizioni economiche consentono di migliorare le sorti degli operai del braccio, debbano pure essere migliorate le sorti degli impiegati che lavorano colla mente e regolano l’esatto funzionamento di tutto l’enorme macchinario delle ferrovie.

 

 

Questo dice il senso comune di giustizia a cui ripugna che si faccia distinzione tra i lavoratori del braccio ed i lavoratori della mente, per migliorare gli stipendi unicamente dei primi per il singolare motivo che essi seppero gridare di più.

 

 

Che i socialisti abbiano dimenticato di tutelare le ragioni della parte intellettuale del personale ferroviario non è forse da fare meraviglie. Poiché ingegneri ed impiegati non erano ancora ascritti ai loro Sodalizi, hanno voluto far loro toccare con mano che solo la regolare iscrizione poteva farli fruire dei vantaggi ottenuti dagli operai. Nuova testimonianza del fatto antico, secondo cui la giustizia dei socialisti si intende non uguale per tutti, ma riservata esclusivamente a coloro che fanno parte della chiesa ufficiale e riconosciuta.

 

 

Il guaio si è che gli ingegneri e gli impiegati, vedendo che bisogna mettersi su quella via, finiranno per aggregarsi ancora essi alla schiera che ha saputo ottenere per la categoria degli operai così notevoli vantaggi.

 

 

È da augurare però che prima di quel giorno i partiti costituzionali si accorgano finalmente di una cosa molto semplice: che gran parte del favore acquistato dai socialisti è dovuto alla circostanza che costoro si fecero paladini di domande giuste e trascurate da coloro che più avrebbero avuto il dovere di esaminarle soddisfarle.

 

 

Se i Governi che si sono succeduti dopo il 1885 avessero preteso dalle Società la rigida osservanza delle convenzioni nei rapporti con gli operai, è manifesto che le organizzazioni socialiste non avrebbero potuto su costoro far tanta presa.

 

 

E non l’avranno sugli ingegneri e sugli impiegati se il partito costituzionale saprà tutelarne le ragioni contro l’ingiusto trattamento loro fatto subire dai Comitati dei ferrovieri. Occorre perciò che il partito costituzionale non indugi e si metta subito all’opera, tanto più che la categoria impiegati è relativamente e assolutamente meno pagata della categoria operai. E se qualcosa fu accordato a quelli che hanno di più, perché si nega tutto a quelli che hanno di meno?

Leghe operaie e leghe padronali

Leghe operaie e leghe padronali

«La Stampa», 1° marzo 1902[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 472-476

 

 

I recenti scioperi di solidarietà hanno indotto molti industriali e commercianti a chiedersi: quale garanzia abbiamo noi contro codeste convulsioni industriali, le quali, per motivi a noi estranei, colpiscono le nostre industrie ed i nostri affari? Quale garanzia abbiamo noi che domani la vita della nostra fabbrica non rimanga sospesa, non più come protesta contro un atto considerato offensivo alla intiera classe operaia, ma per dar modo di vincere una battaglia impegnata in guisa particolare dalla maestranza di un’industria con la quale noi non abbiamo alcun rapporto? Chi ci garantisce che non si ricorra allo sciopero generale per vincere tutte le battaglie che gli operai inizino a turno nelle varie industrie, opprimendoci ad uno ad uno colla loro solidarietà?

 

 

Contro i danni degli scioperi di solidarietà e contro i pericoli degli scioperi impulsivi ed irragionevoli in genere, uno solo è in sostanza il rimedio; e questo si deve cercare ricorrendo ai medesimi strumenti di cui gli operai si servono nella lotta contro gli imprenditori. Gli operai si stringono in leghe per vincere colla forza organizzata del numero gli imprenditori ed ottenere cresciuti salari e migliori condizioni di lavoro?

 

 

Ebbene gli imprenditori si uniscano in leghe ed oppongano anch’essi alla forza coalizzata dei lavoratori, la forza dell’unione e della concordia nella difesa.

 

 

Adamo Smith, il quale, come forse tutti sanno, fu il padre della economia politica e scrisse un secolo ed un quarto fa, disse che gli imprenditori non hanno bisogno di coalizzarsi: essi sono per natura già uno solo contro molti operai divisi ed hanno quindi naturalmente il sopravvento. Se Adamo Smith risuscitasse e potesse contemplare lo spettacolo imponente delle leghe operaie, sia nella terra inglese natia, sia in tutti i paesi inciviliti, non ripeterebbe la sentenza ora citata. Ora gli operai formano una massa sola coalizzata; e gli imprenditori sono molti e disuniti. Come in tutte le battaglie, se il capitano della massa compatta è abile e sa accortamente manovrare tra le nemiche schiere disunite, la vittoria gli arride sicuramente.

 

 

Agli imprenditori dispersi un’unica via di salvezza rimane: unirsi e lottare concordi contro l’avversario. L’Inghilterra, che è il paese classico delle leghe operaie, è anche il paese classico delle leghe degli imprenditori.

 

 

Uno degli ultimi rapporti del dipartimento del lavoro ne novera ben 659, sparse nelle diverse località del Regno unito ed unite in 25 società nazionali e 15 federazioni.

 

 

Le associazioni, si propongono di esercitare una azione regolatrice nei rapporti tra gli imprenditori ed i loro operai, controllando il saggio dei salari e le altre condizioni del lavoro, sostenendo i soci nelle loro dispute cogli operai. Così l’Iron Trades Employer’s Association intende assicurare la cooperazione di tutti i soci nel resistere alle domande delle unioni degli operai riguardo alle ore di lavoro, il cottimo, le ore straordinarie; e la Liverpool Employer’s Labour Association di stabilire un ufficio per l’organizzazione e la registrazione della mano d’opera, e di assistere i soci ad intentare azioni giudiziarie contro i marinai ed i fochisti che manchino al contratto d’arrolamento.

 

 

Quando scoppia uno sciopero, il socio che n’è minacciato deve darne avviso al segretario, il quale convoca l’assemblea generale. Se lo sciopero è limitato ad un solo ramo d’industria, si radunano i soli imprenditori in quel ramo; se invece è generale, tutti debbono essere solidali e nessuno può venire a patti speciali cogli scioperanti. Quando sia necessario per vincere uno sciopero, l’associazione degli industriali può ordinare la chiusura di tutti gli stabilimenti; ma ordinariamente per dichiarare una serrata generale è necessaria l’approvazione dei due terzi o dei tre quarti dei soci. È sottoposto a multe quel socio il quale assume nel suo opificio operai che uno sciopero od una serrata nello stabilimento d’un altro socio abbia lasciato temporaneamente senza lavoro.

 

 

Questi gli scopi delle leghe padronali inglesi. Le quali del resto, necessità imponendolo, hanno già avuto il loro riscontro in Italia, dove nel novembre scorso la Lega fra gli industriali in pannilana ed affini condusse e vinse la campagna contro lo sciopero dei tessitori a Biella, e dove il 26 gennaio scorso a Novara si fondava una grande Associazione fra gli agricoltori del Novarese, del Vercellese e della Lomellina, nel cui statuto si leggono tre articoli, il terzo, il quarto ed il dodicesimo, i quali statuiscono che: ogni socio debba pagare un contributo fisso di centesimi 10 per ogni ettaro di terreno e l’associazione debba indennizzare del danno sofferto il proprietario quando i lavoratori ricusino di osservare il contratto da loro consentito od il giudicio arbitrale su di esso; e gli aderenti si debbano accordare per determinare le condizioni ed i corrispettivi del contratto di lavoro ed in tutto quanto valga ed occorra a difesa dei comuni interessi.

 

 

Unirsi per combattere concordi: questo il motto delle leghe di industriali all’estero ed in Italia. Noi non dobbiamo però credere che la costituzione delle leghe padronali valga solo a cambiare le contese tra capitale e lavoro da piccole e numerose in lotte poche di numero e gigantesche di dimensioni. Sarebbe un guadagno; perché le battaglie tra grandi eserciti sono sempre meno micidiali di una moltitudine di piccoli combattimenti tra deboli schiere, inferocite da odii personali. Come la esistenza di due grandi eserciti in due nazioni vicine, ed il terrore dei danni incalcolabili che deriverebbero da una lotta gigantesca, allontanano il pericolo della guerra ed inducono i popoli a trattative, ad accordi e ad arbitrati, così succede anche nelle guerre industriali. L’organizzazione perfetta degli eserciti scema i rischi di guerra. L’organizzazione perfetta delle leghe padronali e delle leghe operaie allontana il pericolo degli scioperi e dei conflitti violenti.

 

 

Gli operai meno facilmente proclamano uno sciopero sia generale sia speciale, perché sanno che avrebbero contro di sé la massa compatta degli imprenditori. La lega degli industriali non ribassa a cuor leggero i salari e non licenzia indebitamente operai, perché sa di trovare contro di sé schierata la massa compatta dei lavoratori.

 

 

I danni di un cozzo violento sarebbero incalcolabili da una parte e dall’altra; e nessuna osa ricorrervi, se non davvero come ad una ultima ratio. Non esistono più e non possono esistere scioperi impulsivi e vendette ingiustificate. I capi od i segretari delle leghe preferiscono venire a patti e discutere. Ai piccoli trionfi del pugilato individuale dei paesi poco progrediti individualmente si sostituiscono le accorte trattative fra diplomatici consapevoli della responsabilità che incombe a chi rappresenta milioni di lire di capitale e migliaia di lavoratori.

 

 

In Inghilterra tutte le leghe padronali, come del resto le leghe operaie, non sono fucine di scioperi o di serrate, ma garanzie di pace. L’azione pacifica si esplica nelle commissioni miste (joint boards), costituite da un numero eguale di rappresentanti delle associazioni d’industriali e di rappresentanti delle leghe operaie, per stabilire di comune accordo il saggio dei salari, le ore di lavoro, i regolamenti di fabbrica, ecc.; e per comporre le piccole liti. Negli statuti delle leghe è anzi per lo più prescritto che si debba promuovere la costituzione di uffici di conciliazione e d’arbitrato per prevenire e per comporre le contese tra operai e principali.

 

 

Identico scopo si propongono le leghe padronali italiane. Uno dei principali fautori dell’associazione novarese citata così scrive: «S’inganna chi s’adonta del sorgere di leghe e di federazioni operaie. Un uomo illuminato deve anzi compiacersene, perché la associazione non è soltanto elemento di forza e di ordine, ma è anche affidamento di giustizia sociale. Epperò gli agricoltori devono imitare l’esempio e l’opera dei contadini, associandosi fra loro per determinare d’accordo con le leghe di costoro, quali condizioni, per quali corrispettivi il contratto di lavoro debba farsi e per assicurarne l’osservanza».

 

 

Il bollettino del consorzio agrario bolognese, in un articolo propugnante la costituzione di leghe di proprietari, afferma: «A noi sembra che il problema sociale, che agita le nostre campagne, debba trovare la sua soluzione in un ubi consistat fra le leghe degli operai e le leghe dei proprietari».

 

 

Non solo nelle campagne, ma dappertutto gli imprenditori devono convincersi che l’unione è lo strumento migliore per lottare contro le leghe operaie. Ed è strumento tale che per natura sua conduce non alla guerra, ma alla pace.

 

 



[1] Col titolo La risposta ad una domanda di questi giorni [ndr]

Sullo sciopero dei gasisti

Sullo sciopero dei gasisti

«La Stampa», 7 febbraio 1902[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 458-461

 

 

Mentre lo sciopero dei gasisti si svolge, oso esporre la questione nel punto di vista economico. È una indagine a far la quale mancano troppi elementi. Sarebbe necessario conoscere non solo i desiderata degli operai e confrontarli con i salari che altrove si dicono ottenuti, ma valutarli, tenendo conto dello stato dell’industria a Torino, dei guadagni delle società, delle necessità di ammortamento del capitale, del costo e del prezzo di vendita del gas. Tutte cose che non conosciamo se non in modo molto vago. Perciò, in mancanza di documenti e di contraddittorio, possiamo concedere che gli operai gasisti avessero in tutto ragione dal punto di vista economico; vogliamo ammettere che le loro domande fossero ragionevoli e tali da poter essere accolte.

 

 

La questione non sta qui. Ciò che importa di sapere è se i gasisti abbiano presentato quelle loro domande in modo da conciliarsi le simpatie della cittadinanza e da persuadere a tutti che essi volevano tutelare soltanto i diritti propri e non cagionare danno altrui.

 

 

I gasisti si trovavano a questo riguardo in una posizione eccezionalmente favorevole. Essi dovevano lottare contro le società, le quali, certo, non avevano mai fatto nulla per cattivarsi le simpatie del pubblico. Noi stessi, su queste colonne, ripetutamente abbiamo dovuto alzare la nostra voce contro il pessimo servizio fatto dalle società ed abbiamo invocato dal municipio un’azione energica per costringerle a badare non soltanto all’utile proprio, ma anche agli interessi della cittadinanza.

 

 

Orbene, i gasisti hanno miseramente sciupata questa bella situazione. L’hanno sciupata per il tempo in cui dichiararono lo sciopero: quando Torino era angustiata dalla interruzione parziale o totale delle comunicazioni ferroviarie, telegrafiche, telefoniche. Hanno gittato le vie della nostra città nel buio, quando erano ingombre di neve e quando era divenuto pericoloso camminare di sera e di notte per le strade non illuminate.

 

 

Nessuno di essi potrà sostenere che il ritardo di una quindicina di giorni avrebbe potuto compromettere il raggiungimento dei loro voti: essi hanno affermato in un colloquio pubblicato su un giornale di Torino che sarebbe stato da ingenuo aspettare l’estate. Esattissimo: ma da febbraio al principio dell’estate molto tempo ci corre, e quando si tratta di un servizio che interessa tutta la cittadinanza, la ponderazione dei deliberanti è uno stretto dovere. Chi esercita un pubblico servizio deve anche, nella tutela legittima dei suoi diritti, avere ben fisso in mente quello degli altri. Il diritto della cittadinanza era che i gasisti, pur lottando contro le società, salvaguardassero il più possibile l’interesse di 330.000 persone, che degli eventuali torti delle società del gas non ne possono proprio nulla.

 

 

Hanno salvaguardato questo diritto della cittadinanza, usando, nel proclamare lo sciopero, la ponderazione dovuta, quella ponderazione che usano i ferrovieri, che fu raccomandata dallo stesso on. Turati nei comizi di domenica scorsa?

 

 

Esaminiamo serenamente il loro operato: dopo aver mandato il memoriale alle società, non avendone avuta risposta (le società affermano il contrario), dichiararono lo sciopero. Ma non basta mandare un memoriale per ritenere di aver esaurite tutte le vie della conciliazione; e non bisogna prefiggere alle società un termine tassativo di cinque giorni per decidere su domande gravissime e molto importanti per l’avvenire della loro azienda. Cinque giorni e neppure dieci non bastano per prendere una decisione matura intorno all’organico, all’aumento dei salari, alle pensioni, ecc. ecc.

 

 

Né basta. Trattandosi di un servizio pubblico, in cui non sono soltanto le due parti a contendere, ma è d’uopo aver riguardo ai terzi che in uno sciopero ne vanno di mezzo, ossia al pubblico, era opportuno che anche qui i gasisti imitassero i ferrovieri, i quali si appellarono al pubblico ed al governo, rappresentante della nazione, come a giudice delle loro pretese. Potevano i gasisti andare dal sindaco, dal prefetto, interessare i consiglieri socialisti, l’opinione pubblica, promuovere insomma un giudizio sulle loro domande.

 

 

Solo quando tutti questi sforzi fossero andati a vuoto, solo quando le società si fossero ostinate a non accettare le domande ritenute giuste dei gasisti e approvate in pubblica discussione, e non avessero voluto accogliere i buoni uffici delle autorità o di terzi, solo allora poteva lo sciopero essere dichiarato.

 

 

Ma anche in questo caso i gasisti avrebbero dovuto scioperare solo nell’intento di impedire il lucro delle società, e di costringerle così, se era possibile, alla resa e non avrebbero dovuto allargare lo sciopero in modo da arrecare danno al pubblico. Non basta profferirsi, come fecero i gasisti, ad illuminare la città colle torce a vento. Essi avrebbero dovuto sentire il dovere morale di difendere i propri interessi senza danneggiare il pubblico innocente. Avrebbero dovuto seguitare il lavoro alle officine per quel che riflette la illuminazione pubblica, pur rendendo impossibile alle società la fornitura ai privati. Così la lotta si sarebbe svolta realmente tra due interessi privati; ed i gasisti non avrebbero avuto, come hanno, contro di essi l’opinione pubblica unanime, offesa dall’impulsività di alcuni pochi che non tengono in alcun conto gli interessi di 330 mila persone. E si badi che contro l’opinione pubblica non si può lottare. Ben radi sono gli scioperi riusciti favorevoli agli operai quando avevano contraria l’opinione pubblica.

 

 

Nella quale poi sono rimasti dubbi – sia pure infondati – che lo sciopero corrisponda ai reali desiderii intimi di tutti i gasisti. Non è con una votazione aperta ed alzata di mano che si può conoscere i sentimenti reali di una massa.

 

 

I socialisti, che sono a capo di questo sciopero, avrebbero dovuto essere coerenti a se medesimi ed imporre che la deliberazione fosse presa per votazione segreta; essi che tanto ci tengono – ed a ragione – al voto segreto politico. L’esempio recente dello sciopero generale dei minatori di carbone in Francia prova quanto sia efficace il voto segreto ad evitare deliberazioni impulsive ed affrettate e non corrispondenti ai voleri della maggioranza operaia.

 

 

Agendo così, i gasisti hanno danneggiato la loro causa, perché hanno legittimato tutti gli energici provvedimenti presi dalle autorità. Se, per esempio, avessero procurato il gas per la pubblica illuminazione, le autorità – giustamente preoccupate dall’ingombro delle vie per la straordinaria quantità di neve caduta, per la mancanza del telefono, ecc., – non si sarebbero immischiate nella lotta puramente economica fra lavoratori e società.

 

 

Abbiamo voluto dire la nostra opinione, ch’è pure quella della grande maggioranza della popolazione, perché c’è sempre parso che il silenzio è una viltà, quando la parola è un dovere.

 

 



[1] Col titolo Una parola franca sullo sciopero dei gasisti [ndr]

Il principio del ravvedimento

Il principio del ravvedimento

«Critica Sociale», 1 febbraio 1902[1]

«La Stampa», 10 e 14[2] febbraio 1902

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 462-471

 

 

I

 

Nel numero dell’1° febbraio della «Critica sociale», la battagliera rivista socialista diretta da Filippo Turati, chi scrive pubblicava un articolo intitolato: L’ora degli spropositi. Poteva sembrare sintomatico il fatto che una rivista socialista pubblicasse uno scritto imbevuto da cima a fondo di spirito liberistico, e scritto da chi si professava apertamente malcontento della politica economica che ora si segue dalle classi governanti e dalle classi popolari, unite insieme da propositi che attuati, avrebbero condotto l’Italia a rovina. Ciò che più deve sembrare sintomatico si è l’approvazione che la mia querimonia riscosse nei partiti popolari. L’altro giorno il repubblicano «Giornale del Popolo» riproduceva, consentendo, un lungo brano dell’articolo; poco dopo Guglielmo Ferrero commentava, in uno dei suoi più belli articoli del «Secolo», l’avviso da lui chiamato «salutare», dato agli italiani sulla «Critica sociale».

 

 

Diceva l’articolo [3]:

 

 

Nel primo numero della «Critica» risorta, chi scrive tracciava uno schema di quella che, a suo parere, doveva essere «la politica economica delle classi operaie nel momento presente». D’allora sono passati due anni e mezzo e non sono passati invano. Le classi operaie hanno saputo conquistare in questo frattempo la libertà di associazione e di resistenza a tutela dei propri interessi, che è base prima ed indispensabile di ogni progresso futuro; e la libertà di sciopero e di coalizione – non largita per benigna concessione, ma guadagnata con isforzo perseverante – ha già cominciato a dare i suoi frutti consueti di elevamento del tenor di vita degli operai e di stimolo alle classi imprenditrici a migliorare ed a rendere più economica la produzione industriale ed agricola. D’altra parte – ed anche qui non per virtù di programmi di governo o di consapevole azione politica, ma per virtù di numerosi fattori favorevoli concomitanti – ha cominciato ad attuarsi liberamente e spontaneamente quell’incremento della produzione, che l’1 luglio 1899 indicavo come la premessa di ogni duraturo innalzamento delle classi operaie.

 

 

Ciò, che due anni fa era un fenomeno osservato da pochissimi, è adesso divenuto quasi un luogo comune. Tutti sanno che la ricchezza in Italia è cresciuta, che i risparmi sono abbondanti, che il tasso d’interesse è scemato, che è scemato d’assai l’aggio, e che per conseguenza i capitali stranieri hanno ripreso la via d’Italia, che le importazioni e le esportazioni crescono, che il bilancio dello stato si trova in ottime condizioni e presenta un lieto e significante contrasto con tutti i paesi europei. Tutto ciò conoscono benissimo anche gli operai, non foss’altro a cagione dell’esito parzialmente favorevole di tanti scioperi e di tante agitazioni per l’aumento del salario: scioperi ed agitazioni che a nulla avrebbero valso, ove il momento economico in Italia non fosse stato propizio.

 

 

Purtroppo però la letizia improvvisa, cagionata dal poter respirare in più libero aere e dalla sensazione di una iniziale prosperità, ci impedisce di vedere quanto sia ancora precario e tenue il miglioramento odierno. In uno studio statistico che «La riforma sociale» pubblica nel fascicolo di febbraio e dove sono studiati i sintomi dello stato economico d’Italia, è dimostrato largamente che noi non ci troviamo ancora in un periodo di stabile prosperità, ma appena appena usciamo da un periodo di depressione prolungata. È il contrasto col triste passato quello che ci rende lieti e fiduciosi; guai se la soverchia fiducia ci inducesse ad affrettare il passo e a trascurare quel lavoro perseverante, il quale soltanto potrà consolidare il piccolo miglioramento odierno!

 

 

Molti si fanno illusioni sul progresso della ricchezza italiana. Nello studio citato, si sono istituiti calcoli per misurare – facendo seguito ai vecchi e noti calcoli del Pantaleoni e del Bodio del 1889 – le variazioni della ricchezza italiana negli ultimi anni; ed eccone i risultati:

 

 

Quinquennio

Lire

1876-80

46.204.973.878

1881 – 1885-86

51.667.241.200

1886-87 – 1890-91

54.679.416.451

1891-92 – 1895-96

54.082.083.675

1896-97 – 1900-901

51.915.453.481

 

 

A temperare l’impressione di queste cifre, giova osservare che il notevole ribasso dell’ultimo periodo è dovuto sovratutto alla cifra bassa degli anni 96-97 e 98-99, in cui il calcolo dava solo 50 miliardi circa di ricchezza; e che nel 1900-901 si nota un sensibile rialzo a 55.728.746.372 lire. Siamo ben lungi dai 70 miliardi di ricchezza nazionale che qualche fertile immaginazione avea già assegnato all’Italia rinata dopo la crisi. La ricchezza sembra, specie in ultimo, bensì dare indizio di aumento, ma l’aumento basta appena a riparare ai danni del passato.

 

 

Basterebbe commettere qualche sproposito per vedere distrutta tutta l’opera del passato; per vedere il ritorno della crisi industriale e la disfatta delle leghe operaie e contadine, ora vittoriose nella conquista del salario più alto; basterebbe perdere qualche occasione favorevole, per ritornare alla coda di quei paesi forestieri, con i quali ci siamo messi a gareggiare con fiducioso slancio.

 

 

Disgraziatamente, parecchi indizi provano che noi siamo sulla via di commettere parecchi spropositi e di perdere alcune occasioni buone. L’esperienza del passato pare non abbia insegnato nulla. Il rimprovero va diretto un po’ a tutte le classi sociali e a tutti i partiti politici.

 

 

Le classi dirigenti, veduto che nel bilancio dello stato c’è un avanzo, vi si sono gettate sopra con una furia, la quale ricorda molto i primi tempi della sinistra, in cui si dilapidarono allegramente gli avanzi di bilancio e si mandò in malora il pareggio faticosamente ottenuto dai ministri di destra. Non si mette più innanzi un programma ferroviario completo, ma si discorre di direttissima tra Roma e Napoli, di porti e di bonifiche e di tante altre belle cose, la cui utilità non vuolsi negare, ma che faranno spendere di molti milioni allo stato. Il quale certo non ritrarrà dalla direttissima un frutto conveniente del capitale impiegatovi, mentre molto lucreranno appaltatori e uomini d’affari, che perciò si agitano per persuadere al mezzogiorno essere la costruzione della nuova ferrovia un problema di vita e di morte per il suo avvenire. Si discorre di Tripoli, e di equilibrio del Mediterraneo, quasi che si avesse soltanto da allungare le mani per pigliarsi la Tripolitania e l’Albania, e non ci fosse invece la certezza di grossi guai e specialmente del ritorno del disavanzo nel bilancio dello stato.

 

 

Né basta. Gli sgravi tributari forniscono un altro passatempo innocente agli uomini di governo e ai dilettanti di filantropia per provare il proprio sviscerato amore per le classi umili; quasiché non fosse evidente come la luce del sole che l’effetto della abolizione dei dazi sulle farine sarà limitatissimo e che con essa nulla si muta a ciò che forma il vero malanno del nostro sistema tributario: di essere cioè ostacolo potente alla produzione nazionale. Partiti conservatori e partiti popolari vanno a gara nel dire che essi vogliono un po’ più di giustizia sociale nelle imposte e, per ottenere il lodevole scopo, si apparecchiano a trasportare il peso di una imposta dalle spalle degli uni sulle spalle degli altri. Quasiché invece non premesse sopratutto di rendere meno pernicioso in complesso il gravame tributario allo sviluppo della ricchezza; quasi che l’andar disputando, se debba essere Tizio o Caio a pagare un’imposta, non fosse una disputa da gran signori, e non fosse preferibile per un paese povero, come l’Italia, modificare sovratutto quei congegni tributari che sono funesti allo sviluppo della produzione, che tolgono quattrini ai contribuenti e li costringono a spese ed a produzioni antieconomiche, senza alcun vantaggio o scarsissimo delle finanze dello stato.

 

 

Mi sia concesso di accennare non già ad un indizio di spropositi futuri, ma ad uno sproposito già commesso da quanti sono – a fatti od a parole – desiderosi della riforma tributaria: voglio accennare all’agitazione contro il dazio sul grano. La riduzione progressiva – e sia pure lenta per non portare un improvviso squilibrio nell’esercizio dell’industria agraria – sarebbe stata una magnifica piattaforma per sgravare sul serio i consumatori italiani, avvantaggiandoli almeno tre o quattro volte di più del danno arrecato allo stato. Invece, dopo l’accademica discussione avvenuta nella primavera scorsa alla camera, si lasciò cadere la cosa; ed oggi chi legga il pugnace libro: Per la libertà del pane, del valoroso Giretti ha l’impressione di trovarsi dinanzi ad un capitano senza soldati, il quale combatte a vuoto.

 

 

Se le classi dirigenti pensano a buttar via denari nella direttissima Roma – Napoli, le classi popolari non si sottraggono alla medesima tendenza, di volere fare il proprio bene accrescendo le spese dello stato. Di qui le discussioni e la propaganda per le leggi sul lavoro delle donne e dei fanciulli, per le ispezioni e per il Consiglio del lavoro. Tutte belle e buone cose, ma che distraggono dall’opera che oggi è veramente urgente: consolidare l’aumento di ricchezza presente e preparare aumenti futuri.

 

 

Nella quale opera governo e partiti politici hanno una parte non principalissima, ma pure molto importante, che consiste nel modificare l’ambiente giuridico in guisa favorevole allo sviluppo della ricchezza. I socialisti tedeschi si sono accorti da un pezzo della verità di questa affermazione. La loro mirabile campagna presente, contro il progetto della nuova tariffa doganale, è non soltanto una lotta per conservare il pane a buon mercato agli operai tedeschi; ma è sovratutto una campagna a favore dell’industrialismo e del capitalismo progredito, contro i vecchi metodi economici di produzione arretrata e lenta, rappresentati dalla Junkerthum agraria e feudale dell’ovest germanico. Proprio così: sinché gli operai italiani non si persuaderanno che è pernicioso ai loro propri interessi di imporre soverchie restrizioni legali alla libera attività degli industriali, che è pericoloso intimidire il capitale, tanto scarso e tanto timido da noi, con lo spauracchio dell’imposta progressiva, non si farà che alimentare illusioni e mettere in pericolo la prosperità iniziatasi ora. Bisogna invece fare come i socialisti tedeschi, e decidersi a prestare tutto il proprio appoggio ai capitani dell’industria moderna, ai capitalisti pronti a mettere su imprese nuove, alle banche forestiere desiderose di portare i propri capitali in Italia.

 

 

Bisogna persuadersi che, se vogliono guadagnar molto, gli operai debbono fare del loro meglio perché il capitale sia impiegato nel modo più produttivo ed economico possibile. Parrà un paradosso, ma è indubitato che gli operai italiani riusciranno ad elevare durevolmente le loro sorti, quando diventeranno più gelosi cultori degli interessi del capitale che nol siano i capitalisti medesimi; quando si persuaderanno essere meglio rinunciare a qualche milione di lire di aumento sul bilancio del ministero dell’agricoltura, industria e commercio (altra curiosa melanconia, questa, dei deputati popolari, di chiedere ogni tanto che il bilancio dell’agricoltura sia portato a 100 milioni!), pur di mettere in grado il tesoro di bruciare una quantità corrispondente di moneta cartacea e così affrettare la scomparsa dell’aggio e, colla scomparsa del cambio, la introduzione in Italia di capitali stranieri e il rialzo dei salari.

 

 

Occorre fare intendere agli operai che è necessario occuparsi, un po’ più di quanto non abbiano fatto sinora, della rinnovazione dei trattati di commercio. È questo un problema che li tocca sul vivo come consumatori e come produttori[4]  Come consumatori, hanno interesse a volere una politica doganale, che ribassi il costo dei manufatti che si importano dall’estero e per conseguenza il prezzo delle merci prodotte in paese. Come produttori, hanno interesse che i dazi protettori non indirizzino i capitali verso impieghi poco produttivi, ed i trattati di commerci siano negoziati in guisa da aprire il più ampio mercato possibile estero all’agricoltura ed alle industrie italiane. Problema non facile e su cui sarebbe bene che anche gli operai si intendessero, discutendo in modo chiaro ed aperto quei punti in cui gli interessi degli operai del settentrione possono trovarsi in contrasto con quelli del mezzogiorno, gli operai di un’industria con gli operai di un’altra.

 

 

In Germania queste cose si discutono e molto vivacemente; e vi sono operai liberisti ed operai protezionisti. In Italia non si ha, fra gli operai e neppure fra i loro capi, una coscienza ben netta dell’importanza pratica di questi dibattiti; ed accade perciò che noi, che vogliamo una politica doganale orientata in senso liberista, facciamo la figura di dottrinari del capitalismo, litiganti su cose che ai proletari importano poco.

 

 

Potrei continuare. Quasi tutti i problemi veramente vitali per il benessere delle masse sono lasciati cadere con indifferenza. Io speravo, scrivendo l’anno scorso sulle colonne della «Critica sociale» intorno alle convenzioni ferroviarie e sul loro rinnovamento, che il problema sarebbe stato discusso, magari da altri punti di vista e magari combattendo le conclusioni contrarie all’esercizio di stato, a cui ero giunto. Invece – se si eccettua una brevissima nota – non ne fu nulla; ed un argomento, che interessa tanto l’avvenire del paese, fu lasciato cadere.

 

 

Giorno per giorno si continuano a commettere in Italia dei veri attentati contro l’unico e splendido retaggio, che sia rimasto al demanio dello stato: le forze idrauliche. Mentre tanto si ciancia di municipalizzare ogni sorta di cose e si vogliono ingolfare i comuni in ogni sorta di imprese, mentre si invita lo stato ad avocare a sé l’esercizio delle ferrovie, nella speranza di far trionfare a poco a poco la socializzazione delle industrie, si lascia che lo stato alieni, per sempre, e per un tozzo di pane, l’unico patrimonio che gli sia rimasto: le forze idrauliche; e lo alieni non a beneficio dell’industria vera, ma troppo spesso a vantaggio della speculazione intermediaria. Chi si è accorto del grido di allarme che F. S. Nitti ha innalzato, nell’appendice alla sua recente Città di Napoli, a proposito di questa improvvida alienazione di uno splendido demanio, che potrebbe essere, bene utilizzato, un meraviglioso strumento di forza per lo stato e di potenza per l’industria privata?

 

 

Riflessioni malinconiche, diranno molti, di uno studioso, che vorrebbe che tutti si interessassero della scienza economica. A me pare, invece, che la malinconia nasce, se mai, dal desiderio insoddisfatto di vedere le classi operaie italiane uscire presto dalla penombra grigia del momento attuale di transizione tra il periodo delle battaglie politiche per la conquista della libertà e il periodo dell’attività pratica e feconda. Esse sono ancora sotto l’impressione della retorica, che le scuoteva e le commoveva nel momento della battaglia, e stentano a persuadersi di dover abbandonare l’antica eloquenza grandiosa per i conti prosaici del dare e dell’avere degli uomini d’affari. Eppure, se non ci si vuole illudere, bisogna saper fare anche codesti conti.

 

 

Ai lettori della «Stampa» le cose scritte nell’articolo della «Critica sociale» non parranno certamente nuove, tante furono le volte in cui quelle idee furono ripetute nelle nostre colonne, e tanti furono gli avvertimenti dati, a chi voleva ed a chi non voleva intendere, che si batteva falsa strada e che si correva pericolo, – per la smania degli sgravi, delle opere pubbliche, dell’intervenzionismo governativo in tutte le faccende della vita pubblica e privata, – di dimenticare quello che deve essere il cardine fondamentale della politica del momento presente: consolidare l’iniziale e lievissimo aumento di produzione e di ricchezza verificatosi negli ultimi anni, e preparare, colla pratica della libertà, prudentemente e pazientemente, la via ad un avvenire più radioso.

 

 

Il linguaggio dello scrittore della «Stampa» poteva sembrare ai socialisti il linguaggio di un reazionario odiatore del progresso e sprezzante del bene degli umili. Oggi, però, che una rivista socialista pubblica le medesime cose e che Guglielmo Ferrero su un giornale radicale approva quelle idee, vien meno un dubbio che quasi involontariamente mi assillava: il dubbio di essere davvero, senza saperlo, divenuto un reazionario.

 

 

Le verità, siano pure verità vecchie di cent’anni, come quelle della dottrina economica liberale, finiscono per imporsi.

 

 

Il trionfo della verità giustifica il titolo di questo articolo. Forse dall’«ora degli spropositi» stiamo avvicinandoci al «principio del ravvedimento».

 

 

II

 

L’«Avanti!» è intervenuto direttamente in una polemica che da alcuni giorni si dibatteva tra Filippo Turati e il dottor Romeo Soldi, libero docente di economia politica nell’università di Roma, a proposito degli scioperi e del contegno che in questi devono tenere i socialisti.

 

 

L’«Avanti!» dà ragione al Turati, sostenitore della tesi moderata, contro il Soldi, sostenitore della tesi rivoluzionaria. Il giornale socialista si chiede: «E perché dovremmo andare tra gli operai? O per tacere, il che è assurdo, ché tanto varrebbe non andare, secondo vogliono gli anarchici: o per seguire la folla operaia nei suoi propositi, qualunque siano, spingendola più facilmente ai passi estremi. È questa l’assistenza nostra? È un ufficio, lo riconosciamo, assai più agevole, che può fruttare soltanto applausi; ma il male è che l’esperienza è circoscritta alla pelle dei lavoratori. Il terzo, finito lo sciopero, abbandona l’assistenza, e chi n’ha avuto n’ha avuto. Qui è la differenza vera e sostanziale tra il pensiero nostro e quello del Soldi. Egli, progressista e rivoluzionario, non riconosce alcun dovere, alcuna responsabilità in chi è chiamato in un’assemblea di operai i quali discutono se debbono proclamare lo sciopero: noi moderati crediamo che, tanto in caso di sciopero quanto in ogni altra occasione, esista una precisa responsabilità personale».

 

 

Il linguaggio dell’«Avanti!» ribadisce la lettera scritta alcuni giorni fa da Turati, per dire non essere lecito fare esperienze sulla pelle altrui. Non è lecito perché «gli scioperi perduti sono apportatori di miseria e di sfiducia».

 

 

Per non essere cagione di miseria, è dovere dei capi di essere prudenti e di tenere grandissimo, se non esclusivo, conto dei profitti del capitale e delle condizioni dell’industria. «Il socialista chiamato ad assistere il proletariato in lotta deve dare alla lotta tutto il contributo della sua intelligenza e delle sue cognizioni, e non può, senza venir meno al proprio dovere, nascondere il timore della sconfitta, se il timore gli appare fondato. Sicché può ritenersi necessario anche lo studio delle condizioni dell’industria; sempre, per dirla al Turati, per il vantaggio dei lavoratori».

 

 

I lavoratori possono essere danneggiati più da una vittoria intempestiva estorta colla forza, che non dall’adattarsi alle condizioni dell’industria, le quali consentono una rimunerazione minore di quella che gli operai potrebbero, imponendosi, in un certo momento ottenere.

 

 

L’«Avanti!» esprime il concetto, intuitivo, riproducendo le parole di Arturo Labriola: «Certo un movimento operaio, dall’andamento troppo risoluto e pretensioso, dal timbro decisamente rivoluzionario, può compromettere le sorti di un iniziale sviluppo delle industrie. La prudenza e la moderazione è una necessità per ogni specie di movimento operaio, ma in modo più particolare in un ambiente ove si soffre appunto per difetto di industrie. Le pretese eccessive ed incalzanti, le manifestazioni, disordinate e violente, queste e simili fatti possono spaventare gli industriali e tenerli lontani da una piazza».

 

 

Il Labriola parla per la sua Napoli, preoccupato del pericolo che le violenze operaie riescano a spaventare gli industriali delle altre parti d’Italia. L’Italia di fronte all’estero è un po’ nelle stesse condizioni di Napoli di fronte al resto d’Italia. Perciò l’«Avanti!» estende il suo ragionamento a tutta l’Italia, il che vuol dire che ammonisce gli operai a non spaventare troppo gli industriali. Verità evidenti, che non c’è bisogno di essere professori di economia per divulgarle.

 



[1] Col titolo L’ora degli spropositi [ndr]

[2] Col titolo La ragione si fa strada [ndr]

[3] Pare opportuno pubblicare qui integralmente, invece dell’ampio estratto della «Stampa», l’articolo che col titolo L’ora degli spropositi era stato pubblicato dall’autore nella «Critica sociale» dell’1 febbraio 1902.

[4] Verissimo; e, per cominciare, abbiamo pregato i nostri amici Luigi Einaudi e Attilio Cabiati (che cortesemente aderirono) di occuparsi di tale argomento nei prossimi numeri della nostra rivista [Nota della «Critica»].

La vita delle province in cifre

La vita delle province in cifre

«La Stampa», 24 gennaio 1902

 

 

 

 

Anche le Province, alla pari dei Municipii, di cui abbiamo narrata la vita in cifre alcuni giorni or sono, hanno una vita propria. Non è però varia e tempestosa come quella dello Stato e dei Municipii. Le Province vanno tranquillamente per la loro via. I Consigli provinciali sono accolte di persone dove si discute pacatamente e dove le ire di parte non si fanno quasi mai sentire. I finanzieri che tanto spesso discorrono di riforme nelle finanze governative e comunali, non si ricordano quasi mai che ci sono anche le Province. Segno evidente – diranno i più – che in queste non c’è nulla da riformare.

 

 

La modestia e la tranquillità della vita provinciale si rivela altresì nei loro bilanci, di cui i risultati sommari per il 1899 furono testé pubblicati nel Bollettino del Ministero di agricoltura, industria e commercio. Le 69 Province italiane hanno nel 1899 introitato 131,676,329 milioni di lire in tutto. Non è una grossa somma, specialmente se la paragoniamo ai 1600 milioni dello Stato ed ai 642 milioni dei Comuni. Ed ancora le entrate effettive ammontano soltanto a lire 94,857,667. Il resto è costituito per 9,298,956 lire di movimento di capitali, per 4,514,980 lire di avanzi di amministrazione verificatisi in esercizi precedenti ed applicati al bilancio e per 23,003,726 lire di partite di giro e contabilità speciali. Le entrate effettive si riducono a 95 milioni di lire. Provengono codesti 95 milioni da una moltitudine di fonti: per 2,304,000 lire sono rendite del patrimonio delle Province; per 639,000 lire sono concorsi e rimborsi diversi, ritenute per pensioni, ecc. I pedaggi fruttano 22,000 lire, le tasse scolastiche 75,000 lire. Ma sono inezie. Il grosso, o, meglio, la quasi totalità dell’entrata delle Province, 86 milioni ed 810 mila lire su 95 milioni, proviene da un’unica fonte: la sovrimposta sui terreni e sui fabbricati. Qui è il punto debole, o, se vuolsi, il lato caratteristico della vita delle Province; che soltanto i proprietari di terre e di fabbricati ne fanno le spese. Tutti gli altri abitanti, che pur vivono nelle province e si giovano dei pubblici servizi che queste rendono, non pagano un centesimo.

 

 

La cosa non è senza una certa giustificazione; poiché se noi guardiamo al bilancio passivo, si vede che su 97 milioni di spese effettive, ben 41 milioni e mezzo vanno impiegati in opere pubbliche, ordinarie o straordinarie, obbligatorie o facoltative.

 

 

È questa la principal bisogna delle Province: costruire strade, ponti, mantener fari, porti ed opere idrauliche. E siccome sono spese che sopratutto giovano alla proprietà immobiliare, permettendo la difesa dei terreni dalle acque, la libera circolazione dei prodotti agricoli, si capisce che i proprietari di terreni e fabbricati siano a tale intento messi a contributo.

 

 

Ma le Province fanno anche altre spese: hanno 9,755,000 lire di oneri patrimoniali, 10,242,000 lire di spese generali, 275,000 lire di spese d’igiene, 5,206,000 lire di spese di pubblica sicurezza, specie per i reali carabinieri, 5,805,000 lire di spese per gli Istituti tecnici, nautici, professionali, commerciali, normali, agrari, 1,457,000 lire in spese per favorire l’agricoltura, e finalmente spendono la grossa somma di 23 milioni in beneficienza, ossia nel mantenimento dei maniaci poveri e degli esposti.

 

 

Ora è evidente che non sono soltanto i proprietari di terre e di fabbricati che diventano matti o i cui figli sono esposti; e che la Pubblica Sicurezza non impedisce solo i furti campestri, e che gli Istituti tecnici e professionali giovano sovratutto alle classi commerciali ed operaie.

 

 

Si tratta, in fondo, di pubblici servizi che giovano all’intiera società. Sta bene che i proprietari di terre e di fabbricati siano chiamati a pagare una forte quota di codeste spese, che, rendendo la vita sociale più sicura e più elevata, aumentano il valore della proprietà immobiliare. Ma che siano costretti a pagar tutto è davvero un po’ troppo e che le classi industriali e commerciali non debbano pagare nulla, ad esempio, per gli Istituti tecnici a cui mandano i loro figli, è anche una cosa alquanto strana.

 

 

Questo è il fatto più notevole che vien fuori dall’esame dell’ultima statistica dei bilanci provinciali; ed è un fatto noto da un pezzo. Ma siccome le Province non fanno parlare di sè, ed i Consigli provinciali non danno argomento ad interessanti e vivaci dibattiti politici, e siccome ancora i proprietari non strillano molto e, se strillassero, la gente li guarderebbe meravigliando che la loro qualità di proprietari non li renda felici e lieti di lasciarsi vuotare le tasche, così è probabile che le cose continueranno ad andare nello stesso modo ancora per un altro lungo pezzo di tempo.

Dispute vane e questioni gravi

Dispute vane e questioni gravi

«La Stampa», 14 gennaio 1902[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 454-457

 

 

È un fenomeno strano e doloroso vedere come spesso da noi i problemi più gravi per l’avvenire del paese non abbiano la forza di destare l’attenzione del pubblico e come uomini politici e giornali si occupino di mille cose futili e non vedano nemmeno le questioni veramente grandi.

 

 

Nessuno si occupa, ad esempio, della scadenza dei trattati di commercio e delle convenzioni ferroviarie. In Germania, pro e contro le nuove tariffe doganali, si è accesa una battaglia vivissima; e sono scesi in campo non solo insigni economisti, ma anche i partiti politici; e gli agrari ad invocare l’aumento dei dazi sui cereali hanno radunato comizi di decine di migliaia di contadini e di proprietari; ed i socialisti hanno presentato al parlamento indirizzi coperti da milioni e milioni di firme per scongiurare il minacciato attacco contro la libertà del pane.

 

 

In Italia, chi si interessa dei nuovi trattati di commercio? Quasi solo l’amico Giretti seguita a combattere la sua buona battaglia contro il dazio sul grano (vedi il suo recente, vivace e pugnace, volume Per la libertà del pane); ed alcune poche associazioni preparano dei memoriali. Ma le loro voci cadono nel vuoto, quasi che la questione riguardasse il mondo della luna, e non riflettesse invece gli interessi più diretti e più vitali d’Italia e quasi che l’alto sonno dell’opinione pubblica non facesse correre il pericolo di consegnare le masse lavoratrici per altri dieci anni piedi e mani legate in balia di pochi gruppi di grandi industriali; e quasi che un men buono indirizzo impresso alle negoziazioni non dovesse porre un grave ostacolo allo sviluppo della nostra ricchezza.

 

 

Lo stesso accade per le convenzioni ferroviarie. Pochi competenti discutono tra loro, ed il pubblico non se ne interessa e non intravede o non gli si fa intravedere nemmeno quale profonda differenza, rispetto all’intensità dei traffici ed al ribasso delle tariffe, possa esercitare la scelta tra il sistema del canone proporzionale al prodotto lordo e quello del canone fisso.

 

 

Così di cento altri problemi veramente urgenti e veramente tormentosi. Ho sott’occhio un grosso volume di quell’infaticabile lavoratore che è F. S. Nitti su La città di Napoli. Il volume, oltre a sviscerare a fondo la questione napoletana ed a presentare proposte precise in proposito, contiene una appendice, che è un vero grido di allarme, il quale dovrebbe essere inteso da tutti quelli che si occupano dell’avvenire d’Italia.

 

 

L’appendice si occupa «delle forze idrauliche dell’Italia e della loro utilizzazione», e discute i problemi i quali sono collegati al regime delle acque in Italia. Problemi davvero urgenti e ponderosi, poiché in un paese, – dove non esistono quasi miniere di carbon fossile e dove occorre importare dall’estero carbone per una somma che ora è di 150 milioni di lire all’anno e crescerà certo in futuro, – si potrebbe verificare una profonda rivoluzione industriale ed un incremento ragguardevole dell’industria e della ricchezza quando fosse possibile utilizzare su vasta scala la forza delle acque scorrenti in abbondanza dalle montagne. Non discuto il punto di vista tecnico della questione; né indago quanta forza idraulica sia utilizzabile in Italia, se 3 o 5 o più milioni di cavallivapore, ed a quale costo e con quale convenienza di fronte al carbon fossile importato. Dobbiamo però rammentare che allo stato – proprietario secondo il diritto vigente delle acque – incombe il dovere di facilitare in ogni modo la via alla loro utilizzazione, il dovere di concedere le acque senza formalità e spese eccessive agli industriali che vogliano servirsene effettivamente; il dovere infine di impedire che le acque vengano accaparrate per sempre da speculatori, di null’altro desiderosi fuorché di trarne, cedendole ai veri industriali, un profitto il quale dovrebbe essere in ogni caso riservato alla nazione intera.

 

 

Orbene, la nostra legislazione contraddice lamentevolmente a codesti requisiti; essa impone formalità interminabili per le concessioni, non consente che le acque siano concesse all’industria quando siano troppo vive le opposizioni locali o vi sia la possibilità di future ipotetiche utilizzazioni ferroviarie, non contiene nessuna garanzia contro le concessioni a speculatori ed in fatto attribuisce ai concessionari le acque per sempre, con diritto di rinnovazione indefinita.

 

 

A togliere codesti mali, che impediscono lo sviluppo presente e pregiudicano l’avvenire, il Nitti vorrebbe lo stato nazionalizzasse le acque e facesse, con capitali presi a prestito all’estero a mite saggio, direttamente gli impianti di utilizzazione delle acque, concedendo la forza elettrica al prezzo minimo di costo nei borghi industriali e nelle città; e descrive la risurrezione della sua Napoli diletta in seguito all’avvento rigeneratore di 60 mila cavalli di forze idrauliche condotte dallo stato a Napoli dai fiumi vicini.

 

 

Bello e nobile disegno; e più proficuo certo e meno costoso della direttissima tra Roma e Napoli. Non so se nelle condizioni attuali convenga affidare allo stato una funzione così nuova e perigliosa, data l’infanzia dell’industria elettrica. Miglior consiglio sembrami quello di accingersi ad una modificazione pronta dei nostri ordinamenti legislativi che vorrei inspirata ai seguenti principii:

 

  • facilitare le concessioni di acque ai privati, togliendo le formalità inutili ed invitando così nel miglior modo possibile il capitale italiano e forestiero ad impiegarsi negli impianti idraulici;
  • stabilire dei termini rigorosi ed improrogabili, salvo i casi di vera forza maggiore, per la utilizzazione delle acque; scaduti i quali i concessionari dovrebbero intendersi decaduti; allo scopo di impedire che fra lo stato proprietario ed i concessionari si frappongano speculatori ingordi;
  • fare le concessioni per un ventennio ad un canone mitissimo; col diritto di rinnovazione solo per un altro ventennio ad un canone maggiore prestabilito. Disposizione questa che ritengo di capitale importanza e che avvicina il mio divisamento a quello del Nitti, poiché lo stato in tal modo conserva la proprietà delle acque.

 

 

Siano pur concesse queste a mite, anzi mitissimo prezzo all’industria privata per un ventennio, più che sufficiente per ammortizzare l’impianto; sia pur dato il diritto alla rinnovazione per altri venti anni, ad un canone un po’ maggiore, per permettere agli avventurosi imprenditori, che primi osarono iniziare un’industria nuova di disporre di tutto il tempo necessario per ottenere adeguato compenso al rischio corso. Trascorsi i quarant’anni, lo stato rientri in possesso delle acque che sono sue e possa riaffittarle ancora al più alto offerente. Concedere per sempre le acque, come ora in fatto accade, ai privati, non è promuovere l’industria italiana, ma è soltanto fare un regalo della rendita che quelle acque frutteranno nell’avvenire a coloro che hanno ottenuto la concessione. Costoro certo non saranno così ingenui da regalare una rendita, che potrà divenir cospicua, agli imprenditori d’industrie, ma se la faranno pagare al prezzo del mercato; e non si vede perché non sia lo stato a percepire quell’entrata.

 

 

Seguitare nel sistema attuale è non solo dannoso per l’industria; ma è un vero delitto – la parola è rude, ma è vera – di fronte alle generazioni future. Molto si è gridato contro gli sperperi del patrimonio degli enti ecclesiastici aboliti; ed erano sperperi giustificati in parte dalle terribili condizioni dell’erario italiano.

 

 

Oggi, sotto i nostri occhi, si sta iniziando uno sperpero ben più grandioso e pernicioso di una ricchezza, sinora ignorata e forse ingentissima, la quale appartiene allo stato italiano; e, come al solito, si maschera il fatto brutto col pretesto degli interessi dell’industria nazionale.

 

 

L’industria italiana non ha bisogno che lo stato le regali ciò che è patrimonio di tutti; essa richiede soltanto – cosa che le presenti leggi favorevoli alle lungaggini amministrative ed alle ingordigie accaparratrici non concedono – che l’acqua le sia concessa prontamente, a mite prezzo per un tempo sufficiente ad ammortizzare i costosi impianti. Concedetele questo e l’industria privata farà miracoli. Miracolo non ultimo, la risurrezione economica di Napoli, che sta tanto a cuore – e bene a ragione – al Nitti. Quando le classi dirigenti, e quando le masse lavoratrici si accorgeranno che qui sta un problema ben più grave e solenne delle misere dispute in che paiono dilettarsi?

 

 



[1] Col titolo Un pericolo per l’Italia. Dispute vane e questioni gravi [ndr]

Il significato dell’elezione odierna di Milano

Il significato dell’elezione odierna di Milano

«La Stampa», 29 dicembre 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 451-453

 

 

Oggi nei comizi elettorali di Milano uscirà novamente trionfante dalle urne il nome di Turati.

 

 

Nessuno ha osato cimentarsi con lui; non un candidato hanno potuto trovare i socialisti rivoluzionari che tanto furono flagellati dallo spirito mordace e tagliente di Turati, e non un candidato vollero trovare gli altri partiti, repubblicano, radicale e conservatore, consapevoli che Milano intende rendere omaggio alla fermezza del carattere ed alla nobiltà degli intendimenti del deputato dimissionario.

 

 

Malgrado l’unanimità dei voti ed il plebiscito di affetto e di fiducia che gli elettori del quinto collegio milanese gli tributeranno, l’eletto non accetterà di ritornare al suo seggio nella camera.

 

 

Né a noi spetta di giudicare un proposito, oramai incrollabile e radicato nell’animo di Turati dalla persuasione di fare cosa più utile a sé, al suo partito ed al paese rimanendo, lontano dalle radunanze parlamentari, a battagliare nei comizi e nei giornali socialisti.

 

 

In fondo però il rifiuto dell’eletto è un incidente secondario nell’avvenimento di oggi. Il quale ha per se medesimo una significazione altissima che a noi importa di rilevare, e che oltrepassa la simpatia per le qualità geniali ed il carattere fermo dell’eletto plebiscitario d’oggi e va al di là del funambulismo di chi, dopo averne provocate, come il Ferri, le dimissioni, osò discorrere a lungo per raccomandare – ed era raccomandazione inutile – di rieleggerlo.

 

 

La rielezione d’oggi vuol dire infatti che i socialisti milanesi hanno compreso che il nome di Turati era un programma, – un programma non di rivoluzione, ma di progresso pacifico e di riforme pazienti; – hanno compreso che il socialismo, se vuole compiere una funzione utile nella società italiana contemporanea, deve abbandonare le violenze di linguaggio ed i propositi vaghi per trasformarsi in un partito operoso di controllo e di sprone; ed hanno voluto sventolare questo programma, facendone segnacolo in vessillo il nome di Turati.

 

 

Noi ne dobbiamo essere lieti; perché, a quanti hanno in pregio lo svolgimento ordinato e pacifico delle istituzioni, a quanti vogliono conciliare il progresso colla tutela dell’ordine e della libertà per tutte le classi, deve essere di lieto presagio codesta trasformazione del socialismo rivoluzionario e incertamente violento nei propositi in una democrazia intenta al progresso per vie legali delle classi più numerose.

 

 

Né siamo soli ad essere d’opinione che meglio giovi al bene della patria il trionfo di un socialista riformatore che non il trionfo di un socialista scamiciato. I giornali di Milano, apertamente o tacitamente, palesano che la maggior parte e la parte più sana delle classi dirigenti milanesi pensa nello stesso modo. Passato è il tempo in cui si sperava di riconquistare favore presso gli elettori grazie agli eccessi ed agli spropositi degli avversari. Ora si crede che ai difensori di un qualsiasi ideale giova sovratutto dover combattere con avversari leali e corretti nella lotta delle idee.

 

 

Come dicemmo, tutti i giornali di Milano esprimono la medesima idea; ma è specialmente sintomatico notare come ieri il «Secolo» abbia abbandonato il contegno neutrale verso i dissidi socialisti ed abbia apertamente preso posizione a favore di Turati contro Ferri. Acerbi e meritati consigli dà il «Secolo» al deputato di Ravenna secondo, sì da invocare persino contro di lui un boicottaggio di tre mesi da parte della stampa italiana.

 

 

Sottile punizione per chi tanto è avido di fama e di rumore attorno alla propria persona; ma più significante è il parallelo che il giornale popolare milanese traccia fra Turati e Ferri, a dar ragione del proprio compiacimento che gli elettori del quinto collegio vogliano rieleggere oggi il loro antico rappresentante. Gli elettori di Milano, rieleggendo Turati, non faranno soltanto il proprio dovere. Essi diranno altresì ai socialisti italiani ed all’Italia che oggi, col trionfo dello spirito turatiano, si è iniziato un nuovo periodo nel movimento operaio.

 

 

Negligenza colpevole

Negligenza colpevole

«La Stampa», 30 novembre 1901

 

 

 

 

«La Camera non è in numero», ha annunciato il presidente nella seduta dell’altro giorno.

 

 

È quasi a noi venne vaghezza di riandare la raccolta della Stampa per copiare e ripubblicare un articolo che su questo doloroso fenomeno della nostra vita parlamentare avemmo occasione di scrivere l’anno scorso.

 

 

In verità che altro possiamo fare noi fuorché ripetere per la ennesima volta il cordoglio provato nello scorgere la Camera mancare di assiduità nell’adempimento del suo principalissimo dovere?

 

 

Sennonché il male, col frequente riprodursi, inciprignisce. Stavolta si poteva legittimamente sperare che i deputati non potessero trovare alcun ragionevole pretesto alla loro mancanza di puntualità.

 

 

I lavori parlamentari erano stati inaugurati in una data tardissima ed erano stati ridotti al minimo possibile: tre settimane in tutto.

 

 

L’ordine del giorno era stato sbarazzato dal solito strascico della discussione dei bilanci preventivi, che negli anni decorsi si prolungava per tutto novembre e tutto dicembre, colla serqua ben nota di discorsi accademici e di raccomandazioni noiose fatte da ogni deputato a favore della scuola, della caserma, della strada, della ferrovia, ecc., ecc., del proprio Collegio.

 

 

Ed il campo era lasciato libero ad interrogazioni ed interpellanze importanti sulla nostra politica interna ed estera, ai progetti di legislazione sociale e di riforma tributaria da anni ed anni ardentemente invocati da tutte le parti politiche nel Parlamento italiano.

 

 

Si sarebbe potuto sperare quindi un concorso largo di deputati a discutere ed a battagliare su un programma di lavori così attraente.

 

 

Invece niente di tutto questo. I partiti parlamentari di governo e di opposizione (se pur si può dire che partiti vi siano), trovano modo di attaccar briga su un punto insignificante: l’annessione del Comune di San Giovanni al Comune di Sestri. Quando poi si vuol vedere, colla prova dei voti, quale dei due opposti pareri ha ragione, la Camera non risulta in numero.

 

 

Davvero che per così sconfortante risultato non meritava la pena di riconvocare la Camera nemmeno tanto tardi. Gli antichi abiti di faziosità e di lotte partigiane e di pettegolezzi personali non sono dunque ancora spenti. Si può essere sicuri che appena sarà in vista qualche grosso scandalo, o qualche interpellanza giudicata pericolosa per la vita del Ministero, l’aula di Montecitorio sarà affollatissima.

 

 

Ma per la tratta degli schiavi nell’Eritrea, o l’acquisto della galleria Borghese, o l’esposizione finanziaria o la discussione sull’Ufficio del lavoro non vale la pena di scomodarsi. Eh! via, è troppo poco!

 

 

In questo modo la vita del Parlamento si strania sempre più dalla vita del Paese.

 

 

Quelli che vivono negli affari e nel lavoro quotidiano non capiscono a che cosa servano codesti signori che non intervengono alle sedute della Camera e che vogliono ciononostante preponderare su tutte le Amministrazioni pubbliche, e che pretendono di essere tutto e di potere tutto.

 

 

Questi sono le impressioni del Paese, il quale sente rinascere in sé quel senso di pessimismo che una lunga esperienza gli aveva radicato nell’animo; ma che pareva svanito in virtù della speranza di un nuovo periodo di lavoro tranquillo e fecondo e concorde.

 

 

È dovere della Camera di soffocare, sin dal suo primo rigermogliare, codesto sentimento pessimistico; poiché, se la nuova esperienza lo radicasse ancora una volta, nessuna forza umana basterebbe a toglierlo.

La nominatività dei titoli

La nominatività dei titoli

«La Stampa», 24 e 27[1] novembre 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 445-450

 

 

I

 

Un telegramma alla «Stampa» da Roma, 23, ore 22 dice:

 

 

Il «Giornale d’Italia» riconferma, malgrado le smentite, che nel consiglio dei ministri domani si discuterà se si debbano rendere o no nominativi i titoli industriali.

 

 

La proposta nominatività dei titoli delle società anonime acquista terreno alla camera. Ho domandato a Maggiorino Ferraris che pensava di questa innovazione, ed egli mi ha dichiarato che è ad essa favorevolissimo. Mi ha ricordato che nel congresso economico, tenuto nella vostra città nel 1893, egli sostenne ardentemente una proposta in quel senso, che il congresso dopo viva controversia approvò.

 

 

Nella commissione dei quindici, nominata dalla camera per esaminare i provvedimenti finanziari del gabinetto Saracco, Maggiorino Ferraris rinnovò i suoi sforzi pel trionfo della nominatività dei titoli.

 

 

Egli fermamente convinto che sia questo un provvedimento di sana morale, il più adatto a frenare le truffe a cui sogliono talvolta abbandonarsi, con piena irresponsabilità, talune società anonime. Con le azioni al portatore, niente è più facile che distribuire un certo numero di azioni a nove o dieci teste di legno per far loro rappresentare nell’assemblea la parte che si vuole, e far figurare come approvati anche i bilanci o le deliberazioni più scorretti e più rovinosi.

 

 

Il deputato d’Acqui è convinto che le società anonime prenderanno il loro assetto normale e rispettabile quando i loro titoli saranno nominativi. Egli è talmente convinto della bontà della riforma, che mi ha detto queste parole: «Se il ministero proponesse un provvedimento a mio giudizio meno buono e lo accompagnasse con l’altro della nominatività dei titoli, subirei il primo pur di assicurare il trionfo del secondo».

 

 

Ho voluto citarvi l’opinione del Ferraris, non solo perché egli in siffatta materia ha competenza indiscutibile, ma perché non è l’opinione d’un ministeriale puro, ma sì d’un indipendente, lontano dai gruppi e dalle chiesuole.

S.

 

 

La crescente favorevole accoglienza nella camera alla proposta nominatività obbligatoria dei titoli industriali corrisponde ad un desiderio sentito dei finanzieri italiani.

 

 

Gli studiosi della pubblica finanza sono impressionati dal fatto che soltanto la ricchezza immobiliare sottostà all’intero tributo che per legge la colpisce, mentre la ricchezza mobiliare vi sfugge in un modo o nell’altro. Le terre e le case non si possono nascondere da un erede agli occhi del fisco; mentre con tutta facilità i titoli al portatore possono essere occultati e sottratti all’imposta.

 

 

La quota d’imposta che avrebbero dovuto pagare i titoli al portatore viene perciò a gravare la ricchezza immobiliare, già duramente colpita. Di qui l’ingiustizia stridente che gli agricoltori, i proprietari di case, piccoli e grossi, che il miserabile tugurio del contadino siciliano od il minuscolo straccio di terra dell’alpigiano piemontese siano oberati di balzelli, mentre i ricchi possessori di rendita, i capitalisti detentori di titoli industriali, i banchieri che negoziano il denaro sfuggono quasi del tutto ai tributi.

 

 

Né, si osserva, il male è di modeste dimensioni. L’on. Gagliardo riconosceva sino dal 1892 che nelle sole casse di risparmio ordinarie si raccoglievano su libretti rimborsabili al portatore 1.200 milioni, che, suddivisi per il numero degli anni costituenti la media sopravvivenza dell’erede o legatario a coloro, che morendo lasciano beni, dovrebbero annualmente concorrere alla tassa di successione con l’imponibile di 33 milioni, mentre contribuiscono per un 2 o 3 milioni appena. Aggiungeva l’on. Gagliardo che il capitale effettivo delle azioni, obbligazioni ed ogni altro titolo negoziabile, esclusi i titoli di stato, poteva, nel 1892, valutarsi in 5.500 milioni, di cui almeno due terzi (cioè 3.600 milioni) al portatore, che avrebbero dovuto contribuire all’imposta ereditaria mediante 100 milioni all’anno, mentre non vi contribuivano che per 10 milioni appena. Il debito pubblico dello stato al portatore ammonta a circa 6.700 milioni, che dovrebbero contribuire all’imponibile della tassa di successione per circa altri 100 milioni, mentre ne offrono non più di 15 o 16. Nel 1892, insomma, ben 8.500 milioni di ricchezza mobiliare sfuggivano all’imposta sulle successioni a cui sottraevano nientemeno che un imponibile di 204 milioni annui. Più recentemente il ministro Rubini, nella esposizione finanziaria del 2 dicembre 1900, calcolava che ad 8 miliardi ascendessero i titoli al portatore, di stato e privati, che si trovano nel regno e che di essi ben 6 miliardi e 500 milioni sfuggissero all’imposta ereditaria.

 

 

La nominatività dei titoli industriali avrebbe per intento di ovviare a siffatto danno. Nessuno più potrebbe occultare i titoli, i quali fossero resi nominativi e sarebbe tolta la stridente ingiustizia a cui si accennava innanzi. Più ancora, aggiungesi, con siffatta legge sarà facile correggere quello che v’è di abusivo e di pericoloso nelle speculazioni della borsa. Quivi sogliono spesso organizzarsi, per tutt’altri fini che quello di un onesto commercio, vere campagne, sia per esaltare un titolo, sia per deprimerne un altro; essendo tutte basate sul vuoto e d’ordinario anche su titoli che neppure esistono, riesce facile agli speculatori, se bene organizzati, di portare alle stelle un titolo che non lo merita o di deprimerne un altro solido e rispettabile. Questo sistema è un veleno per il credito, giacché la gente seria che ha denari da impiegare si guarda bene di metterli in valori che possono dar luogo a così febbrili agitazioni. La nominatività dei titoli frenerà codesti abusi ed imprimerà ai giuochi di borsa una impronta più sana e morale.

 

 

Questi gli argomenti con cui si propugna la voluta riforma fiscale; né essi mancano di peso. Indubbia e veramente stridente è l’ingiustizia dell’esenzione dall’imposta, specialmente ereditaria, della ricchezza mobiliare. Ma il porre riparo a siffatta ingiustizia è ardua impresa, a cui indarno si cimentarono finanzieri insigni. La proposta del ministro Carcano risolve convenientemente il quesito?

 

 

II

 

Un telegramma da Roma, 26, ore 21, al giornale dice:

 

 

Credo utile di spiegarvi come è avvenuto il lieve cambiamento introdotto dal consiglio dei ministri nella parte dei provvedimenti finanziari che riguarda la nominatività dei titoli delle società industriali.

 

 

L’imporla a tutte indistintamente le società parve al Cocco-Ortu fosse contrario alle tassative disposizioni del codice di commercio per quello che riguarda le società anonime. Poiché la questione apparve subito di gran momento, fu osservato che l’innovazione avrebbe immancabilmente suscitato alla camera una lunga controversia.

 

 

Per ciò fu adottato un temperamento mediante il quale si comincia ad introdurre nella nostra legislazione il principio della nominatività, accordandole un premio.

 

 

La più comune obiezione che si suol fare alla novità è che per essa s’inceppa il movimento dei valori industriali. A questo proposito posso dirvi che il Carcano prima di risolversi ha interpellato la Banca d’Italia, i cui titoli sono nominativi, per sapere se i trapassi di proprietà delle azioni erano agevoli od erano turbati dalla nominatività.

 

 

La risposta del comm. Stringher fu che nel corso di un anno molte migliaia d’azioni passano da un proprietario ad un altro e che ciò si effettua senza il menomo inconveniente.

 

 

Dopo tutto, a noi il temperamento accolto dal consiglio dei ministri sembra migliore del primitivo disegno dell’on. Carcano di rendere obbligatoria la nominatività dei titoli.

 

 

Già lo dicemmo: il rendere nominativi i titoli industriali ed anche i titoli di rendita corrisponde ad esigenze di giustizia tributaria, affinché tutti i patrimoni e tutti i redditi vengano egualmente colpiti dall’imposta e nessuno possa a questa sfuggire rovesciandola su altri meno fortunati. Ora dobbiamo aggiungere che se la giustizia astratta questo vuole, la pratica tributaria ha esigenze alquanto diverse.

 

 

Né è il solo caso in cui giustizia astratta e convenienza pratica contrastano. Anzi il caso più comune è che le imposte più giuste teoricamente non possano essere adottate perché riuscirebbero vessatorie ed opprimenti. Che cosa vi è di più giusto in apparenza dell’imposta unica sul reddito? Eppure nessuna persona sana di mente oserebbe consigliarla sul serio, in primo luogo perché condurrebbe alla bancarotta dello stato ed in secondo luogo perché dovrebbe essere ad aliquota altissima, sì da raggiungere il massimo di vessazione.

 

 

Così è della nominatività dei titoli. Sarebbe certo una bella cosa che la proprietà mobile pagasse come la immobile; ma siccome come quella è di sua natura fluida, inafferrabile, invisibile, così bisogna rassegnarsi a lasciarla sfuggire parzialmente tra le maglie delle leggi tributarie; a meno di togliere alla proprietà mobile i pregi suoi peculiari e di ridurla suppergiù alla condizione della proprietà immobiliare.

 

 

Se questo si vuole, è mestiere dirlo chiaramente. Chi bada ai grandi fenomeni della storia contemporanea sa che una delle più potenti molle di progresso è stata ed è ancora il capitale anonimo, che si congrega da mille parti senza dire la sua provenienza, che si nasconde senza dire dove va, che crea le grandi imprese con capitali che non si sa a chi appartengano.

 

 

Togliete la anonimità al capitale, abolite la sua quasi completa irresponsabilità e voi avrete forse compiuta un’opera di giustizia astratta, ma avrete altresì distrutto uno dei più mirabili congegni di lotta e di vittoria economica.

 

 

Si dice: l’azione anonima al portatore crea la speculazione fittizia, crea gli aggiotaggi, le rovine bancarie, la sfiducia verso le grandi imprese che troppo spesso sono retate di ingenui pesciolini. Si potrebbe forse rispondere che tutte codeste sono esagerazioni inverosimili, che le disonestà di borsa e di banca sono piccoli incidenti di fronte agli immensi benefizi che la mobilità del capitale apporta; che in altri paesi si ebbero le stesse lagnanze, ora di moda da noi, e non vi si diede retta; che la speculazione è maledetta da chi non la conosce e rimpianta amaramente da quei popoli (vedesi la Germania) che con leggi pretesero scioccamente di liberarsene.

 

 

Basterà notare soltanto che se nelle borse e nelle banche italiane esiste del marcio, se la gente ama lasciarsi portare via i quattrini di saccoccia, non varrà certo la nominatività dei titoli a togliere di mezzo il malanno. Ben altro ci vuole. Una legge non basta a far sì che la gente diventi più intraprendente, più accorta, più atta a sapere impiegare i proprii capitali.

 

 

La agevolezza con cui si accolse il temperamento escogitato dal Di Broglio dimostra che in fondo non era il desiderio di arrecare un beneficio agli azionisti-allodole quello che spingeva a volere la nominatività dei titoli, ma che questo era soltanto un pretesto per mettere una nuova imposta, motivandola con sedicenti ragioni umanitarie.

 

 

Il nodo della questione sta in ciò, che l’aumento proposto di 60 centesimi renderà allo stato un due milioni di lire all’anno di più.

 

 

Vale la pena di cominciare un programma di sgravi proponendo una maggiore imposta; e la attrattiva dei due milioni e la chimera di acchiappare la proprietà mobiliare sono sufficienti a compensare l’Italia dei danni che le verranno dal nuovo ostacolo posto all’immigrazione dei capitali stranieri?

 

 

Questo invero sarà l’effetto più sicuro e tangibile della nuova imposta. Già abbiamo l’aggio, la malafede dei debitori, la lentezza delle procedure giudiziarie, le lungaggini interminabili dei trapassi di proprietà e delle concessioni governative a tenere lontani i capitali stranieri che vorrebbero venire a creare ricchezza e distribuire lavoro. Quasi ciò non bastasse, ora vi aggiungiamo un nuovo inasprimento della tassa di circolazione. È sempre il criterio stravagante dei popoli invidiosi: dove si preferisce che tutti muoiano di fame, a patto che nessuno abbia cibo a sufficienza e non si vede che meglio sarebbe permettere ad alcuni di arricchire quando gli altri potessero essere almeno sazi.

 

 

Così noi, per mettere nelle casse dello stato due milioni all’anno, per avere la soddisfazione di poter dire che le imposte sono egualmente oppressive per tutti e non lasciano per spirito di giustizia nessuno esente e per tener lontane dalle borse la lue della speculazione, diamo ai capitalisti dubitosi un nuovo motivo per andare ad impiantare altrove le loro imprese.

 

 

Tutto ciò non solo è molto strano; ma è inconcepibile che possa passare come un pensiero di democrazia e di giustizia. Tra il buon senso che fa largo ai milioni e non li tartassa con imposte, quando sa che altrimenti i milioni se n’andrebbero via o non verrebbero affatto, e la giustizia cosidetta democratica che rinuncia ai milioni inafferrabili della proprietà mobile pur di poter dire che l’imposta è uguale per tutti, noi stiamo col primo.

 

 



[1] Col titolo Giustizia e pratica tributaria [ndr]

Un appello all’azione pratica

Un appello all’azione pratica

«La Stampa», 28 ottobre 1901

 

 

 

 

Il discorso che l’on. De Marinis ha pronunciato allo Scoglio di Frisio l’altra sera è un sintomo interessante dello stato di crisi che attraversa il partito socialista italiano.

 

 

Proprio da Napoli, ossia dalla città la quale raccoglie il gruppo di giovani più contrari alla politica ministeriale del socialismo parlamentare italiano, viene una voce che proclama l’adesione alla monarchia. L’onorevole De Marinis è uomo imbevuto delle dottrine sociologiche moderne, abituato ad andare oltre alla distinzione formale tra monarchia e repubblica. Illogico ed improficuo a lui sembra perciò l’atteggiamento di ostilità preconcetta e di pregiudiziale battagliera contro la repubblica. Ed invoca che lo Stato rispetti innanzitutto le pubbliche libertà, tra cui la libertà di organizzazione di classe, e che nei pacifici e fecondi conflitti economici nel campo di una stessa classe sociale e tra borghesia e lavoratori rispetti la neutralità economica.

 

 

È tutto un nuovo programma pratico ed operoso che l’on. De Marinis addita ai socialisti d’Italia: dalla riforma tributaria alla questione napoletana, dalla politica interna a quella politica estera di cui sino a poco fa gli estremi affettavano di non volere occuparsi.

 

 

Ed è notevole come nella discussione dei disegni di riforma tributaria il De Marinis si accosti a quei concetti di prudenza che furono spesso difesi su queste colonne e che trovarono recentemente sostenitore efficace un ex-presidente del Consiglio, l’on. Di Rudinì.

 

 

Anche l’on. De Marinis ritiene che occorra oggi subordinare questa riforma al fatto della conversione della Rendita, perché sarebbe dannevole una riforma tributaria che, o per la sua parzialità e unilateralità o per errori intrinseci, danneggiasse il bilancio dello Stato e il credito del Paese in modo da allontanare il provvedimento della conversione della Rendita, che oggi, se turbamenti non avvengono fuori e dentro il Paese, non sembra lontano, e che, portando la Rendita al 3 1/2 netto, farebbe risparmiare allo Stato 60 milioni annui.

 

 

In verità non sembra nemmeno più di trovarci dinanzi ad un socialista, per quanto scomunicato. Il programma del De Marinis è il programma di un partito di governo radicale, da cui è possibile il dissenso, ma al quale non si può disconoscere una grande praticità di intenti.

 

 

Forse appunto per ciò questo programma non troverà larga accoglienza fra i socialisti militanti, ancora innamorati della lotta puramente politica e della propaganda elettorale. Ma da molti segni si vede che l’on. De Marinis ha lasciato nel gruppo da cui è uscito molti che hanno le sue stesse idee e vogliono anch’essi operare praticamente a favore delle classi lavoratrici.

 

 

A Milano il dissidio tra unionisti e federalisti – dissidio non ancora composto, a quanto dicono le ultime notizie – ha messo in luce come di fronte al gruppo degli impulsivi e dei lottatori politici si sia costituito un nucleo di persone desiderose di iniziare un’azione nuova, feconda di risultati pratici.

 

 

«La nuova orientazione politica dello Stato – scrivono i socialisti della Lotta di Classe – e quel tanto di relativa libertà che l’opera nostra e le condizioni generali d’Italia ci hanno guadagnata, ma che vuol essere ancora tutelata dalla gelosa vigilanza nostra, impone al partito socialista nuovi o più difficili doveri di pensiero e di azione. Attenuatasi l’urgenza della immediata difesa, quindi comincia l’integrale e positivo compito suo».

 

 

Le parole del giornale milanese rispondono alle parole che vengono da Napoli. Ma se il De Marinis è libero ormai, dopo la sua scomunica, di pensare a modo suo, gli intellettuali milanesi devono convincere le masse, se non vogliono che i loro desideri rimangano vane aspirazioni. Essi non possono rimanere individui dispersi, devono diventare un partito.

 

 

Da chi sarà composto mai quel tal partito socialista cui i fatti nuovi impongono «nuovi e più difficili doveri di pensiero e di azione»?

 

 

Perché bisogna pure riflettere che se il gruppo socialista milanese, il quale è il più vecchio di formazione, di esperienza, di sviluppo, tanto che è stato ritenuto il più «cosciente» – come si direbbe in linguaggio proletario – di tutta Italia; se questo tal partito milanese, che servì di incitamento e di esempio a tutti gli altri della Penisola, traversa dopo tanti anni una crisi morale così profonda e significante, gli altri gruppi socialisti non saranno né meglio costituiti né più evoluti. Infatti, l’ambiente onde i varii gruppi socialisti del nostro Paese vennero sorgendo o è di molto arretrato di fronte a Milano, come, per esempio, nel Mezzogiorno, o è analogo, come in alcuni luoghi del Settentrione.

 

 

E allora?

 

 

E allora è tempo, ci sembra, che i migliori del partito, gli intellettuali – contro cui si leva l’istinto della folla – mettano proprio da un canto le sovrabbondanze di una facile presunzione, e ravvisino come immediato e positivo compito loro l’educazione di quelle masse che li combattono e mostrano di volerli abbandonare – come oggi avviene a Milano – quando alla «ubriacatura delle frasi» essi vogliano sostituire l’intelligenza della realità.

Lo sciopero nel biellese

Lo sciopero nel biellese

«La Stampa», 24 ottobre[1] e 3 novembre[2] 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 435-444

 

 

I

 

A Biella e nei dintorni ci sono circa 7.000 operai in isciopero. Questo è ciò che si sente dire e che, si può sapere facendo il calcolo delle fabbriche dove il lavoro è stato abbandonato.

 

 

Per ora siamo ancora nel periodo in cui le due parti si guardano un po’ di traverso, aspettando che l’altra si muova. Gli animi non sono punto esacerbati. Tutt’altro. I biellesi sono sempre stati molto pratici e dotati di buon senso. Anche stavolta essi litigano, ma su questioni di principio. I punti controversi su cui l’accomodamento era più facile sono stati messi da parte, perché si riconosce che industriali ed operai riescirebbero al primo colloquio a mettersi d’accordo. Così, ad esempio, gli operai chiedono che nella fabbrica Cerruti si introduca la macchinetta contacolpi, per togliere ogni ragione di contesa tra operai ed operaie che si succedono allo stesso telaio, ed ogni possibilità di errori da parte del misuratore. I Cerruti hanno offerto di introdurre cinque macchinette in prova. È qualcosa. In seguito le adotteranno certo per tutti i telai, poiché gli industriali che già le adoperano se ne trovano contentissimi.

 

 

Gli operai chiedevano che fosse abolita una ritenuta del 5% sui salari, che i ritardi fossero multati con 0,10 uniformemente, e non con 0,20, come accadeva per certuni, e su questo i principali sono disposti a cedere. Gli operai non vogliono che il lavoro festivo sia obbligatorio e gli imprenditori riconoscono che la richiesta è ragionevole. Gli operai desiderano che il salario per ogni mille colpi venga rialzato, specie per i telai biciclette, i quali lavorano molto più velocemente degli altri, sino 120 colpi invece di 80, e gli industriali non ne fanno una questione di principio, riconoscendo che il prezzo del lavoro deve essere fissato caso per caso, a norma delle difficoltà del lavoro, della velocità delle macchine, del tessuto fine o grossolano, della materia prima, ecc. ecc.

 

 

Tutte queste sono questioni secondarie; la lotta molto interessante che ora si dibatte tra operai ed industriali del Biellese verte su questioni di principio. Le quali sono due. Vogliono gli operai che siano aboliti i telai doppi in uso da sei o sette anni nella fabbrica Cerruti, e di cui si teme l’introduzione pure nelle altre fabbriche, e vogliono eziandio che gli industriali non possano licenziare alcun operaio senza motivi giustificati. E gli industriali fieramente respingono amendue le pretese.

 

 

Le parti contendenti sostengono i loro desiderii con le armi modernissime della solidarietà. Da più lunga data solidali gli operai, che posseggono una Unione operaia pannilana del Biellese, forte di numerosi soci, cresciuti via via in ogni successivo sciopero, ed aumentata in quest’ultimo tempo di forse un cinquecento nuove reclute, raccolte a Biella medesima, e sovratutto a Pollone, a Sordevolo, fra gli operai e le operaie, che sinora eransi mantenute estranee al movimento di organizzazione. L’unione, scoppiato lo sciopero contro i telai doppi nella fabbrica Cerruti, lo fece estendere agli altri opifici, poiché ritenne che inutile sarebbe stato ogni sforzo contro i Cerruti se le pezze di panno di costoro fossero finite da altri fabbricanti.

 

 

Contro gli operai si costituì la lega degli industriali, la quale comprende le fabbriche di pannilana, di cotone e di maglierie. È questo un fatto nuovo, almeno nella sua applicazione. Già altre volte i principali avevano avuto l’idea della lega, ma poi l’avevano lasciata cadere. Adesso si convinsero che l’accordo era necessario contro le leghe operaie, le quali usavano la politica di far cadere ad una ad una le fabbriche, giovandosi della loro discordia. Uniti in lega, gli industriali possono più facilmente opporsi agli operai, obbligandoli a scioperare tutti insieme. È questa una tattica che conduce agli scioperi giganti. Prima gli operai d’una sola fabbrica scioperavano ed erano sovvenuti dagli operai delle altre fabbriche che rimanevano attive. Adesso gli industriali, obbligando gli operai a finire i panni della fabbrica Cerruti, hanno spinto (e ciò essi prevedevano fin dapprima) gli operai di tutte le fabbriche ad abbandonare il lavoro, confidando che in tal modo gli operai, disoccupati tutti e senza possibilità di ricevere soccorso dai compagni lavoranti, si sarebbero arresi più presto. La tattica è molto comune nei paesi anglo – sassoni; ed è indubbiamente la conseguenza logica dello spirito che informa le organizzazioni operaie.

 

 

La lega degli industriali ha limiti abbastanza ben definiti. Limiti di luogo, poiché si estende soltanto alle valli del Cervo e di Coggiola. Gli industriali della val Mosso si sono sempre rifiutati a farne parte, poiché essi, che pagano cara la mano d’opera, vorrebbero prima vedere gli industriali delle vicinanze di Biella, ad esempio Pollone, rialzare il prezzo della mano d’opera, che oggi è molto più basso. Limiti di materia, poiché la lega non si occupa di fissare le condizioni interne del lavoro; non vuole regolare le tariffe dei salari; ma si occupa soltanto di quelle questioni di principio che interessano tutti i fabbricanti.

 

 

Sono appunto, come dicemmo, due questioni di principio che fanno ora battagliare le opposte leghe.

 

 

Prima la questione dei telai doppi, che i Cerruti soli hanno introdotto da parecchio tempo per eseguire lavori fini. I telai doppi sono due telai semplici, voltati uno in faccia all’altro, in modo che l’operaio sta in mezzo ed attende contemporaneamente ad amendue. Essi sono molto usati in Inghilterra, in Belgio, dove, ad esempio, gli operai della ditta Centner, di Verviers, che prima avevano scioperato, se ne trovano contenti per il maggior guadagno che ne ricavano.

 

 

«Noi – dicono gli industriali – non possiamo assolutamente consentire che gli operai ci contendano il diritto di valerci di un sistema di lavoro che rappresenta un miglioramento industriale, che riduce il costo di produzione e ci permette di sostenere meglio la concorrenza coll’estero. Lo sciopero è una vera guerra contro la macchina, una lotta reazionaria contro il progresso. Noi perciò vogliamo, d’accordo, sostenere il principio che l’imprenditore sia padrone di adottare quei congegni di produzione che più gli sembrano adatti a vincere. È vero che gli operai lavorano di più, ma guadagnano anche maggiormente, più del doppio dei tessitori ad un telaio solo».

 

 

Posto in tali termini il problema, non parrebbe possibile alcun dubbio. Gli operai avrebbero gran torto a volere ostacolare un progresso dell’industria. Non solo avrebbero torto, ma la loro sarebbe una resistenza vana, destinata a frangersi contro le ragioni ineluttabili della concorrenza. Chi interroga gli operai, non dura fatica però ad accorgersi che la sostanza della cosa non è la lotta contro la macchina, ma è tutta diversa. Vi sono, è vero, alcuni operai, più degli altri ardenti, i quali gridano contro gli industriali che vogliono arricchirsi a loro spalle coi telai doppi, e dicono che ogni operaio deve attendere ad un telaio solo e nulla più, che così è naturale e che vada alla malora il progresso quando conduce ad un risultato diverso. Ma in fondo la maggioranza ragiona come quella tessitrice, la cui frase è veramente tipica: Niente telaio che va per conto dei padroni. Gli operai, cioè, non si ribellano se non in apparenza contro il miglioramento industriale del telaio doppio; essi sono malcontenti del miglioramento che avvantaggia soltanto i principali, ed a loro reca danno. Il telaio doppio è certo vantaggioso agli industriali, i quali, a quanto mi si dice, pagano 12 centesimi per ogni mille colpi di spola sia il tessitore che attende ad un telaio come quello che attende a due; e risparmiano così sulla mano d’opera.

 

 

«Ma il telaio doppio – dicono gli operai – ci è dannoso, perché colui il quale vi è preposto non può prestare ad ognuno dei due telai l’attenzione che vi presterebbe se accudisse ad uno solo. Forza è quindi che sui telai doppi si tessano panni di filo migliore, più resistente, meno facile a rompersi, più semplici, senza disegni, tali, insomma, da richiedere meno attenzione dal tessitore. Ne viene che ai tessitori dei telai semplici rimane da tessere solo la materia prima più cattiva, meno resistente. Spesso ci rimane solo della polvere che bisogna tessere, roba di scarto, tenuta insieme colla colla, e che ad ogni momento si rompe. Di qui la conseguenza che da un lato gli operai dei telai doppi, avendo un lavoro più spedito per le mani, guadagnano delle quindicine di 55-70 e fino di 80-85 lire, mentre gli operai dei telai semplici devono contentarsi di 15-20 lire a causa della materia prima da lavorare, che diventa sempre più cattiva perché la buona va ai telai doppi. Non sono tutt’oro nemmeno quelle grosse quindicine di 60-80 lire; poiché i tessitori non possono durare più di tre anni al lavoro vertiginoso dei telai doppi, e presto si vedono la salute rovinata. Vi sono delle ragazze che dovettero già andare in cura ad Oropa».

 

 

Non pare che la quistione sia tale da non potersi risolvere. Ciò di cui temono sovratutto gli operai è che, una volta generalizzato il telaio doppio, vi siano molti operai buttati sul lastrico, i quali, premendo colla offerta di braccia disoccupate, facciano ridurre i salari da quelli che lavorino ancora. Certamente il timore sarebbe giustificato se i telai doppi fossero d’un tratto introdotti dappertutto, prima che il ribasso generalizzato del costo di produzione e dei prezzi, che l’accrescersi delle domande di pannilana per altre cause, ecc. ecc., avessero potuto far aumentare la produzione. La crisi momentanea sarebbe certamente dura.

 

 

Non è da credersi però che i telai doppi si possano così d’un subito generalizzare. Senza dubbio si estenderanno, un po’ per volta, ai lavori, facili, uniformi, dove la materia prima è buona, lasciando ai telai semplici i lavori fini, complicati e la materia prima di scarto, per cui un operaio a gran fatica riesce a tener dietro ad un telaio solo. Se gli industriali dessero affidamento:

  • di volere introdurre i telai doppi gradatamente, in modo da non produrre crisi repentina di lavoro;
  • di volere tener conto del fatto che il doppio telaio richiede una maggior dose d’attenzione e forza fisica, e quindi di voler occuparvi solo operai scelti, capaci di adattarvisi permanentemente e pagarli per ogni mille colpi più di ciò che normalmente si dà per il telaio semplice;
  • di tener conto, con un accrescimento di salario, del fatto che ai telai semplici rimane solo roba cattiva – se così veramente accade sempre – più difficile a tessere;

se gli industriali, ripeto, dessero codesto affidamento, avrebbero torto gli operai a continuare in una contesa che verrebbe davvero ad assumere il carattere di una lotta contro il progresso. Non è probabile che, date quelle premesse, gli operai vorrebbero prolungare la resistenza. Non manca tra essi chi fa sentire voci di moderazione, chi chiaramente espone agli operai come sia nel loro diritto e nel loro interesse di pretendere un guadagno dai perfezionamenti industriali novellamente introdotti, – che agli operai costano un maggior dispendio di forza fisica e nervosa, – ma come avrebbero torto ad opporsi a codesti progressi, col danno sì degli industriali, ma anche col danno proprio.

 

 

È una questione di buon senso e di tatto; e di buon senso i biellesi ne hanno molto; mentre vanno altresì acquistando quelle qualità di reciproco rispetto che conducono alle risoluzioni soddisfacenti delle questioni di lavoro. Vi sono ancora industriali rozzi, avidi di guadagno, che non si preoccupano affatto delle sorti e dei sentimenti della maestranza; ma vi sono anche industriali i quali sono animati da uno spirito più largo, che riconoscono il bene prodotto dalle leghe, calmando molti piccoli scioperi parziali ingiustificati, che consentono alla necessità di prolungare il termine del preavviso per il licenziamento da otto giorni a quindici giorni od un mese, per ragioni di opportunità e di umanità. Vi sono ancora operai che sprecano troppo a bere di domenica e sbraitano poi contro i telai doppi ed i capitalisti dissanguatori; ma ve ne sono altri che ritengono doveroso educare meglio se stessi per poter rendersi atti a secondare l’industriale nei proprii perfezionamenti.

 

 

Un uguale spirito di moderazione reciproca dovrebbe aiutare a risolvere il secondo punto della disputa, che riflette la pretesa degli operai di non essere licenziati senza giusto motivo. Pretesa in se stessa non accettabile, poiché toglierebbe all’industriale la facoltà di scegliere i suoi operai e darebbe al giudice (non si sa come eletto e come competente) il diritto di costringere l’industriale a tenersi una maestranza a lui non gradita.

 

 

Anche qui la sostanza è diversa dalla forma esterna. Gli operai in realtà – a quanto si può capire – non vogliono vietare all’industriale di licenziare chi giudica dannoso alla sua azienda, ma temono che gli industriali si vogliano disfare dei capi del movimento operaio, dei cosidetti sobillatori. «Magari, finito lo sciopero, saremo tutti riammessi, ma poi, alla prima occasione, profittando di qualche lieve mancanza, quelli tra noi che ci furono guida nelle nostre rivendicazioni durante lo sciopero, saranno ad uno ad uno messi alla porta».

 

 

Timore forse non infondato per alcuni casi; contro il quale pare difficile ottenere valida difesa con stipulazioni contrattuali vere e proprie. È difficile tirare la linea di separazione tra i licenziamenti giustificati e quelli che sono la conseguenza di uno sciopero. Spesso gli industriali non possono mettere in piazza i motivi per cui licenziano un operaio, senza pericolo di nuocere a sé e talvolta all’operaio, che sarebbe danneggiato da una motivazione di incapacità.

 

 

Anche qui la soluzione si trova nell’incremento del senso di rispetto reciproco e della conoscenza delle necessità dell’industria moderna. Quando gli industriali si saranno persuasi – ed a Biella qualcuno lo è già – che le trattative devono essere condotte non con gli operai singoli, ma con la collettività operaia, anche vedranno che qualunque provvedimento contro le rappresentanze operaie colpevoli di aver deliberato uno sciopero, contraddice alla necessità di trattare in blocco le questioni del lavoro. Se gli industriali dessero affidamento di non occuparsi delle persone implicate nello sciopero e di non far distinzione tra capi e gregari, questi ultimi non avrebbero più timore di abbandonare la causa dei primi; e la pretesa di togliere all’industriale il diritto di licenziare gli operai sarebbe senz’altro abbandonata.

 

 

Si dirà che le soluzioni indicate alla contesa che affligge le industriose valli biellesi son fondate sul presupposto che operai ed industriali siano di una equanimità e di una moderazione rare a trovarsi quando gli animi sono eccitati dalla lotta. Forse è così. Forse non sarà possibile venire ad un vero e proprio trattato che risolva secondo giustizia codeste questioni. Ma sta il fatto che esse sono state poste; e che già si vedono radicate negli animi, se non di tutti, almeno dei più intelligenti delle due parti, quelle idee che, quando saranno generalizzate, potranno condurre ad una soluzione equa del problema. La contrada che fu detta la Manchester d’Italia, dove sono i più abili tessitori e fabbricanti di pannilana d’Italia, dove prima le leghe di operai e di industriali sorsero e si affermarono con praticità di intenti, sarà anche la prima ad imitare la Manchester d’Inghilterra ed a trasformare le leghe da strumenti di lotta in congegni destinati a trattare con perizia e larghezza di criteri i difficili problemi di organizzazione industriale ed operaia che ora sorgono per la prima volta.

 

 

Allora non nascerà più nemmeno il dubbio che nel Biellese si possa combattere contro la macchina; e tutti saranno lieti che si applichino nelle fabbriche nuove e più perfette invenzioni, perché da esse trarranno equamente vantaggio tutte le classi sociali.

 

 

II

 

A Biella vi sono quattromila operai tessitori e tessitrici che da qualche settimana si sono posti in isciopero per ragioni che sono state ampiamente esposte sulle colonne di questo giornale. Oramai non vi è più alcun dubbio sul modo con il quale la contesa andrà a finire: gli industriali possono essere sicuri della vittoria e far calcolo fin d’ora sulla resa piena ed incondizionata degli operai ai patti che agli industriali piacerà di imporre.

 

 

Non è questo il momento in cui sia opportuno dare un giudizio sul fondamento intrinseco delle ragioni addotte da una parte e dall’altra a sostegno del proprio assunto.

 

 

Questo esame spassionato ed oggettivo già fu fatto; né importa tornarci sopra. Oggi vogliamo rilevare come le lotte economiche sono molto simili alle battaglie di guerra e debbono essere combattute con tutte le regole dell’arte.

 

 

Non basta avere una buona causa per le mani; occorre altresì saper scegliere bene il momento in cui porre la questione sul tappeto. Sotto questo aspetto gli industriali biellesi si trovano in una ottima posizione, poiché gli operai scelsero, per mettersi in isciopero, il momento peggiore che si potesse immaginare: quello in cui le fabbriche lavorano soltanto a finire i campioni e possono con tutta facilità non assumere impegni per la entrante stagione.

 

 

Gli industriali, timorosi di un futuro sciopero generale in momento di ressa, seppero giovarsi dell’errore iniziale commesso dagli operai, dando un’occasione voluta all’allargamento dello sciopero prima limitato ad una fabbrica; e gli operai abboccarono all’amo, rifiutandosi a finire le pezze incominciate nella fabbrica Cerruti.

 

 

Ora gli industriali intendono godere i frutti della ben condotta battaglia, ribassando i salari, licenziando una parte degli operai più sospetti, ecc. ecc. Noi non crediamo che essi in tal guisa abbiano riguardo ai permanenti interessi proprii e dell’industria e riteniamo pericoloso seminare i germi di mal celate irritazioni e di dissidi futuri. È certo che dal punto di vista tattico gli industriali possono apparecchiarsi a godere i frutti della vittoria mentre gli operai vanno incontro ad una disfatta sicura, con tutti gli strascichi dolorosi che una sconfitta nel campo industriale lascia sempre dietro di sé.

 

 

Di questo risultato la colpa minore spetta agli operai, i quali non è a meravigliare se, credendo di avere lagni giustificati da manifestare, hanno scelto il mezzo più pronto per farsi ragione.

 

 

La colpa è dei capi, i quali hanno consapevolmente per debolezza condotto gli operai al macello. Non poteva essere ignoto a nessuno che i mesi di ottobre e di novembre sono i mesi della morta: ed era notissimo ai capi che le leghe non avevano fondi per prolungare la resistenza, era facilissimo accertarsi che gli industriali non temevano ed anzi desideravano lo sciopero immediato. Quale motivo mai poté indurre i capi della organizzazione operaia ad accettare la battaglia in condizioni così disastrose?

 

 

Una delle due. Od i capi ignoravano i fatti sopra accennati ed altri ancora ed incitarono gli operai ad abbandonare il lavoro ed essi si meritano la taccia della incompetenza più assoluta e debbono lasciare un posto a cui non si possono in coscienza ritenere atti. Ovvero i capi videro la impossibilità di vincere la partita e si lasciarono ciò nondimeno rimorchiare dagli operai vogliosi di un miglioramento economico, nelle circostanze attuali irraggiungibile, e, non contenti di lasciarsi rimorchiare, sostennero con calore sui loro giornali una causa che sapevano perduta. Anche in questo caso meritano condanna, poiché non è ufficio dei capi di lasciarsi guidare dalle masse. I capi che si lasciano guidare dai soldati debbono essere eliminati, perché conducono gli eserciti alla disfatta sicura. Ufficio del capo è di opporsi a viso aperto, con coraggio, sfidando magari le ire e le imprecazioni dei seguaci impazienti, quando egli non creda che un certo movimento sia destinato al successo. I veri capitani del lavoro sanno andare incontro all’impeto delle folle ed arrestarne il movimento, che condurrebbe in fondo al precipizio, colla forza della ragione e colla risolutezza ostinata.

 

 

Forse per ora in Italia è follia sperare prevalga sempre la saggezza; forse è necessario, passare da noi attraverso ad un periodo di scioperi decisi per motivi di agitazione sociale. Da troppo tempo dura tuttavia il tempo di un movimento operaio innestato sul tronco della politica agitatrice! Sarebbe ora di porre un termine a codeste esperienze di laboratorio, perché fatte a spese del benessere di migliaia e migliaia di famiglie che hanno bisogno, per vivere, di lavorare ogni giorno.

 

 

Intanto gli operai biellesi aprano gli occhi; vedano le responsabilità di chi li ha condotti – la parola è dura, ma è vera – al macello.

 

 



[1] Col titolo Lo Sciopero nel Biellese. Circa settemila operai scioperanti. La lotta contro la macchina. Leghe di industriali contro leghe operaie. Le vere aspirazioni della classe lavoratrice [ndr]

[2] Col titolo Al macello [ndr]

La situazione parlamentare

La situazione parlamentare

«La Stampa», 6 ottobre 1901

 

 

 

 

Non vi è alcun dubbio che la situazione presente del Gabinetto si presenta non soltanto buona, ma migliore di quella in cui si trovarono in altri anni Ministeri che pure erano ritenuti forti.

 

 

Di ciò in parte spetta il merito all’opera positiva di politica del Gabinetto. Andato al potere in nome dei principii liberali, esso ha saputo attuare in pratica codesta politica con accorgimento non scompagnato da fortuna.

 

 

Le garanzie concesse alla libertà di sciopero e di associazione provarono che la libertà è ancora il modo migliore di risolvere equamente i conflitti tra capitale e lavoro, quando si sappia nel tempo stesso conservare l’ordine ed il rispetto della legge.

 

 

Ma alla causa del Ministero giovò moltissimo l’inabilità singolare della opposizione costituzionale.

 

 

Questa non seppe scegliere bene il suo punto di attacco contro la politica ministeriale; punto che non poteva altrove essere rintracciato fuorché nella sua politica finanziaria.

 

 

È manifesto invero che se inutilmente si sarebbe cercato di combattere il Governo sulla sua politica degli scioperi, bene avrebbe potuto l’Opposizione contrastare le promesse che sino dal suo inizio il Gabinetto aveva fatto di larghi sgravi di tributi. Qui era facile dimostrare che quelle promesse avevano suscitato speranze esagerate nell’opinione pubblica, speranze alle quali era fatale dovesse tener dietro acerba la disillusione perché si trattava di promesse che non possono in alcun modo tradursi in realtà.

 

 

L’Opposizione poteva dimostrare che altro doveva essere il cammino per giungere alla desiata meta di una riforma veramente grande e benefica. Come talvolta è opera meritoria il fare subito, così talaltra è bene sapere aspettare, rinunciando alla facile ingordigia di un piccolo beneficio presente per ottenere un beneficio grande in un futuro non lontano.

 

 

Invece l’Opposizione costituzionale non seppe resistere alla brama di popolarità che la incalzava; e per bocca dei suoi uomini maggiori espose anch’essa dei progetti di riforma finanziaria.

 

 

Noi non vogliamo oggi, così di passata, dare un giudizio sulle proposte di riforma tributaria presentate dall’on. Sonnino sulla Nuova Antologia e dall’on. Lacava sulla Riforma Sociale. Quel giudizio, dal punto di vista puramente tecnico, non potrebbe essere favorevole, come non fu favorevole ai numerosi progetti wollemborghiani del Ministero attuale.

 

 

La imperfezione tecnica delle proposte Sonnino-Lacava è qui ricordata solo a mettere in maggior luce quelle che è il difetto politico capitale dell’atteggiamento dell’Opposizione rispetto alla riforma tributaria: lo spirito di imitazione.

 

 

Poiché il Governo aveva fatto larghe promesse di sgravi, parve ai capi dell’Opposizione che non si potesse in alcun modo combatterlo se non imitandolo. Così accadde che gli onorevoli Sonnino e Lacava si credettero in obbligo di preannunziare prima alla Camera e di svolgere poi durante le vacanze estive un proprio progetto di riforma tributaria, quasi ad imitazione ed a gara dei progetti ministeriali.

 

 

Infelici tutti, non per scarsa abilità di uomini, ma per necessità di cose che non permette si ponga mano ad un largo rimaneggiamento delle finanze locali. Ma inabili politicamente sovratutto i capi dell’Opposizione perché fecero gitto dell’arma più poderosa di cui potessero disporre a combattere il Ministero. Poiché ora quando essi criticheranno le proposte del nuovo ministro delle finanze, sempre si sentiranno rispondere: che siffatte critiche risultano inefficaci in bocca di chi tentò ma non seppe prestare un disegno di riforma più accettabile di quello criticato.

 

 

Tutto ciò abbiamo voluto osservare per mettere in rilievo come sotto varii rispetti e per varii motivi si presenti salda la presente situazione per il Ministero; tanta salda e tanto favorevole che non sarebbe a fare meraviglia se a novembre il Gabinetto raccogliesse su una questione di fiducia non 80, ma 160 voti di maggioranza, e si trovasse imbarazzato nell’opera sua di Governo da una maggioranza strabocchevole troppo copiosa di postulanti poco facili a saziare.

 

 

Ma un’altra conclusione vogliamo trarre dalle cose dette; ed è che Governo ed Opposizione sappiano trarre dall’esperienza del passato argomento e stimolo a mutar strada. Il Governo sappia far ammenda dell’errore in cui è caduto facendo promesse troppo larghe ai contribuenti; e l’Opposizione sappia rinunciare alla debolezza di accattare una facile popolarità andando a gara col Governo nel proporre disegni non attuabili di riforma. Cosicché dai risultati negativi ottenuti finora si passi finalmente ad una politica finanziaria veramente intesa a benefiche e grandi riforme future.

 

 

Questa politica, come noi abbiamo detto molte volte, e come ha riconosciuto in uno dei suoi ultimi discorsi l’on. Luzzatti, non può essere se non quella del consolidamento del bilancio e della prudente aspettazione.

 

 

N’è paia questa una politica reazionaria o timida; poiché, operando in tal guisa è certo che noi otteniamo due grandiosi scopi:

 

 

1)    Acceleriamo il ribasso dell’aggio e per ogni punto di ribasso arrechiamo un beneficio diretto di cinque lire all’anno ad ogni famiglia di contadini e di operai le cui entrate non superino le 500 lire; senza tener conto di tutti gli altri indiretti benefizi di stimolo al lavoro ed all’industria e di rialzo dei salari, di cui altra volta a lungo si discorse su queste colonne. Ed in tal guisa diamo ai consumatori tutti un beneficio di gran lunga più apprezzabile dei pochi centesimi di sgravio ottenibili con i dieci milioni di avanzo attualmente esistenti;

 

2)    Prepariamo nel giro di pochi anni, e forse di non più di due o tre anni, la conversione libera della Rendita, la quale ci dovrà dare, a seconda della sua importanza, i 40 o gli 80 milioni che sono necessari per una vera grande riforma.

 

 

Che cosa faremo dunque, ci si chiederà, dei 10 milioni di avanzo che tutti son concordi nel ritenere disponibili?

 

 

Impiegarli a crescere le spese, no, perché l’esempio sarebbe contagioso e fonte di gravi pericoli.

 

 

Meglio di tutto sarebbe usufruirli per bruciare dei biglietti di Stato, accelerando così in nuova guisa quel movimento di riduzione dell’aggio e di rialzo della Rendita, che, oltre ad essere una benefica riforma per se stesso, è pegno foriero di maggiori benefizi futuri.

La superstizione delle leggi

La superstizione delle leggi

«La Stampa», 29 agosto 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 431-434

 

 

«Dal rispetto negativo (della massima del lasciar fare e del lasciar passare) passerà il governo a legiferare efficacemente su le camere di lavoro, su l’arbitrato in caso di scioperi, sul riconoscimento delle leghe, e così via? Si metterà insomma mano da noi ad iniziare un andamento ordinato e legale di politica sociale, che garantisca agli operai quei diritti di riunione, di coalizione, di resistenza che ora così genericamente si reggono sopra congetturati presupposti, o vengono benignamente concessi da un determinato ministro?».

 

 

Così scriveva ieri, sulla Tribuna, il professore Antonio Labriola; ed all’augurio dell’acuto professore dell’ateneo romano noi potremmo associarci incondizionatamente, ove non ci tormentasse il dubbio che l’auspicato legiferare del governo non conducesse ad esagerazioni ed a malanni peggiori di quelli a cui si vorrebbe far riparo.

 

 

Poiché così siamo fatti in Italia: che lasciamo trascorrere anni ed anni senza occuparci affatto di un certo problema, quasi che esso per il legislatore non esistesse. Poi tutto ad un tratto ci assale la febbre di regolare tutto con decreti e regolamenti e quasi ci immaginiamo di cadere nella barbarie e nell’anarchia se il ministero non presenta ed il parlamento non approva in fretta ed in furia leggi appropriate e bellamente concepite.

 

 

Così oggi è divenuta di gran moda la legislazione sul lavoro. Si vogliono far leggi sugli scioperi, sulle leghe, sulle camere del lavoro, sull’arbitrato obbligatorio, ecc. ecc.; quasi che una volta fatte le leggi e per loro virtù gli scioperi non dovessero più moltiplicarsi, le leghe dovessero divenir mansuete, le camere del lavoro espellere dal proprio seno repubblicani ed anarchici, ed operai e padroni acconciarsi ai verdetti inappellabili degli arbitri.

 

 

Noi non diciamo che le leggi non servano a nulla. Su queste stesse colonne alcun tempo fa si esposero quelli che dovrebbero essere i principii inspiratori di una futura legislazione italiana sulle leghe operaie. Ed allora si vide, sulla scorta dei paesi più progrediti, come l’Inghilterra, la Francia, gli Stati uniti, le colonie inglesi, che per essere proficua e veramente benefica la legislazione doveva limitarsi a statuire su pochissimi punti fondamentali: riconoscimento esplicito del diritto degli operai di associarsi, facoltà alle leghe di farsi riconoscere giuridicamente, coll’obbligo della pubblicità degli statuti e degli atti sociali, diritto di possedere beni immobili e mobili e di citare e stare in giudizio per la gestione del patrimonio sociale. Andare più in là, noi avevamo detto, sarebbe stato pericoloso ed inutile. «Una lega non deve poter assumere obblighi giuridici rispetto al contratto di lavoro. Altrimenti i fondi sociali saranno posti alla mercè degli imprenditori che abbiano voglia di litigare per il non adempimento di certe clausole di un contratto di lavoro conchiuso dalla lega a nome dei suoi operai».

 

 

Non siamo i soli ad essere d’opinione che sia pericoloso legiferar troppo in materia di lavoro. In Inghilterra, a dispetto della lettera della legge e della giurisprudenza costante, il comitato giudiziario della camera dei lord in una recente sentenza ha stabilito che le associazioni di mestiere  dovessero rispondere delle infrazioni dei contratti di lavoro. «Tutto il mondo operaio inglese – commenta l’Avanti! – ne è in subbuglio. Se una tal giurisprudenza prende radice e diventa legge, dicono gli operai inglesi, se quindi ogni associazione di mestiere si trova esposta a venir molestata per gli atti dei singoli membri, se le casse delle associazioni possono venir vuotate da spese per indennizzi, per avvocati, per tasse giudiziarie, diventa impossibile tenere in piedi una sola associazione».

 

 

Gli operai inglesi hanno ragioni da vendere. Le troppe leggi producono un effetto sicuro: di strozzare quegli istituti e quelle organizzazioni che esse pretendono di tutelare, di sorreggere e di regolare. È dovere perciò di quanti vogliono veracemente la prosperità dell’economia nazionale e delle classi operaie di opporsi con risolutezza alla mania di abboracciare leggi per il bel gusto di far rientrare nell’orbita della legalità degli istituti che ora, dicesi, sono ex lege.

 

 

Un apostolo della legiferazione sociale trova stravagante, ad esempio, che «in uno stato bene ordinato ciascuno possa sbizzarrirsi a sua posta a creare istituti senza disciplina legale, ed operare per mezzo di quelli nell’interesse di una classe o di un partito per sopraffare altre classi ed altri partiti che hanno pur essi interessi da difendere e ragioni da tutelare» e prevede con terrore che se si va avanti di questo passo «a breve scadenza la società italiana sarà il modello vero della più perfetta

anarchia».

 

 

Noi non crediamo che si debba volere l’anarchia; ma nemmanco riteniamo che per terrori chimerici si debba soffocare la libertà d’organizzazione entro le strettoie dei regolamenti. Si dia bensì alle camere del lavoro ed alle leghe la libertà di costituirsi ed il diritto di possedere; ma per carità non se ne facciano degli istituti ufficiali, sulla falsariga delle camere di commercio e dei comizi agrari! Col pretesto di volere organizzare legalmente la rappresentanza delle classi lavoratrici, si annienterebbe del tutto il movimento odierno delle leghe che, bene o male, attraverso agli inevitabili errori dell’infanzia rappresenta un innegabile progresso economico.

 

 

O che male c’è che sorgano e prosperino leghe socialiste, cattoliche, costituzionali? Vinceranno quelle che saranno più adatte a raggiungere in modo duraturo e verace il bene delle classi operaie senza danno delle industrie e dei commerci. Le altre andranno in malora. Tocca ai costituzionali di organizzare leghe e camere di lavoro che siano vitali e benefiche. Questo ci pare l’unico mezzo liberale ed onesto di lottare con le leghe non costituzionali.

 

 

Altrimenti si creeranno istituti rachitici dei quali, appunto perché officiali, nessun operaio si interesserà e che adempiranno alla magra bisogna di inviare rapporti, più o meno utili e letti, al ministero di agricoltura, industria e commercio. Se questo si vuole, si faccia pure; ma sarà bene avvertire che in tal modo si fomenterà il sorgere di associazioni libere in contrasto alla legge ed animate da spirito sovversivo; e si impedirà l’educazione lenta e spontanea delle masse operaie. Perché gli operai non si educano iscrivendoli – come gli elettori delle camere di commercio – sulle liste delle camere di lavoro ufficiali; ma lasciandoli liberi di creare a loro posta organismi di difesa e previdenza. Aspettate che gli operai abbiano nelle casse delle loro leghe accumulato qualche migliaio di lire e vedrete come quelli che oggi sono più scalmanati per partire in guerra immediatamente contro l’«infame capitale», diverranno prudenti e sensati!

 

 

La dura scuola dell’esperienza individuale e non la legiferazione elegante potrà condurre a questi risultati; come pure gli scioperi non si comporranno solo perché si saranno creati sulla carta istituti di arbitrato obbligatorio; ma si eviteranno quando operai ed imprenditori saranno diventati più atti gli uni a tener conto delle condizioni dell’industria e più propensi gli altri a trattare colle organizzazioni operaie, come è richiesto dalla natura della grande industria moderna. Concetti intuitivi. Ci parve opportuno ricordarli oggi che molti attendono la salvezza dal governo e dal parlamento, dimentichi che le leggi a nulla servono e molto nuocciono quando facciano difetto negli uomini l’educazione morale ed economica, l’esperienza, il reciproco rispetto. Qualità che solo possono acquistarsi colla pratica faticosa delle libere istituzioni.

 

 

Tentativi di salvataggio

Tentativi di salvataggio

«La Stampa», 28 agosto 10 settembre[1] e 15 ottobre[2] 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 422-430

 

 

I

 

Si annuncia imminente la pubblicazione dell’inchiesta sugli uffici municipali di Napoli. Grossi fatti sembra siano venuti alla luce e le accuse di irregolarità, corruzioni, favoritismi pare siano risultate in gran parte provate.

 

 

Mentre però la commissione d’inchiesta è prossima a rendere di pubblica ragione i fatti assodati durante le sue indagini a carico di talune fra le amministrazioni passate di Napoli, strane notizie vengono pubblicate su per i giornali.

 

 

Si dice, ad esempio, che Saredo si sia recato a Roma per manifestare al ministro degli interni tutto il suo disgusto per un tentativo di organizzare un movimento elettorale contrario affatto agli scopi della commissione d’inchiesta; e, quel che è peggio, di organizzare questo movimento millantando un aiuto da parte del governo che si ha ragione di credere non sia stato mai né dato e neppure promesso.

 

 

L’on. Rosano, che del movimento contro l’opera della commissione d’inchiesta era stato indicato come l’iniziatore, ha smentito l’accusa fattagli; ma l’ha fatto con tali restrizioni[3] da legittimare il dubbio che contro le risultanze dell’inchiesta – necessariamente in gran parte personali – si voglia condurre una campagna sconveniente.

 

 

Di questi giorni infatti sui giornali napoletani si leggono articoli di violenza strana contro il senatore Saredo ed i suoi colleghi. La commissione viene accusata di sobillare e di diffamare non solo, ma di rinviare ogni discolpa degli amministratori imputati. L’onorevole Saredo vien presentato sotto le spoglie di un Silla che non compie un’inchiesta spassionata ma compila liste di proscrizione.

 

 

Ci pare che basti. Noi siamo lontani da Napoli e non possediamo tutti quegli elementi di fatto che sarebbero necessari per formarci un giudizio sicuro. Ma dal succedersi di notizie e di violenti invettive rimaniamo dolorosamente impressionati.

 

 

Così dunque le classi dirigenti napoletane mostrano di comprendere il loro dovere nel momento in cui potrebbe aprirsi un’era nuova di vita economicamente rigogliosa e moralmente sana nella loro città! Non sono valse a nulla le campagne combattute da un gruppo di giovani socialisti, a cui certo non si può negare il vanto di un grande coraggio civile, nemmeno a dimostrare alle classi dirigenti essere loro strettissimo dovere separare nettamente la propria dalla causa dei prevaricatori se non volevano essere travolte nella medesima condanna?

 

 

A sentire le notizie riferite più sopra di agitazioni elettorali e di svisamenti partigiani dell’opera della commissione inquirente, un triste dubbio ci assale: che Napoli non sia ancor pronta a tornare a governarsi da se stessa e che la fine dei poteri della commissione d’inchiesta e del regio commissario voglia unicamente dire il ritorno agli antichi sistemi ed agli antichi uomini. Muterà forse la bandiera esteriore politica, ma la sostanza non muterà.

 

 

È duro confessarlo; ma il regime eccezionale non è ancora durato abbastanza. Non ancora le vecchie clientele si sono scomposte; non sono rotti i fili della rete affaristica che avvolgeva la nobile capitale del mezzogiorno; ancora vivono i circoli ed i circoletti di politicanti che dalle elezioni e dallo sfruttamento della vita pubblica traevano alimento. Per qualche mese essi si sono veduti costretti a digiunare; ma il digiuno non si è prolungato tanto da indurli a morire od a cambiar mestiere.

 

 

Perciò un prolungamento – per un anno o due – dei poteri del regio commissario sarebbe provvidenziale. Le clientele, non potendo vivere a mezzo del denaro pubblico, si dovrebbero sfasciare; i politicanti, per mancanza di materia elettorale ed amministrativa da manipolare, alla lunga si stancherebbero di aspettare e dovrebbero mettersi a far altro, con maggiore utilità del paese.

 

 

Altrimenti, alle prossime elezioni gli onesti, come sempre, rimarranno soli e disorientati. Il potere verrebbe afferrato dai più abili a far sventolare la bandiera della moralità e dell’onore oltraggiato di Napoli. Forse i più colpiti dalle risultanze dell’inchiesta non oserebbero mettersi subito in prima fila. Ma che importa se i loro accoliti e compagni governeranno la cosa pubblica? Dopo un po’ di tempo tutto ritornerebbe nello stato di prima. Già si tenta, a facilitare la risurrezione di uomini politici compromessi, di indurre il governo a tenere segreto, in tutto od in parte, il rapporto della commissione d’inchiesta.

 

 

Noi speriamo che il governo sappia fare il suo dovere e che il desiderio di accattare alcuni voti nella deputazione napoletana non lo induca ad incertezze ed a compromissioni che sarebbero severamente condannate dall’opinione pubblica. La frase che si dice abbia l’on. Giolitti pronunciata: non voler egli nemmeno leggere il rapporto della commissione inquirente prima della stampa definitiva ci affida che nessun ostacolo verrà messo alla divulgazione completa dei risultati dell’inchiesta.

 

 

Ciò è necessario, se si vuole iniziare il risanamento dell’ambiente napoletano. Ma non basta. A mali estremi rimedi eccezionali. Non diciamo che il prolungamento dei poteri del regio commissario abbia la virtù di guarire i malanni della vita pubblica napoletana. Sradicando la mala erba delle clientele preparerà la via all’opera che dovrà risanare l’ambiente morale di Napoli.

 

 

Quest’opera non può essere che quella del risorgimento economico del mezzo milione di napoletani e sovratutto delle centomila e più persone di cui ora si ignorano i mezzi di esistenza e che non sanno al mattino come faranno a mangiare nella giornata.

 

 

Quando molti industriali del nord si saranno persuasi ad andare ad impiantare aziende in una città dove esiste una numerosa mano d’opera a buon mercato, intelligente, e se non abile, capace di diventarlo rapidamente; quando i guadagni della gente povera, pur lasciando un discreto margine al capitale, saranno cresciuti, tutti coloro che ora sono disoccupati e si affollano attorno alla greppia municipale sdegneranno di vendere il loro voto per un tozzo di pane a mestatori da trivio ed a volgari politicanti.

 

 

Noi ci auguriamo che gli industriali del nord sappiano vedere che ora a Napoli c’è modo di compiere una bella azione e di fare nel tempo stesso il proprio interesse. E il miglior augurio che si possa fare per l’avvenire di Napoli, non quello di essere liberata dalla pretesa vergogna del regio commissariato e della commissione d’inchiesta.

 

 

II

 

Un comunicato dell’Agenzia Stefani avvertiva ieri che, a togliere qualsiasi equivoco intorno all’ingerenza del ministero nell’inchiesta sul municipio di Napoli, per accordo intervenuto tra l’onorevole ministro dell’interno e la commissione d’inchiesta, la relazione viene stampata sotto l’esclusiva direzione del presidente della commissione. Il ministro – continuava il comunicato – prenderà notizia della relazione quando la medesima sarà stampata, ed egli ne ordinerà contemporaneamente la distribuzione ai senatori, ai deputati ed ai capi dei pubblici uffici affinché abbia la massima pubblicità.

 

 

Il comunicato che ora abbiamo riferito è un atto di governo di cui vivamente ci compiaciamo. Le dicerie intorno all’inchiesta di Napoli ed ai tentativi di salvataggio che si meditavano da uomini politici meridionali erano giunte a tal segno da commuovere l’opinione pubblica. Rendendo conto di quelle voci, esprimevamo non solo l’augurio, ma la ferma fiducia che il governo sapesse resistere ad ogni pressione e fare sino in fondo il proprio dovere. Non basta che gli uomini politici ed i pochi i quali hanno agio di conoscere le intenzioni del governo abbiano fiducia nell’opera sua. Per dissipare i sospetti dell’opinione pubblica è spesso necessario che un atto, una parola esplicita venga a rassicurare e ad additare quale è la via che si intende percorrere.

 

 

Questa parola esplicita, che noi invocavamo giorni addietro, oggi è venuta; ed è venuta per mezzo di un’agenzia ufficiosa. L’esempio è degno di imitazione. Quando corrono voci le quali interessano vivamente il pubblico, e quando vi sono giornali come il «Roma» di Napoli, a proposito dell’inchiesta Saredo, che accusano il governo di prestar mano a salvataggi, è bene che quegli si serva di quei mezzi ufficiosi di pubblicità che sono a sua disposizione per tagliar corto alle dicerie e per indicare le sue reali intenzioni.

 

 

Oggidì il giornale è diventato una parte integrante della vita politica del paese. Tutto ivi si discute e di tutto si deve discorrere per soddisfare alle esigenze dei lettori, i quali mal sopportano il silenzio intorno alle più ardenti questioni del giorno. Anche il governo deve sottostare a codeste esigenze della vita moderna e deve servirsi dello strumento potente di pubblicità, che è il giornale, per comunicare notizie, sempre quando ciò sia necessario a dissipare dubbi che, a torto od a ragione, angustiano l’opinione pubblica.

 

 

Questo per quel che si riferisce alla forma con cui il governo ha ritenuto ragionevolmente opportuno di comunicare i suoi intendimenti rispetto all’inchiesta su Napoli. Per quel che si riferisce alla sostanza della questione, non è necessario ripetere quanto ripetutamente fu detto su queste colonne.

 

 

Un bisogno di rinnovamento agita in questi tempi il nostro paese. Ed è rinnovamento non solo economico, ma anche morale. Sono passati i giorni nei quali si poteva credere opportuno mettere tutto in tacere per evitare gli scandali. Oggi gli scandali devono lasciarsi scoppiare, perché l’opinione pubblica vuole, ed imperiosamente vuole che la luce della verità sia fatta intiera su ogni cosa. C’è da rallegrarsene. Persino nei luoghi dove era diffusa non la rilassatezza morale, ma una certa acquiescenza al male commesso da politicanti spudorati, corre un fremito di vita nuova. Generazioni giovani cominciano ad occuparsi delle cose pubbliche e si sdegnano contro le malversazioni e le brutture impunemente commesse sinora.

 

 

Quando si diffonde nel popolo la coscienza che non solo si deve, ma è utile osservare le leggi della moralità e della giustizia nella vita pubblica, il governo ha interesse grandissimo a secondare così gagliardo e benefico movimento di idee.

 

 

A poco a poco i malvagi si ritraggono dall’agone o devono, impotenti, assistere al trionfo della moralità; e bene spesso, se essi non erano malvagi, ma semplicemente deboli, posti in un ambiente purificato, si trasformano e possono diventare onesti. Cosicché gradatamente la corrente del bene si rafforza e si accresce di reclute sempre nuove, mentre si indebolisce la triste schiera dei prevaricatori. Il governo, appoggiando energicamente i buoni contro i malvagi, aiuta i primi a superare il periodo della indifferenza dei più, quando i timidi non sanno ancora decidersi per la paura di uscire dalla mischia colle ossa rotte. Forse, in sugli inizi, un governo favorevole alla causa della moralità corre il rischio di perdere i voti dei politicanti perversi che ancora conservano qualche potere; ma è pericolo di nessun conto. La grande maggioranza del paese segue sempre chi dà prova di volere prima lasciare libera la via alla scoperta della verità e di volere dappoi punire severamente i colpevoli. Nei tempi moderni di predominio del numero e di pubblicità larghissima è doveroso ed è utile difendere la causa dei molti, i quali sono onesti e non vogliono lasciarsi derubare, contro i pochi disonesti che vorrebbero spogliare altrui.

 

 

E questo non è soltanto il doveroso programma dei governi moderni, ma è sovratutto il compito della stampa: elevare ognora la voce contro i malvagi, anche se costoro non vivono a noi vicini e non ci vogliono danneggiare direttamente. Napoli, è vero, è lontana molto dalle nostre regioni; ma noi abbiamo vivo interesse a che il mezzo milione di onesti, buoni e laboriosi napoletani sia liberato dalla padronanza dei politicanti che impoverivano quella nobile città.

 

 

Perché se i meridionali, non più aduggiati dalle camorre amministrative locali, arricchiranno e diverranno prosperi, una più vivace corrente di traffici si svolgerà tra il nord ed il sud con vantaggio di amendue le regioni interessate.

 

 

Né vogliamo parere predicatori di moralità agli altri. Difficilmente le crociate morali che vengono dal di fuori riescono molto efficaci. Vogliamo soltanto incoraggiare colla parola nostra quei coraggiosi che in Napoli stessa iniziarono la campagna per la moralità e la giustizia.

 

 

Il governo seguiti a dare incoraggiamento e sostegno a codest’opera purificatrice che si compie nel mezzogiorno ed avrà il nostro sincero plauso.

 

 

III

 

Un giornale di Napoli ha creduto opportuno pubblicare il testo di un accordo segreto che sarebbe intervenuto tra il senatore Saredo e l’impresario Musella a proposito della concessione dell’impresa del teatro San Carlo. La pubblicazione è intesa a dimostrare che il senatore Saredo colluse coll’impresario Musella, avversario del municipio da lui amministrato e per un atto da lui compiuto come regio commissario.

 

 

Noi non vogliamo entrare nella sostanza dell’accusa che il giornale napoletano ha mosso al presidente della commissione d’inchiesta. Finora abbiamo sentito soltanto una narrazione di parte; né è azzardato dubitare che la narrazione sia in tutto corrispondente a verità, poiché si afferma con fondamento da altri che il senatore Saredo sia quegli che ha denunciato l’esistenza del plico depositato presso il notaio Baldanza, plico in cui erano contenuti i documenti relativi all’impresa del teatro San Carlo.

 

 

Qualunque possa essere il giudizio nostro intorno all’operato del senatore Saredo, non possiamo nascondere la impressione cattiva provata a cagione del modo con cui fu iniziata la novissima campagna contro il presidente della commissione d’inchiesta sul comune di Napoli.

 

 

Il giornale che questa campagna ha iniziato avrebbe meritato bene della cosa pubblica qualora, essendo convinto della incapacità morale del Saredo a condurre a termine l’altissima missione che gli era stata affidata, avesse fin dal principio rilevato il fatto ed invocato il verdetto sereno della pubblica opinione.

 

 

Qualunque giudizio si fosse dato sul movente che poteva spingere l’accusatore all’opera sua, tutti avrebbero riconosciuto il diritto nel giornale di sindacare la vita trascorsa della persona a cui veniva dato il delicatissimo incarico di scrutare le magagne della classe politica napoletana, salvo ai giudici di condannare il giornale qualora le sue accuse fossero state considerate diffamatorie.

 

Oggi la campagna assume un aspetto ben diverso. Oggi l’inchiesta Saredo ha condotto a termine i suoi lavori, e si sa che furono assodati fatti gravi a carico di uomini appartenenti all’amministrazione municipale passata, fatti tanto gravi che contro codesti amministratori si spiccarono mandati di comparizione.

 

 

Quando queste cose sono entrate nel dominio pubblico, quando si aspetta di giorno in giorno la pubblica divulgazione per le stampe dell’inchiesta Saredo, il giornale amico e sostenitore degli uomini dell’amministrazione passata esce fuori inaspettatamente con la campagna contro il presidente della commissione d’inchiesta! Quando il pubblico ansiosamente aspetta di leggere, documentate nei volumi della commissione, le constatazioni di fatti gravi a danno di uomini politici napoletani, vien fuori il giornale di codesti uomini a dire che anche il senatore Saredo è immeritevole della fiducia in lui riposta perché capace di colludere dolosamente cogli avversari del comune! Mentre si attende la dimostrazione dei motivi per cui i contratti stretti dal comune di Napoli con imprese appaltatrici di servizi pubblici di vario ordine furono annullati, si crede opportuno di pubblicare che anche il senatore Saredo stipulò accordi non perfettamente corretti con uno di questi appaltatori!

 

 

Vi è bisogno di dire che la campagna ci sembra inopportuna e biasimevole per il tempo e per il modo con cui viene condotta? Vi è bisogno di dire essere doloroso vedere una parte della stampa napoletana ridotta a compiere un atto che dovremmo definire con una parola troppo acerba e cruda se a darne una definizione fossimo costretti? Poiché leggendo le frasi del Don Marzio con cui si invocano altre ricerche sulla «moralità, sulla giustizia e l’equità dell’uomo, che non ci sembra probabile possa rimanere a lungo alla presidenza del tribunale supremo di giustizia amministrativa del regno», non c’è nessuna persona spassionata la quale non provi l’impressione che quei giornali napoletani hanno voluto minacciare. Forse alcuni fra gli amministratori più indiziati come colpevoli dalle risultanze dell’inchiesta hanno avuto una speranza: che accusando di azione non corretta il Saredo fosse possibile incutere timore a chi era incaricato di inquirere sul loro conto e fosse possibile stornare da sé la minacciosa tempesta imminente.

 

 

Tentativo ultimo questo e disperato. Sia che si provi – ciò che assolutamente non crediamo – la verità delle accuse mosse contro l’on. Saredo, o queste vengano del tutto sfatate, le risultanze dell’inchiesta dovranno essere esaminate nel loro intrinseco valore; e nessuna discolpa potranno le «reputazioni meridionali più adamantine» trovare nel fatto che altri ha commesso altresì un’azione esorbitante dalle sue facoltà. Anzi il modo con cui essi tentano di ottenere il silenzio da chi ha il dovere di dire tutta la verità aggrava la loro condizione di fronte all’opinione pubblica. Questa vede con dolore gli accusati difendersi non colla dimostrazione della propria vita illibata, ma con la pubblicità data a pretesi errori altrui. Con dolore l’opinione pubblica vede parte del giornalismo politico di Napoli continuare su una via che non è compresa da nessuno e non può condurre ad alcuna meta.

 

 

Si vada dunque in fondo all’accusa mossa contro il Saredo, accusa che risulterà del tutto infondata; ma non vi sia alcuno che fondatamente possa sperare di sminuire la propria colpa accusando altrui.

 

 



[1] Col titolo Nessun salvataggio [ndr]

[2] Col titolo Caso doloroso [ndr]

[3] In una intervista col «Pungolo parlamentare», l’on. Rosano avrebbe dichiarato che «non essendo noti i risultati dell’inchiesta, è impossibile giudicare l’operato della commissione. Pure il Rosano crede che questa abbia un peccato d’origine, poiché non si comprende una commissione censoria senza confini. Ciò malgrado, se l’inchiesta concluderà obiettivamente mirando alle cose e non alle persone, produrrà del bene; se l’azione sarà inspirata a criteri personali, sarà nociva».

L’on. Turati e gli scioperi

L’on. Turati e gli scioperi

«La Stampa», 27 agosto 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 417-421

 

 

L’on. Turati decisamente diventa ogni giorno più un uomo singolare.

 

 

Non voglio accennare alla polemica con Ferri, nella quale egli ha detto cose argute e ragionevoli. Voglio parlare invece dell’articolo Scioperi vani nell’ultimo numero della milanese «Lotta di classe». Non esito a dire che questo è uno degli articoli più notevoli usciti dalla penna di Filippo Turati.

 

 

In verità è da lunghi anni che il deputato di Milano scrive articoli che dovrebbero essere segnalati ogni volta per la impronta profonda che essi lasciano sull’indirizzo politico ed economico del movimento operaio italiano. Da una decina d’anni, ossia dai giorni, oramai storici, in cui l’on. Turati fondava a Milano la «Critica sociale», ho sempre letto, con assiduità costante, gli articoli di fondo che egli veniva pubblicando sulla sua rivista. Non mi sono mai annoiato leggendo la sua prosa logica, serrata, spesso geniale e sempre scintillante di vita e di arguzia.

 

 

Non seccarsi mai a leggere per dieci anni un articolista politico è un fatto meritevole di essere segnalato, sovratutto perché si tratta di un articolista che fa propaganda di una speciale dottrina ed è perciò quasi fatalmente condotto a ripetersi.

 

 

Quando penso che a distanza di pochi anni molti fra gli scritti che mi parevano più meravigliosi mi parvero insopportabili e non potei più leggere senza fastidio e senza sorriderne pagine prima grandemente ammirate, mi viene fatto di chiedermi: perché invece ho sempre continuato dai primissimi anni di studio universitario sino ad oggi e continuo ancora adesso a leggere con diletto gli articoli di Filippo Turati? Egli è che i suoi scritti non sono quelli di un teorico, che vengono a noia appena voi non guardate più le cose secondo il suo stesso angolo visuale, o di un propagandista che ripete come un pappagallo un catechismo imparato a memoria nel primo giorno in cui si chiese che cosa fosse il socialismo o la lotta di classe, e concluse – allora per tutta la vita – che erano amendue teorie degne di essere diffuse attraverso il mondo ignorante. No. Filippo Turati è uno scrittore il quale guarda in faccia le cose, non chiude gli occhi dinanzi alla realtà, e l’azione sua ed il pensiero suo adatta ai veri che la realtà – spesso dura ed ammonitrice – insegna ai pochi che osano scrutarla.

 

 

Perciò – mentre non mi riesce mai di leggere senza noia i giornali socialisti di propaganda con le loro solite «rendite dei lavoratori», «necessità dell’organizzazione», «l’imposta degli imbecilli», «i grassi borghesi che intascano i cuponi», «l’espropriazione degli sfruttatori» ed altrettali novità più o meno allegre – gli articoli di Filippo Turati non mi annoiarono mai, perché non sono la ripetizione dello stesso motivo marxista e nemmeno la solita filastrocca di luoghi comuni.

 

 

Adesso, per esempio, – ed è questa l’ultima e più singolare sua novità, – Filippo Turati si è trasformato improvvisamente in un amabile professore – niente affatto cattedratico – di scienza economica popolare. In verità non capita tutti i giorni di vedere un socialista rubare il mestiere a noi altri miserabili economisti borghesi! E sentite come egli ce lo ruba bene il mestiere!

 

 

«… non bisogna mai stancarsi – dice il socialista professore popolare della scienza di Adamo Smith – di inculcare agli operai quelle che sono verità fondamentali dell’economia, socialista e non socialista: che le leggi economiche non si lasciano forzare a capriccio; che lo sciopero è mezzo di estrema difesa, da usarsene con ogni riguardo; che l’essenziale non è lo sciopero, bensì l’organizzazione. Nove volte su dieci basta la possibilità di uno sciopero vittorioso, minacciato in condizioni propizie, per strappare ai capitalisti – che non sono degli idioti, come da taluni si vorrebbe, e subiscono la legge del loro beninteso tornaconto – tutto ciò che, nell’assetto sociale presente, essi possono essere costretti a dare: lo sciopero, una volta su dieci, non aggiunge se non danni e rovine».

 

 

Un foglietto socialista, ripetitore di luoghi comuni, aveva asserito essere dovere del vero socialista di cooperare all’eliminazione, del capitale, credendo, in ogni ora della giornata, alla verità del seguente dogma: «Ogni conflitto pacifico fra capitale e lavoro può essere inopportuno, prematuro, impreparato, ma non può mai essere ingiusto».

 

 

Subito Filippo Turati stritola codesto energumeno predicatore di scioperi inopportuni e prematuri fra le morse della logica economica, tale e quale come un qualunque economista utilitario, abituato alla scuola di Bentham a pesare accortamente sulla bilancia dell’utile le ragioni della convenienza di fare o non fare una cosa.

 

 

«Ebbene noi, falsi socialisti, protestiamo con tutta l’anima nostra. Noi diciamo che propalando simili fanfaronate, in qualunque ora della giornata ci si inganna o si ingannano le masse. E domandiamo a chi scrisse quelle righe, che ostrogoto criterio egli si fa della giustizia economica.

 

 

No, non è questo il criterio. Lo sciopero, se è inopportuno, se è dannoso, non può essere giusto. Questa giustizia metafisica, divelta dall’utilità, è cosa da preti o da ciurmadori. Non v’è giustizia che possa essere sistematicamente nociva a chi la invoca e se ne vale. L’eliminazione del profitto, nel presente assetto sociale (ed è in questo e di questo che ora si tratta), non può essere utile al proletariato, quindi non può essere giusta, se non in quanto aumenta durevolmente il salario o migliora stabilmente le condizioni del lavoratore. Se invece lo sciopero è, voi lo confessate, inopportuno; se paralizza l’industria, se intimidisce il capitale produttivo senza rialzare le condizioni del lavoro, se è destinato alla sconfitta ed all’umiliazione, esso potrà essere scusato, si dovrà compatire e soccorrere all’inesperienza di chi lo volle; ma esso, no, non è giusto».

 

 

E tanto per dimostrare che egli non recita la lezione imparata sui manualetti di Cossa e di Jevons, Filippo Turati si affretta ad esemplificare la sua dottrina con esempi pratici:

 

 

«Lo sciopero dei tranvieri della Edison. Si sa come è nato, come visse e, pur troppo, come morì. Morì votando per disperazione, a immensa maggioranza, i pieni poteri alla commissione, ossia la ripresa del lavoro, che aveva ventiquattr’ore prima respinta all’unanimità con urli di dileggio. Camera di lavoro, deputati socialisti, amici fidati e provati del personale avevano cercato ogni modo di scongiurarlo, di sostituirvi un arbitrato che fu respinto con disdegno. Il bilancio: da 20 a 30 lire di passivo, per ogni scioperante, fra il lucro cessante di tre giorni di mercede perduti e un tanto di meno nei miglioramenti che l’arbitrato avrebbe aggiudicati, che la società avrebbe concessi (è il segreto di Pulcinella) se non avesse patito i danni dello sciopero. Non parliamo di altre jatture sofferte dai tranvieri medesimi, come contribuenti, per il minor lucro del comune, a cui questo deve pur riparare col provento delle tasse, che anch’essi finiscono in qualche forma a pagare: non dei danni indiretti che provengono ad ogni categoria di cittadini – e rimbalzano in definitiva anche sui tranvieri – degli affari arenati, del tempo, del denaro, delle forze sperperate per la paralisi della circolazione.

 

 

Passiamo ai loro colleghi interprovinciali. Qui l’impreparazione fu tanta che, quando il direttore dell’impresa dichiarò le misere cifre degli utili dell’azienda, facendosene schermo a concessioni di qualche rilievo, nessuno si trovò in grado sia di controllare, sia di smentire quei dati. Non si conoscevano, neppure per approssimazione, le munizioni del nemico cui si dichiarava la guerra.

 

 

Gli interprovinciali, prima dello sciopero, cioè colla minaccia pacifica di una organizzazione appena nata, assistita dal Riscatto ferroviario, strapparono alla compagnia il riconoscimento della loro rappresentanza professionale, corporativa e politica, e 30.000 lire circa di miglioramenti, e tutto questo fu bene. Con cinque giorni di sciopero (tentato anch’esso invano di scongiurare) ne rosicchiarono, sì e no, altre 3.000. Ma perdettero un po’ più di 10.000 lire di mercedi, che, sì, prima di rifarsene! … Si acconciarono alla ripresa del lavoro con votazioni contraddittorie, coartati dalle dimissioni della loro rappresentanza, riluttanti irosamente invano alla stanchezza e alla sfiducia che li pervadeva. E lo sciopero fu condotto a quel meschino risultato coll’olio di merluzzo della intercessione del municipio, col ferro Bravais della pressione dei deputati e del prefetto. Se no riusciva ad un disastro».

 

 

Turati aggiunge che questi sono piccoli calcoli da piccoli contabili. Può darsi. Gli economisti non sono così permalosi da offendersi quando i loro calcoli della convenienza di fare una data cosa piuttosto che un’altra sono assimilati ai piccoli calcoli del dare e dell’avere di un libro mastro. Anzi, sono profondamente lieto che i capi delle classi operaie italiane comincino a sentire l’utilità di scendere fino alla volgare bisogna dei piccoli calcoli contabili. È segno che le lezioni, non nostre, ma della realtà, hanno fruttificato. È segno che l’educazione economica – e per conseguenza l’educazione morale – delle masse sta compiendo anche in Italia progressi notabili. C’è da esserne lieti. Un grande e benefico mutamento si sarebbe operato il giorno in cui gli operai non avessero più provveduto ai loro interessi tumultuariamente, in virtù di impulsi improvvisi e di ire subitanee, ma fossero stati uniti in leghe e guidati da capi intelligenti, istruiti delle condizioni economiche e commerciali delle industrie, atti a risolvere i problemi del lavoro nello stesso modo con cui si risolve il problema della compra di una balla di cotone o di un sacco di grano.

 

 

Alcuni anni fa si diceva che queste erano idee da economista borghese o da tradeunionista inglese. Oggi, uno spirito geniale e colto, come l’on. Turati, non teme di degradarsi stabilendo in lire e centesimi il conto del dare e dell’avere degli scioperi.

 

 

È un progresso grande. Purtroppo gli operai spesso non capiscono ancora l’utilità dei calcoli e non tengono conto – è una melanconica e giustissima osservazione di Turati – dei consigli che uomini competenti loro trasmettono intorno alle condizioni dell’industria, prima di mettersi in isciopero.

 

 

Le diffidenze passeranno. Giorno verrà in cui le leghe operaie sentiranno la necessità di pagare adeguatamente periti, i quali le tengano informate delle vicende dei prezzi, del costo delle materie prime, delle nuove invenzioni, ecc., e dieno consigli sulle tariffe delle mercedi e sulle clausole del contratto di lavoro in guisa da non correre il pericolo di chiedere cose incompatibili con le condizioni dell’industria.

 

 

Se ad affrettare quel giorno l’on. Turati dedicherà un po’ dell’opera sua, gli economisti, – i quali ora gli invidiano le sue brillanti facoltà di popolarizzatore efficace e di esemplificatore caustico della scienza loro, – lo metteranno nel novero dei più benemeriti cooperatori della formazione di una nuova ed eletta classe operaia.

 

 

Il riconoscimento delle leghe operaie

Il riconoscimento delle leghe operaie

«La Stampa», 27[1], 29[2] luglio 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino, 1959, vol. I, pp. 408-416.

 

 

I

 

Le discussioni che si sono fatte intorno al recente lodo arbitrale dell’on. Zanardelli hanno reso di molta attualità la questione del riconoscimento giuridico delle leghe e delle rappresentanze dei lavoratori. Da molti si disse: se le leghe fossero state riconosciute legalmente, gli armatori non avrebbero potuto sollevare in limine litis la nota pregiudiziale, e l’arbitrato avrebbe potuto proseguire fino alla definizione della vertenza. La questione è grave. Si sa che il presidente del Consiglio sta preparando un disegno di legge relativo appunto alla rappresentanza giuridica dei lavoratori; ma si ignora quali siano i concetti fondamentali della nuova legislazione e quale sia la portata della personalità giuridica che si vorrebbe attribuire alle leghe. Prima di dire quali, secondo il nostro parere, dovrebbero essere gli intenti del legislatore nel codificare questa materia, crediamo opportuno di esporre brevemente i concetti informatori delle leggi straniere a questo proposito. Poiché il problema del riconoscimento giuridico delle leghe si pose anche altrove, e fu in tempi diversi diversamente risoluto da paesi più innanzi di noi nello sviluppo industriale.

 

 

Il dibattito fu sovratutto lungo e vivissimo in Inghilterra. La legislazione era stata in passato contraria alle leghe operaie. Una legge del 1800, che riassumeva le disposizioni anteriori, dichiarava illegali gli accordi fra giornalieri ed altri operai per ottenere aumenti di salario, riduzioni delle ore di lavoro, o qualsiasi altro mutamento nei patti del lavoro. Coloro che si accordavano a tali intenti potevano essere sommariamente condannati alla prigione dai giudici di pace, i quali potevano infliggere la medesima pena a chiunque cercasse, con la persuasione, con la intimidazione od altrimenti, di impedire ad un operaio di accettare o di continuare un qualsiasi lavoro. Contro la draconiana legislazione, i lavoratori lottarono con pertinacia e con vigoria per lunghi anni. Vittoriosi nel 1824, novamente sconfitti nel 1825, riuscirono finalmente con l’atto del 1871, emendato nel 1876, a conquistare quella che a ragione fu detta la magna charta delle libertà operaie. Le Trade-Unions o leghe operaie furono dichiarate lecite sia che siano costituite, temporaneamente o permanentemente, fra operai ed operai, tra imprenditori ed imprenditori, e tra operai ed imprenditori, malgrado che esse abbiano per intento di imporre condizioni restrittive alla condotta di una industria o di un commercio. Se ognuno può associarsi ad altri, nessuno può però essere costretto a rimanere nella lega ed a pagare la promessa contribuzione o ad obbedire alle regole che la lega ha imposto ai suoi membri riguardo ai modi di impiegare altrui o di collocarsi come salariato presso altri. In conclusione, massima libertà per tutti, operai ed imprenditori, di associarsi per difendere i propri interessi; ma facoltà illimitata a tutti di ritirarsi dalla lega o di non obbedire alle regole sociali, quando ciò dal socio non sia ritenuto conveniente.

 

 

Le norme, in quanto sanciscono il diritto di associazione operaia e padronale, valgono per tutte le leghe. Una volta costituite, le leghe possono, senza esservi obbligate, fare registrare i propri statuti presso l’ufficio del registratore delle Friendly Societies o società amichevoli. La registrazione – la quale, si noti bene, è puramente facoltativa – impone alle società dei doveri ed attribuisce dei diritti. I doveri sono i seguenti: 1) inviare al registratore il proprio atto costitutivo, gli statuti, i regolamenti, la lista dei nomi del presidente, dei segretari, tesorieri ed altri funzionari della lega. Le leghe sono completamente libere di assumere il nome (purché non sia già adottato da altra lega) che preferiscono, di adottare quella organizzazione speciale, accentrata e federativa che desiderano. Esse devono soltanto negli statuti specificare gli scopi della lega, il modo di compilare, modificare e revocare i regolamenti, l’impiego dei capitali sociali, i tempi ed i modi delle elezioni alle cariche sociali, ecc.; 2) ogni anno le leghe devono mandare al registratore un resoconto delle entrate, spese e dello stato patrimoniale della società, distinguendo le varie spese a norma degli scopi sociali. Copia del resoconto deve essere inviata ai soci richiedenti. La violazione delle regole importa il pagamento di una multa di 125 lire.

 

 

Agli obblighi corrispondono i diritti: 1) la lega è rappresentata dai suoi amministratori e può possedere beni mobili od immobili. Non vi è limite alla quantità di beni mobili che può essere posseduta dalle leghe; quanto ai beni immobili, la loro estensione non può superare un’acre, ossia 4.000 metri quadrati; 2) gli amministratori possono citare ed essere citati in giudizio per tutto quanto si riferisce ai beni mobili ed immobili posseduti dalla lega, ma non per altro, e non possono quindi stare in giudizio per questioni di indole industriale, essere obbligati a pagare multe inflitte ai soci per contravvenzione a regolamenti di fabbrica o ad accordi presi tra operai e padroni, citare in giudizio i soci per obbligarli a pagare le quote sociali, essere citati dai soci a pagare i soccorsi promessi in caso di sciopero, malattia, vecchiaia, disoccupazione; neppure possono essere citati in giudizio dagli imprenditori quando gli operai abbiano violato un patto conchiuso collettivamente dalla lega e relativo alle condizioni del lavoro; 3) i tesorieri delle leghe sono obbligati a rendere regolare conto dei fondi sociali, e consegnare, a richiesta, agli amministratori il patrimonio e le carte sociali. Se il tesoriere trasgredisce ai suoi obblighi, gli amministratori possono farlo citare in giudizio ed ottenerne la condanna alla restituzione delle somme indebitamente appropriate ed al pagamento delle spese.

 

 

Qui è tutto quel che si riferisce al riconoscimento giuridico delle leghe tra operai in Inghilterra.

 

 

Le stesse disposizioni furono quasi testualmente copiate dai legislatori delle colonie inglesi: Canadà, Australia, Nuova Zelanda, ecc. Se ben si guarda, l’unico intento della legislazione anglo-sassone si è quello di garantire la libertà di associazione, di riconoscere la personalità delle leghe per quanto si riferisce ai fondi sociali e di proteggerle contro i latrocinii dei cassieri, i quali, profittando della inesistenza giuridica delle leghe, potevano appropriarsi i fondi sociali senza che le leghe avessero modo di tradurli in giudizio. La legge non crea alcuna rappresentanza legale degli operai, né in genere, né per singoli mestieri; anzi, in una medesima industria possono costituirsi parecchie leghe fra di loro concorrenti. La legge non obbliga gli operai ad iscriversi ad una lega e neppure ad osservare gli statuti della società in cui si sono iscritti e da cui possono sempre uscire. Le leghe degli operai possono conchiudere colle leghe degli imprenditori i patti relativi alle condizioni del lavoro; ma non sono responsabili del loro adempimento e non possono essere costrette a pagare i danni quando gli operai contravvengano ai patti conchiusi. La personalità giuridica non è imposta a tutte le leghe, ma attribuita a quelle sole che lo desiderino. Le leghe non registrate – e sono molte – vivono all’infuori delle garanzie concesse dalla legge riguardo all’amministrazione sociale ed al maneggio dei fondi di cassa. In sostanza questa è l’unica differenza veramente importante che le distingue dalle leghe registrate. Questo è bene fosse messo in rilievo: che l’unica forza di cui le Trade-Unions godono in Inghilterra è ancora una forza morale, di fatto. Gli imprenditori contrattano con le leghe non perché le possano obbligare a rispettare gli impegni assunti, ma perché sanno essere le leghe corpi fortemente costituiti, che mantengono la parola data ed esercitano un’influenza morale decisiva sugli operai in guisa da indurli ad osservare le convenzioni accettate dalla lega.

 

 

Più breve discorso faremo rispetto agli altri paesi. In Francia la legge del 21 marzo 1884 aboliva la legislazione del 1791 la quale vietava le associazioni operaie. I sindacati od associazioni professionali possono essere istituiti senza uopo di consenso governativo. Gli statuti e le liste dei nomi dei componenti la direzione devono inviarsi al sindaco. I sindacati possono unirsi in federazioni. Essi possono accumulare fondi ed impiegarli per gli scopi sociali. Ogni socio può ritirarsi dal sindacato, nonostante patto in contrario, pagando la quota dell’anno corrente. I sindacati possono essere consultati quando sorgano controversie sui patti del lavoro. Essi possono prendere parte agli appalti di lavori pubblici banditi dal governo e dai comuni.

 

 

Nel Belgio la legge del 31 marzo 1898 combina insieme le disposizioni delle leggi inglesi e francesi.

 

 

In Germania il codice industriale del 1869 garantisce la libertà di associazione. Ma le leghe operaie non hanno personalità giuridica, non possono possedere, citare ed essere citate in giudizio.

 

 

In Austria la legge del 7 aprile 1870 dichiara non essere illegali le coalizioni temporanee fra operai allo scopo di migliorare le proprie condizioni. Quanto alle associazioni permanenti, la legge del 15 novembre 1867 le permette, quando al governo, caso per caso, ciò sembri conveniente, circondando però tale permesso con condizioni poliziesche, come l’obbligo di comunicare alle autorità il nome di tutti i soci, di lasciare intervenire ad ogni adunanza un rappresentante del governo, ecc. ecc.; condizioni incompatibili colla libertà di associazione e di resistenza.

 

 

II

 

Sul fondamento della esperienza fatta altrove e dei principii economici è possibile dire quali dovrebbero essere i principii informatori della legge di riconoscimento delle leghe operaie. L’esempio migliore da seguire è ancora quello inglese, al quale i legislatori dei paesi industrialmente più progrediti si sono inspirati. Come in Inghilterra, le leghe debbono essere libere di esistere unicamente in fatto, in virtù del principio generale della libertà d’associazione. Quelle fra le leghe che lo desiderino devono poter acquistare la personalità giuridica, col solo uniformarsi a certi requisiti voluti dalla legge. Questi requisiti devono consistere sovratutto nella pubblicità degli statuti ed atti sociali, dei bilanci annui, ecc. Gli statuti debbono contenere le norme relative alle nomine alle cariche sociali ed enunciare gli scopi sociali, liberamente stabiliti dai soci, purché non contrari alle leggi ed all’ordine pubblico. Nessun altro obbligo deve essere imposto alle leghe, se non si vuole soffocare il movimento operaio con soverchie restrizioni.

 

 

Come gli obblighi, anche i diritti che si dovranno riconoscere alle leghe sono semplicissimi: riconoscimento della personalità giuridica col diritto di possedere gli immobili necessari per gli scopi sociali ed una quantità illimitata di beni mobili. Gli amministratori delle leghe abbiano il diritto di citare e stare in giudizio per quello che si riferisce alla proprietà ed all’amministrazione dei fondi sociali. Essi siano responsabili di fronte ai terzi ed ai soci per gli obblighi imposti dallo statuto, per la esatta tenuta dei conti e la sorveglianza sui tesorieri, cassieri ed impiegati sociali. Le leghe possano impiegare i fondi sociali per il raggiungimento degli scopi indicati nello statuto, purché non siano contrari all’ordine pubblico. Possano cioè formare dei fondi per aiutare gli operai in caso di sciopero, di disoccupazione forzata, di malattia, di invalidità, di vecchiaia, di viaggio per trovar lavoro, istituire uffici di collocamento, di conciliazione, ecc. Gli amministratori devono essere liberi di stornare le somme esistenti in cassa da uno scopo all’altro, a seconda che l’uno o l’altro sia più urgente da raggiungere ed i soci non devono poter pretendere un diritto acquisito sui fondi accumulati a scopo di previdenza e mutuo soccorso.

 

 

Questi e non altri ci sembra debbano essere i principii informatori della legislazione relativa alle leghe. Andar più in là sarebbe pericoloso sotto parecchi rispetti.

 

Noi non crediamo, ad esempio, conveniente che la legge dia norme troppo minute riguardo all’impiego dei fondi sociali. Chi entra in una lega sa benissimo che lo scopo principale è quello dell’elevazione delle sorti dell’operaio mediante la resistenza. Egli spera che la società mercé i fondi accumulati possa dargli altresì un sussidio in caso di malattia o di vecchiaia o di disoccupazione volontaria. La speranza non deve tuttavia convertirsi in diritto, poiché può darsi che l’interesse sociale esiga che tutto il fondo di cassa sia speso in uno sciopero. Dopo la vittoria i soci potranno ricostituire il capitale consumato e dedicarlo ad adempiere gli altri scopi sociali. Se si facesse altrimenti, le leghe si convertirebbero in società di mutuo soccorso pure e semplici. Gli operai inglesi non hanno mai voluto saperne di vincoli che avrebbero ridotto le loro mirabili leghe, – organi di mutua assicurazione in tempo di pace sociale ed organi di resistenza in tempo di lotta, – alla funzione di distribuire soccorsi secondo certe tabelle regolamentari. È da sperare che anche gli operai italiani vedranno il pericolo e sapranno stornarlo.

 

 

La legge non dovrebbe dare alle leghe la qualità di rappresentanti legali della classe dei lavoratori. Ciò discende logicamente dalle cose dette. Se le leghe devono essere libere di costituirsi, di chiedere o non il riconoscimento giuridico, di proseguire differenti scopi sociali a seconda degli interessi dei soci, ne deriva che esse non possono trasformarsi in una istituzione pubblica, rappresentante tutti i lavoratori, come la camera di commercio, a cui appartengono tutti coloro che hanno le qualità richieste per essere elettori commerciali. Se si vuole creare una rappresentanza dei lavoratori, a somiglianza delle camere di commercio e dei comizi agrari, si creino delle camere del lavoro ufficiali, le quali abbiano la funzione di presentare memoriali al governo sugli interessi della classe lavoratrice, di fare indagini sulle condizioni degli operai, ossia di fare quelle cose talvolta utili e talvolta indifferenti che fanno o non fanno le ufficiali camere di commercio ed i sonnolenti comizi agrari. Ma è chiaro che istituzioni pubbliche di questo genere non hanno nulla a che fare colle leghe, le quali sono, è bene ripeterlo ancora una volta, associazioni di operai che volontariamente si riuniscono per migliorare, a volta colla resistenza ed a volta colla mutua assicurazione, le proprie sorti.

 

 

La legge non deve rendere obbligatoria l’iscrizione degli operai alle leghe. Chi sappia cosa erano le corporazioni d’arti e mestieri nei secoli scorsi, i danni da esse arrecati alla economia ed alla produzione, comprenderà senz’altro l’importanza del nostro asserto. Può sembrare a molti ozioso combattere contro un’istituzione morta da un secolo. Ma purtroppo vi è chi si illude di fare opera di progresso facendo risorgere istituzioni medioevali; ed è tendenza altresì disgraziatamente diffusa nelle leghe a volere imporsi, annullando la libertà del lavoro, anche agli operai ribelli all’associazione. Pretesa assurda che distruggerebbe il fondamento medesimo della nostra vita economica.

 

 

La legge non deve imporre ai soci di uniformarsi alle deliberazioni sociali che non riguardino l’impiego del fondo della lega e le altre deliberazioni statutarie. La norma discende dal principio della libertà del lavoro. I soci di una lega possono, volendo, obbedire ad una deliberazione di sciopero; ma non debbono esservi obbligati. Il socio deve sempre poter uscire dalla lega, pagando la contribuzione dell’esercizio in corso, senza avere alcun diritto ad una parte del patrimonio sociale. Il che è evidente poiché il patrimonio sociale deve servire agli scopi indicati dallo statuto e solo in via indiretta a beneficio particolare dei soci.

 

 

Le leghe non devono avere personalità giuridica per obbligarsi di fronte agli imprenditori a fare osservare dai soci operai i contratti relativi al lavoro. Se gli operai vogliono obbligarsi collettivamente di fronte all’imprenditore ad eseguire un lavoro in un dato tempo, con certe regole, ecc., si costituiscano in società cooperativa ed avranno raggiunto il loro scopo. Ma una lega non deve poter assumere obblighi giuridici riguardo al contratto di lavoro. Altrimenti i fondi sociali saranno posti alla mercé degli imprenditori che abbiano voglia di litigare per il non adempimento di certe clausole di un contratto di lavoro conchiuso dalla lega a nome dei suoi operai. Gli operai inglesi non hanno mai voluto ottenere la personalità giuridica per le loro leghe in questo senso; ed hanno fatto benissimo.

 

 

A molti potrà sembrare che un riconoscimento giuridico con le limitazioni ora ricordate non abbia nessuna importanza. A noi sembra invece – e l’esperienza è d’accordo con noi – che solo in tal modo le leghe operaie possano diventare un mezzo potente di elevazione sociale.

 

 

Prive del diritto di costringere gli operai a seguire i loro cenni, esse dovranno dimostrare coi fatti di essere capaci di procacciare il bene ai loro soci.

 

 

Prive della personalità giuridica per quanto si riferisce all’esecuzione dei contratti di lavoro, gli imprenditori consentiranno a trattare colle leghe, non perché sapranno di poter chiedere in tribunale i danni e gli interessi in caso di inosservanza del contratto, ma perché avranno fiducia che la forza morale delle leghe sia tale da indurre gli operai a rispettare i patti convenuti. Il che, quanto giovi a disciplinare ed ad educare al concetto del dovere le maestranze operaie non è chi non veda.

 

 

Dotate del diritto di possedere, le leghe che adesso in Italia, colla leggerezza dei giovani e dei poveri, troppo facilmente iniziano scioperi ingiustificati, diverranno prudenti. Gli amministratori di una lega, forte di decine o di centinaia di migliaia di lire di capitale, rifletteranno a lungo prima di azzardare i risparmi, faticosamente accumulati, in uno sciopero, di cui l’esito possa essere disastroso. Il che vuol dire che le leghe faranno quelle sole domande che siano compatibili colle condizioni dell’industria e siano, per ciò stesso, giustificate.

 

 



[1] Con il titolo Il riconoscimento delle leghe all’estero. [ndr]

[2] Con il titolo Per una legislazione italiana sulle leghe operaie. [ndr]

L’insuccesso dell’arbitrato dell’on. Zanardelli

L’insuccesso dell’arbitrato dell’on. Zanardelli  

«La Stampa», 25 luglio 1901[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 404-407

 

 

L’insuccesso dell’arbitrato dell’on. Zanardelli nella grave questione del conflitto fra gli armatori e i lavoratori di bordo del porto di Genova, è dovuto esclusivamente alla triste influenza della politica nelle manifestazioni economiche del recente periodo di vita italiana. Quando alla camera ebbe luogo l’ampia discussione di politica interna, si insistette dal governo sulla libertà dello sciopero e sulla giustizia del movimento dei lavoratori, intesi ad un aumento di salario: e noi, che abbiamo sempre riconosciuto onesto il desiderio di migliorare la propria condizione, facevamo voti che gli scioperi si ispirassero puramente e semplicemente a cause e a scopi economici, perché là dove si fossero ispirati a fattori politici, ne sarebbero derivati danni al capitale e al lavoro, all’industria e alla mano d’opera.

 

 

La pregiudiziale contro cui si è spezzata la buona volontà del governo nella questione di Genova, è una riprova chiarissima che la politica entra, più di quello che dovrebbe, nelle rivendicazioni economiche dei lavoratori.

 

 

Infatti, se l’arbitrato dell’on. Zanardelli è quasi fallito, – per non dire addirittura fallito, – lo si deve ad una questione puramente politica: gli armatori non vollero riconoscere le leghe, e i rappresentanti delle leghe dichiararono di non voler trattare più oltre, qualora questa loro qualità non fosse esplicitamente riconosciuta.

 

 

Se le leghe fossero state la diretta rappresentanza dei lavoratori di bordo, i quali soli erano interessati nella vertenza, nessun dubbio che gli armatori avrebbero faziosamente operato nel non volerle riconoscere; poiché è evidente che è diritto degli interessati scegliere i rappresentanti, e la parte avversa non ha diritto, a priori, di ricusarli. Nel caso speciale le leghe rappresentavano troppo, e troppo poco; troppo, perché esse comprendevano lavoratori che non avevano interesse alcuno nella vertenza; troppo poco perché non rappresentavano tutti coloro che questo interesse avevano.

 

 

Si comprende perciò che gli armatori abbiano sollevato la pregiudiziale: trattiamo, sì, ma con chi ha mandato di rappresentare tutti gli interessati, non con chi ne rappresenta una parte sola, e viceversa poi rappresenta anche chi non ha nulla da vedere nella questione che forma oggetto dell’arbitrato.

 

 

Ai rappresentanti delle leghe, per ragioni puramente politiche, premeva troppo ottenerne implicitamente il riconoscimento, per potere transigere su questa pregiudiziale; e, insistendo gli armatori e i rappresentanti delle leghe, la materia di controversia, che è di natura assolutamente economica, rimane, come prima, insoluta, senza nemmeno avere formato oggetto di esame!

 

 

Così alla politica sono stati sacrificati gli interessi dei lavoratori, degli armatori e quelli nazionali del porto di Genova; poiché nessuno può essere tanto ingenuo da credere che tutto debba finire con un arbitrato abortito. Le leghe vorranno la rivincita, e a furia di propaganda l’avranno, poco importa se verrà compromesso il benessere dei lavoratori. Quando si ha di mira uno scopo politico, si bada assai poco al lato economico. Se invece il benessere economico dei lavoratori fosse stato l’unico e supremo pensiero delle leghe, l’on. Zanardelli avrebbe potuto proseguire nel suo arbitrato, e senza dubbio in esso si sarebbe affermato qualche notevole miglioramento o nella paga o nelle ore di lavoro, e la pace e la concordia sarebbero ritornate negli animi con vantaggio di tutti.

 

 

Quanto all’opera dell’on. Zanardelli, ci sembra evidente che egli abbia tardato troppo ad accorgersi, o, meglio, si sia troppo a lungo illuso di poter fare a meno di accorgersi della pregiudiziale che ha tolto efficacia all’arbitrato. Almeno doveva accorgersene chiunque avesse avuto un’idea ben chiara di che cosa sia giuridicamente un arbitrato.

 

 

Questo suppone: in primo luogo che esistano due parti contendenti, riconosciute, sia legalmente sia in fatto, dalla parte avversaria, e che queste due parti siano d’accordo nel deferire ad un arbitro, in guisa inappellabile, la decisione di una vertenza; in secondo luogo che queste due parti contendenti si siano messe d’accordo sui punti controversi che si tratta di risolvere.

 

 

Nessuna di queste due condizioni era osservata nello sciopero genovese. Non era osservata la prima, perché si sapeva che una delle parti contendenti, gli armatori, non volevano riconoscere le leghe come rappresentanti della classe operaia; e d’altra parte si sapeva che gli onorevoli Chiesa, Pellegrini ed Altobelli professavano apertamente di non volere rappresentare gli operai in genere, ma esclusivamente le leghe, ossia un ente non riconosciuto legalmente e neppure riconosciuto in linea di fatto dagli imprenditori. Come si può emanare un arbitrato tra due persone giuridiche, tali in fatto o in diritto, l’esistenza dell’una delle quali è negata dall’altra, e di cui l’una afferma di volere esistere in quella forma la quale precisamente dall’altra non è riconosciuta?

 

 

È doveroso riconoscere che l’on. Zanardelli aveva veduto l’assurdo; ma nel desiderio di fare opera buona aveva voluto eludere la difficoltà accettando l’arbitrato dall’on. Chiesa, quale presidente del comizio dei lavoratori di bordo e del capitano Vaccaro, quale presidente della commissione degli armatori, ossia dai presidenti di due enti di fatto, nati in occasione dello sciopero, e che si poteva supporre non potessero essere disconosciuti l’uno dall’altro.

 

 

La difficoltà, elusa per un momento, risorgeva subito da un altro punto di vista. Se anche si suppone che la vertenza esistesse fra il comizio dei lavoratori di bordo e la commissione degli armatori, era ufficio dell’arbitro interpellare le due parti per sapere se esse erano d’accordo sui punti controversi da risolversi col lodo arbitrale. L’on. Zanardelli avrebbe subito visto che amendue le parti volevano escludere dalla lista dei punti controversi, una questione fondamentale, quella del riconoscimento delle leghe, la quale formava come una pregiudiziale alla trattazione dei punti ulteriori. I lavoratori erano fermi a non discutere se le leghe non venivano riconosciute; e gli armatori non volevano a nessun patto dare questo riconoscimento. Era dunque perfettamente inutile parlare di arbitrato. Tutt’al più l’onorevole Zanardelli poteva interporsi per fare opera di conciliazione e vedere di condurre le parti a farsi qualche mutua concessione. Il che non si poté ottenere data la qualità arbitrale assunta dall’on. Zanardelli, il quale poteva bensì privatamente dare consigli amichevoli, ma era obbligato a pronunciare un lodo in cui dichiarasse di non poter decidere nulla.

 

 

L’esito dell’arbitrato zanardelliano conduce dunque ad una constatazione importante: che la tecnica della risoluzione delle questioni del lavoro è ancora poco progredita da noi. In Inghilterra certamente non si sarebbe confuso l’ufficio dell’arbitro con quello del conciliatore, e nessuno fra quelli che divennero famosi per lodi pronunciati sulle questioni del lavoro avrebbe accettato un arbitrato se prima le parti contendenti non avessero dichiarato di rimettere a lui la risoluzione di certe questioni pendenti coll’altra parte, chiaramente specificata e riconosciuta, e questa non avesse fatto analoga dichiarazione rispetto ai medesimi punti controversi. Ciò non vuol dire che in Italia, dove il senso giuridico è così sviluppato, gli arbitrati non possano attecchire; significa soltanto che essi vogliono essere preparati con quelle cautele con cui si instaura un qualsiasi altro giudizio civile.

 

 



[1] Con il titolo Triste influenza della politica [ndr]

Un giusto dilemma

Un giusto dilemma

«La Stampa», 24 luglio 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 400-403

 

 

Il dilemma è posto dal giornale socialista l’«Avanti!», il quale denuncia l’indifferenza generale con cui sono state accolte le sue notizie intorno al nuovo progetto di riforma finanziaria che il ministro Wollemborg sta allestendo.

 

 

La riforma non era cosa da poco e non era una ripetizione dei soliti progettini. Il Wollemborg, di cui la commissione finanziaria aveva trovato inaccettabile l’omnibus abbastanza modesto di questa primavera, aveva voluto cambiar sistema e fare in grande. E così il suo nuovo progetto importava nientemeno che l’abolizione completa del dazio comunale e governativo, il passaggio dell’imposta fondiaria e delle categorie B e C dell’imposta di ricchezza mobile ai comuni e la creazione di una nuova imposta globale sul reddito per 200 milioni all’anno a favore dello stato.

 

 

Malgrado che il progetto fosse significativo di nuove tendenze e rappresentasse quasi una rivoluzione nel sistema tributario italiano, nessuno se ne occupò. Alcuni non presero sul serio le elucubrazioni di un ministro che ritenevano se ne sarebbe andato via prima della fine delle vacanze; altri pensarono che il nuovo progetto sarebbe stato seppellito, come i precedenti, dalla commissione finanziaria competente e che non valesse perciò la pena di farlo oggetto di studi e di commenti. L’«Avanti!», dinanzi a questa situazione di cose, pone al governo un dilemma: impegnare una lotta a fondo per l’attuazione della riforma tributaria, o far sapere chiaramente che non si sente di iniziare questa lotta.

 

 

Il giornale socialista ha ragione. La questione delle riforme tributarie ha finito per assumere in Italia un carattere quasi grottesco. Sono decine d’anni che si ripetono sempre gli stessi argomenti in favore della riforma tributaria.

 

 

Chi scrive ha sott’occhio un curioso volume di Pensieri, sentenze e ricordi di uomini parlamentari raccolti dagli atti del senato e della camera da Edoardo Arbib (Barbera 1901). È un volume che nello stesso tempo fa sorridere e fa pensare. Apritelo al capitolo delle «questioni finanziarie» e voi vedrete che nel primo parlamento subalpino si facevano le stesse accademiche discussioni che si ripetono adesso intorno al miglior principio in base al quale dare stabile assetto ai tributi.

 

 

Matteo Pescatore, nella tornata della camera del 28 novembre 1848, dimostrava la necessità dell’imposta progressiva, «perché se colui che ha 150 lire di rendita contribuisce un decimo alle spese dello stato, io domando se adempie egualmente a questo dovere colui che avendo 150 mila lire di rendita contribuisce per solo un decimo. Se costui gode in proporzione maggiore dei profitti delle scienze, delle arti e delle industrie, non è egli vero che debba eziandio contribuire, secondo una legge di progressione, da che appunto, secondo una legge di progressione, gode di questi vantaggi?».

 

 

Il Pescatore diceva queste cose per rispondere a Camillo Cavour che nella tornata del 28 ottobre dello stesso anno aveva dichiarato «essere dovere della camera di pronunciare contro questo fatale sistema dell’imposta progressiva una formale sentenza, onde impedire che le funeste idee, che ne sono la conseguenza, si spargano nel pubblico ed inspirino negli animi un’inquietudine ed una sfiducia che cagionerebbero una perturbazione economica gravissima».

 

 

Elevata discussione, che forse vedremo riprodursi a novembre dell’anno corrente quando il ministro delle finanze presenterà il suo progetto d’imposta globale progressiva sul reddito.

 

 

È molto probabile che dopo avere molto ed elegantemente dissertato, non si riuscirà a nessuna conclusione, perché i più per inerzia ed orrore del nuovo saranno portati a pensare col Lanza (discorso del 5 luglio 1864) «che val meglio un’imposta anche un po’ cattiva, ma vecchia, che un’imposta nuova, ma migliore, sia per l’effetto che produce sul contribuente la novità stessa della tassa, che per le difficoltà dell’applicazione», o col Ferrara (discorso del 9 maggio 1867) «che val meglio per il tesoro, non meno che per la nazione, un’imposta difettosa, ma vecchia, anziché un’imposta nuova quando una necessità indeclinabile non lo esiga».

 

 

Teoria questa un po’ scettica, ma che, per il suo fondo di verità, serve mirabilmente a tutti i partiti da una parte a promettere ai contribuenti l’attuazione dell’ideale regime tributario, e dall’altra a non far nulla, riconoscendo le difficoltà dell’applicazione pratica delle riforme ideali.

 

 

È tempo però che si metta un termine al sistema del promettere molto e dell’attendere corto, o, meglio, del non attendere affatto. I contribuenti e gli elettori erano già divenuti scettici; ma avevano ancora qualche speranza confortata dalle dichiarazioni recenti e recise di uomini che ora sono al governo. Se anche la speranza verrà meno, non vi è il pericolo che gli elettori finiscano per buttarsi in braccio a quei partiti estremi, i quali promettano non la riforma, ma lo sconvolgimento della finanza italiana, con la riduzione forzata della rendita al 3%, la riduzione di 100 milioni sui bilanci militari ed altrettali follie?

 

 

Il pericolo è grave, se si pensa alla rapidità con cui le masse italiane hanno imparato il modo di far sentire i loro desideri. Sinora esse si sono occupate di ottenere garanzie della libertà di sciopero. Ma già pensano ad avviarsi verso altra meta; e quando si saranno incamminate, sarà troppo tardi per arrestarne il moto, il quale, per l’inesperienza dei capitani e dei gregari, potrà essere rovinoso.

 

 

A ciò deve pensare il gabinetto, dimostrando di voler compiere qualche riforma, magari piccola, ma tale da recare un qualche sostanziale vantaggio, senza scuotere la solidità del bilancio e la compagine dello stato.

 

 

Né speri il governo di poter nascondere la propria responsabilità dietro quella del ministro delle finanze. Non basta dire o lasciar dire che la colpa è tutta del ministro Wollemborg, il quale ha compilato e continua a mettere insieme progetti stravaganti o troppo grandiosi. La responsabilità delle proposte di riforma tributaria è dell’intero gabinetto, dove pur si contano uomini competentissimi in materia, e noti per avere esposto programmi di riforma discutibili bensì, ma assennati.

 

 

Si metta dunque d’accordo il ministero su un piano di riforma ragionato e sostenibile, ed alla camera lo sostenga validamente, vincendo o cadendo su di esso. È questo il solo modo di far rinascere nella pubblica opinione la fiducia nella capacità del governo ad attendere alle premesse fatte in materia di tributi. In fondo il pubblico italiano – il quale ha molto buon senso e sa benissimo come le grandi riforme non si possono improvvisare da un momento all’altro senza sconquassare la macchina governativa – si contenterebbe anche di poco; ma desidera si cominci.

 

 

Altrimenti si convincerà sempre più che tutti i governi siano d’accordo per recitare la farsa, e che per ottenere qualche cosa bisogna prima fare piazza pulita delle istituzioni esistenti. Convincimento pericoloso, che è dovere assoluto delle classi dirigenti e governanti non lasciar radicare nelle masse.

Buon senso e spirito anarcoide

Buon senso e spirito anarcoide

«La Stampa», 18[1] e 26[2] luglio 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 389-394

 

 

I

 

«La coerenza ai principii questo importa e in questo consiste: di mutare movenze dove mutino le concrete contingenze di fatto». Sono parole scritte da Filippo Turati in un opuscolo, dove si disamina il contegno del partito socialista di fronte all’attuale momento politico in Italia. E sono parole le quali dipingono l’uomo, una fra le menti più equilibrate che vanti il partito socialista italiano. Da un pezzo era evidente che il Turati si trovava un po’ a disagio in mezzo agli energumeni di cui il suo partito è copioso, adoratori sistematici delle formulette contenute nella misteriosa bibbia marxista od in altri libri sacri ancora più misteriosi. A più riprese egli non aveva celato la sua antipatia profonda per coloro che, avendo l’intelligenza corta od essendo accecati da acuto morbo socialistico, pretendono di risolvere ogni problema con le ricette fornite dalle farmacie dove si vendono le frasi sonore della «lotta di classe», della «borghesia sfruttatrice», del «governo capitalista», della «stampa forcaiola» e dell’«esercito strumento di reazione».

 

 

Oggi il frastuono volgare suscitato attorno al doloroso fatto di Berra, e le accuse di ibrido connubio col governo massacratore del proletariato rivolte ai socialisti parlamentari da un gruppo di nevrastenici napoletani sembrano avere esaurito la pazienza di Filippo Turati. Il breve opuscolo è il manifesto della parte più ragionevole ed intelligente del partito socialista e delle idee che si sono andate svolgendo attraverso ad una lunga serie di conati, di errori e di lotte? Se noi amassimo i paragoni, potremmo dire che il programma di Turati ha per l’Italia la stessa importanza che ebbe la politica moderata di Vollmar in Germania, la creazione della società fabiana in Inghilterra e l’ascesa di Millerand al governo di Francia.

 

 

L’atteggiamento odierno di Turati non è nuovo e non significa rottura col passato. Chi abbia seguito sulla «Critica sociale» lo svolgersi graduale del suo pensiero politico il suo linguaggio odierno appare l’espressione matura di convincimenti acquisiti dopo non lievi dubbi e sperimenti. Perciò il suo linguaggio è significativo. Non è il voltafaccia di un debole e di un impulsivo, ma l’espressione di chi ha coscienza del dovere di misura e di temperanza spettante ad un partito organizzato.

 

 

Egli è rimasto molto seccato, durante i comizi per i fatti di Berra, «dall’esagerazione dei racconti e dalla violenza delle parole degli energumeni sedicenti popolari, i quali sembravano col loro contegno tradire sovratutto il rammarico che quei poveri morti non fossero più numerosi e che il fatto di Berra non fosse stato più atroce». E si accinge a spiegare perché «il partito socialista non debba indugiarsi in cerca di pose eroiche per continuare in qualche modo, coreograficamente, l’atteggiamento ostruzionista, il cui fine era raggiunto».

 

 

Dei due opposti uffici che ogni partito d’avvenire deve a volta a volta esercitare, – di eccitatore dei torpidi e di moderatore degli impulsivi, – è chiaro, secondo l’on. Turati, che il secondo è quello che il momento più impone.

 

 

Noi non siamo socialisti, ma è certo che anche alla parte costituzionale non può piacere l’esistenza di un «partito socialista spinto da impazienze bambinesche ed ubbriacato dalla vittoria», e dobbiamo essere lieti che il Turati lo metta alla berlina insieme «ai bei gesti ed alle allegre volate degli irresponsabili bevitori di frasi».

 

 

I tribuni esaltati non fanno mai bene ad una nazione; e per quanto da un punto di vista meschinamente partigiano si potesse essere lieti di veder trionfare nei partiti avversari le teorie più stravaganti e matte, antesignane sicure della disfatta finale del partito, è doveroso riflettere che gli eccessi partigiani sono sempre causa di danno ai popoli in mezzo ai quali si producono; ed è doveroso preferire avere a che fare con un partito il quale si proponga, seguendo il programma di Turati, di «affrettare il consolidamento della libertà e del rispetto alla legge, di estendere l’organizzazione del proletariato; di agevolare le riforme tributarie e militari tanto attese dal paese; di preparare una seria ed efficace legislazione protettiva del lavoro industriale ed agricolo».

 

 

Su molti punti di questo programma si può dissentire, se non sulla sostanza, sulla modalità e sulla misura. Sarà questo un contrasto fecondo di idee, non la lotta rabbiosa di partigiani che vomitano basse ingiurie l’uno contro l’altro.

 

 

Sul punto dell’educazione politica il Turati discorre assai chiaramente ed assennatamente. Lo irrita in special modo il fatto delle due faccie di taluni socialisti, i quali a Roma ed in parlamento appoggiano il governo, salvo a gridare come ossessi contro gli atti dei governanti nei pubblici comizi. Egli non vuole che il socialista sia, «come altri fa, uno in piazza ed altro a palazzo; e si faccia perdonare il buon senso colle parole sgangherate e colla cattiva predica il ben razzolare». Non gli piace che si imiti l’esempio dei deputati socialisti francesi «i quali, tutti quanti, sostengono il gabinetto Waldeck-Rousseau; soltanto, – scrive il Jaures, – gli uni lo sostengono senza ingiuriarlo, gli altri… caricandolo di

contumelie. Questione di buon gusto ed anche di rispetto verso se medesimo».

 

 

Parole assennate; ma è interessante leggere in uno scritto dell’autorevole deputato socialista i sarcasmi atroci, che noi quasi non avremmo osato scrivere, contro gli «alcoolisti della rettorica» che infestano le radunanze operaie.

 

 

I sarcasmi e le critiche vivaci dell’on. Turati avranno certo un sapore di forte agrume per molti fra i professionisti del socialismo, ai quali verrà guastato il mestiere quando saranno obbligati a parlare col linguaggio delle persone di garbo e ad esporre idee e programmi concreti, per cui non basta la facile loquela, ed occorre la scienza faticosamente acquistata e l’esperienza pratica della vita.

 

 

I vituperi degli energumeni non commovono l’on. Turati. Egli crede che la filosofia dell’uomo di parte sia facile e non consista se non in questo: «contentarsi di aver torto oggi… per aver ragione domani».

 

 

Novella prova del suo buon senso e della trasformazione profonda operatasi in seno al partito socialista italiano. Dieci anni fa tutti credevano – ed ancora oggi alcuni credono – che il proletariato potesse sperare salvezza soltanto da una catastrofe sociale. Oggi i più intelligenti credono che solo da una spassionata e cortese discussione cogli avversari e da una lenta evoluzione possa venire il trionfo della giustizia.

 

 

Il progresso compiuto è sostanziale. Auguriamoci che continui, perché quando gli uomini si insultano senza ascoltare l’uno le ragioni dell’altro, finiscono per odiarsi od ammazzarsi a vicenda; quando invece si adattano a discutere senza ira e senza preconcetti, quasi sempre trovano il modo di mettersi d’accordo senza sbranarsi. Fra i due metodi il secondo sembra preferibile.

 

 

II

 

L’opuscolo che poteva essere considerato un vero manifesto dell’on. Turati, manifesto da noi analizzato sopra segnava una vera e propria insurrezione contro gli elementi anarcoidi, i quali infestano il partito socialista, contro gli «alcoolisti della retorica», che predicano grosse parole alle masse per accattare applausi e popolarità; ed era tutta una spiritosa messa alla berlina dei «bei gesti e delle allegre volate degli irresponsabili bevitori di frasi».

 

 

Sembra che gli alcoolisti anarcoidi e bevitori di frasi siano riusciti a vendicarsi dei sarcasmi incisivi loro prodigati dall’onorevole deputato di Milano. Infatti, i resoconti della adunanza tenuta nella sede della federazione socialista, narrano come, dopo lunghe ed animate discussioni, sia stato respinto un ordine del giorno accettato dal Turati e dai suoi amici, in cui si lamentava appunto (quasi sunteggiando il manifesto turatiano), che l’azione del partito socialista fosse da troppo lungo tempo minacciata da fermenti malsani, da opposizioni sistematiche e da deplorevoli solidarietà con elementi estranei al partito.

 

 

La sconfitta dell’on. Turati fu accolta, dicono i cronisti, da vivi movimenti di gioia da parte degli elementi anarcoidi, rivelatisi maggioranza; onde la commissione esecutiva della federazione socialista, che aveva fatto suo l’ordine del giorno turatiano e vi aveva posto sopra la questione di fiducia, credette bene di dare le dimissioni.

 

 

La crisi è dunque scoppiata nel campo del socialismo milanese; ed è scoppiata non soltanto sotto forma di dissensi intestini, ma sotto quella, ben più grave, di una secessione dal partito. Malgrado che l’adunanza fosse finita col canto tradizionale dell’inno dei lavoratori, le speranze di componimento furono ben presto deluse. Quel centinaio di socialisti che avevano votato l’ordine del giorno turatiano, radunatisi il giorno dopo, deliberarono di inviare una lettera di dimissione motivata, secedendo dalla federazione, ed iniziando senz’altro le pratiche necessarie per costituire una nuova organizzazione socialista.

 

 

Tra i secessionisti sono i più bei nomi del socialismo milanese: gli onorevoli Turati e Majno, l’ing. Valsecchi, la signora Kuliscioff, l’avv. Beltrami, l’avv. Treves, l’avv. Caldara. Si leggono altresì alcuni nomi di operai, ma pare non costituiscano la maggioranza.

 

 

Così si è verificato quello che da lungo tempo era preveduto: la scissione tra intellettuali ed operai, che serpeggiava latente da anni, ha avuto una manifestazione esteriore. Gli operai, che sono la maggioranza, hanno voluto fare da soli, sottraendosi alla guida dei capi che li avevano addottrinati nelle teorie socialiste ed ora si spaventavano delle loro tendenze eccessivamente rivoluzionarie ed anarchiche; ed hanno agevolmente trovato chi, con facile parola, li ha persuasi che non avevano torto ad andare diritti per la via su cui si erano incamminati ed avevano invece torto i capi a spaventarsi ed a diventare timidi. Né mancò chi, volendo salire, accusò i capi già arrivati di voler arrestare il movimento operaio iniziato per poter comodamente rimanere nelle posizioni acquisite ed avere agevolezza di trescare col governo.

 

 

Vicende queste non nuove e che si manifestarono sempre quando i capi, più intelligenti e più larghi di vedute, videro la necessità di arrestarsi sulla via che conduceva al precipizio. Purtroppo però i capi si accorgono ognora del pericolo, quando è troppo vicino; e la loro opera è diventata inutile, sicché la loro voce risuona nel deserto. Così ora gli intellettuali milanesi costituiranno un nuovo partito; ma sarà un partito senza seguito. Gli operai se ne terranno lontani, sospettosi e diffidenti. I più ambiziosi tra gli intellettuali non vorranno dare il proprio nome ad una organizzazione, scarsa di numero e di votanti, la quale non potrà fornire cariche municipali, soddisfazioni di amor proprio e deputazioni al parlamento.

 

 

Se si vorrà trovar seguaci, converrà cercarli fra i più intelligenti degli operai e fra quelle classi che ora forniscono alimento ai partiti radicali. Il nuovo partito non sarà socialista, ma semplicemente radicale, con lontane aspirazioni collettiviste. Il che è un bene, poiché toglie forza al socialismo rivoluzionario; ma può essere pericoloso poiché le masse rimangono in balia dei più scapigliati agitatori. Tanto maggiore diventa perciò il dovere dei costituzionali di scendere fra le moltitudini, e cercare di ottenere quello che gli intellettuali del socialismo si confessano impotenti a fare: educarle al rispetto della legge ed al senso della lenta evoluzione della società umana.

 

 



[1] Con il titolo Una parola di buon senso [ndr]

[2] Con il titolo Una vittoria dello spirito anarcoide [ndr]

L’agitazione nel Trentino

L’agitazione nel Trentino

«La Stampa», 16 luglio 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 386-388

 

 

Le dimostrazioni dei trentini a favore della autonomia si sono rinnovate vivacissime nei giorni scorsi, dopo un periodo di tregua durata alcuni mesi. È un episodio della lotta di razze che si combatte in quasi tutte le regioni dell’impero austro-ungarico; ma è un episodio a noi più vicino di altri, poiché la lotta ha luogo fra tedeschi ed italiani, ossia fra popolazioni legate a noi coi vincoli del sangue l’una e dell’alleanza l’altra. La questione non deve essere confusa con l’altra dell’irredentismo e della unione del Trentino coll’Italia. Benché in molti trentini sia viva l’aspirazione a ricongiungersi coll’Italia, e la continua ostilità coll’elemento tedesco rafforzi sentimenti irredentisti, pure è doveroso riconoscere che essi costituiscono, più che altro, una vaga aspirazione e non sono il punto vitale dei dibattiti odierni.

 

 

I trentini oggi non chiedono l’indipendenza politica, ma combattono soltanto per l’autonomia amministrativa, giudiziaria, scolastica ed economica. A poco a poco i loro ideali si sono andati precisando e si sono concretati in domande di riforma, concrete e compatibili coll’ordinamento politico dell’impero. È lontano il giorno in cui i deputati trentini alla dieta tirolese avevano adottato una politica di muta e sdegnosa protesta, astenendosi completamente dall’intervenire alle sedute dietali e lasciando ampia facoltà ai loro colleghi del Tirolo di legiferare e di amministrare a loro piacimento.

 

 

Essi si erano accorti che una siffatta politica non era conforme agli interessi delle popolazioni da loro rappresentate, i deputati del Tirolo avendo di mira unicamente il vantaggio della parte tedesca tirolese. Spiaceva del resto ai deputati tedeschi di essere lasciati soli a capo dell’amministrazione, poiché, in tal guisa, essi avevano non solo la sostanza, ma anche l’apparenza di oppressori dell’elemento italiano, l’unico rifugio del quale riducevasi alla completa astensione.

 

 

Di qui l’accordo stipulato fra tirolesi e trentini nell’anno decorso, in virtù del quale i trentini consentivano a ritornare a partecipare ai lavori della dieta, e si prometteva di concedere una curia separata per il Trentino, cominciando così a stabilire una specie di autonomia giudiziaria. Era una promessa soltanto. Ma a far sperare nella sua attuazione concorrevano varii fatti, fra cui la nomina di parecchi professori italiani ed insegnanti in lingua italiana nell’università di Innsbruck.

 

 

Purtroppo però le promesse riforme tardarono a pigliar corpo. Mentre il progetto delle due curie si trascinava attraverso a lunghe discussioni nella dieta, i tirolesi oppositori promovevano una violenta agitazione fra i tedeschi affinché il progetto non avesse seguito; il governatore Meweldt appoggiava, ora apertamente ed ora nascostamente, l’agitazione; e si opponevano dal governo centrale difficoltà alla nomina di un quinto professore italiano, il dottor Giovanni Lorenzoni, alla cattedra di economia politica nell’università di Innsbruck.

 

 

Negli ultimi tempi la malafede dei deputati tedeschi alla dieta divenne evidente; e si palesò chiara la loro intenzione di non approvare il progetto delle due curie. I deputati italiani non vollero sanzionare colla loro presenza simile atto di malafede, e si ritirarono dalla dieta, protestando. L’agitazione si estese ben presto alle popolazioni; in tutte le città si tennero comizi; i consigli comunali di Trento e di Rovereto protestarono vivacemente. Cosicché oggi la lotta per l’autonomia ha riacquistato un carattere rivoluzionario che sembrava aver perduto. Liberali, clericali e socialisti, borghesia ed operai si uniscono tutti insieme per chiedere ad alta voce l’autonomia.

 

 

Gli oratori del comizio di Trento affermano che l’autonomia è necessaria perché il Trentino ed il Tirolo presentano tra loro diversità fondamentali. I tirolesi, affermasi, in gran parte coi denari dei trentini si sono creati la prosperità ed i grandi mezzi di comunicazione che essi vantano. «Hanno speso milioni a proprio vantaggio: a noi sono rimaste le briciole. Lo scorso anno hanno impiegato oltre due milioni in costruzioni di strade, ecc. ecc.: a noi hanno dato una ventina di mila corone. La nostra miseria è grande. Essa lancia i nostri trentini, che non trovano pane in patria, dovunque vi è lavoro e pane. Sono sparsi in tutto il mondo. A noi è rimasto un triste retaggio: la pellagra! Abbiamo paesi dove il 30, il 40, il 50% degli abitanti sono affetti da questa malattia, che è vergogna dei tempi odierni. Siamo pieni di debiti e pieni di ipoteche. Basta ricordare le espropriazioni forzate per mancato pagamento di tasse: la lotta del piccolo proprietario espropriato per la riconquista del campicello, l’altalena accanita e dolorosa di una proprietà schiacciata dalle imposte. Quali compensi abbiamo noi? Nessuno. Non istituti sussidiati dalla provincia adatti per noi. Abbiamo scuole pessime, senza luce e senz’aria, dove i bambini invece d’imparare intisichiscono. In nessuna parte dell’Austria si verificano condizioni simili. I nostri comuni sono oberati dai debiti, perché la provincia non provvede a niente. Questo stato di cose, questo immiserimento ha generato la corruzione. Basta che un capo-comune sappia larvare le sue trufferie col patriottismo austriaco per cavarsela liscia».

 

 

Siffatti sentimenti di malcontento e di dissidio non sono destinati a scomparire in breve tempo e possono essere fecondi di acerbi frutti alla causa dei tedeschi. Gli italiani sono pochi e disuniti, ma nella accanita competizione di razze dell’impero austro – ungarico non sono un elemento trascurabile. Oseranno i tedeschi andare sino in fondo al loro programma di disconoscimento dei legittimi diritti degli italiani, anche di fronte alla energica resistenza di un intero popolo?

Un quarantennio di finanza italiana. La lotta contro il disavanzo – Da 900 a 1600 milioni di spesa. Quarantacinque miliardi spesi dallo stato in quarant’anni

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«La Stampa», 14 luglio 1901

I casi luttuosi del ferrarese

I casi luttuosi del ferrarese

«La Stampa», 9 giugno 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 379-381

 

 

Nelle Bonifiche ferraresi la forza pubblica ha dovuto intervenire a tutela della libertà del lavoro. Vi furono morti e feriti fra gli scioperanti che tentavano di invadere le terre della Banca di Torino allo scopo di espellere gli operai piemontesi che erano stati chiamati a dare opera alla mietitura. Incidente doloroso, il quale dimostra quanto poco siano educate le nostre masse lavoratrici in talune località di campagna; e come sia difficile di mantenere gli scioperi immuni da quella violenza che li fa degenerare in atti criminosi. Il governo ha fatto bene a tutelare la libertà del lavoro; ed anche ad usare la forza se così era richiesto dalle circostanze di fatto, su cui dovrà pronunciarsi l’inchiesta che si assicura essere stata iniziata. È compito di tutti fare in modo che simili fatti non si abbiano a ripetere più in avvenire. Da una parte le classi lavoratrici debbono essere educate a non far uso mai della violenza, ma soltanto della resistenza pacifica. Dall’altra parte le classi proprietarie, le quali dovrebbero essere consapevoli delle condizioni d’animo dei loro operai, debbono fare quanto è umanamente possibile per appianare, prima che divengano acuti, i conflitti tra capitale e lavoro.

 

 

Nel caso presente la Banca di Torino, proprietaria delle Bonifiche ferraresi, ha fatto quanto era in dover suo di fare?

 

 

Quando uno sciopero si minaccia e si crede opportuno, a vincere gli scioperanti, ricorrere alla introduzione di operai forestieri, è d’uopo che la ditta proprietaria abbia accuratamente riflettuto alle conseguenze del suo atto. Se essa è convinta che le pretese degli operai locali scioperanti sono eccessive e tolgono ogni ragionevole speranza di profitto, essa ha pienamente ragione, dal suo punto di vista, di ridurre il costo della sua produzione, ricorrendo ad una maestranza meno pagata. Se però il proprietario prevede che la chiamata di operai forestieri può dar luogo a disordini, e d’altra parte le pretese degli operai locali non sono tali da rendere antieconomica la prosecuzione dei lavori agricoli, allora parci sia dovere del proprietario venire ad un ragionevole accordo, senza ricorrere a provvedimenti estremi, non giustificati dalle circostanze.

 

 

Le nostre informazioni ci fanno ritenere che la Banca di Torino non abbia scelto la via più corretta per risolvere il conflitto sorto nel ferrarese. Invero all’ultimo momento la Banca di Torino, per togliere ogni causa di agitazione, ha accettato le tariffe della lega. Ciò prova che essa era prima, come è adesso, in grado di accettare quelle tariffe, senza rovina della sua azienda agricola. Non si comprende che una grande società, la quale poteva pagare prima il 12% del prodotto come prezzo della mietitura, si ostini a voler dare solo il 9%, arrendendosi soltanto quando sono avvenute rivolte ed è corso il sangue dei contadini rivoltosi.

 

 

I contadini hanno avuto torto di rivoltarsi e di usare violenza, la quale è sempre causa di danni gravissimi; ma non è da biasimarsi altresì la società proprietaria, la quale non ha fatto prima quelle concessioni che avrebbero tolto ogni causa di conflitto ed ha aspettato a farle quando l’ondata della rivolta era salita troppo alta per potervi resistere?

 

 

Né è a dire che fossero mancati i buoni uffici per condurre ad un equo componimento del conflitto. Il governo, il deputato Giovannelli, il sottosegretario Ronchetti si erano intromessi ripetutamente. Tutto era stato inutile. L’avvocato della Banca aveva dichiarato di non poter cedere. Se così era, e se la resistenza era legittimata dal fatto che il rialzo dei salari voleva dire rovina dell’intrapresa, si doveva resistere sino all’ultimo. L’aver ceduto ora dimostra che era possibile venire ad un accordo prima.

 

 

Non si vuole con ciò affermare che i proprietari debbano rinunciare ai diritti che sono loro garantiti dal codice civile. Essi possono, quando lo vogliano, non coltivare affatto i loro terreni. Ma ogni qualvolta essi vengono a contrattare cogli operai, i proprietari non devono mettersi dal punto di vista della resistenza ad oltranza e non devono ostinarsi a non cedere su alcun punto dei patti da definire. Se i proprietari hanno interesse a comprare al più basso prezzo possibile la forza di lavoro, gli operai hanno ragione di voler trarre dal loro lavoro il massimo guadagno; e per venire ad un accordo è opportuno che le due parti facciano tutte quelle ragionevoli concessioni che sono compatibili colle condizioni dell’industria e coi bisogni della maestranza. Se a questi concetti si fosse uniformata a tempo la condotta dei proprietari e degli operai nel ferrarese, forse non avremmo ora a lamentare i luttuosi avvenimenti che perturbarono nei giorni scorsi quella regione.

I fondatori della grande Italia transatlantica

I fondatori della grande Italia transatlantica[1]

«La Stampa», 9 giugno 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 372-378

 

 

In questi giorni si è discusso ripetutamente sulla tratta dei fanciulli italiani condotti a soffrire nelle vetrerie francesi e belghe, sui mali della nostra emigrazione nel Canadà e sull’opera spesse volte nefasta delle agenzie di emigrazione.

 

 

L’appello che il comitato piemontese dell’Opera per l’assistenza degli emigranti italiani ha lanciato all’opinione pubblica perché l’infame traffico abbia un termine, non sembra dunque, per fortuna, destinato a cadere nel vuoto.

 

 

Il riassunto che noi abbiamo fatto dell’inchiesta condotta da quel comitato nei circondari di Sora e di Isernia ha destato un fremito di orrore e di indignazione nei nostri lettori, i quali hanno visto con compiacimento che i ministri dell’interno e degli esteri hanno promesso di cooperare con tutte le loro forze alla repressione della tratta dei piccoli schiavi bianchi.

 

 

Auguriamoci che alle buone intenzioni segua l’opera. Non è tuttavia soltanto all’emigrazione della gente debole ed incapace di difendersi da sé contro i soprusi degli incettatori che bisogna pensare. Occorre altresì provvedere affinché l’emigrazione degli adulti non si incanali in vie perniciose, ed invece di gloria, sia apportatrice di disgrazie a se stessa e di disdoro alla madre patria. Purtroppo i nostri contadini ed i nostri braccianti spesso sono ingannati da agenzie di emigrazione, desiderose solo di lucrare forti guadagni, e sono spinti in luoghi inospiti, dove il lavoro manca, dove infieriscono le febbri, o la terra ingrata si rifiuta a dare un equo compenso al lavoratore.

 

 

È dovere della stampa illuminare l’opinione pubblica, sconsigliando l’emigrazione mal diretta e dirigendo i contadini e gli operai verso quei luoghi dove, se non la fortuna, sorride ancora all’onesto e perseverante lavoratore la speranza di una rimunerazione conveniente.

 

 

Oggi perciò noi vogliamo riassumere il rapporto che un egregio membro del nostro corpo consolare, il conte Odoardo Francisci, regio console in Cordoba, ha inviato sulle colonie agricole nelle province di Cordoba e di Santa Fè, nell’Argentina. È un raggio di sole che spunta in mezzo alle tenebre.

 

 

Son molti anni che l’Argentina attrae il grosso della nostra emigrazione; ma nell’ultimo decennio essa era alquanto scaduta nell’estimazione popolare, sovratutto perché nella capitale e nelle grandi città il lavoro non era più così abbondante e rimunerativo come prima, e specialmente era scarso e poco proficuo per tutti coloro che non sapessero adattarsi ai più rudi lavori manuali. Nella provincia la cosa è ben diversa. Non già che la fortuna ivi sia facile, ma una modesta agiatezza corona sicuramente gli sforzi di coloro che sanno lavorare.

 

 

Citiamo fatti:

 

 

La popolazione delle 46 colonie agricole del dipartimento di San Justo della provincia di Cordoba era nello scorso anno di 22.346 persone, ripartite in 2.939 famiglie, delle quali ben 2.663 italiane. Mentre fra gli argentini vi erano 389 proprietari, 52 affittuari e 28 mezzadri, fra gli stranieri (leggi italiani) vi erano 753 proprietari, 234 affittuari e 535 mezzadri. Ciò significa che molti nostri concittadini sono giunti alla condizione di proprietari ed altri vi sono incamminati. Né basta. Il numero delle case di commercio del dipartimento, che dal 1880 al 1890 era solo di 29, era nel 1900 salito a 834, per due terzi straniere, e di queste la maggior parte italiane, con un capitale complessivo di 3.230.000 pesos.

 

 

Fra gli italiani alcuni hanno raggiunto una posizione invidiabile. A Morteros il signor Bottaro, nativo di Pietra Ligure, benché da pochi anni stabilito nella città, col suo spirito commerciale ed intraprendente e col suo lavoro indefesso si è fatto una posizione più che rispettabile. Oltre ad un grande almacen (negozio), di vendita di ferri con deposito di macchine agricole, dove si fornisce la maggior parte dei coloni circonvicini, egli è un forte incettatore di cereali, è proprietario di tre grandi colonie, Maunier e Valtellina, in provincia di

Cordoba, e Zenon Pereyra, in quella di Santa Fé, ha tre succursali della sua casa in Brinkmann, Freyre e Porteña. Nello scorso anno ha edificato in Morteros un molino a vapore a cilindri, con una macchina della forza di 75 cavalli ed un macchinario dei più perfezionati, venuto dalla Germania, capace di una produzione giornaliera di 200 bolsas di farina di 90 chilogrammi l’una. Infine annualmente egli fa anticipazioni a 2.000 coloni per circa un milione di pesos (due milioni di lire).

 

 

Accanto al colosso altri vantano proprietà di 200, di 400, di 600, di 1.000 e più ettari di terra.

 

 

Il console Francisci così narra la sua visita alla colonia di San Pedro, confinante con la provincia di Santa Fè:

 

 

«In questa colonia visitai le chacras (poderi) di alcuni dei principali coloni, tutti piemontesi, quali il colono Nugna, proprietario di 26 concessioni di 25 ettari l’una (ettari 650), Costamagna, proprietario di 12 (ettari 300), Aymard e Manfredi, proprietari ciascuno di 16 concessioni (ettari 400). Tutti questi coloni hanno belle case in muratura e magazzini, hanno uno o più espigadoras, ciascuna delle quali costa circa mille franchi, numerosi aratri di acciaio o rastrelli, e qualcuno ha pure la macchina trebbiatrice, il cui prezzo varia da 15 a 20 mila lire. Nella casa di ognuno di questi coloni, che mi fecero tutti la più festosa accoglienza, notai molto ordine, pulizia ed un grande benessere, quale solo le famiglie dei contadini più agiati godono in Italia. In tutte le colonie, di coloni agiati, proprietari come questi, ve ne sono parecchi. Vi sono pure i disgraziati che cominciano con due o tre cattivi raccolti, si indebitano e sono costretti ad andare a lavorare terre altrui, ma, come ho inteso dire, e in parte ho potuto vedere io stesso, non sono i più; i più invece migliorano considerevolmente la loro posizione».

 

 

A San Francisco il console visitò le principali case di commercio italiane, quali sono quelle Ripamonti e Botturi, Bernardo Bertello e Bertello Hermanos. Sono tutte case importatrici di primo ordine che riuniscono negozi al minuto, all’ingrosso, vendite di ferramenti, di legnami, di macchine agricole, di tela e sacchi da imballaggi, compra e vendita di cereali e lino, forniscono ai coloni quanto loro abbisogna e fanno loro pure anticipazioni in denaro su vasta scala.

 

 

La principale di queste è una casa lombarda, Ripamonti e Botturi, la quale ha parecchi milioni di pesos di capitale, ed ha impiantato a sue spese e per suo uso esclusivo, tra San Francisco e Morteros, una linea telefonica lunga 110 chilometri, che è costata 11 mila pesos. Questa casa ha succursale in Devoto, Freyre, Morteros, Zenon Pereyra, e per la compra dei cereali ha rappresentanti anche in altre stazioni della provincia di Cordoba, come in quella di Santa Fè. Solo di sacchi per imballaggio per il grano e il lino ne vende varie centinaia di migliaia all’anno.

 

 

Dove spuntano i milionari italiani stanno bene anche i braccianti italiani.

 

 

«In questa casa (Ripamonti e Botturi), – racconta il console, – incontrai una grande quantità di braccianti arrivati da poco, come da diversi anni usano fare, dall’Italia per occuparsi durante la raccolta nelle colonie. Di questi braccianti ne incontrai molti in tutte le stazioni ferroviarie per dove passai. Guadagnano, secondo gli anni da 3 a 4 pesos al giorno oltre al vitto, che consiste in una minestra, nel tradizionale puchero ed un poco di acquavite. Con questo guadagno, dopo quattro mesi tornano in Italia; dove arrivano in tempo per prender parte ai lavori della raccolta nei rispettivi paesi e poi alla fine dell’anno tornano novamente qui».

 

 

Non finiremmo più se volessimo ricordare tutti i nomi e le iniziative feconde degli italiani che si sono arricchiti o semplicemente hanno raggiunto l’agiatezza nelle province di Santa Fè e di Cordoba.

 

 

In quest’ultima, e precisamente nel dipartimento di Marcos Iuarez, il quale ha 2.519 famiglie agricole, di cui 1.911 italiane e 1.310 proprietari, di cui 1.009 stranieri, ossia italiani, sparsi in 66 colonie, vi sono fra gli italiani forti commercianti, come i fratelli Calzolari di Bologna, che già rivaleggiano con le più forti ditte locali, come il signor Carlo Demano, piemontese, negoziante di cereali, che ogni anno compra e vende in media da 50 a 80 mila quintali di grano, come il proprietario Giovanni Cuffia da Virle (provincia di Torino), che possiede 300 ettari di coltivato, dei quali 225 seminati a grano, come l’agricoltore Giovanni Bonetto, pure nativo di Virle, un bel vecchio robusto, di antico stampo, uno dei primi venuti a stabilirsi nel paese quando intorno alla stazione non vi erano che poche case. Costui è proprietario di 560 quadre (900 ettari) delle quali 330 coltivate a grano. L’anno passato nella stessa area seminata a grano ebbe un prodotto di 3.840 quintali e quest’anno spera che il suo terreno seminato gli renda anche di più. Ha 250 tra vacche e buoi e circa 100 cavalli e così in proporzione hanno gli altri coloni; ha una casa comoda e grande con spaziosi magazzini ed ha pure il suo Aer Motor, pompa a vento per l’elevazione dell’acqua, che qui s’incontra abbondantemente a 4 o 5 metri di profondità.

 

 

Suo vicino è Antonio Sasia, da Gambasca (Cuneo). Possiede questi 350 quadre (580 ettari) di campo; ha anch’esso una bella casa, spaziosi magazzini, due grandi trebbiatrici, capaci di trebbiare ciascuna 400 quintali al giorno, e siccome è macchinista, è altresì provvisto di una piccola officina da fabbro e da falegname per la riparazione delle sue macchine.

 

 

Gli italiani non solo colonizzano la terra, ma fanno sorgere altresì a novella vita le città.

 

 

Bell-Ville è un paese di antica data sul Rio Tercero, che prima si chiamava Fraile muerto, e cambiò nome più di 30 anni fa, quando fu inaugurata la ferrovia centrale argentina. Fino allora poco importante, acquistò importanza sempre maggiore quando, una ventina d’anni fa, il signor Cornelio Casas, argentino, e tre italiani, Pietro Maggi, Pietro Lattuada e Angelo Curioni cominciarono a dedicarsi alla coltivazione dell’alfalfa, od erba medica. Tale coltivazione in pochi anni prese un immenso sviluppo. Ora Bell-Ville conta 5.000 abitanti, ha le principali strade lastricate, illuminazione elettrica e, dopo Cordoba e Rio Quarto, è il comune più importante della provincia. Almeno la metà dei suoi abitanti sono italiani.

 

 

Italiana è la principale casa di commercio della città, la ditta Carlomagno Hermanos, di Agnone (Campobasso), la quale ha un grande negozio all’ingrosso ed al minuto, vendita di ferri, legnami e macchine agricole, compra e vendita di cereali e sovratutto di alfalfa. Di cereali la casa Carlomagno fa ogni anno un commercio di 250 mila quintali; nel commercio dell’alfalfa poi è la prima della repubblica. L’anno scorso le sue spedizioni di alfalfa in Inghilterra, in Brasile e sovratutto nel Transvaal, ad occasione della guerra anglo-boera, raggiunsero quasi un milione di balle (fardos) da 50 a 70 chili l’una. Ha succursali per l’acquisto dei cereali e dell’alfalfa a San Marcos, ed altra succursale in Buenos Aires. L’anno scorso, fra tutto, fece operazioni per più di 8 milioni di lire.

 

 

Quale contrasto presenta il quadro con le lugubri descrizioni di martirii inflitti ai nostri connazionali in altri paesi inospiti!

 

 

Laggiù nell’Argentina è la vera meta della emigrazione italiana. Pure nel suo stile ufficiale, il console Francisci è preso talvolta da un palpito di commozione.

 

 

L’estensione delle terre coltivate a grano e a lino non solo nella provincia di Santa Fè, ma anche in quella di Cordoba è immensa e va ogni anno aumentando. Il raccolto del grano nella provincia di Santa Fè è calcolato a 900 mila tonnellate e quello del lino a 280 mila tonnellate. In provincia di Cordoba il raccolto del grano, che l’anno scorso, come risulta da un rapporto del direttore generale della statistica della provincia, ingegnere Manuel Rio, ascese a 450 mila tonnellate, quest’anno dovrebbe arrivare a 500 mila tonnellate e forse le supererà; il che rappresenta un valore di più di 60 milioni di lire per Cordoba e 120 milioni di lire per Santa Fè. Il raccolto del lino giungerà almeno ad 80 mila tonnellate, per un valore di più di 16 milioni di lire.

 

 

«Tutto questo immenso prodotto è dovuto quasi esclusivamente al lavoro indefesso dei nostri coloni».

 

 

Fatto glorioso, di cui gli italiani hanno ben diritto di menar vanto e grande vanto. Il console Francisci guarda fiducioso verso un avvenire ancora migliore.

 

 

«La terra colonizzabile in provincia di Cordoba abbonda ancora. Sopra 10 milioni di ettari, in condizioni più o meno favorevoli per l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, la parte finora colonizzata arriva appena ad un milione e mezzo di ettari. In dieci anni, e anche meno, il numero delle colonie, ora di circa 180, potrebbe raddoppiarsi e così raggiungere quasi quello delle colonie della provincia di Santa Fè, che sono più di 400. Il risultato si potrebbe benissimo ottenere, tanto più che le ferrovie nella provincia ogni anno si estendono. Lungo le ferrovie non tarderanno a sorgere nuovi centri coloniali, avendovi i proprietari dei terreni circostanti indubbiamente interesse, ed altre colonie possono con facilità essere create negli altri dipartimenti solo in parte colonizzati».

 

 

Il periodo epico della colonizzazione italiana nell’Argentina non è dunque chiuso.

 

 



[1] La materia di questo articolo è stata riprodotta, senza varianti degne di nota e con lo stesso titolo, nel fascicolo del giugno 1901 della rivista «La riforma sociale».

Come si intende dai socialisti la libertà del lavoro

Come si intende dai socialisti la libertà del lavoro

«La Stampa», 6 luglio 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 382-385

 

 

La libertà del lavoro è principio sancito nei nostri codici, e che si accenna a voler far rispettare eziandio in pratica. Come molti fra i principii fecondi dimostrati da più di un secolo dalla scienza economica, il principio della libertà del lavoro è spesso frainteso ed è palesemente od apertamente combattuto dai partiti più opposti.

 

 

Lo combattono alcuni conservatori, i quali credono a torto che il governo debba intromettersi nei conflitti tra capitale e lavoro per favorire gli interessi della classe proprietaria. Noi abbiamo ripetutamente combattuto l’aiuto fornito dal governo ai proprietari di terre per mezzo dei soldati mietitori od alle compagnie di navigazione coll’imbarco dei marinai dei reali equipaggi, e non è quindi necessario dilungarci ancora una volta a dimostrare la verità della tesi secondo cui il governo male opera quando interviene a far traboccare la bilancia a favore della classe proprietaria. Sarebbe confutazione inutile di errori di cui nessuno più, almeno in apparenza, osa farsi campione.

 

 

Altri nemici, più pericolosi, spuntano ora contro la libertà del lavoro e sono i socialisti democratici. Ciò può parere strano per quelli che della dottrina socialista veggono soltanto le manifestazioni momentanee a favore della libertà e non le finalità ultime. Noi non abbiamo però nemmeno bisogno di ricordare l’antica massima, la quale insegna che i partiti, finché sono minoranza, invocano libertà; salvo a sopprimerla quando sono diventati maggioranza. Sono gli stessi socialisti i quali si incaricano di rammentarci che essi vogliono la libertà del lavoro soltanto in mancanza di meglio. È la «Critica sociale» la quale, dissertando intorno al doloroso episodio di Berra, si dichiara pronta ad accettare la formula del ministero (della libertà del lavoro) come un segnalato progresso, unicamente però per il momento presente.

 

 

Infatti, la «Critica sociale» non crede «che questa formula debba avere lunga vita, né che essa risponda alle esigenze di un regime democratico. Fra il proprietario armato del capitale ed il lavoratore povero ed affamato, l’assoluta libertà del lavoro, la libertà illimitata della concorrenza nella mano d’opera altera troppo le condizioni di parità della lotta per poter essere accettata. Quando poi, come avvenne nel ferrarese, la concorrenza dell’offerta di lavoro non si opera in condizioni normali, cogli elementi naturali di quel dato ambiente, ma un ricco imprenditore requisisce coll’inganno centinaia di lavoratori in lontane regioni, e trasportandoli di notte, isolandoli da ogni contatto colla gente del paese, li getta come mandrie nei campi – una tale libertà del lavoro, nata dall’inganno, alimentata col sequestro delle persone diventa per gli scioperanti schiacciamento e massacro. È perciò che, nella legislazione dei paesi civili, ogni giorno più va facendosi strada quel concetto dello sciopero obbligatorio, decretato a maggioranza di voti, che il disegno di legge Millerand sta per acclimatare in Francia».

 

 

Siamo dunque avvertiti a chiare note della sorte che aspetta il principio della libertà del lavoro quando trionferanno i socialisti: di essere soppresso a favore del principio della obbligatorietà dello sciopero. E già si annuncia che alla riapertura del parlamento parecchi deputati di estrema sinistra presenteranno un disegno di legge per sancire l’obbligatorietà dell’arbitrato e dello sciopero.

 

 

Ieri erano i proprietari che volevano servirsi del governo per reprimere i conati degli operai ad innalzare il livello della propria vita. Domani saranno gli operai che si gioveranno della virtù della legge per costringere i compagni riluttanti ad abbandonare il lavoro e per ridurre gli imprenditori più facilmente alla resa.

 

 

Era brutto il passato; ma sarebbe altrettanto brutto l’avvenire. Perché l’arbitrato e lo sciopero obbligatorio vogliono dire:

 

 

  • che la concorrenza non sarà più la regolatrice dei prezzi della mano d’opera;
  • che gli imprenditori non potranno più ricorrere ad altri operai per tenere aperte le loro fabbriche, ma dovranno chiuderle ogni qualvolta ciò piacerà alla metà più uno della loro maestranza;
  • che i salari non saranno più liberamente dibattuti tra operai e padroni o tra le leghe rispettive; ma saranno fissati da un tribunale le cui decisioni avranno virtù di sentenze giudiziarie.

 

 

Se ciò si ritiene progresso dai socialisti, buon pro loro faccia. Noi crediamo invece che una siffatta legislazione sia opera di decadenza e di regresso. La Francia democratica di Millerand emula, coi suoi novissimi disegni di legge, le ordinanze dell’antico regime che determinavano i salari degli operai, le modalità e la durata del lavoro, ecc. Quelle ordinanze caddero, al soffio della rivoluzione, come cadono i puntelli di un regime di povertà e di corruzione. Ora i figli di coloro che resero prospera e ricca la Francia, vogliono rovinarla restaurando una legislazione la quale non potrà non produrre quei dannosi risultati che ha sempre prodotto: rincaro della produzione, ostacoli alla iniziativa privata, regolamentazione vessatoria dell’industria, ed emigrazione del capitale verso paesi dove il predominio della democrazia non sia ancora diventata tirannia legislativa dei più sui meno.

 

 

Buon pro faccia alla Francia della decadenza il ritorno alle viete massime del colbertismo regolamentarista più puro. È da parecchi anni che le statistiche indicano in quel paese un arresto inquietante nello sviluppo della ricchezza, dovuto alle gesta del protezionismo trionfante. Malgrado ciò sembra che purtroppo la Francia, non ancora paga, voglia trasformare quell’arresto di progresso in decadenza, togliendo all’industria la libertà che le resta per chiuderla entro i ferrei legami dei regolamenti socialisti.

 

 

Noi non siamo in Francia. Noi siamo poveri ed abbiamo il dovere di progredire; e per progredire è necessario che la libertà del lavoro non venga turbata né dalle violenze dei conservatori, né dalle violenze dei socialisti. La ricchezza non si sviluppa che colla giustizia; e la giustizia economica non si ottiene se non garantendo la libertà del lavoro. Lo sciopero obbligatorio consacrerebbe la sopraffazione degli operai sui padroni; ed ogni sopraffazione è dannosa, anche se è compiuta dai più a danno dei meno. Si associno gli operai e trattino, forti della loro resistenza organizzata, cogli imprenditori; ed elevino di molto il loro tenor di vita. L’elevazione sarà dovuta alla libera organizzazione e sarà meritato premio concesso a chi seppe dimostrarsi forte ed abile nella lotta economica. Non impongano tuttavia con una legge il loro volere agli altri operai ed agli imprenditori. Soltanto i deboli che non sanno conquistare il benessere e la ricchezza coll’opera propria, si accordano per impadronirsi dell’altrui ricchezza mercé l’impiego della macchina legislativa.

 

 

Gli imprenditori inetti crescono i loro profitti ottenendo dallo stato i dazi protettivi. Gli operai inetti vorrebbero aumentare i salari coll’ausilio di arbitrati e di scioperi imposti obbligatoriamente dallo stato. Gli imprenditori e gli operai intelligenti ed abili cercano la ricchezza col lavoro perseverante. Gli ostacoli alla vittoria e le difficoltà della lotta e dell’associazione li stimolano a progredire, perché essi sanno che in un regime di libera concorrenza e di libertà del lavoro la vittoria spetta a chi sa ed a chi vuole.

 

 

L’Italia ha bisogno di uomini intelligenti ed abili, cresciuti in un ambiente di libertà e non di infingardi che tutto aspettano dal favore dello stato.

Le difficoltà di nuove imposte

Le difficoltà di nuove imposte

«La Stampa», 4 giugno 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 368-371

 

 

Vi è fra i lavori che un ministro delle finanze deve ogni tanto imporsi uno il quale si presenta in particolar modo difficile: la ricerca di una nuova base imponibile.

 

 

Oramai tutto sembra essere tassato in Italia; e nulla pare sfugga agli occhi indagatori del fisco; ed ove talvolta qualche nuova sorgente di reddito si scopra, ben presto si va incontro ad un’amara delusione, poiché un’altra sorgente, la quale prima gittava largo frutto, si inaridisce a causa della contrazione dei consumi.

 

 

Nella ricerca di nuove fonti di reddito, i nostri ministri delle finanze sono angustiati ancora da un altro fatto: dalla consapevolezza cioè che esiste una grande massa di reddito e di capitali i quali sfuggono in tutto od in parte all’imposta; vogliamo accennare ai capitali mobiliari. Mobilissimi, quasi fluidi ed inafferrabili, essi sfuggono di tra le mani dell’agente delle imposte; riescono, quando non siano investiti in titoli di debito pubblico, a pagare una imposta di ricchezza mobile inferiore a quella dovuta; circolano sempre, anche se si tratti di consolidato, di mano in mano senza assolvere tributo; sono trasmessi in eredità senza che l’erede si curi di denunciarne l’ammontare al ricevitore del registro.

 

 

La ricchezza fondiaria ed i capitali immobilizzati in forme tangibili pagano invece allo stato alte imposte del 10, del 20 e talvolta persino del 40 e del 50% del reddito; ed assolvono alla morte dei loro proprietari gravose imposte ereditarie sul valore capitale.

 

 

Il sentimento di giustizia verrebbe ad ogni modo poco gravemente offeso se si trattasse di piccole somme, la cui imposizione non potesse dare frutti rilevanti allo stato. Trattasi invece di capitali vistosi, la cui importanza tende a crescere. Numerosi calcoli furono fatti a tale riguardo. L’onorevole Gagliardo calcolò che solo nelle casse di risparmio ordinarie si raccoglievano nel 1892 su libretti rimborsabili al portatore 1.200 milioni, che, suddivisi pel numero degli anni costituenti la media sopravvivenza dell’erede o legatario a coloro che morendo lasciano beni, dovrebbero annualmente concorrere alla tassa di successione con l’imponibile di 33 milioni; mentre contribuiscono per un 2 o 3 milioni appena. Aggiungeva l’on. Gagliardo che il capitale effettivo delle azioni, obbligazioni ed ogni altro titolo negoziabile, titoli di stato, poteva nel 1892 valutarsi in 5.500 milioni, di cui almeno due terzi (cioè 3.600 milioni) al portatore, che avrebbero dovuto contribuire all’imposta ereditaria mediante 100 milioni l’anno, mentre non vi contribuivano che per 10 milioni.

 

 

Il debito pubblico dello stato al portatore ammontava inoltre a circa 6 miliardi e 700 milioni, che avrebbero dovuto contribuire all’imponibile della tassa di successione per circa altri 100 milioni, mentre non ne offrivano più di 15 o 16. In tutto erano 204 milioni all’anno di materia imponibile che sfuggiva all’imposta.

 

 

Secondo calcoli più recenti dell’on. Rubini, i titoli al portatore, di stato e privati, che si trovano nel regno, ascendono ad 8 miliardi, e di essi ben 6 miliardi e 500 milioni sfuggono all’imposta ereditaria.

 

 

Senza alcun dubbio noi ci troviamo qui di fronte ad una grave ingiustizia. Dal punto di vista della equità tributaria e delle tassative disposizioni statutarie tutti i cittadini devono contribuire alle pubbliche spese in proporzione alle loro entrate. Invece da un lato i detentori della ricchezza immobiliare sono fortemente tassati e non possono occultare la menoma parte dei loro redditi, e dall’altro lato i detentori della ricchezza mobiliare sfuggono all’imposta in gran parte mercé agevoli occultamenti.

 

 

Se fosse possibile trovare un metodo per colpire codesta ricchezza e colpirla senza troppe vessazioni, nessun dubbio vi sarebbe sulla opportunità di adottare quel metodo. Convenienza e pratica finanziaria hanno impedito finora e forse sconsigliano altresì nel presente di tassare, come giustizia vorrebbe, la ricchezza mobiliare. Già quando nel novembre scorso fu proposto di applicare una imposta di 10 centesimi all’anno per ogni 100 lire di rendita, si osservò che si correva il pericolo di svilire la rendita stessa, di alienare le simpatie dei portatori stranieri, e si disse: «Non è forse meglio rinunciare al piccolo provento presente dei 10 centesimi e porsi in grado di poter convertire più presto la rendita dal 4 al 3,50 od al 3,25% netto, con un guadagno di gran lunga più rilevante?» Per questi motivi la tassetta dei 10 centesimi non fu bene accolta.

 

 

Nello stesso modo si muovono oggi critiche al disegno di legge che si dice sia in animo del ministro delle finanze proporre per aumentare la tassa di circolazione e negoziazione sulle cartelle, i certificati, le obbligazioni, azioni ed altri titoli di qualunque specie e denominazione dall’1,80 al 3 per mille.

 

 

L’aumento sarebbe un mezzo accorto per fare contribuire un po’ più fortemente alle spese pubbliche alcuni titoli mobiliari che ora vi sfuggono. Senza dubbio la giustizia tributaria sarebbe rispettata da una norma che facesse pagare il 3 per mille ad una ricchezza circondata da tanti privilegi tributari di fatto.

 

 

Si obbietta tuttavia che in pratica il vantaggio finanziario dello stato sarebbe superato dalle perdite economiche del paese. I nostri titoli di stato e privati hanno d’uopo, per ragioni di varia indole, di essere più largamente conosciuti ed apprezzati dal pubblico; e codesto pubblico lo devono cercare, almeno in parte, all’estero, poiché il mercato nazionale non ha una sufficiente capacità di assorbimento. Ora, una condizione prima perché i titoli nostri siano apprezzati dai risparmiatori consiste nella stabilità del loro reddito, e nella certezza che aumenti continui d’imposta non lo vengano a falcidiare in guisa imprevedibile.

 

 

È vero che i titoli di rendita italiana non pagano la tassa di circolazione e non pagheranno perciò il proposto aumento; ma la pagano le obbligazioni ferroviarie, che hanno un larghissimo mercato all’estero, e la pagano le azioni e le obbligazioni di numerose società bancarie ed industriali, le quali sono state fondate mercé il concorso di capitalisti stranieri. Un aumento dell’imposta di circolazione nel momento presente potrebbe operare nel senso di respingere la corrente di capitali stranieri, che per fortuna nostra accenna a riversarsi in Italia non solo dalla Svizzera e dalla Germania, ma altresì dalla Francia.

 

 

Spesso accade che le norme della pura giustizia non si possano seguire. Questo è oggi il caso della imposta sulla ricchezza mobiliare. Occorre risparmiare i capitali mobili, perché accorrano a fecondare il suolo d’Italia, e diano frutti abbondanti.

 

 

Dopo, quando alle speranze della primavera succederanno i raccolti dell’autunno, sarà giunto il momento per lo stato di farsi avanti a stendere la mano per raccogliere la sua quota della nuova ricchezza creata dai capitali mobiliari col favore dell’esenzione tributaria.

Un traffico infame ed il salvataggio di ottanta piccoli martiri

Un traffico infame ed il salvataggio di ottanta piccoli martiri[1]

«La Stampa», 26 maggio[2] e 10 ottobre[3] 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 350-367

 

 

I

 

Sono note le miserie ed i dolori della tratta dei fanciulli italiani condotti a lavorare ed a morire nelle vetrerie francesi e belghe. Alcun tempo fa un rapporto del cav. Scelsi, console generale a Lione, narrava cose dolorose ed incredibili sulla nostra emigrazione infantile nelle fabbriche del suo distretto consolare.

 

 

Ma le denunce, pur troppo, a nulla sembrano giovare, sovratutto quando vanno incontro all’indifferenza delle sfere ufficiali. Occorre compiere un’opera continua di propaganda e di lotta a tutela dei piccoli paria italiani sacrificati alla ingordigia di indegni sfruttatori.

 

 

L’opera – e noi possiamo andarne a buon diritto orgogliosi, perché si tratta della tutela sovratutto di piccoli meridionali – è stata iniziata da piemontesi.

 

 

Il comitato piemontese dell’Opera di assistenza per gli operai italiani emigranti in Europa e nel Levante, la benemerita associazione fondata da monsignor Bonomelli[4] (2), ha compiuto, sovratutto ad iniziativa del nostro concittadino Alberto Geisser e per opera del dott. Ugo Cafiero, un’inchiesta sulla tratta dei piccoli italiani nei circondari di Sora e di Isernia (provincia di Caserta e Campobasso), dove si compie con maggiore intensità il brutto traffico.

 

 

Noi abbiamo sott’occhio le bozze di stampa del bollettino dell’«Opera», dove saranno pubblicati i risultati dell’inchiesta; e dei particolari dolorosi che essa mette alla luce vogliamo largamente discorrere, lieti che dal Piemonte sia sorto un appello a favore degli schiavi bianchi meridionali, appello che confidiamo troverà larga eco nell’opinione pubblica, nel parlamento e nel governo.

 

 

A Sora e ad Isernia la popolazione è povera, estremamente povera. Perduto il raccolto del vino, perduto il raccolto dell’olivo, impossibile per la malaria l’industria lattifera, i contadini sono costretti ad emigrare. Se la emigrazione consistesse tutta di uomini e di donne, essa sarebbe un fenomeno normale, anzi benefico.

 

 

Ma ben presto la emigrazione diventa patologica. Individui ingordi si accorgono che essi possono guadagnar molto di più trafficando sui piccoli fanciulli che non lavorando all’estero.

 

 

Il giudice Maietti così energicamente delinea il fenomeno:

 

 

«Pretore per circa 12 anni in provincia di Caserta, ove la tratta è fiorentissima, posso ben certificare che l’avidità del denaro è causa principale di tanta ignominia. Gli incettatori in pochi anni ammassano molti quattrini. Quel Testa (di cui in mia sentenza del 5 maggio 1897) in poco tempo, raccogliendo giovanetti in Colle San Magno e Caprile di Roccasecca, per la questua in Inghilterra, raggruzzolò oltre quindicimila lire. L’esempio è estremamente contagioso. Contadini ed operai agiati lasciavano tutto per dedicarsi alla tratta.

 

 

Lusingati dai negrieri – i quali sono sempre compaesani che dimorano in Francia e vengono per poco tempo a rifornirsi di carne umana – i fanciulli si vedono promessa una vita di agi e di ricchezze, dinanzi a cui si inebriano. In modo che, quando non sono i genitori che cedono per le promesse cinquanta lire a semestre, sono i ragazzi che persuadono le madri a mandarli».

 

 

Consegnati al negriero, comincia il calvario. Quando il negriero riesce a non sborsar denaro per vestirli prima di partire, con la promessa di farlo nella prossima città, li porta nella notte, spesso sopra un carro, al freddo, sino a Napoli o sino al treno. Straziante mi parve specialmente il racconto di uno di loro, di Fontana Liri.

 

 

«Io ero scalzo; prima disse (il negriero) che mi avrebbe comprato le scarpe a Cassino; arrivati qui, disse che le avrei avute a Napoli; arrivati a Napoli sulla carretta, eravamo 24, ci imbarcò per Lione, senza scarpe; colà mi mandò alla fabbrica con le scarpe di legno e così rimasi. Spesso sui piedi nudi cadevano pezzi di vetro bollente, o sul petto o in faccia».

 

 

Da ogni ragazzo che il negriero manda alla vetreria ricava 30 o 40 soldi al giorno e sempre più, a misura che vi restano più tempo e imparano il mestiere. Quando pure mandino ogni sei mesi le 50 lire ai genitori, – ordinariamente convenute per tre anni, – tutta la loro spesa si riduce a fornire un posto per un giaciglio comune dei ragazzi, pane la mattina e minestra molto liquida la sera, da cui il negriero ha tolto la parte solida per sé.

 

 

Certo Antonio Fraioli ha molti ragazzi piccoli, dorme sul pane per non lasciarlo prendere ai ragazzi, lo compra ogni dieci giorni e ne distribuisce un pezzo al giorno e cambia le lenzuola ogni settantacinque giorni.

 

 

Il sindaco di Fontana Liri, parlando di uno degli incettatori senza cuore, come egli li chiama, mostrò una lettera di un ragazzo che stava con l’incettatore Francesco Frezza; la lettera diceva:

 

 

«Il Frezza tratta bene due di noi perché sono grandi; noi siamo piccoli, non possiamo parlare perché ci bastona. Da quando partimmo da Lione, stiamo morendo di fame. Scrivete al console che il Frezza ci ha cambiati di nome, non abbiamo a chi ricorrere perché siamo piccoli. Lavoriamo la notte e il giorno dobbiamo andare al bosco a comprare la legna; le pulci ci mangiano».

 

 

Angelo Marsella e la moglie tenevano parecchi di questi ragazzi nella loro pensione. Uno, Zeppa Emilio, il 22 novembre 1898 scriveva al padre:

 

 

«Ignudi e stracciati ci vergogniamo di uscire la domenica; la sera Angelo Marsella non ci dà che mazzate. Siamo in mezzo al fuoco, ammalati e pezzenti. Se non andiamo un giorno a lavorare, mazzate».

 

 

Col Marsella vi erano anche i ragazzi fratelli Proia, Paolo e Angelo. Al pretore Maietti, che istruiva il processo, Angelo riferì:

 

 

«Mio fratello Paolo la notte per la debolezza orinava nel letto. Marsella e la moglie schifavano mio fratello e lasciavano il letto tale e quale puzzolente, e mio fratello la notte era costretto a ricoricarsi in quel letto, che era in un pianterreno umido».

 

 

Lo stesso Paolo, venuto in Arce, al pretore narrava:

 

 

«Io ero costretto a lavorare 12 ore di continuo davanti alla fornace; non avevo altra camicia da cambiare quando ero sudato. Il sudore asciugato mi produsse dei dolori alla schiena. Un giorno caddi svenuto. Quando rinvenni, il caporale mi obbligò a riprendere il lavoro. Svenni di nuovo e mi portarono all’ospedale».

 

 

Il medico francese definì il suo uno stato di marasma gravissimo. Dopo cinque mesi uscito dall’ospedale di Francia, il medico di Arce lo dichiara inguaribile! Per costui invece, prima che cadesse sulla breccia, il Marsella scriveva al padre ottime notizie. Il Marsella padre e figlio incettatori fanno perfino intervenire i minorenni nei contratti ad obbligarsi a non lasciarli mai; altrimenti danni e interessi!

 

 

Prima della morte del fanciullo Capuano, il Vorza scriveva al padre del Capuano, che trovavasi all’ospedale:

 

 

«L’ho dato ad una monaca che lo tratta a casa sua meglio di un signore. Tiene la trippa (la pancia) grande. Il medico dice che la malattia la tiene da quando era piccolo. Ma non credete che sia malato».

 

 

Il reverendo Mancone, che fu in Francia l’angelo consolatore di questi miserelli, nella sua deposizione disse che il povero piccolo Capuano mentre era moribondo mostrava con gioia una moneta da dieci soldi, che gli avevano regalata nell’ospedale, dicendo che non ne aveva mai avuta alcuna, e presente anche il Paulucci dei Calboli il ragazzo disse che sempre quando chiedeva da mangiare, il Vorza lo percoteva.

 

 

Benedetto Scappaticci, affetto da tubercolosi, si rifiutava di lavorare; il Vorza lo accompagnava alla vetreria a colpi di cinghia, lasciandogli sulle carni le impronte, che poi furono misurate e trovate eguali alla cinghia; alla vetreria il ragazzo riceveva calci nell’addome dagli operai francesi, e tali maltrattamenti che ne impazzì. Il Vorza si rifiutò di pagargli il rimpatrio, ciò che il console esigeva, rimproverandolo di avere portato dall’Italia il ragazzo florido di salute; il Vorza lo trattenne, contando di poter presto rimetterlo alla vetreria e risparmiare la spesa del rimpatrio. Aggravatosi il ragazzo, l’ambasciatore ingiunge al Vorza di rimpatriarlo; ma questi si squagliò. Una monaca della Villette, visto il fanciullo aggravatissimo, ne parlò con la pia signora che soccorreva tutte queste sventure, Maria Sofia, ex regina di Napoli. Questa si recò alla Pline de St-Denis, e, visto il ragazzo nel sozzo tugurio, lo ritirò, e quindi, a sue spese, lo fece rimpatriare. Intanto il Vorza scriveva al padre del ragazzo:

 

 

«Voglio sapere se è arrivato; se ha fatto un felice viaggio, e per mio regalo gli dò cinque lire (!); io sono andato dal console per farlo rimpatriare; non sono andato alla stazione perché non sapevo l’ora della partenza».

 

 

Il disgraziato ragazzo invece era nel manicomio di Genova.

 

 

Per avere una precisa idea di qual tempra siano fatti gli animi di questi incettatori, basta leggere la lettera del Vorza Donato, che sapeva quanti infanticidi aveva commessi e scriveva dal carcere al giudice istruttore:

 

 

«Su semplici anonime (l’arma dei vigliacchi, gelosi, perché non ho voluto pagare loro un migliaio di lire) di aver io trasportato in Francia minorenni e cagionato forse la morte di Antonio Capuano e di Felice Fraioli, mi si arresta e si priva della libertà degli onesti cittadini, che lavorando si procurano l’agiatezza (!). Esclamo con Orazio: Nil conscire sibi, nulla pallescere culpa!

 

 

Dopo avere attaccato e discusso alcune disposizioni, conchiude:

 

 

«Non commisi abusi di mezzi di correzione. Il Capuano morì di tumore splenico (milza), il Fraioli di ileotifo e polmonite. Valgano i certificati medici e le testimonianze dei compagni. Se non potettero nulla i farmaci del primo ospedale di Parigi, cosa potevo io contro il dittatore della vita? Non commisi truffe, perché feci il contratto coi genitori avanti il sindaco di Roccasecca».

 

 

Egli ha avuto una condanna di sei mesi, che ha scontato, una multa di seimila lire, che non ha pagata; in questi mesi ha fatta un’altra incetta e, dopo sporto appello, è ripartito per la Francia.

 

 

Dopo tante inchieste e pubblicazioni ufficiali, fa meraviglia che vi siano ancora genitori così snaturati da permettere che i loro figli vadano in Francia al martirio. Ma la meraviglia cessa quando si conosca che i genitori in gran parte credono che i figli stiano bene.

 

 

I negrieri dalla Francia esercitano la più scrupolosa sorveglianza sulla corrispondenza epistolare dei ragazzi con le loro famiglie. Ordinariamente i ragazzi non sanno scrivere, ma, anche se sanno, sono costretti dal terrore a scrivere alle famiglie come vogliono i loro sfruttatori. Io ho letto molte di queste lettere, si somigliano quasi tutte:

 

 

«Caro padre o cara madre, io questa lettera ve la scrivo (o me la fo scrivere) di nascosto dal padrone! Io sto bene assai in salute, meglio di voi! Il padrone non ci fa mancare niente e se lo leva di bocca lui e la moglie per noi! Qui non c’è lavoro ora e stiamo a carico suo! Perciò pazientate per il denaro e non dubitate».

 

 

Se il padre minaccia di andare in Francia, allora il figlio scrive:

 

 

«Non venite, perché io non me ne voglio tornare al paese a soffrire! Se venite, io me ne scappo e non mi fo trovare! Il padrone mi vuol più bene di voi!».

 

 

Le novelle vere i genitori le conoscono solo quando i fanciulli sono vicini a morire. Una madre scheletrita, a cui erano rimasti solo gli occhi per piangere, così racconto al Cafiero:

 

 

«Una domenica, all’improvviso, vennero (i negrieri) e ne dissero tante, che i miei due ragazzi vollero andare per forza… Dopo qualche tempo viene una notizia, che il più grande era malato. Quattro telegrammi feci battere con la risposta pagata, e me li fece il pretore così buono, e pagai ogni volta sette lire l’uno! All’ultimo telegramma il ragazzo era morto!».

 

 

Una pausa lunga, lamentosa, poi riprese:

 

 

«Questo poveromo (il marito) uscì pazzo ed è stato otto mesi al manicomio! Frattanto abbiamo dovuto lasciare la terra, e a stento abbiamo trovato questa capanna. Quest’omo non è più buono a lavorare e non trova nemmeno lavoro, io non ho testa se non a fare scrivere lettere per riavere almeno l’altro figlio mio. Quell’infame (il negriero) ecco che cosa mi risponde».

 

 

Mi mostra le cartoline postali da Pantin. Ripetono sempre:

 

 

«Cara madre, io sto bene, il lavoro non ci sta, io non ho i mezzi del viaggio, sono in debito col padrone».

 

 

«Signore mio, – riprese la donna, – io sto vendendo tutto per fare le cento lire del viaggio; partirò con una carovana di questi ragazzi che partono per le vetrerie. Purché faccia presto a riprendermi il figlio mio!».

 

 

Riportiamo il testo di un contratto perché indica in modo caratteristico il sistema di compra-vendita dei poveri fanciulli italiani.

 

 

«Dichiaro io qui sottoscritto Giovanni di Ciocci fu Antonio (il procuratore del negriero), mi carantisco per tre anni, ogni sei mesi, consegnare centoquindici lire a Domenico Ricci fu Giovanni e sua moglie Lucia; poi se i ragazzi da Bernardo Greco (il padrone negriero) non vonno starci o sia dovesse andarci qualche persona mandata dai suoi genitori, allora Giovanni di Ciocci non desidera di pagare e non deve pagare più a Domenico Ricci la detta somma; se poi dovesse andare il suo padre a ripigliare i suoi figli, allora Domenico Ricci deve dare a Giovanni di Ciocci lire 300 a danno e interessi; sempre però prima degli tre anni Bernardo Greco si obbliga a mantenere i ragazzi a mangiare e vestire o sia tutti trattamenti. Se poi non si tratta come al contratto, allora, o sia, (se) si dovesse ammalare per un mese, gli ragazzi sono obbligati a rimettere il mese».

 

 

Con tal contratto i disgraziati fanciulli sono consegnati mani e piedi legati ai padroni, che per tre anni hanno diritto di sfruttarli.

 

 

Certamente l’energia spiegata dal sotto-prefetto di Sora, cav. Tinto, ha diminuito il male. Con uno spirito veramente da San Domenico egli ha inculcato ai sindaci di non rilasciare più passaporti per l’interno, di essere prudenti nel rilasciare passaporti per l’estero, di negarli ogni volta che si accorgono che servono per trasportare minorenni in Francia. Ha inspirato un salutare terrore.

 

 

Occorre tuttavia qualcosa più del terrore. I ragazzi non ricevono il passaporto? Ebbene, basta che l’abbiano i negrieri; i piccoli basta che abbiano il solo atto di nascita, che è richiesto dai sindaci in Francia per immatricolare i piccoli martiri.

 

 

Il sindaco di Trevelle si lagna che, obbedendo egli agli ordini del sotto-prefetto di non rilasciare passaporti, gli vien chiesto l’atto di nascita e di moralità dei suoi piccoli amministrati, ch’egli non può negare; con questi atti, gli interessati vanno al municipio di Terracina ed ottengono il passaporto per l’interno. A che vale dunque il rigore di uno, quando un altro impiegato fa ciò che è dal collega negato?

 

 

Attorno all’industria dei negrieri, fiorisce quella di alcuni impiegati comunali. Un ex segretario, lasciato l’ufficio, portò con sé il bollo del comune e gli opportuni moduli e rilasciava per conto proprio, a quelli che gliene chiedevano in vendita, le richieste ferroviarie, che valgono a fare il viaggio a metà prezzo sulle ferrovie italiane. Il municipio di Roccadarce rilasciava richieste in bianco ed in bianco lasciava le madri.

 

 

Quando proprio i negrieri non si possono far rilasciare passaporti ed atti di nascita, allora essi ottengono atti di nascita di Tizio e di Caio, nomi che non destino alcun sospetto. Se i ragazzi da condurre in Francia hanno meno di 13 anni, si ottiene un atto di nascita di un altro che abbia i 13 anni, e poi lo si affibbia al piccolo schiavo deportato.

 

 

Tale è il caso scoperto dall’ambasciatore Tornielli, caso caratteristico, che somiglia a molti. Il 27 settembre 1900, da Roccasecca partiva una comitiva per Torino e Modane, guidata da Bernardo Greco di Pasquale, nato e domiciliato a Roccadarce, residente a Parigi, e composta della moglie Donata Giorgi da Roccasecca, di Luigi Faioli, con tre figli: Emilio, di anni 14; Ferdinando, di anni 11, e Francesco, di anni 9, di Clemente Cacciarelli coi figli Gregorio di anni 15 e Angelo di anni 12, di Domenico Ricci con due figli, Antonio di anni 14 e Serafino di anni 12; dodici avevano passaporti per l’interno, e uno solo, il Domenico Ricci, passaporto per l’estero.

 

 

Il Tornielli, informato del prossimo passaggio al confine, avverte telegraficamente i delegati di Bardonecchia e di Ventimiglia, ma non ne ottenne alcuna risposta.

 

 

Il capo dell’ufficio di pubblica sicurezza a Bardonecchia gode fama di funzionario provetto e specchiato, ed ha proceduto infatti all’arresto di non pochi incettatori. Ma o è male assecondato, o non è posto in grado di adempiere in modo adeguato al servizio. Le migliaia di minorenni italiani occupati nelle vetrerie francesi, depongono in modo irrefutabile contro le autorità italiane, particolarmente quelle dei confini e di alcune almeno

dei nostri porti.

 

 

Alcune volte intervengono a favorire gli incettatori le raccomandazioni di parlamentari. Un mese fa un incettatore chiese il passaporto al comune di Roccasecca. Il sindaco lo negò. Cominciarono a piovergli le raccomandazioni da ogni parte, specialmente dalle grandi autorità elettive.

 

 

Se le informazioni pervenute al comitato piemontese sono esatte, questi mali non sono esclusivi al mezzogiorno d’Italia. Il sindaco di un comune vicino ad Aosta e già benemerito elettore politico, si propose, non è guari, di assistere un suo compaesano ed elettore, il quale aveva reclutato un discreto numero di minorenni valdostani destinati ad una vetreria del Belgio. Negatigli recisamente i passaporti per ordine della prefettura di Torino, l’incettatore, assistito dal sindaco sullodato, colla squadra si sarebbe recato in una provincia vicina dove, mercé la protezione, certo incosciente, di un parlamentare, avrebbe trovato modo di avere per semplice notorietà le carte occorrenti o quanto meno di varcare la frontiera indisturbato col suo contrabbando umano.

 

 

Ciò che è stato narrato sopra forma un complesso di fatti gravi e di negligenze colpevoli, a cui occorre portare rimedi efficaci. Né sarebbe difficile se si pensa che gli incettatori sono quasi sempre nativi di due o tre ben noti paesi: Casalvieri, Casalattico, Belmonte Castello. Di Casalvieri è notorio l’aneddoto della risposta del sindaco al prefetto, che lo interpellava sulle voci di costumi dei suoi concittadini.

 

 

«A Casalvieri, se ne togliete Sant’Onorio (il santo protettore) sono tutti ladri».

 

 

I carabinieri sono impotenti a sorvegliare questi vivai di negrieri. Un brigadiere mi diceva: «A Casalattico per questa faccenda io dovrei andare un paio di volte la settimana, perché è un centro attivo di questa peste. Ma io non ci vado che una volta al mese!»

 

 

Manca la sorveglianza. I funzionari colpiscono quelli che passano al volo, per caso, dove essi si trovano, ma questi sono una frazione minima del numero di quelli che hanno interesse nella turpe industria.

 

 

I funzionari riconoscono che farebbe perlomeno d’uopo esercitare sorveglianza nelle stazioni di partenza e di transito. Ebbene, si crederebbe? Si fermano, specialmente la notte, in queste stazioni, ore ed ore ad aspettare i treni, torme di bestiame umano e non l’ombra di una guardia osserva chi accompagna i ragazzi, chi è, perché. I ragazzi partono sforniti di carte, non sanno dove vadano, e lungo le strade ferrate patrie, per centinaia di chilometri, per decine di stazioni, il brutto reato passa inosservato. Quanto bene potrebbero almeno fare gli impiegati ferroviari, dal bucabiglietti al capo-stazione, se fossero autorizzati ed affiliati alla santa causa! Sotto il loro occhio passa sempre il reato.

 

 

Uno dei mezzi più sicuri per sottrarsi alla sorveglianza è il seguente: le loro guide, dopo averli fatti viaggiare in terza classe un paio di giorni sino ad una delle stazioni di confine, non mai la stessa, qui li fanno scendere e prendere il biglietto di seconda classe dei diretti, che hanno meno minuti di fermata; e non falliscono mai allo scopo; nessuna domanda, nessun fastidio da parte dei funzionari italiani. Parecchi funzionari del circondario di Sora e militi dell’arma superiore ad ogni sospetto, si lamentano vivamente perché le autorità italiane alla frontiera chiudono tutti e due gli occhi, e perché, per quante denunzie e comunicazioni facciano loro, non ottengono mai una risposta. Dimodoché il sotto – prefetto di Sora, scoraggiato, dice che per applicare rigidamente la legge italiana riguardo ai minorenni, possiamo sperare solo nei funzionari francesi!

 

 

Sia lode al comitato piemontese dell’opera Bonomelli che ha assunto il coraggioso apostolato. Come bene dice Alberto Geisser, è in potere di tutti noi, privati cittadini, ufficiali governativi o locali ed ecclesiastici, estirpare la piaga così obbrobriosa per l’Italia.

 

 

II

 

Alcuni mesi or sono narravamo su queste colonne una storia triste, profondamente triste: la storia del traffico miserando dei minorenni italiani condotti dai circondari di Sora e di Isernia a morire nelle vetrerie francesi.

 

 

Quella inchiesta, dovuta alla nobile iniziativa dell’Opera di assistenza degli operai italiani all’estero, ebbe larghissima eco.

 

 

Dobbiamo ora parlare di un’altra inchiesta e di un’altra campagna nobilissima condotta dall’Opera a favore dei minorenni italiani martirizzati nelle vetrerie francesi.

 

 

È una narrazione dolorosa, la quale stringe il cuore, questa degli sforzi fatti dal prof. E. Schiapparelli, segretario generale dell’Opera, per salvare dalla morte i piccoli martiri nostri connazionali. È una narrazione che noi vogliamo fare, perché una viva fiamma di indignazione sorga ad aiutare i volonterosi nell’intrapresa santa che essi si sono assunta.

 

 

È nei sobborghi di Lione (La Mouche, La Mulattière, Oullins, Venissieux), nel bacino dell’Alta Loira (Givors, Rive-de-Gier, ecc.) e nei dintorni di Parigi che più infierisce il triste sfruttamento dei fanciulli italiani.

 

 

Costretti dalla natura tecnica della lavorazione ad impiegare tre garzoni per ogni operaio adulto, i proprietari delle vetrerie, ad ogni famiglia che presenti due ragazzi capaci di fare il porteur danno gratuitamente alloggio e riscaldamento; impiegano subito i due fanciulli a non meno di 40 lire mensili ciascuno, ed impiegano il padre come manovale a tre franchi al giorno. Il salario viene dato al padre perché stia tutto il giorno ozioso, e permetta al fabbricante di sfruttare a sangue i suoi figli, i quali, dopo pochi anni, sono buttati sulla strada colla salute rovinata e senza un mestiere, per far posto a nuovi elementi più giovani e più agili. Accade che quando i veri figli muoiono o diventano incapaci a lavorare, i genitori, per conservarsi la sinecura dei 3 franchi giornalieri, ricorrano a criminose astuzie.

 

 

I più si procurano atti di nascita qualsiasi, che qualche loro compare vende per il prezzo medio di una cinquantina di lire. Rea Giuseppe, da Arpino, ha due figliastri, Ardore Domenico, maggiore di 13 anni, ed Onorio che ne ha 10: da un certo Arduino Recchia, di Casalvieri, compera l’atto di nascita di un fanciullo, Raffaele Fallone, che ne ha 14, e lo applica al figliastro Onorio, che malgrado la piccola statura – sono sempre tanto piccoli, si dice, i fanciulli italiani, in confronto dell’età! – viene subito accettato come porteur, così che il patrigno vi entra come manovale. Poco dopo, passa per Rive-de-Gier ed alloggia presso il Rea, il famigerato incettatore Donato Ciccarelli; questi gli propone di cedergli la fede di nascita del Raffaele Fallone, e il contratto è fatto: per cui in altra vetreria vi è certo un secondo ragazzo minore di 13 anni che figura col nome di Raffaele Fallone, e in altra ancora ve ne sarà probabilmente un terzo.

 

 

Sebbene la legge francese punisca coll’immediata espulsione lo straniero che si renda colpevole di falsa dichiarazione, nondimeno l’uso dei documenti falsi, fra i meridionali, è diventato sistema: tutti vi ricorrono. I capi del personale delle vetrerie lo sanno, ma chiudono amendue gli occhi e tollerano tutto. Grazie alla colpevole tolleranza, può avvenire che genitori avidi di guadagno mettano al lavoro fanciulletti di undici, di dieci, fin di nove, fin di otto anni.

 

 

Però, quella delle famiglie è la piaga minore. La vera, la grande piaga è quella degli incettatori, che hanno quattro, sei, dieci, quindici, fin venti ragazzi, sui quali, pagando annualmente 100 lire ai genitori, esercitano una autorità assoluta, che riduce quei disgraziati alla condizione di schiavi. I garzoni, così si chiamano i fanciulli incettati, non hanno camicia, o ne hanno una sola pei giorni festivi; dormono tutti nudi a tre, quattro, fin cinque per letto, o su pagliericci immondi buttati per terra, o su casse rovesciate. Solitamente, lungo la settimana non hanno che pane e cattiva minestra, per la quale le mogli degli incettatori, peggiori ancora dei loro mariti, utilizzano ogni rifiuto del mercato.

 

 

«Bisogna vederle, – diceva allo Schiapparelli un buon padre di famiglia francese, – queste donne italiane fra le 6 e le 8 della mattina girare pel mercato come fanno i cani, raccogliere per terra ciò che i rivenditori buttano via, ed avreste un’idea di ciò che si fa mangiare a questi poveri ragazzi! C’est de la pourriture qu’on leur donne!».

 

 

L’incettatore è forte perché è il preferito dai grandi industriali vetrai. Invece di aver da fare con dieci capi-famiglia zotici, ignoranti, che non parlano che il loro dialetto, il capo del personale ha da trattare con un solo individuo, svelto, intelligente, che parla bene il francese ed è quanto mai remissivo. L’incettatore, infatti, non si lamenta mai né dell’orario o del turno di lavoro, se sia di giorno o di notte, né domanda garanzie di sorta per l’avvenire dei garzoni. Quanto più lungo è il turno di lavoro, tanto meglio è per l’incettatore; se i suoi garzoni, invece di otto ore al giorno, lavorano dodici, invece di 45 lire mensili per ciascuno, egli ne intascherà 70; e se lavorano sedici ore, ne prenderà 90 e risparmierà sul vitto. Che se avvenga che i forni siano spinti a temperature altissime, ed i gamins, sopraffatti da vampe di calore infernale, fuggano gridando: «Metteteci dentro nel forno! Non ne possiamo più!», l’incettatore andrà a riprenderli, volenti o nolenti li ricondurrà al supplizio, e il lavoro non si interromperà. E se svengono nella vetreria per inanizione, il che avviene spesso, non perciò si dovranno fare mutamenti nel turno. L’incettatore, inoltre, ha cura di avere costantemente personale giovane; ha regolarmente una schiera di ragazzetti sotto i 13 anni che, come porteurs, sono tutto quanto si possa desiderare di meglio; li ritiene di solito per quattro, cinque o sei anni, passati i quali, se la morte non li ha falcidiati, li rimanda esausti ai loro parenti, chiedendo magari al consolato il rimpatrio gratuito, che suole essere conceduto agli infermi! E intanto nuova merce giovane arriva e supplirà l’antica.

 

 

Fu per strappare i piccoli martiri a codeste belve umane che lo Schiapparelli iniziò la sua campagna. La quale non fu agevole né lieta. I fanciulli italiani medesimi, terrorizzati dai loro padroni, occultavano la verità.

 

 

Scarni e del pallore della morte, con le tracce visibili dei patimenti a cui sono sottoposti, essi negano il vero perché sanno di essere spiati.

 

 

«Stimmo bene, simmo contenti!… In Italia se more de fame… Qui se mangia bene… In Italia no’ volimmo tornar più!…».

 

 

Non è possibile parlare a lungo coi fanciulli perché le donne incettatrici stanno sempre all’erta. Già sanno confusamente che in Italia esiste un’opera intesa a combattere il loro infame negozio. Poche ore dopo che lo Schiapparelli era giunto a Rive-de-Gier, la voce era corsa di bocca in bocca che l’ispettore, vagamente temuto, era giunto, ed ovunque egli passava, dalle porte delle case, dai terrazzini e dalle finestre, tutti lo segnavano a dito.

 

 

All’uscita dalle vetrerie, i ragazzi piccoli, senza dubbio inferiori ai 13 ed anche ai 12 anni, che lo Schiapparelli vede, sono molti.

 

 

«Avevano un’aria stanca, sfinita, che muoveva a pietà: scarni, con larghe bruciature, chi alle gambe, chi sul collo, chi sul viso. Camminavano zoppicando, strascicando i piedi come se fossero vecchi cadenti. Cercai interrogarne qualcuno; mi guardavano per un momento come istupiditi e poi se n’andavano senza rispondere o mormoravano come persona seccata: Sì!… simmo contenti… Qua se mangia… In Italia se more de fame… Né potuto dir altro, perché gli incettatori erano loro alle costole. A Venissieux, sobborgo di Lione, uno degli incettatori, inforcata una bicicletta, mi precedeva e mi seguiva dovunque, intimidendo i ragazzi, che più non ardivano parlare».

 

 

Lo Schiapparelli però non si scoraggia. Coadiuvato dal cav. Perrod, nostro console generale a Lione, funzionario meritevole di encomio per l’abnegazione con cui adempie ai più rudi doveri dell’ufficio suo, egli riesce ad ottenere l’appoggio delle autorità francesi, le quali con prontezza ed entusiasmo mettono a sua disposizione una squadra di gardiens de la paix. Con questi comincia la crociata. Una vera crociata, perché bisogna lottare con la forza e l’astuzia per strappare la preda agli incettatori.

 

 

Al Bâtiment de Gerlan, gran casamento dipendente dalla vetreria Jayet, nel sobborgo della Mouche, a Lione, sporco, umido, senza aria, sono accatastate almeno venti famiglie, quasi tutte di incettatori, con oltre cento garzoni. Quando vi giunse la squadra liberatrice, i ragazzi erano appunto rientrati dalle vetrerie; ma non appena si sa del suo arrivo, dalle finestre del piano terreno ed anche del primo piano gli incettatori fanno fuggire i ragazzi, specialmente i piccoli, sicché se ne possono liberare soltanto quattro.

 

 

Così in tutte le altre località. A Rive-de-Gier le resistenze furono tenaci. Gli incettatori maledivano, minacciavano, sfidavano l’ispettore a ritornare, ed avevano diffuso la voce che egli raccoglieva i ragazzi per gettarli nel fiume od ucciderli in modo misterioso; ma ben maggiore era il fermento alla Mouche, dove terribili furono le minacce che gli incettatori e le loro donne, vere furie infernali, fecero ai poveri ragazzi nella notte precedente al giorno in cui si aspettava lo Schiapparelli colle guardie.

«Al mattino, verso le undici, ora in cui i ragazzi dovevano essere usciti dalle vetrerie, ci presentammo alla casa n. 22 dello Chemin des Culattes, accompagnati da buon nerbo di gardiens de la paix. I due incettatori D’Agostino si erano nascosti; non c’era in casa che una delle donne, che ci stava aspettando con aria di sfida; vi erano pure i dodici ragazzi, intenti, più che a mangiare, a divorare ciò che la loro padrona aveva imbandito con grande larghezza. Sopra una tavola, in cucina, vi era, in abbondanza, minestra asciutta e in brodo, carne lessa ed arrostita, prosciutto, formaggio, vino».

 

 

«Ecco ciò che io dò ai miei garzoni» gridava D’Agostino, apostrofandoci.

 

 

«Tacete, malvagia donna» rispose il cav. Perrod, «non sentite il rimorso pei ragazzi che avete uccisi?»

 

 

«Ah! quelli è il Padre Eterno che se li è presi» rispose essa con un sorriso cinico, e rivolta ai ragazzi: «Mangiate, mangiate, figliuoli, finché ne avete il tempo».

 

 

I ragazzi divoravano colla bocca, cogli occhi, colle mani nervose, rivelando coll’avidità loro la lunga fame patita.

 

 

Quando i ragazzi ebbero dato fondo a quanto era stato loro imbandito, li interrogammo ad uno ad uno, e ci assicurammo che, su dodici, sette erano minori di 13 anni.

 

 

«Questi sette verranno con noi».

 

 

La D’Agostino lanciava dagli occhi lampi di collera minacciosa; i sette ragazzi cominciarono a dare in ismanie, piangevano, gridavano:

 

 

«No’ vulimmo andare a morire in Italia… in Italia se more de fame… Vulimmo restar qui…»

 

 

Tutti i vicini si erano affollati nel corridoio e per la scala, evidentemente nell’intento di provocare un tumulto, durante il quale i ragazzi potessero fuggire; d’uopo era agire colla massima energia. Come Dio volle, coi sette ragazzi minori, alcuni dei quali portati di peso dai gardiens de la paix, si arrivò fino in fondo alle scale, fra le strida delle comari, le invettive, le minacce un po’ di tutti, un vero pandemonio.

 

 

Sullo Chemin des Culattes, ove tenevamo pronte delle vetture, si faceva intanto un altro assembramento; ma erano principalmente francesi. «On délivre les petis verriers! – si gridava da ogni parte – Quelle belle oeuvre! – C’était bien le temps! – C’est le consul d’Italie, le voilàVive le consul d’Italie!». Le buone madri francesi, accarezzando i ragazzi, che si abbandonavano più che mai a smanie d’ogni sorta, cercavano di calmarli e persuaderli che quella era la loro liberazione.

Messi i sette ragazzi in vettura, li avviammo in consolato, custoditi da gardiens de la paix, e noi, col brigadiere e altri militi, andammo per prendere i ragazzi dall’incettatore Vincenzo Franco. Questi, come i due D’Agostino, si era eclissato, lasciando soli in casa la moglie – una megera – e i quattro ragazzi, che erano come impazziti dal terrore. Essi, clandestinamente, e per due volte, mi avevano domandato il rimpatrio, accusando i peggiori maltrattamenti, e per questo motivo mi ero deciso a liberarli, sebbene fossero tutti ragazzi forti, d’età superiore ai 13 anni. Il padrone aveva intuito che la domanda era venuta da loro, ed aveva loro imposto, come ammenda, pena la morte, di opporre a noi una resistenza disperata.

 

 

Entrati nella piccola cucina, in cui stavano raccolti, sotto la sorveglianza della Franco:

 

 

«Perché non li conducete in consolato?» domandammo a questa.

 

 

«Chiedetelo a loro, signore; sono essi che non vollero venire. Io li lasciai liberi».

 

 

I ragazzi si erano messi in piedi l’uno accanto all’altro, colle braccia incrociate sul petto, in atto di lotta; tutti insieme gridarono, scuotendo il capo minacciosamente:

 

 

«No, no’ venimmo in Italia! vulimmo restar qui!».

 

 

«Voi verrete!».

 

 

«No!».

 

 

I gardiens de la paix si mossero per prenderli e incominciò una zuffa accanita, in mezzo alle strida della Franco e di un nugolo di comari meridionali, che, in previsione, s’erano portate sul pianerottolo della scala.

 

 

«Lasciateli, – gridai allora. – Disgraziati, vi lascio! Non capite che resistendo alla polizia andrete in prigione?».

 

 

«Oh! poveri noi» gemettero come fuori di sé, durante un ben penoso tragitto.

 

 

Giunti alla stazione la scena cambiò. Discesi dalla vettura, si guardarono l’un l’altro, contandosi e interrogandosi vicendevolmente:

 

 

«È dunque proprio vero che siamo liberi? che andiamo in Italia?»

 

 

E a mano a mano che questa speranza si chiariva nella loro mente, il loro occhio si accendeva e la gioia traspariva da tutto l’essere loro. Né ebbe più limite quando a ciascuno fu rimesso il biglietto ferroviario fino alla frontiera, e un bel scudo per provvedersi del vitto durante il viaggio. Quei poveri figliuoli si abbandonarono allora alle più tenere dimostrazioni di affetto non solo verso di me e verso il cancelliere del consolato, che era stato pieno di premure per loro, ma anche col gardien de la paix, che li aveva scortati fino alla stazione. Quando il treno si mosse, partirono agitando le mani in segno di gioia e gridando: Viva l’Italia!

 

 

Alla Mulattière, a Rive-de-Gier continua l’opera di liberazione. In quest’ultima città furono liberati diciassette fanciulli che erano sotto falso nome, di dodici, undici, fin di dieci anni, i più in condizioni di salute infelicissime o disperate.

 

 

«Vi era, fra gli altri, un piccolo ragazzo, Francesco Fallone, di undici anni, che stava col cognato Vetrajno, uno dei più snaturati incettatori. Obbedendo alle ingiunzioni del Vetrajno, il povero fanciullo aveva sempre trovato modo di schivarsi uscendo dalla vetreria mezz’ora dopo gli altri, fino a che una sera, per puro caso, lo sorprendemmo; e, al vederlo, non potemmo trattenere un grido di pietà. Era un piccolo scheletro, che sussultava tutto per un tremito nervoso; ogni po’ doveva fermarsi, perché non poteva più camminare; eppure nelle otto ore precedenti gli avevano fatto fare i suoi settecento giri per portare settecento bottiglie!».

 

 

A Saint-Galmier lo Schiapparelli si reca da Antonio Fusco, un famoso incettatore, che contro l’ispettore dell’opera aveva proferito minacce di morte.

 

 

«Lo trovammo in casa con una parte dei garzoni che dovevano prendere il turno alle quattro del pomeriggio.

 

 

«Come vi chiamate? – Antonio Fusco. – Ah! siete quella canaglia di Fusco!; e su questo tono si proseguì. Scopersi documenti alterati, ragazzi sotto falso nome; presi a parte, alcuni di essi rivelarono i maltrattamenti subiti. Lavoravano tutti, ogni giorno, da 12 a 16 ore consecutive; uno, Antonio Cima, aveva lavorato fino 36 ore di seguito; per nutrimento non avevano, lungo la settimana, che pane duro e minestra immangiabile, – una broda con pasta corrotta e condita con sego; – alla domenica soltanto un bicchiere di vino cattivo e salsicce o altra carne putrefatta; ogni cinque, avevano un letto, e così pullulante di insetti, che i ragazzi preferivano dormire alla vetreria sopra un mucchio di paglia; due ragazzi piccoli, di dieci anni, con bruciature ai piedi, non erano registrati e ci erano stati nascosti. Le lettere dei genitori erano intercettate; ai due fratelli Cima, uno di 16 e l’altro di 10 anni, il Fusco aveva detto pochi giorni innanzi: «Vostro padre mi scrive che state male e che verrà a prendervi; se salirà le scale, non le scenderà; ammazzerò lui e voi, e berrò lo sangue suo e lo sangue vostro.

 

 

Antoniuccio, come si faceva chiamare, le Monsieur, come lo chiamavano i francesi, non lavorava e viveva sui ragazzi; ne aveva 13 registrati e 2 clandestini; dedotte le 100 lire annue, che passava ai parenti, e le spese di mantenimento, egli guadagnava, oziando, oltre 8.000 lire all’anno! Dei suoi 15 garzoni ne portai via 13, e gli altri due, maggiori di età, rimpatriarono poi. – Qual male ancora mi potete fare voi? – mi gridava furente la moglie del Fusco…».

 

 

Ottanta fanciulli liberati dal martirio lento e dalla morte sicura sono qualcosa. Ma ben più occorre fare. L’Opera, così ci promettono il vescovo Bonomelli, presidente dell’Opera, ed Alberto Geisser, delegato per l’assistenza dei minorenni, continuerà vigorosamente la crociata intrapresa, e proseguirà le denunzie, le liberazioni ed i rimpatrii, fino a che questa mala pianta degli incettatori non sia estirpata, a conforto della nostra coscienza, per il buon nome dell’Italia, per l’onore comune.

 

 



[1] La materia dei due articoli qui raccolti era stata ricavata da due più ampi studi che col titolo La tratta dei fanciulli italiani (in continuazione di altro studio, apparso nel medesimo fascicolo su L’emigrazione temporanea italiana e l’opera di assistenza di mons. Bonomelli, dovuto a Giuseppe Prato) e con quello La liberazione di ottanta piccoli martiri furono pubblicati rispettivamente nei fascicoli del giugno e del novembre dell’anno 1901 della rivista «La riforma sociale»; il primo ad opera del dott. Ugo Cafiero ed il secondo scritto in collaborazione fra l’autore e Giuseppe Prato.

[2] Con il titolo Un traffico infame di carne umana. Dolorose risultanze di un’inchiesta [ndr]

[3] Con il titolo Il salvataggio di ottanta piccoli martiri [ndr]

[4] Dell’«Opera di assistenza per gli operai italiani emigranti in Europa e nel Levante» fondata da monsignor Bonomelli, le testimonianze recate in questa raccolta lasciano intendere le benemerenze acquistate in un tempo, nel quale la tutela degli emigranti era stata assunta in fatto da due vescovi, Bonomelli di Cremona e Scalabrini di Piacenza. Insigne tra i collaboratori piemontesi dell’opera Bonomelli era Ernesto Schiapparelli, professore di archeologia nell’università di Torino, meritamente celebre per scavi nell’isola di Creta ed in Egitto. Egli si era dedicato alla tutela dei piccoli emigranti dei quali con energia non comune trasse centinaia a salvezza. Eragli compagno nell’opera benefica Alberto Geisser, che ebbe poscia parte notabile nella direzione della rivista «La riforma sociale», sostenne battaglie impopolari nel consiglio comunale di Torino e fu integro valoroso presidente della Cassa di risparmio di Torino (Nota del 1959).

36 milioni di italiani 208 mila italiani di più all’anno nel regno – Da 26 a 38 milioni, ossia 10 milioni di più in 40 anni – Fra un decennio supereremo in numero i francesi – L’aumento relativo nelle varie regioni italiane

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«La Stampa», 21 maggio 1901

L’agitazione inglese contro il dazio di uscita sul carbone

L’agitazione inglese contro il dazio di uscita sul carbone

«La Stampa», 29 aprile[1] e 6[2] maggio 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 342-349

 

 

I

 

Dal giorno in cui il cancelliere dello scacchiere propose che fosse istituito un dazio di esportazione sul carbone inglese, l’agitazione degli interessati non ebbe tregua.

 

 

Si commossero i consumatori dei paesi continentali che importano carbone dall’Inghilterra; dall’Italia, dalla Spagna, dalla Germania, dai paesi scandinavi, dalle stazioni navali e dalle colonie inglesi diffuse in tutto il mondo partirono le proteste dei consumatori di carbone, inquieti per la poco lieta prospettiva di dover pagare il carbone uno scellino più caro alla tonnellata. In Italia si calcolò che le industrie ed i consumatori sarebbero stati per il futuro assoggettati ad un’imposta di 5 milioni di lire a favore del tesoro inglese, in ragione di 1,25 (uguale ad uno scellino) per ognuna dei 4 milioni di tonnellate che mediamente si importano dall’Inghilterra.

 

 

Nel tempo stesso si agitavano altresì i minatori ed i coltivatori di miniere nella Scozia, nel Durham e Northumberland e nel Galles meridionale, che sono i grandi bacini carboniferi inglesi esportatori di carbone all’estero. Violente querele si innalzarono contro un dazio condannato dalla scienza economica, perché rivolto a danno di una speciale industria, condannato dalla giustizia, perché, su 225 milioni di tonnellate di carbone prodotto nell’Inghilterra, colpisce soltanto i 42 milioni esportati ed impone così un tributo di 50 milioni di lire circa su alcune regioni ad esclusione di tutte le altre.

 

 

Le lagnanze dei consumatori stranieri e dei produttori inglesi appaiono contraddittorie. Il dazio di esportazione non sembra potere colpire nel tempo stesso produttori e consumatori. Se l’aumento di uno scellino nel prezzo della tonnellata di carbone colpisce i consumatori stranieri, nessun danno ne risulterà per i produttori inglesi; e, viceversa, se i prezzi rimarranno immutati, i soli a dolersi del dazio saranno i produttori, i quali dovranno pagare il dazio e star contenti al prezzo di prima, mentre i consumatori saranno esenti.

 

 

Quale di queste due ipotesi è la vera? o forse è vera un’ipotesi intermedia che distribuisca il carico dell’imposta fra coloro che nel presente momento si dolgono dei disegni fiscali di sir Michael Hicks-Beach?

 

 

Una risposta al quesito posto non è agevole, così numerosi e svariati sono i fattori economici ed anche geografici di cui importa tener conto.

 

 

Il governo inglese, quando si indusse a proporre il dazio di esportazione sul carbone, ebbe certo dinanzi a sé l’ipotesi più favorevole, secondo cui l’imposta verrebbe dai produttori rimbalzata sui consumatori stranieri.

 

 

L’ipotesi si può in realtà verificare. Supponiamo che l’Inghilterra sia l’unico paese dal quale le nazioni consumatrici si possano provvedere di carbone, e supponiamo del pari che la domanda di carbone sia rigida, tale, cioè, che ad un aumento di prezzo non corrisponda una diminuzione di consumo. Entrambe queste supposizioni devono essere apparse probabili al cancelliere dello scacchiere. In Europa né la Francia, né il Belgio, che producono ciascuna dai 25 ai 30 milioni di tonnellate di carbone, sono in grado di esportarne, ed anzi ne importano dall’Inghilterra per soddisfare ai bisogni delle loro crescenti industrie. Nemmeno la Germania, che produce più di 100 milioni di tonnellate di carbone, è nazione esportatrice. Tutte le città marittime tedesche sono anzi invase dal carbone inglese che respinge quello tedesco verso l’interno della Germania, dove è interamente consumato, senza che possa, per l’altezza delle tariffe ferroviarie rispetto ai noli marittimi, riuscire a far concorrenza in Francia ed in Italia al carbone inglese.

 

 

La esportazione dagli Stati uniti, che pur producono quanto l’Inghilterra, ossia più di 200 milioni di tonnellate di carbone all’anno, è stata fino agli ultimi anni nulla ed è ancora oggidì irrilevante.

 

 

Manifesto è quindi essere l’Inghilterra l’unica nazione provveditrice di carbone per il mondo; l’unica nazione inoltre la quale per virtù della sua speciale condizione marittima sia in grado di provvedere le terre straniere di carbone a basso costo. A causa infatti della forte importazione di merci in Inghilterra, le navi sono obbligate, se non vogliono ritornar vuote, a caricar carbone, quando salpano per l’estero. Il carbone serve come zavorra; zavorra preziosa perché non solo non costa nulla, ma anzi paga nolo. Appunto perché sostituisce la zavorra, il nolo del carbone può essere tenuto basso, molto più basso del nolo e delle tariffe ferroviarie che converrebbe pagare qualora si volesse importare carbone da altri paesi. Tutte le nazioni sono quindi tributarie dell’Inghilterra per il nero pane dell’industria; e precisamente perché il carbone è il pane dell’industria non possono fare a meno di comprarne la quantità di cui hanno bisogno. L’aumento dei prezzi di uno scellino non è siffattamente grande da indurre le nazioni consumatrici a scemare la loro domanda di un combustibile che costituisce elemento essenziale di vita per le grandi industrie moderne. Non sarà, ad esempio, un aumento di 1 lira e 25 centesimi sul prezzo di 35 lire del Cardiff sul porto di Genova che farà diminuire in guisa apprezzabile la domanda italiana di carbone inglese.

 

 

Basandosi su questi due concetti: monopolio assoluto dell’Inghilterra sul mercato dei carboni e fissità, malgrado l’aumento dei prezzi, della domanda straniera, il cancelliere dello Scacchiere deve aver seguitato a ragionare nel seguente modo:

 

 

Poiché gli stranieri si debbono per forza rivolgere a noi per comprar carbone e poiché ne devono comprare una quantità fissa, se il governo impone un dazio d’esportazione di 1 scellino per tonnellata, gli stranieri dovranno pagare codesto dazio.

 

 

Infatti il costo di produzione del carbone verrà accresciuto uniformemente per tutte le miniere esportatrici per l’ammontare di uno scellino e se prima codeste miniere conseguivano i profitti correnti vendendo ad un prezzo di 10, e nessuna poteva vendere, per la reciproca concorrenza, ad un prezzo maggiore, dopo il dazio il profitto sarebbe ridotto al disotto del saggio corrente nelle industrie, ove il prezzo non aumentasse; e quindi i produttori di carbone potranno accrescere i loro prezzi di uno scellino, continuando a guadagnar come prima, e così rigettare l’onere del dazio sui consumatori stranieri.

 

 

Né codesta conseguenza è sembrata a molti ingiusta. Vive sono infatti le lagnanze delle industrie e dei consumatori inglesi, i quali affermano che i produttori di carbone vendono a prezzi più elevati in Inghilterra che non all’estero; risarcendo magari le perdite subite col vendere a basso prezzo all’estero, coll’elevare proporzionalmente il prezzo dei carboni smerciati in Inghilterra, dove non vi è concorrenza possibile da combattere. Mercé il dazio, anche i consumatori stranieri pagheranno il carbone allo stesso saggio che in Inghilterra, aggiuntovi il nolo; e così non sarà più dato uno stimolo artificiale alla concorrenza che le industrie straniere muovono a quelle britanniche.

 

 

Se le cose stessero precisamente come fin qui è stato esposto, non vi sarebbe dubbio che il dazio sul carbone dovrà ricadere in ultima analisi sui consumatori stranieri e che un tributo di cinque milioni l’anno dovrà gravare l’Italia a cagione della guerra che agli inglesi piacque condurre contro le repubbliche boere.

 

 

Ma son vere le premesse dalle quali prese il suo punto di partenza il ragionamento degli statisti inglesi? È veramente ferreo il monopolio che l’Inghilterra carbonifera esercita sulle nazioni straniere; ed è vero che la domanda di carbone non possa diminuire quando aumenta il prezzo del combustibile?

 

 

Ambe le asserzioni vengono energicamente dichiarate erronee dai produttori inglesi quando vogliono dimostrare che l’onere dell’imposta cadrà su di loro.

 

 

II

 

In Inghilterra si allarga ogni giorno più la campagna dei produttori e dei minatori di carbone contro il nuovo dazio di esportazione.

 

 

Essi ritengono il dazio destinato in definitiva ad incidere sulla produzione interna e non sui consumatori stranieri. Coi produttori sono alleati gli armatori di piroscafi per il timore che il dazio proposto possa esercitare un’azione dannosa sulla loro industria.

 

 

Né i produttori difettano di argomenti adatti a dimostrare la loro tesi. Anzitutto un buon terzo dei 42 milioni di tonnellate di carbon fossile esportato all’estero si deposita nelle stazioni navali inglesi scaglionate in tutte le parti del mondo; e qui viene novamente caricato da piroscafi britannici obbligati a rifornirsi di carbone durante il viaggio. Un terzo del dazio di esportazione cade dunque sull’industria inglese. Si potrà discutere se il dazio incida piuttosto sui coltivatori di miniere, ovvero sugli armatori di navi, ma non vi è dubbio che in ogni caso viene colpita l’industria inglese.

 

 

Rimangono gli altri 28 milioni di tonnellate consumate veramente da stranieri; ed a questo proposito abbiamo veduto come i consumatori stranieri dovrebbero sopportare l’intero gravame del dazio, quando essi non potessero ricorrere a nessun altro paese fuorché all’Inghilterra, per procacciarsi carbone, e quando non potessero diminuire la loro domanda di combustibile ove ne aumentasse il prezzo.

 

 

È chiaro, affermano i produttori inglesi, che né l’una né l’altra di queste due supposizioni è vera.

 

 

Il carbone inglese anzitutto è ben lungi dal conservare quel predominio nel mondo che aveva nel passato secolo. In ogni luogo si scoprono e si utilizzano bacini carboniferi estesi e larghissimi, dove il carbone può ottenersi ad un costo – sul posto della miniera – più basso di quello inglese. La Germania, la cui produzione era irrilevante intorno al 1850, supera attualmente i 100 milioni di tonnellate. Gli Stati uniti non solo hanno cessato di importare carbone inglese e producono già più di 200 milioni di tonnellate, ma hanno cominciato un’esportazione che, ristretta prima ai porti dell’America, ha fatto qualche punta minacciosa nell’Europa e persino nella stessa Inghilterra. E chi può prevedere fin dove si spingerà l’intraprendenza dei proprietari americani di miniere di carbone che ora si sono stretti in potenti consorzi (trusts), intesi forse, come quello del petrolio, alla conquista del mercato mondiale? Altrove, nell’India, nella Cina, nel Giappone, nell’Africa, nell’Australia, le miniere locali sostituiscono sempre più largamente il carbone inglese. Dovunque questo deve lottare colla produzione straniera per conservare i mercati di frontiera. Nei porti settentrionali della Germania lotta coi carboni della Slesia e della Westfalia, nel nord e nel sud della Francia col carbone del centro, nel Canadà col carbone americano, nelle stazioni navali dell’Africa, dell’Asia e dell’America coi carboni indigeni.

 

 

Questa lotta si combatte a colpi di scellini e di pence. Sarebbe curiosissimo osservare su una carta geografica le varie fasi del commercio carbonifero. Ad ogni aumento di uno scellino od anche di pochi pence nel prezzo del carbone inglese, questo viene rigettato dall’interno della Germania verso le coste e qualche volta viene persino espulso dalle città marittime da un’ondata avanzantesi di carbone westfaliano. Le grandi compagnie transatlantiche tedesche e persino la marina da guerra fanno il giuoco della spola tra il carbone inglese e quello westfaliano, spostandosi dovunque è il più basso prezzo. Dove non c’è carbone, si lotta coi surrogati: col petrolio, colla nafta, con le forze idrauliche. Il carbone inglese non solo non ha una posizione di monopolio, ma la domanda estera di carbone diminuisce, spostandosi verso i carboni stranieri o verso i surrogati del carbone ogni volta che il prezzo del carbone aumenta.

 

 

Talvolta la diminuzione di domanda viene mascherata, come accadde nell’ultima crisi di caro del carbone, per il fatto che, mentre aumentava il prezzo del carbone, crescevano ancor più i bisogni delle industrie, che si trovavano in una eccezionale condizione di prosperità, e dovevano quindi continuare a consumare la stessa quantità di carbone di prima. Ma più ancora ne avrebbero consumato ove il prezzo fosse stato minore.

 

 

Trattasi, del resto, di fenomeni passeggeri. Ritornata la calma negli affari, ogni rincaro del carbone inglese significherebbe lo spostamento dei paesi consumatori di frontiera verso altri mercati di produzione od il ricorso a surrogati.

 

 

Si dirà: è questa una diminuzione leggera, che si verifica soltanto agli estremi limiti del mercato dei carboni inglesi. Una diminuzione di un quarantesimo o di un ventesimo nella domanda lascia intatto il grosso della domanda estera e non può esercitare influenza apprezzabile sul prezzo. Il carbone inglese, il cui prezzo sarà accresciuto di uno scellino alla tonnellata, si ritirerà alquanto dall’interno verso le coste della Germania, della Francia e della Russia, cederà il posto in qualche parte alle forze idrauliche italiane, abbandonerà qualche stazione marittima nei più lontani paraggi dell’Atlantico, del Pacifico e dell’Oceano Indiano. Qui sarà tutto. Gli altri trentanove quarantesimi dei consumatori stranieri dovranno pagare il carbone uno scellino più caro.

 

 

In ciò appunto sta l’errore, replicano i produttori di carbone. Nel credere che sia necessaria una grande diminuzione nella domanda per far diminuire i prezzi del carbone. L’esperienza dimostra invece che basta una piccolissima diminuzione della domanda per far scemare fortemente i prezzi, come viceversa è sufficiente un piccolo aumento per farli crescere fortemente.

 

 

La storia del carbone nel secolo passato ne è prova chiarissima. Ecco una lista di alcuni caratteristici prezzi massimi e minimi dal 1847 in poi (in scellini e centesimi di scellini) del carbone (marca Best Wallsend) in Londra:

 

 

1847

20,5

1851

16

1854

23,3

1861

18

1873

32

1879

15,5

1883

18

1886

16

1893

19,5

1895-96

15

febbraio

1900

27

maggio

1900

18,5

settembre

1900

24

aprile

1901

19

 

 

Donde nascono codeste variazioni notevoli di prezzo? Da variazioni qualche volta tenui nella domanda. Nel 1873 è bastato che dall’estero si chiedessero poche centinaia di migliaia di tonnellate in più per produrre prezzi di fame; e nell’anno scorso è noto come un incremento – in cifra assoluta non superiore a pochi milioni di tonnellate – nei bisogni di carbone dell’industria europea e della marina da guerra ed ausiliaria per il Transvaal e la Cina abbia fatto improvvisamente duplicare i prezzi.

 

 

Al contrario è bastata nel 1879, nel 1886 e nel 1895 non già una diminuzione in senso assoluto della domanda, ma soltanto una sosta nel suo cammino ascendente per fare precipitare i prezzi alla metà del livello prima raggiunto.

 

 

Si vede quindi quale dannoso effetto potrebbe esercitare una diminuzione apparentemente minima della domanda in conseguenza del dazio di uno scellino alla tonnellata. Il danno può essere eliso nei momenti di prosperità, ma sarebbe duramente sentito nei periodi, spesso lunghissimi, di calma o di crisi.

 

 

Né i produttori, per non sentire il gravame del dazio, possono ritrarre i loro capitali dalla miniera. I capitali sono legati alla miniera e non possono spostarsi.

 

 

Forse un minor numero di capitali nuovi accorrerà alla coltivazione del carbone; ed alla lunga la produzione potrà rimettersi in equilibrio colla domanda. Sarebbe vano sperare di vedere allora aumentati i prezzi, perché la concorrenza cresciuta del carbone americano e degli altri bacini, a basso costo, lo renderà impossibile.

 

 

Queste le ragioni – non di poco peso – con cui si dimostra che in definitiva il gravame del dazio ricadrà sui produttori e sui minatori inglesi, e della agitazione che si sta organizzando in Inghilterra.

 

 



[1] Con il titolo Il carbone [ndr]

[2] Con il titolo L’agitazione inglese contro il dazio sul carbone [ndr]

Una condotta onesta

Una condotta onesta

«La Stampa», 25 aprile 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 339-341

 

 

Chi onestamente si condusse è il governo; e noi, che verso i governanti di qualsiasi partito siamo parchi di lode, non possiamo astenerci oggi dal rilevare come nello sciopero di Genova il governo abbia tenuto una condotta meritevole di encomio.

 

 

Quando uno sciopero scoppia, sovratutto se interessa grandi masse operaie, è dovere primo del governo di mantenere intatto l’ordine pubblico, di impedire che il conflitto pacifico tra capitale e lavoro assuma forme tumultuose e si compiano, da parte di uno dei contendenti, atti contrari alla libertà del lavoro.

 

 

Questo a Genova fu fatto. Non si ebbe a lamentare perturbazione veruna dell’ordine pubblico e nessun attentato alla libertà del lavoro fu dagli scioperanti commesso contro i marinai meridionali arrolati dalle compagnie di navigazione e dagli armatori.

 

 

Quando uno sciopero non riflette soltanto interessi privati, ma interrompe altresì qualche servizio pubblico, è dovere inoltre del governo di provvedere alla continuazione del servizio minacciato, senza nel tempo stesso compiere atto di favore verso alcuno dei contendenti. Nel caso dello sciopero di Genova, era minacciato non solo il trasporto delle merci e dei passeggeri, ma altresì il trasporto delle corrispondenze postali, servizio pubblico codesto di eccezionale importanza. Il governo non poteva né doveva provvedere a trasportare merci e viaggiatori, perché in tal modo si sarebbe fatto pendere la bilancia della lotta a favore degli armatori; ma doveva curare la prosecuzione del servizio postale, il quale non deve risentir nocumento dallo scoppio di una contesa di ordine privato. Bene si operò quindi adibendo degli incrociatori ed altre navi della marina da guerra al servizio postale, funzione di stato che questi ha diritto di compiere per mezzo della sua marina.

 

 

Questi sono doveri del governo. Tutelare l’ordine, curare la puntuale prosecuzione dei pubblici servizi, sono funzioni di stato alle quali non si può disconoscere avere il governo convenientemente provveduto nelle recenti contingenze.

 

 

Un altro dovere ha lo stato quando sorge contesa industriale: mantenersi neutrale ed imparziale fra i contendenti.

 

 

Da molti si è mosso rimprovero al governo perché non diede agli armatori l’ausilio dei suoi marinai affinché le navi potessero regolarmente salpare senza interruzione dei traffici. Per il contrario motivo si diede lode in passato da alcuni a quei governi che negli anni decorsi concessero ai proprietari di terre l’aiuto dei soldati durante l’epoca della mietitura del grano o del riso che non potevasi compiere regolarmente a causa dello sciopero dei braccianti della campagna.

 

 

Noi però nella stessa guisa in cui criticammo il ministero Saracco per avere concesso l’aiuto dei soldati ai proprietari di Molinella durante la mietitura del riso, così oggi diciamo avere il governo fatto il suo dovere quando non volle concedere agli armatori l’ausilio dei marinai del real corpo degli equipaggi. Il perché del nostro giudizio è chiaro.

 

 

Lo stato è anzitutto un organo di giustizia. Esso, nelle contese fra le varie classi sociali, non deve intervenire a difendere una classe contro l’altra, a prestare mano forte agli uni perché nella lotta economica conseguano la vittoria sugli altri. Se lo stato interviene, mandando soldati a mietere i campi o concedendo i suoi marinai agli armatori privati, esso compie un atto di favore verso la classe degli imprenditori, la mette in grado di vincere più facilmente nella contesa cogli scioperanti, ed arreca torto alla classe operaia. I salari, l’orario giornaliero e gli altri patti del lavoro non vengono più liberamente fissati dalle contrattazioni fra operai e padroni, ma vengono determinati quasi autoritariamente dai secondi, i quali sanno che, se gli operai non li accettano, essi possono egualmente esercire la loro industria mercé l’aiuto dei soldati e dei marinai governativi.

 

 

Se ben si guarda, la neutralità dello stato è una garanzia per tutti, imprenditori ed operai. Operando altrimenti si fa opera di classe. Oggi un governo benigno verso gli industriali favorisce questi a danno degli operai; ma chi impedirà, una volta messosi sulla via dell’intervento attivo a favore dei contendenti, che domani un governo socialista o socialisteggiante intervenga a favore degli operai, imponendo agli industriali l’accettazione delle pretese avanzate dagli operai?

 

 

Se dunque gli imprenditori non vogliono che l’arma dell’aiuto dello stato si rivolga in futuro contro di loro, è mestieri che essi non pretendano di servirsene ora a proprio vantaggio.

 

 

Soltanto collo stabilire ben nettamente che lo stato deve essere soltanto organo di giustizia e non deve far nulla che possa avvantaggiare l’una o l’altra delle due parti che pacificamente contendono intorno ai patti del lavoro, si può sperare che non si continui ad accusare il governo di esser una emanazione di classe intesa ad opprimere le classi non partecipanti al potere.

 

 

L’opera dello stato deve essere superiore ai partiti ed alle classi. La sua funzione è di giustizia, di moderazione, di conciliazione. Intervenga bensì il governo coi consigli e coll’arbitrato a risolvere le contese del lavoro con soddisfazione ed accordo reciproco delle parti; ma non si induca mai a prestare aiuto ad una parte perché il conflitto venga risoluto a vantaggio di questa.

 

 

Operando nella prima guisa si favorisce la pacificazione sociale; operando nella seconda maniera si acuisce la lotta di classe. E la lotta di classe conduce alla disorganizzazione della società; mentre l’opera di pace sociale è causa di progresso civile ed economico.

La mediazione del lavoro

La mediazione del lavoro

«La Stampa», 24 aprile 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 334-338

 

 

Lo sciopero, che ancora dura, dei marinai di Genova, quello, prolungatosi a lungo nella nostra Torino, degli operai fonditori ed altri numerosi che si minacciano nelle campagne dell’alta Italia hanno reso di attualità un argomento: quello della mediazione del lavoro.

 

 

In tutti codesti scioperi si è discusso e si discute di molte questioni: di salari, di ore di lavoro, di cottimo, ecc. ecc. In fondo a tutte queste contese sta un problema fondamentale: in qual modo debbano essere trattate e risolute le questioni insorgenti tra operai e principali. Ieri a Torino gli operai fonditori chiedevano che fosse riconosciuta la loro lega come l’emanazione collettiva della loro classe, come il corpo con cui gli industriali dovevano trattare e discutere le questioni di orario, di paga, di assunzione in servizio, di modalità del lavoro, di licenziamento. Oggi a Genova i marinai chiedono che alla loro lega venga riconosciuto il diritto di stabilire il turno di servizio sulle navi e soltanto agli iscritti regolarmente sia data dagli imprenditori occupazione.

 

 

Son domande che dimostrano come sia sentito ed universale il bisogno di un istituto il quale metta a contatto operai e principali, faccia conoscere gli uni agli altri, togliendo in tal modo una delle principali cause della disoccupazione; e dia ad essi il mezzo di trattare i patti del lavoro non individualmente ma in quel modo ordinato e collettivo che è richiesto dalle condizioni dell’industria moderna.

 

 

Tre sono i sistemi principali a cui si può ricorrere per creare gli istituti di mediazione del lavoro: il sistema che si può dire inglese delle leghe autonome, il sistema francese del patronato, ed il sistema germanico degli uffici municipali. Tutti e tre questi sistemi sono stati applicati con varia fortuna anche in Italia; ed è utile che del loro concetto informatore e delle loro applicazioni italiane si tenga parola affinché il pubblico conosca i mezzi ai quali si può ricorrere per risolvere i problemi tra capitale e lavoro e gli uomini di stato ne traggano argomento ad una azione legislativa, la quale sembra ogni dì più urgente.

 

 

Il primo sistema, delle leghe indipendenti, ha registrato i maggiori trionfi nei paesi di stirpe anglo – sassone. In conformità al loro genio nazionale, gli inglesi e gli americani, sia operai che padroni, di malavoglia tollerano l’intervento nelle loro questioni dei poteri governativi o cittadini; e neppure si piegano gli operai a subire il patronato degli imprenditori. Dotati di notevole iniziativa, gli operai hanno costituito una meravigliosa rete di Trade-Unions od unioni operaie, le quali provvedono ad accumulare fondi di resistenza in caso di sciopero, di assicurazioni contro la vecchiaia, la invalidità, la disoccupazione, ecc. Non solo, ma per mezzo di un proprio ufficio permanente di segreteria, le unioni forniscono ai soci le indicazioni opportune sui luoghi dove abbonda o difetta il lavoro, trattano cogli industriali le questioni del lavoro e di solito felicemente le risolvono.

 

 

Dal canto loro gli industriali, ad imitazione degli operai, si sono stretti in potenti leghe, le quali, per mezzo di propri uffici di segreteria, si mettono a contatto delle leghe operaie, ricevono forniscono notizie intorno all’offerta ed alla domanda di lavoro e discutono, come si disse, le vertenze che ogni giorno insorgono nel campo industriale.

 

 

Al tipo inglese di organizzazioni autonome di operai e di imprenditori, indipendenti le une dalle altre ed indipendenti amendue dalla tutela e dall’ingerenza governativa o comunale, si inspirano od almeno vorrebbero inspirarsi le camere del lavoro in Italia; le quali però, talvolta hanno sollecitato ed ottenuto l’aiuto finanziario dei comuni, dandosi un’apparenza – estranea alla loro genuina natura di emanazione pura e semplice della classe operaia – di organi imparziali di mediazione del lavoro. Poiché tuttavia le camere o leghe degli operai non furono quasi mai volute riconoscere dagli industriali sia singoli, sia associati, è mancato il modo di scorgere se dal vicendevole contatto di questi due diversi ordini di leghe potesse sorgere, come in Inghilterra, un’azione benefica di soluzione dei problemi operai.

 

 

Appunto a causa degli ostacoli che nel nostro paese incontrò l’istituto libero britannico, si pensò ad altri modi di mettere a contatto capitale e lavoro.

 

 

Il metodo cosidetto del patronato, – che ha avuto fortuna specialmente in alcune industrie francesi e per cui la funzione di intermediazione viene esercitata da un ufficio istituito da filantropi, appartenenti per lo più alle classi dirigenti – non sembra in Italia destinato a successo.

 

 

I filantropi si stancano spesso di pagare, e gli operai, spesso non senza ragione, divengono sospettosi di uffici istituiti da uomini di ceto diverso per procacciar loro i benefizi di un’occupazione e di equi patti di lavoro.

 

 

Favore crescente incontra invece il terzo sistema, imitato dalla Germania, dove è floridissimo, e di cui hanno preso l’iniziativa da noi le città di Brescia, Vercelli ed Asti.

 

 

È il sistema degli uffici municipali. Non leghe autonome di operai e di imprenditori, a cui si rimprovera di essere non tanto organi di pace e di lavoro quanto strumento di lotta; non uffici di patronato che per il loro carattere di filantropia esercitata benignamente dai ricchi a pro dei poveri non ispirano ai poveri fiducia; ma uffici imparziali, istituiti con determinate guarentigie dai comuni, di cui tutte le classi sociali siano chiamate a far parte e che si consacrino col solo intento dell’utile sociale a trovar lavoro ai disoccupati, a mettere a contatto operai ed industriali ed a facilitare, col consiglio e coll’arbitrato, la soluzione delle questioni del lavoro. È un ente autonomo, che non è l’emanazione di una sola classe, ed in cui tutte le classi sono rappresentate e discutono sotto la guida moderatrice ed imparziale di un pubblico magistrato municipale.

 

 

A Vercelli, ad esempio, per iniziativa dell’on. Piero Lucca, tipo di conservatore all’inglese, è stata approvata la istituzione di un consiglio» e di un «ufficio del lavoro». Il «consiglio del lavoro» propone al sindaco i provvedimenti utili all’incremento dell’industria e del commercio cittadino, si interessa affinché le contrattazioni del lavoro si concludano con equità fra committenti e lavoratori, interviene onde risolvere equamente le divergenze fra capitale e lavoro, vigila a che siano applicate le leggi protettive del lavoro e sovraintende all’andamento dell’ufficio del lavoro.

 

 

Il consiglio è presieduto dal sindaco o da un assessore delegato ed è composto da dodici membri eletti dal consiglio comunale e scelti:

 

 

  • uno, fra i consiglieri comunali;
  • uno, fra tre industriali proposti dalla camera di commercio di Torino;
  • uno, fra tre industriali e commercianti proposti dal casino di commercio di Vercelli;
  • uno, fra tre proprietari e conduttori di fondi proposti dal consiglio agrario;
  • uno, fra tre capo-mastri;
  • uno, fra tre esercenti proposti dalla società degli esercenti;
  • cinque, fra quindici operai di varie arti e mestieri proposti dai soci effettivi delle associazioni di operai aderenti all’ufficio municipale del lavoro;
  • uno, fra tre lavoratori della terra proposti dal consiglio agrario.

 

 

Come agevolmente si scorge, tutte le classi sociali sono chiamate a partecipare alla costituzione del consiglio del lavoro che, sotto la guida del sindaco, cercherà di risolvere a Vercelli le questioni operaie.

 

 

Ma prima che a risolvere le possibili quistioni occorre pensare a procacciar lavoro agli operai che ne difettano; ed a ciò provvede l’ufficio del lavoro, pure esso municipale, presieduto dal sindaco o dall’assessore delegato e diretto dal segretario – capo del municipio.

 

 

L’ufficio del lavoro raccoglie le notizie e fornisce ai committenti ed ai lavoratori le informazioni necessarie al fine di procurare agli uni il personale, agli altri l’occupazione, assistendo i lavoratori per facilitare il loro collocamento; raccoglie le notizie, consiglia, istruisce ed assiste i lavoratori del comune per la ricerca del lavoro anche in altri comuni all’interno ed all’estero; assiste gli emigranti nell’esaurimento delle pratiche necessarie al fine di garantire che il lavoro promesso sia assicurato.

 

I veri fattori della crisi russa Perché gli operai russi si muovono – Una terribile crisi commerciale – Le fabbriche si chiudono a centinaia – Come la guerra del Transvaal e la spedizione cinese occasionano la crisi e la fame in Russia – L’inondazione del capitale straniero – Vicino al campidoglio è la Rupe Tarpea

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«La Stampa», 4 aprile 1901

Come si applica la legge sul lavoro dei fanciulli

Come si applica la legge sul lavoro dei fanciulli

«La Stampa», 1 aprile 1901[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 330-333

 

 

Uno dei rimproveri che più frequentemente si fanno alle leggi di carattere sociale è che esse non vengono eseguite, per mancanza di funzionari appositi, per trascuranza delle autorità locali e per colpevole condiscendenza verso gli industriali che violano la legge. L’ultima relazione presentata dall’on. Di Rudinì alla camera il 5 giugno 1898 intorno al modo con cui veniva eseguita la legge dava notizie poco incoraggianti sulla scarsa applicazione della legge esistente, sicché poco numerose erano le contravvenzioni accertate e le sentenze pronunciate.

 

 

Un argomento di conforto lo abbiamo ora nella relazione che l’on. Picardi ha presentato alla camera nella tornata del 27 marzo.

 

 

Laddove nel triennio 1887-89 le visite eseguite negli stabilimenti ammontarono soltanto a 704, ed erano cresciute a 4.412 nel triennio 1890-92, per ridiscendere a 3.805 nel 1893-95, nell’ultimo triennio si passa a ben 29.055 visite. La maggior parte delle visite, 22.380, furono fatte dagli ufficiali della polizia giudiziaria, a cui l’amministrazione è costretta a ricorrere, in mancanza di un personale tecnico speciale sufficiente. Gli ispettori delle industrie, che all’estero sono assai numerosi, da noi sono soltanto tre, e debbono vigilare anche sull’andamento delle scuole industriali ed attendere ad altre attribuzioni. Gli ingegneri delle miniere a loro volta sono assorbiti da numerose attribuzioni per il loro servizio ordinario; cosicché il ministero non avrebbe modo, senza l’aiuto degli agenti di polizia giudiziaria, di adempiere all’obbligo suo di far rispettare ed osservare la legge. In conclusione, i tre ispettori industriali fecero 142 visite ad opifici; e gli ingegneri del real corpo delle miniere ne fecero 2.439 ad opifici industriali e 2.724 a cave, miniere ed altre aziende minerarie. Una migliore applicazione della legge è dunque indubbia; ma non è a nascondere che gran parte degli ufficiali di polizia giudiziaria è priva di quelle cognizioni tecniche, che pure sarebbero necessarie per adempiere convenientemente all’ufficio proprio.

 

 

Dopo le visite, le contravvenzioni agli industriali i quali violano la legge. Anche sotto questo rispetto si nota un aumento di attività nell’osservanza della legge. Le contravvenzioni, da 53 nel 1887-89,salgono a 188 nel 1890-92, a 373 nel 1893-95 e finalmente ad 854 nel 1896-98. Siffatto aumento sarebbe un brutto indizio, se non si sapesse che esso dipende esclusivamente dal cresciuto numero delle visite, che permette di accertare molte più violazioni della legge.

 

 

Anche le sentenze pronunciate crescono di numero. Erano 91 nel 1887-89, e diventarono 165 nel 1890-92, per passare a 330 nel 1893-95 ed a 689 nel 1896-98. Di queste ultime, 627 si riferiscono al periodo 1 luglio 1896-31 dicembre 1898, e di esse 504 furono seguite dalla condanna e 123 dalla assoluzione degli imputati. Alcune condanne furono pronunciate per parecchie imputazioni, fra cui le più numerose (263) si riferiscono alla mancata richiesta della consegna dei libretti d’ammissione al lavoro o per irregolare tenuta dei libretti medesimi. Vengono poi 200 imputazioni per impiego di fanciulli sforniti di certificato medico, ovvero muniti di certificato sfavorevole, 191 per mancata od irregolare tenuta del registro dei fanciulli operai o per mancanza delle altre affissioni prescritte dal regolamento, 151 per impiego di fanciulli di età inferiore a 12 anni in lavoro di durata eccedente otto ore al giorno, 24 per impiego di fanciulli in lavori pericolosi od insalubri.

 

 

In complesso, però, la relazione nota che la legge ed il regolamento sul lavoro dei fanciulli si trovano esattamente osservati in ogni loro parte nei più importanti e bene ordinati opifici industriali, dove i fanciulli operai si trovano a centinaia.

 

 

Il che è un bene. Sarebbe ancora meglio però se il numero dei fanciulli impiegati negli opifici e nelle miniere diminuisse ancora. In proposito la relazione ci fornisce alcune cifre le quali ci sembra interessante ricordare. Mentre negli opifici visitati nel 1897 i fanciulli da 9 a 15 anni costituivano il 16,26% della maestranza totale, la percentuale discendeva al 12,80% nel 1898.

 

 

I fanciulli con età da 9 e 10 anni furono ovunque assai scarsamente impiegati nel periodo a cui la relazione si riferisce; e nel complesso rappresentavano nel 1897 l’1,30% del numero totale dei fanciulli impiegati in tutti gli opifici industriali visitati. Nel 1898 tale cifra ragguagliava solamente il 0,96% del totale.

 

 

Quanto ai fanciulli dai 10 ai 12 anni, essi erano nel 1897 il 18,07% del totale dei fanciulli impiegati; e la proporzione discendeva al 7,70% nel 1898.

 

 

Indizi questi assai lieti, perché tenderebbero a dimostrare che si ricorre meno al lavoro dei fanciulli in tenera età; ed il periodo in cui cominciano le occupazioni tende a spostarsi verso le età superiori.

 

 

Se pare accertata una migliore applicazione delle leggi esistenti, non si può affermare però che queste siano bastevoli ad impedire tutti i mali che si verificano attualmente nel lavoro dei fanciulli. Tutt’altro. Ogni giorno si scoprono abusi commessi dagli industriali col protrarre troppo a lungo il lavoro dei fanciulli, abusi contro i quali le autorità sono impotenti, perché la legge non li punisce come reati.

 

 

Citiamone uno solo.

 

 

Le vigenti disposizioni sul lavoro dei fanciulli, mentre limitano a 6 ore la durata massima del lavoro notturno, per la quale possono essere impiegati fanciulli di ambo i sessi, dell’età dai 12 ai 15 anni, nulla stabiliscono circa l’impiego di essi in lavori fatti di giorno, dopoché i fanciulli abbiano lavorato di notte anche per la durata massima delle 6 ore consentite. Di più nessuna disposizione stabilisce per i fanciulli al disopra dei 12 anni un limite massimo nella durata complessiva del lavoro giornaliero. Un tale stato di fatto non offre mezzo legale per impedire che i fanciulli siano fatti lavorare per un tempo eccessivo, nelle condizioni gravose che si verificano negli opifici industriali a lavoro continuo di giorno e di notte. Basta all’industriale dividere i fanciulli in due squadre, delle quali l’una lavori da mezzogiorno a mezzanotte e l’altra da mezzanotte a mezzogiorno. Ogni squadra lavora così sei ore di notte e sei ore di giorno, e siccome la legge vieta soltanto il lavoro notturno superiore a sei ore, così non viene menomamente violata. Il ministero ha tentato bensì di ottenere una condanna contro un direttore di una fabbrica, perché faceva lavorare un gran numero di fanciulli sopra i 12 anni dalla mezzanotte a mezzogiorno con la sola interruzione di un’ora per il riposo, dalle 6 alle 7. Però l’autorità giudiziaria dichiarò non farsi luogo a procedimento per inesistenza di un reato, il quale invero non è contemplato nelle leggi vigenti.

 

 

Col regio decreto 5 gennaio 1899, posteriore al periodo studiato nella relazione attuale, si è vietato l’impiego dei fanciulli minori di 15 anni in lavori cumulativi e consecutivi di giorno e di notte o viceversa; ma si tratta di una disposizione regolamentare che rappresenta una estensione e non una applicazione della legge vigente.

 

 

In conclusione si può affermare che la legge sul lavoro dei fanciulli è applicata ora meglio di prima. Ma si fa sempre sentire la necessità di un più numeroso e scelto corpo di ispettori specialisti incaricati della sua applicazione, ed inoltre fa d’uopo provvedere ad estendere la legge vigente per modo da reprimere alcuni abusi, contro i quali ora si è impotenti a lottare.

 

 



[1] Col titolo Come si eseguisce la legge sul lavoro dei fanciulli [ndr]

Alla vigilia della riapertura della Camera Il contegno dell’opposizione – L’estrema sinistra – Sue speranze – L’organo dei socialisti – Discussioni fra ministri – Si cominciano a vedere le conseguenze di qualche errore

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«La Stampa», 6 marzo 1901

Gli umori delle Camera e il nuovo Ministero. L’aumento della tassa di successione – Quali saranno gli sgravi? – L’«aut- aut» dell’Estrema Sinistra – Brutti indizi di scioglimento della Camera

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«La Stampa», 22 febbraio 1901

L’attuazione della giustizia tributaria

L’attuazione della giustizia tributaria

«La Stampa» 21[1] febbraio 1901

Per la giustizia tributaria, Torino-Roma, Roux e Viarengo, s. d. [1901], pp. 37-46

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925)[2], Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 267-271

 

 

 

 

È opinione comunemente diffusa che un ordinamento tributario non possa essere considerato accettabile in un paese civile se non soddisfi alla condizione di essere giusto.

 

 

Variano però – e molto – le idee intorno a ciò che possa essere considerato come giusto od ingiusto; e, a seconda delle diverse scuole economiche, svariati sistemi si propugnano per giungere ad attuare l’ideale di giustizia che sta nel cuore di tutti.

 

 

Vi ha chi vorrebbe colpire con l’imposta i capitali già formati, lasciando esenti il provento del lavoro manuale od intellettuale; mentre altri preferisce avocare allo stato una quota determinata dei redditi dei cittadini da qualunque fonte provengano.

 

 

Viva lotta si combatte pure tra quelli che ritengono giusto che i cittadini siano colpiti da tributo in uniforme proporzione ai loro redditi; e quelli che preferiscono una proporzione progressiva. Sembra, cioè, ad alcuni giusto che tutti paghino, ad esempio, l’1% del reddito, qualunque sia l’ammontare del reddito, 1.000 o 100.000 lire; mentre altri vuole che su un reddito di 1.000 lire si paghi l’1%; su un reddito di 10.000 il 2%; su 20.000 il 3%, ecc. ecc., crescendo l’aliquota coll’aumentare del reddito.

 

 

Sarebbe impresa troppo lunga, e qui non opportuna, discutere la bontà e la legittimità di codesti ed altri parecchi sistemi che si mettono innanzi per attuare il canone della giustizia tributaria. La contesa non è terminata nel campo della teoria, e nella pratica non si ha alcun esempio di stati che abbiano accolto l’uno o l’altro concetto nella loro integrità.

 

 

Importa far rilevare piuttosto come tutti questi concetti si informino sostanzialmente ad un’idea fondamentale: che chi ha paghi in proporzione (strettamente proporzionale ovvero progressiva) ai suoi redditi od ai suoi capitali.

 

 

Né basta. Siccome lo stato presta servizi desiderati od almeno utili a tutti i cittadini, come la giustizia, la sicurezza, la difesa contro lo straniero, e fornisce inoltre altri richiesti invece solo da talune classi, come l’istruzione media e superiore, così si ritiene giusto che a tutti si faccia pagare, in proporzione alle rispettive fortune, un’imposta per sopperire alle spese generali, e si richieggano tasse speciali a quelli che domandano servizi utili in modo particolare ad essi soli.

 

 

Lasciando da parte questi servizi speciali, che si pagano da coloro che li richieggono, sembra a prima vista giusto che i servizi generali siano compiuti col provento di una unica imposta proporzionale ai redditi.

 

 

Senonché quest’unica imposta sul reddito o sul capitale non sarebbe a sufficienza produttiva. Oggidì le spese dello stato – a ragione od a torto – sono cresciute talmente che l’imposta unica dovrebbe dare proventi colossali e dovrebbe elevarsi ad aliquote altissime sul reddito o sul capitale di quella nazione che l’adottasse.

 

 

In Italia, ad esempio, nell’esercizio finanziario 1898 – 99, le spese effettive ammontarono a 1.626 milioni, a cui si devono aggiungere 454 milioni di spese effettive comunali e 94 milioni di spese provinciali; in tutto, secondo l’ultimo annuario statistico, 2.174 milioni. Ora la ricchezza privata ammontava in Italia, secondo calcoli eseguiti una decina d’anni fa, a 54 miliardi, e non si può supporla cresciuta – anche a voler essere esageratamente pessimisti – a più di 70 miliardi, cosicché, adottando il coefficiente del 15%, che un insigne statistico inglese, il Giffen, ha constatato per l’Inghilterra, il reddito totale del nostro paese non può essere superiore ai 10 miliardi.

 

 

L’imposta unica dovrebbe essere applicata coll’aliquota del 16,25% per lo stato, del 4,50 per i comuni e dell’1% per le province, ossia in tutto quasi del 22% sui redditi privati per ottenere una somma corrispondente all’attuale fabbisogno.

 

 

Ognuno comprende come ciò sia praticamente impossibile. Il fisco, per quanto lo si supponga oculatissimo, non riescirebbe a scoprire forse nemmeno metà dei 10 miliardi del reddito nazionale; sì che lo stato dovrebbe fare fallimento o ridurre le spese in modo che oggi dai più non si crede possibile.

 

 

È necessario dunque – ed è una necessità riconosciuta da tutti gli stati moderni – non ricorrere ad una sola imposta sui redditi per far fronte alle spese generali, ma acconciarsi ad un sistema di imposte molteplici, che riescano a trarre di tasca al contribuente con sottili e diversi accorgimenti i molti milioni necessari allo stato senza farlo troppo strillare, ed in guisa approssimativamente conforme a giustizia.

 

 

Anche in questo i principii tramandatici dal conservatore Robert Peel e dal liberale Gladstone, ed applicati in Inghilterra da lungo volgere di anni, ci sono fecondi di utili ammaestramenti.

 

 

Scegliendo l’anno 1899, noi ci troviamo dinanzi ad un bilancio attivo di 108 milioni e un terzo di lire sterline.

 

 

Su questi, circa 50 milioni sono forniti dai consumi; ma non da consumi di prima necessità o da dazi protettivi per alcune classi di produttori. Ogni imposta sulla fame è scomparsa; ed è scomparsa pure ogni imposta pagata dai contribuenti in minima parte allo stato ed in massima parte ad altri produttori. La scomparsa ha avuto una benefica influenza sul bilancio dello stato e sul benessere della nazione; basti accennare che quei 50 milioni sono incassati per mezzo di tributi su pochissimi oggetti: spiriti, birra, vino, tè, caffè, zibibbo, tabacco, cicoria, cacao, fichi ed uva secca, carte da giuoco, polvere da sparo; tutti consumi ritenuti dai più di lusso e pagati da poveri e da ricchi egualmente, se non in proporzione alla loro ricchezza, almeno in occasione di atti i quali denotano il possesso di un reddito superiore al minimo necessario per l’esistenza.

 

 

Non si toglie il pane di bocca al povero; non lo si obbliga a salar meno la minestra od a pagar più cara la luce del petrolio, come accade in Italia; ma soltanto si pretende il pagamento d’una tassa da chi vuol bere un bicchiere di birra o di vino, o vuole avvelenarsi coll’alcool, o vuole consumare tè o caffè o tabacco. Dato che il fabbisogno dello stato è alto e non può essere coperto anche se si impongono tributi altissimi sui redditi, il metodo seguito in Inghilterra è quello che urta meno il sentimento generale di giustizia.

 

 

Certo è necessario, affinché i tributi sui consumi di lusso siano molto produttivi, che il paese sia ricco; ma a questo Peel e Gladstone aveano provveduto togliendo i dazi protettivi che comprimevano lo sviluppo dell’industria nazionale e riducendo le aliquote delle imposte sui redditi entro limiti sopportabili.

 

 

Perché nel bilancio inglese del 1899 non mancavano invero i proventi delle imposte dirette.

 

 

Le tasse sugli affari gittavano quasi 7 milioni e due terzi di lire sterline; le imposte di successione 11,4 milioni; e la imposta sul valor locativo 1.600.000 lire sterline.

 

 

Le poste ed i telegrafi, i beni della corona, i diritti diversi davano quasi 19 milioni di lire sterline al lordo.

 

 

Il residuo della antica imposta fondiaria, quasi un censo fisso gravante sulla terra a profitto dello stato, fruttava 770 mila lire sterline.

 

 

Tutte imposte, come si può agevolmente giudicare, poco gravose e facilmente sopportate dai contribuenti, in quanto costituiscono o un canone fisso già ammortizzato, come l’imposta fondiaria, o un’imposta sul lusso, come quella sul valor locativo degli appartamenti molto ampii, sulle vetture e domestici, oppure un’imposta pagata abbastanza di buon grado, come quella di successione.

 

 

Sono imposte però le quali hanno una scarsa elasticità, perché non si possono contrarre o ridurre rapidamente a norma dei bisogni del bilancio, variabili da un anno all’altro per circostanze impreviste, come per una guerra che accresce le spese militari o per una crisi commerciale che scema il gettito dei consumi di lusso.

 

 

A questo provvedeva nel bilancio del 1899 l’income tax, ossia l’imposta sui redditi superiori alle 4.000 lire italiane. L’imposta era destinata, nel pensiero dei suoi creatori, a colmare i deficit del bilancio. Nel 1899 fruttava 18.000.000 di lire sterline in base ad un’aliquota di 8 pence su ogni lira sterlina, ossia del 3,20% del reddito.

 

 

Quando il ministro del tesoro ha bisogno di maggiori entrate, non ha che da aumentare di 1 d. per lira sterlina l’aliquota dell’income tax e 52 milioni di lire nostre entrano in più nelle sue casse. Passato il bisogno, l’aliquota viene novamente ridotta.

 

 

Così alla guerra di Crimea si provvide in parte accrescendo l’aliquota dell’imposta sul reddito. La quale fruttò 6 milioni 117 mila lire sterline nel 1853-54; lire sterline 10.513.369 nel 1854-55; lire sterline 14.814.757 nel 1855-56; lire sterline 16.089.933 nel 1856-57 per ridiscendere a lire sterline 11.586.114 nel 1857-58 ed a 6.683.587 nel 1858-59.

 

 

Quando sarà finita la guerra del Transvaal si potrà osservare il medesimo fenomeno di espansione e contrazione del prodotto dell’income tax. L’aliquota negli ultimi anni variò nel seguente modo: 1877: 3 d.; 1879: 5 d.; 1881: 6 d.; 1882: 5 d.; 1883: 6 1/2 d.; 1884: 5 d.; 1885: 6 d.; 1886: 8 d.; 1888: 7 d.; 1889: 6 d.; 1894: 7 d.; 1895: 8 d.; 1900: 1 scellino.

 

 

La soluzione che gli inglesi cresciuti alla scuola del Peel hanno dato al problema tributario soddisfa nel tempo stesso a molteplici esigenze. Soddisfa alle necessità della giustizia, perché colpisce i consumi di lusso ed i redditi superiori ad un minimo che è ora di ben 4.000 lire; della produttività fiscale perché si basa su consumi a larga base e profondamente radicati nelle abitudini della popolazione; della elasticità perché si può con una modificazione dell’aliquota accrescere o diminuire il gettito dell’imposta sul reddito per sopperire alle spese straordinarie; ed infine della convenienza economica perché sono escluse tutte le imposte che, per il soverchio fiscalismo o per la protezione concessa a talune industrie a scapito di altre, possono comprimere lo sviluppo della ricchezza nazionale.

 

 

Certo l’Italia per la sua molto minore ricchezza e le sue differenti condizioni economiche generali non potrebbe adottare un sistema esattamente simile a quello inglese. Ma anche soltanto l’imitazione, nei limiti del possibile, potrebbe essere di gran giovamento.

 



[1] Con il titolo I limiti della giustizia tributaria.[ndr]

[2] Con il titolo Per la giustizia tributaria IV.[ndr]

Una regione italiana nella miseria. Selve d’olivi infocate – Si vuol lavorare per forza – Non hanno di che nutrirsi! O provvedere o l’ordine pubblico potrà mantenersi solo con le armi

Una regione italiana nella miseria.

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«La Stampa», 20 febbraio 1901

Le peripezie della spedizione alla ricerca di Andrée Come vivono le popolazioni della Siberia – Il periodo di prova degli sposi – Chiusi dal ghiaccio.

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«La Stampa», 18 febbraio 1901

Le ferrovie e il porto di Genova

Le ferrovie e il porto di Genova

«La Stampa», 17 gennaio 1901[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 315-317

 

 

Non passa quasi settimana senza che ci venga comunicata qualche circolare, con cui si sospende l’accettazione di merci nella stazione di Santa Limbania. Ed allora sono proteste dei commercianti italiani, i quali non possono far proseguire i vagoni a Genova, dove i piroscafi stanno per partire, e degli importatori che devono tenere le loro merci immobilizzate sulle banchine del porto di Genova.

 

 

Mentre i commercianti si lagnano, la Società mediterranea protesta di non poter far nulla per togliere gli incagli così perniciosi alla prosperità nazionale. Ci viene oggi comunicato il testo di una dichiarazione che il rappresentante della società fece nell’ultima seduta della commissione permanente del porto di Genova.

 

 

«La Mediterranea – disse quel rappresentante – non può rimanere silenziosa di fronte alle accuse che il commercio le muove, mentre l’interesse suo coincide con quello del commercio, ed anch’essa si trova danneggiata dalle deviazioni delle correnti naturali del traffico che derivano da quegli inconvenienti. Ma l’amministrazione ferroviaria è costretta a subire le conseguenze della manchevolezza degli impianti portuali rispetto all’incremento del traffico, ed ora in particolare di quello destinato all’imbarco; non potendo sopperire all’uopo le calate ed i magazzini che le sono assegnati. I temperamenti adottati finora apportano ben lieve aiuto; dimodoché la società si crede in obbligo di mettere in rilievo come, nelle condizioni attuali, sia assolutamente impossibile di soddisfare alle esigenze del commercio. L’esperienza di ogni giorno dimostra che è difficilissimo imbarcare giornalmente più di 160 carri circa di merce, e che, quando si accumulano a Santa Limbania da 300 a 350 carri, non è conveniente mandarvene altra senza incagliare le manovre e tutto il servizio».

 

 

È inutile dunque lagnarsi. La Mediterranea non può fare a vantaggio del commercio più di quanto fin d’ora compie. È una necessità assoluta sospendere le accettazioni di merci per Santa Limbania; «e le sospensioni dovranno inevitabilmente rinnovarsi anche per l’avvenire, fino a che le fronti d’imbarco e i magazzini non corrispondano agli invii di merci destinate all’imbarco».

 

 

La conclusione è ben triste per i commercianti e gli industriali. È proprio vero che nulla si possa fare per porre rimedio alla deficienza dei mezzi d’imbarco e di sbarco nel porto di Genova?

 

 

La impossibilità non è certo di ordine materiale. Essa è dovuta unicamente alla lentezza che presiede all’amministrazione del nostro maggiore porto nazionale.

 

 

I progetti per aumentare la lunghezza delle calate, per aumentare i tronchi ferroviari di sfogo alle merci accumulate sul porto sono pronti. Si tratta soltanto di scegliere, fra i molti progetti, quelli che siano i più economici e adatti allo scopo; e di mettersi all’opera con i capitali che banche e sindacati appositi di uomini d’affari sarebbero pronti a fornire. Neppure vi è da temere di fare un cattivo affare dal punto di vista economico, perché, anche a voler essere eccessivamente pessimisti, il maggior prodotto delle ferrovie sarà sempre più che bastevole a far fronte agli interessi ed all’ammortamento dei capitali presi a mutuo.

 

 

Un’opera reclamata dai bisogni urgentissimi del commercio e dell’industria di tutta l’alta Italia e dell’Europa centrale, desiderata dalle società ferroviarie, voluta dall’opinione pubblica, tecnicamente possibile ad eseguirsi, produttiva di profitti sicuri, un’opera siffatta dovrebbe essere di facile esecuzione.

 

 

Eppure non se ne fa nulla.

 

 

Non se ne fa nulla perché gli enti interessati sono troppi: stato, società ferroviarie, camere di commercio, province, comuni, ecc. ecc.; e tutti costoro, pur facendo finta di essere animati da ottime intenzioni, finiscono per palleggiarsi a vicenda i progetti all’infinito. Manca l’ente autonomo, unico amministratore responsabile del porto, che provveda con prontezza ed efficacia.

 

 

Non se ne fa nulla, sovratutto, perché il governo, che dovrebbe compiere le opere reclamate, si piega alle esigenze della politica parlamentare; e si arretra dinanzi ai benefizi sicuri dei miglioramenti portuari genovesi perché ha paura di essere costretto a concedere ai deputati di altre città marittime la esecuzione di opere feconde di perdite egualmente sicure.

 

 

Conoscere i motivi dell’inazione non vuol però dire che ci si debba rassegnare.

 

 

L’opinione pubblica deve reclamare con forza la fine dei ritardi elettorali. Essa deve imporre al governo di non costruire dei moli inutili su qualche porto deserto del Tirreno o dell’Adriatico; e di mettersi prontamente e rapidamente all’opera proficua nel porto di Genova.

 

 

Altrimenti converrà pensare di togliere allo stato l’amministrazione del porto per affidarla ad altri, magari a qualche società privata.

 

 

Staremmo sempre meno peggio d’adesso.

 

 



[1] Con il titolo È ora di finirla [ndr]

Un ministro del Tesoro

Un ministro del Tesoro

«La Stampa» 14[1] gennaio 1901

Per la giustizia tributaria, Torino-Roma, Roux e Viarengo, s. d. [1901], pp. 27-33

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925)[2], Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 264-267

 

 

 

 

Nel presente momento la figura del ministro del tesoro grandeggia sovra quella della più parte dei membri del gabinetto. Il problema urgente in Italia infatti è un problema finanziario e tributario.

 

 

È trascorso il tempo in cui si plaudiva ai finanzieri i quali sapevano presentare cifre meravigliose dinanzi agli occhi attoniti dei contribuenti; e si comprende invece quanto sia arduo il compito di chi presiede alla finanza pubblica.

 

 

Talvolta, ad incitamento ed a consiglio, giova ricordare le opere di chi seppe acquistarsi fama duratura nell’adempimento del proprio dovere. Oggi perciò noi vogliamo narrare qualcosa intorno a quello fra i ministri inglesi del tesoro, al quale si deve il più vigoroso impulso alla salvezza ed alla rigenerazione finanziaria dell’Inghilterra.

 

 

Quando Robert Peel nel 1842 salì al potere, un deficit di 2 milioni e mezzo di lire sterline era il retaggio di uomini abilmente passati in mezzo agli applausi delle moltitudini.

 

 

Né era il solo retaggio. Le classi povere si trovavano allora in uno stato di gravi sofferenze; la occupazione era scarsa ed i viveri a caro prezzo. Perciò le fazioni politiche estreme acquistavano credito e cresceva ogni giorno il seguito dei radicali più accesi. I chartisti – qualcosa di mezzo tra i repubblicani ed i socialisti d’oggidì nel nostro paese – davano molto da pensare al governo. Le dimostrazioni in piazza si succedevano ogni giorno.

 

 

Arduo era perciò il compito di sir Robert Peel, assunto al governo della nazione britannica come capo del partito conservatore.

 

 

Per somma ventura il Peel non si dimostrò impari all’impresa. Egli cominciò col dichiarare apertamente che era giunto il tempo di lasciar da parte tutto l’intricato bagaglio dei maneggiatori troppo abili delle cifre del bilancio, di bandire per sempre gli imbrogli, i prestiti mascherati, le appropriazioni dei depositi delle casse di risparmio e delle casse speciali di ammortamento, le emissioni di buoni del tesoro e tutti gli spedienti atti a posporre, non ad impedire lo scoppio della crisi. I bilanci doveano sovratutto essere sinceri. Doveano narrare senza infingimenti le somme spese e le somme incassate senza infingimenti e senza tergiversazioni.

 

 

Siccome il bilancio presentava un deficit di 2 milioni e mezzo di sterline, Peel ebbe il coraggio di dire al paese: è necessario o diminuire le spese o accrescere le entrate. Le spese non si possono diminuire se non operando tagli sugli stanziamenti ai servizi civili e militari; e siccome questi stanziamenti sono già fin troppo ridotti perché il servizio del debito pubblico assorbe quasi il 60% del bilancio passivo, così è dura necessità acconciarsi a pagare nuove imposte. Sarebbe imprudente e dannoso fare un debito, su cui si dovranno pagare interessi gravosi negli anni venturi. Non rimane altra via di scampo se non ricorrere ad una nuova tassazione. Chi tassare? Su un bilancio attivo di lire sterline 48.350.000, ben 22.500.000 lire sterline gittavan le dogane e 13.450.000 lire sterline le imposte interne di fabbricazione sui consumi. Tutti milioni pagati dalle moltitudini. Le imposte sui ricchi si riducevano a 4.400.000 lire sterline di imposte dirette e di 7.100.000 di tasse di bollo e sugli affari. La sproporzione era grande, come è agevole vedere, fra le imposte gravanti sulle masse in genere e quindi sperequate a danno dei poveri e le imposte incidenti sulla gente agiata e ricca.

 

 

Il conservatore Peel, capo di un ministero di grandi proprietari e di persone appartenenti alle classi alte non ebbe timore di proporre l’adozione di un nuovo tributo, o meglio la resurrezione di un tributo antico, contro di cui gli odii delle classi alte e medie si erano manifestati così violenti da costringere alla sua abolizione appena si erano dileguati gli ultimi timori delle guerre napoleoniche. Vogliamo alludere all’income tax, creata da Pitt nel 1799 per pagar le spese delle guerre contro la Francia, ed abolita nel 1816. Per quanto sgradita ai liberi britanni, sospettosi di tutto ciò che possa sembrare intrusione del governo nei segreti della home (della vita familiare) e degli affari privati, l’income tax fu, per la ferma ostinazione di Peel, accolta dal parlamento, prima per soli quattro anni e prolungata poi di anno in anno, sì da diventare parte integrante dell’edificio tributario dell’Inghilterra.

 

 

Veniva consacrato così il principio che le spese pubbliche debbono venir pagate non da chi nulla possiede, ma dai possessori della ricchezza; e si metteva bene in luce essere principio fondamentale della pubblica finanza e freno efficacissimo alle spese stravaganti ed inutili questo: che ai disavanzi ed alle spese nuove non si possa provvedere con un rialzo spesso inavvertito delle imposte sui consumi o con un nuovo debito i cui interessi saranno pagati dai posteri; ma si debba far fronte con un accrescimento dell’aliquota dell’imposta sul reddito. Se la nazione inglese vuole pigliarsi il gusto di guerreggiare all’estero o di buttar via all’interno i propri quattrini, faccia pure, diceva il Peel; ma sappia che entro l’anno dovrà pagare il conto in virtù dell’incremento automatico del tributo sulle entrate.

 

 

Ma non sarebbe bastato introdurre nel bilancio inglese il principio di giustizia distributiva che chi ha paghi, ed il principio di moralità e di prudenza che chi spende sappia di dover pagare. Era molto; ma non era sufficiente per un finanziere maestro nell’arte sua come Robert Peel, per un uomo il quale non disdegnava applicare nella pratica gli insegnamenti dalla scienza economica. E questa insegnava che sarebbe stato inutile escogitare un sistema idealmente giusto di tributi, ove il paese avesse continuato ad essere povero, il commercio arenato e le industrie ristagnanti. A coloro i quali soffrono, nessuna imposta per quanto giusta appare sopportabile. Robert Peel per conseguenza ridusse nel 1842 ben 750 su 1.200 dazi di introduzione sulle merci importate dall’estero; e ne abolì nel 1845 quasi altri 450. Né contento, nel 1846 soppresse del tutto i dazi sul grano e sugli altri cereali.

 

 

Le sue previsioni non furono smentite dai fatti. L’abolizione dei dazi sui cereali rese la vita delle masse lavoratrici a buon mercato. La riduzione e la abolizione dei dazi sulle materie prime e sui manufatti diedero nuovo impulso alle industrie ed ai commerci. I risultati sul bilancio pubblico furono immediati. Gli anni dal 1844 al 1847 segnano avanzi vistosi che variarono da 2,3 a 6,3 milioni di lire sterline. Il gettito delle dogane aumentò da 20.754.185 lire sterline nel 1842-43 a 21.086.265 lire sterline nel 1846-47, malgrado le riduzioni tariffarie.

 

 

Robert Peel, lasciando nel 1846 il governo, poteva dire con orgoglio di aver salvato le finanze della patria e di aver segnato la via su cui si sarebbero raccolti allori ancora più splendidi. Tanto più poteva essere orgoglioso dell’opera sua in quanto questa si inspirava a due principii di elementare evidenza: far sì che chi ha paghi in proporzione alle sue entrate; ed impedire che le imposte servano ad arricchire gli uni, spogliando gli altri, od a comprimere le spontanee energie industriali e commerciali del paese, come nel caso del dazio sui grani e degli altri dazi protettivi sulle materie prime e sui manufatti.

 

 

Chi sarà quel ministro del tesoro italiano il quale sappia meritare quelle lodi che il giudizio imparziale della storia tributa oggi a Robert Peel?

 

Sarebbe tempo che ai ministri empirici succedesse anche da noi un ministro

sapientemente ed audacemente riformatore.

 

 



[1] Con il titolo L’opera del ministro del Tesoro.[ndr]

[2] Con il titolo Per la giustizia tributaria III.[ndr]

Lo sciopero degli operai dei cantieri navali liguri

Lo sciopero degli operai dei cantieri navali liguri

«La Stampa», 12 gennaio 1901[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 310-314

 

 

Un’altra volta, nel breve spazio di un mese, Genova marinara attrae l’attenzione del paese. Ieri gli operai del porto scioperavano contro un provvedimento prefettizio ritenuto da essi lesivo dei loro diritti di libera associazione. Oggi gli operai dei cantieri navali di tutta la riviera ligure sono costretti allo sciopero forzato perché il lavoro manca, perché nuove ordinazioni di navi più non giungono ed i cantieri devono uno dopo l’altro, – dopo aver fatto inutili sforzi per conservare la maestranza antica, – indursi a licenziare a mano a mano le squadre operaie divenute sovrabbondanti.

 

 

La passione di parte ha già dettato giudizi precipitati sulla crisi dell’industria navale ligure. I giornali radicali e socialisti accusarono i proprietari di una cospirazione intesa a forzare la mano al governo per indurlo a ritirare il progetto di legge restrittivo dei premi alla marina mercantile. Si ripete ora il gioco, riuscito bene tante volte agli industriali, di far passeggiare tumultuosi per le vie della città i loro operai gridanti: Abbasso le imposte! Vogliamo pane e lavoro! E si spera che il governo, impaurito alla vista delle dimostrazioni popolari, cederà ora, come ha ceduto spesso nel passato.

 

 

D’altra parte non mancano giornali protezionisti i quali fanno risalire la colpa della disoccupazione operaia ligure all’avarizia del governo, il quale, dopo aver promesso forti premi ad incoraggiamento del lavoro nazionale, adesso rifiuta di mantenere gli impegni assunti, e costringe gli industriali a gittare sul lastrico gli operai chiamati a raccolta negli industri opifici della riviera dalle promesse della legge. E si aggiunge non essere codesto il metodo migliore per creare nuove ricchezze e diffondere il lavoro nel paese; ed essere sommamente perniciosa l’azione governativa, abilissima sempre a colpire di nuove imposte le iniziative promettenti e pronta del pari a ritirare quel timido aiuto che a novelle industrie avea dato nascimento.

 

 

Non crediamo che né i radicali né i protezionisti si trovino dalla parte della ragione quando parlano il linguaggio sovra riferito.

 

 

Non i radicali, perché davvero non si può far colpa agli imprenditori se licenziano gli operai quando il lavoro difetta; ed in Liguria le ordinazioni sono davvero cessate del tutto. L’industria non può esercitarsi per filantropia; e pessimo imprenditore devesi dire chi continua a produrre a perdita, quando non vi è la speranza di futuri guadagni che valgano a risarcire le momentanee perdite.

 

 

Non i protezionisti, perché il lavoro non si crea, ma si diminuisce colle largizioni governative. Quelle sole industrie sono degne di vita, le quali vivono di una vita spontanea senza d’uopo di attingere ai favori dello stato, ossia senza d’uopo di tassare a proprio beneficio i contribuenti. Chi vuol produrre grano od olio o formaggio o navi è padronissimo di far ciò, ma non deve poter imporre a nessuno di comprare le sue merci e non deve poter costringere i contribuenti a pagargli un sussidio perché egli possa continuare a fabbricare grano o navi ad un costo superiore al prezzo risultante dalle libere contrattazioni del mercato. Noi non crediamo che lo stato possa – operando giustamente – concedere questi sussidii, perché in tal modo lo stato non adempie ad alcuna delle sue funzioni di difesa, di sicurezza o di alta tutela giuridica, ma toglie agli uni (contribuenti) per dare agli altri (sussidiati), ossia compie uno spostamento gratuito di ricchezza da una persona ad un’altra.

 

 

Un giudizio sereno e spassionato – ugualmente lontano dalle vedute passionali dei partiti estremi e dei protezionisti – intorno all’attuale questione ligure, si può formare quando si gitti un rapido sguardo alla storia della protezione della marina mercantile in Italia.

 

 

Vent’anni fa la marina mercantile italiana giaceva in assai basso loco, sovratutto per la ostinazione a fabbricare navi di legno a vela e per la inesistenza di grandi cantieri atti alla produzione dei grossi piroscafi moderni. A rialzarne le sorti venne la legge del 1885 la quale istituì per un decennio premi per la navigazione e per le costruzioni e le riparazioni di navi. Fu scarso l’effetto della legge. Quantunque lo stato nel periodo 1886-95 pagasse 36.622.496 lire di premi, le costruzioni da 11.421 tonnellate nel 1886 salirono a 29.784 nel solo anno 1891 per ricadere nel 1895 a 6.750 tonnellate.

 

 

Parve quindi necessario aumentare i premi, ritenuti insufficienti; e con una legge in data 23 luglio 1896 si aumentò notevolmente la misura dei premi. Crebbe allora rapidamente il tonnellaggio prodotto; e passò da 6.606 tonnellate nel 1896, a 11.458 nel 1897, a 19.478 nel 1898, a 33.802 nel 1899, ultimo anno per cui esistono cifre ufficiali. Lo scopo immediato della legge sembrava raggiunto. Nuove e maggiori costruzioni si effettuarono nel 1900 e si annunciavano per il 1901 e gli anni successivi.

 

 

Purtroppo l’impulso vivissimo dato alle costruzioni marittime era un lato solo del problema. L’altro e gravissimo lato del problema consisteva nel costo con cui quell’impulso era stato ottenuto.

 

 

L’onere del bilancio dello stato, contenuto entro limiti non stravaganti sino al 1899, prese dopo quell’anno proporzioni paurose per ogni finanziere tenero dell’equilibrio fra le spese e le entrate. Nell’esercizio 1900-901 si preannunciava una spesa di 16,5 milioni di premi; e la spesa cresceva a 17,3 milioni nel 1901-902, a 19,8 milioni nel 1902-903, a 22 milioni nel 1903-904, a 24,4 milioni nel 1904-905 ed a 26,6 milioni nel 1905-906, ed in tutto si calcolava una erogazione complessiva dello stato di ben 330 milioni.

 

 

Il risultato – prevedibile a chiunque conosca i funesti effetti del protezionismo economico – a cui si era giunti non era davvero lieto. Si era bensì creata un’industria nuova in Liguria; ma era un’industria artificiale, vivente sulle largizioni dello stato, minacciosa all’equilibrio del bilancio, e causa di miseria per i contribuenti, costretti a pagare imposte cresciute per poter versare nelle casse governative i 330 milioni destinati a diffondere prosperità in alcune classi sociali della Liguria.

 

 

Come sempre accade, le leggi fondate sull’ingiustizia non possono a lungo durare. Ai governanti fu giocoforza emanare nuovi decreti-legge – contraddittori fra di loro e variamente giudicati – di cui l’ultimo porta la data del 16 novembre 1900, per porre un freno alla fiumana crescente dei premi sanciti dalla legge del 1896, fiumana che minacciava in breve ora di sommergere le finanze dello stato. Così quella legge protettiva, che aveva voluto condurre ad alta meta l’industria marinara italiana, doveva spezzarsi quando appunto lo scopo sembrava felicemente raggiunto.

 

 

La crisi nei cantieri navali fu dunque una conseguenza necessaria di quel fatto medesimo che li aveva creati; e non poteva essere altrimenti. Quando un’industria vive coi sussidi largiti da terzi, se costoro diventano incapaci a pagare il promesso sussidio, deve o trasformarsi o morire. Opporsi a codesta inevitabile crisi sarebbe volere cagionare a breve scadenza un nuovo male peggiore del disquilibrio attuale. Fra qualche anno ci ritroveremmo nella medesima situazione, forse peggiorata. Se ancora si pagassero i premi, nuovi cantieri sorgerebbero, e fra qualche anno, quando le finanze esauste si rifiutassero a continuare i sussidi, la crisi scoppierebbe più vasta.

 

 

Poiché dunque non vi è rimedio, – o perché è socialmente ingiusto continuare nel sistema attuale di premi pagati dalla generalità di contribuenti ad un piccolo gruppo di produttori, -meglio è che la crisi scoppi subito. Ogni ritardo non può che crescere il danno. Se la crisi è inevitabile, è dovere di tutti, e specialmente del governo, di non aumentare il male per se stesso già grande. Una causa principalissima per la quale oggi difettano le ordinazioni di navi ai cantieri liguri è il fatto che, mentre si sa essere intenzione del governo di non più pagare gli elevati premi antichi, si ignora se e quali nuovi premi vorrà pagare pel futuro.

 

 

Per l’industria nulla vi è di più pernicioso che l’incertezza. È meglio sapere subito che non si riceverà magari nulla piuttosto che essere incerti se si riceverà 1 o 5 o 10 o 20. «Questo stato di incertezza – è il ministro Morin che così parla nella sua relazione sul decreto – legge ultimo – riesce molto dannoso per le industrie marittime, perché impedisce le conclusioni di affari fra armatori e costruttori, come prova il fatto che nessuna dichiarazione di costruzione di una certa importanza venne prodotta dopo la presentazione del disegno di legge. Onde i cantieri, a misura che esauriscono le commissioni fin qui ricevute, vengono a mancare di lavoro, soggiacendo ad una crisi, le cui conseguenze economiche e sociali potrebbero riuscire gravi per il paese».

 

 

La parola è dunque ora al parlamento.

 

 

Urge legiferare per modo che tutti gli interessati sappiano quali conti debbono fare. Lasciando da parte ogni considerazione sulla bontà della ventura legge, è d’uopo sostituire una legge certa e nota al presente limbo di decreti-legge, che si inseguono nella penombra e che a nessuno sembrano vitali.

 

 

Né qui sono finiti i doveri del governo.

 

 

Questo non può rimanere sordo al fatto che l’industria delle costruzioni navali male lotta contro la concorrenza estera, perché deve comprare a caro prezzo le materie prime di acciaio, di ferro e di legno, a causa dei dazi protettivi di frontiera. «Togliete i dazi sui materiali, e noi non vi chiederemo premi di costruzione», hanno detto alcuni costruttori liguri. Ed han parlato giusto.

 

 

Occorre avere il coraggio di adottare le proposte della giunta del bilancio ed abolire i dazi d’entrata sui materiali da costruzione. Sarà un grave colpo per l’industria metallurgica; ma sono già troppi i milioni che essa ha estorto al pubblico italiano perché si debba aver timore di fare cosa inopportuna togliendole una parte della protezione di cui essa gode.

 

 

Da questa abolizione dei dazi di frontiera sui materiali da costruzione trarranno non dubbio giovamento i cantieri liguri; e potrà lenirsi alquanto la crisi odierna, sovratutto se continueranno per qualche tempo ancora gli elevati noli di trasporto vigenti.

 

 

Potrà lenirsi, abbiamo detto, la crisi odierna; non scomparire del tutto. Questo infatti è uno degli effetti più certi del protezionismo: che ai mali da esso creati non vi è rimedio possibile. L’unico rimedio contro l’ingiustizia è il ristabilimento della giustizia. I palliativi a troppo poco giovano durante il periodo in cui l’opera di giustizia si compie.

 

 



[1] Con il titolo Crisi fatale [ndr]

La finanza empirica

La finanza empirica

«La Stampa» 2 gennaio 1901

Per la giustizia tributaria, Torino-Roma, Roux e Viarengo, s. d. [1901], pp. 15-24

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925)[1], Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 259-263

 

 

 

 

A due schiatte principali appartengono gli uomini che reggono la finanza pubblica.

 

 

Vi sono coloro che non ignorano le leggi regolatrici dell’incremento e della diminuzione del gettito delle imposte; che sanno come la giustizia e la equità debbano presiedere alla distribuzione dei carichi governativi e si inspirano a concetti ragionati e sistematici quando intendono modificare un regime tributario esistente.

 

 

Di fronte a questi, che sono scherniti come ideologi, stanno i finanzieri empirici, la cui gloria massima è di non lasciarsi mai guidare da alcun principio e di uniformare la propria azione unicamente alle necessità del momento. Essi abbandonano un tributo che è fonte di proventi cospicui per l’erario quando l’abbandonarlo può dare la vittoria al partito od al ministero a cui sono aggregati. Essi trovano sempre nuovi nomi per far passare come ottime le loro merci avariate dinanzi gli occhi attoniti della gente inesperta; alzano ed abbassano le aliquote; fanno scomparire un’imposta cattiva ed odiata per crearne una nuova sovra la quale l’odio popolare non ha ancora avuto tempo di accumularsi. Genialissimi nel trovare sempre nuovi spedienti per tirare innanzi senza far gittare strida troppo alte ai contribuenti, i finanzieri empirici sanno fare a meraviglia il gioco dei bussolotti: trasformano i disavanzi in avanzi, i debiti in crediti, le spese in accrescimenti di patrimonio. Quando la gente si insospettisce pel crescere delle spese, essi inventano la categoria delle spese straordinarie; e quando anche queste diventano, per la loro continuata presenza, fastidiose a tutti, tentano di far accettare nuovi dispendii, gabellandoli per ultra-straordinari. Se il gran libro del debito pubblico minaccia di schiacciare col suo pondo la nazione, i finanzieri empirici creano molti altri piccoli libri, di razza e titolo svariati, con cui si possono contrarre novelli debiti in nulla differenti dall’antico fuorché nell’essere, perché nuovi ed insoliti, meno accetti ai capitalisti e più onerosi allo Stato.

 

 

Tale la schiatta dei finanzieri empirici che sono applauditi in vita perché sanno tosare la pecora senza arrecarle troppo dolore, perché son servizievoli coi ministri, coi deputati e coi grandi elettori, e perché hanno appreso l’arte di contentar tutti, trasportando or qua or là l’onere delle imposte e, – quando non è possibile alcun trasporto perché tutti son già eccessivamente gravati, – facendo dei debiti al cui pagamento dovranno pensare i posteri.

 

 

Di tal razza di finanzieri son piene cotanto le cronache che sarebbe davvero inutile discorrere su un punto che già tutti conoscono a maraviglia. Ciò che noi vogliamo oggi dire si è che urge liberare il nostro paese da tal setta, se pure si vuol avere speranza di risorgere.

 

 

Anche stavolta l’Inghilterra dopo il 1815 ci dimostra che la vera risurrezione finanziaria, l’età dell’oro del bilancio di uno stato, non può aver inizio se non quando si abbandonino i metodi empirici e si accolgano quelle norme semplici e chiare di giustizia che sono il frutto della scienza e dell’esperienza dei paesi civili.

 

 

I lettori della «Stampa» conoscono diggià, per averla noi esposta qui alcune settimane or sono, la miseranda situazione del contribuente anglo-sassone al chiudersi delle guerre napoleoniche.

 

 

Altissime erano le sue lagnanze e nessun gabinetto avrebbe potuto far mostra di non ascoltarle, sotto pena di cadere dal potere.

 

 

Fu forza dunque lo ascoltarle. Una dopo l’altra le imposte più odiose caddero. Prima fra tutte l’allora odiata imposta sul reddito, che ad ogni buon britanno sembrava una violazione dei principii sanciti nella Magna charta; ed essa fruttava 350 milioni di lire. Caddero anche il dazio addizionale di guerra sulla birra, che rendeva quasi 70 milioni; il dazio sul sale, sul cuoio, ecc., con perdite gravissime per l’erario.

 

 

I finanzieri, allibiti, non sapevano resistere al furore del popolo, che esigeva un’ecatombe delle imposte vessatrici.

 

 

Come si provvide ad evitare la disorganizzazione dell’equilibrio del bilancio?

 

 

In parte si provvide con una politica di tagli altrettanto feroci nelle spese quanto erano stati profondi i tagli nelle entrate. In un solo anno (1817) il bilancio della guerra è ridotto di 100 milioni ed ulteriori riduzioni vi si apportano in seguito sì da ridurlo da 400 milioni nel 1816 a 250 nel 1830. Si preferisce rimanere senza scuole, senza strade, senza igiene, senza ministeri e senza impiegati pur di non pagare le imposte di guerra. Si riducono gli stipendi e si aboliscono le pensioni cosidette graziose.

 

 

Questa non fu finanza empirica. Fu una finanza di soldati coraggiosi, che per salvare la economia nazionale non dubitano di incorrere nel malvolere dei grandi corpi organizzati dello stato. Fu la finanza che si impone nei momenti supremi; quella che adoprò Quintino Sella in Italia ad eterno suo vanto.

 

 

Ma ciò non bastava a mantenere il pareggio. Per quanto falcidiate, le spese erano sempre superiori alle entrate. Ed allora intervengono gli empirici, che inventano imposte nuove, non ancora odiose ai contribuenti, per sostituire le imposte vecchie abolite. L’empirico inglese di quei tempi fu Vansittart, un eroe dell’equilibrismo finanziario a base di giuoco di bussolotti. Abolisce le imposte di guerra ed aumenta quella sul sapone, sul tabacco, sul tè, sul pepe, ecc. Continua a far finta di pagare i debiti vecchi che giungono a scadenza ed intanto crea sempre nuovi debiti. Quando il consolidato si scredita, inventa un nuovo tipo di debito, che intitola navale. Nel 1822 non può più andare avanti, ed allora tenta di fare un enorme pasticcio sulle pensioni, offrendo ai pensionati dei titoli di rendita che essi avrebbero potuto vendere, e che aumentavano il debito futuro dello stato, pure scemandone il gravame momentaneo. I pensionati non ne vollero sapere, ed egli dovette andarsene dal ministero, lasciando le finanze dissestate.

 

 

I suoi successori continuano ad abolire sotto la pressione popolare, le imposte vecchie, tirando avanti a furia di economie e di operazioni finanziarie, aiutati anche in parte dal risorgimento economico del paese, che faceva aumentare spontaneamente il gettito delle imposte.

 

 

Ma non si può andare innanzi all’infinito coll’abolire imposte, senza giungere ad un punto in cui la nave fa acqua. Fra il 1830 ed il 1834 si abolirono imposte per circa 175 milioni di lire, profittando di una momentanea prosperità dell’economia pubblica.

 

 

Era forse una necessità politica abolire le imposte contro cui si appuntava più fieramente l’ira popolare. Era l’epoca in cui il suffragio era stato allargato, e cominciava ad acquistar piede l’agitazione chartista, che voleva il suffragio universale, un reggimento democratico, e temevasi avesse anche degli ideali repubblicani. Un finanziere ideologo – e non mancavano allora in Inghilterra gli ideologi che, come sir Henry Parnell, si facevano banditori di ottime riforme finanziarie – avrebbe proposto di abolire quelle imposte che maggiormente comprimevano lo sviluppo della privata ricchezza, fornendo nel tempo stesso allo stato i mezzi opportuni per fronteggiare gli eventuali disavanzi.

 

 

Ma ad attuare cotali riforme era d’uopo avere un coraggio, che agli empirici è mancato sempre: il coraggio di resistere ai clamori della piazza, i cui desiderii sono spesso irragionevoli, ed il coraggio di imporsi agli interessi privati, favoriti dal regime tributario e doganale esistente. Era d’uopo abolire da un lato le corn laws (leggi di protezione dei cereali) senza curarsi delle alte strida delle classi alte, ed imporre novamente l’income tax (imposta sul reddito), superando le avversioni delle classi medie.

 

 

Questo coraggio non lo si ebbe in quei tempi; si abolivano le imposte, come si disse, per dare una soddisfazione ai contribuenti; né le abolizioni erano compiute in guisa da riuscire le più vantaggiose all’economia pubblica, né l’erario era posto in grado di sopperire altrimenti alle disastrose conseguenze di una politica tributaria fatta di concessioni forzate e di pentimenti vani.

 

 

Accadeva allora in Inghilterra qualcosa di simile a quanto avvenne in Italia quando la sinistra, per ingraziarsi le masse, abolì l’imposta del macinato. In Italia l’erario perdette un’ottantina di milioni – che oggi sarebbero più di cento – all’anno; il disavanzo crebbe ed aumentarono i debiti, e si finì col creare un’imposta – il dazio sul grano – ben più gravosa ed iniqua e meno fruttifera per lo stato di quanto non fosse l’abborrito macinato.

 

 

Anche allora in Inghilterra la medesima politica empirica produceva i medesimi effetti. Non sono tarde infatti a manifestarsi le conseguenze delle concessioni ai clamori pubblici, fatte inconsideratamente, senza pensare ai mezzi di riparare agli eventuali disavanzi. Nel 1837-38 si manifesta un deficit di 38 milioni di lire, che si ripete nei due anni successivi. Nel

1840-41 il deficit sale a 44 milioni.

 

 

Allora sorge un altro empirico: Francis Baring, che, deputato, aveva predicato bene contro i metodi di Vansittart, e, ministro, ne fu il degno emulo, simile in ciò a tanti ministri del tesoro che si sono succeduti in

Italia.

 

 

Per colmare il deficit egli ricorre al vecchio sistema di aumentare le aliquote, ed impone un 5% addizionale sui dazi doganali, un 5% in più sulle imposte di fabbricazione; accresce di 4 pence per gallone l’imposta sullo spirito; aumenta del 10% le imposte dirette, e procede ad una revisione straordinaria dei redditi dei fabbricati e delle altre imposte dirette. Egli si illudeva di poter così avere un maggiore introito di circa 50 milioni di lire.

 

 

Accadde allora ciò che era facile prevedere. L’incremento delle imposte fece aumentare il prezzo delle merci e diminuirne il consumo. L’erario introitò di più per ogni gallone di spirito; ma i galloni consumati scemarono di numero. Il ministro aveva presentato un bilancio in pareggio, facendo a fidanza sull’effetto dei suoi provvedimenti tributari; invece il consuntivo dell’anno 1841-42 segna un deficit di 62 milioni e mezzo di lire. A questo punto l’era della finanza empirica si chiudeva e si apriva il periodo della riforma finanziaria, che fa la gloria dell’Inghilterra moderna.

 

 



[1] Con il titolo Per la giustizia tributaria II.[ndr]

Una campagna abolizionista

Una campagna abolizionista

Per la giustizia tributaria, Torino-Roma, Roux e Viarengo, s. d. [1901], pp. 49-57

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925)[1], Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 272-278

 

 

 

 

Il voto recente della camera dei deputati, contrario all’abolizione del dazio sul grano, non ha fatto cessare la campagna che si combatte vivissima pro e contro il dazio. Forse anzi ha infuso novello ardore negli animi degli abolizionisti.

 

 

Chi scrive, per antica convinzione ripetutamente espressa su queste medesime colonne, è favorevole all’abolizione completa e graduale del dazio sul grano. Non giova adesso ripetere i motivi della convinzione. Piuttosto, ad incorare i combattenti ed inspirar loro fiducia nel trionfo della giusta causa, sembra preferibile raccontare per sommi capi la storia di un’agitazione intrapresa con gli intenti medesimi e condotta a termine trionfale in breve volgere di anni in Inghilterra dalla famosa Anti-Corn League, «Lega per l’abolizione delle leggi sui cereali». Fu una campagna coraggiosa e mirabile quella che nell’ottobre del 1838 si iniziò a Manchester contro il regime di monopolio e di protezione che immiseriva l’Inghilterra.

 

 

Il dazio a scala mobile sui cereali, inteso a mantenere, con una tariffa variabile da 1 scellino a 20 scellini, il grano al prezzo remuneratore prima di 80 e poi di 70 scellini al quarter (il quarter equivale a circa tre ettolitri e lo scellino a lire 1,25), era il fondamento principale del regime monopolistico, e contro di esso diressero anzitutto i loro colpi più rudi i sette apostoli del libero scambio che nell’ottobre del 1838 fondarono la lega di Manchester.

 

 

L’impresa non era agevole. Essi avevano contro di sé il parlamento, la chiesa, lo stato, i grandi proprietari fondiari, tutti gli industriali protetti ed i monopolisti. In un paese dove le cose antiche sono circondate da rispetto quasi superstizioso, la impresa poteva sembrare impossibile. Ma gli apostoli non si scoraggiano. Se i proprietari si appoggiano alla chiesa ufficiale, i seguaci della lega fanno appello alle chiese dissidenti. Contro l’aristocrazia fondiaria, il clero, la burocrazia, essi organizzano ed ammaestrano le classi manifatturiere, la borghesia media, gli industriali, i commercianti e gli operai.

 

 

I poveri ascoltano la parola dei missionari della buona novella economica ed i fondi necessari per le spese di propaganda sono largamente sottoscritti dai ricchi, penetrati dalla luce della verità. Nel 1841 le sottoscrizioni volontarie ai fondi della lega di Manchester sono di 200.000 lire italiane, e raggiungono 600.000 lire nel 1842, un milione nel 1843, 2 milioni nel 1844. In un giorno solo, il 14 novembre 1844, sono sottoscritte, in mezzo ad un grande entusiasmo, più di 400.000 lire.

 

 

E la propaganda si esercita attiva, incessante, nelle città e nei villaggi dell’Inghilterra per mezzo di opuscoli, fogli volanti, affissi, giornali. L’Inghilterra viene divisa in dodici distretti, ognuno dei quali è affidato ad uno speciale propagandista. In ogni città ed in ogni contea la lega tiene le sue assemblee e le sue conferenze pubbliche. Cobden, Bright, Gibson, Villiers si moltiplicano ed accorrono in ogni luogo dove la loro parola può essere feconda di bene. Essi vanno audacemente nelle campagne, in mezzo ai contadini ed agli affittavoli; e tenendo testa con coraggio agli avversari, riescono a conciliarsene la simpatia e talvolta i voti.

 

 

I fanciulli e le donne sono chiamati a contribuire all’opera. Nei sillabari e nei libri di lettura dei fanciulli si leggono dialoghi sul «monopolio ed il libero scambio». Le donne attendono alla spedizione dei giornali e degli opuscoli, preparano feste a favore della lega ed arringano dall’alto della tribuna la folla.

 

 

A poco a poco l’idea si fa strada. La riforma elettorale del 1834 aveva permesso alle classi medie di inviare rappresentanti al parlamento. Con grande stupore ed indegnazione delle classi possidenti, le città manifatturiere mandano Cobden, Bright e Villiers alla camera dei comuni.

 

 

Erano uno scarso manipolo, ma li sorreggeva la fede nella bontà della causa, congiunta al favor crescente della pubblica opinione. Con tenacia ostinata il Villiers ogni anno proponeva una mozione, la quale recitava: «… La camera, riconoscendo che un grandissimo numero dei sudditi di Sua Maestà sono insufficientemente provveduti degli oggetti di prima necessità; che frattanto è in vigore una legge la quale limita gli approvigionamenti e perciò diminuisce l’abbondanza degli alimenti; che ogni restrizione avente per iscopo di difficultare la compra delle cose necessarie alla sussistenza del popolo è insostenibile in principio e di fatto funesta e deve essere abolita, delibera di abrogare immediatamente il dazio sui cereali». Ogni anno Villiers proponeva questa mozione ed ogni anno la mozione era respinta.

 

 

Ma con una maggioranza sempre decrescente. Nel 1842 la maggioranza contraria all’abolizione del dazio sui cereali era di 303. Nel 1843 è soltanto più 258. Nel 1844 cade a 204.

 

 

E la discesa avveniva in una camera eletta nel 1841 col programma esplicito di resistenza contro qualsiasi innovazione troppo pronunciata contro il regime economico e doganale esistente. Roberto Peel era andato, per opera del partito conservatore agrario, a capo del governo col programma apertamente esposto di mantenere le leggi sui cereali ed il sistema monopolistico doganale e coloniale. La sua vittoria schiacciante nelle elezioni del 1841 contro i liberali era stata appunto dovuta alla proposta di lord Russell, ministro nel liberale gabinetto Melbourne, di ridurre ad 8 scellini per quarter il dazio sul grano.

 

 

Ma contro l’opinione pubblica tuttavia non si resiste. Il decrescere continuo della maggioranza contraria alle mozioni abolitive del dazio sui cereali avverte Roberto Peel che il deputato inglese medio presente l’avvicinarsi della burrasca, capisce che i sentimenti del corpo elettorale tendono verso una trasformazione in senso liberista e si prepara ad attenuare l’antica fede protezionista in previsione delle venture elezioni generali.

 

 

Ed allora si vede il capo del governo ammettere in un discorso alla camera che le teorie liberiste sono vere in astratto e si confessa dolente di non poterle seguire in pratica a causa delle condizioni della società in mezzo a cui si è obbligati a vivere, ecc., ecc…

 

 

Ma la campagna della lega di Manchester continua. Dopo avere trasformato i sentimenti delle masse, la lega si prepara alla conquista del parlamento. La legge elettorale, accordando il diritto di voto ad ogni inglese possessore di una proprietà del reddito di 2 lire sterline annue, la lega si propone di crescere il numero degli elettori, comprando, con 50 o 60 lire sterline, una proprietà avente il reddito minimo legale. In soli tre mesi del 1845, ben 250 mila lire sterline entrano nella cassa della lega per essere in tal modo impiegate. L’effetto sul parlamento dell’ardita iniziativa della lega è immediato. Quando il Villiers, nel 1845, presenta la solita mozione contro le leggi sui cereali, la maggioranza contraria, che tre anni prima era di 303, si riduce a 132.

 

 

Qui si vide il genio di Roberto Peel. Contrario fin’allora all’abolizione del dazio, si accorge che, se avesse continuato nella politica di resistenza, il partito conservatore sarebbe stato perduto.

 

 

Audacemente l’uomo di stato gira di bordo; ed in occasione della legge del bilancio, presentata il 29 maggio 1846, propone – egli venuto al potere per mantenere i dazi ed i monopoli – la riduzione immediata del dazio a scala mobile ad un limite bassissimo e la completa abolizione del dazio a partire dall’1 febbraio 1849.

 

 

La camera, incalzata dalla marea crescente dell’opinione pubblica e dagli orrori della carestia irlandese, approva le proposte del ministro.

 

 

Poco dopo, è vero, Roberto Peel pagava il fio della sua audacia. Il 25 giugno 1846, nel giorno istesso in cui la regina Vittoria sanzionava la legge abolitrice del dazio sui cereali e dava così il suo nome ad uno dei più grandi avvenimenti storici del secolo 19esimo, una coalizione di conservatori, irritati per il mutamento d’idee del loro capo, di irlandesi e di altri abbatteva il ministero riformatore.

 

 

In quella memoranda seduta, Roberto Peel, prima di cadere, fieramente rivolgeva ai suoi avversari le parole seguenti: «… Io lascerò, cadendo dal potere, un nome odiato da ogni monopolista desideroso di mantenere la protezione a suo individuale vantaggio. Ma forse io lascerò anche un nome ricordato talvolta con gratitudine nelle dimore di coloro la cui sorte è di lavorare e guadagnare pane giornaliero col sudore della fronte e che potranno ricostituire le loro forze esauste con un cibo abbondante, immune da imposte e non amareggiato da alcun sentimento di ingiustizia».

 

 

Così cadono i grandi uomini di stato.

 

 

Ma la sua caduta non giovò ai conservatori che si erano rifiutati di seguire il loro capo sulla via delle riforme.

 

 

Morto Roberto Peel quattro anni dopo, i suoi fidi si unirono ai liberali. Così grande fu l’ammirazione del popolo verso chi li aveva liberati dall’imposta sulla fame e così radicato l’odio verso i conservatori che quell’imposta volevano mantenere, che un’intera generazione dovette passare prima che il ricordo della lotta combattuta contro Peel divenisse meno vivo ed i conservatori potessero ritornare al potere, strappandolo al partito liberale che delle idee del conservatore Peel aveva saputo farsi vindice. Ammonimento solenne a quei partiti politici italiani i quali si illudessero di potere, senza danno proprio, procrastinare l’ora della riforma tributaria!

 

 

Oggi in Italia, come mezzo secolo fa in Inghilterra, non è più tempo da indugi.

 

 

Agli audaci forse la sconfitta presente e la vittoria avvenire; ai dubitanti l’oblio.

 

 



[1] Con il titolo Per la giustizia tributaria IV.[ndr]

Lo sciopero di Genova

Lo sciopero di Genova

«La Riforma Sociale», gennaio 1901
Le lotte del lavoro, Piero Gobetti, Torino, 1924, pp. 69-104

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 437-462

 

 

 

 

Ricordo brevemente i fatti. Il 18 dicembre 1900 il prefetto di Genova, comm. Garroni, trasmetteva al questore un decreto nel quale «veduto il proprio decreto dell’8 dicembre 1896 col quale la camera del lavoro di Genova era stata disciolta, con proibizione di ricostituirsi; ritenuto che, nonostante quel divieto, la medesima camera del lavoro fu ricostituita; vedute le lettere colle quali il signor questore di Genova riferisce che la nuova camera del lavoro, al pari dell’antica, fa opera contraria all’ordine pubblico e cerca di sovvertire istigando anche pubblicamente a delitti contro la libertà di lavoro, all’odio fra le diverse classi sociali ed alla disobbedienza delle leggi; veduto l’art. 3 della legge comunale e provinciale (che enumera i poteri del prefetto) e gli art. 246, 247, 251 e 434 del codice penale (che contemplano il caso di delitti contro l’ordine pubblico, e specialmente della istigazione a delinquere singolarmente considerata e della associazione a delinquere)», scioglieva la camera del lavoro di Genova con proibizione di ricostituirsi.

 

 

Con decreti simili venivano sciolte le sezioni della camera del lavoro di Sampierdarena e di Sestri Ponente, dove si scioglieva eziandio il circolo ricreativo ed istruttivo.

 

 

Ecco come a me, che ero andato a fare un’inchiesta sullo sciopero per incarico della «Stampa» di Torino, il comm. Garroni spiegava le ragioni dello scioglimento:

 

 

Questa già nel 1896 era stata disciolta dal prefetto di allora, Silvagni, perché compieva atti contrari alle leggi vigenti, e perturbava l’ordine pubblico.

 

 

In quest’anno, giovandosi della condiscenza governativa, parecchi componenti l’antica camera si sono ricostituiti da sé in camera del lavoro. Da sé, poiché non consta che vi sia stata una delegazione formale da parte degli operai. Anzi quasi tutti i membri del comitato esecutivo sono estranei al vero elemento operaio genovese. Tutti poi sono socialisti.

 

 

La nuova camera aveva tutti i caratteri dell’antica già disciolta, per cui dovere del prefetto attuale era di mantenere fermo il decreto del suo predecessore Silvagni.

 

 

Si aggiunga che, anziché avere scopi di intervento e di tutela delle ragioni dei lavoratori, quando se ne presentasse la necessità, la camera del lavoro ha costituito nel suo seno delle leghe di miglioramento per ognuna delle varie professioni, eccitando nei membri delle leghe dei desideri eccessivi. Quando poi gli operai, in tal modo sobillati, presentarono delle domande di revisione di tariffe od aumento di salari, la camera del lavoro ha avuto l’aria di intervenire come paciera fra capitale e lavoro a dirimere un conflitto che essa aveva suscitato. Le leghe di miglioramento a poco a poco si mutarono così in leghe di resistenza e di prepotenza. Chi non era socio difficilmente poteva trovar lavoro, a causa delle intimidazioni della lega.

 

 

La camera del lavoro veniva in tal modo a compiere una azione contraria alle leggi dello stato, annichilendo l’opera della camera di commercio e dei collegi dei probi – viri, e facendo affiggere pubblici avvisi con cui invitava gli operai a far capo, non più alle autorità, ma esclusivamente ad essa. Le riunioni aventi carattere pubblico e discorsi violenti erano frequenti e costituivano un continuo eccitamento all’odio fra le classi sociali, e sovratutto fra capitale e lavoro. Ogni giorno una questione nuova veniva sollevata per dare agio ai dirigenti della camera di intervenire.

 

 

Per tutte queste ragioni la camera del lavoro fu disciolta, lasciando sussistere però le leghe di miglioramento.

 

 

Ad un redattore del «Corriere della Sera», dopo aver detto su per giù le cose dette anche a me, il Garroni a scagionarsi dall’accusa di avere atteso tanto tempo a sciogliere la camera del lavoro, la quale era da parecchi mesi notoriamente ed ufficialmente ricostituita, rispose:

 

 

Le ragioni che mi fecero attendere – rispose il mio interlocutore – sono complesse. Il ritardo proverebbe tuttavia che non la sciolsi che quando fui ben convinto che era proprio l’antica camera del lavoro con tutte le sue tendenze sovversive che riviveva nell’attuale; che erano le antiche leghe di resistenza, gli antichi mezzi di eccitamento alla lotta di classe che rifiorivano sotto il nome più mite di leghe di miglioramento.

 

 

Ma – ribattei io – oltreché il ritardo si nota che il decreto di scioglimento fu emanato il giorno stesso in cui la camera prendeva le sue vacanze.

 

 

Posso assicurarla sulla mia parola d’onore – rispose l’interpellato – che questa fu una coincidenza casuale. Quando io diedi le disposizioni, non si sapeva se la camera avrebbe durato ancora uno o più giorni.

 

 

Contemporaneamente si operavano perquisizioni nei locali della camera del lavoro di Genova e delle sue sezioni e si sequestravano registri appartenenti alle leghe di miglioramento ascritte alla camera.

 

 

Subito dopo i segretari di questa, Leone Ricciotti e Buratti Alessandro, pubblicavano la seguente protesta:

 

 

Noi che abbiamo la coscienza di sempre avere bene operato in pro della classe lavoratrice genovese, nonché legalmente verso le leggi che ci governano, talché sin qui fummo assistiti dalla maggioranza dei cittadini, dalla camera di commercio e dalle autorità stesse di pubblica sicurezza che non rifiutarono di trattare con noi per vertenze operaie; sentiamo il dovere di ringraziare indistintamente tutti, ma rimettendo il mandato avuto da 43 associazioni genovesi e ratificato da oltre 23 leghe costituitesi presso la camera del lavoro, protestiamo contro il decreto prefettizio col quale si dichiara sciolta la locale camera del lavoro e le sue sezioni sparse per la Liguria.

 

 

Protestiamo non solo per il diritto giuridico tanto evidentemente violato, perché le leggi fondamentali dello stato permettono il diritto di associazione e la difesa del lavoro; ma anche perché con evidente mala fede nel decreto succitato si lascia credere avere noi contravvenuto alla legge e precisamente essere incorsi nelle sanzioni legali di cui agli art. 246 e 247 del codice penale.

 

 

Non è vero che noi si abbiano suscitati odii e scioperi; ma anzi possiamo provare d’essere stati elemento di pace e d’ordine.

 

 

Se non bastassero le molteplici testimonianze d’amicizia provata dei negozianti, capi – squadre, impresari coi quali abbiamo avuto rapporti per la definizione di vertenze insorte in questi ultimi tempi, abbiamo il fatto provato dai documenti sequestrati che membri della camera di commercio ed altre autorità cittadine, riconoscendo la necessità civile della camera del lavoro, ci ringraziavano per la nostra opera pacificatrice.

 

 

Dieci sono le vertenze avvenute in questi ultimi tempi e tutte e dieci mercé l’intervento della camera del lavoro ed il buon volere della camera di commercio e dei padroni, tutte furono definite pacificamente e colla soddisfazione generale.

 

 

Domandiamo giudice tutta la cittadinanza dell’operato teutonico del nostro prefetto, che non rispetta lo statuto dello stato né i diritti dei cittadini, e vogliamo credere che tutte le persone e la stampa che sin qui ci hanno coadiuvati nel lavoro umano assunto dalla camera del lavoro, si assoceranno alla nostra protesta, perché calpestati i diritti civili dei cittadini, compresse le coscienze e messa in non cale la forza – lavoro per effetto della prepotenza, si dovrebbero rimpiangere le lotte patriottiche dei nostri avi ed augurarci di ritornare sotto i croati, che almeno avevano la franchezza di bastonare in modo uguale tutta Italia e non solo una regione come è il caso della Liguria.

 

 

I due delegati partivano il 18 per Roma per presentarsi al presidente del consiglio dei ministri.

 

 

Ed il 20 mattina scoppiava lo sciopero generale nel porto. In principio erano seimila gli scioperanti, ossia tutti i facchini e scaricatori del porto, per protesta contro lo scioglimento della camera del lavoro, malgrado che gli aderenti alle leghe fossero soltanto 4.000.

 

 

Fu una bella dimostrazione di solidarietà; ma occorre avvertire che a determinare lo sciopero dei 2.000 operai non ascritti alle leghe concorsero altri motivi.

 

 

Infatti è interesse dei negozianti o di scaricar tutto o di non scaricar nulla.

 

 

Le navi quando giungono in porto denunciano il numero dei giorni entro cui deve effettuarsi lo scarico. Se lo scarico dura di più, allora la nave va incontro alle stallie, ossia paga un diritto supplementare, detto di controstallia, che per i piroscafi moderni può calcolarsi a duemila lire al giorno. Se per uno sciopero parziale alcune navi lavorano ed altre no, quelle che non lavorano devono pagare le controstallie; ed è quindi interesse dei negozianti di non lavorare affatto, perché quando la inazione è generale, si presume sia dovuta a forza maggiore e non si pagano le controstallie, mentre se la inazione è parziale, il regolamento la reputa dovuta a causa dei negozianti e fa pagare il maggior diritto.

 

 

Perciò tutti scioperano; gli ascritti alle leghe per protesta politica contro l’atto del prefetto, ed i non ascritti perché così portano le necessità degli ordinamenti portuali. A poco a poco lo sciopero si estese agli stabilimenti metallurgici ed ai cantieri navali di Genova,

Sampierdarena, Sestri Ponente, Cornigliano, ecc., cosicché si calcola che nel momento massimo della astensione del lavoro, gli scioperanti fossero in numero di 18 a 20 mila.

 

 

Di fronte al grandioso ed inaspettato movimento cominciarono a manifestarsi i primi sintomi di concessioni da parte del prefetto. L’on. Pietro Chiesa, deputato operaio – socialista di Sampierdarena, telegrafava al Saracco chiedendo un arbitrato.

 

 

L’on. Saracco rispondeva di non potere sottoporre ad arbitrato un atto di governo ed invitava il Chiesa a far capo al prefetto per proposte di altra natura.

 

 

Nel pomeriggio del 20 vi fu infatti un colloquio tra il comm. Garroni e l’on. Chiesa accompagnato dal signor Ballestrero, nel quale il prefetto non si mostrò alieno dal discendere a concessioni.

 

 

Ecco quali erano gli intendimenti del prefetto, secondo quanto questi mi espose in un colloquio avuto la mattina del 21, prima che gli scioperanti si radunassero per deliberare sulle proposte prefettizie:

 

 

Non è detto che collo scioglimento della camera del lavoro gli operai rimangano privi del mezzo di far valere le loro ragioni di fronte ai capitalisti.

 

 

Esiste una legge dei probi – viri, destinata a dirimere i conflitti tra capitale e lavoro. È vero che ora la legge non si applica ai lavoratori dei porti. Ma è sempre possibile, sia con una interpretazione autentica del governo, sia per accordo delle parti, costituire dei collegi di probi – viri in cui siano rappresentate le due classi degli imprenditori e degli operai.

 

 

Nulla vieta inoltre che i probi – viri eletti dalla classe operaia si possano costituire separatamente in camera del lavoro o segretariato del popolo – il nome non importa – per trattare le questioni operaie.

 

 

Allora questa camera del lavoro sarà una vera emanazione della classe operaia, e non sarà composta solo di otto persone scelte da se stesse. Contro questa rappresentanza legale degli operai, eletta da tutti gli interessati con le necessarie garanzie, nessun decreto di scioglimento interverrà mai, almeno finché il tribunale dei probi – viri e la parte operaia si mantengano entro i limiti indicati dalle leggi.

 

 

Era una via aperta alla conciliazione. Ma gli operai non ne vollero sapere, e pretesero invece una completa capitolazione.

 

 

Nella adunanza tenuta alle ore 10 del 21, in un locale sui terrazzi di via Milano, due correnti si manifestarono fra i delegati delle leghe.

 

 

Tutti gli operai ed i capi del movimento – fra cui alcuni operai – erano d’accordo nel ritenere che lo scioglimento della camera del lavoro è stato un arbitrio inqualificabile del prefetto, il quale, appena fu sicuro, per la chiusura della camera dei deputati, che non si sarebbero potute fare interpellanze al riguardo, con un colpo di testa sciolse la camera del lavoro, perquisì locali, asportò registri, ecc.

 

 

Lo scopo vero dello scioglimento si fu di mettere gli operai nella impossibilità di avere un organo proprio di difesa. Quando le leghe saranno disciolte, chi potrà far osservare le tariffe concordate? Alla prima occasione gli imprenditori le violeranno e vorranno pagare alquanto meno dello stabilito; e gli operai non avranno alcun mezzo di reagire.

 

 

Ma se tutti erano d’accordo sulla necessità dello sciopero, divergevano le opinioni intorno al contegno da tenersi di fronte alle nuove proposte prefettizie.

 

 

Una parte, più intransigente, fra cui si notavano molti operai, l’on. Chiesa, l’avv. Pio Schinetti, direttore del “Giornale del Popolo”, reputava che delle parole del prefetto non si dovesse fare il menomo conto, che esse fossero unicamente una manovra fatta per indurre gli operai a cedere ed a ritornare al lavoro, salvo poi disciogliere anche le leghe ed annientare ogni organizzazione operaia.

 

 

Altri, fra cui l’on. Chiesa, guardavano sovratutto all’aspetto pratico della questione. Il fatto si era che il prefetto, sotto una nuova forma, e con elezioni fatte in modo speciale, a norma della legge dei probi – viri, permetteva la ricostituzione della camera del lavoro. Perché sofisticare sulla forma quando si aveva ottenuto la sostanza?

 

 

«Non era forse vero che lo scopo degli operai, nel costituire la camera del lavoro, era quello di tutelare i nostri diritti?

 

 

«Non si era forse già dimostrato, scioperando in massa, che i lavoratori del porto di Genova sanno resistere alle illegalità governative?

 

 

«Un’altra volta il prefetto si piglierà ben guardia dal molestarci, perché saprà che noi siamo fermamente decisi a resistere.

 

 

«Si aggiunga – notavano i fautori della moderazione – che continuando nello sciopero perderemo quello che ancora ci resta; le leghe saranno disciolte e perderemo il frutto di tanti mesi di lavoro.

 

 

«L’opinione pubblica, che ora ci è favorevole, si volterà contro gli operai perché i danni del commercio arenato, danni che ammontano a milioni di lire al giorno, si faranno vivamente sentire non solo in Genova, ma in tutta l’alta Italia.

 

 

«E non c’è mai stato nessun sciopero d’importanza generale il quale abbia avuto un esito propizio quando l’opinione pubblica vi era avversa».

 

 

Prevalsero i più risoluti a resistere ed a volere la integrale restituzione dei registri e la ricostituzione della camera del lavoro.

 

 

I fatti diedero loro ragione perché a poco a poco prefetto e governo cedettero su ogni punto, dando completa vittoria agli scioperanti.

 

 

La commissione nominata dagli scioperanti a mezzogiorno del 21, si recò dal prefetto, e dopo una lunghissima conferenza, durante la quale il prefetto insisté nel dichiarare che non poteva recedere dal provvedimento decretato contro la camera del lavoro, la commissione convenne in questo ordine di idee: «il prefetto essere disposto a restituire i registri e le carte delle leghe di miglioramento costituite dai lavoranti del porto, a permettere un’adunanza plenaria del ceto operaio, in un locale concesso dal municipio, per procedere all’elezione di una rappresentanza che in qualche modo provveda a sostituire la disciolta camera del lavoro».

 

 

Per salvare le apparenze, il prefetto insisté nel volere che la nuova rappresentanza operaia si intitolasse non camera, ma comitato del lavoro, e fosse composta da persone diverse dai membri della commissione esecutiva della disciolta camera del lavoro. Inoltre si intendeva restituire i registri delle sole leghe di miglioramento, che non erano state disciolte e non quelli della camera del lavoro già consegnati all’autorità giudiziaria.

 

 

Alle 17 dello stesso giorno 21, ebbe luogo l’adunanza degli scioperanti per decidere in merito alle nuove proposte.

 

 

Decine di migliaia di operai ordinatamente e tranquillamente aspettavano sugli ampi terrazzi di via Milano le decisioni dei delegati delle leghe. Come al solito i pareri erano alquanto divisi. Malgrado che l’on. Chiesa e l’avv. Pellegrini propendessero ad accettare le proposte del prefetto ed a riprendere il lavoro il giorno dopo, sabato 22, la maggioranza vi si mostrò risolutamente avversa.

 

 

Prima si volle procedere all’elezione dei 18 membri della rappresentanza degli operai, per dimostrare che lo sciopero non cessava prima della completa vittoria.

 

 

Sabato 22, si fecero nell’ex – oratorio di S. Filippo, concesso dal municipio, le elezioni; e si fecero su una lista la quale comprendeva tutti quelli che il prefetto intendeva che fossero esclusi dal comitato.

 

 

E ciò non avvenne a caso. Alle ore 9 le commissioni delle leghe di miglioramento, riunitesi per discutere sulla compilazione della lista, avevano votato ad unanimità il seguente ordine del giorno:

 

 

Le commissioni delle leghe riunite per protestare contro l’imposizione del prefetto, riaffermano la più completa fiducia nell’amministrazione della camera del lavoro disciolta, sottoponendola al suffragio dei lavoratori organizzati.

 

 

Ed il prefetto, a cui tale deliberazione fu comunicata, finì per acconciarvisi.

 

 

Frattanto a Roma l’on. Saracco proseguiva nella via delle dedizioni, promettendo agli operai Buratti e Leoni la restituzione di tutti i registri sequestrati, la ricostituzione, collo stesso nome, della camera del lavoro, e l’invio a Genova del conte Gioia ad appianare le ultime difficoltà.

 

 

Domenica 23, al mattino, si conobbero i risultati delle elezioni. Con voti variabili da 9.174 a 9.162, ossia con assoluta unanimità, erano stati riconfermati tutti gli antichi consiglieri della camera del lavoro, con l’aggiunta di altri nove.

 

 

Ed alle 13,30, nel maggior teatro di Genova, il Carlo Felice, concesso dal municipio, in seguito a consenso del prefetto, con una solennità straordinaria, con un concorso immenso di operai, e con discorsi entusiasti degli on. Mazza, De Andreis, Agnini, Chiesa, dell’avv. Pellegrini, del tipografo Calda, veniva proclamata la ricostituzione della nuova camera del lavoro. La vittoria degli scioperanti era completa.

 

 

L’indomani, lunedì 24, il lavoro veniva ripreso nel porto e negli stabilimenti della riviera.

 

 

La narrazione cronologica che ho fatto delle vicende dello sciopero di Genova dimostra una cosa: che né prefetto, né governo, avevano alcuna chiara idea della resistenza che lo scioglimento della camera del lavoro avrebbe incontrato nel ceto operaio genovese.

 

 

Spaventati dai danni della sospensione del lavoro nel massimo porto d’Italia, sorpresi dalla tenacia di volere dei lavoratori genovesi, premuti dalle classi commerciali ed industriali che poco si interessavano della questione politica e molto soffrivano dall’incaglio al carico ed allo scarico delle merci, prefetto e governo si accorsero di avere, almeno, commesso un errore di tattica; e cominciarono a cedere un po’, offrendo una rappresentanza sotto forma di collegi dei probi – viri. Poi, siccome gli operai tenevano duro, offersero un comitato del lavoro composto diversamente dalla camera di prima e la restituzione dei registri; e finalmente si acconciarono a lasciare rieleggere e proclamar solennemente la camera antica ed a restituire tutti i registri.

 

 

E così si è dimostrato una volta di più che in Italia il governo procede a casaccio, senza pensare alle conseguenze dei propri atti, e commette errori di tattica, che poi è costretto a scontare duramente, rimangiandosi con disinvoltura le disposizioni che poco prima erano parse necessarie ed utili.

 

 

Ma nel caso di Genova, l’errore non fu solo di tattica, e lo sbaglio non si limitò a calcolare male la capacità di resistenza delle masse lavoratrici genovesi.

 

 

L’errore fu invece di principio e derivò dalla ignoranza che esiste nelle classi governative e dirigenti del nostro paese intorno alla legittimità ed alla necessità delle associazioni libere operaie.

 

 

Se ad un uomo di stato inglese si andasse a dire che conviene sciogliere le Trades-Unions, perché sono formate da soli operai per scopi di resistenza e per premere sul mercato del lavoro nel senso di aumentare i salari, diminuire le ore di lavoro, ecc. ecc.; e se gli si dicesse che occorre alle Trades-Unions sostituire dei tribunali di probi – viri incaricati, con norme fissate da apposite leggi e regolamenti, di regolare le questioni nate e future del lavoro, è molto probabile che quell’uomo di stato inglese riguarderebbe il suo interlocutore come un uomo mezzo tra l’antiliberale ed il socialista di stato.

 

 

Antiliberale perché ormai non c’è più nessuno che contesti la legittimità e la utilità delle leghe di resistenza degli operai, da essi create e amministrate, senza la tutela del governo e colle norme liberamente scelte dai soci. Non c’è più nessuno che possa contrastare agli operai il diritto di concertarsi per chiedere aumenti di salari e magari anche di ottenere, se ci riescono, dagli imprenditori la promessa di non impiegare se non operai affiliati alle leghe.

 

 

Socialista di stato, perché il voler regolare tutte le questioni del lavoro relative a contratti già conchiusi e a modificazioni dei contratti esistenti da un tribunale pubblico come quello dei probi-viri, può essere pensato solo da chi ritenga che, non le libere contrattazioni fra operai od imprenditori o fra le leghe degli uni e quelle degli altri, ma lo stato per mezzo degli organi da lui creati e dipendenti, possa stabilire quanto gli operai debbono ricevere di mercede, quante ore debbono lavorare, ecc. Il che è contraddittorio alla libertà del lavoro ed è informato ai canoni del socialismo di stato.

 

 

Si riconosceva a Genova la necessità dell’associazione fra gli operai del porto; ma non si volevano le associazioni autonome o, come le autorità dicono, extra-lege, ossia non contemplate dalle leggi e dai regolamenti vigenti. Si intendeva invece indurre gli operai ad associarsi secondo le norme stabilite dalle leggi dei probi – viri, sperando con tal mezzo di impedire che la associazione fosse un’arma di lotta fra capitale e lavoro, trasformandola in un mezzo di pacificazione sociale.

 

 

Che l’associazione in genere sia necessaria nel porto di Genova è evidente.

 

 

I lavoratori del porto di Genova hanno infatti da molto tempo avuto la tendenza a raggrupparsi in corporazioni per la tutela dei loro interessi e per la determinazione dei salari e delle altre condizioni del lavoro. In verità sarebbe difficile fare altrimenti. Dove gli imprenditori sono pochi, e gli operai si contano a migliaia, e tutti sono, suppergiù, egualmente forti ed atti a compiere il rude lavoro di facchinaggio che è loro imposto, è naturale che gli operai si riuniscano in società per non portarsi via il pane l’un l’altro, per regolare, una volta per sempre, l’ammontare del salario e la durata del lavoro.

 

 

Ancora. Siccome il lavoro del porto non è continuo, ma muta di giorno in giorno per intensità ed ampiezza, così è necessario che sul porto esista un’armata di lavoratori capace di far fronte ai lavori dei giorni di furia massima nello scarico e nel carico: e siccome nei giorni di lavoro medio o inferiore alla media non tutti possono essere occupati, così è d’uopo che gli operai si accordino per alternarsi al lavoro in modo che nessuno corra il rischio di restare disoccupato, quando il lavoro è scarso. Altrimenti alcuni si dedicherebbero ad altre professioni, e nei giorni di lavoro massimo mancherebbe la mano d’opera.

 

 

Se non si fanno questi turni di lavoro, si forma necessariamente una gerarchia di operai, di cui gli uni sono sempre occupati, e mentre gli altri costituiscono la riserva che viene chiamata al lavoro solo nei momenti di maggiore urgenza.

 

 

L’esistenza di un siffatto residuo di lavoratori avventizi è un problema sociale gravissimo, che si presenta in tutti i grandi porti e che diede origine al gigantesco sciopero dei facchini del porto di Londra nel 1889.

 

 

Siccome i lavoratori avventizi conducono una vita precaria, e siccome d’altra parte il loro lavoro è necessario, così è naturale che si cerchi di regolare la occupazione in modo che a tutti ne spetti una parte.

 

 

La necessità di provvedere a queste speciali contingenze del lavoro del porto di Genova, era talmente sentita che una compagnia, intitolata col nome della Compagnia dei caravana, esiste ancor oggi, la quale data dal principio del secolo XIV. Uno statuto dell’11 giugno 1340, nel suo primo articolo, in un linguaggio mezzo tra il genovese e l’italiano, dice: «Questi son li statuti e le ordination facte per tuti li lavoraor de banchi e de lo ponte de lo peago e de lo ponte de la calcina e in tuti li altri logi facta e ordenà per lo prior, ecc., ecc.». Il priore incassava tutti i guadagni dei soci della compagnia; provvedeva alla cura dei malati e dei feriti. Per un curioso privilegio i soci dovevano essere bergamaschi, e perciò i mariti mandavano le mogli a partorire a Bergamo, perché i figli potessero far parte della compagnia dei caravana.

 

 

Colle tendenze proprie di quei tempi a regolare le questioni del lavoro per via di privilegi esclusivi concessi a corporazioni obbligatorie, decreti del 1431, 1434, 1454, 1457 e 1459, danno ai soli caravana il diritto di sbarcare le merci estere soggette a diritti doganali, e di fare arrestare tutti i lavoranti che fossero trovati portatori di merci spettanti alla compagnia; e di rilasciarli solo dopo aver pagato una multa di lire cinque all’ufficio di mercanzie e rimborsato ai caravana le spese fatte per l’arresto.

 

 

Le dispute con facchini liberi che lavoravano di frodo per un salario minore erano continue. Ma le autorità genovesi proteggevano i caravana perché, come dice la motivazione di un decreto, «essi vissero sempre fedelmente, non commisero mai frodi, e nella compagnia non possono essere ammessi che individui di sperimentata fede, idoneità e fedeltà», e finalmente perché «la compagnia garantisce ogni danno che per avventura potesse arrecarsi dai nuovi soci».

 

 

Del privilegio loro concesso i caravana erano tratti, come sempre si verifica negli organismi privilegiati, ad abusare, cosicché alla fine del secolo scorso il diritto di socio della compagnia passò in commercio e fu venduto, comperato, ereditato, dato in ipoteca ed in dote. La maggior parte dei soci vendeva il proprio diritto a veri facchini contro un affitto annuo.

 

 

La bufera rivoluzionaria e la conquista napoleonica passarono su Genova senza distruggere i caravana. La restaurazione li rispettò; solo con regie patenti del 10 novembre 1823 Carlo Felice dichiarò sciolti da ogni preteso diritto di proprietà i posti dei caravana, i quali per conseguenza ridiventarono veri e propri facchini.

 

 

Nel 1857 Camillo Cavour, abolendo le corporazioni di arti e mestieri, fece una eccezione per i caravana, i quali, non più bergamaschi, ma scelti fra gli italiani in genere, si mantennero fino ad ora, e vivono di una vita fiorente.

 

 

Essi non sono più gli esclusivi facchini del porto di Genova, perché il loro privilegio è limitato allo scarico, al peso ed al trasporto delle merci provenienti dall’estero nel recinto del porto franco e della dogana, ossia nei luoghi dove si compiono operazioni daziarie su cui ha autorità ed ingerenza il governo. Nominalmente sono 300; ma ora sono solo 220.

 

 

La società è retta da un console nominato ogni anno dall’intendente di finanza; di 4 capi – squadra aggiunti (cassiere, economo, cantiniere, direttore dei lavori) e da un certo numero di capi-squadra speciali nominati dal direttore delle dogane. I conti sono tenuti da 3 impiegati della camera di commercio; la quale fissa le tariffe secondo cui la compagnia deve farsi pagare dai negozianti. I capi – squadra registrano il lavoro compiuto dai facchini su un libretto rimesso ogni sera all’ufficio di contabilità.

 

 

I fondi incassati dalla compagnia, che è il solo imprenditore dello scarico, il quale si trovi in rapporto e sia responsabile di fronte al pubblico, vengono impiegati: 1) a pagare ai negozianti i danni o le mancanze nelle merci per i trasporti alla compagnia affidati. La responsabilità solidaria della compagnia dura dal momento che le merci vengono accettate per il trasporto fino a quando escono dalla dogana o dal porto franco; 2) a pagare alle vedove dei facchini morti prima di 5 anni di servizio lire 300 una volta tanto; lire 10 mensili se morti con 5-10 anni di servizio; e lire 20 mensili se morti dopo 10 anni di servizio; 3) a pagare ai soci inabili al lavoro per vecchiaia dopo 30 anni di servizio, una pensione uguale ai due terzi della paga mensile normale e così pure ai soci divenuti inabili al lavoro per ferite riportate in servizio. A quelli che abbandonano per inabilità il lavoro prima di trent’anni viene pagata una pensione uguale alla metà della paga; 4) a salariare, quando il lavoro affluisce in copia, operai avventizi, che sono pagati con 4 lire al giorno e 2,50 per mezza giornata, più un’indennità giornaliera di lire 1,20 in caso di ferite. Fra gli avventizi che da più lungo tempo lavorano per conto della compagnia, si scelgono, in caso di vacanze, i nuovi caravana; 5) ciò che rimane, detratte ancora le spese di amministrazione, viene distribuito ai caravana. Il salario medio mensile non risulta mai inferiore alle 120 lire.

 

 

La organizzazione riesce a garantire contro gli infortuni della vita un piccolo nucleo di operai scelti e privilegiati, che costituiscono la vera aristocrazia del porto.

 

 

I caravana si son potuti mantenere perché compiono un lavoro speciale – portofranco e dogana – e sono quasi considerati come impiegati pubblici.

 

 

Tutti gli altri facchini e lavoratori liberi del porto – più di 6.000 – guardano a questi 220 caravana del portofranco con invidia. Soggetti, come sono, a tutte le alee del commercio marittimo, sempre col rischio di rimanere disoccupati, i facchini liberi hanno sempre istintivamente sognato di costituire una corporazione che distribuisse fra tutti equamente il lavoro, desse un’indennità in caso di infortunio, li tutelasse contro gli abusi, provvedesse alle vedove ed agli orfani. Il divieto posto dalla legge 29 maggio 1864 alla costituzione legale delle corporazioni d’arti e mestieri, non ha fatto altro che acuire il desiderio di fondarle sopra una base libera, ma estesa a tutti i lavoratori.

 

 

Le società di mutuo soccorso, numerosissime, sono una manifestazione di tale tendenza. Così pure i bagon, curiose società, in cui gli operai si dividevano in turni, ed ogni turno attendeva al lavoro quando la sorte lo designava.

 

 

La lancetta di una sfera, arrestandosi in un certo punto, designava il rappresentante di quella squadra la quale prima aveva diritto di lavorare, e così di seguito le altre a misura che sorgeva il bisogno di operai.

 

 

Il desiderio di avere nelle associazioni uno schermo contro le avversità della vita era tanto più vivo, in quanto la concorrenza fra gli operai veniva fomentata dai cosidetti confidenti intermediari fra la mano d’opera e i commercianti, i quali, avendo bisogno di caricare o scaricare una nave, non vogliano trattare con 100 o 200 operai individualmente, ma con uno solo che si impegni a nome di tutti gli altri.

 

 

Di questi confidenti io ho sentito raccontare cose molto diverse.

 

 

Vi ha chi afferma che i confidenti sono esosi sfruttatori della mano d’opera. Ricevono 5 dai commercianti e pagano la metà o poco più agli operai. Il guadagno medio di parecchi confidenti non sarebbe inferiore ad 80 o 100 lire al giorno. Vi sono alcuni fra essi, antichi facchini, i quali si sono arricchiti a milioni e posseggono castelli sulla riviera ligure. Essi sono sempre pronti ad attizzare la discordia fra commercianti ed operai per farne loro pro. Anche ora non sono malcontenti che la camera del lavoro abbia spinto gli operai a far domande di aumento di salari, perché sperano di ricevere dai commercianti le paghe secondo le nuove cresciute tariffe, salvo a distribuirne solo una parte agli operai, intascando il resto.

 

 

Per meglio speculare, i confidenti da alcuni anni avrebbero chiamato dalle montagne una moltitudine di contadini ignoranti e rozzi ad accrescere le falangi dei facchini del porto.

 

 

Mettendo abilmente gli uni contro gli altri i confidenti sarebbero riusciti a diminuire i guadagni degli operai obbligandoli a lavorare al di sotto delle tariffe, per la tema di vedersi soppiantati da altri nel lavoro.

 

 

Altri afferma che i confidenti non percepiscono se non un guadagno, lauto bensì, ma meritato dalle loro fatiche manuali e dalla loro opera di intermediazione. Se si vogliono condannare i confidenti, quasi tutti uomini colossali, dalla muscolatura erculea, che sollevano pesi enormi come una piuma, bisognerebbe condannare tutti quelli che comprano e vendono e che dal facilitare gli scambi traggono un qualche guadagno.

 

 

È naturale che i confidenti, per diminuire il costo del facchinaggio, facciano venire dalle montagne liguri contadini, i quali lavorano a più buon mercato degli altri facchini aventi pretese troppo alte. I confidenti non sono in tutto ciò se non strumenti per mezzo di cui si esplica la legge della offerta e della domanda.

 

 

Qualunque giudizio si voglia arrecare intorno a codesti confidenti, è certamente spiegabilissimo che gli operai del porto da lungo tempo desiderassero di creare un proprio organo per la difesa dei loro interessi.

 

 

Non già che le giornate di lavoro siano mal pagate. Sei o sette lire al giorno sono una paga comune. Il guaio è che la paga è saltuaria, oscillante, soggetta ad intermittenze ed incertezze, le quali molto contribuiscono a deprimere le sorti dei lavoratori e ad abituarli a costumi di oziosità e di spreco deplorevoli.

 

 

Come ho già spiegato, le condizioni in cui si svolge il lavoro al porto, colle grandi affluenze e colle momentanee deficienze di merci da caricare e scaricare, fa sì che non tutti gli operai siano sicuri di trovare lavoro sempre. Lasciando da parte la ristretta aristocrazia dei caravana del portofranco, gli operai lavoranti nel porto di Genova hanno diversissime probabilità di occupazione. Vengono prima i confidenti o capi squadra, i quali sono sicuri sempre di avere lavoro; poi un nucleo di operai scelti che lavorano pure di continuo, ed infine una popolazione operaia più o meno ondeggiante, la quale viene assorbita o respinta dal mercato del lavoro a seconda delle necessità del momento.

 

 

Questi ultimi naturalmente anelano ad avere un lavoro, se non continuo, almeno avente una certa regolarità negli intervalli di riposo e di occupazione.

 

 

Per soddisfare a questi bisogni della classe operaia, sorsero le leghe di miglioramento affigliate alla camera del lavoro.

 

 

Le leghe costituite nel porto ed affigliate alla camera del lavoro sono otto: 1) lega tra i facchini del carbone con 600 soci; 2) tra gli scaricatori di carbone con 700 soci; 3) tra i coffinanti, ossia caricatori di carbone, con 500 soci; 4) tra i facchini in grano, con 400 soci; 5) tra i lavoranti in cereali, con 300 soci; 6) tra i giornalieri, caricatori e scaricatori di bordo con 1.400 soci; 7) tra i giornalieri chiattaiuoli, con 200 soci; 8) tra i pesatori di carbone, con 100 soci.

 

 

In tutto 4.000 soci su 6.000 operai, i quali unendosi in lega e pagando una tassa di iscrizione da L. 2,50 a L. 15 ed una tassa mensile da L. 1 a 2,50, a seconda delle varie leghe, si proponevano di costituire una associazione intesa a regolare le condizioni del lavoro nel porto.

 

 

Le leghe si proponevano: 1) di ottenere la fissazione di una tariffa obbligatoria per i lavori, dimodoché ai negozianti non fosse lecito di pagare meno di un dato salario agli operai; lasciando, s’intende, libertà ai negozianti di scegliere gli operai a cui si volesse pagare il minimo fissato nella tariffa; 2) di organizzare gli operai in squadre e distribuire il lavoro fra le squadre e gli operai componenti di esse; 3) di disciplinare la massa lavoratrice inducendola tutta ad iscriversi nelle leghe e ad osservare, sotto pena di multa, i regolamenti sociali; 4) di far riconoscere la necessità dell’intervento della camera del lavoro (a cui tutti i soci delle leghe devono essere iscritti mediante il pagamento di una tassa di iscrizione di centesimi 25 e di un contributo mensile di centesimi 5) nei gravi conflitti tra capitale e lavoro.

 

 

Per dare un’idea del modo con cui l’azione della lega si estrinsecava in pratica per il raggiungimento di tali scopi, trascrivo qui sotto la Nuova tariffa per i giornalieri stivatori e chiattajoli del porto di Genova, la quale andò in vigore il 5 novembre 1900.

 

 

I sottoscritti in rappresentanza dei signori capi squadra ed impresarii dello scarico e del carico delle merci del nostro porto; della «lega di miglioramento» fra gli scaricatori di mercanzie pure del porto di Genova e della locale camera del lavoro, intervenuta quale intermediaria nella vertenza nelle persone dei signori Pietro Chiesa, deputato al parlamento nazionale e Alessandro Buratti, primo segretario di detta istituzione per delegazione avuta dagli interessati, dopo di avere esaminate, discusse e vagliate le proposte e controproposte passate oralmente e verbalmente fra le parti contraenti, circa le condizioni di lavoro e di tariffa per le funzioni di scarico suddette, si sono concordati come segue:

 

 

  • Tutti i soci della lega, senza esclusione di sorta, saranno chiamati come per il passato a compiere il lavoro di scarico e di carico delle merci.

 

  • La durata della giornata sarà quella in vigore per la camera di commercio.

 

  • La giornata intera sarà corrisposta con L. it. 6 (sei), la mezza giornata con L. it. 4 (quattro).

 

  • Le ore notturne e quelle strordinarie saranno pagate in ragione di L. it. 1 all’ora. Il lavoro notturno da diritto a mezz’ora di riposo anch’essa retribuita.

 

  • Nei giorni festivi il lavoro terminerà alle ore 16.

 

  • Quegli operai che hanno compiuto un’intera notte di lavoro devono essere sostituiti con del personale fresco.

 

  • I punti da richiesta, le condizioni anormali di lavoro, e qualsiasi controversia, che dovesse eventualmente insorgere, saranno determinati e risolti da una speciale commissione di cui al comma susseguente.

 

  • Detta commissione sarà composta da sei membri e cioè: tre in rappresentanza pei signori impresari capi squadra, e tre per la lega miglioramento, la quale funzionerà per il buon andamento degli interessi comuni, e dell’armonia del presente contratto, curando altresì che le squadre attualmente esistenti non vengano aumentate o rinforzate a detrimento degli operai inscritti nella Lega, chiamandoli a preferenza degli altri.

 

 

Tutto quanto è sopra esposto è rilasciato in doppio originale. Uno dei signori impresari capi squadra, l’altro per la lega, ed andrà in vigore col giorno 5 novembre 1900.

 

In fede:

 

Per gl’impresari capi squadra e stivadori: Alessandro Podestà – Drago Andrea – Gaetano Vicini – Giuseppe Risso – Bianchi Emanuele – Spallarossa Virgilio.

 

Per la lega miglioramento: Toracca Luigi.

 

Per la camera del lavoro: Onorevole Pietro Chiesa – Alessandro Buratti.

Genova, 2 novembre 1900.

 

Ufficio di P.S. del Porto di Genova. Visto si dà atto che copia conforme della presente scrittura venne depositata nell’Archivio di questo ufficio al num. 3.449, cat. XIV.

 

Genova, 3 novembre 1900.

 

L’ispettore: Comm. MALNATE.

 

 

Il visto dell’ispettore di P.S. del porto è un indizio dello spirito di legalità da cui sono animati gli operai, desiderosi di vedere controfirmati i patti liberamente convenuti con gli imprenditori da una autorità di governo, quasi che il visto ne garantisse la osservanza.

 

 

Ora il prefetto di Genova, sciogliendo la camera del lavoro, coll’intenzione di sciogliere in seguito le leghe di miglioramento, ha voluto impedire che le leghe raggiungessero fini vietati dalle leggi?

 

 

Un breve esame degli scopi delle leghe e delle stipulazioni contenute nelle tariffe concordate dalle leghe cogli imprenditori basta a dimostrare come in esse non vi sia nessuna violazione della libertà del lavoro. Questa infatti comprende anche la libertà di associazione fra operai per vendere la loro merce al più alto prezzo possibile, come pure la libertà degli imprenditori di concertarsi per raggiungere lo scopo opposto.

 

 

È vero che negli statuti delle leghe vi sono disposizioni le quali: 1) impongono agli operai, che ne vogliono diventar soci, una specie di esame per riconoscerne la capacità ed idoneità; 2) vorrebbero obbligare gli imprenditori ad escludere dal lavoro gli operai non iscritti e non accettati nelle leghe; e 3) infliggono multe agli operai associati i quali accettino patti di lavoro non conformi alle prescrizioni delle singole leghe.

 

 

Queste condizioni restringono, è vero, la capacità degli operai singoli a vendere la propria forza di lavoro nei modi e secondo le condizioni individualmente consentite; ma è una restrizione alla quale gli operai hanno liberamente consentito, od almeno hanno consentito sotto la pressione di una costrizione puramente morale, del sentimento della solidarietà operaia e della riprovazione – magari estesa sino al boicottaggio – da parte degli altri operai.

 

 

A noi non pare perciò che tali disposizioni contengano per se stesse nulla che offenda la legge e che giustifichi l’intervento repressivo del potere politico. Si può discutere se codeste restrizioni siano dannose o giovevoli, dal punto di vista economico, allo sviluppo del traffico nel porto di Genova; ma il governo non ha la minima competenza ad intervenire per giudicare se gli operai facciano bene o male a sé ed alla società, quando stringono un accordo fra di loro e deliberano di volerlo osservare.

 

 

Se tutti gli operai lavoranti in una data azienda si mettono d’accordo a non accettare meno di un dato salario; o, se anche essendovi operai liberi estranei alle leghe, gli imprenditori consentono a impiegare soltanto gli operai associati, non si commette alcuna violazione di legge. Gli operai sono padronissimi di non voler lavorare se non a certe condizioni; gli imprenditori sono liberi di sceglier i loro lavoranti dove vogliono.

 

 

Queste mi paiono verità evidenti per se stesse e conformi ai principi della nostra legge positiva ed ai postulati della scienza economica.

 

 

La violazione della legge ed in ispecie degli articoli 154 e 165 del codice penale si ha solo quando, con minacce o intimidazioni, con risse od altre vie di fatto materiali o morali, si attenti alla libertà del lavoro, impedendo agli operai “liberi” di lavorare, od agli imprenditori di scegliere i lavoranti dove meglio loro aggrada.

 

 

Se si fossero potuti accertare fatti di questo genere, senza alcun dubbio l’autorità politica avrebbe avuto ragione e dovere di intervenire a reprimerli e di sciogliere le associazioni colpevoli di incitamento a commettere reati, denunciandole ai tribunali.

 

 

Invece nessun fatto di tal genere fu mai constatato; ed anzi le autorità di polizia e politiche di Genova sapevano, prima dello scioglimento della camera del lavoro, che questi mezzi violenti e delittuosi di offesa alla libertà del lavoro non furono mai finora messi in azione dalle leghe.

 

 

Anche durante lo sciopero attuale le autorità di polizia poterono constatare che gli scioperanti non avevano posto alcun ostacolo alla libertà del lavoro. Quegli operai che nel primo giorno vollero lavorare, poterono liberamente caricare e scaricare navi, senza timore di minacce e di intimidazioni.

 

 

L’unica legge in base alla quale si potesse pronunciare lo scioglimento di associazioni le quali si propongano con accordi, sia pure volontari e liberi, di monopolizzare il mercato del lavoro, era la legge del 29 maggio 1864, abolitiva delle corporazioni di arti e mestieri.

 

 

Ma, a parte che si tratta di una legge antica, disadatta alle moderne necessità economiche, e che da lunghi anni si permette ad associazioni vietate in teoria da quella legge di sussistere e di fiorire liberamente, sta il fatto che il prefetto non ha nemmeno creduto opportuno di citarla nel suo decreto.

 

 

Ha citato invece degli articoli del codice penale, in base ai quali egli sapeva che non si sarebbe potuto ottenere nessuna condanna dai tribunali, perché gli operai organizzati erano mondi dei reati che in quegli articoli vengono citati.

 

 

Lo scioglimento dunque non si può giustificare con motivi di ordine giuridico. Le giustificazioni, se pur se ne possono trovare, si devono trovare soltanto in motivi di ordine pubblico o nel desiderio di sostituire alla camera disciolta un organismo migliore di tutela e di pacificazione sociale.

 

 

Quanto ai motivi di ordine pubblico, è lecito chiedersi: perché, se quei motivi apparvero esistenti ieri, per la camera disciolta, si credono scomparsi oggi con la camera nuova, composta quasi dei medesimi elementi? O forse si crede che il governo sia ora più capace di tutelare l’ordine contro una istituzione sovversiva ricostituita, di quanto non fosse prima di rimangiarsi ad una ad una tutte le disposizioni prese contro i sovversivi disciolti?

 

 

Il fatto che le leghe siano state costituite da socialisti e da sovversivi proverebbe tutto al più che questi erano stati più attivi e più abili degli altri partiti, ed avevano saputo prima e soli trarre profitto dalla condizione dei lavoratori del porto di Genova. Ora, siccome non è lecito fare il processo alle intenzioni, lo scioglimento sarebbe stato legittimo solo quando, dietro l’impulso del partito socialista, l’opera della camera del lavoro e delle leghe di miglioramento si fosse estrinsecata in modo contrario alle leggi.

 

 

Il che abbiamo visto non essere accaduto.

 

 

Quanto all’intenzione delle autorità politiche di sostituire alla organizzazione abolita una migliore magistratura del porto, costituita, come mi spiegò il commendatore Garroni, sulla base dei tribunali dei probi – viri, molte sono le questioni che si possono presentare.

 

 

Dal punto di vista giuridico, il desiderio di fare qualcosa di meglio di quanto non abbiano fatto altri, non è sufficiente motivo per distruggere quello che gli altri fecero; anche se il desideroso del meglio sia il governo e gli altri siano persone ritenute sovversive.

 

 

Dal punto di vista della opportunità pratica e politica, a me pare evidente come non collo sciogliere la camera, fondata dagli operai, si poteva sperare di indurre questi ad accostarsi ad un nuovo organismo creato da chi aveva distrutto quello che essi si erano da sé costituito. Occorreva fondare prima i tribunali dei probi – viri; far toccare con mano i vantaggi che operai e imprenditori potevano trarne. A poco a poco gli operai genovesi, che sono gente pratica su cui le teorie fanno poca presa, si sarebbero abituati a guardare con fiducia ai nuovi tribunali ed avrebbero lasciato in asso le associazioni socialiste, quando si fossero accorti della inutilità di farne parte.

 

 

Se si credeva davvero di essere capaci di far meglio dei socialisti, organizzatori della camera del lavoro, non vi era alcun altro mezzo di dimostrare questa maggior capacità se non mettendosi a fare concorrenza ai socialisti con un nuovo istituto. La vittoria – consistente nell’aver saputo attirare a sé la clientela operaia – sarebbe stato l’unico mezzo di dimostrare la propria attitudine a fare il bene dei lavoratori.

 

 

Invece, sciogliendo la camera esistente prima che qualcosa si fosse creato per sostituirla, si è quasi fatto credere che il governo volesse impedire ogni organizzazione dei lavoratori per fare il vantaggio dei capitalisti. E ciò non poteva non fornire un’ottima arma in mano ai capi socialisti per indurre gli operai ad opporsi fieramente al decreto prefettizio; tanto più che l’esperienza del passato dimostrava la scarsissima attitudine o buona voglia delle classi dirigenti e governanti di Genova ad occuparsi con efficacia dei bisogni della classe operaia.

 

 

Né il comune, né la camera di commercio e neppure gli altri enti politici o commerciali si accorsero mai che qualche cosa bisognava pur fare per organizzare tutta questa massa caotica di operai e per impedire che un bel giorno il malcontento desse origine a dissidii ed a sospensioni del lavoro, perniciose per la vita di un porto come quello di Genova, di importanza non solo nazionale, ma internazionale.

 

 

Il solo che si sia occupato – fra le classi dirigenti – a dirimere le questioni del lavoro ed a mantenere la pace in mezzo agli operai del porto, è un funzionario di pubblica sicurezza, Nicola Malnate, a cui la lunga carriera non ha tolto il desiderio di vivere ogni giorno da vent’anni la vita tumultuosa del porto, sempre intento a far da paciere fra capitale e lavoro.

 

 

In questa sua opera il Malnate nessun aiuto ottenne mai. Non dal governo, occupato in altre cose; non dalla camera di commercio, i cui membri, in troppe faccende affaccendati, si occupano delle questioni del lavoro e del porto solo per accusarsi a vicenda di ottener favori nei trasporti a scapito dei rivali; non dai commercianti e dagli industriali, i cui rapporti con gli operai non sono spesso improntati a molta cordialità ed umanità.

 

 

Non è spento ancora il ricordo di quel vecchio operaio che, dopo trent’anni di servizio ininterrotto in uno dei più grandi cantieri genovesi, fu buttato sul lastrico con 15 lire di buona uscita il salario di una settimana di lavoro; sì che il vecchio, ridotto alla disperazione, finì per annegarsi nelle acque del porto.

 

 

Che meraviglia, se di fronte a questa assoluta assenza e noncuranza delle classi dirigenti, i lavoratori del porto di Genova abbiano prestato ascolto alle predicazioni degli apostoli del socialismo?

 

 

Che meraviglia se i socialisti, organizzando delle leghe di miglioramento, abbiano attirato a sé gli operai, disertati da tutti, e si siano impadroniti per modo dell’animo loro da farli agire come un sol uomo nel senso che i capi del movimento desideravano?

 

 

Tanto maggiore fu quindi l’errore politico – anche fatta astrazione dalla ragione giuridica – del prefetto, il quale – sia pure coll’intenzione di fare il bene – scelse il mezzo peggiore che potesse condurre al fine desiderato: scioglimento di quella camera del lavoro che, sola, si era occupata, senza violare la legge, degli operai, e progetto di costituzione di un tribunale misto sotto l’egida di quel governo e con la partecipazione di quelle classi commerciali verso cui i lavoratori a giusta ragione erano diffidenti, perché nulla aveano mai fatto per essi.

 

 

Che dire di un’autorità politica, che colle migliori intenzioni, ma a cuor leggero, compie un atto illegale senza sapere che questo avrebbe eccitato gli animi degli operai, già infiammati dalla predicazione socialista, e lo compie per giunta in un momento nel quale, per i traffici intensi, si poteva prevedere che i medesimi ceti commerciali di Genova avrebbero implorato dal governo ogni sorta di concessioni pur di poter riprendere il lavoro?

 

 

E che dire di un governo che dà il suo consenso preventivo a questo atto prefettizio di scioglimento per sconfessare poi l’opera del prefetto?

 

 

La conclusione di queste mie indagini non è lieta. Uno sciopero come quello del porto di Genova è l’indizio di una condizione sociale, in cui nessuno ha una coscienza precisa dei propri doveri e dei propri diritti. Da un lato la piazza che si impone al governo e distrugge il principio di autorità. Dall’altro il governo che si immagina di sciogliere le questioni del lavoro a colpi di decreto. E fra i due una grande istituzione nazionale – che tale è il porto di Genova – la quale corre il pericolo di vedersi sopraffatta dalla concorrenza straniera.

 

 

Qui è il pericolo maggiore.

 

 

L’esperienza odierna ha dimostrato che il porto di Genova funziona per caso.

 

 

Quando ho visto un silenzio di morte regnare sulle calate, dove il giorno prima fervevano i lavori tumultuosi, una domanda mi si è presentata spontanea: davvero non vi è alcun mezzo di impedire conflitti così terribili, che possono mettere in forse la continuità della vita industriale e commerciale di mezza Italia, e farci perdere i vantaggi ottenuti faticosamente con una lotta diuturna nella concorrenza cogli altri porti?

 

 

Dato il modo come è ora organizzato il porto di Genova, queste crisi sono inevitabili. Il porto è un caos, dove si incrociano e si confondono le autorità di polizia e di dogana, il governo politico, la camera di commercio, il comune, le ferrovie, i negozianti, gli armatori, gli operai colle loro leghe, i confidenti, ecc., ecc.

 

 

È un miracolo che gli attriti non siano più frequenti in questo intrecciarsi e sovrapporsi di competenze, di autorità e di interessi in lotta. Questa non è libera concorrenza, ma è confusione di burocrazie e di enti che si vogliono sopraffare a vicenda.

 

 

Se il porto fosse un ente autonomo, libero ed agile nei suoi movimenti, tutti gli interessati saprebbero bene trovare il modo di farsi ascoltare e di mettersi d’accordo.

 

 

Se, per esempio, nella futura magistratura del porto di Genova vi fossero alcuni rappresentanti delle leghe operaie, si potrebbe star sicuri che le questioni relative ai salari ed alle ore di lavoro sarebbero con maggior facilità risolute.

 

 

In Inghilterra, quando, nel 1875, le leghe operaie erano maggiormente accusate di sopraffazioni e di atrocissimi delitti contro la libertà del lavoro, al governo non venne neanco in mente che il miglior rimedio fosse di scioglierle. Si fece invece una legge con la quale si concedeva alle leghe la massima libertà di azione, obbligandole soltanto a non lavorare nel mistero, ma alla luce del sole. Adesso ogni tinta rivoluzionaria è scomparsa nelle unioni britanniche, divenute fin troppo borghesi per i socialisti del continente.

 

 

Se anche da noi fosse riconosciuta la necessità delle associazioni operaie, e se ad esse fosse riconosciuta la parte che loro spetta nel determinare le condizioni del lavoro, i benefizi ben presto sarebbero evidenti.

 

 

In Italia vi sono ancora strani pregiudizi contro le unioni operaie. Gli industriali si rifiutano a trattare coi delegati delle unioni, col pretesto di voler essere padroni in casa loro, e non capiscono che data l’organizzazione in grande dell’industria moderna, non è più possibile discutere le questioni del lavoro individualmente, caso per caso, con ogni operaio. In realtà non c’è nessun imprenditore che adotti questo sistema patriarcale; tutti si rimettono ai capi squadra, ad intermediari, od a regolamenti generali emanati di propria autorità.

 

 

Colle unioni operaie si fa un passo più innanzi. Le condizioni del lavoro non vengono più fissate individualmente od imposte dagli imprenditori o dai loro rappresentanti. Esse vengono discusse dai delegati delle due parti contraenti. Questa discussione è utile agli imprenditori perché diminuisce il malcontento e le ragioni di sciopero, e scema i fastidi delle trattative individuali; ed è utile agli operai perché, mentre ognuno di essi sarebbe stato meno abile individualmente a stiracchiare a proprio favore i termini del contratto, i delegati delle masse operaie hanno maggior forza e godono maggior libertà di parola e di discussione. La circostanza che spesso i delegati degli operai o non lavorano nel mestiere medesimo o lavorano in una fabbrica diversa da quella nella quale avviene la contesa, è un effetto della necessità in cui si trovano gli operai di scegliere un rappresentante che non abbia nulla a temere personalmente in conseguenza della franchezza con cui espone le ragioni dei suoi mandanti.

 

 

Quanto al pericolo che, per mezzo delle unioni, gli operai manifestino pretese eccessive e dannose all’avvenire dell’industria, è un pericolo che non si evita colle repressioni violente e si può diminuire soltanto colla virtù dell’educazione.

 

 

Le repressioni incitano a reagire ed a far domande esagerate che son credute opportune appunto perché non si dà il mezzo di valutarne la giustizia. Le discussioni tra operai ed imprenditori educano i primi a rendersi un conto esatto delle vere condizioni dell’industria ed a fare quelle sole domande che son giustificate dalle condizioni del traffico, dai profitti correnti, ecc., ecc.

 

 

Accade spesso nei paesi più progrediti che i segretari delle unioni operaie prendano le parti degli imprenditori e persuadano gli operai a recedere da pretese che essi hanno potuto riconoscere inopportune durante le discussioni.

 

 

È probabile che in Italia accadrebbe lo stesso fenomeno.

 

 

Gli operai del porto di Genova non sono né poco intelligenti, né rozzi, come si vorrebbe far credere. «Qui nel porto – è un ispettore di pubblica sicurezza il quale così scrive – (N. Malnate, Della tutela dovuta agli operai, in «Rassegna nazionale» del 16 marzo 1900), un barcaiuolo è così sottile matematico, che dottamente intrattiene l’accademia dei lincei; un carbonaio, Giambattista Vigo, era così gentil poeta da meritarsi dalla civica amministrazione di Genova, alla morte, il tumulo che già era stato accordato a Felice Romani; un facchino, Niccolo Conti, detto Legna, è così profondo in dialettica ed eloquenza da oscurar la fama di celebri avvocati; e un console di caravana, Gian Giacomo Casareto, detto Gerion, legato in amicizia con illustri statisti del risorgimento italiano per meriti patriottici, professa filosofia, dirigendo il facchinaggio di dogana, al pari di un antico sapiente dell’areopago di Grecia».

Lo sciopero del porto di Genova

Lo sciopero del porto di Genova

«La Stampa», 21[1], 22[2], 23[3], 24[4] dicembre 1900 e 25[5] gennaio 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 290-309

 

 

I

 

Lo sciopero dei lavoratori del porto di Genova, scoppiato improvvisamente ieri in seguito allo scioglimento della camera del lavoro, ha destato una impressione profonda, la quale non si restringe a Genova, ma si ripercuote in tutta l’alta Italia. Noi non sappiamo con precisione quali siano i motivi che hanno indotto il prefetto Garroni a sciogliere la camera del lavoro. Il decreto afferma che la camera faceva opera contraria all’ordine pubblico, istigando anche pubblicamente a delitti contro la libertà del lavoro, all’odio fra le diverse classi sociali ed alla disobbedienza della legge.

 

 

I giornali di Genova non ci danno informazioni siffatte da poterci formare un giudizio sulla giustizia e sulla opportunità del provvedimento prefettizio. Sicché a noi non resta se non aspettare il momento in cui un giudizio sereno ed imparziale possa pronunciarsi; pronti, se tale sarà il nostro dovere, a biasimare il prefetto quando lo scioglimento apparisse ingiustificato, od a lodarlo se la tutela dell’ordine imperiosamente avesse

richiesto la deliberata chiusura.

 

 

Ad ogni modo, qualunque sentenza si voglia dare sul decreto del prefetto, nessuno che serenamente osservi le cose potrà persuadersi che fosse necessario, per un siffatto motivo, pronunciare la generale sospensione del lavoro nel porto di Genova.

 

 

Alcuni mesi or sono uno sciopero consimile scoppiava a Marsiglia; e per lunghi giorni le colonne dei giornali recarono informazioni delle sue conseguenze dannose per la vita economica ed industriale della Francia. Marsiglia non è il solo porto francese; eppure l’opinione pubblica si commosse fortemente; tristi presagi si fecero per l’avvenire del commercio marittimo; e si guardò con sospetto ed ansia all’incremento del traffico nei porti stranieri, e sovratutto nel porto di Genova, a danno di Marsiglia.

 

 

Tutti rammentano l’indignazione con cui dai nostri vicini si accolse la parola del deputato Morgari, andato ad eccitare alla lotta i lavoratori italiani. Egli apparve – e certo non lo era – come un messo dei commercianti liguri vogliosi di attirare a sé il traffico marsigliese; e come perturbatore dell’ordine pubblico il deputato socialista di Torino fu espulso da un ministero in cui pure moderatore delle questioni del lavoro

era il socialista Millerand.

 

 

A scagionarsi dalla stolida accusa di essere venduto ai capitalisti genovesi, l’on. Morgari scrisse una lettera al Petit Provençal, nella quale si dichiarava dolente di non avere potuto far scoppiare lo sciopero anche fra i lavoratori del porto di Genova, a causa della assoluta proibizione delle società operaie di resistenza. Egli sapeva – affermando questo – di dire cosa non corrispondente a verità, poiché a Genova esisteva una camera del lavoro forte di 33 leghe e 44 associazioni. Ma il mal vezzo di parlar male all’estero del governo patrio è troppo radicato perché si perda un’occasione sola di dedicarsi a tal genere di esercitazioni retoriche.

 

 

Oggi il voto dell’on. Morgari si è compiuto: 8000 operai, eccitati, come da una scintilla elettrica, dal bisogno di protestare contro il decreto prefettizio, non hanno pensato che lo sciopero non era l’unico mezzo di far udire le loro ragioni; che il rimedio era peggiore del male; e che ad altre armi sarebbe stato doveroso ricorrere in questa lotta prima che ad una la quale è atta a ferire non solo chi la impugna, ma insieme la società

intera.

 

 

Noi non abbiamo bisogno di dire il danno del prolungarsi dello sciopero attuale. Il porto di Genova è l’anima della vita italiana; è un meccanismo perfezionato e delicatissimo, il cui movimento dà vita e ricchezza a regioni ed a moltitudini, ed il cui arresto significa miseria diffusa nelle città popolose e fino nelle più remote campagne dove batte un telaio o dove è giunta la eco del commercio moderno.

 

 

Tutta questa vita è possibile e tutta questa ricchezza si svolge sol perché il porto di Genova è un superbo meccanismo atto a sfidare la concorrenza dei porti esteri, sol perché le organizzazioni del lavoro, del carico e dello scarico, le tariffe di trasporto da Genova ai porti d’oltremare ed alle città dell’Italia e dell’Europa sono combinate per modo da concedere ai trafficanti qualche lieve guadagno di pochi centesimi. Ma sospendasi il lavoro per un po’ di tempo, e le navi estere, od almeno quelle navi che possono spostarsi, andranno a caricare ed a scaricare nei porti esteri; e questi a gara si decideranno a concedere quelle facilitazioni che valgono a trattenerle per ora e ad attirarle in futuro. Nella gara internazionale dei traffici un momento perduto può essere la causa di grave danno. Mentre i porti concorrenti per l’accresciuto momentaneo traffico riescono a diminuir le tariffe ed a rendere l’incremento, da temporaneo, permanente; il porto di Genova si trova costretto ad aumentare le tariffe perché le spese generali più non si possono diffondere sul numero antico di atti di scarico e di carico; e l’aumento è un nuovo stimolo alle navi a recarsi altrove.

 

 

Grave è perciò la responsabilità di coloro i quali nel delicatissimo meccanismo di scambio fra l’Italia ed il resto del mondo introducono ostacoli materiali o morali, i quali siano cagione che il meccanismo non funzioni. Ciò che importa sovratutto è la vittoria; e per vincere occorre che tutti siano, come i soldati di un esercito, insieme solidali ed inspirati da un unico intento: tutti, dallo stato che è proprietario del porto, agli imprenditori che del porto si giovano per compiere lor traffici, agli operai che ne traggono alimento.

 

 

Il governo deve mantenersi al disopra dei partiti, non cedere né ai desideri degli imprenditori né ai clamori degli operai i quali chiedano interventi illegali a favore di una parte. Imprenditori ed operai devono essere animati da quello spirito di tolleranza e di equanimità che appiana gli attriti e risolve le questioni.

 

 

II

 

Genova, 21

 

 

In Genova l’oggetto generale dei discorsi è lo sciopero, il quale va diventando sempre più generale. Oramai sono più di dodicimila gli scioperanti nella sola Genova, tra lavoratori del porto ed operai delle officine; ed a questi si aggiungono altri cinque o seimila scioperanti a San Pier d’Arena ed a Sestri.

 

 

Siccome la causa dello sciopero è lo scioglimento della camera del lavoro, avvenuto per decreto prefettizio, così ho creduto dovere recarmi innanzitutto dal prefetto per conoscere i motivi che lo avevano indotto a tale provvedimento. Ecco, secondo quanto mi disse, con molta cortesia, stamane il comm. Garroni, quali ragioni hanno spinta l’autorità politica a sciogliere la camera del lavoro.

 

 

Questa già nel 1896 era stata disciolta dal prefetto d’allora, Silvagni, perché compieva atti contrari alle leggi vigenti, e perturbava l’ordine pubblico. In quest’anno, giovandosi della condiscendenza governativa, parecchi componenti l’antico sodalizio si sono ricostituiti da sé in camera del lavoro. Da sé, poiché non consta che vi sia stata una delegazione formale da parte degli operai. Anzi quasi tutti i membri del comitato esecutivo sono estranei al vero elemento operaio genovese. Tutti sono socialisti.

 

 

La nuova camera aveva tutti i caratteri dell’antica già disciolta, per cui dovere del prefetto attuale era di mantenere fermo il decreto del suo predecessore Silvagni.

 

 

Si aggiunga che, anziché avere scopi di intervento e di tutela delle ragioni dei lavoratori, quando se ne presentasse la necessità, la camera del lavoro ha costituito nel suo seno delle leghe di miglioramento per ognuna delle varie professioni, eccitando desiderii eccessivi nei membri delle leghe. Quando poi gli operai, presentarono domande di revisione di tariffe od aumento di salari, la camera del lavoro ha avuto l’aria di intervenire come paciera fra capitale e lavoro a dirimere un conflitto che essa aveva suscitato. Le leghe di miglioramento a poco a poco si mutarono così in leghe di resistenza e di prepotenza. Chi non era socio difficilmente poteva trovar lavoro, a causa delle intimidazioni della lega.

 

 

La camera del lavoro veniva in tal modo a compiere un’azione contraria alle leggi dello stato, annullando l’opera della camera di commercio e dei collegi dei probi viri, e facendo affiggere pubblici avvisi con cui invitava gli operai a far capo, non più alle autorità, ma esclusivamente ad essa. Le riunioni aventi carattere pubblico e discorsi violenti erano frequenti e costituivano un continuo eccitamento all’odio fra le classi sociali, e sovratutto fra capitale e lavoro. Ogni giorno una questione nuova veniva sollevata per dar agio ai dirigenti della camera di intervenire.

 

 

Perciò la camera del lavoro fu disciolta, lasciando sussistere però le leghe di miglioramento. Non perciò gli operai rimangono privi del mezzo di far valere le loro ragioni di fronte agli imprenditori.

 

 

Il comm. Garroni mi espose un suo disegno, che egli ha eziandio manifestato ieri all’onorevole Pietro Chiesa, il quale era andato da lui per sentire le ragioni dello scioglimento.

 

 

Esiste una legge dei probi viri, destinata a dirimere i conflitti tra capitale e lavoro. È vero che ora la legge non si applica ai lavoratori dei porti. Ma è sempre possibile, sia con una interpretazione autentica, sia per accordo delle parti, costituire collegi dei probi viri in cui siano rappresentate le due classi degli imprenditori e degli operai.

 

 

Nulla vieta inoltre che i probi viri eletti dalla classe operaia si possano costituire separatamente in camera del lavoro o segretariato del popolo – il nome non importa – per trattare le questioni operaie. La nuova camera del lavoro sarà una vera emanazione della classe operaia, e non sarà composta solo di otto persone scelte da se stesse.

 

 

Contro la rappresentanza legale degli operai, eletta da tutti gli interessati con le necessarie garanzie, nessun decreto di scioglimento interverrà mai, almeno finché il tribunale dei probi viri e la parte operaia si mantengano entro i limiti indicati dalle leggi. Questi gli intendimenti del prefetto, esposti all’on. Chiesa e su cui stamane, alle ore 10, doveva deliberare l’assemblea degli scioperanti.

 

 

Mi recai ai terrazzi di via Milano, dove era assiepata una folla immensa, ed in compagnia di alcuni giornalisti potei assistere alla discussione che nella sala di una società operaia tenevano i delegati delle leghe di miglioramento e numerosi membri della disciolta camera del lavoro.

 

 

Presiedeva l’on. Chiesa, un bel tipo di operaio intelligente e dotato di praticità e buon senso. Due correnti predominavano nell’assemblea; ed importa fermarcisi su, perché possono aiutare a spiegare l’origine e la persistenza dello sciopero.

 

 

Tutti gli operai ed i capi del movimento – fra cui alcuni non operai – sono d’accordo nel ritenere che lo scioglimento della camera del lavoro è stato un arbitrio inqualificabile del prefetto il quale, appena fu sicuro, per la chiusura della camera dei deputati, che non si sarebbero potute fare interpellanze al riguardo, con un colpo di testa sciolse la camera del lavoro, perquisì locali, asportò registri, ecc.

 

 

Nulla giustificava, affermasi, l’atto prefettizio. La camera del lavoro e le leghe di miglioramento si erano sempre adoperate a sedare i conflitti tra capitale e lavoro; e solo ai buoni uffici della commissione esecutiva è dovuto se alcuni scioperi gravissimi non scoppiarono nei mesi scorsi fra gli scaricatori di carbone e di grano, e se si poterono di buon accordo fra imprenditori ed operai ripristinare, alquanto modificate, le tariffe del

1892, che erano cadute parzialmente in disuso.

 

 

Lo scopo vero dello scioglimento si fu di mettere gli operai nella impossibilità di avere un organo proprio di difesa. Quando le leghe saranno disciolte, chi potrà far osservare le tariffe concordate? Alla prima occasione gli imprenditori le violeranno e vorranno pagare alquanto meno dello stabilito; e gli operai non avranno alcun mezzo di reagire. Perciò scioperarono tutti. Non è questa una questione economica; è questione di dignità civile e di solidarietà.

 

 

Quanto alla solidarietà, devo rilevare una circostanza. Gli operai ascritti alle varie leghe del porto sono 4000, eppure gli scioperanti nel solo porto ammontano a 6000; il che vuol dire che si astennero dal lavoro operai non iscritti alle leghe. Ciò avvenne non già per solidarietà, ma perché è interesse dei negozianti o di scaricar tutto o di non scaricar nulla.

 

 

Le navi quando giungono in porto denunciano il numero dei giorni entro cui deve effettuarsi lo scarico. Se lo scarico dura di più, allora la nave va incontro alle stallie, ossia paga un diritto supplementare, detto di controstallia, che per i piroscafi moderni può calcolarsi a duemila lire al giorno. Se per uno sciopero parziale alcune navi lavorano ed altre no, quelle che non lavorano devono pagare le controstallie; ed è quindi interesse dei negozianti di non lavorare affatto, perché quando la inazione è generale si presume sia dovuta a forza maggiore e non si pagano le controstallie, mentre se la inazione è parziale, il regolamento la reputa dovuta all’opera dei negozianti e fa pagare il maggior diritto.

 

 

Perciò tutti scioperarono; gli ascritti alle leghe per protesta politica contro l’atto del prefetto, ed i non ascritti perché così portano le necessità degli ordinamenti portuali. Di fronte alle nuove proposte prefettizie, conviene continuare nello sciopero?

 

 

Una parte, più intransigente, reputava che delle parole del prefetto non si dovesse fare il menomo conto, che esse fossero unicamente una manovra fatta per indurre gli operai a cedere ed a ritornare al lavoro, salvo poi disciogliere anche le leghe ed annientare ogni organizzazione operaia.

 

 

Altri, fra cui l’on. Chiesa, guardavano sovratutto all’aspetto pratico della questione. Il fatto si era che il prefetto, sotto una nuova forma, e con elezioni fatte in modo speciale, a norma della legge dei probi viri, permetteva la ricostituzione della camera del lavoro. «Perché sofisticare sulla forma quando si era ottenuto la sostanza? Non era forse vero che lo scopo degli operai, nel costituire la camera del lavoro, era quello di tutelare i nostri diritti? Non si era forse già dimostrato, scioperando in massa, che i lavoratori del porto di Genova sanno resistere alle illegalità governative? Un’altra volta il prefetto si piglierà ben guardia dal molestarci perché saprà che noi siamo fermamente decisi a resistere».

 

 

«Si aggiunga» notavano i fautori della moderazione «che continuando nello sciopero perderemo quello che ancora ci resta; le leghe saranno disciolte e perderemo il frutto di tanti mesi di lavoro. L’opinione pubblica, che ora ci è favorevole, si rivolterà contro gli operai perché i danni del commercio arenato, danni che ammontano a milioni di lire al giorno, si faranno vivamente sentire non solo in Genova, ma in tutta l’alta Italia. E non c’e mai stato nessun sciopero d’importanza generale il quale abbia avuto un esito propizio quando l’opinione pubblica vi era avversa».

 

 

Le decisioni degli scioperanti vi sono già state telegrafate: una commissione di nove si abboccherà oggi col prefetto, col sindaco e col presidente della camera di commercio; e finché non si sia venuti ad un accordo sulla base della ricostituzione della camera del lavoro, sotto una forma od un’altra, e sulla restituzione dei registri, fu deliberato di continuare lo sciopero.

 

 

III

 

Genova, 22 dicembre

Si dice che gli italiani abbiano il vizio di cominciare tutti i loro libri col descrivere le origini del mondo. Siccome però di questo vizio italiano sono abbastanza immuni i giornalisti, così spero che mi si vorrà perdonare se in questa mia lettera sullo sciopero attuale prendo le mosse da un’epoca un po’ remota.

 

 

I lavoratori del porto di Genova hanno infatti dal medioevo avuto la tendenza a raggrupparsi in corporazioni per la tutela dei loro interessi e per la determinazione dei salari e delle altre condizioni del lavoro. In verità sarebbe difficile fare altrimenti. Dove gli imprenditori sono pochi, e gli operai si contano a migliaia, e tutti sono, suppergiù, egualmente forti ed atti a compiere il rude lavoro di facchinaggio che è loro imposto, è naturale che gli operai si riuniscano in società per non portarsi via il pane l’un l’altro, per regolare l’ammontare del salario e la durata del lavoro.

 

 

Ancora. Siccome il lavoro del porto non è continuo, ma muta di giorno in giorno per intensità ed ampiezza, così è necessario che sul porto esista un’armata di lavoratori capace di far fronte ai lavori dei giorni di massima nello scarico e nel carico; e siccome nei giorni di lavoro medio od inferiore alla media non tutti possono essere occupati, così è d’uopo che gli operai si accordino per alternarsi al lavoro in modo che nessuno corra il rischio di morir di fame, quando il lavoro è scarso. Altrimenti alcuni si dedicherebbero ad altre professioni, e nei giorni di lavoro massimo mancherebbe la mano d’opera.

 

 

La necessità di provvedere a queste speciali contingenze del lavoro del porto di Genova – contingenze esistenti del pari in tutti i grandi porti e che dettero origine, anni or sono, al gigantesco sciopero dei facchini del porto di Londra – era talmente sentita che una compagnia, intitolata con lo strano nome di Compagnia dei caravana, esiste ancor oggi, la quale data dal principio del secolo XIV. Uno statuto dell’11 giugno 1340, nel suo primo articolo, in un linguaggio mezzo tra il genovese e l’italiano, dice: «Questi son li statuti e le ordination facte per tuti li lavoraor de banchi e de lo ponte de lo peago e de lo ponte della calcina e in tuti li altri logi facta e ordenà per lo prior, ecc. ecc.». Il priore incassava tutti i guadagni dei soci della compagnia; provvedeva alla cura dei malati e feriti. Per un curioso privilegio i soci dovevano essere bergamaschi e perciò i mariti mandavano le mogli a partorire a Bergamo, perché i figli potessero far parte della compagnia dei caravana. La quale aveva il privilegio esclusivo del carico e dello scarico nel porto di Genova, onde nascevano continue controversie coi facchini liberi ed abusivi da parte dei soci, che alla fine del secolo scorso erano giunti persino a vendere i loro posti.

 

 

Protetti dalle autorità genovesi, perché la compagnia accoglieva solo uomini di specchiata condotta morale e garantiva ogni danno che per avventura potesse essere arrecato dai soci; risparmiati dalle leggi abolitive di Napoleone e di Cavour, e dal legislatore italiano del 1864 che aboliva tutte le corporazioni operaie, i caravana, non più bergamaschi, ma italiani in genere, si mantennero fino ad ora, e vivono di vita fiorente.

 

 

Essi non sono più gli unici ed esclusivi facchini del porto di Genova, perché il loro privilegio è limitato allo scarico, al peso ed al trasporto delle merci provenienti dall’estero nel recinto del porto franco e della dogana, ossia nei luoghi dove si compiono operazioni daziarie su cui ha autorità ed ingerenza lo stato.

 

 

Sono circa 220 con a capo un console nominato dall’intendente di finanza e parecchi capi squadra. Versano tutti i guadagni in un fondo comune, il quale basta a pagare le spese d’amministrazione, a distribuire una pensione ai caravana resi inabili al servizio per vecchiaia o per ferite, ed a dare ancora un salario medio mensile non inferiore a 120 lire.

 

 

Tutti gli altri facchini e lavoratori liberi del porto – più di 6000 – guardano a questi 220 caravana del porto franco con invidia. Soggetti, come sono, a tutte le alee del commercio marittimo, sempre col rischio di rimanere disoccupati, i facchini liberi hanno sempre istintivamente sognato di costituire una corporazione che distribuisse fra tutti equamente il lavoro, desse un’indennità in caso di infortunio, li tutelasse contro gli sfruttamenti, provvedesse alle vedove ed agli orfani. Il divieto posto dalla legge del 29 maggio 1864 alla costituzione legale delle corporazioni d’arti e mestieri non ha fatto altro che acuire il desiderio di fondarle sovra una base libera, ma estesa a tutti i lavoratori.

 

 

Le società di mutuo soccorso, numerosissime, sono una manifestazione della tendenza. Così pure i bagon, curiose società, in cui gli operai si dividevano in turni, ed ogni turno attendeva al lavoro quando la sorte lo designava.

 

 

Tanto più il desiderio di avere nelle associazioni uno schermo contro le avversità della vita cresceva, in quanto la concorrenza fra gli operai veniva fomentata dai cosidetti confidenti o capi-squadra, i quali fungono da intermediarii fra la mano d’opera e i commercianti, che, avendo bisogno di caricare o scaricare una nave non vogliono trattare con 100 o 200 operai individualmente, ma con un solo che negozi a nome di tutti gli altri. Dei confidenti io ho sentito raccontare cose molto diverse. Gli uni affermano che i confidenti percepiscono un guadagno, lauto bensì, ma ben meritato dalle loro fatiche manuali e dalla loro opera di intermediazione.

 

 

Se si vogliono condannare i confidenti, quasi tutti uomini colossali, dalla muscolatura erculea, che sollevano pesi enormi come una piuma, bisognerebbe condannare tutti quelli che comprano e vendono e che dal facilitare gli scambi traggono un qualche guadagno. Altri invece afferma che i confidenti sono esosi sfruttatori della mano d’opera. Ricevono cinque dai commercianti e pagano la metà o poco più agli operai. La giornata media di parecchi confidenti non sarebbe inferiore ad 80 o 100 lire al giorno. Vi sono alcuni fra essi, antichi camalli, i quali si sono arricchiti a milioni e posseggono castelli sulla riviera ligure. Essi sono sempre pronti ad attizzare la discordia fra commercianti ed operai per farne loro pro. Anche ora non sono malcontenti che la camera del lavoro abbia spinto gli operai a far domande di aumento di salari, perché sperano di ricevere bensì dai commercianti le paghe secondo le nuove cresciute tariffe, salvo a distribuirne solo una parte agli operai, intascando il resto.

 

 

Per meglio speculare, i confidenti da alcuni anni avrebbero chiamato dalle montagne una moltitudine di contadini ignoranti e rozzi ad accrescere le falangi dei facchini del porto. Mettendo abilmente gli uni contro gli altri, i confidenti sarebbero riusciti a diminuire i guadagni degli operai, obbligandoli a lavorare al disotto delle tariffe per la tema di vedersi soppiantati da altri nel lavoro.

 

 

Qualunque giudizio si voglia arrecare intorno a codesti confidenti, è certo che gli operai del porto, da lungo tempo desideravano di trovare un organo per la difesa dei loro interessi.

 

 

Non già che le giornate di lavoro siano mal pagate; 6 o 7 lire al giorno sono una paga comune. Il guaio si è che la paga è saltuaria, oscillante, soggetta ad intermittenze e ad incertezze le quali molto contribuiscono a deprimere le sorti dei lavoratori e ad abituarli a costumi di oziosità e di spreco deplorevoli.

 

 

Di questi bisogni della classe operaia del porto di Genova pochissimi – è doveroso confessarlo – si diedero pensiero. Né il comune, né la camera di commercio e neppure gli altri enti politici o commerciali si accorsero mai che qualche cosa bisognava pur fare per organizzare gli operai e per impedire che un bel giorno il malcontento desse origine a dissidii ed a sospensioni del lavoro, perniciose per la vita di un porto come quello di Genova, di importanza non solo nazionale, ma internazionale.

 

 

Il solo che si sia occupato – fra le classi dirigenti – a dirimere le questioni del lavoro ed a mantenere la pace in mezzo agli operai del porto è un funzionario di pubblica sicurezza, Nicola Malnate, a cui la meritata commenda non ha mai tolto il desiderio di vivere ogni giorno da vent’anni la vita tumultuosa del porto, sempre intento a far da paciere fra capitale e lavoro.

 

 

In questa sua opera il Malnate nessun aiuto ottenne mai. Non dal governo, occupato in altre cose; non dalla camera di commercio, i cui mentori, in troppe faccende affaccendati, si occupano delle questioni del lavoro e del porto solo per accusarsi a vicenda di ottener favori nei trasporti a scapito dei rivali; non dai commercianti e dagli industriali, i cui rapporti con gli operai non sono ancora improntati a molta cordialità ed umanità. Non è spento ancora il ricordo di quel vecchio operaio che, dopo trent’anni di servizio ininterrotto in uno dei più grandi cantieri genovesi, fu buttato sul lastrico con 15 lire di buona uscita – il salario di una settimana di lavoro -; sì che il vecchio, ridotto alla disperazione, finì per annegarsi nelle acque del porto.

 

 

Che meraviglia, se di fronte a questa assoluta assenza e noncuranza delle classi dirigenti, i lavoratori del porto di Genova abbiano prestato ascolto alle predicazioni degli apostoli del socialismo? Che meraviglia se i socialisti, organizzando le leghe di miglioramento, abbiano attirato a sé gli operai, disertati da tutti, e si siano impadroniti per modo dell’animo loro da farli agire come un sol uomo nel senso che i capi del movimento desiderano?

 

 

IV

 

Genova, 23 dicembre

 

 

Ora la disciolta camera del lavoro è ricostituita e le leghe di miglioramento ritornano a funzionare. Il governo, che avea voluto far atto di autorità collo scioglimento, ha dovuto piegare dinanzi alla formidabile protesta degli scioperanti.

 

 

Ed allora perché sciogliere prima per ricostituire poi? Forse perché la camera del lavoro era quasi esclusivamente dominata da socialisti? Vi ho già dimostrato, in una precedente lettera, che le associazioni fra gli operai del porto rappresentano una vera necessità economica, se si vuole avere un’organizzazione del lavoro efficace e pronta. Il fatto che le leghe siano state costituite da socialisti prova tutto al più che questi erano stati più attivi e più abili degli altri partiti ed avevano saputo prima e soli trarre profitto dalla condizione dei lavoratori del porto di Genova. Ora, siccome non è lecito fare il processo alle intenzioni, lo scioglimento sarebbe stato legittimo solo quando, dietro l’impulso del partito, socialista, l’opera della camera del lavoro e delle leghe di miglioramento si fosse estrinsecata in modo contrario alle leggi.

 

 

A questo proposito ho esaminato gli statuti delle leghe ed ho interrogato persone che ne conoscono il funzionamento pratico e, per la loro posizione sociale, sono in grado di dare un giudizio imparziale.

 

 

Ecco i risultati ai quali sono giunto, risultati che ho motivo fondatissimo di ritenere fossero pienamente noti alle autorità politiche nel momento in cui fu deciso lo scioglimento della camera del lavoro.

 

 

Le leghe costituite nel porto ed affiliate alla camera del lavoro sono otto: 1) lega tra i facchini del carbone (600 soci); 2) tra gli scaricatori di carbone con 700 soci; 3) tra i coffinanti, ossia caricatori di carbone, con 500 soci; 4) tra i facchini in grano, con 400 soci; 5) tra i lavoratori in cereali, con 300 soci; 6) tra i giornalieri, caricatori e scaricatori di bordo, con 1400 soci; 7) tra i giornalieri chiattaiuoli, con 200 soci; 8) tra i pesatori di carbone, con 100 soci.

 

 

In tutto 3600 soci su 6000 operai, i quali, unendosi in lega e pagando una tassa d’iscrizione da lire 2,50 a lire 15 ed una tassa mensile da lire 1 a lire 2,50, si proponevano di costituire un’associazione intesa a regolare le condizioni del lavoro nel porto.

 

 

Scopo finale della lega era di stringere insieme tutti i lavoratori, escludendo dal lavoro gli operai non iscritti o non accettati nella lega e infliggendo multe ai soci i quali accettassero patti di lavoro non conformi alle prescrizioni delle singole leghe.

 

 

Dire se questi scopi siano oppur no contrari alle leggi vigenti dipende dal sapere se essi si raggiungono colla persuasione e cogli accordi liberi coi principali, oppure con violenze ed intimidazioni.

 

 

Se tutti gli operai lavoranti in una data azienda si mettono d’accordo a non accettare meno di un dato salario; o, se anche essendovi operai liberi, estranei alle leghe gli imprenditori consentono a impiegare soltanto gli operai associati, non si commette alcuna violazione di legge. Gli operai sono padronissimi di non voler lavorare se non a certe condizioni; gli imprenditori sono liberi di scegliere i loro lavoranti dove vogliono.

 

 

La violazione della legge e in ispecie degli articoli 154 e 165 del Codice penale si ha solo quando con minacce o intimidazioni, materiali o morali, si attenti alla libertà del lavoro, impedendo agli operai «liberi» di lavorare od agli imprenditori di scegliere i lavoranti dove meglio loro aggrada.

 

 

Ora a me consta che le autorità di polizia e politiche di Genova sapevano che questi mezzi delittuosi non furono mai finora messi in azione dalle leghe. Il processo che si intenterà forse ai componenti della disciolta camera del lavoro dimostrerà la verità di quanto ora affermo e che – ripeto – era cosa nota alle autorità.

 

 

Anche durante lo sciopero attuale le autorità di polizia poterono constatare che gli scioperanti non avevano posto alcun ostacolo alla libertà del lavoro. Quegli operai che nel primo giorno vollero lavorare, poterono liberamente caricare e scaricare navi, senza timore di minacce e senza intimidazioni.

 

 

L’unica legge perciò in base alla quale si potesse pronunciare lo scioglimento di società, le quali si propongano con accordi, sia pure volontari e liberi, di monopolizzare il mercato del lavoro, era la legge del 29 maggio 1864 abolitiva delle corporazioni di arti e mestieri.

 

 

Ma a parte che si tratta di una legge antica, disadatta alle moderne necessità economiche, e che da lunghi anni si permette ad associazioni vietate in teoria da quella legge di sussistere e di fiorire liberamente, sta il fatto che il prefetto non ha nemmeno creduto opportuno di citarla nel suo decreto. Il che prova essere ormai universalmente riconosciuta la necessità di una organizzazione dei lavoratori del porto.

 

 

Dato che la camera del lavoro e le leghe non aveano commesso alcuna violazione delle leggi esistenti, è chiaro che lo scioglimento si può giustificare soltanto per motivi di ordine pubblico o per il desiderio di sostituire alla camera disciolta un organismo migliore di tutela e di pacificazione sociale.

 

 

Quanto ai motivi di ordine pubblico, è lecito chiedersi: perché, se quei motivi apparvero esistenti ieri, per la camera disciolta, si credono scomparsi oggi con la camera nuova, composta quasi dei medesimi elementi? O forse si crede che il governo sia ora più capace di tutelare l’ordine contro una istituzione sovversiva ricostituita di quanto non fosse prima di rimangiarsi ad una ad una tutte le disposizioni prese contro i sovversivi disciolti?

 

 

Quanto all’intenzione delle autorità politiche di sostituire alla organizzazione abolita una migliore magistratura del porto, costituita, come mi spiegò il comm. Garroni, sulla base dei tribunali dei probi viri, pare a me che il modo scelto per ottenere lo scopo non sia stato il più felice.

 

 

Non è collo sciogliere improvvisamente la camera fondata dagli operai, che si inducono questi ad accostarsi ad un nuovo organismo creato da chi ha distrutto quello che essi si erano da sé costituito. Occorreva fondare prima i tribunali dei probi-viri; far toccare con mano i vantaggi che operai e imprenditori potevano trarne. A poco a poco gli operai genovesi, che sono gente pratica su cui le teorie fanno poca presa, si sarebbero abituati a guardare con fiducia ai nuovi tribunali ed avrebbero lasciato in asso le associazioni socialiste, quando si fossero accorti della inutilità di farne parte.

 

 

Invece, sciogliendo la camera esistente prima che qualcosa si fosse creato per sostituirla, si è quasi fatto credere che il governo volesse impedire ogni organizzazione dei lavoratori, per fare il vantaggio dei datori di lavoro. Il che non poteva non fornire un’ottima arma in mano ai capi socialisti per indurre gli operai ad opporsi fieramente al decreto prefettizio.

 

 

Lo sciopero fu certamente un danno grave per l’industria, i commerci e gli operai medesimi. La perdita di un milione di lire al giorno è stata vivamente risentita dalla piazza di Genova. Coloro i quali hanno da tanti mesi riempito la testa degli operai genovesi di parole grosse, come: «solidarietà, sfruttamento dei capitalisti, ecc. ecc.», hanno certo una grave responsabilità, la quale sarebbe stata ancor maggiore se, ostinandosi il governo a non concedere nulla, le perdite economiche fossero cresciute al di là della già grossa somma presente.

 

 

Ma che dire dell’autorità politica, che a cuor leggero compie un atto senza sapere che questo avrebbe eccitato gli animi degli operai già infiammati dalla predicazione socialista e lo compie per giunta in un momento nel quale, per i traffici intensissimi, si poteva prevedere che i medesimi ceti commerciali di Genova avrebbero implorato ogni sorta di concessioni pur di poter riprendere il lavoro?

 

 

La conchiusione non è lieta. Uno sciopero come quello del porto di Genova è l’indizio di una condizione sociale in cui nessuno ha una coscienza precisa dei proprii doveri e dei proprii diritti. Da un lato la piazza che si impone al governo e distrugge il principio di autorità. Dall’altro il governo che si immagina di sciogliere le questioni del lavoro a colpi di decreto. E fra i due una grande istituzione nazionale – ché tale è il porto di Genova – la quale corre il pericolo di vedersi sopraffatta dalla concorrenza straniera. Qui è il pericolo maggiore. L’esperienza odierna ha dimostrato che il porto di Genova funziona per caso.

 

 

Quando ho visto un silenzio di morte regnare sulle calate dove il giorno prima fervevano lavori tumultuosi, una domanda mi si è presentata spontanea: ma che davvero non vi sia nessun mezzo di impedire conflitti, che possono mettere in forse la continuità della vita industriale e commerciale di mezza Italia, e farci perdere i vantaggi ottenuti faticosamente con una lotta diuturna nella concorrenza cogli altri porti?

 

 

Dato il modo come è ora organizzato il porto di Genova, le crisi sono inevitabili. Il porto è un caos, dove si incrociano e si confondono le autorità di polizia e di dogana, il governo politico, la camera di commercio, il comune, le ferrovie, i negozianti, gli armatori, gli operai colle loro leghe, i confidenti, ecc. ecc.

 

 

È un miracolo che gli attriti non siano più frequenti in questo intrecciarsi e sovrapporsi di competenze, di autorità e di interessi in lotta. Questa non è libera concorrenza, è confusione di burocrazie e di enti che si vogliono sopraffare a vicenda. Se il porto fosse un ente autonomo, libero ed agile nei suoi movimenti, tutti gli interessati saprebbero bene trovare il modo di farsi ascoltare e di mettersi d’accordo. Se, per esempio, nella futura magistratura del porto di Genova vi fossero alcuni rappresentanti delle leghe operaie, si potrebbe star sicuri che le questioni relative ai salari ed alle ore di lavoro sarebbero risolute.

 

 

In Inghilterra, quando, nel 1875, le leghe operaie erano maggiormente accusate di sopraffazioni e di delitti contro la libertà del lavoro, al governo non venne neanco in mente che il miglior rimedio fosse di scioglierle. Una legge concedette alle leghe la massima libertà di azione, obbligandole soltanto a non lavorare nel mistero, ma alla luce del sole. Adesso ogni tinta rivoluzionaria è scomparsa nelle unioni britanniche, divenute fin troppo borghesi per i socialisti del continente. Se anche da noi fosse riconosciuta la necessità delle associazioni operaie, e se ad esse fosse riconosciuta la parte che loro spetta nel determinare le condizioni del lavoro, i benefizi ben presto sarebbero evidenti.

 

 

Gli operai del porto di Genova non sono né poco intelligenti, né rozzi, come si vorrebbero far credere. «Qui nel porto – è un ispettore di pubblica sicurezza il quale così scrive – un barcaiuolo è così sottile matematico che dottamente intrattiene l’Accademia dei Lincei; un carbonaio, Giambattista Vigo, era così gentil poeta da meritarsi dalla civica amministrazione di Genova, alla morte, il tumulo che già era stato accordato a Felice Romani; un facchino, Niccolò Conti, detto Legna, è così profondo in dialettica ed eloquenza da oscurar la fama di celebri avvocati; e un console di Caravana, Gian Giacomo Casareto, detto Gerion, legato in amicizia con illustri statisti del risorgimento italiano per meriti patriottici, professa filosofia, dirigendo il facchinaggio di dogana, al pari di un antico sapiente dell’areopago di Grecia».

 

 

Date ad una classe operaia siffatta la possibilità di trattare liberamente, per mezzo delle proprie associazioni, cogli imprenditori e col governo, le questioni del lavoro, e dopo dieci anni non sentirete più parlare di sciopero, perché tutti avranno la coscienza del dovere di rimanere uniti contro la concorrenza estera, e non vedrete più tribuni socialisti alla testa degli operai, perché questi avranno imparato a curar da sé i proprii interessi e non avran più bisogno di tutori.

 

 

V

 

La risposta che il presidente del consiglio ha dato all’interpellanza Vitelleschi non può a meno [sic] di produrre una dolorosa impressione. L’on. Saracco non osò negare di avere errato nell’apprezzamento dei motivi che lo avevano indotto a decretare lo scioglimento della camera del lavoro di Genova; ma dell’errore gittò la colpa sulle autorità locali di polizia. Negò recisamente di aver ceduto dinanzi alle imposizioni della piazza e di aver fatto ricorso alla mediazione di elementi sovversivi; e volle far credere che la vittoria degli scioperanti fu dovuta soltanto al suo desiderio che nella città di Genova la calma ritornasse senza dover far uso della forza repressiva posta in sue mani. A noi sembra che il capo di un governo responsabile non debba poter fare in moda siffatto la cronistoria di una sciopero come quello di Genova. Non era forse dovere del governo l’indagare – magari andando di persona a studiare la situazione – se realmente furono compiuti gli atti delittuosi che servirono a motivare la scioglimento della camera del lavoro? E se quei fatti delittuosi erano avvenuti, non doveva forse l’onorevole Saracco reprimerli senza esitare e senza cedere dinanzi alle minacce di sciopero? Se invece quei fatti fossero risultati insussistenti, non era del pari obbligo dell’autorità di astenersi da ogni provvedimento che potesse ferire il senso di giustizia delle masse operaie genovesi e spingerle a dimostrazioni ed a proteste deleterie per il commercio del massimo porto italiano?

 

 

La risposta dell’onorevole Saracco dimostra la verità di quella che finora era soltanto una fondatissima ipotesi: non essere il prefetto di Genova il solo colpevole di non aver compreso l’importanza del decreto di scioglimento della camera del lavoro.

 

 

Il governo fu il maggiore responsabile in tutta questa dolorosa faccenda; e, come tutti gli incoscienti, accortosi del fallo commesso, precipitò di dedizione in dedizione, sino a compromettere il prestigio dell’autorità ed a lasciar credere alla piazza che basti protestare e pretendere per vincere.

 

 

Il che è molto grave.

 

 


[1] Con il titolo Un pericolo. [ndr].

[2] Con il titolo Il gravissimo sciopero di Genova, Sestri, San Pier d’Arena. [ndr]

[3] Con il titolo L’inchiesta della «Stampa» sullo sciopero di Genova. [ndr]

[4] Con il titolo Le responsabilità e i doveri dell’avvenire. [ndr]

[5] Con il titolo Governo incerto e debole. [ndr]

Le coraggiose parole di un ex prefetto

Le coraggiose parole di un ex prefetto

«La Stampa», 17 dicembre 1900[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 286-289

 

 

Il giornale socialista «La Propaganda» ha pubblicato la relazione di un ex prefetto di Napoli al ministro Giolitti intorno ai fasti, non degni di encomio, dell’ex deputato Casale.

 

 

La relazione si crede sia stata scritta dal senatore Carmine Senise, che fu prefetto di Napoli nel 1892 – 93, e durante gli anni di suo governo si procacciò odii ed inimicizie profonde per la lotta aperta iniziata contro ogni sorta di camorra, bassa ed alta. I fatti sono tali da fare raccapricciare ogni animo non chiuso all’impulso del bene, ed i fatti onestamente riferiti dall’ex prefetto di Napoli ai suoi superiori gerarchici non sono tutto ciò che dai governi succedutisi nel nostro paese si sapeva intorno al Casale. Narra infatti il Senise medesimo in una lettera al prof. F. S. Nitti[2], che egli era stato informato esistere un grave incartamento di polizia riferibile al Casale. Ma, purtroppo, «avendone fatta richiesta al comm. Capasso, che era sopraintendente del grande archivio di Napoli, il venerando e compianto uomo mi disse che l’incartamento non esisteva più, poiché era stato, giusta annotazione nell’apposita casella, ritirato per ordine di un ex ministro dell’interno ora defunto».

 

 

Il governo centrale sapeva dunque tutto ciò che è venuto ora a galla durante il processo di Napoli; e lo sapeva per virtù di rapporti ufficiali di suoi prefetti e funzionari di polizia. Eppure nulla fece, ed anzi «per necessità parlamentari ha tollerato ed ha taciuto cose le quali non era bene né tollerare né tacere».

 

 

Son parole anche queste del Senise, il quale così narra inoltre, nella lettera suddetta, quel che a lui capitò per aver voluto combattere tutte le forme della corruzione e schiantare la camorra: «L’affarismo e la camorra, minacciati nella loro esistenza, dopo essere ricorsi a tutti i mezzi per distruggere chi li voleva distruggere, promossero alcune rivolte popolari, le quali ebbero epilogo sanguinoso. Quelle rivolte non venivano dal basso; le giornate di agosto (1893), sobillate, promosse, sostenute dall’affarismo e dalla camorra, furono la reazione dei disonesti contro chi voleva a tutto anteporre un programma di onestà. Furono i Casale di tutte le amministrazioni (ahi, quanti!) che di quelle giornate ebbero la responsabilità».

 

 

Il prefetto, che aveva osato combattere la camorra, fu costretto a ritirarsi dal governo, impaurito dei tumulti organizzati dalla camorra e dai deputati trafficanti laddove uno dei primi fra questi, l’on. Casale, negli otto anni che corsero di poi rimaneva deputato al parlamento, padrone assoluto e riverito di tutte le amministrazioni locali e distributore corteggiato di favori, di posti e di appalti lucrosi.

 

 

Una domanda si presenta spontanea a questo punto: Dove sono andati a finire gli incartamenti ed i rapporti gravissimi che intorno all’on. Casale erano stati trasmessi al ministero? Perché non si fece mai nulla per porre termine alla dominazione dei malvagi, conosciuti come tali dall’amministrazione?

 

 

«Perché – risponde il Nitti – il governo ha in Napoli un debole potere di controllo e non si preoccupa che di elezioni; perché al governo fa assai comodo, date le instabili vicende della politica, di avere una base solida; e così tutti i governi lavorano il mezzogiorno e lasciano fare; lavorano chiudendo gli occhi sui furti, spesso determinandoli, fomentando la corruzione, mantenendo impunite colpe chiare e patenti».

 

 

«Perché – aggiunge il Senise – il mezzogiorno è il paese che forma le maggioranze ministeriali, ed è il campo di esercitazione di tutti gli avventurieri; perché tutti i ministeri, di destra e di sinistra, hanno cercato appoggio, per ignoranza o per interesse, in mezzo a persone non degne».

 

 

Ora è chiaro che cosa deve accadere quando il governo, per vivere, deve mendicare il voto dei deputati e dei grandi elettori dei deputati. Accade che costoro si impongono al governo e possono compiere a loro voglia atti di corruzione, sicuri che un ministro compiacente farà scomparire gli incartamenti pericolosi a loro carico, e che altri ministri licenzieranno i prefetti colpevoli di aver voluto impedire e di aver denunciato i loro atti disonesti.

 

 

È inevitabile che in un paese, in cui predomini in guisa assoluta il parlamentarismo, una rete strettissima di interessi e di connivenze si stabilisca fra governo e deputati, fra chi ha bisogno del voto dei membri della camera e chi ha bisogno dell’appoggio del governo per procacciare onori, favori, appalti o posti ai suoi elettori. È questa una saldissima catena la quale non si può rompere se non rendendo indipendenti i poteri esecutivo e legislativo che ora sono divenuti tirannici, impotenti e corrotti, perché sono l’emanazione di un sol gruppo di persone.

 

 

Siamo lieti che in questa tesi, sia d’accordo con noi l’ex prefetto di Napoli, i cui rapporti hanno dato occasione al presente articolo. Indagando, nella lettera ricordata, le cause dei mali del suo paese ed i mezzi per guarirli, egli afferma che la riuscita nella campagna per il bene «non è da sperare se non da un governo forte e cosciente e da una pubblica opinione risoluta. Vi è un caposaldo senza di cui non si può far nulla: Bisogna che il governo rinunzi ai voti dei deputati di Napoli». Occorre, aggiungiamo noi, che il governo, nella sua opera di esecuzione delle leggi, non dipenda dal voto dei deputati di alcuna regione. Quando questo accadrà, allora potremo sperare che si verifichi davvero quello che pochi giorni fa un pubblicista geniale ha chiamato «il risveglio del parlamento».

 

 

Sinché il governo deve, per vivere, condiscendere alle voglie degli eletti delle urne popolari, la maggioranza dei deputati non sarà mai composta, come vorrebbe Guglielmo Ferrero, di uomini coraggiosi, liberi e consapevoli della vera condizione delle cose; ma predomineranno in essa gli individui più astuti, abili e procaccianti; meglio atti, per la debolezza del carattere, a soddisfare ai desiderii illeciti o leciti degli elettori per mezzo della compra – vendita, dissimulata sotto parvenze semi – oneste, del proprio voto al governo.

 

 

Rendasi – come è in Germania e negli Stati uniti e come è di fatto se non di diritto in Inghilterra per un periodo di tempo abbastanza lungo – il potere esecutivo indipendente dal potere legislativo; e la compravendita dei voti e dei favori non avrà più significazione. Gli elettori, sapendo che i loro mandatari sono impotenti a procacciar favori od a nascondere brutture, non manderanno più alla camera abili procuratori degli affari del collegio, ma invieranno persone capaci ad esercitare un vero ed efficace controllo sull’opera ministeriale.

 

 

Il fatto che un uomo, come il Casale, di mediocre levatura, privo di qualsiasi agilità di ingegno, ed adatto tutt’al più a coprire un impiego d’ordine, ma abilissimo nel procacciar favori ai clienti e nel negoziare l’appoggio suo e degli amici a governi deboli, sia giunto ad avere una potenza così grande in una regione d’Italia, è la condanna di un sistema.

 

 

Se si vuole risanare il paese, è d’uopo mutar rotta; ed allo strapotere di un solo organo dello stato, sostituire il controllo vigile e sospettoso di parecchi poteri, ad ognuno dei quali, spetti, con la sicurezza e la libertà dell’azione assegnatagli delle leggi, la piena responsabilità dell’opera compiuta.

 

 



[1] Con il titolo C’è un governo in Italia? Le coraggiose parole di un ex-prefetto [ndr]

[2] La lettera del senatore Carmine Senise, indirizzata da Corleto il 4 dicembre 1900 a Francesco Nitti, si legge da carte 1.205 a 1.212 del fascicolo di dicembre del 1900 della rivista «La riforma sociale». In quello stesso fascicolo (pp. 1.181 a 1.205) è pubblicato uno studio del Nitti direttore della rivista Su i recenti casi di Napoli.

Il Presidente

Il Presidente

«La Stampa», 10 dicembre 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 282-285

 

 

Il presidente degli Stati uniti d’America non è, come il suo collega di Francia, un bell’uomo rappresentativo scelto dalle due camere affinché non faccia nulla, o, meglio, si adatti a porre la firma in calce ai decreti ed alle leggi che gli vengono messi dinanzi dai capi dei gabinetti che senza tregua sono innalzati sugli scudi e buttati giù, secondo le combinazioni dell’alchimia parlamentare.

 

 

Egli ha un potere suo che gli deriva dal suffragio di milioni di concittadini, ed ha la forza che è necessaria per far uso del suo potere. Egli è qualcosa di mezzo fra un primo ministro ed un re. Non ha la dignità di re e la sua carica non dura quanto quella di un monarca ereditario. Mentre però nei paesi parlamentari la consuetudine ha voluto che il re regnasse per tutta la vita e non governasse mai, il presidente regge e governa da solo per tutti gli anni della sua vita presidenziale.

 

 

I bigotti del parlamentarismo che concepiscono soltanto un capo dello stato assorto in sfere superiori, dove non giunge l’eco delle umane passioni ed un primo ministro, il quale se ne va, inchinandosi, non appena la maggioranza dei 508 sovrani reali gli volti le spalle, dovrebbero spiegare il motivo per cui i fondatori gloriosi della democrazia americana, non ancora usciti dalla tirannia dei Giorgi d’Inghilterra, vollero darsi un altro tiranno ed un tiranno che può disdegnare di tener conto, ove il voglia, dell’opinione degli elettori e di quella dei rappresentanti del popolo.

 

 

Il presidente trae la nomina e la potenza dal voto dei milioni degli elettori, ma, una volta nominato, deve render conto dell’opera sua solo alla sua coscienza.

 

 

Purtroppo anch’egli è un uomo, e se è eletto per la prima volta, la brama di conquistare per altri quattr’anni l’altissimo potere lo fa forse condiscendere soverchiamente ai desiderii della folla od almeno lo induce a serbare il silenzio quando la sua parola potrebbe tornare poco gradita agli elettori.

 

 

Nel secondo termine di sua vita, però, il presidente rieletto non ha più nemmeno paura degli elettori; egli sa che alla scadenza dei quattro anni una consuetudine, imperiosa più di una legge, gli comanda di rientrare per sempre nell’oscurità della vita privata. Accade perciò che uomini di non grande levatura, consci della responsabilità che loro incombe di fronte al giudizio della storia e dei posteri, osino gagliardamente resistere contro il favore popolare ed osino seguire una politica che non è voluta dai politici, ma è imposta dal dovere alla coscienza di chi regge i destini di una grande nazione.

 

 

Nessuno può chiedergli ragione dell’opera sua di esecuzione delle leggi vigenti: nessuno, nemmeno le camere elettive, a cui è affidato il carico di fare le leggi nuove o di modificare quelle esistenti.

 

 

Il presidente non sceglie i suoi ministri fra i membri del congresso o del senato; e non è tenuto a mutarli quando un voto contrario della maggioranza lo faccia accorto che gli antichi suoi ministri non godono più la fiducia dei corpi legislativi. I suoi ministri sono i suoi servitori. Egli li chiama attorno a sé, si serve dell’opera loro finché questa gli torna conveniente, ossia finché essa riesce utile al buon andamento del potere esecutivo; ma a nessun legislatore è lecito di mandar via quelli che le leggi non fanno, ma unicamente applicano.

 

 

I suoi ministri non possono nemmeno comparire in parlamento e possono non essere stati mai membri del congresso e non aver mai preso parte alla politica militante.

 

 

Il ministro scompare di fronte al presidente. In Francia, quando le camere sono irritate, buttano giù il ministero ed il presidente, il quale ha firmato tutto, ma è irresponsabile per la cattiva politica fatta, si inchina e sceglie altri consiglieri nella nuova maggioranza.

 

 

In America le camere possono bene essere irritate contro i ministri, ma esse non possono sbarazzarsene quando non lo consenta il presidente, il quale è il solo responsabile degli atti dell’amministrazione, responsabile non verso le camere, bensì unicamente verso se stesso.

 

 

Diverso in ciò dal nostro primo ministro, il presidente non propone le leggi, ma se quelle fabbricate dalle camere non gli piacciono, o se le giudica di impossibile o difficile esecuzione, egli, solo giudice se una legge possa o non essere eseguita, vi appone il veto.

 

 

È ardua impresa l’approvazione di una legge contro il veto del presidente. È d’uopo che i due terzi dei membri del congresso e del senato contemporaneamente la votino una seconda volta: condizione difficile a verificarsi, perché sol per caso strano i due terzi di due corpi, così diversamente costituiti come il senato e la camera, hanno la medesima opinione.

 

 

Noi, usi a vedere i capi degli stati parlamentari approvare sempre le leggi votate dal parlamento, siamo forse inclini a ritenere che il presidente si comporti nella stessa guisa.

 

 

Nulla di più erroneo. Egli si serve del suo diritto. Vi fu un tempo, sotto la presidenza Cleveland, in che la corruzione e l’intrigo dominavano sovrani nel parlamento d’America, e vergognosi contratti si conchiudevano perché i legislatori potessero fare vile mercimonio del pubblico denaro. I bill che concedevano vistose pensioni governative a cosidetti soldati dell’indipendenza e della guerra di secessione, che non avevano mai visto un campo di battaglia, ma si erano però grandemente distinti nell’industre traffico della compra dei voti, si succedevano gli uni agli altri con una progressione spaventosa, in mezzo alla indifferente complicità di deputati e senatori.

 

 

Per ventura il presidente vegliava, e ben 301 leggi furono colpite dal suo veto, fra le acclamazioni degli onesti, il cui unico usbergo contro le corruzioni dei politicanti era la fortezza del capo dello stato. Di queste 301 leggi soltanto due le camere osarono votare una seconda volta con la maggioranza dei due terzi richiesta per poter far a meno del consenso del presidente.

 

 

Il quale regge in tal modo l’amministrazione della cosa pubblica con la dovuta energia ed osa assumere su di sé le responsabilità che sono richieste dalle circostanze.

 

 

Jefferson, in un momento critico della storia degli Stati uniti, compra la Louisiana e Lincoln emancipa gli schiavi negli stati in rivolta senza aspettare il voto del congresso. Furono atti di coraggio a cui i posteri riconoscenti hanno data la loro approvazione.

 

 

«Mentre il congresso era lacerato dalle gare partigiane, – dice il Bryce, forse il più profondo indagatore della costituzione americana, – il presidente continuò a far lavorare quetamente e ininterrottamente la macchina dello stato. In momenti di pericolo il potere esecutivo si innalzò quasi sino alla dittatura, come durante la guerra di secessione, e, ritornata la pace, seppe riassumere la sua posizione rigidamente costituzionale».

 

 

Fuori dell’America il «presidente» ha avuto pochi imitatori. Ma negli Stati uniti l’esempio è stato fecondo. Le une dopo le altre, le grandi città del continente americano, dopo essere passate attraverso ad un periodo di parlamentarismo acuto e di onnipotenza delle assemblee deliberative, hanno compreso non essere possibile un’amministrazione seria ed efficace se di fronte ai numerosi consiglieri che controllano non vi è un capo del potere esecutivo che governa e comanda. Il Mayor della Greater New York, mostruosa agglomerazione di più di tre milioni di abitanti, è quasi un despota. Il consiglio municipale è ridotto alle pure funzioni di controllo e di voto dei regolamenti e delle norme legislative. Il solo sindaco governa la città. Nomina e licenzia gli impiegati inferiori e superiori; dirige la enorme macchina burocratica senza bisogno del consenso di assessori o di altri pubblici ufficiali.

 

 

Sembra che il sistema funzioni bene, perché quasi tutte le città americane vanno a gara nel concedere poteri quasi illimitati ai loro sindaci.

 

 

Operando in tal guisa, gli americani non hanno creduto di abdicare alla libertà; hanno inteso soltanto creare un organo che abbia l’autorità e la forza necessarie per raggiungere efficacemente lo scopo di bene amministrare la cosa pubblica, sottraendola alle manovre dei politicanti.

 

Sulla via buona

Sulla via buona

«La Stampa», 8 dicembre 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 279-281

 

 

Sulla buona via si è messa la giunta del bilancio, votando il noto ordine del giorno [1] riguardo ai premi della marina mercantile.

 

 

Questi premi datano dal 1886, nel qual anno fu votata una legge che istituiva, per un decennio, premi per la navigazione e per le costruzioni delle navi. Siccome ai premi non seguì alcun effetto rilevante, malgrado che lo stato in dieci anni avesse speso poco meno di 37 milioni, si credette opportuno con una legge del 23 luglio 1896 accrescerli fortemente. Sotto l’impulso dei premi aumentati le costruzioni navali si moltiplicarono. Da 3 milioni si passò in breve ora a cinque o si minacciava di andare molto al di là dei dieci milioni annui di premi pagati dallo stato. Di qui l’allarme nel governo, e la presentazione di un decreto-legge, il quale, pur mantenendo fermo il concetto che i premi si dovessero dare, ne limitava l’ammontare massimo a 10 milioni di lire all’anno.

 

 

La giunta del bilancio non solo accolse il concetto che l’onere dei premi dovesse venir scemato; ma, andando più innanzi, ne propose l’abolizione integrale.

 

 

I premi – ragionò la giunta – non possono con qualche apparenza di giustizia essere chiesti dagli armatori e costruttori se non perché essi si trovano in condizioni di inferiorità di fronte alla industria estera. Ciò che mette i nostri costruttori in condizioni inferiori è l’obbligo in cui essi si trovano – a causa dei forti dazi protettivi sui prodotti dell’industria metallurgica – di comprare i materiali da costruzione in ferro ed in acciaio ad un prezzo più alto di quanto non potrebbero fare se ad essi fosse liberamente aperto il mercato internazionale. Lasciamo perciò entrare in franchigia i materiali da costruzione. Armatori e costruttori più non trovandosi in condizioni di inferiorità rispetto all’estero, non avranno più alcun motivo di chiedere compensi e premi allo stato, e l’erario, ossia i contribuenti, risparmieranno 10 milioni all’anno. Chi ci perderà sarà l’industria metallurgica, cioè, alcune poche grandi officine – Terni e simili – a profitto delle quali andavano finora i milioni spremuti dalle tasche dei contribuenti.

 

 

Noi ci rallegriamo vivamente che codesto ragionamento si sia fatto, dopo tanti anni di protezionismo ufficialmente imperante, da una giunta generale del bilancio.

Sarà d’uopo – affinché il ragionamento non paia fatto solo in apparenza a tutela della giustizia ed in realtà giovi a far naufragare il decreto – legge governativo che almeno riduceva l’onere dello stato a 10 milioni – che la giunta ritenga valido il decreto – legge per il periodo intercedente fra il 28 novembre 1899 ed il giorno in cui andasse in vigore la nuova legge. Fatta questa avvertenza, il principio adottato dalla giunta ci sembra lodevolissimo.

 

 

Sarebbe certamente augurabile che i 13 milioni di sgravi proposti dal governo si consacrassero a diminuire il prezzo del sale od il dazio sul grano, ossia a compiere un’opera vantaggiosa a tutti gli italiani. Come riparare tuttavia nel tempo stesso anche ai 13 milioni di disavanzo, quando si respingano le tassette proposte a compenso degli sgravi?

 

 

L’unico mezzo è di abolire tutte le spese le quali non servono a scopi di pubblica utilità. Prime fra tutte quelle spese che sono un tributo pagato dai contribuenti allo stato perché li trasmetta ad altri privati a titolo di dono grazioso, o col pretesto di incoraggiarne l’opera.

 

 

Chiunque voglia iniziare un’impresa, deve farlo coi quattrini suoi ed a suo intero rischio e pericolo.

 

 

Chi è riuscito – come riuscirono, al pari di altre, le industrie marinare e metallurgiche – ad ottener sussidi, per mezzo dello stato, dai contribuenti, non ha alcun diritto di vedersi continuato eternamente il sussidio. Tanto meno ha siffatto diritto la industria metallurgica che vive unicamente grazie alle centinaia di milioni regalatile dallo stato. Se anche essa dovrà in parte soccombere – e diciamo in parte perché molte fabbriche di macchine e di attrezzi di ferro e di acciaio nell’alta Italia sfidano fin d’ora la concorrenza estera su tutti i mercati del mondo e non hanno bisogno dei dazi per tener alto il buon nome del genio italiano – il male sarà sempre minore che non il danno di costringere il contribuente italiano a pagar tributo ad altri italiani o incapaci od impotenti a produrre, come da tutti si dovrebbe fare, a loro profitto e rischio.

 

 



[1] L’ordine del giorno del 6 dicembre suonava: «La giunta invita il governo ad uniformare i concetti della nuova legge ai principii della franchigia dei dazi di confine pei materiali di costruzione e della abolizione dei premi di navigazione».

Il sussidio all’«Opinione»

Il sussidio all’«Opinione»

«La Stampa», 5 dicembre 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 277-278

 

 

Saracco, rispondendo ad una interrogazione dell’on. Aprile, dice essere vero che egli quale ministro e quale privato cittadino è stato convenuto in giudizio per sussidio promesso e non pagato ad un giornalista. Se non che egli non solo non ha mai promesso alcun sussidio, ma non conosce neppure di vista questo giornalista. (Commenti; ilarità). Spera che la camera crederà alle sue parole. (Si!) Sarebbe sprecare un sussidio lo spenderlo in tal modo!

 

 

Siamo lieti che le dichiarazioni dell’onorevole Saracco abbiano scagionato il governo da ogni responsabilità intorno al sussidio che il direttore dell’«Opinione» ha asserito di aver ricevuto perché il suo giornale si astenesse da ogni attacco contro gli onorevoli Di Rudinì e Luzzatti.

 

 

Chi in questo affare fa una non bella figura è Umberto Silvagni. Questi infatti non solo confessa d’aver venduto per lire 2.000 il proprio silenzio sulle persone degli on. Di Rudinì e Luzzatti, ch’egli ha combattuto aspramente come uomini funesti al bene della cosa pubblica, ma ardisce ancora giustificare, con un cinismo inverosimile, la compra-vendita della sua coscienza, dicendo che, dopo tutto, il contributo era necessario a far vivere un giornale consacrato alla difesa delle idee moderate e delle istituzioni vigenti, che il sussidio non andava a beneficio del direttore, il quale anzi sopportava continui e gravissimi sacrifici per il suo giornale, e che il molestare Di Rudinì e Luzzatti sarebbe stato inopportuno, essendo quei due uomini, per il poco loro seguito, divenuti innocui. Ed aggiunge il Silvagni che l’essere riuscito a farsi pagare duemila lire al mese il silenzio dell’«Opinione» era per lui argomento di soddisfazione, perché gli dimostrava che i suoi attacchi avevano profondamente ferito quegli uomini illustri, sì da costringerli a ricorrere al governo per difesa contro le sue punture!

 

 

Il signor Silvagni avrebbe dovuto ricordarsi che la missione del giornalismo non è quella di attaccare allo scopo di aver meschine soddisfazioni personali, e che le istituzioni non si difendono con un giornale tenuto in vita, sia pure per dieci giorni su trenta, coi sussidi ministeriali. Se il Silvagni credeva che i suoi sacrifici per l’«Opinione» fossero incomportabili, doveva smettere di pubblicarla, ma non mai vendere al governo il suo silenzio. Le idee conservatrici e moderate e le istituzioni non si difendono, ma si offendono gravemente quando i direttori dei giornali, per mantenerli in vita, ricorrono non all’appoggio del pubblico o di amici disinteressati, ma ai fondi segreti di stato.

 

 

Per fortuna il paese ama le istituzioni per la loro bontà intrinseca e non perché son difese da giornalisti che tacciono finché la paga corre, e si erigono a vindici della pubblica moralità solo quando il loro foglio minaccia di morire per la mancanza dei sussidi derivanti da quello che in Germania è chiamato il fondo dei rettili.

 

 

Siamo lieti, come dicemmo, che l’on. Saracco si sia scagionato dell’accusa rivoltagli di aver sussidiato un giornalista per comprarne il silenzio a favore di suoi amici. Sarebbero stati infatti denari male spesi. Ciò non toglie però che siano stati spesi da qualcuno e che sia biasimevole tanto chi ricevette quanto chi distribuì i denari dei contribuenti per uno scopo che non può certo ritenersi di pubblica utilità.

Confronti e speranze

Confronti e speranze

«La Stampa», 16 novembre 1900

Per la giustizia tributaria, Torino-Roma, Roux e Viarengo, s. d. [1901], pp. 5-12

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925)[1], Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 255-259

 

 

 

 

A sfogliare le pagine dell’ultimo annuario statistico per il 1900, che si riferisce alle finanze dello stato, si prova come un senso di sgomento. Nulla sfugge alle indagini del fisco; e le imposte si moltiplicano e prendono forme svariatissimi, quasi ad ingannare il contribuente, in mille modi insidiato nella borsa dai tentacoli del governo tassatore. La semplice enumerazione delle imposte governative è cosa che incute timore: 106 milioni di imposta sui fondi rustici, 88 milioni di imposta sui fabbricati, 142 milioni di imposta di ricchezza mobile da esigersi mediante ruoli, 16 milioni della stessa imposta da versarsi direttamente in tesoreria, 28 milioni di ritenuta sugli stipendi, sulle pensioni e su altri assegni pagati dallo stato, 100 milioni di ritenuta sulle rendite del debito pubblico, sulle annualità, sugli interessi di capitali, di buoni del tesoro, ecc., 36 milioni di tasse di successione, 6 di tasse di manomorta, 62 di tasse di registro, 68 di tasse di bollo, 12 di tasse in surrogazione del bollo e del registro, 7 e mezzo di tasse ipotecarie, 8 di tasse sulle concessioni governative, 20 di tasse sul prodotto del movimento a grande e piccola velocità sulle ferrovie, tre quarti di milione di diritti delle legazioni e dei consolati all’estero.

 

 

Fin qui le imposte dirette e le imposte sugli affari e sul trapasso delle proprietà. Vengono poi le imposte di consumo. Un vero esercito imponente: 27 milioni per la fabbricazione degli spiriti, 2 milioni per la birra, mezzo milione per le acque gazose, un milione per le polveri ed altre materie esplodenti, un milione e mezzo per la cicoria preparata, 4 milioni per lo zucchero indigeno, 845 mila lire per il glucosio, 7 milioni per i fiammiferi, 4 milioni per il gas – luce e l’energia elettrica. Le dogane ed i diritti marittimi, i quali comprendono un’infinita varietà di voci, dal grano al petrolio, dal caffè allo zucchero, dal cotone alle medicine, fruttano ben 241 milioni di lire; mentre i dazi di consumo interni gittano 52 milioni. La privativa dei tabacchi dà 196 milioni, quella dei sali 74, il lotto 71. Le poste fruttano 58 milioni, i telegrafi e i telefoni 14, le tasse scolastiche 7, i diritti di verificazioni dei pesi e misure ed il saggio dei metalli preziosi danno 3 milioni, i diritti catastali 2, gli archivi di stato 18 mila lire, la monta dei cavalli – stalloni 293 mila lire, le multe inflitte dalle autorità giudiziarie ed amministrative un milione e mezzo; le tasse d’entrata nei musei e gallerie 479 mila lire, i proventi delle carceri 6 milioni 716 mila lire. E facciamo grazia al lettore di una miriade di piccoli proventi, entrate straordinarie, rimborsi e concorsi, ecc.

 

 

Il quadro sarebbe talmente lugubre da far disperare della possibilità di potere trarre fuori il contribuente italiano dall’asfissiante atmosfera tributaria in cui egli è posto, se esempi antichi e recenti non ci ammonissero che nessun popolo mai è così decaduto economicamente da non potere, volendo, risorgere.

 

 

Fra i tanti noi vogliamo oggi ricordare un esempio che pochi usano rammentare, quantunque troppi citino quell’Inghilterra, dalla quale l’esempio è tratto. Egli è che solitamente si cita l’Inghilterra quando si vuole porre dinanzi agli occhi dei lettori lo spettacolo magnifico del suo parlamentarismo corretto ed evoluto, del suo sistema tributario equo e mite, delle sue colonie libere e leali. Ed allora sorge naturale l’obbiezione che l’Italia d’adesso è ben diversa dall’Inghilterra contemporanea; che troppo lontani sono i due ambienti perché ciò che si palesa buono e possibile nell’uno si possa imitare nell’altro.

 

 

Noi perciò vogliamo ricordare non una pagina della potente Inghilterra d’oggi, ma un momento dell’Inghilterra del 1815 povera, indebitata e rovinata dalle guerre napoleoniche. Forse il ricordo non sarà inutile. È meglio apprendere come un popolo sia diventato da povero ricco, e sia passato dalla più dura oppressione tributaria ad uno stato di notevole mitezza fiscale, che non contemplare, invidi ed impotenti, una grandezza da cui noi siamo troppo lontani per sperare di raggiungerla in breve.

 

 

Intorno al 1815 il peso delle imposte che gravava sul contribuente inglese era formidabile: 30 milioni di lire italiane di imposta sulla terra, 162 milioni e mezzo d’imposte sulle finestre, sulle case abitate, sulle vetture, sui domestici, sui cavalli, sui cani, sulle armi gentilizie e sulla cipria; 365 milioni di imposta sul reddito al saggio del 10%, non inferiore alla aliquota attuale sui redditi industriali e professionali in Italia; 32 milioni e mezzo di imposte di successione; 23 milioni di imposte sui beni immobili e mobili assicurati contro il fuoco e contro i rischi di mare; 7 milioni di imposte sulle vendite agli incanti; 12 milioni sulle vetture di posta; 4 milioni e un quarto di tasse di navigazione; 40 milioni di imposta sul sale; 74 milioni di imposta sullo zucchero; 10 milioni sulle conserve, uve e pepe; 240 milioni sulla birra; 48 milioni sul vino; 168 milioni sugli spiriti; 90 sul tè; 4 sul caffè; 50 sul tabacco; 23 sul carbone; 45 sulla legna; 19 sul cotone; 11 sulla seta greggia e tratta; 7 milioni e mezzo sull’indaco, potassa, ferro in barre; 7 milioni sulla canapa. Vi erano 9 milioni di provento dei dazi di esportazione e circa 30 milioni di dazi varii su numerosissime merci importate. A questi si aggiungano le imposte di fabbricazione: 17 milioni e mezzo resi dall’imposta sul cuoio; 19 sul sapone; 6 e tre quarti sui mattoni e tegole; 10 e mezzo sul vetro; 9 sulle candele; 12 sulla carta; 10 sugli stampati; 10 sui giornali; 3 sugli annunzi. I diritti di bollo sui biglietti rendevano 21 milioni, sulle ricevute 5 milioni e su altri contratti 42 milioni.

 

 

Tutto ciò nell’Inghilterra, nella Scozia e nel Galles, senza contare l’Irlanda, da cui si ricavavano 156 altri milioni.

 

 

In tutto le imposte, in un paese non ricco, di appena 20 milioni di abitanti, raggiungevano l’enorme somma di 1 miliardo 862 milioni di lire italiane l’anno. Il debito pubblico era di ben 21 miliardi e mezzo; ed a pagarne gli interessi era necessario quasi il 45% del reddito dello stato, ossia 800 milioni all’anno.

 

 

L’Italia contemporanea si trova in migliori condizioni dell’Inghilterra di quei tempi. Veggasi come un mordace scrittore inglese descriveva in quegli anni la condizione del contribuente britannico: «Le imposte colpiscono ogni articolo che entra in bocca, o ripara il corpo, od è calpestato dal piede. Imposte sovra ogni cosa piacevole a vedere, sentire, odorare od assaggiare. Imposte sovra il calore, la luce e la locomozione. Imposte sovra ogni cosa posta sulla terra o sotto terra, su ciò che vien dall’estero o cresce in patria. Imposte sulle materie gregge e su ogni valore che la mano dell’uomo vi aggiunga. Imposte sulla salsa che eccita l’appetito dell’uomo e sulla medicina che ne ristora la salute; sull’ermellino che adorna il giudice e sulla corda che manda all’altro mondo l’omicida; sul sale del povero e sulle spezie del ricco; sui chiodi di ottone della bara e sul velo della fidanzata. A letto od a tavola, alzandosi o coricandosi, noi dobbiamo sempre pagare. Lo scolaro gitta con forza la sua trottola tassata; il giovane guida il cavallo tassato con una briglia tassata su una via gravata d’imposte; ed il morente britanno, sorbendo la medicina che ha pagato il 7% di imposta con un cucchiaio che ha pagato il 15%, si abbandona sul letto d’indiana tassata al 22% e spira fra le braccia di uno speziale che ha pagato un diritto di 100 lire sterline per avere il privilegio di mandarlo a morte. L’intera sua proprietà è quindi immediatamente colpita con un’imposta dal 2 al 10%; e forti diritti gli sono richiesti per seppellirlo. Le sue virtù sono ricordate ai posteri da un marmo tassato, e solo col ricongiungersi ai suoi padri egli può sperare di sfuggire all’imposta».

 

Più oltre il medesimo autore osservava: «Il vero libero britanno va in giro coperto di licenze. Egli ha pagato una ghinea per la cipria della sua capigliatura, una ghinea per l’arma impressa sul suo sigillo, tre ghinee per il suo fucile da caccia, ed è così corazzato di permessi e di lascia – passare governativi che la spia più oculata non riesce a scoprire nulla di sospetto su di lui».

 

 

Questa l’Inghilterra del 1815. In qual modo gli inglesi sono riusciti a mutare questo feroce sistema di tassazione nel mite ordinamento attuale, di cui tutti cantano le lodi? Un’altra volta narreremo l’interessante istoria.

 

 

Questa l’Inghilterra del 1815.

 

 



[1] Con il titolo Per la giustizia tributaria I.[ndr]

Per la giustizia tributaria

Per la giustizia tributaria[1]

 

«La Stampa», 16 novembre 1900[2], 2[3] e 14[4] gennaio, 21 febbraio[5] 1901

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 228-232

 

 

I

 

A sfogliare le pagine dell’ultimo annuario statistico per il 1900, che si riferisce alle finanze dello stato, si prova come un senso di sgomento. Nulla sfugge alle indagini del fisco; e le imposte si moltiplicano e prendono forme svariatissimi, quasi ad ingannare il contribuente, in mille modi insidiato nella borsa dai tentacoli del governo tassatore. La semplice enumerazione delle imposte governative è cosa che incute timore: 106 milioni di imposta sui fondi rustici, 88 milioni di imposta sui fabbricati, 142 milioni di imposta di ricchezza mobile da esigersi mediante ruoli, 16 milioni della stessa imposta da versarsi direttamente in tesoreria, 28 milioni di ritenuta sugli stipendi, sulle pensioni e su altri assegni pagati dallo stato, 100 milioni di ritenuta sulle rendite del debito pubblico, sulle annualità, sugli interessi di capitali, di buoni del tesoro, ecc., 36 milioni di tasse di successione, 6 di tasse di manomorta, 62 di tasse di registro, 68 di tasse di bollo, 12 di tasse in surrogazione del bollo e del registro, 7 e mezzo di tasse ipotecarie, 8 di tasse sulle concessioni governative, 20 di tasse sul prodotto del movimento a grande e piccola velocità sulle ferrovie, tre quarti di milione di diritti delle legazioni e dei consolati all’estero.

 

 

Fin qui le imposte dirette e le imposte sugli affari e sul trapasso delle proprietà. Vengono poi le imposte di consumo. Un vero esercito imponente: 27 milioni per la fabbricazione degli spiriti, 2 milioni per la birra, mezzo milione per le acque gazose, un milione per le polveri ed altre materie esplodenti, un milione e mezzo per la cicoria preparata, 4 milioni per lo zucchero indigeno, 845 mila lire per il glucosio, 7 milioni per i fiammiferi, 4 milioni per il gas – luce e l’energia elettrica. Le dogane ed i diritti marittimi, i quali comprendono un’infinita varietà di voci, dal grano al petrolio, dal caffè allo zucchero, dal cotone alle medicine, fruttano ben 241 milioni di lire; mentre i dazi di consumo interni gittano 52 milioni. La privativa dei tabacchi dà 196 milioni, quella dei sali 74, il lotto 71. Le poste fruttano 58 milioni, i telegrafi e i telefoni 14, le tasse scolastiche 7, i diritti di verificazioni dei pesi e misure ed il saggio dei metalli preziosi danno 3 milioni, i diritti catastali 2, gli archivi di stato 18 mila lire, la monta dei cavalli – stalloni 293 mila lire, le multe inflitte dalle autorità giudiziarie ed amministrative un milione e mezzo; le tasse d’entrata nei musei e gallerie 479 mila lire, i proventi delle carceri 6 milioni 716 mila lire. E facciamo grazia al lettore di una miriade di piccoli proventi, entrate straordinarie, rimborsi e concorsi, ecc.

 

 

Il quadro farebbe disperare della possibilità di potere trarre fuori il contribuente italiano dall’asfissiante atmosfera tributaria in cui egli è posto, se esempi antichi e recenti non ci ammonissero che nessun popolo mai è così decaduto economicamente da non potere, volendo, risorgere.

 

 

Fra i tanti noi vogliamo oggi ricordare un esempio che pochi usano rammentare, quantunque troppi citino quell’Inghilterra, dalla quale l’esempio è tratto. Egli è che solitamente si cita l’Inghilterra quando si vuole porre dinanzi agli occhi dei lettori lo spettacolo magnifico del suo parlamentarismo corretto ed evoluto, del suo sistema tributario equo e mite, delle sue colonie libere e leali. Ed allora sorge naturale l’obbiezione che l’Italia d’adesso è ben diversa dall’Inghilterra contemporanea; che troppo lontani sono i due ambienti perché ciò che si palesa buono e possibile nell’uno si possa imitare nell’altro.

 

 

Noi perciò vogliamo ricordare non una pagina della potente Inghilterra d’oggi, ma un momento dell’Inghilterra del 1815 povera, indebitata e rovinata dalle guerre napoleoniche. Forse il ricordo non sarà inutile. È meglio apprendere come un popolo sia diventato da povero ricco, e sia passato dalla più dura oppressione tributaria ad uno stato di notevole mitezza fiscale, che non contemplare, invidi ed impotenti, una grandezza da cui noi siamo troppo lontani per sperare di raggiungerla in breve.

 

 

Intorno al 1815 il peso delle imposte che gravava sul contribuente inglese era formidabile: 30 milioni di lire italiane di imposta sulla terra, 162 milioni e mezzo d’imposte sulle finestre, sulle case abitate, sulle vetture, sui domestici, sui cavalli, sui cani, sulle armi gentilizie e sulla cipria; 365 milioni di imposta sul reddito al saggio del 10%, non inferiore alla aliquota attuale sui redditi industriali e professionali in Italia; 32 milioni e mezzo di imposte di successione; 23 milioni di imposte sui beni immobili e mobili assicurati contro il fuoco e contro i rischi di mare; 7 milioni di imposte sulle vendite agli incanti; 12 milioni sulle vetture di posta; 4 milioni e un quarto di tasse di navigazione; 40 milioni di imposta sul sale; 74 milioni di imposta sullo zucchero; 10 milioni sulle conserve, uve e pepe; 240 milioni sulla birra; 48 milioni sul vino; 168 milioni sugli spiriti; 90 sul tè; 4 sul caffè; 50 sul tabacco; 23 sul carbone; 45 sulla legna; 19 sul cotone; 11 sulla seta greggia e tratta; 7 milioni e mezzo sull’indaco, potassa, ferro in barre; 7 milioni sulla canapa. Vi erano 9 milioni di provento dei dazi di esportazione e circa 30 milioni di dazi varii su numerosissime merci importate. A questi si aggiungano le imposte di fabbricazione: 17 milioni e mezzo resi dall’imposta sul cuoio; 19 sul sapone; 6 e tre quarti sui mattoni e tegole; 10 e mezzo sul vetro; 9 sulle candele; 12 sulla carta; 10 sugli stampati; 10 sui giornali; 3 sugli annunzi. I diritti di bollo sui biglietti rendevano 21 milioni, sulle ricevute 5 milioni e su altri contratti 42 milioni.

 

 

Tutto ciò nell’Inghilterra, nella Scozia e nel Galles, senza contare l’Irlanda, da cui si ricavavano 156 altri milioni.

 

 

In tutto le imposte, in un paese non ricco, di appena 20 milioni di abitanti, raggiungevano l’enorme somma di 1 miliardo 862 milioni di lire italiane l’anno. Il debito pubblico era di ben 21 miliardi e mezzo; ed a pagarne gli interessi era necessario quasi il 45% del reddito dello stato, ossia 800 milioni all’anno.

 

 

L’Italia contemporanea si trova in migliori condizioni dell’Inghilterra di quei tempi. Veggasi come un mordace scrittore inglese descriveva in quegli anni la condizione del contribuente britannico: «Le imposte colpiscono ogni articolo che entra in bocca, o ripara il corpo, od è calpestato dal piede. Imposte sovra ogni cosa piacevole a vedere, sentire, odorare od assaggiare. Imposte sovra il calore, la luce e la locomozione. Imposte sovra ogni cosa posta sulla terra o sotto terra, su ciò che vien dall’estero o cresce in patria. Imposte sulle materie gregge e su ogni valore che la mano dell’uomo vi aggiunga. Imposte sulla salsa che eccita l’appetito dell’uomo e sulla medicina che ne ristora la salute; sull’ermellino che adorna il giudice e sulla corda che manda all’altro mondo l’omicida; sul sale del povero e sulle spezie del ricco; sui chiodi di ottone della bara e sul velo della fidanzata. A letto od a tavola, alzandosi o coricandosi, noi dobbiamo sempre pagare. Lo scolaro gitta con forza la sua trottola tassata; il giovane guida il cavallo tassato con una briglia tassata su una via gravata d’imposte; ed il morente britanno, sorbendo la medicina che ha pagato il 7% di imposta con un cucchiaio che ha pagato il 15%, si abbandona sul letto d’indiana tassata al 22% e spira fra le braccia di uno speziale che ha pagato un diritto di 100 lire sterline per avere il privilegio di mandarlo a morte. L’intera sua proprietà è quindi immediatamente colpita con un’imposta dal 2 al 10%; e forti diritti gli sono richiesti per seppellirlo. Le sue virtù sono ricordate ai posteri da un marmo tassato, e solo col ricongiungersi ai suoi padri egli può sperare di sfuggire all’imposta».

 

 

«Il vero libero britanno va in giro coperto di licenze. Egli ha pagato una ghinea per la cipria della sua capigliatura, una ghinea per l’arma impressa sul suo sigillo, tre ghinee per il suo fucile da caccia, ed è così corazzato di permessi e di lascia – passare governativi che la spia più oculata non riesce a scoprire nulla di sospetto su di lui»

 

 

Questa l’Inghilterra del 1815.

 

 

II

 

A due schiatte principali appartengono gli uomini che reggono la finanza pubblica.

 

 

Vi sono coloro che non ignorano le leggi regolatrici dell’incremento e della diminuzione del gettito delle imposte; che sanno come la giustizia e la equità debbano presiedere alla distribuzione dei carichi governativi e si inspirano a concetti ragionati e sistematici quando intendono modificare un regime tributario esistente.

 

 

Di fronte a questi, che sono scherniti come ideologi, stanno i finanzieri empirici, la cui gloria massima è di non lasciarsi mai guidare da alcun principio e di uniformare la propria azione unicamente alle necessità del momento. Essi abbandonano un tributo che è fonte di proventi cospicui per l’erario quando l’abbandonarlo può dare la vittoria al partito od al ministero a cui sono aggregati. Essi trovano sempre nuovi nomi per far passare come ottime le loro merci avariate dinanzi gli occhi attoniti della gente inesperta; alzano ed abbassano le aliquote; fanno scomparire un’imposta cattiva ed odiata per crearne una nuova sovra la quale l’odio popolare non ha ancora avuto tempo di accumularsi. Genialissimi nel trovare sempre nuovi spedienti per tirare innanzi senza far gittare strida troppo alte ai contribuenti, i finanzieri empirici sanno fare a meraviglia il gioco dei bussolotti: trasformano i disavanzi in avanzi, i debiti in crediti, le spese in accrescimenti di patrimonio. Quando la gente si insospettisce pel crescere delle spese, essi inventano la categoria delle spese straordinarie; e quando anche queste diventano, per la loro continuata presenza, fastidiose a tutti, tentano di far accettare nuovi dispendii, gabellandoli per ultra-straordinari. Se il gran libro del debito pubblico minaccia di schiacciare col suo pondo la nazione, i finanzieri empirici creano molti altri piccoli libri, di razza e titolo svariati, con cui si possono contrarre novelli debiti in nulla differenti dall’antico fuorché nell’essere, perché nuovi ed insoliti, meno accetti ai capitalisti e più onerosi allo stato.

 

 

Tale la schiatta dei finanzieri empirici che sono applauditi in vita perché sanno tosare la pecora senza arrecarle troppo dolore, perché son servizievoli coi ministri, coi deputati e coi grandi elettori, e perché hanno appreso l’arte di contentar tutti, trasportando or qua or là l’onere delle imposte e, – quando non è possibile alcun trasporto perché tutti son già eccessivamente gravati, – facendo dei debiti al cui pagamento dovranno pensare i posteri.

 

 

Di tal razza di finanzieri son piene cotanto le cronache che sarebbe davvero inutile discorrere su un punto che già tutti conoscono a maraviglia. Ciò che noi vogliamo oggi dire si è che urge liberare il nostro paese da tal setta, se pure si vuol avere speranza di risorgere.

 

 

Anche stavolta l’Inghilterra dopo il 1815 ci dimostra che la vera risurrezione finanziaria, l’età dell’oro del bilancio di uno stato, non può aver inizio se non quando si abbandonino i metodi empirici e si accolgano quelle norme semplici e chiare di giustizia che sono il frutto della scienza e dell’esperienza dei paesi civili.

 

 

I lettori della «Stampa» conoscono diggià, per averla noi esposta qui alcune settimane or sono, la miseranda situazione del contribuente anglo-sassone al chiudersi delle guerre napoleoniche.

 

 

Altissime erano le sue lagnanze e nessun gabinetto avrebbe potuto far mostra di non ascoltarle, sotto pena di cadere dal potere.

 

 

Fu forza dunque lo ascoltarle. Una dopo l’altra le imposte più odiose caddero. Prima fra tutte l’allora odiata imposta sul reddito, che ad ogni buon britanno sembrava una violazione dei principii sanciti nella Magna charta; ed essa fruttava 350 milioni di lire. Caddero anche il dazio addizionale di guerra sulla birra, che rendeva quasi 70 milioni; il dazio sul sale, sul cuoio, ecc., con perdite gravissime per l’erario.

 

 

I finanzieri, allibiti, non sapevano resistere al furore del popolo, che esigeva un’ecatombe delle imposte vessatrici.

 

 

Come si provvide ad evitare la disorganizzazione dell’equilibrio del bilancio?

 

 

In parte si provvide con una politica di tagli altrettanto feroci nelle spese quanto erano stati profondi i tagli nelle entrate. In un solo anno (1817) il bilancio della guerra è ridotto di 100 milioni ed ulteriori riduzioni vi si apportano in seguito sì da ridurlo da 400 milioni nel 1816 a 250 nel 1830. Si preferisce rimanere senza scuole, senza strade, senza igiene, senza ministeri e senza impiegati pur di non pagare le imposte di guerra. Si riducono gli stipendi e si aboliscono le pensioni cosidette graziose.

 

 

Questa non fu finanza empirica. Fu una finanza di soldati coraggiosi, che per salvare la economia nazionale non dubitano di incorrere nel malvolere dei grandi corpi organizzati dello stato. Fu la finanza che si impone nei momenti supremi; quella che adoprò Quintino Sella in Italia ad eterno suo vanto.

 

 

Ma ciò non bastava a mantenere il pareggio. Per quanto falcidiate, le spese erano sempre superiori alle entrate. Ed allora intervengono gli empirici, che inventano imposte nuove, non ancora odiose ai contribuenti, per sostituire le imposte vecchie abolite. L’empirico inglese di quei tempi fu Vansittart, un eroe dell’equilibrismo finanziario a base di giuoco di bussolotti. Abolisce le imposte di guerra ed aumenta quella sul sapone, sul tabacco, sul tè, sul pepe, ecc. Continua a far finta di pagare i debiti vecchi che giungono a scadenza ed intanto crea sempre nuovi debiti. Quando il consolidato si scredita, inventa un nuovo tipo di debito, che intitola navale. Nel 1822 non può più andare avanti, ed allora tenta di fare un enorme pasticcio sulle pensioni, offrendo ai pensionati dei titoli di rendita che essi avrebbero potuto vendere, e che aumentavano il debito futuro dello stato, pure scemandone il gravame momentaneo. I pensionati non ne vollero sapere, ed egli dovette andarsene dal ministero, lasciando le finanze dissestate.

 

 

I suoi successori continuano ad abolire sotto la pressione popolare, le imposte vecchie, tirando avanti a furia di economie e di operazioni finanziarie, aiutati anche in parte dal risorgimento economico del paese, che faceva aumentare spontaneamente il gettito delle imposte.

 

 

Ma non si può andare innanzi all’infinito coll’abolire imposte, senza giungere ad un punto in cui la nave fa acqua. Fra il 1830 ed il 1834 si abolirono imposte per circa 175 milioni di lire, profittando di una momentanea prosperità dell’economia pubblica.

 

 

Era forse una necessità politica abolire le imposte contro cui si appuntava più fieramente l’ira popolare. Era l’epoca in cui il suffragio era stato allargato, e cominciava ad acquistar piede l’agitazione chartista, che voleva il suffragio universale, un reggimento democratico, e temevasi avesse anche degli ideali repubblicani. Un finanziere ideologo – e non mancavano allora in Inghilterra gli ideologi che, come sir Henry Parnell, si facevano banditori di ottime riforme finanziarie – avrebbe proposto di abolire quelle imposte che maggiormente comprimevano lo sviluppo della privata ricchezza, fornendo nel tempo stesso allo stato i mezzi opportuni per fronteggiare gli eventuali disavanzi.

 

 

Ad attuare cotali riforme era d’uopo avere un coraggio, che agli empirici è mancato sempre: il coraggio di resistere ai clamori della piazza, i cui desiderii sono spesso irragionevoli, ed il coraggio di imporsi agli interessi privati, favoriti dal regime tributario e doganale esistente. Era d’uopo abolire da un lato le corn laws (leggi di protezione dei cereali) senza curarsi delle alte strida delle classi alte, ed imporre novamente l’income tax (imposta sul reddito), superando le avversioni delle classi medie.

 

 

Questo coraggio non lo si ebbe in quei tempi; si abolivano le imposte, come si disse, per dare una soddisfazione ai contribuenti; né le abolizioni erano compiute in guisa da riuscire le più vantaggiose all’economia pubblica, né l’erario era posto in grado di sopperire altrimenti alle disastrose conseguenze di una politica tributaria fatta di concessioni forzate e di pentimenti vani.

 

 

Accadeva allora in Inghilterra qualcosa di simile a quanto avvenne in Italia quando la sinistra, per ingraziarsi le masse, abolì l’imposta del macinato. In Italia l’erario perdette un’ottantina di milioni – che oggi sarebbero più di cento – all’anno; il disavanzo crebbe ed aumentarono i debiti, e si finì col creare un’imposta – il dazio sul grano – ben più gravosa ed iniqua e meno fruttifera per lo stato di quanto non fosse l’abborrito macinato.

 

 

Anche allora in Inghilterra la medesima politica empirica produceva i medesimi effetti. Non sono tarde infatti a manifestarsi le conseguenze delle concessioni ai clamori pubblici, fatte inconsideratamente, senza pensare ai mezzi di riparare agli eventuali disavanzi. Nel 1837 – 38 si manifesta un deficit di 38 milioni di lire, che si ripete nei due anni successivi. Nel

1840 – 41 il deficit sale a 44 milioni.

 

 

Sorge un altro empirico: Francis Baring, che, deputato, aveva predicato bene contro i metodi di Vansittart, e, ministro, ne fu il degno emulo. Per colmare il deficit egli ricorre al vecchio sistema di aumentare le aliquote, ed impone un 5% addizionale sui dazi doganali, un 5% in più sulle imposte di fabbricazione; accresce di 4 pence per gallone l’imposta sullo spirito; aumenta del 10% le imposte dirette, e procede ad una revisione straordinaria dei redditi dei fabbricati e delle altre imposte dirette. Egli si illudeva di poter così avere un maggiore introito di circa 50 milioni di lire.

 

 

Accadde allora ciò che era facile prevedere. L’incremento delle imposte fece aumentare il prezzo delle merci e diminuirne il consumo. L’erario introitò di più per ogni gallone di spirito; ma i galloni consumati scemarono di numero. Il ministro aveva presentato un bilancio in pareggio, facendo a fidanza sull’effetto dei suoi provvedimenti tributari; invece il consuntivo dell’anno 1841-42 segna un deficit di 62 milioni e mezzo di lire. A questo punto l’era della finanza empirica si chiudeva e si apriva il periodo della riforma finanziaria, che fa la gloria dell’Inghilterra moderna.

 

 

III

 

Nel presente momento la figura del ministro del tesoro grandeggia sovra quella della più parte dei membri del gabinetto. Il problema urgente in Italia infatti è un problema finanziario e tributario.

 

 

È trascorso il tempo in cui si plaudiva ai finanzieri i quali sapevano presentare cifre meravigliose dinanzi agli occhi attoniti dei contribuenti; e si comprende invece quanto sia arduo il compito di chi presiede alla finanza pubblica.

 

 

Talvolta, ad incitamento ed a consiglio, giova ricordare le opere di chi seppe acquistarsi fama duratura nell’adempimento del proprio dovere. Oggi perciò noi vogliamo narrare qualcosa intorno a quello fra i ministri inglesi del tesoro, al quale si deve il più vigoroso impulso alla salvezza ed alla rigenerazione finanziaria dell’Inghilterra.

 

 

Quando Robert Peel nel 1842 salì al potere, un deficit di 2 milioni e mezzo di lire sterline era il retaggio di uomini abilmente passati in mezzo agli applausi delle moltitudini.

 

 

Né era il solo retaggio. Le classi povere si trovavano allora in uno stato di gravi sofferenze; la occupazione era scarsa ed i viveri a caro prezzo. Perciò le fazioni politiche estreme acquistavano credito e cresceva ogni giorno il seguito dei radicali più accesi. I chartisti – qualcosa di mezzo tra i repubblicani ed i socialisti d’oggidì nel nostro paese – davano molto da pensare al governo. Le dimostrazioni in piazza si succedevano ogni giorno.

 

 

Arduo era perciò il compito di sir Robert Peel, assunto al governo della nazione britannica come capo del partito conservatore.

 

 

Il Peel non si dimostrò impari all’impresa. Egli cominciò col dichiarare apertamente che era giunto il tempo di lasciar da parte tutto l’intricato bagaglio dei maneggiatori troppo abili delle cifre del bilancio, di bandire per sempre gli imbrogli, i prestiti mascherati, le appropriazioni dei depositi delle casse di risparmio e delle casse speciali di ammortamento, le emissioni di buoni del tesoro e tutti gli spedienti atti a posporre, non ad impedire lo scoppio della crisi. I bilanci doveano sovratutto essere sinceri. Doveano narrare senza infingimenti le somme spese e le somme incassate.

 

 

Siccome il bilancio presentava un deficit di 2 milioni e mezzo di sterline, Peel ebbe il coraggio di dire al paese: è necessario o diminuire le spese o accrescere le entrate. Le spese non si possono diminuire se non operando tagli sugli stanziamenti ai servizi civili e militari; e siccome questi stanziamenti sono già fin troppo ridotti perché il servizio del debito pubblico assorbe quasi il 60% del bilancio passivo, così è dura necessità acconciarsi a pagare nuove imposte. Sarebbe imprudente e dannoso fare un debito, su cui si dovranno pagare interessi gravosi negli anni venturi. Non rimane altra via di scampo se non ricorrere ad una nuova tassazione. Chi tassare? Su un bilancio attivo di lire sterline 48.350.000, ben 22.500.000 lire sterline gittavan le dogane e 13.450.000 lire sterline le imposte interne di fabbricazione sui consumi. Tutti milioni pagati dalle moltitudini. Le imposte sui ricchi si riducevano a 4.400.000 lire sterline di imposte dirette e di 7.100.000 di tasse di bollo e sugli affari. La sproporzione era grande, come è agevole vedere, fra le imposte gravanti sulle masse in genere e quindi sperequate a danno dei poveri e le imposte incidenti sulla gente agiata e ricca.

 

 

Il conservatore Peel, capo di un ministero di grandi proprietari e di persone appartenenti alle classi alte non ebbe timore di proporre l’adozione di un nuovo tributo, o meglio la resurrezione di un tributo antico, contro di cui gli odii delle classi alte e medie si erano manifestati così violenti da costringere alla sua abolizione appena si erano dileguati gli ultimi timori delle guerre napoleoniche. Vogliamo alludere all’income tax, creata da Pitt nel 1799 per pagar le spese delle guerre contro la Francia, ed abolita nel 1816. Per quanto sgradita ai liberi britanni, sospettosi di tutto ciò che possa sembrare intrusione del governo nei segreti della home (della vita familiare) e degli affari privati, l’income tax fu, per la ferma ostinazione di Peel, accolta dal parlamento, prima per soli quattro anni e prolungata poi di anno in anno, sì da diventare parte integrante dell’edificio tributario dell’Inghilterra.

 

 

Veniva consacrato così il principio che le spese pubbliche debbono venir pagate non da chi nulla possiede, ma dai possessori della ricchezza; e si metteva bene in luce essere principio fondamentale della pubblica finanza e freno efficacissimo alle spese stravaganti ed inutili questo: che ai disavanzi ed alle spese nuove non si possa provvedere con un rialzo spesso inavvertito delle imposte sui consumi o con un nuovo debito i cui interessi saranno pagati dai posteri; ma si debba far fronte con un accrescimento dell’aliquota dell’imposta sul reddito. Se la nazione inglese vuole pigliarsi il gusto di guerreggiare all’estero o di buttar via all’interno i propri quattrini, faccia pure, diceva il Peel; ma sappia che entro l’anno dovrà pagare il conto in virtù dell’incremento automatico del tributo sui redditi.

 

 

Non sarebbe tuttavia bastato introdurre nel bilancio inglese il principio di giustizia distributiva che chi ha paghi, ed il principio di moralità e di prudenza che chi spende sappia di dover pagare. Era molto; ma non era sufficiente per un finanziere maestro nell’arte sua come Robert Peel, per un uomo il quale non disdegnava applicare nella pratica gli insegnamenti dalla scienza economica; e questa insegnava che sarebbe stato inutile escogitare un sistema idealmente giusto di tributi, ove il paese avesse continuato ad essere povero, il commercio arenato e le industrie ristagnanti. A coloro i quali soffrono, nessuna imposta per quanto giusta appare sopportabile. Robert Peel per conseguenza ridusse nel 1842 ben 750 su 1.200 dazi di introduzione sulle merci importate dall’estero; e ne abolì nel 1845 quasi altri 450. Né contento, nel 1846 soppresse del tutto i dazi sul grano e sugli altri cereali.

 

 

Le sue previsioni non furono smentite dai fatti. L’abolizione dei dazi sui cereali rese la vita delle masse lavoratrici a buon mercato. La riduzione e la abolizione dei dazi sulle materie prime e sui manufatti diedero nuovo impulso alle industrie ed ai commerci. I risultati sul bilancio pubblico furono immediati. Gli anni dal 1844 al 1847 segnano avanzi vistosi che variarono da 2,3 a 6,3 milioni di lire sterline. Il gettito delle dogane aumentò da 20.754.185 lire sterline nel 1842-43 a 21.086.265 lire sterline nel 1846-47, malgrado le riduzioni tariffarie.

 

 

Robert Peel, lasciando nel 1846 il governo, poteva dire con orgoglio di aver salvato le finanze della patria e di aver segnato la via su cui si sarebbero raccolti allori ancora più splendidi. Tanto più poteva essere orgoglioso dell’opera sua in quanto questa si inspirava a due principii di elementare evidenza: far sì che chi ha paghi in proporzione alle sue entrate; ed impedire che le imposte servano ad arricchire gli uni, spogliando gli altri, od a comprimere le spontanee energie industriali e commerciali del paese, come nel caso del dazio sui grani e degli altri dazi protettivi sulle materie prime e sui manufatti.

 

 

Chi sarà quel ministro del tesoro italiano il quale sappia meritare quelle lodi che il giudizio imparziale della storia tributa oggi a Robert Peel?

 

 

IV

 

È opinione comunemente diffusa che un ordinamento tributario non possa essere considerato accettabile in un paese civile se non soddisfi alla condizione di essere giusto.

 

 

Variano però – e molto – le idee intorno a ciò che possa essere considerato come giusto od ingiusto; e, a seconda delle diverse scuole economiche, svariati sistemi si propugnano per giungere ad attuare l’ideale di giustizia che sta nel cuore di tutti.

 

 

Vi ha chi vorrebbe colpire con l’imposta i capitali già formati, lasciando esenti il provento del lavoro manuale od intellettuale; mentre altri preferisce avocare allo stato una quota determinata dei redditi dei cittadini da qualunque fonte provengano.

 

 

Viva lotta si combatte pure tra quelli che ritengono giusto che i cittadini siano colpiti da tributo in uniforme proporzione ai loro redditi; e quelli che preferiscono una proporzione progressiva. Sembra, cioè, ad alcuni giusto che tutti paghino, ad esempio, l’1% del reddito, qualunque sia l’ammontare del reddito, 1.000 o 100.000 lire; mentre altri vuole che su un reddito di 1.000 lire si paghi l’1%; su un reddito di 10.000 il 2%; su 20.000 il 3%, ecc. ecc., crescendo l’aliquota coll’aumentare del reddito.

 

 

Sarebbe impresa troppo lunga, e qui non opportuna, discutere la bontà e la legittimità di codesti ed altri parecchi sistemi che si mettono innanzi per attuare il canone della giustizia tributaria. La contesa non è terminata nel campo della teoria, e nella pratica non si ha alcun esempio di stati che abbiano accolto l’uno o l’altro concetto nella loro integrità.

 

 

Importa far rilevare piuttosto come tutti questi concetti si informino sostanzialmente ad un’idea fondamentale: che chi ha paghi in proporzione (strettamente proporzionale ovvero progressiva) ai suoi redditi od ai suoi capitali.

 

 

Né basta. Siccome lo stato presta servizi desiderati od almeno utili a tutti i cittadini, come la giustizia, la sicurezza, la difesa contro lo straniero, e fornisce inoltre altri richiesti invece solo da talune classi, come l’istruzione media e superiore, così si ritiene giusto che a tutti si faccia pagare, in proporzione alle rispettive fortune, un’imposta per sopperire alle spese generali, e si richieggano tasse speciali a quelli che domandano servizi utili in modo particolare ad essi soli.

 

 

Lasciando da parte questi servizi speciali, che si pagano da coloro che li richieggono, sembra a prima vista giusto che i servizi generali siano compiuti col provento di una unica imposta proporzionale ai redditi.

 

 

Senonché quest’unica imposta sul reddito o sul capitale non sarebbe a sufficienza produttiva. Oggidì le spese dello stato – a ragione od a torto – sono cresciute talmente che l’imposta unica dovrebbe dare proventi colossali e dovrebbe elevarsi ad aliquote altissime sul reddito o sul capitale di quella nazione che l’adottasse.

 

 

In Italia, ad esempio, nell’esercizio finanziario 1898 – 99, le spese effettive ammontarono a 1.626 milioni, a cui si devono aggiungere 454 milioni di spese effettive comunali e 94 milioni di spese provinciali; in tutto, secondo l’ultimo annuario statistico, 2.174 milioni. Ora la ricchezza privata ammontava in Italia, secondo calcoli eseguiti una decina d’anni fa, a 54 miliardi, e non si può supporla cresciuta – anche a voler essere esageratamente pessimisti – a più di 70 miliardi, cosicché, adottando il coefficiente del 15%, che un insigne statistico inglese, il Giffen, ha constatato per l’Inghilterra, il reddito totale del nostro paese non può essere superiore ai 10 miliardi.

 

 

L’imposta unica dovrebbe essere applicata coll’aliquota del 16,25% per lo stato, del 4,50 per i comuni e dell’1% per le province, ossia in tutto quasi del 22% sui redditi privati per ottenere una somma corrispondente all’attuale fabbisogno.

 

 

Ognuno comprende come ciò sia praticamente impossibile. Il fisco, per quanto lo si supponga oculatissimo, non riescirebbe a scoprire forse nemmeno metà dei 10 miliardi del reddito nazionale; sì che lo stato dovrebbe fare fallimento o ridurre le spese in modo che oggi dai più non si crede possibile.

 

 

È necessario dunque – ed è una necessità riconosciuta da tutti gli stati moderni – non ricorrere ad una sola imposta sui redditi per far fronte alle spese generali, ma acconciarsi ad un sistema di imposte molteplici, che riescano a trarre di tasca al contribuente con sottili e diversi accorgimenti i molti milioni necessari allo stato senza farlo troppo strillare, ed in guisa approssimativamente conforme a giustizia.

 

 

Anche in questo i principii tramandatici dal conservatore Robert Peel e dal liberale Gladstone, ed applicati in Inghilterra da lungo volgere di anni, ci sono fecondi di utili ammaestramenti.

 

 

Scegliendo l’anno 1899, noi ci troviamo dinanzi ad un bilancio attivo di 108 milioni e un terzo di lire sterline.

 

 

Su questi, circa 50 milioni sono forniti dai consumi; ma non da consumi di prima necessità o da dazi protettivi per alcune classi di produttori. Ogni imposta sulla fame è scomparsa; ed è scomparsa pure ogni imposta pagata dai contribuenti in minima parte allo stato ed in massima parte ad altri produttori. La scomparsa ha avuto una benefica influenza sul bilancio dello stato e sul benessere della nazione; basti accennare che quei 50 milioni sono incassati per mezzo di tributi su pochissimi oggetti: spiriti, birra, vino, tè, caffè, zibibbo, tabacco, cicoria, cacao, fichi ed uva secca, carte da giuoco, polvere da sparo; tutti consumi ritenuti dai più di lusso e pagati da poveri e da ricchi egualmente, se non in proporzione alla loro ricchezza, almeno in occasione di atti i quali denotano il possesso di un reddito superiore al minimo necessario per l’esistenza.

 

 

Non si toglie il pane di bocca al povero; non lo si obbliga a salar meno la minestra od a pagar più cara la luce del petrolio, come accade in Italia; ma soltanto si pretende il pagamento d’una tassa da chi vuol bere un bicchiere di birra o di vino, o vuole avvelenarsi coll’alcool, o vuole consumare tè o caffè o tabacco. Dato che il fabbisogno dello stato è alto e non può essere coperto anche se si impongono tributi altissimi sui redditi, il metodo seguito in Inghilterra è quello che urta meno il sentimento generale di giustizia.

 

 

Affinché i tributi sui consumi di lusso siano molto produttivi, fa d’uopo che il paese sia ricco; ma a questo Peel e Gladstone aveano provveduto togliendo i dazi protettivi che comprimevano lo sviluppo dell’industria nazionale e riducendo le aliquote delle imposte sui redditi entro limiti sopportabili.

 

 

Nel bilancio inglese del 1899 non mancavano invero i proventi delle imposte dirette.

 

 

Le tasse sugli affari gittavano quasi 7 milioni e due terzi di lire sterline; le imposte di successione 11,4 milioni; e la imposta sul valor locativo 1.600.000 lire sterline.

 

 

Le poste ed i telegrafi, i beni della corona, i diritti diversi davano quasi 19 milioni di lire sterline al lordo.

 

 

Il residuo della antica imposta fondiaria, quasi un censo fisso gravante sulla terra a profitto dello stato, fruttava 770 mila lire sterline.

 

 

Tutte imposte, come si può agevolmente giudicare, poco gravose e facilmente sopportate dai contribuenti, in quanto costituiscono o un canone fisso già ammortizzato, come l’imposta fondiaria, o un’imposta sul lusso, come quella sul valor locativo degli appartamenti molto ampii, sulle vetture e domestici, oppure un’imposta pagata abbastanza di buon grado, come quella di successione.

 

 

Sono imposte però le quali hanno una scarsa elasticità, perché non si possono contrarre o ridurre rapidamente a norma dei bisogni del bilancio, variabili da un anno all’altro per circostanze impreviste, come per una guerra che accresce le spese militari o per una crisi commerciale che scema il gettito dei consumi di lusso.

 

 

A questo provvedeva nel bilancio del 1899 l’income tax, ossia l’imposta sui redditi superiori alle 4.000 lire italiane. L’imposta era destinata, nel pensiero dei suoi creatori, a colmare i deficit del bilancio. Nel 1899 fruttava 18.000.000 di lire sterline in base ad un’aliquota di 8 pence su ogni lira sterlina, ossia del 3,20% del reddito.

 

 

Quando il ministro del tesoro ha bisogno di maggiori entrate, non ha che da aumentare di 1 d. per lira sterlina l’aliquota dell’income tax e 52 milioni di lire nostre entrano in più nelle sue casse. Passato il bisogno, l’aliquota viene novamente ridotta.

 

 

Così alla guerra di Crimea si provvide in parte accrescendo l’aliquota dell’imposta sul reddito. La quale fruttò 6 milioni 117 mila lire sterline nel 1853-54; lire sterline 10.513.369 nel 1854-55; lire sterline 14.814.757 nel 1855-56; lire sterline 16.089.933 nel 1856-57 per ridiscendere a lire sterline 11.586.114 nel 1857-58 ed a 6.683.587 nel 1858-59.

 

 

Quando sarà finita la guerra del Transvaal si potrà osservare il medesimo fenomeno di espansione e contrazione del prodotto dell’income tax. L’aliquota negli ultimi anni variò nel seguente modo: 1877: 3 d.; 1879: 5 d.; 1881: 6 d.; 1882: 5 d.; 1883: 6 1/2 d.; 1884: 5 d.; 1885: 6 d.; 1886: 8 d.; 1888: 7 d.; 1889: 6 d.; 1894: 7 d.; 1895: 8 d.; 1900: 1 scellino.

 

 

La soluzione che gli inglesi cresciuti alla scuola del Peel hanno dato al problema tributario soddisfa nel tempo stesso a molteplici esigenze. Soddisfa alle necessità della giustizia, perché colpisce i consumi di lusso ed i redditi superiori ad un minimo che è ora di ben 4.000 lire; della produttività fiscale perché si basa su consumi a larga base e profondamente radicati nelle abitudini della popolazione; della elasticità perché si può con una modificazione dell’aliquota accrescere o diminuire il gettito dell’imposta sul reddito per sopperire alle spese straordinarie; ed infine della convenienza economica perché sono escluse tutte le imposte che, per il soverchio fiscalismo o per la protezione concessa a talune industrie a scapito di altre, possono comprimere lo sviluppo della ricchezza nazionale.

 

 

V

 

Il voto recente della camera dei deputati, contrario all’abolizione del dazio sul grano, non ha fatto cessare la campagna che si combatte vivissima pro e contro il dazio. Forse anzi ha infuso novello ardore negli animi degli abolizionisti. Non da oggi chi scrive è favorevole all’abolizione completa e graduale del dazio sul grano. Non giova adesso ripetere i motivi della convinzione. Piuttosto, ad incorare i combattenti ed inspirar loro fiducia nel trionfo della giusta causa, sembra preferibile raccontare per sommi capi la storia di un’agitazione intrapresa con gli intenti medesimi e condotta a termine trionfale in breve volgere di anni in Inghilterra dalla famosa Anti-Corn League, «Lega per l’abolizione delle leggi sui cereali». Fu una campagna coraggiosa e mirabile quella che nell’ottobre del 1838 si iniziò a Manchester contro il regime di monopolio e di protezione che immiseriva l’Inghilterra.

 

 

Il dazio a scala mobile sui cereali, inteso a mantenere, con una tariffa variabile da 1 scellino a 20 scellini, il grano al prezzo remuneratore prima di 80 e poi di 70 scellini al quarter (il quarter equivale a circa tre ettolitri e lo scellino a lire 1,25), era il fondamento principale del regime monopolistico, e contro di esso diressero anzitutto i loro colpi più rudi i sette apostoli del libero scambio che nell’ottobre del 1838 fondarono la lega di Manchester.

 

 

L’impresa non era agevole. Essi avevano contro di sé il parlamento, la chiesa, lo stato, i grandi proprietari fondiari, tutti gli industriali protetti ed i monopolisti. In un paese dove le cose antiche sono circondate da rispetto quasi superstizioso, la impresa poteva sembrare impossibile. Ma gli apostoli non si scoraggiano. Se i proprietari si appoggiano alla chiesa ufficiale, i seguaci della lega fanno appello alle chiese dissidenti. Contro l’aristocrazia fondiaria, il clero, la burocrazia, essi organizzano ed ammaestrano le classi manifatturiere, la borghesia media, gli industriali, i commercianti e gli operai.

 

 

I poveri ascoltano la parola dei missionari della buona novella economica ed i fondi necessari per le spese di propaganda sono largamente sottoscritti dai ricchi, penetrati dalla luce della verità. Nel 1841 le sottoscrizioni volontarie ai fondi della lega di Manchester sono di 200.000 lire italiane, e raggiungono 600.000 lire nel 1842, un milione nel 1843, 2 milioni nel 1844. In un giorno solo, il 14 novembre 1844, sono sottoscritte, in mezzo ad un grande entusiasmo, più di 400.000 lire.

 

 

La propaganda si esercita attiva, incessante, nelle città e nei villaggi dell’Inghilterra per mezzo di opuscoli, fogli volanti, affissi, giornali. L’Inghilterra viene divisa in dodici distretti, ognuno dei quali è affidato ad uno speciale propagandista. In ogni città ed in ogni contea la lega tiene le sue assemblee e le sue conferenze pubbliche. Cobden, Bright, Gibson, Villiers si moltiplicano ed accorrono in ogni luogo dove la loro parola può essere feconda di bene. Essi vanno audacemente nelle campagne, in mezzo ai contadini ed agli affittavoli; e tenendo testa con coraggio agli avversari, riescono a conciliarsene la simpatia e talvolta i voti. I fanciulli e le donne sono chiamati a contribuire all’opera. Nei sillabari e nei libri di lettura dei fanciulli si leggono dialoghi sul «monopolio ed il libero scambio». Le donne attendono alla spedizione dei giornali e degli opuscoli, preparano feste a favore della lega ed arringano dall’alto della tribuna la folla.

 

 

A poco a poco l’idea si fa strada. La riforma elettorale del 1834 aveva permesso alle classi medie di inviare rappresentanti al parlamento. Con grande stupore ed indegnazione delle classi possidenti, le città manifatturiere mandano Cobden, Bright e Villiers alla camera dei comuni.

 

 

Erano uno scarso manipolo, ma li sorreggeva la fede nella bontà della causa, congiunta al favor crescente della pubblica opinione. Con tenacia ostinata il Villiers ogni anno proponeva una mozione, la quale recitava: «… La camera, riconoscendo che un grandissimo numero dei sudditi di Sua Maestà sono insufficientemente provveduti degli oggetti di prima necessità; che frattanto è in vigore una legge la quale limita gli approvigionamenti e perciò diminuisce l’abbondanza degli alimenti; che ogni restrizione avente per iscopo di difficultare la compra delle cose necessarie alla sussistenza del popolo è insostenibile in principio e di fatto funesta e deve essere abolita, delibera di abrogare immediatamente il dazio sui cereali». Ogni anno Villiers proponeva questa mozione ed ogni anno la mozione era respinta.

 

 

Con una maggioranza sempre decrescente. Nel 1842 la maggioranza contraria all’abolizione del dazio sui cereali era di 303. Nel 1843 è soltanto più 258. Nel 1844 cade a 204; e la discesa avveniva in una camera eletta nel 1841 col programma esplicito di resistenza contro qualsiasi innovazione troppo pronunciata contro il regime economico e doganale esistente. Roberto Peel era andato, per opera del partito conservatore agrario, a capo del governo col programma apertamente esposto di mantenere le leggi sui cereali ed il sistema monopolistico doganale e coloniale. La sua vittoria schiacciante nelle elezioni del 1841 contro i liberali era stata appunto dovuta alla proposta di lord Russell, ministro nel liberale gabinetto Melbourne, di ridurre ad 8 scellini per quarter il dazio sul grano.

 

 

Contro l’opinione pubblica tuttavia non si resiste. Il decrescere continuo della maggioranza contraria alle mozioni abolitive del dazio sui cereali avverte Roberto Peel che il deputato inglese medio presente l’avvicinarsi della burrasca, capisce che i sentimenti del corpo elettorale tendono verso una trasformazione in senso liberista e si prepara ad attenuare l’antica fede protezionista in previsione delle venture elezioni generali.

 

 

Il capo del governo ammette dapprima in un discorso alla camera che le teorie liberiste sono vere in astratto e si confessa dolente di non poterle seguire in pratica a causa delle condizioni della società in mezzo a cui si è obbligati a vivere, ecc., ecc…

 

 

Ma la campagna della lega di Manchester continua. Dopo avere trasformato i sentimenti delle masse, la lega si prepara alla conquista del parlamento. La legge elettorale, accordando il diritto di voto ad ogni inglese possessore di una proprietà del reddito di 2 lire sterline annue, la lega si propone di crescere il numero degli elettori, comprando, con 50 o 60 lire sterline, una proprietà avente il reddito minimo legale. In soli tre mesi del 1845, ben 250 mila lire sterline entrano nella cassa della lega per essere in tal modo impiegate. L’effetto sul parlamento dell’ardita iniziativa della lega è immediato. Quando il Villiers, nel 1845, presenta la solita mozione contro le leggi sui cereali, la maggioranza contraria, che tre anni prima era di 303, si riduce a 132.

 

 

Qui si vide il genio di Roberto Peel. Contrario fin’allora all’abolizione del dazio, si accorge che, se avesse continuato nella politica di resistenza, il partito conservatore sarebbe stato perduto.

 

 

Audacemente l’uomo di stato gira di bordo; ed in occasione della legge del bilancio, presentata il 29 maggio 1846, propone – egli venuto al potere per mantenere i dazi ed i monopoli – la riduzione immediata del dazio a scala mobile ad un limite bassissimo e la completa abolizione del dazio a partire dall’1 febbraio 1849.

 

 

La camera, incalzata dalla marea crescente dell’opinione pubblica e dagli orrori della carestia irlandese, approva le proposte del ministro.

 

 

Poco dopo, è vero, Roberto Peel pagava il fio della sua audacia. Il 25 giugno 1846, nel giorno istesso in cui la regina Vittoria sanzionava la legge abolitrice del dazio sui cereali e dava così il suo nome ad uno dei più grandi avvenimenti storici del secolo 19esimo, una coalizione di conservatori, irritati per il mutamento d’idee del loro capo, di irlandesi e di altri abbatteva il ministero riformatore.

 

 

In quella memoranda seduta, Roberto Peel, prima di cadere, fieramente rivolgeva ai suoi avversari le parole seguenti: «… Io lascerò, cadendo dal potere, un nome odiato da ogni monopolista desideroso di mantenere la protezione a suo individuale vantaggio. Ma forse io lascerò anche un nome ricordato talvolta con gratitudine nelle dimore di coloro la cui sorte è di lavorare e guadagnare pane giornaliero col sudore della fronte e che potranno ricostituire le loro forze esauste con un cibo abbondante, immune da imposte e non amareggiato da alcun sentimento di ingiustizia».

 

 

Così cadono i grandi uomini di stato.

 

 

La sua caduta non giovò ai conservatori che si erano rifiutati di seguire il loro capo sulla via delle riforme.

 

 

Morto Roberto Peel quattro anni dopo, i suoi fidi si unirono ai liberali. Così grande fu l’ammirazione del popolo verso chi li aveva liberati dall’imposta sulla fame e così radicato l’odio verso i conservatori che quell’imposta volevano mantenere, che un’intera generazione dovette passare prima che il ricordo della lotta combattuta contro Peel divenisse meno vivo ed i conservatori potessero ritornare al potere, strappandolo al partito liberale che delle idee del conservatore Peel aveva saputo farsi vindice. Ammonimento solenne a quei partiti politici italiani i quali si illudessero di potere, senza danno proprio, procrastinare l’ora della riforma tributaria!

 

 



[1] Dei cinque articoli qui raccolti sotto il titolo Per la giustizia tributaria, i primi quattro furono pubblicati sulla «Stampa» alle date segnate. L’autore aveva dato un seguito alla serie con un quinto articolo che, per il consueto sopravvenire di nuovi avvenimenti e problemi, rimase, composto, sul bancone della sala dei compositori nella tipografia del giornale. L’autore, evidentemente persuaso di avere scritto cosa meritevole di passare ai posteri oltre la vita effimera dei numeri di un quotidiano, incluse anche l’articolo non pubblicato in un libretto, stampato a buon mercato con gli stessi piombi usati per il giornale, col titolo Per la giustizia tributaria, un vol. in 15esimo di pp. 57, casa editrice nazionale Roux e Viarengo, Torino Roma s. d., al prezzo di lire una. Quale fosse la tiratura non è ricordato dall’autore; ma il numero delle copie rimaste in magazzino fa presumere che la vendita sia stata irrilevante (Nota del 1959).

[2] Con il titolo Confronti e speranze. Ristampato nel 1901 in Per la giustizia tributaria (n. 391), I, pp. 5-12 [ndr]

[3] Con il titolo La Finanza empirica [ndr]

[4] Con il titolo L’opera del ministro del Tesoro. Ristampato nello stesso anno col titolo Un ministro del Tesoro in Per la giustizia tributaria (n. 391), III, pp. 27-33 [ndr]

[5] Con il titolo I limiti della giustizia tributaria. Ristampato nello stesso anno col titolo L’attuazione della giustizia tributaria in Per la giustizia tributaria (n. 391), IV, pp. 37-46 [ndr]

Vi sono giudici a Napoli

Vi sono giudici a Napoli

«La Stampa», 26 ottobre[1] e 1 novembre 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 247-254

 

 

I

 

Ancora una volta un giornale socialista ha dato occasione allo svolgimento di un processo il quale ecciterà certamente l’attenzione vivissima dell’opinione pubblica.

 

 

I fatti sono noti. La «Propaganda» di Napoli pubblicò un articolo nel quale l’on. Casale, deputato del collegio di Avvocata, credette di scorgere una diffamazione a suo carico. In seguito a querela dell’offeso, la «Propaganda» è ora tratta in giudizio, ed i giornali tutti riportano le interessanti deposizioni fatte in tribunale intorno alla vita pubblica e privata dell’onorevole di Avvocata.

 

 

Noi non vogliamo in questa occasione pregiudicare l’opera della giustizia. Come ci siamo astenuti da ogni commento tendenzioso intorno all’istruttoria del processo Palizzolo, ed a differenza di giornali anche conservatori non abbiamo creduto di dover rivolgere alcun monito alla magistratura inquirente, così nemmeno ora vogliamo esaminare i singoli capi di imputazioni ed arrogarci il compito non nostro di sentenziare sulla innocenza o sulla colpevolezza dell’onorevole Casale.

 

 

I nostri commenti mirano più in alto, e riguardano non la persona sola, ma il retto funzionamento delle istituzioni rappresentative, il quale viene offeso gravemente da denunzie, sospetti e deposizioni simili a quelle che conturbano oggidì l’ambiente politico napoletano.

 

 

Durante la sua carriera parlamentare, l’onorevole Casale non è certamente riuscito a conquistare la simpatia e la fiducia della grande maggioranza dei suoi colleghi. L’incidente venuto alla luce durante il processo odierno del rifiuto che si dice opposto dall’ammiraglio Corsi, con una motivazione poco lusinghiera, di lasciare salire nella sua vettura il collega deputato Casale, è significante a tale riguardo, benché l’ammiraglio Corsi abbia creduto bene di attenuarne l’importanza, giurando di non ricordare il fatto.

 

 

Ancor prima, nel 1891, il ministro Nicotera, così racconta il questore Sangiorgi, avea avuto in animo di infliggere al Casale l’ammonizione; e non è l’ammonizione precisamente la ricompensa la quale sembri più adatta ad un deputato che, a detta del Sangiorgi, ogni giorno ha l’abitudine di recarsi in questura a raccomandare vagabondi ed ammoniti.

 

 

Del pari è interessante rilevare quale stima avesse il prefetto Cavasola, la perla dei prefetti di Napoli, di un certo D’Amelio che dicesi segretario del Casale. In occasione di una contesa a colpi di bastone fra il D’Amelio ed il socialista avvocato Marrasi, il prefetto, venuto a conoscenza della cosa, immediatamente ordinò per telefono di rilasciare il permesso d’arme al Marrasi. Il permesso (non è difficile il commento) fu rilasciato perché il Marrasi potesse difendersi contro altre eventuali aggressioni, e non fu concesso al D’Amelio.

 

 

Né basta. Noi non vogliamo riferire i giudizi che l’opinione pubblica dà sul conto del Casale. Si tratta di materia posta sotto giudizio. Ma non possiamo non rilevare il contegno stranamente imbarazzato di taluni personaggi chiamati a testimoniare sulla moralità del Casale.

 

 

Il teste Petriccione loda il Casale, perché dietro sua richiesta egli sempre si è interessato a procurare favori ai contribuenti. Il teste Lista viene in giudizio, a pagare un debito di gratitudine al Casale, per avere avuto lavoro mentre stava disoccupato. Un medico, il Cotronei, ha buona opinione dell’onorevole querelante, perché spesso ne fu pregato di curare persone le quali non potevano pagare la visita medica.

 

 

L’avv. Sandulli, interrogato se ritenesse il Casale un galantuomo oppure no, dichiara questo essere un giudizio e si rifiuta a darlo. Così pure il consigliere Pacifico Ascarelli, alla medesima domanda, risponde di non avere mai avuto alcunché di attivo o di passivo con il Casale. Il parroco di San Liborio afferma di non avere mai ricorso invano al Casale per ottenere favori ai suoi parrocchiani e ne ha buona opinione per i suoi atti caritatevoli e per averne inteso parlare piuttosto bene da alcune persone.

 

 

L’avv. Sandulli, già citato, e l’ammiraglio Corsi, il quale pure è presidente di una banca che ha scontato grossi effetti cambiari al Casale, dichiarano di non sapere con quali proventi egli viva. Fin qui le dicerie, le reticenze, le quali, per chi conosca un po’ l’ambiente napoletano, sono molto significanti.

 

 

Ma vi è qualcosa di più grave.

 

 

Il comm. Nicola Miraglia viene a raccontare in giudizio che il Casale aveva fatto, nel 1887, un debito di settemila lire col Banco di Napoli, debito che rimase in sofferenza sino al 1893. Quindi il debitore cominciò a pagare a rate la cambiale; ma così lentamente che il Miraglia dovette muovere una lite al Casale per costringerlo a pagare più rapidamente.

 

 

L’on. De Martino si lagna che il Casale abbia prestato il suo appoggio ad una compagnia di navigazione del golfo di Napoli, la quale, pure avendo un pessimo materiale, del valore di non più di 300 mila lire, ha ottenuto un sussidio di 800 mila lire dal governo e dai corpi locali, col bel risultato che subito dopo la società entrò in trattative per la propria cessione ad un’altra società, pretendendo un diritto di buona uscita di un milione di lire. Tutti i tentativi di inchiesta riuscirono vani di fronte alle protezioni politiche di cui disponeva la società.

 

 

Il deputato Senise anch’esso si lamenta delle continue ingerenze del Casale nelle amministrazioni locali, ed il De Martino dichiara che l’intiera cittadinanza è persuasa della deleteria influenza dell’onorevole querelante.

 

 

La giustizia terrà il meritato conto delle affermazioni e delle accuse rivolte contro il Casale, e che noi abbiamo fedelmente trascritte.

 

 

Ciò che importa sovratutto è di far rilevare come sia dannoso al paese il fatto che simili accuse si ripetano e che continuino a prolungarsi fenomeni che speravamo fossero oramai scomparsi dal mondo politico italiano.

 

 

È necessario che finisca il periodo degli uomini politici intriganti, che si interessano di affari per conto dei loro elettori, che vivono con mezzi ignoti, spendono sessanta volte di più di quanto guadagnino con mezzi noti, si industriano a far condonare le contravvenzioni inflitte ai loro elettori con cui vivono in una intima familiarità e si servono dell’ascendente in tal modo guadagnato per scontare cambiali destinate a rimanere in sofferenza presso le banche di emissione.

 

 

Tutti hanno il dovere di far cessare uno stato di cose talmente pernicioso. Per i partiti costituzionali deve essere argomento di sprone il sapere che l’opera di rigenerazione è stata intrapresa dai socialisti. Per la salvezza del nostro paese è necessario che i partiti costituzionali ed il governo sappiano trovare il coraggio e l’abnegazione necessari per lottare contro le camarille di politicanti che si sono imposte alla nazione.

 

 

È un vero risanamento morale che è necessario iniziare, anche a costo di sollevare scandali dolorosi alle anime timide, e di svelare fatti turpi in cui abbiano avuto parte uomini importanti.

 

 

Noi dobbiamo figgerci bene in mente che non lo scandalo rovina le istituzioni, ma il fatto che si vuol tenere nascosto affinché lo scandalo non sorga.

 

 

I costumi politici e l’azione di governo debbono adattarsi alle esigenze della morale e non pretendere di assoggettare queste a sé.

 

 

Finché i deputati potranno scontare cambiali presso le banche di emissione e contemporaneamente votare alla camera su leggi le quali interessano le medesime banche, noi non potremo sperare nella risurrezione della moralità politica.

 

 

Ministri e prefetti devono avere l’autorità di imporsi alle ingerenze illecite dei parlamentari e negare i sussidi immeritati alle società di azionisti anche se queste sono appoggiate da deputati al parlamento.

 

 

I fatti tristi si collegano insieme. Se i questori osassero non tener conto delle raccomandazioni politiche per i vagabondi e gli ammoniti, se i prefetti mettessero alla porta le persone investite di pubbliche funzioni della cui moralità dubitano, non vi sarebbero deputati i quali traggono la loro forza unicamente dai servigi procurati agli elettori e dalla trama di interessi che hanno saputo creare intorno a sé.

 

 

All’impresa di giustizia e di moralità tutti dobbiamo contribuire, senza curarci dei clamori della gente scandalizzata, perché lo scandalo avrà servito alla purificazione politica e morale del paese.

 

 

Meglio un grande scandalo in una volta sola, che mille che si succedono a poco a poco avvelenando l’anima e la vita del paese.

II

 

La sentenza che ieri è stata pronunciata dal tribunale di Napoli sarà lungamente ricordata nel nostro paese.

 

 

Durante tutta una settimana il pubblico aveva assistito con angoscia crescente allo spettacolo triste di un processo, dove un deputato al parlamento, famoso per aspre battaglie vinte contro avversari di grande fama e per l’imperio incontrastatamente esercitato sulla città di Napoli, aveva dovuto chinare il capo orgoglioso dinanzi all’impeto della indignazione universale.

 

 

Sotto allo scalpello notomizzatore di un manipolo fiero di giovani coscienze, assetate di giustizia e di verità, è caduto, pezzo per pezzo, una parte – non sappiamo se la maggiore – dell’edificio di menzogna, di corruzione e di affarismo che ammorba la vita pubblica della capitale del mezzogiorno.

 

 

La sentenza intemerata dei giudici di Napoli segna la fine di un uomo e l’aperta condanna di un sistema.

 

 

Alberto Casale oggi non può continuare ad essere deputato di Napoli. Le sue dimissioni sono imperiosamente e prontamente richieste da ragioni altissime di moralità, e di dignità della rappresentanza nazionale. Il parlamento non potrebbe senza onta ospitare ancora per un giorno solo un uomo che una sentenza riconosce colpevole dei fatti esposti dal giornale «La Propaganda» e confermati dalle testimonianze di cui il triste ricordo permane ancora in tutti; un uomo del quale il rappresentante della legge ha detto in piena udienza: «Dopo il processo l’on. Casale non è più un uomo onesto!».

 

 

Sia lode sincera ed incondizionata alla magistratura napoletana: essa ha voluto sanzionare coll’alta autorità della legge l’opera di purificazione iniziata da coscienze giovani. Da molto tempo da tutti si sussurrava che l’on. Casale era quello che era. Quando alla camera si alzava per parlare, dai banchi della stampa – è sempre essa che inizia le battaglie più generose – partivano grida di: «Abbasso il capo della camorra di Napoli!».

 

 

Sventuratamente tutti sapevano ciò: lo sapeva l’autorità giudiziaria che ha fatto ieri il suo dovere. E perché non procedere prima, perché lasciare ad altri la gloria e il merito di aver abbattuto chi trionfava non pel bene e col bene?

 

 

È dolorosa in Italia questa complicità per inerzia dei galantuomini; per non aver fastidii, per non essere disturbati, si tace, quando si sa tutto, e si lascia che l’acqua corra al mare, come musulmani fatalisti.

 

 

Un risveglio di senso morale e di vita pubblica si nota in Italia: battaglie, combattute non in nome di un partito, ma in nome dell’onestà, dimostrano che nelle giovani coscienze è entrato un soffio di ideale. Soltanto là, dove nell’anima del popolo spira questo soffio, le nazioni progrediscono.

 

 

Bisogna che le classi dirigenti lo comprendano: i fatti parlano chiaro: l’opinione pubblica nella sua enorme maggioranza è tutta per i galantuomini, contro i disonesti.

 

 

Basta avere un po’ di coraggio e di fede. Certi colossi che paiono potenti, sono debolissimi. L’on. Casale, il padrone di Napoli, è caduto innanzi alle giovani coscienze di un giornale settimanale.

 

 

L’opera di epurazione non è finita col processo di ieri. Dietro ai Casale vi sono altri che bisogna abbattere ugualmente, che bisogna smascherare. A che servirebbe la caduta del capo, quando tutti i gregari rimangono nella pubblica vita, armati più che mai per la lotta?

 

 

Molte cose sono risultate dal processo: molte altre si sono intravedute: è su queste che occorre ritornare. L’opera di purificazione è appena incominciata.

 

 

Giuridicamente il processo di Napoli è finito; politicamente, socialmente è cominciato.

 

 

L’ardua impresa di risanamento morale non si fermerà qui. Le parole sdegnose del pubblico ministero ci affidano che l’on. Casale verrà tratto in giudizio in base alle imputazioni specifiche, costituenti reato, che sono venute alla luce durante il processo finito ieri. È giunta finalmente l’ora che un deputato colpevole di azioni condannate dalla morale e punite dal codice penale non sarà più soltanto deplorato in una voluminosa relazione parlamentare, e non sarà più punito col semplice compatimento benevolo dei colleghi della camera; ma sarà invece, se colpevole, condannato colle norme comuni sancite dalle leggi penali. Il processo, ieri giuridicamente condotto a termine, deve essere l’inizio di una vera riscossa delle coscienze contro le inframmettenze parlamentari, le camorre organizzate per la spogliazione e la oppressione dei cittadini indifesi, contro i compiacenti silenzi dei governi e delle autorità, ai quali incombe il carico di sostenere le ragioni della giustizia. Perché il popolo d’Italia ha sovratutto bisogno di giustizia.

 

 

Nell’anima nostra non è spento ancora quello spirito sublime di sacrificio che agli avi ed ai padri nostri faceva sembrare tenue la confisca dei beni o la perdita della vita se incontrate per la conquista della indipendenza patria e la cacciata dello straniero.

 

 

Oggi non gli stranieri bisogna cacciare dal suolo d’Italia; ma è la mala pianta dell’immoralità e dell’affarismo pubblico che urge svellere e sradicare se pur non vuolsi che essa metta radici profonde ed isterilisca tutta la nostra terra.

 

 

L’odiosità dei balzelli pesanti è poca cosa in confronto della offesa arrecata alla giustizia colla impunità troppo a lungo concessa a coloro che hanno saputo crearsi intorno una fitta rete di interessi politici.

 

 

Il governo ha l’obbligo di sentire e di interpretare questo bisogno vivissimo di giustizia che erompe dal sentimento universale. Ogni altro sforzo è vano se prima non si comincia dall’instaurare giustizia per tutti.

 

 

Lo ricordino i governanti: l’Italia per vivere ha bisogno di giustizia.

 

 


[1] Con il titolo Un processo che farà rumore [ndr]

Il «misterioso provvedimento» – Le intenzioni del Ministero – Niente riduzione del dazio sul grano e dall’imposta sul sale – Per evitare i dissensi fra ministri – Il disavanzo del bilancio per l’anno 1900-1901.

Il «misterioso provvedimento» – Le intenzioni del Ministero – Niente riduzione del dazio sul grano e dall’imposta sul sale – Per evitare i dissensi fra ministri – Il disavanzo del bilancio per l’anno 1900-1901.

«La Stampa», 23 ottobre 1900

Casta non classe

Casta non classe

«La Stampa», 17 ottobre 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 242-246

 

 

Vi sono frasi le quali hanno una fortuna grande e si impongono alla immaginazione pubblica senza che mai si sia pensato a sviscerarne l’intimo senso ed a mettere in chiara luce il nucleo di verità in esse contenuto, separandola dalle nebulose aggiunte a cui l’ardore della lotta ed il tumulto della passione possono avere dato occasione.

 

 

Una di queste frasi si è quella di «lotta di classe». Da tanti anni essa è diventata familiare, sì che quasi inavvedutamente noi l’abbiamo accolta allargandone a poco a poco i confini ed opponendo un debole schermo alla estensione ognora più grande che alcuni partiti hanno dato al suo significato.

 

 

Sembra verità dimostrata che tra gli interessi delle classi alte, borghesi, capitaliste, industriali, proprietarie e gli interessi della grande massa della popolazione esista un irremediabile contrasto ed una invincibile lotta si sferri tra gli individui appartenenti alle classi opposte.

 

 

Noi non vogliamo oggi indagare se la teoria della lotta di classe sia vera o falsa in tesi generale. Vogliamo solo mettere in luce come male si parli di lotta di classi nell’Italia nostra e come da noi una vera opposizione di interessi si abbia soltanto fra tutte le classi sociali da una parte ed una ristrettissima casta, e non classe, politica che del potere si giova per esaltare se stessa e deprimere gli altri.

 

 

È vero: in Italia si sono verificati e si verificano tuttodì molti fatti dolorosi, i quali sembrano giustificare l’idea che davvero la storia si componga di una eterna lotta fra classi dominanti e classi soggette, tra sfruttatori e sfruttati, secondo i dettami del vangelo marxista.

 

 

È vero: in quarant’anni di vita nazionale si è riusciti soltanto a rendere di giorno in giorno peggiore un sistema tributario, del quale il più misericordioso giudizio possibile è questo: che, pur opprimendo senza discernimento ogni classe sociale, ogni iniziativa utile ed ogni operosità feconda, grava in misura molto maggiore sui poveri che sui ricchi. Abbiamo costituito un organismo bancario ed una circolazione cartacea siffatti che riescono di grave ostacolo allo sviluppo dei nostri rapporti coll’estero; e, dopo avere contratto un grosso debito per abolire il corso forzoso, abbiamo saputo soltanto far ripigliare la via d’Oltralpi all’oro, ripiombando il paese nei malanni della carta moneta, delle immobilizzazioni bancarie e nelle depredazioni della cosa pubblica sotto forma di garanzie governative concesse ai biglietti di banche che si trovavano in stato di fallimento.

 

 

Noi manteniamo una burocrazia numerosa ed inutile, moltiplichiamo a dismisura tutti gli organi della vita amministrativa, e per conservare intatto il numero delle sotto-prefetture, delle preture, delle università, dobbiamo elevare ad aliquote altissime le imposte esistenti ed andare alla cerca di sempre nuovi metodi per tassare il pane, la luce, la casa, i vestiti di chi lavora e suda nei campi e nelle officine.

 

 

Tutto questo è vero: ma sarebbe grave errore trarne la conseguenza che il popolo minuto sia oppresso da una classe sociale borghese od aristocratica tutta intenta a servirsi degli organi di governo per crescere la sua potenza e la sua ricchezza. In realtà, invece, aristocrazia e borghesia, professionisti ed industriali tutti, insieme col popolo lavoratore, hanno motivo di dolersi di un sistema politico il quale ne limita le spontanee energie a profitto di una ristretta casta politica, la quale ha saputo elevarsi al disopra delle classi sociali estranee all’andamento della macchina governativa.

 

 

Noi non vogliamo muovere meschine accuse personali. Esistono nel mondo parlamentare e nell’alta burocrazia caratteri adamantini ed ingegni eletti, i quali mai non si piegherebbero ad accattar favori od a brigare posti per conto dei propri devoti. È pur d’uopo riconoscere però che tutto il congegno dello stato è costruito per modo da concedere potenza ai pochi i quali vivono attorno al governo e possono dispensare le mille e mille grazie governative alla gente affamata che si affolla e grida attorno ai politicanti e da cui questi attendono alla loro volta appoggio e plauso.

 

 

Non la borghesia si giova del fatto che molti sono gli organi di stato eccessivi di numero, male distribuiti e troppo costosi. È invece la casta politica, la quale riesce in tal modo a collocare i figli dei suoi grandi elettori ed a rendersi necessaria e temuta dispensiera dei mezzi di vita a quella piccola borghesia su cui pesa il gravame massimo delle imposte.

 

 

Agli industriali ed ai proprietari preme, tanto quanto agli operai, che le banche di circolazione si mantengano sane ed insospettate, che nessun dubbio offuschi mai la solidità del biglietto fiduciario e che l’oro circoli alla pari colla carta nel paese. Sono invece alcuni pochi, che della politica e del giornalismo avevano fatto una fonte di lucri poco onesti, coloro che hanno dato origine agli scandali bancari e, convertendo il portafoglio delle banche in una raccolta di cambiali in sofferenza e di crediti immobilizzati, hanno ricondotto l’Italia al regime del corso forzoso e dell’aggio permanente, dannosissimi alle classi borghesi industriali e commercianti.

 

 

Del pari la classe borghese non trae nessun utile dal fatto che la giustizia si amministra tarda e lenta in Italia, frammezzo a lungaggini ed a costi infiniti. Dappertutto, dove la classe veramente borghese ha ispirato la legislazione, essa ha introdotto ordine, semplicità ed onestà nei tribunali e nei pubblici uffici. L’onestà e la rapidità sono la guida sovrana degli uomini d’affari, i quali vogliono compiere imprese importanti. Sono soltanto i commercianti dei paesi poco civili quelli che intendono ad arricchirsi coi piccoli imbrogli e colle eterne lungaggini. Nell’America, nell’Inghilterra ed ora anche in Germania l’influenza della classe borghese è stata sempre intesa ad introdurre norme di onestà e di semplificazione nelle magistrature giudiziarie ed amministrative. Se da noi non si è potuto ancora ottenere altrettanto, dobbiamo anche qui farne risalire la causa all’opposizione della casta politica, che è istintivamente contraria a tutte le riforme che possano condurre ad una amministrazione semplice, energica, aliena da soprusi e da inframmettenze indebite, ad una giustizia rapida ed indipendente, al disinteressamento dello stato da tutto ciò che non riguarda, in modo diretto, le sue essenziali funzioni.

 

 

Non è la borghesia quella che disorganizza febbrilmente alla vigilia delle elezioni generali tutte le pubbliche amministrazioni, cagionando un danno irreparabile agli interessi supremi dello stato e della nazione, ed infiltrando nell’animo del popolo lo sconforto e la sfiducia nell’opera di quell’ente sovrano, di cui non è spenta ancora da noi la venerazione. Non sono gli industriali, i professionisti, i commercianti quelli che richiedono al governo il trasloco di un procuratore del re troppo energico nella scoperta dei colpevoli, collocati in umile od in alto grado sociale.

 

 

Anzi, le classi borghesi, le quali, sovra ogni altra cosa pregiano la giustizia e la sicurezza delle persone e delle proprietà, sentono la coscienza loro profondamente offesa da tutte le violazioni di diritto imposte ai governi deboli dagli intriganti che vi si attaccano sopra come una piovra.

 

 

Da lunghi anni le intelligenze più elette, uscite dal seno della borghesia d’Italia, protestano contro le inframmettenze della politica nell’amministrazione della giustizia. Ancora la coscienza di tutte le classi sociali viene invece offesa spesso da esempi tristamente famosi di intrighi politici, di denegata giustizia, di cattedre universitarie concesse per favoritismo, di concorsi messi in non cale per arbitrio ministeriale, ecc. ecc.

 

 

Nulla è sfuggito alle inframmettenze deleterie della casta politica: dallo sconforto inoculato nel cuore dei giovani scienziati che si veggono passare innanzi persone il cui unico merito è la protezione di un uomo politico o di un alto funzionario; alla sfiducia disseminata frammezzo ai nostri rappresentanti diplomatici e consolari all’estero, per i quali unica norma d’azione è divenuta l’inerzia, se pur non si vuole vedere sconfessata l’opera propria dal lontano potere centrale o dai successori del ministro che aveva consigliata una determinata condotta a tutela del paese.

 

 

È dunque falso accusare la borghesia italiana di colpe non sue e dipingerla come un irreconciliabile nemico del proletariato.

 

 

Il sistema tributario cattivo, gli scandali bancari, la instabilità nelle pubbliche amministrazioni, la costosa farragine degli uffici governativi, la ingerenza indebita nella giustizia, la mancata tutela delle ragioni e della dignità d’Italia all’estero sono tutti fatti i quali offendono egualmente il capitalista ed il proletario, il professionista ed il commesso, il banchiere ed il bottegaio, il grande proprietario ed il contadino.

 

 

Forse la borghesia ha il torto comune di tutte le classi italiane di aver lasciato troppe volte cadere la macchina dello stato nelle mani di una casta politica composta di gruppi aventi di mira unicamente il loro interesse personale.

 

 

È dovere delle classi dirigenti, nel momento presente, non mancare alla missione storica che è loro affidata. Rinuncino desse ai piccoli favori ottenuti a sedicente compenso dei gravami loro inflitti, al dazio sul grano, alle protezioni doganali, ai premi governativi, alla poco lauta imbandigione dei numerosi posti inutili nelle pubbliche amministrazioni ed imprendano con sentimento di onestà e di giustizia a risanare l’organismo dello stato italiano!

 

 

Le classi alte e medie potranno allora non solo dimostrare di non aver ricavato alcun beneficio dalle disonestà e dai mali che vediamo compiersi intorno a noi; ma potranno arrogarsi il meritato vanto di aver ricondotto lo stato italiano a compiere il suo primo ed essenziale dovere di tutore della giustizia.

La fame del carbone

La fame del carbone

«La Stampa», 11 ottobre 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 237-241

 

 

Per la seconda volta in questo secolo ci troviamo dinanzi alla «fame» del carbone. Mentre un giorno erano note soltanto le carestie di generi alimentari, adesso le crisi di carestia più dolorose per l’avvenire di un paese, sono quelle che minacciano l’avvenire delle industrie, rincarano il costo dei prodotti e gettano nella disoccupazione milioni di operai.

 

 

Fra tutte, la fame del carbone è la più pericolosa. Materia prima delle industrie, combustibile per le ferrovie ed i piroscafi, mezzo di riscaldamento e di illuminazione degli uomini, il carbone è stato a ragione chiamato il «pane nero» dell’industria e dei commerci moderni.

 

 

In quest’anno il pane dell’industria aumenta rapidamente. A Torino coloro che erano abituati negli anni scorsi a pagare il coke per riscaldamento 4 lire al quintale, ora si affrettano a fare provviste per l’inverno perché temono che il prezzo aumenti ancora al disopra del saggio attuale di 7 lire.

 

 

Il rincaro è generale per tutto il mondo. Bisogna risalire al 1873, l’anno della famosa prima fame di carbone del secolo, per trovare prezzi eguali a quelli che si praticano oggi. In Inghilterra il carbone d’esportazione avea oscillato dal 1846 al 1871, fra i 7 e gli 11 scellini (da 8,75 a 13,75 lire) per tonnellata. Improvvisamente, in seguito alla necessità di colmare i vuoti prodotti dalla guerra franco-prussiana ed allo sviluppo gigantesco dell’industria del ferro e dell’acciaio, richiesti in quantità cospicue per estendere la rete ferroviaria, i prezzi medi aumentano nel 1872 a 16 scellini e giungono a 21 scellini nel 1873 (carbone d’esportazione). Anzi a Londra i corsi salirono ancora più alto; l’1 gennaio 1873 il carbone è a 37 scellini; il 4 febbraio è già a 48, il 7 febbraio supera i 50 e il 16 febbraio tocca il culmine di 52 scellini la tonnellata. A questi prezzi in Inghilterra la gente comincia a temere di morir di freddo; come se da noi il coke si vendesse a 15 e 20 lire al quintale. Tutti fanno provviste; riempiono le cantine ed ingombrano persino gli alloggi col polveroso combustibile. Le dimostrazioni contro il caro dei carboni si susseguono in tutte le città. A Nottingham nel febbraio del 1873, quando il freddo era più intenso ed il prezzo del carbone più alto, si tenne una grande dimostrazione. Diecimila persone sfilarono in colonna serrata verso la piazza del mercato: aveano ad insegna un focolare spento ed una scritta: Si muore di freddo. Guardatevi dai proprietari di miniere di carbone alle

prossime elezioni generali.

 

 

Ora, a distanza di 27 anni, i medesimi fenomeni si ripetono. Brutti giorni si preparano per quest’inverno se i prezzi aumenteranno come nel 1873. Dopo essere rimasti per lungo tempo bassi, oscillando dal 1875 al 1899 da 8 a 12 scellini, in quest’anno i prezzi sono saliti dai 16 ai 20 scellini per tonnellata (carbone inglese d’esportazione).

 

 

In Francia, il carbone per usi domestici, si vende a 70 lire per tonnellata, come il coke a Torino. Il momento non è tranquillante. Continui scioperi si minacciano nel paese di Galles; e nella Pensylvania, 150 mila minatori hanno dichiarato di sospendere il lavoro.

 

 

Aumenteranno ancora i prezzi del carbone? A questa domanda, che ansiosamente si pongono tutti gli industriali e tutte le madri di famiglia, si danno risposte contradditorie.

 

 

Affermano alcuni che la situazione è ora molto migliore di quanto non fosse nel 1873. Allora l’unica nazione provveditrice di carbone per il mondo era l’Inghilterra, la quale produceva circa 120 milioni di tonnellate all’anno. Tutti gli altri paesi dipendevano da essa. Non si conoscevano i pregi delle antraciti della Pensylvania e i mezzi di trasporto non si erano ancora così perfezionati da permettere di colmare le deficienze eventuali delle provviste in un tempo relativamente lieve.

 

 

Ora invece la situazione è profondamente mutata. La produzione mondiale raggiunse nel 1899 l’alta cifra di 660 milioni di tonnellate all’anno, senza contare 64 milioni di lignite. In confronto al 1897 vi è un aumento di 85 milioni di tonnellate, e l’incremento ha continuato a passi giganteschi nel 1900. L’Inghilterra da sola produce 220 milioni di tonnellate. Gli Stati uniti, che finora le erano rimasti indietro e nel 1887 producevano solo 116 milioni di tonnellate, ora la distanziano già con 225 milioni. La Germania segue con 101 milioni di tonnellate di carbone e 34 milioni di lignite. La Francia gitta sul mercato 32 milioni, il Belgio 22, la Russia 12, l’Austria – Ungheria 12 e mezzo, le Colonie inglesi e l’India 19 milioni, ecc.

 

 

In tutti i paesi la produzione cresce, fuorché nel Belgio, dove i pozzi antichissimi e profondi si vanno esaurendo. Non vi è mai stata una produzione così grandiosamente abbondante come ora, il che è segno che i prezzi alti non possono durare. Se l’Inghilterra non potrà più provvederci di combustibile, si ricorrerà agli Stati uniti, i quali possono fornire un carbone ottimo, a prezzo minore.

 

 

Si aggiunga che, mentre la produzione del carbone aumenta, si inventano sempre nuovi procedimenti per economizzarne l’uso. Le industrie ricorrono alla forza elettrica ed adottano caldaie in cui lo spreco è minore di quello attuale. Se si pensa che appena l’1% della potenza calorifica del carbone per usi domestici, ed appena il 10% della potenza teorica del carbone per caldaie vengono oggi utilizzati, e che nelle miniere di carbone gli sprechi sono grandissimi, si comprende come non si possa parlare seriamente della possibilità prossima della mancanza di carbone in senso assoluto.

 

 

Ancora: i prezzi alti hanno già prodotto il loro solito effetto: la diminuzione del consumo. In Inghilterra l’industria del ferro e dell’acciaio, che è la massima consumatrice di carbone (2 tonnellate e mezza di carbone per ogni tonnellata di ferro) non solo non si espande più, ma decade sotto i rudi colpi della vittoriosa concorrenza americana. Il carbone viene così reso disponibile in maggiore quantità per gli altri consumi.

 

 

Le considerazioni ora esposte sono assai ragionevoli e servono a dimostrare come non sia probabile che negli anni prossimi perdurino gli altissimi prezzi del carbone vigenti oggidì. Ciò che tiene sovratutto alti i prezzi nel presente momento si è la furia improvvisa di provvedere carbone in quantità ognora crescenti alle navi da trasporto della marina da guerra nell’Africa del sud e nella Cina, alle fabbriche di ferro e d’acciaio, le quali lavorano intensamente per produrre le rotaie per i nuovi sistemi ferroviari da costruire, le macchine per le fabbriche che in ogni luogo sorgono a folla, le armature in ferro degli edifici, ecc. ecc. È evidente che, per quanto la scienza mineraria si sia perfezionata, non è possibile tener dietro con sufficiente prestezza all’incremento improvviso della domanda. A scavare nuovi pozzi, a perforare gallerie è d’uopo un certo tempo, e durante questo tempo, siccome gli sbalzi all’insù delle domande di carbone sono più rapidi degli sbalzi della quantità prodotta, è naturale che i prezzi aumentino. Aumentano tanto più in fretta in quanto il carbone, come il pane, è un oggetto di prima necessità, di cui l’industria non può assolutamente fare a meno, come il corpo umano non può fare a meno degli alimenti. Si può ricorrere a surrogati, come il petrolio, la forza elettrica, il carbone americano, ecc.; ma ci vuol del tempo e mentre i mesi passano, i prezzi aumentano. Diminuiranno quando la furia delle costruzioni ferroviarie sarà passata, quando la guerra cinese sarà finita, si saranno introdotte economie nel consumo dei combustibili, ed adottati opportuni surrogati.

 

 

Basterebbe forse un piccolo incremento della produzione ed una lieve diminuzione della domanda di carbone per le navi e per le ferrovie, o per fabbricar rotaie, perché nei porti inglesi si verificasse l’esistenza di un qualche deposito disponibile ed i prezzi tornassero a scemare.

 

 

Se è quasi certo che una diminuzione di prezzi dovrà verificarsi, è ignoto il tempo in cui si potrà annunciare il fausto avvenimento. La questione è tutta di tempo. Faranno in tempo le nuove miniere ad accrescere la loro produzione prima che giungano i mesi d’inverno; e si giungerà a stabilire un rapido sistema di trasporto dagli Stati uniti all’Europa, e sovratutto all’Italia? Che cosa daremo noi alle navi, venute qui con zavorra di carbone, da trasportare nel viaggio di ritorno in America, affinché i noli del combustibile possano essere tenuti bassi?

 

 

O non sorgerà qualche nuova causa la quale faccia crescere ancora il consumo del carbone e renda necessario un nuovo sforzo dei coltivatori di miniere per aumentare la quantità prodotta? Gli operai non vorranno con lunghi scioperi attrarre a sé una parte dei pingui guadagni di cui l’industria carbonifera è ora prodiga, e non saranno cagione così di una diminuzione di prodotto appunto nei mesi freddi, quando il bisogno è più intenso?

 

 

Ecco le ragioni di indole momentanea, le quali ci fanno dubitare che la diminuzione dei prezzi dei carboni sia vicina, benché ci sembri probabile che alla lunga, negli anni prossimi, il presente caro non possa continuare. Purtroppo, a tutti coloro i quali nei prossimi mesi d’inverno saranno angustiati dalla fame del carbone, è magra soddisfazione sapere che, come già alla carestia del 1873 successero gli anni di bassi prezzi 1875-99, così anche questa volta alla fame nera del 1900 succederà un periodo in che il carbone potrà essere acquistato a prezzi più ragionevoli degli attuali.

Morte civile

Morte civile

«La Stampa», 8 ottobre 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 233-236

 

 

Il dott. Aglietti, il quale ha dato le dimissioni da membro del partito socialista e da consigliere comunale di Firenze perché un voto del comitato federale del partito gli avea fatto «chiaramente comprendere che un socialista non può mai, nemmeno con un ordine del giorno assolutamente privo di qualsiasi carattere politico, far plauso ad una spedizione scientifica, quando sia capitanata da un principe; e, se plaude, vien meno alla disciplina di partito».

 

 

Il dottor Aglietti ricorda che già altra volta per poco non era stato richiamato alla disciplina per aver consentito che Firenze commemorasse con una conferenza popolare il sesto centenario del priorato di Dante. La Difesa in quell’occasione fece le più alte meraviglie perché un consigliere comunale socialista avea approvato delle spese per una commemorazione di un assessore del trecento (!). Dante, per quei socialisti, era né più né meno di un assessore comunale.

 

 

Ammaestrato da questi ripetuti ammonimenti, l’Aglietti, accorgendosi di non accettare più interamente la dottrina ed i metodi del partito socialista, diede le sue dimissioni.

 

 

Le quali hanno dato e danno ancora argomento a svariate considerazioni da parte dei giornali italiani.

 

 

Certo i socialisti avrebbero potuto essere un po’ più abili. Non era davvero questo il momento per emettere un voto di biasimo verso una persona di null’altro colpevole fuorché di avere espresso in pieno consiglio comunale fiorentino la sua ammirazione verso un giovane valoroso, simpatico a tutti gli italiani per le gloriose imprese compiute. I socialisti fiorentini avrebbero consultato meglio i loro medesimi interessi se si fossero astenuti da un passo, il quale dimostra che essi spingono lo spirito settario sino al punto di negare omaggio o, meglio, di impedire che spontaneamente un socialista singolo rechi omaggio alle virtù di uno scopritore, quando per caso lo scopritore sia un principe.

 

 

I giornali liberali hanno tuttavia avuto torto di meravigliarsi dell’intransigenza dei socialisti nella presente occasione. Costoro non hanno fatto altro che applicare inopportunamente la massima, che al partito non si può appartenere senza accettarne tutti i principii e tutte le norme di azione, dall’ubbidienza passiva ai deliberati dei congressi, alla ignoranza affettata dei fatti belli compiuti dai membri della famiglia sovrana.

 

 

Per fortuna il dottor Aglietti può dire di essersela cavata a buon mercato. La morte civile, da cui egli è stato colpito, riguarda solo la sua appartenenza al partito; ma lo lascia completamente libero in tutto il resto. A molti spiacerà certo che il partito socialista abbia tratto argomento da un fatto di indole non politica, estranea alle finalità del socialismo, per pronunciare l’ostracismo contro un compagno di cui finora il partito era stato orgoglioso. In fin dei conti però, per l’Aglietti, il danno non è stato grave, e si riduce alla esclusione da una data chiesa politica, la quale non gli impedisce di continuare nella sua professione, di professare i suoi principii socialisti, se questi sono ancora i suoi, e di concorrere alle cariche pubbliche se il voto dei concittadini vorrà ancora affermarsi sul suo nome.

 

 

La morte civile che lo ha colpito, è una morte parziale che non lo tocca se non in una minima parte della sua personalità e della sua vita.

 

 

Ben diversa sarebbe stata la cosa se il partito socialista fosse stato al potere e se la secessione fosse stata fatta non da una libera consociazione di parte, ma da quel partito medesimo che fosse stato padrone del governo.

 

 

Attualmente, in una società libera, le esclusioni e le secessioni dal partito non producono conseguenze gravi. Anzi, si possono considerare come una forma politica della libera concorrenza. Coloro i quali volontariamente o per forza escono da un partito, possono venire accolti in un altro o riescono talvolta a fondare partiti nuovi. Quando le secessioni siano sincere e leali, esse riescono ad intensificare l’attività di alcune persone che, strette nella morsa ferrea di un partito dal quale in alcune idee dissentivano, non avrebbero potuto operare cosa alcuna notevole a vantaggio della società.

 

 

Se ben si guarda, tutto ciò è possibile perché i partiti hanno una vita indipendente dalla vita del governo. Liberali e conservatori, repubblicani e radicali, socialisti ed anarchici si appoggiano sul voto degli elettori; e gli elettori sono per lo più proprietari, professionisti, operai, i quali vivono del proprio lavoro e non dipendono, in grandissima maggioranza, dal governo per avere i mezzi di esistenza.

 

 

La storia è lì per dimostrarci che i pessimi fra i corpi elettorali sono stati sempre composti di dipendenti statali, e che i migliori e più liberi elettori si reclutarono nelle professioni e nelle industrie viventi di vita propria, senza bisogno di largizioni governative.

 

 

In un regime individualistico la libertà è possibile perché l’industriale vive dei frutti della sua fabbrica, il contadino del suo campo, e non hanno nessuno al disopra di loro e non temono di essere licenziati dall’impiego da nessun superiore.

 

 

In una società siffatta, la morte civile pronunciata da un partito ha un’importanza affatto individuale. Significa soltanto che gli elettori del partito socialista non daranno più, alle prossime elezioni, il voto all’escluso e costui dovrà rivolgersi ad elettori appartenenti ad altri partiti o ad altre classi sociali.

 

 

In una società socialista, invece, le cose andranno un po’ diversamente. A meno di supporre un socialismo che tale non sia e prendere la parvenza della cosa per la sua sostanza, è evidente che il regime socialista significa uno stato di cose in cui le varie industrie e professioni sono esercitate dagli enti politici, grandi o piccoli, per mezzo di proprii impiegati.

 

 

Allora il cittadino, il quale contraverrà alle idee, alle regole fissate dall’amministrazione pubblica, ovvero incorrerà nello sdegno dei governanti, correrà il pericolo di cadere vittima di una morte civile, la quale sarà veramente terribile. Non si tratterà soltanto della secessione o della espulsione da un partito, ma della esclusione dagli impieghi distribuiti dalla società socialista, impieghi i quali, è d’uopo ricordarlo, saranno il solo mezzo di vita per gli uomini d’allora.

 

 

Nello stesso modo in cui lo stato adesso non conserva nelle sue amministrazioni uomini i quali apertamente si dichiarino contrari agli ordini esistenti e predichino la ribellione ai superiori, così lo stato od il comune socialista inviterà a dar le sue dimissioni quell’impiegato il quale consigli la disubbidienza agli ordini dei superiori o vada predicando che le leggi esistenti devono essere violate od i principii fondamentali dello stato sovvertiti.

 

 

Ora però gli impiegati sono l’infima minoranza della popolazione, e gli espulsi, i dimissionati, i boicottati possono dedicarsi ad altre occupazioni, sia per conto proprio, sia per conto di altri imprenditori privati.

 

 

In una società socialista, in cui l’unico industriale sarà lo stato, od industriali saranno enti politici legati insieme da una stretta comunanza di interessi, che cosa dovrà fare il compito dalla esclusione dalla società socialista?

 

 

Appellarsi agli elettori e costituire un altro partito per impadronirsi del potere. Magra soddisfazione, se si pensa che nel frattempo bisognerà pur vivere e che gli elettori saranno tutti impiegati governativi e perciò scarsamente indipendenti nella manifestazione della loro volontà.

Dodici anni di errori

Dodici anni di errori

«La Stampa», 7 ottobre 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 228-232

 

 

Agli alunni si insegna nelle scuole che la storia è la maestra della vita. Può darsi che il precetto scolastico sia vero; ma è molto dubbio che possa essere applicato alla politica e sovratutto alla politica finanziaria. I medesimi errori si ripetono da uomini che bene ne conoscevano le conseguenze dannose e che contro quelle conseguenze avevano alzato la loro voce quando gli errori erano commessi da altri uomini politici. La storia finanziaria d’Italia è feconda di simili fatti, anzi, ne è quasi completamente intessuta.

 

 

Questa almeno è l’impressione di chi legge il secondo volume, testé pubblicato, della Storia della finanza italiana di Achille Plebano.

 

 

Il primo volume aveva narrato le vicende della finanza italiana dalla costituzione del regno al 1876. Molti furono gli errori commessi in quello che fu chiamato il periodo eroico della nostra finanza; ma vi era la scusante della necessità che non ammetteva indugi e costringeva i finanzieri a sempre nuovi spedienti per far denari. Trattavasi di formar l’Italia nuova; conguagliare i tributi, provvedere alle spese di guerra, costruire strade, porti, ferrovie, scuole, combattere il brigantaggio e lottare senza tregua con un enorme disavanzo che in taluni anni giunse a 400 milioni. In quei frangenti vi fu un finanziere, il Sella, che seppe essere feroce tassatore, ebbe il coraggio di far sancire i più gravi balzelli che mai fervida immaginazione fiscale abbia saputo escogitare e di riscuoterli con indomabile energia. Grazie alla energia provvida di quegli uomini il bilancio italiano nel 1876 quasi aveva raggiunto il pareggio.

 

 

Era un pareggio puramente aritmetico che nasceva da un sistema tributario sperequato, tutto inteso a spremere denari dalle tasche dei contribuenti, pur che lo stato fosse salvo, pur che la giovane nazione, appena costituita, potesse pagare puntualmente gli interessi dei suoi debiti.

 

 

Era chiaro il compito degli uomini nuovi.

 

 

Giovarsi del pareggio faticosamente raggiunto per compiere una serie di riforme che facesse penetrare la giustizia e la elasticità nel sistema tributario; alleggerire le aliquote troppo alte delle imposte dirette, proseguire sulla via della libertà doganale che si era dimostrata efficace a promovere la ricchezza nazionale ed a rendere la vita più a buon mercato; preparare la conversione del debito pubblico e l’abolizione del corso forzoso; restringere i lavori pubblici a quelli veramente produttivi e chiudere veramente e per sempre il gran libro del debito pubblico.

 

 

Questo l’Italia sperava dagli uomini nuovi che erano saliti al potere nel 1876; ed era un programma che poteva essere attuato e che avrebbe lasciato il paese in condizioni invidiabili di prosperità e di pace sociale.

 

 

Invece nel 1888, quando morì il Depretis, che in quegli anni quasi sempre resse le sorti del paese e si ritirò il Magliani, che era stato per lungo tempo il reggitore della finanza italiana, non solo non si era fatto nulla, ma quello che era stato fatto aveva aggravato i mali di che l’Italia soffriva, ed aveva sparso i germi di quel malcontento che cagionò poi le rivolte della Sicilia ed i moti del 1898.

 

 

«Se il pareggio non c’è bisogna ottenerlo, e se c’è conservarlo ed assodarlo», aveva dichiarato il Depretis nel primo suo giungere al governo; e un vistoso e persistente disavanzo fu il risultato di dieci anni di amministrazione. Dal 1860 al 1876 si era giunti da un disavanzo di 400 milioni ad un avanzo di 20; e dal 1876 al 1887-88 si ricade nel disavanzo di 73 milioni.

 

 

Chiamato al governo per difendere l’improvvisa ed improvvida abolizione del macinato, tributo odioso, ma che non poteva essere tolto d’un tratto, il Magliani annunzia il programma della unificazione tributaria, per dare alla distribuzione dei pubblici carichi base di equità e, sovratutto, per sollevare dalle esigenze del fisco le classi meno abbienti. E quella trasformazione si concreta invece nella maggior somma di oltre 181 milioni sottratti ai cittadini colle imposte sui consumi (1876, 422 milioni; 1887-88, 603); nella sostituzione al macinato della più ingiusta e più gravosa dogana sulle farine e sul grano, inasprita, nei suoi effetti, dagli aggravi locali; e nella elevazione del dazio sullo zucchero e sul petrolio a livelli non raggiunti in alcun paese.

 

 

Le larghe e razionali riforme degli ordinamenti amministrativi, la rarificazione della burocrazia, la diminuzione delle spese delle pubbliche amministrazioni costituiscono precipua parte del programma del governo. Le riforme amministrative rimasero un desiderio, l’esercito della burocrazia si trovò potentemente rinvigorito ed accresciuto; e nel suo complesso la spesa dell’opera amministrativa dello stato salì da 289 a circa 383 milioni.

 

 

Si diede mano a numerose opere pubbliche; ma per i criteri adottati e per i metodi seguiti s’impose al paese un onere di gran lunga superiore a quello che il ragionevole sviluppo delle opere richieste dalle esigenze reali del paese poteva richiedere; e si aprì per la finanza una delle più feconde fonti di suoi dissesti.

 

 

Il concetto della libertà nel campo economico aveva il Depretis dichiarato essere tradizionale ed insito nel suo partito; il Magliani, uomo di scienza, quel concetto aveva eloquentemente propugnato e difeso; ed essi lasciarono l’Italia gravata dal protezionismo agrario ed impegnata in una guerra di tariffe nel campo dei suoi più importanti scambi.

 

 

Si era tentata l’abolizione del corso forzoso e già si calcolavano i vantaggi che doveva trarne l’economia nazionale; ma fu l’illusione di un momento. Il metallo costosamente raccolto, tornò in breve a sparire; il disagio della carta ricomparve, ed il corso forzoso abolito dalla legge già era di fatto in piena vita quando il Magliani lasciava il governo. Della grande impresa non rimaneva che l’onere recato allo stato dal prestito contratto per tentarla.

 

 

Questo il bilancio dei dodici anni di storia narrati dal Plebano nel suo volume, il quale dovrebbe essere meditato sul serio da tutti coloro che in Italia si interessano di questioni finanziarie e sovratutto da quelli a cui è affidata la cura di legiferare intorno alla cosa pubblica.

 

 

Ora, in seguito ad un altro dodicennio di pentimenti, in parte sinceri ed in parte farisaici, e di nuovi strumenti di tortura applicati ai contribuenti, noi ci troviamo nel 1900 ricondotti allo stesso punto a cui eravamo giunti fino dal 1876.

 

 

Il disavanzo è o sembra nuovamente scomparso, come era scomparso un quarto di secolo fa.

 

 

Quale sarà dunque la via che noi sceglieremo? Ripeteremo gli errori funesti dei nostri predecessori o daremo mano a compiere quel programma che essi dissero di volere attuare e di cui invece attuarono l’opposto?

 

 

Il pericolo che si ricominci a commettere i medesimi errori del passato rimane ed anzi sotto certi rispetti è maggiore di prima. I mali a cui occorre porre riparo sono più numerosi; ed è più difficile sanarli perché nel 1876 tutti erano d’accordo nel volere il programma di giustizia tributaria, mentre ora sono molti i quali traggono giovamento dalla ingiustizia, ad esempio i proprietari di terre a grano e gli industriali che dai dazi sono vantaggiati a danno della intera società.

 

 

Né mancano i segni che non sono scomparsi ed anzi persistono vigorosi e rumorosi i fautori di quella politica finanziaria allegra e spensierata che dodici anni fa ci condusse al triste epilogo narrato sopra sulla scorta del Plebano.

 

 

Ancora oggi vi è chi vorrebbe fare, ad imitazione del Crispi, una politica interna fortemente repressiva ed una politica internazionale grandiosa ed espansionista; e non mancano negli articoli di molti giornali gli accenni che la razza dei Magliani non è spenta, e che l’attingere denaro al credito per opere pubbliche di dubbia utilità non è massima finanziaria del tutto ripudiata e da molti si crede tuttora essere possibile imprimere un forte sviluppo alla ricchezza ed all’operosità nazionale con imprese di stato che l’esperienza del passato ci autorizza a ritenere dannose e con lavori pubblici distruttivi della ricchezza che si vorrebbe fecondare.

 

 

Le vie che ci si aprono dinanzi non potrebbero essere più divergenti e recisamente opposte.

 

 

O noi seguiteremo nella politica di espedienti, di mezze misure, di lavori pubblici inutili, di imposte ad aliquote alte, di protezionismo doganale e fra altri dieci anni ci troveremo di nuovo a combattere colle centinaia di milioni di disavanzo. Oppure noi sapremo tollerare, colla calma dei forti, i clamori dei divoratori interessati del nostro bilancio, ritornando alla politica della libertà commerciale, la più ampia possibile nelle contingenze attuali, del ribasso delle aliquote, della giustizia tributaria e fra un decennio potremo raggiungere quell’ideale che già dal 1887 avrebbe dovuto essere oltrepassato: il pareggio solidamente assicurato, la conversione della rendita, l’abolizione del corso forzoso, e l’accrescimento della pubblica ricchezza.

 

 

Speriamo che il giudizio dello storico futuro sull’opera degli uomini d’adesso, non debba essere altrettanto severo come dovette essere il giudizio del Plebano sugli uomini capitanati da Depretis e da Magliani.

 

 

Il nuovo difensore di Bresci (L’Avv. Merlino)

Il nuovo difensore di Bresci (L’Avv. Merlino)

«La Stampa», 29 e 31[1] agosto 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 219-227

 

 

I

 

Chi è dunque quest’avvocato Merlino al quale il regicida ha voluto affidare la sua difesa, dopo aver fatto invano appello all’on. Turati?

 

 

Raccontano i giornali che l’avv. Merlino, appartenente a ricca distinta famiglia napoletana e fratello di un procuratore del re, fu anarchico nella sua gioventù ed ebbe parte attiva in una pazzesca spedizione rivoluzionaria nelle montagne beneventane, capitanata da quel milionario Cafiero, il quale finì povero e matto. Prese in seguito parte attiva, insieme con Malatesta e con altri, alla propaganda anarchica italiana ed internazionale; ramingò profugo in varie regioni straniere; scrisse e pubblicò, colla data di Napoli – Londra nel 1887, un curioso libro intitolato: Socialismo o monopolismo che levò rumore nel campo rivoluzionario.

 

 

A poco a poco le sue idee divennero più miti; ed a misura che le tendenze dell’avv. Merlino diventavano pacifiche, cresceva il suo dissenso cogli anarchici militanti, dissenso che scoppiò in vivaci polemiche e si conchiuse con la pubblicazione di due libri: Pro e contro il socialismo e L’utopia collettivista e della Rivista critica del socialismo, nella quale l’antico anarchico propugnava un socialismo evoluzionista all’acqua di rose.

 

 

Questo dicono i resoconti biografici dei giornali quotidiani. Ma qui non è tutto. La cronaca degli avvenimenti di sua vita non basta a rappresentarci al vivo la figura di un uomo il quale è davvero uno dei più curiosi seguaci di quella complessa e spesso discordante somma di idee designata consuetamente, così all’ingrosso, col nome di «socialismo».

 

 

L’avv. Merlino appartiene alla categoria (frequente nei nostri tempi di fretta e di impazienza) dei rivoluzionari ondeggianti tra la vita d’azione e lo studio auto-didattico, nei quali l’ardore giovanile di combattere nelle mischie sociali è temperato talvolta dalle attrattive dello studio scientifico e dai dubbi continui che la meditazione e l’intuito della vita pratica fanno sorgere nell’animo degli uomini maggiormente propensi alle rivoluzioni ed alle lotte.

 

 

Se il caso li avesse posti per tempo sotto la guida amorosa di un pensatore o di uno scienziato accademico, costoro sarebbero forse diventati professori universitari di economia politica. Abbandonati a se stessi nella età in che è più viva la sete del sapere e l’inesperienza dei mezzi di raggiungere la conoscenza della verità, mossi dallo spettacolo di miseria contemplato ogni giorno nel mondo esterno, eccitati dalla lettura dei vangeli affascinanti dell’anarchia e del socialismo, costoro divengono anarchici, si iscrivono al partito d’azione, compiono dei giri di propaganda e divengono i duci ascoltati e pellegrinanti delle masse operaie. Così fece l’avv. Merlino nella prima metà della sua vita pubblica, quando in Italia ed all’estero conquistava la fama di ispiratore ascoltato del movimento comunista-anarchico contemporaneo.

 

 

Ma gli uomini del tipo ora descritto non appartengono alla schiera di coloro i quali si tengono fermi all’unica idea che li ha conquisi in gioventù e continuano per tutta la vita a propugnarla, non curandosi, ed anzi disprezzando ed ignorando le dottrine avversarie. Le loro tendenze intellettuali li spingono invece a studiare le teoriche degli avversari per poterle combattere con maggiore coscienza. Per molti e per un po’ di tempo tale è invero l’effetto della cultura economica, politica e sociale di che si imbevono i capi rivoluzionari. Essa serve come arma di combattimento e di critica per esaltare le proprie e distruggere le altrui dottrine.

 

 

Non di rado però accade che lo studioso rivoluzionario finisce per convertirsi alle dottrine degli avversari, prima criticate e combattute. Allora si hanno le apostasie, le polemiche cogli antichi compagni di lotta, le pubblicazioni intese a dimostrare la verità del nuovo punto di vista abbracciato dall’apostata.

 

 

Difficilmente però l’uomo riesce a spogliarsi completamente della sua natura antica; ond’è che essi rimangono perpetuamente ondeggianti tra le idee vecchie e le idee nuove, rinnegati dagli uni come apostati, e riluttanti, nel tempo stesso, ad ascriversi nelle file degli altri. Essi allora si proclamano indipendenti, divengono banditori di una nuova dottrina, la quale va ad accrescere il novero, oramai infinito, delle teoriche utopistiche e socialistiche.

 

 

Così accadde all’avv. Merlino. Anarchico in un’età troppo giovane per poter avere una soda e profonda cultura, propagandista convinto di idee troppo velocemente apprese e credute vere, in mezzo ad una vita rumorosa ed agitata d’azione, non perse mai l’abitudine del leggere e dello studiare. Fu questa abitudine, ignota ai più dei rivoluzionari, di leggere, un po’ alla rinfusa, libri di anarchici, di socialisti, di economisti ortodossi, di economisti della scuola pura austriaca, fu questa abitudine, congiunta con una buona dose d’ingegno e di capacità di osservazione individuale, che ha condotto l’uomo il quale ancora nel 1890 scriveva: «uccidere un tiranno o tradirlo è vera gloria…; il furto si deve ammettere come necessità di lotta”, ad essere un curioso impasto in cui si fondono tutte le idee nel tentativo di creare una nuova scuola evoluzionista e pacifica. Egli si proclama socialista, ed è convinto “che, alla povera navicella nella quale noi navighiamo, solo nel porto del socialismo vi sia scampo dalla tempesta che la travaglia»; e, nel tempo stesso, trova che «i socialisti di tutte le scuole si sono troppo compiaciuti finora di principii astratti, aprioristici, assoluti e di formole vaghe ed ambigue».

 

 

Egli condanna il collettivismo perché è «un sistema troppo semplice e simmetrico», il quale urta contro difficoltà insormontabili; ma soggiunge subito che, «se il collettivismo è utopistico, il comunismo anarchico non è né pratico né positivo. Esso si fonda sul concetto individualistico, dell’individuo perfetto e per sé stante e pienamente libero». Il che è utopico, perché «si suppone che la società si possa reggere per un miracolo perpetuo, cioè per virtù del consenso e dell’accordo dei suoi membri», mentre invece «la società si regge su di un sostrato storico di ricchezze accumulate, di beni disposti a dati fini, e di organizzazioni e istituzioni permanenti, di tradizioni, costumi, idee ed interessi costituiti».

 

 

Fra le due utopie, l’utopia collettivista «del piano unico tracciato da un ufficio di statistica o da un consiglio accademico», e l’utopia anarchica «dell’assenza di ogni piano, dell’incontro fortuito di tutte le volontà e di tutti gli interessi», sta il socialismo vero, quello dell’avv. Merlino, ultima edizione (L’utopia collettivistica, p. 128).

 

 

Il socialismo deve essere concepito, secondo il «timido», abbozzo del Merlino, come «un aggiustamento delle relazioni sociali, nel fine di dare a tutti gli individui capaci di lavorare l’uso degli istrumenti di lavoro e di provvedere alla sorte degli incapaci, senza, del resto, inceppare l’iniziativa dei singoli, senza menomare la loro libertà di lavoro, di consumo, di cambio, di domicilio, di associazione, ecc.». La collettività nuova immaginata dal Merlino «rivendicherebbe la proprietà permanente dei grandi mezzi di produzione, terra, fabbriche, ferrovie, ecc., ma non eserciterebbe, tranne qualche eccezione, direttamente le industrie e gli scambi. Essa concederebbe l’uso di quelle cose agli individui ed alle associazioni, esigendo una rendita che avrebbe il doppio ufficio di eguagliare le condizioni dei lavoratori e di dar modo alla collettività di provvedere ai servigi pubblici».

 

 

Questo è il sistema a cui è giunto ora, attraverso a lunghe peregrinazioni intellettuali, l’anarchico che proclamava un giorno essere talvolta il furto una necessità ed essere vera gloria uccidere o tradire il tiranno; ed è al propugnatore di questo nebuloso ed incerto sistema, il quale non si può chiamare davvero né anarchico né socialista, che si è rivolto il regicida Bresci, desideroso di difesa nel processo di oggi.

 

 

Ma è proprio al mite socialisteggiante di adesso che si è rivolto il Bresci, o non piuttosto al bollente propagandista anarchico di un giorno, o non, fors’anco, al rappresentante in genere di quelle dottrine sociali in nome delle quali egli ha creduto di dover commettere il reato di regicidio?

 

 

II

 

Colla condanna rapida del regicida Bresci si è chiusa la tragedia che per un mese ha tenuto agitata e commossa l’Italia. Giustizia è stata fatta, ed il regicida, dopo una breve comparsa dinanzi al grande pubblico, è stato sepolto nell’oscurità, dalla quale non avrebbe mai dovuto uscire.

 

 

Il processo ha dimostrato quali passioni e quali proponimenti si agitino in mezzo ad una piccola parte del nostro popolo, pur laborioso ed entusiasta per le cose belle e grandi. Leggendo il resoconto della seduta delle assise di Milano non è tanto la figura, fredda ed impassibile, dell’assassino che ci balza viva dinanzi agli occhi, quanto l’idea che altri italiani ancora, come il Bresci, vivono in Italia ed all’estero i quali vorrebbero violentemente scuotere l’ordine costituito, e sperano attuare i loro ideali per mezzo dei reati anarchici e delle rivolte sanguinose.

 

 

Che cosa fare perché questa dolorosa impressione a poco a poco si dilegui, perché la nazione possa riposare fiduciosa nella certezza che più non esistono quei germi di malcontento nei quali, a ragione od a torto, gli anarchici d’azione trovano la ragion d’essere dei misfatti compiuti?

 

 

Noi dobbiamo rapidamente condurre a termine un’opera feconda di rigenerazione politica e sociale. Ogni giorno che passa nell’ignavia antica, rappresenta altrettanto tempo perduto nella lotta contro l’anarchia e la rivoluzione, altrettanti semi che produrranno acerbi frutti negli anni venturi. Bisogna togliere – e presto e radicalmente – i germi di malcontento già esistenti ed impedire che la nostra terra feconda nel bene e nel male ne accolga dei nuovi.

 

 

Alla politica di reazione ad oltranza, che alcuni invocano, inconsapevoli o dimentichi delle leggi della storia, bisogna opporre una politica di rigenerazione.

 

 

È necessario rimutare profondamente i principii direttivi del nostro sistema tributario, il quale ci fa sembrare dinanzi agli stranieri uno degli ultimi popoli della terra. È urgente togliere il triste ammaestramento di odio contro gli ordini costituiti che zampilla fuori dal confronto fra il costo del pane, del sale, del petrolio, dello zucchero, del caffè, dei vestiti, degli arnesi rurali, ecc. ecc., in Italia ed all’estero. Oramai non sono più soltanto pochi studiosi che sappiano confrontare le condizioni sociali d’Italia con quelle più felici dei paesi esteri. I giornali popolari hanno diffuso in tutti gli strati della popolazione la conoscenza dei fatti, e dove non giungono i giornali, aprono la mente la dura necessità di guadagnarsi un vitto caro e l’esperienza personale delle medesime classi lavoratrici. Sono centinaia di migliaia gli italiani che ogni anno si spandono in Francia, in Svizzera, in Germania, in America e si accorgono con stupore che fuori, mentre i salari sono alti, il pane costa 20 – 30 centesimi, invece di 40-50 al chilogramma, il petrolio 25 centesimi invece di 75 al litro, lo zucchero 50-90 centesimi invece di 1,60, e così via dicendo per i vestiti e per tutti gli altri oggetti indispensabili all’esistenza. I raffronti si presentano spontanei dinanzi alla mente dei più ignoranti, e, coi raffronti, la rivolta contro un ordine di cose che impersona per essi i mali di cui soffrono. Quando ritornano in patria, codeste centinaia di migliaia di emigranti costituiscono altrettanti centri irradiatori di critica, di sprezzo e di animosità contro il governo e gli alti poteri dello stato.

 

 

Le classi dirigenti debbono persuadersi che è oramai tempo di mutare strada; e che coll’abolizione o la riduzione dei dazi sul grano, sul petrolio, ecc., non solo si farà un buon affare per le finanze pubbliche, ma si farà opera di giustizia e di pacificazione sociale.

 

 

E di giustizia sovratutto ha sete il popolo italiano. La giustizia deve consistere non solo nel reprimere i reati contro le persone e la proprietà, ma nel difendere i deboli ed i diseredati contro coloro che sono più potenti di loro. Purtroppo in molte regioni d’Italia le autorità politiche hanno fama di prestarsi troppo volonterosamente a servire di arma in mano ai partiti locali, fra cui dominano i grossi censiti; e non è ancora spenta l’eco delle proteste vivissime e giustificate contro l’impiego dei soldati in un conflitto fra capitale e lavoro, che, secondo le leggi patrie, avrebbe dovuto svolgersi liberamente fra le parti contendenti, senza che il governo intervenisse in principio per far traboccare la bilancia a favore di quella parte che, per natura delle cose, era la più forte.

 

 

Tutti questi lieviti di odio sociale devono essere tolti se si vuole efficacemente lottare contro coloro che della lotta di classe vorrebbero fare un principio d’azione normale. Un paese abbandonato a sfrenate lotte di classe è destinato certamente a rovina; ma è d’uopo che la giustizia, imparziale ed indipendente, sappia impedire i soprusi dei potenti contro i deboli, se si vuol togliere qualsiasi pretesto a coloro che vorrebbero

sollevare i poveri contro i ricchi.

 

 

La giustizia rispettata ed affermata di fronte a tutti, anche di fronte a coloro che, in virtù del suffragio popolare, si credono investiti di una potenza superiore a quella medesima del capo dello stato e della loro potenza abusano in ogni ramo della pubblica amministrazione, ammorbandola e pervertendola; la ricchezza promossa e diffusa con una politica economica e tributaria veramente liberale e non spegnitrice di ogni utile iniziativa e di ogni possibilità di comodo vivere: ecco gli unici mezzi efficaci per far sì che l’educazione popolare non sia una illusione e che le poche nozioni mal digerite apprese nelle scuole elementari servano ad elevare l’anima umana e non a fornirle degli strumenti per apprendere idee perverse e malsane.

 

 

Quando una siffatta mutazione nell’azione dei ceti dirigenti si sarà compiuta, sarà più difficile che ogni tanto dall’estero ci giunga lo schiaffo degli insulti contro i nostri connazionali poveri, sucidi, ignoranti e maneggiatori di coltello; sarà più raro il caso che i grandi delitti siano compiuti da nostri figli, i quali, uscendo dall’Italia, hanno portato con sé un fardello di odii, di istruzione peggiore dell’ignoranza, e non sono stati capaci di utilizzare altrimenti le energie mirabili della nostra razza se non col meditare piani infernali di regicidi e di rivolte.

 

 

Ben sappiamo che la teoria dell’ambiente non spiega tutto, e siamo ben lungi dal consentire con uno dei difensori del Bresci nell’affermare che le condizioni politiche e sociali d’Italia spieghino il regicidio. Ben sappiamo come nell’animo di un operaio pagato bene, vivente in un ambiente ricco e godente della più sconfinata libertà, più che le considerazioni sentimentali dei supposti malanni altrui, abbiano potuto le predicazioni forsennate di sovvertitori, le speranze nella rivoluzione ognora attesa e l’ambizione di conquistare l’immortalità al proprio nome.

 

 

Tutto questo sappiamo. Ma ciò non toglie che il governo e le classi dirigenti non abbiano il dovere di fare rapidamente scomparire quelle reali cause di malcontento e di malessere, le quali appaiono agli occhi dei meno veggenti e servono di pretesto abilmente sfruttato nelle mani dei sovvertitori della società attuale.

 

 

Ed un altro pretesto occorre togliere.

 

 

Nessuno può aver dimenticato in qual modo una parte della stampa extralegale abbia accolto le proteste sincere di indignazione della stampa liberale contro il regicidio. «Nel caso Bresci – ci dissero – voi non avete trovato termini abbastanza vivi per bollare l’infamia del delitto; ma in ciò voi siete inconseguenti, perché voi stessi sui giornali, in parlamento e coi fatti, avete approvato gli attentati di Felice Orsini, di Agesilao Milano, le bombe contro i Borboni, e, per risalire più alto, il pugnale di Bruto. Oggi voi subite le conseguenze delle vostre predicazioni; e le armi da voi e dai vostri padri foggiate, si rivolgono contro i vostri capi».

 

 

Questo, con gioia mal celata, dicono i fogli sovversivi.

 

 

Ebbene, noi abbiamo il dovere di abbandonare le distinzioni sottili e curialesche, e di riprovare energicamente non solo i regicidi moderni commessi contro i re, che noi amavamo e che erano l’orgoglio del nostro paese, ma anche gli attentati commessi nell’era del risorgimento nazionale contro sovrani su di cui il giudizio della storia è stato severo.

 

 

Non solo, ma dobbiamo disapprovare sinceramente che si continui a glorificare nelle scuole, e da uomini pubblici, questi atti che la morale condanna e che ritardarono e non affrettarono il compimento dei nostri voti patriottici. Anche qui si deve compiere un mutamento profondo e salutare nei nostri sistemi educativi. Questi sono ancora troppo intenti a glorificare gli uomini e gli atti della gloriosa epoca rivoluzionaria e ad additarli alle giovani generazioni come esempi degni di ammirazione e di premio. Si perpetua così nelle masse l’idea che i mali politici e sociali possano essere curati con le armi medesime di che si giovarono i nostri padri per cacciare lo straniero: col pugnale, colle cospirazioni, coi complotti, colle rivolte subitanee a mano armata.

 

 

È tempo che tutto ciò non finisca e che si ponga termine ad una propaganda ufficiale pericolosa e deleteria.

 

 

Gli uomini e le virtù che convengono alle epoche di consolidazione e di svolgimento normale delle funzioni pubbliche. I capi più insigni della rivoluzione francese fecero pessima prova nel creare l’organismo della Francia moderna; fu mestieri che un uomo sorgesse a tale intento, il quale aveva guardato con occhio critico gli scamiciati giacobini e gli assassini dei palazzi reali.

 

 

Così noi, se vogliamo essere non degeneri nepoti dei nostri avi, dobbiamo non solo condannare apertamente e senza reticente gli attentati ed i regicidi che funestarono le età trascorse, ma dobbiamo cercare di sostituire nuove virtù alle virtù antiche: la tenacia nel compiere gradualmente riforme pacificatrici all’ardore nel combattere lo straniero; la tranquilla pazienza dei forti, consci di compiere una grande opera di ricostruzione al fervore di congiurare e di complottare; lo studio minuto dei mali sociali e dei loro rimedi allo spirito di rivolta che animò l’epopea nazionale e che ora lascerebbe soltanto tracce di sangue e di regresso.

 

 

Espiamo dunque la morte del re buono e leale, purificando l’anima nostra e rendendola capace a compiere il bene in quella forma che i tempi mutati richiedono!

 

 



[1] Con il titolo Dopo la condanna [ndr]

Il ritiro dei soldati da Molinella

Il ritiro dei soldati da Molinella

«La Stampa», 28 agosto 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 216-218

 

 

La notizia che l’onorevole presidente del consiglio Saracco ha dato ordine che si ritirassero i soldati dal teatro dello sciopero di Molinella deve essere accolta con vera soddisfazione da tutte le persone imparziali che avevano seguito lo svolgersi del conflitto tra capitale e lavoro.

 

 

Come è noto, i mietitori di riso di Molinella si erano messi in isciopero, pretendendo il rispetto dei patti sanciti coi proprietari nel 1897 ed un aumento dei salari sul livello attuale. I proprietari ricorsero al prefetto per aiuto, affinché il raccolto del riso non andasse perduto nei campi, ed il prefetto requisì, come è solito a farsi in Italia da parecchi anni, il servizio dei soldati, i quali furono mandati a mietere il riso.

 

 

Una parte dell’opinione pubblica criticò vivacemente l’operato del prefetto; ed essendosi avviato lo sciopero ad un componimento, anche per l’autorevole interposizione dell’on. Saracco, questi ha dato ordine di ritirare dalle risaie i soldati mietitori.

 

 

Noi crediamo che l’on. Saracco abbia bene agito ed abbia saputo fare rispettare la legge. Questa, da noi, sancisce la libertà di lavoro e di sciopero. Essa stabilisce, cioè, che le condizioni del lavoro debbano essere pattuite liberamente tra operai e proprietari senza l’intervento di nessuna forza estranea. Lo stato, secondo le nostre leggi, si deve limitare ad impedire che sia violata la libertà del lavoro, che gli scioperanti con minacce e vie di fatto impediscano ad altri operai di lavorare. Questo e non altro è l’ufficio dell’autorità politica.

 

 

Mandando i soldati a mietere il riso ed il grano, lo stato viene a dare un privilegio ai proprietari, a cui permette di compiere una importante operazione culturale senza ricorrere agli operai i quali si siano rifiutati di lavorare alle condizioni ad essi gradite.

 

 

Che il grano od il riso sia mietuto o non, è un affare privato che deve essere regolato liberamente fra capitale e mano d’opera. Sarebbe strano che, dopo aver proclamato la libertà del lavoro, lo stato dovesse intervenire coi suoi soldati a compiere quei lavori che i proprietari giudicano non potersi far compiere ad un costo per loro conveniente da operai liberamente assunti. A questa stregua un industriale, il quale dovesse consegnare per un determinato giorno una certa quantità di macchine o di metri di panno sotto pena di una forte multa, avrebbe diritto di richiedere l’aiuto dei soldati quando gli operai si dichiarassero in istato di sciopero o pretendessero un aumento di paga.

 

 

Secondo le nostre leggi, secondo i sani principii economici, anche le parti contendenti devono essere lasciate a se stesse, non esclusi certo i buoni uffici conciliativi delle autorità. Gli operai, come ogni contendente, devono avere il vantaggio di dichiarare lo sciopero nel momento più opportuno per essi; e i proprietari non hanno alcun diritto di fare intervenire una forza esterna per rifiutare agli operai un aumento di salario nel solo momento in cui questi, scioperando, hanno la speranza di poterlo ottenere.

 

 

Questi principii, oramai indiscutibili nella teoria e nella pratica di tutti i paesi civili, erano correntemente violati in Italia, dove i prefetti si credevano in obbligo di requisire senz’altro l’opera della forza pubblica appena si manifestava uno sciopero agrario, tramutando così l’esercito in un organo per tenere bassi i salari dei lavoratori rurali.

 

 

L’on. Saracco ha compreso quanto pericoloso ed illegale fosse l’andazzo; ed ha reso non solo omaggio ai principii che reggono la patria legislazione, principii che non dovrebbero mai essere stati ignorati o dimenticati, ma ha compiuto un’accorta opera politica.

 

 

L’esercito italiano deve essere tenuto alto al disopra dei partiti e delle contese sociali. Una istituzione destinata a difendere la patria non deve essere fatta servire di strumento a favore di nessuna speciale classe di persone. Altrimenti sarebbero giustificate le accuse di coloro i quali dicono che l’esercito è un’arma in mano della borghesia per schiacciare i lavoratori. Ciò non è; ma non è male che l’autorità politica sia stata ricordata l’opportunità di non far sembrare che questo sia.

 

 

Il soldato nostro deve essere rispettato ed amato da tutti come difensore del suolo patrio, non mai sospettato di agire per difesa di interessi di classe.

Per la dignità dell’insegnamento

Per la dignità dell’insegnamento

«La Stampa», 25 agosto 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 211-215

 

 

Sul finire di luglio il ministro della pubblica istruzione on. Gallo ha pubblicato una circolare sulla nomina e sulla condizione dei professori straordinari nelle università.

 

 

Ricordiamo, qui, le principali disposizioni di quella circolare:

 

 

«Io non ammetto la nomina di professori straordinari senza il concorso. I professori straordinari, secondo la legge del 13 novembre 1859, non sono che semplici incaricati; infatti l’art. 89 enuncia le categorie di insegnanti dalle quali essi dovevano scegliersi, salva l’eccezione per le persone indicate dagli articoli 64 e 69; e l’art. 90 assimila esplicitamente gli straordinari agli incaricati, limitando il loro ufficio al corso pel quale hanno avuto l’incarico.

 

 

«Coll’andar del tempo l’ufficio di professore straordinario si è elevato e distinto nettamente da quello dell’incaricato. Le categorie degli insegnanti oramai sono tre, e resta separata nettamente quella degli straordinari, da quella degli incaricati; perciò il regolamento universitario detta le norme dei concorsi tanto per gli ordinari che per gli straordinari, e fissa le regole precise sulle nomine degli incaricati.

 

 

«In conformità a questo mio divisamento, è stato già revocato il decreto 4 dicembre 1898, e sono state implicitamente richiamate in vigore le disposizioni regolamentari che quel decreto aveva abrogate. La nomina del professore straordinario fatta per concorso dà una posizione stabile all’insegnante, né è necessaria la conferma annuale come per gli incaricati.

 

 

«È mio convincimento che per ogni singolo insegnamento debba aver luogo un concorso o per professore ordinario o per straordinario, secondo le condizioni speciali e relative proposte dalla facoltà. Pur non di meno al rigoroso principio del concorso speciale per ogni insegnamento si può fare eccezione solo nel caso che una facoltà proponga la nomina di persona che abbia preso parte a un precedente concorso dello stesso grado, se da tale concorso non sia passato più di un triennio e si tratti di un candidato che nel giudizio della commissione esaminatrice del concorso abbia avuto un posto onorevole e non lontano da quello ottenuto dal primo graduato.

 

 

È vano che si presentino domande al ministro per la nomina a professori straordinari senza una deliberazione della facoltà nella quale è vuoto l’insegnamento e senza che il candidato abbia le condizioni sopra enunciate».

 

 

La circolare prosegue: «Sarà mia cura regolarizzare a poco a poco la condizione degli insegnanti straordinari già nominati con diversi criteri, qualora abbiano le condizioni richieste».

 

 

La circolare, come si vede, mira a dare un assetto logico alla questione degli straordinari, regolata in modo veramente singolare ed arbitrario dal predecessore dell’on. Gallo alla Minerva.

 

Pochi, crediamo, fra i non direttamente interessati, hanno compreso quale grande importanza la circolare avesse per la tutela della dignità accademica, per la elevatezza degli studi superiori in Italia, e per la garanzia della posizione morale altissima dei professori universitari.

 

 

Questi non si devono considerare come impiegati, i quali possono essere nominati ad libitum del ministro, promossi, trasferiti o collocati a riposo per volontà ministeriale, neppure se codesta volontà è stata suffragata dal consenso di una commissione superiore di avanzamento, come accade per altre carriere.

 

 

I professori universitari più che impiegati, devono considerarsi rivestiti di una dignità ed anzi di una missione pubblica: l’insegnamento delle verità scientifiche. Essi devono essere veramente liberi di insegnar quella che a loro sembra la verità, senza temere nessun controllo e nessuna punizione, quando espongono teorie non accette alle autorità di governo. Se così non fosse, la libertà di insegnamento sarebbe morta.

 

 

Perciò bene provvide la legge fondamentale Casati del 1859, concedendo ai professori ordinari la inamovibilità dal grado e dalla sede; stabilendo cioè che un professore ordinario, eccetto il caso di mancanze gravissime accertate dal consiglio superiore della pubblica istruzione, non possa venire rimosso mai dalla carica e non possa essere trasferito mai, senza il suo consenso, dall’una all’altra università.

 

 

La legge Casati era stata fatta in un’epoca in cui la specializzazione degli studi non era così grande come adesso ed aveva limitato strettamente il numero (di solito dieci) dei professori ordinari per ogni facoltà.

 

 

Si era soltanto previsto il caso in cui dovessero nominarsi supplenti ai professori ordinari per impartire una parte dell’insegnamento che i professori ordinari non potevano compiere o per dare insegnamenti speciali di perfezionamento ai giovani.

 

 

Codesti professori, incaricati di coadiuvare l’ordinario nello svolgimento della materia e di estenderla a perfezionamento dei giovani, furono dalla legge Casati detti professori straordinari, e dovevano scegliersi dal ministro fra i dottori aggregati, i privati insegnanti, gli eleggibili nei concorsi universitari, e le persone venute in grido di molta dottrina nelle discipline speciali che doveano insegnare.

 

 

Come era naturale, trattandosi di insegnamenti, la cui necessità poteva variare da un anno all’altro, l’incarico del professore straordinario cessava colla fine del corso ed era necessaria una nuova nomina per riprendere l’ufficio. Dunque, nessuna garanzia di inamovibilità e nessuna necessità di concorso per gli straordinari, parificati dalla legge Casati quasi completamente ai semplici incaricati.

 

 

Coll’andar del tempo, le cose mutarono. Gli antichi quadri, per chiamarli così, più non bastarono all’insegnamento universitario. Sempre nuove materie dovettero essere accolte fra gli insegnamenti da impartirsi in via ordinaria, oltre ai dieci sanciti di solito dalla legge Casati per ogni facoltà. Sarebbe stato deleterio per i progressi scientifici e per la bontà dell’insegnamento, cristallizzarsi nelle antiche divisioni di materie.

 

 

I nuovi insegnamenti, non potendo essere affidati ad ordinari, il cui numero era fisso, furono impartiti da professori straordinari. Anzi, più nessuna differenza si fece tra antichi e nuovi insegnamenti; e spesso professori ordinari insegnano le materie nuove, mentre, essendo il numero degli ordinari completo, professori straordinari impartiscono l’insegnamento delle antiche materie fondamentali.

 

 

La posizione del professore straordinario veniva in tal modo a cambiare radicalmente. Egli oramai non è più un supplente incaricato di completare e perfezionare l’insegnamento dell’ordinario; invece ha una cattedra sua speciale, e per la garanzia della efficacia della libertà dell’insegnamento, dev’essere nominato con gli stessi requisiti e godere delle stesse prerogative di cui godono i professori ordinari, dai quali lo distingue soltanto lo stipendio più tenue, non superiore ai sette decimi di quello del professore ordinario.

 

 

La giurisprudenza non fu lenta a consacrare questa nuova posizione del professore straordinario, ed il regolamento Boselli del 26 ottobre 1890, regolamento che ha saputo egregiamente interpretare lo spirito della legge Casati, stabiliva che i professori straordinari debbano essere nominati per concorso, e che quelli nominati fuori concorso dal ministro non possano aspirare alla promozione ad ordinari se non quando la commissione esaminatrice giudichi strettamente applicabile l’art. 69 della legge Casati, il noto articolo che permette al ministro di nominare ordinari le persone venute in grido ed in fama distinta nella materia che dovranno insegnare. I professori straordinari sono non soltanto promovibili ad ordinari, ma fanno parte dei consigli di facoltà allo stesso titolo degli ordinari, eccettuato quando si tratti di argomenti che li riguardino personalmente; partecipano eziandio alle assemblee generali dei professori per la nomina del rettore, ecc.; sono riconfermati di anno in anno, ma la riconferma è oramai divenuta una formalità.

 

 

Senonché questa alta posizione giuridica e morale, lentamente conquistata dai professori straordinari, era stata profondamente scossa negli ultimi anni dall’ex ministro Baccelli, il quale abrogati gli articoli relativi del regolamento Boselli, in base ad una interpretazione aderente alla lettera e contraria allo spirito della legge Casati, avea aboliti i concorsi per straordinari, aveva avocato a sé la loro nomina, ed aveva imposto alle facoltà, contrariamente ai loro voti, professori straordinari non aventi i requisiti dei concorsi sostenuti, e muniti semplicemente del titolo di liberi docenti, facilissimo ad acquistarsi in talune università.

 

 

Tutto ciò aveva seminato il malcontento fra i professori straordinari per concorso, i quali aspiravano all’insegnamento universitario, studiavano sul serio, sostenevano ardui concorsi e d’un tratto si vedevano scavalcati da uno straordinario senza titoli nominato per arbitrio ministeriale.

 

 

La circolare dell’on. Gallo è un ritorno all’antico. Noi gli diamo ampia lode per questo suo atto che garantisce la serietà e dignità dell’insegnamento universitario in Italia.

 

 

Non basta aver a fior di labbra ogni giorno l’autonomia universitaria, la dignità degli studi e la indipendenza della scienza. È d’uopo anche rispettare quelle norme giuridiche consuetudinarie che si sono andate a poco a poco evolvendo e sono barriera fortissima contro gli abusi ed i soprusi governativi. Questo colla sua circolare ha voluto dire il ministro Gallo; ed ha fatto bene.

Perché si deve abolire il dazio sul grano

Perché si deve abolire il dazio sul grano

«La Stampa», 16[1] e 19[2] agosto 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 205-210

 

 

I

 

Da qualche tempo si torna a parlare con insistenza da giornali di diversi partiti della questione del grano.

 

 

I prezzi crescono perché il raccolto è stato deficiente in Italia e sembra occorrerà l’importazione di circa 10 milioni di quintali per colmare la deficienza. Quantunque non si conoscano ancora con precisione i dati sul raccolto mondiale, molti temono che i prezzi nella primavera ventura abbiano a crescere sino a 28 o 29 lire al quintale, il che significa il pane a 50 centesimi. La prospettiva è allarmante, sovratutto in un paese in cui il pane costituisce la base dell’alimentazione popolare e coi ricordi tuttora freschi dei dolorosi moti del 1898.

 

 

Occorre provvedere bene e subito. I ritardi ed i temporeggiamenti potrebbero essere perniciosi, come furono nel 1898.

 

 

Nel 1898 il governo ridusse ed abolì temporaneamente il dazio sul grano all’ultimo momento, quando fu costretto dalla piazza tumultuante, e quella abolizione tardiva e provvisoria non ebbe alcun effetto sul mercato, per motivi che qui spiegammo diffusamente.

 

 

Il rimedio, se si ha in animo di far qualcosa prima che la tempesta scoppii, deve essere pronto e definitivo. Non un mezzo termine che si concede tardi e di malavoglia per rimangiarlo subito dopo; ma un provvedimento che assicuri per l’avvenire e non permetta alla speculazione di frustarne i desiderati benefici effetti.

 

 

Quale ha da essere il provvedimento da adottarsi?

 

 

Molti ne furono proposti. Alcuni stravaganti, come la limitazione del numero dei forni per affrettare il passaggio della panificazione dallo stadio di piccola industria allo stadio di grande industria, quasi che siffatti passaggi potessero avvenire per virtù di legge e la limitazione del numero dei forni non creasse un monopolio a vantaggio dei fornai superstiti e non rendesse necessario ricorrere per contrappeso al vieto sistema delle mete e dei calmieri.

 

 

Ancora più stravagante si è la proposta di avocare allo stato il commercio dei grani ed ai comuni l’industria della panificazione. Gli italiani, per fortuna, non si sono ancora dimenticati dei molti spropositi che, in mezzo ad un poco di bene, commise il ministero della guerra nel 1898, quando volle comprare e vendere grano a sollievo delle popolazioni affamate.

 

 

Il risultato netto fu una perdita di parecchi milioni di lire che i contribuenti dovettero pagare. Noi non abbiamo nessuna voglia di ripetere l’esperienza in grande, affidando allo stato la funzione di commerciante in grano, a cui non è adatto; come pure non vogliamo dare ai comuni l’incarico di fabbricare il pane, perché davvero ci manca qualsiasi argomento per ritenere che essi siano capaci a panificare meglio ed a minor prezzo dei privati.

 

 

Esclusi questi che non sono rimedi, ma espedienti rovinosi immaginati da coloro che, pur criticando continuamente tutti i governi esistenti, vorrebbero affidar loro numerose nuove mansioni, rimane l’unico e sovrano rimedio contro il caro del grano; rimedio che la «Stampa» da molti anni non si è mai stancata di additare ai legislatori: l’abolizione progressiva e definitiva del dazio sul grano, sui cereali affini e sulle farine.

 

 

Abolizione progressiva; ossia compiuta a poco a poco, riducendo il dazio prima a 5 lire, poi a 3, ed in seguito ad 1, per abolirlo affatto in ultimo.

 

 

L’abolizione deve essere progressiva, sia per non danneggiare l’erario in misura troppo sensibile ed improvvisa, sia per dar tempo ai proprietari di modificare la cultura delle loro terre.

Abolizione definitiva; ossia niente sospensione temporanea del dazio nei tempi di caro prezzo e niente scala mobile del dazio, come si vorrebbe da taluni. La sospensione temporanea e la scala mobile del dazio non giovano né allo stato né ai consumatori e neppure ai produttori di grano. Sono soltanto un’eccellente arma in mano agli intermediarii per comprare il grano a basso prezzo, introdurlo quando, per il caro, il dazio scema o scompare, e rivenderlo quando i prezzi sono al punto più alto.

 

 

Abolizione contemporanea del dazio su tutti i cereali inferiori e sulle farine. Si deve abolire il dazio anche per i cereali inferiori per non creare disuguaglianze artificiali di cultura fra il grano e gli altri cereali; e si deve togliere il dazio sulle farine nella stessa misura in cui si toglie il dazio sul grano per non concedere un monopolio ai mugnai nazionali. Anzi, se non si vuole toccare il dazio sul grano, bisognerebbe cominciare subito ad equiparare il dazio sulle farine al dazio su 125 chilogrammi di grano, ossia a circa lire 9,90 il quintale di farina, perché col più alto dazio attuale, i mugnai sono protetti e possono aumentare il prezzo delle farine in rapporto a questa protezione, di cui non sentono affatto il bisogno, e la quale è causa che i mugnai grossi si uniscano in sindacati e tengono alto il prezzo delle farine anche quando il dazio sul grano scema, come nel 1898.

 

 

II

 

È noto come il dazio sul grano sia sorto in Italia.

 

 

Fu in seguito ad una santa crociata capitanata dal senatore Rossi, l’industriale laniero di Schio, il quale, avendo desiderio di ottenere dazi sui suoi manufatti di lana, si mise, a raggiungere lo scopo, a capo di una lega agraria per l’imposizione di un dazio sul grano che allora in grande abbondanza si riversava in Italia dai porti del Mar Nero e dell’America e faceva rinvilire i prezzi sul mercato interno.

 

 

La cosa può parere strana; ma è così.

 

 

Gli agrari, capitanati da un industriale, ottennero dall’accorto Magliani, – che andava in cerca di imposte allegre e desiderate per tappare gli ancora invisibili buchi del suo bilancio, – il dazio sul grano, e, come compenso per la disinteressata opera di apostolato e di guida, consentirono che i manufatti di lana e di cotone esteri fossero gravati da un forte dazio di importazione.

 

 

Chi pagò le spese di questo contratto fu, come al solito, il consumatore.

 

 

Il dazio era dapprima di 3 lire. Coll’andar del tempo l’appetito crebbe ed a poco a poco gli agrari ottennero fosse recato prima a 5 lire e poi a 7,50.

 

 

Il reddito per l’erario che prima era tenue, ora si aggira intorno ai 30 milioni di lire in media all’anno.

 

 

Ogni proposta di abolizione del dazio sul grano deve perciò incontrare una vivissima opposizione nelle sfere governative e nelle file degli agricoltori. Come farebbe l’erario a riparare alla falla di 30 milioni aperta nel suo bilancio?

 

 

Il problema è grave certamente. Ma l’abilità degli uomini di stato italiani deve in questo momento essere appunto quella di adottare provvedimenti i quali audacemente segnino una nuova via e siano fecondi di grandi benefizi in un futuro che sarà molto prossimo. Non è con meschine riduzioni di pochi centesimi sul caffè o sul grano che si può sperare di aumentare i proventi dell’erario coll’aumento del consumo.

 

 

Solo col ridurre – e di molto – i dazi sui beni di prima necessità, si può sperare che il consumo degli oggetti di lusso relativo cresca sensibilmente in guisa da riparare le perdite dell’erario. A non lungo andare, se fosse abolito il dazio sul grano, modificate in senso più mite le tariffe doganali, e ridotti di un terzo i dazi sul caffè, petrolio e zucchero, i consumi aumenterebbero per modo che l’erario si troverebbe in guadagno e non in perdita. Così fece l’Inghilterra in giorni non meno foschi di quelli attraversati ora dall’Italia, quando lo stato sembrava vicino al fallimento e il popolo tumultuava spinto dalla fame, e se ne trovò bene. Perché l’Italia non dovrebbe ottenere un risultato altrettanto se non forse più splendido di quello avuto in Inghilterra, date le energie di iniziativa e di lavoro che esistono da noi?

 

 

La riduzione progressiva del dazio sul grano, specie se coordinata ad altri provvedimenti di finanza, potrebbe essere un eccellente affare per l’erario dello stato. Forse si dovrebbero superare strettezze momentanee. Ma non a queste guarda l’uomo di stato veramente degno di tal nome, bensì ai risultati benefici finali, che non potranno essere molto remoti.

 

 

Coll’abolizione del dazio sul grano lo stato compirà un’opera di giustizia sociale e di progresso economico.

 

 

Il dazio sul grano ha questo di diverso da un’altra imposta; ad esempio dalla tanto criticata imposta sul macinato, la cui abolizione parve una così mirabile cosa a coloro medesimi che si affrettarono a sostituirle il dazio sul grano pochi anni dopo.

 

 

Per ogni lira tolta al contribuente dall’imposta sul macinato, dall’imposta fondiaria o di ricchezza mobile o sul sale, ecc., entra una lira nelle casse dello stato; mentre lo stato introita il dazio sul grano solo sui quintali di grano che entrano dall’estero, ed i consumatori pagano 7,50 lire di più al quintale, tanto il grano introdotto dall’estero, quanto quello prodotto dall’interno. In definitiva il consumatore paga una duplice imposta: una visibile allo stato, di 30 milioni all’anno, per il grano estero consumato all’interno; ed un’altra invisibile, superante certo il centinaio di milioni, ai proprietari nazionali di terre a grano, i quali vendono il grano prodotto. Escludiamo dal conto i numerosissimi piccoli e medi proprietari, i quali mangiano il grano che producono ed a cui il dazio non fa né caldo né freddo.

 

 

Lo stato ha il dovere di fare cessare la enorme ingiustizia che gli italiani debbano pagare un tributo ingentissimo, invisibile, non per scopi di utilità pubblica, ad un piccolo manipolo di grandi proprietari di terre a grano.

 

 

È una vera irrisione dire che col dazio sul grano si protegga l’agricoltura nazionale e che questa debba andare in rovina quando il dazio sia abolito. Su una produzione agricola annua di 5 miliardi di lire, il grano rappresenta a mala pena 800 milioni, calcolato al suo valore attuale artificialmente alto a causa del dazio. Di questi 800 milioni, la metà è consumata dai medesimi produttori e solo la metà va sul mercato e si giova del dazio.

 

 

Si può forse onestamente sostenere che un regalo fatto a quest’infima minoranza degli agricoltori italiani equivalga a proteggere la terra nostra?

 

 

Non solo non la protegge ma la danneggia. Perché il giorno in cui ci saremo decisi ad abolire il dazio sul grano noi potremo ottenere dalla Russia, dagli Stati uniti, dall’Argentina, dai paesi balcanici tali riduzioni di dazio sui nostri vini, olii, agrumi, frutta, ecc., che un grande slancio verrà dato all’agricoltura perfezionata e progressiva italiana.

 

 

Quando il dazio sarà abolito, gli agricoltori italiani si scoteranno un po’ dalla tradizionale inerzia e faranno ciò che tanti anni di protezione non li hanno indotti a fare: mutare i metodi culturali, perfezionarli per resistere alla concorrenza straniera, emulare quello che taluni loro compagni cerealicultori hanno già fatto, purtroppo in numero troppo esiguo.

 

 

Nella lotta è la vita; e quegli agricoltori che si rifiutano di lottare coll’estero e non vogliono pagare le imposte, se un’altra imposta gravissima non è messa a loro beneficio sul grosso dei consumatori, meritano di andare in rovina e senza rimpianto.

 

 

Quando noi chiediamo l’abolizione del dazio sul grano, noi vogliamo dunque compiere un’opera di giustizia, senza la quale nessuno stato vive a lungo, ed un’opera di progresso economico.

 

 

Le classi dirigenti italiane devono persuadersi della necessità di fare qualche rinuncia, se vogliono evitare in futuro danni peggiori. Tanto più la rinuncia deve essere facile, quando si fa getto di un vantaggio le cui origini sono impure e che nulla può giustificare dinanzi ai dettami della giustizia sociale.



[1] Con il titolo La questione del grano.

[2] Ristampato nel 1954 col titolo Abolire il dazio sul grano in Il buongoverno, pp. 367-370.

Villaggi comunisti dell’Australia meridionale

Villaggi comunisti dell’Australia meridionale

«Corriere della Sera», 19/20 luglio 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 3-8

 

 

Al principio del 1894 una grave crisi imperversava sul continente australiano. Torme di disoccupati percorrevano le strade delle capitali, richiedendo con alte grida al governo quei mezzi di vivere che essi non riuscivano a procurarsi. Il governo dell’Australia meridionale, per sbarazzarsene, ne prese un certo numero e con un treno speciale li trasportò a Morgan, piccolo borgo di 360 abitanti, situato sul fiume Murray, a 169 chilometri dalla capitale Adelaide. Erano circa 350 persone divise in 100 famiglie, di cui la maggior parte non si era mai conosciuta prima di salire sul treno. Alcuni avevano semplicemente voluto cambiare aria e viaggiare a spese del governo. Altri – ed era l’infima minoranza – avevano dinanzi a loro un certo ideale di organizzazione sociale; il maggior numero, fuggendo le miserie delle grandi agglomerazioni urbane, si proponeva di gustare la vita dei campi e di crearsi un focolare indipendente. Il governo aperse loro un credito e li rinviò a Lyrup, in terreno vergine, 112 chilometri al disopra di Morgan. Nello stesso modo furono fondati i villaggi di Pyap, Holder, Waikerie, Gillen, New Era. I villaggi di New Residence, Moorook e Kingston furono organizzati più seriamente da operai di Adelaide che si conoscevano a vicenda e che sottoscrissero qualche fondo. Soltanto il villaggio di Murtho, il più piccolo e lontano di tutti, fu fondato da discepoli di Enrico George che avevano versato 1500 lire l’uno.

 

 

Gli abitanti dei villaggi non potevano sciogliere l’associazione prima di avere restituito le anticipazioni al governo e di avere migliorato la terra per un valore di 80 lire per ettaro in dieci anni. Questo fu il primo motivo che indusse gli abitanti al lavoro in comune, nel modo stesso come una delle cause principali della persistenza del miz russo si è l’obbligo solidario dei partecipanti nel pagamento delle imposte e delle quote di riscatto delle terre al governo.

 

 

Ma altre cause ancora concorsero allo stesso scopo. Le terre del bacino del Murray (il maggiore fiume australiano) sono aride e coltivabili soltanto mercé l’irrigazione. Una famiglia isolata è obbligata a spendere almeno un migliaio di lire per impiantare una pompa mossa dal vento e per compiere i lavori necessari per irrigare il terreno che le è strettamente indispensabile. Ora, 1.000 lire per famiglia, avrebbero rappresentato una spesa di 100.000 lire per il solo villaggio di Lyrup; mentre con una somma molto minore (da 7 ad 8.000 lire) il villaggio poté comprare una macchina a vapore, e senza aspettare che il vento si degnasse di soffiare, fu possibile irrigare più di 300 ettari, ossia una superficie capace di nutrire più di un centinaio di famiglie.

 

 

Un uomo, per quanto energico, non può da solo dissodare molto terreno vergine. Laddove è d’uopo abbattere alberi da uno a due metri di circonferenza, da 10 a 20 metri di altezza, estirpare le radici e dissodare il suolo, la macchia distrutta da un uomo isolato rinasce prima che un ettaro solo sia stato dissodato. Strumenti, macchine, animali da tiro sono indispensabili e costano caro. Unendosi insieme e lavorando d’accordo, parecchi uomini ottengono risultati molto migliori con minori capitali e fatiche più leggere.

 

 

La disoccupazione nel ceto operaio di Adelaide fu dunque il motivo occasionale della fondazione dei villaggi comunisti dell’Australia meridionale; e questi villaggi furono costretti ad adottare la forma comunistica di lavoro a causa del debito solidario verso lo stato e dell’ambiente terriero che li circondava e che imponeva l’applicazione del principio economico della associazione del lavoro.

 

 

Sul principio si commisero molti sbagli.

 

 

Gli amministratori di tutte queste piccole aggregazioni comunistiche rurali erano eletti a suffragio universale. Le assemblee si susseguivano frequenti; ed i consociati, malcontenti dei loro amministratori, si divertivano a cambiarli molto spesso, senza alcun risultato, perché i capi eletti difettavano, alla pari degli elettori, delle cognizioni tecniche indispensabili alla direzione delle culture. Poco importava che i consociati si ingegnassero ad assicurare il segreto e la regolarità delle elezioni, come a Pyap, dove gli elettori votavano «sì» o «no» deponendo nelle urne dei dischi di cuoio i quali si distinguevano per avere o non un foro nel mezzo, foro che rimaneva invisibile agli scrutatori, perché nascosto dal pollice dell’elettore votante. Tutto ciò non bastava a creare le capacità mancanti; e fu necessario che il ministro provvedesse ogni villaggio di un amministratore, il quale non poteva essere licenziato dall’assemblea senza il consenso del ministro. Gli amministratori sono sorvegliati alla loro volta da un perito competente e intelligente inviato dal governo per impedire che le sue anticipazioni non siano malamente impiegate o sprecate.

 

 

I debiti verso lo stato sono andati crescendo continuamente perché nuovi imprestiti si sono dovuti fare per aumentare la superficie coltivata che passò da 1.600 acri nel 1895 a più di 5.600 acri nel 1899. I più gravati sono gli ingegnosi elettori di Pyap che debbono 465 lire sterline l’uno; i meno sono i georgisti di Murtho che hanno solo 86 lire sterline l’uno di debito.

 

 

Nell’inizio, molti erano i poltroni ed i vagabondi i quali si squagliarono quando videro che non potevano continuare a lungo a vivere a spese dello stato; da 592 gli abitanti discesero a 440 al 31 ottobre 1895; ma a poco a poco per immigrazione spontanea il totale tornò ad aumentare sino a circa 800 al principio del 1899.

 

 

Anche il sistema del lavoro e del consumo diede origine a vive dissensioni ed a molte incertezze. Sugli inizi, tutti erano egualmente interessati all’allestimento delle pompe, al dissodamento immediato della superficie utilizzabile, alla costruzione di canali principali; e la questione della ripartizione futura del suolo si presentava molto vagamente. Ogni consociato prendeva nel magazzino comune gli oggetti necessari alla sua sussistenza ed a quella della sua famiglia. Il capo di famiglia naturalmente doveva prelevare più di un celibe, e gli oziosi ricevevano almeno altrettanto come i laboriosi. Ogni settimana, il segretario del villaggio consegnava ad ogni consociato dei buoni che gli davano diritto di prelevare sul magazzino sociale gli oggetti di cui egli e la sua famiglia avevano bisogno. In alcuni villaggi, i buoni non utilizzati erano perduti; in altri, i partecipanti erano accreditati del residuo fino al momento in cui la situazione finanziaria dell’associazione ne avesse permesso il rimborso. A poco a poco, quasi dappertutto, si autorizzarono coloro che lavoravano fuori del villaggio a conservare una parte dei loro guadagni, a condizione di versare il resto nella massa comune. Ma quando la vendita dei prodotti cominciò a rendere qualcosa, quando la maggioranza dei mediocri se ne fu andata e gli individui, risoluti a crearsi un focolare indipendente, videro la possibilità di riuscire, il sistema dei buoni sollevò un malcontento generale e vivissimo.

 

 

I celibi si lamentavano di essere sfruttati dagli ammogliati; e quelli di Waikerie fecero una secessione andando a fondare il villaggio di Ramco. Quivi fu iniziato un nuovo sistema, che adesso va a poco a poco estendendosi a tutti gli altri villaggi. Esso è qualche cosa di intermedio fra il lavoro in comune delle prime epoche ed il lavoro basato sulla proprietà individuale. Eccone le basi:

 

 

La proprietà dell’associazione è divisa in 25 parti; ogni consocio ne possiede una sola ed è responsabile verso il consiglio per la venticinquesima parte del passivo sociale. Ogni consocio riceve un lotto di terra irrigabile di circa 10 acri (4 ettari), su cui è obbligato a costruire la propria abitazione. Ogni anno si stabilisce la somma che il consocio deve versare al consiglio per fitto del terreno, imposte fondiarie e diritto d’acqua.

 

 

Un terzo di ogni lotto rimane a libera disposizione del consocio; gli altri due terzi sono dissodati e piantati dall’associazione in comune a vigna, frutteti od altre culture approvate dal ministro. I consoci sono obbligati a prestare per il lavoro in comune la loro opera in natura oppure l’equivalente in denaro. Il lavoro in comune è pagato a cottimo secondo la tariffa stabilita dall’amministratore, il quale è nominato per 5 anni dal consiglio con l’approvazione del ministro. Egli ha una parte nell’associazione, riceve un piccolo salario ed una commissione, e dirige i lavori. I consoci sono obbligati a seguire i suoi ordini; e non possono assentarsi dal lavoro senza ottenere un congedo il quale è accordato purché la proporzione degli assenti non superi il 20% del totale. Ogni consocio ha diritto di prelevare dai magazzini sociali viveri e vestiti sino all’ammontare di 15 scellini per settimana, che saranno dedotti dal suo credito per lavori compiuti.

 

 

Nessun dividendo potrà essere distribuito dalla società, finché non sia rimborsato il debito verso lo stato e finché ogni socio non abbia esatto il saldo attivo per i lavori da lui compiuti per conto dell’associazione.

 

 

L’antico schema comunistico è dunque scomparso; e vi si è sostituito una specie di cooperativa rurale di produzione; in cui un terzo dei terreni posseduti dai soci viene lasciato a loro libera disposizione per i consumi familiari, ed i due terzi vengono coltivati dai soci perché così richiede la tecnica delle culture a base di irrigazione, sovratutto nei primi periodi dell’impianto. Dopo, quando il periodo delle prove sarà passato, è probabile che la cultura si farà separatamente e che si provvederà in comune soltanto all’irrigazione dei terreni ed allo smercio dei prodotti.

 

 

Che cosa prova l’interessante esperienza che abbiamo raccontato? Nulla a favore del comunismo e contro l’individualismo.

 

 

Il governo di Adelaide ha fatto un buon affare inviando i disoccupati sulle rive deserte del fiume Murray. Esso è sicuro in tal modo di ricevere un interesse del 5% sul capitale imprestato, mentre se li avesse occupati a fare degli sterri o costruire dei palazzi, avrebbe sprecato, come accadeva prima, ingenti capitali ed avrebbe cooperato ad inacerbire il male della disoccupazione cittadina, mentre ora le rive del fiume Murray sono state popolate di piccoli villaggi di proprietari indipendenti.

 

 

Costoro non avrebbero potuto vivere se un’impresa privata non avesse già fatto i primi lavori di canalizzazione del fiume Murray, e non avesse iniziato un sistema regolare di navigazione e di smercio delle derrate prodotte in quelle regioni. Per vincere la natura ribelle e selvaggia è dovunque necessario il pioniere capitalista ardimentoso il quale esplora primo i luoghi deserti.

 

 

Ai coloni venuti di poi fu necessario organizzare in comune il lavoro di dissodamento e di impianto per potere utilizzare bene lo scarso capitale posseduto e per non soccombere nella lotta combattuta contro la terra.

 

 

Adesso, che i difficili lavori d’impianto sono compiuti e che è avvenuta una selezione fra i lavoratori, si vanno già allentando i vincoli della solidarietà, del lavoro in comune e del consumo egualitario ed assistiamo all’evolversi graduato di una forma più perfetta di organizzazione sociale, nella quale si compieranno collettivamente i lavori generali di irrigazione e di smercio e si lascierà libero campo al dispiegarsi dell’iniziativa individuale nella coltivazione dei terreni.

Socialismo che si trasforma

Socialismo che si trasforma

«La Stampa», 12 luglio 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 201-204

 

 

La «Critica sociale», la battagliera rivista del socialismo italiano, in un articolo che è tutto un inno alla vittoria «piena, solenne, irrevocabile» dei partiti popolari italiani, fa alcune riflessioni che è importante rilevare.

 

 

L’estrema sinistra – dice la «Critica sociale» – vinse una grande e faticosa battaglia, una vera battaglia, in qualche modo formale… Ma… la vittoria nella camera non sarà vittoria nel paese, se l’estrema sinistra non aggiungerà alla sua azione difensiva una nuova azione ricostruttiva… Che pensa l’estrema della Cina? Che dei trattati di commercio? Che della questione militare? Che della riforma tributaria? Che delle leggi sociali? Finora alcune formule generiche, spesso accettate senza maturo esame, bastarono alla funzione critica che esercitammo: ora non più. In ogni questione urgente l’estrema deve avere il pensiero suo… Conviene uscire dal vago… Assai più che ad aumentare elettori e mandati (forse ne abbiamo già troppi, per quel tanto di vero socialismo che può dare oggi il nostro paese) è il caso di fare sì che dietro a noi sia una salda compagine di coscienze nutrite, e che noi stessi sappiamo bene quel che vogliamo, non solo nell’ordine delle tendenze generali e dei fini remoti, ma nei minuti particolari della nostra azione quotidiana.

 

 

Si sapeva da lungo tempo che il direttore della «Critica sociale» era la mente più forte del partito socialista italiano; ora l’ammonimento suo ai compagni di fede di volgersi dalla critica all’azione, dimostra che egli è anche accorto uomo politico.

 

 

Noi, che socialisti non siamo, non possiamo non rallegrarci nel vedere che la direzione intellettuale e morale del partito socialista è affidata non a settari angolosi e rigidi od a tribuni sconclusionati, ma a forti intelligenze che sanno comprendere i bisogni della presente vita pubblica italiana.

 

 

Incipit vita nova! dicono i socialisti italiani per bocca di Filippo Turati. Noi aspettiamo per giudicarli che la loro nuova opera sia cominciata.

 

 

Finora essi hanno avuto buon gioco nella propaganda delle idee e nella conquista delle masse elettorali. I governi hanno fatto a gara a commettere spropositi ed a far sorgere cagioni sempre nuove di malcontento e di disagio; hanno lavorato a distruggere la ricchezza ed a comprimere le nostre mirabili energie di lavoro e di espansione economica. I vecchi partiti politici hanno sparso attorno a sé il discredito e la sfiducia raggruppandosi attorno a uomini che parevano forti ed erano immorali o sembravano abili ed erano ciechi.

 

 

Sorse il partito socialista ed esercitò un’opera di critica, persistente, penetrante ed entusiasta fra le masse elettorali più civili e progredite d’Italia. La vittoria fu sua in molti collegi. Sarebbe stato strano se le cose fossero andate altrimenti. Siccome moltissime fra le critiche mosse dal partito socialista all’attuale ordine politico e tributario erano vere, esse dovevano necessariamente partorire l’effetto di conquistare il consenso delle masse a coloro che le critiche fecero, alienandole da quelli a cui esse erano rivolte e da quelli ancora i quali trascurarono di muoverle prima dei socialisti.

 

 

Ma la critica, per quanto sottile e notomizzatrice, da sola non basta. Le masse a cui vengono additate le cause del male e la possibilità del bene, diventano presto impazienti e desiderose di vedere tolto il male ed instaurato il bene.

 

 

Perciò Turati grida ai suoi compagni che è d’uopo mutare rotta; che i deputati socialisti sono già troppi e che il numero attuale è più che sufficiente per studiare le riforme pratiche capaci a risolvere le questioni più urgenti ed ardenti della vita pubblica italiana e ad accrescere il benessere dei lavoratori. Non più formule generiche e pensieri vaghi su un futuro remoto socialista, come nei romanzi a base di «anno duemila», ma lo studio paziente dei “minuti particolari dell’azione quotidiana” del partito.

 

 

Noi liberali abbiamo un grande interesse nel seguire i socialisti italiani in quest’opera di studio minuto e di azione pratica. Non abbiamo visto poco fa in Francia il ministro socialista Millerand buttare a mare alcune delle massime teoriche più care ai dottrinari della chiesa socialista? È molto probabile che qualcosa di simile accada pure in Italia, sovratutto fra quelli dei socialisti che hanno la mente limpida e capace di ribellarsi alle formole del catechismo contenuto nei libri evangelici del partito.

 

 

Un sintomo molto interessante delle trasformazioni che il programma socialista subirà discendendo dalle nebulose astratte alla trattazione di problemi pratici si ha in un altro articolo scritto nella medesima «Critica sociale», da Romeo Soldi, intorno alla politica economica del partito socialista. L’articolo è tutta una critica intelligente e convincente della proposta presentata poco tempo fa alla camera italiana dal gruppo parlamentare socialista, di abolire il dazio sul grano e di affidare nello stesso tempo allo stato il monopolio del commercio dei cereali.

 

 

Il Soldi, a ragione, approva la prima parte della proposta (abolizione del dazio) e respinge la seconda (monopolio governativo del commercio del grano).

 

 

Nella sua critica il Soldi si serve di tutti quegli argomenti che agli economisti liberali giovano per condannare la estensione dell’azione dello stato alle faccende che i privati possono compiere meglio colla loro iniziativa individuale. Egli dimostra come il proposto monopolio accrescerebbe il parassitismo governativo, darebbe nuovo potere alle clientele politiche, non sarebbe garanzia di diminuzione di prezzo e potrebbe benissimo condurre invece ad un rincaro del grano. Naturalmente il Soldi, per non battere in breccia, con le sue argomentazioni, la sostanza medesima della dottrina socialista, si affretta ad avvertire che egli combatte il monopolio governativo del commercio del grano finché esiste l’attuale governo capitalista, e dichiara che non lo combatterà più quando lo stato sarà divenuto veramente democratico e non esisteranno perciò più possibilità di abusi, parassitismi politici e clientele losche di affaristi ingrassanti a spese del pubblico.

 

 

Noi lasciamo volontieri al Soldi l’innocente illusione che questo mirabile organismo di un governo di cose e non di persone abbia a spuntare in futuro. Frattanto constatiamo che quando i socialisti più intelligenti e colti discutono un provvedimento di grande importanza pratica, come il commercio dei grani, accolgono (sia pure per far dispetto ai capitalisti ed al socialismo dello stato borghese) quella abolizione del dazio che è propugnata dalla dottrina economica liberale e respingono quel monopolio governativo che sembra zampillare logicamente dalla più pura teoria socialista.

 

 

Avanti adunque! seguano i socialisti italiani i consigli di Turati e si mettano allo studio ed all’opera!

 

 

Chissà se dagli studi pazienti e dall’opera pratica i socialisti non sorgeranno tramutati in altrettanti economisti liberali, propugnatori di riforme, benefiche bensì alle classi lavoratrici, ma nient’affatto inspirate ai canoni della dottrina collettivistica!

 

 

Se le classi dirigenti italiane non sanno valutare l’importanza di questi sintomi di nuova rotta nel partito socialista e non si decidono, per agire, a cogliere a volo il momento attuale in che tante giovani e belle intelligenze si dibattono incerte tra l’assurdo delle dottrine collettivistiche, abbracciate quando sovratutto si voleva usare un’arma di critica, e la evidenza della praticità benefica delle dottrine liberali adattate ai tempi nuovi – se le classi dirigenti italiane non hanno il coraggio di mettersi esse alla testa del rinnovamento civile ed economico che urge nel nostro paese, ogni speranza di progresso ordinato e pacifico, senza rivolte e reazioni dolorose, deve ritenersi perduta.

 

 

Lo slancio con cui i socialisti iniziano una nuova vita, serva di sprone alle classi dirigenti per rinnovare se stesse e nel tempo stesso l’Italia. Questo è il nostro voto ed è la nostra speranza.

La parola di un settentrionale

La parola di un settentrionale

«La Stampa», 23 giugno 1900

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 147-151

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 196-200[1]
Il Nord nella storia d’Italia. Antologia dell’Italia industriale, Laterza, Bari, 1962, pp. 332-340

 

 

 

 

Avevo promesso di discutere il libro del Nitti di cui ho parlato in un precedente numero de «La Stampa».

 

 

Ma la discussione richiederebbe un esame lungo e minuto delle varie argomentazioni contenute in Nord e Sud; esame poco adatto ad un giornale quotidiano.

 

 

Amo meglio esporre quale è la mia impressione di settentrionale di fronte a questo libro scritto da un meridionale, nella fede ancora che la esposizione del vero giovi alla causa della unità italiana.

 

 

Ecco pressappoco quanto potrebbe dire un settentrionale, immune da pregiudizi regionali e desideroso soltanto che la luce proveniente dall’esperienza del passato ci serva di guida per l’avvenire.

 

 

«Sì, è vero che noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato di più delle spese fatte dallo stato italiano dopo la conquista dell’unità e dell’indipendenza nazionale.

 

 

«Ma se talvolta errammo per egoismo, in massima parte traemmo profitto da una serie di circostanze geografiche, storiche e sociali contro di cui sarebbe stato non solo vana ma dannosa per tutta l’Italia la resistenza.

 

 

«Peccammo, è vero di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio nazionale e ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale. Noi riuscimmo così a fare affluire dal sud al nord una enorme quantità di ricchezza, nel momento appunto in cui la chiusura dei mercati esteri, conseguenza della nostra politica protezionista, impoveriva l’agricoltura, unica e progrediente industria del sud. Ma è giusto ricordare che noi settentrionali non saremmo riusciti a consumare il nostro peccato di egoismo protezionista se non fossimo stati aiutati dai grandi proprietari di terre a grano del mezzogiorno; i quali permisero agli industriali del nord di sfruttare i loro corregionali a patto di acquistare anch’essi il diritto di far loro pagare il pane un po’ più caro del normale.

 

 

«Le nostre città ed i nostri borghi traggono grande profitto dall’esistenza di forti guarnigioni; ma è questo un fatto strategico il quale deriva dalla conformazione geografica del nostro territorio e le cui cause debbono essere e sono infatti riconosciute giuste dagli stessi meridionali.

 

 

«Abbiamo avuto una percentuale di impiegati alti e bassi superiore al normale; ma ciò nei primi tempi era necessario per cementare l’unità nazionale con una democrazia di stato imbevuta di spirito unitario e di devozione agli istituti governativi esistenti; ed allora questa burocrazia non si poteva trovare altrove che in Piemonte. Ora la sperequazione fra le varie regioni d’Italia va scemando a questo riguardo, per quanto ciò non sia ancora molto visibile negli alti gradi della burocrazia.

 

 

«Abbiamo spostata molta ricchezza dal sud al nord colla vendita dell’asse ecclesiastico e del demanio e coi prestiti pubblici; ma come si poteva fare altrimenti negli anni tragici che corsero dal 1860 al 1870?

 

 

«Abbiamo ottenute più costruzioni di ferrovie, di porti e di altri lavori pubblici, di scuole e di istituti governativi; ma possiamo dire con fiducia che quei denari furono spesi nel nord con maggior profitto che se fossero stati spesi nel sud. Non si può negare che, trent’anni fa, il nord d’Italia rappresentava la parte del territorio più civile e progredita. Dicendo questo noi non vogliamo muovere nessun rimprovero ai meridionali, quasi che essi fossero incapaci a raggiungere un grado di civiltà materiale e di progresso morale ed intellettuale simile al nostro. Soltanto una pseudo sociologia ciarlatanesca può dilettarsi a distinguere due razze in Italia, l’una votata al progresso e l’altra destinata alla barbarie.

 

 

«Dicendo che il settentrione era più civile, noi vogliamo dire soltanto che per una serie di circostanze storiche (governi migliori, vicinanza alle nazioni economicamente più progredite, maggior fiducia in noi stessi, posizione geografica atta ai rapidi e proficui scambi) noi ci trovavamo in una posizione in che la ricchezza poteva svolgersi più facilmente, si aveva maggior bisogno degli strumenti della civiltà moderna, come strade,ferrovie e si sentiva maggiore stimolo ad appropriarsi una cultura media sufficiente.

 

 

«Il fatto che qui dal Piemonte era partito l’impulso alla formazione dell’Italia nuova era causa per noi di un giustificato orgoglio e di ammirazione per i meridionali, i quali accorrevano ed accorrono ancora nel settentrione come alla sede di una civiltà più alta. Accadeva lo stesso nel mondo romano, ma in senso inverso, ed alcune fra le maggiori glorie latine venivano dai paesi del nord.

 

 

«Data questa serie di circostanze, storiche e di fatto, l’applicazione dei capitali anche pubblici è riuscita nell’ultimo quarantennio più proficua nel nord che nel sud. Conveniva di più serrare le maglie della rete ferroviaria settentrionale ad intenso traffico internazionale ed interno che non fare un tronco nuovo in un paese meridionale privo di comunicazioni. Era e sarebbe ancora più utile profondere milioni nel porto di Genova, che è opera nazionale, che non spendere le migliaia di lire in un porto della costa adriatica o calabra visitato da poche navi a vela. Era più utile spendere denari per istituti di istruzione media nell’alta Italia a fine di non lasciar disperdere i frutti dell’istruzione elementare da lungo tempo iniziata, che non impiegarli nell’Italia meridionale dove mancava ancora la materia atta ad essere educata e dove la gioventù, non trovando sbocco nei commerci e nelle industrie, avrebbe languito nella burocrazia e nelle professioni liberali.

 

 

«Ma è noto altresì che le successive applicazioni di capitali non sono tutte egualmente produttive. Quando su un campo si sono già impiegati rilevanti capitali, torna più conveniente applicare i nuovi capitali non su di esso ma su nuovi campi, trascurati prima perché ritenuti troppo sterili.

 

 

«Sembra che qualcosa di simile accada già e debba accadere ancora maggiormente in avvenire riguardo alle spese di stato in Italia. Il libro del Nitti è forse l’indice che nella coscienza nazionale va maturando il convincimento che convenga rivolgere l’attenzione pubblica del settentrione al mezzogiorno. Non certo ce ne dorremo noi settentrionali. La nostra fortuna è unita con vincoli così stretti alla fortuna del mezzogiorno, che dobbiamo essere lieti che si cominci finalmente a diffondere un po’ di più il sentimento di giustizia e gli strumenti materiali ed ideali della civiltà presso i nostri fratelli del sud.

 

 

«Noi dobbiamo anzi unire i nostri sforzi agli sforzi dei meridionali per liberare l’intiero paese dalla cappa di piombo del fiscalismo e del protezionismo che, se è deleteria al mezzogiorno, è apportatrice altresì di gravi danni al settentrione.

 

 

«Anche i settentrionali cominciano a persuadersi che è durata troppo a lungo l’attuale politica doganale protezionista ed anelano al pane a buon mercato ed agli sbocchi per i loro prodotti agricoli ed industriali.

 

 

«Che i meridionali sappiano scuotere il giogo dei latifondisti gaudenti in virtù del dazio sul grano e noi saremo con loro a combattere le battaglie della libertà!

 

 

«Anche i settentrionali, quando più la loro vita economica si svolge, sentono i danni dell’attuale fiscalismo tributario opprimente ed asfissiante e sono pronti a dare la mano ai meridionali perché ad essi le imposte sui fabbricati, sulla ricchezza mobile e sugli affari non portino via i frutti, già tassati e gravemente tassati, dell’agricoltura.

 

 

«Anche i settentrionali sono stanchi di vedere accrescersi senza fine il numero degli istituti di istruzione puramente classica e sarebbero lieti di cooperare coi meridionali alla creazione di tipi svariati di istituti scolastici, diversi da regione a regione a seconda dei bisogni locali e adatti a fornire i veri duci del movimento economico italiano.

 

 

«Né è difficile persuadere le classi operaie del settentrione che esse hanno maggior interesse ad avere il pane ed il vino a buon mercato che non pensioni pagate da uno Stato minacciato dalla bancarotta e clausole di salario minimo utili a pochi privilegiati, e che esse hanno interesse a favorire tutte quelle libertà economiche e tributarie che valgano a migliorare le sorti degli agricoltori meridionali ed a mettere in grado questi ultimi di consumare in maggior copia i prodotti delle industrie del nord».

 

 

Nella lettera dedicatoria al senatore Luigi Roux, il Nitti scrive: «Tu sei nato nell’estremo nord della penisola ed io nell’estremo sud: poiché non sei sospetto, vuoi tu aiutarmi in un’opera di verità, che è diretta a mostrare un pericolo vero, ma anche a dimostrare che si deve aver fede nell’avvenire?».

 

 

Se sono riuscito in quest’articolo ad esprimere l’opinione dei settentrionali alieni da pregiudizi di regione, parmi poter conchiudere che l’invito del Nitti sarà ascoltato non solo dal direttore di questo giornale, ma da tutti i settentrionali, i quali abbiano la coscienza della necessità di mantenere l’unità nazionale diffondendo il bene con giustizia in tutte le parti del paese.



[1] Con il titolo Nord e Sud [ndr].

Nord e Sud

Nord e Sud

«La Stampa», 16 e 23[1] giugno 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 191-200

 

 

I

 

È il titolo di un libro pubblicato di questi giorni da Francesco S. Nitti e scritto con grande desiderio di verità, per un grande scopo di bene[2].

 

 

Il libro è destinato ad avere grande fortuna e ad essere largamente discusso non solo per la forma attraente e la sostanza pensata delle cose dette, ma anche perché corrisponde ad un bisogno critico dell’anima italiana nel presente momento.

 

 

Accade nelle nazioni come negli individui: alle epoche di entusiasmo irrefrenato seguono le epoche di critica e di riflessione, durante le quali le opere del passato vengono sottoposte allo scalpello notomizzatore della critica indagatrice.

 

 

Tutti gli stati sono passati attraverso a queste due epoche diverse, eccetto alcuni che per speciali circostanze storiche seppero costituirsi in guisa durevolmente accetta a tutte le parti del territorio nazionale.

 

 

Quando una nazione si costituisce ad unità ed a parecchi piccoli stati sorge il nuovo grande stato, gli animi degli statisti e dei combattenti sono così pervasi dal fuoco sacro dell’amor patrio che sdegnano occuparsi delle conseguenze finanziarie dell’unione celebrata in mezzo all’ebbrezza universale. Sembra allora vil cosa l’occuparsi a formare il bilancio del dare e dell’avere delle varie parti, prima disunite, del territorio nazionale; ed appare volgare l’indagine se una delle parti subisca qualche perdita finanziaria dall’unione.

 

 

È bene che così accada in quelle epoche eroiche in cui si formano le grandi nazioni, perché altrimenti nulla di grande si sarebbe mai potuto fare e non sarebbero sorti gli stati moderni e l’Italia sarebbe ancora divisa in piccoli stati e sottoposta al giogo straniero.

 

 

Ma è altresì umano che dopo, quando l’unità nazionale è stata cementata dal sangue dei martiri, vengano gli indagatori a vagliare sottilmente le ragioni del dare e dell’avere fra le varie province unite.

 

 

Né si può dire che la loro opera sia funesta al sentimento unitario ed all’avvenire della patria una. Nel mondo moderno le cagioni di dissidio non cessano di esistere soltanto perché sono tenute nascoste. Il male anzi sembra più grande allora di quanto in realtà non sia perché se ne ignorano la natura e la estensione vere e non si conoscono i mezzi atti a curarlo. Se invece le ragioni di malcontento di una regione verso l’altra sono messe in chiara luce, è possibile toglierle, cementando in tal modo ancora più l’unità nazionale, che potrebbe correre pericolo se il male covasse a lungo sotto le ceneri, per divampare d’un tratto in un incendio devastatore.

 

 

Il problema della equa ripartizione delle entrate e delle spese dello stato, se altrove è stato a lungo pubblicamente discusso, in Italia ha formato soltanto oggetto di conversazioni private, fatte nel tono in che si parla delle cose da tutti risapute e che nessuno vuol dire, quasi si trattasse di cose vergognose.

 

 

Nel nord molti sono persuasi che il sud abbia sfruttato l’Italia nuova e che il bilancio italiano sia stato gravato a torto per costruire ferrovie inutili nel mezzogiorno e per mantenere un organismo complicato di governo in un paese di gran lunga inferiore in civiltà al settentrione.

 

 

Nel sud si ha l’opinione opposta, credendosi dai più che i danni economici

della unione superino i benefizi.

 

 

L’opera del Nitti giunge in buon punto per sostituire alle private mormorazioni la pubblica discussione, alle dicerie vaghe le dimostrazioni a base di statistiche precise.

 

 

Nord e sud è stato scritto da un meridionale; ma siccome si tratta di uno scienziato il quale ha studiato a lungo e serenamente ed ha scritto per fine di bene e per dire il vero, noi settentrionali abbiamo il dovere di ascoltare la sua parola.

 

 

Dopo la discuteremo perché dal dibattito sprizzi fuori la verità che deve essere feconda di bene all’Italia nostra.

 

 

Ecco intanto riassunta per sommi capi la parola del Nitti:

 

 

Quando l’Italia si costituì le imposte erano gravissime nel settentrione ed un debito pubblico assai alto gravava sul Piemonte. Nel mezzogiorno invece le entrate erano poche e lievi e di facile riscossione; il debito pubblico tenue e la rendita da lunghi anni al disopra della pari.

 

 

È vero che il mezzogiorno difettava di strade, ferrovie, scuole, mentre il Piemonte aveva già percorso gran tratto sul cammino della civiltà moderna. Ma ciò avrebbe dovuto consigliare all’Italia nuova di rivolgere le sue cure sovratutto al mezzogiorno per alzarne il livello materiale ed intellettuale. Invece, in parte per necessità ed in parte per volontà, accadde l’opposto.

 

 

Il mezzogiorno ha sempre dato allo stato unitario più di quanto non abbia ricevuto. Ecco le spese dello stato per ogni 10 lire di imposte e tasse:

 

 

Piemonte 8,49 Umbria 5,97
Liguria 13,49 Abruzzi e Molise 4,82
Lombardia 8,32 Campania 8,78
Veneto 7,50 Puglie 4,35
Emilia e Romagna 6,48 Basilicata 4,72
Toscana 9,97 Calabria 6,07
Marche 7,57 Sicilia 8,00
Lazio 12,02 Sardegna 8,10

 

 

Nella Francia ed in molti degli stati più progrediti sono le regioni più povere quelle che ricevono più che non diano; in Italia sono le regioni più povere che danno assai più che non ricevano. È in questo fatto, dice il Nitti, la causa maggiore della depressione, che sembra aver colpito l’Italia meridionale.

 

 

Scendendo ai particolari, si osserva che il mezzogiorno prima dell’unità, aveva un esercito di centomila uomini, i quali vivevano e spendevano il loro soldo nel paese. Più che 30 mila soldati erano permanentemente nella città di Napoli e nei dintorni. Ora l’esercito è concentrato verso il nord, 121 mila uomini nel settentrione, 70 mila nel centro e 51 mila nel mezzogiorno. Si tratta di una necessità militare inevitabile, la quale non toglie che delle spese militari si giovino sovratutto il nord ed il centro. E quel che si dice dell’esercito, si può ripetere per le scuole militari, per la marina, concentrata tra Livorno, Spezia e Genova, gli arsenali, ecc.

 

 

Le 17 università di stato sono in numero di 4 nell’Italia settentrionale, di 7 nella centrale, di 1 nella meridionale, di 3 in Sicilia e di 2 in Sardegna. Per l’unica università del mezzogiorno si spende assai meno che per quella di Roma, la quale ha pure appena la terza parte degli studenti di Napoli.

 

 

Lo stesso si dica dei licei, ginnasi, istituti tecnici, scuole tecniche, biblioteche, musei, gallerie, sussidi alle scuole elementari povere, ecc. In tutti i casi lo stato spende più nel nord e nel centro che nel sud; ed i professori più scadenti sono mandati nel mezzogiorno, come anche i magistrati novellini.

 

 

Prima dell’unità i magistrati a Napoli erano pochi ed avevano stipendi elevati. Dopo si estese anche al mezzogiorno il sistema degli stipendi tenui, ma non si aumentò il numero delle preture, dei tribunali e delle corti al livello del settentrione. Le preture ed i tribunali che hanno minor giurisdizione ed emettono minor numero di sentenze sono tutti nel settentrione.

 

 

La relativa maggior difficoltà di istruirsi e di aver giustizia e una delle cause della arretrata civiltà meridionale.

 

 

I lavori pubblici (ferrovie, porti, ponti, fanali, strade, bonifiche) andarono in prevalenza a beneficio del settentrione e del centro. Dal 1862 al 1897 – 98 si spesero 1.965 milioni nell’Italia settentrionale (141 lire per abitante e 18.865 lire per chilometro quadrato), 793 milioni nell’Italia centrale (159 lire per abitante e 14.254 lire per chilometro quadrato), 919 milioni nella meridionale (109 per abitante e 11.947 per chilometro quadrato) e 545 milioni nella insulare (124 per abitante e 10.956 per chilometro quadrato).

 

 

Quando l’Italia si formò, le due Sicilie possedevano 443 milioni di monete metalliche, il 65,7% del totale, in molta parte tesaurizzato. Questi denari ed altri risparmi servirono a pagare i beni demaniali ed ecclesiastici messi in vendita dal nuovo governo e di cui la massima parte si trovava nel mezzogiorno. Furono centinaia di milioni che il mezzogiorno pagò per comprare terre sue e che lo stato spese in massima parte nella valle del Po per mantenervi un grosso esercito sul piede di guerra.

 

 

L’unione dei debiti pubblici ereditati dagli antichi stati riuscì favorevole agli abitanti del Piemonte che pagavano 14 lire ciascuno e dannosa ai meridionali che pagavano 3,58 lire d’interesse annuo. Coll’unione i piemontesi ed anche i romani vennero sgravati a danno dei meridionali.

 

 

E la lista potrebbe continuare.

 

 

La rendita pubblica fu comprata a vil prezzo dal settentrione e rivenduta a prezzo maggiore al mezzogiorno durante l’epoca di floridezza che questo attraversò; anche ora i pagamenti del tesoro sono maggiori nel nord che nel sud.

 

 

Nel nord vive la maggior parte dei pensionati di stato e sono settentrionali i più fra gli impiegati. È una diceria smentita dalle cifre la pretesa invadenza dei meridionali nei pubblici impieghi. Il mezzogiorno è la regione dove la pressione delle imposte è più grave, dove gli aggi son più alti e le espropriazioni per mancato pagamento di imposta più numerose. Le città settentrionali sono cresciute in numero e ricchezza ben più rapidamente che nel mezzogiorno. L’imposta sui fabbricati grava meno nel nord e nel centro dove le abitazioni rurali sono esenti, che non nel sud dove gli abitanti sono agglomerati in grossi borghi tassati. Il mezzogiorno agricolo non può sottrarre all’imposta la sua ricchezza tangibile e reale, mentre il nord commerciante e manifatturiero occulta molta parte dei suoi redditi mobiliari.

 

 

Il sud agricolo in virtù della politica doganale protezionista italiana non può vendere all’estero i suoi vini, olii, agrumi e deve comprare a caro prezzo i manufatti del nord.

 

 

La lista continua, documentata di fatti e da cifre, nel libro del Nitti. Noi facciamo punto, lieti per ora se avremo invogliato i lettori alla lettura di un libro che solleva e tratta senza reticenze una questione di interesse tanto alto per l’avvenire d’Italia.

 

 

II

 

La discussione del libro del Nitti richiederebbe un esame lungo e minuto delle varie argomentazioni contenute in Nord e sud; esame poco adatto ad un giornale quotidiano.

 

 

Amo meglio esporre quale è la mia impressione di settentrionale di fronte al libro scritto da un meridionale, nel convincimento che la esposizione del vero giovi alla causa della unità italiana.

 

 

Ecco pressapoco quanto potrebbe dire un settentrionale, immune da pregiudizi regionali e desideroso soltanto che la luce proveniente dall’esperienza del passato ci serva di guida per l’avvenire:

 

 

«Sì, è vero che noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato di più delle spese fatte dallo stato italiano dopo la conquista dell’unità e dell’indipendenza nazionale.

 

 

«Ma se talvolta errammo per egoismo, in massima parte traemmo profitto da una serie di circostanze geografiche, storiche e sociali contro di cui sarebbe stato non solo vana ma dannosa per tutta l’Italia la resistenza.

 

 

«Peccammo, è vero, di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio nazionale e ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale. Noi riuscimmo così a fare affluire dal sud al nord una notevole quantità di ricchezza, nel momento appunto in cui la chiusura dei mercati esteri, conseguenza della nostra politica protezionista, impoveriva l’agricoltura, unica e progrediente industria del sud. Ma è giusto ricordare che noi settentrionali non saremmo riusciti a consumare il nostro peccato di egoismo protezionista se non fossimo stati aiutati dai grandi proprietari di terre a grano del mezzogiorno, i quali permisero agli industriali del nord di sfruttare i loro corregionali a patto di acquistare anch’essi il diritto di far loro pagare il pane un po’ più caro del normale.

 

 

«Le nostre città ed i nostri borghi traggono grande profitto dall’esistenza di forti guarnigioni; ma è questo un fatto strategico il quale deriva dalla conformazione geografica del nostro territorio e le cui cause debbono essere e sono infatti riconosciute giuste dagli stessi meridionali.

 

 

«Abbiamo avuto una percentuale di impiegati alti e bassi superiore al normale; ma, ciò nei primi tempi era necessario per cementare l’unità nazionale con una burocrazia imbevuta di spirito unitario e di devozione agli istituti esistenti; ed allora questa burocrazia non si poteva trovare altrove che in Piemonte. Ora la sperequazione fra le varie regioni d’Italia va scemando a questo riguardo, per quanto ciò non sia ancora molto visibile negli alti gradi della burocrazia.

 

 

«Abbiamo spostata molta ricchezza dal sud al nord colla vendita dell’asse ecclesiastico e dei beni demaniali e coi prestiti pubblici; ma come si poteva fare altrimenti negli anni tragici che corsero dal 1860 al 1870?

 

 

«Abbiamo ottenute più costruzioni di ferrovie, di porti e di altri lavori pubblici, di scuole e di istituti governativi; ma possiamo dire con fiducia che quei denari furono spesi nel nord con maggior profitto che se fossero stati spesi nel sud. Non si può negare che, trent’anni fa, il nord d’Italia rappresentava la parte del territorio più progredita. Dicendo questo noi non vogliamo muovere nessun rimprovero ai meridionali, quasi che essi fossero incapaci a raggiungere un grado di civiltà materiale e di progresso morale ed intellettuale simile al nostro. Soltanto una pseudo-sociologia ciarlatanesca può dilettarsi a distinguere due razze in Italia, l’una votata al progresso e l’altra destinata alla barbarie.

 

 

«Dicendo che il settentrione era più civile noi vogliamo dire soltanto che per una serie di circostanze storiche (governi migliori, vicinanza alle nazioni economicamente più progredite, maggior fiducia in noi stessi, posizione geografica atta ai rapidi e proficui scambi) noi ci trovavamo in una posizione in che la ricchezza poteva svolgersi più facilmente, si aveva maggior bisogno degli strumenti della civiltà moderna, come strade, ferrovie e si sentiva maggiore stimolo ad appropriarsi una cultura media sufficiente.

 

 

«Il fatto che qui dal Piemonte era partito l’impulso alla formazione dell’Italia nuova era causa per noi di un giustificato orgoglio e di ammirazione per i meridionali, i quali accorrevano ed accorrono ancora nel settentrione come alla sede di una civiltà più alta. Accadeva lo stesso nel mondo romano, ma in senso inverso, ed alcune fra le maggiori glorie latine venivano dai paesi del nord.

 

 

«A causa di circostanze, storiche e di fatto, la applicazione dei capitali anche pubblici è stata nell’ultimo quarantennio più proficua nel nord che nel sud. Conveniva di più serrare le maglie della rete ferroviaria settentrionale ad intenso traffico internazionale ed interno che non fare un tronco nuovo in un paese meridionale privo di comunicazioni. Era e sarebbe ancora più utile profondere milioni nel porto di Genova, che è opera nazionale, che non spendere le migliaia di lire in un porto della costa adriatica o calabra visitato da poche navi a vela. Era più utile spendere denari per istituti di istruzione media nell’Alta Italia a fine di non lasciar disperdere i frutti dell’istruzione elementare da lungo tempo iniziata che non impiegarli nell’Italia meridionale dove mancava ancora la materia atta ad essere educata e dove la gioventù, non trovando sbocco nei commerci e nelle industrie, avrebbe languito nella burocrazia e nelle professioni liberali.

 

 

«È noto altresì che le successive applicazioni di capitali non sono tutte egualmente produttive. Quando su un campo si sono già impiegati rilevanti capitali, torna più conveniente applicare i nuovi capitali non su di esso ma su nuovi campi, trascurati prima perché ritenuti troppo sterili.

 

 

«Sembra che qualcosa di simile accada già e debba accadere ancora maggiormente in avvenire riguardo alle spese di stato in Italia. Il libro del Nitti è forse l’indice che nella coscienza nazionale va maturando il convincimento che convenga rivolgere l’attenzione pubblica del settentrione al mezzogiorno. Non certo ce ne dorremo noi settentrionali. La nostra fortuna è unita con vincoli così stretti alla fortuna del mezzogiorno, che dobbiamo essere lieti che si cominci finalmente a diffondere un po’ di più il sentimento di giustizia e gli strumenti materiali ed ideali della civiltà presso i nostri fratelli del sud.

 

 

«Noi dobbiamo anzi unire i nostri sforzi agli sforzi dei meridionali per liberare l’intiero paese dalla cappa di piombo del fiscalismo e del protezionismo che, se è deleteria al mezzogiorno, è apportatrice altresì di gravi danni al settentrione.

 

 

«Anche i settentrionali cominciano a persuadersi che è durata troppo a lungo l’attuale politica doganale protezionista ed anelano al pane a buon mercato ed agli sbocchi per i loro prodotti agricoli ed industriali.

 

 

«Che i meridionali sappiano scuotere il giogo dei latifondisti avvantaggiati dal dazio sul grano o noi saremo con loro a combattere le battaglie della libertà!

 

 

«Anche i settentrionali, quando più la loro vita economica si svolge, sentono i danni dell’attuale fiscalismo tributario opprimente ed asfissiante e sono pronti a dare la mano ai meridionali perché ad essi le imposte sui fabbricati, sulla ricchezza mobile e sugli affari non portino via i frutti, già tassati e gravemente tassati, dell’agricoltura.

 

 

«Anche i settentrionali sono stanchi di vedere accrescersi senza fine il numero degli istituti di istruzione puramente classica e sarebbero lieti di cooperare coi meridionali alla creazione di tipi svariati di istituti scolastici, diversi da regione a regione a seconda dei bisogni locali e adatti a fornire i veri capi del movimento economico italiano.

 

 

«Né è difficile persuadere alle classi operaie del settentrione che esse hanno maggiore interesse ad avere il pane ed il vino a buon mercato che non pensioni pagate da uno stato col bilancio in disavanzo, ovvero clausole di salario minimo utili a pochi privilegiati; e che il loro più grande interesse sta nel favorire tutte quelle libertà economiche e tributarie che valgano a migliorare le sorti degli agricoltori meridionali ed a mettere in grado questi ultimi di consumare in maggior copia i prodotti delle industrie del nord».

 

 

Nella lettera dedicatoria al senatore Luigi Roux, il Nitti scrive:

 

 

«Tu sei nato nell’estremo nord della penisola ed io nell’estremo sud: poiché non sei sospetto, vuoi tu aiutarmi in un’opera di verità, che è diretta a mostrare un pericolo vero, ma anche a dimostrare che si deve aver fede nell’avvenire?»

 

 

Se sono riuscito in quest’articolo ad esprimere l’opinione dei settentrionali alieni da pregiudizi di regione, parmi poter conchiudere che l’invito del Nitti sarà ascoltato non solo dal direttore di questo giornale, ma da tutti i settentrionali, i quali abbiano la coscienza della necessità di mantenere l’unità nazionale diffondendo il bene con giustizia in tutte le parti del paese.

 



[1] Con il titolo La parola di un settentrionale. Ristampato nel 1954 in Il buongoverno, pp. 147-151 e in Il Nord nella storia d’Italia. Antologia dell’Italia industriale a cura di LUCIANO CAFAGNA, Bari, Laterza, 1962 («Collezione storica»), pp. 332-340.

[2] F. S. Nitti, Nord e Sud. Prime linee di una inchiesta sulla ripetizione territoriale delle entrate e delle spese in Italia. Con 37 incisioni (Roux e Viarengo editori, Torino 1900, lire 3). Il volume è la sintesi dell’opera: Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-97, pubblicato dal medesimo autore negli «Atti» del regio Istituto d’incoraggiamento di Napoli, dove le argomentazioni dell’autore sono largamente suffragate da numerosi dati statistici.

L’imposta sui salari

L’imposta sui salari

«La Stampa», 22 aprile 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 187-190

 

 

A proposito dell’imposta sui salari è capitato in Italia un caso apparentemente strano.

 

 

Nel disegno di legge presentato dal governo ed approvato dalla commissione della camera è scritto un articolo 7 il quale dichiara esenti dalla imposta di ricchezza mobile le retribuzioni per prestazioni d’opera puramente manuale in qualsiasi modo corrisposte.

 

 

A tale graziosa concessione dello stato avrebbero dovuto gli operai plaudire e dimostrarsi grati per la benignità verso di loro usata dal fisco.

 

 

Gli operai invece si sono messi a protestare; ed i comizi si sono succeduti ai comizi e gli ordini del giorno agli ordini del giorno di vibrata protesta contro il governo.

 

 

Donde deriva lo strano caso?

 

 

Egli è che l’articolo 7, che largisce l’esenzione dall’imposta sui redditi di ricchezza mobile ai salari degli operai, ha una coda la quale dice:

«Cessa tale esenzione quando si verifichino simultaneamente le tre seguenti

condizioni:

 

 

  • che la retribuzione assuma indole di stabilità, per essere continuativa la prestazione dell’opera o del servizio;
  • che sia corrisposta in misura superiore alle lire 3,50 per ogni giornata di lavoro;
  • che risulti dall’accertamento un reddito per il percipiente superiore alle lire 800 annue nette, per effetto della prestazione dell’opera ed indipendentemente da qualsiasi coacervo».

 

 

A spiegare l’eccezione ora letta, il governo nei suoi comunicati ufficiosi intorno all’agitazione operaia, di cui l’ultimo comparso poco fa, si meraviglia che la nuova legge sia stata accolta con così scarso favore da coloro appunto ai quali avrebbe dovuto tornare più gradita.

Eppure essa rappresenta un grande miglioramento di fronte allo stato esistente di cose. Adesso un operaio, il quale lavorando 300 giorni all’anno ad un salario di lire 2,15 al giorno riesce a guadagnare 641 lire all’anno, è colpito dall’imposta; e non importa che il suo guadagno sia instabile o continuativo, purché si accerti il sovradetto reddito di lire 641. Che, anzi, se l’operaio possiede un pezzetto di terra od ha qualche risparmio investito in un mutuo od in deposito, si fa il coacervo, ed egli viene colpito dall’imposta anche se il reddito del suo lavoro è inferiore a lire 641, ma sommato cogli altri redditi ammonta appunto a tale somma.

 

 

Invece, colla legge nuova, gli operai saranno esenti dall’imposta quando il loro salario non superi le lire 3,50 al giorno, o, pur superando tale cifra nei giorni di lavoro, non ecceda le lire 800 all’anno. Saranno esenti quegli operai che, pur guadagnando di più, non hanno una occupazione continuata; e nel fare il conto del reddito dell’operaio non si avrà riguardo agli altri suoi redditi. Un operaio avente un salario di lire 800 nette all’anno sarà esente anche se per caso egli si trova a possedere campi e case e risparmi che gli accrescono le entrate complessive al di là delle 800 lire.

 

 

Che si vorrebbe di più? esclama il governo meravigliato dalla perversa natura degli operai italiani i quali, abituati a parlar male dello stato sfruttatore, non vogliono nemmanco riceverne i beneficii promessi per legge.

 

 

Malgrado ciò, gli operai si ostinano a respingere il beneficio legislativo; e lo chiamano insidioso perché rivolto a peggiorare nella realtà la condizione attuale delle cose.

 

 

È vero, dicono gli operai, che adesso i salari superiori alle lire 641 all’anno sono colpiti dall’imposta; ma in realtà l’imposta non viene riscossa per molteplici cagioni:

 

 

  • Per tassare i salari operai, converrebbe conoscerne la misura. Ora nulla di più incerto e di più mutevole di un salario operaio. Nel caso in cui, per via di media, possa accertarsi un reddito imponibile, rimane un altro ostacolo gravissimo, quello cioè della riscossione dell’imposta. Gli operai d’ordinario sono sprovvisti di sostanze o facilmente possono apparire tali, e la tassazione quindi rimane senza effetti.
  • Si aggiunga che lo stato non può ricorrere alla rivalsa per esigere l’imposta sui salari superiori a 641 lire; non può cioè costringere gli industriali od impresari a pagare l’imposta per gli operai da loro dipendenti, salvo il diritto di rivalsa contro di questi. Infatti la legge obbliga le società ed i privati imprenditori a dichiarare gli stipendi, pensioni, onorari od assegni mensili pagati ad agenti e commessi e tace per le mercedi operaie. Il che è segno che la tassazione indiretta per mezzo di rivalsa non è consentita.

 

 

A causa degli inconvenienti pratici, ora accennati, la legge attuale rimane lettera morta. Appena 12.000 operai in tutta Italia sono colpiti dall’imposta sui redditi di ricchezza mobile per un reddito di poco più di mezzo milione.

 

 

Gli operai ora tassati appartengono quasi tutti a stabilimenti governativi o semi-pubblici, ed anche negli stabilimenti governativi la tassazione per ritenuta dei manovali è stata abbandonata per non suscitare contrasti e lagnanze.

 

 

Gli operai dunque temono la nuova legge non già perché teoricamente la credano meno equa della legge precedente, ma perché prevedono che la nuova legge sarà applicata mentre la legge attuale rimane, come si disse, lettera morta.

 

 

Se, invece, volendo applicar l’imposta, il governo sarà sicuro di non fare strillare troppa gente, ossia potrà lasciar quieti coloro i quali guadagnano meno di 3,50 al giorno, il governo applicherà la legge.

 

 

Tutti quegli operai i quali adesso abusivamente – e per un abuso fortunato – guadagnano più di lire 3,50 al giorno ed 800 lire all’anno e frattanto sono in fatto esenti dall’imposta, strillano all’idea di doverla pagare in seguito; e strillano non a torto se si pensa che essi contribuiscono già ora fortemente alle entrate governative colle imposte indirette sul sale, sul pane, sullo zucchero, sul petrolio, sul caffè, sui vestiti, ecc. ecc., imposte le quali proporzionatamente sono più gravose per i redditi minori che non per i redditi medi e grossi.

 

 

All’accusa di voler godere di un privilegio rispetto ai professionisti, commessi, agenti, impiegati di ogni sorta, maestri, ecc., i quali con redditi inferiori alle 800 lire sono tassati, gli operai rispondono sollecitando il governo ad esentare dall’imposta anche questi loro fratelli, fratelli nella sventura di avere redditi meschini e sudati, e già falcidiati dalle imposte indirette.

 

 

Insieme cogli operai strillano i padroni, gli industriali, gli impresari, i quali temono che gli operai riversino con scioperi e leghe di resistenza su di loro il gravame dell’imposta; e protestano che il nuovo carico riuscirà un peso incomportabile per l’industria italiana, soggetta alla concorrenza di paesi, dove i salari operai sono colpiti da imposte sui consumi molto minori delle nostre e sono affatto esenti dalle imposte sui redditi.

 

 

Nei termini ora narrati sta la questione dell’imposta sui salari; ci è sembrato opportuno dare qualche spiegazione al riguardo, perché il pubblico non creda che le cose siano così semplici come vorrebbero far credere i comunicati officiosi.

Il caro dei prezzi

Il caro dei prezzi

«La Stampa», 5 e 13[1] marzo 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 177-186

 

 

I

 

Negli ultimi mesi un fenomeno, non nuovo nella storia economica del presente secolo, si è manifestato: l’aumento quasi generale dei prezzi, che ha sconcertato tutti i piani dei fabbricanti, ha fatto e fa gettare alte grida ai consumatori e del quale molti, meravigliati, non sanno rendersi ragione.

 

 

Come sempre, l’aumento dei prezzi ha un punto centrale donde esso si irradia, come in tante onde concentriche, in tutti gli altri paesi, perdendo a mano a mano di intensità. Anche stavolta l’Inghilterra è il paese in cui il caro dei prezzi si è prima manifestato, dove esso ha avuto maggiore intensità e donde si è diffuso in tutti gli altri paesi civili. Non è a fare meraviglia che ciò accada se si pensa che Londra è pur sempre la sede del commercio internazionale, dove si transigono masse grandiose di affari, dove risiede una gente abituata per mestiere a tener conto di tutte quelle minime variazioni della domanda e dell’offerta delle merci che valgono a farne mutare il prezzo. Perciò noi dobbiamo guardare sovratutto all’Inghilterra se vogliamo renderci ragione dell’odierno caro dei prezzi.

 

 

Non so se molti dei lettori della «Stampa» sappiano che cosa e un numero indice. Per spiegare la cosa dirò che l’«Economist» di Londra, il più reputato giornale finanziario inglese, usa ogni semestre, all’1 gennaio ed all’1 luglio, calcolare i prezzi di 22 merci scelte fra le più importanti e di gran consumo, e riduce poi i prezzi a centesimi di quello che era il prezzo delle stesse merci nel 1845-50, il quale è supposto uguale a 100. Ad esempio, il grano valeva nel 1845-50 scellini 53; all’1 gennaio 1900 valeva scellini 25. Se noi dovessimo tutte le volte fare il conto della diminuzione percentuale di prezzo del grano dopo il 1845-50, perderemmo del tempo. Col metodo dell’«Economist» si suppone che il prezzo di 53 scellini del periodo 1845-50, sia uguale a 100 centesimi; ed allora si vede che il grano all’1 gennaio 1900, valeva solo più 47 centesimi e si può paragonare la variazione di prezzo del grano con la variazione del prezzo di tutte le altre merci, alcune delle quali sono discese ancora più in basso, a 31, come il tè, mentre altre, come la seta greggia, sono aumentate fino a 139, sempre supposto uguale a 100 il prezzo base del 1845-50.

 

 

Vi è di più; se noi sommiamo tutti i prezzi, base 100, delle 22 merci studiate dall’«Economist», otteniamo il numero 2.200, il quale indica il livello generale dei prezzi nel periodo 1845-50; facendo poi la stessa somma per tutti gli anni successivi si può sapere se e quanto sia aumentato o diminuito proporzionalmente il livello dei prezzi, sia di fronte agli anni di partenza 1845-50, sia di fronte a qualsiasi altro anno intermedio.

 

 

Ecco una serie di questi numeri che si dicono indici, perché servono quasi ad indicarci il livello generale dei prezzi nelle varie epoche:

 

 

1845-50

2.200

1 gennaio 1895

1.923

1 luglio 1857

2.996

1 gennaio 1896

1.999

1 gennaio 1870

2.689

1 gennaio 1897

1.950

1 gennaio 1880

2.538

1 luglio 1897

1.885

1 gennaio 1890

2.236

1 gennaio 1898

1.890

1 gennaio 1891

2.224

1 luglio 1898

1.915

1 gennaio 1892

2.133

1 gennaio 1899

1.918

1 gennaio 1893

2.121

1 luglio 1899

2.028

1 gennaio 1894

2.082

1 gennaio 1900

2.145

 

 

Come si vede molto chiaramente dalle cifre ora esposte, i prezzi (attraverso a momentanee ondulazioni, che non sono nella tabella visibili, specie nei primi decenni) ebbero la tendenza a diminuire dal 1857 in poi, scendendo da 2.996 a 1.885 l’1 luglio 1897. Il ribasso era forte. In seguito cominciò il movimento inverso, dapprima lento, poi progressivamente più rapido. L’1 gennaio 1898 i prezzi complessivi delle 22 merci erano appena aumentati di 5 punti a 1890; l’anno dopo, l’1 gennaio 1899, erano ascesi a 1.918. Tutto ad un tratto l’aumento si accelera: l’1 luglio 1899 il rialzo è di 90 punti sino a 2.028; e, finalmente, l’1 gennaio 1900 siamo giunti a 2.145, con un aumento di 117 punti in un solo semestre.

 

 

Certo l’aumento è notevole: abbiamo già superato i prezzi del 1892 e ci apparecchiamo a ritornare a quel livello di 2.200, che forma come la base media dei prezzi, secondo l’«Economist».

 

 

Ma, appunto per ciò, non si può dire che si tratti di un fenomeno né allarmante né tale da farci impensierire troppo sulle venture prossime difficoltà di vestirci, di riscaldarci, di muoverci, ecc. ecc. Dobbiamo, è vero, comprare le nostre merci un po’ più care dell’anno scorso, e sovratutto di due o tre anni fa; ma siamo ancora ben lungi dal dovere pagare i prezzi altissimi del 1870 e del 1857.

 

 

Si aggiunga, inoltre, che, mentre noi, come consumatori, dobbiamo pagare alquanto più care le nostre merci, abbiamo però il vantaggio di non doverle pagare tutte più care. Il grano, ad esempio, che nell’Inghilterra non entra molto nella alimentazione, mentre in Italia ha una importanza somma, si compra a più buon mercato; l’1 luglio 1898 era a 77 centesimi del prezzo base; ed è ininterrottamente disceso fino ad essere, l’1 gennaio 1900, solo più a 47 centesimi dello stesso prezzo.

 

 

Si aggiunga che in quelle merci in cui il caro dei prezzi fu più marcato, ossia il carbone, le macchine, i minerali, i tessuti, esso fu dovuto ad una grande prosperità delle relative industrie e diede modo agli operai ed alle masse consumatrici di poter far fronte, coi più alti salari, all’aumento dei prezzi, che, del resto, fu dagli operai sentito solo per quanto si riferisce ai tessuti e, nei paesi freddi, al carbone.

 

 

E qui possiamo indicare le cause dalle quali fu originato il recente aumento dei prezzi. La guerra anglo – boera vi ebbe parte certamente notevole. Sovratutto i prezzi del carbone e dei metalli ed i noli delle navi aumentarono per questo motivo. Le antraciti di Cardiff, le quali sono usate molto nei trasporti marittimi, aumentarono, da una media di 12-15 scellini, fino a 27 scellini per tonnellata, appunto per le grandi richieste del governo inglese. Così anche il coke, che nel 1897 valeva 7 scellini vicino agli alti forni, adesso vale circa 22 scellini. È la necessità di apprestare in fretta armi, munizioni, ecc., che fu la causa di questo aumento subitaneo di prezzi.

 

 

Ma errerebbe chi volesse attribuire l’aumento dei prezzi soltanto alla guerra anglo-boera. Questa fu l’occasione che rese più avvertito e subitaneo un aumento che si sarebbe manifestato egualmente, forse con maggior calma.

 

 

La prova si ha leggendo le cifre relative al commercio del medesimo carbone di cui il più accentuato rialzo fu apparentemente dovuto alla sola guerra africana. Le esportazioni del carbone inglese sono nell’ultimo anno aumentate in tutte le direzioni, anche verso paesi che non hanno nulla a che fare colla guerra. Mentre per l’uso delle navi in partenza dall’Inghilterra fu necessario solo un milione di tonnellate di più, le esportazioni per l’estero crebbero da 36 milioni e mezzo a 43 milioni, ossia di più di 6 milioni e mezzo di tonnellate. Moltissimi paesi parteciparono a questa maggior richiesta di carbone inglese. La Russia ne chiese 1 milione e 200 mila tonnellate di più, la Svezia e la Norvegia 900 mila tonnellate di più, la Germania, che pure possiede grandiosi bacini carboniferi, 300 mila tonnellate, l’Olanda 300 mila, la Francia 1 milione e 150 mila, la Spagna mezzo milione, l’Italia 850 mila, l’Egitto 220 mila ed i paesi diversi 1 milione di tonnellate di più.

 

 

Si disse a ragione che il carbone è il pane dell’industria. Tutto questo aumento nella domanda del carbone nei paesi più diversi, indica che la causa del caro dei prezzi si deve sovratutto ricercare nello sviluppo meraviglioso delle industrie nell’ultimo anno. L’«Economist» comincia la sua cronaca economica del 1899 così: «Raramente l’Inghilterra ha potuto allietarsi di una attività industriale e di una prosperità così generale e sensibile come nel 1899» Quel che si dice dell’Inghilterra, si può ripetere per tutti gli altri paesi. Tutte le industrie tessili, elettriche, ecc. ecc., sono come per incanto rifiorite nell’ultimo anno. Le società industriali e commerciali si stanno moltiplicando sotto i nostri occhi, i salari aumentano, i guadagni si ingrossano. Dacché l’Italia è costituita a nazione, non si era mai visto un fatto simile a quello verificatosi nell’anno scorso, e cioè di un movimento commerciale giunto alla cifra, per noi straordinaria, di 3 miliardi di lire.

 

 

È ben naturale, quindi, che, crescendo le domande delle merci, i prezzi aumentino. Ciò importa un sacrificio ai produttori che comprano le materie prime a più caro prezzo; ma essi se ne possono rifare aumentando i prezzi; ed i consumatori sono ben lieti di pagare questi prezzi più alti perché i loro salari ed i loro guadagni sono cresciuti.

 

 

Noi siamo, insomma, nel momento presente, sulla cresta di una ondata di prosperità; ed il caro dei prezzi non è se non una manifestazione della prosperità universale nell’attuale periodo economico. Il fatto si è ripetuto spesso nel nostro secolo; alcuni asseverano persino che si ripeta periodicamente e regolarmente ogni dieci anni. Esso non ha nulla di allarmante, né di insolito. Passerà nello stesso modo come è venuto. Danni gravissimi si avrebbero soltanto se i produttori facessero troppo a fidanza nell’attuale periodo di prosperità, e facessero dagli impianti esagerati e troppo costosi, i quali non saranno più rimuneratori quando i prezzi torneranno a ribassare per il ritorno degli anni cattivi.

 

 

II

 

Abbiamo esaminato sopra i sintomi e le cause dell’attuale caro dei prezzi. È naturale domandare perciò se la prosperità del momento sia destinata a durare e se gli anni buoni siano costretti novamente a lasciare il passo ad anni cattivi.

 

 

Nello stesso modo che può essere utile sapere preventivamente quanto durano le stagioni fredde e le calde, se i venti continueranno a soffiare in una direzione o invece questa muterà, il corso dei fiumi, le maree, ecc. ecc., così sarebbe utilissimo prevedere il corso futuro degli avvenimenti economici di un paese per adattare a quello la propria azione, per evitare di commettere spropositi, per non iniziare intraprese, le quali, promettentissime ora, possono in breve volgere di tempo diventare poco proficue e passive.

 

 

Disgraziatamente però i mezzi che la scienza economica ha a sua disposizione per prevedere il futuro sono ben scarsi in confronto a quelli che l’astronomia ha per calcolare il corso degli astri, la medicina le vicende di una malattia o la meteorologia le successioni delle stagioni, dei venti, delle maree, ecc.

 

 

La causa della imperfezione della scienza economica sotto tale riguardo non è difficile ad indicare. Se l’astronomo riesce a prevedere con precisione matematica il corso degli astri, la comparsa di una cometa, l’eclisse del sole o della luna, si è perché egli deve calcolare su pochi elementi semplicissimi, quali sono i corpi detti astri, in base alla legge della gravitazione. Dati i corpi, i quali esistono nello spazio, data la conoscenza delle leggi di attrazione reciproca, è possibile calcolare la traiettoria che in un dato periodo di tempo percorrerà l’astro, così come è possibile matematicamente calcolare la traiettoria percorsa da una palla da cannone quando noi ne conosciamo la forza propulsiva iniziale, la resistenza dell’aria, la tendenza dei gravi a cadere sulla terra, ecc.

 

 

Nella metereologia le previsioni riescono già difficili perché gli elementi di cui conviene tener calcolo sono più numerosi e mutevoli continuamente; se perciò è facile prevedere che all’inverno succederà la primavera, ed ai venti spiranti dal mare succederanno i venti spiranti dalla terra, perché così è sempre avvenuto e così avviene in virtù di cause molto semplici, è molto più arduo prevedere se da qui a quindici giorni farà bello o brutto tempo, mancandoci la conoscenza di tutte le cause che allora potranno agire sulla temperatura di un determinato luogo. Lo stesso accade, ed in misura molto più accentuata, per quanto riguarda il corso degli avvenimenti economici. Se noi conoscessimo con precisione il modo di agire di tutti gli uomini, gli avvenimenti politici probabili, il corso delle stagioni favorevole od avverso all’agricoltura, la probabilità e l’importanza delle nuove scoperte, se noi, insomma, potessimo conoscere con precisione tutti i movimenti psicologici e le forze esterne le quali spingono gli uomini ad agire economicamente in un senso o nell’altro, noi potremmo predire con sufficiente esattezza che cosa capiterà nel mondo degli affari in un periodo prossimo di tempo.

 

 

Tutto ciò manifestamente è impossibile. La natura umana è così complessa che, per quanto si sappia che il suo sentimento predominante nelle faccende economiche è l’egoismo, non si può prevedere quali forme assumerà questo egoismo e fino a qual punto la sua azione sarà controbilanciata da altri sentimenti, i quali talora, in momenti di eccitazione politica, religiosa o militare, acquistano un’intensità straordinaria. Negli avvenimenti politici, nelle scoperte industriali ha troppa parte il caso perché noi possiamo con fiducia ricavare dai fatti oggi accaduti indizi sicuri relativamente a ciò che accadrà dimani.

 

 

Malgrado tutte queste difficoltà, gli economisti hanno cominciato a constatare un fatto: che cioè i periodi di crisi e di prosperità si succedono regolarmente e periodicamente, secondo una legge che si potrebbe all’ingrosso persino tradurre in cifre. Il fatto era del resto conosciuto da lungo tempo; basta ricordare la storia biblica delle sette vacche grasse e delle sette vacche magre. Nel nostro secolo gli anni grassi si sono succeduti agli anni magri in questo ordine:

 

1803 – 1810 – 1815 – 1825 – 1836-39 – 1847 – 1857 – 1864-66 – 1873 – 1882 – 1891-93 – 19 …?

 

 

Gli anni sovra segnati sono quelli in cui l’attività industriale e commerciale giunge al suo grado estremo, in cui i prezzi diventano altissimi, in cui gli affari vanno così bene che la gente compie speculazioni azzardate ed in cui l’arco troppo teso si rompe e scoppia la crisi. Fra un anno ed il successivo si compie la liquidazione della crisi, gli affari cattivi si liquidano, le case malferme scompaiono dal mercato e gli affari tornano ad incamminarsi per la buona via prima lentamente ed in seguito più velocemente finché si giunge ad un altro anno di prosperità in cui scoppia di nuovo la crisi.

 

 

Una prima cosa dunque è certa: che cioè gli industriali, i commercianti, gli agricoltori non si debbono illudere che gli anni buoni, i prezzi alti debbano continuare sempre. Se l’esperienza serve a qualcosa, questa dovrebbe insegnare loro che nel presente secolo ai prezzi alti sono sempre succeduti i prezzi bassi, alle vacche grasse le vacche magre. È dunque probabile che anche nel futuro lo stesso ordine di avvenimenti seguirà e che più o meno presto vedremo di nuovo gli anni di stagnazione e di morta gora. Ed è ragionevole che così sia.

 

 

Alcuni economisti hanno voluto rintracciare la ragione di questo singolare succedersi – che sembra verificarsi entro un termine quasi regolare di dieci anni – degli anni di crisi e di prosperità, in un fatto apparentemente privo di qualsiasi influenza sugli uomini, ossia nelle macchie del sole.

 

 

Si dice infatti che le macchie solari si riproducono ogni 10 anni, e che la loro comparsa coincide quasi sempre con i cattivi raccolti; i cattivi raccolti alla loro volta fanno scemare gli acquisti degli agricoltori e mettono in crisi le industrie ed i commerci. La spiegazione è insufficiente perché non è provato quale influenza le macchie solari esercitino sui raccolti; i cattivi raccolti non coincidono sempre colle macchie solari, e le crisi industriali non seguono sempre i cattivi raccolti.

 

 

Del fatto si può dare una spiegazione più semplice esaminando una qualunque delle crisi, per esempio, quella che rimane famosa del 1873 in tutto il mondo o la crisi edilizia in Italia.

 

 

Prima del 1870 le industrie ed i commerci erano rimasti alcuni anni in ristagno per rimarginare le ferite della crisi del 1866. Dopo il 1870 si succedono la guerra franco-tedesca, l’indennità di 5 miliardi alla Germania, il bisogno di questo paese di diventare grande economicamente come già lo era politicamente; l’impianto delle ferrovie negli Stati uniti ed in tutti i paesi nuovi; l’ingigantirsi della marineria a vapore. Di qui un impulso vivissimo a tutte le industrie, sovratutto a quelle metallurgiche e carbonifere. I prezzi rialzarono rapidamente. Il carbone si vendette persino a 50 scellini la tonnellata a Londra, invece di 20. Ciò fece sì che numerose miniere si aprissero, che i capitalisti facessero sorgere nuove fabbriche come funghi. Quando poi le ferrovie furono costrutte, le navi a vapore varate, e furono colmati i bisogni lasciati insoddisfatti dalla guerra, la domanda di merci scemò, i prezzi ribassarono e molte fabbriche che si erano costituite facendo a fidanza sui prezzi alti dovettero chiudersi.

 

 

La causa della crisi edilizia italiana si deve ricercare nelle speranze esagerate riposte sulla influenza del trasporto della capitale a Roma a farne aumentare la popolazione. Adescati dai lauti profitti i capitalisti accorsero a costruire case nella capitale; le banche imprestarono capitali a chi non ne aveva, e ne imprestarono anche a chi non meritava di averne, e che in quella furia universale di guadagnar enormi ricchezze in breve tempo riuscì ciononostante a scontare le sue cambiali. Quando poi il milione sperato di abitanti non venne, le banche cominciarono a volere ottenere in restituzione i capitali imprestati; i costruttori dovettero interrompere le costruzioni; i prezzi delle case e dei terreni svilirono e la crisi imperversò.

 

 

È sempre dunque una domanda nuova di merci e di servigi quella la quale fa aumentare i profitti degli imprenditori in alcune industrie. Nei primi tempi le cose vanno bene finché non si è in troppi. Ma a poco a poco i capitali disoccupati si accorgono della possibilità di potere guadagnare ed accorrono in folla verso le industrie nuove, e gli impieghi che erano rimuneratori diventano sempre meno proficui per l’accrescersi dei concorrenti. L’aumento della produzione fa ribassare i prezzi e questo è il segnale della débâcle. Dopo un po’ di resistenza, tutto precipita e comincia di nuovo la stagnazione, durante la quale la produzione si restringe, gli affari cattivi si liquidano e si prepara di nuovo la via ad una novella prosperità quando nel momento propizio sorga il bisogno di far fronte ad una novella o ridestata domanda di merci o di servigi.

 

 

Così accade con metro ricorrente e quasi fatale e così accadrà molto probabilmente per il presente periodo di prosperità e di prezzi alti.

 

 

I quali, come già dicemmo, furono originati in parte dal bisogno di provvedere alle spese degli armamenti anglo – boeri, ed in parte del sorgere di nuove industrie, come le industrie elettriche, e dal ravvivarsi delle antiche, come le tessili, le quali possono vendere molti milioni di più di metri di stoffa agli operai che guadagnano meglio ed agli agricoltori che hanno forse finito di pagare i debiti degli anni pessimi attraversati in passato.

 

 

Quando la guerra anglo-boera sarà finita, quando la gente avrà ricostituito un po’ la provvista della biancheria e sostituito i vestiti usati, quando le industrie elettriche avranno compiuto i primi e più costosi impianti, quando si saranno costruite le linee ferroviarie più necessarie nella Cina, nell’Africa, nell’America meridionale, la domanda di merci ritornerà al suo livello normale, i prezzi esagerati del carbone, del ferro, dei tessuti, ecc., torneranno a diminuire ed agli anni prosperi faranno seguito di nuovo anni cattivi.

 

 

L’abilità degli industriali consiste tutta nel sapere prevedere caso per caso la lunghezza del tempo che deve ancora decorrere prima dell’inizio della crisi ed uniformare a questa lunghezza l’importanza degli impianti e la velocità dell’ammortamento dei capitali.

 

 

A ciò giova sovratutto l’esperienza personale; e giovano anche taluni sistemi delicati di previsione in base ai bilanci delle banche di emissione, sistemi però troppo complicati e delicati per potere essere per ora utilizzati se non con prudenza somma e con scarso successo.

 



[1] Con il titolo La durata dei prezzi alti.

Contro l’aumento della circolazione

Contro l’aumento della circolazione

«La Stampa», 6 febbraio 1900

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 173-176

 

 

Ritornano in campo gli argomenti i quali fanno ritenere a molti indispensabile un aumento della circolazione cartacea. Brevemente riassunti, quegli argomenti si riducono ai seguenti:

 

 

La circolazione in Italia è ora soltanto in apparenza esuberante. Nella realtà, sui 1.191 milioni di biglietti circolanti, ben 701 sono immobilizzati; essi sono inutili agli effetti delle industrie e dei commerci, perché sono impiegati in titoli di stato, in cambiali estere, in immobilizzazione a breve scadenza. Soltanto la parte residua, 489 milioni, viene impiegata dalle banche emittenti in sconti ed in anticipazioni. Ora questa somma è affatto insufficiente a soddisfare a tutti i bisogni della nostra vita economica, la quale va svolgendosi e progredendo ogni giorno più. La circolazione libera è ora inferiore a quella che era anni fa, quando i bisogni del paese erano ben lungi dall’avere raggiunto quel punto al quale si sono spinti adesso. Attualmente siamo in tali distrette che le banche le quali tengono nelle proprie casse, ossia sottraggono alla circolazione 517 milioni di riserva metallica, ne riversano sul mercato, sotto forma di biglietti, una quantità minore, appena 489 milioni.

 

 

Se noi non vogliamo che l’Italia rimanga anemica per mancanza di medio circolante, aumentiamo la circolazione di 200 milioni; sarà questo un impulso grande all’attività promettente del nostro paese, apportatore di vantaggi non minori dell’aumento del numero dei vagoni sul porto di Genova.

 

 

Queste le ragioni degli inflazionisti; ed una recente informazione ci avvertiva che lo stesso ministro del tesoro sta preoccupandosi dei numerosi reclami che gli sono pervenuti riguardo alla scarsità dei biglietti.

 

 

Si tratta di ragioni che gli inflazionisti di tutti i tempi e di tutti i paesi arrecano quando vogliono dimostrare che è bene aumentare il numero dei biglietti circolanti per diffondere la ricchezza e la felicità fra gli uomini. Questa volta però gli inflazionisti italiani hanno ricorso ad un singolare sofisma, che merita di essere accuratamente rilevato.

 

 

Se essi fossero venuti a dire al pubblico che 1.191 milioni di biglietti in Italia sono troppo pochi ed occorre aumentarne il numero, nessuno ci avrebbe creduto e la domanda sarebbe parsa strana. Gli autori di un memorandum divulgato all’uopo riconoscono che, ove la circolazione si componesse veramente di 1.191 milioni, essa dovrebbe essere considerati come esuberante.

 

 

Perciò gli inflazionisti hanno dovuto ricorrere ad un giuoco: far scomparire dal novero dei biglietti parecchie centinaia di milioni, riducendo la circolazione effettiva a 489 milioni. Ci si riuscì dividendo la circolazione totale di 1.191 milioni in due parti: l’una effettiva di 489 milioni, destinata agli sconti ed alle anticipazioni, e l’altra fittizia di 701 milioni, immobilizzata e considerata come non esistente agli effetti della vita economica del paese. E si ebbe allora buon giuoco per gridare che la circolazione effettiva non era sufficiente, ed occorreva aumentarla di 200 milioni.

 

Senonché noi vorremmo chiedere ai signori inflazionisti quali sono le ragioni per le quali essi ritengono che i 701 milioni di circolazione cosidetta fittizia non si devono considerare come esistenti per la vita economica del paese. Queste ragioni noi non riusciamo davvero a scoprirle.

 

 

È vero che i 701 milioni sono stati immobilizzati dalle banche di emissione in titoli di stato, in immobili ed in altre diavolerie. Questo è un affare o, meglio, una serie di cattivi affari che le banche hanno fatto ed a cui soltanto le banche hanno a trovare un rimedio. È sperabile che, in un tempo più o meno lungo, le banche riescano a smobilizzare tutti questi milioni, ed anzi deve essere compito di una politica bancaria oculata lo stimolare le banche a smobilizzare rapidamente. Da ciò non si può trarre proprio nessun argomento a favore della tesi che i 701 milioni non esistano per la vita del paese, quasi fossero scomparsi in qualche abisso. Sarebbe stato all’uopo necessario che i privati che hanno venduto alle banche i titoli di rendita, che hanno ipotecato immobili e ne hanno ricevuto in cambio i 701 milioni di biglietti, li avessero poi bruciati o nascosti in un forziere, lungi dagli sguardi dei profani.

 

 

Ora ciò non è. I privati che hanno ricevuto i 701 milioni non se li sono tenuti per sé, come tanti avari tesaurizzatori, ma li hanno immessi nella circolazione, dove adempiono alle medesime funzioni a cui soccorrono gli altri 489 milioni di circolazione cosidetta effettiva, impiegata in sconti ed in anticipazioni.

 

 

L’unica differenza fra le due categorie di biglietti è questa: che i 489 milioni di circolazione cosidetta effettiva ritornano periodicamente alle banche quando le cambiali scadono o le anticipazioni si rimborsano, e possono dalle banche essere impiegati in altri sconti ed in altre anticipazioni; mentre i 701 milioni di circolazione cosidetta fittizia non ritornano alle banche, od almeno non ritorneranno finché non si sia smobilizzato.

 

 

Il che non significa che i 701 milioni fittizi non possano venire impiegati anch’essi in sconti ed in anticipazioni. Quando ne sorga la convenienza essi potranno benissimo essere in tal guisa impiegati, non sicuramente dalle banche, ma da quei privati in cui possesso essi si trovino.

 

 

Che vi sia una differenza sostanziale nell’essere il biglietto impiegato in uno sconto dalle banche oppure dai privati noi non vediamo davvero.

 

 

Il ragionamento che abbiamo fatto è molto semplice ed elementare, e molti lettori si meraviglieranno che sia stato necessario scrivere un articolo per esporre una faccenda tanto chiara.

 

 

Eppure coloro che ripetono il grossolano sofisma ora criticato sono legione e son riusciti a far credere a molti che la circolazione è di 489 milioni, quando essa è invece di 1 miliardo 191 milioni.

 

 

Aumentare ora questa già eccessiva circolazione sarebbe pernicioso. Non è in un momento in cui l’aggio supera il 7% che l’Italia può a cuor leggero emettere altri 200 milioni di biglietti, crescendo così l’elenco delle cagioni che sviliscono la nostra circolazione cartacea. Sappiamo bene che molti ritengono l’aggio una benedizione del cielo e lo vorrebbero vedere accresciuto al disopra del limite attuale, sopratutto perché reca loro qualche beneficio; ma noi crediamo difendere gli interessi generali del paese augurandone la scomparsa ed opponendoci ad ogni provvedimento che possa farlo aumentare.

 

Questioni del giorno. Francesco Ferrara

«La Riforma Sociale», febbraio 1900, pp. 156-158

Il 23 gennaio scorso moriva a Venezia, nell’età di novant’anni, Francesco Ferrara. I redattori dei giornali andarono a consultare il solito dizionario biografico degli uomini parlamentari e scrissero che era morto un patriotta, senatore, ex Ministro ed ex professore di Economia Politica. Il pubblico immaginò trattarsi di uno dei tanti senatori vecchi decimati dall’influenza e non se ne curò. Ai suoi funerali intervenne pochissima gente. Due giorni dopo moriva la vecchia consorte del Ferrara ed i giornali commiserarono nuovamente il dolore di colei che non avea potuto sopravvivere alla perdita dell’adorato consorte. E tutto finì lì. Eppure era morto uno dei più grandi uomini del risorgimento italiano.

Grande come patriotta, come uomo d’azione, come professore, come giornalista e come scienziato. Patriotta e uomo d’azione osò indirizzare nel 1847 al Borbone di Napoli – egli siciliano e direttore dell’Ufficio governativo di statistica di Palermo – una lettera famosa nella quale predicava al re tiranno che il popolo si sarebbe levato in massa, si sarebbe fatto decimare dalla mitraglia, avrebbe reciso teste sovrane e rovesciate le più solide dinastie. Membro del Parlamento siciliano nel 1848, esule alla metà dell’anno a Torino, militò strenuamente nelle file del partito liberale, ed alla sua ispirazione si debbono molte riforme del Cavour.

Giornalista potente, diresse a Palermo, durante la breve epoca di libertà, l’Indipendenza e la Lega, scrisse a Torino nel Risorgimento, fondò la Croce di Savoia e l’Economista soppressi dalle persecuzioni di Cavour, Rattazzi e Lanza, divenutigli nemici a causa della sua parola libera e franca.

Uomo politico, sfidò a Palermo nel 1861, come direttore dei dazi indiretti, la mafia, con coraggio che fu giudicato grande, e sfidò la impopolarità sostenendo, insieme col Sella, l’imposta sul macinato. Ministro delle finanze, per breve ora, nel 1867, si mantenne fedele alle sue idee.

Professore, entusiasmò a Torino dalla cattedra di Economia Politica un uditorio immenso pendente dalle labbra del maestro; e tanto viva fu la fiamma di libertà da lui accesa nel cuore dei giovani che, dietro parere del Consiglio della Facoltà giuridica, egli fu sospeso nel 1858 dall’insegnamento sotto pretesto di favorire la diffusione di idee sovversive colle sue «improvvide lezioni». Insegnò poi a Pisa e finalmente a Venezia, dove rimase dal 1867 alla sua morte come direttore della scuola superiore di commercio.

Ma oramai egli era morto da lunghi anni alla vita. Molti giovani studiosi di economia politica avranno meravigliato leggendo soltanto ora sui giornali la notizia della morte del grande economista italiano che venne poco dopo Say e Ricardo e Senior e fu contemporaneo di Stuart Mill e di Bastiat. Perché il Ferrara fu, oltreché fervente patriotta, giornalista potente e uomo d’azione, altresì un pensatore sovrano. La sua figura di Economista torreggia nel suolo nostro in Italia e non teme confronto in Europa. Le sue Prefazioni alle due prime serie della Biblioteca dell’Economista (creazione preziosa e geniale che gli stranieri ci invidiano) rimangono monumento perenne della vigoria straordinaria del suo genio, della sua logica ferrea e dell’entusiasmo arrecato da lui nell’opera scientifica. Egli sintetizzò mirabilmente il lavoro degli economisti venuti prima di lui e colla sua teoria del costo di riproduzione precorse l’opera delle scuole economiche odierne. Non solo egli precorse col costo di riproduzione, colla teoria dei surrogati e coll’analisi finissima dell’economia individuale l’odierna economia pura, ma diede altri contributi preziosi alla scienza.

In un’epoca nella quale ancora non si parlava di scuola storica egli comprese l’importanza della storia e della descrizione dei fatti economici accogliendo nella seconda serie della Biblioteca dell’Economista le migliori opere di storia economica e di economia descrittiva ed indicando ai tedeschi, che in seguito pretesero rifare l’Economia colla storia, il modo vero di trattare i fatti economici passati e contemporanei nelle sue prefazioni, fra cui basterà ricordare quelle sulla Moneta e sulle Dogane. Le prefazioni sull’agricoltura, sulle mercedi e sulle crisi economiche dimostrano quanto fosse grande la sua padronanza delle parti più speciali della scienza e come in tutto egli sapesse porre i germi di nuove dottrine e di pensieri geniali. Così fu anche nella Statistica risolutore perfetto di questioni teoriche e pratiche (cfr. Saggi di Statistica negli «Annali di Statistica» pubblicati dal Ministero di agricoltura, industria e commercio).

Con maggior calma scriveremo più largamente della vita e delle opere di colui che fu il massimo economista italiano. I brevi cenni ora dati non sono altro se non un tributo di cordoglio e di ammirazione verso Colui che è morto. Questo medesimo tributo vorremmo fosse dato con coscienza da tutti coloro che in Italia amano la scienza economica e la causa della libertà.

Purtroppo molti fra i giovani, che studiano o si illudono di studiare le scienze economiche e sociali, non hanno mai letto le Prefazioni di Ferrara. Essi credono d’avere scoperto il mondo soltanto perché hanno letto Marx o qualcuno dei suoi sunteggiatori o corifei. Ed invece hanno avvolto il loro cervello in una densa nebbia che soltanto a gran fatica i più forti potranno togliere. Leggano questi giovani le Prefazioni del Ferrara che l’Unione Tipografico- Editrice ha riunito insieme in volumi separati. Essi si accorgeranno allora come l’Economia Politica non sia punto una scienza borghese, arida e bottegaia, ma come l’amore dei miseri e la fede nella libertà e nel benessere di tutti gli umani abbia sempre inspirato le concezioni degli economisti. Colui che oggi piangiamo morto non fu soltanto un grande pensatore; fu anche uno strenuo lottatore per la causa della libertà, che è la causa del benessere materiale e della elevazione morale ed intellettuale degli uomini. Leggano i giovani gli scritti del Ferrara ed essi sentiranno germogliare nel loro animo, stanco di battaglie socialiste, nuovi ideali di studio e di azione. Sarebbe tempo che le idee, seminate dal Ferrara con prodigalità sovrana, fruttassero all’Italia nostra quel rinnovamento civile ed economico che la generazione passata non seppe compiere.

Capitolo XVI – Una storia trionfale

Capitolo XVI

Una storia trionfale

Un principe mercante. Studio sull’espansione coloniale italiana, Ed. F.lli Bocca, Torino, 1900, pp.127-141

 

 

 

 

Nel commercio tutto sta nel saper scegliere bene la corrente; quando la scelta è stata oculata, la volontà energica e l’ingegno multiforme conducono sicuramente alla vittoria. La scelta del Dell’Acqua era stata felice; il mercato americano era adattatissimo all’esportazione delle merci italiane; e già la vittoria avea cominciato ad arridere quando scoppiò la terribile bufera della crisi economica. Come l’albero, curvato ma non divelto dalla tempesta, si raddrizza a poco a poco e di nuovo distende i suoi rami per la pianura immensa quando rispunta il sole e si diradano le nubi procellose, così il Dell’Acqua, dopo avere tenacemente resistito dinanzi alla minaccia del fallimento, riprende lena e coraggiosamente diffonde di nuovo i tessuti ed i filati italiani nell’America meridionale.

 

 

La importazione era scesa da lire 2.974.238 nel 1889 a lire 1.422.615 nel 1890.

 

 

Nel 1890, anno di lotta e di assestamento, non si fecero né utili né perdite. Nel 1891, grazie all’impianto della fabbrica di San Roque ed al risveglio di affari, si ripiglia alquanto e si giunge a lire 2.023.271 di merci importate. Nel 1891 si liquida una perdita complessiva di 200 mila lire, prodotta dallo scoperto in carta, dal deprezzamento dei valori di San Paolo, dai fallimenti di diversi agenti di cambio debitori, dalla caduta dei Banchi e dai gravi premi pagati per l’assicurazione delle operazioni sociali; nel bilancio del 1891, oltre all’avere liquidata questa perdita, si è provveduto alla difesa contro eventualità future mediante speciali sconti di previsione, si eliminarono le spese di impianto deprezzando largamente ciò che presentava ombra di dubbio. Malgrado queste notevoli svalutazioni il bilancio si chiuse in quell’anno con un utile netto di lire 71.744,78, piccola somma per se stessa, ma lieto indizio che le cose stavano per mutare in meglio e che alle ondate discendenti della crisi economica stava per succedere la curva ascendente della prosperità.

 

 

E la sostituzione della prosperità alla depressione avvenne in tempo più breve che non sembrasse possibile. La esperienza ha dimostrato che ad un periodo di attività febbrile e frenetica, in cui tutti, forti o deboli, persone fornite di capitali o soltanto ricorrenti al credito, fanno disegni grandiosi e belli e si slanciano in operazioni rischiose ed audaci, succede dopo la crisi un periodo di ristagno, in cui le case deboli sono scomparse, quali foglie spazzate via dal vento, e le case forti e resistenti liquidano le operazioni antiche senza iniziarne delle nuove. È in questa fase del ciclo economico che gli uomini d’ingegno possono metter le basi della loro fortuna; se essi riescono a scoprire una domanda latente, non soddisfatta dalle case antiche, paurose di avventurarsi in un mare infido, essi riescono ad ottenere profitti giganteschi dovuti unicamente alla loro intelligenza ed abilità.

 

 

Così avvenne nel 1892 per la casa Dell’Acqua. I dolorosi ricordi rendevano restii i fabbricanti europei a vendere e gli importatori a comprare per lo smercio nell’Argentina, ed il mercato americano si trovava in una situazione anormale in cui la sua domanda non era soddisfatta, perché pareva pericoloso soddisfarla ed anche perché non si intuiva che dopo la lunga astinenza sofferta esso dovesse avere bisogno di tessuti. Il Dell’Acqua intuì quel che gli altri non videro; intuì che la crisi oramai stava per essere liquidata e che le campagne, rimaste sane ed illese dalla tormenta, avrebbero ricominciato a portare granaglie sul mercato ed a richiedere in cambio merci europee, ed audacemente gettò sul mercato sud americano una massa di merci per un valore di lire 4.770.267 (di fronte a 2 milioni dell’anno precedente).

 

 

Audaces fortuna juvat. Il risultato non tradì le speranze del Dell’Acqua: le merci importate furono prontamente assorbite dal mercato a prezzi così rimuneratori, che alla fine dell’anno, oltre al metter da parte una fortissima riserva ordinaria ed una speciale detta di considerazione, si poté distribuire un dividendo del 10 per cento.

 

 

Come sempre, al sentire annunciare forti dividendi e lauti guadagni, la concorrenza si mette in opera; le ditte addormentate si risvegliano e si accorgono che nell’Argentina si possono importare tessuti con guadagno e che il mercato li può assorbire. Ma è troppo tardi; colui che era giunto prima, mantiene, anche dopo il risveglio della concorrenza, la sua situazione privilegiata. Gli altri, se vogliono guadagnare, devono seguire le sue orme. La marca italiana, introdotta trionfalmente dal Dell’Acqua quando i concorrenti non si immaginavano che fosse possibile importare nessuna marca di qualsiasi provenienza, è oramai entrata nei gusti dei consumatori, e le case concorrenti devono per forza importare nell’Argentina articoli italiani od imitazioni loro.

 

 

La battaglia era vinta, e come tutte le battaglie era vinta perché il capitano aveva lanciato i suoi battaglioni, sotto forma di merci e di commessi viaggiatori, alla riscossa quando le truppe nemiche erano stanche o per incuria avevano abbandonato i bastioni della piazza forte da difendere.

 

 

La vittoria, dovuta ad un uomo ed ai suoi fedeli coadiutori, ridondava a vantaggio di tutta l’Italia, perché dopo quel momento i tessuti ed i filati italiani si sostituirono intieramente ai tessuti ed ai filati tedeschi, inglesi, francesi, ecc.

 

 

Senonché la vittoria piena ed intiera nelle operazioni commerciali ed il dividendo del 10% quasi non parvero bastevoli ai capitalisti i quali per la forza delle circostanze erano concorsi a costituire la società. Il capitale in Italia è timido e poco amante dei rischi, anche quando possono essere fecondi di ingenti guadagni. Ed al capitale parve che nel 1892 gli affari del Brasile prendessero una piega rischiosa.

 

 

Nel Brasile il cambio era sceso da 24 a 12 pence; l’impianto della fabbrica di San Roque non era ancora finito ed i capitalisti brasiliani non volevano anticipare nuovi capitali, trattenuti dall’universale scoramento che si era impadronito del mondo finanziario ed industriale in quel paese. Trattavasi di liquidare la Compagnia, dopo che tanti sforzi si erano fatti per impiantare la prima fabbrica di tessuti nell’America e dopo che la Società Dell’Acqua vi avea impiegato un capitale di 151.046 lire.

 

 

Il Dell’Acqua vide in pericolo il suo piano e per non essere respinto dal Brasile assunse egli stesso il 17 settembre 1893 la liquidazione della Compagnia di San Roque, senza aspettare il consenso del Consiglio di vigilanza di Milano. Secondo la convenzione, l’opificio poteva essere acquistato dalla Società Dell’Acqua pagando agli azionisti entro due anni il 100% più gli interessi, oppure poteva essere liquidato con precedenza alla Società Dell’Acqua sul ricavo della vendita dell’opificio fino a concorrenza della somma sborsata per completare i lavori.

 

 

Il Consiglio di vigilanza, indispettito, disapprovò la convenzione. Deciso a non cedere, il Dell’Acqua indusse uno dei più forti azionisti della Società a ritirarsi cedendo le azioni ad un altro il quale era persuaso della bontà del piano del direttore della intrapresa. Anche questa volta il Dell’Acqua aveva veduto giusto ed il capitale aveva torto. Questo non aveva compreso che la fabbrica di San Roque era necessaria per svolgere il programma di esportazione e si era inalberato al pensiero che la fabbrica, oltre a costituire un impiego rischioso di capitali, venisse poi a muovere una deleteria concorrenza ai tessuti italiani che la Società si proponeva di portare nel Brasile. Lo stesso pregiudizio il quale fa credere che il capitale straniero venga in Italia a sfruttare ed a suggere le fonti della ricchezza nazionale, induce i nostri industriali a guardare con occhi diffidenti le industrie sorgenti, quasi avamposti della civiltà italiana, nell’America latina.

 

 

Questa fu l’ultima grande battaglia sostenuta dal Dell’Acqua. Il Consiglio di vigilanza, mutato di composizione, approvò tutte le sue deliberazioni e legittimò l’impianto delle industrie locali.

 

 

«Beati quei popoli che non hanno storia», afferma un proverbio. Ora che è finita la narrazione degli eventi fortunosi, in mezzo a cui giganteggia la figura dell’uomo dal volere inflessibile, dovrebbe cominciare la storia dei trionfi che hanno coronato tanta altezza d’ingegno e tanta tenacia di carattere. Ma la storia degli avvenimenti lieti è storia muta, perché l’animo si compiace sovratutto nel riandare le memorie degli ostacoli attraverso ai quali si è giunti all’agognata meta, e sorvola sui tempi lieti come sul naturale compenso delle fatiche trascorse.

 

 

In questa naturale tendenza della mente umana vi è molto di vero, perché la narrazione delle fatiche durate per giungere alla vittoria spiega la vittoria medesima e giustifica i frutti che da quella si colsero. Simile al capitano di un esercito che sul territorio conquistato coglie i frutti della vittoria, il principe mercante, passato il travaglioso periodo di formazione dell’impresa, attende ad allargare e perfezionare la sua azienda, a cui il primo impulso è già stato dato. «Oramai», come si esprimeva graficamente il Dell’Acqua in una relazione agli azionisti dell’11 maggio 1893, «la ruota cammina per buona strada».

 

 

Nel 1893 le merci importate giungono a lire 4.637.441. Gli utili distribuiti si mantengono al 10 per cento. Il fondo di riserva va ingrossandosi (376.049,19 lire) e raggiunge già il quarto del capitale sociale. La carta italiana deprezza, e questo avvenimento, dannoso per l’economia nazionale, torna di stimolo agli esportatori e di vantaggio alla casa.

 

 

Si compra un terreno a Buenos Ayres coll’intenzione di farvi sorgere nell’anno seguente una fabbrica simile a quella esistente pel Brasile a San Roque. Il piano maturato nella mente del Dell’Acqua, quando il protezionismo inacerbito rese difficile l’importazione dall’Italia di tessuti, va attuandosi a poco a poco.

 

 

Il 31 dicembre 1893 la Società E. Dell’Acqua e C. dovea disciogliersi, essendo giunta la fine del periodo fissato nello statuto; ma essa è invece prolungata senza discussione per un altro decennio. Il prolungamento indiscusso è indice perfetto delle trasformazioni che un dividendo del 10% induce nell’animo degli azionisti delle intraprese commerciali. Quegli azionisti i quali prima ardevano dal desiderio di liquidare in fretta ed in furia l’azienda sociale per riavere la loro posta, ora si affidano intieramente alla intelligenza ed alla attività meravigliosa del direttore dell’intrapresa e dei suoi cooperatori.

 

 

Nel 1894 le merci importate salgono a lire 4.971.763; il dividendo rimane del 10% e la riserva si accresce di 194.164,65 lire. La fabbrica di San Roque vede aggiungersi agli altri un nuovo salone con 64 telai meccanici a doppia altezza. La fabbrica di Buenos Ayres comincia a produrre tessuti di maglia, calze e camiciuole.

 

 

Nel 1895 il capitale sociale viene portato (ottobre) da lire 1.500.000 a lire 2.000.000. è il primo di una serie, che forse non è ancora finita, di aumenti di capitale. In quell’anno tra costruzioni e macchine si erano spese nella fabbrica di Buenos Ayres lire 172.862,88. La fabbrica comincia a funzionare bene; la produzione mensile del riparto delle maglierie supera le 100 mila lire. Non altrettanto bene invece corrisponde alle aspettative il riparto della tessitura di lino, perché i tessuti di cotone hanno preso il sopravvento nel consumo sui tessuti di lino. Si riduce il numero dei telai da 150 a 50 e per riempire il vuoto si comprano 150 telai meccanici per la fabbricazione dei tessuti di cotone. è questo il primo inizio della tessitura di cotone ed è una dimostrazione che nell’industria e nel commercio è necessario non ostinarsi negli errori, anche involontari, commessi, ed importa sapere cambiare rotta a seconda delle mutevoli indicazioni della domanda del mercato.

 

 

Le merci importate non scemano, malgrado l’impulso dato alla fabbricazione, e salgono a lire 6.252.853 nel 1895. In questo anno si liquida la partita speciale di considerazione creata per assorbire gli utili straordinari degli anni buoni 1892/93/94 non distribuiti fra i soci per non impoverire il capitale sociale, accorgimento solito a cui ricorrono i direttori delle intraprese per non essere obbligati a cedere ai clamori degli azionisti che vogliono ricevere tutti gli utili. Nel 1895, essendo la riserva effettiva cresciuta in modo da bastare sola a spalleggiare il capitale, si liquidò la partita speciale di considerazione portando lire 362.701,43 alla riserva statutaria e distribuendo agli azionisti un dividendo del 15 per cento. I sindaci, entusiasmati, richiamano «l’attenzione dell’assemblea sul merito speciale del signor Dell’Acqua, fattore principale di ogni singolo movimento di attività sociale».

 

 

Nel 1896 la trasformazione di indirizzo nella esportazione è compiuta; ai tessuti si sono sostituiti in gran parte i filati che vengono poi trasformati negli stabilimenti industriali di San Roque e di Buenos Ayres.

 

 

Il valore delle merci importate dall’Italia sale a 5.419.871 lire; la riserva si accresce di 73.482,95 lire; il dividendo distribuito è del 10 per cento. Si aumenta il capitale sociale da due a tre milioni emettendo 1.000 azioni da 1.000 lire l’una fra gli azionisti. In corrispondenza all’aumento del capitale sociale si modifica lo statuto: Unico socio amministratore responsabile senza limitazione è il signor Enrico Dell’Acqua. La Società può dedicarsi anche all’industria tessile, quando ciò sia giovevole agli scopi sociali. Disposizione importante perché legittima l’impianto delle fabbriche. La sede della Società è fissata a Busto ed a Milano. La Società può prendere interessenze e compartecipazioni in altre ditte o società, aventi per iscopo il commercio Italo Americano. La durata è protratta fino al 31 dicembre 1903, con facoltà di proroga. Il capitale può essere aumentato per deliberazione dell’Assemblea. L’Assemblea generale nomina e rinnova, quando lo creda necessario, la Commissione di vigilanza. L’Amministratore non può votare nell’approvazione dei conti e nelle deliberazioni di suo speciale interesse; egli deve possedere e tenere vincolate 100 azioni. Può, senza il consenso della Commissione di vigilanza, usare del credito fino al doppio del capitale versato; non può senza il detto consenso immobilizzare nelle industrie più di 150 mila lire. Nel caso di divergenze di vedute tra l’Amministratore e la Commissione di vigilanza deciderà l’Assemblea. Il saggio di ammortamento che era prima sugli stabili del 2% e sulle macchine del 7% fu portato per gli uni e per le altre al 10 per cento. Pei nuovi ingrandimenti eseguiti durante un esercizio si decreta una deduzione del 30% sul costo nel primo bilancio. Si dovrà prelevare il 20% degli utili per il fondo di riserva. Sul residuo degli utili, dedotto il 6% alle azioni, il 40% va all’Amministratore ed il 60% agli azionisti. L’applicazione delle quote di utili al fondo riserva non cesserà che quando la riserva superi di 1/5 l’intero capitale sociale.

 

 

Le nuove norme indicano quanto sia mutato profondamente lo spirito degli azionisti di fronte al prospero andamento degli affari sociali: si allargano i poteri dell’Amministratore; si dà maggiore elasticità all’azienda; si rendono più severe le norme per l’ammortamento e per la valutazione del patrimonio sociale.

 

 

Nel 1897 gli affari non si svolsero con tanta fortuna come negli anni precedenti. Del resto è inevitabile che alle annate buone succedano le annate cattive, come viceversa un’annata cattiva può far presagire una successiva annata buona. L’Argentina era afflitta dal mancato raccolto di due anni consecutivi (1895-96); ed il Brasile dal deprezzamento simultaneo della moneta e del caffè. Le importazioni in America, pure mantenendosi forti, scesero da 5.419.871 lire nel 1896 a lire 5.135.363 nel 1897. Fu buona misura quella di vender poco perché l’Argentina attraversava momenti difficilissimi ed era meglio avere merce in magazzino che arrischiare di portare a mastro crediti dubbi.

 

 

Ciò produsse però un’immobilizzazione dei capitali, accresciuta dal fatto che si allargò l’impianto industriale a Buenos Ayres e si riprese con novello ardore il tentativo di conquista dei mercati transandini. Un aumento del capitale era necessario. «Si tratta della eterna lotta tra il capitale ed il lavoro: da un lato il capitale che vuol guadagnare molto, arrischiando poco: dall’altra il personale che deve svolgere un programma grandioso con capitale insufficiente e che si trova quindi sovraccarico di responsabilità e di pericoli. Da un lato le forze fisiche ed intellettuali di un individuo, tutte messe a disposizione del capitale: dall’altra il capitale che lo sfrutta quanto più può, pronto poi sempre a ritirarsi al menomo cenno di pericolo e ad abusare della sua posizione quando le circostanze glielo permettono. Il signor Dell’Acqua indotto da queste ragioni, così il Capello in una sua relazione alla mostra Torinese degli italiani all’estero, se ne tornò in Italia per ottenere un aumento del capitale di 2 milioni. Il capitale sempre restio ed esigente non avrebbe voluto cedere, se non speculando sulla riserva accumulata a forza di tante fatiche e di tante lotte; e le azioni avrebbe voluto sottoscriverle alla pari e guadagnare di colpo un terzo del valore rappresentato dalla riserva. A forza di lottare riuscì ad ottenere 1.000 azioni con un premio di 200 lire per ogni azione.

 

 

Ed è un risultato buono se si tiene conto della diffidenza del capitale italiano, diffidenza giustificata in parte dalla crisi argentina. Non era però il risultato che il Dell’Acqua voleva; ed anche per ottenere così poco dovette accettare modificazioni statutarie tendenti a restringere la sua autorità ed a diminuire quanto gli competeva, come ad es., la concessione agli azionisti dell’interesse del 5% sulla riserva. Ma non per questo rimase contrariato il Dell’Acqua; egli sarà altrettanto esigente a pretendere che il capitale gli sia fornito in ragione del bisogno e non già, come prima, attingendolo dal credito, sotto sua piena responsabilità».

 

 

Secondo le nuove norme statutarie il capitale può essere portato a cinque milioni dall’Amministratore col consenso della Commissione di vigilanza. La durata della Società è prorogata fino a tutto il 31 dicembre 1915 e può essere prorogata con deliberazione da prendersi non dopo il 31 dicembre 1912.

 

 

Ferme le altre disposizioni si mutò alquanto il modo di distribuzione degli utili sociali. Da questi si preleva anzitutto il 10 per cento per costituire il fondo di riserva. In seguito si preleverà a favore degli Azionisti tanta parte di utili quanta corrisponde al 6 per cento del capitale versato ed al 5 per cento della riserva computata per frazioni di L. 500.000. Dopo ciò verrà assegnato il 5 per cento alla Commissione di vigilanza. Gli utili residui verranno ripartiti pel 30 per cento all’Amministratore e pel 70 per cento agli azionisti. Qualora gli utili di un esercizio siano tali da permettere un dividendo per gli azionisti, che, compreso il primo prelievo del 6 per cento, superi complessivamente il 15 per cento del capitale sociale, la eccedenza sarà passata al fondo di riserva.

 

 

L’assegnazione della quota d’utili al fondo di riserva cesserà quando questo abbia raggiunta la somma di due milioni e sarà ripresa quando sarà disceso al disotto di quel limite.

 

 

Nel 1897, periodo di transizione dall’antico al nuovo stato, di allargamento delle imprese industriali e commerciali, vi fu un po’ di sosta negli affari; e gli utili furono soltanto di lire 172.773,15, i quali permisero di portare alla riserva, colla solita oculata preveggenza la somma di lire 34.554,63 e di distribuire agli azionisti il 5% sul capitale versato.

 

 

Nel 1898 si raccolsero i frutti delle fatiche superate negli anni precedenti; con uno slancio improvviso le vendite superarono di ben 2 milioni quelle degli anni precedenti, giungendo fino all’apice di lire 7.294.613,15. I profitti ingrossarono anche in misura notevolissima ed il dividendo agli azionisti, indice perfetto delle prospere od avverse vicende di un’impresa, sembra supererà il dieci per cento.

 

 

La storia di un’impresa commerciale od industriale, se è lunga talvolta a descriversi col linguaggio comune, può concentrarsi però con efficacia grande in un unico documento parlante: il suo bilancio. Credo opportuno riferire in questo studio la serie dei bilanci della Casa E. Dell’Acqua e C., sia perché completano ed illustrano le cose dette dinanzi, sia perché dei documenti finanziari non appartenenti alle grandi società anonime, non è spesso possibile che il pubblico venga a conoscenza. Eppure questi bilanci nella nuda aridità delle loro cifre dicono tante cose che la penna non può descrivere; ed attraverso alle loro mutevoli configurazioni si può scorgere talvolta l’individuo che lotta per un ideale che, se è materiale nella sua natura diretta, il profitto, indirettamente contribuisce a creare i popoli ricchi e potenti[1].

 

 

Anno 1890 Anno 1891 Anno 1892 Anno 1893
Attivo Passivo Attivo Passivo Attivo Passivo Attivo Passivo
Capitale Sociale

1.500.000,

1.500.000,

1.500.000,- –

1.500.000,-

Fondo di Riserva

11.744,78

179.712,66

Cassa, esistenza

11.568,69

28.282,94

143.721,36

52.864,72

Merci

1.813.649,14

1.198.841,95

2.906.127,75

3.474.142,68

Mobili

11.012,15

9.333,50

14.180,66

14.322,16

Immobili e macchine

362.966,58

525.895,80

Banche (saldi debitori)

82.741,61

339.573,01

82.064,50

Crediti

1.035.004,50

1.084.932,29

1.000.114,91

1.592,878,02

Effetti in portafoglio

188.478,45

663.967,75

733.949,77

427.493,60

Debiti diversi

1.642.454.54

1.413.613,65

3.563.176,04

4,020.989,79

Utile

71.744,78

425.713,22

468.959,03

3,142.454,54

3.142.454,54

2.985.358,43

2.985.358,43

5.500.634,04

5.500.634,04

6.169.661,48

6.169.661,48

 

 

Anno 1894 Anno 1895 Anno 1896 Anno 1897
Attivo Passivo Attivo Passivo Attivo Passivo Attivo Passivo
Capitale Sociale

1.500.000,00

2.000.000,

3.000.000,- –

3.000.000,- –

Fondo di Riserva

376.049,19

570.213.84

 –

932.915,27

1.006.398,22

Cassa, esistenza

57.774,82

77.922,57

69.989,49

115.009,90

Merci

3.701.161,75

5.176.739,51

5.050.847,47

6.575.915,97

Mobili

14.266,71

14.335,30

20.109,38

29.374,10

Immobili e macchine

796.543,37

903.339,65

1.306.307,95

1.684.480,70

Banche (saldi debitori)

29.855,53

347.500,22

714.779,83

222.440,02

Crediti

2.363.644,47

2.369.319,36

2.130.035,55

2.286,465,80

Effetti in portafoglio

582.112,77

787.265,29

466.183, –

363.783,85

Debiti diversi

5.203.632,91

6.269.315,64

5.457.922,62

7.098.299,39

Utile

465.647,32

836.892,42[2]

367.414,78

172.773,15

7.545.329,42

7.545.329,42

9.676.421,90

9.676.421,90

9.758.252,67

9.758.252,67

11.277.470,76

11.277.470,76

 

 

A completare la storia segue la statistica delle merci esportate dalla Società Enrico Dell’Acqua e C. nell’America Meridionale nel periodo dal 1887 al 1898:

 

tabella-principe-mercante-Cap-16

 

Un semplice sguardo a questa serie di bilanci basta a far comprendere quale sia la funzione dell’«imprenditore» capitano di industrie o principe mercante nei tempi moderni. La cifra rivelatrice è quella dei debiti diversi. Malgrado che il capitale sia progressivamente cresciuto, insieme colle riserve, da un milione e mezzo a quattro ed ora a cinque milioni e più, il bisogno di credito permane imperioso. L’azienda non si sostiene se non perché alla sua testa c’è un uomo il quale inspira fiducia ai fornitori, che gli danno merci a credito ed alle banche che scontano le sue cambiali. Il termometro della fiducia è la cifra, come ho detto, dei debiti diversi, la quale sale da 1.642 mila lire a 7.098 mila lire. Nel 1890 i sovventori erano tali di malavoglia e quasi per forza; solo per evitare il fallimento della ditta essi si erano indotti a continuargli il loro fido; e, appena possono, lo ritirano, come avvenne nel 1891, in cui i debiti diversi scemano ad 1.413 mila lire. In seguito viene la vittoria ed il credito si apre con larghezza.

 

 

Ma è credito largito all’uomo; i sovventori sanno che a capo della grande intrapresa d’esportazione c’è una mente la quale dirige con fermezza tutti i particolari delle operazioni; e sono sicuri che a ciascuna delle loro sovvenzioni corrisponde nel portafoglio delle Case d’America una cambiale od una partita di credito aperta su un cliente oscuro e solido che smercia i tessuti della casa nelle colonie più lontane del centro del continente americano. Questa esatta corrispondenza fra debiti europei e crediti americani non è cosa che possa ottenersi da una mente volgare. Bagehot in alcune delle sue pagine migliori fa rilevare quanto pochi siano coloro che hanno l’acutezza di mente necessaria per scoprire le persone a cui senza pericolo si può imprestare dei denari che possono sempre essere richiamati da depositanti diffidenti. Soltanto alcuni privilegiati, nell’ambiente pure così squisitamente creditizio di Londra, riescono a conquistare la fortuna a prezzo di ansie terribili e di fatiche intellettuali così intense che li costringono al riposo dopo un non lungo periodo di attività. Fra i banchieri della City basti ricordare Ricardo, Grote, Lubbock, Palgrave, ecc.

 

 

Nel nostro caso l’azienda esportatrice si sostiene coll’aiuto del credito per la forza singolare di un uomo, la cui fecondità di espedienti finanziari è già stata illustrata. Quantunque sia sempre arrischiato fare delle previsioni è evidente che, quando l’uomo dovesse mancare, e non si trovasse la persona capace a sostituirlo compiutamente, la sicurezza stessa dell’azienda ne esigerebbe la trasformazione da Società in accomandita, dove chi comanda e chi dirige è uno solo, nelle cui mani capitali ed impiegati sono docili strumenti, in una società anonima, diretta da un consiglio di amministrazione e da abili direttori interessati negli utili.

 

 

Sarebbe allora compiuto il cammino che conduce dall’impresa privata dell’uomo singolo alla grande impresa capitalistica dei tempi moderni. Il passaggio dall’Individuo alla Società Anonima costituirebbe un indizio ed un presagio. Sarebbe l’indizio che l’impresa oramai è poggiata su basi salde e tali da resistere alle vicende avverse, che essa ha già raggiunto un grado di espansione tale da essere signora e conoscitrice profonda del mercato, e sarebbe il presagio di una vita lunga e gloriosa. Ma invano si potrebbe sperare durante questa vita lunga e gloriosa l’ardimento e l’audacia nelle iniziative feconde di cui ha dato prova finora la Società retta dall’Individuo. Come sempre, l’Individuo scopre ed inventa; si apre la strada in mezzo alle liane aggrovigliate della foresta vergine. Quando la via è tracciata la grande Società Anonima capitalistica vi percorre sopra il suo cammino trionfale.

 

 



[1] Nella serie dei bilanci, manca quello del 1898, che è stato impossibile dare non essendo esso ancora stato presentato fino al momento in cui si licenziano alle stampe queste pagine. Da informazioni ufficiose gentilmente comunicatemi risulta che gli utili del 1898 si aggirano su un milione di lire e che il dividendo sarà non inferiore al 10% del capitale azionario nominale, anche facendo larghissimi ed eccezionali ammortamenti delle attività e portando una forte somma a fondo di riserva. Il lettore è pregato di tener presente questa nota nel leggere la tabella dei bilanci, affinché la curva dei redditi non sembri tendere alla diminuzione, mentre in realtà nel 1898, passato il periodo di allargamento e consolidazione, essa ha di nuovo una tendenza fortissima all’aumento, tendenza che verrà certamente conservata nel 1899, dato gli splendidi raccolti dell’ultima campagna agraria (inverno 1899).

[2] Nella cifra di 836.892,42 lire sono comprese alcune riserve di considerazione create per prudenza nel 1893 e 1894 all’epoca in cui, per la mancanza di concorrenza, si ottenevano giganteschi profitti, che economicamente si potrebbero forse chiamare rendite del pioniere commerciante, e che furono distribuite nel 1895 perché la riserva statutaria era già abbastanza cospicua.

Il programma economico del partito liberale

«La Stampa», 12 ottobre 1899

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 159-163

Il programma di un partito francamente liberale dovrebbe consistere nell’elevare le sorti delle varie classi sociali, provvedendo efficacemente, più che non i restringimenti della libertà od i moti rivoluzionari, al benessere di quegli umili ai quali è rivolta tanta parte delle cure e dei pensieri dei governi moderni.

Il partito liberale per attuare un programma economico favorevole alla prosperità nazionale, e sovratutto al bene delle classi lavoratrici, non ha bisogno se non di volere, e volere fortemente, l’attuazione, graduale bensì, ma risoluta di quei principii di libertà e di tutela, che ne informarono l’esistenza fin da quando il partito si formò nel nostro paese.

Principii vecchi, ma dalla cui violazione da parte di molti partiti ed anche, è doveroso riconoscerlo, degli stessi liberali, derivarono molti fra i malanni che ora affliggono l’Italia contemporanea.

Per accrescere il benessere delle classi lavoratrici non vi è altro mezzo se non accrescere la quantità di ricchezza prodotta nel nostro paese. Se la produzione annuale dell’Italia aumenterà, aumenteranno non solo i profitti e gli interessi dei direttori delle industrie e dei commerci, ma si accresceranno altresì, per la maggior richiesta, i salari dei lavoratori.

Ora la principale condizione affinché la ricchezza possa aumentare è la mancanza di ostacoli e di impedimenti posti dallo stato a questo sviluppo ed a questo incremento. In Italia lo stato è uno dei più efficaci strumenti per comprimere lo slancio dell’iniziativa individuale sotto il peso di imposte irrazionali e vessatorie e per divergere gli scarsi capitali dalle industrie che sarebbero naturalmente feconde, per avviarli alle industrie che diventano produttive grazie soltanto ai premi, ai dazi protettori, alle estorsioni esercitate in guise svariate a danno dei contribuenti. Il partito liberale dovrebbe prendere una posizione nettamente contraria a tutte queste ingerenze dello stato nel campo riservato alla iniziativa individuale.

Vi è una questione la quale può esercitare una decisiva influenza sull’avvenire del nostro paese: la rinnovazione dei trattati di commercio.

Noi abbiamo ripetutamente discusso la quistione su queste stesse colonne ed abbiamo concluso che l’interesse del nostro paese richiede imperiosamente il passaggio dalla politica protezionistica durata in Italia dal 1878, ad una politica doganale liberistica, la quale dia modo alle industrie agrarie di svilupparsi liberamente, e tolga quella protezione doganale che gli industriali stessi confessano oramai inutile e il cui unico effetto si è di taglieggiare le masse dei contribuenti, facendo pagare più cari di quanto altrimenti non sarebbero il pane, i vestiti, i prodotti delle grandi industrie metallurgiche e tessili, ecc.

Lo slancio che l’adozione della politica doganale liberistica imprimerebbe a pro delle industrie naturalmente produttive, crescerebbe la quantità di ricchezza annualmente prodotta; aumenterebbero i salari e questi avrebbero una maggiore potenza d’acquisto.

Il partito liberale dovrebbe adottare come piattaforma la riforma doganale in senso liberista. In ciò esso non farebbe se non rivendicare i principii che sono sempre stati suoi peculiari e che ora altri partiti cercano di far passare come proprii.

In Italia una politica doganale siffatta vanta l’adesione del nostro più grande uomo di stato, Camillo Cavour, il quale osò, e con felice risultato, inaugurare in condizioni ben più difficili delle presenti un programma di libertà. Poiché l’azione in questo senso deve essere pronta e rapida, il partito liberale deve essere favorevole ad una diminuzione dei premi alla marina mercantile e della protezione doganale all’industria degli zuccheri.

In questi due problemi si annida uno dei più grandi pericoli, non solo alla solidità dell’erario pubblico, ma anche alla prosperità nazionale.

I premi non sono mai bastati a creare una grande marina mercantile, mentre sono un aggravio minaccioso e crescente per le nostre finanze ed un’ingiusta sottrazione di milioni alle borse dei contribuenti, i quali hanno diritto di adoperare i proprii quattrini per accrescere il proprio benessere e non il benessere di pochi costruttori.

Lo stesso si dica della protezione all’industria degli zuccheri. La costruzione affrettata di numerose fabbriche di zucchero negli ultimi anni è gravida di pericoli per il paese, attirando capitali verso una industria la cui unica ragione di esistenza è il divario fra la tassa sugli zuccheri prodotti all’interno ed il dazio sugli zuccheri esteri.

Il partito liberale combattendo i sistemi coi quali si cerca di dar vita ad industrie artificiose, tutelerà da una parte le ragioni del pubblico erario e dall’altra farà sì che i capitali si rivolgano a quei campi dove la loro applicazione è più feconda di utili.

In tal modo il partito liberale avrà spianata la via all’attuazione della seconda parte del suo programma: la riforma tributaria.

Questa è anch’essa un’opera di libertà ed è resa agevole da una politica economica che accresca la ricchezza sociale, aumentando le fonti di reddito da cui il finanziere può trarre le entrate occorrenti per lo stato.

La riforma tributaria voluta dal partito liberale si ispira a due concetti sommi: diminuire il fabbisogno, il che si ottiene falcidiando, come sopra si disse, nelle spese di premi e di aiuti alle industrie private, e dando incremento alla prosperità nazionale, il che renderà possibile una non lontana conversione del debito pubblico.

Il partito liberale potrà, pur diminuendo le spese, dotare più convenientemente alcuni servizi pubblici, sovratutto civili, i quali ora non possono compiere il loro ufficio, perché lo stato si interessa di ciò di cui non dovrebbe occuparsi, e fa male quelle cose che sono la sua funzione specifica.

Ridotte le spese, il partito liberale, giovandosi del momento presente in cui una nuova onda di prosperità sembra percorrere l’Italia e giovandosi delle sue stesse riforme rivolte all’aumento della ricchezza sociale, potrà senza timore intraprendere un’opera simile a quella che è stata compiuta dal partito liberale inglese nella prima metà del presente secolo: la riduzione delle aliquote tributarie e la trasformazione graduale delle imposte.

Il partito liberale inglese ha compiuto tutte le sue grandi riforme in questo modo: 1) diminuire, in un momento naturalmente favorevole per l’economia nazionale, i dazi e le aliquote delle imposte dirette cominciando da quelli più gravosi per l’economia nazionale; 2) giovarsi dell’impulso che le sue stesse riforme davano alla prosperità economica del paese per risarcire le perdite del suo erario, con un maggior provento dei dazi e delle aliquote ridotte, e per procedere innanzi in questa via di alleggerimento delle sorti dei contribuenti.

Questa medesima politica deve proporsi il partito liberale italiano, inspirandosi al concetto fondamentale che ha costituito la ragione principale della sua formazione e della sua esistenza: ridurre l’ingerenza dello stato a quelle funzioni a cui la natura sua specifica lo chiama, e lasciando libero il campo allo sviluppo della iniziativa individuale nelle industrie e nei commerci.

Informato a questi principii di libertà, il partito liberale italiano potrà combattere e vincere. La sua vittoria sarà sovratutto la vittoria degli umili, ai quali sarà assicurata una mercede più abbondante e dotata di maggior potenza d’acquisto che non al presente.

Quando la gente minuta starà bene, cesseranno le lagnanze, ed i partiti socialisti più non potranno far credere al popolo che la salute stia nel regolamentare ogni cosa, nel fare intervenire lo stato in ogni minimo atto della vita privata a tutela dei deboli.

I deboli e gli umili saranno diventati forti e grandi e sapranno fare da sé.

Del resto il partito liberale non si rifiuta (e lo conforta anche in ciò l’esempio classico dell’Inghilterra) ad adottare quelle norme di legislazione sociale le quali siano imperiosamente richieste da motivi di igiene, di moralità e di tutela della razza contro la degenerazione fisica conseguente all’eccessivo lavoro di notte e di giorno, alle fatiche durate in locali malsani, ecc.

Il partito liberale si vanta anzi di volere con una adatta legislazione sociale prevenire il sorgere di condizioni che in qualunque modo impediscono all’individuo di svolgere liberamente tutte le sue facoltà.

Combattendo per questo programma i liberali sanno di dover lottare contro ostacoli numerosi, contro tutte le forze organizzate alla difesa del privilegio e del vincolismo; ma sono disposti a superare ogni fatica, perché sono sicuri di combattere per la causa della civiltà.

Sei mesi di trattato di commercio colla Francia

Sei mesi di trattato di commercio colla Francia

«La Stampa», 1 agosto 1899

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 129-133

 

 

Al progressivo miglioramento nella economia nazionale ha concorso per fermo il trattato colla Francia, permettendo uno scambio più vivace di merci fra un paese e l’altro.

 

 

A proposito del trattato colla Francia, da quando esso è entrato in vigore, periodicamente ogni mese fanno il giro dei giornali certe cifre statistiche semi-ufficiali, su cui vengono ricamate considerazioni che spesso sono cervellotiche e qualche volta sono anche grottesche.

 

 

Un giorno si disse che la Francia aveva importato nel 1899 in Italia non so quanti milioni di lire di merci in più che nel mese corrispondente del 1898 e subito si gridò alla rovina, all’inondazione dell’Italia da parte dello straripante fiume delle merci francesi, non badando in primo luogo che quei milioni in più erano costituiti da seterie provenienti dall’Asia per la via di Marsiglia ed escluse dal trattato, il quale non poteva avere per conseguenza esercitato nessuna influenza, e non curandosi in secondo luogo del carattere specifico della asserita inondazione.

 

 

È naturale che un proprietario, vedendo i proprii campi inondati dalle acque del fiume vicino, si disperi e gridi alla rovina. Ma se un qualsiasi italiano si vedesse inondata gratuitamente od a prezzo minore di prima la casa di merci francesi, egli gioirebbe per la improvvisa inondazione, augurandosi che si ripeta frequentemente. Non si vede perché quel fenomeno di inondazione che sembra benefico ai singoli individui diventi dannoso appena, invece di Tizio e di Caio, si considera l’intiera Italia.

 

 

Anche supponendo vera la pretesa inondazione di merci francesi in Italia, essa vorrebbe dire soltanto che noi italiani abbiamo potuto comprare a miglior mercato in Francia alcune merci che prima dovevamo acquistare a caro prezzo nella Francia medesima od in altri luoghi. È notorio (qualunque domestica frequentatrice di Porta Palazzo conosce a meraviglia il volgarissimo fenomeno) che quando il numero dei venditori si accresce su un determinato mercato e maggior merce viene messa in vendita, se ne compra di più perché i prezzi ribassano. I consumatori, che prima si tenevano in disparte, affluiscono e spendono magari una forte somma per comprare quella merce, a cui prima doveano, per l’alto prezzo, rinunciare. La inondazione di merci francesi in Italia sarebbe l’indice, non che gli italiani, fino a concorrenza della somma spesa, siano impoveriti, ma che essi hanno potuto soddisfare un bisogno, la cui privazione dolorosamente sentivano.

 

 

Se Tizio e Caio, cittadini italiani, hanno speso una certa somma di denaro in merci francesi, ciò significa che essi ritraggono una utilità maggiore dalle merci francesi che dal denaro italiano, e che la loro felicità (chiamiamola così) economica è accresciuta. E se è cresciuta la felicità dei singoli, non è esatto concluderne che è cresciuta anche la felicità dell’aggregato sociale?

 

 

Sembrano verità ovvie, truismi, come dicono gli inglesi, ma sono verità ovvie che importa ripetere, essendosi visti certi grandi giornali gridare alla rovina dell’Italia, soltanto perché i nostri concittadini avevano comperato qualche ettolitro di vino o qualche quintale di seta di più dai vicini francesi.

 

 

Né qui si fermano le inesattezze e gli errori commessi dalla stampa italiana in questi sei mesi di trattato colla Francia. Si sono citate a ragione e a torto le statistiche ufficiali per provare che i francesi inondavano l’Italia, mentre gli italiani si guardavano bene dal vendere in Francia.

 

 

Nella maggior parte dei casi le statistiche sono state adoperate senza criterio. Molti credono che basti confrontare i dati del 1898 coi dati del 1899 relativi al commercio italo-francese per conoscere le conseguenze del trattato. Nulla di più erroneo.

 

 

Spessissimo da quel semplice raffronto non è possibile trarne alcuna conclusione. Perché questa si potesse ragionevolmente trarre, sarebbe necessario che dal 1898 al 1899 non fosse intervenuta nessuna nuova circostanza, all’infuori del trattato di commercio, per ravvivare o indebolire le correnti commerciali fra i due paesi; e sarebbe necessario inoltre dimostrare che le correnti stesse non avessero avuto già in precedenza una tendenza alla diminuzione ed all’aumento.

 

 

Per esemplificare, la importazione dalla Francia degli olii pesanti è aumentata dal 1898 al 1899 (primo semestre) da 13.694 a 16.631 quintali.

 

 

Ecco gli effetti del trattato, direbbe uno dei soliti statistici improvvisati. Che il trattato ci abbia molto a vedere è messo in dubbio dal fatto che nel 1895 si importavano già 17,800 quintali, quando ancora si era sotto il regime delle tariffe generali.

 

 

Così pure si esportarono dall’Italia in Francia nel

 

 

1898

1899

Marmo greggio tonn.

6.587

9.776

Marmo ed alabastro lavorato quint.

3.202

4.944

 

 

Anche qui sembra evidente l’influenza del trattato; ma la cosa è messa in dubbio se si pensa che già nel 1896 si esportavano (senza trattato) 9.866 tonnellate di marmo greggio e nel 1895 quintali 5.041 di marmo ed alabastro lavorato.

 

 

Gli esempi provano come sia difficile di poter conchiudere con una certa sicurezza dalle statistiche ufficiali alle influenze del novissimo trattato.

 

 

Ma siccome è d’uopo venire ad una conclusione pratica, ci limiteremo qui ad enumerare i casi in cui si è verificato dopo il trattato di commercio una notevole ripresa nelle correnti commerciali. Con ciò noi non vogliamo asserire che la ripresa sia veramente dovuta al trattato, ma soltanto che essa ha avuto luogo dopo il trattato, e non esisteva fin da prima. Come si vede, si tratta di cose diverse. L’avere una ripresa di correnti commerciali avuta luogo dopo un trattato non significa che essa sia dovuta a quel trattato, ma soltanto che forse il trattato è stato uno fra i coefficienti della ripresa.

 

 

Cominciamo dalle importazioni dalla Francia in Italia. Ecco lo specchio delle merci importate in maggiore quantità nel primo semestre del 1899 che non nel corrispondente semestre del 1898 e di cui l’incremento non sembra avere origini più remote:

 

 

1898

1899

Vino in botti

hl

768

971

Olii volatili ed essenze

kg

2.972

4.180

Acidi

q

5.007

7.411

Sapone

q

1.651

1.963

Lane cascami e borra di lana

q

16.708

19.140

Seta tratta tinta

q

1.055

1.761

Tessuti ed altri manufatti seta

q

697

797

Legname da costruzione

t

1.427

3.415

Carta bianca

q

473

602

Pelli crude

q

6.761

9.728

Pelli conciate

q

1.512

1.785

Rottami, scaglie di ferro e acciaio

q

75.270

130.363

Utensili e strumenti ferro e acciaio

q

1.665

1.813

Veicoli da ferrovia

q

150

1.091

Oreficerie e gioielli d’oro

hg

197

410

Lavori di vetro e cristallo

q

2.407

2.896

Bottiglie comuni

q

2.372

4.097

Formaggio

q

457

620

Mercerie

kg

86.900

99.882

 

 

Anche coloro che paventano le inondazioni di merci, non devono rimanere spaventati. Aumentarono sopratutto le importazioni di generi di lusso, di materie gregge e manufatte delle industrie dei ferri ed acciai, della lana, della seta e della conceria. Se ne giovarono i consumatori ed anche le industrie che poterono avere la materia prima a buon mercato e poterono esportare poi in maggior copia i manufatti.

 

 

Basta infatti guardare agli aumenti più significanti delle esportazioni dall’Italia in Francia:

 

 

1898

1899

Vino in botti

hl

13.282

24.036+

Spirito dolcificato

hl

602

990

Tartaro o feccia di vino

q

3.617

7.404

Lane naturali e sudicie

q

592

4.425

Tessuti e manufatti seta

kg

7.426

19.141

Legname da costruzione

t

2.403

3.543

Mobili

q

1.058

1.985

Trecce di paglia, di scorza

q

741

2.187

Cappelli di paglia

cm

436

1.237

Pelli crude

q

5.901

9.251

Caolino, gessi, calce, ecc.

t

5.565

7.312

Agrumi

q

5.234

11.609 +

Frutta fresche (compr. uva)

q

6.748

18.533 +

Animali bovini

numero

1.632

3.140 +

Bestiame ovino e caprino

numero

6.571

11.682 +

Animali suini

numero

1.527

5.455 +

Pesci freschi di ogni sorta

q

967

2.069

Burro

q

7.149

8.874

Formaggio

q

4.293

5.865

Uova di pollame

q

14.785

19.660 +

Corallo lavorato

kg

854

8.633 +

 

 

Anche noi, per seguire il linguaggio comune, stiamo inondando la Francia. Sono sovratutto importanti gli aumenti contraddistinti col segno +.

 

 

Ripetiamo ancora una volta un concetto ovvio. Per esportare, è necessario aver prima importato. La coincidenza, forse non fortuita, nei due specchietti delle importazioni e delle esportazioni, di alcune voci come il legname, le pelli, la seta, la lana, dimostra che le industrie italiane si sono giovate alla pari e forse più dei consumatori, del nuovo trattato. Questo ha permesso che le industrie nostre potessero, con opportune compre, compiere quelle miscele che spesso sono necessarie alla buona lavorazione. L’agricoltura italiana si è indubbiamente giovata del trattato, come è provato dalla maggiore esportazione dei vini, agrumi, bestiame, uova. Notevole anche l’aumento del corallo.

 

 

È vivamente da deplorarsi perciò l’ostilità irragionevole di una parte del giornalismo italiano contro il nuovo trattato. Noi ci auguriamo che l’opera buona venga seguita da una migliore, con una nuova riduzione di tutte le tariffe, riduzione che naturalmente per essere possibile, dovrà essere reciproca.

I risultati della Conferenza dell’Aja. Una delusione parziale – Le espressioni platoniche di opinione. I risultati pratici – Gli usi di guerra e il Tribunale d’Arbitrato

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«La Stampa», 29 luglio 1899

La politica economica delle classi operaie italiane nel momento presente

La politica economica delle classi operaie italiane nel momento presente [1]

«La Critica sociale», 1 luglio 1899

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 164-172

 

 

Una delle cause principali per cui il tenore di vita delle classi operaie in Italia è inferiore a quello degli altri paesi, per cui i salari rimangono a un livello bassissimo, e non sono frequenti né di solito fortunati gli scioperi per la elevazione delle mercedi, è la eccessiva popolazione del nostro paese. La densità media della popolazione in Italia (107 abitanti per chilometro quadrato) è assai superiore alla densità media della popolazione in paesi di noi più ricchi come la Germania (97), l’Austria (80), la Francia (72), ed è solo inferiore alla densità media dell’Inghilterra e del Belgio, contrade dove le industrie ed i traffici sviluppatissimi permettono agli abitanti di moltiplicarsi su un suolo per propria natura ingrato.

 

 

Né la tanto decantata bellezza del nostro cielo e la fertilità del nostro suolo giovano a spiegare l’altezza insolita del numero indice della popolazione; perché si tratta in fondo di una leggenda che non riposa su nessun fondamento reale. Due terzi delle terre d’Italia sono poste in montagna od in collina, tali che solo con grandi stenti la genialità italiana ha potuto trarne profitto. Parecchi milioni di ettari rimangono incolti, in parte perché incoltivabili per essere gioghi di montagne o pendii scoscesi di collina, e in parte perché non vi è tornaconto economico a dissodare le terre incolte anche fertili quando la remunerazione si fa aspettare troppo lungo tempo in confronto di altri impieghi a reddito immediato e sicuro. Se anche poi si potesse coltivare il milione di ettari incolti e coltivabili che esiste in Italia, il rimedio posto all’accrescersi della popolazione sarebbe affatto temporaneo. Supponendo che su ogni 100 ettari [= 1 km quadrato] possano vivere comodamente 90 persone, il che è molto e presuppone una intensità di coltivazione irraggiungibile in pochi anni, si può fare questo calcolo. La popolazione italiana aumenta ogni anno circa di 400 mila persone; 100 mila si possono all’ingrosso considerare come necessarie a far fronte all’incremento naturale delle industrie e dell’operosità nazionale. Ove non esistesse la emigrazione per l’estero, le 300 mila persone residue basterebbero per fornire in 3 anni la popolazione occorrente per popolare il milione di ettari incolti. Finito il triennio, le cose sarebbero al punto di prima e sarebbe d’uopo trovare nuovamente un rimedio all’incremento della popolazione.

 

 

L’appigliarsi a pratiche malthusiane per diminuire la prolificazione avrebbe contro di sé le abitudini inveterate delle masse rurali cattoliche, ubbidienti alla massima biblica: crescite et multiplicamini, e sarebbe opposto eziandio ai sentimenti delle masse operaie cittadine, le quali si sono abituate a guardare a mezzi completamente diversi per migliorare le proprie condizioni; e ignorano del tutto i dati primi del problema della popolazione, con grave torto (mi si permetta la parola in una rivista socialista) della stampa popolare e socialista che del gravissimo problema demografico non si è mai occupata serenamente e spassionatamente.

 

 

Del resto forse non a torto i sentimenti e le abitudini della popolazione italiana sono contrari alle pratiche malthusiane. L’avvenire è dei popoli che espandono la propria civiltà su territori sempre più ampi e moltiplicano il numero di quelli che parlano la loro lingua. L’avvenire è dell’Inghilterra e della Germania, che spargono i proprii figli in tutti i paesi del mondo, e non della Francia, la quale ha una popolazione ricca ma stazionaria in numero e popola le sue colonie di soldati e di funzionari. L’Italia, se vuole migliorare la sua condizione attuale e non scadere al livello di uno dei piccoli popoli balcanici o iberici, deve ispirarsi all’esempio dell’Inghilterra e della Germania e tenersi lontana dalle consuetudini eccessivamente restrittive della prolificazione, così diffuse in Francia.

 

 

In questo momento, in cui tanti popoli si disputano il possesso del mondo e lottano così per la conquista del benessere materiale, l’Italia si vedrebbe diminuita dal dilagare delle popolazioni straniere esuberanti, ove non obbedisse anch’essa al precetto: crescite et multiplicamini. Una certa dose di malthusiano sarebbe forse opportuna in Italia; ma non sembra che si sia giunti a quel punto di massima saturazione in cui l’unico scampo contro la miseria e la morte per fame sia da trovarsi soltanto nei freni restrittivi della popolazione.

 

 

I motivi principali, per cui in Italia la miseria in taluni distretti è grande e i salari sono ridotti ad un livello bassissimo, non si devono ricercare nell’eccesso degli abitanti in senso assoluto, ma nell’eccesso relativo alla pochezza della nostra produzione e al difetto di equilibrio economico fra i vari fattori della produzione. Coloro che in Italia vogliono seriamente intendere ad una politica seria di elevamento delle condizioni del nostro proletariato devono sovratutto avere in mira questi due scopi: crescere la produzione nazionale e ristabilire l’equilibrio fra i fattori della produzione. I problemi di distribuzione del reddito, che a ragione occupano tanta parte delle aspirazioni dei partiti operai inglesi, americani e australiani, potranno essere discussi in Italia solo allorquando l’incremento della produzione e il ristabilito equilibrio economico abbiano rialzato il livello di tutte le classi sociali.

 

 

In Italia nessuna politica economica sarebbe tanto nefasta per le classi operaie quanto quella la quale pretendesse di aumentare i salari dei lavoratori a spese dei profitti degli imprenditori e degli interessi dei capitalisti. Siffatta politica impedirebbe la formazione, già così lenta e scarsa, dei nuovi capitali ed ucciderebbe quello spirito d’intraprendenza così raro da noi, al quale solo si deve se alcune regioni d’Italia si trovano in discrete condizioni rispetto alle altre.

 

 

La sola politica economica, la quale oggi dia speranza di migliorare le sorti delle classi operaie, è una politica la quale rialzi il livello di benessere di tutte le classi sociali, mercé (è bene ripeterlo ancora una volta) l’incremento della produzione ed il ristabilimento dell’equilibrio fra i fattori economici della produzione.

 

 

Se noi guardiamo alle statistiche dell’ultimo decennio, il fenomeno che più vivamente balza agli occhi è la differenza profonda fra lo sviluppo delle industrie manifatturiere e quello delle industrie agricole. Quelle, diffuse sovratutto nell’Italia settentrionale, hanno compiuto progressi notabili ed hanno dato agiatezza notevole alle regioni nelle quali sono situate. Queste, sparse su tutta l’Italia e predominanti da sole nel mezzogiorno, sono rimaste stazionarie od hanno regredito in guisa tale da destare apprensione per l’avvenire della nostra agricoltura.

 

 

Le ragioni del contrasto non sono difficili a rintracciarsi. La politica doganale, inaugurata nel 1878 e rafforzata nel 1887, ha garantito alle industrie manifatturiere il mercato interno ed i fabbricanti del nord ne hanno profittato per conquistare il mercato nazionale chiuso contro le provenienze dall’estero ed hanno su queste basi eretto industrie grandiose che ora sul mercato internazionale sfidano la stessa concorrenza estera.

 

 

D’altra parte, la medesima politica doganale, causando le rappresaglie delle nazioni a cui noi chiudevamo i nostri mercati, hanno cagionato danno irreparabile alle industrie agrarie, a cui l’uno dopo l’altro si chiusero i migliori e più promettenti sbocchi. I danni per la nostra agricoltura furono inacerbiti dal cosidetto protezionismo agrario, che in fondo non è altro che il protezionismo della cerealicultura. Il dazio sul grano, unico compenso che i coltivatori del sud ottennero di fronte ai dazi sui manufatti, largiti ai fabbricanti del nord, giovò soltanto a garantire le rendite di alcune migliaia di proprietari di terre a grano, e a mantenere in vita su terreni disadatti una cultura, propria sovratutto dei paesi nuovi, dove la terra costa poco e dove si possono coltivare, con macchine perfezionate, vaste superfici di terreno quasi vergine. In Italia, dove la popolazione è fittissima, questa non può vivere su una cultura così poco remunerativa come quella del grano e deve dedicarsi alle coltivazioni di alto reddito netto e lordo per ogni ettaro (viti, frutta, agrumi, ecc.).

 

 

Disgraziatamente, nelle condizioni attuali delle dogane mondiali, in Italia è impossibile estendere queste culture ricche e remunerative. I paesi di Europa e d’America, ai cui manufatti ed ai cui cereali noi abbiamo chiuso le porte, respingono con forti dazi i nostri vini, le nostre frutta ed i nostri agrumi, cosicché per la restrizione artificiosa degli sbocchi, le culture arboree, adatte al nostro cielo e al nostro clima, decadono e si restringono dinanzi all’invadenza della cultura a grano, cultura povera ed esauriente per i nostri terreni spossati da secoli di sfruttamento.

 

 

Come ha dimostrato molto bene il prof. G. Mosca in una conferenza tenuta a Torino che è sperabile verrà presto pubblicata, la trasformazione del latifondo siciliano non dipende da rimedi più o meno cervellotici di indole legale, ma da una politica doganale la quale permetta alla Sicilia di vendere i suoi vini, gli agrumi, il sommacco, le frutta, ecc., alla Francia, alla Russia, agli Stati uniti, all’Argentina, in cambio dei manufatti e del grano di cui essa ha bisogno. Allora certamente una parte dei latifondi ora coltivati a grano verrebbe ridotta a culture più ricche, con vantaggio grande non solo dei proprietari, ma anche, e più, dei contadini e dei braccianti.

 

 

Se l’Italia vuole dunque crescere la sua produzione e così elevare il livello del benessere materiale di tutte le classi sociali, la via da percorrere è nettamente tracciata: inaugurare una politica doganale nuova, la quale, per mezzo di trattati di commercio accortamente stipulati, permetta alle derrate agricole di grande pregio di riconquistare gli sbocchi perduti e di espandersi trionfalmente su nuovi e ricchi mercati.

 

 

Il momento attuale è molto favorevole ad una siffatta politica doganale, che vorrebbe dire da parte nostra abbandono del dazio sul grano ed attenuazione graduale dei dazi sui manufatti. Il dazio sul grano ha eccitato tanto malcontento, ed i suoi danni sono così evidenti, che ad una energica campagna abolizionistica, condotta con abilità ed ardore, sorriderebbe una non dubbia vittoria.

 

 

Quanto ai dazi sui manufatti, gli stessi industriali del nord cominciano a riconoscere che oramai essi non ne hanno più bisogno per difendersi contro la concorrenza estera. Del resto un fatto indiscutibile prova che la libertà degli scambi deve essere inaugurata anche per i manufatti: la crescente esportazione verso l’estero dei medesimi manufatti. La esportazione può significare due cose: o che i fabbricanti italiani possono davvero reggere alla concorrenza estera all’estero, ed allora non si vede il motivo per cui non possano reggersi anche all’interno; o che essi vendono all’estero ad un prezzo inferiore al costo, rifacendosi dei danni sofferti coll’aumento dei prezzi sul mercato chiuso interno, ed allora parimenti non si capisce perché i consumatori interni debbano essere tassati a beneficio dei consumatori stranieri. Che questo accada per gli zuccheri, che cioè i consumatori tedeschi, russi, francesi, austriaci ed in un futuro forse non molto lontano anche gli italiani debbano venire tassati perché i felici britanni possano consumare lo zucchero a un prezzo inferiore al costo, è un fatto deplorevole; ma che poi un sistema così pernicioso debba in Italia venire esteso a tutte le industrie manifatturiere, è vera aberrazione.

 

 

Molti indizi vi sono perciò, i quali ci inducono a credere che una riforma del sistema doganale, nel senso ora indicato, possa essere attuata senza troppe difficoltà in seguito ad una energica campagna, la quale dimostrasse al paese che questo è l’unico metodo per potere far rifiorire le industrie agricole adatte al nostro suolo, pure conservando in vita nel nord d’Italia le industrie manifattrici, riposanti oramai su basi così salde da poter vincere ogni concorrenza estera.

 

 

Sarebbe bene che l’iniziativa della nuova politica doganale partisse dalle classi operaie del settentrione; perché esse dimostrerebbero in tal modo, coi fatti e non solo colle parole, di sentire la solidarietà che le avvince colle masse rurali di tutta Italia. La classe operaia si innalza non solo lottando direttamente per aumentare i propri salari, ma anche lottando per la elevazione di masse affini, che colla loro pressione possono rendere inutile qualsiasi sforzo delle più vigorose ed organizzate aristocrazie operaie.

 

 

Non basta accrescere la produzione: è d’uopo ristabilire, come si è detto, il rotto equilibrio fra i fattori economici della produzione. In Italia vi è sovrabbondanza del fattore lavoro e scarsità del fattore capitale. I capitali non sono mai stati abbondanti nel nostro paese; ma ci fu un tempo in cui, per la ravvivata corrente di traffici fra l’Italia e l’estero, per la parità di valore dell’oro e della moneta cartacea, per la puntualità dello stato e delle società private a mantenere gli impegni assunti, i capitali stranieri accorrevano fiduciosi in Italia a sviluppare le nostre ricchezze latenti. Dopo vennero i fallimenti delle banche, le dilapidazioni del governo, i disavanzi cronici del bilancio dello stato, le oscillazioni continue dell’aggio sui biglietti a corso forzoso, ecc. ecc., e i capitali esteri fuggirono spaventati dall’Italia, mentre i capitali indigeni si nascondevano paurosi negli scrigni o venivano investiti in titoli di rendita pubblica.

 

 

Nel frattempo la popolazione italiana non cessava di aumentare; e la povera gente, a cui le altre gioie della vita erano negate per il ribasso dei salari, si consolava mettendo al mondo la consueta ed anzi più della consueta quantità di figli. Così andava diventando sempre più acuto lo squilibrio fra il fattore capitale ed il fattore lavoro sul mercato economico italiano.

 

 

Qualora non si voglia ricorrere ad empiastri artificiosi, l’equilibrio economico ora scomparso può essere ricostituito soltanto favorendo l’immigrazione del capitale e la emigrazione del lavoro. A poco a poco, col progredire dell’afflusso dei capitali e dell’efflusso del lavoro, si ristabilirà l’equilibrio fra i due fattori in modo da permetterne la combinazione più vantaggiosa di coloro a cui nel mondo economico è affidata la funzione di organizzatori dell’industria.

 

 

L’incremento della produzione, in seguito ai provvedimenti doganali accennati più su, favorirà senza dubbio la immigrazione dei capitali destinati a fecondare le nuove intraprese agricole. Gioverà a tale scopo eziandio una accorta politica dello sconto e della circolazione fiduciaria, intesa a fare scomparire l’aggio che ora colle sue oscillazioni oppone una barriera alla venuta dei capitali esteri. Questi inoltre verranno tanto più volonterosi in Italia quanto più saranno rese rigide e rapide le procedure giudiziarie contro i debitori morosi, e saranno gravi ed esemplari le pene per i falliti dolosi. Nulla nuoce tanto in Italia alla desiderata immigrazione dei capitali esteri quanto le oscillazioni dell’aggio e la condiscendenza inerte verso i debitori morosi e colpevoli.

 

 

Se col tempo lo stato potrà, con un’amministrazione seria, rafforzare il bilancio per modo da procedere alla conversione del debito pubblico dal 4% al 3,50 od al 3%, anche sul mercato interno si opererà un benefico trasferimento di capitali dagli impieghi in rendita dello stato agli impieghi destinati a fecondare le industrie manifatturiere e agrarie.

 

 

L’emigrazione del lavoro, che è il secondo mezzo destinato a ristabilire l’equilibrio fra i fattori della produzione, avviene già spontaneamente; ma avviene in modo disordinato e in proporzioni inferiori a quelle che sarebbero necessarie. Vi sono intiere regioni, come le isole ed il centro d’Italia, donde non si emigra o si emigra poco; non già perché non vi sia tornaconto economico ad emigrare, ma perché le masse rurali non sono in grado, per la loro ignoranza, di comprendere la utilità della emigrazione, o, per l’innato misoneismo, non si sono abituate al pensiero di andare a vivere in un ambiente diverso da quello in cui sono nate.

 

 

D’altra parte, la emigrazione avviene senza un obbiettivo e si compie troppo spesso alla mercé degli appaltatori di emigranti per conto delle repubbliche sudamericane, le quali non si curano del benessere dei nuovi venuti, ma solo dell’interesse dei proprietari di fazende caffettere o degli impresari di lavori pubblici.

 

 

Una saggia politica dell’emigrazione, la quale con mezzi non costrittivi ma educativi promovesse l’esodo della parte esuberante della nostra popolazione, siano operai manuali o spostati intellettuali, e incanalasse tutte queste forze vive, ed inutili nella madre patria, verso le repubbliche dell’America latina, in guisa da promuovere la fondazione di nuclei potenti e solidi di italiani, sarebbe la vera politica coloniale adatta al momento presente in Italia.

 

 

Forse alcuni fra i provvedimenti, che in questo articolo ho annoverato fra quelli più adatti a promuovere il benessere delle classi operaie nel momento presente, non sono compresi nelle domande fatte dai partiti operai nei loro programmi minimi economici; a spiegare la cosa desidero ricordare soltanto come non sempre siano benefiche in definitiva le proposte che più facilmente fanno vibrare le corde dell’entusiasmo popolare, e che i grandi e duraturi benefici sono quasi sempre stati apportati alla umanità sofferente da rimedi poco numerosi ed appariscenti, atti però ad agire con efficacia sui sentimenti profondi che spingono gli uomini ad adoperare così nel campo economico come in tutti gli altri campi della attività umana.

 



[1] Si inserisce a questo punto un articolo che nella rivista «La critica sociale», pubblicato poco prima di quello precedente, esponeva le grandi linee di quello che reputavo dover essere il programma economico del partito liberale a pro dei ceti operai in Italia [Nota del 1959]

Le scuole italiane all’estero. Relazione della Giuria dell’Esposizione Generale in Torino del 1898, con prefazione del dottore Giovanni Gorrini.-Torino, Bocca, 1899

Le scuole italiane all’estero. Relazione della Giuria dell’Esposizione Generale in Torino del 1898, con prefazione del dottore Giovanni Gorrini.-Torino, Bocca, 1899

«La Riforma Sociale», maggio 1899, pp. 718-719

Le origini del disavanzo delle casse pensioni ferroviarie

Le origini del disavanzo delle casse pensioni ferroviarie

«La Stampa», 7 aprile 1899

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 125-128

 

 

Un progetto di legge già votato da un ramo del parlamento nelle ultime sue tornate si propone di colmare, con mezzi che sarebbe ora troppo lungo esaminare e discutere, il disavanzo delle casse pensioni ferroviarie. Sorge naturale la domanda: come è sorto e come si è ingigantito il disavanzo a cui si cerca ora di provvedere?

 

 

La relazione della commissione d’inchiesta sulle ferrovie, dettata con chiarezza e serenità ammirabile dal compianto senatore Gagliardo, permette di dare una risposta a questa domanda.

 

 

Che il disavanzo vi sia è innegabile, quantunque sia malagevole fissarne la cifra precisa. Una commissione del 1893 lo stimava a 60.732.615 lire al 31 dicembre 1884; e ad 81.517.282 lire al 31 dicembre 1889. Una commissione del 1897 lo stimava di circa 163 milioni di lire al 31 dicembre 1896. Un capo – divisione del tesoro non lo ritiene ora inferiore a 250 milioni di lire; ed un competentissimo delegato tecnico del ministero del commercio lo fa ascendere a 300 milioni di lire.

 

 

Come si vede, crescit eundo, ed è sperabile che la valutazione tecnica del patrimonio e delle responsabilità delle casse imposta dal progetto di legge porti un po’ di luce su questo intricato argomento.

 

 

Come sono sorti i deficit? In parte esistevano già, quando in virtù delle convenzioni del 1884 le ferrovie furono cedute dallo stato alle società; e per colmare questa parte del disavanzo si era fatto obbligo allo stato di versare ogni anno nelle casse pensioni una somma corrispondente al 2% degli aumenti del prodotto lordo al disopra di quello iniziale, da prelevarsi sulla parte di prodotto lordo spettante allo stato. Siccome per le non buone condizioni economiche d’Italia nel dodicennio trascorso, l’aumento di prodotto lordo non ebbe a verificarsi, così si vede come il disavanzo originario non potesse scomparire ed anzi dovesse automaticamente crescere per gli interessi annui.

 

 

Per impedire poi che il deficit aumentasse per fatti posteriori al 1884, le convenzioni imponevano alle società di aumentare dei due terzi la quota di contributo pagata dalle cessate amministrazioni alle casse.

 

 

Giustizia vuole che si dia lode alle società di avere integralmente obbedito a questa disposizione della legge senza tergiversazioni di sorta alcuna.

 

 

Ma era evidente che ciò non bastava, come non bastò, per togliere ogni pericolo di disavanzo; era mestieri fissare in nuovi statuti i diritti e gli obblighi degli impiegati in modo da fare esattamente corrispondere i contributi ai benefizi goduti nello stato di riposo, e da determinare con rigore le condizioni a cui i collocamenti a riposo dovevano essere subordinati.

 

 

Le convenzioni perciò imponevano alle società di dare opera al riordinamento delle casse e concordare coi comitati amministrativi delle casse i provvedimenti occorrenti a por queste in grado di corrispondere agli scopi per i quali sono istituite; e di provvedere, d’accordo con chi di ragione e coll’intervento delle competenti autorità, alle modificazioni degli statuti e dei regolamenti delle casse, rispettando i diritti acquisiti dagli impiegati.

 

 

Dunque obbligo tassativo di presentare, e di fare approvare nuovi statuti, redatti secondo le più rigide norme tecniche.

 

 

Con grandissimo indugio, il quale solo in parte può essere spiegato colle difficoltà inerenti a tali lavori, dopo quattro anni le società presentarono disegni di statuti «che anche ad un cieco dovevano apparire tali da condurre non all’assetto, ma allo sfacelo delle casse pensioni».

 

 

Il ministero d’agricoltura, in base alle deliberazioni della commissione consultiva della previdenza, rifiutò nettamente «il proprio assenso all’attuazione, nemmeno provvisoria, dei nuovi statuti».

 

 

Il ministro del tesoro, on. Giolitti, circondò il suo consenso di ampie riserve contro qualsiasi variante di tempo, di modo, di forme e di misura del concorso del tesoro a colmare le deficenze delle casse.

 

 

Il ministero dei lavori pubblici, con scarso rispetto alla legge, non tenne alcun conto del diniego di consenso del ministero del commercio, solo competente per le istituzioni di previdenza, e non comunica nemmeno alle società le salutari riserve del ministro del tesoro; e senz’altro nel 1890 consentì che i nuovi statuti, i quali aumentavano le pensioni e scorciavano il periodo di servizio necessario per poter andare a riposo, venissero provvisoriamente attuati.

 

 

Il provvisorio dura ancora adesso.

 

 

Ed il male non finisce qui, nell’essersi cioè compilati statuti contrari ad ogni buona norma tecnica ed allo spirito ed alla lettera delle convenzioni del 1884.

 

 

«Le società – cito le parole della commissione d’inchiesta – appena ottenuto l’assenso, non solo si valsero per i loro intenti delle migliori condizioni che ai pensionandi facevano i nuovi statuti, ma ne peggiorarono i cattivi effetti promuovendo le quiescenze con ogni maniera di sollecitazioni e larghezze». La relazione della commissione contiene larghissime prove che le società, per disfarsi del personale anziano con stipendi alti e per sostituirlo con personale giovane od anche per non sostituirlo affatto, iniziarono una specie di campagna, accordando gratificazioni di buona uscita, ammontanti talvolta fino a 10.000 lire, per accollare alle casse di soccorso l’onere di pagare pensioni ad impiegati che sarebbero ancora stati in grado di prestar servizio.

 

 

In tal modo le società diminuivano le loro spese di esercizio, poco curandosi se le casse di soccorso andavano incontro ad una irrimediabile rovina. Il governo sarebbe intervenuto, come intervenne col disegno di legge or ora approvato dalla camera dei deputati, per accollare su di sé o sul pubblico l’onere derivante dal minaccioso disavanzo! È vero che le società creditarono dal governo un personale che in parte per la sua età non era più adatto al nuovo indirizzo impresso all’esercizio ferroviario, ma è pur certo che le società, nell’attuazione del loro programma di riforme, non tennero nel dovuto conto il pericolo in cui, per i numerosi collocamenti a riposo, venivano a trovarsi gli istituti di previdenza ferroviari. Le società operarono forse bene nell’interesse dell’esercizio, ma ciò ridondò a danno delle casse pensioni.

 

 

Questa, in breve sunto, la storia delle vicende che hanno condotto gli istituti ferroviari di previdenza alla disgraziata condizione in cui si trovano.

 

 

Almeno la esperienza del passato giovasse a rendere nell’avvenire società e ministri dei lavori pubblici più cauti e sovratutto più rispettosi delle leggi vigenti! Qualunque istituzione, anche se ottimamente congegnata sulla fredda carta della legge, è destinata ad andare in rovina poiché non vi è chi attui e faccia rispettare la legge.

La cointeressenza nelle ferrovie

La cointeressenza nelle ferrovie

«La Stampa», 29 marzo 1899

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 120-124

 

 

La vita industriale moderna è una vita di lotta e di concorrenza. Ogni imprenditore deve sforzarsi di ridurre al minimo il costo delle merci o dei servizi che egli vende al pubblico affine di poter conservare ed accrescere la sua clientela. In questo suo sforzo continuo al massimo risparmio l’imprenditore giova non solo a se stesso, ma all’intera società, la quale si perfeziona ed accresce i godimenti dei suoi membri ad ogni applicazione della legge del minimo mezzo. Così pure accade per le società ferroviarie italiane; esse hanno cercato in ogni modo (ed in tesi generale è loro vanto innegabile) di ridurre il personale, di renderne più efficace il lavoro, di coordinare meglio gli sforzi individuali, affine di ottenere con un minore impiego di operai e di impiegati quello stesso risultato utile che prima si otteneva con uno spreco notevole di energia fisica ed intellettuale.

 

 

Tutti coloro i quali elevano alte lagnanze per il numero eccessivo degli impiegati dello stato, sul loro costo sproporzionato agli effettivi servizi resi al pubblico, devono vedere con piacere gli sforzi delle compagnie ferroviarie per ridurre l’esuberante personale che lo stato aveva loro lasciato in eredità.

 

 

Uno dei mezzi principali a cui le società ricorsero per ridurre il personale si è la cosidetta cointeressenza. Il problema, che le società si proposero di risolvere colla introduzione della cointeressenza, nella sua sostanza era il seguente:

 

 

  • Restringere il personale di stazione, tanto quello amministrativo, cioè addetto agli uffici delle merci a grande e piccola velocità, bagagli, biglietti e telegrafo, quanto quello subalterno, supplendo alle differenze di numero del personale amministrativo con minore specializzazione e con maggiore intensità di lavoro, ed a quello del personale subalterno parimenti con maggiore intensità di lavoro, e dove questo non bastasse, con avventizi chiamati giorno per giorno dal capo stazione;
  • Compensare le due categorie di personale con un’equa partecipazione agli utili derivanti dall’ordinamento ch’era causa per essi di un più intenso lavoro.

 

 

Per determinare l’ammontare degli utili spettanti al personale per ogni operazione viene stabilito (dall’amministrazione) un compenso unitario o fisso, in base al quale la stazione mensilmente prepara il bilancio del servizio a cointeressenza e liquida il premio. In tale bilancio (secondo il sistema adottato dall’Adriatica, ed imitato dalla Mediterranea) la stazione pone a suo credito: l’importo delle operazioni eseguite per la manipolazione dei bagagli e delle merci, per la manovra dei veicoli, e gli assegni fissi per pulizia della stazione, guardia notturna, ecc.

 

 

Il debito è formato dall’importo delle ore di manovra, fatte con locomotiva anziché a braccia, dall’importo delle paghe degli agenti di fatica stabili compartecipanti e di tutti gli avventizi impiegati nel mese, e delle spese di riparazione degli attrezzi. Il premio della cointeressenza spettante al personale è costituito del 60% della differenza fra il credito ed il debito suindicato. Una parte dell’utile, che varia dall’80 al 90%, viene divisa subito fra gli agenti compartecipanti, il resto viene accumulato in un libretto della cassa postale di risparmio e costituisce il fondo di riserva, col quale si fa fronte agli eventuali addebiti per furti, avarie, ecc. A fin d’anno la rimanenza di tale fondo, aumentato da parte degli introiti derivanti dalle operazioni di carico e scarico che le stazioni fanno per conto dei privati, viene ripartita esclusivamente fra gli agenti partecipanti. Un comitato costituito fra il personale stesso della stazione e di cui deve far parte un agente di fatica, tiene la gestione del fondo di riserva.

 

 

L’istituto della cointeressenza sembra dunque uno strumento adatto ad attuare una delle più feconde leggi economiche: quella del minimo mezzo.

 

 

Il personale, non più passivo salariato a giornata od a mese, ma organo attivo ed interessato di una grande intrapresa, viene spinto ad intensificare al massimo il suo lavoro entro i limiti dell’orario giornaliero, ad impedire gli sprechi e le malversazioni, a sorvegliarsi reciprocamente per sopprimere in modo quasi automatico i furti, piaga ognora sanguinante delle ferrovie nostre; e dei risparmi ottenuti usufruisce egli stesso nella misura del 60 per cento. Servizio più pronto e migliore pel pubblico; aumentata intensità e cresciuto compenso del lavoro; maggiori profitti per le compagnie; ecco quali sembrano dover essere i benefizi dell’istituto della cointeressenza, il quale mira ad attuare anche nel campo delle ferrovie quella partecipazione agli utili, che per molti indagatori dei fenomeni sociali è destinata a rendere nel futuro più efficace l’organismo della produzione e pacifica la distribuzione del prodotto fra capitalisti ed operai.

 

Senonché – e nelle ponderose pagine della relazione della commissione d’inchiesta abbondano le prove – l’istituto della cointeressenza ha sollevato dappertutto vivissime lagnanze. Per citare un solo esempio, fra i molti, su 191 comuni interrogati al riguardo, ben 114 e, fra questi i più importanti, si dichiararono contrari al sistema della cointeressenza; parecchi condannandolo come dannoso al servizio e al personale, alcuni affermando che esso lascia, poco o molto, a desiderare; altri giudicando come «non buona» o «cattivissima» o «pessima» la prova fattane. In generale, si dice, il servizio ha peggiorato; le lagnanze del pubblico sono frequenti, vive, insistenti; il sistema è pericoloso per la sicurezza dei viaggiatori, o dell’esercizio in genere, specialmente in condizioni eccezionali di movimento. Scendendo a particolari, si lamentano ritardi nel servizio per il movimento dei treni o dei vagoni, ma più sovente per il servizio delle merci; tanto che spesso i privati sono costretti a ricorrere ad altri mezzi ed al proprio personale. E si parla di merci abbandonate sui piazzali, di soverchie giacenze nei magazzini, di disguidi e smarrimenti, di avarie per fretta nelle manovre, di merci e bagagli e fusti malmenati e rotti, nonché di manomissioni e sottrazioni.

 

 

Le lagnanze sono tali non da far dubitare della bontà generica del sistema della cointeressenza, ma dei modi della sua applicazione. Perché il delicatissimo strumento della partecipazione agli utili possa essere applicato nelle ferrovie è necessario che esso non ridondi a danno del servizio, il quale in gran parte ha i caratteri del servizio pubblico: e che giovi veramente a stimolare al massimo l’attività del personale. Non sembra che dalle società ferroviarie italiane lo scopo venga raggiunto per vizi inerenti al sistema adottato di cointeressenza.

 

 

Il guadagno del personale di pianta consiste tutto nella differenza fra il debito ed il credito della stazione. Per rendere massima questa differenza il capo – stazione ha interesse a fare il numero minimo di manovre con macchina, facendo eseguire invece i lavori dagli agenti di fatica e ad assoldare quanto meno può agenti avventizi nei casi di emergenza. Onde deriva che non si facciano manovre, quando pure sarebbero indispensabili per la sicurezza del servizio, e che manchi il personale avventizio, quando più sarebbe necessario, e che il personale di pianta sia fatto lavorare in guisa eccessiva; e tutto ciò per accrescere il guadagno della stazione.

 

 

Si aggiunga che il bilancio è fissato in base a certe cifre di costo delle varie manipolazioni e dei varii servizi; cifre che, per confessione di eminenti funzionari delle società, sono affatto cervellotiche e dipendono, quel che è peggio, puramente dall’arbitrio delle amministrazioni, le quali vanno a gara nel variarle appena si accorgono che i guadagni del personale diventano qualche po’ rilevanti e superano una percentuale che non è quella apparente del 60%, ma una reale molto più bassa e variabile dal 15 al 24% del risparmio derivante alle società. Da questa incertezza nelle basi del sistema deriva che gli agenti non sono spinti a lavorare molto nella tema di vedere mutate le cifre di base della ripartizione a loro danno, e si offre quasi un premio al personale di quelle stazioni il quale, lavorando poco, non ottiene dei guadagni che, per la loro vistosità, siano di incitamento alle compagnie a mutare le basi del contratto.

 

 

Non basta; la ripartizione di questa percentuale reale del 15 – 24% degli utili è fatta in modo da dare la parte del leone al capo – stazione e la parte minore agli agenti di fatica, dalla cui opera dipende, nella quasi totalità, la riuscita del sistema. Onde si sviluppano istinti di avarizia e di risparmio eccessivo dell’aiuto di avventizi nel capo – stazione e si sovraccaricano di lavoro, con inadeguato premio, gli agenti di fatica.

 

 

Queste sole ragioni bastano a spiegare come il sistema della cointeressenza non abbia dato quei buoni frutti che si sarebbero sperati dall’adozione di un principio così fecondo. Vengono perciò giustificate le proposte della commissione d’inchiesta, la quale vorrebbe, anche per la sicurezza del servizio, oltreché per ragioni di umanità: che non si avesse mai eccesso di lavoro per scarsezza di personale; che non si avesse disparità di trattamento fra i capi ed i subalterni; che si distribuissero equamente gli utili fra amministrazione e personale, e nel seno di questo, gli utili andassero a quelli che maggiormente hanno contribuito ad ottenerli.

 

 

Le proposte della commissione e gli inconvenienti accennati dimostrano ancora una volta come, per la sicurezza di un servizio pubblico così importante come quello ferroviario, sia urgente la formazione di un vero e proprio contratto di lavoro, il quale disciplini anche l’istituto della cointeressenza, in modo da impedire che esso si possa trasformare da un provvido mezzo di attuazione della legge del minimo mezzo in uno sfruttamento del personale ed in un pericolo per il pubblico. Gli uomini i quali hanno coscienza dei danni di questa trasformazione ed invocano provvedimenti di tutela del personale e del pubblico, non sono pochi e poco valorosi nel seno stesso delle amministrazioni ferroviarie.

 

 

Il problema dell’emigrazione in Italia

Il problema dell’emigrazione in Italia[1]

«La Stampa», 16 marzo 1899

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 115-119

 

 

Nel settembre scorso a me è capitato di dover far da segretario d’una conferenza, dove un vescovo, parecchi senatori e deputati, molti missionari, alcuni egregi rappresentanti diplomatici e consolari dell’Italia all’estero, i delegati di potenti società di navigazione e di case di commercio si erano dati convegno, dietro iniziativa dell’associazione nazionale per soccorrere i missionari cattolici all’estero, e della commissione ordinatrice della mostra degli italiani all’estero, per studiare e discutere il grave problema dell’emigrazione italiana. La conferenza era privata, e sui giornali cittadini, ingombri allora di resoconti di congressi, non se ne parlò, se non per accennare alle pubbliche letture tenute da alcuni dei membri della conferenza nella sala delle missioni dell’esposizione dell’arte sacra.

 

 

Ora che l’eco dei congressi di ogni genere tenuti nel 1898 si è spenta, perdura invece nel mio animo il ricordo di quelle discussioni fra sacerdoti e laici, fra i rappresentanti della chiesa, dello stato, delle industrie e dei commerci; e la impressione che su di me fece l’accordo spontaneo di gente disparata e proveniente da paesi lontani, si rinnova leggendo l’elegante e denso volumetto che la tipografia Roux Frassati e C. ha di questi giorni pubblicato.

 

 

Il testo delle quattro conferenze tenute dai vescovi Bonomelli e Scalabrini, dal missionario Maldotti e dal comm. Malnate, ispettore di pubblica sicurezza del porto di Genova; il resoconto delle discussioni fatte e degli ordini del giorno votati dalla conferenza; una memoria succosa e pratica del dott. Maranghi sulla Nazionalizzazione del trasporto degli emigranti” ed uno scritto del P. Cherubino Fasil sulle Relazioni colla Cina: ecco in breve schema il contenuto di questo volumetto che, non dubitiamo, verrà meditato da quanti si interessano ad uno dei problemi più gravi dell’Italia contemporanea e sovratutto dagli uomini di stato, chiamati a dare il proprio voto sui due rivali progetti di legge sulla emigrazione, dovuto l’uno all’on. Visconti – Venosta ed accettato dal presente ministero, e l’altro all’iniziativa parlamentare dell’onorevole Pantano.

 

 

Nella contesa fra coloro che si apprestano a fornire nuovi rimedii ai mali antichi del nostro movimento migratorio la pubblicazione recente è destinata ad apportare alcuni preziosi elementi di dilucidazione e, quel che più monta, molti consigli disinteressati e pratici.

 

 

In Italia siamo in troppi; è doloroso il riconoscerlo; ma, data la densità media della popolazione italiana di 107 abitanti per km² mentre in Germania è di 97, di 80 in Austria e di soli 72 in Francia, è assurda la speranza di poter riversare l’annuo incremento di circa 300 mila abitanti (differenza fra i nati ed i morti) sulle nostre terre incolte, che, del resto, se si eccettuano le terre incoltivabili per essere letti di fiume, greti di torrenti asciutti o cime di monti alti e nevosi, si riducono a qualche cosa come un milione di ettari.

 

 

La colonizzazione all’interno – facile argomento di retorica a tribuni di piazza e di studi ponderosi ed interminabili a commissioni ministeriali – è un’impresa troppo lenta e costosa per offrire uno sfogo adeguato ad una popolazione esuberante di braccia e priva di capitali desiderosi di investimenti. Finché i capitali non si decidano (e sarebbe anti-economico lo sperarlo) a coltivare ad un saggio tenuissimo di interesse le terre incolte d’Italia, è d’uopo che i lavoratori, estenuati dalla miseria e dalla disoccupazione forzata, si dirigano verso altre terre più ospitali e più feconde, dell’agro romano o dei pascoli della Sardegna. «Le funzioni migratorie – bene dice il vescovo Scalabrini – come si compiono da noi, rispondono alle necessità attuali politiche, territoriali ed economiche del nostro paese, non superano la sua potenza riproduttiva, e come tali hanno il carattere di fenomeni permanenti e sono fonti di benessere individuale e collettivo». La emigrazione in Italia ha la tendenza ad aumentare.

 

 

Non giovarono a restringerla le circolari del Cantelli, vere leggi longobarde, che punivano l’emigrante, e le provvisioni dei ministri di sinistra, che l’emigrazione proclamarono libera, inceppandola nelle strettoie ufficiali. A nulla giovò la famosa circolare Crispi che nel 1891 ristabiliva in Italia la servitù della gleba, vietando ai prefetti il rilascio dei passaporti ai contadini che, a denuncia dei proprietari delle terre, non avessero prima regolarizzati i contratti d’affitto o di mezzadria od anco di soccida. Nessuna efficacia ebbero le ordinanze del governo vietanti l’emigrazione al Brasile; e i bollettini ufficiali dei nostri consoli, recanti a tinte fosche la sorte toccata ai nostri emigranti, ebbero questo strano risultato: che la nostra emigrazione cresceva, cresceva sempre e si moltiplicava per le località più sconsigliate dei nostri rappresentanti diplomatici e consolari.

 

 

Crescit eundo: negli ultimi 22 anni da 19.000 emigranti permanenti siamo saliti a 165.000 nel 1897 dopo avere rasentato una volta i 200.000. Nel ventennio ultimo il Malnate ha visto partire dal porto di Genova per l’America latina un milione e mezzo di emigranti, di cui ritornarono a mala pena 500.000. I rimasti, insieme colle famiglie, compongono ora una popolazione variamente valutata da 2 a 3 milioni d’italiani. Nell’America latina è lo sfogo più fortunato della nostra emigrazione. Dagli Stati uniti gli italiani sono respinti da leggi restrittive e dalla diversità di costumi di linguaggio e di tenor di vita. Nell’America meridionale, Argentina e Brasile i contadini ed i braccianti italiani possono trovare una nuova patria e spesso una modesta agiatezza. La statistica del ventennio accerta che il terzo dei nostri emigranti partiti per l’America meridionale ritorna in patria. Ritornano chi dopo pochi anni e chi dopo molti; ma, ciò che monta, ritornano nei due terzi con discreta fortuna, che varia in ragione del più o meno lungo soggiorno colà; gli infelici i quali ritornano indigenti, ben di poco superano il 10% dei partiti dall’Italia. E la fortuna dei contadini è fortuna di una delle maggiori industrie nazionali: la marina mercantile.

 

 

Immemore delle tradizioni delle repubbliche marinare del medio evo, le quali, come Genova, accordavano sussidi a quelle navi che trafficavano con le piazze levantine dove più fitta era la colonia genovese, lo stato italiano sovvenziona di ben dieci milioni di lire all’anno, o poco meno, la linea della defunta emigrazione fra l’Italia e il Levante e nega 100 mila lire per sovvenzionare i viventi nostri emigranti poveri. La logica dei fatti è però più forte degli errori dei governanti.

 

 

Il porto di Genova ogni anno dà alla bandiera nazionale (marina a vapore) circa 27 milioni di lire e alla bandiera straniera ne dà 55; ma è da rilevare che in tutte le linee del vecchio mondo non dà a noi che solo 4 milioni di lire appétto a 40 milioni e mezzo dati agli stranieri, mentre la linea dell’America meridionale frutta all’Italia marinara, da Genova, 23 milioni di lire appétto a soli 7 milioni e mezzo dati agli stranieri.

 

 

Su tutti i mari del vecchio mondo e dell’Oriente la bandiera degli stranieri conta 91 parti su cento; invece, sui mari dell’America meridionale fin d’ora la bandiera italiana è vincitrice nella lotta mondiale della concorrenza, vincitrice con 75 parti su cento.

 

 

Urge dunque difendere dalle arpie che ne succhiano il sangue (otto milioni di lire prima e quattro ancora adesso, malgrado i rigori della legge) le legioni dei poveri emigranti italiani, che sfollano la madre patria sovrabbondante di mano d’opera, creano una nuova Italia al di là dell’Atlantico, e pongono le fondamenta su cui si può erigere una forte marineria mercantile ed un intenso e remunerativo scambio di prodotti agricoli ed industriali.

 

 

Creazione di asili per gli emigranti a Genova, Napoli e Palermo; proibizione dell’indegno traffico di carne umana da parte di agenti e subagenti privi di scrupoli; responsabilità effettiva delle compagnie di navigazione; prescrizioni severe sulla velocità delle navi, sulla capacità cubica dei dormitori, sul vitto e sulle medicine durante il viaggio di mare; alberghi per gli emigranti nei porti di arrivo e nelle regioni dell’interno; assistenza all’imbarco da parte di commissari governativi, negli stati americani da parte di un numeroso personale consolare aiutato da missionari ecclesiastici e laici; questi in massima i voti della conferenza torinese, che si trovano riassunti nel libretto del quale raccomandiamo la lettura a tutti quelli che amano avere delle idee chiare, non intorbidate da spirito di parte o di interesse, sul grave argomento.

 

 

Se anche raggiungesse questo solo scopo, l’opera dei promotori della conferenza sarebbe stata molto benemerita di quella patria che tutti ci auguriamo di veder crescere in grandezza ed in potenza; anche se dagli organi del governo si continua a chiudere gli occhi alla luce che sugli inani sforzi africani ed orientali gitta il rigoglioso svolgimento delle libere colonie americane.

 

 



[1]Gli italiani all’estero (emigrazione, commerci, missioni), Tipografia Roux Frassati e C., Torino 1899, lire 1.

I protezionisti ed il trattato di commercio con la Francia

I protezionisti ed il trattato di commercio con la Francia

«La Stampa», 9 e 22[1] gennaio 1899

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 106-110

 

 

I

 

I trattati di commercio possono essere conchiusi in due modi principali: con trattative segrete o pubbliche. Il primo metodo è quello che è stato seguito recentemente per il trattato italo – francese, ed è indubbiamente il migliore.

 

 

I negoziatori hanno molti mezzi a loro disposizione per conoscere lo stato vero delle industrie e per proporzionare a quello le riduzioni di dazi concessi all’altra nazione contraente.

 

 

Il negoziatore italiano dell’ultimo trattato poteva ricorrere alle statistiche di importazione e di esportazione, alle relazioni della commissione permanente per la fissazione annua dei valori doganali, alle risultanze genuine ed oggettive della mostra torinese di quest’anno per ottenere degli indici abbastanza precisi ed esatti della potenzialità dell’industria nazionale. Basato su questo materiale, il negoziatore poteva benissimo calcolare i danni ed i vantaggi che dalle riduzioni di dazi sarebbero derivati alle industrie italiane e cercare insieme di contemperare i varii interessi individuali, che sono sempre contrastanti. È quanto ha fatto l’on. Luzzatti, e la sua opera è stata in generale considerata come accorta e sagace. Sarebbe stato strano però che gli interessi, offesi dalle riduzioni di dazi concesse alla Francia, non fossero sorti a lamentarsi della poca considerazione in cui essi erano stati tenuti, e della trascuranza del governo, il quale non avea creduto opportuno di interpellarli prima di conchiudere il trattato.

 

 

I difensori del sistema delle trattative pubbliche, che erano rimasti in silenzio nei giorni immediatamente successivi all’annunzio del trattato, giorni di universale compiacimento determinato da ragioni più politiche che economiche, cominciano ora a fare sentire la propria voce. Su giornali reputati si leggono articoli intesi a dimostrare che l’Italia è andata troppo innanzi nelle concessioni, che essa ha ribassato i dazi in misura ben maggiore di quanto non li abbia scemato la Francia applicando a noi la tariffa minima, che è, si dice, pur sempre una tariffa fortemente protettiva.

 

 

I lagni sparsi sono ora stati sintetizzati in un opuscolo denso di cifre, pubblicato dall’editore Robecchi, di Milano. L’autore, che si firma Sebino, deplora che il governo badi poco al paese e che ad atti importanti, come un trattato di commercio, non si prepari affiatandosi, a scanso anche di eccessive responsabilità, con persone che sieno bene addentro nel nostro andamento industriale ed agricolo.

 

 

Noi crediamo che gli affiatamenti preventivi del governo cogli interessati siano, prima di conchiudere il trattato, molto pericolosi.

 

 

Si sa da tutti che nelle inchieste doganali gli industriali si presentano a reclamare in coro un aumento di dazi sui prodotti che vendono ed una diminuzione sulle materie prime che comprano; si sa per esperienza antica che le domande dei varii industriali contrastano spessissimo fra di loro, inquantoché, ad esempio, il produttore di lane chiede un dazio sulle lane straniere, il filatore vuole esenti le lane e gravati i filati, mentre il tessitore pretende di ottenere in franchigia i filati e di essere protetto nella vendita dei tessuti. Tutte queste sono cose note, come è noto del pari che i produttori unanimi, dal giorno in cui sono nate le tariffe, hanno sempre giustificato la necessità delle tariffe doganali, col caro della mano d’opera, del trasporto, delle materie prime, colla gravezza delle imposte, colla concorrenza delle industrie straniere ad impianti già ammortizzati, colla relativa gioventù delle industrie nazionali lottanti ad armi diseguali colle industrie estere provette, ecc. ecc.

 

 

Il negoziatore conosce benissimo le ragioni degli industriali e dei consumatori, senza sentire il bisogno di farsele ripetere ancora una volta, col pericolo di dare ansa a campagne giornalistiche o parlamentari da parte di quelli che si pretendono lesi dai trattati e col rischio di mandare a monte le trattative, dandovi una eccessiva pubblicità. Ma se è bene che le trattative siano condotte in segreto, è opportuno che i trattati vengano largamente discussi dopo la loro conchiusione e prima dell’approvazione da parte del parlamento. La discussione allora può svolgersi più calma e tranquilla; di fronte al pericolo di annientare i risultati di trattative faticose e lunghe, tacciono gli interessi particolari dei produttori lesi dalle riduzioni di dazi; ed il giudizio deve essere complessivo e corrispondente all’opinione che la maggioranza (protezionista o libero – scambista, a seconda dei casi) ha relativamente all’interesse generale dell’intiera nazione.

 

 

Ora, quali sono i rimproveri che si muovono al trattato di commercio colla Francia? Li riassumiamo dalle pagine di Sebino, che è, a giudicarne così all’ingrosso, il portavoce dell’industria grande e piccola la quale si accentra a preferenza nell’Alta Italia.

 

 

Il trattato è benefico non tanto per l’Italia quanto per la Francia. La Francia, dopo la adozione del protezionismo, ha visto diminuire le sue esportazioni di manufatti; i tedeschi le muovono una concorrenza accanita e vittoriosa in tutte le parti del mondo. Essa, impressionata dalle risultanze della mostra di Torino, ha voluto mettersi in grado di soffocare negli inizi la crescente industria italiana ed ha perciò ottenuto riduzioni particolari su 118 voci, oltre alle facilitazioni, già godute da altri stati convenzionati con l’Italia, su 194 voci.

 

 

D’altro canto, collo sviluppo che hanno preso in Francia certe produzioni meno curate per l’addietro, dessa ci poteva concedere ora impunemente la sua tariffa minima, che rappresenta quel tanto di protezione di cui le industrie francesi hanno bisogno per lottare ad armi pari colla concorrenza straniera. La tariffa minima sussiste del resto solo per poche voci e lascia in vigore la tariffa generale per molte voci, che sovratutto interessano l’esportazione italiana, come il bestiame e le sete.

 

 

Si aggiunga che il governo francese può fare cessare gli effetti della tariffa minima, notificando la sua intenzione dodici mesi prima, e si vedrà quanto poco la Francia abbia concesso all’Italia. La riduzione di cui si fece più grande scalpore fu quella sui vini; quasi si sperava che ritornassero i bei tempi nei quali l’Italia provvedeva il vino da taglio alla nazione sorella. Ora i tempi sono tuttavia mutati; la Francia ha ricostituito i suoi vigneti, ed è a temersi che colla sua enorme produzione a basso prezzo venga a fare concorrenza ai vini italiani sul nostro mercato. I viticultori francesi hanno saputo farsi pagare caro il favore concesso all’Italia, elevando la tariffa base da 7 a 12 franchi. Non un milione, come si affermò subito, ma a mala pena 100 mila ettolitri di vino italiano troveranno forse la via della Francia.

 

 

Il vantaggio è troppo meschino e quasi irrisorio di fronte ai sacrifici consentiti dall’Italia. Noi abbiamo saputo nel periodo eroico che volse dal 1887 al 1898 liberarci dalla servitù straniera, costituire una forte industria paesana, compensare ad usura con nuovi sbocchi le mancate correnti di esportazione verso la Francia. Ora che l’Italia si è messa sul piede di nazione industriale, non si deve mettere a rischio di distruggere l’opera gigantesca del passato, facilitando di nuovo l’entrata di prodotti manifatturati francesi non necessari, cui supplisce o la importazione di altre nazioni od il nostro lavoro. Vi sono nel trattato riduzioni di tariffe che toccano qualche grande industria ed altre ancora, e numerose, che, quantunque non tocchino le cosidette grandi industrie, disturberanno molte altre minori che vennero sviluppandosi e che sono assai popolari ed utili in Italia. Di queste speciali concessioni fatte dall’Italia alla Francia godranno anche le altre nazioni convenzionate coll’Italia ed ammesse alla clausola della nazione più favorita, senza che da parte di queste nazioni venga all’Italia alcun compenso. Avrà soltanto il danno della più facile entrata di talune merci da varie provenienze e quello della diminuzione di introiti per le sue finanze.

 

 

L’Italia, nazione agricola per eccellenza, ma oramai anche nazione industriale, si trova in migliori condizioni delle altre nazioni, e può rifiutarsi a sacrificare l’agricoltura e l’industria allo scopo unicamente di aumentare gli scambi coll’estero. Del resto le esportazioni italiane si sostennero mirabilmente ed anzi progredirono, malgrado il tracollo avuto colla Francia. Esse hanno preso altre vie, poco calcolando sulla Francia. È un gran bene perché, anche nonostante il trattato, sarà difficile che la Francia possa ridiventare per noi uno sfogo importante. Ci prenderà delle materie prime o qualche specialità nostra, di cui non può fare a meno, ma non mostra alcuna idea di voler avviare, se ciò fosse possibile, i rapporti antichi, perché sopra molti prodotti agricoli, di cui le eravamo fornitori, i suoi dazi elevati sono mantenuti o di ben poco ridotti.

 

 

Queste le ragioni degli avversari del trattato.

 

 

II

 

Gli effetti del trattato commerciale fra la Francia e l’Italia possono essere studiati sotto due rispetti: del pericolo che può derivare alle industrie nazionali dalle facilitazioni doganali concesse alle industrie forestiere e dell’impulso che alle industrie nostre può offrire l’allargato mercato francese. Sembra opportuno studiare anzitutto il contraccolpo che le riduzioni di dazio possono esercitare sulle industrie paesane. Anche qui il trattato commerciale può essere considerato da un duplice punto di vista. In quanto esso estende alle provenienze francesi le medesime riduzioni di dazi in confronto alla tariffa generale che erano già concesse convenzionalmente alle altre provenienze estere è quasi superfluo trattarne, perché la condizione dell’industria nostra può mutare solo di poco per il motivo che si possono introdurre merci ad un dazio determinato da undici paesi invece che da dieci. Quelle che importano sovratutto sono le riduzioni di dazi concesse in modo speciale alla Francia; esse infatti si riferiscono ad industrie nelle quali eccelle specialmente la nostra vicina, e per cui può riescire pei nostri produttori più temibile la concorrenza francese.

 

 

Giudicare dell’effetto di una tariffa doganale è sempre impresa ardua e difficilissima, anche quando si tratta di una tariffa la quale ha già potuto sviluppare i suoi effetti per una lunga serie di anni: tanto sono complicati i fenomeni economici che è di solito improbo tentativo il voler rintracciare la causa che ha dato origine nella realtà ad un determinato fenomeno. L’impresa diventa più ardua ancora quando si vuol giudicare sui probabili effetti di una tariffa la quale non è peranco entrata in vigore. Cercheremo perciò di rispondere in modo approssimativo ad una sola domanda: quale contraccolpo risentiranno le industrie nostre

dalle riduzioni speciali di dazio consentite alla Francia? Per basarci su elementi sicuri e non sulle lagnanze degli industriali minacciati abbiamo calcolato per le principali voci, ove è stato possibile, il rapporto del dazio antico e del dazio nuovo al prezzo della merce protetta, prezzo accertato nell’ultima sessione della commissione pei valori doganali.

 

 

È chiaro, ad esempio, che se una merce vale 100 lire per unità e se il dazio protettivo viene ribassato da 40 a 20 lire per unità, il rapporto della protezione al prezzo viene ribassato dal 40 al 20 per cento. Si ha così un indice grossolano ma sicuro per conoscere se veramente le riduzioni di dazio lascino i nostri industriali alla mercé della concorrenza estera.

 

 

In un primo gruppo vengono quelle voci in cui il rapporto del dazio antico al prezzo era superiore al 50 %.

 

 

 Voci   Rapporto percentuale al prezzo del dazio

antico

nuovo

Confetture e conserve con zucchero

80

64

Cartucce vuote con capsule

53

25

Cartucce cariche

80

60

Tessuti di juta vellutata

106

70

Cornici e liste di legno per cornici semplici

100

84

Cornici e liste verniciate o dorate

63

54

Utensili comuni, fini e bruniti in ghisa, ferro ed acciaio per arti o mestieri

160-60

50-20

 

Non si può disconoscere che il grado di protezione tuttora goduto dai nostri produttori sia in questo gruppo abbastanza alto.

 

 

Nel secondo gruppo sono comprese le merci in cui il rapporto, che diremo protettivo antico, stava fra il 20 ed il 50%:

 

 

 

Voci

 

Dazio

 

antico

nuovo

Cognac in fusti litro

25

17

Cognac in bottiglie di più di 1/2 litro

22

15

Cognac in bottiglie meno di 1/2 litro

30

20

Essenze di rose

36

18

Medicamenti composti

25

12

Matite

24

5

Refe da calzolaio

27

20

Velluti comuni e felpe greggi

30

27

Velluti comuni imbianchiti

28

26

Velluti comuni tinti

26

24

Velluti comuni stampati

31

30

Velluti fini greggi

26

23

Velluti fini imbianchiti

24

23

Velluti fini tinti

25

24

Velluti stampati

29

27

Pizzi di cotone greggi

33

24

Passamani di cotone

30-25

14-12

Bottoni di cotone

30

25

Tessuti di lana pettinata fino a 200 grammi

25

22

Galloni e nastri di cotone

25

21

Tessuti di lana fino a 500 grammi

25

22

Tulli di lana

20

17

Galloni e bottoni di lana guerniti

21

19

Mobili fini di legno

30

25

Carta colorata e da parati

28

25

Carta da giuoco

40

30

Lavori di carta e cartone

24

22

Selle

25

20

Oggetti di nichel lavorato

40-28

30-21

Cementi e calci idrauliche

28

11

Aranci e limoni

28

14

Frutta e legumi sott’olio, aceto e sale

20

12

Sardine ed acciughe

37

18

Mercerie comuni

20-17

16-13

Ventagli comuni

30

27

Cappelli da signora guerniti

33

26

Ombrelli diversi non di seta

40

30

 

 

In moltissimi casi la diminuzione del rapporto protettivo è lievissima; nella grande maggioranza non si discende al disotto del 20 per cento. Le eccezioni più cospicue sono i cognac, i medicamenti, le matite, i cementi e calci idrauliche e le mercerie comuni. Si può notare, però, che un rapporto protettivo superiore (eccetto che per i lapis) all’11% non è da tenersi in poco conto e ad industriali accorti può porgere il mezzo di fortificarsi abbastanza fino al giorno in cui le barriere doganali vengano tolte.

 

 

Nel gruppo seguente il rapporto protettivo antico variava dal 10 al 20%:

 

 

 

Voci

Dazio

antico

nuovo

Vini in bottiglie

17

6

Saponi comuni

16

14

Saponi profumati

11

10

Profumerie non alcolizzate

16

8

Estratti per concia

11

0

Galloni e nastri di lino e canape

14

12

Bottoni in tessuto di canapa e lino

16

14

Vetture

10-13

5-7

Carta asciugante

18

15

Utensili in ghisa, ferro ed acciaio verniciati e zincati

17

16

Datteri

10

1-7

Piume lavorate

11

8

Corna e ossa lavorate, eccetto i pettini e le spille

15

11

Mercerie fini

16-4

12-3

Ombrelli di seta

14

12

 

 

Anche qui, come nel gruppo precedente, la Francia ha voluto delle riduzioni sulle merci fine, i così detti articoli di Parigi; ma anche qui la diminuzione del rapporto protettivo non è tale da seriamente impensierire i nostri produttori. Le diminuzioni più notevoli (anzi le sole veramente notevoli) sono quelle del vino in bottiglie (vino di lusso, spesso non concorrente col nostro) degli estratti per concia e dei datteri, dei quali ultimi non si può dire siavi in Italia una produzione commerciabile.

 

 

Nel quarto ed ultimo vengono le merci in cui il rapporto protettivo, secondo il dazio antico, era inferiore al 10 %.

 

 

Voci

Dazio

antico

nuovo

Senape

9

6,6

Libri legati stampati in lingua francese

5-4

3-2,5

Oggetti di nichel dorati ed argentati

5

4

Colla forte

6,6

3,3

Colla di pesce

7

5

Avorio lavorato, eccetto i pettini e le spille

3

2

Ambra e suoi lavori

2,5

1,6

Ventagli fini

6,6

5

Corregge per articoli di moda

6,6

3,3

 

 

Era tenue il rapporto protettivo prima ed offriva uno schermo poco valido contro la concorrenza estera; il nuovo rapporto permetterà una difesa più debole ancora; ma si tratta di industrie le quali, appunto per il grande pregio dei loro prodotti, non possono far calcolo sulla protezione se non spingendola a tassi assoluti assurdi per la loro elevatezza, industrie le quali per conseguenza debbono di buona o mala grazia fare sovratutto a fidanza sull’abilità e sul senso artistico dei cooperatori della produzione nostrana.

 

 

Non sembra quindi temerario l’affermare che a torto gli industriali italiani si allarmerebbero per le riduzioni speciali di dazi concesse alla Francia.

 

 



[1] Con il titolo Le riduzioni speciali di dazi concesse dall’Italia alla Francia.

Un missionario apostolo degli emigrati

Un missionario apostolo degli emigrati

«La Stampa», 9 settembre 1898[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 89-92

 

 

Alcuni giorni or sono ebbi la fortuna di conoscere uno dei già vani sacerdoti più intelligenti, ed entusiasti del nostro paese. Il nome di don Pietro Maldotti, notissimo a Genova e nel Brasile per la apostolica opera di tutela degli italiani emigranti, è ancora pressoché ignorato a Torino e nel Piemonte; mi parve perciò cosa opportuna ripetere oggi ai lettori della «Stampa» le notizie e le informazioni attinte dalla sua bocca, scusandomi se per colpa mia l’opera ed il pensiero dell’apostolo degli emigranti non saranno descritti con precisione e fedeltà.

 

 

A monsignor Scalabrini, vescovo di Piacenza, si deve l’Associazione di patronato per l’emigrazione italiana. Da sette od otto anni l’Associazione di patronato esiste in Italia, e, benché abbia sollevato intorno a sé poco rumore e le manchino gli abbondanti soccorsi della pubblica carità che in Germania rendono potente la Raphaëls-Verein, ha saputo curare molte piaghe e lenire molti dolori della povera ignorante emigrazione italiana.

 

 

Fornire sicure informazioni ed opportuno indirizzo agli emigranti, curarli durante il viaggio, sorreggerne i primi passi nei paesi d’arrivo diversi di lingua e di costumi: ecco lo scopo nobilissimo della Società italiana di San Raffaele per la protezione degli emigranti. Ben presto il venerando e benemerito vescovo piacentino si accorse che i suoi sforzi sarebbero riesciti vani ove sul porto di Genova, donde salpano ogni anno 120 mila emigranti, un missionario infiammato di vivo zelo apostolico non avesse vigilato a reprimere gli abusi di cui sono vittime i disgraziati emigranti; ed il 2 agosto 1894 inviava colà un giovane sacerdote trentenne della diocesi piacentina, privo di mezzi pecuniari, ignaro del dialetto genovese e colla missione generica di far del bene agli emigranti.

 

 

Dire il modo con cui don Maldotti non solo riuscì a mantenersi insieme con un compagno missionario, un bravo sacerdote valdostano, capitato per caso a Genova e fermato dal Maldotti colla promessa di sacrifizi continui, ma poté anche soccorrere di cibo, vesti, abitazioni e denaro torme di emigranti è un segreto spiegabile solo coi miracoli compiuti dallo zelo ardente ed entusiasta dei veri apostoli.

 

 

Per fortuna il missionario del porto di Genova unisce alla fede nella possibilità di compiere il dovere da lui propostosi anche una buona dose di coraggio fisico; ché in mezzo ai subagenti di emigrazione, ai fattorini, ai tavernieri pullulanti nel porto a suggere il sangue degli emigranti, al don Maldotti toccò più spesso l’occasione di difendere coi pugni e colle grida le sbigottite sue pecore che non di edificarle con messe e benedizioni. E che i nostri emigranti abbiano bisogno di difensori pugnaci si scorge dalle cose viste con sorpresa e con indignazione dal focoso sacerdote.

 

 

La legge vigente sull’emigrazione del 1888 riconosce e quasi favorisce legalmente la classe degli agenti e subagenti di emigrazione con cauzione fruttifera, ma senza alcuna reale responsabilità. L’effetto della nuova legge fu immediato. Spostati, analfabeti, truffatori di ogni fatta, riusciti a strappare dalle prefetture ventimila patenti di agente e subagente, si sbandarono per le campagne italiane a fare propaganda presso gli ignoranti contadini, allettandoli con fallaci promesse verso le plaghe più inospiti del Brasile, i cui governanti ad alta voce chiedevano braccia umane a surrogare gli schiavi redenti, fuggiti nei boschi o nelle città!

 

 

Ogni genere di truffe fu commesso in spregio della legge; si facevano pagare i noli a coloro che avevano diritto al passaggio gratuito pel Brasile; si speculava sui treni speciali; sulle spese impreviste, sull’albergo, con relativo fattorino, facchino, liquorista a Genova. Sistematicamente gli agenti, per ispolpare con più agio gli emigranti, li spedivano a Genova una settimana prima dell’imbarco e li indirizzavano a quei tavernieri che loro promettevano una più lauta percentuale sugli utili. Da vent’anni a Genova durava lo spettacolo delle pubbliche strade e delle chiese piene di gruppi di disgraziati emigranti, affamati, seminudi o tremanti di freddo, in balia di una banda avida di danari. Negli alberghi centinaia di famiglie si vedevano sdraiate promiscuamente sull’umido pavimento o sui sacchi o sulle panche, in lunghi stanzoni, in sotterranei o soffitte miserabili, senz’aria e senza luce, non solo di notte, ma anche di giorno. Le derrate, vendute a prezzi favolosi non sfamavano mai gli infelici.

 

 

I cambiavalute davano monete false od esigevano grosse usure.«Era un ingranaggio turpe di infamie, di cui solo può formarsi un concetto chi vide e studiò l’ambiente; l’agente, il subagente, il fattorino, il facchino, il liquorista, il cambiavalute, il taverniere esigevano – esclamava inorridito il Maldotti – fino il sangue e l’onore delle loro vittime, perché avevano da pagare e da contentare alla loro volta un’altra turba di vampiri e sottovampiri, grossi e piccoli, che procuravano i clienti; sicché, a tutti i costi, dalle vene isterilite di quegli infelici doveva uscire sangue e poi sangue per tutti».

 

 

Contro questi sfruttamenti ed altre infamie innominabili il missionario lottò a lungo coll’aiuto dell’ispettore di pubblica sicurezza del porto, Nicola Malnate, rara avis di funzionario, da diciotto anni consacrato alla tutela degli emigranti con amore vero non burocratico. Finalmente riuscì a far adottare una norma che costringe le compagnie e gli agenti a chiamare a Genova gli emigranti la vigilia della partenza e ad alloggiarli e nutrirli gratuitamente fino al momento dell’imbarco.

 

 

Vi si aggiungano, gli sforzi compiuti, con numerosi processi davanti le preture ed i tribunali, per far rispettare i diritti della povera gente, per costringere gli sfruttatori a restituire le somme rubate; la propaganda intesa a fondare e fornire una specie di guardaroba destinata a raccogliere indumenti per gli emigranti più bisognosi specie per i bambini, grazie della quale in meno di un anno si distribuirono più di duemila capi di vestiario tra nuovi ed usati; due viaggi compiuti nel 1896 e nel 1897 in tutti gli stati del Brasile affine di vedere coi proprii occhi la sorte degli emigranti in quell’immenso paese, scernere i luoghi più adatti agli emigranti italiani, sottrarli alle regioni dove prevalgono il cottimo e la mezzadria, favorevoli solo ai grandi piantatori di caffè, ed avviarli nei paesi sani a tipo di colonie libere di proprietari indipendenti, tutti italiani e non misti di brasiliani o neri, e si avrà una idea del lavoro continuo, indefesso e quasi sovrumano del missionario del porto di Genova.

 

 

Era bello sentire dalla bocca del sacerdote di Cristo la narrazione delle lotte combattute laggiù nella terra, dove troppo spesso infieriscono la febbre gialla ed il vomito nero, affine di mantenere vivo e saldo l’affetto alla patria lontana, della commozione intensa suscitata nell’animo suo alla vista dei coloni italiani accorrenti al suono della marcia reale, della propaganda fatta per sottrarre gli emigranti alle colonie miste od alle piantagioni di proprietari brasiliani per avviarli alle terre esclusivamente abitate da italiani, rimasti tali per opera dei missionari della congregazione del vescovo Scalabrini.

 

 

È consolante riflettere come da un clero tenacemente estraneo alla vita pubblica sia uscito un missionario i cui concetti, zampillanti dalla visione continua della triste realtà, formano la base del nuovo progetto di legge sulla emigrazione, destinato, se pure il parlamento troverà il tempo di discuterlo e resisterà alla voglia di sfigurarlo per correre dietro a fisime astratte, a reprimere le piaghe più acute ancora sanguinanti nella nostra emigrazione.

 

 

Vorrei che le poche righe ora scritte invogliassero i lettori della «Stampa» ad accorrere numerosi alle conferenze che verso la fine di settembre saranno tenute a Torino dall’on. Boselli, dal vescovo Scalabrini, dal missionario Maldotti e dall’ispettore Malnate intorno all’emigrazione, che è il più gran problema sociale dell’Italia contemporanea.

 

 

Sono convinto che gli ascoltatori di queste conferenze, dette da uomini che hanno fatto scopo della loro vita il bene degli altri, non rimarranno solo sterilmente commossi, ma vorranno mettere Torino ed il Piemonte a capo delle città e delle regioni italiane che contribuiscono a sorreggere le istituzioni consacrate per iniziativa privata alla tutela degli emigranti.

 



[1]Con il titolo Per la tutela degli emigranti. Un apostolo missionario

Il dazio sul frumento

Il dazio sul frumento

«La Stampa», 2 luglio 1898

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 81-84

 

 

La camera dei deputati, nella sua seduta del 25 giugno, ha approvato i decreti in forza dei quali la sospensione del dazio di 7,50 al quintale scade col 30 di giugno e solo continua fino al 15 di luglio la riduzione a 5 lire. Dopo ripiglierà vigore il dazio integrale di lire 7,50.

 

 

Il provvedimento è provvisorio e la camera dovrà tornarvi sopra per dare un assetto definitivo a tale parte del nostro sistema fiscale e protettivo. Importa perciò assai di rispondere ad una domanda: nelle attuali condizioni economiche d’Italia, è opportuno conservare il dazio sul grano ed in quale misura?

 

 

Alla domanda rispondiamo categoricamente: il dazio deve essere abolito integralmente, ma gradualmente.

 

 

La abolizione deve essere integrale. Gli ultimi dolorosi avvenimenti hanno dimostrato quanto incompatibile riesca ogni incremento artificioso del prezzo del pane, quando le condizioni naturali del mercato granario spingono i corsi all’insù, ed hanno dimostrato altresì come in tempi di carestia la sospensione dei dazi non valga a diminuire i prezzi del grano. In questi tempi infatti il sovrano padrone dei prezzi è il mercato, il quale eleva i prezzi di tanto quanto diminuiscono i dazi. Un fatto solo basta per spiegare le cose. Quando a Buenos Aires giunse la notizia che il nostro governo aveva ridotto il dazio di lire 2,50, subito i noli aumentarono di lire 1,50 al quintale ed il prezzo chiesto dai proprietari del grano crebbe di una lira; dimodoché la rinuncia di una cospicua entrata da parte del governo non giovò ai consumatori italiani, ma valse ad accrescere i profitti delle società di navigazione e delle grandi case esportatrici dell’Argentina.

 

 

L’esempio vale a condannare la scala mobile dei dazi che ora si vorrebbe proporre per giovare ai consumatori in tempi di prezzi alti col ribasso automatico dei dazi, e agli agricoltori in tempi di prezzi bassi col rialzo del dazio.

 

 

La scala mobile favorirebbe invece la speculazione, non porterebbe nessun vantaggio all’erario e frustrerebbe le speranze degli agricoltori e dei consumatori.

 

 

Ma, si dice, l’agricoltura nazionale ha bisogno del dazio, perché, senza questo, in tempi normali i grani esteri inonderebbero il mercato a 15 lire al quintale ed anche meno e renderebbero impossibile ai nostri produttori di sostenersi nella lotta per la concorrenza. I dazi servono a mettere in grado li agricoltori di perfezionare i loro metodi produttivi per poter produrre ad un costo tanto basso come i loro rivali americani o russi.

 

 

La esperienza passata prova che i dazi non hanno servito a nulla di tutto questo, che gli agricoltori sono rimasti in massa immobili, ed hanno visto solo nei dazi una comoda garanzia delle loro rendite. La superficie coltivata, che era nel 1870-74 di 4.737.000 ettari discese nel 1896-97 a 4.600.000 ettari. La produzione che era di circa 51 milioni nel primo periodo, si aggirò nel 1890 – 97 fra un massimo di ettolitri 51.180.000 nel 1896, ed un minimo di 30.400.000 ettolitri nel 1897. Il rendimento medio per ettaro discese così da ettolitri 10,75 ad ettolitri 9,56. La decadenza non solo relativa rispetto ad altre nazioni, ma assoluta rispetto al passato dell’Italia stessa, non potrebbe essere maggiore.

 

 

Il dazio sul frumento non fu nell’ultimo decennio di alcuno stimolo a procedere nelle vie della cultura intensiva. Eppure, anche se si diminuisse la superficie seminata a grano a 4 milioni di ettari, ma si facesse aumentare il rendimento medio per ettaro alla modestissima cifra di 15 ettolitri, raggiunta e superata nelle regioni meglio coltivate d’Italia, si potrebbe ottenere un prodotto totale di 60 milioni d’ettolitri, bastevole ad esentarci da ogni bisogno di importazione estera. E l’aumento nella produzione potrebbe conciliarsi con una diminuzione nel costo di produzione dell’unità di misura del grano, tale da metterci in grado di lottare contro il grano estero, anche se questo si offrisse a 15 lire per quintale nei porti di mare. Ce lo assicurano agronomi distinti come il Solari ed il Valenti, la cui testimonianza favorevole all’abolizione graduale del dazio sul grano deve essere tenuta in gran conto, in quanto proviene da persona che è segretario generale della società degli agricoltori italiani.

 

 

Ma per ottenere a costo di concorrenza il grano in quantità bastevole alla alimentazione italiana, è necessario che gli agricoltori non si addormentino all’ombra protettiva del dazio e si istruiscano invece nelle migliori pratiche agricole, nell’uso delle rotazioni razionali a base di leguminose e dei concimi chimici, che soli possono permettere di sostenere la concorrenza estera.

 

 

Si aggiunga che la enorme maggioranza degli agricoltori italiani non ha mai provato alcun beneficio dal dazio sul grano. Nei paesi di piccola e media proprietà, che coprono tanta parte del suolo d’Italia, i coltivatori non vendono il grano, ma lo consumano per usi familiari; anzi nelle annate di carestia devono comprare il grano a prezzi altissimi per poter giungere alla fine dell’anno. In molti comuni rurali non più del 5% dei proprietari vende grano ed è interessato a prezzi alti.

 

 

Quello che avviene nei singoli comuni avviene in media in tutta Italia. I beneficiari del dazio sul grano sono stati i grandi proprietari della pianura padana e delle regioni interne del mezzogiorno e della Sicilia.

 

 

Per fare a questi latifondisti (fra cui non si annoverano davvero gli agricoltori più progressivi ed intelligenti) il regalo di un notevole numero di milioni all’anno a guisa di rimborso delle imposte che tutti gli altri contribuenti (anche i piccoli e medi agricoltori) pagano, si è imposto un pesante tributo sui consumatori, il quale in ciò solo si differenzia dal macinato, che esso va a beneficio in piccola parte dell’erario, ed in massima parte di privati cittadini non certo meritevoli di compassione per ristrettezze finanziarie.

 

 

Siccome tutti gli interessi meritano tuttavia di venire presi in considerazione, così i grandi proprietari, a cui la legge finora ha garantito un prezzo alto del grano, possono ragionevolmente chiedere non sia d’un tratto distrutto l’edificio economico su cui essi si erano basati nei loro calcoli.

 

 

L’abolizione del dazio dovrebbe perciò essere graduale: entro un termine di cinque anni, ad esempio, od anche di dieci se fosse ritenuto opportuno, si dovrebbe ribassare il dazio odierno di 5 lire (si suppone fermo questo saggio e non riportato a 7,50), di una lira o di 50 centesimi all’anno. Gli agricoltori, avvertiti, provvedono nel frattempo a trasformare o ad intensificare le culture. Lo stato avrà anche il tempo necessario per riparare la falla aperta nel suo bilancio.

 

 

La riforma può essere l’inizio di una più ampia riforma tributaria e doganale. Le riduzioni di dazio non si potranno fermare lì. Troppe altre industrie vi sono che godono di una protezione che i più autorevoli economisti e statisti hanno riconosciuto doversi togliere e diminuire. Si tratta di un’opera coraggiosa di risanamento della nostra vita economica e del nostro sistema tributario.

 

 

Se quest’opera non viene iniziata a tempo, la tranquillità e la pace interna saranno, forse a non lunga scadenza, turbate più di quanto non sia avvenuto nei mesi scorsi.

 

 

È lecito sperare che nel parlamento italiano siano abbastanza numerosi gli uomini capaci di guardare al lontano futuro ed agli interessi non di una piccola classe di proprietari fondiari, ma di tutta l’economia nazionale.

 

Il progetto di legge sui dazi comunali e le riforme tributarie

Il progetto di legge sui dazi comunali e le riforme tributarie

«La Stampa», 10 giugno 1898

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 76-80

 

 

Al parlamento è stato nella presente sessione presentato un progetto di legge sui dazi comunali, nell’intento principale di promuovere una riduzione dei dazi sulle farine, in rapporto colla diminuzione provvisoriamente adottata quest’anno e a quelle che potessero adottarsi in seguito nel dazio doganale sul frumento. Si favoriscono inoltre la riduzione dei dazi in genere e si permette anche di renderne la riscossione più confacente alle condizioni locali.

 

 

Si impone a tale scopo una riduzione del dazio sulle farine, ponendovi a base il principio che non possa superare la metà del dazio doganale sul frumento; si permettono riduzioni e modificazioni di tariffe, e da parte sua lo stato promette di non voler ricavare dal dazio più di quello che ne ricava attualmente.

 

 

Queste le linee generali del progetto di legge, che è un passo timido ancora, ma confortante verso la progressiva riduzione dell’opprimente e fiscale sistema dei dazi comunali. Stabilendo il limite massimo del dazio sulle farine alla metà del dazio doganale sul frumento, si mette un limite alle estorsioni dei comuni dell’Italia meridionale, dove spesso il dazio era stato spinto ad altezze eccessive, causa non ultima dei disordini recentissimi.

 

 

Un problema importa indagare, il quale ha importanza notevole per le grandi città che, come Torino, fossero costrette ad una riforma dei tributi esistenti: Date le leggi esistenti, e supposto approvato il nuovo progetto di legge sui dazi comunali, quante vie si aprono dinanzi ai comuni desiderosi di mutare rotta nella imposizione dei tributi? A questa domanda ha risposto per Milano il professore Gobbi in una interessante memoria che qui ci proponiamo di esaminare. Come è noto, da qualche tempo Milano va cercando una via d’uscita moderna alle sue difficoltà finanziarie. La memoria del Gobbi esamina quali riforme siano possibili, date le nuove condizioni di fatto create dal progetto di legge sui dazi comunali.

 

 

Due sono i sistemi che si potrebbero adottare:

 

 

  • Rendere tutta Milano comune aperto, estendendo al circondario interno il sistema del dazio forese ed applicando uno dei tributi diretti non ancora in vigore a Milano. Essendo il fabbisogno complessivo, a cui si rinuncerebbe con la abolizione del dazio murato, di 10 milioni di lire, e gettando il dazio forese o sulla minuta vendita solo circa milioni, rimarrebbero scoperti 5 od al minimo 4 milioni da ritrarsi da una imposta sul reddito.

 

 

Sotto ambi i rispetti il sistema vigente è riprovevole. Il dazio sulla minuta vendita ricade sui poveri, obbligati a fare giornalmente, a chili, a litri le loro provviste, ed esenta i ricchi, che possono fare le compre all’ingrosso. Una tassa sul valore locativo che gittasse a Milano da 4 a 5 milioni sarebbe altamente vessatoria, non esonerando nemmeno gli affitti da lire 200 e raggiungendo presto l’aliquota del 10 percento. Una imposta di famiglia che rendesse altrettanto dovrebbe essere ad aliquota molto alta. La classe più duramente colpita sarebbe quella degli impiegati e professionisti, degli impiegati specialmente, che non potrebbero nascondere nulla del loro reddito. Anche se stabilita con una scala progressiva, la tassa di famiglia potrebbe sempre riuscire meno che proporzionale. Un reddito di 5.000 lire si potrà apprezzare per 4.000; uno di 100.000 lo si stimerà forse di 50.000, credendo di avere già raggiunta una grande approssimazione. Invece di fare un passo verso l’imposta progressiva, si farebbe un passo verso una maggiore sperequazione: massimo aggravio per il medio ceto, massimo sgravio per la grande ricchezza.

 

 

  • Il sistema migliore è di estendere a tutta la città il dazio murato, comprendendo i Corpo santi, che oramai costituiscono mezza popolazione di Milano, riducendo il numero delle voci colpite, e nel tempo stesso applicare una nuova imposta sul reddito. Il dazio verrebbe applicato, esentando nella maggiore proporzione possibile i generi di prima necessità, alle sole voci: bevande, carne, combustibili (esclusa la cera, ecc.), foraggi, materiale da costruzione, gas e luce elettrica per un importo totale presunto di 11.340.000 lire. Verrebbe soppresso il dazio sulle voci: farine, riso, olio, burro, commestibili diversi, zucchero, caffè, coloniali, cera, candele, generi diversi.

 

 

Rimarrebbe scoperto un milione circa. La somma è modesta, ed il Gobbi propone di chiederla all’adozione contemporanea a tariffe mitissime di amendue le imposte dirette, di famiglia e sul valor locativo. L’idea di applicare entrambe le imposte può sembrare strana, ma è perfettamente logica e ragionevole. L’imposta sul valor locativo, anche applicata colla scala progressiva dal 4 al 10% come consente la legge, se riesce proporzionale o fors’anche progressiva sul reddito per una parte del ceto medio, poi riesce certamente meno che proporzionale quando si arriva alla classe più ricca. Il difetto non è tale certamente da far respingere questa forma d’imposta, giacché essa si riscontra in grado ancor maggiore nel dazio consumo, ma è tale da giustificare la ricerca di correttivi.

 

 

Ora la tassa di famiglia serve appunto di correttivo. È questa la sola imposta per la quale la legge lasci assoluta libertà di regolamento alla giunta provinciale amministrativa, e per conseguenza al comune; essa potrà dunque venir applicata come imposta progressiva sul reddito, adottando l’aliquota del 3% per ogni reddito complessivo diminuito di 3.000 lire.

 

 

Con questa detrazione costante l’imposta riuscirebbe di fatto progressiva con un’aliquota che da 0,187% per 3.200 lire (con un’imposta di lire 6 che sarebbe la minima da riscuotersi) salirebbe fin quasi al 3% pei redditi più elevati. La progressione riuscirà nel fatto meno forte di quello che essa non sia in apparenza, e ciò per la gran difficoltà di apprezzare con sufficiente approssimazione i redditi più elevati. Ad ogni modo, per un reddito di lire 5.000, l’imposta non sarebbe che dell’1,20% (lire 60), cosicché il ceto medio, i cui redditi saranno certamente quelli apprezzati con maggior approssimazione al vero, non sarebbe molto aggravato.

 

 

Esentando gli alloggi al disotto di 400 lire e i redditi non superiori a 3.000 lire, si avrebbe una prima categoria di persone, quelle delle meno agiate, che non sarebbero colpite né dall’una né dall’altra imposta; una seconda categoria che pagherebbe soltanto quella sul valor locativo; ed una terza categoria che pagherebbe la imposta di famiglia per una somma di regola maggiore di quella dovuta per l’altro titolo.

 

 

Applicando la imposta sul valor locativo, si ha il vantaggio di colpire coloro che non avendo la residenza in Milano vi passano però qualche tempo e vi tengono perciò un appartamento, i circoli, le società, ecc.

 

 

La spesa di amministrazione per l’impianto delle due imposte non dovrebbe essere superiore a quella che occorrerebbe anche per quella di famiglia, perché anche per questa sola occorrerebbe fare assegnamento su tutti i dati relativi al valore locativo. Col dazio murato ridotto alle voci indicate, colle imposte di famiglia e sul valor locativo per circa un milione fra l’una e l’altra, e con una più larga applicazione dei contributi di miglioria si avrebbe un sistema tributario di applicazione non certo piacevole, perché nessun metodo fiscale potrà mai essere tale, ma tollerabile. Si potrebbe rassegnarsi a priori a lasciare che qualche bottiglia di Barolo entrasse in città senza essere disturbata e far sì che la sorveglianza sui viaggiatori (che rende in pratica tanto odioso il dazio murato) non fosse più una regola, ma un’eccezione riservata per quelle persone in cui si potesse sospettare l’esercizio di una frode sistematicamente organizzata. La sorveglianza dovrebbe essere attiva rispetto alle carni; legna, carbone e fieno, nessuno vorrebbe nasconderli nella valigia.

 

 

Contro il dazio murato e contro le due nuove imposte, si fanno obbiezioni che sono in fondo della stessa natura, e quindi non possono valere a far preferire l’uno all’altra. Da una parte gli industriali dei suburbi temono che, una volta attuato l’allargamento della cinta daziaria, nuove voci vengono poi aggiunte alla tariffa e siano così colpite anche le materie prime di cui essi hanno bisogno. Dall’altra si teme che, una volta impiantata la imposta di famiglia, amministratori futuri abbiano a servirsene come di strumento per colpire sempre più fortemente la ricchezza.

 

 

Il timore è troppo ingenuo. Se gli amministratori futuri vorranno colpire una classe a profitto di un’altra, non avranno alcun bisogno di trovare gli strumenti già preparati a quest’uopo, ma sapranno benissimo prepararseli da sé. Non attuare oggi una proposta conveniente e giusta per timore che altri se ne serva in seguito in modo ingiusto e sconveniente sarebbe una di quelle apparenti furberie che nascondono la più grande ingenuità.

 

 

Al dazio si rimprovera il contrabbando ed al valor locativo si rimproverano le frodi nei contratti di affitto; l’un difetto vale l’altro; le due imposte possono cessare di rimproverarseli reciprocamente. La sola cosa importante da farsi è di attuare le imposte in modo che lo stimolo alle frodi ed al contrabbando sia ridotto al minimo; e a questo giova appunto il volerne ricavare un provento modesto, mentre l’eccesso del fiscalismo non solo cresce l’interesse a commettere le frodi, ma, di fronte all’opinione pubblica finisce anche a scusarle.

 

 

Queste le idee che il Gobbi ha esposto all’unione elettorale liberale monarchica del primo collegio di Milano; a noi sembra che esse forniscono utile argomento di studi e di raffronti per tutte le altre città italiane, che dagli ultimi avvenimenti sono state spinte sulla via delle riforme tributarie, e queste riforme devono compiere nell’ambito delle leggi vigenti e dei progetti di probabile approvazione.

 

 

Gli sgravi a favore della piccola proprietà

Gli sgravi a favore della piccola proprietà

«La Stampa», 5 e 13 gennaio[1] 1898

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 66-75

 

 

I

 

Nella sua esposizione finanziaria il ministro del tesoro Luzzatti ha esposto un piano organico di provvedimenti intesi a portare rimedio alle tristi condizioni della piccola proprietà coltivatrice. Il progetto è interessante per lo scopo che si propone e come sintomo della nascente attenzione dello stato per i coltivatori italiani. Esaminiamolo brevemente.

 

 

Dall’1 gennaio 1873 al 31 giugno 1896 si verificarono ben 169.973 devoluzioni per un debito d’imposta e sovraimposta sui terreni e sui fabbricati, pari a lire 7.982.864,24.

 

 

Per impedire nel futuro questa espropriazione in massa del piccolo proprietariato agricolo, il Luzzatti propone di esentare da ogni tributo le proprietà gravate da un’imposta principale che non superi 10 lire, concedendo subito intanto agli espropriati di far ritorno ai campi abbandonati per debito d’imposta e non acquistati da terzi. Nel 1893, sopra 5.916.000 articoli di ruolo, ve ne erano 4.666.000 di importo non superiore alle 10 lire. Siccome gli articoli di ruolo non rappresentano altrettanti proprietari, così si può ritenere che tre milioni e mezzo di proprietari non paghino più di 10 lire; della esenzione beneficheranno solo coloro i quali non avranno altri cespiti di entrata tassabili, onde il numero di esenti si ridurrà a due milioni e mezzo. La esenzione dalla imposta si concederà gradatamente: prima ai paganti da lire 0,01 a lire 2, poi a quelli da lire 2,01 a 5, e finalmente ai colpiti da 5 a 10 lire.

 

 

Non basta però esentare da ogni onere di imposta fondiaria più della metà dei proprietari italiani; è necessario far sì che la vita delle piccole intraprese rurali possa svolgersi vigorosa; e ciò non è possibile quando le proprietà siano troppo piccole o frazionate in minuscoli appezzamenti gli uni dagli altri lontani. In alcune parti d’Italia ciò ha condotto ad assurde conseguenze; nella Sardegna e nelle regioni montagnose in genere vi sono proprietari di 30, 40 e più appezzamenti separati di pochi metri quadrati; uno spazio prezioso è perduto in sentieri, vie d’accesso, fosso di separazione, siepi, ecc., ed un tempo non meno prezioso è sprecato dal contadino nel recarsi ogni giorno dall’uno all’altro brandello di terreno per accudire alle sue faccende campagnuole.

 

 

In Germania si sono costituite commissioni di consolidazione, le quali, dietro domanda della maggioranza semplice dei proprietari di un villaggio, procedono a riunire gli appezzamenti disgiunti in un solo podere facile a coltivarsi, il quale formi una unità agraria organica. In Italia se alcuno osasse proporre un procedimento così drastico, si griderebbe al sacrilegio, alla violazione dei sacri diritti della proprietà, ecc.

 

 

Il Luzzatti, conscio di queste difficoltà, si limita a proporre l’esenzione da ogni tassa per tutti quegli atti di permuta e di compra – vendita che intervengano per dieci anni fra i titolari di coteste piccole proprietà, i quali abbiano per fine gli arrotondamenti e la costituzione di aziende agrarie di più giuste proporzioni. Così pure il ministro del tesoro vuole accordare la esenzione per le ipoteche accese a fine di migliorie ed egualmente la riduzione al minimo della tassa di successione.

 

 

Chi sappia quale insuperabile ostacolo offra il polverizzamento della proprietà all’adozione dei buoni metodi di cultura, non può non approvare incondizionatamente queste ultime proposte, augurandosi che il mutato stato della coscienza pubblica riguardo al diritto di proprietà conceda presto di mutare il semplice incoraggiamento delle riunioni delle parcelle di terreno nella sua obbligatorietà in seguito al voto favorevole di una data maggioranza dei proprietari del villaggio.

 

 

Nel concetto dell’onorevole ministro non basta però che le piccole proprietà si riassodino in un’azienda organica; è necessario sottrarle alle strettoie dell’usura e dell’ipoteca. Per conseguenza, quando le proprietà consolidate abbiano raggiunto un valore il quale dia affidamento di più proficua coltivazione e di vantaggioso uso del credito per le migliorie, e quando in genere si tratti di proprietari meritevoli e paganti da 10 a 20 lire di imposta erariale, lo stato concederà una prestanza a condizioni di favore come viatico ad esistenza più robusta e sufficiente a se stessa.

 

 

Il prestito si darà alle proprietà aggravate da ipoteche i cui titolari siano privi di altri beni. Un apposito istituto di stato, una specie di magistratura amministrativa d’equità a presidio dei campagnuoli concederebbe questi mutui di favore, curando opportuni e liberi componimenti con i creditori.

 

 

Oltre a rafforzare i piccoli proprietari esistenti importa crearne dei nuovi. In Italia vi sono ampi terreni incolti, sui quali potrebbe svolgersi largamente la colonizzazione, e vaste superfici di terra che, per difetto di capitali, non sono coltivate in modo razionale, anzi rispondono ad un tipo di cultura spogliatore. Da queste terre possono trarsi ampi mezzi per contribuire alla formazione di una nuova e forte compagine di piccoli proprietari enfiteutici con obbligo di miglioria, privi per ora delle facoltà di affrancazione e tenuti in solido al pagamento del canone convenuto, valendosi all’uopo per legge dei demanii comunali, ora malamente quotizzati, dei beni patrimoniali, incolti o peggio coltivati, proprii dei comuni, delle province e dello stato e per effetto di libere contrattazioni dei beni degli enti morali e degli stessi privati, come qua e là si inizia nell’agro romano. Pure a questi piccoli enfiteuti si dovranno accordare fidi di favore ed altri presidi per un certo periodo di tempo, sufficiente a convertire le nuove proprietà in aziende che bastino a se stesse.

 

 

Lo stato sopporterebbe la metà dell’interesse dei mutui; su 100 milioni di lire al 4% netto l’aggravio pubblico sarebbe di 2 milioni di lire. Il servizio dei mutui sarebbe fatto pel tramite delle casse di risparmio.

 

 

Tale, nelle sue linee generali, il piano ideato dal Luzzatti a rafforzamento della piccola proprietà agricola.

 

 

Esso avrà avversari tutti quelli i quali, basandosi su teoriche troppo assolute e vaste, credono che la piccola proprietà sia irrimediabilmente votata alla rovina e che vani siano tutti gli sforzi per tenere in piedi un istituto contraddicente alla evoluzione economica moderna, che dappertutto sostituisce la grande alla piccola impresa, la unione delle forze produttive alla loro disgregazione.

 

 

Chi scrive è persuaso che se vera fosse la tendenza ora accennata, inutile sarebbe ogni tentativo di fare procedere a ritroso la grande corrente della storia; disgraziatamente per i suoi fautori, la teoria non risponde alla realtà. I piccoli proprietari, assaliti da ostacoli gravi, oppressi da imposte e da interessi usurai, dalle crisi di smercio, resistono pertinacemente e si moltiplicano dovunque l’ambiente territoriale vi è favorevole.

 

 

Sarebbe troppo lungo riportare le prove statistiche dell’affermazione ora fatta; ma è certo però che in Italia, in Francia, in Germania, in Danimarca, negli Stati uniti il numero dei proprietari aumenta e non si avverte un processo di accentramento nella terra, quando, per speciali circostanze, come l’irrigazione, ecc., l’avvento della grande proprietà capitalistica non sia evidentemente utile e proficua.

 

 

Se la creazione ed il rafforzamento del ceto dei piccoli proprietari non contraddice alle tendenze economiche moderne, il soverchio sminuzzamento della terra si oppone dappertutto alla sua fruttuosa lavorazione; il podere agrario deve fondarsi su una unità di cultura, grande o piccola, ma sempre adatta all’ambiente territoriale; non mai un appezzamento di poche are di terreno può essere considerato, eccetto nelle vicinanze delle città, come un’unità culturale bastevole al sostentamento della famiglia; e per conseguenza all’approvazione rivolta per ragioni economiche all’esenzione delle quote minime uniamo l’approvazione pei provvedimenti intesi a consolidare le piccole proprietà in un tutto organico.

 

 

Meno incondizionata ci sembra dover essere l’approvazione, sempre sotto il punto di vista puramente economico, delle proposte rivolte a rendere lo stato quasi il banchiere dei piccoli agricoltori, coi mutui di favore al 2% per cento. La mancanza di particolari precisi vieta di fare un esame ed una critica minuta della concezione, nuova per l’Italia, dello stato banchiere per gli agricoltori.

 

 

All’estero non mancano gli esempi di consimili iniziative da parte dello stato. In Russia una Banca dei contadini funziona accanto alla Banca della nobiltà; istituzioni governative entrambe destinate a far mutui l’una ai grandi proprietari, l’altra ai piccoli agricoltori.

 

 

Nella Germania una legge del 31 luglio 1896 ha creato una Cassa centrale delle associazioni con un capitale di cinque milioni, aumentato poi a venti milioni di marchi, la quale deve concedere credito agli agricoltori. La cifra di affari nel primo semestre 1896 fu di 141,5 milioni di marchi, nel secondo semestre di 328 milioni e nel 1897 non deve essere inferiore ad un miliardo. La cassa può ricevere depositi dai privati e deve imprestare solo alle casse rurali, alle associazioni di credito, non a privati.

 

 

Il concetto del Luzzatti sembrerebbe avvicinarsi a questo tipo, rendendo intermediarie dell’opera le istituzioni esistenti di risparmio.

 

 

Le casse di risparmio, comprese le casse postali, adempiono molto bene al loro ufficio di raccoglitrici dei rivoli sparsi del risparmio nazionale, ma molto male alla funzione non meno importante di fecondatrici dell’agricoltura e dell’industria.

 

 

La proposta del Luzzatti apporterebbe un rimedio alla mancanza e sarebbe il primo inizio di uno stato di cose in cui il mezzo miliardo assorbito dalle casse postali verrebbe riversato in benefica pioggia sulla nazione invece di immobilizzarsi sterilmente in titoli di rendita. Lo stato italiano non sembra però finora adatto alle funzioni attive di banchiere, quantunque adempia bene alle funzioni passive; e parrebbe opportuno avviso perciò di costituire la costituenda cassa di prestanze agrarie in istituto il quale non sovvenisse direttamente i privati ma fornisse i fondi alle casse di risparmio locali, alle banche popolari, alle casse rurali. Con ciò si promuoverebbe quel movimento verso la concessione di credito a buon mercato per mezzo di banche a tipo mutuo, che è il metodo finora più efficace per combattere l’usura e l’ipoteca e nel tempo stesso per diffondere le buone cognizioni agricole.

 

 

Se dal lato economico-sociale le proposte del Luzzatti si appalesano in linea di massima opportune, sono desse poi attuabili finanziariamente e politicamente?

 

 

II

 

 

Opportuno e commendevole sotto l’aspetto economico – sociale, lo sgravio delle quote minime è un provvedimento compatibile colle condizioni odierne delle finanze nazionali?

 

 

Il Luzzatti così compendia la parte passiva dei provvedimenti da lui proposti:

 

 

Esonero dei terreni per i quali paghi sino a lire 10

Lire 10.442.000

Decimo

L. 1.044.000

Sovraimposte calcolate al cento per cento inmedia e sgravio dei piccoli fabbricati

L. 10.442.000

Totale

L. 21.928.000

 

 

Siffatta perdita per effetto delle eliminazioni dipendenti dalla condizione non disagiata dei contribuenti e per i quali l’esonero delle quote minime non potrà ammettersi, deve ridursi di un quinto, e perciò a 17 milioni di lire all’incirca. Aggiungonsi i due milioni annui a concorso nel pagamento degli interessi pei mutui ai piccoli proprietari e i sei milioni richesti per la riforma dell’imposta di ricchezza mobile. Ne segue che insieme ai 17, si accumulerebbero, fra minori entrate o maggiori spese, 25 milioni, i quali salirebbero sino a 33 per le perdite dipendenti all’applicazione della legge sulla perequazione fondiaria.

 

 

A queste perdite dovrebbe far fronte il fondo di sgravio, alimentato dai

seguenti cespiti:

 

 

Avanzo di bilancio utilizzabile entro il triennio

L. 10.000.000

Economie sui lavori pubblici

L. 11.000.000

Economie sulle convenzioni ferroviarie

L. 5.000.000

Economie sulle convenzioni marittime

L. 1.000.000

Abolizione delle sotto – prefetture

L. 1.200.000

Riforme nell’amministrazione giudiziaria e dell’interno, a calcolo

L. 2.300.000

Fusione di tutti i demani, limitazione nell’ammissione di impiegati nuovi

L. 1.000.000

Economie sull’istruzione pubblica

L. 1.000.000

Economie in tutte le altre amministrazioni

L. 2.000.000

Marchio obbligatorio

L. 2.000.000

Tasse di borsa

L. 700.000

Titoli nobiliari e riforme sulle tasse di successione, sugli annunzi legali, sull’appalto delle pubblicità per le sigarette, chinino, caccia, ecc. ecc

L. 6.000.000

Totale

L. 43.200.000

 

 

La differenza in dieci milioni servirebbe a far fronte alle eccessive valutazioni nelle economie e nei nuovi cespiti ed alle minori valutazioni negli sgravi d’imposta.

 

 

È arduo compito presagire se le previsioni del ministro delle finanze si realizzeranno specialmente per quanto si riferisce ai nuovi cespiti. I dieci milioni di avanzo di bilancio e gli undici di economie sui lavori pubblici sono cifre grosse destinate, quanto alla seconda, a realizzarsi solo in sei anni ed a sfumare eventualmente quando mutassero nella incessante ridda ministeriale i criteri che presiedono alla pubblica spesa e le necessità elettorali.

 

 

Le economie nelle convenzioni ferroviarie marittime, che pur sarebbero bene accette, ci paiono difficili ad ottenere, perché l’esercizio ferroviario privato attuale ha dimostrato che, senza le costruzioni, l’esercizio delle ferrovie non avrebbe dato dividendi; ci sono poi i fabbisogno delle casse pensioni e mutuo soccorso ferroviarie per oltre 160 milioni, e molte linee da rifare, e molto materiale mobile da acquistare. Dopo ciò come sperare 5 milioni di aumento all’entrata? Eppoi questi 5 milioni di economie nell’esercizio ferroviario e nelle convenzioni marittime significano il permanere delle attuali tariffe alte e dannose al commercio nazionale. Lodevoli gli sforzi diretti a limitare con opportuni tagli l’invadenza della burocrazia; salutare l’abolizione delle sotto – prefetture, ma destinata, temiamo, a naufragare, sia per i non adatti progetti presentati, sia per l’urto degli interessi locali. Difficilmente si permetterà altresì la fusione delle scuole tecniche coi ginnasi in un istituto di cultura generale. Problematici molto, finalmente, i 5 milioni sperati dalle tassicciuole sui titoli nobiliari, sugli annunzi legali, sull’appalto della pubblicità per le sigarette, sul chinino, sulla caccia, ecc. ecc.

 

 

Eppure, malgrado lo scetticismo più profondo sulla possibilità di far fronte agli sgravi di imposte coi nuovi proventi delineati dall’on. Luzzatti non rimangono scrollate neanche finanziariamente la necessità e la utilità somma di iniziare la riforma tributaria in senso democratico a sollievo delle economie più disgraziate e vacillanti.

 

 

Diciamo di più: anche quando fosse matematicamente provato che i 43 milioni di nuove entrate sfumerebbero alla resa dei conti come nebbia al sole, sarebbe ancora utile iniziare lo sgravio progressivo delle quote minime.

 

 

Sarebbe infatti questo il principio della fine di molte brutture, le quali inquinano il sistema tributario nostro e relegano l’Italia ad uno degli ultimi posti nella schiera delle nazioni civili.

 

 

Suonerebbero allora i primi rintocchi funebri di un sistema i cui cardini riposano sulla esenzione sostanziale delle fortune più cospicue e sull’assorbimento del 40% delle entrate delle famiglie operaie, sulla protezione accordata ad industrie tisiche ed ai grandi assenteisti del mezzogiorno e sulla fiscalità massima contro le industrie ed i commerci; di un sistema in cui le entrate dello stato sono consacrate in massima parte a pagare gli interessi di un grosso debito pubblico, che sterilizza, colla sicurezza del periodico tagliando, le iniziative audaci e feconde, e ad accrescere e gonfiare un militarismo che è soverchio per l’Italia; di un sistema finalmente in cui solo le briciole della pubblica imbandigione sono devolute a soddisfare i vitali bisogni dell’istruzione scientifica e tecnica, dell’agricoltura, delle industrie e dei commerci.

 

 

Lo sgravio delle quote minime sarà l’inizio di una lunga catena di riforme tributarie. Gli operai e le classi medie cittadine sorgeranno a domandare l’abolizione del dazio sui cereali, sullo zucchero, sul caffè, sul petrolio, sui tessuti; e non vi si opporranno i piccoli agricoltori, i cui interessi collimano con quelli delle classi produttive cittadine.

 

 

A riparare alle ampie falle aperte in tal modo nel bilancio dello stato, sarà necessario ricorrere ad economie vere ed audaci nelle spese militari ed anche a nuove imposte a larga base.

 

 

L’attuale congerie di balzelli opprimenti specialmente i ceti di persone economicamente meno adatte a sopportarle dovrà lasciare il luogo gradualmente ad un nuovo assetto tributario più conforme a giustizia.

 

 

Risorgerà allora l’imposta progressiva sulle fortune maggiori, sepolta alcuni anni or sono, prima ancora di essere discussa; e potrà riannodarsi al concetto della progressività nelle imposte lo sforzo di colpire le forme di reddito in cui meno rifulge la operosità di chi ne gode; la esperienza delle crisi edilizie dovute alle speculazioni sui terreni indurrà a credere che la tassazione della rendita urbana possa procacciare cospicui redditi pur rimanendo lontana dalle inutili fiscalità delle moderne imposte sui fabbricati.

 

 

Le avvivate correnti dei traffici, ed il rinato spirito di intraprendenza non più aduggiato dall’ombra maligna del fisco, reagiranno senza dubbio beneficamente sul bilancio dello stato e permetteranno di realizzare l’auspicato sogno di tanti ministri del tesoro: la conversione del debito pubblico ad un saggio di interesse più consentaneo allo stato del mercato monetario europeo.

 

 

Ma per raggiungere questi intenti è indispensabile un governo forte e vigoroso; né la tempra del Luzzatti, animo elevato di apostolo e di riformatore, ci sembra abbastanza tenace da trionfare sulla inerzia forzata del ministero di cui fa parte, stretto fra le esigenze opposte delle fazioni parlamentari, personali e dei gruppi potenti di interessati dell’alta burocrazia, del latifondismo meridionale e dei protezionisti del settentrione.

 

 

Forse uno dei non minori meriti della riforma tributaria timidamente iniziata ora, sarà appunto di provocare la formazione di nuovi ed organici partiti basati sulla reale forza delle forze sociali contendenti nell’Italia contemporanea.

 

 



[1] Con il titolo Riforme finanziarie. Sgravi problematici. [ndr]

Un quarto di secolo di storia della rendita italiana

Un quarto di secolo di storia della rendita italiana[1]

«La Stampa», 17 dicembre 1897

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 63-65

 

 

La rendita italiana si mantiene da parecchi giorni al disopra della pari sulle piazze nazionali; codesto fenomeno interessantissimo, ed impreveduto ai più alcun tempo fa, fa nascere spontaneamente la domanda: È la prima volta che il massimo titolo italiano ha raggiunto tale fastigio, e quali influenze benefiche ne possono derivare al paese ed alle pubbliche finanze?

 

 

Nel 1871, all’uscire dalla lunga serie delle guerre dell’indipendenza, e non ancora terminato il periodo tragico dei disavanzi nel bilancio patrio, la rendita alla borsa di Roma oscillava fra un massimo di 76 ed un minimo di 56,20, con una media di 62,83. Siccome il cambio su Parigi ascendeva al 2-7%, i corsi in Francia erano di altrettanto più bassi. L’anno seguente 1872, malgrado l’aumento del cambio, i corsi della rendita migliorarono: il dislivello fra il massimo ed il minimo si restringe a circa 15 punti; la media è di 73,82. Il miglioramento si accentua vieppiù negli anni che seguono: nel 1876 il corso minimo è di 72,60 il massimo di 78,30; la media è di 75,49.

 

 

Seguono gli anni di bilancio con avanzo; e dal 1877 al 1880 il corso medio della rendita a Roma passa da 75,03 gradatamente a 90,58; e si mantiene intorno al corso di 88,90 nel periodo 1881-83. Siccome anzi nel 1883 il cambio è favorevolissimo all’Italia, e 99,15 lire italiane possono in media durante l’anno comprare 100 franchi francesi, si verifica il fenomeno non mai visto prima e dopo che il corso della rendita è superiore a Parigi (90,54) che a Roma (88,32).

 

 

Il periodo 1884-87 ha visto succedere ai modesti ma sicuri avanzi dei periodi precedenti un notabile gonfiamento dei bilanci dello stato e di tutte le amministrazioni pubbliche; in quegli anni uno spirito sfrenato di speculazione si impadronì degli animi di tutta quella parte della popolazione che lavora ed intraprende; sorsero allora i piani di risanamento edilizio; le banche immobiliari ed i valori delle azioni industriali salirono vertiginosamente.

 

 

Anche la rendita non seppe resistere agli effetti dell’onda generale di prosperità che pareva essersi riversata sull’Italia: nel 1886 essa vide in Italia il massimo di 102,87 ed in Francia di 100,55; nel 1887 ancora i massimi a Roma ed a Parigi erano di 100,75 e di 100. Ma era prosperità di breve durata e tutta speculativa, non diretta conseguenza di reale grandissima abbondanza di denaro in cerca di impiego modesto e sicuro. Ne è prova la differenza notevole esistente fra i corsi massimi ed i minimi: 6,60 nel 1886, 8 nel 1887. Ciò vuol dire che i corsi erano stati spinti all’insù dalla speculazione, e che quando questa avea abbandonato la rendita, i corsi erano caduti a precipizio; mentre se in verità il risparmio fosse stato la causa dell’aumento dei corsi, questi sarebbero stati più tranquilli e costanti. Al manifestarsi della crisi economica e finanziaria che si abbatté sull’Italia nel 1887, i corsi della rendita precipitano a poco a poco al basso; in Italia il corso medio è negli anni 1888-94, successivamente 97,27, 95,86, 95,56, 93,38, 94,49, 94,96, 88,39. Siccome ricompare il cambio sull’estero ed ascende nel 1894 ad una media di 11,08, così i corsi all’estero diminuiscono ancora più fortemente dei corsi all’interno. A Parigi il corso medio nel 1894 è di 79,53 ed i minimi rispettivi in Italia ed in Francia sono di 82,64 e di 72, con una differenza di più di 10 e di 15 punti dal massimo nel medesimo anno.

 

 

Dopo il 1894, colla ricostituzione lenta delle economie dei bilanci nazionali, i corsi ripigliano; nell’anno scorso 1896 il medio valore della rendita italiana era di 93,20 a Roma e di 86,94 a Parigi; la differenza fra i corsi minimi e massimi di 11 punti in Italia e di 15,95 in Francia.

 

 

La breve storia della rendita italiana nell’ultimo quarto di secolo dimostra parecchie cose. La rendita italiana è rimasta e rimane ancora un titolo speculativo, soggetto a forti oscillazioni nei corsi. Essa non è un titolo, come si dice nel linguaggio tecnico, perfettamente classato, ossia diffuso fra numerosi capitalisti che vi investono i loro risparmi; una grande massa di titoli rimane invece continuamente nelle mani della speculazione.

 

 

Anche nei momenti maggiori di prosperità la permanenza di un forte dislivello fra i corsi massimi ed i minimi dimostra che non si poteva fare a fidanza sui corsi alti e che questi potevano, come in realtà fu, alla prima bufera, lasciare luogo a corsi precipitosamente ribassanti.

 

 

Si vede dunque come sia chimerico il discorrere, che negli ultimi mesi si è fatto ripetutamente, di una conversione facoltativa della rendita; anche se non esistesse l’ostacolo gravissimo dell’aggio al 5%, il quale fa sì che all’estero la rendita sia al disotto della pari, ed anche se i corsi esteri e nazionali rimanessero per un anno fermi al 102, non sarebbe ancora giunto il momento, vagheggiato da molti, della riduzione degli interessi del debito pubblico.

 

 

Prima di arrivare a tal punto è mestieri che il bilancio italiano si sia fortemente consolidato, che le diminuite imposte rendano disponibile una parte del capitale oggi assorbito dallo stato, che l’economia nazionale sia veramente e non artificiosamente rinvigorita, e che il debito pubblico si sia classato togliendosi dalle mani della speculazione internazionale, e degli investitori esteri, sempre pronti a gettare sul mercato i titoli italiani quando non offrono l’attuale alta rimunerazione. Una conversione fatta prima di questo momento correrebbe grave rischio di insuccesso.

 

 



[1]La parola «rendita» non è più usata oggi nel significato suo del secolo scorso e dei primi anni del secolo presente. Essa si riferiva per antonomasia al titolo principe in quel tempo del debito pubblico italiano: il consolidato perpetuo 5% lordo. La parola «rendita» era appropriata ad indicare un reddito che lo stato si obbligava a pagare in perpetuo, senza obbligo di rimborsare mai il capitale. Lo stato aveva però il diritto di liberarsi del debito offrendo il rimborso del capitale nominale. L’offerta dava luogo alla conversione «volontaria»; come accade nel 1906, dal 5% lordo al 3,75-3,50 netto [Nota del 1958].

Gli scioperi del Biellese

Gli scioperi del Biellese

«La Stampa», 20, 22[1], 25[2], 27[3] settembre e 6[4] ottobre 1897

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 40-62

Scritti economici storici e civili, Mondadori, Milano, 1983, pp. 779-805

 

 

 

 

I

 

Coggiola (Biella), 17

 

 

In viaggio da Biella per Valle Mosso, alcuni operai, un muratore, un falegname mi raccontano dello sciopero della Val Sessera: «Da noi tutti son socialisti. Dopo Crispi, dopo la battaglia d’Adua gli operai si sono schierati tutti nel partito socialista. Vogliamo le otto ore; per ora ci accontentiamo di meno; ma è solo un’inezia; finita la lotta sull’orario, si comincia quella sulle paghe. Con due lire al giorno i meglio pagati, con 8 soldi i ragazzi siamo sempre in debiti: polenta e formaggio e vino niente».

 

 

In quanto al vino però sarebbe interessante fare una statistica delle numerose cantine. A Valle Mosso, ieri, 16, una cinquantina di ragazzi e ragazze attaccafili si sono rifiutati ad entrare in fabbrica; volevano i salari cresciuti da 12 a 25 soldi al giorno; hanno percorso il paese in fila serrata, a quattro a quattro, le ragazze in testa, ed i ragazzi dopo, cantando l’inno dei lavoratori, e gridando: «Viva il nostro deputato, viva Rondani!». In una fabbrica si è già venuto ad un accomodamento, in un’altra si è ancora in trattative.

 

 

Nella Val Mosso e nella Val Ponzone si lavora: lo sciopero, ad eccezione degli attaccafili di Valle Mosso, è ristretto alla Val Sessera; a cominciare dal ponte provinciale a Pianceri, tutti gli stabilimenti sono chiusi. Un solo stabilimento piccolo, con 15 telai, continua a lavorare per circostanze speciali; negli altri lavorano ancora gli operai giornalieri, i sorveglianti per ultimare la fabbricazione in corso e per le riparazioni alle macchine ed agli edifici.

 

 

Gli operai della Val Sessera sono circa 2500; di questi 800 son tessitori e scioperano unanimi e solidali; 1000 sono operai addetti alla filatura, alla tintoria, all’asciugamento, a cui il lavoro è venuto a mancare in causa dello sciopero dei tessitori. Forse 700 lavorano ancora, ma anche di questi il numero va gradatamente scemando per la mancanza progressiva di lavoro. Coggiola è il centro del movimento operaio; ogni giorno vi è adunanza della lega di resistenza; e si scambiano le trattative fra gli operai e la lega degli industriali, ora direttamente ed ora per mezzo del delegato di pubblica sicurezza. Sessanta soldati con un tenente ed un sottotenente vegliano al mantenimento dell’ordine pubblico. Il paese, eccetto in alcuni momenti, sembra però deserto; era molto più animato prima dello sciopero.

 

 

Gli operai di sera affollavano i luoghi di ritrovo. Ora cominciano a stringersi i fianchi. L’ultima quindicina è stata pagata pochi giorni fa; cosicché per un po’ di tempo gli operai possono campare sulle risorse del passato. I fondi della lega non devono essere gran cosa. La lega di resistenza fra tessitori e tessitrici del Biellese è stata costituita il 9 maggio di quest’anno. I soci pagano 50 centesimi alla settimana in caso di sciopero in una delle fabbriche per aiutare i compagni di lavoro; in tempo di quiete 50 centesimi al mese. La lega è dunque troppo giovane perché possa vantare una cassa ben fornita. E la cassa è già stata vuotata altre volte negli scioperi parziali dello stabilimento Bozzalla e dello stabilimento Cerino-Zegna, avvenuti alcuni mesi fa.

 

 

Ora la tattica antica è stata mutata; non più la lotta contro le fabbriche isolate per questioni singole, durante la quale gli operai lavoranti potevano soccorrere gli operai inattivi; ma la guerra contro tutte le fabbriche insieme. Gli industriali, del resto, hanno parata la tattica degli attacchi parziali, fermando contemporaneamente tutti i telai e stringendosi in lega di resistenza contro gli operai. È un fatto naturale che si ripete con meravigliosa esattezza in tutti i paesi dove la lotta fra capitale e lavoro ha assunto un carattere generale.

 

 

Ora l’origine dello sciopero si ha nella domanda di modificazione d’orario. Interrogo alcuni capi operai i quali gentilmente mi danno informazioni: «Prima dello sciopero, scoppiato quindici giorni fa, noi lavoravamo da 12 a 16 ore al giorno; alcuni, che venivano da lontano, per vie difficili di montagna, rimanevano lontano da casa perfino 16, 17 ore. Rimanevano solo più 8 o 9 ore al giorno per riposarci e prendere i nostri pasti. Alla domenica i tessitori fermano i telai ma gli altri giornalieri spesso continuano a lavorare in alcune fabbriche fino a mezzogiorno. Noi abbiamo chiesto un orario di dieci ore di permanenza nella fabbrica e di lavoro: ad esempio nei mesi di settembre e di marzo noi abbiamo chiesto nel nostro memoriale ai capitalisti (non dicono più padroni; il frasario della propaganda socialista è di uso corrente) di lavorare dalle 6,30 alle 12 antimeridiane e dalle 1,15 alle 5,45 pomeridiane senza interruzione. I proprietari hanno accettato l’orario di dieci ore di lavoro; ma vogliono che nella fabbrica si permanga 11 ore, con due mezz’ore di riposo per la colazione e per la merenda. L’orario sarebbe così dal settembre al marzo: dalle 6,30 alle 11,45 antimeridiane, con mezz’ora di riposo dalle 8 alle 8,30, e dalle 1,15 alle 7, con mezz’ora di riposo dalle 4,30 alle 5. Ci siamo abboccati una volta cogli industriali, ma questi, che avevano ceduto subito sulla questione dell’orario, non hanno voluto concederci di far senza della colazione e della merenda in fabbrica, a cui volevamo rinunciare. Finalmente la questione si era ridotta tutta ad una differenza di un quarto d’ora. Gli industriali avevano concesso l’uscita serale alle 6,30 invece delle 7, ma per guadagnare la mezz’ora perduta, diminuivano di un quarto d’ora la merenda, e facevano cominciare il lavoro un quarto d’ora prima. Su questo punto non abbiamo voluto cedere».

 

 

«Ma perché non avete accondisceso alle proposte degli industriali?» domando. «Avevate già ottenuta subito una notevole diminuzione di permanenza in fabbrica, da 13 ad 11 ore; sembra cosa da disprezzarsi?». «Gli industriali durante le trattative ci aveano chiesto se noi avremmo in caso di urgenza di forti ordinazioni fatto qualche lavoro supplementare. Dopo che noi generosamente abbiamo detto di non voler guardare pel sottile per otto giorni od anche per due o tre settimane, essi non vollero abbandonare quell’ultimo quarto d’ora». La ragione non ha davvero molto peso; si tratta di questioni separate, da trattarsi disgiuntamente.

 

 

La realtà si è che gli operai sono meravigliosamente organizzati e solidali. «Siamo operai coscienti dei nostri diritti» afferma uno con occhi sfavillanti in cui è entrata la fede in un programma nuovo «siamo operai onesti che vogliamo regolare le condizioni del nostro lavoro in modo equo ed umano». E nella spiegazione delle vertenze coi padroni sull’orario si sente un linguaggio che contrasta colle attitudini quasi tradizionali di questi operai. Non si dice: Gli industriali volevano che il lavoro durasse mezz’ora di più,  ma: Gli industriali volevano sfruttare una mezz’ora di più.

 

 

E si sente che gli operai, od almeno alcuni capi, credono che la fabbrica l’hanno fatta loro. Il collettivismo non è ancora però diventato l’espropriazione degli sfruttatori da parte di coloro che hanno soli creata la ricchezza. «Noi compreremo le fabbriche in contanti e le eserciteremo per conto della società». Tutto ciò ancora avvolto in una oscura nebulosa; sentono che adesso non è ancora sonata l’ora della rigenerazione e si accontentano di ottenere un minor orario e di affermarsi. Sovratutto affermarsi, e qui i miei discorsi cogli operai cambiano tono ed entrano nella politica.

 

 

Le risposte sono solo più a monosillabi. Quegli stessi operai che prima discorrevano abbondantemente del modo con cui vivevano, del loro orario, diventano sibillini e muti. Ed è qui, non nelle questioni di orario, in cui è facile accordarsi, che sta se non il perno delle lotte, almeno il germe dell’astio insolito che ora divide in due campi opposti padroni ed operai. Al disotto della calma profonda in cui vive la zona, e dalla quale con quasi assoluta certezza non si uscirà per l’indole tranquilla della popolazione e per gli incitamenti dello stesso partito socialista, cova un fermento mal represso. Gli animi sono eccitati contro la chiusura di otto esercizi pubblici, dove convenivano i socialisti. Oggi, in pieno consiglio comunale, sette consiglieri presentano un memoriale contro l’operato dell’autorità politica, dove si biasima il sindaco perché quale primo magistrato del comune non ha impedito i soprusi e le illegalità dell’autorità centrale, e si invita il prefetto di Novara a dichiarare per quali articoli di legge la chiusura degli esercizi fu effettuata, oppure a riaprirli subito. E malgrado che un telegramma del sottoprefetto ordinasse al sindaco di togliere questo argomento dall’ordine del giorno, il consiglio, presenti 11 consiglieri su 20, di cui tre tessitori, gli altri osti, proprietari contadini, piccoli commercianti e bottegai, mugnai, fabbri, unanime vota la mozione ed il biasimo al sindaco. Segno di un profondo mutamento nello spirito delle masse.

 

 

All’ultima ora sento che gli operai andranno lunedì a vuotare i telai, ossia a finire quelle pezze di panno che erano state al momento dello sciopero lasciate incompiute. Era loro dovere.

 

 

II

 

Coggiola, 19 settembre

Ho parlato con parecchi industriali cercando di formarmi una idea esatta della situazione. Non tutti raccontano la medesima storia, ma questa varia nei suoi caratteri fondamentali.

 

 

Ecco quanto ho potuto raccogliere:

 

 

L’industria laniera del Biellese da alcuni anni attraversa tempi se non difficili almeno non più così prosperi come una volta. C’era stato un momento di rinnovata attività al tempo dell’aggio alto; questo agiva come un aumento di dazio protettivo ed impediva la importazione dei tessuti esteri. Allora i telai battevano continuamente; i prezzi erano rimuneratori, i fabbricanti fecero profitti e gli operai ottennero maggiori salari.

 

 

Salvo questo momento di floridezza, la industria della Val Sessera si può dire abbia attraversato un periodo di morta nel 1893-94-95. Le crisi imperversanti nell’Italia, le fallanze agricole si ripercossero sull’industria laniera. Si consumavano meno vestiti nuovi e si facevano durare più lungo tempo quelli già usati. Per conseguenza i telai battevano solo la metà del tempo; quattro, cinque giorni alla settimana in alcuni mesi; ed anche quando la fabbrica era sempre aperta, non tutti gli operai erano occupati. Qui la disoccupazione si manifesta in un modo peculiare. Non si getta un terzo, la metà degli operai sul lastrico, occupando di continuo gli altri, ed obbligando alcuni ad emigrar altrove per cercare lavoro; ma tra una pezza e l’altra si fa passare un tempo più o meno lungo, cosicché mentre alcuni operai lavorano, gli altri rimangono a casa.

 

 

Così gli operai sono tutti saltuariamente occupati per turno; la disoccupazione e la crisi industriale si manifesta col decremento del numero medio dei giorni in cui gli operai lavorano e non coll’aumento degli operai del tutto oziosi. Del resto gli operai stessi non permetterebbero che alcuni soli fossero in tempo di morta occupati e gli altri licenziati.

 

 

Dal periodo di crisi l’industria tessile non è ancora del tutto uscita; un grande stabilimento non lavora il sabato dopo pranzo per non accumulare fondi di magazzino. Si può affermare però che un qualche risveglio nella Val Sessera si è manifestato nelle ultime campagne. Le ordinazioni sono venute più abbondanti e si sperava in una prospera nuova stagione, quando è scoppiato lo sciopero. Gli operai hanno abbandonato il lavoro senza finire le pezze incominciate. Adesso hanno acconsentito a vuotare i telai; ma il fatto ha prodotto una triste impressione sugli industriali, perché dinota la rottura di un’antica consuetudine che ambe le parti avevano sempre osservata.

 

 

Il momento poi è stato scelto dagli operai molto inavvedutamente, secondo gli industriali. La stessa lega di resistenza e qualche influente capo socialista hanno dovuto riconoscerlo. A questo proposito sono necessarie alcune spiegazioni sulle consuetudini commerciali dell’industria laniera. L’anno si divide in due stagioni, d’inverno e d’estate. Nell’inverno si fa la campagna d’estate e nell’estate quella d’inverno. Entro settembre, ad esempio, i fabbricanti finiscono il campionario d’estate e vanno in giro essi stessi o mandano i loro viaggiatori dai grossisti coi cosidetti campioni piccoli, sui quali i grossisti scelgono i numeri che presumibilmente sembra possano incontrare il gusto del pubblico.

 

 

Una volta i grossisti facevano subito le ordinazioni ed i fabbricanti si potevano mettere al lavoro; ora invece si fanno per ottobre e novembre i campioni grandi, che i grossisti distribuiscono ai dettaglianti e su cui si ricevono le ordinazioni definitive a novembre dicembre. Questo è uno dei guai maggiori nell’industria laniera. I campioni piccoli, e più quelli grandi, costano un’enormità; mi si citano delle fabbriche dove si spendono da 30 a 100 mila lire senza alcun compenso. Perché i campioni piccoli e grandi vengono distribuiti gratis ai grossisti, alcuni dei quali di sottomano se ne fanno delle collezioni per rivenderli, od anche per ottenerne imitazioni a buon mercato. È questa però una consuetudine radicata, difficile a togliersi, a meno di fare il dettaglio, cosa impossibile per i fabbricanti, che non possono mantenere un esercito di viaggiatori e non vogliono far concorrenza ai grossisti.

 

 

Lo sciopero è scoppiato quando in alcune fabbriche si era già ultimato il campionario piccolo e si stava per uscire, ed in altre se ne era già iniziata la preparazione. Ora tutto è sospeso. Se il lavoro non viene ripreso, i fabbricanti non usciranno col campionario piccolo, le ordinazioni non verranno e per sei mesi le fabbriche rimarranno ferme. Gli industriali ci rimetteranno le spese generali, il costo del campionario, ma non dovranno subire le multe per inadempiute commissioni. Perderanno sovratutto gli operai, ridotti all’ozio per sei mesi, con risorse diminuenti progressivamente, nell’impossibilità di trovare lavoro sulla terra ingratissima.

 

 

Allora dovranno emigrare e rimpiangeranno i giorni in cui i telai battevano. Non solo emigreranno gli operai, ma emigrerà l’industria. Già alcuni industriali hanno manifestato l’intenzione di trasportare altrove una parte dei loro telai, nell’agro torinese, in Lombardia, dove la mano d’opera, se non altrettanto sperimentata, è meno costosa e più docile. Si ripeterà quello che è accaduto già per l’industria dei cappelli, una volta fiorente nel Biellese ed ora, per le pretese eccessive degli operai, successivamente trasportata ad Intra e poi a Monza. Sarebbe la rovina ultima delle valli, dove l’agricoltura non offre assolutamente alcuna risorsa. Non solo si è scelto male il momento, ma si è errato eziandio nella scelta del pretesto dello sciopero. Gli scioperi precedenti erano stati diretti contro industriali singoli.

 

 

Gli operai degli stabilimenti attivi potevano sussidiare gli scioperanti e protrarre l’inazione per lungo tempo.

 

 

Ora accade qualcosa di simile, perché i tessitori di Valle Mosso, di Val Ponzone, di Biella aiutano i compagni di Val Sessera. Ma non è così facile aiutare 2000 persone, come 350, ed il momento della resa dovrà venire presto.

 

 

Alle domande degli operai chiedenti un orario di dieci ore, gli industriali risposero accettando le dieci ore, ma intercalandovi due mezz’ore per la colazione e la merenda, dimodoché la permanenza in fabbrica era di undici ore.

 

 

Gli operai pretendevano di poterne fare senza, ma gli industriali temevano che i due riposi si sarebbero a poco a poco reintrodotti, riducendo la giornata di lavoro a nove ore. E se essi accettavano la giornata di dieci ore di lavoro effettivo, perché sapevano che l’operaio produce tanto in dieci ore quanto in undici stancandosi meno e lavorando più attentamente ed intensamente, non avevano la medesima certezza quanto all’orario di nove ore. Gli operai potevano, ma non vollero, accettare l’orario modificato. E qui ebbero torto, tanto più che la differenza si era ridotta a poca cosa nelle trattative, come ho già detto dianzi.

 

 

La lega di resistenza degli industriali decise di resistere ad oltranza, anche a costo di sospendere le fabbriche per sei mesi, non tanto per la questione dell’orario quanto per quella delle paghe e del regolamento interno. Per ora non si è parlato di aumenti nel salario, ma gli industriali hanno ragione di credere che se essi cedono sull’orario, poco dopo si sciopererà nuovamente per ottenere un aumento nei salari. E questo sarebbe incomportabile all’industria laniera biellese.

 

 

I tessitori della Val Mosso e della Val Sessera sono i meglio pagati del Biellese, e quelli del Biellese godono i salari più alti d’Italia. È vero che i biellesi sono più abili (da più secoli addestrati alla tessitura), è vero che esiste una maestranza numerosa e adatta ai varii generi di lavoro, ma non si può negare che quando i fabbricanti vicino a Torino, del Veneto, della Toscana pagano 8, 10 centesimi per ogni mille mandate invece di 14, 16, 18 come a Val Mosso od a Coggiola, quelli possono vincere più facilmente i loro rivali sul mercato. Mentre nel Veneto i tessitori si contentano di lire 1,50 al giorno, nel Biellese guadagnano da 2,25 a 3 lire; ed in una fabbrica nel mese scorso ebbero in media un salario per giornata di lavoro di 3,42 al giorno. Del resto gli industriali non sarebbero avversi ad un aumento nei salari, purché questo avvenisse contemporaneamente in tutta Italia. Ciò è però molto difficile!

 

 

All’epoca dello sciopero del 1889 fu concordata fra industriali e tessitori una lista uniforme di tariffe. Per un po’ fu osservata. Ma a poco a poco cominciarono alcuni industriali piccoli ad abbassare la tariffa di un centesimo per volta, ponendo agli operai l’alternativa di accettare i nuovi patti o di chiudere. Cosi si è ritornati al caos antico, e ne soffrono gli industriali che hanno osservato l’accordo. Perché gli operai non dirigono i loro sforzi specialmente contro gli industriali che danno salari più bassi della media?

 

 

La lega degli industriali vuole tener duro non solo per opporsi ad un aumento futuro dei salari, ma anche per mettere argine alle intrusioni della lega di resistenza nella disciplina interna degli stabilimenti. Gli industriali non possono oramai licenziare un operaio senza che gli altri abbandonino il lavoro. A Biella, alla fabbrica Squindo, 90 fonditori hanno scioperato in seguito al licenziamento di due loro compagni. Non è possibile nemmeno redarguire gli operai per lavoro mal fatto e per altre cause senza il beneplacito della lega. Con tutto questo gli industriali sono decisi a farla finita. «Vogliamo» dicono essi «essere padroni a casa nostra; non vogliamo essere coartati nella nostra libertà di assumere e licenziare operai da una lega misteriosa ed occulta. I direttori di fabbrica, i capi su cui pesa la responsabilità della buona o cattiva fortuna degli stabilimenti siamo noi; e non vogliamo essere obbligati a tener elementi turbolenti od a noi invisi. Siamo magari pronti a concedere loro anche due, tre, quattro settimane di preavviso, ma vogliamo poter licenziare chi non ci piace».

III

 

Da tre giorni mi sembra di fare uno strano sogno. Mentre viaggio nelle valli industriali del Biellese, e contemplo le fabbriche grandi e piccole inseguirsi lungo il fondo della vallata, ed ascolto i discorsi degli industriali e degli operai, in cui si mescola all’attrito sprizzante dalla nuovissima propaganda socialista il ricordo di un periodo patriarcale non ancora trascorso nelle relazioni fra i varii compartecipanti al prodotto dell’industria, ritornano dinanzi alla mente mia di studioso di cose economiche, le pagine narranti altre lotte, altre propagande nel paese che primo si è slanciato nella vita industriale, dissolvendo le antiche forme economiche ed instaurando sulle loro rovine quella organizzazione industriale che oggi impera incontrastata. L’industria laniera del Biellese attraversa ora un periodo molto simile a quello che si svolse intorno al 1830-40 nell’Inghilterra, e più specialmente nel paese del cotone, il Lancashire. Biella è stata detta la Manchester d’Italia, ed a ragione.

 

 

Nella storia i medesimi fatti si ripetono ad intervalli nei varii paesi, e sono l’inevitabile risultato delle trasformazioni economiche che così rapidamente si succedono nel nostro secolo.

 

 

Allora, come adesso in Italia, il ceto dei proprietari di terre imperava in Inghilterra, e malgrado che gli industriali si fossero già elevati a grande potenza, forti tasse gravavano su tutti gli oggetti di consumo dell’operaio e sulle materie prime dell’industria; le rivoluzioni nel macchinario si susseguivano a brevi intervalli e sostituivano al telaio a mano il telaio meccanico; gli uomini con salari alti venivano gettati sul lastrico, e le donne ed i fanciulli affollavano le fabbriche e preparavano la degenerazione della razza. Ed assistiamo perciò nell’Inghilterra ad un’agitazione vivissima contro il governo che tortura i sudditi con un sistema tributario iniquo; gli industriali chieggono l’abolizione dei dazi sui cereali; operai, stretti in organizzazioni gigantesche, alzano il grido della carta, bruciano i telai meccanici e mandano al parlamento i loro rappresentanti, coll’incarico di strappare il potere di mano ai signori della terra e dell’industria. La parola guerra di classe diventa il segnacolo in vessillo della classe operaia e gli animi si dividono con un profondo abisso.

 

 

Ora molto è mutato nell’Inghilterra; non più guerra, ma trattative, arbitrati. Gli scioperi permangono, ma vi si ricorre solo più in ultima istanza. Gli operai non hanno cessato di organizzarsi per aumentar la paga già cospicua e diminuir l’orario già diminuito, ma avanzano le loro domande solo quando sanno che gli industriali sono in grado di concederle; colle scale mobili aumentano o diminuiscono i salari, a misura che oscillano i prezzi di vendita della merce, da cui tutto si deve trarre: salari, profitti, assicurazioni, imposte, ecc.

 

 

Nel Biellese la rivoluzione industriale, che nell’Inghilterra avvenne al principio del secolo, è cosa recente. Solo da una ventina d’anni si è compiuta la progressiva trasformazione del telaio a mano nel telaio meccanico; ed essa non è stata esente da dolorose esperienze. Non si è potuto d’un tratto indurre gli operai che tessevano in casa loro, aiutati dalla intera famiglia, con orario irregolare, con giornate saltuariamente intense e prolungati ozi domenicali e lunediani, a venire alla fabbrica all’ora fissa, tutti i giorni della settimana. Non si seppe subito nemmeno fare il conguaglio fra il salario del tessitore a mano e quello del tessitore a macchina. La scarsità della maestranza abile ed i grandi profitti dei primi industriali tennero per un po’ di tempo i salari ad una misura molto alta; e quando la concorrenza costrinse a ribassare i prezzi, gli operai reagirono contro la diminuzione dei salari. Gli scioperi del 1877 e del 1889 ebbero per cagione appunto la necessità di introdurre una rigida disciplina e regolarità nel lavoro di fabbrica e di fissare in modo uniforme il valore della giornata di lavoro.

 

 

Ed ora la situazione industriale è la seguente: sostituito intieramente al telaio a mano il telaio meccanico nei grandi stabilimenti. Rimangono alcuni rari avanzi nelle fabbriche degli antichi telai, conservati per usi speciali, e si veggono ancora lungo le vie radi operai vecchi che si portano sulle spalle il filato per trasformarlo a casa in tessuti. Ma sono eccezioni che vanno rapidamente scomparendo.

 

 

Le fabbriche sono di tutte le gradazioni: da quelle che occupano 5 tessitori a quelle in cui si accentrano 800 tessitori e tessitrici.

 

 

Nelle fabbriche di una certa importanza si compiono tutte le successive operazioni necessarie per trasformare la lana greggia in tessuto pronto alla spedizione. L’industria non si è specializzata; non vi sono stabilimenti in cui si fili unicamente, altri in cui si tessano solo i generi d’estate oppure d’inverno, altri in cui solo si tinga o si apparecchi. L’ampliamento delle fabbriche non si compie per giustapposizione di saloni dedicati al medesimo lavoro, ma per completamento delle operazioni prima mancanti. Tutti gli attuali industriali della Val Sessera, di Val Mosso, di Biella erano due generazioni fa operai venuti dal niente. Né il processo di reclutamento degli industriali nel ceto operaio ha avuto termine.

 

 

Si citano molti fabbricotti, dove si lavora e si guadagna, condotti da antichi operai economi, intraprendenti, riuniti in società, di quattro, cinque amici, o cugini o fratelli. Vi sono molte fabbriche, i cui proprietari o sono andati in rovina od hanno cessato di dedicarsi all’industria, le quali vengono affittate intiere, o per sezioni, a uomini dotati di un qualche capitale, o godenti la fiducia di un amico denaroso o di un banchiere. Si comincia con qualche telaio e si tesse per conto altrui.

 

 

Poi s’imprende la tessitura per conto proprio; si aggiunge in seguito la tintoria, la filatura, e lo stabilimento è sorto e può prosperare anche contro la concorrenza di quelli potenti già stabiliti da lunga data. A Biella vi sono industriali che in una dozzina d’anni sono diventati milionari, ed erano capi operai. Non si vuole con ciò asserire che a tutti sia aperta la via di diventare fabbricanti; ora comincia persino a mancare il sito, a meno che con la trasmissione elettrica a distanza della forza motrice esso non venga artificialmente aumentato. Si vuole dimostrare solamente che la classe degli industriali è molto variegata; e va da quelli che sono mezzi operai e lavorano essi stessi o fanno lavorare i proprii figli e la propria moglie, a coloro che si riservano solo la direzione dell’impresa. Non c’è però ancora nessun proprietario di lanifici il quale sia un puro e semplice capitalista e si accontenti della sorveglianza su direttori stipendiati e di percepire alla fine dell’anno un dividendo variabile a seconda delle buone o cattive annate. Non esistono società anonime; se n’era fondata una, ma ha fatto cattiva prova ed ora si sta liquidando. Gli industriali sono essi stessi direttori dello stabilimento e vi dedicano la maggior parte del loro tempo. Per lo più sono parecchi fratelli, cugini o parenti in diverso grado. Uno si dedica alla parte tecnica, l’altro alla parte amministrativa, un terzo disegna, studia la tendenza della moda nelle stoffe, un quarto viaggia a ricevere le commissioni ed a ordinare le nuove macchine.

 

 

Il guadagno, una volta più cospicuo d’adesso, ma ancora abbastanza rilevante e non mai nullo, che gli industriali ritraggono dalla loro impresa, non è dunque solo interesse sul capitale impiegato, ma nella maggior parte è compenso per la loro opera di direzione, è un salario come un altro. Certo è un salario di gran lunga superiore al salario dell’operaio, ma la loro opera è anche di merito ben maggiore.

 

 

Tutto nelle fabbriche dipende dalla buona direzione ed amministrazione; dove questa manca non giova a nulla avere una maestranza abile ed esperta; gli affari vanno a rotoli e lo stabilimento si deve chiudere con danno del paese e degli operai, gettati sul lastrico ad ingombrare il mercato del lavoro ed a deprimere le mercedi. È vero che i fabbricanti talora sono remunerati profumatamente, ma gli operai non devono solo pensare con ira alle eleganti palazzine ed ai milioni accumulati, ma anche al merito reale di coloro che stanno a capo delle imprese fortunate, ed alla sfortuna di quelli meno abili o vinti nella lotta della concorrenza.

 

 

Ho sentito che nel Biellese ogni anno avvengono in media tre o quattro fallimenti nell’industria tessile. È cosa dolorosa, ma inevitabile, e finora l’unico mezzo per incitare al miglioramento della produzione è tener sempre viva e desta l’attenzione degli industriali su quanto è possibile fare per ridurre il costo e per aumentare l’efficacia del lavoro umano. Finora non s’è trovato altro mezzo per attuare la legge del minimo mezzo; né l’ora sembra spuntata di un nuovo ordinamento industriale nell’industria laniera. Gli accordi da qualche industriale invocati e perfino proposte non hanno ivi alcun avvenire. Sono troppo i generi prodotti, così eccessivamente molteplici i fattori di cui bisogna tener conto e così variabili da fabbrica a fabbrica, che è del tutto chimerico pensare a regolare la produzione, perché i prezzi non ribassino e si possano quindi pagare salari alti. Gli operai devono dunque adattarsi al pensiero che per un tempo indefinito futuro la regolatrice suprema dell’industria laniera biellese sarà ancora la concorrenza, non solo italiana, ma anche estera, e regolare su questa nozione sicura la loro condotta e le loro domande rispetto all’orario ed ai salari; e devono pensare che il capitale può ancora trasferirsi, sebbene con perdite per gli industriali e pel paese, ad altri paesi dove maggiore sia il suo tornaconto, e che il trasferimento non dipende dal beneplacito degli industriali, ma dalle inesorabili leggi del minimo costo.

 

 

Sovratutto poi è necessario ricordare che gli industriali non sono solo in lotta colla concorrenza, e quindi interessati a pagar poco per vendere a buon mercato, ma sono posti fra l’incudine ed il martello: fra la maestranza che chiede buone paghe ed il governo che affligge l’industria con imposte vessatorie, minute, ostacolatrici della produzione e si appropria una parte notevole del prodotto, parte che altrimenti potrebbe andare ad aumento dei salari. È questo un terreno su cui industriali ed operai sono naturalmente non in lotta, ma d’accordo; e possono stringere una sincera alleanza, gli uni per ottenere diminuzione delle imposte gravanti sull’industria, gli altri per ottenere uno sgravio sui loro generi di consumo. Ed a questo accordo fra industriali ed operai, per ridurre alla parte congrua quel partecipante ignoto e lontano che talvolta si attribuisce la parte del leone, è necessario solo un po’ di fiducia reciproca ed un po’ di buona volontà.

 

 

IV

 

«Una casetta un campicello ed una vacca»; questo il grido di alcuni riformatori che in molte contrade industriali si spaventavano davanti allo spettacolo di torme immense di operai raccolti nelle grandi città attorno ad una fabbrica, salariati giornalieri, imprevidenti, beoni, senza legame col suolo, non aventi nulla da perdere e speranti molto in una rivoluzione industriale.

 

 

«Diamo a questi paria dell’industria una piccola proprietà, e li trasformeremo in custodi dell’ordine sociale e tutori delle istituzioni vigenti».

 

 

L’ideale dei riformatori è in gran parte attuato nel Biellese; nella Val Sessera, dove più, dove meno una notevolissima parte della popolazione operaia è anche proprietaria. Nella Val Mosso mi fu detto che l’80% delle famiglie operaie possiede la casa, il prato e il castagneto attiguo. È una proprietà curiosa, frazionatissima: la proprietà-cencio che non dà abbastanza da mangiare, ma pur tiene legati ed affezionati al luogo natio. I padri vecchi e le madri di numerosa figliuolanza stanno a casa, curano le faccende domestiche, conducono in pastura la vacca o la capra, mungono il latte, tagliano il fieno e lo mettono in serbo per l’inverno; sbattacchiano le castagne o le noci, gli uomini e le donne che ci vedono ancora; i giovani e le ragazze vanno alla fabbrica.

 

 

Ognuna di queste proprietà cencio ha un valore altissimo, senza nessuna corrispondenza col reddito effettivo. Solo chi conosce l’affetto intenso del montanaro per la sua terra può spiegarsi come una giornata di terreno, dove non cresce né la vite, né il grano, né la meliga, e dove si raccoglie solo dell’erba, delle castagne e della legna da fuoco, valga da 1500 a 4000 lire, ossia i prezzi attuali dei migliori vigneti nel Monferrato o dei prati della bassa piemontese, dove l’agricoltura non e un’occupazione secondaria ma la principale. Solo in tal modo si può spiegare l’estrema e quasi fantastica suddivisione del terreno, per cui alcuni posseggono poche are, qualche metro quadrato di prato, due o tre piante di castagne. Quando muore il capo famiglia, nessuno rinuncia alla terra; e questa viene divisa all’infinito fra gli eredi.

 

 

Questi operai piccoli proprietari guadagnano salari che, cominciando da 10 soldi per i ragazzini di 12 anni, e salendo a 3,50 pei tessitori, a 150-200 lire al mese pei capi sala, disegnatori, si devono dir buoni e superiori alla media italiana. È vero che in alcune campagne si è lavorato poco; a quanto mi fu detto, nel 1894 e nel 1895 gli operai furono occupati solo metà dell’anno; i salari poterono allora discendere a quelle cifre che alcuni tessitori mi descrissero come media, ossia 40 lire al mese.

 

 

Ma non si può estendere un fatto eccezionale ad alcuni anni e ad alcune fabbriche a tutti gli anni ed a tutti gli stabilimenti. Nel 1897 la media è stata molto più alta, e giunse in una fabbrica, come ho già detto, a 3,42 al giorno. Per un mese del 1897, scelto a caso, e per una fabbrica tipica della Val Sessera, ho potuto raccogliere dati più precisi. Il 6,3% dei tessitori guadagnò 100 lire ed oltre al mese; il 17,5% ottenne una paga da 90 a 100 lire; il 19,5% da 80 a 90; il 26,5%, da 70 ad 80; il 16%, da 60 a 70; il 9%, da 50 a 60; ed il 5,5%, da 30 a 50. La massa dei tessitori ha dunque uno stipendio medio da 70 a 100 lire al mese; alcuni pochi guadagnano di più; il 30% guadagna meno per cause speciali, e sovratutto per le interruzioni nel lavoro, con cui si manifesta il fenomeno della crisi e della disoccupazione nel Biellese. In un altro mese forse quelli che guadagnarono ora solo da 30 a 50 otterranno di più; ed al loro posto verranno altri. Se si pensa che molti operai non devono pagar fitto, e che del resto questo non è superiore alle lire 3 al mese per camera (camere vere e non soffitte come a Torino), che i proprietari ottengono qualche guadagno supplementare o qualche reddito in natura dalla campagna, sorge nella mente di molti la domanda: «Perché gli scioperi sono più frequenti, il socialismo ha gittato più profonde radici, trascinando uomini e donne, vecchi e fanciulli, a guisa di una novella religione, perché le donne leggono in chiesa l’Avanti! e baciano le mani all’oratore socialista nel Biellese e non invece in altri luoghi, dove i lavoratori sono veramente ridotti alla miseria ed alla fame cronica, come nella bassa vercellese o nella pianura lombarda? Perché si sciopera fra gli operai dei lanifici e non nei cotonifici, dove la paga è minore?».

 

 

La questione è complicatissima ed una risposta la si può dare solo con esitanza. Non si tratta, prima di tutto, di un fenomeno isolato e peculiare al Biellese. Prendete qualunque statistica ufficiale e vedrete che in Italia gli scioperi agrari avvengono, non fra gli agricoltori denutriti della bassa Lombardia, ma in quelli più vigorosi e meglio pagati dell’agro emiliano e cremonese; che in Inghilterra ed in America gli scioperi più grandiosi hanno luogo fra gli operai dell’industria metallurgica o carbonifera che hanno l’orario di otto ore, mezza festa al sabato, 10 lire al giorno e la carne al desco durante tutta la settimana, e che ivi aumenta il numero degli scioperi, precisamente come nel Biellese, non negli anni in cui i salari sono bassi, ma nelle annate prospere, quando il lavoro abbonda.

 

 

Non è difficile indicare le cause di questo fenomeno. Gli operai mal pagati non si trovano di solito nella grande industria, ma disuniti e separati nelle case loro e nella campagna; non elevano la loro mente al disopra del cibo giornaliero e della fatica necessaria per procurarselo. La vita di fabbrica cambia tutto questo. Nell’industria tessile non si richiede grande fatica muscolare dall’operaio; la macchina fa tutto da sé; esso deve solo stare molto attento. L’attenzione continua per 10, 11 ore, in mezzo ad un fragore assordante, stanca il sistema nervoso e fa nascere il desiderio di cibi e di bevande riconfortanti. La comunanza di vita in un grande stabilimento, il contatto continuo con numerose persone dello stesso ceto, fa sorgere il bisogno di vivere insieme; rallenta a poco a poco i legami di famiglia, indebolisce la forza di coesione dell’unità familiare e rafforza la simpatia fra i varii membri dello stesso gruppo sociale. Alla sera, finito il lavoro giornaliero, l’operaio desidera di ritrovare quelli con cui ha lavorato tutto il giorno, e casca nell’unico ritrovo attraente da lui conosciuto: l’osteria. È straordinario il numero degli alberghi, caffè, osterie, cantine, spacci di liquori, che il viaggiatore osserva nei villaggi industriali.

 

 

Nella Val Sessera se ne incontra uno ad ogni passo. Nel comune di Pray sono 11, a Portula 22, a Coggiola 42, a Pianceri 9. E gli osti fanno affari. Gli operai non comprano il vino a brente per consumarlo a casa, ma lo bevono unicamente a litri nelle osterie. Si comprende così come una parte notevole dei salari prende la via dell’oste, come gli operai, quantunque piccoli proprietari, siano imprevidenti, indebitati e malcontenti. È necessaria un’opera lenta e faticosa di rigenerazione sociale, la quale potrà solo essere l’opera degli operai stessi e delle persone generose, di cuore e senza seconde intenzioni, che esistono dappertutto ed abbondano nel Biellese, dove le consuetudini migratorie e la grande attività economica hanno creato una classe di persone le quali vivono di un reddito che fluisce nel paese, ma viene da lontano, e possono mantenersi giudici imparziali fra operai ed industriali.

 

 

In mezzo ad una classe operaia disposta dal lavoro di fabbrica alla solidarietà, premuta da bisogni nuovi non prima conosciuti, cadde come scintilla eccitatrice di un grande incendio la propaganda socialista, fomentata ed aiutata dalle discordie fra gli industriali e dalla scissura nel campo costituzionale.

 

 

Ed ora gli operai, che hanno sentito durante due successive campagne elettorali predicare da oratori valenti ed instancabili il verbo novello, vogliono tradurlo in atto, e cominciano col chiedere la riduzione dell’orario.

 

 

Colla fretta dei neofiti essi sono andati più avanti già dei loro apostoli; ed hanno dopo la lotta politica incominciato la lotta economica in un momento tale in cui, come ho già osservato, una sospensione delle fabbriche può avere lunga durata con conseguenze dannose per le valli biellesi.

 

 

Ed accanto alla domanda di riduzione di orario, la quale dopo tutto è stata accettata subito dagli industriali con una differenza minima, spunta lo spettro, pauroso per questi ultimi, di nuove domande: aumento di paghe e impossibilità per i fabbricanti di licenziare gli operai, da loro ritenuti fomentatori di malcontento e di sciopero, senza il consenso della lega di resistenza.

 

 

Amendue le domande sono premature. Io non so se un giorno si giungerà nel Biellese ad una condizione tale di cose in cui padroni ed operai non si credano più in diritto di discutere individualmente le condizioni del loro contratto di lavoro e si sottomettano alle decisioni dei comitati misti delle associazioni padronali ed operaie. In altri paesi oramai è questa una consuetudine radicata contro cui nessuno protesta; ma nel Biellese mi sembra ed è prematuro.

 

 

Il proprietario dello stabilimento non è una società anonima, un essere impersonale, lontano, a cui poco importa di avere piuttosto questo che quell’operaio, e contro i soprusi dei cui rappresentanti sono necessarie delle guarentigie, ma è un uomo che vive in mezzo alla fabbrica, conosce tutti i suoi operai personalmente ed il quale non si lascerà costringere tanto facilmente a tenersi vicino operai che non gli talentino.

 

 

E se i proprietari hanno il dovere di consentire alle domande che sono giuste e ragionevoli, gli operai hanno dal canto loro il dovere di non far proposte, la cui giustificazione si può solo trovare in ambienti ed in condizioni industriali che sono ben lontane dalle nostre.

 

 

È un perditempo discutere se nel lontano futuro impererà la libera concorrenza o la organizzazione collettivistica; non si può mettere a base della vita quotidiana le elucubrazioni che lo scienziato viene serenamente facendo nel suo studio; importa sovra ogni altra cosa che industriali ed operai cerchino di evitare nella pratica i sacrifizi immensi causati a tutte le parti contendenti da quell’arma a doppio taglio che è lo sciopero.

 

 

V

 

Lo sciopero che ancora si prolunga fra i tessitori della Val Sessera e dilaga sporadicamente anche nelle altre valli ed in Biella non è stato privo di insegnamenti agli interessati nell’industria della lana. Agli operai ha insegnato che la tattica degli scioperi deve essere sottile e sapiente e richiede accorgimenti e cautele infinite riguardo ai modi ed ai tempi più opportuni per addivenire all’ultima ratio della guerra industriale. Essi si sono accorti che, come nella guerra vera, occorre sapere a tempo debito battere alquanto in ritirata se si vogliono conservare le posizioni conquistate e se si vuole impedire che il nemico approfitti di una mossa sbagliata per metterli in iscompiglio dopo la effimera vittoria.

 

 

Sovratutto esso ha insegnato loro a pregiare ed a valersi accortamente dell’arma della solidarietà mercé la lega di resistenza.

 

 

Le leghe, che ad alcuni industriali paiono mafie occulte e pericolose da sopprimersi colla forza della legge, sono invece i portati naturali e necessari della grande industria moderna. Ora sono semplici strumenti per lo sciopero, come erano le prime unioni artigiane inglesi. Ma avverrà delle leghe italiane come delle unioni inglesi. Queste, col crescere in potenza ed in ricchezza, videro la utilità di proseguire altri scopi, oltre la resistenza agli industriali, e crearono così nel loro seno casse contro la vecchiaia, la invalidità, le malattie, la disoccupazione, ecc. Inoltre se alle leghe giovani e prive di fondi importa poco iniziare uno sciopero, poiché i rischi sono tenui e si riducono alla perdita di un fondo minuscolo, i capi di potenti unioni guardano con diffidenza allo sciopero che farebbe sfumare come nebbia al vento le centinaia di migliaia di lire di riserva penosamente accumulate e porrebbe in pericolo il servizio delle pensioni e dei sussidi per malattia e per disoccupazione.

 

 

Tutte le più potenti unioni artigiane inglesi preferiscono allo sciopero le trattative, gli arbitrati, le reciproche concessioni, ed addivengono alla guerra solo in ultima istanza, con quanto vantaggio della pace sociale e della industria non è chi non veda.

 

 

Gli industriali, dal canto loro, hanno imparato quanto valore risieda nell’amichevole accordo per opporsi alle domande degli operai. Dal punto di vista dell’impresa, la lega fra gli industriali sopprime la concorrenza reciproca nella caccia all’operaio, come la lega operaia sopprime la caccia al salario. È l’inizio anche questo di un movimento che sarà lungo e fortunoso, ma potrà essere apportatore di conseguenze benefiche. Nelle dispute fra capitale e lavoro l’esistenza di associazioni padronali ed operaie sopprime il carattere personale, astioso, che si possa nascondere nei punti controversi, e lascia solo venire a galla i punti generali ed impersonali.

 

 

Su di questi è più facile trovare il ponte di passaggio per l’accordo fra le parti contendenti. Perché gli industriali ragionerebbero male se dalla forza imprevista esistente nella loro lega conchiudessero alla possibilità ed alla utilità di una guerra ad oltranza contro l’agitazione operaia allo scopo di sopprimere le leghe di resistenza fra le maestranze. L’effetto primo sarebbe forse quello della vittoria e della tranquillità, ma sarebbe vittoria effimera e tranquillità apparente, sotto le cui ceneri continuerebbero a covare i germi della discordia e della lotta.

 

 

La esistenza delle due associazioni opposte fornisce invece il mezzo adatto ad introdurre una nuova forma di arbitrio. Seduti ad un tavolo comune, i rappresentanti autorizzati delle due associazioni non tarderebbero a scovrire coll’occhio linceo di cui sono dotati gli uomini del mestiere un terreno neutro di accordo. Il segretario di una delle più potenti Trade-Unions diceva un giorno: «Da venticinque anni nella nostra industria e nella nostra città non avvengono scioperi. La ragione è facile a scoprire. Quando sorge una controversia, i rappresentanti ufficiali delle leghe padronali ed operaie sentono che su di loro incombe una grave responsabilità; da loro dipende il fiorire od il decadere dell’industria; la tranquillità e la pace di migliaia di famiglie o la loro forzata emigrazione all’estero. Non è mai avvenuto che essi si sottraessero alla loro responsabilità e non addivenissero ad un accordo con soddisfazione reciproca».

 

 

Ciò che accade altrove, può ripetersi nel Biellese, dove si annoverano gli industriali e gli operai più intelligenti e più abili d’Italia. Molti industriali sono avversi all’arbitrato, alle trattative colle leghe di resistenza, e si dimostrano riluttanti perfino a nominare i membri della loro parte nei futuri collegi dei probi-viri, perché credono che arbitrato significhi resa, abdicazione della propria indipendenza, e paventano che le sentenze del collegio dei probi-viri non siano osservate ed eseguite. È questo un errore funesto. L’arbitrato vuol solo dire sottomissione del giudizio individuale che può fallire perché interessato nella questione, al giudizio di una persona estranea la quale più difficilmente fallirà perché imparziale. Allo stato di guerra succedono così le trattative che creano e rafforzano la pace.

 

 

Quanto alla domanda se le decisioni del collegio dei probi-viri saranno eseguite, non si può rispondere se non: provate. E la esperienza del passato è arra sicura che, una volta messa in giuoco la molla della responsabilità collettiva di tutta una classe, questa saprà assurgere all’altezza dei suoi doveri. Se non gli si insegna a servirsi dello strumento nuovo, il novizio non imparerà giammai a maneggiarlo. Del resto i collegi a Como hanno fatto buona prova e preesistevano perfino alla legge nuova regolatrice.

 

 

Pel governo, finalmente, scaturiscono dallo sciopero biellese insegnamenti gravi e solenni. La tranquillità delle masse operaie scioperanti ha dimostrato che è inutile e pericolosa la repressione nei conflitti fra capitale e lavoro.

 

 

Quantunque le osterie siano veramente sovrabbondanti nei villaggi industriali, a me è sembrata inopportuna la chiusura degli otto esercizi pubblici. Ha eccitato gli animi ed ha allontanato il componimento delle vertenze. Il Biellese non è la Sicilia, ed i tessitori della Val Sessera non sono picconieri delle zolfare superstiziosi e forse violenti.

 

 

Il governo deve bensì reprimere le violazioni della legge, ma deve sovratutto regolare le condizioni degli interessati nell’industria, inspirandosi ai supremi principii della igiene, della pace sociale e della preservazione della razza, applicando le leggi esistenti, ed ove occorra, facendone delle nuove. Il ministero ha già iniziato le pratiche per la costituzione dei collegi dei probi-viri, ed ha fatto il dover suo. Esso deve vegliare ancora affinché i collegi si formino e funzionino veramente. Io non so in qual modo si provveda alla osservanza della legge sul lavoro dei fanciulli; certo non se ne curano persone tecniche, ma funzionari amministrativi sovraccarichi di mille faccende diverse. Tanto varrebbe che la legge non esistesse.

 

 

Biella è un centro industriale abbastanza importante perché vi venga adibito un ispettore delle fabbriche apposito ed eventualmente anche un sotto ispettore, scelti nel novero delle persone tecniche e pratiche dell’industria, specialmente tessile. L’ispettore dovrebbe vegliare alla rigorosa applicazione delle leggi esistenti e fare un’inchiesta minuta, precisa, paziente, imparziale sugli abusi che si manifestano e che richieggono un rimedio, ricercare, ad esempio, quali siano le vere cagioni per le quali la media dei riformati nei paesi industriali del Biellese è così spaventevolmente alta (quest’anno a Cossato su 50 coscritti se ne riformarono 48). Sarebbe una inchiesta amministrativa, senza inutili spese, col vantaggio che il medesimo organo che propose le nuove disposizioni sarebbe incaricato di applicarle.

 

 

Senza conoscere i mali che debbono essere riparati, è inutile legiferare; si faranno leggi bislacche destinate a rimanere senza applicazione, come tante altre in Italia.

 

 


[1] Con il titolo La nostra inchiesta sugli scioperi del Biellese. Quel che dicono gli industriali. [ndr]

[2] Con il titolo Il momento industriale nel Biellese. [ndr]

[3] Con il titolo Le cause dello sciopero in sul Biellese. [ndr]

[4] Con il titolo La lezione di uno sciopero. [ndr]

Di una biografia avanti lettera degli Stati uniti europei

Di una biografia avanti lettera degli Stati uniti europei

«La Stampa», 20[1] agosto 1897

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954)[2], Laterza, Bari, 1954, pp. 601-602

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 37-39

 

 

 

 

Una delle figure più caratteristiche del giornalismo inglese è certamente W. T. Stead, il noto direttore della Review of Reviews.

 

 

Giovanissimo ancora da umili natali seppe elevarsi, colla virtù delle sue opere, alla direzione di giornali dell’Inghilterra del nord, la grande cittadella industriale del liberalismo e la rocca salda della grandezza britannica. Nel fiore dell’età emigra a Londra; direttore della Pall Mall Gazette, inizia una memorabile campagna, di cui l’eco non è spenta, contro una delle più tristi piaghe morali che inquinassero la moderna Babilonia. Con attività grandissima e con astuzia poliziesca egli riesce a provare che in Londra si andava ogni giorno operando un infame traffico di schiave bianche, di fronte al quale impallidivano le gesta dei negrieri africani. Il giudice che lo condannò ad alcuni mesi di prigione, si disse dolente di dovere obbedire ad una legge iniqua; ed il parlamento inglese poco dopo coronò le sue coraggiose rivelazioni con una legge che innalzava l’età in cui è possibile legalmente alle ragazze dare il proprio consenso alla seduzione propria da parte altrui.

 

 

Un suggestivo saggio delle sane idealità inglesi avvolte in strani paludamenti ci è offerto dallo Stead nell’ultimo fascicolo della Review of Reviews. In ogni numero della sua rivista egli pubblica una rapida ed originale biografia di quella persona la quale, più di ogni altra durante il mese, ha meritato d’attrarre su di sé l’attenzione pubblica. Nel mese di luglio la persona per così dire biografata è, letteralmente: The United States of Europe.

 

 

La scelta dice che nella mente dello Stead gli Stati uniti d’Europa non sono più solo una speranza lontana, sogno di pensatori e di entusiasti, ma un fatto reale, già esistente e che ogni giorno diventa sempre più palese.

 

 

Quando le sei grandi potenze europee inviarono le loro flotte nelle acque di Creta e le navi del concerto bombardarono il campo candioto per impedire le ostilità ogni giorno rinascenti, un grido di indignazione e di orrore si innalzò dal petto di tutti i filelleni europei; i liberali inglesi, capitanati dal venerando Gladstone, firmarono un indirizzo vibrato di protesta; solo lo Stead osò, lui liberale, affermare che quello era uno dei giorni più belli della storia contemporanea; perché segnava la nascita degli Stati uniti d’Europa. Il parto è stato faticoso. Le grandi creazioni richiedono lunghi secoli di preparazione. Come Ibsen ha detto, la natura non è economica. Nel preparare i fondamenti della novella Europa essa operò nella stessa guisa dei barbari, i quali si servirono come di pietre da fabbrica delle statue di Prassitele ed utilizzarono le sculture dei templi pagani nella costruzione delle loro case.

 

 

Ed ora, dopo tanti secoli di lotta, il diritto di guerra appartenente prima ad innumerevoli potentati, e centinaia e centinaia di piccoli principotti, si è ristretto nell’Europa a Guglielmo II, Nicolò II, Francesco Giuseppe, Umberto I, Vittoria ed il presidente Faure. Questi sono i signori di primo grado, il cui diritto di guerra è praticamente assoluto. Dopo di loro vengono i signori di secondo grado, ai quali è concessa una certa facoltà di dichiarar guerra, purché possano assicurarsi la neutralità di uno o più degli Dei della guerra di primo grado. I re di tutti gli stati hanno un diritto nominale di guerreggiare; nella realtà essi poi non lo possono esercitare eccetto in alleanza con una delle grandi potenze. La Grecia credette possibile esercitare questa prerogativa nominale delle sovranità indipendenti. La sua esperienza non è tale da incoraggiare gli altri piccoli stati a seguirne l’esempio.

 

 

Quale enorme progresso dalla condizione di cose esistente un secolo fa! Già i sei ministri degli esteri delle grandi potenze si vanno ogni giorno più abituando, spinti dalla pressione degli avvenimenti, ad agire insieme, quasi componessero un gabinetto europeo. Finora le deliberazioni del gabinetto furono regolate dalla norma del liberum veto imperante nell’antico stato polacco. Da questo studio imperfetto in cui una sola delle sei potenze colla sua opposizione può mandare a vuoto i piani accettati da tutte le altre si giungerà a poco a poco ad un punto in cui la maggioranza potrà imporsi alla minoranza, e questa ne accetterà i deliberati senza ricorrere all’ultima ratio della guerra. In tal modo avvengono le grandi e durevoli creazioni storiche, non secondo i piani prestabiliti dai pensatori, ma per l’attrito fecondo delle opposte forze.

 

 

Allora gli Stati uniti europei, adesso avvolti in un’incerta nebbia, avranno acquistato una forma precisa; e la nascita della federazione europea non sarà meno gloriosa solo perché sarà nata dal timore e dalla sfiducia reciproca e non invece dall’amore fraterno e da ideali umanitari.

 

 



[1] Con il titolo Un sacerdote della stampa e gli Stati Uniti europei. [ndr]

[2] Con il titolo Gli Stati Uniti d’Europa. [ndr]

Gli Stati Uniti d’Europa

Gli Stati Uniti d’Europa

«La Stampa», 20[1] agosto 1897

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 601-602

 

 

 

 

Una delle figure più caratteristiche del giornalismo inglese è certamente W. T. Stead, il noto direttore della Review of Reviews.

 

 

Giovanissimo ancora da umili natali seppe elevarsi, colla virtù delle sue opere, alla direzione di giornali dell’Inghilterra del nord, la grande cittadella industriale del liberalismo e la rocca salda della grandezza britannica. Nel fiore dell’età emigra a Londra; direttore della Pall Mall Gazette, inizia una memorabile campagna, di cui l’eco non è spenta, contro una delle più tristi piaghe morali che inquinassero la moderna Babilonia. Con attività grandissima e con astuzia poliziesca egli riesce a provare che in Londra si andava ogni giorno operando un infame traffico di schiave bianche, di fronte al quale impallidivano le gesta dei negrieri africani. Il giudice che lo condannò ad alcuni mesi di prigione, si disse dolente di dovere obbedire ad una legge iniqua; ed il parlamento inglese poco dopo coronò le sue coraggiose rivelazioni con una legge che innalzava l’età in cui è possibile legalmente alle ragazze dare il proprio consenso alla seduzione propria da parte altrui.

 

 

Un suggestivo saggio delle sane idealità inglesi avvolte in strani paludamenti ci è offerto dallo Stead nell’ultimo fascicolo della Review of Reviews. In ogni numero della sua rivista egli pubblica una rapida ed originale biografia di quella persona la quale, più di ogni altra durante il mese, ha meritato d’attrarre su di sé l’attenzione pubblica. Nel mese di luglio la persona per così dire biografata è, letteralmente: The United States of Europe.

 

 

La scelta dice che nella mente dello Stead gli Stati uniti d’Europa non sono più solo una speranza lontana, sogno di pensatori e di entusiasti, ma un fatto reale, già esistente e che ogni giorno diventa sempre più palese.

 

 

Quando le sei grandi potenze europee inviarono le loro flotte nelle acque di Creta e le navi del concerto bombardarono il campo candioto per impedire le ostilità ogni giorno rinascenti, un grido di indignazione e di orrore si innalzò dal petto di tutti i filelleni europei; i liberali inglesi, capitanati dal venerando Gladstone, firmarono un indirizzo vibrato di protesta; solo lo Stead osò, lui liberale, affermare che quello era uno dei giorni più belli della storia contemporanea; perché segnava la nascita degli Stati uniti d’Europa. Il parto è stato faticoso. Le grandi creazioni richiedono lunghi secoli di preparazione. Come Ibsen ha detto, la natura non è economica. Nel preparare i fondamenti della novella Europa essa operò nella stessa guisa dei barbari, i quali si servirono come di pietre da fabbrica delle statue di Prassitele ed utilizzarono le sculture dei templi pagani nella costruzione delle loro case.

 

 

Ed ora, dopo tanti secoli di lotta, il diritto di guerra appartenente prima ad innumerevoli potentati, e centinaia e centinaia di piccoli principotti, si è ristretto nell’Europa a Guglielmo II, Nicolò II, Francesco Giuseppe, Umberto I, Vittoria ed il presidente Faure. Questi sono i signori di primo grado, il cui diritto di guerra è praticamente assoluto. Dopo di loro vengono i signori di secondo grado, ai quali è concessa una certa facoltà di dichiarar guerra, purché possano assicurarsi la neutralità di uno o più degli Dei della guerra di primo grado. I re di tutti gli stati hanno un diritto nominale di guerreggiare; nella realtà essi poi non lo possono esercitare eccetto in alleanza con una delle grandi potenze. La Grecia credette possibile esercitare questa prerogativa nominale delle sovranità indipendenti. La sua esperienza non è tale da incoraggiare gli altri piccoli stati a seguirne l’esempio.

 

 

Quale enorme progresso dalla condizione di cose esistente un secolo fa! Già i sei ministri degli esteri delle grandi potenze si vanno ogni giorno più abituando, spinti dalla pressione degli avvenimenti, ad agire insieme, quasi componessero un gabinetto europeo. Finora le deliberazioni del gabinetto furono regolate dalla norma del liberum veto imperante nell’antico stato polacco. Da questo studio imperfetto in cui una sola delle sei potenze colla sua opposizione può mandare a vuoto i piani accettati da tutte le altre si giungerà a poco a poco ad un punto in cui la maggioranza potrà imporsi alla minoranza, e questa ne accetterà i deliberati senza ricorrere all’ultima ratio della guerra. In tal modo avvengono le grandi e durevoli creazioni storiche, non secondo i piani prestabiliti dai pensatori, ma per l’attrito fecondo delle opposte forze.

 

 

Allora gli Stati uniti europei, adesso avvolti in un’incerta nebbia, avranno acquistato una forma precisa; e la nascita della federazione europea non sarà meno gloriosa solo perché sarà nata dal timore e dalla sfiducia reciproca e non invece dall’amore fraterno e da ideali umanitari.

 

 



[1] Con il titolo Un sacerdote della stampa e gli Stati Uniti europei. [ndr]

Italiani in America

Italiani in America

«La Stampa», 4 giugno 1897

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 32-36

 

 

Nella esposizione torinese del 1898 la divisione Italiani all’estero costituisce una delle maggiori attrattive per tutti coloro che s’interessano alla condizione dei nostri connazionali nei lontani paesi di immigrazione. Una delle contrade dove più ampio è stato l’afflusso degli italiani e dove più misero è il loro stato è certamente l’America settentrionale. Fino dal 23 giugno 1874 il congresso degli Stati uniti, su proposta generosa del signor Celso Cesare Moreno, proibiva con forti penalità il reclutamento dei ragazzi da parte dei padroni che li sfruttavano facendoli cantare sulle pubbliche vie e piazze. Dopo d’allora numerose altre leggi furono approvate per vietare la importazione di operai obbligati a lavorare per un certo tempo per determinati industriali, vietando l’accesso sul suolo degli Stati uniti degli illetterati, stabilendo un ufficio governativo italo – americano ad Ellis-Island per la protezione degli italiani.

 

 

Sembra però che non si sia ancora posto riparo ai gravissimi mali esistenti; e di questi brevemente vogliamo render conto, basandoci su due interessanti pubblicazioni; l’una del nostro connazionale Celso Cesare Moreno, intitolata: History of a Great Wrong, Italian Slavery in America, e l’altra del signor John Koren: The Padrone Sistem and Padrone Bank, pubblicata ufficialmente dal governo americano nell’ultimo fascicolo del «Bulletin of the Department of Labor».

 

 

La massa degli immigranti italiani viene dalle province meridionali ed appartiene alla classe dei contadini usati a lavorare aspramente a bassi salari, generalmente illetterati, di mente ed immaginazione infantile, facili alla dimenticanza ed a lasciarsi ingannare. Queste persone sono attratte dall’Italia con false promesse di concessioni di fertili terre e di clima mite, di probabilità numerosa di trovare miniere d’oro nelle terre loro date, di guadagni favolosi e facili,tali da metterli in grado di accumulare in pochi anni una grande fortuna. Viene loro pagato il passaggio dall’Italia all’America. Quando giungono, sono gettati sulle strade come suonatori ambulanti, mendicanti, falsi ciechi, ecc. Non conoscendo la lingua inglese, sono obbligati a rivolgersi ai loro connazionali, i cosidetti banchieri o padroni (boss), né, se anche lo desiderassero, potrebbero rivolgersi ad americani, temendo la vendetta dei padroni.

 

 

Il boss o padrone è un italiano, il quale è in relazione colle grandi corporazioni tranviarie e ferroviarie, coi principali appaltatori e con tutti coloro che impiegano numerosi operai. Quando egli non può soddisfare subito le ordinazioni di operai ricevute, avverte l’amico suo banchiere, pur esso italiano, del numero degli operai richiesti, del salario giornaliero, dell’ammontare della bossatura o premio per il boss incettatore di uomini. Il banchiere affigge un avviso e manda i suoi commessi ad assoldare uomini.

 

 

L’ammontare della bossatura che gli operai italiani devono pagare per ottener lavoro varia da 5 a 50 lire; l’ultimo saggio è ritenuto onesto quando si tratta di lavoro avente la durata di sei mesi. La bossatura è pagata anticipatamente e segretamente perché il padrone conosce la illegalità dell’atto. Approfittandosi dell’ignoranza dei suoi connazionali il boss fa pagare loro il biglietto intiero anche quando esso ha ottenuto loro un viaggio a prezzo ridotto.

 

 

Spesso il boss mette come condizione agli operai di approvigionarsi alla sua bottega per tutto il tempo che dura il lavoro. Gli operai sono minacciati di gravi multe o del licenziamento se comprano altrove il loro cibo. Talvolta sono costretti a comprare ogni giorno una data quantità di cibo. Le provvigioni sono fornite in qualità cattive e devono essere cotte dagli stessi operai; spesso sono disadatte al consumo. I prezzi sono notevolmente più alti del corso di mercato. Ad esempio, i maccaroni costano 50 centesimi alla libbra invece di 15; il pane 50 invece di 20; gli ortaggi 50 invece di 2; l’olio d’oliva 10 lire al gallone invece di 5, il vino 4 lire al gallone invece di 1,50. Un francobollo da 25 centesimi viene fatto pagare ai disgraziati italiani 50 centesimi, una busta 25 centesimi, per scrivere una lettera la tariffa varia da 50 centesimi ad 1,25 e per portare una lettera all’ufficio postale bisogna pagare altrettanto.

 

 

Il boss riceve le abitazioni di solito gratuitamente, ma egli fa pagare da 5 a 15 lire al mese agli operai, oltre a contribuzioni per il medico, medicine ed assicurazioni contro gli infortuni, per il diritto di madonna ed il diritto di lampa.

 

 

L’operaio italiano si sottomette a queste estorsioni perché egli non ha altra alternativa: egli deve lavorare per il boss suo connazionale o morire di fame. È inutile lagnarsi; egli sa che il boss lo licenzierebbe subito, ben lieto di esigere una nuova bossatura da un altro fra i numerosi italiani che si affollano a chieder lavoro.

 

 

Di rado l’operaio può pagare i generi in contanti, perché i salari sono pagati a grandi intervalli, e nel frattempo egli deve contrarre forti debiti su cui decorrono rilevanti interessi.

 

 

In tal modo i risparmi degli operai non possono essere rilevanti e cessano nei mesi di ozio. Nell’inverno essi si trovano di solito senza lavoro e senza risparmi. Il boss od il banchiere dà alloggio e vitto a condizione che essi lavorino per essi alla prima occasione. Ampi caseggiati sono posseduti dai banchieri in Nuova York e Boston, dove gli italiani vengono ammucchiati in venti e più per stanza.

 

 

Alcuni banchieri mantengono da 100 a 200 italiani nelle loro case e li inducono a ogni sorta di spese stravaganti per impadronirsene ed obbligarli poi a lavorare al loro servizio. Le sofferenze degli italiani aumentano quando essi sono mandati in squadre a fare lavori lontano dalle principali città, nelle campagne. Non è raro il caso che i padroni, dopo aver ricevuto la bossatura, abbandonino gli infelici loro connazionali nelle campagne, senza lavoro e senza mezzi per ritornare nelle città.

 

 

I boss sono di varie specie: i maggiori e più onesti, i quali procurano lavoranti a grosse società o sono essi stessi appaltatori; i minori, detti anche bossachi, i quali si trovano a Nuova York in numero di circa 2.000, ed hanno la riputazione di essere i peggiori camorristi del genere.

 

 

Accanto ai boss prosperano anche i banchieri italiani, che ne formano quasi lo stato maggiore. Gli italiani non si fidano delle banche americane per depositarvi i loro risparmi, per fare invii all’estero; a Nuova York esistono così circa 150 cosidette banche, nessuna delle quali è stata riconosciuta secondo le leggi dello stato.

 

 

Non sono necessari grandi capitali per mettere su una banca italiana. Qualche tempo fa un banchiere chiese ad un amico un imprestito di 50 lire per procurarsi da mangiare.

 

 

Le operazioni delle banche italiane sono svariate. Ecco tradotta l’insegna di una di esse: «Trasmissione di somme agli uffici postali d’Italia, Svizzera, Francia ed Austria, in carta, oro. Ordini telegrafici. Assegni pagabili a vista in tutte le principali città d’Europa. Notaio pubblico. Consigli legali gratuiti. Biglietti oceanici e ferroviarii, spedizione di pacchi postali. Pagamento di tasse doganali. Deposito di marsala e vini da pasto. Deposito di tabacco importato da Sant’Antonino, prima qualità».

 

 

L’italiano non ottiene una vera ricevuta per i depositi, ma un pezzo di carta su cui è scritta la somma. Il banchiere è molto facile a commettere sbagli che tornano sempre a danno del suo cliente illetterato. Spesso accade che le somme inviate non giungano a destinazione; ed i banchieri si giustificano allegando il naufragio della nave o la disonestà degli uffici postali americani. Come notai, essi esigono diritti immaginari sotto il nome di registro, protocollo, bollo, scrittura. Danno cauzione per gli italiani imprigionati; e si sa di somme di 1.000 lire pagate per ottenere una cauzione di 500 lire.

 

 

Parecchi banchieri aspirano solo ad accumulare ampii depositi per scomparire d’un tratto. Ogni giorno si sente parlare di una fuga di banchieri italiani coi sudati risparmi dei loro connazionali. Tali fatti non eccitano alcuna lagnanza o querela; raramente un banchiere italiano è condannato per abuso di fiducia.

 

 

Malgrado le molte lezioni avute, gli italiani continuano ad affidare ai banchieri tutto il loro avere. Grazie al movimento continuo della popolazione ed al giungere di sempre nuovi immigranti, i meno scrupolosi banchieri non hanno difficoltà nel trovare clienti, i quali non hanno ancora imparato a proprie spese le consuetudini italiane in America.

 

 

Le cose che sono state brevemente esposte più su sono molto tristi e gravi; ed è forse meraviglia che gli americani vogliano bandire dal loro suolo una immigrazione di persone, le quali minacciano di trapiantarvi le peggiori consuetudini della mafia e della camorra? Il più doloroso si è che le misere sorti degli italiani sono dovute in gran parte ai loro stessi connazionali. Nella California, dove essi giungono solo dopo lungo tempo, già familiarizzati colla lingua inglese, formano una delle colonie più rispettabili, laboriose ed agiate. Solo l’educazione e l’innalzamento delle condizioni materiali e morali della nostra emigrazione potrà riescire a togliere dal nome italiano la cattiva fama onde all’estero è circondato ed a far cessare la sfiducia colla quale gli italiani sono ora considerati dalle classi operaie più forti, libere e coscienti degli altri paesi.

La riforma tributaria di un grande comune

La riforma tributaria di un grande comune[1]

 

«La Stampa», 11 e 25 novembre[2], 7 dicembre[3] 1896 e 11 gennaio[4] 1897

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 16-31

 

 

I

 

In mezzo alle trattazioni dottrinali ed alle discussioni parlamentari sulla riforma tributaria, un grande comune italiano, Milano, ha preso una iniziativa concreta. Nella metropoli lombarda le ragioni che spingevano ad una modificazione degli ordini tributari esistenti erano gravissime. Due città di quasi eguale importanza numerica si contrappongono in Milano rispetto al dazio consumo: la città interna sottoposta al regime del dazio murato, e la città esterna soggetta al cosidetto metodo del forese o della percezione del dazio sulla minuta vendita.

 

 

Se la mancanza delle barriere daziarie pare benefica al circondario esterno, dove più folta si addensa la popolazione operaia, la esenzione tributaria di cui questa gode scompare per gli effetti del dazio forese esatto sulle minute vendite; i ricchi, i quali possono fare le provviste all’ingrosso, sfuggono compiutamente all’imposta; gli operai, costretti dalle limitate risorse del bilancio familiare a ricorrere alle compre al minuto presso i rivenditori locali, sopportano soli tutto l’onere dei dazi comunali, aggravati poi di gran lunga dalla abitudine consueta nei commercianti di aumentare i prezzi in misura maggiore del dazio pagato.

 

 

Un operaio, di condizione modestissima, paga nel circondario esterno, per dazio consumo, in media, lire 22,97 mentre il comune introita soltanto come carico individuale di ogni abitante lire 9,91. La quota pagata dai meno abbienti dovendo essere suddivisa anche sugli abbienti, i quali non pagano nulla[5], ne risulta una media generale uguale ad appena i due quinti del carico effettivo sopportato dai disgraziati che non possono sfuggire all’imposta.

 

 

La unificazione tributaria si imponeva. L’abolizione del dazio interno murato e del dazio forese esterno, insieme coll’azione di nuove spese divenute necessarie, avrebbe causato un vuoto nel bilancio comunale di circa tredici milioni.

 

 

La giunta, nel novembre 1895, presentava una relazione, in cui accennava alla possibilità di abolire totalmente il dazio consumo, sostituendovi altre tasse. Il maggior provento lo si sarebbe chiesto alle tasse sul gas, sulla luce elettrica, sui materiali da costruzione, sulle biciclette, sugli esercizi e rivendite, sugli annunzi, e, finalmente, ad una nuova imposta sul reddito.

 

 

I cittadini tutti sarebbero stati divisi in tre categorie; gli operai, manovali, ecc., avrebbero dovuto pagare 3.240.000 lire; i professionisti, commercianti, impiegati tre milioni; ed i proprietari di case 2.230.000 lire.

 

 

La giunta però non si illudeva sulla possibilità di esigere gli otto milioni con l’imposta sul reddito. Le quote inesigibili per la classe proletaria, gli occultamenti e le frodi per la classe ricca avrebbero rese vane tutte le previsioni dei finanzieri comunali ed avrebbero compromesso la stabilità del bilancio, costringendo, dopo breve tempo, a ritornare a gravare quegli stessi consumi la cui liberazione sarebbe stata salutata con tanta gioia poco tempo prima. La giunta abbandonava perciò il progetto per un istante vagheggiato e proponeva di estendere il regime del dazio murato a tutta la città con una spesa di più di quattro milioni. Sarebbero solo stati aboliti i dazi sul pane, sulle paste, sulle farine e sul riso, sgravando di 11 lire il carico medio di ogni operaio nel circondario interno e conservando al suo limite antico quello dell’operaio abitante nel circondario esterno. Il progetto, dopo lunga e viva discussione, non fu approvato dal consiglio comunale di Milano, e nella tornata del 19 dicembre il consiglio, affermando la necessità di conseguire la unificazione tributaria del comune, deferì l’esame delle proposte ad una commissione di nove membri.

 

 

La relazione or ora pubblicata della maggioranza della commissione propone di dichiarare aperto il comune oggi chiuso per i 3/5 della popolazione. Abolito il dazio murato per la città interna, ed il metodo di percezione del forese per la città esterna, si conserva solo una linea amministrativa daziaria per le bevande e le carni. La commissione fa sua la proposta della giunta di abolire il dazio sulle farine, paste, pane e riso e la estende a molte altre voci. Nella città interna si toglierebbero inoltre i dazi sugli olii, burro, zucchero, suini, ovini, carni salate, lardo, strutto, formaggio, pesce, caffè, coloniali, legna da fuoco, carbone di legna, coke, ecc., per un totale di 3.136.000 lire; nella città esterna sui suini, ovini, carni salate, lardo, strutto, caffè e zucchero per quasi 600 mila lire.

 

 

È inutile soffermarci a lungo a dimostrare la bontà delle proposte della commissione; coll’abolizione dei dazi sul pane, sulle paste, sullo zucchero e sui combustibili si è cercato di sgravare maggiormente i consumi popolari; ed all’iniziativa feconda devesi plaudire specialmente in un paese dove la cattiva distribuzione dei carichi pubblici sulle diverse classi della popolazione si ripercote sinistramente sul benessere del ceto operaio.

 

 

Dichiarato Milano comune aperto agli effetti della tariffa, occorrerà, a garanzia dell’erario, al quale è sempre dovuto lo stesso canone, che lo stato riconosca come dazio d’entrata sulle carni quello che si paga all’ingresso delle bestie nel macello comunale e che autorizzi il comune alla riscossione del dazio sui vini, mosti ed aceti alla loro introduzione in comune, il quale diventa così in massima, e salvo qualche frazione staccata e lontana, tutto un territorio designato da limiti amministrativamente fissati. Con questo ordinamento sussiste bensì la necessità del confine finanziario, ma è tolta per sempre quella di una barriera materiale.

 

 

Il concetto di una linea daziaria sprovvista di opere di muratura non è nuovo e fu già applicato con successo in parecchie grandi città, come Lione, Marsiglia, Havre, Vienna, Colonia, Stoccarda, Breslavia.

 

 

La sostituzione di una linea daziaria amministrativa all’attuale metodo del dazio murato costoso e restio ai cambiamenti ha incontrato l’approvazione unanime della commissione; la spesa di sorveglianza non è aumentata e si risparmiano ben quattro milioni, che sarebbero stati necessari per costruire una nuova cinta.

 

 

Conservato il dazio sulle bevande e sulle carni, esatte direttamente le imposte sul gas e sulla luce elettrica, trasformato il dazio sui foraggi in tassa diretta sul consumo presunto dei cavalli, ed il dazio sui materiali in tassa sul valore delle costruzioni, gravate le biciclette ed i cavalli di lusso di un diritto di circolazione, ottenuto un maggiore introito dalla tassa esercizi e rivendite, la commissione si è trovata di fronte alla necessità di colmare un disavanzo i 1.430.000 lire. La sovrimposta sui fabbricati dovrebbe nell’intendimento della commissione fornire 230 mila lire.

 

 

La tassa di famiglia, nuova per Milano, dovrebbe finalmente dare le 1.200.000 lire che ancora mancano a raggiungere il pareggio finanziario. Lunga fu la discussione fra gli oppositori di ogni nuova imposta diretta e la maggioranza della commissione. Rigettata l’imposta sul valore locativo perché poco elastica, di poca resa, indiziaria, la commissione propose di assidere la tassa di famiglia sulle seguenti basi:

 

  • 32 classi o gradi di agiatezza e di imposta per la ripartizione e classificazione delle famiglie contribuenti;
  • il minimo della agiatezza tassabile comincia a 3.000 lire di reddito

stimato;

  • il massimo della tassa e la classe più alta sono assegnati al reddito

stimato in 100 mila lire annue e più;

  • l’aliquota della tassa è uniforme all’1% in tutte le 32 classi.

 

 

Unificazione tributaria del comune, dazio conservato solo per le carni e le bevande, imposte dirette sul gas, luce elettrica, foraggi, materiali da costruzione, tassa di famiglia sulle popolazioni agiate, ecco i capisaldi del progetto della commissione.

 

 

II

 

La relazione della maggioranza (8 membri su 9) della commissione milanese,propone dunque la abolizione del dazio murato, la conservazione del dazio sulle carni e sulle bevande, l’esonero di tutte le altre voci, eccetto i foraggi e sui materiali da costruzione, e la imposizione di una nuova tassa di famiglia.

 

 

Una parte della maggioranza, per assicurare maggior elasticità al bilancio, è propensa a mantenere temporaneamente il dazio sui combustibili, sui foraggi e sui laterizi. A noi non pare che le previsioni della maggioranza siano troppo rosee; forse il dazio sui foraggi più equamente potrebbe esigersi all’entrata nella città che non per mezzo di una imposta di capitazione sui cavalli. La esazione ne sarebbe più sicura ed il maggior provento è calcolato da tutti in lire 300 mila. Un membro dissenziente della commissione, il De – Capitani, ha presentato una relazione speciale, in cui cerca di dimostrare che il gettito delle imposte sarà minore ed il fabbisogno maggiore di quello previsto dalla commissione.

 

 

A noi basti accennare alle controversie che si agitano intorno alla bontà delle modificazioni proposte.

 

 

È ingiusto, secondo il De-Capitani, esonerare compiutamente i suini e le carni salate, mentre si colpiscono gravemente le soriane, le quali, pel mite prezzo, servono di alimento alle classi meno agiate della popolazione. Le carni suine sono tra le più fine e ricercate e si prestano a manipolazioni ed a trasformazioni varie e proficue; solo una terza parte entra a costituire il lardo, elemento di consumo comune.

 

 

I combustibili darebbero largo alimento all’erario municipale; coll’esenzione del carbon fossile si eviterebbe di gravare indebitamente l’industria cittadina. Lo zucchero e il caffè, il pollame e la selvaggina, il pesce fresco ed il pesce all’olio, l’olio vegetale, le uve mangerecce e gli agrumi non costituiscono certamente consumi di prima necessità; anzi per la maggior parte sono destinati all’alimentazione più ricercata.

 

 

Da tutte queste voci potrebbe il comune ritrarre largo provento ed evitare di imporre la nuova tassa di famiglia che al De – Capitani sembra ingiusta, vessatoria, poco proficua e foriera di gravissimi danni. La tassa di famiglia, poco usata nella Lombardia e pressoché dimenticata nella provincia di Milano, dà un gettito massimo nei comuni rurali, in quei minori centri dove è facile assegnarla e ripartirla equamente, con criteri di notorietà.

 

 

Nelle grandi città le autorità comunali devono necessariamente fondarsi su elementi noti, su indizi forniti dalle altre tasse vigenti; dimodoché essa si risolve in una palliata sovraimposta. Calcoli accurati sulla distribuzione delle imposte dirette in Milano, indizi desunti dalle abitazioni e dalla loro rispettiva ampiezza inducono il De – Capitani a ritenere che il reddito imponibile non potrebbe in alcun modo superare i 60 milioni. Occorrerebbe un’aliquota ben più alta dell’1%, proposta dalla commissione, per coprire il disavanzo comunale; sarebbe necessario spingersi fino al 5% ed aggiungere un’altra alle molte tasse vessatorie e dannose che già gravano sull’industria e sul commercio milanesi. È bene non dimenticare che la nuova tassa potrebbe diventare un’arma in mano ai partiti municipali per debellare economicamente gli avversari.

 

 

A molti che hanno seguito la breve e compendiosa esposizione delle varie proposte di riforma tributaria in Milano parrà tenue il risultato raggiunto. Le cause di ciò sono evidenti. Lo stato coi suoi canoni di abbonamento, spesso altissimi, costringe le città che più vi fossero restie a tassare i consumi popolari; coll’avocazione a sé dell’imposta di ricchezza mobile li induce a valersi di poste dirette secondarie, come il valor locativo, il focatico, la tassa esercizi e rivendite, di scarso reddito e di poca potenzialità espansiva; colle altissime aliquote sui fabbricati e sui terreni impedisce ai comuni di giovarsi della sovraimposta fondiaria.

 

 

Costretta entro inesorabili limiti dalle esigenze del potere centrale, ogni iniziativa che parta dai comuni deve necessariamente essere monca e parziale; è impossibile abolire totalmente i pesi gravanti sui consumi, e, d’altro canto, si deve ricorrere ad imposte dirette aventi scarsa elasticità per colmare i disavanzi cagionati dalla parziale soppressione dei dazi.

 

 

Dati questi limiti insuperabili, le proposte della commissione milanese ci paiono degne del più alto encomio e della approvazione di tutti coloro i quali credono sia finalmente necessario sostituire al barocco ed antiquato regime daziario un sistema più semplice di tassazione, inspirato a criterii di giustizia distributiva e suscettibili di modificazioni e di miglioramenti graduali.

 

 

La necessità e la opportunità di ricorrere ad una imposta diretta complementare per far fronte al disavanzo è stata contestata con argomenti di dubbio valore ed ispirati a considerazioni di classe. Se anche l’aliquota della tassa di famiglia fosse, come a Roma ed a Firenze, graduata in misura leggermente progressiva, essa non potrebbe mai diventare, essendone fissati il minimo ed il massimo, strumento di confisca dei capitali della popolazione agiata e raggiungere un punto tale da impaurire i capitali desiderosi di impiegarsi nella industre metropoli lombarda. Alla imposta di famiglia sarebbe, sotto alcuni rispetti, preferibile un’imposta sul valore locativo; non occorre notare come in una grande città essa sia di più facile e sollecita esazione e possa fornire minor campo agli occultamenti ed alle frodi; negli studi recenti intorno alla riforma tributaria si è andato sempre più affermando il concetto che la materia imponibile per eccellenza dagli enti locali sia costituita dalla ricchezza immobiliare, urbana e rustica. In un ordinamento dei tributi locali e generali equo ed opportuno è manifesto che allo stato specialmente si addicono le imposte sul reddito; il reddito generale di un cittadino è formato da elementi così diversi, e le fonti sue possono essere così lontane fra di loro che solo lo stato può riuscire ad evitare i pericoli delle doppie imposizioni.

 

 

Il valore locativo è un indizio grossolano e spesso fallace dell’agiatezza familiare, ma è pure il solo indizio certo il quale permetta di non errare di troppo; e se nella sua applicazione si adottassero provvedimenti speciali per esonerare o sgravare le famiglie numerose, forse potrebbe palesarsi più produttivo e più equo della imposta di famiglia.

 

 

Una singolare dimenticanza ha commesso la commissione municipale: nella relazione della giunta si era accennato chiaramente alla necessità di sottoporre ad un contributo speciale i proprietari di terreni e case per i lavori di miglioramento eseguiti dal municipio. Il municipio spende ogni anno somme ingenti nel preparare le sedi per nuove costruzioni, nel tracciare rettifili, nell’aprire nuove strade, nell’allargare le già esistenti. I lavori stessi ridondano certamente a vantaggio della generalità dei cittadini, e per questa ragione devono da questa essere in parte pagati. Non è possibile però negare che spesso il beneficio maggiore è risentito dai proprietari confinanti che veggono accrescersi il valore dei loro terreni.

 

 

L’assessore Ferrario si riprometteva da tale cespite un provento di 125 mila lire; e la previsione non è troppo audace se si pensa che Chicago, nel 1891, ne ha ricavato 44 milioni di lire nostre, Nuova York 12 milioni, Filadelfia 5 milioni, e San Francisco 7 milioni circa.

 

 

Noi speriamo che nel consiglio municipale di Milano, in occasione delle discussioni sul progetto di riforma tributaria, si levi una voce autorevole per consigliare l’adozione di un provvedimento equo, e per far sue le considerazioni egregiamente svolte dalla giunta nella sua relazione.

 

 

In tal modo Milano a maggior ragione potrebbe vantarsi di avere per la prima iniziata una riforma tributaria ispirata a concetti di giustizia sociale.

 

 

III

 

In seguito alle proposte di riforma del regime tributario milanese, la giunta comunale ha presentato una relazione, nella quale non accetta le proposte della commissione nominata dal consiglio, e si tiene in gran parte fedele al suo antico programma. La disputa verte sulla determinazione sia del fabbisogno come dei mezzi più opportuni per farvi fronte.

 

 

La unificazione tributaria del comune di Milano è però sempre il postulato a cui si devono subordinare tutte le modificazioni eventuali al regime attuale.

 

 

Dopo il 1860 Milano ha avuto uno sviluppo straordinario; grandiosi mutamenti ed ampliamenti edilizi vennero compiuti; la città risorse abbellita sotto forme più belle e moderne. Il comune non poteva rimanere estraneo al movimento di progresso, e furono decretati ed iniziati edifici scolastici, bagni, lavatoi pubblici, acqua potabile, fognatura.

 

 

I beneficii delle nuove opere pubbliche sono evidenti; la mortalità, che nel 1876 giungeva all’altissima proporzione del 32 per 1.000 abitanti, è gradatamente diminuita, a mano a mano che progrediva il lavoro di risanamento, al 24,5 per mille. Risultato splendido, il quale viene a provare che i beneficii che devono derivare alla salute pubblica dai lavori intrapresi per il risanamento della città non sono ubbie esistenti soltanto nella mente di qualche raffinato igienista, ma sono fatti veri e reali, che incominciano già a farsi sentire e si possono facilmente controllare.

 

 

Importa però non arrestarsi nel cammino intrapreso; se il 24,5 per mille rappresenta una mortalità più debole dell’antica, vi sono città le quali si trovano in condizioni ancora più favorevoli di Milano: così a Parigi muore ogni anno solo il 21,2 per mille degli abitanti, a Londra il 19,8, a Berlino il 20,3, a Nuova York il 21,1 ecc.

 

 

Col progredire delle opere di fognatura scompare a poco a poco quasi dappertutto una delle malattie più funeste all’umanità: il tifo.

 

 

Se tutti sono d’accordo nella necessità di proseguire alacremente le opere pubbliche iniziate, gravi sono i dissidii riguardo al modo di farvi fronte. Dal 1860 a tutto il 1895, i debiti della città di Milano sono aumentati di circa 72.000.000 con un incremento annuo di 2.000.000.

 

 

Seguitare in un andazzo così pericoloso per le finanze comunali sarebbe cattivo partito; eppure a ciò giungono necessariamente le proposte della commissione consiliare, la quale raccomandava di attingere ad operazioni di credito i mezzi per far fronte alle spese straordinarie. La giunta, invece, crede sia necessario porre definitivamente termine all’usanza di contrarre nuovi debiti, i quali verranno a gravare indebitamente le generazioni avvenire; alle spese ordinarie e straordinarie deve provvedere contemporaneamente il bilancio delle entrate effettive.

 

 

Noi non sappiamo dar torto alla giunta milanese: il sistema di contrarre prestiti per far fronte a spese straordinarie, le quali poi si ripetono ogni anno, se è pericoloso per lo stato, non è meno dannoso per gli enti locali, perché riesce a paralizzare le disponibilità dei bilanci futuri ed a ridurli in una condizione perpetuamente instabile e malsicura.

 

 

La giunta, però, contraddice a se stessa quando, col pretesto di ottenere la uniformità nei tipi di debito cittadino, propone di rimandare al 1960 la scadenza di un prestito di 7 milioni e mezzo di lire, estinguibile nel 1930 essa spera di guadagnare per 34 anni una somma di 80 mila lire e consente a cuor leggero a gravare i posteri per trenta lunghi anni, dal 1930 al 1960, di un canone annuo di 420 mila lire circa.

 

 

Peggio ancora, la giunta propone di prendere a prestito le lire 3.250.000 per la trasformazione delle tranvie, distribuendone, sempre per amore della uniformità, l’ammortamento dal 1896 al 1960, mentre si tratta di un impianto industriale, il quale, secondo le norme più sane della economia industriale, andrebbe ammortizzato in un periodo non maggiore di un ventennio.

 

 

Pur accettando la proposta di circondare simbolicamente Milano di una linea daziaria amministrativa senza mura e difesa materiale, la giunta non crede che il fabbisogno annuo a cui si deve far fronte sia minore di 13.145.000 lire.

 

 

Essa, a farvi fronte, calcola di ottenere 740 mila lire circa da proventi diversi, e chiede 12.400.000 lire al dazio consumo. Questo viene generalizzato a tutto il comune esterno ed interno; e sotto tale aspetto scompaiono, anche nelle proposte ultime della giunta, le stridenti disuguaglianze esistenti fra le due parti della città; ma permane gravissimo l’inconveniente ed il danno di imporre una tassa nuova e gravosa sugli abitanti dell’attuale circondario esterno.

 

 

I consumi indispensabili alla vita rimangono esenti; il pane, la pasta, la farina ed il riso, il pesce salato, il glucosio, le confetture, le mostarde, il petrolio, il sego, la maiolica, le vernici, i formaggi, gli stracchini, il burro, ecc., rimarrebbero esenti; lo sgravio presunto pel consumatore milanese sarebbe di 2 milioni circa.

 

 

D’altro canto, però, continuerebbero ad essere gravati i generi seguenti, che, secondo il progetto della commissione, sarebbero invece esenti: il pollame, la selvaggina, il pesce fresco per 400.000 lire; lo zucchero ed il caffè per 400.000 lire; i combustibili per lire 900.000. Nessuna esenzione verrebbe concessa per le carni suine e le macellate fresche, ed il dazio sui foraggi e sui materiali da costruzione verrebbe ad essere esatto all’introduzione nel comune.

 

 

Contro queste ultime proposte non si possono elevare obbiezioni; è lecito però maravigliarsi come la giunta abbia creduto più opportuno mantenere il dazio su alcuni generi di larghissimo consumo, come lo zucchero, il caffè, i combustibili, le carni di minor valore, che non imporre una fra le due imposte di famiglia o sul valore locativo. Lo zucchero ed il caffè non costituiscono punto un alimento di lusso; i bilanci familiari non solo di nazioni straniere ricche e potenti, ma anche dell’Italia provano che questi generi entrano largamente a far parte dell’alimentazione popolare; ancora più esiziale poi è il mantenimento dei dazi sui combustibili che servono a riscaldare la popolazione nell’inverno.

 

 

In nessuno dei comuni dove venne applicata, afferma la giunta, la imposta di famiglia ha fatto buona prova. Dappertutto ha avuto ed ha un andamento stentato; dappertutto ha suscitato e suscita una infinità di proteste; ed è un vanto per Milano d’esserne andata immune fin qui. La imposta di famiglia è assai più vessatoria del dazio consumo nel senso che assoggetta il cittadino a una quantità di investigazioni infinitamente più seccanti delle eventuali richieste che deve subire entrando da una porta daziaria. Non è di reddito sicuro, avendo la giurisprudenza fornito il mezzo legittimo a tutte le famiglie facoltose di sottrarsi al pagamento della tassa non coll’emigrare materialmente dalla città, ma soltanto colla finzione giuridica di trasportare il domicilio legale in altro comune; di modo che la tassa verrà pagata unicamente dagli impiegati, dai professionisti e da coloro i quali non hanno la possibilità di procurarsi una residenza fuori comune e che certamente non sono i cittadini più ricchi.

 

 

Dopo aver criticato così brillantemente la imposta di famiglia, perché la giunta non si è ricordata che essa poteva appigliarsi alla imposta sul valore locativo, che pure aveva dichiarato nella stessa sua relazione preferibile alla prima? L’avversione istintiva verso ogni imposta diretta non si spiega se non con la paura di far cadere sui redditi mobiliari, sui ceti professionisti e liberali una parte maggiore dei carichi cittadini.

 

 

Mentre i proprietari di case ed i consumatori meno agiati sono ora gravemente colpiti, i detentori di titoli al portatore, gli avvocati, i medici, i banchieri ed i professionisti in genere riescono a sfuggire in gran parte all’imposta; la imposta di famiglia non riuscirebbe certamente a colpirli, il valore locativo, invece, colla materialità anche grossolana dell’indizio, fornirebbe un mezzo meno disadatto per costringere le surricordate categorie di persone a contribuire alle spese comuni.

 

 

Concludendo, le proposte della giunta di Milano, se pure commendevoli per la manifestata intenzione di provvedere alle opere pubbliche straordinarie colle entrate effettive del bilancio ordinario, e per lo sgravio di quasi due milioni di lire imposte ora sui consumi popolari, presentano il grave inconveniente di continuare a colpire consumi resi oramai necessari alla vita e di trascurare l’occasione propizia per sostituire almeno in parte le imposte indirette gravanti sulle classi meno fortunate della popolazione con una imposta diretta sulla parte di essa più ricca e meno colpita.

 

 

IV

 

La fine immatura dell’assessore Ferrario, mente larga e serena di finanziere, ha indotto la giunta milanese ad attenersi rigidamente al programma di riforma tributaria tramandato da esso a guisa di testamento.

 

 

Erano state fatte parecchie proposte di conciliazione, anche da membri appartenenti alla maggioranza della commissione dei nove. Il consigliere Negri, rilevando come la differenza sostanziale nelle idee della giunta e della commissione, relativamente alla valutazione del fabbisogno, si fosse ridotta a 400 o 500 mila lire, proponeva di colmare l’eventuale disavanzo accogliendo, fra le proposte dell’assessore Ferrario, quelle relative al mantenimento del dazio sulle carni suine, sui combustibili, sul pollame, la selvaggina e l’olio, e sostituendo alla tassa di capitazione sui cavalli il dazio sui foraggi, con un maggior reddito presunto di lire 300 mila. Accettando le proposte del Negri, la controversia si assommava unicamente nell’aumento della tassa esercizi e rivendite, e nella nuova imposta di famiglia o sul valore locativo. Non era difficile trovare un punto di contatto. Alla imposta di famiglia, di cui si temevano le velleità inquisitorie si poteva sostituire quella sul valore locativo. Il consigliere Castiglioni aveva esposto al circolo liberale suburbano un piano concreto di applicazione della tassa sul valore locativo, i cui principii sarebbero

stati i seguenti:

 

  • stabilire pel comune di Milano la spesa minima delle famiglie in ragione di cinque volte l’affitto delle abitazioni;
  • aggiungere a tale prodotto delle cifre fisse, per le persone addette alle famiglie in qualità di segretari, pedagoghi, istitutrici, dame di compagnia, camerieri, domestici, serventi, ecc., come computo dell’aggravio complessivo che ciascuna di dette persone può importare;
  • aggiungere pure a detto prodotto altre cifre fisse per l’uso di ogni cavallo e di ogni carrozza di lusso, quali rappresentativi delle spese dipendenti e derivanti dal godimento di tali comodi;
  • computare in più alle famiglie che passano una parte dell’annata l’annata in villeggiatura, in case di campagna, in stazioni balnearie o climatiche, un sesto della somma rappresentata dal cumulo dei coefficienti di cui alle lettere a, b, c, e ciò per tener conto delle manifestazioni di maggiori agiatezze. Con apposito regolamento si sarebbero dovute stabilire delle norme di compensazione, avuto riguardo al numero dei membri che compongono le famiglie; assegnando le persone sole e i coniugi senza figli in classi superiori di qualche grado a quelle che spetterebbero loro, portando, per contro, a classi inferiori di qualche grado quelle famiglie composte di un numero di membri superiore a sei, escluse le persone di servizio.

 

 

La morte del Ferrario mandò a vuoto tutti i tentativi di conciliazione; in tre successive votazioni la giunta ottenne compiuta vittoria. A grande maggioranza fu approvata la cifra del fabbisogno in lire 12.900.000. Con 39 voti contro 28 e due astenuti si respinse il concetto di introdurre nell’organismo finanziario comunale una nuova imposta diretta. Con soli 12 voti contrari finalmente venivano approvate tutte le proposte della giunta.

 

 

È inutile ricordarle di nuovo; basti il dire che del dazio consumo furono solo abolite le voci che si riferiscono al pane, alle paste, alle farine, al riso, ai formaggi, ai burri ed a 39 altre voci di scarso reddito; la parte scoperta del fabbisogno rimase coperta con il diritto di concessione sulle biciclette e colla tassa sulle costruzioni.

 

 

Ma se fu risolta la questione finanziaria, non fu definita la questione tributaria; le proposte di introduzione di una imposta diretta comunale non cesseranno di farsi vigorosamente sentire; e cresceranno a mano a mano le lagnanze della popolazione operaia dei corpi santi, sottoposti ora ad un gravame prima ignoto nella sua forma, e più crudo. È vero che il sindaco ha preso impegno formale di consacrare l’eventuale maggior gettito del dazio consumo allo sgravio dei combustibili e dei generi più necessari alla vita; ma si tratta di promesse presto dimenticate, e che solo riescono a far nascere desiderii destinati a rimanere inascoltati per il continuo accrescersi delle spese pubbliche. Una imposta diretta avrebbe posto un freno a tale irrefrenabile incremento, rendendo subito avvertiti i contribuenti del nuovo aggravio.

 

 

Forse giova ad epilogo dell’esame finora fatto, ricercare le cause dell’insuccesso del tentativo di riforma tributaria compiutosi a Milano. È già stato detto più su come il caso del Ferrario abbia offerto ai membri della giunta un’eccellente arma di resistenza.

 

 

La venerazione ossequente verso un illustre defunto non avrebbe però avuto una influenza così decisiva sulle deliberazioni del consiglio se i suoi membri non avessero avuto paura di fare un salto nel vuoto. Il salto nel vuoto era la nuova imposta diretta; ed era grandissima la paura che della nuova imposta potessero eventualmente servirsi altri partiti poco devoti alle istituzioni e nemici dell’ordine sociale attuale. I consiglieri milanesi avrebbero però dovuto pensare che dopo la conquista del potere politico ed amministrativo i socialisti potranno a loro posta radicalmente mutare gli ordini tributari nell’ambito delle leggi vigenti. Avrebbero ancora dovuto pensare che il miglior mezzo di far cessare le lagnanze dei diseredati dalla fortuna consisteva nell’applicare alla materia tributaria criteri di giustizia sociale.

 

 

Nell’Inghilterra, dove non vi sono dazi interni comunali; dove le dogane governative colpiscono unicamente generi di lusso, come vino, tè, caffè, spirito, acquavite; dove il governo non interviene nelle lotte fra capitalisti e lavoratori; dove lo zucchero si vende a 50 centesimi al chilogramma, piglia sempre più salde radici una nuova forma di pace sociale, basata non sul patronato degli industriali, ma sulle libere contrattazioni di potenti, rispettate associazioni di operai e di fabbricanti, che trattano da paro a paro e cercano di determinare quale sia, nelle condizioni momentanee di un’industria, la partecipazione al prodotto totale spettante ai vari fattori che concorsero alla produzione. Come è possibile che sorgano tali istituti in Italia, dove una insigne parte del salario quotidiano del lavoratore è insidiosamente condotto ad impinguare le casse dello stato o dei comuni?

 

 

Se la composizione sociale del consiglio comunale di Milano e le lotte fra i varii partiti cittadini ci spiegano l’insuccesso delle proposte di riforma, altri elementi devono essere esaminati per giungere ad un concetto esatto dei recenti avvenimenti. Il prof. Alessio, in un articolo comparso sull’ultimo numero de «La riforma sociale», ha dimostrato come il comune milanese consacri ben 2.900.000 lire ai servizi della pubblica istruzione, ad uffici di pubblica sicurezza e di giustizia, a contributi per la leva e per gli alloggi militari, cioè il 17% del suo bilancio complessivo ad uffici che appartengono razionalmente allo stato. Si comprende in tal modo come ripugni a coloro che vi dovrebbero partecipare con una imposta diretta il sostenere un fabbisogno che provvede anche all’adempimento di funzioni di stato.

 

 

L’esempio di Milano ha provato ancora una volta la necessità urgente e grandissima di separare nettamente le funzioni dello stato e degli enti locali, attribuendo a ciascuno fonti tributarie speciali da cui attingere per la copertura del relativo fabbisogno. Gli studi compiuti in occasione della controversia tributaria milanese non saranno stati del tutto vani se avranno contribuito a radicare la convinzione della necessità per lo stato di iniziare una coraggiosa riforma tributaria allo scopo di fare scomparire molte istituzioni dannose e lasciare libero il campo alle feconde iniziative locali tendenti ad applicare gli insegnamenti che grandi nazioni straniere ci porgono oramai a dovizia con ordinamenti tributari progressivi e scientifici.

 

 



[1] L’argomento degli articoli raggruppati sotto questo titolo è stato ripreso dall’autore in uno studio pubblicato col titolo «La riforma tributaria di Milano» nel fascicolo decimo dell’anno 1896 de «La riforma sociale». Si segue la lezione originale degli articoli, anche perché lo studio inserito nella rivista allora diretta da Francesco Nitti e da Luigi Roux si fermava, a causa della data di sua pubblicazione, alla materia compresa nei primi due articoli qui raccolti. Pare tuttavia opportuno ricordare i titoli dei documenti tenuti presenti nella redazione degli articoli: 1) Esame del fabbisogno finanziario e proposte di modificazioni nell’ordinamento tributario del comune, tipografia Prolo, Milano 1895; 2) Relazione della commissione nominata dal consiglio comunale nella seduta del 19 dicembre 1895 per la unificazione tributaria e per l’assestamento del bilancio del comune di Milano, Stabilimento tipografico del comune di Milano, Milano 1896, di pp. 150; 3) E. De Capitani, Relazione e controproposte di un commissario dissenziente, Libreria Picolo, Milano 1896, pp. 145.

[2] Con il titolo La critica di una riforma tributaria.

[3] Con il titolo Contro una riforma di tributi comunali.

[4] Con il titolo La fine d’una riforma.

[5] Perché potendosi provvedere dal di fuori o all’ingrosso, non erano soggetti al dazio sulla minuta vendita [Nota del 1958].

La lotta presidenziale negli Stati uniti

La lotta presidenziale negli Stati uniti

«La Stampa», 17 ottobre 1896

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi,Torino, 1959, pp. 12-15

 

 

Da tre mesi negli Stati uniti si combatte una delle più accanite lotte elettorali che la storia della giovane repubblica americana ricordi. I candidati dei due antichi e storici partiti danno prova di una forza di resistenza davvero straordinaria; milioni di cittadini degli Stati uniti hanno potuto oramai sentire la voce del Mac Kinley e del Bryan.

 

 

I telegrammi europei danno quasi universalmente per sicura la vittoria del primo; ed è naturale, se si pensa che essi vengono quasi tutti da Londra e da Nuova York, due centri finanziari di primissimo ordine, dove la vittoria del Bryan sarebbe il segnale di una crisi intensa e di un perturbamento gravissimo nelle transazioni monetarie.

 

 

Il Mac Kinley è oramai troppo noto anche in Italia a cagione della tariffa doganale che da lui si intitola.

 

 

Nel pieno vigore dell’età, a cinquantatre anni, esso è il capo riconosciuto della falange protezionista che tanto danno ha fatto alle industrie europee. Nato povero come molti dei suoi compatrioti giunti alla presidenza, egli deve tutto a se stesso ed all’opera sua di avvocato. Rovinato dal fallimento di un amico, di cui si era reso garante, egli pagò fino all’ultimo centesimo, e si rimise al lavoro; soldato per quattro anni durante la guerra di secessione, conserva ancora il grado di maggiore; devoto fedelmente alla moglie da lunghi anni ammalata, egli nell’ultima campagna è sfuggito, per l’esemplarità della sua vita privata, agli attacchi furibondi della stampa avversa, poco incline a rispettare anche i segreti intimi della vita degli uomini pubblici.

 

 

Convinto protezionista, si può dire che nel congresso non si sia mai alzato se non per difendere la causa che egli crede avere la massima importanza pel suo paese. Egli è uno dei più poderosi oratori americani. Durante il grande giro del 1894, frutto della candidatura presidenziale, più di due milioni di persone in diciotto stati udirono la sua voce. Egli riuscì a pronunciare diciassette discorsi in ventiquattro ore; ad Hutchinson nel Kansas trentamila persone erano presenti ad un suo discorso; ed a Topeka non meno di venticinquemila si radunarono a sentire la sua parola. Quando parla si vede l’uomo d’affari; il suo discorso è netto, incisivo, privo d’ogni inutile declamazione; egli va diritto al suo scopo e disdegna i voli oratori e le fioriture poetiche.

 

 

Tipo compiutamente opposto è il suo avversario William Jennings Bryan. Sconosciuto, o quasi, fino a pochi mesi fa, egli deve la sua immensa popolarità attuale ad un discorso, o meglio ad una frase. Giovanissimo, ha appena trentasei anni; a dodici anni soggiogava già col fascino della sua parola migliaia di uditori; a 29 anni converte, dopo un’accanita campagna elettorale, una maggioranza di 3.000 repubblicani in una maggioranza di 6.700 democratici e riesce a farsi mandare al congresso; ed ivi i suoi discorsi sulla libera importazione della lana e sulla libera coniazione dell’argento lo fanno paragonare a Demostene. Nel 1894 si ritira per presentarsi candidato al senato, ed è sconfitto. Per due anni rimane nell’ombra e lavora nel giornalismo; ed ancora alla convenzione di Saint Louis, la quale nominò il Mac Kinley, mandava, confuso cogli altri giornalisti, corrispondenze ad un sindacato di gazzette argentiste. Un mese dopo, con stupore universale, era nominato, in mezzo a frenetiche acclamazioni, candidato del partito democratico alla presidenza.

 

 

Quando cominciò a parlare, nessuno credeva che egli sarebbe stato il vincitore. In realtà, la situazione economica era mutata dopo le precedenti elezioni; ed era diffusa l’opinione che la passata credenza nella prosperità nazionale fosse un mito sotto cui si nascondeva un’abile manovra degli industriali e dei monopolisti per procacciarsi eccessivi ed immeritati profitti. Il malcontento si è allargato sotto la pressione della crisi agraria ed industriale imperversante; ed in un paese dove la forza organizzatrice delle masse è grandissima, ha assunto forme imponenti. In pochi anni, dal 1888 al 1894, il People’s Party, schernito dagli avversari col nome di Populism è balzato da 150 mila ad un milione e mezzo di voti.

 

 

Il nuovo partito è il risultato della fusione dei Cavalieri del lavoro e delle organizzazioni agricole; esso, pure non dichiarandosi francamente socialista, domanda la nazionalizzazione delle ferrovie e dei telegrafi, l’imposta progressiva sul reddito, l’abolizione delle banche nazionali, la confisca delle proprietà degli stranieri e delle società ferroviarie, la giornata delle otto ore, il sistema dell’iniziativa o del referendum, un’abbondante circolazione di carta moneta rimborsabile, emessa dallo stato, in proporzione di 50 dollari per abitante, e la libera ed illimitata coniazione dell’argento secondo il rapporto di 16 ad 1.

 

 

Sarebbe ora troppo lungo accennare quali pericoli si annidino nella domanda veramente grave di una circolazione non minore di 50 dollari per abitante (a questo saggio l’Italia dovrebbe avere una circolazione di 7 miliardi e mezzo di lire) e quali strane illusioni i farmers nutrono nelle miracolose virtù della cheap money o moneta a buon mercato.

 

 

Vi è molto di passeggero e di temporaneo nella attuale agitazione dei populists e degli argentisti; il malcontento presente è la conseguenza necessaria della grave crisi economica attraversata negli scorsi anni dagli Stati uniti; quando, come è già avvenuto altre volte, ritornerà l’onda della prosperità e degli alti prezzi a beneficare le terre americane, verrà meno naturalmente l’agitazione prodotta dalle tristi condizioni in cui si trovano ora gli operai ed i farmers. Nel frattempo gli argentisti, se anche riuscissero ad eleggere alla presidenza il loro candidato, non riusciranno a fare molto male; la costituzione americana pone barriere infrangibili contro i mutamenti troppo rapidi nella legislazione e nella vita del paese. Il sistema dei contrappesi impedisce al solo organo del potere legislativo di imporre la sua volontà; e quasi mai un solo partito impera in tutte e tre le specie della rappresentanza popolare.

 

 

Quand’anche poi riuscisse al Bryan di far approvare i capisaldi del proprio programma, rimane la grande forza conservatrice degli Stati uniti: la Corte suprema di giustizia; e noi abbiamo visto recentemente come essa abbia osato dichiarare incostituzionale e nulla l’imposta progressiva sul reddito. Il germe gettato nella lotta elettorale presente non andrà però perduto; nuove questioni cominciano ad attrarre eziandio l’attenzione del popolo negli Stati uniti; l’esperienza dolorosa delle cose lo persuaderà ad affidarsi meno a rimedi chimerici e grossolani, come l’abolizione dei debiti, ed a seguire la via splendidamente tracciata dagli altri rami della grande famiglia anglosassone nell’Inghilterra e nell’Australia.

 

Recensione: Comte de Rocquigny. La Coopération de production dans l’agriculture. Syndicats et sociétés cooperatives agricoles, Paris, Guillaumin, 1896

Recensione: Comte de Rocquigny. La Coopération de production dans l’agriculture. Syndicats et sociétés cooperatives agricoles, Paris, Guillaumin, 1896

«Credito e cooperazione», 1 maggio 1896, pp. 79-80

 

L’azione del partito socialista nei paesi di piccola proprietà terriera

L’azione del partito socialista nei paesi di piccola proprietà terriera[1]


«Critica Sociale», 16 marzo 1894

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 3-5

 

 

In questo numero della «Critica» abbiamo spinto avanti la questione dell’atteggiamento dei socialisti di fronte al problema tributario, questione che troverà, crediamo, il suo definitivo svolgimento nel fascicolo prossimo. E intanto ne «abbordiamo», un’altra, delle questioni più spinose per il nostro partito: quella della piccola proprietà fondiaria, che in date regioni, anche d’Italia, sembrerebbe opporre una specie di pregiudiziale insuperabile a qualunque nostra propaganda.

 

 

Un egregio e colto giovane di Dogliani (Cuneo), nostro abbonato, ci ha scritto già da varie settimane la lettera seguente:

 

 

Caro Direttore,

Consentite una domanda, che vi parrà indiscreta forse in questo momento in cui tante altre questioni richiedono più di questa l’attenzione vostra e quella dei lettori della «Critica»? Voi avete spiegato più volte la vostra attitudine verso la piccola proprietà ed avete anche fatto adesione al programma del partito operaio francese; ma sotto alle vostre proposte di provvedimenti difensivi dei piccoli proprietari si scorgeva predominante in voi il convincimento che la piccola proprietà e la piccola cultura fossero destinate ad una più o meno rapida scomparsa. Ancora recentemente il Malagodi a proposito delle campagne emiliane, il Jaurès per la Francia, ripetevano la stessa affermazione, che ha trovato nel campo scientifico un valente sostenitore nel Loria (Analisi della proprietà capitalista, vol. secondo, pp. 204-21).

Se si suppone vera siffatta tendenza generale, è perfettamente comprensibile la condotta dei socialisti che cercano con provvedimenti a favore dei piccoli proprietari di alleviare i mali inevitabili nel trapasso ad una forma superiore dell’evoluzione economica. Ma (ed è qui che sta tutta la sostanza della mia domanda) che condotta devono tenere i socialisti dove la piccola proprietà è ancora in fiore, dove la terra si va frazionando sempre più senza per questo polverizzarsi all’infinito, dove la piccola proprietà coltivatrice conserva ancora tutta la vitalità che le deriva da una vita semimillenaria?

 

 

Permettete un esempio: io ho voluto studiare le vicende storiche della distribuzione della proprietà fondiaria a Dogliani, nel circondario di Mondovì. Orbene: la grande proprietà in quel luogo non è mai esistita; i proprietari, che erano 485 nel 1677, erano diventati 638 un secolo fa ed ora sono 1.300. I proprietari al di sopra di 38 ettari nel 1793 erano 12, ora sono 4; allora aveano il 23,38% del territorio mentre ora ne detengono solo il 4,96 percento. È diminuito assolutamente anche il numero di quelli che possiedono da 7,60 ettari a 38, detenendo anche essi una minor parte del territorio (41,35% contro 48,36%), ed il centro di gravità nella scala dei possessi è passato ai minori proprietari coltivatori.

 

 

Ho addotto un esempio particolare, perché qui mi soccorrevano le cifre, ma questo può dirsi un fenomeno generale a tutte le Langhe, ad una gran parte del Monferrato ed in genere alle regioni colligiane piemontesi. Non parlo delle montagne, perché là il fenomeno dell’eccessivo sminuzzamento della terra ha assunto caratteri patologici e dannosi alla cultura agraria.

Di fronte alla tenacia della piccola proprietà nei paesi, in cui perdura ancora vivace e nei quali dà buoni risultati per la produzione e per la cultura della terra, che atteggiamento può prendere la critica e l’azione della parte socialista? Come riuscirete ad attaccare il congegno di una organizzazione terriera, la cui fine non può parere vicina a chi la osservi spassionatamente? Su chi riuscirete voi ad addossare la responsabilità delle cattive condizioni nelle quali da qualche anno si trovano i contadini proprietari e contro le quali si dibattono ora inutilmente, timorosi di nuovi danni dipendenti ancor questi da fenomeni naturali, come la invasione della filossera?

 

 

Notate ancora: in quei paesi la esistenza, quando vi sia, di alcune grandi e medie proprietà condotte a fitto od a mezzadria non deve indurre a credere che i proprietari ritraggano redditi cospicui dalle loro terre. Quando non sono passive, sono così sovraccariche di ipoteche, che a gran fatica i componenti la così detta borghesia campagnola riescono a sbarcare il lunario. Tutti ad un modo, contadini e signori, stanno male. Dunque che cosa potrebbe in queste condizioni fare il partito socialista?

 

 

Confesso che, dopo averci pensato su molto, non son riuscito ad una conclusione pratica, se non forse ad una che a voi parrà intinta troppo di pece cooperativista. Converrebbe istituire delle casse rurali che imprestassero, ad un mite interesse ed a scadenza lontana, denari ai contadini, sorvegliando accuratamente l’impiego che di quei denari facessero i mutuatari; ed allargare, ove già esistono, l’azione dei sindacati per la compra e la vendita dei prodotti agrari, sottraendo così i coltivatori dalle ugne rapaci dei mediatori. Si farebbe con ciò, ove fosse possibile istituire e fare prosperare simili istituzioni, una guerra efficace contro le banche usuraie e l’usura bottegaia che dei paesi a piccola proprietà sono i parassiti più funesti? Contro di esse per ora io non so immaginare altri metodi di lotta, ed io credo che a questa lotta sarebbe utile applicare gli sforzi del partito vostro.

 

 

 


[1] Ad illustrare la tesi dell’articolo si riproduce in seguito uno studio compiuto dall’autore l’anno prima, sui dati dei registri catastali del comune di Dogliani.

Monografia economico agraria del comune di Dogliani proveniente dal Laboratorio di economia politica della R. Università di Torino

Monografia economico agraria del comune di Dogliani proveniente dal Laboratorio di economia politica della R. Università di Torino

«Bollettino del Comizio agrario del circondario di Mondovì», XXVIII, 1894, pp. 115-127

In estratto, Mondovì, Tip. e libr. G. Issoglio, 1894, pp. 15

 

 

La distribuzione della proprietà fondiaria in Dogliani

La distribuzione della proprietà fondiaria in Dogliani[1]

«Gazzetta di Dogliani», 4 novembre1893

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925),vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 6-11

 

 

Secondo la misura generale del territorio di Dogliani finita nel 1793 la sua superficie allibrata comprendeva giornate 9.023.47.9. I proprietari d’allora erano 638 e si ripartivano nel modo indicato nel seguente quadro:

 

 

 Numero d’ordine

delle categorie

 Categorie  Numero dei proprietari  Estensione occupata da ciascun gruppo

di proprietari

 % di ciascun gruppo sul numero totale dei proprietari  % del territorio

occupato da ciascun gruppo

 

giornate tavole piedi

1

Oltre 100 giornate(ettari 38)

12

2.109

88

9

1,88

23,38

2

Da 100 a 50 giornate (et.  19)

27

1.922

09

6

4,23

21,30

3

da 50 a 20 giornate (et. 7,60)

77

2.441

73

6

12,07

27,06

4

da20 a 10 giornate (et. 3,80)

78

1.105

84

3

12,23

12,25

5

da10 a 5 giornate (et. 1,90)

116

858

99

0

18,18

9,52

6

da 5 a 2,5 giornate (et. 0,95)

97

358

96

0

15,20

3,98

7

da 2,5 a 1giornata(et. 0,38)

109

178

84

6

17,08

1,98

8

da 1 a 25tavole (et. 0,095)

69

43

83

3

10,82

0,49

9

da 25 tavole a 3 piedi (m²9,5)

53

3

29

0

8,31

0,04

Totale

638

9.023

47

9

100,00

100,00

 

 

Di queste nove mila giornate 645.68.6 erano esenti da imposte perché beni feudali od ecclesiastici immuni, e rappresentavano ciò che rimaneva un secolo fa della proprietà di carattere più specialmente feudale del medioevo. Non era certo gran cosa e già da prima doveva essere ridotta a questi limiti se nel 1677 il numero dei proprietari ascendeva a 485.

 

 

Dopo il 1793 i libri dei trasporti non ci presentano più con la stessa esattezza, la situazione delle proprietà ad una data fissa, od almeno, le difficoltà per ottenerla sono maggiori.

 

 

I dati che ho raccolto e che riporto qui sotto pel 1820, 1855 e 1883 sono per questa ragione solo approssimativi.

 

 

 Numero d’ordine

Dellecategorie

Numero dei proprietari nel 1820  Estensione occupata da ciascun gruppo

di proprietari nel 1820

 Numero dei proprietari nel 1855  Estensione occupata da ciascun gruppo

di proprietari nel 1855

 Numero dei proprietari nel 1883  Estensione occupata da ciascun gruppo

di proprietari nel 1883

giornate tavole piedi giornate tavole piedi giornate tavole piedi

1

9

1.352

76

3

8

1.147

47

9

6

7318

5

3

2

30

1.931

40

6

25

1.679

64

6

18

1.318

53

3

3

90

2.753

52

3

93

2.921

96

0

77

2.375

18

0

4

116

1.618

13

6

94

1.358

22

3

138

1.908

02

9

5

111

791

05

0

125

896

10

9

214

1.549

41

6

6

105

379

32

6

140

504

58

3

181

654

12

6

7

107

177

86

3

148

241

54

6

209

343

83

9

8

69

47

92

6

129

80

25

9

169

105

39

6

9

48

3

00

3

97

6

53

3

106

6

78

0

Totale

685

9.054

99

0

859

8.836

33

0

1118

8.993

14

6

 

 

Da queste cifre si scorge che il numero dei proprietari e lo sminuzzamento della terra sono sempre cresciuti con progressione continua. Quale sia la distribuzione della proprietà nel 1893 è detto nella tavola seguente.

 

 

 Numero d’ordine

Delle categorie

 Categorie  Numero dei proprietari  Estensione occupata da ciascun gruppo

di proprietari

 % di ciascun gruppo sul numero totale dei proprietari  % del territorio

occupato da ciascun gruppo

 

giornate tavole piedi

1

Oltre 100 giornate(ettari 38)

4

447

05

3

0,31

4,96

2

Da 100 a 50 giornate (et. 19)

21

 1.466

85

3

1,62

16,27

3

da 50 a 20 giornate (et. 7,60)

76

2.262

41

9

5,85

25,08

4

da20 a 10 giornate (et. 3,80)

140

1.962

52

3

10,77

21,76

5

da 10 a 5 giornate (et. 1,90)

216

1.543

34

9

16,63

17,11

6

da 5 a 2,5 giornate (et. 0,95)

207

742

41

3

15,94

8,24

7

da 2,5 a 1giornata(et. 0,38)

269

447

55

9

20,71

4,97

8

da 1a 25tavole (et. 0,095)

217

135

12

0

16,70

1,50

9

da 25 tavole a 3 piedi (m² 9,5)

149

10

13

6

11,47

0,11

Totale

1299

9017

41

6

100,00

100,00

 

 

Predominano a Dogliani la piccola e la media proprietà, i grandi proprietari, rarissimi già nel 1793, sono ora affatto scomparsi.

 

 

Con la piccola e la media proprietà si accompagnarono sempre condizioni economiche che ne sono la inevitabile conseguenza: la mancanza delle eccessive concentrazioni delle ricchezze e delle differenze troppo sensibili nel tenor di vita della popolazione. La relativa eguaglianza delle fortune è certo il fatto più importante che si possa dedurre dai dati statistici sovra riportati, ed anzi il fatto generatore da cui ogni altro fenomeno dipende e riceve la sua necessaria spiegazione.

 

 

A rendere più chiaro il confronto fra le due date estreme, giova la seguente tabella riassuntiva:

 

 

 Categorie  Numero dei proprietari  Estensione occupata da ciascun gruppo

di proprietari

 % di ciascun gruppo sul numero totale dei proprietari  % del territorio

occupato da ciascun gruppo

 

1793

1983

1793

1983

1793

1983

ettari are cent. ettari are cent.
Oltre 38ettari

12

4

801

95

82

169

92

44

1,88

0,31

23,38

4,96

Da ettari 38a 19

27

21

730

58

82

557

54

03

4,23

1,62

21,30

16,27

da ettari 19 a 7,60

77

76

928

09

33

859

93

47

12,07

5,85

27,06

25,08

da ettari 7,69 a 3,80

78

140

420

33

07

745

94

46

12,23

10,77

12,25

21,76

da ettari 3,80 a 1,90

116

216

326

50

19

586

62

62

18,18

16,63

9,52

17,11

da ettari 1,90 a 0,95

97

207

136

44

05

282

19

08

15,20

15,94

3,98

8,24

da ettari 0,95 a 0,38

109

269

679

7

83

170

11

64

17,08

20,71

1,98

4,97

da ettari 0,38 a 0,095

69

217

16

66

05

513

5

86

10,82

16,70

0,49

1,50

da ettari 0,0 9,5 a 9,5 m²

53

149

1

25

05

3

85

23

8,31

11,47

0,04

0,11

Totale

638

1299

3429

80

21

342

748

83

100,00

100,00

100,00

100,00

 

 

L’aumento nel numero dei proprietari da 638 a 1.299 dimostra che un mutamento nella economia agraria dovette prodursi. Il predominare infatti nel 1793 delle proprietà da 20 a 50 e da 50 giornate in su che da sole occupavano il 71,74% del territorio doglianese, dice come fossero allora più frequenti le imprese a cultura promiscua dove si producevano tutti i generi necessari al consumo delle famiglie che dalla campagna traevano la maggior parte delle sussistenze. Le culture degli alberi di alto fusto non erano ancora venute meno e si indicavano col nome di «marsaschi» tutti i prodotti secondari delle terre, come castagne, noci dalle quali si traeva non piccola quantità di olio.

 

 

Il metodo di coltivazione era bene espresso nell’aforisma: casa quanto capi, campo e prato quanto vedi, vigna quanto bevi. I prodotti agrari non erano destinati, se non per piccola parte, alla vendita, bensì al consumo locale, o meglio, familiare; i limitati bisogni non richiedevano che si sforzasse la terra a produrre più di quanto occorresse al ristretto consumo delle famiglie. Le taglie ristrette nell’anno 1700 a lire 11.528,14 facevano sì che per pagarle non occorresse vendere troppa parte dei prodotti, né d’altra parte era necessario molto denaro per rifornirsi di carne costando questa in media dal 1674 al 1766 soldi 2, denari 6 e dal 1766 al 1798 soldi 3, denari 2 la libbra. Il grano si aggirò fino ai torbidi occasionati dalla conquista francese intorno al prezzo di lire 3 l’emina. In questo ambiente tranquillo di medi proprietari la rivoluzione francese non fece sentire molto viva la sua influenza perché qui mancavano i grandi domini signorili su cui si potesse esercitare la cupidigia del contadino privo del suo strumento naturale di lavoro, la terra; e la rivoluzione fu notevole solo per aver trasformata la poca nostra proprietà feudale in allodiale, rendendola così atta a passare nelle mani di chi meglio sapesse utilizzarla, e per avere contribuito alla vendita ed al frazionamento delle terre della commenda della Pieve e dei monaci carmelitani. Poca cosa invero, ed i dati del 1820 ci presentano invariato quasi il numero dei proprietari e diminuito di circa 700 giornate il primo ed aumentato di altrettanto il terzo ed il quarto gruppo. Il frazionamento delle proprietà acquistò un impulso nuovo dalle introduzioni del codice napoleonico e di quelli italiani fatti a sua somiglianza che prescrivevano la divisione totale o parziale fra gli eredi dei beni immobili. Ai motivi di indole generale e giuridica vennero ben presto ad aggiungersene altri dipendenti più strettamente dalle condizioni della produzione agricola. Superata la crisi che nel ventennio 1848-68 ridusse a mal punto, per la malattia dell’oidium, la viticoltura, questa riprese un nuovo slancio; l’agiatezza diffusa meglio nelle altre parti del Piemonte e gli accresciuti mezzi di comunicazione ebbero una benefica influenza anche sulla agricoltura che da estensiva facendosi intensiva e da promiscua specializzata, parve aver trovato il mezzo di rendere più agiata la sorte dei proprietari doglianesi.

 

 

Al ventennio 1868-88 rimonta la maggior parte dei disboscamenti e delle piantagioni di fiorenti vigne; le quali arrecarono, per gli elevati prezzi delle uve, un aumento considerevole nel valore delle proprietà terriere. Non parvero eccessivi i prezzi di 40 lire per tavola corrispondenti a circa 10 mila lire l’ettaro; i capitali si rivolsero fiduciosi alle terre, e gli intermediari ebbero parte non piccola nell’elevare il valore della terra.

 

 

Si verificò qui però un fenomeno compiutamente opposto a quelli che nell’istesso tempo avvenivano negli altri paesi. Se in qualche paese forestiero gli ebrei dal 1848 in poi si sono resi padroni di una parte apprezzabile del territorio, coadiuvati nella rapida conquista della terra dalle banche e dal fisco, nei nostri paesi gli ebrei ed in genere le banche non assorbirono la terra, ma dopo averla comprata la misero in vendita a lotti dando così agio ai coltivatori di diventare proprietari.

 

 

Al risultato contribuirono certamente l’alto valore della terra insieme all’elevato saggio dei salari; più di tutto però le forti spese di coltivazione che avrebbero reso ai proprietari non coltivatori meno conveniente il possesso delle terre.

 

 

Le cause qui segnalate e l’aumento della popolazione[2]elevarono così il numero dei proprietari a 1.300; onde ben si può dire che in Dogliani quasi ogni famiglia è legata alla terra dal vincolo di proprietà.

 

 

Certo questa condizione fortunata di cose contribuì ad attutire i mali della crisi economica che attraversiamo da più di un quinquennio, permettendo ai coltivatori di riparare in parte al mancato guadagno sulle uve col limitare il consumo domestico agli altri prodotti del podere, ma non per questo i danni sono stati meno gravi[3].

 

 

Le raccolte deficienti ed il diminuito prezzo delle uve condussero ad un rapido ribasso nel valore delle proprietà terriere e posero in imbarazzo proprietari che avevano contratto prestiti allo scopo di comprare terre o di introdurvi miglioramenti culturali. Non è possibile suffragare le impressioni ora esposte con le cifre del debito ipotecario fruttifero gravante sulle nostre campagne; ma la colpa è della amministrazione finanziaria la quale non ha ancora risposto alle querele, ripetute ancora non è molto, dai commissari dell’inchiesta agraria i quali, per la mancanza di una statistica esatta della proprietà rurale e delle iscrizioni ipotecarie, si dovettero limitare a «descrivere, anziché i contorni matematicamente precisi dei fattori del mondo agrario, la fisionomia ed il modo in cui essi funzionano e si connettono». Quali saranno le conseguenze della crisi presente sulla distribuzione delle proprietà in Dogliani? Obbligherà essa per la difficoltà (ancora non molto avvertita ma che pare si faccia sempre più grande dappertutto) di trovare uno sbocco alle uve, i medi e i piccoli proprietari ad associare le loro forze nella confezione sociale dei vini o favorire una ripresa delle proprietà a dimensioni più estese?

 

 



[1] L’articolo fu alquanto elaborato ed ampliato in una Monografia economico-agraria del comune di Dogliani, pubblicata nel «Bollettino del Comizio agrario di Mondovì» del 1894. Dalla monografia si estrae la tabella finale riassuntiva.

[2] Il numero degli abitanti in Dogliani era di 3.500 nel 1750, di 3.650 nel 1800, di 3.652 nel 1814, di 4.205 nel 1824, di 4.644 nel 1838, di 4.950 nel 1848, di 4.794 nel 1858, di 5.115 nel 1861, di 4.914 nel 1871 e di 5.375 nel 1881. L’aumento nel numero dei proprietari maggiore di quello della popolazione; questi in 130 anni aumentò del 53%; quelli in un secolo del 137%; nel 1793 supponendo la popolazione di 3.630 vi era un proprietario ogni 5,7 persone, oggi ogni 4,4; è dunque anche proporzionalmente minore ora che non 100 anni fa il numero di quelli che sono esclusi dalla proprietà della terra.

[3] Delle peggiorate nostre condizioni economiche ci fornisce un indice abbastanza sicuro il numero medio annuo dei matrimoni che fu di 39,4 nel quinquennio 1863-7, di 40,2 nel 1868-72; di 42,6 nel 1873-7; di 44,2 nel 1878-82; di 43,4 nel 1883-7; di 36,4 nel 1888-92. L’anno di massima depressione fu il 1888, susseguente al raccolto nullo del 1887, con soli 26 matrimoni.

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